DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE (2020)

DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE (2020)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le letture dell’Ufficio divino che si fanno in questa Domenica sono spesso quelle dei Maccabei (vedi Dom. precedente, pag. 1002). « Antioco, soprannominato Epifane, avendo invaso la Giudea e devastato tutto, dice S. Giovanni Crisostomo, aveva obbligato molti Ebrei a rinunziare alle sante pratiche dei padri loro, ma i Maccabei rimasero costanti e puri in queste prove. Percorrendo tutto il paese, essi riunivano tutti i membri ancora fedeli e integri che incontravano; e di quelli che si erano lasciati abbattere o corrompere, ne riconducevano molti al loro primo stato, esortandoli a ritornare alla fede dei padri loro e rammentando loro che Dio è pieno di indulgenza e di misericordia e che mai rifiuta di accordare la salvezza al pentimento, che ne è il principio. E questa esortazioni facevano sorgere un esercito di uomini più valorosi, che combattevano non tanto per le loro donne, i loro figli, i loro servitori, o per risparmiare al paese la rovina e la schiavitù, quanto per la legge dei padri loro e 1 diritti della nazione. Dio stesso era il loro capo, e perciò, quando in battaglia serravano le file e prodigavano la loro vita, il nemico era messo in fuga: essi stessi fidavano meno nelle loro armi che nella causa che li armava e pensavano che essa sarebbe sufficiente per vincere anche in mancanza di qualunque armatura. Andando al combattimento, non empivano l’aria di vociferazioni e di canti profani come usano fare alcuni popoli: non si trovavano tra loro suonatori di flauto come negli altri campi; ma essi pregavano invece Iddio di mandar loro il suo aiuto dall’alto, di assisterli, di sostenerli, di dar loro man forte, poiché per Lui facevano guerra e combattevano per la sua gloria » (4a Domenica di ottobre Notturno). Dio non considera nel mondo che il suo popolo, Gesù Cristo e la sua Chiesa che sono una cosa sola. Tutto il resto è subordinato a questo. « Dio, che esiste ab æterno e che esisterà per tutti i secoli, è stato per noi, dice il Salmo del Graduale, un rifugio di generazione in generazione» (Introito). «Allorché Israele usci dall’Egitto e la casa di Giacobbe da un popolo barbaro » continua il Salmo dell’Alleluia, Dio consacrò Giuda al suo servizio e stabilì il suo impero in Israele ». Dopo aver mostrato tutti i prodigi, che Dio fece per preservare il suo popolo, il salmista aggiunge: « Il nostro Dio è in cielo, tutto quello che ha voluto, Egli lo ha fatto. La casa di Israele ha sperato nel Signore; Egli è il loro soccorso ed il loro protettore ». Il Salmo del Communio e del Versetto dell’Introito, dice il grido di speranza che le anime giuste innalzano al cielo: « L’anima mia è nell’attesa della tua salvezza, quando farai giustizia dei miei persecutori? Gli empi mi perseguitano, aiutami, Signore mio Dio». «Signore, aggiunge l’Introito, ogni cosa è sottomessa alla tua volontà, poiché tu sei il Creatore e il padrone dell’Universo ». – « Signore, dice ugualmente la Chiesa nell’Orazione di questo giorno, veglia sempre misericordiosamente sulla tua famiglia, affinché essa sia, per mezzo della tua protezione, liberata da ogni avversità e attenda, con la pratica delle opere buone, a glorificare il tuo nome ». Il popolo antico e il popolo nuovo hanno un medesimo scopo, che è la glorificazione di Dio e l’affermazione dei suoi diritti. Tutti e due hanno anche gli stessi avversari, che sono satana e i suoi ministri. La Chiesa, ispirandosi alle Letture del Breviario delle Domeniche precedenti, ricorda oggi gli assalti che Giobbe ebbe da sostenere da parte di satana (Offertorio) e Mardocheo da parte di Aman, che fu calunniatore come il demonio (Introito). Dio liberò questi due giusti, come pure liberò il suo popolo dalla cattività d’Egitto, come venne in aiuto ai Maccabei che combattevano per difendere la sua causa. Cosi pure i Cristiani devono subire gli assalti degli spiriti maligni, poiché i persecutori della Chiesa sono suscitati dal demonio, come quelli del popolo d’Israele nell’antica legge. «Abbiamo da combattere, dice San Paolo, non contro esseri di carne e di sangue, ma contro i principi di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male sparsi nell’aria (Epistola). Come per i Maccabei che, per quanto valorosi, fidavano più in Dio che nelle loro armi, così i mezzi di difesa che devono adoperare i Cristiani sono anzitutto di ordine soprannaturale. « Fortificatevi nel Signore, dice l’Apostolo, e nella sua virtù onnipotente. Rivestitevi dell’armatura di Dio per difendervi dal demonio ». – I soldati romani, servono di esempio al grande Apostolo nella descrizione minuziosa che ci dà della panoplia mistica dei soldati di Cristo. Come armi difensive la Chiesa ha ricevuto nel giorno della Pentecoste, la rettitudine, la giustizia, la pace e la fede; come armi offensive le parole divinamente ispirate dallo Spirito Santo. Ora la parabola che Gesù ci dice nell’Evangelo di questo giorno, riassume tutta la vita cristiana nella pratica della carità, che ci fa agire verso il prossimo come Dio ha agito verso di noi. Egli ci ha perdonato delle gravi colpe: sappiamo a nostra volta perdonare ai nostri fratelli le offese che essi ci fanno e che sono molto meno importanti. Il demonio geloso porta gli uomini ad agire come quel servitore cattivo che prese per la gola il compagno, che gli doveva una somma minima e lo fece mettere in prigione perché non poteva pagare immediatamente. Se anche noi agiremo così, nel giorno del giudizio, cui ci prepara la liturgia di questa Domenica, dicendo: « Il regno dei cieli è simile ad un re che volle farsi rendere i conti dai suoi servi », Dio sarà verso di noi, quali noi saremo stati verso il prossimo. – L’Apostolo parla di una lotta accanita contro i nemici invisibili che ci lanciano dardi infiammati. Il combattimento è terribile e dobbiamo armarci fortemente per poter restare in piedi dopo aver riportata una vittoria completa. Come il soldato, il Cristiano deve avere un largo cinturone, una corazza, dei calzari, uno scudo, un elmo ed una spada.

Mostrarci implacabili per una ingiuria ricevuta, dice s. Girolamo, e rifiutare ogni riconciliazione per una parola amara, non è forse giudicare noi stessi degni della prigione? Iddio ci tratterà secondo le intime disposizioni del nostro cuore: se non perdoniamo, Dio non ci perdonerà. Egli è nostro giudice e non vuole un semplice perdono puramente esteriore. Ognuno deve perdonare a suo fratello « di tutto cuore », se vuol esser perdonato nell’ultimo giorno » (Mattutino).

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Esth. XIII: 9; 10-11
In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, cœlum et terram et univérsa, quæ cœli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es.

[Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, coelum et terram et univérsa, quæ coeli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es.

[Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Oratio

Orémus.

Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut a cunctis adversitátibus, te protegénte, sit líbera, et in bonis áctibus tuo nómini sit devóta.

[Custodisci, Te ne preghiamo, o Signore, con incessante pietà, la tua famiglia: affinché, mediante la tua protezione, sia libera da ogni avversità, e nella pratica delle buone opere sia devota al tuo nome.]

Lectio

Lectio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes VI: 10-17
Fratres: Confortámini in Dómino et in poténtia virtútis ejus. Indúite vos armatúram Dei, ut póssitis stare advérsus insídias diáboli. Quóniam non est nobis colluctátio advérsus carnem et sánguinem: sed advérsus príncipes et potestátes, advérsus mundi rectóres tenebrárum harum, contra spirituália nequítiae, in coeléstibus. Proptérea accípite armatúram Dei, ut póssitis resístere in die malo et in ómnibus perfécti stare. State ergo succíncti lumbos vestros in veritáte, et indúti lorícam justítiæ, et calceáti pedes in præparatióne Evangélii pacis: in ómnibus suméntes scutum fídei, in quo póssitis ómnia tela nequíssimi ígnea exstínguere: et gáleam salútis assúmite: et gládium spíritus, quod est verbum Dei.

“Fratelli, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. Vestite tutta l’armatura di Dio, perché possiate tener fronte alle insidie del demonio; poiché noi non abbiamo a combattere contro la carne ed il sangue, ma sì contro i principati, contro le podestà, contro i reggitori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti malvagi, per i beni celesti. Per questo pigliate l’intera armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio e in ogni cosa trovarvi ritti in piedi. Presentatevi adunque al combattimento cinti di verità i lombi, coperti dell’usbergo della giustizia, calzati i piedi in preparazione dell’Evangelo della pace. Sopra tutto prendete lo scudo della fede, col quale possiate spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Pigliate anche l’elmo della salute e la spada dello spirito, che è la parola di Dio „.

OMELIA I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1920]

LE PASSIONI.

L’Apostolo, riepilogando la sua lettera agli Efesini, viene a parlare della lotta spirituale che devono sostenere contro il demonio. Non è un nemico comune; è un nemico invisibile, e che attacca con insidie. Un motivo di più per armarsi fortemente e star in guardia chi non vuol essere sorpreso e vinto. Le armi non mancano. Come il soldato ha le sue armi per difendersi contro i nemici corporali; così il Cristiano ha le sue armi per difendersi contro i nemici spirituali. Son soprattutto le armi che ci porge la fede. Tutti dobbiamo combattere la nostra battaglia spirituale fin che siamo su questa terra. La lotta contro le passioni, delle quali il demonio si serve per trarci al suo servaggio, è una lotta continua che noi potremo superare,

1. Fortificandoci nel Signore,

2. Stando sempre preparati,

3. Usando le armi che ci porge la fede.

1.

Cercate la forza nel Signore e nella sua potente virtù.

Noi possiamo essere eccellentemente istruiti nella legge del Signore, e con tutto questo non conseguire la vita eterna, data la nostra incapacità a praticare da soli, senza l’aiuto di Dio, quanto dalla legge del Signore è prescritto. Il demonio, che cerca di impedirci il conseguimento della nostra beatitudine eterna, è un nemico che conosce tutte le arti, tutte le astuzie, tutte le insidie. Bisogna che ci affidiamo a chi può rendere vane tutte le arti del demonio, bisogna che ci affidiamo al Signore, cercando la forza in lui. – Se noi potessimo resistere al demonio con le sole nostre forze, sarebbe inutile rivolgerci ogni giorno al Signore con la preghiera che egli stesso ci ha insegnato: «Non c’indurre nella tentazione», cioè, come spiega Sant’Agostino «non permettete che, sottraendoci voi il vostro aiuto, noi cadiamo in essa» (Lett. 157, 5). Noi possiamo fare tutti i proponimenti immaginabili, ma, senza l’aiuto che vien dall’alto, non riusciremo a metterne in pratica alcuno. S. Pietro protesta a Gesù: «Quand’anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò». E lo stesso dicevan tutti gli altri. Qualche ora dopo, al momento della cattura di Gesù «tutti i suoi discepoli lo abbandonarono e fuggirono». S. Pietro, poi, arriva «a imprecare e a giurare di non conoscere Gesù » (Marc. XIV, 31, 50, 71). Poveri proponimenti degli uomini, se non sono avvalorati da Dio. Una nave senza timone e senza timoniere tra cavalloni che s’innalzano, e nulla più, è l’uomo che conta sulle sole proprie forze. Ma se di fianco a noi c’è Dio, tutto il potere dei nemici dell’anima nostra si infrange contro la volontà di Lui. «Alla tua volontà — dice Mardocheo rivolto al Signore — tutte le cose sono sottomesse, e non c’è chi possa resistere alla tua volontà» (Est. XIII, 9). Anche il demonio è sottomesso alla volontà di Dio. e le sue astuzie e le sue insidie non possono passare oltre il confine da Lui segnato. – Se tu sei posto sotto la tutela di Dio. Sfuggirai i lacci che il nemico tende per farti cadere, sarai liberato dalle insidie che il demonio prepara attorno a te per uccidere l’anima tua. «Procederai sopra aspidi e basilischi, e calpesterai leoni e draghi» (Ps. XC, 13), come dice il salmista. Egli che può renderti innocui gli animali più feroci e velenosi, al punto che tu potresti passare incolume sul loro capo, può liberarti anche dagli assalti delle passioni, che cercano farti loro preda, può rendere innocuo il serpente infernale che non cessa un momento dal tentativo di avvelenare, con il suo alito pestifero, le anime redente. «Quegli che un giorno ha vinto la morte per noi, vince sempre in noi» (S. Cipriano Epist. 8, 3. ad Mart. et Conf.).

2.

L’Apostolo, dopo averci indicato il primo mezzo, mezzo assolutamente indispensabile, per vincere gli assalti del demonio e delle passioni, il ricorso a Dio; passa a parlare degli altri mezzi spirituali, che egli paragona alle parti dell’armatura del soldato romano. Rivestitevi dell’armatura di Dio. Armatevi da capo a piedi delle armi spirituali, affinché non siate presi all’improvviso dagli assalti del nemico. – I colpi improvvisi, se ben preparati, sono quelli che riescono meglio. I posti militari, presi all’improvviso dagli assalti di schiere ben guidate, finiscono quasi sempre col venire abbandonati dai difensori. Se non vogliamo venir travolti da qualche assalto, che le passioni ci facciano di sorpresa, bisogna stare continuamente all’erta, essere sempre pronti a respingere il primo attacco. In guerra si contrappone arma ad arma, sistema a sistema. Sistema del demonio è non dormire mai per poter cogliere il momento più propizio di muovere all’assalto. Sistema di difesa è quello di non lasciarsi cogliere nel sonno. Perciò S. Pietro, parlando appunto del demonio, che non si prende un momento solo di requie, esorta: «State raccolti, vigilate» (I Piet.: V, 8). Se ci dimentichiamo che le tentazioni possono svegliarsi quando meno lo pensiamo, verremo colti certamente di sorpresa; ci troveremo come disorientati, e difficilmente resisteremo. Non bisogna meravigliarsi, di nessun assalto. Furono tentati santi e sante di ogni età e condizione; non vorremo aver la pretesa d’esser solamente noi a sfuggire agli assalti delle passioni. Se ci meravigliamo, e, conseguentemente, ci turbiamo, le passioni non tarderanno a scuoterci, e a farci perdere terreno. Forti e sereni nella fiducia in Dio non titubiamo un momento, non cediamo in nulla. Se tu non rintuzzi con energia i primi attacchi, la passione diventerà più gagliarda, e a te verran meno a poco a poco le forze per resistere. In breve ti troverai lontano da Dio e assoggettato a satana, del quale prima avevi tanto orrore. Guardati dal primo errore. E primo errore, seguito da altri più gravi, è appunto il non combattere con energia e risolutezza la tentazione ai primi assalti. – Non bisogna neppur meravigliarsi se si risvegliano passioni che si credevano assopite. «Credetemi — dice S. Bernardo — tagliate, rigermogliano; scacciate, ritornano; estinte, si riaccendono; sopite si risvegliano… In tale cimento si può consigliar una cosa sola: osservare attentamente, e con pronta severità tagliare il capo delle rinascenti passioni appena spuntano» (In Cant. Cant. Serm. 58, 10). Stiam sempre preparati anche nei momenti di tregua, «poiché — osserva il Crisostomo — chi si preoccupa di combattimento durante la pace, in tempo di combattimento sarà terribile » (In Ep. 1 ad Tess. Hom. 3, 4).

3.

Soprattutto prendete lo scudo della fede.

Lo scudo della fede, con cui S. Paolo vuole che ci armiamo nel combattimento spirituale, è difesa efficacissima contro gli assalti delle passioni di qualunque genere. La fede p. e. insegna che i Cristiani sono «concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ephes. II, 19). La loro vita deve, necessariamente, essere una vita di santità, che ha nulla a che fare con la vita di coloro che vivono lontani dal Signore. Il Cristiano, entrando con il Battesimo a far parte della famiglia di Dio, «l’ha fatta finita con il peccato per non servire alle umane passioni, ma alla volontà di Dio quel tempo che gli resta a vivere nella carne. (I Piet. IV, 2). Se nel momento della tentazione il Cristiano si ricordasse della sua dignità, degli obblighi che essa importa, della rinuncia fatta al peccato, non resterebbe facilmente vittima delle arti dello spirito maligno. – Il Beato Giuseppe Chang, martire cinese, viene esortato dai suoi nipoti a rinnegare la fede cattolica. Per smuoverlo dalla sua fermezza gli offrono una rilevante somma di danaro. «Ti offriamo mille taels d’argento — gli dicono — affinché possa vivere onestamente gli anni che ti restano». — «Perché, rispose il martire, accetterò io questo danaro? Che vantaggio me ne viene?» (C. Salotti: “I nuovi martiri annamiti e cinesi”. Roma, 1909). È la domanda che dovrebbe farsi ciascuno, quando si sente lusingare dalle passioni: Che vantaggio me ne viene? Il piacere che se ne spera è più immaginario che reale. Nulla è più certo delle pene che i piaceri ci fanno soffrire, e nulla è più incostante e misero del godimento che ci fanno sperare. Così potrebbe rispondere l’esperienza. La fede aggiunge un’altra risposta: Il vantaggio che ne avrai sono gli eterni tormenti. E «Chi di voi potrà abitare con un fuoco divoratore? Chi di voi abiterà tra gli ardori sempiterni?» (Isa. XXXIII, 14). – La fede c’insegna che Dio è dappertutto. Nessuno può dire : Mi nasconderò all’occhio di Dio, ed egli non conoscerà le mie opere. «Gli occhi di Dio sono molto più luminosi del sole; sorvegliano d’intorno tutte le vie degli uomini e la profondità degli abissi e penetrano nel cuor dell’uomo fino nei luoghi più riposti» (Eccli. XXIII, 28). Gli occhi di Dio vedono e contemplano il tuo contegno nella lotta contro le passioni, e intanto le sue mani intessono per te una corona.,, se sarai costante. In parecchi monumenti che si innalzano in memoria dei caduti in guerra è rappresentata la vittoria in atto di porgere la corona, o altro simbolo di gloria, a coloro che hanno lottato fino al trionfo. La corona che Dio prepara a quei che vincono nelle lotte spirituali val ben di più che un semplice simbolo. Dio, con la sua presenza, incoraggia chi lotta additandogli la corona del paradiso: «Al vincitore io darò la manna nascosta», (Apoc. II, 17) cioè il cibo dell’eterna beatitudine. Non dimentichiamo mai che Dio è sempre presente. «Solo così persevereremo senza cadere, se terremo sempre in mente che ci è vicino Dio».

Graduale

Ps LXXXIX: 1-2
Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie.
V. Priúsquam montes fíerent aut formarétur terra et orbis: a saeculo et usque in sæculum tu es, Deus.

[O Signore, Tu sei il nostro rifugio: di generazione in generazione.
V. Prima che i monti fossero, o che si formasse il mondo e la terra: da tutta l’eternità e sino alla fine]

ALLELUJA

Allelúja, allelúja Ps 113: 1
In éxitu Israël de Ægýpto, domus Jacob de pópulo bárbaro. Allelúja.

[Quando Israele uscí dall’Egitto, e la casa di Giacobbe dal popolo straniero. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XVIII: 23-35
In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Assimilátum est regnum cœlórum hómini regi, qui vóluit ratiónem pónere cum servis suis. Et cum cœpísset ratiónem pónere, oblátus est ei unus, qui debébat ei decem mília talénta. Cum autem non habéret, unde rédderet, jussit eum dóminus ejus venúmdari et uxórem ejus et fílios et ómnia, quæ habébat, et reddi. Prócidens autem servus ille, orábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Misértus autem dóminus servi illíus, dimísit eum et débitum dimísit ei. Egréssus autem servus ille, invénit unum de consérvis suis, qui debébat ei centum denários: et tenens suffocábat eum, dicens: Redde, quod debes. Et prócidens consérvus ejus, rogábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Ille autem nóluit: sed ábiit, et misit eum in cárcerem, donec rédderet débitum. Vidéntes autem consérvi ejus, quæ fiébant, contristáti sunt valde: et venérunt et narravérunt dómino suo ómnia, quæ facta fúerant. Tunc vocávit illum dóminus suus: et ait illi: Serve nequam, omne débitum dimísi tibi, quóniam rogásti me: nonne ergo opórtuit et te miseréri consérvi tui, sicut et ego tui misértus sum? Et irátus dóminus ejus, trádidit eum tortóribus, quoadúsque rédderet univérsum débitum. Sic et Pater meus cœléstis fáciet vobis, si non remiséritis unusquísque fratri suo de córdibus vestris.

“Il regno dei cieli è assomigliato ad un re il quale volle trarre i conti con i suoi servi. E avendo cominciato a fare i conti, gli fu presentato uno che era debitore di diecimila talenti. E non avendo egli da pagare, il suo padrone comandò ch’egli, la sua moglie e i suoi figliuoli e tutto quanto aveva fosse venduto, e così fosse pagato. Allora quel servo cadendo a terra, si buttò davanti a lui, dicendo: Deh! abbi pazienza verso di me, e ti pagherò tutto. E il padrone impietosito di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Ora quel servo, uscito fuori, trovò uno de’ suoi conservi, il quale gli  doveva cento danari, ed afferratolo, lo strangolava, dicendo: Pagami ciò che mi devi! E quel suo conservo, cadendo in terra, lo pregava, dicendo: Abbi pazienza verso di me, ed io ti pagherò tutto. Ma colui non volle; anzi andò e lo cacciò in prigione finché avesse pagato il suo debito. Ora i conservi di lui, veduto il fatto, ne furono grandemente rattristati, e vennero al padrone e gli narrarono tutto il fatto. Allora Il signore lo chiamò a sé e gli disse: Servo malvagio! io ti condonai tutto quel debito, perché tu me ne avevi pregato. E non era dunque giusto che tu avessi pietà del tuo conservo, com’io ancora aveva avuto pietà di te? E adirato il suo padrone, lo diede in mano ai carcerieri infino a tanto che avesse pagato tutto il debito. Così farà ancora il Padre mio celeste con voi, se non rimetterete di cuore ciascuno al proprio fratello i falli suoi „

OMELIA II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra l’amor de’ nemici.

Sic pater meus cœlestis faciet vobis, si non remiseritis unusquisque fratri suo de cordibus vestris. Matth. XVIII.

Non è dunque, fratelli miei, un semplice consiglio che Gesù Cristo ci dà di perdonare le ingiurie; ma un precetto che obbliga con tutto il rigore; del che è facile convincersi coll’applicazione della parabola riferita nell’odierno Vangelo. Un re che voleva far render conto ai suoi servi ne ritrovò uno che gli doveva diecimila talenti. E siccome quest’uomo non aveva onde pagare, il re comandò che fosse venduto con la moglie, con i figliuoli e tutti i suoi beni per soddisfare quel debito: si getta questo servo a’ piedi del suo padrone, gli chiede tempo e gli promette di fare quanto potrà per soddisfarlo. Mosso da compassione, il padrone gli accorda di più della sua domanda e gli rimette interamente il suo debito. Tanta carità doveva senza dubbio istruire questo servo infedele; ma no; trova egli uno di coloro che con lui servivano, il quale gli doveva cento danari ed afferrandolo gli chiede con estremo rigore quello che gli è dovuto. Si getta questi ai suoi piedi per domandargli tempo, ma l’altro gliene ricusa e lo fa mettere in prigione sinché l’abbia pagato. In formato il padrone della condotta di quel ribaldo servo, lo chiamò a sé e gli disse: Commosso dalle tue preghiere, ti ho rimesso lutto il tuo debito: non conveniva egli che tu pure avessi pietà del tuo compagno, siccome io l’ho di te avuta? Ciò detto, lo consegnò ai carnefici per tormentarlo sintantoché avesse pagato quanto gli doveva. – Niuno è tra voi, fratelli miei, il quale sdegnato non sia della condotta di quell’uomo, e che non approvi la sentenza di condannazione contro di lui portata: ma non riconoscete voi in questo il vostro ritratto, e non dovete rivolgere contro voi medesimi tutto il vostro sdegno? Non siete voi forse infatti quel servo ingrato che con un’infinità di peccati avete contratto col Re dei re un debito che non potreste giammai esattamente pagare? Voi gli avete domandata grazia, ed Egli ve l’ha infinite volte accordata; e voi non volete perdonare un’offesa leggiera che un vostro fratello vi ha fatta? Ma che dice Gesù Cristo al fine della sua parabola: Voi avete veduto come questo ribaldo servo è stato trattato dal suo padrone, ed in simil guisa vi tratterà il mio Padre celeste, se voi non perdonate al vostro fratello con tutto il vostro cuore: Sic Pater meus cœlestis faciet vobis, si non remiseritis unusquisque fratri suo de cordibus vestris. Non solamente dunque è nostro dovere di perdonar le ingiurie, ma è ancora nostro interesse. Con tutto ciò si può dire che questa legge è una delle più mal osservate tra gli uomini. Nulla di più importante che l’obbligo di perdonar le ingiurie, di amare i suoi nemici, primo punto; nulla di più vano che i pretesti che si allegano per esentarsene, secondo punto.

1. Punto. Un obbligo fondato sopra un comando che Dio ci fa, sopra l’esempio che ci dà Gesù Cristo e sul nostro proprio interesse, deve senza dubbio essere riguardato come un obbligo molto importante: tale è quello di perdonar le ingiurie, di amare i suoi nemici. Sì, fratelli miei, Dio ci fa un comando di amare i nostri nemici, comando il più giusto ed il più utile al bene della società: Ego autem dico vobis; diligite inimicos vestros (Matt.V). Sono queste parole di Gesù Cristo medesimo: quanto a me Io vi dico, amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano: Benefacite his qui oderunt vos. Voi avete creduto sino al presente, diceva ai Giudei questo divin Salvatore, per una falsa tradizione che viene dai vostri padri, che bastava amar coloro che vi amavano e che potevate odiare quelli che vi odiavano; ma Io vi dico, Io vi comando di amare i vostri nemici: Ego autem etc. Pesate ben bene, fratelli miei, la forza di queste parole: Ego , cioè Io che sono vostro Signore vostro re, vostro Dio, Io da cui dipendete in tutte le cose; Io da cui voi avete tutto a sperare e tutto a temere: Io non vi prego, non vi consiglio solamente, ma vi comando di volere e di fare del bene ai vostri nemici: Ego autem. Se fosse un grande del mondo, un re della terra, che v’intimasse su di ciò i suoi ordini, voi potreste dire che non si estende sin là il suo potere; ma potete voi ricusare di ubbidire a me, che sono vostro Dio, da cui avete ricevuto l’essere, che ha diritto su tutti i movimenti del vostro cuore, che può non solamente perdere il vostro corpo ma ancora la vostr’anima per sempre? Ego autem, etc. Iddio, fratelli miei, ha talmente a cuore l’osservanza di questo precetto che rigetta qualunque sacrificio, se non si rinuncia alla vendetta; mentre se voi offrite il vostro dono all’altare, dice Gesù Cristo, e vi sovvenga che vostro fratello ha qualche cosa contro di voi, lasciate ivi la vostr’offerta ed andate prima a riconciliarvi con lui, perché io preferisco la misericordia a questo sacrifizio: Vade prius reconciliari fratri tuo (Matth. 5). Vale a dire, invano vi risolvereste a far tutto il bene possibile, facendo tutte le buone opere che dipendono da voi, pregare, digiunare, mortificarvi con tutti i rigori della penitenza, arricchire gli altari con le vostre offerte, sovvenire i poveri con le vostre limosine, abbandonar i vostri corpi sino a soffrire il martirio: se voi conservate nel vostro cuore qualche rancore contro il vostro prossimo, se non vi riconciliate con quella persona con cui siete sdegnati, tutte le vostre mortificazioni, il martirio medesimo a nulla si servirebbe: e perché mai? Perché mancate ad un punto essenziale della legge, non avete la carità, che d’essa è la pienezza e senza di cui tutto il restante è un nulla: Si charitatem non habuero, nihil sum (1 Cor. XIII). Si può, fratelli miei, non deplorare a questo proposito la sorte di un’infinità di Cristiani che menano peraltro una vita assai regolata, che fanno molte buone opere, s’accostano ai sacramenti, frequentano le chiese, sono aggregati a pie società, e che conservano, contro il loro prossimo dei risentimenti che non vogliono soffocare, che perseverano ostinatamente in una rea indifferenza per certe persone che han fatto loro qualche scortesia o che loro dispiacciono? Oh quante preghiere inutili! Quante buone opere perdute! Quanti sacramenti profanati! Oh quanto resteranno ingannati all’ora della morte, dopo aver tanto faticato, di non ricevere alcuna ricompensa dei loro pretesi meriti, perché non avranno soddisfatto ad un comando il cui adempimento fa la perfezione del Cristianesimo ed uno dei caratteri più distintivi del Cristiano. – Infatti, fratelli miei, siccome non apparteneva che a Dio il farci un simile comando, così non apparteneva che all’uomo cristiano l’eseguirlo; mentre limitare la sua virtù ad amar coloro che ci amano, a far del bene a coloro che ce ne fanno, che cosa è fare di più, dice Gesù Cristo, di quel che fanno i pagani? Converrebbe non esser uomo per esser insensibile all’amicizia ed ai benefizi; voi siete Cristiano ed in questa qualità siete i figliuoli del Padre celeste, che fa nascere il suo sole anche sopra i malvagi; affinché dunque voi siate perfetti, come perfetto è il vostro Padre celeste, non dovete contentarvi di amar coloro che vi amano, di far del bene a coloro che ve ne fanno; voi dovete ancora amar coloro che vi odiano, far del bene a quelli che vi fan del male: Benefacite his qui oderunt vos. Nulla di più giusto, fratelli miei, che questo comandamento, poiché egli viene da un Dio che ha ogni autorità su di voi e che può disporre di voi; ma nulla altresì che meglio provi la saviezza della provvidenza. Dall’osservanza di questa legge dipende la pace ed il buon ordine che deve regnare nel mondo; mentre se la vendetta fosse permessa, che diverrebbe la società? Sensibili come noi siamo e ripieni dell’amore di noi medesimi, il mondo non sarebbe più che un teatro sanguinoso di guerre, di stragi e di uccisioni; chiunque si crede offeso, fulminerebbe egli medesimo i suoi decreti contro il colpevole; ed a quali estremi non si porterebbe mai il furore dei vendicativi contro quei medesimi che li avrebbero senza intenzione offesi? Chi può lusingarsi di non dare giammai il suo prossimo motivo di dispiacere? Converrebbe per conseguenza rinunciare ad ogni commercio con gli uomini ed abitare con le bestie nei deserti: dunque con altrettanta sapienza che equità, Dio col comando che ci fa di perdonar le ingiurie, di amare i nostri nemici, ha voluto opporre un argine alle passioni del cuore umano. Possiamo dopo questo, o mio Dio, lamentarci di una legge così saggia e così giusta, che procura la pubblica tranquillità, principalmente se facciamo attenzione che voi ne avete spianate le difficoltà coll’esempio, che ci avete dato di fare quel che ci comandate? No, fratelli miei, non solamente con le parole, ma ancora coll’esempio, Gesù Cristo ci ha insegnato il perdono delle ingiurie, l’amore dei nemici: per poco di cognizione che voi abbiate della vita che questo Dio salvatore ha menata sulla terza, potete voi ignorare con qual dispregio egli è stato trattato, quali atroci affronti ha sofferti, di quanti obbrobri è stato satollato? Come si è vendicato degli oltraggi dei suoi nemici? Sempre coi benefizi: Egli ha renduta la vista ai ciechi, l’udito ai sordi, la parola ai muti, Egli guariva gl’infermi di una nazione la quale non cercava che di distruggerlo. Che rispondeva Egli alle accuse che facevansi contro di Lui avanti ai tribunali, ove era trattato da malfattore, da scellerato? Egli osservava il silenzio, dice il Vangelo: Jesus autem tacebat (Matth. XXVI). Oh quanto è mai eloquente, fratelli miei, il silenzio di Gesù Cristo! Che bella istruzione si è per voi! Quando vi trattano con dispregio, quando vi opprimono d’ingiurie, ricordatevi allora del silenzio di quest’uomo di dolore ed osservatelo al par di Lui: Jesus autem tacebat. Con qual pazienza ricevette Egli nella casa del pontefice l’oltraggio più umiliante con uno schiaffo onde fu percossa l’adorabile sua faccia? Qual fu allora il suo contegno? Egli non aveva che a parlare, ed il perfido autore di un’azione sì detestabile sarebbe precipitato nel profondo dell’abisso: ma si contenta di dirgli: Se io ho parlato male rendete testimonianza del male che ho detto; ma se ho parlato bene, perché mi battete? Oh pazienza di un Dio! Quanto siete capace di confondere, di arrestare i trasporti della vendetta! Che avreste voi fatto in simile occasione, o vendicativi, se aveste avuto il potere di Gesù Cristo, voi che vi date tanto movimento per aver soddisfazione di un insulto molto meno considerabile di quello che Egli ricevette? Ma per confondervi ancora di più, trasportatevi in ispirito sul Calvario per udire le ultime parole di un Dio agonizzante su d’una croce. Di già è Egli spossato affatto di forze per l’effusione del suo sangue. Egli non ha più che un momento a vivere, ed impiega questo momento e fa l’ultimo sforzo per indirizzare a suo Padre una preghiera. Ma qual preghiera! Ella è forse per sollecitare la condanna de’ suoi carnefici? No, fratelli miei, ma per domandar grazia in loro favore. Eterno Padre, dice Egli, esaudite i voti di un Figlio moribondo che vi prega di perdonar ai suoi nemici. Benché degni siano questi scellerati di provare tutto il rigore dell’ira vostra pel deicidio di cui si rendono colpevoli, dimenticate i loro misfatti e fate loro sentire soltanto le dolcezze della vostra misericordia: Pater ignosce illis (Jo. XXIII). Che dite a questo esempio, vendicativi? Non sarà egli capace di calmare le vostre amarezze, di reprimere i movimenti della vostra vendetta? Nel mentre che un Dio onnipotente, che può in un istante schiacciare coloro che lo perseguitano, diventa loro protettore, voi vermi di terra, cenere e polvere, peccatori sciagurati, voi volete vendicarvi? Ah! meritate voi forse il nome di Cristiani e di discepoli del Dio delle misericordie? Invano direte voi che Gesù Cristo era Dio e che poteva benissimo soffrire gli oltraggi de’ suoi nemici; ma Egli era uomo, ed in questa qualità eravi tanto più sensibile, quanto che non li aveva in alcun modo meritati. – Ma volete voi degli esempi più proporzionati alla vostra debolezza? Mirate un s. Stefano, il primo de’ martiri, assalito da una tempesta di pietre che i suoi nemici gettano su di lui; egli piega le ginocchia per chieder a Dio di non imputar loro questo peccato: Domine, ne statuas illis hoc peccatum. Mirate innumerabili martiri, che abbracciano i loro carnefici, loro perdonano la propria morte e pregano per essi; si è con questa eroica carità che fanno conoscere agli idolatri la verità della nostra santa religione e che li attirano nel suo seno; perciocché non vi è che una Religione del tutto divina, per testimonianza dei pagani medesimi, la quale possa persuadere un’azione cosi eroica come il perdono delle ingiurie. È forse per questo mezzo, fratelli miei, che voi rendereste al giorno d’oggi testimonianza alla vostra Religione? Oimè! i vostri odi, le vostre vendette, le vostre dissensioni non sarebbero esse piuttosto capaci di allontanarne coloro che vorrebbero abbracciarla? Ma che risponderete voi avanti a Dio all’esempio dei santi? Potete voi scusare la vostra vendetta, come pretendete adesso, sull’atrocità dell’ingiuria che avete ricevuta? Ma avete voi resistito come essi, sino a spargere il vostro sangue? Paragonate i malvagi trattamenti di cui vi lamentate con quelli che essi hanno tollerati; imponete silenzio ad una natura troppo sensibile, di cui voi ascoltate la voce piuttosto che quella della vostra Religione. Ma, miei cari uditori, io ho qualche cosa di più convincente ancora a proporvi: la salute è di tutti gli affari quello che più merita le nostre sollecitudini: or la fede c’insegna che la nostra riprovazione è inseparabile dall’odio che noi conserviamo per li nostri nemici. Per esser salvo, bisogna ottenere il perdono dei propri peccati; ora il perdonare ai nemici è l’unica via che ci può far trovar grazia presso di Dio. Il Vangelo è chiaro su di ciò: perdonate, dice egli, e vi si perdonerà: Dimettite, et dimittemini (Luc. VI). Volete voi esser trattati con misericordia? Trattate gli altri nello stesso modo, perché sarete misurati con la medesima misura con cui avrete misurati gli altri; sono questi gli oracoli di Gesù Cristo; la stessa verità, che non ammette alcun dubbio e che non può mancare del suo adempimento. Voi avete, fratelli miei, infinite volte offeso, oltraggiato il vostro Dio; voi gliene domandate ogni giorno perdono; Egli ve l’accorderà, ma a condizione che perdonerete voi medesimi a chi vi ha offeso. A voi tocca decidere della vostra sorte: perdonate e siete sicuri di ottenere il vostro perdono. Poiché, quando voi avrete perdonato, potrete dire a Dio: Signore, io ho fatto quel che mi avete domandato; io ho adempiuta la condizione cui avete annesso il mio perdono; permettetemi di esigere il mantenimento della vostra parola: voi avete detto che fareste misericordia a chi la farebbe; io son certo della sincerità, delle vostre promesse, dunque io posso riguardare la mia riconciliazione come certa e sicura. Qual motivo di consolazione, poter esser certi, quanto possiamo esserlo in questa vita, che siamo in grazia con Dio, che portiamo un segno di predestinazione che ci dà diritto al suo regno! Ecco, fratelli miei, il gran vantaggio che si trova nel perdonar le ingiurie. A che pensate voi dunque, vendicativi, che ricusateci seguire una massima sì saggia in sé stessa e vantaggiosa nei suoi effetti? Voi sapete che non otterrete misericordia se non in quanto voi l’avrete fatta agli altri, e non volete esercitare questa virtù verso colui che vi ha offeso? Rinunciate dunque ad ogni speranza di perdono o di salute eterna: simili al servo del Vangelo, i debiti che il prossimo ha contratti con voi non possono paragonarsi a quello di cui voi siete debitori alla giustizia di Dio. Tuttavia, sebbene numerose e gravi siano le vostre offese, sebbene abbiate voi contratto un gran numero di debiti, Dio vuole benissimo cedere i suoi diritti, purché voi cediate i vostri riguardo al vostro prossimo; ma voi ricusate simili proposizioni, voi volete profittare della superiorità che avete su di lui per appagare il vostro odio ed il vostro furore? E bene, vendicatevi, fate sentire al vostro nemico tutta la vivacità del vostro sdegno; ma sappiate che Dio vi tratterà senza misericordia, come voi avete trattato il vostro fratello: Sic Pater meus cœlestis faciet vobis (Matth. XVIII). Non recitate dunque più una preghiera, che non potete dire senza pronunciare la sentenza di vostra condannazione. Iddio esaudendovi per vostra disgrazia, vi dirà: Voi m’avete domandato di perdonarvi, come voi perdonavate a coloro che vi avevano offeso; Io vi giudico da voi medesimi: voi medesimi mi avete dettata la sentenza che proferisco: giacché non avete fatta misericordia, non avete a sperarne da me: De ore tuo te indico (Luc. XIX). Vale dunque a dire che quando fate a Dio questa preghiera, voi gli dite: Signore, io rinuncio alla vostr’amicizia, alla mia felicità eterna, io eleggo l’inferno per mia porzione. Oh crudele vendetta! molto più nocevole all’uomo che tutte le disgrazie, le calamità della vita, che tutti i cattivi trattamenti dei suoi nemici! Tutti gli uomini insieme potrebbero forse portargli colpi cosi funesti come porta egli a sé stesso, poiché perde la sua anima per sempre, e durante l’eternità porterà il peso delle vendette del Signore? Ah! fratelli miei, se voi volete vendicarvi d’un nemico, si è contro la vostra vendetta ed il vostro sdegno che dovete armarvi, dice s. Agostino; egli è il più gran nemico che voi abbiate; vendicatevi di questo nemico con la clemenza e con la mansuetudine; questa vittoria vi guadagnerà il cuore di Dio e sarà coronata d’una gloria eterna.

