L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (15)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (15)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO VII

Ultimi effetti dell’inabitazione di Dio  in noi: I FRUTTI DELLO SPIRITO SANTO E LE BEATITUDINI.

Conosciamo ora, se non in dettaglio, almeno con una veduta d’insieme, i principi di attività conferiti ai giusti dallo Spirito Santo, un magnifico e complesso organismo di santità che, secondo la bella espressione di un Padre della Chiesa, fa dell’uomo uno strumento musicale mirabilmente disposto a cantare la gloria e la potenza divina: Instrumentent musicum a Spiritu pulsatum, divinamque gloriam et potentiam canens (S. Greg. Naz., Orat. Ad Popul. XLIII, 67). E quando ha così preparato tutto, lo Spirito Santo, l’Artista incomparabile, si mette alla tastiera e, se non incontra resistenza, trae da questo strumento spirituale, meravigliosi accordi che deliziano il cuore di Dio e non tralasciano di piacere al mondo stesso, affascinato, malgrado tutto, da questa santa armonia. È la dolce e casta Agnese che canta sulla terra, per continuare in cielo, il canto delle vergini: « Io amo Cristo, di cui presto diventerò la sposa; il Cristo, di cui la Madre è vergine ed il Padre celeste genera senza corruzione….. Io sono fidanzata con Colui che è servito dagli Angeli e la cui bellezza è ammirata dal sole e dalla luna » (ex Offic. S. Agnetis). – È il martire Ignazio, esposto nell’anfiteatro e che, sentendo il ruggito dei leoni, grida nella sua impazienza di soffrire: « Io sono il frumento di Cristo; sarò macinato dai denti delle bestie per diventare un pane veramente puro. » È il grande Apostolo Paolo, che lancia questa fiera sfida a tutte le potenze nemiche: « Chi mi separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione? L’angoscia? La fame? La nudità? Il pericolo? La persecuzione? La spada?….. Sono sicuro che né la morte, né la vita, né gli angeli, né i principati, né le virtù, né qualsiasi altra creatura potrà mai separarmi dall’amore di Dio in Gesù Cristo, nostro Signore » (Rom. VIII, 35-39). – È l’innumerevole moltitudine dei Santi sparsi in tutto il mondo e che formano un immenso concerto, dove ognuno fa la sua parte e canta in modo speciale il trionfo della grazia sulla natura: una deliziosa sinfonia, dove tutte le voci si uniscono e si fondono in una meravigliosa armonia. Voci di bambini e di anziani, di vergini e di adolescenti, di uomini e di donne, che salgono dalla terra al cielo. Voci di innocenze preservate o faticosamente riconquistate. Voce di misericordiosa carità che richiama, per bocca di Vincenzo de’ Paoli, a tutte le miserie per alleviarle. Voce di fede trionfante nella persona di Pietro di Verona colpito a morte dall’eresia, e che ancora trova la forza di tracciare con la porpora del suo sangue questa parola sublime: Io credo. Voce di umiltà pronunciata dall’organo di Giovanni della Croce, una delle parole più belle ed eroiche mai pronunciate da una bocca umana, quando, alla domanda di Cristo di quale ricompensa chiedesse per tanto lavoro, rispondeva: « Signore, soffrire ed essere disprezzato per Voi. »  – Che mirabile fioritura di virtù il soffio dello Spirito Santo fiorisce in anime docili alla sua azione! O piuttosto che frutti deliziosi e variegati fa loro produrre! Questi sono quelli di cui Nostro Signore ha parlato quando ha detto ai suoi Apostoli: « Io vi ho scelto e vi ho costituito perché andiate avanti senza sosta, perché portiate frutti e questi frutti rimangano: Ego elegi vos, et posui vos ut eatis, et fructum afferatis, et fructus vester maneat. » (Giov. XV, 16). Il giusto, in effetti, è paragonato, nei nostri Libri sacri, ad un albero piantato sul bordo delle acque e che dà i suoi frutti nel suo tempo (Ps. I, 3). Cosa sono questi frutti? L’Apostolo san Paolo ce li fa conoscere in questa bella enumerazione che leggiamo nel capitolo V della Lettera ai Galati: « I frutti dello Spirito Santo, dice, sono la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la longanimità, la dolcezza, la fede, la modestia, la continenza e la castità . » (Gal. V, 22-23). – Cosa intendiamo con questi “frutti dello Spirito Santo”? Perché sono così chiamati? Come si differenziano dalle virtù e dai doni? Qual è il loro numero?

I.

E innanzitutto, cosa si intende per frutti dello Spirito Santo? Con questo intendiamo – dice san Tommaso – « tutti gli atti di virtù che hanno raggiunto una certa perfezione e in cui l’uomo si diletta: Sunt enim fructus quæcumque virtuosa opéra in quibus homo delectatur » (S. Th., Ia IIæ, q. LXX, a. 2). Si chiamano frutti – dice sant’Ambrogio – perché riempiono l’anima di pura e santa delizia. – In senso naturale, il frutto è il prodotto finale e gustoso di una pianta o di un albero che ha raggiunto la perfezione, adattato alla sua specie (Ibid. ad 1); è il termine regolare della vegetazione, il risultato definitivo di questo meraviglioso lavorio in cui è impegnata la vita della pianta. Diversi in quanto diversi sono gli alberi da cui sono stati raccolti, i frutti hanno in comune il fatto che sono l’ultimo prodotto della pianta e che, una volta giunti a maturazione, hanno tutti un certo sapore, diverso a seconda della specie. Fructus sensibilis est id quod ultimum ex arbore expectatur, et cum quadam suavitate percipitur (S. Th., Ia IIæ, q. XI, a. 1).  Quand’anche deliziassero la vista con la luminosità dei loro colori e deliziassero l’olfatto con la dolcezza e la finezza del loro profumo, né le foglie né i fiori meritano questo bel nome di frutto; perché non è da questi ciò che ci si aspetta definitivamente dall’albero: quod ultimum ex arbore expectatur.  – Il frutto non è solo l’ornamento e la perfezione dell’albero, è la sua ragion d’essere, il suo scopo, il suo fine; è il frutto che conferisce all’albero il suo pieno valore e compensa la cura dedicata alla sua coltivazione. Ecco perché, parlando nella parabola di un albero di fico che aveva smesso di dare frutti diversi anni prima, il Salvatore ha detto: « Tagliatelo; perché occupa inutilmente il posto? Succide ergo illam; ut quid etiam terram occupât ? » (S. Luc. XIII, 7). Una grande lezione per il Cristiano, che, sotto pena di essere tagliato come un ramo inutile e gettato nel fuoco, non deve lasciare inattive le energie divine che gli sono state conferite come germi destinati a fiorire sotto il soffio dello Spirito di Dio e a produrre quelle opere sante degne della vita eterna che la Scrittura chiama i frutti dello Spirito Santo. Infatti, per analogia, nell’ordine spirituale, questo nome di frutto è dato al prodotto finale della grazia nelle anime, cioè agli atti di virtù, se non a tutti indistintamente, almeno a quelli che possiedono un certo grado di perfezione e di sapore. I frutti dello Spirito Santo non sono dunque delle abitudini, delle qualità permanenti, ma degli atti; non possono quindi essere confusi con le virtù e con i doni, ma si distinguono da essi come l’effetto si distingue dalla sua causa, il torrente dalla sua sorgente. – E sebbene l’Apostolo san Paolo elenchi tra questi frutti la carità, la pazienza, la dolcezza, ecc., non è da intendere con queste espressioni le virtù stesse, ma le loro operazioni; poiché, per quanto perfette possano essere le virtù, esse non possono essere considerate come l’ultimo prodotto della grazia, essendo esse stesse ordinate, come principii, a dei prodotti successivi, cioè ai loro atti.  – Tuttavia per meritare il nome di frutto, gli atti di virtù devono essere accompagnati da una certa soavità. All’inizio, questi atti si compiono solo con difficoltà, richiedono fatica, alcuni sono addirittura amari per natura come un frutto non ancora maturo. « Ma – osserva un pio autore –  quando si è da tempo praticato con fervore nella pratica delle virtù, si acquisisce la possibilità di produrre i propri atti. Non proviamo più la ripugnanza che abbiamo provato all’inizio. Non dobbiamo più combattere o essere violenti. Siamo felici di fare quello che facevamo una volta con difficoltà. Poi succede alle virtù quello che succede agli alberi. Come questi frutti che, giunti a maturità, non hanno più l’acredine, ma sono dolci e di piacevole sapore; allo stesso modo, quando gli atti di virtù abbiano raggiunto una certa maturità, si fanno con piacere, e li si trova di un gusto delizioso » (Lallemant, Doctrine spirit.). Il mondo non capisce nulla di questo genere di delizie; perché – secondo l’osservazione di San Bernardo – vede la croce, ma non l’unzione: Crucem quidem vident, sed non etiam unctionem (Serm. 1 de Dedicat.); le afflizioni della carne, la mortificazione dei sensi, le fatiche della penitenza colpiscono il suo sguardo solo per il loro lato doloroso, e li ha in orrore, le consolazioni dello Spirito Santo sfuggono ad essa. Le anime sante, invece, dicono volentieri con la sposa del Cantico: « Mi sono seduto all’ombra di colui che avevo desiderato, e il suo frutto è dolce al mio palato » (Cant. II, 3). Sono numerosi i frutti dello Spirito Santo? San Paolo ne conta dodici, come abbiamo visto sopra. Perché questo numero di duodenario? Sembra che dovrebbero essere ammessi così tanti anche gli atti virtuosi. Questa è, infatti, la conclusione di san Tommaso: « I frutti – egli dice – sono tutti atti di virtù nei quali l’uomo trova piacere: Sunt fructus quæcumque virtuosa opera in quibus homo delectatur ». (S. Th., Ia IIæ, q. LXX, a. 2). – L’Apostolo avrebbe potuto includerne un numero maggiore o minore nella sua enumerazione, perché non pretendeva di elencarli tutti. Se si è fermato al numero di dodici, è stato prima perché questo numero, nello stile della Scrittura, si riferisce all’universalità; poi, perché tutti gli atti di virtù possono essere opportunamente ridotti a quelli nominati dall’Apostolo, poiché abbracciano l’intera vita cristiana. (Ibid. a 3, ad 4). – Noi parliamo di frutti; ma potremmo anche chiamarli fiori, se, invece di considerare le nostre buone opere come l’ultimo prodotto della grazia in questo mondo, le considerassimo in relazione alla vita eterna, di cui sono come l’annuncio e la promessa. Perché, così come si vede apparire il fiore, si concepisce la speranza di raccogliere un frutto, così  il darsi alla pratica delle opere sante e meritorie ci dà la speranza di raggiungere la vita e la beatitudine eterna.

II.

Al culmine della vita spirituale, quindi al di sopra degli atti di virtù ordinaria, al di sopra dei frutti dello Spirito Santo, vi sono le beatitudini, il coronamento dell’opera divina in noi, l’ultimo e più sublime effetto della presenza di Colui che il Padre si è degnato di inviarci per la nostra santificazione, l’anticipazione della felicità celeste.  Cosa intendiamo per beatitudini? Quante ce ne sono? Sono diversi da frutti, virtù e doni?  – Il nome “beatitudini” si riferisce ad alcuni atti della vita presente che, per la loro particolare perfezione, conducono direttamente e sicuramente alla beatitudine eterna. Sono chiamate così, beatitudini metonimiche, perché sono allo stesso tempo il pegno, la causa meritoria e, in una certa misura, i primi frutti della vera e perfetta beatitudine. La beatitudine propriamente detta, è essenzialmente una sola, e consiste nel possesso di Dio. È chiaro, infatti, che Dio, essendo il Bene sovrano, il Bene infinito, l’unico capace di soddisfare tutti i desideri, nessuno è felice se non nella misura in cui lo possiede. Da questo mondo, è vero, lo possediamo per grazia, ma imperfettamente; lo portiamo dentro di noi, ma nascosto alla vista; lo amiamo, lo godiamo, ma con il pericolo di perderlo. « Quindi, se parliamo di beatitudine qui sulla terra, possiamo solo intendere, naturalmente, una beatitudine imperfetta, una beatitudine desiderata e meritata, tutt’al più cominciata. » (Mgr. Gay: Sermons de l’Avent). – Le beatitudini menzionate nel Santo Vangelo e di cui ci stiamo occupando attualmente non significano, quindi, felicità assoluta, felicità vera e propria. Non è manifesto che la povertà, le lacrime, la fame e la sete, foss’anche di giustizia, le persecuzioni subite per la causa di Dio, non possono costituire una vera e perfetta beatitudine? Ma Nostro Signore afferma che questi sono mezzi, dei gradi, delle salite per raggiungere la beatitudine assoluta: mezzi così potenti, così efficaci, così sicuri, che chiunque li usi con perseveranza può ripetere seguendo l’Apostolo: « Sono salvato nella speranza » (Rom. VIII, 24). Non si dice di qualcuno che è giunto alla fine dei suoi voti, quando ha una fondata speranza di ottenerli? Ma come non concepire la speranza di ottenere un fine determinato, quando ci si muove verso di esso in modo costante e regolare, quando ci si avvicina, quando soprattutto si comincia già a gustare la dolcezza del bene atteso? (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 1.) Quando, dunque, un Cristiano, docile alle ispirazioni dello Spirito Santo, avanza quotidianamente nel cammino di bontà attraverso gli atti di virtù ed i doni, quando lo si vede realizzare gradualmente queste mirabili ascese di cui parla il Salmista (Ps LXXXIII, 6), ed avvicinarsi sempre di più al termine, come non sentire la fiducia che egli raggiungerà la perfezione del cammino e quella della patria, e non proclamarlo benedetto in anticipo? (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 2). Ma quali sono questi mezzi che conducono così sicuramente al termine della salvezza eterna, questi atti così pieni di soavità che possiamo considerarli come l’inizio della beatitudine? – Il Salvatore stesso ce li ha fatti conoscere in questo famoso sermone della montagna che apre il periodo della sua vita pubblica. « Beati – Egli dice – i poveri in spirito, perché il regno dei cieli è loro. Beati i miti, perché possederanno la terra. Beati coloro che piangono, perché saranno confortati….. Otto volte di fila ripete, con delle varianti, la stessa espressione « Beati », annunciando così al mondo stupito quelle che il linguaggio cristiano ha chiamato le otto beatitudini. Sono otto: la povertà di spirito, la mitezza, le lacrime, la fame e la sete di giustizia, la misericordia, la purezza di cuore, l’amore per la pace, le persecuzioni subite a causa di Dio; ma l’ottava è solo la conferma e la manifestazione delle altre (S. Th., Ia IIæ, q. LXIX, a. 3 ad 5.). Infatti, dal momento in cui l’uomo è rafforzato nella povertà spirituale, dalla mitezza e dalle altre beatitudini, la persecuzione non è più in grado di staccarlo da questi beni. – Le beatitudini non sono né virtù né doni dello Spirito Santo, ma degli atti che queste abitudini ci portano a produrre (Ibid. a. 1). Tuttavia, per la loro eccellenza e perfezione, questi atti devono essere considerati più come un prodotto dei doni che come un’emanazione delle virtù. Infatti, la virtù della povertà può anche ispirare questo distacco che fa usare con moderazione dei beni terreni, ma è il dono del timore, che ne ispira il disprezzo. La virtù della mitezza dà all’uomo l’energia necessaria a superare l’impetuosità della rabbia e a stare entro i limiti della giusta ragione; ma è il dono della pietà che assicura la calma, la serenità dell’anima, il perfetto possesso di sé e la completa sottomissione alla volontà di Dio. La temperanza mette il freno alle passioni che tendono al piacere sensibile e le mantiene entro i limiti; il dono della scienza eleva l’anima più in alto, e illuminandola sulla fragilità, la vanità, la breve durata di questi piaceri, insegna a rifiutarli del tutto, se necessario, e ad abbracciare volontariamente il dolore e le lacrime. Le beatitudini si distinguono anche dai frutti dello Spirito Santo, perché, benché  dilettando come questi, abbiano anche il vantaggio di perfezionare chi le possiede: sono, se volete, dei frutti, ma i più eccellenti, i più belli, i più squisiti; frutti giunti, con gli ultimi tocchi del Sole divino, ad una perfetta maturità; anch’esse contengono una dolcezza e perfezione tale da farci sentire e gustare in anticipo qualcosa della felicità celeste. Così è coronata da opere perfette, segni precursori della beatitudine di Dio e del suo pieno possesso, questa serie di meraviglie che lo Spirito Santo compie nelle anime dove ha stabilito la sua dimora.

III.

Prima di concludere questo già lungo studio, diamo un ultimo, rapido sguardo alle verità che ne sono state oggetto, così come, prima di varcare la soglia di un edificio che è stato visitato ed esaminato nel dettaglio, diamo uno sguardo per comprenderne le linee principali e ammirarne la sapiente armonia. Dio è ovunque, in ogni essere e in ogni luogo, come causa immediata di tutto ciò che esiste fuori di Lui; ma abita solo nel giusto, al quale si unisce in modo singolare, come oggetto di conoscenza e di amore. E non è solo con la sua immagine, la sua memoria, o i suoi doni, che Egli è così presente in essi; Egli stesso viene personalmente, inaugurando fin da quaggiù questa vita di unione e di godimento che deve essere consumata in cielo. Non appena una creatura che, fino ad allora era stata peccaminosa, ritorna in grazia al suo Creatore, Colui che è in Dio l’Amore sussistente, lo Spirito Santo, gli viene inviato a suggellare in qualche modo con la sua presenza il patto di riconciliazione, a lavorare alla grande opera di santificazione e a diventare in lui il principio efficace di una nuova vita, incomparabilmente superiore a quella della natura. Non è dunque una visita temporanea, per quanto preziosa, che si degna di fare, ma Egli viene a stabilirsi nell’anima con il Padre e il Figlio e per fissarvi la sua dimora. Quando vi entra, si dà Egli stesso, e questo è il suo grande dono. Si tratta quindi di abbellire e decorare il tempio vivente dove gli piace risiedere. A tal fine, c’è questa Grazia, di un valore infinito, chiamata santificante, che ha l’effetto di purificare da ogni sozzura, di cancellare il peccato, di giustificare, trasformare, divinizzare chi la riceve, farne un figlio di Dio e l’oggetto dei suoi piaceri, con diritto all’eredità celeste. Ma non è tutto, perché la grazia non va mai da sola; essa è sempre accompagnata da una moltitudine di virtù e di qualità sovraeminenti, che sono sia un ornamento per le nostre potenze, sia una fonte di attività soprannaturale. Queste sono le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità; le virtù morali infuse e i doni dello Spirito Santo: essi sono i semi fecondi dei frutti che Dio vuole raccogliere in noi; le energie divine, fonte di quegli atti eccellenti che portano il nome di beatitudini perché sono la causa meritoria ed una sorta di anticipazione della felicità che speriamo. – In questo modo possiamo andare avanti; e, per spostarci efficacemente e in sicurezza verso le sponde eterne, tutto ciò che dobbiamo fare è ricevere questo impulso dallo Spirito Santo che è la parte dei figli di Dio (Rom. VIII, 14). Essa non si farà attendere. Dal profondo dell’anima dove Esso risiede, questo Spirito divino illumina la nostra intelligenza, riscalda i nostri cuori, ci eccita e ci spinge al bene. Chi conterà tutti i santi pensieri che suscita, i buoni movimenti che provoca, le sane ispirazioni di cui è la fonte? Perché invece ci sono sventurate e troppo frequenti resistenze che vengono più o meno a paralizzare la sua azione benefica e ad ostacolarne gli effetti? Questo spiega perché tanti Cristiani, abitualmente in possesso della grazia e delle energie divine che la accompagnano, rimangono tuttavia così deboli e lassi al servizio di Dio, così poco zelanti per la loro perfezione, così inclini verso la terra, così dimentichi delle cose del cielo, così facili da portarsi al male. Pertanto, l’Apostolo ci esorta a « non contristare lo Spirito Santo » con la nostra infedeltà alla grazia: Nolite contristare Spiritum sanctum Dei (Ephes. IV, 30), e soprattutto “non spegnerlo nei nostri cuori: Spiritum nolite extinguere. » (1 Tessal. V, 19). C’è un’altra causa che cerca di spiegare perché una semenza di grazie così abbondante spesso produca solo un raccolto così scarso. Questo avviene perché, conoscendo solo molto imperfettamente il tesoro di cui sono custodi, molti hanno solo una bassa stima di Esso e si impegnano poco nel farlo fruttificare. Eppure, quale forza, quale generosità, rispetto di sé, quale vigilanza, ma anche quale consolazione e quale gioia non li ispirerebbero per questo pensiero costantemente nutrito e piamente meditato: lo Spirito Santo abita nel mio cuore. Esso è lì, potente protettore, sempre pronto a difendermi dai miei nemici, a sostenermi nelle mie battaglie, ad assicurarmene la vittoria. Amico fedele, è sempre pronto a darmi udienza, e, « lungi dall’essere fonte di amarezza e di noia, la sua conversazione porta allegria e gioia:  Non enim habet amaritudinem conversatio illius, nec tædium convictus illius, sed lætitiam et gaudium. » (Sap.. VIII, 16). – Egli è lì, veglia sempre sui miei sforzi e sacrifici, contando, per ricompensarli un giorno, ognuno dei miei passi, seguendo tutti i miei passi, senza dimenticare nulla di quello che faccio per il suo amore e la sua gloria. – Lo Spirito Santo abita nel mio cuore! Io sono il suo tempio, il tempio della santità per essenza; devo quindi diventare io stesso santo, perché il primo carattere della casa di Dio è la santità. Domum tuam, Domine, Domine, decet sanctitudo (Ps XCII, 5). Dirò dunque con il Salmista, con la mia condotta più che con le mie parole: « O Signore, ho amato la bellezza della tua casa e del luogo dove abita la tua gloria: Domine, dilexi decorem domus tuæ, et locum habitationis gloriæ tuæ. » Cosa c’è di più efficace di queste riflessioni per determinarci a vivere, secondo la parola di san Paolo, « in modo degno di Dio, sforzandoci di piacergli in ogni cosa e di portare ogni sorta di frutti di buone opere? Ut ambuletis digne Deo per omnia placentes, in omni opera bono fructificantes » (Col. X, 10). Lavoriamo dunque per crescere nella scienza di Dio, crescentes in scientia Dei, applicandoci ogni giorno per conoscere meglio, per apprezzarli di più, i doni divini. Amiamo, onoriamo, invochiamo spesso lo Spirito Santo, siamo docili alle sue ispirazioni; e se un giorno vogliamo occupare il trono di gloria che ci è stato preparato in cielo, iniziamo glorificando qui sulla terra e nella nostra anima e nel nostro corpo questa Santissima Trinità di cui siamo dimora e tempio. Glorificate et portate Deum in corpore vestro! (1 Cor. VI, 20).

SALMI BIBLICI: “LAUDATE, PUERI, DOMINUM” (CXII)

SALMO 112: “LAUDATE, PUERI, DOMINUM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS -LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 112

Alleluja.

 [1]  Laudate, pueri, Dominum,

laudate nomen Domini.

[2] Sit nomen Domini benedictum ex hoc nunc et usque in sæculum.

[3] A solis ortu usque ad occasum laudabile nomen Domini.

[4] Excelsus super omnes gentes Dominus, et super cælos gloria ejus.

[5] Quis sicut Dominus Deus noster, qui in altis habitat,

[6] et humilia respicit in cœlo et in terra?

[7] Suscitans a terra inopem, et de stercore erigens pauperem:

[8] ut collocet eum cum principibus, cum principibus populi sui.

[9] Qui habitare facit sterilem in domo, matrem filiorum lœtantem.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXII.

Si lodi Dio, principalmente perché, essendo egli altissimo, non isdegna abbassare gli occhi fino a noi, ed arricchirci di beneficii.

Alleluja: Lodate Dio.

1. Fanciulli, lodale il Signore, lodate il nome del Signore.

2. Sia benedetto il nome del Signore, da questo punto fino nei secoli.

3. Dall’oriente fino all’occaso ha da lodarsi il nome del Signore.

4. Il Signore è eccelso presso tutte le genti; e la gloria di lui fin sopra de’ cieli.

5. Chi è come il Signore Dio nostro, che abita nell’alto,

6. e delle basse cose tien cura in cielo e in terra? (1)

7. Ei dalla terra solleva il mendico, e il povero alza dal fango,

8. Per metterlo a sedere tra’ principi, tra i principi del suo popolo.

9. Egli la donna sterile fa che abili nella casa, lieta madre di figli.

(1) « Nel cielo e sulla terra. » Queste due parole si riferiscono a parti della frase che precede e devono essere così intese: Chi è come il nostro Dio che si eleva per abitare nei cieli, e che abbassa gli occhi fino a riguardare la terra? (Le Hir.).

Sommario analitico

Questo salmo è un invito indirizzato a tutti i fedeli di lodare la grandezza, la potenza, la bontà di Dio Creatore e salvatore. (1).

I. – Questa lode deve essere resa pubblica:

1° Da tutti i fedeli (1); 2° in tutti i tempi (2); 3° In tutti i luoghi (3). 

II. – Motivo di questa lode – Essa è dovuta a Dio:

1° A causa della sua maestà, che infinitamente al di sopra dei cieli, degli Angeli e degli uomini (4);

2° A causa della sua bontà, che abbassa i suoi sguardi sui piccoli e li toglie dalla loro abiezione per farli sedere con i principi del suo popolo (5-8);

3° A causa della sua potenza, che dà la fecondità della fede e delle buone opere alla Chiesa delle nazioni, fino ad allora sterile (9).  

(1) Questo salmo si applica in un primo senso molto imperfetto, al ritorno da Babilonia, dopo il quale esso è stato composto, come lo prova lo stile, ed in un senso molto più perfetto, alla redenzione del genere umano, figurato da questo ritorno, e alla Chiesa divenuta madre di numerosi figli (Le Hir.).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-3

ff. 1-3. – Le Sacre Scritture, ed il Salmista in particolare, tornano sovente sul sacrificio di lode che si deve offrire a Dio … Questo non è la sola lezione che ci offre questo salmo, ma esso serve a condurci a formare un solo coro per non fare che un unico concerto. Così, esso non si indirizza ad una o due persone, ma al popolo intero … Così il Salvatore, che preghiamo da soli o con altri, ci ordina costantemente di entrare con i nostri fratelli in una vera comunione di preghiera (S. Chrys.) – Quando sentite cantare « Pueri, lodate il Signore, » non crediate che questa esortazione non vi riguardi, con il pretesto che avendo già oltrepassato fisicamente l’età dell’infanzia, siete nel verde vigore della giovinezza, o che la corona della vecchiaia imbianchi la vostra fronte; perché l’Apostolo dice a tutti: « non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia, ma uomini maturi quanto ai giudizi.» (I Cor. XIV, 20). Da quale malizia dobbiamo essere soprattutto esenti, se non dall’orgoglio? Perché l’orgoglio, per la presunzione che dà come vanagloria, impedisce all’uomo di camminare per la via stretta e di entrare. Ora, un bambino passa facilmente in una via stretta; ecco perché nessuno, se non è come un bambino piccolo, entrerà nel regno dei cieli. (S. Agost.). – Tutti gli uomini hanno dei motivi particolari per lodare Dio, ma nessuno deve, a più giusto titolo, celebrare le sue lodi e rendere pubbliche le sue grandezze, che la gioventù e la prima età: l’orizzonte della vita si svolge magnifico ai loro sguardi, il cuore deborda di sentimenti di speranza. – La lode dei bambini è gradita a Dio a causa della loro purezza, della loro semplicità. – Cerchiamo di essere noi stessi bambini per la semplicità, la docilità, l’umiltà e l’innocenza (I Cor. XIV, 20), e potremo, anche nel vigore dell’età matura, ed anche giunti al tempo della canizie, prendere per noi queste parole e metterle in pratica. (Mgr. Pichenot, Ps. du D.). – La semplicità cristiana ha la sua infanzia, molto superiore all’infanzia naturale. L’infanzia è l’emblema dell’umiltà, che contrasta con la vana e falsa grandezza dell’orgoglio; in questo senso la vostra vecchiaia sia un’infanzia e la vostra infanzia una vecchiaia, vale a dire: la vostra saggezza sia umile e la vostra umiltà saggia, affinché lodiate Dio nel presente e fino all’eternità.- Non bisogna stupirsi che il Profeta ci inviti così spesso a lodare il nome del Signore, la cui essenza adorabile sfugge ai nostri sensi ed al nostro spirito, mentre il suo Nome ci è manifestato dai suoi oracoli e dalle sue opere, ed è per questo che i libri santi gli danno tanti nomi. È dunque con il Nome, o se si vuole, con i nomi di Dio, che noi giungiamo fino a Lui, ed è questo il motivo per cui Gesù-Cristo ci indirizza al suo santo Nome ordinandoci di dire: « Sia santificato il tuo Nome. » (Berthier). – Per noi c’è l’obbligo tanto più grave di benedire, di lodare il Nome di Dio, che è bestemmiato e maledetto da un gran numero di persone che, nell’impero di Dio, tra le sue opere, tra i suoi benefici, proferiscono verso questo santo Nome delle esecrazioni che fanno fremere la natura. – « Dal sorgere del sole fino al suo tramonto, il Nome del Signore, sia degno di lode. » Ogni giorno, Dio ci accorda nuovi favori; in ogni ora del giorno ci colma di nuovi benefici. – Non c’è alcun giorno dell’anno che non fornisca all’uomo il soggetto di nuovi cantici. – Non c’è contrada nell’universo che non riceva i favori di Dio e le influenze del suo amore. – « Dal sorgere del sole fino al tramonto, il mio Nome è grande tra le nazioni, e si sacrifica e si offre in ogni luogo una oblazione pura al mio Nome, perché il mio Nome è grande tra le nazioni. » (Malach I, 11). – « Dal sorgere del sole fino al suo tramonto, » vale a dire dalla nostra nascita fino alla morte. (S. Girol.). La vita dei Santi è comparata giustamente al sole nel suo sorgere e nel suo tramonto, perché essi sono i bambini della luce e la luce del mondo. – « Che il nome del Signore sia benedetto da ora ed in tutti i secoli dei secoli. » Il Nome del Signore sia benedetto da voi « dal momento presente », cioè dal momento in cui lo fate. La vostra lode cominci in effetti, ma non finisca; lodate dunque il Signore dal presente fino all’eternità; « lodatelo senza mai fermarvi! » Guardatevi dal dire: oggi cominciamo a lodare Dio, perché noi siamo ancora piccoli bambini; ma quando avremo creduto e saremo diventati grandi, allora saremo noi a lodarci. Non fate nulla, bambini, non fate nulla; perché il Signore ha detto per bocca di Isaia: « Io sono, e quando voi vegliate, io sono, e mentre voi vegliate, Io sono. » (Isai. XLVI, 4) Colui che bisogna lodare ogni giorno, è Colui che è. Bambini, lodatelo fin dal presente; vegliardi, lodatelo per l’eternità. Perché allora la vostra vecchiaia si coronerà di bianchi capelli e di saggezza, ma non appassirà  con la caducità della carne (S. Agost.). – Io mi dedicherò a questo Oriente ed Occidente; dal mattino renderò a Dio i miei omaggi; terminando la giornata, lo adorerò e lo benedirò, si avrà nella mia vita un Oriente ed un Occidente, delle luci e delle tenebre, degli avvenimenti felici e delle avversità; io riceverò tutto dalla sua mano, e Gli renderò delle azioni di grazie. Dall’oriente dei miei giorni, dalla mia infanzia dovrò dedicarmi interamente al suo servizio; io sono stato infedele nell’adempiere a questo dovere; sono al termine della mia carriera, il termine si avvicina, almeno devo consacrargli questi pochi giorni che mi accorda affinché, quando la luce si spegnerà per noi, possiamo gioire in pieno giorno della gloria nell’eternità (Berthier). 

II. — 4 – 9

ff. 4. – « Il Signore è eccelso su tutte le genti. » La nazioni sono composte da uomini, cosa c’è di strano che Dio sia elevato sopra gli uomini? Questi adorano il sole, la luna e le stelle, che i loro occhi vedono brillare nel cielo sopra di essi, ed abbandonano il Creatore, al Quale obbediscono tutte le creature; ma il Signore non è eccelso solo sopra tutte le nazioni: la sua gloria è eccelsa anche sopra i cieli. « I cieli lo vedono al di sopra di essi, e gli umili, che la carne relega al di sotto del cielo, ma che non adorano il cielo al suo posto, lo possiedono in se stessi. » (S. Agost.). – Nell’ordine morale, come nell’ordine fisico, Dio è grande, Dio solo è grande, ed è questo nuovo motive per rendere pubbliche le sue lodi. Nell’ordine morale, il Re-Profeta dice tutto con una sola parola: « Il Signore è eccelso sopra le nazioni. » Egli tiene nelle sue mani le redini di tutti gli imperi, governa i popoli ed i re; Egli dirige, muta le volontà senza vincoli e dispiaceri al compimento delle sue volontà. Coloro che Gli resistono lo servono; coloro che hanno la pretesa di portare le armi contro di Lui, difendono la sua causa … nell’ordine fisico, qual gloria, qual magnificenza! … Nel cielo dei cieli, Egli vede ai suoi piedi milioni di spiriti puri, i nove cori degli Angeli formano la sua augusta milizia. (Mgr, Pichenot, Ibid.). 

ff. 5-8. – Quando I desideri dei beni o dei piaceri della terra ci pressano, il mezzo più sicuro per resistere e liberarcene, sarebbe chiedere a noi stessi: Quale oggetto può essere comparabile al Signore, mio Dio? Non possiede Egli tutte le perfezioni, tutti i beni, tutte le beltà? (Berthier). – Cosa di più sublime e nello stesso tempo, di più toccante del contrasto stabilito qui dal salmista tra la grandezza incomparabile di Dio, questo sovrano delle nazioni, il Dio che i cieli non possono contenere negli spazi incommensurabili, e questa bontà incomprensibile con la quale Egli si compiace di sollevare il povero dalla terra e l’indigente dal letame, per farlo sedere tra i principi, con la quale Egli si degna ancora di accondiscendere fino all’umile donna priva delle dolcezze della maternità, e di consolarne l’afflizione. – I re del mondo, i grandi della terra, crederebbero di disprezzare ed avvilirsi se si curvassero verso chi è al di sotto di loro … Così non è per il nostro Dio: Egli solo è grande e dalle profondità della sua eternità, contempla e benedice, perso nel tempo e nello spazio, ciò che ha di più umile e più povero. È sui piccoli ed i disgraziati che Egli di preferenza abbassa gli sguardi della sua misericordia. « Su chi getterò gli occhi se non sul povero che ha il cuore infranto, e che ascolta le mie parole con tremore? » (Isai., LXVI, 2). – « Chi è simile al Signore nostro Dio, che abita nei luoghi più elevati, » cioè nei Santi, Egli abita negli umili? Si, Egli li abita, perché abbassa i suoi sguardi verso gli umili, come è scritto: « Su chi abbasserò i miei sguardi, se non su colui che è umile, e che trema ascoltando le mie parole? » – Quando i Santi sono elevati? Quando contemplano le cose celesti. Essi sono umili sulla terra, quando si umiliano nelle opere della vita attiva, e si elevano nelle meditazioni della vita contemplativa. Essi sono umili sulla terra, ma sono elevati davanti a Dio. Perché il salmista non ha detto: Dio abita negli umili? Ma « Egli abbassa i suoi sguardi sugli umili. » Perché Dio getta i suoi sguardi là ove abita, ed Egli abita là dove getta i suoi sguardi (S. Gerolamo). – Nelle anime elevate ove abita, Egli guarda ciò che è umile. In effetti Egli eleva gli umili in modo da non renderli orgogliosi. Ecco perché Egli abita nelle altezze dei cieli che Egli stesso ha elevato; Egli fa di essi il suo cielo, cioè il suo trono; e tuttavia vedendoli sempre, non orgogliosi ma sottomessi, considera chi è umile come il cielo stesso, di cui abita la altezze. È ciò che ci insegna lo Spirito Santo per bocca di Isaia. «Ecco ciò che dice l’Altissimo, che abita il luoghi elevati ed il cui Nome è eterno, il Signore Altissimo che prende il suo riposo nei Santi. » (LVII, 15). Ma quali sono i Santi, se non gli umili che, facendosi bambini, glorificano il Signore? (S. Agost.). È il carattere di una potenza veramente grande ed ineffabile elevare ciò che è piccolo (S. Chrys.). – È una legge provvidenziale che Davide ha constatato da se medesimo, e che si può applicare agli uomini che Dio ha tratto dall’oscurità per elevarli al primo posto: Giuseppe, Mosè, Davide stesso e tanti altri. – Ma questa parola ha avuto il suo compimento in modo più sublime nella trasformazione della natura umana con l’Incarnazione del Verbo. Quale povertà più grande di quella della nostra natura? E tuttavia il Figlio di Dio è disceso dal cielo in terra per venire a cercare questa natura fin nella polvere ed il fango del vizio; Egli ti ha estratto da questo abisso di abiezione per elevarti fino a Lui; Egli ha trasportati nei cieli le primizie di questa natura e l’ha fatta sedere sul trono del Padre. Il letame figura qui l’abiezione della condizione, ed il cambiamento subìto, di cui è l’oggettiva prova che per Dio, tutte le cose sono semplici e facili (S. Chrys.). –  Il Profeta volendo insegnarci perché si trovano umili cose in cielo, quando il nome di cielo si applica a grandi Santi spirituali e degni di sedere come giudici sui dodici troni, il Profeta, aggiunge subito: « Egli eleva da terra ciò che è nell’indigenza, trae dal letame colui che è nella povertà, al fin di porlo con i principi del suo popolo. » Che le teste più elevate non disdegnino di essere umili sotto la mano del Signore, perché benché il fedele dispensatore delle ricchezze del Signore sia posto tra i principi del popolo di Dio, non di meno lo è l’indigente elevato da terra, e il povero estratto dal letame (S. Agost.). – Il Signore rinnova questo miracolo di potenza e di bontà per ogni peccatore in particolare nel Battesimo e nella Penitenza; egli tira via dal letame e dalla corruzione del suo peccato per porlo nel cielo e offrirgli un posto tra i principi del suo popolo, tra gli Angeli e gli altri abitanti della Gerusalemme celeste.

ff. 9. – Così come la più grande sventura degli uomini è lo stato di oscurità e di disprezzo, la sterilità è una delle pene più sensibili per le donne. (Bellarm.). – Ma non soltanto Dio può operare anche strabilianti cambiamenti, da far succedere la grandezza alla bassezza, ma Egli può dislocare i limiti della natura e dare la fecondità a colei che era sterile: cosa che è accaduta a Sara, Rebecca, Rachele e tante altre. In un senso più elevato, il salmo vuole qui parlare della Chiesa, formata da tutte le nazioni e che, dopo essere rimasta per lungo tempo sterile, ha prodotto nella sua vecchiaia una numerosa posterità, secondo queste parole di Isaia: « Rallegrati sterile, che non hai partorito; emettete grida di gioia, voi che non diventate madri, perché colei che era abbandonata ha più figli della maritata. » (Isai. LIV, Gal., V), – Chi ama la Chiesa come sua madre, non può vedere questa fecondità senza entrare nella gioia. – Questa donna sterile è pure la nostra anima che da se stessa non può concepire né il pensiero del bene, né germogliare la virtù; ma che diviene feconda o per una conversione totale, o per un rinnovo del fervore. Tutto fruttifica in quest’anima resa feconda dal divino Sposo, e la gioia spirituale è la prima ricompensa che Egli versa su questa sposa divenuta degna di Lui (Berthier).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI (ANCHE CON CAZZUOLA E GREMBIULINO) DI TORNO: S. S. PIO IX – “EXORTÆ IN ISTA”

Ancora e sempre il nemico infernale viene snidato dal Santo Padre, Pio IX, anche in questa parte del Nuovo Mondo, ove il serpente diabolico si era rifugiato ed annidato onde attaccare celato ai più, e portare colpi alla santa Chiesa di Cristo. In effetti la Massoneria ha trovato da subito ampi spazi nel continente americano, ove ha potuto sperimentare forme di azione lontano dalle società europee ove era già abbastanza nota, detestata ed in qualche modo combattuta. Non a caso è nelle Americhe che hanno potuto sferrare colpi mortali i personaggi più corrotti e malefici in assoluto della storia, mascherati da presidenti, reali, alti dignitari, ministri, “eroi nazionali”, etc. etc., aderenti alle logge di obbedienze varie, ma tutte guidate dai nemici del genere umano, i c. d. “superiori sconosciuti”, assoggettati a Lucifero, come – a mo’ di esempio – i nostri Garibaldi, Mazzini, e via discorrendo, fino agli attuali finti gesuiti dei Paesi caldi che hanno in tutta tranquillità potuto “generare” figure abominevoli, e così sferrare un colpo mortale alla già oltremodo saccheggiata Chiesa Cattolica. Il Santo Padre Pio IX ancora una volta ricorda le scomuniche riservate alla Sede Apostolica che sia i suoi predecessori, lui stessi ed i suoi successori hanno poi confermato e che tutta sono in vigore a dannazione di aderenti iscritti, sostenitori a qualunque titolo, in qualsiasi ambito, a qualunque livello, sia pure come votanti alle elezioni politiche ove si sostengono canditati di chiara estrazione massonica, ed oggi intrufolati pure nelle strutture ecclesiastiche di tutto l’orbe. Il loro vero obiettivo, nell’infiltrare tutta la società civile, politica, finanziaria ed ecclesiastica, è la distruzione della Chiesa Cattolica, in particolare nella persona del Vicario di Cristo, onde poggiare la “corona-lucifero” sul capo dell’anticristo e dei suoi adepti infernali, gli uomini che vogliono sottomettere le bestie-cristiane e portarle, per disposizione demoniaca, al fuoco dell’eterna perdizione. Ma come sempre, anche questa volta, benché il piano sia stato più scaltro ed articolato del solito, per la contraffazione della Chiesa di cui è rimasta una vuota conchiglia, e si è trasformata nell’apparenza in una vera e propria sinagoga satanica, guidata da mostri abominevoli e sacrileghi, il loro piano si incepperà e “Dio … irredebit eos” e la Vergine Immacolata … conteret capita eorum, .. aspettare per credere, oramai ci siamo!

