QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum
Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.
La Chiesa, che, dal principio del ciclo
di Pasqua ha seguito Gesù nel suo ministero apostolico, durante il Tempo
della Passione, contempla, in lutto, i dolorosi avvenimenti che segnarono
l’ultimo anno (Settimana di Passione) e l’ultima settimana (Settimana Santa)
della vita mortale del Redentore. L’odio dei nemici del Messia si accresce di
giorno in giorno, fino a culminare, nel giorno del Venerdì Santo col più
orribile dei delitti, col dramma cruento del Golgota, annunciato dai
profeti e da. Gesù stesso. Cosi la liturgia, mettendo a confronto il Vecchio ed
il Nuovo Testamento, stabilisce un parallelo impressionante tra le parole di S.
Paolo e degli Evangelisti a proposito della Passione, e le profezie così chiare
di Geremia, di Isaia, di Davide, di Giona e di Daniele. Via via che il
fatale scioglimento si avvicina, gli accenti di dolore della Chiesa, si fanno
più commossi e ben presto noi sentiremo i suoi lamenti per lo Sposo che non è
più. « Il Cielo della Santa Chiesa si oscura sempre più », scrive Don Guéranger.
Come in un giorno di temporale, si vedono accumularsi all’orizzonte nubi
sinistre, cariche di tempesta. La folgore della Giustizia divina sta per cadere
ed essa colpirà il Salvatore che per amore verso il suo Padre e verso di noi si
è fatto uomo. In virtù della solidarietà misteriosa che esiste fra tutti i
membri della grande famiglia umana, questo Dio fatto uomo si sostituisce ai
suoi fratelli colpevoli. « Egli si riveste dei nostri peccati », dice il
Profeta, « come di un mantello, e si fa peccatore per noi (II Cor. V, 21) per
poterlo portare nella sua carne sulla Croce (I Piet. II, 24) e di struggerlo con
la sua morte ». Nell’orto del Getsemani, i peccati di tutti i secoli e di tutte
le anime, affluiscono orribili, ripugnanti, in onde fangose, nell’anima rarissima
di Gesù che viene così « il ricettacolo di tutto il fango umano e il rifiuto
della creazione ». Così il Padre, facendo violenza all’amore per il Figlio,
deve trattarlo come un essere maledetto, poiché è scritto: « Sia maledetto
chiunque è appeso al legno » (Gal. II, 13). Per la nostra salvezza, bisognava
veramente » che Gesù « fosse appeso al legno della Croce affinché la vita ci
fosse resa da chi si aveva dato la morte e che colui che aveva trionfato
della Croce, fosse a sua volta vinto dalla Croce » [Prefazio
della croce – Così è segnato il principio di opposizione che fa dire allo
Spirito Santo: «Considera tutte le opere dell’Altissimo: esse a due a due, l’una
di fronte all’altra». Di fronte al male sta il bene, di fronte alla morte sta
la vita: così di fronte al peccatore sta il giusto (Eccles., XXXIII,
15). Poiché — dice San Paolo — da un uomo è venuta la morte, da un uomo pure
deve venire la risurrezione da morte. E , come in Adamo, tutti muoiono, così
pure in Cristo tutti saranno vivificati ( I Cor., XV, 21). E la liturgia
nota che siccome i nostri progenitori sono stati ingannati da satana, bisognava
che «uno stratagemma divino sventasse l’artificio del serpente» (Inno mattutino
della Domenica di Passione). San Bernardo lo spiega dicendo che, « poiché Gesù
non aveva che l’apparenza del peccato, fu appunto quest’apparenza a mascherare
la trappola in cui satana cadde ». E S. Agostino: « Per un giusto permesso di
Dio, Lucifero perdette il diritto di morte che aveva sui peccatori, il giorno
in cui egli fu abbastanza temerario da usarlo contro il Giusto]. Si tratta di
una lotta senza l’uguale tra il principe della vita e quello della morte (Seq. di
Pasqua) ma « immolandosi, Cristo trionfa » (Pange lingua). La Domenica delle
Palme infatti, Egli si avanza come un conquistatore, sicuro di sé, acclamato e
cinto di palme e di alloro « segni della vittoria che doveva riportare » (Oraz.
della benediz. delle palme). « Gioisci, figlia di Sion, poiché il tuo Re viene
a te », dice Zaccaria, e la folla stende le sue vesti sotto i piedi di Gesù,
come si faceva per i Re, e grida: « Benedetto colui che viene nel nome del
Signore, il Re d’Israele» (Giov. XXII, 13). Gesù entra nella capitale
Gerusalemme, sale sul trono prezioso che il suo sangue « orna della porpora
regale » (Vexilla Regis) e in alto del quale Giudei e Romani scrivono nelle tre
lingue allora in uso: il suo titolo glorioso « Gesù di Nazareth, Re dei Giudei
». L’oracolo di Davide si è compiuto « Dio ha regnato dalla Croce » che, da
oggetto d’ignominia, diventa «il vessillo del re » e « la nostra sola speranza in questo tempo di
Passione ».
« Noi ci prostriamo davanti alla Croce
poiché è per Essa che è venuta la gioia in tutto il mondo » (Ador. della croce
il ven. santo). E per ben dimostrare che è da questo punto di vista che la
Chiesa considera Gesù in Croce, gli artisti cristiani un tempo cambiavano la
corona di spine in una corona araldica e reale. I Concilii ordinavano che si
amministrassero i sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Eucaristia ai
catecumeni e che si desse l’assoluzione sacramentale ai penitenti pubblici,
alla fine della Quaresima, quando cioè, la Chiesa celebra il ricordo della morte
e del trionfo di Gesù. I catecumeni venivano cosi « sepolti con Gesù per il
Battesimo, per resuscitare poi con Lui a vita nuova» (Rom. VI, 4). A questo
modo, i Tempi di Passione, rappresentando per tutti i Cristiani
l’anniversario di questi benefici ricordavano loro che la morte e la
risurrezione di Cristo, che erano state la causa efficiente e l’esempio della
loro morte al peccato e della loro risurrezione spirituale, dovevano continuare
ad esserlo soprattutto in questa parte dell’anno.
Queste feste non sono dunque un
semplice ricordo storico riferentesi alla sola persona di Gesù; esse devono
essere, per l’unione della fede e dell’amore che suscitano nelle anime, una realtà
per tutto il corpo mistico di Gesù. Per esse il dramma del Golgota si
estende dunque atutto il mondo e con Cristo suo Capo, la Chiesa riporta
ogni anno,all’epoca delle solennità di Pasqua, una nuova vittoria su
Satana. Il Tempo della Passione, per la sua connessione intima col Tempo
di Pasqua, ha dunque lo scopo di rinnovare in noi lo spirito delBattesimo
nel quale la nostra anima è stata lavata nel sangue diGesù, e quello
della nostra prima Comunione colla quale l’animanostra si è dissetata
di questo stesso sangue. Colla Confessione ela Comunione Pasquale,
residui della disciplina penitenziale ebattesimale di un tempo, questo
Tempo liturgico ci fa morire e risuscitare sempre più con Cristo.
II.
— Commento storico.
Il Tempo di Passione, che ricorda le
sofferenze di Gesù, sì riporta specialmente all’ultimo anno del suo ministero,
poiché fu allora soprattutto che l’odio, ogni giorno crescente, dei suoi nemici
si manifestò in modo più tangibile e culminò nel dramma che la Chiesa celebra
durante la cosi detta Settimana Maggiore O Settimana Santa durante la quale
Essa segue il Maestro giorno per giorno.
Secondo anno. – Dopo aver guarito il figlio della vedova di Naim, Gesù assolve quella
eccatrice, la quale non ebbe timore di venire a gettarsiai suoi èiedi, mentre
Egli era a tavola a casa di Simone il fariseo. L’avarizia di Giuda fa prevedere
il suo delitto (Giov. di passione).
Terzo anno. — Dopo la Trasfigurazione, Gesù andò a Cafarnao, poi a Gerusalemme per la festa dei Tabernacoli (Mart. di passione). Egli disse di essere la fontana di acqua viva che disseta le anime, ed annunciò la Sua prossima fine. Il giorno dopo queste feste, Egli dette ai Giudei le prove della Sua divinità, ma essi tentarono di lapidario. (Dom. Pass.). Tornato in Galilea, andò nuovamente a Gerusalemme per celebrarvi, durante l’inverno, la festa dell’Anniversario della Dedicazione del Tempio. I Giudei volevano ancora lapidarlo: non era egli forse un bestemmiatore Colui che pretendeva di essere una sola natura col Padre Celeste? (Merc. Pass.) Poi, essendo andato in Perea, Gesù fu chiamato a Betània, dove risuscitò Lazzaro. Questo prodigio gli procurò tanta rinomanza che i
Giudei, non potendo contenere più a lungo la loro gelosia, stabilirono di farlo
morire. Gesù si rifugiò ad Ephrem (Ven. Pass.). Sei giorni avanti la Pasqua, Egli
ritornò a Betania, dove Maria sparse il profumo sui suoi piedi (Lun. santo).
Settimana Santa. — Il giorno dopo, Gesù fece l’ingresso trionfale a Gerusalemme (Vang. della benediz. delle Palme). Lasciò la città quella sera stessa per tornarvi il giorno seguente, il Lunedi Santo, giorno nel quale Egli s’intrattenne con i Giudei nel Tempio (Sabato di Passione). Il Martedì Santo andò di sera, verso il Monte degli Ulivi e predisse agli Apostoli la sua Passione prossima. Non ritornò a Gerusalemme che il Giovedì sera per l’ultima Cena (Giov. santo) e fu crocefisso il giorno dopo alle porte della città, sul Monte Calvario. Nello stesso giorno fu deposto nel sepolcro e ne usci glorioso, il mattino della Domenica seguente.
III.
— Commento Liturgico.
Il Tempo di Settuagesima è una
preparazione remota alla festa di Pasqua, il Tempo di Quaresima è una
preparazione prossima e le due ultime settimane di Quaresima, che portano il
nome di « Tempodi Passione », sono una preparazione immediata. Le
feste e le cerimonie dell’ultima settimana, detta Settimana Santa o Settimana
Maggiore, hanno origine dalla Chiesa di Gerusalemme. Col Vangelo alla mano, i
Cristiani seguivano passo passo il Salvatore, venerando sul posto i preziosi
ricordi degli avvenimenti solenni coi quali si era compiuta la Sua vita
mortale. Roma adottò questa Liturgia dapprima locale e sistemò le sue Chiese in
modo da poter celebrare gli Uffizi della Settimana Santa, come si facevano a
Gerusalemme. Per una quindicina di giorni la Chiesa sopprime il Salmo il «Judica me » e il « Gloria
Patri » che non si trovano nella liturgia antica. Essa copre pure di veli
violetti le sante immagini. Senza dubbio, la devozione ai Santi si oscura
davanti al grande avvenimento della Redenzione, ma, se si pensa che il
Crocifisso stesso è velato, si vedrà in quest’uso un vestigio della tenda che,
un tempo, veniva tesa durante tutta la Quaresima, tra la navata e l’altar
maggiore. Nei tempi antichi, i penitenti pubblici che erano stati espulsi dalla
Chiesa, non potevano rientrarvi che il Giovedì Santo. Dopo la soppressione di
questa cerimonia, tutti i Cristiani furono più o meno assimilati ai penitenti
pubblici e pur non pronunciando contro di essi la pena di espulsione, si
nascose loro l’altar maggiore e tutto quello che vi si trovava, per mostrar
loro che essi non meritavano di prender parte al culto eucaristico con la
Comunione Pasquale che dopo aver fatta la debita penitenza.
Alcuni autori credono che questo velo
avesse per scopo di nascondere la Croce, che nei tempi, antichi non aveva su di
essa il Cristo, masplendeva di pietre preziose. Era quindi necessario
togliere aglisguardi questo segno di Trionfo fino al Venerdì Santo,
quando Gesù riportò la sua vittoria sulla croce, che si espone allora alla adorazione
dei fedeli. Spogliando gli altari e facendo tacere le campane il Giovedì, il
Venerdì e il Sabato della Settimana Santa la Chiesa mostra la tristezza che
prova al ricordo delia morte del suo Sposo divino.
La preghiera a Dio, praticata oggi, è quanto di più blasfemo e sacrilego si possa immaginare, ed è particolarmente questo un segno distintivo del Novus Ordo degli apostati usurpanti modernisti. Ognuno, magari in buona fede, e nella totale ignoranza delle disposizioni ecclesiastiche, che sono espressioni della volontà divina, si sente in diritto di comporre preghiere fantasiose e melodie pseudo liturgiche, modellate su motivetti alla moda accompagnati da strumentacci elettronici che definire cacofonici, sarebbe un ignobile ed eufemistico complimento. Si compongono melodie sdolcinate, testi ammiccanti a capricciose passionalità, ritmate su tempi da discoteche o dancing … un vero affronto alla sacralità dei luoghi e delle funzioni nelle quali non c’è più ritegno alcuno nello scimmiottare satanismi e diavolerie varie. Eppure la preghiera liturgica, o in comune per le pubbliche calamità, è preghiera che deve rispondere a precisi criteri che solo la Chiesa può stabilire. Tutto ciò che esula da questo controllo o da regole di fede ben determinate, è solo sacrilegio e blasfemia, superstizione ed idolatria nel migliore dei casi, e quindi offesa diretta a Dio. È quello che leggiamo in questa lettera enciclica di un Santo Padre particolarmente edotto nelle pratiche liturgiche, come S. S. Benedetto XIV: « … spetta unicamente all’Autorità Ecclesiastica stabilire e prescrivere quelle preci, in quanto a nessun potere secolare è consentito decidere e stabilire per legge che si innalzino pubbliche preghiere, sia per rendere grazie a Dio per qualche beneficio ricevuto, sia per implorare il Suo aiuto in un momento di grave difficoltà » – « … il Sacro Concilio Tridentino ha diffidato dall’accogliere nella celebrazione delle Messe, preghiere “…. che non siano quelle approvate dalla Chiesa e che non siano state accolte per assidua e lodevole consuetudine” …. Basterebbe solo questa citazione per comprendere che l’attuale setta del Novus Ordo, guidata truffaldinamente dal “Gatto e la Volpe”, è la vera sinagoga di satana delle profezie dei sacri Testi biblici, la setta dalla quale viene l’anticristo, che travestito da angelo di luce, si spaccerà e si farà adorare come Dio … ma non usiamo il futuro, perché il signore dell’universo è già messo sugli altari del Novus Ordo ed adorato con l’offerta del Corpo e Sangue di Cristo, come nelle infernali agapi rosacrociane. Anche le preghiere fatte da chi si spaccia per autorità ecclesiastica senza esserlo canonicamente, sono sacrilegi orrendi ed attirano maledizioni tremende, come già Malachia ci ha avvertito nei suoi scritti: et maledicam benedictionibus vestris, et maledicam illis…
In attesa dell’intervento del Cristo, che con il soffio della sua bocca brucerà l’anticristo ed i suoi adepti del Novus Ordo e satelliti, leggiamo la lettera odierna:
S. S. Benedetto XIV
Quemadmodum preces
Come è sommamente giusto innalzare
preghiere a Dio in favore dei Principi, così conviene che le formule delle
stesse preci siano conformi a quelle che la Chiesa ha adottato; soprattutto poi
se tali preghiere sono da recitare durante la celebrazione delle Messe. Inoltre spetta unicamente
all’Autorità Ecclesiastica stabilire e prescrivere quelle preci, in quanto a
nessun potere secolare è consentito decidere e stabilire per legge che si
innalzino pubbliche preghiere, sia per rendere grazie a Dio per qualche
beneficio ricevuto, sia per implorare il Suo aiuto in un momento di grave
difficoltà.
1. Come Voi ben sapete, San Paolo, nella
prima [lettera] a Timoteo, cap. 2, così si esprime: “Chiedo, domando,
invoco, anzitutto, che le pubbliche preghiere, le orazioni, le suppliche, le
azioni generose siano rivolte a pro di tutti gli uomini, a pro dei Sovrani e di
tutti coloro che stanno ai vertici del potere” (1Tm 2,1-2). Che se poi
è consentito a questo punto indicare la prassi che la Chiesa primeva seguiva
nelle orazioni e nelle preci per offrire i Principi a Dio, hanno potuto
renderla abbastanza manifesta la lettera di San Dionigi, Vescovo Alessandrino,
al Governatore Emiliano; Tertulliano nel libro Ad Scapulam e nell’Apologetico;
San Cipriano nell’Epistola a Demetriano;Origene nella Risposta
a Celso e Atenagora nella sua ambasceria presso gl’Imperatori, in favore
dei Cristiani.
2. Essi, invero, per molti versi sono d’accordo circa il modo di professare la propria fede e di pregare. Parimenti nelle celeberrime addizioni della lettera di San Celestino ai Vescovi della Gallia, cap. 11, si legge: “Rivolgiamo l’attenzione anche ai vincoli delle preghiere sacerdotali… affinché la legge della preghiera sancisca la legge della fede“.Da qui deriva che occorre adottare nelle pubbliche preghiere le formule prescritte dalla Chiesa, soprattutto se si tratta di orazioni che devono essere recitate nella Messa, come si è detto. Quindi anche il Sacro Concilio Tridentino ha diffidato dall’accogliere nella celebrazione delle Messe, preghiere “che non siano quelle approvate dalla Chiesa e che non siano state accolte per assidua e lodevole consuetudine“. Perciò nel Messale Romano esistono quasi per ogni circostanza, pie e devote orazioni, desunte opportunamente dagli antichi e venerabili testi sacri.
3. Per la verità, non pensiamo di
procedere troppo oltre; anzi Noi crediamo di mantenerci sicuramente entro i
giusti limiti della Nostra Autorità, quando sosteniamo che solo alla Potestà Ecclesiastica
e non già a quella secolare compete la facoltà di regolare le questioni
Ecclesiastiche e spirituali. Quel grande Osio, Vescovo di Cordova, in una
lettera relativa a coloro che conducevano vita solitaria presso Sant’Atanasio,
così scrisse all’Imperatore Costanzo circa la libertà ecclesiastica: “Non
intrometterti nelle questioni ecclesiastiche né dettar legge a Noi in questa materia,
ma piuttosto apprendila da Noi. A Te Dio affidò l’Impero, a Noi affidò tutto
ciò che appartiene alla Chiesa… Evita di renderti colpevole di grave delitto,
avocando a Te ciò che compete alla Chiesa. Sta scritto: A Cesare ciò che è di
Cesare; a Dio ciò che è di Dio“.
4. Riferendoci poi a tempi più vicini e
al fatto che diede occasione a questa Nostra lettera, affermiamo che lo stesso
tribunale laico aveva abrogato e stracciato i Decreti di un certo magistrato
con i quali erano state indette pubbliche preghiere per i Principi: esso aveva
reso noto che tali Decreti erano destituiti d’ogni autorità e di ogni forza
legale. Non molti anni addietro la Sacra Congregazione del Concilio, con il
consenso dei Nostri Predecessori, pubblicamente revocò e rese inoperante un
Editto del potere secolare con cui esso, in seguito a una vittoria conseguita dal
Principe, aveva indetto un Te Deum
laudamus di ringraziamento, sebbene avesse assicurato di non voler
violare il diritto ecclesiastico, mentre senza dubbio, la stessa assicurazione
veniva di fatto smentita.
5. Affinché dunque si proceda
rigorosamente con equità e rettitudine, Vi ammoniamo e Vi esortiamo perché sia
Voi, sia altri per opera Vostra, preghiate con insistenza Dio per l’incolumità
e la felicità dei vostri Principi, come anche Noi facciamo ogni giorno per i
Principi cattolici. – Accogliete con animo sereno e lieto tutto ciò che i
poteri secolari vi chiedono perché si recitino pubbliche preghiere per loro, e
fate in modo che in esse si usi la liturgia della Chiesa e che non si recitino
nella Messa nuove e inusitate orazioni.
6. Se invece (ma stentiamo a crederlo)
qualche potere laicale, in forza di qualche usanza o consuetudine (che in
realtà deve essere definita abuso), presume di non riconoscere per nulla la
Vostra autorità, ma con atto arbitrario pretende d’indire pubbliche preghiere e
anzi osa stabilire anche una pena per chi protesta, allora parlerete anche Voi
come Osio parlò all’Imperatore. Usate argomenti che forse sono ignorati da chi
è in errore. Spiegate ad essi che non è questo il modo di pregare Dio e di
realizzare i propri voti; spiegate che essi devono rifugiarsi in Voi in quanto
Voi, sebbene scelti fra gli uomini, tuttavia, a tutto vantaggio degli uomini,
siete posti fra coloro che appartengono a Dio come dice l’Apostolo agli Ebrei;
spiegate che all’infuori di Voi nessuno può intraprendere un’opera di tal fatta
e assumere su di sé questo onore ma solo chi è chiamato da Dio come Aronne.
7. Che se poi alle vostre parole non si
presta fede, né Voi giudicate che sia opportuno procedere verso di essi
conforme ai dettami della disciplina ecclesiastica, a Voi tassativamente
prescriviamo di renderci quanto prima edotti su tali questioni, anche
trasmettendo nelle Nostre mani l’opportuna documentazione: Noi siamo infatti
pronti a compiere tutti quegli atti che i Nostri insigni Predecessori erano
soliti affrontare in analoghe circostanze. Non vogliamo infatti, una volta
chiamati davanti al supremo tribunale di Dio, essere accusati d’aver negletto i
diritti della Santa Sede. Frattanto Vi abbracciamo con paterno amore e Vi
impartiamo l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso Santa Maria
Maggiore, il 23 marzo 1743, nell’anno terzo del Nostro Pontificato.
Semidoppio, Dom. privit. di I cl. •
Pagamenti violacei.
« Noi non ignoriamo, dice S. Leone, che il mistero pasquale occupa il primo posto fra tutte le solennità religiose. Durante tutto l’anno, col cercare di migliorarci sempre più, noi ci disponiamo a celebrare questa solennità in maniera degna e conveniente, ma questi ultimi e grandissimi giorni esigono ancor più la nostra devozione, poiché sappiamo che essi sono vicinissimi al giorno in cui celebriamo « il mistero cosi sublime della misericordia divina » (II Notturno). Questo mistero è quello della Passione del Salvatore di cui è ormai prossimo l’anniversario. Pontefice e mediatore del Nuovo Testamento, Gesù salirà ben presto sulla Croce e presenterà al Padre, il sangue, che Egli verserà entrando nel vero Sancta Sanctorum che è il Cielo (Ep.). « Ecco, canta la Chiesa, brilla il mistero della Croce, dove la Vita ha subito la morte e con la Sua morte ci ha reso la vita » (Inno dei Vespri). E l’Eucaristia è frutto dell’amore immenso di un Dio per gli uomini, poiché istituendola, Gesù ha detto: « Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi. Questo è il calice della nuova alleanza nel sangue mio. Fate questo in memoria di me » (Com.). Cosa fecero gli uomini in risposta a tutte queste bontà divine? « I suoi non lo ricevettero » dice S. Giovanni, parlando dell’accoglienza fatta a Gesù dai Giudei: » Gli fu reso il male per il bene » (4 Ant. della Laudi) e gli furono riservati solamente gli oltraggi « Voi mi disonorate » dirà loro Gesù ». Il Vangelo ci mostra in fatti l’odio sempre crescente del Sinedrio, Abramo, [Dopo la festa dei Tabernacoli che ebbe luogo il terzo anno del suo ministero pubblico, Gesù pronunciò nel Tempio le parole del Vangelo d’oggi. Una parte dell’atrio era stata trasformata in deposito Perché il Tempio non era ancora interamente ricostruito. I Giudei vi raccolsero delle pietre per lapidare Gesù che si nascose ai loro sguardi, la sua ora non essendo ancora, venuta.] il padre del popolo di Dio, aveva fermamente creduto alle promesse divine che gli annunciavano Cristo futuro, e nel Limbo la sua anima che, avendo avuto fede in Gesù, non è stata colpita da morte eterna, si è rallegrata nel vedere il realizzarsi di queste promesse, con la venuta del Salvatore. I Giudei che avrebbero dovuto riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, più grande di Abramo e dei profeti perché eterno, misconobbero il senso delle sue parole e, dopo averlo insultato trattandolo da invaso dal demonio e bestemmiatore, lo vollero lapidare (Vang.). « Non temere davanti ad essi, gli dice Dio in persona di Geremia, poiché io farò che tu non tema i loro volti. Poiché oggi Io ti ho reso come una città fortificata, come una colonna di ferro, come un muro di bronzo contro i re di Giuda, i suoi principi, i suoi sacerdoti ed il suo popolo. Essi combatteranno contro te, ma non prevarranno: perché io sono con te, dice il Signore, per liberarti (I Notturno). « Io non cerco la mia gloria, dice Gesù; vi è qualcuno che la cerca e giudica» (Vang.). E per bocca del salmista, Egli continua: « Giudicami, Signore, e discerni la mia causa da quella della gente empia: liberami dall’uomo iniquo ed ingannatore». Questo popolo «bugiardo» (Vang.) afferma Gesù, è il popolo Giudeo. « Liberami dai miei nemici, continua il Salmista; mi strapperai dalle mani dell’uomo iniquo » (Grad.). « Il Signore è giusto. Egli decapiterà i peccatori » (Tratto). Dio infatti, non permise agli uomini di mettere la mano su Gesù prima che la sua ora fosse giunta (Vang.) e quando l’ora dell’immolazione fu suonata, Egli strappò il Suo figlio dalle mani dei malvagi, risuscitandolo. Questa morte e questa resurrezione erano state annunciate dai Profeti ed Isacco ne era stato il simbolo, allorché, mentre per ordine di Dio, stava per essere immolato da Abramo, suo padre, fu salvato da Dio stesso e sostituito da un ariete, che rappresentava l’Agnello di Dio sacrificato per il genere umano. . Gesù doveva dunque nel Suo primo avvento essere umiliato e soffrire; soltanto dopo Egli apparirà in tutta la Sua potenza: ma i Giudei, accecati dalle passioni, non ammisero che una sola venuta: quella che deve prodursi nella gloria e, scandalizzati dalla Croce di Gesù, lo respinsero. Per questo motivo, Dio li respinse a sua volta, mentre accolse con benevolenza coloro che hanno poste le loro speranze nella redenzione di Gesù, ed uniscono le loro sofferenze alle Sue. « Giustamente e per ispirazione dello Spirito Santo, dice S. Leone, i SS. Apostoli hanno ordinato digiuni più austeri durante questi giorni; affinché, con una comune partecipazione alla Croce di Cristo, noi pure facciamo qualche cosa che ci unisca a quello che Egli ha fatto per noi. Come dice l’Apostolo S. Paolo: « Se soffriamo con Lui, saremo anche glorificati con Lui ». Certa e sicura è l’attesa della promessa beatitudine là dove vi è partecipazione alla passione del Signore (IV Lezione). — La Stazione si tiene nella Basilica di S. Pietro, innalzata sull’area dove prima sorgeva il Circo di Nerone, dove il Principe degli Apostoli morì, come il suo Maestro, sopra una Croce. – In ricordo della Passione di Gesù, di cui si avvicina l’anniversario, pensiamo che, per risentirne gli effetti benefici, bisogna, come il Divin Maestro, saper soffrire persecuzioni per la giustizia, e quando, membri della «famiglia di Dio », siamo perseguitati con e come Gesù Cristo, chiediamo a Dio che « custodisca i nostri corpi e le nostre anime » (Or.).
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
# # #
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps XLII: 1-2.
Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine
iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da
gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio
Dio e la mia forza].
Ps XLII:3
Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me de duxérunt et adduxérunt
in montem sanctum tuum et in tabernácula tua. [Manda
la tua luce e la tua verità: esse mi guídino al tuo santo monte e ai tuoi
tabernàcoli.]
Júdica me, Deus, et discérne
causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu
es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la
mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu
sei il mio Dio e la mia forza].
Oratio
Orémus.
Quæsumus, omnípotens Deus,
familiam tuam propítius réspice: ut, te largiénte, regátur in córpore; et, te
servánte, custodiátur in mente. [Te ne preghiamo, o Dio onnipotente,
guarda propízio alla tua famiglia, affinché per bontà tua sia ben guidata
quanto al corpo, e per grazia tua sia ben custodita quanto all’ànima.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli
Apóstoli ad Hebræos.
Hebr IX: 11-15
Fatres: Christus assístens
Pontifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non
manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut
vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna
redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum, et cinis vítulæ
aspérsus, inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis
Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit
consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ideo
novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum
prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui
vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.
OMELIA I
[A. Castellazzi:
Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]
GESÙ CRISTO
SACERDOTE
“Fratelli: Cristo, essendo venuto come pontefice
dei beni futuri, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto, non fatto
da mano d’uomo, cioè non appartenente a questo mondo creato, e mediante non il
sangue di capri e di vitelli, ma mediante il proprio sangue, entrò una volta
per sempre nel santuario, avendo procurato una redenzione eterna. Poiché se il
sangue dei capri e dei tori e l’aspersione con cenere di giovenca santifica gli
immondi rispetto alla mondezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, il
quale, mediante lo Spirito Santo, ha offerto se stesso immacolato a Dio,
monderà la nostra coscienza dalle opere morte, perché serviamo al Dio vivente?
E per questo Egli è il mediatore del nuovo testamento, affinché, essendo
intervenuta la sua morte a redimere dalle trasgressioni commesse sotto il primo
testamento, quelli che sono stati chiamati conseguono l’eterna eredità loro
promessa, in Gesù Cristo Signor nostro”. (Ebr. IX, 11-15).
L’Epistola di quest’oggi è tratta dalla
lettera agli Ebrei, della quale si è già parlato nella solennità di Natale. Qui
si parla della superiorità e della efficacia del Sacrificio di Gesù Cristo, in
confronto del sacrificio della legge ebraica. Difatti Gesù Cristo:
1. È il Sacerdote della nuova legge,
2. Che offre a Dio il proprio sangue,
3. E si fa nostro mediatore.
1.
Cristo, essendo venuto come
pontefice dei beni futuri; cioè dei beni del Nuovo Testamento,
come: l’espiazione valevole per tutti i tempi, la santificazione interna,
l’eterna felicità ecc.; venivano, necessariamente, a perdere tutta la loro
importanza i riti del culto levitico. Ciò che è imperfetto dove cedere il posto
a ciò che è perfetto. Gesù Cristo è il Sacerdote della nuova legge. Non si
assume da sé la dignità sacerdotale: ma vi è destinato da Dio, come da Dio vi
fu destinato Aronne. Il Padre, che dall’eternità gli dà l’essere di Figlio, con
giuramento solenne, irrevocabile, lo dichiara: «Sacerdote in eterno, secondo
l’ordine di Melchisedech» (Salm. CIX, 4). Sarà un sacerdote che durerà in
eterno. Melchisedech, sacerdote e re, tipo di Gesù Cristo, è introdotto nella
Sacra Scrittura, così minuziosa nelle genealogie dei Patriarchi, senza
che si faccia menzione né del padre né della madre, né del tempo della nascita
né del tempo della morte, né di chi l’abbia preceduto né di chi gli sia succeduto
nel sacerdozio. Gesù Cristo, come non ebbe antecessori, non avrà successori nel
suo sacerdozio. Vivendo Egli in eterno, il suo sacerdozio non avrà mai fine, a
differenza del sacerdozio secondo l’ordine di Aronne, che aveva carattere
transitorio. Mediante il sacerdozio di Gesù Cristo abbiamo un’espiazione
valevole per tutti i tempi. Al pari degli antichi re e sacerdoti, anche il
sacerdote della nuova legge, Gesù Cristo, riceve l’unzione, ma in modo più
eccellente. Egli viene unto «non con olio visibile, ma col dono della grazia …
E deve intendersi unto con questa mistica e invisibile unzione, quando il Verbo
di Dio si è fatto carne» (S. Agostino, De Trinit. L . 15. c. 26). In virtù
dell’unione ipostatica con la divinità, la natura umana di Gesù Cristo
ricevette, fin dal primo momento dell’incarnazione, la pienezza di tutte le
grazie e di tutti i doni dello Spirito Santo. Così, la natura umana assunta
riceve l’unzione dalla divinità. Gesù è, quindi, sacerdote fin dal principio
della sua esistenza. È sacerdote nella culla, è sacerdote nell’esilio, è
sacerdote durante la vita nascosta di Nazaret.
2.
Gesù Cristo, mediante lo Spirito
Santo, ha offerto se stesso immacolato a Dio. Negli antichi
sacrifici la vittima che doveva essere immolata veniva trascinata all’altare.
Gesù Cristo, che sostituirà se stesso alle vittime del sacrificio levitico, non
ha bisogno d’essere condotto per forza al luogo dell’immolazione. Prima di
sacrificare il suo corpo sacrifica la sua volontà. Al Padre non piacciono più i
sacrifici dell’antica legge, e fa conoscere la sua volontà che il Figlio,
assumendo un corpo, lo offra in sacrificio per la salvezza degli uomini. E il
Figliuolo, incarnandosi, può ripetere le parole del salmista: «Ecco io vengo,
per fare, o Dio, la tua volontà» (Ebr. X, 7). Ecco, io assumo un corpo, mi
faccio uomo, affinché offra me stesso in luogo del sacrificio mosaico. E questa
spontanea ubbidienza dimostra in tutte le circostanze della sua vita mortale.
La volontà del Padre è volontà sua. È volontaria la povertà di Betlemme,
l’amarezza della fuga in Egitto, il sudore della bottega, le fatiche
dell’apostolato. Sono volontarie tutte le privazioni, le persecuzioni, i dolori
della vita pubblica; è volontario il sacrificio supremo sulla croce. Venuta l’ora
dell’immolazione « non ha aperto la sua bocca; come pecorella sarà condotto ad
essere ucciso: e come un agnello si sta muto dinanzi a colui che lo tosa, così
Egli non aprirà la sua bocca » (Is. LIII, 7). – Siamo al sacrificio cruento. Il
sangue scorre; ma questa volta non scorre sangue di capretti e di vitelli;
scorre il sangue del Figlio di Dio fatto uomo; sangue d’un valore infinito. Per
mezzo di questo sangue offerto a Dio, l’uomo è liberato dalla schiavitù di
satana. Gli antichi schiavi che ottenevano la libertà, l’ottenevano depositando
essi stessi il prezzo della propria liberazione. Noi pure siamo stati liberati
dalla schiavitù mediante un prezzo e « caro prezzo »; (I Cor. VI, 20) ma questo
caro prezzo, non l’abbiamo sborsato noi. L’ha sborsato Gesù Cristo « il quale
ha dato se stesso quale riscatto per tutti », (I Tim. II, 6) versando il suo
prezioso sangue. La pena dovuta ai nostri peccati, e che noi non avremmo mai
potuto scontare, con questo sangue è cancellata. La giustizia di Dio è
soddisfatta: l’uomo è riconciliato col suo creatore.
3.
E per questo egli è il mediatore
del nuovo testamento. – « Egli è il solo mediatore tra Dio e gli
uomini » (1 Tim. II, 5). Il sacerdote è mediatore tra Dio e gli uomini
specialmente per mezzo del sacrificio e della preghiera. « Il buon mediatore
offre a Dio le preghiere e i voti dei popoli, e porta loro da parte di Dio
benedizioni e grazie. Supplica la divina maestà per le mancanze dei peccatori;
e redime negli offensori l’ingiuria fatta a Dio» (S. Bernardo, De mor. et off.