SECONDO PUNTO PER UN SECONDO DISCORSO

Sopra l’amore dei nemici.

Ego autem dico vobis, diligite inimicos vestros.

– Matth. V-

Io vi ho fatto vedere, fratelli miei, nella precedente istruzione l’obbligo indispensabile che noi abbiamo di perdonar le ingiurie di amare i nostri nemici. Obbligo fondato sul comando che ce ne fa Iddio, sull’esempi o che ce ne dà Gesù Cristo e sul nostro proprio interesse. Contuttociò, benché forti siano questi motivi per ogni uomo cristiano, benché questo precetto sia uno dei più positivi e dei più precisi che siano nel Vangelo, può dirsi che non ve n’è alcuno più combattuto dall’amor proprio e contro di cui si trovino più pretesti. Gli uni, e sono i vendicativi, cercano di scuotere interamente il giogo della fede, non vogliono perdonare, ma render male per male, e non allegano per giustificare le loro vendette che ragioni le quali ne provano piuttosto l’ingiustizia. Gli altri, e sono gli indifferenti, vorrebbero raddolcire il giogo della legge, conciliarla con le loro passioni, perdonare ai loro nemici, ma si persuadono che non sono obbligati né di amarli né di far loro del bene: ragioni vane, di cui noi dimostreremo la frivolezza in due riflessioni che divideranno questo discorso. Quali sono i precetti su cui i vendicativi appoggiano la loro vendetta? 1. Si è la difficoltà di perdonare un’ingiuria, principalmente quando è atroce; il che è impossibile alla natura: 2. Si è un punto d’onore che convien sostenere o vendicare: 3. E lo zelo che bisogna avere per reprimere il vizio, a fine di correggere i malvagi: 4. La facilità che dassi ad un nemico di fare nuovi insulti: 5. Siamo stati offesi i primi, non dobbiamo accordar il perdono se non ci è domandato.

Primo pretesto: La difficoltà di perdonar un’ingiuria principalmente quando è atroce. Come, dice taluno, si può amar colui che ci odia e ci perseguita, che s’impadronisce dei nostri beni, lacera la nostra riputazione, ci minaccia della morte; ah! questo è molto duro: Durus est hic sermo. Chi mai, chi può riportare su di sé una simil vittoria? Bisogna essere insensibile, non essere uomo, per non vendicarsi. No, fratelli miei, Dio non vi comanda di esser insensibili; la religione non distrugge i sentimenti della natura, ma li reprime e li corregge. Essa vi permette le sensibilità, ma vi proibisce di seguirne i moti. Iddio nulla chiede d’impossibile: Egli vi comanda di soffocare ogni sentimento di vendetta e di perdonare al vostro nemico. Questo è dunque in vostro potere; la pratica è difficile, lo confesso; ma evvi forse del merito dove non v’è violenza a farsi? Tutte le virtù cristiane non hanno forse la loro difficoltà? Questa è una delle più grandi, lo so, perché le ripugnanze dell’amor proprio non vi sono punto ascoltate, e bisogna esser animato da un grande amor di Dio per fare un simil sacrificio; ma voi lo sapete, fratelli miei, il cielo non si guadagna che con violenza, e coloro che riportano la corona non l’ottengono che a questo titolo; egli è duro di perdonare, ma sarà molto più duro essere dannato: funesta alternativa, di cui nulladimeno voi dovete esser certi. Inoltre, fratelli miei, la cosa non è già sì diffìcile, come voi ve l’immaginate ; egli è sovente più difficile il vendicarsi che il perdonare: per perdonare, basta volerlo; e quanto non costa mai per soddisfare la sua vendetta? A che noi non ci esponiamo? Quale incertezza sull’esito dei mezzi che per un tal fine si prendono! Qual timore di trovare della resistenza in un nemico che trova sempre l’occasione di nuocere ad un avversario che si vendica! laddove perdonando ci procuriamo la pace dell’anima; pace soave che sola sulla terra è il principio e l’origine della nostra felicità. Egli è dunque molto più dolce il perdonare che il vendicarsi d’un’ingiuria, per quanto possa ella essere atroce.

Secondo pretesto. Ma vi va del mio onore, dice il vendicativo. Per chi sarò io tenuto nel mondo? Mi prenderanno per un vile e codardo, e diverrei l’oggetto del dispregio e dei motteggi degli uomini, se altri mi offendesse impunemente; inoltre il mio onore è offeso nell’ingiuria ch’egli mi ha fatta; egli ha oscurata la mia riputazione con nere calunnie: non sono io dunque in diritto di procurare con una vendetta proporzionata la restituzione di un bene di cui Dio mi ha confidata la cura? Così parla il mondo, ed il suo linguaggio è pur troppo sovente ascoltato, con dispregio di quello che ci tiene la Religione. Ma qual dei due deve vincerla sull’altro, la passione che chiede la vendetta, o la Religione che comanda il perdono? Chi dobbiamo più ascoltare, il mondo, da cui nulla abbiamo ad aspettare, o Dio, da cui abbiamo tutto a temere e tutto a sperare? Il mondo dice: convien vendicarsi, e Dio prescrive di perdonare. Amate voi Meglio incorrere la disgrazia di Dio, piacere al mondo che dispiacere al mondo per aver l’amicizia di Dio? Se è il mondo che dee rendervi felici, ascoltatelo pure, ve lo permetto; ma se è Dio solo da cui dipendete in ogni cosa e che deve fare la vostra felicità eterna, potete voi esistere di ubbidirgli? Dica il mondo quel che verrà. Dio vuole che voi perdoniate ; non vi è intelletto umano che non debba cedere ad una sì rispettabile autorità: ci va della vostra salute nel perdono che dovete accordare ad un nemico; la salute non deve forse vincerla sopra una pretesa perdita d’onore e su tutto ciò che può d’altra parte interessarvi? Questa sola ragione basta per distruggere ogni pretesto che possiate allegare per giustificar la vendetta. – Ma io voglio prendervi per lo stesso principio d’onore a cui voi siete sì sensibili. In che consiste, fratelli miei, il vero onore? Non consiste forse in fare la volontà di Dio, in adempiere il dovere di Cristiano? Non è forse questo che vi attirerà la stima delle persone dabbene? E di chi dovete voi cercare la stima? Non è forse degli uomini di probità? Se la vostra indulgenza nel perdonare vi attira qualche dispregio, ciò sarà al più da qualcheduno senza religione, di cui voi dovete dispregiare i giudizi e sacrificare la stima a quella di Dio. Ma credete voi ancora che lo stesso mondo profano vi dispregerà per avere sacrificato un risentimento contro un nemico? No si ode spesso dire dagli uomini più perversi che nulla vi è di più grande, nulla di più eroico che il perdonare? Davide non fu egli più degno di lode perdonando a Saul, la cui vita era nelle sue mani nella spelonca ove lo ritrovò addormentato, che per la vittoria che riportò sul gigante Golia? V’è maggior gloria, dice il Savio, nel trionfare delle sue passioni che nel riportare vittorie, guadagnar battaglie, conquistarvi imperi. Non bisogna dunque spaventarvi d’un’ombra d’ignominia che non esiste che nella vostra fantasia, poiché egli è più glorioso il perdonare che il vendicarsi. – Ma, dite voi, il mio onore è offeso, quel nemico mi ha diffamato nel mondo, ha talmente denigrato la mia riputazione che non oso più comparirvi. Non posso io forse e non deggio cancellare le malvage impressioni che i suoi discorsi han lasciate nello spirito degli altri? Sì, fratelli miei, voi potete cancellare questa macchia onde siete stati infamati. Ma come? sarà forse con la vendetta? No, perché ella vi è vietata. Voi avete altri mezzi di rendere alla vostra riputazione lo splendore che le è stato tolto. Mentre, o voi avete data occasione ai discorsi che si sono tenuti sul fatto vostro, o questi discorsi sono il frutto della calunnia. Se voi vi avete dato motivo, correggetevi e chiudete la bocca ai vostri nemici. Se la vostra coscienza vi dichiara innocente al suo tribunale, il mondo vi conoscerà e prenderà il vostro partito. La vergogna, e l’ignominia, onde il vostro nemico ha voluto ricoprirvi , ricadrà su di lui. – Ma non posso io forse, dite voi, servirmi delle vie della giustizia per avere la riparazione del mio onore? Voi lo potete, è vero, se esse sono necessarie per riparare e conservare il vostro onore. Ma badar dovete che la passione non guidi giammai i vostri passi, e che, sotto pretesto di farvi rendere giustizia, non cerchiate di soddisfar la vendetta. Conservate sempre alla carità i suoi diritti legittimi e non ricorrete ai privilegi delle leggi che dopo aver provati inutilmente gli altri mezzi; perché è ben raro che nel punire un’ingiuria non si oltrepassino i limiti di un’esatta moderazione. Inoltre quanto costa per avere una soddisfazione per giustizia! A che non conviene esporsi? Un nemico per giustificarsi commetterà nuove ingiurie, esaminerà la vita del suo accusatore, andrà a ricercare sino nelle ceneri dei suoi antenati per scoprire e rivelare cose infamanti, che non si erano giammai sapute o erano già sepolte nelle ombre della tomba. Così accade spesso che più un vendicativo fa sforzi per procurarsi una riparazione, più si disonora; laddove la clemenza procura il riposo, e si trova la tranquillità nella dimenticanza delle ingiurie. Tutto si cancella col tempo; siate sempre uomo dabbene, e la vostra riputazione che è stata oscurata riprenderà il suo primiero splendore, e sarà sempre al coperto dai colpi dei vostri nemici.

Terzo pretesto del vendicativo. Il vizio si autorizza coll’impunità, ed il pubblico bene chiede di arrestarne il progresso. Un nemico si prevarrà della mia indulgenza per farmi nuovi insulti. Non è forse una ragione legittima pretendere la riparazione dell’offesa che mi è stata fatta? Non bisogna tollerar il vizio, fa d’uopo arrestarne i progressi, è vero, ma non con un mezzo che Dio ci proibisce; ciò sarebbe cader in un altro vizio. Il Signore si è riserbata la vendetta: Mea est ultio (Deut. XXXII). Sarebbe un attentare ai suoi diritti il servirci di questo mezzo. Egli è un effetto dello zelo correggere il vizio, reprimere l’audacia dei malvagi; ma quanto è a temere che la vendetta non si copra del manto dello zelo e che sotto questo pretesto non si cerchi di contentare la sua passione. Sapete voi, fratelli miei, che un mezzo eccellente di correggere il vostro nemico è perdonargli e rendergli bene per male, perché questo nemico, se non ha soffocato in se stesso ogni sentimento di religione e di ragione, sarà commosso dalla vostra clemenza e si convertirà; quindi voi accumulerete carboni di fuoco sul suo capo, come dice s. Paolo: mentre se lo guadagnate con i vostri benefici, la carità, che è un fuoco, s’impadronirà del suo cuore, ed egli sarà forzato ad amarvi; se persiste nella sua durezza, diverrà la vittima delle vendette eterne, e voi meriterete le celesti ricompense.

Quarto pretesto. No, mi dite voi, il mio nemico non diventa migliore; io gli ho di già perdonato più volte, ed egli non lascia di offendermi e di perseguitarmi. Convien dunque sempre perdonare? Ella è cosa dura, nol nego, aver a fare con uomini d’un sì malvagio carattere; ma finalmente, fratelli miei, perché quell’uomo è cotanto ribaldo, volete esserlo voi ancora e perdervi com’egli, rendendovi disubbidienti ad una legge che Dio v’impone? Volete voi perdere un tesoro di meriti che potete acquistare col sacrificio dei vostri risentimenti? Voi siete Cristiani; dovete dunque riguardare le persecuzioni del vostro nemico come altrettante occasioni favorevoli di meritar il cielo,poiché non è che per mezzo delle tribolazioni che si può arrivare a quel beato soggiorno; non dovete voi al contrario rallegrarvi, come gli Apostoli e i martiri, che il Signore vi trovi degni di soffrire qualche cosa per la gloria del suo nome? Se ascoltate i sentimenti di vostra Religione, dovete fare maggior caso delle persecuzioni del vostro nemico che vi diffama, che delle adulazioni di chi applaude, perché quelle ci aprono la strada del cielo, laddove le lodi di un adulatore ci conducono alla perdizione. Voi avete perdonato più volte, e nulla avete potuto guadagnare sul cuore del vostro nemico; ma voi avete molto guadagnato sul cuore di Gesù Cristo, che vi dice di perdonare settanta volte sette, cioè ogniqualvolta voi siete offesi: Septuagies septies. – Ma quel nemico s’impadronisce ingiustamente dei miei beni, mi suscita cattivi affari; bisogna forse lasciar tutto, e la Religione ci toglie forse i mezzi di difenderci? No, fratelli miei, Dio non v’impedisce di opporvi alle ingiustizie che altri vuol farvi; ma non è già con render il male che dovete difendervi. Voi avete dei mezzi legittimi che le leggi v’accordano per mettervi al coperto dalle ingiustizie. Servitevene pure, se non potete dispensarvene: ma guardatevi bene dal seguire i movimenti della vostra passione; perdete tutto ciò che avete al mondo piuttosto che la carità, che fa lo spirito del Cristianesimo. Voi potete conservare questa virtù coi vostri beni e col vostro onore, purché non vi allontaniate giammai dai principi della Religione; operate sempre come vorreste aver fatto alla morte, e nulla vi perderete.

Quinto pretesto. Io consento volentieri a perdonare, direte voi, se il mio nemico riconosce il suo mancamento; se si sottomette e mi rende la soddisfazione che domando. Non sono stato io il primo ad offendere, non tocca dunque a me di fare i primi passi della riconciliazione. Io convengo, fratelli miei, che il vostro nemico deve darvi soddisfazione; che nel procedere ad una riconciliazione vi sono certe regole da osservare secondo le circostanze del tempo e la qualità delle persone offese, il che non prendo a qui discutere. Ma quantunque il vostro nemico non voglia darvi alcuna soddisfazione né sottomettersi a dimandarvi perdono, in qualunque stato voi siate, qualunque grado occupiate, voi non siete meno obbligati a perdonargli e ad amarlo. Il Signore non vi dice di perdonare quando altri vi chiederà perdono, vi dice semplicemente di perdonar l’offesa che vi è stata fatta, di amare chi vi odia, di far del bene a chi vi fa del male; voi lo dovete dunque indipendentemente dalle sommissioni, dalle riparazioni che esso vi deve. Benché elevato voi siate al di sopra di quel nemico per il vostro grado e per la vostra condizione, egli è vostro fratello cristiano; voi dovete in questa qualità accordargli la vostra benevolenza, ma d’altra parte, benché superiore voi siate a quel nemico, lo siete voi forse più a suo riguardo? Contuttociò non vi previene egli il primo ? Non vi ricerca egli forse dopo che voi l’avete offeso? Ecco l’esempio che dovete seguire. Siete stato, dite voi, offeso il primo: ecco il linguaggio ordinario di tutti coloro che non vogliono perdonare. Ascoltate due nemici: nessuno vuole riconoscere il suo torto, ciascuno pretende essere stato offeso; quindi ne viene che niuno vuol essere il primo a chiedere scusa; l’orgoglio che predomina la maggior parte degli uomini, li ritiene e li impedisce dall’eseguire un progetto che la grazia inspira. Crediamo essere cosa vile e bassa il chiedere scusa, e che tocca al nostro avversario cercar di rientrar in grazia con noi; quel nemico pensa lo stesso: così ciascuno rimane nel suo stato, cioè in uno stato di dannazione. Ah! se gli uomini avessero più umiltà, non vi sarebbero più inimicizie: colui che avesse offeso altrui riconoscerebbe il suo torto; colui, che fosse stato offeso s’abbasserebbe sino a ricercar il suo nemico per dargli segni della sua carità. Ma io temo, direte voi, di comparire avanti a quella persona; ella mi riceverà male, si farà beffe della mia semplicità, giungerà eziandio sino a conchiudere dal mio modo di procedere che mi stimo felice ancora di confessare con questo che ho torto e di poter riguadagnare la sua amicizia con questa pretesa confessione; tali sono, fratelli miei, le scuse dell’amor proprio schiavo d’un frivolo timore, il quale non è che l’effetto dell’orgoglio. Voi temete che quella persona vi riceva male: ma che ne sapete voi! Cominciate primieramente a fare i primi passi per mezzo di qualche amico comune, andate in appresso voi medesimo, e vedrete che il vostro timore era mal fondato. Ma io sono stato di già mal ricevuto, quella persona si è burlata di me ed ha pubblicato che io era stato ben contento di domandarle perdono; egli è vero che vi sono uomini fieri a tal segno nella loro inimicizia di condursi in siffatta maniera: ma guai a coloro che non corrispondono ai modi di procedere della carità; ben lungi dallo scusarli, qualunque ragione abbiano dal canto loro, essi sono in uno stato di dannazione, tosto che rigettano la pace che vien loro offerta. Quanto a voi, che avrete fatto il vostro dovere, facendo la volontà di Dio, voi guadagnerete il cielo; voi non risponderete a Dio dell’altrui volontà ma della vostra. Dio non esige che voi cangiate quel nemico, ma che vi cangiate voi a suo riguardo. Quanti mezzi una carità ingegnosa non sa ella trovare per disarmar l’ira d’un nemico ? Abbiate questa carità, fratelli miei, e voi verrete a capo di tutto. Ma forziamo l’orgoglio sino negli ultimi ripari, facendo vedere all’indifferente medesimo che il sacrificio, che egli fa dei suoi risentimenti è una trasgressione palliata del precetto della carità; seconda riflessione. Io perdono al mio nemico, dice l’indifferente; io rinunzio alla vendetta, non gli farò alcun male, neppure gliene desidero alcuno; son determinato a non più conservar odio per lui, consento a rinnovare con lui gli antichi uffizi che l’inimicizia aveva interrotti, e questo non basta forse per una perfetta riconciliazione, e Dio chiede forse di più? Ultima e fatale illusione dell’amor proprio, che, sotto pretesto d’indifferenza che si ha per un nemico, manda all’inferno più Cristiani che gli odi più dichiarati: di questi sovente uno si scorregge per via delle agitazioni e dei rimorsi che cagionano nelle coscienze; ma all’opposto egli sta tranquillo e si crede in sicuro all’ombra d’una riconciliazione apparente; vi si marcisce degli anni interi, vi si vive, si muore, e si diventa finalmente la vittima infelice d’una falsa e rea coscienza. Or sapete voi, fratelli miei, che cosa è quella falsa calma su cui vi rassicurate? Si è un fuoco nascosto sotto la cenere; si è, nel fondo, una vera inimicizia mantenuta sotto le apparenze della carità. Voi dite che non volete alcun male a quella persona, d’onde viene dunque che soffrir non potete che se ne dica bene, e siete molto contenti che se ne parli male? Donde viene quel piacere che provate nelle sue avversità, quella tristezza nelle sue prosperità? Voi la lasciate tale come è, voi non volete punto parlarle, voi fuggite il suo incontro: ma si fugge forse l’incontro di una persona che si ama? Non si vuol forse punto parlarle? Ella è dunque una prova che voi non l’amate. Or Dio non vi comanda forse di amare i vostri nemici, di volere e far bene a coloro che vi fanno del male? Invano vi lusingate voi di adempire il precetto con la indifferenza a riguardo del vostro nemico, contentandovi di non volergli e di non fargli alcun male: bisogna volergli e fargli del bene: Diligite et benefacite. Voi lasciate quel nemico per quel che è, non gli volete far alcun bene; ma sareste voi contenti che Dio vi lasciasse per quelli che siete e non vi facesse alcun bene? Eppure così vi tratterà se voi non avete migliori disposizioni a riguardo del vostro nemico. Orsù, dite voi, io gli farò del bene, giacche bisogna farlo, io lo vedrò, io gli parlerò, ma nol farò che per l’amor di Dio, mentre egli nol merita; io lo vedrò, gli parlerò per convenienza, per evitar lo scandalo che potrei dare evitando la sua compagnia. Voi fate bene ad operare per l’amor di Dio, questo è il solo motivo che deve animarvi; ma avvertite che, servendovi di queste restrizioni, voi non pregiudichiate la carità; avvertite bene che, operando per convenienza e per evitare lo scandalo, non sia una politica mondana che vi conduca. Voi potete bensì ingannare gli uomini, che non conoscono il fondo del cuore; ma non potete ingannar Dio che n’è lo scrutatore. Bisogna dunque operare con schiettezza e sincerità. Nessun inganno, nessuna simulazione, si è il cuore ed un cuore ripieno di carità che deve essere il principio di una vera riconciliazione, siccome Dio deve esserne il motivo. Perdonate di tutto cuore, dice Gesù Cristo, De cordibus vestris; mentre se voi non vi riconciliate col vostro nemico che per mire umane, perché un amico ve ne ha pregato, perché un personaggio per cui avete molta considerazione si è intromesso, o perché temete quel nemico e lo risparmiate per interesse, la vostra riconciliazione è ipocrita; resterà sempre nel cuore un lievito d’amarezza, tanto che non sarete animati dalle mire della carità cristiana. – Per venire alla pratica di questa carità, convien rinunciare ad ogni risentimento che può esservi inspirato dal male che vi è stato fatto: osservate su di ciò il silenzio per non rinnovare la piaga; non bisogna far attenzione a quel che fareste se Dio non vi avesse comandato di perdonare, ma operar a riguardo del vostro nemico come operavate prima che vi avesse offeso, come fareste a riguardo d’un altro che non vi fosse nemico, cioè amarlo, dargli dei segni di benevolenza, salutarlo, renderli i doveri della società civile e cristiana, e tutti i servigi che da voi dipendono; pregate per lui, principalmente nell’orazione domenicale, ripetendo più volte quelle parole: perdonateci le nostre offese ecc. Dimitte nobis debita nostra etc: ma guardatevi soprattutto dal differire la vostra riconciliazione, poiché voi più la differirete, più diverrà ella difficile: il che si vide pur troppo per esperienza. – Quelle grandi inimicizie non hanno cominciato che da una indifferenza, quell’indifferenza si è cangiata in avversione, e l’avversione in ostinazione; e tosto che il male è invecchiato, egli è molto più difficile a guarire che nel suo cominciamento: bisogna dunque apportarvi un pronto rimedio. Se l’odio che voi conservate contro il vostro prossimo è di già molto radicato nel vostro cuore, non gli lasciate gettare più profonde radici, ma sin dal giorno d’oggi tagliate, sradicate quel ceppo avvelenato; che il sole, dice l’Apostolo, non tramonti sull’ira vostra: Sol non occìdat super iracundiam vestram. Perciocché, o volete riconciliarvi col vostro nemico, o non volete. Non volerlo si è risolversi ad essere riprovato; ma se lo volete, perché aspettar domani e non farlo quest’oggi? Vi sarà forse più facile? Più aspetterete, più vi renderete colpevoli moltiplicando i vostri odi, profanando i sacramenti, dando scandalo a coloro che sono i testimoni della vostra condotta. Voi vi esponete anche a non riconciliarvi mai; mentre non potete voi forse essere sorpresi dalla morte; o se aspettate alla morte, non dovete voi forse temere che la vostra riconciliazione non sia fìnta e forzata, come accade a coloro che aspettano a farla in quegli ultimi momenti, in cui ella perde tutto il suo merito perché il cuore non vi ha parte alcuna? Se voi sentite ancora qualche ripugnanza a seguire questi avvisi, armatevi di coraggio, voi tutto potrete con la grazia di Dio: pregatelo dunque di aiutarvi per vincere una passione cosi ribelle come la vendetta: Accipite armaturam fidei, ut possitis resìstere in die malo. Ricordatevi del comando che Dio ve ne fa, dell’esempio che vi dà Gesù Cristo e dei grandi vantaggi che ve ne ridondano: la pace dell’anima ed il perdono dei vostri peccati. Andate dunque prontamente a riconciliarvi col vostro nemico all’uscire da questa istruzione o il più presto che potete; ma la vostra riconciliazione sia sincera ed efficace. Se non volete ascoltare la preghiera del vostro nemico che vi domanda grazia, ascoltate quella di Gesù Cristo che ve la domanda per lui, che si mette tra lui e voi per essere vostro mediatore; se non volete aver pietà di quel nemico, abbiate pietà della vostr’anima e non vogliate dannarla. Io ve ne scongiuro pel sangue che Gesù Cristo ha per essa versato; e per tutto lo zelo che m’inspira il desiderio di vederci riuniti un giorno in quel luogo di delizie che io vi desidero. Così sia.

Credo …

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Job I. 1
Vir erat in terra Hus, nómine Job: simplex et rectus ac timens Deum: quem Satan pétiit ut tentáret: et data est ei potéstas a Dómino in facultátes et in carnem ejus: perdidítque omnem substántiam ipsíus et fílios: carnem quoque ejus gravi úlcere vulnerávit.

[Vi era, nella terra di Hus, un uomo chiamato Giobbe, semplice, retto e timorato di Dio. Satana chiese di tentarlo e dal Signore gli fu dato il potere sui suoi beni e sul suo corpo. Egli perse tutti i suoi beni e i suoi figli, e il suo corpo fu colpito da gravi ulcere.]

Secreta

Suscipe, Dómine, propítius hóstias: quibus et te placári voluísti, et nobis salútem poténti pietáte restítui.

[Ricevi, propizio, o Signore, queste offerte con le quali volesti essere placato e con potente misericodia restituire a noi la salvezza.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXVIII: 81; 84; 86
In salutári tuo ánima mea, et in verbum tuum sperávi: quando fácies de persequéntibus me judícium? iníqui persecúti sunt me, ádjuva me, Dómine, Deus meus.

[L’ànima mia ha sperato nella tua salvezza e nella tua parola: quando farai giustizia di coloro che mi perseguitano? Gli iniqui mi hanno perseguitato, aiutami, o Signore, Dio mio.]

Postcommunio

Orémus.
Immortalitátis alimoniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, quod ore percépimus, pura mente sectémur.

[Ricevuto il cibo dell’immortalità, Ti preghiamo, o Signore, affinché di ciò che abbiamo ricevuto con la bocca, conseguiamo l’effetto con animo puro]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (7)

IL CATECHISMO CATTOLICO

A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (7)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO III.

