QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum
Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE TITULAIRE
DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence
sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME TROISIÈME (III)
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 147
Alleluja.
[1] Lauda, Jerusalem, Dominum;
lauda Deum tuum, Sion.
[2] Quoniam confortavit seras portarum tuarum, benedixit filiis tuis in te.
[3] Qui posuit fines tuos pacem, et adipe frumenti satiat te.
[4] Qui emittit eloquium suum terrae, velociter currit sermo ejus.
[5] Qui dat nivem sicut lanam, nebulam sicut cinerem spargit.
[6] Mittit crystallum suum sicut buccellas: ante faciem frigoris ejus quis sustinebit?
[7] Emittet verbum suum, et liquefaciet ea; flabit spiritus ejus, et fluent aquæ.
[8] Qui annuntiat verbum suum Jacob, justitias et judicia sua Israel.
[9] Non fecit taliter omni nationi, et judicia sua non manifestavit eis. Alleluja.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO CXLVIl.
I codici nuovi ebraici fan questo Salmo una continuazione del Salmo antecedente. Ma i codici antichi doveano averlo per un Salmo da sé col proprio titolo, poiché i Settanta, che tradussero dagli antichi, ne fanno un Salmo nuovo. L’argomento è esortazione a lodare Dio per i beneflci conferiti da lui al suo popolo.
Alleluja. Lodate Dio.
1.
Loda, o Gerusalemme, il Signore; loda. Sionne, il tuo Dio.
2.
Perocché forti sbarre ha egli messe alle tue porte; ha benedetti i tuoi
figliuoli dentro di te.
3.
Egli ha messa ne’ tuoi confini la pace, di fior di frumento ti pasce.
4.
Egli manda la sua parola alla terra; la sua parola corre velocemente.
5.
Ei dà la neve come fiocchi di lana; (1)
come cenere sparge la nebbia.
6.
Manda il suo gelo come, pezzi di pane, chi può reggere al freddo ch’ei porta? (2)
7.
Manderà i suoi ordini, e farà ch’ei si sciolgano; soffierà lo spirito di lui, e
scorreranno le acque.
8.
Egli, che annunzia la sua parola a Giacobbe, e i suoi precetti e i suoi giudizi
ad Israele!
9.
Non ha fatto così a tutte le nazioni, né
ha manifestati ad essi i suoi giudizi. Alleluia.
(1)
L’esperienza
ci insegna che in effetti, per garantire il grano, le piante e gli alberi dalla
dannosa influenza del freddo, la natura non poteva dare nessun riparo migliore
che la neve. Siccome il freddo dell’inverno è molto più pregiudizievole per il
regno vegetale che per quello animale, le piante perirebbero se non fossero
protette da qualche mezzo. Dio ha voluto che la pioggia, che durante l’estate
rinfresca e rianima i vegetali, cadesse d’inverno sotto forma di lana dolce che
servisse loro da copertura e le difendesse dalle ingiurie della gelata e dei
venti. Quando la neve è ammassata in basso, conserva una temperatura più dolce
che in superficie. Esperienze tendono a provare che fa meno freddo sotto la
neve che all’esterno; e più il mantello è spesso, più il termometro che penetra
in basso a questa massa, si tiene al di sopra dello zero.(Leçons de la nature, t. IV, p. 179).
(2) Nebulam,
la gelata bianca, la brina. La parola ebraica “Fatim”, tradotta con
“Buccelas”, significa frammenti, pezzi, ciò che può indicare la grandine.
Sommario analitico
In questo salmo, che è come una terza
strofa del precedente, ed in cui si ritrovano le stesse idee nello stesso ordine,
il Profeta invita la Gerusalemme terrestre – ed in essa la Chiesa di
Gesù-Cristo – nonché la Gerusalemme celeste, a celerare le lodi di Dio (1).
I. – Egli ne dà come motivo:
1° motivi particolari al popolo di Dio:
a) la forza inespugnabile che dà alle
sue barriere (2);
b) l’abbondanza e la pace che ne sono la
sequela (3);
2° motivi generali:
a) la prontezza con la quale i suoi
ordini si spandono su tutta la terra (4);
b) la sua onnipotenza nei fenomeni
fisici della neve, del ghiaccio, etc., che sceglie di preferenza il salmista,
perché in un paese anche caldo, la neve, il ghiaccio, il gran freddo erano rari
e causavano una sorte di ammirazione nel popolo (5-7);
3° specifica poi gli sforzi della
Provvidenza tutta particolare di Dio nei riguardi del suo popolo, a) mentre
Egli ha istruito tutti gli altri popoli con effetti materiali, ha istruito il
suo popolo con i suoi Profeti o da Se stesso (8), ciò che non ha fatto per le
altre nazioni (7).
Spiegazioni e Considerazioni
I. – 1-3.
ff. 1. – Perché questo
invito a Gerusalemme di lodare nel complesso il Signore, ed a Sion di lodare il
suo Dio? Sion non è altro che Gerusalemme. Gerusalemme significa « visione di
pace, » e Sion significa « contemplazione ». Vedete se questi nomi designano
altra cosa che degli spettacoli; i gentili non credano dunque che essi abbiano
degli spettacoli e noi non ne abbiamo. Talvolta all’uscire dal teatro o dall’anfiteatro,
quando la folla sciama dai vomitori, da questi luoghi di perdizione, gli
spettatori, con lo spirito occupato dai fantasmi della loro vanità, e la
memoria piena di ricordi non solo inutili, ma pure perniciosi, il cuore rivolto
a gioie che sembrano dolci, ma che danno la morte; gli spettatori – io dico –
vedono spesso passare dei servi di Dio. Essi li riconoscono sia dall’abbigliamento
e dal cammino, sia dai tratti e dall’aspetto del volto, ed essi dicono a se
stessi ed agli altri: oh! gli infelici! Quali gioie si perdono! Fratelli miei,
preghiamo per essi il Signoreper la gratitudine dei loro
benevoli rimpianti, perché essi li credono ben riposti … tuttavia, nella loro
futile benevolenza, vana, erronea, se si possa pure definire benevolenza, essi
ci compiangono perché perdiamo ciò che essi amano; preghiamo perché essi non
perdano ciò che noi amiamo. Vedete qual è la Gerusalemme per cui il Profeta
esorta a lodare Dio, o piuttosto a stimolarne le lodi; perché, quando noi
vedremo Iddio, lo ameremo e lo glorificheremo, non ci sarà più bisogno della
voce dei Profeti per esortare ed eccitare i canti della città celeste (S.
Agost.). – Cantare le lodi del Signore è un esercizio che conviene
propriamente alla Gerusalemme celeste, e la lode di Dio è l’unica occupazione
dei beati del cielo. Piangere e gemere è un esercizio proprio alla Gerusalemme
della terra. Tiepidamente noi dobbiamo cominciare sulla terra ciò che siamo
chiamati a continuare a fare eternamente nel cielo. Credete voi una vita futura
– diceva S. Agostino – cominciando l’esposizione di questo salmo? La vostra
occupazione sulla terra sia lodare Dio e benedirlo, perché voi siete chiamati a
rendergli eternamente questo omaggio nella santa Sion, ove il dolore, il lutto,
la paura non penetrano affatto … Voi sapete qual sia la vostra fede, vi
ricorderete del sacro carattere che avete ricevuto. Vivete dunque conformemente
alla vostra professione; lodate adunque il Signore vostro Dio, e fate fin dal
presente ciò che dovrete fare eternamente nella Gerusalemme celeste.
ff. 2, 3. – Quanti benefici
riuniti! Il primo di tutti ed il più grande, si trova rinchiuso in queste
parole: « Tuo Dio. » Questo dice tutto in qualche modo: Egli ti ha posto nella
sua intimità, ti assicura la sua eredità, e Lui, il Signore di tutti gli esseri
senza eccezione, vuol essere per eccellenza tuo; ed è là, certamente, la fonte
di tutti i beni. Ciò che viene immediatamente dopo, è la sicurezza della città;
il terzo, è il suo prodigioso accrescimento; il quarto è che non solo la città,
ma ancora la nazione intera, sia al riparo dalle guerre e dalle sedizioni. A
questo ultimo beneficio, il Profeta ne aggiunge un altro: l’abbondanza dei
frutti della terra, abbondanza che si deve attribuire non alla fecondità della
terra stessa, né all’influenza naturale dell’aria, ma alla preveggente bontà
del Creatore (S. Chrys.). – Gerusalemme deve lodare il Signore perché le ha
dato la sicurezza e l’abbondanza che riassumono tutti i beni; perché la
sicurezza senza l’abbondanza non è che la sicurezza dell’indigenza, e
l’abbondanza senza la sicurezza è piena di timori e di pericoli. (Berthier).
– Loda il tuo Dio, perché ha fortificato le sbarre di queste porte … Si, i
profeti sono le vere porte della Chiesa; senza i Profeti, noi non potremmo
entrare nella Chiesa. I Manichei hanno voluto entrare senza le porte, e non
sono mai entrati; Marcione non accoglie l’Antico Testamento, e non passando per
le porte dell’Antico Testamento, non è potuto entrare nel Vangelo. Quanto a noi,
noi riceviamo i Profeti ed entriamo da queste porte: « Tutti coloro che sono
venuti prima di me erano dei ladri e dei briganti, dice Gesù-Cristo. » (Giov.
X, 8) Oh! Se Dio non accordasse di poter essere una serratura delle
porte di Sion! Se un eretico volesse forzare queste porte per entrare nella
divina economia dei Vangeli, io mi metterei di traverso, e gli impedirei di
passare: « Perché Egli ha fortificato le sbarre delle tue porte. » Datemi un
sacerdote profondamente istruito delle celesti Scritture; se egli vede venire
Eumomius, Arius, per strappare ai Profeti qualche testimonianza contro di noi,
non gli resiste come una sbarra, e non resiste loro vittoriosamente come una
serratura? E notate la giustezza di questa espressione: « Egli ha fortificato
le sbarre delle tue porte. » Così, quando voi vedete un prete discutere sulle
sante Scritture, non è lui che discute, non lo credete, ma è Colui che lo
fortifica (S. Girol.). – « Egli ha stabilito la pace in tutta la vostra
estensione. » Quale gioia vi ha preso tutti a queste parole! Amate la pace, noi
siamo pieni di allegrezza, quando noi sentiamo uscire dai vostri cuori l’esplosione
del vostro amore della pace. A qual punto siete incantati? Io non ho detto
ancora niente, niente spiegato, non ho fatto che annunziare questo versetto e
voi avete gridato: qual sentimento ha dunque così gridato in noi? L’amore della
pace! Cosa ho esposto ai vostri occhi? Perché voi gridate se l’amate? Perché
amate se non vedete? La pace è invisibile. Quale occhio ha potuto vederla per
amarla? Ma voi non l’acclamereste se non l’amaste? Ecco gli spettacoli che
prodiga il Dio delle cose invisibili. Da quale sublime beltà i nostri cuori
sono stati colpiti dalla sola idea della pace! Che bisogno c’è di parlare
innanzitutto della pace, o di lodare la pace? Il vostro sentimento ha prevenuto
tutte le mie parole; io non posso dipingerla degnamente, ne sono incapace, riconosco
la mia debolezza; rimettiamo ogni elogio della pace a questa felice patria
della pace. Là noi la loderemo pienamente, perché noi la possederemo
pienamente. Se noi la amiamo già anche quando non è cominciata in noi, quale
lode le daremo quando sarà poi perfetta? O figli diletti di Dio, o figli del
regno celeste, o cittadini di Gerusalemme, io vi dico delle cose perché la
visione della pace brilla in Gerusalemme, e tutti coloro che amano la pace sono
benedetti in questa città; che vi entrino quando le porte sono chiuse e le
vedremo consolidate. Questa pace che voi amate, che voi circondate di tale
amore, solo al sentirla nominare, cercatela, desideratela, amatela nella vostra
casa, amatela nei vostri affari, amatela nella vostra sposa, amatela nei vostri
figli, nei vostri servi, amatela nei vostri amici, amatela nei vostri nemici. (S.
Agost.). – Questa pace è stabilita sui confini di Gerusalemme, per
farci intendere che sarebbe vano illudersi di possedere la pace del cuore, se
essa non regnasse nelle facoltà che sono di sua dipendenza e come sulle sue
frontiere. Come regnerà la pace nel cuore, se i sensi sono turbati da oggetti
esteriori, se lo spirito è posseduto da false massime, se la memoria non
richiami che le tempeste di una vita profana? – « Egli ti sazia con fior di
frumento. » La Chiesa, figurata da Gerusalemme, era destinata a nutrirsi di un
pane ben più squisito. Il nutrimento che mantiene e ripara le forze dei suoi
figli è contenuto nella parola di Dio e soprattutto nel Sacramento del Corpo e
del Sangue di Gesù-Cristo. se noi ci eleviamo più in alto fino alla Gerusalemme
dei cieli, è là che gli eletti sono saziati dal fiore del più puro frumento,
poiché la verità e la saggezza sono il nutrimento dell’anima; ma essi
possederanno la verità in se stessi, e non più in enigmi o in metafore; essi
gusteranno la dolcezza del Verbo eterno spoglio della scorza dei Sacramenti e
delle Scritture; essi attingeranno a lunghi sorsi dalla stessa fonte della
saggezza, e non più goccia a goccia ai ruscelli di questo mondo; essi saranno
saziati in maniera da non avere più fame né sete per l’eternità (Berthier,
Bellarm.).
II. – 4-7.
ff. 4. –Il Profeta passa dai favori particolari
ai benefici generali e reciprocamente dai benefici generali ai favori
particolari. Appena egli ha detto: … Egli spande la sua parola su tutta la
terra, aggiunge: « E la sua parola corre con rapidità, » volendo farci sapere
che Dio veglia su di noi non in una sola contrada, ma in tutta la terra. La
parola è presa qui per la volontà stessa, per l’azione provvidenziale. (S.
Chrys.). – Questa parola riguarda o la creazione del mondo, o l’ordine
della Provvidenza che Dio osserva nei
confronti di tutti gli esseri, o gli effetti particolari della sua potenza, tali
come sono descritti nei versetti seguenti; questa parola, è ancora e
soprattutto il Verbo incarnato e la predicazione del Vangelo, che si è esteso
con rapidità fino alle estremità del mondo. (Berthier).
ff. 5-7. – Provvidenza
ammirevole di Dio è che Egli sappia maneggiare per l’utilità delle terre tutte
le cose che sembrerebbero essere anche le più contrarie, come la neve, la
brina, il ghiaccio, tutto cose fredde che non lasciano riscaldare in qualche
modo e fecondare la terra, ma purificano l’aria e fortificano i corpi. – « Egli
spande la neve come una coperta di lana, spande la brina come la polvere, invia
il ghiaccio come pezzi di pane, » facendo così concorrere ad un’opera unica gli
elementi più contrari, e ci sazia del più puro frumento. – La neve è il simbolo
del cuore rappreso nel freddo del peccato; ma il Signore sa comunicare alla
neve stessa il calore della lana. Quando abbiamo lasciato raffreddare la carità
in noi, la nostra natura inferma soccombe come avviluppata sotto la fredda
neve; ma tra i cuori rappresi, c’è ciò che la grazia predestina e che trasforma:
Dio cambia allora questa neve ghiacciata e ne fa della lana calda e preziosa
per il proprio abito, che è la Chiesa; all’intorpidimento del peccato, Egli fa
succedere il dolce calore che non appartiene che alla Chiesa (S.
Agost.). – Le opere di Dio sono grandi; il Profeta ce ne richiama qui
alcune che appartengono tutte alla terra, e di cui siamo testimoni quasi ogni
anno: come Dio fa cadere la neve, come spande la gelata bianca, come cambia la
neve in un solido cristallo. Altri si son detti: Credete che queste cose siano
state menzionate nelle Scritture senza un particolare motivo, e che non abbiano
altro senso se non quello letterale? Le comparazioni della neve con la lana, ed
la brina gelida con la cenere, il cristallo con il pane non hanno un
significato recondito? Ma perché la Scrittura ha voluto velare il pensiero come
sotto la sfumatura delle comparazioni? Quanto non sarebbe stato meglio che si
esprimesse chiaramente? Perché necessita che sia esitante ricercando quel che
significano queste parole? Perché è necessario che io lavori nell’ascoltarle?
Perché, il più sovente, dopo aver inteso questo salmo, resto nell’ignoranza?
Lasciatevi curare, voi avete bisogno di essere guariti. Ben orgoglioso e ben
presuntuoso è il malato che vuol riprendere il suo medico, e questo medico è un
uomo. Il malato oserà dar consiglio al suo medico? Ma quando l’uomo è malato ed
è curato da Dio, è in lui un grande inizio di pietà e di guarigione credere,
prima di sapere perché Dio ha parlato, che Egli doveva parlare così come ha
parlato. In effetti, questa pietà vi renderà capace di cercare quel che
significano queste parole e trovarlo dopo averlo cercato, e raggiungerlo dopo
averlo trovato (S. Agost.). « Egli invierà la sua parola e farà fondere tutti
questi ghiacci. » Quando il calore della carità si raffredda nel nostro cuore?
Se giunge a peccare, se si raffredda, se si lascia vincere dalla morte.
Vogliate soppesare queste parole: se si raffredda, si lascia vincere dalla morte.
Il freddo cadaverico è il segno della morte, il calore è il segno della vita.
se dunque un Cristiano si raffredda, Dio invierà la sua parola, il suo Verbo, e
farà fondere questi ghiacci. E Dio ci accorda che il freddo della nostra anima si
fonda anche, che questo ghiaccio si liquefi, e divenga più morbido al tocco.
Datemi un peccatore sul quale Dio non abbia lasciato cadere il suo sguardo:
esso non ha calore, è freddo, è morto. Se è tocco da compunzione ascoltando la
parola di Dio, se comincia a fare penitenza, il suo cuore indurito si rammolla,
e noi vediamo il compimento di questa predizione: « Egli invierà la sua parola
e farà fondere tutti questi ghiacci. » (S. Gerol.). – Noi vediamo dunque la
neve, la brina bianca, il ghiaccio; è bene che il soffio di Dio li faccia
fondere. Se in effetti Dio non inviasse il suo soffio, non farebbe fondere Egli
stesso la durezza del ghiaccio, che sussisterebbe davanti al rigore della sua
freddezza? Davanti al rigore della freddezza di chi? Di Dio. Da dove viene questa
freddezza di Dio? Ecco che Egli abbandona il peccatore, ecco che non chiama,
non gli apre l’intelligenza, non spande la sua grazia in lui; e l’uomo faccia
fondere, se può, il ghiaccio della sua follia. Perché non lo può? « Chi
sussisterà davanti al volto della sua freddezza? » Ascoltate dunque questo
peccatore congelato che vi dice: « Io sento nelle mie membra un’altra legge che
combatte la legge del mio spirito e mi tiene schiavo sotto la legge del peccato
che è nelle mie membra. Miserabile uomo che sono, chi mi libererà da questo
corpo di morte? » (Rom. VII, 23). Io ho freddo, io sono gelido, qual calore
fonderà il mio ghiaccio, affinché possa correre? « Chi mi libererà da questo
corpo di morte? » Chi sussisterà davanti alla freddezza di Dio? E chi potrà
liberar se stesso se Dio lo abbandona? E chi ti libererà? « … La grazia di Dio,
per nostro Signore Gesù-Cristo. » (S. Ambr.). – Nessuna forza può
eguagliare quella dello Spirito di Dio: « Il Padre dei misericordiosi invierà
la sua parola, cioè la grazia di Gesù-Cristo; la parola eterna del Padre toccherà
questa terra ove regna il gelo; essa si ammolla, ben presto fonderà alla
presenza del sole di giustizia.» Se occorre fondere il ghiaccio dei nostri
cuori, Egli farà soffiare il suo Spirito, il quale, come il vento del
mezzogiorno, modererà il rigore del freddo, e dal cuore più indurito usciranno
lacrime di penitenza.
III. — 8, 9
ff. 8, 9. – Il Profeta,
dalle disposizioni generali della Provvidenza, ritorna a ciò che riguarda
specialmente i Giudei, e mostra loro quanto la divina provvidenza abbia
trattato il suo popolo differentemente dalle altre nazioni; perché il nostro
Dio non ha insegnato a queste, se non con effetti naturali; è per mezzo delle
cose create che ha rivelato loro il Creatore, ed esse non avevano per
conoscerlo se non la luce naturale oscurata dal peccato. Ma Dio stesso ha
voluto istruire il suo popolo con i suoi Profeti: « Egli ha fatto le sue vie a
Mosè, le sue volontà ai figli d’Israele. » (Ps. En, 6), (S.
Chrys.) – « Questi è il nostro Dio, dice Geremia, e nessun altro, a
parte Lui, sarà contato per un nulla. Egli ha scoperto tutte le vie della
saggezza e le ha trasmesse a Giacobbe, suo figlio, ad Israele, suo diletto. » (Baruch,
III, 37). – Ma quanto più felici e privilegiati sono i Cristiani, ai
quali Dio ha annunziato la sua parola, non più con i Profeti, ma con
Gesù-Cristo suo Figlio, il Profeta universale di tutti i tempi e di tutte le
verità. – Il mondo antico si presenta all’osservazione religiosa divisa in due
classi distinte: nell’una, ci sono poche cose dal lato materiale, è una sola
famiglia che diventa un popolo; ma esso ha tutto dal lato morale: c’è il vero
codice dei doveri, la scienza esclusiva di Dio e dell’umanità, la verità del
culto religioso, un’azione permanente della divinità. Nell’altra classe, c’è
tutto dal lato del numero, tranne una sola nazione relegata in un angolo
dell’Asia: è l’umanità intera; ma tutto manca dal lato morale: c’è l’ignoranza
di Dio, ignoranza dell’uomo, errore nella religione, empietà nel culto, assenza
di Dio in seno alla società. Il popolo giudeo forma la prima classe; la seconda
è il resto del genere umano. (PLACE,
Conf. sur
J.-C.. – Il vantaggio
di essere nato e di vivere in seno alle contrade cristiane, è una grazia di cui
non si sarà mai grati al Sovrano dispensatore di ogni bene. Dio stesso ci
insegna che Egli non distribuisce uniformemente i suoi favori a tutte le
nazioni, e che non manifesta ugualmente i suoi giudizi a tutti gli abitanti
della terra. Egli non ha rivelato parimenti a tutti i popoli il dispensare
della sua grazia.
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R.
Berruti & C. Torino 1950)
Doppio di Ia cl. con Ottava privilegiata di 3° ordine. –
Param. bianchi.
Il Protestantesimo nel secolo XVI e il Giansenismo nel XVIII avevano tentato di sfigurare uno dei dogmi essenziali al Cristianesimo: l’amore di Dio verso tutti gli uomini. Lo Spirito Santo, che è spirito d’amore, e che dirige la Chiesa per opporsi all’eresia invadente, affinché la Sposa di Cristo, lungi dal veder diminuire il suo amore verso Gesù, lo sentisse crescere maggiormente, ispirò la festa del Sacro Cuore. L’Officio di questo giorno mostra « il progresso trionfale del culto del Sacro Cuore nel corso dei secoli. Fin dai Primi tempi i Padri, i Dottori, i Santi hanno celebrato l’amore del Redentore nostro e hanno detto che la piaga, fatta nel costato dì Gesù Cristo, era la sorgente nascosta di tutte le grazie. Nel Medio-evo le anime contemplative presero l’abitudine di penetrare per questa piaga fino al Cuore di Gesù, trafitto per amore verso gli uomini » (2° Notturno). — S. Bonaventura parla in questo senso: « Per questo è stato aperto il tuo costato, affinché possiamo entrarvi. Per questo è stato ferito il tuo Cuore, affinché possiamo abitare in esso al riparo delle agitazioni del mondo (3° Nott.). Le due Vergini benedettine Santa Geltrude e Santa Metilde nel XIII secolo ebbero una visione assai chiara della grandezza della devozione al Sacro Cuore:. S. Giovanni Evangelista apparendo alla prima, le annunziò che « il linguaggio dei felici battiti del Cuore di Gesù, che egli aveva inteso, allorché riposò sul suo petto, è riservato per gli ultimi tempi allorché il mondo invecchiato raffreddato nell’amore divino si sarebbe riscaldato alla rivelazione di questi misteri (L’araldo dell’amore divino. – Libro IV c 4). Questo Cuore, dicono le due Sante, è un altare sul quale Gesù Cristo si offre al Padre, vittima perfetta pienamente gradita. È un turibolo d’oro dal quale s’innalzano verso il Padre tante volute di fumo d’incenso quanti gli uomini per i quali Cristo ha sofferto. In questo Cuore le lodi e i ringraziamenti che rendiamo a Dio e tutte le buone opere che facciamo, sono nobilitate e diventano gradite al Padre. — Per rendere questo culto pubblico e ufficiale, la Provvidenza suscitò dapprima S. Giovanni Eudes, che compose fin dal 1670, un Ufficio e una Messa del Sacro Cuore, per la Congregazione detta degli Eudisti. Poi scelse una delle figlie spirituali di S. Francesco di Sales, Santa Margherita Maria Alacoque, alla quale Gesù mostrò il suo Cuore, a Paray-le-Monial il 16 giugno 1675, il giorno del Corpus Domini, e le disse di far stabilire una festa del Sacro Cuore il Venerdì che segue l’Ottava del Corpus Domini. Infine Dio si servì per propagare questa devozione, del Beato Claudio de la Colombière religioso della Compagnia di Gesù, che mise tutto il suo zelo a propagare la devozioni al Sacro Cuore». (D. GUERANGER, La festa del Sacro Cuore di Gesù). – Nel 1765, Clemente XIII approvò la festa e l’ufficio del Sacro Cuore, e nel 1856 Pio IX l’estese a tutta la Chiesa. Nel 1929 Pio XI approvò una nuova Messa e un nuovo Officio del Sacro Cuore, e vi aggiunse una Ottava privilegiata. Venendo dopo tutte le feste di Cristo, la solennità del Sacro Cuore le completa riunendole tutte in un unico oggetto, che materialmente, è il Cuore di carne di un Uomo-Dio e formalmente, è l’immensa carità, di cui questo Cuore è simbolo. Questa festa non si riferisce a un mistero particolare della vita del Salvatore, ma li abbraccia tutti. È la festa dell’amor di Dio verso gli uomini, amore che fece scendere Gesù sulla terra con la sua Incarnazione per tutti (Off.), che per tutti è salito sulla Croce per la nostra Redenzione (Vang. 2a Ant. dei Vespri) e che per tutti discende ogni giorno sui nostri altari colla Transustanziazione, per applicarci i frutti della sua morte sul Golgota (Com.). — Questi tre misteri ci manifestano più specialmente la carità divina di Gesù nel corso dei secoli (Intr.). È « il suo amore che lo costrinse a rivestire un corpo mortale » (Inno delMattutino). È il suo amore che volle che questo cuore fosse trafitto sulla croce (Invitatorio, Vang.) affinché ne scorresse un torrente di misericordia e di grazie (Pref.) che noi andiamo ad attingere con gioia (Versetto dei Vespri); un’acqua, che nel Battesimo ci purifica dei nostri. peccati (Ufficio dell’Ottava) e il sangue, che nell’Eucaristia, nutrisce le nostre anime (Com.). E, come la Eucaristia è il prolungamento dell’Incarnazione e il memoriale del Calvario, Gesù domandò che questa festa fosse collocata immediatamente dopo l’Ottava del SS. Sacramento. — Le manifestazioni dell’amore di Cristo mettono maggiormente in evidenza l’ingratitudine degli uomini, che corrispondono a questo amore con una freddezza ed una indifferenza sempre più grande, perciò questa solennità presenta essenzialmente un carattere di riparazione, che esige, la detestazione e l’espiazione di tutti i peccati, causa attuale dell’agonia che Gesù sopportò or sono duemila anni. — Se Egli previde allora i nostri peccati, conobbe anche anticipatamente la nostra partecipazione alle sue sofferenze e questo lo consolò nelle sue pene (Off.). Egli vide soprattutto le sante Messe e le sante Comunioni, nelle quali noi ci facciamo tutti i giorni vittime con la grande Vittima, offrendo a Dio, nelle medesime disposizioni del Sacro Cuore in tutti gli atti della sua vita, al Calvario e ora nel Cielo, tutte le nostre pene e tutte le nostre sofferenze, accettate con generosità. Questa partecipazione alla vita eucaristica di Gesù è il grande mezzo di riparare con Lui, ed entrare pienamente nello spirito della festa del Sacro Cuore, come lo spiega molto bene Pio XI nella sua Enciclica « Miserentissimus » (2° Nott. dell’Ott.) e nell’Atto di riparazione al Sacro Cuore dì Gesù, che si deve leggere in questo giorno davanti al Ss . Sacramento esposto
Spiegazione della figura
Il Sacro Cuore di Gesù è rivestito dei paramenti sacerdotali perché nel mistero dell’Incarnazione, fu consacrato sacerdote con l’unzione della divinità. Perciò Egli è il Pontefice, il mediatore tra Dio e gli uomini, il re di tutti i cuori. Il Sacro Cuore di Gesù è rappresentato sulla croce, perché è per amore verso di noi che Egli si fece vittima del suo proprio sacrificio. Per diritto di conquista dunque Egli è nostro liberatore, nostro Re d’amore come attesta Maria Maddalena, che tiene in mano i chiodi, che inchiodarono Cristo sulla croce e il calice del sangue, che Egli versò come « Figlio dell’uomo » per salvarci. Così innalzato come su un trono, ricoperto della porpora del suo sangue Egli è cinto, come Pontefice e come Vittima, del diadema e della regalità d’amore che esercita al riguardo di tutti gli uomini, stende le braccia per attirarli a sé ed offrirli a Dio, come vittime unite al suo Sacrificio.
Incipit
In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps XXXII: 11; 19 Cogitatiónes Cordis ejus in generatióne et generatiónem: ut éruat a
morte ánimas eórum et alat eos in fame.
[I disegni del Cuore del Signore durano in eterno: per strappare le ànime
dalla morte e sostentarle nella carestia.]
Ps XXXII: 1
Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.
[Esultate nel Signore, o giusti, la lode conviene ai retti.]
Cogitatiónes Cordis ejus in generatióne et generatiónem: ut éruat a
morte ánimas eórum et alat eos in fame.
[I disegni del Cuore del Signore durano in eterno: per strappare le ànime
dalla morte e sostentarle nella carestia.]
Oratio
Orémus. Deus, qui nobis in Corde Fílii tui, nostris vulneráto peccátis,
infinítos dilectiónis thesáuros misericórditer largíri dignáris: concéde,
quǽsumus; ut, illi devótum pietátis nostræ præstántes obséquium, dignæ quoque
satisfactiónis exhibeámus offícium.
[O Dio, che nella tua misericordia Ti sei degnato di elargire tesori infiniti di amore nel Cuore del Figlio Tuo, ferito per i nostri peccati: concedi, Te ne preghiamo, che, rendendogli il devoto omaggio della nostra pietà, possiamo compiere in modo degno anche il dovere della riparazione.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli
ad Ephésios. Eph III: 8-19
Fratres: Mihi, ómnium sanctórum mínimo, data est grátia hæc, in
géntibus evangelizáre investigábiles divítias Christi, et illumináre omnes, quæ
sit dispensátio sacraménti abscónditi a sǽculis in Deo, qui ómnia creávit: ut
innotéscat principátibus et potestátibus in cœléstibus per Ecclésiam
multifórmis sapiéntia Dei, secúndum præfinitiónem sæculórum, quam fecit in
Christo Jesu, Dómino nostro, in quo habémus fidúciam et accéssum in confidéntia
per fidem ejus. Hujus rei grátia flecto génua mea ad Patrem Dómini nostri Jesu
Christi, ex quo omnis patérnitas in cœlis ei in terra nominátur, ut det vobis,
secúndum divítias glóriæ suæ, virtúte corroborári per Spíritum ejus in
interiórem hóminem, Christum habitáre per fidem in córdibus vestris: in
caritáte radicáti et fundáti, ut póssitis comprehéndere cum ómnibus sanctis,
quæ sit latitúdo, et longitúdo, et sublímitas, et profúndum: scire étiam
supereminéntem sciéntiæ caritátem Christi, ut impleámini in omnem plenitúdinem
Dei.
[Fratelli: A me, minimissimo di tutti i santi è stata data questa grazia di
annunciare tra le genti le incomprensibili ricchezze del Cristo, e svelare a
tutti quale sia l’economia del mistero nascosto da secoli in Dio, che ha creato
tutte cose: onde i principati e le potestà celesti, di fronte allo spettacolo
della Chiesa, conoscano oggi la multiforme sapienza di Dio, secondo la
determinazione eterna che Egli ne fece nel Cristo Gesù, Signore nostro: nel
quale, mediante la fede, abbiamo l’ardire di accedere fiduciosamente a Dio. A
questo fine piego le mie ginocchia dinanzi al Padre del Signore nostro Gesù
Cristo, da cui tutta la famiglia e in cielo e in terra prende nome, affinché
conceda a voi, secondo l’abbondanza della sua gloria, che siate corroborati in
virtù secondo l’uomo interiore per mezzo del suo Spirito. Il Cristo abiti nei
vostri cuori mediante la fede, affinché, ben radicati e fondati nella carità,
possiate con tutti i santi comprendere quale sia la larghezza, la lunghezza e
l’altezza e la profondità di quella carità del Cristo che sorpassa ogni
concetto, affinché siate ripieni di tutta la grazia di cui Dio è pienezza
inesauribile.]
Graduale
Ps XXIV: 8-9 Dulcis et rectus Dóminus: propter hoc legem dabit delinquéntibus in via. V. Díriget mansúetos in judício, docébit mites vias suas.
[Il Signore è buono e retto, per questo addita agli erranti la via. V. Guida i mansueti nella giustizia e insegna ai miti le sue vie.]
Mt XI: 29
ALLELUJA
Allelúja, allelúja. Tóllite jugum meum super vos, et díscite a me,
quia mitis sum et húmilis Corde, et inveniétis réquiem animábus vestris.
Allelúja.
[Allelúia, allelúia. Prendete sopra di voi il mio giogo ed imparate da me,
che sono mite ed umile di Cuore, e troverete riposo alle vostre ànime. Allelúia
Evangelium
Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem. Joannes XIX: 31-37 In illo témpore: Judǽi – quóniam Parascéve erat, – ut non remanérent in
cruce córpora sábbato – erat enim magnus dies ille sábbati, – rogavérunt
Pilátum, ut frangeréntur eórum crura, et tolleréntur. Venérunt ergo mílites: et
primi quidem fregérunt crura et alteríus, qui crucifíxus est cum eo. Ad Jesum
autem cum veníssent, ut vidérunt eum jam mórtuum, non fregérunt ejus crura, sed
unus mílitum láncea latus ejus apéruit, et contínuo exívit sanguis et aqua. Et qui vidit, testimónium perhíbuit:
et verum est testimónium ejus. Et ille scit quia vera dicit, ut et vos
credátis. Facta sunt enim hæc ut Scriptúra implerétur: Os non comminuétis ex
eo. Et íterum alia Scriptúra dicit: Vidébunt in quem transfixérunt.
[In quel tempo: I Giudei, siccome era la Parasceve, affinché i corpi non
rimanessero sulla croce durante il sabato – era un gran giorno quel sabato –
pregarono Pilato che fossero rotte loro le gambe e fossero deposti. Andarono
dunque i soldati e ruppero le gambe ad entrambi i crocifissi al fianco di Gesù.
Giunti a Gesù, e visto che era morto, non gli ruppero le gambe: ma uno dei
soldati gli aprì il fianco con una lancia, e subito ne uscì sangue e acqua. E
chi vide lo attesta: testimonianza verace di chi sa di dire il vero: affinché
voi pure crediate. Tali cose sono avvenute affinché si adempisse la Scrittura:
Non romperete alcuna delle sue ossa. E si avverasse l’altra Scrittura che dice:
Volgeranno gli sguardi a colui che hanno trafitto.]
OMELIA
La divozione al Sacro Cuore di Gesù.
[ A. Carmagnola: “Il Sacro Cuore di Gesù”; S.EI. Ed.
Torino, 1920. – DISCORSO II.]
Purtroppo non pochi Cristiani dei nostri giorni, formandosi un Cristianesimo tutto a loro modo, al sentir parlare di divozione lasciano uscir di bocca un sorriso di scherno, e di compassione, come se la divozione non fosse altro che un’esagerazione di teste piccole e di nature meschine. Anzi nel linguaggio moderno quando si è detto di taluno che è un devoto, si è detto abbastanza per renderlo odioso e ridicolo, benché si tratti un’anima profondamente convinta, robusta di virtù, elevata di mente e generosa di sentimenti. E non pochi vi hanno, che preferiscono essere chiamati Cristiani alla libera e secondo lo spirito del mondo, che Cristiani divoti. Ma tutto ciò, che è altro mai, se non chiarissimo indizio del loro decadimento dallo spirito cristiano? Perché è egli possibile il possedere veramente questo spirito e non avere ciò che si chiama divozione? Se la divozione deriva il suo nome a devovendo dal dedicarsi che alcuno fa prontamente all’altrui servizio, che cosa è dessa altro mai se non la volontà pronta di fare quelle cose che appartengono al servizio di Dio? E tale essendo la divozione, non conviene riconoscere perciò che non solo non è una esagerazione, ma non è neppure un soprappiù di ciò che conviene ad essere vero cristiano, tanto che non si possa dire Cristiano vero colui che non è pure Cristiano devoto? – Ma se certi Cristiani alla moda, eppur così ripieni di ignoranza per riguardo alle cose di Dio, già si fanno a deridere in genere la divozione, fanno peggio ancora intendendo a parlare della divozione al Sacro Cuore di Gesù. Per loro questa divozione, oltre che è una divozione tutta nuova, non è altrimenti basata che sulla immaginazione, e non deve servire ad altro che ad occupare gli animi delle religiose, che vivono racchiuse tra le mura di un monastero. Ora quanto grave sia il loro errore è ciò che si verrà conoscendo meglio di mano in mano che, svolgendo la sostanza di questa divozione, si verrà a conoscere più esattamente in che cosa essa consista e come più che ogni altra divozione sia basata, tutt’altro che sull’immaginazione, sulle più belle e più grandi realtà. Tuttavia fin da oggi contro le stolte declamazioni di certi spiriti leggieri ci faremo a considerare di proposito quanto questa divozione alSacro Cuore di Gesù sia salda ed eccellente.
