LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (8) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (V)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (8)

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE, AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (V)

Mi sono alquanto diffuso nell’esempio di questo illustre Atleta della libertà Ecclesiastica. Ma non è egli il solo. Basta scorrere le vite dei Santi Pastori, per esempio di S. Ambrogio, di S. Anselmo, di S. Antonino, di S. Carlo Borromeo, e da per tutto si trovano luminosi esempi di giusta resistenza alla loro invasione dei laici. Ora avrebber essi esposta la loro vita e la pace della Chiesa per conservare l’immunità e la giurisdizione Ecclesiastica, se non lo avesser creduto necessario? O pure la Chiesa ricorderebbe con lode il lor coraggio apostolico, se nol credesse degno d’ammirazione? Passo al presente all’ultima ricerca, cioè della vita e dell’esempio necessario e nella pace, e nella persecuzione ad un Vescovo. Il Concilio di Trento ei somministra in pochi tratti il metodo di vita, e l’esemplarità dovuta da un Pastore in ogni circostanza in faccia al suo gregge; e da questo metodo sarà facile l’argomentare come debba diportarsi, quando vede se stesso, e la sua Chiesa perseguitata, e combattuta (Concil. Trident. Sess. 25 de reform. cap. 1). « Optandum est (dice il Sacro Concilio), ut ii, qui Episcopale Ministerium suscipiunt, quæ suæ sint partes, agnoscant; ac se non ad propria commoda, non ad divitias, aut luxum; sed ad labores, et sollicitudines pro Dei gloria vocatos esse intelligant. Nec enim dubitandum est, et fideles reliquos ad religionem, innocentiamque facilius inflammandos, si præpositos suos viderint non ea, quæ mundi sunt, sed animarum salutem, ac cœlestem patriam cogitantes. Hæc cum ad restituendam ecclesiasticam disciplinam præcipue esse necessaria Sancta Synodus animadvertat; admonet Episcopos omnes, ut secum ea sæpe meditantes factis etiam ipsis, ac vitae actionibus, quod est veluti perpetuum quoddam prædicandi genus, se muneri suo conformes ostendant: în primis vero ita mores suos omnes componant, ut reliqui ab eis frugalitatis, modestiæ, continentiæ, acquæ nos tantopere commendat Deo, sanetae humilitatis exempla petere possint. Quapropter exemplo Patrum nostrorum in Concilio Carthaginensi, non solum iubet, ut Episcopi modesta suppellectili, et mensa, ac frugali vietu contenti sint; verum etiam in reliquo vitæ genere, ac tota cius domo caveant, ne quid appareat, quod a sancto hoc instituto sit alienum; quodque non simplicitatem, Dei zelum, ac vanitatum contemptum præseferat. Omnino vero iis interdicit, ne ex redditibus Ecelesiæ consanguineos, familiares suos augere studeant: cum el Apostolorum canones prohibeant, ne res ecclesiasticas, quæ Dei sunt, consanguineis donent, sed, sì pauperes sint, iis, ut pauperibus, distribuant eas autem non distrahant, nec dissipent illorum causa: immo quam maxime potest, eos saneta Synodus monet, ut omnem humanum hune erga fratres, nepoles, propinquosque carnis affectum, unde multorum malorum in Ecclesia seminarium extat, penitus deponat. » [Sarebbe desiderabile che chi riceve il ministero episcopale conosca i propri doveri e comprenda di essere stato chiamato non per cercare la propria utilità, né per procurarsi ricchezze o vivere nel lusso, ma a fatiche e preoccupazioni per la gloria di Dio. Non c’è dubbio che anche gli altri fedeli saranno piú facilmente incitati alla religione e all’onestà, se vedranno i loro pastori preoccupati non delle cose del mondo, ma della salvezza delle anime e della patria celeste. Il santo Sinodo comprende che questi principi sono fondamentali per il rinnovamento della disciplina nella Chiesa ed esorta tutti i vescovi perché, meditandoli spesso, anche con i fatti stessi e le azioni della vita, si mostrino conformi al loro ufficio: cosa che può considerarsi un continuo modo di predicare. E prima di tutto, diano un andamento tale a tutto il loro modo di vivere, che gli altri possano prendere da essi esempio di frugalità, di modestia, di continenza e di umiltà, che ci rende tanto graditi a Dio. Sull’esempio, quindi, di quanto prescrissero i nostri padri al Concilio di Cartagine (412), non solo comanda che i vescovi si contentino di una modesta suppellettile, di una sobria mensa e di un vitto frugale, ma che si guardino bene perché nel resto della loro vita e in tutta la loro casa non vi sia nulla di alieno da questo santo genere di vita, che non mostri zelo per Iddio e disprezzo per le vanità. In modo particolare, poi, proibisce loro assolutamente di cercare di favorire esageratamente i loro parenti e familiari con i redditi della Chiesa, poiché anche i canoni degli apostoli proibiscono loro di donare ai loro parenti i beni ecclesiastici che sono di Dio. Se poi fossero poveri, li diano loro come poveri, ma non li sottraggano e non li dissipino per essi. Anzi il santo Sinodo li esorta vivamente, perché depongano del tutto questo affetto umano della carne verso i fratelli, i nipoti e i parenti, da cui nella Chiesa hanno avuto origine tanti mali. Le cose dette dei vescovi non solo devono valere tenuto conto del grado di ciascuno per tutti quelli che hanno benefici ecclesiastici, sia regolari che secolari, ma si stabilisce che debbano valere anche per i cardinali della Santa Chiesa Romana, poiché sarebbe inconcepibile che quelli col consiglio dei quali il Romano Pontefice governa la Chiesa universale, non debbano poi brillare per le virtù e per una vita castigata, che attiri a buon diritto gli sguardi di tutti. Vuole dunque il Sacro Concilio ed esige dai Vescovi: la Frugalità, la Modestia, la Continenza, l’Umiltà, non di qualunque ge- nere, ma tale, che tutti gli altri da loro ne possano prender esempio. Vuole e comanda, che queste belle virtù traspirino e nella loro mensa, e nelle loro suppellettili, e in tutta la loro famiglia di modo che da per tutto si veda semplicità, zelo della gloria di Dio, e disprezzo di tutte le vanità mondane. Vuole e comanda, che le rendite della Chiesa si impieghino in usi pii, e non mai in accrescere lo stato dei congiunti, avvertendo, che quest’umano affetto è nella Chiesa di Dio un seminario di molti mali.]. – Queste regole generali di vita per tutti i Pastori della Chiesa si possono vedere minutamente ridotte a una legge pratica dai Concili Provinciali di Milano celebrati sotto l’insigne Pastore di quella Chiesa, dico l’immortale S. Carlo Borromeo. Io ne ho riportato un breve squarcio. nell’Opuscolo intitolato: Abusi nella Chiesa: ma ciascuno può da se stesso molto meglio mettersi all’esame di quelle savissime leggi. Che se alcuno replicasse, che di que’ tempi il lusso tra i secolari non era così eccessivo, come ai tempi nostri, e che perciò più facilmente potevano moderare lo splendor della lor famiglia anche gli Ecclesiastici; rispondo: primo, che ciò è falso, perché l’istesso S. Carlo nella sua Istruzione ai Confessori dice espressamente così: Sono ridotte le pompe di questi tempi nel maggior colmo, che possano essere (Act. 4, p. 652, edit. Lugdun. ann. 1862). Secondo, perché quanto è maggiore il lusso nei secolari, tanto dev’essere maggiore la moderazione negli Ecclesiastici, essendo inutile ogni altro mezzo per estirpare il lusso, fino a tanto che i secolari potranno dire: che gli Ecclesiastici insegnano una cosa, e ne fanno un’altra. Se un arboscello è molto inclinato da una parte, non basta tirarlo al mezzo per raddrizzarlo, ma bisogna piegarlo violentemente dall’altra, perché lasciandolo in libertà torni al suo sito, e alla sua dirittura naturale. Altrimenti se uno si contentasse di tirarlo soltanto al mezzo, lasciandolo poi andare, ripiglierebbe subito la sua prima inclinazione. Voglio dire, che quanto è maggiore il lusso ne’ laici, tanto dev’essere maggiore la semplicità, e la frugalità degli Ecclesiastici, per riformare col loro esempio il mondo ingannato. Guardate, se siamo lontani che quella scusa abbia nessuna forza nel caso nostro. Certo è, che senza distinzione alcuna di tempo né di circostanze decide su questo particolare il Cardinal Bellarmino (ad Nepot. Controv. 8) così: « Certum est peccare mortaliter eos Episcopos, qui non sunt contenti frugali mensa, et tenui suppellectili, et reliqua non insumunt in reparationem Ecclesiæ, et usum pauperum ». Ed è da notare, che appoggia la sua decisione sull’autorità di (2, 2 qu. 183, art. 7) S. Tomaso. Replica non molto di poi spiegando sempre più chiaramente la sua opinione: « Frugalius vivere debent, multoque cum minori pompa, quam divites huius mundi. Negue conviviorum aut lautities illis est licita, neque alius domesticus apparatus. Nam, ut ait Hieronymus, de altari illis vivere fas est, non luxuriari. » – Passo innanzi adesso, e dico così: Se la frugalità, la modestia, l’umiltà, il disinteresse, la semplicità d’un Vescovo dev’esser somma in ogni tempo, molto più lo dev’essere in tempo di persecuzione. E perché? Perché questo è un mezzo necessario per recidere e per deludere la persecuzione medesima. Questa proposizione viene corroborata da tre gagliarde ragioni. Primo; perché questo è quello, che ordinariamente vuole Iddio col permettere la persecuzione. Secondo; perché questo è quello, che più spaventa il furore della Podestà secolare. Terzo; perché questo è quello, che rende un Vescovo quasi affatto libero per esercitare il suo ministero, e per difendere la sua Chiesa. Spiego tutte queste ragioni una per una.

Primo: Dio col permettere la persecuzione ordinariamente domanda riforma negli Ecclesiastici, e specialmente nei Pastori. Dunque in tempo di persecuzione i Pastori devono in singolar modo attendere a riformarsi non solo nello spirito, ma anche nell’esterno tenor di vita. Questo si prova con un argomento d’induzione. Imperocchè ordinariamente le persecuzioni si sono permesse da Dio in pena, e in emenda dei falli. Chi è colui, dice Geremia (Thren. III, 37 et segg.) il quale va dicendo, che i mali d’Israele sono accaduti senza comando del Signore? « Quis est iste, qui dixit, ut fieret, Domino non iubente? Ex ore Altissimi non egredientur nec bona, nec mala? » Questa diventa una falsa difesa dei peccati. Quid murmuravit homo vivens, vir pro peccatis suis? Esploriamo puree ricerchiamo i nostri passi, e torniamo al Signore; per questo Egli è divenuto inesorabile, e ha stesa dinanzi a’ suoi occhi una nube, perché non passino al suo cospetto le nostre orazioni: Scrutemur vias nostras, et quæramus, et revertamur ad Dominum… Nos inique egimus, et ad iracundiam provocavimus idcirco tu inexorabilis es…. Opposuisti nubem tibi, ne transeat oratio. Questo è quello, che dice anche Iddio per bocca del Profeta Amos (Am. III, 4): Osservate, se v’è male nessuno, che non sia stato fatto dal Signore: Si erit malum in civitate, quod non fecerit Dóminus. Io l’ho detto in altro luogo (Lettera a Sofia) su la scorta del Vangelo. Quando il vizio è arrivato a diseccare, o a infracidare molti tralci della vite, i quali non fanno più frutto, viene l’agricoltore celeste, e gli recide, e gli (Joa. XV, 2) separa; e in quella stessa occasione rimonda i tralci fruttiferi, acciocchè facciano più frutto. Quando tra il grano eletto si è mescolata molta paglia, il capo di famiglia prende in mano il vaglio (Luc. III, 17), e separa l’uno dall’altra, raduna il frumento nel suo granaio, e ammucchia le paglie sul fuoco per arderle. Quando la religione è divenuta quasi soltanto una esterior apparenza, e lo zelo non si distingue ormai più dall’interesse, perché producono quasi gli stessi effetti, allora Iddio permette nella sua Chiesa una gran tentazione; affinché (Luc. III, 34, et 35) si scuoprano gli occulti pensieri dei cuori (Joan. II, 19) ipocriti. Per questo Iddio permise la profanazione del Tempio (2 Machab. V, 17 et sequ. VI, 12 et seq.) sotto Antioco, e non la permise. sotto Seleuco, cioè « propter peccata habitantium civitatem… propter quod et accidit circa locum destructio. . .. perché non propter locum gentem, sed propter gentem locum Deus elegit. Ideoque et ipse locus particeps factus est populi malorum. » La permise Iddio per correzione del suo popolo: « Reputent ea, quæ ceciderunt, non ad interitum, sed ad correctionem esse generis nostri.» Per questo Iddio permise nella sua Chiesa la crudele persecuzione di Decio, e di Diocleziano, come osservano Eusebio, e S. Cipriano (Eused. hast. lib. 8, c. 1, S. Cypr. ep. 7, et lib. de Lapsis edit. Venet. 1758, col. 435); rilevando specialmente la corruttela, la negligenza, l’avarizia dei Pastori di quel tempo. Per questo ha permesso Iddio tant’altre (Sanct. Bernardin. Senens, in Apoc. cap. 2 Edit. Venet. 1745, 1.5, p. 18) persecuzioni nella sua Chiesa; e ciò ben si conosce col riflettere, che le persecuzioni non sono ordinariamente cessate, se non con qualche riforma specialmente degli Ecclesiastici; e così avvenne dell’eresia di Lutero, la quale non fece gran progressi dopo le riforme del Concilio di Trento. Dunque ogni qual volta si vuole il termine di qualche atroce persecuzione: Scrutemus vias nostras, et quæramus, et revertamur ad Dominum; altrimenti non avranno nessuno forza le nostre orazioni; Opposuisti nubem tibi, ne transeat oratio.

Secondo: non v’è cosa, che spaventi tanto la podestà secolare, quanto la sobrietà, l’umiltà e il disinteresse d’un Vescovo. Dunque in tempo di persecuzione sono sommamente necessarie queste virtù in un Pastore per far argine alle invasioni della secolar podestà. La ragione è molto chiara, se si rifletta, che l’idolo del mondo è l’interesse, l’onore, e la grandezza, e che queste sono le cose, che nel mondo si stimano, e che queste sono i premi, che dà il mondo, e che la privazione di questi beni è uno dei maggiori castighi del mondo. Quando adunque il mondo vede un Vescovo, che non cura nessuna di queste cose, si spaventa ne’ suoi disegni, perché non ha più come assalirlo, né con speranza di premi, né con minacce di povertà, e d’esilio, e in conseguenza resta molte volte avvilito nelle sue pretese. Infatti le prime mosse del mondo contro la Podestà Ecclesiastica incominciano d’ordinario dall’impadronirsi de’ suoi Beni, per avere in mano il freno; con cui regolare a capriccio la sua giurisdizione, e la sua fede. Dunque non v’è un mezzo migliore in tempo di persecuzione per resistere alle macchine del mondo, quanto un totale disprezzo de’ suoi beni. – In fine il disinteresse è quello, che rende un Vescovo. Quasi affatto libero nell’esercizio del suo ministero e nella difesa del suo gregge. Dunque il disinteresse è sommamente necessario al Vescovo in tempo di battaglia. Anche questo si manifesta ad evidenza riflettendo, che le Maggiori tentazioni per tradire il proprio impiego nascono d’ordinario dalla cupidigia d’avere, o di conservare i beni del mondo; e quanto più uno è spogliato di questo attacco, tanto è più coraggioso per intraprendere qualunque affare di servigio di Dio, e della Chiesa; ma dei primi non è così: « Qui volunt divites fieri in tentationem, et in laqueum diaboli, ‘et desideria multo inutilia, et nociva, quæ mergunt homines in interitum, et perditionem. Radix enim omnium malorum est cupiditas: quam quidam appetentes erraverunt a fide.  Al contrario coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione. L’attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori. – 1 Timot. VI, 9 ».  E pure troppo è verissimo quello, che dice, e ripete l’Ecclesiastico (Eccles. XI, 10): Si fueris dives; non eris immunis a delictose esagererai, non sarai esente da colpa; e (XXXIV, 5) si aurum diligit, non iustificabitur – se ami l’oro, non sarai giustificato … Onde per evitare questi pericoli non v’è altro rimedio, che posseder le ricchezze, come se non si avessero, ed esser poveri di spirito in mezzo all’abbondanza. Per questo anche ha detto Gesù Cristo quella gran sentenza: (Luc. XIV,  33). Qui non renuntiat omnibus, quæ possidet, non potest meus esse discipulus; che chi non rinunzia coll’affetto a tutto ciò che possiede, non può essere discepolo. Ora dico io, come può essere distaccato col cuore dai beni della Chiesa quel Vescovo, il quale se ne serve per far buona comparsa nel mondo, e mette prima da parte tutti i suoi comodi, e tutta quella, che il mondo chiama decenza dello stato superiore talvolta alla decenza dei ricchi del secolo; e poi destina gli avanzi, e le briciole, che cascano dalla mensa, al sovvenimento dei poveri, i quali per altro sono quasi egualmente padroni dei beni della sua Chiesa? Come può un tal Vescovo aver le mani libere per esercitare la sua autorità, e per difendere la sua fede, quando il mondo lo minacci di spogliarlo di tutto quello, che sino allora amò con tanta sollecitudine? Non mancheranno pretesti e dettami per acquietare insieme la propria cupidigia, e la propria coscienza; e si vorranno conciliare insieme questi due padroni, cioè Dio, e il mondo; ma sì perderà certamente Iddio, perché servire a due padroni non si può; e questo è di fede. – Ma un Vescovo, che non abbia attacco né ai suoi comodi, né al proprio lustro, e che possa dire, che il mondo non trova in lui niente del suo, non ha nemmeno nessuna paura della morte. Ma un Cristiano frugale, e disinteressato non ha grande inimicizia colla morte, perché la morte poco gli può togliere, e molto gli può dare col metterlo ai confini di quell’eternità, dove sarà liberato di tutto il peso del suo ministero, e riceverà cento per uno di tutto quello, che fedelmente ha distribuito ai poveri. Oltre a che Dio è impegnato ad aiutare in tale circostanza quel servo fedele, che ha mostrato tanta cura della sua famiglia, e che ha vestito e sfamato tante volte Lui medesimo nella persona de’ suoi poverelli. Dunque la frugalità, e il disinteresse rendono un Vescovo libero, e coraggioso nell’esercizio della sua giurisdizione e nell’insegnamento della Fede. Dunque la frugalità, e il disinteresse sono oltremodo a lui necessari in tempo di persecuzione, in cui si combatte la Fede e l’Autorità della Chiesa. E con ciò io credo di aver abbastanza soddisfatto a quei tre articoli, che mi proposi ad esaminare sin da principio scorrendo quei punti principali, che potrebbero esigere qualche esame in queste circostanze. Sarebbe stato facile il recare più esempi, o più autorità intorno ad ogni quesito. Ma questa non è un Opera; è un Opuscolo, che può correre agevolmente per le mani di molti senza spaventare colla sua mole, e col suo peso chi si presenta a riguardarlo, e a leggerlo. Questo è stato il costume di molti Padri, come per esempio di Tertulliano, di S. Ambrogio, di S. Cipriano, di S. Bernardo, di S. Pier Damiani, e di più altri. V’è la sua utilità nelle Opere grandi, e v’è nelle piccole. Ognuno segue il suo talento, il suo genio, e i suoi fini.