SEZIONE 2a . — Degli altri sei articoli del Simbolo, che contengono la dottrina circa la seconda Persona della Santissima Trinità e l’opera della Redenzione.

Art. 1. — Dì GESÙ CRISTO E DELLA SUA DIVINITÀ.

D. 79. Che cosa crediamo nel secondo articolo del Simbolo: E in Gesù Cristo, suo unico Figliuolo, Signore nostro?

R. Nel secondo articolo del Simbolo: E in Gesù Cristo, suo unico Figliuolo, Signore nostro, noi crediamo che il Figliuol di Dio, quello stesso che fattosi uomo chiamasi Gesù Cristo, è l’unico Figliuolo del Padre, Signor nostro,vero Dio da vero Dio, nel quale noi crediamo come nel Padre. (Giov., I, 1, 14; Paolo: ad Eph., I , 20-23; ad Coloss., I, 13-20; la ad Tim., VI, 15, 16.)

D. 80. Perché crediamo in Gesù Cristo come in Dio Padre?

R. Crediamo in Gesù Cristo come in Dio Padre, perché Gesù Cristo è vero Dio come il Padre, unico Dio col Padre (Giov., I, 1; X, 30).

D. 81. In qual modo si prova che Gesù Cristo è il Messia, cioè il Redentore del genere umano, promesso da Dio nell’Antico Testamento?

R. Si prova che Gesù Cristo è il Messia, cioè il Redentore del genere umano, promesso da Dio nell’Antico Testamento, principalmente dalle profezie riguardanti il Redentore, che si compirono esattamente in Gesù Cristo; nonché dalla testimonianza di Gesù Cristo medesimo

(I profeti avevano predetto che il Messia sarebbe nato nella città di Betleem (Mich., V , 2), da una vergine (Is., VII, 14), dalla stirpe di Davide (Is., XI, 1); che sarebbe stato un gran dottore (Is., LXI, 1), avrebbe operato miracoli (Is. XXXV, 5-6), avrebbe sofferto i più atroci dolori (Is., L, 6; LIII, 11-12), sarebbe morto (Sal., XXI, 1 e segg.), risuscitato (Salm., XV, 10, LXVIII, 22), asceso in cielo (Sal., CIX, 1; Att., II, 24). Queste e tante altre cose ancora, predette dai profeti del Messia, si compirono perfettamente in Gesù Cristo. Inoltre ci sono le testimonianze dello stesso Gesù Cristo: ad esempio: Matt., XI, 3-6; XVI, 13-19; XXVI, 63, 64; Marco, XXIV, 26; Giov., IV, 25, 26; XI, 25; XIV, 9, 10; XVI, 15).

D. 82. Quali sono i principali argomenti che ci muovono ad ammettere la divinità di Gesù Cristo?

R. I principali argomenti che ci muovono ad ammettere la divinità di Gesù Cristo sono:

il costante magistero della Chiesa Cattolica;

le profezie dell’Antico Testamento, nelle quali viene preannunziato il promesso Redentore come vero Dio (Salmo II, 7; XLIV, 7; CIX, 3; Is., IX, 6, 7; XL, 3 11.);

3° la testimonianza di Dio Padre quando dice: « Questo è il mio Figliuolo diletto nel quale mi sono compiaciuto: ascoltatelo!» (Matt., III, 17; XVII, 5; Marco, I, 11);

la testimonianza di Gesù Cristo medesimo comprovata dalla santità della sua risurrezione (Matt., XI, 25-27; XVI, 13-19; XXVI, 63-65; Luca, XXII, 66-71; Giov., V, 18, 19, 23; X, 30);

5 ° la dottrina degli Apostoli confermata dai miracoli. (4 Giov., XX, 31; la di Giov., I V , 15; V, 20; Paolo, ad Rom., IX, 5 ; ad Philipp., II, 6-7 ; ad Hebr., I, 2)

6 ° la confessione d’innumerevoli martiri;

la mirabile propagazione e conservazione della Chiesa di Cristo.

D. 83. Perché il Figliuolo di Dio, fattosi uomo, fu chiamato Gesù?

R. Il Figliuolo di Dio, fattosi uomo, per espressa volontà di Dio, fu chiamato Gesù, vale a dire Salvatore, perché con la sua passione e morte ci salvò dal peccato e dall’eterna dannazione (Matt., I, 21; Paolo: ad Philipp., II, 8-11; Catech. p. parr., p. I, c. III, n. 6).

D. 84. Perché Gesù è detto anche Cristo?

R. Gesù è detto in greco Cristo, in ebraico Messia, in latino Unctus, perché in antico, re, sacerdoti e profeti venivano unti; e Gesù è difatti re, sacerdote e profeta (Esodo, XXX, 30; 1.° dei Re, IX, 16; XVI, 3; 3.° dei Re,XIX, 16; Atti, X, 38; Paolo: ad Hebr., I, 9; Catech. p. parr., p. I, c. III, n. 7.

D. 85. Perché Gesù Cristo è detto Signore nostro?

R. Gesù è detto Signore nostro, perché, in quanto Dio, Egli è il creatore e il conservatore di tutte le creature, con assoluta potestà su di esse; in quanto Uomo-Dio, Egli è il Redentore di tutti gli uomini, sicché giustamente Lo si chiama e venera come: « Re dei re e Dominatore dei dominanti »

(Matt., XXV, 34; XXVIII, 18; Giov., XVIII, 37; Paolo: ad Philipp., II, 6 – 11; ad Coloss., I, 12 – 20; Ia ad Tim., VI, 15; Apoc, I, 5; XLX, 16; Pio XI: Encicl. Quas Primas, 11 dic. 1925; Cat. p. parr., p. I, c. III, n. 11).

D. 86. Perché la seconda Persona della santissima Trinità è chiamata Verbo del Padre?

R. La seconda Persona della santissima Trinità è chiamata Verbo del Padre, perché procede dal Padre come atto d’intelletto, quale concetto della mente, così come in noi l’interno concetto della mente chiamasi verbo(Giov., I , 1 e segg.; l a di Giov., I , 1; Apoc, XIX, 13; S. Tom., p. la, q. 34, a. I, 2).

Art. 2. — DELL’INCARNAZIONE E DELLA NATIVITÀ DEL FIGLIUOLO DI DIO.

D. 87. Che cosa crediamo nel terzo articolo del Simbolo: Il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine?

R. Nel terzo Articolo del Simbolo: II quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, noi crediamo che il Figliuolo di Dio, al disopra di qualsiasi ordine naturale e per virtù dello Spirito Santo, assunse l’umana natura, vale a dire corpo e anima, nel purissimo grembo della beata Vergine Maria e che da essa nacque.

 (Matt., I, 20, 21; Luca, I, 31, 35. — Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, volle nascere in Betlemme di Giuda; e poiché non vi era luogo per lui all’albergo, dalla beata Vergine Maria fu posto a giacere in una mangiatoia d’animali, per insegnare agli uomini con questo suo esempio, dato sin dalla nascita, l’umiltà e la fuga degli onori e dei piaceri di questo mondo.).

88. Come si chiama il mistero per cui il Figliuolo di Dio fecesi uomo?

R. Il mistero per cui il Figliuolo di Dio fecesi uomo si chiama la divina Incarnazione del Verbo.

D. 89. Il Figliuolo di Dio, fattosi uomo, cessò di essere Dio?

R. Il Figliuolo di Dio, fattosi uomo, non cessò di essere Dio, ma, pur rimanendo vero Dio, cominciò a essere anche vero uomo (S. Efrem: In Hebdom. sanctam, VI, 9).

D. 90. Quante Nature e quante Persone vi sono in Gesù Cristo?

R. In Gesù Cristo due sono le Nature: la divina e l’umana, ma una sola Persona, cioè la Persona del Figlio di Dio (Conc. di Calcedonia: Definitio de duabus naturis Christi; Conc. III di Costant.: De duabus voluntatibus Christi; Conc. Later., IV, c. I; S. Leo IX, Symbolum fidei. « Poiché, dice il Simbolo Atanasiano, allo stesso modo che anima razionale e carne come sono un sol uomo, così Dio ed uomo sono un sol Cristo».).

D. 91. Per qual ragione il Figliuolo di Dio si degnò di assumere l’umana natura?

R. Il Figliuolo di Dio si degnò di assumere l’umana natura « per noi uomini e per la nostra salvezza »; in altri termini: per offrire a Dio una degna soddisfazione dei peccati, per ammaestrare gli uomini nella via della salvezza mediante la predicazione e gli esempi, per riscattarli dalla schiavitù del peccato mediante la sua passione e morte, per ricostituirli nella grazia di Dio e così ricondurli alla gloria del Paradiso (Gesù Cristo, Redentore dell’uman genere, per merito 0della sua passione e morte, volle bensì che fosse restituita quella giustizia e santità in cui il primo uomo era stato costituito, non però l’integrità di natura. Per il Battesimo, dunque, vien distrutto quanto può aver carattere di peccato, ma rimane il fomite della concupiscenza, perché questa, rimasta per la lotta, non ha forza di nuocere a chi, non acconsentendovi, virilmente la respinge con la grazia di Gesù Cristo; non solo, ma chi giustamente avrà combattuto, verrà coronato (Conc. di Trento, Sess. V). Ancora: la Redenzione non restituì all’umana natura l’immunità dalla morte e dagli altri dolori della vita, cui vollero soggiacere lo stesso divin Redentore e la stessa sua Madre. (S. Epif., Ancoratus, 93).

D. 92, Fu necessaria l’incarnazione del Verbo per la condegna soddisfazione dei peccati?

R. Per la condegna soddisfazione dei peccati fu necessaria l’incarnazione del Verbo, perché non poteva una semplice creatura fornire una condegna, ossia adeguata, soddisfazione dei peccati.

D. 93. Perché una semplice creatura non poteva fornire condegna, ossia adeguata soddisfazione dei peccati?

R. Una semplice creatura non poteva fornire condegna, ossia adeguata, soddisfazione dei peccati, perché il peccato mortale è di una gravità in un certo senso infinita, se si guarda l’infinita Maestà da esso offesa.

(S. Tommaso, p. IIIa q. I , a. 2, ad 2um: « Il peccato commesso contro Dio ha certo carattere d’infinità per l’infinità stessa della maestà divina: l’offesa infatti tanto più è grave quanto più è grande Colui contro il quale si manca: per aver quindi una condegna soddisfazione fu necessario che l’atto di chi sodisfaceva avesse un valore infinito…. »).

D. 94. Perché l’opera dell’Incarnazione viene attribuita allo Spirito Santo?

R. Per quanto solo il Figliuolo di Dio abbia assunta l’umana natura e l’opera dell’Incarnazione — come d’altronde qualsiasi opera ad extra — sia di tutta la Trinità, tuttavia l’opera dell’Incarnazione viene, per titolo speciale, attribuita allo Spirito Santo, in quanto lo Spirito Santo è l’Amore del Padre e del Figliuolo; e l’opera dell’Incarnazione manifesta precisamente l’immenso e singolare amore di Dio verso di noi (Paolo, I. ad Tim., III, 16; Leone XIII, Encicl. Divinum illud munus, 9 maggio 1897; Cat. p. parr., p. I. a, c. IV, n. 3.)

D. 95. La beata Vergine Maria è vera Madre di Dio?

R. La beata Vergine Maria è vera Madre di Dio, perché concepì e partorì, secondo l’umana natura, Gesù Cristo Signor nostro, il quale è vero Dio e vero uomo.

 (Luca, I, 31, 35; II, 7; Conc. di Ef.: Anathematismi Cyrilli, can. I; Conc. II di Costant.: Tria capitala, can. 6; Conc.III di Costant.: Definitio de duabus voluntatibus Christi; S.Gregorio Naz.: Epist. 101; S. Giov. Dam.: Oratio prima de Virginis Mariæ nativitate. – I misteri della divina Incarnazione di Gesù Cristo e della divina Maternità della beata Vergine Maria vengono così esposti brevemente nel Catechismo per i parroci, p. I, c. IV, n. 4: Non appena la beata Vergine Maria, nel dare il suo assenso alle parole dell’Angelo, disse: Ecco l’ancella del Signore, sia fatto a me secondo la tua parola, immediatamente, cioè in quello stesso primissimo istante, per virtù dello Spirito Santo, dal purissimo seno della beata Maria Vergine, venne formato il santissimo Corpo di Cristo, congiunta al corpo la sua anima umana (creata dal nulla) e unita al corpo e all’anima la divinità. Perciò nel medesimo istante di tempo si ebbe un Dio perfetto e un uomo perfetto, e la beata Vergine Maria fu veracemente e propriamente chiamata Madre di Dio e dell’uomo, per aver concepito in quello stesso momento un uomo che era Dio.).

D. 96. S. Giuseppe fu padre di Gesù Cristo?

R. S. Giuseppe non fu, a titolo di generazione, padre di Gesù Cristo; tuttavia così vien chiamato, perché, vero sposo della beata Vergine Maria, esercitò ne’ riguardi di Lui i diritti e i doveri di un padre, come capo di quella società coniugale ch’era stata direttamente preordinata allo scopo di accogliere, difendere e nutrire Gesù Cristo (Luca, III, 23. — Andate a Giuseppe, dice la Chiesa ai fedeli bisognosi di grazie, come altre volte diceva il Faraone agli affamati Egiziani, quando li rimandava a quell’antico Giuseppe. Né è da dubitarsi che il santissimo Patriarca accolga ognora propizio le preghiere de’ suoi devoti, soprattutto nell’ora della loro morte; né è possibile che a lui rifiuti nulla la beatissima Vergine di cui fu l’amantissimo sposo, o Gesù Cristo di cui egli fu il fedele e provvido custode. Leone XIII: Encicl. Quanquam pluries, 10 ag. 1885.).

D. 97. La beata Vergine Maria fu sempre Vergine?

R. La beata Vergine Maria fu sempre vergine, e in modo altrettanto mirabile quanto singolare, la perpetua verginità andò in lei congiunta alla divina maternità (Is., VII, 14; Matt., I , 23; Luca, I , 27; S. Leone M.: Epist. ad Flavianum, Const. Episcopum; S. Efrem: Oratio ad SS. Dei Matrem; Didimo Aless.: De Trinitate, III, 4; S. Epif.: Adv. hæreses, 78, 6; S. Gerolamo: Adv. Helvidium, 19)

Art. 3. — DELL’OPERA DELLA REDENZIONE DEL GENERE UMANO.

D. 98. Che cosa crediamo nel quarto articolo del Simbolo: Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, mortoe seppellito?

R. Nel quarto articolo del Simbolo : Patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morto e seppellito, noi crediamoche Gesù Cristo, al fine di redimere il genere umano col suo sangue prezioso, patì sotto Ponzio Pilato, Procuratoredella Giudea, fu inchiodato sulla croce, morì sopra di essa, indi, deposto dalla croce, venne sepolto.

D. 99. In che cosa consiste l’opera della redenzione compiuta da Gesù Cristo?

R. L’opera della redenzione compiuta da Gesù Cristo consiste in ciò ch’Egli, « mosso dalla sovrabbondante carità con la quale ci amò, mediante la sua santissima passione sul legno della Croce, ci meritò la giustificazione, sodisfacendo per noi al Padre ». (Conc. di Trento, Sess. VI, c. 7).

D. 100. Gesù Cristo patì e morì in quanto Dio o in quanto uomo?

R. Gesù Cristo patì e morì in quanto uomo, perché in quanto Dio non poteva né patire né morire; però la sua stessa incarnazione ed ogni suo ancorché minimo patimento per noi, fu di un prezzo infinito a causa della sua Persona divina (S. Atanasio: Epist. ad Epictetum, 6. — Il Catechismo pei parroci, p. I, c. IV, n. 6, aggiunge qui ben a proposito: « L’uomo muore quando l’anima si separa dal corpo; per cui, quando diciamo che Gesù morì, intendiamo dire che la sua anima si divise dal corpo; con ciò non diciamo che la sua divinità sia stata disgiunta dal corpo. Anzi costantemente crediamo e professiamo che, divisa che fu l’anima dal corpo, la sua divinità rimase sempre congiunta tanto al corpo nel sepolcro, quanto all’anima negl’inferi ».).

D. 101. Perché dunque Gesù Cristo volle subire una passione e una morte così acerba e obbrobriosa?

R. Gesù Cristo volle subire una passione e una morte così acerba e obbrobriosa per abbondantemente soddisfare alla divina giustizia, per dimostrarci più manifestamente il suo amore, per eccitare in noi un odio ancor più grande del peccato e per darci maggior forza nel sopportare i travagli e le asprezze della vita.

D. 102. Per chi patì e morì Gesù Cristo?

R. Gesù Cristo patì e morì indistintamente per tutti gli uomini.

(Is., LIII, 4-6; Paolo, 2a ai Cor., V, 15; la ad Tim., II, 6; IV, 10; Innocenzo X, 31 mag. 1653, Contro le propos. Di Giansenio, n. 5; S. Ambrogio: Epist. XLI, 7. — Una tal prova d’incomparabile amore non deve mai cancellarsi dalla memoria degli uomini; con tutto il cuore dobbiamo amare Colui che, né suo malgrado, né a ciò costretto, subì una morte amarissima, ma sol perché indottovi dall’amore che ci portava. Dice S. Agostino: De cathechìz. rudibus, 7: « Se l’amare poteva esserci di peso, almeno ora non ci sia di peso il riamare; non c’è infatti più potente invito all’amore, che prevenire amando, e troppo duro sarebbe l’animo di chi non volendo per il primo amare, si rifiuti anche di riamare ».).

D. 103. Allora tutti gli uomini vengono salvati?

R. Non tutti gli uomini vengono salvati, ma quelli solo, che mettono in opera i mezzi stabiliti dalla stesso Redentore per partecipare al merito della sua passione e morte (Conc. di Trento: Sess. V I , c. 3. — Vedasi l’enumerazione di tali mezzi alla domanda 178.).

D. 104. Gesù Cristo, morendo sulla croce, offrì se stesso a Dio in vero e proprio sacrificio?

R. Gesù Cristo, morendo sulla croce, offri se stesso a Dio in vero e proprio sacrificio di valore infinito per la redenzione degli uomini, offrendo in loro favore alla divina giustizia una soddisfazione d’infinito valore (Paolo: ad Hebr., IX, 11-28; Conc. di Trento, 1. c, cap. 7; Leone XIII: Encicl. Tametsi futura, 1 nov. 1900; S. Ignazio Mort.: Epist. ad Smyrnæos, 2; S. Giov. Cris. : In Epist. Ad Hebr., XVII, 2; Cat. p. parr., p. I, c. V, n. 9.).

D. 105. Che cosa crediamo nelle parole del quinto articolo del Simbolo: discese all’inferno?

R. Nelle parole del quinto articolo del Simbolo: Discese all’inferno, noi crediamo che l’anima di Gesù Cristo, separata dal corpo, sempre però congiunta con la divinità, discese all’inferno (1a di Pietro, III, 19; Cat. p. parr., p. I, c. VI, n. 2 e segg.).

D. 106. Che cosa s’intende quando si dice: all’inferno?

R. Quando si dice: all’inferno, s’intende non l’Inferno propriamente detto, non il Purgatorio, ma il Limbo dei Santi Padri, ove le anime dei giusti aspettavano la promessa e bramatissima redenzione (S. Ciril. Geros.: Catechesis, IV, 11).

D. 107. Perché Gesù Cristo discese nel Limbo?

R. Gesù Cristo discese nel Limbo per annunziare l’avvenuta redenzione alle anime dei giusti e colmarle quindi d’immensa gioia, nel mentre le faceva partecipi, prima ancora di condurle con sé in Cielo, della visione beatifica di Dio (Cat. p. parr., 1. c. n. 6. — Il Limbo dei Santi Padri, compiuta la redenzione, cessò.).

D. 108. Che cosa crediamo con le altre parole del quinto articolo del Simbolo: Il terzo giorno risuscitò da morte?

R. Con le altre parole del quinto articolo: Il terzo giorno risuscitò da morte, noi crediamo che Gesù Cristo, il terzo giorno dopo la sua morte, per virtù propria e secondo aveva predetto, ricongiunse di bel nuovo l’anima sua al suo corpo, venendo così a rivivere immortale e glorioso (Cat. p. parr., p. I, c. VI, n. 8.).

D. 109. Per quanto tempo e per qual ragione Gesù Cristo rimase sulla terra dopo la sua risurrezione?

R. Gesù Cristo rimase sulla terra dopo la sua risurrezione lo spazio di quaranta giorni al fine di confermare gli Apostoli nella fede della risurrezione stessa e dar compimento alla sua divina predicazione e all’istituzione della Chiesa. (Atti, I, 3.)

Art. 4. — DELL’ASCENSIONE IN CIELO DI GESÙ CRISTO E DEL SUO RITORNO ALLA FINE DEL MONDO PER L’UNIVERSALE GIUDIZIO.

D. 110. Che cosa crediamo con le parole del sesto articolo del Simbolo: salì al cielo?

R. Con le parole del sesto articolo del Simbolo: salì al cielo, noi crediamo che Gesù Cristo, dopo compiutaormai ed assolta l’opera della Redenzione, quarantagiorni dopo la sua risurrezione, per virtù propria, asceseal cielo, in anima e corpo (Conc. Lat. IV, c. I; S. Leone IX: Symbolum fidei; S. Leone Magno: Sermones 73 et 74 De Ascensione Domini; S. Ireneo: Adv. hæreses, I, 10, I.).

D. 111. Che cosa significano quelle altre parole del medesimo articolo: Siede alla destra di Dio Padre Onnipotente?

R. Quelle altre parole del medesimo articolo: Siede alla destra di Dio Padre Onnipotente, significano la gloria perpetua del Redentore in cielo, dove Gesù Cristo trovasi, in quanto Dio uguale al Padre, e in quanto uomo, nel possesso più alto, fra tutte le creature, dei beni divini.

(Dan., VII, 13, 14; Marco, XVII, 19; Giov., V, 27; Paolo: ad Rom., VIII, 34; ad Hebr., VIII, 1; S. Greg. Nazian.: Oratio 45; S. Tom., p. 3, q. 58, a. 4. — Il Catechismo pei Parroci, p. I, c. VII, n. 3 : « La parola sedere non significa qui sito o figura corporale, bensì chiarisce quel fermo e stabile possesso della regia e somma potestà e della gloria, che Gesù Cristo ha ricevuto dal Padre ».

D. 112. Che cosa crediamo nel settimo articolo del Simbolo: Di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti?

R. Nel settimo articolo del Simbolo : Di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti, noi crediamo che alla fine del mondo Gesù Cristo verrà dal Cielo assieme ai suoi angeli per giudicare gli uomini tutti, tanto quelli che il giorno del giudizio troverà vivi ancora, quanto quelli morti anteriormente, « e allora renderà a ciascuno secondo le sue opere » (Matt., XVI, 27; XXIV, 30; XXV, 31-46; Atti, X, 42; Paolo: ad Hebr., IX, 28; Conc. Lat. I V , S. Leone I X e Benedetto XII, 1. c.; S. Giov. Cris.: In Epist. Ia ad Cor., XLII, 3; S. Pietro Canisio: De fide et symbolo, n. 15; Cat. p. parr., p. I).

D. 113. Quale sarà la sentenza nell’universale giudizio?

R. Nell’universale giudizio la sentenza sarà, per gli eletti: « Venite, benedetti del Padre mio, possedete il regno a voi preparato sin dalla costituzione del mondo » ; per i reprobi invece: « Andate lungi da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato al diavolo ed ai suoi angeli » (Matt., XXV, 34, 41; San Bonav.: Soliloq., III, 5: « Anima mia, non si cancelli mai dalla tua memoria quell’« Andate, maledetti, nel fuoco eterno; venite, benedetti, possedete il regno ». Può pensarsi una cosa più lamentevole, più paurosa di quell’andate? Una più gradevole di questo « Venite! »? Due parole, di cui nessuna suona all’orecchio più orribile della prima, nessuna più dolce della seconda ».).

D. 114. Oltre l’universale giudizio alla fine del mondo, ve ne sarà un altro?

R. Oltre l’universale giudizio alla fine del mondo, vi sarà un giudizio particolare per ciascuno di noi, immediatamente dopo la morte (Paolo: ad Hebr., IX, 27. — Il catechista faccia notare che del giudizio particolare come degli altri Novissimi si tratterà nella dom. 583 e segg.).

D. 115. A quale intento ha voluto Iddio il giudizio universale dopo quello particolare?

R. Dio ha voluto il giudizio universale dopo quello particolare, per la propria gloria e per quella di Cristo e degli eletti, per la confusione dei reprobi e perché l’uomo ricevesse in anima e corpo e in presenza di tutti la sentenza che lo premia o lo condanna (Sap., V, 1 e segg.; Matt., XXV, 31-46; Il Catechismo pei parroci, p. I, c. VIII, n. 4. —

Dio è, invero, infinitamente giusto, ma non sempre durante questa vita temporale rende a ciascuno quel che gli spetta, bensì dopo la morte, nel giudizio tanto particolare, quanto universale. È quindi evidente quanto sia grossolano l’errore di coloro che nel constatare come di frequente i malvagi godono la prosperità e i buoni soffrono l’avversità, non arrossiscono di trattar Dio d’ingiusto. A dire il vero, come non è perfetta la felicità dei malvagi cui rimorde la coscienza del peccato e turba il terrore della divina vendetta, così non è priva di consolazioni l’afflitta condizione dei buoni, cui conforta la tranquillità della coscienza e la speranza delle eterne ricompense. Ma quando sarà sopravvenuta la morte, allora sì che nessun merito sarà lasciato senza mercede, come nessun peccato senza punizione.).

D. 116. Perché viene attribuita a Gesù Cristo la potestà di giudicare il genere umano?

R. Per quanto la potestà di giudicare sia comune a tutte le Persone della Santissima Trinità, viene a titolo speciale attribuita a Gesù Cristo, come Dio e come uomo, per la ragione ch’Egli è « Re dei re e Dominatore dei dominanti » ; infatti tra le potestà regali si annovera quella giudiziaria, tra le cui funzioni vien compresa anche quella di premiare o di punire ciascuno secondo i suoi meriti.

26 OTTOBRE 1958: HABEMUS PAPAM – QUELLO VERO

Al calar della notte per cinque minuti è uscito fumo bianco dal camino. Per quanto era possibile sapere al mondo esterno,

era stato eletto un NUOVO PONTEFICE

Nuvole di fumo sono state viste per mezzo di luci puntate sul camino della Cappella Sistina.”

(AP News 27/10/1958, Città del Vaticano – Reportage sull’inconfondibile fumo bianco, visto da tutti, dal camino della Cappella Sistina, la sera precedente.)

( FOTO IN ALTO) da S/R:

(1.) Il Cardinale, Giuseppe Siri di Genova, in Italia era noto per essere il successore designato con cura da S.S. Pio XII.

(2.) Conclave papale del 26 ottobre 1958, ore 18:00: il fumo sbuffa all’esterno della Cappella Sistina per ben cinque minuti, indicando che Siri è stato eletto Papa. Egli ha accettato l’incarico e ha scelto il nome

GREGORIO XVII.

Poi, all’interno del conclave stesso, fu attuato un colpo di stato massonico per cui il Papa appena eletto fu “bloccato” violentemente. (*)

(3.) L’inquietante realtà delle parole di Nostra Signora di La Salette secondo cui:

Roma perderà la fede e diventerà la sede dell’Anticristo … La Chiesa sarà in eclissi …”,

si è ora tristemente realizzata proprio davanti ai nostri occhi.

(*) La persona così eletta [Papa] acquisisce la piena giurisdizione sulla Chiesa universale immediatamente dopo aver acconsentito, e diventa il Vicario di Cristo sulla terra. ” (“Elezioni canoniche” p. 107, 1917, Imprimatur)

DEO GRATIAS

LUNGA VITA AL PAPA

Nam mysterium jam operatur iniquitatis): tantum ut qui tenet nunc, teneat, donec de medio fiat. Et tunc revelabitur ille iniquus …

(2 Tess. II, 7-8)

Framea, suscitare super pastorem meum, et super virum cohærentem mihi, dicit Dominus exercituum: percute pastorem, et dispergentur oves: et convertam manum meam ad parvulos.

O spada, esci dal fodero contro il mio Pastore e contro l’uomo unito con me, dice il Signore degli eserciti:

percuoti il Pastore,

e le pecorelle della greggia saran disperse; ed io stenderò ai piccoli la mia mano…

(Zac. XIII, 7-8)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (8)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [8]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XIX.

Della conformità che dobbiamo avere alla volontà di Dio sì nella morte come nella vita.

Abbiamo ancora da esser conformi alla volontà di Dio per quel che riguarda o il vivere, o il morire. E sebben questa cosa del morire di natura sua è molto difficile, perché, come dice il Filosofo, Omnium rerum nihil morte terribilius, nihil acerbius (Arist. 3 Æth. c. 6): la morte è la cosa più terribile di tutte le cose umane: nondimeno ne’ Religiosi è tolta via e spianata in gran parte questa difficoltà; perché già abbiamo fatta la metà di questo viaggio, ed anche quasi tutto. Primieramente una delle cagioni per le quali agli uomini del mondo suol riuscir duro il morire e dà loro gran dolore l’arrivo di quell’ora, è perché lasciano le ricchezze, gli onori, i diletti, i trattenimenti, le comodità che avevano in questa vita, gli amici e i parenti; quell’altro la moglie; quell’altro i figliuoli, i quali in quell’ora sogliono dare non poco fastidio, specialmente quando non restano accomodati e collocati. Tutte queste cose già le  ha lasciate a buon’ora il Religioso; e cosi non gli danno fastidio né dolore. Quando il dente è bene scarnato e staccato dalle gengive, allora si cava facilmente; ma se lo vuoi cavare senza scarnarlo, ti cagionerà gran dolore; così al Religioso che già è scarnato e staccato da tutte queste cose del mondo, non cagiona dolore nell’ora della morte l’averle a lasciare; perché le lasciò volontariamente, e con gran merito, fin da quando entrò nella Religione, e non aspettò a lasciarle nel punto della morte; come quei del mondo, che allora bisogna che le lascino per necessità, ancorché non vogliano, e con gran dolore e molte volte eziandio senza alcun merito; poiché più tosto sono le stesse cose che allora lasciano i lor possessori, che questi lascino esse. E questo, tra gli altri molti, è uno de’ frutti che si traggono dal lasciare il mondo e dall’entrare in Religione. S. Gio. Crisostomo nota molto bene (D. Crys. hom. 14 in I . ad Tim.), come a quei che stanno nel mondo molto attaccati alla roba, ai trattenimenti e alle comodità e delizie di questa vita, suol riuscire assai dolorosa la morte, secondo quello che disse il Savio: O mors, quam amara est memoria tua homini pacem habenti in substantiis suis (1(1) Eecli. XLI, 1)! Per fino la memoria della morte è loro amara; or che sarà la presenza di essa? Se questa solo immaginata è amara; che cosa sarà provata? Ma al Religioso il quale ha lasciate già tutte queste cose non è amara la morte, anzi gli è molto dolce e gustosa, come fine e termine di tutti i suoi travagli; e si considera in quel punto come uno che va a ricevere il premio e il guiderdone di tutto quello che ha lasciato per Dio. Un’altra cosa principale che suole cagionar grande angoscia e dolore in quell’ora agli uomini del mondo e render loro la morte terribile e tormentosa, dice S. Ambrogio (D Ambr., de bono mortis, c. 8) che è la mala coscienza e il mancamento di buona disposizione: il che né anche ha né deve aver luogo nel Religioso: poiché tutta la sua vita è una continua preparazione e disposizione al ben morire. Si narra di un santo Religioso, che dicendogli il medico che si preparasse per morire, egli rispose, che da che prese l’abito nella Religione non aveva fatto altro che prepararsi per la morte. Questo è l’esercizio del Religioso. Lo stato istesso della Religione c’instruisce nella disposizione che Cristo nostro Redentore vuole che abbiamo per la sua venuta: Sint lumbi vestri prœcincti, et lucernœ ardentes in manibus vestris (Luc. XII, 35): Tenete cinti i vostri lombi e candele accese nelle vostre mani. S. Gregorio (D. Greg. hom. 13 in Evang.) dice, che il cingere i lombi significa la castità, e il tener le candele accese nelle mani significa l’esercizio delle opere buone; le quali due cose risplendono principalmente nello stato della Religione; e così il buon Religioso non ha occasione di temere la morte. E notisi qui una cosa, già da noi altrove toccata (Vide supra tract.2, c. 5), la quale fa assai al nostro proposito; ed è, che uno de’ buoni contrassegni che vi siano d’aver una buona coscienza e di star bene con Dio, è 1’esser molto conforme alla sua divina volontà in ordine all’ora della sua morte, e lo starla aspettando con grande allegrezza, come chi aspetta il suo sposo, per celebrar con esso le nozze e gli sposalizi celesti : Et vos similes hominibus expectantibus dominum suum, quando revertatur a nuptiis (Luc. XII, 36). E  per lo contrario il dispiacere assai ad uno la morte e il non avere questa conformità, non è buon segno. Si sogliono apportare  alcune buone similitudini per dichiarar questa cosa. Non vedi con che pace e quiete va la pecora al macello, senza aprir bocca né far resistenza alcuna? Ch’è l’esempio che porta la sacra Scrittura per esprimere la mansuetudine con cui andò Cristo nostro Redentore alla morte: Tamquam ovis ad occisionem ductus est (Act. VIII, 32; Isa. LIII, 7). Ma l’animale immondo quanto grugnisce e quanta resistenza fa quando lo vogliono ammazzare? Or questa differenza vi è fra i buoni che sono figurati nelle pecore, e i cattivi e carnali che sono figurati in questi altri animali. Colui che è condannato a morte, ogni volta che sente aprir la prigione, s’attrista, pensando che vengano per cavarlo fuori e appiccarlo; ma l’innocente e quegli che è assoluto, si rallegra ogni volta che la sente aprire, pensando che vengano a liberarlo. Così l’uomo cattivo, quando sente scuotere le sue chiavi, la morte e l’infermità lo stringono, teme, e prova gran pena e affanno, perché come ha macchiata la coscienza, così pensa che presto avrà ad essere condannato alle fiamme dell’inferno per sempre. Ma quegli che ha buona coscienza più tosto si rallegra, perché conosce, che quindi sarà per passare alla libertà e al riposo eterno. Facciamo dunque noi altri quel che dobbiamo come buoni Religiosi: e non solamente non sentiremo difficoltà nel conformarci alla volontà di Dio nell’ora della morte; ma più tosto ci rallegreremo e pregheremo Dio col Profeta, che ci cavi da questo carcere: Educ de custodia (idest de carcere) animam meam (Ps. CXLI, 8). S. Gregorio sopra quelle parole di Giob, Et bestias terræ non formidabis, dice: Justis namque initium retributionis est ipsa plerumque in obitu securitas mentis (D. Greg. lib. 6 mor. o. 16 ; Job v, 22). L’aver nell’ora della morte quest’allegrezza e questa pace e sicurezza di coscienza, dice che è principio del guiderdone de’ giusti: già cominciano a godere una gocciola di quella pace che come fiume abbondante e fecondante ha da entrar subito nelle anime loro: già cominciano a sentire la loro beatitudine. E per lo contrario i cattivi cominciano a sentire il loro tormentO ed il loro inferno, con quel timore e rimorso che sentono in quell’ora. Di maniera che il desiderar la morte ed il rallegrarsi per essa è molto buon segno. – S. Giovanni Climaco dice così: È molto lodevole colui il quale aspetta ogni giorno la morte; ma colui il quale a tutte le ore la desidera, è santo (D. Clim. c. 6). E S. Ambrogio loda quelli che hanno desiderio di morire (D. Ambr. in Orat, funebri de obitu Valentin. Imp. tom. 5, et de fide resurr.). E cosi veggiamo, che quei santi Patriarchi antichi avevano questo desiderio, tenendosi per pellegrini e forestieri sopra la terra, e non per fermi abitatori: Confitentes, quia peregrini et hospites sunt super terram. E come nota molto bene l’apostolo S. Paolo, Qui hæc dicunt, significant se patriam inquirere (Ad Hebr. XI, 14.): Ben dimostravano in questo, che stavano desiderando di uscire da quest’esilio: e questa era la cosa per la quale sospirava il reale Profeta: Heu mihi, quia incolatus meus prolongatus est (Ps. CXIX, 5)! Oimè, che si è prolungato il mio esilio! E se ciò dicevano e desideravano quegli antichi Patriarchi, stando allora chiusa la porta del cielo, e non avendovi d’andar essi subito; che sarà adesso che sta aperta e che subito che l’anima è purgata va a goder Dio?