S. S. PIO IX

EXORTÆ IN ISTA

– Epistola de massonica secta

Forte richiamo a vigilare contro le insidie delle sette e della massoneria inparticolare. Rinnova il divieto di aggregarsi a questa sotto pena di scomunica maggiore riservata al Romano Pontefice.

[Pii. IX, 29 aprilis 1876, P. M. Acta, I/7. Pp. 210-214; ASS 9(1876), PP. 338-342]

Venerabilibus fratribus Episcopis Brasilianæ regionibus

I disordini originati in questa giurisdizione negli anni scorsi da persone che, benché adepte della setta massonica, si introdussero nelle comunità dei pii cristiani, come condussero voi, venerabili fratelli, soprattutto nelle diocesi di Olinda e Belem do Para, a un grave tormento, così, come sapete, riuscirono molto moleste e dolorose al nostro animo. Infatti non potevamo considerare senza dolore il fatto che la peste letale, di quella setta si era diffusa fino a corrompere le predette comunità, e di conseguenza le istituzioni disposte per rinforzare lo spirito sincero della fede e della pietà, dopo che vi era stata sparsa sopra la funesta messe della zizzania, erano precipitate in una misera condizione. Noi perciò, richiamati dal Nostro dovere apostolico e sotto lo sprone della paterna carità, con la quale seguiamo questa parte del gregge di Dio, ritenemmo di dover affrontare senza esitazione questo male e con la lettera del 29 maggio 1873 facemmo giungere a te, venerabile fratello di Olinda, la nostra voce contro questo deplorevole pervertimento entrato dentro le comunità cristiane, osservando tuttavia un criterio di indulgenza e clemenza verso quanti erano diventati seguaci della setta massonica perché ingannati e illusi, quello cioè di sospendere per un tempo congruo la riserva delle censure nelle quali essi erano incorsi, volendo che essi approfittassero della nostra benignità per esecrare i loro errori e abbandonare, condannandole, le associazioni in cui erano entrati. Ti incaricammo inoltre, venerabile fratello di Olinda, di sopprimere e di dichiarare soppresse le predette comunità se, trascorso quel periodo di tempo, non si fossero ravvedute e di ricostituirle integralmente con le modalità che avevano all’origine, inserendo nuovi membri immuni da ogni contaminazione con la massoneria. Noi inoltre, desiderando mettere in guardia – come è nostro dovere – tutti i fedeli contro le astuzie e le insidie dei membri delle sette, nella lettera enciclica indirizzata ai vescovi di tutta la cattolicità il 21 novembre 1873, richiamammo con chiarezza in quella occasione alla memoria dei fedeli le disposizioni pontificie emanate contro le corrotte società degli aderenti alle sette e proclamammo che nelle costituzioni venivano colpite non solo le associazioni massoniche costituite in Europa, ma anche tutte quelle che si trovano in America e nelle altre regioni di tutto il mondo. Non potemmo quindi non stupirci vivamente del fatto che, essendo state tolte con la Nostra autorità e con decisioni miranti alla salvezza dei peccatori gli interdetti a cui in queste regioni erano state sottoposte alcune chiese e comunità composte in gran parte da seguaci della massoneria, fu tratta da ciò l’occasione per diffondere tra la gente la convinzione che la società massonica presente in queste regioni era esclusa dalle condanne delle regioni apostoliche e quindi che le stesse persone aderenti alla setta potevano tranquillamente fare parte delle comunità dei pii Cristiani. Ma quanto queste opinioni siano lontane dalla verità e dal nostro modo di sentire, è dimostrato con chiarezza sia dagli atti che abbiamo ricordato prima, sia dalla stessa lettera scritta al serenissimo imperatore di codeste regioni il 9 febbraio 1875 nella quale, mentre garantivamo che sarebbe stata revocata l’interdizione gravante su alcune chiese di codeste diocesi se voi, venerabili fratelli, tenuti ingiustamente in carcere a Para e a Olinda, foste stati rimessi in libertà, aggiungemmo tuttavia una riserva e una precisa condizione, cioè che i seguaci della massoneria fossero rimossi dagli incarichi che occupano nelle comunità. E questa condotta suggerita dalla Nostra prudenza non ebbe e non avrebbe potuto avere altro proposito se non che, esauditi da parte Nostra i desideri dell’imperatore e ripristinata la tranquillità degli animi, offrissimo al governo imperiale l’opportunità di restituire all’antica condizione le pie comunità togliendone l’inquinamento portato dalla massoneria e nello stesso tempo far sì che gli uomini della setta condannata, mossi dalla Nostra clemenza verso di loro, procurassero di sottrarsi alla via della perdizione. E affinché in una questione così grave non possa restare alcun dubbio né alcuna possibilità di inganno, non tralasciamo di dichiarare nuovamente in questa occasione che tutte le società massoniche, sia di queste regioni sia esistenti altrove, delle quali da parte di molti, o tratti in inganno o traenti essi in inganno, si dice che mirino soltanto all’utilità e al progresso sociale e alla pratica dell’aiuto reciproco, sono vietate e colpite dalle costituzioni e dalle condanne apostoliche, e che quanti malauguratamente si sono iscritti alle medesime sette incorrono per questo solo fatto nel più grave provvedimento della scomunica riservato al Romano Pontefice. Né con minore sollecitudine raccomandiamo al vostro zelo che in queste regioni la dottrina religiosa venga trasmessa diligentemente al popolo cristiano con la predicazione della parola di Dio e gli opportuni insegnamenti; sapete infatti quale utilità deriva al gregge di Cristo da questa parte del ministero se viene esercitata bene, quali danni gravissimi se viene trascurata. – Ma oltre agli argomenti trattati qui, siamo costretti a deplorare l’abuso di potere da parte di coloro che presiedono le già ricordate comunità, i quali, come appunto ci è stato riferito, revocando ogni cosa secondo il loro arbitrio, pretendono di attribuirsi una illegittima autorità sui beni e le persone sacre e sulle cose spirituali, in modo tale che gli ecclesiastici e gli stessi parroci sono completamente assoggettati al potere di quelli nel compimento dei doveri del loro ministero. Questo comportamento è affatto contrario non solo alle leggi ecclesiastiche, ma allo stesso ordine costituito da Cristo Signore nella sua Chiesa; infatti i laici non sono stati posti a capo del governo ecclesiastico, ma per loro utilità e per la loro salvezza devono essere sottoposti ai legittimi Pastori ed è loro compito offrirsi come aiutanti del clero per le singole situazioni, mentre non devono intromettersi in quelle cose che sono state affidate da Cristo ai sacri pastori. Perciò non conosciamo niente di più necessario del fatto che gli statuti delle predette comunità siano redatti secondo il retto ordine e quanto in essi è fuori dalla norma e incongruo per qualche aspetto venga reso perfettamente conforme alle regole della Chiesa e alla disciplina canonica. Per raggiungere questo fine, venerabili fratelli, Noi, considerate le relazioni che intercorrono tra le comunità stesse e il potere civile, in ciò che concerne la loro costituzione e il loro ordinamento nelle cose temporali abbiamo già dato al nostro Cardinale Segretario di Stato gli opportuni mandati per agire insieme col governo imperiale e concertare con lo stesso gli sforzi utili per ottenere i risultati desiderati. Confidiamo che l’autorità civile unirà al Nostro il suo sollecito interessamento per questo e preghiamo con ogni Nostra forza Dio, dal quale provengono tutte le cose buone, perché si degni di accompagnare e sostenere con la sua grazia quest’opera attinente alla tranquillità della Religione e della società civile. Anche voi, venerabili fratelli, unite le vostre preghiere alla Nostre, perché questi desideri si realizzino e in pegno del Nostro sincero amore ricevete l’apostolica benedizione, che a voi e al clero e ai fedeli affidati alla cura di ciascuno di voi, impartiamo di cuore nel Signore.

Roma, presso San Pietro, 29 aprile 1876, anno XXX del Nostro pontificato.

PIO PP. IX

DOMENICA III di QUARESIMA (2020)

DOMENICA III DI QUARESIMA (2020)

 (Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Stazione a S. Lorenzo fuori le mura.

Semidoppio, Dom. privil. di I cl. • Paramenti violacei.

L’assemblea liturgica si tiene in questo giorno a S. Lorenzo fuori le mura che è una delle cinque basiliche patriarcali di Roma. In questa chiesa si trovano i corpi di due diaconi Lorenzo e Stefano. L’Orazione del primo (10 agosto) ci fa domandare di estinguere in noi l’ardore dei vizi come questo Santo superò le fiamme dei suoi tormenti; e quella del secondo (26 dicembre) ci esorta ad amare i nostri nemici come questo Santo che pregò per i suoi persecutori. Queste due virtù: la castità e la carità, furono praticate soprattutto dal patriarca Giuseppe, di cui la Chiesa ci fa la narrazione nel Breviario proprio in questa settimana. Giuseppe resistette alle cattive sollecitazioni della moglie di Putifarre e amò i fratelli fino a rendere loro bene per male. (Nel sacramentario Gallicano – Bobbio – , Giuseppe è chiamato il predicatore della misericordia; e la Chiesa, nella solennità di S. Giuseppe, proclama in modo speciale la sua verginità.) Quando Giuseppe raccontò ai fratelli i suoi sogni, presagio della sua futura gloria, essi concepirono contro di lui tanto odio, che presentatasi l’occasione, si sbarazzarono di lui gettandolo in una cisterna senza acqua. Di poi lo vendettero ad alcuni Ismaeliti che lo condussero in Egitto e lo rivendettero ad un nobile egiziano di nome Putifarre. Fu appunto lì che Giuseppe resistette energicamente alle sollecitudini della moglie di Putifarre e divenne per questo il modello della purezza (la Chiesa nel corso di questa settimana, – Epistola e Vangelo di sabato – legge ì brani della donna adultera e di Susanna. I Padri della Chiesa spesso hanno messo in rapporto quest’ultima con Giuseppe). – « Oggi, dice S. Ambrogio, vien offerta alla nostra considerazione la storia del pio Giuseppe. Se egli ebbe numerose virtù, la sua insigne castità risplende in modo del tutto speciale. È giusto quindi che questo santo Patriarca ci venga proposto come lo specchio della castità » (Mattutino). Giuseppe accusato ingiustamente dalla moglie di Putifarre, fu messo in prigione: egli si rivolse a Dio, lo pregò di liberarlo dalle sue catene. L’Introito usa espressioni analoghe a quelle della preghiera di Giuseppe: « 1 miei occhi sono rivolti senza tregua verso il Signore, poiché Egli mi libererà dagli inganni ». « Come gli occhi dei servi sono fissi verso i padroni, continua il Tratto, cosi io volgo il mio sguardo verso il Signore, mio Dio, fino a quando non avrà compassione di me ». Allora « Dio onnipotente riguarda i voti degli umili, e stendi la tua destra per proteggerli » (Orazione). Faraone difatti fece uscire Giuseppe dalla prigione, lo fece sedere alla sua destra e gli affidò il governo di tutto il suo regno. Giuseppe prevenne la carestia che durò sette anni; il Faraone allora lo chiamò « Salvatore del popolo ». (Il Vangelo dà una sola volta questo titolo a Gesù, quando parla alla Samaritana presso il pozzo di Giacobbe, Questo Vangelo è quello del Venerdì della stessa settimana, consacrato alla storia di Giuseppe). – In questa occasione i fratelli di Giuseppe vennero in Egitto ed egli disse loro: « Io sono Giuseppe che voi avete venduto. Non temete. Dio ha tutto disposto perché io vi salvi da morte ». La felicità di Giacobbe fu immensa allorché poté rivedere il figlio; egli abitò con i suoi figli nella terra di Gessen, che Giuseppe aveva loro data. « La gelosia dei fratelli di Giuseppe, dice S. Ambrogio, è il principio di tutta la storia di Giuseppe ed è ricordata nello stesso tempo per farci apprendere che un uomo perfetto non deve lasciarsi andare alla vendetta di un offesa o a rendere male per male » (Mattutino). È impossibile non riconoscere in tutto questo una figura di Cristo e della sua Chiesa. – Gesù, figlio della Vergine Maria (Vang.), è il modello per eccellenza della purità verginale. Il Vangelo lo mostra in lotta in modo speciale contro lo spirito impuro. Il demonio che egli scaccia col dito di Dio, cioè per virtù dello Spirito Santo, dal muto ossesso, era « un demonio impuro », dicono S. Matteo e San Luca. La Chiesa scaccia dalle anime dei battezzati il medesimo spirito immondo. Si sa che la Quaresima era un tempo di preparazione al Battesimo e in questo Sacramento il Sacerdote soffia per tre volte sul battezzato dicendo: « esci da lui, spirito impuro, e fa luogo allo Spirito Santo ». « Ciò che si fece allora in modo visibile, dice S. Beda nel commento del Vangelo, si compie invisibilmente ogni giorno nella conversione di quelli che divengono credenti, affinché dapprima scacciato il demonio esse scorgano poi il lume della fede, indi la loro bocca, prima muta, si apra per lodare Dio » (Mattutino). « Né gli adulteri, né gli impudichi, dice parimente S. Paolo nell’Epistola di questo giorno, avran parte nel regno di Cristo e di Dio. Non si nomini neppure fra voi la fornicazione ed ogni impurità. Specialmente in questo tempo di lotta contro satana, noi dobbiamo imitare Gesù Cristo di cui Giuseppe era la figura. Questo Patriarca ci dà ancora l’esempio della virtù della carità, come Gesù e la sua Chiesa. Gesù, odiato dai suoi, venduto da uno degli Apostoli, morendo sulla croce, pregò per i suoi nemici. Pregò Dio, ed Egli lo glorificò facendolo sedere alla sua destra nel suo regno. Nella festività di Pasqua, Gesù, per mezzo dei Sacerdoti, distribuirà il frumento eucaristico, come Giuseppe distribuì il frumento. Per ricevere la Santa Comunione, la Chiesa esige questa carità, della quale S. Stefano, le cui reliquie si conservano nella chiesa stazionale, ci diede l’esempio perdonando ai suoi nemici. Gesù esercitò questa carità in grado eroico « allorché offrì se stesso per noi » sulla croce (Ep.), di cui l’Eucaristia è il ricordo. — La figura di Giuseppe e la stazione di questo giorno illustrano in una maniera perfetta, il mistero pasquale al quale la liturgia ci prepara in questo tempo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV: 15-16.

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et pauper sum ego.[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Ps XXIV: 1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam, [A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego. [I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

 Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde. [Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.

Ephes. V: 1-9

“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.”

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli, Sc. Tip. Arciv. Artigianelli – Pavia, 1929]

L’IMPURITÀ’

“Fratelli: Siate imitatori di Dio, come figli carissimi, e camminate nell’amore, come anche Cristo ha amato noi, e si è dato per noi a Dio, quale oblazione e sacrificio di soave odore. Della fornicazione, di ogni impurità, dell’avarizia non si faccia neppur menzione tra voi, come si conviene a santi: nessun turpiloquio, nessun discorso sciocco, nessuna scurrilità, tutte cose che disdicono; ma piuttosto il rendimento di grazie. Poiché, sappiatelo bene: nessun fornicatore, nessun impudico, nessun avaro, cioè idolatra, ha eredità nel regno di Cristo e di Dio. Nessuno vi seduca con dei discorsi vani; poiché per tali cose viene l’ira di Dio sopra i figli della disubbidienza. Non vogliate dunque avere comunanza con costoro. Un tempo, invero, eravate tenebre, ma ora siete luce nel Signore. Camminate da figli della luce. E frutto della luce, poi, consiste in ogni sorta di bontà, di giustizia, di verità”. (Ef. V, 1-9).

Efeso, sul mare Egeo, era la capitale dell’Asia proconsolare. Era celebre pel commercio e più ancora per il tempio di Diana, ritenuto una delle meraviglie del mondo, e meta di frequenti pellegrinaggi. S. Paolo ne fece come il centro della sua attività apostolica nell’Asia minore. Lontano da Efeso, in prigionia. l’Apostolo non dimentica la Chiesa da lui fondata. Nella Chiesa di Efeso, come nelle altre dell’Asia minore, andavano infiltrandosi degli errori, che corrompevano la dottrina da lui predicata. L’Apostolo scrive una lettera, indirizzata agli Efesini, nella quale, a premonire i fedeli contro le sottigliezze dell’errore, espone il piano della Redenzione, trattando dei grandi benefìci comunicatici per mezzo di Gesù Cristo. Esorta inoltre gli Efesini a vivere secondo il Vangelo, e viene a parlare dei doveri generali e particolari dei cristiani. Dal capo V di questa lettera è tolta l’epistola odierna. Dio ha usato verso gli uomini una carità immensa, perdonando i loro debiti per i meriti di Gesù Cristo. Davanti a tanta dimostrazione di amore il Cristiano non può rimanere indifferente. Perciò San Paolo inculca agli Efesini che siano imitatori di Dio e di Gesù Cristo nella carità verso il prossimo e nel perdono delle offese ricevute. Fuggano, poi, l’avarizia e la disonestà, tanto nelle opere, quanto nelle parole, se non vogliono rimaner esclusi dal regno dei cieli. Non si lascino ingannare da chi insegna che questi peccati sono cosa da nulla. A ogni modo, essi sono figli della luce; pratichino, adunque, le opere della luce e non quelle delle tenebre. Tra le opere delle tenebre è certamente l’impurità, la quale:

1. È di una bruttezza tutta particolare.

2. Attira gravi castighi da parte di Dio.

3. È oltremodo sconveniente per un Cristiano.

1.

Della fornicazione, di ogni impurità, dell’avarizia non si faccia neppur menzione tra voi. Impurità e avarizia erano le due grandi piaghe della società pagana, dalla quale i novelli Cristiani provenivano. Era troppo forte, nelle circostanze in cui vivevano, la voce allettatrice al ritorno a questi vizi. E S. Paolo li mette in guardia.Se tra i pagani questi peccati sono detestevoli, tra i Cristiani, chiamati a una vita di santità, non si devono neppur nominare. Sull’impurità specialmente insiste l’Apostolo. Non solo si devono fuggire le azioni; ma se ne devono mantenere assolutamente puri la mente e il cuore. Perciò soggiunge: nessun turpiloquio, nessun discorso sciocco, nessuna scurrilità, tutte cose che disdicono.L’orrore che deve suscitare questo vizio si comprende benissimo se si considera la sua bruttezza. Dei peccati belli non ce n’è neppur uno, siam tutti d’accordo. Ma nell’uso generale, quando si dice peccato brutto, s’intende senz’altro il peccato impuro. È l’uso che si trova sulla bocca del popolo e dei letterati, nei libri sacri e nei profani. Voi nominate tutti gli altri vizi con il loro nome, senza sentir ripugnanza; ma il senso morale v’impedisce di parlar con disinvoltura di questo vizio. Voi sentite il bisogno, se costretti a parlarne, di essere riservati più che sia possibile.L’impuro teme che le sue azioni siano rivelate, anche se non c’è nulla da temere da parte delle leggi umane. « Odia la purità, e nondimeno vuol comparir puro ». (S. Zenone, L . 1, Tract. 4, 2). E così accade e non di rado che uomini, i quali ti sembrano santi e retti, anzi angioli che conversano sulla terra, sono imbrattati dal vizio dell’impurità. È troppo chiaro. Quando di uno si dice: «è un dissoluto», si pronuncia una di quelle condanne che scalzano la riputazione di un uomo. Anche il solo sospetto, che altri possano sapere qualche cosa della sua condotta, mette l’impuro in agitazione; poiché anche il semplice sospetto lo rende spregevole agli occhi stessi del mondo. – La ragione fa l’uomo re dell’universo. E l’uomo che è nato a dominare, se si lascia prendere dalla passione impura, è il più abbietto degli schiavi. In luogo della ragione comanda la passione: comanda sempre, e la volontà si piega e ubbidisce, ubbidisce sempre. E queste continue sconfitte non gli mettono in mente alcun sentimento di riscossa: col tempo finisce a non veder più lo stato in cui si trova. La sua anima offuscata dalle tenebre delle passioni non riconosce più se stessa, non sa più che sia dignità. Dal mal uso è vinta, la ragione; e si avvera l’osservazione del Profeta: « L’impudicizia, il vino e l’ubriachezza tolgono il bene dell’intelletto». (Os. IV, 11). Se alcuno cerca di illuminare l’impudico, di scuoterlo, quasi sempre farà opera vana, e alla fine si adatterà all’esortazione di Michea: «Non state a far tante parole: esse non cadranno sopra costoro, né vergogna li prenderà ». (II, 6). Chi ha buttato via una volta la vergogna, non la riprende più, dice il proverbio. E questo si avvera specialmente dell’impuro.

2.

I pretesti non mancano a coloro che vogliono scusare questo peccato. Si va dicendo che non è poi un gran male; che Dio non vorrà castigarlo. Ma l’Apostolo ci mette sull’avviso: Nessuno vi seduca con dei discorsi vani; poiché per tali cose viene l’ira di Dio sopra i figli della disubbidienza. L’ira di Dio si manifesterà specialmente nel giorno del giudizio. Ma coloro che non vogliono accettare la luce del Vangelo, che si ribellano alla dottrina della Chiesa e alle esortazioni dei suoi ministri, per esser liberi nella loro vita disordinata, proveranno l’ira di Dio anche su questa terra. Limitandoci, ora al peccato impuro, apriamo la Sacra Scrittura, e vediamo con quali tremendi castighi Dio l’ha punito. Ai tempi di Noè il mondo era immerso in opere e in pensieri di carne. «Non durerà per sempre il mio spirito nell’uomo, — dice Dio — perché egli è carne; ma i suoi giorni sono contati: 120 anni». (Gen VI, 3). E mantiene la parola. Passati i 120 anni, senza che gli uomini cessassero dalla loro depravata condotta, viene il diluvio. La fine degli uomini è decisa. Tutta la terra da essi abitata è coperta dalle onde. Le acque crescono continuamente; raggiungono e sorpassano la vetta dei monti più alti. Le risa, i motteggi, gli scherni che si rivolgevano a Noè, uomo giusto, retto, il quale, in mezzo a quella generazione perversa, viveva nel timor di Dio, ora si cangiano in lamenti, in pianti, in spasimi di morte. Noè con la famiglia e con gli animali introdotti nell’arca, è salvo, e tutti gli altri trovano la tomba nelle acque. La terra si era di nuovo popolata, e di nuovo dilagava il mal costume. Corrottissimi erano i costumi degli abitanti della Pentapoli, cinque città situate in luogo amenissimo. Dio manda i suoi Angioli a punirla. «Noi siamo per distruggere questo luogo, — dicono a Lot — perché grande è il loro grido al cospetto del Signore» (Gen. XIX, 13). Gli abitanti prendono per scherzo i castighi minacciati; ma, appena partito Lot con la famiglia, fuoco e zolfo, per voler di Dio, distruggono tutto quel distretto. Periscono gli uomini, la vegetazione scompare, le città sprofondano; e nel suolo abbassato entrano le acque, che formano il triste «Mar morto». Dio vuole che non resti più traccia né dei peccatori, né dei luoghi testimoni dei loro peccati.Quel Dio, che con questi ed altri tremendi castighi punì il peccato impuro allora, è ancora quello stesso che può punirlo e lo punisce anche adesso. Non siamo tanto folli da dire: «L’Altissimo non starà lì a ricordare i miei peccati». (Eccli. XXIII, 26). Anche nel tempo di Noè i viziosi dicevano così, e non facevano alcun conto dei castighi da parte del Signore. Ma i primi non poterono sfuggire alle onde; e i secondi dovettero subire la sorte delle loro città. Non sono già, del resto, un castigo l’affanno, l’agitazione, l’amarezza che riempiono l’animo di chi si dà a questi peccati?

3.

A dimostrare quanto sia disdicevole in un Cristiano l’impurità, l’Apostolo ricorda agli Efesini la diversità della loro condizione presente da quella d’una volta: Un tempo, invero, eravate tenebre, ma ora siete luce nel SignorePrima di ricevere il Battesimo gli Efesini era schiavi del demonio, principe delle tenebre: adesso, essendo uniti a Gesù Cristo, camminano nella pienezza della luce. Quale stoltezza allontanarsi da Gesù Cristo, luce del mondo, per assoggettarsi di nuovo al principe delle tenebre! È sempre disdicevole dimenticarsi della propria condizione per poter commettere azioni, che meritano biasimo. Ma la cosa è tanto più sconveniente, quanto più chi vien meno al proprio dovere è persona costituita in dignità. La medesima mancanza, commessa da una persona del volgo e commessa da un principe, assume unaspetto diverso. La condizione del Cristiano è una condizione veramente principesca, reale. Figlio adottivo di Dio, fratello di Gesù Cristo, erede del regno celeste, quando egli compie qualche cosa che non è conveniente è molto più riprovevole di un pagano, che non è illuminato dalla luce del Vangelo, che non vive la libertà dei figli di Dio; che rimane sotto la schiavitù di satana. Che conducano una vita impura i pagani, — dice il Crisostomo — è cosa detestabile, che in certo modo, però, si spiega; «ma che conducano ancora una vita impura i Cristiani fatti partecipi di tanti misteri, e in possesso di tanta gloria è cosa che sorpassa ogni sfacciataggine, e che non si può in nessun modo tollerare». (In Ep. ad Philipp. Hom. 7, 5). « Non sapete che siete tempio di Dio, e che lo Spirito di Dio dimora in voi?» ricorda S. Paolo ai Corinti (I Cor. III, 16). Poter essere il tempio di Dio e l’abitazione dello Spirito Santo, e preferire d’essere l’abitazione dello spirito immondo, è tale demenza, che non si riesce a comprendere. Si racconta di reclusi, che, usciti dopo trenta o più anni di detenzione, si sentono come fuori di posto. L’aria libera, la vita libera, l’abito che li accomuna coi cittadini onorati, non contano più nulla per loro, e vogliono ritornare alla vita di catene e di disonore del carcere. Alcuni, interrogati se vogliono usufruire della grazia sovrana, dopo trenta o quarant’anni di ergastolo, vi rinunciano. Poveri infelici, veramente degni di compassione! Ancor più degni di compassione sono gli impudichi. Possono vivere della libertà che porta la grazia di Gesù Cristo, ma essi «convertono in lussuria la grazia del nostro Dio, e negano il solo Dominatore e Signor nostro Gesù Cristo». (Giud. IV). Salomone, considerando il misero stato a cui è ridotto il campo dell’uomo pigro, esclama: «Vedendo ciò vi feci riflessione, e tale spettacolo fu per me una lezione! » (Orov. XXIV, 32). Il Beato Salomone, dei Fratelli delle Scuole Cristiane, si trova giovanetto a Boulogne a compiere gli studi commerciali. Considerando i gran pericoli per il corpo, e più per l’anima, ai quali si esponeva gran parte dei giovani della città col darsi alla vita marinaresca, pensa tra se: «Io non sarò marinaro… Esporsi a perdere il cielo per guadagnare in modo temerario le ricchezze è follia». E, nauseato della vita poco costumata di tanta gioventù, si decide a lasciare il mondo. (Comp. Della vita del Beato Salomone Martire. Valle di Pompei, 1927, p. 10-11). Se anche noi volessimo far riflessione sul misero stato a cui si riduce il Cristiano impudico, ne ricaveremmo una salutare lezione. Se riflettiamo che « la potenza del diavolo sul genere umano è cresciuta specialmente per la lussuria », (S. Greg. M.: Hom. 22, 9) dobbiam conchiudere, che è una vera follia esporsi a perdere il cielo per dei piaceri indegni. Se riflettiamo quanto sia abbietto lo stato di un Cristiano impudico, dobbiam sentir nausea del peccato d’impurità, e deciderci, con la grazia di Dio, di starcene sempre lontani, e di risorgere tosto, se ne siamo schiavi. Preghiera continua e fuga delle occasioni ci otterranno di riuscire nei nostri propositi.

 Graduale

Ps IX: 20; IX: 4

Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo. [Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.

In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua. [Voltano le spalle i miei nemici: stramazzano e periscono di fronte a Te.]

Tractus

Ps. CXXII:1-3

Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in cœlis.[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]

Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.[Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]

Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri, [E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi].

Miserére nobis, Dómine, miserére nobis. [Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam. [Luc XI: 14-28]

“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”

Omelia II

 [Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la confessione che è il rimedio del peccato.

“Erat Jesus ejiciens dæmonium, et illud erat mutum”

“In quel tempo Gesù stava cacciando un demonio, il quale era mutolo. E cacciato che ebbe il demonio, il mutolo parlò, e le turbe ne restarono meravigliate. Ma certuni di loro dissero: Egli caccia i demoni per virtù di Beelzebub, principe dei demoni. E altri per tentarlo gli chiedevano un segno dal cielo. Ma Egli, avendo scorti i loro pensieri, disse loro: Qualunque regno, in contrari partiti diviso, va in perdizione, e una casa divisa in fazioni va in rovina. Che se anche satana è in discordia seco stesso, come sussisterà il suo regno? conciossiachè voi dite, che in virtù di Beelzebub Io caccio i demoni. Che se Io caccio i demoni per virtù di Beelzebub, per virtù di chi li cacciano i vostri figliuoli? Per questo saranno essi vostri giudici. Che se io col dito di Dio caccio i demoni, certamente è venuto a voi il regno di Dio. Quando il campione armato custodisce la sua casa, è in sicuro tutto quel che egli possiede. Ma se un altro più forte di lui gli va sopra e lo vince, si porta via tutte le sue armi, nelle quali egli poneva sua fidanza, e ne spartisce le spoglie. Chi non è meco, è contro di me; e chi meco non raccoglie, dissipa. Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, cammina per luoghi deserti cercando requie; e non trovandola, dice: Ritornerò alla casa mia, donde sono uscito. E andatovi, la trova spazzata e adorna. Allora va, e seco prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrano ad abitarvi. E la fine di un tal uomo è peggiore del principio”

Quest’uomo che il demonio rendeva muto e che, secondo s. Matteo, era ancora cieco, ci presenta, fratelli miei. una trista, ma ben naturale figura di gran numero di peccatori, nella cui anima il demonio opera i medesimi effetti che quell’uomo provava nel suo corpo. Si tratta di commettere il peccato? Il demonio, sebbene sia spirato di tenebre rischiara, per cosi dire, il peccatore, insegnando loro i mezzi di contentare le loro passioni; allora loro toglie la vergogna e la confusione che dovrebbero essere inseparabili dal peccato. Ma bisogna farne penitenza? Convien dichiarare i peccati che ha loro ispirato di commettere? Li rende ciechi e muti, chiude loro gli occhi per non vedere i loro mancamenti e la bocca per non dichiararli. Sparge nelle loro menti dense tenebre, che l’impediscono di conoscerne la enormità e loro ispira una vergogna peccaminosa che impedisce ai medesimi di dirli. Con questo mezzo stabilisce sì bene il suo impero nelle loro anime che niente meno si ricerca che un miracolo della grazia per farlo uscire. – Or questo male è pur troppo comune tra i peccatori che s’accostano al sacro tribunale; gli uni sono ciechi che non vedono lo stato delle loro anime, che per difetto di un esame sufficiente non conoscono né il numero né l’enormità dei loro peccati, e per questo difetto di conoscenza non li accusano come debbono; gli altri sono muti cui la vergogna chiude la bocca per non dichiarare certi peccati di cui si sentono colpevoli. Quindi ne viene che quei peccatori, invece d’essere liberati, per la virtù del Sacramento, dal demonio che possiede le loro anime, gli danno su di essi un nuovo impero coi sacrilegi di cui si rendono colpevoli, e si riducono, per servirmi delle parole del nostro Vangelo, in uno stato peggiore di quello in cui erano per lo innanzi. Dio volesse che potessi io in quest’oggi fratelli miei, apportare qualche rimedio a si grandi mali ed illuminare questi ciechi, rendere la parola a questi muti, insegnando ai primi che per fare una confessione intera dei loro peccati, devono prima ben esaminarsi; e agli altri, che devono dichiarare tutti i peccati di cui si ricordano dopo un sufficiente esame. In due parole, il penitente deve esaminarsi con attenzione per nulla dimenticare nella confessione: primo punto. Egli deve accusarsi con sincerità per nulla occultare: secondo punto. A voi tocca, o Signore, che avete resa la vista e la parola a quell’uomo del nostro Vangelo, d’illuminare questi ciechi, di far parlare questi muti; questo è piuttosto l’opera della vostra grazia che dei nostri deboli sforzi.

