IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (9)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (9)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO. IV.

Del Decalogo (*).

(*) Questi Comandamenti del Decalogo, da Dio stesso solennemente promulgati sul monte Sinai e da Gesù Cristo confermati e spiegati nella nuova Legge, devono da tutti essere imparati e con massima cura custoditi ed osservati. Questi divini Comandamenti, infatti, non solo tracciano ai singoli la via dell’eterna salvezza, ma sono nello stesso tempo il fondamento di ogni civile consorzio.

D. 187. Che cosa vuol dire: Decalogo?

R. Decalogo vuol dire dieci parole, ossia i dieci comandamenti che Dio diede a Mosè sul monte Sinai e che Gesù Cristo confermò nella legge nuova.

(Esod., XX, 2, 6; Matt., V, 17, 18; XIX, 17-20. — Questi comandamenti furono consegnati da Dio in mano a Mosè, scritti su due tavole. I tre primi comandamenti vengono chiamati comandamenti della prima Tavola; gli altri, comandamenti della seconda Tavola).

D. 188. Come si dividono i dieci comandamenti del Decalogo?

R. I dieci Comandamenti del Decalogo si dividono in modo che i tre primi riguardano Dio, mentre gli altri sette si riferiscono a noi stessi e al prossimo.

D. 189. Perché Dio ha premesso al Decalogo queste parole: Io sono il Signore Dio tuo?

R. Dio ha premesso al Decalogo queste parole: Io sono il Signore Dio tuo, per ammonirci ch’Egli, comeDio e Signore, ha il diritto d’imporre comandamenti, allacui osservanza siamo tenuti (Esod, XX, 2-6; Lev., XXVI, I; Deut., V, 6 e segg.; Cat. p. parr, p. III, c. II, n. 3).

SEZIONE la. — Dei tre primi comandamenti del Decalogo che si riferiscono a Dio.

Art. 1. — DEL PRIMO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 190. Che cosa vieta Iddio nel primo comandamento del Decalogo: Non avrai altro Dio fuori che me?

R . Nel primo comandamento del Decalogo: Non avrai altro Dio fuori che me, Dio vieta che ad altri venga reso il culto a Lui solo dovuto (Esod, XX, 2-6; Lev., XXVI, 1; Deut, X, 6 e segg.; Cat. p. parr, p. I l i , c. I I , n. 3).

D . 191. Qual culto dobbiamo rendere a Dio?

R . A Dio, e soltanto a Dio, noi dobbiamo rendere il culto supremo, cioè il culto di adorazione.

D . 192. Perché dobbiamo rendere a Dio il nostro culto e adorarlo?

R . Dobbiamo rendere a Dio il nostro culto e adorarlo perch’Egli è il nostro creatore, il nostro provvido conservatore e il nostro ultimo fine.

D . 193. In qual modo dobbiamo noi rendere a Dio il nostro culto e adorarlo?

R . Noi dobbiamo rendere a Dio il nostro culto e adorarlo in quanto Creatore di tutte le cose, provvido conservatore, primo principio ed ultimo fine, e ciò — come la natura stessa, e più ancora la rivelazione ci suggerisce — mediante atti di religione tanto interni quanto esterni, il principale dei quali è il sacrificio, che a nessuna creatura può venir offerto.

D . 194. In qual modo si pecca contro il primo comandamento del Decalogo?

R . Si pecca contro i l primo comandamento del Decalogo:

1° con la superstizione, ossia l’idolatria, la divinazione, la vana osservanza, lo spiritismo, il quale ultimo si riduce in fondo, alla vana osservanza e alla divinazione;

2° con l’irreligione, cioè, con l’omettere Fatto di culto a cui siamo tenuti, col sacrilegio e con la simonia.

(L’idolatria è quella superstizione per cui il culto divino vien reso a una divinità immaginaria, alla creatura o al demonio. La divinazione, quella superstizione per cui, con l’aiuto del demonio, espressamente o tacitamente invocato, si cerca di scoprire il futuro o l’occulto. La vana osservanza, quella superstizione per cui, nell’intento di conseguire un dato effetto, si mettono in opera mezzi inefficaci, con espressa o tacita invocazione del demonio. Lo spiritismo, quella superstizione, per cui si comunica cogli spiriti malvagi, e si tenta, mediante il loro aiuto, di conoscere occulte cose. Il sacrilegio consiste nel trattare indegnamente una cosa o una persona sacra, oppure un luogo consacrato a Dio o al culto divino. La simonia implica un contratto, il cui oggetto consistendo in cose spirituali, o con queste connesse, ovvero in cose temporali con iscopo religioso, è proibito dal diritto naturale e divino, oppure da quello canonico).

D . 195. Dobbiamo noi rendere il culto anche ai Santi?

R . Anche ai Santi, e massimamente alla beata Vergine Maria, noi dobbiamo rendere un culto inteso ad onorarli e a propiziarci il loro patrocinio; questo culto però è d’ordine diverso ed inferiore, ossia è culto di venerazione (Cat. p. parr, p. III, c. II, n. 7 e segg.).

D . 196. Come si chiama il culto reso a Dio, ai Santi, alla beata Vergine Maria?

R . Il culto reso a Dio si chiama culto di latria, ossia di adorazione; quello reso ai Santi, culto di dulia, ossia di venerazione; quello reso alla beata Vergine Maria, culto di iperdulia, ossia di assai superiore venerazione.

(Il culto di latria è il culto dovuto soltanto a Dio, culto col quale l’uomo professa la propria sudditanza a Dio che ha il pieno e sommo dominio su tutte le creature. Il culto di dulia è il culto col quale veneriamo e onoriamo i Santi come creature care a Dio, figli e amici suoi, come membri di Gesù Cristo, e nostri intercessori presso Dio. La beata Vergine Maria poi, la quale è pur semplice creatura, ma come vera genitrice di Dio, è, al di sopra di ogni altra creatura, congiunta a Dio con ispecialissimo vincolo, viene anche onorata con culto speciale, che chiamasi di iperdulia. — S. Giov. Dam.: De imaginibus, oratio II, 5; III, 41).

D . 197. Dobbiamo noi inoltre venerare le reliquie dei Martiri e degli altri Santi che vivono con Cristo?

R . Noi dobbiamo inoltre venerare le reliquie dei Martiri e degli altri Santi che vivono con Cristo, perché i loro corpi, oltre ad essere stati vive membra di Cristo e tempio dello Spirito Santo, da Cristo aspettano di essere risuscitati e glorificati nella vita eterna; e perché a mezzo delle loro reliquie Dio elargisce agli uomini non pochi benefici. 0) (IV dei Re, 14; XIII, 21; Matt., IX, 20-22; XIV, 36; Atti, V, 15; XIX, 12; Conc. Niceno, II: De sacris imaginibus, actio VII; Conc. di Tr., sess. XXV, De invocatione…. Sanctorum.)

D . 198. Anche alle sacre immagini van dati l’onore e la venerazione che meritano?

R . Anche alle sacre immagini van dati l’onore e la venerazione che meritano, perché l’onore ad esse rivolto si rivolge ai prototipi da esse rappresentati: onde con quei segni di riverenza che ad esse indirizziamo, noi adoriamo Cristo stesso, e veneriamo i santi, di cui esse riproducono le sembianze (Conc. Nic. II, 1. c.; Conc. di Tr. 1. c , S. Cir. Aless.: In Psalm CXIII, 16).

D . 199. Ma allora in qual senso vietò Dio nell’Antico Testamento le immagine e le sculture?

R . Nell’Antico Testamento Dio non vietò in modo assoluto le immagini e le sculture; vietò soltanto che fossero proposte all’adorazione secondo l’uso dei gentili, e ciò per evitare che, onorandosi quasi come divinità quei simulacri, il vero culto di Dio venisse a soffrirne detrimento (Esod, XX, 4, 5; Deut, IV, 15-19; S. Tom, p. III, q. 25,

a. 3, ad I.um).

Art. 2. — DEL SECONDO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D . 200. Che cosa proibisce Dio nel secondo comandamento del Decalogo: Non nominare il nome di Dio invano?

R . Nel secondo comandamento del Decalogo: Non nominare il nome di Dio invano, Dio proibisce qualsiasi

irriverenza nei riguardi del suo nome (Esod, XX, 7; Lev , XIX, 12; Deut, V, 11).

D . 201. Chi si rende colpevole di tale irriverenza?

R. Si rende colpevole di tale irriverenza chi pronunzia il nome di Dio senza giusto motivo e senza la debita venerazione, chi viola i voti emessi, chi presta giuramenti falsi, temerari ed ingiusti, e più di tutto chi proferisce bestemmie (Lev, XIX, 12; XXIV, 11-16; I V d. Re, XIX, 6 e segg. —

Il voto è una promessa deliberata fatta a Dio e il cui oggetto è un bene migliore. Il giuramento è l’invocazione del nome di Dio chiamato a riprova della nostra credibilità o a conferma di una nostra promessa; il giuramento è falso se quel che si asserisce non è conforme all’interno pensiero; temerario, se emesso in modo assoluto quando manchi invece ogni certezza soggettiva del patto; ingiusto, se nel giuramento assertorio è malvagia l’asserzione, o malvagia la promessa in quello promissorio. La bestemmia è un’espressione ingiuriosa verso Dio. Pio XI, nella Lettera al Vescovo di Verona, del 3 dic. 1924, così descrive la gravità della bestemmia deliberata: « La bestemmia sprezza in maniera oltremodo ingiuriosa la bontà di Dio, poiché, mentre va contro la fede che si professa, non solo contiene in sé la malizia dell’apostasia, ma ne spinge al massimo la gravità, sia con la detestazione del cuore, che con l’imprecazione della bocca. Qualora dunque la bestemmia venga scagliata in piena scienza e coscienza, appunto per quel suo contenuto, che è oltraggio perverso contro Dio stesso autore delle leggi, e implicita abiura della fede, essa è fra tutti i peccati il più grave, anche se ciò non apparisca esternamente dalla gravità degli effetti dannosi ».

D . 202 . Ci è pur vietato di prendere invano il nome dei Santi?

R . Ci è pur vietato di prendere invano il nome dei Santi, e specialmente della beata Vergine Maria, per la stessa ragione che ci obbliga ad onorarli.

Art. 3. — DEL TERZO COMANDAMENTO DEL DECALOGO.

D. 203 . Che cosa comanda Iddio nel terzo comandamento del Decalogo: Ricordati di santificare le feste?

R . Nel terzo comandamento del Decalogo: Ricordati di santificare le feste, Dio comanda che i giorni di festa, cioè quelli a Lui sacri, vengano celebrati col culto divino, tralasciandosi gli affari e i lavori corporali (Esod, XX, 8; XXXI, 13; Deut, V, 12-15).

D . 204. Quali erano i giorni di festa nell’Antico Testamento?

R . Nell’Antico Testamento vi erano non pochi giorni di festa, ma il più importante era il giorno del sabbato, chiamato sabbato precisamente perché quello stesso suo nome dava a significare il riposo necessario al culto divino.

D . 205. Perché nel Nuovo Testamento il giorno del sabbato non viene osservato?

R . Nel Nuovo Testamento il giorno del sabbato non viene osservato perché la Chiesa l’ha sostituito con quello della domenica, in onore della Risurrezione di Gesù Cristo e della discesa dello Spirito Santo nella Pentecoste; alla domenica la Chiesa ha aggiunto altre feste ( 2).

 (2) I l comandamento concernente l’osservanza del sabbato, qualora si guardi al tempo assegnato, non fu nè fisso nè costante, bensì mutevole, né aveva carattere morale, ma solo cerimoniale; qualora, invece, si guardi alla sostanza stessa, quel comandamento ha in sé qualcosa d’attinente alla morale e al diritto di natura. Quanto poi all’epoca in cui andava tolta l’osservanza del sabbato, quella fu in cui sarebbero state abolite tutte le altre osservanze e cerimonie del culto ebraico, cioè la morte di Cristo. — Cat. p. parr, p. III, c. IV , n. 4 e segg.)

D. 206 . A che cosa dunque siamo tenuti presentemente riguardo alla santificazione dei giorni di festa?

R. Riguardo alla santificazione dei giorni di festa, siamo tenuti presentemente a santificare, a quel modo che la Chiesa comanda, le domeniche e gli altri giorni di festa da essa prescritti (Più oltre, alle DD. 243 e segg., verrà esposto quanto riguarda i giorni di festa da santificarsi a norma del comandamento della Chiesa).

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (11)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [11]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXV.

Si soddisfa al lamento di coloro che sentono aridità e tristezza nell’orazione.

Primieramente io non dico, che quando Dio visita alcuno, egli non se ne abbia a rallegrare; perché è cosa chiara, che non si può a meno di non sentir allegrezza alla presenza della cosa amata: nè dico, che non abbia a sentir dispiacere della sua assenza quando Egli il castiga con aridità e con tentazioni; che ben veggo io, che non è possibile non sentir di ciò dispiacere: e Cristo medesimo Egli pure sentì l’abbandonamento del suo Padre eterno, quando stando pendente dalla croce disse: Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me (Ps. XXI – Matt, XVII, 43. )? Dio mio, Dio mio, perché m’hai abbandonato? Ma quel che si desidera è che sappiamo cavar frutto da questo travaglio e da questa prova colla quale suole il Signore molte volte provare i suoi eletti, e che ci rivolgiamo con fortezza di spirito a conformarci alla volontà di Dio, dicendo: Verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu (Ibid. XXVI, 39): Non si faccia, Signore, quello che io voglio, ma quello che volete voi; specialmente non consistendo la santità e la perfezione nelle consolazioni e nel far alta ed elevata orazione, né misurandosi con questo il nostro profitto e la nostra perfezione; ma col vero amor di Dio, il quale non consiste in queste cose, ma in una vera unione e intera conformità alla volontà di Dio sì nelle cose amare come nelle dolci; sì nelle avverse come nelle prospere. Sicché abbiamo da pigliar ugualmente dalla mano di Dio la croce e l’abbandonamento spirituale, il favore e la consolazione, ringraziandolo tanto dell’uno, quanto dell’altro. Se volete, o Signore, diceva quel santo Uomo, che io stia in tenebre; siate benedetto: e se volete, che io stia in luce; siate parimente benedetto. Se mi volete consolare, siate benedetto: e se mi volete tribolare, siate ugualmente sempre benedetto (Thomas a Kempis lib. 3, c. 17, n. 2): e così ci consiglia l’apostolo san Paolo che diciamo noi ancora e facciamo :In omnibus  gratias agite; hæc est enim voluntas Dei in Christo Jesu, in omnibus vobis (I. ad Thess. V, 18): In tutte le cose che vi avverranno, rendete grazie a Dio, perché questa è la volontà sua. Se dunque questa è la volontà di Dio, che altro abbiamo noi da desiderare? Se egli vuole indirizzar la mia vita per questo sentiero tenebroso ed oscuro, io non ho da sospirare per alcun altro che sia più luminoso ed agiato. Dio vuole, che colui vada per una strada per cui non gli manchi né luce né gusti; e che io vada per questo deserto arido e secco, senza provarvi una minima consolazione; non cambierei la sterilità mia colla fecondità di quell’altro. Questo è quello che dicono quelli che hanno aperti gli occhi alla verità, e con questo si consolano. Dice molto bene il padre maestro Avila (M. Avil. Audi filia, cap. 26): Oh se il Signore ci aprisse gli occhi, come ci si renderebbe più chiaro che la luce del sole, che tutte le cose della terra e del cielo sono molto basse per desiderarsi e godersi, se si toglie da esse la volontà del Signore, e che non v’è cosa, per piccola e amara che ella sia, che se si congiunge con essa la sua divina volontà, non sia di gran valore. È meglio senza comparazione lo stare in travagli e afflizioni, in aridità e tentazioni, se così Dio vuole, che quanti gusti, consolazioni e contemplazioni si trovano, se vada da essi disgiunta la divina sua volontà. Ma dirà qualcuno: Se io sapessi, che questa è la volontà del Signore, e che Egli si compiacesse e si contentasse più di questo, facilmente mi ci conformerei e starei molto contento, ancorché io passassi tutta la mia vita in questa maniera; perché ben veggo, che non v’è altra cosa da desiderare, che piacere e dar gusto a Dio, né la vita è fatta per altro: ma mi pare, che Dio vorrebbe pure, che io facessi miglior orazione e con maggiore raccoglimento e attenzione, se io mi ci disponessi: e quel che mi dà fastidio è il credere, che per colpa e tiepidità mia, e per non far io quanto è dal mio canto, me ne sto distratto e arido, senza potermi introdurre nell’orazione: che se credessi e restassi persuaso di fare quanto posso per la mia parte, e che non vi fosse colpa per me, non ne sentirei rammarico alcuno. È molto ben appoggiata questa querela: e su questo punto non vi resta a dir altro che possa avere più forza; poiché a questo si vengono a restringere tutte le ragioni di quelli che hanno simili doglianze: onde se soddisfaremo bene a questo, faremo un gran fare, per essere tanto comune e ordinario questo lamento; non essendovi alcuno, per santo e perfetto che siasi, che in alcuni tempi non senta queste aridità e abbandonamento spirituali. Lo leggiamo del beato S. Francesco e di S. Caterina da Siena, con tutto che siano stati tanto accarezzati e favoriti da Dio  e S. Antonio abbate, con tutto che fosse uomo di così alte orazione, che le notti gli parevano un soffio, e si lamentava del sole che si levasse troppo presto, pure alle volte era tanto travagliato e agitato da pensieri cattivi e importuni che gridava e alzava le voci a Dio, dicendo: Signore, io vorrei pur esser buono, e i miei pensieri non mi lasciano esserlo: e S. Bernardo si lamentava di questo stesso, e diceva: Exaruit cor meum, coagulatum est sicut lac, factum est sicut terra sine aqua; nec compungi ad lacrymas queo, tanta est duritia cordis: non sapit Psalmus; non legere libet; non orare deleclat; meditationes solitas non invento. Ubi illa inebriatio spiritus? Ubi mentis serenitas. et pax, gaudium in Spiritu sancto (D. Bern. Serm. 54 sup. Caut.)? 0 Signore, che mi s’è inaridito il cuore, mi s’è ristretto e rappreso come latte; sta come terra senz’acqua, né mi posso compungere né muover a lagrime, tanta è la durezza del mio cuore: non istò bene nel Coro; non gusto della lezione spirituale; non mi piace la meditazione. O Signore, che io non trovo nell’orazione quel che soleva; ove è quei l’inebriarsi l’anima del vostro amore? ove è quella serenità, quella pace e quel gaudio nello Spirito santo? Di maniera che per tutti è necessaria questa dottrina, e confido nel Signore che soddisfaremo a tutti. Cominciamo dunque di qui. Io vi concedo, che la vostra colpa è la cagione della vostra distrazione e aridità, e del non potervi internare nell’orazione: e così è bene che crediate e ne stiate persuasi, e che diciate, che per i vostri peccati passati e per le vostre colpe e negligenze presenti il Signore vi vuol castigare col non ammettervi ad intrinsichezza con lui nell’orazione, col non potere provare raccoglimento, né  quiete, né attenzione in essa, perché non lo meritate, anzi più tosto lo demeritate. Ma non cammina perciò la conseguenza, che ve n’abbiate da lamentare; anzi ne ha da seguire una conformità molto grande alla volontà di Dio in questo. Volete vederlo chiaramente? De ore tuo te judico (Luc. XIX, 25). Dalla vostra medesima bocca e dall’istesso vostro detto vi voglio giudicare. Non conoscete voi e non dite, che per i vostri peccati passati e per le vostre colpe e negligenze presenti meritate gran castigo da Dio? sì al certo: l’inferno ho io meritato molte volte, e così nessun castigo sarà grande per me; ma ogni cosa sarà misericordia e singolare favore al confronto di quello ch’io merito; e il volermi Dio mandare qualche castigo in questa vita sarà preso da me per particolar beneficio; perché lo terrò come per pegno dell’avermi Egli perdonato i miei peccati e di non volermi castigare nell’altra vita, poiché mi castiga in questa. Basta, non fa bisogno d’altro: io mi contento di questo; ma non se ne vada ogni cosa in parole; veniamo ai fatti. Questo è il castigo che Dio vuole che patiate adesso per i vostri peccati: queste tristezze, questi desolamenti, queste distrazioni, queste aridità, quest’abbandonamento spirituale, questo diventarvi il cielo di ferro e la terra di bronzo, questo rinchiudervisi e nascondervisi Dio, e che non troviate introduzione nell’orazione; con questo vuol Dio castigarvi adesso e purgare le vostre colpe. Non vi pare, che i vostri peccati passati e le vostre colpe e negligenze presenti meritino bene questo castigo? Sì certamente: e ora dico, che è molto piccolo rispetto a quello che io merito, e che è molto pieno di giustizia e di misericordia: di giustizia, perché avendo io tante volte serrata a Dio la porta del mio cuore e fattomi sordo quando Egli mi batteva ad esso colle sante sue inspirazioni, ed io tante volte andava loro resistendo; giusta cosa è, che adesso, ancorché io lo chiami, si faccia sordo e non mi risponda, né voglia aprirmi la porta, ma me la serri in faccia. Giustissimo è questo castigo, ma molto piccolo per me, e così è molto pieno di misericordia, perché lo meritava molto maggiore. Conformatevi dunque alla volontà di Dio in questo castigo, e ricevetelo con rendimento di grazie, poiché vi castiga con tanta misericordia, e non proporzionatamente a quello che meritate. Non dite voi, che meritavate l’inferno? come dunque avete ardire di chieder a Dio consolazioni e gusti nell’orazione? ed avere intrinsichezza e famigliarità con Lui in essa, e una pace, quiete e riposo di figliuoli molto amati e accarezzati? Come avete ardire di formar doglianza del contrario? non vedete, che questa è gran presunzione e gran superbia? Contentatevi che Dio vi tenga in casa sua, e vi consenta lo stare alla sua presenza, e stimate, e riconoscete questo per grazia e beneficio molto grande. Se avessimo umiltà nel cuore, non avremmo lingua né bocca per lamentarci, comunque ci trattasse il Signore; e così cesserebbe facilmente questa tentazione.

CAPO XXVI.

Come convertiremo l’aridità e le tristezze e desolazioni interne in molto buona ed utile orazione.

Non solo deve cessar in noi altri questo lamento, ma abbiamo anche da procurare di cavar frutto dalle aridità, dalle tristezze e desolazioni interne, e di convertirle in molto buona orazione. E a quest’effetto aiuterà per la prima cosa quel che dicevamo trattando dell’orazione (Tract. V, c. 19); cioè quando ci vedremo a questo termine, dire: Signore, in quanto questa cosa procede da mia colpa, certo mi dispiace grandemente e mi dolgo della colpa che io ne ho; ma in quanto è volontà vostra, e pena e castigo da me giustamente meritato per i miei peccati, io l’accetto, Signore, di molto buona voglia: e non solamente adesso, o per poco tempo, ma per tutta la vita, ancorché avesse da essere molto lunga, mi offro a questa croce, e sto molto disposto a portarla, anche con rendimento di grazie. Questa pazienza e umiltà, e questa rassegnazione e conformità alla volontà di Dio in questo travaglio, piacciono più alla Divina Maestà Sua, che i lamenti e le soverchie angosce, per non trovare introduzione nell’orazione, o perché si sta ivi con tanti pensieri e con tanta distrazione. Ditemi un poco: chi vi pare, che piacerà più al padre e alla madre, quel figliuolo che si contenta di qualsivoglia cosa che gli diano, o pure quell altro che non si contenta mai di cosa alcuna, ma sempre va borbottando e lamentandosi, per parergli esser poco tutto quello che gli danno, e che gli dovrebbero dare di più, o qualche cosa di meglio? È chiaro, che sarà il primo. Or cosi passa la cosa con Dio. Il figliuolo paziente e muto il quale si contenta e si conforma alla volontà del suo Padre celeste in qualsivoglia cosa che gli mandi, benché aspra ed avversa, e benché sia un osso duro e spolpato, questi è quel desso che piace e dà più gusto a Dio che l’altro il quale è di fastidiosa contentatura, e sempre si va lamentando e borbottando, perché non ha e perché non gli danno. Ma dimmi, chi fa meglio, e chi muoverà più a compassione e misericordia di sé, e a fargli limosina, il povero che si lamenta, perché non gli rispondono presto e perché non gli è dato niente, o pur il povero che continua a stare alla porta del ricco con pazienza e silenzio, e senza alcun lamento; ma dopo aver battuto alla porta, sapendo, che lo hanno inteso, se ne sta aspettando al freddo e all’acqua, senza tornar a battere, e senza sapersi lamentare, e sa il padrone di casa, che sta aspettando con quell’umiltà e pazienza? Chiara cosa è, che questi muove assai; e che quell’altro povero superbo più tosto dà noia e muove a sdegno. Or così passa anche la cosa con Dio. E acciocché si vegga meglio il valore e frutto di questa orazione, e quanto è grata a Dio, domando io: che miglior orazione può far uno, e che maggior frutto può cavar da essa, che molta pazienza ne’ travagli, molta conformità alla volontà di Dio e molto amore verso di Lui? Che altra cosa andiamo a fare nell’orazione, che questa? Or quando il Signore ti manda aridità e tentazioni nell’orazione, conformati alla volontà sua in quel travaglio e abbandonamento spirituale, e farai uno de’ maggiori atti di pazienza e d’amor di Dio che tu possa fare (Supra cap. 3). Dicono, e molto bene, che l’amore si mostra nel soffrire e nel patire travagli per la cosa amata; e che quanto maggiori sono i travagli, tanto maggiormente si mostra l’amore. Or questi sono de’ maggiori travagli e delle maggiori croci e mortificazioni de’ Servi di Dio, e quelle che maggiormente sentono gli uomini spirituali; poiché presso loro i travagli corporali toccanti roba, sanità e beni temporali, non sono di considerazione in paragone di questi. L’arrivar dunque uno ad esser molto conforme alla volontà di Dio in simili travagli, imitando Cristo nostro Redentore in quell’abbandonamento spirituale che patì sulla croce, e l’accettar questa croce spirituale per tutta la vita, quando mai piacesse al Signore di dargliela, solo per dar gusto a Dio, è molto alta e molto utile orazione, e cosa di gran perfezione, dico tanta, che alcuni chiamano questi tali eccellenti Martiri (Lud. Blos, specul. spir. cap. 6). – Domando io inoltre: che cosa vai a fare nell’orazione, se non a cavarne umiltà e cognizione di te stesso? quante volte hai chiesto a Dio, che ti dia a conoscere chi tu sei? Ecco che Dio ha esaudita la tua orazione, e te lo vuol far conoscere in questo modo. Alcuni fondano il conoscimento di sé medesimi nell’avere un gran sentimento de’ propri peccati e in ispargere molte lagrime per essi: e s’ingannano, perché questo è Dio, e non tu. L’esser come un sasso, questo sei tu: e se Dio non percuote il sasso, non uscirà da esso acqua né miele. In questo sta il conoscer se medesimo, che è principio di mille beni: e di questo ne hai un’assai abbondante materia per le mani quando stai nel termine che s’è detto: e se caverai questo dall’orazione, avrai cavato da essa molto gran frutto.

MESSE PER I DEFUNTI (2020)

MESSE PER I DEFUNTI (2020)

Commemorazione di tutti i Fedeli Defunti.

Doppio. – Paramenti neri.

Alla festa di tutti i Santi è intimamente legato il ricordo delle anime sante che, pur confermate in grazia, sono trattenute temporaneamente in « Purgatorio » per purificarsi dalle colpe veniali ed « espiare » le pene temporali dovute per il peccato. Perciò, dopo aver celebrato nella gioia la gloria dei Santi, che costituiscono la Chiesa trionfante, la Chiesa militante estende le sua materna sollecitudine anche a quel luogo di indicibili tormenti, ove sono prigioniere le anime che costituiscono la Chiesa purgante. Dice il Martirologio Romano: « In questo giorno si fa la commemorazione di tutti i fedeli defunti; nella quale commemorazione la Chiesa, pia Madre comune, dopo essersi adoperata a celebrare con degne lodi tutti i suoi figli che già esultano in cielo, tosto si affretta a sollevare con validi suffragi, presso il Cristo, suo Signore e Sposo, tutti gli altri suoi figli che gemono ancora nel Purgatorio, affinché possano quanto prima pervenire al consorzio dei cittadini beati ». E questo il momento in cui la liturgia della Chiesa afferma vigorosamente la misteriosa unione esistente fra la Chiesa trionfante, militante e purgante, e mai come oggi si adempie in modo tangibile, il duplice dovere di carità e di giustizia che deriva, per ciascun cristiano, dalla sua incorporazione al corpo mistico di Cristo. Per il dogma della « Comunione dei Santi» i meriti e i suffragi acquistati dagli uni possono essere applicati agli altri. In questi modo, senza ledere gli imprescrittibili diritti della divina giustizia, che sono rigorosamente applicati a tutti nella vita futura, la Chiesa può unire la sua preghiera a quella del cielo e supplire a ciò che manca alle anime del Purgatorio, offrendo a Dio per loro, per mezzo della S. Messa, delle indulgenze, delle elemosine e dei sacrifizi dei fedeli, i meriti sovrabbondanti della Passione del Cristo e delle membra del suo mistico corpo. – Con la liturgia che ha il suo centro nel Sacrificio del Calvario, rinnovantesi continuamente sull’altare, è sempre stato il mezzo principale impiegato dalla Chiesa, per applicare ai defunti la grande legge della Carità, che comanda di soccorrere il prossimo nelle sue necessità, così come vorremmo esser soccorsi noi, se ci trovassimo negli stessi bisogni. – Forse la liturgia dei defunti è la più bella e consolante di tutte, ogni giorno, al termine d’ogni ora del Dìvin Ufficio sono raccomandate alla misericordia di Dio le anime dei fedeli defunti. Al Suscipe nella Messa, il sacerdote offre il Sacrificio per i vivi e per i morti; e a uno speciale Memento egli prega il Signore di ricordarsi dei suoi servi e delle sue serve che si sono addormentati nel Cristo e di accordar loro il luogo della consolazione, della luce e della pace. – Già fin dal V secolo si celebrano Messe per i defunti. Ma la Commemorazione generale di tutti i fedeli defunti si deve a S. Odilone, quarto Abate del celebre monastero benedettino di Cluny. Egli l’istituì nel 998 fissandola per il giorno dopo la festa di Ognissanti (In seguito a questa istituzione, la S. Sede accordò un’indulgenza plenaria toties quotìes alle medesime condizioni che per il 2 agosto, applicabile ai fedeli defunti il giorno della Commemorazione dei morti, a’ tutti quelli che visiteranno una Chiesa, dal mezzogiorno di Ognissanti alla mezzanotte del giorno dopo e pregheranno secondo le intenzioni del Sommo Pontefice. — ). L’influenza di questa illustre Congregazione fece sì che si adottasse presto quest’uso da tutta la Chiesa e che questo giorno stesso fosse talvolta considerato come festivo. Nella Spagna e nel Portogallo, come anche nell’America del Sud, che fu un tempo soggetta a questi Stati, per un privilegio accordato da Benedetto XIV in questo giorno i sacerdoti celebravano tre Messe. Un decreto di Benedetto XV del 10 agosto 1915 estese ai sacerdoti del mondo intero questa autorizzazione. Pio XI con decreto 31 ottobre 1934 concesse che durante l’Ottava tutte le Messe celebrate da qualunque Sacerdote siano ritenute come privilegiate per l’anima del defunto per il quale vengono applicate. La Chiesa, in un’Epistola, tratta da S. Paolo, ci ricorda che i morti risusciteranno, e ci invita a sperare, perché in quel giorno tutti ci ritroveremo nel Signore. La Sequenza descrive in modo avvincente il giudizio finale; nel quale i buoni saranno eternamente divisi dai malvagi. – L’Offertorio ci richiama al pensiero S. Michele, che introduce le anime nel Cielo, perché, dicono le preghiere per la raccomandazione dell’anima, egli è il « capo della milizia celeste », nella quale gli uomini sono chiamati ad occupare il posto degli angeli caduti. – « Le anime del purgatorio sono aiutate dai suffragi dei fedeli, e principalmente dal sacrificio della Messa » dice il Concilio di Trento! (Sessione| XXII, cap. II). Questo perché nella S. Messa il sacerdote offre ufficialmente a Dio, per il riscatto delle anime, il sangue del Salvatore. Gesù stesso, sotto le specie del pane e del vino, rinnova misticamente il sacrificio del Golgota e prega affinché Dio ne applichi, a queste anime, la virtù espiatrice. Assistiamo in questo giorno al Santo Sacrificio, nel quale la Chiesa implora da Dio, per i defunti, che non possono più meritare, la remissione dei peccati (Or.) e il riposo eterno (Intr., Grad.). Visitiamo i cimiteri, ove i loro corpi riposano, fino al giorno nel quale, alla chiamata di Dio, essi sorgeranno immediatamente per rivestirsi dell’immortalità e riportare, per i meriti di Gesù Cristo, la definitiva vittoria sulla morte (Ep.).

(La parola Cimitero, dal greco, significa dormitorio, nel quale ci si riposa. Chi visita il cimitero durante l’Ottava e prega anche solo mentalmente per i defunti, può acquistare nei singoli giorni, con le consuete condizioni, l’indulgenza Plenaria; negli altri giorni l’indulgenza parziale di sette anni; tanto l’una che l’altra sono applicabili soltanto ai defunti – S. Penit. Ap. 31- X – 1934)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

4 Esdr II: 34; 2:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV:2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.