I. — La divozione al Sacratissimo Cuore di Gesù, tutt’altro che essere una divozione nuova, è la divozione più antica e più costante. In un certo senso si potrebbe dire che è antica quanto è antico il mondo, e che ha cominciato in quel giorno in cui Adamo peccatore, intese insieme con la condanna della sua colpa, promettersi da Dio misericordioso il Riparatore del suo male in un Figlio della Donna. Perciocché fin d’allora Adamo riconoscendo l’amore, che il Messia Verbo Incarnato, avrebbe dimostrato agli uomini nel venire quaggiù a redimerli, in questo amore, frutto di un Cuore Divino, pose tutta la sua fede, tutta la sua speranza, e questo amore si studiò di ricambiare con l’amor suo e con la penitenza del suo peccato. In questo senso continuarono ancora i patriarchi e tutti i profeti a nutrirgli la loro divozione; e questi ultimi soprattutto ne celebrarono in mille guise la carità, la bontà, la tenerezza e tutte le altre sue perfezioni, tanto che la Chiesa anche oggidì non trova nulla di meglio per onorare questo Divin Cuore nel giorno della sua festa che valersi delle loro magnifiche espressioni. Tuttavia questa divozione al Sacro Cuore di Gesù nell’antica legge non era praticata che indirettamente. – Ma quando nostro Signore diede compimento alle sue promesse, ed incarnatosi e fattosi uomo, si cominciò dagli uomini a sperimentare di fatto la bontà immensa del Cuor suo, si può dubitare che a questo Cuore non si sia preso a tributare una divozione diretta? Quel che è certo si è che Gesù Cristo medesimo fin d’allora offerse il suo Cuore Sacratissimo alla devozione degli uomini. E per prova di ciò basta ricordare quel che fece nell’ultima cena con l’Apostolo suo prediletto san Giovanni. Stando questo Apostolo seduto a fianco di Gesù in modo, che comodamente poteva chinare la testa sopra il Cuore di Gesù Cristo, ve la chinò di fatto; e Gesù non solo glielo permise, ma in certa guisa lo volle, perché così avesse ad intendere i suoi palpiti, avesse a sentire l’ardore delle sue vampe amorose, e potesse un giorno, meglio di ogni altro evangelista, mettere in chiaro le prove infinite e supreme di carità, che questo suo Cuore diede per noi, ed invitare così più efficacemente gli uomini a ricambiarlo d’amore. Sì, dice S. Agostino: secreta altiora de intimo eius Corde potabat; san Giovanni attingeva a questo Cuore i più ineffabili misteri. E così pure asserisce Origene: Bisogna riconoscere che nel fondo del Cuore di Gesù Giovanni pigliasse i tesori della sapienza e della scienza: in penetrali Cordis Iesu thesauros sapientiæ etscientiæ requisisse dicendum est. Ma ecco finalmente che Gesù Cristo nel Getsemani dà principio alla sua Passione, e dal suo cuore risospinge il Sangue all’esterno, quasi per dirci che dal Cuore avevano principio tutti i suoi patimenti; e poscia morto sulla Croce, lascia che un soldato con una lanciata inflittagli con violenza nel fianco destro, vada fino al fianco sinistro a trapassargli il Cuore, come per dirci che lo stesso Cuore ai suoi patimenti poneva il colmo. Allora certamente la sua divozione dovette consolidarsi e stabilirsi più direttamente ancora. Ed in vero l’apostolo ed evangelista S. Giovanni non ci avrebbe notate tutte queste cose particolari intorno al Cuore di Gesù, avvenute nella sua passione e morte, se Egli stesso non ne fosse stato ardentemente innamorato. E per altra parte queste cose medesime narrate e fatte conoscere ai Cristiani non potevano non accendere in loro questa divozione. – Difatti per tacere di molti martiri, nei cui atti si legge, che a questo Sacratissimo Cuore attingevano la forza necessaria a versare il loro sangue per la fede, quali stupende pagine non scrissero mai in suo onore e per la sua divozione i Santi Padri lei primi secoli della Chiesa? S. Agostino e S. Cipriano parlano del Cuore di Gesù nel modo più entusiastico, osservando come da esso ne vennero fuori la Chiesa e i Sacramenti, e in esso si aperse la porta della eterna salute, raffigurata dalla porta dell’arca costrutta da Noè, per la quale passarono gli animali, che non dovevano perire nel diluvio. Tertulliano e S. Giovanni Grisostomo magnificano in questo Cuore la misericordia divina, poiché nell’acqua e nel sangue che sgorgarono dalla sua ferita, veggono chiaramente indicati il Sacramento del Battesimo e della Eucarestia. S. Cirillo vi ritrova il compimento della nostra Redenzione, essendo esso l’indizio più certo della morte di Cristo. S. Efrem, S. Basilio, S. Gregorio Nazianzeno ed altri Santi Padri ancora esaltano altamente questo Cuore, chi chiamandolo fornace di amore, chi scampo sicuro, chi rifugio in tutti i pericoli, chi fonte di ogni grazia e benedizione. Ad imitazione di questi Santi Padri continuarono gli altri dottori e gli altri santi in ogni tempo a tributare i loro omaggi al Cuore Sacratissimo di Gesù. E qui, o miei cari, contentandomi di ricordare i nomi di S. Pier Damiani, dell’illuminato Taulero, di S. Bernardino da Siena, di S. Tommaso da Villanova, di S. Tommaso d’Aquino e di S. Bonaventura, di S. Luigi Gonzaga e di S. Francesco di Sales, di santa Geltrude, di santa Matilde, di santa Teresa, di santa Caterina da Siena, di santa Maddalena de’ Pazzi, di santa Margherita da Cortona, di santa Francesca Romana, tacendo di moltissimi altri santi e sante, faccio tuttavia speciale menzione di S. Bernardo, il quale scriveva intorno al Sacro Cuore pagine così tenere e così sublimi, che la Chiesa non trovò nulla di più adatto per comporre le lezioni della sua officiatura ad onore del Divin Cuore. Ed in vero: « Poiché, egli dice, siamo venuti al Cuore dolcissimo di Gesù, ed è per noi cosa buona il rimanervi, non lasciamoci facilmente allontanare da colui, del quale è scritto: Coloro che da te si allontanano saranno scritti in terra, mentre invece coloro, che a te si avvicinano, avranno i loro nomi scritti in cielo. Accostiamoci adunque a te, ed esultiamo e rallegriamoci in te, memori del tuo Cuore. Oh quanto è cosa buona e gioconda l’abitare in questo Cuore! il gettarvi entro ogni pensiero ed affètto! In questo tempio, in questo santuario, presso a quest’arca del testamento io pregherò e loderò il Nome del Signore, dicendo con Davide: Ho trovato il cuore per pregarvi il mio Dio. Sì, ho trovato il cuore del re, del fratello, dell’amico benigno Gesù. E come mai, o Gesù dolcissimo, io non pregherò il mio Dio dentro a questo tuo e mio cuore? Ah! degnati soltanto di ammettermi in questo sacrario, in cui le mie preghiere saranno da te esaudite! Anzi, vogliami trarre tutto nel Cuor tuo. O Gesù, il più bello fra tutti gli uomini, lavami dalla mia iniquità e mondami dal mio peccato, affinché, per tua mercé purificato, io possa accostarmi a te che sei purissimo, e meriti abitare nel Cuor tuo in tutti i giorni della mia vita, e valga a vedere e fare ad un tempo la tua volontà. Imperciocché per questo è stato ferito il tuo fianco, perché a noi sia aperta l’entrata. Per questo fu ferito il tuo Cuore, perché sciolti dalle cure terrene, in esso ed in te possiamo abitare. Tuttavia questo Cuore fu specialmente ferito, affinché per la ferita carnale e visibile ci fosse manifesta la ferita spirituale ed invisibile dell’amore, che lo consuma. – Chi adunque non amerà un Cuore così amante? Chi non abbraccerà un Cuore sì casto? Amiamo, riamiamo, abbracciamo adunque questo Cuore, e stiamo in esso affinché si degni di stringere e ferire il cuor nostro ancor sì duro ed ostinato con la catena e con il dardo dell’amore. » Così adunque il mellifluo s. Bernardo scriveva e parlava del Sacratissimo Cuore nel secolo XII. – Tutto ciò pertanto dimostra chiarissimamente che la divozione al Sacratissimo Cuore in sostanza non è una divozione nuova, come la vollero riguardare certi eretici dispettosi e superbi, ma una divozione antica quanto è antico il Cristianesimo, anzi il mondo, e costante quanto lo fu il corso dei secoli. Epperò per questa sola ragione della sua antichità già bene riesce manifesto, quanto essa sia salda ed eccellente. Ma qui osserviamo, almeno di passaggio, quanto siano stolti ed ignoranti coloro, che senza sapere e riflettere di che si tratti, giudicano senz’altro la divozione al Sacro Cuore di Gesù una divozione propria di teste piccole e di nature meschine. Oh! eran dunque nature meschine e teste piccole un S. Agostino, un S. Giovanni Grisostomo, un S. Bernardo, un S. Bonaventura, e un S. Tommaso d’Aquino? Comprendete perciò, o miei cari, quanto siano sventati e falsi i giudizi dei mondani, e per quel che riguarda la divozione al Sacro Cuore di Gesù, non dubitate punto di apprezzarla e di praticarla, sicuri di conformarvi in essa ai più grandi luminari della Chiesa. Ma sebbene nella sua sostanza la divozione al Sacro Cuore di Gesù non sia nuova affatto, tuttavia la forma speciale, cui la vediamo oggidì praticata in tutto l’universo cattolico, non ebbe principio che verso la fine del secolo decimo settimo, quando lo stesso Gesù Cristo si degnò esprimerne la sua volontà ad una sua sposa diletta. Udite. A Paray-le-Monial in Francia, in un monastero della Visitazione viveva una santa verginella per nome Margherita Alacoque. Fin dai primi anni della sua vita, illustrata dallo Spirito Santo ed arricchita delle benedizioni celesti, disprezzando gli allettamenti del mondo, si era consacrata a Dio col voto di verginità perpetua e aveva preso a praticare ogni più bella virtù cristiana. Ma perché il mondo non avesse a guastare menomamente la bellezza di questo fior di paradiso, quel Divin Padre, che Gesù Cristo stesso chiamò col nome di agricoltore, per opera della sua provvidenza, togliendola di mezzo al mondo, la trapiantava negli orti chiusi della Religione, dove, per la maggior abbondanza di grazia e per la fedele corrispondenza alla stessa, cresceva meravigliosamente in spirituale bellezza, tanto da attrarre sopra di sé lo specialissimo sguardo di quel Gesù, che si pasce fra i gigli, e meritare non solo di godere sovente delle sue visite di paradiso, ma di essere eletta per stabilire quaggiù la divozione al suo Sacratissimo Cuore. Ed ecco come andò il fatto. – Volgeva tacita la notte del 16 Giugno dell’anno 1675, fra l’ottava del Corpus Domini, e Santa Margherita vegliava tutta sola appiè del santo altare e fervorosamente pregava. L’anima sua immersa nei divini misteri sentivasi come infuocata di carità, e tale un incendio la abbruciava, da non poter quasi più reggere per l’estremo dolore; quand’ecco si ode su per l’altare un muovere concitato di passi, ed una luce improvvisa balza fuori da quelle tenebre. Margherita leva gli occhi… ed oh! che non vide ella mai?… Le era apparso Gesù Cristo in persona e le dava a vedere il suo Cuore Sacrosanto. Era questo come sopra un trono di vive fiamme, circondato da una corona di spine, squarciato da una ferita, con una croce piantatavi sopra. Margherita lo mirava estatica, come immersa in un mare di gioia e quasi senza mandar un respiro, quando il Divin Redentore ruppe Egli stesso il silenzio ed uscì fuori in questi amorosi accenti: « Margherita, ecco quel Cuore che tanto ha amato gli uomini, sino a struggersi e consumarsi per dimostrar loro le sue grandi vampe. Ma in ricambio Io non ricevo dalla maggior parte di essi che ingratitudini, tanti sono i disprezzi, le freddezze, le irriverenze, i sacrilegi, che si commettono contro di me nel Sacramento di amore. E ciò che mi torna anche più penoso si è, che a trattarmi così vi sono pure dei cuori a me consacrati. Ti chieggo pertanto che il primo venerdì dopo l’ottava del SS. Sacramento sia dedicato a celebrare una festa particolare in onore del mio Cuore e con la santa Comunione si riparino in quel giorno gli indegni trattamenti, che Io ho ricevuto, mentre stavo esposto sopra gli altari. Io poi ti prometto, che il mio Cuore si dilaterà per spargere con abbondanza le influenze del mio divino amore sopra tutti coloro, che gli renderanno e procureranno che gli sia reso da altri questo onore. » Così parlò Gesù Cristo alla sua diletta Margherita, la quale tutta confusa e tremante per la grande missione che venivale conferita, si faceva umilmente a rispondere: « Ma, Signore amabilissimo, a chi vi volgete Voi per una tanta impresa? E non vedete che io sono meschina e peccatrice? Vi mancano forse anime generose, a cui affidare sì grave incarico? » Ma Gesù Cristo nulladimeno, ricordando quella legge del suo governo, per cui si serve di mezzi in apparenza spregevoli per effettuare grandi opere, onde risplenda meglio la potenza del suo braccio, riaffermava la sua volontà e confortava quella santa verginella ad eseguirla. – Anzi, continuando in seguito ad apparirle, le faceva sempre meglio conoscere i segreti del suo Sacratissimo Cuore, le dichiarava il fine, che dovevano proporsi le anime generose che aspirassero a glorificarlo, le suggeriva Egli stesso le pratiche di pietà da compiersi, le faceva conoscere le grazie che avrebbe compartite ai suoi adoratori, le assicurava che questa divozione si sarebbe mirabilmente dilatata non ostante tutte le opposizioni, con cui taluni l’avrebbero impugnata, e filialmente le inviava un suo fedelissimo servo, il padre La Colombière, della Compagnia di Gesù, perché le fosse di potente aiuto a promuoverla ed a spargerla ovunque. – Così adunque, o miei cari, voi lo avete inteso, è Gesù Cristo medesimo Colui che volle avere un culto pubblico al suo Sacratissimo Cuore. Epperò mirando a questa divozione, sparsa ormai per tutta la terra, ben a ragione dobbiamo esclamare: A Domino factum est istud, et est mirabile in oculis nostris.(Ps. CXVII, 22) E chi sarà pertanto, che nel considerare come Gesù Cristo, la divina Sapienza incarnata, ha Egli medesimo presentato il suo Cuore ad essere onorato dai fedeli, non riconoscerà la grande saldezza e la somma eccellenza, che vi ha nella sua divozione?
II. — Ma io so benissimo, che se qui vi fosse ad ascoltarmi taluno dei così detti spiriti forti, si riderebbe in cuor suo dell’aver dato io importanza alla rivelazione di Santa Margherita Alacoque. Perciocché, che cosa altro mai secondo la moderna incredulità sono le estasi dei Santi, le rivelazioni fatte da Dio a certe anime sue predilette, se non allucinazioni di mente esaltata, effetti di una malattia, che chiamano isterismo? Tuttavia, anche perché crederei tempo gittato il fermarmi a discutere sopra questo nuovo trovato della scienza atea e mostrarne la vanità, io mi accontento di osservare per voi che siete credenti, che senza dubbio le rivelazioni particolari fatte da Dio ai Santi non si hanno da accogliere se non in quella misura, che la Chiesa permette e stabilisce, ma che quando la Chiesa ce ne ha fatto ella medesima sicurtà, allora non dobbiamo più dubitarne. Perché la Chiesa accetta forse ed approva senz’altro qualsiasi particolare rivelazione? Tutt’altro! Essa non accetta e non approva alcuna di queste particolari rivelazioni, se non dopo lunghissimo, minutissimo e serissimo esame, in cui di tali rivelazioni siano prodotte le prove più autentiche. Or bene, queste prove, non altrimenti che nelle rivelazioni di altri santi, la Chiesa le ha pur volute nella rivelazione di Santa Margherita, ed avendole trovate specialmente nella santità della sua vita, essa ha creduto a tale rivelazione e con sicurezza la propose a credersi anche da noi. – Con tutto ciò, o carissimi, sbaglierebbe assai chi credesse che la divozione al Sacro Cuore di Gesù fosse basata unicamente sopra la rivelazione fattane da Santa Margherita. No, questa divozione, come ogni altra che vi ha nel seno della Chiesa, non è basata sopra una privata rivelazione, ma sopra la rivelazione per eccellenza che Iddio fece di tutta la sua religione, ed approvata perciò dalla autorità della Chiesa. – Ponete ben mente. Egli è certissimo che se Iddio non si fosse degnato di rivelarci Egli stesso la massima parte delle verità, che a Lui si riferiscono e dei doveri religiosi e morali che a Lui ci stringono, noi non potremmo giammai né conoscerlo, né amarlo, né servirlo convenientemente, tanto da meritare di raggiungere il fine a cui ci ha destinati. Ma anche in questo Iddio ci manifesta la sua misericordia infinita, nel parlarci e rilevarci tutto ciò che noi avremmo dovuto credere ed operare. – Egli, come ci dice S. Paolo, incominciò a fare la sua divina rivelazione ai padri nostri per mezzo dei profeti, e la compì poscia per opera dello stesso suo divin Figliuolo, Gesù. (Hebr. I, 12) In Gesù Cristo pertanto e negli Apostoli, che lo udirono, la divina rivelazione è perfettamente compiuta, e dopo Gesù Cristo e gli Apostoli non può ammettersi nessuna verità nuova riguardo al deposito della fede. È bensì vero che Iddio anche dopo la venuta del suo divin Figlio sulla terra ha continuato a fare delle particolari rivelazioni a grande numero de’ suoi servi prediletti, ma in nessuna di esse ci rivelò delle verità, che non fossero state già rivelate o ci propose un culto che non fosse già praticato. Ma senza rivelare alcuna nuova verità e senza introdurre alcun nuovo culto, è certo che Iddio in molte di queste sue particolari rivelazioni fece intendere agli uomini qualche suo speciale desiderio in relazione a qualche particolare verità e a qualche forma peculiare del culto già esistente. Così ad esempio, apparendo alla beata Giuliana da Liegi, le rivelò il desiderio vivissimo, che gli si desse una speciale manifestazione di fede, di amore e di gratitudine per l’istituzione del SS. Sacramento dell’Eucaristia, stabilendosi una festa particolare in suo onore, la festa del Corpus Domini. E fu appunto in seguito a questa particolare rivelazione che la Chiesa prese occasione ad istituire una tal festa, perciocché per una parte, esaminando seriamente la rivelazione fatta alla beata Giuliana, la trovò vera, e considerando per l’altra parte se era opportuna una nuova festa ad onore del SS. Sacramento dell’altare, vide che, tutt’altro che essere una novità pericolosa, era un mezzo efficacissimo a ravvivare la fede in una verità mai sempre creduta e a rendere più vivo e solenne il culto, che erasi mai sempre praticato ad onore del SS. Sacramento. La Chiesa adunque, anche per le rivelazioni più splendide che Iddio faccia ai santi, non introdurrà mai alcuna nuova verità da credere od alcuna pratica che non sia conforme alla Religione completamente rivelata da Gesù Cristo. Tuttavia prendendo ad esaminare seriamente tali rivelazioni particolari, e trovandole degne di fede, suole da esse prendere occasione per mettere in maggior luce questo o quel mistero, per animare più efficacemente a questa od a quella divozione, conforme al desiderio manifestato da Dio e secondo lo spirito di sapienza e di opportunità, di cui è dotata dalla continua assistenza dello Spirito Santo. – Ora ecco appunto quello che accadde riguardo alla divozione al Sacratissimo Cuore di Gesù. Questa divozione in sostanza, come dissi fin dal principio, non è mancata mai nel seno della Chiesa, perché, basati sulla divina rivelazione, i Cristiani hanno creduto sempre che in Gesù Cristo, essendo la Persona divina unita alla natura umana, anche la sua umanità, di cui il Cuore è parte nobilissima, deve essere adorata. – Ma poiché Gesù Cristo si compiacque di apparire ripetutamente alla sua diletta serva Margherita Alacoque, e farle conoscere il desiderio vivissimo, che questa divozione al suo Cuore si dilatasse vie’ maggiormente fra i fedeli e si praticasse con pubblica solennità, la Chiesa che cosa fece? Anzi tutto esaminò lungamente e seriamente la condotta di quell’inclita serva di Dio, e ritrovatala santa, riconobbe altresì che per ragione della sua santità meritava fede alle sue rivelazioni. E considerando inoltre il gran bene, che ne sarebbe venuto a sé ed ai fedeli dalla pratica della divozione particolare al Sacratissimo Onore, senza punto introdurre una nuova verità da credere, od un nuovo culto da praticare, dalla celebre rivelazione dell’Alacoque prese occasione a concretar meglio e a dare maggior impulso a questa divozione istessa. Il che adunque vuol dire che la divozione al Sacro Cuore di Gesù è basata non già sopra la particolare rivelazione, che Gesù Cristo fece a Santa Margherita, ma sopra la rivelazione per eccellenza che Egli fece a tutto il mondo, e che la Chiesa in seguito alla particolare rivelazione di Santa Margherita ha con l’autorità sua confermata ed esplicata una tale divozione. E per tal guisa la Chiesa ci assicura nello stesso tempo della saldezza e della eccellenza della medesima, e noi la dobbiamo praticare con la massima sicurezza e con tutto l’impegno. È vero che vi sono dei Cristiani superbi, a cui le proprie viste sembrando più giuste che quelle della Chiesa, anche per ciò che riguarda questa divozione non credono di doversi fidare del suo giudizio. Ma noi certamente non saremo nel numero di questi sventurati. Ossequenti alla parola di Gesù Cristo, che disse, che chi ascolta la Chiesa ascolta Lui stesso, senza esitazione di sorta anche in questo ci affideremo a lei, pienamente sicuri che essa, maestra infallibile di verità, né si inganna, né può ingannarci. – Sebbene nel dire che la Chiesa ci assicura della saldezza ed eccellenza della divozione al Sacro Cuore di Gesù, ho detto assai poco; ben altro ha fatto e continua a fare in favore di questa divozione. Essa la raccomanda nel miglior modo possibile. Il Sacro Cuore di Gesù aveva fatto conoscere a Santa Margherita che nel diffondersi della sua divozione si sarebbero levati contro di essa dei grandi nemici, ma che Egli avrebbe regnato malgrado tutte le contraddizioni. E così fu veramente. La setta dei Giansenisti, che negli scritti di Giansenio avevano bevuto gravi errori, mentendo astutissimamente pietà e mortificazione cristiana, trascinava in inganno non pochi fedeli. Appoggiandosi ad uno dei suoi principali errori, che Gesù non è morto per tutti, né per tutti ha versato il suo sangue, si travagliava con diabolica malizia a restringere i benefizi della redenzione e ad impedire i fedeli dì attingere con gaudio le acque di salute alle fonti del Salvatore. Perciocché con speciosi pretesti, negava ai fedeli di frequentare la SS. Comunione o vi esigeva condizioni così esagerate di santità, da togliere nel loro animo il pensiero di potervisi ancora accostare. Non era dunque possibile, che a questa nuova razza di Farisei tornasse gradita la divozione al Sacro Cuore, così atta ad allargare il cuore di tutti gli uomini alla speranza della eterna salute e così efficace a promuovere l’uso e la frequenza dei SS. Sacramenti. Epperò non è facile immaginare quanto essi fecero in privato ed in pubblico, affine di screditarla e farla cadere in dispregio. Essi arrivarono al punto da impedire in alcuni paesi della Francia, che si celebrasse la festa del Sacro Cuore e si onorasse la sua immagine. E di sì gran peso fu il loro cattivo esempio che, estesosi in Italia, l’anno 1789 tenevasi un conciliabolo nella città di Pistoia, in cui giungendosi al massimo dell’impudenza, osavasi condannare la devozione al Sacro Cuore siccome nuova, erronea e pericolosa. Ma non ostante una guerra così accanita, il Cuore di Gesù trionfò per opera della Chiesa. Perocché, all’opposto degli eretici, la Chiesa riconoscendo questa divozione utilissima, prese a difenderla, ad inculcarla, a promuoverla in mille guise. Ne stabilì la festa, ne ordinò la Messa, ne compose l’ufficio, ed annuì al desiderio dei fedeli di unirsi in devote congregazioni, che avessero questo scopo speciale di onorare il Sacro Cuore. Che dirò poi dei tesori innumerevoli di sacre indulgenze, che i Romani Pontefici sparsero sopra tali congregazioni, erette in onore del Sacro Cuore, e sopra i fedeli che con ossequi determinati lo onorassero? Che dirò del fervore veramente meraviglioso, con cui sul suo stesso principio una tal divozione fu accolta dai Vescovi non di una Chiesa o di una provincia, ma di cento o più sedi dell’Italia, della Francia, della Germania, del Belgio, della Spagna, della Boemia, della Polonia, ed ora di tutta quanta la Cristianità? Che dirò dello zelo ardente, con cui tutto il clero e secolare e regolare si adoperò a porre in estimazione ed onore questo divin culto? I religiosi ed i sacerdoti più amanti del bene delle anime lo promossero per modo nelle loro congregazioni, nelle loro chiese e parrocchie, che non v’ha più casa di Dio, ove non sia dedicato al Sacro Cuore un altare, ove non sia esposta almeno la sua immagine alla cristiana venerazione. Ma a tutte le prove già addotte non bisogna che io tralasci di aggiungerne una del massimo peso, voglio dire l’erezione di una basilica consacrata al Sacro Cuore di Gesù in Roma, nella sede del Successore di S. Pietro, nella capitale del mondo cattolico, nel centro e nella metropoli della Religione cristiana. Perciocché per opera di chi quella basilica si innalzò sul colle Esquilino, splendida di marmi e di pitture? Sì, è vero, fu il Padre Maresca, Barnabita, che da principio ne suggerì e promosse l’idea: fu quel gran servo di Dio, Don Giov. Bosco, che coadiuvato dalla carità degli Italiani e di tutto il mondo cattolico la condusse ad effetto con uno zelo ed una operosità indicibile; ma chi benediceva alla grand’opera e ne comperava col suo proprio denaro il suolo necessario, era l’angelico Pontefice Pio IX, di santa e venerata memoria, quel Pontefice, che soleva dire e scrivere: « Nel Cuore di Gesù sta riposta la mia speranza: in Corde Jesuspes mea; » e chi affidava il grande e importante incarico a Don Bosco era il S. Padre Leone XIII, di venerata memoria, e così devoto del Sacro Cuore, che sapientemente ne innalzava la festa al maggior grado di solennità. Se pertanto due Pontefici così insigni curarono essi medesimi l’edificazione di un tempio al Sacro Cuore di Gesù, in Roma istessa, da cui, come da elevato e splendidissimo faro, parte la luce di verità che illumina tutto il mondo, vi vorrà ancor altro, non dico per assicurarci della saldezza, dell’eccellenza della divozione al Sacro Cuore, ma per stimolarci a praticarla con tutto l’ardore? – Se un figliuolo vuole amare non a parole, ma a fatti la propria madre, non è egli vero che non può avere altro impegno se non di formare con la madre stessa un sol pensiero, un sol desiderio, un solo affetto? Senza alcun dubbio egli approverà quello che la sua buona madre approva, apprezzerà ciò che ella apprezza, amerà ciò che ella ama; e se conosce osservi qualche opera, che torni a lei gradita, si porrà a compierla con la più viva sollecitudine. Se altrimenti facesse e si vantasse di affettuoso figliuolo noi diremmo che egli mentisce. Or bene lo stesso è di ogni Cristiano in riguardo alla Chiesa sua madre spirituale. È Cristiano sincero colui, che approva, apprezza, ama e compie ciò che approva, apprezza, ama, compie la Chiesa, ma non è veramente tale colui che fa diversamente. Se la Chiesa pertanto approva e raccomanda la devozione al Cuore Santissimo di Gesù, siccome quella che non si discosta per nulla dall’inalterabile tesoro delle sue sante dottrine, potrà dirsi sincero Cristiano colui, che non la credesse altro che frutto di una allucinazione mentale, epperò non l’apprezzasse, non l’amasse e non la praticasse? No certamente. Deh! non sia adunque, che alcuno di noi non si accenda ognor più in una divozione così salda e così eccellente. Imitiamo tutti l’esempio dei grandi santi che l’hanno praticata; assecondiamo il volere di Gesù Cristo che l’ha rivelata; conformiamoci al sentimento della Chiesa, che l’ha approvata e raccomandata. E nella stima e nella pratica di questa divozione ci sarà dato certamente di godere i più salutari vantaggi per le anime nostre. – E voi, o Cuore Sacratissimo di Gesù, via, verità e vita di tutti gli uomini che vengono in questo mondo, siatelo specialmente per noi, che intendiamo di professarvi quella divozione, che meritate. Siate la nostra via e conduceteci diritti al vostro amore, al vostro servizio ed al vostro godimento. Siate la nostra verità ed illuminate cogli splendori indefettibili della vostra luce le nostre menti per conoscere sempre meglio i vostri pregi ineffabili. Siate la nostra vita, ed infondete nel cuor nostro lo spirito che vive in Voi, affinché non vivendo più che in Voi, con Voi e per Voi quaggiù sulla terra, possiamo un giorno venire a vivere in Voi, con Voi e per Voi lassù in cielo.
Impropérium exspectávi Cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni.
[Obbrobrii e miserie si aspettava il mio Cuore; ed attesi chi si rattristasse con me: e non vi fu; cercai che mi consolasse e non lo trovai.]
Secreta
Réspice, quǽsumus, Dómine, ad ineffábilem Cordis dilécti Fílii tui caritátem: ut quod offérimus sit tibi munus accéptum et nostrórum expiátio delictórum.
[Guarda, Te ne preghiamo, o Signore, all’ineffabile carità del Cuore del Tuo Figlio diletto: affinché l’offerta che Ti facciamo sia gradita a Te e giovi ad espiazione dei nostri peccati].
Praefatio de sacratissimo Cordis Jesu
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et
ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui
Unigénitum tuum, in Cruce pendéntem, láncea mílitis transfígi voluísti: ut
apértum Cor, divínæ largitátis sacrárium, torréntes nobis fúnderet miseratiónis
et grátiæ: et, quod amóre nostri flagráre numquam déstitit, piis esset réquies
et poeniténtibus pater et salútis refúgium. Et ídeo cum Angelis et Archángelis,
cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum
glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:
[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che hai voluto che il tuo Unigénito, pendente dalla croce, fosse trafitto dalla lancia del soldato, cosí che quel cuore aperto, sacrario della divina clemenza, effondesse su di noi torrenti di misericordia e di grazia; e che esso, che mai ha cessato di ardere d’amore per noi, fosse pace per le ànime pie e aperto rifugio di salvezza per le ànime penitenti. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]
Unus mílitum láncea
latus ejus apéruit, et contínuo exívit sanguis et aqua. [Uno
dei soldati gli aprì il fianco con una lancia, e subito ne uscì sangue e
acqua.]
Postcommunio
Orémus. Prǽbeant nobis, Dómine Jesu, divínum tua sancta fervórem: quo dulcíssimi Cordis tui suavitáte percépta;discámus terréna despícere, et amáre cœléstia:
[O Signore Gesù, questi santi misteri ci conferiscano il divino fervore, mediante il quale, gustate le soavità del tuo dolcissimo Cuore, impariamo a sprezzare le cose terrene e ad amare le cose celesti]
ATTO DI
CONSACRAZIONE E DI RIPARAZIONE AL SANTISSIMO CUORE DI GESÙ
ACTUS
REPARATIONIS ET CONSECRATIONIS
Iesu dulcissime, cuius effusa in homines caritas, tanta oblivione, negligentia, contemptione, ingratissime rependitur, en nos, ante altaria [an: conspectum tuum] tua provoluti, tam nefariam hominum socordiam iniuriasque, quibus undique amantissimum Cor tuum afficitur, peculiari honore resarcire contendimus. Attamen, memores tantæ nos quoque indignitatis non expertes aliquando fuisse, indeque vehementissimo dolore commoti, tuam in primis misericordiam nobis imploramus, paratis, voluntaria expiatione compensare flagitia non modo quæ ipsi patravimus, sed etiam illorum, qui, longe a salutis via aberrantes, vel te pastorem ducemque sectari detrectant, in sua infìdelitate obstinati, vel, baptismatis promissa conculcantes, suavissimum tuæ legis iugum excusserunt. Quæ deploranda crimina, cum universa expiare contendimus, tum nobis singula resarcienda proponimus: vitæ cultusque immodestiam atque turpitudines, tot corruptelæ pedicas innocentium animis instructas, dies festos violatos, exsecranda in te tuosque Sanctos iactata maledicta àtque in tuum Vicarium ordinemque sacerdotalem convicia irrogata, ipsum denique amoris divini Sacramentum vel neglectum vel horrendis sacrilegiis profanatum, publica postremo nationum delicta, quæ Ecclesiæ a te institutæ iuribus magisterioque reluctantur. Quæ utinam crimina sanguine ipsi nostro eluere possemus! Interea ad violatum divinum honorem resarciendum, quam Tu olim Patri in Cruce satisfactionem obtulisti quamque cotidie in altaribus renovare pergis, hanc eamdem nos tibi præstamus, cum Virginis Matris, omnium Sanctorum, piorum quoque fìdelium expiationibus coniunctam, ex animo spondentes, cum præterita nostra aliorumque peccata ac tanti amoris incuriam firma fide, candidis vitæ moribus, perfecta legis evangelicæ, caritatis potissimum, observantia, quantum in nobis erit, gratia tua favente, nos esse compensaturos, tum iniurias tibi inferendas prò viribus prohibituros, et quam plurimos potuerimus ad tui sequelam convocaturos. Excipias, quæsumus, benignissime Iesu, beata Virgine Maria Reparatrice intercedente, voluntarium huius expiationis obsequium nosque in officio tuique servitio fidissimos ad mortem usque velis, magno ilio perseverantiæ munere, continere, ut ad illam tandem patriam perveniamus omnes, ubi Tu cum Patre et Spiritu Sancto vivis et regnas in sæcula sæculorum.
Amen.
[Gesù dolcissimo, il cui immenso amore per gli uomini viene con tanta ingratitudine ripagato di oblio, di trascuratezza, di disprezzo, ecco che noi, prostrati dinanzi ai vostri altari, intendiamo riparare con particolari attestazioni di onore una così indegna freddezza e le ingiurie con le quali da ogni parte viene ferito dagli uomini l’amantissimo vostro Cuore. Ricordevoli però che noi pure altre volte ci macchiammo di tanta indegnità, e provandone vivissimo dolore, imploriamo anzitutto per noi la vostra misericordia, pronti a riparare con volontaria espiazione, non solo i peccati commessi da noi, ma anche quelli di coloro che, errando lontano dalla via della salute, o ricusano di seguire Voi come pastore e guida ostinandosi nella loro infedeltà, o calpestando le promesse del Battesimo hanno scosso il soavissimo giogo della vostra legge. E mentre intendiamo espiare tutto il cumulo di sì deplorevoli delitti, ci proponiamo di ripararli ciascuno in particolare: l’immodestia e le brutture della vita e dell’abbigliamento, le tante insidie tese dalla corruttela alle anime innocenti, la profanazione dei giorni festivi, le ingiurie esecrande scagliate contro di Voi e i vostri Santi, gl’insulti lanciati contro il vostro Vicario e l’ordine sacerdotale, le negligenze e gli orribili sacrilegi ond’è profanato lo stesso Sacramento dell’amore divino, e infine le colpe pubbliche delle nazioni che osteggiano i diritti ed il Magistero della Chiesa da Voi fondata. Ed oh, potessimo noi lavare col nostro sangue questi affronti! Intanto, come riparazione dell’onore divino conculcato, noi Vi presentiamo – accompagnandola con le espiazioni della vergine vostra Madre, di tutti i Santi e delle anime pie – quella soddisfazione che Voi stesso un giorno offriste sulla croce al Padre e che ogni giorno rinnovate sugli altari; promettendo con tutto il cuore di voler riparare, per quanto sarà in noi e con l’aiuto della vostra grazia, i peccati commessi da noi e dagli altri, e l’indifferenza verso sì grande amore, con la fermezza della fede, l’innocenza della vita, l’osservanza perfetta della legge evangelica, specialmente della carità, e d’impedire inoltre, con tutte le nostre forze, le ingiurie contro di Voi, e di attrarre quanti più potremo alla vostra sequela. Accogliete, ve ne preghiamo, o benignissimo Gesù, per intercessione della B. V. Maria Riparatrice, questo volontario ossequio di riparazione e vogliate conservarci fedelissimi nella vostra ubbidienza e nel vostro servizio fino alla morte col gran dono della perseveranza, mercé il quale possiamo tutti un giorno pervenire a quella patria, dove Voi col Padre e con lo Spirito vivete e regnate Dio per tutti i secoli dei secoli. Così sia].
Indulgentia quinque annorum.
Indulgentia plenaria, additis sacramentali confessione,
sacra Communione et alicuius ecclesiæ aut publici oratorii visitatione, si
quotidie per integrum mensem reparationis actus devote recitatus fuerit.
Fidelibus vero, qui die festo sacratissimi Cordis Iesu in qualibet ecclesia aut oratorio etiam (prò legitime utentibus) semipublico, adstiterint eidem reparationis actui cum Litaniis sacratissimi Cordis, coram Ss.mo Sacramento sollemniter exposito, conceditur:
Indulgentia septem annorum;
Indulgentia plenaria, dummodo peccata sua sacramentali
pænitentia expiaverint et eucharisticam Mensam participaverint (S. Pæn. Ap., 1
iun. 1928 et 18 mart. 1932).
[Indulg. 5 anni; Plenaria se recitata per un mese con Confessione, Comunione, Preghiera per le intenzioni del Sommo Pontefice, visita di una chiesa od oratorio pubblico. – Nel giorno della festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, 7 anni, se confessati e comunicati, recitata con le litanie de Sacratissimo Cuore, davanti al SS. Sacramento solennemente esposto: Indulgenza plenaria].
LITANIA SACRATISSIMI CORDIS IESU
Tit.
XI, cap. II
Indulg.
septem annorum; plenaria suetis condicionibus, dummodo cotidie per integrum
mensem litania, cum versiculo et oratione pia mente repetita fuerint.
Pius Pp. XI, 10 martii 1933
KYRIE, eléison.
Christe, eléison.
Kyrie, eléison.
Christe, audi nos.
Christe, exàudi nos.
Pater de cælis, Deus, miserére nobis.
Fili, Redémptor mundi, Deus, miserére.
Spiritus Sancte, Deus, miserére.
Sancta Trinitas, unus Deus, miserére nobis.
Cor Iesu, Filii Patris ætèrni, miserére.
Cor Iesu, in sinu Virginis Matris a Spiritu Sancto formàtum, miserére …
Cor Iesu, Verbo Dei
substantiàliter unitum, miserére.
Cor Iesu, maiestàtis infinitæ, miserére
nobis.
Cor Iesu, templum Dei sanctum,
miserére.
Cor Iesu, tabernàculum Altissimi,
miserére.
Cor Iesu, domus Dei et porta cæli,
miserére.
Cor Iesu, fornax ardens caritàtis, miserére.
Cor Iesu, iustitiæ et amóris receptàculum, miserére.
Cor Iesu, bonitàte et amóre plenum, miserére.
Cor Iesu, virtùtum omnium abyssus, miserére.
Cor Iesu, omni laude dignissimum,
miserére.
Cor Iesu, rex et centrum omnium córdium, miserére.
Cor Iesu, in quo sunt omnes thesàuri sapiéntiæ et sciéntias, miserére.
Cor Iesu, in quo habitat omnis plenitùdo divinitàtis, miserére.
Cor Iesu, in quo Pater sibi bene complàcuit, miserére.
Cor Iesu, de cuius plenitudine omnes nos accépimus, miserére.
Cor Iesu, desidérium cóllium æternórum, miserére.
Cor Iesu, pàtiens et multæ misericórdiæ, miserére.
Cor Iesu, dives in omnes qui invocant te, miserére.
Cor Iesu, fons vitæ et sanctitàtis, miserére nobis.
Cor Iesu, attritum propter scelera
nostra, miserére.
Cor Iesu, usque ad mortem obédiens factum, miserére.
Cor Iesu, làncea perforàtum, miserére.
Cor Iesu, fons totius consolatiónis, miserére.
Cor Iesu, vita et resurréctio nostra,
miserére.
Cor Iesu, pax et reconciliàtio nostra,
miserére.