I. Punto. Siccome l’esame di coscienza è una condizione necessaria per fare una buona confessione, le medesime ragioni che provano la necessità della confessione provano altresì quella dell’esame; convien dunque primieramente stabilir per principio che è un obbligo di diritto divino confessare i suoi peccati per ottenerne il perdono; ella è una verità di fede che Gesù Cristo ha dato agli Apostoli e ai Sacerdoti loro successori, la potestà di rimettere o di ritenere i peccati, di legare e sciogliere i peccatori nel cielo e sulla terra. A quelli, disse loro, cui rimetterete i peccati, saranno rimessi; e a quelli cui li riterrete, saranno ritenuti: Quorum remiseritis peccata, remittuntur eis; quorum retinueritis, retenta sunt (Joan. XX). Potestà ammirabile, fratelli miei, che rende i Sacerdoti depositari di quella di Dio medesimo, sulla sorte eterna degli uomini: poiché rimettendo ad essi i loro peccati, aprono loro il cielo, e lo chiudono ritenendoli. Or come potrebbero i Sacerdoti esercitare la potestà di rimettere i peccati, se non fossimo obbligati di loro dichiararli? L’uomo non ha tanta umiltà per sottomettersi da se stesso, senza esservi obbligato, ad un giogo sì incomodo al suo orgoglio. Se egli potesse ottenere il perdono del suo peccato con un altro mezzo, la potestà dei Sacerdoti gli darebbe inutile, perché non evvi alcun peccatore che non fosse contento di sottrarsi a questa giurisdizione sì incomoda all’amor proprio. – Invano, dunque, dice s. Agostino, Gesù Cristo avrebbe date ai Sacerdoti le chiavi della Chiesa per legare e sciogliere i peccatori: frustra claves Ecclesiæ datæ sunt. I sacerdoti avrebbero mai luogo di servirsi di queste chiavi per peccatori che potrebbero essi stessi liberarsi? Come d’altra parte i Sacerdoti riterrebbero dei peccati che altri non sarebbe obbligato di loro dichiarare? Come riterrebbero dei prigioni in legami che potrebbero essi stessi spezzare? Perciocché in virtù di questa potestà i Sacerdoti sono stabiliti da Gesù Cristo per fare, riguardo ai peccatori, l’uffizio di giudici e di medici: come giudici debbono giudicare la loro causa, come medici debbono guarirli dalle loro malattie. – Or un giudice può egli pronunziare su d’una causa senza averne conoscenza? Un medico può egli guarire un male che gli è sconosciuto: No, senza dubbio, fratelli miei; bisogna dunque, peccatori, se volete ottener il perdono dei vostri peccati, presentarvi ai tribunali di quel giudici per farvi conoscere quali voi siete: incaricati di vendicare la giustizia di Dio contro le vostre ribellioni, come potranno esse imporvi pene proporzionate al numero e alla qualità delle vostre offese, se non le conoscono per via d’una confessione intera che voi dovete fare? Questi Sacerdoti sono ancora medici cui Gesù Cristo ha confidata la cura di guarire le vostre ferite; bisogna adunque che, come i lebbrosi del Vangelo, voi vi facciate vedere a questi Sacerdoti, non per metà, ma in tutta la difformità cui il peccato vi ha ridotti, senza di che non riceverete giammai la guarigione. – Or, fratelli miei, per dare a questi giudici e a questi medici la conoscenza di cui hanno d’uopo, bisogna conoscervi voi medesimi, poiché voi soli potete istruirli; ma per conoscervi voi medesimi, bisogna esaminarvi, convien fare una ricerca diligente ed esatta di tutti i peccati che avete commessi, senza di che voi mancherete alla giusta dichiarazione che ne dovete fare. Qual deve dunque esserne la materia e qual la regola? Questo è cui dovete tutta la vostra attenzione. Giacché la confessione è fondata su l’esame, ne segue da ciò che l’esame deve aggirarsi su tutti i peccati che è d’uopo accusare in confessione. Ora, per rendere la confessione intera, come esige il santo concilio di Trento, bisogna dichiarare tutti i suoi peccati, il numero e le circostanze; bisogna accusare tutte le trasgressioni che avete fatte dei comandamenti di Dio e della Chiesa, tutti i peccati di pensiero, tutti i desideri del vostro cuore, tutte le parole scorrette uscite dalla vostra bocca, tutte le azioni, tutte le omissioni di cui siete colpevoli verso Dio, il prossimo e voi medesimi: bisogna ancora manifestare le cause, gli effetti dei vostri peccati, le occasioni in cui vi trovaste, gli abiti che avete contratti, i peccati del vostro stato e della vostra condizione. Bisogna dire non solamente i peccati che avete commessi, ma ancora quelli che avete fatto commettere o che non avete impediti; tutti gli scandali che avete dati, tutti i danni che avete cagionati al prossimo nei beni o nella reputazione. Voi dovete ancora per rendere la confessione intera, dichiarare le circostanze del peccato prese dal tempo, dal luogo, dalla quantità, dall’oggetto, dalla qualità delle persone, per le quali circostanze il peccato cangia di specie, cioè rinchiude in sé un altro o più peccati di diversa specie, o diventa più grave nella sua specie che non lo sarebbe stato senza questa circostanza. Or potete voi dichiarare tutto questo senza conoscerlo? E potete voi conoscerlo, senza esaminarvi, senza fare una ricerca diligente dei luoghi ove avete peccato, degli oggetti che avete ricercati, dei motivi che vi hanno fatto agire, delle inclinazioni che vi hanno predominati, delle infedeltà commesse contro i doveri dello stato in cui siete? Tutto questo deve entrare nella materia dell’esame che dovete fare prima della vostra confessione. Bisogna, per avere tutte le cognizioni che vi sono necessarie, investigare il fondo del vostro cuore; bisogna ricercare nei nascondigli più occulti della vostra coscienza per scoprirvi il veleno di cui siete infetti. Bisogna passare nell’amarezza del vostro cuore, ad esempio del re Ezechia, gli anni della vostra vita, per richiamare tutti i peccati che avete commessi ciascun giorno, ciascuna settimana, ciascun mese, e dichiararli tali quali li conoscete. Bisogna finalmente entrare nelle particolarità di tutti i vostri obblighi per riconoscere in che vi avete mancato ed accusarvene. – Donde viene, fratelli miei, che un gran numero di confessioni sono nulle e sacrileghe? Perché non vi accusate che per metà; e non vi accusate che per metà perché non vi esaminate come si conviene. Voi dichiarate alcuni peccati in generale che vi sono comuni col resto degli uomini; ma non dichiarate i peccati che vi sono particolari, non discendete con serio esame alle particolarità delle vostre obbligazioni. Voi, padri e madri, vi accusate di qualche imprecazione, di qualche moto di collera che vi avrà trasportati; ma voi nulla dite della vostra poca attenzione ad istruire, a correggere i vostri figliuoli, e voi, padroni e padrone, dichiarate bensì le vostre impazienze contro la negligenza dei vostri servi nel fare quanto loro comandate; ma nulla dite della negligenza che avete avuta voi medesimi nel farli servir Dio, il primo di tutti i padroni, né della vostra indolenza a soffrire i loro disordini. Voi che siete impegnati nei negozi o in un’altra professione, non mancate di confessarvi delle vostre distrazioni nelle preghiere; ma non accusate le vostre infedeltà, i vostri inganni, le vostre ingiustizie, i vostri ladronecci. – Voi che esercitate un impiego dichiarate alcuni cattivi discorsi che avete tenuti in conversazione, ma non accusate la trascuratezza usata nei vostri doveri, la vostra poca vigilanza e fermezza nel riformare gli abusi, nel rendere giustizia a chi è dovuta. Tutto questo proviene non solo da un difetto di esame che ciascheduno far deve su i doveri del proprio stato, ma ancora da una grassa ignoranza in cui vivono i più dei Cristiani sulle loro obbligazioni, perché non assistono alle istruzioni, dove si apprende la sua religione e i suoi doveri. Questi sono ciechi che chiudono gli occhi alla luce che li rischiara e non vogliono conoscere i loro doveri per adempierli: Noluit intelligere, ut bene ageret (Psal. LV). Ciechi infinitamente più a compiangere che quello dell’odierno vangelo, che non era punto colpevole del suo accecamento; laddove questi sono ciechi colpevoli che restano per loro colpa nei legami e nelle tenebre del peccato; e sono in uno stato tanto più deplorabile che, non conoscendosi da sé medesimi, non cercano i mezzi di uscirne. Schiavi delle più vergognose passioni, degli abiti più inveterati, non vedono la loro miseria; quindi ne viene che non scoprono le loro piaghe ai medici che potrebbero guarirle. Or quanti vi sono di questi peccatori abituati, accecati da una passione che in voi predomina, e scoprirla al medico della vostra anima; perché questa passione essendo la causa degli altri vostri peccati, facendola conoscere, voi farete vedere lo stato infelice della vostra anima e riceverete i rimedi convenevoli per la vostra guarigione: esaminate dunque seriamente avanti a Dio se è la superbia che vi predomina, o l’invidia che vi rode, l’avarizia che vi tiranneggia, la lussuria che v’incanta e vi seduce, l’ira che vi trasporta, e vedrete che si è da questa sorgente avvelenata che nascono tutti i vostri sregolamenti; voi la conoscerete questa passione per li pensieri che si rivolgono il più sovente nella vostra mente, pei vostri discorsi ordinari, per gli oggetti che ricercate con maggior premura. Voi amate di comparire, voi cercate la gloria gli onori, voi vi offendete di un legger disprezzo, vi disgustate di una parola detta senza riflessione, la vostra passione dominante è la superbia. Voi non vi occupate da mattina sino alla sera che dei mezzi di acquistar del bene, voi nulla lasciate indietro per fare un piccolo profitto; voi siete tanto sensibili alla minima perdita che vi accade, come insensibili alla miseria dei poveri, la vostra passione è un sordido attacco ai beni del mondo, e l’avarizia. Il vostro cuore è incessantemente occupato della rimembranza di un oggetto che lo accende, voi ne parlate con piacere, voi cercate di vedere quell’oggetto, voi concedete ogni sorta di libertà ai vostri sentimenti, voi vi dimostrate liberi nelle parole oscene, voi non vi vergognate di certe libertà contrarie all’onestà, la vostra passione è un amor profano che vi conduce a mille disordini. Quanto a voi, bestemmiatori, ubriaconi, vendicativi, non è bisogno di farvi il vostro ritratto, le vostre parole, le vostre azioni manifestano abbastanza ciò che voi siete. Quanti, oimè! se ne trovano che predominati sono da molte passioni e che per questo motivo han bisogno di fare assai più ricerche che gli altri? Fate dunque, fratelli miei, queste ricerche coll’ultima esattezza. Se voi impiegate a far questo esame tutto il tempo che domanda un affare sì importante, darete alle vostre confessioni l’integrità necessaria per ottenere il vostro perdono. – Ma qual regola convien osservare per far questo esame? E quanto tempo convien impiegarvi? La regola più infallibile ch’io possa prescrivervi si è, fratelli miei, l’esame che Dio farà Egli stesso al suo giudizio dei peccati degli uomini: perciocché se il peccator penitente deve tener le veci della giustizia di Dio per punir il peccato, bisogna che le tenga anche per esaminarlo. Or con qual esattezza Dio farà questo esame al suo giudizio? Allorché applicando i raggi della sua luce su tutta la vita dell’uomo peccatore ne scoprirà tutte le iniquità, ne manifesterà tutti i pensieri più segreti, sino alle intenzioni più occulte. Nulla vi sarà di sì nascosto che sfugga ai suoi occhi infinitamente penetranti, nulla di sì oscuro che non venga posto in pieno giorno. Gli è così che voi dovete in qualche guisa esaminare, ricercare, la profondità delle vostre piaghe. Imitate la donna del Vangelo, la quale avendo perduta una dramma, accende una fiaccola, volta sossopra ogni cosa, fruga tutti gli angoli della casa e non è tranquilla che quando ha ritrovato ciò che ricerca. E certamente è forse esiger troppo da voi? Quel che avete perduto è molto più prezioso che quella dramma; voi avete perduta la grazia né potete ricuperarla che con una confessione preceduta da un esame sufficiente; nulla dunque tralasciate per conoscere i vostri peccati, rianimate la vostra fede, e allo splendore di questa fiaccola vi sarà facile di conoscere le vostre trasgressioni. Sì, fratelli miei, discendete, per così dire, colla fiaccola in mano, sino nei ripostigli più nascosti delle vostre coscienze per  scoprirvi tutto ciò che v’ha di più segreto e manifestarlo in appresso con una sincera confessione. – Egli è vero che, qualunque cosa faccia il peccatore, non conoscerà giammai la bruttezza del suo peccato come la conosce Dio: egli è ancor vero che malgrado tutte le precauzioni che prenderanno certi peccatori, le cui iniquità sono moltiplicato più dei capelli dei loro capi, sarà loro molto difficile, per non dire impossibile, di conoscere il numero dei loro peccati e per conseguenza di dichiararli tutti. A Dio non piaccia, fratelli miei, che io voglia rappresentare la confessione come un giogo insopportabile per la difficoltà di ricordarsi e di dichiarare tutti i suoi peccati. Ciò che Gesù Cristo domanda, come si spiega il santo concilio di Trento, e che si dichiarino i peccati di cui uno si ricorda dopo un sufficiente esame, cioè un esame proporzionato ai deboli lumi dello spirito umano, di modo che se il peccatore, dopo essersi esaminato tanto tempo, quanto ne richiede la prudenza, tralasciasse alcuni peccati sfuggiti alle sue ricerche, non lascerebbe di ottonerne il perdono, come degli altri che avesse dichiarati, con l’obbligo nulladimeno di sottometterli alle chiavi della Chiesa allorché se ne ricorderà. – Ma qual tempo la prudenza umana può ella prescrivere per fare un esame? Questo è ciò che non si può egualmente determinare per ogni persona; il numero dei peccati che si sono commessi, il tempo che è passato dopo l’ultima confessione, possono servire di regola per fare questo esame. Chi mai dubita che un peccatore che offende Dio sovente e che si confessa di rado non debba impiegar più di tempo a far il suo esame che un altro che offende Dio raramente e che spesso si confessa? Un peccatore abituato che può appena ricordarsi dei peccati che commette in un giorno, non deve egli impiegare più di tempo nella ricerca dei suoi peccati di quello che non vi cade che qualche volta? Con tutto ciò questi peccatori abituati sono quelli che passano un lungo tempo senza accostarsi al tribunale della penitenza, che mettono il meno di tempo ad esaminarsi: la loro confessione è l’affare di un momento, appena han cominciato che finiscono: poiché non pensate già che si accusino né del numero né delle circostanze dei loro peccati: due o tre parole in aria e che non dicono quasi cosa alcuna fanno tutta la loro confessione. Donde viene questo? Viene che questi peccatori abituati, a forza di accumulare peccati su peccati, non si rammentano, per cosi dire, più che all’ingrosso che sono colpevoli, allontanandosi così lungo tempo dal sacramento della penitenza, si sono posti in una sorta d’impossibilità di ricordarsi dei loro peccati, su di che la loro ignoranza non li scuserà avanti a Dio: perché avrebbero potuto prevenirla con esami o confessioni più frequenti. Ciò che rende ancora più colpevoli questi carichi di scelleratezze e d’iniquità che richiederebbero un lungo e serio esame si è che, dopo essersi esaminati superficialmente, non vanno che sul fine a presentarsi al tribunale della confessione, prendono il tempo in cui i confessori sono più occupati, sulla speranza che verranno ben presto spediti, si credono molto sicuri su d’una assoluzione di un confessore che han procurato di sorprendere; vanno tranquillamente in questo stato a presentarsi alla sacra mensa ma indarno si rassicurano; le loro confessioni, le loro comunioni non sono che sacrilegi per non avervi apportate le convenienti disposizioni. – Ah! non così certamente vi diportate, o peccatori, negli affari temporali che v’interessano. Avete voi una lite a far giudicare? Quanto tempo non mettete a studiare i vostri diritti, ad esaminare le scritture che possono esservi favorevoli? Voi contate per nulla i giorni interi che passate a leggere e a scrivere, e quando si tratta di ritrovare qualche nuovo mezzo di difesa nulla si risparmia. Avete voi un conto a rendere? Quante riviste non fate per non ommettere alcun articolo? Qual applicazione non usate voi per far vedere l’impiego delle somme che vi sono state confidato? Ecco la regola che seguir dovete per la lite più importante che abbiate a fai giudicare, per l’affare più interessante che abbiate a finire, che è quello della vostra salute, il cui successo dipende da una buona confessione. Si tratta in questo affare di tutto perdere o di tutto guadagnare; si tratta della vostr’anima, e voi vi contentate di alcune riviste superficiali; appena impiegate una mezza ora, un quarto d’ora ad esaminare, a ricercare i fatti che produrre dovete al sacro tribunale. Appena siete entrati in chiesa che con la mente ancora occupata in affari stranieri, andate a presentarvi ad un confessore per dirgli l’ingrosso alcuni peccati che si presentano di primo tratto al vostro spirito, nel mentre che ne tralasciate un gran numero che non avete esaminati. Fa d’uopo stupirsi forse se le vostre confessioni sono nulle e sacrileghe, se son confessioni riprovate da Dio, perché non hanno esse la integrità che loro è necessaria? Invano direte voi che non occultate alcuno dei vostri peccati per vergogna né per malizia, che dichiarate tutti quelli di cui vi ricordate. Ne convengo; ma se voi aveste impiegato più di tempo ad esaminarvi, se aveste ricercati con più esattezza tutti i vostri mancamenti Passati, ne avreste dichiarati di più; voi non siete dunque scusabili avanti a Dio, poiché questa omissione dei vostri peccati viene dalla vostra negligenza nell’esaminarvi, nel prepararvi diligentemente alla dichiarazione che ne dovete fare. Volete voi, peccatori, riuscire in un affare di questa importanza? Osservato le pratiche che sono ora per darvi prima di finire questa prima parte.

Pratiche. Avanti di accostarvi al sacro tribunale, indirizzatevi primieramente al Padre dei lumi, alzate i vostri occhi verso il monte santo donde vi verrà ogni soccorso; richiamando dipoi la bontà di Gesù Cristo, come quel cieco del Vangelo, pregatelo con fervore che v’ illumini, che vi faccia conoscere lo stato della vostr’anima e la profondità delle vostre piaghe: Domine ut videam (Luc. XVIII). Scendete in appresso in voi medesimi, ricercate il fondo del vostro cuore, applicatevi soprattutto a conoscere la vostra passion dominante, i doveri del vostro stato per riconoscere le vostre infedeltà. Prendete un tempo sufficiente, avuto riguardo a quello che avete passato senza confessarvi; non aspettate il giorno della vostra confessione, ma preparatevi alcun tempo prima esaminando ogni giorno la vostra coscienza su qualcheduno dei comandamenti di Dio e della Chiesa , ed osservate in che li avete trasgrediti, se in pensieri, in desideri, in parole, in azioni ed in omissioni. Indirizzatevi ad un buon confessore e pregatelo di aiutarvi a fare una buona confessione. Se è qualche tempo che non vi siete confessati, pregate questo confessore di differirvi l’assoluzione per avere più tempo ad esaminare i peccati che potessero esservi sfuggiti di mente. Il mezzo d’agevolare il vostro esame è di farlo ogni sera e di confessarvi frequentemente, perché con più facilità ci ricordiamo dei peccati che da breve tempo abbiamo commessi. Se voi vi servite di queste pratiche, le vostre confessioni saranno per voi sorgenti di grazie e di salute, perché non dimenticherete, almeno per colpa vostra, alcun peccato. Voi dovete ancora essere sinceri per nulla occultare.

Credo

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus

Ps XVIII: 9, 10, 11, 12

Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea. [I comandamenti del Signore sono retti, rallégrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adémpie.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santífichi i corpi e le ànime dei tuoi servi, onde pòssano degnamente celebrare il sacrifício.]

Comunione spirituale:

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Communio

Ps LXXXIII: 4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te. [Il pàssero si è trovata una casa, e la tòrtora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli esérciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che àbitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei sécoli dei sécoli.]

Postcommunio

Orémus.

A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes. [Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]

Ultimo Evangelio e preghiere leonine:

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ringraziamento dopo la Comunione:

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LO SCUDO DELLA FEDE (103)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XIII.

Testimonianza che rendono di Dio gli animali dalui addottrinati a combattere ed a curarsi.

I. Non v’è uomo intendente nella pittura, che non vergognisi se richiesto di quale mano sia qualche tavola insigne, non sappia subito dir se è di Raffaello, o del Caracci, o del Correggio, o di Guido. Eppure vi sarà chi non si vergogni, se ricercato di qual mano sieno tante belle opere di natura, non sappia subito dire: di man di Dio. Tal è qualunque ateista. Ben si può pertanto affermare, che egli dunque di opere di natura non è intendente. Se le intendesse, vedrebbe tosto, non potere, queste essere di altro artefice, che dell’Artefice sommo. Finalmente le mani tutte degli uomini, benché grandi, sono capaci di essere contraffatte, e più non sarebbe sì grave fallo non discernere bene l’una dall’altra. Ma la mano di Dio non è mano imitabile mai da niuno. E però non discernerla dalla mano del caso, o di qualunque altro, che non sia Dio, non solamente è fallo, ma iniquità. Noi questa mano sì unica abbiamo dianzi scoperta già quanto basta negli strumenti e negli istinti mirabili dati ai bruti per conservarsi cibandosi. Ora andiam oltre. Conciossiachè tutto ciò che fanno essi per conservarsi, a che gioverebbe, se non sapessero al tempo stesso guardarsi opportunamente da chi gli assale? Eppure anche a ciò fu pensato. I loro assalitori son due: estrinseci e intrinseci. Gl’intrinseci sono i morbi, gli estrinseci sono vari nemici, i quali s’incontrano, come frequenti tra gli uomini, così ancora continui fra gli animali, che a cagione o dell’abitazione, o del pascolo, o della prole o di altro interesse tra loro opposto, mantengono gare eterne.

I.

II. E per dire in prima di questi nemici estrinseci, certo è, che senza avere appresa giammai l’arte militare, sanno i bruti conoscere a meraviglia i vantaggi loro di posto, e li sanno prendere. I rosignuoli, per assicurarsi dagli sparvieri, soggiornano infra le macchie. L’airone, per assicurarsi da’ falchi, si aggira intorno all’acque da lor temute. E l’alce, bestia peraltro sì paurosa, che a qualunque ferita, nel mirar ch’ella faccia il sangue grondante, cade subito a terra di raccapriccio, tuttavia vince i lupi, scegliendo contro di essi per campo di battaglia i fiumi gelati , sopra de’ quali può tenersi ben ella ferma coll’unghia acuta e biforcata ch’ella ha, ma non possono tenervisi fermi i lupi (V. hæc et seq. apud Aldrov. in suis locis, et apud Gasp. Scottum in physica curiosa).

III. Oltre il vantaggio del posto, sanno i bruti conoscere quel delle armi. Quindi è, che l’aquila tiene una cura grandissima de’ suoi artigli: e se ella è ferma, par che sempre li miri, arrotandogli sulla pietra, quando hanno perduto il filo, e risparmiandoli, quando sono affilati, col non camminare tra i sassi. I cervi, i capri ed i tori arruotano anch’essi ai tronchi le loro corna, e le provano, e le riprovano prima di venire a duello cogli avversari. L’ardea si rivolta col becco all’insù tra l’ale, e riceve intrepidamente l’impeto de’ falconi, che calandole sopra furiosamente per farne preda, vi rimangono morti. E il pellicano, per non venire sorpreso dagli altri uccelli assàssinatori, in una simile positura ancor egli piglia i suoi sonni, addormentato ed armato.

IV. Dove manchi la forza, suppliscono coll’unione. Così fanno gli storni, volando sempre a schiere numerosissimo, o procurando in quelle il posto di mezzo per maggior cura di sè. Gli armenti si fanno forti dal lupo, adunandosi insieme in un cerchio fitto, colle teste rivolte contro il nimico: e i giumenti con somigliante ordinanza volgono al lupo, non le teste, ma i piedi, dove hanno il loro valore, e si difendono bravamente coi calci. Che se non è pronto il soccorso, sanno anche i bruti richiederlo colla voce. Così l’upupa, ravvisando la volpe ascosa tra l’erbe, con inusitate e con importune strida l’addita ai cani. Così i cigni, così le’ cicogne, così l’anitre sollecitano le compagne da loro assenti alla difesa comune contro dell’aquila; e così le bertucce, nelle lor selve, fanno contra i medesimi cacciatori, gridando forte, come se gridassero al ladro. Senonchè a schermirsi da questi, tanto gli animali più imbelli, quanto i più forti, son destri al pari. La lepre salta di lancio nella sua tana, per non lasciare quivi impresse vestigia che la rivelino a chi la cerca. L’orso v’entra a ritroso, per mostrare d’esserne uscito, quando v’entrò: ed il leone medesimo (a guisa di guerriero prode, non meno attento ad iscoprir gli andamenti dell’inimico, che a coprire i propri) stampa insieme l’orme, passando sopra l’arena, insieme le guasta, perché non diano sentore de’ suoi viaggi. In una parola tutti gli animali hanno qualche dote lor propria per la difesa: quali con la destrezza, come le scimmie pur anzi dette, che giungono ad afferrare con la mano per l’aria quella saetta che loro voli alla vita: quali con la generosità, come il leone, che mai non fugge, senonchè mostrando la faccia, per dar terrore: quali con la timidità, come i cervi, a cui la paura medesima è sicurezza, tanto sono ratti alla fuga: quali col divenire quasi invisibili, come rendono le seppie nella lor tinta: quali coll’apparir quasi trasformati, come fa il polpo, che piglia tosto il colore di quello scoglio cui sta aggrappato, e così delude ogni guardo: senza che fra lo stuolo sì numeroso degli animali, o terrestri o acquatici, o aerei, pur un si trovi, che o con la forza datagli, o con l’ingegno, non sia bastantemente armato a suo schermo.

V. Né minore hanno l’arte per assaltare, di quella che posseggano a ripararsi. La donnola, quando si vuole cimentar co’ serpenti, vi si apparecchia col mangiare innanzi la ruta, erba a questi di odor troppo intollerabile. E l’icneumone, quando vuol pugnare cogli aspidi, si rivolge tutto nel fango, e se ne fa come una corazza, con assodarlo prima ai raggi sol solari, perché non tema alcun morso. La tigre, per assicurare le altre fiere a cibarsi delle sue carni, si finge morta, e di poi subito è loro sopra a man salva, e ne fa macello. La volpe è stata veduta rivoltarsi dentro la creta rossa, fintanto ch’ella apparisca quasi un cadavere senza pelle, per invitare i volatili meno accorti a un solenne pasto, che poi di loro fa ella, non di lei essi. E la torpedine, con un miracolo più insueto, sa fin rendere stupido chi la tocca e privarlo di moto, non che di audacia. Ma che sciocchezza è la mia? Presumo io forse raccogliere in pochi fogli ciò che altri non arrivarono a compilare in molti volumi? Anzi non altro ho inteso mai, che additarvi quella miniera da cui si possono scavare ogni giorno più nuove meraviglie, tanto è inesausta. Eppure ditemi: a questo piccolo saggio che ve ne porto, non vi accorgete abbastanza che il suo metallo non è metallo nostrale? Chi può dar tanta molteplicità d’invenzioni, di stratagemmi, di scherme ad un solo fine di guerra difensiva e offensiva tra gli animali, salvo l’intelletto divino? Senzachè, discorro così: la natura particolar della lepre, a cagion di esempio, non può amare, che i cani, appena miratala, si mettano ad incalzarla, con tanto pregiudizio della infelice, se sia raggiunta: la natura particolare de’ cani non può amare che la lepre da loro fugga. Chi dunque fu, che diede a un’ora medesima quello istinto, alla lepre di fuggir dai cani, ai cani di seguitarla, se non una natura più alta, la qual mirò a quel sollazzo continovo che poteva fra noi risultare da tale fuga affannosa e la tale caccia? E questa natura più alta è quella appunto che con più degno vocabolo è detta Dio.

II.

VI. Rimane ora a dare un’occhiata ai nemici intrinseci, da cui si sanno tanto bene i bruti salvare col medicarsi. Pochi di verità sono i loro malori al pari de’ nostri: o sia perché gli animali vivono con maggior temperanza, di quella con cui vivono i più degli uomini; o sia perché il loro temperamento, più materiale e più massiccio del nostro, sia men soggetto a ricevere le impressioni de’ suoi contrari; in quella guisa, che un oriuolo da torre è molto più difficile a sconcertarsi di quel che siasi una mostra da tavolino. Qualunque sia la ragione, certo è, che i bruti, guidati da un interno indirizzo della natura, sanno mirabilmente trovar rimedi proporzionati a’ lor mali, e rimedi facili, innocenti e infallibili più dei nostri, perché tanto più chiaro apparisca, che, come il caso non fu mai il loro artefice, così né anche egli è il loro conservatore. Se non che ciò che più riesce ammirabile in tali affari, è, che non solo ogni animale ha la sua medicina propria, che non ha l’altro; ma che, prima ancor di ogni prova, la conosce, la cerca e sa applicarla giustamente al bisogno. La prima volta che si acciechi la rondinella, sa ritrovare la celidonia: la prima volta che si accieca la vipera, sa ritrovare il finocchio; la prima volta che il daino riman ferito, sa far ricorso al suo dittamo. Non ha veleno, contra cui le testuggini non abbiano tosto pronta la loro triaca; e tal è l’origano: siccome il lauro è quella gran panacea che alle colombelle e che a’ corvi suffraga parimente in qualunque morbo. Or vada Ippocrate a logorar negli studi la vita propria, per allungare l’altrui: e poi diffidato di poter giungere a tanto, confessi pure, che l’arte è lunga, che il tempo è breve, e che l’esperimento è fallibile: Ars longa, vita brevis, experimentum fallax. Dica, che a molti mali non si è trovato governo finor che vaglia. I bruti, senza accademie e senza aforismi, sanno ad ogni languore trovare il suo medicamento adattato.E poi non mancherà chi per maestro assegni oro, non l’arte di una intelligenza sovrana,ma la cecità balorda di atomi vagabondi più che birboni?

VII. Poco poi parrebbe, se i bruti più non sapessero che curare il mal sopraggiunto. Sarebbe ciò scacciare il ladro di casa, ma scacciarlo dappoi che la svaligiò. Il più è, che sanno farsi incontro anche al male, serrandogli prontamente le porte in viso (Àrist. hist. anim1. 8. c. 120). A questo fine scelgono i luoghi più atti, senza timore di pellegrinare in paesi anche lontanissimi, come le gru della Scizia settentrionale, che, a fuggir que’ verni sì crudi, sen passano di là sino all’Etiopia, senza rischio che fallino mai la strada. I pesci, ora vanno dai lidi all’alto, ora vanno dall’alto ai lidi, mutando stanza, come fanno i grandi, al mutarsi della stagione. E tra loro molti anco sono, che da’ mari caldi tragittansi al ponto Eussino, e che dal ponto Eussino tragittansi a’ mari caldi. E perché i più deboli sentono prima la intemperie dell’aria che i più gagliardi, quindi è, che quelli fanno il loro passaggio prima di questi, come i rombi all’agosto, i tonni al settembre. Le rondinelle passano in Africa a schivare i ghiacci nostrali: e le quaglie, i tordi e le tortore, hanno anch’essi le loro piagge piacevoli ad isvernarvi. Gli avvoltoi medesimi, benché infami per le carogne di cui si pascono, sono tuttavia sì inimici dell’aria guasta, che il fare essi dimora in qualche paese, più che in un altro, si piglia per indizio di piena salubrità. Che più? Convien che l’uomo superbo si umìli in sì fatte scienze a pigliar lezione dagli animaluzzi più vili. Scrive Aristotile (L. 9. hist. anim.) di non so quale in Bizanzo, che presso il volgo si era acquistata fama grande di astrologo, perché avendo egli allevato in casa da piccolo uno spinoso, osservava, che questo, quando era vicino a muoversi vento opposto, mutava stanza, secondo il talento in nato ch’egli ha di fare alla sua tana di campagna due bocche, una all’austro, una all’aquilone, e dipoi chiudere ora l’una, ora l’altra, secondo che quegli soffiano. Né questa è dote singolare del riccio, mentre pochissimi sono quegli animali i quali nella loro fantasia non portino un tale istinto di presentire le mutazioni di tempo loro nocevoli: tanto che i più meschini paiono in questa parte i più addottrinati. Quinci, non pure il leone, che è sì ingegnoso, sa antivedere la siccità che sovrasti, e la sa scansare, con ritirarsi per tempo in luoghi più acquosi; ma i coccodrilli stessi pare che abbiano misurata già la piena del Nilo prima che egli esca dal letto, mentre san collocare le uova in tal sito, dove non arrivi mai quell’anno per l’inondazione. I corvi indovinano le tempeste, i merghi, l’anatre, le api presagiscono i venti più impetuosi: e le formiche la sterilità della futura stagione, con empir più del solito i lor granai prima che la messe scarseggi. Ora in quale scuola hanno appreso questi animali tanto di astrologia, che mostrino di saperne anche più dell’uomo, il quale nel predire le piogge piglia ne’ suoi lunari più gravi abbagli di quei che pigli una rana? Chi spedisce loro le nuove del futuro, prima che giunga? Qual maestro hanno essi trovato, che gli addottrini, e gli addottrini sì bene, che niuno scolaro mai resti addietro per poco ingegno, su le lezioni a lui date nella sua classe? Sarà credibile da veruno, che il caso, il qual non sa nulla di ciò che egli faccia, sappia formar tali allievi? Se così fosse, sarebbero dunque assai maggiori i discepoli, che il maestro. Violentate pure quanto a voi piace il vostro intelletto, perché s’induca a dirvi, che Dio non v’è: non potrà egli non conoscere l’onta che voi gli fate, e non si dibattere.

SALMI BIBLICI: “BEATUS VIR QUI TIMET DOMINUM” (CXI)

SALMO 111: “BEATUS VIR QUI TIMET DOMINUM”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 111

Alleluja, reversionis Aggæi et Zachariæ.

 [1]  Beatus vir qui timet Dominum,

in mandatis ejus volet nimis.

[2] Potens in terra erit semen ejus; generatio rectorum benedicetur.

[3] Gloria et divitiæ in domo ejus, et justitia ejus manet in sæculum sæculi.

[4] Exortum est in tenebris lumen rectis, misericors, et miserator, et justus.

[5] Jucundus homo qui miseretur et commodat, disponet sermones suos in judicio;

[6] quia in æternum non commovebitur.

[7] In memoria æterna erit justus; ab auditione mala non timebit. Paratum cor ejus sperare in Domino,

[8] confirmatum est cor ejus; non commovebitur donec despiciat inimicos suos.

[9] Dispersit, dedit pauperibus; justitia ejus manet in sæculum sæculi; cornu ejus exaltabitur in gloria.

[10] Peccator videbit, et irascetur, dentibus suis fremet et tabescet; desiderium peccatorum peribit.

 [Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXI.

Lode dell’uomo giusto. I latini aggiunsero del ritornodi Aggeo e Zaccaria, che esortarono, dopo la cattività, il popolo alla probità, forse per esortare gli altri alla probità, onde non ricadere nella schiavitù.

Alleluja: Del ritorno dì Aggeo e di Zaccaria (1)

1. Beato l’uomo che teme il Signore: egli avrà cari oltremodo i suoi comandamenti.

2. La sua posterità sarà potente sopra la terra; il secolo dei giusti sarà benedetto.

3. Gloria e ricchezze nella casa di lui; e la sua giustizia dura perpetuamente.

4. È nata tra le tenebre la luce per gli uomini di retto cuore: il misericordioso, il benigno, il giusto.

5. Fortunato l’uomo che è compassionevole, e dà in prestito, e con sapienza dispensa le sue parole; perocché egli non sarà mai vacillante.

6. Il giusto sarà in memoria eternamente: non temerà di udire sinistre parole.

7. Il suo cuore è disposto a sperare nel Signore, il suo cuore è costante;

8. ei non vacillerà, e neppur farà caso de’ suoi nemici.

9. A mani piene ha dato ai poveri; la giustizia di lui dura in perpetuo; la sua robusta virtù sarà esaltata nella gloria.

10. Vedrallo il peccatore, e avranne sdegno, digrignerà i denti e si consumerà: il desiderio dei peccatori andrà in fumo.

(1) Il titolo di Aggeo e di Zaccaria non si trova che nella versione in latino e deve verosimilmente la sua origine alla pia tradizione dei Profeti Aggeo e Zaccaria, che tornando presso i Giudei dalla cattività di Babilonia, si servirono di questo salmo. Questo salmo è alfabetico come il precedente.

Sommario analitico

Questo salmo contiene l’elogio dell’uomo virtuoso, o che teme Dio. I vantaggi che enumera il salmista non si verificano pienamente che nel senso spirituale (1):

(1) N.B. Nulla impedisce si attribuire a Davide questi due salmi CX e CXI, dei quali del resto nulla ce ne indica l’autore. Essi sono alfabetici e perfettamente simili metricamente; hanno ugualmente ventidue versi di sei sillabe ciascuno, riunite in dieci versetti, otto distici e tre trittici (Le Hir.).

I. Vantaggio. – Per il bene dell’anima, la conformità più perfetta della sua volontà ai Comandamenti di Dio (1).

II Vantaggio. – Per i beni esteriori, la moltiplicazione, la potenza e la gloria della sua posterità (2).

III Vantaggio – L’abbondanza degli onori, delle ricchezze (3).

IV Vantaggio – La luce celeste che Dio spande nei cuori retti (4).

V Vantaggio – La stabilità dell’uomo del bene, di cui descrive tre caratteri: egli ha pietà dei derelitti, presta volentieri, regola i suoi discorsi secondo la prudenza (5, 6).

VI Vantaggio – Una memoria eterna, al riparo di tutti i colpi della calunnia (7).

VII Vantaggio – La sicurezza della protezione divina contro i nemici non gli farà difetto (8)

VIII Vantaggio – L’accrescersi delle sue ricchezze e della sua potenza, proporzionato all’estensione ed alla grandezza delle sue liberalità e delle sue elemosine (9).

IX Vantaggio – La sua felicità sarà ancora aumentata dal contrasto del furore impotente dell’empio contro di lui, che il salmista oppone alla tranquillità ed alla gloria del giusto (10).