F I N E

LA PARUSIA (8)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (8)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE Rue de Rennes, 117 – 1920 TOUS DROITS RÉSERVÉS

ARTICOLO OTTAVO

LA PAROUSIA NELLE EPISTOLE DEGLI APOSTOLI, GLI ULTIMI GIORNI, IL DECLINO DEI SECOLI.

Bossuet, nel libro IV della sua Storia delle Variazioni, dà un bell’esempio del modo in cui coloro che si impegnano nella lettura della Scrittura e dei Padri diventano confusi, privi di una sufficiente preparazione teologica, ignorando le regole dell’ermeneutica sacra e i suoi principi fondamentali, disdegnando qualsiasi guida dalla tradizione o dal magistero della Chiesa, e per dirlo in una parola, con le sole risorse delle loro belle menti e della comune critica letteraria. L’esempio ci viene offerto nella persona di Melantone, che fu al suo tempo il più rinomato degli umanisti tedeschi, e rappresenta, inoltre, tutto ciò che era più o meno rispettabile tra i grandi capi della Riforma. Questo Melantone, al quale non si poteva negare una certa dose di sincerità e di zelo per la religione senza ingiustizia, aveva iniziato sostenendo con forza la realtà della presenza di Gesù Cristo nel sacramento dell’Eucaristia. Aveva persino composto un libro del “Sentimento dei Santi Padri sulla Cena del Signore“, in cui aveva raccolto molti passaggi esplicitanti la verità del dogma cattolico. Solo che, nel corso del tempo, si era reso conto che, tra il gran numero di testi citati, molti erano falsamente attribuiti a coloro che non ne erano gli autori, e questa spiacevole scoperta era stata la causa della sua prima delusione. Ben presto sorse un altro motivo di imbarazzo, più serio e fondamentale, che Bossuet spiega in questi termini: « Ciò che lo imbarazzava di più era trovare negli antichi molti luoghi dove chiamavano l’Eucaristia una figura. Ha raccolto i passaggi e si è stupito, dicendo di vedere una grande diversità in essi. Egli era un debole teologo che non si rendeva conto che lo stato di fede e di questa vita non ci permetteva di godere di Gesù Cristo allo scoperto, per cui si è dato in una forma estranea, unendo necessariamente la verità con la figura, e la presenza reale con un segno esterno che ce la coprisse. È da ciò che viene nei Padri questa apparente diversità che stupiva Melantone. La stessa cosa gli sarebbe apparsa, se ne avesse preso atto, sul mistero dell’Incarnazione e sulla divinità del Figlio di Dio, prima che le dispute degli eretici avessero obbligato i Padri a definirli con maggior precisione . E in generale, ogni volta che è necessario accordare insieme due verità che sembrano contrarie, come nel mistero della Trinità e in quello dell’Incarnazione, essere uguale ed essere meno (uguale al Padre, e meno di Lui), e nel sacramento dell’Eucaristia – essere presente ed essere in figura (presente sostanzialmente, ma sotto specie estranee) -. L’uso rende naturalmente il linguaggio che sembra confuso, a meno che non si abbia, per così dire, la chiave della Chiesa, e la piena comprensione di tutto il mistero… Melantone non sapeva così tanto… Grande umanista, ma solo un umanista, aveva a malapena potuto imparare l’antichità ecclesiastica dal suo maestro Lutero, ed era tormentato da una strana specie di contrarietà che credeva di vedere nei santi Padri. »  Tale fu, secondo Bossuet, la storia dei dubbi di Melantone all’inizio, poi dei malintesi e infine delle palinodie sul dogma dell’Eucaristia. Ora, la storia è degna di nota, da ricordare, perché non è un caso isolato, né un incidente fortuito; è, al contrario, un caso che si ripete con la costanza e la regolarità di una legge, ovunque l’interpretazione delle Scritture sia lasciata, come qui, alle sole risorse della letteratura e della mente privata. È ripetuto, in particolare sul punto preciso della parusia, dai nostri modernisti attuali, che vediamo sconcertati, allo stesso modo e nelle stesse condizioni, dalle contraddizioni che credono di trovare negli scritti degli Apostoli. Infatti, non leggiamo forse in San Paolo, per esempio, per non parlare di altri, che la parusia era vicina, che era alle porte, che non poteva essere ritardata, e d’altra parte che non bisognava dare alcun credito alle voci diffuse sull’imminenza della sua venuta? Nessuno di essi doveva realizzarsi, dico, e per la buona ragione che prima del suo arrivo, dovevano essere realizzati molti degli eventi, ed i più considerevoli. E come possiamo conciliare insieme cose che sembrano così contrarie? … essere vicino ed essere lontano? Ancora nell’ignoto del futuro, e già in vista, già sul punto di essere realizzato? – Quindi ci sarà una doppia spiegazione. Per coloro che usano «la chiave della Chiesa », la chiave che dà « la piena comprensione di tutto il mistero » come previsto dalla Scrittura, riconosceranno senza difficoltà i due punti di vista che abbiamo spiegato a lungo negli articoli precedenti. Diranno che la parusia secondo San Paolo, per quanto remota possa essere stata in relazione all’universalità del mondo, era allo stesso tempo molto vicina in relazione ad ogni uomo in particolare, e a quelli in particolare, la maggior parte dei quali erano arrivati alla fine della loro carriera, che l’Apostolo esortava e aveva direttamente in vista. E questa spiegazione, così naturale e così semplice, finché si comprende il principio su cui poggia, ha il doppio vantaggio di dare da un lato, piena soddisfazione alla mente, e dall’altro, di essere in completo accord con i dati generali della fede, che non soffrono nei libri ispirati di errori di alcun tipo. Ma quanto diversa sarà la soluzione di coloro che, senza alcuna preoccupazione per la chiave di cui la Chiesa è custode, senza alcun riguardo per la regola della tradizione, senza essersi mai presi la briga di sapere che esista un glossario proprio degli Scrittori sacri, sono rimasti, come Melantone, “solo umanisti”! Essi non sapranno dire altro se non: … che le prime generazioni cristiane erano ossessionate dall’idea che il mondo stesse per finire, e che, nonostante certi tratti sparsi che ci mostrano San Paolo affrancato a volte da questa ossessione (Duchesne, Histoire ancienne de l’Eglise, tom. 1, cap. 4, pag. 41 – edizione 1900), bisogna ammettere che ha pesato nella mente degli stessi Apostoli, e anche nella scrittura delle loro lettere, che ogni Cristiano è tenuto a riverire come scritte sotto la dettatura o l’ispirazione dello Spirito di Dio. E questa è la loro spiegazione: una spiegazione che è apertamente contraria alla fede cattolica, ma alla quale li conduce fatalmente la loro ignoranza – in cui essi sono – degli idiotismi della Scrittura, e della maniera propria di alterare le cose.  Altrettanto si deve dire ora delle conclusioni che essi traggono da un’altra classe di testi, che la continuazione del nostro soggetto ci porta ad esaminare; intendo quelli in cui gli apostoli chiamano comunemente il tempo in cui vivevano, gli “ultimi giorni” (Act,, II, 16 segg.. ; II Tim,, III, 1 ; Piet. III, 3, etc.), “l’ultima ora” (I Joan., II 18), o “la fine e il declino dei secoli” (I Cor,, x, Hebr., IX, 26).