Epist. c. 3, 10). La preghiera del Sacerdote ha sempre grande valore: è la
preghiera dell’uomo di Dio. Qual valore non avrà la preghiera di Gesù Cristo? «
Facilmente si ottiene quando prega un figlio ». (Tertulliano, De pœn. 10). E
Gesù Cristo è Figlio di Dio: « Figlio diletto », (Luc. III, 22). « Figliuolo
dell’amor suo ». (Col. 1. 13) Egli stesso ha assicurato agli Apostoli che
otterrebbero dal Padre qualsiasi cosa, se chiesta in nome suo. A maggior
ragione si otterrà dal Padre, quanto chiede Egli stesso. Gesù Cristo innalza al
Padre la sua efficace preghiera, quando appare in questo mondo; l’innalza
durante la sua vita. Egli prega in ogni tempo e in ogni luogo. Prega di giorno,
prega di notte. Prega in pubblico, prega nella solitudine. Dopo aver parlato
agli uomini di Dio, del suo regno, si ritira a parlare degli uomini a Dio. –
Nel tempio, nel deserto, nell’orto s’innalza a Dio il profumo della sua
preghiera. Ma sul Calvario specialmente, quando pende dalla Croce, la sua
preghiera sacerdotale si innalza ad interporsi tra la giustizia e la
misericordia di Dio. – E sui nostri altari continua ancora oggi a innalzare al
Padre la sua preghiera in favore dell’umanità. Ogni qualvolta s’immola
misticamente il suo Corpo e il suo Sangue offerti all’eterno Padre, hanno forza
più efficace di qualsiasi voce sensibile, presso la maestà di Dio offesa, ad
ottenere il perdono per gli offensori. Egli continua il suo ufficio sacerdotale
di mediatore su in cielo, dove si fa nostro avvocato alla destra del Padre. Lassù
Gesù Cristo continua ad essere il nostro sacerdote, che prega, manifestando al
Padre il suo vivissimo desiderio della nostra salute, e presentandogli
l’umanità assunta, coi segni gloriosi dei misteri in essa compiuti. E
continuerà il suo ufficio di mediatore per noi sino alla fine dei secoli. I
Sacerdoti, suoi rappresentanti su questa terra, passeranno. Agli uni
succederanno gli altri: il loro ministero sarà limitato dal tempo. Ma Gesù,
Sacerdote eterno, non passerà « vivendo egli sempre affine di supplicare per
noi ». (Ebr. VII, 25). Gesù Cristo, Sacerdote della Nuova Alleanza, s’interessa
di noi al punto da offrire al Padre il suo Sangue per i nostri debiti, e
continua a far l’ufficio di nostro difensore lassù in cielo. E noi fino a qual
punto ci interessiamo di Gesù? Forse l’abbiamo completamente dimenticato. La
Serva di Dio suor Benedetta Cambiago, entrata un giorno nella sala da lavoro
dell’educandato da lei diretto, ove si trovavano delle fanciulle esterne,
domanda: — Mie care, vorrei sapere da voi una cosa. Là vi è il Crocifisso, amor
nostro, morto per noi sulla croce. Quanti atti di offerta gli avete fatto oggi?
E visto che nessuna di loro si era ricordata di Gesù ripiglia: — Ebbene, chi si
scorda di Gesù è indegna di star con Lui. — E senz’altro piglia una sedia,
stacca il Crocifisso dalla parete e lo porta via. A questa conclusione le
fanciulle si mettono a piangere, e pregano Benedetta che riporti loro il
crocifisso. (Vittorio Bondiano, Suor Benedetta Cambiagio, fondatrice delle
Suore di N. S. della Provvidenza ecc. Verona, 1925; p. 92). – Se noi
dovessimo piangere sulle giornate trascorse senza fare un’offerta a Gesù, che
per noi offrì se stesso, senza rivolgere un pensiero a Lui, che continuamente
intercede per noi, forse dovremmo piangere ben frequentemente. Un degno cambio
per tutto quello che Gesù Cristo ha fatto, e fa continuamente per noi, non lo
potremo mai rendere: nessuno può dubitare. Possiamo però tener sempre presenti
i suoi benefici. Sarebbe già qualche cosa: ama chi non oblia. Possiamo
offrirgli giornalmente i nostri pensieri, i nostri affetti, le nostre fatiche,
i nostri dolori. Possiamo offrirgli le nostre preghiere. « Gesù Cristo nostro
Signore — osserva S. Agostino — prega per noi come nostro Sacerdote… è pregato
da noi come nostro Dio ». (Enarr. in Ps. LXXXV, 1) Lo preghiamo davvero come
nostro Dio? Lo preghiamo frequentemente?
Graduale
Ps CXLII: 9, 10
Eripe me, Dómine, de inimícis
meis: doce me fácere voluntátem tuam
Ps XVII: 48-49
Liberátor meus, Dómine, de géntibus iracúndis: ab insurgéntibus in me
exaltábis me: a viro iníquo erípies me.
Tractus
Ps CXXVIII: 1-4
Sæpe expugnavérunt me a juventúte
mea.[Mi
hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]
Dicat nunc Israël: sæpe expugnavérunt me a juventúte mea. [Lo dica Israele: mi hanno più volte osteggiato fin
dalla mia giovinezza.]
Etenim non potuérunt mihi: supra
dorsum meum fabricavérunt peccatóres.[Ma non mi hanno
vinto: i peccatori hanno fabbricato sopra le mie spalle.]
V. Prolongavérunt iniquitátes suas: Dóminus justus cóncidit cervíces
peccatórum. [Per lungo tempo
mi hanno angariato: ma il Signore giusto schiaccerà i peccatori.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann VIII: 46-59
“In illo témpore: Dicébat Jesus
turbis Judæórum: Quis ex vobis árguet me de peccáto? Si veritátem dico vobis,
quare non créditis mihi? Qui ex Deo est, verba Dei audit. Proptérea vos non
audítis, quia ex Deo non estis. Respondérunt ergo Judæi et dixérunt ei: Nonne
bene dícimus nos, quia Samaritánus es tu, et dæmónium habes? Respóndit Jesus:
Ego dæmónium non hábeo, sed honorífico Patrem meum, et vos inhonorástis me. Ego
autem non quæro glóriam meam: est, qui quærat et jdicet. Amen, amen, dico
vobis: si quis sermónem meum serváverit, mortem non vidébit in ætérnum. Dixérunt
ergo Judaei: Nunc cognóvimus, quia dæmónium habes. Abraham mórtuus est et Prophétæ; et tu dicis: Si quis
sermónem meum serváverit, non gustábit mortem in ætérnum. Numquid tu major es
patre nostro Abraham, qui mórtuus est? et Prophétæ mórtui sunt. Quem teípsum
facis? Respóndit Jesus: Si ego glorífico meípsum, glória mea nihil est: est
Pater meus, qui gloríficat me, quem vos dícitis, quia Deus vester est, et non
cognovístis eum: ego autem novi eum: et si díxero, quia non scio eum, ero
símilis vobis, mendax. Sed scio eum et sermónem ejus servo. Abraham pater
vester exsultávit, ut vidéret diem meum: vidit, et gavísus est. Dixérunt ergo
Judaei ad eum: Quinquagínta annos nondum habes, et Abraham vidísti? Dixit eis
Jesus: Amen, amen, dico vobis, antequam Abraham fíeret, ego sum. Tulérunt ergo
lápides, ut jácerent in eum: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo.”Laus tibi, Christe!
Omelia II
“In quel tempo disse Gesù alla turbe dei
Giudei ed ai principi dei Sacerdoti: Chi di voi mi convincerà di peccato. Se vi
dico la verità, per qual cagione non mi credete? Chi è da Dio, le parole di Dio
ascolta. Voi per questo non le ascoltate, perché non siete da Dio. Gli
risposero però i Giudei, e dissero: Non diciamo noi con ragione, che sei un
Samaritano e un indemoniato? Rispose Gesù: Io non sono un indemoniato, ma onoro
il Padre mio, e voi mi avete vituperato. Ma io non mi prendo pensiero della mia
gloria; vi ha chi cura ne prende, e faranno vendetta. In verità, in verità vi
dico: Chi custodirà i miei insegnamenti, non vedrà morte in eterno. Gli dissero
pertanto i Giudei: Adesso riconosciamo che tu sei un indemoniato. Abramo morì,
e i profeti; e tu dici: Chi custodirà i miei insegnamenti, non gusterà morte in
eterno. Sei tu forse da più del padre nostro Abramo, il quale morì? e i profeti
morirono. Chi pretendi tu di essere? Rispose Gesù: Se io glorifico me stesso,
la mia gloria è un niente; è il Padre mio quello che mi glorifica, il quale voi
dite che è vostro Dio. Ma non l’avete conosciuto: io sì, che lo conosco; e se
dicessi che non lo conosco, sarei bugiardo come voi! Ma io conosco, o osservo
le sue parole. Abramo, il padre vostro, sospirò di vedere questo mio giorno: lo
vide, e ne tripudiò. Gli dissero però i Giudei: Tu non hai ancora
cinquant’anni, e hai veduto Abramo? Disse loro Gesù: In verità, in verità vi
dico: prima che fosse fatto Abramo, io sono. Diedero perciò di piglio a de’
sassi per tirarglieli: ma Gesù si nascose, e uscì dal tempio” (Jo. VIII, 46
59).
DISCORSO PER LA DOMENICA DI PASSIONE
[Mons. J.
Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]
Sopra la Contrizione.
Quii ex vobis
arguet me de peccato (Joan. VIII)
Non appartiene che a Gesù Cristo, la
stessa santità, di sfidare i suoi nemici con santa franchezza, come lo fa nell’odierno
Vangelo, di rimproverargli un qualche peccato.
La santa dottrina che loro aveva predicato, gli esempi di virtù che loro
aveva dati, lo mettevano in sicuro da ogni censura; era Egli medesimo in
diritto di far a tali suoi nemici i più giusti rimproveri sulla perversa resistenza
alla verità che loro predicava, perché la sua santa vita era una prova
convincente della sua missione. Quanto siamo lontani, Fratelli miei, dal poter
renderci una simile testimonianza, come Gesù Cristo rende in quest’oggi alla
sua innocenza? Oltre che non havvi alcuno di noi, che non possa, e che non
debba dire col Profeta, ch’egli è stato concepito nell’iniquità; havvene alcuno
che non abbia avuto la disgrazia di cadere in qualche peccato attuale? Havvene alcuno che ben lungi di poter dire,
con Gesù Cristo, chi mi convincerà di peccato: non debba all’opposto confessare
ingenuamente, ch’egli ha incorsa la disgrazia di Dio? Confessiamolo tutti,
Fratelli miei, con altrettanto di dolore che di sincerità, che noi siamo rei
degni dì portare il peso dell’ira del nostro Dio. Ma benediciamo mille volte la
divina misericordia, che ci apre nei suoi tesori un rimedio al nostro male.
Qualunque peccato abbiamo noi commesso, essa ce ne offerisce il perdono, purché
noi lo domandiamo con un cuore contrito ed umiliato. Questo buon Padre è sempre
pronto a ricevere il figliuol prodigo che ritorna dai suoi traviamenti, e che
ne fa una confessione sincera con un cuore spezzato dal dolore. Volete voi
dunque, peccatori, trovar grazia presso di Dio, quel tenero Padre che avete
lasciato? Abbandonate i vostri cuori ai sensi di un vivo dolore: questo è un
mezzo sicuro per rientrare nella casa paterna, e per ricuperare il diritto che
avete perduto. Dio dimentica tutti i nostri peccati, tosto che noi li
detestiamo di tutto cuore: voglio io in quest’oggi ragionarvi di questo dolore
che cancella il peccato; soggetto tanto più importante, che la maggior parte
delle confessioni che si fanno, principalmente in questo tempo Pasquale, sono
nulle e sacrileghe per difetto di questo dolore. Si esaminano i peccati, si
accusano; ma ben pochi vi sono che abbiano il dolore necessario per ottenere il
perdono. Se v’è qualche confessione difettosa per mancanza di dichiarazione,
molte più ve ne sono per mancanza di contrizione. Gli uni mancano affatto di
contrizione; gli altri non hanno la contrizione quale Dio la richiede per
accordare il perdono al peccatore. Vediamo dunque in quest’oggi la necessità
della Contrizione: primo punto. Le qualità della Contrizione: secondo punto.
I Punto. La contrizione che tiene il primo luogo tra gli atti del penitente, come dice il santo Concilio di Trento, è un dolore, ed una detestazione del peccato commesso, con un fermo proponimento di non più commetterlo in avvenire. Non è solamente una interruzione, né anche una cessazione dal peccato, come lo pretendevano gli eretici che furono condannati in quel Concilio; egli è ancora una tristezza, ed un dolor vivo di cuore che ammollisce la sua durezza, gli fa odiare il peccato, e determina efficacemente il peccatore a non più commetterlo. Quindi la contrizione ha due oggetti : l’uno riguarda il passato, e l’altro l’avvenire. Ella affligge il cuore sul passato, dice S. Gregorio, e gli fa prendere delle precauzioni per l’avvenire: Pœnitere est perpetrata piangere, et plangenda non perpetrare. Or questa contrizione, questo dolore, come dice ancora il santo Concilio di Trento, è sempre stato necessario per ottenere il perdono. Egli è la prima porta per rientrare nello stato di giustizia e d’innocenza, da cui l’uomo è decaduto per il peccato. Iddio non ha mai accordato, e non accorderà mai il perdono al peccatore che a questa condizione: ella è una verità, di cui la sacra scrittura e la ragione ci forniscono prove senza replica. Apriamo primieramente i santi libri: che cosa Dio domanda ai peccatori che vogliono rientrare in grazia con lui? Gettate lungi da voi, loro dice per un Profeta, le vostre iniquità, e fatevi un cuor nuovo: Projiecite a vobis omnes prævaricationet vestras, et facite vobis cor novum (Ezech. XVIII). Invano dareste voi tutti i segni esteriori di penitenza; inutilmente coprireste i vostri capi di cenere, e i vostri corpi di cilicio; indarno squarcereste le vostre vestimenta, se i vostri cuori non sono penetrati di rammarico, e spezzati dal dolore: Scindite corda vestra, et non vestimenta vestra (Joel. II). Sì, Fratelli miei, benché per uscire dalla schiavitù del peccato, e ricuperare la libertà dei figliuoli di Dio, voi castigaste il vostro corpo, e lo riduceste in servitù con le penitenze le più austere, coi digiuni i più lunghi, e i più rigorosi; benché vi spogliaste di tutti i vostri beni per darli ai poveri; se il vostro cuore ama ancora l’oggetto di vostra passione, la vostra penitenza è vana, non è che un’ombra, e voi dimorerete sempre sotto l’anatema. Convertitevi a me in tutto il vostro cuore, vi dice il Signore, ed io mi convertirò a voi: Convertimini ad me in toto corde vestro, et ego convertar ad vos (Joel. II). Interrogate su di ciò, Fratelli miei, tutti coloro, cui il Signore ha fatto grazia e misericordia: vi diranno che non han trovata la pace delle loro anime, che nei pianti e nei gemiti; interrogate principalmente il Re Profeta, quel gran modello di penitenza: v’insegnerà che l’afflizione del cuore è l’anima della penitenza: mirate anche i sentimenti di dolore, di cui sono ripieni i suoi Salmi. Egli piange e geme ogni giorno sul suo peccato, che è sempre avanti a lui. L’agitazione e l’inquietudine si sono impadronite della sua anima sino a penetrare la midolla delle sue ossa : Conturbata sunt omnia essa mea ( Psal. VI), Il suo dolore è così grande, che interrompe il suo sonno per dare un libero corso alle lagrime abbondanti che colano dai suoi occhi: Lavabo per singulas noctes lectum meum; lacrymis meis stratum meum rigabo. Qual è l’origine di queste lagrime? Donde viene il dolore, cui questo gran Re si abbandona? Si è, ch’egli ha offeso il suo Dio, e che tutt’altro sacrificio non può appagarlo, che quello d’un cuor contrito ed umiliato: Sacrificium Deo spiritus contribulatus cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies. Così non ottiene il perdono del suo peccato, che pel dolore che ne ha concepito; le sue lagrime furono il bagno salutevole che lavarono la sua anima dal suo delitto, e la resero tanto bianca, come la neve. Or se Davide, quell’uomo che Dio aveva eletto secondo il suo cuore, non può trovar grazia dopo il suo peccato, che pel dolore che ne ebbe, invano pretendete, peccatori, ottenerlo altrimenti; mentre questo dolore non è men necessario nella legge di grazia, che nell’antica legge. Infatti, quantunque Gesù Cristo abbia istituito il Sacramento della penitenza per la remissione dei peccati, non vi ha perciò dispensati dal dolore che dovete concepirne; anzi ha voluto ch’egli fosse una parte essenziale del Sacramento, come l’ha dichiarato il santo Concilio di Trento, appoggiato su queste parole dì Gesù Cristo: se voi non fate penitenza, voi perirete tutti: Si pœnitentiam non egeritis, omnes similiter peribitis! (Luc., XIII). Cioè, se voi non vi pentite dei vostri peccati, se il vostro cuore non è tocco, ammollito, cambiato, voi non riceverete giammai il perdono, e per conseguenza non vi sarà giammai salute per voi. Perciocché notate col Crisostomo che, sebbene il nome di penitenza possa estendersi a tutte le opere penose e soddisfattorie, che dispongono il peccatore a riconciliarsi con Dio, la penitenza consiste principalmente nel dolore dei suoi peccati nel cangiamento di cuore, che sono l’anima della penitenza, senza di cui tutte le altre non ne sono che l’ombra e la scorza pœoenitentiæ larva et umbra ista sunt. Invano dunque, Fratelli miei, avreste voi fatto ricorso al Sacramento della riconciliazione; invano dichiarereste tutti i vostri peccati ai ministri che Gesù Cristo ha stabiliti per rimettervegli; invano il ministro del Signore pronuncerebbe su di voi la sentenza dell’assoluzione; tutte le vostre confessioni, tutte le assoluzioni che egli vi darebbe, vi sarebbero inutili, giacché non avreste la contrizione. Si può dirvi in un senso, che la contrizione è più necessaria alla salute che la Confessione; non già che questa non sia di un obbligo indispensabile; ma la contrizione può supplire alla Confessione, e non già la Confessione alla contrizione … Se voi siete in ìstato di peccato mortale, e che per motivo di un puro amor di Dio, voi ne concepiate dolore, qualunque peccato abbiate commesso, vi sarà perdonato; Dio vi renderà la sua amicizia, perché Egli ama coloro che l’amano: Ego diligentes me diligo (Prov. VIII). Se voi morite in questo stato senza esservi presentati al tribunale della penitenza, purché però non v’abbia alcuna vostra colpa, il Cielo vi è aperto. Convien tuttavia osservare che questa contrizione che viene dalla carità perfetta, deve rinchiudere il proponimento di sottoporre i vostri peccati alle chiavi della Chiesa; senza di che sarebbe di nessun effetto, come dice il Concilio di Trento. Al contrario, non foste voi colpevoli che di un solo peccato mortale, se voi moriste senz’averlo detestato, o con una contrizione perfetta fuori del Sacramento, o con una contrizione imperfetta insieme col Sacramento; aveste voi praticate tutte le altre virtù le più eroiche, voi non potete aspettarvi che un’eterna riprovazione; Comprendete da questo, Fratelli miei, la necessità della buona contrizione; ella è sì grande che nulla può dispensarne, così ha ordinato Iddio per la riconciliazione del peccatore, al cuore Egli si attiene; è la conversione del cuore ch’Egli dimanda, tutt’altro sacrificio non potrebbe essergli gradito. Ne volete voi sapere la ragione sensibile e con vincente? Eccola. Dio non può accordare all’uomo il perdono del suo peccato, che cangiando di disposizione riguardo all’uomo peccatore, cioè rendendogli la sua amicizia invece dell’odio, che aveva contro di Lui concepito. Or Dio non può cangiare di disposizione riguardo all’uomo peccatore, se questo peccatore non cangia egli medesimo di disposizione riguardo a Dio. Che fa l’uomo peccando? Si stacca, e si allontana da Dio per attaccarsi alla creatura, cui dà un’indegna preferenza sul suo Creatore; questa preferenza è l’opera del cuore; bisogna dunque che questo cuor cambi riguardo a Dio, attaccandosi a Lui, dandogli la preferenza che merita sulla creatura; bisogna che questo cuore divenga un cuor nuovo, amando ciò che odiava, ed odiando ciò che amava. Ecco, dice S. Agostino, quel che fa la vera penitenza, l’odio del peccato, e l’amor di Dio: Pœnitentiam non facit, nisi amor Dei, et odium peccati. Or l’odio e l’amore non possono venir che dal cuore. Non havvi dunque alcun perdono a sperare pel peccatore, se il suo cuore non è spezzato, cangiato dalla contrizione, che è nello stesso tempo l’odio del peccato, e l’amor di Dio. Inoltre non è forse il cuore che ha gustato il primo la dolcezza del frutto proibito, che si è abbandonato ai piaceri vietati, seguendo l’attrattiva della sua passione? Deve egli opporre il dolore al piacere, la tristezza al diletto, l’amarezza della penitenza alle false dolcezze che ha egli ricercate nel peccato. – Ed è così, peccatori, che l’avete voi compreso, voi che sino al presente non vi siete attaccati che alla scorza della penitenza, che avete conservato lo stesso cuore, cioè un cuore egualmente attaccato all’oggetto di vostra passione, che non avete concepito né dolore, né tristezza sui vostri peccati? Ohimè! Fratelli miei, quale illusione! Illusione, che vi ha sinora ingannati. Voi avete creduto essere sufficientemente disposti a ricevere il vostro perdono, avete esaminata la vostra coscienza, accusati i vostri peccati, fatti atti di contrizione, gettati sospiri, versate alcune lagrime; ma siccome con tutto questo il vostro cuore non era punto cangiato, e che non detestava il peccato come doveva, la vostra penitenza è stata vana, sterile, ed infruttuosa. Se aveste a fare con un uomo, egli si contenterebbe di questa esterior penitenza; ma Dio non se ne contenterà giammai, perché Egli vede il fondo del cuore; e finché questo cuore amerà i piaceri vietati, con tutte le lagrime che possiate spargere, con qualsivoglia protesta, che facciate di non più ricadere, voi sarete sempre colpevoli avanti a Dio, voi sarete sempre carichi del peso dei vostri peccati; come le vostre parole, che sono altrettanti inganni, e menzogne, ben lungi di giustificarvi, non serviranno che a rendervi più rei. Io so benissimo che per eccitarvi al dolore dei vostri peccati, voi leggete in certi libri alcune formule proprie ad ispirarvelo; ma credere, che queste preghiere bastino, e che a forza di leggere più formule proprie a toccate il cuore, senza che realmente lo sia, si otterrà il perdono del suo peccato, egli è un errore. Leggete tante preghiere che vi piacerà, pronunciate di bocca tanti atti di contrizione, quanti può formarne lo spirito, se il dolor non è nel cuore, se il cuore non è penetrato di pentimento del suo peccato, se il cuore, in una parola, non è cambiato, tutte le preghiere a nulla servono. – Ma in che, mi direte, consiste dunque questo dolore, questa tristezza che aver si deve del peccato? Questo dolore non è una semplice conoscenza che si ha della difformità del peccato; i demoni hanno questa conoscenza, e non hanno la contrizione! Non è neppure una semplice disapprovazione del peccato, che ogni uomo ragionevole non può trattenersi di condannare nel tempo stesso in cui egli si abbandona al peccato. Che convien dunque far di più, direte ancora? Bisogna forse che il cuore sia commosso da qualche dispiacer sensibile, come lo risentiamo quando ci giunge qualche funesta nuova? No, Fratelli miei, questo dolore che Dio ci domanda, non è un sentimento della natura, sovente non dipende da noi; neppure sono lacrime, ch’Egli esige, esse non sono sempre in nostra disposizione; felici tuttavia sono coloro che ne spargono per un vero dolore dei loro peccati! Eccovi dunque in che consiste questa contrizione necessaria per la giustificazione: ella è un atto della volontà che ritratta, che detesta, che odia il peccato, che si pente d’averlo commesso, e che mette il peccatore in tal disposizione, che vorrebbe non averlo mai commesso. – Giudicate, Fratelli miei, di questa disposizione, in cui deve essere il peccator penitente, da quella in cui vi trovate, allorché vi pentite di aver fatta una qualche azione che vi ha cagionato una perdita di bene, un disonore, la disgrazia di una persona che vi amava, e vi proteggeva; voi ritrattate questa azione, voi avete dispiacere di averla fatta, voi vorreste non averla fatta. Tale è la disposizione in cui dovete essere per rapporto al peccato; non basta non volerlo più commettere, ma bisogna essere disgustato di averlo commesso. Or ecco ciò in che molti penitenti presentemente s’ingannano. Uno crede di detestar bene il peccato, perché non vi vuol più cadere; ma è forse sempre disgustato per questo di averlo commesso? Un altro ha lasciato un’occasione, una persona, che non vuol più frequentare forse perché ne è stato rigettato, o che vi si è determinato di sua elezione. Ma non si richiama egli forse con compiacenza la memoria dell’oggetto di sua passione, i piaceri, ch’egli ha gustati, i disordini, cui si è abbandonato? Non vuoi più avere alcuna rea compiacenza per certe amate persone; ma si ha forse pentimento di quelle che si ha permesse, che sono state ottenute a prezzo d’argento, che han procurata l’amicizia d’un grande, che hanno aperta la strada ad una certa fortuna, ad uno stabilimento vantaggioso, dove si compiace d’essere pervenuto? Ah! quanto è difficile, quanto è raro di pentirsi di questa sorte di peccati! Non vuole quello più rapire la roba degli altri; ma è forse disgustato d’essersi arricchito a loro spese? Se si pentisse delle sue ingiustizie passate, penserebbe a restituire. Un vendicativo perdona al suo nemico, perché la collera è passata; ma è egli ben pentito di aver soddisfatta la sua vendetta? Questo è ciò che accade molto di rado. Ahi non sono queste, Fratelli miei, penitenze capaci di calmare l’ira di Dio. L’ho detto e non saprei troppo ripeterlo: la penitenza del cuore, che è la contrizione, ha due oggetti; ella è un rammarico, un dispiacere del peccato commesso, con un fermo proponimento di non più commetterlo in avvenire. Contrizione assolutamente necessaria per ottenere la remissione del peccato. Quali ne sono le qualità?
II. Punto. La contrizione per essere gradita a Dio e salutevole ai peccatori, deve essere soprannaturale nel suo principio e nel suo motivo, universale nel suo oggetto, efficace e costante nel suo proponimento. Essa deve esser soprannaturale nel suo principio e suo motivo, cioè deve esser prodotta da un impulso della grazia, e da un motivo soprannaturale. La ragione è che la contrizione è una disposizione prossima alla giustificazione del peccatore; cioè a quel felice passaggio dal peccato alla grazia, per cui il peccatore diventa l’amico di Dio, l’erede del regno eterno. Ora la fede c’insegna che tutto ciò che ci dispone prossimamente alla giustificazione, deve essere soprannaturale, cioè, venire dal Santo Spirito, perché la giustificazione medesima è un dono soprannaturale, che non è dovuto all’uomo, e dove non può pervenire con le sue proprie forze: egli ha dunque bisogno di un soccorso che lo innalzi su di se stesso; egli deve avere una disposizione proporzionata al fine felice che si propone, che è di riconciliarsi con Dio, e di ricuperare i suoi diritti alla celeste eredità. Egli è vero che questo soccorso soprannaturale, questo dono prezioso ci viene dal Padre dei lumi, il quale è la sorgente d’ogni dono perfetto; che è la sua grazia onnipotente che agisce in noi, che ci solleva su di noi medesimi per renderci partecipi della natura divina. La contrizione è un movimento dello Spinto Santo cui solo appartiene di fare scorrere col suo soffio divino le acque salutari della compunzione, che debbono lavare le nostre iniquità: Flabit spiritus ejus, et fluent aquæ (Psal. CXLVII). Ma Dio è sempre pronto a darci il suo aiuto, purché noi glielo domandiamo, e non formiamo alcun ostacolo alle sue operazioni. Bisogna dunque operare dal canto nostro per corrispondere alla grazia, e renderci sensibili ai motivi di dolore, che essa ci propone. Bisogna di concerto con essa proporci noi medesimi questi motivi di dolore, lasciarcene toccare, penetrare, abbandonare i nostri cuori ai sentimenti che essi non mancheranno d’ispirarci. Or quali sono questi motivi soprannaturali che debbono produrre in noi il dolore dei nostri peccati? Sono oggetti che la fede ci propone per farci odiare il peccato, facendoci considerare ciò, ch’egli è per rapporto a Dio e alla nostra salute eterna. Bisogna dunque che la fede operi in questa occasione per sollevarci su di qualunque mira umana, e rappresentarci un Dio oltraggiato pel peccato, i suoi benefici dispregiati, la passione e la morte di Gesù Cristo, di cui il peccato è stata la cagione, una felicità infinita di cui ci ha Egli privati, i castighi eterni che ci ha meritati. Questi sono i motivi soprannaturali che debbono farci detestare il peccato, o come il sommo male di Dio, o come il sommo male dell’uomo. Se voi detestate il peccato come il sommo male di Dio, come un’ingiuria fatta alla sua infinita Maestà, e non in vista delle ricompense che ci promette o dei castighi, di cui ci minaccia, ma unicamente perché il peccato gli dispiace, perché è opposto alle sue infinite perfezioni che meritano tutto l’amore delle sue creature; si è l’effetto della vostra carità perfetta che solo può giustificarvi, come l’abbiamo già detto prima anche di accostarvi al Sacramento della Penitenza; lasciandovi per altro l’obbligo di sottoporre i vostri peccati alle chiavi della Chiesa; questa è la dottrina del Santo Concilio di Trento: Etsi contritionem hanc aliquando charitate perfectam esse contingat, hominemque Deo reconciliare priusquam hoc Sacramentum actu suscipiatur . Felice chi portato sull’ale dell’amore si solleva in tal modo sino a Dio, detesta il peccato per l’opposizione che egli ha alla sua infinità bontà e che con questo si assicura dell’amicizia del suo Dio, il Quale ama coloro che l’amano: ego dìligentes me diligo! – Voi potete ancora, e dovete per lo meno, detestar il peccato come vostro sommo male, in quanto vi priva dell’amicizia di Dio, del possesso della sua gloria, e vi rende l’oggetto delle vendette eterne. Questo dolore che viene da un amor imperfetto, e dal timore delle pene, benché da se stesso insufficiente per giustificarvi fuori del Sacramento, vi dispone nulla dimeno a ricevere nel Sacramento la grazia della riconciliazione; questa è ancora la dottrina del citato Concilio di Trento. Ma bisogna per questo, che esso scacci ogni affetto al peccato, che vi porti a Dio per l’amor della giustizia, e che sia unito alla speranza del perdono. Perciocché se voi non evitate il peccato, che per il timore dei castighi, di modo che non lascereste di commetterlo, se restasse impunito, questo timore è non solo inutile, ma eziandio biasimevole, dice S. Agostino, perché non cambia punto il vostro cuore. Fa d’uopo dunque, che sia accompagnato dall’amor della giustizia, cioè da una volontà di amar Dio, di praticare le virtù, ch’Egli vi comanda. Fa d’uopo ch’Egli vi porti a Dio con un amor di speranza che vi unisca a Lui, come a vostro sommo bene, che merita di esser preferito ad ogni altro, di tal maniera, che voi foste disposti a perdere piuttosto tutti i beni creati, a soffrire tutti i mali, che di perdere l’amicizia di Dio; senza di che questo dolore imperfetto non sarebbe sommo, come deve essere, per giustificarvi anche insieme col Sacramento. – Lungi dunque da qui, Fratelli miei, ogni altro dolore, che sarebbe di un inferiore ordine, che non avrebbe alcun rapporto a Dio, o alla salute eterna dell’uomo. Lungi da qui quei dolori, che non sono prodotti che da motivi umani, e che perciò sono incapaci di toccare il cuor di Dio e di operare la guarigione del peccatore. Tale fu il dolore di Antioco, il quale piangeva i mali, che aveva fatti in Gerusalemme, che prometteva anche di ripararli e che domandava a Dio il suo perdono con lagrime e gemiti; ma il suo dolore non era che l’effetto dei mali di cui Dio l’aveva oppresso: e non ottenne il perdono che domandava: Orabat autem hic scelestus Dominun, a quo non esset misericordiam consecuturus (2. Mach. IX). Tale è ancora il dolore di un gran numero di penitenti, che sono più sensibili ai mali temporali, che sono stati la conseguenza dei loro peccati, che all’oltraggio che han fatto a Dio. Molti piangono, dice S. Agostino, ed io piango anche con essi; ma io piango perché essi piangono male. Quel dissoluto piange la sua vita licenziosa, perché ha messo in disordine i suoi affari, rovinata la sua sanità. Quella figlia sparge molte lagrime, si strugge di dolore, perché il suo peccato l’ha disonorata, perché è divenuta la favola del pubblico. Quella donna racconta con lagrime i suoi affanni e i cattivi trattamenti che gli ha fatti suo marito: ne veggo un altro metter fuori singhiozzi e sospiri, che gli cava la confusione naturale che ha di confessar certe azioni, che vorrebbe poter a se stesso occultare. Chi non vede, Fratelli miei, che questi dolori sono tutti naturali, che sono meno l’effetto della grazia, che della natura, incapaci per conseguenza di riconciliare il peccatore con Dio? Queste sono, dice S. Bernardo, piogge fredde, che cagionano la sterilità, invece di apportar l’abbondanza. Queste tristezze del secolo non sono capaci che di cagionare la morte, dice S. Paolo: laddove la vera Contrizione, che è una tristezza secondo Dio, opera la salute: Quæ secundum Deum tristitia est, pœnitentiam in saluterai stabilem operatur, sæculi autem tristitia mortem operatur (2. Cor. VII). Volete voi, Fratelli miei, che la vostra sia tale? Sollevatevi con la fede sopra di tutti i motivi umani, per non riguardare nel peccato, che l’offesa di Dio, la perdita della sua amicizia, le pene eterne che ne sono la conseguenza. Se il vostro dolore è animato da un motivo soprannaturale, egli sarà universale nel suo oggetto; cioè egli detesterà tutti i vostri peccati senza eccezione, Mentre se voi detestate il peccato, o come sommo male di Dio, o come vostro sommo male, qualunque abbiate commesso, tosto che è mortale, portando questi odiosi caratteri, merita egualmente il vostro odio, ed il vostro dolore. Invano dunque offrireste a Dio il sacrificio di un cuor contrito su certi peccati, mentre questo cuore sarebbe attaccato ad altri oggetti che lo renderebbero colpevole avanti a Dio. Invano detestate voi la vendetta per principio di carità, se il vostro cuore è occupato di un amor profano per l’oggetto di una sregolata passione. Invano, per un principio dì giustizia, non vi impadronirete del bene altrui; se voi prodigate il vostro in folli spese, se voi l’impiegate a mantenere la vostra vanità, se voi lo consumate in dissolutezze. Dio riproverà i vostri sacrifizi, come fece altre fiate quello di Saulle, che nello sterminio degli Amaleciti, aveva risparmiato il Re, contro il divieto che gliene aveva fatto. No, Fratelli miei, Dio non vuole di questi cuori mezzo contriti, come dice S. Agostino, di questi cuori mezzo Cristiani, mezzo pagani, che offrono con una mano incensi al vero Dio, e con l’altra agl’Idoli, che detestano certi vizi, e non si pentono d’altri, di cui non vogliono correggersi. Il sacrificio del cuore per essere accetto a Dio, deve esser intiero; siccome Egli non perdona per metà, e nel perdono che ci accorda, rimette tutti i nostri debiti; così bisogna che il peccatore non riserbi alcun peccato, che la sua contrizione si estenda a tutti, che sia come un mare che gli anneghi, che gli assorbisca tutti nel suo seno: Magna est velut mare contritio tua. La spada del dolore deve tutti sacrificarli. Un solo risparmiato è un ostacolo al perdono. Finalmente la Contrizione deve essere efficace e costante nel buon proponimento di non più peccare. Chiunque infatti è veramente pentito di aver offeso Dio, deve essere ben risoluto di non più ricadere nel peccato. Se la Contrizione, siccome abbiam detto, rinchiude l’odio del peccato e l’amore di Dio, può uno odiar il peccato, senza essere risoluto di evitarlo? Può uno amar Dio come deve essere amato, senza esser disposto ad osservare i suoi divini comandamenti, il che è il segno il più certo dell’amore che si ha per lui? Tali esser debbono, o peccatori, le vostre disposizioni per l’avvenire, se volete ottenere il perdono del passato. Volete voi dunque conoscere se il vostro proponimento è stato sincero ed efficace? Giudicatene dal cangiamento dei vostri costumi, e dalla vostra fedeltà ad osservare la legge del Signore. Quindi ciò che fa la vostra sicurezza, deve accrescere il vostro timore; alla vista dei vostri peccati, voi vi rassicurate sulle vostre confessioni, voi credete averne ottenuto il perdono, perché gli avete accusati: errore, Fratelli miei; confessioni sacrileghe non saprebbero giustificarvi avanti a Dio; confessioni fatte senza un buon proponimento non possono che rendervi più colpevoli. Ora la prontezza e la facilità, con cui siete caduti nel peccato mortale dopo le vostre confessioni, non prova che forse giammai non avete voi avuto un sincero proponimento di non più peccare? Ma che qualità deve avere questo proponimento? Egli deve essere accompagnato da fermezza e da vigilanza: da fermezza per resistere alle tentazioni; da vigilanza per fuggire le occasioni. Che tutti i nemici di vostra salute, per farvi cangiar di risoluzione, si colleghino contro di Voi; che il mondo per guadagnarvi vi presenti lo splendore dei suoi beni, le lusinghe dei suoi piaceri; che il demonio come un leone che rugge giri intorno di voi per divorarvi; che di concerto con le vostre passioni vi solleciti ad accordar loro piaceri che la legge del Signore vi proibisce; voi dovete esser fermi e costanti per resistere e trionfare in tutti questi combattimenti: io l’ho promesso, dovete voi dire col Profeta, io ho risoluto di osservar la legge del Signore: juravi et statui custodire judicia justitiæ tuæ (Ps. CXVIII). Ma per riportare una sicura e piena vittoria , è necessaria la vigilanza per fuggire le occasioni del peccato. Mentre invano, Fratelli miei, vi lusingate di esser fedeli a Dio; se v’impegnate nelle medesime occasioni: qualunque risoluzione abbiate presa, voi soccomberete. Le medesime cagioni produrranno i medesimi effetti; gli oggetti che non vi eccitavano punto allorché n’eravate separati, riaccenderanno con la loro presenza le vostre passioni, e vi strascineranno nei medesimi disordini da cui siete usciti. – Concepite dunque, Fratelli miei, una ferma risoluzione di fuggir il peccato e le occasioni del peccato, di corregger i vostri malvagi abiti, servendovi dei mezzi che vi sono stati prescritti nel tribunale della penitenza, mentre non solo per ricevere il perdono delle vostre colpe dovete voi accostarvene, ma ancora per correggervi. A che vi servirebbe ricuperare per qualche tempo la grazia di Dio, se voi la perdeste per vostra incostanza? Il vostro stato diverrebbe peggiore che non era prima. Ah! è finito, dovete voi dire, già da troppo lungo tempo mi abuso dei Sacramenti. Io mi confesso e sempre ricado; la mia vita non è che una vicissitudine di peccato e di penitenza. Ma voglio che la mia penitenza metta fine ai miei peccati, che questa sia una penitenza ferma e durevole, che non finisca che con la vita. Se il vostro dolore è così costante nel suo proponimento, voi avrete , Fratelli miei , un segno tanto sicuro, quanto avere si possa in questa vita, ch’esso è stato vero, e che avete ottenuto il vostro perdono.