Spiegazioni e Considerazioni

 I.

ff. 1. – L’inizio di questo salmo si ricollega strettamente alla fine del precedente, e non forma di questi due salmi che un unico corpo, le cui parti sono perfettamente unite tra loro. Il Re-Profeta ha detto nel salmo che precede: il timor di Dio è l’inizio della Sapienza. Per far seguito a questo pensiero sì profondo e sì bello, aggiunge ora che è ancora un principio di felicità, una sorgente di vita. L’uno è la conseguenza dell’altra. (S. Crys.). – « Felice l’uomo che teme il Signore. » Ora, colui che teme il Signore, che fa? Ascolta attentamente la parola di Dio, cerca di rendersi sapiente nella legge? No, non è ciò che dice il salmista: egli desidera compiere ardentemente i suoi Comandamenti. (S. Girol.). – Il timore del Signore è dunque la vera felicità; ma anche i demoni stessi hanno timore del Signore e tremano davanti a Lui; il Re-Profeta ci avverte che vuol parlare di questo timore odioso che, non portando a nulla con questo tremore freddo e sterile, si ritrova fin negli inferi, e che non è sufficiente a salvarci; ma questo timore attivo e fecondo che porta al compimento della legge, dopo aver detto, nel salmo precedente, che « il timor di Dio è l’inizio della Sapienza, » aveva aggiunto: « Tutti coloro che la praticano sono pieni di intelligenza salvifica. »

Inoltre qui, dopo aver proclamato la felicità di questo timore, egli lo distingue da quello che ha per principio la conoscenza e che esiste negli stessi demoni, aggiungendo. « … chi ha una volontà ardente di compiere i suoi precetti »; egli non dice: « egli osserverà i suoi comandamenti, » ma « … egli avrà una volontà ardente di compierli, » ciò che è una disposizione molto più perfetta. Ora, in cosa consiste questa disposizione? Nell’osservare i comandamenti di Dio con una santa alacrità, ad amarli passionalmente, e perseguirne l’esatta osservazione; nell’amarli, non per la ricompensa promessa, ma per Colui che li ha stabiliti, a farne le proprie delizie per la pratica della virtù, senza essere portato al timore dell’inferno, con la minaccia dei supplizi eterni, ma per amore di Colui che ci ha dato queste leggi (S. Gerol.. – S. Crys.).

II.

ff. 2. – La felicità del giusto, sotto l’antica legge, era una numerosa posterità sulla terra; questa è la benedizione per l’antico popolo, e non vuole forse Dio che non sia essa, il più sovente, quella del popolo nuovo? « Il giusto che cammina nella sua semplicità, lascia dopo di lui dei figli felici. » (Prov. XX, 7). Questi sono uomini di misericordia, e la loro pietà non è mai venuta meno. I loro beni restano alla loro razza; i loro nipoti sono una santa eredità, e la loro razza si conserva nell’alleanza eterna, ed i loro figli, a causa loro, restano eternamente, e la loro razza si perpetua come la loro gloria. (Eccli. XLIV, 10-13). – Se l’uomo giusto, talvolta, non ha parte di questa benedizione, essa si compirà almeno nel senso morale e spirituale, perché con il nome di “razza”, la Scrittura designa spesso, non i figli che nascono per via di generazione, ma la filiazione che viene in conformità della virtù (S. Chrys.). – La vera posterità dei Santi sono i figli ed i discepoli della loro pietà. – Le loro buone opere sono ancora, al loro sguardo, tanti figli che attirano su di loro la benedizione di Dio. (Dug.). –  « La sua semenza, la sua razza, sarà forte sulla terra. » La semenza della messe da venire, sono le opere di misericordia. L’Apostolo lo dichiara quando dice: « Facciamo il bene senza sosta, perché noi raccoglieremo nel tempo convenevole. » (Gal. VI, 9). – Ora, cosa c’è di più forte che l’acquisto del regno dei cieli, non solo per Zaccheo, al prezzo della metà dei suoi beni, ma ancora per una povera vedova, al prezzo di due oboli? E tuttavia entrambi lo possiedono. Cosa di più forte del bicchiere di acqua fredda del povero, che gli dà il regno dei cieli, come i tesori al ricco? Ma ci sono di coloro che in queste opere di misericordia, cercano dei beni terrestri, sia perché sperano che Dio li ricompenserà quaggiù, sia perché essi desiderano piacere agli uomini; ma « … la razza degli uomini dal cuore retto, sarà benedetta, » (Ps. CXI, 2); vale a dire le opere di coloro per i quali il Dio di Israele è buono perché hanno il cuore retto (S. Agost.). – Questi uomini dal cuore retto gettano in questo mondo con la grazia una semenza preziosa di opere sante che prepara loro, per l’avvenire, tutta una messe di meriti e di gloria. Aspettando, il loro secolo profitta delle virtù che essi hanno praticato. In questo senso, la verginità stessa è feconda, ed il celibato cristiano è una fonte di prosperità e di grandezza. I Santi fanno maggior bene che sapienti e re (Mgr. Pichenot, Ps. du D.).

III.

ff. 3. – « La gloria e la ricchezza sono nella sua casa. » Pensiamo forse che il profeta voglia qui parlare della gloria e della ricchezza del secolo? Ma che! Che il giusto faccia la volontà di Dio i compia i suoi comandamenti per ottenere le ricchezze di questo mondo? Ma questi comandamenti egli non può attuarli proprio se non perché disprezza le ricchezze della terra. Queste ricchezze sono quelle delle quali l’Apostolo diceva: « io rendo per voi al mio Dio le azioni di grazie … per tutte le ricchezze di cui siete state ricolmi in Lui dalla sua parola e dalla sua scienza (S. Girol.). – Nei secoli più perversi, l’uomo di fede è spesso onorato, la sua reputazione è intatta, gli si rende giustizia, è rispettato dagli altri, perché si è rispettato da se stesso; egli riesce nelle imprese che Dio benedice e la prudenza illumina; egli non manca né di stima né di ricchezze, e sa condurre degnamente l’una e le altre … Pur tuttavia, qui ancora ci sono, come ognuno sa, delle nobili e frequenti eccezioni, soprattutto dopo il Vangelo, e la Provvidenza, che cerca di staccarci dalla terra e trasportare più in alto le nostre affezioni ed i nostri voti, lascia talvolta dei giusti cadere nell’indigenza e nelle umiliazioni … Le vere ricchezze sono i meriti ed i tesori che essi ammassano per l’eternità, tesori che i ladri non possono rubare, che la ruggine e la corruzione non alterano mai, e che sussistono in eterno (Mgr. Pichenot, Ibid.). – Dopo tutto è per l’anima, per il cuore soprattutto che si tratta di accumulare ed arricchirsi. Che significa questa espressione: « Nella casa? » Cioè con lui. Le ricchezze materiali non sono in vero con colui che le possiede; che dico? I loro possessi, lungi dall’essere assicurati, sono tra le mani dei delatori, degli adulatori, nelle mani dei magistrati, nelle mani dei servitori. Il padrone di queste ricchezze le dissemina da ogni parte, perché non osa conservarle tutte presso di sé; ed ancora le circonda di guardie, di precauzioni inutili, che non possono impedire alle ricchezze di sfuggirgli. (S. Chrys.). –  L’uomo che teme il Signore e che, per la rettitudine del suo cuore, frutto del suo ritorno a Dio, si dispone a diventare una delle pietre del santo Tempio di Dio, non cerca la gloria umana e non ambisce alle ricchezze terrestri; e tuttavia: « … la gloria e le ricchezze abbondano nella sua casa; » perché la sua casa è il suo cuore, ove abita più ricco per la lode che Dio gli dona, con la speranza della vita eterna, ed egli non abiterà in palazzi di marmo, in mezzo alle adulazioni degli uomini, con il timore della morte eterna. In effetti « la sua giustizia resta nei secoli dei secoli; » esso fa la sua gloria e fa la sua ricchezza. Al contrario la porpora del ricco cattivo, i suoi abiti di lino fino ed i suo splendidi festini, passano già nel momento in cui ne gioisce e, quando tutto sarà finito, la sua lingua infuocata getterà delle crida di disperazione, reclamando invano una goccia di acqua caduta dalla punta del dito (S. Luc. XVI, 19, 24) – (S. Agost.). 

IV.

ff. 4. – Anche in mezzo alla più profonda oscurità, Dio farà brillare la sua luce agli occhi di coloro che hanno il cuore retto. Alla posterità, alla prosperità, il Profeta aggiunge il bene supremo dello spirito, la verità. « Felici coloro che hanno il cuore puro, perché essi vedranno Dio. » Quelli, al contrario che non sono puri, che non hanno il cuore retto, restano tristemente seduti nelle tenebre e nell’ombra della morte e grideranno un giorno – ma troppo tardi – davanti all’universo: « Noi abbiamo errato lontano dalla verità, ed il sole dell’intelligenza non si è levato sulle nostre teste. » (Sap. V, 6). – Questo sole dell’intelligenza, questa luce benefica e pura che si è levata per i cuori retti, è lo splendore del Padre, è il brillare ed lo splendore della sua faccia adorabile, è il Verbo fatto carne che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, di cui il Verbo ha detto: « Io sono la luce del mondo, » (Giov. VIII, 12); e che per bontà, per misericordia, per giustizia, è apparso nel mezzo della notte che avvolgeva il mondo e versato su di esso fasci di luce (S. Chrys.). – Queste tenebre, in mezzo alle quali il giusto deve camminare e raggiungere il suo fine, sono molteplici e di ogni genere: « Tenebre fuori di lui e nel suo interno; tenebre di paura e tenebre di eccessiva confidenza; tenebre di ignoranza e tenebre del desiderio di sapere, tenebre nell’orazione e tenebre nell’azione; tenebre del dubbio e tenebre di afflizione; tenebre sui pensieri dei nostri simili, e tenebre sui nostri consigli; tenebre riguardo ai peccati della nostra giovinezza e tenebre riguardo alla nostra penitenza; tenebre nelle tentazioni, e tenebre nella calma pretesa dell’anima » (Berthier). – Queste tenebre così spaventose non sono tuttavia così spesse da non essere trapassate da alcuna luce; ma è richiesta una condizione per gioire di questo beneficio: la rettitudine del cuore. Altrimenti questa luce, benché pura e viva, brillerà nelle tenebre, e le tenebre non la comprenderanno. Invano essa produrrà miracoli di giustizia e di bontà; se questo cuore non è retto, resterà nella sua cecità. È degno di nota che tra tutte le qualità che caratterizzano l’uomo giusto, il santo Profeta distingua e nomini questa semplice virtù: la rettitudine del cuore. (Rendu).

V.

ff. 5. – « Felice l’uomo che ha compassione e che dà in prestito. » Si crede forse che si tratti qui solo di questione di oro e di denaro? Spesso i giusti sono stati così lontani dall’aver di che donare, che erano obbligati a ricevere essi stessi dagli altri il nutrimento loro necessario. Dunque, se io non ho cosa dare, non sarò nel numero dei giusti? Quanti santi hanno fatto abbondanti elemosine e sono in seguito caduti dalla loro santità? Al contrario, uomini di perfezione eminente non hanno fatte elemosine, perché non avevano di che farne. Non fare l’elemosina è un crimine per chi possiede, per chi è ricco. Colui che nulla possiede è libero: egli dà pertanto ciò che desidera dare, la sua volontà è agli occhi di Dio una elemosina perfetta. Tuttavia i Santi non tralasciano di avere di che dare in elemosina. Ascoltiamo San Pietro: « Io non ho né oro né argento, ma ciò che io ho te lo do. Nel nome di Gesù, alzati e cammina. » (Act. III, 6). Cosa è meglio, cosa è più perfetto, dare un pezzo d’argento o rendere la salute e la forza ad un infermo? (S. Gerol.). – « E regolerà tutte le sue parole con prudenza e giudizio. » Il Profeta non dice: egli regalerà il suo oro, il suo argento secondo questo giudizio, ma regalerà le sue parole. Ecco la vera misericordia, quando un Santo insegna agli altri che non lo sono, ad addivenirlo. Noi comprendiamo dunque quali sono le ricchezze che egli presta agli altri. Regolare le sue parole secondo prudenza e giudizio, è praticare ciò che raccomanda Nostro Signore, per non gettare le perle davanti ai porci, cioè che ciascuno sappia bene a chi dona ciò che può ricevere, ciò che è incapace di comprendere … A che mi serve parlare se le mie parole non sono comprese, né recepite? A che pro versare del buon vino negli otri che lo lasciano subito sfuggire e spargersi? (S Gerol.). – Dopo aver parlato del bene dello spirito, il santo Profeta parla di quello del cuore, la carità. È la gioia spirituale, di cui le buone opere che la carità di Dio partorisce sono il principio, e la felicità di fare intorno a sé dei felici … L’uomo giusto è necessariamente buono, misericordioso e compassionevole, la sua compassione non si prosciuga mai, e regola tutti i suoi discorsi con una saggezza squisita, e non gli sfugge niente che abbia a rimpiangerne, che non possa ferire nessuno. –  Si può essere compassionevole, si può essere liberale e tuttavia non saper trattare con gli uomini, secondo ciò che la prudenza esige. Ugualmente, si può essere saggi nei discorsi, ed aver il cuore chiuso agli infelici. Infine si può avere un’anima compassionevole, saper parlare con saggezza, senza volersi spogliare di parte di ciò che si possiede per aiutare il prossimo prestando nel bisogno. Si è talvolta molto timorosi sugli avvenimenti futuri; si suppone con troppa diffidenza dei bisogni personali; ed invece di interessarsi allo stato degli altri, si preferisce il proprio benessere alla carità che reclama in loro favore. L’uomo dabbene che voglia stabilirsi nella pace e nelle gioia che dà la buona coscienza, unisce le tre condizioni che il Profeta segnala: egli è colpito dalla miseria degli altri, li aiuta nelle difficoltà in cui si trovano, e parla loro come conviene, sia per consolarli, sia per incoraggiarli, sia per dare loro dei consigli salutari. Se si intende il testo del regolamento degli affari, anche questa sarà una delle qualità dell’uomo dabbene: l’essere attento a tutto ciò che concerne la sua condotta, sia nei riguardi del temporale, che dello spirituale. Egli è sistemato in tutto ciò che fa, prudente in tutto ciò che intraprende, economo in tutto ciò che governa; ma, ciò che qui deve essere considerato come il punto essenziale, è che tutte queste eccellenti qualità hanno la loro fonte nel timore del Signore (Berthier). 

VI.

ff. 6. – Ma, forse tu non hai visto degli uomini misericordiosi che ondeggiavano sotto il peso dell’avversità? No, mai. Li si è visti diventare poveri, ridotti all’estrema indigenza, precipitati in ogni sorta di infortuni, ma queste prove non li hanno abbattuti, perché essi attirano su di loro la bontà e la protezione di Dio, e la testimonianza di una buona coscienza era per essi un’ancora ferma e sicura. Il Re-Profeta non dice dell’uomo misericordioso che egli non sarà attaccato, come Gesù-Cristo non dice di colui che ha costruito sulla pietra che sarà esente da inondazioni e da tempeste, ma che egli sarà in condizione di resistervi. Non è certo una cosa mirabile essere esente da tentazioni, rispetto al restare immobile in mezzo alle tentazioni. Il Profeta non dice anche che il giusto non sarà abbattuto, ma che non sarà abbattuto per sempre; e quest’ultimo senso è abbastanza in rapporto con la condizione dell’uomo su questa terra di prove. I più giusti vi sono fiaccati, come confessava Davide (Ps. LXXII, 2). Ma Davide abbattuto, Davide pur caduto, non è restato in questo stato di abbattimento o di caduta: la misericordia divina lo ha risollevato e raffermato. È lo stesso per tutti i Santi: Dio li prova, li purifica e li fortifica con le stesse prove: Non commovebitur in æternum (S. Chrys.). – « La memoria del giusto sarà eterna. » È l’ambizione dei mondani a fare un po’ di rumore intorno a sé e passare alla posterità; ma la gloria, non essendo che l’ombra della virtù, fugge, come l’ombra, colui che corre dietro ad essa, mentre segue colui che cerca di evitarla, e segue malgrado lui, i suoi passi; è ciò che succede ai Santi. C’è pure per essi quaggiù una gloria postuma, una vita oltre la tomba che fa loro elogio e che incoraggia. Essi possono essere anche talvolta coinvolti nei discorsi calunniosi degli empi; si troverà forse qualche anima vile che, vedendosi condannato dalla loro vita pura, cercherà di stigmatizzarli; ma essi non avranno nulla da temere, e come si è ben detto: che importa dopo tutto, che questi rettili impuri vengano a mescolare un po’ di bava e di veleno ai torrenti di gloria che conducono i loro nomi all’immortalità? (Mgr. Pichenot, Ps, du D.). – « La memoria dei giusti è eterna, soprattutto perché i loro nomi saranno scritti nel libro della vita, da dove non saranno mai cancellati, e saranno letti con onore dagli Angeli e dai Santi e, nell’ultimo giorno, non temeranno di ascoltare la parola cattiva, la terribile sentenza che sarà pronunciata contro i peccatori ed i riprovati. (S. Agost.).   

VII.

ff. 7, 8. – Ci sono di coloro che sono sempre pronti ad inquietarsi senza motivo, lo scoraggiamento per essi è come naturale, disperano ad ogni proposito; il primo movimento del giusto, è confidare il Dio, egli è sempre pronto a sperare nel Signore, per il suo cuore è un bisogno, come un dovere. (Mgr, Pichenot). – Ecco perché, in mezzo alle prove più terribili, non si abbandona mai alla paura. Egli ha deposto in anticipo le sue ricchezze in un forziere inviolabile e, lungi dal temere l’avvicinarsi della morte, si appresta a partire per queste regioni dove deve ritrovare tutta la sua fortuna. Che potrà temere in effetti colui che, spogliatosi di tutto, non è circondato da nulla, e non offre la presa a nessuno su di lui? Che potrebbe temere colui che è assicurato dalla bontà e dalla protezione di Dio? La sicurezza di cui gode ha dunque una doppia causa: la protezione del cielo e la felice disposizione dell’anima. Così niente è capace di abbatterlo, né i capovolgimento della fortuna, né gli oltraggi, né la calunnie; egli è invulnerabile a tutti questi colpi, perché abita in una regione inaccessibile al crimine ed ai complotti dei malvagi; egli resterà buono fino alla fine, il suo coraggio non si smentirà mai finché non vedrà il suo nemico stramazzato dinanzi a lui. (S. Chrys.).   

VIII.

ff. 9. – Il Re-Profeta ha fin qui ricordato il dovere dell’elemosina e parlato di un prestito caritatevole e di misericordia. Ora ci sono diversi gradi nell’elemosina: l’uno dà meno, l’altro con più liberalità. Qual è dunque questo uomo misericordioso di cui egli parla? È colui che dà del suo superfluo, o colui che distribuisce i suoi beni senza riserva? È evidente che è colui che dissipa tutte le sue risorse, che spande i suoi beni con una pia profusione, e del quale S. Paolo parla in questi termini: « Colui che semina nelle benedizioni, raccoglierà anche le benedizioni. » (II Cor. IX, 6). C’è la profusione ridicola del lusso e della vanità, perché non quella della misericordia? (S. Chrys.). – Il ricco liberale deve spandere le sue ricchezze come il sole spande i suoi raggi. « Il giorno rischiara egualmente tutti gli uomini, il sole dissemina dappertutto i suoi raggi, la pioggia versa su tutte le parti della terra le sue acque fecondanti, il vento soffia su tutti i punti del pianeta, la luce delle stelle e della luna è comune a tutti gli uomini. L’uomo liberale, spandendo con profusione su tutti le larghezze della carità, è imitatore di Dio, suo Padre. » (S. Cypriano, De opere et clem.). – Egli è ancora come il lavoratore che spande la sua semenza su tutta la superficie del suo campo: « Seminate per voi nella giustizia, e raccogliete nella misericordia. » (Osea, X, 12). Siate un lavoratore spirituale, seminate ciò che deve essere produttivo. È una buona semenza quella che si getta nel cuore delle vedove. Se la terra vi rende al centuplo la semenza che ha ricevuto, quali frutti ben più abbondanti renderà la misericordia a colui che ne pratica le opere?  (S. Ambr. De Nab. 7). – Il ricco liberale che spande le sue ricchezze con liberalità, come il Signore raccomanda per bocca del Profeta, le conserva; colui che invece le ritiene, senza darle, le vede passare nelle mani di altri. Se voi le conservate, cesserete di possederle, se le spandete con liberalità, le conserverete, (S. Bas. Homil. in div.). – Considerate la giustezza delle espressioni del Profeta. Egli non dice: … egli ha dato, ha distribuito, ma: « Egli ha largheggiato, » per esprimere la liberalità di colui che dona, liberalità che compare nell’azione del seminare. Che fanno coloro che seminano? Essi spandono la loro semenza che tengono in riserva, sacrificano un bene certo nella speranza di un bene futuro. In questo essi fanno meglio che non ammassare, accumulare: meglio è spandere in tal modo, che accumulare incessantemente. Voi seminate il vostro denaro, ma raccoglierete la giustizia, voi spandete delle ricchezze passeggere per acquisire dei beni immortali. (S. Chrys.). – Questa espressione sembra racchiudere ancora un esempio ed un consiglio. Come regola generale, è meglio dare poco a molti che dare molto a pochi; perché è questo il mezzo di provvedere alle varie necessità di un gran numero ed impedirne l’abuso; è meglio variare le proprie opere, estendere la propria commiserazione, far progredire i propri benefici, piuttosto che concentrarli sempre. Questa saggia liberalità ci è profittevole perché, se la fortuna diminuisce per le elemosine, la giustizia, che ne è il frutto, aumenta e non è una giustizia passeggera, ma una giustizia che resta in tutti i secoli. (Mgr. Pichenot Ps. di D.). – Di qual valore sono questi beni invisibili, che ognuno può acquistare a prezzo di ciò che possiede? « È perché il giusto ha diffuso i suoi doni ai poveri. » Egli non vedeva ciò che comprava e non lasciava ricomprare; ma Colui che aveva fame e sete sulla terra, nella persona dei poveri, gli conservava un tesoro nel cielo. Non è dunque da meravigliarsi che « che la sua giustizia resta nei secoli dei secoli, » poiché essa è sotto la custodia del Creatore dei secoli. « La sua forza sarà elevata in gloria, (Ps. CXI, 9), dopo che la sua umiltà sarà disprezzata dai superbi » (S. Agost.).

IX.

ff. 10. – La virtù è uno spettacolo triste ed importuno per gli uomini viziosi, perché essa è un rimprovero ed una condanna della loro malvagità. Ma vedete come il peccatore, tutto roso dall’invidia, non osa formulare accusa contro l’uomo giusto, né sostenere lo sguardo puro e limpido della virtù. Il dolore che lo rode interiormente si manifesta con il digrignar dei denti, ma non osa pronunciare una parola, e richiude dentro di sé il dolore che lo affligge (S. Chrys.). – « Il peccatore lo vedrà e si irriterà, » ma con un pentimento tardivo ed infruttuoso, perché contro chi si irriterà più di sé quando, vedendo elevato in gloria la forza di colui che avrà elargito doni ai poveri, dirà: « A cosa ci è servito il nostro orgoglio?  A cosa ci sono valse le nostre ricchezze da cui traevamo tanta vanità? (Sap. V, 8). « Egli digrignerà i denti e si consumerà per il furore, » perché nell’inferno dove sarà piombato, ci sarà pianto e stridor di denti; perché non cresceranno né foglie, né rami per come ha fatto, se si fosse pentito in tempo opportuno; ma egli non si pentirà che « … quando il desiderio dei peccatori perirà, » senza che alcuna consolazione possa seguire a questo pentimento. Il desiderio dei peccatori perirà quando tutte le cose passeranno come un’ombra, quando il fieno sarà disseccato, il fiore del fieno cadrà (Isai. XI, 8); ma la parola del Signore, che resta per sempre, dopo aver subito le orgogliose provocazioni dei falsi felici, sarà una provocazione contro di loro, vera maledizione, quando saranno perduti per sempre (S. Agost.). 

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (14)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (14)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR – 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA INABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO VI

Effetti dell’abitazione dello Spirito-Santo.

(Seguito)

I DONI DELLO SPIRITO-SANTO

I.

Con la grazia e le virtù cristiane, lo Spirito Santo porta ancora nell’anima, dove viene a fissare la sua dimora, i vari doni che portano il suo nome, il « sacro septenario » la, come si esprime la Chiesa, sacrum septenarium. Cosa significano questi doni? Qual è il loro ruolo, la funzione, lo scopo, nella vita soprannaturale? Sono davvero distinti dalle virtù infuse, e bisogna considerarli necessari alla salvezza? Queste sono le domande a cui occorre rispondere.  – E in primo luogo, qual è esattamente la natura dei doni dello Spirito Santo? Essi sono, essenzialmente, benefici gratuiti, come indica il nome di “doni”: un nome che è comune agli altri beni della grazia. Ma questo termine generico ha ricevuto nel linguaggio cristiano un significato preciso, un senso perfettamente determinato e limitato ad alcune perfezioni specifiche che Dio comunica liberamente all’anima retta per renderla flessibile e docile alle sue ispirazioni (S. Th. Ia-IIæ, q. LXVIII, a 1).  Come la grazia santificante, come le virtù infuse, con cui presentano molte analogie, i doni sono abitudini, disposizioni al bene che esistono in noi nello stato di qualità fisse e permanenti. Non sono quindi atti, ma principi di operazione; non sono mozioni, attuali, dei soccorsi passeggeri della grazia destinati a mettere in gioco le nostre facoltà, ma piuttosto delle qualità, delle forze conferite all’anima in vista di certe operazioni soprannaturali.  – La Scrittura stessa, parlando di questi doni, ce li rappresenta come esistenti in modo stabile, come riposanti nel giusto. Isaia dice del Verbo incarnato: « Lo Spirito del Signore riposerà su di Lui: lo Spirito di saggezza e di comprensione, lo Spirito di consiglio e di forza, lo Spirito di conoscenza e di pietà; e lo Spirito di timore del Signore lo riempirà. » (Isai. XI, 2-3). E i dottori applicarono queste parole ai membri viventi del Corpo Mistico di Nostro Signore, che devono partecipare ai privilegi del loro Capo. – San Gregorio Magno ci dice ugualmente che « … con i doni, senza i quali la vita non può essere raggiunta, lo Spirito Santo risiede in modo stabile negli eletti, mentre con la profezia, il dono dei miracoli e delle altre grazie gratuite, Esso non si stabilisce stabilmente in coloro ai quali li comunica: in his igitur donis, sine quibus ad vitam perveniri non potest, Spiritus Sanctus in electis omnibus semper manet; sed in aliis non semper manet. » – Potremmo, con l’angelico Dottore, definire i doni dello Spirito Santo: “… delle abitudini o qualità permanenti che sono essenzialmente soprannaturali, che perfezionano l’uomo e lo dispongono ad obbedire con prontezza alle mozioni dello Spirito Santo: Dona Spiritus Sancti sunt quidam habitus quibus homo perficitur ad prompte obediendum Spiritui Sancto. » (S. Th. Ia-IIæ, q. LXX, a. 2). – Da queste parole non si deve concludere che i doni siano delle disposizioni puramente passive, una sorta di unzione spirituale che abbia lo scopo esclusivo di ammorbidire le nostre facoltà perché esse non oppongano resistenza all’azione del celeste motore. « Essi sono nel contempo  delle morbidezze e delle energie, delle docilità e delle forze che rendono l’anima più docile sotto la mano di Dio e nello stesso tempo più attiva nel servirlo e nel compiere le sue opere. » (Mgr. GAY, De la Vie et des Vertus chrétiennes, I. Traité). Come le virtù morali, che mirano a sottomettere e assoggettare le nostre facoltà appetitive all’impero della ragione, a renderle docili alle sue prescrizioni, e che sono non di meno delle fonti di attività, i doni sono anch’essi delle energie soprannaturali, dei principi di operazione. Testimone di queste eccellenti opere, note come Beatitudini, che, per la loro stessa perfezione, devono essere attribuite ai doni piuttosto che alle virtù e che da essi emanano come l’operazione procede dall’abitudine ». (S. Th. Sent. III, d. XXXIV, q. 1, ad 4). In caso affermativo, in che modo i doni differiscono dalle virtù? Alcuni teologi credono di non siano molto diversi da loro, e che doni e virtù significhino, con nomi diversi, la stessa cosa. Se consideriamo le abitudini soprannaturali – essi dicono – come  dei benefici gratuiti che ci vengono dalla bontà divina, li chiamiamo doni; se li consideriamo principi di operazione, li chiamiamo virtù. Questa spiegazione apparentemente molto semplice ha il grave svantaggio di essere difficile da conciliare con  verità indiscutibili. E infatti, se i doni si identificano con le virtù, come mai il Signore, che  certamente possedeva tutti i doni, come ci dice chiaramente Isaia, non aveva avuto tutte le virtù infuse allo stesso modo? Non la fede, incompatibile con la visione immediata dell’Essenza divina, di cui la santa umanità del Salvatore non ha mai cessato di godere; né la speranza, che è stata esclusa dal suo stato e dalla sua perfezione di Persona comprendente; né la penitenza, che non va con l’impeccabilità? Inoltre, se doni e virtù non sono cose separate, rimarrebbe da spiegare perché alcuni doni, come il timore, non siano tra le virtù e perché certe virtù non vengano enumerate tra i doni. Pertanto, la grande maggioranza dei teologi ritiene, insieme a san Tommaso, che ci sia una vera distinzione tra doni e virtù, una distinzione basata sulla diversità dei motori ai quali l’uomo obbedisce nella pratica del bene. Se si vuole – dice l’angelico Dottore – distinguere chiaramente i doni dalle virtù, è necessario attenersi al linguaggio della Scrittura, che designa i primi non come doni, ma come spiriti – Spirito di saggezza e intelligenza, Spirito di consiglio e forza, ecc. – dandoci modo di comprendere che, venuti dall’esterno ed infusi nella nostra anima con la grazia, il loro scopo e il loro effetto è quello di rendere più flessibili le nostre potenze e di disporle a seguire docilmente l’ispirazione divina. Ora, chi dice ispirazione, dice mozione veniente dall’esterno, in contrapposizione al movimento del motore interno, che è la ragione. Ci sono infatti in noi due principi guida sotto il cui impulso si compiono gli atti che devono condurci alla salvezza: uno interiore, che è la ragione, l’altro esteriore, che è Dio. Per consentire all’uomo di ricevere correttamente questo doppio impulso, si ha bisogno di due tipi di perfezioni: le prime, più umili, che lo dispongono a seguire senza resistenza, in tutte le sue azioni interiori ed esteriori, il movimento e la direzione della ragione: questo è il ruolo delle virtù; le seconde, più elevate e conseguentemente distinte dalle precedenti, mirano a renderlo flessibile e docile alle ispirazioni dello Spirito Santo: questo è la funzione dei doni. (S. Th., Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 1). Mettiamo queste verità nella giusta luce. Ed innanzitutto, che l’uomo possieda in se stesso, nella sua ragione, lasciata alle proprie luci o illuminata dalla fede, un principio di attività con cui si muove, decida di fare questo o quello, è ovvio. Non appena diventa un essere intelligente e libero, e quindi padrone delle sue azioni, può, nella sua sfera, come agente secondario e prossimo – in suo ordine, scilicet sicut agens proximum, – compiere questa o quella operazione a sua scelta. Ma, poiché le facoltà umane suscettibili di compiere un atto morale siano inclini abitualmente al bene e disposte a compierlo con facilità, prontezza e costanza, hanno bisogno di essere perfezionate da certe qualità o abitudini, aventi l’effetto di renderle docili alla direzione e all’impero della ragione. Nell’ordine naturale, questo ruolo appartiene alle virtù umane o acquisite; nell’ordine soprannaturale, questa funzione appartiene alle virtù cristiane. Così dotato, l’uomo è in grado di agire, di fare del bene, di fare opere salutari e meritorie, quelle almeno che non superano il livello ordinario e comune.  – Ma la ragione non è l’unico motore, né l’unico principio determinante delle nostre azioni; è anche solo un motore subordinato e secondario. Il  primo e principale motore è fuori di noi e non è altri che Dio. Ora  è una verità confermata dall’esperienza quotidiana che più elevato sia il motore, più perfette debbano essere le disposizioni che preparano il mobile a ricevere la sua azione (S. Th., Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 1). Così, mentre un bambino è in grado di comprendere e seguire le lezioni di un insegnante di grammatica elementare, per consentire ad un adulto, anche colto, di seguire il corso di un insegnante di istruzione superiore, è necessaria una lunga preparazione, che non è nemmeno alla portata di tutte le intelligenze. – Se, allora, per disporre dei nostri poteri appetitivi onde obbedire prontamente alle ingiunzioni della ragione illuminata dalla nostra luce o da quella della fede, abbiamo bisogno di tutta una serie di abitudini, acquisite o infuse, a seconda che il bene di cui si tratti sia naturale o soprannaturale; come non concludere, con san Tommaso, che per poter ricevere fruttuosamente e seguire con docilità le ispirazioni e la guida dello Spirito Santo, un Motore così alto al di sopra della ragione stessa illuminata dalla fede, siano qui veramente necessarie altre perfezioni, ed altre abitudini superiori alle virtù morali, acquisite o infuse? Abbiamo nominato i doni che sono all’uomo nei suoi rapporti con lo Spirito Santo, ciò che sono le virtù morali alla volontà rispetto alla ragione. Queste dispongono le potenze appetitive ad obbedire prontamente alla ragione; quelli preparano l’uomo ad essere docile agli istinti dello Spirito Santo. (Ibid. a. 3).

II.

L’argomento che abbiamo appena sviluppato dimostra bene, è vero, che i doni e le virtù sono abitudini davvero distinte; ma non indica, almeno in modo esplicito, in cosa consista questa differenza. Così, quando San Tommaso propone solo di stabilire – come in Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 1, – che i doni sono perfezioni diverse dalle virtù, la ragione che egli propone è la dualità dei motori a cui l’uomo obbedisce nella pratica del bene: ottima ragione, perché motori formalmente diversi presuppongono, richiedono disposizioni diverse da parte del mobile, in modo che egli sia in grado di ricevere connaturalmente impulsi di cui gli uni possano essere tanto elevati al di sopra degli altri: Manifestum est quod ad altiorem motorem oportet majori perfectione mobile esse dispositum (S. Th. Ia-IIæq. LXVIII, a. 8). Ma quando il santo Dottore vuole mostrare in cosa i doni e le virtù differiscano, tutt’altra è la sua risposta; si richiama alla divergenza nel modo di agire che caratterizza questi due tipi di abitudini, e alla diversità della regola che serve come misura dei loro atti: Dona a virtutibus distinguuntur in hoc quod virtutes perjiciunt ad actus MODO HUMANO, sed dona. ULTRA UMANO. (S. Th. Sent., III, dist. XXXVI, q. 1, a. 1.).Il primo elemento caratteristico dei doni, quello per cui essi si distinguono chiaramente dalle virtù, è il loro modo di agire. Infatti, le virtù, qualunque esse siano, naturali o soprannaturali, acquisite o infuse, dispongono l’uomo ad un’azione di forma razionale e umana: virtutes perjiciunt ad actus MODO HUMANO; i doni, al contrario, lo mettono in grado di operare in modo sovrumano e in qualche modo divino: sed dona ULTRA HUMANUM MODUM. Questa è la loro ragione: Donorum propria est ratio, ut per ea quis super humanum modum operetur (S. Th., m, Sent., III, dist., xxxv, q. II, a. 3): questo è ciò che costituisce la loro superiorità sulle virtù: Donum in hoc transcendit virtutem quod supra humanum modum operetur (S. Th., Sent., III, dist. XXXVI, q. 1, a. 3.). Lasciate che lo stesso san Tommaso ci spieghi, con la sua ordinaria lucidità, che cosa debba intendersi del modo umano di agire specifico delle virtù e in cosa consista il processo superiore che caratterizza i doni. A tal fine, egli confronta la virtù della fede con il dono dell’intelletto che gli corrisponde, e mostra con un esempio, che egli stesso dichiara evidente, la divergenza dei loro processi.  Il nostro modo naturale di conoscere le cose spirituali e divine – dice – è quello di salire da questo mondo materiale e visibile al mondo invisibile attraverso lo specchio della creatura e l’enigma delle analogie, cioè attraverso concetti inappropriati presi in prestito all’ordine sensibile e pertanto necessariamente imperfetti. Connaturalis enim modus humanæ naturæ est ut divina non nisi per speculum creaturarum et ænigmate similitudinum percipiat (Ibid. dist. XXXIV, q. 1, ad I). Così, per la fede, che è una virtù, usa queste stesse nozioni per introdurci alle verità soprannaturali. Et ad sic percipienda divina perjicit fides, quæ virtus dicitur (S. Th., III, Sent., dist., XXXIV, q. I, a. 1). – Senza dubbio essa allarga il cerchio della nostra conoscenza, ci conduce nel santuario della Divinità e ci rivela misteri di cui la contemplazione dell’universo non ci avrebbe mai manifestata l’esistenza; ma in luogo del nostro semplice assentimento ai dogmi rivelati che implica la fede, ci comunica una certa percezione della verità, ci fa cogliere, per così dire, le cose divine, ci eleva al di sopra del nostro modo naturale di conoscere e, senza togliere tutti i veli, ci dà di questa vita, come un’anticipazione delle manifestazioni e delle chiarezze future. (S.Th. III Sent.. dist. XXXIV, a I a. I). – Che senso profondo delle verità di fede possiamo trovare di tanto in tanto in certi uomini senza cultura e senza lettere, ma docili alle ispirazioni dello Spirito Santo, a volte anche nei bambini semplici! Quali intuizioni per scoprire il veleno dell’errore! Forse non saranno in grado di confutare, secondo le regole della dialettica, i sofismi dell’eresia o dell’incredulità; ma poiché sono impregnati delle verità dell’insegnamento cattolico, capiscono che non devono discostarsene in nulla! Da dove viene in loro una tale certezza sulle cose della fede? Dai mezzi naturali della conoscenza per l’uomo: lo studio, la riflessione? No, ma dal dono dell’intelletto. – Leggiamo nella vita di Santa Giovanna Chantal che un giorno, all’età di cinque anni, giocava nell’ufficio del padre, quando scoppiò una discussione tra il presidente Frémiot e un gentiluomo protestante venuto a trovarlo. Si discuteva della Santa Eucaristia. Il signore protestante diceva che quello che gli piaceva di più della religione riformata era che negava la presenza reale di Nostro Signore nel Santissimo Sacramento. A queste parole, la santa bambina non poté trattenersi: ella si avvicina vivacemente al protestante e si mette a fissarlo con uno sguardo accigliato: « Monsignore – gli disse – dovete credere che Gesù Cristo è nel Santissimo Sacramento perché Egli lo ha detto; se non lo credete, lo ritenete un bugiardo ». Il tono con cui parla stupisce il protestante, che inizia a discutere con lei; ma ella lo ferma subito con la saggezza delle sue risposte, e nello stesso tempo, con l’ardore della sua fede, ed incanta tutti i presenti. Imbarazzato dalle sue vivaci rimostranze, il signore protestante volle porre fine alla discussione come si conclude con i bambini: gli presenta dei dolcetti. Ma la piccola subito li prende dal grembiule e, senza toccarli, li getta nel fuoco, dicendo: « Guardate, monsignore, è così che tutti gli eretici bruceranno nelle profondità dell’inferno, perché non credono a ciò che il Signore ha detto. »

III.

