LO SCUDO DELLA FEDE (117)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXIX.

L’istessa verità si deduce dalle operazioni dell’anima volontarie.

I . Quell’ammirabile proporzion che si scorge tra due corde tirate all’unisono in dotta cetra, si può contemplare, di modo ancora più alto, fra le due potenze supreme dell’anima, l’intelletto e la volontà. Non se ne può mai toccare una, che l’altra non si risenta (L’intendere ed il volere sono due virtù distinte, ina pur indisgiungibili nella personalità umana. Mercé il libero volere l’uomo domina se stesso e gli atti suoi: ora un volere, non illuminato dalla luce dello intendere, è un volere cieco, epperò non libero, ma fatale, non dominatore ed arbitro di sé, ma dominato da forze esteriori e senza libertà non si dà persona. Così pure non è persona un soggetto, che fosse un puro e mero pensare e conoscere senza la virtù dell’attività volontaria). Onde, quanto dell’istinto, dell’indole, e della natura immortale, posseduta dall’anima ragionevole, ci hanno fin ora dimostrato le operazioni dell’intendere, tanto seguiranno a dimostrarcene le operazioni ancor del volere: salvo che intorno a queste ci si offerisce a considerar di vantaggio la libertà, propria affatto delle sole potenze spirituali che si determinano da se stesse; a differenza delle potenze corporee, le quali sono sempre determinate dai loro oggetti.

II. Se l’anima dipendesse dal corpo, dovrebbe necessariamente seguire tutte le inclinazioni del corpo, come le bestie. Un cavallo cui sia posta innanzi la biada, non saprà mai comandare al suo vorace talento, che se ne astenga, s’egli non è ben satollo. E cosi dovrebbe a proporzione far l’anima in simil caso, dov’ella fosse corporea: onde, alla presenza dell’oggetto giocondo, mai non saprebbe dargli un rifiuto animoso per anteporgli l’onesto, quantunque acerbo. E pure veggiamo accader tuttora l’opposto in tanta gente, quanta è quella che milita alla virtù. Veggiamo avverarsi in essa ciò che osservava Aristotile, cioè, che l’appetito superiore comanda all’inferiore, quasi re dominante ad un suo vassallo. Veggiamo che il tiene in briglia, sicché non trascorra i termini del permesso. Veggiamo, che quando questo pur li trascorre, è perché la volontà, condiscendendo di suo grado alle istanze che ne riceve, gli abbandona le redini sopra il collo, e consente a ciò che ben potrebbe impedire, s’ella volesse risolutamente valersi del suo dominio. Adunque, se è tanto libera a non seguire le inclinazioni del corpo, chi mai dirà, che l’anima non sia d’indole assai maggiore?

III. E pur v’è di più. Conciossiachè, non mirate voi tutto giorno la padronanza che esercita la medesima volontà sopra il corpo stesso nel soggettarlo ai dolori, o nel disprezzarlo, mandandolo fin incontro all’istessa morte? Dove troverete una bestia che si affligga di sua elezione, come si affliggon tanti uomini penitenti, disciplinandosi, dimagrandosi, cingendo le loro reni di acuti pungoli: o dove troverete una bestia che, potendo campar felice da morte, vada a sfidarla? E pure ancora a sfidarla perviene l’anima, comandando nelle guerre a tanti soldati, non pur che facciano argine all’avversario co’ loro petti, ma che lo vadano generosi a investire nelle trincee. Dirò cosa di più stupore. Nella guerra che Dario imprese co’ greci, mentre una barca dei persiani fuggiva alla disperata, ecco un soldato nimico che la afferrò dalle sponde con una mano per arrestarla: ma non poté, perché gli fu quella mano da quei di dentro troncata a un attimo. Allora egli l’afferrò veloce con l’altra; ma vanamente, perciocché l’altra ancora gli fu recisa. Che fe’ però così monco? Né il sangue, né lo spasimo, né quel peggio che egli si poteva aspettare, poté far sì, che non si attaccasse coi denti alla fusta odiata, per farle quasi di se stesso una remora; sinché, troncatogli il collo, allora solamente fini di perseguitarla quando finì di spirare. (Ap. Herod.). Or come mai potrebbe l’anima umana in questi ed in altri mille accidenti simili necessitare il corpo a cose sì ardue, se ella dipendesse dal corpo nel suo durare? Ove nella morte delle membra a lei serve morisse anch’ella, qual dubbio v’è, che null’avrebbe ella mai tanto in orrore, quanto che l’essere a quelle cagion di morte; né vi sarebbe moneta di bene alcuno, della quale ella non facesse rifiuto prodigalissimo, per sottrarsi dal sommo di tutti i mali? Allora sì, che la morte del corpo si meriterebbe quel titolo spaventoso che falsamente le scrisse in fronte il filosofo, quando la chiamò, ultimum terribilium: mentre sarebbe questa per l’anima un naufragio, in cui farebbe getto di ogni suo bene, senza speranza di ripescarne mai dramma. Or l’anima ben si accorge, che tal getto per lei non v’è; però non è meraviglia, se mandi il corpo con tanta risoluzione ad incontrare tuttodì le procelle più burrascose.

IV. Di vantaggio apparisce nella libertà del nostro volere una possanza quasi infinita, mentre né alcuna creatura da sé, né tutte anche insieme, sian terrestri, sian celesti, sian infernali, la possono mai violentare a sposarsi con un oggetto, o a ripudiarlo, se ella liberamente non vi acconsenta. Or come dunque materiale può essere quella forza che non può abbattersi da veruno di tanti spiriti più sublimi, non che dai semplici corpi? Questo dominio, che in sé possiede la volontà de’ suoi atti, mostra che ella muove se stessa, e che non è mossa da alcun agente creato, né si può muovere, se non in quella maniera che è a lei conforme, cioè diamore: e però mostra ancora ch’ella è perpetua, giacché ad esser distrutta naturalmente, le converrebbe avere nell’ordine della natura un nimico sì poderoso, che (come fu notato di sopra) fosse finalmente bastevole a torle l’essere. E pure né anche v’è chi sia bastevole a torle l’operazione.

V. Solo potrebbe l’anima dubitare di venir distrutta da Dio (Assolutamente parlando non ripugna il concepire una forza, che per quantunque inferiore a Dio, sia nondimeno di tanto superiore all’anima umana, da togliere a questa il libero dominio di sé e la virtù, che ha di muovere se stessa.), che siccome dal niente già la cavò, così potrebbe ancora ridurla al niente. Ma si dia pace. Nessuno agente naturale ha per fine diretto ildistruggimento di alcuna cosa, ma solo ilprò che egli dal distruggerla ne trarrà, o per sé, o per altri (S. Th. 1. p. q. 60. ar. 9. et q. 49. a. 2. In c.): tanto che l’istesso leone, se uccide il cervo, non l’uccide per recare a lui quel male di ucciderlo; lo uccide per cavare da ciò quel bene dialimentare o sé, o i suoi leoncini inetti alla caccia. Ma quanto a sé, qual bene può Dio cavare dal tórre a un’anima quell’essere che le die’quando creolla capace di durar sempre? E quanto agli altri, un’anima non esige, per conservarsi, la distruzione dell’altro corpo. Sicché, quando Dio la uccidesse, bisognerebbe che la volesse uccidere per ucciderla. Ma di ciò non tema ella punto. I doni divini non soggiacciono a pentimento: Dona Dei sunt sine pœnitentia, son veri doni, datio irreddibilis, sono un oro fisso, non un mercurio volante (Arist. 1. 4. top. c. 4. n. 12). Onde non può perdere l’essere a sé natio chi non può perderlo senza che gli venga puramente ritolto dal primo Essere.

VI. Finalmente la nostra volontà può spontaneamente determinarsi col libero amore del bene onesto a disprezzare tutti gli oggetti sensibili, a dilettarsi puramente della virtù, della giustizia, della pudicizia, della pietà, della religione, ed a costituire la sua felicità in un bene spiritualissimo, quale è Dio. Adunque ella è puramente spirituale, siccome quella che può nell’operare prefiggersi un fine tale, ed andarvi con tali mezzi, che il corpo nulla di comune abbia in essi, nulla ve n’abbiano i sensi (Veramente tutta l’argomentazione dell’autore conchiude alla spiritualità dell’anima umana, anziché alla sua immortalità, ed il suo ragionare sarebbe stato più opportuno e più stringente, se egli avesse posto in chiara luce l’immortalità come conseguenza della spiritualità, dimostrando come l’intendere ed il volere dell’uomo avendo per obbietto il Vero ed il Buono divini, che sono infiniti, non possono raggiungere nel tempo la loro perfezione).

VII. Anzi se con tali operazioni vien l’anima sommamente a perfezionarsi, che cercar più? Non si può concepir, che quella sostanza, la quale acquista la perfezione del suo operare, con sollevarsi dal corpo più che ella può, debba mai perdere la perfezione dell’essere, se si separi dal medesimo corpo. Nulla res corrumpitur ab eo in quo consistit eius perfectio, dicono i dotti (S. Th. 1. 2. contra gentes c. 79): conciossiachè perfezionare una sustanza e distruggerla, son due cose del tutto opposte. E pur qual è la somma perfezione dell’anima unita al corpo? E quando nel corpo ell’opera, più che può, come se fosse separata dal corpo.

II.

VIII. Che dite dunque? Non vi sembra ormai, che comunque si guardi l’anima umana, o si guardi secondo l’intelletto, o si guardi secondo la volontà, ci si renda assai manifesta la sua natura indipendente dal tempo? Quel semplice pastorello che lassù nel monte Ida calpestava la calamita come una selce volgare, al mirar poi quel potere stupendo che ella esercitava sul ferro delle scarpe contadinesche da lui portate, mutò sentenza, e cominciò a venerare con occhio attonito ciò che dianzi premeva con pie indiscreto. Saranno però bene di mente affatto selvaggia tutti coloro che, riflettendo su gli atti delle loro potenze spirituali (conforme comandò quell’oracolo sì famoso, nosce te ipsum), non confesseranno, che l’anima è di natura superiore a tutto il caduco, e che però non dee pagar tributo anch’essa alla morte, come pure amerebbero quei meschini i quali assai più paventano di morire, secondo la metà sola, che non paventerebbero di morire secondo il tutto: tanto male conoscono se medesimi.

IX. Ma come non si conoscere ? Sperimentano pure dentro se stessi che l’intelletto, più che sa, più è disposto a conseguire di nuova scienza; e sperimentano, che la volontà più che gode, più è vaga di acquistar nuovi diletti. Or come dunque possono tuttavia divisarsi, che queste sieno potenze limitate dalla materia? Le materiali, quando anche fossero tante conchiglie marine, pasciute ad un certo segno, convien che insino alla rugiada del cielo chiudano al fine la bocca, con dichiararsi insufficienti a riceverne di vantaggio. Quelle potenze però le quali più che ricevon di pascolo nel loro seno sono capaci di riceverne sempre più e più, senza mai finire; anzi per questo medesimo son capaci di riceverne più, perché n’hanno molto: sono indubitamente potenze spirituali (S. Th. 2. 2. q. 24. art. 7. in c.). E se sono spirituali, che dubitar della loro immortalità?

SALMI BIBLICI: “LAUDATE DOMINUM IN SANCTIS EJUS” (CL)

SALMO 150: “LAUDATE DOMINUM IN SANCTIS EJUS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 150

Alleluja.

[1]  Laudate Dominum in sanctis ejus;

laudate eum in firmamento virtutis ejus.

[2] Laudate eum in virtutibus ejus; laudate eum secundum multitudinem magnitudinis ejus.

[3] Laudate eum in sono tubæ; laudate eum in psalterio et cithara.

[4] Laudate eum in tympano et choro; laudate eum in chordis et organo.

[5] Laudate eum in cymbalis benesonantibus; laudate eum in cymbalis jubilationis. Omnis spiritus laudet Dominum! Alleluja.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CL.

L’ultimo Salmo, che si connette coi due superiori, è ardente esortazione a lodar Dio, che abita ne’ cieli, con tutti i musici strumenti.

Alleluja. Lodate Dio.

1. Lodate il Signore nel suo santuario, lodatelo nel fortissimo suo firmamento.

2. Lodatelo per le opere sue; lodatelo secondo la sua molta grandezza.

3. Lodatelo al suon della tromba; lodatelo sul salterio e sulla cetra. (1)

4. Lodatelo al suon del timpano; lodatelo al suon del flauto; lodatelo sugli strumenti a corda e a fiato.

5. Lodatelo co’ sonori cimbali; lodatelo coi cimbali di lieta armonia: ogni spirito dia laude al Signore. Lodate il Signore.

(1) La voce, il soffio e l’impulso sono i tre mezzi strumentali che il Profeta qui menziona.

Sommario  analitico

Dopo avere esporto, nei diversi salmi precedenti, i motivi che aveva il popolo di Israele di lodare Dio, non restava più, al Re-Profeta, che regolare per così dire il cerimoniale della festa. Tale è lo scopo di questo salmo. (1)

Esso invita i sacerdoti ed i leviti a cantare le lodi di Dio al suono degli strumenti; esso indica:

I. – il luogo in cui devono lodare Dio:

nel suo santuario, il tempio della terra e del cielo (1)

II. – la materia, il soggetto di queste lodi:

1° all’esterno, le opere della sua potenza;

2° all’interno, la sua eccellenza e la sua infinita grandezza (2).

III. – La maniera con cui essi devono lodarlo:

1° Al suono armonioso di tutti gli strumenti musicali (3-5);

2° Unendo i loro canti in un concerto di lodi di tutto ciò che respira.

(1) I salmi ci hanno mostrato la provvidenza e l’azione di Dio sui giusti durante la vita; il salmo CXLIX ci ha descritto la loro gloria nell’ultimo giudizio; il salmo CL ce li mostra come giunti in cielo, e ivi lodanti il Signore per l’eternità. Così si è giunti con grande naturalezza alla conclusione dell’intero Salterio.

Spiegazioni e considerazioni

I, II.— 1, 2

ff. 1, 2. – Queste parole: « Lodate Dio nei suoi Santi » devono intendersi come del popolo stesso, o della vita santa, o degli uomini santi. Il libro dei Salmi si ferma su di un inno di azioni di grazie, al fine di insegnarci ciò che debba essere l’inizio e la fine delle nostre azioni e delle nostre parole. È quanto ci raccomanda San Paolo (Col. III, 17) « In tutto ciò che farete, nei vostri discorsi ed in tutte le vostre opere, rendete costantemente grazie a Dio e per Lui al Padre. » Rendetegli dunque grazie di ciò che ci ha fatto con un genere di vita così sublime, di come abbia cioè trasformato degli uomini in Angeli. (S. Chrys.). – Lodate il Signore nei sSnti, cioè in coloro che Egli ha glorificato. « Lodatelo nel riaffermare la sua potenza; lodatelo nelle meraviglie della sua forza, lodatelo nella sua grandezza infinita. » Tutte queste espressioni si applicano ai suoi Santi, secondo queste parole di San Paolo: « Affinché in Lui diventiamo giusti della giustizia di Dio. » (II Cor. V, 21). Se dunque essi sono giusti della giustizia che Dio ha fatto in essi, perché non sarebbero forti della forza di cui Dio è anche autore in essi, per farli resuscitare dai morti … Perché non si potrebbero chiamare le potenze di Dio, coloro nei quali Egli ha mostrato la sua potenza? Ancor più, essi sono la potenza di Dio, della stessa che egli ha detto: « Noi siamo giusti in Dio della giustizia di Dio. » Qual più grande marchio di potenza vi è, che regnare eternamente, tenendo sotto i piedi tutti i nemici? Perché i Santi non sarebbero la grandezza infinita di Dio? Io non parlo della sua propria grandezza, ma della grandezza che Egli ha dato alla moltitudine innumerevole dei Santi (S. Agost.). – Si può anche intendere la forza di cui qui parla il Profeta della potenza di Dio in esercizio, della potenza che doma gli ostacoli, che distrugge tutta la potenza opposta, che abbatte i superbi, che riduce in polvere i ribelli.

III. — 3- 5.

ff. 3-5.- Ciò che il Profeta si propone, è mettere in movimento tutti gli strumenti, che tutto si unisca per celebrare la gloria di Dio, che tutti i cuori siano ardenti di amore per Lui. Ora, come era prescritto ai Giudei di impiegare tutti gli strumenti in onore di Dio, così ci viene prescritto di farvi servire tutte le nostre membra, gli occhi, la lingua, le orecchie e le mani. « Offrite i vostri corpi come ostia vivente, santa, gradita a Dio, dice San Paolo; che la ragione presieda al vostro culto. » (Rom. XII, 1). – L’uomo tutto intero diviene allora un armonioso e multiplo strumento che fa salire a Dio una melodia spirituale piena di potenza e di dolcezza. «  Siate dunque voi stessi le trombe, il salterio, il tamburo, il coro, le corde, l’organo ed i cembali di giubilazione armoniosi, perché si accordino con tutti gli altri strumenti. Ecco tutto ciò che voi siete; che non vi sia niente di basso, di passeggero, di frivolo; e poiché i sentimenti carnali non sono propriamente che una morte … ogni spirito lodi il Signore. » (S. Agost.). – Dopo aver convocato gli abitanti del cielo, risvegliato lo zelo del popolo, fatto appello a tutti gli strumenti, il Profeta si rivolge alla natura intera, a tutte le età, senza eccezione; egli convoca in uno stesso coro, vecchi e giovani, uomini e donne, gli stessi bambini, tutti gli abitanti dell’universo, preludendo così all’universale effusione della semenza divina che doveva compirsi nel Nuovo Testamento (S. Chrys.). – Egli non dice: tutto ciò che esiste, perché la lode di Dio non appartiene che ai viventi: « I morti non vi loderanno, Signore » (Ps. CXIII), « è l’uomo vivente che celebrerà il vostro nome; » (Isai. XXXVIII) ma che tutto ciò che respira … ogni spirito lodi il Signore. – La fine di questo ultimo salmo comprende in sunto tutto il frutto che si deve trarre dai 150 salmi: « Che ogni spirito lodi il Signore. » È questo lo spirito di questo libro divino intitolato a ragione: il Libro delle lodi. 

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (18)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (18)

[Ed. chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

PARTE QUARTA

CONCLUSIONI PRATICHE

Capitolo II. (2)

IL CUORE DI GESÙ È IL CUORE DIVINO DI OGNI CRISTIANO

Conclusioni pratiche

Tutto quanto detto si racchiude nella verità assodata: che il Cuore di Gesù è il cuore divino di ogni Cristiano! Questa formula esprime le vere relazioni che ci uniscono al Cuore Divino. Naturalmente, possiamo trarre due conclusioni pratiche molto utili da questo fruttuoso principio. In primo luogo, che al Cristiano non sia mai permesso di scoraggiarsi. Perché dovrebbe essere scoraggiato? Perché si sente trascinato nel male dopo sforzi coraggiosi per elevarsi alla perfezione. Ma cosa hanno di vero queste cattive inclinazioni? Esse vengono dal cuore della carne, dal cuore ferito mortalmente dal peccato, e che solo nella tomba possono trovare il loro rimedio. Però non è questo il vero cuore del Cristiano. Perché confondere i suoi interessi con quelli della parte peggiore del suo essere? Procedete all’opera del sepolcro, mortificando il cuore del peccato. Disprezzate l’eredità di Adamo e riservatevi tutte le vostre preoccupazioni e i vostri pensieri per il nuovo essere che avete ricevuto da Dio: « Non si faccia il minimo caso ai desideri della carne, ma ci si rivesta di Gesù Cristo » (Rm XII, 14); « Se la sua carne è stata mortalmente ferita dal peccato, il suo spirito ha ricevuto una vita immortale attraverso la giustificazione » (Rm VIII, 10). Metta il suo libero arbitrio dalla parte dello spirito e non della carne; sia in accordo con i desideri celesti del Cuore di Gesù e protesti contro le cattive inclinazioni del suo cuore terreno. E anche se le sue inclinazioni continueranno a tormentarlo, non potranno nuocergli; lungi dal diminuire la sua virtù, non faranno altro che perfezionarla, facendogli sentire meglio la sua debolezza. Il Cristiano, quindi, non ha mai motivo di scoraggiarsi; ma non ha nemmeno il diritto di sedersi senza far nulla. Se la sua unione con il Cuore di Gesù gli mette a disposizione una forza infinita ed una ricchezza illimitata, questo non lo dispensa dall’appropriarsene attraverso lo sforzo ed il lavoro. Il Cuore di Gesù è onnipotente, ma non userà la sua potenza in nostro favore, se non in accordo con la nostra collaborazione. Il Cuore Divino contiene tutte le cose buone del cielo, ma non le riverserà su di noi, se non nella misura in cui noi siamo pronti ad accoglierle. Il Verbo di Dio, prendendo la carne per facilitare la nostra salvezza, non ha fatto altro che confermare la grande legge stabilita dalla provvidenza del Padre suo. Farà tutto nell’ordine soprannaturale, perché in questo ambito, più che in quello della natura, siamo incapaci di fare qualcosa da soli. Ma se noi non possiamo fare nulla senza di Lui, nemmeno Lui farà nulla senza di noi. Questo ci procura un’unione ineffabile, che ci rende membri del suo corpo. Quando ci dà il Suo Cuore in proprietà, non è per esimerci dal lavorare attivamente alla nostra salvezza come se fossimo lasciati a noi stessi. Al contrario, si tratta di aumentare la nostra attività e, con il suo aiuto, di imitare meglio l’infinita attività con cui Egli stesso è  principio della sua perfezione e della sua felicità. E per metterci in una posizione migliore per adempiere a questo dovere, ci sembrerà che Egli ci lasci completamente a noi stessi e che ci ritiri il suo aiuto. Egli non si allontana allora, perché se si allontana, noi torneremmo nel nulla, ma nasconde e toglie il sentimento della nostra unione con Lui, così che la nostra fiducia in Lui sia più meritoria e ci obblighi a fare più sforzi. Se la sua azione fosse sempre altrettanto sensibile, cederemmo alla pigrizia e perderemmo il merito della nostra fiducia. È necessario che la sua azione scompaia, affinché possiamo glorificarla con la confessione della nostra fede. Possa il flusso del Cuore di Gesù cessare dall’essere percepito, in modo che possiamo capire meglio quanto poco valiamo, ed apprezzare nel giusto valore la sua influenza divina! Questi due aspetti della nostra unione con il Cuore di Gesù riassumono l’intera economia della divina provvidenza nei nostri confronti. Basterebbe capire bene queste due leggi per dissipare la maggior parte delle oscurità che nascondono l’azione di questa provvidenza infinitamente saggia e amorevole: – 1) Dio non ha altro ideale o desiderio se non quello di donarsi interamente a noi in Gesù Cristo: prima legge, che deve essere per noi fonte di fiducia incrollabile. Tuttavia, – 2) Egli non vuole donarsi a noi in Gesù Cristo, se non nella misura in cui noi ci diamo interamente a Lui per mezzo di Gesù Cristo: seconda legge, che deve incessantemente stimolare la nostra attività.

Funzioni del Cuore di Gesù nel corpo mistico del Salvatore.

Il Cuore di Gesù vuole sì lavorare in noi, ma con noi, per produrre frutti. Questo frutto è la vita di Gesù Cristo che il Cuore del Salvatore ci comunica e che accresce senza interruzioni. È l’immagine del modello divino che Egli riproduce in ciascuna delle anime su cui esercita la sua influenza. In una parola, il Cuore di Gesù fa nel corpo mistico del Salvatore ciò che il cuore di ogni uomo fa nell’organismo fisico. Pertanto, nulla potrebbe darci un’idea più completa delle funzioni del Cuore Divino, considerato come fonte di grazia, che l’esame delle funzioni del cuore umano visto come fonte della vita del corpo. La funzione propria del cuore, nel corpo umano, è quella di rigenerare il corpo che naturalmente tende a decomporsi costantemente. In ogni momento della nostra esistenza, ripete il miracolo fatto in noi fin dal primo momento della nostra esistenza. Quando iniziamo a vivere? Quando la nostra anima è venuta ad animare il nostro corpo e a dargli un nuovo essere, nuove forze, movimenti e tendenze che non avrebbe mai avuto. Solo Dio poteva compiere quel miracolo. La vita, e soprattutto la vita razionale, è un soffio della vita di Dio. Tutto ciò che le creature possono fare è servire da canale per trasmettere il respiro divino. Quel poco di vita ricevuta, non fu che una debole scintilla. Il nostro corpo possedeva in germe tutti i suoi organi e tutte le sue forze. Ma questo germe non era ancora sviluppato. Non eravamo ancora nati completamente, e prima di poter entrare in pieno possesso dell’esistenza, abbiamo dovuto trascorrere molti anni e finire un lungo lavoro: il cuore, l’organo principale del nostro corpo, ha completato la nostra nascita e la perfezione della nostra vita. È chiaro che ciò che è stato fatto nel primo istante della nostra esistenza nei confronti di tutto il nostro corpo, deve essere ripetuto con ogni parte di esso, e questo è animare l’inanimato. Quando mangiamo quello che non è altro che un vegetale tritato o una carne morta, questi elementi devono diventare un corpo vivo e umano. Questo miracolo avverrà nel cuore e attraverso il cuore. Gli alimenti subiscono diverse trasformazioni prima di raggiungerlo, preparandosi qui a ricevere la vita; ma non sono ancora vivi quando raggiungono il cuore. Possiedono già tutta la fluidità del sangue; ma non ne hanno né il calore vivificante né la virtù rigenerante: il potere di vivificare il corpo sarà loro dato dal cuore. Eppure non lo farà per sua stessa virtù. L’anima che anima il cuore è l’unica che ha ricevuto da Dio il meraviglioso potere di dare vita a ciò che ancora non la possiede. Affinché la vita materiale ci presenti un simbolo più palpabile della vita spirituale, la prima di queste vite sarà comunicata al sangue solo attraverso il contatto con l’aria del cielo, immagine sensibile dello Spirito di Dio. Ma il cuore lo metterà in contatto con l’aria e nei nostri polmoni, nello stesso tempo in cui, mediante la respirazione, facciamo entrare in essi l’aria vitalizzante. Il cuore pomperà ancora il sangue pieno di vita, e lo distribuirà con un meraviglioso impulso a tutte le membra che riparerà ed accrescerà. Tale è la funzione del cuore nell’organismo umano. Il cuore materiale di Gesù la esercita anche in quella che lo lega al corpo naturale del Salvatore. In virtù della sua azione, il cibo con cui il Verbo incarnato è stato nutrito, non solo ha acquisito una vita umana, ma anche una dignità veramente divina, costituendo una parte sostanziale di un composto divino. Il nostro cuore eleva gli elementi puramente materiali alla dignità dell’essere razionale. Questa trasformazione è certamente di grande meraviglia, ma quanto più meravigliosa è ancor quella attraverso la quale il Cuore di Gesù eleva una vile materia all’ordine divino! Abbiamo fatto bene ad affermare, quando abbiamo considerato le prerogative del Cuore Divino, che esso è degno di tutta la nostra adorazione. Ma non perdiamo di vista il fatto che oggi dobbiamo considerare attentamente la funzione che il Cuore di Gesù, organo d’amore del Divin Salvatore, esercita nel suo Corpo mistico: la Chiesa. Questa funzione, tuttavia, è in tutto e per tutto simile a quella esercitata nel corpo fisico del Salvatore dal suo Cuore considerato come un organo materiale. Né il corpo naturale del Verbo incarnato né il suo Corpo mistico hanno ricevuto il loro pieno sviluppo alla nascita. Da allora, senza dubbio, l’anima di quel corpo possedeva tutta la sua forza. Ma quanto è ancora poco sviluppato il corpo! Gesù Cristo, Maria, San Giuseppe, la famiglia di Giovanni Battista, alcune anime sante che anelavano al regno di Dio, formano la Chiesa in principio. Come può crescere e acquisire nuovi membri? Come si può compiere questo miracolo? E come si è compiuto con ciascuno di noi, facendoci nascere nella vita di Dio? Chiediamolo al Cuore di Gesù, perché solo Lui poteva dare ordini per la sua esecuzione. Già da tanto tempo ci ha rivelato il dolce mistero della nostra nascita divina. Il Cuore di Gesù ci ha amati, e nell’amarci ci ha mandato lo Spirito Divino, che è la sua vita e che deve essere anche la nostra. L’acqua del Battesimo e la parola della Chiesa sono serviti come veicolo dello Spirito Divino. Ma è stato l’amore di Gesù a dare all’acqua e alla parola la loro efficacia divina. Mentre il Sacerdote ci versava l’acqua sul capo e ci battezzava, il Cuore di Gesù, con uno dei suoi palpiti divini, mandava al nostro cuore lo Spirito che lo animava. Ed è allora che noi, morti per breve tempo, siamo stati trasformati e resi vivi. Poco tempo prima eravamo figli dell’ira, ma improvvisamente siamo diventati figli adottivi del Padre Celeste. I nostri genitori avevano mandato un uomo alla Chiesa, ed Essa ha loro restituito un figlio di Dio. Ma con quali segni possiamo riconoscere questa nuova esistenza conferitaci dal Cuore di Gesù attraverso il Santo Battesimo? Come può questa generazione divina, che ci ha resi figli adottivi del Padre celeste, dimostrare la sua realtà? Lo mostrerà con gli effetti che produrrà. Ogni vera generazione ha come effetto la somiglianza della natura. Se il Cuore di Gesù ha dato vita alla vita del Divin Salvatore, Egli deve riprodurre in noi la sua somiglianza. È così? Sì, ma non rifiutiamoci di collaborare alla produzione di questa gloriosa somiglianza, perché, dal momento che la conservazione della nostra generazione divina è volontaria, dipende dalla nostra volontà produrne o impedirne gli effetti. Ma se uniamo i nostri sforzi a quelli del Cuore di Gesù, è molto facile dimostrare, con la perfezione della nostra somiglianza con Gesù Cristo, che Dio è veramente nostro Padre. I nostri pensieri sono, giorno dopo giorno, più simili a quelli del Padre Celeste e a quelli di Gesù Cristo, la sua immagine perfetta; i nostri sentimenti sono sempre più conformi a quelli di questo modello divino e le nostre parole alle sue. Il corpo dei veri discepoli del Cuore di Gesù, i lineamenti e le espressioni del suo volto, il suo portamento, tutto il suo modo di agire, portano alla mente di chi li vede, Gesù Cristo! Essi glorificano e portano Dio nel loro corpo, ed è impossibile gettare uno sguardo su di loro senza sapere che compiono meravigliosamente l’antico adagio: « Il vero Cristiano è un altro Cristo. » Per ogni uomo di buona fede non potrebbe esserci un’indicazione più certa della divinità di Gesù Cristo e della sua Chiesa che la prima produzione e la costante riproduzione di questo mirabile esempio di perfezione fornito dal Cuore dell’Uomo-Dio. In Gesù Cristo stesso c’è la perfezione che plasma lo spirito ed infiamma il cuore. Ma non è meno sorprendente e meraviglioso che, in tutte le epoche, in tutte le condizioni, in mezzo ad ogni sorta di ostacoli, questa perfezione sia costantemente raggiunta da tutti coloro che amano sinceramente Gesù Cristo. Che l’amore del Cuore di Gesù prenda possesso di un principe o di un rampollo; di un bambino o di un vecchio; di un dottore o di una donna ignorante; di un uomo civile o di un selvaggio: si vedranno da allora liberarsi di tutti i loro vizi ed acquisire tali virtù, concepire tali sentimenti, fare tali opere che l’umanità da sola non potrebbe fare. Questa è la grande dimostrazione evangelica che il Cuore di Gesù scrive incessantemente nel mondo e che dispensa gli uomini di buona volontà da ogni altra ricerca per trovare Dio. Così, ciò che il cuore materiale fa nell’ordine del corpo, ed il cuore, organo dell’amore, fa con le anime, il Cuore di Gesù lo fa per la società divina. Il cuore materiale prende elementi estranei al corpo umano e dà loro la forma che gli è propria; l’amore trova anime estranee l’una all’altra, di diverse inclinazioni ed interessi, e ne fa un’anima unica, unifica le loro inclinazioni ed i loro interessi. Il primo di questi due effetti è il grande miracolo dell’ordine fisico, il secondo quello dell’ordine morale. Ma cosa sono questi miracoli rispetto a quelli che il Cuore di Gesù opera in tutte le anime che si abbandonano alla sua influenza, ispirando le virtù più sublimi e trasformando in immagini viventi di Dio coloro che in precedenza erano grossolani, egoisti, simili a bestie senza ragione?