CAPO XX.

D’alcune ragioni e motivi, per i quali possiamo desiderare la morte lecitamente e santamente.

Acciocché possiamo meglio e con maggior perfezione conformarci alla volontà di Dio, sì nella morte come nella vita, porteremo qui alcuni motivi e ragioni per lequali si può desiderar di morire, affinché eleggiamo la migliore. La prima ragione per la quale si può desiderare la morte, è per fuggire i travagli che reca seco questa vita: perché, come dice il Savio: Melior est mors, quam vita amara (Eccli. XXX, 17); è migliore la morte che una vita amara e travagliosa. In questa maniera veggiamo che gli uomini del mondo desiderano molte volte la morte, e la chieggono a Dio, e lo possono fare senza peccato; poiché alla fine sono tanti e tali i travagli di questa vita, che è lecito desiderare la morte per fuggirli (D. Aug. lib. 2 contra 2 epis. Gaud. cap. 22, tom. 7). Una delle ragioni che allegano i Santi dell’aver dati Dio tanti travagli agli uomini è, perché non s’avessero ad attaccar tanto a questo mondo né ad amar tanto questa vita; ma mettessero il loro cuore e il loro amore nell’altra, e sospirassero per essa, ubi non erit luctus, neque clamor, neque dolor erit ultra (Apoc. XXI, 4), nella quale non vi sarà pianto né dolore. S. Agostino dice, che Dio Signor nostro per sua infinita bontà e misericordia volle che questa vita fosse breve e finisse presto, perché è travagliosa; e che l’altra che aspettiamo fosse eterna, acciocché il travaglio durasse poco, e il godimento e il riposo fosse eterno (D. Aug. sem. 37 de Sanctis, qui est sermo primus in testo omnium Sanctorum). Sant’Ambrogio dice: Tantis malis hæc vita repleta est, ut comparatione ejus mors remedium putetur esse, non pœna (D. Ambr. serm. sup. cit, c. 7 Jo. tom. 2.). È tanto piena di mali e di travagli questa vita, che se Dio non ci avesse data la morte per castigo, gliela avremmo domandata per misericordia e per rimedio, acciocché finissero tanti mali e travagli. Vero è, che molte volte gli uomini del mondo peccano in questo per l’impazienza colla quale pigliano i travagli e pel modo nel quale domandano a Dio la morte, usando termini di lamenti e d’impazienza; ma se gliela domandassero con pace e con sommessione, dicendo: Signore, se vi piace, cavatemi da questi travagli, mi basta quello che ho vissuto; ciò non sarebbe peccato. Secondariamente si può desiderar la morte con maggior perfezione, per non vedere i travagli della Chiesa e le continue offese che si fanno a Dio: come veggiamo che la desiderava il profeta Elia, il quale, veggendo la persecuzione d’Acab e di Jezabele che avevano distrutti gli Altari e uccisi tutti i Profeti di Dio, e che andavano in cerca di lui per lo medesimo effetto, ardendo di zelo dell’onore di Dio, e conoscendo che non vi poteva rimediare, se ne andò ramingo per i deserti della Giudea, e postosi quivi a seder sotto un albero, petivit animæ suæ, ut moreretur; et ait: Sufficit mihi, Domine: tolle animam meam; neque enim melior sum, quam patres mei (III. Reg. XIX, 4.): desiderò di morire; e disse: Mi basta, Signore, quello che sono vissuto: levatemi oramai da questa vita, acciocch’io non vegga tanti mali né tante vostre offese. E quel valoroso capitano del popolo di Dio, Giuda Maccabeo, diceva: Melius est mori in bello, quam videre mala gentis nostra;, et Sanctorum (I Mac. III, 59). Ci mette più conto il morire in guerra, che il veder tanti mali e tante offese di Dio: e con questo esortava ed animava i suoi a combattere. E del beato S. Agostino leggiamo nella sua Vita, che passando i Vandali dalla Spagna nell’Africa, distruggendola tutta, senza perdonare né ad uomo né a donna, né ad Ecclesiastici né a laici, né a fanciulli né a vecchi; arrivarono alla città d’Ippona della quale egli era Vescovo, e l’assediarono da ogni banda con molta gente: e vedendo S. Agostino tanto grande tribolazione, e le chiese senza Preti, e le città co’ suoi abitatori distrutte, piangeva amaramente nella sua vecchiaia, e radunato il suo Clero gli disse: Ho pregato il Signore, che, o ci liberasse da questi pericoli, o ci desse pazienza, o cavasse me da questa vita, per non farmi veder tanti mali; e il Signore m’ha conceduta questa terza cosa, e così subito al terzo mese dell’assedio si ammalò dell’infermità della quale morì. E del nostro S. P. Ignazio leggiamo nella Vita sua un altro esempio simile (Lib. 4, c. 16 Vita; F. N. S. Ign.). Questa è perfezione dei Santi, sentir tanto i travagli della Chiesa e le offese che si fanno alla, maestà di Dio, che non lo possono soffrire, e così desiderino la morte per non veder tanto gran male. – V’è ancora un altro motivo e un’altra ragione molto buona e di molta perfezione per desiderare e domandar a Dio la morte, ed è per vederci ormai liberi e sicuri dall’offenderlo. Perché è cosa certa, che mentre stiamo in questa vita non vi è sicurezza per questo; ma possiamo cadere in peccato mortale; e sappiamo, ch’altri da più di noi i quali avevano gran doni da Dio e che veramente erano Santi, e gran Santi, caddero. Questa è una delle cose che fa più temere i Servi di Dio e per la quale desiderano uscire da questa vita. Per non peccare può uno desiderare di non esser nato né di avere mai avuto essere; quanto più può desiderar di morire? Perciocché è maggior male il peccato, che il non essere: e meglio sarebbe stato il non essere, che l’aver peccato : Bonum erat et, si natus non fuisset homo Me (Matth. XXVI, 24), disse Cristo nostro Redentore di quel disgraziato di Giuda che l’aveva da vendere: Sarebbe stato meglio per lui non esser nato. E S. Ambrogio dichiara a questo proposito quelle parole dell’Ecclesiast (D. Ambr. 13 sup. Psal. CXVIII; Eccli. IV, 2, 3.): Et laudavi magis mortuos, quam viventes; et feliciorem utroque judicavi, qui necdum natus est! Ho lodato più i morti che i vivi, e per più felice di tutti questi ho riputato colui che non è mai nato. S. Ambrogio dice così: Mortuus præfertur viventi, quia peccare destitit: mortuo præfertur qui natus non est, quia peccare nescivit: Il morto è preferito al vivo, perché ha già lasciato di peccare: e al morto è preferito colui che non è nato, perché non ha mai potuto peccare. Onde sarà molto buono esercizio l’attuarci molte volte nell’orazione in questi atti, Domine, ne permittas me separarì a te: Signore, non permettete che io mi separi giammai da Voi. Signore, se vi ho da offendere, levatemi dal mondo prima ch’io vi offenda; che io non desidero la vita, se non per servirvi; e se non vi ho da servire con essa non la desidero (Supra tract. 5, c. 5). Questo è un esercizio molto grato a Dio e molto utile a noi altri, perché in sé contiene un esercizio di dolore e di odio e abborrimento del peccato, un esercizio di umiltà, un esercizio d’amor di Dio, e una domanda delle più grate a Dio che possiamo fargli. Si narra di S. Luigi re di Francia, che alle volte la sua santa madre, Donna Bianca Reina, gli diceva: Vorrei, figliuol mio, vederti piuttosto cader morto sotto a’ miei occhi, che vederti con un peccato mortale su l’anima. E piacque tanto a Dio questo desiderio e questa benedizione che ella gli dava, che si dice di lui che in tutta la sua vita non commise mai peccato mortale (In Vita S. Lud. Reg. Galliæ). Quest’ istesso effetto potrà essere che operi in te questo desiderio e questa domanda. Di più non solo per evitare i peccati mortali, ma ancora per evitare i veniali, de’ quali siamo pieni in questa vita, è cosa buona desiderare la morte. Perché il Servo di Dio ha da star molto risoluto e determinato non solo di morire più tosto che commettere un peccato mortale; ma eziandio di più tosto morire che dire una bugia, che è un peccato veniale: echi veramente morisse per questo, sarebbe martire: dappoiché è cosa certa, che se viviamo, commettiamo molti peccati veniali: Septies enim cadet justus (Prov. XXIV, 16): Sette volte cadrà l’uom giusto, che vuol dire molte volte: e quanto più vivrà, tante più volte cadrà (D. Thom. 2 2, q. 124, art. 5, ad 2). Né solamente per evitare i peccati veniali desiderano i servi di Dio di uscire da questa vita; ma lo desiderano ancora per vedersi liberi da tanti mancamenti e imperfezioni, e da tante tentazioni e miserie, quante ne proviamo ogni giorno: Dice molto bene quel Santo: O Signore, e quanto mai interiormente patisco, mentre pensando nell’orazione alle cose celesti, subito mi si rappresenta alla mente una gran turba di pensieri carnali! Oimè, che vita è questa, ove non mancano travagli e miserie; ove ogni cosa è piena di lacci e di nemici! Imperocché partendosi una tribolazione e tentazione, ne viene un’altra: e durando ancor la prima battaglia, ne sopravvengono molle altre non aspettate. Come può esser amata una vita piena di tanti guai e soggetta a tante calamità e miserie? come si può chiamar vita quella che genera tante morti e tante pesti (Thomas a Kempis, lib. 3, c. 48, n. 5)?Si legge d’una gran Santa che soleva dire,che se avesse potuto eleggere qualche cosa,non n’avrebbe eletta altra che la morte:perché l’anima per mezzo di essa si trovalibera d’ogni timore di far mai più cosache sia d’impedimento al puro amore. Èanche pur cosa di maggior perfezione ildesiderare d’uscire da questa vita, per evitari peccati veniali e i mancamenti e leimperfezioni, di quello che sia il ciò desiderareper evitare i peccati mortali; perchérispetto a questi può darsi che uno si muovaa concepire tal desiderio più per timor dell’inferno e per l’interesse e amor suo proprio,che per amor di Dio: ma l’aver eglitanto amore di Dio, che desideri la morteper non commettere peccati veniali, né mancamenti e imperfezioni, è gran purità d’intenzione e. cosa di gran perfezione. Ma potrebbe dire alcuno: io desidero di vivere per soddisfare per le mie colpe edifetti.A questo rispondo, che se vivendo più, scontassimo sempre le cose passate, e non aggiungessimo nuove colpe, questo sarebbe bene. Ma se non solamente non. I sconti, ma accresci i debiti, e quanto più vivi, tanto più hai di che render conto a Dio,non dirai bene. Dice benissimo S. Bernardo: Cur ergo tantopere vitam istam desideramus in qua quanto amplius vivimus, tanto plus peccamus; quanto est vita longior, tanto culpa numerosior (D. Bern. c. 2 medit.)? Perché desideriamo noi tanto questa vita nella quale quanto più viviamo, tanto più pecchiamo? E S. Girolamo dice: Che differenza pensi tu vi sia fra quello che muore giovine, e quello che muore vecchio, se non che il vecchio va all’altro mondo più carico di peccati che il giovane, e ha più di che rendere conto a Dio (D. Hieron. ep. ad Hel.)? E così S. Bernardo piglia in questo un’altra risoluzione migliore, e dice colla sua grande umiltà certe parole che noi altri possiamo dire con più verità: Vivere erubesco, quia parum pròficio: mori timeo, quia non sum paratus. Malo tamen mori, et misericordia; Dei me committere et commendare, quia benignus et misericors est; quam de mea mala conversatione alicui scandalum facere (D. Bern. de inter. domo, c. 35).Mi vergogno di vivere per lo poco profitto che io fo; e temo di morire perché non istò preparato: con tutto ciò voglio più tosto morire e pienamente abbandonarmi alla misericordia di Dio, poiché Egli è benigno e misericordioso, che proseguire a scandalizzare i miei fratelli colla mia vita tiepida e rimessa. Questo è un molto buon sentimento.Il P. Maestro Avila diceva, che chiunquesi sia il quale tanto solo che si trovi con mediocre disposizione, questo tale dovrebbe più tosto desiderar la morte che la vita, per ragione del pericolo in cui vive di offender Dio, e il quale cessa affatto colla morte. Quid est mors, nisi sepultura vitiorum, virtutum suscitatio? dice sant’Ambrogio.Che cosa è la morte, se non la sepoltura dei vizi e la resurrezione delle virtù (D. Ambros. de bono mortis, c. 4)? Tutte queste ragioni e motivi sono molto buoni per desiderar la morte; ma il motivo di maggior perfezione è quello che stimolava il cuore dell’apostolo Paolo, il quale desiderava di morire per brama di trovarsi col suo Cristo Gesù che tanto egli amava: Desiderium habens dissolvi, et esse cum Christo (Ad Philip, l, 23). Che dici S. Paolo? Perchè desideri di essere sciolto dal corpo? forse per fuggire i travagli? no per certo, che più tosto gloriamur in tribulationibus (Ad Rom. V, 3): questa è la gloria mia. Perché  dunque? per fuggir i peccati? Né anche: Certus sum enim, quia neque mors, neque vita… poterit nos separare a charitate Dei (Ibid. VIII, 38): era egli confermato in grazia, e sapeva, che non la poteva perdere; e così non aveva occasione di temer questo. Perché dunque desideri tanto la morte? Per vedermi una volta con Cristo. La desiderava per puro amore: Quia amore langueo (Cane, II, 5). Era infermo d’amore, e così sospirava pel suo diletto, e qualsivoglia piccola tardanza gli pareva lunga, per arrivar a godere della sua presenza. S. Bonaventura di tre gradi che distingue 1’amor di Dio, mette questo per ultimo (D. Bonav. process. 6 Relig. c. 11, 12 et 13). Il primo è, amar Dio sopra tutte le cose, amando talmente le cose del mondo, che per nessuna di esse facciamo un peccato mortale né trasgrediamo alcun comandamento di Dio: che è quello che disse Cristo nostro Redentore a quel giovinetto dell’Evangelio: Si vis ad vitam ingredi. serva mandata (Matth. XIX, 17.). Se vuoi conseguire la vita eterna, osserva i comandamenti: e a questo è tenuto ogni Cristiano. Il secondo grado di carità è, non contentarci della osservanza dei comandamenti di Dio, ma aggiungerci i consigli: il che è proprio dei Religiosi, i quali non solo cercano il bene, ma anche il meglio e il più perfetto, conformemente a quello che diceva S. Paolo: Ut probetis, quæ sit voluntas Dei bona, et beneplacens, et perfecta (Ad Rom. XII, 2). Il terzo grado di carità dice S. Bonaventura che è, tanto affectu ad Deum estuare, quod sine ipso quasi vivere non possis. Quando uno è tanto acceso e infiammato d’amor di Dio, che gli pare di non poter vivere senza di Lui: onde desidera vedersi libero e sciolto dal carcere di questo corpo per istarsene con Cristo, e sta desiderando d’essere richiamato da quest’esilio, e che si consumi e cada finalmente questo muro del corpo che sta di mezzo, e c’impedisce il vedere Dio. Questi tali, dice il Santo, hanno la vita in impazienza, o per dir meglio, in fastidio, e la morte in ardente desiderio. Del nostro S. Padre Ignazio leggiamo nella sua Vita (Lib. 5, c. 1 Vita P. N. S. Ignatii), che era ardentissimo il desiderio che aveva d’uscire da questo carcere del corpo, e che sospirava tanto l’anima sua per andar a trovarsi col suo Dio, che pensando alla sua morte non poteva ritener le lagrime che per pura allegrezza gli piovevan dagli occhi. Ma si dice ivi, che ardeva egli di questi accesissimi desideri non tanto per conseguir quel sommo bene per sé e per riposarsi egli in quella felice vista, quanto, e molto più, per veder la felicissima gloria dell’umanità sacrosantissima di Cristo che tanto egli amava. In quella maniera che suole di qua un amico rallegrarsi di veder ricolmo di onore e gloria quell’altro che egli ama cordialmente: nella stessa desiderava il nostro santo Padre di vedersi con Cristo, dimentico affatto del proprio interesse e riposo, e spinto da puro amore. Questo era l’unico suo desiderio, il protestarsi rallegrando e godendo della gloria di Cristo, e congratulandosi seco di essa, che è il più alto e perfetto atto d’amore a cui possiamo giungere (Infra c. 32). In questo modo non solo non ci sarà amara la memoria della morte, ma più tosto ci darà gran gusto ed allegrezza. Passa un poco più avanti, e considera, che da qui a pochi giorni starai in cielo godendo di quello che né occhio ha veduto, né orecchio ha udito, né può cader in umano intelletto, e che ogni cosa si convertirà in allegrezza e giocondità. Chi non si rallegra, che termini l’esilio e abbia fine il travaglio? chi non si rallegra di giungere a conseguire il suo ultimo fine per lo quale è stato creato? chi non si rallegra d’entrare in possesso della sua eredità, ed eredità tale? Ora per mezzo della morte entriamo a possedere l’eredità del cielo. Cum dederit dilectis suis somnum: ecce hæreditas Domini (Psal. CXXVI, 3). Non possiamo entrare in possesso di quei Beni eterni, se non per mezzo della morte. E così il Savio dice che l’uomo giusto spera nella sua morte: Sperat justus in morte sua (1 Prov. XIX, 32); perché questo è il mezzo e la scala per salire in cielo, e così questa è la consolazione del presente esilio. Psallam, et intelligam in vita immaculata, quando venies ad me (Psal. C, 2). S. Agostino dichiara così questo luogo (D. Aug. tract. 9 sup. Ep. Jo): Signore, la mia attenzione e il mio desiderio, è conservarmi senza macchia tutta la mia vita, e con questa cura e sollecitudine andrò sempre cantando, e l’argomento del mio canto sarà: Quando, Signore, si rivocherà quest’esilio? quando verrete per me? quando, Signore, verrò io a trovar voi? Quando veniam, et apparebo ante faciem Dei (Psal. XLI, 3)? Quando, Signore, mi vedrò avanti del vostro volto? Oh quanto mi viene ritardata quest’ora! Oh quanto sarà grande per me il gusto e l’allegrezza quando mi sarà detto, che ella è già vicina: Laitatus sum in his, qua; dicta sunt mihi: In domum Domini ibimus. Slantes erant pedes nostri in atriis tuis, Jerusalem (Ps. CXXI, 1-2): M’immagino d’aver già posti colà i piedi e di trovarmi in compagnia degli Angeli e di quei Beati, e di star godendo di voi, o Signore, per tutta l’eternità.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: PIO XI – “QUAS PRIMAS”

In questo bel giorno glorioso, non possiamo che rileggere la Lettera Enciclica che Sua Santità Pio XI scrisse per istituire la festa di Cristo Re. Si legga al proposito la bella opera di E. Hugon O. P. che ne illustra e definisce i presupposti scritturali, patristici, magisteriali e liturgici. A noi altri pusillus grex la gioia dell’evento che ogni anno si ripresenta per ricordarci chi sia il nostro vero Re, al quale tutto dobbiamo: vita, redenzione, grazia, gloria futura, eterna felicità;  e questo specie in questo anno segnato da eventi negativamente straordinari che dimostrano ciò che in questa Enciclica si proclama con forza: Quando si abbandona la Regalità di Cristo e se ne disconosce il dolce dominio negandogli la lieve obbedienza, ci si burla della sua Autorità divina ed umana, si finisce nelle grinfie del nemico infernale, il padre della menzogna che ci affligge con castighi da Dio permessi a nostro castigo e penitenza onde svegliarci dal sonno profondo dell’anima che ha oscurato intere nazioni e popoli un tempo Cristiani. Lasciando il regno di Cristo, si finisce nella demoniocrazia dittatoriale dei corrotti, degli empi, dei ladri, dei sacrileghi sanguinari, impersonati dagli adepti di vario livello delle sette di perdizione oggi infiltrate e dominanti pure nei sacri palazzi di una volta, nella città sede del Trono del Vicario di Cristo, trono oggi occupato da impostori apostati usurpanti, che trascinano un’infinità di anime nell’eterno fuoco, in combutta con finti prelati gaudenti ed affamati di onori e prebende che esteriormente mostrano una santità ipocrita ed antidottrinale – ignoranza e malafede – evidente in ogni ambito, dalla parrocchia sperduta nella campagna, alla diocesi dell’immensa metropoli. Ci conforta il fatto che oramai gli eventi siano agli sgoccioli, e sopportando con pazienza e spirito di penitenza e di riparazione, ci poniamo in attesa del nostro Re, prossimo a venire come baleno dall’oriente, Re che brucerà col soffio della sua bocca l’anticristo operante ed i suoi lacché in talare, grembiulino e mascherina-museruola. Ma oggi è giorno di festa e di gioia grande, si festeggia il nostro Re, al cui fianco c’è naturalmente la nostra amata Regina, la Madre dei veri Cristiani ed Avvocata misericordiosa presso il Giudice che giudicherà individui, famiglie, popoli e Nazioni, soprattutto le Nazioni apostate che hanno voltato le spalle al Re che tanto le aveva beneficate, per affidarsi ai banchieri ed agli pseudo-scienziati, gli assassini ed ai terroristi mondialisti, che vorrebbero incoronare nuovamente il loro signore dell’universo, il baphomet-lucifero spodestato dalla croce di Cristo ed adorato nelle logge e nella falsa panteista chiesa-sinagoga vaticana dell’uomo … Sed qui habitat in cælis irridebit eos,  et Dominus subsannabit eos…. Ma ora silenzio; Quas primas, SS. Pio XI.

[Lettera Enciclica “Quas primas” di S. S. Pio XI]

Nella prima Enciclica che, asceso al Pontificato, dirigemmo a tutti i Vescovi dell’Orbe cattolico — mentre indagavamo le cause precipue di quelle calamità da cui vedevamo oppresso e angustiato il genere umano — ricordiamo d’aver chiaramente espresso non solo che tanta colluvie di mali imperversava nel mondo perché la maggior parte degli uomini avevano allontanato Gesù Cristo e la sua santa legge dalla pratica della loro vita, dalla famiglia e dalla società, ma altresì che mai poteva esservi speranza di pace duratura fra i popoli, finché gli individui e le nazioni avessero negato e da loro rigettato l’impero di Cristo Salvatore. – Pertanto, come ammonimmo che era necessario ricercare la pace di Cristo nel Regno di Cristo, così annunziammo che avremmo fatto a questo fine quanto Ci era possibile; nel Regno di Cristo — diciamo — poiché Ci sembrava che non si possa più efficacemente tendere al ripristino e al rafforzamento della pace, che mediante la restaurazione del Regno di Nostro Signore. – Frattanto il sorgere e il pronto ravvivarsi di un benevolo movimento dei popoli verso Cristo e la sua Chiesa, che sola può recar salute, Ci forniva non dubbia speranza di tempi migliori; movimento tal quale s’intravedeva che molti i quali avevano disprezzato il Regno di Cristo e si erano quasi resi esuli dalla Casa del Padre, si preparavano e quasi s’affrettavano a riprendere le vie dell’obbedienza.

L’Anno Santo e il Regno di Cristo

E tutto quello che accadde e si fece, nel corso di questo Anno Santo, degno certo di perpetua memoria, forse non accrebbe l’onore e la gloria al divino Fondatore della Chiesa, nostro supremo Re e Signore? – Infatti, la Mostra Missionaria Vaticana quanto non colpì la mente e il cuore degli uomini, sia facendo conoscere il diuturno lavoro della Chiesa per la maggiore dilatazione del Regno del suo Sposo nei continenti e nelle più lontane isole dell’Oceano; sia il grande numero di regioni conquistate al cattolicesimo col sudore e col sangue dai fortissimi e invitti Missionari; sia infine col far conoscere quante vaste regioni vi siano ancora da sottomettere al soave e salutare impero del nostro Re. E quelle moltitudini che, durante questo Anno giubilare, vennero da ogni parte della terra nella città santa, sotto la guida dei loro Vescovi e sacerdoti, che altro avevano in cuore, purificate le loro anime, se non proclamarsi presso il sepolcro degli Apostoli, davanti a Noi, sudditi fedeli di Cristo per il presente e per il futuro? – E questo Regno di Cristo sembrò quasi pervaso di nuova luce allorquando Noi, provata l’eroica virtù di sei Confessori e Vergini, li elevammo agli onori degli altari. E qual gioia e qual conforto provammo nell’animo quando, nello splendore della Basilica Vaticana, promulgato il decreto solenne, una moltitudine sterminata di popolo, innalzando il cantico di ringraziamento esclamò: Tu Rex gloriæ, Christe!  – Poiché, mentre gli uomini e le Nazioni, lontani da Dio, per l’odio vicendevole e per le discordie intestine si avviano alla rovina ed alla morte, la Chiesa di Dio, continuando a porgere al genere umano il cibo della vita spirituale, crea e forma generazioni di santi e di sante a Gesù Cristo, il quale non cessa di chiamare alla beatitudine del Regno celeste coloro che ebbe sudditi fedeli e obbedienti nel regno terreno. – Inoltre, ricorrendo, durante l’Anno Giubilare, il sedicesimo secolo dalla celebrazione del Concilio di Nicea, volemmo che l’avvenimento centenario fosse commemorato, e Noi stessi lo commemorammo nella Basilica Vaticana tanto più volentieri in quanto quel Sacro Sinodo definì e propose come dogma la consustanzialità dell’Unigenito col Padre, e nello stesso tempo, inserendo nel simbolo la formula «il regno del quale non avrà mai fine», proclamò la dignità regale di Cristo. – Avendo, dunque, quest’Anno Santo concorso non in uno ma in più modi ad illustrare il Regno di Cristo, Ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro ufficio apostolico, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi sia individualmente, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. – Questa cosa Ci reca tanta gioia che Ci spinge, Venerabili Fratelli, a farvene parola; voi poi, procurerete di adattare ciò che Noi diremo intorno al culto di Gesù Cristo Re, all’intelligenza del popolo e di spiegarne il senso in modo che da questa annua solennità ne derivino sempre copiosi frutti.

Gesù Cristo è Re

Gesù Cristo Re delle menti, delle volontà e dei cuori

Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re per il sommo grado di eccellenza, che ha in modo sovreminente fra tutte le cose create. In tal modo, infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è Verità ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da Lui la verità; similmente nelle volontà degli uomini, sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perché con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana (Supereminentem scientiæ caritatem) e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità: nessuno infatti degli uomini fu mai tanto amato e mai lo sarà in avvenire quanto Gesù Cristo. Ma per entrare in argomento, tutti debbono riconoscere che è necessario rivendicare a Cristo Uomo nel vero senso della parola il nome e i poteri di Re; infatti soltanto in quanto è Uomo si può dire che abbia ricevuto dal Padre la potestà, l’onore e il regno, perché come Verbo di Dio, essendo della stessa sostanza del Padre, non può non avere in comune con il Padre ciò che è proprio della divinità, e per conseguenza Egli su tutte le cose create ha il sommo e assolutissimo impero.

La Regalità di Cristo nei libri dell’Antico Testamento.

E non leggiamo infatti spesso nelle Sacre Scritture che Cristo è Re ? Egli invero è chiamato il Principe che deve sorgere da Giacobbe,, eche dal Padre è costituito Re sopra il Monte santo di Sion, che riceverà le genti in eredità e avrà in possesso i confini della terra. Il salmo nuziale, col quale sotto l’immagine di un re ricchissimo e potentissimo viene preconizzato il futuro Re d’Israele, ha queste parole: «II tuo trono, o Dio, sta per sempre, in eterno: scettro di rettitudine è il tuo scettro reale». – E per tralasciare molte altre testimonianze consimili, in un altro luogo per lumeggiare più chiaramente i caratteri del Cristo, si preannunzia che il suo Regno sarà senza confini ed arricchito coi doni della giustizia e della pace: «Fiorirà ai suoi giorni la Giustizia e somma pace… Dominerà da un mare all’altro, e dal fiume fino alla estremità della terra». A questa testimonianza si aggiungono in modo più ampio gli oracoli dei Profeti e anzitutto quello notissimo di Isaia: «Ci è nato un bimbo, ci fu dato un figlio: e il principato è stato posto sulle sue spalle e sarà chiamato col nome di Ammirabile, Consigliere, Dio forte, Padre del secolo venturo, Principe della pace. Il suo impero crescerà, e la pace non avrà più fine. Sederà sul trono di Davide e sopra il suo regno, per stabilirlo e consolidarlo nel giudizio e nella giustizia, da ora ed in perpetuo». E gli altri Profeti non discordano da Isaia: così Geremia, quando predice che nascerà dalla stirpe di Davide il “Rampollo giusto” che qual figlio di Davide «regnerà e sarà sapiente e farà valere il diritto e la giustizia sulla terra»; così Daniele che preannunzia la costituzione di un regno da parte del Re del cielo, regno che «non sarà mai in eterno distrutto… ed esso durerà in eterno» e continua: «Io stavo ancora assorto nella visione notturna, quand’ecco venire in mezzo alle nuvole del cielo uno con le sembianze del figlio dell’uomo che si avanzò fino al Vegliardo dai giorni antichi, e davanti a lui fu presentato. E questi gli conferì la potestà, l’onore e il regno; tutti i popoli, le tribù e le lingue serviranno a lui; la sua potestà sarà una potestà eterna che non gli sarà mai tolta, e il suo regno, un regno che non sarà mai distrutto». E gli scrittori dei santi Vangeli non accettano e riconoscono come avvenuto quanto è predetto da Zaccaria intorno al Re mansueto il quale «cavalcando sopra un’asina col suo piccolo asinello» era per entrare in Gerusalemme, qual giusto e salvatore fra le acclamazioni delle turbe?