Cor Iesu, victima peccatórum, miserére.
Cor Iesu, salus in te speràntium,
miserére.
Cor Iesu, spes in te moriéntium, miserére.
Cor Iesu, deliciæ Sanctórum omnium,
miserére.
Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, parce nobis, Dòmine.
Agnus Dei, qui tollis peccata
mundi, exàudi nos, Dòmine,
Agnus Dei, qui tollis peccata
mundi, miserére nobis.
V. Iesu, mitis et hùmilis Corde.
R. Fac cor nostrum secùndum Cor tuum.
Orèmus.
Ominipotens sempitèrne Deus,
réspice in Cor dilectissimi Filii tui, et in laudes et satisfactiónes, quas in
nòmine peccatórum tibi persólvit, iisque misericórdiam tuam peténtibus tu
véniam concede placàtus, in nòmine eiùsdem Filii tui Iesu Christi:Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculórum.
R. Amen.
[Litanie del S. Cuore di Gesù:
(Signore,
abbi pietà di noi
Cristo,
abbi pietà di noi.
Signore,
abbi pietà di no:
Cristo,
ascoltaci
Cristo,
esaudiscici.
Dio,
Padre celeste, abbi
pietà di noi (ogni volta)
Dio,
Figlio Redentore del mondo, abbi …
Dio,
Spirito Santo, ….
Santa
Trinità, unico Dio
…
Cuore
di Gesù, Figlio dell’Eterno Padre, abbi pietà di noi (ogni volta)
Cuore
di Gesù, formato dallo Spirito Santo nel seno della Vergine Madre …
Cuore
di Gesù, sostanzialmente unito al Verbo di Dio …
Cuore
di Gesù, di maestà infinita …
Cuore
di Gesù, tempio santo di Dio …
Cuore
di Gesù, tabernacolo dell’Altissimo, …
Cuore
di Gesù, casa di Dio e porta del Cielo, …
Cuore
di Gesù, fornace ardente di carità, …
Cuore
di Gesù, ricettacolo di giustizia e di amore, …
Cuore
di Gesù, pieno di bontà e di amore, …
Cuore
di Gesù, abisso di ogni virtù, …
Cuore
di Gesù, degnissimo di ogni lode, …
Cuore
di Gesù, Re e centro di tutti i cuori, …
Cuore
di Gesù, in cui sono tutti i tesori di sapienza e di scienza, …
Cuore
di Gesù, in cui abita la pienezza della divinità, …
Cuore
di Gesù, in cui il Padre ha posto le sue compiacenze, …
Cuore
di Gesù, dalla cui abbondanza noi tutti ricevemmo, …
Cuore
di Gesù, desiderio dei colli eterni, …
Cuore
di Gesù, paziente e misericordiosissimo,
…
Cuore
di Gesù, ricco con tutti coloro che ti
invocano, …
Cuore
di Gesù, fonte di vita e di santità, …
Cuore
di Gesù, propiziazione pei peccati nostri. …
Cuore
di Gesù, satollato di obbrobrii, …
Cuore
di Gesù, spezzato per le nostre scelleratezze, …
Cuore di
Gesù, fatto obbediente sino alla morte, …
Cuore
di Gesù, trapassato dalla lancia, …
Cuore
di Gesù, fonte d’ogni consolazione,
Cuore
di Gesù, vita e risurrezione nostra, …
Cuore
di Gesù, pace e riconciliazione nostra. …
Cuore
di Gesù, vittima dei peccati, …
Cuore
di Gesù, salute di chi in Te spera, …
Cuore
di Gesù, speranza di chi in Te muore, …
Cuore
di Gesù, delizia di tutti i Santi, …
Agnello
di Dio che togli peccati del mondo, perdonaci o Signore.
Agnello
di Dio che togli peccati del mondo, esaudiscici, o Signore
Agnello
di Dio che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi.
V.
Gesù, mansueto e umile di cuore,
R.
Rendi il nostro cuore simile al tuo.
Preghiamo
O Dio onnipotente ed eterno, guarda al Cuore del tuo dilettissimo Figlio,
alle lodi ed alle soddisfazioni che Esso ti ha innalzato, e perdona clemente a
tutti coloro che ti chiedono misericordia nel nome dello stesso tuo Figlio Gesù
Cristo, che vive e regna con te, Dio, in unità con lo Spirito Santo per tutti i
secoli dei secoli.
Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (16)
[Ed. chez le Directeur du Messager du Coeur de
Jesus, Tolosa 1891]
TERZA PARTE
MEZZI PARTICOLARI
DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE
Capitolo XVI
IL CUORE DI GESÙ E LA GRAZIA ATTUALE
Giustificazione,
merito e grazia attuale.
La giustificazione e il merito sono i
due doni più preziosi della bontà divina, i due procedimenti di divinizzazione,
attraverso i quali il Cuore di Gesù comunica alle anime, alle quali è unito
dalla grazia, i privilegi di cui gode in virtù della sua sostanziale unione con
il Verbo incarnato. Attraverso la giustificazione, lo schiavo del diavolo
diventa figlio di Dio, e il condannato entra ad esser partecipe dei diritti
dell’eredità divina. Per mezzo del merito, il figlio di Dio diventa più
intimamente unito al Padre Celeste, diventa più simile al Verbo fatto carne e
si riempie del suo Spirito. Ma come fa la nostra vita soprannaturale ad
aumentare di merito e a ritornare a noi per giustificazione quando il peccato
ce la toglie? Con la grazia attuale!
In cosa si differenzia dalla grazia abituale delle anime dei giusti? In quanto
i movimenti di un essere vivente sono diversi dalla vita. Se guardiamo un
albero in inverno senza frutti o foglie, non diremo che è morto anche se sembra
sterile. Non vegeta, non fiorisce, ed anche se è pieno di vita, tutti lo
equiparerebbero agli alberi morti che lo circondano. Ma i soavi aliti della
primavera fanno rivivere le membra di quell’essere e gli fanno mostrare la vita
contenuta in esso. Ciò dimostra che i movimenti della vita non sono la vita
stessa, ma il suo effetto e la sua manifestazione. Quindi non ci si può muovere
se non si è vivi, ma si può avere vita anche senza muoversi, perché questo non
è altro che la facoltà intrinseca del muoversi. Applichiamo queste nozioni all’anima
giusta. La grazia abituale è la vita divina di quell’anima, nella quale essa
rimane finché il peccato non la distrugge. Non è un’operazione, ma uno stato.
Così che anche se l’uomo giusto si dà all’ozio o si dà al sonno, non è privato
della vita divina, né ne è minimamente indebolito, ma conserva in tutta la sua
pienezza, come sotto le gelate dell’inverno il leccio conserva il suo vigore.
La vita divina
deve essere incrementata dalla grazia attuale.
L’uomo non sta al mondo per rimanere in
uno stato di inazione. Gli è stata data vita affinché, con la sua libera
collaborazione, possa aumentarla giorno per giorno. I rami della vita celeste
sono legati alla vite divina, che è Gesù Cristo, per produrre frutti sempre più
abbondanti. Così come vivono (i rami) divinamente in Lui, così devono agire
divinamente ed esercitare continuamente l’infinito potere che Egli comunica
loro. Come riusciranno a raggiungere questo obiettivo? Con l’aiuto della grazia
attuale. Per capire bene questo punto, torniamo al confronto così spesso usato
dai santi Dottori. Così come la vita (umana) risulta dall’unione dell’anima con
il corpo, così la vita divina risulta dall’unione dello Spirito di Dio con l’anima.
Come il corpo, anche se paralizzato, vive finché l’anima rimane in esso, così
l’anima del Cristiano è viva, finché lo Spirito di Dio dimora in esso, anche se
non dà segni di attività. Se questo non accadesse, il corpo non durerebbe a
lungo, si spegnerebbe, come una lampada senza olio. Leggi simili governano
anche lo sviluppo della nostra vita soprannaturale. Infatti, perché l’uomo
giusto che la possiede, in virtù dell’unione dello Spirito di Dio con la sua
anima, possa conservarla ed accrescerla con azioni sante, deve ricevere l’impulso
dello Spirito Divino, che prima ispira il pensiero, poi fa concepire il desiderio,
e poi inizia in lui l’azione con un movimento indeliberato. Se l’anima accetta
liberamente l’ispirazione e acconsente al santo desiderio e collabora
volontariamente alla mozione, quelli che non meritavano nulla prima che la
libertà intervenisse, diventeranno atti meritori. Ma il concorso della grazia
attuale non si limita solo a questo. Così come è stato necessario iniziare l’opera
soprannaturale, sarà anche necessario preservarla. Ora il merito va attribuito
a Dio, più che all’uomo. Se non fosse così, quest’opera non sarebbe veramente
divina e non potrebbe, in senso stretto, meritare il possesso della felicità di
Dio. La grazia attuale continua a lavorare nell’anima anche dopo che ha
corrisposto ai suoi primi impulsi. Prima era preveniente, ora è concomitante.
Prima muoveva, ora aiuta. E anche se si presenta in due forme diverse, è sempre
la stessa. Sarà la stesso anche quando, dopo aver iniziato e mantenuto l’atto
di volontà, collaborerà con essa nella produzione di opere esterne e diventerà grazia
susseguente.
La triplice
azione della grazia attale.
È un dogma di fede che Gesù Cristo, come
nostro Capo e come uomo, è la fonte di tutti i doni soprannaturali. È
altrettanto vero che Egli ce li comunica in piena libertà. E la ragione è
ovvia: ci ha amato liberamente e si è sacrificato liberamente per noi fino alla
morte. È giusto che sia il proprietario dei tesori che ha guadagnato per noi e
che li distribuisca tra noi secondo la sua volontà. Dobbiamo all’amore del
Cuore di Gesù gli impulsi della grazia attuale, i frutti che ci giungono da
essa. È vero che lo Spirito Santo è il principio immediato di questi movimenti,
ma chi può comunicarcelo se non Gesù Cristo? Da dove vengono i suoi doni se non
dalla pienezza di grazia dell’anima del Salvatore? Come anima divina del corpo
della Chiesa, lo Spirito Santo appartiene al Capo di questo grande corpo, senza
la cui volontà non opera nelle sue membra. Così ci dice il Santo Concilio di
Trento: « Cristo Gesù, come il capo che unisce tutte le membra al corpo, e come
la vite che comunica la sua linfa ai tralci, riversa continuamente in tutte le
anime giustificate la virtù che previene, accompagna e completa ogni loro opera
buona. Questa virtù è propria dello Spirito Santo, ma ci viene comunicata
incessantemente attraverso Gesù Cristo, come capo e come uomo. Chi temerebbe
mai che la vita divina del corpo della Chiesa si spenga o si indebolisca a
causa del suo principio? Con un’attività che non conosce né tregua né
diminuzione, il Cuore di Gesù imprime alle membra di quel corpo i movimenti
celesti che gli permettono di compiere divinamente tutte le sue opere e di
accrescere continuamente i suoi meriti. La grazia attuale nell’intelligenza è
come una voce interiore, con la quale il Cuore Divino suggerisce loro
incessantemente buoni pensieri. La grazia attuale nella volontà è come un potente
impulso, con il quale spinge i Cristiani ad avvicinarsi a Dio. Se non si
resiste all’amore divino, si passa sempre di virtù in virtù.
I giusti e i
peccatori e la grazia attuale.
Finora abbiamo esposto l’anima in
possesso della vita soprannaturale e pronta per tutti gli atti divini. La
grazia attuale in quell’anima è l’esercizio ininterrotto dell’unione che la
grazia abituale aveva stabilito tra essa e lo Spirito di Dio, il risultato
dell’influenza che il Capo Divino esercita sui suoi membri. Ma, se i membri
sono separati dal Capo, se il peccato caccia lo Spirito Santo dall’anima che ha
ricevuto la vita da Lui, cosa farà? Come farà gli atti della vita quando ne
sarà privato? Come potrà muoversi quando cadrà preda della più orribile delle
morti? Come può aspettare la grazia vera e propria, privata com’è della grazia
abituale? Ovviamente, non ha alcun diritto di farlo. Ma, oh bontà del Cuore di
Gesù! Abbiate fiducia, aspettate, siate sicuri che la vostra speranza non venga
mai meno, perché Egli promette di fare questo grande miracolo per tutti i
peccatori quando sono ancora vivi. Egli offre loro continuamente la possibilità
di uscire dalla loro tomba, di richiamare di nuovo lo spirito della vita che
hanno gettato via, per ritrovare la salute che hanno perso. Infatti, la grazia
attuale è data sia ai peccatori che ai giusti. Inoltre, spesso non è meno
efficace nel primo caso che nel secondo, anche se gode di condizioni migliori
nel secondo. Perché? Perché nei giusti è il frutto naturale della vita che essi
hanno in sé, e nei peccatori è un mezzo puramente gratuito per recuperare la
vita perduta. Nei primi è opera dell’Ospite divino che abita nei loro cuori, in
questi ultimi è l’impulso infinitamente misericordioso dell’Amore che, gettato
via criminalmente da quel cuore, bussa alla porta per rientrarvi. Nel primo
caso, è ancora l’influenza del Capo Divino sui suoi membri, la cui forza ed il
cui benessere aumentano continuamente. Nel secondo è lo sforzo per ridare
salute e movimento ai membri paralizzati. Nel primo, la grazia vera e propria
dà a tutti gli atti che provoca e che sono liberamente cooperati dall’anima, la
virtù di meritare rigorosamente (de condigno) la vita eterna. Nel
secondo, essendo incapaci i peccatori di merito a causa del peccato, il Sacro
Cuore continua a distruggere il peccato, incoraggiando la contrizione, senza la
quale non può dare agli atti che fa nascere nell’anima se non la virtù di
meritare la grazia per un semplice merito (de congruo). Gesù Cristo si è
impegnato a non rifiutare a nessuno la grazia attuale. Guai a colui che, oltre
ad esserne privato, non abbia potuto avvalersi dei mezzi per ottenerla! Perché
sarebbe stato fuori dalla via della salvezza, perché la disperazione si sarebbe
imperiosamente impadronita di lui, poiché non gli si poteva chiedere la pratica
di alcuna virtù. Ma no, non possiamo pretendere da nessuno cose così orribili
senza andare contro gli insegnamenti della Chiesa. I più grandi peccatori e i
più feroci nemici di Gesù Cristo, hanno a loro disposizione dei mezzi, sia che
si tratti di grazie attuali così chiamate, sia che si tratti di un aiuto dell’ordine
naturale, il cui buon uso porterà loro infallibilmente alla grazia
soprannaturale. Nello stesso tempo in cui riversa costantemente nelle anime dei
giusti la crescente virtù dei suoi meriti, il Cuore di Gesù non cessa di
esercitare, nei cuori più lontani da Lui, l’attrazione salutare che presto li
farà entrare, se non gli resisteranno, nei sentieri della vita e della
felicità. Ad entrambi lancia quelle frecce penetranti, di cui parla il Profeta,
“che fanno cadere ai suoi piedi i popoli sconfitti”.
I tre frutti
della grazia attuale.
« Se tu conoscessi il dono di Dio, … » con quale timore e tremore lavoreresti per la tua salvezza, perché la grazia è da Dio. Senza di essa non si può fare assolutamente nulla. Un uomo senza grazia è un albero piantato sulla terra arida: su di esso non si vedono né foglie, né fiori, né frutti. È una nave sulle acque tranquille e calme, alla quale né il vento né il vapore possono comunicare il movimento: « Senza di Me, senza la Mia grazia – ha detto Nostro Signore – non potete fare nulla. » Che drastico antidoto all’orgoglio, che potente raggio di luce capace di offuscare le illusioni della nostra vanità! Che cosa avete che non abbiate ricevuto? Se l’avete ricevuto, di cosa siete orgogliosi? L’Apostolo San Pietro esclamava: « Che gli altri si scandalizzino, passi; ma che io mi scandalizzi, giammai! Eccomi qui, anche se devo dare la mia vita per te. » (S. Mc. XIV, 29). Quando poi Pietro ha conosciuto la debolezza della natura, quanto diverso è stato il suo linguaggio! Con quale timida riserva ha giurato al suo Maestro di amarlo e di volergli essere fedele! Anche Davide era inebriato dalla considerazione del suo glorioso passato: « Io sono, dice, incrollabile per sempre » (Ps, XXIX, 3). Un semplice sguardo è stato più che sufficiente per buttarlo a terra: « oc idus meus deprædatus est animam meam » (Thr. III, 51). Come si mostrò figlio suo più saggio quando, docile allo Spirito del Signore, proclamò in faccia a tutto il popolo: « So che non posso conservare la continenza se Dio non me la dà, ed è un atto di saggezza sapere che devo ricevere questo dono » (Sapienza VIII, 21). Se è vero che non possiamo fare nulla, come dovrebbe essere umile la nostra virtù naturale? E quando trionfo sulle debolezze della mia natura, come non devo attribuire subito la gloria all’Autore di ogni bene, che incorona in me i suoi doni, a Dio, che ci dà la Vittoria per mezzo di Gesù Cristo? (I Cor. XV, 37). « Se tu conoscessi l’indicibile dono di Dio … », con quale incrollabile fiducia continueresti l’opera della tua salvezza? Perché se è vero che non si può fare nulla senza la grazia, tutto si può fare con essa (Fil. IV, 13). Sei debole? Glorificate Dio nella vostra debolezza, perché ad essa la grazia sarà accomodata e l’opera di Dio risplenderà in voi. Come si è commosso l’Apostolo delle genti quando è sceso dal terzo cielo e ha sentito gli stimoli della carne! Con quali ardenti lacrime supplicava il Signore di liberarlo dalla legge delle sue membra, sempre combattendo contro quella dello spirito! (Rm. VII, 22). Ma cosa gli mancava per trionfare e arricchire la sua corona, visto che aveva la grazia di Gesù Cristo? « … Ti basti la mia grazia … » – « Cosa volete, guerrieri santi e coraggiosi – diceva sant’Agostino – o desiderate voi, generosi soldati di Gesù Cristo, che non ci siano passioni o movimenti disordinati? Questo non dipende da voi. Fate guerra a loro ed aspettate con fiducia la vittoria ed il trionfo. Finché viviamo, combattiamo; mentre combattiamo, siamo in pericolo, eppure siamo vittoriosi per colui che ci ha amato » (Aug. Serm. 43 de Verbis Dom.). Perché chi ci dà la voce del comando, ha la vittoria in mano e ce la mette a disposizione. Fidatevi, ci dice senza sosta: la mia grazia è già uscita mille volte vittoriosa sui vostri nemici. Essa dà energia a chi vacilla, riempie di coraggio coloro che non hanno nulla di proprio (Is. XL, 29). Chi ha fatto vincere ai Santi martiri le furie dei loro aguzzini se non la mia grazia? Cosa ha infiammato nei corpi sottili dei bambini e delle tenere vergini il fervore che li ha resi superiori alle torture più orribili se non la mia grazia? E perché non dovrebbe fare in voi quello che ha fatto già in loro? Abbiate fiducia. – « Se tu conoscessi il dono di Dio … », non ti scoraggeresti mai, non saresti mai così follemente presuntuoso da non confidare, in modo incomprensibile, nella grazia. La grazia vi salverà, ma non vi salverà senza di voi, senza una collaborazione attiva da parte vostra. La salvezza è infatti opera della grazia e dei nostri sforzi: la grazia di Dio è con me (Cor XV, 10). La grazia aiuta, non violenta. È un’amica che ti offre il suo aiuto e il suo sostegno, ma in modo tale che tu possa rifiutare il suo aiuto: « Dio – dice San Bernardo – è l’Autore della salvezza, di cui solo il libero arbitrio è suscettibile. Solo Dio può darla; solo il libero arbitrio può riceverla. È chiaro quindi che ciò che Dio dà da solo non può essere ricevuto senza il consenso di chi lo riceve. Ed è proprio dando il proprio consenso che il libero arbitrio coopera con la grazia operosa della salvezza » (L. de grat. et lib. Arb., c. 2); Ora sant’Agostino avverte: « Se Dio coopera, dobbiamo lavorare ». Sta a noi formare un cuore ed uno spirito nuovi (Ez. XVIII, 31), con l’aiuto della grazia. Questa grazia prenderà parte alla nostra attività in modo tale che farà una sola ed unica azione, un’azione soprannaturale, un’azione che sarà di Dio e dell’uomo. Questo spiega perché Dio, dopo aver fatto dire al profeta Ezechiele che ci avrebbe dato di formare un cuore, aggiungeva: « Vi darò un cuore nuovo e metterò in voi un nuovo spirito » (Ez. XXXVI, 26). Quando siamo fedeli alla grazia, non le corrispondiamo con un libero arbitrio puramente umano, ma soprannaturalizzato dalla grazia. Così grazia e libero arbitrio formano una sola facoltà divinizzata, se così si può dire. « La grazia – come dice San Bernardo – non fa che una parte dell’opera, mentre l’altra parte la fa il libero arbitrio, ma ognuno fa il tutto con un’operazione indivisibile. Il libero arbitrio fa tutto e la grazia fa tutto; ma come tutto si fa nel libero arbitrio, così tutto viene dalla grazia » (S. Bern. De gratia et lib. arb., c. XIV). Quanto è armoniosa e meravigliosa l’armonia della libertà e della grazia in tutte le rivelazioni del Cuore di Gesù a Santa Margherita Maria! Che cosa significano queste lamentele amorose del Cuore Divino sull’ingratitudine degli uomini, la loro freddezza e la scarsa corrispondenza alle prove del suo amore? Perché ci chiede di ascoltare la sua voce, di rivolgerci a Lui e di attingere alla sua fonte le grazie di cui abbiamo bisogno, se non perché Dio ci tratta con grande rispetto, e perché non vuole diminuire minimamente la nostra libertà, un ricco dono ricevuto dalle sue mani? Ma cosa significano quelle grandi e magnifiche promesse del Cuore amorevolissimo di Gesù, quelle abbondanti benedizioni concesse agli individui, alle famiglie, alle società; la promessa della perseveranza finale; le parole così spesso ripetute: « Io trionferò nonostante la testardaggine e la malvagità dei miei nemici », se non che la grazia è trionfante e sovrana? Oh, sì, noi, fedeli servitori del Cuore di Gesù, dobbiamo cantare l’inno di fiducia e di ringraziamento, perché possiamo fare tutto ciò che possiamo in Colui che ci conforta. Perché il Cuore di Gesù è con noi e con Lui possiamo sfidare tutto. E se il Cuore di Gesù è con noi, chi oserà andare contro di noi, chi potrà incuterci timore? Rivolgiamoci a quel Cuore adorabile, fonte di vita soprannaturale, all’Autore ed al dispensatore della grazia, e diciamogli con amore: O Cuore benefico di Gesù! Concedimi questa grazia così grande e necessaria per la mia salvezza, affinché possa superare la mia natura perversa. In mezzo a tentazioni e tribolazioni: « … non temo nulla se la tua grazia è con me ». Essa è la mia forza, il mio consiglio e il mio aiuto. Che cosa sono senza di essa se non un palo asciutto ed un tronco inutile? Perciò, Signore, che la vostra grazia sia sempre con me e che io sia sempre pronto a fare il bene (Imit. l. III, c. LV).
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE TITULAIRE
DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence
sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME TROISIÈME (III)
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo
146
Alleluja.
[1] Laudate Dominum, quoniam bonus
est psalmus; Deo nostro sit jucunda, decoraque laudatio.
[3] qui sanat contritos corde, et alligat contritiones eorum;
[4] qui numerat multitudinem stellarum, et omnibus eis nomina vocat.
[5] Magnus Dominus noster, et magna virtus ejus; et sapientiæ ejus non est numerus.
[6] Suscipiens mansuetos Dominus; humilians autem peccatores usque ad terram.
[7] Præcinite Domino in confessione, psallite Deo nostro in cithara.
[8] Qui operit caelum nubibus, et parat terræ pluviam; qui producit in montibus fœnum, et herbam servituti hominum;
[9] qui dat jumentis escam ipsorum, et pullis corvorum invocantibus eum.
[10] Non in fortitudine equi voluntatem habebit, nec in tibiis viri beneplacitum erit ei.
[11] Beneplacitum est Domino super timentes eum, et in eis qui sperant super misericordia ejus.
[Vecchio Testamento
Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI
Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO CXLVI.
Esortazione a lodare Dio, perchè benefico, sapiente, potente, provvido, giusto e in scicordioso.
Alleluja. Lodate Dio.
1.
Lodate il Signore, perché buona cosa è il salmo: diasi al nostro Dio laude
gradevole e conveniente.
2.
Il Signore, che edifica Gerusalemme, radunerà i figliuoli d’Israele dispersi.
3.
Egli è che risana i contriti di cuore, e fascia le loro piaghe.
4.
Egli, che conta la moltitudine delle stelle, e tutte le chiama pel loro nome.
5. Grande il Signore Dio nostro, e grande la potenza di lui; e la sua sapienza non ha misura.
6.
Il Signore è difensore de’ mansueti, ma umilia fino a terra i peccatori.
7.
Cantate inni al Signore con rendimento di grazie; celebrate le lodi di lui
sulla cetera.
8.
Egli, che il cielo ricopre di nuvole, e alla terra prepara la pioggia.
Egli
che produce su’ monti il fieno, e gli erbaggi per servigio dell’uomo.
9.
Egli, che dà il loro cibo a’ giumenti, e a’ teneri corvi che lo invocano.
10.
Ei non fa conto della forza del cavallo, né che l’uomo stia ben in gambe,
11.
Il Signore si compiace di que’ che lo temono, e di que’ che sperano nella sua
misericordia.
Sommario analitico
Questo salmo, che si crede molto
probabilmente aver rapporto con il ritorno dalla cattività, quando furono
ricostruite le mura di Gerusalemme, può dividersi in tal sorta:
I. – Il salmista invita tutti gli uomini a
lodare Dio, perché la loro lode è:
1° utile.
2° gradita a Dio.
3° conveniente e degna della sua
grandezza (1)
II. – Egli espone la materia di questa lode ed
enumera i motivi che ne fanno un dovere:
1° la bontà e i benefici di Dio nei
riguardi del suo popolo prigioniero: Egli ha ricostruito Gerusalemme, radunato
i suoi resti dispersi, guariti i malati e fasciate le loro piaghe (2, 3);
2° la potenza e la saggezza che fa
brillare nei cieli (4, 5);
3° la sua misericordia e la sua bontà
nei riguardi degli umili, la sua giustizia severa nei riguardi dei peccatori
(6);
4° la sua provvidenza, a) che prepara le nubi per inviare alla
terra la pioggia necessaria alla sua fertilità (7, 8); b)che produce l’erba necessaria agli animali ed il nutrimento che
ognuno di essi reclama; c) che
protegge gli uomini che, invece di confidare i mezzi umani, mettono tutta la
loro speranza in Lui (10, 11).
Spiegazioni e considerazioni
I. — 1.
ff.
1.
–
Più in alto, nel salmo CXLIV, il Profeta ha proclamato che il Signore era grande e degno di lodi infinite. Qui, è questo
medesimo atto di lode che egli dichiara essere buono, è il canto dei salmi che egli
ci mostra essere come una sorgente inesauribile di grazie. Esso distacca
l’anima dalla terra, le dà delle ali che abbracciano, la tiene ad incomparabili
altezze (S. Chrys.). – E come la nostra lode sarà gradita al nostro Dio?
Se noi lo lodiamo con la santità della nostra vita. Ascoltate la Scrittura,
alfine di riconoscere che questo tipo di lode gli sarà gradita. In altra luogo
è detto: « Non è bella la lode sulla bocca del peccatore. » (Eccl.
XV, 9). Se dunque la lode non è bella nella bocca del peccatore, essa
non è accetta a Dio; perché ciò che è gradito è ciò che è bello. Volete dunque
una lode che sia gradita a Dio? Non ponete contrasto tra i vostri santi cantici
ed i vostri cattivi costumi. « Che la nostra lode sia gradita al nostro Dio. »
Cosa ha detto con ciò il profeta? Voi che lodate Dio, vivete santamente. La
lode degli empi, offende Dio. Egli fa attenzione più alla vostra vita, che al
vostro canto. Sicuramente, voi desiderate essere in pace con Colui che voi
lodate; come dunque potreste cercare di essere in pace con Lui, quando siete in
contraddizione con voi stessi? Come – mi direte – io sono in contraddizione con
me stesso? La vostra lode risuona in una maniera e la vostra vita in un’altra.
« Che la nostra lode sia gradita al nostro Dio. » In effetti, la lode può
essere piacevole per un uomo che ascolta la lode di una lusinga fatta con voce
dolce, con parole armoniose e finemente preparate; ma … la lode sia gradita al
nostro Dio, le cui orecchie sono aperte non alla bocca, ma al cuore, non al
linguaggio, ma alla vita di colui che loda. (S. Agost.).
II. — 2-11.
ff. 2-3. – Noi abbiamo
gran soggetto nel lodare il Signore, dacché Egli ha costruito la Gerusalemme
della terra, che è per noi la Chiesa, ed ancora più la Gerusalemme del cielo,
che è il possesso di Se stesso. È scritto che Gesù, doveva morire non solo per
la sua nazione, ma anche per raccogliere i figli di Dio che erano dispersi (Giov.
XI, 52). E siccome la Gerusalemme terrestre era figura della Chiesa, e
la Chiesa è figura della Gerusalemme celeste, il Profeta ha potuto avere in
vista l’edificio eterno di questa santa dimora che riunirà tutti gli eletti. –
« Egli guarisce coloro che hanno il cuore contrito e fascia le loro piaghe. »
Qual sono gli strumenti che fasciano queste ferrite? Dio li fascerà come fanno
i medici. Talvolta, in effetti, quando la frattura è stata mal ridotta o le
ossa mal riposte, i medici, per rimediare, rompono di nuovo l’arto e fanno una
nuova frattura, essendo la prima guarigione difettosa. Così, dice la Scrittura:
« Le vie de Signore sono rette, ma l’uomo dal cuore tortuoso vi trova scandalo.
» (Osea,
XIV, 10). Cosa vuol dire: « L’uomo dal cuore tortuoso vi trova
scandalo? » [i malvagi vi inciampano]. L’uomo dal cuore tortuoso è colui il cui
cuore non è retto. Egli crede che tutte le parole del Signore siano tortuose;
egli crede che tutto ciò che Dio ha fatto non sia retto; tutti i giudizi di Dio
gli dispiacciono, e principalmente quelli dai quali è colpito; egli si siede
per discutere e per provare quanto ciò che fa Dio sia cattivo, perché Dio non
agisce come egli vorrebbe. Per l’uomo dal cuore tortuoso, non vale l’allinearsi
a Dio, egli vorrebbe ancora far piegare Dio alla sua volontà. Se voi siete
retto, sentirete che Io lo sono. Stendete su di un suolo perfettamente unito un
pezzo di legno tortuoso, esso non può applicarsi, barcolla, ondeggia da tutti i
lati, cosa che non proviene dalla ineguaglianza del suolo, ma dalla tortuosità
del legno. È così che la Scrittura ha detto: « Quanto è buono il Dio di Israele
per coloro che hanno il cuore retto! » (Ps. LXXII, 1). Ebbene, come può
raddrizzarsi un cuore tortuoso? Esso non è solamente tortuoso, esso è duro; se
è duro e tortuoso, allora sia rotto, sia rotto per essere raddrizzato. Voi non
potete raddrizzare da voi stessi il vostro cuore; rompetelo, affinché Dio lo
raddrizzi. Ma come fratturarlo? Come sbriciolarlo? Confessando, castigando i
vostri peccati! Significano altra cosa i colpi con cui battete il vostro petto,
se non che supponiate che siano state le vostre ossa che hanno peccato? Ma noi
indichiamo con questo che vogliamo rompere il nostro cuore, affinché sia
raddrizzato dal Signore (S. Agost.). – « Egli
guarisce, dunque, i cuori spezzati, » in coloro il cui cuore è contrito, e la
guarigione di questi cuori sarà perfetta quando il nostro corpo sarà ricreato,
come Dio ci ha promesso. Attualmente ed aspettando, cosa fa il medico? Affinché
possiate arrivare ad una perfetta guarigione, tiene le vostre lesioni bendate,
finché la frattura che ha ricomposto, sia consolidata. Quali sono queste bende?
I Sacramenti riservati a questa vita. le bende che il medico pone sulle vostre
lesioni sono dunque dei Sacramenti riservati a questa vita, che fanno la nostra
consolazione, e tutte le parole che vi indirizziamo, queste parole che
echeggiano nelle vostre orecchie e che comunicano, in una parola, tutto ciò che
si fa in seno alla Chiesa nel tempo: ecco gli apparati delle nostre fasce. E
così come il medico, a guarigione completata, toglie l’apparecchio, ugualmente,
nella Gerusalemme celeste, quando saremo divenuti simili agli Angeli, pensate
forse che riceveremo ancora ciò che riceviamo quaggiù? Avremo bisogno che ci si
legga il Vangelo perché si conservi la nostra fede? Avremo bisogno di un
prelato che ci imponga le mani? Tutti questi Sacramenti sono gli apparecchi
applicati alle nostre lesioni; quando la nostra guarigione sarà perfetta, essi
saranno tolti; ma non vi saremmo arrivati se le nostre ferite non fossero state
fasciate. « Egli guarisce, dunque, coloro il cui cuore è rotto ed Egli fascia
le loro ferite. » (S. Agost.) – Gli uomini guariscono talvolta le lesioni del
corpo, Dio ha comunicato a questo riguardo una parte della sua potenza; ma
questo Maestro supremo si è riservato la guarigione delle anime; Lui solo può
calmare i loro dolori, ed è ciò che gli uomini sembrano ignorare (Berthier).
ff. 4, 5. – Ciò che precede,
riguarda la benevolenza di Dio, la sua liberalità, il suo amore per gli uomini;
noi vi vediamo che è come la funzione della sua provvidenza il soccorrere
coloro che sono nell’infelicità. Ciò che segue riguarda la sua potenza. Come se
agisse su di una moltitudine dispersa, il Profeta sceglie a proposito questo
esempio, essendo la sua intenzione il mostrare che Dio poteva riunire senza
pena il suo popolo disperso, Egli che solleva e consola gli afflitti, che conta
esattamente l’innumerevole moltitudine delle stelle. Egli potrà dunque
ricondurci e radunarci tutti, perché possiamo raggiungere quel numero secondo
quanto Egli ci ha promesso, e chiama tutti con il proprio nome. Nessuno di essi
perirà, Egli li ricondurrà tutti fino all’ultimo, come quando si fa un appello
nominale. (S. Chrys.). – Quando l’occhio dell’uomo toccato raggiunge
queste profondità e scruta questi abissi, ne ridiscende ben presto vinto. Solo
il Dio che ha creato queste immensità le può abbracciare con il suo sguardo,
solo Lui conosce e nomina i migliaia di stelle e pianeti che la sua forza ha
creato e che la sua potenza sostiene. « Quanto è grande; la sua potenza è
infinita, la sua saggezza senza limiti. » – Dio conta la moltitudine delle
stelle e le chiama con il loro nome; è dunque per Dio una così gran cosa il
contare e il nominare gli astri che popolano il firmamento, Egli che calcola il
numero di capelli della nostra testa? Ma le stelle di cui parla il Salmista,
son le stelle della Chiesa che ci consolano nella notte di questo mondo. Dio si
compiace nel contarle, perché Egli conta tutti gli eletti che regneranno con
Lui nel cielo. (S. Agost.).
ff.
6,
7. – « Il Signore prenderà sotto la sua protezione
coloro che sono umili, dolci e docili. » Non vi ostinate contro i misteri di
Dio; siate docile, perché Egli vi prende sotto la sua protezione. Se al
contrario gli resistete, ascoltate ciò che segue: « Ma Egli abbassa i peccatori
fino a terra. » (Ibid.); (S. Aug.). – Non è senza ragione che
il Profeta pone l’elevazione degli umili e l’umiliazione dei peccatori, che
sono sempre degli orgogliosi, dopo l’omaggio che ha reso alla grandezza di Dio.
Egli si era elevato, per così dire, fino al trono di Dio, era stato colpito
dalla sua grandezza, dalla sua potenza, dalla sua saggezza infinita; gli
sembrava che tutto dovesse sparire in
presenza di una così alta maestà. Tuttavia, elevato com’è, lo vede proteggere
ed elevare alla gloria del cielo coloro che sono dolci ed umili di cuore, mentre
schiaccia sotto i piedi della sua maestà ed umilia fino a terra coloro che sono
tanto temerari per volere, in qualche modo, disputare a Dio i diritti della sua
suprema grandezza.
ff. 8, 9. – L’autore sacro
non ha voluto che un insensato potesse dire: Cosa mi può fare ciò che accade
nelle regioni celesti? Egli si affretta dunque ad aggiungere ciò che spetta
all’interesse degli uomini, esponendo la ragione per la quale Dio copre il
cielo di nubi. È per te, sembra dirmi, è per darti la pioggia, perché la pioggia
è buona per te, arricchisce i campi. Notate ancora la sua saggezza: egli ci
parla qui dei beni comuni, di quelli che Egli dà a tutti, e la cui abbondanza
deve, certo chiudere la bocca dell’empio. Ora, se Egli si dimostra così
magnifico verso gli infedeli, cosa non farà per voi, suo popolo particolare? –
Quali sono queste nubi, dice S. Agostino, se non le figure ed i misteri che
sono racchiusi nei nostri libri santi? Perché voi non vedete più il cielo, voi
tremate; ma la pioggia che viene dalle nubi fertilizza le vostre campagne, e la
serenità che ne succede vi rallegra. Se non prendessimo occasione dall’oscurità
delle Scritture, noi non vi diremmo tutte queste cose che rallegrano le vostre
anime. Esse sono la pioggia che vi feconda! Dio ha voluto che le parole dei
Profeti fossero oscure, perché i dottori e gli interpreti, possano esercitare
sul cuore degli uomini una influenza salutare e comunicar loro, per
l’intermediario delle nubi, l’abbondanza della gioia spirituale. (S.
Agost.). – « Egli produce il fieno sulle montagne. » Notate una volta
di più l’estensione della sua provvidenza: non è soltanto nelle terre
coltivate, ma ancor sulle montagne che Egli dispone una tale abbondanza per gli
animali destinati al servizio dell’uomo, e non solo agli animali domestici,
questi utili servitori degli uomini, ma pure alle bestie selvatiche cui è dato
il nutrimento e nei luoghi stessi ove meno ci si aspetterebbe di incontrare ciò
che li nutre (S. Chrys.). – Il corvo, animale dei più voraci, che non
possiede granai né provvigioni, senza seminare e senza lavorare, trova di che
nutrirsi; Dio gli fornisce ciò che serve a lui ed ai suoi piccoli che
l’invocano. Dio ascolta le grida dei corvi, benché rudi e sgradevoli, e li
nutre come gli usignoli e gli altri uccelli la cui voce è più melodiosa e
dolce. (BOSSUET, Médit.). – Il corvo è l’immagine del peccatore: il
nero del suo piumaggio e la sua predilezione per la carne corrotta,
giustificano ampiamente questo simbolo. Il corvo, che avendo lasciato l’arca,
non vi rientra più, ci mostra quanto sia raro che il peccatore indurito ritorni
dai suoi delitti … Ora, se Dio si degna di nutrire il corvo che l’offende,
quale non sarà la sua sollecitudine per i piccoli dei corvi che lo invocano,
quando domanderanno il loro nutrimento? Nel pensiero dei Padri, San Agostino,
San Girolamo, San Gregorio, San Ilario, i piccoli dei corvi sono i figli del
popolo giudeo e della gentilità convertita alla fede cristiana. Il Giudei, per
la loro ingratitudine e la loro colpevole infedeltà, i gentili, per la loro
ignoranza del vero Dio, il loro culto idolatrico ed il loro gusto cruento per i
sacrifici impuri, meritano di essere paragonati ai corvi; ma i figli dei Gentili
e dei Giudei hanno ascoltato la parola divina ed invocando il Signore, hanno
ricevuto l’abbondante nutrimento delle grazie del Vangelo (Mgr.