Molteplicità e unità nel Corpo mistico di Cristo

Ma la meraviglia è che la somiglianza dell’Uomo-Dio, incisa dall’amore del Cuore di Gesù in tutte le anime a Lui donate, si differenzia nel tutto, senza perdere nulla della sua unità, secondo le condizioni di ciascuno. Aprite le vite dei Santi. Non sono altro che una galleria di ritratti del Verbo Incarnato. Tutti sono del tutto simili al modello divino eppure ognuno è diverso dall’altro. Cos’hanno in comune tra loro ad esempio una tredicenne che subisce il rogo, come Sant’Agnese, ed uno di quei venerandi solitari che passavano per intero le loro giornate e le notti in contemplazione nella desolazione dei deserti d’Egitto? Come fa un contadino come Sant’Isidoro ad assomigliare a un dottore come Sant’Agostino? In una sola cosa: sono tutti una copia dello stesso modello. In questi è Gesù Cristo che insegna agli uomini, nell’altro è Gesù che lavora con le sue mani. Nell’uno ammiriamo l’innocenza del Salvatore, nell’altro la sua penitenza. Il Cuore di Gesù ha realizzato questi capolavori secondo lo stesso modello, lo stesso stampo, ma con materiali diversi. Dall’unità del prototipo nasce la bellezza dell’opera. Ma la varietà delle copie mostra sia la fecondità del modello che la potenza dell’artista. Anche in questo caso, il Cuore di Gesù non fa che riprodurre l’opera, nell’ordine divino, di ciò che il cuore materiale fa in quello fisico. Infatti, gli elementi prelevati da ogni sorta di sostanza, che il cuore trasforma in sangue, sono destinati a diventare mille forme diverse nel corpo. Alcuni si uniranno alle ossa e si induriranno, altri si trasformeranno in nervi, altri in organi, muscoli, altri ancora in umori. Il cuore darà loro la stessa natura e la stessa vita, ma l’unità della natura si presterà nella più grande varietà di forme e l’unità della vita accoglierà la più grande diversità di funzioni. Così il corpo sarà uno, anche se le sue membra sono numerosi. Da questa meravigliosa molteplicità, congiunta ad una meravigliosa unità, risulterà una grande bellezza dell’ordine materiale. Non accade altrimenti nel Corpo mistico di Gesù Cristo. Ciò che rende incomparabile la sua bellezza non è solo che ognuna delle innumerevoli anime che lo compongono riproduca in sé la vita e le sembianze del suo Capo Divino, ma che ognuno dei suoi membri abbia una propria funzione nel corpo. Ogni Santo è un ritratto completo di Gesù Cristo, ma, inoltre, ognuno di essi forma una delle linee dell’immenso ritratto dell’Uomo-Dio, la cui cornice è l’estensione del mondo e la durata dei secoli. Il ritratto è la Chiesa e l’artista che lo compone con arte divina è l’amore del Cuore di Gesù.

Il Divin Cuore, completa l’Incarnazione del Verbo.

Attribuiamo giustamente al Cuore Divino la missione di completare l’Incarnazione del Verbo di Dio. Senza dubbio, questa si compì il primo giorno, in quanto da quel giorno la natura umana ed individuale di Gesù Cristo era perfettamente unita alla Persona del Verbo di Dio e possedeva in sé tutte le luci, tutte le virtù, tutti i meriti e tutta la felicità di cui era capace. Ma è tutt’altro che certo che la perfetta divinizzazione di una natura individuale fosse sufficiente per realizzare i piani che avevano portato il Verbo di Dio sulla terra, giacché tutti i discendenti di Adamo dovevano essere rigenerati e divinizzati. In ognuno dei suoi membri deve esserci la natura umana estratta dalla sua argilla ed elevata ad un’altezza ben superiore a quella da cui era caduta. L’Incarnazione del Verbo non si rinnoverà, è vero, in ciascuno dei figli di Adamo, ma si estenderà a tutti. Dio non si ricongiungerà ad una natura umana, un’unione questa propria del primogenito di Maria e che non può essere concessa a nessun altro figlio dell’uomo, ma a tutti coloro che desiderano unirsi al Figlio di Maria, il Cuore di Gesù comunicherà la sua stessa vita. Così l’Incarnazione sarà comunicata attraverso i secoli. L’albero sarà lo stesso, ma produrrà costantemente nuovi fiori e nuovi frutti. Il Capo non crescerà nella perfezione e nella virtù, ma comunicherà la sua perfezione e la sua virtù a tanti membri. Questa è la grande opera della Provvidenza, alla quale siamo chiamati a collaborare, non solo in noi stessi, ma anche nell’anima dei nostri fratelli. Infatti, come nel corpo non c’è un solo membro che, pur nutrendosi e rafforzandosi, non debba lavorare per il nutrimento e la crescita del resto del corpo, così nel Corpo di Gesù Cristo non c’è un solo membro che, pur ricevendo l’influenza degli altri, non debba esercitare una qualche influenza nella loro santificazione. Il Corpo di Cristo, ci dice San Paolo, è accresciuto e formato dalla carità. Ma non può aumentare se non man mano che ognuno dei suoi membri collabori. Proprio per servire gli uni gli altri, tutti i membri sono uniti l’uno con l’altro in ogni classe di vincoli. Ma la forza di cui essi hanno bisogno per crescere e cooperare alla crescita degli altri è ricevuta da tutti da un unico Principio, che è sia il Capo che il Cuore di questo grande corpo. Unendoci a Lui, cresceremo fino a raggiungere l’età dell’uomo; finché, avendo il corpo divino acquisito il suo sviluppo, le tenebre della fede potranno essere commiste agli splendori della luce, nel cui interno raggiungeranno il trionfo.

Cosa possiamo fare perché il Cuore di Gesù realizzi la sua opera?

Cosa dobbiamo fare perché il Cuore di Gesù produca questo mirabile frutto? Prima di tutto, conformare i nostri pensieri a quelli di Dio e adattarci al piano della sua provvidenza, concentrando nel Cuore di Gesù tutta l’opera della nostra santificazione; convincerci bene che il Cuore Divino, incessantemente preoccupato dei nostri interessi, abbia un piano il cui compimento è la condizione della nostra felicità temporale ed eterna. Questo piano è il medesimo per tutti gli uomini, poiché consiste nel farci immagini del modello divino. Questa è – secondo San Paolo – la vocazione comune di tutti gli eletti. Ma poiché ognuno di noi ha le proprie risorse e le proprie difficoltà, ognuno di noi ha il proprio modo di imitare Gesù Cristo. Ci sono tante anime, tante vocazioni. Se tutti i Santi devono somigliare al modello divino, nessuna di queste copie viventi deve assomigliare completamente all’altra. Dall’armonia tra questa infinita diversità di immagini e l’unità del modello divino, risulta l’incomparabile bellezza del Corpo mistico, il cui Capo è Gesù Cristo e le cui membra siamo tutti noi. È della massima importanza sapere esattamente ciò che il nostro Capo voglia da noi; quale tipo di perfezione voglia che noi acquisiamo e quali siano gli ostacoli nella cui distruzione dobbiamo impiegare i nostri sforzi principali. Se desideriamo ardentemente raggiungere questa conoscenza, se la chiediamo con fervore e perseveranza, il Divino Maestro non ce la negherà. Egli ci manifesterà, sia con la luce interiore della grazia, sia attraverso un direttore, sia in un ritiro, il mezzo più efficace per acquisire questa preziosa certezza. Quando avremo la conoscenza generale dei piani del Cuore di Gesù, dovremo prestare attenzione all’applicazione pratica in tutti i casi particolari della vita. Per questo l’assistenza continua del Cuore Divino è per noi indispensabile e non ci mancherà mai. Infatti, così come Egli ha un solo piano per tutta la nostra vita, ha pure un solo desiderio in ogni momento della nostra esistenza, l’unica cosa che dobbiamo fare in ogni momento. – Dobbiamo sempre tenerlo d’occhio e dire con San Paolo: Signore, cosa vuoi che io faccia? La risposta non tarderà a venire, perché abbiamo dentro di noi lo Spirito del Divin Salvatore, per manifestare i suoi desideri e darci la forza di metterli in pratica. Come la nostra anima, presente in tutte le parti del corpo, trasmette ad ognuna di esse i movimenti che imprime nel cervello, così lo Spirito Santo, presente a sua volta nel Cuore di Gesù e in tutte le membra del suo Corpo mistico, eccita nei nostri cuori i desideri che il Cuore Divino fa concepire. Assistere costantemente all’esecuzione dei desideri del Cuore di Gesù, consultarlo sinceramente in tutti i nostri dubbi per conoscere la sua volontà e, una volta conosciuta, lavorare con tutte le nostre forze per realizzarla, costituisce l’intero nucleo della santità e allo stesso tempo della vera devozione al Cuore di Gesù; di conseguenza, la nostra vita sarà veramente divina, e tutte le nostre opere saranno più di Gesù Cristo che nostre. Anche se è meno beata di quella dei Santi in cielo, sarà comunque più meritoria. In questo senso, la nostra condizione sarà molto più preferibile alla loro, perché se da un lato non possono non conservare eternamente la partecipazione alla natura divina di cui hanno preso possesso quando hanno varcato la soglia del cielo, dall’altro noi possiamo aumentare in ogni istante questo tesoro infinito e riempirci della pienezza di Dio, della pienezza della vita divina. Sì, che la nostra grande opera, che la nostra unica preoccupazione sia quella di arrivare qui sulla terra allo stato felice in cui possiamo sinceramente ripetere con l’Apostolo:

“Io vivo, ma non io, è Cristo che vive in me. »

A. M. D. G.

FINE

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “SULLA MISERICORDIA VERSO IL PECCATORE”

Sulla misericordia di Dio verso i peccatori.

[DISCORSI DI SAN G. B. M. VIANNEYCURATO D’ARS –Vol. III, IV. Marietti Ed. Torino-Roma, 1933]

Visto nulla osta alla stampa.

Torino, 25 Novembre 1931.

Teol. TOMMASO CASTAGNO, Rev. Deleg.

Imprimatur:

C . FRANCISCUS PALEARI, Prov. Gen.

Proprietà della traduzione (23-XI-07-10- 29-XII-32-15).

III. DOPO PENTECOSTE

(SECONDO DISCORSO)

“Erant autem appropinquantes ei publicani etpeccatores, ut audirent illum.”

(LUC. XV, 1).

Chi potrà comprendere la grandezza della misericordia di Dio verso i peccatori? La sua grazia va a cercarli in mezzo ai loro disordini e li conduce a’ suoi piedi. Egli si fa loro protettore contro gli Scribi e i Farisei, che non possono soffrirli, e giustifica la sua condotta a loro riguardo con la parabola d’un buon pastore, che, avendo perduto una delle sue cento pecorelle, lascia tutto il branco per andar in cerca di quella smarrita, e, trovatala, se la pone sulle spalle, e la riconduce all’ovile; e, non v’è ancor giunto, che subito invita gli amici a prender parte alla sua gioia per aver ritrovata la pecorella che credeva perduta. — A questa parabola aggiunge quella d’una donna, che, avendo perduto una delle sue dieci monete, accende la lampada per cercaria nel luogo più oscuro della casa, e che, avendola finalmente trovata, esprime la stessa gioia del buon pastore per aver ritrovata la pecorella smarrita. Il Salvatore del mondo, applicando a se stesso queste vive immagini della sua misericordia verso i peccatori, dice che tutto il cielo gioirà della sorte di un peccatore che si converta e faccia penitenza. – Se la nostra conversione è causa di tanta gioia a tutta la corte celeste, affrettiamoci a convertirci. Per quanto colpevoli noi siamo, per quanto sregolata la nostra vita, andiamo sinceramente a Dio e siamo sicuri del suo perdono. Per incoraggiarvici, io vi mostrerò quanto sia grande la misericordia di Dio verso i peccatori, e ciò che il peccatore deve fare per corrispondervi.

I. — Nella misericordia di Dio verso i peccatori tutto incoraggia e consola: essa li attende, essa li invita, essa li accoglie a penitenza. “Dio, dice il profeta Isaia, attende il peccatore, e ciò per puro effetto di sua bontà, perché il peccatore non appena caduto in fallo, merita d’esser punito. „ Nulla più del castigo è dovuto al peccatore. Da quando codesto infelice peccatore s’è ribellato contro il suo Dio, tutte le creature chiedono vendetta della sua rivolta. Signore, gli dicono esse, come i servi del padre di famiglia, permetteteci d’andar a sradicare dal campo delia vostra Chiesa questa zizzania che guasta e disonora il buon grano. Volete voi, gli dice il mare, ch’io l’inghiotta ne’ miei abissi? La terra: ch’io mi apra per piombarlo vivo nell’inferno? L’aria: ch’io lo soffochi? Il fuoco: ch’io l’abbruci? L’acqua: ch’io l’anneghi? — Ma che risponde il Padre delle misericordie? No, no, dice Egli, questa zizzania può diventare buon grano, questo peccatore può convertirsi. Che questo peccatore travii, egli tace. Che egli s’allontani da Lui, ch’egli corra alla sua rovina, Dio lo soffre. “0 Signore! o Dio di misericordia! ancor peccatore, io m’allontanava ogni giorno sempre più, dice S. Agostino; tutti i miei passi non erano che nuove cadute in nuovi precipizi, le mie passioni s’accendevano sempre più; eppure voi avevate pazienza. O pazienza infinita del mio Dio! già da tanti anni iov’offendo e Voi non m’avete ancor punito! Donde ciò? Ah! io lo conosco ora: è che Voi volevate ch’io mi convertissi e tornassi a Voi per mezzo della penitenza, „ Vuole, questo Dio di misericordia, punire gli uomini al tempo del diluvio per gli orribili delitti di cui s’erano resi colpevoli? Egli non lo fa che a malincuore, dice la Scrittura. Il pentimento che Dio manifesta, scrive sant’Ambrogio, ci mostra l’enormità dei delitti, di cui gli uomini avevano contaminato la terra. Tuttavia egli s’accontenta di dire: “Io li distruggerò (Gen. VI)„ Perché parlare come d’una cosa futura? Forse che la sua sapienza mancava di mezzi? No, senza dubbio”; ma egli parla di questa punizione come di cosa futura, per dar tempo ai colpevoli di disarmare la sua collera. Li avverte della sventura di cui li minaccia centoventi anni prima, per dar loro tempo di stornarla con la penitenza. Invia loro Noè per predicar loro questa penitenza; per assicurarli che, s’essi cambieranno vita, Egli cambierà proposito. Il santo patriarca dura cento anni a costruire l’arca; affinché gli uomini, vedendo questa nuova nave, gliene domandassero il perché e rientrassero in se stessi. Quanti indugi! Quante dilazioni! Dio aspetta la loro penitenza. Infine essi stancano la sua pazienza. Allo stesso modo Dio attende ancor oggi a penitenza quel miserabile peccatore, che continuamente vede moltiplicarsi sotto i suoi occhi un numero infinito di morti le più spaventose. Gli uni cadono sommersi nelle acque; gli altri fulminati dalla folgore del cielo; altri rapiti nel fior degli anni; altri strappati di mezzo ai piaceri e a una florida fortuna. Questo Dio di bontà e di tenerezza che desidera con premura la conversione del peccatore, permette che la notizia di questi fatti si diffonda nelle diverse parti del mondo, come una tromba che avverta tutti i peccatori di tenersi pronti, che la loro volta verrà ben presto, e che, se non approfitteranno di questi esempi per rientrare in se stessi, forse ahimè! forse fra poco, essi stessi serviranno d’esempio agli altri! Ma questi disgraziati peccatori sono simili a quegli uomini di cui parla la Scrittura, i quali non erano per nulla commossi dalle minacce che Dio loro faceva per bocca del santo patriarca Noè ». (Luc. XVII, 27; I Petr. III, 20.) – “Ah! peccatore, esclama un santo Padre, perché non t’arrendi alla voce del tuo Dio che ti chiama? Egli ti stende la mano per strapparti da questo abisso in cui t’hanno precipitato i tuoi peccati; ritorna, Egli ti promette perdono. „ Oh quanto è triste, M. F., non conoscere il proprio stato deplorevole! Arrendiamoci adunque alla voce di Colui che non ci chiama se non per guarirci dai mali da cui è sfigurata la povera anima nostra.

2° Inoltre Dio stesso invita il peccatore a penitenza. ” O Gerusalemme, tu sei stata un’infedele; tu ti sei prostituita all’amore impuro delle creature; tuttavia ritorna a me e io t’accoglierò „ (Ger. III, 1). Così il Signore, per bocca del profeta Geremia, parlava a una peccatrice dell’Antico Testamento. Ascoltiamo ciò che ci dice ancora questo divin Salvatore: “Peccatori, voi vi siete affaticati nella via dell’ iniquità; tuttavia venite a me e io vi consolerò. “Venite, provate e gustate quanto è dolce il Signore, quanto leggiero il suo giogo, quanto amabili i suoi comandamenti!„ (Sap. V, 7) Oh, il buon Pastore delle anime nostre! non contento di richiamarle, va Lui stesso a cercare le pecorelle smarrite. Vedetelo, oppresso dalla fatica accanto al pozzo di Giacobbe, seguire una delle sue pecorelle, nella persona della Samaritana. Vedetelo, nella casa di Simone il lebbroso, seguirla nella persona della Maddalena: perchè, se ella venne a trovare il Signore nella casa di questo fariseo, fu solo per un’attrattiva della grazia che toccò il suo cuore e guidò i suoi passi (Luc. VII). Vedetelo in Gerico fare di Zaccheo, già pubblico peccatore, un penitente perfetto (Luc. XIX). Vedete ancora le sue viscere commuoversi per tutti i peccatori in generale. “Io voglio la misericordia e non il sacrificio, dice Egli; io son venuto a chiamare il peccatore e non il giusto (Matt. IX, 18).„ — “Oh! quante volte, esclama Egli, o ingrata Gerusalemme, non ho io voluto raccogliere i tuoi figli sotto l’ali della mia misericordia, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le sue ali, e non hai voluto (Matt. XXIII, 27).„ E non è sempre questa stessa grazia, che ogni giorno stimola e sollecita il peccatore a convertirsi?

3° E se il peccatore è tanto felice da ritornare a Dio, Egli lo accoglierà a penitenza e gli perdonerà senza indugio. Sì, se questo peccatore lascia i suoi delitti e le sue iniquità e ritorna sinceramente a Dio, Dio è dispostissimo a perdonargli. Vedetelo nel più consolante di tutti gli esempi che l’Evangelo ci propone, quello del Figliuol prodigo. Questi ha dissipato tatti i suoi beni vivendo da libertino e dissoluto. La sua vita malvagia lo ridusse a una miseria sì grande, che sarebbe stato felice di nutrirsi degli avanzi del cibo dei porci, che custodiva. Finalmente, tocco al vivo dalla sua miseria, considera il suo infelice stato, e prende la risoluzione di tornare alla casa del padre suo, dove l’ultimo dei servi si trova assai meglio di lui. Ed eccolo partire. Egli è ancor molto lontano quando il padre lo scorge. Questi, rivedendolo n’è tocco da compassione e, dimentico della sua vecchiezza, gli corre incontro, gli si getta al collo e lo bacia. “Ah! che fate, padre mio? Io ho peccato contro il cielo e innanzi a voi; non merito più d’esser chiamato vostro figlio mettetemi tra i vostri servi, e mi basta. — No, no, figlio mio, gli dice questo buon padre, io dimentico tutto il passato. Subito gli s’indossi la veste di prima, gli si metta al dito l’anello e i calzari ai piedi; s’uccida un vitello e stiamo allegri; mio figlio era morto ed è risorto; era perduto e fu ritrovato (Luc. XV) „ Ecco la figura ed ecco la realtà. Dacché il peccatore prende la risoluzione di ritornare a Dio e di convertirsi, fin da’ suoi primi passi, la misericordia divina è tocca di compassione; gli corre incontro, lo previene con la sua grazia, lo bacia favorendolo di consolazioni spirituali, e lo ristabilisce nel suo pristino stato perdonandogli tutte le sue sregolatezze passate. “Ma, dirà questo peccatore convertito, io ho dissipato tutti i beni che voi m’avevate dato; io non me ne sono servito che per offendervi. — Non importa, dirà questo buon Padre, io voglio dimenticare tutto il passato. Si renda a questo peccatore convertito il suo abito di prima rivestendolo di Gesù Cristo, della sua grazia, delle sue virtù, de’ suoi meriti.„ Ecco, M. F., come la misericordia di Dio tratta il peccatore. Con quanta confidenza, con quanta premura non dobbiamo ritornare a Lui quando abbiamo avuto la sventura d’abbandonarlo per seguire i desideri del nostro cuore corrotto! Possiamo noi temere d’essere da Lui rigettati, dopo tanti segni di tenerezza e d’amore per i più grandi peccatori? No, M. F., non differiamo più il nostro ritorno a Dio: il presente e il futuro devono farci tremare. E anzitutto, il presente: se sventuratamente noi siamo in istato di peccato mortale, noi siamo in pericolo prossimo di morirvi. Lo Spirito Santo ci dice: – Chi si espone al pericolo vi perirà (Eccli. III, 27)„ Perciò, vivendo nell’odio di Dio, noi avremmo ben ragione di temere che la morte vi ci sorprenda. E giacché Dio vi offre oggi la sua grazia, perché non vorrete voi approfittarne? Dire che non c’è premura, che c’è tempo, non è, F. M., ragionare da insensati? Vedete: di che siete voi capaci quando siete ammalati? Ahimè! di nulla affatto: voi non potete neppure far un atto di contrizione come si deve; perché siete così assorbiti dai vostri dolori, che non pensate affatto alla vostra salvezza. Ebbene. M. F., non saremmo noi troppo stolti se aspettassimo la morte per convertirci? Fate almeno per la vostra povera anima ciò che fate per il vostro corpo, il quale dopo tutto non è che un mucchio di putredine, che andrà ben presto pasto ai più vili animali. Quando siete gravemente feriti, aspettate voi sei mesi o un anno per applicarvi i rimedi che credete necessari alla vostra guarigione? Quando siete assaliti da una bestia feroce aspettate forse d’esser mezzo divorati per gridare aiuto? Non implorate forse subito il soccorso dei vicini? Perché, F. M., non fate altrettanto quando vedete la vostra povera anima macchiata e sfigurata dal peccato, ridotta sotto la tirannia del demonio? Perché non implorate subito l’assistenza del cielo e non ricorrete tosto alla penitenza? Sì, F. M., per quanto gran peccatori voi siate, nessuno di voi vorrebbe morire nel peccato. Ebbene! poiché desiderate di abbandonare un giorno il peccato, perché non l’abbandonerete oggi che Dio ve ne dà il tempo e la grazia? Credete forse che, in seguito, Dio sarà più disposto a perdonarvi, e che le vostre malvage abitudini saranno meno difficili a vincersi? No, no, F. M., più voi differirete il vostro ritorno a Dio, e più la vostra conversione sarà difficile. Il tempo, che indebolisce tutto, non fa che fortificare le nostre inclinazioni malvage. Ma forse voi vi fidate sul tempo futuro. Ahimè! non vi lasciate ingannare! I giudizi di Dio sono sì terribili che voi non potete differire la vostra conversione d’un solo istante senza esporvi al pericolo d’andar perduti per sempre. Lo Spirito Santo ci dice per la bocca del Savio “che il Signore sorprenderà il peccatore nella sua collera (Eccli. V, 9).„ Gesù Cristo stesso ci dice che “Egli verrà di notte come un ladro, che sorprende quando meno ci si pensa.„ (Matt. XXIV, 50). E ci ripete anche queste parole: “Vegliate e pregate continuamente, affinché, al mio ritorno, non vi trovi addormentati.„ (Matt. XIII, 36). Gesù Cristo vuol mostrarci con queste parole che noi dobbiamo costantemente vegliare affinché l’anima nostra non sia trovata in peccato quando ci coglierà la morte. Facciamo, M. F., come le vergini sagge, che si provvidero d’olio per attendere l’arrivo del loro sposo ed esser così pronte a partire quando lo sposo le avrebbe chiamate. Allo stesso modo, facciamo anche noi provvista d’opere buone prima che Dio ci chiami al suo tribunale. Non imitiamo quelle vergini stolte, che aspettarono l’arrivo dello sposo per andar in cerca dell’olio: quando arrivarono, la porta era chiusa; esse ebbero un bel pregare lo sposo che aprisse loro; egli rispose che non le conosceva. (Matt. XXV). Triste, ma troppo sensibile immagine, F. M., del peccatore, che rinvia continuamente di giorno in giorno il suo ritorno a Dio. Giunto alla morte, egli vorrebbe ancora approfittare di questo momento; ma troppo tardi, non c’è più rimedio! Sì, F . M., la sola incertezza del momento in cui Dio ci chiamerà a comparirgli dinanzi dovrebbe farci tremare e impegnarci a non perdere un solo istante per far sicura la nostra salvezza. D’altra parte, F. M., sappiamo noi il numero dei peccati che Dio vorrà tollerare in noi, e la misura delle grazie che ci vuol accordare e fin dove vorrà giungere la sua pazienza? Non dobbiamo noi temere che il primo peccato che commetteremo non metta il suggello alla nostra riprovazione? Giacché vogliamo salvarci, perché differire ancora? Quanti angeli, quanti milioni di uomini non hanno commesso che un sol peccato mortale! Eppure questo solo peccato sarà la causa del loro tormento per tutta l’eternità. F. M., i ladri non sono tutti puniti ugualmente; gli uni invecchiano nel ladroneggiare; altri al primo delitto sono colti e puniti. Non dobbiamo noi temere che tocchi anche a noi la stessa sorte? E vero che voi vi rassicurate sul fatto che Dio non v’ha punito, quantunque voi continuiate ad offenderlo. Ma è anche vero che forse Egli non attende che il primo vostro peccato per colpirvi e precipitarvi dentro all’abisso. Vedete un cieco che cammina verso il precipizio: l’ultimo suo passo non è più lungo del primo: eppure è precisamente questo passo che lo getta nel precipizio. Per cader nell’inferno, non è necessario commetter grandi delitti; basta continuare a vivere lontani dai Sacramenti per andar perduti eternamente. Suvvia, non stanchiamo più oltre la pazienza di Dio; affrettiamoci a corrispondere alla sua bontà, la quale non desidera che la nostra felicità. – Ma vediamo ancor più particolarmente ciò che dobbiamo fare per corrispondere ai disegni che la misericordia di Dio ha sopra di noi.