Gesù Cristo si è proclamato Re

Del resto questa dottrina intorno a Cristo Re, che abbiamo sommariamente attinto dai libri del Vecchio Testamento, non solo non viene meno nelle pagine del Nuovo, ma anzi vi è confermata in modo splendido e magnifico. E qui, appena accennando all’annunzio dell’arcangelo da cui la Vergine viene avvisata che doveva partorire un figlio, al quale Iddio avrebbe dato la sede di David, suo padre, e che avrebbe regnato nella Casa di Giacobbe in eterno e che il suo Regno non avrebbe avuto fine  vediamo che Cristo stesso dà testimonianza del suo impero: infatti, sia nel suo ultimo discorso alle turbe, quando parla dei premi e delle pene, riservate in perpetuo ai giusti e ai dannati; sia quando risponde al Preside romano che pubblicamente gli chiedeva se fosse Re, sia quando risorto affida agli Apostoli l’ufficio di ammaestrare e battezzare tutte le genti, colta l’opportuna occasione, si attribuì il nome di Re, e pubblicamente confermò di essere Re  e annunziò solennemente a Lui era stato dato ogni potere in cielo e in terra. E con queste parole che altro si vuol significare se non la grandezza della potestà e l’estensione immensa del suo Regno? – Non può dunque sorprenderci se Colui che è detto da Giovanni «Principe dei Re della terra», porti, come apparve all’Apostolo nella visione apocalittica «scritto sulla sua veste e sopra il suo fianco: Re dei re e Signore dei dominanti». Da quando l’eterno Padre costituì Cristo erede universale, è necessario che Egli regni finché riduca, alla fine dei secoli, ai piedi del trono di Dio tutti i suoi nemici. – Da questa dottrina dei sacri libri venne per conseguenza che la Chiesa, regno di Cristo sulla terra, destinato naturalmente ad estendersi a tutti gli uomini e a tutte le nazioni, salutò e proclamò nel ciclo annuo della Liturgia il suo autore e fondatore quale Signore sovrano e Re dei re, moltiplicando le forme della sua affettuosa venerazione. Essa usa questi titoli di onore esprimenti nella bella varietà delle parole lo stesso concetto; come già li usò nell’antica salmodia e negli antichi Sacramentari, così oggi li usa nella pubblica ufficiatura e nell’immolazione dell’Ostia immacolata. In questa laude perenne a Cristo Re, facilmente si scorge la bella armonia fra il nostro e il rito orientale in guisa da render manifesto, anche in questo caso, che «le norme della preghiera fissano i principi della fede». Ben a proposito Cirillo Alessandrino, a mostrare il fondamento di questa dignità e di questo potere, avverte che «egli ottiene, per dirla brevemente, la potestà su tutte le creature, non carpita con la violenza né da altri ricevuta, ma la possiede per propria natura ed essenza»; cioè il principato di Cristo si fonda su quella unione mirabile che è chiamata unione ipostatica. Dal che segue che Cristo non solo deve essere adorato come Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma anche che a Lui, come Uomo, debbono essi esser soggetti ed obbedire: cioè che per il solo fatto dell’unione ipostatica Cristo ebbe potestà su tutte le creature. – Eppure che cosa più soave e bella che il pensare che Cristo regna su di noi non solamente per diritto di natura, ma anche per diritto di conquista, in forza della Redenzione? Volesse Iddio che gli uomini immemori ricordassero quanto noi siamo costati al nostro Salvatore: «Non a prezzo di cose corruttibili, di oro o d’argento siete stati riscattati… ma dal Sangue prezioso di Cristo, come di agnello immacolato e incontaminato». Non siamo dunque più nostri perché Cristo ci ha ricomprati col più alto prezzo: i nostri stessi corpi sono membra di Cristo.

Natura e valore del Regno di Cristo

Volendo ora esprimere la natura e il valore di questo principato, accenniamo brevemente che esso consta di una triplice potestà, la quale se venisse a mancare, non si avrebbe più il concetto d’un vero e proprio principato. – Le testimonianze attinte dalle Sacre Lettere circa l’impero universale del nostro Redentore, provano più che a sufficienza quanto abbiamo detto; ed è dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui debbono riporre la loro fiducia, ed allo stesso tempo come legislatore a cui debbono obbedire. – I santi Evangeli non soltanto narrano come Gesù abbia promulgato delle leggi, ma lo presentano altresì nell’atto stesso di legiferare; e il divino Maestro afferma, in circostanze e con diverse espressioni, che chiunque osserverà i suoi comandamenti darà prova di amarlo e rimarrà nella sua carità . Lo stesso Gesù davanti ai Giudei, che lo accusavano di aver violato il sabato con l’aver ridonato la sanità al paralitico, afferma che a Lui fu dal Padre attribuita la potestà giudiziaria: «Il Padre non giudica alcuno, ma ha rimesso al Figlio ogni giudizio». Nel che è compreso pure il diritto di premiare e punire gli uomini anche durante la loro vita, perché ciò non può disgiungersi da una propria forma di giudizio. Inoltre la potestà esecutiva si deve parimenti attribuire a Gesù Cristo, poiché è necessario che tutti obbediscano al suo comando, e nessuno può sfuggire ad esso e alle sanzioni da lui stabilite.

Regno principalmente spirituale

Che poi questo Regno sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali, ce lo dimostrano i passi della sacra Bibbia sopra riferiti, e ce lo conferma Gesù Cristo stesso col suo modo di agire. – In varie occasioni, infatti, quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, egli cercò di togliere e abbattere questa vana attesa e speranza; e così pure quando stava per essere proclamato Re dalla moltitudine che, presa di ammirazione, lo attorniava, Egli rifiutò questo titolo e questo onore, ritirandosi e nascondendosi nella solitudine; finalmente davanti al Preside romano annunciò che il suo Regno “non è di questo mondo”. – Questo Regno nei Vangeli viene presentato in tal modo che gli uomini debbano prepararsi ad entrarvi per mezzo della penitenza, e non possano entrarvi se non per la fede e per il Battesimo, il quale benché sia un rito esterno, significa però e produce la rigenerazione interiore. Questo Regno è opposto unicamente al regno di Satana e alla “potestà delle tenebre”, e richiede dai suoi sudditi non solo l’animo distaccato dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e sete di giustizia, ma anche che essi rinneghino se stessi e prendano la loro croce. Avendo Cristo come Redentore costituita con il suo sangue la Chiesa, e come Sacerdote offrendo se stesso in perpetuo quale ostia di propiziazione per i peccati degli uomini, chi non vede che la regale dignità di Lui riveste il carattere spirituale dell’uno e dell’altro ufficio?

Regno universale e sociale

D’altra parte sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio. Tuttavia, finché fu sulla terra si astenne completamente dall’esercitare tale potere, e come una volta disprezzò il possesso e la cura delle cose umane, così permise e permette che i possessori debitamente se ne servano. A questo proposito ben si adattano queste parole: «Non toglie il trono terreno Colui che dona il regno eterno dei cieli». Pertanto il dominio del nostro Redentore abbraccia tutti gli uomini, come affermano queste parole del Nostro Predecessore di immortale memoria  Leone XIII, che Noi qui facciamo Nostre: «L’impero di Cristo non si estende soltanto sui popoli cattolici, o a coloro che, rigenerati nel fonte battesimale, appartengono, a rigore di diritto, alla Chiesa, sebbene le errate opinioni Ce li allontanino o il dissenso li divida dalla carità; ma abbraccia anche quanti sono privi di fede cristiana, di modo che tutto il genere umano è sotto la potestà di Gesù Cristo». – Né v’è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli. È lui solo la fonte della salute privata e pubblica: «Né in alcun altro è salute, né sotto il cielo altro nome è stato dato agli uomini, mediante il quale abbiamo da essere salvati», è lui solo l’autore della prosperità e della vera felicità sia per i singoli sia per gli Stati: «poiché il benessere della società non ha origine diversa da quello dell’uomo, la società non essendo altro che una concorde moltitudine di uomini». – Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l’incolumità del loro potere, l’incremento e il progresso della patria. Difatti sono quanto mai adatte e opportune al momento attuale quelle parole che all’inizio del Nostro pontificato Noi scrivemmo circa il venir meno del principio di autorità e del rispetto alla pubblica potestà: «Allontanato, infatti — così lamentavamo — Gesù Cristo dalle leggi e dalla società, l’autorità appare senz’altro come derivata non da Dio ma dagli uomini, in maniera che anche il fondamento della medesima vacilla: tolta la causa prima, non v’è ragione per cui uno debba comandare e l’altro obbedire. Dal che è derivato un generale turbamento della società, la quale non poggia più sui suoi cardini naturali».

Regno benefico

Se invece gli uomini privatamente e in pubblico avranno riconosciuto la sovrana potestà di Cristo, necessariamente segnalati benefici di giusta libertà, di tranquilla disciplina e di pacifica concordia pervaderanno l’intero consorzio umano. La regale dignità di nostro Signore come rende in qualche modo sacra l’autorità umana dei principi e dei capi di Stato, così nobilita i doveri dei cittadini e la loro obbedienza. – In questo senso l’Apostolo Paolo, inculcando alle spose e ai servi di rispettare Gesù Cristo nel loro rispettivo marito e padrone, ammoniva chiaramente che non dovessero obbedire ad essi come ad uomini ma in quanto tenevano le veci di Cristo, poiché sarebbe stato sconveniente che gli uomini, redenti da Cristo, servissero ad altri uomini: «Siete stati comperati a prezzo; non diventate servi degli uomini». Che se i principi e i magistrati legittimi saranno persuasi che si comanda non tanto per diritto proprio quanto per mandato del Re divino, si comprende facilmente che uso santo e sapiente essi faranno della loro autorità, e quale interesse del bene comune e della dignità dei sudditi prenderanno nel fare le leggi e nell’esigerne l’esecuzione. – In tal modo, tolta ogni causa di sedizione, fiorirà e si consoliderà l’ordine e la tranquillità: ancorché, infatti, il cittadino riscontri nei principi e nei capi di Stato uomini simili a lui o per qualche ragione indegni e vituperevoli, non si sottrarrà tuttavia al loro comando qualora egli riconosca in essi l’immagine e l’autorità di Cristo Dio e Uomo. – Per quello poi che si riferisce alla concordia e alla pace, è manifesto che quanto più vasto è il regno e più largamente abbraccia il genere umano, tanto più gli uomini diventano consapevoli di quel vincolo di fratellanza che li unisce. E questa consapevolezza come allontana e dissipa i frequenti conflitti, così ne addolcisce e ne diminuisce le amarezze. E se il regno di Cristo, come di diritto abbraccia tutti gli uomini, cosi di fatto veramente li abbracciasse, perché dovremmo disperare di quella pace che il Re pacifico portò in terra, quel Re diciamo che venne «per riconciliare tutte le cose, che non venne per farsi servire, ma per servire gli altri”» e che, pur essendo il Signore di tutti, si fece esempio di umiltà, e questa virtù principalmente inculcò insieme con la carità e disse inoltre: «II mio giogo è soave e il mio peso leggero?». – Oh, di quale felicità potremmo godere se gli individui, le famiglie e la società si lasciassero governare da Cristo! «Allora veramente, per usare le parole che il Nostro Predecessore Leone XIII venticinque anni fa rivolgeva a tutti i Vescovi dell’orbe cattolico, si potrebbero risanare tante ferite, allora ogni diritto riacquisterebbe l’antica forza, tornerebbero i beni della pace, cadrebbero dalle mani le spade, quando tutti volentieri accettassero l’impero di Cristo, gli obbedissero, ed ogni lingua proclamasse che nostro Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre».

La Festa di Cristo Re

Scopo della festa di Cristo Re

E perché più abbondanti siano i desiderati frutti e durino più stabilmente nella società umana, è necessario che venga divulgata la cognizione della regale dignità di nostro Signore quanto più è possibile. Al quale scopo Ci sembra che nessun’altra cosa possa maggiormente giovare quanto l’istituzione di una festa particolare e propria di Cristo Re. – Infatti, più che i solenni documenti del Magistero ecclesiastico, hanno efficacia nell’informare il popolo nelle cose della fede e nel sollevarlo alle gioie interne della vita le annuali festività dei sacri misteri, poiché i documenti, il più delle volte, sono presi in considerazione da pochi ed eruditi uomini, le feste invece commuovono e ammaestrano tutti i fedeli; quelli una volta sola parlano, queste invece, per così dire, ogni anno e in perpetuo; quelli soprattutto toccano salutarmente la mente, queste invece non solo la mente ma anche il cuore, tutto l’uomo insomma. Invero, essendo l’uomo composto di anima e di corpo, ha bisogno di essere eccitato dalle esteriori solennità in modo che, attraverso la varietà e la bellezza dei sacri riti, accolga nell’animo i divini insegnamenti e, convertendoli in sostanza e sangue, faccia si che essi servano al progresso della sua vita spirituale. – D’altra parte si ricava da documenti storici che tali festività, col decorso dei secoli, vennero introdotte una dopo l’altra, secondo che la necessità o l’utilità del popolo cristiano sembrava richiederlo; come quando fu necessario che il popolo venisse rafforzato di fronte al comune pericolo, o venisse difeso dagli errori velenosi degli eretici, o incoraggiato più fortemente e infiammato a celebrare con maggiore pietà qualche mistero della fede o qualche beneficio della grazia divina. Così fino dai primi secoli dell’era cristiana, venendo i fedeli acerbamente perseguitati, si cominciò con sacri riti a commemorare i Martiri, affinché — come dice Sant’Agostino — le solennità dei Martiri fossero d’esortazione al martirio. E gli onori liturgici, che in seguito furono tributati ai Confessori, alle Vergini e alle Vedove, servirono meravigliosamente ad eccitare nei fedeli l’amore alle virtù, necessarie anche in tempi di pace. – E specialmente le festività istituite in onore della Beata Vergine fecero sì che il popolo cristiano non solo venerasse con maggior pietà la Madre di Dio, sua validissima protettrice, ma si accendesse altresì di più forte amore verso la Madre celeste, che il Redentore gli aveva lasciato quasi per testamento. Tra i benefici ottenuti dal culto pubblico e liturgico verso la Madre di Dio e i Santi del Cielo non ultimo si deve annoverare questo: che la Chiesa, in ogni tempo, poté vittoriosamente respingere la peste delle eresie e degli errori. – In tale ordine di cose dobbiamo ammirare i disegni della divina Provvidenza, la quale, come suole dal male ritrarre il bene, così permise che di quando in quando la fede e la pietà delle genti diminuissero, o che le false teorie insidiassero la verità cattolica, con questo esito però, che questa risplendesse poi di nuovo splendore, e quelle, destatesi dal letargo, tendessero a cose maggiori e più sante. – Ed invero le festività che furono accolte nel corso dell’anno liturgico in tempi a noi vicini, ebbero uguale origine e produssero identici frutti. Così, quando erano venuti meno la riverenza e il culto verso l’augusto Sacramento, fu istituita la festa del Corpus Domini, e si ordinò che venisse celebrata in modo tale che le solenni processioni e le preghiere da farsi per tutto l’ottavario richiamassero le folle a venerare pubblicamente il Signore; così la festività del Sacro Cuore di Gesù fu introdotta quando gli animi degli uomini, infiacchiti e avviliti per il freddo rigorismo dei giansenisti, erano del tutto agghiacciati e distolti dall’amore di Dio e dalla speranza della eterna salvezza. – Ora, se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società.

Il “laicismo”

La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso. – I pessimi frutti, che questo allontanamento da Cristo da parte degli individui e delle nazioni produsse tanto frequentemente e tanto a lungo, Noi lamentammo nella Enciclica Ubi arcano Dei e anche oggi lamentiamo: i semi cioè della discordia sparsi dappertutto; accesi quegli odii e quelle rivalità tra i popoli, che tanto indugio ancora frappongono al ristabilimento della pace; l’intemperanza delle passioni che così spesso si nascondono sotto le apparenze del pubblico bene e dell’amor patrio; le discordie civili che ne derivarono, insieme a quel cieco e smoderato egoismo sì largamente diffuso, il quale, tendendo solo al bene privato ed al proprio comodo, tutto misura alla stregua di questo; la pace domestica profondamente turbata dalla dimenticanza e dalla trascuratezza dei doveri familiari; l’unione e la stabilità delle famiglie infrante, infine la stessa società scossa e spinta verso la rovina. – Ci sorregge tuttavia la buona speranza che l’annuale festa di Cristo Re, che verrà in seguito celebrata, spinga la società, com’è nel desiderio di tutti, a far ritorno all’amatissimo nostro Salvatore. Accelerare e affrettare questo ritorno con l’azione e con l’opera loro sarebbe dovere dei Cattolici, dei quali, invero, molti sembra non abbiano nella civile convivenza quel posto né quell’autorità, che s’addice a coloro che portano innanzi a sé la fiaccola della verità. – Tale stato di cose va forse attribuito all’apatia o alla timidezza dei buoni, i quali si astengono dalla lotta o resistono fiaccamente; da ciò i nemici della Chiesa traggono maggiore temerità e audacia. Ma quando i fedeli tutti comprendano che debbono militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re, con ardore apostolico si studieranno di ricondurre a Dio i ribelli e gl’ignoranti, e si sforzeranno di mantenere inviolati i diritti di Dio stesso.

La preparazione storica della festa di Cristo Re

E chi non vede che fino dagli ultimi anni dello scorso secolo si preparava meravigliosamente la via alla desiderata istituzione di questo giorno festivo? Nessuno infatti ignora come, con libri divulgati nelle varie lingue di tutto il mondo, questo culto fu sostenuto e sapientemente difeso; come pure il principato e il regno di Cristo fu ben riconosciuto colla pia pratica di dedicare e consacrare tutte le famiglie al Sacratissimo Cuore di Gesù. E non soltanto famiglie furono consacrate, ma altresì nazioni e regni; anzi, per volere di Leone XIII, tutto il genere umano, durante l’Anno Santo 1900, fu felicemente consacrato al Divin Cuore. – Né si deve passar sotto silenzio che a confermare questa regale potestà di Cristo sul consorzio umano meravigliosamente giovarono i numerosissimi Congressi eucaristici, che si sogliono celebrare ai nostri tempi; essi, col convocare i fedeli delle singole diocesi, delle regioni, delle nazioni e anche tutto l’orbe cattolico, a venerare e adorare Gesù Cristo Re nascosto sotto i veli eucaristici, tendono, mediante discorsi nelle assemblee e nelle chiese, mediante le pubbliche esposizioni del Santissimo Sacramento, mediante le meravigliose processioni ad acclamare Cristo quale Re dato dal cielo. – A buon diritto si direbbe che il popolo cristiano, mosso da ispirazione divina, tratto dal silenzio e dal nascondimento dei sacri templi, e portato per le pubbliche vie a guisa di trionfatore quel medesimo Gesù che, venuto nel mondo, gli empi non vollero riconoscere, voglia ristabilirlo nei suoi diritti regali. – E per vero ad attuare il Nostro divisamento sopra accennato, l’Anno Santo che volge alla fine Ci porge la più propizia occasione, poiché Dio benedetto, avendo sollevato la mente e il cuore dei fedeli alla considerazione dei beni celesti che superano ogni gaudio, o li ristabilì in grazia e li confermò nella retta via e li avviò con nuovi incitamenti al conseguimento della perfezione. – Perciò, sia che consideriamo le numerose suppliche a Noi rivolte, sia che consideriamo gli avvenimento di questo Anno Santo, troviamo argomento a pensare che finalmente è spuntato il giorno desiderato da tutti, nel quale possiamo annunziare che si deve onorare con una festa speciale Cristo quale Re di tutto il genere umano. – In quest’anno infatti, come dicemmo sin da principio, quel Re divino veramente ammirabile nei suoi Santi, è stato magnificato in modo glorioso con la glorificazione di una nuova schiera di suoi fedeli elevati agli onori celesti; parimenti in questo anno per mezzo dell’Esposizione Missionaria tutti ammirarono i trionfi procurati a Cristo per lo zelo degli operai evangelici nell’estendere il suo Regno; finalmente in questo medesimo anno con la centenaria ricorrenza del Concilio Niceno, commemorammo la difesa e la definizione del dogma della consustanzialità del Verbo incarnato col Padre, sulla quale si fonda l’impero sovrano del medesimo Cristo su tutti i popoli.

L’istituzione della festa di Cristo Re

Pertanto, con la Nostra apostolica autorità istituiamo la festa di nostro Signore Gesù Cristo Re, stabilendo che sia celebrata in tutte le parti della terra l’ultima domenica di ottobre, cioè la domenica precedente la festa di tutti i Santi. Similmente ordiniamo che in questo medesimo giorno, ogni anno, si rinnovi la consacrazione di tutto il genere umano al Cuore santissimo di Gesù, che il Nostro Predecessore di santa memoria Pio X aveva comandato di ripetere annualmente. – In quest’anno però, vogliamo che sia rinnovata il giorno trentuno di questo mese, nel quale Noi stessi terremo solenne pontificale in onore di Cristo Re e ordineremo che la detta consacrazione si faccia alla Nostra presenza. Ci sembra che non possiamo meglio e più opportunamente chiudere e coronare 1’Anno Santo, né rendere più ampia testimonianza della Nostra gratitudine a Cristo, Re immortale dei secoli, e di quella di tutti i cattolici per i beneficî fatti a Noi, alla Chiesa e a tutto l’Orbe cattolico durante quest’Anno Santo. – E non fa bisogno, Venerabili Fratelli, che vi esponiamo a lungo i motivi per cui abbiamo istituito la solennità di Cristo Re distinta dalle altre feste, nelle quali sembrerebbe già adombrata e implicitamente solennizzata questa medesima dignità regale. – Basta infatti avvertire che mentre l’oggetto materiale delle attuali feste di nostro Signore è Cristo medesimo, l’oggetto formale, però, in esse si distingue del tutto dal nome della potestà regale di Cristo. La ragione, poi, per cui volemmo stabilire questa festa in giorno di domenica, è perché non solo il Clero con la celebrazione della Messa e la recita del divino Officio, ma anche il popolo, libero dalle consuete occupazioni, rendesse a Cristo esimia testimonianza della sua obbedienza e della sua devozione. – Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti. – Pertanto questo sia il vostro ufficio, o Venerabili Fratelli, questo il vostro compito di far sì che si premetta alla celebrazione di questa festa annuale, in giorni stabiliti, in ogni parrocchia, un corso di predicazione, in guisa che i fedeli ammaestrati intorno alla natura, al significato e all’importanza della festa stessa, intraprendano un tale tenore di vita, che sia veramente degno di coloro che vogliono essere sudditi affezionati e fedeli del Re divino.

I vantaggi della festa di Cristo Re

Giunti al termine di questa Nostra lettera Ci piace, o Venerabili Fratelli, spiegare brevemente quali vantaggi in bene sia della Chiesa e della società civile, sia dei singoli fedeli, Ci ripromettiamo da questo pubblico culto verso Cristo Re. – Col tributare questi onori alla dignità regia di nostro Signore, si richiamerà necessariamente al pensiero di tutti che la Chiesa, essendo stata stabilita da Cristo come società perfetta, richiede per proprio diritto, a cui non può rinunziare, piena libertà e indipendenza dal potere civile, e che essa, nell’esercizio del suo divino ministero di insegnare, reggere e condurre alla felicità eterna tutti coloro che appartengono al Regno di Cristo, non può dipendere dall’altrui arbitrio. – Di più, la società civile deve concedere simile libertà a quegli ordini e sodalizi religiosi d’ambo i sessi, i quali, essendo di validissimo aiuto alla Chiesa e ai suoi pastori, cooperano grandemente all’estensione e all’incremento del regno di Cristo, sia perché con la professione dei tre voti combattono la triplice concupiscenza del mondo, sia perché con la pratica di una vita di maggior perfezione, fanno sì che quella santità, che il divino Fondatore volle fosse una delle note della vera Chiesa, risplenda di giorno in giorno vieppiù innanzi agli occhi di tutti. – La celebrazione di questa festa, che si rinnova ogni anno, sarà anche d’ammonimento per le nazioni che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti: li richiamerà al pensiero del giudizio finale, nel quale Cristo, scacciato dalla società o anche solo ignorato e disprezzato, vendicherà acerbamente le tante ingiurie ricevute, richiedendo la sua regale dignità che la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principî cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell’amministrare la giustizia, sia finalmente nell’informare l’animo dei giovani alla santa dottrina e alla santità dei costumi. – Inoltre non è a dire quanta forza e virtù potranno i fedeli attingere dalla meditazione di codeste cose, allo scopo di modellare il loro animo alla vera regola della vita cristiana. – Poiché se a Cristo Signore è stata data ogni potestà in cielo e in terra; se tutti gli uomini redenti con il Sangue suo prezioso sono soggetti per un nuovo titolo alla sua autorità; se, infine, questa potestà abbraccia tutta l’umana natura, chiaramente si comprende, che nessuna delle nostre facoltà si sottrae a tanto impero.

Conclusione

Cristo regni!

È necessario, dunque, che Egli regni nella mente dell’uomo, la quale con perfetta sottomissione, deve prestare fermo e costante assenso alle verità rivelate e alla dottrina di Cristo; che regni nella volontà, la quale deve obbedire alle leggi e ai precetti divini; che regni nel cuore, il quale meno apprezzando gli affetti naturali, deve amare Dio più d’ogni cosa e a Lui solo stare unito; che regni nel corpo e nelle membra, che, come strumenti, o al dire dell’Apostolo Paolo, come “armi di giustizia”  offerte a Dio devono servire all’interna santità delle anime. Se coteste cose saranno proposte alla considerazione dei fedeli, essi più facilmente saranno spinti verso la perfezione. – Faccia il Signore, Venerabili Fratelli, che quanti sono fuori del suo regno, bramino ed accolgano il soave giogo di Cristo, e tutti, quanti siamo, per sua misericordia, suoi sudditi e figli, lo portiamo non a malincuore ma con piacere, ma con amore, ma santamente, e che dalla nostra vita conformata alle leggi del Regno divino raccogliamo lieti ed abbondanti frutti, e ritenuti da Cristo quali servi buoni e fedeli diveniamo con Lui partecipi nel Regno celeste della sua eterna felicità e gloria. – Questo nostro augurio nella ricorrenza del Natale di nostro Signore Gesù Cristo sia per voi, o Venerabili Fratelli, un attestato del Nostro affetto paterno; e ricevete l’Apostolica Benedizione, che in auspicio dei divini favori impartiamo ben di cuore a voi, o Venerabili Fratelli, e a tutto il popolo vostro.

[Dato a Roma, presso S. Pietro, il giorno 11 Dicembre dell’Anno Santo 1925, quarto del Nostro Pontificato.]

DOMENICA DELLA FESTA DI CRISTO RE (2020)

Messa della DOMENICA DI CRISTO RE (2020)

DÒMINE Iesu Christe, te confiteor Regem universàlem. Omnia, quæ facta sunt, prò te sunt creata. Omnia iura tua exérce in me. Rénovo vota Baptismi abrenùntians sàtanæ eiùsque pompis et opéribus et promitto me victùrum ut bonum christiànum. Ac, potissimum me óbligo operàri quantum in me est, ut triùmphent Dei iura tuæque Ecclèsiæ. Divinum Cor Iesu, óffero tibi actiones meas ténues ad obtinéndum, ut corda omnia agnóscant tuam sacram Regalitàtem et ita tuæ pacis regnum stabiliàtur in toto terràrum orbe. Amen.

DOMENICA In festo Domino nostro Jesu Christi Regis ~ I. classis

L’ULTIMA DOMENICA D’OTTOBRE

Festa del Cristo Re.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Doppio di prima classe. – Paramenti bianchi.

La festa del Cristo Re, per quanto d’istituzione recente, perché stabilita da Pio XI nel dicembre 1925, ha le sue più profonde radici nella Scrittura, nel dogma e nella liturgia. Merita, a questo riguardo d’esser riportato qui integralmente in versione italiana dall’ebraico, il famoso salmo messianico, che nel Salterio reca il n. 2. Il salmista comincia dal descrivere la congiura di popoli e governanti contro il Messia, cioè il Cristo:

A che prò si agitano le genti

e le nazioni brontolano vanamente?

Si sollevano i re della terra

e i principi congiurano insieme

contro Dio ed il suo Messia:

« Spezziamo i loro legami

e scotiamo da noi le loro catene ».

Popoli e governanti considerano come legami e catene intollerabili i precetti divini e cercano di ribellarvisi: tentativo ridicolo, conati di impotenti contro l’Onnipotente:

Chi siede nei cieli ne ride,

il Signore se ne fa beffe.

Poi loro parla con ira

e col suo sdegno li sgomenta.

Dio stesso dichiara che il Re da Lui costituito su tutto il mondo è il Messia:

« Ho consacrato Io il mio Re,

(l’ho consacrato) sul Sion, il sacro mio monte »..

Alla sua volta il Cristo Re dichiara:

« Promulgherò il divino decreto.

Dio m’ha detto: Tu sei il mio Figlio;

Io quest’oggi t’ho generato.

Chiedi a me e ti darò in possesso le genti

e in tuo dominio i confini della terra.

Li governerai con scettro di ferro,

quali vasi di creta li frantumerai ».

Il Salmista conchiude, rivolgendo un caldo appello al governanti:

Or dunque, o re, fate senno:

ravvedetevi, o governanti della terra!

Soggettatevi a Dio con timore

e baciategli i piedi con tremore;

affinché non si adiri e voi siate perduti,

per poco che divampi l’ira sua.

Felici quelli che ricorrono a Lui!

(Trad. Vaccari)

Un altro salmo, il più celebre di tutto il salterio, insiste sugli stessi concetti: regalità del Cristo, il quale, nello stesso tempo che re dei secoli, è anche sacerdote in eterno; ribellione di re e popoli contro il Cristo; trionfo finale, schiacciante ed assoluto del Cristo sui propri nemici:

Responso del Signore (Dio) al mio Signore (il Cristo):

« Siedi alla mia destra,

finché io faccia dei tuoi nemici

lo sgabello dei tuoi piedi ».

Da Sionne stenderà il Signore

lo scettro di tua potenza;

impera sui tuoi nemici…

Il Signore ha giurato e non se ne pentirà;

« Tu sei sacerdote in eterno

alla guisa di Melchisedecco…».

(Ps. CIX).

Attraverso queste espressioni metaforiche ed orientali infravediamo delle grandi verità religiose e storiche: la dignità assolutamente regale e sacerdotale del Cristo; i suoi diritti, per generazione divina e per la redenzione del genere umano (vedi Merc. Santo, lez. di Isaia, c. LIII 1-12); la signoria di tutto il mondo (vedi Fil. II, 5-11); la feroce guerra mossa al Cristo dagli avversari in tutto ciò che sa di religioso e particolarmente di cristiano; la vittoria del Cristo Re. Venti secoli di storia cristiana dicono eloquentemente quanto siasi già avverata la Scrittura. Da Erode, cosi detto il Grande, che s’adombra del Cristo bambino, a Caifa, che paventa per la sua nazione, e Pilato, che teme per la sua sedia curule, ai Giudei, uccisori del Cristo e persecutori degli Apostoli, agli imperatori romani, che ad intervalli perseguitano la Chiesa per oltre due secoli, fino alle moderne rivoluzioni che tutte si accaniscono anzitutto e soprattutto contro la Chiesa, è una lunga incessante storia di ribellioni di popoli e principi contro Dio ed il Cristo Re. Se guardiamo semplicemente al nostro secolo, alla persecuzione sanguinosa dei Boxer contro i Cattolici cinesi, alle persecuzioni del Messico, a quelle di quasi tutta l’Europa, dalla Russia alla Spagna, che guerra al Cristo Re! È fatale; ma altrettanto fatale la vittoria del Cristo. Ai suoi discepoli il Cristo Re dice: Confidate: io ho vinto il mondo (Giov., XVI, 33). Ai suoi nemici: Chiunque cadrà su questa pietra sarà spezzato; e colui sul quale la pietra cadrà sarà stritolato, Luc. XX, 18). Per impartirci tale dottrina « un’annua solennità è più efficace di tutti i documenti ecclesiastici, anche i più gravi» (Pio XI, enciclica 11 dic. 1925). La festa di oggi è una grande lezione per tutti: lezione specialmente di illimitata fiducia pei veri fedeli: Felici quelli che ricorrono a Lui (al Cristo Re). Lezione anche di devoto, generoso servizio sotto il vessillo del Cristo Re. La Messa odierna ricorda soprattutto la gloria tributata al Cristo Re dai beati del Cielo (Introito); il regno del Figlio Unigenito, ed il suo primato assoluto in tutto e su tutto (Epistola); quel regno celeste che Gesù ha rivendicato davanti a Pilato, il quale non credeva che al proprio grado e stipendio (Vangelo). il Prefazio canta le caratteristiche sublimi del regno del Cristo.  – Gesù-Cristo è il Verbo creatore, è l’Uomo-Dio seduto alla destra del Padre, è il nostro Salvatore. Sono questi i tre titoli di regalità.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Dignus est Agnus, qui occísus est, accípere virtútem, et divinitátem, et sapiéntiam, et fortitúdinem, et honórem. Ipsi glória et impérium in sǽcula sæculórum.

[L’Agnello che fu sacrificato è degno di ricevere potenza, ricchezza, sapienza, forza, onore, gloria e lode; a Lui sia per sempre data gloria e impero, per …]
Ps LXXI: 1
Deus, iudícium tuum Regi da: et iustítiam tuam Fílio Regis.