Se ora, passando all’ordine pratico, chiediamo all’angelico Dottore in cosa consista il modo umano di agire proprio delle virtù, per esempio della prudenza, ed in cosa si distingua dal processo sovrumano che caratterizza il dono corrispondente, quì il dono del Consiglio, la sua risposta non sarà meno netta né meno precisa. Che si tratti della scelta di uno stato di vita o di ogni altra determinazione importante da prendere, ecco come procede la prudenza. Essa si occupa delle vie e dei mezzi convenienti per ottenere il fine prefissato, e giudica quali siano i migliori e ne prescrive l’applicazione. A mo’ di indagine, il modo umano consiste nell’esaminare tutto alla luce della ragione o della fede, soppesare i pro e i contro, studiarne le attitudini, le attrattive, le disposizioni, prevedere il futuro secondo quanto accade abitualmente in situazioni simili, consultare persone prudenti, pregare.  In Inventione, MODUS HUMANUS est quod procedatur inquirendo et conjecturando ex his quæ sient accidere (S. Th., III Sent., dist. XXXIV, q. 1, a. 2). Poi arriva il turno del giudizio, e infine quello del comandamento, che è il principale atto di prudenza. Ma non è raro che la prudenza umana, a causa di circostanze eccezionali o particolarmente difficili, si trovi in difficoltà. Si ha un bel riflettere, consultare, studiare la questione da tutte le parti, non possiamo andare fino in fondo, né possiamo formulare una risoluzione ferma e precisa. Che cosa dobbiamo fare in queste circostanze, quando la prudenza è muta, e la ragione è disperata? Ciò che fece Re Josaphat quando, in una situazione simile, di fronte a una moltitudine di Moabiti, Ammoniti e Siriani che erano uniti contro di lui, e non sapendo da che parte stare, si voltò verso il cielo e pregò: “Signore, non sapendo quello che dobbiamo fare, tutto quello che dobbiamo fare è guardare a te: Cum ignorremus quid agere debeamus, hoc solum habemus residui ut oculos nostros dirigamus ad te (II Paralip. XX, 12). Ed ecco, lo Spirito del Signore si posò improvvisamente su di un profeta, che venne a dire al re e al suo popolo da parte di Jeowah: « Non temete, non vi spaventi questa moltitudine; la battaglia non è affar vostro, ma di Dio…. Domani camminerete contro di loro e il Signore sarà con voi: Nolite timere, ne paveatis hanc multitudinem; non est enim vestra pugna, sed Dei…. Cras egrediemini contra eos, e Dominus erit vobiscum (II Paralip. XX, 15-17). “Ora, se allo stesso modo, in una simile occasione, un Cristiano ricorre, con fiducia, a Colui che non rifiuta mai il suo aiuto nelle cose necessarie o utili alla salvezza, e se ne riceve ispirazione che pone fine alle sue perplessità e gli insegna con una sorta di certezza ciò che deve fare, questo è al di sopra del modo umano e l’effetto del dono del Consiglio. Sed quod homo accipiat hoc quod agendum est, quasi per certitudinem a Spiritu Sancto edoctus, SUPRA HUMANUM MODUM EST; et ad hoc perficit donum consilii (S. Th., III Sent., dist. XXXIV, q. 1, a. 2). Così, nelle cose che non vanno oltre la portata della ragione, è alla prudenza acquisita o infusa che spetta guidare l’uomo nella scelta e nell’uso dei mezzi (S. Th., Ia-IIæ, q. LII, a. 1, ad. 1).. Trascurare poi di esaminare da soli ciò che sia opportuno dire o fare, con il pretesto dell’abbandono alla Provvidenza, sarebbe tentare Dio (S. Th., IIa-IIæ, q. LIII, a. 4, ad 1). Ma poiché la ragione umana è incapace di comprendere tutti i casi particolari e contingenti che possano sorgere, – dal che deriva che « i pensieri dei mortali sono timidi e le loro previsioni incerte » – per non essere privati di consiglio in materia di salvezza, dove la prudenza non è più sufficiente, l’uomo deve essere guidato e diretto da Colui che sa tutto; così come nelle cose umane, quando non si ha abbastanza luce per trattare un caso, si ricorre ai consigli di persone più illuminate. (S. Th., Ia-IIæ q. LXVIII, a. 3, ad 2). – Questa direzione superiore nell’ordine della salvezza si realizza attraverso il dono del Consiglio, da cui le parole del Salmista: « Il Signore è la mia guida, nulla mi mancherà: Dominus regit me,  et nihil mihi deerit » (Ps. XXII-1). Ma in questo caso, l’uomo non deve esaminare e giudicare da solo ciò che sia opportuno fare, lo Spirito Santo si incarica di questa cura, e l’uomo deve solo prestarsi obbedientemente alle sue ispirazioni; perché – secondo l’osservazione di san Tommaso – è il motore, non lo strumento, che deve giudicare e comandare. Tuttavia, in materia di doni, è lo Spirito Santo, non la ragione umana, che è la forza motrice, essendo l’uomo più passivo che attivo, strumento e non causa principale: strumento, però, che non può essere considerato inerte, perché attivo e libero, attivo in quanto libero, collaborando liberamente con la mozione divina. (S. Th., Ia IIæ q. LXVIII, a. 3, ad a. 1). – La differenza nel modo di agire che abbiamo appena visto tra la prudenza e il dono del Consiglio, si trova allo stesso modo tra le altre virtù e i doni che le perfezionano; ad ogni virtù corrisponde infatti un dono particolare che la aiuta e la fa operare a volte in modo sovrumano. Ciò è particolarmente vero per la fortezza ed il dono che porta lo stesso nome. – La caratteristica della virtù della fortezza è quella di rafforzare l’anima e farle superare tutti gli ostacoli che si incontrano nella pratica del bene, nonostante i pericoli e persino la morte stessa. Se mi chiedete qual sia il suo modo naturale per agire, vi risponderò con San Tommaso che esso consiste nell’affrontare le difficoltà fino all’estensione delle forze umane, pensatis viribus propriis et secundum earum mensuram (S. Th. III Sent., dist. XXXIV, q. 1 a.2); andare oltre, intraprendere con il proprio movimento un’opera che superi le proprie forze, non sarebbe più virtù, ma incoscienza, così come rimanerne al di sotto, per difetto il coraggio, sarebbe un segno di pusillanimità. Ma che, in un incontro particolare, spinto da un istinto superiore, l’uomo prenda come misura delle sue azioni, non più le proprie forze, ma la potenza divina, elevandosi a cose manifestamente superiori alle sue energie native, ed affronti pericoli che non è in grado di superare, affidandosi all’aiuto divino, è al di sopra del modo umano ed effetto del dono della fortezza. -Sarebbe facile continuare questo parallelo e mostrare nel dettaglio quale sia il modo umano di agire specifico delle diverse virtù, e come si differenzi dal modo speciale di operare mediante i doni; ma forse sarebbe meglio limitarsi ad indicare in caratteri generali ciò che costituisce la divergenza di processo tra gli uni e le altre. Negli atti che emanano da virtù, acquisite o infuse, l’uomo agisce in modo conforme alla sua condizione umana, cioè con il proprio movimento, in virtù della propria iniziativa personale. Dopo aver riflettuto, deliberato e, se necessario, preso consiglio, egli si porta al bene per libera scelta, per propria determinazione, senza escludere, naturalmente, la mozione ordinaria di Dio che opera internamente in qualsiasi agente libero o naturale come causa prima: non tamen exclusa operatione Dei, qui in omni natura et voluntate intérius operatur1. (S. Th. Ia IIæ, q.  LXVIII, a. 2). Al contrario, egli agisce, sotto l’influenza dei doni, ma non è più da se stesso che opera, ma un impulso interiore onnipotente, al quale egli si presta tuttavia volontariamente, lo spinge a fare questa o altra cosa il cui pensiero gli sia stato improvvisamente ispirato. Qui l’uomo è più passivo che attivo, anche se non manca la sua attività personale, sotto forma di consenso e di libera collaborazione, perché Dio muove ogni essere in modo conforme alla sua natura (S. Th. IIa IIæ, q. LII, a. 2 ad 1). -Sant’Agostino ha descritto molto bene questa seconda modalità d’azione quando, a proposito delle parole dell’Apostolo: « Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, questi sono i figli di Dio: Quicumque Spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei » (Rom. VIII, 14), egli sottolinea che lo Spirito Santo « li muove per farli agire, non perché rimangano inerti e puramente,  passivi: Aguntur enim ut agant, non ut ipsi nihil agant » (S. Aug. De gest, Pelag. C. III, n. 5). Agiscono dunque, ma per far emergere il particolare istinto che li fa agire, l’Apostolo san Paolo dice che sono mossi e azionati dallo Spirito di Dio. Ora, « essere mossi o azionati è più che essere semplicemente guidati o diretti; perché colui che è guidato fa pure qualcosa; egli è precisamente diretto in modo che agisca correttamente. Ma chi è mosso o attivato sembra a malapena fare qualcosa da se stesso; eppure la grazia del Salvatore agisce così efficacemente sulla nostra volontà che l’Apostolo non ha paura di dire: Tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio, questi sono i figli di Dio » (Rom., VIII, 14). E la nostra volontà non saprebbe fare un uso migliore della propria libertà, che abbandonandola all’impulso di Colui che non può fare il male …. » (Rom. VIII, 14 – S. Aug. De Gestius Pel. C. III, n. 5). La Scrittura e la vita dei Santi contengono un gran numero di fatti in cui questo impulso divino è visto in esercizio. Così si dice in Luca che « Gesù è stato spinto nel deserto dallo Spirito Santo: Agebatur a Spiritu in desertum » (Luc. IV, 1). Allo stesso modo il vecchio Simeone, che aveva ricevuto dallo Spirito Santo la promessa che non sarebbe morto senza aver visto prima il Cristo del Signore, si sentiva ispirato a venire al Tempio, venit in Spiritu in templum, (Luc. II, 25) nel momento in cui Maria e Giuseppe si sono presentati lì per adempiere le prescrizioni della legge nella persona del Bambino Gesù.  – Un fatto ci mostrerà in modo impressionante la differenza nel modo di agire che distingue le virtù dai doni. Sotto la persecuzione di Settimio-Severo, una giovane schiava di nome Felicita era appena stata condannata alle bestie feroci con altri Cristiani. Ella era prossima a partorire, e poiché si avvicinava il giorno del supplizio, Félicita era desolata al pensiero che la sua gravidanza avesse potuto ritardare il suo supplizio, perché la legge vietava l’esecuzione di una donna incinta. Anche gli altri martiri si affliggevano di lasciarla indietro.Tre giorni prima della data fissata per il combattimento, tutti pregavano per la sua pronta liberazione. Non appena finito, la colsero i dolori. Mentre si lamentava, una delle carceriere le disse: « Se in questo momento non puoi sopportare le sofferenze, come sarà quando sarai straziata dalle bestie? Sarebbe quindi molto meglio sacrificare agli dei. » Al che, questa donna generosa diede questa bella risposta: « Oggi sono io che soffro; ma allora sarà un Altro in me che soffrirà per me, perché anch’io soffrirò per Lui. »

IV.

Distinti dalle virtù per il loro modo di agire, i doni lo sono ancora per una regola che serve da misura dei loro atti. La regola delle virtù acquisite è la ragione umana perfezionata dalla prudenza naturale; quella delle virtù infuse, la ragione illuminata dalla fede e diretta dalla prudenza soprannaturale; per questo si definisce la virtù: un’abitudine che ci inclina a vivere con rettitudine secondo la regola della ragione: qua recte vivitur secundum regulam rationis (S. Th., Ia IIæ, q. LXVII, a. 1, ad 3). Quanto ai doni dello Spirito Santo, queste perfezioni superiori, alliores perfectiones (Ibid. in corp. art.) che Dio ci dà in vista della sua mozione, in ordine ad motionem ipsius (Ibid. ad. 3), i loro atti non hanno altra regola che l’ispirazione divina e la saggezza di Colui che è lo Spirito di verità.  (S. Th. III Sent. Dist. XXXIV, q. 1 a. 3) – Non è quindi raro che « l’ispirazione divina spinga l’uomo a delle opere che vanno oltre i limiti ordinari della ragione, quando è illuminato dalla fede. Queste opere sono buone di una bontà superiore; non sono temerarie perché hanno Dio stesso come consigliere e sostegno; esse sono giustificate da questa ragione superiore per cui Dio, quando agisce in questo modo, non è obbligato a restare entro i limiti che l’imperfezione naturale dell’uomo lo costringe a rispettare. Per tutte queste ragioni esse soddisfano più del necessario i dati della prudenza. Tuttavia, la prudenza ordinaria, anche la cristiana, non permetterebbe loro di essere intraprese o consigliate. È soprattutto in queste opere che sono in gioco i doni dello Spirito Santo. » Così quando Santa Dorotea, condotta al supplizio e interrogata da un avvocato di nome Teofilo, che, avendola sentita parlare del paradiso del suo Sposo, le disse scherzosamente: « Vieni, sposa di Cristo, mandami dei fiori o delle rose dal Paradiso di tuo marito », rispose subito: « Certamente lo farò »: da dove ha ottenuto tale assicurazione? Avrebbe potuto parlare in questo modo, secondo le leggi della prudenza cristiana? Non si esponeva ella alla tentazione di Dio contando su di un miracolo che  Egli non era tenuto ad operare, o a screditare la Religione Cristiana, se la promessa che aveva appena fatto non fosse stata mantenuta? Eppure la giovane vergine risponde senza esitazione: « Certamente lo farò: Plane hoc faciam. » E l’evento gli diede subito ragione. Perché lo Spirito Santo le aveva suggerito la sua risposta e, senza esitazione, senza ulteriori riflessioni, aveva obbedito docilmente all’ispirazione divina, secondo questa parola del profeta: « Il Signore mi ha aperto l’orecchio per farmi sentire la sua voce; qualunque cosa mi dica, non resisto; qualunque difficoltà si presenti, non torno indietro. »  – Allo stesso modo, quando il Beato Enrico Suso, dell’Ordine di San Domenico, incise profondamente sul suo petto il nome di Gesù e compì macerazioni che rivoltano la nostra delicatezza; quando Santa Apollonia, minacciata dai pagani di essere bruciata viva se non rinunciava a Gesù Cristo, preveniva i suoi carnefici e si gettava nelle fiamme; quando gli stiliti e tanti altri Santi abbracciavano una vita che sembrava una sfida perpetua alla natura, si comportavano secondo le regole della prudenza cristiana? Certo che no! Eppure i miracoli compiuti a conferma della loro santità sono lì a dimostrarci che, agendo in questo modo, hanno obbedito ad un impulso divino. Tutti questi eroismi di fede, di dolcezza, di forza, di pazienza, di carità, di cui l’agiografia cristiana ci fornisce il commovente racconto; le straordinarie opere intraprese per la gloria di Dio o la salvezza del prossimo; le manifestazioni più alte ed eccellenti della vita spirituale, non sono altro che gli effetti dei doni dello Spirito Santo. Partendo da un principio superiore alle virtù, non sorprende che esse vadano oltre la misura delle virtù? Ecco perché alcuni teologi dicono che i doni sono delle perfezioni che dispongono l’uomo ad atti più elevati, più eccellenti di quanto non lo siano generalmente gli atti di virtù: et hoc est quod quidam dicunt quod dona perficiunt hominem ad altiores actus quam sint actus virtutum (S. Th., Ia IIae, q. LXVII1, a. 1). – E, lungi dall’impugnare questa opinione, san Tommaso dichiara, in un altro passaggio, che è quella che sembra più conforme alla verità: Et hæc opinio inter omnes vera videtur. (S. Th., III Sent., dist. xxxiv, q. I, a. 1). – Questo significa che i doni hanno un oggetto distinto da quello delle virtù, e che entrano in gioco solo quando si tratta di opere eroiche o straordinarie? Se così fosse, sarebbero adatte solo ai grandi Santi, agli Apostoli, ai martiri, alle anime generose pronte a fare ogni sacrificio per avanzare sulla via della perfezione, mentre sarebbero quasi inutili per la moltitudine immensa di Cristiani che vivono nella giustizia senza fare azioni eclatanti. Quanti in effetti sono salvati dalla semplice pratica dei comandamenti e dalle opere ordinarie della vita cristiana! A che serve dunque che gli habitus debbano praticarsi solo raramente, in casi eccezionali, e chi rimarrebbero più spesso nello stato di forze dormienti e inattive? Ora, è l’insegnamento unanime dei Dottori e dei maestri della vita spirituale che i doni dello Spirito Santo siano la sorte comune di tutti i giusti, senza escludere i più umili; e San Tommaso li dichiara necessari alla salvezza (S. Th., Ia-IIæ, q. LXVIII, a. 2). – Come non riconoscere, dunque, che gli atti eroici e le eminenti opere di perfetta santità, pur costituendo il dominio principale dei doni, non possano essere tuttavia considerati come oggetto adeguato e come il limite estremo della loro sfera di influenza? Così, pur ammettendo che « i doni superano la comune perfezione delle virtù >>, il santo Dottore sottolinea che questo non è quanto al genere delle opere, nel modo in cui i consigli prevalgono sui precetti, ma nel modo in cui operano, in quanto dispongono l’uomo a ricevere la mozione di un Agente superiore: Dona excédant communem perfectionem virtutum, non quantum ad gênas operum, eo modo quo consilia præcedunt præcepta, sed quantum ad modum opérandi secundum quod movetur homo ab altiori principio. » (S. Th., 1a IIae, q. LXVIII, a. 2, ad I). Non sarebbe quindi possibile, senza allontanarsi dal pensiero del principe della teologia, assegnare alle virtù e ai doni domini completamente separati, riservare loro una sorta di opera speciale che supererebbe in perfezione l’oggetto materiale di questi. Al contrario, non c’è alcuna virtù sulla quale l’uno o l’altro dono non possa essere chiamato ad esercitare in un dato momento il suo modo sovreminente di operare, così come non ci sono forze umane o facoltà suscettibili di essere il principio degli atti umani, che non possano essere attivati dallo Spirito Santo e perfezionati dai suoi doni (S. Th., Ia Ilæ, q. LXVIII, a. 4.). In breve, il campo d’azione dei doni si estende fino a quello delle virtù; ma se entrambi hanno la stessa materia, si differenziano, come abbiamo detto, sia nel loro modo d’azione che nella regola che serve come misura delle loro azioni; per questo il loro oggetto formale non è lo stesso. 

V.

Le considerazioni che precedono sulla natura e la distinzione dei doni e delle virtù hanno già chiarito i rispettivi ruoli nell’economia soprannaturale. Tuttavia, la questione non è stata affrontata direttamente fino ad ora; è giunto il momento di farlo e di indagare su quale sia questo ruolo. Secondo il giudizio dell’Angelico Dottore, questo consisterebbe, per le virtù, nel mettere le nostre potenze appetitive in uno stato di pronta obbedienza alla ragione, e per i doni nel disporre i giusti a seguire docilmente le ispirazioni dello Spirito Santo: Virtutes morales habitus quidam sunt, quibus vires appetitivæ disponuntur ad prompte obediendum rationi….. Dona Spiritus Sancti Sancti sunt quidam habitas quibus homo perficitur ad obediendum Spiritui Sancto (S. Th. Ia IIæq. XXXVI, ad. 3). – Ridotta in questi termini e considerata solo nella sue grandi linee, la dottrina relativa alle particolari funzioni delle virtù e dei doni ha facilmente raccolto tutti i suffragi; ma non appena si è trattato di chiarirla ulteriormente, l’accordo è scomparso e le opinioni si contrastarono. – Così alcuni teologi sostengono che le virtù dispongono « solo ad obbedire alla ragione, ad agire in conformità ad essa, e non a seguire l’ispirazione divina »; il ruolo dei doni sarebbe quello di perfezionare l’uomo « in tutto ciò che egli deve fare sotto l’impulso, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo ». E poiché non c’è alcuna azione della creatura in cui il moto divino non sia associato all’attività umana, essi concludono che le virtù e i doni entrano in esercizio tra i giusti in ogni atto della loro vita soprannaturale.  Essi ragionano così: « Le virtù dispongono l’uomo a seguire l’impulso della ragione giusta; i doni lo dispongono a seguire quello di Dio o dello Spirito Santo. Tuttavia, questo doppio impulso è necessario negli atti ordinari di virtù, dal più elevato al più infimo. » È quindi necessario riconoscere in ogni atto soprannaturale, anche il più semplice, l’esercizio delle virtù e dei doni.  – San Tommaso vede le cose in modo diverso. A suo avviso, pur avendo come ufficio quello di preparare l’anima a seguire il movimento e la direzione della ragione senza resistenza, le virtù la dispongono ancora, di conseguenza, a seguire l’impulso divino, almeno quell’impulso ordinario e comune che Dio non rifiuta a nessuna creatura desiderosa di usare ed attuare i principi di attività che in essa risiedono. Perché, secondo l’osservazione del Santo Dottore, per il fatto stesso che l’uomo sia ben disposto verso la propria ragione, è anche ben disposto verso Dio: Quia per hoc quod homo bene se habet circa rationem propriam, disponitur ad hoc quod se bene habeat in ordine ad Deum (S. Th., Ia IIæ, q. XXXIV, a. 8, ad 9). Per quanto riguarda i doni, la loro specifica funzione, il loro particolare ruolo è quello di preparare colui che li possieda a ricevere in modo connaturale non ogni specie di mozione divina, ma solo alcuni impulsi speciali designati come ispirazioni, distinti dello Spirito Santo, e di far compiere all’uomo atti fuori dal comune, se non per il loro oggetto materiale, almeno per il loro modo di produzione e dalla norma che serve come loro misura: Dona sunt quædam perfectiones hominis, quibus homo disponitur ad hoc quod bene sequatur INSTINCTUM Spiritus Sancti (S, Th., 1a IIæ, q. LXVIII, a. 3). Cum dona sint ad operandum SUPRA HUMANUM MODUM, oportet quod donorum operationes mensurentes ex altéra régula quam sit régula humanæ virtutis, quæ est ipsa Divinitas participata suo modo. (S. Th. III Sent. Dist. XXXIV, q. 1, a. 3). – Per mettere questa verità in tutta la sua luce, non sarà fuori luogo ricordarci che possiamo distinguere una triplice mozione divina: la prima, proporzionata alla natura, e data in vista delle operazioni naturali; è la mozione con cui Dio opera in qualsiasi agente naturale o libero, qua Deus operatur in omni operante, come prima causa, e di cui San Tommaso prova la necessità nella Summa Theologica (I p., q. 105, a. 5). La seconda, soprannaturale e proporzionata alla grazia, ci è concessa da Dio per farci compiere opere salutari; poiché, per quanto perfetta sia o si supponga essere una creatura, anche se possiede in grado eminente la grazia santificante e le virtù infuse, ella non è in grado di passare dalla potenza all’azione, se non in virtù della mozione divina, che qui non si distingue dalla grazia attuale: Nulla res creata potest in quemcumque ætum prodire, nisi virtute motionis divinæ (S. Th., Ia IIæ, q. CIX, a. 9). – La terza ed ultima è una mozione molto speciale sotto l’influenza della quale l’uomo è più passivo che attivo, magis agitator quam agat, secondo questa parola dell’Apostolo: « Tutti coloro che sono mossi e attuati dallo Spirito Santo, questi sono i figli di Dio: Quicumque Spiritu Dei aguntur, ii sunt filii Dei (Rom. VIII, 14) ». Su questo san Tommaso sottolinea che « essere mossi o attivati è come essere messo in moto da una sorta di istinto superiore: Illa enim agi dicuntur, quæ quodam superiori instinctu moventur. Così si dice di animali, non che non agiscono da se stessi. Si dice quindi che gli animali agiscano, non come se agissero con il proprio movimento, ma spinti dall’istinto della natura: Unde de brutis dicimus quod non agunt, sed aguntur, quia a natura moventur, e non ex proprio motu, ad suas actiones agendas. Ora, qualcosa di simile accade nell’uomo spirituale che è inclinato a certi atti non dal movimento del suo libero arbitrio, ma principalmente dallo Spirito Santo: Similiter autem homo spiritualis non quasi ex motu propriæ voluntatis principaliter, sed ex instinctu Spiritus Sancii inclinatur ad aliquid. » (S. Th., in Rom. VIII, 14, lect. 3). E per non abusare del paragone che ha appena fatto, l’angelico Dottore si affretta ad aggiungere che questo impulso dello Spirito Santo non esclude in alcun modo la spontaneità, o addirittura la libertà delle loro azioni, nei giusti, ma è l’indicazione che il movimento stesso della loro volontà e del libero arbitrio è causato dallo Spirito Santo, seguendo questa parola dell’Apostolo: « è Dio che opera in noi il volere ed il compierlo. – Non tamen per hoc excluditur quin viri viri spirituales per voluntatem et liberum arbitrium operentur, quia ipsum motum voluntatis et liberi arbitrii Spiritus Sanctus in eis causat, secundum illud Philip, II, 13; Deus est qui operatur in nobis velle et perficere (Ibid.). Il primo tipo di moto divino attiva le nostre forze naturali, sia da sole, sia perfezionate dalle virtù acquisite, e con esse diventa il principio degli atti moralmente buoni. Il secondo mette in pratica le virtù infuse, e ci fa compiere atti soprannaturali, almeno quelli in cui è conservato il nostro modo naturale di agire. Quanto al terzo, è specifico dei doni, ed è sempre un impulso speciale avente come termine opere sovreminenti in qualche ambito, cum donum elevet ad operationem quæ est supra humanum modum (S. Th., m Sent., dîst. XXXIV, q. 1, a. 2), opere in cui l’anima umana opera come strumento dello Spirito Santo, ed è quindi più passiva che attiva: In donis Spiritus Sancti mens humana non se habet ut movens, sedmagis ut mota (S. Th., IIa IIæ, q. LII, a. 2, ad 1). – Nei primi due casi, il moto divino si nasconde dietro le nostre facoltà, che fa sì che vengano esercitate nel rispetto del loro normale gioco. Secondo la felice espressione di Papa Pio VI nella bolla Auctorem fidei, ci fa compiere gli atti ai quali ci siamo determinati liberamente: facit ut faciàmus (Bulla Auctorem fidei, Prop. 21). È il moto ordinario e comune sotto l’influenza del quale si compiono gli atti emanati dalle virtù.  – Molto diversa è la mozione specifica per i doni. Questa, infatti, impedisce le nostre deliberazioni, anticipa i nostri giudizi, e ci porta in un modo quasi istintivo ad opere che non avevamo pensato e che possiamo veramente chiamare sovrumane, sia perché superano le nostre forze, sia perché avvengono al di fuori del modo e dei processi ordinari della natura e della grazia. È l’impulso che viene da Dio come Agente superiore, sicut a quadam superiori potentia, (S. Th., I* II”, q. LXVIII, a. 4) e che, per essere ben accolto, richiede disposizioni molto particolari. Infatti, è comprensibile che, per preparare l’anima a seguire prontamente questi straordinari impulsi per mezzo dei quali lo Spirito Santo spinge le anime ad atti che sono principalmente sotto il suo controllo e che avvengono al di fuori delle regole comuni, sono qui necessarie particolari perfezioni, superiori alle virtù, altiores perfectiones (Idem a. 1), i doni, in una parola. Il mobile non dovrebbe essere in relazione armoniosa con il suo motore? Manifestum est quod ad altiorem motorem oportet majori perfectione mobile esse dispositum (Idem a. 8). Ma quando si tratta di opere ordinarie e comuni, alle quali l’uomo si dedica da se stesso, con il proprio movimento, come non ammettere con san Tommaso che la stessa abitudine che inclina la volontà a seguire l’impulso della retta ragione lo disponga ugualmente a ricevere il moto divino: ad esempio, che la stessa virtù della fortezza o della temperanza che ammorbidisce la nostra volontà al giogo e all’impero della ragione, la renda allo stesso tempo docile al moto divino, inclinandolo a compiere le sue azioni nelle circostanze ordinarie della vita? – Non è forse l’essenza stessa dell’habitus operativo ad avere il potere che esso perfeziona nell’atto, in modo che dipenda dalla volontà usarne a piacimento, secondo le parole di San Tommaso: Habitus est quo quo quis utitur cum valuerit? (S. Th., Ia IIæ, q. L, a. 5). Inoltre, chiunque abbia una buona abitudine, non solo il giusto in cui si trovano i doni dello Spirito Santo con le virtù infuse, ma lo stesso peccatore, o almeno quello  che abbia conservato la fede e la speranza, può compiere gli atti quando lo giudica opportuno, e in modo connaturale, anche in assenza dei doni. – Se fosse altrimenti, se dovesse preparasi l’anima giusta a ricevere fedelmente la mozione divina in tutto ciò che è soprannaturale e a cui i doni sono ordinati, non vediamo perché non ci dovrebbero essere, nell’ordine puramente naturale, delle perfezioni simili ai doni dello Spirito Santo, e destinate a renderci docili al moto divino, così come vi sono virtù acquisite che dispongono della facoltà di obbedire alla ragione; perché infine, nell’ordine della natura come in quello della grazia, obbediamo ad un doppio motore: la ragione e Dio. Tuttavia, per quanto ne sappiamo, nessuno ha mai parlato di questo tipo di perfezioni.  – Concludiamo quindi che: Dio ci muove sia con le virtù che con i doni, ma in modi diversi: in modo conforme alla nostra natura mediante le virtù, in un modo superiore attraverso i doni: Virtutes perficiunt ad actus modo humano, sed dona ultra humanum modum. (S. Th., III Sent, dist. XXXIV, q. 1, a. 1). Finché si tratta di operare il bene in modo umano, secondo le procedure ordinarie e le regole della natura e della grazia, non è richiesta l’azione dei doni e le virtù sono sufficienti: le virtù acquisite, se si tratta di un’opera moralmente buona nell’ordine naturale; le virtù cristiane o infuse, se si tratta di un atto salutare. È solo nei casi in cui l’uomo debba comportarsi in modo superiore al modo ordinario, praticare la virtù in misura eroica o in circostanze particolarmente difficili; o quando si tratti di corrispondere come strumento libero ma docile a qualcuno di quegli impulsi insoliti che vengono da Dio come agente superiore, secondum quod movetur homo ab altiori principio, (S. Th., Ia IIæ, q. LXVIII, a. 2, ad 1) che i doni diventano necessari ed entrano in esercizio.  Una comparazione  completerà il nostro pensiero. Se un Lacordaire o un Montalembert, diventando maestri di scuola, si abbassano al punto di insegnare ai bambini l’a, b, c, sarà necessario che abbiano ricevuto una preparazione speciale per poter seguire le loro lezioni? No, per niente. Non appena questi illustri maestri, molto al di sopra di un normale pedagogo, si limitano ad insegnare le basi della lingua, tutti possono capirle. Sarebbe diverso se, invece di dare al loro giovane pubblico un’istruzione elementare, questi grandi oratori pretendessero di far loro conoscere tutti i segreti dell’eloquenza!

VI.

Se questo è il ruolo dei doni, se il loro scopo proprio e speciale è quello di prepararci a seguire obbedientemente le ispirazioni divine, gli impulsi speciali e straordinari dello Spirito Santo nelle cose dove il moto della ragione è insufficiente, come possiamo affermare che sono necessari alla salvezza? Come possiamo dimostrare che i fedeli, la cui vita si muove nell’orbita di una virtù comune, abbiano davvero bisogno dei doni per raggiungere il loro ultimo fine? Sembra che, con le virtù teologali che le dispongono bene in relazione alle cose divine, con le virtù morali infuse che producono un effetto simile in relazione alle cose umane, possiedano già tutto ciò che è necessario per ottenere la salvezza. Conoscono il termine a cui indirizzare la loro vita, possiedono le forze soprannaturali per lottare per esso, di cosa hanno bisogno di più? Il moto speciale e la direzione di colui di cui il Salmista ha parlato quando ha detto: « Il tuo Spirito che è buono, o Signore, mi condurrà nella terra della vera giustizia » (Ps. CXLII, 10). Infatti, nessuno può raggiungere l’eredità della patria celeste se non sia diretto e guidato dallo Spirito Santo: Quia scilicet in hæreditatem illius terras beatorum nullus potest pervenire nisi moveatur et deducatur a Spiritu Sancto (S. Th., Ia. IIæ, q. XLVIII, a. 2). – Se l’uomo non avesse altro fine che quello che risponde alle esigenze della sua natura, potrebbe, con le sue energie nativee e l’aiuto ordinario che la Provvidenza non rifiuta mai di dare alle cause seconde per l’esercizio della loro attività, andrebbe da solo verso il termine del suo destino. Se, però, Dio si degna di venire ancora in suo aiuto con una mozione ed un impulso speciale, per especialem instinctum, sarebbe l’effetto di una bontà veramente sovrabbondante che va volentieri oltre il necessario, e non è il segno di un bisogno a cui sia indispensabile provvedere: Si tamen etiam in hoc homo adjuvetur a Deo per specialem instinctum, hoc erit superabundantis bonitatis (Idem). Ma perché è piaciuto a Dio chiamarci ad un fine che supera assolutamente le forze e le esigenze della natura, e poiché la ragione stessa, pur perfezionata dalla fede e dalle altre virtù teologali, non è in grado di condurci a questo felice termine, abbiamo bisogno della direzione di una guida più illuminata, dell’aiuto di un motore più potente, e di conseguenza dei doni divini che hanno precisamente come loro scopo il renderci flessibili e docili alle ispirazioni dall’alto: Sed in ordine ad finem ultimum supernaturalem….. non sufficit ipsa motio rathonis, nisi adsit instinctus et motio Spiritus Sancti….. E ideo ad illum finem consequendum necessariun est homini habere donum Spiritus Sancti (S. Th., Ia. IIæ, q. LXVIII, a. 2). Da dove viene questa impotenza della ragione? Il difettoso possesso delle virtù teologali che caratterizza lo stato del cammino, e l’insufficienza delle virtù morali per resistere in ogni caso agli attacchi talvolta così improvvisi e così vivaci del demone, del mondo e della carne.  – Chiunque, infatti – nota san Tommaso – possiede perfettamente una natura, una forma, una virtù, insomma un principio qualunque di operazione, può, con la mozione ordinaria di Dio che opera internamente in qualsiasi agente naturale o libero, agire da solo in questo ambito; ma chi possiede solo imperfettamente una fonte di attività non gli è bastante questa per agire, ma ha bisogno di aiuto estraneo, di una direzione, di una mozione speciale. (S. Th., Ia Iæ, q. LXVIII, a. 2). Così uno studente di medicina, un interno degli ospedali, non ancora pienamente istruito, non si avventura, se è prudente, ad intraprendere da solo e senza l’assistenza del suo maestro, un’operazione delicata che potrebbe portare a gravi conseguenze, mentre un medico o chirurgo incaricato, una volta che ha pienamente posseduto la sua arte, può operare da solo, anche, senza bisogno di direzione o assistenza (Ibid). Il capitano di una nave, che viaggia in ambienti sconosciuti, non si avventura nell’entrare da solo in un porto di difficile e pericoloso accesso, ma porta a bordo un pilota esperto che ha familiarità con i passi che conducono alla rada. Tuttavia, questa è proprio la condizione attuale dell’uomo in relazione al suo fine ultimo soprannaturale. Avendo solo allo stato imperfetto i principi delle operazioni soprannaturali, cioè le virtù cristiane, e in particolare le tre virtù teologali – perché è solo imperfettamente che conosciamo e amiamo Dio – è impossibile raggiungere il porto della salvezza senza un aiuto speciale, senza un particolare impulso ed un aiuto dello Spirito Santo.. In ordine ad finem ultimum supernaturalem…., non sufficit ipsa motio rationis, nisi desuper adsit istinctus et motio Spiritus Sancti…..; quia scilicet in hæreditatem illius terræ beatorum nullus potest pervenire nisi moveatur et deducatur a Spiritu Sancto.. E poiché è necessario questo speciale impulso divino, sono necessari di conseguenza i doni che dispongono a riceverlo. Et ideo ad illum finem consequendum necessarium est homini habere donum Spiritus Sancti (S. Th., Ia IIæ, q. LXVIII, a. 2) – Non è che, anche nell’ordine della  Grazia, l’uomo non sia in grado di agire da solo e con il proprio movimento in qualsiasi incontro. Essendo informato, anche se in modo difettoso, dalle virtù teologali, la sua ragione può benissimo, è vero, permettergli di compiere, con l’aiuto ordinario della grazia, più di un atto salutare; essa può cominciare a portarla sulle sponde eterne; ma perché non è in suo potere né il sapere tutto ciò che sia importante sapere, né di compiere tutto ciò che sarebbe utile o necessario fare (Ibid. ad 3); perché essa non possiede, nelle virtù acquisite o infuse, se non solo un insufficiente rimedio contro l’ignoranza, l’ottusità, la durezza del cuore e le altre miserie della nostra natura, non è in grado di superare efficacemente tutti gli ostacoli, di superare tutte le difficoltà che possano sorgere, e di condurci definitivamente in cielo senza una speciale assistenza, e quindi senza i doni dello Spirito Santo.  – Quante volte, nel corso della sua vita, un Cristiano si trova di fronte a certe gravi evenienze, ad importanti risoluzioni da prendere, ad una scelta di vita da fare, ai comportamenti da seguire in questo o in quel caso, senza poter sapere esattamente cosa sia opportuno per la sua eternità! È quindi necessario che Colui che sa tutto e può fare tutto si incarichi Egli stesso di guidarci e proteggerci (S. Th., Ia IIæ, q. CIX, a. 9). – Inoltre, la salvezza a volte richiede delle opere difficili. Sia un funzionario che non può compiere i suoi doveri religiosi senza essere visto male dai suoi capi e senza esporsi nell’incorrere in loro disgrazia. Se fosse solo, affronterebbe il pericolo con maggior coraggio; ma è sostegno di famiglia, e la sua funzione è la sua unica risorsa. Siano coniugi che, per non lasciarsi trascinare dalla corrente che ne trasporta tanti altri, hanno bisogno di un’energia insolita per essere fedeli fino alla fine dei gravi doveri che impone il matrimonio. Anche supponendo che questi Cristiani posseggano con la grazia, l’uno la virtù della fortezza, gli altri la castità coniugale, spesso la loro virtù è debole e la loro forza vacillante. Dove trovare l’aiuto speciale, l’energia extra, necessaria in tali circostanze critiche, se non nella preghiera incessante e nei doni dello Spirito Santo? Infatti, il dono della fortezza è lì per perfezionare la virtù che porta il suo nome; e quello del timore arriverà molto opportuno in aiuto della castità coniugale per facilitare il suo trionfo ispirando agli sposi un santo orrore del peccato. Per questo San Tommaso ci dice – seguendo le orme di San Gregorio Magno – che i doni sono conferiti per aiutare le virtù, in adjutorium virtutum (S. Th., in Is. XI, 2). Pur essendo inferiori per eccellenza alle virtù teologali che ci uniscono direttamente a Dio, i doni danno loro comunque un utile contributo: Sono soprattutto i preziosi ausiliari delle virtù morali, di cui perfezionano l’azione, supplendo anche al bisogno alla loro impotenza: Dona dantur in adjutorium virtutum contra defectus; e sic videtur quod perficiant illud quod virtutes perficere non possunt (S. Th., 1a IIæ, q. LXVIII, a. 8, arg. Sed contra). – La prudenza riceve dal dono del consiglio le luci che le mancano; la giustizia, che dà a ciascuno ciò che gli è dovuto, si perfeziona con il dono della pietà, che ci ispira sentimenti di tenerezza filiale per Dio e ci dona viscere di misericordia per i fratelli e le sorelle. Il dono della fortezza ci fa superare senza paura tutti gli ostacoli che potrebbero distoglierci dal bene, ci rafforza contro l’orrore delle difficoltà e ci ispira con il coraggio necessario per intraprendere i più difficili lavori. Infine, il dono del timore sostiene la virtù della temperanza contro i duri assalti della carne in rivolta. Un’azione più energica, degli sforzi più eroici nella pratica del bene, questi sono gli effetti dei doni dello Spirito Santo. Attraverso di loro, l’anima che le virtù infuse avevano già portata in possesso della comune santità e resa capace di compiere le opere ordinarie della vita cristiana, sale facilmente alle vette più elevate della perfezione. Da qui le parole dell’angelico Dottore: « I doni perfezionano le virtù elevandole al di sopra del modo umano: Dona perficiunt virtutes, elevando eas supra modum humanum (S. Th., De charit., q. unie., a. 2. ad 17). – Così i maestri della vita spirituale li hanno paragonati alle ali dell’uccello o alle vele della nave. L’uccello vola più veloce di quanto cammini; e mentre la nave, con semplici remi avanza solo con difficoltà e lentezza, quella per cui il vento gonfia le vele o il cui vapore fende i flutti, corre veloce sulle onde. – Quello che emerge dalle spiegazioni precedenti, e quello che ne consegue, ci sembra, con la chiarezza dell’evidenza, che i doni dello Spirito Santo siano veramente necessari laddove il moto stesso della ragione, perfezionato dalle virtù infuse, sia insufficiente, e serva uno speciale impulso divino. Ora, il fatto è che, anche con l’appoggio delle virtù cristiane, la ragione umana non è in grado di condurci efficacemente al nostro ultimo fine e di superare tutti gli ostacoli che si incontrano lungo il cammino, se non sia aiutata, salvata, assistita da una particolare ispirazione dall’alto, da una sorta di istinto superiore dello Spirito Santo, quodam superiori instinctu Spiritus Sancti (S. Th., Ia IIæ, q. LXVIII, a. 2, ad 2).Abbiamo quindi bisogno di questo speciale impulso divino, e conseguentemente dei doni, non costantemente, ma di tanto in tanto nel corso della nostra esistenza, più o meno spesso secondo le difficoltà che sorgono, gli atti eminenti che devono essere compiuti, il grado di perfezione a cui siamo chiamati, e anche secondo il buon piacere di Colui che, padrone dei suoi doni, li distribuisce a suo piacimento. Non c’è tempo nella vita, nessuno stato, nessuna condizione umana che possa fare a meno dei doni e della loro influenza divina. -Tuttavia, non sono necessari per tutti e per ogni atto soprannaturale, ma solo per le opere emanate dai giusti sotto la guida dello Spirito Santo, e nelle quali l’uomo è più passivo che attivo. In donis Spiritus Sancti mens humana non se habet ut movens, sed magis ut mota (S. Th., IIa IIæ, q. LII, a. 2, ad 1). È con questa restrizione che dobbiamo sempre comprendere la risposta di San Tommaso alla seguente obiezione contro la necessità dei doni: Sembra che con le virtù teologali e morali l’uomo sia sufficientemente preparato per raggiungere la salvezza, anche senza i doni. A cui il Santo Dottore risponde: « Le virtù teologali e morali non perfezionano l’uomo talmente tanto rispetto all’ultimo fine, che ancora non abbiano bisogno di essere mosse da un istinto superiore dello Spirito Santo: Per virtutes theologicas et morales non ita perficitur homo in ordine ad ultimum finem, quin SEMPER indigeat moveri quodam superiori istintu Spiritus Sancti, ratione jam dicta in corpore articuli (S. Th., Ia IIæq. LXVIII, a. 2 ad 2).