II — F. M.,  se la misericordia di Dio attende il peccatore a penitenza, non bisogna stancare la sua pazienza; essa ci chiama e c’invita, noi dobbiamo andarle incontro; essa ci riceve e ci perdona, noi dobbiamo restarle fedeli. Ecco i doveri di riconoscenza che esige da noi. Sì, Dio attende e sopporta il peccatore. Ma, ahi! Quanti peccatori, invece di approfittare della sua pazienza per rientrare in se stessi, non fanno che aggiungere peccato a peccato? Sono dieci, vent’anni che Dio attende questo misero peccatore a penitenza; ma tremi! non c’è più che un piccolo filo cui la misericordia tien sospesa l’esecuzione delle sue vendette! Ah! infelice peccatore, disprezzerete voi sempre le ricchezze della sua pazienza, della sua bontà, della sua lunga tolleranza? E proprio perché Dio vi aspetta a penitenza che voi non la farete mai? Non è al contrario, dice il santo Apostolo, questa bontà divina, che deve impegnarvi a non differire più oltre? “Ma voi – dice egli – per la durezza e l’impenitenza del vostro cuore, vi accumulate tesori di collera per il giorno della manifestazione del Signore (Rom. II, 4-5)„ Infatti, qual durezza può paragonarsi a quella d’un uomo che non è intenerito dalla dolcezza e dalla tenerezza di un Dio che, da tanti anni, l’attende a penitenza? È adunque il peccatore, lui solo, causa della sua rovina. Sì, Dio ha fatto tutto ciò che doveva fare per la sua salvezza; gli ha fatto la grazia di conoscerlo, gli ha insegnato a discernere il bene dal male, gli ha manifestato le ricchezze del proprio cuore per attirarlo a sé, l’ha persino minacciato dei rigori del suo giudizio per impegnarlo a convertirsi: se dunque il peccatore muore nell’impenitenza non può prendersela che con se medesimo. Approfittiamo, M. F., della misericordia con cui Dio ci aspetta a penitenza. Ah! non stanchiamo più oltre la sua pazienza con continui indugi di conversione.

2° F. M., se la misericordia di Dio ci chiama, bisogna che noi le andiamo incontro. “Dio – dice S. Ambrogio – si obbliga a perdonarci: ma bisogna che la nostra volontà s’unisca a quella di Dio; egli vuole salvarci, ma bisogna che noi pure lo vogliamo, perché una di queste volontà non ottiene il suo effetto se non unita con l’altra; quella di Dio comincia l’opera, la conduce, la finisce, e quella dell’uomo deve concorrere al compimento dei suoi disegni.„ Noi dobbiamo essere nelle stesse disposizioni di S. Paolo al principio della sua conversione, come ci fa sapere nella sua lettera ai Galati. “Voi avete sentito parlare della mia condotta e delle mie azioni tutte malvage. Prima che Dio m’avesse fatto la grazia di convertirmi, io perseguitavo la Chiesa di Dio in modo così crudele che n’ho orrore ogni volta che vi penso; chi avrebbe creduto che la misericordia divina avrebbe scelto quel momento per chiamarmi a sé? (Gal. I, 13 Fu allora ch’io mi vidi tutto circondato d’una luce abbagliante, e ch’io intesi una voce che mi diceva: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Io sono il tuo Salvatore e il tuo Dio, contro il quale tu rivolgi la tua rabbia e le tue persecuzioni (Act. XXII, 6-7).„ Si, M. F., noi possiamo dire che ciò che avvenne una volta, in modo sì meraviglioso a S. Paolo, avviene ancora tutti i giorni a favore del peccatore. La grazia di Dio lo cerca e lo segue, anche quando questo misero l’offende. Se vuol confessare la verità egli sarà costretto a convenire che ogni volta egli è pronto a fare il male, la voce di Dio si fa sentire in fondo al suo cuore per opporsi ai suoi disegni malvagi. Che deve fare questo peccatore? Obbedire alla voce del cielo e dire come il santo Giobbe: “Signore, voi avete contati i miei passi ne’ miei traviamenti: ma ecco ch’io ritorno a voi; degnatevi d’usarmi misericordia (Giob. XIV, 16).„

3° Inoltre se Dio riceve il peccatore e gli perdona, questi deve restargli fedele. Non più ricadute nei disordini; egli deve rinunciare interamente ai peccati che gli sono stati perdonati; non essere più un peso alla misericordia divina, la quale tanto condanna le conversioni incostanti, quanto s’allieta di quelle solide e perseveranti; — deve gemere per tutto il resto de’ suoi giorni per aver atteso tanto a darsi a Dio; — benedire continuamente il nome del Signore per aver fatto risplendere in lui la sua infinita misericordia strappandolo dall’abisso in cui l’avevano precipitato i suoi peccati. Tali devono essere i sentimenti d’un peccatore convertito davvero. Abbiamo visto quanto è grande la misericordia di Dio, quindi, per quanto peccatori, non disperiamo mai della nostra salvezza, perché la bontà di Dio sorpassa infinitamente la nostra malizia. Ma neppure abusiamone, “perchè, cidice il Profeta, la misericordia divina è per quelli che la temono, non per quelli che la disprezzano (Ps. CII, 17). „ Il giusto deve operare nella misericordia di Dio; ma deve perseverare, affinché essa eserciti su lui i suoi diritti ricompensando i suoi meriti. Il peccatore parimente deve sperare nella misericordia di Dio: ma faccia penitenza. Affinché la nostra conversione sia sincera, noi dobbiamo aggiungere la speranza alla penitenza; perché far penitenza senza sperare è la sorte dei demoni, e sperare senza far penitenza, la presunzione del libertino. Noi felici, se corrisponderemo alle cure, alle sollecitudini e alle grazie che Dio non cessa di prodigarci per farci conseguire la nostra salvezza. E questo è il mio augurio.

SALMI BIBLICI: “CANTATE DOMINO, CANTICUM NOVUM; LAUS … ” (CXLIX)

SALMO 149: “CANTATE DOMINO CANTICUM NOVUM; LAUS …”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 149

Alleluja.

[1] Cantate Domino canticum novum; laus

ejus in ecclesia sanctorum.

[2] Lætetur Israel in eo qui fecit eum, et filii Sion exsultent in rege suo.

[3] Laudent nomen ejus in choro, in tympano et psalterio psallant ei.

[4] Quia beneplacitum est Domino in populo suo, et exaltabit mansuetos in salutem.

[5] Exsultabunt sancti in gloria, lætabuntur in cubilibus suis.(1)

[6] Exaltationes Dei in gutture eorum: et gladii ancipites in manibus eorum:

[7] ad faciendam vindictam in nationibus, increpationes in populis;

[8] ad alligandos reges eorum in compedibus, et nobiles eorum in manicis ferreis;

[9] ut faciant in eis judicium conscriptum: gloria hæc est omnibus sanctis ejus. Alleluja.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXLIX.

Lodino Dio quei che da Dio ricevettero maggior beneficii, quindi lo lodi il suo popolo, che da Dio ebbe la promessa della gloria eterna, alla quale,  finito il pellegrinaggio, arriverà.

Alleluja. Lodate Dio.

1. Cantate al Signore un nuovo cantico, le laudi di lui (risuonino) nella Chiesa dei Santi.

2. Rallegrisi Israele in lui, che lo ha fatto, e i figliuoli di Sion esultino nel loro Re!

3. Lodino il nome di lui con armonico canto, lo celebrino al suono del timpano e del salterio.

4. Perché il Signore ha voluto bene al suo popolo, e i mansueti innalzerà a salute.

5. Esulteranno i Santi nella gloria; saranno lieti nelle loro mansioni. (1)

6. Hanno nella lor bocca le laudi di Dio, e nelle lor mani spade a due tagli;

7. Per prender vendetta delle nazioni e castigare i popoli;

8. Per legare in ceppi il loro re, e i loro grandi a catene di ferro;

9. Per fare sopra di essi il giudizio, che sia già scritto: questa gloria a tutti i Santi appartiene. Lodate Dio.

(1) La parola ebraica indica i letti dove ci si sedeva per la conversazione o il riposo.

Sommario analitico

Dopo avere, nei salmi precedenti, invitato la sua anima, la natura e tutte le nazioni a lodare Dio, il Profeta indirizzandosi nuovamente ai figli di Israele, indica loro i motivi particolari che hanno nel celebrare questo Dio del quale ha enumerato le perfezioni. Questi motivi sono la missione che essi hanno ricevuto da Lui quaggiù, e che li rendono sulla terra i rappresentanti della sua potenza e della sua giustizia. Nel primo senso imperfetto, il Profeta ha in vista le vittorie degli Israeliti, tornati dalla cattività, sui popoli vicini che si oppongono alla ricostruzione del tempio. In un senso più elevato, egli invita tutti i santi a lodare Dio a causa della grazia che ha loro accordato e della gloria di cui godono. 

I. – Egli li invita a cantare le lodi di Dio:

1° a cantare in onore di Dio solo,

2° a cantare un cantico nuovo,

3° a cantare nell’assemblea dei santi (1),

4° a cantare nei trasporti della gioia e dell’allegria (2),

5° a cantare al suono degli strumenti (3);

6° egli offre come motivo i benefici dei quali il Signore ha ricolmato il suo popolo:

     a) essi sono riuniti in un solo popolo sotto il suo scettro reale (6);

     b) Dio si compiace in essi come nel suo popolo (4).

II. – Descrive la loro felicità:

1° la gioia che essi provano nei loro corpi gloriosi,

2° la sicurezza ed il riposo eterno di cui la loro anima è in possesso (5),

3° le lodi di Dio che essi non cesseranno di cantare (6),

4° la potenza giudiziaria che essi esercitano sui loro nemici, sui loro re e sui principi, onore riservato a tutti i santi alla fine dei tempi (6-8).

Spiegazioni e Considerazioni

 I. — 1-4.

ff. 1-3. – Lodiamo il Signore con la voce, lodiamolo con gli sforzi della nostra intelligenza e con le buone opere e, come ci esorta questo salmo, cantiamo un cantico nuovo. Al vecchio uomo il cantico antico; all’uomo nuovo, un cantico nuovo. L’Antico testamento è il cantico antico; il nuovo Testamento è il nuovo cantico. L’Antico Testamento contiene delle promesse temporali e terrestri. Chiunque ama i beni della terra, canta il cantico antico; chiunque vuol cantare il cantico nuovo, deve amare le cose eterne. Questo nuovo amore è anche eterno; è dunque eternamente nuovo, perché non invecchia mai. (S. Agost.). – Non si può meditare abbastanza questa verità di cui Nostro Signore Gesù-Cristo ed i suoi Apostoli parlano incessantemente, di rinnovare tutto. Il Testamento è nuovo, il comandamento della carità è nuovo, il calice della salvezza è nuovo, il linguaggio con cui devono parlare i fedeli è nuovo, il carattere del Cristiano, è quello dell’uomo nuovo; la via che Gesù-Cristo ha aperto è nuova; la Gerusalemme di cui noi siamo cittadini, è nuova, il cantico che vi si canta è nuovo. Tutte queste novità non avranno la loro conclusione che nella vita beata, ma l’uomo fervente e rinnovato dalla carità ne raccoglie in questa vita le primizie, spogliandosi di giorno in giorno dell’uomo vecchio e dei suoi atti. (Berthier). – E dove dobbiamo cantare questo cantico nuovo? « Nell’assemblea dei santi. » Questa assemblea dei santi, è l’assemblea dei buoni chicchi di frumento sparsi nell’intero universo, seminati nel campo del Signore, cioè nel mondo … L’assemblea dei Santi, è dunque la Chiesa Cattolica; l’assemblea dei Santi non è la chiesa degli eretici, è la Chiesa che Dio ha designato prima che si vedesse, e che ha manifestato perché fosse visibile a tutti gli occhi (Aug.). – Vedete come, prima della lode della parola, il Profeta domandi quella delle opere e della vita. Chi sono coloro che Egli ammette a formare il religioso concerto? Non è sufficiente che la voce canti un inno d’azioni di grazie, bisogna che l’accompagni la virtù delle opere. C’è poi un altro insegnamento: noi vediamo in questa parola che bisogna lodare Dio con un accordo perfetto; perché la Chiesa è una riunione in cui regna l’armonia più perfetta (S. Chrys.). – « Gioisca Israele in Colui che l’ha creato. » Prima dei favori particolari, egli antepone in beneficio generale: rendete grazie a Dio del fatto che, prima che voi foste, Egli vi ha dato l’esistenza ed un’anima immortale. – Il primo titolo che Dio presenta ai nostri omaggi, è quello di Creatore, … gli uomini pensano ben poco a questo beneficio. Essi vivono come se fossero sempre esistiti, o come se fossero essi stessi gli autori del proprio essere. Quasi mai dicono, pur nella calma delle passioni e nel silenzio dell’amor proprio: Donde io sono venuto? Chi mi ha fatto? E come mi ha fatto? Cosa diventerò dopo il breve tempo trascorso sulla terra? (Berthier). – Ma ecco un beneficio ancora più grande; all’esistenza viene ad aggiungersi l’unione intima con Dio, che non solo ha dato loro la vita la, ma li ha resi suo popolo particolare. (S. Chrys.). – Rallegrarsi nel possesso delle creature, degli onori, delle ricchezze, è una gioia falsa e criminale; Rallegrarsi con se stesso, come se fossimo opera propria, è gioia ingannevole e mortale; ma gioire in Colui che, non solo ci ha creato, ma che vuol essere nostro Re, e riconoscerci come suo popolo, è la sola gioia solida e vera. (Duguet). – Lodino essi il suo Nome nei loro concerti, dolce sinfonia che riunisce in uno stesso coro tutte le voci e tutte le anime. San Paolo la raccomanda frequentemente ai primi fedeli, e l’Orazione domenicale, che tutti recitiamo, ne porta essa stessa l’impronta: è sempre al plurale che noi parliamo (S. Chrys.). –  Un coro è la riunione di uomini che si accordano per cantare. Se noi cantiamo in coro, noi cantiamo con accordo; se in un coro di uomini che cantano, uno solo stona, questo colpisce il nostro orecchio e turba il canto. Se la voce discordante di un solo cantore è sufficiente a turbare l’assemblea di un coro, quanto più un’eresia discordante non turba l’accordo di coloro che glorificano il Signore? (S. Agost.). – Lodare Dio con gli strumenti musicali, è lodare non soltanto con la lingua e la voce, ma con la mano e le opere; è lodare con tutte le membra del nostro corpo: gli occhi, le orecchie, la lingua e le mani. (Duguet).

ff. 4. – La ragione del cantico nuovo, è che Dio si è compiaciuto nel suo popolo e che lo ha amato, fin dall’eternità, di un amore infinito. Questa benevolenza, questo buon piacere di Dio è il fondamento e la fonte di tutti i beni, della predestinazione, della vocazione, della giustificazione, della glorificazione. Nostro-Signore dice nello stesso senso: « Non temete, piccolo gregge, perché è piaciuto al Padre vostro di darvi il regno; e l’Apostolo San Paolo non cessa – nelle sue epistole – di proclamare questo buon piacere di Dio, come la causa principale della nostra salvezza. » (Bellarm.). – « Perché il Signore ha fatto del bene al suo popolo. » Qual maggiore beneficio si può supporre che morire per degli empi? Qual più gran beneficio v’è che cancellare con il sangue del giusto il debito del peccatore? Quel più gran beneficio che dire: io non voglio ricordarmi di ciò che siete stati, siate ciò che non eravate? « Il Signore ha fatto del bene al suo popolo, » rimettendoli i suoi peccati, promettendogli la vita eterna; Egli gli ha fatto del bene riconducendolo dopo che si era allontanato da Lui, assistendolo quando combatte, coronandolo dopo la vittoria. « Egli esalterà coloro che sono mansueti per salvarli. » In effetti gli orgogliosi sono  esaltati molto, ma non per essere salvati. Gli uomini dolci sono esaltati per la loro salvezza, gli orgogliosi per la loro rovina; cioè: gli orgogliosi si esaltano e Dio li umilia; al contrario coloro che sono mansueti si umiliano, e Dio li esalta. (S. Agost.).

II. – 5-8

ff. 5. –  Non c’è nessuno che non ami la gloria. Ma la gloria degli insensati, quella che si chiama la gloria popolare, ha un fascino ingannevole. Ogni uomo che si lascia prendere dalle lodi degli uomini di vanità e dirige la sua vita in modo da ottenere le lodi degli uomini chiunque siano e con tutti i mezzi possibili … questa stolta gloria, il Signore la condanna, essa è abominevole agli occhi dell’Onnipotente … Quanto ai Santi, essi sono trasportati dalla gioia nella gloria, e non c’è bisogno che noi diciamo quali saranno questi trasporti. Ascoltate ciò che dice il Profeta: « Essi saranno trasportati di gioia nella gloria, si rallegreranno sui loro giacigli di riposo. » Questo non avviene nei teatri, nei circhi, nei frivoli divertimenti, né sulle piazze pubbliche, ma « … nei loro giacigli. » Che significano queste parole « nei loro giacigli. » Nei loro cuori! Ascoltate l’Apostolo San Paolo, trasportato di gioia nel letto di riposo: « La nostra gloria, dice, è la testimonianza della nostra coscienza. » (II Cor. I, 12). D’altro canto, è da temere chiunque si compiace in se stesso e che, diventando orgoglioso della sua buona coscienza, glorifichi se stesso … Così, dopo aver detto: « Essi gioiranno nei loro giacigli, » il Profeta ha subito aggiunto, per prevenire in essi ogni compiacimento: « le lodi di Dio riempiranno la loro bocca di gioia. » È così che essi saranno ricolmi di gioia nei loro giacigli, non attribuendosi il merito della loro bontà, ma lodando Colui da cui hanno ricevuto ciò che di buono hanno in se stessi, Colui che li chiama per farli giungere là dove essi non sono ancora, e dal quale sperano la loro perfezione, Colui al quale essi rendono delle azioni di grazie, perché ha cominciato a renderli migliori. (S. Agost.). –  « Essi si riposeranno nei loro giacigli, » cioè nella patria celeste. Il letto, in effetti, è un luogo di riposo che non si trova nella via in cui camminiamo; è qui che dobbiamo combattere contro la carne e bagnare delle nostre lacrime il nostro letto per spegnere i fuochi della lussuria che ci bruciano (S. Gerol.).  

ff. 6-8. – « Ed essi avranno nelle loro mani delle spade a due tagli. » Noi leggiamo nell’Apocalisse che una spada affilata dai due lati usciva dalla bocca del Salvatore (I, 16). Voi vedete che i Santi hanno ricevuto dalla bocca di Nostro-Signore le spade a due tagli che hanno nelle mani. Il Signore promette dunque ai Santi le spade che escono dalla sua bocca. Queste spade a due tagli, sono la parola della sua dottrina; questa spada a due tagli, è il senso letterale ed il senso spirituale; questa spada a due tagli ha due funzioni principali, essa parla sia del secolo presente sia del secolo futuro; qui mette a morte gli avversari; nel cielo, apre il regno dei cieli. (S. Gerol.). – Veramente la Gloria non si trova là dov’è l’oro, il denaro, le pietre preziose, gli abiti di seta; colui che ha queste spade a due tagli, che bisogno ha di altre cose? Vedete ciò che dice il Profeta terminando: « Tale è la gloria riservata a tutti i suoi Santi. » Preghiamo Dio di accordarci questa gloria, preghiamolo di armare le nostre mani con questa spada che esce dalla sua bocca. Colui che è armato di questa spada non teme più la spada del secolo. (S. Gerol.). – Queste spade a due tagli messe nelle mani dei Santi, costituiscono il potere giudiziario di cui Gesù-Cristo ha fatto loro parte, e che essi eserciteranno soprattutto negli ultimi giorni. Non sapete, dice San Paolo, « che i Santi giudicheranno questo mondo, e che noi giudicheremo anche gli Angeli? » (I Cor. VI, 2, 3), vale a dire gli angeli ribelli, che essi giudicheranno in questo senso, che saranno testimoni dell’arresto formidabile che sarà pronunciato contro di loro, e che essi applaudiranno con tutta la corte celeste alle vendette che l’Altissimo attuerà contro questi nemici di Dio, di Gesù-Cristo e del genere umano (Berthier). – È allora che i Santi, entrando nello zelo di Dio, prenderanno vendetta, non delle proprie ingiurie, ma di quelle che saranno state fatte a Dio alla loro presenza. – È allora che i re, i nobili, i principi che hanno usato tirannicamente del loro potere, si vedranno caricati di quelle stesse catene di cui ingiustamente avranno caricato gli innocenti. –  « … Per esercitare contro di essi il giudizio prescritto. » I Santi esercitano il giudizio di Dio contro gli empi, e gli empi contro i Santi. Essi sono soltanto, nei confronti reciproci, ministri della giustizia o della sua misericordia, ma in maniera molto differente. Gli empi, perseguitando i giusti, contribuiscono alla loro santificazione, ed i santi, esercitando il giudizio di Dio, rendono all’ingiustizia subita la pena che è loro dovuta. « Tale è la gloria che è riservata ai Santi nel cielo, a coloro che non ne pretendevano alcuna sulla terra. (Duguet). » – La Gloria dei Santi ci è quasi sconosciuta sulla terra. Innanzitutto, coloro che vivono tra di noi, sono così attenti a nascondersi che le loro virtù ci sfuggono, e gli uomini sono così cattivi giudici in materia di santità, che tacciano spesso le virtù più pure come ipocrisia, politica, umore, debolezza. Non è che nel giorno delle rivelazione che la gloria dei Santi si manifesterà pienamente ai nostri occhi. (Berthier). – In effetti, la fioritura della santità, è la gloria. La gloria esce dalla grazia come il frutto dal fiore, ed il fiore dal gambo. L’opera del Cristianesimo essendo opera di santità, è dunque, per questo, un’opera di gloria. È con questa bella imèplicazione che il Profeta conclude questo salmo; egli viene a mostrarci la felicità, gli onori, la potenza di cui Dio riveste i suoi eletti, e ci dice: « Tale è la gloria che Dio riserva a tutti coloro che avranno vissuto santamente sulla terra. »

IL CUORE DI GESÙ E LA DIVINIZZAZIONE DEL CRISTIANO (17)

H. Ramière: S. J.

Il cuore di Gesù e la divinizzazione del Cristiano (17)

[Ed. chez le Directeur du Messager du Coeur de Jesus, Tolosa 1891]

PARTE QUARTA

CONCLUSIONI PRATICHE

Capitolo I.

LA DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ FORMA PRATICA DELLA NOSTRA DEIFICAZIONE

La scienza della santità è pratica.

La scienza della santità non è speculazione, è una scienza pratica, la prima di tutte le arti: ars artium. Per diventare santi e raggiungere la vita eterna, prima di tutto c’è da sapere: In questo consiste la vita, che ti conoscano; perché come si comporterà la volontà se l’intelligenza non le indica la via? Ma l’intelligenza non è feconda, né produce il frutto divino della santità, se non attraverso la volontà. Non solo non può santificarci da sola, ma ci renderebbe più colpevoli se non la prendessimo come regola di condotta. « Sapendo queste cose – disse il Salvatore agli Apostoli – sarete beati se le metterete in pratica » (S. Giov. XIII, 17). Perciò, a differenza dei farisei che insegnano ciò che non fanno (S. Mt. XIII, 3), il grande Maestro di santità ha cominciato ad istruirci con i suoi esempi prima di darci lezioni: « Cœpit facere et docere » (Atti I, l). La santità deve essere il risultato della collaborazione di due agenti: di Dio e dell’uomo. Finora l’abbiamo considerato soprattutto dal lato di Dio. Vediamo ora cosa dobbiamo fare noi per concorrere alla sua azione: portare a compimento l’opera più divina che l’Onnipotente compie al di fuori di sé. Abbiamo considerato l’opera della nostra santificazione nella sua teoria, vediamola ora in pratica.

Il Cuore di Gesù è il principale strumento della nostra divinizzazione.