DE LA BOUILLERIE, Symb. II,
445.).- I nostri padre sono stati simili ai corvi, e noi, noi siamo i
piccoli dei corvi ed invochiamo Dio. È ai piccoli dei corvi che l’Apostolo San
Pietro ha detto: « Non è con argento o con oro corruttibile che siete stati
riscattati dai vani costumi di cui i vostri padri vi avevano trasmesso la
tradizione. » (I Pietr. I, 8). In effetti, i piccoli dei corvi, che si
vedevano adorare gli idoli dai loro padri, hanno cambiato vita e si sono
convertiti a Dio; ed ora voi ascoltate il piccolo del corvo … io invoco il
Signore. (S. Agost.). – L’universo tutto intero è, anche nell’ordine
naturale, un immenso banchetto eucaristico ove ciascuno riceve la sua parte di
vita, sotto una forma più o meno elementare, con delle condizioni di più o memo
grande perfezione; ma tutto viene da Dio, tutto proviene dalla sua infinita
liberalità, il nutrimento degli Angeli, quello degli uomini nell’ordine della
natura e della grazia, e non c’è, fino alla vita ruminante dell’animale, che
una effusione di magnificenza divina. Si, per riprendere la parola del Profeta,
il piccolo del corvo che grida dal fondo del suo nido, domanda a Dio la sua
parte di vita, perché Dio è la vita universale, e tutte le piccole vite
individuali, particolari, che pullulano nell’immensità, sono una derivazione,
una imitazione di questa vita sovrana, ed è così, continua Ugo di San Vittore,
che il bene sovrano si spande dappertutto, costituisce ogni specie di vita, e
riporta ogni vita particolare alla vita sovrana ed universale. (Mgr.
LANDRIOT, Euchar., 282.)
– Sotto la figura di questi animali che Dio nutre col fieno che ha creato, Sant’Agostino
riconosce questi uomini apostolici, questi predicatori del Vangelo ai quali
l’Apostolo San Paolo applica egli stesso questa parola: « Voi non metterete freno
alla bocca del bue che trita il grano. » (Rom. V, 8). Ora, in qual senso è
vero che la terra produce il fieno che gli servirà da alimento? « Il Signore ha
stabilito Egli stesso che coloro che annunziano il Vangelo vivranno di Vangelo.
» (Luc.
X, 8). Egli ha inviato gli Apostoli e ha detto loro: « mangiate ciò che
vi sarà posto davanti, perché l’operaio è degno della sua mercede. » (I
Cor. IX, 11). Una ricompensa è dunque dovuta loro. Ma cosa danno essi e
cosa ricevono? Essi danno i beni spirituali e ricevono i beni temporali; essi danno
l’oro, ne ricevono il fieno: perché ogni carne è simile al fieno, ed è giusto
che il superfluo dei beni della carne diventi il fieno dei servitori di Dio,
secondo la prescrizione dell’Apostolo. (S. Agost.). – « È lui che produce il
fieno sulle montagne. » Se non volesse parlare del fieno che copre le nostre
praterie, sarebbe più vero dire che Egli fa crescere più abbondantemente nelle
vallate che sulle montagne; perché là ove la pioggia cade più abbondante,
l’erba dei campi cresce anche più lussureggiante. È dalle montagne che le acque
scorrono nelle vallate per renderle più fertili. Queste Scritture che noi
leggiamo, che noi spieghiamo, che abbiamo tra le mani, sono chiamate, nel
linguaggio dello Spirito-Santo, le montagne
sante; queste montagne, sono i santi Profeti. Queste montagne producono
il grano, producono il fieno. Se siete uomo, riceverete da esse del grano, se
siete come l’animale senza ragione, non riceverete che fieno. « Voi salverete
Signore, gli uomini e le bestie. » (Ps. XXXV). Voi siete salvato in
ragione della vostra fede: se siete uomini riceverete nella Scrittura
l’intelligenza spirituale; se siete ancora privi di ragione, non avete che l’intelligenza
giudaica della lettera. (S. Girol.).
ff.
10,
11. – Dio
condanna qui con due esempi coloro che si appoggiano ai mezzi umani; questi due
esempi sono il vigore dei cavalli e l’agilità dei piedi, che rappresentano a
loro volta le forze della cavalleria e della fanteria. – Si prepara un cavallo
per il giorno del combattimento, ma è il Signore che salva. (Prov.
XXI, 21). – Vi sono due tipi di errore nei riguardi della salvezza che
ci si deve attendere da Dio: gli uni dimorano nell’ozio, come se Dio dovesse
salvarli senza di loro; è a questi che bisogna dire di preparare un cavallo per
il giorno del combattimento; gli altri fanno molte buone opere e credono che
siano i loro sforzi che li salveranno. Bisogna dir loro che è il Signore che
salva, che non sono né le armi, né la forza dei cavalli, né la velocità degli
uomini che fanno riportare la vittoria, ma la sola volontà di Dio: « Vegliate
dunque nell’acquisizione di meriti; ma siate persuasi nello stesso tempo, che è
la grazia che ve li dona. » (S. Bern.; Duguet). – Se voi avete
queste due cose, dice il Profeta, il timore e la speranza secondo Dio,
otterrete la sua benevolenza; e essendovi acquisita questa benevolenza, voi la
riporterete su tutti coloro che ripongono la loro speranza nelle loro forze
piuttosto che nella misericordia divina (S. Chrys.).
Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (15)
[Ed. chez le Directeur du Messager du Coeur de
Jesus, Tolosa 1891]
TERZA PARTE
MEZZI
PARTICOLARI DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE
Capitolo XIV
IL CUORE DI GESÙ E LA GIUSTIFICAZIONE
Come il Cuore di
Gesù comunica la vita divina.
Il Cuore di Gesù è la vita delle nostre
anime non solo attraverso i Sacramenti, ma anche, e più immediatamente,
attraverso la giustificazione, il merito e la grazia attuale. Ci introduce
nella famiglia dei figli di Dio, attraverso la giustificazione. Attraverso il
merito, egli conserva per l’eternità i frutti dei suoi atti esercitati con il
suo aiuto. E, per la grazia attuale, dispone le anime alla giustificazione e dà
loro un mezzo facile per aumentare i loro meriti. – Cominciamo con la
giustificazione del peccatore. Questo non è, come Lutero immaginava, un artificio
della misericordia divina, che copre con un velo le nostre colpe e, senza
distruggerle, fa come se non si vedessero. Essa non solo è l’intera distruzione
e l’annientamento del passato, ma si tratta, giustamente, di una nuova
creazione, di una rigenerazione divina. Infatti, l’uomo colpevole, anche se
fino a quel momento fosse stato il più colpevole di tutti i dannati
dell’inferno, si vede improvvisamente liberato dai suoi crimini e rivestito di
una santità divina. Cessa di essere schiavo di satana e diventa figlio di Dio.
I suoi debiti sono perdonati ed egli acquisisce il diritto di possedere per
sempre l’eredità, alla quale nemmeno gli Angeli stessi potrebbero aspirare.
Sale dal sepolcro senza il marciume del peccato, e non riceve una vita umana o angelica,
ma una vita veramente divina. Abbiamo già indicato vari mezzi di
giustificazione, ed abbiamo visto brillare la bontà del Cuore di Gesù per la
facilità con cui possiamo disporne. Cosa c’è di più facile da fare del
Battesimo? Cosa c’è di più accessibile per un peccatore che manifestare i
propri peccati al confessore? Non c’è malattia spirituale che non possa
scomparire con rimedi così semplici. Tuttavia, la sua istituzione non soddisfa
le aspirazioni misericordiose del Cuore di Gesù. Egli voleva che la
giustificazione fosse ancora più facile; che le sue infinite ricchezze fossero
più accessibili a tutti i peccatori. Anche se ci sono molti medici delle anime,
può darsi che un peccatore non ne abbia a disposizione, nel momento in cui
viene chiamato a comparire davanti al Giudice giusto. Quindi, in caso di
necessità, non solo il Sacerdote e il Cristiano, ma qualsiasi uomo o donna,
anche un non credente, può amministrare il Sacramento del Battesimo, che avrà,
pur nelle sue mani impure, tutta la sua efficacia, purché si abbia l’intenzione
di fare ciò che fa la Chiesa: anche se è sulla strada per l’inferno, si possono
aprire le porte del cielo a colui che venga battezzato. Ma potrebbe accadere
che un pagano, desideroso di ottenere la grazia divina, non riesca a convincere
quelli gli sta intorno ad amministrargli il Battesimo. Cosa fare allora?
Ebbene, il Cuore di Gesù non può permettere che gli venga chiusa la via della
salvezza. Rifiuterà un’anima che odia il suo mal incedere, ma che non ha
nessuno che lo faccia uscire dal suo stato?
Sacramento
universale.
No, il buon Maestro non lo farà. Egli
metterà a disposizione di tutti gli infiniti beni guadagnati da tutti. Per
questo, esorcizzerà un mezzo alla portata di tutti. Sarà una sorta di
sacramento universale, con un’efficacia più infallibile degli altri sacramenti
e il cui ministro sarà il Cuore di Gesù. Ci riferiamo alla grazia della carità.
Dal momento in cui un peccatore, sia esso cattolico, eretico o infedele, compie
un atto di vera carità, tutti i peccati sono perdonati, è giustificato e
rigenerato, è fatto figlio di Dio ed erede al cielo. Infatti, Gesù Cristo non
ha posto alcuna restrizione alle magnifiche promesse fatte alla carità:
“Se qualcuno mi ama, il Padre mio lo ama, e noi andremo da lui e faremo la
nostra casa con lui. È la carità, la
vita di Dio comunicata all’uomo: “Perché Dio è carità, e chi dimora nella
carità dimora in Dio, e Dio in lui. La carità è la via divina che la vite
celeste, Gesù Cristo, comunica ai tralci uniti ad essa. Non appena questa
unione si realizza, le anime, prima sterili nelle opere buone e più feconde nei
frutti della morte, cominciano a portare frutti di vita eterna. Allora non
possono essere tagliati come rami inutili e gettati nel fuoco: “Per coloro
che sono in Cristo Gesù non c’è bisogno di temere la dannazione eterna – dice
San Paolo – né la vita né la morte, né i principati, né le virtù, né le cose
presenti, né le cose future, né qualsiasi altra creatura potrà infrangere i
voti d’amore con cui la carità di Gesù Cristo unisce l’anima a Dio”.
Quell’anima, prima macchiata dalla colpa originaria e dalle innumerevoli colpe
presenti, viene trasformata, rigenerata, divinizzata, dal raggio della carità
gettato da Gesù nel suo cuore e da esso liberamente accolto. Non appena
Maddalena, la peccatrice, entrò nella casa dove alloggiava il Salvatore, fu
liberata dai suoi peccati perché, mossa dall’influenza vivificante del Cuore di
Gesù, il suo amore si accese nel suo cuore.
Condizioni perché
la carità operi per tali meraviglie.
Naturalmente, perché la carità possa
fare tali meraviglie e supplire a tutti i Sacramenti, deve soddisfare
determinate condizioni. Infatti, tutte queste condizioni possono essere
riassunte in una sola: perché la carità dia vita alle anime, basta che sia
vera.
1) Questo è ciò che i teologi intendono,
niente di meno, dichiarando che la contrizione perfetta è sufficiente a
giustificare il peccatore, senza bisogno del Sacramento. In cosa consiste
allora la contrizione perfetta? Ciò che è necessario e sufficiente è che il
pentimento nasca dalla vera carità, che il peccato sia detestato non solo
perché è una macchia sull’anima, una privazione delle gloriose prerogative, e
degna dell’inferno, ma soprattutto perché oltraggia la bontà di Dio, ferisce il
Cuore di Gesù, e corrisponde ai suoi benefici con il più nero dei tradimenti. –
La contrizione basata su tali ragioni, e dotata dell’efficacia che accompagna
il vero amore, giustifica il peccatore più colpevole e perdona le sue
abominevoli iniquità. Questi privilegi della carità non si piegano
completamente al bene del peccatore? Sarà più difficile per lui detestare i
suoi crimini a causa della ferita inflitta a Dio, che per il male che riceve da
essi? I benefici del Padre celeste, l’amore di Gesù Cristo, le pene della sua
passione, il sangue versato sulla croce, la misericordia infinita del suo Cuore
sempre ardente d’amore per chi lo offende, non sono forse i più palpabili e
commoventi motivi di contrizione? Collegando il potere di rigenerare le anime
al pentimento su tali basi, Gesù Cristo ha guardato ai diritti del suo amore,
ma non ha aumentato il peso imposto alla nostra debolezza. Al contrario, non
aveva altro che i nostri interessi davanti ai suoi occhi quando ci ha costretti
a riparare le perdite causate dal peccato nella nostra anima.
2°) Non voleva mettere un giogo più
pesante sulle nostre spalle, chiedendo che il peccatore, giustificato dalla
sola virtù della carità, fosse seriamente deciso a ricevere il Battesimo, se
fosse pagano, o ad andare a confessarsi, se fosse già battezzato. Perché la
grazia interiore non poteva fare a meno dei riti esteriori. Questi, necessari
per unire i membri della famiglia divina, sono il complemento indispensabile
dei legami interiori che li uniscono a Dio. L’uomo, composto da un’anima
spirituale e da un corpo sensibile, ha bisogno di questi due tipi di mezzi e
deve accettare con gratitudine l’obbligo di utilizzarli. Sia per il pagano che
è determinato ad essere fratello di Gesù Cristo, sia per il peccatore che odia
i suoi crimini, la ricezione dei sacramenti del Battesimo e della Penitenza è
una consolazione più che un peso. Chi rifiutasse un così dolce compenso alle
eterne torture dell’inferno, dimostrerebbe che il suo amore per Dio è solo
nella parole.
3°) C’è una condizione che renderà più
difficile la giustificazione del peccatore. Perché la grazia di Dio torni
all’anima quando viene spogliata, la carità deve essere soprannaturale e
veramente divina: « La carità di Dio – dice San Paolo – è stata riversata nei
nostri cuori dallo Spirito Santo che ci è stato donato. Solo chi ha ricevuto,
con lo Spirito Santo, l’amore che viene da Lui, può gloriarsi di essere amico
di Dio. » Ma come può il peccatore che è schiavo di satana e il miscredente che
è privato della grazia battesimale raggiungere questo stato felice? La carità
soprannaturale non è la santità stessa? Se bastasse amare Dio con un amore
naturale per essere giustificati, tutti coloro che usano le loro facoltà
naturali potrebbero soddisfare questa condizione di salvezza. Ma questo non può
essere sufficiente. Per godere dell’amicizia di Dio è necessario esercitare una
virtù superiore alle forze della natura più perfette e ad una natura degradata.
Non è impossibile la salvezza di chi può solo averla in questo modo? – Per
evitare questa difficoltà non si deve ricorrere a sistemi di alcun tipo. Nella
bontà del Cuore di Gesù abbiamo una soluzione più soddisfacente. Non si può
negare che la carità soprannaturale sia necessaria affinché l’anima peccatrice
riconquisti la vita soprannaturale. Ma il Cuore di Gesù la mette alla portata
di coloro che ne sono privati dal peccato. Se non li dispone all’improvviso ad
amare il Bene sovrano sopra ogni cosa, suscita in loro il desiderio di
quell’amore, di chiederlo, di avvicinarsi ad esso. Così, se queste anime
corrispondono al raggio divino che strappa via le tenebre in cui giacciono
avvolte, aumenterà gradualmente la chiarezza fino a condurle allo splendido
mezzogiorno della giustificazione: « Gesù Cristo non rinnega la sua grazia a
coloro che fanno tutto ciò che è in loro potere ». – La bontà del Cuore Divino
esclude l’ipotesi che ci possa essere un uomo privato della giustizia
soprannaturale e della felicità del cielo, una volta che egli lavora con le sue
facoltà naturali per ottenere l’amore di Dio sopra ogni cosa. Per il Salvatore,
infinitamente più desideroso del bene degli uomini che della grazia divina,
previene i cuori sinceri ed offre loro il suo aiuto soprannaturale non appena
li vede pronti a dirigere le loro facoltà naturali verso Dio. Dio non può
abbandonare alle forze della creatura una volontà convenientemente diretta al
raggiungimento del suo amore. – Non c’è
posto in Gesù Cristo, che ha fatto di tutto per condurre coloro che sono
fuggiti da Lui sulla retta via della santità soprannaturale, per scacciare
dalla vera via della salute quelle anime sincere che mettono in gioco tutte le
loro facoltà. – Alla bontà infinita del Cuore di Gesù dobbiamo la condizione
dell’uomo privato della grazia, e desideroso di recuperarla, di essere
incomparabilmente migliore che se fosse sufficiente l’esercizio delle sue
facoltà naturali. Perché, oltre a queste, il peccatore pentito ha a sua
disposizione la fonte onnipotente della grazia, che è la potenza stessa di Dio.
Tutti gli sforzi che avrebbero potuto fare, se lasciati alle loro forze, sono
ancora nelle loro mani. Nell’ordine attuale, però, non agiscono da soli: lo
Spirito di Gesù Cristo veglia sulla porta dei loro cuori, impedendo loro con le
sue ispirazioni, assistendo a tutti i loro sforzi, soprannaturalizzando tutti i
pii movimenti delle loro facoltà naturali.
Capitolo XV.
IL CUORE DI GESÙ E IL MERITO
La
giustificazione e il merito.
Grande è la gioia del Cristiano che,
desideroso di recuperare la vita di Dio distrutta dal peccato, può, con un
semplice movimento del suo cuore, realizzare un bene così grande. Immensa è la
bontà del Cuore di Gesù, che per restituire ai più colpevoli la sua amicizia,
non pretende da essi nient’altro che un atto di amorevole pentimento. Ma
l’infinita generosità del Cuore Divino non si accontenta di questo: vuole che la
vita che vivono cresca fino alla sua perfezione in cielo; vuole santificarli,
una volta che li abbia giustificati. Ora, questa grande opera di santificazione
non è che un abbozzo: la perfezione viene a poco a poco dal merito fino al suo
coronamento nella gloria celeste. Se è vero, come abbiamo dimostrato, che il
Cuore di Gesù è il principio di tutta la vita e della santità soprannaturale,
la sua influenza sull’anima giusta si manifesterà più per i meriti con cui la
arricchisce, che per la prima grazia che le ha dato. Per essere convinti che
sia così, basterà considerare prima la natura del merito e poi i mezzi per
raggiungerlo. Che cos’è il merito? È il capitale del Cristiano e il frutto del
lavoro passato, la garanzia e la misura della sua felicità futura e della sua
fortuna presente. Si dice che un uomo sia ricco prima che la sua fortuna
produca degli interessi? Certo che no! Perché, anche se questa lo rende
sollevato per un po’, lo lascia tuttavia meno ricco di un uomo a cui i suoi
antenati hanno lasciato in eredità grandi capitali, che tali restano pur in un
momento in cui il loro reddito sia meno considerevole. – Bene, allora, per
essere sicuri che si faccia un giudizio sui beni spirituali, è utile fare una
distinzione simile. Immaginate un uomo che viva con pietà; che ha appena
intrapreso il cammino della perfezione. Immaginatene un altro più anziano che
ha servito Dio per molto tempo. L’età e la debolezza umana sembrano aver
raffreddato qualcosa del suo primo fervore. Naturalmente preferiremmo il fervore
del primo alla negligenza del secondo. Ma oseremmo giustamente considerare il
secondo come meno ricco di beni spirituali, meno santo rispetto al primo? No,
perché anche se il secondo ne ha attualmente di meno, conserva tutti i tesori
acquisiti nel corso della sua lunga carriera. Egli possiede attualmente minor
reddito del suo giovane discepolo, ma può contare su un maggior capitale
accumulato. Ha una grazia attuale relativamente minore, ma è molto più avanti
per ciò che concerne la grazia abituale ed il merito. In pratica è più ricco,
in quanto la ricchezza, sia nell’ordine spirituale che materiale, è costituita
dal capitale.
Origine del
merito cristiano.
Qual è l’origine del capitale di cui
abbiamo appena considerato il valore? È facile da dedurre: il capitale è il
frutto del lavoro passato, messo in buone mani in vista del benessere futuro.
Se l’operaio sperpera tutta la sua ricchezza mano a mano che la guadagna, vivrà
più o meno comodamente, ma non diventerà mai ricco, perché non potrà mai
formarsi un capitale. Se, invece, ogni mese o ogni anno risparmia una parte del
suo guadagno, la sua fortuna aumenterà e dopo qualche anno avrà una ricchezza
che prima non aveva. Ci sono anche lavoratori prudenti e lungimiranti che, non
volendo essere privati del frutto più prezioso del loro lavoro, concordano con
i loro padroni di prendere solo una parte del loro salario e di tenere il resto
accantonato, formando così un capitale che li allevierà nelle difficoltà della
vecchiaia. Ecco come Dio è con noi. Gli piace anche pagarci in contanti, con le
sue consolazioni e i suoi beni temporali, per i servizi che gli rendiamo, ma
conserva per noi la parte migliore del frutto del nostro lavoro: la nostra
eterna fortuna. Per l’eternità godremo del compenso che Egli non ci ha dato nel
tempo. Invece di una gioia passeggera, riceviamo un certo ed innegabile diritto
alla felicità di Dio, perché è proprio in questo che consiste il merito. – Una
tale disposizione non è un vantaggio? Cos’è il tempo in confronto all’eternità?
Quando il buon Maestro si rifiuta di pagarci in contanti per i nostri servizi
con consolazioni temporali e preferisce convertirli in un capitale sotto forma
di eterno merito, si obbliga per la sua bontà, a darci per questi prestiti,
fatti liberamente, non l’interesse del cinque per cento, non del cento per
cento, ma l’infinito per una nullità. Non sarebbe un ingrato ed uno sciocco chi
non approfittasse di questa capitalizzazione delle proprie opere? Perché, come
abbiamo appena visto, la ricchezza è costituita dal capitale, e il capitale è
il risultato della prudenza e dell’energia con cui si è rinunciato al godimento
immediato del frutto del proprio lavoro. Un egoismo ben inteso è sufficiente
per consigliare l’abnegazione in questa vita, all’uomo ansioso di diventare
ricco un giorno. Come dovrebbe essere facile l’abnegazione per il Cristiano!
L’aumento di
capitale.
Il lavoratore prudente e parsimonioso
non aspetta di godere dei frutti del suo lavoro finché il suo capitale non
produca interessi. Usa infatti questi anche per incrementare il suo lavoro, per
estendere la propria azione e per rendere il guadagni ancor più consistente.
Con questo capitale il contadino fertilizza i suoi campi perché producano
colture più abbondanti. L’industriale e il mercante possono aumentare, in
proporzione ancora maggiori, i prodotti del loro lavoro e delle loro
speculazioni, e guadagnare di più senza dover moltiplicare il proprio lavoro.
Frutti simili danno il merito al Cristiano. Il valore degli atti, che l’anima
in grazia compie, non si misura solo dalla loro perfezione attuale, ma anche
dal grado di carità abituale con cui sono animati, cioè dal grado di merito. È
una dottrina comunemente accettata dai teologi, che l’anima arricchita con
maggiori meriti guadagna di più, compiendo gli stessi atti, di quella che ha
meno grazia santificante. Lo stesso servizio reso a un principe da un guerriero
che si è coperto già di gloria combattendo per la sua causa, ha più valore ai
suoi occhi che se l’avesse fatto l’ultimo dei suoi sudditi. Ci sono tre tesori
inseparabili nell’ordine soprannaturale: il merito, la grazia santificante e la
carità abituale. Ne consegue che ogni aumento di merito porta necessariamente
con sé un aumento proporzionale della carità. Ma la carità è un fuoco che
brucia continuamente e tende sempre a comunicare il suo calore. La carità è la
grande leva divina e la molla che solleva le anime al cielo. Man mano che
l’anima cresce nel merito, diventa più facilmente in grado di elevarsi al di
sopra di se stessa; è mossa a compiere atti di tutte le virtù ed ha maggiori
risorse a sua disposizione per il raggiungimento di nuovi meriti.
Il merito è
conservato nel Cuore di Gesù.
Come si vede, la somiglianza tra il
merito e il capitale materiale è così grande che non si può desiderare di più.
Allorquando si tratta di ricchezze materiali, è facile vedere come si
conservano i frutti del lavoro: il grano che non viene consumato rimane nei
granai. L’oro e l’argento, risparmiato dai ricchi, rimane nelle casse. Ma che
dire degli atti puramente spirituali? Se si trattasse di meriti puramente
umani, la difficoltà non potrebbe essere risolta: di tali atti non rimarrebbe
nulla. Ma gli atti di cui parliamo non sono puramente umani, perché la volontà
è stata mossa dallo Spirito di Gesù Cristo. Erano infatti atti di Gesù Cristo,
più che del Cristiano, ed il cuore del Cristiano ne era il secondo e immediato
principio; il Cuore di Gesù ne è stata la prima e principale causa. Perciò, nel
Cuore di Gesù hanno trovato l’immutabile permanenza che non avrebbe mai potuto
dar loro la virtù dell’uomo. Perché? Perché il potere dell’uomo passa come
un’ombra, ma non quello del Cuore di
Gesù. L’uomo vive tutto nel tempo, Gesù Cristo nell’eternità. Egli è il Signore
delle cose durature e tutto ciò che è fondato su di Lui partecipa alla sua
durata e alla sua immutabilità. – In quel Cuore Divino sono raccolti e
conservati tutti gli atti compiuti sotto la Sua influenza, tutti i meriti
acquisiti con la Sua grazia. Da Lui ricevono un sigillo di eternità che l’uomo
non avrebbe potuto imprimere su di loro. Questi atti sono veramente di vita
eterna. Poiché in essa non può esserci nulla di passeggero, il Cristiano si
riferisce, per ciascuno di essi, all’eternità. Lungi dal renderli partecipi
dell’irrimediabile decadimento della loro natura, egli assume per loro
l’immortalità di Gesù Cristo. Infatti, in Gesù Cristo il Cristiano vive e
opera; attraverso di Lui merita; la sua vita si dispiega nelle sue membra
quando raggiunge nuovi gradi di santità. Per questo san Paolo usa due
espressioni senza distinzione per farci capire la natura del merito. A volte
dice che cresciamo in Gesù Cristo, altre volte che il Divin Salvatore cresce in
noi. Quest’ultima espressione, per quanto paradossale, è corretta, perché la
vita soprannaturale del Cristiano è la vita di Gesù Cristo. Come può il
progresso di questa vita non essere attribuito a Gesù Cristo? Non si può negare
che Dio sia immutabile e incapace di accrescimento. Ma se si compiace di
comunicare la sua divinità alle creature mortali e mutevoli, acquisirà in loro
il potere di crescere e svilupparsi che non ha in sé. Gli dei creati, che sono
i Cristiani, potranno perfezionare sempre più la loro divinità, avvicinandosi
giorno dopo giorno alla divinità immutabile. Il Cuore di Gesù darà loro il
potere e li aiuterà a metterlo in pratica. Unito sostanzialmente com’è alla
natura divina, comunicherà a coloro che si uniscono a Lui le influenze
vivificanti; li stimolerà a camminare di virtù in virtù; li motiverà ad
esercitare nuovi atti meritori. Egli stesso compirà in essi quegli atti con la
sua grazia, preparandosi così a coronare, per l’eternità, i propri doni
coronando i loro meriti.
Come si ottiene
il merito?
Il merito, il dolce regalo fatto dal
Cuore di Gesù alle anime a Lui unite, ci ha manifestato l’infinita bontà del
Sacro Cuore. Tuttavia, lo apprezzeremo ancora di più se guardiamo alle leggi
che regolano il raggiungimento e la conservazione di quel tesoro celeste. In
essa scopriremo misteri d’amore infinitamente consolanti, purtroppo quasi
completamente ignorati. Cercheremo di scoprire le sue ricchezze. Prima di
tutto, come si ottiene il merito? Il merito è il frutto eterno di tutti gli
atti, anche i più insignificanti e momentanei, compiuti da un Cristiano in
stato di grazia con intento soprannaturale. Lo stato di grazia rende i
Cristiani membri viventi di Gesù Cristo. Conferisce loro la facoltà di compiere
opere veramente divine e degne, in tutto il rigore della parola, di una
ricompensa divina. Cosa è necessario per far funzionare questa facoltà? Due
cose: che dal Cuore di Gesù venga un impulso che spinga il Cristiano ad agire
divinamente e che corrisponda al moto divino. Ora, la prima condizione non
manca mai; perché come il nostro cuore materiale non manca mai di inviare a
tutte le membra del corpo una giusta quantità di sangue, così il Cuore di Gesù
riversa incessantemente sulle anime giuste la virtù vivificante che permette
loro di compiere le opere divine. Sentiamo come dice il Concilio di Trento: «
Come il capo fa sentire costantemente il suo afflusso nelle membra, e il tronco
della vite comunica continuamente la sua linfa ai tralci, così Cristo Gesù
riversa in tutte le anime giustificate la virtù che previene, accompagna e
segue ogni opera buona. » Che cosa manca alle azioni del Cristiano per
rivestirle di dignità divina e di un infinito merito? Si lasci muovere
dall’impulso che riceve e compia tutte le sue opere alla presenza di Dio. – È
un dogma di fede che, quando siamo nello stato di grazia, non c’è un momento
del giorno o della notte in cui non possiamo compiere opere divine degne della
ricompensa divina. Si, in ogni momento, possiamo aggiungere nuove ricchezze al
tesoro che possediamo, acquisire un immenso grado di gloria, due volte
infinito: prima per sua natura, perché consisterà in un più perfetto possesso
di Dio, e in secondo luogo, per la sua durata, che non avrà fine. Per questo
non bisogna muoversi da un luogo all’altro, né fare cose straordinarie, né
grandi sforzi di intelligenza o di volontà. Basta che facciamo le nostre opere
alla presenza di Dio. La rettitudine dell’intenzione ha il potere di
divinizzare le azioni, per quanto vili possano essere. Il povero contadino
nelle sue occupazioni agricole, il servo che spazza la casa del suo padrone,
fintanto che ha nei suoi compiti l’intenzione di piacere a Dio, danno alle sue
opere una dignità che i capolavori dell’arte e le meraviglie del genio fatte
con intenti umani non hanno. – Non è necessario che l’intenzione che trasforma
e divinizza le nostre opere sia attuale, perché ci costa molto rinnovare in
ogni momento la risoluzione di lavorare solo per Dio. La nostra debolezza è
tale che lo sforzo necessario per farlo potrebbe impedirci di adempiere ai
nostri obblighi. Né Dio ci chiede di farlo. Vuole che passiamo ogni momento ad
occuparci della nostra salvezza; ma esige anche che adempiamo, con tutta la
nostra attenzione, ai doveri che il nostro Stato ci impone. Come possiamo
allora conciliare le due cose? Un modo semplice è quello che ci offre la bontà
del Cuore di Gesù. Determiniamo determinati momenti per rinnovare la nostra
unione con Lui e per rettificare l’intenzione. Almeno dovremmo farlo all’inizio
della giornata e, se possibile, più volte durante il giorno. Questo sarà
sufficiente per estendere la virtù di queste intenzioni a tutte le nostre opere
e per comunicare loro un merito infinito. Come si potrà mai ringraziare
abbastanza il Cuore di Gesù per averci reso così facile l’acquisizione delle
sue eterne ricchezze?
Cos’è che toglie
il merito al Cristiano?
Quanto durerà il merito così facilmente
raggiungibile? Durerà finché non ci spoglieremo volontariamente di esso
attraverso il peccato mortale. Se è eterno, non c’è potere che ce lo possa
togliere in cielo, o all’inferno, o in Dio stesso. I meriti acquisiti fanno parte
della ricchezza del Corpo mistico di Gesù Cristo. Distruggerli significherebbe
impoverire il Salvatore. Eppure quel potere che né Dio in cielo, né i demoni
all’inferno hanno, ha ognuno di noi, perché possiamo farci nemici di Dio, se lo
desideriamo. Ora, non possiamo essere nemici di Dio e conservare ancora il
diritto di possedere Dio? Evidentemente, perché rompendo con Dio a causa del
peccato mortale, poniamo termine al merito della nostra anima. Notiamo una cosa
consolante: solo il peccato mortale ha il potere disastroso di spogliarci delle
nostre ricchezze spirituali. Il veniale, per quanto grave, ci impedisce solo di
aggiungere nuovi meriti con l’abbondanza con cui li avremmo ottenuti se la
nostra anima fosse stata più pura. Ma non diminuisce quelli già acquisiti.
Perché, come abbiamo già detto, essi sono conservati nel Cuore di Gesù come un
deposito inviolabile, finché il peccato mortale non rompe i legami che ci
uniscono a Lui. Sbaglieremmo a interpretare con un certo rigore l’adagio degli
scrittori asceti: « Non andare avanti è andare indietro ». Una frase vera, se
applicata appropriatamente alle attuali disposizioni di fervore, generosità e
raccoglimento. Quindi, se non vogliamo rendere difficile l’acquisizione di
nuovi meriti ed esporci al rischio sempre maggiore di cadere nel peccato,
dobbiamo essere sempre più forti, per evitare che la pigrizia prenda il
sopravvento. Ma se si tratta delle solite disposizioni, di santificare la
grazia e il merito, non è vero che non andare avanti sia come andare indietro.
Non si può tornare indietro senza una caduta. Non solo, non si può tornare
indietro se l’anima è unita per grazia al Cuore di Gesù. Infatti, anche il
Cristiano più negligente non si lascerà sfuggire una settimana senza fare
qualche atto soprannaturale e senza aggiungere nuovi meriti. Potrebbe accadere
che, per un atto meritorio, commetta migliaia di colpe veniali. Ma che
differenza tra le conseguenze di questi tipi di atti! Il demerito delle seconde
ha un effetto temporaneo, mentre il frutto del primo è eterno. Supponiamo che
queste colpe mantengano il Cristiano in Purgatorio fino al giorno del giudizio.
Certo costui sarebbe degno di ogni commiserazione se, a causa della sua
negligenza, dovesse essere sottoposto a tali terribili punizioni. Ma, alla fine,
queste saranno finite e non potranno essere paragonate alla gloria eterna di
ogni atto soprannaturale compiuto.
Come recuperare
i meriti perduti.
Ci insegna la teologia che, quando il
peccatore riacquista l’amicizia di Dio, sia attraverso un atto di perfetta
contrizione, che attraverso la ricezione del Sacramento della Penitenza,
riacquista tutti i meriti che possedeva prima di prima della sua caduta. Egli
era rovinato e improvvisamente torna in possesso delle sue antiche ricchezze.
Cosa dico? Più ricco ancor di prima, poiché al merito delle buone azioni
compiute prima del peccato, si aggiunge quello del Sacramento appena ricevuto o
del perfetto atto di contrizione appena compiuto. – La teologia ci spiega come
sia possibile questa meravigliosa resurrezione dei meriti distrutti dal
peccato, poiché la loro distruzione non è stata completa. Più che un
annichilimento, è stata una sospensione. Quando il Cristiano, separandosi dal
suo Capo, non riesce a raccogliere i frutti delle sue opere, ne rimane in possesso
Gesù Cristo, tenendoli nel suo Cuore, come le acque dell’oceano sono fermate
dalle dighe. Una volta che l’argine venga rimosso, cioè quando il peccato sia
distrutto dalla penitenza, la comunicazione tra il cuore del Cristiano e il
Cuore di Gesù si ripristina e, subito, i meriti persi dal cuore del colpevole,
ma conservati dal Cuore del Maestro, si comunicheranno senza esitazioni
dall’uno all’altro: « Vi restituirò – dice il Signore – i frutti dei vostri
campi, che gli insetti divoratori vi hanno tolto ». Questa promessa si adempie
quando un peccatore si converte alla penitenza, perché nello stesso momento i
suoi peccati vengono distrutti e i suoi meriti gli vengono restituiti.
Come conservare
i meriti.
Per il Cristiano militante il merito è
un diritto inalienabile alla felicità e alla gloria di cui gode il Figlio di
Dio in cielo. Quanto non è esaltata la bontà del divino donatore dal fatto che
possiamo così facilmente raggiungere questo prezioso dono! Un’azione
insignificante, soprannaturalizzata dall’unione presente o abituale con il
Cuore di Gesù, è sufficiente per aumentare la nostra fortuna presente e la
felicità eterna. Non abbiamo motivo di esclamare con San Paolo: « grazie a Dio
per il dono ineffabile della sua bontà? » Forse qualcuno penserà che, così come
possiamo acquisire facilmente questo tesoro, possiamo anche perderlo; e che
dobbiamo fare grandi sforzi se vogliamo conservarlo. Supponiamo che sia così,
possiamo lamentarcene? Niente affatto, perché vale la pena di custodire un
tesoro eterno facendo qualche sforzo e vigilando. Ma se viene tenuto per sé, in
qualche modo non può essere perso? Ora, se ricordiamo ciò che è stato detto
prima, potrebbe essere proprio così. Ma non abbiamo forse detto che il merito è
un tesoro affidato dal Cristiano a Gesù Cristo? E San Paolo: « So nelle cui
mani ho messo il mio tesoro, e sono convinto che mi basta preservarlo da tutti
i pericoli. » Questo tesoro non è custodito solo nel cuore dell’uomo, mutevole
e caduco, ma anche nel Cuore di Gesù che, con la sua unione alla divinità,
partecipa all’immutabilità di Dio. E come potrebbe non essere così, se è il
frutto delle opere che Gesù, Capo della Chiesa, ha fatto nei suoi membri ed è
proprietà comune dei membri e del Capo? E il Capo Divino, per caso, è soggetto
alle influenze che tendono incessantemente ad abbassarci e ad impoverirci? No,
non avete nulla da temere da per queste ricchezze. In breve, possiamo dire:
1°) Che la mera tiepidezza, per quanto
lamentabile, non sminuisce minimamente i nostri meriti acquisiti. Guadagniamo
meno ma teniamo quello che avevamo. Il capitale divino produce meno, ma non è
diminuito.
2°) Gli stessi peccati veniali non
sminuiscono il merito. Producono nell’anima effetti più funesti di quelli della
tiepidezza, soprattutto se si convertono in abito. Devono certo suscitare in
noi orrore perché sono offese alla bontà divina, macchiano la nostra anima e ci
rendono passibili di pene più o meno gravi, ma, lo ripetiamo, non possono
impoverirci!
3°) Ma il peccato mortale non
annichilerà irrimediabilmente il merito? No, rispondiamo con i teologi, il
peccato mortale, non seguito dalla eterna riprovazione, non annichilisce
irrimediabilmente il merito. Ebbene, allora cosa fa? Gli impedisce di percepire
i frutti e di cingersi della corona, di cui era legittimo detentore. Nemico di
Dio per il peccato e schiavo di satana, egli non può, mentre si trova in un
tale triste stato, aspirare al possesso della felicità di Dio, alla
partecipazione della regalità di Gesù Cristo. Ma se Dio prolunga la sua vita,
se sfugge all’orrendo pericolo in cui il peccato mortale lo ha posto, e se
recupera la grazia, avrà di nuovo tutti i suoi meriti. Li recupera ancor più
uniti alla grazia del Sacramento ricevuto o per l’atto di amorevole pentimento
che lo ha riconciliato con il suo Dio.