Pratiche – 1.° Domandate a Dio questo dolore; giacché è l’effetto della grazia, si richiedono molte preghiere per ottenerlo . – 2. Per eccitarvi alla contrizione dei vostri paccati, ritiratevi in un luogo conveniente, il più proprio si è la Chiesa; ivi vi proporrete i motivi capaci di muovere il vostro cuore, di penetrarlo dei sentimenti della più viva, della più amara compunzione. Riguardandovi come un figliuol prodigo, che ha lasciato il migliore di tutti i padri, vi getterete dentro le sue braccia, dicendogli: mio Padre, io ho peccato contro il cielo e davanti a Voi, io ne sono molto pentito; io vorrei non averlo mai fatto. Ah! la risoluzione è presa, io faccio sino d’ora un divorzio eterno con il peccato; piuttosto morire, o Signore, che di offendervi, si è la sola grazia ch’io vi domando. – 3. Rappresentatevi Gesù Cristo sulla croce (abbiate, per quanto vi sarà possibile, la sua immagine avanti agli occhi); immaginatevi che vi dica: ecco, peccatore, lo stato in cui tu m’hai ridotto col tuo peccato; la mia morte è opera tua, non ti penti tu di avermi così trattato? Vorresti tu ora non averlo fatto? Indi rispondetegli di tutto vostro cuore: sì, o Signore, io lo vorrei benissimo; io me ne pento sinceramente; ma è finito, non più peccati nella mia vita, non più tiepidezza nel vostro servizio. Per rendere il vostro dolore più gradito a Dio e più salutevole per voi, unitelo a quello che questo divin Mediatore concepì nel giardino degli ulivi sui peccati degli uomini, il quale gli cagionò un sudore di sangue; mischiate le vostre lagrime con quel Sangue prezioso; offrite a Dio i suoi meriti, per supplire a ciò che vi manca. Ma applicatevi altresì i meriti di quel Sangue adorabile col dolore che concepirete dei vostri peccati; non è che a questa condizione, ch’Egli purificherà, come dice l’Apostolo, le vostre coscienze dalle opere morte, cioè, dalle opere di peccato, e che avrete parte all’eredità, che vi è promessa. Gesù Cristo vi è entrato pel suo Sangue, voi dovere entrarvi per le vostre lagrime; dopo aver pianto sulla terra, voi sarete consolati nel Cielo. Così sia.
Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: retríbue servo tuo: vivam,
et custódiam sermónes tuos: vivífica me secúndum verbum tuum, Dómine. [Ti glorífico, o Signore, con tutto il mio cuore:
concedi al tuo servo: che io viva e metta in pràtica la tua parola: dònami la
vita secondo la tua parola.]
Secreta
Hæc múnera, quaesumus Dómine, ei víncula nostræ pravitátis absólvant, et tuæ nobis misericórdiæ dona concílient. [Ti preghiamo, o Signore, perché questi doni ci líberino dalle catene della nostra perversità e ci otténgano i frutti della tua misericórdia.]
Hoc corpus, quod pro vobis
tradétur: hic calix novi Testaménti est in meo sánguine, dicit Dóminus: hoc
fácite, quotiescúmque súmitis, in meam commemoratiónem. [Questo è il
mio corpo, che sarà immolato per voi: questo càlice è il nuovo patto nel mio
sangue, dice il Signore: tutte le volte che ne berrete, fàtelo in mia memoria.]
Postcommunio
Orémus.
Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos tuis mystériis recreásti, perpétuis defénde subsidiis. [Assístici, o Signore Dio nostro: e difendi incessantemente col tuo aiuto coloro che hai ravvivato per mezzo dei tuoi misteri.]
L’uomo rimirando sé, viene, se vuole, in cognizione di Dio.
I . Due chiare
testificazioni ha volute Dio della sua grandezza nell’universo. L’una dalla magnificenza
dell’abitazione, che è il mondo. L’altra dalla bellezza dell’abitatore, che è
l’uomo: Habet Deus testimonium, totum id quod sumus, et in quo sumus.
Così parlò Tertulliano (In Marc. I. 1. c. 1 0): al cui verace sentimento
arrendendoci, dopo aver noi già guardo ai bruti, in cui risiede, infallibile
rispetto a Dio, da cui proviene come da sua cagion creativa. Negate Dio, o
l’istinto rimane inesplicabile ricercata l’attestazione che della divinità ci vien
fatta dal mondo grande, non possiam ricusare quella che ci vuol fare anche il
mondo piccolo, qual è l’uomo. Senonchè, al guardare un composto così
ammirabile, conviene che io qui subito mi ripigli. Mondo piccolo l’uomo nel
mondo grande? Tutto al contrario. Anzi egli è il mondo grande nel mondo
piccolo; mentre quanto il resto delle creature supera l’uomo nella vastità
della mole, tanto l’uomo supera il resto delle creature nel valore della
sustanza (Una sola creatura umana vale assai più che tutta l’immensurabil
materia dell’universo, perché il pensiero di cui l’uomo va insignito, abbraccia
e penetra tutta quanta la materia, mentre la materia non può penetrare, non che
il diverso da sé, nemmeno se medesima): ed è però nell’universo, come la gemma
nell’anello, cioè il pregio di tutta l’opera, e il fine a cui s i ordinò così
bel lavoro.
I.
II. Ed oh così potessi io qui spiegare tutte le vele, ed ingolfarmi sino
all’alto in un pelago, qual è questo, di maraviglie! Potessi favellare dell’anima
ragionevole, immagine così espressa della divinità: e, se non tanto, potessi almeno
discorrere delle sue potenze sensitive, interne ed esterne, e delle operazioni donate
a ciascuna d’esse! potessi anche solo riferir meramente il numero, il posto, la
proporzione, gli uffizi di quelle parti, le quali costituiscono il corpo umano?
potessi tutte ad uno ad uno descrivere le tante ossa con cui si regge, i nervi,
i muscoli, le membrane, le vene, le cartilagini, i canaletti, le viscere, le
vesciche, gli umori, le giunture, i seni, gli spiriti, e tanto che v’è di più,
non ancor terminato di enumerare dopo diligentissime notomie! Si scorgerebbe,
che se mondo può dirsi l’uomo, può dirsi anche, in capo a tanti secoli, il
mondo nuovo; mentre tuttora egli ha la sua terra incognita da scoprirsi. Ma
solcar tanto mare non ci è permesso da più altri viaggi ben faticosi che ci
rimangono a fare entro a pochi fogli. Dirò dunque in succinto, che la fabbrica
sola del nostro corpo è sì prodigiosa, che Galeno (de usu part. I. 17. c. 3), dopo
averla alquanto osservata in diciassette libri, soggiunse di aver con ciò
formato un inno perpetuo di lode a Dio, il quale seppe disegnare, poté eseguire,
e volle tanto pienamente diffondere la sua bontà sopra sì bel lavoro, composto
di molte migliaia di pezzi, e pur congegnato con tale concatenazione, che par
composto di un solo; ciascun dei quali contenendo in sé più miracoli, fa che
l’uomo a torto stupisca della natura di altra opera, più che di quella, la
quale egli rimira nel mirar sé: tanto in ciascuna parte di sé medesimo egli è
un prodigio maggiore di qualunque altro. Et mìratur alia homo., cura sit
ipsemirator magnum miraculum. (S. Aug. hom.32. ex 50). Certo almen
è, che io niuno anatomista ho mai letto, niuno ne ho udito, che favellando
dell’arte sua, non prorompa in esclamazioni, nate dalla evidenza con cui tal arte
fa scorgere che v’è Dio. Udiamone fra tanti uno celebre per la fama, che fu
medico illustre di Enrico quarto : Ingredere tu quisquises, etiam
athæe, così dice egli: Ingredere, quæso,sacram
Palladis arcem, etc. An non
etiaminvitus
exclamabis: O architectum admirabilem!o opificem inimitabilem!(Andr. Lauren. Hen. IV. Consil. et Medie. Hist. anat. I . 1. c. 6.
Franc. Redi). E questo è il sentimento comune di tutti i professori di tale
scienza, uno de’ quali ha detto a me, non trovarne per sé medesimo verun’altra, la quale più di questa lo
innalzi a Dio. Almeno parmi di potere tener per indubitato, non essere finora
avvenuto mai, che un uomo insigne nella professione anatomica, sia ateista;
convenendo per forza, che egli alla luce delle sue cognizioni sperimentali scorga
evidentemente e veneri un nume provvido, perspicace, attentissimo, di cui mira stampate
troppo sensibilmente le maestrie su qualunque minimo ordigno del corpo umano
(Sono veramente splendide, e degne di essere lette segnatamente da’ giovani
studiosi le pagine, nelle quali Cicerone dimostra l’esistenza di una mente
divina dalla mirabile struttura del corpo umano, nel suo De natura deorum, lib.
2° cap. 54 e seg.).
III. Pertanto, giacche tal corpo né si può qui trascorrere tutto intero, né
tutto intero è dovere che si tralasci, ci restringeremo a quel solo che di lui
sempre abbiamo dinanzi agli occhi, non mai velato, che son le mani ed il volto:
la cui considerazione, quantunque superficiale, e’ immerge in Dio, senza, per
dir così, che ce ne avvediamo.
IV. Or quanto alle mani, due fini ebbe la natura in donarle all’uomo, uno
prossimo, uno remoto. Il prossimo fu, perché egli potesse pigliare gli altri
oggetti corporei a proprio talento, e adoperarli. Il remoto fu, perché egli nelle mani avesse un istrumento di tutte
le arti. Cominciam dal fine remoto, a cui come a superiore, dovea conformarsi il
prossimo.
II.
V. Stimò Anassagora, che l’uomo, in grazia delle mani da lui godute, fosse dotato dalla natura di senno (Arist. de part. anim. I. 4. c. 20. Galen. de usu part. I . 1. c. 1). Nel che egli errò certamente: mentre non perché vi era la cetera fu fatto il suonatore, ma perché v’era il suonatore fu fabbricata la cetera. Non fu però data la mente all’uomo, perché egli possedeva le mani: ma bensì furono date all’uomo le mani, perchè egli possedeva la mente. Tuttavia questo errore include un gran panegirico delle mani, mentre denota, essere sì stupendo il loro lavorio, che non un uomo del volgo, ma delle scuole, arrivò a potersi persuadere, benché falsamente, che in riguardo delle mani noi fossimo ragionevoli (La mano e la ragione nell’uomo hanno fra di loro una così intima e naturale attinenza, che basterebbe essa sola la struttura della mano a provare la superiorità specifica dell’uomo sul bruto, non che l’esistenza di un supremo infinito Artefice).
VI. Ora lasciando andar ciò, certo è, che come la ragione, al parer del
filosofo, è virtualmente ogni cosa per conoscere, così la mano è virtualmente
ogni cosa per operare (Arist. 1. c. Galen. de usu part. I. 1. c. 4). Ond’è
che la natura, troppo fuor di ragione fu calunniata da chi si dolse, che,
producendo ella tutti gli altri animali sì ben guerniti, l’uomo solo produca
ignudo ed inerme. Che importa ciò, mentre all’uomo diede le mani, negate agli altri
animali, di lui men degni? Quindi è, che gli altri non possono mai mutar abito,
mutar armi, mutar nulla di ciò di cui li fornì là natura insieme col nascere;
ma debbono così stare, così andare, così adagiarsi, così pigliare i lor sonni:
laddove l’uomo può eleggersi a piacer suo e l’abito che vuole, e l’armi che
vuole, e le può deporre: tutto in virtù delle mani.
VII. Chi può però dire di quanti beni le mani anche lo provvedano? Queste di
alimento, queste di abitazione, queste di rendite, queste di agi, queste di
amenità, e queste di infinite ricreazioni da lui godute, or nelle pesche, or
nelle caccie, or ne’ conviti, or nei giuochi, or nelle sinfonie, or nelle
scene, che se non fosser le mani, sarebbono tutte opere ignote al mondo.
VIII. Quinci in due stati può l’uomo considerarsi: in pace ed in guerra. In
pace, che sarebbero tutte le arti proprie di un cuor tranquillo, senza la mano?
Anzi neppur vi sarebbero. Non vi sarebbero le meccaniche, quali sono il
tessere, il filare, il fabbricare, il cucire, ed altre infinite, che dalla mano
hanno tutta la loro forma, benché sì varia. Non vi sarebbero le scientifiche,
quali sono l’astronomia, l’architettura, la musica, l’anatomia, l’aritmetica,
la geometria, la geografia, che dalla mano hanno tutti i loro istrumenti
ammirabilissimi, e tutte anche le operazioni. E meno vi sarebbero ancora le
imitatrici, quali sono il delineare, il dipingere, il fondere, l’intagliare,
l’incidere, lo scolpire; arti di tutto sì debitrici alla mano. E per qual
cagione una pittura, una scultura, una statua, si dicon essere di mano di
Raffaello, del Bernini, del Buonarotti, o si negano essere di lor mano? se non perché
quanto in tali opere è di stimabile al guardo, si attribuisce più quasi dissi
alla mano dei loro valenti artefici, che alla mente.
IX. In guerra poi la mano fa che non solo l’uomo difendasi bravamente, ma ancor che offenda più di
qualunque animale. Non ebbe pertanto egli bisogno di corna, come hanno i tori,
perciocché di quelle ossa aguzze può molto più una spada di acciaio ch’egli
abbia in pugno, un’asta, un arco, e più anche uno schioppo carico. Onde è, che
i tori con la loro indomita fronte possono solo offendere da vicino, ma l’uomo
con la mano quanto oltre arriva a sfogar lo sdegno! Che però neppure egli ha
cagion d’invidiare i denti al cignale, il rostro allo sparviere, le branche
allo scorpione, gli artigli all’aquila, le zanne orrende al leone. Che se dal
leone è l’uomo superato in velocità, ecco che con la mano arriva l’uomo a
soggettarsi il cavallo, sul quale assiso vince il leone nel corso. (Galen. de usu part. I. 1. c. 1). Quindi, lavorando mille armi negli arsenali, assolda egli,
per dir così, fino i fulmini nelle bombe: ed arrivando sino a domar gli elementi
con la sua mano, ora comanda all’oceano che gli sostenga, benché superbo, sul
dosso possenti armate; ed ora imprigiona il fuoco dentro le mine, fino a costringerlo,
se si vuole rimettere in libertà, dì servirgli in tal atto di guastatore,
mandando all’aria, ove muraglie, ove massi d’immensa mole.
X. Tutte queste arti, o pacifiche, o bellicose (con tante ancora di più
che potrebbero annoverarsi) che sarebbero all’uomo senza la mano? Sarebbero
come un’aquila senza penne, inabile ad alzarsi un palmo da terra, non che a
volare. Laddove col favor della mano a che non si son esse avanzate di
perfezione? I soldati di Pirro, per dargli un vanto degno di quella velocità
con la quale egli al tempo stesso arrivava, assaltava, abbatteva ogni suo nimico
lo chiamarono un giorno col nome di aquila. Il che egli udendo: Sì, disse, soldati
miei: mi contento dell’onor che mi fate con dirmi un’aquila, purché sappiate,
che voi siete quell’ali su cui m’innalzo. Diansi pur dunque alla mente umana
tutte quelle lodi più alte ch’ella si merita, purché confessisi, che le mani
son l’ale per cui fa ella, che l’uomo sollevisi sopra gli altri animali, e
signoreggi.
III.
XI. Quindi è che restaci a considerare ora il meglio, che è l’artifizio con
cui le mani furono architettate dalla natura, affinché servissero all’uomo di
esecutrici sì belle ne’ suoi disegni. E giacché questo altro non è che provare
il secondo punto (cioè, quanto bene furono le mani adattate al lor fine
prossimo, di pigliare, di stringere, di sforzare, di straportare altrove ciò
che volessero) ecco che ad esse fu data in prima una figura bislunga, la quale
vada a terminare in più parti, e sottili e fesse e flessibili a meraviglia:
altrimenti non avrebber le mani potuto afferrare qualunque ragion di corpi,
circolari, o concavi, o retti (che son le forme cui si riducono tutti), e molto
meno avrebbero potuto afferrare i maggiori, o i minori di sé medesime, e
malamente gli eguali. E perché molti ancora di tali corpi sono di mole o disadatta,
o pesante, non solamente le mani, in riguardo di essi, furono due, ma furono tanto
pari, tanto pieghevoli, e tanto bene inchinate ancor l’una all’altra, che si
potessero aiutare insieme con somma facilità, come due sorelle carnali.
XII. Oltre a ciò, la division delle parti, cioè delle dita in cui la mano
finisce, doveva essere con tal arte, che quando queste si congiungano insieme,
la mano ci serva, come se ella fosse tutta d’un pezzo: e quando si disgiungano,
ella ci serva, come se fosse di più. Per lo qual fine si richiese altresì che
le dita fossero più di numero, ma non eguali di altezza, per potere al pari
comprendere il poco e ‘1 molto: il poco, quale sarebbe un ago al sartore, con l’estremità
dello prime due; il molto, quale sarebbe un’alabarda al soldato, con tutte
insieme.
XIII. Né dovevano essere tutte disposte tali dita ad un modo: altrimenti se
non vi fosse da lato il pollice, qual sarebbe la forza delle altre quattro? A
premer bene una cosa, conviene premerla e di sopra e di sotto. Di sopra la
premono l’altre dita, di sotto al tempo stesso la preme il pollice, dito però
più corto sì, ma più grosso: più corto, perché agli altri non sia d’impaccio;
più grosso, perché dovendo da sé solo valere al pari di tutti gli altri, sia
più robusto. Quindi è, che come la mano non val più nulla, se perdute le altre quattro
dita rimanga col solo pollice; così val poco, se perduto il pollice resti con l’altre
quattro. Che però agli Egineti sì prodi in mare, fecero gli ateniesi tagliare
il pollice, perché restassero atti a maneggiare il remo a loro piacere, ma non
già l’asta. (Aelian. De Var. hist. 1, 2. c. 3).
XIV. E da che i corpi sferici, ad esser ben tenuti, non richiedono manco di
cinque dita, cinque le dita sono, ma non son più, perché il sesto, siccome non
necessario, sarebbe più d’incomodo a qualunque opera che di aiuto.
XV. Parimente dovevano le dita essere così tenere, così tonde, e così
rinforzate in su l’estremo con l’unghie, quali in noi sono. Se non fossero tenere,
non sarebbero istrumenti opportuni al tatto, tanto più valido, quanto più
risentito: se non fossero tonde, non sarebbero tanto forti a tenere ciò che
afferrano: e se non fossero rinforzate dall’ unghie, riuscirebbero inabili a
ben tastare, specialmente le cose piccole, e a grattare, a graffiare, a scarnare
ciò che sia d’uopo.
XVI. Di vantaggio non bastava alle dita poter piegarsi, affine di afferrare
opportunamente ciò che volevano; ma dovevano ancora piegarsi tanto, che si
adattassero a qualunque figura; e dall’altra banda non potevano senz’ossa fare
gran forza; pertanto ecco che la natura, lavorandole a tal effetto d’ossa e di carne,
ha divise ad un’ora l’ossa in più articoli, acciocché la man si potesse e
spiegare in un attimo, e ripiegare senza fatica.
XVII. Tre sono gli articoli delle dita minori, perché se fossero più, non si distenderebbero tanto bene; e se meno, non abbraccerebbero ogni figura, ancora rotonda. E due sono gli articoli nel maggiore, cioè nel pollice, perché abbia
maggior possanza a resistere quando preme. Ciascuno pòi di questi articoli è
legato mollemente non meno che fortemente nella sua giuntura, affinché per
qualunque sforzo non si sconvolga: essendo frattanto ciascuna giuntura ripiena
di un umor pingue, che facilita il moto per ogni verso; come costumasi di
tenere unte le ruote, perché in andare, più speditamente rivolgansi intorno l’asse.
XVIII. E dacché l’ossa non potevano muoversi da sé sole, la natura vi aggiunse
i muscoli, provveduti né di tanta carne, dalla parte superior delle dita, che
la mano riuscisse troppo pesante; ne di sì poca dalla parte inferiore, che, come
emunta, riuscisse poco abile al palpeggiare.
XIX. Ai muscoli è convenuto poi di aggiungere i nervi, le vene, le arterie, le fibre, ed altri legami finissimi, intorno ai quali tante cose osserva Galeno, e tanto vi ammira la sapienza del loro compositore, che pare aver lui cambiate le parti di fisico in quelle di teologo, giungendo a riconoscere nella figura, nella fortezza, e nell’accrescimento dell’unghie stesse una provvidenza bastevole a svergognare qualunque incredulo.
IV.
XX. Ma frattanto interviene a me come ad un pescatore di perle, che mirando
sott’acqua uno stuolo di margherite, che vanno a nuoto non sa quale si prendere
avidamente, e quale lasciare: né tanto è allegro per la preda che stringe,
quanto è afflitto per quella che scappagli dalla mano, angusta al bisogno.
Altro libro che questo si converrebbe per discorrere degnamente di tali cose,
senza pentirsi di averne impreso a trattare. Stando nondimeno in quel poco che
ne ho accennato, vi sarà chi si possa persuadere, che mani lavorate con sì grande
attitudine al loro fine, siano senz’arte? Anzi, come saranno giammai senz’arte,
se esse son le immediate lavoratrici di quanto tutte le arti hanno in sé di
utilità e di vaghezza, che pure è tanto? Quando fosse l’uomo però divenuto muto
in predicar le glorie del Creatore, io son certo, che benché privo di lingua me
lo darebbe chiaramente a conoscere, come sa fare ogni mutolo, con le mani.
XXI. E voi, che con tale occasione avete ormai scorto, che benefizio sia
quello che il Creatore vi conferì con rendervi, in virtù di esse, spedito e sciolto
a qualunque opera vostra, vi siete mai ricordato di ringraziarlo di sì gran
dono? Figuratevi un poco, che sia di un uomo che nasce monco, o che monco in brieve
diviene. Non è spettacolo fino agli stessi nemici di pietà somma? Come volete
però, che un benefizio sì nobile, qual è questo, si debba al caso? Il caso (se
vogliamo parlar così) il caso può levare ad uno le mani, con fare a cagion
d’esempio, che quando egli scarica un archibuso, o un’artiglieria, se le
stroppi miseramente; ma non può dargliele. Questo non è mai seguito a memoria
d’uomo. Come dunque ritroverassi chi, invece d’impiegar le sue mani in tessere
ogni dì novelli serti di gloria a chi gliele diede, le impieghi ingrato a
strapparglieli dalla fronte?
SALMO 117: “CONFITEMINI DOMINO, DICAT NUNC ISRAEL”
CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE
TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et
d’Éloquence sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME TROISIÈME (III)
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 117
Alleluja.
[1] Confitemini Domino,
quoniam bonus, quoniam in sæculum misericordia ejus.
[2] Dicat nunc Israel:
Quoniam bonus, quoniam in sæculum misericordia ejus.
[3] Dicat nunc domus Aaron: Quoniam in sæculum misericordia ejus.
[4] Dicant nunc qui timent Dominum: Quoniam in sæculum misericordia ejus.
[5] De tribulatione invocavi Dominum; et exaudivit me in latitudine Dominus.
[6] Dominus mihi adjutor; non timebo quid faciat mihi homo.
[7] Dominus mihi adjutor; et ego despiciam inimicos meos.
[8] Bonum est confidere in Domino, quam confidere in homine.
[9] Bonum est sperare in Domino, quam sperare in principibus.
[10] Omnes gentes circuierunt me; et in nomine Domini quia ultus sum in eos.
[11] Circumdantes circumdederunt me, et in nomine Domini quia ultus sum in eos.
[12] Circumdederunt me sicut apes, et exarserunt sicut ignis in spinis; et in nomine Domini, quia ultus sum in eos.
[13] Impulsus eversus sum, ut caderem; et Dominus suscepit me.
[14] Fortitudo mea et laus mea Dominus; et factus est mihi in salutem.
[15] Vox exsultationis et salutis in tabernaculis justorum.
[16] Dextera Domini fecit virtutem, dextera Domini exaltavit me; dextera Domini fecit virtutem.
[17] Non moriar, sed vivam; et narrabo opera Domini.
[18] Castigans castigavit me Dominus, et morti non tradidit me.
[19] Aperite mihi portas justitiæ: ingressus in eas confitebor Domino.
[20] Hæc porta Domini, justi intrabunt in eam.
[21] Confitebor tibi quoniam exaudisti me, et factus es mihi in salutem.
[22] Lapidem quem reprobaverunt ædificantes, hic factus est in caput anguli.
[23] A Domino factum est istud, et est mirabile in oculis nostris.
[24] Hæc est dies quam fecit Dominus; exsultemus, et lætemur in ea.
[25] O Domine, salvum me fac; o Domine, bene prosperare.
[26] Benedictus qui venit in nomine Domini: benediximus vobis de domo Domini.
[27] Deus Dominus, et illuxit nobis. Constituite diem solemnem in condensis, usque ad cornu altaris.
[28] Deus meus es tu, et confitebor tibi; Deus meus es tu, et exaltabo te. Confitebor tibi quoniam exaudisti me, et factus es mihi in salutem.
[29] Confitemini Domino, quoniam bonus, quoniam in saeculum misericordia ejus.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO CXVII.
Davide invita se stesso e il popolo di Dio, che ei figurava, a lodare Dio pei beneficii, principalmente per la pietra angolare di Cristo, che unisce in sé le due pareti, i due popoli, de Gentili e degli Ebrei.
Alleluja: Lodate Dio.
1.
Date lode al Signore perché egli è buono perché la misericordia di lui è eterna.
2. Dica adesso Israele, come egli è buono, e come è eterna la sua misericordia.
3.
Dica adesso la casa di Aronne come è eterna la sua misericordia.
4.
Dicano adesso quei che temono il Signore, come è eterna la sua misericordia.
5.
Nella tribolazione invocai il Signore, e mi esaudì con’larghezza il Signore.
6.
Il Signore è mio aiuto; non avrò paura di quel che uomo si faccia contro di me
7.
Il Signore è mio aiuto, e io non farò caso dei miei nemici.
8.
Buona cosa ell’è il confidar nel Signore, piuttosto che confidare nell’uomo.
9.
Buona cosa ell’è il confidar nel Sonore, piuttosto che confidare ne’ principi.
10.
Mi assediarono tutte le genti; ma nel nome del Signore presi di esse vendetta.
11.
Mi assediavano strettamente, ma nel nome del Signore presi d’esse vendetta.
12.
Mi circondarono come uno sciame d’api, e si accesero come fiamma suol tra le
spine; rna nel nome del Signore presi di esse vendetta.
13.
Mi fu data la spinta, fui fatto sdrucciolare perché cadessi; ma il Signore mi
resse.
14.
Mia fortezza e mia lode il Signore, ed egli fu mia salute.
15.
Voce di esultazione e di salute ne tabernacoli dei giusti.
16.
La destra del Signore ha fatto gran cose: la destra del Signore mi ha esaltato;
la destra del Signore ha fatto gran cose.
17.
Non morrò, ma vivrò, e racconterò le opere del Signore.
18.
II Signore mi ha castigato severamente; ma non mi ha dato alla morte.
19.
Apritemi le porte della giustizia; entrato in esse, darò lode al Signore:
questa è la porta del Signore: per essa i giusti entreranno.
20.
Darò lode a te, perché mi hai esaudito, perché tu se’ mia salute.
21.
La pietra cui rigettarono quei che edificavano, è divenuta testata dell’angolo.
22.
Dal Signore è stata fatta tal cosa, ed ella è meravigliosa negli occhi nostri.
23.
Questo è il giorno che è stato fatto dal Signore; esultiamo, e rallegriamoci in
esso.
24
Salvami, o Signore; o Signore, concedi prosperità: benedetto lui che viene nel
nome del Signore.
25.
Abbiam dato benedizioni a voi, che siete della casa del Signore: il Signore è
Dio, ed egli è a noi apparito.
26.
Distinguete il giorno solenne co’ folti rami fino al corno dell’altare.
27.
Mio Dio se’ tu, e a te io darò lode; mio Dio, se’ tu, e io ti esalterò.
28.
Darò lode a te, perché mi hai esaudito, e sei mia salute.
29.
Date lode al Signore, perché egli è buono, perché è eterna la sua misericordia.
Sommario analitico
In questo salmo, il Re-Profeta considera
le diverse tribolazioni e le prove multiple attraverso le quali è passato Gesù-Cristo
ed in seguito tutti i suoi fedeli servitori, la gloriosa resurrezione che ne è
seguita ed ha coronato le sue sofferenze e, sotto l’impressione di questo
magnifico spettacolo, nel nome stesso della Chiesa cristiana. [Questo salmo è
stato composto per la processione solenne che i Giudei facevano con i rami in
mano (27), l’ottavo giorno della festa dei tabernacoli. Quella di cui qui si
tratta, è quella che coincise con la posa della prima pietra del secondo tempio
(Esdr.
III, 10, 11), o piuttosto quella in cui fu celebrata la dedicazione di
questo tempio, la stessa forse della quale si è parlato (II Esdr., 8). Tutto il
popolo condotto da uno dei suoi principali capi, si reca in processione sul
monte Moriah cantando: « Confitemini, etc., » ed il seguito fino al versetto
18. Arrivati nei pressi del tempio, il capo chiede che le porte gli si aprano,
(19); i sacerdoti che vengono rispondono dall’interno e si instaura un dialogo
tra i sacerdoti, il popolo ed il suo capo (19-28). Dopo il v. 24, le porte si
aprono, il popolo entra al canto dell’osanna, ed il cantico termina così come è
cominciato (Le Hir.). È un dialogo
tra il capo del popolo, i sacerdoti ed il popolo, benché gli interpreti non si
accordino sulla distribuzione di questo dialogo (V, Distinction primitive des Psaumes en monologue et en dialogues.)
Il salmista:
I. – Invita a lodare la bontà e la
misericordia di Dio (1)
1° Il popolo di Dio (2);
2° i sacerdoti (3);
3° Tutti coloro che temono il Signore
(4);
II. – Ne dà le ragioni:
1° Dio lo ha esaudito in mezzo alle
tribolazioni (5);
2° Gli ha dato un soccorso potente
contro gli attacchi degli uomini e dei demoni (6, 7);
3° La sua speranza in Dio è stata più
fruttuosa che se l’avesse messa negli uomini (8, 9);
4° gli ha dato la vittoria contro le
persecuzioni dei suoi nemici più furiosi (10- 13);
5° lo ha salvato da una certa rovina,
diventando sua forza e sua salvezza (13, 14).
III. – Descrive la felicità dei santi:
1° Essi si danno a trasporti di gioia e
di allegria, in riconoscenza della salvezza che hanno ottenuto (15);
2° Essi saranno esaltati e glorificati
da Dio stesso (16);
3° Dio darà loro l’immortalità nel
cielo, dove lo loderanno per l’eternità (17-21).
IV. – Celebra
la gloria di Gesù-Cristo:
1° Dopo essere stato rigettato da coloro
che costruivano l’edificio, è divenuto pietra d’angolo (22).
2° Questa mirabile opera è l’opera di
Dio (23);
3° Il giorno in cui si è compiuta, è ora
per fedeli un giorno di gioia e di allegrezza (24);
4° I fedeli lo celebrano con acclamazioni
alla gloria del Salvatore (23, 26);
5° Essi gli consacrano questo giorno
celebre per sempre, riconoscendolo e proclamandolo come loro Dio, rendono
pubblico che essi sono stati salvati esclusivamente dalla sua grazia, ed
invitano tutti gli uomini a lodare costantemente la sua bontà e la sua
misericordia (27-29).
Spiegazioni e Considerazioni
I. — 1-4.
ff.