Il Cuore di Gesù è lo strumento principale della nostra divinizzazione. Questa è in verità opera di tutta la Trinità, poiché sia la prima che la terza Persona della Santissima Trinità vi partecipano tanto quanto la seconda. Infatti  Dio Padre ci adotta come figli, e lo Spirito Santo si unisce alle nostre anime: e questi sono elementi essenziali della nostra divinizzazione. Va notato, tuttavia, che lo Spirito Divino si comunica a noi attraverso Gesù Cristo, e solo se siamo incorporati in Lui, Dio Padre ci riconosce e ci ama come suoi figli. Ora, Gesù Cristo non ci dà il suo Spirito, non ci fa sue membra, se non con un atto di amore completamente libero e costantemente rinnovato. Al suo Cuore dobbiamo la nostra vita divina e tutte le nostre ricchezze soprannaturali. Se siamo stati trasferiti dall’abisso delle tenebre nella regione della luce (1 Pt. II, 9), non c’è altra causa determinante di trasformazione così meravigliosa come l’amore libero ed infinitamente tenero del Cuore di Gesù. Tuttavia, qui c’è una difficoltà. Come possiamo conciliare le due verità che abbiamo appena ricordato? Da un lato, abbiamo stabilito che di tutte le opere di Dio, quella della nostra divinizzazione sia senza dubbio la più divina. Abbiamo visto le tre Persone della Santissima Trinità operare insieme per realizzarla, comunicandoci la loro natura. Se è così, come possiamo dire che il Cuore di Gesù sia la causa determinante di quest’opera? Il Cuore di Gesù, pur divinizzato dalla sua unione ipostatica con la Persona del Verbo, non cessa di essere un’entità creata. L’amore, di cui è organo, è un amore creato, perché è l’atto dell’anima santa del Salvatore. Ora, non  è questa una contraddizione che il Creatore faccia dipendere la sua azione dalla determinazione di una creatura, qualunque essa sia? Perché il Cuore di Gesù possa essere la causa determinante della nostra divinizzazione, sarebbe necessario che potesse disporre dello Spirito di Dio e donarlo a chi desidera; e che, di conseguenza, dovesse esercitare una certa autorità sullo Spirito di Dio. Ora, San Paolo ci insegna (II Cor. III, 17) ciò che Gesù Cristo stesso aveva detto e fatto capire a Nicodemo (S. Giov. III, 8), che cioè lo Spirito Santo non obbedisce a nessuno, perché è indipendente e sovrano. Egli soffia dove vuole, e non può privarsi della sua indipendenza, né della sua divinità. Non solo, Esso non dipende dal Cuore di Gesù, se non quando il Cuore e l’anima di Gesù siano costantemente e assolutamente sotto l’influenza delle sue ispirazioni. Per risolvere questa difficoltà è necessario generalizzarla. Questo perché non riguarda solo la questione attuale, ma è intimamente legata all’intero piano della Provvidenza. Ecco il Sacerdote che sale sull’altare. Prende un po’ di pane, dice qualche parola, e quello che una volta era pane, diventa il Corpo del Figlio di Dio. Non si può certamente negare che quest’opera sia divina. Per farlo, era necessario che Dio Padre sospendesse e modificasse l’esercizio del suo potere creativo e, cessando la conservazione della sostanza del pane, mettesse al suo posto il Corpo del Figlio. Era necessario che il Verbo di Dio si presentasse, in modo nuovo, in un punto dello spazio in cui prima era stato solo in virtù della sua immensità. Eppure, per quanto divina possa essere questa azione, essa è stata compiuta alla mercé di una pura creatura, che avrebbe potuto impedirne la realizzazione. Dall’altare, il Sacerdote passa al tribunale sacro. Poi sale sul pulpito dove compie anche opere divine quando illumina le intelligenze con la luce soprannaturale. Egli purifica le anime e le guida sulla via della salvezza. Solo Dio può essere l’Autore immediato di tali effetti: eppure, se questi effetti vengono prodotti o prevenuti dipende dal libero arbitrio del Sacerdote. Passiamo ora dall’ordine soprannaturale all’ordine naturale. Un uomo e una donna sono uniti dai vincoli del matrimonio: subito dopo l’unione nascono molti figli. Chi ha dato vita a questi bambini? Dio, naturalmente, perché è l’unico Principio della vita, l’unico capace di mettere la mano nell’abisso del nulla per tirarvi fuori il più perfetto degli esseri creati: uno spirito somigliante a Lui. Ma questo potere creativo non sarebbe stato esercitato a nostro vantaggio, se nostro padre e nostra madre non gli avessero dato il loro sostegno. Quando gli esseri umani lottano in mezzo alle torture della fame, cosa ci vorrebbe per evitare la morte, per riacquistare la loro forza fisica e il libero uso delle loro facoltà spirituali? Un po’ di pane o di riso. Sostanze puramente materiali, ma del cui aiuto Dio ha bisogno per conservare il capolavoro delle sue mani, la creatura razionale. In questo modo potremmo attraversare tutti gli ordini della creazione. In tutti costateremo lo stesso fenomeno, in tutti vediamo l’Onnipotente sottomettersi alle sue creature. Questa dipendenza, che Dio si è volontariamente imposto, si chiama « mediazione ». Nel mondo fisico come in quello morale, e nell’ordine naturale come in quello soprannaturale, tutte le creature sono mediatrici l’una dell’altra; mediatori di luce, di calore, di movimento, di vita. Non c’è nessuno che non abbia il compito di trasmettere ad altri alcuni dei beni il cui unico principio e dispensatore sovrano è Dio. La mediazione è la più universale di tutte le leggi divine, la fonte dell’ordine, dell’armonia e della bellezza dell’universo. Lungi dal nuocere all’indipendenza di Dio, essa fa emergere in tutta la sua magnificenza la sua infinita saggezza. È Lui che ha stabilito le leggi in virtù delle quali possiamo comunicarci l’un l’altro i beni dell’ordine naturale e soprannaturale. Proprio perché il Cuore di Gesù è, tra tutti i cuori umani, il più sottomesso all’azione dello Spirito Divino, avrà un potere incomparabilmente maggiore per comunicare questa azione. Come in tutte le cose cerca solo ciò che piace al Padre suo, che a sua volta fa con Lui e con gli uomini, ciò che Cristo desidera. Lo ha investito di un potere assoluto su tutto il creato. Così come non concede alcuna grazia senza che questa passi per le sue mani, così riceve con piacere solo gli omaggi che gli vengono offerti per sua intercessione. Cristo è il Mediatore universale, il Mediatore supremo, l’unico Mediatore. Mediatore universale, perché attraverso di Lui i doni di Dio sono distribuiti alle sue creature. Mediatore unico, perché nessuna creatura può andare verso Dio se non attraverso di Lui. Mediatore supremo, perché gli altri mediatori ricevono da Lui il potere di eseguire la sottomissione.

Il Cuore di Gesù è il nostro Sommo Sacerdote.

Gesù Cristo è il nostro Sacerdote sovrano, ed esercita il suo Sacerdozio attraverso il suo Cuore. Il Sacerdote è il mediatore dell’ordine soprannaturale: di lui Dio si serve per far risplendere sulla terra la luce che illumina le intelligenze; per dare alle anime il movimento che le porta alla loro eterna felicità; per dare loro nuovi figli a cui comunicare la loro stessa vita. Tutte queste funzioni divine, che i Sacerdoti di Gesù Cristo esercitano nel loro ministero, solo Gesù Cristo le svolge per diritto proprio. Poiché lo fa liberamente e per amore, si può dire che il suo Cuore ne sia lo strumento. Tutto ciò che si fa nella Chiesa per la santificazione delle anime, lo si fa in virtù del Cuore di Cristo. Se i Sacramenti sono i canali della grazia, il Cuore di Gesù è il deposito da cui sono forniti. Se, nel momento in cui l’acqua del Battesimo tocca la fronte del bambino, la sua anima è purificata dalla macchia originale, è perché nello stesso momento la grazia della rigenerazione gli è stata conferita dal Cuore di Gesù Cristo. Se ascoltando attentamente la parola di un oratore sacro, o leggendo un pio libro, vediamo le nostre illusioni dissiparsi e la verità soprannaturale apparire con un irradiamento inusuale, è al Cuore di Gesù che dobbiamo la grazia della luce. I movimenti interiori di pentimento, di fiducia, di amore che a volte si impadroniscono di noi, vengono a noi dal Cuore di Gesù. Egli è il Cuore sacerdotale per eccellenza e non cessa di esercitare con noi tutte le funzioni del Sacerdozio. Per noi Egli adora costantemente la Maestà di suo Padre, lo ringrazia per i suoi benefici. Egli espia la nostra ingratitudine. Sollecita i suoi favori e si occupa incessantemente di illuminarci, guidarci, rafforzarci e guarirci. Attraverso di Lui la Trinità compie l’opera della nostra divinizzazione. Se vogliamo comprendere bene questo lavoro e renderlo facile da realizzare, dobbiamo contemplarlo nel Cuore di Gesù. La santità, considerata in questo modo, diventa più accessibile e più amabile. Non ci viene presentata una scienza complicata che richieda un lungo studio; né è composta da un gran numero di precetti, tanto difficili da ritenere quanto da mettere in pratica; né è racchiusa in una moltitudine di libri che solo i saggi e gli “sfaccendati” possono consultare. Le anime che immaginano la santità in questo modo non possono che essere scoraggiate ed estremamente disturbate. Più esse desiderano raggiungere questo lieto fine, più si stancano e perdono tempo a cercare le vie più brevi per raggiungerlo. Pensano di non aver mai letto abbastanza libri, di non aver mai consultato abbastanza direttori o di non aver mai scelto abbastanza pratiche cristiane. Si muovono molto e fanno pochi progressi. Spero che ascoltiate ciò che il Salvatore ha detto alla sua sollecita ospite: « Marta, Marta, perché così tanta sollecitudine? Perché questa confusione nata da una estrema preoccupazione? C’è solo una cosa necessaria: che tu sia conforme al mio Cuore ». Tutta la santità è racchiusa in Lui. Se vuoi raggiungerla, devi fare ciò che il mio Cuore ti chiede. Ora, in ogni momento, ti chiedo solo una cosa. È essa che vi terrà al vostro posto, che vi darà grande pace e vero benessere. Smettila di guardare lontano tutto quello che hai così vicino a te. La devozione al Cuore di Gesù non solo semplifica, e quindi facilita molto l’opera della nostra santificazione, ma la rende anche più amabile e attraente. Ci presenta la santità non come una lettera morta, ma come una realtà viva; la personifica in un certo modo nel suo Cuore, e nella leggiadria di tutti i cuori. La nostra natura trova molto difficile appassionarsi alla nuda verità. Una dottrina, per quanto bella possa essere, difficilmente ci impressiona quando non assume un corpo e quando non colpisce le facoltà sensibili della nostra anima. La santità è molto difficile da capire, se considerata solo nei libri. Esaminata nella sua essenza astratta, ha il potere di convincere l’intelligenza. Ma manca lo stimolo richiesto per la debolezza della nostra volontà. Mostra il bene, ma non dà la forza di portarlo a termine; traccia il sentiero, ma non ci incoraggia a percorrerlo; indica il pericolo, ma non ci preserva da esso; ci permette di scandagliare le profondità dell’abisso dove sono sparse le nostre brame, ma non ci ferma sul pendio che ci conduce ad esso. Il Cristiano che guarda così alla morale evangelica, si pone in una posizione analoga a quella del Giudeo. La santità nella sua sublime perfezione gli era stata rivelata attraverso il primo precetto del Decalogo. Ma questa rivelazione, fatta su tavole di pietra, non lo mise in condizione di praticare il bene, di cui egli stesso aveva compreso la necessità. La condizione del Cristiano, invece, è molto diversa. La perfezione non ci è stata mostrata sulle tavole di pietra; la legge della santità è stata scritta per noi sulle tavole vive di un cuore di carne (2 Cor. III, 3): nel Cuore di Gesù c’è la legge vivente della nostra santificazione. Perché, infatti, non solo ci mostra l’ideale divino della santità, realizzato in un cuore umano, ma ci dà i mezzi per fare lo stesso nel nostro cuore. Oltre ad averci inoculato il seme della santità, conferendoci nel Battesimo la grazia santificante, il Cuore Divino, attraverso le sue preghiere e l’influenza del suo Spirito, lavora instancabilmente per lo sviluppo di questo seme, affinché il frutto della santità, che è la gloria eterna, maturi in noi. Per santificarsi, basta unirsi a questa azione onnipotente, la cui energia non diminuisce mai. Invece di creare ostacoli, come abbiamo fatto spesso, basta il lavoro continuo del Cuore di Gesù in noi.

Capitolo II. (1)

IL CUORE DI GESÙ È IL CUORE DIVINO DI OGNI CRISTIANO

Che cos’è un Cristiano?

Cos’è un Cristiano? È colui – dice San Giovanni – che non è nato solo dalla carne e dall’uomo, ma è anche nato da Dio e ha ricevuto dal Figlio unigenito del Padre il potere di essere figlio di Dio. Il Cristiano è nato due volte e ha due esistenze e due nature. Nasce secondo la carne e riceve dai genitori una vita animale e razionale. Ma lo stesso giorno in cui è diventato figlio dell’uomo, un nuovo padre ed una nuova madre si sono uniti per dargli una nuova vita. Gesù, unico Figlio di Dio e Sposo della Chiesa, ha ispirato alla sua Sposa di associare questo bambino, figlio dell’uomo, alla famiglia dei figli di Dio. La Chiesa lo ha preso e, attraverso il Battesimo, lo ha posto nel suo grembo e lo ha unito a Gesù Cristo. Da allora il bambino ha cominciato ad essere animato dallo Spirito di Gesù Cristo ed a vivere della sua vita. Non ha smesso di essere un uomo, ma è diventato qualcosa di più che un uomo. Ha conservato il suo corpo animale e la sua anima razionale, ma ha anche acquisito uno spirito veramente divino, la vita della sua anima, così come questa lo era del suo corpo. Come figlio dell’uomo, ha conservato un’esistenza completa. Ma, come figlio di Dio, ha cominciato a far parte del grande Corpo, il cui Capo è Gesù Cristo. Gli è rimasta la libertà e quindi la possibilità di porsi un obiettivo individuale e di separare i suoi interessi da quelli del Corpo divino in cui è stato introdotto mediante il Battesimo. Ma sta a lui avere una comunità di interessi con il suo divino Capo e tendere con Esso allo stesso fine.

Il Cristiano ha due cuori

Tale è la scelta in cui tutti noi ci troviamo e che ci viene offerta mentre siamo sulla terra: vivere di noi stessi o vivere di Gesù Cristo; essere solo uomo o essere anche figlio di Dio; dobbiamo diventare noi stessi il nostro fine o accettare il fine glorioso che Dio ci ha dato, associandoci al suo Figlio unigenito? Perché se è vero che siamo nati due volte e abbiamo due vite, è altrettanto vero che abbiamo due cuori: uno di carne, ricevuto dai nostri genitori secondo la carne, di origine terrena con tutte le sue tendenze. Perché dovremmo essere sorpresi di trovare nel nostro cuore tutte le inclinazioni carnali? Che diritto abbiamo di sperare che solo esso sfugga alla legge generale? Dio potrebbe fare in alcuni dei suoi Santi un’eccezione gloriosa, liberandoli da tutti gli influssi della carne, anche quando vi hanno vissuto, ma l’eccezione non deve convertirsi in regola. Se Dio avesse voluto liberarci dal peso e dalla corruzione che riceviamo in eredità da Adamo, nostro padre secondo la carne, avrebbe diretto il tutto in modo molto diverso, avrebbe poi fatto una creazione completamente nuova, non lasciando sopravvivere nulla del caos prodotto dal peccato. Ma Egli non lo ha voluto. Come ha prodotto ordine e vita dal caos all’origine del mondo, così nella creazione e nell’ordine spirituale, ha voluto che il peccato servisse come materia per la grazia. Invece di far trionfare immediatamente lo spirito sulle opere della carne in tutta l’umanità, ha deciso che in ogni uomo la carne e lo spirito dovessero combattere tra loro, e che il trionfo finale di uno di questi due principi opposti dipendesse dal libero arbitrio dell’uomo. Ci ha lasciato il cuore di carne con tutte le sue inclinazioni. Ma, per resistere ad esse, ci ha dato il Cuore del Figlio suo. Perché il Cuore Divino è propriamente e veramente nostro! E per davvero, visto che siamo membri del Divin Salvatore! Se, come abbiamo dimostrato, l’incorporazione dei Cristiani al Figlio di Dio non è un mero discorso figurativo, se esprime un’unione reale come quella che delle nostre membra e del nostro capo fanno un solo corpo, anche se di natura diversa; se, inoltre, il legame che unisce tra loro le membra del Corpo mistico di Gesù Cristo è più intimo e indissolubile di quello che unisce le parti del nostro corpo fisico: se tutto questo è vero e provato, non dubitiamo neppure che il Cuore di Gesù Cristo ci appartenga nella realtà. Perché se c’è qualcosa di evidente, è che il cuore appartiene al corpo che da esso riceve la vita e così ciascuno delle membra di quel corpo. Non dimentichiamo che quando il Verbo di Dio ha preso un cuore di carne, non l’ha preso per sé, ma per noi. Perché non aveva Egli bisogno di ricevere la vita, ma di comunicarla. Per noi, come la Chiesa canta nel Credo, e per la nostra salvezza, Egli è sceso dal cielo e si è incarnato per opera dello Spirito Santo. Possiamo dire quindi che noi abbiamo due cuori: uno buono ed uno cattivo; uno terreno ed uno celeste; uno carnale ed uno divino. Due cuori che hanno inclinazioni opposte: uno tende incessantemente verso l’alto e l’altro verso il basso; uno vuole il bene, l’altro il male; l’uno trova gusto solo nelle cose di Dio, l’altro nelle cose sensuali. Entrambi vogliono godere, perché ogni cuore tende al benessere. Ma il nostro cuore terreno vuole godere sulla terra, in contrapposizione a quello celeste, che disprezza tutti i suoi piaceri e sospira solo per i beni del cielo. E finché dura la vita non possiamo sopprimere completamente questa lotta interiore, perché non possiamo mai distruggere completamente nessuno dei due cuori. Tuttavia, possiamo aumentare in noi l’influenza del Cuore di Gesù ed indebolire quella delle nostre inclinazioni carnali. Se non possiamo sopprimerle del tutto, ci è dato almeno di sfuggire alla loro tirannia accettando il dominio glorioso del Cuore di Gesù.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/06/25/il-cuore-di-gesu-e-la-divinizzazione-del-cristiano-18/

SALMI BIBLICI: “LAUDATE DOMINUM DE CÆLIS ” (CXLVIII)

SALMO 148: “LAUDATE DOMINUM DE CÆLIS “

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS. 

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME TROISIÈME (III)

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 148

Alleluja.

[1] Laudate Dominum de caelis;

laudate eum in excelsis.

[2] Laudate eum, omnes angeli ejus; laudate eum, omnes virtutes ejus.

[3] Laudate eum, sol et luna; laudate eum, omnes stellae et lumen.

[4] Laudate eum, cœli cælorum; et aquæ omnes quae super cœlos sunt,

[5] laudent nomen Domini. Quia ipse dixit, et facta sunt; ipse mandavit, et creata sunt.

[6] Statuit ea in æternum, et in sæculum sæculi; præceptum posuit, et non praeteribit.

[7] Laudate Dominum de terra, dracones et omnes abyssi;

[8] ignis, grando, nix, glacies, spiritus procellarum, quae faciunt verbum ejus;

[9] montes, et omnes colles; ligna fructifera, et omnes cedri;

[10] bestiæ, et universa pecora; serpentes, et volucres pennatæ;

[11] reges terræ et omnes populi, principes et omnes judices terræ;

[12] juvenes et virgines, senes cum junioribus laudent nomen Domini,

[13] quia exaltatum est nomen ejus solius.

[14] Confessio ejus super caelum et terram; et exaltavit cornu populi sui. Hymnus omnibus sanctis ejus; filiis Israel, populo appropinquanti sibi. Alleluja.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO CXLVIII.

Si invitano per ordine le cose create a celebrare, quasi in coro, le lodi del Creatore.

Alleluja. Lodate Dio.

1. Lodate il Signore, voi che state ne’ cieli; lodatelo voi che siete ne’ luoghi altissimi.

2. Lodatelo voi tutti Angeli suoi; lodatelo tutti voi sue milizie.

3. Lodatelo voi sole e luna; voi stelle e tu luce, lodatelo.

4. Lodatelo voi, o cieli de’ cieli; e le acque tutte, che son sopra de’ cieli, lodino il nome del Signore.

5. Perocché egli parlò, e furon fatte le cose; ordinò, e furon create.

6. Le ha stabilite per essere in eterno, e per tutti i secoli; fissò un ordine, che non sarà trasgredito. (1)

7. Date laude al Signore, voi che abitate la terra, voi dragoni, e voi tutti, o abissi.

8. T u fuoco, tu grandine, tu neve, tu ghiaccio, tu vento procelloso, voi che obbedite alla sua parola.

9. Voi monti, e voi tutte, o colline; piante fruttifere, e voi tutti, o cedri.

10. Voi tutte bestie selvagge e domestiche; voi serpenti e voi pennuti augelli.

11. Regi della terra e popoli tutti; principi tutti e giudici della terra.

12. I giovanetti e le vergini, i vecchi e i fanciulli lodino il nome del Signore, perché il nome di lui solo è sublime.

13. La gloria di lui pel cielo si spande e per la terra; ed egli ha esaltata la potenza del popol suo.

14. L’inno (conviene) a tutti i santi di lui, ai figliuoli d’Israele, al popolo propinquo a lui. Lodate Dio.

Questo salmo è stato imitato con molta eleganza da Milton, “Paradiso perduto”, V lib. V. 153 e segg.

(1) I corpi celesti in particolare non sono soggetti ai cambiamenti degli uomini, degli animali, delle piante, ed in generale i corpi sublunari. Quelli celesti devono durare fino alla fine dei secoli.

Sommario analitico

Il salmista invita tutte le creature a lodare Dio (2);

I. – Gli abitanti del cielo:

1° gli Angeli e le armate degli spiriti beati (1, 2);

2° il sole, la luna e le stelle (3);

3° i cieli stessi e le acque superiori (4);

4° ne dà come motivo l’onnipotenza creatrice (3) e conservatrice di Dio (6).

II. – Gli abitanti della terra:

1° gli esseri inanimati (7-9);

2° gli esseri animati ma senza ragione (10);

3° gli esseri ragionevoli di ogni specie, di ogni sesso e di tutte le età (11, 12);

4° ne dà come motivo: a) la maestà e la gloria di Dio, superiore a tutte le creature (13); b) i benefici del Signore verso il suo popolo (14).

Conclude questo salmo esortando i veri figli fi Israele a cantare le lodi di Dio (15).

Spiegazioni e Considerazioni

I. —1-6.

ff. 1-6. – Costume dei santi è convocare un gran numero di altri cuori quando essi vogliono benedire la misericordia e celebrare le lodi di Dio;  invitano tutte le creature a rendere gloria al Signore; richiedono una voce a tutte le potenze dall’essere sensibile; ne chiederanno al bisogno alle rocce, alle montagne. Sentendo che non riuscirebbero da soli a celebrare le lodi del Signore, essi si girano da ogni lato perché tutte le creature prendano parte ai loro pii cantici. Ecco ciò che qui fa il Profeta richiamando a sé l’una e l’altra creazione, il mondo superiore ed il mondo inferiore, gli esseri visibili e gli esseri intellettuali. – Di là risulta un altro insegnamento: non è possibile ammettere due artigiani del mondo. Senza dubbio la creature sono diverse, le sostanze non si somigliano; le une sono materiali, le altre spirituali, queste visibili, e quelle invisibili; c’è il mondo dei corpi ed il mondo degli spiriti, ma non c’è che un unico Creatore, ed è questo solo e medesimo Dio che deve essere lodato da tutte le creature, dalle voci unite delle due creazioni, affinché si sappia che Egli è l’unico fattore dell’una e dell’altra (S. Chrys.). – Il Profeta comincia dalle creaturesuperiori, egli invita in quattro modi differenti le celesti creature a lodare il Signore: voi che abitate nel cielo, voi che siete nelle regioni più elevate, voi Angeli del Signore, voi sue potenze, lodate il Signore. Guardiamoci dal credere tuttavia che il Profeta inviti questi spiriti celesti ad accingersi ad un dovere che essi potrebbero omettere, poiché gli Angeli non hanno altra funzione nel cielo, che quella di lodare Dio. Questo invito è l’espressione del sentimento di gioia che egli prova pensando che i santi Angeli siano sempre occupati a lodare Dio, e dal desiderio di associarsi alle lori lodi. (Berthier). – Come possono lodare Dio delle creature che non hanno né voce, né lingua, né sentimento, né pensiero, alle quali manca anzi l’organo che è il principio della parola? Vi sono due modi di lodare: non si loda solamente con la parola, si loda anche con la vista. C’è una glorificazione che risulta semplicemente dall’esistenza sola: « I cieli raccontano la gloria di Dio, ed il firmamento annunzia la potenza delle sue mani. » (Ps. XVIII, 1).Allo stesso odo qui la creatura loda con la sua bellezza, con la sua posizione, la sua grandezza, la sua natura, con i servizi che essa rende, on i beni inesauribili dei quali è ministra. (S. Chrys.). – Come il sole e la luna lodano il Signore? Non deviando mai dalle funzioni e dal compito loro imposti. Questa fedeltà ad obbedire al Dio, è la maniera di lodare Dio. Qual grande onore per voi, anime umane; è per voi che il sole, la luna e le stelle compiono il loro corso, e seguono la strada che Dio ha loro tracciata. (S. Gerol.).

f. 5, 6. – Il Profeta risale qui alla sorgente della grandezza, della beltà che noi ammiriamo nelle creature. Che esse siano belle e meravigliose, è un risalto degli occhi; che esse abbiano un Creatore, che non vengano da se stesse, che siano pertanto prodotte, si potrebbe dedurre dal testo stesso ben compreso. Se qualcuno a tal riguardo, conservasse ancora un dubbio, apprenda da me qual sono i risultati di un pensiero creatore e di una provvidenza che attenta veglia su di esse. – In effetti, si può qui distinguere qui, esaminando il testo da vicino, che esse son create, non tratte dal nulla, che Dio le abbia fatte senza sforzo alcuno, e che le governi poi dopo averle fatte. – Quel che c’è di ammirevole soprattutto, non è soltanto che Dio governi tutto, che i limiti di ogni natura restino indistruttibili; ma è anche che i secoli passino senza nulla cambiare. Quanto tempo già! E alcuna confusione si è prodotta nelle creature; il mare non ha invaso la terra, il sole illumina senza bruciare, il firmamento resta indistruttibile, né il giorno né la notte hanno valicato i limiti che li separano; lo stesso ne è delle stagioni e, in una parola, di tutto. Ogni cosa ha conservato invariabilmente il suo posto, e ne ha perfettamente rispettato i limiti che le furono imposti. (S. Chrys.). – « Egli ha dato loro i suoi ordini ed essi non mancheranno di eseguirli. » Ecco che dopo tanti anni, il decreto di Dio si compie con rigorosa puntualità. Egli ha dato alla luna l’ordine di crescere e decrescere nello spazio di trenta giorni: ha mai essa cambiato il suo corso? Gli ordini di Dio sono osservati nel cielo e non si trasgrediscono sulla terra. L’oceano si avvicina alla sue rive con le sue onde elevate, e si arresta per tornare su se stesso, perché di ricorda dei precetti divini. Il mondo intero obbedisce a Dio docile ai suoi ordini, l’uomo solo non si degna di ricordarsene. Ecco perché noi diciamo nell’orazione domenicale: « Sia fatta la tua volontà sulla terra come in cielo. » Come tutti gli Angeli e tutte gli altri esseri creati vi servono nel cielo, così l’uomo vi serva sulla terra. O genere umano infortunato! Un Dio è disceso fino a te, perché tu hai rifiutato di salire fino a Dio. Non contento di non averlo ricevuto, lo metti a morte, lo crocifiggi, lo bestemmi; non contento di averlo messo a morte, non fai penitenza per questo crimine orribile di deicidio (S. Gerol.).