[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

Oratio

Orémus.
Fidélium, Deus, ómnium Cónditor et Redémptor: animábus famulórum famularúmque tuárum remissiónem cunctórum tríbue peccatórum; ut indulgéntiam, quam semper optavérunt, piis supplicatiónibus consequántur:

[O Dio, creatore e redentore di tutti i fedeli: concedi alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la remissione di tutti i peccati; affinché, per queste nostre pie suppliche, ottengano l’indulgenza che hanno sempre desiderato:]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV: 51-57
Fratres: Ecce, mystérium vobis dico: Omnes quidem resurgámus, sed non omnes immutábimur. In moménto, in ictu óculi, in novíssima tuba: canet enim tuba, et mórtui resúrgent incorrúpti: et nos immutábimur. Opórtet enim corruptíbile hoc induere incorruptiónem: et mortále hoc indúere immortalitátem. Cum autem mortále hoc indúerit immortalitátem, tunc fiet sermo, qui scriptus est: Absórpta est mors in victória. Ubi est, mors, victória tua? Ubi est, mors, stímulus tuus? Stímulus autem mortis peccátum est: virtus vero peccáti lex. Deo autem grátias, qui dedit nobis victóriam per Dóminum nostrum Jesum Christum.

[Fratelli: Ecco, vi dico un mistero: risorgeremo tutti, ma non tutti saremo cambiati. In un momento, in un batter d’occhi, al suono dell’ultima tromba: essa suonerà e i morti risorgeranno incorrotti: e noi saremo trasformati. Bisogna infatti che questo corruttibile rivesta l’incorruttibilità: e questo mortale rivesta l’immortalità. E quando questo mortale rivestirà l’immortalità, allora sarà ciò che è scritto: La morte è stata assorbita dalla vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Ora, il pungiglione della morte è il peccato: e la forza del peccato è la legge. Ma sia ringraziato Iddio, che ci diede la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo].

Graduale

4 Esdr II: 34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps CXI: 7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.
[Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].Tractus.
Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].

Sequentia

Dies iræ, dies illa
Solvet sæclum in favílla:
Teste David cum Sibýlla.

Quantus tremor est futúrus,
Quando judex est ventúrus,
Cuncta stricte discussúrus!

Tuba mirum spargens sonum
Per sepúlcra regiónum,
Coget omnes ante thronum.

Mors stupébit et natúra,
Cum resúrget creatúra,
Judicánti responsúra.

Liber scriptus proferétur,
In quo totum continétur,
Unde mundus judicétur.

Judex ergo cum sedébit,
Quidquid latet, apparébit:
Nil multum remanébit.

Quid sum miser tunc dictúrus?
Quem patrónum rogatúrus,
Cum vix justus sit secúrus?

Rex treméndæ majestátis,
Qui salvándos salvas gratis,
Salva me, fons pietátis.

Recordáre, Jesu pie,
Quod sum causa tuæ viæ:
Ne me perdas illa die.

Quærens me, sedísti lassus:
Redemísti Crucem passus:
Tantus labor non sit cassus.

Juste judex ultiónis,
Donum fac remissiónis
Ante diem ratiónis.

Ingemísco, tamquam reus:
Culpa rubet vultus meus:
Supplicánti parce, Deus.

Qui Maríam absolvísti,
Et latrónem exaudísti,
Mihi quoque spem dedísti.

Preces meæ non sunt dignæ:
Sed tu bonus fac benígne,
Ne perénni cremer igne.

Inter oves locum præsta,
Et ab hœdis me sequéstra,
Státuens in parte dextra.

Confutátis maledíctis,
Flammis ácribus addíctis:
Voca me cum benedíctis.

Oro supplex et acclínis,
Cor contrítum quasi cinis:
Gere curam mei finis.

Lacrimósa dies illa,
Qua resúrget ex favílla
Judicándus homo reus.

Huic ergo parce, Deus:
Pie Jesu Dómine,
Dona eis réquiem.
Amen.

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann V: 25-29
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Amen, amen, dico vobis, quia venit hora, et nunc est, quando mórtui áudient vocem Fílii Dei: et qui audíerint, vivent. Sicut enim Pater habet vitam in semetípso, sic dedit et Fílio habére vitam in semetípso: et potestátem dedit ei judícium fácere, quia Fílius hóminis est. Nolíte mirári hoc, quia venit hora, in qua omnes, qui in monuméntis sunt, áudient vocem Fílii Dei: et procédent, qui bona fecérunt, in resurrectiónem vitæ: qui vero mala egérunt, in resurrectiónem judícii.

[In quel tempo: Gesù disse alle turbe dei Giudei: In verità, in verità vi dico, viene l’ora, ed è questa, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio: e chi l’avrà udita, vivrà. Perché come il Padre ha la vita in sé stesso, così diede al Figlio di avere la vita in se stesso: e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. Non vi stupite di questo, perché viene l’ora in cui quanti sono nei sepolcri udranno la voce del Figlio di Dio: e ne usciranno, quelli che fecero il bene per una resurrezione di vita: quelli che fecero il male per una resurrezione di condanna].

OMELIA

(A. Carmignola: Il Purgatorio, Torino, 1896)

DISCORSO XIV.

Altri mezzi di suffragio, ossia le sante indulgenze e l’atto eroico.

Perdonatemi, se per maggior intelligenza di quello, che intendo di dirvi, io vi invito di fare quest’oggi una brutta supposizione. Supponete adunque, che voi aveste per isventura commesso un qualche grave delitto, pel quale tradotti dinnanzi ai tribunali foste stati condannati ad una gravissima pena, per esempio a passare vent’anni in carcere, e che facendo voi certe determinate preghiere, o compiendo qualche pratica appositamente assegnata, otteneste che vi fosse abbreviata le pena di alcuni anni, o che vi fosse ben anche del tutto rimessa; dite, non vi dareste voi la massima premura di conseguire per mezzo di quelle preghiere e di quelle pratiche una sì grande remissione? Supponete ancora, che i colpevoli condannati a quella pena gravissima non foste voi, ma fossero invece il vostro padre e la vostra madre, e che alla stessa condizione voi li poteste liberare in parte ed anche in tutto dalla loro pena, non lo fareste egualmente colla maggior sollecitudine? Or ecco propriamente quello, che voi potete fare, sia a vostro prò, sia a prò delle anime del purgatorio, per mezzo delle sante indulgenze, annesse a certe preghiere ed a certe pratiche, per iscontare la pena temporale dovuta ai vostri peccati ed ai peccati delle anime del purgatorio. Si, le indulgenze sono uno dei mezzi più efficaci sia per risparmiare a noi il purgatorio, sia per liberarne le sante anime. Importa adunque assai, che noi in quest’oggi prendiamo chiara conoscenza delle sante indulgenze e vediamo come esse, oltre che per noi, possano pure acquistarsi in vantaggio delle anime del purgatorio. Quando noi abbiamo la sventura di commettere un peccato grave, allora non solamente noi rechiamo una grave ingiuria a Dio, ciò che propriamente costituisce la colpa, ma ci rendiamo meritevoli altresì di una grave pena, che è l’eterna dannazione, perciocché quando commettiamo un peccato grave, non solo noi offendiamo grandemente l’infinita maestà di Dio, ma, come nota San Gregorio Magno, noi nell’atto del peccato vorremo sempre vivere per sempre peccare. Ora, avendo poi colla grazia di Dio conosciuto il nostro male, e andandocene a confessare per averne da Dio il perdono, e recando al tribunale di penitenza tutte le necessarie condizioni per conseguirlo, è certo, che ci viene perdonata la colpa tutta quanta, e che coll’esserci perdonata la colpa ci è ridonata la grazia di Dio e insieme colla grazia, che ci rende capaci di far opere meritorie per l’eterna vita, ci sono pur ridonati i meriti, che nel passato ci eravamo acquistati, facendo delle opere buone in istato di grazia; ma in quanto alla pena è verità di fede, che ci viene rimessa la pena eterna, vale a dire l’eterna dannazione, ma che per lo più, eccettuato cioè il caso molto raro della perfetta carità e contrizione, la remissione della pena eterna ci vien fatta con una commutazione di questa stessa pena da eterna in temporale, cioè in una pena, che dobbiamo soddisfare nel tempo che piace a Dio o colla penitenza in questa vita o col purgatorio nella vita futura. Ed è a questa verità per l’appunto, che si appoggia la Chiesa per imporre a coloro che si sono confessati delle penitenze. Se non che le penitenze, che la Chiesa oggidì ordinariamente impone nella Confessione, sono ben lontane dal poter eguagliare la pena temporale dovuta alle nostre colpe. Non bastano certamente quelle poche preghiere, quelle devote pratiche, quelle pie opere per soddisfare pienamente la divina giustizia del debito di penitenza, che abbiamo contratto con lei. Importerebbe adunque, che noi ci assoggettassimo da noi stessi a penitenze molto più gravi e molto più lunghe. Ma siccome pur troppo per debolezza di nostra natura non ostante l’obbligo gravissimo, che ne abbiamo, rifuggiamo dalla penitenza assai facilmente, e pur facendone qualche poco, assai difficilmente ne facciamo quanto basti per scontare tutta la pena temporale dovuta alle colpe nostre, perciò affine di riparare a questo difetto e soccorrere a questa nostra miseria Iddio misericordioso ha accordato alla Chiesa il potere di rimettere in tutto ossia plenariamente, o in parte ossia parzialmente, la pena temporale, che, dopo di aver ottenuto il perdono dei nostri peccati, ci rimane ancora da scontare, o in questa vita colla penitenza o col purgatorio nell’altra. E sono appunto queste pietosissime remissioni, che costituiscono le sante indulgenze, che il Sommo Pontefice dispensa per tutta la Chiesa e non solo parziali, ma anche plenarie, e che i Vescovi dispensano solo parziali nella loro Diocesi. Che Iddio abbia dato alla Chiesa il potere di dispensare le sante indulgenze, non possiamo averne il minimo dubbio. Gesù Cristo disse a San Pietro in particolare e a tutti gli altri Apostoli in generale: Tutto quello che voi legherete sopra di questa terra, sarà pure legato in cielo, e tutto quello che voi scioglierete su questa terra sarà pur sciolto in cielo. Ora se queste parole, così magnifiche e così potenti, si prendono come si devono prendere nella loro ampia e nativa semplicità, è chiaro, che Gesù Cristo per mezzo di esse diede a S. Pietro e subordinatamente anche agli altri apostoli il potere di rimettere i peccati, non solo in quanto alla colpa ed alla pena eterna, ma eziandio in quanto alla pena temporale, ossia in altri termini, ha dato alla Chiesa il potere di concedere qualunque indulgenza, sia plenaria di tutta la pena temporale dovuta ai peccati, sia parziale di una parte di tale pena. Il fatto si è che gli Apostoli compresero a meraviglia di aver ricevuto questo potere e ne abbiamo una prova in un fatto particolare di San Paolo. Uno dei novelli Cristiani aveva commesso un grave peccato contro la purità. S. Paolo preso da santa indignazione, e volendo colpire di spavento i primi convertiti, ordinò in nome di Gesù Cristo alla Chiesa di Corinto, cui quel cristiano apparteneva, di scomunicarlo, di evitarlo e di considerarlo come dato in potere di satana. Tale rigore produsse un salutare effetto. Lo sciagurato comprese la gravità del suo fallo, si pentì, fece penitenza, pianse, e supplichevole domandò di essere riconciliato e ammesso di nuovo nel seno della Chiesa. Ora i Cristiani della Chiesa di Corinto non sembravano troppo disposti a rimettere nella loro comunione un individuo, che aveva dato uno scandalo sì grave, così che il misero per questo rifiuto era caduto in una profonda tristezza e stava per darsi in preda alla disperazione. Allora S. Paolo scrisse un’altra volta ai Corinti ed ecco quanto loro disse: « Già basta per quell’infelice quella grave e pubblica correzione, che ha sofferto. Ora conviene che lo perdoniate e lo consoliate per non opprimerlo con maggior tristezza, imperciocché anch’io nella persona di Gesù Cristo, vale a dire come suo rappresentante, gli ho perdonato » (2 Cor. II, 6 e segg). Dalle quali parole chiaramente si vede, come S. Paolo, forte dell’autorità ricevuta da Gesù Cristo, abbia rimesso a quel cristiano di Corinto il testante della pena temporale, dovuta alla sua colpa, e cioè gli abbia dispensata un’indulgenza. Così per l’appunto intesero questo fatto i Padri e i Dottori della Chiesa ed in particolare Tertulliano, S. Ambrogio, S. Agostino, S. Giovanni Crisostomo, Teofilatto e S. Tommaso, del qual fatto precisamente si servirono per riconoscere che nella Chiesa vi ha il potere di concedere le indulgenze. Questo potere fu pure riconosciuto ed altamente proclamato dai Cristiani, durante le persecuzioni, perciocché, non di rado accadeva, che i Vescovi per le preghiere che a loro venivano inviate dai valorosi confessori della fede già chiusi in carcere e pronti a subire il martirio, condonassero ai peccatori pentiti la pena, che ancora dovevano scontare per le loro colpe. Questo potere fu pure riconosciuto ed attestato da San Cipriano nel suo libro (De lapsis) intorno ai caduti nell’apostasia durante le persecuzioni, giacché dice in esso assai chiaramente, che Iddio per mezzo della Chiesa può concedere a quei miseri l’indulgenza della pena dovuta alle loro colpe. Questo potere fu pure riconosciuto e professato dai Concili generali, compreso il primo di Nicea, e da una quantità di Concili particolari per il corso di dodici secoli, giacché in detti Concili si fecero espressamente dei canoni in riguardo alle condizioni per rimettere la penitenza ai peccatori, ossia per dispensare delle misericordiose indulgenze. Quindi è che ben a ragione quando il protestantesimo nella persona di Lutero, di Calvino e di altri eretici si levò su a combattere le sante indulgenze e a negare alla Chiesa il potere di concederle, chiamando addirittura le indulgenze col nome di frodi ed imposture dei Pontefici, il Concilio di Trento definì chiaramente e solennemente che « Gesù Cristo medesimo ha donato alla Chiesa il potere di conferire le indulgenze  dai tempi più antichi la Chiesa fece uso di tale potere, e che perciò questo uso sommamente salutare al popolo cristiano e confermato dall’autorità dei santi concili, deve essere conservato, e chiunque negasse l’utilità delle sante indulgenze o il potere, che la Chiesa ha di conferirle, sia colpito di anatema » (Sess. XXV). – Ma riconosciuto che cosa sono le indulgenze e che ha la Chiesa di concederle, bisogna ora riconoscere perché le indulgenze abbiano la virtù di rimettere o tutta o in parte la pena temporale dovuta ai nostri peccati. Ponete adunque ben mente: Egli è certo, che Gesù Cristo vero Dio e vero uomo, per il valore infinito di qualsiasi sua più piccola azione avrebbe potuto  con una sola goccia del suo sangue riscattare non solo questo mondo, ma mille e mille altri ancora, ciò non bastando al suo amore infinito per noi, volle invece versarlo tutto e soffrendo ogni sorta di dolori e di angosce nella sua passione nella sua morte; volle rendere infinitamente copiosa e sovrabbondante la sua redenzione. Or questi meriti infiniti, e sovrabbondanti di Gesù Cristo, questi meriti che eccedono di gran lunga il prezzo della nostra salute, non sono andati perduti, ma sono rimasti in eredità alla Chiesa. – Non basta. La Santissima Vergine, per essere stata da tutta l’eternità destinata ad essere Madre di Dio, fu fin dal primo istante della sua Immacolata Concezione arricchita da Dio di un tesoro tale di grazia da sorpassare, come dicono i Santi Dottori, tutte le grazie, che Dio diede agli Angeli e ai Santi tutti presi insieme. È certo, che la Vergine corrispose perfettamente alla grazia ricevuta e l’andò smisuratamente moltiplicando, di guisa che, ella pure nella misura, che come a creatura le fu concesso, si acquistò dei meriti copiosi e sovrabbondanti, il cui tesoro è pure rimasto con quello di Gesù Cristo alla Chiesa. Non basta ancora. I santi tutti coi loro patimenti, colla loro vita di sacrifizio e di abnegazione, colle loro penitenze, colle loro virtù, col loro zelo per la gloria di Dio e per la salute delle anime, in una parola colla loro santità, ancora essi hanno fatto in grandissima quantità delle opere di supererogazione, colle quali hanno guadagnato assai più di ciò, che era strettamente necessario per la loro salute e per l’espiazione delle loro colpe, e tutto il merito sovrabbondante, che per tal guisa si sono acquistato è ancor esso rimasto alla Chiesa con quello di Gesù Cristo e di Maria Santissima. – E non basta ancora. Anche dai Cristiani, non dichiarati santi o tuttora viventi nella Chiesa, si praticano grandi virtù, si compiono grandi sacrifizi, si esercitano tante penitenze, si distribuiscono tante elemosine, si fanno tanti atti eroici per la gloria di Dio, per la propagazione del Vangelo, per la salvezza delle anime, e si acquistano perciò tanti meriti, anche qui copiosi e sovrabbondanti al cospetto di Dio. – Ora tutti questi meriti riuniti, quelli di Gesù Cristo, quelli di Maria, quelli dei Santi, quelli di tutte le opere buone, che si fanno nella Chiesa, costituiscono per la Chiesa istessa un tesoro preziosissimo ed immenso. Ed è appunto a questo immenso e preziosissimo tesoro, che la Chiesa mette mano per dare alle sante indulgenze col valore di tanti meriti quella virtù di rimettere a noi in modo plenario, o in modo parziale la pena temporale dovuta alle nostre colpe, benché perdonate. – Se non che io sono certo, che molti diranno qui: Noi intendiamo bene che cosa sia indulgenza plenaria, intendiamo cioè che se si acquista tale indulgenza e non se ne perde il merito prima di morire, dopo morte non avremo neppur più un istante da passare in purgatorio e ce ne andremo subito al Paradiso. Ma che cosa vogliono dire le indulgenze parziali di 100 giorni, di 200, di alcuni anni, e di alcune quarantene? Voglion dire forse che acquistando tali indulgenze, si starà tanti giorni, tanti anni, tante quarantene di meno in purgatorio? No, o miei cari, non vuole dir questo. Per comprendere bene la cosa bisogna sapere, che nel principio del Cristianesimo si castigavano certi peccati con delle pubbliche penitenze proporzionate quanto alla qualità e alla durata alla gravità del peccato, penitenze che duravano alle volte un qualche numero di anni, oppure qualche centinaio di giorni, oppure una o più quarantene, ossia una o più volte quaranta giorni. Ora quando la Chiesa concede l’indulgenza, ad esempio di 100 giorni, intende di rimettere la pena temporale, che il Cristiano avrebbe scontato secondo quella primitiva disciplina, esercitandosi nella penitenza per 100 giorni. Epperò acquistando il Cristiano tale indulgenza vuol dire che in purgatorio avrà da penare tanto di meno, come se egli si fosse esercitato nella penitenza per 100 giorni secondo l’antica disciplina della Chiesa. Ad ogni modo voi vedete, che l’acquisto delle indulgenze è uno dei mezzi più efficaci per abbreviare a noi il purgatorio. Ma non solo per abbreviarlo a noi, ma eziandio per abbreviarlo alle sante anime. Perciocché se si tratta di indulgenze, che sono concesse non solo a prò dei vivi, ma ancora a prò dei morti, noi possiamo acquistarle e applicarle poscia colla nostra intenzione alle sante anime del purgatorio. Ed oh! quale soccorso noi rechiamo allora ad esse. Supponiamo di aver fatto penitenze lunghissime, di varie quaresime, di varie centinaia di giorni, di vari anni, oppure anche una, due, più volte la penitenza corrispondente a tutta la pena temporale dovuta ai nostri peccati. Acquistando noi le sante indulgenze o parziali o plenarie, ed applicandole alle anime del purgatorio è precisamente, come se loro applicassimo il merito di tutte quelle penitenze così gravi e così soddisfattone. Notate, però, o miei cari, che sebbene noi nell’applicare a prò delle anime del purgatorio le sante indulgenze intendiamo talora di applicarle ad una o a più determinate anime, ed applicarle in tutto il loro valore, tuttavia non è sempre, che tali indulgenze siano applicate da Dio propriamente in quel modo, che vorremmo noi. È certo che lddio nella sua bontà si degna di accettare a prò delle anime del purgatorio le indulgenze, abbiamo offerto a tal fine, ma in quanto alle anime cui applicarle e alla misura dell’applicazione questo dipende interamente dalla sua sapienza e dalla sua giustizia. E ciò perché se a noi, che siamo sotto l’immediata giurisdizione della Chiesa, essa concede le indulgenze in forma di giudizio e di assoluzione, vale a dire giudicando che mercé determinate opere meritiamo di essere assolti da tutta o da parte della pena temporale, ed assolvendocene di fatto nella misura da lei determinata, alle anime del purgatorio invece, che non sono più sotto al suo governo diretto, ma sotto a quello di Dio, la Chiesa non può più applicare ad esse le indulgenze che pervia di suffragio, ossia offrendole a Dio e pregandolo di accettarle e valersene in loro vantaggio, come a Lui piacerà. Comunque però si regoli Iddio nel valersi delle indulgenze, che noi gli offriremo, a prò delle sante anime, è certo che tali indulgenze non vanno perdute. Se Egli, ad esempio, per punire di più un’anima del purgatorio durante la sua vita fu insensibile per le anime stesse di quel luogo, non le applicherà l’indulgenza, che noi abbiamo guadagnato per lei, senza dubbio l’applicherà ad altre anime che ne sono più degne, e così noi avremo sempre portata la consolazione in quel luogo di pene. Quanto importa adunque di acquistare tutte le indulgenzepossibili, sia per vantaggio nostro, sia a prò delle anime del purgatorio! A tal fine facciamo tutto ciò che è necessario. Epperò, oltre al compiere esattamente quelle sante pratiche, che hanno annesse delle indulgenze, procuriamo di trovarci in istato di grazia e di mettere l’intenzione di acquistarle: e se si tratta di indulgenze plenarie rigettiamo altresì dal nostro cuore ogni affetto al peccato veniale, essendo tutto ciò indispensabile per acquistarle davvero. E nella speranza di averle acquistate, deh! siamo generosi a cederne il vantaggio alle sante anime del purgatorio, perciocché dobbiamo essere ben persuasi, che quella carità che noi avremo usato a loro, Iddio farà in modo, che altri un giorno l’abbiano ad usare a noi. Al qual proposito io non voglio terminare oggi senza esortarvi a compiere a prò di quelle sante anime un atto, che per la sua grandezza e generosità è chiamato atto eroico, e che consiste nell’offrire spontaneamente a Dio tutto il frutto soddisfattorio delle buone opere che facciamo in vita e persino tutti i suffragi, che verranno applicati a noi dopo morte, mettendo tutti questi valori spirituali nelle mani di Maria SS., perché li distribuisca e li dispensi Ella secondo il suo beneplacito a quelle anime, che desidera liberare dalle loro pene. E nel compierlo non temiamo di perdere il merito delle buone opere nostre, che questo rimarrà sempre a noi, e neppure di esporci al pericolo di dovere poscia rimanere noi troppo lungamente in purgatorio. Iddio non si lascerà certo vincere da noi in generosità, e può essere benissimo, che per questa nostra eroica cessione a prò di quelle anime egli inceda ben anche la grazia di una totale esenzione dal purgatorio. Ma quando pure noi dovessimo andare in quel carcere e rimanervi per qualche tempo, pensiamo che coll’aver fatto un tale atto di eroismo noi abbiamo compiuta un’opera sommamente gradita a Gesù Cristo ed alla SS. Vergine, giacché abbiamo dimostrato col fatto di amarli col più grande disinteresse, e nel compiere un’opera sì sacra a Gesù ed a Maria abbiamo fatto un merito, che certamente in paradiso ci darà un grado di gloria di gran lunga maggiore di quello che conseguiremmo non facendolo. Così assicurò per l’appunto Gesù Cristo a S. Geltrude che aveva fatto tale atto. Ora, è vero, il pensiero delle pene del purgatorio ci fa più impressione che non quello di una gloria maggiore in paradiso, ma nell’altra vita non sarà così senza dubbio, tanto che ci adatteremmo volentieri a restare nel purgatorio sino alia fine del mondo se ciò potessimo fare col piacere di Dio, purché potessimo aggiungere una gemma di più alla nostra immortale corona. Coraggio adunque, o miei cari, non abbiamo nessun timore di essere troppo generosi. Ed animati perciò dalla carità più viva, preghiamo la nostra cara Madre Maria, che si degni di ricevere nelle sue sante mani in favore delle sante anime del purgatorio tutte le nostre indulgenze, che potremo acquistare, tutte le opere soddisfattorie, che faremo in vita, e tutti i suffragi che ci verranno fatti dopo morte, di conservare solo per noi la compassione del suo materno cuore.

(L’atto eroico di carità venne arricchito dei più preziosi favori. – 1. I sacerdoti che l’avranno fatto potranno godere dell’indulto dell’altare privilegiato personale in tutti i giorni dell’anno.

2. I semplici fedeli possono lucrare l’indulgenza plenaria, applicabile solamente ai defunti, in qualunque giorno facciano la santa Comunione, purché visitino una Chiesa e preghino secondo l’intenzione del Sommo Pontefice.

3. Similmente indulgenza plenaria in tutti i lunedì dell’anno, ascoltando la Messa in suffragio delle anime del purgatorio, purché visitino e preghino come sopra.

4. Tutte le indulgenze, anche le non applicabili, potranno da essi applicarsi ai defunti.

5. I fanciulli non ancora ammessi alla Comunione, ed i vecchi e gl’indisposti potranno ottenere dal Confessore, autorizzato a tal uopo dall’Ordinario, la commutazione delle opere per l’acquisto di dette indulgenze.

6. Per coloro, che non potranno ascoltare la Messa il lunedì, sarà valevole quella della Domenica per l’acquisto dell’indulgenza predetta. —   Non è prescritta nessuna formola per questo atto; basta farlo di cuore. Potrebbesi adottare la seguente: O Maria, Madre di misericordia, io faccio tra le vostre mani, in favore delle sante anime del purgatorio, l’intero abbandono delle opere soddisfattorie che farò in vita, e dei suffragi che mi verranno applicati dopo morte, non serbandomi altroche la compassione del vostro materno cuore.)

ESEMPI.

1. Il beato Bertoldo francescano aveva fatto una predica convenientissima sull’elemosina, dopo la quale concesse agli uditori, giusta la facoltà ottenuta dal sommo Pontefice, dieci giorni d’indulgenza; allorché una signora, caduta in basso stato, andò a manifestargli la propria indigenza. Il buon religioso le disse: « Ella ha acquistato dieci giorni d’indulgenza assistendo alla predica; vada dal banchiere tale, che finora non si curò gran fatto di tesori spirituali, e gli offra, in cambio dell’elemosina, il merito da lei acquistato. Tengo per fermo che le darà soccorso ». La buona donna vi si recò. Dio permise che fosse accolta con bontà: il banchiere le chiese che volesse per dieci giorni d’indulgenza. « Ciò che pesano ripose! — Ebbene, riprese il banchiere, ecco una bilancia; scriva su d’una carta i suoi giorni d’indulgenza e la ponga su d’un piatto, ed io porrò sull’altro una moneta ». Oh prodigio! la carta pesa di più. Attonito il banchiere, v’aggiunse un’altra moneta, poi una terza, una decima, una trentesima, insomma, quante la donna abbisognavano; soltanto allora i due piatti si misero in equilibrio. Fu questa lezione assai preziosa pel banchiere, avendo per essa conosciuto il valore degli interessi celestiali. Le povere anime l’intendono ancor meglio; per la minima indulgenza darebbero tutto l’oro del mondo.

2. Adriana cugina di S. Margherita da Cortona e sua confidente sino dalla sua gioventù, essendo desiderosa di conseguire la celebre indulgenza della Porziuncola, portossi in Assisi alla Chiesa della Madonna degli Angeli, ove entrando ai due di Agosto fu sì oppressa dalla calca di gente, che in tal giorno vi concorreva, che subitamente dopo il ritorno in Cortona, tormentata da violentissimi dolori di pancia, morì. Non potè S. Margherita trattenere le lacrime per la morte di sua cugina: e, mentre raccomandava al Signore l’anima di lei, ebbe da Gesù Cristo questa rivelazione: Non pianger più l’anima della tua Adriana, giacché per i meriti grandi dell’indulgenza, conseguiti da lei in Santa Maria degli Angeli, Io l’ho ammessa alla gloria dei Beati.

3. Santa Maria Maddalena de’ Pazzi aveva assistito con somma carità alla morte di una consorella, a cui le monache non solo furono sollecite di fare i consueti suffragi della religione, ma di applicare ancora le sante indulgenze, che ricevevano in quel giorno. Ne restava tuttora esposto nella chiesa il cadavere; e dalle grate, con affetto di tenerezza e di  devozione, lo guardava Maria Maddalena implorando requie e pace alla defunta, quando vide l’anima di lei involarsi verso il cielo per ricevervi la corona dell’eterna. Non poté la Santa trattenersi dell’esclamare: Addio. addio anima beata; prima tu, in Cielo che il corpo nel sepolcro. Oh felicità! oh gloria! negli amplessi di Dio ti sovvenga di noi che sospiriamo in terra. Mentre così diceva apparve Gesù per consolarla dichiarare che in virtù delle indulgenze quell’anima era stata presto dal Purgatorio e ammessa in Paradiso. – Così tanto fervore si accese in quel monastero per l’acquisto delle sante indulgenze, che si aveva quasi a scrupolo il lasciarne alcuna. Perché una scintilla di quel santo fervore non si accende nei nostri petti?

4. Aveva S. Geltrude fatto dono d’ogni opera soddisfattoria alle anime purganti. Venuta a morte fu assalita dal demonio, il quale tentava persuaderla aver ella liberate moltissime anime dal purgatorio per andarne ora a prendere il posto e soffrire per loro. Mentre era così tentata, le apparve nostro Signore che le disse: « Perché, o Geltrude mia, sei così afflitta? » « Ah Signore! rispose ella, mi vedo in procinto di venirvi dinnanzi per essere giudicata, senz’alcun capitale di buone opere che valgano a soddisfare le tante offese che vi ho fatte ». Il Signore allora sorridendole dolcemente, così la consola: « Geltrude, figliuola mia, affinché tu sappia quanto mi sieno accette la devozione e la carità che avesti per quelle anime, ti rimetto fin d’ora tutte le pene che ti fossero riserbate; inoltre avendo promesso il cento per uno a chi accende l’amor mio, voglio ricompensarti ancora coll’aumentarti il grado di gloria che ti aspetta lassù. Tutte le anime che hai sollevate verranno per mio ordine ad introdurti fra i cantici nella celeste Gerusalemme ». La Santa spirò poco dopo, piena di sicurezza e di esultanza.

v.https://www.exsurgatdeus.org/2019/11/01/i-sermoni-del-curato-dars-2-novembre-commemorazione-dei-fedeli-defunti/

IL CREDO

CREDO ….

Offertorium

Oremus

Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Hóstias, quǽsumus, Dómine, quas tibi pro animábus famulórum famularúmque tuárum offérimus, propitiátus inténde: ut, quibus fídei christiánæ méritum contulísti, dones et præmium.

[Guarda propizio, Te ne preghiamo, o Signore, queste ostie che Ti offriamo per le ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché, a coloro cui concedesti il merito della fede cristiana, ne dia anche il premio].

Comunione spirituale https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

4 Esdr II:35; II:34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Animábus, quǽsumus, Dómine, famulórum famularúmque tuárum orátio profíciat supplicántium: ut eas et a peccátis ómnibus éxuas, et tuæ redemptiónis fácias esse partícipes:

[Ti preghiamo, o Signore, le nostre supplici preghiere giovino alle ànime dei tuoi servi e delle tue serve: affinché Tu le purifichi da ogni colpa e le renda partecipi della tua redenzione:].

Preghiere leonine

Orinario della Messa.

SECONDA MESSA

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Esdr II:34; II:35
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
Ps LXIV: 2-3
Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddétur votum in Jerúsalem: exáudi oratiónem meam, ad te omnis caro véniet.
[l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
Ps LXIV: 2-3
[In Sion, Signore, ti si addice la lode, in Gerusalemme a te si compia il voto. Ascolta la preghiera del tuo servo, poiché giunge a te ogni vivente].
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis. [l’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Oratio

Orémus.
Deus, indulgentiárum Dómine: da animábus famulórum famularúmque tuárum refrigérii sedem, quiétis beatitúdinem et lúminis claritátem.
[ O Dio, Signore di misericordia, accorda alle anime dei tuoi servi e delle tue serve la dimora della pace, il riposo delle beatitudine e lo splendore della luce].

Lectio

Léctio libri Machabæórum.
2 Mach XII: 43-46
In diébus illis: Vir fortíssimus Judas, facta collatióne, duódecim mília drachmas argénti misit Jerosólymam, offérri pro peccátis mortuórum sacrifícium, bene et religióse de resurrectióne cógitans, nisi enim eos, qui cecíderant, resurrectúros speráret, supérfluum viderétur et vanum oráre pro mórtuis: et quia considerábat, quod hi, qui cum pietáte dormitiónem accéperant, óptimam habérent repósitam grátiam.
Sancta ergo et salúbris est cogitátio pro defunctis exoráre, ut a peccátis solvántur.