1 –
4. –Il Profeta non
poteva esortarci più vivamente e con meno parole, a lodare Dio, che non aggiungendo:
« perché Egli è buono. » Io non vedo nulla di più inteso che questa parola così
concisa, perché la bontà è talmente propria a Dio, che il Figlio di Dio,
chiamato il “buon Maestro”, detta ad un Giudeo che credeva che Egli non fosse
che un uomo, rispondendo: « Perché mi chiamate buono? Nessuno è buono se non
Dio solo. (Marc. X, 17, 18). Cosa volevano dire queste parole, se non che:
« per chiamarmi buono, comprendete che Io sono Dio. (S. Agost.). – E che! La
casa di Israele che ha sofferto innumerevoli cattività, che è stata ridotta in
schiavitù, condotta fino alle estremità della terra e che, nel Salmista, è
stata messa alla prova tra mali senza fine? Si, certo, risponde il Salmista,
nessuno può rendere migliore testimonianza dei benefici di Dio, perché nessuno
ne ha ricevuto di più numerosi ed importanti: le loro stesse tribolazioni sono
pure una prova della sua infinità bontà. (S. Chrys.). – I Cristiani sono i veri figli di Israele,
perché imitano la fede di questi santi Patriarchi e devono ora cantare – e per
tutta l’eternità – le bontà infinite e le misericordie eterne di Dio. – Egli
invita qui i sacerdoti a cantare le lodi di Dio, per farci vedere l’eccellenza
del sacerdozio; perché più essi sono elevati al di sopra degli altri, più essi
hanno anche ricevuto gloria da parte di Dio, non solo in ragione del sacerdozio
stesso, ma per tutti gli altri privilegi che sono stati accordati loro. (S.
Chrys.). – I Sacerdoti di Gesù-Cristo che hanno parte al suo Sacerdozio,
ben più eccellente di quello di Aronne, sono obbligati per statuto a cantare
non solo con il cuore, ma con la bocca le misericordie del Signore, ed
annunziarle ai popoli. – «Tutti coloro che temono il Signore, dicano: “Egli è
buono”. Ecco, in effetti, coloro che possono conoscere la sua misericordia e
penetrare tutti i segreti della sua bontà, perché queste divine perfezioni non toccano
coloro che sono occupati nei loro piaceri, coloro che non considerano le
tribolazioni di questa vita come l’effetto della bontà e della misericordia di
Dio, coloro che non riflettono mai sulla natura del vero bene e del vero male,
coloro che non pensano affatto all’enormità dei loro peccati ed all’opposizione
che c’è tra Dio ed il peccato, coloro infine, che vogliono giudicare la bontà
di Dio con quella degli uomini. (S. Chrys.). – Noi dobbiamo lodare
Dio a causa della sua misericordia, perché essa è continua ed incessante,
perché essa è eterna, perché si spande in tutto l’universo, perché essa ci
circonda da ogni parte. (Ps. XXXI,10).
II. — 5-14.
ff,
5-7.
– Il
Salmista non dice: io ero degno di essere esaudito; egli non dice: io Gli ho
presentato le mie buone opere, e nemmeno: io mi sono contentato di invocarlo e
la mia preghiera è sufficiente per allontanare da me il malanno. (S.
Chrys.). – Quando il demonio è padrone di un’anima, la serra e la tiene
schiava; la protezione di Dio la strappa via e la mette in libertà. – Colui che
è ben persuaso di essere nelle mani di Dio, che Dio regola tutto con la sua
volontà, che Dio è più potente di tutti gli uomini, non teme ciò che l’uomo gli
potrà fare. (Dug.). – Questo timore gli inspira non un orgoglioso, ma un
generoso disprezzo dei suoi nemici. Quale elevazione di spirito, qual grandezza
d’animo! Il Profeta si eleva al di sopra della debolezza umana, per disprezzarne in seguito tutta la natura! …
Notate che egli non dice: io sarò al riparo della prova, ma: « Io non temo ciò
che l’uomo mi potrà fare; » vale a dire, io sarò senza paura in mezzo alle
sofferenze, in mezzo anche ai miei nemici, esclamando con San Paolo: « Se Dio è
con noi, chi sarà contro di noi? » (Rom. VIII, 31). Non sarà in effetti,
il marchio di un’anima timida e pusillanime il temere i propri simili, quando è
sicura dell’amicizia del suo Dio? (S. Chrys.).
ff.
8,
9. –Ma se io
disprezzo i miei nemici, anche il giusto, con tutta l’amicizia che ha per me,
non esige che io metta in lui la mia fiducia; perché «… è meglio confidare in
Dio che confidare nell’uomo. » Ed anche se potessi, ad un certo punto, chiamare
questo amico, un buon Angelo, non mi verrebbe in mente di confidare in lui,
perché nulla è buono, se non Dio solo (S. Agost.). – La speranza con la
quale il mondo ingannatore sorprende l’imprudenza degli uomini o abusa della
loro credulità, non è altra cosa, a ben intendere, che una illusione piacevole;
e questo il filosofo lo aveva ben capito quando i suoi amici lo pregavano di
definire la speranza, ed egli rispose in una parola: « … è il sogno di una
persona che è sveglia. » Considerate in effetti, ciò che è un uomo gonfio di
speranza. A quale onore non aspira? Qual funzione, quale dignità non concede a
se stesso? Egli naviga già tra le delizie, e già ammira le sue grandezze
future. Niente gli sembra impossibile; ma quando, avanzando nella carriera che
si era proposto, vede nascere da ogni parte le difficoltà che lo arrestano ad
ogni passo; quando la vita gli manca, come un falso amico, in mezzo a tutte le sue
imprese; o, forzato dall’incontro delle cose, torna al suo senso stantio, e non
trova nulla nelle sue mani di tutta quella grande fortuna di cui si prospettava
una vaga immagine, cosa può giudicare da se stesso, se non una speranza
ingannevole che lo cullava un giorno per un tempo della dolcezza di un sogno
piacevole? … O speranza del secolo, sorgente infima di cure inutili e di folli
pretese, vecchio idolo di tutte le corse di cui il mondo si ride e che tutti
inseguono, non è di te che io parlo; la speranza dei figli di Dio non ha nulla
in comune con gli errori. Imparate a capire la differenza dell’uno e dell’altro:
« Ah! Veramente è meglio sperare in Dio che confidare nei grandi della terra. »
Questa differenza consiste in questo punto, che la speranza del mondo lascia il
possesso sempre incerto ed ancora molto lontano; mentre la speranza dei figli
di Dio è così salda ed immutabile, che io non temo di assicurare che essa ci
metta dinanzi il possesso della felicità che ci propone, e che costituisca un
inizio della gioia. (BOSSUET, Panég. de Ste Thér.). – Non vi appoggiate agli uomini, perché essi verranno meno, prima o
poi. L’uomo è debole, indiscreto, incostante, leggero, incline a rapportare
tutto a sé. Il più piccolo capriccio lo allontana, il minimo interesse è
sufficiente a trasformarlo in un nemico. Allora egli si mostra per ciò che è, egli
vi amava, ma … per se stesso, per profittare di voi al bisogno. – Al di fuori
di Dio e di ciò che è divino, dove trovare quaggiù un solido terreno per far
riposare le nostre speranze? Gli uomini son tutti dei castelli di sabbia che
cedono sotto i nostri piedi quando vogliamo appoggiarci ad essi; le cose umane
son delle foglie, e quando noi contiamo sul suo colore verdeggiante, l’ultimo
giorno d’autunno è già per esse arrivato. Ma l’anima che confida in Dio è
incrollabile; essa riposa su di un terreno solido; e quando anche tutto venisse
a mancarle dal lato terreno e sul mare alto delle agitazioni umane, essa trova
una sicurezza assoluta sulla rocca dell’eternità (Mgr LANDRIOT, Ste Comm., 431.)
ff.
10-12.
–Quale è il mezzo
per sfuggire a questo pericolo? Si tratta in effetti di venire alle mani, di
dar battaglia a nemici che sono presenti; il profeta è letteralmente
accerchiato, avvolto come in una rete, come in una trappola, e non a causa di
uno, due o tre popoli nemici, ma per tutte le nazioni riunite. Tuttavia, tutti
questi legami sono distrutti dalla fiducia in Dio. (S. Chrys.). – « Esse mi hanno circondato come delle api,
come la fiamma che avvolge un cespuglio. » Esse mi hanno circondato come le api circondano un favo di
miele, per togliere tutta la dolcezza che Gesù-Cristo aveva effuso nella sua
anima. (S. Gerol.). – Queste api, immagine di uomini pericolosi i cui
perfidi discorsi, distillano per noi il miele della adulazione, mentre che,
alle nostre spalle, non sognano che di erigere crudeli insidie. Quante simili
api hanno ronzato intorno al Signore durante i giorni della sua vita mortale!
Quando i farisei volevano sorprenderlo
nelle sue parole: « Maestro – gli dicevano – voi siete la stessa verità, e non
fate eccezione a nessuno. » (Matth. XXII, 16). Era la goccia di
miele; ma nello stesso tempo scagliavano contro di Lui il pungiglione del loro
odio, e giuravano di farlo morire. Parlando per bocca del suo Profeta, il
Signore li aveva già descritti in questi termini: « essi mi hanno circondato
come api. » (Mgr DE LA BOUILL. Symb. II,
413.). – Le api figurano la vivacità dell’azione, e le spine sono il
simbolo di una collera estrema e di un furore che nulla può sopprimere. Chi può
spegnere, in effetti, il fuoco che si attacca alle spine? E tuttavia, benché i
miei nemici abbiano preso fuoco e siano caduti su di me con la violenza e la
rapidità dell’incendio, non solo ho avuto paura di sfuggire loro, ma io le ho
annientate. (S. Chrys.). – È il Signore stesso, il capo della Chiesa, che è
stato circondato dai suoi persecutori, come le api circondano un favo di miele.
In effetti, lo Spirito Santo descrive qui, sotto una forma ingegnosa, ciò che i
Giudei hanno fatto senza saperlo; perché le api depositano il miele
nell’alveare, e coloro che hanno perseguitato il Signore gli hanno dato per
noi, senza saperlo, una dolce novella, facendolo soffrire, affinché gustassimo
e sentissimo quanto il Signore è dolce. (Ps. XXXIII, 9); … perché Egli è
morto a causa dei nostri peccati ed è resuscitato per nostra giustificazione
(Rom. IV, 25), (S. Agost.). – Qual è il fedele servo di Dio che non possa dire
che i nemici della salvezza lo investano incessantemente, che lo circondano
come uno sciame di api su di un favo di miele, e attacca colui che vuole
depredare i suoi alveari? Questa truppa di avversari non è anche come un fuoco
che cada su spine secche, e che le consumi in un momento? Oltre le potenze
dell’inferno che fremono incessantemente intorno a noi, quali tempeste si
levano nel nostro cuore? Noi siamo, in effetti, circondati da tre tipi di
nemici, che il Profeta sembra designare ripetendo tre volte che è stato
circondato da assedianti. Ma la carne è il più pericoloso delle tre: 1° perché
essa ci è unita con la più intima unione; 2° perché è una sete continua che non
possiamo impedire; si può mettere in fuga il demonio ed il mondo, ma per la
carne, per poterla vincere, non possiamo né metterla in fuga, né preservare per
sempre dagli attacchi, ed è quando finge di essere in pace con noi, che è ancor
più pericolosa. Sono questi attacchi della carne che ci vengono qui figurati
dalle api e dal fuoco che si attacca alla spine. In effetti l’ape, come la carne,
che nello stesso tempo ci dà il miele, ci punge con il suo pungiglione; l’ape
facile ad irritarsi, raffigura la carne che si rivolta così facilmente contro
lo spirito; l’ape, come la carne, pungendo con il suo pungiglione, si dà la
morte. – Vendicarsi nel nome del Signore, è rimettere nelle sue mani tutte le
ingiurie che si sono ricevute. Egli si è riservato la vendetta, Egli ha promesso
che l’avrebbe fatta!
ff.
13,
14. –
Per darci un’idea della grandezza delle sue prove, il Profeta ci ha descritto
la moltitudine dei suoi nemici, le loro minacce esterne, la vivacità dei loro
attacchi, l’accanimento contro di lui; egli aggiunge ora che lo hanno fatto
soffrire. Essi mi hanno assalito con tale impetuosità, che sono stati sul punto
di cadere ed essere abbattuti; essi mi hanno spinto così violentemente che ne
sono stato abbattuto, e hanno quasi buttato giù; ma nel momento in cui le mie
ginocchia stavano per indebolirsi, o la mia caduta sembrava inevitabile, ed io
non avevo più alcune speranza, Dio è venuto in mio soccorso. (S.
Chrys.). – Dio lascia talvolta rovesciare i suoi eletti, fino ad essere
sul punto di cadere, affinché l’uomo senta la propria debolezza, e non si
attribuisca la vittoria, come una madre che lascia vacillare il proprio bimbo
per insegnargli a camminare con maggiore precauzione. « Se il Signore non mi
avesse dato il suo appoggio, per poco la mia anima non cadeva nell’inferno. »
Se io dicevo: « i miei piedi sono vacillanti, la vostra misericordia, Signore,
veniva a stabilizzarli. » (Ps. XCIII, 17, 18). Quali sono
dunque coloro che cadono quando si spingono, se non coloro che hanno la pretesa
di essere se stessi la loro forza e la loro gloria? Perché nessuno cade nella
battaglia se non colui la cui forza e la glofia cadono egualmente. Colui, al
contrario, di cui il Signore è la forza e la gloria, non cade più di quanto il
Signore non cade. (S. Agost.). – « Il Signore è stato mia forza e mia lode, ed è
diventato la mia salvezza. » Cosa significano queste parole: « Egli è stato la
mia lode »? Egli è stato la mia gloria, il mio elogio, il mio ornamento, la mia
luce; perché, non contento di togliere l’uomo da ogni pericolo, lo ha circondato
di fulgore e di splendore, e lo vediamo aggiungere dappertutto la gloria e la
protezione che salva. Queste parole racchiudono ancora un’altra verità: Dio
sarà l’oggetto continuo dei miei canti, la mia voce è consacrata per sempre
all’inno della riconoscenza, e tutto il mio dovere sarà ora quello di lodarlo.
(S.
Chrys.).
III — 15 – 21.
ff.
15,
16. –Quale differenza
tra le case dei giusti e quelle dei peccatori: queste echeggiano troppo spesso
di crisi di dissensi, di collera, di passione, di pianti, di mormorii, di
rabbia, di disperazione; nella dimora dei giusti non si sentono che grida di
allegria, canti di riconoscenza per la salvezza ricevuta da Dio (Duguet).
– Ma qual è questa dimora dei giusti? Non è un luogo dove si possa pretendere
di avere una permanente stabilità, è un padiglione, una tenda. Abramo e gli
altri patriarchi eredi delle stesse promesse abitavano sotto delle tende,
perché essi sapevano che questa vita non è che un viaggio, e che attendevano
questa città che ha un fondamento saldo, di cui Dio stesso è il fondatore ed
architetto (Heb. XI, 9, 10). – Linguaggio ben diverso tra quello degli
orgogliosi e quello degli umili: gli orgogliosi si attribuiscono tutta la
gloria del successo delle loro imprese, e dicono con insolenza: « è la nostra
mano potente e non il Signore che ha fatto tutte le cose, » (Deuter.
XXXII, 27); gli umili dicono,
con tanta riconoscenza ed umiltà. « La destra del Signore ha fatto esplodere la
sua potenza, la destra del Signore mi ha elevato. » (Duguet). – È un atto di
grande potenza elevare l’umile, divinizzare un mortale, estrarre la perfezione
dalla debolezza, la gloria dalla soggezione, la vittoria dalla sofferenza, e
produrre il soccorso per le stesse tribolazioni, affinché gli afflitti
conoscano la vera salvezza che viene da Dio, rispetto a coloro che sono
afflitti dalla vana salvezza che viene dall’uomo. Si, è un atto di grande
potenza, ma perché ne sarete stupefatti? Ascoltate ciò che ripete il Profeta.
Non è l’uomo che si è elevato, non è l’uomo che si è reso perfetto, non è l’uomo
che si è dato la gloria, non è l’uomo che ha vinto, non è l’uomo che si è dato
la salvezza, ma le destra del Signore che ha fatto un atto di potenza (S.
Agost.).
ff.
17,
18. –
C’è qui una professione autentica dell’immortalità dell’anima, e di una vita ben
superiore a quella del corpo. – Questo santo trasporto del Profeta è quello di
ogni anima che il mondo non ha incantato; è lo slancio generoso del fedele che
vive della fede nelle promesse: « Io non morirò, io vivrò. » La terra ritorna
alla terra, e lo spirito va verso Dio che lo ha fatto (Eccl, XII, 7). Il mio
corpo deve dissolversi, ma il mio corpo non è mio, è tutt’al più il velo
grossolano che nasconde il mio vero essere, e la morte non è per me che
l’inizio della vita. (M. DE BOUL.Sur l’immortalité.).- Creato nel tempo, concepito
nell’eternità, io sono creato per l’eternità, io non morrò, perché le opere di
Dio non sono fatte per perire. La materia se non è giunta con l’anima, non è
nulla. Essa è alla creazione, ciò che il mio vestito è al mio corpo, e questo
corpo tutto da solo, non sono io; esso è il vestito che si usa e che cambia. Io
ho cambiato più volte vestito, più volte di corpo. Dov’è il mio corpo
dell’infanzia? Dov’è il fiore e la forza della mia giovinezza? Questo è morto,
come morto è il profumo ed i suoni che hanno traversato le arie. Ne resta ciò
che resta dell’erba dei tetti! La vera creazione, la creazione imperitura, è
ciò che è l’immagine di Dio. È là che ha ricevuto la perfezione dalle origini, e
non perirà. (L. VEUILL., Jésus~Christ, Ia
Partie, p. 6.) – Dio castiga
come un medico e non come un nemico. Sembra che il medico perseguiti il suo
malato, ma egli non perseguita che la sua malattia. Egli odia la sua malattia,
perché egli ama l’ammalato; e non fa soffrire colui che ama, se non per
liberarlo dal male di cui soffre (Duguet).
ff.
19,
21. –Il Profeta parla
qui di diverse porte, poiché si serve del plurale; egli aggiunge che una di
queste porte è quella del Signore, e che i giusti vi entreranno. Ci sono dunque
due porte, due templi, due case di Dio: la Chiesa ed il cielo. La Chiesa è la
prima dimora dei Cristiani, ma in questa vita i giusti si trovano mescolati ai
peccatori; bisogna attendere il momento in cui sarà detto ai giusti: « Entrate
nel riposo delizioso del vostro padrone. » Felici – dice l’Apostolo prediletto
– coloro che lavano la propria veste nel sangue dell’Agnello; essi avranno
diritto sull’albero di vita, ed entreranno per le porte della città. Lungi da
qui i cani, gli avvelenatori, gli impudichi, gli omicidi, gli idolatri, e
chiunque ami e preferisca la menzogna (Apoc. XXII, 14, 15). È sufficiente,
nel mio lungo esilio, « che io abbia abitato le tende del Cedar, e che sia
restato in pace in mezzo ad uomini che odiano la pace. » (Ps. CXIX, 5). Io ho
sopportato fino alla fine l’essere mescolato con i malvagi; ma « ecco le porte
del Signore, per le quali entreranno i giusti. » (S. Agost.). – Bisogna
quindi intendere queste parole delle porte del cielo, che restano chiuse ai
malvagi e si aprono alla virtù, all’elemosina, alla giustizia. Ci sono le porte
della morte, le porte della perdizione; ci sono le porte della vita, le porte
strette e piccole. È perché ci sono più porte che il Salmista ci da il segno
distintivo della porta del Signore, dicendo: « è qui la porta del Signore. » Qual
è questo segno? È che non ci sono se non coloro che Dio punisce, prova, che
entrano per questa porta, perché essa è ben stretta e ben chiusa. Se dunque
essa è stretta, solo coloro che sono stati radunati dalla tribolazione potranno
entrare per questa porta (S. Chrys.). – È veramente la porta
del Signore, perché Egli solo la chiude, senza che nessuno la possa aprire,
come Egli l’apre senza che nessuno la possa chiudere; perché Egli solo conosce
i suoi eletti, Egli solo giustifica i peccatori, ed Egli solo prende cura di
punirli per renderli giusti. (Dug.). – Il profeta spiega ciò che
sta per dire: « … Io entrerò e renderò grazie al Signore, » perché, benché i
giusti in questa vita indirizzino a Dio preghiere molto diverse e numerose,
tuttavia queste preghiere possono riassumersi tutte in questa sola domanda: «
Io ho chiesto una sola cosa al Signore, e non cesserò di richiederla: abitare
nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita; » ed il Salmista aggiunge
per rendere più chiaro il suo pensiero: Voi che siete la mia speranza, Voi
siete diventato la mia salvezza; Voi che siete il mio viatico, siete diventato
la mia ricompensa. (Bellarm.). – Se noi
vogliamo che Gesù-Cristo ci apra un giorno le porte del cielo, apriamogli fin
d’ora le porte del nostro cuore, affinché per Lui diventino le porte della
giustizia. Ogni giorno Egli ci ripete: « Apritemi le porte della giustizia. »
Le intendete dirvele nell’Apocalisse. « Ecco che Io sono alla porta e busso: se
qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, Io entrerò con lui, Io cenerò
con lui, ed egli con me. » (Apoc. III, 20). – Aprite dunque a
Gesù-Cristo le vostre porte, affinché Egli entri in voi; apritegli le porte
della giustizia, aprite le porte della castità, aprite le porte della forza e
della saggezza (S. Ambr. L. IV, de Fide, c. I). – Queste porte devono restare
chiuse ad ogni altro, e nessuna creatura deve passarvi perché il Signore di
Israele è entrato da questa porta. (Ezech. XLIV, 2).
IV. – 22-29.
ff. 22, 23. – Sono queste
delle parole spiegate e consacrate da Gesù-Cristo stesso, e dagli Apostoli (Matth.
XXI, 42; Marc. XII, 10; Luc. XX, 17; Act. IV; Rom. IX;
Ephes. II). Gesù-Cristo è l’opera di Dio per
eccellenza. È la principale pietra d’angolo, fondamento e legame della sua
Chiesa, ove ha riunito nel suo corpo, e i Giudei che lo hanno rigettato, ed i
Gentili che lo hanno crocifisso. – « La pietra che i Giudei hanno rigettata nel
costruire, è divenuta la pietra d’angolo, » la pietra principale, il nodo ed il
fondamento di tutto l’edificio. Questa pietra principale era il Cristo. Ora
questa pietra doveva essere rigettata. Il Cristo doveva quindi essere rigettata;
da chi, se non da coloro per i quali veniva? Non c’era stato nulla di
meraviglioso che fosse ascoltato o ricevuto da coloro ai quali non parlava,
come i Gentili; ma i Giudei, che dovevano costruire l’edificio principale,
riprovarono questa pietra che diventa, con tale mezzo, la pietra d’angolo che
unisce, in una sola costruzione, i Giudei ed i Gentili. « Ed è ciò che ci è
sembrato meraviglioso ed un’opera che Dio solo poteva compiere. » (BOSSUET,
Médit. Dern. Sem. XXXI jour.). – Questa non era un’opera umana, alcun
essere privilegiato, sia pure tra gli Angeli, sia pure tra gli Arcangeli,
poteva costituire la pietra che forma quest’angolo; era cosa impossibile per i
giusti, i Profeti, gli Angeli, gli Arcangeli; Dio solo poteva operare questa
meraviglia che gli appartiene e che gli è propria: a riunione dei due popoli in
un’unica Religione. (S. Chrys.).
ff.
24.
–
« Questo è il giorno del Signore. » Questo giorno non deve intendersi come
quello del corso ordinario del sole, ma per quello dei prodigi di cui è stato
il teatro. Quando noi diciamo di un giorno che è cattivo, noi non vogliamo
parlare del giorno misurato dal corso del sole, ma dei guai che la sua luce ha
rischiarato. È così che il Re-Profeta chiama un giorno di felicità, quello che
è stato testimone di avvenimenti felici, ed ecco il senso delle sue parole: Dio
è l’Autore dei prodigi compiuti in questo giorno, e la sua mano possente era la
sola capace di operarli (S. Chrys.). – Il giorno nel quale si
è compiuto questo grande capolavoro è propriamente il giorno che il Signore ha
fatto, come se, a paragone di questo giorno, il Signore non avesse fatto anche
tutti gli altri, come se non avesse destinato che questo giorno nel manifestare
la sua potenza, la sua saggezza, la sua bontà. – Queste parole sono anche
applicate al giorno chiamato Domenica o “giorno del Signore”, giorno consacrato
ai più grandi misteri delle operazioni divine, dice il Papa San Leone; giorno
in cui il Padre aveva cominciato a manifestare la sua gloria con la creazione
primordiale del mondo; giorno in cui il Figlio, con la sua Resurrezione, ha
distrutto la morte ed aperto le sorgenti di una vita migliore; giorno in cui lo
Spirito-Santo, discendendo sugli Apostoli, ha fondato definitivamente il regno
spirituale ed eterno della Chiesa; giorno soprannaturale tanto superiore al “sabbat”
primitivo, quanto la rivelazione cristiana è superiore alla rivelazione del
primo giorno, tanto preferibile al sabbat giudaico quanto la nuova alleanza supera
l’antica; giorno che ci dà, dice S. Ilario, tutta la realtà e la pienezza di
ciò che l’antico sabbat non offriva che in figura ed in speranza; giorno che è
l’inizio della creazione nuova, dice San Atanasio, come l’altro sabbat era la
fine della creazione prima; giorno che il Signore ha fatto, e che sarà oramai
quello che dobbiamo santificare con il riposo e con le sante gioie (Mgr
PIE, Disc, et Inst. III, 388.)
– Che questo giorno sia anche il nostro primo giorno, che questo giorno ci
colmi di gioia; che questo giorno sia per noi un giorno di allegria e di
santificazione, in cui diremo con Davide: « È questo il giorno fatto dal
Signore; rallegriamoci e trasaliamo di felicità in questo giorno. » È il giorno
della Trinità adorabile; il Padre vi appare con la creazione della luce, il
Figlio con la sua rRsurrezione, e lo Spirito-Santo con la sua discesa. O santo
giorno, o giorno felice, possa tu essere sempre la vera Domenica, il vero
giorno del Signore per la nostra fedele osservanza, come Tu lo sei per la
santità della tua istituzione! (Bossuet,
Elev. III, S, VII, E.)
ff. 25, 26. –« O Signore, salvatemi, fate prosperare
il viaggio. » Poiché è il giorno di salvezza, salvatemi; affinché al ritorno
dal nostro esilio lontano, saremo separati da coloro che odiavano la pace, e
mentre noi siamo pacifici verso di loro, essi ci attaccano senza motivo: mentre
noi parliamo loro piacevolmente, rendete prospero il viaggio del nostro
ritorno, poiché Voi vi siete fatto nostra via. (S. Agost.). Esistono tre
tipi di prosperità: le battaglie nella pienezza della vittoria: « Nella vostra
maestà avanzate, siate felice e stabilite il vostro regno con la verità » (Ps.
XLIV, 5); la prosperità della via, per la grazia che ci è accordata: «
Il Dio che ci salva ci renderà felice la via in cui camminiamo, » (Ps.
LXVII, 20); la prosperità della patria, in cui Dio ci ricolmerà di
gloria. « l’Agnello che è in mezzo al trono sarà loro pastore, e li condurrà
alle fontane di acqua viva, e Dio asciugherà dai loro occhi tutte le lacrime. »
(Apoc.
VII, 17). – I Giudei applaudirono a Gesù-Cristo entrando da Gerusalemme,
e gridavano. « Benedetto Colui che viene nel nome del Signore, » e pochi giorni
dopo ne chiesero la morte. Un grande numero di Cristiani credono che
Gesù-Cristo sia venuto nel Nome di Dio, e non praticano ciò che è venuto ad
insegnare. Non è dunque sufficiente dire. « Benedetto Colui che viene nel nome
di Dio », bisogna chiedere perché Egli venga e cosa sia venuto ad insegnare. –
Le benedizioni sono date qui, non dalla terra, ma dalla casa di Dio; è la
Chiesa che ne è la depositaria, e le distribuisce nel Nome di Gesù-Cristo, che
l’ha stabilita. Se si è fuori da questa casa, non si può aver parte alle sue
benedizioni (Berthier).
ff.
27-29.
–
« Il Signore è Dio, Egli ha fatto brillare la sua luce su di noi. » Dio non ha
potuto trattare in modo più sfavorevole le anime che i corpi, il mondo
spirituale che il mondo fisico. È lo stesso Dio che effonde la luce sul
firmamento spirituale, e che la versa con più profusione, su una creazione più
elevata, su di un mondo più prezioso, il mondo delle anime. Il bagliore della
verità: « Lo stesso Dio – dice San Paolo – che ha comandato alla luce di
fendere le tenebre e di risplendere, lo stesso Dio risplende nei nostri cuori (II
Cor. IV, 6); « la grazia di Dio nostro Signore si è manifestata a tutti
gli uomini, per insegnarci a rinunziare all’empietà ed ai desideri del secolo,
e perché noi vivessimo quaggiù con sobrietà, con giustizia e con pietà
nell’attesa del gran Dio e nostro Salvatore Gesù-Cristo » (Tito, II, 11, 12). Questa
festa solenne, queste tende ombreggiate da foglie d’alberi fino ai coni
dell’altare, mi avvertono di considerare nella Religione come un celebrare una
festa continua. Non si tratta di mettersi in pompa, di praticarvi esercizi di
grande splendore: la Chiesa, in certi giorni, non dimentica di colpire gli
occhi dei suoi figli con l’apparato delle sue cerimonie; ma il Cristiano,
penetrato dalla grandezza dei misteri della Religione, li riverisce tutti i
giorni nel segreto del suo cuore, nel silenzio della preghiera; egli entra, per
così dire, nella nube del Signore, si nasconde all’ombra delle sue ali, vi
offre un sacrificio perpetuo di azioni di grazie, si immola incessantemente
sull’altare dell’amore divino. Le anime favorite da un dono di orazione
concepiscono bene questa solennità perpetua, come un’oscurità misteriosa,
questo altare sempre eretto nel loro cuore. In qualunque posto voi siate –
diceva San Crisostomo – e pregate, voi siete un tempio, voi portate dappertutto
il vostro altare. (Berthier). – Voi siete il mio Re ed il mio Dio, perché non è il
peccato, ma Voi che regnate su di me. Voi siete il mio Dio, perché io non sono
di coloro che hanno per loro Dio il proprio ventre ed i loro istinti
grossolani; perché Voi siete la stessa virtù, ed io desidero avere tutte le
virtù. È per questo che Voi siete il mio Dio, vale a dire la mia virtù (S.
Gerol.). – La fine di questo salmo è pieno di sentimento: « O Signore,
Voi siete il mio Dio! » Chi merita più di Voi le mie adorazioni e la mia
riconoscenza? Voi mi avete esaudito, Voi mi avete liberato dai nemici che mi
perseguitavano, Voi siete la bontà essenziale, e la vostra misericordia è senza
limiti. L’essenza e le perfezioni di Dio, sono l’oggetto di questi versetti.
Egli è l’Eterno, il Dio forte, il solo degno delle adorazioni di tutte le creature.
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE
TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et
d’Éloquence sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME TROISIÈME (III)
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 116
Alleluja.
[1] Laudate Dominum, omnes gentes,
laudate eum, omnes populi.
[2] Quoniam confirmata est super nos misericordia ejus, et veritas Domini manet in æernum.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO CXVI
Invita il
profeta la Chiesa, formata di Ebrei e di Gentili, a lodare Dio, per la sua
misericordia in chiamare a salute i Gentili, e per la sua verità in mandare
agli Ebrei il Messia secondo le promesse che ei fece non pei meriti loro, ma
per sua misericordia.Le genti lodino Dio
che diede
ad esse il Cristo
Alleluja: Lodate Dio.
1.Nazioni, quante voi siete, date laude al
Signore: popoli tutti, lodatelo.
2. Imperocché, la sua misericordia si è stabilita sopra di noi, e la verità del Signore è immutabile
in eterno.
Sommario analitico
Questo salmo che sembra essere stato
composto nella stessa epoca del precedente e del seguente, che sono entrambi
dello stesso stile, dello stesso periodo e senza dubbio dello stesso autore, è
un invito a lodare Dio. San Paolo lo cita come profezia della vocazione di
tutti i popoli alla vera fede (Rom. XV, 11).
I. – Questo invito è fatto a tutte le
nazioni, a tutti i popoli della terra, sia ai gentili che ai Giudei (1).
II.– Esso è fondato su due ragioni tratte dall’avvento di Gesù-Cristo, una è la misericordia di Dio estesa a tutti i Gentili; l’altra la verità ed il compimento delle promesse fatte al popolo Giudeo (2).
Spiegazioni e Considerazioni
I.— 1, 2.
ff. 1, 2. – È evidente a tutti che questo salmo è una profezia dello stabilirsi della Chiesa cristiana, e della predicazione del Vangelo, che si è esteso a tutta la terra. In effetti, non è solo una, o due o tre nazioni, ma la terra intera, è il mare che il salmista invita a lodare Dio (S. Chrys.). – L’Apostolo San Paolo, spiegando questo salmo ai Romani, lo cita come una profezia della vocazione dei Gentili: « Il Cristo Gesù si è reso manifesto prima al popolo circonciso, alfine di verificare la parola di Dio, e confermare le promesse fatte ai nostri padri; e quanto ai Gentili, essi devono glorificare Dio per la misericordia che ha loro concesso. » (Rom. XV, 11). In nessun altro popolo, oltre al giudaico, c’è stato uno scrittore che abbia annunziato che l’Uomo-Dio che si adorava tra questo popolo, sarebbe stato conosciuto da tutte le nazioni del mondo; presso nessun popolo, fuori dalla nazione giudaica, vi è una qualche tradizione costante che il Dio di questo popolo sarebbe stato un giorno il Dio che tutti le nazioni avrebbero adorato; presso alcun popolo; fuori dalla nazione giudaica, si sono conservati dei libri che facciano fede dei tre punti precedenti. Il Profeta ci mette tra le mani in questo salmo – il più breve di tutti – una dimostrazione della verità del Cristianesimo (Berthier). – Si trovano due motivi di lode che sono dovuti al Signore: la sua misericordia e la sua verità. Nell’esposizione del primo motivo, il Profeta non si separa dai Gentili; egli non dice « perché la sua misericordia si è soffermata su di voi », ma « su di noi », riconoscendo anche il bisogno che egli stesso aveva della misericordia. – Nell’enunciato del secondo motivo, si dice ancora qualcosa in comune a lui e a tutti i popoli: è che Dio si è mostrato fedele nelle sue promesse nei confronti di tutto il genere umano; ma egli insinua ancora una distinzione rispetto ai Giudei, i soli depositari delle promesse e dei libri che le contengono. – In Dio, in Gesù-Cristo, in noi che predichiamo il Vangelo – dice San Paolo – non c’è si e no; non c’è che un si, cioè che tutte le promesse di Dio si sono compiute in Gesù-Cristo, e che gli Apostoli di Gesù-Cristo sono fedeli nel rappresentare queste promesse ed il loro compimento (Berthier). – Nella vocazione e nella giustificazione di un peccatore, noi dobbiamo sempre adorare e lodare la verità di Dio e la sua liberalità, il compimento delle promesse che ha fatto a suo Figlio di dargli degli eletti, e la misericordia che ha fatto agli eletti dandoli a suo Figlio (Duguet)
[Some account of the APPARITION OF THE BLESSED VIRGIN Of LA SALETTE London 1853]
Non sarà necessario il produrre estratti
di altre numerose lettere e pubblicazioni apparse in Francia e altrove su
questo evento; non resta che accertare se la verità del racconto dei bambini
sia stata in qualche modo sostenuta da un’interposizione soprannaturale, cioè
se siano stati fatti o meno dei miracoli. Di miracoli nell’ordine della grazia sarebbe
facile citarne molti; come l’improvvisa conversione di peccatori incalliti e
infedeli dopo aver visitato la montagna o dopo aver preso, contro la loro
volontà, alcune gocce d’acqua dalla misteriosa sorgente. Una grande conversione
c’è, e si manifesta a tutti: la completa riforma portata avanti in tutto il
cantone e nel quartiere di Corps dalle parole di due bambini, che sono state
più efficaci degli appelli infuocati di pastori zelanti e di missionari
evangelici. Sì, tutto il Paese si è convertito; e le loro preghiere e le penitenze,
insieme a quelle delle centinaia di migliaia di forestieri che hanno visitato
il luogo, indubbiamente hanno evitato la punizione di cui la Santa Vergine ha
minacciato il “suo popolo” nel caso non si fosse pentito. Di miracoli
nell’ordine della natura, compiuti con l’uso dell’acqua di La Salette,
accompagnati da una novena, i commissari ecclesiastici di Grenoble ne hanno
ricevuto così tanti resoconti debitamente autenticati dalla testimonianza di
medici, che è utile un esame molto rapido per fugare ogni dubbio su questo
punto. Tra i tanti riportati nell’opuscolo di M. Rousselot, che non sono altro
che una selezione tra i tanti di cui egli sia venuto a conoscenza, se ne
noteranno qui solo due o tre, che si caratterizzano per la particolarità di
portare con sé tutti i segni di autenticità richiesti.