Conclusione consolante.
Possiamo giustamente trarre da queste verità una conclusione tanto consolante quanto la dottrina da cui deriva: è impossibile per un’anima, unita dalla carità al Cuore di Gesù, tornare indietro. San Paolo dice che per tali anime non c’è condanna. Come abbiamo detto, non vi è alcuna caducità o perdita di diritti. Nell’ordine delle disposizioni abituali, un’anima in stato di grazia non può fare un passo indietro e difficilmente può passare giorni senza compiere qualche atto soprannaturale ed avanzare sulla via della santità. Ora, la gloria che avremo in cielo si misura solo con le disposizioni abituali. Il grado di grazia abituale, che l’anima raggiunge attraverso i suoi meriti, è proprio il grado della sua unione con Dio, che servirà come regola al Giudice sovrano per indicare ad ogni eletto il rango e il trono che debba occupare in cielo. – Se diamo uno sguardo alla vita passata troveremo motivi di dolore e di vergogna. Forse ci vergogniamo di noi stessi quando pensiamo agli anni in cui abbiamo corso con coraggio sulla via del servizio divino. Forse i nostri volti saranno coperti di rossore, vedendoci meno ferventi dopo tante nuove luci, tante grazie interiori, tanti Sacramenti ricevuti. Ma ricordiamoci che, anche se abbiamo perso molto, la nostra situazione, se siamo in grazia di Dio, è molto migliore delle ore più feconde della nostra giovinezza. Resta solo il fatto che, gettando via ogni scoraggiamento, ci scrolliamo di dosso la pigrizia e ravviviamo le nostre disposizioni attuali, che con l’aiuto del Cuore di Gesù potremo trasformare in quelle più ferventi. Vogliamolo e tutto è guadagnato.
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE TITULAIRE
DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence
sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME TROISIÈME (III)
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 145
Alleluja,
Aggæi et Zachariæ.
[1] Lauda, anima mea, Dominum. Laudabo Dominum in vita mea; psallam Deo meo quamdiu fuero. Nolite confidere in principibus,
[2] in filiis hominum, in quibus non est salus.
[3] Exibit spiritus ejus, et revertetur in terram suam; in illa die peribunt omnes cogitationes eorum.
[4] Beatus cujus Deus Jacob adjutor ejus, spes ejus in Domino Deo ipsius:
[5] qui fecit cælum et terram, mare, et omnia quæ in eis sunt.
[6] Qui custodit veritatem in sæculum; facit judicium injuriam patientibus; dat escam esurientibus. Dominus solvit compeditos,
[8] Dominus custodit advenas; pupillum et viduam suscipiet, et vias peccatorum disperdet.
[9] Regnabit Dominus in sæcula; Deus tuus, Sion, in generationem et generationem.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata
Tradotto in lingua italiana da
mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO CXLV.
Fu aggiunto nei codici greci e latini il titolo di Aggeo
e. Zaccaria, perché questi due profeti animavano gli schiavi ebrei a
ritornare in patria ariedificare
Gerusalemme. Questo e i due Salmi Che seguono preannunciano la Gerusalemme
celeste, e invitano a imprenderne la via, ponendo la fiducianon nei principi, ma in Dio solo.
Alleluja. Di Aggeo e di Zacharia.
1.
Loda, o anima mia, i Signore; loderò il Signore mentre avrò vita; canterò inni
al mio Dio, finché io sarò,
2.
Non ponete vostra fidanza ne’ grandi, ne’ figliuoli degli uomini, ne’ quali non
è salute.
3. Il loro spirito se n’andrà, ed ei ritorneranno nella loro terra; allora andranno in fumo tutti
i lor pensamenti.
4.
Beato chi ha per suo aiuto il Dio di Giacobbe, ha sua speranza nel Signore Dio
suo,
il
quale fe’ il cielo e la terra, il mare e tutte le cose che sono in essi.
5.
Egli, die mantiene la verità in eterno; fa giustizia a quei che soffrono
ingiuria; dà cibo a’ famelici.
6.
Il Signore scioglie gli incatenati; il Signore illumina i ciechi;
7.
Il Signore rialza i caduti; il Signore ama i giusti.
8.
Il Signore è custode de’ forestieri; difenderà il pupillo e la vedova, e
sperderà i disegni de’ peccatori.
9.
Regnerà pe’ secoli il Signore; il tuo Dio o Sionne, per tutte le generazioni.
Sommario analitico
Dopo una sorta di dialogo tra il
salmista e la sua anima, per esercitarla a lodare Dio durante tutta la sua vita
(1, 2):
I. – egli allontana la fiducia che si ripone
nei grandi della terra, e ne dà come motivo:
1° La loro debolezza e la loro impotenza
(3);
2° La brevità della loro vita, con la
quale periscono tutti i pensieri, tutte le speranze
II. – mettere tutta la propria fiducia in Dio,
e motiva questa esortazione con gli attributi di Dio:
1° la sua onnipotenza (5, 6);
2° la sua fedeltà nel compimento delle
sue promesse;
3° la sua misericordia, che viene in
soccorso di tutte le nostre miserie, di tutti i nostri bisogni (7-9);
4° le perpetuità di questi divini
attributi (10).
Spiegazioni e Considerazioni
I. – 1-4
ff. 1, 2 – Le delizie del nostro spirito sono i divini
cantici ove le stesse pene non sono senza gioia. Per il fedele esiliato in
questo mondo, non c’è ricordo più dolce di quello della città fuori dalla quale
si trova in esilio; ma il ricordo della patria, nell’esilio, non è senza dolore
e senza sospiri. Tuttavia, la speranza certa del ritorno consola e sostiene
coloro che l’esilio rattrista (S. Agost.). – Chi dunque pronunzia
queste parole: « Anima mia, lodate il Signore ? » Non è la carne che lo dice.
Il corpo, fosse pure angelico, è inferiore all’anima; esso non può dare alcun
consiglio all’anima che le è superiore. Infelice l’anima che attende un
consiglio del corpo. La carne, quando è sottomessa come deve, è la serva
dell’anima; questa la governa, la carne è governata; l’anima comanda, la carne
obbedisce; quando dunque la carne potrebbe dare questo consiglio all’anima? Chi
è allora dunque che dice: « Anima mia, loda il Signore? » Noi non troviamo
nell’uomo nulla più della carne e dell’anima; l’uomo è tutto intero in questo:
anima e carne. Ma è forse l’anima che parla a se stessa, che si darebbe in
qualche modo un ordine, che si esorterebbe ad eccitarsi? In effetti le turbe
che l’agitano la tengono come fluttuante in una certa parte di sé; ma l’altra
parte, che si chiama spirito ragionevole, e che è la sede dei saggi pensieri, l’anima
già unita a Dio e sospirante verso di Lui, si accorge che la parte inferiore è
turbata da queste agitazioni che causa il mondo, e la voluttà dei beni
terrestri la precipita verso le cose esteriori e la allontana da Dio che era in
essa; allora essa stessa si ricorda dalle cose dell’esterno, verso le cose
dell’interno, dalle cose inferiori verso le cose superiori, e si dice. « Anima
mia, loda il Signore. » Cosa vi piace del mondo? Cosa volete lodarvi? Cosa
volete amarvi? Da qualunque lato dirigiate i sensi del vostro corpo, il cielo
vi si presenta; ciò che amate sulla terra è terrestre, tutto ciò che amate nel
cielo è corporale. Dappertutto, tuttavia voi trovate qualcosa da amare,
dappertutto ritrovate qualcosa da lodare; a che punto allora bisogna lodare
Colui che ha fatto le cose che voi lodate? (S. Agost.). – Ma come,
noi non lodiamo il Signore? Non gli cantiamo un inno di lode ogni giorno? E
tutti i giorni, finché lo possiamo, la nostra bocca non fa sentire ed il nostro
cuore non genera le lodi del Signore? E cosa noi lodiamo? Ciò che lodiamo è
grande, ma la lode che noi diamo è piccola. Quando colui che loda raggiunge
l’eccellenza di colui che è lodato? Un uomo si rivolge a Dio, indirizza a Dio
dei lunghi cantici; ma sovente, mentre muove le labbra cantando, il suo
pensiero vola verso non so qual desiderio. Il nostro spirito era dunque là, in
qualche modo per lodare Dio, ma la nostra anima fluttuava qua e là in mezzo a
differenti desideri o a preoccupazioni tumultuose. Il nostro spirito vedendo
dall’alto l’anima che vaga qua e là, volendola distogliere dalle inquietudini
che l’affliggono, le parla e le dice: « Anima mia, loda il Signore. » Perché vi
occupate di altre cose diverse da Dio? Perché vi lasciate sorprendere dalla
cura degli interessi terrestri e mortali? Restate con me e lodate il Signore (S.
Agost.). – L’anima risponde che essa loderà Dio nel corso di tutta la
sua vita, e che la sua occupazione sarà quella di lodare il Signore, di
celebrare le sue grandezze finché esisterà, condannando così un gran numero di
Cristiani che differiscono fino alla morte il santo esercizio della preghiera
del cuore. – Orbene, secondo Sant’Agostino, l’anima risponde che non loderà
veramente Dio se non quando vivrà la vera vita; nell’attesa essa si contenta di
gemere e di pregare, piuttosto che cantare e lodare Dio con questa lode che non
conviene che ai beati.
ff. 3, 4. – « Badate di non
riporre la vostra fiducia nei prìncipi. » In effetti, l’anima umana, per non so
quale debolezza, dispera quaggiù del Signore, dato che è turbata, e vuol
mettere la sua fiducia nell’uomo. Se si dice a qualcuno oppresso
dall’afflizione: c’è un tale uomo potente che potrebbe liberarvi; subito
vedrete che sorride, che si rallegra, che solleva la testa. Se al contrario gli
si dice: Dio vi libererà, … il suo ardore si spegne e la disperazione lo gela.
Vi si promette un protettore mortale e vi date alla gioia; vi si promette un Protettore
immortale, e vi abbandonate alla tristezza; vi si promette un liberatore che ha
bisogno di essere liberato come voi, e siete trascinati dalla gioia, come se
doveste ricevere un grande soccorso; vi si promette un Liberatore che non ha
bisogno a sua volta di liberazione, ed eccovi disperati, come se questa
promessa fosse solo favola. Infelici coloro che pensano così! Essi sono ben
lontani da Dio; la loro vita non è che una morte più miserabile. Rivolgetevi
invece a Colui che vi fatto, cominciate a desiderarlo, cominciate a cercarlo ed
a conoscerlo. Egli non trascurerà la sua opera, se la sua opera non lo
trascurerà. Volgetevi a Colui che vi ha detto: « Io loderò il Signore nella mia
vita. io canterò dei salmi al mio Dio per tutto il tempo che vivrò. » (S.
Agost.). – « Non mettete la vostra fiducia nei principi. » Oggi essi
esistono, domani non sono più. Oggi sono preceduti da numerose armate, la sera
essi sono stesi nella tomba. Dopo un gran dispiegamento di potenza, dopo una
gloria così eclatante, senza alcun intervallo, tutto cade in un momento: essi
sono colpiti dalla mano del Cristo… « La sua anima uscirà dal suo corpo, ed
egli tornerà nella terra dalla quale è stato tratto. » Non è lo spirito che
tornerà nella terra, perché lo spirito non viene dalla terra, ma lo spirito,
l’anima, uscirà dal corpo, ed il corpo dell’uomo tornerà nella terra (S.
Girol.) – Tre ragioni vi sono che devono allontanarci dal porre la
nostra fiducia nei grandi della terra: questi sono degli uomini che non hanno
la forza di salvare se stessi; essi sono mortali e la loro vita è di breve
durata. « In questo giorno periranno tutti i loro pensieri; » Vale a dire, non
solo tutte le loro promesse vanno in fumo, quando colui che le ha fatte, e che
solo può compierle, è sparito egli stesso, ma ancora, l’autore di queste
promesse sarà egli stesso sterminato (S. Chrys.). La Provvidenza amabile
di un Dio – dice S. Crisostomo – sembra essere, al nostro sguardo, supplita
dalla protezione degli uomini, soprattutto da quella dei principi, che noi
consideriamo gli dei della terra, o da quella dei loro ministri e favoriti, che
ci sembrano gli onnipotenti nel mondo. Ora, questi sono giustamente coloro sui
quali la Scrittura ci ha avvertito di non stabilire la nostra speranza, a meno
che non vogliamo costruire su un fondamento rovinoso; ed infine, l’esperienza
ci rende sensibile questo punto di fede, che cioè questi, il cui favore, è ostinatamente
ricercato ed inutilmente ottenuto, per una giusta punizione di Dio, sono coloro
che diventano tutti i giorni più miserabili. Tanti uomini ingannati,
abbandonati, sacrificati, sono di conseguenza dei testimoni di questa grande verità:
che nei figli degli uomini – pure secondo il mondo – non c’è salvezza. (BOURD., s. la Prov.) – « In questo giorno periranno tutti i loro
pensieri; » si, quelli che avremo lasciato prendere al mondo, la cui figura
passa e svanisce; perché, ancorché il nostro spirito per natura viva sempre,
abbandona alla morte tutto ciò che consacra alle cose mortali; di modo tale che
i nostri pensieri, che dovrebbero essere incorruttibili dal canto del loro
principio, diventano passeggeri dal lato del loro oggetto. (BOSSUET,Or. fun. d’Hen. D’Angl.) – « In questo giorno periranno tutti i loro
pensieri. » Verrà quest’ora fatale che troncherà tutte le speranze ingannevoli
con una irrevocabile sentenza; la vita ci mancherà, come un amico falso in
mezzo alle nostre imprese. Là, tutti i nostri bei disegni cadranno in terra; là
svaniranno tutti i nostri pensieri. I ricchi della terra, che durante questa
vita, fondando sull’inganno di un sogno piacevole, immaginano di avere dei
grandi beni, si sveglieranno tutto ad un tratto in questo gran giorno
dell’eternità, saranno stupiti nel trovarsi a mani vuote. La morte, questa
fatale nemica, porterà con essa tutti i nostri piaceri e tutti i nostri onori
nell’oblio e nel nulla. (BOSSUET, Panêg. de S. Bern.). – Che saranno allora
tutte queste convenzioni mobili e passeggere, tutte queste opinioni di un
giorno, tutti questi interessi della veglia e tutti questi interessi
dell’indomani, rispetto all’ordine, al rapporto immutabile delle cose, rispetto
all’eternità, a questa regola originale ed immortale, rispetto a Voi, mio Dio!
Ed alla vostra parola sempre vivente e sempre efficace che ha fondato i cieli?
Cosa saranno quando sarà sparito il tempo, ed alle nostre lunghe e penose
tenebre succederà la chiarezza di un giorno eterno? Allora, cosa diventerà il
mondo? Cosa sarà dell’opinione? Quali vestigia resteranno dei nostri folli
costumi e delle nostre frivole usanze? Ahimè! Avanza questo giorno terribile,
si avvicina questo regno spaventoso della ragione e della giustizia, ove non si
vedrà che ciò che è, ove tutti i veli cadranno, non si scambierà il nome per la
cosa, le apparenze per la realtà, i pretesti per le ragioni, ed ove tutti i
pensieri dell’uomo periscono, dice il Profeta, non resterà più che il pensiero
di Dio e la sua santa verità. (DE BOULOGNE, sur l’Opinion). – Dove andranno
allora queste opere dello spirito e dell’arte che si getta all’ammirazione
della folla? Io voglio che esse durino quanto i secoli, sempre brillanti e
belle, e sempre applaudite; ma i secoli pure moriranno, ed ogni gloria umana
perirà quando, al limite dell’ultimo giorno dell’umanità, come un conquistatore
colpito all’apice della sua vittoria, spirerà morente; e senza attendere la
fine dei secoli, in un piccolo numero di anni, in un piccolo numero di giorni,
quale piacere il successo della sua opera potrà procure all’artigiano che sarà
nella bara e che i vermi roderanno? (L. V. Rom. et Lor. II, 30.)
II. 5-10
ff. 5, 6. – Dopo averci
allontanato dai soccorsi umani, il Re-Profeta ci mostra un porto sicuro, una
torre inespugnabile e ci consiglia di rifugiarci in essa. Nessun consiglio più
salutare: allontanarsi dalle cose deboli per condurci a quelle che nulla potrà
distruggere; distruggere delle illusioni per stabilire la verità; respingere
ciò che inganna per presentare ciò che serve. « Felice colui cui il Dio di
Giacobbe è suo sostegno. » Qual
effusione di luce ed amore! La beatitudine racchiude qui tutti i beni, essa è
l’oggetto di una speranza indistruttibile. Dopo aver proclamato beato colui che
mette speranza nel Signore, egli espone la potenza di un tale ausilio; da un
lato c’è un uomo, dall’altro c’è un Dio;
quello va sparendo, questi resta sempre, e non si limita a parlarci di Dio,
egli ci dà le sue opere a garanzia delle nostre speranze (S. Chrys.). –
ff. 7-10. – Se per sé ha la
durata e la potenza, non avrebbe la volontà? È ciò che molti insensati osano
dire. Ma vedete come il Profeta dissipi questo sospetto. Appena ha detto: « Dio
ha fatto il cielo e la terra e tutto ciò che essi richiudono, » subito
aggiunge: « … che conserva la verità per tutti i secoli e rende giustizia agli
oppressi ». Vale a dire: egli appartiene a Dio, è la sua opera per eccellenza,
il venire in soccorso agli oppressi, non dimenticare coloro che sono
perseguitati, tendere la mano a coloro che sono stati circondati da insidie, e
questo per sempre (S. Chrys.). – « Che conserva la verità per tutti i secoli. » Se
la menzogna ci opprime per un tempo, non ci rattristiamo; « … il Signore
conserva la verità per tutti i secoli. » Che bella espressione: « Custodisce la
verità! ». Egli la costudisce come un tesoro, e ci renderà un giorno ciò che ha
conservato. Gesù Cristo è la verità! Custodiamo la verità e la verità ci
custodirà la verità … « Egli dà il nutrimento a coloro che hanno fame. » Egli
lo dona a coloro che hanno fame, e non a coloro che rigurgitano di beni. Colui
dunque che non ha ricevuto con fiducia, colui che è nell’abbondanza, si astiene
dal ricevere. Voi sapete se avete fame, se siete nel bisogno; se il vostro
stato è tale, voi fate piuttosto più bene di quanto ne riceviate, accettando
ciò che vi è donato; ma, se siete nell’abbondanza, guardatevi dal prendere
l’alimento da coloro che hanno fame, allorché voi siete già sazi. Ricevete ciò
che deve servire al vostro nutrimento e non ad ingrandire il vostro tesoro;
ricevete la tunica destinata a coprire il vostro corpo, e non a riempire le
vostre casseforti. « Egli dà il nutrimento a coloro che hanno fame. » (S.
Girol.). – Siccome il Profeta ci dimostri la divina Provvidenza estesa
a tutti, essa si applica soprattutto a soccorrere gli infelici, a soddisfare la
fame, a spezzare le catene! Tutto ciò tuttavia, gli uomini lo possono in una
certa misura; ma non è più così di ciò che viene dopo: Egli corregge i vizi
della natura stessa, solleva coloro che sono spezzati nella loro caduta e
glorifica coloro che brillano per la loro virtù, salva gli infelici che si
abbattono, asciuga le lacrime e calma i dolori degli orfani e delle vedove (S.
Chrys.). – Ci sono, in effetti, altre catene che quelle che legano le
membra, ci sono altre tenebre che non quelle che oscurano gli occhi del corpo:
queste catene sono quelle del peccato, che il Signore spezza ogni giorno con la
sua grazia; queste tenebre sono quelle del nostro cuore che Egli dissipa con la
luce della sua verità. – Aggiungendo: « Egli ama i giusti », il Profeta ci fa
vedere che il Signore ha portato soccorso agli altri unicamente in ragione
della loro infelicità; coloro che Egli nutre perché hanno fame, non ha certo
rapporto con la virtù; egli libera i prigionieri, perché ha pietà delle loro
catene, che non tiene più alla virtù, ma all’infortunio; se Egli illumina i
ciechi è ancora per guarire la loro infermità, non per ricompensare le loro
buone opere. Lo stesso è per l’uomo abbattuto dalla sua caduta, dello
straniero, della vedova, dell’orfano. Ora, se Dio viene in soccorso degli
infortunati, a maggior ragione viene per gli amici della virtù (S.
Chrys). – Tre tipi di persone sono particolarmente sotto la
salvaguardia dell’Eterno: gli stranieri, gli orfani, le vedove. I primi, perché
non hanno una patria; i secondi perché non hanno un padre; infine le vedove
private del loro sposo. Con questa elencazione, il Profeta vuole farci
comprendere che gran titolo, per contare sulla Provvidenza, è il non avere
nessun appoggio in questo mondo. Quando tutti i soccorsi umani ci mancano, Dio
si prende cura di noi, cioè Egli veglia particolarmente su di noi (Berthier).
– E quando la via dei peccatori sarà stata distrutta, cosa resterà? « Venite,
dirà il Signore, venite diletti del Padre mio, prendete possesso del regno che
vi è stato preparato dalle origini del mondo. » (Matth. XXV, 3, 4). È a
questo che giunge alla fine del salmo, « Il Signore distruggerà la via dei
peccatori. » E voi cosa diventerete? « Il Signore regnerà in eterno. »
Rallegratevi, perché il Signore regnerà su di voi; Rallegratevi perché voi
sarete il suo regno. Osservate, in effetti, ciò che segue: voi siete certamente
cittadino di Sion e non di Babilonia, cioè voi non siete cittadino della città
passeggera del mondo, ma di Sion, che soffre l’esilio per un tempo e che
regnerà eternamente (S. Agost.).
La Decet quam maxime è una lunga lettera enciclica, nella quale il Sommo Pontefice Clemente XIV, pone dei limiti ben precisi a richieste economiche di prelati riguardo alle funzioni loro affidate dalla Santa Chiesa Cattolica: « … È assolutamente opportuno che i ministri della Chiesa ed i dispensatori dei misteri di Dio si mantengano completamente estranei anche al più piccolo sospetto d’avarizia e altrettanto ne tengano lontano il loro ministero, al quale sono stati chiamati da Dio; in tal modo potranno gloriarsi a buon diritto e con merito di aver tenuto le loro mani monde da ogni vantaggio ». Tale è l’inizio della lettera che poi enumera e regola i possibili abusi che tutti vengono condannati secondo norme ecclesiali. Questa è la vera Chiesa Cattolica, nella quale vanno evitate tutte le occasioni di accaparramento di beni e denaro, o di avarizia sotto qualsiasi forma, a fronte di una carità sempre sollecita verso l’indigenza e la povertà materiale. I veri servi del Signore non cercano per sé o per i propri familiari prebende o compensi oltre quelli lecitamente concessi dai sacri canoni ecclesiastici che assicurano la sussistenza minima del prelato. Guadagni illeciti o truffaldini sono stati compiuti da individui che hanno tradito il mandato evangelico mettendo in cattiva luce la Chiesa di Cristo, fondata sulla povertà evangelica materiale, e sulla Provvidenza divina circa la soddisfazione dei bisogni minimi leciti e necessari alla sussistenza. Qui non è neppure il caso di sottolineare quanto la voracità di falsi “principi” della sinagoga di satana usurpante i sacri palazzi vaticani in particolare, getti fango e discredito sul Cristianesimo tutto con l’istituzione addirittura di strutture di credito colluse con operazioni economiche illecite e gestite da trafficanti ed “esperti” di mercato con immunità diplomatica. Ma sono cose sotto gli occhi di tutti e che non meritano se non il disprezzo ed il discredito riservato a strutture a conduzione massonico-luciferina. A noi, piccolo gregge cattolico, l’azione di lode a Dio e di preghiera perché il Signore liberi quanto prima la vera Chiesa ed il Santo Padre dagli impedimenti attuali ai quali è relegata nella eclissi della sua passione e a seguire, nella morte (apparente) e nel sepolcro, e le dia la resurrezione attesa dai veri Cristiani e da tutte le creature dell’universo, perché possano rendere culto e lode al loro Creatore, Redentore, e Santificatore, al Dio uno e Trino.
Clemente XIV Decet quam maxime
1. È assolutamente opportuno che i ministri della Chiesa ed i dispensatori dei misteri di Dio si mantengano completamente estranei anche al più piccolo sospetto d’avarizia e altrettanto ne tengano lontano il loro ministero, al quale sono stati chiamati da Dio; in tal modo potranno gloriarsi a buon diritto e con merito di aver tenuto le loro mani monde da ogni vantaggio. Questo per primo raccomandò Gesù Cristo ai suoi discepoli quando li avviò a predicare il Vangelo con queste parole: “Gratis avete ricevuto e gratis donate” (Mt XVIII, 8). In più occasioni (1Tm III, 8; Tt 1,7)Paolo l’ha specificamente raccomandato come carattere distintivo di coloro che dovevano essere chiamati al ministero dell’altare. Questo, infine, inculcò Pietro in coloro che furono preposti alla cura delle anime, dicendo: “Pascolate il gregge di Dio che vi è stato affidato, non per l’aspettativa di un turpe lucro, ma volontariamente” (1Pt V, 2). A questo divino mandato si debbono uniformare per primi, con diligenza e con cura, i pastori delle chiese, che debbono essere d’esempio ai fedeli nella predicazione, nella conversazione, nella carità, nella fede: impegno invero minimo se si mostreranno irreprensibili in prima persona. Compete loro inoltre di darsi da fare attivamente affinché nessuno dei ministri ai quali comandano, in nessun modo si permetta di condurre a termine azioni contrarie a tale dettame, tenendo sempre presente l’insigne frase di Ambrogio: “Non basta che tu non cerchi il vantaggio economico; anche le mani dei tuoi familiari devono essere tenute a freno. Dai dunque istruzioni alla tua famiglia, ammoniscila, custodiscila; e se un servitorello ti avrà ingannato, una volta scoperto dovrà essere ripudiato a titolo d’esempio” (S. Ambrogio, In Lucam, lib. IV, n. 52). Partendo da queste ottime, saggissime leggi, sia i santissimi Concili sia i Romani Pontefici Nostri predecessori hanno ritenuto di dover rendere sempre più stretto il passaggio, affinché malvagi abusi in materia non s’introducano mai nella Chiesa di Dio, o – se per caso vi si fossero già introdotti – vengano radicalmente tolti di mezzo. C’è tuttavia da lamentare che presso alcune diocesi queste decisioni delle Costituzioni apostoliche e dei sacri Canoni (così opportune e così ricche di dignità religiosa) rimasero prive del loro effetto e risultarono senza forza e senza valore, impossibilitate a svellere dalle radici ogni comportamento ad esse contrario. Dunque venimmo a conoscere che ciò accadeva perché coloro cui competeva occuparsene con il massimo impegno mettevano avanti varie scuse, invocando antiche, inveterate consuetudini oppure la necessità di versare qualche ricompensa ai ministri della curia ecclesiastica, oppure persino la mancanza del denaro necessario per condurre una vita decente, onesta e dignitosa. – Rendendosi conto di tutto ciò, il Nostro predecessore Innocenzo XI, di venerabile memoria, per apportare un rimedio costruttivo e rendere vane e fuori di luogo tutte le scusanti di qualunque natura, nel 1678 comandò che venisse redatto un tariffario nel quale fossero raccolti tutti i tributi indicati qua e là nei sacri Canoni e opportunamente sanciti dal Concilio Tridentino, secondo l’interpretazione data dalle sacre Congregazioni del predetto Concilio, nonché secondo i pareri espressi dai Vescovi. Ordinò inoltre che tutti gli interessi ecclesiastici fossero chiaramente individuati ed elencati analiticamente; in nome di essi non doveva assolutamente essere consentito ad alcuno, né nel foro ecclesiastico né nelle curie vescovili, percepire emolumenti, eccezion fatta per quel che va versato al banco del cancelliere e quel che va pagato per la necessaria mercede. Contemporaneamente fu assicurato che in questa materia la regola fosse uguale in tutte le curie ecclesiastiche ed identica, com’è giusto, fosse la disciplina, annullata ogni diversa consuetudine. Lo stesso sommo Pontefice Innocenzo XI il primo ottobre dello stesso anno approvò con la Sua autorità questo tariffario, lo controfirmò e ne dispose la promulgazione e l’osservanza. – Tuttavia neppure questo bastò a rinsaldare ovunque la disciplina ecclesiastica, ormai abbandonata, e a metter freno alle cattive usanze che già da tempo avevano preso piede in varie diocesi. Subito venne avanzata l’obiezione perché la citata tariffa non dovesse venire osservata anche dalle curie ecclesiastiche esistenti fuori d’Italia. Per altro non si poteva fingere di ignorare che tutti i decreti in essa contenuti derivavano dai sacri canoni ed in particolare dal Concilio Tridentino; di conseguenza era assolutamente necessario che tutte le diocesi li rispettassero con la massima religiosità.
2. Questi dunque furono i motivi,
Venerabili Fratelli, per cui – non senza grave dolore ed afflizione dell’animo
Nostro – Ci rendemmo conto che nelle vostre curie avevano trovato spazio molti
abusi contro l’esercizio della potestà spirituale; abusi che sconvolgono
profondamente la disciplina ecclesiastica, la snervano e recano sommo disdoro
alla grandissima dignità della quale risplendete ed all’autorità che vi è stata
trasmessa per realizzare la perfezione dei santi e i compiti del ministero per
l’edificazione del Corpo di Cristo. Noi abbiamo ben presenti la vostra
religiosità, la vostra santa pratica, la premura nei confronti delle Vostre
chiese; sappiamo anche che gli abusi in materia di pagamenti individuati nel
tribunale ecclesiastico delle vostre diocesi, introdotti in tempi passati da
qualche ministro di secondaria importanza, per l’esempio di questi si sono poi
propagati gradatamente di diocesi in diocesi, forse all’insaputa degli stessi
Vescovi, ed in qualche caso si sono sviluppati persino in funzione di una più
marcata dignità della Chiesa. O perché al problema veniva attribuita pochissima
rilevanza, o perché i successori nel ministero seguirono incautamente la strada
tracciata dai predecessori, si arrivò al punto che questi stessi abusi, ormai
rafforzati dalla continua pratica, sembrarono meritevoli di essere convalidati
da costituzioni sinodali su proposta degli stessi ministri. In nessun modo,
assolutamente, queste colpe possono essere addebitate a voi, che anzi siete
soprattutto degni di lode, in quanto abbiamo visto che voi siete colpiti dal
più grande dolore per queste iniquità e più che mai desiderosi di estirparle.
Tuttavia, rendendoci conto che perseguendo questo scopo vi sareste attirati
contro l’odio più forte, e che ostacoli enormi sarebbero stati frapposti alla
realizzazione dell’obiettivo, se la stessa autorità apostolica non si fosse
affiancata, per questo motivo interveniamo; in particolare a proposito della
diversità delle tariffe e dei diversi comportamenti vigenti nelle diverse
diocesi, affinché non solo siano tutti riportati ad un’equa e giusta misura, ma
perché assumano tutti una lodevole uniformità procedurale. Perciò confidiamo in
Voi, nel nome del Signore, affinché osserviate con la massima cura i decreti
che vi mandiamo con la Nostra autorità apostolica, su richiesta del Nostro
carissimo figlio in Cristo Carlo Emanuele, illustre Re di Sardegna, di cui
rilucono continuamente il singolare rispetto per Noi e per questa santa Sede
apostolica, l’affetto e l’impegno religioso: provvedete che da tutti e da
coloro cui compete essi siano osservati con grandissima diligenza.
3. In primo luogo per quanto riguarda le
ordinazioni sacre, non vi possono assolutamente sfuggire le numerosissime ed
altrettanto sante leggi della Chiesa, con le quali in qualunque tempo è stato
vietato che i Vescovi e gli altri collaboratori nel conferimento delle sacre
ordinazioni, o comunque rappresentanti ufficiali trattenessero alcunché dai
donativi degli ordini. Questo è stato chiaramente sancito nel sinodo ecumenico
di Calcedonia nel 451 (canone 2); in quello di Roma sotto san Gregorio Magno
nel 600 o nel 604 (canone 5, ovvero epist. 44, lib. 4, indiz. 13); nel secondo
sinodo ecumenico Niceno dell’anno 787 (canone 5); in quello di Salegunstadt
dell’anno 1022 (can. 3); nel quarto Lateranense, sotto Innocenzo III, nel 1215;
in quelli di Tours, di Bracara, di Barcellona e di altri luoghi riferiti da
Cristiano Lupo (dissert. 2, proemio De simonia cap. 9, tomo 4) e da
Gonzalez (capitolo Antequam 1, De simonia, n. 9), e più recentemente dal
Concilio di Trento (sess. 21, cap. 1, De reformatione), dal quale sono
stati perfezionati gli antichi canoni, che permettevano che si potesse ricevere
un’offerta spontanea, ed è stata ricondotta all’antica ed originaria purezza la
disciplina ecclesiastica sulle sacre ordinazioni. – Il decreto del Concilio
così recita: “Poiché ogni sospetto d’avarizia dev’essere lontano
dall’ordine ecclesiastico, i vescovi, gli altri collaboratori nell’impartire
gli ordini o i loro ministri non debbono per alcun motivo accettare alcunché –
anche se spontaneamente offerto – in occasione dell’attribuzione di qualunque
ordine: né per la tonsura clericale, né per lettere dimissorie o testimoniali,
né per il sigillo, né in qualunque altra circostanza. I notai, per altro,
soltanto in quei luoghi nei quali non vige la lodevole abitudine di non
accettare compensi, a fronte di ciascuna lettera dimissoria o testimoniale,
possono accettare soltanto la decima parte di un aureo, a patto che non sia
fissata per loro alcuna ricompensa per il lavoro svolto. Al vescovo non può
essere trasferito – direttamente o indirettamente – alcun emolumento
proveniente dalle rendite che competono ai notai per il conferimento degli
ordini; infatti egli sa di essere tenuto a prestar loro la propria opera
assolutamente gratis. Le tariffe contrarie a questa norma, gli statuti e le
consuetudini locali, per quanto d’immemorabile origine (che a buona ragione possono
essere ritenuti piuttosto abusi e fonti di corruzione e colpa simoniaca)debbono
essere assolutamente abolite e vietate; coloro che si comporteranno
diversamente, sia dando sia ricevendo, oltre che nel castigo divino
incorreranno immediatamente nelle pene fissate per legge“.
4. In linea con questi argomenti, vi
ordiniamo e notifichiamo, Venerabili Fratelli, di non accettare alcuna offerta
– nemmeno se spontaneamente donata – per il conferimento di qualunque ordine, nemmeno per la tonsura
ecclesiastica; né per la lettera dimissoria o testimoniale o per il
sigillo, o per qualunque altra ragione o causa o pretesto, eccezion fatta
soltanto per l’offerta
della candela di cera che suole esser fatta sulla base del pontificale
romano; e tuttavia in modo tale che la qualità ed il peso della candela siano
assolutamente lasciati all’arbitrio ed alla libera volontà di coloro che
debbono ricevere gli ordini. Alla vostra disposizione dovranno uniformarsi
anche i vicari generali o foranei, i cancellieri e gli altri ministri, i
familiari e i servi, ai quali venne già specificamente vietato dal Sacro
Concilio Tridentino di accettare o esigere qualunque remunerazione, offerta o
regalo in occasione delle sacre ordinazioni.
5. Se però in codeste diocesi non è fissato per il cancelliere o per i notai della curia ecclesiastica alcuno stipendio o salario per le mansioni svolte, ad essi soltanto consentiamo che – per ogni lettera testimoniale di un ordine conferito, compresa la tonsura ecclesiastica, o per la lettera dimissoria relativa alla stessa tonsura, o per gli ordini da ricevere da un Vescovo estraneo – possano esigere al massimo la decima parte di un aureo, ovvero dieci oboli di moneta romana, e se lo trattengano, purché non siano Regolari legati da uno strettissimo voto di povertà, ai quali non è assolutamente consentito maneggiare denaro. – Ordiniamo che sia osservata la stessa entità di remunerazione anche se la predetta lettera testimoniale o dimissoria riguarda una pluralità di ordini, e fa riferimento ad ordini già attribuiti o in via di attribuzione da parte di un altro Vescovo; di conseguenza in nessun modo sarà consentito aumentare la predetta remunerazione di dieci oboli o moltiplicarla in funzione dei singoli ordini contenuti nella lettera testimoniale o dimissoria. Con queste norme non intendiamo certo indurre i cancellieri o i notai ad indicare in uno stesso documento testimoniale ordini diversi, conferiti in momenti distinti e con distinti dispositivi; in verità in passato abbiamo ordinato che ciò avvenisse; limitatamente a quegli ordini – cioè i minori – conferiti con una sola ordinazione. Quanto alla lettera dimissoria relativa a più ordini da conferirsi da un altro vescovo, vietiamo che vengano moltiplicate le scritture e che si richieda qualunque sovrapprezzo o donativo per la rogazione dell’atto di conferimento degli ordini o per l’accesso al luogo dell’ordinazione o per qualsiasi altro motivo.
6. Nel conferimento del suddiaconato,
quando il cancelliere o il notaio siano costretti ad un maggior lavoro per comprovare
la verità e l’idoneità del patrimonio e del beneficio al cui titolo l’ordinando
aspira, occorre premettere necessariamente altre procedure per gli atti di
conferimento del predetto ordine. In questo caso consentiamo loro di poter
percepire una mercede proporzionata alla loro fatica, da stabilirsi dal Vescovo
a suo coscienzioso giudizio. Tuttavia, tenuto conto della redazione dell’atto,
del sigillo e di tutto il resto, non si può superare la somma di un aureo,
ovvero di sedici giulii e mezzo. Vogliamo inoltre che gli ordinandi e i loro
parenti siano liberi di ricorrere a qualunque notaio abilitato alla
sottoscrizione ed alla rogazione dell’atto, senza che possano essere costretti
verso qualcuno; così pure per i testimoni necessari a presenziare nelle predette
curie alla costituzione ed alla stipulazione del patrimonio ed al
perfezionamento degli altri atti consueti. Il notaio della curia, cui venga
affidata una pratica di questo tipo, non potrà a nessun titolo esigere alcuna
altra somma oltre la mercede definita dal Vescovo – come sopra specificato – o
la somma di un aureo o di sedici giulii e mezzo, sia per la stesura dell’atto,
sia per qualunque altra incombenza; né potrà ricevere altro denaro per la
pubblicazione del decreto o per la lettera pubblicatoria o per qualunque altra
ragione, sotto qualunque pretesto, come si legge chiaramente nel citato decreto
del Concilio di Trento e come venne dichiarato apertamente nella sacra
Congregazione del Concilio a Vicenza il 7 febbraio 1602, nella sacra Congregazione
dei Vescovi a Gerona il 25 ottobre 1588, come si legge nel Fagnani (De
simonia, cap. sulle Ordinazioni, n. 32 ss.).
7. Tuttavia, consentiamo che dai notai o
dal cancelliere possa essere richiesto un compenso, sempre nell’ambito della
legge, purché sia sempre dichiarato, qualora non sia stato fissato per il loro
lavoro alcun salario o stipendio; comunque, assolutamente, nulla dei loro
emolumenti può pervenire, direttamente o indirettamente, a voi o a chiunque
altro, ufficiale o ministro, che conferisce gli ordini, così come venne sancito
dal Concilio Tridentino. Queste due disposizioni, che con questa nostra lettera
stiamo fissando, vogliamo che siano sempre rispettate in ogni occasione.