[In quei giorni: il più valoroso uomo di Giuda, fatta una colletta, con tanto a testa, per circa duemila dramme d’argento, le inviò a Gerusalemme perché fosse offerto un sacrificio espiatorio, agendo così in modo molto buono e nobile, suggerito dal pensiero della risurrezione. Perché se non avesse avuto ferma fiducia che i caduti sarebbero risuscitati, sarebbe stato superfluo e vano pregare per i morti. Ma se egli considerava la magnifica ricompensa riservata a coloro che si addormentano nella morte con sentimenti di pietà, la sua considerazione era santa e devota. Perciò egli fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato].

Graduale

4 Esdr 2:34 et 35.
Réquiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.

[L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua].

Ps 111:7.
V. In memória ætérna erit justus: ab auditióne mala non timébit.

[V. Il giusto sarà sempre nel ricordo, non teme il giudizio sfavorevole].

Tractus.

Absólve, Dómine, ánimas ómnium fidélium ab omni vínculo delictórum.
V. Et grátia tua illis succurrénte, mereántur evádere judícium ultiónis.
V. Et lucis ætérnæ beatitúdine pérfrui.

[Libera, Signore, le anime di tutti i fedeli defunti da ogni legame di peccato.
V. Con il soccorso della tua grazia possano evitare la condanna.
V. e godere la gioia della luce eterna].
Sequentia

Dies Iræ …. [V. sopra]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Gloria tibi, Domine!
Joann VI: 37-40
In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Omne, quod dat mihi Pater, ad me véniet: et eum, qui venit ad me, non ejíciam foras: quia descéndi de cælo, non ut fáciam voluntátem meam, sed voluntátem ejus, qui misit me. Hæc est autem volúntas ejus, qui misit me, Patris: ut omne, quod dedit mihi, non perdam ex eo, sed resúscitem illud in novíssimo die. Hæc est autem volúntas Patris mei, qui misit me: ut omnis, qui videt Fílium et credit in eum, hábeat vitam ætérnam, et ego resuscitábo eum in novíssimo die.
[In quel tempo: Gesù disse alla moltitudine degli Ebrei: Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me; colui che viene a me, non lo respingerò, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; io lo risusciterò nell’ultimo giorno].

Credo…

Offertorium

Orémus
Dómine Jesu Christe, Rex glóriæ, líbera ánimas ómnium fidélium defunctórum de pœnis inférni et de profúndo lacu: líbera eas de ore leónis, ne absórbeat eas tártarus, ne cadant in obscúrum: sed sígnifer sanctus Míchaël repræséntet eas in lucem sanctam:
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.
V. Hóstias et preces tibi, Dómine, laudis offérimus: tu súscipe pro animábus illis, quarum hódie memóriam fácimus: fac eas, Dómine, de morte transíre ad vitam.
* Quam olim Abrahæ promisísti et sémini ejus.

[Signore Gesù Cristo, Re della gloria, libera tutti i fedeli defunti dalle pene dell’inferno e dall’abisso. Salvali dalla bocca del leone; che non li afferri l’inferno e non scompaiano nel buio. L’arcangelo san Michele li conduca alla santa luce
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza.
V. Noi ti offriamo, Signore, sacrifici e preghiere di lode: accettali per l’anima di quelli di cui oggi facciamo memoria. Fa’ che passino, Signore, dalla morte alla vita,
* che tu un giorno hai promesso ad Abramo e alla sua discendenza].

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris, pro animábus famulórum famularúmque tuárum, pro quibus tibi offérimus sacrifícium laudis; ut eas Sanctórum tuórum consórtio sociáre dignéris.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche in favore delle anime dei tuoi servi e delle tue serve, per le quali Ti offriamo questo sacrificio di lode, affinché Tu le accolga nella società dei tuoi Santi..]

Praefatio
Defunctorum

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: per Christum, Dóminum nostrum. In quo nobis spes beátæ resurrectiónis effúlsit, ut, quos contrístat certa moriéndi condício, eósdem consolétur futúræ immortalitátis promíssio. Tuis enim fidélibus, Dómine, vita mutátur, non tóllitur: et, dissolúta terréstris hujus incolátus domo, ætérna in coelis habitátio comparátur. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes:

 [È veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno, per Cristo nostro Signore. In lui rifulse a noi la speranza della beata risurrezione: e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata: e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo. E noi, uniti agli Angeli e agli Arcangeli ai Troni e alle Dominazioni e alla moltitudine dei Cori celesti, cantiamo con voce incessante l’inno della tua gloria:]

Communio

4 Esdr II:35-34
Lux ætérna lúceat eis, Dómine:
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.
V. Requiem ætérnam dona eis, Dómine: et lux perpétua lúceat eis.
* Cum Sanctis tuis in ætérnum: quia pius es.

[Splenda ad essi la luce perpetua,
* insieme ai tuoi santi, in eterno, o Signore, perché tu sei buono.
V. L’eterno riposo dona loro, Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
* Insieme ai tuoi santi, in eterno, Signore, perché tu sei buono].

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, Dómine: ut ánimæ famulórum famularúmque tuárum, his purgátæ sacrifíciis, indulgéntiam páriter et réquiem cápiant sempitérnam.
[Fa’, Te ne preghiamo, o Signore, che le anime dei tuoi servi e delle tue serve, purificate da questo sacrificio, ottengano insieme il perdono ed il riposo eterno].

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO. S. S. BENEDETTO XV – HUMANI GENERIS REDEMPTIONEM

Questa lettera enciclica di Benedetto XV affronta un argomento decisivo nella propagazione e nel mantenimento della fede cattolica, e fondamentale per l’esistenza stessa della Chiesa: la predicazione della divina parola. Se i Vescovi avessero osservato alla lettera le disposizioni pratiche del Santo Padre non avremmo avuto quel clero ignorante, accidioso, infingardo che ha consentito agli avversari di Cristo e della sua Chiesa, di infiltrarsi in essa e prendere il sopravvento sui sacri palazzi e finanche sulla Cattedra di Pietro oggi occupata da Simon Mago e dai suoi epigoni. La lettera è mirabilmente articolata e congegnata onde ottenere i risultati pratici che si riprometteva secondo gli insegnamenti del divino Maestro… ma il mistero d’iniquità era già all’opera tumultuosa che doveva poi sfociare nell’apostasia manifesta del conciliabolo della sinagoga vaticana e nella orribile parodia degli antipapi che, inventando la falsa chiesa dell’uomo, falsi sacramenti, falsi riti e falsa gerarchia, hanno preparato la via all’anticristo come da profezie bibliche. Questo, come tanti altri documenti, è però la testimonianza della vera anima dottrinale della Chiesa di Cristo, Chiesa che rivivrà nella sua magnificenza alla venuta di Cristo Salvatore che, bruciando col soffio della sua bocca l’anticristo ed i suoi adepti, rivendicando la sua regalità universale, ricapitolando tutta la creazione in Sé, rimetterà il suo Regno al Padre celeste libero da impuri e reprobi. Al Pusillus grex spetta attendere con pazienza e preghiera incessante il momento glorioso del ritorno di Cristo e del Giudizio universale che separerà per sempre i capri (i falsi cristiani solo di nome, paganizzati e satanizzati: Novus ordo, eretici sedevacantisti e sedicenti tradizionalisti fallibilisti ed autoreferenziati, oltre ai già condannati infedeli, settari ed atei a vario titolo), dagli agnelli, coloro cioè che avranno sopportato per Lui sofferenze, dispregi e martirio restando fedeli alla sua eterna dottrina ed alla sua “vera” Chiesa anche se solo di desiderio.

Benedetto XV
Humani generis redemptionem

Lettera Enciclica

I. L’ANNUNCIO DELLA PAROLA

La predicazione prosegue l’opera della redenzione.

Avendo Gesù Cristo nostro Signore col morire sull’altare della Croce compiuta la Redenzione del genere umano, e volendo indurre gli uomini mercé l’osservanza de’ suoi comandamenti a guadagnarsi la vita eterna, non ricorse ad altro mezzo che alla voce de’ suoi predicatori, commettendo loro di annunziare al mondo le cose necessarie a credere o ad operare per la salute. “Piacque a Dio di salvare i credenti per mezzo della stoltezza della predicazione” (1Cor 1, 21). Elesse egli quindi gli apostoli, ed avendo loro infusi con lo Spirito Santo i doni appropriati a sì alto ufficio: “Andate – disse – per tutto il mondo e predicate l’Evangelio” (Mc XVI, 15). Ed è questa predicazione appunto che rinnovò la faccia della terra. Poiché se la Fede cristiana convertì le menti degli uomini da molteplici errori alla conoscenza della verità, e le anime loro dall’indegnità dei vizi all’eccellenza di ogni virtù, non per altra via le convertì se non per via della predicazione: “La Fede dall’udito, l’udito poi per la parola di Cristo” (Rm X,17). Laonde, siccome per divina disposizione, sogliono le cose conservarsi per quelle medesime cause che le hanno generate, egli è manifestato essere legge divina che l’opera dell’eterna salute si continui per la predicazione della cristiana sapienza; a buon diritto venir questa annoverata tra le cose di suprema importanza, e meritare perciò tutte le nostre cure e sollecitudini, massime se ci fosse ragion di credere ch’ella, perdendo in efficacia, fosse in qualche modo venuta meno alla sua nativa integrità. – Ed è questo appunto che s’aggiunge ai tanti mali, che Noi sopra ogni altro affliggono in questi miseri tempi. Se miriamo quanti sono coloro che attendono alla predicazione, li ritroviamo in sì gran numero che forse mai non fu il maggiore. Ma se al tempo stesso consideriamo a che sono ridotti i costumi pubblici e privati e le leggi onde si reggono i popoli, vediamo crescere ogni giorno il disprezzo e la dimenticanza d’ogni concetto soprannaturale; vediamo illanguidire il vigore severo della virtù cristiana, con obbrobrioso e rapido ritorno all’indegnità della vita pagana. – Di tanti mali molte certamente e varie sono le cagioni: non si può negare però che purtroppo insufficiente sia il rimedio che i ministri della divina parola vi dovrebbero apportare. Forse che la parola di Dio non è più quella che l’Apostolo chiamava viva ed efficace e penetrante più d’una spada a due tagli? Forse col tempo e coll’uso la spada s’è spuntata? Certo ella è colpa dei ministri, che non sanno maneggiarla, s’essa perde spesso della sua forza. Né davvero si può dire che gli Apostoli incontrassero tempi migliori dei nostri, come se allora il mondo fosse più docile al Vangelo o meno riottoso alla legge di Dio. Gli è perciò che conscii del dovere che l’ufficio apostolico c’impone e mossi dall’esempio dei due nostri immediati Predecessori, abbiamo creduto, in un affare di tanta importanza, di dover porre ogni diligenza per chiamare la predicazione della divina parola alla norma data da Cristo e dalle leggi ecclesiastiche.

II. CAUSE DI INEFFICACIA

Non si deve predicare senza mandato

Nel che, o Venerabili Fratelli, importa ricercare anzitutto quali siano le cagioni che fanno tralignare dalla retta via. Ora siffatte cagioni possono ridursi a tre: o perché viene commessa la predicazione a chi non si dovrebbe; o perché non ci si apporta la dovuta intenzione; o ancora non si predica nel modo che si conviene. – Infatti, secondo che insegna il Concilio di Trento, l’ufficio di predicare spetta ai Vescovi principalmente. E gli Apostoli, ai quali succedettero i Vescovi, quello soprattutto ritennero che loro appartenesse. Così Paolo: “Non mi ha mandato Cristo a battezzare, ma a predicare il Vangelo” (1Cor 1, 17). E gli altri Apostoli similmente: “Non è giusto che noi tralasciamo la parola di Dio per servire alle mense” (At VI, 2). – Però sebbene quest’ufficio appartenga ai Vescovi in proprio, tuttavia essendo essi occupati da molti altri pensieri nel governo delle loro Chiese, né potendo perciò sempre né in ogni caso adempirlo di per sé, è necessario che vi soddisfacciano anche per mezzo di altri. Laonde chiunque, oltre i Vescovi, esercita quest’ufficio, lo esercita senza dubbio come un incarico episcopale. Questo adunque rimanga anzitutto bene stabilito: a nessuno essere lecito d’intraprendere da sé l’ufficio di predicare, essere anzi a ciò necessaria la legittima missione, che nessuno può dare, dal Vescovo in fuori: “Quomodo prædicabunt nisi mittantur? – Come predicheranno se non sono mandati?” (Rm X,15). Quindi mandati furono gli Apostoli, e mandati da Colui che è Pastore supremo e Vescovo delle anime nostre (cf. 1Pt II, 25), mandati i settantadue discepoli; e lo stesso Paolo, quantunque costituito già da Cristo vaso di elezione per portare il nome di lui dinanzi alle genti ed ai re (cf. At IX, 15), non iniziò il suo apostolato fino a quando i seniori, ubbidendo al comando dello Spirito Santo: “Mettetemi da parte Saulo per l’impresa” (del Vangelo) (At XIII, 2), impostegli le mani, non lo licenziarono. La qual cosa nei primi tempi della Chiesa fu consuetudine costante. Tanto che tutti, anche i più insigni nel semplice ordine sacerdotale, come Origene, e quelli che dappoi furono innalzati alla dignità episcopale, come Cirillo di Gerusalemme e gli altri antichi Dottori della Chiesa, tutti, autorizzati ciascuno dal proprio Vescovo, intrapresero l’opera della predicazione. – Oggi all’incontro, o Venerabili Fratelli, si direbbe sia invalsa un’usanza ben differente. Non sono rari, tra i sacri oratori, tali di cui si potrebbe ripetere con verità quello onde si lagna Iddio presso Geremia: “Io non li avevo mandati quei profeti, eppure correvano da sé” (Ger XXIII, 21). Basta infatti che alcuno o per naturale inclinazione o per altro motivo qualunque s’invogli di darsi al ministero della parola, perché facilmente gli si apra l’accesso al pergamo, quasi palestra da esercitarvisi ognuno a suo talento. Tocca dunque a voi, o Venerabili Fratelli, riparare a tanto disordine; e poiché ben sapete come dovrete un giorno rendere conto a Dio ed alla Chiesa del pascolo che avrete fornito alle vostre greggi, non vogliate permettere che alcuno, senza il vostro consenso, s’introduca nell’ovile e quivi a suo piacimento pasca le pecorelle di Cristo. Nessuno pertanto nelle vostre diocesi d’ora innanzi dovrà predicare se non sia stato da voi stessi chiamato ed approvato. – Vorremmo perciò, su questo proposito, che con ogni vigilanza consideriate a quali persone affidate incarico così santo e rilevante. Il decreto del Concilio Tridentino infatti questo solo permette ai Vescovi, che scelgano uomini idonei, cioè dire che siano capaci di adempiere salutarmente il dovere della predicazione. Salutarmente, dice – notate bene la parola che esprime la norma in questo affare – non dice con eloquenza, non già con plauso degli uditori, ma con frutto delle anime, che è il fine proprio del ministero della divina parola. Che se desiderate intendere da Noi anche più precisamente quali veramente si debbano reputare idonei, diremo senz’altro che sono quelli appunto ne’ quali riscontrate i segni della vocazione divina. Imperocché quei requisiti stessi che si domandano acciocché alcuno sia ammesso al sacerdozio: “Nessuno si appropria da sé tale onore ma chi è chiamato da Dio” (Eb V, 4), sono pure necessari perché egli sia giudicato atto alla predicazione.

Chi può essere ammesso a predicare

Vocazione questa non difficile ad intendere. Poiché allorquando Cristo, Maestro e Signor nostro, stava per salire al cielo, non disse già agli Apostoli che, spargendosi pel mondo, subito principiassero a predicare, ma “trattenetevi in città sino a tanto che siate rivestiti di virtù dall’alto” (Lc XXIV,4). Sicché questo è l’indizio d’essere alcuno da Dio chiamato a tale ufficio, s’egli sia dall’alto rivestito di virtù. Il che come sia, Venerabili Fratelli, lo possiamo raccogliere dall’esempio degli Apostoli, tostoché ricevettero virtù dal cielo. Era su di loro disceso appena lo Spirito Santo, che lasciando stare i mirabili carismi loro conferiti essi, di rozzi e fiacchi uomini che erano, ad un tratto diventarono dotti e perfetti. Così se un sacerdote sia fornito di conveniente dottrina e di virtù purché egli abbia tanto in doni di natura da non tentare Iddio giustamente si potrà giudicarlo chiamato al ministero della predicazione, né vi sarà ragione che il Vescovo non lo possa ammettere. Ed è quello stesso che intende il Concilio di Trento, quando stabilisce che il Vescovo non permetta di predicare ad alcuno che non sia ben provato per costumi e per dottrina. È quindi dovere del Vescovo assicurarsi per via di lunga ed accurata esperienza quanta sia la scienza e la virtù di coloro, ch’egli pensa d’incaricare dell’ufficio di predicare. E s’egli in ciò si dimostrasse troppo facile e trascurato, mancherebbe ad un suo gravissimo dovere, e sul suo capo ricadrebbe la colpa e degli errori profferiti dal predicatore ignorante e dello scandalo e mal esempio del malvagio. – Ma per facilitarvi l’adempimento dell’obbligo vostro in questo genere, o Venerabili Fratelli, ordiniamo che d’ora innanzi tutti coloro che domandano la facoltà di predicare abbiano a sostenere un doppio e severo giudizio, dei costumi e della scienza loro, così appunto come si suole per la facoltà di ascoltare le confessioni. E chiunque o per l’uno o per l’altro conto sia ritrovato manchevole, senza nessun riguardo, come inetto venga escluso da tale ufficio. Lo esige la dignità vostra, perché, come abbiamo detto, i predicatori fanno le vostre veci: lo esige il bene della santa Chiesa, nella quale, se altri mai dev’essere sale della terra e luce del mondo, ciò spetta a colui che è occupato nel ministero della parola (Mt 5,13-14).

Il fine e le forme della predicazione

Ben considerate queste cose, può sembrare superfluo il procedere a spiegare qual debba essere il fine e il modo della sacra predicazione. Giacché ove la scelta dei sacri oratori si faccia secondo la mentovata regola, che dubbio c’è che quelli, i quali sono adorni delle richieste qualità, si proporranno nel predicare una degna causa e si atterranno a una degna maniera? Tuttavia giova lumeggiare questi due capi, affinché tanto meglio apparisca perché mai talvolta venga a mancare in alcuni l’ideale del buon predicatore. – Che cosa i predicatori nell’adempiere al loro ufficio abbiano da avere innanzi agli occhi, si rileva da questo, che essi possono e debbono dire di sé quel di San Paolo: “Facciamo le veci di ambasciatori per Cristo” (2Cor V, 20). Se dunque sono ambasciatori di Cristo, nel compiere la loro ambasceria debbono volere quello stesso che Cristo intese nel darla loro: anzi quello che Egli stesso si propose, mentre visse sulla terra. Giacché gli Apostoli, e dopo gli Apostoli i predicatori, non ebbero missione diversa da quella di Cristo: “Come mandò me il Padre, anch’io mando voi” (Gv XX, 21). E sappiamo per che cosa Cristo discese dal cielo, avendo Egli apertamente dichiarato: “Io a questo fine son venuto nel mondo, di rendere testimonianza alla verità” (Gv XVIII, 37). “Io son venuto perché abbiano vita” (Gv X, 10). Quelli dunque che esercitano la sacra predicazione debbono mirare all’una e all’altra cosa, cioè a diffondere la verità da Dio rivelata, e a destare ed alimentare la vita soprannaturale in coloro che li ascoltano; in una parola, a promuovere la gloria di Dio, coll’attendere alla salute delle anime. Laonde, come a torto si direbbe medico chi non esercitò la medicina, o maestro di un’arte qualsiasi chi quell’arte non insegni, così chi predicando non si cura di condurre gli uomini a una più piena cognizione di Dio e sulla via dell’eterna salute, potremo dirlo un vano declamatore, non un predicatore evangelico. E così non ve ne fossero di siffatti declamatori!

Intenzioni dei falsi predicatori

E che cosa è poi quello da cui si lasciano soprattutto trasportare? Alcuni dalla cupidigia della gloria umana, per soddisfare alla quale “si studiano di dir cose più alte che adatte, ingenerando nelle deboli intelligenze stupore di sé, non operando la loro salute. Si vergognano di dir cose umili e piane, per non sembrar di saper solo queste… Si vergognano di allattare i pargoli” . E mentre il Signore Gesù dall’umiltà degli uditori voleva s’intendesse essere egli colui che si aspettava: “Si annunzia ai poveri il Vangelo” (Mt II, 5), quanto non brigano costoro per acquistarsi rinomanza dalla predicazione nelle grandi città e sui pulpiti primari? E poiché nelle cose rivelate da Dio ve n’ha di quelle che spaventano la debolezza della corrotta natura umana, e che per ciò non sono adatte ad adunare moltitudini, da esse cautamente si astengono e prendono a trattare argomenti ne’ quali, salvo la natura del luogo, niente v’ha di sacro. E non raro avviene, che nel trattar di verità eterne discendono alla politica, massime se qualche cosa di questo genere occupi fortemente gli animi degli uditori. Questo solo sembra essere il loro studio, di piacere agli uditori e imitar quelli che San Paolo dice lusingatori delle orecchie (2Tm IV, 3). Di qui quel gesto non pacato e grave, ma da scena e da comizio; di qui quelle patetiche modulazioni di voci o tragiche impetuosità; di qui quel modo di parlare proprio dei giornali; di qui quella copia di sentenze attinte dagli scrittori empii ed acattolici, non dalle divine Lettere né dai Santi Padri; di qui finalmente quella vertiginosità di parola che nei più d’essi si riscontra e che serve sì a ottundere le orecchie e a far stupire gli uditori, ma che non reca ad essi niente di buono da riportare a casa. Ora è incredibile di che inganno siano vittime cotali predicatori. Conseguano pure quel plauso degli stolti che essi cercano con tanta fatica e non senza profanazione: ma vale la spesa, quando con ciò essi vanno incontro al biasimo degli uomini savi, e, quel che è peggio, al tremendo giudizio severissimo di Cristo? – Se non che, Venerabili Fratelli, non tutti i predicatori che si allontanano dalle buone regole cercano, nel predicare, unicamente gli applausi. Il più delle volte quelli che si procurano siffatte manifestazioni lo fanno per giovarsene ad altro scopo anche meno onesto. Giacché dimenticando il detto di San Gregorio: “Il sacerdote non predica per mangiare, ma perciò deve mangiare perché predichi” , non sono rari coloro i quali, sentendo di non esser fatti per altri uffici, dove vivere con decoro, si sono dati alla predicazione, non per esercitare debitamente questo santissimo ministero, ma per fare i loro interessi. Vediamo quindi tutte le sollecitudini di costoro essere volte non a cercare dove si possa sperare un maggior frutto nelle anime, ma dove predicando v’è da guadagnare di più. – Ora da uomini siffatti non potendosi aspettar altro che danno e disonore per la Chiesa, dovete, Venerabili Fratelli, vigilare con ogni diligenza affinché, scoprendo qualcuno che faccia servire la predicazione alla sua vanità o all’interesse, lo rimoviate senza indugio dall’ufficio di predicare. Giacché chi non si perita di profanare cosa sì santa, non avrà certo ritegno di discendere ad ogni bassezza, spargendo una macchia d’ignominia non solo sopra di sé, ma anche sullo stesso sacro ministero, che così indegnamente egli compie. – E dovrà usarsi la stessa severità contro coloro che non predicano come si deve, per aver trascurati i necessari requisiti a compiere bene questo ministero. E quali siano questi, lo insegna coll’esempio suo colui che dalla Chiesa fu denominato il Predicatore della verità, Paolo Apostolo; ed oh se, per beneficio di Dio, avessimo molto maggior numero di predicatori simili a lui!

III. CONDIZIONI PER PREDICARE

La scienza necessaria

La prima cosa dunque che apprendiamo da San Paolo si è con che preparazione e dottrina egli intraprese a predicare. Né qui intendiamo degli studi ai quali egli aveva diligentemente atteso sotto il magistero di Gamaliele. Giacché la scienza in lui infusa per rivelazione, oscurava e quasi sopraffaceva quella che egli da sé si era procacciata: benché anche questa non gli giovò poco, come dalle sue Lettere si ricava. La scienza è affatto necessaria al predicatore, come dicemmo; della cui luce chi è privo facilmente erra, secondo la verissima sentenza del Concilio Lateranense IV: “L’ignoranza è la madre di tutti gli errori“. Tuttavia ciò non vuole intendersi di qualsiasi scienza, ma di quella che è propria del sacerdote e che si restringe, per dir tutto in poco, alla cognizione di sé, di Dio e dei doveri: di sé, diciamo, perché ognuno metta da parte i propri vantaggi; di Dio, perché conduca tutti a conoscerlo e ad amarlo; dei doveri, perché li osservi e insegni ad osservarli. La scienze delle altre cose, se manchi questa, gonfia e nulla giova.

Disponibilità senza condizioni

Ma vediamo qual fu nell’Apostolo la preparazione interiore. Nel che tre cose debbono massimamente tenersi sotto gli occhi. La prima, che San Paolo si abbandonò tutto alla divina volontà. Non appena infatti, mentr’era in cammino verso Damasco, fu tocco dalla virtù del Signore Gesù, egli proruppe in quella esclamazione, degna d’un Apostolo: “Signore, che vuoi tu che io faccia?” (At IX, 6). Per amor di Cristo, cominciò subito ad essergli indifferente, come gli fu poi sempre in appresso, il lavorare e il riposare, la penuria e l’abbondanza, la lode e il disprezzo, il vivere e il morire. Non è da dubitare che perciò egli profittasse tanto nell’apostolato, perché si sottomise con pieno ossequio alla volontà di Dio. Al modo stesso quindi innanzi tutto serva a Dio ogni predicatore che s’affatica alla salute delle anime: in maniera che non si dia alcun pensiero degli uditori, del successo, dei frutti, che sarà per avere: che cerchi, infine, non sé, ma Dio solo. – Questo studio poi così grande di prestare ossequio a Dio richiede un animo sì disposto a patire, che non si sottragga a nessuna fatica o incommodo. La qual cosa in Paolo fu insigne. Giacché avendo il Signore detto di lui: “Io gli farò vedere quanto debba egli patire per il nome mio” (At IX, 16), egli da allora abbracciò tutti i travagli sì volenterosamente da scrivere: “Sono inondato dall’allegrezza in mezzo a tutte le nostre tribolazioni” (2Cor VII, 4). Ora questa tolleranza della fatica se nel predicatore sia segnalata, purificandolo da quel che in lui v’è di umano, e conciliandogli la grazia di Dio necessaria per far frutto, è incredibile quanto renda commendevole la sua opera agli occhi del popolo cristiano. Al contrario poco riescono a muover gli animi, quelli che dovunque vanno, cercano comodità più del giusto, e fuori delle loro prediche, non toccano quasi altro del sacro ministero; sì da apparire che essi badino più alla propria sanità, che al vantaggio delle anime. In terzo luogo finalmente dall’Apostolo s’impara che al predicatore è necessario quello che si dice lo spirito di orazione: egli infatti come prima fu chiamato all’apostolato, cominciò a pregar Dio: “Ei già fa orazione” (At IX, 11). E la ragione è perché non coll’abbondanza del dire, né col discutere sottilmente o col caldamente perorare si ottiene la salute delle anime: un predicatore che si fermi qui non è altro che “un bronzo sonante o un cembalo squillante” (1Cor XIII, 1). Ciò che dà vigore alle parole dell’uomo e le fa mirabilmente efficaci a salute, è la divina grazia: “Dio diede il crescere” (1Cor III, 6). Or la grazia di Dio non si ottiene con lo studio e coll’arte, ma s’impetra con la preghiera. Onde chi poco o niente è dedito all’orazione, indarno spende la sua opera e la sua diligenza nella predicazione, perché innanzi a Dio non caverà nessun profitto né per sé né per gli uditori.

Dottrina e pietà

Pertanto, a restringere in poco quanto siamo venuti dicendo fin qui, ci serviamo di queste parole di San Pietro Damiano: “Al predicatore due cose sono sommamente necessarie, cioè dire, che sovrabbondi di sentenze della dottrina sacra e fiammeggi dello splendore di religiosa vita. Che dove un sacerdote non riesca ad unire in sé le due cose, di guisa che sia esemplare di vita e copioso dei doni di dottrina, è meglio senza dubbio la vita che la dottrina… Più vale la chiarezza della vita per l’esempio, che l’eloquenza e l’accurata eleganza dei discorsi… È necessario che il sacerdote, che esercita l’ufficio della predicazione, versi piogge di dottrina spirituale ed irraggi lume di vita religiosa: a maniera di quell’Angelo, il quale annunziando ai pastori il nato Signore, balenò d’uno splendore di chiarezza, ed espresse con parole ciò che era venuto ad evangelizzare” .

Predicare tutta la verità e tutti i precetti

Ma per ritornare a San Paolo, se esaminiamo di quali cose fosse solito trattare predicando, egli compendia tutto così: “Non mi credetti di sapere altra cosa tra di noi, se non Gesù Cristo, e questo crocifisso” (1Cor II, 2). Fare che gli uomini conoscessero sempre più Gesù Cristo, e d’una cognizione che giovasse a vivere e non a credere soltanto, ecco quello a che egli s’affaticò con tutto il vigore del suo petto. E però predicava tutti i dommi o precetti di Cristo anche i più severi senza nessuna reticenza o temperamento, intorno all’umiltà, all’abnegazione di sé, alla castità, al disprezzo delle cose terrene, all’obbedienza, al perdono dei nemici o simili. Né mostrava alcuna timidezza nel proclamare: che si scelga tra Dio e Belial, perché non si può servire ad entrambi; che tutti, appena escono di questa vita, hanno a presentarsi a un tremendo giudizio; che con Dio non c’è luogo a transazioni; che o è da sperare la vita eterna, se si osserva tutta la legge, o, se per secondare le passioni si trascura il dovere, è da aspettarsi il fuoco eterno. Né mai il Predicatore della verità stimò di astenersi da siffatti argomenti per la ragione che, data la corruzione dei tempi, sembrassero troppo duri a coloro ai quali parlava. Apparisce chiaro dunque come non siano da approvare quei predicatori, che non osano toccare certi capi di dottrina cristiana, per non riuscir molesti all’uditorio. Forse che il medico darà rimedii inutili all’infermo, se questi per caso abborrisca dagli utili? E poi qui si parrà la virtù e l’abilità dell’oratore, se egli le cose ingrate avrà col suo dire rese grate.

Non serve la sapienza del mondo

Gli argomenti poi che aveva preso a trattare in che modo l’Apostolo li esponeva? “Non nelle persuasive dell’umana sapienza” (1Cor II, 4). Quanto importa, Venerabili Fratelli, che ciò sia da tutti sommamente ritenuto, mentre vediamo non pochi oratori sacri che predicano mettendo da parte la Sacra Scrittura, i Padri e i Dottori della Chiesa e gli argomenti della sacra teologia, e non parlano se non quasi solo il linguaggio della ragione. Ed è, senza dubbio, uno sbaglio: giacché nell’ordine soprannaturale non si riesce a nulla coi soli amminicoli umani. – Ma si oppone: al predicatore il quale si fondi troppo sulle verità rivelate, non si presta fede. – È proprio vero? Ammettiamo pure che ciò avvenga presso gli acattolici: sebbene, quando i Greci cercavano la sapienza, s’intende, di questo mondo, l’Apostolo predicava Gesù Crocifisso. Ma, se volgiamo gli occhi alle popolazioni cattoliche, in esse coloro che sono alieni da noi, ritengono per lo più la radice della Fede: le menti infatti sono accecate perché son corrotti gli animi. – Finalmente con quale spirito predicava San Paolo? Non per piacere agli uomini, ma a Cristo: “Se piacessi agli uomini, non sarei servo di Cristo” (Gal I,10). Con un’anima tutt’accesa della carità di Cristo, non altro cercava se non la gloria di Cristo. O se quanti s’affaticano nel ministero della parola, amassero tutti davvero Gesù Cristo, e potessero far proprie l’espressioni di San Paolo: “Per causa di cui (Gesù Cristo) ho giudicato un discapito tutte le cose” (Fil III, 8); e “Il mio vivere è Cristo” (Fil III, 8). Tanto quelli che ardono d’amore, sanno infiammare gli altri. Onde San Bernardo così ammonisce il predicatore: “Se tu bene intendi, cerca d’esser conca e non canale” ; cioè di quel che dici sii pieno tu stesso, e non ti basti solo trasfonderlo negli altri. “Ma – come lo stesso Dottore soggiunge – oggi nella Chiesa abbiamo molti canali e pochissime conche”. – Affinché ciò non accada in avvenire, dobbiamo rivolgere tutti i nostri sforzi, o Venerabili Fratelli: a noi spetta, respingendo gl’indegni, e incoraggiando, formando, guidando gl’idonei, fare che di predicatori, secondo il cuore di Dio, ne sorgano quanti più si può. – Pieghi poi lo sguardo sul suo gregge il misericordioso Pastore eterno, Gesù Cristo, anche per le preghiere della Vergine Santissima, Madre augusta dello stesso Verbo incarnato e Regina degli Apostoli; e rinfocolando lo spirito dell’apostolato nel Clero, faccia che siano numerosi quelli che cerchino “di comparir degni d’approvazione davanti a Dio, operai non mai svergognati, che rettamente maneggino la parola di verità” (2Tm II,15). – Auspice dei doni divini e in attestato della nostra benevolenza, a voi, o Venerabili Fratelli, e al vostro Clero e popolo impartiamo con ogni affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma presso San Pietro, il 15 giugno, festa del Sacratissimo Cuore di Gesù, dell’anno 1917, terzo del nostro Pontificato.