https://www.exsurgatdeus.org/2020/03/17/linabitazione-dello-spirito-santo-nelle-anime-dei-giusti-15/

SALMI BIBLICI: “CONFITEBOR TIBI, DOMINE…IN CONSILIO” (CX)

SALMO 110: CINFITEBOR TIBI DOMINE, … in consilio”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR

13, RUE DELAMMIE, 1878 IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 110

Alleluja.

 [1] Confitebor tibi, Domine

in toto corde meo, …

in consilio justorum,

et congregatione.

[2] Magna opera Domini, exquisita in omnes voluntates ejus.

[3] Confessio et magnificentia opus ejus; et justitia ejus manet in sæculum sæculi.

[4] Memoriam fecit mirabilium suorum, misericors et miserator Dominus.

[5] Escam dedit timentibus se; memor erit in saeculum testamenti sui.

[6] Virtutem operum suorum annuntiabit populo suo,

[7] ut det illis hæreditatem gentium. Opera manuum ejus veritas et judicium;

[8] fidelia omnia mandata ejus, confirmata in saeculum sæculi, facta in veritate et æquitate.

[9] Redemptionem misit populo suo; mandavit in æternum testamentum suum. Sanctum et terribile nomen ejus.

[10] Initium sapientiæ timor Domini; intellectus bonus omnibus facientibus eum, laudatio ejus manet in sæculum sæculi.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CX.

Lode di Dio per le sue opere. Questo Salmo ha versetti quante sono le lettere alfabetiche ebraiche. Ma i LXX lo ridussero a soli dieci versetti, mirando più alla somiglianza degli altri Salmi che alle lettere.

Alleluja: Lodate Dio.

1. A te darò laude, o Signore, con tutto il cuor mio, nel consesso de’ giusti e nell’adunanza.

2. Grandi sono le opere del Signore; appropriate a tutte le sue volontà.

3. Gloria e magnificenza sono le opere di lui; e la sua giustizia è stabile per tutti i secoli.

4. Ha lasciata memoria di sue meraviglie il Signore, che è benigno e misericordioso; ha dato un cibo a quei che lo temono.

5. Ei sarà memore eternamente di sua alleanza, le opere di sua possanza rivelerà al suo popolo;

6. A’ quali darà l’eredità delle genti: le opere delle sue mani son verità e giustizia.

7. Fedeli tutti i comandamenti di lui; confermati per tutti i secoli, fondali nella verità e nell’equità.

8. Ha mandata la redenzione al suo popolo; ha stabilito per l’eternità il suo testamento.

9. Santo e terribile il nome di lui; principio della sapienza il timor del Signore.

10. Buono intelletto hanno tutti quelli che agiscono con questo timore: sarà egli laudato pe’ secoli de’ secoli.

Sommario analitico

Questo Salmo, è un cantico di lode a Dio a causa delle sue opere e dei suoi benefici generali che effonde sulla sua Chiesa, benefici figurati da quelli che ha effuso sui Giudei (1).

(1) Questo salmo è nel numero dei dodici che iniziano con Alleluja (Ps. CIV, CV, CVI, CX, CXI, CXII, CXIII, CXIV, CXV, CXVI, CXVII, CXVIII), come i cinque che finivano con questo canto di lode. Di questi salmi, ce ne sono cinque che gli ebrei chiamavano i “grandi alleluja“. Venivano cantati in tutte le feste, ma soprattutto nelle grandi solennità di Pasqua e dei Tabernacoli: i salmi CXIII e CXIV si cantavano prima della cena pasquale, ed i seguenti CXV, CXVIII, dopo i pasti. Talvolta si cantavano prima i salmi CX e CXII (Rosen-Muller). 

I. – Il profeta esprime la risoluzione di lodare e ringraziare Dio:

1° Segretamente nel suo cuore;

2° Nella riunione privata dei giusti;

3° Nelle assemblee pubbliche (1)

II. – Egli ne dà per motivo le opere di Dio:

1° Le opere di Dio in generale: – a) esse sono grandi e conformi alle volontà divine (2); – b) esse rendono pubbliche la sua magnificenza e la sua gloria (3).

2° Le sue opere particolari: – a) la manna e l’Eucarestia della quale essa era la figura, il ricordo della sua alleanza con il suo popolo (4, 5). – b) la potenza che ha fatto brillare per mettere i Giudei ed i Cristiani in possesso dell’eredità che ha loro promesso (6, 7); – c) le leggi della natura e della grazia, che Egli ha fatto immutabili e fondate sulla giustizia e sull’equità (8); – d) l’alleanza eterna che ha concluso con il suo popolo, e dei quali il Profeta sottolinea gli effetti. Egli ha inviato la redenzione, etc. (9).

III. Egli indica le disposizioni necessarie per entrare nell’alleanza di Dio:

Il timore di Dio, inizio della sapienza, che bisogna utilizzare e perfezionare con le opere (10).

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1.

ff. 1. – « Io vi loderò, vi renderò grazie. » Tutta la vita del Re-Profeta è passata nel compimento di questi pii doveri; è là che comincia, ed è là che finisce. Tutto il suo soggetto, tutta la sua opera, è stata rendere grazie a Dio, tanto per i benefici che avevano ricevuto, che per le grazie accordate agli altri uomini. (S. Chrys.). –  Quanto questo dovere è oggi dimenticato: l’egoismo si è impadronito del sentimento religioso stesso! Il Cristiano dei nostri giorni chiede ancora solo ciò che gli possa essere utile, cerca i propri interessi; ma il fare tutto per la gloria di Dio – come San Paolo ci raccomanda – celebrare il suo Nome, rendere pubbliche le sue grandezze, le sue perfezioni infinite, tutta questa parte essenziale del culto e della virtù di Religione, è miseramente negletta tra noi o non la comprende più (Mgr. Pichenot, Ps. Du D. p. 116). –  « Con tutto il mio cuore », con tutto l’ardore di cui sono capace, con uno spirito avulso da tutte le preoccupazioni della vita, con un’anima elevata nelle alte regioni che toccano a Dio e staccata dai legami del corpo. Questo non solo con la bocca ed a parole, ma in spirito e cuore (S. Chrys.). – Dio è spirito, ed è in spirito e verità che bisogna adorarlo, lodarlo e pregarlo. A che servirebbe il brusio delle labbra, l’elevazione delle mani, se il cuore resta muto? (S. Agost.). – Nell’anima vi sono più facoltà: lo spirito, la memoria, l’immaginazione, devono essere impiegati al servizio di Colui che ci ha dato tutto; ma è il cuore soprattutto con cui dobbiamo contribuire. L’essenza del culto di Dio, è l’amore e l’assenza della preghiera è soprattutto un atto di volontà, un grido del cuore. – Chi dice “con tutto il cuore”, esclude l’indifferenza, la distrazione, la tiepidezza, e soprattutto le passioni che lo tiranneggiano. (Berthier). – Lodare Dio con tutto il suo cuore, lodarlo in compagnia dei giusti, sia nelle riunioni particolari, ove un piccolo numero di anime pie e ferventi si radunano, si intendono, aprono il loro cuore l’uno all’altro, sia nelle riunioni più numerose e più solenni, come gli esercii pubblici del culto, le feste della parrocchia, le grandi assemblee del popolo cristiano.

II. – 2-9

ff. 2, 3. – Ci sono coloro che rendono grazie a Dio quando sono felici, ma se viene a toccarli il malore, essi lo sopportano appena. Taluni giungono anche a colpevolizzare la Provvidenza negli avvenimento che essa permette. Il Re-Profeta rivela qui il doppio carattere delle opere di Dio in generale: la grandezza dello splendore, l’appropriazione e l’armonia che li distinguono. Egli ci fa qui – ci dice – come un giudice integro, un’assemblea incorruttibile, e si riconoscerà allorché le opere di Dio sono grandi e piene delle più strabilianti meraviglie. La loro grandezza attiene alla loro natura, ma questa grandezza, non appare che agli occhi di un giudice equo. (S. Chrys.). – Grandezza vi è nelle opere della natura, ma grandezza una ancora più ammirevole nelle opere della grazia, della redenzione. – Quanto le opere degli uomini sono piccole e meschine in paragone delle opere di Dio, piccole nell’oggetto che si propongono, piccole nella mobilità che le fa loro intraprendere, piccole nei mezzi che si impiegano, piccole nel fine che vogliono raggiungere, fine questo che ancora sfugge loro il più spesso, malgrado gli sforzi della loro volontà. Le opere di Dio, al contrario, sono grandi e conformi a tutte le sue volontà. Esse sono preparate, disposte con una perfezione che non lascia nulla a desiderare. Esse sono anche conformi alla volontà di Dio, proclamano altamente la sua potenza, e concorrono con un accordo mirabile al compimento degli ordini divini, come il Re-Profeta fa pertanto notare. Esse hanno una missione da compiere possedendo i mezzi e le risorse in sintonia con i disegni del Creatore. Non soltanto tutte le creature eseguono gli ordini di Dio conformemente al fine che si è proposto, creandole, ma obbediscono con una docilità perfetta agli ordini particolari che sono conformi a questo fine. Esse sono disposte in una perfetta sintonia con tutte le sue volontà, con tutti i suoi precetti, con tutti i suoi comandamenti. Ma questo non è il solo fine che si è proposto: Egli vuole essere soprattutto conosciuto dagli uomini; è là la sua volontà primaria e la causa principale della creazione (S. Chrys.). – Fine ultimo di tutte le opere del Creatore è la gloria di Dio e la salvezza delle anime, o meglio ancora – come dice Tertulliano – che così riconduce tutto all’unità: la gloria di Dio per la salvezza delle anime. « Honor Dei salus animarum. » – Che l’uomo faccia tale scelta come gli piacerà tra la giustizia e l’empietà: le opere del Signore sono stabilite in modo tale che la creatura, benché in possesso nel suo libero arbitrio, non possa trionfare della volontà del Creatore, anche quando si tratta di agire contro questa volontà. Dio non vuole che voi pecchiate, perché ve lo proibisce; tuttavia se avete peccato non crediate che l’uomo abbia fatto ciò che ha voluto, e che Dio  abbia sofferto ciò che non ha voluto soffrire; perché anche se Dio vuole che l’uomo non pecchi, Dio ugualmente vuole risparmiarlo quando pecca, affinché ritorni e viva; ugualmente infine Dio vuol punire colui che ha perseverato nel peccato, affinché il colpevole non possa sottrarsi alla potenza della sua giustizia. Così, qualunque cosa facciate, l’Onnipotente non mancherà di mezzi per compiere in voi la sua volontà, perché « le opere di Dio sono grandi e proporzionate a tutte le sue volontà. » – « Le sue opere manifestano le sue lodi e la sua gloria. » In effetti, ciascuna delle opere che vediamo sono sufficienti per eccitare nella nostra anima dei sentimenti di riconoscenza, ed il desiderio di lodare, benedire, glorificare Dio. Noi non abbiamo da dire: Perché questo? Per qual bene questo? Le tenebre come la luce, la fame come l’abbondanza, il deserto, i paesi disabitati come le terre fertili e coperte da ricche messi, la vita come la morte, in una parola, tutto ciò che vediamo, tutto ci porta a rendere a Dio delle azioni di grazie (S. Chrys.). – « La confessione e la magnificenza sono l’opera di Dio. » Cosa di più magnifico che giustificare l’empio? Ma forse l’opera dell’uomo oltrepassa la magnificenza dell’opera di Dio, di modo che merita con la confessione dei suoi peccati, di essere giustificato. In effetti, il pubblicano è disceso dal tempio giustificato e non il fariseo, e non osando levare gli occhi al cielo, si batteva il petto dicendo: « O Dio, siate clemente con me che sono un peccatore. »  Ora la magnificenza del Signore è la giustificazione del peccatore; perché colui che si abbassa sarà elevato, e chi si eleva sarà abbassato. (S. Luc. XVIII, 13, 14). La magnificenza del Signore è quella che a chi è stato perdonato di più, di più ama; (ibid. VII, 42-48); la magnificenza del Signore è che se il peccato è stato abbondante, la grazia è stata sovrabbondante (Rom. VI, 20). Ma è là il frutto delle nostre opere? No, dice l’Apostolo, « perché la grazia non viene dalle opere, affinché nessuno si glorifichi; perché noi siamo l’opera di Dio, essendo stati creati nel Cristo per le buone opere. » (Efes. II, 9-10). – In effetti, « … a chi invece non lavora, ma crede in colui che giustifica l’empio, la sua fede gli viene accreditata come giustizia » (Rom. IV, 5), e si comincia dalla fede, affinché le sue buone opere non abbiano preceduto la sua giustificazione, ma avendole seguita, mostrino non ciò che egli ha meritato, ma ciò che ha ricevuto. Perché dunque questa confessione? In verità essa non è ancora un’opera di giustizia; tuttavia essa è una disapprovazione del peccato; ma qualunque cosa sia, o uomo, non vi glorificate, « affinché chiunque sii glorificherà, si glorifichi nel Signore. » (1 Cor., I, 33).  Non è dunque solamente la magnificenza con la quale è giustificato l’empio, ma la confessione e la magnificenza che sono l’opera di Dio (S. Agost.) [Sant’Agostino dà evidentemente alla parola “confessione” un senso diverso da quello che gli danno la maggior parte degli interpreti, ma la dottrina che egli appoggia sul senso che ha scelto non è meno piena di solidità e verità]. – La Provvidenza di Dio è sì attenta, sì paterna e sì dolce, che per noi è almeno un motivo di riconoscenza, un soggetto di benedizione come la stessa lode, ed un inno sostanziale e pieno di gratitudine ed amore. –  Non soltanto Dio manifesta la sua bontà e provoca le nostre lodi alla condotta della sua Provvidenza quaggiù, ma vi fa splendere la sua gloria e brillare la sua grandezza e maestà. Noi vediamo d’altra parte, tanto nell’ordine naturale che nell’ordine soprannaturale, nella condotta di Dio verso tutte le creature, nella sua condotta sulla sua Chiesa attraverso i secoli, nel mistero incessantemente rinnovato della grazia e della giustificazione, un’abbondanza, una ricchezza, una pienezza, una magnificenza mirabile. – Un terzo ed ultimo carattere quaggiù, è la giustizia e l’equità dalla quale non si disgiunge mai, malgrado il disordine apparente delle cose umane. La giustizia di Dio avrà il suo corso. Dio è paziente, perché è eterno; prima o tardi Egli renderà a ciascuno secondo le sue pere.

ff. 4, 5. –  « Il Signore ha perpetuato il ricordo delle sue meraviglie », vale a dire Egli non ha mai cessato di fare dei miracoli, non ha mai interrotto di generazione in generazione il corso dei suoi prodigi per risvegliare con questo spettacolo straordinario gli spiriti più grossolani. Uno spirito elevato ed applicato allo studio della saggezza, non ha bisogno di miracoli; ma Dio, la cui Provvidenza si estende non solo su questi ultimi, ma anche su coloro il cui spirito è meno aperto, non ha cessato di operare dei prodigi in ogni generazione (S. Chrys.). – Orbene, in un altro senso che non esclude il primo, Dio ha voluto immortalare, eternizzare il ricordo delle sue antiche meraviglie, con un toccante memoriale nel quale ha come riprodotto e oltrepassato tutti gli effetti della sua saggezza, della sua potenza e del suo amore. Per i Giudei questo fu la manna che per quaranta anni cadde dal cielo, e che lungo tempo dopo, eccitava ancora il trasporto e la riconoscenza del Re-Profeta … Per i Cristiani, è la Santa Eucarestia, della quale la manna era una figura, vero e toccante memoriale dell’amore infinito del Salvatore nel mistero della Redenzione: « fate questo in memoria di me » … Tutti coloro che come i protestanti, perdono il memoriale, perdono la memoria: essi mettono in oblio le verità sante, essi cessano di pensarvi, cessano ben presto di credervi; dalla fede cadono nel razionalismo, dal razionalismo nello scetticismo. – La Santa Eucarestia, è ancora memoriale, perché essa richiama e sorpassa da sola tutte le più grandi meraviglie che Dio abbia mai operato … essa è il memoriale e la continuazione della vita stessa e di tutti i misteri del Salvatore. – «Il Signore è misericordioso e pieno di clemenza. Non c’è in effetti che l’immensa carità di Dio che abbia potuto impegnarsi a fare per noi sì grandi meraviglie, ed a rendere così la sua immolazione eterna (Mgr. Pichenot, Ps. du D.). – Cosa si è proposto soprattutto in questo? « Dare il nutrimento a coloro che lo temono. » Perché parlare qui di coloro che lo temono? Essi sono dunque i soli che Egli nutre? Non è detto nel Vangelo: « Egli fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi? » (S. Matth. V, 45). Perché dunque dire qui: « a coloro che lo temono? » Il Re-Profeta parla qui, non del nutrimento del corpo, ma di quello dell’anima. Ecco perché Egli lo ha ristretto a coloro che temono Dio, perché è ad essi che è destinato (S. Chrys.). – Questi solo che temono Dio e lo servono con fedeltà, meritano di ricevere questo nutrimento. La condizione essenziale per partecipare a questa alimento celeste, è temere il Signore, perché il timore del Signore fa che si porti alla tavola di Gesù-Cristo una coscienza pura; perché questo timore stabilisce nell’anima il desiderio della povertà, delle sofferenze e delle umiliazioni; di conseguenza, essa ci mette nello stato in cui Gesù fu sulla terra (Berthier). – « Il Signore è misericordioso e pieno di clemenza; Egli ha eternizzato la memoria delle sue meraviglie, ha dato il nutrimento a coloro che lo temono. » È nell’Eucarestia soprattutto che il Signore si mostra così pieno di misericordia e di tenerezza al nostro sguardo: – 1° come un uomo compatisce le miserie che ha provato per primo: « Il Pontefice che noi abbiamo, può compatire le nostre debolezze, perché Egli è stato provato come noi da ogni sorta di mali », (Ebr. IV, 15); – 2° Come un Dio verso la sua creatura: « Io sono come un olivo che si copre di frutti nella casa del Signore; io ho sperato nella misericordia di Dio per l’eternità » (Ps. LI, 8); – 3° Come un liberatore verso prigionieri dei quali rompe le catene; – 4° come un ricco verso un povero, al quale Egli dà in questo Sacramento, la rugiada del cielo e l’adipe della terra, grano e vino in abbondanza, (Gen. XXVII, 28); – 5° Come un pastore verso le sue pecore: « Il Buon Pastore ha fatto ciò che ha raccomandato, ha per primo eseguito ciò di cui ha fatto un precetto: Egli ha dato la sua vita per le sue pecore alfine di cambiare nel sacramento dell’Eucarestia il pane nel suo corpo ed il vino nel suo sangue, e nutrire così con l’alimento sostanziale della sua carne, le pecore che aveva riscattato. » (S. Greg. Homl. XIV in Ev.); – 6° come un padre nei riguardi di suo figlio: Colui che era il pane vero ed il latte perfetto del Padre si è dato lui stesso a noi, affinché fossimo nutriti dalla mammella della sua carne, ed essendo abituati da questo allattamento divino a mangiare e bere il Verbo di Dio, noi possiamo riceverlo e conservarlo dentro di noi (S. Iren., 1, IV, c. 74); 7° come l’anima rispetto al corpo: Gesù-Cristo è in questo sacramento l’anima della nostra anima, lo spirito della nostra bocca, (Lament., IV, 20); come il corpo è morto se non è vivificato dallo spirito, così la nostra anima è morta se Gesù-Cristo non conserva in essa la vita per mezzo di questo nutrimento celeste che Egli dà a coloro che lo temono, l’Eucarestia è veramente l’opera delle mani di Gesù-Cristo, che è ugualmente il Sacerdote e la vittima del Sacrificio dell’altare. – « Il Signore si ricorderà eternamente della sua alleanza. » Il salmista vuol combattere le orgogliose pretese dei Giudei e di tutte le anime superbe, e togliere tutti gli oggetti di vanagloria; o piuttosto Egli vuole loro mostrare che i benefici di cui Dio li ha colmati non sono dovuti ai loro propri meriti, ma all’affezione che Dio aveva per i loro padri, ed all’alleanza che aveva stabilito con essi. (S. Chrys.). – Il nostro Dio è un Dio che si ricorda, che sa tutto, al quale nulla sfugge, che ha sempre davanti agli occhi, in un solo e medesimo punto, il passato, il presente e l’avvenire … Egli si ricorda soprattutto della sua alleanza con noi, rispetta per sempre le condizioni del trattato; ciò che ha promesso, lo esegue; quando giudicherà la terra e si degnerà, per così dire, di regolare i suoi conti, l’avrà vinta sui suoi contraddittori, sarà giustificato da essi (Ps. L, 6).

ff. 6, 7. – « Egli annuncerà al suo popolo la potenza delle sue opere. » Il compimento dei disegni di Dio incontra sempre mille ostacoli, la contraddizione è il prezzo delle sue opere. Ciò che era stato promesso al popolo antico, gli era stato disputato da numerosi nemici: è stato necessario che Dio impiegasse incessantemente in suo favore la forza del suo braccio, e non è questa una figura imperfetta dei prodigi operati fin dall’Incarnazione per stabilire il regno di Dio, sostenere l’istituzione nascente della Chiesa, e decidere il mondo a credere dei misteri incomprensibili e abbracciare una morale scoraggiante per la natura … – Tutti i secoli cristiani hanno così fatto risuonare più o meno nel brusio delle meraviglie di Dio e pubblicato la sua gloria e le sue grandezze (Mgr. Pichenot, abrég.). – Perché questo dispiegamento continuo di forza e di potenza? « Per dare l’eredità delle nazioni al suo popolo, e qui, come dappertutto, la giustizia e la verità brillano nell’opera delle sue mani. Per il popolo giudeo, questa era il possesso della terra promessa che i figli di Cam consideravano loro proprietà e loro eredità; per i Cristiani, nel senso profetico, è la conversione di tutti i popoli al Cristianesimo, e l’intenzione nella quale era il Signore, di dare a Gesù-Cristo ed alla sua Chiesa, l’eredità delle nazioni. « Domandate, dice Dio a suo Figlio che ha generato, ed Io vi darò le nazioni per eredità e la terra per impero. » (Ps. II, 8). – Come gli ebrei trionfarono dei cananei e piantarono la loro tenda su questa terra conquistata, così i ministri della nuova alleanza estenderanno dappertutto l’impero della verità e della giustizia, perché tutte le nazioni sono state promesse in eredità. – Ora, perché Dio cacciò le Nazioni dalla terra che esse abitavano, alfine di darle ai Giudei? Egli lo fece per delle giuste ragioni. « Le opere delle sue mani sono verità e giustizia. » Queste parole non devono restringersi al popolo giudeo ed agli avvenimenti che gli sono propri, ma esse hanno un significato generale. – (S. Chrys.). – « La verità ed il giudizio sono le opere delle sue mani. » Conservino energicamente la verità coloro che sono giudicati quaggiù. I martiri sono giudicati quaggiù, essi sono condotti da Dio al tribunale, ove giudicheranno non solo coloro che li avranno giudicati, ma anche gli Angeli (1 Cor., VI, 3). Non si lascino separare dal Cristo né dalla tribolazione, né dalle angosce, né dalla fame, né dalla nudità, né dalla spada, (Rom. VIII, 35); « … perché tutti i suoi precetti sono fedeli. » Egli non inganna mai; Egli dà sempre ciò che ha promesso. Tuttavia non è quaggiù che dobbiamo attendere o sperare ciò che ha promesso; perché « … i suoi precetti sono stati confermati per i secoli dei secoli, stabiliti come sono sulla verità e la giustizia. » Ora è per la verità e la giustizia che noi soffriamo quaggiù, e ci riposeremo nel cielo. In effetti, « Egli ha inviato la redenzione al suo popolo, e da cosa il suo popolo è riscattato se non dalla cattività del suo viaggio quaggiù? Non c’è dunque riposo da cercare se non nella patria celeste (S. Agost.). – Perché, ad esempio, sotto la nuova legge, nel mondo della redenzione, una contrada è chiamata prima di un’altra? Perché questo popolo passa avanti a quest’altro? Quale cammino segue la fiaccola della fede, e come Dio trasporta il candelabro della rivelazione? È il segreto di Dio; a noi è sufficiente sapere che in Dio non c’è ingiustizia, né preferenza di persone; Egli fa bene tutte le cose, Egli ha le sue ragioni per agire così; esse sono sempre degne della sua saggezza e della sua misericordia. « Tutte le sue opere, qualsiasi esse siano, sono verità e giudizio, cioè giustizia. » (S. Chrys.; Mgr. Pichenot).

ff. 8, 9. – Il Re-Profeta, secondo il suo costume, passa dalla saggezza e dall’ordine che brilla nel dettaglio sì variato della creazione, alle leggi stesse della Provvidenza che comincia ad esporre. Ciò non è solo per lo spettacolo delle opere di questa creazione sì ricca e varia, ma è dando delle leggi agli uomini, che ha loro tracciato una sicura regola di condotta; è così che nel salmo XVIII, egli riunisce queste due cose, che sembrano pertanto non aver tra loro alcun rapporto. (S. Chrys.). – Tre sono i grandi caratteri delle leggi di Dio: esse sono fedeli, cioè non ingannano nessuno; sono stabili e permanenti, perché devono durare per sempre; sono fondate sulla verità e la giustizia, perché hanno per autore Dio stesso, che è la verità e l’equità essenziale. (Berthier). – Il Re-Profeta, comprende qui tutte le leggi di Dio, le leggi della creazione, che reggono gli esseri inanimati ed ai quali questi esseri inferiori si sforzano di obbedire; ma soprattutto, ed è di queste leggi che parla il profeta, le leggi fatte per l’uomo, la legge naturale, la legge scritta sulle due tavole, e la legge del Vangelo. – Ora: 1° Queste leggi sono fedeli, non ingannano mai; tutto ciò che esse promettono viene eseguito, la loro sanzione è inevitabile; le ricompense offerte a coloro che le osservano sono assicurate, così come i castighi di cui minacciano i colpevoli. – 2° Queste leggi sono stabili e affermate per sempre. La legge naturale non cambia, i suoi principi sono fissi ed invariabili, fondati sulla costituzione dell’uomo e sulla natura stessa delle cose. I precetti del decalogo non sono mai più abrogati. Cosa bisogna fare per ereditare la vita eterna … si domanda a nostro Signore? « Se volete giungere alla vita, osservate i Comandamenti. » E quali? Quelli che il decalogo enumera. Il Vangelo è vero oggi come lo era ai tempi degli Apostoli. Invano si tenta, dopo milleottocento anni di alterarli, di sminuirli, di mandarli in frantumi; gli eretici, i filosofi ed i cattivi Cristiani vi hanno perso il loro tempo; essi non hanno potuto cancellare il più piccolo iota, questi sussistono nella loro interezza, immutabili e fondati per tutti i secoli; i tempi ed i luoghi non vi mutano nulla, e mentre vediamo i trattati pretesi immutabili, le costituzioni più sapientemente elaborate cadere e sparire al soffio delle rivoluzioni e dei tempi, il Vangelo resta; il suo regno non avrà mai fine, perché Gesù-Cristo: “era ieri, oggi e sarà nei secoli”. – 3° Queste leggi sono fondate “sulla verità”, su ciò che è, sulla conoscenza esatta e precisa di Dio e dell’uomo, sui rapporti necessari che esistono tra di essi; « sulla giustizia », cioè su ciò che deve essere; perché gli obblighi che Dio ci impone scaturiscono dall’essenza e dalla natura stessa delle cose; non c’è nulla di arbitrario, nulla di inutile … Così qui possiamo notare, con gli interpreti, tutto ciò che entra nella definizione di una legge verace: la volontà formale di colui che stabilisce  le leggi, ed ha diritto di stabilirle, « omnia mandata ejus »; la sanzione che è conferma, “fidelia”; la stabilità che le distingue, « confirmata in sæculum sæculi »; la verità e la giustizia che servono loro come base, « facta in veritate ed æquitate. » (Mgr. Pichenot). –Tre sono le grandi opere di Dio per rapportarci a noi: l’opera della creazione, l’opera della redenzione e l’opera della santificazione. Il Profeta già celebra nel salmo il Dio Creatore, le cui opere sono così grandi e sì ben proporzionate alle sue vedute, di cui la Provvidenza è sì paterna e giusta, di cui le leggi infine riposano tutte sulla ragione e sull’equità; qui, egli canta il Dio Redentore. –  Il Signore ha inviato la redenzione al suo popolo. » Nel senso storico, il Re-Profeta vuol parlare della libertà resa ai Giudei; nel senso figurato e profetico, si tratta della liberazione del mondo intero, come vediamo nelle parole seguenti: « Egli ha concluso con lui una alleanza eterna. » Ed è qui questione della Nuova Alleanza: il Profeta ha parlato dell’antica legge e dei suoi precetti, ma siccome essa non è stata osservata e non ha fatto che provocare la collera di Dio, egli aggiunge: « … il Signore ha inviato la redenzione al suo popolo. » (S. Chrys.). Bontà infinita di Dio è l’aver inviato agli uomini un Salvatore, un Redentore, per metterli in condizioni di compiere i suoi precetti con l’infusione del suo Spirito e della sua grazia. « Il Figlio dell’uomo è venuto a dare la sua vita per la redenzione di un gran numero. » (Matth. XX, 28). « Ciò che era impossibile che la legge facesse, indebolendosi la carne, Dio lo ha fatto, quado ha inviato il suo Figlio, rivestito da una carne simile a quella del peccato, ed a motivo del peccato, Egli ha condannato il peccato nella carne, affinché la giustizia e la legge fosse compiuta in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo spirito. » (Rom. VIII, 3, 4). – E non è solo la redenzione che Egli ci invia, Egli impone una legge a coloro che ha riscattato, affinché la nostra vita sia degna di una sì grande grazia. « Egli ha fatto con lui una alleanza eterna. » (S. Chrys.). – « Il suo Nome è santo e terribile. » Il suo Nome è santo per i santi e per i giusti, è terribile per i peccatori e per i malvagi. (S. Girol.). – Fuggite innanzitutto dai castighi, evitate l’inferno; prima di desiderare le promesse di Dio, sfuggite alle sue minacce; « perché il suo Nome è santo e terribile. » (S. Agost.). Il santo Nome di Dio, è Dio stesso. – Siccome Egli è per sua natura spirituale ed invisibile, non può cadere sotto i nostri sensi, noi siamo ridotti a pronunziare il suo Nome quando vogliamo parlare di Lui, ed il Nome diventa così per la forza stessa delle cose, come è nel genio della lingua ebraica, il simbolo e la personificazione dell’Onnipotente … Dio è santo, Egli detesta il peccato, ha in abominio l’iniquità; il male gli dispiace sovranamente, lo condanna, lo respinge con perseverante energia … questa santità ci obbliga – noi suoi figli, suoi servi – : « siate santi, perché Io sono santo; siate perfetti, come è perfetto il vostro Padre celeste. » … Ma se siamo così ingrati, temerari nell’infrangere la sua legge, subito qualcosa di nuovo avviene in Lui. La sua potenza affrontata, la sua grandezza oltraggiata, la sua bontà disprezzata, la sua giustizia provocata, tutti i suoi attributi violati fremono, e da Santo che era, diventa minaccioso e terribile. (Mgr. Pichenot). 