8. Riteniamo che difficilmente possa
sfuggire all’accusa di lucro turpe e al sospetto d’avarizia l’iniqua
consuetudine, che abbiamo saputo aver preso piede in alcune di codeste curie,
di esigere denaro per l’autorizzazione (che deve provenire da voi o dai vicari
generali) affinché coloro che sono stati recentemente ordinati sacerdoti
celebrino la prima Messa, ovvero per altra simile autorizzazione, come quella
di ammettere agli uffici divini i sacerdoti stranieri, per quanto muniti di
lettera commendatizia dei rispettivi Ordinarii. Disponiamo pertanto che sia
assolutamente eliminata codesta consuetudine, per quanto mantenuta fin qui e
conservata a titolo di stipendio o di mercede da garantire a chi è incaricato
di verificare l’idoneità dei sacerdoti nelle cerimonie e nei sacri riti; essa
infatti è contraria ai sacri canoni ed è stata più volte riprovata.
9. Quel che abbiamo detto
precedentemente a proposito delle sacre ordinazioni dev’essere applicato con
pari diritto nel conferimento, o assegnazione, dei benefici ecclesiastici; ciò
vi apparirà chiaro ed evidente se terrete davanti ai vostri occhi i canoni
della Chiesa, fissati proprio per svellere dalle radici gli abusi instauratisi
in diversi tempi in questa materia (cap. Si quis, q. 3; cap. Non
satis; 8 cap. Cum in ecclesiae; 9 cap. Jacobus; 44 cap. De
simonia; Cristiano Lupo, dissert. De simonia, cap. 10). E sebbene il
santo Concilio Tridentino non abbia stabilito niente di preciso a questo
proposito, tuttavia la sacra congregazione del Concilio, con l’approvazione del
sommo Pontefice Gregorio XIII, dichiarò che il decreto cap. 1, sess. 21 De
ref., avesse un ruolo anche nel conferimento dei benefici, in particolare
degli amministratori, e che non si dovesse ricevere alcunché in cambio del
sigillo, nonostante qualunque antica consuetudine (Garz., De benef.
part. 8, cap. 1, n. 76 e seg.; Fagnani nel cap. In ordinando de simonia,
n. 31; Gallemart, nel cap. 1, sess. 21, De reform.). – Questa stessa
sacra Congregazione, nella lettera inviata al Vescovo di Melfi, con il parere
favorevole del sommo Pontefice, giudicò, dichiarò e dispose che i conferitori
di benefici – qualunque sia la loro dignità – non possano accettare od esigere
alcunché per il conferimento o per qualunque altra pratica inerente i benefici,
sotto qualunque forma o aspetto, direttamente o indirettamente, anche se il
donativo sia presentato come frutto dell’annata o di qualunque altro
frazionamento, nemmeno se dato spontaneamente come offerta. A queste norme
debbono assolutamente attenersi anche i notai dei conferitori e tutti gli altri
impiegati, per i quali tuttavia è previsto in altra parte un salario garantito;
altrimenti, sia chi dona sia chi riceve sarà ritenuto colpevole ipso facto ed
incorrerà nelle pene previste dai sacri canoni per i simoniaci; i notai,
inoltre, e gli altri impiegati saranno sospesi dai loro incarichi (Garz., loc.
cit.).
10. Abbiamo ritenuto di comunicarvi
tutto ciò, Venerabili Fratelli, perché comprendiate quanto siano lontane dalla
disciplina ecclesiastica le abitudini nel conferimento dei benefici che qua e
là hanno preso piede nelle vostre diocesi, e con quanto impegno dobbiate
sforzarvi affinché siano radicalmente rimosse. Sarà dunque vostro compito di
ribadire per primi questa regola e di rispettarla santissimamente, affinché nei
benefici ecclesiastici – di cura d’anime o residenziali, semplici o manuali, o
di cappellania –che conferirete con procedura ordinaria non richiediate od
accettiate alcun compenso, a qualunque titolo o forma, nemmeno di dono
augurale, beneficenza o contribuzione volontaria, in particolare per
l’approvazione, la preselezione del più degno nel concorso per le chiese
parrocchiali ed il possesso dei benefici. – Saranno vincolati alla stessa
sanzione canonica anche tutti gli altri conferitori, vicari generali,
cancellieri, vostri consanguinei, parenti e servi, ai quali vietiamo comunque
di percepire alcunché.
11. A questa regola generale fanno
eccezione soltanto i cancellieri o i notai per i quali – come altrove abbiamo
accennato – non è fissato alcuno stipendio a fronte del loro lavoro. In questo
caso il cancelliere, se l’atto sia per benefici con cura d’anime, per un editto
o per la lettera con cui viene indetto un concorso pubblico potrà esigere dieci
oboli, e cinque per ciascuna copia ed altri cinque per le affissioni di rito.
Se la lettera dovrà essere affissa fuori città, le spese di viaggio e le altre
derivanti saranno ripagate sulla base dei rimborsi giornalieri vigenti nelle
rispettive diocesi. Per la spedizione della lettera di conferimento, sia dei
predetti benefici con cura d’anime, sia di quelli semplici, il cancelliere
riceverà per il suo lavoro una remunerazione adeguata, fissata a giudizio del
vescovo: remunerazione che comunque, tenuto conto della scrittura, del sigillo
e di tutto il resto, non potrà superare un aureo, ovvero dieci giulii di moneta
romana, come più volte è stato fissato dalla sacra congregazione del Concilio,
ed in particolare il 15 gennaio 1594 (Gallemart., loc. cit.) e a Vicenza
l’8 marzo 1602 (Fagnani, loc. cit., n. 32) e dalla sacra congregazione
dei Vescovi il 25 ottobre 1588 (Fagnani, ibid., n. 35). Infine per
quanto si riferisce agli atti di possesso degli stessi benefici, riceverà tre
giulii per la sottoscrizione del documento, se i benefici saranno dentro la
città, quattro se nel suburbio; se più lontani ancora, saranno osservati i tariffari
vigenti nelle rispettive diocesi per le diarie, come abbiamo spiegato sopra. Ma
se nel luogo in cui è situato il beneficio risulterà operante un cancelliere
del vicario foraneo, o un suo notaio, colui che sta per entrare in possesso del
beneficio può avvalersi liberamente degli uffici di questi e per rogare l’atto
di possesso non potrà in alcun modo essere obbligato a rivolgersi al
cancelliere della curia vescovile. Per una lettera che testimoni l’esito
favorevole in un concorso, secondo la relazione degli esaminatori, e della
quale sono soliti valersi coloro che l’hanno richiesta per dimostrare la
propria idoneità, permettiamo che il notaio riceva come compenso massimo due
giulii.
12. Non ci sfugge certo che al
cancelliere, o notaio, tocca una fatica tutt’altro che lieve nello svolgimento
dei concorsi per le chiese parrocchiali, sia quando comincia l’esame dei
testimoni che i concorrenti presentano per dimostrare le loro qualità, i meriti
e le lodevoli azioni compiute al servizio della Chiesa; sia quando inserisce
negli atti del concorso i cosiddetti requisiti presentati dai concorrenti, e
poi li riassume per iscritto e li trascrive in più copie per il vescovo, o per
il vicario generale che interviene in sua vece, e per ciascuno degli
esaminatori esterni del concorso, affinché possano formulare un giudizio sulla
cultura, le abitudini, i comportamenti e le altre doti necessarie a reggere la
Chiesa; quando risponde inoltre ai quesiti morali posti dagli stessi
esaminatori, riporta il giudizio degli esaminatori stessi; stende l’atto di
preselezione; rimane a custodia dei concorrenti per due e talora tre giorni ed
in qualche caso presenzia anche allo scrutinio delle predette questioni morali.
Abbiamo considerazione di quale possa essere la mole di tale impegno, affidando
al giudizio ed alla coscienza del vescovo la determinazione della
remunerazione, purché essa corrisponda soltanto all’entità della fatica.
13. Per quanto poi riguarda i benefici
che vengono conferiti dalla Sede apostolica, poiché ad essa riservati: per i
benefici “curati” per i quali è consuetudine presentare alla Dataria
Apostolica una lettera testimoniale di approvazione e di preselezione nel
concorso svolto secondo le norme fissate dal Concilio di Trento, ed ancora per
i benefici non “curati”, in particolare quelli residenziali, per i
quali parimenti è d’uso presentare alla Dataria Apostolica una lettera
testimoniale sulla vita, le abitudini e l’idoneità di coloro che richiedono il
beneficio, i cancellieri si guardino bene dall’esigere, per queste lettere,
alcun emolumento o mercede, nemmeno un donativo spontaneo, eccetto che due
giulii per la scrittura, la carta e il sigillo della lettera di idoneità e due
giulii per la lettera testimoniale sullo stile di vita e sui costumi.
14. Per l’esecuzione delle lettere apostoliche, quando queste siano spedite in forma – come si dice – graziosa, né il Vescovo, né gli altri prelati Ordinarii dei luoghi, né i loro vicari, i cancellieri e gli impiegati ritengano di poter rivendicare a sé l’incarico di esecutori; dipenderà completamente dalla volontà di coloro che saranno stati dotati del beneficio la scelta dell’esecutore o del notaio cui affidare l’atto per l’entrata in possesso del beneficio stesso. Se il provvisto di un beneficio sceglierà l’Ordinario e il suo cancelliere, ovvero se la lettera apostolica sarà stata mandata nella cosiddetta forma dignum, indirizzata all’Ordinario, o al suo cancelliere o vicario, al quale compete l’obbligo di eseguirla; in entrambi i casi, se mancherà un legittimo contraddittore, in modo che l’esecutore sia uno solo, il cancelliere (esclusi comunque da qualunque emolumento, dono e volontaria offerta il vescovo o altro prelato, il suo vicario, l’impiegato, i familiari e i servi, come abbiamo disposto sopra a proposito dei benefici di libero conferimento), per la stesura di questa lettera apostolica e per la sua trascrizione negli atti, così come per tutti gli adempimenti consueti inerenti la pratica, potrà ricevere la remunerazione che il Vescovo, a proprio giudizio e secondo coscienza, riterrà congrua: essa non potrà comunque superare la somma di uno scudo d’oro o di sedici giulii e mezzo. Se invece fosse presente un contraddittore, in modo che si debba istituire un processo giudiziario, parimenti lasciamo all’arbitrio ed alla coscienza del Vescovo, che graviamo anche di questo peso, di fissare la mercede che corrisponda all’impegno ed alla fatica del notaio o del cancelliere addetto; purché niente di quanto riscuote il cancelliere o il notaio sia trasferito al vescovo o agli altri, come abbiamo detto prima, direttamente o indirettamente. Per l’atto di presa di possesso del beneficio, debbono osservarsi le stesse norme che abbiamo indicato sopra.
15. Per i benefici di giuspatronato, se
sorge il dubbio – con il promotore fiscale o con colui che avrà richiesto il
beneficio – sull’esistenza del predetto giuspatronato e qualcuno si oppone al
conferimento gratuito, dovranno essere rispettate tutte le norme che abbiamo
fissato in precedenza a proposito dei benefici di libero conferimento con
contraddittore favorevole. Per un editto contro il contraddittore – o i
contraddittori – il cancelliere riceverà due giulii; per ogni copia dieci
oboli; per la pubblicazione di detto editto si dovrà osservare quanto abbiamo
disposto per i benefici con cura d’anime; inoltre, per una lettera
d’istituzione, un aureo ovvero sedici giulii e mezzo. Se invece non vi sia
alcun dubbio sull’esistenza del giuspatronato, e tuttavia nasca una lite sulla
competenza fra gli avvocati o fra coloro che da questi sono rappresentati,
allora s’instaurerà una causa profana e per essa potranno essere pretesi
emolumenti che corrispondano alle tariffe vigenti in ciascuna curia.
16. Procedendo analiticamente, del pari
vietiamo che i vescovi, o gli altri prelati, o i loro vicari o comunque
incaricati possano esigere alcunché sia in quelle che chiamano
“cappellanie mobili”, sia nelle nuove fondazioni e nelle istituzioni
di benefici, cappellanie, confraternite e congregazioni, ovvero nelle
fondazioni, benedizioni, consacrazioni, visite ed approvazioni di chiese e di
oratori derivanti da autorità apostolica o vescovile. Il cancelliere potrà
ricevere soltanto una paga commisurata all’impegno, fissata dal vescovo a suo
giudizio e coscienza, purché non superi i sedici giulii e mezzo.
17. Per quel che riguardai matrimoni o
comunque le attività propedeutiche alle nozze, vi suggeriamo di osservare ciò
che hanno disposto i sacri canoni (cap. Cum in ecclesia 9; cap. Suam
nobis 29, De simonia), San Gregorio Magno nella lettera a Gennaro, Vescovo
di codesta sede cagliaritana (lib. 4, indict. 12, epist. 27), ed altri ancora,
come riferisce lo spesso lodato Cristiano Lupo nella citata dissertazione (cap.
7) e, da ultimo, il Concilio Tridentino (sess. 22, cap. 5, De reformat.
matrimon.). I vescovi, naturalmente, i loro vicari, tutti gli incaricati, i
loro familiari e gli addetti devono prestare gratuitamente la loro attività in
questa materia e non pensare di ricevere alcuna remunerazione o premio od
offerta volontaria, né per il decreto di dispensa matrimoniale ottenuto dalla
Sede Apostolica, né per l’impegno ad esaminare i testi in merito o per il
completamento delle certificazioni connesse, sia per la lettera di attestazione
di stato libero e di mancanza di qualunque impedimento canonico, sia per la
dispensa dalle pubblicazioni previste dal Concilio di Trento (in chiesa, per
tre giorni festivi consecutivi, fra le messe solenni), da effettuarsi dal
parroco dei contraenti, sia per la facoltà di celebrare il matrimonio a casa, o
altrove, o in tempo non consueto e vietato, oppure di fronte ad un sacerdote
diverso dal parroco, sia infine per qualunque atto che di necessità o
d’abitudine si deve compiere, come è stato disposto dalla sacra Congregazione
del Concilio, con l’approvazione del sommo Pontefice, nonostante qualunque
precedente consuetudine, anche antichissima, come riferiscono Garzonio (De
benefic. part. 8, cap. primo, n. 102 seg.) e Fagnani (cap. Quoniam ne
proelati vices suas, n. 30).
18. Questo atteggiamento va mantenuto
soprattutto in relazione alle deroghe che i Vescovi sogliono concedere ai
parroci, sia in relazione alla pubblica comunicazione, in chiesa, in tre giorni
festivi, dei matrimoni imminenti, sia per presenziare alla celebrazione degli
stessi matrimoni, quando sappiano che non vi sono impedimenti. D’ora in avanti
sarà necessario non solo che le licenze di questo tipo siano concesse
gratuitamente; ma anche che si controlli che, prima della celebrazione dei
matrimoni, non venga reso più complicato il contratto nuziale con la richiesta
indiscriminata della predetta deroga, sulla base di una presunta necessità;
cosa questa che sarebbe fonte di parecchi disagi. La sacra Congregazione dei
Vescovi riunita a Gerona il 25 aprile 1588 (cf. Fagnani, cap. In ordinando
de simonia, n. 41) ritenne necessario opporsi ad entrambi i mali. Quando
infatti i canonici e il capitolo di Gerona posero la questione in merito
all’editto con il quale il Vescovo aveva proibito ai parroci di unire gli sposi
in matrimonio – pur avendo espletato tutte le norme solenni imposte dal
Concilio di Trento – se non avessero la deroga scritta, che veniva concessa
solo dopo il pagamento di mezzo giulio, la stessa sacra Congregazione rispose
così: “Il Vescovo non deve emettere alcun provvedimento scritto, se per
qualche ragione proibisce che i parroci possano congiungere le persone in
matrimonio secondo gli usi fissati da detto Concilio. Infatti, rispettata
assolutamente la sostanza della norma conciliare, quel che riguarda le
cerimonie è affidato soltanto alla coscienza del Vescovo ed al suo stile. Allo
stesso modo, infatti, in qualche villaggio o città è opportuno proibire ciò che
tuttavia, sulla base di qualche urgente necessità, si dovrebbe fare. Così il
vescovo deve impegnarsi a fondo perché non si celebrino matrimoni senza le
predette procedure, ma deve anche stare attento affinché non siano resi più
complicati i contratti di matrimonio, con l’aggiunta di nuove esigenze
infondate. Se vi sarà bisogno di qualche licenza, il notaio non sarà pagato per
questo. Ma se, per antica – forse anche scritta – consuetudine, quasi in segno
di letizia, ci sia l’abitudine di fare un regalo al Vescovo, non ci pare
affatto che questo sia da contestare“.
19. Soltanto al cancelliere per il quale
non sia fissato uno stipendio garantito, sarà lecito ricevere, a titolo di
pagamento del suo impegno e per il necessario sostentamento, un emolumento
calcolato con questo parametro: per l’esecuzione della lettera apostolica sulla
dispensa matrimoniale, se egli compia in prima persona l’escussione dei testi
per accertare la veridicità delle affermazioni esposte nel libello di supplica,
potrà esser pagato più o meno, in funzione del numero dei testimoni e della
gravosità dell’impegno, ma comunque non più di cinque giulii. Se invece questo
esame sarà affidato ad un’altra persona, avrà soltanto due giulii per la
lettera di delega e assolutamente null’altro per il decreto, per il sigillo o a
qualunque altro titolo. Per la lettera testimoniale di stato libero, tenuto
conto della stesura, della carta, del sigillo e del resto, avrà due giulii. Per
l’esame dei testimoni per l’accertamento dello stesso stato libero e per
dimostrare la mancanza di qualunque impedimento canonico, dieci oboli per ogni
testimone; per il riconoscimento della lettera testimoniale di stato libero di
persone nate altrove, dieci oboli se non ci sia bisogno dell’esame di un
secondo testimone per eliminare tutti i dubbi. Se per caso ciò occorresse, ed
infine per la dispensa dalle pubblicazioni, ogni volta che occorra l’escussione
di testimoni, dieci oboli soltanto per tale escussione.
20. A buon diritto è sempre stata
ritenuta detestabile – e figlia dell’avarizia e della cupidigia – l’esazione di
denaro o di qualunque altro bene a fronte della distribuzione dei Sacramenti.
Perciò i sacri canoni bollarono spesso questa azione come intrisa di malvagità
simoniaca e si preoccuparono di eliminarla con le dovute pene e con le censure
ecclesiastiche (cf. Cum in ecclesiae corpore, 9, cap. Ad apostolicam,
42, De simonia)e in numerosi decreti conciliari riferiti da
Cristiano Lupo (loc. cit., cap. 7 e 8). Confermando con ogni fermezza
questa convinzione, la sacra congregazione del Concilio non ha mai tollerato
che per l’amministrazione dei Sacramenti venisse preteso alcunché. Per tacere
di tutti gli altri, il 20 febbraio 1723, nel giorno dei funerali del Vescovo di
Albano, quando fu sottoposto ad esame se si dovesse permettere che i parroco
accettasse la patena, cioè il disco del quale egli si serviva nell’amministrare
l’estrema unzione, al quesito: “Potrà essere accettata l’offerta del
disco?“, la stessa sacra Congregazione rispose che “non si
dovesse permettere di accettare tale offerta” (Thes. resolut.
tomo 2, p. 280). Allo stesso modo, quando il Vescovo di Vaison, nel sinodo del
1729, aveva stabilito una tassa da rispettare nella sua diocesi, in base alla
quale, oltre ad altre procedure relative al battesimo, veniva stabilito che:
“Il padrino o la madrina, per la cerimonia del battesimo forniranno
almeno un cero ed un telo di lino candido e brillante, a meno che non
preferiscano per tutto ciò e per la registrazione negli atti pubblici dei
battezzati pagare cumulativamente cinque assi“, fu allora proposto il
dubbio se la tassa prescritta in questo sinodo dovesse essere rispettata. La
sacra Congregazione, nella riunione di Vaison del 6 febbraio 1734 rispose di
no. (per maggiori informazioni cf. Thes. resolut., tomo 6, p. 209).
21. Fra le altre materie, che più di
frequente o con maggior rigore sono state riprovate dai sacri canoni e dai
concilii, una delle principali riguarda l’abitudine – qua e là invalsa in
passato – di riscuotere denaro per il ricevimento del crisma e dell’olio santo,
che i Vescovi cercavano invano di giustificare presentandola sotto vari nomi: a
titolo cattedratico, quale prestazione pasquale, quale consuetudine episcopale
(cap. Non satis, 8 cap. Eaquœ, 16 cap. Ad nostram, 21 cap.
In tantum, 36 De simonia, ed altri ancora come indicato da
Cristiano Lupo, loc. cit., cap. 7, paragrafo Secundum sacramentum).
Di conseguenza, quando il Patriarca dei Maroniti di Antiochia prese
l’abitudine, quando distribuiva gli olii sacri, di esigere un’offerta in
denaro, sebbene fosse evidente che il denaro non veniva certo dato e ricevuto
con lo spirito di mercanteggiare gli olii sacri, ma per sostentamento del Patriarca
e per far fronte agli oneri che incombono all’ufficio e alla dignità
patriarcali, tuttavia, per cacciare ogni sospetto di simonia, tale consuetudine
fu disapprovata dalla particolare Congregazione alla quale è demandata la
competenza per gli affari dei Maroniti. Benedetto XIV confermò tale sentenza (Constit.
Apostolica 43, Bullar. tomo 1).
22. Ci pare che questo basti ed avanzi, Venerabili Fratelli, perché comprendiate a perfezione quali sono i vostri compiti nell’amministrare i sacramenti e li perseguiate con ogni cura, applicandovi totalmente affinché sia eliminata ovunque la malvagia consuetudine, vigente in alcune diocesi, in base alla quale per la distribuzione degli olii viene richiesto denaro o da parte del v Vescovo o dal prefetto della sagrestia. Già in precedenza la sacra Congregazione del Concilio lo aveva prescritto spesso, in particolare nella riunione di Amalfi del 18 luglio 1699, ribadendolo il 6 febbraio 1700, a proposito del quesito 12: “Se l’arcivescovo sia obbligato a garantire che l’olio santo sia consegnato gratuitamente dalla cattedrale alle chiese parrocchiali“. Ad esso fu risposto affermativamente. Identico orientamento prese la sacra Congregazione dei vescovi nella riunione di Acerenza, cioè di Matera, il 18 marzo 1706 (Ad. 2 apud Petram, Comment. ad constitut. 5 Innocentii IV, n. 38).
23. Per quanto riguarda poi l’offerta
della candela, che abbiamo sentito viene fatta, in diverse diocesi di codesto
regno, al vescovo che amministra la Confermazione, in primo luogo non va taciuto
che a tal proposito nel libro pontificale non c’è nemmeno una parola. Inoltre,
la sacra funzione del sacerdozio vincola tutti i ministri, i quali,
nell’accettare le offerte, si devono regolare con moderazione e senso della
misura, per evitare che, incorrendo nell’accusa di avarizia e di turpe negozio,
il ministero stesso non finisca vituperato e si svilisca la riverenza dovuta ad
un così grande sacramento. C’è da guardarsi bene che l’offerta della candela
non degeneri in un’esazione sospetta, dalla quale derivi che i fedeli,
specialmente i poveri, si ritraggano dal ricevere il sacramento, o ne rinviino
più del giusto la somministrazione. Perciò c’è soprattutto da augurarsi che
questa consuetudine sia completamente abolita e che si mantenga soltanto in
quei casi in cui dipenda esclusivamente dalla decisione dell’offerente.
24. Le stesse norme impongono che tanto
i vescovi quanto i loro cancellieri o notai debbano esercitare gratuitamente il
loro ministero, sia quando – previo esame ed approvazione – concedono a
qualcuno la facoltà di raccogliere le confessioni sacramentali, di amministrare
i sacramenti e di esercitare ogni ministero ecclesiastico, sia quando giudicano
l’idoneità dei vicari – sia perpetui, sia rimovibili ad nutum –, degli
economi e dei coadiutori, come si legge nel capitolo Ad nostrum de simonia e
come fu disposto nelle spesso citate assise di Vicenza (7 febbraio e 8 marzo
1602) e di Gerona (25 ottobre 1588, Ad. 7), in cui comunque si rigetta anche la
remunerazione per la lettera che formalizza la concessione dei predetti
ministeri e l’esercizio degli incarichi.
25. Riteniamo che nessuno di voi ignori quanto frequenti e quanto severe leggi vietino di esigere denaro per le sepolture e per le esequie funebri (cf. Cristiano Lupo, loc. cit., cap. 12 e Van Espen in Jus eccles. univ., par. 2, tit. 38, cap. 4). Basterà comunque citarvi San Gregorio Magno, che, scrivendo a Gennaro, vescovo di Cagliari (lib. 9, indict. 2, epist. 3, e lib. 7, indict. 2, epist. 56), così si duole: “La famosissima signora Nereida si è lamentata con noi del fatto che vostra fraternità non si è vergognato di chiederle cento solidi per la sepoltura della figlia. Se è vero, è davvero troppo grave e distante dalla dignità sacerdotale chiedere un prezzo per la terra concessa alla putrefazione e voler trarre un utile dal lutto altrui. Nella nostra chiesa noi l’abbiamo vietato, e non abbiamo mai consentito che la malvagia consuetudine si ripristinasse. Attenzione, a non ricadere in questo vizio dell’avarizia o in altri!“. – Nessuna legge mai ha vietato la lodevole e pia abitudine, invalsa nella Chiesa fin dai primi secoli, di fare offerte a favore dei morti durante i funerali; né nell’accettarle, veniva meno la libertà dei sacerdoti. Perciò il sommo Pontefice Gregorio aggiunse tosto: “Se qualche parente del morto, congiunto o erede desidera offrire spontaneamente qualcosa per l’illuminazione, non vietiamo di accettare. Proibiamo invece che venga chiesto o preteso alcunché” (Pontificale Romanum). Analogo ordine impartì, con parole chiare, Innocenzo III nel concilio Lateranense (cap. Ad Apostolicam, 42 De simonia).
26. In verità, venendo a mancare le
decime personali e quelle, sia reali sia miste, a favore dei monasteri e dei
capitoli dei canonici, fu in un certo senso necessario che i laici venissero
quasi costretti alle pie offerte, fin qui consuete, con le quali si provvedeva
alle necessità dei parroci e delle chiese parrocchiali. Tuttavia si tenne
sempre presente la santità della disciplina ecclesiastica per garantire che non
ci si allontanasse troppo da queste lodevoli consuetudini: i chierici per
eccesso, i laici per difetto. Tra l’altro fu sancito in particolare che
esequie, funerali e sepolture di defunti – sia cittadini sia stranieri – non
dovessero essere impediti o ritardati per poter ottenere il denaro derivante da
questa pia consuetudine; inoltre, che non si dovesse pretendere niente per il
permesso di trasferire i cadaveri e seppellirli in un luogo piuttosto che in un
altro.
27. Da ciò dunque avrete compreso,
Venerabili Fratelli, che è intollerabile che nelle vostre diocesi si accetti
denaro, al di là delle consuete offerte collegate alle pietose incombenze che
si prestano al cadavere ed in suffragio dell’anima. Né il parroco – attuale o
abituale – dev’essere pagato in funzione della condizione del morto, della
distinzione del grado, ovvero in relazione alla posizione favorevole ed al
decoro dei luoghi nei quali i cadaveri devono essere inumati, sia in chiesa,
sia in luogo più prestigioso della chiesa. È inoltre aberrante per i sacri
canoni che il Vescovo pretenda o riceva denaro per seppellire qualcuno, sia
adulto, sia bambino, in qualsiasi chiesa diocesana o anche delle comunità
religiose. La sacra Congregazione del Concilio, intervenendo contro il Vescovo
vicentino e la sacra Congregazione dei Vescovi riunita a Gerona (Ad. 10,
Fagnani., cap. In ordinando de simonia, n. 32 ss.) hanno espresso chiara
condanna nonostante qualunque consuetudine contraria, anche antichissima.
28. Nella visita pastorale alla diocesi,
eviterete con poca fatica qualunque sospetto di avarizia e sarà chiaro a tutti
facilmente che voi chiedete non nel vostro interesse ma in quello di Gesù
Cristo, se vi atterrete scrupolosamente a quanto raccomandarono in materia i
Padri del Concilio Tridentino: “Si curino i Vescovi in visita di non
essere onerosi per nessuno con inutili spese; né personalmente né attraverso
qualcuno del seguito, accettino alcunché: né per aver in qualche modo
propiziato la visita, né per le pietose abitudini dei testamenti, eccetto quel
che deriva per legge dai lasciti pii. Non accettino, dunque, né denaro né doni
di qualunque tipo né a qualunque titolo offerti, nemmeno se in tal senso
esistano abitudini, anche antichissime. Restano esclusi soltanto gli alimenti,
che verranno forniti al vescovo ed al suo seguito in misura frugale, e soltanto
per il tempo necessario alla visita e non oltre. Coloro che ricevono la visita
possono decidere se preferiscono consegnare una somma di denaro predeterminata,
come solevano fare in precedenza, oppure fornire le citate vettovaglie (Sess.
24, cap. 3, De ref.).
29. Su questo decreto vennero prodotte diverse dichiarazioni e decisioni della sacra Congregazione del Concilio, alcune delle quali è qui opportuno riportare. Il primo argomento del quale si discusse più volte fu se il vescovo potesse esigere le cosiddette “provvigioni” in occasione della visita alla cattedrale ed al clero della città – o altro luogo – in cui risiede abitualmente. Quando fu chiaro che la “provvigione” era stata istituita dal Concilio di Trento per la visita alla diocesi, e che non si faceva alcuna menzione della città; inoltre che lo stesso Concilio aveva imposto la somministrazione di vettovaglie “soltanto per il tempo necessario“, e che pareva pertanto non ce ne fosse alcuna necessità quando il Vescovo visita luoghi nei quali è tenuto a risiedere ovvero nei quali trascorre parte dell’anno; la sacra Congregazione stabilì che gli antichi canoni di diverso avviso ed ogni usanza contraria erano stati rimossi dal decreto del citato Concilio di Trento, e pertanto rispose costantemente in modo negativo al dubbio proposto (in particolare per la “provvigione” nel caso di Castres del 17 novembre 1685, per quella di Alife del 18 luglio 1705, per quella di Policastro del 1 giugno 1737 e recentemente per quella di Valenza del 30 gennaio 1768). Di identico parere era stata la Congregazione dei Vescovi, come emerge dalla lettera al Patriarca di Venezia datata 26 maggio 1592, nonostante gli usi e qualunque motivazione contraria.
30. Oltre a ciò che è sancito nel citato decreto del Concilio di Trento (in relazione alla materia trattata anche nel cap. Si episcopus de off. Ordinarii, 6) si presti specifica attenzione affinché né il Vescovo né chiunque del suo seguito, invocando la “provvigione”, accetti denaro o doni di qualunque natura, anche se spontaneamente offerti, eccezion fatta soltanto per le vettovaglie, o per l’offerta corrispondente ad esse, se coloro che vengono visitati avranno preferito questa forma di contribuzione. Nondimeno, alcuni ritennero che fosse loro lecito ricevere, oltre che il denaro delle vettovaglie o le vettovaglie stesse, anche vetture a cavalli per sé e per il proprio seguito ed anche qualcos’altro, con qualche motivazione non religiosa. Essi tuttavia furono sempre condannati dalla sacra Congregazione del Concilio ed il loro comportamento costantemente contestato, in quanto contrario sia ai sacri canoni sia al Concilio Tridentino. Nella visita pastorale di San Marco, tra gli altri vennero proposti questi due quesiti: “V) Se il clero sia obbligato a pagare qualcosa ai ministri ed agli altri rappresentanti del vescovo in visita; VI) Se lo stesso clero sia tenuto a pagare al vescovo in visita la vettura a cavalli“. Il 7 luglio 1708 questa fu la risposta: “Si doveva tener conto dei decreti già precedentemente pubblicati ed in particolare, per il V quesito, della sessione Amalfitana del 18 luglio 1699 (lib. 3, Decr. 49, p. 252); per il VI, di quella Abruzzese del dicembre 1784 (lib. 4, Decr. p. 10)”. Il senso che derivava dalla risposta e che si desume anche dagli altri decreti citati è chiaramente questo: per il quesito V, l’obbligo riguarda soltanto le vettovaglie, secondo la norma conciliare; per il quesito VI, la risposta è negativa. – Si ritornò in argomento in un’altra causa di San Marco il 16 gennaio 1723, al III quesito: “Se la predetta “provvigione“ abituale sia da pagare per intero, nella solita quantità di denaro, secondo gli usi di ciascun luogo che viene visitato, quando al vescovo ed al suo seguito vengono offerti anche tre pranzi, le vetture, l’alloggio e tutto il resto necessario, secondo l’invocata, antichissima consuetudine“. Il IV quesito proponeva: “Se al Vescovo ed al suo seguito debbano essere assicurati i cibi e tutto il necessario per tutto il tempo della visita“. Al III quesito la sacra Congregazione rispose che “dipendeva da coloro che ricevevano la visita pagare la “provvigione“ in natura o in denaro, esclusi comunque i tre pranzi nel caso che si sia scelto il denaro; quanto alle vetture con cavalli si facesse riferimento al decreto del 7 luglio 1708, in sancti Marci ad VI“.Per il IV quesito valeva quanto risposto al terzo. Analogamente, per la “provvigione” di Policastro, quando fu presentato il II dubbio “se il predetto Vescovo possa pretendere dallo stesso arciprete e dai chierici, oltre alla “provvigione“ di 15 ducati, pagati in moneta, anche le vettovaglie e le carrozze per sé e per il suo seguito, nel caso che, ecc.“, il giorno 1 giugno 1737 giunse il responso al II dubbio: “Negativo“”.
31. Si discusse anche se il vescovo e i suoi ufficiali potessero pretendere ed esigere qualche emolumento qualora, durante la visita pastorale, convalidassero testamenti per cause pie e legati pii, e curassero di avviarne l’esecuzione. In questa materia la sacra Congregazione del Concilio deliberò nella seduta di Maiorca del 7 agosto 1638, asserendo che il vescovo e i suoi ufficiali non possono ricevere pagamenti per i decreti emessi durante la visita, e nemmeno per le delibere di esecuzione dei legati pii, anche se in tal senso esistano consuetudini antichissime. Questione non dissimile sorse nel 1645 fra il vescovo di Vicenza da una parte ed i giurati del re della città di Minorissa Pratorum dall’altra. Sottoposta la materia alla stessa santa Congregazione, la risposta giunse sotto la data del 18 marzo dello stesso 1645 e fu del seguente tenore: “La sacra Congregazione ha stabilito che il vescovo in visita e i suoi incaricati non possono ricevere alcunché per i decreti o per le delibere di esecuzione dei testamenti o dei legati, ma debbono compiere il tutto gratuitamente, nonostante qualunque precedente consuetudine, anche antichissima. Al di fuori della visita, il Vescovo ed i suoi incaricati possono ricevere denaro per decreti di questo tipo e per le delibere, ma solo quel tanto che verrebbe pagato – senza sprechi – al notaio per la stesura e per l’impegno, così come affidato alla coscienza del vescovo, nonostante qualunque consuetudine, anche antichissima“. Ciò fu deliberato anche ad Elnen il 28 marzo 1648, al quesito VIII. – A questo non sarà superfluo aggiungere quel che leggiamo essere stato sapientemente fissato nel consiglio provinciale di Milano V: “Il notaio o il cancelliere non esiga alcunché durante la visita pastorale da parte di coloro che sono visitati e non accetti doni di alcun tipo, nemmeno piccolissimi, offerti in qualunque modo; niente neppure per la emanazione dei decreti e delle ordinazioni effettuata durante la visita, per la scritturazione o per la riproduzione delle copie, né da singoli, né da chiese, né da sacerdoti, né dagli altri che ricevono la visita, come dispone l’editto di visita. È invece consentito che sia pagato (secondo il tariffario vigente o da fissare nel tribunale ecclesiastico) per la fatica e l’impegno profusi nel trascrivere le copie di cui – in tempo successivo – qualcuno interessato avrà fatto domanda“.
32. Queste norme debbono essere
rispettate anche nella ricognizione dei libri che contengono i legati pii e il
loro adempimento, nonché nella resa dei conti delle amministrazioni
ecclesiastiche, delle confraternite, dei monti di pietà, e delle altre
istituzioni pie, per il cui sviluppo sia il vescovo sia i suoi rappresentanti
debbono impegnarsi gratuitamente, come si evince da quanto detto
precedentemente e come ha dichiarato la sacra congregazione nel concilio di
Vicenza del 27 giugno 1637, affermando: “Né al vescovo né ai suoi
rappresentanti è lecito accettare alcunché per l’amministrazione delle opere
pie o per l’esecuzione dei testamenti e delle volontà pie, ma tutto dev’essere
fatto gratuitamente, nonostante qualunque consuetudine, anche contraria“.
Il 20 settembre 1710, durante la confraternita di Lanciano, al X dubbio,
nel quale si chiedeva “Se l’Arcivescovo debba valersi, per la stesura
dei bilanci, di sindaci ovvero di persone esperte elette dai confratelli,
oppure possa rivolgersi a chi gli pare meglio“, la sacra
Congregazione rispose “negativo“al primo quesito ed
“affermativo” al secondo, ma gratuitamente (tomo 6, Thes.
resolut., p. 164). Nonostante il Vescovo debba darsi da fare affinché la
revisione dei libri sia effettuata gratuitamente e la relazione sia stesa dal
suo notaio o da un economo di casa o da chiunque altro addetto al suo servizio;
tuttavia può accadere talvolta che per gravi ed urgenti motivi sia opportuno
designare a pagamento un estraneo che non abbia alcun obbligo. Ogni volta che
ciò accada, il vescovo stabilirà secondo giudizio e coscienza la congrua
remunerazione per il revisore, commisurata al puro e semplice impegno, come
sancì la sacra Congregazione a Veroli il 30 gennaio 1682 (lib. 35, Decret.
f. 283), a Benevento il 7 giugno 1683 ed a Pesaro l’11 dicembre dello stesso
anno.
33. A fronte di queste affermazioni
della sacra Congregazione, solidamente basate sui sacri canoni, e dei decreti
del Concilio Tridentino, non possono assolutamente essere accettate alcune
consuetudini, che hanno più l’aspetto di corruzione, in forza delle quali
alcuni vescovi e loro rappresentanti, mentre effettuano le sacre visite,
ricevono qualche pagamento per l’esame di alcuni testamenti, oppure per la
relazione contabile che esigono dagli amministratori di chiese o luoghi pii;
oppure approfittano per tutto il tempo della visita della carrozza a cavalli o
di qualche pranzo; oppure cercano di ottenere i lumini o le candele collocate
sull’altare principale del tempio o anche su altri altari. Tutte queste
abitudini, e le analoghe che sussistano, contrarie alle predette sanzioni,
debbono essere assolutamente abolite: lo disponiamo ed ordiniamo!