FESTA DI TUTTI I SANTI (2020)

FESTA DI TUTTI I SANTI (2020)

Santa MESSA

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Doppio di 1a classe con Ottava comune. – Paramenti bianchi.

Il tempio romano di Agrippa fu dedicato, sotto Augusto, a tutti i dei pagani, perciò fu detto Pantheon. Al tempo dell’imperatore Foca, tra il 608 e il 610, Bonifacio IV Papa, vi trasportò molte ossa di martiri tolte dalle catacombe. Il 13 maggio 610 egli dedicò questa nuova basilica cristiana a « S . Maria e ai Martiri». Più tardi la festa di questa dedicazione fu solennemente celebrata e si consacrò il tempio a « Santa Maria » e a « Tutti i Santi «. E siccome esisteva in precedenza una festa per la commemorazione di tutti i Santi, celebrata in tempi diversi dalle varie chiese e poi stabilita da Gregorio IV (827-844) il 1° novembre, papa Gregorio VII trasportò in questo giorno l’anniversario della dedicazione del Panteon. La festa di Ognissanti ci ricorda il trionfo che Cristo riportò sulle antiche divinità pagane. Nel Pantheon si tiene la Stazione nel venerdì nell’Ottava di Pasqua. – Santi che la Chiesa onorò nei primi tre secoli erano tutti Martiri, e il Pantheon fu dapprima ad essi destinato: per questo la Messa di oggi è tolta dalla liturgia dei Martiri. l’Introito è quello della Messa di S. Agata, più tardi usato anche per altre feste; il Vang., l’Off., e il Com., sono tratti dal Comune dei Martiri. La Chiesa oggi ci presenta la mirabile visione del Cielo, nel quale con S. Giovanni ci mostra il trionfo dei dodicimila eletti (dodici è considerato come un numero perfetto) per ogni tribù di Israele e una grande, innumerevole folla di ogni nazione, di ogni tribù, di ogni popolo e di ogni lingua prostrata dinanzi al trono ed all’Agnello, rivestiti di bianche stole e con palme fra le mani (Ep.). Intorno al Cristo, la Vergine, gli Angeli divisi in nove cori, gli Apostoli e i Profeti’, i Martiri, imporporati del loro sangue, i Confessori, rivestiti di bianchi abiti e il coro delle caste Vergini formano, canta l’Inno dei Vespri, questo maestoso corteo. Esso si compone di tutti coloro che, qui, hanno distaccato il loro cuori dai beni della terra, miti, afflitti, giusti, misericordiosi, puri, pacifici, di fronte alle persecuzioni, per il nome di Gesù. « Rallegratevi dunque perché la vostra ricompensa sarà grande nei Cieli» dice Gesù (Vang., Com.). Fra questi milioni di giusti, che sono stati discepoli fedeli di Gesù sulla terra, si trovano numerosi nostri parenti, amici, comparrocchiani, che adorano il Signore, re dei re e corona dei santi (invit. del Matt.) e ci ottengono l’implorata abbondanza delle sue misericordie (Or.). Il sacerdozio che Gesù esercita invisibilmente sui nostri altari, dove Egli si offre a Dio, si identifica con quello che Egli esercita visibilmente in Cielo. – Gli altari della terra, sui quali si trova «l’Agnello di Dio», e quello del Cielo, ov’è l’ «Agnello immolato », sono un solo altare.: perciò la Messa ci richiama continuamente alla patria celeste. Il Prefazio unisce i nostri canti alle lodi degli Angeli, e il Communicantes ci unisce strettamente alla Vergine e ai Santi.

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]
Ps XXXII:1.
Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.

[Esultate nel Signore, o giusti: ai retti si addice il lodarLo.]

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei

 [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui nos ómnium Sanctórum tuórum mérita sub una tribuísti celebritáte venerári: quǽsumus; ut desiderátam nobis tuæ propitiatiónis abundántiam, multiplicátis intercessóribus, largiáris.
 

[O Dio onnipotente ed eterno, che ci hai concesso di celebrare con unica solennità i meriti di tutti i tuoi Santi, Ti preghiamo di elargirci la bramata abbondanza della tua propiziazione, in grazia di tanti intercessori.]

Lectio

Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli.
Apoc VII: 2-12
In diébus illis: Ecce, ego Joánnes vidi álterum Angelum ascendéntem ab ortu solis, habéntem signum Dei vivi: et clamávit voce magna quátuor Angelis, quibus datum est nocére terræ et mari, dicens: Nolíte nocére terræ et mari neque arbóribus, quoadúsque signémus servos Dei nostri in fróntibus eórum. Et audívi númerum signatórum, centum quadragínta quátuor mília signáti, ex omni tribu filiórum Israël, Ex tribu Juda duódecim mília signáti. Ex tribu Ruben duódecim mília signáti. Ex tribu Gad duódecim mília signati. Ex tribu Aser duódecim mília signáti. Ex tribu Néphthali duódecim mília signáti. Ex tribu Manásse duódecim mília signáti. Ex tribu Símeon duódecim mília signáti. Ex tribu Levi duódecim mília signáti. Ex tribu Issachar duódecim mília signati. Ex tribu Zábulon duódecim mília signáti. Ex tribu Joseph duódecim mília signati. Ex tribu Bénjamin duódecim mília signáti. Post hæc vidi turbam magnam, quam dinumeráre nemo póterat, ex ómnibus géntibus et tríbubus et pópulis et linguis: stantes ante thronum et in conspéctu Agni, amícti stolis albis, et palmæ in mánibus eórum: et clamábant voce magna, dicéntes: Salus Deo nostro, qui sedet super thronum, et Agno. Et omnes Angeli stabant in circúitu throni et seniórum et quátuor animálium: et cecidérunt in conspéctu throni in fácies suas et adoravérunt Deum, dicéntes: Amen. Benedíctio et cláritas et sapiéntia et gratiárum áctio, honor et virtus et fortitúdo Deo nostro in sǽcula sæculórum. Amen. – 

[In quei giorni: Ecco che io, Giovanni, vidi un altro Angelo salire dall’Oriente, recante il sigillo del Dio vivente: egli gridò ad alta voce ai quattro Angeli, cui era affidato l’incarico di nuocere alla terra e al mare, dicendo: Non nuocete alla terra e al mare, e alle piante, sino a che abbiamo segnato sulla fronte i servi del nostro Dio. Ed intesi che il numero dei segnati era di centoquarantaquattromila, appartenenti a tutte le tribú di Israele: della tribú di Giuda dodicimila segnati, della tribú di Ruben dodicimila segnati, della tribú di Gad dodicimila segnati, della tribú di Aser dodicimila segnati, della tribú di Nèftali dodicimila segnati, della tribú di Manasse dodicimila segnati, della tribú di Simeone dodicimila segnati, della tribú di Levi dodicimila segnati, della tribú di Issacar dodicimila segnati, della tribú di Zàbulon dodicimila segnati, della tribú di Giuseppe dodicimila segnati, della tribú di Beniamino dodicimila segnati. Dopo di questo vidi una grande moltitudine, che nessuno poteva contare, uomini di tutte le genti e tribú e popoli e lingue, che stavano davanti al trono e al cospetto dell’Agnello, vestiti con abiti bianchi e con nelle mani delle palme, che gridavano al alta voce: Salute al nostro Dio, che siede sul trono, e all’Agnello. E tutti gli Angeli che stavano intorno al trono e agli anziani e ai quattro animali, si prostrarono bocconi innanzi al trono ed adorarono Dio, dicendo: Amen. Benedizione e gloria e sapienza e rendimento di grazie, e onore e potenza e fortezza al nostro Dio per tutti i secoli dei secoli.]

Graduale

Ps XXXIII:10; 11
Timéte Dóminum, omnes Sancti ejus: quóniam nihil deest timéntibus eum.
V. Inquiréntes autem Dóminum, non defícient omni bono.

[Temete il Signore, o voi tutti suoi santi: perché nulla manca a quelli che lo temono.
V. Quelli che cercano il Signore non saranno privi di alcun bene.]

Alleluja

(Matt. XI:28)
Allelúja, allelúja – Veníte ad me, omnes, qui laborátis et oneráti estis: et ego refíciam vos. Allelúja.
[Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi: e io vi ristorerò. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt V: 1-12
“In illo témpore: Videns Jesus turbas, ascéndit in montem, et cum sedísset, accessérunt ad eum discípuli ejus, et apériens os suum, docébat eos, dicens: Beáti páuperes spíritu: quóniam ipsórum est regnum cœlórum. Beáti mites: quóniam ipsi possidébunt terram. Beáti, qui lugent: quóniam ipsi consolabúntur. Beáti, qui esúriunt et sítiunt justítiam: quóniam ipsi saturabúntur. Beáti misericórdes: quóniam ipsi misericórdiam consequéntur. Beáti mundo corde: quóniam ipsi Deum vidébunt. Beáti pacífici: quóniam fílii Dei vocabúntur. Beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam: quóniam ipsórum est regnum cælórum. Beáti estis, cum maledíxerint vobis, et persecúti vos fúerint, et díxerint omne malum advérsum vos, mentiéntes, propter me: gaudéte et exsultáte, quóniam merces vestra copiósa est in cœlis.”

[In quel tempo: Gesù, vedendo le turbe, salì sul monte, e postosi a sedere, gli si accostarono i suoi discepoli, ed Egli, aperta la bocca, gli ammaestrava dicendo: « Beati i poveri di spirito, perché loro è il regno de’ cieli. Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra. Beati coloro, che piangono, perché essi saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché  saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché  anch’essi troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati quelli che sono perseguitati per cagione della giustizia, perché di loro è il regno dei cieli. Beati voi quando vi avranno vituperati e perseguitati e, mentendo, avranno detto ogni male di voi, per cagione mia. Rallegratevi e giubilate, perché grande è la mercede vostra in cielo ».]

Omelia

(Msg. G. Bonomelli: Misteri Cristiani, vol. IV,  Ed. Queriniana, Brescia 1896)

LE BEATITUDINI

Lo dissi più volte, o fratelli; i misteri della fede, tutte le grandi opere compiute da Gesù Cristo sulla terra, nella liturgia ecclesiastica sono con sapiente misura distribuite lungo il corso dell’anno e con apposite feste e rito speciale ricordate e celebrate. Questi misteri e queste opere, nelle quali si assomma la vita di Gesù Cristo e si concentra la fede nostra, si possono paragonare alle pietre miliari, dirò meglio, a monumenti superbi, che la Chiesa colloca lungo la via che dobbiamo percorrere dalla terra al cielo e ci tengono sempre viva nella mente la cara e benedetta immagine di Cristo, nostro unico Maestro e Salvatore. Questi misteri di Cristo cominciano col suo nascimento e si chiudono col suo memoriale per eccellenza, la S. Eucaristia, per la quale Egli è realmente sempre con noi. Perciò colla festa del Corpus Domini, o mistero eucaristico, parrebbe doversi chiudere la serie dei nostri Ragionamenti. Ma grand’opera di Cristo non è dessa la Chiesa? Non è forse per Lei, che Cristo ammaestra, governa e santifica gli uomini e per Lei dimora realmente in mezzo a loro? E la parte di essa più nobile, che ha compiuta l’opera sua gloriosamente, che ha toccata la meta, che già regna e si letizia con Cristo in cielo, voi lo sapete, è la sua avanguardia, è la Chiesa trionfante, è l’esercito de’ santi. Era dunque conveniente che la festa d’Ognissanti fosse l’appendice dei misteri di Cristo e la Chiesa nella sua sapienza oggi la rammenta a suoi figli. Dopo averci spiegato dinanzi la vita e il trionfo del suo Capo e Duce supremo, ci ricorda e ci mostra la vita e il trionfo di quelli tra i suoi membri e soldati, che più davvicino lo seguirono e più risplendono della sua luce e gloria in cielo. E certamente in tutto il Vangelo non poteva scegliere un tratto che meglio rispondesse al suo fine e allo spirito della festa odierna di quello che avete udito cantare nella Messa e ch’io vi ho pur ora riportato parola per parola. Sono le otto beatitudini, come si chiamano comunemente, che è quanto dire, sono le otto vie principali, vie di prova, vie di dolore, che mettono alla eterna beatitudine. Per queste camminarono animosamente sull’esempio di Cristo quelle innumerabili schiere di fratelli nostri, che oggi onoriamo e trionfano in cielo e per queste noi pure dobbiamo camminare se vogliamo giungere là dov’essi giunsero. Soggetto di questo mio primo Ragionamento sarà la chiosa breve e semplice dell’odierno Vangelo, ossia delle otto beatitudini. (….) – Videns turbas…. docebat eos – Si direbbe, che in questo discorso Gesù raccolse e condensò tutto quello che vi è di più nobile e di più elevato nella sua dottrina morale e la prima parte, che è quella delle Beatitudini, si può bene a ragione chiamare, come altri si piacque chiamarlo, il bando solenne della nuova società, lo statuto del regno di Cristo. Il mondo non aveva mai udito proclamate dottrine morali di tanta perfezione, con tanta semplicità e parsimonia di parole, con tanta sicurezza e, dirò, con tanta audacia come queste delle otto beatitudini. Nulla di più contrario al mondo giudaico e pagano e insieme nulla di più conforme ai bisogni veri delle aspirazioni generose, che hanno radice profonda nella natura umana: opposizione e conformità che sembrano una contraddizione manifesta, eppure noi sono per chi penetra bene addentro nelle viscere della natura nostra. Ma è da venire alla spiegazione dei singoli versetti del nostro Vangelo, che si possono definire gli articoli fondamentali del Codice di Gesù Cristo. Gesù, vedendo le turbe, salì sul monte, e, postosi a sedere, gli si accostarono i suoi discepoli; ed Egli, aperta la sua bocca, li ammaestrava. Gesù sale sopra di un colle prima di parlare, perché? Sembra certo che su quel monte Egli passasse la notte, pregando e al mattino le turbe cogli Apostoli si raccogliessero intorno a Lui per udire le sue parole. Sale sul monte per esser più facilmente udito e perché come l’antica legge fu bandita dalla vetta d’un monte, così da un monte fosse proclamata la nuova, compimento dell’antica. Ma quanta differenza tra la promulgazione dell’una e dell’altra! La prima legge è promulgata sul monte tra i lampi e tuoni, e solo Mosè vi sale e rimane; guai a chi si fosse avvicinato! La legge è data, ma scritta sulla pietra. La seconda è promulgata sopra un monte senza apparato di sorta, con una semplicità, che non ha l’uguale. Il legislatore siede, gli Apostoli ed il popolo gli stanno intorno pieni di rispetto, ma senz’ombra di timore, come figli intorno al padre. Gesù parla e non iscrive e la umana legge è scolpita, non sulla pietra, ma scritta nei cuori e affidatane la promulgazione ad alcuni poveri pescatori, ignari dell’altissima missione, alla quale sono chiamati. Codice più sublime, più universale e più duraturo di quello che ora da questo monte si promulga non fu, non sarà mai promulgato sulla terra, né mai nei secoli passati e ne’ futuri altro se ne promulgherà in forma più semplice, più modesta, più concisa e insieme più popolare. Di questo Codice, i tempi, gli uomini e le vicende dei popoli, il progresso e le scienze non ne cancelleranno mai una sillaba sola. Sarà immutabile come Dio e osservato da miliardi di uomini, non per il terrore incusso dalla forza materiale, ma per intima persuasione e per amore. « Beati i poveri di spirito, perché di loro è il regno de’ cieli ». È la prima sentenza, che esce dalla bocca del divino Legislatore. Indubbiamente la parola poveri in questo luogo è detta in opposizione alla parola ricchi, come se si dicesse: « Beati quelli che non sono ricchi ». Ma che dite mai, o Signore? Il mondo considera la povertà come una sventura, come un male, radice d’innumerevoli mali: la povertà trae seco la fame, la sete, una dimora disagiata, un misero vestito, un lavoro continuo e gravoso, le infermità, l’abbandono e il disprezzo degli uomini, una vita piena di privazioni e di dolori; e voi la chiamate beata? Ma dunque i ricchi non possono appartenere al vostro regno? Dunque per questo che sono ricchi sono anche perduti? Che regno sarà dunque il vostro? Chi vorrà seguirvi? Non i ricchi, perché ricchi; non i poveri, perché se non altro essi pure desiderano e fanno ogni opera per diventar ricchi. La vostra parola suonerà nel deserto o diventerà soggetto delle sterili lucubrazioni di alcuni noiosi e stravaganti filosofi. — Eppure non fu così. — Spieghiamo la sentenza, di Cristo. Allorché Egli con linguaggio sì reciso chiamò beati i poveri non intese già di indicare una condizione della vita, ma sì una disposizione dell’animo, che è chiaramente significata da quella parola spirito aggiunta alle parole beati i poveri. In altri termini Gesù Cristo disse: « Beati quelli che tengono i beni della terra e le ricchezze in quella stima, che si meritano cose sì basse, sì incerte e sì fuggevoli e che non possono appagare i bisogni troppo più alti e più nobili del cuore umano! Beati quelli che non legano alle ricchezze il loro cuore, che non pongono in esse il loro fine quasiché per esse fossero creati e collocati quaggiù sulla terra e tenendone staccato l’affetto, collo spirito si sollevano a Lui, che è ne’ cieli e che solo può essere la nostra verace felicità ». L’uman genere fu ed è diviso in due gran campi: l’uno assai ristretto di numero, il campo dei ricchi: l’altro vastissimo, quello dei poveri condannati alla fatica per un pane quasi sempre duro e scarso e tormentati da infinite privazioni. Quelli più o meno opprimono questi e questi guardano a quelli con invidia ed ira e li minacciano fieramente. È la perpetua e terribile lotta tra le due classi dei poveri e dei ricchi, che si combatte con varia fortuna attraverso ai secoli e che oggi è divenuta più feroce, perché più rabbiosa è divenuta l’avarizia e la durezza degli uni e più insofferente la povertà degli altri. Le nuove leggi e i frutti d’una civiltà certamente progredita possono forse temperare le asprezze della lotta, ma sono impotenti a farla cessare, anzi la rendono più vasta e più fiera, perché la ricchezza va sempre più accumulandosi in poche mani in forza dei progressi della scienza e l’ira dei poveri o diseredati cresce, perché in essi colla istruzione cresce il sentimento dei diritti, veri od esagerati che siano, noi cerchiamo. Cristo, rivolgendosi a tutti, ai ricchi, che abbondano e godono, ai poveri, che scarseggiano e soffrono, grida: « Beati tutti, se levando gli occhi della mente alla vita futura, al cielo, dove è la vera e stabile patria, scioglierete i vostri cuori dall’amore e dal desiderio sregolato dei beni della terra. Sciolti da questo amore sregolato voi, ricchi, smetterete la febbre di arricchire maggiormente e farete più larga, secondo giustizia e secondo carità, la parte dei poveri, e voi, poveri, limiterete i vostri desideri e le vostre esigenze e nella speranza della vera ricchezza comune troverete quella pace e quella felicità, che quaggiù è possibile ». – Il gran rimedio, che Cristo propone a tutti, ricchi e poveri, in eguale misura, è la povertà di spirito in vista della immanchevole e comune ricchezza preparata in cielo: è il recidere dagli animi tutti la malnata radice della concupiscenza, il renderci veramente liberi dall’amore soverchio, che tutti ci avvince ai beni caduchi della terra, rammentandoci, che dobbiamo esserne padroni, non servi; che sono mezzi, non fine: che possiamo usarne e non abusarne; che i ricchi possono salvarsi a patto di divenir poveri di spirito e i poveri a patto di non voler essere ricchi coi desideri smoderati. – Fratelli! Vi può essere dottrina più ragionevole e socialmente più utile e più bella di questa? Attuata nei ricchi e nei poveri, non per via di forza o di leggi, ma di persuasione, non scioglierebbe il tremendo problema, che ci affanna? Questa dottrina, rendendo tollerabile e felice la condizione nostra nella vita presente, non ci procaccerebbe la salvezza e la perfetta beatitudine nella vita futura? Non dimentichiamolo mai, o carissimi: la speranza del regno de’ cieli è il contrappeso dei mali presenti, e se perdiamo di vista quei beni lassù, ci tufferemo tutti in questi e per averli ci morderemo e sbraneremo tra noi: senza la fede e la speranza nel cielo la terra si. muterà in un campo di battaglia, dove il più forte opprimerà il più debole, e diventerà un vero inferno. – Passiamo alla seconda Beatitudine o secondo articolo del divino Statuto: « Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra ». S. Tommaso, acutamente ragionando, dimostra che tutte le passioni si riducono ad una sola, la concupiscenza: se questa cerca indebitamente la propria eccellenza, è superbia: se si getta al mangiare e al bere, è gola: se brama le ricchezze, è avarizia; se agogna i piaceri sensuali, è lussuria; se tende ai propri comodi, è accidia. Avviene talvolta che questi beni, sui quali la concupiscenza si getta come sul proprio pasto, le siano contesi e negati: allora la concupiscenza si irrita contro chi glieli contrasta e rifiuta, ed eccovi l’invidia e l’ira, che in sostanza non sono che la stessa concupiscenza considerata sotto un’altra forma e perciò a ragione essa va distinta in due modi, o parti, che la filosofia d’accordo colla teologia chiama l’una propriamente concupiscibile, l’altra irascibile: l’una che tira a sé l’oggetto amato, l’altra, che respinge chi gliene contende l’acquisto od il possesso. Gesù Cristo nella prima Beatitudine condanna la brama smodata delle ricchezze, che si vogliono come strumento o mezzo di avere tutti i piaceri e perciò rintuzza la parte concupiscibile nel suo punto capitale: nella seconda Beatitudine raffrena la irascibile, dicendo: « Beati i miti ». Chi è desso l’uomo mite? Mite è colui che ha tranquillo il cuore e dolce la parola: mite chi con dolce risposta placa l’iracondo: mite chi soffre senza lagnarsi le ingiurie e i danni ricevuti: e mite più ancora è chi si rallegra delle offese e dei danni ricevuti e coi benefici vince i malevoli e chiude la bocca ai nemici ed ai calunniatori: mite in una parola è chi perfettamente imita Colui che disse: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore ». La mitezza è il sommo grado della pazienza e della rassegnazione, è la compagna inseparabile dell’umiltà, è l’amica della mortificazione, la figlia della pace, è il fiore della modestia, è il sorriso della innocenza, è il frutto più saporoso della carità. Queste anime miti, dalla fronte sempre serena e ridente, dalla parola sempre amabile, dall’occhio sempre soave e pieno di letizia, dallo spirito sempre equanime, che sempre vincono, sempre cedendo, possederanno la terra: « Possidebunt terram ». Qual terra, o fratelli miei? La terra dei viventi, come dicono i Libri Santi; la terra che sempre verdeggia e fruttifica sotto i raggi del Sole eterno: la terra dell’ordine e della pace, che non conosce cosa siano le tempeste, il dolore ed il pianto; la terra della eredità promessa ai figli dal Padre celeste, di cui la terra promessa ai figli di Israele fu una figura, in una parola, il cielo. Possederanno la terra: « Possidebunt terram! » Qual terra ancora, o fratelli? Non v’è dubbio e la esperienza lo prova: le anime dolci, i caratteri miti, gli spiriti mansueti godono d’una pace ed una serenità di cuore, che rendono meno amare le vicende della vita: essi sono sempre tranquilli, cessano i litigi, sì frequenti tra le persone irose: la loro compagnia è cara a tutti e la loro parola è quasi sempre accolta anche dai nemici con istima e riverenza e. nelle famiglie, nel gruppo dei conoscenti, dovunque, esercitano sugli animi un impero tanto più bello ed efficace in quanto che è consentito e spesso invocato e non offende persona. Sì, sono i miti di cuore che regnano, non sui corpi, ma sugli animi e sanno volgere a lor posta le chiavi del cuore altrui: la loro parola amabile e insinuante, dice S. Giovanni Grisostomo, è come l’acqua che spegne il fuoco delle discordie ed estingue le fiamme dell’ira e dell’odio, e di loro si può dire meritamente, che posseggono la terra, hanno cioè quaggiù anticipata parte di quella mercede che piena sarà loro data in cielo: « Possidebunt terram ». Gesù prosegue e promulga il terzo articolo del suo Bando all’umanità e dice: « Beati coloro che piangono, perché saranno consolati ». Il pianto è effetto esterno e naturale del dolore per modo, che nel linguaggio comune pianto e dolore, lagrime e sofferenze hanno lo stesso significato e noi diciamo: – Quegli piange, quegli versa lagrime per dire: Quegli soffre e patisce -. È qui, se non erro, che l’insegnamento di Cristo tocca l’ultimo apice della contraddizione agli occhi della sapienza mondana. Qual cosa più contradditoria, che collocare la gioia nel dolore, la felicità nei patimenti, la beatitudine nelle pene? Sarebbe certamente manifesta contraddizione se la sentenza di Cristo si intendesse nel senso che il pianto e il dolore siano per sè stessi la gioia e la felicità: ma Gesù Cristo considera il pianto e il dolore quali mezzi per giungere alla gioia e alla felicità. Così noi possiamo dire che dolce èla medicina che ci ridona la salute, benché essa sia ostica ed amara e chiamiamo pietoso il ferro, che recide il membro cancrenoso, tuttoché cagioni acutissimo dolore. La beatitudine del patire sta, non nel patire, ma in quello che il patire a suo tempo germoglierà, cioè l’eterna mercede! Ma qui vuolsi porre ben mente ad una condizione, che Gesù Cristo non espresse in termini, ma necessariamente è sottintesa e che più innanzi sarà annunziata. Non ogni patire è seme di godere, ma sì il solo patire per la verità, per la giustizia, per amore di Dio. Quaggiù tutti soffrono in diversa misura, è vero, ma nessuno si sottrae alla tremenda legge del dolore: soffrono i buoni e soffrono i cattivi; soffre Antioco e soffrono i Maccabei: soffrono gli Imperatori Romani e soffrono gli Apostoli e i Cristiani martoriati: soffrono i nemici della Chiesa e soffre la Chiesa: soffrono gli schiavi del mondo e soffrono i figli di Dio. Forsechè di tutti egualmente possiamo dire: – Beati quelli che piangono perché saranno consolati? -. Non mai, non mai, fratelli miei. Beati sono soltanto quelli che piangono e soffrono per la virtù e per Iddio: beati sono quelli che hanno la fede e nella fede e per la fede fissano l’occhio della speranza nei beni della vita futura, premio e frutto del presente patire; beati sono quelli che soffrono con coraggio, con rassegnazione, con umiltà di cuore esolo da Dio attendono la mercede. Il vero e solo conforto di chi piange e geme sotto il fardello dei mali presenti è la promessa di Cristo, che in ragione del dolore avrà la gioia, a patto che soffra come Egli vuole e quanto Egli vuole. Togliete questa speranza sicurissima fondata sulla promessa di Cristo: chiudete sul capo degli uomini il cielo e sopprimete il di là della tomba, la seconda vita, e la terra si tramuta in un immenso tormentatorio, in un ergastolo spaventoso, perché tutti soffrirebbero senza speranza e il più saggio partito sarebbe il suicidio. Opera adunque scellerata e crudele fanno coloro, che tentano rapire al popolo la fede e colla fede la speranza d’una vita felice in cielo; essi, per quanto è da loro, lo spingono alla disperazione e renderebbero necessari e giusti tutti i più esecrandi delitti. Quanti soffriamo sulla terra, leviamo gli occhi e i cuori al cielo e teniamoci saldi come ad àncora alla promessa di Cristo: « Beati quelli che piangono, perché saranno consolati ». Passiamo al quarto articolo del nostro divino Codice: « Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati ». La giustizia! Chi non ama, chi non vuole la giustizia? Voi non troverete sulla terra un uomo solo, che non se ne professi osservatore esatto e al bisogno intrepido difensore finché se ne parla in genere e se ne ragiona in teoria: ma la cosa corre ben diversamente quando dalle regioni teoriche ed ideali si discende alla pratica e alla realtà dei fatti. Che è dunque la giustizia? La parola giustizia può significare quella virtù, che dicesi cardinale o fondamentale, per cui si rende a ciascuno ciò che gli è dovuto: può anche significare una certa equità o mitezza d’animo, che piega verso la benignità, od anche si può pigliare come il complesso di tutte le virtù. E invero assai volte nella santa Scrittura giustizia equivale a santità e giusto vuol dire uomo perfetto, uomo santo e credo che precisamente sia questo il senso della parola giustizia usato qui dal Salvatore. « Beati, egli disse, quelli che hanno fame e sete della giustizia » ; Beati cioè tutti quelli che hanno fame e sete, non del cibo e della bevanda, dei beni della terra, ma sì della virtù e della santità, che della virtù è il grado sommo! Non senza ragione Gesù Cristo adoperò questa forma di parlare sì energica: – Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia! – Non disse : beati quelli che desiderano, che amano, che cercano, che tendono, che vogliono la giustizia, ma quelli che ne hanno fame e sete per esprimere la brama e l’ardore, con cui dobbiamo volere e cercare la virtù e la santità. Il nostro non deve essere uno di quei desideri, che rimangono sterili e che si possono paragonare a quei fiori belli e vaghi a vedersi e cadono senza lasciare dietro a sé frutto alcuno: la nostra non debb’essere una di quelle volontà fiacche, che vengono meno alle prime difficoltà: che vogliono e non vogliono, che sono disposte a salire il Tabor, ma non il Calvario, che vorrebbero le rose senza le spine, che vagheggiano una virtù senza sacrifici, che amano camminare per una via piana, sparsa di fiori. No, no, grida Cristo: Bisogna aver fame e sete della giustizia. Vedete un uomo affamato dinanzi a lauta mensa, un assetato sull’orlo d’un fresco ruscello: essi non frappongono indugi: vedere quella mensa, quei cibi; vedere quell’acqua limpida che scorre a piedi, e gettarsi su quelle vivande e immergere le riarse labbra in quell’acqua per saziare la fame, che lo tormenta e spegnere la sete, che lo strugge, è la stessa cosa. Come divora quel pane e quei cibi! Come tracanna quell’acqua! Come se ne sbrama e se ne delizia! Il piacere gli apparisce tutto sul volto, sfavilla negli occhi e si comprende che null’altro vuole o desidera, che è sazio e contento ! La virtù è il banchetto per l’affamato, è il ruscello per l’assetato e la nostra vita tutta, come scrive S. Agostino, non dovrebbe essere che un incessante e cocente desiderio, uno sforzo supremo di sfamarci a quel banchetto e dissetarci a quella fonte della vita, dove ogni nostra brama sarà saziata (Tota vita boni Christiani sanctum desiderium est – Tract. 4 in Epist. S. Joannis). E di questo cibo e di questa bevanda che parlava Gesù Cristo nell’ultima cena, allorché diceva agli Apostoli: « Io vi dispongo il regno, acciocché voi mangiate e beviate alla mia mensa, nel mio regno ». (S. Luca, XXII, 29). Ma non dimentichiamo mai che l a mercede vera di questo affocato amore della giustizia, non lo dobbiamo aspettare quaggiù sulla terra, sebbene in cielo – Quoniam ipsi saturabuntur-: in cielo, dove non si avrà sete in eterno, come Gesù promise alla Samaritana – Non sitiet in æternum -. Siamo alla quinta Beatitudine : « Beati i misericordiosi, perché anch’essi troveranno misericordia ». Nella prima Beatitudine, Cristo sterpando dal cuore la maledetta radice della avarizia, che separa gli uomini e l’un l’altro li inimica, nella quinta li esorta a fondersi in una volontaria e santa eguaglianza: dopo la giustizia viene la misericordia. L’uomo ama avere più che dare fino ad agognare anche l’altrui: la giustizia segna i limiti del diritto e del dovere e la misericordia allarga anche questi a favore del poverello e Cristo fa udire queste due sentenze sublimi: « Più felice cosa è dare che ricevere » (Atti Apost. XX, 35). « Beati i misericordiosi! » La misericordia, come suona il vocabolo stesso, è un sentire in cuore la miseria altrui; è patire con chi patisce e far propria l’altrui miseria e siccome non v’è uomo che, soffrendo dolore nella propria persona, non si adoperi come meglio può a fine di rimuoverlo, così sentendo in sé il dolore altrui come proprio, è troppo naturale che s’ingegni di liberarsene e perciò la misericordia è la madre della beneficenza, è lo stimolo di tutte le opere di carità, tra le quali principalissima è la elemosina. « Beati i misericordiosi! » Beati cioè quelli, che hanno un cuor buono, tenero, pieno di compassione per chi soffre: ma non basta: e che mostrano il loro cuore compassionevole nelle opere a soccorso de’ fratelli sofferenti secondo le loro forze e le sì varie condizioni della vita. Sono ignoranti? Istruiteli o fateli istruire. Sono cattivi, perversi? Sopportateli e fraternamente correggeteli. Sono molesti? Tollerateli. Sono vacillanti, dubbiosi? Consigliateli. Sono infermi? Visitateli, assisteteli. Sono perseguitati da prepotenti? Difendeteli. Hanno fame? Nutriteli. Sono coperti di cenci, ignudi? Vestiteli. Ecco le opere della misericordia, che Gesù Cristo ricorda in altro luogo del Vangelo. E quali i motivi di queste opere della misericordia? Non uno di quelli che oggidì sono maggiormente in voga, motivi umani, che variano come variano gli uomini. L’unico recato è questo: « Quelli che useranno misericordia, a suo tempo otterranno anch’essi misericordia ». Da chi? Evidentemente da Dio, che è il padre delle misericordie, che ha per fatto a sè ciò che è fatto ai suoi minimi, che dà il cento per uno. Quale il motivo? Di ottenere tu stesso da Dio quella misericordia, che usi col fratel tuo: « Quoniam ipsi misericordiam consequentur ». « Vedi, grida S. Agostino, ciò che fa l’usuraio: egli certamente vuol dare il meno possibile e ricevere il più possibile. E questo fa tu pure. Dà poco e ricevi molto. Vedi come cresce a dismisura il tuo capitale. Dà le cose temporali e ricevi le eterne: dà la terra, ricevi il cielo » (in Ps. XXXVI). La mercede della tua misericordia operosa la devi attendere da Dio, che solo conosce l’opere e chi le fa e solo e sempre e a larghissima usura ricompensa. Ma forse si esclude che chi usa misericordia coi fratelli potrà ottenere anche qui misericordia dagli uomini? No, per fermo. Anzi, se non sempre, spesse volte vediamo che anche qui sulla terra i pietosi verso i loro simili ottengono pietà, sia perché la virtù e la bontà dell’animo guadagna i cuori anche de’ tristi, sia perché Iddio talora si compiace di premiarli anche in terra a loro conforto e ad incoraggiamento dei timidi e dei deboli. – Passiamo alla sesta Beatitudine: « Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio ». Quando, o fratelli miei, una cosa per noi è monda e pura? Quando essa è netta da qualsiasi alterazione e mischianza di cose estranee. Così pura è l’acqua, puro l’oro e l’argento quando non sono che acqua, oro ed argento. Per somiglianza si dice pura e monda l’anima, puro e mondo il cuore (che qui come in molti altri luoghi della Scrittura si piglia per la coscienza, mente e volontà), allorché è libero da colpe, è scevro da affetti estranei, che a guisa di materie eterogenee e di macchie lo imbrattano e deturpano.Fratel mio! La tua mente debb’essere simile ad un cielo limpido e sereno: allorché tu volontariamente accogli quei pensieri indegni e lasci condensarsi quei fantasmi brutti, il tuo cielo si abbuia: allora in fondo al tuo cuore fermentato affetti colpevoli e scoppia la tempesta: mente e cuore sono sossopra, tutto è turbato, come allorché sulla terra si scatena la procella. Allora il cuore, cioè la coscienza, non è più pura e l’occhio della mente, velato dalle nebbie, che si levano dal pantano dei sensi, non discerne più chiaramente la luce della verità. È dunque necessario tener sgombra la mente da queste nebbie,mondo il cuore da questi affetti terreni e sensuali, affinché possiamo sempre vedere la verità e Lui, che è fonte d’ogni verità, Iddio.« Questa beatitudine, dice S. Leone, è promessa ai puri di cuore, perché l’occhio imbrattato non può vedere il raggio della verità e ciò che rallegra l’occhio netto, tormenta l’occhio infermo e impuro. Si purghino adunque e si nettino gli occhi della mente da ogni ombra di cose terrene e da ogni immondezza della colpa affinché lo sguardo sereno si bei della sola vista di Dio » O beati, Iveramente beati i puri di cuore, i mondi d’ogni colpa, e sovra tutto le anime caste, perché  sopra di loro, come sopra specchi tersissimi, scenderà il raggio della verità e per esso risaliranno a Dio, da cui ogni verità deriva!« Beati i pacifici, è la sesta Beatitudine, perché saranno chiamati figliuoli di Dio ». Qui è da por mente alla parola greca eirenoposos che propriamente non significa gli uomini, che amano la pace e vivono in pace, ma sì quelli che procurano. la pace, pacieri e facitori di pace tra gli altri, fosse pure a costo di perderla essi stessi.La pace è la tranquillità dell’ordine e poiché Dio è lo stesso Ordine e la Causa produttrice stabile d’ogni ordine in tutti gli esseri mercé delle leggi per Lui poste, Egli è il principio della pace, anzi la stessa pace : « Deus pacis – Ipse est pax nostra ». Quelli pertanto che 1’amano e la serbano in sé, serbando l’ordine, e più quelli chela mantengono negli altri e, rotta per la ignoranza. o malizia altrui, fanno buona opera a ristabilirla, sono simili a Dio, e meritano l’onore d’essere chiamati suoi figli: « Filii Dei vocabuntur».Pur troppo questa tranquillità dell’ordine, questa pace vera e stabile raramente alberga sulla terra. Come i venti e le tempeste turbano la tranquillità dell’atmosfera, così le passioni degli individui, delle famiglie, delle società, delle nazioni rompono la pace negli individui, nelle famiglie, nelle società e nelle nazioni, e vi suscitano la guerra. Il nemico di ogni pace, il primo ribelle contro Dio, ruppe la pace tra Dio e l’uomo: il Figlio di Dio fatto uomo, col suo sangue la ristabilì e perciò Egli è salutato Principe della pace. Quelli pertanto che si adoperano, reprimendo le passioni, queste perpetue turbatrici dell’ ordine, a rimettere la pace negli individui, nelle famiglie, nella società, nelle nazioni, sono pacifici, facitori di pace e partecipano alla missione stessa di Gesù Cristo. – Ed eccoci all’ultima Beatitudine: « Beati quelli che soffrono persecuzione per la giustizia, perché di loro è il regno de’ cieli ». È egli possibile che gli uomini abbiano in odio e perseguitino la virtù e la giustizia per se stessa? Non credo. Come non si trova persona, che dica di odiare la verità, così penso che non si trovi chi dichiari di odiare e perseguitare la giustizia o la virtù, che ne è la pratica attuazione. D’altra parte la virtù e la santità per sé stessa è cosa astratta, che non si vede, né si tocca e perciò non è possibile combatterla e perseguitarla. Essa la si può odiare e perseguitare solamente in quanto si concreta e si attua e, dirò così, piglia corpo in una persona e in quanto è contraria alle passioni e come tale si presenta qual nostra nemica. Le verità sì teoriche che pratiche, che Cristo portò sulla terra, se mi è lecita la espressione, si impersonarono prima in Lui, poi negli Apostoli, poi nella Chiesa e in essa e per essa staranno fino alla fine de’ secoli. Il Verbo divino, che è la Verità sostanziale, si unì colla umana natura assunta in guisa, che con essa è una sola persona: la verità per Lui insegnata si unisce alla Chiesa per modo che ne è inseparabile; la Chiesa è come il corpo della verità e la verità ne è l’anima e come non è possibile avere comunicazione alcuna coll’anima se non per mezzo del corpo, così non possiamo afferrare la verità e per essa la vita di Cristo che per mezzo della Chiesa. Ma nell’uomo vi sono le passioni e come formidabili! Esse per natura sono nemiche della verità, come le tenebre son nemiche della luce ela morte è nemica della vita. La superbia, l’avarizia, la gola, la lussuria, l’ira, l’invidia odiano e combattono necessariamente l’umiltà, 1’ubbidienza, la fede, la carità, la temperanza, la continenza, la mortificazione, tutte le virtù, che formano la sostanza dell’insegnamento di Cristo e della sua Chiesa: la lotta adunque tra Cristo e la sua Chiesa da una parte e il mondo e i suoi seguaci dall’altra, è necessaria, è nella natura stessa delle cose. Essa cominciò in cielo tra gli Angeli fedeli e i ribelli, si portò sulla terra per opera di questi, riempirà lo spazio e i tempi e si chiuderà in quel dì, in cui Cristo compirà nella Chiesa la sua vittoria. Ecco perché Cristo predisse agli Apostoli ea tutti i seguaci suoi che sarebbero perseguitati. Né vuolsi credere che la predizione di Cristo si debba restringere ai primi secoli della Chiesa, come parve a taluni. Le parole di Cristo abbracciano tutta la vita della Chiesa, che è la continuazione della vita di Lui. Non vi è ragione, né indizio nei Libri Santi, che lo stato di guerra debba limitarsi ai primi secoli e la storia della Chiesa fino a noi ne è il commento irrefragabile: « Se hanno perseguitato me, perseguiteranno voi pure, disse Cristo ». « Tutti quelli che vogliono vivere piamente, soffriranno persecuzione » grida il suo Apostolo Paolo. Ma si rallegrino, continua Cristo : essi soffrono per la verità, per la giustizia e la mercede non può fallire. Quale mercede? Sempre la stessa: « Loro è il regno dei cieli ». Qual mercede più bella e più desiderabile? E qui Gesù Cristo, quasi compreso da un santo entusiasmo, muta la forma del suo linguaggio e lo rincalza con una forza, con una energia novella. Fin qui avea parlato in terza persona e colla sublime calma di Legislatore divino: ora rivolge il suo dire direttamente agli Apostoli e col linguaggio d’un duce supremo, che al momento della pugna si rivolge ai suoi soldati, prosegue: « Beati siete voi, quando vi avranno vituperati e perseguitati e, mentendo, avranno detto contro di voi ogni male, per cagion mia », Non dice già: Beati voi, perché sarete accolti con rispetto, ascoltati e ubbiditi come annunziatori della verità: perché sarete colmati di onori e di ricchezze e il nome vostro risuonerà glorioso dovunque: beati, perché maledetti, perseguitati, calunniati per me, per la difesa della verità e della giustizia. In tutta la storia antica cerco indarno un linguaggio simile a questo, indirizzato a poveri pescatori, ai figli del popolo! Ma vi è di più, o fratelli! Rallegratevi, giubilate, continua Cristo con una specie di santa voluttà, all’idea di patire ingiurie, calunnie e tormenti: rallegratevi e giubilate », cioè grande, senza misura sia la vostra gioia. E gli Apostoli, pochi anni dopo, ne diedero prova, allorché, come narra S. Luca, flagellati pubblicamente « se ne andavano lieti per essere fatti degni di soffrire ignominia pel nome di Gesù » (Atti Apost. V, 41). E prova ne diedero anche i semplici fedeli di Gerusalemme, che, come scrive S. Paolo, « spogliati dei loro beni, ne accettarono con gioia la rapina » (Epist. agli Ebrei, X , 34). Soffrire ingiurie, calunnie, spogliazioni, tormenti, la morte con rassegnazione e tranquillità d’animo, è d’anime generose: ma soffrire tutto questo con gioia e con tripudio, è proprio d’anime eroiche, più che umane, divine. Ma Gesù Cristo non dimentica mai che l’uomo, ancorché magnanimo e per la grazia elevato e quasi trasumanato, non può mai perdere interamente di vista se stesso e il proprio bene; la natura non consente. Egli è perciò che alle parole: « Rallegratevi, giubilate voi, che soffrite per me e per la giustizia, aggiunge: «Perché grande è la vostra mercede ne’ cieli ». Voi siete fatti per la felicità e per una felicità eterna: il dolore è inevitabile, è vero; ma non deve essere fine, sebbene mezzo alla felicità e come mezzo esso stesso diventa desiderabile, diventa un bene e nel dolore, come mezzo alla gioia, voi potete trovare la gioia. – Fratelli! Ho finito il breve commento degli otto articoli fondamentali del divino Statuto, che Cristo ha dettato alla società umana, Statuto veramente immutabile per tutta la terra, per tutti i popoli e per tutti i tempi. Una sola ed ultima osservazione, che merita tutta la vostra attenzione.  Quanti furono e quanti saranno legislatori nelle loro leggi non possono avere che due soli fini, scemare i mali, i dolori degli uomini, procurare, accrescere e assicurare loro i maggiori beni e così condurli a quella felicità, che è possibile. Ma l’opera loro è necessariamente circoscritta al tempo presente, ai mezzi materiali, ad una felicità temporaria e relativa, che può estendersi, se volete, al maggior numero, non a tutti e a ciascuno, perché troppe volte il bene di alcuni importa il male di altri. Nessuna legislazione umana, sia pure la più perfetta, può dare la vera, la piena felicità a tutti e a ciascun uomo, che la riceva. Cristo, perché Dio-Uomo, vuole che gli uomini tutti, senza eccettuarne un solo, pervengano alla vera, alla perfetta felicità, senza limiti di luoghi e di tempi. Quali i mezzi? Non la forza materiale, ma la morale: non una, partizione forzata di beni materiali eguale, che sarebbe impossibile e ingiusta, e fatta oggi, sarebbe disfatta domani: che, lasciando nel cuore degli uomini tutte le passioni, anzi solleticandole e inasprendole maggiormente, vi lascerebbe con esse il germe fatale di tutti i mali; ma, promulgando la gran legge di non amare disordinatamente questi beni, dei quali gli uomini sono sì ghiotti: intimando a tutti l’amore della giustizia, la purezza del cuore, la concordia degli animi, l’amore vicendevole, la carità operosa, la rassegnazione nelle privazioni e nella prova del dolore e a tutti quelli che osservano questo Codice l’immanchevole e adeguata retribuzione, Gesù Cristo scioglie il problema sociale, rende tollerabile e cara la vita presente, come mezzo e strumento all’acquisto della futura. Restringete tutte le speranze alla vita presente: gli uomini si gireranno tutti come affamati sulla scarsa mensa dei beni materiali e ben presto si volgeranno gli uni contro gli altri, si morderanno e si sbraneranno: dopo la presente mostrate un’altra vita, che ripara le ineguaglianze e le ingiustizie di questa e dove starà meglio e per sempre chi dei beni di quaggiù è stato più largo coi fratelli, e cesserà la lotta, e tutti gli occhi e tutti i cuori si leveranno in alto e nella speranza della futura felicità si leniranno i dolori della vita presente. Il cielo, o fratelli, è il contrappeso della terra e se togliete quello, questa si sprofonda nell’abisso. L’umana famiglia ha bisogno incessante e supremo che la voce di Cristo le ripeta la gran sentenza: « Rallegratevi e giubilate, perché grande è la vostra mercede in cielo ».