III — 10.

ff. 10. – « Il timore del Signore è l’inizio della sapienza. » L’inizio della sapienza considerata nel suo effetto, è l’inizio delle operazioni della sapienza in noi, ed in questo senso il Profeta dice: il timor di Dio è l’inizio della Sapienza. Bisogna tuttavia distinguere qui il timore servile dal timore filiale: il timore servile è come un principio estrinseco, che predispone alla saggezza nel senso che allontana dal peccato per la paura del castigo, secondo queste parole dello Spirito-Santo: « Il timore del Signore caccia il peccato; » (Eccli. I); ma il timore casto o filiale è l’inizio della sSpienza come il primo effetto diretto della Sapienza. In effetti, poiché appartiene alla Sapienza dirigere, regolare la vita umana secondo le ragioni divine, è necessario che l’uomo cominci col temere e riverire Dio, e sottomettersi a Lui. È così che come per conseguenza naturale, tutte le sue azioni saranno dirette secondo le regole che Dio stesso ha stabilito. (S. Thom. II; IIæ. q. XIX, art. 7). – Il Profeta-Re, che ha celebrato nel versetto precedente le due alleanze e le due redenzioni, sembra rimarcare in questo, i loro meravigliosi effetti sul cuore, e le disposizioni necessarie per mantenervisi e ben profittarne: il timore che è l’inizio della Sapienza; la Sapienza che è l’effetto ed il coronamento del timore; il timore, che è il carattere proprio della legge antica; la Sapienza che è, con la carità, la gloria della Nuova Alleanza e del santo Vangelo; il timore, che è il primo, il meno perfetto dei doni dello Spirito-Santo e che ci allontana dal male; la Sapienza, che ne è il più eccellente, l’ultimo e che ci porta al bene; il timore e la Sapienza, con i due grandi attributi che li fanno nascere. (Mgr. Pichenot, Ps. de la D.). – Questo timore è buono per il peccatore poiché lo ritrae dal male, dall’abisso dei vizi e delle passioni; quel timore è buono anche per i giusti stessi che, in certi momenti di stanchezza, non hanno più risorse se non nelle terribili minacce, nei pensieri travolgenti degli ultimi fini, nel ricordo della morte che giunge, nelle apprensioni del tribunale che sta per ergersi, negli orrori dell’inferno. In certe occasioni delicate, non c’è che il terrore che possa raffreddare il cuore e fermare la mano; è talvolta l’ultimo freno dello stesso giusto ed è ancora come una schiuma bianca (Ibid.). – Senza dubbio la carità val più del timore; ma il timore precede ordinariamente l’amore e gli serve da furiere, come dice ingegnosamente San Francesco de Sales; è un Giovanni Battista che precede il Salvatore, è l’ago appuntito che buca il tessuto per entrarvi e lasciar passare dopo di esso il filo d’oro o di seta che deve abbellirlo. – « L’intelligenza è buona in coloro che la praticano. L’intelligenza è buone, chi può negarlo? Ma comprendere e non fare, è cosa pericolosa. Di conseguenza, l’intelligenza è vantaggiosa per coloro che agiscono. (S. Agost.). – In effetti la fede non è sufficiente se la nostra vita non è conforme ai suoi divini insegnamenti. Ma come il timor del Signore è l’inizio della Sapienza? Perché esso ci libera da tutti i vizi per insegnarci la pratica di tutte le virtù. Ora la Sapienza di cui parla qui il Profeta, non è quella che consiste nelle parole, ma la Sapienza che si manifesta con le azioni. – Il Re-Profeta non vuole che ci si contenti di ascoltare, bisogna andare fino alla pratica: « Una intelligenza salutare rischiara coloro che la praticano; » cioè coloro che praticano la Sapienza e che la manifestano nella loro condotta, fanno mostra di una vera intelligenza. « Essi possiedono una buona intelligenza; » perché in oggetto c’è una intelligenza cattiva, quella di cui ci parla il Profeta: « essi sono abili e saggi nel fare il male e non sanno fare il bene. » (Ger. IV, 22). – Ciò che il Re-Profeta chiede, è una intelligenza che si metta al servizio della virtù (S. Chrys.). – Sapere tanto per sapere, è mera curiosità; sapere per essere risaputo, è vanità; sapere per vendere la propria scienza, è un vile traffico; ma sapere per edificare gli altri, è prudenza, è chiarezza (S. Bern.). – Aggiungiamo ancora che colui che è intelligente per la buona sorte, cioè – come dice il Re-Profeta – è intelligente e cerca Dio, non solo fa prova di riflessione e di saggezza, ma nel compimento dei propri doveri trova in più una sorgente feconda di attività e di luce. « Una salutare intelligenza rischiara coloro che la praticano. » – E questa pratica non deve gonfiare d’orgoglio, perché è la lode del Signore, « di cui il timore è l’inizio e la Sapienza sussiste per i secoli dei secoli », e questa lode che noi riceveremo da Dio, sarà la nostra ricompensa; colà è il fine ultimo, là è la dimora, là il trono eterno, là si verifica la fedeltà ai precetti del Signore, confermati per i secoli dei secoli, colà si trova l’eredità della nuova alleanza, di cui Dio fa un precetto per l’eternità. (S. Agost.).

PREDICHE QUARESIMALI – (II 2020)

-XIII-

NEL MERCOLEDÌ DOPO LA SECONDA DOMENICA.

[P. Segneri S. J.: Quaresimale; Ivrea, 1844, Dalla Stamperia degli Eredi Franco, Tipogr. Vescov.]

“Die ut sedeant hi duo filii mei, unus ad dexteram tuam, et unus ad sinistram in regno tuo, etc. Nescitis quid petatis.”

Matth. XX, 21 et 22.

1. Se fa mai veruno, che con arti onestissime cercasse di vantaggiare la sua famiglia, o povera o popolare, fu senza dubbio questa donna evangelica, fortunata madre di Giacomo e di Giovanni. Bramò ben ella di sollevare i suoi cari figli dalla barca al trono, e dalla pescagione al comando; eda tal fine procurò diligentemente che fossero collocati, come principali assessori, l’uno alla destra, e l’altro alla sinistra di Gesù, ch’ella credeva dover tra poco aprir una reggia terrena nella Giudea. Ma nol procurò come avviene comunemente, con arti inique. Non pres’ella per questo a perseguitare veruno di quegli Apostoli, che potevano essere i concorrenti da lei maggiormente temuti; non tessè frodi, non tramò furberie, non si valse di adulazioni, non tenne mano ad usure o aperte o palliate, per comperarsi con frequenti regali la grazia del nuovo principe. Ma che? Dopo aver già qualch’anno tenuti i due suoi figliuoli alla servitù stentata di Cristo: dopo averli notte e giorno mandati dietro a lui, scalzi ne’ piedi, e laceri nelle vesti; dopo avergli esposti per tal cagione assai spesso alle beffe del popolo, all’odio degli Scribi, agl’insulti de’ Farisei: dopo essersi ella medesima ancora data a seguirlo dovunque andasse, senza riguardo della casa rimasta sola, del marito lasciato vedovo, delle faccende trascurate, neglette, dimenticate; dopo tanti meriti, dico, verso di Cristo non altro fece che comparirgli dinanzi, che gittarsegli a’ piedi, e che presentargli una supplica ossequiosa, senza veruna né doppiezza di formule, né perversità di rigiri. Dic ut sedeant hi duo filii mei, unus ad dexteram tuam, et unus ad sinistram in regno tuo. Contuttociò tanto fu da lungi che Cristo desse alcun segno di approvazione o di applauso a quella ambiziosa domanda, che la rigettò piuttosto da sé con gravissima indignazione, la tacciò d’insensata, la riprese di temeraria, e con un nescitis quid petatis colmò di pubblica confusione la faccia de’ supplicanti. – Or dove sono coloro, i quali per ansia d’ingrandir la famiglia, o di straricchirla, si valgono non solo di mezzi onesti, e di sollecitudini non viziose, ma di menzogne inoltre e di trufferie, di oppressioni, di crudeltà, di calunnie, d’iniquità? Dove sono quei che a tal fine ardiscono profferire su’ tribunali sentenze ingiuste? Dove quei che stravolgono i testamenti o le cedole da’ lor sensi? Dove quei che defraudano i mercenarj o le chiese del loro dovere? Dove tutti coloro che attendono solamente ad aggravar gli orfani, a soverchiare le vedove, ad aggirare i pupilli, ed a succhiarsi fino all’ultima stilla il sangue de’ poveretti? – Vengano pure questa mattina costoro ad udirmi tutti, perch’io voglio che scorgano ad evidenza quanto malamente consiglinsi in tant’affare. Come? non condona Cristo a una madre per altro sì meritevole e sì modesta quell’affetto soverchio che la conduce a porgere a lui preghiere per esaltazione della famiglia, e lo condonerà a chi procuri esaltarla a dispetto suo? Oh fatiche male spese! oh vigilie mal impiegate! Su le usure dunque, su le rapacità, su le ruberie, su le rovine dei miseri volete voi stabilire la casa vostra, tanto sviscerato è l’amor che a lei portate? Attendete, e vedrete che questo amore, se pur amore ha da dirsi, è un amor crudele.

II. Ma prima, come esser può che voi da voi medesimi non veggiate quanto poco quest’arti debbano riuscire giovevoli al vostro fine? Certa cosa è che gli eredi vostri, se vorranno operare cristianamente, non potran ritenere punto di ciò che voi loro abbiate lasciato di mal acquisto, e per conseguente indarno voi durate al presente tante fatiche per arricchirli: converrà che, voi morti, calin di nuovo al loro pristino stato, che dismettan que’ lussi, che scemino quei servitori, che spopolino quelle stalle, e, in una parola, che vomitino (per usar la forma di Giobbe), che vomitino quante ricchezze hanno divorate: Divitias, quas devoraverint evoment (Job. XX, 15) pur essi non s’indurranno a ciò fare di buona voglia, che accaderà? Iddio medesimo le verrà loro di propria mano a strappare fin dalle viscere: de ventre ipsorum extrahet eas Deus. Che voglio significarci s’essi vorranno ritener punto di ciò che non si dovrebbe, eccovi Dio divenir nemico giurato di casa vostra; e però ditemi: sembra voi di lasciarla sicura assai con una inimicizia così potente? Mi ricordo aver fatto di Giulio Agrìcola, gran senatore romano, ch’essendo negli ultimi anni della sua vita caduto in odio all’imperador Domiziano, fu da esso però spogliato e di molte splendidissime rendite e di una segnalatissima dignità; anzi, come alcuni anche scrivono, avvelenato. Tollerò egli con prudente dissimulazione tanti disastri; e più della sua famiglia sollecito, che di sé, appigliossi morendo a questo stravagante partito. Fe’ testamento, e quivi in primo luogo chiamò per erede suo principale l’Imperadore, favellando sempre di lui con quelle maggiori espressioni di gratitudine, che avrebbe potuto usare non un Proconsole assassinato, ma un servo creato Console. Restarono stupefatti i meno intendenti a così inaspettata risoluzione, e giudicavan quella di Agricola sconsigliata semplicità di chi aveva prima potuto finir di vivere, che finir di adulare. Ma non così riputavano i più sagaci, i quali molto bene intendevano tornar meglio ad una onorata famiglia aver l’eredità svantaggiosa, e ‘l principe amico, che vantaggiosa l’eredità, ma nemico il principe. E conforme a questo, il successo poi dichiarò aver Agricola adoperato anche in ciò con quell’alto senno che sempre aveva dimostrato. E a dir il vero, ditemi un poco: voi stessi, se vi trovaste in eguali necessità non amereste assai meglio di lasciar la vostra casa men facoltosa, ma col principe favorevole, che di lasciarla più florida, ma col principe disgustato? Anzi ogni inimicizia potente che le lasciaste, ancorché fosse di un cavaliere privato, darebbevi gran pensiero: e se poteste comporla a qualunque costo, prima di partir voi dal mondo, non credo io già che perdonereste a danaro. Or s’è così, come dunque temer sì poco di lasciare ai posteri vostri un Dio per nemico? Vi par dunque egli sì debole, che non pigliar sue giuste vendette; o sì milenso ch’egli non sia per pigliarle? Anzi sentite ciò ch’Egli disse a Malachia di costoro che a suo dispetto, voleano pur far alte le case loro là nella superba Idumea: lasciali, lasciali fare, che al fine si vedrà chi miglior braccio, o essi nell’alzare, o io nell’abbattere; isti ædificabunt, et ego destruam (Mal. I, 4). E che sia così.

III. Andate un poco, ed informatevi, nelle divine Scritture di tutte quelle famiglie, le quali con le ree sostanze paterne ereditarono l’inimicizia divina; e poi tornatemi a riferire, se a veruna di loro giovi mai punto splendor di nascita, appoggio di parentele, ampiezza di possessioni, copia di rendite o grandezza anche somma di principato: anzi vedrete che questo appunto è quel caso, nel quale Iddio si è condotto a far cose insolite. Già voi sapete esser di legge ordinaria, che i figliuoli innocenti nulla patiscono per la malizia de’ padri filius non portabit iniquitatem Patris (Ezech. XVIII. 20). Nondimeno Dio, come signore assoluto, ha derogato talora a questa sua le e per lo peccato de’ padri non solamente egli ha puniti i figliuoli, ma i nipoti, ma i bisnipoti, anche sino alla quarta generazione, dacché la quarta comunemente era l’ultima, della quale un padre, già divenuto decrepito, potess’essere spettatore. Or se considerate per qual misfatto de’ padri usasse Iddio di esercitar ne’ figliuoli sì straordinarie vendette, vedrete che fu per questo reo desiderio di volerli arricchir con iniqui acquisti. – Con iniqui acquisti li volle arricchir quell’Acan, il quale contra la proibizione divina rubò in Jerico certa somma di oro ch’egli occultamente trovò; e però non solo fu dato egli alle fiamme, ma vi fu tutta anche data la sua famiglia (Jos. VII). Con iniqui acquisti li volle arricchir quel Giezi, il quale per via di astute menzogne tolse a Naaman una parte de’ donativi ricusati dal profeta Eliseo; e però non solo fu percosso egli di lebbra, ma ne furon percossi i suoi discendenti (IV Reg. 5). Con iniqui acquisti li volle arricchir quel Saule, il quale contro il divieto di Samuele si riserbò avaramente le spoglio degli Amaleciti sconfitti; e però non solo fu privato del suo regno, ma ne fu tutta privata la sua prosapia. (1 Reg. 15). Con iniqui acquisti li fece arricchir quell’Acabbo, il quale con Aperta ingiustizia tolse a Nabot una vigna che non poté appropriarsi a partiti giusti; e però non solo ei perì di morte violenta, mane perì tutta altresì la sua casa (III Reg. 21). Eppure Acabbo (udite cosa incredibile!), eppure Acabbo lasciò, morendo, la sua casa fondata sopra settantadue suoi figliuoli, e figliuoli maschi, onde pareva che essendo ella per altro provveduta di grossissime rendite, e dilatata in amplissime parentele, durar dovesse per via di generazioni gl’intieri secoli. E in manco di quindici anni tutta perì, tutta, tutta, senza che neppur un’anima sola ne rimanesse o de’ parenti prossimi o de’ rimoti: et percussisunt omnes de domo Achab, donec non remanerent ex eo reliquia (IV. Reg. 10. 11 ) . – Sicché vedete, che per questo delitto di malvagi accumulamenti non solamente ne patiscono i padri, i quali li fanno, ma con essi ancora i figliuoli, per cui son fatti, con essi i nipoti, con essi i pronipoti; essendo convenientissimo che in quello appunto l’uomo porti le pene, per cui commette le colpe. Come dunque, per ingrandire la casa vostra, voi vi inducete ad operare quelle arti, le quali appunto sono le più acconce a distruggerla? Vi par ch’ella possa promettersi una lunga stabilità con avere per suo nemico quel Dio medesimo, che in sì piccolo tempo seppe annientare famiglie sì popolate, anzi sì sublimi, sì splendide, sì potenti? Se non vi pare di aver giusta cagione di dubitare, fate pur voi; ma s’è manifesto il pericolo, che sciocchezza, per lasciare i posteri vostri un poco più agiati, lasciarli sì mal sicuri?

IV. Se voi vi abbiate a fabbricare, uditori, qualche edificio, non credo io già che vi porrete a fabbricarlo nel cuore di un crudo verno, ma aspetterete la primavera, ma aspetterete la state; e qualunque altra stagione voi sceglierete più volentieri di quella ch’è la più aspra. E per qual cagione? Perché gli edifici fabbricati di verno non sono durevoli; i ghiacci istupidiscono la calcina, le piogge ammollan la sabbia, e così i sassi non possono tra loro fare alta presa. Ora sapete voi ciò che sia fabbricarsi la casa con l’oro altrui? È fabbricarla di verno. Qui ædifìcat domum suam impendiis aliens (s’oda lo Spirito Santo nell’Ecclesiastico), qui ædifìcat domum suam impendiis alienis, quasi qui colligit lapides suus in hyeme(Eccli. XXI. 9); ch’è quanto dire, ad fabricandum in hyeme, come tutti dichiarano gli espositori. Voi fabbricate di verno,Cristiani miei, voi fabbricate di verno: però fermatevi; altrimenti la casa farà poi pelo,crollerà, caderà, precipiterà, e tutte queste saranno state fatiche gittate al vento; Væ qui ædifìcat domum suam in injustitia, et cœnacula sua non injudicio! così gridava Geremìa (XXII. 13). Vœ qui ædifìcat civitatem in sanguinibus, cioè nel sangue de’ poveri, et præparat urbem in iniquitate! così ripiglia Abacuc (II. 12 ). E voi più credete a’ vostri folli disegni, che alle minacce infallibili de’ Profeti? – Oh quante già fastose famiglie si veggono giornalmente andare in rovina per tal cagione, oh quante, oh quante! non si ricordando le misere, che i torrenti, perché si vogliono ingrossare o ingrassare d’acque non sue, sempre son però meno durevoli d’ogni fiumicello innocente, che del suo viva. Quando Zaccheo ravvedutosi disse a Cristo: Si quid aliquem defraudavi, reddo quadruplum; che rispose il Signore? Hodie salus domui huic  facta est (S. Luc. XIX. 8 et 9). Ma piano un poco. Che risposta fu questa? Pareva che dovesse dire huic homini, perché Zaccheo era stato l’operatore de’ furti, I’operator delle fraudi, che allor volea prontamente rifare i danni; e così pareva che tutta sua dovesse essere la salute. Sì; ma il Signore la intese meglio di noi: e però non disse huic homini, no; huic domui, huic domui; perché vedeva chiaro che se Zaccheo non avesse restituito, non sarebbe stato egli solo a portar le pene di que’ sozzi accumulamenti, quantunque fosse stato solo a commetterli.

V. Ma su, sia così, come voi desiderereste. Diamo che a casa vostra nulla debba arrecare di pregiudizio l’inimicizia divina; diamo che co’ malvagi conquistamenti voi la dobbiate eternare; diamo che le dobbiate accrescere credito, aggiungere autorità, acquistare aderenze; vi par però che vi torni conto di farlo? Infelicissimi hominum (lasciatemi sfogare stamane, ma sin dall’intimo, con le parole del gran prelato Salviano), Infelicissimi hominum, cogitatis quam bene alii post vos vivant, non cogitatis quam male ipsi moriamini! (ad Eccl. 1. 3). E chi mai vi ha insegnato di apprezzar tanto la prosperità temporale della vostra prosapia, che non dubitiate di avventurare per essa, la beatitudine eterna della vostra anima? Oh lagrimevolissima cecità! Dunque sì poco voi siete in pregio a voi stessi, che per verun uomo del mondo vi contentiate di andare ad ardere eternamente nel fuoco, a freneticar co’ dannati, a fremere co’ diavoli? – Io sempre aveva finora sentito dire, amare ogni uomo se stesso sopra d’ogn’altro; e sin da fanciullo mi si era impresso nell’animo il detto di quel Comico latinissimo (Terent.), il quale afferma: omnes sibi melius velle, quam alteri. Ma ohimè, che mi conviene al presente disimparare così celebre verità, mentre mi avveggo trovarsi tanti nel mondo, che co’ suoi stenti procacciano ad altri grandezza, a sé perdizione. Et ut alios affluere faciant deliciis temporariis, se tradunt urendos ignibus sempiternis (Salv. ad Ecc. 1.3). E che potrebbe farvi di peggio il più capitale nemico che aveste in terra? Finalmente ogni altro nemico potrebbe perseguitarvi, questo è verissimo: ma fin dove? fino alla bara, fino alla tomba; ma poi non più: omnis siquidem inimicitia morte dissolvitur, comeragionò l’istesso Salviano (1. 2. ad Eccl.).Ma voi non vi soddisfate per così poco;no, dico, no: vos cantra vos ita agitis, ut inimicitias vestras nec post mortem evadatis.Mentre non solo a benefizio de’ vostri eredi menar volete in questo mondo una vita travagliosissima, ora disputando ne’ tribunali, ora imprigionandovi nelle corti, ora consumandovi ne’ viaggi, ed ora annegandovi, per dir così, tra’ negozj sino alla gola; ma, oltre a ciò, fin dopo la vostra morte voi stendete la vostra persecuzione,e dopo aver per altrui perduta la pace e la sanità, non dubitate ancor di perdere l’anima e ‘l Paradiso. E qual mai de’ vostri avversarj, per inumano che fosse, per implacabile, potrebbe giugnere a farti tanto di male? – Ecco avverato quello che disse Abacucco (II. 6): va; ei, qui multiplicat non sua! Oh sciocco, oh sciocco!se sapesse che fa! Usquequo, et aggravat, contra se densum lutum!Avete notato? Non dice contra alios, no: contra se, contra se;perché, per far bene ad altri, con un amore stranamente crudele rovina sé, gravandosi di quel loto così pesante, da cui dovrà finalmente restare oppresso. E voi frattanto vedete un poco, o Cristiani, come Dio chiami di sua bocca quell’oro che da voi tanto s’ama, tanto s’apprezza: lo chiama fango, densum lutum.

VI. Ma forsechè nell’inferno verrebbevi a cagionare qualche conforto il risaper la grandezza e là gloria de’ vostri eredi? Anzi questo medesimo sarìa quello che forse allor maggiormente vi accorerebbe: considerare che quelli tanto trionfino a spese vostre, e che voi tanto peniate per amor loro. Misero, se a veruno di quanti voi siete qui toccasse (che a Dio non piaccia) una sorte sì luttuosa, di perder l’anima per arricchire la casa! Quante volte il dì si morderebbe lo sfortunato le labbra di si solenne pazzìa! quanto maledirebbe quel giorno ch’egli aperse i suoi lumi a mirare il sole! quanto maledirebbe quell’ora ch’egli snodò la sua lingua a formare accenti: Frattanto, a guisa di finti confortatori, gli verrebbon, credo, d’attorno quei neri spiriti, e con amarissimi insulti.- allegramente (direbbongli), allegramente. Noi veniamo ora dal mondo, ed abbiam quivi potuto ad uno ad uno conoscere tutti i tuoi. Tutti stan sani, prosperosi, gagliardi, ed attendon lieti a godersi quel patrimonio, per cui formare sei tu venuto fra noi. Uno di loro serve ora in corte il tal principe; un altro èssi accasato con la tal dama; un altro si ha buscato il benefizio, e tra poco anche aspira alla prelatura. E di che dunque, o sfortunato, ti attristi? Non ti eleggesti tu di morir dannato per farli grandi: Gli hai fatti: sta allegramente. Già quella femmina, cui per lasciar ricca dote non dubitasti di succhiare il sangue de’ poveri e di schernire i sudori de’ giornalieri, già quella femmina ha ritrovato il partito che tu bramavi; già i nipoti ti crescono, già si sperano i pronipoti: e tu ululi, misero, e ti affliggi? Cristiani miei, pare a voi che questi conforti sarebbon punto bastevoli a consolarvi? Anzi cred’io che parole  tali sarebbonvi tante frecce, sagittas potentis acutæ, violentemente scoccatevi in mezzo al cuore, e cum carbonibus desolatoriis (Ps, CXIX, 4). – Né  mirate all’affetto che or voi sentite verso la vostra prosapia, perché questo allora sarebbe tutto degenerato in rancore, in astio, in asprezza, in ferocità. Di Agrippina, madre dell’ imperatore Nerone, si legge, che essendo ella oltremodo desiderosa di veder lo scettro di Roma in mano al figliuolo, adoperava a questo fine ogni industria più che donnesca. Ne l’ammonirono gl’indovini caldei, chiamati da essa su tanto affare, e tutti ad una voce le dissero ch’egli a lei darebbe la morte, ov’ella a lui conseguisse la dignità. Che importa a me? rispose allora la femmina ambiziosa: occidat, dum imperet; muoja Agrippina, purché Nerone comandi. Ma quando poi si venne all’effetto, oh quanto diversamente si diportò! Non prima cominciò ella a scorgere i preludj della sua morte, benché lontana, nelle crudeltà del suo parto già dominante, che subito cominciossi a pentir di quello che tanto aveva sospirato. Ed ecco (chi ‘l crederebbe?) ch’ella medesima prese a trattar di rimuovere dall’imperio Neron suo figliuolo, e di sostituirvi Britannico suo figliastro, cui si sarebbe più giustamente dovuto per diritto di successione. Anzi a Nerone stesso fe’ riferire, ch’ella sarebbe ita in persona a trovar l’esercito, e che ivi tanto ella avrebbe attizzati gli animi de’ soldati, tanto avrìa perorato, tanto avrìa pianto, finché si risolvesser di eleggersi nuovo principe. Ma poco valsero alla meschina minacce più feroci che sagge; perché da esse vieppiù irritato Nerone, fece morire Britannico di veleno, e indi a poco, sotto sembiante di onore, custodir la madre in palazzo. – Or che pare a voi? S’uno fosse ito a trovar allora Agrippina, mentre ella smaniava dentro a tal carcere, come leonessa in serraglio, o tigre in catena, o, quasi per consolarla, le avesse dotto: serenissima mia signora, e di che vi dolete voi? Non furono vostre quelle sì animose parole: purché Nerone comandi, Agrippina muoja: occidat, dum imperet? E come dunque ve. ne siete ora sì presto dimenticata? Confortatevi: già il vostro figliuolo siede regnante in quel trono che voi con industrie, così sagaci, per non dirsi maligne, gli procuraste; già riscuote i tributi delle provincia straniere, già riceve gli ossequj delle milizie ubbidienti. Anzi con la morte del giovinetto Britannico, che solo potea contendergli il principato, egli è già sicuro. Dunque né vi amareggi la prigionia ch’or patite, né vi atterrisca la morte qualor verrà; perciocché tutte queste sono miserie da voi previste, e nondimeno volute, purché con esse voi conseguiste l’imperio al vostro amato Nerone. Ditemi di grazia, uditori: se uno avesse favellato ad Agrippina in questo tenore, pare a voi ch’ella sarebbesi consolata? Anzi è credibile ch’ella avrebbe prorotto in maggiori smanie, considerando non poter lei contro di altri sfogar la rabbia, che contro di sé medesima. E di fatto, che tali ragioni non bastassero ad acquietarla, è manifestissimo; perch’ella fin di prigione altrettante arti malvagie seguì a tentare per lor l’imperio al figliuolo, quante n’avea prima impiegata per darglielo, a segno tale, che le convenne, qual rea di lesa maestà, comparire in giudizio a giustificarsi. E finalmente, dopo aver schivata in vano la morte altre volte a lei destinata, ben dimostrò su gli estremi della sua vita, quant’ella odiasse chi prima aveva tanto amato; perché veggendo comparire in sua camera un capitano col ferro ignudo, per segarle la gola, o passarle il petto; ella, quasi frenetica di furore, gli offerse il ventre; e: qui qui ferisci (gli disse), ferisci qui; In mortem Centurioni ferrum distringenti protendens uterum: ventrem feri, exclamavit(Tacit. 1. lo. c. 8); non so se per detestazione o se per vendetta di aver lei dato ricetto in esso ad un mostro, o, per usar più portentoso vocabolo, ad un Nerone. – Or mi perdonerete, cred’io, signori miei cari, se con qualche prolissità io ho voluto qui ponderare un successo profano sì, ma forse ancor profittevole. Perocché sembrami di potere da questo argomentare convincentissimamente così: se una madre cotanto ebbra di amore verso il figliuolo, che si offerse a morire per farlo Cesare, quando poi videsi questa morte vicina, cambiò talmente ed opinione ed affetti; che sarà di quei miserabili, i quali nell’inferno si veggano condannati ad un fuoco eterno, per aver fatto i loro, non Cesari (che finalmente sarebbe stata grandezza assai rilevante), ma o di plebei cittadini, o di cittadini nobili, o di nobili consolari? Pare a voi ch’essi non fremeranno di rabbia più che la sfortunata Agrippina? Parlate voi di presente a qualcuno di questi avidi accumulatori di roba, di cui trattiamo, e ditegli: mio signore, avvertite bene: cotesti vostri censi non sono leciti, cotesti vostri cambi non sono leali; e voi giungerete bensì con le oppressioni che giornalmente voi fate de’ poverelli, a comperare al vostro figliuolo il tale cavalierato, la tal commenda, o il tal titolo di rispetto; ma di poi questo probabilmente sarà l’eterna perdizion dell’anima vostra. Che vi rispondono? Si fanno beffe di voi; e se non con le parole, almeno co’ fatti vi dicono: non importa: occidat, dum imperet, occidat dum imperet. Perdiamo l’anima, purché s’ingrandisca la casa; perdiamo l’anima, purché s’ingrandisca la casa. Sì? Oh miseri! voi non capite al presente ciò che voglia dir perder l’anima; ma quando verrà quell’ora che il capirete, e che d’ogn’intorno vi scorgerete orribilmente assediati da fiamme, da mannaje, da ruote, da zagaglie, da vipere, da dragoni, oh quanto subito in voi verranno a cambiarsi sì crudi amori!

VII. – Io certamente mi persuado (sentite bene), se che allora da Dio vi fosse permesso di scappar dagli abissi, e di ritornarvene a’ vostri per piccol’ora, voi nel più cupo della notte entrereste con passo tacito in quella casa che fu vostro antico soggiorno; ed ivi rimirando que’ paramenti, que’ mobili, quegli arredi da voi malvagiamente adunati, non potreste più contenere l’interna smania; ma con le fiamme che avreste d’attorno, ne volereste or in questa parte, or in quella per darle il fuoco. Abbrucereste quelle lettiere dorate, que damaschi magnifici, que’ quadri vani, quegli scrigni preziosi, quelle arche piene, quei vestimenti superbi. Indi calereste furiosi dentro le stalle a soffocare i cavalli, dentro le rimesse ad incendiare le carrozze. Passereste a’ giardini, agli orti, alle ville; e scurendo per quei poderi, da voi comperati con oro di mal acquisto, tutte mandereste in un tratto a fuoco ed a fiamme le viti, gli alberi, e le peschiere, e i boschetti, e i grani, e le biade, per isfogare qual forsennati la rabbia delle vostre miserie contro a ciò che fu la materia delle vostre scelleratezze. – Ma tolga Dio da ciascun di voi questo augurio così funesto; e voi piuttosto confessate frattanto con schiettezza, se non a me, almeno a Salviano che vi domanda (lib. 3 ad Ecc.): non farebbe una pazzìa solennissima chiunque di voi per altrui giugnesse a dannarsi? Oh infelix ac miseranda conditio! bonis suis aliis præparare beatitudinem, sibi afflictionem; aliis gaudia, sibi lacrymas; aliis voluptatem brevem, sibi ignem perennem! La vostra salute siavi raccomandata, la vostra felicità, la vostra anima. Com’è possibile tenerla, voi Cristiani, in pregio sì vile, che la vogliate avventurare per un figliuolo, per un fratello, per un nipote, per un cugino, per un cognato, anzi per un erede talor posticcio, ch’altro del vostro non ha, che un cognome equivoco, se non ancora imprestato? Amate i vostri congiunti (questo va bene, ma dopo l’anima vostra; amate la loro prosperità temporale, ma più la vostra beatitudine eterna; amate la lor grandezza terrena, ma più la vostra gloria celeste: in unaparola: amate, non obsistimus, amate filios vestros, sed tamen secundo vobis gradu, Ita illos diligite(belle parole!), ita illos diligite, ne vos ipsos adisse videamini; inconsultus namque ac stultus amor est, alterius memor, sui immemor. Fin qui Salviano.

VIII. Benché non è questo veramente, non è un amare i congiunti, anzi è un odiarli con furor più che barbaro, più che ostile, e appunto diabolico. Perocché sentite: non vedete voi, che lasciando ai posteri vostri qualunque parte di roba mal acquistata, ponete anch’essi in evidente pericolo della loro dannazione? Ogni ricchezza,  avvengachè procacciala con arti lecite, sempre è pericolosa, quand’è abbondante. Quid enim sunt carnales divitia, così lo dice elegantemente Cirillo (Apol. mor. l. 3. c. 3), nisi blandimenta libidinis, fomenta cupiditatis, onera mortis? Confermalo santo Ambrogio (lib. 2. in Job c. 5; et apud Dan. c. 4. da cui son chiamate materia perfidiæ, illecebra delinquendi. Confermalo Pier Bleseuse (in Job) da cui son dette virtutum subversio, seminarium vitiorum. Confermalo San Giovanni Crisostomo (Hom. 6 de avar.), il quale, oh Dio! che mal non disse di loro? Le chiamò micidiali, le chiamò nemiche implacabili: Homicidæ, crudeles, implacabiles, quæque numquam erga eos, a quibus possidentur, remittunt simultatem. Le chiamò venti che muovono ognor tempesta (Hom.17 ad pop.); le chiamò fiere che sbranano ogn’ora i cuori (Hom. 6. de avar.); le chiamò fiamme che incendiano ogni ora il mondo. Hinc inimicitia, diss’egli, hinc pugnæ, hinc contentiones, hinc bella, hinc suspiciones, hinc convitia, hinc furta, hinc cædes, hinc sacrilegio(Hom. 65. ad pop.).Adunque certa cosa è, che, generalmente parlando, quanto più di ricchezze voi lascerete a qualunque siasi de’ vostri, tanto più lor lascerete ancor di pericoli; né miglior senno farete di chi vada a porre ai bambini in mano un coltello ben aguzzo,ben affilato, perd’egli ha il manico tempestato di gioie. – Or se ciò di tutte le ricchezze si viene a verificare, quanto più dunque di quelle, che siccome son prole d’iniquità, cosi, secondo il bel detto dell’Ecclesiaste, sogliono riuscirsi anche madri di perdizione? Divitiæ conservatæ in malum domini sui (Ecc. V. 12). Quanto rimarrebbe allacciata la coscienza del vostro erede, considerando non poter lui possedere con buona fede punto di ciò che voi gli avete acquistato con male industrie!Ch’egli il restituisca, è troppo difficile; se non lo restituisce, egli è già spedito. Adunque chi non conosce la perdizione che voi loro apportate con tali lasciti? E questo è amore, questa è affezione di padre? anzi è rancore, anzi è rabbia di parricida: inimici hominis domestici ejus (Mich. VII. 6). Meglio sarebbe, dice san Giovanni Crisostomo, che voi li lasciaste mendici: perché finalmente da qualsiasi meschinissima povertà potrebbero cavare qualche ben per l’anima loro, come per la sua ne cavò già tanto Lazaro l’ulceroso; ma da ricchezze inique nessuno. Non enim potest ad bonum proficere quod congregatur de malo (Imperf.hom. 38 in cap. XXII S. Matth.). Non possono con queste né arricchir tempi, né provvedere bisognosi, né soccorrere monasteri, né giovare a’ defunti, né placar Dio; e siccome senza colpa non possono ritenerle, così nemmeno possono spenderle senza colpa. Ditemi dunque, se può nel mondo trovarsi uno più miserabile di chi abbondi di tali beni. E questi beni voi, morendo, volete lasciare per patrimonio a’ vostri più cari? Oh amor crudele! oh stravaganza! oh spietatezza!oh barbarie di mente insana! -Racconta santo Antonino, arcivescovo di Firenze, nella sua Somma un caso atrocissimo.Si trovava già presso morte uno di questi empj ricchi, di cui parliamo; che però fu esortato dal sacerdote a restituire quei mali acquisti, de’ quali era reo; ma egli si stava immobile come un sasso: non si rendeva a preghiere, non si riscuoteva a minacce. Vi s’interposer però fin due suoi stessi figliuoli a persuaderglielo. Ai quali egli: non posso, miei figliuoli, non posso restituire; perché, s’io di poi campassi, mi converrebbe tutto dì mendicare di porta in porta la vita a stento; e s’io morissi, dovresti emendicar voi. Risposer questi, che quanto alle lor persone lasciasse pure diaverne sollecitudine, perché essi meglio amavano il padre salvo e sé poveri, che sé ricchi e il padre dannato. Allora il padre con occhio bieco mirandoli: tacete (disse), o figliuoli senza cervello. Non avete ancor imparato quanto più pietoso sia Dio, che non sono gli uomini? S’io son peccatore, posso sperar che Dio mi usi misericordia; ma se voi sarete mendici, come potrete confidare che gli uomini vi abbiano compassione.E persuaso da questo folle discorso, miserabilmente morì. Fece questo discorso grand’impressione nella mente de’ due fratelli, i quali rimanevano ereditieri delle ree sostanze paterne; nondimeno poi consigliatomi meglio seco medesimo uno di loro, volle fare perfetta restituzione della sua parte;ma non già l’altro la volle far della sua.Che avvenne però? Non andò molto, che di loro, il malvagio fini la vita, e l’innocente si consacrò religioso nell’inclita figliolanza di san Francesco. Or mentre il religioso stava una notte in solitaria contemplazione, ecco mira innanzi a’ suoi occhi spalancarsi una gran voragine, e tra nembi di fumo, tra nuvole di caligine, e tra torrenti di fuoco, tra volume di fiamme scorge il suo padre ed il suo fratello nel mezzo di una foltissima turba di condannati. Qual però credete che fosse l’atteggiamento in cui li mirò? Stavano insieme que’ due meschini afferrati come due mastini rabbiosi, ora svellendosi scambievolmente i capelli, or graffiandosi il viso; e con vicendevoli insulti:per te, maledetto figlio, diceva l’uno, io patisco questi tormenti; ed io, diceva l’altro,per te maledetto padre; meglio era pure ch’io generassi un serpente, diceva il padre; ed io che fossi generato da un orso,rispondevagli il figliuolo. Tu, figlio infame, mi strazi: tu mi braci, padre inumano. E con questi orrendi diverbi, vie più fremendo,avventavano i denti l’un con l’altro,quasi che il lor solo conforto fra tante pene non altro fosse che fare a gara tra lor di mangiarsi vivi, come due mostri legati insieme a una catena medesima. – Or ecco,signori miei, quale per relazion di un Santosi celebre sarà l’emolumento che ritrarranno per tutta l’eternità i padri delle inique ricchezze lasciate a’ figliuoli, ed i figliuoli delle inique ricchezze ereditate da’ padri.Sembra a voi però che si debba a così gran costo comperar la breve fortuna d’una famiglia? Se questo è amare sé stesso, che sarà odiarsi? e se questo è beneficare i congiunti,che sarebbe perseguitarli? Stabilisca dunque, che quando ancora i malvagi accumulamenti punto valessero ad ingrandire la casa, l’ingrandirla così non sarebbe spediente né a voi, né a’ vostri. Pensate poi che sarà, mentre, come da prima noi dimostriamo, questa è la maniera più certa da sterminarla. Væ qui congregat avaritiam malam domui suæ, ut sit in excælso njdus ejus! (Habac. II. 9) Ma perché, santo Profeta?; perché, perché, perché? Cogitasti confusionem domui tuæ (Ib. 10). Voi ponderatelo, ed io mi riposerò.