34. Sebbene, sulla base della citata decisione della sacra Congregazione, adottata in Vicenza il 18 marzo 1645, il vescovo o il suo rappresentante, sia durante la visita sia al di fuori, non possa accettare alcunché per i decreti o le deliberazioni di esecuzione testamentaria di legati, ma debba svolgere ogni incarico gratuitamente, tuttavia durante le sacre visite può accettare la parte dovuta dei legati pii, delle offerte e delle altre beneficenze che vengono fatti alla chiesa in occasione dei funerali; tale quota parte viene popolarmente definita come “quarta canonica“, come fu risposto dalla stessa sacra Congregazione nelle riunioni di Urgel il 25 gennaio 1676 ed il 14 febbraio 1693 all’ottavo dubbio. I vescovi traggono questo diritto dai sacri canoni (cap. Officii 14, e Requisiti 5 de testamentis) che il Concilio Tridentino volle mantenere in vigore, come dimostra il fatto che proibì severamente ai vescovi di accettare alcunché per la visita, nemmeno in funzione dei pii usi dei testamenti, “eccetto ciò che per diritto è dovuto per i legati pii” (cit. sess. 24, cap. 3 De ref.). Ovviamente i vescovi devono mantenersi moderati nell’esigere questa parte, ossia la “quarta canonica“, e osservare i limiti fissati dagli stessi sacri canoni nel capitolo finale De testamentis, dove così si legge: “La parte canonica non deve essere dedotta da quelle offerte che vengono fatte alla chiesa, o alle altre strutture ecclesiastiche, per ornamenti, per l’edificio, per le luminarie, o in occasione di un anniversario, di un settimo giorno, di un vigesimo o di un trigesimo, o in modi diversi per la prosecuzione del culto divino“. Analoghi concetti si leggono nel capitolo “Ex parte de verb. signif.“. Inoltre non si deve operare alcuna deduzione dai legati per il matrimonio delle fanciulle – come dispose la sacra Congregazione dei Vescovi nella riunione di Nocera dei Pagani il 14 Settembre 1592 – né da quelli per la celebrazione delle messe (come stabilì la Sacra Congregazione del Concilio in un’altra seduta a Nocera dei Pagani, con il decreto Quartae canonicœ, 13 gennaio 1714, lib. 64), sebbene a tempo immemorabile al Vescovo venisse versata la quarta parte da tutti i legati pii.
35. Per quanto riguarda i monasteri
delle monache o le case religiose nelle quali le donne vivono come monache,
solitarie e lontane dagli impegni del mondo, è stato spesso ribadito dalle
Costituzioni apostoliche e dalla sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari
(con il parere favorevole e l’autorevole approvazione dei sommi Pontefici) che
né i vescovi, né altri prelati o loro vicari generali, delegati speciali,
rappresentanti, ministri, consanguinei o addetti possano assolutamente esigere
o accettare emolumenti in denaro o in altra natura per l’ammissione delle
fanciulle all’abito monastico; per l’approvazione del deposito della dote; per
la verifica della volontà e della disposizione d’animo ad assumere l’impegno
della vita regolare; per la pronuncia della professione; per l’accesso delle
fanciulle al beneficio dell’educazione; per la rinuncia prima dell’ammissione
alla professione; per l’elezione della badessa o di altra superiora; per
l’autorizzazione a far entrare in monastero il medico, il chirurgo od altri
operatori; per la facoltà di parlare alle monache o alle altre persone che
vivono entro i chiostri del monastero; per la delega dei confessori, dei
cappellani, dei procuratori, degli amministratori dei beni temporali e degli
altri ministri, ed in generale per ogni atto necessario al regime monastico.
36. Da questa regola generale fanno eccezione soltanto le vettovaglie, che possono essere offerte al Vescovo o ad altro prelato, in occasione di alcuni dei predetti atti; purché ciò sia l’unico introito e donativo e non ecceda quel che può loro servire per il tempo di tre giorni. Il cancelliere, per il documento delle rinunzie e per l’atto di deposito della dote, riceverà un onorario adeguato al lavoro e comunque non superiore a dieci giulii.
37. Oltre a queste, in molte altre situazioni che appartengono all’esercizio della potestà spirituale (dalla quale dev’essere assolutamente assente ogni retribuzione umana) e che competono al vescovo (per il cui sostentamento e per la cui gestione sono destinati gli introiti della mensa), ai vescovi non è consentito accettare nessun ulteriore emolumento, diretto o indiretto, a qualunque titolo e proposto con qualunque motivazione, nemmeno se spontaneamente donato; analogamente, ciò non è consentito ai loro vicari, né a qualunque rappresentante o impiegato. – Qui elenchiamo, Venerabili Fratelli, le
voci principali, desunte dai sacri canoni, dalle Costituzioni apostoliche e dai
decreti delle sacre Congregazioni, delle quali più frequente e nota è la
menzione presso i dottori.
38. Per le cosiddette lettere patenti, cioè per il permesso di predicare in quaresima e in avvento, o in altro tempo e luogo (Conc. Trid., sess. 5, cap. 2, De reform.). – Per la licenza di dedicarsi a lavori servili, per gravi motivi, nei giorni festivi (Urbano VIII, Constit. Universa e numerose sacre Congregazioni del Concilio e dei vescovi, apud Ferrar. verb. festa, n. 31 seg.), anche se il denaro derivante dall’autorizzazione venga destinato a scopi pii. – Per la resa dei conti dell’amministrazione delle chiese e dei luoghi pii e per la revisione dei libri della stessa amministrazione, sia che sia fatta dal vescovo, sia da un altro incaricato del vescovo con delega generale o speciale, con l’eccezione, tuttavia, indicata precedentemente. – Per il riconoscimento, l’approvazione e la promulgazione delle reliquie, delle indulgenze e degli altari privilegiati. – Per l’autorizzazione a chiedere elemosine ed altro, anche se concessa a forestieri. – Per la nomina dei custodi delle chiese, i cosiddetti eremiti. – Per la lettera testimoniale di povertà o di qualche altro requisito. Il cancelliere tuttavia potrà percepire complessivamente dieci oboli. – Per la lettera con la quale si attesta che uno non ha ricevuto alcun ordine, nemmeno la tonsura clericale. Al cancelliere tuttavia potranno essere dati al massimo dieci oboli. – Per l’atto di rinuncia allo stato clericale, e per la sua ammissione, o anche per la lettera o attestazione della rinuncia stessa. Per questa lettera tuttavia il cancelliere potrà esigere dieci oboli. – Per la consultazione dei libri parrocchiali già trasferiti nell’archivio vescovile: libri nei quali sono indicati i battezzati, i cresimati, gli sposati e i morti. Per ciascuna consultazione su domanda, il cancelliere potrà ricevere al massimo venti oboli ed altrettanti per l’autenticazione del dato richiesto, a meno che la dignità della persona richiedente oppure l’uso della lettera testimoniale oltre i confini della diocesi o del regno non consentano un onorario maggiore. – Nel caso in cui la certificazione richiesta non risulti dai libri parrocchiali, e per ricavarla sia necessario mettere a confronto dei testimoni, oltre la mercede nella misura stabilita per l’escussione dei testi e per la redazione dell’atto, al cancelliere sarà consentito ricevere altri quindici oboli per la pubblicazione della lettera testimoniale; al vicario generale saranno pagati trenta oboli per i decreti con i quali avrà disposto la raccolta di informazioni e – dopo averle assunte e verificate personalmente – avrà ordinato la spedizione della lettera testimoniale. – Per l’autorizzazione a lasciare la
chiesa o il beneficio (Conc. Trid. sess. 23,
cap. 1 De ref.). Inoltre
per le lettere commendatizie che vengono consegnate ai sacerdoti, ai chierici e
a coloro che sono in partenza per altre diocesi. – Per le lettere ammonitorie
di scomunica che palesino segreti, autorizzate dalla curia vescovile e
dall’Ordinario, o quando si tratti di pubblicare lettere ammonitorie
apostoliche. Il cancelliere riceverà dieci oboli per l’impegno della stesura.
Lo stesso cancelliere sarà gratificato di un ulteriore compenso da parte del
vescovo, che ne fisserà anche l’importo, per completare la trascrizione delle
notizie che vengono rivelate, previo decreto del vicario. – Per la trascrizione
di un’ammonizione, di una sentenza o della dichiarazione di censure nelle quali
sia incorso qualcuno per avere percosso degli ecclesiastici o per qualsiasi
altra causa, anche nel caso di sentenza assolutoria e della stessa assoluzione
dalle censure (cap. Ad aures de simonia). Il cancelliere potrà ricevere
al massimo venti oboli in pagamento della stesura, purché non si tratti di
lettere provenienti dalla sacra Penitenzieria apostolica; per quelle che si
riferiscono alla predetta assoluzione, il cancelliere non potrà ricevere alcun
compenso. Venti oboli spetteranno al cancelliere anche per le schede di censura
– i cosiddetti “cedoloni” – e per la loro affissione come d’abitudine.
Analoga norma sarà applicata per la liberazione da un giuramento, con
l’avvertenza che se essa sarà concessa nella curia ecclesiastica il cancelliere
potrà ricevere per l’attestazione soltanto venti oboli; se essa verrà concessa
fuori curia, per la lettera di delega allo stesso cancelliere verranno pagati
altrettanti oboli.
Per l’autorizzazione a tenere
pontificali.
Per dar corso alle lettere apostoliche che impartiscono benedizioni o assoluzioni; per le lettere con le quali la stessa facoltà viene attribuita ai parroci o ad altri, con l’inserimento di dette lettere apostoliche, al cancelliere saranno pagati, tutto compreso, soltanto trenta oboli. – Per l’esecuzione delle lettere apostoliche relative all’autorizzazione impetrata presso la sacra Congregazione ad alienare o permutare i beni delle chiese e dei luoghi religiosi, oppure ad imporre censi, il cancelliere riceverà un compenso proporzionato alla fatica compiuta per completare la pratica e le scritture. Comunque esso non supererà i dieci giulii. Se la Santa Sede avrà incaricato l’Ordinario di accertare la veridicità di quanto esposto nella supplica, allora al cancelliere toccheranno dieci oboli per ogni teste sottoposto ad esame. Tenuto conto della mole del lavoro, gli si potrà anche assegnare un certo compenso, secondo il giudizio e la coscienza del vescovo, per gli editti, ogni volta che siano prescritti; per l’esame dei testimoni teso ad accertare l’utilità dell’alienazione; e per tutti gli altri adempimenti che – come di consueto occorre portare a termine in questa materia. – Per il decreto d’alienazione che, in
base al cap. Terrulas 12, q. 2, viene emesso solo dall’autorità
ordinaria.
39. Infine le multe o le pene pecuniarie
– quando saranno rese necessarie dalla natura del reato o dalle caratteristiche
di chi lo commette – saranno devolute a scopi pii e per l’attuazione della
giustizia, in modo che nulla torni a vantaggio personale del vescovo o dei suoi
vicari o di chiunque dei suoi rappresentanti, né direttamente né
indirettamente. Per eliminare ogni dubbio o sospetto di non corretta
applicazione delle multe, sarà meglio – e perciò lo riteniamo necessario – che
nelle sentenze stesse siano designate le istituzioni religiose o le chiese a
favore delle quali devono essere destinate le predette pene pecuniarie, tenendo
sempre conto, in ciò, di quelle che hanno maggior bisogno ed anche del
domicilio di coloro che hanno commesso il reato.
40. Bisognerebbe aggiungere a questo
punto alcune note sul foro del contenzioso, affinché la disciplina ecclesiastica
anche sotto questo profilo riconquisti la dignità e lo splendore originari. Di
questo tuttavia converrà deliberare dopo un giudizio più approfondito e una
volta assunte informazioni complete sulle consuetudini in uso in codeste
diocesi. Vi è un principio, per ora, sulla quale non possiamo mantenere il
silenzio e che anzi vogliamo trasmettervi ed inculcarvi con forza: gli
ecclesiastici impegnati nell’emettere sentenze nelle cause spirituali svolgano
il loro compito santamente, pietosamente e religiosamente, in modo che in loro
non appaia nulla che offuschi con la minima ombra il candore della purezza
ecclesiastica. Ne discenderà in primo luogo che i giudici ecclesiastici delle
vostre diocesi non richiederanno o accetteranno alcun pagamento né per gli atti
né per le sentenze pronunciate nelle cause spirituali; in particolare in quelle
che riguardano la religione (come quelle contro i sospetti di eresia e i
colpevoli di superstizione) o i fidanzamenti, i matrimoni, le censure,
eccetera. Per questo motivo, “Ricordatevi (sono parole di Innocenzo
III ai prelati e ai sacerdoti della Lombardia, nel cap. Cum ab omni, sui
comportamenti e l’onestà dei religiosi) che le entrate ecclesiastiche sono
destinate a favore vostro e degli altri chierici, perché con esse dobbiate
vivere onestamente e non vi sia necessario stendere la mano verso turpe lucro,
oppure abbassare gli occhi verso impegni non corretti. Poiché le vostre opere
debbono essere di luminoso esempio ai laici, non vi sia lecito cogliere
l’occasione di fare turpe commercio del diritto, come fanno i civili. Perciò
ordiniamo e disponiamo che – astenendovi per il futuro da esazioni di questo
tipo – individuiate come trasmettere gratuitamente ai litiganti il vigore della
decisione giudiziaria, nonostante ciò che viene proposto fraudolentemente da
alcuni, secondo i quali la stessa cifra venga pretesa a favore degli
assistenti, poiché al giudice non è lecito commerciare un giudizio equo, e le
sentenze a pagamento sono vietate anche dalle leggi civili“.
41. Questi sono, Venerabili Fratelli, gli obiettivi che abbiamo ritenuto giusto sottoporvi, in favore della causa apostolica, per la quale siamo impegnati, e per gli obblighi assunti. Se, come è giusto e come speriamo in Dio, voi li realizzerete, tutto ciò gioverà allo splendore della disciplina ecclesiastica, alla tranquillità delle vostre coscienze e soprattutto al benessere del gregge a voi affidato. – Riteniamo che questi adempimenti non vi risulteranno né onerosi né molesti, quantunque vediamo che con queste norme verrà meno una parte dei vostri consueti emolumenti. Un sospetto di questo tipo nei vostri confronti ci è comunque impedito dalla vostra attenta devozione, dalla vostra ben nota religiosità e dall’impegno per mantenere la disciplina ecclesiastica, sulla base dei quali giudicherete certamente un danno per Cristo ciò che finora rappresentava per voi un vantaggio economico. Individuerete come autentico motivo di guadagno esclusivamente il fatto che nelle vostre diocesi cresca sempre più l’adorazione per Dio ottimo e massimo, e che i popoli affidati alla vostra fede e alla religione si nutrano più facilmente e più felicemente della vostra parola e del vostro esempio. – Inoltre siamo stati pienamente informati da coloro che ben conoscono le vicende ecclesiastiche di codesta isola, ed in particolare a nome del re, che per voi rappresentano un vantaggio coloro che, ritagliandosi piccoli compensi (che non vi sarà consentito d’ora in avanti esigere), si curano del decoro e della dignità del loro Vescovo e provvedono alle necessità delle chiese. Per non sperare di ricevere alcun aiuto da coloro ai quali vi siete appoggiati fin qui per antichissima consuetudine, converrà che vi ricordiate la famosa frase di Alessandro III (cap. Cum in ecclesia, de simonia)con la quale quel sommo Pontefice rimproverava coloro che inopportunamente si tenevano attaccati alle loro abitudini: “Molti ritengono che ciò sia loro lecito, poiché pensano che la legge della morte si sia rafforzata per la lunga consuetudine, non riflettendo a sufficienza – accecati come sono dalla cupidigia – che quanto più gravi sono i peccati tanto più a lungo le loro anime saranno incatenate“. –Dunque rigettiamo e condanniamo queste abitudini, anche se antichissime e persino immemorabili; anche se corroborate e confermate da costituzioni sinodali o da qualunque altra autorità, anche apostolica. Dichiariamo, stabiliamo ed ordiniamo che debbano essere considerate come abusi e fonte di corruzione. Animati da sollecitudine per le vostre chiese. come questa lettera ampiamente dimostra, abbiamo in Noi saldissima la speranza che voi non lesinerete impegno, diligenza ed attenzione. – Frattanto, in pegno del Nostro amore paterno nei vostri confronti e della Nostra benevolenza, vi impartiamo la Benedizione Apostolica.
Dato a Roma, in Santa Maria
Maggiore, il 21 settembre 1769, nel primo anno del Nostro Pontificato.
(Messale Romano
di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G.
LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Semidoppio. –
Paramenti bianchi.
La Chiesa ha scelto, per celebrare la festa del Corpus Domini, il giovedì che è fra la domenica, nella quale il Vangelo parla della misericordia di Dio verso gli uomini e del dovere che ne deriva per i Cristiani di un amore reciproco (la dopo Pentecoste) e quella (II dopo Pentecoste) nella quale si ripetono le stesse idee (Epist.) e si presenta il regno dei cieli sotto il simbolo della parabola del convito di nozze (Vang.). [Questa Messa esisteva coi suoi elementi attuali molto prima che fosse istituita la festa del Corpus Domini. Niente infatti poteva essere più adatta all’Eucaristia, che è il banchetto ove tutte le anime sono unite nell’amore a Gesù, loro sposo, e a tutte le membra mistiche. Niente poi di più dolce che il tratto nel quale si legge nell’Ufficio la storia di Samuele che fu consacrato a Dio fin dalla sua più tenera infanzia per abitare presso l’Arca del Signore e diventare il sacerdote dell’Altissimo nel suo santuario. La liturgia ci mostra come questo fanciullo offerto da sua madre a Dio serviva con cuore purissimo il Signore nutrendosi della verità divina. In quel tempo, dice il Breviario, « la parola del Signore risuonava raramente e non avvenivano visioni manifeste », poiché Eli era orgoglioso e debole, e i suoi due figli Ofni e Finees infedeli a Dio e incuranti del loro dovere. Allora il Signore si manifestò al piccolo Samuele poiché « Egli si rivela ai piccoli, dice Gesù, e si nasconde ai superbi », e S. Gregorio osserva che « agli umili sono rivelati i misteri del pensiero divino ed è per questo che Samuele è chiamato un fanciullo ». E Dio rivelò a Samuele il castigo che avrebbe colpito Eli e la sua casa. Ben presto, infatti l’Arca fu presa dai Filistei, i due figli di Eli furono uccisi ed Eli stesso mori. Dio aveva così rifiutato le sue rivelazioni al Gran Sacerdote perché tanto questi come i suoi figli non apprezzavano abbastanza le gioie divine figurate nel « gran convito » di cui parla in questo giorno il Vangelo, e si attaccavano più alle delizie del corpo che a quelle dell’anima. Così applicando loro il testo di S. Gregorio nell’Omelia di questo giorno, possiamo dire che « essi erano arrivati a perdere ogni appetito per queste delizie interiori, perché se n’erano tenuti lontani e da parecchio tempo avevano perduta l’abitudine di gustarne. E perché non volevano gustare la dolcezza interiore che loro era offerta, amavano la fame che fuori li consumava». I figli d’Eli Infatti prendevano le vivande che erano offerte a Dio e le mangiavano; ed Eli, loro padre, li lasciava fare. Samuele invece, che era vissuto sempre insieme con Eli aveva fatto sue delizie le consolazioni divine. Il cibo che mangiava era quello che Dio stesso gli elargiva, quando, nella contemplazione e nella preghiera gli manifestava i suoi segreti. « Il fanciullo dormiva» il che vuol dire, spiega S. Gregorio, «che la sua anima riposava senza preoccupazione delle cose terrestri ». « Le gioie corporali, che accendono in noi un ardente desiderio del loro possesso, spiega questo santo nel suo commento al Vangelo di questo giorno, conducono ben presto al disgusto colui che le assapora per la sazietà medesima; mentre le gioie spirituali provocano il disprezzo prima del loro possesso, ma eccitano il desiderio quando si posseggono; e colui che le possiede è tanto più affamato quanto più si nutre ». Ed è quello che spiega come le anime che mettono tutta la loro compiacenza nei piaceri di questo mondo, rifiutano di prender parte al banchetto della fede cristiana ove la Chiesa le nutre della dottrina evangelica per mezzo dei suoi predicatori. « Gustate e vedete, continua S. Gregorio, come il Signore è dolce ». Con queste parole il Salmista ci dice formalmente: «Voi non conoscerete la sua dolcezza se voi non lo gusterete, ma toccate col palato del vostro cuore l’alimento di vita e sarete capaci di amarlo avendo fatto esperienza della sua dolcezza. L’uomo ha perduto queste delizie quando peccò nel paradiso: ma le ha riavute quando posò la sua bocca sull’alimento d’eterna dolcezza. Da ciò viene pure che essendo nati nelle pene di questo esìlio noi arriviamo quaggiù ad un tale disgusto che non sappiamo più che cosa dobbiamo desiderare. » (Mattutino). « Ma per la grazia dello Spirito Santo siamo passati dalla morte alla vita » (Ep.) e allora è necessario come il piccolo e umile Samuele che noi, che siamo i deboli, i poveri, gli storpi del Vangelo, non ricerchiamo le nostre delizie se non presso il Tabernacolo del Signore e nelle sue intime unioni. Evitiamo l’orgoglio e l’amore delle cose terrestri affinché « stabiliti saldamente nell’amore del santo Nome di Dio » – (Or.), continuamente « diretti da lui ci eleviamo di giorno in giorno alla pratica di una vita tutta celeste » (Secr.) e « che grazie alla partecipazione al banchetto divino, i frutti di salute crescano continuamente in noi » (Postcom.).
Incipit
In nómine Patris,
☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps XVII: 19-20.
Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.
[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene] Ps XVII: 2-3
Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus.
[Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.]
Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.
[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]
Oratio
Orémus.
Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis.
[Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]
“Caríssimi: Nolíte mirári, si
odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam
dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem
suum, homícida est. Et
scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem.
In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et
nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi,
et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo:
quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo
neque lingua, sed ópere et veritáte.”
I Omelia
[A.
Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli,
Pavia, 1920]
L’ODIO
“Carissimi: Non vi meravigliate se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida; e sapete che nessun omicida ha la vita eterna abitante in sé. Abbiam conosciuto l’amor di Dio da questo: che egli ha dato la sua vita per noi; e anche noi dobbiam dare la vita per i fratelli. Se uno possiede dei beni di questo mondo e, vedendo il proprio fratello nel bisogno, gli chiude le sue viscere, come mai l’amor di Dio dimora in lui? Figliuoli miei, non amiamo a parole e con la lingua, ma con fatti e con sincerità”.
L’Epistola è tolta dalla prima lettera
di S. Giovanni. Poco prima delle parole riportate, aveva detto che Caino uccise
il fratello, perché era figlio del maligno. Caino è tipo del mondo, schiavo del
demonio. Non vi stupite quindi — prosegue S. Giovanni — se il mondo vi odia. Ci
sia di conforto il sapere che l’amore verso i fratelli è un segno che dalla
morte del peccato siamo passati alla vita della grazia. Rimane nella morte,
invece, chi odia il proprio fratello, essendo egli omicida e, come tale,
escluso dalla vita eterna. Dall’esempio di Gesù Cristo, che ha dato la vita per
noi, abbiamo conosciuto qual è la carità vera: essere anche noi disposti a dare
la vita per il proprio fratello. Tanto più dobbiamo, almeno, soccorrerlo coi
nostri beni quando si trova nella necessità. Senza questo il nostro amore non è
né sincero, né utile. Ci fermeremo a fare qualche osservazione sull’odio.
L’odio:
1. Non si può giustificare,
2 Specialmente dal Cristiano che teme
Dio,
3 E che non è insensibile alla bontà di
Lui.
1.
Chiunque odia il proprio fratello è omicida. È un’affermazione che, sulle prime, sembra esagerata; ma non esprime che la pura verità. Da che cosa proviene l’omicidio? Spesso proviene dall’odio. L’odio spinse all’omicidio Caino, e ne spinse e ne spinge ancora tanti altri dopo di lui. Non sempre colui che odia arriva a compiere l’atto materiale dell’omicidio; ma quante volte l’omicidio è nel suo cuore. Non commette il delitto esternamente perché ha paura delle conseguenze, non tanto da parte della giustizia divina, quanto da parte della giustizia umana. Se non sempre l’odio arriva a tal punto d’essere equiparato all’omicidio, è sempre cosa condannevole, è sempre una cattiva passione. E la ragione e il buon senso insegnano che il lasciarsi dominare dalla passione è un degradare la dignità di uomo, è un andar contro al fine per il quale Dio ci ha creati. Dio ci ha dato la ragione, perché di essa ci serviamo per tendere sempre al bene. Non è sempre in nostro potere di dimenticare le offese ricevute. Ma l’andar sempre rimuginandole, il parlarne sempre, a proposito e a sproposito; dir male del nostro nemico ogni volta che ci capita l’occasione; cercar di pregiudicarne gli interessi, è cosa che dipende dalla nostra volontà, e che non può avere alcuna scusa. Non è sempre in nostro potere di non provare dei sentimenti d’odio; è sempre in nostro potere di non assecondarli. Il dire: non dimenticherò mai il torto ricevuto; un giorno o l’altro quella persona me la pagherà; me la son legata a un dito, ecc. sono disposizioni d’animo poco benevolo, e che vanno energicamente combattute. – Non sarà inutile, poi, considerare che queste disposizioni d’animo fanno generalmente più male a chi odia che a chi è odiato. Questi può non curarsi dell’odio del suo nemico, che intanto è agitato, triste, senza pace. Odio e invidia intorbidano la vita. «L’uomo — dice Giobbe — ha vita corta e piena di turbamento» (XIV, l). E questa misera vita già così corta e piena di turbamento per sé, dobbiamo turbarla ancor più, aggiungendovi di nostro la tortura che porta con sé l’odio?
2.
Noi Cristiani non dobbiamo dimenticare
che l’odio è contro il nostro bene spirituale. Chi cova nel cuore un odio grave
contro il fratello, non ha la vita eterna abitantein sé; cioè
non ha la vita della grazia, e senza questa non può aver diritto alla vita
eterna. Chi odia va contro a un comando espresso da Dio: «Non odierai il tuo
fratello nel tuo cuore» (Lev. XIX, 17). Gesù Cristo aggiunge: «Amate i vostri
nemici: fate del bene a coloro che vi odiano: e pregate per coloro che vi
perseguitano o calunniano» (Matt. V, 44). «Se — dice Tertulliano — siamo
obbligati ad amare i nostri nemici, chi ci resta da odiare? Così pure, se ci è
proibito di rendere il ricambio quando siamo offesi, per non diventare nel
fatto pari ai nostri offensori, chi possiamo noi offendere?» (Apol.) Non
possiamo né odiare, né offendere nessuno, se non vogliamo perdere la grazia di
Dio, e procurarci i castighi di lui. E che Dio castigherà severamente quelli
che nel loro odio non vogliono perdonare ai fratelli, è pur scritto nel
Vangelo. Il servo spietato della parabola del Vangelo, che non volle perdonare
il debito al suo conservo, fu dal padrone consegnato nelle mani dei manigoldi,
che lo mettessero in carcere. E Gesù chiude la parabola con questa
osservazione: «Così farà con voi il Padre mio celeste, se ognuno di voi non
perdonerà di cuore al proprio fratello » (Matt. XVIII, 35). Un giorno il
Signore chiamerà il Cristiano ostinato nel suo odio. Sarà una chiamata
perentoria. Nessuna dilazione sarà ammessa. Non titoli, non cariche, non
grandezza, non scienza, non oro, potranno impedirvi l’andata. E all’andata
seguirà un rimprovero da togliere ogni illusione: «Servo malvagio… non dovevi
aver pietà del tuo compagno, come io n’ho avuta per te?» (Matt. XVIII, 33) E
dopo un rimprovero e un confronto così schiacciante verrà una condanna ben
dura: essere dato in mano ai ministri della giustizia divina. – Un giovane
indiano di Spokane, nelle Montagne Rocciose, era stato ferito mortalmente da un
bianco. Il padre di lui avvisa i missionari, i quale avevano raccolto il
moribondo, che se il figlio moriva, egli avrebbe ucciso quanti bianchi poteva.
Il padre Cataldo, gesuita, s’incaricò di disporre alla morte l’indiano ferito,
e l’avvisò che doveva fare una buona confessione e prepararsi a comparire al
tribunale di Dio. Dopo una breve esortazione l’indiano si dichiarò pronto a
fare tutto quanto era necessario per salvare la sua anima. Prima della
confessione il Padre Cataldo gli domanda, se perdona ai suoi nemici. E il
giovane risponde: « Non mi hai detto forse di prepararmi a morir bene e di fare
una buona confessione? Come oserei domandar perdono a Dio, se io non perdonassi
prima al nemico? » (Celestino Testore, Memorie di un Vestenera, P. Giuseppe M.
Cataldo S. J. in: Le Missioni, della Compagnia di Gesù. 1928. p. 442-43).
Questo giovane Pellerossa, aveva tratto profitto a meraviglia dal Vangelo, che
ci impone di perdonare a tutti, e di non odiar nessuno.
3.
Più che dal timore dei castighi, l’uomo
dovrebbe esser spinto ad amare i suoi nemici, anziché odiarli, dalla grande
bontà di Dio che ha dato la sua vita per noi, che eravamo peccatori, che
non eravamo meritevoli che dei suoi castighi. La sua bontà arriva al punto da
ricevere il bacio da Giuda e da chiamarlo col nome di amico, quando questi sta
per tradirlo. Sulla croce prega in modo particolare per i suoi carnefici: «
Padre, perdona loro, perché non sanno quel che si fanno » (Luc. XXIII, 34). Se
è vero che gli esempi muovono più che le parole, nessun Cristiano può rimanere
indifferente a quanto ha fatto Dio per i suoi nemici. Nessuno può dire: è
impossibile amarli. Dio ci aiuta con la sua grazia a vincere i sentimenti di
avversione, di odio che sorgono nel nostro cuore verso dei nostri nemici. «
Temete il Signore Dio vostro, ed gli vi libererà dalle mani di tutti i vostri
nemici » (4 Re XVII, 39), dice il Signore a Israele. Nessun dubbio che
l’odio è un nemico spirituale molto difficile da vincere, se ci appoggiamo
sulle sole nostre forze. Non è più invincibile, se con noi c’è l’aiuto di Dio.
E Dio che ci comanda di vincer l’odio, ci dà anche l’aiuto necessario a
liberarcene. Chi teme di offendere il Signore ricorre a Lui fiducioso, e il
Signore lo aiuterà certamente. Ce l’assicura il discepolo prediletto. «Carissimi,
se il nostro cuore non ci condanna, abbiamo fiducia dinanzi a Dio: e qualunque
cosa domanderemo, la riceveremo da lui» (1 Giov. III, 2-22). Anzi, nella
sua bontà ci darà oltre quello che domandiamo. – L’eloquenza del suo esempio,
la promessa del suo aiuto ci lasciano indifferenti? Ecco, che si interpone fra
noi e il nostro offensore. E’ questo l’ultimo tentativo cui si ricorre quando
si vuol mettere la pace tra due persone. Se non si vuole perdonare
all’offensore, perché indegno, si perdoni per rispetto alla persona che
interpone i suoi buoni uffici. Filemone, ricco benefattore dei Cristiani, ha
uno schiavo che fugge, portandogli via del danaro. S. Paolo si interpone e
scrive a Filemone: «Se tu mi tieni per tuo intrinseco, accoglilo come me stesso;
e se ti ha fatto torto o ti deve ancora qualche cosa, metti ciò a mio conto»
(Filem. 17-18). Così fa Dio con noi. Se ti ha fatto torto. — dice al Cristiano
che cova l’odio contro il proprio fratello — se ha dei debiti da scontare,
questi mettili a mio conto, ecco che io rimetto tutto a posto. Le tue offese
contro di me sono innumerevoli, sono gravi. Ebbene, io voglio essere con te
tanto buono da perdonarti i tuoi gravi ed innumerevoli peccati se tu perdoni di
cuore le poche e leggere offese che ti ha fatto il tuo fratello: «Perdonate e
vi sarà perdonato. Date e vi sarà dato: vi sarà versato in grembo una misura
buona, piena, scossa e traboccante, perché con la medesima misura con la quale
avrete misurato, sarà rimisurato anche a voi» (Luc. VI, 37-38). Hai capito?
Dio, tuo giudice, da te offeso, è tanto buono da metterti la sentenza in mano.
Sta a te scegliere la sentenza che desideri. Può mai l’odio accecarti tanto da
ricusare una condizione favorevole al punto «da mettere in potere del
giudicando la sentenza di chi deve giudicare!» (S. Leone M. Serm. 17, 1). Se
ancora non sei deciso a cedere sappi che «non potrai trovare nessuna scusa nel
giorno del giudizio, quando sarai giudicato secondo la norma da te usata, e tu
stesso subirai ciò che hai fatto subire agli altri» (S. Cipriano: De Dom.
Oratione, 23). Ma voi non siate di questi. «Con voi sia la grazia, la
misericordia e la pace da Dio Padre, e da Cristo Gesù Figliolo del Padre, nella
verità e nella carità» (2 Giov. 1, 3).
Graduale
Ps CXIX: 1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me.
[Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]
Alleluja
Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja
[O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]
Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja.
[Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠
sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc. XIV: 16-24
“In illo témpore: Dixit Jesus
pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos.
Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta
sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et
necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter
dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et
álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus
nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito
in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc
huc. Et ait servus: Dómine,
factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias
et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod
nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit cœnam meam”.
(“In quel tempo disse Gesù ad uno di
quelli che sederono con lui a mensa in casa di uno dei principali Farisei: Un
uomo fece una gran cena, e invitò molta gente. E all’ora della cena mandò un
suo servo a dire ai convitati, che andassero, perché tutto era pronto. E
principiarono tutti d’accordo a scusarsi. Il primo dissegli: Ho comprato un
podere, e bisogna che vada a vederlo; di grazia compatiscimi. E un altro disse:
Ho comprato cinque gioghi di buoi, o vo a provarli; di grazia compatiscimi. E
l’altro disse: Ho preso moglie, e perciò non posso venire. E tornato il servo,
riferì queste cose al suo padrone. Allora sdegnato il padre di famiglia, disse
al servo: Va tosto per le piazze, e per le contrade della città, e mena qua
dentro i mendici, gli stroppiati, i ciechi, e gli zoppi. E disse il servo:
Signore, si è fatto come hai comandato, ed evvi ancora luogo. E disse il
padrone al servo: Va per le strade e lungo le siepi, e sforzali a venire,
affinché si riempia la mia casa. Imperocché vi dico, che nessuno di coloro che
erano stati invitati assaggerà la mia cena”
Omelia II
[Mons. J.
Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]
Sopra il peccato
veniale.
“Estote perfecti, sicut Pater vester cœlestis perfectus est”.
Matth. V.