Credo … 

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Sap III:1; 2; 3
Justórum ánimæ in manu Dei sunt, et non tanget illos torméntum malítiæ: visi sunt óculis insipiéntium mori: illi autem sunt in pace, allelúja.

[I giusti sono nelle mani di Dio e nessuna pena li tocca: parvero morire agli occhi degli stolti, ma invece essi sono nella pace.]

Secreta

Múnera tibi, Dómine, nostræ devotiónis offérimus: quæ et pro cunctórum tibi grata sint honóre Justórum, et nobis salutária, te miseránte, reddántur.

[Ti offriamo, o Signore, i doni della nostra devozione: Ti siano graditi in onore di tutti i Santi e tornino a noi salutari per tua misericordia.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt V: 8-10
Beáti mundo corde, quóniam ipsi Deum vidébunt; beáti pacífici, quóniam filii Dei vocabúntur: beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam, quóniam ipsórum est regnum cœlórum.

[Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio: beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio: beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.]

Postcommunio

Orémus.
Da, quǽsumus, Dómine, fidélibus pópulis ómnium Sanctórum semper veneratióne lætári: et eórum perpétua supplicatióne muníri.

[Concedi ai tuoi popoli, Te ne preghiamo, o Signore, di allietarsi sempre nel culto di tutti Santi: e di essere muniti della loro incessante intercessione.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA DI NOVEMBRE (2020)

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA DEL MESE DI NOVEMBRE (2020)

Il mese di Novembre è il mese che la Chiesa Cattolica dedica al ricordo ed al culto dei defunti.

… Che cosa è adunque la Comunione dei Santi, per virtù della quale noi abbiamo il grande potere di soccorrere e liberare le anime del purgatorio? Udite. Ogni società si compone di individui uniti fra di loro mediante la partecipazione agli stessi interessi e l’obbedienza ad uno stesso potere. Così ad esempio noi italiani formiamo la società italiana, perché tutti abbiamo gli interessi propri della patria nostra ed obbediamo tutti allo stesso sovrano, che ci governa. Non importa, che gli uni parlino un dialetto od una lingua e gli altri ne parlino un’altra; non importa, che gli uni, ad esempio i Siciliani e i Sardi distino assai dai Liguri e dai Piemontesi, non importa, che qua da noi vi siano certi costumi, che altrove nella stessa Italia ve ne siano degli altri; sol perché tutti noi abbiamo comuni gli interessi della patria di tutti noi, che è l’Italia, perciò solo noi formiamo una vera società, la società italiana, che si distingue perciò dalla società francese, dall’inglese, dalla tedesca, e da altre, perché quelle società hanno altri interessi, che non sono i nostri, ed obbediscono ad altro capo, che non è il nostro. Così pure l’insieme di individui, che partecipano agli stessi interessi religiosi e obbedisco ad uno stesso potere religioso, per quanto appartengono a stati diversi e a diverse società civili, e per quanto siano lontanissimi tra di loro per abitazione, formano sempre tuttavia la stessa società religiosa. Così è appunto della Chiesa di Gesù Cristo, la quale è formata da tre grandi parti o famiglie. Vi ha la parte o famiglia che si vede qui in terra e che si chiama Chiesa militante, perché ancora combatte per conseguire l’eterna corona, vi ha la parte costituita dagli Angeli e dai Santi, che sono già beati in cielo, godendo il trionfo delle vittorie riportate, e chiamata perciò Chiesa trionfante, e poscia la parte costituita da quelle anime, che hanno già lasciata la terra, ma sono ancora nel purgatorio ed è chiamata Chiesa purgante.

(A. Carmagnola: IL PURGATORIO; Lib. Sales. Edit., TORINO, 1904)

QUESTE SONO LE FESTE DEL MESE DI NOVEMBRE (2020)

1 Novembre Dominica XXII Post Pentecosten I. Novembris    Semiduplex

Dominica minor *I*

                      Omnium Sanctorum    Duplex I. classis *L1*

2 Novembre Omnium Fidelium Defunctorum  –  Duplex I. classis *L1*

4 Novembre S. Caroli Episcopi et Confessoris    Duplex

6 Novembre –

I° Venerdì

7 Novembre –

I° Sabato

8 Novembre Dominica XXIII Post Pentecosten III. Novembris    Semiduplex  

                       Dominica minor *I*

                       Ss. Quatuor Coronatorum Martyrum   

9 Novembre

In Dedicatione Basilicæ Ss. Salvatoris    Duplex II. classis *L1*

10 Novembre S. Andreæ Avellini Confessoris    Duplex

11 Novembre S. Martini Episcopi et Confessoris    Duplex *L1*

12 Novembre S. Martini Papæ et Martyris    Semiduplex

13 Novembre S. Didaci Confessoris    Semiduplex

14 Novembre S. Josaphat Episcopi et Martyris    Duplex

15 Novembre Dominica VI Post Epiphaniam IV. Novembris    Semiduplex

                              Dominica minor *I*

                          S. Alberti Magni Episcopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris  

16 Novembre S. Gertrudis Virginis    Duplex

17 Novembre S. Gregorii Thaumaturgi Episcopi et Confessoris    Duplex

18 Novembre In Dedicatione Basilicarum Ss. Apostolorum Petri et

Pauli    Duplex *L1*

19 Novembre S. Elisabeth Viduæ    Duplex

20 Novembre S. Felicis de Valois Confessoris    Duplex

21 Novembre In Præsentatione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex

22 Novembre Dominica XXIV et Ultima Post Pentecosten V.

                           Novembris –  Semiduplex Dominica minor *I*

                                  S. Cæciliæ Virginis et Martyris    Duplex

23 Novembre S. Clementis I Papæ et Martyris    Duplex

24 Novembre S. Joannis a Cruce Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

25 Novembre S. Catharinæ Virginis et Martyris  Duplex

26 Novembre S. Silvestri Abbatis    Duplex

28 Novembre Dominica I Adventus    Semiduplex I. classis *I*

30 Novembre S. Andreæ Apostoli – Duplex II. classis *L1*

LO SCUDO DELLA FEDE (133)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO XII.

I martiri più moderni mostrano la verità della Chiesa Romana.

I. Quei ladri cui non riesce l’arte di fabbricare monete false, si riducono in fine a rubar le vere. Di tale schiatta appariscono i novatori. Questi, dappoi di avere tentato in vano d’incoronar come martiri uomini di vita infamissima, che per l’ostinazione mostrata in morte son degni di supplizio, non di trionfo; tentano di togliere alla Chiesa cattolica i veri martiri, con asserir bestemmiando, che quel sangue sì bello, sparso ne’ primi secoli in tanta copia, conferma la loro pretesa riformazione. – In udir ciò, mi sovviene di quella pazza bestialità di Caligola, che mandò a troncare il capo di Giove Olimpico, e collocarlo sul busto di una sua statua, per apparire un nume in terra chi folle non arrivava ad esservi neppur uomo. Anche i novatori, per dare alla loro perfidia qualche ombra di religione, osano di affermare, sé, e non i Cattolici, essere i successori di quegli antichi Cristiani i quali fiorirono ai primi secoli della Chiesa nascente con tanta gloria; e così ancora, sé essere i veri eredi del loro spirito e della loro santità. Parvi, che un capo d’oro di tanta carità, qual fu quella de’ sacri martiri, uomini per lo più sì mortificati, prima che morti, stia bene ad un tronco di vita epicurea, qual è quella dei novatori, uomini sì nemici della castità, dell’astinenza, dell’austerità, della penitenza cristiana, che per larva han la croce, e il ventre per idolo? Inimicos crucis Christi, quorum Deus venter est (Philip. III. 18).

II. Ma poniam da banda i rimproveri, a niuno discari più, che a chi più li merita; e se i traviati non vogliono lasciarsi ridur da noi sulla buona via, non ci lasciamo almanco noi deviare dai traviati. Avranno questi forse animo di affermare, che loro siano i martiri più moderni? E come dunque volersi arrogar gli antichi, se tra gli uni e gli altri non solamente non v’è differenza alcuna, ma v’è anzi una somma conformità? (Io non ho mai potuto comprendere il perché i novatori ed i riformati ci parlino di martirio essi, che hanno pronunciato bastare la fede essa sola senza lo opere. Se a salvarmi occorre sol questo, che io creda interiormente alla parola di Dio, non è egli un dar calci alla logica il sostenere, che il martirio è una virtù cristiana, che argomenta la divinità della Religione cristiana? 0 forsechè il martirio non è un atto religioso esteriore, anzi il più sublime tra gli atti Cristiani?).

III. Chi si ponesse a sostenere, che in Roma l’antica architettura sì sia perduta, non si potrebbe convincere in miglior guisa che con alzare le piante delle moderne fabbriche, e confrontarle alle regole dell’antiche: perché, mentre sì nell’une, sì nell’altre apparissero espressamente i medesimi ornamenti, le medesime proporzioni, converrebbe di necessità confessar, che regna oggi in Roma la medesima arte di piantar fabbriche che vi regnò anticamente. All’istessa forma, mentre quelle moli eccelsissime di virtù, quali sono i martiri, si veggono alzate con una simmetria somigliante, sì negli andati secoli, sì ne’ nostri, converrà dire, che nella Chiesa Cattolica v’è un artefice stesso che le lavora, cioè lo Spirito Santo; e v’è un’arte stessa di lavorarle, che è la sua grazia. Però a restrignerci discorriamo così.

IV. Due cose si richieggono a un vero martire: la pena da lui sopportata, e le virtù praticate nel sopportarla (S. Th. 2. 2. q. 123. a. 1). Ora, a cominciar dalla pena: se andiamo in quel teatro di crudeltà che a’ nostri giorni ha tenuto aperto il Giappone, e lo tiene ancora; troveremo che i martiri di quella chiesa cedono, è vero, in questo ai martiri antichi, che non tutti sono ancora riconosciuti autenticamente per tali dalla santa Chiesa Romana, a cui tocca ammetterli: onde sol si chiamano martiri per usanza, cioè secondo il modo comune di favellare che hanno i Cattolici, avvezzi, fino da’ primi tempi, a conferire l’onore di si gran titolo a tutti coloro, cui, se fu levata la vita, fu verisimilmente levata in odio della fede di Cristo da lor protetta: che sarà il senso qui ancor seguito da noi. Del rimanente, nell’acerbità de’ tormenti la novella cristianità giapponese, più che verun’altra nazione, è ita d’appresso a’ primi eroi della cristianità già nascente: senonchè, se della giapponese mi piace di ragionare, ancora più e delle altre, è perché di questa son testimoni in buona parte gli olandesi medesimi, cioè gli eretici odierni, ne’ diari di là trasmessi in Europa: onde non si potrà sospettare d’una verità che è confermata fin dagli stessi avversari su’ loro fogli volanti.

I .

V. Dirò pertanto che il pestare la vita con le mazze ai nuovi Cristiani, il viso co’ piedi, il decapitare, il dimembrare, l’immergere nelle carni ferri roventi, lo stirare sulle cataste, il sospendere sulle croci, come tormenti volgari furono quivi disusati ben tosto da quei crudeli, affin di sostituirne dei più tremendi, quali poi furono l’ardere a fuoco lento in più ore quei generosi confessori di Cristo, affinché si consumassero a poco a poco; strappare loro con tenaglie la pelle, le membrane, i muscoli, i nervi, e dipoi così spolpati reciderli a pezzo a pezzo con coltellacci male affilati; tenerli appesi per più giorni dai piedi legati in alto, e col capo pendente dentro una fossa; segare ogni dì loro il collo interrottamente con una canna, per lo spazio talor di una settimana; sommergerli a parte a parte nell’acque bollentissime del monte TJngen, e poi levarli, perché marcissero vivi, e poi tornare a sommergerli già marciti. E perché la morte, quantunque così stentata, parca pur troppo veloce all’insaziabile crudeltà di quei fieri persecutori, scacciarli alla campagna su ‘l cuor del verno, che là stride orrendissimo, in dì nevosi, e scacciarveli ignudi, o al più coperti di alcune lacere stuoie che loro talor lasciavano per decenza, senza altro cibo che di quelle radiche amare le quali si raccogliessero in tanto ghiaccio; senza fuoco, senza tetto, senza tugurio, mercé le guardie d’intorno, che loro divietavano ogni riparo; sicché le povere madri eran ridotte ad ammassare i lor teneri figliuoletti sopra il terreno, e coprirli d’ erbe, mentre bene spesso erano tanti, che non potevano stringerli tutti al seno. E v’ha chi rimembrasi di aver mai lette in altre istorie maniere di tormentare più ree di queste?

VI. Ecco però, che nella pena non sono i moderni eroi del Giappone inferiori agli eroi degli antichi secoli. Passiamo ora alle virtù, o cagioni, o compagne di tanta pena. La corona magnifica del martirio è composta di quattro gioie del paradiso, cioè di quattro segnalate virtù, di fortezza e di pazienza nell’atto che si chiama imperato, di carità e di fede nell’imperante (S. Th. 2. 2. q. 124. a.2. ad 2). Ora per conoscer più chiara la fortezza e la pazienza di simili giapponesi, sarà buon consiglio lasciare da parte gli uomini, e favellare sol delle femmine e de’ fanciulli, in cui tali virtù appariranno tanto più prodigiose, quanto più superiori alla lor natura. La fortezza naturale richiede in prima una robustezza di membra proporzionate, e così ancor la pazienza: onde il corpo ben formato in sé, e risentito ne’ muscoli; l’età di mezzo tra la gioventù e la vecchiaia; il temperamento misto di bile e di flemma, sogliono darsi per contrassegni di prode e di poderoso. Molto alla natura anche aggiunge l’educazione; molto anche l’abito; onde riescono più forti i soldati veterani, che i nuovi: e più pazienti quei che sono allevati sulle montagne ai rigori della stagione, di quei che al piano vissero lungamente tra gli agi e tra l’abbondanza delle loro coltivazioni domestiche.

VII. Pertanto chi più lontano dalla fortezza nell’incontrare i pericoli, che una debole femminella, la quale per nessuno di questi capi può mai sperare un’indole superiore al sesso donnesco? Mulierem fortem quis inveniet? E chi ancor più lontano dalla pazienza nel sostenerli  L’istesso dicasi a proporzione dei teneri pargoletti che per l’età appena sono abili a divisare altro bene che il dilettevole, non che a preferire l’onesto (che è un bene riposto di là da’ sensi) a qualunque bene sensibile, e a preferirvelo in faccia a mille spietate carneficine. E tuttavia, perché scorgasi, che la virtù de’ Cristiani perseguitati non nasce nelle miniere della natura, ma della grazia, le femmine ed i fanciulli hanno dati, come ne’ secoli primi, cosi anche in questi, esempi di costanza i più segnalati che mai si udissero al mondo. Non mi permette la brevità di far che accennare in poche parole fatti sì ampli, che soli meriterebbonsi un gran volume: e ben anche l’hanno, mentre v’è chi con pari e pietà di spirito e perizia di stile gli trasse a luce.

VIII. Vi ha memoria di una Tecla arsa viva, con cinque suoi fìgliuolini intorno di lei, ed uno dentro di lei, mentre ne era incinta (Bart. p. 2): v’è dico memoria, che giunta al luogo del supplizio, trasse fuori un bell’abito tutto nuovo, e se ne vesti in segno di festa, e acceso il fuoco, mentre cosi struggevasi lentamente, rasciugava le lagrime ad una sua bambina di tre anni che agonizzante tenevasi in sulle braccia, e la confortava con la speranza della gloria celeste già già vicina. Una povera donna vendé una cintola, per potere col prezzo d’essa comperarsi un palo, a cui legata ardesse viva per Cristo (P. 1). Un’altra si addestrava a star forte, col prendere spesso in mano ferri roventi, con che giunse in fine ad ottenerlo, morendo anch’ella lentamente nel fuoco (P. 2). Una madre scoperse a’ persecutori una piccola sua figliuolina, perché morisse seco qual cristiana ed un’altra avvisata della sentenza già data contro di lei, fe’ coi suoi di casa una piccola processione, cantando intorno intorno inni di lode al Signore per ringraziarlo (P. 2). Una scrisse frettolosamente al marito da sé lontano invitandolo a morir seco (P. 1). Un’ altra diede al tiranno una supplica, e in essa le ragioni del non dover venire esclusa sola lei dalla morte, che in fine ella consegui (P. 1): ed una, veggendosi ucciso a un tratto il marito, corse dietro ai carnefici, addimandando una simil grazia per sé che gli era consorte, come nel talamo, cosi, e ancora più, nella fede (P. 2. p. 59).

IX. Non differente dalla generosità delle madri fu quella dei pargoletti. Un fanciullo di nove anni, corse dove poteva essere decollato, e si levò da sé le vesti dal collo, per porgerlo nudo al taglio (P. 1). Una fanciulletta d’otto anni, non potendo andare da sé, come cieca affatto, si afferrò stretta alla madre, e con essa pervenne a morir bruciata (P. 2). Uno di anni tredici finse di averne quindici per entrare nel ruolo dei condannati (P. 2. p. 503). Due fanciulli, sentenziati a morire, si misero dolcemente a consolare la vecchia zia, che essi credevano piangere di tristezza, mentre piangeva d’invidia da lei portata a chi moriva per Cristo (P. 1). Un altro di dodici anni brillò di giubilo in sulla croce, né sol brillò, ma si commosse più che poté con le gambe, come se bramasse ballarvi (P. 1). E perché il coraggio più che mai si riconosce ai pericoli repentini, chiudiamo con questo solo quello che rimarrebbemi ancora a dir di meraviglioso. Uno di cinque anni svegliato (mentre egli più soavemente dormiva) perché venisse al supplizio; senza smarrirsi chiese di subito i suoi panni di festa, e vestitosi prestamente, fu sulle braccia del carnefice stesso portato al luogo della decollazione a lui destinata: dove inginocchiatosi vicino al padre, poco fa tagliato in più pezzi, con le mani giunte, e con gli occhi levati al cielo, aspettò il colpo con un atto si generoso che il manigoldo, vinto dalla pietà, rimise in fine la scimitarra nel fodero; e perché il figliuolo, che s’era da se stesso spogliato dal mezzo in su, stava pur tuttora aspettando chi il decollasse, ottenne al fine la grazia da uno, che mal esperto non seppe né anche farlo in un colpo solo, forse perché si ammirasse più la costanza di quel bambino che seppe quivi stare imperterrito fino al terzo che lo fini (P. 1).

X. Come poi ir fuoco interiore d’una fornace comprendesi agevolmente dalle vampe accese che l’escono dalla bocca; così dalla intrepidezza del volto, dalla generosità delle parole, dalla grandezza de’ portamenti, con cui furon usi di accompagnare il loro trionfo questi che abbiam rammentati, ed altri lor simili, agevol cosa ci sarà di comprendere ancora quello che lor bolliva nel profondo del seno, cioè la fede e la carità che servivan loro di anima ad una morte sì coraggiosa; onde non resti neppur minimo luogo da dubitare, se nella cristianità giapponese abbiano i suoi fedeli imitata assai da vicino la virtù di quei grandi martiri primitivi che diedero loro norma.