*****

Certamente, se c’è un punto in cui la Scrittura ha un modo di parlare che è interamente proprio, è quello che riguarda la cronologia del mondo. Per convincersene, basterebbe aprirla dalla primissima pagina, dove si racconta la formazione dell’universo in sei diversi periodi chiamati i sei giorni. È vero che si potrebbero riempire intere biblioteche con le diverse e contraddittorie opinioni che sono state espresse nel corso dei secoli riguardo ai giorni della Genesi. Cosa non è stato detto, cosa non è stato scritto?  Tuttavia, sembra che oggi, dopo tante scoperte nelle viscere della terra, dove si conservano intatte le registrazioni autentiche del processo della creazione (almeno dal momento in cui iniziò l’individualizzazione della terra con la sua separazione dalla massa primitiva), sia difficilmente possibile conservare il minimo dubbio sul loro vero significato. Lasciamo dunque da parte l’interpretazione di Sant’Agostino: un’interpretazione alla quale fu portato solo da una versione errata di un testo dell’Ecclesiastico (Ëccl., XVIII, 1 – Sant’Agostino leggeva con la Vutgata: Qui vivit in æternum creavit omnia simul, Colui che vive eternamente ha creato tutto nello stesso tempo. Invece il Greco recita: ha creato tutto, [κοινή = koine], communiter, cioè tutto senza eccezione, ed anche, e principalmente, come egli stesso spiega in varie occasioni, per la necessità di sfuggire a difficoltà di natura fisica, per le quali non vedeva, nello stato delle scienze naturali del suo tempo, alcun tipo di soluzione (De Gen. ad litt , liv. 1, c. 19; liv. IV, c. 28, et alibi passim). Non parliamo nemmeno dell’invenzione di alcuni moderni, per i quali la settimana della Genesi sarebbe stata solo una settimana comune e volgare, durante i sei giorni della quale Dio avrebbe presentato all’Adamo appena creato, in altrettanti quadri distinti, cioè in sei grandi visioni immaginarie, la storia dell’origine delle cose. Questa è una strana idea, perché ci permetterebbe ancora di dire che Dio abbia rivelato la creazione del cielo e della terra in sei giorni, ma non che li abbia fatti in sei giorni, come la Scrittura afferma formalmente in molti luoghi (Esodo, XX, 11; XXXI, 17, ecc.). Non impantaniamoci ulteriormente nella vecchia opinione classica che riteneva che questi giorni della creazione fossero giorni di ventiquattro ore: un’opinione che è stata smentita e dimostrata insostenibile, non tanto dagli scavi effettuati nelle viscere della terra, quanto dalle sorprendenti particolarità del testo di Mosè. Dico: “le particolarità del testo di Mosè”, tra le quali ce n’è una che, più delle altre, deve attirare qui la nostra attenzione. È questa è quella per cui i giorni dei quali si parla sono chiaramente giorni che, lungi dall’essere regolati dal corso uniforme del sole o di qualsiasi altra stella, non hanno altra misura della loro durata che la durata stessa delle opere a cui corrispondono, e secondo le quali si distinguono; essi cominciano con l’inizio di un’opera e finiscono con la fine di quella stessa opera; si dispiegano e si succedono secondo lo svolgimento e la successione delle grandi fasi dell’opera di formazione del mondo, e così si configurano come giorni di una condizione molto diversa da quelli che compongono le nostre settimane, mesi e anni (Dixitque Deus: fiat … et factum est ita. . et factum, est dies unus, dies secundus, dies tertius, etc.). – Restano dunque da considerare grandi epoche cosmiche, che la Scrittura, è vero, ci descrive solo nei loro tratti più generali e salienti; ma anche così, bisogna riconoscere, in tutte le cose almeno suscettibili di passare attraverso il nostro controllo, che in modo meraviglioso concordano con i dati più certi delle nostre scienze moderne, e specialmente della geologia. Infatti, una volta messo da parte l’opera dei primi due giorni, che è estranea alla geologia propriamente detta, « che comprende solo il tempo che va da quando la terra ha cominciato a depositarsi sul fondo dei mari e la vita poté nascere e svilupparsi sulla sua crosta sufficientemente raffreddata. » (A. de Lapparent, trattato di Geologia, Morfologia della Terra), non c’è nulla nella descrizione di Mosè che non sia sostenuto nel modo più chiaro, non dico da ipotesi o congetture, ma dalle conclusioni meglio fondate di questa scienza: sia che si tratti della prima formazione dei mari e dell’asciutto, o in altre parole, dei continenti, con cui inizia l’opera del terzo giorno, o della mirabile vegetazione che ebbe luogo in quel momento sulle terre appena emerse, e ci valse quegli immensi depositi di carbone in cui l’industria moderna ha trovato il principio della sua forza motrice; sia che si tratti della nuova ripartizione del calore e della luce che ebbe luogo al quarto giorno, con l’organizzazione definitiva del nostro attuale sistema solare, e con la quale è iniziata la differenza dei climi; o, infine e soprattutto, dell’ordine secondo il quale la vita animale ha preso gradualmente possesso del nostro pianeta, con la creazione prima degli animali acquatici, poi delle bestie terrestri, e infine dell’uomo (cf. de Lapparent, op. cit., passim). Tali, dunque, sono i giorni della Genesi: epoche di immensa durata, divise tra loro secondo i diversi progressi con cui è piaciuto a Dio di portare il mondo dallo stato informe e caotico in cui la fece nella prima creazione, allo stato di bellezza e perfezione in cui lo vediamo attualmente. Perché “colui che poteva fare tutte le cose, che poteva con un solo decreto della sua volontà creare e disporre tutte le cose, e con un solo tratto della sua mano, per così dire, mettere l’abbozzo e la finitura nel suo quadro, nello stesso tempo disegnarlo, progettarlo e perfezionarlo, ha tuttavia voluto… fare e segnare l’abbozzo della sua opera, prima di mostrare la sua perfezione; e dopo aver fatto prima come lo sfondo del mondo, ha volute poi farne l’ornamento con sei diverse progressioni che ha voluto chiamare sei giorni” (Bossuet, Elevazioni, terza settimana, V). Sei giorni! Certamente, nessuno negherà che c’è un modo di dire che non è simile alla maniera del discorso ordinario; che non comporta le convenzioni usuali, specialmente per quanto riguarda lo stile unitario della narrazione semplice, di cui si cercherebbe invano un altro esempio nella letteratura profana, e che, tuttavia, deve essere riconosciuto come appartenente al glossario proprio della Scrittura, agli occhi della quale, « mille  anni sono come il giorno di ieri che è passato, e come una guardia della notte » (Psal. LXXXIX, 4). Ora, ciò che ora richiede di essere ben considerato, è che questo modo così particolare di distinguere le epoche attraverso la durata dei tempi geologici, è stato poi esteso ai tempi della nostra storia, per quanto riguarda la continuazione della Religione, dal suo primo inizio dopo la caduta originale, al suo termine finale alla consumazione dei secoli. « Vedo – dice S. Agostino – nel testo delle Scritture divine, come sei età di opera che sono distinte l’una dall’altra da certe linee di demarcazione, e hanno un rapporto di somiglianza con i sei giorni nei quali si dice che Dio abbia fatto il cielo e la terra » (August., de Genes. contra Manichæos, liv, I c. 23). Pertanto: « In  principio Dio fece il cielo e la terra, e da allora, tempo fino al tempo presente compreso, ci sono sei età, come sapete per averlo spesse volte sentito dire: da Adamo al diluvio, dal diluvio ad Abramo, e secondo quanto continua e distingue San Matteo nel suo Vangelo, da Abramo a Davide, da Davide al ritorno dalla deportazione a Babilonia, dal ritorno dalla deportazione a Babilonia al primo avvento di Gesù Cristo, da lì alla fine del mondo (August, in Joan., tract. 9, n. 6. – Cfr. Contra Faustutn, lib. XII, c. 8; Contra Adimantum, c. 7, ecc.) » E queste diverse età sono divise tra loro, non da una lunghezza o misura fissa del tempo, come i nostri giorni, i nostri anni e i nostri secoli, ma solo – come i giorni della Genesi – secondo i diversi progressi che hanno segnato l’evoluzione della Religione sulla terra, la quale, sempre una e identica a se stessa, quanto alla sua sostanza, ha tuttavia subito varie fasi o stati successivi: « Sotto la legge di natura e sotto i Patriarchi, sotto Mosè e sotto la Legge scritta, sotto Davide e sotto i Profeti; dal ritorno dalla cattività fino a Gesù-Cristo, ed infine sotto Gesù-Cristo stesso, cioè sotto la Legge della grazia e sotto il Vangelo (questa distinzione delle diverse età della Religione dovrebbe essere annotata attentamente come una chiave per la soluzione di molte difficoltà. Quanti ci sono, per esempio, per i quali le cose dell’antica storia sacra sembrano al di là di ogni credenza, per la ragione che vogliono giudicarle solo secondo il criterio proprio dei tempi del Vangelo, simili in questo a persone che pretenderebbero di vedere in inverno ciò che appartiene solo alla stagione estiva, o viceversa. Questo è ciò che Sant’Agostino osserva spesso nei suoi libri contro Faustus il Manicheo, ed altri oppositori della Legge e dei Profeti). » – Innanzitutto c’è l’epoca patriarcale. Vediamo in essa l’inizio della rivelazione nei suoi due articoli fondamentali, riguardanti il fine soprannaturale, da una parte, e la provvidenza che ci conduce ad esso, dall’altra (Heb., VI); poi, non appena il peccato ebbe rovesciato la prima economia, la promessa del recupero da parte del Redentore (Gen., III, 15). Allora, la fede in questo Redentore a venire, unita all’osservanza della semplice legge naturale, formava la base della Religione, che, inoltre, non aveva altra forma sociale che la famiglia, né altro governo che l’antico governo della razza umana, in cui ogni padre di famiglia era un principe nella sua propria casa. Questo stato di cose durò fino al diluvio. – Dopo il diluvio essa fu ristabilita e rimessa in vigore, con le poche aggiunte richieste dalle nuove condizioni dell’umanità rinata. Solo che queste stesse condizioni dovevano peggiorare sempre di più, perché man mano che ci si allontanava dall’origine delle cose, gli uomini confondevano le idee che avevano ricevuto dai loro antenati; i figli ignoranti o non istruiti non volevano più credere ai loro decrepiti nonni che conoscevano appena dopo tante generazioni. D’altra parte, era sorto e già minacciava di infettare il mondo intero un nuovo male, il male dell’idolatria. – Fu allora che, con la vocazione di Abramo, si inaugurò una nuova e memorabile fase della Religione, dopo le due precedenti, l’ante e post diluviana, e l’era patriarcale (Bossuet, Hist. univ., IIe partie, c. 1, passim.). Nella persona di Abramo, dobbiamo vedere il popolo di cui era la sorgente, il popolo che Dio voleva riservare per sé separandolo dagli altri, per conservare le sue leggi e preparare l’avvento del Redentore. Ecco i suoi primi inizi nelle tende di Mamre, Socoth e Sichem; poi la sua emigrazione in Egitto, la sua prodigiosa moltiplicazione, la sua liberazione dalla schiavitù, le sue peregrinazioni nel deserto, il suo ingresso nella terra promessa, le sue lunghe guerre contro le popolazioni palestinesi, seguite infine dal possesso pacifico e tranquillo della terra che Dio aveva designato come sua dimora. Tutto questo per completare la terza età. E questa terza epoca sarà segnata da tre grandi fatti che sono caratteristici tra gli altri: in primis il rinnovo più volte ripetuto della promessa fatta quasi dopo la caduta sulla culla del mondo; in secondo luogo, con l’istituzione della circoncisione come segno e sigillo dell’alleanza stipulata da Dio con i discendenti di Abramo, dai quali doveva uscire il Messia promesso; e infine, e soprattutto, la promulgazione della legge di Mosè, le cui numerose osservanze, tutte figurative del Cristo a venire, dovevano essere innestate per i Giudei sullo sfondo immutabile e sempre presente della legge primitiva. E così alla Religione patriarcale successe la Religione mosaica, che tuttavia era ancora nella sua prima fase, non raggiunse il suo pieno e regolare esercizio fino all’inizio della quarta età, che si apre con l’avvento di Davide. Infatti, durante tutto il periodo dei Giudici ed il regno di Saul che lo seguì, il servizio del culto era stato stabilito solo provvisoriamente. Il tempio, che il Deuteronomio (XII, 5 e seguenti) designava come centro e fulcro della religione d’Israele, mancava sempre, e fu Davide per primo che, dopo aver stabilito il suo trono e completato la pacificazione di tutto il paese, ne decise la costruzione, ne designò il luogo,  ne raccolse i materiali, lasciando a suo figlio Salomone il compito di realizzare ciò che aveva solo preparato. La fondazione del tempio fu quindi un evento considerevole. Essa segnò l’inizio del regolare funzionamento dell’istituzione mosaica, e quindi il punto di partenza di una nuova era, che tuttavia doveva distinguersi dalle precedenti per un carattere ancora più rimarchevole ed ancor più nettamente caratterizzato.  – Infatti, mentre il culto della vecchia legge raggiungeva il suo pieno sviluppo, il sole pieno della profezia messianica stava anche sorgendo all’orizzonte di Israele. La quarta epoca sarà per eccellenza l’epoca dei profeti « a Samuel e deincepsda Samuele e da quanti parlarono in seguito » (Act., III, 24): dei grandi profeti, dico, la cui successione si svolge su un periodo di tempo di più di cinquecento anni, con annunci ammirevoli nei quali le caratteristiche del Messia atteso sono sempre più chiaramente definite e determinate diventano sempre. Si tratta di David, Isaia, Michea, Gioele, Osea, Geremia, Ezechiele, Daniele e altri. E che nomi sono questi! Che magnifici oracoli! Che aumento continuo delle luci della rivelazione! Che marcia progressiva verso quella pienezza dei tempi in cui, con tutte le promesse realizzate, la Religione raggiungerà finalmente il suo apogeo! Tuttavia, non siamo ancora arrivati a questo punto. – Rimane, a separarci da essa, tutta la quinta età, che comprenderà i tempi del secondo tempio costruito da Zorobabele dopo il ritorno dalla cattività. Questo è il periodo di attesa. Tre cose sono particolarmente evidenti: la chiusura della profezia dell’Antico Testamento (Mal., IV, 4-6); l’ultimo segnale dato dell’arrivo relativamente vicino del Desiderato da più di quaranta secoli (Agg., II, 7-10; Zach., IX, 9; Malach, III, 1); infine, la diffusione dei Giudei nelle principali parti del mondo, in Asia superiore, nell’Asia minore, nell’Egitto, Grecia, e persino nel centro stesso dell’impero di Roma, per diffondervi le Scritture, per far risplendere il Nome e la gloria del Dio d’Israele tra i gentili, per porvi le prime fondamenta e come il primo innesco della loro futura conversione al Messia che verrà. – Infine, Gesù Cristo è apparso al tempo predetto dai profeti, per adempiere tutto ciò che i profeti avevano predetto. Egli predica la Sua dottrina celeste, … fonda la sua Chiesa, istituisce i suoi sacramenti .., si offre sulla croce come vittima propiziatoria per i peccati di tutti noi, risorge, ascende al cielo, aprendoci le porte della vita eterna per la potenza del suo sangue. Non appena salito al cielo, promulga la sua legge attraverso i suoi Apostoli; per loro mezzo la stabilisce in tutto il mondo, ed ecco ora arriva la sesta età. – Questa è l’epoca della rivelazione ormai chiusa, del compimento di tutte le figure, dell’ultima fase della Religione sulla terra, dopo la quale non ne verranno altre, né potrebbero venirne altre. Infatti la legge evangelica, chiamata anche legge della grazia, portava con sé la pienezza delle ricchezze della redenzione, il dono di tutto ciò che le leggi precedenti rappresentavano in speranza, e contenendone le promesse. Di conseguenza, essa si sostituiva a tutte loro, le abrogava tutte, non per essere abrogata in seguito e sostituita da un’economia migliore, ma per durare in perpetuo, senza alcuna sottrazione, aggiunta o modifica, fino al giorno del Signore che viene a chiudere l’intera serie dei tempi ed inaugura il culmine di tutte le cose nelle glorie della beata eternità. Questo è ciò che San Paolo mostra e sviluppa così magnificamente nella splendida epistola agli Ebrei, che dovrebbe essere qui riportata e commentata dall’inizio alla fine (Heb. VII-XII). –  Questo è ciò che chiunque abbia praticato le nostre sacre lettere riconoscerà immediatamente come il carattere proprio della nuova legge e la differenza essenziale che la distingue da tutte le istituzioni delle epoche precedenti. Questa, infine, è la chiave per una chiara comprensione del vero significato di queste espressioni, “gli ultimi giorni“, “l’ultima ora“, “la fine o il completamento dei secoli“, nello stile degli scrittori sacri. Perché queste non erano locuzioni impiegate per significare un breve intervallo di tempo fino alla catastrofe suprema, ma per designare, secondo ciò che è stato appena esposto, l’ultimo e definitive stato della Religione quaggiù, e di conseguenza anche dal punto di vista che è quello della Scrittura, l’ultima età dell’umanità: ma si noti bene, l’ultima età di cui nulla però ne determina la durata, breve o lunga che sia, che fu sempre nascosta nel segreto impenetrabile in cui piacque a Dio di confinarla. Ciò che San Tommaso, seguendo Sant’Agostino, spiega paragonando la vecchiaia, che è l’ultima età della vita umana, e si distingue proprio per questa particolarità che non è come l’infanzia, o la giovinezza, o la maturità, comprese entro limiti precisi; ma essa non ha un termine prefissato, nessun limite definito, nessuna misura determinata che possa essere assegnata in anticipo. E così, possiamo dire, che è, con le debite proporzioni, per questi « ultimi giorni », questa « ultima ora », questa « fine dei tempi », che è così frequentemente menzionata negli scritti apostolici. Invano si vorrebbe vedere in essi un’indicazione che non c’è assolutamente, poiché sarà sempre vero dire che la vecchiaia è l’ultima ora e l’ultima fase della nostra vita; il che non impedisce che talvolta non solo eguagli, ma anche superi in durata ciascuna delle età che l’hanno preceduta. (« Dicendum quod ex hoc quod dicitur, novissima hora est, vel ex similibus locutionibus quæ in Scriptura leguntur non potest aliqua quantitas temporis sciri. Non enim est dictum ad significandum aliquam brevera horam temporis, sed ad significandum novissima ætas quæ quanto spatio duret, non est definitum, eum etiam nec senio quod est ultima ætas hominis, sit aliquis certus terminus definitus », S. Thom, Suppl, q. 88, a. 3 ad 3).

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Questa è dunque la solida spiegazione che ci fornisce, riguardo alla presente difficoltà, la tradizione patristica. E questa spiegazione, già così ben fondata in se stessa, riceverà ora una nuova e più ampia conferma dalla tradizione della Sinagoga: dalla Sinagoga, dico, la cui autorità, immagino, nessuno penserà di contestare, per quanto riguarda il significato da attribuire alle espressioni usate dagli antichi profeti. Ora, è un fatto ricepito e accettato senza dubbio da tutta l’esegesi rabbinica, che nel linguaggio dei profeti, la formula « gli ultimi giorni » designa puramente e semplicemente i tempi del Messia e della sua legge. « È nella tradizione degli antichi Ebrei – osserva Rosenmüller con la sua ben nota competenza –  che con la formula novissimi dies si designano i tempi messianici (Rosenmüller, in Isaia, II, 2; Gerem., XLVIII, 47; XLIX, 39, ecc.). Cosa si deve intendere per tempi messianici? Indubbiamente, come indica il nome stesso, tutto il periodo dalla venuta del Messia fino alla consumazione dei tempi, in altre parole, dal primo al secondo avvento del Signore. Vogliamo di più? Ebbene, ecco ciò che sarà ancora più conclusivo: è che questo stesso significato, come vedremo, è quello che emerge invariabilmente dalla detta formula o dai suoi equivalenti, in tutti i passi degli scritti apostolici che ci oppongono i nostri avversari i modernisti. Quando San Pietro, per esempio, nel discorso inaugurale rivolto alla moltitudine accorsa alle porte del cenacolo dopo il prodigio di della prima Pentecoste, iniziava dicendo: “Quello che vedete è ciò che è stato annunciato dal profeta Gioele: Negli ultimi giorni, dice il Signore, effonderò il mio Spirito su ogni carne, e i vostri figli e le vostre figlie profetizzeranno, ecc., quale pensiamo possa essere il significato di queste parole, negli ultimi giorni? C’era forse nelle circostanze del momento, c’era nell’evento appena accaduto, c’era nella mentalità presente degli Apostoli o della folla riunita davanti a loro, qualcosa che giustificasse una dichiarazione sugli ultimi giorni come intesa dall’obiezione? Assolutamente niente. E chi allora poteva anche solo pensare alla prossima fine del mondo? Le preoccupazioni erano certamente alte. Essi riguardavano unicamente la questione che era stata lasciata in sospeso dal recente dramma del Calvario, e che era ancora alimentata dalle cose straordinarie che avevano avuto luogo nel cenacolo. Questa questione era quella che San Pietro aveva appena mostrato davanti a Gerusalemme, al suo popolo, ai suoi principi e al suo Sinedrio, proclamando due cose: primo, che i tempi messianici erano arrivati, come dimostrato dall’attuale adempimento della profezia di Gioele sull’effusione dello Spirito Santo negli ultimi giorni (vers. 14-21), e secondariamente, che il Messia era quel Gesù di Nazareth, che era stato da poco inchiodato alla croce e messo a morte per mano degli empi, come testimoniava il miracolo eclatante della sua risurrezione (versetti 22-36). Questo è tutto il discorso del Principe degli Apostoli in questa solenne promulgazione della nuova legge; dove è evidente che gli ultimi giorni da lui menzionati non avevano altro significato che quello che abbiamo dichiarato, stabilito e spiegato sopra. La stessa conclusione è ora da trarre dall’esame di testi simili che si trovano nelle epistole canoniche. Quando San Paolo nell’epistola agli Ebrei mostrò la differenza tra il sommo sacerdote dei Giudei, che entrava annualmente nel santuario con il sangue di capri e tori, con il quale era impossibile che i peccati fossero espiati, e Cristo venuto una sola volta nel compimento dei tempi, [ἐπὶ συντελείᾳ τῶν αἰώνωνepi … epi sunteleia ton aiononeri], per abolire finalmente il peccato con il Suo proprio sacrificio (Eb., IX, 26): che cosa, dunque, poteva designare con questa espressione, [συντελείᾳ τῶν αἰώνων] se non la suddetta età messianica, al momento vista come un necessario epilogo e culmine obbligato delle epoche che l’avevano preceduta, annunciata, preparata e prefigurata? Infatti, come dice subito dopo, all’inizio del capitolo successivo (Eb, X, 1), le epoche precedenti avevano avuto solo le ombre dei beni a venire, umbram enim habens lex futurorum bonorum, non ipsam imaginent rerum;  ed è solo nell’era messianica, che attraverso Gesù Cristo, con Gesù Cristo e in Gesù Cristo, le ombre hanno preso corpo, le figure sono diventate realtà. In questo senso, quindi, questa stessa epoca fu davvero, e letteralmente, il completamento (συντελείᾳ – sunteleia) di tutte le altre. Era la loro realizzazione, il loro complemento, il loro termine, io dico, qualunque dovesse essere allora l’estensione della sua durata, limitata al breve spazio di una o due generazioni, o al contrario estesa attraverso una serie indefinita di secoli. Questa è senza dubbio la dottrina più autentica e provata di San Paolo; è il tema che egli sviluppa a lungo, da un capo all’altro dell’epistola agli Ebrei in particolare. E come possiamo allora rifiutarsi di riconoscere il vero significato dell’espressione incriminata, proprio in un luogo dove la figura del sommo sacerdote della vecchia legge, come riportato sopra, è espressamente contrapposta alla realizzazione della figura in Gesù Cristo, dall’altro lato? Riflettiamo su questo, riguardiamolo da vicino, facciamo riferimento al contesto immediato, così come all’argomento generale di tutta la lettera, e si dovrà convenire che il significato suddetto è l’unico possibile, l’unico conforme al soggetto e alla sequenza del discorso, senza che si intravveda il minimo spazio per la questione della imminenza della parusia, anche qui considerate del tutto fuori luogo. Questo è anche il significato di un passaggio simile nel decimo capitolo della Prima Corinzi (X, 11), dove l’Apostolo, dopo aver raccontato i particolari dell’uscita dall’Egitto e del soggiorno degli antichi Israeliti nel deserto, dice che « tutte queste cose accaddero loro in figura e furono scritte per la nostra istruzione, noi che siamo giunti alla fine dei tempi « in quos fines sæculorum (τὰ τέλη τῶν αἰώνων – ta tele ton aionon) devenerunt ». Dove vediamo esattamente la stessa opposizione tra il tempo delle figure sotto Mosè, e quello del loro compimento sotto Gesù Cristo; così questa è ancora l’era messianica, concepita come la fine ed il culmine delle epoche antiche, che la formula “τὰ τέλη τῶν αἰώνων” designa, appena diversa, quanto alla forma, da quella usata da San Paolo nel passaggio precedente. – E quando a sua volta Giovanni scriverà, nella sua prima epistola (II, 18): È l’ultima ora; come avete sentito che l’anticristo sta per venire, così ora ci sono già molti anticristi; da questo sappiamo che è l’ultima ora: anche lui non farà ancora e sempre che designare questa stessa era messianica, sebbene ora con un’altra peculiarità che gli è propria. – Infatti, se, come dice poco più avanti (III, 8), è per distruggere le opere del diavolo che il Figlio di Dio è apparso, va da sé che ciò non poteva avvenire senza che il diavolo si ponesse, o nella sua persona o per mezzo dei suoi suppositi, come antagonista dichiarato di coloro che venivano a spogliarlo del suo impero. Quindi, per quanto riguarda i tempi messianici, c’è un nuovo carattere segnato qui da San Giovanni, che questi saranno i tempi degli anti-messia, cioè degli anticristi, e non solo dell’anticristo per eccellenza, annunciato nell’approssimarsi della catastrofe finale, ma anche degli anticristi precursori, gli anticristi eresiarchi, i capi di sette, i corifei dell’empietà, che sono venuti e verranno prima della lotta suprema e definitiva. – San Giovanni, dunque, non ha una concezione diversa da quella di San Paolo e di San Pietro, e se tutti e tre sono d’accordo nel parlare dell’ultima epoca del mondo come di un’epoca già attuale nel loro tempo, è sempre e ovunque, sia ben ricordato, in virtù di questo principio, che per loro l’ultima età, è l’età che abbiamo detto, che con un altro nome si chiama l’età della “legge Cristiana”, o, ciò che equivale alla stessa cosa, della legge evangelica sotto la quale abbiamo l’onore e la felicità di vivere.