I – Guarigione della Suora Saint Charles, del
Convento di San Giuseppe, nella città di Avignone. Di seguito si
riporta la dichiarazione della Superiora del convento : – « La suora Saint
Charles è entrata nella nostra casa a diciassette anni e mezzo; la sua
costituzione era molto delicata: poco dopo la professione la sua salute ha
ceduto del tutto; e prima della fine del noviziato si era ridotta in uno stato
gravissimo con dolori allo stomaco, frequenti vomiti sanguinolenti,
dissenteria, febbre bassa e continua, che la tennero per più di otto anni sul
letto di dolore. Durante questo periodo le è stato più volte somministrato ed
ha ricevuto il Viatico. Tutti i medici che l’avevano visitata avevano dichiarato
il suo stato senza speranza alcuna. Poteva ella alzarsi dal letto solo molto
raramente, e solo per un tempo molto breve; non assisteva al santo Sacrificio
della Messa più di cinque o sei volte all’anno al massimo; e poi lo sforzo che
faceva era accompagnato da una tale stanchezza tanto da ridursi ad un grado estremo.
Più di una volta è stato necessario portarla via in uno stato di completa
incoscienza; per cui questo favore le è stato accordato solo in considerazione
del suo ardente desiderio, e non per affliggerla troppo. Nel mese di dicembre
1846, i suoi sintomi si aggravarono molto; e noi ripetutamente ci aspettavamo
di perderla ad ogni momento. Lo stato infiammatorio si diffuse alla gola e alla
bocca; ingoiava con grande difficoltà. Quest’affezione presentava tutti i
sintomi di un’ulcera: ne derivava un odore così corrotto da essere quasi
insopportabile; un’abbondante espettorazione mista a sangue contribuiva ancora
di più ad indebolirla e a rendere il suo stato deplorevole. Da questo periodo
fino al 16 aprile non ha potuto assaggiare né pane né alcunché di solido;
viveva alimentandosi solo di brodo, o di latte ed acqua, che poteva assumere
solo in piccolissima quantità, anche se era costretta a bere spesso; perché, se
non lo faceva, la sua gola collassava. Il 14 febbraio 1847 ricevette l’Estrema
Unzione, ed il Viatico le fu somministrato due o tre volte nelle settimane
successive. Tale era la condizione della sorella quando si cominciò a parlare
dei miracoli provocati dall’uso dell’acqua di La Salette. Riconosco, a mia
confusione, di non aver dato credito a tutte queste voci; ma avendo sentito
parlare della guarigione di una suora del “Sacro Cuore”, ho sentito
nascere in me una convinzione, e ho proposto una Novena alla nostra povera
inferma. Per quanto grande fosse il desiderio che avevo della sua guarigione,
avevo ancora di più in vista la gloria della Santa Vergine, la confermazione
della sua apparizione ai due pastorelli e la conversione dei peccatori. Fu per
questi motivi che tra le nostre sorelle malate, che allora erano molto
numerose, scelsi la suora Saint Charles come colei che, essendo la più
conosciuta in conseguenza della lunga durata della sua malattia, poteva meglio
servire al fine che mi proponevo. Le comunicai la mia idea: lei mi sembrò, la
prima volta, molto indifferente, e mi dichiarò che non aveva alcun desiderio di
recuperare la sua salute, che le avrebbe solo impedito di tornare nell’eternità,
e che preferiva morire, o rimanere nello stato in cui si trovava fino a quando
sarebbe piaciuto a Dio. Le feci la stessa proposta più volte; ma trovandola
sempre nelle stesse disposizioni, pensai che avrei dovuto usare la mia
autorità. Ottenuta una piccola quantità d’acqua da La Salette, le dissi che non
avrebbe dovuto considerare tanto se stessa quanto la gloria di Dio, e la
maggior devozione verso la Santa Vergine, che ne sarebbe risultata da una guarigione,
o da una straordinaria opera in suo favore. Le ordinai allora di unirsi alla
Novena che la comunità avrebbe fatto per lei, e di prendere l’acqua che le
avevo portato. Fu convinta fin dall’inizio che se avesse fatto questa Novena
sarebbe stata guarita, e si sottomise nel farlo in obbedienza. Le feci anche
indicare le preghiere e gli esercizi da seguire durante la Novena. Ogni giorno
una delle suore si recava alla santa Comunione in spirito di riparazione per i
peccati principali che la Vergine aveva indicato ai pastorelli, e con
l’intenzione di ottenere la conversione dei bestemmiatori e dei profanatori
della domenica. Abbiamo anche digiunato tre volte con la stessa intenzione; e
ogni giorno abbiamo recitato la “Salve Regina”, tre Ave, con le invocazioni
“O Maria concepita senza peccato etc. “, e “Mater admirabilis“.
La Santa Vergine sembrava mettere la nostra fiducia a dura prova, perché la
nostra povera sorella era sempre molto malata e sofferente. Il giovedì, al
settimo giorno della Novena, ebbe uno svenimento, seguito da un’abbondante
espettorazione di materia purulenta mescolata al sangue. Questo incidente ci ha
molto allarmato. Vedendola in questo stato, le ho detto: « Penso che la Santa
Vergine ti curerà portandoti in cielo ». Ella rispose: « Le mie malattie non
indeboliscono la mia coscienza, e siccome ho solo altri tre giorni per
soffrire, prego la mia buona Madre di non risparmiarmi; e ho grandi speranze di
poter andare sabato alla santa Messa e di potermi comunicare ». In una parola,
ha fatto tutti i preparativi necessari per farlo, e ha implorato che le
venissero portati i suoi vestiti ed il suo velo, di cui non aveva fatto uso per
molto tempo. Il venerdì 16 aprile, dopo aver trascorso una notte molto brutta,
sputava ancora sangue al mattino. Monsignor de Prilly, Vescovo di Chalons,
doveva celebrare la Messa nella nostra cappella alle sette. Per ottenere le
indulgenze legate alla Messa del prelato, ho proposto per un giorno la
Comunione generale, che doveva essere il sabato, per la fine della Novena.
Questo cambiamento affliggeva molto la sorella Saint Charles, che era molto
addolorata per non essere riuscita a unirsi quel giorno alla comunità, ed aveva
paura di rimanere sola alla sua Comunione del mattino, che sarebbe stato,
secondo lei, il giorno della sua guarigione. Mentre noi assistevamo alla Messa,
lei faceva i suoi progetti e proponeva di chiedere al nostro confessore
un’altra Comunione generale, per potersi presentare alla santa Mensa con tutte
le sue sorelle ed essere più certamente accetta a Dio. La sua mente era
abbastanza piena di quest’idea, quando all’improvviso si rese conto che era
avvenuto in lei un totale cambiamento. Tutti i suoi mali cessarono
improvvisamente, « … come se una mano invisibile li avesse portati via »:
questa era la sua stessa espressione; non riconosceva più se stessa e non
poteva credere a ciò che aveva vissuto. Si mise alla prova in vari modi, per
essere sicura di non soffrire di un’illusione; e percependo di aver recuperato
completamente le forze, non esitò a credere di aver ricevuto la grazia che le
era stata chiesta e gridò: « Sono guarita! ». La sorella Saint Joseph, che era
a letto nella stessa stanza, non capiva quello che diceva, e pensava, al
contrario, che stesse peggiorando; era tanto più allarmata, perché in quel
momento era sola e troppo malata per andare ad aiutarla. La sorella Saint
Charles, sentendola piangere, si alzò dal letto e andò a consolarla. Lo stesso
fece con la portinaia, che si prendeva cura del convento durante la Messa, e fu
terribilmente spaventata nel sentire qualcuno correre nella stanza in cui aveva
lasciato a letto, solo persone malate. Arrivò di corsa, senza fiato, e si sentì
male. La suora Saint Charles la calmò, le diede qualcosa da bere, così come
alla suora Saint Joseph, e assicurò loro che fosse guarita. Erano appena
arrivati al Vangelo della Messa. La suora si è vestita di fretta e si è recata
all’anticapella, dove ha ascoltato il resto della Messa in ginocchio e senza
alcun sostegno. Quando lasciammo il coro, venne ad incontrarmi per
abbracciarmi. Le ho detto che doveva tornare, per ringraziare la sua
Benefattrice celeste. Mi rispose che lo aveva già fatto, avendo ascoltato gran
parte della Messa e avendo recitato il “Te Deum“, ma che
desiderava molto qualcosa da mangiare, perché aveva un grande appetito. Ho
affrettato il passo e le ho detto di seguirmi, per provare le sue forze; lei ha
camminato in fretta, ed è scesa le scale con la stessa velocità con cui l’ho
fatto io. Le diedi un pezzo di biscotto, che mangiò quasi con avidità. In
seguito entrò nella sala della comunità per abbracciare le suore, che rimasero
stupefatte da questo avvenimento meraviglioso, e per ricevere la benedizione di
Monsignor de Prilly. Questo santo prelato la esortò a ringraziare Dio e la sua
beata Madre e ad essere molto fedele ai doveri del nostro santo stato. La
mattina, ora, si pone in ginocchio in preghiera per un’ora, dopo di che si reca
al lavoro, stira la biancheria per un tempo considerevole, segue subito tutte
le osservanze della casa e si reca al refettorio, dove mangia la cena ordinaria
della comunità. Lo stesso giorno, ricordando che le avevano preparato del brodo
di carne, che non le era ormai più necessario, mi chiese il permesso di
portarlo ad una povera ammalata che era tra le nostre mura e che noi
assistevamo. Per andare da lei, era necessario salire una lunga e scomoda
scala; la sorella lo fece con grande facilità. La fama di questo evento, che si
diffuse presto all’esterno in città, attirò nel nostro convento una moltitudine
di persone, che vollero accertarsi di persona della verità di un fatto così
straordinario. Le nostre sale sono state affollate per molti giorni; e la
fatica che tante visite devono aver causato alla suora, non è stata che una
piccola ulteriore prova della sua forza. Lei ha sostenuto tutto questo in un
modo che ci ha stupito, e non ne è stata affatto affranta, anche se è stata
costretta a parlare quasi tutto il giorno. Soprattutto i medici non potevano
credere ai loro occhi. Uno di loro, che veniva molto spesso, e che aveva
seguito tutto l’andamento della malattia della sorella, mi aveva spesso detto:
« Nel momento in cui meno te lo aspetti, la vedrai morire, perché non so cosa
possa essere che la tenga ancora in vita ». Le ho parlato della novena che
stavamo facendo, e gli avevo chiesto se avesse potuto fare un’attestazione nel
caso in cui le nostre preghiere fossero state accettate. « Se sarà guarita –
rispose – ti darò mille attestati, perché per lei tutto è inutile ». Mi
affrettai ad informarlo di tutto ciò che era accaduto; e gli permisi di
raccontare da se stesso, nella sua attestazione, di quale sia stata la sua
sorpresa, la sua meraviglia, e le prove alle quali ha sottoposto la sorella per
essere certamente sicuro della guarigione. Poiché la suora Saint Charles aveva potuto
unirsi alla Novena solo in parte, aveva promesso di digiunare per tre giorni,
nel caso fosse guarita; ha adempiuto al suo voto pochi giorni dopo, senza
provare la benché minima stanchezza. Aveva anche fatto i digiuni dei giorni
della quatempora e del giubileo, che avvenivano nello stesso periodo. Sono
passati ormai quindici mesi da quando questa guarigione si è verificata; e da
allora la suora Saint Charles continua a seguire gli esercizi della comunità,
si alza alle cinque del mattino, e gode di uno stato di salute perfetto,
considerando la delicatezza abituale della sua costituzione. Desidero che
questo rapporto possa contribuire alla gloria di Dio, all’incremento della
fede, e possa essere un eterno monumento della nostra gratitudine verso la nostra
gloriosa Benefattrice, che ha concesso alla nostra comunità una prova così
toccante della sua potente protezione. È con questa convinzione che firmo
questo testimonianza, certificando che in essa non c’è nulla che non sia
conforme alla più esatta verità.
J.
PINEAU, Superiora delle Sorelle di San Giuseppe ».
A questa lettera si aggiungono gli
attestati di due medici che erano stati costantemente presenti nella malattia
della sorella Saint Charles, e che di conseguenza conoscevano bene da tempo il
suo caso. L’uno fornisce un dettagliato resoconto scientifico del suo disturbo,
e dichiara che la sua guarigione è contraria alle leggi della natura.
L’attestazione dell’altro è così formulata: « Il sottoscritto dottore in
medicina, primario onorario dell’ospedale di Avignone, dopo trentasei anni di
servizio attivo, dichiara che la guarigione imprevista ed inattesa da una
condizione considerata, secondo le leggi della medicina, mortale, nella persona
della suora Saint Charles, sopra citata, ad uno stato di perfetta salute di tutti
i suoi organi e di tutte le loro funzioni, è stata operata istantaneamente,
senza l’intervento di alcuna applicazione dell’arte, e che quindi è di natura
prodigiosa. Rooms, D.M. ». – Durante la vacanza nella sede di Avignone, causata
dalla morte dell’Arcivescovo, i tre Vicari generali che poi hanno diretto gli
affari della diocesi, su richiesta del Vescovo di Grenoble circa il loro parere
sul tema della guarigione della suora Saint Charles, hanno risposto come segue:
« -1). La guarigione di questa suora, tanto completa quanto improvvisa, fu
operata il 16 aprile 1847, ottavo giorno di una novena che la comunità stava
facendo in onore di Nostra Signora di La Salette, per ottenere questa grazia.
-2) I due medici che avevano curato la suora durante la sua malattia, e che da
allora hanno reso rapporto della sua guarigione, sono degni di ogni credito. –
3) Il defunto Arcivescovo di Avignone era pienamente convinto che la sorella
fosse stata guarita per miracolo. – 4). La suora Saint Charles continua a
godere di buona salute e segue le regole ordinarie della comunità. Avignone, 23
giugno 1848 ».
II.
Ad Avallon, nella diocesi di Sens, si è
verificato un caso clamoroso di guarigione, dopo una novena fatta a Nostra
Signora di La Salette, che da allora è stata autorevolmente dichiarata
miracolosa dal Vescovo.
Il medico che l’ha assistita ha redatto
una lunga e dettagliata dichiarazione rispetto alla sua malattia e alla
successiva guarigione. Le sue dichiarazioni conclusive sono le seguenti:
« – 1). Per diciassette anni A. Bollenat
rimetteva tutto i cibi solidi che ingoiava, e poteva solo con difficoltà
digerire qualche cucchiaio di latte o di zuppa di carne. Negli ultimi tre mesi
precedenti il 21 novembre, non ha praticamente ingerito nulla.
– 2). Per tre anni A. Bollenat non aveva
mai potuto camminare; era rimasta seduta, riuscendo a malapena a fare qualche
leggero movimento delle estremità inferiori.
– 3). Per dieci anni A. Bollenat non era
stata mai n grado di sdraiarsi sul fianco sinistro; era stata anche quasi
completamente privata del sonno.
– 4). Per diciannove anni i dolori allo
stomaco, che erano alla fine diventati insopportabili, non erano mai cessati.
– 5). Da diciassette anni si apprezzava
un enorme tumore sul fianco, e per molto tempo non avevo usato nessun tipo di
rimedio né per guarire questo tumore né per fermarne lo sviluppo.
–
6). Il 19 novembre 1847, Antoinette Bollenat presentava tutti i segni di morte
imminente.
1. Il 21 novembre, alle sei di sera,
senza alcuna transizione, senza che si manifestasse alcuna crisi, mangiò e
digerì una zuppa solida, verdura e frutta.
2. Il 21 novembre A. Bollenat si è
alzata dal letto, si è vestita ed ha camminato nella sua stanza.
3. Il 21 novembre A. Bollenat si è
sdraiata sul fianco sinistro dormendo tutta la notte.
4. Dal 21 novembre non è residuato alcun
dolore interno in nessuna parte del corpo.
5. Il 21 novembre il tumore è completamente
scomparso; non c’è stata alcuna crisi, né alcuna fuoriuscita di materia liquida
di alcun tipo dal tumore, né internamente né esternamente.
6. Il 21 novembre e i giorni successivi
l’ho vista piena di salute.
Gagniard,
D.M. »
Le autorità ecclesiastiche della diocesi
hanno preso conoscenza di questo caso; e dopo un minuzioso esame, l’Arcivescovo
ha rilasciato una dichiarazione sul caso in oggetto, in cui dice: « Dopo aver
esaminato le prove dei vari testimoni e del medico curante; dopo aver esaminato
la relazione presentata dalla Commissione incaricata di esaminare il caso; dopo
aver ascoltato il parere del Consiglio Episcopale, e dopo aver invocato il
santo Nome di Dio, dichiariamo, a gloria di Dio, e ad onore della Santissima
Vergine, per l’edificazione dei Fedeli, che la guarigione di Antonietta
Bollenat, avvenuta il 21 novembre 1847. dopo un Novena alla Santissima Vergine
Madre di Dio, invocata sotto il nome di “Nostra Signora di La
Salette”, presenta tutte le condizioni e tutti i caratteri di una
guarigione miracolosa, e costituisce un miracolo del terzo ordine.
Dato a Sens, sotto la nostra mano, con il
sigillo delle nostre braccia, e il contro sigillo del nostro Vicario generale e
segretario privato, il 4 marzo dell’anno di grazia 1849. (Firmato) MELLON, Arcivescovo di Sens. »
III.Nel
grande seminario della diocesi di Verdun è avvenuta un’altra sorprendente
guarigione nella persona di uno degli studenti.
« Il Vescovo gli ordinò di redigere un
resoconto del suo caso, della sua malattia e della sua guarigione. In esso egli
racconta come – secondo il parere dei suoi medici – tutta la sua costituzione
era stata completamente debilitata, in parte a causa dei terribili attacchi
nervosi e dei dolori a tutte le articolazioni di cui aveva sofferto, in parte a
causa delle medicine che aveva assunto per alleviarli. Era stato costretto due
volte a lasciare il seminario e, dopo aver ottenuto a casa qualche piccolo
miglioramento delle sue sofferenze, vi era tornato per la terza volta. Egli continua:
« Sono tornato il giorno stabilito; ma nuove e più terribili prove mi
aspettavano in seminario. Dal 7 marzo le mie pene, invece di diminuire, aumentavano
rapidamente, e mi costringevano continuamente a trattenere grida disperate, e
solo il pensiero di Maria le ha fermate. Infatti questo mi faceva ricordare
vivamente le sofferenze di suo Figlio, ed io mi nascondevo nelle sue ferite.
Poi mi ha visto il medico al quale mostrai come fosse ridotta la mia gamba, in
uno stato di atrofia e rigida come una sbarra di ferro; gli provai che non
potevo fare un passo senza la più crudele delle sofferenze, e che il dolore
saliva fino alle mie reni, e attraverso la spina dorsale fino alla testa. Mi
disse, per tutta consolazione: « Ebbene, amico mio, dobbiamo aspettare il
caldo; allora userò bagni alcalini aromatici; poi, se questo non dovesse
servire a nulla, faremo qualcos’altro; e se anche questo dovesse fallire,
allora … addio, mio caro. Quindi sono andato dal mio direttore per consolarmi
nelle mie pene; perché la consolazione mi era necessaria. Sono stato felice di
sentirgli esprimere un’idea che avevo a lungo meditato, ma che ero deciso a non
menzionare per primo: egli ha proposto una Novena alla Madonna di La Salette.
Il giorno dopo scrissi alla confraternita di Nostra Signora delle Vittorie a
Parigi, di cui ero membro, per implorare le loro preghiere. Il primo aprile,
domenica delle Palme, la nostra Novena è iniziata con l’offerta del santo
Sacrificio, che molti Sacerdoti della città mi hanno applicato. Molte Comunioni
sono state offerte secondo la mia intenzione da molte persone caritatevoli
delle diverse comunità di Verdun, che hanno invocato specialmente Nostra
Signora di La Salette. Nel frattempo le mie sofferenze continuavano esattamente
come prima. Quel giorno, come in quelli precedenti, per rispettare la regola,
andai a passare il tempo libero nel luogo dove si recava il resto della
comunità. Scesi le scale con estremo dolore, sostenuto sulle braccia da un
compagno di studi, al quale devo un debito di eterna gratitudine per la sua
gentilezza nei miei confronti. Dopo un quarto d’ora di dolorosissimo esercizio fisico,
provai una stanchezza in tutto il corpo. Ho dovuto fare grandi sforzi per
rimontare la scala. Sono andato in cappella e vi sono rimasto solo cinque o sei
minuti. Non era lì che Dio mi aspettava, ma in quella povera cella in cui avevo
tanto sofferto. Finalmente ci arrivai, e mi gettai davanti all’immagine di
Maria, alla quale tanto spesso avevo rivolto gli occhi. Pieno di fiducia in
Maria, afferrai la sua immagine e caddi in ginocchio senza accorgermene. Per
molto tempo mi era stato impossibile piegare la mia gamba irrigidita. Poi,
afferrando il mio piccolo flacone di acqua di La Salette, l’ho premuto sulle
labbra e, contemplando l’immagine di Maria, ho gridato: « O Maria! O Madre mia!
sì, tu mi guarirai, e io mi consacro a te ». Poi sono caduto in uno stato di
totale insensibilità, non pensavo più a nulla, non ricordo cosa abbia detto;
ero come schiacciato sotto l’azione divina, che però non ho sentito. – Questo
stato durò per circa sei o otto minuti; e dopo, riprendendomi da questo tipo di
insensibilità, e senza sentire il cambiamento che era avvenuto in me, mi
precipitai giù per una lunga scalinata per dire ancora una volta al mio
compagno di studi: « Siate di buona coscienza, sarò guarito ». Più tardi,
questo eccellente amico, che mi aveva curato così bene durante la mia malattia,
mi assicurò che il mio passo e la mia espressione di condiscendenza lo avevano
stranamente sorpreso; che non capiva le mie parole, e che diceva in tono basso
a se stesso: « Sarai guarito? Ma lo sei già! ». Continuai senza preoccuparmi di
lui, ma poco dopo incontrai un altro studente, che mi afferrò e gridò: « Sei
guarito! ». Solo allora ho percepito il cambiamento che si era avvenuto in me.
Mi resi conto della mia felicità, e andai in giro a proclamare la mia
guarigione, non come se fosse in procinto, ma come se fosse realmente già
accaduta. Io non ero lontano dalla cappella dove poco prima non avevo potuto
pregare: ora mi sentivo irresistibilmente spinto lì. Durante il quarto d’ora
che passai ai piedi dell’altare in ginocchio, senza sentire il minimo dolore,
non so cosa dissi, né quale preghiera abbia rivolto al mio Salvatore. Andai
prima dal mio direttore, che mi strinse tra le sue braccia, poi dal superiore,
che si rifiutò di credermi, finché non udì la parola « La Salette ». Andai poi
in refettorio così in fretta, che due compagni non riuscirono a stare al passo
con me. Il mio stomaco, debilitato da tante malattie e sofferenze, ricevette
senza disgusto e digerì facilmente il mio cibo, cosa che poi continuò a fare.
All’uscita dal refettorio, ero circondato dalla comunità, che mi ha fatto dare
tutte le prove della completa guarigione. Corsi, piegai la gamba, colpii
violentemente il piede contro il terreno e feci tutto quello che mi chiesero
durante tutta la ricreazione, che passai tra i miei compagni di scuola come se
non fossi mai stato malato. Il giorno dopo, un’ora di cammino non mi ha
affaticato minimamente. Quello stesso giorno, tre persone hanno esaminato la
mia gamba e si sono convinte che aveva recuperato la vitalità che essa aveva
perso. Posso affermare che prima della mia guarigione era almeno di due terzi
più piccola dell’altra.
Manrm, chierico negli Ordini minori.
Gran Seminario di Verdun, 26 luglio 1849 ».
Questa relazione, quando fu presentata
al medico, fu da lui dichiarata esatta in tutti i suoi dettagli. – Il superiore e i professori del seminario
hanno fatto una dichiarazione sul caso, nella quale concludono dicendo: «
Questa guarigione ha prodotto l’impressione più vivida in tutto il seminario,
frequentato da più di cento studenti. I seminaristi la considerano un prodigio,
la cui natura miracolosa si ammette senza dubbio. Noi stessi, dopo aver
esaminato e ponderato attentamente le circostanze di questo evento, non vediamo
come possa essere spiegato da cause puramente naturali ». Il Vescovo di Verdun,
nella costatazione ufficiale della guarigione, dice: « Abbiamo visto senza
sorpresa che gli studenti del nostro seminario attribuiscono all’unanimità la
guarigione ad un intervento soprannaturale della Santa Vergine. >X<
LOUIS, vescovo di Verdun.
Dato a Verdun, presso il Palazzo
episcopale, agosto 1849 ».
IV. L’ultimo
miracolo di cui si darà notizia è la guarigione di un ufficiale di stanza a
Calais, avvenuta dopo una novena fatta a Nostra Signora di La Salette.
M. Delattaignant, agente di dogana di Calais, quarantadue anni, ha deposto come
segue: « Nel mese di maggio del 1848 ho scoperto che non riuscivo più a dormire
regolarmente; nel mese di giugno non riuscivo a dormire affatto, uno stato che
durò fino al lunedì della settimana di Pasqua del 1849. Ero in un continuo
stato di sofferenza, senza conoscerne la causa. Mi consultai con i medici, che
mi dissanguarono, e mi ordinarono delle correnti d’aria rinfrescanti, ma senza
risultati soddisfacenti. L’idea del suicidio era continuamente presente nella
mia mente, e mi pesava. Ero in un tale stato di agitazione nervosa, che a volte
non avevo alcun potere sulle mie membra. Non volevo vedere nessuno. Quando si
parlava di pazienza e di rassegnazione alla volontà di Dio, mi sentivo
esasperato, convinto che non potevo guarire, che ero disgustato dalla vita, e
più volte ho aperto il coltello per pugnalarmi, cosa che non facevo se non
pensando a mia moglie e ai miei figli. Forse devo la mia conservazione alle mie
preghiere, che non ho mai smesso di fare. Uno dei miei amici cominciò a farmi
visita per incoraggiarmi ad avere fiducia in Dio, « Dio – dissi io – nella mia
esasperazione, c’è un Dio buono? Se ci fosse, non mi farebbe soffrire così »
Poi ho cominciato a piangere. Avevo perso del tutto la memoria e riuscivo a
malapena a svolgere i compiti del mio ufficio. Non scrissi più alla mia
famiglia. Le mie facoltà morali erano scomparse. Non avevo più alcun affetto
nemmeno per mia moglie e per i miei figli. Se qualcuno mi avesse offerto una
fortuna considerevole o un rango elevato, ai miei occhi non sarebbe stato assolutamente
nulla. Tutto il mio essere era annientato. Di dolore fisico non ne sentivo
nessuno in una parte più che in un’altra; ma il mio corpo svolgeva le sue
funzioni con difficoltà. Il mio stomaco era molto dilatato. Avevo un appetito
straordinario e insaziabile; niente mi faceva male, e mangiavo come quattro
persone. Un giorno, mentre mangiavo, mi è venuta una tale crisi che ho lasciato
l’impronta dei miei denti sul cucchiaio. Sono rimasto trentasei ore senza
mangiare, senza riuscire a spiegarmi il perché, sperando così di morire di
fame. Su suggerimento di un pio ecclesiastico ho fatto una novena alla Madonna
di La Salette, ma senza alcun risultato. Poi ne iniziai un’altra; mia moglie e
i miei figli fecero la Comunione per la mia intenzione. Alla fine di questa
novena, il lunedì della settimana di Pasqua, ho assistito in modo meccanico
alla Messa, e quel giorno sono caduto in un tale stato di irritazione che avrei
voluto distruggermi; mia moglie si è gettata tra le mie braccia, abbiamo pianto
insieme, e da quel momento sono guarito. Da allora non ho più avuto un solo
momento di tristezza o di insonnia. Sto bene secondo i miei desideri. La mia memoria
e le mie facoltà morali sono ritornate. La mia guarigione è stata istantanea, e
senza alcuna transizione. Non attribuisco la mia guarigione a nessun rimedio
umano; poiché, a parte alcune correnti d’aria rinfrescanti, per diversi mesi ho
rifiutato ogni presidio medico. Ringrazio Dio e la sua benedetta Madre per la
mia guarigione.
DELATTAIGNANTE.
Calais,
2 giugno 1849. »
La verità di questa deposizione è
certificata da trentasei firme, tutte apposte in forma legale davanti al
sindaco di Calais, con il sigillo della città. Tra queste firme ci sono quelle
di sette sacerdoti. – Sarebbe facile moltiplicare la citazione di un gran
numero di esempi di guarigioni miracolose tanto notevoli quanto quelle sopra
menzionate. Questo, tuttavia, non sarà oramai più considerato necessario; la
questione dell’apparizione non è più un argomento aperto di discussione da
dimostrare con delle prove. La Chiesa si è pronunciata su di essa; e tutto ciò
di cui il lettore avrà ora bisogno sarà un resoconto del modo in cui questo
autorevole riconoscimento della sua verità sia stato fatto. Il primo maggio
1852, il Vescovo di Grenoble pubblicò una lettera pastorale in cui, dopo averne
dichiarato l’accettazione universale in Francia, Belgio, Inghilterra, Germania
e Italia, accordata ad una precedente lettera da lui inviata il 19 settembre
dell’anno precedente, in cui dichiarava la verità dell’apparizione, annunciava
che era allora suo dovere comunicare allo stesso modo l’erezione di una chiesa
e di un presbiterio a Salette, e fissare per il 25 maggio la posa della prima
pietra. Questo evento si svolse infatti il giorno stabilito. Nel seguente
estratto del numero dell’Università del 1° giugno 1852, c’è il rapporto che ne
fa il giornale locale del dipartimento: « Ieri si è svolta la cerimonia di posa
della prima pietra del Santuario di La Salette. È stata una magnifica
solennità, anche se il tempo è stato piuttosto poco clemente. Alla vigilia un
gran numero di pellegrini è arrivato sulla scena dell’Apparizione e vi ha
trascorso la notte. All’una del mattino c’erano già 2000 comunicanti; non
c’erano abbastanza Sacerdoti per soddisfare il desiderio dei fedeli. Ma quando
arrivò il giorno, lo spettacolo era ancora più imponente. Da tutte le parti
arrivarono pellegrini che apparivano come se fossero usciti dalla montagna
stessa. Nulla poteva essere, allo stesso tempo, più grandioso e più pittoresco
di queste processioni, che arrivavano con striscioni esposti e canti di inni
pii. Il numero di stranieri che erano concorsi a questa cerimonia è stato
stimato essere più di 15.000 persone. L’entusiasmo più vivo si manifestava tra
la moltitudine quando si vide arrivare il Vescovo di Grenoble, che, nonostante
la sua veneranda età, non aveva esitato ad intraprendere le fatiche dolorose di
un tale viaggio onde presiedere a questa cerimonia. Tutta la compagnia riunita
si recò ad incontrare il venerabile prelato, e lo accolse con espressioni di
profondo rispetto e di gioia; mille voci si levarono ad accoglierlo. È stato un
momento molto toccante. Il volto di Mons. de Bruillard ha tradito le profonde
emozioni della sua anima. In seguito la cerimonia è iniziata in mezzo alla
profonda attenzione di tutti. Il ricordo di questa santa e imponente cerimonia
non sarà mai cancellato dalla memoria di chi ne è stato testimone. Non è
l’unica chiesa che sta per essere eretta sotto il patrocinio di Nostra Signora
di La Salette: una in Bretagna e un’altra in Belgio sono già state annunciate
essere in corso di costruzione.
Pensiamo di aver detto abbastanza per
fornire al lettore una chiara documentazione delle circostanze dell’apparizione
stessa, e anche delle prove scientifiche a sostegno della sua credibilità. Dal
suo riconoscimento pubblico da parte del Vescovo di Grenoble, non è più
necessario accumulare ulteriori prove a suo favore. Per più di cinque anni
l’apparizione è stata oggetto di ogni tipo di obiezione, non solo da parte
degli scrittori francesi, ma anche da parte di coloro che erano più ansiosi di
crederlo vero, ma che pensavano fosse loro dovere cedere a nient’altro che ad
una certezza. – Tutte le opposizioni, però, ora tacciono; è ormai un fatto
approvato dalla Chiesa, che la Santa Vergine abbia scelto questi due pastorelli
come portatori di un messaggio al « suo popolo », minacciandoli di vendicarsi
di suo Figlio se non si pentiranno; ed è anche la convinzione di tutti, che il
Vescovo nella sua lettera pastorale riconosca che le preghiere, le penitenze, e
la vita riformata, che sono così largamente derivate da questo evento, siano state
il mezzo per arrestare al braccio di nostro Signore e scongiurare il castigo
minacciato ». In effetti, non è quasi possibile considerare le prove attraverso
le quali la Francia sia passata dall’anno dell’Apparizione, il 1846, senza
notare gli elementi di disordine e di confusione che sono stati ovunque
percepibili, e senza al tempo stesso riconoscere chiaramente la .presenza di
qualche misteriosa influenza, che fino ad ora ha calmato la formidabile
eccitazione e ha trasformato tutto in bene. La Madre di Dio è la “Mater
misericordiæ”, la Madre della misericordia; le sue interposizioni
visibili, di cui si registrano diversi casi nella storia ecclesiastica, non
sono mai state considerate come presagio di sventure, ma piuttosto come
significative di un tempo prossimo di accettazione; ed è in tale luce che la
sua gloriosa apparizione a La Salette è stata finora considerata dai
fedeli.
FINE.
[Ribadiamo qui, che la Congregazione dell’Indice non si è mai sognata di negare la veridicità dell’apparizione mariana de La Salette, come farfugliano ancora i satanisti modernisti o scismatici attuali, ma che la condanna riguardava solo un libricino in lingua francese che riportava in modo improprio i fatti dell’apparizione. Eccone ancora il testo:
DAMNATUR OPUSCULUM: « L’APPARITION DE LA TRÈS SAINTE VIERGE DE LA SALETTE ».
DECRETUM
Feria IV, die 9 maii 1923
In generali consessu Supremæ Sacræ Congregationis S. Officii Emi. ac R.mi Domini Cardinales fidei et moribus tutandis præpositi proscripserunt atque damnaverunt opusculum: L’apparition de la très Sainte Viergesur la sainte montagne de la Salette le samedi 19 septembre 1845. – Simpleréimpression du texte intégral publié par Melanie, etc. Société Saint-Augustin,Paris-Rome-Bruges, 1922; mandantes ad quo spectat ut exemplaria damnati opusculi e manibus fidelium retrahere curent.