SECONDA PARTE

IX. Presupposto dunque, che per tante ragioni voi non dobbiate volere, ad ontadi Dio, far la famiglia più ricca di quelch’ell’è, che rimane a dire, se non che deponiate ormai dal cuore quella smoderata sollecitudine, con cui, per provvedervi a’ bisogni de’ vostri eredi, voi trascurate con amor crudo il pensiero della vostra anima? Deh cominciate a prezzar un poco una volta ciò che conviensi apprezzare, e  considerate tra voi: voi per ventura già carichi di anni, già cagionevoli della persona, e per conseguente vicini anche alla morte. Non andrà molto che vi converrà comparire avanti al tribunale divino, per rendere ragion dell’anima vostra: già vi aspettano da una parte gli Angeli come testimoni fedeli di quanto avrete operato;già dall’altra i demonj, come accusatori implacabili: e voi state ancora a pensare che mangeranno gli eredi vostri di buono dopo la vostra morte, come potranno abitare con comodità, come vivere con delizia? Ecce expectat te jam egressurum de ista vita officium tribunalis sacri, ritorna a parlare Salviano (1. 3 ad Eccli.), et tu delicias aliorum mente pertractas; quam bene scilicet post te hæres tuus de tuo prandeat, quibus copiis ventrem expleat, quomodo viscera exsaturata distendat? Queste son dunquele cure vostre più gravi, questi i pensieri più assidui, – come se allora nel tribunale divino doveste essere più sicuri, quando aveste lasciati i vostri più ricchi? So che vi gioverà allora gran fatto di poter dire:Signor, salvatemi. E perché? Perché io,conforme i vostri consigli, ho vestiti tanti ignudi? Perché ho dotate tante fanciulle? Perché ho riscattati tanti prigioni? Perché  ho pasciuti tanti famelici? Perché ho procurato di propagare in mille modi la gloria del vostro Nome? No, Signor mio, non per questo; ma perché ho lasciata la mia casa fornita di molte comodità, perché i miei posteri epulantus quotidie splendide; perché luxuriantur in peristomatis, quæ ego feci; perchè fornicantur in sericis, quæ reliquie (lb. IV, ad Eccl.): però salvatemi. Se dir questo vi par che debba giovarvi,pur ad accumular la roba con sì profonda ansietà; ma se vedete, che ciò piuttosto è per nuocervi, deh convertite l’ansietà in miglior uso, ed in cambio di pensar più tanto ad altri, pensate a voi.Revertere potius in tedirò a ciascuno con le belle parole di santo Eucherio, ut tu sis carior tibi, quam tuis (ep. 1 Parænet.). – Che se pur, de’ giovani vostri voi siete ansiosi, abbiate questa fidanza, che Dio piglierassi continuamente diloro una cura più che paterna, se voi sempre avrete all’amor del sangue anteposto l’onor di Dio. Povera Rut! Non capitò ella in Betlemme, giovane vedovella senza alcun bene? Contottociò, perché Dio n’avea patrocinio, trovò ancora in paese, ov’era straniera, un uomo ricchissimo che la tolse per moglie. Povera Ester! non dimorava ella in Susa, orfana fanciulletta senza alcun nome? Con tutto ciò, perché  Dio n’avea protezione, trovò ancora in paese,dov’era schiava, un potentissimo re che l’assunse al trono. Fidatevi dunque, fidatevi,che Dio non mancherà di pensare egualmente a’ vostri. E se voi frattanto Bramante come un prototipo bello, a cui conformarsi, rappresentatevi quel sì famoso Tobia.

X. Aveva egli nella sua canuta vecchiaia un sol figlioletto, speranza della sua stirpe, sostegno della sua debolezza, e quasi luce della sua cecità. E però, quantunque lo amasse con una svisceratissima tenerezza, era nondimeno sì lungi dal volerlo arricchire per vie men giuste, che udendo un giorno belar in casa un capretto comperatogli dalla madre, cominciò il buon vecchio con alte grida terribili a schiamazzare: ohimè, che sento? un capretto in casa! guardate bene, di grazia, guardate bene ch’egli non sia per ventura scappato qui dalla soglia di alcun vicino; e s’egli è, presto, rendetelo a’ suoi padroni, perché non conviene a noi di mangiare, non conviene a noi di toccare ciò ch’è di altrui. Videte ne forte furtivus sit: feddite eum dominis suis, quia non licet nobis aut edere ex furto aliquid, aut contingere (Tob. II. 21). Anzi, non contento di ciò, tutto quello che poteva mai risparmiare dal quotidiano sostentamento della povera famigliola, tutto veniva ripartito da lui caritatevolmente a persone più bisognose, tutto a’ prigioni, tutto a’ pupilli. Potea parere al giovinetto figliuolo una specie di crudeltà, veder che il padre, già grave di anni, si pigliasse sì poca cura di comporgli un patrimonio, se non fiorito, almeno decente, a potersi poi sostentare. Onde il buon vecchio, quasi che di questo volesse giustificarsi presso il figliuolo, lo chiamò un giorno; e, dopo avergli premessi di molti salutevoli documenti, gli significò lo scarsissimo capitale, ed i sottilissimi censi, che possedevano. Indi con le lagrime agli occhi: non dubitare (soggiunse), figliuol mio caro; bene io veggo quanto sia poco ciò che ti lascio: angustissima abbiamo l’abitazione, meschino il vivere, dispregiato il vestire; ma sappi, figlio, che molto avremo di bene, se non mancheremo d’un timor santo di Dio, e d’un’osservanza esattissima della legge: Noli timere, fili mi: pauperem quidem vitam gerimus, sed multa bona habebimus, si timuerimus Deum(Tob. IV. 23). Così disse il vecchio Tobia. E non credete che, com’egli promise, così seguisse? Non andò molto, che il giovinetto figliuolo incontrò partito sceltissimo di accasarsi, buona dote, onorevole parentela, grossissima eredità. – Ora da questo vorrei che ancor voi pigliaste salutevole esempio, e che con qualche congiuntura opportuna ragionando da solo a’ giovani vostri: miei figli (diceste loro), voi ben vedete quale condizione sia quella di casa nostra. Anch’io potrei, se volessi, procurar di arricchirvi con quelle malvagie industrie, che oggidì sono in uso presso di molti ancora in questa città: potrei tenere anch’io di mano a cambi malsinceri, a censi malsicuri, a fraudi, a doppiezze, a falsificamenti, a litigi, ed a mille altre fallacie nel negoziare. Ma tolga Dio da me tali vizj: io non farei né a prò vostro, né ad util mio. Figliuoli cari, temete Dio, e non dubitate di nulla, perché vivrete sotto buon protettore. Non invidiate a’ cittadini vostri pari, quando vedrete che con biasimevoli acquisti alzino a fronte di casa vostra palazzi assai maggiori di quelli, ne’ quali nacquero, o piantino vicinoa’ vostri poderi ville maggiori doppiamente di quelle che ereditarono; non gl’invidiate di ciò: nolite attendere ad possessiones iniqua (Eccli, V.1), Come il Savio medesimo vi consiglia; ma piuttosto tenete sempre a memoria, che meglio è un piccolo patrimonio ad un giusto, che un grande ad un peccatore: melius est modicum justo super divitias peccatorum multas(Ps. XXXVI. 16). Lasciate pur ch’essi sfoggino per un poco, lasciate che vi soverchino: a Dio toccherà di far un giorno ad ognuno la sua giustizia. Osservate voi la sua legge, rispettatelo, riveritelo; e s’egli non avrà cura di provvedervi, doletevi poi di me. Pauperem quidem vitam gerimus, sed multa bona habebimus, multa bona habebimus, si timuerimus Deum. Tali siano gli avvertimenti che, ad imitazion del giusto Tobia, voi diate ai giovani vostri; e frattanto cominciate un poco a raccorvi in età già grave, a pensare più all’anima che alla casa, più alla coscienza che ai traffichi, più a Dio che al mondo. E se per l’addietro aveste, ch’io già non credo, contaminate le vostre mani d’acquisti poco innocenti, presto, presto, scoteteli presto via, soddisfate ormai tanti poveri mercenarj, pagate spedali, pagate chiese, pagate chiostri, adempite legali pii, e non vogliate ritener più presso di voi, neppur un momento brevissimo, quel danaro che non può se non cagionare a voi dannazione, retare ai vostri esterminio, e, come dice Michea, mantener sempre accesa implacabilmente l’inimicizia divina con casa vostra: ignis in domo impii thesauri iniquitatis ( Mich. VI. 10).

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (13)

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI (13)

R. P. BARTHELEMY FROGET

[Maestro in Teologia Dell’ordine dei fratelli Predicatori]

L’INABITAZIONE DELLO SPIRITO SANTO NELLE ANIME DEI GIUSTI SECONDO LA DOTTRINA DI SAN TOMMASO D’AQUINO

PARIS (VI°) – P. LETHIELLEUX, LIBRAIRE-ÉDITEUR 10, RUE CASSETTE, 1929

Approbation de l’ordre:

fr. MARIE-JOSEPH BELLON, des Fr. Pr. (Maitre en théologie).

Imprimatur:

Fr. Jos. Ambrosius LABORÉ, Ord. Præd. Prior Prov.Lugd.

Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900.

E. THOMAS, V. G.

QUARTA PARTE

SCOPO ED EFFETTI DELLA MISSIONE INVISIBILE DELLO SPIRITO-SANTO E DELLA SUA ABITAZIONE NELLE ANIME.

CAPITOLO V

Effetti dell’Inabitazione dello Spirito-Santo

LE VIRTÙ INFUSE TEOLOGALI E MORALI

I.

Se la beatitudine fosse data solo a titolo d’eredità, non dovremmo preoccuparci di aver cura di meritarla con le nostre opere; basterebbe per ottenerla il possedere, con la grazia santificante e attraverso di essa, il titolo e la qualità di figlio di Dio adottivo. E’ proprio questo il caso dei bambini battezzati, finché non abbiano raggiunto l’età della discrezione. Per gli adulti è diverso, perché, secondo la parola di sant’Agostino, colui che ci ha creati senza di noi non ha ritenuto opportuno giustificarci e salvarci senza di noi. (S. Aug., De Verbis Apost.f serm , XV, cap. XI). – Era, infatti, per lo meno bene opportuno che, dopo essere stato divinizzato e risuscitato con un dono tanto sublime, fino alla partecipazione dell’essere e della vita di Dio, si dia all’uomo la possibilità di agire divinamente, di esercitare le funzioni della sua nuova vita e diventare così collaboratore di Dio e artefice secondario della propria salvezza. Anche il Concilio di Trento, infallibile interprete della verità rivelata, dichiara apertamente che « la vita eterna deve essere offerta ai giustificati, non solo come grazia misericordiosamente promessa dal Signore ai figli di Dio, ma anche come ricompensa per le loro buone opere e per i loro meriti, come corona di giustizia che il Giudice giusto riserva a chiunque abbia legittimamente combattuto (Conc. Trid.\ sess. VI, c. XVI.). » Per questo l’Apostolo san Paolo ci esorta ad abbondare in ogni tipo di azioni sante, con la ferma convinzione che, lungi dall’essere sterili nel Signore, il nostro lavoro debba invece ricevere una magnifica ricompensa. E per stimolare il nostro zelo e scuotere la nostra apatia, ci ricorda che siamo salvati solo nella speranza, spe salvi facti sumus (I Cor. V, 58 – Hebr. X, 35), e che potendo sempre, ahimè, perdere la grazia ricevuta, dobbiamo operare la nostra salvezza con timore e tremore (Rom. VIII,24). Unendo la sua grande voce a quella di san Paolo, il capo del collegio apostolico ci grida: « Cercate, fratelli miei, di assicurare la vostra vocazione e la vostra elezione attraverso buone opere. Così facendo non peccherete e vi concederete un felice ingresso nell’eterno regno del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo » (Fil. II, 12). – Ma per meritare, per produrre degli atti relativi alla nostra elevazione soprannaturale, per poterci muovere verso quell’ordine superiore che ci è stato assegnato dalla misericordia divina e che la natura non è in grado di raggiungere da sola, per agire divinamente, in una parola, abbiamo bisogno di forze, poteri, energie divine, di un aiuto speciale. Dio non ce li ha rifiutati; ce li concede persino con una varietà ed una sovrabbondanza veramente meravigliosa. Allo stesso modo, in effetti, che come nell’ordine  naturale possediamo un insieme di facoltà, intellettuali e sensibili, che derivano dall’essenza dell’anima e costituiscono altrettanti principi prossimi di operazione; così, nell’ordine soprannaturale, riceviamo con l’essere spirituale, tutta una serie di nuovi poteri, che derivano dalla grazia come sue proprietà, e perfezionano, nobilitano, elevano le nostre facoltà al di sopra di se stesse e permettono loro di produrre atti superiori alle forze della natura. (S. Th., Summa Theol., Ia IIæ, q. CX, a. 4, ad X.). Senza dubbio, la grazia attuale sarebbe di rigore sufficiente per questo tipo di operazioni; e, infatti, è attraverso un tale soccorso temporaneo e transitorio che Dio viene in aiuto del peccatore non rigenerato, per consentirgli di compiere gli atti preparatori alla giustificazione. Ma quando la vita soprannaturale ha raggiunto uno stato di perfezione in un’anima, quando le è stata comunicata in modo stabile con il dono della grazia santificante, non è più solo attraverso l’aiuto transitorio che Dio permette che quest’anima possa esercitare le funzioni della sua nuova vita; le infonde principi di attività proporzionati alle operazioni che deve compiere, le dà forza, qualità soprannaturali permanenti – tronchiamo le parole – delle abitudini, che le permettano di esercitare in modo come naturale, connaturaliter, delle opere soprannaturali. Queste abitudini sono le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo. – Questo organismo soprannaturale è stato mirabilmente descritto in una pagina che ci rimprovereremmo di non mettere sotto gli occhi dei nostri lettori. « È qualcosa di ineffabile – dice Msr Gay -che questo irradiamento attivo e benefico di Dio nella creatura che Egli abita….. Soprattutto, Dio irradia ed opera nell’essenza dell’anima. Egli riversa in essa questa grazia radicale che si chiama santificante, e che, essendo sia la condizione che primario effetto della sua presenza soprannaturale, diventa in noi un titolo e come un passaggio ai suoi altri benefici, e libra l’anima intera alle sue operazioni, almeno di diritto, in potenza e in principio. È con questa grazia che la libera, che la rischiara, che la rende nuova, giovane, candida, aperta a tutte le influenze alle quali la sottopone, docile a tutti gli impulsi che gli dà. – È con questa grazia che Egli tiene, per così dire, le radici di quest’anima, e, innestandola su di Lui, le fa bere la sua linfa tre volte santa, e diventa capace di proiettarla in tutte queste magnifiche potenze con cui si estende come l’albero nei suoi rami. Queste forze naturali, così numerose, così varie e già così ammirevoli, sono divinamente perfezionate da questa diffusione interiore, ciascuna secondo il suo ordine, la sua funzione e il suo fine. Tutte ne ricevono delle qualità nuove, superiori, essenzialmente soprannaturali, che sono allo stesso tempo delle dolcezze e delle energie, delle docilità e delle forze, delle trasparenze e dei concentramenti,  rendendo l’anima più passiva sotto la mano di Dio e allo stesso tempo più attiva nel servirlo e nel fare le sue opere. Queste sono innanzitutto quelle virtù sovrane che si chiamano teologali: la fede, la speranza e la carità. L’esperienza ci mostra che la luce solare unica si sfiocca in diversi colori, e prima di tutto in tre colori principali. Sembra che queste tre grandi virtù siano l’immediata espansione della grazia santificante. Poi ci sono le virtù infuse, sia intellettuali che morali. Queste sono i doni dello Spirito Santo che, derivanti dalle tre virtù teologali e dalla loro fonte, permettono all’anima di esercitare divinamente le virtù secondarie e diventare i semi fecondi dei frutti che Dio vuole raccogliere in noi. Senza dubbio l’unico Sacramento della Cresima dà automaticamente l’abbondanza di questi sacri doni; ma il semplice stato di grazia ne implica la presenza nell’anima, e non c’è un solo giusto che non li possieda tutti in questa o quella misura (Mgr Gay: De la vie et des vertus chrétiennes ie r traité) ». Lo stesso bambino, battezzato all’alba della vita e incapace a quest’età di un atto di bene o di male, riceve tuttavia con la grazia, tutta questa serie di virtù soprannaturali, come altrettanti semi che lo Spirito Santo getta nella sua anima, affinché, al primo risveglio della ragione, stiano già lì, pronti ad entrare in esercizio e a dare i loro frutti.

II.

Possiamo già vedere da quanto appena detto, che un quadruplo elemento costituisce la vita soprannaturale dei giusti: la grazia abituale o santificante, le virtù teologali, le virtù morali infuse e i doni dello Spirito Santo. Non sarà fuori luogo dedicare qui alcune pagine ad una breve esposizione della natura, del ruolo e del funzionamento di questi vari elementi. Se lo studio della vita organica e razionale offre al fisiologo e filosofo un’attrazione mediocre, quale forte interesse non dovrebbe avere un Cristiano nel conoscere gli organi, le funzioni ed i fenomeni della vita soprannaturale, in breve, i mezzi usati dallo Spirito Santo per provocare e promuovere la santificazione della sua anima? Diciamo solo una parola sul ruolo della grazia, la cui natura e i cui effetti abbiamo già sufficientemente spiegato sopra. – Per consentire all’uomo di compiere gli atti che devono condurlo alla visione beatifica, termine finale del suo destino, Dio riversa in lui prima di tutto la grazia santificante che svolge nell’ordine soprannaturale il ruolo dell’anima in quello della natura. Allo stesso modo in cui, con la sua unione al corpo, l’anima fa della materia vile e inerte un essere vivente e umano, così la grazia, vera forma di ordine superiore, comunica a chi la riceve un nuovo essere, un essere spirituale e divino, che fa dell’uomo un Cristiano e figlio di Dio (S. Th., De virt. in comm., q. un., a. 10.). E poiché l’essere è la perfezione propria dell’essenza, così come l’operazione è quella delle potenze, la grazia è ricevuta nell’essenza stessa dell’anima che essa rende partecipe della natura divina, mentre le virtù che l’accompagnano hanno come soggetto le varie facoltà umane che elevano e perfezionano aggiungendo alle loro forze native un’energia extra, più alta e più potente. (S. Th, De Verit., q. XXVII, a. 6 ). Nessuno deve stupirsi che, similmente all’anima che non agisce direttamente sulla sua sostanza, ma con l’intermediazione delle sue facoltà, la grazia santificante non opera immediatamente per se stessa, ma con l’intermediazione delle virtù infuse e dei doni che tengono il posto delle potenze. (S. Th., De Verit., q. XXVII, a. 5, ad 17.). È vero, è un principio di vita e di funzionamento, è un principio radicale e lontano, non un principio immediato e vicino; è la radice o il tronco dell’albero, le virtù soprannaturali sono i suoi rami; eppure, come tutti sanno, sono i rami che di solito portano fiori e frutti.  – Abbiamo nominato le virtù soprannaturali e le infuse. Esse si chiamano soprannaturali perché superano la portata e le esigenze della natura; infuse perché, a differenza delle virtù naturali o acquisite, che sono il risultato dell’attività umana e sono acquisite attraverso la ripetizione frequente degli stessi atti (ad rem. Cf. S. Th. Ia- IIæ q. LI, a, 4), esse possono venire solo da Dio, che le provoca in noi senza la nostra effettiva cooperazione, ma non senza il nostro consenso (S. Th., 1a-IIæ, q. LV, a. 4, ad 6.). Sono ancora chiamate virtù cristiane, perché sono appannaggio esclusivo del Cristiano perfetto, cioè del membro vivente di Gesù Cristo; vengono con la grazia, crescono, si sviluppano e scompaiono con essa, tranne la fede e la speranza, che perseverano nel peccatore e sono distrutte solo da una grave colpa in opposizione ad esse. Le virtù infuse vengono quindi impiantate in noi per elevare e trasformare le energie della natura e renderle capaci di meritorie operazioni di vita eterna, così come i rami di una specie più eccellente e nobile vengono innestati su di una selvatica, e la linfa naturale dell’arbusto, passando attraverso l’innesto, viene corretta e purificata al punto da produrre frutti che non sono più come in precedenza amari e selvaggi, ma dolci e squisiti. – Tra le virtù infuse ci sono in primo luogo le tre virtù teologali, così chiamate perché hanno Dio stesso come oggetto, che solo Lui può diffonderle nei cuori, e che alla rivelazione divina dobbiamo la loro conoscenza (S. Th., Ia-IIæ, q. LXII, a. 1). È impossibile mettere in dubbio l’esistenza di queste virtù, di cui san Paolo fa esplicita menzione nella sua prima epistola ai Corinzi: « Ora – egli dice – rimangono queste tre virtù, fede, speranza e carità; ma la più eccellente delle tre è la carità. Nunc autem manent fides, spes, charitas: tria hæc; major autem horum est charitas » (1 Cor.XIII, 13). Il Concilio di Trento non è meno formale. Esso insegna, infatti, che « nella giustificazione l’uomo riceve, con la remissione dei peccati, le tre virtù della fede, della speranza e della carità, infuse nello stesso tempo nella sua anima da Gesù Cristo su cui sono innestate ». Queste prove di autorità diventano ancora più convincenti se consideriamo il fine verso il quale dobbiamo sforzarci e muoverci attraverso i nostri atti. Se questo fine non fosse altro che la beatitudine proporzionata alla natura, le forze naturali, con l’aiuto di Dio, ci basterebbero per raggiungerlo. Ma poiché, nella sua infinita bontà, Dio si è degnato di chiamarci ad un fine soprannaturale, alla partecipazione della sua propria beatitudine, al possesso di beni che superano assolutamente la portata delle nostre facoltà, è di ogni necessità che Egli aggiunga alle nostre forze native altri principi di azione più potenti, energie di natura divina in relazione alla meta da perseguire e raggiungere. Questi principi superiori sono innanzitutto, le tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità, che ci ordinano verso l’ultimo fine, che è Dio (S. Th., Ia-Iiæ, q. LXII, a. 1). Che cosa è necessario, infatti, affinché un essere ragionevole sia in grado di tendere in modo diretto e regolare ad un determinato scopo? Che ne abbia la conoscenza e il desiderio di farlo. La conoscenza: come arrivarci senza di essa? Desiderio: senza il quale gli sarebbe difficile ottenerlo. Ma il desiderio effettivo di un bene presuppone la fiducia che esso possa essere acquisito, perché l’uomo saggio non si mette in moto verso una meta che considera impossibile da raggiungere; poi l’amore, perché si desidera solo ciò che si ama. Da lì, per disporre la nostra anima e renderla capace di muoversi liberamente verso il fine dei suoi destini soprannaturali, nasce la necessità delle virtù teologali: di fede, che ci mostra in Dio, visto e posseduto come è in se stesso, il fine supremo a cui siamo chiamati; la speranza con cui, fiduciosi nell’aiuto che ci è stato promesso, ci aspettiamo dal Padre celeste e la beatitudine eterna, ed i mezzi necessari o utili per raggiungerlo; la carità infine, che ci fa amare al di sopra di tutte le cose, Colui che è la bontà infinita (S. Th., De Virt. In comm., q. un., a. 12). – Queste sono le tre virtù principali che devono dare alla nostra vita la loro vera direzione ed esercitare la loro benefica influenza su tutti i nostri comportamenti: la fede, che il Concilio di Trento chiama « l’inizio della salvezza, fondamento e radice di ogni giustificazione; senza la quale è impossibile piacere a Dio e raggiungere la società dei suoi figli » (Conc. Trid. Sess. VI, c. 8); la speranza, questa solida e ferma ancora che gettiamo nel cielo (Hebr. VI, 19)., affinché né gli uragani, né le tempeste della vita presente possano staccarci da Dio e portare via dal porto la nostra fragile carlinga; la carità, infine, la più nobile ed eccellente delle tre; la carità, questa incomparabile regina che dà alle altre virtù la loro forma e perfezione ultima, facendo convergere i loro atti  verso il proprio oggetto, Dio sommo Bene, e rendendole meritorie della vita eterna.

III.

Per quanto preziose ed eccellenti possano essere le virtù teologali, esse non bastano a regolare da sole tutta la vita del Cristiano; altre virtù devono dare il loro sostegno e la loro assistenza a quest’opera complessa; abbiamo così le nominate virtù morali. Indubbiamente, la prima e più indispensabile condizione di salvezza consiste nell’essere ben ordinati rispetto al fine ultimo; ma questa buona disposizione deve estendersi anche ai mezzi che devono condurci al fine. Inoltre, non è solo verso Dio che abbiamo dei doveri da compiere, ma altri ancora sono a carico nostro verso il prossimo e verso noi stessi. Se, allora, per inclinare la nostra intelligenza ad aderire a Dio come alla prima Verità, se per disporre la nostra volontà a disporsi verso di Lui come oggetto della nostra beatitudine suprema e ad amarlo come bontà infinita, abbiamo bisogno delle virtù teologali, per il fedele, rapido e facile adempimento dei nostri obblighi morali, sono necessarie anche altre virtù: la prudenza, per illuminare e dirigere la nostra condotta, e per insegnarci a discernere ciò che dobbiamo fare e ciò che dobbiamo evitare; la giustizia, per prepararci a rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto; la fortezza, per farci superare le difficoltà incontrate nella pratica del bene; la temperanza, infine, per moderare i piaceri dei sensi e mantenerli entro i giusti limiti. A queste quattro virtù principali, comunemente chiamate cardinali, perché sono come l’asse attorno al quale ruota tutta la nostra vita morale, vi è una moltitudine di virtù secondarie e ausiliarie, che hanno tutte il proprio oggetto e scopo, e contribuiscono, ciascuna nella propria sfera, all’ordine e alla santificazione della nostra esistenza terrena fin nei minimi dettagli. Ma che dire delle virtù morali come la fede, la speranza e la carità? Sono esse divinamente infuse per essere gli organi e gli strumenti della vita soprannaturale, o dovremmo acquisirle con le nostre azioni? Sono un dono dello Spirito Santo o un prodotto della natura? In una parola, dovremmo ammettere come giusto, oltre alle virtù morali naturali che costituiscono l’uomo onesto e che sono acquisite con la ripetizione frequente degli stessi atti, altre virtù simili di ordine superiore –, delle virtù morali cristiane o soprannaturali che Dio produrrebbe direttamente e diffonderebbe nelle anime con la grazia e che sarebbero prerogativa esclusiva dei suoi figli adottivi? Una questione che in passato è stata oggetto di accesi dibattiti ed in cui la diversità di opinioni può ancora avere libero corso. Un certo numero di teologi medievali, considerando da un lato che la l’influenza della carità fosse sufficiente a rendere meritevole della vita eterna degli atti che emanavano da principi naturali, non vedevano la necessità di queste virtù infuse; e, d’altra parte, essi contestavano la loro esistenza come contraria all’esperienza, con il pretesto che dopo la loro giustificazione gli uomini incontravano le stesse difficoltà di prima per il bene. Tuttavia, la caratteristica della virtù è quella di inclinare verso il bene colui che la possiede e di renderla facile da praticare.  Nonostante queste ragioni, più pretestuose che convincenti, la stragrande maggioranza dei dottori ha sempre ritenuto e insegnato come più probabile l’opinione che ammette l’esistenza delle virtù morali infuse. Noi non possiamo, è vero, portare qui a favore di questo sentimento, come abbiamo fatto in precedenza per le virtù teologali, l’autorità del Concilio di Trento, perché esso non fa alcun riferimento alle virtù morali. Ma sarebbe uno strano errore voler argomentare da questo silenzio per combattere un insegnamento comune nella Scuola. Se il Santo Concilio non parla delle virtù morali infuse, la ragione è facile da comprendere; perché per rimanere fedele al suo programma e alla risoluzione presa dall’inizio secondo il principio di concentrare tutti i propri sforzi sulle verità negate dall’eresia e non di dirimere le questioni controverse tra i Cattolici. – E per non fraintendere il suo vero pensiero, il Catechismo ufficiale redatto dai suoi canoni ed approvato dal grande Papa san Pio V elenca, tra gli effetti del battesimo, « il nobilissimo corteggio di tutte le virtù che sono divinamente infuse nell’anima con la grazia: Huic autem additur nobilissimus omnium virtutum comitatus, quæ in animam cum gratia divinitus infunduntur. » (Catech. Conc., part, n, de Baptismo, n. 51). Espressioni certamente singolari, se questa processione consistesse solo delle tre virtù teologali. – Questa non è l’unica occasione in cui la Chiesa ha espresso i suoi sentimenti su questo punto. Già nel XIII secolo, in relazione ad una controversia sugli effetti del Battesimo nei bambini, un tema sul quale i teologi erano divisi in due campi, alcuni sostenendo che la virtù del Sacramento rimette semplicemente ai bambini la colpa originaria, senza conferire loro né la grazia né le virtù infuse, che non consideravano necessarie finché il bambino non fosse stato in grado di compierne gli atti, mentre gli altri essendo di parere contrario, un illustre Pontefice, Innocenzo III, senza commentare il contenuto del dibattito, aveva tuttavia sottolineato che l’affermazione di coloro che sostengono che « né la fede, né la carità, né le altre virtù sono conferite ai bambini, per mancanza di consenso, non è assolutamente accettata dal maggior numero » . Infatti, la maggior parte dei teologi riteneva che l’infusione della grazia e delle virtù fosse un’abitudine, non solo negli adulti, ma anche negli stessi bambini. E di quali virtù si trattava? Delle virtù teologali? Senza dubbio, ma anche delle altre, secondo l’espressione di Innocenzo III. Ora, se le prime fossero state le uniche coinvolte, cosa c’è di più semplice e di più naturale che completare l’enumerazione aggiungendo la speranza, alla fede e alla carità già citata? E perché questo plurale “le altre virtù”, per designarne solo una?

IV.

Un secolo dopo, nel 1312, nel Concilio Ecumenico di Vienne, un altro Pontefice, Clemente V, riprendendo questa stessa questione ancora in discussione tra scotisti e tomisti, questa volta sostenendo chiaramente il sentimento di san Tommaso, e, senza farne una definizione di fede, dichiarava di adottare, con l’approvazione del Concilio, « come più probabile e conforme agli insegnamenti dei Santi e dei teologi moderni, l’opinione secondo la quale la grazia informante e le virtù siano conferite a tutti i battezzati, bambini o adulti » (Clemens V, in Conc. Vienn., De summa Trinit., et Cathol. Fide). Al cospetto di tale autorità, i teologi hanno da allora comunemente accettato l’opinione che ammette l’esistenza delle virtù morali infuse. E la Scrittura, così come la Tradizione, sostengono questa opinione. Le Sante Lettere ci parlano di virtù cardinali che non sono il risultato del lavoro umano, ma il frutto della sapienza divina. « Perché è essa che insegna la temperanza, la prudenza, la giustizia e la forza, cioè ciò che è la cosa più utile in questa vita » (Sap. VIII,7). Anche sant’Agostino dichiara che « ci sono quattro virtù che devono dirigere la nostra vita, secondo la dottrina dei savi e gli insegnamenti della Scrittura. La prima si chiama prudenza; essa ci fa distinguere tra bene e male. La seconda è la giustizia, con la quale restituiamo a tutti ciò che appartiene loro. La terza è la temperanza, attraverso la quale freniamo le nostre passioni. La  quarta è la fortezza, che ci permette di sopportare tutto ciò che è doloroso. Queste virtù ci sono date da Dio con grazia in questa valle di lacrime: Iste virtutes nunc in convalle plorationis per gratiam Dei dantur nobis » (S. Agost. in Ps. LXXXIII). – A sostegno di questa dottrina, San Tommaso fornisce una ragione teologica di grande importanza. E’ necessario – egli dice – che gli effetti corrispondano e siano proporzionati alle loro cause o principi. Tuttavia, tutte le virtù, sia intellettuali che morali, che possiamo acquisire attraverso le nostre azioni, derivano da certi principi depositati nel profondo del nostro essere, da certi germi naturali di cui sono la realizzazione. In luogo ed al posto di questi principi, Dio ci conferisce, nell’ordine della grazia, le virtù teologali, che ci ordinano verso il nostro fine soprannaturale. È quindi necessario, perché ci sia armonia nel piano divino, che queste virtù teologali divinamente infuse corrispondano ad altre abitudini soprannaturali, della stessa origine e dello stesso ordine, che mirino a soprannaturalizzare la nostra vita morale e a rendere i suoi atti meritevoli della vita eterna; abitudini che siano alle virtù teologali ciò che le virtù umane, intellettuali o morali sono ai principi naturali da cui derivano (S. Th., Ia-IIæ, q. LXIII,  a. 3). Infatti, non lo si deve nascondere, le virtù acquisite non sono proporzionate alle virtù  teologali: non sunt proportionatæ virtutibus theologicis » (Idem. ad. 1); derivate da principi naturali, non possono estendere la loro attività oltre i limiti della natura. Senza dubbio, operando sotto l’influenza e l’impero della carità, possono compiere opere meritorie; ma tutto il valore di queste opere deriva in definitiva dal principio che le ispira, e l’atto che emana da una virtù naturale rimane intrinsecamente un atto naturale, senza proporzione di per sé con la ricompensa celeste. – Il Cristiano può quindi possedere due tipi di virtù morali, specificamente diverse, alcune naturali ed acquisite, altre soprannaturali ed infuse: prudenza naturale e prudenza infusa, giustizia naturale e giustizia infusa, ecc. che hanno lo stesso oggetto materiale, ma si differenziano non solo per la loro origine e modalità di crescita, ma anche per il loro oggetto formale e per la loro regola. – Così, mentre la temperanza naturale ci mantiene, nell’uso del cibo, una giusta misura fissata dalla ragione e consistente nell’evitare ogni eccesso capace di nuocere alla salute del corpo o di ostacolare le operazioni intellettive, la temperanza infusa o cristiana, elevandoci più in alto, ci inclina, sotto la direzione della fede, a punire il nostro corpo e ridurlo alla servitù con digiuni, astinenze, veglie e altre mortificazioni; e lo stesso vale per le altre virtù morali, a seconda che siano un prodotto della natura o un dono di Dio. Alcuni possono incontrarsi pure nel peccatore, altri sono privilegio esclusivo dei giusti. Ma allora, da dove possono venire le difficoltà e le ripugnanze nella pratica di certe virtù degli uomini giustificati, e chi dovrebbe quindi possederle tutte? Perché finalmente il miglior marchio, il segno più autentico della presenza di un’abitudine, è la facilità e il piacere che proviamo nel farne gli atti. – Anche san Tommaso, dal quale abbiamo preso in prestito l’obiezione, ce ne fornirà la risposta. « Non è raro – egli dice – trovare qualcuno con un’abitudine intellettuale o morale e che tuttavia abbia difficoltà a compierne gli atti, e non prova né piacere né soddisfazione a causa di alcuni ostacoli estrinseci che si pongono di traverso. Così, uno scienziato incontra a volte una vera difficoltà ad affrontare la scienza che ha acquisito, quando il sonno o qualche altra indisposizione ostacola l’esercizio delle sue facoltà. Allo stesso modo, chi possiede le virtù morali infuse può occasionalmente sperimentare qualche difficoltà nella pratica delle buone opere, come risultato di una cattiva inclinazione precedentemente contratta e che queste virtù non hanno fatto scomparire, perché non sono direttamente opposte ad essa. Lo stesso non si può dire delle virtù acquisite; per gli atti che le generano, rinnovandosi frequentemente, distruggono di per se stesse le disposizioni contrarie ». (S. Th., 1a -IIæ. q. LXV, a. 3, ad 2). – Aggiungiamo, per completezza, che non è universalmente vero che il peccatore giustificato senta, dopo una sincera e generosa conversione, la stessa ripugnanza per il bene come prima.  Quante difficoltà, che all’inizio sembravano insormontabili, vengono improvvisamente superate dall’azione della grazia e scompaiono come per incanto! Ne è testimone S. Agostino che racconta di se stesso: « all’improvviso  mi sembrava dolce il rinunciare alle dolcezze dei vani divertimenti! Io avevo timore di perderli, mentre ora la mia gioia era di lasciarli. Perché li cacciavate lontano da me queste dolcezze, Voi, la vera e sovrana dolcezza; Voi li allontanate ed entrate al loro posto, Voi che siete più dolce di ogni voluttà, ma di una dolcezza sconosciuta alla carne e al sangue … Già l’anima mia era libera dalle cocenti cure che eccitavano in me l’ambizione, la cupidigia, l’amore delle grossolane voluttà; e il mio piacere era di parlare con Voi, Signore mio Dio, che ora eravate oramai la mia gloria, le mie ricchezze e la mia salvezza » (S. Agost. Con. L. IX, c. I).

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