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Ma ora sorge un’ultima difficoltà. Si obietta una cosa che basterebbe a rendere inutile tutto ciò che è stato detto fino ad ora. È che, qualunque sia il nome con cui può essere chiamata, quest’ultima epoca è stata positivamente ridotta da San Paolo alla pura e semplice durata della prima generazione cristiana, e questo in tre passaggi formali, espliciti e categorici, cioè nella prima ai Tessalonicesi (IV, 13-18), e in altri due luoghi paralleli (I Cor., XV, 51-52, e II Cor., V., 3), dove l’Apostolo, parlando dei viventi che l’ultimo giorno troverà ancora sulla terra, testimonia sufficientemente, con l’uso costante della prima persona plurale, che egli si considerava come personalmente nel loro numero loro, egli e coloro ai quali scriveva. – « Non vogliamo – scriveva ai Tessalonicesi –  poi lasciarvi nell’ignoranza, fratelli, circa quelli che sono morti, perché non continuiate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza. Noi crediamo infatti che Gesù è morto e risuscitato; così anche quelli che sono morti, Dio li radunerà per mezzo di Gesù insieme con lui. Questo vi diciamo sulla parola del Signore: noi che viviamo e saremo ancora in vita per la venuta del Signore, non avremo alcun vantaggio su quelli che sono morti. Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’Arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore. Confortatevi dunque a vicenda con queste parole. » – Questo è il modo in cui San Paolo parlava, apparentemente a causa della sua ferma convinzione che nella sua vita, nella vita dei fedeli che lui istruiva, sarebbe venuto il grande giorno di Dio. Perché cos’altro avrebbe voluto dire con queste parole molto precise del versetto 15: Nos qui vivimus, qui résidui sumus in adventum Domini, che ripete di nuovo al versestto 17, come per sottolinearne il significato e per meglio focalizzare l’attenzione dei suoi lettori? Noi che siamo vivi, dice. E chi, noi, se non Paolo stesso, con coloro ai quali era indirizzata la sua lettera? È su questo che si basano gli avversari, che considerano una prova decisiva, un argomento senza risposta. Ma noi (c’è bisogno di dirlo?), vediamo qualcos’altro, e ci sentiamo molto sicuri agli occhi di chiunque vorrà pensarvici e guardarlo da vicino, che tutto qui si riduce a un semplice modo di parlare che il contesto mette pienamente in luce, e non senza fornire, inoltre, una nuova e molto positiva conferma di tutte le nostre precedenti conclusioni, come cercheremo di mostrare prima di concludere. Notiamo dapprima qual era l’errore che San Paolo si proponeva di correggere. Era l’errore di coloro che, ancora nuovi alla dottrina della fede, erano stati persuasi che i morti, già giacenti nei loro sepolcri, non avrebbero avuto alcuna parte nella gloria del giorno del Signore, ma che solo i vivi avrebbero dovuto ascoltare ciò che si legge nel Vangelo, che il Figlio dell’uomo, arrivando sulle nuvole del cielo, avrebbe mandato i suoi Angeli a raccogliere i suoi eletti dai quattro venti, da un capo all’altro del cielo, per renderli partecipi del suo trionfo (Matth., XXIV, 31). E in questa falsa persuasione, essi si affliggevano eccessivamente per i loro morti; essi li piangevano, o come temendo che non risorgessero affatto, o che quantomeno perdessero quella folgorante manifestazione di Cristo nella sua parusia, oggetto, come sappiamo, delle più ardenti aspirazioni dei Cristiani della prima ora. San Paolo li istruisce e li rassicura completamente sia sull’uno che sull’altro punto. La risurrezione gloriosa di coloro che si sono addormentati nella fede e nell’amore di Gesù è una conseguenza necessaria della risurrezione di Gesù stesso; non c’è quindi motivo di piangere per loro come se non dovessero risorgere, nella beata immortalità, dalla polvere delle loro tombe: questa è la prima cosa. La seconda cosa è che coloro che sono vivi nell’ultimo giorno, e che sono riservati per la venuta del Signore, non avranno nessun vantaggio sugli altri per quanto riguarda la partecipazione al trionfo della parusia. Perché i “dormienti” si sveglieranno dal loro sonno alla vita immortale, mentre i vivi, da parte loro, vi entreranno con un rapido cambiamento che non comporta alcuna pausa duratura nella morte, e tutti insieme, tutti nello stesso tempo, vivi e dormienti, saranno portati ad incontrare il Signore, dal quale non saranno mai più separati. Questo, dico, è il preciso insegnamento con cui San Paolo ha combattuto e distrutto la falsa idea che i suoi neofiti avevano sui morti, e non  abbiamo bisogno di entrare qui in sviluppi che sarebbero estranei al nostro tema. Ma dobbiamo soffermarci sull’unica cosa che è importante per la soluzione che cerchiamo, cioè il modo in cui l’Epistola designa ciascuna delle due categorie che ha appena esposto come aventi una parte uguale nel trionfo di Cristo al suo ultimo avvento. In primo luogo, qui ci sono i morti, e chi sono questi morti? Ovviamente, non possiamo parlare qui di tutti i morti, intendo di tutti quelli che indiscriminatamente giaceranno nelle tombe all’arrivo del Figlio dell’Uomo. Infatti, tra di loro, quanti sono riservati a quella che il Vangelo chiama la “resurrezione per la condanna”! Mentre qui sono ora in questione solo coloro che risorgeranno alla vita, e alla vita della gloria eterna. È quindi facile da capire perché, parlando di questi morti, San Paolo non dice mai i morti “tout court”, ma piuttosto, i morti in Cristo [v, 16 “οἱ νεκροὶ ἐν Χριστῷ” – oi necroi en Cristo], o coloro che si sono addormentati in Gesù, [v. 14 “κοιμηθέντας διὰ τοῦ Ἰησοῦ” – koimetentas dia tou Iesou]; con ciò egli designa i soli eletti, i soli predestinati. Del resto, questo è abbastanza chiaro in sé e non ha bisogno di spiegazioni, e se lo richiamiamo all’attenzione particolare del lettore, è perché servirà ora a chiarire ciò che si dice della seconda categoria, quella dei vivi, laddove sta tutta la difficoltà. I vivi che saranno sulla terra all’arrivo del grande giorno e che, in compagnia dei vivi di cui abbiamo appena parlato, ne condivideranno la gloria, sono designati dalla seguente formula nel versetto 15, ripetuta ancora nel 17: ἡμεῖς οἱ ζῶντες οἱ περιλειπόμενοι εἰς τὴν παρουσίαν τοῦ κυρίου – [emeis oi zontes oi perileipomenoi eis ten parousian tou kuriou], cioè, parola per parola: noi, i vivi, quelli che sono rimasti per la venuta del Signore. Esaminiamo tutti i termini con attenzione, e per maggiore chiarezza, nel seguente ordine: primo – οἱ ζῶντες [oi zontes]; secondo, ἡμεῖς [emeis]; terzo, οἱ περιλειπόμενοι [oi perileipomenoi]. E da questo esame emergerà forse un senso ben diverso da quello in cui trionfano i nostri modernisti, e che a prima vista avremmo potuto supporre noi stessi. Oi zontes [oi zontes] primariamente: i vivi, quelli dell’ultimo giorno, questo si capisce; ma quali? Forse l’universalità di coloro che popoleranno il mondo nel momento in cui cominceranno ad apparire i segni del giudizio? Ovviamente no, perché in quel numero, quanti peccatori impenitenti, quanti miscredenti, quanti reprobi, che, lungi dall’essere trasportati nella gloria per incontrare il Signore, saranno lasciati nella perdizione in mezzo alla distruzione universale! « Come accadde ai tempi di Noè – dice Nostro Signore nel Vangelo – così accadrà alla venuta del Figlio dell’uomo. Gli uomini mangiavano e bevevano, si maritavano e maritavano le loro figlie fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e il diluvio li sorprese. Allora, di due uomini che saranno nel campo, uno sarà preso, l’altro lasciato; di due donne che saranno a macinare al mulino, una sarà presa, l’altra lasciata. » Tale è la separazione che avverrà tra i viventi con i viventi, in quest’ultima ora del mondo! Così come prima non poteva trattarsi dell’universalità dei morti, così ora non può trattarsi dell’universalità dei vivi, e quindi era necessario un determinativo che limitasse la comprensione del termine οἱ ζῶντες [oi zontes] ai soli giusti, ai soli fedeli, ai soli amici di Gesù. E dove troveremo questo determinativo? Precisamente nel termine incriminato, in questo pronome di prima persona plurale, che l’Apostolo ha aggiunto qui e dice: ἡμεῖς οἱ ζῶντες [emeis oi zontes]- Noi, i vivi, nello stesso senso che aveva usato parlando dei morti, “οἱ νεκροὶ ἐν Χριστῷ” [oi necroi en Cristo] i morti in Cristo, o coloro che si sono addormentati in Gesù, “κοιμηθέντας διὰ τοῦ Ἰησοῦ” – koimetentas dia tou Iesou]. E, infatti, chi non sa che il detto pronome di prima persona plurale è comunemente usato nel linguaggio abituale per designare, confusamente, e senza altra determinazione particolare, quelli della classe, della categoria a cui appartiene colui che parla, soprattutto se alla stessa classe, alla stessa categoria, appartengono, con lui, coloro che ha di fronte e ai quali parla? Certamente, se io, un francese, dicessi che abbiamo appena vinto una seconda battaglia della Marna, nessuno penserebbe che io personalmente sia stato tra quelli che l’hanno vinta (queste righe sono state scritte nell’ottobre 1918). E se, parlando davanti ad un grande pubblico, aggiungessi che, secondo tutte le probabilità, saremo a Berlino in un futuro più o meno prossimo, nessuno di quelli tra il pubblico, si crederebbe personalmente incluso nell’ampiezza del noi collettivo di cui avrei usato. In verità, sarebbe abbastanza inutile, per una cosa così semplice, moltiplicare gli esempi che mi vengono in mente, e c’è solo da fare l’applicazione al caso che stiamo trattando. Infatti, non sarebbe forse, nel senso appena indicato, che San Paolo abbia usato ora questo noi, “ἡμεῖς”, che causa tante difficoltà per alcuni? Non è forse la categoria, la classe dei fedeli in quanto tali, che aveva in vista qui, piuttosto che il Tizio, il Caio, il Sempronio che la componeva al tempo in cui scriveva? Insomma, quando, per designare i vivi che nell’ultimo giorno si uniranno all’esercito trionfante dei gloriosi risorti, portati in aria per incontrare il Signore, l’Apostolo diceva, parlando ai suoi ferventi seguaci [i neofiti, noi, i viventi, ἡμεῖς οἱ ζῶντες – emeis oi zontes] non è come se avesse detto, senza altra precisazione o determinazione di persone, i nostri allora viventi? – I nostri, cioè quelli della nostra parte, del nostro partito, della nostra comunione, i credenti, gli amici di Gesù e del suo avvento, in contrasto con coloro che la seconda Tessalonicesi presenta (I, 8-10) come non conoscitori di Dio, non obbedienti al Vangelo, e quindi, nel giorno della parusia, sofferenti la pena della perdizione eterna, lontani dalla faccia del Signore e dallo splendore della sua potenza? Sì, senza il minimo dubbio, questo è il significato della lettera, che è confermato nel più espressivo, dall’intero contesto. Per quanto riguarda il contesto, non potremmo, senza esporci ad una noiosa ripetizione, esaminarne qui le angolazioni e le asperità. Quindi non lo faremo. È comunque un punto che non può assolutamente passare sotto silenzio, e che dobbiamo portare brevemente all’attenzione del lettore. È il passaggio finale con cui l’Apostolo designa gli ultimi fedeli che l’ultima ora del mondo avrebbe trovato vivi sulla terra: “οἱ περιλειπόμενοι εἰς τὴν παρουσίαν τοῦ κυρίου” [oi perileipomenoi ei sten parousian tou kuriou]. Infatti, quanto è significativo questo passo, e quanto bene si adatta al nostro caso, e quale nuova conferma porta alle nostre precedenti affermazioni, distruggendo sempre più a fondo l’affermazione degli avversari, che, con queste parole, “noi, i vivi”, con cui San Paolo avrebbe considerate personalmente se stesso, con coloro ai quali era indirizzata la sua lettera! Tutta l’osservazione riguarda il participio περιλειπόμενοι [perileipomenoi] dal verbo λείπω [leipo] che ovunque sia usato, ovunque entri, sia come radice che come componente, dà l’idea di un resto, un debole resto staccato dalla massa. Per esempio, nella Lettera ai Romani (IX, 27), San Paolo, citando Isaia, scrive: Quando il numero dei figli d’Israele sarà come la sabbia del mare, solo un piccolo resto sarà salvato, τὸ ὑπόλειμμα σωθήσεται [to upoleimma sotesetai. E più avanti (XI, 5), paragonando il piccolo numero di Giudei convertiti al Vangelo con i settemila uomini che non si erano inginocchiati a Baal: Anche oggi, dice, c’è un resto secondo una scelta di grazia, λεῖμμα κατ’ ἐκλογὴν χάριτος [leimma kat’ecloghen karitos]. Ma con quanta più forza questa stessa idea emerge nella frase del nostro testo: Noi che viviamo, lasciamo loro un resto per la venuta del Signore! Essi dovevano dunque essere solo un resto, un residuo; se è permesso parlare in questo modo, un residuo, qui residui sumus, secondo la traduzione  esattissima della Vulgata; qualcosa come una retroguardia che arriva all’ultimo luogo, dopo che l’esercito principale è già passato. Questo, in altre parole, significava che nell’idea di San Paolo i fedeli viventi dell’ultimo giorno sarebbero stati solo un numero molto ridotto, una piccolissima minoranza, rispetto alla massa dei Cristiani addormentati in Cristo: proprio il contrario, come è ovvio, di ciò che comportava l’ipotesi del giudizio che arrivava durante l’epoca apostolica. Così l’esegesi modernista è sconfitta nelle sue pretese, e perde una posizione dopo l’altra. Non c’è un solo passaggio nelle epistole degli Apostoli su cui possa stabilire un argomento che sia anche lontanamente fondato con raziocinio. – Rimane ora l’Apocalisse di San Giovanni, che richiede un esame separato, e questo esame sarà il soggetto dei prossimi due articoli.

LA PARUSIA (9)

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: GIUGNO 2021

GIUGNO È IL MESE CHE LA CHIESA CATTOLICA DEDICA AL CULTO EUCARISTICO E AL CUORE DI GESÙ

[LE MERAVIGLIE Divine nella santa Eucaristia

Di p. Giovanni Rossignoli S. J.]