[Dio, da al Re il tuo giudizio, ed al Figlio del Re la tua giustizia] –


Dignus est Agnus, qui occísus est, accípere virtútem, et divinitátem, et sapiéntiam, et fortitúdinem, et honórem. Ipsi glória et impérium in sǽcula sæculórum…

[L’Agnello che fu sacrificato è degno di ricevere potenza, ricchezza, sapienza. Forza, onore, gloria e lode; a Lui sia per sempre data gloria e impero, per …]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui in dilécto Fílio tuo, universórum Rege, ómnia instauráre voluísti: concéde propítius; ut cunctæ famíliæ géntium, peccáti vúlnere disgregátæ, eius suavissímo subdántur império: Qui tecum …

[Dio onnipotente ed eterno, che ponesti al vertice di tutte le cose il tuo diletto Figlio, Re dell’universo, concedi propizio che la grande famiglia delle nazioni, disgregata per la ferita del peccato, si sottometta al tuo soavissimo impero: Egli che …].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1: 12-20
Fratres: Grátias ágimus Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem ejus, remissiónem peccatórum: qui est imágo Dei invisíbilis, primogénitus omnis creatúra: quóniam in ipso cóndita sunt univérsa in cœlis et in terra, visibília et invisibília, sive Throni, sive Dominatiónes, sive Principátus, sive Potestátes: ómnia per ipsum, et in ipso creáta sunt: et ipse est ante omnes, et ómnia in ipso constant. Et ipse est caput córporis Ecclésiæ, qui est princípium, primogénitus ex mórtuis: ut sit in ómnibus ipse primátum tenens; quia in ipso complácuit omnem plenitúdinem inhabitáre; et per eum reconciliáre ómnia in ipsum, pacíficans per sánguinem crucis ejus, sive quæ in terris, sive quæ in cœlis sunt, in Christo Jesu Dómino nostro.

[Fratelli, ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in Lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in Lui ogni pienezza e per mezzo di Lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di Lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.]

Graduale

Ps LXXI: 8; LXXVIII: 11
Dominábitur a mari usque ad mare, et a flúmine usque ad términos orbis terrárum.

[Egli dominerà da un mare all’altro, dal fiume fino all’estremità della terra]

V. Et adorábunt eum omnes reges terræ: omnes gentes sérvient ei.

[Tutti i re Gli si prostreranno dinanzi, tutte le genti Lo serviranno].

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Dan VII: 14.
Potéstas ejus, potéstas ætérna, quæ non auferétur: et regnum ejus, quod non corrumpétur. Allelúja.

[La potestà di Lui è potestà eterna che non Gli sarà tolta e il suo regno è incorruttibile]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. – Joann XVIII: 33-37

In illo témpore: Dixit Pilátus ad Jesum: Tu es Rex Judæórum? Respóndit Jesus: A temetípso hoc dicis, an álii dixérunt tibi de me? Respóndit Pilátus: Numquid ego Judǽus sum? Gens tua et pontífices tradidérunt te mihi: quid fecísti? Respóndit Jesus: Regnum meum non est de hoc mundo. Si ex hoc mundo esset regnum meum, minístri mei útique decertárent, ut non tráderer Judǽis: nunc autem regnum meum non est hinc. Dixit ítaque ei Pilátus: Ergo Rex es tu? Respóndit Jesus: Tu dicis, quia Rex sum ego. Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimónium perhíbeam veritáti: omnis, qui est ex veritáte, audit vocem meam.

[In quel tempo, disse Pilato a Gesù: “Tu sei il re dei Giudei?”. Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”. Pilato rispose: “Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?”. Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”.  Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”].

OMELIA

 [Giov. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle Feste del Signore e dei Santi – Soc. Edit. Vita e Pesiero, Milano, VI ed. 1956]

LA REGALITÀ DI CRISTO

Il conquistatore della Terra Promessa, l’invitto condottiero d’eserciti, stanco e vecchio presentiva che la sua giornata era al tramonto, e la morte gli era dietro le spalle. Allora in Sichem radunò tutte le tribù d’Israele coi loro principi, coi seniori, coi giudici, coi magistrati: la pianura, come un prato quando passa il vento, fluttuava di persone. E Giosuè parlò al popolo così: « Stirpe d’Israele! I vostri padri, spesse volte, hanno servito a re e a dei stranieri e furono schiavi in Mesopotamia e in Egitto. Ora il Signore vi ha liberati da ogni tirannia e con la sua mano vi ha deterso il pianto dagli occhi: vi diede una terra meravigliosa che voi non avevate lavorato; vi diede città che voi non avevate costrutte; vi diede oliveti e vigne che voi non avevate piantato. Dopo tutto questo, voi siete ancora liberi. Volete ritornare schiavi dei tiranni o dei falsi dei a cui servirono in Egitto e in Mesopotamia i vostri padri, o volete unicamente ubbidire al Dio nostro, al vero Re? Scegliete. Io e la mia famiglia siamo decisi a servire il Signore. Tutto il popolo rispose: « Non abbiam altro fuori di Lui: Lui solo è nostro Re ». « Allora togliete in mezzo a voi gli dei stranieri, e servite al Dio nostro e ubbidite ai suoi comandamenti » rispose Giosuè. Fu dunque conclusa un’alleanza solenne tra il popolo e il Signore, e una pietra stragrande fu posta in memoria sotto una guercia. « Ecco questa pietra starà in testimonianza per voi e per le generazioni che verranno, — esclamò Giosuè, — perché nessuno osi negare quello che a Dio ha giurato ». Tutto il popolo si disperse e ciascuno ritornò alla propria casa (Giosuè, XIV, 1-27). – Nel 1925, come il vecchio condottiero d’Israele, Pio XI parlò a tutto il popolo Cristiano con una magnifica lettera. « Le nostre anime hanno un Re grande e buono: un Re che è morto per darci la vita, ha versato il suo sangue per affrancarci dalla schiavitù del peccato, ha istituito il sacramento dell’Eucaristia per rimanere in mezzo a noi a governarci. Purtroppo, molti uomini si sono a Lui ribellati per tornare schiavi delle passioni e del demonio. Che scegliete: o servire satana e il mondo per poi essere dannati nel fuoco eterno o servire Gesù Cristo nell’osservanza dei comandamenti e nel rinnegamento degli istinti cattivi per poi essere beati in paradiso? ». Tutti i Cristiani di buona volontà hanno risposto: « Noi scegliamo d’essere sudditi di Gesù Cristo: nessun altro re conoscono le nostre anime ». Allora il Papa, in memoria perenne della consacrazione del mondo intero a Cristo Re, ha posto non una pietra fredda e muta, ma una festa devota ed entusiastica, da celebrarsi ogni anno nell’ultima domenica d’ottobre: la festa della Regalità di Nostro Signor Gesù Cristo. Per ciò oggi raccogliamo la nostra mente a meditare: chi è questo Re, come è il suo regno, quali sono i suoi nemici.

1. IL RE

Dice il santo Vangelo che sotto il pretorio di Pilato la plebe di Gerusalemme urlava: «Abbiamo trovato costui che sollevava il popolo a rivoluzione; ha cominciato dalla Galilea ed è venuto fin qua dicendo a tutti d’essere il Re dei Giudei ». Pilato ode le accuse ed in segreto interroga Gesù per sapere la verità. Gli domanda: « Sei tu il Re dei Giudei? » Gesù non risponde. « Non odi — continua Pilato — quante cose costoro gridano contro di te? Discolpati ». Gesù non risponde ancora. « Ma dunque — insiste il giudice romano — sei Re davvero? ». « Tu l’hai detto: io sono Re ». Rex sum ego (Giov., XVIII, 37). Ed aveva ragione. Chi è il re? è colui che sopra gli altri ha il triplice potere di far leggi, di giudicare, di punire. Orbene, Gesù Cristo possiede questo triplice potere. – Ha il potere di far leggi. « Voi sapete — diceva alle turbe il Maestro divino — che fin ora c’è stata una legge che permetteva l’odio al nemico e la vendetta fino a dente per dente, occhio per occhio. Adesso io vi do la legge dell’amore: fate del bene a quelli che vi fan del male, pregate per quelli che vi perseguitano e vi odiano. Voi sapete che fin ora c’è stata una legge che proibiva l’adulterio; adesso io vi dico che anche uno sguardo immodesto e un pensiero cattivo è peccato.. Voi sapete che fin ora c’è stata una legge che puniva i ferimenti e gli omicidi; adesso vi dico che punirò col fuoco anche le parole ingiuriose ed offensive » (Mt., V). – Ha il potere di giudicare. Spiegando ai discepoli la parabola della zizzania, Gesù disse che quando verrà nella sua maestà, starà sopra un trono, e gli Angeli saranno in giro a lui: allora separerà gli uomini a uno a uno, secondo il giudizio dei loro peccati (Mt., XIII, 40). E S. Giovanni ebbe una terribile visione: « Ho visto — scrive — tutti i morti, e grandi e piccoli, radunati davanti a un trono altissimo: furono aperti i libri delle loro opere e Gesù li giudicava secondo quello che vi stava scritto » (Apoc, XX, 12). Del resto lo diciamo nel Credo che Cristo « ascese al cielo: di là ha da venire a giudicare i vivi e i morti ». – Ha il potere di punire e di premiare. Parlando del giudizio finale il Signore ha detto : « Allora il Re a quelli di destra dirà: venite, o benedetti del Padre mio, vi ho preparato un regno eterno di delizie, perché quando avevo fame voi mi sfamaste e quando avevo sete voi mi dissetaste. Ma poi volgendosi a quelli di sinistra dirà: voi che m’avete fatto patire e fame e sete siete condannati all’inferno col demonio e gli angeli ribelli» (Mt., XXV, 33-45). Dunque Gesù Cristo è Re. – È Re perché Dio gli ha dato ogni potestà su tutta la terra. È Re perché tutti gli uomini erano schiavi del peccato ed Egli li ha comprati non con oro né con argento ma col prezioso sangue suo. È Re perché tutti gli uomini erano sotto il dominio del demonio per il peccato originale ed Egli li ha conquistati morendo sulla croce. Per natura, per acquisto, per conquista è nostro Re e noi lo riconosciamo: « Tu Rex glorìæ, Christe! ».

2. IL REGNO

«Sono Re!» disse Gesù a Pilato. «Ma il mio regno non è di questo mondo. Se fosse di questo mondo i miei discepoli con le spade mi avrebbero difeso dai Giudei, e milioni di Angeli invincibili avrebbero sterminato i miei nemici ». Il Regno di Gesù Cristo non è un regno materiale. Egli avrebbe potuto venire al mondo come un potente imperatore, con la sua capitale, col suo palazzo, col suo esercito, con la sua flotta: ne avrebbe avuto anche il diritto. Però, per nostro amore preferì la stalla alla reggia, la corona di spine alla corona d’oro, la canna allo scettro, la croce al trono. Ma se il suo Regno non è materiale è però superiore ad ogni altro. I re di questo mondo comandano sui corpi, Egli sui cuori. I re di questo mondo si fanno ubbidire con la forza, Egli con l’amore. I re di questo mondo hanno palazzi e troni ed Egli ha le sue chiese e i suoi altari. I re di questo mondo hanno gli eserciti ed anch’Egli li ha, e più belli e più valorosi: sono migliaia di fanciulle che amano conventi ove per Lui consumano la vita, adorandolo giorno e notte; sono migliaia di uomini che rinunciano alle carriere fulgide del mondo, ai guadagni e si fanno religiosi, sacerdoti; sono migliaia di giovani robusti che hanno il coraggio di lasciare il paese dove sono nati, e la patria amata, e vanno per deserti e per selve, fino agli ultimi confini del mondo, senza nulla fuor che un crocifisso per estendere il Regno di Cristo. – Il Regno di Cristo è universale. Ogni regno di questo mondo ha i suoi confini: l’Italia è limitata dalle Alpi e dal mare, l’Inghilterra non regna sulla Russia né sulla Francia…, anche l’impero romano che fu il più grande di tutti aveva le sue colonne d’Ercole. Il regno di Gesù Cristo non ha confini: è grande come tutta la terra. Su ogni campanile di ogni paese trovate la croce; tra l’erba di ogni cimitero trovate la croce; nelle capanne dei selvaggi trovate la croce. Se il Papa, viceré di Cristo, dice una parola, quella parola con venerazione è ascoltata in ogni parte del mondo. – Il Regno di Cristo è eterno. Quando Gesù Cristo cominciò a regnare, sul mondo comandavano gl’imperatori romani: ora, tutti gli imperatori romani sono morti e morto è il loro impero, mentre ancora Cristo vince, regna, comanda. Era già mille anni che viveva la Chiesa di Cristo, quando Guglielmo il Conquistatore stabiliva in Inghilterra la dinastia dei re Anglo-Normanni; ora quella dinastia con tutti i suoi re è spenta, mentre ancora Cristo vince, regna, comanda. Erano già mille e duecento anni che c’era la Chiesa di Cristo, quando in Austria cominciò la dinastia degli Absburgo; ora quella dinastia con tutti i suoi re è spenta, ma Cristo ancora vince, regna, comanda. Erano già mille e seicento anni che regnava Cristo quando ascendeva al trono della Russia la casa dei Romanoff; ora quella casa nella grande guerra si è estinta, ma Cristo ancora vince, regna, comanda. Dov’è Nerone che voleva soffocare in fasce il regno di Dio? È morto, cacciando nel cuore il suo pugnale. Dov’è Giuliano l’Apostata che voleva distruggere fin anche il nome di Cristiano? È morto, sconfitto in guerra, disperatamente urlando: «Galileo hai vinto!». Dov’è Lutero che ha strappato mezza Europa al dolce giogo di Gesù? È morto, guardando il cielo con occhi delusi. Anche Voltaire che voleva schiacciare con le sue mani come una formica il Re dei Re, è morto mordendo come un cane le sue coperte. Anche Napoleone, che aveva osato dare uno schiaffo al vecchio Papa e trascinarlo in esilio, è morto, vinto e solo, in uno scoglio in mezzo alle acque.E Cristo vince, regna, comanda ancora oggi, e vincerà e regnerà e comanderà anche domani. Sempre.« Io sono un Re umile e mite di cuore » ha detto Gesù, « e il giogo del mio regno è dolce e soave ».

3. I NEMICI

Se è così, è chiaro che i nemici di Cristo e del suo regno son quelli che il cuore non hanno umile e mite, ma superbo e crudele. Ed ha cuore superbo chi non vuole pregare. « Pregare? ma chi, se non mi manca niente? Ho salute, ho danari, ho divertimenti, ho piaceri, che altro posso desiderare di più? Non ho bisogno di nessuno, nemmeno di Dio ». E non vedono che sono sepolcri imbiancati con dentro l’anima morta e putrefatta; non sanno che anche i beni materiali sono dono di Dio; di Dio che li ha creati, che li conserva, che li ha redenti, che li giudicherà un giorno. Questi superbi di cuore hanno orrore di accostarsi ai Sacramenti. « Confessarci? in che cosa abbiamo sbagliato? e chi ha diritto di sapere i miei segreti? Comunicarci? noi non siamo deboli, noi facciamo da soli ». – Ed ha cuore ribelle chi non osserva i comandamenti : « Io non sono suddito di nessuno » dicono in pratica i nemici del Regno di Cristo, e disubbidiscono a tutti i comandamenti. Credono che Gesù non possa comandare a loro di non bestemmiare, di non rubare; e soprattutto, non vogliono nessun freno ai loro piaceri. Pretendono di poter lecitamente pensare e dire le cose più invereconde, pretendono di poter lecitamente soddisfare alle passioni più vergognose. Nemici del purissimo regno di Cristo sono quelli che diffondono lo scandalo, che leggono libri osceni, che frequentano balli e spettacoli dove regna il demonio; nemici del regno di Cristo sono quelli che dissacrano il sacramento del matrimonio e trascurano l’educazione cristiana dei figli; nemiche del regno di Cristo sono quelle disgraziate che nonostante i comandi del Papa e dei Vescovi si coprono con vesti di pagana sensualità; con vesti che cominciano troppo tardi, finiscono troppo presto e sembrano tessute col vento. – Ed ha cuore duro chi odia i suoi nemici e conserva nel cuore le offese, e con gioia velenosa aspetta il momento di rendere il male ricevuto o di farne uno maggiore; il regno di Cristo è regno d’amore e le sue leggi sono soltanto di amore e di pace. – Ed ha cuore egoistico chi non sente compassione dei bisognosi, degli ammalati che domandano cure e conforto, dei poveri che chiedono un po’ di pane, delle Missioni e delle opere buone che aspettano la nostra offerta, delle anime del purgatorio. Ma se con segno più evidente e infallibile volete distinguere i nemici del Regno di Cristo, guardate se odiano il Papa, se lo calunniano, se lo disobbediscono: chi è nemico del Vice-Re è nemico del Re.

CONCLUSIONE

Un piccolo re di Normandia, dopo lunghe peregrinazioni e vicende, tornava dalla Crociata nel suo regno. Camminava a stento per i digiuni e le fatiche, ed aveva una ferita ancora aperta e sanguinante sul petto. Quando toccò i confini della sua terra due lagrime gli sgorgarono da sotto le nere ciglie e gli rigarono il volto. Era forse mezzodì e faceva caldo. Nell’ascendere incontrò un uomo che portava una brocca colma di acqua fresca: «Sono il tuo re che torna: dammi da bere». L’altro guardò stupito e gli rispose villanamente: «Non conosco nessun re: tu sei uno straccione!» e riprese la sua strada senza più voltarsi indietro. Il povero re tristemente lo vide sparire dietro una siepe e mormorò : « Domani, avrai sempre sete senza poter bere mai nel mio regno ». Intanto scendeva la sera e la reggia era ancora lontana. Annottava, quando vide disegnarsi sul sentiero una striscia di luce; c’era una casa. Attraverso a la porta socchiusa guardò in quella casa: sul tavolo fumavano le vivande, un uomo una donna e un giovanotto soltanto sedevano in giro. Il re aveva fame e sonno; fermandosi sulla soglia, gemette: « Date al vostro re, o buona gente, un pane e un po’ di paglia per dormire ». Il marito s’alzò di scatto bestemmiando, e lo scacciò fuori nell’oscurità, e chiuse l’uscio col chiavistello. Il povero re sotto le stelle intinse il dito nella sua ferita sanguinante sempre e scrisse sull’architrave di quella casa : « Non est pax nec hodie nec cras ». Albeggiava appena, quando entrò sotto il portone della sua reggia. Non riconobbe più la sua casa così splendida una volta, così pulita: sembrava ora la scuderia. Sentì un gran vociare venire dalle sale, si fermò in ascolto: « Il Re è morto: è finito il tempo della tirannia. Si ordini a tutto il paese di bruciare la sua aborrita immagine, si stabiliscano grandi feste in cui ciascuno farà quello che vuole ». Il povero Re non poté più trattenersi dalla commozione, sospinse la porta e gridò: « Rallegratevi! il vostro Re è tornato a regnare». Fu un urlo: tutti quei maggiorenti e principi levarono i pugni contro di lui: «Via! non ci sono più Re». Da quel giorno in quel regno cominciarono le rapine, le violenze, le pesti, le guerre, i terremoti. Cristiani, comprendete la bella leggenda. Cristo, il Re dei nostri cuori, torna a regnare. Guai all’individuo che non lo disseterà con la sua anima! avrà sempre sete nel fuoco dell’inferno. Guai alle famiglie che non lo accoglieranno! non avranno più pace, né in questo né nell’altro mondo. Guai alle nazioni che non rispetteranno i suoi diritti inviolabili! saranno oppresse dai disastri fisici, economici, morali.

LA FESTA DI CRISTO-RE (1)

Credo

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps II: 8.
Póstula a me, et dabo tibi gentes hereditátem tuam, et possessiónem tuam términos terræ.

[Chiedi a me ed Io ti darò in eredità le nazioni e in dominio i confini della terra]

Secreta

Hóstiam tibi, Dómine, humánæ reconciliatiónis offérimus: præsta, quǽsumus; ut, quem sacrifíciis præséntibus immolámus, ipse cunctis géntibus unitátis et pacis dona concédat, Jesus Christus Fílius tuus, Dóminus noster:Qui tecum …

[Ti offriamo, o Signore, la vittima dell’umana riconciliazione; fa’, Te ne preghiamo, che Colui che immoliamo in questo Sacrificio, conceda a tutti i popoli i doni dell’unità e della pace: Gesù Criato Figliuolo, nostro Signore, Egli …]

Præfatio
de D.N. Jesu Christi Rege

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui unigénitum Fílium tuum, Dóminum nostrum Jesum Christum, Sacerdótem ætérnum et universórum Regem, óleo exsultatiónis unxísti: ut, seípsum in ara crucis hóstiam immaculátam et pacíficam ófferens, redemptiónis humánæ sacraménta perágeret: et suo subjéctis império ómnibus creatúris, ætérnum et universále regnum, imménsæ tuæ tráderet Majestáti. Regnum veritátis et vitæ: regnum sanctitátis et grátiæ: regnum justítiæ, amóris et pacis. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che il tuo Figlio unigénito, Gesú Cristo nostro Signore, hai consacrato con l’olio dell’esultanza: Sacerdote eterno e Re dell’universo: affinché, offrendosi egli stesso sull’altare della croce, vittima immacolata e pacífica, compisse il mistero dell’umana redenzione; e, assoggettate al suo dominio tutte le creature, consegnasse all’immensa tua Maestà un Regno eterno e universale, regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloriao, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt coeli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXVIII:10;11
Sedébit Dóminus Rex in ætérnum: Dóminus benedícet pópulo suo in pace.

[Sarà assiso il Signore, Re in eterno; il Signore benedirà il suo popolo con la pace]

Postcommunio

Orémus.
Immortalitátis alimóniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, qui sub Christi Regis vexíllis militáre gloriámur, cum ipso, in cœlésti sede, júgiter regnáre póssimus: Qui

[Ricevuto questo cibo di immortalità, Ti preghiamo o Signore, che quanti ci gloriamo di militare sotto il vessillo di Cristo Re, possiamo in cielo regnare per sempre con Lui: Egli che …]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LA FESTA DI CRISTO-RE (3)

LA FESTA DI CRISTO-RE (3)

R. P. Edouard HUGON, o. P.

MAESTRO DI TEOLOGIA PROFESSORE DI DOGMATICA AL COLLEGIO PONTIFICIO « ANGELICUS » DI ROMA E MEMBRO DELL’ACCADEMIA ROMANA DI S. TOMMASO D’AQUINO

LA FESTA SPECIALE di GESÙ-CRISTO RE  

QUINTA EDIZIONE Rivista ed accresciuta

PARIS (VIe) PIERRE TÉQUI, LIBRAIRE-ÉDITEUR 8a, RUE BONAPARTE, 83 1938

APPROBATIONS

Visto e approvato:

Rome, Angelico, le 10 aprile 1927. Fr. Ceslas PABAN-SEGOND, O. P. Maître en S. Théologie.

Fr. Réginald GARRIGOU-LAGRANGE, O. P. Maître en S. Théologie.

PERMIS D’IMPRIMER :

17 aprile 1927. Bonaventura GARCIA DE PAREDES. Mag. Gen. Ord. Frnt. Prædic.

IMPRIMATUR :

Parisiis, die 5 a decembris it>27. V. DUPIN, v. g.

CAPITOLO V

UNA DELLE MANIERE PIU EFFICACI DI PROCLAMARE QUESTA REGALITÀ, È L’ISTITUZIONE D’UNA FESTA SPECIALE DI GESÙ-CRISTO RE UNIVERSALE.

Era certamente necessario che un’enciclica papale esponesse questa dottrina con tutta la solennità del Magistero Supremo. Ma è questo sufficiente per il popolo sul quale lo spirituale fa poca impressione, a meno che non sia presentato in modo visibile, palpabile e che parli alla sua natura intera? Dal momento che anche Dio si serve di sacramenti sensibili per condurre l’uomo alla conoscenza dei misteri soprannaturali, è quindi opportuno istruire i credenti con delle feste esteriori, che scuotano le anime colpendo i sensi, che traducano la verità divina col linguaggio efficace delle realtà concrete e sottomettano tutto l’uomo a Dio con il suo corpo ed il suo spirito (Cf. S. THOM., III a., q. 60, a. 4). Si possono qui applicare le parole con cui il Concilio di Trento dimostra la necessità di una celebrazione speciale del Santissimo Sacramento: “È giusto e opportuno che i Cristiani riservino alcuni giorni per testimoniare con un significato più accentuato e più straordinario quanto siano riconoscenti al loro comune Signore e Redentore per questo ineffabile e divino beneficio. Occorreva che la verità, anch’essa vittoriosa, celebrasse il suo trionfo sulla menzogna e l’eresia, cosicché i suoi avversari, alla presenza di tale splendore e in un così grande gioia della Chiesa universale, si fermasse come distrutta ed annientata, o che, almeno coperto da vergogna e confusione, tornasse a resipiscenza (Conc. Trid., sess. XIII, cap. 5. — Cf. can. 6). “Così, ai nostri giorni, la verità apparirà in tutto il suo splendore, Gesù Cristo sarà compensato dell’ingratitudine e degli oltraggi, i suoi diritti rivendicati, se la sua assoluta regalità è celebrata con una festa solenne. – Ecco ciò che ben comprendono sia i prelati o capi di Ordini religiosi, che hanno chiesto al Sommo Pontefice una Messa e un ufficio in onore della Regalità Sociale di Gesù Cristo. Già una petizione firmata dal Cardinal Sarto, il futuro Pio X, e da altri rappresentanti del Sacro Collegio, era stata indirizzata a Leone XIII, che si degnò di farne buona accoglienza. Da allora, il movimento si è sviluppato in tutto il mondo, più di settecento membri della gerarchia hanno insistito presso la Santa Sede per l’istituzione di una festa speciale di Gesù Cristo Re universale delle società (Le suppliche rivolte al Santo Padre, sono state firmate da 40 cardinali, 703 Arcivescovi o Vescovi, 102 superiori degli Ordini religiosi, 12 Università, tra le quali la Gregoriana e l’Angelico) per dimostrare che è necessario una proclamazione eclatante, stabilendo abbagliante annuncio, come necessario, una festa speciale. –

*

* *

L’obiezione spontanea, ripetuta tante volte, è che bisogna diffidare di feste nuove, come di devozioni nuove. – Tutta la questione, risponderemo, è sapere se ne risulti una nuova gloria per Nostro Signore! In questo caso, non abbiamo che da gioire, poiché noi dobbiamo trovare le nostre gioie migliori in ciò che glorifica Dio. E, proprio come la scienza medica non può che fare buona accoglienza ad un nuovo rimedio, se è questo davvero efficace, quindi la teologia e la pietà non potranno che trarre beneficio dall’uso di un rimedio appositamente adattato al male più terribile della nostra epoca, questo laicismo di cui abbiamo parlato. – Una festa speciale, si aggiunge, deve essere riportata ad un fatto storico o ad uno di quei misteri esterni che ricordano la vita, la passione, la resurrezione e l’ascensione di Nostro-Signore, o la discesa visibile dello Spirito Santo sugli Apostoli, e non riferirsi ad un’idea, un concetto o ad un oggetto invisibile, come la dignità regale di Cristo. – La risposta viene da se stessa: poiché la liturgia è l’espressione vivente del dogma e che la legge della preghiera esterna è anche la legge della fede interiore, una festa visibile, può riferirsi ad un oggetto, può riferirsi ad un oggetto invisibile, purché questo oggetto non rimanga vago ed astratto, ma sia ben determinato e definito, e si affermi con qualche manifestazione sensibile, e che ci sia un motivo speciale per giustificare un culto speciale. È così che la Chiesa ha potuto istituire la festa della Santissima Trinità e la festa del sacerdozio di Nostro Signore. Ora, in questo caso, l’oggetto è tutto di fatto preciso e concreto, Gesù Cristo, Re universale delle nazioni e delle società, con quelle qualità e attribuzioni molto nette che la Scrittura e la Tradizione gli hanno dato in termini propri. Sottolineiamo che questa regalità non rimane astratta; essa si è irradiata e si è affermata, non solo nell’Epifania, ma anche nella maggior parte dei misteri della vita di Nostro Signore. – Ma allora, si dirà, essa è sufficientemente onorata negli altri misteri, e quindi non c’è bisogno di una nuova festa. – No, rispondiamo noi. Essa si afferma tra le altre per non rimanere puramente invisibile; essa non è espressamente onorata con questo oggetto e motivo speciale che deve caratterizzarla. A Natale, il Salvatore appare in tutto il suo  essere, con la sua bontà e dignità, apparuit humanitas, apparuit benignitas, come dice la liturgia citando San Paolo, non è questo il Re che si impone al mondo. All’Epifania, Nostro Signore si rivela ai Gentili buoni, che lo riconoscono come re; ma queste non sono ancora le nazioni organizzate in società che proclamano i propri diritti, e, se questa è già la festa della manifestazione di Gesù Cristo, non è ancora la festa della sua sovranità sulle società stesse. Inoltre, all’Epifania, Egli non ha ancora tutti i suoi titoli di re: se Egli è sovrano per diritto di nascita fin dall’inizio, la sua regalità per diritto di conquista si completa con la sua morte sulla croce. Nella solennità della Domenica delle Palme, si intende bene che i Giudei acclamano il figlio di Davide, ma non si scorge con sufficienza il suo impero sulle società umane. La Resurrezione mostra il suo potere sulla morte e sull’inferno; l’Ascensione, il Trionfatore che si innalza sopra tutti i cieli; resta da celebrare in maniera più caratteristica il Re delle nazioni da quaggiù. Nell’ufficio del Santissimo Sacramento adoriamo il Cristo sovrano delle nazioni, Christum Regem dominantem gentibus, da un punto di vista particolare, che ci ricorda gli effetti del cibo eucaristico qui se manducantibus dat spiritus pinguedinem. La festa del Sacro Cuore esalta certamente Gesù Re, ma l’oggetto non è il medesimo della festa progettata. Nel culto del Sacro Cuore l’oggetto specialmente considerato è l’amore, il termine è Gesù tutto amante e tutto amabile, e dunque il Re d’amore; qui l’oggetto è la sovranità regale in se stessa, il termine è Gesù Re in assoluto, su tutti gli uomini e su tutte le creature, e che deve imporre il suo impero, anche là dove il suo amore è respinto. Così dunque, poiché l’oggetto è diverso, c’è bisogno di una festa nuova e speciale. – Ma le anime veramente pie, che cercano soprattutto gli interessi dell’unico Maestro, non hanno da temere che la nuova festa possa nuocere alla devozione del Sacro Cuore; questa devozione, al contrario, non può che avvantaggiarsene, perché il Re dell’Amore è onorato per il fatto che si proclama il Re Universale e la solennità che esalta la regalità senza restrizioni lascia intendere che Gesù regna soprattutto attraverso la carità (Su questo soggetto si veda il bel libro di Mons.  SINIBALDI, Segretario della sacra Congr. dell’Università: il Regno del Sacro Cuore, Milano 1922 – Nel libro citato il Vescovo Sinibaldi espone i seguenti argomenti: Gesù è Re. – Gesù è Re d’amore. – Gesù è Re con il suo Cuore. – Gesù governa con l’amore. – Gesù chiede solo amore). La portata della festa è perfettamente caratterizzata dalla liturgia, di cui stiamo per riassumere i principali insegnamenti.

CAPITOLO VI

GLI INSEGNAMENTI DELLA LITURGIA NELLA FESTA DI DI GESÙ – CRISTO RE

Una festa liturgica è più efficace anche di un documento pontificio solenne. Il documento è rivolto soprattutto allo spirito; la liturgia, all’uomo intero, perché grazie alle cerimonie e ai riti esteriori, alle parole e ai canti, la si comprende con l’aiuto del corpo e delle diverse facoltà, i propri sensi e l’immaginazione, il cuore e la volontà, non meno che con l’intelligenza. – Il documento di per sé ha solo un effetto passeggero; la celebrazione, che si rinnova periodicamente, ne moltiplica e perpetua i risultati. Il documento è l’espressione scientifica della fede; la festa ne è il linguaggio e l’azione, come un dramma vivente, che traduce con energia il sacro dogma. Un rapido studio della liturgia di questa nuova festa ci mostrerà come sono tutti gli insegnamenti così profondi di quella gloriosa solennità sono riassunti nell’Ufficio e nella Messa. Insisteremo sul Prefatio, che è uno splendido poema, che celebra con magnificenza i nostri più alti misteri.

I.

L’Ufficio e la Messa.