II. — 7 – 15

f. 7-9. – Ci sono degli uomini che pretendono che gli esseri che brillano in cielo sono degni della verità dell’Artigiano supremo, ma che non sia così di coloro che sono sulla terra e tra i quali si trovano gli scorpioni, i serpenti e tante altre razze di bestie pericolose, così come gli alberi che non danno alcun frutto. Il Profeta sembra rispondere a queste false idee, lasciando da parte le cose di cui nessuno contesta l’utilità, per venire immediatamente a ciò che sembra non procurarci alcun vantaggio, ed è per questo che mette sotto i nostri occhi i dragoni ed i serpenti; la parte del mare dove non si avventurano i vascelli, le cose stesse che sembrano nocive, il fuoco, la grandine ed il ghiaccio, poi gli alberi sterili e le montagne; egli lascia le pianure fecondate dal lavoro dei contadini, che si coprono di messi e di frutti, per non richiamare che la montane, i luoghi scoscesi e deserti, ogni sorta di rettili … Così ci mostra la bontà preveggente di Dio. Se le cose che sembrano inutili o anche nocive alla natura umana sono talmente utili e buone al punto che esse cantano la Gloria del Signore e pubblicano le sue lodi così come sono, che dobbiamo pensare delle altre? (S. Chrys.). – Gli scorpioni, i rettili ed i dragoni sono invitati dal Profeta a lodare Colui che ha dato loro l’esistenza; … solo il peccatore è escluso da questo sacro coro. Il Profeta mette il peccatore fuori dal concerto delle creature, come si mette in esilio dalla sua patria un cattivo cittadino. (S. CHRYS. Homél. p. le jour de son ord. n. 2). – Dopo aver detto: « Che il fuoco, la grandine, il ghiaccio, i venti impetuosi, » tutte cose che gli insensati considerano come elementi disordinati, ribelli ed agitati dal caso, il Profeta aggiunge: « che eseguono gli ordini delle sue parole. » Degli elementi che, con tutti i loro movimenti, eseguono gli ordini della parola di Dio, non possono dunque apparirvi come  dal caso. Il fuoco si porta ove Dio vuole, ugualmente le nubi, sia che celino la pioggia, sia che racchiudano la neve o la grandine. – Tutte le creature inanimate, gli animali, anche i più selvaggi, quelli che sono più sensibili all’uomo, lo portano a lodare Dio o a temerlo, richiamando in lui il ricordo dell’orgoglio e della disobbedienza dei progenitori, orgoglio e disobbedienza che ci hanno fatto perdere il dominio che l’uomo aveva sugli animali (Duguet).

ff. 11 – 14. – Il Profeta sfiora qui un’altra manifestazione della divina Provvidenza, quella che si applica ai capi dei popoli. Come fa pure S. Paolo nella sua Epistola ai Romani, svolgendo colà una dottrina mirabile che riguarda il piano della saggezza di Dio nella completa organizzazione del potere e dell’obbedienza, l’uomo, investito del potere « è il ministro di Dio in rapporto a voi e per il vostro bene. » (Rom. XIII, 4). – Anche se nello stato attuale delle cose, tra coloro che governano ci sono dei corrotti, nondimeno l’istituzione è talmente utile che ne trarremo i vantaggi più preziosi, malgrado la perversità degli uomini; si pensi qual benessere per il genere umano, se tutti i depositari del potere lo esercitassero in maniera degna! Lo stabilirsi del potere, è l’opera di Dio; ma l’invasione del potere da parte della perversione o l’uso disastroso che se ne fa, questo è opera dell’uomo. Il Profeta vuol dunque farci intendere come l’esistenza stessa dei sovrani e dei magistrati sia un motivo per noi di riconoscenza verso Dio; perché è per mezzo di questi che ha provveduto affinché l’uomo vivesse nell’ordine, e non secondo le maniere delle bestie selvagge, come la maggior parte avrebbe fatto; è per adempiere le funzioni di conduttori e di piloti che i principi ed i monarchi ci sono stati dati. (S. Chrys.). –  La maggior parte di coloro che il Profeta invita qui a lodare il Signore, sono precisamente coloro che immaginano i più futili pretesti per dispensarsi da questi doveri: i principi ed i magistrati sono nel vortice degli affari: i giovani devono lavorare alla loro fortuna; le ragazze sono in età da prendere parte ai piaceri ed alle vanità del mondo; i vecchi sono carichi di infermità; i bambini son troppo leggeri; i popoli, presi in generale, sopportano il giogo del lavoro, della dipendenza, della miseria. È così che quasi nessuna persona pensa all’unico oggetto che dovrebbe interessarlo. Il Profeta tuttavia appoggia il suo invito su di un motivo che distrugge tutti i falsi pretesti: e questo è che solo il Signore porta un Nome che merita di essere onorato ed esaltato. Quanta magnificenza e verità c’è in questo pensiero del Profeta: « Dio solo possiede un Nome che merita di essere esaltato! » A Dio solo dunque, dice l’Apostolo, sia l’onore, la gloria, il regno in eterno (I Tim. VI, 15). –  « Egli ha esaltato la forza del suo popolo. » È una ragione di più che il Profeta ci adduce per stimolarci a servire Dio con maggiore ardore; è come dirci che il Signore non ha bisogno alcuno delle nostre adorazioni, Egli che possiede per natura la gloria essenziale, un impero assoluto su tutte le cose, e che ha voluto, per pura bontà, darsi un popolo che fosse in modo speciale il suo e la cui gloria si spandesse dappertutto nell’universo. (S. Chrys.). – « Ed Egli ha esaltato la potenza del suo popolo. » E quando esalterà la potenza del suo popolo? Quando il Signore stesso verrà, quando il nostro Sole si leverà, non questo sole visibile ai nostri occhi, che sorge sui buoni e sui malvagi, ma quello di cui il Profeta Malachia ha detto: « Per voi che temete il Signore, si leverà il sole di giustizia e sarete salvati all’ombra delle sue ali … » (Malach. IV, 2). Allora questo sarà il tempo dell’estate; ora che noi siamo nell’inverno, nascosti nella radice, i frutti non appaiono; durante l’inverno, gli alberi che vedete sembrano aridi; colui che non sa riflettere crede che la vigna sia disseccata, e forse, rispetto a quella che è vivente, ce n’è una che è veramente disseccata durante l’inverno: esse si somigliano, una è vivente, l’altra è morta; ma per entrambe la loro vita e la loro morte sono ugualmente nascoste; viene l’estate, la vita dell’una apparirà nel suo splendore, e la morte dell’altra diventerà visibile; di quella che è vivente, le foglie spunteranno in tutta la loro bellezza, la sua fecondità brillerà con i frutti; la vigna si rivestirà all’esterno di ciò che la sua radice racchiude all’interno. Ora dunque, noi siamo simili agli altri uomini: i santi nascono, mangiano, bevono, si vestono come loro, la loro vita si svolge come quella degli altri uomini. Talvolta questa somiglianza inganna gli uomini ed essi dicono: eccolo qui uno che è diventato Cristiano, nondimeno per questo non ha il mal di testa? Ebbene, il suo titolo di Cristiano gli dà qualche cosa più di me? O vigna disseccata, voi avete presso di voi questa vigna che sembra disseccata in inverno, ma che non lo è in realtà. L’estate verrà, il Signore verrà, e con Lui la nostra gloria che era nascosta nella radice; ed allora, « … Egli esalterà la potenza del suo popolo, » dopo questa cattività nella quale ci tiene, durante la nostra vita, la nostra condizione mortale. (S. Agost.). – Benché tutte le creature siano obbligate a lodare Dio, le sue lodi devono essere particolarmente nella bocca di tutti i santi. Questi santi sono tutti i Cristiani, che il loro Battesimo obbliga a lavorare per la loro santificazione. È questo popolo che deve sempre essere unito a Dio con una fede vivente e feconda di buone opere e che è tutto consacrato al suo servizio (Duguet).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. BENEDETTO XIV – “CUM SEMPER OBLATAM”

In questa lettera enciclica, il Santo Padre Benedetto XIV ricorda alcune norme che si devono applicare nella celebrazioni della Messa quotidiana “pro populo” da parte dei parroci e l’applicazione della messa conventuale per tutti i benefattori; inoltre ricorda come l’ufficio delle ore debba essere cantato a chiara voce e con viva partecipazione anche da parte di dignitari e di canonici. Si tratta di norme ben precise definite per la maggior parte nel Sacro Concilio Tridentino e che ancora oggi sono in vigore nella Chiesa Cattolica pena anatema e “sub gravi”. Non poteva mancare la raccomandazione accorata circa l’istruzione dei fedeli – in particolare della gioventù – nei giorni festivi e di precetto. Ovviamente tali raccomandazioni sono totalmente oggi disattese nella parrocchie moderniste e nelle istituzioni un tempo cattoliche, ove si preferisce intrattenere i giovani o i pochi adulti “sfaccendati” in amene conversazioni e spettacoli “laici” o incontri di carattere sportivo e gare gastronomiche, con il risultato palese e dichiarato della totale scristianizzazione della società urbana e rurale. Questa è l’azione della “bestia della terra” di apocalittica memoria, quella “bestia” che, secondo il Commentario di Beato de Liebana (P. L. 96), è la falsa chiesa di vescovi apostati e sacerdoti ipocriti e marrani adoranti satana (il signore dell’universo della sinagoga conciliare), fingendo a parole e con ostentata millantata santità, di venerare Cristo – la bestia immolata con la spada la cui ferita era guarita – e portando “acqua al mulino” del loro referente e padre spirituale: lucifero. Questa consapevolezza quindi, che la sottostante enciclica mostra chiaramente, di trovarci in piena epoca apocalittica (Apocalisse spirituale – mille volte peggiore delle fantasie cosmiche terrorizzanti di falsi profeti cinematografici o vignettisti di fumettoni pseudoreligiosi – foriera di eterna dannazione dell’anima), ci dice che questa nostra epoca, interamente intrisa di paganesimo pragmatico sfacciato, è propedeutica alla resa dei conti con il Giudice divino che spegnerà con il soffio della sua bocca l’anticristo, i suoi adepti – massoni laici o finti prelati – con la bestia del mare e quella della terra, il drago maledetto, il serpente antico e tutto il corpo magico di satana. Veni, Jesu Domine!

Benedetto XIV

Cum semper oblatas

Noi approfittiamo sempre e volentieri di ogni occasione che Ci viene offerta di indirizzarci a Voi, Venerabili Fratelli, affinché risplenda sempre più la prova del Nostro sincero amore per Voi; e ora con maggiore alacrità d’animo lo facciamo, per eccitare lo zelo della Vostra Fraternità, per la conservazione della retta disciplina nel governo del Clero a Voi affidato in queste particolari condizioni di tempo e di necessità. – Noi non potremmo confidare di riuscire a sostenere il grave onere della sollecitudine di tutte le Chiese, imposto alla nostra debolezza, senza raccomandare e inculcare l’aumento del Culto Divino, l’osservanza delle Sanzioni Ecclesiastiche nelle singole Diocesi, e la particolare e vigilante cura dei Pastori. –

1. In primis Ci offre l’occasione di rivolgerci a Voi con questa Lettera l’argomento sull’onere che si assumono tutti coloro che hanno cura d’anime, cioè di applicare la Messa Parrocchiale per il popolo affidato alle loro cure; come pure l’applicazione della Messa Conventuale a pro dei Benefattori in generale, che deve essere fatta da coloro che cantano la Messa nelle Chiese Patriarcali, Metropolitane, nelle Cattedrali e Collegiate; e per ultimo l’obbligo di salmodiare a cui sono tenuti i Canonici che assistono dal Coro nelle dette Chiese. La nostra dissertazione è su quest’ultimo argomento, non nuovo, anzi sempre trattato dagli Scrittori. Questo dovere fu molte volte discusso e definito nella Congregazione dei Nostri Venerabili Fratelli, i Cardinali di Santa Romana Chiesa Interpreti del Concilio Tridentino, fin da quando Noi stessi, costituiti negli Ordini Minori, per molti anni fungevamo da Segretario della stessa Congregazione. E sebbene i Decreti di questa Sacra Congregazione quasi sempre siano usciti uniformi, ricevendo sempre l’approvazione dei Pontefici Nostri Predecessori, non c’è da meravigliarsi che non ne sia ancora giunta notizia a tutti Voi e ai singoli. – Per questo abbiamo stimato non solo opportuno, ma necessario scrivere a Voi questa Lettera Enciclica, affinché sia nota la costante opinione e direttiva di questa Sede Apostolica su tali argomenti, ponendo fine alla varietà delle opinioni e delle sentenze nelle quali si divisero gli Scrittori. Ciò pertanto servirà alle Vostre Fraternità come norma, affinché possiate dirigere secondo questa regola tutte le Vostre Costituzioni Sinodali e i vostri Rescritti, dei quali Noi Vi ordiniamo la pubblicazione. Vi preoccuperete pertanto di far eseguire – e non lo dubitiamo – con ogni sollecitudine e vigilanza quelle prescrizioni che nella presente Lettera sono da conservare e osservare. Dipenderà da Voi che i probabili ricorsi ai Tribunali della Nostra Curia contro i Vostri Rescritti, non costituiscano ostacolo o remora, poiché abbiamo prescritto e ordinato che debbano essere tutti respinti. Per questo vogliamo che questa Nostra Lettera sia conservata nelle Raccolte e Archivi dei Nostri Tribunali, e ordiniamo che sia le risoluzioni dei Tribunali, sia i Vostri Rescritti che emanerete in conformità con essa siano osservati.

2. Quello che abbiamo detto ora, ossia che il santo Sacrificio della Messa deve essere applicato dai Pastori di anime a favore del popolo affidato alle loro cure, il Santo Concilio di Trento lo enuncia chiaramente con queste importanti parole, come conseguenza del comando divino: “Poiché è di precetto divino la prescrizione fatta a tutti coloro che hanno cura di anime, di distinguere bene le loro pecore, e di offrire per esse il Sacrificio” (Conc. Trid., sess. 23, cap. 1), e quantunque non siano mancati coloro che, con interpretazioni ridicole o prive di fondamento hanno cercato di eliminare quest’obbligo ricordato dal Santo Sinodo o almeno di attenuarlo; tuttavia, siccome le parole sopracitate del Concilio sono abbastanza chiare e precise, ed inoltre, siccome la Congregazione summenzionata particolarmente preposta all’interpretazione dello stesso Concilio, ha costantemente notificato che coloro cui è stata affidata la cura di anime, devono non solo celebrare il Sacrifizio della Messa, ma devono anche applicarne il frutto “medio” a favore del popolo ad essi affidato, e non possono applicarlo a favore di altri, né possono ricevere per tale applicazione l’elemosina; e siccome infine – ciò che è più importante – questa volontà è stata approvata e confermata dai Pontefici Romani Nostri Predecessori, a nessuno di Voi rimane da desiderare se non di abbracciarla, di eseguirla, e di procurare con ogni zelo che venga prontamente eseguita nelle Vostre rispettive Diocesi.

3. Anche Noi, che, come abbiamo già accennato, quando eravamo ancora occupati in impieghi minori, per molti anni abbiamo svolto l’Incarico di Segretario della predetta Congregazione per l’Interpretazione del Concilio di Trento e, per i non pochi anni che abbiamo trascorso nel governo della Diocesi di Ancona e parte della Metropolitana di Bologna, Nostra diletta patria, che ancora amiamo, Noi, diciamo, non siamo all’oscuro di tutte le vie di sfuggita, di ogni genere, per le quali molti cercano di evadere l’adempimento di questo obbligo, per la cui esecuzione Noi appositamente dobbiamo provvedere.

4. Il Sacro Concilio di Trento ordina sovente ai Vescovi che, ovunque sia necessario, affinché non venga trascurata la cura delle Anime, scelgano Vicari idonei ad esercitare questa cura d’Anime, assegnando loro un congruo frutto o beneficio, come si può leggere nella sess. 6, c. 2; sess. 7 e c. 5-7; sess. 21, c. 6; sess. 25, c. 16. Non raramente succede che, durante la sede vacante di qualche parrocchia, debba essere incaricato dal Vescovo un Vicario (economo spirituale) per adempiere gli oneri di questa Chiesa fino all’elezione del nuovo Rettore, sempre per disposizione dello stesso Concilio Tridentino (De Reformatione, sess. 24, cap. 18). Allora molti di questi Vicari cercano di sottrarsi a tale obbligazione, sia per il fatto che hanno già una cura pastorale abituale presso altri ed esercitano questa provvisoriamente; sia perché sono amovibili ad nutum Episcopi, ed esercitano quel ministero parrocchiale per breve tempo; per non parlare poi dei Parroci Regolari, i quali spesso dichiarano di non essere tenuti ad applicare la Messa festiva pro populo. Invece la Nostra volontà, e comando, è che, come già altre volte fu stabilito dalle predette Congregazioni, tutti coloro che esercitano cura d’Anime, e non soltanto i Parroci o i Vicari Secolari, ma anche i Parroci o Vicari Regolari, in una parola tutti quelli su nominati, tutti quelli che sono stati ritenuti degni di questa specifica menzione, tutti ugualmente sono tenuti ad applicare la Messa Parrocchiale per il popolo affidato alle loro cure.

5. Alcuni, per evitare l’adempimento di quest’obbligo, sono soliti obiettare che le rendite della propria parrocchia non sono sufficienti; altri si trincerano dietro un’inveterata consuetudine, affermando che quest’onere non fu mai in uso né presso di sé, né presso i loro predecessori per lungo tempo, anzi ab immemorabili. – Noi invece estendiamo la nostra conferma alle predette prescrizioni dettate dalla Congregazione del Concilio, e per quanto è necessario, con la Nostra Apostolica Autorità, a tenore della presente Lettera decretiamo e dichiariamo che questa disposizione debba avere esecuzione, anche se i Parroci o altri, come abbiamo visto sopra, che hanno cura d’Anime siano sprovvisti dei convenienti redditi stabiliti e nonostante che per consuetudine ab immemorabili nelle loro Diocesi o Parrocchie fosse stato praticato il contrario; tutti sono ugualmente tenuti ad applicare la Messa Parrocchiale per l’avvenire.

6. Quando abbiamo affermato che tutti coloro che hanno cura d’Anime devono applicare il Santo Sacrificio della Messa per il popolo ad essi affidato, non per questo abbiamo inteso stabilire che quotidianamente, o qualunque volta essi celebrano, siano tenuti a questa applicazione. E infatti il Santo Concilio Tridentino (sess. 23, cap. 14) ordina ai Vescovi di prendersi cura che i Sacerdoti celebrino la Santa Messa almeno alla domenica e nelle feste solenni; se poi sono in cura d’Anime, celebrino la Santa Messa così frequentemente da soddisfare le esigenze del loro popolo. Ma già in molte Costituzioni Sinodali sono stati provvidamente stabiliti dai Vescovi – come ben sappiamo – i giorni nei quali i Pastori d’Anime devono celebrare la Santa Messa pro populo. – Noi ci siamo presi l’impegno di decretare soltanto quando, senza alcun dubbio, si debba celebrare la Messa per il popolo. Sappiamo anzi quello che d’altronde era stato disposto dalla Santa Congregazione del Concilio, che cioè il Parroco dotato di pingue beneficio dovrebbe ogni giorno celebrare e applicare la Santa Messa per il popolo e che chi non gode di questi abbondanti redditi è tenuto a farlo soltanto nei giorni festivi. Ma Noi, ben sapendo quali controversie sono sorte su questo punto, cioè a quale somma dovrebbero giungere i proventi della Chiesa parrocchiale, per essere stimati pingui e abbondanti, e poiché non possono essere dichiarati pingui quei redditi, anche copiosi, ai quali però sono annessi molteplici e gravi oneri, e poiché conosciamo quante querele sono sorte contro questo decreto, ritenuto troppo rigido, Noi crediamo opportuno dichiarare alle Vostre Fraternità che per Noi è già soddisfacente e per Voi sufficiente che coloro che esercitano la cura d’Anime, celebrino il Sacrificio della Messa tutte le domeniche e le Feste di precetto applicando per il popolo. – Le domeniche e gli altri giorni festivi sono quelli nei quali, secondo il precetto del Concilio di Trento (sess. 5, cap. 2; sess. 24, cap. 4), tutti i preposti alla cura delle Anime devono nutrire il popolo loro affidato con salutari parole, insegnando quelle verità che tutti devono conoscere per la loro salvezza: e sono quelli i giorni dei quali il Sacro Concilio decretò: “Il Vescovo ammonisca il popolo con molta cura e ciascuno deve essere presente alla sua Parrocchia, quando ciò è comodo, per ascoltare la Parola di Dio”. In questi giorni i Parroci devono istruire i loro parrocchiani nella dottrina cristiana, secondo quel che prescrive lo stesso Concilio: “Abbiano cura i Vescovi che i fanciulli nelle domeniche e negli altri giorni di festa siano istruiti nelle singole Parrocchie su i Rudimenti della Fede e l’obbedienza a Dio e ai genitori” (Conc. Trid., sess. 24, cap. 4).

7. E poiché in alcune Diocesi il numero delle Feste di precetto, per Nostra Autorità, è stato diminuito, cosicché in alcune Feste i fedeli cristiani devono ascoltare la Santa Messa e astenersi dalle opere servili, mentre in altre feste sono permesse le opere servili, pur restando fermo l’obbligo di ascoltare la Messa, Noi, per eliminare i già sorti dubbi sull’obbligo di applicare la Messa Parrocchiale in questi ultimi giorni festivi, stabiliamo e dichiariamo che tutti i curatori d’Anime sono tenuti a celebrare e ad applicare la Messa pro populo anche nei giorni predetti nei quali il popolo deve assistere alla Messa e può applicarsi alle opere servili.

8. Sappiamo però abbastanza bene, per averne fatto qualche volta Noi stessi esperienza, che ci sono dei Parroci così poveri da essere quasi costretti a vivere delle elemosine che ricevono dai fedeli per la celebrazione delle Messe. Altri invece, incaricati sotto il nome di Vicari o Economi di esercitare, durante la mancanza del Parroco, la cura d’Anime, in certi luoghi sono trattati così miseramente che le esigue entrate loro concesse e gli scarsi ed incerti guadagni che essi fanno, bastano appena alla necessità della loro vita. Questo avviene sovente anche a quei Sacerdoti che, in certe Chiese, esercitano solo interinalmente un ministero che stabilmente viene affidato ad altri; per conseguenza sembreremmo dare prova di troppo rigore, se proibissimo loro di ricevere l’elemosina per l’applicazione della Messa proprio nei giorni festivi in cui si presenta più facilmente l’occasione di averla. – Per questo Noi, mossi da una grandissima compassione per l’indigenza sia degli uni, sia degli altri, e allo scopo di venire loro incontro nel limite delle Nostre facoltà; quantunque, come abbiamo detto sopra, tutti e ciascuno dei Sacerdoti suddetti siano obbligati nei giorni festivi a celebrare ed applicare la Messa pro populo; tuttavia a beneficio dei predetti Parroci bisognosi, concediamo a ciascuno di Voi la facoltà di opportunamente dispensare coloro che avrete constatato essere nelle condizioni richieste, affinché possano ricevere liberamente e lecitamente l’elemosina, anche nei giorni festivi, da qualche pio offerente, ed applicare per lui il Sacrificio, se costui lo richiede: purché per la necessaria comodità del popolo, ed alla condizione che, nel corso della settimana, essi applichino tante Messe a favore del popolo, quante ne avranno celebrate, nei giorni festivi ricorrenti in quella settimana, secondo l’intenzione particolare di un altro pio benefattore.

9. Per quello che riguarda i Vicari, ossia Economi, delle Chiese vacanti, essendo concessa facoltà ad ogni Vescovo, dal Concilio Tridentino (sess. 24, cap. 18), di incaricarli e costituirli “con una congrua assegnazione dei frutti del beneficio a suo proprio giudizio”, spetta a Voi, Venerabili Fratelli, agire con quelli che esigono i frutti di quella Chiesa vacante, così da dare un certo congruo aumento per l’onere di celebrare e applicare la Messa per il popolo nei giorni festivi a quell’Economo in stato di bisogno che gode di un’esigua assegnazione dei beni e di pochi e incerti altri proventi. Inoltre in quei luoghi dove i frutti delle Chiese vacanti vengono riscossi a favore della Nostra Camera Apostolica, abbiamo inviato al nostro Tesoriere Generale opportuni ordini, che egli non tralascerà di trasmettere ai Collettori particolari di questi luoghi: “I Vescovi della Nostra giurisdizione e regione ecclesiastica e degli altri luoghi, dove i frutti delle Chiese vacanti appartengono alla predetta Camera Apostolica, dovranno devolvere parte di questi stessi frutti al fine di cui abbiamo parlato sopra”.

10. Infine, riguardo a quei costituiti Vicari perpetui o ad tempus, che hanno la cura d’Anime che abitualmente appartiene ad altri, cioè di ragione di qualche Chiesa parrocchiale unita alle loro Chiese o Monasteri, Collegi e Pii Luoghi, sebbene dal Nostro Predecessore di venerata memoria San Pio V Papa sia stata stabilita una certa porzione da assegnare a questi Vicari, come viene chiaramente indicato nella sua Costituzione che comincia con le parole Ad exequendum, datata il primo novembre 1567, tuttavia, qualora non si trovi assegnata a questi Vicari una prestabilita porzione di frutti – o in nessun modo o non integralmente –, o anche qualora quella porzione loro attribuita dalla predetta Costituzione sia ritenuta da Voi insufficiente nella circostanza dei tempi e specialmente per l’adempimento dell’onere di celebrare e applicare la Messa pro populo nei giorni festivi di precetto; Voi potrete usare di questo potere che dà il Concilio di Trento ai Vescovi secondo il loro prudente giudizio (Conc. Trid., sess. 7, cap. 7), tenuto conto delle necessità dei tempi e della ragione dell’onere imposto, e assegnare a questi Vicari una congrua porzione di frutti. Per la qual causa Noi impartiamo alle Vostre Fraternità, per quanto è d’uopo, le necessarie e opportune facoltà, abolendo qualsiasi privilegio, appello o esecuzione – come viene sancito nel medesimo Concilio – che venissero opposti alle salutari disposizioni da Voi emanate.

11. Abbiamo dunque indicato alle Vostre Fraternità quelle norme che devono essere stabilite circa la Messa Parrocchiale. Facendo un altro passo, le norme che regolano la Messa Conventuale sono così note e chiare che non è possibile far sorgere alcun dubbio: che cioè, secondo le sanzioni dei Sacri Canoni, è prescritto che ogni giorno nelle Chiese Patriarcali, Metropolitane, Collegiali, siano recitate le Ore Canoniche nel debito modo e forma; non solo, ma venga celebrata la Messa Conventuale. Anche su questi obblighi esistono risoluzioni emanate molte volte da questa Congregazione dei Nostri Venerabili Fratelli interpreti del Concilio Tridentino, che Noi con la nostra Apostolica Autorità approviamo e confermiamo, inculcandone particolarmente la loro esecuzione. Pertanto la Messa Conventuale che viene celebrata ogni giorno dal Clero delle predette Chiese, sia applicata ogni giorno per i loro benefattori in genere, allo stesso modo in cui viene applicata pro populo da coloro che sono in cura d’Anime ogni domenica e festa di precetto, come abbiamo dichiarato superiormente.

12. Adoperatevi dunque ad eliminare la falsa opinione di alcuni, che sappiamo essere accettata in alcune di queste Chiese o per errore o dolosamente; l’opinione è questa: che cioè quando la Messa Conventuale è celebrata e applicata per qualche particolare benefattore della Chiesa, sia per gratitudine, sia per un onere accettato o imposto, con questo deve ritenersi soddisfatto l’onere della celebrazione. Invece questo dovere e onere non riguardano alcuni benefattori particolari, ma tutti i benefattori in generale di qualsiasi Chiesa al cui servizio sono addetti i Dignitari, i Canonici, i Mansionari, coloro che ricevono i benefici corali e celebrano la Messa Conventuale secondo i loro turni.

13. Voi comprendete che non è meno da riprovare l’affermazione di altri che dicono che questo obbligo viene sufficientemente soddisfatto quando nelle loro Chiese ogni tanto si fanno preghiere per i benefattori, oppure si celebra per loro il Santo Sacrificio in determinati giorni o negli anniversari. – Nessuno si arroghi il diritto di poter soddisfare un obbligo in altro modo da quello che è stato prescritto sovente dalle leggi ecclesiastiche: che cioè si deve celebrare la santa Messa Conventuale ogni giorno per i benefattori, applicandola per tutti loro in genere.