CXIV – LE INDUSTRIE DEI CATTOLICI IN MEZZO AGLI ERETICI

Memoriale tuum in desiderio animæ

Niente può farvi apprezzare e venerare l’augusto sacrificio della Messa più della storia delle pie industrie che i Cattolici d’Inghilterra usavano per procurarsi la felicità di ascoltare la Messa durante l’atroce persecuzione dell’empia regina Elisabetta. Sapevano che la celebrazione della Messa era allora proibita sotto pena di morte, ma i grandi vantaggi che trovavano nell’oblazione della Vittima immacolata li facevano facilmente trascurare questa considerazione. Un Padre della Compagnia di Gesù di nome John Gerard era stato rinchiuso in una angusta prigione nella città di Londra: essa era contigua ad un’altra prigione molto spaziosa, in cui era detenuta una grande moltitudine di Cattolici di tutte le condizioni. Essi hanno sentito che un prete si trovava nella piccola prigione accanto, così hanno fatto una grande apertura nel muro tra le due prigioni, che hanno accuratamente nascosto in modo che potessero parlare tra di loro a prorio agio. Fin dal primo momento in cui gli parlarono, espressero il loro forte desiderio di ascoltare la Santa Messa e di partecipare al banchetto eucaristico; Padre Gerard, che aveva avuto lo stesso pensiero, acconsentì prontamente al loro pio piano. Cominciarono immediatamente a cercare e combinare i mezzi per portarlo a buon fine senza incorrere nella pena di morte. Hanno parlato confidenzialmente con un buon Cattolico che aveva fortunatamente ottenuto il permesso di visitarli o come amico o come parente di alcuni di loro. Anche se si esercitava un’attenta vigilanza sui prigionieri, la inconvenienza della perquisizione non si estendeva alle persone che venivano a visitarli, come hanno fatto da allora anche i governi cattolici. Erano quindi in grado di ottenere tutti gli oggetti necessari per il Santo Sacrificio attraverso di lui. Non hanno avuto difficoltà a convincere il carceriere a non sorvegliarli così strettamente come era abituato a fare, perché lui stesso ha ammesso che erano molto docili e che doveva solo congratularsi con loro per il buon comportamento. – Per incoraggiarlo a farlo gli diedero una somma di denaro che egli ricevette con gioia. Ogni giorno, prima dell’alba, il Padre ascoltava le confessioni, poi celebrava la Messa e distribuiva la Santa Comunione. Poi rivolgeva loro un breve discorso, esortandoli a disprezzare la vita presente e a desiderare la vita eterna. Subito dopo, tutto ciò che era stato usato per il santo Sacrificio veniva riposto in un luogo sicuro, ed ognuno si ritirava al suo posto. Ma un traditore che s’era accorto, non si sa come, di ciò che avveniva nella prigione, prima dell’aurora, non ebbe nulla di più urgente che riferire la cosa ai ministri della regina. Questi pur tuttavia non furono dell’avviso di applicare tutti i rigori della legge, e si contentarono di inviare il padre Gérard alle prigioni della torre di Londra. Ma Dio nella sua clemenza, volle che anche là il buon padre potesse darsi la consolazione di poter offrire l’Agnello senza macchia. Nella medesima prigione si trovava un gentiluomo di nome Ardenn, anch’egli detenuto per il suo attaccamento alla fede cattolica. Il carceriere gli permetteva talvolta di respirare un pò d’aria a pieni polmoni sulla piattaforma della torre. Il padre Gérard, che non ignorava che fosse cattolico, intravedendolo un giorno dalla sua finestra, gli fece intendere a segni e a gesti, che volesse mandargli delle piccole croci richiuse in un foglio di carta, sul quale, avvicinandolo al fuoco, egli potesse leggere in segreto quel che gli premesse comunicargli. Egli scrisse dunque su questo figlio con del succo di arancia delle parole invisibili, che si potessero leggere avvicinandole al fuoco. In questa missiva gli diceva che aveva un estremo desiderio di dire la santa Messa e di dargli egli stesso la santa Comunione del Corpo di Gesù Cristo; aggiunse che sarebbe stato facile alla moglie che ogni settimana veniva a portargli le lenzuola, potervi introdurre oggetti necessari per celebrare la Messa. Il gentiluomo, dopo essere riuscito a leggere il messaggio del gesuita, gli rispose con dei segni dalla piattaforma che approvava fortemente il suo progetto, perché non aveva mai provato in vita sua un desiderio così forte di ricevere la Santa Comunione come quello che lo tormentava da alcuni giorni. Così disse a sua moglie quello che voleva fare in collaborazione con un sacerdote nella stessa prigione. Costei si affrettò a portare, in parte e in tempi diversi, gli ornamenti e altri oggetti indispensabili per l’oblazione del santo Sacrificio. Quanto al direttore della prigione, padre Gérard si sforzò di conquistare le sue grazie, così che con le sue preghiere e con l’aiuto di qualche piccolo regalo, riuscì ad ottenere da lui il permesso di condurlo una volta nella cella di Ardenn, affinché i due prigionieri potessero consolarsi a vicenda nella loro comune disgrazia. La sera della vigilia della Natività della Beata Vergine il padre fu portato nella prigione di Ardenn, dove fu rinchiuso con lui. Passarono buona parte della notte in preghiera, e un po’ prima dell’alba il padre, che aveva confessato il suo compagno di prigionia, celebrò il Sacrificio divino e gli diede la Santa Comunione, che ricevette con ineffabile consolazione. Allo stesso tempo, consacrò un certo numero di ostie, che mise da parte per ricevere lui stesso la Santa Comunione nei giorni seguenti, per trovare nel pane eucaristico la forza e la consolazione di cui aveva tanto bisogno nella triste condizione in cui si trovava. Benché grande fosse la devozione dei Cattolici di Londra, verso la divina Eucaristia durante questo terribile tempo di persecuzione, essa non superò quella dei Cattolici di Dorchester, e soprattutto i signori di Arundel, un’antica famiglia di estrazione molto nobile, più grande ancora nella generosa professione della fede cattolica che fecero con fermezza e pari costanza. Per soddisfare il loro ardente desiderio di assistere alla Messa e di ricevere la santa Comunione, tenevano il padre Giovanni Cornelius, un gesuita, in uno dei loro castelli, senza preoccuparsi degli editti reali che dichiaravano colpevole di lesa-maestà chiunque ospitasse un prete cattolico, poiché preferivano rischiare la loro vita e la perdita dei loro beni, che privarsi dei divini misteri dell’Eucaristia. Essi avevano fatto disporre ed ornare una bella cappella in un luogo segretissimo del loro palazzo, ed era lì che tutta la famiglia si riuniva per ascoltare la Messa. Spesso facevano offrire il Santo Sacrificio per i defunti che avevano convertito alla Religione Cattolica. E queste anime apparivano loro o per ringraziarli o per chiedere più insistentemente l’aiuto delle loro preghiere, come accadde una notte al signore di Arundel. Mentre era in un sonno profondo, fu improvvisamente svegliato dall’apparizione di uno dei suoi vecchi amici, che apparve per pregarlo di dire alcune Messe per lui, di cui aveva bisogno per uscire dalle fiamme del purgatorio. Ma, a questo proposito, è necessario riferire un evento che fece grande scalpore tra i Cattolici dell’epoca, e che può essere di beneficio per i vivi a causa delle circostanze relative ad esso che si verificarono durante il santo Sacrificio. – Essendo il primo marito della duchessa di Arundel, il barone Jean Sturton, morto, ella pregò il padre Cornelius di offrire il divin Sacrificio espiatorio per il riposo dell’anima del defunto … glielo aveva promesso. Il giorno dopo egli celebrò la Messa per questa intenzione, ma si notò che ad un certo punto si fermò a lungo a pregare dal momento della consacrazione fino al memento dei morti. Dopo la Messa fece una breve esortazione sulle parole dell’antifona di comunione della messa da Requiem, e poi aggiunse: “Ho visto una foresta immensa che non era altro che fuoco e fiamme. In mezzo a queste fiamme divoranti ho visto l’anima del barone: egli era in tormenti inesprimibili, gridava con lamenti, anzi con urla terribili che gelavano il sangue nelle vene: si lamentava delle sue colpe passate, si accusava di aver vissuto così male per molti anni, soprattutto durante il suo soggiorno alla corte della regina Elisabetta, e specificava ognuna delle colpe che aveva commesso allora. Poi implorò il nostro aiuto, ripetendo con accorato ringraziamento le parole del santo uomo Giobbe: “Abbiate pietà di me, abbiate compassione dei miei tormenti, almeno voi che siete miei amici, perché la mano del Signore si è posata su di me. ” Miseremini mei, miseremini mei, saltem vos amici mei, quia manus Domini tetigit me. Poi, rivolgendosi a me, mi pregò di continuare ad aiutarlo con la preghiera e soprattutto con l’oblazione del Santo Sacrificio, … poi non vidi più nulla.” Questo resoconto portò le lacrime agli occhi di tutti i presenti, ma soprattutto ai familiari, che contavano più di ottanta persone. A conferma della realtà di questa apparizione, Dio permise ad alcuni dei presenti di vedere, durante la Messa, un bagliore di carboni ardenti sul muro bianco vicino all’altare, che essi attribuirono inizialmente alla luce delle candele o a qualche altra causa naturale.

Indulgenze per il mese di giugno:

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Mensis sacratissimo Cordi Iesu dicatus Fidelibus, qui mense iunio (vel alio, iuxta Rev.mi Ordinari prudens iudicium), pio exercitio in honorem Ssmi Cordis Iesu publice peracto devote interfuerint, conceditur:

Indulgentia decem annorum quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria, si diebus saltem decem huiusmodi exercitio vacaverint et præterea peccatorum veniam obtinuerint, eucharisticam Mensam participaverint et ad Summi Pontificis mentem preces fuderint. Iis vero, qui præfato mense preces vel alia pietatis obsequia divino Cordi Iesu privatim praestiterint, conceditur:

Indulgentia septem annorum semel quolibet mensis die;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem idem obsequium peregerint; at ubi pium exercitium publice habetur, huiusmodi indulgentia ab iis tantum acquiri potest, qui legitimo detineantur impedimento quominus exercitio publico intersint (S. C. Indulg., 8 maii 1873 et 30 maii 1902; S. Pæn. Ap., 1 mart. 1933).

(A coloro che nel mese di giugno praticano un pio esercizio in onore del Sacro Cuore di Gesù in pubblico, si concedono 10 anni ed in privato 7 anni per ogni giorno del mese, e Indulgen. Plenaria se esso verrà praticato almeno per 10 giorni con le s. c.).

Altre indulgenze ove viene celebrato solennemente il Cuore Sacratissimo di Gesù con corso di predicazione.

Queste sono le feste del mese di

GIUGNO 2021

2 Giugno Ss. Marcellini, Petri, atque Erasmi Martyrum    Simplex

3 Giugno Festum Sanctissimi Corporis Christi    Duplex I. classis

4 Giugno S. Francisci Caracciolo Confessoris    Duplex

                             I Venerdì

5 Giugno S. Bonifatii Episcopi et Martyris    Duplex

                             I sabato

6 Giugno Dominica II Post Pentecosten infra Octavam Corporis Christi   

                         S. Norberti Episcopi et Confessoris    Duplex

9 Giugno  Ss. Primi et Feliciani Martyrum    Simplex

10 Giugno S. Margaritæ Reginæ Viduæ    Semiduplex

11 Giugno Sanctissimi Cordis Domini Nostri Jesu Christi    Duplex I. classis

S. Barnabæ Apostoli    Duplex majus

12 Giugno S. Joannis a S. Facundo Confessoris    Duplex m.t.v.

13 Giugno Dominica III Post Pentecosten infra Octavam SSmi Cordis D.N.J.C    Semiduplex Dom.  minor

                    S. Antonii de Padua Confessoris    Duplex

14 Giugno S. Basilii Magni Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex m.t.v.

15 Giugno Ss. Viti, Modesti atque Crescentiæ Martyrum    Simplex

18 Giugno S. Ephræm Syri Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

19 Giugno S. Julianæ de Falconeriis Virginis    Duplex

20 Giugno Dominica IV Post Pentecosten    Semiduplex Dominica minor

               S. Silverii Papæ et Martyris    Simplex

21 Giugno S. Aloisii Gonzagæ Confessoris    Duplex

22 Giugno S. Paulini Episcopi et Confessoris    Duplex

23 Giugno In Vigilia S. Joannis Baptistæ    Simplex *L1*

24 Giugno In Nativitate S. Joannis Baptistæ    Duplex I. classis *L1*

25 Giugno S. Gulielmi Abbatis    Duplex

26 Giugno Ss. Joannis et Pauli Martyrum    Duplex

27 Giugno Dominica V Post Pentecosten    Semiduplex Dominica minor *I*

28 Giugno S. Irenæi Episcopi et Martyris    Duplex

29 Giugno SS. Apostolorum Petri et Pauli    Duplex I. classis *L1*

30 Giugno In Commemoratione S. Pauli Apostoli    Duplex majus *L1*

31 MAGGIO 2021: FESTA DELLA BEATA VERGINE MARIA REGINA – PREGHIERA DI CONSACRAZIONE DEL GENERE UMANO AL CUORE IMMACOLATO DI MARIA DI S. S. PIO XII

31 MAGGIO FESTA DELLA BEATA VERGINE MARIA REGINA – PREGHIERA DI CONSACRAZIONE AL CUORE IMMACOLATO DI MARIA DI S. S. PIO XII

[D. P. Gueranger: L’Anno Liturgico – vol. II, Ed. Paoline, Roma, 1956]

Che cosa è la regalità.

Analizzando le note fondamentali della regalità, per dimostrare poi la loro presenza in Cristo, fin dall’inizio della sua vita terrena, Bossuet definì, con una magnifica frase, la sua essenziale grandezza: « La regalità – disse – consiste nella forza di fare il bene del popolo che si domina; il nome di re è come il nome di un padre comune, di un universale benefattore » (Discorso pronunciato a Metz, per la Circoncisione, nel 1557).

Questa è la regalità che Cristo rivendicò davanti a Pilato. Per farne meglio capire e onorare il carattere Pio XI, al termine dell’Anno Giubilare del 1925, istituì la Festa della Regalità universale e sociale di Cristo ed esortò i fedeli a sottomettere a Cristo Re le loro intelligenze e le loro volontà, a consacrargli le famiglie, la patria, e tutta la società per poter ricevere da Lui, con più abbondanza, quelle grazie di cui sempre più abbiamo bisogno. – Quando, a sua volta. Pio XII, a conclusione dell’Anno mariano 1954, istituì la Festa della Beata Vergine Maria Regina, non aveva intenzione di proporre al popolo cristiano una nuova verità, né di giustificare, con un nuovo titolo, la nostra pietà verso la Madre di Dio e degli uomini. « La nostra intenzione – disse nel suo discorso del 1 novembre – è di presentare agli occhi del mondo una verità capace di porre rimedio ai suoi mali, di liberarlo dalle sue angosce, di portarlo su quel cammino della salvezza che egli cerca con ansia… Regina più di ogni altro per la grandezza della sua anima e per l’eccellenza dei suoi doni divini. Maria non cessa mai di prodigare i tesori del suo affetto e delle sue materne attenzioni alla desolata umanità. Lungi dall’essere basato sulle esigenze dei suoi diritti e sulla volontà d’un altezzoso dominio, il regno di Maria ha una sola aspirazione: il dono completo di sé, nella più alta e totale generosità ».

Regalità di Maria nella tradizione.

Coronata d’un diadema di gloria nella beatitudine celeste, Maria regna sul mondo con cuore materno. Già dai primi tempi i fedeli hanno detto che la Madre del « Re dei Re e del Principe dei Principi » ha una gloria speciale, perché ha ricevuto grazie e favori particolari. I primi scrittori della Chiesa l’hanno chiamata, come già Elisabetta, « Madre del mio Signore » e quindi Sovrana, dominatrice, Regina del genere umano. Rifacendosi alle numerose testimonianze e partendo dai primi tempi del Cristianesimo, i teologi della Chiesa hanno elaborato la dottrina, in virtù della quale essi chiamano la SS. Vergine, Regina di ogni creatura, Regina del mondo. Sovrana dell’universo. La liturgia, specchio fedele della dottrina trasmessa dai dottori e professata dai fedeli, ha sempre cantato, sia in Oriente quanto in Occidente, le lodi della Regina del Cielo, e l’arte stessa, appoggiandosi alla dottrina della Chiesa e ispirandovisi, ha interpretato esattamente, dopo il Concilio di Efeso del 431, la pietà autentica e spontanea dei cristiani, rappresentando la Vergine con gli attributi di Regina e di Imperatrice, ornata di insegne reali, cinta del diadema di cui l’ha incoronata il Redentore, attorniata da una coorte di Angeli e di Santi che cantano la sua dignità e la sua gloria di Sovrana.

L’insegnamento della teologia.