Sebbene non sia in potere dell’uomo di giungere ad una perfezione uguale a quella di Dio, nulladimeno l’Essere Supremo, che ne vuole santi perché Egli è santo, ci propone la sua santità per modello della nostra, e vuole, per quanto l’umana debolezza ce lo permette, che ci affatichiamo alla nostra perfezione, seguendo quel gran modello. Ora come possiamo noi conformarvici? Con l’evitare non solo il peccato mortale, che è sommamente opposto alla santità di Dio, ma ancora le colpe leggiere, le quali, sebbene non ci privino della sua amicizia, non lasciano per altro di avere una certa opposizione alle perfezioni dell’Essere Supremo, il quale non può soffrire la minima macchia nelle sue creature. Sarebbe dunque un errore il credere che per arrivare ad una santità perfetta bastasse all’uomo astenersi dalle colpe enormi che ci chiudono l’ingresso al regno dei cieli, senza mettersi in pena di evitare le colpe veniali, che ritardano l’entrata in quel regno. Errore nulladimeno molto comune nel mondo, anche tra le persone che fanno professione di pietà, che passano leggermente su queste colpe, vi cadono a posta e non si prendono alcuna cura di correggersene; ma errore per altre essere fedele alle piccole osservanze di questa legge: Qui timet Domìnum, nihilnegligit (Eccli. XXXIV). Chi dunque trascura le piccole cose, chi commette colpe leggiere, non ha per Dio quel timor riverente che un figliuolo deve a suo padre. – Voi mi direte che temete il Signore evitando il peccato mortale, che non vorreste perdere la sua amicizia né essere privi del suo regno. É vero, fratelli miei, né io ve lo contendo; il peccato veniale non vi separa dall’amicizia di Dio, perché non è una ribellione così oltraggiante come il peccato mortale; non è già un sommo disprezzo delle perfezioni di Dio, né una preferenza della creatura al Creatore: ma non è forse una disubbidienza alla legge di Dio, e conseguentemente una offesa fatta alla sua maestà? Or non è forse un gran male il disubbidire a Dio, l’offender Dio? Se Dio è nostro padre, dov’è l’onore che se gli deve? Che direste voi d’un figliuolo che si contentasse di ubbidire a suo padre nelle cose importanti e non temesse di dargli mille piccioli disgusti, di dispiacergli in cose che, sebbene di poca conseguenza, provano meglio talvolta il buon naturale d’un figliuolo verso suo padre che non le più considerabili? Un figliuolo che ha mille compiacenze per suo padre, che teme di dispiacergli nelle più piccole circostanze, non prova forse meglio il suo amore di quello che non ubbidisce a suo padre e non lo rispetta che nelle occasioni in cui teme d’essere privato della sua successione? Il primo fa vedere che ama suo padre con amore disinteressato, e l’altro non l’ama che per suo interesse. Quando dunque vi contentate, fratelli miei, di evitare i mancamenti considerabili contro Dio, senza mettervi in pena di evitare quelli che sono leggieri, non si può forse dire che voi amate Dio non per sé stesso ma piuttosto per vostro interesse? Voi temete di perdere la sua amicizia col peccato mortale perché, perdendola, voi perdereste un regno eterno; ma poco vi curate di dispiacergli con mancamenti che l’offendono. Voi non l’amate dunque allora a cagione di se stesso; mentre se l’amaste in tal guisa, avreste a cuore i suoi interessi, gli rendereste la gloria che gli è dovuta, facendo tutte le vostre azioni per Lui. Ora una colpa veniale che voi commettete non può esser un’azione gloriosa a Dio, poiché non può ella essere riferita a questo fine. É dunque un’ingiuria che voi gli fate, preferendo la vostra soddisfazione all’ubbidienza perfetta che dovete alle sue leggi, e privandolo con questo della gloria che gli ritornerebbe dalla vostra ubbidienza. – E da ciò, fratelli miei, che ne segue? Che il peccato veniale, quantunque vi sembri leggiero ed effettivamente sia tale, è il male di Dio, un male ch’Egli non può approvare e che è obbligato di odiare; un male per conseguenza infinitamente superiore a tutti i mali della creatura. Che ne segue ancora? Che sarebbe meglio che l’universo intero perisse che offender Dio con un solo peccato veniale, che dire, per esempio, una sola menzogna leggiera. Se con un solo peccato veniale voi poteste convertire tutti i peccatori, gli eretici, gl’idolatri che sono al mondo, se voi poteste con un solo peccato liberare tutti i reprobi che sono nell’inferno, sarebbe meglio lasciare tutti i peccatori sulla terra nel loro funesto stato, lasciare tutti i reprobi nei loro supplizi, lasciarvi anche cadere tutti i predestinati, che commettere un solo peccato veniale per impedire tutti questi mali. Ciò vi sembra sorprendente, ma non deve esserlo quando si fa riflessione che il peccato veniale è il male di Dio, e tutti gli altri quelli della creatura; che il peccato veniale rapisce più di gloria a Dio e gli dispiace di più che non gli sono accette e gradite tutte le azioni dei santi. – Giudicate adesso, fratelli miei, del poco amore che voi avete per Dio dalla vostra facilità a commettere il peccato veniale. Ah! potete voi ancora trattar di bagattelle quelle infedeltà nell’adempiere i vostri piccoli doveri di Cristiano, quelle distrazioni volontarie nelle vostre preghiere benché di poca durata, quelle vanità nelle vostre parole, nel vostro vestire, quelle curiosità in discrete, quei raffinamenti d’amor proprio, quelle ricerche di voi medesimi, quella delicatezza sul punto d’onore, quelle sensualità nei banchetti, quelle piccole invidie contro del prossimo, quelle lievi ingiustizie, quell’indifferenza, quell’amarezza benché poco considerabile che voi avete contro di Lui, quelle maldicenze leggiere, quei piccoli scherzi che voi fate sui difetti altrui, quelle menzogne giocose, quelle piccole impazienze, quella vivacità di umore che voi non avete cura di reprimere? Tutto ciò vi sembra leggiero e di poca importanza; eppure sono infrazioni della legge di Dio, non offese fatte alla sua infinita maestà, infrazioni ed offese che vengono dal vostro poco timore di dispiacergli e dalla poca premura che avete di essere accetti e graditi ai suoi occhi. Ah! se voi aveste amore per Dio, basterebbe che una cosa gli dispiacesse per evitarla; niente vi sembrerebbe leggiero e di poca conseguenza a riguardo d’un Dio sì grande, d’un padre sì tenero, d’un amico sì benefico. Sì, fratelli miei, Dio è il migliore di tutti gli amici, niuno avvene sì generoso, sì fedele come Lui. Egli è stato il primo ad amarci e nel tempo anche in cui eravamo suoi nemici, benché non avesse bisogno di noi, Egli ci ha ricercati, come se noi gli fossimo utili: non cessa di darci a profusione i suoi favori, senza disgustarsi delle nostre infedeltà; noi siamo sempre sicuri di trovare in Lui il cuore più benefico di cui possiamo disporre a nostro vantaggio: Egli non ci abbandona giammai, qualora noi lo vogliamo, ed ancora ci ricerca, ci corre dietro nel tempo medesimo che l’abbandoniamo. Che se noi siamo in grazia di Lui, se siamo nel numero di quelle anime giuste in cui si compiace, noi abbiamo ancora molta maggior parte nella sua amicizia; la sua grazia mette tra Lui e noi l’unione la più intima, la più sincera e la più gloriosa per noi, poiché ella ci assicura il titolo di amici di Dio. Jam non dicam vos servos, sed amìcos. Or ditemi di grazia, fratelli miei, quali sono le leggi dell’amicizia? Che domandate voi ad un amico cui siete sinceramente e costantemente attaccati, cui date in ogni occasione prove del vostro buon cuore, per cui nulla avete di secreto e a cui fate parte dei vostri beni come del vostro affetto? Voi volete senza dubbio che questo amico si diporti nell’istesso modo a vostro riguardo, che abbia verso di voi tutta la confidenza e cortesia che voi avete verso di Lui, o che per lo meno non vi disgusti in cosa alcuna, siccome voi evitate tutto ciò che può dispiacergli. Che direste voi di quell’amico che limitasse la sua amicizia ai doveri essenziali, che non volesse per verità nimicarsi con voi, incorrere la vostra disgrazia con qualche cattivo ufficio, con oltraggi atroci al vostro onore o con danni considerabili nei vostri beni, che non volesse togliervi la vita; ma che niun caso facesse di ferirvi con piccoli motteggi, che vi offendesse con leggieri dispregi, che non prendesse all’occasione il vostro partito, ma piuttosto talvolta l’altrui difesa, in una parola, che vi disgustasse in mille piccole circostanze in cui la sincera amicizia si fa conoscere? Questa sorta di amici è alcune volte più insopportabile che un aperto nemico. Fate ora quest’applicazione a voi medesimi riguardo a Dio. Egli è il migliore di tutti gli amici, voi non potete dubitarne: voi avete mille volte provati, e provate ancora tutti i giorni, gli effetti della sua tenerezza. Perché dunque siete voi scortesi a suo riguardo, sino a ricusargli una piccola ubbidienza che vi domanda, sino a non volere sacrificargli quel leggiero risentimento, quella breve soddisfazione che le sue leggi vi proibiscono; sino a disgustarlo in mille incontri in cui un amore riconoscente e liberale deve manifestarsi? Ciò che voi gli ricusate è poco cosa, è vero; ma tutto è grande a riguardo d’un amico che si ama sinceramente; né è già amar Dio con quella pienezza di amore ch’Ei domanda, l’amare qualche cosa con Lui che non si ama per Lui, dice s. Agostino. Ah! le vostre piccole infedeltà sono in qualche modo più sensibili al cuor di Dio che gli oltraggi d’aperto nemico. Sarebbe molto meglio, vi dic’Egli, che voi foste freddi o caldi; ma perché voi siete tiepidi, io comincio a vomitarvi dalla mia bocca. Io non posso sopportarvi; soffrirei piuttosto gl’insulti d’un nemico che non ho tanto beneficato come voi; ma ciò di cui mi risento e che eccita il mio sdegno si è il vedervi pagare con somma ingratitudine i favori insigni di cui vi ho tante volte ricolmi. No, lo ripeto, Iddio non può soffrire alcuna infedeltà nelle sue creature, in quelle principalmente ch’Egli ama con amore sì tenero come le anime giuste. Lo stesso amore che ha per sé lo rende avverso a tutto ciò che è opposto alla sua santità e alla sua gloria. Egli si offende della minima difformità che ritrova in noi, la più leggiera macchia ferisce i suoi occhi infinitamente puri, perché la sua santità altro non è che una perfetta conformità alla sua legge. Ora, se è proprio dell’amicizia di produrre una conformità di voleri tra le persone che ella unisce, potete voi dire, fratelli miei, di seguir le regole di quest’amicizia, amando ciò che Dio non vuole e commettendo colpe le quali, benché leggiere, non lasciano però di dispiacergli? Se voi dubitate ancora che queste colpe gli dispiacciano, rappresentatevi per un momento le vendette terribili che Dio ne ha prese e che esercita ancora sopra le anime in cui ne restano alcune macchie. Un Mosè, uomo di Dio, strumento delle sue meraviglie, depositario della sua autorità, confidente dei suoi segreti, è privato dell’ingresso nella Terra Promessa per una leggiera diffidenza della possanza del suo Dio. Cinquantamila Betsamiti sono percossi dalla morte per avere gettato uno sguardo poco rispettoso sull’arca dell’alleanza. Davide vede il suo regno afflitto da una peste crudele per aver fatto per vanità la numerazione dei suoi sudditi. Anania e Saffira sua moglie cadono morti ai piedi degli Apostoli per aver detto una bugia. Se questi esempi non bastano, scendete in ispirito nel purgatorio, dove anime che sono amiche di Dio soffrono supplizi più rigorosi che tutto ciò che si può soffrire quaggiù di penoso, per aver commesse colpe veniali che non hanno espiate sopra la terra, e per cui sono talvolta ritenute lungo tempo prima di entrare nel soggiorno della gloria, dove nulla d’imbrattato può avere accesso. Dite dopo questo che le colpe leggiere sono bagattelle. No, fratelli miei, non bisogna chiamarle così, poiché esse sono non solamente una prova di poco amore per Dio, ma ancora una prova di poco zelo per la vostra salute.
II. Punto. Quantunque il peccato veniale non dia la morte alla nostra anima, perché non la priva della grazia santificante, che è la sua vita, egli è nulladimeno, dice s. Tommaso, una malattia che produce a suo modo i medesimi effetti sulla nostr’anima che le malattie corporali sui corpi. Le malattie del corpo l’indeboliscono, lo precipitano verso il sepolcro. Similmente il peccato veniale dispone l’anima a morire pel peccato mortale. Non è in vero, come dice ancora s. Tommaso, un allontanamento totale dal nostro ultimo fine, ma è uno sviamento che ci mette in pericolo di smarrirci e di perdere la nostra felicità eterna. E da ciò, fratelli miei, che dobbiamo noi conchiudere, se non che chi commette facilmente il peccato veniale ha ben poca cura della sua salute, poiché corre rischio di perdere la sua anima col peccato mortale? – Io non parlo già qui di coloro in cui il peccato veniale diventa mortale a cagione di qualche circostanza che lo rende tale; per esempio, dello scandalo ond’è seguito, d’una malvagia intenzione o affetto peccaminoso che l’accompagna, talché si commetterebbe eziandio che fosse mortale, e finalmente del dubbio che si ha se il tale o tale altro peccato veniale sia mortale; perciocché chi opera in questo dubbio pecca mortalmente pel rischio a cui si espone di fare un peccato mortale. Or egli è difficilissimo, dice s. Agostino, distinguere l’uno dall’altro, ed accade molto spesso che si prende per colpa leggiera, che si tratta da bagattella una cosa che da se stessa è un peccato di considerazione. Non parlo neppure di chi non vorrebbe evitare alcun peccato veniale, benché sia sicuro che è tale di sua natura: questa funesta disposizione è da se stessa peccaminosa, pel pericolo prossimo in cui esso si mette di peccare mortalmente. Egli è certo che in tutte le proposte circostanze, chi commette il peccato veniale corre un rischio evidente della sua salute. Parliamo dunque di chi senza malvagia intenzione commette indifferentemente il peccato veniale, e facciamogli conoscere che, sebbene egli sia sicuro che il peccato suo non è che veniale, si dispone nulladimeno a cadere nel mortale. È un oracolo pronunciato dallo Spirito Santo che chi trascura le cose piccole cadrà a poco a poco: Qui spernitmodica, paullatim decidet (Eccl.XIX). Chi è infedele nelle cose piccole, dice il Salvatore, lo sarà altresì nelle grandi. Ora qual è la cagione di questa caduta dal peccato veniale nel mortale, e come può dirsi che l’uno sia strada all’altro? Questo funesto progresso, fratelli miei, viene da due cagioni; l’una è un castigo di Dio, e l’altra è la cattiva disposizione dell’uomo: castigo dalla parte di Dio, per la privazione di certe grazie particolari che impedirebbero l’uomo di cadere nel peccato mortale; dalla parte dell’uomo è una inclinazione, una facilità che gli dà il peccato veniale a commettere il mortale. Tremate, fratelli miei, per un peccato che vi avete riguardato fin ora come poca cosa e che può esservi così funesto. Io non pretendo già dirvi che Dio ricusi a chi pecca venialmente le grazie necessarie per evitare il peccato mortale, di modo che l’uno sia una conseguenza necessaria dell’altro. Se Dio dà ai peccatori medesimi, che sono suoi nemici, le grazie che loro sono necessarie, a più forte ragione le dà Egli ai giusti, che sono suoi amici; ed anatema, diciamo noi con la Chiesa, a chiunque dicesse che Dio abbandona il giusto e lo lascia mancar di soccorso per perseverare nella giustizia. Ma se Dio dà le grazie necessarie, Egli non è obbligato a dare le grazie di elezione e di predilezione, che fanno operare infallibilmente il bene, benché liberamente. Noi possiamo dunque domandare queste grazie ed indurre Dio con la nostra fedeltà alla sua legge a darcele, ma non vi abbiamo alcun diritto. – Or io vi domando: chi commette il peccato veniale, chi trasgredisce la sua santa legge, sebbene in cose di poca conseguenza, induce egli Dio a dargli queste grazie particolari, o piuttosto non l’induce egli a ricusargliele ? Egli si raffredda a riguardo di Dio, egli tratta con Lui come un avaro che non vuol fargli certi piccoli sacrifizi che Dio domanda da un cuor generoso; egli si riserva certe soddisfazioni, certi pericoli, certi affetti, cui non vuol rinunciare per ubbidire a Dio: or convien forse stupirsi che Dio vicendevolmente si raffreddi a riguardo dell’uomo, che non versi su di lui a larga mano quei doni preziosi della grazia ch’Egli comunica alle anime ferventi e generose che cercano di piacergli nelle più piccole cose, che gli fanno di se stesse un intero sacrificio e che gli feriscono il cuore, come la sposa della Cantica, con un solo dei loro capelli, cioè a dire con una intera fedeltà ad adempiere i più piccoli punti della sua legge? Vulnerasticor meum in uno crine colli tui (Cant. 4). Or che accade a quell’anima che è priva per lo peccato veniale di certi aiuti che erano riserbati alla sua fedeltà? Trovandosi in un pericolo, in una congiuntura delicata, esposto ad una tentazione violenta, ove è molto difficile resistere senza una grazia particolare, essa soccomberà a quella tentazione, farà una caduta deplorabile, commetterà un peccato mortale, che farà perdergli la grazia del suo Dio. E così è, fratelli miei, che una colpa leggiera può essere la causa della nostra riprovazione. Chi di noi, dopo questo, non temerà il peccato veniale, poiché può avere conseguenze sì terribili? Non ne avete voi forse di già fatta la trista esperienza, voi che lo commettete sì facilmente? Mentre donde viene quella dissipazione del vostro spirito che fate tanta fatica a tener raccolto, quell’aridità di cuore che vi rende secchi e freddi a pie degli altari, quella noia degli esercizi di pietà, quella nausea dell’orazione e delle pie letture, in una parola, quella tiepidezza sì grande nel servizio di Dio? Non viene forse dalla vostra negligenza nell’evitare le colpe veniali, dalla vostra poca delicatezza di coscienza nelle piccole cose che Dio vi domanda? Voi non siete liberali verso Dio e non vi diportate con quella esattezza che attende da voi, Egli pure vi ricusa quelle grazie speciali che non vi deve e che vi farebbero camminare con allegrezza nella via dei suoi comandamenti. Ma non è solamente per la sottrazione delle grazie di Dio che il peccato veniale conduce al mortale; si è ancora per l’inclinazione e facilità che l’uno dà a commettere l’altro. Niuno ad un tratto diventa malvagio, dice s. Bernardo; i più grandi delitti hanno, per così dire, la preparazione, noi abbiamo troppo orrore a commetterli subito di buon grado: ma, a forza di commettere il peccato veniale ci avvezziamo, ci addomestichiamo insensibilmente col male. A misura che le forze della virtù s’indeboliscono per questa malattia, il peso della concupiscenza s’accresce, la contagione, insinuandosi a poco a poco, penetra finalmente sino al cuore. L’anima indebolita e strascinata dall’inclinazione al male, cammina a gran passi verso il precipizio e vi cade finalmente senza quasi accorgersene. Il demonio, sempre destro a profittare delle nostre debolezze, diventa anche più forte per farci cadere. Non ci propone egli alla bella prima i grandi delitti; ci fa credere che è poca cosa cadere in piccole infedeltà permettersi certe soddisfazioni, avere certe corrispondenze con persone che non sembrano pericolose, usare per esse alcune compiacenze che non giungono al peccato; e quando il nemico della salute ha ottenuto quel poco che domandava, con artifizio secreto e maligno ci persuade che non evvi maggior male ad accordargliene un altro: quindi c’induce insensibilmente nelle sue reti e ci strascina nell’abisso per le colpe considerabili che ci fa commettere: il peccato mortale in seguito non costa più che il peccato veniale. Ecco come una leggiera scintilla che non si ha avuto cura di estinguere dal principio cagiona un grande incendio: Ecce quantas ignis quam magnam Sylvam ìncendit (Jac. 5). Ecco come una gran nave cade in rovina per avervi lasciate penetrare alcune gocce d’acqua che hanno putrefatto il legname. Quanti, oimè! si sono veduti gran personaggi cadere dal sublime grado di perfezione nel fango del peccato! Quanti difensori della religione, ne sono divenuti gli apostati! Quanti anacoreti che avevano invecchiato sotto il giogo della penitenza, hanno fatto deplorabili cadute per la loro negligenza a mantenersi nell’osservanza dei piccoli doveri! Il perfido Giuda non venne già tutto ad un tratto al tradimento, al deicidio. Questo fu l’effetto del suo attaccamento al danaro: ma si deve presumere che quell’attaccamento fu leggiero nel suo
principio, ch’egli vi si affezionò poco a poco, e che finalmente ne divenne
così avido che, per averne, vendette il suo divin maestro: Ecce quantusignis , etc. – Ma, senza cercare esempi stranieri, quante prove
non vediamo noi a’ nostri giorni di questa verità? Ci meravigliamo che persone
le quali durante un certo tempo hanno vissuto di una maniera regolata e sono
state pei loro fratelli il buon odore di Gesù Cristo, decadono sino al punto
d’esserne lo scandalo per una condotta sregolata. Pensate voi, fratelli miei,
che siano venute ad un tratto dall’estremo della virtù a quello del vizio senza
aver passato per un mezzo? No, senza dubbio, eravi troppa distanza dall’una
all’altro; i loro grandi disordini han cominciato da piccoli rilassamenti … Ecce
quantusignis etc. Ah! fratelli miei, convenitene con altrettanto
di dolore che di confusione, che voi non siete caduti nell’abisso se non perché
non avete abbastanza evitati i piccoli scogli: che voi non mancate di fedeltà
nei punti considerabili della legge di Dio se non per difetto di esattezza
nelle piccole osservanze. Voi eravate altre volte nel fervore della divozione,
nulla vi costava tutto ciò che riguarda il servizio di Dio; ed ora siete schiavi
delle vostre passioni, cadete a sangue freddo in falli considerabili. Donde
viene questa disgrazia, fratelli miei? Quomodo obscuratum estaurum
(Thren. 4)? Come mai quel bell’oro ha perduto il suo splendore? Come
siete voi decaduti da quello stato di fervore in cui eravate per lo innanzi? Per
la vostra facilità a commettere le colpe leggiere. Quei peccati che trattavate
da bagattelle, hanno indebolito in voi il fuoco della carità; e da che quel
fuoco ha cessato di operare, voi avete perduta questa carità per mezzo di
azioni a quella contrarie.
Pratiche. Piangete amaramente, peccatori, la morte dell’anima vostra, ritornando a Dio con una penitenza sincera. E voi, anime giuste, in cui il peccato veniale non ha ancora fatto questa strage, tenetelo come un gran male; perché ha conseguenze così funeste, detestatelo con tutto il vostro cuore, se l’avete commesso. Per cancellare questo peccato, ricorrete al sacramento della penitenza, che ha la virtù di rimetterlo. Voi potete anche ottenerne il perdono con atti di dolore d’averlo commesso e con atti delle virtù che sono contrarie, se voi li fate alla mira di cancellarlo. Ripetete sovente quelle parole del profeta: Amplius lavame. Domine, purificatemi sempre più, o Signore. Fate una ferma risoluzione di non più commetterlo. Evitate con attenzione tutto ciò che ha la minima apparenza di male: Ab omni speciemali abstinete vos. Siate fedeli ad adempiere i vostri più piccoli doveri, nulla trascurate di ciò che può contribuire alla vostra perfezione, osservate regolarmente il tenore di vita e le pratiche di pietà che vi siete prescritte; siate assidui all’orazione per ottenere le grazie speciali che vi facciano evitare le
colpe veniali: In oratione estote. Voi diverrete con ciò eredi
delle benedizioni del Padre celeste: Ut benedictionemhæreditate
possideatis (1 Pet. III). Perché, evitando il peccato
veniale, arriverete a quella santità perfetta che Dio corona nel cielo. Così
sia.
Si risponde al
più che arrechino i genetliaciin difesa della
loro arte.
I. Ad un falsario contumace, convinto, e colto col fallo in mano della moneta adulterata da lui, con rovina pubblica, non si farebbe alcun torto, quando gli si negassero lo difese. Ma tale è lo stato dell’astrologia giudiziaria, giusta il processo finor su lei fabbricato da tanti capi. Con tutto ciò siccome i professori di essa hanno tra gli altri bugiardi questo vanto, che laddove agli altri per una menzogna che dissero, non si crede di poi verità veruna, e ad essi, per una verità, si credono di poi menzogne infinite: così presumono di avere fra gli altri rei questo privilegio, che non si possa mai lasciar di ascoltarli; altrimenti protestano incontanente di nullità. Dunque, a cessar liti, udiamoli ancor noi, se noi di giustizia, almeno di cortesia. E perché per viadi ragione non possono più nulla a proprio favore che non sia stato abbattuto già chiaramente; diamo loro campo di andare per via di fatto, non ci sdegnando che formino una superba enumerazione di varie predizioni famose da loro uscite, e non per tanto avveratesi, non meno all’età presente, che alle passate.
I.
II. Ma che? Non si nega mai, che ancor essi talvolta non indovinino. Si nega, che indovinino a forza d’arte; mentre le loro regole hanno contro di sé strepitante sì la ragione, sì l’esperienza, e sì l’autorità di tutti i maggiori uomini stati al mondo. Anche i sortilegi antichi, anche gli auguri, anche gli aruspici, anche gli interpreti del cielo tonante, e più altri, non lasciavano in Roma d’indovinare; altrimenti non si può dubitar, che mentendo sempre, non sarebbero giunti a sì grande stima. Per questo diremo noi, che i loro indovinamenti fosser da arie di antivedere il futuro, non da superstizioso vaneggiamento tratto da ciò che secondo loro dicevano, a chi le sorta chi gli animali, a chi l’aria, ed a chi i semplici ondeggiamenti del fumo che su volava, ora diritto, oro distorto, ora denso, ora dilatato? Certo è, che un cieco non può mai scorgere il segno. Eppure anche un cieco tanto può tornare a tirare, che al fin vi colga: Quisest, qui totum dìem iaculans, non aliquandocollimet? diceva Tullio (De div.) nel favellar degli astrologi de’ suoi tempi. E non meno graziosamente lo notò di poi Seneca in que’ de’ suoi, quando egli disse, che avevano ritrovata la vera via d’indovinar la morte di Claudio Cesare, con predirgliela, prima ogni anno, poscia ogni mese, finché ella avvenne. Patere mathematicos aliquando veruni dicere, qui Claudium, postquam princeps factus est, omnibus annis, omnibus mensibus efferunt (Inludo sup. mort. CI. Cæs.). Che se questi istorici,i quali hanno riferito il vero apporsi che fecero i genetliaci, avessero riportato con pari fedeltà il vero abbagliarsi, ritroveremmo, che questi, prima di dar nel punto una volta sola avevano esausti mille turcassi di strali volati in fallo: Ista omnia, quæ aut temere, aut astute vera dicunt, præ cæteris, quæ mentiuntur, pars ea non est millesima (GelL. 1. 14.c. 1). Tanto asserì di loro il filosofo Favorino: e con ragion somma: mentre, predicendo essi cose che non dipendono da cagioni naturali, ma libere, o non ne dipendono almeno individualmente, forza è che i loro vaticini, se mai si avverano, sian colpi di fortuna, mirabile nei suoi giuochi, non tiri d’arte. Il crescer di patrimonio, o lo scapitare, proviene o dalia industria umana o dalla provvidenza divina, o per dir meglio, da ambedue unitamente. Come entra qui dunque Giove a versare in seno a veruno ricchezze grandi, o come v’entra Saturno a legare a Giove le mani perché non versile? Questo non è né freddo ne caldo né umido né secco, che sono la più ampia sfera che possa concedersi all’efficienza de’ pianeti, se si vuole discorrere da filosofo, il quale cerca la cagion delle cose, non da favoleggiatore, che ve la finge.
III. E ciò che io dissi
degli avvenimenti morali, dicasi de’ casi fortuiti, d’incontrar tesori, d’incorrere
traversie, di cader nell’acqua o nel fuoco, ove men si pensi. Questi casi, come
non hanno sotto Dio cagion propria, ma accidentale, così non sono sottoposti ad
altra scienza, che alla divina, la quale però può saperli, perché essa è quella
che vuole, o che permette un tal combinamento di operazioni, onde seguono
quegli avvenimenti improvvisi ad ogni umano intelletto, senza che le stelle
formate ad ogni altro fine, vi abbiano alcuna parte.
IV. Degli altri
effetti poi che tutta han la cagion loro nella natura, nemmeno sogliono gli
astrologi arrivar nulla, se non che andando a tentone: e ciò perché non
osservano altre cagioni in predirli, che le universali, le quali non han virtù
di terminare gli effetti, ma solo di concorrere a questo, o a quello, soggetto alla
sfera loro, secondo che le immediate a ciò le costringano. Chi rimira in cucina
acceso un gran fuoco, non può indovinare, se non temerariamente, di qual foggia
debba riuscire il banchetto meditatosi dallo scalco, posciachè, ad apporsi con
arte, converrebbe osservar di più le cacciagioni apparecchiate in dispensa, il
pollame, le pesche, le selvaggine, e quanto è d’uopo a un magnifico
imbandimento: perché il fuoco dal canto suo è indifferente a cuocere tutto ciò
che gli sia parato dinanzi allo stesso modo. Così il sole, la luna, e molto più
i pianeti e le costellazioni di forze tanto più incognite, sono dal canto loro
cagioni indifferentissime degli effetti sullunari, e lasciano variamente
determinarsi dalla materia che incontrano per la via, e dalle disposizioni, or
avverse ed ora propizie, a produr la forma.
V. Quinci è l’indovinare che fan spesso i medici, i marinari, gli agricoltori, perché osservano le cagioni particolari, e le disposizioni che trovano ne’ corpi, nelle nuvole, nelle nebbie, e in tutto l’emisfero, aperto ai lor guardi. E quindi altresì l’abbaglio che prendono gli astrologi tutto dì ne’ loro almanacchi,a segno tale, che Pico asserì (L. 2. Inastrol. n. 9) da uomo di onore, che di centotrenta giorni osservati da lui, secondo le predizioni astrologiche di quell’anno, appena ne trovò sei o sette, che non si dilungassero assai dal vero. Ciò appare più manifesto, quando gli astrologhi si danno a pronosticare successi più disusiti: perciocché in questi si appongono men che in altri. Eppure, se la loro arte fosse arte veramente, e non fondaco di chimere, in questi si dovrebbero apporre più, da che gli effetti più strani (come quei che provengono da cagioni più solenni e più segnalate) sarebber loro più agevoli a dar su gli occhi. Riferisce lo Scaligero (Millet. 1. c. prop. 6). che nell’anno 1186 congiugendosi i pianeti superiori cogl’inferiori, predisser gli astrologi tali turbini e tali tempeste, da metter terrore infino alle torri. Eppure quell’anno fu il più pacato che mai. Similmente l’anno 1524 per alcune magne congiunzioni de’ pianeti ne’ segni acquosi, e per alcune mediocri predissero nel venturo febbraio un diluvio inaudito a tutta la terra, con tale asseveramento che, spaventatene varie provincie di Europa, si apparecchiarono da più d’uno barche ben corredate, ben chiuse, e ben anche fornite di vettovaglie, per divenire ciascuno alla sua famiglia quasi novello Noè, in quell’universale naufragio. E pure corse quel febbraio poi tutto così sereno, che mai non cadde dal cielo una sola gocciola, a confusione di tanti ingannatori dell’universo e tanti ingannati. Ma ciò vuol dire badare alle cagioni remote, più che alle prossime. Onde qui può calzare opportunamente la sentenza che die quel famoso principe, il quale, animato dall’astrologo ad intimare una bella caccia, sotto promessa di tranquillissimo cielo in tutto quel dì, si udì per via dire da un rustico, il quale guidava l’aratro, che si guardasse, perché poco poteva tardare a piovere, e fu così. Onde alterato quel grande, chiamò il bifolco per astrologo in corte, e dannò l’astrologo ad ir per lui dietro i buoi (Cornelio a Lap. in Ier. c. 10. n. 2).
VI. Ora se non sanno essi cogliere quei germogli che hanno le loro radici
nella natura, con quale uncino arriveranno a que’ frutti che sono parti del
solo libero arbitrio?
II.
VII. Senonchè dissi male quando affermai che i genetliaci indovinan
senz’arte. Anzi indovinano spesso con arte grande, ma di fallacia. Primieramente
sogliono predir cose che, non avvenendo, sarebbero più ammirabili che avvenendo:
Una
gran dama viaggia con riuscimentopoco felice. Una
gran lite si terminacon la concordia delle parti. Un corriere portagran
nuove. Guerre, sedizioni, ire de’ principi,minacciate da
Marte opposto a Mercurio. Matrimonisconcertati da
Mercurio nella settimana.Prodigalità e
scialacquamenti, significati daMarte
nell’undecima. E che proposizioni sono mai queste, da porsi in
conto di predizioni, quando chi dicesse vero, negando dover succedere alcuna di esse, sarebbe maggior astrologo di tutti quei
che lo dicano, sostenendole? Eppure un solo annuncio di tali, che si verifichi in
tutta la latitudine dell’Europa, ecco l’astrologia
canonizzata da loro per venerabile.
VIII. Dall’altro lato puntellano con tante condizioni questi pronostici, tuttoché universali, che ben si scorge, come neppure i loro architetti medesimi gli han per saldi: Un potentatorisanerassi di una gran malattia. S’intende, dicon eglino, quanto a ciò che vien dalle stelle, rimanendo poscia a vedere che il medico non tradisca, che la medicina non tardi, che lo ammalato dal lato suo non disordini, che Dio non voglia punirlo per altro capo : vi potrebbero aggiungere questo ancora: Che egli non muoia prima di alzarsi diletto, e con questo avanzare tutto lo studio sulle tavole di Tolomeo, tutta l’inspezion degli astri, e tutto l’impazzimento degli astrolabi. E qual è quel contadinello che non sappia’ predire qualunque effetto, sotto questa limitazione: purché conspirino tutte fra sé di concerto quelle cagioni, cui si appartiene il produrlo?
III.
IX. Ma forse che
la leggerezza degli uomini non concorre fortemente ancor essa ad accreditare
un’arte sì fallita? Possiamo dir che i pronostici avverati in alcuna parte son
tanti, quante son le foci del Nilo, e i non avverati son quante le sue renuzze.
E pure il volgo seppellisce in perpetua dimenticanza le continue falsità degli
astrologi, come si fa de’ morti in campagna, e quell’unico riuscimento, che sia
felice, vien da lui portato in trionfo su tutti i fogli volanti, come un
campione. Quanti predissero a Pompeo l’imperio di Roma? Quanti il predissero a
Cesare? E pure di tanti astrologi falsi niun sapria nulla, se non l’avesse narrato
a loro smacco un uomo sensato, qual era Tullio (L. 2. de div.). All’incontro perché
Nigidio. al nascer di Augusto, disse ad Ottavio, padre di lui, esser nato il
padron del mondo, E nome di Nigidio, quando Augusto imperò, volò su le stelle.
E pure non poté dir egli ciò che per adulazione riuscita prospera dalla combinazion
di mille accidenti, impossibili allora
ad indovinarsi da mente umana? Se non fosse riuscita, Nigidio non ne avrebbe patito nulla – asserendo tutti gli astrologi ad una
voce (lui. Firm. il. 2. c. ult. Card. sect. 1, aph. ult. et in genit. Caroli V. et alii), che dall’oroscopo di una persona sola non sì può
sapere ciò che spettasi alla
repubblica, e molto meno alla
mutazion di repubblica in monarchia- ; e perchè riuscì, potè Nigidio porre in
eredito l’arte a onta della ragione.
X. Parimente non sa il popolaccio avvertire che bene spesso non fa
preveduto il successo come futuro, ma succedette, perché si stimò Preveduto. Mi
spiegherò. Per incalorire il suo esercito alla battaglia, che voleva dare a’
Romani, gli disse Annibale. quartierato alle Canne, che la vittoria era certa, perché
le stelle l’avevano a tutti prenunciata a quel passo, colma di gloria. E tale
ella fu, non perché le stelle l’avessero prenunziata, ma perché avvivati da
quella falsa persuasione i soldati combatterono con tal animo, che fecero de’ nemici
una immensa strage. Così colui conseguì il matrimonio predettogli dall’astrologo,
quell’altro la dignità, quell’altro il danaro, non per virtù de’ pianeti che si
sbracciassero a favorirli, ma per l’industria risvegliata in coloro dal
vaticinio. Questo fe’ che si dessero a portare i trattati del parentado più
caldamente, a corteggiare, a contrattare, ad imprendere tutto ciò, donde si
promettevano ogni fortuna,
e così l’ottennero. All’incontro il pronosticamento di avere a morir di parto, mise in colei tal tristezza, che ne mori. Il pronosticamento di avere a perdere la lite, fece che si trascurasse la causa; e il
pronosticamento di avere a perdere
il lucro, fe’ che si troncasse il
commercio. E così tutto questo fu male
vero. Ma perché fu? Perché l’uomo lo fece
divenir vero da se medesimo, non perché
il facesser le stelle.
XI. In ogni caso è
certissimo che gli eventi più belli, addotti dagli astrologi in prova della lor
arte, non potevano prevedersi, anche stando a ciò che ne affermano i loro
autori: perché i più belli sono quelli che più vengono all’espressione di tutte
le circostanze individuali. E pure Tolomeo, seguito in tale scuola come il
maestro più irrefragabile, asserisce che non posson gli astrologi, secondo l’arte,
predire senonchè cose grosse, generiche e indefinite. A cagion d’esempio,
possono predire bensì breve o lunga vita ad un uomo, ma non già il dì per appunto
della sua morte, e molto meno il modo, se di laccio, se di spada, se di sasso,
se di pistola, perché in ordine a questi predicimenti le stelle non vi
s’impacciano: vi vuol Dio: Solo numine afflati dice Tolomeo (Quadr. 1.2.
cent. n. 2) prædicunt particularia. Pertanto il dire che Marte
nell’ottava casa significa morte di veleno, o che la cagiona; e il dire che Mercurio
combusto predice incendi derivati da fuoco artifiziato, essendo Mercurio il
padre delle arti; non solo è sognare a occhi veggenti, ma è un contravvenire
agl’insegnatori della professione medesima, travalicando di molto i limiti
stabiliti dalle lor leggi. Onde quell’astrologo (Al. de Ang. 1. 4. c. 37), il
quale di sé predisse in Milano che sarebbe morto di trave a lui caduta sul
capo, e non di mannaia (cui l’avea dannato il suo duca, solo affine di farlo
apparir bugiardo), se di trave in capo veramente morì quando andava al ceppo,
sicuramente nol potea saper dalle stelle sue famigliari, perché in tutte le
stelle non v’è aspetto, non v’è combinazione, non v’è congresso, che significhi
morte di trave in capo, come egli stesso secondo le sue regole, avea a tenere
per saldo.
XII. A restringere
dunque le molte in poche: ecco a quali miniere infin si riduca quell’oro che
tanto i giudiziari ci spacciano per eletto. Se v’ha mai nulla di vero, o
lavorollo il caso, con favorire, quasi suo benemerito, chi più tirò a indovinare:
o lavorollo una tale alchimia furbesca di forme ambigue, e di finzioni avvedute,
che tra lor corre: o lavorollo la credulità della gente, vaga di accettar per oracoli
le imposture, solo che ne speri alcun prò.
IV.
XIII. A chi poi tali miniere non paiono sufficienti, sant’Agostino ne addita un’altra più cupa, alla quale io non ardirei di discendere se un tant’uomo, animandomi per la via, non mi conducesse laggiù fin di mano propria (S. Aug. 1. 1. de doctor. Chr. c. 21. 22. Et 23. et. 1. 2. de Gen. ad litt. c. 18). E tal miniera è l’intimo degli abissi: portando egli opinione, che tali indovinamenti di leggieri procedano in vari casi per opera de’ demoni. His omnibus consideratis (ecco le parole giuste del santo – De civ. Dei 1. 5. c. 7. in fine -, dopo lungo discorso da lui tenuto su tali indovinamenti) His omnibus consideratis, non immeritocreditur, cum astrologi mirabiliter multa verarespondent, occulto instinctu fieri spirituum non honorum, quorum cura est has falsas et noxiasopiniones de astralibus fatis inscrere humanismentibus, atque firmare, non oroscopi notati etinspecti aliqua arte, quæ nulla est.
XIV. Né sia chi
opponga essersi da noi detto già che il futuro accidentale, o arbitrio, di cui
si parla, sia occulto a’ demoni ancora: perché molto essi ne giungono a
presagire con la loro acuta sagacità, molto con la loro antica sperienza, molto
con la loro attenta investigazione, e molto ancora più con quella possanza che
Dio lor talora permette di effettuarlo (S. Aug. 1. 3. de Gen. ad lit. c. 17. Et de div. dem.), ad ingannamento
maggiore di quei meschini, i quali non essendo più che uomini come gli altri,
si danno all’astrologia, perché la vorrebbero fare da Dii tra gli uomini: illudentibus
eos, atque decipientibus prævaricatoribusangelis, quibus ista pars
mundiinfima, secundum ordinem rerum divinæ providentiælege. subjecta
est (S. Aug. 1. 2. De doctr. Chr. c. 23). E cosi appunto Iddio lasciò che
restasse malamente ingannato Giuliano apostata, scrivendo il Nazianzeno di lui,
che la sua dimestichezza esecrabile co’ diavoli principiò dall’astrologia, cioè
dall’arte di formare la natività a questo ed a quello, e dalla voglia di
risaper da quei maligni il futuro, nascoso al mondo: Quas artes secuta est postea præstigiarum exercitatio.
XV. Quinci notò
dottamente sant’Agostino ne’ luoghi addotti, che quando il Signore nelle sue
divine scritture ci vietò di andar dietro ai divinamenti, non cel vietò, perchè
questi talora non si avverassero; cel vietò, perché quantunque si avverino,
sono infidi; anzi allora più sono infidi, che più si avverano; perché allora
riescono più possenti ad avviluppare gl’incauti, che mal discernano ciò che
fann’essi. da ciò che fanno i diavoli, pronti ad intromettersi (ancorché non chiamati)
nel cuor dell’uomo, quando questi superbo vuol elevare ancor egli sé sopra sé,
come fe’ lucifero e farsi nella scienza simile a Dio.
XVI. E questa anche
fu la cagione, per cui da’ dottori sagri dalle leggi civili o dalle canoniche, dalle
bolle pontificali, e da qualsisia magistrato universalmente (L. Artem. c. de male!’,
et math. I. nemo eodem tit. lib. Etsi cod. tit. I math. c. de
Ep. aud. decr. 26. q. 2, c. sed et illud, et q. 3. c. illud legis, et q. 5. c. non
liceat. Conc. Bracar, can. 10. et lat. sub. Leon. X . Sixt. V.
in bull. adv. astr. etiamsi asserant se non certo affìrmare quæ die de futuris
contingentibus aut actionibus ex hum. volunt. pendentibus; 1. 2. c. 17), sieno
i genetliaci stati sempre perseguitati, come peste della repubblica, non
solamente per la perversion de’ costumi che essi cagionano in altri,
massimamente dall’ingenerare ne’ cuori questa opinione, che invece della provvidenza
divina sieno le stelle natalizie quegli arbitri che a ciascuno dispensano il bene
e il malo; ma molto più per quella perversità di cui conviene che sien già
colmi in se stessi, mentre divengono scolari pessimi di maestri peggiori, con
soggettarsi, tuttoché non volendo, alle fraudolenze ancor essi degli spiriti
ribelli, padri egualmente, come chiamolli Lattanzio ( L . 7. e. 17), e della
astrologia e della magia.
XVII. Chi pertanto sarà quel giudice iniquo, che dopo avere ascoltato questa razza di rei, pur li voglia assolvere, quasi che si difendano a sufficienza. Anzi ciascuno gli ha da dannare senza indugio, non si potendo tollerare nel genero umano un momento solo chi, per sottrarsi alla provvidenza celeste, elegga più volentieri di sottoporsi alle illusioni diaboliche, gravi nella magia, ma forse più gravi ancor nell’astrologia. Nella magìa ritengono i demoni la propria forma di larve spaventose e di lamie sozze: nell’astrologia vengon sott’abito trapuntato di stelle.