Fermiamoci innanzitutto al titolo: « Ultima domenica di ottobre, festa di Gesù Cristo Re ». Bisognava evitare che vi fosse confusione con altre feste del Salvatore e, quindi, celebrarlo a una data abbastanza lontana dalle feste del Santissimo Sacramento e del Sacro Cuore. Si poteva scegliere solo una domenica perché il popolo cristiano potesse restituire al suo Re il più splendido tributo pubblico. Siccome la liturgia delle domeniche dopo la Pentecoste ricorda il regno di Cristo sulla terra, che si completa con il trionfo dei suoi servi e dei suoi soldati associati alla sua felicità, la festa è giustamente collocata nell’ultima domenica di ottobre, seguita, molto opportunamente, della solennità di Ognissanti. – Erano stati espressi desideri per un titolo più esplicito, ad es. re delle nazioni, re dei secoli. Aggiungere questa o qualsiasi altra cosa sarebbe stato restringere la regalità assoluta. Tutto l’insieme della festa dimostra con certezza che Cristo è il re delle nazioni e delle società, e fin dai primi Vespri, l’Inno lo saluta Regem gentium, il Re che l’intera società deve onorare, i governanti, i magistrati, i padroni, i legislatori. Ma c’è ancor di più, perché Egli è il Re dell’intera creazione, universorum rege, come dice la colletta della Messa, e, secondo l’espressione dell’Inno, il Principe di tutti i secoli. Conviene, senza dubbio, esaltare il regno sociale del Cristo, e noi comprendiamo che le riviste ed i Congresso pongono particolare enfasi su questo tema e ne fanno risaltare questo aspetto. Ma, mi diceva un giorno Pio XI, possiamo concepire un regno che non sia sociale? È questo e molto di più, è sia all’interiore che esteriore, invisibile e visibile, spirituale e temporale, senza limiti e senza riserve e senza fine. – Diciamo dunque semplicemente con la liturgia: il Cristo Re, e, come consiglia il Papa: il regno di Cristo, senza l’amplificazione dei pleonasmi e senza la restrizione degli epiteti.L’oggetto della festa è la dignità regale o l’impero assoluto: mentre nel Sacro Cuore noi Consideriamo l’amore e Gesù che regna attraverso l’amore,qui è la regalità in se stessa, è Gesù che deve regnare anche là dove il suo amore è respinto. L’ufficio mette in piena evidenza questo regno eterno, al quale tutte le nazioni devono sottomettersi, sotto pena di condannarsi altrimenti alla rovina ed alla distruzione; perché ogni regno che non riconoscerà questo Sovrano perirà o sarà colpito da sterilità. Tale è il riassunto dei Mattutini e delle Lodi. Gli Inni cantano il Monarca che tiene lo scettro dell’universo, e la Messa, il Re di tutte le cose, sotto lo stendardo del quale abbiamo la gloria di combattere e di trionfare. – Ma, se l’oggetto della nostra festa non è lo stesso della festa del Sacro Cuore, lo scopo è necessariamente identico, le due solennità devono concludersi nell’amore; ed è per questo che Pio XI, istituendo una nuova e distinta festa, ha voluto che la consacrazione del genere umano al Sacro Cuore sia fatta nello stesso giorno, come risposta efficace della terra e come degno coronamento di tutti gli atti liturgici. – I fondamenti di questa regalità possono essere fatte risalire ai due capitoli che l’enciclica di Pio XI sviluppa magistralmente: per diritto di eredità, in virtù dell’unione ipostatica, e per diritto di conquista, in virtù della Redenzione, come il nostro opuscolo ha già esposto. Il Cristo, come Dio, ha un impero universale allo stesso titolo del Padre; come Dio e uomo, o come Verbo incarnato, è erede del Padre ed associato a tutto il suo impero. Dal primo istante dell’Incarnazione, la Persona divina ha unito la sua Umanità santa, l’ha penetrata, l’ha imbalsamata e questa sostanziale unzione è l’unzione di gioia che ha consacrato Gesù Re e Pontefice per l’eternità. – In virtù di questa consacrazione, egli merita un tale onore per cui gli Angeli e gli uomini devono adorarlo non solo come Dio, ma anche con la sua umanità santa, e possiede una potenza tale che tutte le creature devono assolutamente sottomettersi al suo impero anche come uomo (Act. Apost. Sed., XVII, 58, 599.). Ecco perché San Paolo ci dice che quando Dio introduce il suo Figlio nel nostro universo, comanda ai suoi Angeli di adorarlo: Et adorent eum omnes angeli Dei (Hebr. I, 6). Questa è stata la prima intronizzazione di Gesù Cristo Re nella creazione, quando gli Angeli lo hanno adorato ed acclamato per primi come loro Capo. Per noi umani, come abbiamo già spiegato, Egli è Re per un titolo particolarmente dolce; noi siamo chiamati populus acquisitionis, il popolo della sua conquista, proprio come Lui ha acquisito la sua Chiesa a prezzo del suo sangue, e per il fatto che ci riscattato a un tale prezzo, noi non siamo più nostri, non possiamo più venderci o farci schiavi degli uomini (1 Petr., II. 9; Act. XX, 28; 1. Cor, VI, 19, 20; 1, Petr., I, 18.3). – Tutto l’insieme dell’officio della Messa fa emergere questi due titoli. La Colletta afferma questo diritto di nascita, in virtù dell’unione ipostatica. Così come già San Paolo diceva: hæredem universorum, la liturgia canta: universorum Regem. I Mattutini celebrano il Messia che si è affermato Re come Dio stesso, che riceve in eredità le nazioni della terra, alle quali l’Onnipotente sottomette tutte le creature, alle quali i re di quaggiù vengono a rendere omaggio, e il cui trono deve durare tanto quanto l’astro del giorno e l’astro della notte. Le lezioni del secondo notturno, tratte dall’enciclica, insistono su questo titolo di unione sostanziale, e l’omelia, tratta da Sant’Agostino, ci mostra in Gesù il vero sovrano, che è Re e dei Giudei e dei Gentili, perché è Figlio di Dio, perché il Signore gli ha detto: “Oggi Ti ho generato, chiedimi, ed io ti consegnerò le nazioni e come dominio l’universo intero. L’Introito della Messa considera in particolare il diritto di conquista e di redenzione: Egli merita di ricevere tutti gli onori della regalità dell’Agnello che è stato immolato. Ma ben presto riappare il diritto di nascita, sia nell’epistola, in cui San Paolo glorifica il regno ed il potere del Figlio diletto di Dio, di Colui che ha il primato assoluto, perché è l’immagine del Dio invisibile; sia nel Vangelo, dove Nostro Signore, interrogato da Pilato, afferma chiaramente di essere Re; sia nel prefatio, in cui il Cristo è chiamato sacerdote e re in virtù della sostanziale unzione dell’Incarnazione. Una lettura sommaria dei testi è sufficiente per constatare che la liturgia mette in rilievo sia il diritto di nascita, come l’antifona dei primi Vespri, al Magnificat, ricorda che Gesù riceve da Dio il trono di Davide; sia il diritto di conquista, parlando del Signore che ci ha lavati nel suo sangue; sia il diritto e quasi abitualmente i due titoli insieme, come l’antifona dei secondi Vespri, al Magnificat, esalta il Sovrano che porta il mantello della natura umana e che ha la virtù divina, il Re dei Re, il Signore dei Signori. È quindi ben vero che la liturgia è la teologia vivente della festa. Ci resta da dimostrare come il poema del Prefatio traduce e glorifica tutto il dogma dell’Incarnazione.

II

Il Prefatio della nuova Messa.

È con tutto lo slancio del lirismo biblico e con tutta la magnificenza di un poema che il Prefatio solleva i cuori, delizia gli spiriti:  « È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che il tuo Figlio unigenito, Gesù Cristo nostro Signore, hai consacrato con l’olio dell’esultanza: Sacerdote eterno e Re dell’universo: affinché, offrendosi Egli stesso sull’altare della croce, vittima immacolata e pacifica, compisse il mistero dell’umana redenzione; e, assoggettate al suo dominio tutte le creature, consegnasse all’immensa tua Maestà un Regno eterno e universale, regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine … » Il Prefatio unisce in Cristo il sacerdozio e la regalità e mostra che entrambi tendono allo stesso termine e hanno gli stessi effetti. Bellissima e profonda associazione, che è già contenuta nel canto immortale del profeta salmista (Ps. CIX). Sotto l’ispirazione dell’Altissimo, David esclama: « Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché non ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi » Questa è la dignità regale del vero Signore, che deve regnare in mezzo ai suoi nemici, perché è il Figlio di Dio, generato prima dell’aurora. Subito dopo il veggente celebra il mistero del sacerdozio: “Il Signore ha giurato e non si pentirà: Tu sei un sacerdote in eterno secondo l’ordine de Melchisédech “. Poi il salmo ritorna alla regalità del Sovrano che giudicherà le nazioni, distruggerà la testa dei malvagi, per stabilire il regno della giustizia. È molto interessante che David unisca, come inseparabili, nel Messia, i due titoli di Re e Sacerdote, e che  sottolinei con tanta enfasi la maestà del giuramento: « Sì, il Signore ha giurato: Juravit Dominus; ha giurato, e non si pente Juravit et non peœnitebit eum; Egli ha giurato a te, mio Gesù, a te suo Figlio, a te fratello dell’umanità, ha giurato che tu sarai Sacerdote per sempre, sempre, sempre: tu es sacerdos in æternum. Gesù è Sacerdote in virtù del giuramento di Dio. Capisci che un atto così solenne non può avere come scopo il conferire un titolo che è puramente onorifico (Padre MONSABRÊ, XLII conferenza, Quaresima del 1879.). » Di per sé, la regalità, che comprende i poteri legislativo, giudiziario ed esecutivo (L’enciclica di Pio XI sul Cristo Re fa ben emergere questo triplice carattere della sua regalità. Act. Apost. sed., XVII,599.), è ben distinta dal Sacerdozio, il cui ruolo è quello di pregare, sacrificare, santificare; ma in Cristo la triplice potenza del Re si conduce al fine del Sacerdozio, che è la salvezza del mondo. Per mostrare quanto sia teologico questo bel Prefatio, vi spiegheremo che una stessa unzione sostanziale consacra il Cristo allo stesso tempo Re e Pontefice e quanto siano inseparabili in Nostro Signore i poteri e gli effetti della regalità e del sacerdozio.  Abbiamo già detto che la sostanziale unzione della Persona divina stabilisce il Cristo Re, perché, in virtù di tale unione, Egli merita di essere venerato dagli Angeli e dagli uomini e ha il diritto a che tutte le creature siano soggette al suo impero. Vediamo come lo consacra pontefice. Il sacerdote è essenzialmente mediatore, posto tra la terra ed il cielo per far salire verso Dio i doni dell’uomo – la preghiera ufficiale ed il sacrificio, che sono il nostro obbligo fondamentale – e far discendere i doni di Dio sull’uomo, la grazia ed il perdono, che dovrebbero condurci alla salvezza. Ne consegue quindi che il triplice buon ruolo del sacerdote, come abbiamo detto, è quello di pregare e sacrificare, in nome dell’umanità, e di santificare gli uomini, in nome di Dio. In virtù della grazia d’unione, il Cristo è  mediatore, perché se la natura divina si unisce alla natura umana in una sola Persona, abbiamo immediatamente un intermediario tra Dio e gli uomini. Da quel momento in poi, Egli può stabilire la corrente dalla terra al cielo, pregare a nome di tutti gli esseri umani, di cui è rappresentante ufficiale, sacrificare o immolarsi Egli stesso come vittima per tutti i suoi membri, e far discendere la corrente dal cielo alla terra, santificare comunicando agli uomini la scienza del soprannaturale e della grazia che li fanno vivere (Encicl. di Pio XI, lectio V della Festa di Gesù-Cristo Re). – Pertanto, il Cristo è sacerdote, necessariamente, essenzialmente, per la stessa Incarnazione stessa: la sua vocazione al sacerdozio è inclusa nell’atto stesso  che ne ha decretato l’Incarnazione. San Paolo, che insiste sulla necessità della chiamata divina onde costituire sacerdote, dichiara che Cristo è stabilito pontefice da Colui che gli ha detto: “Tu sei mio Figlio, Io oggi ti ho generato. (Hebr. V) Così il Salvatore è Sacerdote sacro nello stesso momento in cui è stabilito re sul Monte Sion. – Comprendiamo allora, come Pio XI, il 28 dicembre 1925, nell’allocuzione solenne a conclusione delle feste per il centenario di Nicea, abbia potuto dire: « Nel Cristo si diffuse e si diffonde inesauribile ed infinita, questa Unzione sostanziale, che lo ha consacrato Sacerdote in eterno (Civiltà Cattolica, 1926, p. 182, e  Bollettino per la commemorazione del XVI centenario del concilio di Nicea, n° 6, p. 195). » Si vede ora di quale serena e profonda chiarezza si illuminano le parole del nostro Prefatio: « O Dio, che hai unto con l’olio di esultanza Sacerdote eterno Sacerdote e Re dell’universo Gesù Cristo, tuo Figlio unigenito e nostro Signore… » Non è meno chiaro che gli effetti della regalità e del sacerdozio in Gesù Cristo sono inseparabili; poiché la sua regalità tende alla salvezza delle anime ed il suo sacerdozio, santificando e redimendo il mondo, riesce a stabilire il regno universale ed eterno. – Il potere legislativo in Gesù Cristo è veramente sacerdotale, perché promulga questa legge della vita divina, questa scienza del soprannaturale, che le labbra del sacerdote devono dare alle anime (Questa è stata infatti la concezione che si aveva del ruolo del sacerdote nell’antico Testamento, conservare e dare la scienza o la dottrina rivelata: « Labia sacerdotis custodient scientiam et legem ex éjus ore requirent. » MALACH., II, 7); questo codice evangelico che comprende la santità comune attraverso la pratica dei comandamenti, la santità perfetta attraverso la pratica dei precetti e dei consigli, la santità suprema, che giunge fino all’eroismo permanente. Infine il potere giudiziario in Lui è ugualmente sacerdotale, perché Egli deve cacciare il principe di questo mondo (S. Giov. XVI, 11) castigare il peccato, vendicare i diritti misconosciuti e con ciò procacciare questo regno di giustizia che il sacerdote deve annunciare e promuovere. Infine, il potere esecutivo in Lui è sacerdotale, perché Egli deve mettere in opera e condurre a buon termine questi mezzi di salvezza la cui economia è affidata al ministero sacro del Sacerdozio. D’altra parte, tutto l’officio sacerdotale di Gesù-Cristo deve servire al suo regno, perché si riporta alla redenzione e la redenzione è uno dei titoli della sua regalità soprannaturale. Ecco ancora ciò che il Prefatio fa emergere pienamente, celebrando nel contempo e gli effetti del sacerdozio, sia gli effetti della sua regalità: immolandosi come vittima, Gesù compie i misteri della redenzione umana; dopo aver sottomesso tutte le creature al suo impero, Egli offre il regno universale all’immensa maestà di Dio. Occorreva certo che la medesima unzione di esultanza consacrasse Sacerdote e Re il Figlio di Dio incarnato per la nostra salvezza: se fosse stato solo un Re, non potevasi offrire e immolare come vittima per la nostra redenzione; se fosse stato solo un sacerdote non avrebbe potuto rimettere a Dio un regno. Ma, poiché Egli è nel contempo pontefice e re, il seguito del Prefatio appare piena di armonia e bellezza: Egli compie la grande opera della nostra redenzione e rimette al Padre il regno eterno ed universale di giustizia, di amore e pace! – Ecco come la meditazione dei testi liturgici di questa bella festa ci insegnerà a penetrare nelle sante profondità del Cristo Re e Pontefice e ci introdurrà così alle fonti della grazia, della santità e della vera e duratura felicità.

CAPITOLO VII

LE FELICI CONSEGUENZE DI QUESTA FESTA

L’enciclica sottolinea energicamente le felici conseguenze che devono derivare dall’istituzione di questa festa.  In relazione alla Chiesa. Questa festa dimostrerà che la Chiesa, la società perfetta, istituita da Gesù Cristo, ha diritti imperscrittibili, che gli Stati devono garantire la sua piena indipendenza e libertà di azione in tutte le questioni relative alla sua missione divina, che è proprio quella di promuovere questo regno benedetto del Cristo, procurando la salvezza delle anime. Bisogna che questa Chiesa debba poter governare liberamente attraverso il suo Capo visibile, il Romano Pontefice, Vicario di Nostro Signore, con la gerarchia composta dai Vescovi, dai sacerdoti e dai ministri, e anche con gli Ordini e gli Istituti che sono la prova vivente della sua meravigliosa fecondità.  – In relazione allo Stato religioso. Questo stato deve assicurare il regno del Salvatore, combattendo le tre grandi concupiscenze attraverso la pratica dei voti, e facendo risplendere nella Chiesa la nota o l’aureola della perfetta santità.  Questo è il magnifico insegnamento che San Tommaso aveva così ben formulato (S. TOMMASO, IIa IIæ q. 164) e che l’enciclica consacra solennemente. Il Papa indica il posto e il ruolo degli Ordini e degli Istituti religiosi nella società del soprannaturale: essi costituiscono lo stato di perfezione. « Essi fanno sì che la santità donata alla Chiesa dal suo divino Fondatore, come carattere e segno distintivo, risplenda sempre con maggiore splendore davanti allo sguardo dell’universo. »  Questa è una splendida apologia degli Ordini e delle Congregazioni: i religiosi hanno diritto alla libertà stessa di cui debba godere la Chiesa  società perfetta, perché Cristo è Re! – Sì, se Cristo è Re nella società, Egli chiede che la sua Chiesa e lo stato religioso, che appartiene all’integrità di questa Chiesa, godano della libertà indispensabile alla loro missione, che è quella di espandere il suo regno benedetto … In relazione alla società civile. Bisogna che essa debba essere governata secondo i principi del diritto cristiano. Cristo Re deve essere rappresentato nel tribunale, dove si fa giustizia; nella scuola, dove si insegna. Egli merita il culto pubblico nella città; e i capi di Stato saranno giudicati per aver violato questo diritto sovrano di Nostro Signore o per aver voluto rimanere neutrali. Questo è il grave monito del Sommo Pontefice alle Nazioni!  Nella direzione interiore delle anime. Riassumiamo ciò che abbiamo detto in precedenza. Gesù eserciterà il suo dominio su tutte le nostre facoltà: sullo Spirito e sulla volontà, che deve essere conforme ai giudizi ed alla volontà dell’unico Re; sul cuore e sugli affetti, per realizzare l’ideale che San Tommaso esprime in poche parole, cioè amare nulla e nessuno più di Dio, tanto quanto Dio, a malgrado Dio (S. THOM., IIa IIæ, q. 184, a. 3, ad 3); finanche sui nostri corpi e sulle nostre membra, che devono cooperare come strumenti nell’opera della giustizia e della santità, arma justitiæ Deo (Rom. VI, 18).  – Il vero Cristiano si ricorderà che servire Cristo è regnare; e così come santa Teresa provò una sorta di brivido quando sentì cantare le parole del Credo: Cujus regni non erit finis, anche noi saremo consolati dal pensiero che Cristo è per sempre nella gloria del Padre e che, se rimarremo legati a Lui senza riserve e senza ritorno, sarà vero il dire della nostra felicità e del nostro regno, come quello della sua beatitudine e del suo regno a Lui: non erit finis, non vi sarà fine! Abbiamo appena assistito ad una doppia proclamazione della regalità di Gesù Cristo; 1 un dottrinale, con questa magnifica enciclica, in cui tutta la dottrina è stata esposta con ampiezza; l’altro liturgica, con questa solenne festa, in cui la legge della preghiera esteriore è venuta a glorificare la legge della fede e del dogma. Sarà possibile desiderarne una terza, sia dottrinale che liturgico, se i vescovi e i cardinali e il Papa, in una parola, tutti i membri della Gerarchia, riuniti in un concilio ecumenico, definissero questo regno universale e celebrassero insieme davanti a tutto il mondo, di cui sono i rappresentanti spirituali, la solenne festa di  Gesù Cristo Re delle nazioni, delle società, dell’intero universo.  – Se questo trionfo completo è ancora lontano, i veri credenti possono prepararlo e con la loro vita veramente cristiana dire già: Cristo è vittorioso, Cristo regna, Cristo ha un impero assoluto. Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat…  Non bisogna dimenticare che, secondo le parole della Prefazio, la ragione per cui Gesù è Sacerdote sacro e Re, e proprio per questo è voluta l’Incarnazione, è la redenzione umana. L’unzione sostanziale che è l’unione ipostatica avviene affinché Cristo si offra Egli stesso sull’altare della croce. – Nostro Signore appare anche essenzialmente vittima così come Sacerdote e Re. La sua liturgia canta sempre di un’incarnazione redentrice, di un Uomo-Dio che è il Salvatore, e così ci invita ad andare fino al sacrificio di noi stessi per andare al fine all’amore….

FINE

QUÆ ENIM PARTECIPATIO CHRISTI AD BELIAL?

Al S. Giuseppe de Merode di Roma, via la maschera (… non la mascherina): onore a satana e festeggiamo halloween! Senza vergogna i modernisti spudorati gestiti dalla sinagoga vaticana per ammaestrare le nuove generazioni al satanismo … quæ enim partecipatio… (2 ad Cor. VI, 15) … 

Eccoci in una classe dei bambini delle elementari, mascherina e distanziamento, giacca e cravatta. Entra la maestra, laica consacrata (… a chi?) delle prestigiose Scuole un tempo cattoliche istituite da S. Giovanni Battista de la Salle, fiore all’occhiello dei Fratelli delle scuole in Italia:

– Bambini, oggi facciamo una bella paginetta sulla festa di Halloween, mi raccomando un bel disegno a tutta pagina, facciamo onore al festeggiato.

– Il bambino in giacca e cravatta perplesso ribatte: Ma non è questa la scuola di San Giuseppe? Non abbiamo fatto la preghiera a Gesù? … E che c’entra la festa di Halloween con San Giuseppe?

Se fosse stato più grandicello avrebbe probabilmente dette le stesse parole che S. Paolo scriveva ai fedeli di Corinto … quæ enim partecipatio Christi ad Beliaal? Cosa centra, cosa ha a che vedere Cristo con Beliaal?

La maestra, un po’ infastidita non risponde e procede col programma previsto. Anzi – dice – adesso vedremo pure un bel filmato sulla festa … evidentemente è il materiale didattico da mostrare, speriamo non imposto o concordato coi capi.

Il bambino, con gli occhioni sgranati, ben deciso ribatte senza rispetto umano: Io non lo guarderò e farò qualche altra attività, ma questa festa del demonio io non la voglio guardare.

Anche gli altri bambini più “rispettosi”, avvertono la situazione imbarazzante e mugugnano. La maestra capisce l’antifona e cambia atteggiamento … Ma ci sarà da fidarsi domani?  

Le nuove generazioni bisogna plasmarle fin da piccole, il ferro si batte quando è molle e non resiste. Oggi Halloween, a quando il catechismo olandese ed il Khamasutra? In puero spes …. Il motto dell’Istituto … In prospettiva cristiana … dovrebbe essere. Ma oggi qual è la Spes? La spes cristiana o la spes modernista ecumenica che accanto a Cristo mette i Beliaal alla pari, alla Vergine  santa sull’altare sostituisce il Buddha ascitico, a S. Giuseppe oppone gli empi Lutero e Calvino ed il sozzo Enrico VIII, alla Chiesa Cattolica pareggia indifferentemente la sinagoga talmudica e la moschea del Corano ebionitico baciato come libro di pace? Oggi Halloween e domani Tutti i Santi … questo povero bimbo ne avrà da vedere di cose strane, … gli si dirà così, ed il contrario di così … tanto è la stessa cosa gli diranno, siam tutti salvi, c’è misericordia per tutti: siamo gnostici-panteisti, mica stupidi e ottusi Cristiani che credono all’inferno, al peccato che dà morte all’anima, alla redenzione, alla grazia e ai meriti da conquistare per la vita eterna! A questi educatori modernisti però, il Cristo ha dato già la sua sentenza inappellabile:

qui autem scandalizaverit unum de pusillis istis, qui in me credunt, expedit ei ut suspendatur mola asinaria in collo ejus, et demergatur in profundum maris.

…. chi scandalizzerà uno di questi piccoli che credono in me, è meglio che si leghi una pietra da macina al collo e si sprofondi nel mare …

(Matt. XVIII, 6)

LO SCUDO DELLA FEDE (132)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO XI.

Differenza che possa tra i veri martiri Della Chiesa, e i pretesi martiri delle sette.

I. Tutte le repubbliche han sempre costumato di onorar sommamente gli uomini giusti e gli uomini forti: avendo elleno, come nota Aristotile (1. Rhet. c. 10. n. 5), gran bisogno d’ambedue loro: di forti in tempo di guerra, di giusti in tempo di pace. Non è però da stupire, se tutte le sette abbiano ambito parimente l’onore de’ loro martiri come di uomini in cui veggono eminentemente accoppiate queste due virtù stimabili; la fortezza nell’incontrare la morte, e la giustizia nell’incontrarla a titolo il più bello di qualunque altro, qual è quello di testificare a favor della religione. Ma non accade promettersi di falsificare mai queste gemme sì pellegrine. È troppo chiara l’arte di scernere dalle vere le contraffatte. Stabiliscasi però in primo luogo ciò che si debba intendere per martirio.

II. Per martirio si debbe intendere una morte sofferta in testimonianza della verità, della virtù della fede (S. Th. 2. 2. q. 124. art. 1. etc.), E ciò basta a confondere tutti i maomettani, i quali ardiscono di collocare tra’ martiri i loro soldati morti in battaglia. Senonchè una frenesia somigliante cadde anche in capo a Foca imperatore d’oriente, quando egli entrò in pretensione, che i suoi soldati, guerreggiando contra i nemici della religion cristiana, e morendo per loro mano, si avessero da ciascuno in grado di martiri (Spond. an. 610. n. 2). Ma una tale ambizione fu rigettata, con sentenza concorde da tutti i Vescovi, i quali considerarono saviamente, non darsi il sangue da simili combattenti per confession della fede, ma per conservazione della repubblica: né darsi spontaneamente da chi non fa resistenza all’assalitore, ma vendersi piuttosto a prezzo accordato, da chi però tira soldo, e fa quanto può per uccidere l’avversario, non che da lui goda mai di restar ucciso ad onor divino.

III. Lasciato dunque un tale stuolo di martiri troppo impropri, favelliamo sol di coloro che hanno perduta puramente la vita in grazia della lor fede. E qui le sette, sì antiche come moderne, si arrogano di avere una copia grande di simili testimoni a loro favore: Vivebant ut latrones, honorabantur ut martyres, disse sant’Agostino dei donatisti, e dir si potrebbe, con debita proporzione, di vari eretici più moderni, che non cedono aniuno dei trapassati nell’ambir molto. Ma a capir meglio quanto ciò si arroghino invano, si vuole considerare come tre cose ne’ testimoni richieggonsi a piena pruova: il numero, la concordia, la dignità (S. Th. in Ps. 47).

I.

IV. Ora a rifarci dal numero: certa cosa è che le sette, appena nate, diramansi in molti capi, con divenire a poco a poco tante idre mostruosissime. Non possono dunque essere se non pochi color che muoiono per le loro credenze particolari; ne posson essere senonchè in pochi luoghi. Là dove i martiri della chiesa cattolica sono tanti, che a ripartirli in un anno, a tanti per dì, ne toccherebbero in ciascun di trentamila a solennizzare con propria festa (Genebr. in Ps. 78). E questi poi sono di modo distribuiti per l’ambito della terra, che non vi ha niuna provincia nel mondo antico, niuna del nuovo, che non sia inebriata altamente del loro sangue, o almeno bagnata. Siccome la virtù eroica de’ martiri e la loro fortezza doveva essere sempre un argomento invincibile a persuadere la vera religione, ed a dimostrarla; così in ogni luogo volle la provvidenza tenere accesi questi, dirò così, fanali di santità, i quali a tutte le genti fin da lungi scorgessero il vero porto. Pertanto se in tutti i tribunali il maggior numero vince sempre il minore, non saran certo sì temerarie le sette che vogliano mantenere tuttora il campo dopo il cimento, a guisa di vittoriose, se furono sì temerarie in entrarvi per cimentarsi.

V. Tanto più che queste, per essere così varie, come fu detto, nelle loro credenze, qual concordia potranno giammai provare ne’ testimonij da loro addotti a lor conto? A cagion d’esempio, la setta di Lutero, appena comparsa, si divise in più sette: sicché negli anni scorsi da lui fino al Bellarmino se ne annoveravano già da cento (Bellar. de not. Eccl. c. 10). Dal che ne viene che se per difenderle con audacia ne fosse stato abbruciato dagl’inquisitori un centinaio di persone (il che ne anche da loro può dimostrarsi), non più che un piccolissimo mucchio di tali ceneri toccherebbe a ciascuna di tante sette fra sé contrarie. L’istesso dicasi de’ calvinisti, degli anabattisti. degli zuingliani e di quanti altri in questi ultimi secoli hanno infettata co’ fiati pestilenziali de’ loro dogmi la nostra Europa. I loro testimoni non possono essere più concordi che i loro maestri, i quali, alzando nel loro capo un tribunale assoluto di religione, hanno oggi mai conseguito che tante sieno le fedi, quante le teste.

VI. Rimane sola dunque ad esaminarsi l’ultima condizione, ma la più forte di tutte le altre, che è la dignità di conseguire credenza a cagion de’ meriti.

VII. La nobiltà de’ natali, il senno, la sapienza hanno tanto di autorità, che tutti coloro i quali si presumono privi di tali doti, quali sono gli schiavi, i fanciulli, le femmine, i poverelli, sogliono per ciò solo venire esclusi dall’attestare ne’ tribunali, parendo la loro fede tanto men valida, quanto maggiormente venale. Se così è, dicano dunque gli adamiti e gli anabattisti, cioè coloro che fra gli altri settari si confidano più di poter mostrare molti ritratti dì martiri gloriosi uccisi per la loro fede: che nomi scrivono sotto di tali ritratti? Nomi di plebe vile, ignorante, ingannata, cui per lo più persuadevano i seduttori che, posta appena al supplizio, avrebbe veduto calare dal cielo gli angeli a liberarla fin dalle fiamme. Donde chiaro apparisce che ancor quei miseri tolleravano, è vero, ma diabolo possidente, non perseguente, come scrisse sant’Agostino di altri lor pari (Serm. 2 de s. Vinc.). Per contrario la fede cattolica, che pompa non può fare di cavalieri, di consoli, di patrizi, di condottieri di eserciti, di principi, di prelati, di regi illustri, di donne scese da stirpe ancor imperiale, di savi, di senatori, di letterati i più chiari al mondo, che incoronarono lo splendore del loro sangue e la sublimità del loro sapere, con la ghirlanda maestevole del martirio?

VIII. E questo è il meno in paragone della probità de’ costumi.

IX. La maggior parte de’ martiri menavano antecedentemente una vita sì religiosa, che quella sola poteva renderli venerabili al mondo per tutti i secoli. In ogni caso, certo è che in loro non punivasi altro che la profession cristiana, che è quanto dire punivasi l’innocenza: De vestris, rinfacciava a’ gentili già Tertulliano (In Apolog.) con lingua intrepida: de vestris semper æstuat carcer, de vestris semper metallo, suspirant, de vestris bestiæ saginantur. Nullus ibi Christianus, nisi plane tantum christianus: quod si et aliud, iam non christianus. Potranno forse non arrossire le sette, se con esse ragionisi di virtù? non potran certo, se non han la fronte incallita al pari del cuore. Ma non può sconvolgersi troppo questo pantano, altrimenti ne rimarrebbe infettata l’aria, tanto egli è sozzo. Solo accennerò brevemente che le due sette i cui seguaci sian morti con apparenza di più insolita intrepidezza, son quelle appunto, che da me furono rammemorate poc’anzi, cioè i nuovi adamiti nella Boemia, e i nuovi anabattisti nella Moravia, mentre di ambedue questi contan gli storici (Æneas Sil. hist. Boem. c. 21 Fior. Rem.) un andar lieto che facevano al palo apprestato ad arderli. Ora che una tale costanza in tutti quegli infelici non fosse intrepidità, ma bestialità trasfusa in loro da quello spirito reo che gli possedeva già da lungo tempo, ne può far fede la loro vita laidissima. Degli anabattisti basti il sapere che sì la comunanza delle mogli, sì la pluralità erano tra i primi articoli della lor riforma; ciò che sognato da Platone, quanto al primo, e preteso da Maometto, quanto al secondo, basterà a renderli sempre infami a tutti i legislatori (Gault. sec. 12. p. 659 e 660. Prateol. in Adamit,. Gault. sec. 16 in Anab. err. 11). Tra loro ogni donna era obbligata a soggettarsi alla lascivia di ogni uomo, e ogni uomo a saziar la libidine d’ogni donna: con una legge a cui non sono legati né anche i bruti, padroni in un tale genere di se stessi. E può stimarsi che la costanza di questi venisse poi da Dio più che dal diavolo? Mortis contemptum in martyribus pietas, in illis cordis duritia oreralur .S. Bern. sec. 66 in Cant.).

X. Oltre a ciò, quei che tra loro furono straziati in più strane guise, eran colpevoli non solo di esecrande disonestà, ma di fellonia manifesta, mentre sottraevano con sedizione espressa, sé e ciascun altro al dominio de’ loro principi, affermando che la libertà del vangelo richiede di non riconoscere alcun sovrano sovra la terra (Gault. 1. c. err. 17).

XI. E quel che è più, né anche ritrattavano i loro inganni e la loro empietà quando erano per morire, come nemmeno le sogliono ritrattare gli altri settari, che niente più abborriscono che il ridirsi, benché convinti. Un certo Lucilio, propagatore dell’ateismo per la Francia, preso in Tolosa, e condannato alle fiamme, in udirsi dir che chiedesse perdono a Dio, al re, alla giustizia, de’ suoi misfatti, rispose appunto così: Quanto al chieder perdono a Dio, non saprei come farlo, mentre io tengo, non esservi Dio veruno. Quanto al chiederlo al re, io mai non l’offesi; e quanto al chiederlo alla giustizia, vada ella pure al diavolo, che io non la riconosco; se pure non è una favola questa ancora, che dicono, dei diavoli (Gault. in Addit. an. 1719. c. 19).