L’Arcangelo Gabriele è stato il primo ambasciatore della dignità regale di Maria. « Chi nascerà da te – egli le disse – sarà chiamato Figlio dell’Altissimo; Iddio gli darà il trono di Davide suo padre, egli regnerà per sempre e il suo regno non avrà fine ». Logicamente, se ne deduce che anche Maria è Regina, perché dà la vita ad un figlio che, dall’istante stesso della concezione, anche come uomo, era re e signore di ogni creatura, in effetto della unione ipostatica della sua natura umana col Verbo. II principale argomento su cui si basa la dignità regale di Maria, è senza dubbio la sua divina maternità. S. Giovanni Damasceno scriveva: « Nel momento in cui divenne Madre del Creatore, Ella divenne pure sovrana di tutta la creazione » (De fide de cattol. L. IV, c. 14.). In più. Maria è stata chiamata da Dio stesso a sostenere una parte importante nella economia della salvezza: Ella doveva collaborare col suo Figlio divino, fonte della nostra salvezza, così come Eva aveva collaborato con Adamo, causa della nostra morte; e come Cristo, nuovo Adamo, è nostro re, non soltanto perché figlio di Dio, ma anche per diritto di conquista, perché è nostro Redentore, si può dire che, per una certa analogia, anche la Santa Vergine è Regina, non soltanto perché Madre di Dio, ma anche perché, novella Eva, fu associata al nuovo Adamo nell’opera della nostra redenzione. – Nel regno messianico, soltanto Gesù Cristo è Re nel significato esatto del termine; però l’autorità del re non è affatto sminuita quando, al suo fianco, vi è una autentica Regina. Anzi, tale presenza nobilita la grandezza della sovranità, la rende più amabile, la arricchisce di una confidente intima. È in questo senso che Maria è Regina: non per comandare in vece del Cristo, né per consigliarlo, ma per esercitare sul suo cuore, in favore dei suoi fedeli, soprattutto dei più deboli, l’influenza decisiva di una potente preghiera. È a questa Regina che il Cristo affiderà l’elargizione dei suoi favori; in questo regno, il Cristo dona ogni grazia con amore e delicatezza: ecco perché l’affida a Maria. « È con cuore materno – diceva Pio IX – che ella si preoccupa del genere umano in relazione alla nostra salvezza; voluta dal Signore come Regina del Cielo e della Terra, Maria ottiene udienza per la potenza della sua preghiera materna, si vede concesso tutto quanto chiede, non ha mai ricevuto nessun rifiuto » (Bulla Ineffabilis). A sua volta. Pio XII, nell’Enciclica Coeli reginam., diceva così: « Essendoci poi fatta la convinzione, dopo mature, ponderate riflessioni, che ne verranno grandi vantaggi alla Chiesa, se questa verità solidamente dimostrata risplenda davanti a tutti… con la Nostra Autorità Apostolica decretiamo e istituiamo la festa di Maria Regina, da celebrarsi ogni anno in tutto il mondo il giorno 31 maggio. Ordiniamo ugualmente, che in detto giorno sia rinnovata la. In questo gesto, infatti, è riposta grande speranza che possa sorgere una nuova era, allietata dalla pace cristiana e dal trionfo della religione » (Atti e Discorsi di S.S. Pio XII. voi, XVII pag. 327, Ed. Paoline.  Roma..). Uniamo noi pure i nostri sentimenti a quelli del Papa, Angelico, e recitiamo la preghiera che Egli compose e recitò il 1 Novembre 1954, dopo aver coronata la Vergine « Salus populi romani ».

Consacrazione del genere umano al Cuore Immacolato della Beatissima Vergine Maria

« Dal profondo di questa terra di lacrime, ove la umanità dolorante penosamente si trascina; tra i flutti di questo nostro mare perennemente agitato dai venti delle passioni; eleviamo gli occhi a voi, o Maria, Madre amatissima, per riconfortarci contemplando la vostra gloria e per salutarvi Regina e Signora dei cieli e della terra, Regina e Signora nostra.

» Questa vostra regalità vogliamo esaltare con legittimo orgoglio di figli e riconoscerla come dovuta alla somma eccellenza di tutto il vostro essere, o dolcissima e vera Madre di Colui, che è Re per diritto proprio, per eredità, per conquista.

» Regnate, o Madre e Signora, mostrandoci il cammino della santità, dirigendoci ed assistendoci, affinché non ce ne allontaniamo giammai. » Come nell’alto del cielo Voi esercitate il vostro primato sopra le schiere degli Angeli che vi acclamano loro sovrana; sopra le legioni dei Santi che si dilettano nella contemplazione della vostra fulgida bellezza; così regnate sopra l’intero genere umano, soprattutto aprendo i sentieri della fede a quanti ancora non conoscono il vostro Figlio.

» Regnate sulla Chiesa che professa e festeggia il vostro soave dominio e a voi ricorre come a sicuro rifugio in mezzo alle calamità dei nostri tempi. Ma specialmente regnate su quella porzione della Chiesa, che è perseguitata ed oppressa, dandole la fortezza per sopportare le avversità, la costanza per non piegarsi sotto le ingiuste pressioni, la luce per non cadere nelle insidie nemiche, la fermezza per resistere agli attacchi palesi, e in ogni momento la incrollabile fedeltà al vostro Regno.

» Regnate sulle intelligenze, affinché cerchino soltanto il vero; sulle volontà, affinché seguano solamente il bene; sui cuori, affinché amino unicamente ciò che voi stessa amate.

» Regnate sugli individui e sulle famiglie, come sulle società e sulle nazioni; sulle assemblee dei potenti, sui consigli dei savi, come sulle semplici aspirazioni degli umili.

» Regnate nelle vie e nelle piazze, nelle città e nei villaggi, nelle valli e nei monti, nell’aria, nella terra e nel mare.

» Accogliete la pia preghiera di quanti sanno che il Vostro è regno di misericordia, ove ogni supplica trova ascolto, ogni dolore conforto, ogni sventura sollievo, ogni infermità salute e dove, quasi al cenno delle vostre soavissime mani, dalla stessa morte risorge sorridente la vita.

» Otteneteci che coloro, i quali ora in tutte le parti del mondo vi acclamano e vi riconoscono Regina e Signora, possano un giorno nel cielo fruire della pienezza del vostro Regno, nella visione del vostro Figlio, il quale col Padre e con lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Così sia! » (Atti e Discorsi di S. S. Pio XII, vol. XVI, pag. 367-68. Ed, Paoline – Roma).

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (7) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (IV)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (7)

ESPOSTI

DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ, ROMA

STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (IV)