Et eadem feria ac die Sanctissimus D. ST. D. Pius divina providentia
Papa XI, in solita audientia R. P. D. Assessori S. Officii impertita, relatam sibi Emorum Patrum resolutionem
approbavit.
Datum Romæ, ex ædibus S. Officii, die 10
maii 1923.
[P. P. Segneri S. J.: QUARESIMALE – Ivrea, 1844, dalla stamp. Degli Eredi Franco – tipgr. Vescov.]
XXV. NEL MERCOLEDÌ DOPO LA QUARTA DOMENICA
“Responderunt
parentes ejus, et dixerunt: scìmus quìa ille est filius noster, et quia cæcus
natus est; quomodo autem nunc videat, nescimus; aut quis ejus aperuit oculos,
nos nescimus.”
Jo. IX, 20 et 21.
I. Scusi pur di voi chiunque vuole i due genitori di questo cieco evangelico, io non gli scuso. Dichiararsi di non sapere come un loro figliuolo abbia aperti gli occhi? Scimus quia cæcus natus est; quomodo autem nunc videat, nos nescimus. Tale dunque è la cura che di lui tengono? Tale la provvidenza? tale il pensiero? Ma finalmente questo cieco evangelico fu felice, perché chi aperse gli occhi a lui fu Gesù, che non poté però aprirglieli fuorché al bene. Il mal è, che a molti quel che apre gli occhi è il diavolo. Eppur chi è che vi pensi egualmente, che vi provveda? I padri lasciano che i figliuoli loro divengano spesso accorti più del dovere, iniqui, ingannevoli; e poi non temono di scusarsi con dire, che non san come abbiano mai fatto ad apprendere la malizia. Quis ejusaperuit oculos, nos nescimus. Ah che questa è scusa frivola, scusa folle; perché qual è il loro debito, se non questo, procurar che i loro figliuoli piuttosto se ne rimangano sempre ciechi, com’essi nacquero, ch’è quanto dire, in santa semplicità, in santa stoltezza; che non che aprano gli occhi per altra mano, che per quella onde apersegli il cieco d’oggi? – Ma quanto pochi sono coloro che apprendano questo debito, o che l’adempiano! I più non pongono in altro Io studio loro, che in aver prole. Qui impiegano i loro prieghi, qui indirizzano i loro pellegrinaggi; e poi, conseguita che l’hanno, non se ne pigliano sollecitudine alcuna, quasi che non averla non fosse male di gran lunga minore, che averla reproba. Sappiamo che alberi sterilissimi ancora hanno tanta gloria; ch’essi oggidì sono le delizie de’ gran giardini reali. Anzi nella scelta di varie piante, che fecero anticamente gli Dei profani, furono a bello studio anteposte le men fruttifere allo più fruttuose; e così Giove elesse la quercia. Apollo l’alloro, Nettuno il pino, Osiri l’ellera, Giunone il ginepro, Venere il mirto. Ma un albero che produca frutti cattivi, oh questo sì che da nessuno è voluto nel terren suo; né solamente non v’è Dio che lo prezzi, ma né anche v’è rustico che lo curi. – Intendano dunque tutti questa mattina quanto grand’obbligo sia l’avere un figliuolo. Io certamente non terrò male impiegata questa mia qualunque fatica, se giungerò a dimostrare un tal obbligo a chi nol crede, ovvero non lo considera, e però cade in quegli abusi ch’io poi vi soggiungerò, non perché tra voi li supponga, ma perché non allignino ancor tra voi. Dunque uditemi attentamente.
II. E per cominciare dalla grandezza dell’obbligo, il quale più vivamente fa campeggiare la deformità degli abusi, io so benissimo che molti altri saranno ancora tenuti rendere stretto conto per l’anima di qualunque vostro figliuolo: e sono appunto i maestri, i quali gli esercitano nelle lettere; gli aii, i quali gl’indirizzano nei costumi; i confessori, i quali li regolano nella coscienza; i predicatori, i quali gli esortano alla pietà; ed i principi anch’essi, tanto secolari quanto ecclesiastici, i quali con le pubbliche leggi devon provvedere, forse più che ad ogn’altro, alla piccola gioventù, non altrimenti che i giardinieri alle piante più tenerelle. Ma se considererete intimamente, vedrete che molto più siete tenuti a procurare il loro bene voi soli, che gli altri tutti. E la ragione fondamentale si è, perché tutti gli altri sono tenuti a ciò per obbligazione introdotta dalla politica; ma voi per obbligazione inserita dalla natura. – E chi di voi non sa che è quella cagione, la quale ha generato un effetto, a quella parimente appartiensi il perfezionarlo, quanto ella può? Perocché ascoltate, giacché qui cade in acconcio una leggiadra dottrina di san Tommaso nel suo prodigioso volume contra i Gentili (1. 3. c. 122, etc.). Due sorte di effetti noi possiamo considerare: alcuni, i quali, tosto che nascono, portan seco tutta quella perfezione, della quale sono capaci; altri, che non la portano seco tutta, ma debbono andarla acquistando in progresso di tempo, ed a poco a poco. Della prima schiatta son tutti gl’inanimati; e però la loro cagione, ch’è come la loro madre, dopo averli già partoriti, non li ritiene con amore materno presso di sé, non gli alleva, non gli accarezza, ma incontanente lasciali in abbandono. Diamone gli esempj in due cose a tutti notissime, quali son l’acqua e il fuoco. Vedete voi la sorgente quando ha partorita l’acqua? vedete la selce quando ha partorito il fuoco? Nessuna di loro due ritiene punto il suo parto presso di sé; ma l’una lascia che l’acqua subito scorra, e ne vada al rivo, e l’altra lascia che il fuoco subito voli, e si appicchi all’esca: mercecchè né la selce, né la sorgente, con ritenere presso di sé le lor proli, potrebbero maggiormente perfezionarle. Ma negli effetti di qualunque modo animati avviene il contrario. Nascono questi tutti imperfetti, e però lunga stagione rimangono sotto la cura, e, per dir così, tra le braccia della lor madre, per venir da essa nutriti amorosamente e perfezionati. Vedesi prima ciò chiarissimamente ne’ pomi, ne’ fiori, nelle spighe nell’uve, ed in qualsivoglia altro frutto. Nascono questi piccoli, rozzi, scoloriti, agrestini, e così bisognosi di grandissima nutritura. Però mirate quanto tempo rimangono e i pomi attaccati al suo ramo, e i fiori alla sua cipolla, e le spighe al suo cesto, e l’uve al suo tralcio, ed ogni altro frutto in grembo della sua madre. Onde se mai vi ci sarete provati, avrete scorto ricercarsi molto più di violenza a strappar con la mano dalla sua pianta il pomo acerbo, che non il pomo maturo; quasi che malvolentieri il figliuolo partasi dalla madre, e malvolentieri la madre lasci il figliuolo, prima che abbisi finito questo di ricevere tutta la sua perfezione, e quella di dargliene. Ma meglio ciò si scorge ne’ bruti, i quali nascono imperfettissimi anch’essi. Tra questi del solo struzzolo si racconta, che abbandona dispettosamente i suoi parti dopo averli condotti a luce. Derelinquit, come abbiamo in Giobbe (39. 14), derelinquit ova sua in terra: che però quivi egli vien proposto da Dio per esempio e di stolidezza e di spietatezza, dicendosi orribilmente di questo uccello che duratur ad filios suos, quasi non sui; privavit enim eam Deus sapientia, nec dedit illiintelligentiam(Ibid. 16 et 17). Ma tutti gli altri bruti vedrete che mai non mancasi di una pietosissima educazione; questa unica differenza, avvertita tuttavia dal medesimo san Tommaso, ed è che alcuni animali vengono educati dalla madre sola, altri e dalla madre insieme e dal padre. Dalla madre sovvengono educati i cani, i cavalli, gli agnellini, i vitelli, ed altri animali lattonzoli. A provvedere questi di allevamento basta la madre con le sue poppe; e però il padre, come 1oro non necessario, per lo più non li cura e non li conosce. Il contrario avvien tra gli uccelli. Non è stato verun di loro dalla natura provveduto di latte, né di’ mammelle; e la ragione si fu, perché dovend’eglino esser agili al volo, sarebbe loro stato un tal peso di notabile impedimento. Devon però vivere, per dir così, di rapina; ed in questa parte ed in quella procacciare il sostentamento non sol per sé, ma ancora per le loro tenere famigliuole, le quali non sogliono essere meno ingorde che numerose. Ma come potrebbe supplire a tanto una debole femminella? Però al nutricamento delle colombe, delle tortorelle, delle pernici, e di altri simili uccelli, specialmente meno feroci, assiste anche il padre. Né solamente tutti i bruti provveggono i loro pargoletti di cibo, finché questi non possono procacciarselo da sé stessi; ma li sovvengono anche di ajuto, d’indirizzo e di documento, conforme i varj mestieri ch’hanno ad imprendere. Così lo sparviere ammaestra i suoi figlioletti alla caccia, così il delfino al nuoto, così la leonessa alla preda, così la gallina alla ruspa, e così l’aquila ai voli anche più sublimi: provocansad volandum pullos suos (Deut. XXXII, 11). Eppure gli animali bruti non isperano comunemente dai loro parti veruna ricognizione né di opera, né di affetto; anzi terminati i dì necessarj all’educazione, né il generante riconosce più il generato, né il generato riconosce più il generante, ma si disgiungono, e ciascuno va dove più gli torna in profitto. Or se, non ostante ciò, allorché questi di fresco hanno partorito, assistono a’ loro parti con tanta sollecitudine, gli allattano, li provveggono, li difendono, e prestano loro tutti gli uffìzj di servitù più pietosa, chi non vede che questa legge di perfezionare, quanto maggiormente si possa, la propria prole, non è legge inventata solamente da instituzione politica o da reggimento civile, ma è legge entro a tutti i petti stampata dalla natura, e però dee dirsi che la natura parimente sia quella che no riecheggia l’osservanza dagli uomini? Anzi assai più la richied’ella dagli uomini, che da’ bruti. Perocché gli uomini da una parte nascono nel loro genere men perfetti (come Plinio considerò); nascendo i bruti vestiti, e gli uomini ignudi; i bruti calzali, e gli uomini scalzi; i bruti armati e gli uomini inermi. E d’altra parte nascon capaci di assai maggiori perfezioni; le quali perfezioni perché non si possono conseguir se non assai lentamente, però l’educazione degli uomini non si termina in pochi giorni, come quella de’ bruti, ma stendesi a molti lustri; anzi, secondo il dire di san Tommaso, a tutta la vita, per lunga ch’ella si sia; e così rende di sua natura insolubile il matrimonio. – Or deduciamo dalla dottrina bellissima di questo santo Dottore, angelico veramente più che mortale, deduciam, dico, come da premesse infallibili, la nostra principal conseguenza, e diciam così: se l’obbligo, che hanno i padri, di educare i loro figliuoli, è obbligo non positivo, ma naturale; non iscritto, ma innato; non umano, ma divino; chi non vede dunque che molto più strettamente siete tenuti a procurare il profitto loro voi stessi, di quel che a ciò sien tenuti i principi ed i prelati, i maestri ed i confessori, e gli aii e i predicatori, e qualunque altro direttor, che si trovi, de’ lor costumi, o sia egli ecclesiastico o secolare; perciocché questi sono tenuti a ciò per legge civile, la quale è meno strigliente; ma voi per istituzion naturale, la quale è di gran lunga più rigorosa?
III. Ma s’è così (oh Dio!), che timore non dovreste aver dunque voi quando trascuriate una simile educazione? Perocché se tanto conto dovrà rendere il principe, se tanto il prelato, e se tanto qualsivoglia altri, per cui colpa succeda l’eterna perdizion del vostro figliuolo; qual ne dovrete render dunque voi, padri, quale voi, madri, se succeda per colpa vostra? Potrete voi punto sperar di discolpa, se quelli tanto riceveran di rimproveri? potrete voi punto impetrar di pietà, se con quei tanto si userà di rigore? E però san Giovanni Crisostomo (1. 3 contra vitup. vilse mon.), il quale intendea benissimo questo punto, si protestava a tutti i padri così: patres,educate fìlios vestros in disciplina, et in correptioneDomini, come vi dice l’Apostolo (ad Eph. VI, 4). Si enim nos ipsi quoque vigilare jubemur, tamquam prò animabus illorum rationem reddituri, quanto magis ergo pater, qui genuit? Intendete, padri cristiani? quanto magis, ergo pater, qui genuit? – Voi avete dato lor l’essere; adunque voi molto più parimente siete tenuti a dar loro la perfezione, educandoli in disciplina, ch’è indurli al bene; et in correptione, ch’è ritirarli dal male; ovvero, giustar interpretazion più spedita di san Tommaso, in disciplina verberum, et in correptioneverborum. Senza che, dare lor questa perfezione è a voi molto anche più facile, che ad ogni altro: conciossiachè essendo natural di tutti i figliuoli portare, più che ad ogni altro, a’ lor padri una gran riverenza ed un grande amore, venite per conseguente ad avere sopra di essi maggiore l’autorità. E chi non sa che con un consiglio opportuno, con una riprensione aggiustata, anzi con una parola mozza talvolta, con un cenno, con un gesto, con un’occhiata potete ottener da loro quei ch’altri non otterrebbe con lunghe prediche, e con iterati clamori? Non udiste mai di quel celebre Andrea Corsini? Era egli ne’ suoi primi bollori della gioventù libero, sregolato, disciolto; e però in vano si erano adoperati religiosi zelanti ed uomini pii affine di raffrenarlo. Ma che? quello che nemmeno poterono le parole sacerdotali, potò la voce materna. Pellegrina la madre, con un solo acconcio rimprovero, il rendé santo, e convertillo di un lupo di sfrenatezza in un agnellino di sommissione. Come dunque voi non dovrete rendere a Dio ragione assai rigorosa, se non verrete a valervi di autorità così rilevante? Aggiungete, che da voi dipendono essi nel vitto, da voi nel vestito, da voi nello spendere, da voi nell’ereditaro; onde con quanta facilità potete voi governarli a vostro talento, animandoli o rimunerandoli buoni, minacciandoli e gastigandoli scostumati! – Se dunque voi, non facendolo, mancherete al debito vostro, che scusa avrete? Eppur vi è di più: perché dovete considerare che voi avete i figliuoli vostri in custodia, quasi uccellini di nido, fin da’ primi anni, quando i loro animi sono appunto a guisa d’una creta pastosa, capace d’ogni figura; o di una cera molle, disposta a qualunque impronta. Se però essi, educati prima male da voi, non saranno in età maggiore più abili a ricevere i salutevoli insegnamenti de’ loro direttori più alti (dì chi sarà la colpa più principale, non sarà vostra? Vostra sarà, signori sì, sarà vostra. Paterenim, cum teverum acceperit filium, primque ac solus omnem ejusce instruendi facultatemnactus sìt, et bellissime illum, et facillimeimbuere poterit, et moderavi; coi san Giovanni Crisóstomo favellò (l. 3 tra vitup. vitæ mon.). Adunque, se voi farete, a voi verrà attribuita la ma: colpa delle loro non correggibili inclinazioni. Anzi in vano tutti gli altri faticheranno per loro profitto, se voi punto manchiate al vostro dovere. Perciocché, a che vale che il principe tenga per allevamento de’ vostri giovani provveduto il suo stato di accademie insigni, di Convitti nobili, di collegj famosi, se voi li tenete quindi lontani? Ed i maestri come potranno affezionarli allo studio, se voi non ne mostrate premura? E gli aii come gli potranno addirizzar ne’ costumi, se voi non date lor braccio? Ed i confessori e predicatori ancor essi come potranno ottenere il loro profitto spirituale, questi con esortazioni pubblici quegli con ammonizioni private, se voi non ricercate giammai da’ vostri figliuoli consieno assidui alle prediche o come sieno frequenti alla confessione? – Vedesi adunque, per così dire, che tutte le obbligazioni, le quali in altri sono diramate e disperse, vengono ad unire in voi tutta la loro piena. E pertanto a voi si appartiene di tener su’ vostri figliuoli aperti più occhi, che non se ne finsero in Argo, quel provvidissimo re del Peloponneso; a voi tocca di avvertire ogni loro parola, a voi di moderare ogni loro gesto, a voi di certificarvi d’ogni lor moto: diligenze che, almeno tutte, non toccano a verun altra. Né basta che diate lor solamente la direzione, ma bisogna che ne ricerchiate ancora la pratica; e ciò non in un luogo solo, ma in tutti: in città, di fuori, in pubblico, in segreto, in comune, in particolare. Dovete osservar dove vadano, con chi trattino, diche gustino, a che inclinino; e giacché come disse il Savio, ex studiis suis intelligitur puer (Prov. 20. 11), dovete, se sia possibile, dovete, dico, procurare ancor di spiare quello a che pensino. Né crediate dirsi ciò per soverchia amplificazione; – anzi sappiate che questo appunto era quello ond’era sempre sollecito il santo Giobbe nel governo de’ suoi figliuoli: non sapere quali affetti pullulassero ne’ loro cuori, o qual pensieri covasse la loro mente. Quindi si racconta ch’egli bene spesso rizzavasi di buon’ora, diluculo, per offerire a Dio suppliche e sacrifizj a purgamento de’ loro interni difetti. Dicebat cnim: ne forte peccaverintfilli mei, et maledixerint Deo incordibus suis (Job 1. 5). Guardate sollecitudine! non dice labiis suis, non dice lingua sua, no; in cordibus suis; tanto tremava di qualunque lor colpa, non sol palese, ma occulta; non sol pubblica, ma segreta; non sol sicura, ma dubbia.
IV. Òr che dite voi dunque? Fate così? Adempite ancora voi con premura così gran parti? Siete egualmente solleciti ancora voi dell’integrità de’ vostri figliuoli, della loro innocenza, del loro profitto? Ahimè che voi ad ogni altra cosa pensate forse, che a questa, dice il Crisostomo. E perciò che fate? Attendete solo a rendere i vostri figliuoli più ricchi, più temuti, più nobili, più potenti; ma a rendergli parimente più virtuosi non attendete. Àlii militiam filiissuis provident, alti honores, alii dignitates,alii divitias; et nemo(oh deplorabilissima cecità!), et nemo filiis suis providet Deum (Hom. 55 in Matth.). Eppure di questo solo vi sarà chiesta ragione, o signori miei. Non vi sarà domandato quanto voi gli avrete lasciati più grassi di rendite, o quanto più illustri di cariche, o quanto più rispettati di parentele; ma quanto più riguardevoli di virtù. Di questo vorrà Dio venir soddisfatto in quel suo formidabilissimo tribunale. E voi che saprete rispondergli, mentre pure talora giungete a segno che, – per avanzar loro un vil danaruzzo, non vi curate di avventurare la loro eterna salute? E quante volte, se voi voleste spendere un poco più, potreste lor provvedere di custode più virtuoso, di disciplina più scelta, di direzione più profittevole; e voi nondimeno, per risparmiar quell’entrata, fate loro quel pregiudizio! Oh vergogna! Esclama san Giovanni Grisostomo (pigliato da me volentieri questa mattina per maestro in questa materia, da lui trattata, fra tutte le altre, a stupore), oh vergogna! Non si perdona a danaro per rendere il campo più fertile, l’abitazione più comoda, la cucina più lauta, la stalla più popolata, il cocchio più splendido; e per rendere un figliuolo più costumato si conta tanto a minuto! Anzi poco saria questo, cred’io, se non si giungesse anco a peggio; perocché per questa avarizia medesima spesso accade che se voi di due servitori ne avrete uno accorto e fedele, ed un altro scimunito e vizioso, darete al migliore la cura de’ vostri poderi, ed al peggior la custodia de’ vostri parti. E potrete voi scusarvi di tanta trascuratezza? Come scusarvi? Voi dunque non ardireste di consegnare il vostro cavallo ad un mozzo inetto, o la vostra greggia ad un pastorello infedele, o i vostri buoi a un bifolco disapplicato; e non temerete di porre un figliuol vostro medesimo nelle mani di un servitore vizioso, o di un pedagogo ignorante? Non ha scusa, o Cristiani miei, questo eccesso; no, non ha scusa: perché se l’interesse è quel che vi spinge ad antepor la roba alla prole, che si può dir di più empio, di più stolido, di più insano? – Io per me certo, se mi credessi questa essere la principale cagione del mal governo usato verso dei giovani, tosto avrei desiderio con quell’antico filosofo di montare su la torre più alta della città, ed indi vorrei tonare, tempestare, e ripetere più d’una volta a gran voce: Quo tenditis, homines, quo tenditis,qui rei faciundae omne impenditis studium, filiis instituendis, quibus opes vestras relinquetis, exiguum, ac piane nullum? (Plut.de educai liberor.) Dove andate, olà, cittadini, olà, dove andate? vorrei dir io.Chi a procuratori per liti, chi a banchieri per cambj, chi a principi per favori, chia mercati per compere, chi ad uffìzj per interessi. E dove son rimasti frattanto i vostri figliuoli? se in mano di custodi veramente fedeli, benissimo; andate pure. Ma s’essi frattanto ritrovansi o in un ridotto di gioventù ad apprendere i vizj, odin una bisca di giuoco a trattare i dadi, o in un teatro d’oscenità a provare la parte, o in una contrada d’infamia a disfarsi in vagheggiamenti, o, se non altro in una villa di ozio a perdere inutilmente gran parte danno; se si trovano in tali luoghi, tornate indietro, vorrei dire, tornate, padri inumani; provvedete prima a’ figliuoli, e poi penserete alla roba. E non procurate cotesta roba per loro? Adunque qual insania maggiore, pensare alla roba, che dee servire a’ figliuoli, e non pensare a’ figliuoli, cui dee servire la roba? Così vorrei, credo, gridare, ad imitazion di quel filosofo di cui ragiona Plutarco (lbid); – Né mancherebbemi anche a questo proposito l’autorità del Boccadoro medesimo, il quale mi attesta che ciò sarebbe far come un folle ortolano, il quale solamente mirasse a raccor grand’acqua, onde alimentare le piante; ma non mirasse se quelle piante, che si hanno ad alimentare, sien belle o disformate, sien buoni o degeneranti. Questa ragione dunque degli altri vostri interessi, quantunque onesti, ai quali attendete, non potrà discolparvi presso di Dio, perché niun interesse dovreste avere più rilevante, che la perfetta educazion della prole da lui donatavi. E s’è così, qual altra discolpa dunque voi gli addurrete? Non sarete inescusabìlmente convinti di fellonia, di perfidia, di tradimento? – Che sarebbe di voi, se rimaneste convinti di non aver voi voluto dare a’ giovani vostri o poppa che gli allattasse bambini, o cibo che sostentasse gli adulti, o veste che coprisse gli ignudi, o letto che ricettasseli sonnacchiosi? Non rimarreste senza dubbio in tal caso mutolissimi alle difese? Eppure in tal caso avreste solo lasciato di provvedere alla parte più ignobile, qual è il corpo. Or che sarà lasciando di provvedere alla più signorile, qual è lo spirito? Che sarà se non li provvediate, potendo, di maestro buono, di servitore fedele, di confessore accreditato, di libri utili, d’indirizzi opportuni, di amicizie innocenti, di esempj, di consigli, di stimoli, di freni, di guide, e di tutti gli altri ajuti più necessarj al vivere cristiano? Filii tibi sunt? grida l’Ecclesiastico (VII. 25), erudi illos. Non dice, dita illos, evehe illos, extolle illos, no, erudi illos: perché questo è ciò che soprattutto ha da premervi, farli buoni.
V. Eppure piacesse a Dio che questo fosse l’unico vostro peccato, non procurar loro la salute de’ vostri giovani. Ve n’è un maggiore. E qual è? Procurar la loro rovina! Procurar la loro rovina! Signori sì, signore sì, procurar la loro rovina. Oh questo sì che sarebbe un eccesso sì abbominevole, che voi non potreste fiatare a giustificarvene; ed io, per detestarlo questa mattina come dovrei, vorrei avere un petto di bronzo ed una voce di tuono. Ma che? Non è forse frequente una simile iniquità? Ahimè! sarebbe desiderabile ch’oggi giorno alcuni padri non solamente lasciassero di educare i proprj figliuoli, ma che, appena nati, assettandoli in un cestello, simile a quello in cui fu riposto il bambinello Mosè, gli abbandonassero alla ventura in un lito, in una balza, in un bosco, tanto perverse son le dottrine che loro infondono, tanto scellerati i dettami. Utinam hoc tantumculpa csset (seguo a ragionar tuttavia eoa le autorevoli formule del mio eloquente maestro – Chrysost. 1. 3 centra vitup. vitæ monast.), utinam hoc tantum culpa esset,nihil utile parentes liberis consulere: possitid, quamquam gravissimum sit, aliquatenustolerari. Nunc vero illos ad ea, quæ salutisuæ sunt adversissima, impellitis, et ac tidedita opera liberos vestros perdere omnistudio curetis, ita universa illos jubetisfacere, quæ qui faciunt, salvi esse non possunt. – Volete chiaramente conoscerlo? State a udire. La legge evangelica, che voi dovreste istillar insieme col latte ne’ vostri pargoletti figliuoli, intuona a tutti i ricchi minacce orribili di eterna condannazione. Væ divitibus! (Luc. VI. 24) E voi all’incontro cominciate ad insinuare ne’ lor cuori infin da’ primi anni, che bisogna serbare la roba tenacemente, e che tutta la felicità dell’uomo consiste in aver piene le casse, colmi i granai, ridondanti le grotte. E talora parlando da solo a solo col figliuol vostro, ancor tenerello: mira (gli dite), a tal mercatante, mira il tal canonico, mira il tal cavaliere: perché seppero accumular di molto danaro, vedi tu com’or sono giunti, quegli a fabbricar la tal villa, quegli a conseguire il tal beneficio, quegli a stabilir il tal parentado? Vogliamo credere che tu saprai mai giungere a tanto? E così voi fate formargli un’opinion del danaro tanto sublime, che non cred’esservi altro Dio su la terra maggior dell’oro. Più. – L’Evangelio dice, che bisogna seder nell’ultimo lato: recumbe in novissimo loco (Ib. XIV, 10). E voi a’ vostri giovani persuadete continuamente il contrario, suggerendo loro che non bisogna contentarsi mai dello stato in cui l’uomo nasce; ma che, a guisa de’ fiumi, bisogna sempre nel mondo acquistar paese, avvantaggiarsi, allargarsi. Più. L’Evangelio afferma, che convien condonare le offese fatteci: diligite inimicos vestros (Ib. 6. 27). E voi a’ vostri giovani insinuate perpetuamente l’opposto, dicendo loro che non bisogna dimenticarsi mai di un affronto che l’uom riceva; ma che, ad imitazion de’ molossi, bisogna sempre ad ognuno mostrare i denti, rispondere, ricattarsi. Ed oh quanti sono, che dicono a’ lor figliuoli: la nostra casa è sempre stata riverita e temuta al pari di ogn’altra. Ella ha avuti tanti senatori, tanti cavalieri, tanti capitani, tanti uomini famosi in pace ed in arme. Non sarai degno del casato che porti, se non saprai sempre farti usar tua ragione. Quindi godete che di buon’ora comincino a trattar l’armi, perché i gloriosetti si avvezzino tanti Marti; ed assai più voi fate loro di applauso quando li vedete caricar con man tenera una pistola, che quando li mirate aguzzar la penna. – E quelle buone madri ancor esse con quai dettami sogliono specialmente allevare le loro figliuole? Con quei dettami evangelici, i quali c’insegnano di schivare i lussi superflui e le pompe vane? Nolite solliciti esse corpori vestro quid induamini(Ib. XII. 22). Anzi tutto il contrario. Va, figliuola mia, dicon esse, va, di’ a tuo padre che tu vuoi vestir da tua pari. Digli che tu così ti vergogni di comparire; che cavi fuori del suo scrigno que’ nastri, que’ pendenti, que’ vezzi, quelle smaniglie; a1trimenti non isperare ch’io ti voglia più condur meco neppure a Messa. Quindi abbigliandole or con una sorte di gala, ed or con un’altra, le avvezzano di buon’ora ad indurir contra il freddo ostinatamente le spalle ignude, o fintamente coperte; insinuando che nella foggia del vestire bisogna sempre attenersi all’uso del secolo, e poi lasciare, che i predicatori si sfiatino a lor piacere e che si scatenino. Ecco, o signori miei, quali sono i bei documenti che molti padri, che molte madri oggi danno a’ loro figliuoli. – E così che ne segue? Ne segue che quegli animi ancora molli, ricevuta una tal sementa, comincino a poco a poco a gittare così profonde radici di fasto, di vanità, di ambizione, di audacia, d’interesse, e di ogni altra più sregolata affezione, che quando poi con gli anni acquistano forza, non v’ha più mano mortale che possa svellerne i velenosi rampolli: Adolescensjuxta viam suam, ch’è quella via che lo porta più al mal che al bene, etiamcum senuerit non recedet ab ea(Prov. XXII. 6). E vi par che il vostro delitto sia delitto pertanto di leggier peso? Io credo pure che avrete udito ragionar mille volte di quell’Eli, gran sacerdote, il quale un dì divenne a Dio sì discaro, che fu in perpetuo privato e del sacerdozio e del tempio e delle facoltà e della vita e della prosapia, e giudicato con tanta severità, che quantunque sia opinione probabile ch’ei sia salvo per gli altri suoi singolarissimi meriti verso la religione, nondimeno Filone ebreo, san Gregorio Nazianzeno, santo Isidoro pelusiota, san Cirillo alessandrino, san Giovanni Grisostomo, san Pier Damiano, e più altri, inclinano a riputare ch’ei sia dannato; e san Cesario arelatense, e santo Efrem siro lo sentono chiaramente. Or perché incorse egli un giudizio così tremendo? Mi giova che l’udiate di bocca di. Dio medesimo. Eo quod noverat indigne agere filios suos, et non corripuerit eos, idcirco juravi domui Heli, quod non expietur iniquitas domus ejus victimis et muneribus usque in æternum (1 Reg. III. 13 et 14). La soverchia indulgenza ch’Eli mostrò verso i figliuoli viziosi,fu quella che trassegli addosso sì gran gastighi; e solamente per questo Iddio dichiarossegli sì sdegnato, che non sarebbono mai bastati a placarlo né sacrifizj, né vittime, né preghiere, se non quanto alla pena eterna, almeno quanto alla soddisfazione temporale. Sì? Ora udite e tremate, signori miei. Se questo infelice fu giudicato con tanta severità sol per non avere o ripresi con efficacia, o gastigati con rigidezza i figliuoli mentre peccavano, eoquod non corripuerit eos: ahimè!;che non dovranno temer dunque quei padri, i quali non solo non li ritraggon da’ vizj, ma ve gl’incitano con sì perniciosi dettami? Se non punire il peccato dispiacque tanto, che sarà il lodarlo?che sarà il promuoverlo? che sarà il persuaderlo? che sarà il farsene perversissimo autore? Potrà restare a questi infelici speranza di salvazione? Io non lo so; ma domandovi solamente: – se voi deste questi medesimi documenti viziosi, che abbiamo detti, ad un altro giovine, il qual non vi appartenesse per verun capo, ad un Giudeo, ad un Gentile, ad un Turco, quanto severo giudizio verreste nondimeno ad incorrere nel tribunale divino? Depravatori di giovani! depravatori di giovani! Non può mai dirsi quanto a Dio sieno odiosi. Che però dove leggiamo: capite nobis vulpes parvulas, quæ demoliuntur vineas (Cant. II. 15), san Girolamo insegna potersi egualmente leggere in questa forma (in Cant. hom. 4 in fine): Capite nobis vulpes, parvulas quæ demoliuntur vineas; sicché quella voce parvulas non tanto si riferisca alle volpi, quanto alle vigne: non tam et vulpes, quamad vineas referatur. Perché queste sono le volpi più odiose a Dio, le volpi veterane, le volpi vecchie, le quali tanto più arditamente assaliscono parvulas vineas , la tenera gioventù, la sfiorano, la sterpano, l’assassinano. Queste sono le volpi che il Signore desidera, queste, queste, per farne alfin un macello. Capite nobis vulpes, parvulas quæ demoliunturvineas. E però conchiudo così. Se tanto conto dovreste rendere a Dio, dando cattivi consigli a qualunque giovane, il qual or cominci a fiorire; che sarà dandoli ad un giovane vostro, ad uno, a cui siete per natura tenuti d’istituzione sì santa, d’istruzione sì salutare? Voi pensateci, ed io mi riposerò.