II.

XI. Che diran pertanto gli eretici a queste cose? Negheran forse qualunque credito ai fatti da me narrati? Ma come, se in parte ne furon essi medesimi spettatori? Ed oltre a ciò, sono tali fatti riferiti da altri uomini di virtù tanto singolari, che per tutto quell’oro che è mai venuto sulle flotte di Olanda non s’idurrebbono a mentir lievissimamente, non che a mentire sacrilegamente in materia di religione, con rendersi però degni del fuoco eterno. Diranno, che questa intrepidezza era per verità da natura indomita, qual da noi fu notata ne’ donatisti? Ma come, se tale intrepidezza trovavasi in donne, in donzellette, e in garzoncelli, tutti innocenti, né si era trovata mai prima che tra lor s’inoltrasse la fede romana? Se questi eroi giapponesi fossero stati di quella tempra, di cui era formato quel Fermo imperadore di Roma (Vopiscus in Firmo), che prosteso sopra il terreno poteva sostenere sul petto ignudo un’incudine martellata con braccia robustissime da due fabbri, confesserei, che la tara avrebbe qualche apparenza di verità. Ma qual apparenza può averne, dove sappiam che le femmine e che i fanciulli son si cascanti, che crollano a qualunque urto, e svengono alla vista dell’altrui sangue, non che del proprio? Quei cuori dunque che non sostengono di mirare senza orrore le piaghe di un ferito, benché trattate delicatissimamente da mano medica, avran poi potuto naturalmente esultare in faccia ai tiranni, e vincere con la fermezza della loro tolleranza, la ferocità de’ loro tormentatori?

XII. Diranno, che non tutti riuscirono di costanza sì prodigiosa: ma che, se molti ressero al furore di tante persecuzioni, molti anche caddero. Sì: ma questo parimente addivenne nei tempi antichi: tanto che il numero de’ caduti costrinse i concili a formare più canoni intorno ad essi, come specialmente apparisce da s. Cipriano (L. 1. ep. 2. et 1. 3. ep. 14. 15. 16. 17. 19). Senzachè ci viene ciò di vantaggio a manifestare, che la costanza ne’ martiri è dalla grazia: onde chi manchi alla medesima grazia, rimane in fine spogliato di tal costanza, data dall’alto a guisa di vestimento che si pone a un tratto e si leva: Donec induamini virtute ex alto (Luc. XXIV, 49). E a questo fine permette Iddio le cadute, perché non attribuiscasi alla natura ciò che appartiene alla grazia, qual suo favore. Se la luna fosse piena sempre ad un modo, potrebbe credersi, che ella avesse in sé la sorgente della sua luce: ma mentre mirasi ad ora ad ora mancante, si fa palese, che quel bellissimo argento di cui si veste, non è dalle miniere a lei nate in casa; è dono del sole, o è piuttosto un imprestito fatto a tempo.

XIII. Finalmente, come un vero prodigio, quantunque solo, basterebbe a provare la verità della Religione romana; così basterebbe a provarla anche un vero martire, come quegli che non è per certo un prodigio minor degli altri, anzi di gran lunga è maggiore (Potrebbe dirsi della divinità di nostra religione ciò stesso, che della verità in generale. In quella guisa che un Vero anche solo sarebbe sufficiente a dimostrare l’insussistenza dello scetticismo, così un martire, fosse pur solo, varrebbe contro l’incredulo, o l’eretico, che impugnano la divinità del Cattolicismo.). Ora chi si avviserà, che fra tanti, di cui la Chiesa medesima ne ha modernamente colmi i suoi fasti, non se ne trovi neppur uno di vero? Sarà dunque possibile che ai Cattolici solamente riesca di fingerne innumerabili, mentre alle sette non è riuscito di fingerne mai veruno che non soggiaccia alla sua eccezione evidente? Non accade però, per non confessare l’indubitato, concedere l’impossibile. Ma questo appunto è ciò che tanto vien da me detestato in questi protervi increduli; voler i miseri faticar più per mantenere la loro incredulità, di quel che faticherebbero per deporla.

XIV. Rendansi dunque tutti alla verità conosciuta, da che più glorioso è il cederle prontamente, che il contrariarla; e si concluda, che come la vera Chiesa è stata in tutti i secoli adorna di nuovi prodigi, così in tutti i secoli è stata parimente arricchita di nuovi martiri (V. Boz. 1. 7. sig. 27): la continuazione de’ quali è tanto illustre argomento di verità, che siccome non è mai restata interrotta fino a quest’ora, così né  anche dovrà restare interrotta d’ora innanzi, ma piuttosto accresciuta ove ciò fia d’uopo, conforme appunto si è veduto seguir questi ultimi tempi, quando avendo più che mai l’eresia procurato di porre a fondo la navicella di Pietro, è accorsa la provvidenza a sostenerla anche più, con possente braccio. Nel resto fra tanti i quali si leggono ne’ moderni annali aver data la loro vita animosamente per la fede cristiana, chi sono più? I Cattolici, o riformati? Che dissi più? Neppur uno de’ riformati potrà contarvisi. Vengano pur essi dunque, e si arroghino, se si può, quello che è sì chiaro esser nostro.

FINE DEL SECONDO VOLUME.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (10)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [10]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXIII.

D’un mezzo che ci aiuterà grandemente a sopportar bene e con molta conformità alla volontà di Dio i travagli che il Signore ci manda sì particolari, come universali, che è l’avere una vera cognizione e dolore de’ nostri peccati.

È comune dottrina de’ Santi, che Dio S. N. suol mandare questi travagli e gastighi generali ordinariamente per i peccati commessi, come consta dalla sacra Scrittura che di ciò è piena: Induxisti omnia hæc propter peccata nostra; peccavimus enim, et inique egìmus… Et præcepta tua non audivimus… Omnia ergo, quos induxisti super nos, et universa, quee fecisti nobis, in vero judicio fecisti (Dan. III, 28 et seq.). E così veggiamo che Dio castigava il popol suo e lo dava in potere de’ suoi nemici quando l’offendeva; e lo liberava quando pentito de’ suoi peccati faceva penitenza e si convertiva a lui. E per questo Alchiore, capitano e principe de’ figliuoli di Amon, avendo dichiarato ad Oloferne, come Dio teneva sotto della sua protezione il popolo d’Israele, e che lo castigava quando si scostava dalla sua ubbidienza; dopo di ciò gli soggiunse, che prima però di assalirlo procurasse di sapere, se per allora si trovava in istato di aver offeso il suo Dio; perché essendo così, poteva esser certo della vittoria: quando no, che lasciasse quell’impresa, perché non gli sarebbe riuscita, né da essa avrebbe riportato altro che vituperio e confusione: perché Iddio avrebbe combattuto pel suo popolo, contra il quale nessuno avrebbe potuto prevalere (Judith v, 5). E notano particolarmente questa cosa i Santi sopra quelle parole che Cristo nostro Redentore disse a quell’infermo di trentotto anni che stava a canto alla probatìca Piscina, dopo d’averlo risanato: Ecce sanus factus es: jam noli peccare, ne deterius tibi aliquid contingat (Jo. v, 14): Guardati dal più peccare per l’avvenire; acciocché non t’avvenga qualche cosa di peggio. Secondo questo dunque uno de’ mezzi che ne’ travagli e nelle calamità sì generali come particolari ci aiuterà grandemente a conformarci alla volontà di Dio e a sopportarli con molta pazienza, sarà l’entrar subito dentro di noi stessi, e il considerare i nostri peccati, e quanto abbiamo meritato quel castigo: perché in questo modo qualsivoglia cosa avversa che accada sarà da noi sopportata bene, e la giudicheremo per minore di quello che dovrebbe essere in riguardo alle nostre colpe. S. Bernardo e S. Gregorio trattano molto bene questo punto. S. Bernardo dice: Culpa vero ipsa, si intus sentitur perfecte, utique exterior pæna parum, aut nihil sentitur: Se la colpa interiormente si sente come dev’esser sentita, poco o niente sentirassi la pena esteriore: Sicut sanctus David non sentit injuriam servi conviciantis, memor fìlii persequentis (D. Bern. serm, de altit. et bassit. cordis): Siccome il santo re David non sentiva le maledicenze di Semei, veggendo la guerra che gli faceva il proprio figliuolo: Ecce fllius meus, qui egressus est de utero meo, quærit animam meam; quanto magis nunc filius Jemini (1(1) II. Reg. XVI, 11)? Mi sta perseguitando, diceva, il mio proprio figliuolo; che gran cosa è, che faccia questo uno straniero? S. Gregorio sopra quelle parole di Giob, Et intelligens, quod multo minora exigaris ab eo, quam meretur iniquitas tua (Greg. lib. 10 mor. o. 8 in Job XI, 6), dichiara questo con una buona similitudine: Siccome quando l’infermo sente la postema malignatasi e la carne infracidita, si mette di buona voglia nelle mani del chirurgo, acciocché apra e tagli ove e come gli pare; e quanto più malignata e infracidita è la piaga, di tanto miglior voglia comporta il ferro e il bottone di fuoco; così quando uno sente da vero la piaga e l’infermità che il peccato ha cagionata nella sua anima, riceve di buona voglia il cauterio del travaglio e della mortificazione e umiliazione con che Dio vuol medicar quella piaga e cavarne la marcia. Dolor quippe flagelli temperatur, cum culpa cognoscitur: Si mitiga, dice S. Gregorio, il dolor del flagello quando si conosce la colpa. E se tu non pigli di buona voglia la mortificazione e il travaglio che ti si porge, è perché non conosci l’infermità delle tue colpe; non senti il marciume che è dentro, e così non puoi tollerar il fuoco e il rasoio. Gli uomini santi e i veri servi di Dio non solamente accettavano queste cose di buona voglia, ma le desideravano e le domandavano ben da vero a Dio. E così il santo Giob diceva: Quis det, ut veniat petilio mea… Et qui cæpit, ipse me conterat: solvat manum suam, et succidat me? Et hæc mihi sit consolatio, ut affligens me dolore, non parcat (Job VI, 8,9, 10). E il profeta David: Proba me, Domine, et tenta me: — Quoniam ego in flagella paratus sum: — Bonum mihi, quia umiliasti me (Psal. XXV, 2; Ibid. XXXVII, 18; Ibid. CXVIII, 71). Talmente desiderano i servi di Dio, che la Maestà Sua li castighi e umilii in questa vita, dice il citato Santo (D. Greg. lib. 7 mor. c. 7, 8.), che più tosto s’attristano, quando da un canto considerano le loro colpe e dall’altro veggono che Dio non gli ha castigati per esse: perché sospettano e temono, che ciò sia per voler differir loro il castigo nell’altra vita ove sarà tanto più rigoroso. E questo è quello che soggiunge Giob: Et hæc mihi sit consolatio, ut affligens me dolore, non parcat (Job VI, 10.): come se avesse detto: Dappoiché ad alcuni Dio perdona in questa vita, per gastigarli poi eternamente nell’altra; non perdoni Dio a me in questa maniera nella presente vita, acciocché mi perdoni dipoi in eterno: castighimi qui Dio, come pietoso padre, acciocché non mi castighi poi eternamente come giudice rigoroso; che non mi lamenterò né mormorerò de’ suoi flagelli: Nec contradicum sermonibus Sancti (Jo. VI, 19): che anzi questa sarà la mia consolazione. Questo ancora è quello che diceva S. Agostino: Hic ure, hic seca, Me nihil mihi parcas; ut in æternum parcas: Signore, abbruciate e tagliate di qua, e non mi perdonate cosa alcuna in questa vita; acciocché poi mi abbiate a perdonare per sempre nell’altra. E grande ignoranza e cecità nostra il sentir tanto amaramente i travagli corporali e tanto poco gli spirituali. Non debbono essere sentiti tanto i travagli quanto i peccati. Se conoscessimo e ponderassimo bene la gravezza delle nostre colpe, ogni castigo ci parrebbe piccolo: e diremmo quello che diceva Giob : Peccavi, et vere deliqui, et, ut eram dignus, non recepì (Job XXXIII, 27); parole che avremmo da portar sempre scritte nel cuore e da spesso averle su la lingua. Ho peccato, Signore, e veramente ho delinquito ed ho offesa la Divina Maestà Vostra, e non m’avete castigato come io meritava. Tutto ciò che possiamo patire in questa vita è un niente in comparazione di quello che merita un solo peccato: Intelligeres, quod multo minora exigaris ab eo, quam meretur iniquitas tua (Job XI, 6). Chi considererà, che ha offesa la Maestà di Dio, e che perciò ha meritato di star nell’inferno eternamente, che affronti, che ingiurie, che dispregi non riceverà di buona voglia, in ricompensa e soddisfazione di tante e tali offese? Si forte respiciat Dominus afflictionem meam, et reddat mihi Dominus bonum prò malediction hac hodierna, diceva David quando Semei lo ingiuriava con tante maldicenze (II. Reg. XVI, 12). Lasciatelo stare, dicami pur quanto male mi può dire, mi vituperi, e mi carichi d’ingiurie e d’improperi quanto sa e può; che forse con questo il Signore si terrà per contento, pagato e soddisfatto per i miei peccati, ed avrà misericordia di me; il che sarà grande felicità mia. In questa maniera abbiamo noi altri da abbracciare i disonori e i travagli che ci verranno. Vengano pur alla buon’ ora, che forse il Signore si degnerà di ricever questo per compenso e soddisfazione de’ nostri peccati: e questa sarebbe gran felicità nostra. Se quel che spendiamo in lamentarci e in sentir con dispiacere i travagli, lo spendessimo in rivoltarci a questo modo contro di noi stessi, faremmo cosa più grata a Dio e rimedieremmo meglio a’ casi nostri. Si valevano tanto i Santi di questo mezzo in simili occasioni, e vi si esercitavano talmente, che leggiamo di alcuni di essi, come di S. Caterina da Siena e di altri, che i travagli e flagelli che Dio mandava alla Chiesa gli attribuivano essi ai peccati e difetti lor propri; e dicevano: Io son la cagione di queste guerre; i miei peccati sono la cagione di questa peste e di questi travagli che Dio manda; parendo loro, che i lor peccati meritassero quello, e più. In confermazione di ciò s’aggiunge, che molte volte per lo peccato d’un solo castiga Dio tutto il popolo: siccome per lo peccato di David mandò Dio la peste in tutto il popolo d’Israele; e dice la Scrittura, che ne morirono settanta mila uomini in tre giorni (II. Reg. XXIV, 15). Ma mi dirai: David era Re, e per i peccati del capo Dio castiga il popolo. Per lo peccato d’Acan, ch’era uomo privato, il quale aveva rubate in Jerico certe coserelle, Dio castigò tutto il popolo in questo modo, che tre mila soldati de’ più valorosi dell’esercito voltaron le spalle al nemico, essendo per quel peccato costretti a fuggire (Jos. VII, 6.). Non solamente per lo peccato del capo, ma anche per lo peccato d’un particolare suole Iddio gastigar altri. E in questa maniera dichiarano i Santi quello che tante volte replica la sacra Scrittura, che Dio Castiga i peccati de’ padri ne’ figliuoli sino alla terza e quarta generazione (2 (Exod. XX, 5, et c. XXXIV, 7; Num. XIV, 18). La colpa del padre sì, che dice, che non sarà trasferita nel figliuolo, né quella del figliuolo nel padre: Anima, quæ peccaverit, ipsa morietur: Filius non portabìt iniquitatem patris, et pater non portabit iniquitatem filli (Ezech, XVIII, 20): ma quanto alla pena, è solito Dio castigar alle volte uno per i peccati d’un altro: e così forse per i miei peccati a per i tuoi Castigherà Dio tutta la Casa e tutta la Religione. Abbiamo dunque sempre avanti gli occhi da una banda questa considerazione, e dall’altra il beneplacito di Dio; e così ci conformeremo facilmente alla volontà sua ne’ travagli che ci manderà, e diremo col sacerdote Eli: Dominus est; quod bonum est in oculis suis, faciat (I . Reg. III, 18); e con quei santi Maccabei: Sicut fuerit voluntas in cœlo, sic fiat (I . Mach, III, 60). Egli è il Signore, il padrone e il governatore di ogni cosa: come piacerà a lui, e come egli l’ordinerà, così si faccia: e col profeta David: Obmutui, et non aperui os meum, quoniam tu fecisti (Psal. XXXVIII, 10.): Non mi son lamentato, Signore, de’ travagli che m’hai mandato; anzi, come s’io fossi stato muto, ho taciuto, e gli ho sopportati con molta pazienza e con molta conformità alla volontà tua, perché so che tu li mandi. Questa ha da essere sempre la nostra consolazione in tutte le cose, Dio lo vuole, Dio lo comanda, Dio è quegli che lo manda; venga in buon’ora. Non vi bisogna altra ragione per sopportare di buona voglia tutte le cose. Sopra quelle parole del Salmo 28: Et ditecius, quemadmodum fllius unicornium (Psal. XXVIII), notano i Santi, che Dio si va paragonando all’alicorno, perché quest’animale ha il corno più giù degli occhi, di maniera che vede molto bene ove percuote, a differenza del toro che gli ha sopra gli occhi e non vede ove dà. E di più l’alicorno col medesimo corno col quale percuote guarisce; così fa Dio, con quella istessa cosa colla quale percuote risana. E piace tanto a Dio questa conformità ed umile sommessione al Castigo, che alle volte ella è mezzo per lo quale il Signore si plachi e lasci di castigarci. Nelle Istorie Ecclesiastiche si racconta di Attila, re degli Unni, il quale rovinò tante provincie e si chiamò Metus orbis, et flagellum Dei, spavento del mondo, e flagello di Dio; si racconta, dico, di lui, che avvicinandosi alla città di Troia di Sciampagna in Francia, S. Lupo vescovo di essa gli uscì incontro vestito pontificalmente, con tutto il suo Clero, e gli disse: Chi sei tu, che turbi la terra, e la distruggi? rispose egli: Io sono il flagello di Dio. Allora il santo Vescovo gli fece aprir le porte, e disse: Sia molto bene venuto il flagello di Dio. Entrati poi i soldati nella città, il Signore li accecò talmente, che passarono per essa senza far danno alcuno: perché sebbene Attila era flagello di Dio, non volle però Dio che fosse flagello per quelli che lo ricevevano come flagello suo con tanta sommessione (Naucl. 2 vol.).

CAPO XXIV.

Della conformità alla volontà di Dio che dobbiamo avere nelle aridità e nelle tristezze dell’orazione; e che cosa intendiamo qui sotto nome di aridità e di tristezza.

Non solo abbiamo da conformarci alla volontà di Dio nelle cose esteriori, naturali ed umane; ma ancora in quel che a molti pare che sia santità il sommamente desiderarle, cioè nei beni spirituali e soprannaturali, come nelle consolazioni divine, nelle virtù istesse, nell’istesso dono d’orazione, nella pace, nella quiete e tranquillità interiore dell’anima nostra, e nelle altre prerogative spirituali. Ma mi domanderà alcuno: Può forse cadere in queste cose propria volontà e amore disordinato di se stesso, sicché sia necessario il moderarlo ancora in queste cose? Dico di sì. E qui si vedrà quanta sia la malizia dell’amor proprio; poiché in cose tanto buone non teme d’introdurvi la sua malvagità. Sono buone le consolazioni e i gusti spirituali, perché con essi facilmente l’anima ributta e ha in odio tutti i piaceri e gusti  delle cose terrene, che sono l’esca e il nutrimento de’ vizi, e con essi pure si anima e si rinvigorisce per camminare a gran passi nella via del divino servigio, secondo quello che dice il Profeta: Viam mandatorum tuorum cucurri, cum dilatasti cor meum (Psal. CXVIII, 32): Io correva e camminava molto speditamente per la via de’ vostri comandamenti, o Signore, quando voi slargavate il mio cuore. Coll’allegrezza e consolazione spirituale si distende e si slarga il cuore siccome colla tristezza si rinserra e si strigne. Ora il profeta David dice, che quando Dio gli mandava delle consolazioni spirituali queste gli servivano come d’ale che lo facevano correre e volare per la via della virtù e dei comandamenti suoi. Aiutano anche assai l’uomo queste spirituali consolazioni a sprezzare la propria volontà, a vincere i propri appetiti, a mortificare la propria carne e a portare con forze maggiori la croce e i travagli che gli avvengano. E così suol Iddio comunicare consolazioni e gusti a quegli a’ quali ha da mandare travagli e tribolazioni, acciocché con essi si preparino e dispongano a sopportarli bene e con frutto. Siccome veggiamo, cheCristo nostro Redentore volle prima consolare i suoi discepoli nel monte Tabor con la sua gloriosa Trasfigurazione, acciocché di poi non si turbassero veggendolo patire e morire su una croce: e così ancora veggiamo, che ai principianti suol Iddio molto ordinariamente comunicare queste consolazioni spirituali per indurli con efficacia a lasciare i gusti della terra per quei del cielo, e dopo averli legati col suo amore, veduto, che hanno gittate salde radici nella virtù, li suole provare con certe aridità, acciocché quindi facciano maggior acquisto delle più sode virtù dell’umiltà e della pazienza, e meritino maggior aumento di grazia e di gloria, servendo Dio puramente senza consolazioni. Questa è la cagione per la quale alcuni nel principio, quando entrarono nella Religione, e anche forse fuori, quando stavano co’ desideri d’entrarvi, sentivano più consolazioni e gusti spirituali che dipoi. Ciò era, perché Dio li trattava allora proporzionatamente all’età loro, nutrendoli da bambini con latte, per staccarli e slattarli dal mondo, e far che l’odiassero e abbonassero le cose di esso: ma perché posson di poi mangiar pane con crosta, Dio dà loro cibo da grandi. Per questi e altri simili fini suole il Signore dar loro consolazioni e gusti spirituali: e cosi i Santi comunemente ci consigliano di prepararci nel tempo della consolazione per quello della tribolazione: siccome nel tempo della pace si sogliono fare le preparazioni e provvisioni per la guerra; perché le consolazioni sogliono essere le vigilie delle tentazioni e delle tribolazioni. Di maniera che i gusti spirituali sono molto buoni e di gran giovamento; se ce ne sappiamo servir bene; e perciò quando il Signore ce li dà, si hanno da ricevere con rendimento di grazie. Ma se la persona si fermasse in queste consolazioni, e le desiderasse solamente per contentezza sua, e per lo gusto e diletto che l’anima sente in esse, questo sarebbe vizio e amor proprio disordinato. Siccome quando nelle cose necessarie per la vita, come sono il mangiare, il bere, il dormire ele altre, se l’uomo avesse per fine di queste azioni il diletto, sarebbe colpa; così quando nell’orazione uno avesse per fine questi gusti e consolazioni sarebbe vizio di gola spirituale. Non si hanno da desiderare né da ricevere queste cose per contentezza e gusto nostro; ma come mezzo che ci aiuta per i fini che abbiamo detti. Siccome l’infermo che abborrisce il cibo del quale ha necessità, si rallegra di trovar in esso qualche sapore, non per lo sapore, che niente lo cura, ma perché gli eccita l’appetito per poter mangiare e quindi conservare la vita; così il servo di Dio non ha da volere la consolazione spirituale per fermarsi in essa, ma perché con questo celeste conforto l’anima sua viene rinvigorita è animata a faticare nella via della virtù e ad avere stabilità in essa. In questo modo non si desiderano i diletti per i diletti, ma per la maggior gloria di Dio, e in quanto ridondano a maggior onore e gloria sua. Ma dico di più, che quantunque uno desideri queste consolazioni spirituali in questo modo e per i fini che si sono detti, i quali sono santi e buoni; può nondimeno accadere, che con tutto questo in tali desiderii vi sia qualche eccesso e mescolanza d’amor proprio disordinato, come se le desidera smoderatamente e con soverchia brama ed affanno; di maniera tale che se gli mancano, non rimane tanto contento, né tanto conforme alla volontà di Dio, ma più tosto inquieto, querulo e con dispiacere. Questa è affezione e cupidigia spirituale disordinata; perché non dee la persona stare attaccata con tanta ansia e disordine ai gusti ealle consolazioni spirituali, che questo le impedisca la pace e quiete dell’anima, ela conformità alla volontà di Dio, quando a lui non piaccia di dargliele: perché è molto migliore la volontà di Dio che tutto questo; e importa molto più che si contenti e si conformi a quel che vuole il Signore. Quel che dico dei gusti e delle consolazioni spirituali, intendo anche del dono d’orazione e dell’introduzione che desideriamo d’aver in essa, edella pace e quiete interiore dell’anima nostra, e delle altre prerogative spirituali. Perché nel desiderio di tutte queste cose può esser che vi sia ancora affezione e cupidità disordinata, quando si desiderano con tanta ansia ed angoscia, che se uno non conseguisce quel che desidera, si lamenta, sta disgustato, e non conforme alla volontà di Dio. Onde per gusti e consolazioni spirituali intenderemo ora non solo la divozione e i gusti e le consolazioni sensibili, ma anche l’istessa sostanza eil dono dell’orazione, e l’introdursi elo stare in essa con quella quiete e riposo che vorremmo. Anzi di questo tratteremo adesso principalmente, dimostrando some dobbiamo conformarci in questo alla volontà di Dio, e non lasciarci spingere né muovere in ciò da soverchia brama ed angoscia. Che quel che tocca i gusti, le consolazioni e le divozioni sensibili, lo rinunzierebbe chi che siasi, se gli dessero quello che è sostanziale dell’orazione, e mentisse in sé il frutto di essa: perché tutti sanno, che l’orazione non consiste in questi gusti, né in queste divozioni e tenerezze; onde per questo poca virtù fa di bisogno. Ma quando uno va all’orazione, e sta in essa come un sasso, con una aridità tanto grande, che gli pare di non trovare introduzione ad essa, ma che se gli sia chiuso affatto il cielo, e nascosto Iddio, e che sia venuta sopra di lui quella maledizione medesima con cui lo stesso Dio minacciava già il suo popolo, ove diceva: Daboque vobis cœlum desuper sicut ferrum, et terram œneam (Lev. XXVI, 19; Deut. XVIII, 23): per questo sì, che fa di bisogno maggior virtù e maggiore fortezza. Pare a costoro, che il cielo sia divenuto loro di ferro e la terra di bronzo; perché non piove sopra di essi gocciola d’acqua che mollifichi loro il cuore e dia loro frutto con che si mantengano; ma hanno una sterilità e aridità continua: e anche non solo hanno aridità, ma alle volte ancora una tanto gran distrazione e varietà di pensieri, e questi pure talvolta tanto cattivi e brutti, che pare, che non vadano là, se non ad essere tentati e molestati da ogni sorta di tentazioni. Or va tu a dire a costoro, che allora pensino alla morte, o a Cristo crocifisso, il che suole esser molto buon rimedio; ti diranno: Questo lo so ancor io: se potessi far questo, che cosa mi mancherebbe? Alcune volte è uno ridotto a tal termine nell’orazione, che né  anche può pensare a questo; ovvero, quantunque vi pensi e procuri di ridurselo alla memoria, questo non lo muove, né lo raccoglie punto, né fa in esso impressione veruna. Questo è quello che qui chiamiamo tristezze, aridità e abbandonamento spirituale. E in questo è necessario che ci conformiamo similmente alla volontà di Dio. Questo è un punto di grande importanza; perché è uno dei maggiori lamenti ed uno dei maggiori contrasti che abbiano quelli che attendono all’orazione; essendo che tutti gemono e piangono quando si trovano in questo termine. Come sentono dire da una banda tanto bene dell’orazione, e lodarla tanto, eche all’istesso passo che cammina essa cammina anche l’uomo tutto il giorno e tutta la vita, e che questo è uno dei principali mezzi che abbiamo, sì pel profittoproprio come per quello dei prossimi; e dall’altra banda si veggono, al parer loro, tanto lontani dal far vera orazione; sentono di ciò gran fastidio, e par loro, che Dio gli abbia abbandonati e che si sia dimenticato affatto di loro, e concepiscono timore l’aver perduta l’amicizia sua e di stare in sua disgrazia, parendo loro di non trovare in lui accoglienza. E accresce a questi tali la tentazione il vedere, che altre persone in pochi giorni fanno tanto progresso nell’orazione, quasi senza fatica; e che essi, affaticandosi e struggendosi, non fanno acquisto alcuno. Dal che nascono in essDELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (11)i altre tentazioni peggiori, com’è il lamentarsi alle volte del Signore che li tratti in quel modo; il voler lasciare l’esercizio dell’orazione, parendo loro, che non sia cosa per essi, poiché non ci fanno bene. E a tutto ciò dà aumento grande, e ad essi gran rammarico, quando il demonio riduce loro a memoria, che di tutto ciò sono cagione essi stessi, e che per colpa loro Dio li tratta così: e con questo vivono alcuni molto sconsolati, ed escono dall’orazione come da un tormento, afflitti, malinconici e insopportabili a se medesimi e a quei che trattano con essi. Andremo dunque rispondendo e soddisfacendo a questa tentazione e a questo lamento colla grazia del Signore.

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (11)

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (8)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (8)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vie. Gen

III.

CATECHISMO PER GLI ADULTI DESIDEROSI DI APPROFONDIRSI NELLA CONOSCENZA DELLA DOTTRINA CATTOLICA.

CAPO III.

SEZIONE 3a. — Degli altri cinque articoli del Simbolo che contengono la dottrina circa la terza Persona della Santissima Trinità e l’opera della nostra santificazione, iniziata sulla terra mediante la grazia, da consumarsi in cielo mediante la gloria.

Art. 1. — DELLO SPIRITO SANTO E DEI SUOI DONI LARGITI AI FEDELI E ALLA CHIESA.

D. 117. Che cosa crediamo nell’ottavo articolo del Simbolo: Credo nello Spirito Santo?

R. Nell’ottavo articolo del Simbolo: Credo nello Spirito Santo noi crediamo che lo Spirito Santo è la terza Persona della Santissima Trinità, procedente dal Padree dal Figliuolo (Matt., XXVII, 19; 1 di Giov., XV, 26; XVI, 13-15).

D. 118. Perché crediamo nello Spirito Santo, come nel Padre e nel Figliuolo?

R. Noi crediamo nello Spirito Santo come nel Padre e nel Figliuolo, perché lo Spirito Santo è vero Dio come il Padre e il Figliuolo, e assieme al Padre e al Figliuolo un unico Dio (Matt., XXVIII, 19; 1.» di Giov., V, 7).

D. 119. Perchè l’appellativo di Spirito Santo suol essere riservato nelle sacre Lettere alla terza Persona della santissima Trinità?

R. L’appellativo di Spirito Santo suol essere riservato nelle sacre Lettere alla terza Persona della santissima Trinità, perché essa, con unica spirazione, procede per modo di amore dal Padre mediante il Figliuolo, ed è il primo e sommo Amore per cui vengon mosse e condotte le anime a quella santità che in ultima analisi consiste nell’amore verso Dio (Conc. di Lione, II, 1. c; Leone XIII: Encicl. Divinum illud munus, 9 maggio 1897; S. Agost.: De civ. Dei, II, 24; S.Tom., p. l. a, q. 36, a. I).

D. 120. Quando fu che lo Spirito Santo discese visibilmente sugli Apostoli e che cosa operò in essi?

R. Lo Spirito Santo discese visibilmente sugli Apostoli il giorno della Pentecoste, li confermò nella fede e li riempì dell’abbondanza di tutti i doni, affinché predicassero il Vangelo e propagassero la Chiesa nel mondo intero (Atti, 1-4).

D. 121. Che cosa opera lo Spirito Santo nei fedeli?

R. Lo Spirito Santo, mediante la grazia santificante, le virtù infuse, i suoi doni e le sue grazie attuali di ogni genere, santifica i fedeli, li illumina e li muove affinché essi, corrispondendo alla grazia, raggiungano il possesso della vita eterna (Giov., XIV, 16, 17; Paolo: ad Rom., VIII, 26; Ia ad Cor., III, 16; S. Basilio: Epist., 38, 4. — Si tratta della grazia alla domanda 278 e segg.; delle virtù e degli altri doni dello Spirito Santo alla dom. 507 e segg.).

D. 122. Che cosa è e che cosa opera lo Spirito Santo nella Chiesa?

R. Lo Spirito Santo è della stessa Chiesa quasi l’anima, in quanto col suo aiuto ognor presente perennemente la vivifica, a sé l’unisce e per mezzo dei suoi doni infallibilmente la guida nelle vie della verità e della santità. (Giov., XIV, 16, 26; XVI, 13; Leone XIII, 1. e; S. Tom., p. III q. 9, a. I, ad 3um).

Art. 2. — DELLA VERA CHIESA DI GESÙ CRISTO.

D. 123. Che cosa crediamo nella prima parte del nono articolo del Simbolo: La Santa Chiesa Cattolica?

R. Nella prima parte del nono articolo: La Santa Chiesa Cattolica, noi crediamo esservi una società soprannaturale,visibile, santa ed universale, istituita da Gesù Cristo mentre viveva la sua vita terrestre e da Lui chiamata la sua Chiesa.