 Ma ormai è tempo di esaminar il debito della giurisdizione d’un Vescovo in tempo di persecuzione. L’ esame è facile, e la decisione è certa dopo quello, che abbiam veduto circa il suo pastorale ufficio in tempo di pace. Ciò, ch’egli è tenuto di fare o ad omettere: per istituzione divina, e per indole del suo stesso ministero; di tenuto a farlo e ad ometterlo in ogni tempo; non v’è né pur legge ecclesiastica, che possa dispensarlo da questo dovere; dunque anche in tempo di persecuzione deve un Vescovo esaminare ed approvare quelli, che vogliono accostarsi al Santuario per non introdurre il contagio tra le pecore, né mai in qualunque caso, né per veruna minaccia potrà abilitare al Sacerdozio, alla cura Parrocchiale, o all’amministrazione dei Sacramenti persone di depravato costume, o di cattiva fede; Chierici, che abbiano frequentate scuole sospette d’eresia, o appresa la dottrina da libri condannati dalla Chiesa; Parrochi de’ quali sappiasi, che tengono massime erronee, sospette, pericolose, e molto più eretiche; confessori, i quali mostrano in pratica dottrine scandalose, pregiudizievoli alla salute dell’anime. Tutti questi cani traditori deve il Pastore tenerli lontano dalla greggia, o aspettarsi sicuramente d’essere anch’egli condannato di tradimento. Imperocchè se sarà riprovato non solo chi commette il male, ma anche chi vi acconsente, potendo impedirlo; quanto più incorrerà nell’eterna dannazione chi vi concorre coll’opera sua, e presta le armi in mano ai malfattori? Sarebbe un perder di tempo il voler provare più a lungo una verità per se stessa evidente. – Così pure sarà sempre tenuto ad invigilare, che i Fedeli si accostino ai Santi Sacramenti almeno una volta all’anno, secondo il precetto della Chiesa. In tempo di persecuzione tanto ne ha maggior obbligo, quanto è maggiore per i Cristiani il bisogno dell’aiuto dei Sacramenti. Questo è così vero, che ai tempi di S. Cipriano, quando la penitenza era molto più rigorosa, tuttavia, avvicinandosi la persecuzione, se ne accorciava a’ penitenti la durata, per poterli armare colla Eucaristia alla battaglia della Fede. Lungi pertanto quella scandalosa dottrina, che insegna essere inutile in certi tempi su questo punto la pastoral vigilanza. Quanto più il contagio s’avvicina, tanto più studia il Pastore nuovi mezzi per preservarne la greggia. E se la greggia non ostante le sue diligenze resta sorpresa dall’infezione, il Pastore però avrà liberata l’anima sua. È incerto, se riusciranno inutili le premure; le grida, e le correzioni del Pastore; ma è certo, che riuscirà dannosa la sua dissimulazione, e il suo silenzio. – Che diremo poi delle leggi Ecclesiastiche? Può un Vescovo in tempo di persecuzione soffrire in silenzio, che sieno violate dalla podestà secolare? In tempo di persecuzione, rispondo, ordinariamente di no. Forse può darsi il caso, in cui il Pastore vedendo una trasgression della legge Ecclesiastica, possa dissimularla, o perché giudichi, che questa disubbidienza fu una leggerezza, e un impeto di passion passeggiera o perché creda, che non produrrà scandalo, né  altra perniciosa conseguenza; o perché tema prudentemente d’inasprire gli animi senza nessun buon effetto. Ma in tempo di persecuzione non si disubbidisce alla Legge Ecclesiastica per fragilità, ma per massima; si mette mano in tutte le leggi della Chiesa, per attaccare nella sua radice la giurisdizione Ecclesiastica; perché si pensa, e s’insegna, e si vuol far credere, che la Chiesa è una podestà dipendente, che non ha forza coattiva, e che tutte le sue leggi sono subordinate a quelle del Principato. La massima, che fa agire, è quella, che si legge in tanti empii libercoli, che hanno ai nostri tempi infestata tutta l’Europa, e che in sostanza fanno il Principe, secondo i principii di Lutero, Capo della Chiesa. Si aggravano i beni della Chiesa, perché la Chiesa non gode immunità, e si disprezzano su questo particolare le sue censure, perché la Chiesa non ebbe autorità di difender con esse i suoi beni, si rapiscono le sostanze del Clero, perché il Clero non ha diritto di possedere. Si assegna ai Claustrali, e ai Chierici l’età di consacrarsi a Dio, perché la Chiesa non ha facoltà di determinarla da sé. Si allargano le autorità ai Vescovi per sottrarli dalla giurisdizione del Vicario di Gesù Cristo; e così andate discorrendo di mille altre innovazioni contro la Chiesa. Dunque, questi son fatti appoggiati a una massima scismatica, ed eretica. Dunque, dissimulando questi fatti, si viene col silenzio ad autorizzare lo scisma, e l’eresia. Dunque per ragion dello scandalo contro la fede non può un Vescovo ai nostri tempi dissimular questi fatti. Né vi sorprenda, se chiamo eresia una disubbidienza di massima, e una ribellion di sistema contro le leggi, e l’autorità Ecclesiastica. Così chiamava S. Pier Damiani col nome di Nicolaiti i Chierici (Opusc. 5 Argum.) fornicatori, e perché? Udite il Santo. « Vitium quippe in hæresim vertitur, cum perversi dogmatis assertione firmatur. » Così chiamava lo stesso Santo col nome di eretici quelli, che (ibid. Serm.) tentavano d’involare i privilegi della Romana Sede, e perché? Ecco, che lo spiega egli medesimo: « Non dubium, quia quisvis cuilibet Ecclesiæ ius suum detrabit, iniustitiam facit: qui autem Romanæ Ecclesiæ privilegium ab ipso summo omnium Ecelesiarum Capite traditum auferre conatur, hic proculdubio in hæresim labitur: et cum ille notetur iniustus, hic est dicendus hæreticus. Fidem quippe violat, qui adversus illam agit, quæ Mater est Fidei; et illi contumax invenitur, qui eam cunetis Ecclesiis prætulisse cognoscitur. » – Molto meno potrà un Vescovo positivamente concorrere a queste violazioni. Non potrà egli stesso pubblicar leggi contrarie alla giurisdizione Ecclesiastica. Non potrà eseguire ordini e decreti di simil natura. Non potrà ricevere dai magistrati o dal Principe una più ampia giurisdizione. Non potrà dispensare da quelli impedimenti, né assolvere da quelle censure, che sono riservate al Papa. Non potrà rinunziare all’immunità, né al possesso dei beni della sua Chiesa. Questo sarebbe un concorso diretto e positivo alla trasgression della legge, e un concorso indiretto allo scisma e all’eresia, che detta, e inspira, ed eseguisce tutte queste violente e maligne trasgressioni. Ora chi dirà mai, che un Pastore possa per qualunque motivo o in qualunque più grave circostanza favorire l’eresia e lo scisma? Né le minacce, né il timore, né il falso pretesto di non accrescere i mali della Chiesa può mai lusingare un Pastore a cooperare colla sua autorità e col suo esempio a ciò, che intrinsecamente è male, cioè allo scandalo e al pericolo della fede. Sia pur vero, che le leggi violate sono leggi umane, ma, come avverte il Bellarmino: tutti i Dottori convengono in un punto; (Risposta a Giovanni Marsilio Napolitano preposizione quinta edit. Rom. 1601, c. 67, e segg.) cioè, che il timore non iscusa mai dal precetto umano, quando dal non osservare il precetto umano ne segue la trasgressione del precetto divino e naturale. Come per esempio il non mangiar carne il venerdì è comandamento umano, e nondimeno se alcuno fosse costretto dagli eretici a mangiar carne il venerdì in dispregio della nostra Santa Fede, o in segno e protesta di essere della setta Luterana, non potria mangiarla, ancorché gli fosse minacciata la morte; né il timore saria giusto, né scuserebbe in modo alcuno, perché il dispregio della fede, e la protezione dell’eresia è contro il precetto divino, e naturale. E così la Santa Chiesa ricevé nel numero de’ gloriosi Martiri i sette fanciulli Maccabei con la loro Madre, e con quel venerando vecchio Eleazaro, perché vollero prima morire con acerbissimi tormenti, che gustare la carne proibita nell’antica legge, sebbene quella era legge positiva, e naturale. Similmente il precetto, che proibisce il matrimonio ne’ gradi remoti di consanguineità ed affinità, massime nel terzo, e quarto grado, è precetto umano; e nondimeno non dee, né può nessuno per qualsivoglia timore indursi a fare il matrimonio, e molto meno a consumarlo con persona congiunta in terzo o quarto grado senza dispensa; perché sebbene quell’impedimento è stato introdotto per legge umana, nondimeno rende la persona inabile al matrimonio; e congiungersi con persona inabile per parentela non è matrimonio, ma incesto, il quale è proibito per legge divina naturale. All’istesso modo l’interdetto è censura di precetto umano, e nondimeno non si può per qualsivoglia timore lasciar di osservarlo, quando chi costringe a osservar l’interdetto, lo faccia per dispregio della podestà Ecclesiastica, perché il non dispregiare la podestà Ecclesiastica è precetto divino naturale. Finalmente per non moltiplicare più esempi, non è lecito per qualsivoglia timore disobbedire al precetto umano, se da quella disobbedienza ne segua scandalo, il quale è proibito per legge divina naturale. Ed in questa proposizione così dichiarata siamo d’accordo con i sette Dottori, come si vede dalla loro dichiarazione, e massime nel fine, dove allegano il Soto (lib. 1 de justitia, et iure q. 6, art. 4) e Silvestro (Verbo excommunicatio 5, n. 14), i quali dicono, che il timore non è giusto, e non iscusa quando la disobbedienza del precetto umano è con iscandalo, o in pregiudizio della Fede. Sin qui sono parole del Cardinal Bellarmino. Lo stesso è il sentimento del Suarez. (De Legibus l. 3, cap. 28, num. 24). « Transgredi legem (Prælati) ex contemptu eiusdem, quatenus Prælatus est, semper censeo esse peccatum mortale. … Ratio autem est, quia illud est contemnere Potestatem eius et quia tunc contemnitur quatenus repræsentat Deum, et vices eius gerit, et ideo talis contemptus redundat in contemptum Dei (Luc. X). Qui vos audit, me audit, et qui vos spernit, me spernit. » Et cap. 50, num. 7. « Per accidens fieri posse, ut etiam in eo casu (scalicet periculo mortis) obligetur homo ad (humanam) servandam legem, communis etiam est; talisque necessitas esse consetur, quando violatio legis propter talem metum cederet in contemptum, vel iniuriam religionis, aut grave scandalum pusillorum: tunc enim bonum commune, et religionis præferendum est privato etiam propriæ vitæ. Item quia tune trasgredi præceptum humanum esset vel deficere in confessione fidei tempore debito, vel cooperari ad aliquod intrinsece malum… Nec satis erit in huiusmodi casu habere intentionem non contemnendi nec scandalizandi, et exterius agere contra legem ad vitandum mortem. Hoc non est satis, quia tenemur exterius non contemnere, nec contemnentibus consentire, vel cooperari; et similiter ad vitandum scandalum maxime necessarium esse solet actum externum vitare. Si autem protestatio aliqua externa sufficeret ad tollendum scandalum, tunc cessaret illa necessitas, ut notavit Bonavent. in 4, dist. 33, dub. 8, et latius in tractat. de scandalo. » Dalla qual dottrina agevolmente si può dedurre la soluzione di molti dubbi, che talvolta occorrono. Può un Vescovo acconsentire, dissimulare, o cooperare alla violazione delle leggi ecclesiastiche per timore di sé medesimo, o di un peggior male alla Chiesa? In tempo di persecuzione, torno a risponder di no. Imperocché è manifesto a tutti i buoni Cattolici, che questo spirito di disubbidienza nasce, come abbiam detto, da ribellione alla podestà Ecclesiastica, e da disprezzo, o da mancanza di Fede. Dunque l’acconsentire, il dissimulare, il cooperare in questi tempi alla violazione delle leggi ecclesiastiche, è un acconsentire, un dissimulare, un cooperare alla ribellione contro una legittima Podestà instituita da Gesù Cristo, e al disprezzo della Fede e allo scandalo dei Fedeli, il che è proibito per legge divina e naturale. E siccome sino nella Dottrina Cristiana s’insegna, che né pure una sola bugia potrebbe dirsi per impedire la rovina di tutto il Paradiso; così molto meno si può dar mano allo scandalo, e al disprezzo della Fede, e della Podestà Ecclesiastica per impedire la propria rovina, o anche la rovina (che non è possibile) della Chiesa medesima. La ragione di tutto questo è una sola, e breve e chiara; cioè che in nessun caso, né per nessun timore di male né per nessuna speranza di bene, né in nessun tempo si può mai fare una cosa qualunque sia intrinsecamente cattiva. Ma il dar mano, o coll’opera, o col silenzio, o coll’accettazione al disprezzo della Fede e della Chiesa, e allo scandalo dei Fedeli è una cosa intrinsecamente mala. Dunque assolutamente non si può, e non si può da nessuno di qualunque rango e dignità. Così in altri tempi (Fleury Stor. Eccles. an. 895) protestarono i Vescovi delle Provincie di Reims, e di Roven a Lodovico Re di Germania con queste rimarchevoli parole: « Le Chiese, che Dio ci ha confidate non sono feudi, che il Re abbia diritto di dare, o di togliere, come gli piace. Essi sono beni consacrati a Dio, dei quali niuno può entrare in possesso senza commettere sacrilegio. » Ma vediamone le efficaci espressioni nella lettera di questi Vescovi al suddetto Re, che il Labbé riporta all’ann. 858 (t. 10, col. 95, et 96) « Res, et facultates Ecclesiasticas, quae sunt vota fidelium, pretia peccatorum, stipendia ancillarum, et. Dei Servorum, deprœdari, et ab Ecclesiis discindi, nolite sustinere, sed fortiter, ut Rex Christianus et Ecclesiœ alumnus resistite, atque defendite… Et sacri Canones Spiritu Sancto dictati eos, qui facultates ecclesiasticas diripiunt, et res ecclesiasticas indebile sibi usurpant, Iudae traditori Christi similes computant. De quibus sacrilegis in Prophetia Psalmi 82 prædictum est: Qui dixerunt: Hæreditate possideamus Sanctuarium Dei. Deus meus pone illos, ut rotam, et sicut stipulam ante faciem venti; et sicut ignis, qui comburit sylvam, et sicut flamma comburens montes, ita persequeris illos in tempestate tua, et in ira tua turbabis eos; imple facies eorum ignominia. » Sono anche molto efficaci l’espressioni di Pietro Blesense nella sua lettera già citata (ep.112) al Vescovo di Orleans, dove gl’inculca di resistere al Re, se avesse voluto violare l’immunità Ecelesiastica; delitto molto enorme; e perchè? « Si enim testimonio veritatis in ignem æternum mittitur, qui sua pauperibus non dedit: ubi quæso mittendus est, qui bona pauperum vel Ecclesiæ rapuit aut fraudavit? » Indi soggiunge: Scio, quod si Rex tuus angariis, parangariis, exectioninibus, capitationibus, caeterisque sordidis, et extraordinariis muneribus Ecelesiam decreverit praegravare, quam plures Episcopos huius rei fautores inveniet… Sie olim Rege Antioco iura templi, et Sacerdetii pervertente, multi de Israel egressi sunt, quia solius adulationis, aut vani timoris intuitu in consensum illius tyrannidis transierunt. Tu vero, Reverendissime Pater, pro domo Israel ex adverso ascendas, et pro testamento Dei murum inexpugnabilem te opponas. Enorme namque famæ, et animæ discrimen incurres, sì hanc iniuriam Christi silentio, aut neglectu dissimules. » S. Tommaso tratta espressamente questo articolo, cioè se (2, 2 qu. 43, art. 8 în corp.) per timore di scandalo debbano dimettersi i Beni temporali; e risolve così: « Contra est, quod Beatus Thomas Cantuariensis repetiit res Ecclesiarum cum scandalo Regis. Respondeo dicendum, quod circa temporalia distinguendum est: Aut enim sunt nostra, aut sunt nobis ad conservandum pro aliis commisa; sicut Bona Ecclesiae committuntur Prælatis, et Bona communia quibusecumque Reipublicæ rectoribus. Et talium conservatio, sicut et depositorum imminet his, quibus sunt commissa ex necessitate: et ideo non sunt propter scandalum dimittenda: sicut nec alia, quæ sunt de necessitate salutis.» Anzi aggiunge il Santo Dottore, che né meno i propri beni devono dimettersi per timore di scandalo, quando lo scandalo non nasce da ignoranza, ma da malizia. « Aliquando vero scandalum nascitur ex malitia, quod est scandalum Phariseorum: et propter eos, qui sic scandala concitant, non sunt temporalia dimittenda: quia hoc et noceret bono communi; (daretur enim malis rapiendi occasio) et noceret ipsis rapientibus; qui retinendo aliena in peccato remanerent. Unde Gregorius in 31 Moral. dicit (cap. 8 circa med.). Quidam, dum temporalia a nobis rapiunt; solummodo sunt tolerandi: quidam vero æquitate servata prohibendi non sola cura, ne nostra subtrahantur, sed ne rapientes non sua semetipsos perdant. » – Ed ecco altre due ragioni, per cui non può un Pastore dissimulare, e molto meno cooperare all’avvilimento, al disprezzo, o all’usurpazione della giurisdizione ecclesiastica. Prima ragione: Quia hoc noceret bono communis; daretur enim malis rapiendî occasio; questo modo di operare e di tacere nuocerebbe al bene comune spirituale, e all’onore di Dio e della Chiesa, perché darebbe occasione ai malvagi di sopraffare la Podestà ecclesiastica, vedendo il suo notabil timore. Lo avvertiva anche S. Cipriano fin dai suoi tempi scrivendo (ep. 55) a Papa Cornelio. « Si ita res est frater carissime, ut nequissimorum timeatur audacia, et quod mali iure, atque æquitate non possunt, temeritate, ac desperatione perficiant, actum est de episcopatus vigore, et de Ecclesiæ gubernandæ sublimi, ac divina potestate, nec christiani ultra aut durare, aut esse iam possumus, si ad hoc ventum est, ut perditorum minas, atque insidias pertimescamus. Nam et gentiles, et iudæi minantur, et hæretici, atque omnes, quorum pectora, et merites diabolus obsedit, venenatam rabiem suam quotidie furiosa voce testantur. » – Seconda ragione: Quia hoc noceret ipsis rapientibus, qui retinendo aliena in peccato remanerent; questo modo di operare edi tacere nuocerebbe altresì alle anime degli stessi magistrati, edei Principi, che trasgrediscono le leggi ecclesiastiche e divine;perché le pecore erranti vedendo, che il Pastor non le sgrida, oche le accompagna ne’ loro errori, comincerebbero a persuadersi d’aververo diritto contro la podestà Ecclesiastica, e diverrebbero inemendabili e ostinati nella loro prevaricazione. Dove bisogna riflettere, che il Vescovo non solo a titolo (La Croix cum omn. doctor. 1.2 de Charit. dub. 4, num. 208, et seg.) di carità, ma di giustizia deve la correzione fraterna, anzi dirò meglio la paterna correzione anche ai Principi e ai Magistrati. Dunque dissimulando i loro errori, o quel che è peggio; secondando le loro trasgressioni, manca d’eseguire un debito di giustizia coll’anime a lui commesse; debito tanto importante, quanto importa l’eterna loro salute.Ed è ben da notare che l’Immunità dei Beni Ecclesiastici, o sia diritto divino, o sia diritto umano, è inviolabile dalla Podestà secolare, sotto pena di sacrilegio. Dunque un Vescovo passando in silenzio l’invasione laica dei beni della Chiesa, lascerebbe dormire le sue Pecore in un continuo enorme peccato. E chi dirà mai, che un tal silenzio convenga coll’ufficio pastorale d’un Vescovo?Vediamo un altro passo di S. Tommaso, in cui conferma di nuovo l’accennata dottrina. Parla il Santo Dottore dell’obbligo, che corre ad ogni Cristiano di professare anche esteriormente la fede in certi tempi, e in alcuni luoghi, e ragiona così (2, 2 qu. 3, ar. 2). « Confiteri fidem non semper, nec in quolibet loco est de necessitate salutis, sed in aliquo loco, et tempore, quando scilicet per omissionem huius confessionis substraheretur honor debitus Deo, et etiam utilitas proximis impendenda; puta, si aliquis interrogatus de fide taceret, et ex hoc crederetur, vel quod non haberet fidem, vel quod fides non esset vera, vel alii per eius taciturnitatem averterentur a fide. » V’é dunque obbligo di protestare esternamente la fede, quando per l’omissione di una tal protesta si toglierebbe l’onor dovuto a Dio, o si mancherebbe alla cura dovuta al prossimo; per esempio quando il silenzio di uno, che fosse interrogato in materia di fede, facesse credere o ch’egli non avesse fede, o che la fede non fosse vera, o desse con ciò occasione agli altri di mancare alla fede. Ora, soggiungo adesso, il silenzio di un Pastore, che vede invasa la Podestà ecclesiastica,che soffre in pace questa usurpazione peggio, che la seconda e vi concorre; è un silenzio e una cooperazione, che fa credere che né pur egli vuol esser soggetto alla Podestà ecclesiastica, o che anch’egli dubita dell’esistenza di questa Podestà istituita da Gesù Cristo; e inoltre è un silenzio, e una cooperazione, che fa prevaricare anche gli altri, specialmente i Chierici e i Parrochi a lui Soggetti; e in fine è un silenzio e una cooperazione, che conferma i Principi e i Magistrati nelle loro usurpazioni e nel disprezzo della Podestà Ecclesiastica; usurpazioni e disprezzo, che attaccan la fede. Dunque un Pastore non può essere sicuro in coscienza, adoperando in questi casi un timoroso silenzio; e molto meno cooperando a un mal sì grande e sì scandaloso coll’accettare, promulgare ed eseguire i decreti contrari alla libertà Ecclesiastica.Questo si conoscerà sempre meglio coll’esempio de’ più Santi Pastori della Chiesa. Si trattava forse di fede ai tempi di S. Tomaso di Cantuaria nell’Inghilterra? No, ma bensì di consuetudini contrarie alla libertà e alla giurisdizione ecclesiastica, che riuscivano d’impedimento, di scandalo e di disprezzo della Podestà ecclesiastica. Non si voleva, che i Vescovi uscissero dal Regno per andare (Convent. Clarendon. an. 1164) a Roma senza licenza della Corte. Si voleva, che i Chierici si presentassero al tribunale dei Laici anche senza concessione della Chiesa. Non si voleva che alcun Ministro del Re fosse scomunicato senza intelligenza del Principe. Si voleva, che la Curia del Re giudicasse in ultima istanza delle appellazioni de’ Chierici. In somma si trattava solo di questi e d’altri simili articoli oltraggiosi alla Immunità della Chiesa. E pure né S. Tomaso, né Papa Alessandro voller mai cedere su questo punto ad Enrico. Quando S. Tommaso (Vit. S. Thom. c. 24)fu chiamato dal Re, prima ch’egli entrasse all’udienza, Bartolomeo Vescovo uscendo dalla stanza di Enrico si gettò ai piedi del Santo, e gli disse: Padre mio, abbi pietà di te, e di noi perché tutti siamo in pericolo per causa tua. Imperocchè è uscito un editto del Re, che chiunque abbraccerà il tuo partito, sarà riguardato come pubblico nemico, e condannato al taglio della testa; e Tommaso guardandolo: fuggi via di qua, gli rispose, che non hai cognizione degl’interessi di Dio. Alessandro Papa ne avea tanta estimazione, che colle lagrime agli occhi disse ai messaggeri del (Quadrip. vit. S. Thom. l. 2, c. 5) Santo: Dominus vester adhuc vivens iam martyrii privilegium sibi vindicat; Il vostro padrone benché vivo gode il privilegio di martire. Anche al Santo si fecero le stesse istanze, che sono state adoperate in ogni tempo. Gli domandarono, se voleva promettere l’osservanza di quelle consuetudini, che alla (S.Thom. l. 2, ep. 27 et 28) fine non erano nuove nel Regno, ma praticate dagli stessi antecessori d’Enrico. Con questo si ridonava la pace a lui, e a tutto il Regno. Tommaso rispose, che non avrebbe mai permesso l’osservanza di quelle consuetudini, che apertamente sono contrarie alla legge di Dio, che distruggono i privilegi della Sede Apostolica, e che opprimono la libertà della Chiesa. E bene, soggiunsero, almeno promettete di dissimulare e di tollerare. Rispose Tommaso: che chi tace confessa: Taciturnus spiritum prætendit confitentis; e che voleva piuttosto morir esule, che fare una pace di questa sorte con danno della sua salute e della Ecclesiastica libertà. Patres nostri, disse un’altra volta il Santo (In Quadri,cap. 23) in faccia a due Re, cioè a quello di Francia, e a quello d’Inghilterra: Patres nostri passi sunt, quia Christi nomen tacere noluerunt. Et ego, ut hominis gratia restituatur, Christi honorem deberem supprimere? Absit. Ma che? Non (ibid. cap. 26) molto di poi il Re Ludovico di Francia ebbe a chieder perdono al Santo del cattivo consiglio datogli di cedere ad Enrico: « Rex gemens ait: Vere domine mi pater, tu solus vidisti; nos omnes cœci fuimus, qui contra Deum tibi dedimus consilium in tua causa, ad nutum hominis honorem Dei remittentes. Pœniteo, pater, et graviter pœniteo. Ignosce ergo, et ab hac culpa me absolve.» Tanto è vero, che Iddio protegge i suoi Ministri fedeli, e coraggiosi contro tutte le podestà della terra; e che vani sono gli spaventi dei figliuoli delle tenebre; perché cor Regis in manu Domini, et quocumque voluerit inclinabit illud. Né questare sistenza di Tommaso ad Enrico di non voler approvare le consuetudini contrarie all’Ecclesiastica libertà, era capricciosa e riprensibile.Alessandro III scrisse di suo pugno ai Vescovi d’Inghilterra proibendo loro di prestare verun giuramento diverso da quello, che tutti i Vescovi sogliono dare al Re, e ordinando ad essi di rivocare qualunque giuramento prestato in danno della libertà della Chiesa? (Alexander Episc. 6, Labbé tom. 13, col. 73): « Præcipiendo mandamus, et in virtute obedientiæ iniungimus, quatenus, si illustris Anglorum Rex quidquam a vobis aliquo tempore requisierit, quod contra Ecclesiasticam libertatem existat, hoc ei facere nullatenus attentetis. Nec vos in aliquo, et maxime contra Romanam Ecelesiam obligetis: aut novæ promissionis, seu iuramenti formam inducere præsumatis, præter id, quod Episcopisuis Regibus facere consueverunt. Si autem iam dicto Regi superhuiusmedi vos in aliquo adstrictos cognoscitis, quod promisistis,nullatenus observetis, sed hoc potius revocare curetis; et de promissione illicita Deo studeatis, et. Ecclesiæ reconciliari. » –  E perché forse Enrico si scusava delle ruberie commesse sopra i beni della Chiesa col pretesto di volerne convertire le vendite in limosine e in usi pii, è notabile ciò, che gli scrisse in tal proposito Papa Alessandro (ibid. ep. 10, col. 76). « Si autem universo, quæ in usus tuos per buiusmodi angarias de bonis ecclesiasticis convertuntur, in refectionem pauperum, vel aliis pietatis operibus expenderes; obsequium non magis Deo gratius efficeres, quam si altari quolibet discooperto, aliud cooperires: aut si Petrum crucifigeres, ut Paulum a mortis periculo liberares. » Enrico convocò in seguito i Vescovi del suo Regno per intimar loro un editto, (S. Thom. I. 3, ep. 65) in cui vietava d’accettare l’interdetto del Papa. – Ma quanto può mai in tutti i Vescovi anche l’esempio e il coraggio d’un solo? Quelli, che prima parevano tutti dichiarati contra Tommaso, dopo aver poi ammirata la sua costanza, ricusarono d’intervenire a quest’adunanza, alcuni di loro protestarono in iscritto contra ogni attentato del Principe. Si riconciliò in fine, benché di mala voglia, il Re col Santo Arcivescovo, senza fare né pur parola di quelle consuetudini (S. Thom., lib. 5, ep. 43), per cui erasi sino allora mostrato così ribelle alla Chiesa; ed è notabile quello che scrisse allora lo stesso S. Tomaso (S. Thom. I 5, ep. 48) a Graziano Legato del Papa:« Ecce ut facta est vox nuperrimæ comminationis Apostolicæ in auribus Regis, qua constitit terram eius subiiciendam esse Interdicto, et mandati prævaricatores Episcopos suspendendos, vel excommunicandos, illico ad honorem Dei et Ecelesiae….. pacem fecit. Nec dubium, quin infra duos primos exilii nostri annos eam fecisset, si cum ab initio hac via aggressus esset Dominus Papa.» – È vero, che questa pace fu di corta durata, e che Tommaso ritornò nel Regno per ispargere il sangue generoso sul pavimento della sua Chiesa. Ma la sua morte fu onorata ben presto per tutto il Cristianesimo, e si vide il Re Enrico in abito penitente domandar perdono di questo sangue, che si era per altro versato senza suo comando. Così in fine Dio esalta i suoi servi, e umilia i loro persecutori.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “SANTA DEI CIVITAS”