SECONDA
PARTE
VI. Tornava il profeta Eliseo dal veder Elia, suo maestro, rapito in cielo sopra cocchio di fuoco: quando, cominciando a salire una collinetta per ire a Betel, ecco una gran turma di piccioli figlioletti, i quali in vederlo cospirarono tutti ad alzar la voce, e a gridare per beffa: su, vecchio calvo; su, vecchio calvo; cammina: ascende, calve:ascende, calve (4 Reg. II. 23). Eliseo, stupito di arroganza sì audace in età sì tenera, non poté contenere lo sdegno in petto rivoltandosi con occhio bieco a mirar quegl’insolentelli: siate (disse lor) maledetti in nome di Dio: maledixit eis in nomireDomini (lb. II. 24). Credereste? Appena egli ebbe parlato, che tosto uscirono dalla vicina boscaglia due terribilissimi orsi, e cacciandosi in mezzo di que’ fanciulli, quasi in un branco di sbigottiti agnellini, cominciarono in essi a lordar le zanne, a spiccar capi, a smembrar cosce, a sbranar busti a spolpar ossa, a squarciar ventri, a disseminare interiora; nè molto andò, che con orribil macello ne lacerarono insino a quarantadue. Egressique sunt duo Ursi desaltu, et laceraverunt ex eis quadragintaduos pueros (Ibid.). Se voi ne interrogate gl’interpreti, o miei signori, vi diranno che questi figliuoli non erano ancor capaci di gran malizia; perciocché afferma la Scrittura di loro, ch’essi eran pargoletti: pueri parvi. Che vuol dir dunque, che furon eglino non pertanto puniti sì atrocemente? Sapete perché? Per castigare in questa forma i lor padri che mal allevamento che andavano lor dando: ut parentes eorum in ipsis punientur, siccome attesta il Lirano, ed altri in gran numero. Cristiani miei, voi allevate ben spesso i figliuoli con poco timor divin: non è così? con libertà, con licenza, per timore che alfin non si scorga in essi più di bacchettonismo, per usare i termini vostri, che di bravura. Qual sarà pertanto il castigo che voi ne riceverete anche in questo mondo? Che un giorno ve li vediate giacere a’ piedi, finiti innanzi al lor tempo di morte anche ignominiosa. De patre impio,queruntur filii, quoniam propter illum suntin opprobrio (Eccli. XLI. 10). Ma quando ancor vi campassero lungamente, non vi potrebboero recar essi materie non meno gravi di tristezza, di ansietà, di amarezze, di crepacuori? Lacta filium, et paventem tefaciet, dice l’Ecclesiastico (XXX, 9); lude cum eo, et contristabit te. Che disgusto fu quello di Agarre, quando per cagion d’Ismaele da lei nutrito con educazion troppo altiera, fu necessitata di andar raminga pe’ boschi! – Che disgusto fu quello di Davide, quando per cagion di Assalonne, da lui governato con verga troppo indulgente, fu costretto a vedersi crollare il trono! Ed il patriarca Giacobbe che disgusti anch’egli non ebbe per la sua Dina? Uditelo, che potrete impararne assai. Era il buon vecchio, pellegrinando, arrivato con tutti i suoi nel paese di Cana; e quivi in una campagna, ch’egli perciò comperossi da’ Sichimiti, piantati avea i padiglioni, ripartita la gente, accomodati gli armenti, per riposare (Gen. XXXIV). Quando ecco Dina, fanciulla di quindici anni, udendo, come afferma Gioseffo, che poco lungi tutte le donne di Salem concorrevano ad una festa, chiede al padre licenza di andare un poco opportunamente a vederle; giacche per altro le rincrescea di marcirsi lungamente prigione fra quelle tende. Quanto poco a Giacob sarebbe costato il raffrenare severo nella figliuola questa donnesca curiosità giovanile! Ma egli, troppo rimesso, non vuole affliggerla; e per non vederla più piangere e più pregare, le dice: va. Dina vada? Ahi povera figliuola! ahi povero padre! In quanto cieco laberinto vi andate ad intrigar da voi stessi, non lo sapendo! Proseguiamo il fatto, che in vero è terribilissimo. Uscì la vergine per vedere altre donne; ma per quanto ella andasse o raccolta o cauta, fu veduta da un uomo, il quale fieramente invaghitosene, la rapì, la disonorò; e siccome egli era per altro signore di gran portata, cioè il principe stesso de’ Sichimiti, chiamato Sichem, così di poi con lusinghe ancora piegolla a restargli in casa, ed a consentire alle sue legittime nozze. Vassi pertanto a Giacobbe (per la nuova del caso oltre modo afflitto), e si esibiscono le soddisfazioni maggiori che dar si possano ad uomini forestieri. Propone il Principe di voler dar egli alla sposa una ricca dote, offerisce regali, promette rendite, s’obbliga ad avere col popolo d’Israele, allora non grande, perpetua corrispondenza; e si contenta di dar loro a goder le sue terre stesse, le sue campagne, i suoi pascoli, i suoi poderi. Mentre si sta sul calor di questi trattati, ecco i figliuoli di Giacobbe ritornano dalla greggia; i quali, udito lo scorno della sorella, tengon prima fra loro un consiglio breve; conchiudono, stabiliscono: e di poi, covando nel cuore un’aspra vendetta, dicono a Sichem di approvare i partiti da lui proposti; ma che a ciò solo si frapponeva un ostacolo, ed era non poter essi tener commercio con uomini incirconcisi. Però accettassero, i Sichimiti d’accordo la loro legge, si circoncidessero tutti; e poi legherebbesi la bramata amistà, e si stringerebbero scambievoli parentadi. Che non può la smania di un animo innamorato? Accetta il Principe la condizione, la stipola, la rafferma; e tornato lieto in città, con varj pretesti la persuade concordemente anche a’ suoi. Ma che? giunto il terzo dì dopo il taglio (ch’è quando appunto il dolor d’ogni ferita suol essere più crudele), ecco due fratelli di Dina, Simone e Levi, se ne vengono armati nella città; e mentre gli uomini addolorati si giacciono tutti a letto, nulla sospettosi d’inganno, nulla abili alla difesa, ne cominciano a fare un orrendo scempio: uccidono fanciulli, uccidono attempati, uccidon decrepiti; siasi chi si vuole, s’è maschio, convien ch’ei muoja: ed indi a volo passati tosto in palazzo, assaltano furibondi l’odiato Principe, lo scannano, lo sfragellano; e tolta Dina, se la riportano a’ padiglioni paterni, prima vedovella che sposa. Né qui terminò tanta rabbia; perciocché di poi ritornati con tutto il grosso di lor famiglia, recarono alla città l’estremo sterminio; saccheggiarono case, spiantaron orti, desolarono torri; fecer tutte schiave le femmine, e le rapirono. Quinci usciti fuori in campagna, miser tutto il paese furiosamente a ferro ed a fuoco: non perdonarono a beltà di giardini, non a ricchezza di armenti, non a splendidezza di possessioni; a segno tale, che divulgatasi ne’ convicini la fama del caso atroce, tutti a rumore si sollevarono i popoli: arma, arma, perseguita i forestieri, ammazzali, ammazzali; ed eccoti Giacobbe in evidente pericolo di perire con tutti i suoi. Conviene precipitare, conviene partirsi; e se Iddio spezialmente nol proteggesse, qual dubbio c’è ch’ei già sarebbe perduto anche tra le grotte? Or avete sentito, o signori miei? Oh che imbarazzi, oh che confusioni, oh che risichi, oh che garbugli! E perché? Per la soverchia indulgenza di un padre tenero verso una figliuola vogliosa. E quante notti credete voi che Giacobbe vegliare ansioso dovesse su questo affare? Non sarebbe stato assai meglio dare a quell’amata fanciulla un disgusto breve, e lasciarla pregare, e lasciarla piagnere, che dover poi per cagion di essa riceverne un sì tremendo?
VII. Signori miei, questi successi sono registrati nelle divine Scritture, perché si sappiano; ed io però ve li narro, desiderando che voi vogliate, come si conviene, e apprezzarli, ed approfittarvene. Sì, sì, chiaritevi esser verissimo il detto di Salomone: puer, qui dimittitur voluntati suæ, confundit matrem suam (Prov. XXIX, l5). Ipadri sono i primi a provare i cattivi effetti della libertà conceduta a’ lor figliuoli (ch’è quello ch’io nella seconda parte ho preteso di dimostrarvi); e però accorti incominciate a raffrenarli a buon’ora, da’ primi passi, dalla prima puerizia, ed avvezzatevi presto a dir loro, no; non vi lasciando sì facilmente snervare da’ loro vezzi, quando essi bramano che diate loro sul collo la briglia lunga, fìlius enim remissus, come parlò l’Ecclesiastico (XXX. 8), evadet præceps. E non è certamente una gran vergogna chequesti tosto divengano sì assoluti padroni de’ vostri affetti, che solamente per non veder su’ lor volti una lusinghevole lagrimuzza, condiscendiate che vadano a commedie quantunque oscene, a festini quantunque liberi, a ricreazioni quantunque non costumate? – Voglio ben io che li amiate, signori sì; ma d’amor utile, non di amore dannoso. Quanto cordiale amore portava quella famosa regina Bianca al suo piccolo re Luigi! Eppure: ah Sire (gli ripeteva ogni giorno), prima io vorrei vedervi morire su queste braccia, che vedervi commettere un sol peccato. Or perché dunque non gli amate voi pure di amor sì maschio, giacché non mancano signore ancora private che l’hanno fatto, con albergare però nel cuore ancor elleno un tale all’etto, che non par degno di petto men che reale? Certo almen è che tali erano le parole che pur avea del continuo su la sua bocca una beata Umiliana, detta de’ Cerchi, chiara in Firenze unitamente e per sangue e per santità, qualor vedeva i suoi nobili fanciullini non solamente lontani ancor dal morire, come un Luigi, ma già già prossimi. Io non so piagnere, solea dire, o figliuoli, la vostra sorte; perciocché troppo più volentieri io rimiro ciascun di voi portar la sua stola candida al Paradiso, che restar quaggiù con pericolo di lordarla. Tanto la grazia può giungere a trionfare della natura in un cuore ancora di donna, e donna madre! Ma io m’immagino di avervi ormai tediati bastantemente, e però fìnisco. Solo vorrei che vi partiste di qui con questa persuasione vivissima nella mente intorno a’ giovani vostri, che quasi tutta dalle vostre mani dipende ordinariamente la loro salute, più che la salute de’ piccoli navicelli tra le tempeste non dipende da quella de’ lor nocchieri. – E perciò tolleratemi s’io vi dico, che quali li vorrete, tali saranno; se scorretti, scorretti; se santi, santi; perch’io sono certo di non dirvelo a caso. Sofìa, la madre del gran Clemente ancirano, desiderò che il figliuol suo fosse martire del Signore; e così da fanciulletto invogliandolo di un tal pregio con raccontargli frequentemente i trionfi degli altri famosi martiri, finalmente lo consegui. Moabilia, la madre del grand’Edmondo cantuariense, desiderò che il suo figliuolo mantenesse perpetua verginità; e cosi da fanciulletto animandolo a tal virtù, con avvezzarlo incessantemente a tormentare suo tenero corpjcciuolo, facilmente l’ottenne. Bramò Aleta, la madre di san Bernardo, che tutti e sei quei figliuoli maschi, ch’ell’ebbe, si consagrassero al divino servizio; e però gli andava nutrendo fin principio con cibi non da cavalieri, qual erano, ma da romiti, qual li desiderava; e riportò felicemente l’intento. Così la reina Valfrida desiderò di far santa la sua figliuola Editta, e la fece; così parimente fece il buon padre di sant’Ugone monaco, così la madre di santo Svibberto vescovo, così la madre di san Aicardo abbate, così la madre di santa Luggarda vergine; e finalmente, per quella poca osservazione ch’ho fatta nell’assiduo rivolger de’ fasti sacri, io vi posso affermare con verità, che quasi tutti quei genitori, i quali desideraron di rendere la lor prole non solo salva, ma santa, e con una tale intenzione l’andaron sempre sollevando fin da’ primi anni, quasi tutti lo conseguirono. Adunque perché voi pure non procurate lo stesso, signori e signore mie? che vi ritiene? che vi sturba? che v’impedisce? Erudifìliuìn tuum, ne desperes, dirò col Savio (Prov. XIX. 18). Deh per Dio che sarebbe provarsi un poco, se ancora a voi riuscisse sì buona sorte? – Oh qual felicità sarebbe la vostra, esser padre, esser madre di un figliuolo santo! Non invidiate alla gran madre de’ Maccabei quei suoi parti di tanta fama? non invidiate ad un’Elcana il suo Samuele? non invidiate ad un’Elcia la sua Susanna? Ma tutti questi se li formarono tali. Così fate voi parimente, né mancherà chi. però porti tra qualch’anno a voi pure una santa invidia.
Oggi commemoriamo il più grande avvenimento della storia: l’incarnazione di nostro Signore (Vang.) nel seno di una Vergine. (Ep.) In questo giorno il Verbo si è fatto carne. Il mistero dell’incarnazione fa sì che a Maria competa il titolo più bello: quello di « Madre di Dio » (Or.) in greco « Theotocos »; nome, che la Chiesa d’Oriente scriveva sempre in lettere d’oro, come un diadema, sulle immagini e sulle statue. « Avendo toccato i confini della Divinità » (Card. Cajetano, 2a 2æ p. 103, art. 4) col fornire al Verbo di Dio la carne, alla quale si unì ipostaticamente, la Vergine fu sempre onorata di un culto di sepravenerazione o di iperdulia: « II Figlio del Padre e il Figlio della Vergine sono un solo ed unico Figlio », dice San Anselmo. Maria è da quel momento la Regina del genere umano e tutti la devono venerare (Intr.). Al 25 marzo, corrisponderà, nove mesi più tardi, il 25 dicembre, giorno nel quale si manifesterà al mondo il miracolo che non è conosciuto oggi che dal cielo e dall’umile Vergine. La data del 25 marzo, secondo gli antichi martirologi, sarebbe anche quella della morte del Salvatore. Essa ci ricorda, dunque, in questa Santa Quarantena, come canta il Credo che « per noi uomini e per la nostra salute, il figlio di Dio discese dal cielo, si incarnò per opera dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria, si fece uomo, fu anche crocefisso per noi, patì sotto Ponzio Pilato, e fu seppellito e resuscitò il terzo giorno ». Poiché il titolo di Madre di Dio rende Maria onnipotente presso suo Figlio, ricorriamo alla sua intercessione presso di Lui (Or.), affinché possiamo arrivare per i meriti della Passione e della Croce alla gloria della Risurrezione (Postc).
Incipit
In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps XLIV: 13, 15 et 16. Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducántur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducántur tibi in lætítia et exsultatióne.
[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.
Ps 44:2. Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi. [Dal mio cuore erompe una fausta parola: canto le mie opere al Re.
Vultum tuum
deprecabúntur omnes dívites plebis: adducántur Regi Vírgines post eam: próximæ
ejus adducántur tibi in lætítia et exsultatióne.
[Ti rendono omaggio tutti i ricchi del popolo: dietro di lei, le vergini sono condotte a te, o Re: sono condotte le sue compagne in letizia ed esultanza.
Oratio
Orémus.
Deus, qui de beátæ Maríæ Vírginis útero Verbum tuum,
Angelo nuntiánte, carnem suscípere voluísti: præsta supplícibus tuis; ut, qui vere
eam Genetrícem Dei crédimus, ejus apud te intercessiónibus adjuvémur.
[O
Dio, che hai voluto che, all’annuncio dell’Angelo, il tuo Verbo prendesse carne
nel seno della beata Vergine Maria: concedi a noi tuoi sùpplici che, come
crediamo lei vera Madre di Dio, così siamo aiutati presso di Te dalla sua
intercessione.]
Lectio
Léctio Isaíæ Prophétæ. Is VII: 10-15. In diébus illis: Locútus est Dóminus ad Achaz, dicens: Pete tibi signum a Dómino, Deo tuo, in profúndum inférni, sive in excélsum supra. Et dixit Achaz: Non petam ei non tentábo Dóminum. Et dixit: Audíte ergo, domus David: Numquid parum vobis est, moléstos esse homínibus, quia molésti estis et Deo meo? Propter hoc dabit Dóminus ipse vobis signum. Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium, et vocábitur nomen ejus Emmánuel. Butýrum ei mel cómedet, ut sciat reprobáre malum et elígere bonum.
[In
quei giorni: Così parlò il Signore ad Achaz: Domanda per te un segno al Signore
Dio tuo, o negli abissi degli inferi, o nelle altezze del cielo. E Achaz
rispose: Non lo chiederò e non tenterò il Signore, E disse: Udite dunque, o
discendenti di Davide. È forse poco per voi far torto agli uomini, che fate
torto anche al mio Dio ? Per questo il Signore vi darà Egli stesso un segno.
Ecco che la vergine concepirà e partorirà un figlio, il cui nome sarà Emmanuel.
Egli mangerà burro e miele, affinché sappia rigettare il male ed eleggere il
bene.]
Graduale
Ps XLIV: 3 et 5. Diffúsa est grátia in lábiis tuis: proptérea benedíxit te Deus in ætérnum. V. Propter veritátem et mansuetúdinem et justítiam: et dedúcet te mirabíliter déxtera tua. Ps XLIV: 11 et 12. Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam: quia concupívit Rex speciem tuam. Ps XLIV: 13 et 10. Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: fíliæ regum in honóre tuo. Ps XLIV: 15-16. Adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus afferéntur tibi. V. Adducéntur in lætítia et exsultatióne: adducántur in templum Regis.
[La grazia è riversata sopra le tue labbra, perciò il Signore ti ha benedetta per sempre, V. per la tua fedeltà e mitezza e giustizia: e la tua destra compirà prodigi. Ps 44: 11 et 12. Ascolta e guarda, tendi l’orecchio, o figlia: il Re si è invaghito della tua bellezza. Ps 44: 13 et 10. Tutti i ricchi del popolo imploreranno il tuo volto, stanno al tuo seguito figlie di re. Ps 44: 15-16. Le vergini dietro a Lei sono condotte al Re, le sue compagne sono condotte a Te. V. Sono condotte con gioia ed esultanza, sono introdotte nel palazzo del Re.]
Evangelium
Luc 1: 26-38. In illo témpore: Missus est Angelus Gábriel a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Joseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus. Quæ cum audísset, turbáta est in sermóne ejus: et cogitábat, qualis esset ista salutátio. Et ait Angelus ei: Ne tímeas, María, invenísti enim grátiam apud Deum: ecce, concípies in útero et páries fílium, et vocábis nomen ejus Jesum. Hic erit magnus, et Fílius Altíssimi vocábitur, et dabit illi Dóminus Deus sedem David, patris ejus: et regnábit in domo Jacob in ætérnum, et regni ejus non erit finis. Dixit autem María ad Angelum: Quómodo fiet istud, quóniam virum non cognósco? Et respóndens Angelus, dixit ei: Spíritus Sanctus supervéniet in te, et virtus Altíssimi obumbrábit tibi. Ideóque et quod nascétur ex te Sanctum, vocábitur Fílius Dei. Et ecce, Elísabeth, cognáta tua, et ipsa concépit fílium in senectúte sua: et hic mensis sextus est illi, quæ vocátur stérilis: quia non erit impossíbile apud Deum omne verbum. Dixit autem María: Ecce ancílla Dómini, fiat mihi secúndum verbum tuum.
[In
quel tempo: L’Angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea,
chiamata Nazaret, ad una Vergine sposata con un uomo della stirpe di Davide che
si chiamava Giuseppe, e il nome della Vergine era Maria. Ed entrato da lei,
l’Angelo disse: Ave, piena di grazia: il Signore è con te: benedetta tu tra le
donne. Udendo ciò ella si turbò e pensava che specie di saluto fosse quello. E
l’Angelo soggiunse: Non temere, Maria, perché hai trovato grazia davanti a Dio,
ecco che concepirai e partorirai un figlio, cui porrai nome Gesù. Esso sarà
grande e chiamato figlio dell’Altissimo; e il Signore Iddio gli darà il trono
di Davide, suo padre, e regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe, e il suo
regno non avrà fine. Disse allora Maria all’Angelo: Come avverrà questo, che
non conosco uomo ? E l’Angelo le rispose. Lo Spirito Santo scenderà in te e ti
adombrerà la potenza dell’Altissimo. Perciò quel santo che nascerà da te sarà
chiamato Figlio di Dio. Ed ecco che Elisabetta, tua parente, ha concepito
anch’essa un figlio, in vecchiaia: ed è già al sesto mese, lei che era chiamata
sterile: poiché niente è impossibile a Dio. E Maria disse: si faccia di me
secondo la tua parola.]
Il
Figliuolo di Dio, seconda Persona della santissima Trinità, il quale si fa uomo
e prende nel seno della Vergine Maria un’anima e un corpo formati per opera
dello Spirito Santo, è il mistero che adoriamo in questo giorno. Noi non
comprendiamo questo mistero, ma lo crediamo. Si tratta ancora d’imitarlo in
quello che possiamo, di lodarne Dio, e di approfittarne. – Vi sono
principalmente due cose da imitarsi in questo mistero. Bisogna che noi cerchiamo
di entrare, con una sincera e profonda umiltà, nel sentimento di Colui che essendo eguale al Padre suo, ed un medesimo Dio
con lui, si annichilò prendendo la forma di servo col farsi uomo. Egli ha
cominciato oggi l’umiliazione di quella obbedienza che spingerà fino alla morte
di croce. Bisogna che ci sottoponiamo ed interamente ci consacriamo di buon’ora
a Dio, per obbedire alla sua legge, e seguire in tutto la sua volontà,
sull’esempio di Colui sull’esempio di Colui che entrando in questo mondo disse:
Ecco che io vengo, voi mi avete formato un corpo; sta scritto in capo al libro
che io farò la vostra volontà, o mio Dio! Io porterò la vostra legge in mezzo
al cuore. – All’esempio di un Dio che si è fatto uomo per poter essere da noi
imitato, torna bene qui l’unire in questo giorno l’esempio di quella che egli
si scelse per Madre, e che trae da lui tutta la sua virtù e la sua gloria. –
Proponiamoci, e meditiamo nel Vangelo di questo giorno la semplicità, la modestia,
la fede, l’umiltà, la sottomissione agli ordini di Dio, e il perfetto abbandono
alla santa provvidenza di lui, virtù che risplendono in Maria nella sua
Annunziazione.
PREGHIERA
O
Dio, che annientandovi nella vostra Incarnazione avete innalzata Maria alla
dignità di vostra Madre, fatemi onorare degnamente la sua divina maternità, e
meritare per l’imitazione delle sue virtù quella suprema felicità, che voi avete
promessa a quelli, i quali come Ella porteranno in opera la vostra parola,
quando diceste: Chiunque fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, è mio
fratello e mia sorella e mia madre. Datemi parte, Signore, di quella singolare
purità che chiamò i vostri sguardi sopra questa Vergine senza macchia, di
quella profonda umiltà con la quale Ella vi concepì, di quella perfetta
sommissione :he le fece sopportare i tormenti della vostra passione, di quell’amore
sì forte e sì ardente che consumando la sua vita, la mise in possesso del
premio eterno da Lei meritato. – Madre del Salvatore del mondo, che godete da
lungo tempo il premio delle vostre virtù, rammentatevi che siete la Madre delle
membra siccome del Capo, e che dopo di Lui, i figli dell’infelice Eva, divenuti
vostri, aspettano dalla vostra potente intercessione gli aiuti dei quali
abbisognano nel loro esilio; degnatevi adunque di domandare per me al vostro
divin Figlio le grazie che mi sono necessarie, per imitarvi quanto può una
creatura così imperfetta come io sono, affinché dopo aver partecipato in
qualche modo ai vostri meriti, io possa sperar di partecipare anche alla vostra
gloria ed alla vostra felicità.
Luc 1:28 et 42. Ave, Maria, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.
Secreta
In méntibus nostris, quǽsumus, Dómine, veræ fídei sacraménta confírma: ut, qui concéptum de Vírgine Deum verum et hóminem confitémur; per ejus salutíferæ resurrectiónis poténtiam, ad ætérnam mereámur perveníre lætítiam.
[Conferma nelle nostre menti, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri della vera fede: affinché noi, che professiamo vero Dio e uomo quegli che fu concepito dalla Vergine, mediante la sua salvifica resurrezione, possiamo pervenire all’eterna felicità.]
Is VII: 14. Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel.
[Ecco, una vergine concepirà e partorirà un figlio: al quale si darà il nome di Emmanuel.]
Postcommunio
Orémus. Grátiam tuam, quǽsumus, Dómine, méntibus nostris infúnde: ut, qui. Angelo nuntiánte, Christi Fílii tui incarnatiónem cognóvimus; per passiónem ejus et crucem, ad resurrectiónis glóriam perducámur.
[La tua grazia, Te ne preghiamo, o Signore, infondi nelle nostre anime: affinché, conoscendo per l’annuncio dell’Angelo, l’incarnazione del Cristo Tuo Figlio, per mezzo della sua passione e Croce giungiamo alla gloria della resurrezione.]
Pro-delegato
vescovile della diocesi e Professore di Teologia dogmatica del seminario di Lugano
MARIA NEL DOGMA
CATTOLICO –
Torino, P.
MARIETTI ed., 1909]
Libro I, parte III, Maria nel Vangelo:
CAPO III.
L’annunciazione dell’Angelo.
Sommario. —
I . Si racconta colle parole stesse dell’Evangelo il fatto della annunciazione, che teologicamente è la base di tutta la grandezza di Maria, ma che noi dobbiamo esaminare con criteri storici. — II. Maria ricevette la visita dell’Angelo, prima del suo matrimonio, quando era solo fidanzata con Giuseppe. — III. Il celeste messaggero è Gabriele; suoi rapporti coll’Incarnazione; forma e luogo in cui apparve. — IV. Perché l’annunciazione. — V. Perché il messaggio di un Angelo. VI. — Autenticità del colloquio passato tra Maria e l’Angelo. — Conazione della critica razionalista. — Logico concatenamento delle cose dette dall’Angelo. — VII. La psicologia di Maria nel grande dramma dell’Annunciazione: sua prudenza, sua umiltà, suo amore alla verginità, tua fede, sua obbedienza, sua ardente carità.
I. — L’Evangelo che ha taciuto della
nascita e dell’adolescenza di Maria, d’un tratto ci parla di lei per dirci che
un Angelo, l’arcangelo Gabriele, le apparve ad annunziarle che sarebbe
diventata Madre di Dio. È il primo avvenimento che della vita di Maria
conosciamo dai libri ispirati. Ce lo narra Luca nei termini seguenti: Il sesto
mese (dacché Elisabetta aveva concepito Giovanni Battista) fu mandato l’Angelo
Gabriele da Dio in una città di Galilea chiamata Nazareth, ad una vergine
sposata ad un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe, e la vergine si
chiamava Maria. Ed entrato da lei l’Angelo disse: Salute, o piena di grazia: il
Signore è con te. Benedetta tu fra le
donne. — Ciò udendo ella sbigottì alle sue parole e pensava che specie di saluto
fosse quello. E l’Angelo aggiunse: Non temere, Maria: che hai trovato grazia
avanti a Dio; ecco, concepirai nel seno e partorirai un figlio, cui porrainome
Gesù. Questo sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore
gli darà il trono di David, suo padre, e regnerà in eterno sulla casa di
Giacobbe, e il suo regno non avrà fine. — Allora Maria disse all’Angelo: Come
avverrà questo mentre io non conosco uomo? — E l’Angelo le rispose: Lo Spirito
Santo scenderà in te e la potenza dell’Altissimo t’adombrerà. Per ciò, quel che
n’è generato santo, sarà chiamato figlio di Dio. Ed ecco Elisabetta, tua
parente, ha concepito anch’essa un figlio nella sua vecchiaia; ed è questo per
lei il sesto mese, detta sterile: che niente è impossibile avanti a Dio. — E
Maria disse: Ecco l’ancella del Signore: si faccia di me secondo la tua parola.
— E l’Angelo si partì da lei „ (S. Luca I, 26 seg.). Questo breve tratto
dell’Evangelo contiene in germe tutta la teologia mariana. Tutto quello che di
sublime si può e si deve dire di Maria, va attinto, come alla sua fonte
inesauribile, al racconto dell’annunciazione che ci fa S. Luca. Perché fu
subito dopo il colloquio con l’Angelo che Maria divenne Madre di Dio: fu per il
modo con cui accettò di diventar Madre del Salvatore, che si trovò associata a
Lui nell’opera della redenzione, e meritò il titolo di nostra Madre e Corredentrice.
La chiave che dogmaticamente ci introduce nell’imponente edificio della dignità
di Maria, sta nei suoi rapporti cristologici. Ebbene, questi rapporti si
rannodano tutti al fatto dell’annunciazione. Ma quel che si può teologicamente cavare
da questo fatto, già lo vedemmo altrove. Ora. noi dobbiamo esaminarlo con
criteri storici.
II. — Dal punto di
vista storico, importa anzitutto far rilevare che l’Angelo apparve a Maria
prima che ella fosse definitivamente congiunta in matrimonio con Giuseppe, quando
cioè era semplice fidanzata di lui. Questo risulta anzitutto dal significato
ovvio, naturale e spontaneo della parola latina dessposatae
della greca “imnesteumenen” ,a cui quella fedelmente corrisponde. Ma
soprattutto ci risulta evidente confrontando quel che di Maria dice S. Luca,
con quel che ce ne fa sapere S. Matteo! Dalla narrazione dell’annunciazione, e
soprattutto della visita a S. Elisabetta che si legge in S. Luca, è fuor di
dubbio che Maria divenne Madre di Dio subito dopo ch’ella disse all’Angelo:
“Ecco la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola.„ Ora
S. Matteo ci dice a proposito: “La nascita di Gesù Cristo poi avvenne così:
Maria, sua madre, sposata a Giuseppe, prima che fossero insieme, si trovò
incinta di Spirito Santo. — Christi autem generatio sic erat; cum esset
desponsatamater ejus Maria Joseph, antequam convenirent, inventa est in
uterohabens de Spirita Sancto „ Matth. I, 18. Quel antequam
convenirent, getta troppa luce sul significato del desponsata, perché
ci possa essere ancor dubbio. Maria dunque portava già in sé il Salvatore prima
che coabitasse con S. Giuseppe; poiché tale è il significato della frase antequam
convenirent. La parola convenire qui non può significare l’uso del
coniugio, per il quale l’Evangelista usa il verbo cognoscere, ma indica
semplicemente la coabitazione. Tale è pure il significato della frase originale
greca (“pris e suneltein aghios”). Essa
dice letteralmente prima di unirsi a coabitare, prima di venire nella
stessa casa. E che qui si debba ritenere il significato letterale, è confermato
dall’avviso che l’Angelo, secondo S. Matteo, diede a Giuseppe, angustiato per lo
stato in cui si trovava Maria, e che egli non sapeva spiegare. L’Angelo disse a
lui: “Giuseppe, non esitare a prendere Maria in tua consorte. — Joseph,
noli timere accipere Mariamconjugemtuam. „ Nel greco per accipere ci sta “paraladein”, che vuol dire
letteralmente condurre a casa tua, cioè prendere in moglie, perconsorte.
– È dunque evidente che quando Maria concepì il Figlio di Dio, e quando fu visitata
da Gabriele, che le dava un tanto annuncio, ella non stava ancora nella di
Giuseppe. Abitava con lui nello stesso paese, ma in casa distinta. Che avesse
ancora i suoi genitori?… Che fosse presso qualche prossimo parente che le
faceva le veci dei genitori morti?… Sono domande a cui sarebbe inutile tentar
di dare una risposta, perché sarebbe
sempre arbitraria. L’Evangelo non ci ha voluto dare informazioni su questo punto,
ed a noi altro non resta che reprimere insoddisfatta la nostra curiosità. Ci
preme però di mettere il lettore in guardia perché non pensi che il fidanzamento,
lo sposalizio, presso gli Ebrei avesse quel medesimo valore che ha
presso di noi. No!, presso gli Ebrei il vincolo che ne nasceva era molto più
intimo, i diritti più. ampii. Il fidanzamento degli Ebrei aveva il valore del
matrimonio rato presso i Cristiani. Gli sposi non coabitavano ancora, ma
potevano trattarsi come marito e moglie. Se la sposa avesse mancato di fedeltà
era dalla legge trattata come adultera, e viceversa se avesse avuto dei figli
dal suo fidanzato questi non erano considerati come illegittimi. Il celebre rabbino
Maimonide, del quarto secolo, che ben conosceva gli usi ebraici, scrive a
proposito: Si sponsa in domo patris sui ex sponso concepisset, infans ut
legitimus habebatur (De prohib. congr., cap. xv, n. 17). Per questo,
lo stesso Maimonide dice che alla fidanzata ebrea si poteva con verità dare
anche il titolo di moglie: Desponsata, tametsi nondum maritata, nec in domum
viriintroducta, illìus tamen est uxor (nel libro Ascetk, ossia
La Donna). Il fidanzamento durava un anno, e passava in matrimonio
coll’introduzione della sposa nella casa dello sposo; la quale introduzione ora
si faceva solennemente, coll’invito cioè di molti amici, ai quali non si
lasciava mancare lieta e copiosa mensa, ed ora si faceva tacitamente, senza
fasto né esteriori dimostrazioni. – Ammesso
che Maria, quando fu salutata dall’Angelo, fosse semplice fidanzata di Giuseppe
nel senso testé spiegato, si comprendono chiaramente tante cose, che a prima
vista sembrano oscure. Si spiega, anzitutto, come Maria abbia potuto subito
dopo lasciare Nazareth ed andare da Elisabetta senza essere accompagnata da
Giuseppe. Che Giuseppe non sia andato da Elisabetta è fuor di dubbio. Lo
dimostra il turbamento che provò quando si accorse della gravidanza di Maria,
che non poteva in niuna maniera spiegare. Questa scoperta la fece certamente al
ritorno di Maria in Nazareth. Se fosse andato anche lui dalla madre di Giovanni
Battista, avrebbe inteso il saluto di lei a Maria, avrebbe inteso il Magnificat,
avrebbe partecipato alle confidenze di Maria alla sua vecchia parente; per dir
tutto in breve, lo stato della sua sposa non sarebbe più stato per lui
ricoperto dall’impenetrabile velo del mistero. Giuseppe dunque non fu con Maria
nelle regioni montuose, inmontana; il che si comprende benissimo
supposto che Maria ancora non coabitasse con lui. Si spiega ancora come la
gravidanza di Maria non abbia suscitato in pubblico nessuna meraviglia, come il
suo onore non ne fosse stato menomamente compromesso. Ella era legalmente fidanzata:
dunque non c’era più nulla da obbiettare contro le condizioni in cui si trovava.
In tutti doveva naturalmente formarsi la convinzione, che il frutto aspettato
era il legittimo rampollo dello sposo Giuseppe. Questi però che sapeva di non
aver mai usato i suoi diritti coniugali, ne restava meravigliato e turbato. Ma
era il solo che poteva provare una simile impressione. In altri termini, il
lettore si ricorda certamente quali siano state le ragioni per cui Dio volle la
Vergine Maria, non
ostante il voto di verginità, unita in
matrimonio con Giuseppe. Ebbene, quelle ragioni cominciavano ad avere tutto il
loro valore dal giorno del fidanzamento di Maria.
III. — L’Angelo
apparso a Maria fu Gabriele. Il suo nome etimologicamente vuoi dire forza di
Dio, eroe di Dio. Non era questa, secondo la Scrittura, la prima apparizione
da lui fatta ai mortali. Dal libro di Daniele risulta che si manifestò più
volte a quel profeta, sotto forma di uomo alato, per istruirlo su varii punti,
e, fra altro, per spiegargli il vero senso delle settanta settimane che
dovevano trascorrere prima della venuta del Messia. S. Luca, nel capo medesimo
in cui narra l’annunciazione a Maria, ci fa sapere che Gabriele era già prima
apparso a Zaccaria, per annunciargli- che sarebbe diventato il padre del Precursore.
Con Zaccaria si manifestò in questi termini: “Io sono Gabriele che sto in
presenza di Dio„ (Luc. I, 19). Egli è dunque come Raffaele, del quale è detto
nel libro di Tobia: “che è uno dèi sette spiriti che stanno davanti al
trono di Dio„ (Tob. XII, 15). Stanno davanti al trono di Dio, s’intende, per ricevere
e mandare ad esecuzione i suoi ordini. Per questo Gabriele si connumera tra gli
arcangeli. S. Tommaso pensa che Gabriele non sia dell’ordine più sublime tra
gli spiriti celesti, ma che sia sufficiente l’ammettere che ha il primo posto nell’ordine
degli arcangeli, il cui officio è quello di annunciare agli uomini le cose di
maggior importanza: Ad quartum dicendum, quod quidam dicunt Gabrielemfuisse
de supremo ordine angelorum: propter quod Gregorius dicit: “Summum angelum
venire dignum fuerat, qui summum omniumnuntìabat. „ Sed ex hc non
habetur quod fxerit summus inter omnesordines, sed respectu angelorum:
fuit enim de ordine archangelorum: unde et Ecclesia eum archangelum nominat: et
Gregorius ipse dicit in hom. de centum ovibus) quod “archangeli dicuntur
qui summa annutiant „ satis est ergo credibile., quod sii summus in ordine
archangelorum (III p., q. xxx, art. 2). Per la parte da lui avuta
nell’annunciare i misteri riguardanti l’Uomo-Dio, Gabriele vien chiamato anche
“l’Angelo dell’Incarnazione, „ ed è fuor di dubbio, come opportunamente fa
osservare S. Gregorio, che il suo nome conveniva molto bene agli offici da lui
compiuti. La Redenzione è certamente opera di potenza: è la manifestazione più
bella dell’illimitato potere di Dio; era ben giusto quindi che il portare la
novella di un tanto mistero fosse affidato all’angelo che si chiama laforza
di Dio. Hoc nomen officio suo congruit. Gabriel enim Deifortitudo
nominatur. Per Dei ergo fortitudinem nuntiandus erat, quivirtutum
Dominus, et potens in prœlio ad debellandas potestates aereasvenlebat (S. Tho.). Gabriele apparve a Maria in
forme d’uomo: questo è fuor di dubbio: altrimenti non si capirebbe più come sia
“entrato _ da lei, come abbia materialmente “parlato „ con lei, come
da lei si sia partito. „ Quale però sia stato precisamente l’aspetto assunto
dall’Angelo, l’Evangelo propriamente non lo dice: a Daniele apparve alato; ma
nel caso della Vergine si ritiene che non sia apparso in quest’atteggiamento. Il
suo entrare e partire da Maria, è descritto da S. Luca con parole
che fanno supporre nell’Angelo forme umane comuni. L’Arcangelo entrò dalla
Vergine. Questo vuol dire che la salutò, e le annunciò il mistero
dell’Incarnazione mentre Maria si trovava in casa: è troppo naturale il
supporre che in quel momento fosse immersa nell’orazione e nella contemplazione
dei divini misteri. Certo era sola. Di qui svanisce la leggenda diffusa presso
gli Orientali, che Gabriele sia apparso a Maria mentre si trovava alla fontana
per attingere acqua. Ciò urta col testo di S. Luca. Più strana ed infondata
ancora è l’opinione di alcuni, che, per conciliare ogni cosa, ammettono una
duplice apparizione: la prima alla fontana, la seconda in casa. E evidentemente
contro la narrazione dell’Evangelo il duplicare l’annuncio dell’Angelo.