Il Catechismo pei Parroci, p. I, c. X, n. 22, nota con precisione: « Ora, con mutata forma di espressione, professiamo di credere la Santa e non nella Santa Chiesa, onde ancora una volta, con questa formula diversa, Dio, creatore dell’universo, venga distinto dalle cose create, e noi stessi riteniamo quali benefici ricevuti dalla divina bontà tutte quelle meraviglie di cui la Chiesa fu arricchita. Per una maggiore comprensione di questo articolo gioverà ricordare come i teologi distinguano nella Chiesa tre parti: la trionfante, la militante e la purgante, le quali tuttavia costituiscono un’unica Chiesa di Cristo, poiché uno è il capo Gesù Cristo, uno lo Spirito che le vivifica e le cementa, uno il fine, cioè la vita eterna di cui gli uni già godono, e gli altri sperano di godere. Nel Simbolo si tratta della Chiesa militante.

D. 124. In qual modo la prima parte dell’articolo nono dipende dall’articolo ottavo?

R. La prima parte dell’articolo nono dipende dall’articolo ottavo, perché la Chiesa, pur avendo perennemente presente in se stessa Gesù Cristo suo fondatore, tuttavia, dallo Spirito Santo, come dal fonte elargitore di ogni santità, ricevette il dono di esser santa.(Cat. p. parr., p. I, c. X, n. 1).

A Dell’istituzione e costituzione della Chiesa.

D. 125. Perché Gesù Cristo istituì la Chiesa?

R. Gesù Cristo istituì la Chiesa per continuare sulla terra la sua missione, al fine cioè che in essa e mediante essa, il frutto della Redenzione, consumata sulla Croce, venisse applicato agli uomini sino alla fine dei secoli (Matt., XXVIII, 18-20; Conc. Vat.: Const. Pastor Æternus, dal principio.).

D. 126. In qual modo Gesù Cristo volle che fosse retta la Chiesa?

R. Gesù Cristo volle che la Chiesa fosse retta dall’autorità degli Apostoli, con a capo Pietro e i suoi legittimi successori.

Conc. di Efeso: Ex actibus Concilii, Act. III; Conc. Vat., 1. c. cap. I; Innocenzo X, Ex decrelis S. Officii, 24 genn. 1647; S. Efrem: In Hebdomadam sanctam, IV, 1. — Gesù Cristo (Matt., XVI, 18, 19) prima della sua passione aveva promesso al beato Pietro il primato nella sua Chiesa: « Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. E a te darò le chiavi del regno dei cieli. E quanto avrai legato sulla terra, sarà legato anche nei cieli; e quanto avrai disciolto sulla terra, sarà disciolto anche nei cieli ». Parole che Egli confermò dopo la risurrezione (Giov., XXI, 15, 17) nel conferire al beato Pietro il primato: « Pasci i miei agnelli,…. pasci le « mie » pecore », vale a dire: reggi l’universo mio gregge, tutta la mia Chiesa. Ora, coll’istituire la Chiesa, perennemente duratura nel suo capo (Matt., XXVIII, 19, 20), il primato del beato Pietro dové passare ai suoi legittimi successori. Quanto alla missione degli Apostoli con Pietro a capo, la S. Scrittura ce la fa conoscere; per es.: Matt., XXVIII, 19, 20; Marco, XVI, 14, 15; Atti, I, 8; XV, 6, 7; XX, 28; Paolo, ad Tit., I, 5; I ad Cor., XII, 28.

D. 127. Chi è il legittimo successor di Pietro nel reggimento della Chiesa universale?

R. Il legittimo successore di Pietro nel reggimento della Chiesa universale è il Vescovo della città di Roma, ossia il Romano Pontefice e, in altri termini, il Papa, poiché nel primato di giurisdizione il Papa succede a Pietro, il quale fu e morì Vescovo della Città di Roma.

Conc. Efes., 1. e; Conc. Vat., 1. c. cap. 2°. — Non v’è sulla terra autorità più grande, non più santo magistero, non più alta ed estesa paternità di quella del Romano Pontefice, il quale, in nome e in vece di Cristo, governa gli uomini per condurli all’eterna salvezza, e con infallibile certezza insegna loro ciò che divinamente fu rilevato. Memori del suo santissimo ufficio, ci stia dunque a cuore di prestargli ubbidienza, riverenza ed amore; di ottemperare non solo ai suoi ordini, ma d’inchinarci persino ai suoi consigli e ai suoi desideri; e infine di rivolgere a Dio frequenti le nostre preghiere per lui secondo le sue intenzioni.

D. 128. Chi è il vero capo della Chiesa?

R. Il vero capo della Chiesa è Gesù Cristo in persona, che invisibilmente in essa dimora e la regge e riunisce intorno a sé i suoi membri (Matt., XXVIII, 18 e segg.; Giov., I , 33; Paolo, l. a ad Cor., IV, 1; ad Eph., I, 22; ad Coloss., I , 18: « Egli stesso è ilcapo del corpo della Chiesa »; Cat. p. parr., p. I c. X, n. 13).

D. 129. Perché il Romano Pontefice vien detto ed è il capo visibile della Chiesa e il Vicario di Gesù Cristo sulla terra?

R. Il Romano Pontefice vien detto ed è il capo visibile della Chiesa e il Vicario di Gesù Cristo sulla terra, perché, una società visibile abbisognando di un capo visibile, Gesù Cristo costituì Pietro e il suo successore sino alla fine del mondo, capo visibile di essa e vicario della sua potestà (Matt., XVI, 18; Luca, XXII, 32; Giov., XXI, 15, 17; Paolo, ad Eph., I , 22; Cat. p. parr., p. I c. X, n. 13).

D. 130. Di qual natura è dunque la potestà del Romano Pontefice nella Chiesa?

R. Il Romano Pontefice ha nella Chiesa, di diritto divino, non solo il primato di onore, ma anche quello di giurisdizione, tanto nel campo della fede e dei costumi, quanto in quello della disciplina e del governo.

D. 131. Qual è la potestà del Romano Pontefice?

R. La potestà del Romano Pontefice è suprema. piena, ordinaria e immediata, tanto su tutte e singole le Chiese, quanto su tutti e singoli i pastori e i fedeli.

(Conc. II di Lione; Prof, fidei Mich. Palæologi; Conc. di Firenze: Decret. prò Græcis; Conc. Vat.: Const. Pastor æternus, c. 3; S. Leone IX: Epist. In terra pax, 2 sett. 1053; Bonifacio VIII: Bulla Unam sanctam, 18 nov. 1302. — La potestà del Romano Pontefice vien detta ordinaria, perché non delegata da altri, ma inerente al suo stesso primato, e perché sempre e dovunque esercitabile; essa viene così ad opporsi alla potestà straordinaria, esercitata solo in certi casi, p. es. quando un qualsiasi pastore inferiore manca al suo ufficio).

D. 132. Chi sono i legittimi successori degli Apostoli?

R. I legittimi successori degli Apostoli sono per divina istituzione i Vescovi, i quali, preposti dal Romano Pontefice alle Chiese particolari, le reggono con ordinaria potestà sotto l’autorità di Lui (Atti, XX, 28; S. Ign. Mart.: Epist. ad Smyrnæos, VIII, 1; S. Ireneo, Adv. hæreses, III, I, 1. — I Patriarchi, invece, gli Arcivescovi e gli altri Prelati sono d’istituzione ecclesiastica.).

D. 133. Che cos’è dunque la Chiesa istituita da Gesù Cristo?

R. La Chiesa istituita da Gesù Cristo èla società visibile degli uomini battezzati, i quali, congiunti tra loro mediante la professione della medesima fede e il vincolo della mutua comunione, perseguono lo stesso fine spirituale, sotto l’autorità del Romano Pontefice e quella dei Vescovi aventi comunione con lui (Pio XI: Encicl. Mortalium animos, 6 genn. 1928).

D. 134. Che cosa s’intende per corpo della Chiesa?

R. Per corpo della Chiesas’intende l’elemento che è in essa visibile e rende visibile la stessa Chiesa, vale a dire gli stessi fedeli in quanto sono aggregati, il regime esterno, l’esterno magistero, la professione esterna della fede, l’amministrazione dei Sacramenti, il rito, ecc.

D. 135. Che cosa s’intende per anima della Chiesa?

R. Per anima della Chiesa s’intende ciò che è il principio invisibile della vita spirituale e soprannaturale della Chiesa, cioè il perenne aiuto dello Spirito Santo, il principio di autorità, l’interna obbedienza al governo, la grazia abituale con le virtù infuse, ecc. (Paolo: ad Rom., X I I , 4, 5; ad Eph., IV, 16).

R. La Chiesa di Gesù Cristo vien detta ed è la via, oppure il mezzo necessario per la salvezza perché Gesù Cristo istituì la Chiesa affinché in essa e per essa venissero applicati agli uomini i frutti della Redenzione; perciò nessuno di quelli che ne stanno fuori può raggiungere l’eterna salvezza, secondo l’assioma: «Fuor della Chiesa non c’è salvezza »

(Marco, XVI, 15, 16; Conc. Lat., IV: Contra Albigenses, 1. c. ; Conc. di Fir.: Decretum prò Jacobitis; Inn. III: Epist. ad Archiep. Tarracon, 18 die. 1208; Bonif. VIII: Bulla Unam Sanctam, 18 nov. 1302; Pio IX: Alloc. Singulari quadam, 9 dic. 1854; Leone XIII: Encicl. Satis cognitum, 29 giugno1896; S. Cipriano: De unitate Ecclesiæ, 6; S. Gerol., Epist., 15, 2; S. Agost. : Sermo ad Cæsar Eccl. plebeem, 6. —Quell’assiona vien meglio illustrato alla dom. 162 e segg.).

D. 137. In qual maniera la Chiesa da Gesù Cristo istituita si distingue dalle altre Chiese che pur si vantano del nome Cristiano?

R. La Chiesa istituita da Gesù Cristo si distingue dalle altre Chiese che si vantano del nome cristiano a mezzo di note — cioè l’unità, la santità, la cattolicità e l’apostolicità — note che assegnate da Gesù Cristo alla sua Chiesa, trovansi esclusivamente nella Chiesa Cattolica, cui sta a capo il Romano Pontefice.

(Sotto questo nome di Note della Chiesa vanno intese le visibili e stabili proprietà della Chiesa istituita da Gesù Cristo; parecchie ve ne sono, ma il Simbolo di Costantinopoli enumera solo le quattro citate. Così dunque la Chiesa di Cristo, per volontà del suo divin Fondatore, deve essere una, d’unità di fede, di regime e di comunione, per cui tutti i suoi membri formano un corpo sociale, vale a dire il corpo mistico di Gesù Cristo, senza che a ciò si opponga benché minimamente la differenza dei riti (Giov., X, 16; Paolo: ad Rom., XII, 5, 6; 1a ad Cor., I, 10; XII, 12, 13; ad Eph., IV, 2-16); santa, per santità di fine (la salvezza delle anime) e di dottrina sia teoretica che pratica; donde consegue la santità di molti suoi membri, spesso anche eroica, comprovata dai miracoli, (Giov., XVII, 17-19; Paolo: ad Eph., V, 25-27; ad Tit., II, 14); cattolica, ossia universale, per la sua destinazione o missione, estendentesi a tutti gli uomini in tutti i luoghi della terra, missione integrata dall’attuale mirabile diffusione, che, iniziatasi sin dai tempi apostolici, non cessò mai a traverso difficoltà d’ogni genere; per quanto la diffusione attuale dipenda, sempre sotto l’assistenza di Dio, dai mezzi umani della propaganda e quindi ammetta un incremento successivo (Matt., XXVIII, 19; Luca, XXIV, 47; Atti, I, 8; Pio XI: Encicl. Rerum Ecclesiæ, 28 febb. 1926); apostolica, per la sua origine, in quanto, fondata sul fondamento degli Apostoli, e innanzi tutto di Pietro, con perenne continuità vien retta e governata dai loro legittimi successori (Paolo: ad Eph., II, 20; Apoc, XXI, 14). Ora, una cosa è certa: che mentre tali proprietà convengono alla Chiesa Cattolica cui sta a capo il Romano Pontefice, mancano invece a tutte le false religioni che si vantano del nome Cristiano (S. Agost.: Contra epist. Manichæi, 5, e De Symbolo, sermo ad Cathech., 14; Cat. p. parr., p. I, n. 11 e segg).

D. 138. C’è un’altra via più breve e più semplice per distinguere la vera Chiesa di Cristo dalle altre Chiese?

R. Per distinguere la vera Chiesa di Cristo dalle altre Chiese c’è una via più breve e più semplice, riferendosi cioè all’essenziale e visibile capo di quella stessa Chiesa, secondo l’antico principio dei Padri: Dov’è Pietro ivi è la Chiesa (1 S. Cipriano: Epist. 40, 5; S. Abr.: In Psalm. XI, 30.)

D. 139. In qual modo ciò si può dedurre dal detto principio?

R. Facilmente ciò si può dedurre dal detto principio, perché, avendo Gesù Cristo edificato su Pietro la sua Chiesa perennemente duratura, ne consegue necessariamente che la vera Chiesa di Gesù Cristo è quella soltanto che vien retta e governata dal legittimo successore di Pietro: e questi è il Romano Pontefice.

B) – Della podestà della Chiesa.

D. 140. Di qual potestà Nostro Signor Gesù Cristo investì la sua Chiesa per farle raggiungere il fine per cui venne istituita?

R. Nostro Signor Gesù Cristo, per far raggiungere alla sua Chiesa il fine per cui venne istituita, la investì della potestà di giurisdizione e della potestà di ordine; nella potestà di giurisdizione viene inclusa la potestà d’insegnare.

(Di  insegnare: Matt., XXVIII, 19, 20; Marco, XVI, 15, 16; — di giurisdizione: Matt., XVI, 19; XXVIII, 18, 19; Giov., XXI, 15, 17; Atti, XX, 28; — d’ordine: Giov., XX, 22, 23; Matt., VIII, 18; Marco, XVI, 16; Atti, VIII, 15, 17. — Da ciò consegue che la Chiesa è una società non omogenea.).

D. 141. Che cos’è la potestà d’insegnare?

R. La potestà d’insegnare è il diritto e il dovere della Chiesa di custodire la dottrina di Gesù Cristo, di tramandarla, di difenderla e di predicarla infine ad ogni creatura, indipendentemente da qualsiasi umano potere. (Matt., 1. c.; Marc, 1. c. ; Codice D. C, can. 1322).

D. 142. Nell’esercizio della potestà d’insegnare c’è una differenza fra battezzati e non battezzati?

R. Nell’esercizio della potestà d’insegnare c’è una differenza tra battezzati e non battezzati:

1° ai battezzati la Chiesa propone ed impone la sua dottrina; essi quindi devono ammetterla, non solo in forza dalla legge divina, ma anche in forza dalla potestà che la Chiesa ha su di essi in quanto sudditi;

2° ai non battezzati, invece, questa sua dottrina la Chiesa la propone, in nome dì Dio; e costoro son tenuti ad apprenderla e ad abbracciarla non per ordine della Chiesa ma in forza della legge divina.

D. 143. Chi sono quelli che nella Chiesa hanno la potestà d’insegnare?

R. Hanno nella Chiesa la potestà d’insegnare, il Romano Pontefice e i vescovi aventi comunione con lui; perciò si dice che essi costituiscono la Chiesa docente.

(Diritto e dovere dei Pastori della Chiesa è quello di predicare il Vangelo ad ogni creatura: ai figli devoti della Chiesa il compito di aiutarli nell’esercizio di una missione così santa e salutare. Contribuisci, quindi o Cristiano, secondo le tue forze, all’azione missionaria cattolica, offrendo le tue preghiere, le tue elemosine, la tua operosa energia. Così facendo, compirai un’opera lodevolissima di misericordia tanto corporale quanto spirituale a vantaggio di tuoi fratelli che sono ancora nelle tenebre e nell’ombra della morte, servirai alla gloria di Dio e farai cosa assai raccomandata dalla Chiesa e dai Romani Pontefici.)

D. 144. E’ infallibile la Chiesa nella sua funzione d’insegnare?

R. Nella sua funzione d’insegnare e grazie alla perenne assistenza dello Spirito Santo promessa da Gesù Cristo, la Chiesa è infallibile, ogni qual volta, con ordinario ed universale magistero, oppure con solenne giudizio della suprema autorità, propone doversi da tutti ritenere le verità concernenti la fede o i costumi, siano esse in sé rivelate o connesse con le rivelate (Matt., XVI, 18; XXVIII, 19, 20; Luca, XXII, 32; Giov., XIV, 16, 26; XVI, 13; Atti, XV, 28; Adamantio, Dialog., V, 28: S. Cipr., Inter S. Cornelii Epist., Ep. 12, 14; S. Pietro Crisol.: Epist. ad Eutychen, 2.).

D. 145. A chi appartiene di pronunciare questo solenne giudizio?

R. Il pronunciare questo solenne giudizio appartiene, tanto al Romano Pontefice, quanto ai Vescovi radunati col Romano Pontefice, soprattutto nel Concilio ecumenico.

D. 146. Che cos’è il Concilio ecumenico?

R. Il Concilio ecumenico, ossia universale, è la riunione dei Vescovi di tutta la Chiesa Cattolica convocati e presieduti — direttamente o a mezzo dei suoi Legati — dal Romano Pontefice, cui spetta con la sua autorità di confermare i decreti del Concilio (Codice Dir. Can., Can. 222.).

D. 147. Quand’è che il Romano Pontefice usa della prerogativa dell’infallibilità personale?

R. Il Romano Pontefice usa della prerogativa dell’infallibilità personale quando parla ex cathedra, quando cioè, esercitando le sue funzioni di pastore e dottore di tutti i Cristiani, definisce che una data dottrina in materia di fede e di costumi deve essere ritenuta dalla Chiesa intera (Conc. Vat., Const. Pastor aeternus, cap. 4. — Questo carisma dell’infallibilità Gesù Cristo lo promise apertamente a Pietro e ai suoi successori nel primato (Luca, XXII, 32), dicendo a Simon Pietro: « Io ho pregato per te perché la tua fede non venga meno, e tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli ».).

D. 148. Qual è il nostro obbligo circa le verità in materia di fede e di costumi che la Chiesa a tutti propone da credersi come divinamente rivelate?

R. Quelle verità in materia di fede e di costumi che, o per ordinario ed universale magistero o per solenne giudizio, la Chiesa a tutti propone da credersi come divinamente rivelate, noi le dobbiamo credere di fede divina e Cattolica (Conc. Vat., Const. Dei Filius, cap. 3 ).

D. 149. Come si chiama una verità così definita?

R. Una verità così definita chiamasi dogma di fede, cui direttamente viene ad opporsi l’eresia.

D. 150. Quali sono le verità in sé non rivelate, ma connesse con le rivelate?

R. Le verità in sé non rivelate, ma connesse con le rivelate, sono in primo luogo i fatti dogmatici, e le censure di quelle proposizioni che la Chiesa ha proscritte e proibite.

(Sotto questo nome di fatti dogmatici vanno intesi quei fatti definiti dalla Chiesa, i quali in sé non rivelati, pure hanno qualche nesso col dogma, ove trattisi di custodirlo, di applicarlo o di rettamente proporlo. I più importanti tra i fatti dogmatici sono: il contenere o non contenere un dato libro, proposizioni opposte al deposito della fede; l’essere veramente santi e in possesso dell’eterna gloria quegl’individui che la Chiesa canonizza con sentenza definitiva; l’essere o non essere legittimo un dato Concilio; l’essere o non essere una data edizione o versione conforme al testo della Sacra Scrittura, ecc.).

D. 151. Dobbiamo noi ammettere anche quelle verità in sé non rivelate, ma connesse con le rivelate, che la Chiesa, similmente, a tutti propone da credersi?

R. Noi dobbiamo ammettere con la bocca e col cuore anche quelle verità in sé non rivelate, ma connesse con le rivelate, che la Chiesa, similmente, a tutti propone da credersi; e ciò a causa dell’infallibilità della Chiesa, che si estende anche a queste verità (Conv. Vat., 1. c. , cap. 4°, in fine; Aless. VII: Const. Regiminis Apostolici, 15 Febbr. 1664; Clem. XI: Const. Vineam Domini Sabaoth, 16 Lug. 1705; Pio X: Decr. Lamartabili, 3Lugl. 1907, prop. 7 inter damnatas. — Ne consegue che la Chiesaha il diritto di proibire i libri, cioè d’interdire ai fedeli dileggerli o tenerli presso di loro.).

D. 152. Come dobbiamo comportarci di fronte agli altri decreti dottrinali che la Sede Apostolica, sia direttamente, sia per mezzo delle Romane Congregazioni, pubblica in materia di fede e di costumi?

R. Gli altri decreti dottrinali che la Sede Apostolica, sia direttamente, sia per mezzo delle Congregazioni Romane, pubblica in materia di fede e di costumi, noi dobbiamo accoglierli per dovere di coscienza e in ossequio alla Sede Apostolica, la quale anche in questo modo esercita il magistero commessole da Cristo Signore (Pio IX: Epist. ad Archiep. Monacen-Frisingen, 21 Die. 1863 ; Pio X, 1. c. : prop. 8 inter damnatas.).

D. 153. Che cosa possono e debbono i Vescovi, ciascuno nella propria diocesi, in forza della potestà d’insegnare?

R. Ciascuno nella propria diocesi e in forza della potestà d’insegnare, i Vescovi possono e debbono, per sé o per mezzo di altri, proporre ed inculcare ai loro sudditi, secondo i bisogni, le verità concernenti la fede e i costumi ricevute dalla Chiesa, reprimere le pericolose novità nel campo della dottrina e, se sia il caso, deferirle alla suprema autorità della Chiesa (Cod. Dir. Can., can. 336, 343).

D. 154. Che cosa significa nella Chiesa la potestà di giurisdizione?

R. Potestà di giurisdizione nella Chiesa significa che il Romano Pontefice e i Vescovi, il primo nella Chiesa intera, i secondi nelle rispettive diocesi, posseggono la potestà di reggere, vale a dire la potestà legislativa, giudiziaria, coattiva e amministrativa, e questo per poter raggiungere il fine stesso della Chiesa (Cod. Dir. Can., can. 335).

D. 155. Che cos’è la potestà di ordine?

R. La potestà di ordine è quella di compiere le sacre funzioni, soprattutto nel ministero dell’altare, potestà che commessa alla Sacra Gerarchia, e massime ai Vescovi col sacramento dell’Ordine, tende direttamente a procurare la santificazione delle anime mediante l’esercizio del culto divino e l’amministrazione dei sacramenti e dei sacramentali; il che chiamasi cura delle anime(La potestà di ordine, rispetto al suo lecito esercizio, è subordinata alla potestà di giurisdizione.)

D. 156. Quali sono i coadiutori dei Vescovi nella cura delle anime?

R. I coadiutori dei Vescovi nella cura delle anime sono i sacerdoti, e massime i parroci soggetti ai Vescovi a norma dei sacri canoni (Gli stessi fedeli cristiani d’ambo i sessi possono efficacemente coadiuvare il ministero della Chiesa, sia con la loro azione personale intesa al bene spirituale del prossimo, sia per mezzo dell’azione Cattolica propriamente detta, tanto caldamente raccomandata dal Sommo Pontefice e alla quale lo stesso S. Paolo apertamente allude nella Lettera ai Filippesi. I fedeli Cristiani s’iscrivano quindi a quest’azione Cattolica ogni qualvolta lo possano; in tal modo, col prestare ai Vescovi la loro obbedienza, coll’osservare religiosamente le superiori norme emanate dall’Apostolica Sede, essi contribuiranno efficacemente al raggiungimento del fine della Chiesa, cioè al trionfo di Gesù Cristo sulla terra per la salvezza del genere umano.).

C) – Dei membri della Chiesa.

D. 157. Quali sono i membri della Chiesa istituita da Gesù Cristo?

R. I membri della Chiesa istituita da Gesù Cristo sono i battezzati, fra loro congiunti mediante il vincolo dell’unità della fede e della comunione cattolica.

D. 158. Chi sta fuori della Chiesa istituita da Gesù Cristo?

R. Stanno fuori della Chiesa istituita da Gesù Cristo:

i non battezzati;

gli apostati dichiarati, gli eretici, gli scismatici e gli scomunicati vitandi (S. Agost.: De fide et symbolo, 21; Cod. Dir. Can., can. 87; Cat. p. parr., p. I, c. IX, n. 9. — Il non battezzato è semplicemente fuori della Chiesa, per quanto, mercé l’aiuto della grazia, e per mezzo della carità, possa appartenere all’anima di essa. Il battezzato, invece, per il fatto di aver ricevuto validamente il Battesimo, viene aggregato al corpo mistico di Cristo, cioè alla Chiesa. Tale aggregazione è perpetua, e l’indelebile Carattere del Battesimo lo indica; da ciò segue che il battezzato appartiene sempre alla Chiesa in qualche modo. Ma egli può da sé separarsi dalla Chiesa, spezzando l’unione di fede e di comunione, con l’apostasia, l’eresia, lo scisma: può d’altra parte la suprema autorità ecclesiastica privarlo per gravissimo peccato di tutti i diritti dei fedeli ed escluderlo in tal modo dalla loro comunione. Costui allora vien realmente posto fuori della Chiesa, ma sempre con l’obbligo stretto di tornarvi, ottenendone la riconciliazione, quando abbia rinunziato alla sua contumacia e rimanendo intanto sottoposto alla Chiesa; così. come il transfuga o disertore, il quale, pur essendo realmente fuori dall’esercito, deve rientrare nei ranghi, e, pur privato dei privilegi degli altri soldati, rimane tuttavia soggetto ai capi della milizia, e passibile delle loro punizioni.)

D. 159. Chi sono gli apostati, gli eretici, gli scismatici, gli scomunicati vitandi?

R. Gli apostati sono quei battezzati che si sono del tutto allontanati dalla fede cristiana; gli eretici, coloro che pertinacemente negano qualche dogma della fede, o di esso dubitano; gli scismaticicoloro che ricusano di sottostare al Romano Pontefice, o di comunicare coi membri della Chiesa a Lui soggetti; gli scomunicati vitandi, coloro che a norma dei sacri canoni sono colpiti da questa censura (Cod. Dir. Can.: can. 2257 e segg.; can. 1325, § 2).

D. 160. Tutti costoro rimangono tenuti alle leggi della Chiesa?

R. Tutti costoro rimangono tenuti alle leggi della Chiesa in qualità di suoi sudditi, anche se ribelli, a meno che la Chiesa, espressamente o tacitamente, li ritenga esenti dalla sua legge.

D. 161. Gli scomunicati tollerati sono essi membri della Chiesa?

R. Gli scomunicati tollerati sono membri della Chiesa; vengono però esclusi da quegli effetti della comunione dei fedeli che i sacri canoni enumerano, né possono ricuperarli a meno di recedere dalla loro ostinazione e di essere assolti da tale gravissima pena.

D. 162. L’adulto che muore senza il sacramento del Battésimo, può esso salvarsi?

R. L’adulto che muore senza il sacramento del Battesimo può salvarsi, non solo se abbia la fede nelle verità che sono necessariamente da credersi di necessità di mezzo e la carità che supplisce al Battesimo stesso, ma anche se, per l’operante virtù della luce e della grazia divina, nell’ignoranza invincibile della vera religione e pronto ad obbedire a Dio, avrà fedelmente osservato la legge naturale.

(S. Tom.: De verit., q. 14, a. II, ad I.um, così insegna trattando il caso di coloro che cresciuti, ad esempio, in mezzo alle foreste, mai giunsero a conoscere la vera Chiesa, esclusa naturalmente ogni colpa da parte loro: « Spetta alla divina « Provvidenza di fornire a ciascun uomo i mezzi necessari per « salvarsi, purché ciò stesso non venga dall’uomo impedito. Se « infatti un uomo cresciuto in mezzo alle foreste, seguisse, nel « desiderio del bene e nella fuga dal male, la guida della ragione naturale, è da ritenersi con assoluta certezza che Dio, o « gli rivelerebbe mediante un’ispirazione interna le cose necessarie da credersi, o metterebbe sul suo cammino un predicatore della fede, come fece per Cornelio spedendogli Pietro » — Inn. II: Epist. Apostolicam Sedem, ad Episc. Cremon,; Pio IX: Epist. Quando conficiamur, ad Episcopos Italiæ, 10 ag. 1863.).

D. 163. Un adulto validamente battezzato, ascritto senza sua colpa ad una setta eretica o scismatica, può salvarsi?

R. Un adulto validamente battezzato, ascritto senza sua colpa ad una setta eretica o scismatica, può ugualmente salvarsi, qualora non abbia perduto la grazia ricevute nel Battesimo, o, perdutala peccando, la recuperi mediante la debita penitenza.(Pio IX, 1. c. -— Tale penitenza sarà, o la contrizione perfetta, assieme al voto — in questa contenuto — di venir alla Chiesa di Cristo e di ricevere il Sacramento della Penitenza, oppure la contrizione imperfetta e quello stesso Sacramento realmente ricevuto.)

D. 164. Che dire di coloro che, pur avendo conosciuta la verità della Chiesa di Gesù Cristo, volontariamente ne stanno fuori?

R. Coloro che, pur avendo conosciuta la verità della Chiesa di Gesù Cristo, volontariamente ne stanno fuori, peccano gravemente e non possono quindi salvarsi qualora perseverino in questo loro stato.

D. 165. Coloro che stanno fuori della Chiesa di Gesù Cristo, e ne hanno però qualche conoscenza, a che cosa sono tenuti?

R. Coloro che stanno fuori della Chiesa di Gesù Cristo, e ne hanno però qualche conoscenza, sono tenuti a cercare sinceramente la verità nel Signore, ad ammaestrarsi secondo le loro possibilità nella dottrina di Cristo quale gli vien proposta, e ad entrare nella Chiesa di Cristo quando l’abbiano riconosciuta per vera.

D) – Della distinzione che passa fra la Chiesa e lo Stato e della competenza dell’una e dell’altra società.

D. 166. La Chiesa istituita da Gesù Cristo è distinta dallo Stato?

R. La Chiesa istituita da Gesù Cristo è distinta dallo Stato; non può tuttavia lo Stato né essere, né venir costituito separato di diritto dalla Chiesa, benché, in speciali e gravi circostanze, possa tale separazione venir talvolta tollerata od anche preferita. – (Spieghiamo qui brevemente la dottrina circa le mutue relazioni fra Chiesa e Stato in base ai numerosi documenti pontifici, soprattutto di Leone XIII, Encicl. Immortale Dei, 1 nov. 1885; Encicl. Au milieu, 16 febb. 1892; Epist. Longiqua oceani, 1895. Mentre la Chiesa si prefigge come suo prossimo fine la santificazione soprannaturale delle anime, condizione necessaria e misura dell’eterna felicità da raggiungersi in cielo, lo Stato invece ha per fine prossimo il comune bene temporale, anche d’ordine morale, coll’osservanza dell’ordine giuridico e supplendo all’insufficienza dei singoli uomini e delle famiglie.Ora, per quanto il compito diretto ed essenziale della Chiesa sia quello di curare la santificazione soprannaturale delle anime, pur tuttavia essa promuove anche il bene comune sia pubblico che privato, e in maniera così reale, così efficace che più non potrebbe se quello fosse il suo compito diretto, per esempio quando ai singoli potentemente inculca l’obbligo di compiere il proprio dovere qualunque esso sia; così pure lo Stato il quale, mentre direttamente procura il bene comune temporale, nello stesso tempo indirettamente coopera alla soprannaturale santificazione delle anime. Atteso dunque che le società si distinguono per il loro fine prossimo, e che il fine della Chiesa è distinto da quello dello Stato, ne viene di conseguenza che sono società fra sé distinte: la prima è una società spirituale e soprannaturale; la seconda una società naturale e temporale; ciascuna nel suo genere è una società perfetta col massimo della potestà correlativa, poiché tanto l’una quanto l’altra possiede in sé e per sé i mezzi necessari a conseguire il rispettivo fine. Questa distinzione tuttavia non va intesa nel senso che lo Stato possa comportarsi quasi fosse del tutto separato dalla Chiesa, come se Dio non esistesse, e trascurare la religione come cosa del tutto estranea e senza interesse alcuno, oppure tra le varie religioni sceglierne una a piacere; deve infatti anche lo Stato, non meno dei singoli cittadini, onorare Dio a mezzo di quella religione che, voluta da Lui, offre certi indubitabili indizi di essere fra tutte l’unica e sola vera; e questa è esclusivamente la vera Chiesa di Gesù Cristo. Una separazione giuridica fra Chiesa e Stato può tollerarsi solo in speciali e gravi contingenze, quando cioè tale separazione serva ad evitare mali maggiori, sempre che alla Chiesa venga assicurata la libertà di vivere e di agire. Pertanto, poiché la società spirituale e soprannaturale, per ragionedel fine superiore a cui tende, sorpassa in eccellenza e nobiltà la società temporale, lo Stato, nato per l’utile comune, deve procurare il bene temporale dei cittadini non creando mai impedimenti al fine della Chiesa, anzi facilitandone in ogni modo il conseguimento.)

D. 167. Quali sono i principi che definiscono la competenza delle due Società?

R. I principi che definiscono la competenza delle due Società sono i seguenti:

1° quanto spetta alla salute delle anime e al culto di Dio appartiene alla potestà della Chiesa.

2° Tutto il resto, nel campo civile e politico, appartiene alla potestà dello Stato.

3° Ove i due diritti s’incontrano, natura vuole, ed esige il divino volere, che fra l’una e l’altra potestà regni la concordia, mercé la quale vengono evitate contese funeste ad ambedue. (Leone XIII: Encicl. Diuturnum illud, 29 giug. 1881, e Encicl. Immortale Dei, 1 nov. 1885 Pio X: Encicl. Vehementer, 16 feb. 1906).