14. Nei primi secoli della Chiesa, ma anche in tempi da noi non molto remoti, – non dubitiamo che anche Voi l’avete appreso dalla Storia della Chiesa – si conservava nelle singole Chiese un elenco accurato di tutti e dei singoli per la liberalità dei quali era stata costruita la Chiesa; e i loro nomi erano scritti nei “Sacri Dittici” (così allora si chiamavano) perché non venisse mai meno il loro ricordo e perché per essi si facessero preghiere e si celebrasse il Santo Sacrificio della Messa. Per questa ragione si era soliti in molte Chiese porre quel catalogo davanti agli occhi del Sacerdote Celebrante, sebbene molti pii Benefattori nelle loro donazioni avessero dichiarato che non avevano posto alcuna condizione di Sante Messe, ma che offrivano i loro beni a Dio soltanto per la remissione dei loro peccati; ma i Presuli delle Chiese stabilirono che si facessero preghiere e impetrazioni per essi, sebbene costoro, offrendo i loro beni, non avessero fatto parola di questo. – Ma pian piano questo uso dei Sacri Dittici venne meno, e per questo sono caduti in oblio in tanti luoghi i nomi di molti Benefattori. – Ma non per questo si devono tralasciare l’uso e la disciplina di pregare per essi, e offrire in suffragio il Santo Sacrificio della Messa. Da questi fatti poi ha avuto origine (ed ha la sua ragione d’essere) il precetto di applicare la Messa Conventuale per tutti i Benefattori.

15. Come si portano varie scuse – come è stato detto sopra – per evitare di applicare pro populo la Messa Parrocchiale nei giorni di festa di precetto, così avviene per l’applicazione della Messa Conventuale quotidiana a pro dei Benefattori. – E come le prime scuse, così le seconde sono state tolte di mezzo provvidamente con le opportune risoluzioni della Congregazione del Concilio Tridentino, che Noi ancora una volta approviamo e confermiamo.

16. Alcuni tuttavia, in ragione della contraria consuetudine anche “ab immemorabili”, che vige nella loro Chiesa, si persuasero di potersi esimere da un tale onere. – Ma già molte volte è stato risposto che una tale consuetudine, anche se “ab immemorabili”, deve essere chiamata più propriamente abuso e vizio, e non può in alcun modo né da alcuno essere difesa e accettata.

17. Altri vorrebbero essere esentati dall’applicare la Messa per i Benefattori, o perché soggetti ad un altro onere di Messe, o in ragione del loro Canonicato o altro Beneficio Ecclesiastico, che hanno ottenuto con la Prebenda Canonicale; o perché – oltre l’Ufficio di Canonico o Beneficiario o Mansionario nella Chiesa Cattedrale o Collegiata – quando cantano la Messa Conventuale nei giorni festivi di precetto, devono contemporaneamente applicare pro populo e quindi non possono offrire nello stesso tempo il Santo Sacrificio anche per i Benefattori. Ma si è provveduto anche a costoro, ordinando loro di applicare la Messa Conventuale per i Benefattori; per gli altri, per i quali fossero tenuti ad applicare peculiarmente la Messa, si facciano sostituire da un altro Sacerdote, che al loro posto celebri quella Messa da applicare pro populo.

18. Altri fanno l’osservazione che non sempre la Messa Conventuale viene celebrata da Canonici o Dignitari, ma talvolta da Beneficiati o Mansionari. Non è giusto che non ci sia alcuna elemosina per quella Messa e non sanno donde si debba prelevare quell’elemosina. Anche a questo si è provveduto, ordinando che deve essere detratta dalla “Massa di Distribuzione”.

19. Altri ancora hanno dimostrato l’esiguità di tali distribuzioni, che detraendo infatti l’elemosina quotidiana per la Messa Conventuale, si ridurrebbero quasi a nulla. Allora non si troverebbe più nessuno che se ne occupasse, con grave detrimento delle prestazioni di servizio alla Chiesa. Il Concilio di Trento (sess. 24, cap. 15) espone le opportune ragioni per provvedere alla mancanza di mezzi e alla povertà di certe Prebende Canonicali. Se poi non si può seguire la via indicata dal Concilio, come spesso accade, allora non resta che inoltrare ricorso presso la Congregazione del Concilio, alla quale spetta ridurre l’applicazione quotidiana della Messa Conventuale ai soli giorni festivi. E questo dopo aver esaminato opportunamente la vostra particolare situazione in base alla Vostra relazione, e con l’autorità Apostolica ad essa concessa dai Nostri Predecessori, e da Noi confermata con la presente Lettera.

20. Sappiamo che è stato imposto ogni giorno il canto della Messa Conventuale nelle Chiese Patriarcali, Metropolitane e Collegiate, come è prescritto nelle Rubriche generali, la cui custodia e osservanza vivamente raccomandiamo alle Vostre Fraternità. Ma in certi giorni si devono celebrare anche due o tre Messe Conventuali. Allora, come è stato superiormente ordinato, la prima Messa deve essere celebrata senz’altro per i Benefattori; ma resta da decidere se si deve obbligare i Capitoli delle Chiese rispettivamente soggetti alla Vostra giurisdizione, che anche le altre Messe – se occorre celebrarle – siano ugualmente applicate a suffragio dei Benefattori.

21. Tale questione è stata prospettata alla Sacra Congregazione da alcuni di Voi, ardenti di zelo per la Chiesa. Ma già prima di tale domanda, si trovò che altre volte fu risposto dalla medesima Congregazione dei Nostri Venerabili Fratelli Interpreti del Concilio di Trento che si doveva concedere l’esenzione dall’applicazione della seconda o terza Messa Conventuale a pro dei Benefattori, quando lo esigeva la piccola dote dei Canonicati o dei Benefici. Da questo si poteva desumere l’obbligo dell’applicazione dove non si trattava di Chiese povere.

22. Noi però, conoscendo bene la regola tenuta dalla Sacra Congregazione per la definizione di questa questione; di rimandare cioè nel dubbio la soluzione di questa questione al Nostro giudizio, Noi allora giudichiamo – e vogliamo sia da Voi osservato – quanto segue: sono da lodare e incoraggiare tutti quelli che spontaneamente applicano la seconda o terza Messa Conventuale per i Benefattori in generale: coloro che lo fanno in forza della consuetudine vigente nella loro Chiesa devono perseverare in questa consuetudine; dove invece non si trova tale consuetudine, si deve lasciare ai celebranti la libertà dell’applicazione della seconda e terza Messa Conventuale, purché siano sempre ricordati i Benefattori della Chiesa nella commemorazione dei Defunti.

23. Terminando questa Nostra Lettera, esortiamo vivamente le Vostre Fraternità ad esercitare la massima attenzione e vigilanza affinché nei cori delle Vostre Chiese, oltre alla devota celebrazione e alla giusta applicazione della Messa Conventuale, anche le Ore Canoniche non siano cantate in fretta, ma bensì con diligenza, facendo sempre le pause richieste, e con tutto il rispetto e la devozione convenienti.

24. Sappiamo bene che in certe Chiese Metropolitane e Cattedrali si è fatta strada tra i Canonici l’opinione secondo la quale essi pretendono di soddisfare sufficientemente al loro dovere con la sola presenza in Coro, anche se vi rimangono silenziosi, né si uniscono al canto dei Beneficiati e dei Mansionari. Per avvalorare questa opinione essi sogliono addurre antiche consuetudini, particolari statuti e anche pretesi privilegi delle loro Chiese. – Ma poiché il Sinodo Tridentino, parlando dei Dignitari e dei Canonici che devono essere presenti al Coro, enuncia i loro doveri in questi termini: “Lodate con Inni e Cantici il Nome di Dio, con riverenza, con chiara voce e con devozione nel Coro a ciò istituito per salmodiare” (Conc. Trid., sess. 84, cap. 12); e poiché sono pochi attualmente i Capitoli nei quali i Canonici partecipano al Coro nel modo da Noi deprecato; e perciò sono pochi quelli che avversano la disciplina della Chiesa – per quanto Noi sappiamo –; poiché inoltre questa opinione (che mai fu proposta alla discussione nella Congregazione del Concilio di Trento) appena venne esaminata fu subito riprovata e respinta – ancorché ne venissero addotte a suo sostegno le presunte consuetudini ed altri motivi e ragioni – e nonostante l’istanza che ne facevano i Canonici delle Chiese Patriarcali di questa Nostra Città; siccome, infine, un giudizio fu emesso in questo stesso senso da molti Sinodi Provinciali, anche approvati e confermati da questa Sede Apostolica, non sembra rimanere null’altro che impedisca a questi pochi di uniformarsi alla Legge universale. – In verità Noi non vediamo su quale titolo particolare possano appoggiarsi i Canonici di questa o di quell’altra Chiesa, per persuadersi di soddisfare al loro obbligo con la semplice presenza in Coro, senza il canto della Divina Salmodia. – Pertanto, se costoro non possiedono un Privilegio o Indulto Apostolico – non presunto né abrogato, ma legittimo e ancora in vigore – giustamente e meritatamente si deve temere che finché essi agiscono in questo modo, non possono fare propri i frutti delle Prebende e delle distribuzioni, e che sono tenuti alla loro restituzione. – Pertanto è vostro dovere, Venerabili Fratelli, spiegare loro tutte queste responsabilità, se non vogliamo, Noi con Voi, con la nostra dissimulazione e col nostro silenzio favorire e confermare abusi e corruttele che dovevamo togliere, riprendendo coraggiosamente e scongiurando, per non essere trovati colpevoli davanti al Divin Giudice in una cosa di così grande importanza, riguardante così da vicino il culto di Dio. Frattanto, alle Vostre Fraternità, che con tutto il cuore abbracciamo, con tanto affetto impartiamo la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 19 agosto 1744, anno quinto del Nostro Pontificato.

DOMENICA III DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA NELL’OTTAVA DELLA FESTA DEL SACRO CUORE e III DOPO LA PENTECOSTE. (2020)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La liturgia di questo giorno esalta la misericordia di Dio verso gli uomini: come Gesù « che era venuto a chiamare non i giusti, ma i peccatori », cosi lo Spirito Santo continua l’azione di Cristo nei cuori e stabilisce il regno di Dio nelle anime dei peccatori. Questo ricorda la Chiesa nel Breviario e nel Messale. — Le lezioni del Breviario sono consacrate quest’oggi alla storia di Saul. Dopo la morte di Eli gli Israeliti si erano sottomessi a Samuele come a un nuovo Mosè; ma quando Samuele divenne vecchio il popolo gli chiese un re. Nella tribù di Beniamino viveva un uomo chiamato Cis, che aveva un figlio di nome Saul. Nessun figlio di Israele lo eguagliava nella bellezza, ed egli sorpassava tutti con la testa. Le asine del padre si erano disperse ed egli andò a cercarle e arrivò al paese di Rama ove dimorava Samuele. Ed egli disse: « L’uomo di Dio mi dirà, ove io le potrò ritrovare ». Come fu alla presenza di Samuele, Dio disse a questi: « Ecco l’uomo che io ho scelto perché regni sul mio popolo ». Samuele disse a Saul: « Le asine che tu hai perdute da tre giorni sono state ritrovate ». Il giorno dopo Samuele prese il suo corno con l’olio e lo versò sulla testa di Saul, l’abbracciò e gli disse: « Il Signore ti ha unto come capo della sua eredità, e tu libererai il popolo dalle mani dei nemici, che gli sono d’attorno ». « Saul non fu unto che con un piccolo vaso d’olio, – dice S. Gregorio – perché in ultimo sarebbe stato disapprovato. Questo vaso conteneva poco olio e Saul ha ricevuto poco, perché  la grazia spirituale l’avrebbe rigettata » (Matt.). « In tutto – aggiunge altrove – Saul rappresenta i superbi e gli ostinati » (P. L. 79, c. 434). S. Gregorio dice che Saul mandato « a cercare le asine perdute è una figura di Gesù mandato da suo Padre per cercare le anime che si erano perdute » (P. L. 73, c. 249). « I nemici sono tutt’intorno in circuitu », continua egli; lo stesso dice il beato Pietro: « Il nostro avversario, il diavolo, gira (circuit) attorno a voi ». E come Saul fu unto re per liberare il popolo dai nemici che l’assalivano, cosi Cristo, l’Unto per eccellenza, viene a liberarci dai demoni che cercano di perderci. – Nella Messa di oggi il Vangelo ci mostra la pecorella smarrita e il Buon Pastore che la ricerca, la mette sulle spalle e la riporta all’ovile. Questa è una delle più antiche rappresentazioni di Nostro Signore nell’iconografia cristiana, tanto che si trova già nelle catacombe. L’Epistola ci mostra i danni ai quali sono esposti gli uomini raffigurati dalla pecorella smarrita. « Vegliate, perché il demonio come un leone ruggente cerca una preda da divorare. Resistete a lui forti nella vostra fede. Riponete in Dio tutte le vostre preoccupazioni, poiché Egli si prende cura di voi (Ep.), Egli vi metterà al sicuro dagli assalti dei vostri nemici (Grad.), poiché è il difensore di quelli che sperano in lui (Oraz.) e non abbandona chi lo ricerca (Off.). Pensando alla sorte di Saul, che dapprima umile, s’inorgoglisce poi della sua dignità reale, disobbedisce a Dio e non vuole riconoscere i suoi torti, « umiliamoci avanti a Dio » (Ep.) e diciamogli: « O mio Dio, guarda la mia miseria e abbi pietà di me: io ho confidenza in te, fa che non sia confuso (Int.); e poiché senza di te niente è saldo, niente è santo, fa che noi usiamo dei beni temporali in modo da non perdere i beni eterni (Oraz.); concedi quindi a noi, in mezzo alle tentazioni « una stabilità incrollabile » (Ep.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV: 16; 18 Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus.

[Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

Ps XXIV: 1-2 Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam.

[A te, o Signore, elevo l’ànima mia: Dio mio, confido in te, ch’io non resti confuso.]

Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus.

[Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

Oratio

Orémus.

Protéctor in te sperántium, Deus, sine quo nihil est válidum, nihil sanctum: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, te rectóre, te duce, sic transeámus per bona temporália, ut non amittámus ætérna.

[Protettore di quanti sperano in te, o Dio, senza cui nulla è stabile, nulla è santo: moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché, sotto il tuo governo e la tua guida, passiamo tra i beni temporali cosí da non perdere gli eterni.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet V: 6-11.

“Caríssimi: Humiliámini sub poténti manu Dei, ut vos exáltet in témpore visitatiónis: omnem sollicitúdinem vestram projiciéntes in eum, quóniam ipsi cura est de vobis. Sóbrii estote et vigiláte: quia adversárius vester diábolus tamquam leo rúgiens circuit, quærens, quem dévoret: cui resístite fortes in fide: sciéntes eándem passiónem ei, quæ in mundo est, vestræ fraternitáti fíeri. Deus autem omnis grátiæ, qui vocávit nos in ætérnam suam glóriam in Christo Jesu, módicum passos ipse perfíciet, confirmábit solidabítque. Ipsi glória et impérium in sæcula sæculórum. Amen”.

(“Carissimi: Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti nel tempo della visita. Gettate ogni vostra sollecitudine su di lui, poiché egli ha cura di voi. Siate temperanti e vegliate; perché il demonio, vostro avversario, gira attorno, come leone che rugge, cercando chi divorare. Resistetegli, stando forti nella fede; considerando come le stesse vostre tribulazioni sono comuni ai vostri fratelli sparsi pel mondo. E il Dio di ogni grazia che ci ha chiamati all’eterna sua gloria, in Cristo Gesù, dopo che avete sofferto un poco, compirà l’opera Egli stesso, rendendoci forti e stabili. A lui la gloria e l’impero nei secoli dei secoli”).

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929]

NELLE PROVE

L’Epistola è tratta dalla prima lettera di S. Pietro. Dopo aver parlato dei doveri dei pastori verso i fedeli e dei doveri dei fedeli verso i pastori, con le parole dell’epistola odierna viene a parlare dei dovrei comuni a tutti i cristiani. Si era sotto la persecuzione suscitata da Nerone. Raccomanda di accettar con umiltà la prova, affinché Dio li esalti a suo tempo; esorta di esser sobri, vigilanti, fermi nella fede per poter resistere al demonio; inculca la pazienza con la considerazione che i Cristiani sparsi nel mondo sono sottoposti alle stesse tribolazioni. Dio, poi, che li ha chiamati alla gloria celeste, compirà l’opera incominciata, dando la forza di perseverare. Le prove non erano una condizione esclusiva dei Cristiani dei tempi di Nerone. Anche senza la persecuzione dei tiranni, esse non mancano mai a coloro che vogliono seguire Gesù Cristo. Noi Cristiani:

1. Dobbiamo accettar le prove dal Signore, che le manda per nostro bene,

2. Senza avvilirci, perché sono un retaggio comune,

3. Confortati dall’aiuto di Dio, che ha cura di noi.

1.

Umiliatevi sotto la potente mano di Dio. Cioè, sottomettetevi, senza replicare, alla potenza di Dio che vi umilia; accettate le prove che la Provvidenza vi manda. Quanto sia necessaria questa esortazione di S. Pietro lo constatiamo tutti i giorni. Si vorrebbe seguir Dio, ma senza alcuna fatica. Fin che tutto sorride e prospera attorno a noi si procede con entusiasmo: ma alle prime prove ci cascano le braccia, ci vengono meno le forze per proseguire. Gesù Cristo ha paragonato costoro alla semente che cade sulla pietra. Nasce e si secca, perché non può mettere le radici. Quanti Cristiani si mettono a praticare il bene con entusiasmo; poi, «al tempo della tentazione si tirano indietro» (Luc. VIII, 13). Gli insegnamenti del Vangelo non hanno messo radici troppo profonde nel loro cuore. In quale pagina, infatti, del Vangelo noi leggiamo che Gesù Cristo abbia promesso ai suoi seguaci una vita aliena dai patimenti? Leggiamo invece tutto l’opposto: «Non si dà servo maggiore del suo padrone» (Matt. X, 24). E: se Gesù Cristo, nostro padrone, si sottopone alle prove più dure, non possiamo pretendere di andarne esenti noi, suoi servi. – Del resto le prove sono un segno dell’amor di Dio. Chi da Dio è amato, da lui è visitato. «Figliuolo — leggiamo nei libri santi — non sdegnare la disciplina di Dio, e non t’incresca il suo castigo, perché  Dio castiga chi ama, come un padre un figlio che predilige» (Prov. III, 11-12). Quando i padri castigano, siano pure le loro correzioni dure e severe, non osiamo criticarli; perché sappiamo che non ira, non vendetta, ma la premura di renderli migliori li fa diventar severi coi figli. Tanto più dobbiam trovar ragionevoli, e accettar con spirito di sottomissione le prove che ci manda il Signore. I genitori, nota S. Paolo, «ci correggevano secondo quel che pareva loro per pochi giorni; Dio lo fà per nostro vantaggio, affinché partecipiamo alla santità di lui» (Ebr. XII, 10. Quelli puniscono per il conseguimento di beni fugaci, il Signore punisce per il conseguimento di beni immortali. A coloro che, dimentichi di Dio e dei propri doveri, vivono nel letargo del peccato, le prove sono una scossa efficace. Non adoperiamo una voce blanda, ma una forte scossa per svegliare chi è assopito in un profondo sonno. Non adoperiamo una carezza ma un forte strappo per trarre in salvo chi sta per essere investito, o per cadere in un precipizio. Si è disprezzata la voce della buona ispirazione, del buon esempio per non lasciarsi stornare dai godimenti terreni; è ben giusto che Dio amareggi questi godimenti con delle dure prove. « Col fuoco si fa prova dell’oro e col dolore degli uomini accetti» (Eccli II, 5)) dice lo Spirito Santo. Dio non ha bisogno della prova per conoscere la nostra costanza, ma gli uomini, ai quali siamo obbligati a dare buon esempio, hanno bisogno di questa prova. Coloro che ci circondano non devono ripetere la stolta affermazione di satana, il quale, non avendo nulla da dire contro Giobbe, insinuava che egli servisse il Signore unicamente per la prosperità che Dio gli aveva dato. La nostra costanza nella prova, oltre acquistarci dei meriti, insegna a servir Dio disinteressatamente. Inoltre, sotto le prove, l’anima fa notevoli progressi. Una verga di ferro, messa al fuoco, perde la ruggine, si piega docile sotto i colpi del martello, e per il lungo e paziente lavoro della lima riesce un pregevole oggetto d’arte. Così l’afflizione purga l’anima, la rende docile alla volontà di Dio, la raffina nella virtù. –

2.

S. Pietro per incoraggiare i Cristiani a resistere alle tentazioni e a tutte le prove vuole vadano considerando come le stesse tribolazioni sono comuni ai … fratelli sparsi pel mondo. Come osserva il Grisostomo: « La compagnia di quei che soffrono rende più leggero il peso della sofferenza ». (In 2 Ep. ad Tim. Hom. 1, 4). E in questo mondo soffrono tutti. « Se non oggi, domani; se non domani, ci sarà qualche nuovo dolore più tardi; e come non può darsi che i naviganti siano senza sollecitudine quando vanno per l’ampio oceano, così quei che passano questa vita non possono essere senza tristezza » (S. Giov. Grisost. 1. c. n. 3). Saranno più o meno diversi i motivi di tristezza; ma nessuno ne va esente. Una croce il Signore l’ha destinata a tutti. Una croce che l’uomo comincia a portare fin dall’adolescenza è la inclinazione al male. Croce», se egli lotta per vincere; croce, se cede alla passione, per l’amarezza e lo sconforto che ne seguono. Una croce è mettersi alla sequela di Dio per la via stretta; lo Spirito Santo, però, assicura che è una croce anche abbandonare Dio. per camminare per la via larga. « Riconosci alla prova — fa dire da Geremia ad Israele — come è cosa cattiva e dolorosa l’aver tu abbandonato il Signore Dio tuo » (Ger. II, 19.). Sono croci le aspirazioni non mai appagate, gli ideali non mai raggiunti, le agitazioni non mai calmate, un sogno che svanisce, un matrimonio infelice, un figlio scapestrato. Sono croci le malattie, le privazioni, la mancanza di quanto è necessario, una fortuna che dilegua, un affare che va male, un infortunio che capita all’impensata. Si hanno croci in casa e croci fuori di casa: da parte da amici e da parte di nemici, da parte di vicini e da parte di lontani. Chi potrebbe enumerarle tutte? E se tutti hanno la propria croce, perché solamente noi dovremmo andarne liberi? Se le croci sono comuni a tutti i discendenti di Adamo, tanto più devono essere comuni ai Cristiani, seguaci di Colui che morì in croce. «Se credi di non aver tribolazioni — dice S. Agostino — non hai ancora cominciato a essere Cristiano» (En. in Ps. 45,4). S. Paolo e S. Barnaba esortavano i discepoli a rimaner fedeli, «dicendo che noi dobbiamo passare per molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio» (Att. XIV, 21). Come è impossibile entrare nel regno di Dio senza tribolazioni; così è impossibile trovare un Cristiano senza tribolazioni; senza molte tribolazioni, se ha cura di entrare nel regno di Dio. È pensiero consolante, però, il considerare che nel portar la croce abbiam compagni non solamente tutti i fratelli che abbiamo nel mondo, ma lo stesso Gesù Cristo. Nei primi anni del suo episcopato in Milano, il Cardinal Ferrari si era recato a far visita al Re Umberto I, nella sua villa di Monza. A un certo momento della conversazione, che aveva preso un tono confidenziale, Re Umberto dice con un sospiro: «Sapesse, Eminenza, quanto pesa in certi momenti la corona!» E l’Arcivescovo, con il consueto sorriso buono e confortevole, soggiunse pronto: «Pesa anche la croce vescovile, Maestà; l’una e l’altra però diventano leggere e amabili quando ci si metta sopra il Crocefisso» (B. Galbiati, Vita del Cardinale Carlo Andrea Ferrari ecc. Milano, 1926, pag, 226). Perché avvilirci sotto il peso delle tribolazioni se sono comuni a tutti gli uomini, e soprattutto a tutti i fratelli in Gesù Cristo; e se Gesù Cristo terminò sulla croce una vita di tribolazioni senza numero?  –

3.

Dio, il quale ci ha chiamati alla vita celeste che otterremo dopo i brevi patimenti su questa terra, non ci abbandona nei momenti della prova. Dopo che avrete sofferto un poco— dice S. Pietro — compirà l’opera egli stesso, rendendovi forti e stabili. Egli conforterà, assisterà i Cristiani, perché non abbiano a vacillare nel sopportare i mali, e nel compire i propri doveri. Le prove che Dio permette sono medicine; e sono sempre le più adatte per noi. Innanzi tutto Dio non manda se non quel che si può portare; e nessuno può asserire che le prove, che Dio gli manda siano superiori alle proprie forze. Nessun navigante carica la nave con un peso superiore alla sua portata; nella traversata la nave affonderebbe. E neppur salpa con una nave troppo leggera; questa sarebbe molto facilmente sbattuta qua e là dai venti. Dio proporziona a ciascuno le croci in modo che tengano fermo l’uomo tra l’infuriar delle passioni, e nello stesso tempo non lo opprimano col loro peso. Per dubitare di questo, bisognerebbe ignorare che «le opere di Dio sono perfette e tutte le vie di lui sono giuste» (Deut. XXXII, 4). Si odono spesso frasi come queste: «Dio poteva darmi una croce, ma pesante come questa, no». — «Un’altra croce, pazienza; ma non questa». — «Tutti hanno la propria croce; ma la mia è più pesante delle altre». Se tutti dovessimo portar la nostra croce in un luogo pubblico, e lì — come si fa in una esposizione — metterle in vista, in modo che noi potessimo vedere le croci degli altri, e gli altri potessero vedere le nostre, e a tutti fosse data facoltà di cambiar la propria con altra; quanti la cambierebbero? Tutto considerato, ciascuno penserebbe che è meglio riprender la propria, e ritornare con quella a casa. Il Signore non ci lascia portar da soli il peso della tribolazione. A incoraggiare Giacobbe a scendere da Betsabea in Egitto con tutta la famiglia, Dio gli si manifesta di notte, in visione, e l’assicura: «Non aver paura di scendere in Egitto… Io scenderò con te in Egitto, e Io ancora ti farò di là ritornare» (Gen. XLVI, 3-4). Quando, nel pellegrinaggio di questa vita, ci troviamo nelle difficoltà Dio ci è vicino, molto più vicino di quanto supponiamo. Egli può condurci e ricondurci incolumi attraverso a tutte le prove. Se saremo disposti a non staccarci da Lui, Egli non ci abbandonerà, ma ci darà la forza di superare qualunque ostacolo. – «Il Signore è buono — dice il profeta — e consola nel giorno della tribolazione, e conosce quelli che sperano in Lui (Nah. I, 7). Sappiamo, dunque, dove porre le nostre speranze nel momento della tribolazione, senza pericolo di rimanere delusi. Il Signore non vuol tormentare i suoi amici; ma vuol renderli migliori e meritevoli di un gran premio; Egli sa quello che fa. Sarebbe una vera pazzia, nell’ora della prova, abbonarsi alle querele e ai lamenti, invece di praticare il suggerimento di S. Pietro : Umiliatevi sotto la potente mano di lui. Dopo tutto «l’angustia della tribolazione passerà, ma l’ampiezza della gioia a cui pervennero non avrà termine» (S. Agost. En. in Ps. CXVII). – E soprattutto umiliamoci sotto la potente mano del Signore nelle prove più gravi, come le prove pubbliche, accettandole come un invito a riformare la nostra condotta, e facciamo che non si debba ripetere il lamento che un giorno faceva S. Cipriano : «Ecco, dal Cielo vengono inflitte calamità, e non c’è alcun timor di Dio» (Ad Dem. 8).

Graduale

Ps LIV: 23; 17; 19 Jacta cogitátum tuum in Dómino: et ipse te enútriet.

[Affida ogni tua preoccupazione al Signore: ed Egli ti nutrirà.]

V. Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam ab his, qui appropínquant mihi. Allelúja, allelúja.

[Mentre invocavo il Signore, ha esaudito la mia preghiera, liberandomi da coloro che mi circondavano. Allelúia, allelúia]

Ps VII: 12 Deus judex justus, fortis et pátiens, numquid iráscitur per síngulos dies? Allelúja.

[Iddio, giudice giusto, forte e paziente, si adira forse tutti i giorni? Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.