IV. — Perché Dio volle che il mistero dell’Incarnazione fosse prima annunciato che compiuto; e, di più, perché farlo annunciare da un Angelo? A queste due domanda risponde molto bene S. Tommaso nella terza parte della Summa Theologica, alla questione trentesima. Non si trattava certo di necessità assoluta. Iddio, padrone assoluto di ogni cosa, avrebbe potuto rendere Maria madre del suo Figlio anche senza inviarle nessun previo messaggio, anche senza aspettare il di lei consenso. Ma fu conveniente che Maria venisse prima edotta di ciò che stava per compiersi in lei, per quattro ragioni. La prima si fu per dar campo a Maria di prepararsi a ricevere degnamente in s’è il Verbo divino. Prima di concepire in sé materialmente il Figlio di Dio, era conveniente che lo concepisse spiritualmente, concentrando su di Lui in uno sforzo supremo tutti i suoi affetti, e tutti i suoi pensieri. Al Re dell’universo che entrava nel mondo, per quanto volesse da principio conservare l’incognito, era però troppo giusto che almeno la Madre sua facesse festa e rendesse grazie per tanta degnazione. Congruum fuit, dice S. Tommaso, B. Virgini annuntiari quod esset Christum conceptura. Primo quidem ut,servaretur congruus ordo conjunctionis Filli Dei ad Virginem: utscilicet priusmens ejus de ipso’ instrueretur, quam carne enm conciperet (l. c.). Poi, facendo questa rivelazione, Dio pensava a noi: Egli volle che Maria ne fosse diligentemente istruita, affinché ella poi, alla sua volta, fosse in grado di rendere davanti all’umanità una testimonianza inoppugnabile di questo mistero. In realtà, le informazioni che S. Luca ci dà sul modo con cui Dio s’incarnò, le ebbe appunto da Maria. Secundo, è sempre l’Angelico che parla, ut posset (Maria) esse certior testis hujus sacramenti,quando super hoc divinitus erat instructa. L’annunciazione fu conveniente anche, perché, come diremo tosto, fornì a Maria l’occasione di esercitare le più mirabili virtù. Tertio, ut voluntaria sui obsequii munera Deo offerret aquod se promptam obtulit, dicens: Ecce ancilla Domini. Infine, tenendo questa condotta, Dio ha mostrato una volta di più, come Egli ami trattare agni cosa secondo la sua natura, e come abbia sempre un delicato rispetto verso l’umano libero arbitrio. Ad un essere libero, l’amicizia, l’alleanza non, s’impone, ma convenienza vuole che si offra e si lasci alla libera accettazione. Coll’incarnazione Dio entrava in più intimi rapporti coll’umanità; era un indissolubile connubio che contraeva con lei. Ci voleva dunque la libera accettazione anche da parte dell’umanità. Questo libero consenso, in nome di noi tutti, lo diede Maria, rispondendo all’Angelo. Un’altra donna, col suo libero consenso all’angelo malvagio, ci aveva rovinati, Maria ci restituisce liberamente all’amicizia di Dio rispondendo a Gabriele. Quarto, ut ostenderetur esse quoddam spirituale matrimoniuminter Filium Dei et humanam naturam. Et ideo per annuntiationemexpectabatur consensus Virginis loco totius humanæ naturæ? (l. c., art. 1).
V. — Una volta decretato di manifestare a Maria il mistero dell’Incarnazione, prima di mettervi mano, nessuna maniera era più congrua o delicata per annunciarlo, che quella di incaricare di ciò un Angelo. Certo, Dio avrebbe potuto manifestarlo Lui direttamente; avrebbe anche potuto mandare a Maria un profeta. Ma questo secondo partito, l’intromissione cioè di un uomo, forse non sarebbe stata troppo decorosa, data la superiorità di Maria a tutto il restante dell’uman genere. Fu molto conveniente che di questo divino messaggio venisse incaricato un angelo, specialmente, secondo S. Tommaso, per tre ragioni. Anzitutto perché è la via ordinariamente seguita dalla divina Provvidenza, quella cioè di manifestare i suoi sovrannaturali disegni agli uomini per mezzo degli Angeli. E non vi sarebbe stato nessun motivo di fare un’eccezione per Maria. Ella, è vero, per un lato è superiore agli Angeli: è superiore a loro per dignità e santità; ma da un altro è inferiore ad essi: lo è per natura, e, mentre viveva quaggiù, lo era anche per condizione di viatrice. Anche Gesù Cristo, per la sua condizione di uomo e di viatore, fu per poco inferiore agli Angeli. Sentiamo S. Tommaso: Respondeo, dice nell’articolo secondo della questione citata, quod conveniens fuit Matri Dei annuntiari perAngelum divinæ incarnationis mysterium propter trio. Primo quidemut in hoc etiam servaretur divina ordinatio, secundum quam mediantibusangelis divina ad homines perveniunt. E nella risposta adprimum soggiunge: Ad primurn ergo dicendum, quod Mater Deisuperior erat angelis quantum ad dignitatem, ad quam divinitm eligebatur;sed quantum ad statum præsentis vitæ inferior erat angelis,quia et ipse Christus ratione passibilis vita, modico ab angelis minoratus est. – Di più, un angelo delle tenebre aveva col suo intervento iniziato l’opera della nostra caduta; era ben dunque conveniente che un altro angelo, un Angelo di luce, trattasse con un’altra donna per il nostro riscatto. Secundo, continua il santo Dottore, hoc fuit conveniensreparationi humanæ quæ futura erat per Christum; unde Beda dicit: Aptum humanai restauraiionis principium, ut angelus a Deo mitteretur ad Virginem partii consecrandam divino, quìa prima perditionis humanai fuit causa, cum serpens a diabolo mittebatur ad mulierem spiritu superbice decipiendam. „ Da ultimo un tal messaggero celeste era il meglio indicatoper presentarsi a colei che, diventando madre, non avrebbe cessatodi essere vergine. Vi hanno legami strettissimi tra la purezza angelica e la purezza verginale: vivete nel mondo conservandosempre illibato il candore verginale, e, più che umanadeve dirsi vita angelica. Tertio, così conchiude l’Angelico, quia hoc congruebat virginitati Matris Dei; unde Hieronymus dicit in sermone Assumptionis (è il discorso falsamente attribuito a lui): ” Bene angelus ad virginem mittitur quia semper est angelis cognata virginitas. Profecto, in carne, præter carnemvivere, non terrena vita est, sed cœlestis „ (l. c.).
VI. Alla critica razionalistica il racconto che S. Luca ci dà dell’annunciazione dell’Angelo, riesce troppo molesto, preso così com’è, e si è data quindi la briga di rifarlo a suo piacimento. Non parliamo di quelli che più radicali, ma certamente più coerenti, sopprimono addirittura i due primi capi di S. Luca, il così detto Vangelo dell’infanzia. Abbiamo in vista solo coloro, che più pudibondi, ma d’un pudore illogico, e non privo di sapore comico, ammettono sì i racconti dell’infanzia, ma vogliono far sparire l’affermazione della verginità di Maria. Questo insigne privilegio della Madre di Dio brilla di luce meridiana nel colloquio che Ella ebbe con l’Angelo; ed è appunto contro questa luce che si fa ribelle la critica razionalista, e precisamente quella che vorrebbe passar per più moderata, e dare ai propri argomenti l’aureola di scientifici. Ecco come procedono: Il Kattenbusch propone di eliminare dal colloquio quattro parole che l’Evangelista mette in bocca a Maria, « Epei andra u ghinosko — poiché non conosco uomo]. Solo quattro parole!… – Harnack non si accontenta di così poco, che pur sarebbe già un arbitrio intollerabile. Per meglio e più sicuramente eliminare l’idea del concepimento virgineo di Gesù, sostiene che debbansi riguardare come interpolati i versicoli 34, 35. come pure l’appellativo di vergine dato a Maria in principio del racconto. Nel testo primitivo, dunque, secondo Harnack, non si leggevano queste parole: 34. Allora Maria disse all’Angelo: comeavverrà questo, mentre io non conosco uomo? 35. E l’Angelo rispose:lo Spirito Santo scenderà in te e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà.Per ciò quel che ne è generato santo sarà chiamato Figlio di Dio. Quali sono le ragioni che hanno indotto il Professore di Berlino, il quale del resto è meritamente celebrato per la sua erudizione, e che ragiona egregiamente solo quando il pregiudizio non gli fa ombra, quali sono, domandiamo, le ragioni su cui appoggia quest’asserita interpolazione? Se si trattasse di noi cattolici che volessimo sopprimere qualche testo molesto, ci si richiamerebbe agli antichi codici, e ci si imporrebbe per essi un sacro rispetto. E la cosa sarebbe giusta. Ma appunto perché questo criterio è giusto, va rispettato sempre. La questione dunque dell’interpolazione bisognerebbe giudicarla in base ai documenti, e non con semplici supposizioni speculative. Ma quelli che si vantano di essere i monopolizzatori del sapere positivo, questa volta trovano troppo volgare il piegarsi davanti ai codici. Preferiscono ragionare a priori; e del resto non possono far altro, perché neppure uno dei codici è dalla loro parte. Tutti riferiscono, come è al presente, il fatto dell’annunciazione. Quali sono dunque gli argomenti di Harnack? Egli li espose nel 1901 [in Luk]e li deduce tutti dall’esame dei versetti 34 e 35 in relazione col contesto, e si riducono ai seguenti: 1° Anzitutto vi sono in questo brano delle parole e precisamente delle particelle, che tradiscono la mano dell’ interpolatore. Vi è per esempio la particella “epei”,poiché, che non si trova in nessun’altra parte degli scritti di S. Luca; non nell’Evangelo, non negli Atti degli Apostoli. Vi è ancora un’altra particella “Sto”, perciò, che si trova più volte negli Atti degli Apostoli, ma nell’Evangelo solo un’altra volta, al capo VII, al versicolo 7, il quale del resto manca in alcuni codici, per esempio nel codice D e nei codici dell’Itala. Queste particelle dunque accusano dei ritocchi posteriori. Ma perché mai? Se questo criterio valesse qualche cosa, allora non resterebbe più nulla, si può dire, dell’Evangelo di S. Luca, poiché l’uso di parole e di espressioni singolari non s’incontra solo in questi due versetti, ma nel terzo Evangelo è frequente, e proprio in quei passi, dei quali è fuor di dubbio, anche a giudizio dell’ Harnack, l’autenticità. Fermiamoci per esempio al prologo, di cui Harnack difese l’autenticità nell’anno 1899, in una conferenza tenuta all’Accademia reale prussiana di scienze. — Nel brevissimo tratto dunque che costituisce il prologo — è un solo periodo — troviamo delle parole, che invano si cercherebbero in seguito nello stesso Evangelo. La stessa prima parola “epeidepes”-poiché, non si riscontra più in questa forma. Solo ricorre negli Atti, c. xv, v. 24, ma nella forma più breve “epeide”. Né questo ricorrere di singolari parole in S. Luca ci deve sorprendere, poiché egli, come lo attesta nel prologo, ha fatto uso di altri scritti, e può essere che qualche volta li riporti integralmente. E si sa che riportando passi altrui, uno scrittore si mette con ciò nell’occasione di usare parole che, del resto, non sono familiari nel suo stile personale. Questa prima obbiezione cade dunque da sé.
2° Ma Harnack insiste, e trova che se fossero genuini i versicoli 34 e 35, l’Angelo avrebbe parlato molto inabilmente: avrebbe commesso delle inutili ripetizioni, anzi sarebbe caduto in aperte contraddizioni, adir poco, e nel suo filo di ragionamento non avrebbe tenuto troppo calcolo del senso comune. Infatti, così ragiona Harnack:
a) Il buon ordine
logico esige che il versicolo 36 venga subito dopo il pensiero espresso nei
versicoli 31, 32, 33. In essi l‘Angelo promette aMaria che
concepirà un figlio di cui dà i connotati: ecco,concepirai nel seno,
ecc. Poi nel versicolo 36 usa la medesima espressione: ed ecco
Elisabetta tua parente haconcepito, ecc. Lo stesso giro delle due
frasi esige che si succedano immediatamente; e quindi i versicoli 34 e
35 sono ingombranti; separano troppo violentemente le due frasi; furono dunque
interpolati e perciò debbono scomparire. Ma questa è davvero una fantasia bella
e buona. Da quando mai le frasi identiche debbonsi succedere immediatamente?
Del resto il versicolo 36 non è posto per spiegare i versicoli 31, 32,
33, ma per rispondere alla domanda di Maria, che chiedeva come mai potesse Ella
diventare madre, mentre era in condizione di non poter moralmente violare la
propria verginità.
b) Ma l‘Harnack
insiste: ilcontenuto del verso 35 è una ripetizione dei versi 31 e 32.
31,
32. E d ecco tu concepirai epartorirai
un figlio… Egli sarà grandee
Figlio dell’Altissimo sarà chiamato;e
il Signore Iddio gli darà il tronodi
David suo padre.
35.
Lo Spirito Santo verrà in tee
la potenza dell’Altissimo ti adombrerà.Per
ciò quel che vi è generatosanto,
sarà chiamato Figlio di Dio.
Anzi, più che una semplice ripetizione,
ci sarebbe in questi versi una reale opposizione, poiché, mentre nei versi 31,
32 il promesso è un figliuolo di Davide, che sarà nominato Figlio dell’Altissimo,
nel versicolo 35 il promesso sarà invece nominato Figlio di Dio, perché
generato da Dio. – Ma questa osservazione pure è priva di fondamento. Per
quanto il versicolo 35 si presenti simile agli altri due 31, 32. in realtà
contiene qualche idea di più: non è dunque una mera ripetizione, una
biasimevole tattologia, ma una vera spiegazione data da un crescendo. Il
chiamare che fa l’Angelo, nel versicolo 35, il promesso nascituro “Figlio
di Dio, „ mentre prima 1’aveva qualificato per “figlio di Davide, „ non è
una contraddizione, ma un vero crescendo. In realtà il promesso Messia, nella
sua qualità di Uomo-Dio, era ad un tempo figlio di Davide, generato da Davide,
e figlio di Dio, generato da Dio. Solo una sistematica ed aprioristica opposizione
al mistero, può rendere oscuri questi concetti per loro natura così limpidi. c)
Continua l’illustre opponente. Se non si sopprimono i versicoli 34, 35, l’argomento
portato dall’Angelo nei versicoli 36, 37 diventa inefficace allo scopo. Le
parole: « 36. Ed eccoElisabetta la tua parente ha concepito anch’essa
un figlio nella suavecchiaia, e questo è il sesto mese per lei detta
sterile;
37. perché niente è impossibile
avanti a Dio, »
sono, secondo Harnack, bastantiad
accertare che il figlio ch’ella concepirà naturalmente, saràil Messia.
Ma allora devono venire immediatamente dopo ilversicolo 33, e si deve
leggere: 33. e regnerà in eterno sulla casa di David ed il suo regno non
avrà fine. 36. Ed ecco Elisabetta la tua parente, essa pure, ecc. Ma,
posto dopo i versicoli 34, 35, ilversicolo 36 farebbe servire l’esempio
di Elisabetta a dimostrarela possibilità del concepimento verginale. Il
che sarebbeillogico, perché non è con un fatto minore che si deve
provarela possibilità di un fatto più grande.
Rispondiamo: L’Angelo vuol illustrare la potenza divina; ne adduce come esempio un fatto già in corso, di carattere miracoloso. Questo fatto non è della grandezza dell’altro che sta per compiersi in Maria: ma tra tutti, è uno di quelli che più gli si avvicinano. Che offesa ne riceve di qui la logica? L’Angelo non ha inteso con ciò di dare un argomento apodittico: ha voluto semplicemente dare un’idea dell’onnipotenza divina, arrecando in mezzo un altro
fatto miracoloso. Harnack, e nessun altro al mondo, avrebbe potuto fare
diversamente.
d) L’ultimo argomento
il critico-razionalista lo desume dalle parole di Maria: Come mai avverrà
questo, poiché non conoscouomo? Egli osserva: 1° è strana questa
meraviglia in una donna sposata; 2° queste parole di lei dimostrano incertezza e
dubbio di fronte alle parole dell’Angelo, mentre in realtà credette, e della
sua fede ne ebbe lode da Elisabetta; 3° questa risposta di Maria all’Angelo
contraddice alla di lei indole taciturna, quale risulta dall’Evangelo. – Cominciamo
da quest’ultima osservazione: Maria, secondo l’Evangelo, non deve poi ritenersi
taciturna, come la vorrebbe far credere Harnack. Certo non era garrulamente
loquace. Ma quanto sapesse sapientemente ed eloquentemente parlare a tempo
debito, lo dimostra, se non altro, il Magnificat. E vero. l’Harnack
attribuisce questo cantico inarrivabile ad Elisabetta e non a Maria; ma con
qual fondamento lo vedremo in seguito. Le parole di Maria all’Angelo non sono
indice di incredulità, ma manifestazione di sapiente prudenza. Ella si sentiva legata
dal voto di verginità. Ora le si annunzia che diventerà madre. La cosa è troppo
delicata perché Maria si accontenti senz’altra spiegazione. A lei importa di
sapere come potrà, in seguito a quest’annunzio, rimaner fedele al voto con cui
s’è legata a Dio. – Questo voto: ecco la vera causa che fa meravigliare Maria, quantunque
sposata a Giuseppe, quando ella sente che dovrà diventar madre. Gli argomenti
di Harnack dunque non hanno maggior consistenza della statua di Nabucco: basta
un sassolino per mandarli in frantumi. Una mente ben più acuta ed assuefatta al
maneggio della logica, di quello che lo possa essere qualsiasi razionalista, S.
Tommaso d’Aquino, ha esaminato precisamente sotto l’aspetto della correttezza
logica il colloquio avuto dall’Angelo con Maria, e lo ha trovato inappuntabile.
Nessuno avrebbe mai potuto parlare con maggior ordine, e con un procedimento
più razionale: tale è il giudizio che ne dà il S. Dottore. Di fatti, secondo S.
Tommaso, si debbono distinguere nel discorso dell’Angelo tre punti,
marcatamente differenti. Egli vuole anzitutto attirare a sé tutta l’attenzione
della Vergine, la vuol istruire sul mistero che le annuncia, vuole avere da lei
il consenso definitivo. Quanto al primo atto, per attirare cioè l’attenzione di
Maria, l’Angelo la saluta in termini cosi elogiosi, che non potevano a meno di
fare la più grande impressione su Maria tanto umile e sommamente schiva di pensare
grandi cose di sé.Egli la saluta piena di grazia, e con ciò
riconosce in Lei la disposizione a diventar Madre di Dio; le soggiunge che il
Signore è con Lei, vale a dire che si compiace in Lei in una maniera tutta
speciale, che l’assiste con una provvidenza singolarissima; termina il saluto
preannunciando l’onore che a lei deriverà da questo singolare favore che gode
presso Dio: Ella sarà benedetta fra tutte, cioè sopra tutte le donne. Per l’umiltà
e la modestia verginale di Maria, c’era più che a sufficienza per rimanerne
sbalordita: e l’Angelo opportunamente si ferma a rassicurarla. Insiste nel
dirle che il favore di cui Ella gode non è fallace, perché è presso Dio; e per
meglio dissipare i di lei timori stavolta la chiama col suo nome Maria (Beda,
Curs. Script. Sac. del Migne). Guadagnata così 1’attenzione e la confidenza di
Maria, l’Angelo passa ad esporle l’oggetto della sua ambasciata. Procede con
quest’ordine: annuncia anzitutto a Maria che diventerà madre: Ecco
concepirai nel seno, e partorirai unfiglio, cuiporrai
nome Gesù. — Poscia descrive i pregi e la dignità di questo figlio: Questo
sarà grande, e sarà chiamato figlio dell’Altissimo, edil Signore Iddio
gli darà il trono di Davide suo padre, e regneràin eterno sulla casa di
Giacobbe, e il suo regno non avrà fine. Prese in sé, queste parole indicano
abbastanza chiaramente che il futuro figlio di Maria era il Messia. Ma l’umiltà
di Maria non le permetteva di credersi, così senza ulteriori spiegazioni, la
vergine predetta dal profeta Isaia, e oppone all’Angelo con mirabile candore il
proprio voto di verginità. Ciò dà occasione all’Angelo di spiegare meglio il
proprio concetto, e parla quindi del modo con cui Ella concepirà: concepirai
di Spirito Santo, per la virtù dell’Altissimo, e così manifesta in maniera
evidentissima che il di lei Figlio sarà il Figlio di Dio. Lo Spirito Santo
scenderà in te, e la potenza dell’Altissimot’adombrerà. Per ciò quel
che n’è generato santo, sarà chiamatoFiglio di Dio. – ‘Angelo prima
di partire deve avere il consenso della Vergine; e perché questo consenso sia
più pieno e spontaneo, appoggia tutte le grandi cose, a cui Maria deve
acconsentire sulla onnipotenza divina, la quale ha già operato un gran prodigio
in Elisabetta, che è sul punto di diventar madre, non ostante la sua sterilità.
Ma quello non è che una pallida figura (S. Tommaso dice quoddam figurale
exemplum, ad III) di quanto sta per operare in Maria. Maria non può
resistere alla volontà divina, e dà il suo consenso: Si faccia di me secondo
la tua parola; e cosi la missione dell’Angelo ha un esito felice. – Il
colloquio dunque succede col miglior ordine desiderabile e non c’è da far
stralcio di nessun versicolo.
VII. — Ed ora s’impone un rapido sguardo alla psicologia di Maria, nell’atto di diventar madre di Dio, quale appare dal suo atteggiamento di fronte all’Angelo e dalle risposte a lui date. L’Evangelo ha cura di dirci che Maria, sentendosi salutata dall’Angelo, si sentì turbata: turbata est. Perché questo timore? Stando al testo della Volgata latina, si dovrebbe dire che rimase turbata soltanto al saluto dell’Angelo: le sue parole e non la sua presenza originarono questo turbamento. Di fatto il testo latino dice: Quæ cum audisset, turbata est in sermone ejus, et cogitabat qualis esset ista salutatio. Quindi è che molti spiegano che Maria non sia rimasta turbata dalla presenza dell’Angelo, adducendo per ragione che era assuefatta a quelle visite: “E ponete ben mente, scrive il P. Curci, essa si turbò alla parola, “epì, to logo”, in sermone, e ripensava che cosa volesse dire quel saluto: ma qui non si dice che si turbasse all’aspetto dell’Angelo, come era avvenuto a Zaccaria, e come vi dissi, destarsi comune e naturale lo sbigottimento nell’ uomo alla presenza di esseri così diversi da lui. Il perché non mi sembra da rigettare ciò che alcune anime pietose meditarono: che cioè, alla designata Regina degli angeli dovesse essere familiare l’apparimento di questo spirito celeste „ Ma, se ben si osserva il testo greco, si deve conchiudere che la presenza dell’Angelo in forma di uomo non fu estranea al turbamento della Vergine. Di fatto nel greco e così pure nel siriaco, al posto di quae, cum, audisset, si legge quæ cum vìdisset. E per questo S. Ambrogio dice espressamente: Ad virilissexus speciem peregrinam turbatur aspectus Virginia (lib. I Off., c. XVIII). Ed a lui fa eco S. Gerolamo nella lettera settima a Leta, al capo quarto: Imitetur Mariam, quam Gabriel solam in suocubiculo reperiti et ideo for san timore perterrita est, quia virum, quemnon solebat, aspexit. E così possiam ritenere che Maria sia rimasta perplessa anzitutto all’aspetto insolito di un uomo che improvvisamente le apparve, ma soprattutto al sentire le sue parole ed il suo saluto. Pensa S. Bernardo, che al sentire quel linguaggio tanto per lei elogioso, Maria si sia sentita attraversare la mente dall’idea di un inganno diabolico, e che l’angelo delle tenebre volesse indurla in superbia (Serm. 3 super Missus), Questa congettura del Dottor Mellifluo però non garba a tutti. Il Serry, per esempio, la trova non concordante col testo evangelico, il quale dice che Maria pensava bensì qual specie di saluto fosse quello, ma non chi fosse il salutante. Ma l’osservazione del dotto Domenicano non è in realtà di quel peso che egli crede. Quando si dice che Maria era incerta e turbata intorno al saluto, niente vieta che sotto la denominazione di “saluto „ s’intendano tutti gli elementi che lo costituiscono, e, prima d’ogni altra cosa, colui che lo pronuncia. E così Maria, non mostrandosi facile a credere ad ogni spirito, ma volendo prima accertarsi della verità, ha dato un bell’esempio di prudenza. Maria fu con l’Angelo prudente, quanto Eva era stata con un altro angelo imprudente. Ma i dubbi quanto alla natura dell’apparizione non dovettero durar molto. Da tutto l’atteggiamento del suo misterioso interlocutore, dalla riverenza che mostrava pronunciando il nome di Dio, in forza di quel fiuto, di quel divino istinto che hanno le anime sante di distinguere le opere celesti de quelle diaboliche, Maria comprese ben tosto che chi le parlava era un messaggero di Dio. Ma il turbamento perseverava ancora. Non più sostenuto dalla prudenza, era però alimentato dall’umiltà. L’Angelo diceva senza dubbio grandi cose di lei: che era piena di grazia, che possedeva Dio in maniera singolare, che a lei era riservata una benedizione che la distingueva fra tutte le donne. Per Maria, che era assuefatta soltanto a pensare il proprio nulla, al di fuori dei benefizi divini, questo cumulo di lodi è di un peso schiacciante, poiché, come osserva S.Tommaso, non c’è cosa tanto sbalordiente per un animo veramente umile, quanto al sentire l’esaltazione dei propri pregi: animo humili nìhil est mìrabilius, quam audìtus suo? excellentio? ( III p., q. xxx, a. 4 ad 1). Anche qui, qual differenza tra Eva e Maria! Eva, al sentire dall’infernale ingannatore che sarà simile a Dio, messa a parte di ogni segreto, non può più resistere alla lusinga: la vanità e la superbia le fanno sentire dei fatali capogiri. Maria invece, che veramente è il compendio di tutte le divine meraviglie, non può sentire senza una profonda scossa di turbamento il proprio panegirico, che per quanto magnifico, èancora inferiore alla realtà. Ma vari Padri trovano che a suscitare in Maria questo turbamento, ad un sentimento di prudenza e di umiltà, se ne intrecciava un altro, quello del pudor verginale. Questo pudor verginale, che la turbò anzitutto per la semplice presenza dell’Angelo in forma umana, aumentò questa perplessità allorché Maria sentì che ella era benedetta fra le donne. La benedizione di una donna presso gli Ebrei, aveva un senso più determinato e specifico di quello che abbia fra noi. La benedizione di una donna, secondo il modo di giudicare degli Ebrei consisteva soprattutto nel dono della maternità. Quando l’Angelo dunque disse a Maria che sarebbe stata benedetta fra le donne, le faceva capire in termini abbastanza chiari, che avrebbe avuto una maternità straordinaria. Per questo Maria, conscia dei propri propositi di verginità, si mise a riflettere sul senso di questo saluto: cogitabat qualis esset ista salutatio. Le parole dell’Angelo le facevano intravedere, in un presentimento angoscioso, il pericolo di quel che essa aveva di più caro. Cosìpensano fra altri sant’ Agostino, Serm. 2 de Ann., e S. Gregorio Nisseno, Orat. de Christi Nativ. E l’osservazione si presenta da sola piena di giustezza e di ponderazione. Di fatto, quando l’Angelo si spiega meglio, e non lascia dubbio che davvero annuncia a Maria l’onore di un futuro Figlio, straordinario per dignità e grandezza, ella con mirabile semplicità, ma con franchezza premurosa gli oppone: Comeavverrà questo, mentre io non conosco uomo? Già altre volte abbiamo avuto occasione di valutare tutta la portata di queste parole. Esse manifestano il grande amore di Maria per il candor verginale; più ancora, esse ci garantiscono che era preceduto in lei un vero e proprio voto di verginità. Di fatti, come ben osserva il P. Curci, perché quella domanda sia vera difficoltà, deve necessariamente importare: nonconosco, ne posso conoscere uomo. Senza ciò la richiesta non ha nessun valore, come non l’avrebbe se si dicesse, che la tal fanciulla avrà un figlio cosi e cosi: tutti intenderebbero che lo avrà pel modo ordinario, onde si hanno i figliuoli. Se dunque questa via ordinaria non si poteva supporre in Maria Vergine, neppure nell’imminente e già conchiuso connubio, vuol dire che vi doveva occorrere un impedimento insormontabile. Or questo non poteva essere altro, che il voto di perpetua verginità, fatto da lei da bambina, ed il fatto di conservarla intatta con lo sposo castissimo, anche nel connubio: due punti a noi assicurati dalla Tradizione, e tenuti per fermissimi dal popolo cristiano, ed eziandio da. autori protestanti; ma mi è parso bello averli potuto inferire con facile discorso dalle parole stesse dell’Evangelo „ Maria dunque, parlando coll’Angelo, dimostra insieme ad una rara prudenza, ad una profondissima umiltà, un amore impareggiabile per la verginità. Ma importa qui mettere il lettore in guardia contro un’esagerazione, da cui non sono alieni alcuni brani del Bossuet, che riportammo altrove, ma che il Serry chiama imprudente ed inconsulta, e contro la quale non mancano in genere di protestare i migliori teologi. L’esagerazione consiste nel dire che Maria, messa nel bivio di rinunciare o alla verginità, o alla divina maternità a lei richiesta da Dio, avrebbe, per conservar quella, rifiutato questa. La cosa non è esatta, perché la verginità in urto alla volontà di Dio, cessa di essere virtù: e, benché consacrata prima con voto, questo voto evidentemente cessa allorché Dio manifesta i suoi desideri in contrario. Diremo adunque con più esattezza, che l’amore di Maria per la verginità fu cosi grande, che nemmeno l’idea della divina maternità le dissipava l’amarezza di doverla perdere. Una volta conosciuta la volontà di Dio, ella non avrebbe mancato di ossequiarvi, ma in pari tempo la verginità perduta avrebbe lasciato nel di lei cuore un rammarico incancellabile. Così ha creduto di dover interpretare i sentimenti di Maria S. Bernardo, quando nel Serm. 4 SuperMissus, le mise in bocca queste parole: Sì oportuerit me frangerevotum (per comando di Dio, s’intende), ut pariam talem filìum,gaudeo de filio, et doleo de proposito. – Infondata e da rigettarsi, benché soffulta dall’autorità di qualche Padre, per esempio di S. Agostino e di S. Proclo, l’idea che le parole di Maria “come avverrà questo, mentre io non conosco uomo, „ esprimano un atto di incredulità simile a quello di cui si rese reo Zaccaria, per cui lo stesso Gabriele lo punì rendendolo muto. In realtà, tra la risposta di Zaccaria e quella di Maria, ci passa una enorme differenza, Zaccaria aveva risposto: “Onde conoscerò io tal cosa? Che io sono vecchio e mia moglie avanzata in età (Luc. I, 18). „ Ognuno capisce subito che qui Zaccaria non si limita ad esporre le proprie difficoltà, ed a domandare il modo con cui saranno superate, ma non senza un petulante ardimento vuol le prove dell’asserzione dell’Angelo, dicendo: “Onde conoscerò io tal cosa? „ Questo linguaggio tradisce troppo chiaramente la non modesta intenzione di volersi erigere a giudice di ciò che l’Angelo gli disse. Le parole di Maria sono invece di persona che crede, ma che con semplicità domanda di essere istruita. Per questo, dice molto acutamente S. Ambrogio: Temperantìorest Mariæ responsio, quam verba sacerdotìs: hæc ait: QUOMODO EI ET ISTUD? Ille respondit: UNDE HOC SCIAM?Negat Me se credere, quinegat se scire: ista se facere profitetur, nec dubitat esse faciendum,quod quomodo fieri possit inquirit –Cfr. da S.TOMMASO (III p, q. xxx, art. 4, ad 2) – E che di fatto Maria abbia creduto, lo afferma lo stesso Evangelo riferendo le parole che a lei ebbe poscia a dire S. Elisabetta: “‘Beata quæ credidisti, quoniam perficientur ea quædieta sunt tibi a Domino. — Beata te che hai creduto, perché s’adempiranno le cose dette a te dal Signore „ (Luc. c. I, 45). S. Tommaso chiama quel sapore di dubbio, che a prima vista sembrano contenere le parole di Maria, non incredulità, ma ammirazione, e per questo l’Angelo addusse delle prove della sua affermazione, non per togliere la di lei mancanza di fede, ma semplicemente per dissipare la sua meraviglia: Talis dubitatiomagìs est admirationis, quam incredulitatis: et ideo probationemAngelus inducìt, non ad auferendam infidelitatem, sed magìs ad removendamejus admìratìonem (III p., q. xxx, art. 4 ad 2). Rimossa cosi ogni ammirazione dal suo animo, Maria diede il suo consenso alle richieste dell’Angelo, e lo fece in termini che hanno destato e desteranno ancora la meraviglia dei secoli. Dice: Ecco la serva del Signore, sì faccia di me secondo latua parola! Queste parole sono di per sé il più eloquente ed impressionante elogio dell’umiltà di Maria e della sua prontezza nel servir Dio. Non ci soffermiamo a commentarle, perché nessun commento raggiungerebbe la loro natural forza e limpidezza. E dietro questa solenne manifestazione di umiltà e di obbedienza, non è difficile intravedere il cuore di Maria ardente di una carità da altri non mai raggiunta. Da principio Maria, per umiltà, non pensò ch’ella fosse la vergine predetta dai profeti. Ora che
l’Angelo s’è spiegato meglio, non ha più dubbio che il suo figlio, è il Figlio
di Dio, il promesso Messia. E benché il mistero dell’umana redenzione non
brillasse ancora davanti a Maria, illuminato in tutte le sue minute
circostanze, pure, almeno in confuso, ella perita nelle Scritture, intravedeva
che al Figlio da lei nascituro erano riservati grandi patimenti e grandi
umiliazioni, a cui Ella pure sarebbe stata associata. Insieme ai futuri patimenti
vedeva però anche gli alti onori che le erano riservati; è da supporsi che già
in quel momento sapesse quel che pochi giorni dopo disse ad Elisabetta, che
tutte le genti l’avrebbero chiamata beata. Ma in quel momento il suo pensiero non
si fermò su queste visioni: se le attraversarono la mente, fu un passaggio
rapido, che non lasciò traccia nelle parole della Vergine. Tutta la sua
attività vitale era concentrata su Dio che veniva al mondo per salvarlo. Due
soli oggetti allora fecero battere forte il suo cuore: Dio e la salute del
mondo. Quanto a sé non pensò: abituata a dimenticarsi sempre, si dimenticò
anche in quell’ora suprema, ed in uno slancio di carità, di cui noi possiamo
solo da lontano intravedere la smisurata grandezza, disse la formola, che
doveva essere l’esordio del trattato di pace tra il cielo e la terra: “Ecco
la serva del Signore, si faccia di me secondo la tua parola! „ Queste parole
sono il suggello di un amore che è superato solo dall’amor che ha Iddio, ma che
non è uguagliato da nessun altro! Noi rinunciamo a descriverlo, perché tenteremmo l’impossibile. L’idea di questo
amore lascia l’impressione che si ha quando si affaccia ad un abisso. Per poco
che si consideri, si capisce subito, che davanti alla carità di Maria, che dà il
consenso all’Angelo, si è sulla soglia dell’infinito.