D. 168. E’ la Chiesa competente anche negli affari di natura civile e politica?

R. Anche negli affari di natura civile e politica la Chiesa è competente, qualora tali affari presentino qualche nesso con la regola della fede e dei costumi e quindi con la salute delle anime.

D. 169. A chi appartiene di giudicare se esiste o no il detto nesso?

R. Il giudicare se esiste o no il detto nesso appartiene alla Chiesa, al cui magistero e governo non è lecito ai Cattolici di rifiutare ossequio (Pio IX: Epist. Gravissimas inter, 11 dic. 1862; Leone XIII: Encicl. Immortale Dei, 1 nov. 1885).

Art. 3. — DELLA COMUNIONE DEI SANTI.

D. 170. In qual modo la seconda parte dell’articolo nono: la Comunione dei Santi si riconnette alla prima?

R. La seconda parte dell’articolo nono: la Comunione dei Santisi riconnette alla prima in quanto ne è unaspiegazione: vi s’insegna infatti quali vantaggi ricavanoi membri della Chiesa dalla santificazione in essa e a mezzodi essa ottenuta (Cat. p. parr., p. I, a. IX, n. 23, 24).

D. 171. Che cosa crediamo in questa seconda parte dell’articolo nono?

R. In questa seconda parte dell’articolo nono noi crediamo che fra i membri della Chiesa e in forza dell’intima unione che li congiunge fra loro sotto l’unico Capo Cristo, esiste una comunicazione di beni spirituali (Paolo: ad Rom., XII, 4, 5; I.a ad Cor., XII, 11-31; ad Eph., IV, 4-13; Cat. p. parr., p. I, c. X , n. 24, 25. — I comunibeni spirituali della Chiesa sono: gl’infiniti meriti di Gesù Cristo,i meriti sovrabbondanti della beata Vergine Maria e deiSanti, le indulgenze, le preghiere e le opere buone che si fannonella Chiesa, i Sacramenti, il sacrificio della Messa, le pubblichepreci e i riti esterni: tutte cose che stabiliscono come unsacro vincolo di unione tra i fedeli e Cristo e i fedeli tra loro.).

D. 172. Tutti i membri della Chiesa godono di questa comunione?

R. Non tutti i membri della Chiesa godono pienamente di questa comunione ma quelli soli che trovansi in istato di grazia: ecco perché la detta comunione si chiama Comunione dei Santi.

D. 173. Chi è in peccato mortale è privato di detta comunione?

R. Chi è in peccato mortale non è del tutto privato di detta comunione, in quanto può essere aiutato a ricuperare la grazia e dalle pubbliche preci della Chiesa e dalle preci e opere buone di chi sta in grazia di Dio.

D. 174. V’è comunione con quelli che sono in possesso della gloria del Paradiso?

R. V’è comunione con quelli che sono in possesso della gloria del Paradiso in quanto, mentre noi li onoriamo e li invochiamo con supplice cuore, essi intercedono per noi presso Dio (Tob., XII, 12; Eccl., XLIV, 1; Dan., III, 35; II Macc, XV, 14; Apoc, V, 8; VIII, 3; Conc. di Tr., sess. XXV: De invoc. Vener… Sanctorum; S. Gerol.: Contra Vigilantium, 6).

D. 175. V’è comunione anche con le anime trattenute in Purgatorio?

R. V’è comunione anche con le anime trattenute in Purgatorio, in quanto noi possiamo aiutarle coi nostri suffragi, cioè con il sacrificio della Santa Messa, indulgenze, orazioni, elemosine ed altre opere di pietà e di penitenza; esse ci aiutano presso Dio con le proprie orazioni (S. Cirill. Geros.: Cathecheses, V, 8; S. Agost.: De Civitate Dei, XX, 9, 2. )

D. 176. Quali sono le orazioni che i fedeli sogliono più di frequente recitare per le anime trattenute in Purgatorio?

R. Le orazioni che i fedeli sogliono più di frequente recitare per le anime trattenute in Purgatorio sono il salmo De profundise quest’altra breve orazione: « L’eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. Riposino in pace. Così sia ». (« Santo…. e salutare è il pensiero di pregare per i defunti »; II Machab., XII, 46. — Santissimo ufficio di carità quello di aiutare coi nostri suffragi le anime del Purgatorio, specie quando si tratti di coloro cui ci unì qualche vincolo di parentela o l’obbligo della gratitudine. E oltre che santissimo, saluberrimo, in quanto con questa nostra carità verso anime a Dio tanto care, ci conciliamo la benevolenza di Dio e l’attiva riconoscenza di quelle stesse anime sante.).

Art. 4. — DELLA REMISSIONE DEI PECCATI.

D. 177. Che cosa crediamo nel decimo articolo del Simbolo: La remissione dei peccati?

R. Nel decimo articolo del Simbolo: La remissione dei peccati, noi crediamo esservi nella Chiesa la verapotestà di rimettere i peccati in virtù dei meriti di GesùCristo (Matt., XVI, 19; XVIII, 18; Giov., XX, 23; Conc. Lat. IV, c. I ; Conc. di Tr., sess. XIV, c. 1 e can; S. Leone IX: Symbolum fidei.).

D. 178. Con quali mezzi otteniamo noi nella Chiesa la remissione dei peccati?

R. Noi otteniamo nella Chiesa la remissione dei peccati mortali a mezzo dei Sacramenti a questo scopo istituiti da Nostro Signor Gesù Cristo, oppure mediante un atto di contrizione perfetta unitamente al proposito di ricevere i detti Sacramenti; possiamo poi ottenere la remissione dei peccati veniali anche a mezzo di altri atti di religione, sempre rimanendo il debito della pena temporale da saldarsi da ognuno in questa vita o nell’altra, vale a dire in Purgatorio (Ad ottenere la remissione dei peccati veniali basta nell’uomo giusto un atto qualsiasi compiuto col soccorso della divina grazia, purché in tale atto sia contenuta, per lo meno implicita, la detestazione della colpa. Il perdono quindi dei peccati leggeri può venir impetrato non solo a mezzo dei Sacramenti che conferiscono la grazia, ma anche a mezzo di atti cui vada congiunta una qualche detestazione della colpa, quale, per esempio: il recitare il Pater Noster o il Confiteor, il percuotersi il petto, ecc.; o ancora a mezzo di atti con cui si esprima la riverenza verso Dio e le cose divine: per esempio: la benedizione del sacerdote, l’aspersione dell’acqua benedetta, una qualsiasi unzione sacramentale, un’orazione in una Chiesa dedicata…. (S. Tom., Suppl., p. III q. 87, a. 3).

Art. 5. — DELLA RISURREZIONE DEI MORTI E DELLA VITA ETERNA.

D. 179. Che cosa crediamo nell’undecimo articolo del Simbolo: la risurrezione della carne?

R. Nell’undecimo articolo del Simbolo: la risurrezione della carne, noi crediamo che alla fine del mondotuti i morti verranno richiamati alla vita e risorgerannoper il giudizio universale, ogni anima venendo a riprendere,per non più separarsene, quel corpo stesso cui erastata congiunta nella vita presente (Giobbe, XIX, 25-27; Matt., X III, 40-43; Giov., V, 28,29; VI, 39, 40; Atti, XXIV, 15; Paolo, J . a ad Cor., XV, 12 e segg.; Conc. Lat., IV, cap. I; S. Leone IX, 1. e ; Inn. III: Profess. fidei Waldensibus præscripta; S. Cirillo Aless., In Joan, VIII, 51; S. Giov. Cris.: De resurect. mortuorum, 8; Cat. p. parr., p. I, c. XII, n. 6 e segg.).

D. 180. Per qual virtù avverrà la risurrezione della carne?

R. La risurrezione della carne avverrà per la divina virtù di Gesù Cristo, il quale, come suscitò dai morti il proprio corpo, così pure susciterà alla fine del mondo i corpi di coloro che dovrà giudicare (Giov., V , 28, 29; S. Giov. Cris., 1. c, 7; S. Tom., p. 3, q. 56, a. I.)

D. 181. Per qual ragione Iddio ha voluto che i corpi dei morti risuscitassero?

R. Dio ha voluto che i corpi dei morti risuscitassero affinché tutto l’uomo raggiungesse eternamente, a seconda dei suoi meriti, o il premio in Paradiso o la pena nell’Inferno.

D. 182. I corpi dei morti risorgeranno tutti allo stesso modo?

R. I corpi dei morti risorgeranno tutti immortali, ma solo i corpi degli eletti, a somiglianza di quello di Cristo, risorgeranno muniti delle doti del corpo glorioso (Paolo, I ad Cor., XV, 52; ad Philipp., III, 21; Apoc, XX, 12, 13; S. Cirillo Ger.: Cathecheses, XVIII, 18-19).

D. 183. Quali sono le doti del corpo glorioso?

R. Quattro doti si enumerano di solito del corpo glorioso: l’impassibilità, la chiarezza, l’agilità e la sottigliezza.

(Paolo, I ad Cor., XV, 42-44. — Il Catechismo dei parroci, p. I, c. XII, n. 13, chiarisce l’argomento come segue: « La impassibilità farà sì che il corpo glorioso non potrà più assolutamente patire, né essere afflitto dal benché minimo dolore o disagio. All’impassibilità segue la chiarezza, che è un fulgore ridondante nel corpo come conseguenza della somma felicità dell’anima, così che può dirsi che la chiarezza sia un comunicarsi al corpo della beatitudine di cui l’anima gode. Alla chiarezza va congiunta l’agilità, grazie alla quale il corpo potrà muoversi con la massima facilità in qualunque senso l’anima vorrà. Aggiungesi infine la sottigliezza, in virtù della quale il corpo verrà assoggettato all’impero dell’anima, pronto a servirla, ad ogni suo comando ». S. Tom.: Suppl., q. 82 e segg.)

D. 184. Che cosa crediamo nell’ultimo articolo del Simbolo: La vita eterna?

R. Nell’ultimo articolo del Simbolo: la vita eterna, noi crediamo che dopo la morte è preparato agli elettiin Paradiso una felicità perfetta e senza mai fine, mentreinvece le pene eterne dell’Inferno attendono i reprobi.

(Matt., XXV, 46; S. Pietro Canisio, De fide et symbolo fidei, n. XXI: « Quando trattisi di raggiungere quella vita, nessun’operadi pietà è troppo ardua per il vero credente, nessuntravaglio troppo grave, nessun dolore troppo acerbo, nessuntempo troppo lungo e molesto all’agire e al patire. Che se nullariteniamo di più dolce, di più desiderabile della vita presente,piena d’altronde di calamità, che cosa dunque dovremopensare di quell’altra donde è bandito il più lontano timore ol’eco più lontana del male, ove senza fine celesti ed ineffabiligioie, delizie e godimenti d’ogni sorta per sempre abbonderanno?»).

D. 185. Che cosa significa la parola Amen alla fine del Simbolo?

R. La porla Amen alla fine del Simbolo significa che ogni e singola cosa contenuta nel Simbolo, è vera, e che noi la crediamo e professiamo senza il benché minimo dubbio.

D. 186. Per conseguire la vita eterna basta credere quel che è da credersi?

R. Per conseguire la vita eterna non basta credere quel che è da credersi; ma bisogna inoltre osservare quanto Dio stesso e la Chiesa hanno comandato di operare (Matt., V, 16; VII, 26, 27; IX, 15; XXV, 35 e segg.; Giac, II, 14 e segg.).

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (9)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO (9)

DELLA CONFORMITÀ ALLA VOLONTÀ DI DIO [9]

[A. Rodriguez: Esercizio di perfezione e di virtù cristiane; vol. II, ed. VII ster. TORINO, Marietti ed. 1917]

TRATTATO VIII.

CAPO XXI.

Si conferma quel che s’è detto con alcuni esempi.

Racconta Simone Metafraste nella Vita di S. Giovanni Limosiniero, Arcivescovo d’Alessandria, che un uomo ricco aveva un figliuolo da lui grandemente amato: e per impetrare da Dio, che gli conservasse la vita e la sanità pregò il Santo, che facesse orazione per lui, dandogli gran quantità d’oro da distribuire per limosina ai poveri secondo questa intenzione. Il Santo lo fece, e a capo di trenta giorni quel figliuolo morì. Il padre ne restò afflittissimo, parendogli, che l’orazione e la limosina fatta per esso fossero state fatte in vano. E avendo notizia il Patriarca della sua afflizione, fece orazione per lui, chiedendo a Dio che lo consolasse. Esaudì il Signore la sua orazione, e una notte mandò un Angelo santo dal cielo, il quale apparve a quell’uomo, gli disse, che dovesse sapere, che l’orazione che s’era fatta pel suo figliuolo era stata esaudita, e che per essa il fanciullo era in cielo vivo e salvo, e che era stato per lui espediente il morire in quel tempo in cui era morto, per salvarsi; perché se fosse vissuto, sarebbe stato cattivo, e si sarebbe renduto indegno della gloria di Dio: e gli disse di più, che sapesse, che nessuna cosa, di quante ne accadono in questa vita, accade senza giusto giudizio di Dio, sebbene le ragioni de’ suoi giudizi sono occulte agli uomini; e che perciò non dee l’uomo lasciarsi prendere da tristezza disordinata, ma ricevere con animo paziente e grato le cose che Dio ordina. Con questo celeste avviso il padre del morto fanciullo rimase consolato e ben inanimato a servir Dio. – Nell’Istoria Tebea (Hist. Theo. lib. 2, c. 10) si narra una grazia singolare che S. Maurizio, capitano che fu della Legione Tebea, fece ad una gentildonna molto sua devota. Aveva costei un solo figliuolino, e acciocché s’allevasse a buon’ora in religiosi costumi, nel fine della sua tenera età la madre lo consacrò nel monastero di S. Maurizio, sotto la cura e il governo de’ Monaci, come in quei tempi si costumava di fare; e come lo fecero il padre e la madre con Mauro e Placido, e alcuni altri nobilissimi Romani in tempo di S. Benedetto, e molti anni dopo lo fecero con S. Tommaso d’Aquino nel monastero di Monte Cassino la sua madre Teodora e i Conti d’Aquino suoi fratelli. S’allevò in quel monastero l’unico figliuolo di detta gentildonna in lettere, e costumi, e nella disciplina monastica, molto bene; e già aveva cominciato a cantare soavissimamente in Coro in compagnia de’ Monaci, quando sopraggiuntagli una febbretta se ne morì. Andò la sconsolata madre alla chiesa, e con infinite lagrime accompagnò il morto sino alla sepoltura: ma non bastarono le tante lagrime per temperare il dolore della madre, né per ritenerla dall’andar ogni giorno a quella sepoltura a piangerlo senza misura; il che molto più faceva, quando mentre si dicevano gli Uffici divini si ricordava di esser priva d’udir la voce del figliuolo. Perseverando la gentildonna in questo sì mesto esercizio, non solo di giorno in chiesa, ma anche di notte in casa, senza potere pigliar riposo, vinta una volta dalla stanchezza se ne restò addormentata, e in quel sonno le apparve il santo capitano Maurizio, che disse: Perché, o donna, stai continuamente piangendo la morte del tuo figliuolo, senza poter dar fine a tante lagrime? Rispose ella: Non potranno mai tutti i giorni della mia vita por fine a questo mio pianto: e perciò fin che vivrò piangerò sempre il mio unico figliuolo, né cesseranno questi miei occhi di spargere continue lagrime, fin a tanto che la morte non li chiuda, e separi da questo corpo questa sconsolata anima. E il Santo replicò: Ti dico, donna, che non t’affligga, né stii più a piangere il tuo figliuolo per morto, perché in realtà non è egli morto, ma vivo, e se ne sta in gaudio con noi altri nell’eterna vita: e per contrassegno di questa verità che io ti dico, levati su di mattina al Mattutino, e udrai la voce del tuo figliuolo fra quelle dei Monaci che canteranno l’Ufficio divino; e non solamente lo godrai domattina, ma anche tutte le altre volte che ti troverai presente alle divine Lodi in cotesta chiesa: cessa dunque e metti fine alle tue lagrime, poiché hai più tosto occasione di grande allegrezza che di tristezza. Svegliata la donna, aspettava con desiderio l’ora del Mattutino, per chiarirsi affatto della verità, restando tuttavia con .qualche dubbio, che questo fosse stato un mero sogno. Giunta l’ora, ed entrata ella in chiesa, riconobbe nel canto dell’Antifona la soavissima voce del beato suo figliuolo; e assicurata già della sua gloria in cielo, scacciato da sé tutto il dolore, rendette infinite grazie a Dio, godendo ella ogni giorno quella gratissima voce negli Uffici divini di quella chiesa, consolandola Dio in questa occasione e facendola ricca con questo dono. – Racconta un Autore (Flor, de Enriq. Gran. lib. 4, c. 63. ), che andando un giorno un cavaliere a caccia gli sbucò davanti una fiera, e la seguitò egli solo, senza alcun servidore, perché gli altri erano occupati intorno ad altre fiere: e seguitandola con grande ansietà si allontanò assai, e arrivò ad una selva ove udì una voce umana assai soave. Maravigliossi egli di udir in un deserto una voce tale, parendogli, che non potesse essere de’ suoi servidori, né meno d’altra persona di quel paese; e desiderando pur di sapere che cosa fosse quella voce, entrò più dentro nella selva, e vi trovò un lebbroso spaventevole in vista e molto stomachevole, il quale aveva talmente maltrattata la sua carne, che s’andava consumando in ciascuna parte e in ciascun membro del suo corpo. Il cavaliere a quella vista restò perplesso e come spaventato; nondimeno, sforzandosi e facendosi animo, se gli accostò, lo salutò con parole molto dolci, e gli domandò, se era quegli che cantava e donde gli era venuta voce sì dolce. Rispose il lebbroso: Io, signore, sono quel desso che cantava e questa è voce mia propria. Come ti puoi rallegrare, disse il cavaliere, avendo tanti dolori? Rispose il povero: Fra Dio Signor mio, e me, non v’è altra cosa di mezzo che questo muro di fango che è questo mio corpo: fracassato questo, e tolto via questo impedimento, andrò a godere la visione della sua eterna maestà: e vedendo io, che ogni giorno mi si va disfacendo a pezzi a pezzi, mi rallegro e canto con una incredibile allegrezza del mio cuore, aspettando, come aspetto la separazione da questo corpo, dappoiché per fin a tanto che io non lo lascio, non posso andare a goder Dio, fonte viva ove si trovano quelle inesauste vene di vero gaudio che dureranno per sempre. – S. Cipriano racconta d’un Vescovo (D. Cypr. lib. de mort.) il quale trovandosi per una grave infermità molto vicino a morte, affannato e sollecito per la presenza di essa, supplicò il Signore che gli allungasse la vita. Gli apparve un Angelo in forma di un giovine molto bello e risplendente, il quale con voce grave e severa gli disse: Pati timetis, exire non vultis, quid faciam vobis? Da un canto temete il patire in questa vita, e dall’altro non volete uscir da essa; che cosa volete che io vi faccia? dimostrandogli, che non piaceva a Dio questa ripugnanza nell’uscire da questa vita. E dice S. Cipriano, che l’Angelo gli disse queste parole, acciocché nella sua agonia le dicesse e le insegnasse agli altri. – Narra Simeone Metafraste, e l’apporta il Surio (Sarius tom. 1, fol. 237), del santo abbate Teodosio, che sapendo il Santo quanto utile sia la memoria della morte, e volendo con questo dar occasione a’ suoi discepoli di far profitto, fece aprir una sepoltura, e aperta che fu, si pose co’ suoi discepoli intorno a quella, e disse loro: Già è aperta la sepoltura; ma chi di voi sarà il primo a cui abbiamo da celebrar qui i funerali? Allora uno di que’ discepoli, chiamato Basilio, il quale era Sacerdote euomo di gran virtù, e così era molto disposto e preparato ad eleggersi la morte con molta allegrezza, lo prese per la mano, e inginocchiatosi gli disse: Benedicimi, o Padre, che io sarò il primo a cui s’hanno qui afare gli Uffici de’ defunti. Egli lo chiede, eil Santo glielo concedette. Comanda il santo abbate Teodosio, che se gli facciano subito in vita tutti gli Uffici soliti a farsi per i morti, il primo giorno, il terzo, il nono, e indi gli altri, che si fanno a capo di quaranta giorni. Cosa meravigliosa! finite le esequie e l’ufficio a capo de’ quaranta giorni, stando il monaco Basilio sano e salvo senza febbre, senza doglia di capo, e senza alcun altro male, come chi è preso da un dolce e soave sonno, se ne passa al Signore a ricever il premio della sua virtù e della prontezza e allegrezza colla quale aveva desiderato di vedersi con Cristo. E acciocché si vedesse quanto era piaciuta a Dio questa Prontezza e allegrezza colla quale il santo Monaco desidero uscire di questa vita, dietro aquesto miracolo ne succede un altro. Dice Simeone Metafraste, che per quaranta altri giorni dopo la sua morte lo vide l’abbate Teodosio venir ogni giorno al Vespro e cantar in Coro cogli altri discepoli: sebbene gli altri non lo vedevano né lo sentivano cantare, se non un solo che fra gli altri era insigne in virtù, chiamato Aecio, il quale lo sentiva cantare, ma non lo vedeva. Questi andò a trovare l’abbate Teodosio, e gli disse: Padre, non senti cantar con noi altri il nostro fratello Basilio? E l’Abbate rispose: Lo sento e lo veggo; e se vuoi, farò, che tu ancora lo vegga. E radunandosi il giorno seguente in Coro pel consueto Ufficio, vide l’abbate Teodosio, come soleva, il santo monaco Basilio che cantava cogli altri al solito, e lo mostrò col dito ad Aecio, facendo insieme orazione, e pregando Dio, che aprisse gli occhi di quell’altro Monaco, acciocché ancor esso lo potesse vedere. E avendolo veduto e riconosciuto, andò subito correndo da lui con grand’allegrezza per abbracciarlo; ma non lo potè prendere, che sparì subito, dicendo con voce che da tutti fu udito: Restatevene con Dio, Padri e Fratelli miei, restatevene con Dio, che da qui avanti non mi vedrete più. – Nella Cronaca dell’ Ordine di S. Agostino (Chron. Ord. S. Aug. cent. 3) si narra di Colombano il giovine, nipote e discepolo del santo abbate Colombano, che avendo grandissime febbri e trovandosi vicino a morte, è come pieno di grande speranza desiderando di morire, gli apparve un giovine risplendente il quale gli disse: Sappi, che le orazioni del tuo Abbate e le lagrime ch’egli sparge per la  tua salute impediscono la tua uscita da questa vita. Allora il Santo si lamentò amorevolmente col suo Abbate, e piangendo gli disse: Perché mi violenti tu a vivere una vita tanto piena di tristezza, quanto è questa, e m’impedisci l’andare all’eterna? Con questo l’Abbate cessò dal piangere e dal fare orazione per lui; e così radunatisi i Religiosi, e presi egli i santi Sacramenti, abbracciandolo tutti, morì nel Signore. – S. Ambrogio riferisce de’ popoli della Tracia (D. Ambr. de fide resurr.), che quando nascevano gli uomini, piangevano; e quando morivano, facevano gran festa. Piangevano il nascimento, e celebravano e festeggiavano il giorno della morte, parendo loro, e con molta ragione, dice S. Ambrogio, che quei che venivano in questo mondo miserabile, pieno di tanti travagli, erano degni d’esser compianti, eche quando uscivano da quest’esilio, era ragionevole far festa e allegrezza, perché si liberavano da tante miserie. Or se coloro essendo Gentili e Pagani, e non avendo cognizione della gloria che noi speriamo e aspettiamo, facevan questo; che cosa vorrà la ragione che sentiamo e facciamo noi altri i quali illuminati col lume della Fede abbiamo notizia de’ beni che vanno a godere quei che muoiono nel Signore? E così con molto maggior ragione disse il Savio, che è migliore il giorno della morte che quello della nascita: Melior est dies mortis die nativitatis (Eccle. VII, 2). S. Girolamo dice (D. Hieron. ep. ad Tir.), che per questo Cristo nostro Redentore, volendo partirsi da questo mondo per andare al Padre, disse a’ suoi discepoli i quali se n’attristavano: Si diligeretis me, gauderetis utique, quia vado ad Patrem (Jo. XIV, 23): Non sapete quel che fate: se m’amaste, più tosto vi dovreste rallegrare, perché vo al mio Padre: e per lo contrario, quando si risolvette di risuscitar Lazzaro, pianse. Non pianse, dice S. Girolamo, perché Lazzaro fosse morto (Ibid. XI, 35), poiché subito l’aveva da risuscitare; ma pianse, perché aveva da ritornare a questa vita miserabile: piangeva, perché quegli che Egli aveva amato e amava tanto, doveva ritornare a’ travagli di quest’esilio.

CAPO XXII.

Della conformità alla volontà di Dio che dobbiamo avere ne’ travagli e nelle calamità universali ch’Egli manda.

Non solo abbiamo d’avere conformità alla volontà di Dio ne’ travagli e avvenimenti nostri propri e particolari; ma anche dobbiamo averla ne’ travagli e nelle calamità pubbliche e universali, di carestie, di guerre, d’infermità, di morti, di peste e altre simili, che il Signore manda alla sua Chiesa. Per quest’effetto bisogna supporre, che quantunque da un canto sentiamo queste calamità e Castighi, e ci dispiaccia il male e il travaglio de’ nostri prossimi, come la ragion vuole; nondimeno dall’altro canto, considerandoli in quanto sono volontà di Dio, e ordinati dai suoi giusti giudizi, per cavare da quegli i beni e frutti di sua maggior gloria ch’Egli sa, ci possiamo conformare in essi alla sua santissima e divina volontà; in quella maniera che lo veggiamo in un Giudice che sentenzia uno a morte, al quale sebbene da una parte dispiace che quell’uomo muoia, e di ciò ne provi gran pena per la compassion naturale, o per essere colui suo amico; nondimeno dall’altra parte dà la sentenza, e vuole che muoia, perché così conviene al ben comune della Repubblica. E ancorché sia vero, che Dio non volle obbligarci a conformarci alla volontà sua in tutte queste cose in tal modo, onde giungessimo a volerle ed amarle positivamente, ma si contentò, che le sopportassimo con pazienza, non contraddicendo né ripugnando alla sua divina giustizia, né mormorando di essa; dicono nondimeno i Teologi e i Santi (D. Bonav. 1 sent. d. 48, r. 2, et alii.), che sarà opera di maggior perfezione e merito, e più perfetta ed intera rassegnazione, se l’uomo non solo sopporterà con pazienza queste cose, ma anche le amerà e le vorrà in quanto sono volontà e beneplacito di Dio, e ordinazioni della sua divina giustizia, e servono per maggior sua gloria. Così fanno i Beati in cielo, i quali in tutte le cose si conformano alla volontà di Dio, siccome lo dice S. Tommaso (D. Thom. 2. 2, q. 9, art. 10 ad 1) e lo dichiara S. Anselmo (D. Ans. lib. similitudinum, c. 63) con questa similitudine, che nella gloria la nostra volontà e quella di Dio saranno così concordi, come sono di qua i due occhi di un medesimo corpo, che non può l’uno di essi guardare una cosa senza che la guardi l’altro ancora: e perciò benché la cosa si vegga con due occhi, sempre pare una medesima. Siccome dunque tutti i Santi colà in cielo si formano alla volontà di Dio in tutte le cose, perché in tutte esse veggono l’ordinazione della sua giustizia e il fine della sua maggior gloria a cui vanno indirizzate; così sarà gran perfezione, che noi altri imitiamo in questo i Beati, volendo che si faccia la volontà di Dio qui in terra come si fa in cielo. Il voler quello che Dio vuole, per la medesima ragione e fine per cui Dio lo vuole, non può non essere cosa molto buona. Possidonio riferisce di S. Agostino nella sua Vita, che essendo la città d’Ippona, ov’egli risedeva, assediata da’ Vandali, e veggendo esso tanta rovina e mortalità, si consolava con quella sentenza d’un Savio: Non erit magnus magnum putans, quod cadunt ligna et lapides, et moriuntur mortales: Non sarà grand’uomo quegli che penserà, che sia una gran cosa che le pietre e gli edifici cadano, e che muoiano i mortali. Con maggior ragione dobbiamo noi altri consolarci, considerando, che tutte queste cose vengono dalla mano di Dio, e che questa è la volontà sua, e che quantunque la cagione per la quale Egli manda questi travagli e calamità sia occulta, non può essere che sia ingiusta. I giudicii di Dio sono molto profondi ed occulti; sono un abisso senza fondo, come dice il Profeta: Judicia tua abyssus multa (Psal. XXXV, 7): e non dobbiamo noi altri andargli investigando col nostro basso, corto e difettoso intelletto; che questa sarebbe gran temerità. Quis enim cognovit sensum Domini? aut quis consiliarius ejus fuit ((2) Ad Rom. XI, 34, et Isa. XI. Ì3)? Chi t’ha fatto del consiglio di Dio, per volerti intromettere in questo? Abbiamo però da venerare con umiltà i suoi profondi giudizi, e credere, che da Sapienza infinita non viene né può venire se non cosa molto buona, e tanto buona, che il fine di essa sia il nostro maggior bene e utilità (Supra c. 9). Abbiamo da camminare sempre con questo fondamento, credendo di quella infinita bontà e misericordia di Dio, che non manderebbe né proietterebbe simili mali e travagli, se non fosse per cavarne da essi beni maggiori. Vuole Iddio per questa strada guidare molti al cielo, i quali d’altra maniera andrebbero in perdizione. Quanti sono quelli che con questi travagli ritornano di cuore a Dio e morendo con vero pentimento de’ loro peccati si salvano, e altrimenti si sarebbero dannati? E cosi quel che pare castigo e flagello, è misericordia e beneficio grande. Nel secondo Libro de’ Maccabei dopo di aver l’Autore raccontata quell’orribile e crudelissima persecuzione dell’empio re Antioco, e il sangue che sparse senza perdonare a fanciullo né a vecchio, né a donna maritata né a vergine, e come spogliò e profanò il Tempio, e le abominazioni che in esso si commettevano per comandamento suo; aggiunge e dice: Obsecro autem eos, qui hunc librum lecturi sunt, ne abhorrescant propter adversos casus, sed reputent ea, quæ acciderunt, non ad interitum, sed ad correptionem esse generis nostri (II. Mach, VI, 12): Io prego tutti quelli che leggeranno questo libro, che non si perdano d’animo per questi sinistri avvenimenti; ma si persuadano, che Dio ha permessi e mandati tutti questi travagli non per distruzione, ma per emendazione e correzione della nostra gente. S. Gregorio (D. Greg. lib. 2 mor. c. 32) a questo proposito dice molto bene: La sanguisuga succhia il sangue dell’infermo, e quel che pretende, è saziarsi di esso e beverselo tutto se potesse; ma il medico pretende cavar con essa il sangue cattivo edar sanità all’infermo. Or questo è quello che pretende Dio per mezzo del travaglio e della tribolazione che ci manda: e siccome l’infermo sarebbe imprudente, se non si lasciasse cavare il sangue cattivo, avendo più riguardo a quel che pretende la sanguisuga, che a quello che pretende il medico; così noi altri in qualsivoglia travaglio che ci venga, sia per mezzo degli uomini, o sia per mezzo di qualsivoglia altra creatura, non abbiamo da riguardare ad esse, ma al sapientissimo medico Iddio, perciocché tutte esse servono a Lui di sanguisughe e di mezzi per evacuar il sangue cattivo e per darci intera sanità. E così abbiamo da persuaderci e credere, che ogni cosa Egli ci manda per maggior bene e utilità nostra. E ancorché non vi fosse altro che volerci il Signore gastigare in questa vita come figliuoli, e non differirci il castigo nell’altra; sarà questa una grazia e un beneficio molto grande. Si narra di S. Caterina da Siena (lu Vita S. Cath. de Sen. p. 2, e. 4), che trovandosi molto afflitta per una falsa accusa data contro di lei, toccante la sua onestà, le apparve Cristo nostro Redentore il quale teneva nella sua man dritta una corona d’oro, ornata di molte gioie e pietre preziose, e nella mano manca teneva un’altra corona, ma di spine, e le disse: Figliuola mia diletta, sappi, che è necessario che sii coronata con queste due corone in diverse volte e tempi; però eleggi tu quel che vuoi più tosto: o esser coronata in questa vita presente con questa corona di spine, e che quest’altra preziosa ti sia riservata per la vita che ti ha da durar in eterno, ovvero che ti sia data in questa vita questa corona preziosa, e per l’altra ti sia riservata questa di spine: e la santa vergine rispose: Signore, è già molto tempo ch’io rinunziai la mia volontà per seguir la vostra; perciò non tocca a me l’eleggere: tuttavia se voi, Signore, volete ch’io risponda, dico, che io sempre in questa vita eleggo l’esser conforme alla vostra santissima passione, e per amor vostro voglio abbracciar sempre pene per mio refrigerio: e detto questo prese la corona di spine colle proprie mani dalla sinistra del Salvatore, e se la pose sul capo con quanto poté di forza e con tanta violenza, che le spine glielo forarono tutto all’intorno talmente, che da quell’ora innanzi sentì per molti giorni un grave dolore nel capo per esservi entrate le spine.