XII. Di tal razza sono gli eroi che presso le sette rimangono in tanto merito, che si tenta di sollevarli fino agli altari, per quella ombra che mostrano di fortezza, la quale in sostanza non è fortezza, è protervia, è perversità, e però nuova colpa, e colpa spesso maggiore ancor delle antiche. Altro vi vuole a formare un verace martire: Martyres veros non pœna facit, sed causa (Aug. ep. 167). Tutta l’acqua del mare non è bastevole a fabbricare una perla, se ‘l cielo non entra a parte del bel lavoro con le sue rugiade purissime. E così parimente tutti i tormenti del mondo non possono fare un martire, se la grazia di Dio, qual rugiada di paradiso non entra a parte per disegnare, costituire, e compire sì nobil opera ordinata a morir per le verità insegnate da Cristo (S. Th. 2. 2. q. 124. a. 5. in c.).

XIII. Ma perché ancora que’ fuochi pazzi, i quali vanno per l’aria, si acquistano presso il volgo imperito il nome di stelle, per quella poca striscia di luce che gli accompagna nella loro funesta caduta; facciamoci a rimirar più di professione questa durezza con cui sono morti vari uomini scellerati tra gli ebrei e tra gli eretici, dannati al fuoco per li loro eccessi nefandi; e dimostriamo la differenza che v’ha tra la fortezza de’ veri martiri, e de’ supposti; considerando le condizioni che accompagnavano la loro morte, e gli effetti che la seguivano.

II.

XIV. La morte de veri martiri, così bella Come erane la cagione, veniva accompagnata continuamente da più miracoli: miracoli di pazienza, miracoli di potenza: di pazienza dalla lor parte, di potenza dalla divina. Qual miracolo di pazienza non fu vedere fino il sesso più imbelle di donne, di donzelle, di fanciullette, durar costanti fra quante orribili pene sapea mai specolare la crudeltà, piuttosto che piegare un solo ginocchio avanti una statua, in onta del vero Dio? Si sono bene ritrovati più eretici, andati incontro alla morte impavidamente: ma come furiosi, non come forti. Dei donatisti narra sant’Agostino (Epist. 56), che, durante tuttora il culto degl’idoli correvano a quelle infami solennità; non già per impedirle a qualunque rischio, ma per accrescerle, con farsi in compagnia di vari idolatri scannare anch’essi vittime a satanasso. Altri, scontrando passeggeri armati per via, minacciavan di ucciderli, se non venivano prima da loro uccisi, senza altro prò, che di accrescere il numero degli assassini. Ed altri da sé stessi ne andavano come matti, chi a balzare ne’ precipizi, chi a buttarsi ne’ pozzi, chi a slanciarsi d’accordo nelle fiumane, perché non fossero solamente que’ porci indiavolati, che tanto osarono nel lago de’ Geraseni. Ma che? vi sarà però chi mai dica che questi siano miracoli di pazienza? Sono questi miracoli di furore, simile a quello di Giuda, che col suo laccio fu l’ammaestratore di tali martiri. Pazienza è star fra’ tormenti con pace d’Angelo, come vi stavano i martiri Cristiani. Ma questa è quella che non sanno imitare i martiri del diavolo.

XV. Quindi è che gli eretici, se hanno talora incontrata anch’essi la morte, non solamente hanno sempre incontrato una morte breve, ma l’hanno incontrata di più con maniere improprie, superbe, spropositate, le quali, siccome non potevano in esse venir da Dio, che mai non opera senza infinita sapienza, né venire dalla natura, la qual da sé non le detta (come opposte al suo bene), ma le declina; così riman chiaro che venivan ne’ miseri dal diavolo loro dementatore, che non potendo operar né anche da più di quello che egli è, cioè da diavolo, se giammai gli ha sospinti a morti più acerbe, gli ha dipoi quivi subito abbandonati: mercecchè può ben egli dare temerità da incontrare qualsisia patimento senza atterrirsi, ma non può dare virtù di patir con pace. Michele Serveto, innovatore dell’arianismo, sentenziato in Ginevra al fuoco da chi non lo meritava meno di lui, cioè da Calvino: posto in quel tormento sì orribile, disperò: e muggendo a guisa di toro, chiese a’ giudici un coltello in prestito da uccidersi prontamente, ma non l’ottenne (Bellac. in Prœf. controv. de Christo). Onde altro non gli restò che morire arrabbiato, prima che arso. Ecco pertanto la pazienza ammirabile de’ settari, ecco la loro possanza! L’alchimia ha ben ritrovato modo di fissare l’argento vivo, sicché resista al martello: ma non già di fissarlo, sicché resista anche al fuoco. Può ben essere dunque che la ostinazione naturale di un cuore, avvalorata dagl’impulsi e dagli impeti del demonio, si fissi infino a sopportare i colpi di un dolore più comunale; ma dove si troverà che giammai si fissi alla prova di quei tormenti più intensi e più interminati, a cui non può stare salda la carne umana senza miracolo? Dove si vedrà mai fra tutte le sette chi reggesse a ventotto anni di martirio, come un Clemente di Ancira, che solo bastò a stancare più cesari furibondi, e a bagnare del sangue, da lui gettato senza risparmio, più provincie, ove andò prigione per Cristo? Un uomo tale può dalla Chiesa Cattolica opporsi solo, alla fortezza di tutti i falsi martiri delle sette, e un uomo tale può confonderli tutti. Ma che dissi un uomo? Una donna potrà anch’ella confonderli, benché sola. Mi si trovi in tutte le sette una verginella di tredici anni, com’era Agnese, che abbia mai sopportato tanto di strazi con eguale intrepidità: anzi con brio superiore aquel di qualunque sposa andata alle nozze. Non la troveranno in eterno: Una mulier, adunque, una mulier fecit confusionem in domo regis Nabuchodonosor (Iudith. XIV, 16). E quel che io dissi di una si invitta vergine, potrei dire di un figliuoletto ancora di dodici anni, quale fu Vito (15 Jun.). Chi hanno gli avversari da porgli afronte? Noi abbiamo un Agapito (18 Aug.) , un Marcellino (2 Ian.), un Marnante (27 Aug.), un Modesto (12 Febr.), un Venanzo (18 Maii), un Pontico (2 Iun.), un Pastore (6 Aug.), un Celso (12 Iun.), un Ammonio (12 Febr.), un Amonino (3 Sept.), e più altri fanciulli illustri, da potergli almeno mettere in compagnia. Ma i settari chi hanno? Ne pure un solo. Possono ben dunque le vespe imitare le api nel fabbricare i lor favi, ma non le possono imitar già nell’empire i favi di mele, non dico eletto, ma neppure comunale.

XVI. Che so dai miracoli di pazienza noi vorremo passare a quei di potenza, operati dal cielo, o affin di sottrarre i nostri martiri dai tormenti, o affine di farli in essi trionfar di giubilo; qui si che converrà a chi che sia de’ contrastatori seppellirsi ben tosto per confusione, non che nascondersi. Un tal calvinista (Gaul. Tab. Chron. in addit. p. 15, an. 1627) in Alencon di Normandia, condotto da’ suoi gravi eccessi alla forca si dichiarò di rimanersi nella sua perfida religione ostinato fino all’estremo. Appena fu però egli gittato giù dalle scale, che ecco a un tratto il capestro far da rasoio. Gli recide il collo ad un colpo: sicché cadendo il capo da una banda, il corpo dall’altra, ebber tutti a fuggir per lo spavento, cresciuto in sommo dal veder la lingua sacrilega rimasa da se sola attaccata al busto, quando dal busto n’era già divelta la gola. Di questo genere di miracoli avversi alla loro gloria, non favorevoli, sarebbe agevole a qualsiasi de’ settari addurre più d’uno, mentre più d’una volta ha la provvidenza voluto manifestare che la lor morte non è corona della fede, ma pena della perfìdia: Illorum mors non est fidei corona, sed pœna perfidiæ (S. Cyprian. I de simpl. Prælat.). Di altra qualità di prodigi in comprovazione della loro innocenza, o de’ loro insegnamenti, non ne recheranno pur uno. come né anche potranno un solo arrecarne di quella meravigliosa allegrezza, sì comune ai martiri nostri, e pure sì strana, che talora gli ha fatti chiamar vezzi le loro catene, rose i carboni, rugiade le caldaie, giorno di natale il giorno del loro martirio, baciandone gli strumenti per tenerezza, e rimunerandone i manigoldi per gratitudine come fe’ san Cipriano, che dichiarò su quell’atto, erede di tutto il suo chi lo decollò. Una fortezza volgare, mentrella incontra i pericoli per un bene non percettibile ai sensi, diviene per ciò solo fortezza eroica. Quanto più eroica dovrà dunque essere quella che per tal bene non solo incontra i pericoli, ma vi gode, ma vi gioisce? Potrà in un mare di pene far che scaturisca una fonte di paradiso altri che quel Dio che tanto cortesemente promise a’ suoi di cambiar loro in latte l’onde salmastre Inundationes marìs quasi lac suges (Deut. XXXIII. 19) Quindi si dice tanto giustamente de’ martiri, che fortes facti sunt in bello (Hæbr. 1. 31): non ante bellum, ma in bello, perché essi conseguivano la virtù nell’atto stesso di averla ad esercitare, che è il sommo indizio che in lor veniva dall’alto. Così una Felicita che sprezzò poscia intrepida e ferri e fiere, gemeva prigione tra le angosce del parto, perché diceva che nel parto toccava a lei di combattere co’ dolori, nel martirio avrebbe in lei combattuto per lei Gesù (Bar. an. 305). Quel corallo che nascosto sott’acqua non era più che erba molle, al veder il cielo s’indura come una gemma.

XVII. Non accadrebbe all’intento passar più oltre, tanto convien che cedano i novatori: ma non è men di ragione lasciare indietro quella testimonianza che della beata morte de’ martiri danno gli effetti a lei susseguenti, sì ne’ fedeli, che tanto più sempre crescono di fervore sì nella fede che tanto più si dilata sempre di culto. Fu sì da lungi che le carneficine usate ne’ martiri spaventassero i Cristiani accorsi a vederle, che anzi li ricolmavano quasi tutti di nuova lena. Un leone crocifisso, là nell’Africa presso Cartagine fu di sì gran terrore agli altri leoni, che, come è fama, non ardirono più di accostarsi a quella città, cui recavano dianzi continui danni (Plin. 1. 8. c. 16). In simile forma crederono i proconsoli e i presidenti di potere atterrire un tempo i fedeli, ponendo loro innanzi agli occhi spettacoli sanguinosi d’altri lor pari, lacerati, impiccati, infranti, arrostiti sulle vie pubbliche. E puro non sol la morte di pochi, ma la strage stessa di dieci mila per volta rincorava i vivi, e cambiava in tanti leoni fin gli agnelletti (dico i bambinelli innocenti), non che sgomentasse i leoni.

XVIII. Né all’esempio de’ martiri si accendevano puramente i fedeli, ma talora i nemici stessi, cambiatisi in professori animosi di quella fede, di cui erano dianzi arrabbiati persecutori. E può bramarsi miracolo più evidente? L’acque medesime, se sono troppo eccessive, sullo sfiorire di una vigna, l’abbattono nulla meno di una tempesta. E pure la vigna della Chiesa appena piantata fu sì robusta, che non pur le piogge di sangue, che la inondarono, ma i diluvi, valevano a fecondarla felicemente, non a distruggerla. È celeberrimo il detto di Tertulliano (In Apolog. in fine): Plures effìcimur, quoties metimur a vobis. Semen est sanguis christianorum – (Tipo vivente dei martiri cattolici è Cristo Gesù. siccome quegli, che diede la vita in olocausto a Dio sopportando il massimo dei tormenti per la più santa delle cause, la salute delle anime umane. A quel tipo s’inspirarono i martiri cristiani di tutti i tempi e luoghi: da esso attinsero la forza sovrumana e la costanza che spiegarono in omaggio alla fede: in essa dimora la ragione, per cui il sangue dei martiri, a dire di Tertulliano, era seme di nuovi credenti); – concorrendo a sì prodigiosa fertilità l’agricoltore divino, con la forza di quella grazia che egli infondeva negli animi più protervi, e concorrendovi i martiri con l’efficacia di quell’esempio che davano più che mai sull’estremo passo, mentre morivano vittime di carità verso Dio, stando con l’anima tutta in Gesù crocifisso, idea di martirio: e vittime di carità verso il prossimo, pregando per quegli stessi che li martirizzavano sì empiamente, quasi ferro infocato, che percosso più sull’incudine, più sfavilla. Mostrino ora le sette ne’ loro pretesi martiri una carità somigliante. Ma dove la troveranno, se non la fingono? La loro virtù maggiore consisteva in morire non bestemmiando: a guisa di quei monti bituminosi, che allora solamente sono innocenti quando stanno cheti, né scagliano dalle viscere fuoco e fiamme a ferire il cielo. Qual meraviglia però che la morte dei loro non abbia mai vantaggiato il loro partito, ma sempre diminuitolo? La loro pertinacia, come era naturale o era diabolica, così non aveva forza di muovere mai veruno ad abbracciare la rea setta in cui si morivano, ma valeva solo a renderla più esecranda. Quella fiamma che imbianca l’argento vero, consuma l’artifiziato. Se là vite secca si poti, non però rigermoglia come la verde. E se il seme guasto si seppellisca, non per questo moltiplica come il sano.

LA FESTA DI CRISTO-RE (2)

LA FESTA DI CRISTO-RE (2)

R. P. Edouard HUGON, o. P.

MAESTRO DI TEOLOGIA PROFESSORE DI DOGMATICA AL COLLEGIO PONTIFICIO « ANGELICUS » DI ROMA E MEMBRO DELL’ACCADEMIA ROMANA DI S. TOMMASO D’AQUINO

LA FESTA SPECIALE di GESÙ-CRISTO RE

QUINTA EDIZIONE Rivista ed accresciuta.

PARIS (VIe) PIERRE TÉQUI, LIBRAIRE-ÉDITEUR 8a, RUE BONAPARTE, 83 1938

APPROVAZIONI

Visto ed approvato:

Roma, Angelico, il 10 aprile 1927. Fr. Ceslas PABAN-SEGOND, O. P. Maître en S. Théologie.

Fr. Réginald GARRIGOU-LAGRANGE, O. P. Maître en S. Théologie.

PERMESSO DI STAMPA:

17 aprile 1927. Bonaventura GARCIA DE PAREDES. Mag. Gen. Ord. Frnt. Prædic.

IMPRIMATUR:

Parisiis, die 5 a decembris 1927. V. DUPIN, v. g.

CAPITOLO III.

COME QUESTO POTERE REALE DI CRISTO SIA UNIVERSALE, SU TUTTI GLI UOMINI E SU TUTTE LE SOCIETÀ.

Il Salvatore è re su tutti coloro sui quali si irradia l’influenza della sua grazia capitale (Cf. S. THOM., III a , q. 8). Questa azione si manifesta nei beati, ai quali ha meritato grazia e gloria, e nei giusti, ai quali comunica grazia e carità. Si estende ai fedeli, anche ai peccatori, che da lui derivano le virtù soprannaturali della fede e della speranza; si estende anche agli scismatici, agli eretici, agli ebrei, ai pagani e agli infedeli, perché tutti ricevono da lui l’aiuto dell’illuminazione e dell’ispirazione per uscire dalla loro miseria e raggiungere la salvezza. Per questo Papa Alessandro VIII, il 7 dicembre, 1690 (Denzig. 1295), ha condannato questa proposizione: « I gentili, gli ebrei, gli eretici e gli altri che si trovano in tali condizioni non ricevono in alcun modo l’influenza di Cristo. » Egli è morto per tutti e per ciascuno; tutti sono una sua vera conquista. « Ci sono popoli che non hanno né l’Eucaristia, né il Battesimo, né i sacerdoti; ma non ce n’è nessuno del tutto estraneo all’influenza del Verbo fatto carne. Anche le nazioni più degradate, immerse nell’ignoranza e nel crimine, sono talvolta visitate dall’Uomo-Dio: perché, nonostante tutto, ricevono luci, bagliori soprannaturali illuminanti, grazie attuali, ed è questa l’attività strumentale della gloriosa Umanità che porta loro questo aiuto (La causalità strumentale). »  Gli Angeli stessi devono a Gesù Cristo certe grazie, certe nuove gioie o glorie accidentali, perché l’Incarnazione, elevando gli uomini al livello dei cori angelici, ripara le rovine che il peccato aveva fatto nelle gerarchie celesti, e perché la contemplazione di una così perfetta Umanità aggiunge stupore alla loro felicità.  Non comunica Egli più la vita soprannaturale ai dannati, ma regna ancora con la sua giustizia su tutti coloro che non hanno voluto lasciarlo regnare con misericordia ed amore.

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Da tutto ciò che abbiamo appena esposto risulta con assoluta ovvietà che la regalità di Gesù Cristo come eredità e in virtù dell’unione ipostatica si estende a tutte le creature senza eccezione, e che la sua regalità come conquista e per grazia capitale si estende a tutte le creature ragionevoli, specialmente agli uomini, redenti dal suo sangue.  E poiché Egli ha riparato tutta la nostra natura, corpo e anima e facoltà, deve regnare nel nostro interno, che Egli divinizza con la grazia santificante; nella nostra intelligenza, che deve accettare il suo dogma ed i suoi insegnamenti; nella nostra volontà, che deve piegarsi ai suoi precetti; nel nostro cuore e nei nostri affetti, perché non amiamo nulla e nessuno più di Lui, invece che Lui (Cf. S. THOM., lIa, IIæ, q. 184, a. 3, ad 3); nei nostri membri, che devono cooperare come strumenti all’opera della giustizia e della santità, per la sua gloria e il suo onore, arma justitiæ Deo (Rom. VI, 13). – Le stesse ragioni dimostrano che questa regalità deve essere universale, su tutta la società. Riuniti e raggruppati nella società, gli uomini non possono essere allontanati dall’impero del Salvatore, e i doveri che incombono agli individui vincolano la nazione, la patria, gli Stati, che sono assoggettati a Dio e al suo Cristo, ancor più che l’uomo privato. Il Cardinale Pie difendeva valorosamente questi diritti divini contro le negazioni dell’incredulità e del liberalismo; in questo senso citava la magnifica lettera di Sant’Agostino a Macedonio, alto funzionario dell’impero: « Sapendo che voi siete un uomo sinceramente desideroso della prosperità dello Stato, vi chiedo di osservare come sia certo, con l’insegnamento delle Sante Lettere, che le società pubbliche partecipano ai doveri dei privati e possono trovare la felicità solo dalla stessa fonte. » – « Benedetto – diceva il Re Profeta – il popolo il cui Dio è il Signore. » Questo è il voto che dobbiamo augurare nella nostra società di cui siamo cittadini; perché la patria non può essere in alcuna condizione diversa dal singolo cittadino, poiché la città non è altro che un certo numero di uomini ordinati secondo la stessa legge. E per stabilire che la società debba sottomettersi alla regalità di Cristo, il Vescovo di Poitiers dichiara: « Il regno visibile di Dio sulla terra è il regno del Figlio suo incarnato, e il regno visibile del Dio incarnato è il regno permanente della sua Chiesa…. Il dogma cattolico consiste interamente nella sequenza di queste tre verità: un Dio che abita in cielo; Gesù Cristo, il Figlio di Dio inviato agli uomini; la Chiesa come organo permanente e interprete di Gesù Cristo sulla terra. Ora queste tre verità collegate tra loro sono il triplo pacchetto che non può essere infranto (La regalità sociale del Cristo secondo il Cardinal Pie, p. 32 – S Aug. P. L. XXXII, 670). »

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Per dimostrare i diritti sovrani di Cristo sulle nazioni e sugli stati, è sufficiente ricordare che  Egli è come Dio, autore, conservatore, benefattore della società, e come il Verbo Incarnato il principio e la fonte da cui le società derivano, per le società come per gli individui, le energie indispensabili per la salvezza e la prosperità. Innanzitutto, è chiaro che Dio è l’autore della società, perché è da Lui, come ben spiega Leone XIII, che deriva da l’autorità, senza la quale non esiste un governo (Encyclic. Immortale Dei, 1 nov. 1885. LEONIS XIII PP. ACTA, VOL. V, p. 120). E, allo stesso modo che ogni creatura ha bisogno della continua influenza di Dio per sussistere e del suo soccorso immediato per agire e tendere al proprio fine, così la società ha bisogno dell’aiuto incessante di Dio per vivere, svilupparsi, progredire, per raggiungere la sua perfezione. Ecco perché, aggiunge Leone XIII, la società esteriore che riceve tali benefici dal suo Autore, è vincolato da un rigoroso dovere di onorare Dio con un culto pubblico, religione publica satisfacere. Ma, nelle attuali condizioni di caduta, la nostra povera umanità è come il viaggiatore di Gerico, spogliato, ferito, mprente (S. Luc, IX, v. interp. di Beda ven.P. L., XCIÏ, 468, 469), con il libero arbitrio indebolito, incline al male, infirmatum, viribns attenuatum et inclinatum, secondo l’espressione del Concilio di Orange (can. XIII) e del Concilio di Trent (Sess. VI, cap. 1). San Paolo, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, Sant’Agostino, San Tommaso, si dicono, con irresistibile eloquenza che l’uomo non è in grado di osservare la legge naturale senza la grazia del Mediatore (S. PAUL, Rom., VII, 17-25; S. AUGUSTIN, Serm., 248, P. L., XXXVIII, 1160; S. AMBROS., In ps. XLlII, 71, P. L., XIV, 1123; cf. THOM., Ia IIæ, q. 109. a. 4 et a. 8). Se gli individui non possono, senza tale aiuto, mantenere l’onestà fondamentale del Decalogo, come potrà esservi fedele la società intera, se non rigenerata dalla virtù divina? Ora, tutta l’energia divina, tutte gli aiuti soprannaturali, tutta la grazia, sono elargizione dell’Incarnazione, essendo Cristo l’unica fonte necessaria a cui rivolgersi per avere la vita. E’ per le società, non meno che per gli individui, che San Pietro ha detto: « Non c’è salvezza se non in Lui, e non c’è altro Nome che promette la salvezza alla razza. decaduta ( Act. IV, 12). – Inoltre, la storia è lì per dimostrare che la civiltà avanza o indietreggia nella stessa misura dove la società accetta o rifiuta il beato regno di Gesù-Cristo, che tutto ciò che è squisito nelle nazioni moderne viene a loro dal Vangelo, che i popoli, ingrati come sono, si abbeverano alla luce di Cristo e della Chiesa. Il nuovo Adamo, che è Cristo, spiega Leone XIII, ha istituito la vera fraternità umana, fraternità di individui tra di loro e tra le nazioni (12Leone XIII, lettera ai Vescovi del Brasile, 5 maggio 1888, Acr. LEONIS PAPA XIII, t. VIII, P. 175). Le nazioni, aggiunge Pio XI, hanno bisogno della pace di Cristo nel regno di Cristo (Act, Apost. Sed. Dic. 1922) . « La terra tremerà alla sua base ed inquieta nelle sue viscere – esclamava Mons. Pie, Vescovo di Poitiers – non troverà il suoi assetto fino a quando uno scossone favorevole avrà riparato la perturbazione ed i disordini portati all’equilibrio politico del mondo cristiano dalla scomparsa del suo capo (op. cit. p. 184). » Ma, se è vero che Nostro Signore è la fonte dei veri beni per gli individui, le famiglie, le nazioni, è ugualmente manifesto anche che tutti gli uomini e tutte le società hanno l’obbligo di riconoscere i suoi benefici, che le autorità pubbliche non saprebbero senza iniquità sottrarre al loro regno sociale. – Tale è la sostanza di questa dottrina indiscutibile: Gesù Cristo è il Re delle nazioni e delle società: come Dio allo stesso titolo come il Padre; come uomo in virtù dell’unione ipostatica, perché fornisce loro i mezzi e i soccorsi senza il quale non possono raggiungere la loro prosperità ed il loro fine completo (Quest’ultimo può essere riassunto come segue: Le nazioni e le società devono riconoscere come loro sovrano Colui dal quale ricevono come da una fonte costante l’aiuto di cui hanno bisogno per raggiungere il loro fine. Ora Cristo stesso come l’uomo è il principio secondo il quale le nazioni e le società ricevono questi indispensabili soccorsi. Così tutto il Cristo ed anche come uomo deve essere riconosciuto come il sovrano delle nazioni e delle società. – L’enciclica afferma espressamente che si tratterebbe di un errore grossolano contestare a Gesù-Cristo uomo l’impero assoluto su tutte le cose civili: « Turpiter, ceteroquin, erret
qui a Christo homine rerum civilium quarumlibet imperium abjudicet. » Act. Apost. Sedis,
XVII. 600. 

CAPITOLO IV

NECESSITÀ DI PROCLAMARE SOLENNEMENTE QUESTA REGALITÀ NEL NOSTRO TEMPO.

Se mai ci fosse mai un momento per affermare e vendicare i diritti di Dio, è sovranamente necessario proclamarli ora, nella nostra epoca in cui il crimine è l’apostasia della società, come se questa potesse impunemente fare a meno di Dio. «Il crimine principale che il mondo sta espiando in questo momento – scriveva il cardinale Mercier nella sua Pastorale del 1918 – è l’apostasia ufficiale degli Stati. Non esito a proclamare che questa indifferenza religiosa, che mette sullo stesso piano la Religione divina e le religioni di umana invenzione così da avvilupparle tutte nel medesimo scetticismo, è una blasfemia che ancor più che i crimini degli individui e delle famiglie, richiama sulla società il castigo di Dio. » Il cardinale Pie aveva detto la stessa cosa: “Al presente Gesù Cristo è cacciato dalla società con la secolarizzazione assoluta delle leggi, dell’educazione, del regime, amministrative, delle relazioni internazionali e dell’intera economia sociale (Op. cit., p. 47- Vedi questa seconda parte: Apostasia delle nazioni moderne e sue conseguenze) ». – Per riparare questo crimine della lesa-divinità, dobbiamo esaltare Gesù Cristo come Re universale, degli individui, delle famiglie, delle società. Questo sarà la confutazione pratica del laicismo, che è una delle più grandi calamità del nostro tempo. Ci sono tre forme principali che bisogna combattere. Il laicismo sostiene innanzitutto che la religione sia una questione puramente privata, di cui le autorità pubbliche non debbano occuparsi, che la sua nozione lo escluda persino dai doveri della società. – Se viene proclamata la regalità universale di Cristo, se viene riconosciuto il suo regno sociale, l’errore immediatamente è colpito nella sua radice e ugualmente così trionfa la verità che esprimeva Leone XIII: « È evidente che la società è legata a Dio da numerosi doveri di primaria importanza, ai quali debba soddisfare rendendo a Dio un culto pubblico. La natura e la ragione, che prescrivono agli individui di onorare Dio perché sono nelle sue mani, vengono da Lui e devono tornare da Lui, dicono anche che la stessa legge obbliga la società civile (Leone XIII, Encyclic. Immortale Dei, Acta, vol. V, p. 123). » – In secondo luogo, il laicismo insegna che se si deve seguire una religione, si possa seguire, si possa scegliere quella che più piace, e che la società è assolutamente libera … di rimanere neutrale. – La solenne proclamazione del regno universale di Gesù Cristo colpisce questa nuova forma di errore e dice al mondo che l’unica vera religione è quella che il Figlio di Dio si è degnato di portarci. « Nel culto che dobbiamo alla divinità – continua Leone XIII – dobbiamo assolutamente seguire quello che Dio stesso ha determinato in modo manifesto. » Ora non è difficile capire quale sia la vera religione, se si considerano, con prudente e sincero giudizio, i numerosi ed eclatanti argomenti che lo stabiliscono: la verità delle profezie, l’abbondanza miracoli, la rapida diffusione della fede in mezzo a nemici ed ostacoli di ogni tipo, la testimonianza dei martiri. Queste ed altre prove simili dimostrano che esiste una sola vera religione, quella che Gesù Cristo ha istituito e della quale ha incaricato la sua Chiesa di diffondere e propagare (Ibid., p. 123, 124). » Infine, ciò che caratterizza il laicismo è l’odio e l’orrore che ha del soprannaturale. Il diavolo ha peccato fin dall’inizio (Cf. S. THOM., Ia, q. 63, a. 3), rifiutando il soprannaturale propriamente detto, e allo stesso modo il laicismo, che è lo spirito satanico, si fa un dogma ed una religione nel combattere il soprannaturale con ogni mezzo possibile e per escluderlo dall’umanità. Si può dire che tutta la lotta attuale non sia, in ultima analisi, che una lotta contro il soprannaturale. – Ora il soprannaturale si manifesta efficacemente nel Verbo incarnato per la nostra redenzione. Quindi, dal momento che Gesù Cristo viene riconosciuto Re universale, e si promulga così la necessità e la verità del soprannaturale, il laicismo è rifiutato mentre nel contempo si afferma la missione divina della Chiesa. « Il Figlio unico di Dio – dice Leone XIII nello stesso documento, istituì sulla terra una società, la Chiesa, alla quale affidò l’alta e divina missione di trasmettere fino alla fine dei secoli ciò che Egli stesso ha ricevuto dal Padre: come il Padre ha inviato me, così Io mando voi. » Colpendo il laicismo questa proclamazione affretterebbe il completamento del magnifico programma di Pio IX: « La pace del Cristo nel regno del Cristo ». La pace, secondo una famosa definizione di Sant’Agostino, è la tranquillità dell’ordine: tranquillitas ordinis (S.AUGUSTIN, De Civit. Det, lib. XV, c. XIII; P. L., XLI, 640.). E l’ordine chiede che, ovunque ci sia pluralità, disuguaglianza, diversità, ogni cosa sia al suo posto: Parium dispariumque rerum sua cuique loca tribuens dispositio. Così, al fine di garantire la pace, è necessario stabilire l’ordine, e per stabilire l’ordine bisogna mettere ogni cosa al proprio posto. – Nell’individuo, la pace richiede che il corpo sia sottomesso all’anima, gli appetiti inferiori alla ragione, e la ragione a Dio; nell’universo intero, la pace richiede che tutte le società, la famiglia, la patria, le nazioni, siano soggette a Cristo Re come Cristo è soggetto al Padre. Proclamare Gesù Re universale ed espandere il suo regno, significa preparare e garantire la pace, e allo stesso tempo il trionfo della Chiesa, “No –  esclama Bossuet, no, Gesù Cristo non regna se la sua Chiesa non è autorizzata; i pii monarchi lo hanno ben riconosciuto; e la loro autorità, oso dirlo, non è non è stata più cara che l’autorità della Chiesa (BOSSUET, Terzo sermone per la domenica delle Palme). ». Pio XI aveva perfettamente ragione a dire nella sua prima enciclica: « Non possiamo lavorare più efficacemente per la pace che restaurando il regno di Cristo (Act. Apost. Sed., XIV, 690). » Gli eventi attuali aggiungono a questo linguaggio una brillante e dolorosa conferma. Il movimento Bolscevico che, dopo aver devastato la Russia, si sta diffondendo in Oriente e minaccia di invadere il mondo musulmano, e a poco a poco anche l’Europa, dovrebbe farci comprendere chiaro che lo spirito del male regna dove il Cristo non regna più,  « Quando la religione non è più la mediatrice tra i re ed i popoli, il mondo è alternativamente vittima degli eccessi degli uni e degli altri. Il potere, libero da ogni freno morale, si erge in tirannia, fino a quando la tirannia – divenuta intollerabile – non porta al trionfo della ribellione. Poi dalla ribellione esce qualche nuova dittatura, ancor più odiosa” delle precedenti (Cardinal Pie, nell’opera citata, p. 68) ». Il mezzo dunque per scongiurare l’immenso pericolo dei nuovi tempi è quello di proclamare e stabilire il regno di Gesù-Cristo, così come quello della sua Chiesa, perfetta società spirituale, con i suoi dogmi immutabili, la sua morale intangibile, i suoi diritti imprescrittibili. – Un’altra utilità di questa proclamazione, sarà il temprare i caratteri. Ciì che troppo spesso è mancato ai Cristiani del nostro tempo è questa energia, questo valore, questa costanza alle quali sono riservate le grandi vittorie. Ma se essi avessero davanti ai loro occhi il Cristo Re, che li invita a lottare per la sua causa, si sentirebbero attratti da lui, applicando le parole dell’Apostolo: Lavorate come il buon soldato di Cristo Gesù (II Tim. III). – Per riassumere il tutto in poche parole: dichiarare autenticamente la regalità universale di Nostro Signore è quindi proclamare per gli individui, le famiglie, le nazioni, tutte le società, l’obbligo di sottomettere a Cristo tutte le intelligenze attraverso la fede nella sua dottrina, tutte le volontà, tutte le leggi e la vita intera, con la completa obbedienza ai suoi comandamenti ed un efficace riconoscimento della sua Chiesa.

LA FESTA DI CRISTO-RE (3)