S. Luc. XV: 1-10

“In illo témpore: Erant appropinquántes ad Jesum publicáni et peccatóres, ut audírent illum. Et murmurábant pharisæi et scribæ, dicéntes: Quia hic peccatóres recipit et mandúcat cum illis. Et ait ad illos parábolam istam, dicens: Quis ex vobis homo, qui habet centum oves: et si perdíderit unam ex illis, nonne dimíttit nonagínta novem in desérto, et vadit ad illam, quæ períerat, donec invéniat eam? Et cum invénerit eam, impónit in húmeros suos gaudens: et véniens domum, cónvocat amícos et vicínos, dicens illis: Congratulámini mihi, quia invéni ovem meam, quæ períerat? Dico vobis, quod ita gáudium erit in cœlo super uno peccatóre pœniténtiam agénte, quam super nonagínta novem justis, qui non índigent pœniténtia. Aut quæ múlier habens drachmas decem, si perdíderit drachmam unam, nonne accéndit lucérnam, et evérrit domum, et quærit diligénter, donec invéniat? Et cum invénerit, cónvocat amícas et vicínas, dicens: Congratulámini mihi, quia invéni drachmam, quam perdíderam? Ita dico vobis: gáudium erit coram Angelis Dei super uno peccatóre pœniténtiam agénte”.

(“In quel tempo andavano accostandosi a Gesù de’ pubblicani e de’ peccatori per udirlo. E i Farisei e gli Scribi ne mormoravano, dicendo: Costui si addomestica coi peccatori, e mangia con essi. Ed Egli propose loro questa parabola, e disse: Chi è tra voi che avendo cento pecore, e avendone perduta una, non lasci nel deserto le altre novantanove, e non vada a cercar di quella che si è smarrita, sino a tanto che la ritrovi? e trovatala se la pone sulle spalle allegramente; e tornato a casa, chiama gli amici e i vicini, dicendo loro: Rallegratevi meco, perché ho trovato la mia pecorella, che si era smarrita? Vi dico, che nello stesso modo si farà più festa per un peccatore che fa penitenza, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza. Ovvero qual è quella donna, la quale avendo dieci dramme, perdutane una, non accenda la lucerna, e non iscopi la casa, e non cerchi diligentemente, fino che l’abbia trovata? E trovatala, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi meco, perché ho ritrovata la dramma perduta. Così vi dico, faranno festa gli Angeli di Dio, per un peccatore che faccia penitenza”).

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sulla dilazione della conversione.

Gaudium erit in cœlo super uno peccatore poenitentiam agente, quam super nonaginta novem iustis qui non indigent pœnitentia.

Luc. XV.

Chi l’avrebbe creduto fratelli miei, che la conversione d’un peccatore avesse dato più d’allegrezza al cielo che la perseveranza di novantanove giusti? La perseveranza di molti giusti non procura ella forse più di gloria a Dio che la conversione d’un peccatore? Qual vantaggio dunque può Iddio cavare dalla conversione del peccatore per farne un così gran soggetto di gaudio? Eppure è questa una verità di cui Gesù Cristo ci assicura nel Vangelo; non già che la conversione d’un peccatore sia effettivamente un più gran bene che la perseveranza dei novantanove giusti; ma ella ci fa meglio conoscere il fine della missione del Salvatore del mondo e l’estensione delle sue misericordie su di essi. Qui, dice Egli altrove, essere venuto per chiamare i peccatori e non i giusti, mentre più di misericordia ha luogo dove più vi ha di miserie: ora il peccatore è ridotto ad uno stato di miserie in cui non si trova il giusto. Questo peccatore è lontano dal suo Dio, egli ha perduto il sommo bene, egli è l’oggetto delle vendette di Dio; la sua misericordia non può soffrirlo in quello stato; e perciò lo cerca, come dice il Vangelo, con altrettanta premura che un pastore corre dietro alla sua pecorella smarrita, e con altrettanta sollecitudine che una donna la quale sia tutta ansiosa per ritrovare una dramma smarrita. Mormorino pure i farisei di questa condiscendenza di Gesù Cristo per i peccatori, si lamentino perché vuole mangiare con essi; Egli condanna la durezza dei farisei, si compiace coi peccatori, fa loro sentire le attrattive della sua misericordia a fine di ricondurli a sé. – Verità molto consolante per voi, fratelli miei, che avete avuta la disgrazia di perdere per lo peccato la grazia del vostro Dio. La misericordia di Dio vi aspetta, v’invita a ritornare a sé; ella è tutta pronta a ricevervi, tostochè voi ritornerete coi sentimenti d’un cuor contrito ed umiliato. Ma non crediate, o peccatori, che, perché la misericordia di Dio v’aspetta, vi sia permesso di differire la vostra conversione, e che essa sia per aspettarvi tanto che vi piacerà. Se da una parte ella vi dice: ritornate, e riceverete la vita; dall’altra vi avvisa di non differire, perché differendo vi esponete al rischio di non ricevere mai più il perdono. Perché mai? Perché non potete ricevere il perdono senza convertirvi. Ora, differendo la vostra conversione, vi mettete a rischio evidente di non mai convertirvi o in una specie d’impossibilità di farlo. Rischio di non convertirvi giammai, perché il tempo può mancarvi. Impossibilità o estrema difficoltà di convertirvi, perché la grazia e la volontà possono anche mancarvi. In due parole: conversione differita, conversione incerta; primo punto: conversione differita, conversione difficile; secondo punto. Convertitevi dunque prontamente. – Potete voi ricusare di dare agli Angeli un motivo di allegrezza in cui voi trovate la vostra felicità, la vostra salute eterna?

I. Punto. Non si possono vedere senza ammirazione i segni sensibili che Dio ci dà nella sacra Scrittura della sua misericordia verso i peccatori e del desiderio sincero che Egli ha della loro conversione. Qui, come nell’odierno Vangelo, questa divina misericordia si dipinge sotto i tratti d’un amoroso pastore che corre dietro a una pecorella smarrita, che la riconduce dolcemente nell’ovile, e la porta anche sopra le sue spalle per risparmiarle la fatica del cammino. Là essa si manifesta sotto il simbolo d’un tenero padre che riceve un figliuolo prodigo che le dissolutezze avevano ridotto nel più deplorabile stato. Non solamente Dio aspetta il peccatore con pazienza, ma lo ricerca con premura, lo invita, lo sollecita a ritornare a Lui; Egli fa i primi passi, e quando il peccatore si arrende ai suoi inviti, lo riceve con bontà, lo ricolma dei suoi benefizi, si rallegra del suo ritorno come di una conquista, se ne applaudisce come di un trionfo. Il che ci è sensibilmente significato nella parabola di quella donna che invita le sue amiche a seco rallegrarsi perché ha ritrovato la dracma che aveva perduta. Ma che dobbiamo noi il più ammirare, fratelli miei? la bontà di Dio a ricercare e a ricevere il peccatore, o l’indifferenza del peccatore a ritornare a Dio? Più Dio fa dei passi per accostarsi al peccatore, più questo peccatore sembra volersi allontanare dal suo Dio. Nemico della sua felicità, fugge la grazia che lo cerca; e come se fosse una disavventura l’arrendersi ai dolci inviti di questa grazia, Egli ama meglio rimanere nella schiavitù del peccato che romper le catene che lo rendono effettivamente disgraziato. Ma a che vi esponete voi, peccatori ribelli alla grazia del vostro Dio, a che vi esponete differendo la vostra conversione? Voi vi mettete in un rischio evidente di non convertirvi giammai, perché? Perché contate sopra un tempo avvenire che voi forse non avrete; mentre nulla è più incerto di questo tempo, o sia che lo consideriamo in sé stesso e nella sua natura, o sia che lo consideriamo per riguardo a Dio, che non l’ha promesso. La vostra conversione non è più certa che il tempo: per conseguenza, conversione differita, conversione incerta. – Una delle più pericolose illusioni di cui si serve il demonio per condurre i peccatori alle porte della morte eterna si è di nutrirli della lusinghiera speranza d’un tempo avvenire, al quale essi rimandano le loro conversioni. Sanno pure che per esser salvi conviene cangiar vita, lasciare il peccato, fuggirne le occasioni; ma si persuadono che a ciò fare vi sarà sempre tempo. – I giovani si affidano nella robustezza del loro temperamento, e non rimirano la morte che da lontano; riguardano la gioventù come un tempo di piaceri, di cui possono profittare, e di cui avranno il tempo di far penitenza. Eh! Perché, dicono essi, non faremo noi come gli altri, che ci han preceduti? Ciascuno deve avere il suo tempo; quando noi saremo in un’età più avanzata, noi penseremo a vivere diversamente; ma convien pure che la gioventù si sfoghi; non bisogna singolarizzarsi con un genere di vita diverso da quelli della nostra età: conviene mantenere corrispondenze, amicizie per giungere ad uno stabilimento; e per questo bisogna frequentare il mondo, e vivere a genio suo. Si trova nell’età giovanile un’infinità di ostacoli alla virtù. Quando io non avrò più, dice quel giovine, dice quella figlia, quelle corrispondenze, quelle amicizie, quando non avrò più tante occasioni di offendere Dio, io mi convertirò, e farò penitenza dei peccati della mia gioventù; ma al presente mi è impossibile. Ora perché domandarmi una cosa impossibile per adesso, e che penso fare in un altro tempo; poiché secondo tutte le apparenze, io ho ancora alcuni anni a vivere? Io sono di un temperamento abbastanza forte per non sì tosto temere la morte, risolutissimo per altro, quando la vedrò avvicinarsi, di cangiar vita e di fare penitenza. Non sono forse questi i sentimenti d’un gran numero di giovani che mi ascoltano? La loro condotta lo fa pur troppo vedere. Pensare a convertirci, a far penitenza, dicono gli altri avanzati in età, non ci è per ora possibile; gli affari di cui siamo occupati, la famiglia che conviene stabilire, quella lite che convien terminare, non ci permettono di pensare a regolare la nostra coscienza, che domanda tutta la nostra attenzione. Bisogna dunque aspettare che siamo disimpegnati da quegli affari: che siamo padroni di noi medesimi per pensare alla nostra salute. Quando avremo un tempo più favorevole, metteremo un intervallo tra la vita e la morte, e ci prepareremo al gran viaggio dell’eternità. In tal modo ragiona, fratelli miei, una infinità di persone d’ogni età e condizione; i vecchi medesimi sperano aver del tempo abbastanza per riparare i mancamenti da loro fatti durante la vita. Ma che accade poi a questi peccatori che procrastinano in tal guisa la loro conversione? E a che va a finire quella lusinghiera speranza del tempo avvenire, di cui pascono le loro idee? A non averne affatto. E perché questo, fratelli miei? Perché nulla di più incerto che il tempo della vita: egli è una foglia, che il minimo vento, rapisce, dice il santo Giobbe, egli è un fumo che si dissipa in un istante; egli è un’ombra che fugge; niuno può promettersi un solo giorno, un sol momento di vita. Noi tutti portiamo dentro di noi una risposta di morte, dice  l’Apostolo; e colui che fa conto di vivere ancora un certo numero d’anni non vedrà forse il fine di quello che ha cominciato. Quel giovane che confida sulla forza del suo temperamento sarà còlto dalla morte in un tempo in cui meno vi penserà; quell’uomo pieno di progetti che l’impediscono di pensar all’affare più importante che abbia al mondo, morrà prima di avere eseguito un solo dei suoi progetti, e molto meno quello della sua conversione, ch’egli differisce dopo gli altri. – Quanti non se ne veggono cui la morte non lascia il tempo di riconoscersi? Quanti non ve ne ha, che sono rapiti nella loro più florida gioventù e sono svelti dal seno dei piaceri per essere trasportati in quello del dolore eterno? Oimè! qual bisogno evvi di provare ciò che la esperienza dimostra! Non avete voi forse vedute persone giovani come voi, d’un temperamento forte come il vostro, morire in un tempo in cui non se l’aspettavano? Non ne avete forse vedute alcune cólte da una morte subitanea ed improvvisa? L’uno fu ritrovato morto nel suo letto, l’altro perì nell’acqua, questi dal fuoco, quegli da una caduta o da qualche altro impensato accidente. L’uno è attaccato da un’apoplessia, che gli toglie l’uso dei sensi e lo mette fuori di stato di ricevere i sacramenti; l’altro vien tolto di mezzo da una febbre maligna, che non gli ha dato il tempo di mettere ordine alla sua coscienza: ed ecco forse ciò che accadrà a voi, che contate tanto sulla vostra età e sul vostro temperamento. Chi può accertarvi che voi non sarete, come tanti altri, sorpresi dalla morte? Benché giovani, benché robusti voi siate, non potete forse essere attaccati, come gli altri, d’apoplessia, còlti da qualche accidente, che vi tolga la vita senza che vi pensiate? Non potete voi forse morire di morte subitanea? E quand’anche fosse di malattia, forse non sarete più a tempo di ricevere i sacramenti, o perché voi li avrete domandati troppo tardi, o perché non si ritroverà alcun ministro di Gesù Cristo per darveli, o perché non giungeranno sì presto, malgrado la loro diligenza, a portarsi presso di voi; non è dunque una gran temerità ed una gran follia rimettere la vostra conversione ad un tempo che voi forse non avrete, e che avete ogni motivo di paventar di non avere? – Ma forse ancora, dite voi, io non morrò sì presto. Forse Dio mi darà tempo di far penitenza, di ricevere i sacramenti, come lo dà a tanti altri. Non ha Egli forse promesso il perdono ai peccatori che ritornano a Lui con sincera penitenza, in qualunque tempo lo facciano? Forse, dite voi, io non morrò sì presto, ma forse ancora morrete quanto prima; voi non siete più certi dell’uno che dell’altro. Non è forse molto meglio in questa incertezza prendere il partito più sicuro, che è quello di convertirvi? Se il tempo dipendesse da voi. se poteste disporre dell’ora della vostra morte, non sareste sì temerari a differire la vostra conversione; ma nulla evvi che dipenda meno da noi che il tempo, dice s. Agostino. Noi non possiamo disporre d’un sol momento; Dio è il padrone di tutti i momenti. Ah! chi sa, dice Gesù Cristo, quelli che il Padre celeste ha riserbati in suo potere? Momento, quæ posuit Pater in $ua potestate (Act. 1). Iddio può darvi un momento che voi vi promettete: forse, voi dite, ve lo darà; ma forse ancora non vel darà, perché non ve l’ha promesso. Se è dunque sopra un forse che voi fondate la vostra speranza, vale a dire il più grande affare che voi abbiate al mondo, non è questo un arrischiare tutto? Non è questo un voler perire eternamente? Ed è così, fratelli miei, vi domando, è così che voi operate per affare temporale o per la sanità del vostro corpo? Se voi trovate in quest’oggi un’occasione favorevole di arricchirvi, non la prendete voi con premura, per timore che dopo, lasciandola sfuggire, non la troviate più? Se siete attaccati da malattia, aspettate forse ch’ella sia invecchiata e v’abbia condotti alle porte della morte per far venire il medico? No, senza dubbio: voi prendete tutte le precauzioni possibili per arrestare il male nel suo principio o per isfuggire i colpi della morte, quest’oggi voi potete guarire la vostr’anima col rimedio della penitenza, quest’oggi voi potete assicurare la riuscita del grande affare della salute; perché dunque aspettare un domani che forse non avrete? Ah! bisogna dire che voi abbiate minor zelo per la vostra salute che per la sanità, minor premura per i beni del cielo che per quelli della terra. – Invano appoggiate voi la vostra dilazione sulla speranza che Dio vi accorderà del tempo e che vi riceverà ogni qual volta ritornerete a Lui con una sincera penitenza, Iddio, è vero, ha promesso il perdono al peccatore che si converte sinceramente; Egli non getta giammai un cuor contrito ed umiliato: ma notate, dice s. Agostino, che vi sono due cose in questa promessa, l’ora ed il perdono. Se voi vi convertite, Dio vi perdonerà, niente di più sicuro; ma vi darà Egli forse quando vorrete l’ora ed il tempo della conversione? Niente di più incerto. Egli ha promesso il perdono all’ora che vi convertirete; ma vi ha forse promesso di darvi quell’ora, di aspettarvi tanto che vi piacerà di differire? No, al contrario, Egli v’assicura positivamente che vi sorprenderà in tempo che non ve lo aspetterete: Qua hora non putatis (Luc. XII). Egli vi minaccia della medesima disgrazia che avvenne agli abitatori della terra al tempo di Noè, i quali non pensavano che a bere, a mangiare, a divertirsi, e che furono ad un tratto sepolti nelle acque del diluvio. Si è in tal guisa, dice Gesù Cristo, che il Figliuolo dell’uomo verrà a sorprendere i peccatori in mezzo ai piaceri; si è in tal modo che essi ingannati saranno nella speranza d’un tempo avvenire, di cui si lusingavano: Ita erit et adventus filii hominis (Matth. XXIV). Quanti reprobi nell’inferno provano al presente gli effetti di quella terribile minaccia! Contavano essi, come voi, sopra un tempo avvenire per cangiare di vita, per fare penitenza; ne avevano fatto più volte il progetto, ma la morte li ha sorpresi e non ha loro dato il tempo di eseguirlo. Ah! quanto amaramente si dolgono del tempo di cui non han profittato, ed oh! come vorrebbero aver quello che è adesso in vostra disposizione per riparare la perdita da loro fatta, ma non l’avranno mai più. Aspettate voi forse, fratelli miei, che siate ridotti nel medesimo stato che quegl’infelici, per pensare com’essi sul prezzo del tempo? Voi potete ancora ciò ch’essi non potranno mai più. Qual buona sorte per voi! ma qual disgrazia se voi non imparate a loro spese? Potrete voi forse scusarvi sul tempo che non avete avuto? Potrete voi dire che la morte vi ha sorpresi? Ma voi l’avete questo tempo; voi siete avvertiti che la morte può sorprendervi; sarà colpa vostra se voi siete sorpresi. Profittate dunque del tempo che avete al presente, senza contare sopra un tempo che non vi è promesso. Cercate il Signore mentre potete trovarlo; invocatelo mentre è vicino, per timore di cadere nella notte fatale dove nol ritroverete più, dove l’invocherete inutilmente: Quærite Dominum, dum inveniri potest; invocate eum dum prope est (Isai. LV). – Se voi aveste incorsa la disgrazia di un re potente, che avesse data contro di voi una sentenza di morte, e vi si dicesse che potete quest’oggi ottenere la vostra grazia, ch’egli ve l’accorderà, se voi la domandate, ma che forse domani voi non sarete più a tempo, che la sentenza di morte si eseguirà su di voi, aspettereste voi il domani per domandare questa grazia? Non la domandereste voi in quest’oggi? Ah! voi sapete, o peccatori, che la sentenza di morte eterna è fulminata contro di voi dal sovrano del re: i peccati di cui siete colpevoli, non vi lasciano alcun luogo di dubitarne: voi potete preservacrvene in quest’oggi, in questo momento; perché dunque aspettare domani, in cui questa sentenza forse si eseguirà? Mentre non potete voi forse morire in quest’oggi? É se voi morite in istato di peccato, eccovi perduti per sempre. Convertitevi dunque in quest’oggi e non aspettate a domani. Imperciocché, o voi volete qualche giorno convertirvi, o nol volete giammai. Non voler convertirsi giammai è voler essere riprovato. Qual barbara risoluzione! Ma se voi volete convertirvi, perché non farlo quest’oggi, che è nelle vostre mani? Perché aspettar ad un altro giorno, che non è in poter vostro? E sino a quando direte voi con Agostino peccatore: modo, adesso? Ah! dite piuttosto come Agostino penitente diceva col reale profeta: sin da quest’oggi, sin da questo momento io voglio darmi a Dio; e finita, la risoluzione è presa: Dixi: nunc cœpi; sin da quest’oggi, sin da questo momento io voglio lasciare il peccato, le occasioni del peccato, quella persona, quella casa che mi perde: sin da questo momento io voglio restituire quel bene altrui, riconciliarmi con quel nemico, correggermi di quel cattivo abito; no, io  non aspetterò più a far una cosa, che dovrei già da lungo tempo aver fatta. E tanto più lo dovete, perché se differite ancora, la vostra conversione diverrà più difficile. Secondo punto.

II. Punto. Due cose sono necessarie per la giustificazione del peccatore, la grazia di Dio e la volontà dell’uomo, nulla può l’uomo senza la grazia: ma nulla fa la grazia senza la cooperazione dell’uomo: bisogna dunque che la grazia e la volontà operino di concerto per consumare l’opera della giustificazione. Ora il peccatore che differisce la sua conversione si espone ad esser privo della grazia; e quand’anche la grazia gli fosse data, egli ha ogni motivo di temere che la sua volontà gli sia fedele a corrispondervi. Due ragioni che provano la dilazione render la conversione difficilissima ed in certo modo impossibile; ragioni che debbono per conseguenza indurre il peccatore a convertirsi prontamente. – Bisogna primieramente convenire secondo i principi della fede, che Dio, il quale vuol salvare tutti gli uomini, conferisce a tutti le grazie necessarie per essere salvi. In qualunque stato sia ridotto il peccatore, non deve giammai disperare della sua salute, che è sempre possibile; ma non bisogna credere che Dio apra egualmente il tesoro delle sue grazie a coloro che gli resistono, come a quelli che gli sono fedeli: siccome Egli ricompensa la fedeltà alla grazia con grazie più abbondanti, cosi punisce il dispregio che se ne fa con la sottrazione di quei doni celesti; non già che li ricusi interamente, ma questi non saranno grazie speciali e di predilezione che Egli darà alle anime ribelli, come a quelle che gli sono fedeli. – Imperciocché come volete voi che Dio dia queste grazie speciali per convertirvi a voi peccatori che, differendo la vostra conversione, ve ne rendete sì indegni con le vostre resistenze continue? Come potete voi sperare i favori che Dio riserba a quelle anime elette che si consacrano interamente a Lui, voi che gli disubbidite ai primi ed anche la più gran parte della vostra vita, per non consentigli che i miseri avanzi di una vita passata nell’iniquità e nel libertinaggio? Non dovete voi temere al contrario, ed anche tener per certo ch’Egli vi ricuserà quegli aiuti vi promettete dal canto suo, poiché ve lo minaccia sì espressamente? Guai a voi, dice Egli, che disprezzate la mia grazia; io pure vi disprezzerò: Vae qui spernis, nonne et ipse sperneris (Isai. XXXIII)? Io vi ho chiamati, dice altrove, e voi non avete voluto ascoltarmi; vi ho cercati, e voi mi avete fuggito ; ma voi pure mi chiamerete, ed Io non vi ascolterò, mi cercherete e non mi ritroverete, e morrete nel vostro peccato: Quæretis me, et non invenietis, et in peccati vestro moriemini (Jo. VIII). – Queste testimonianze e molte altre che io potrei citare non provano forse chiaramente, fratelli miei, che vi sono momenti favorevoli, momenti critici e decisivi per la conversione del peccatore che più non si trovano quando sono passati? Che vi sono grazie particolari da cui dipende la nostra predestinazione? Che chi non le mette a profitto si pone a rischio evidente d’eterna riprovazione. E certamente esige la giustizia divina di operare in tal modo a riguardo di un peccatore che dispregia le sue grazie. Iddio ha la pazienza di aspettare questo peccatore, gli dà tutto il tempo e le grazie per fare penitenza, tempo prezioso che non ha dato agli Angeli ribelli e a molti altri che sono morti in istato di peccato, e questo peccatore abusa della pazienza di Dio per offenderlo, egli fa della pazienza di Dio il motivo delle sue colpe: dunque ella è cosa giusta che questo peccatore sia privo della grazia di Dio in punizione del dispregio ch’egli ne ha fatto. Ah! sappiate, peccatori, vi dice l’Apostolo, che giacché voi dispregiate le ricchezze della misericordia del Signore, accumulate sopra di voi un tesoro di collera pel giorno delle sue vendette: Thesaurizas tibi iram in die iudicii (Rom.II). – Questa vendetta di Dio comincia ad esercitarsi su di voi in questa vita. Voi chiudete gli occhi alla luce che illumina, voi siete insensibili ai buoni movimenti ch’ella fa nascere nei vostri cuori, voi non volete convertirvi adesso che Dio ve ne concede la grazia: ma verrà un tempo che questa viva luce non vi illuminerà più, che questa grazia più non vi toccherà, che queste minacce non vi spaventeranno più: il Signore, di cui vi burlate, si burlerà anch’Egli di voi; disgustato dalle vostre resistenze, vi abbandonerà e v’insulterà nei vostri affanni: Ego in interitu vestro ridebo, et subsannabo (Prov. 1). – Ma, direte voi, non si sono forse veduti gran peccatori ritornare a Dio e diventare gran santi dopo una vita passata nello sregolamento, come una Maddalena, il buon ladrone, un s. Paolo e tanti altri? Questi vasi d’ignominia non sono divenuti vasi di elezione con una abbondante effusione della grazia, con quei colpi che noi chiamiamo grazie speciali e di predilezione? Noi abbiamo a fare con lo stesso Dio, ricchissimo in misericordia: il tesoro delle sue grazie non è punto esausto né chiuso per noi: non possiamo noi forse sperare di avervi parte come gli altri, che ne erano indegni quanto noi? A questo io ho due cose a rispondere: o sì fatti peccatori che sono ritornati a Dio dopo una vita sregolata hanno corrisposto alla prima grazia decisiva della loro conversione, o se l’hanno rigettata, non sono divenuti santi, se non perché Dio ha fatto risplendere su di essi quei miracoli d’una grazia straordinaria ch’Egli dà a chi gli piace, per far vedere che ha nei suoi tesori armi potenti a trionfare della resistenza dell’uomo più ribelle. Nel numero di quelli che hanno corrisposto alla prima grazia decisiva della loro conversione, riconoscete quegli illustri penitenti che ci avete citati, la Maddalena, un s. Paolo, il buon ladrone. Quando fu che la Maddalena prese il partito di andar a trovare presso di Gesù Cristo il rimedio alle piaghe della sua anima? Ut cognovit (Luc. VII). Sin dal momento che la luce della grazia risplendette ai suoi occhi e le ebbe fatto conoscere le vanità del mondo, essa le abbandonò senza frappor dimora, essa superò generosamente tutti gli ostacoli che si presentavano alla sua conversione. – Il buon ladrone, a canto di Gesù Cristo, profittò anch’egli nel momento favorevole che ebbe per chiedergli un posto nel suo regno. Saulo colpito, gettato a terra sulla strada di Damasco, chiede a Gesù Cristo che vuole ch’ei faccia: Domine, quid me vis facere (Act. IX)? Dacché ha inteso la voce del suo Dio, egli depone le armi; di persecutore della Chiesa ne diventa un fervente discepolo. – Ecco, peccatori, ciò che voi dovreste fare, e ciò che non fate. Di già la luce della grazia vi ha fatto conoscere la vanità del mondo, come alla Maddalena, e voi siete sempre attaccati al mondo ingannatore; voi non potete risolvervi a lasciare le sue vanità, le sue pompe, i suoi piaceri. Dio, per istaccarvene; vi ha percossi, come un altro Saulo, togliendovi quei beni, quella sanità di cui abusate, umiliandovi con sinistri accidenti, con dispregi, con dileggiamenti che aveste a sopportare da parte dei mondani, spezzando l’idolo della vostra passione, che vi teneva stretto nelle sue catene; e malgrado tutti i colpi con cui Dio vi ha percossi, voi siete sempre gli stessi, sempre schiavi delle vostre passioni, sempre amanti dei beni, dei piaceri, sempre avvinti all’oggetto d’una rea passione. Come volete voi dunque che Dio si diporti con voi? Volete voi che Egli vi cavi malgrado vostro dalla schiavitù, che vi tragga per forza dal pantano in cui siete immersi? Ma Egli non vuol forzare la vostra libertà; Egli fa dal canto suo tutto quello che è necessario per porgervi aiuto a rialzarvi; Egli vi stende la mano e, forse nell’istante stesso che vi parla, vi stimola, vi tocca con una grazia speciale che vi dà, malgrado l’abuso che avete fatto delle altre. A voi tocca cooperare ai suoi disegni; ma voi vi restate nell’inazione, voi nulla volete fare. Sappiate dunque che questo forse è l’ultimo de’ suoi favori, e che se voi non ne profittate, vi esponete a non averne più: sappiate che il dispregio che voi farete di questa grazia metterà forse il colmo alla misura delle vostre iniquità ed il sigillo alla vostra riprovazione. – Mettete dunque a profitto questa grazia, mentre è tempo, e non contate sopra i miracoli d’una grazia che Dio non concede nel corso ordinario della sua provvidenza. Non sarebbe forse una gran temerità ed una presunzione molto biasimevole l’aspettare dalla misericordia di Dio una grazia straordinaria, ch’Egli non deve neppure ai più gran santi, nel mentre che voi ve ne rendete così indegni con le vostre ingiuriose dilazioni, con la vostra ostinata resistenza alle grazie ordinarie di cui non dipende che da voi il profittare? Ma finalmente io voglio supporre che Dio vi dia ancora le grazie di conversione su cui voi vi fondate, mentre la misericordia di Dio è più grande che la malizia del peccatore, ed il peccatore deve meno temere dalla parte di Dio che dalla parte di sé medesimo; egli può sempre sperare le grazie necessarie per convertirsi. E a Dio non piaccia che noi cerchiamo di far disperare il peccatore della sua conversione! Ma io sostengo, peccatori, che qualunque grazia Dio vi dia, in qualunque modo Egli vi prevenga e vi tocchi, la vostra conversione sarà sempre molto difficile dalla parte di, voi medesimi; e perché mai? Perché la vostra volontà, a forza di resistere alle grazie di Dio, diverrà insensibile a tutti quei movimenti; nulla saravvi che possa commoverla. – Tal è forse lo stato d’insensibilità in cui voi presentemente vi ritrovate; voi siete commossi in un tempo da qualche energico discorso che avrete inteso; la vista dei terribili giudizi di Dio, dell’inferno che avete meritato, vi ha fatto prendere la risoluzione di cangiar vita; la morte d’una persona mondana ha fatto nascere in voi desiderio di staccarvi dai beni della terra, dai piaceri del mondo; ma voi non avete punto effettuato questi desideri: simili ad uno che si risveglia per un momento e si lascia in appresso prender di nuovo dal sonno, voi vi siete addormentati nel seno dei piaceri, vi siete abbandonati alle vostre passioni: queste passioni, questi piaceri hanno preso un tale impero su di voi, che non potete più risolvervi a rompere le vostre catene: eccovi come sepolti in un letargo, da cui non potrete più essere destati: lo strepito spaventevole della tromba dei giudizi di Dio, le minacce più severe non vi risveglieranno né vi moveranno. E perché mai? Perché voi siete avvezzi ad udirle, senza arrendervi alle impressioni ch’esse facevano sul vostro spirito e sul vostro cuore: voi rassomigliate ad un infermo che, essendo avvezzo ai rimedi, nulla più ritrova che possa guarirlo. Che fate voi dunque, peccatori, differendo a convertirvi? Voi accrescete il peso delle vostre catene, invece di spezzarle; ad un leggiero ostacolo che potevate vincere, ne aggiungete cento che saranno quasi insuperabili; una malattia leggiera che potevate facilmente guarire, si cangerà in una malattia invecchiata per cui non vi sarà più rimedio; una scintilla che potevate estinguere cagionerà un incendio che non potrete più arrestare. Perché dunque non prendete voi le precauzioni per preservarvi dalle fiamme eterne, in cui siete già per cadere? Aspettate voi forse che siate del tutto attorniati da quelle fiamme? Ma quando vi sarete, non potrete più uscirne: qual crudeltà per l’anima vostra! Io veggo benissimo su di che voi vi fidate; il tempo in cui aspettate di convertirvi è senza dubbio l’ora della morte, tempo in cui vi staccherete dalle creature e non potrete più appagare le vostre passioni. Allora, dite voi, disingannato delle vanità del secolo, io non penserò che all’eternità. Non si ricerca che un buon momento, un buon peccavi per cancellare tutti i miei peccati. – Voglio ancora accordarvi, peccatori che all’ora della morte voi possiate convertirvi, finché l’uomo è nella via, quantunque non avesse che un momento di vita, egli non deve disperare della sua salute. Ma io sostengo ancora che voi non vi convertirete in quegli ultimi momenti, per la grande difficoltà che avrete a farlo; perché, siccome ho detto, la vostra volontà, che avrà contratto il funesto abito di resistere alla grazia, non si arrenderà punto ai suoi inviti. Allora gli oggetti, le creature cangeranno bensì per voi, ma voi non cangerete a lor riguardo: voi farete penitenza, ma non sarà che una penitenza forzata; lascerete i beni, i piaceri della terra perché non potrete più possederli; cioè a dire i beni e i piaceri lasceranno voi, ma voi non ne sarete staccati per questo; voi non sarete già meno disposti a profittarne se la vita vi fosse prolungata. Ne chiamo in testimonio la quotidiana esperienza. Si è veduto un gran numero di questi peccatori abbandonati alle loro passioni, ridotti alle porte della morte; ma ricuperando la sanità ne abbiamo noi veduti molti sinceramente convertiti? Quanti segni di dolore non hanno essi dato? Quante proteste non hanno fatto alla vista del pericolo da cui erano minacciati? Hanno essi domandato i sacramenti, hanno sparse lagrime alla vista d’un Dio attaccato in croce per la loro salute: se fossero morti dopo tutti quei segni di penitenza, non avremmo noi forse detto che il cielo era loro aperto? Ma, per giudicar della loro penitenza, mirateli dopo che sono rinvenuti dai pericoli della morte; non sono forse i medesimi di prima, così amanti del mondo, così dissoluti, così maldicenti, così impudici, così vendicativi come erano prima della malattia? Li vediamo forse produrre quei frutti degni di penitenza che avevano promesso, restituire la roba altrui, più assidui all’orazione, più applicati agli esercizi della vita cristiana? Voi medesimi, peccatori che mi ascoltate, che vi siete trovati in rischio di morte, che avete dati allora segni di penitenza, siete voi divenuti migliori? Seguite voi altra strada da quella che seguitavate prima? La vostra condotta prova pur troppo il contrario. – E da questo io conchiudo che quasi tutte le conversioni che si differiscono all’estremo della vita sono conversioni false, o per lo meno molto sospette: e la ragione è, che la conversione del cuore è una grande opera; bisogna, per venirne a capo, passar da un estremo all’altro, da un amor sommo per la creatura ad un amor sommo pel Creatore. Ora il cuore non cangia sì facilmente di disposizione. Voi provate questa difficoltà adesso, che siete padroni di voi medesimi, e che avete tutte le grazie per superarla. Ma ella crescerà molto più alla morte, tempo in cui non sarete più padroni di voi; oppressi dalla violenza della malattia, molestati dalla premura di dar sesto ai vostri affari, voi non potrete applicarvi a dare tutta l’attenzione che richiede l’affare della salute; come potrete voi in quello stato metter ordine ad una coscienza carica di mille iniquità, obbligata a restituzioni, imbrattata da sacrilegi, che convien riparare con un esame generale di tutta la vita, con un’intera dichiarazione di tutti i vostri peccati? Se è cosa difficile il riuscire in un affare di questa importanza ad uno che è in perfetta sanità, a più forte ragione il sarà ad uno che l’imbroglio degli affari mette, per così dire, fuori di sé, cui la malattia toglie talmente la conoscenza e la libertà che appena, per confessione anche degl’infermi, possono essi fare qualche orazione, appena sono capaci di volgersi un istante a Dio. Che accade dunque a questi peccatori moribondi? Chiedono essi a Dio, come Antioco, un perdono che non ottengono, perché non hanno alcun dolore dei loro peccati: credono ricevere i sacramenti per loro salute, ma non li ricevono che per loro condannazione; mentre egli è difficilissimo ben fare una cosa che non si è giammai fatta bene: questi peccatori, durante la vita, non hanno mai avuto dolore dei loro peccati; essi non ne avranno punto alla morte; hanno profanato i sacramenti durante la vita, li profaneranno ancora alla loro morte; essi hanno sempre resistito alle grazie di Dio, non hanno mai avuti che deboli desideri di conversione, non ne avranno alcun altro alla morte, saranno insensibili alle grazie più forti, morranno nell’impenitenza, e dall’impenitenza cadranno negli orrori di una morte eterna: Et in peccato vestro moriemini (Jo. VIII).

Pratiche. Procurate di evitare, fratelli miei, una sì grande disgrazia con una pronta e sincera conversione. Incerti se voi avrete il tempo di fare penitenza, profittate di quello che è a vostra disposizione. Quest’oggi voi avete la grazia, forse domani non l’avrete più. Perché contare sopra una cosa incerta? Si possono forse prendere troppe precauzioni ove si tratta dell’eternità? Avrete voi forse meno ostacoli a vincere domani che non ne avete oggi? Al contrario, più voi differite, più la cosa sarà difficile, e più vi metterete in rischio di non convertirvi giammai. Cominciate dunque fin da quest’oggi, fin da questo momento a lasciar il peccato le occasioni del peccato, a disfarvi di quell’abito malvagio, che vi strascinerà, se non usate diligenza, nell’abisso eterno. – Già da lungo tempo la coscienza vi rimprovera che voi non siete in istato di comparire avanti a Dio; da lungo tempo voi sentite dei rimorsi su certi peccati che non avete dichiarati; il che vi ha renduti fin adesso colpevoli d’un gran numero di sacrilegi. Voi avete già più volte risoluto di rimediarvi con una confessione generale; aspettate forse di farla quando non ne avrete più il tempo? Eh! non differite di mettere la vostra coscienza in riposo, poiché si facilmente lo potete: non aspettate ad un giorno di festa ad accostarvi al tribunale della penitenza; ogni giorno, ogni momento è proprio alla penitenza; cominciate fin da quest’oggi a riformarvi, a cangiar di vita. Chi rubava, non rubi più, dice l’Apostolo; chi si abbandonava all’ubriachezza, all’impurità, alla vendetta, sia casto, sobrio, misericordioso; chi era attaccato ai beni del mondo ne faccia un santo uso, soccorrendo i poveri; che ricercava i piaceri s’interdica tutti quelli che sono vietati e si privi anche qualche volta dei permessi; ciascuno moderi le sue passioni, riduca i suoi sensi in ischiavitù; mentre questo è il dovere della penitenza, riformare l’uomo nel suo interiore e nelle sue azioni, fargli cangiare d’inclinazione e di condotta. Non evvi alcuno che non ritrovi qualche cosa da riformare in sé: quei medesimi che menano una vita molto regolata hanno a correggere certe sensibilità sul punto di onore, certe ricerche dei comodi della vita, delicatezze dell’amor proprio, certi capricci che inquietano altrui, certe negligenze nell’adempiere i loro doveri. In una parola, finché saremo sopra la terra avremo sempre alcuna cosa a riformare, e a questo noi ci adopreremo, o mio Dio, mediante la vostra grazia. Ah! è deciso, dobbiamo dire a noi tutti, già è si lungo tempo, che voi ci avete cercati, che ci stimolate di ritornare a voi, già è sì lungo tempo, che noi resistiamo ai movimenti della vostra grazia; ma noi cediamo finalmente, deponiamo le armi per farvi trionfare dei nostri cuori. Ricevete queste pecorelle smarrite che ritornano a voi, o divino pastore! Giacché voi le avete cercate anche nel tempo che vi fuggivano, qual accoglienza loro non farete quando esse si metteranno sotto la vostra condotta? Ma fate con la vostra grazia, che esse non vi abbandonino giammai, a fine di possedervi durante l’eternità. Così sia.

CREDO …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

 Offertorium

Orémus: Ps IX: 11-12 IX: 13 Sperent in te omnes, qui novérunt nomen tuum, Dómine: quóniam non derelínquis quæréntes te: psállite Dómino, qui hábitat in Sion: quóniam non est oblítus oratiónem páuperum.

[Sperino in te tutti coloro che hanno conosciuto il tuo nome, o Signore: poiché non abbandoni chi ti cerca: cantate lodi al Signore, che àbita in Sion: poiché non ha trascurata la preghiera dei poveri.]

 Secreta

Réspice, Dómine, múnera supplicántis Ecclésiæ: et salúti credéntium perpétua sanctificatióne suménda concéde.

[Guarda, o Signore, ai doni della Chiesa che ti supplica, e con la tua grazia incessante, fa che siano ricevuti per la salvezza dei fedeli.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

 Communio

Luc XV: 10. Dico vobis: gáudium est Angelis Dei super uno peccatóre poeniténtiam agénte.

[Vi dico: che grande gaudio vi è tra gli Angeli per un peccatore che fa penitenza.]

 Postcommunio

Orémus.

Sancta tua nos, Dómine, sumpta vivíficent: et misericórdiæ sempitérnæ praeparent expiátos. [I tuoi santi misteri che abbiamo ricevuto, o Signore, ci vivifichino, e, purgandoci dai nostri falli, ci preparino all’eterna misericordia.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/13/ringraziamento-dopo-la-comunione-1/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

LO SCUDO DELLA FEDE (116)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE PRIMA

CAPO XXVII.

Ragioni che rendono manifesta ad ogni intellettoben disposto l’immortalità dell’ anima umana.

I. Il derivare, qual fonte nato nel fango, da sangue ignobile, è infelicità, non è colpa: onde ciò viene riputato dagli uomini per oggetto di compassione, più che di biasimo. Ma il rinunziare spontaneamente alla nobiltà trasfusaci nelle vene da un eccelso lignaggio non si può udire in chicchessia senza sdegno, mentre ciò è fare come farebbe una fonte, la quale uscita dalle miniere dell’oro per cui passò, corresse a perdersi di voglia sua nella mota. All’istesso modo, l’essere bestia per natura, non è vergogna, dirò cosi, per chi non poteva nascere più che bestia: ma il voler essere bestia per elezione, quando per natura possedevasi un posto poco inferiore a quell’istesso delle intelligenze celesti, oh che vituperio! E pure di questa razza sono coloro, che sostenendo l’anima nostra esser corpo, rinunziano al gran privilegio dell’immortalità, e si recano a gloria di non avere nel nascere e nel morire vantaggio alcuno sulla generazione de’ giumenti: Unus interitus est hominis et iumentorum et æqua utriusque conditio. Similiter spirant omnia, et nihil habet homo iumento amplius (Eccli. 3). Degni, cui sia dato in pena ciocche eglino follemente sperano in sorte, cioè di dovere un dì ritornare all’antico nulla: senonchè più giusta pena sarà per essi il vivere sempre miseri, che il lasciar per sempre di vivere, o così finir le miserie, dalle quali va libero chi non vive.

II. Frattanto a porre maggiormente in chiaro che il loro inganno è più volontario che naturale, esporrò qui brevemente quelle ragioni le quali sono valevoli ad ottenere da ogni intelletto ben disposto una salda credenza della nostra immortalità. E perché nelle battaglie la turba suol essere più d’impedimento al vincere che di aiuto, disporremo il numero degli argomenti in due schiere: l’una conterrà le ragioni fisiche, l’altra conterrà le morali; ed ambedue giunte insieme, saranno, spero, due corpi invitti d’armata a superare ogni dubbio su questa lite, sicché anche in ciò dobbiate usare più di forza a voi stesso per negare di credere, che per credere: se pur non foste ancor voi di coloro che han la mente guernita di ostinazione, cioè di quella maglia che sola è la impenetrabile ad ogni strale di verità.

CAPO XXVIII.

Dalle operazioni intellettive dell’anima ragionevole si fa chiaro ch’ella è immortale.

I . Si può contare tra le più splendide favole degli antichi l’arte di cui si valse già Ulisse per rinvenire Achille travestito, e tramescolato con le donzelle di camera nella corte di Diomede. E fu che penetrando l’accorto capitano fin colà dentro, espose alla pubblica vista di quelle giovani, con ogni guisa di ornamento donnesco, varie armi ancora di lama eletta e di lavoro esquisito: onde correndo a gara tutte le fanciulle a mirare la bizzarria delle vesti, de’ veli e dell’altre nobili gale spiegate in copia, solo un Achille si fermò a far prova dell’arme, ed a maneggiarla, sdegnando il resto. Ora quantunque la poesia vaglia più a ricreare la mente, che ad istruirla, voglio nondimeno che qui ella ci sia maestra del vero o che ci serva, se non altro, di scorta per rinvenirlo, portandoci, su l’allegoria della favola dinanzi addotta, la face innanzi. L’anima umana, confusa fra le sostanze’ corruttibili, e coperta di spoglie anch’esse caduche, rimane sì sconosciuta presso di alcuni, che per poco non la discernono dalle bestie, e ne fanno in cuor loro un’egual ragione. Ma noi, per chiarirci della sua natura, superiore ad ogni essere materiale, andiamo un poco sagacemente indagando qual genio ell’abbia, qual’indole, quale istinto, quale operare: e se in tutto non vedremo tanto di grande, che ci necessiti a giudicarla di condizion trascendente qualunque cosa mortale, io mi contento che qual mortale alla fine la dispregiamo, non meritandosi il vanto d’incorruttibile quel cedro, che, tra noi nato, non ha punto che fare con quei del Libano. Ma s’ella è qual si predica, a che insultarla?

II. Due sono le operazioni proprie dell’anima ragionevole. L’una è l’intendere tutto il vero, e appartiene all’intelletto. L’altra è l’amar tutto il buono, e appartiene alla volontà. Facciamoci dall’intelletto, che in questo cielo domina come il sole: onde egli ci somministrerà tali indizi, che ci apponghiamo : Sol Ubi signa dabit, solem quis dicere falsum audeat? Discorriamo dunque così.

III. E indubitato che un essere meramente corporeo non può operare intorno a un oggetto meramente spirituale, cioè scarico totalmente di ogni materia: perché le cagioni non possono trapassare i confini della loro natura, sicché posseggano una sfera più nobile all’operare di quella che posseggono all’essere: Eo modo aliquid operatur, quo est (S. Th. 1. p. q. 75. art. 1. In.). Ora l’anima umana conosce le cose immateriali, ed intende gli oggetti puramente spirituali, intende le intelligenze intende Iddio. Adunque ne segue che nel suo essere ella sia parimente spirituale, e libera da qualunque materia. Altrimenti che ci potrebbe ella ridire delle cose superiori ai sensi? Nulla più di quello che i sensi ci sappiano ridir delle cose superiori alla loro sfera. Onde come l’occhio non sa mai divisare quel che sia suono, né l’orecchio sa mai discernere quello che sia splendore; così l’intelletto non saprebbe formarsi veruna idea delle cose che non han corpo, s’egli non fosse incorporeo.

IV. Né solamente l’anima sa conoscere gli oggetti spirituali, ma que’ medesimi che sono al tutto sensibili sa ella, dirò così spiritualizzare e spogliar di corpo, considerandoli in universale, e non secondo quell’essere che hanno in sé, ma secondo quell’essere ch’ella dà loro in astratto, cioè con astrarli dalla materia, dal luogo, dal moto, dalla mole, dal tempo e da ogni altra condizione propria dell’individuo. E di tal guisa sono le cognizioni scientifiche, e massimamente le matematiche, e le metafisiche, per cui l’intelletto, assottigliando, e quasi sublimando le cose, e cavandone, per così dire, uno spirito d’intelligenza, si viene a pascere in un puro distillato di verità. Pertanto, se il modo dell’operare segue, come si disse, il modo dell’essere, chi non vede, che quella mente, la quale col suo operare dona all’oggetto un tal essere immateriale, è adorna di un tal essere nel suo fondo, anzi n’è adornissima; mentre, come insegna il filosofo, la potenza sempre è più nobile del suo parto? Faciens est honorabilius facto (L. 3. de an. sext. 1. 9).

V. Aggiungete, che l’anima conosce se medesima ed i suoi atti, e li conosce con una ammirabilissima riflessione, conoscendo infin di conoscere; conosce i suoi pensieri, conosce i suoi proponimenti, conosce i suoi desideri. Onde anche per questo capo debbe ella essere confessata immortale, perché in se stessa ha una sorgente inesausta di verità sicché, come può sempre operare, attingendo nuova acqua di cognizione dalla sua fonte, così può sempre anche vivere. E su ciò appunto i filosofi hanno fondato quel loro celebrato assioma; Omne conversivum supra se est immortale (Auct. 1. de caus.): volendo eglino, che come il moto circolare di sua natura non ha termine, secondo che l’ha il moto retto, così il moto intellettuale delle sostanze che riflettono in se medesime sia perenne: laddove il moto di quelle potenze conoscitive, le quali non si possono riconcentrare in se stesse, soggiaccia al tempo, come vi soggiacciono tutte le potenze brutali.

VI. Senonchè più chiaramente noi possiamo dedurre questa asserzione dalla vastità della sfera, aperta dalla natura alle operazioni dell’anima ragionevole: sfera per poco infinita.

VII. Fra tutte le cose possibili, niuna v’è, che non possa essere oggetto alla mente umana. Anzi qualsisia verità ha per lei gravido il seno di prole numerosissima d’altre verità somigliante; mentre l’anima sa combinare l’una con l’altra, ed ora salire dagli effetti alle cagioni, ora discendere dalle cagioni agli effetti: sa penetrar le cose che sono, e sa discorrere su quelle che ancor non sono: sa fabbricar nuove macchine, sa figurar nuovi mondi, sa fingere nuove idee, senza mai restarsi. Ora chi non iscorge chiaramente in queste operazioni quell’essere illimitato, proprio delle sostanze immaterialissime, che in virtù dell’ampio conoscere vengono poco men che a trasfigurarsi in tutte le cose? Che relazione hanno queste notizie al bene del corpo, mentre anzi son preci che mettono quasi in gara le menti umane colle intelligenze celesti?

VIII. E in queste cognizioni, che nulla giovano ad alcuno de’ sensi, ma son all’anima quasi un mero ornamento, prova ella appunto i suoi maggiori diletti. Archimede nel bagno, arrivando al modo di pesare la lega frammescolata dall’artefice all’oro della corona votiva del re Ierone, concepì tanto giubilo, che uscito quasi di sé, non che da quell’acque, correva ignudo, gridando per le vie pubbliche . che alfin l’avea ritrovata: reperi, reperi (Plut. in Colot.): quasi che cercasse in chi riversare prestamente la piena della sua gioia, tanto era al colmo. Però , se l’anima nelle sue cognizioni non solamente è capace di un tal sollazzo, in cui il corpo ed i sensi non abbiano parte alcuna, ma n’è capace in grado cosi eccessivo, che la cavi estatica quasi dal corpo e da’ sensi; chi non verrà con evidenza a conchiudere, che ella non è adunque immersa nel medesimo corpo, come sostanza materiale ancor essa, ma che sopra lui, e sopra tutti i sensi propri di lui, si solleva qual puro spirito?

II.

IX. Ponete ora al confronto le notizie dei bruti se sì vi aggrada. e i loro piaceri. Le notizie son tanto scarse, che non solamente non eccedono la sfera delle cose sensibili, ma sono ristrette ancora a ciò meramente che serve al corpo, o per mantenimento dell’individuo, o per propagazione al più della specie. Tra le cose ancora sensibili non conoscono mai, se non le particolari che sono in atto: né mai si curano di risaperne in generale l’origine o le occasioni: non giudicando eglino degli oggetti, se non così grossamente, quanto gli apprendono, o come amici della loro natura, o come nemici.

X. E i piaceri poi quali sono? Sono forse quei che procacciava un Caligola al suo palafreno sì caro, quando non pago di avergli formata già la stalla di marmi, la mangiatoia di avorio, e la gualdrappa di ostro più che reale, gli assegnò la sua nobile paggeria, con intendimento di crearlo console, e poco men che collega nel principato? Nulla meno. I piaceri sono que’ soli che con tenuissima rendita possono i bruti spremere dagli esterni due infimi sentimenti, cioè dal tatto e dal gusto. Onde, se quell’imperatore non era imbestialito più ancora della sua bestia, ben potea scorgere, che più di tante burbanze e di tante borie sarebbe ad essa di favore uno staio di biada eletta.

XI. E chi non sa, che dagli altri tre sentimenti più sollevati, cioè dalla vista, dall’udito, dall’odorato, se coglie un bruto qualche fior di sollazzo, non è per altro, se non perché questi sensi gli arrecano qualche novella di un oggetto che sia giocondo, o che sia giovevole agli altri due? Così non gli son graditigli odori, se non in quanto gli danno sentore di cibo, o presente, o prossimo; né gli è gradita la vista delle piagge, de’ prati, o delle foreste, se non in quanto vagliono a ricrearlo coi loro pascoli: e sebben taluno de’ bruti vince gli uomini nella perspicacia del vedere, come il lince; dell’udire, come la lepre; dell’odorare, come il bracco: non ritroverete però mai, che si vaglia di una tal perfezione per nitro fine, che per provvedersi di oggetti confacevoli al corpo, o per iscansare i nocivi. Laddove l’uomo, non solamente è capace di diletti superiori a lutti i sensibili, ma quei medesimi che egli ricoglie da’ sensi, sa indirizzare ad un fine altissimo, d’imparar qualche vero nascosto in essi: facendo però più stima di quei piaceri sensibili che sono più opportuni alle scienze o alle esperienze. E in quegli stessi i quali sono ordinati alla conservazione della vita, ama sposso, più che null’altro. l’invenzione e l’ingegno, come appare chiarissimo ne’ conviti, in cui la minore impresa è talor quella che si appartiene alla gola, in paragone di quella dell’apparato, dell’argenteria, dei trionfi, delle sinfonie, de’ servizi, e dell’ordine dato alle vivande con tanta disposizione, che ornai non meno d’arte ricercasi in uno scalco a schierare un numero senza fine di piatti sopra una mensa, di quella che si richiegga in un capitano a schierare un esercito alla campagna.

XII. Pertanto, dacché i rivi, ridotti in canali stretti, acquistano maggior lena, riduciamo in breve ancora noi tutto l’arrecato fin ora, e diciam cosi. La sustanza ascosta di ogni essere si conosce dalla sua operazione, come la radice dalla pianta per cui fu fatta: e l’operazione dal suo soggetto, come la pianta dal frutto cui fu ordinata. Però, considerando noi l’oggetto proprio delle cognizioni brutali, da una parte sommamente ristretto nella sua sfera, dall’altra parte nella sua sfera stessa nulla fecondo, se non di quei beni che son graditi al gusto per vivere, ed al tatto per generare, dobhiam dedurre, che la sostanza della lor anima stia totalmente immersa nella feccia del corpo, sicché non possa separarsi da questo, senza lasciare subito di operare, e conseguentemente di essere. Per opposito, rimirando noi il modo di operare dell’anima ragionevole, tanto superiore a ciò che giova o gradisce al medesimo corpo dov’ella alberga, siamo costretti a confessare che l’anima sia superiore incomparabilmente al medesimo corpo, sicché né muoia insieme con esso lui, nè sia dominata dal tempo, ma tenga bensì il tempo sotto i suoi piedi per dominarlo »

III.

XIII. E pur mi resta in questo ancora che aggiungere di più forte. Se il corpo muore, è perché fuori di sé ha infiniti contrari che lo combattono; e infiniti hanne ancora dentro di sé, come gli ha qualunque composto. Ma l’anima semplicissima qual può averne? Accoglie in se stessa con somma pace tutti i contrari possibili, conoscendo ad un tempo e vero e falso, e caldo e freddo, e chiaro e fosco, e dolce ed amaro: tanto che questi non solo a lei non apportano male alcuno, ma la avvalorano, rendendola sempre più, qual debb’essere, intelligente. E come dunque ha da morire ancor ella, se niuno può darle morte ? Si ha ella forse ad uccidere da se stessa? Che se i sensi corporei dai loro oggetti i più graditi ricevono ancora danno, quando questi siano eccessivi, accecandosi gli occhi ad un acceso splendore, e assordandosi gli orecchi ad un alto strepito; il solo intelletto dall’eccellenza del buon oggetto riceve maggiori forze, e quanto conosce più, tanto sempre si abilita a più conoscere. Che timor dunque di perire può essere a chi non ha né anche chi lo debiliti? Sic mihi persuasi, etc. (diceva Tullio (De senect.), quantunque per bocca altrui) cum simplex animi natura esset, nec haberet in se quidquam admixtum dispar sui atque dissimile, non posse eum dividi; quod si non possit, non posse inferire. Ragione di tanto peso, che niuno v’ha fra’ teologi, che non l’abbia fatta anch’egli trionfare solennemente nella sua cattedra.