Un recente servo “vicario” dell’anticristo, diceva che il proselitismo cristiano è una “solenne sciocchezza”, contraddicendo – come giustamente fanno i servi suddetti – alle parole dei Signore Nostro Gesù Cristo che comandò invece ai suoi Apostoli e ai loro successori, di andare a predicare il Vangelo a tutte le genti e a battezzarle nel Nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. E per meglio imprimere nella mente dei suoi Apostoli e discepoli, ed in quella dei veri fedeli Cattolici di ogni tempo quest’obbligo, aggiungeva che … et praedicabitur hoc Evangelium regni in universo orbe, in testimonium omnibus gentibus: et tunc veniet consummatio … (Matt. XXIV, 14),… quando il Vangelo del regno, sarà annunziato a tutte le genti, allora giungerà la fine!!! … Quindi, lasciamo da parte gli ignoranti, ma coerenti con i loro intenti, i (finti) imbecilli servi del demonio e vediamo, ad esempio, come in questa lettera Enciclica, S. S. Leone XIII, ribadisca questa necessità, se vogliamo escatologica, della predicazione e quindi delle missioni, in tutto il pianeta a tutte le genti, dopo la quale ci sarà la fine, cioè la parusia di Gesù Cristo Giudice che verrà a ricompensare ognuno secondo le sue opere. Eccone un passaggio significativo: ” … La fede dipende dunque dalla predicazione, e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm. X, 14.17). Codesto ufficio poi spetta a coloro che legittimamente siano stati iniziati ai sacri misteri …”. Seguono poi esortazioni e lodi per le missioni ed i loro sostenitori. Quello che a noi oggi maggiormente importa, è il capire che questa predicazione è oggi – favorita anche dai mezzi divulgativi di massa, che raggiungono ogni angolo del pianeta – pressoché completata: non c’è popolo, credente o eretico, ostinatamente pagano o infedele, che non conosca, pur se in chiave negativa, o anche col rifiuto di aderirvi, la verità evangelica annunziata da Cristo e dai suoi Apostoli, per cui dobbiamo tenerci pronti, oggi più che mai, e solerti al ritorno del “nostro Padrone” di ritorno dal suo viaggio in “un paese lontano” e farci trovare come servi operanti e svegli nell’esercizio operoso della vera ed unica fede salvifica della Chiesa Cattolica, Cattedra di verità e di gloria eterna, fondata e guidata visibilmente dal suo Vicario, S. S. Gregorio XVIII, e invisibilmente, ma con potenza, da Gesù Cristo, Dio incarnato e Giudice severo – ma giusto e misericordioso con i pentiti ed i penitenti – del comportamento di ogni uomo venuto in questo mondo. Chi avrà creduto si salverà … chi, invece, avrà “dialogato” come l’idiota sciocco citato sopra, e l’avrà seguito nelle sue eresie, o meglio nell’apostasia, finirà nelle tenebre esterne … nello stagno di fuoco preparato per la bestia, il falso profeta ed il dragone maledetto. Parola di Dio … Sancta Dei civitas …

SANCTA DEI CIVITAS

LETTERA ENCICLICA 
DI SUA SANTITÀ

LEONE PP. XIII

La città santa di Dio che è la Chiesa, non essendo circoscritta da alcun confine di regioni, ha la forza trasfusale dal suo Fondatore di dilatare ogni giorno più il luogo della sua tenda e di estendere le pelli dei suoi tabernacoli (Is LIV, 2). Questi accrescimenti dei popoli cristiani, sebbene siano principalmente opera dell’intima assistenza e dell’aiuto dello Spirito Santo, tuttavia si compiono estrinsecamente per opera di uomini e secondo l’umano costume. Infatti è consentaneo alla sapienza di Dio che tutte le cose siano ordinate e realizzate nel modo che conviene alla natura di ciascuna di esse. Tuttavia la specie degli uomini e degli uffici, per mezzo dei quali si ottiene l’aumento di nuovi cittadini a questa terrestre Sionne, non è una sola. Infatti le prime parti spettano a coloro che predicano la parola di Dio: ciò Cristo insegnò con i suoi esempi e con le sue profezie. Su ciò l’Apostolo Paolo insisteva con queste parole: “Come potranno credere a colui che non hanno udito? E come potranno udire se non vi è chi predichi?… La fede dipende dunque dalla predicazione, e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm X,14.17). Codesto ufficio poi spetta a coloro che legittimamente siano stati iniziati ai sacri misteri. – A questi, per certo, recano non poco aiuto né lieve conforto coloro i quali sogliono o apprestare loro soccorsi esterni o con preghiere innalzate a Dio attirare su di essi i doni celesti. Perciò nel Vangelo vengono lodate quelle donne le quali “soccorrevano con le proprie sostanze” (Lc VIII, 3). Cristo che predicava il regno di Dio; e Paolo attesta che a coloro i quali annunziano il Vangelo è per divino volere concesso che vivano del Vangelo (1Cor IX, 14). Parimenti sappiamo che Cristo diede ai suoi seguaci ed ai suoi uditori questo comando: “Pregate il padrone della messe che mandi ad essa gli operai” (Mt IX, 38; Lc 10,2), e che i primi suoi discepoli, dietro l’esempio degli Apostoli, solevano supplicare Dio con queste parole: “Concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta fiducia la tua parola” (At. IV,29). Questi due uffici, che consistono nel dare e nel pregare, oltre che essere utilissimi per allargare i confini del regno dei cieli, hanno altresì questo di proprio, che possono essere facilmente compiuti da uomini di qualunque condizione. Infatti, chi è tanto povero che non possa dare una piccola moneta, o tanto occupato che non possa qualche volta alzare a Dio una preghiera per i nunzi del Santo Vangelo? Di questi aiuti sempre si servirono gli uomini apostolici e specialmente i Pontefici Romani, ai quali maggiormente incombe il compito di propagare la fede cristiana, sebbene non si sia sempre tenuto il medesimo modo di procurare tali soccorsi, ma vario e diverso, secondo la varietà dei luoghi e la diversità dei tempi. – Essendo tendenza della nostra età di intraprendere le cose ardue mercé l’unione dei pareri e delle forze di molti, vedemmo dappertutto formarsi società di cui talune furono costituite perché contribuissero anche a promuovere la Religione in alcune regioni. Fra tutte, la più eminente è la pia associazione formata circa sessant’anni fa a Lione, in Francia, e che prese il nome della Propagazione della fede. Questa in principio si propose di soccorrere alcune missioni nell’America; poi, come il grano della senape, crebbe diventando un albero gigantesco i cui rami largamente fioriscono, e così a tutte le missioni, sparse per tutta la terra, porge operosa beneficenza. Questa eccellente istituzione fu tosto approvata dai Pastori della Chiesa e ricolma di splendidi elogi. I Romani Pontefici Pio VII, Leone XII, Pio VIII, Nostri Predecessori, la raccomandarono calorosamente e la arricchirono dei doni delle Indulgenze. Con molto maggiore impegno la promosse, e con affetto veramente paterno la considerò Gregorio XVI, che nella Lettera enciclica del 15 agosto 1840 [più esattamente, con il Breve Probe nostis del 18 settembre 1840] di essa parlò in questi termini: “Opera, questa, veramente grande e santissima, che si sostiene, si allarga, si accresce con le modeste offerte e con le quotidiane preci innalzate a Dio dagli amici di essa; opera che, rivolta a sostenere gli operai apostolici, a esercitare la carità cristiana verso i neofiti, a liberare i fedeli dall’impeto delle persecuzioni, è da Noi considerata degnissima di ammirazione e di amore da parte di tutti i buoni. Né si può credere che senza un particolare disegno della Provvidenza divina sia toccato alla Chiesa, in questi ultimi tempi, un vantaggio, una utilità così grande. Mentre infatti con artifici di ogni genere il nemico infernale tormenta la diletta Sposa di Cristo, nulla di più opportuno poteva accaderle che la difesa e gli sforzi congiunti di tutti i fedeli che sono infiammati dal desiderio di diffondere la verità cattolica e di guadagnare tutti a Cristo”. – Dopo ciò esortava i Vescovi, affinché ognuno nella propria diocesi alacremente operasse in modo che una istituzione tanto salutare si accrescesse di giorno in giorno. Né dall’indirizzo del suo Predecessore si allontanò Pio IX di gloriosa memoria, il quale non tralasciò alcuna occasione per aiutare la benemeritissima società e per promuovere sempre più la sua prosperità. Infatti per sua decisione vennero concessi ai soci più ampi privilegi della indulgenza pontificia; fu spronata la pietà cristiana a sussidiare l’opera, e i soci più illustri, dei quali fossero provati i singolari meriti, furono decorati di varie onorificenze; infine, alcuni aiuti esterni, destinati a questa istituzione, furono dallo stesso Pontefice elogiati ed amplificati. Nello stesso tempo l’emulazione della pietà fece sì che nascessero due altre società, delle quali l’una prese il nome della Santa Infanzia di Gesù Cristo, l’altra delle Scuole d’Oriente. La prima ha per scopo di educare nei costumi cristiani gl’infelicissimi bambini che i genitori, costretti dalla miseria o dalla fame, abbandonano barbaramente, specialmente nelle regioni dei Cinesi, nelle quali è maggiormente in uso questa sorta di crudeltà. Pertanto, la carità dei soci li raccoglie affettuosamente e, dopo averli recuperati talvolta con il denaro, cura che siano lavati nel fonte della rigenerazione cristiana, in modo che, con l’aiuto di Dio, crescano nella speranza della Chiesa o almeno, presi dalla morte, possano garantirsi il modo di acquistare l’eterna felicità. – L’altra società, che sopra abbiamo nominata, prende cura degli adolescenti e con ogni impegno si adopera affinché essi siano imbevuti di sana dottrina, e si adopera di allontanare da loro i pericoli della scienza fallace, verso la quale essi sono spesso inclinati per improvvida cupidigia d’imparare. – Del resto, l’uno e l’altro sodalizio prestano la loro opera coadiutrice a quello più antico che si chiama Propaganda Fide e che, sostenuto dal denaro e dalle preghiere dei popoli cristiani, con amica alleanza opera allo stesso fine. Tutti infatti tendono a far si che mediante la diffusione della luce evangelica moltissimi estranei alla Chiesa vengano alla conoscenza di Dio, e adorino Lui e il Mandato da Lui, Gesù Cristo. Quindi, come accennammo, queste due istituzioni furono elogiate con lettere apostoliche dal Nostro Predecessore Pio IX e largamente arricchite di Sacre Indulgenze. – Pertanto, dato che questi tre sodalizi hanno goduto di tanta sicura grazia agli occhi dei Sommi Pontefici, e dato che ognuno di essi non ha mai desistito dal compiere con concorde impegno il proprio ufficio, così diedero abbondanti frutti salutari alla Nostra Congregazione di Propaganda Fide, arrecarono non mediocre aiuto e conforto nel sostenere i pesi delle missioni e sembrarono tanto vigorosi da dare lieta speranza di messe più ampia per l’avvenire. Però le molte e violente tempeste che si sono scatenate contro la Chiesa nelle regioni già illuminate dalla luce evangelica, recarono detrimento anche a quelle opere che erano state istituite per incivilire i popoli barbari. Infatti furono molte le cause che diminuirono il numero e la generosità dei soci. Certamente, venendo sparse nel mondo prave opinioni con le quali si aguzza l’appetito della terrena felicità e si spregia la speranza dei beni celesti, che cosa ci si deve aspettare da coloro che usano la mente per escogitare e per gustare le voluttà del corpo? Uomini siffatti possono innalzare preghiere in forza delle quali Dio, implorato, possa condurre con la grazia trionfante i popoli immersi nelle tenebre alla luce divina del Vangelo? Costoro possono forse recare aiuto ai sacerdoti che per la fede si sacrificano e combattono? Invece, per la malvagità dei tempi avvenne che anche gli animi degli uomini pii si facessero più restii alla munificenza, in parte perché nell’abbondanza delle iniquità si raffreddò la carità di molti, in parte perché le angustie delle cose private, i moti di quelle pubbliche (e si aggiunga anche il timore di tempi peggiori) fecero sì che molti fossero tenaci nel conservare, parchi nel dare. – Al contrario le missioni apostoliche sono strette da molteplici e gravi necessità poiché si fa ogni giorno minore il numero dei sacri operai, né a coloro che sono rapiti dalla morte, cadenti per la vecchiaia, logorati dalla fatica, sono pronti a succedere missionari pari di numero e di valore. Infatti vediamo famiglie religiose, dalle quali molti partivano per le sacre missioni, sciolte da leggi nefaste, i chierici strappati dagli altari e costretti agli obblighi della milizia, i beni dell’uno e dell’altro Clero quasi dappertutto messi al bando e proscritti. – Frattanto, aperto l’adito ad altre regioni che parevano inaccessibili, cresciuta la conoscenza di luoghi e di genti, furono richieste molte altre spedizioni di soldati di Cristo, e si stabilirono nuove stazioni; perciò si desiderano molte persone che si dedichino a codeste missioni ed arrechino opportuni aiuti. – Tralasciamo le difficoltà e gli ostacoli generati dalle contraddizioni. Infatti, spesse volte uomini fallaci, seminatori di errori, si camuffano da apostoli di Cristo, e abbondantemente forniti di aiuti umani prevengono l’ufficio dei sacerdoti cattolici, o si insinuano al posto di quelli che vengono a meno, o siedono su una cattedra eretta contro di essi, ritenendo di avere sufficientemente conseguito il loro fine, se a quelli che ascoltano la parola di Dio spiegata in diverso modo, rendono ambigua la via della salvezza. E volesse Iddio che non riuscissero con le loro arti! Certamente è da deplorare che quegli stessi i quali o hanno in uggia tali maestri o non li conoscono affatto, e anelano alla pura luce della verità, non trovino spesso l’uomo da cui siano istruiti nella sacra dottrina ed invitati nel seno della Chiesa. Veramente i pargoli chiedono il pane, e non vi è chi lo spezzi loro; le contrade biancheggiano di messe: questa è molta, ma gli operai sono pochi e meno ancora forse diverranno in futuro. – Stando così le cose, Venerabili Fratelli, stimiamo Nostro dovere stimolare lo zelo e la carità dei Cristiani, affinché, sia con le preghiere, sia con le offerte, si adoperino ad aiutare l’opera delle sacre missioni e a promuovere la propagazione della fede. Quanta sia l’eccellenza di tale attività lo dimostrano tanto i beni che ad essa sono proposti, quanto i frutti che se ne ritraggono. Infatti, questa santa opera tende direttamente ad estendere sulla terra la gloria del nome divino e il regno di Cristo. Essa è oltremodo benefica per coloro che sono richiamati dal fango dei vizi e dall’ombra della morte, e che, oltre ad essere resi idonei alla salvezza eterna, sono tratti da uno stato di barbarie e da costumi selvaggi alla dignità del vivere civile. Inoltre, tale opera riesce molto utile e fruttuosa anche a coloro i quali in qualsiasi modo vi partecipano, poiché procura ad essi ricchezze spirituali, offre materia di merito e rende Dio quasi debitore nei loro confronti del beneficio compiuto. – Voi dunque, Venerabili Fratelli, chiamati a partecipare della Nostra sollecitudine, caldamente esortiamo affinché, sorretti dalla fiducia in Dio e non turbati da qualsiasi difficoltà, con animi concordi vi adoperiate con Noi ad aiutare attivamente ed energicamente le missioni apostoliche. Si tratta della salute delle anime per le quali il Nostro Redentore offerse l’anima sua e costituì Noi Vescovi e Sacerdoti per la formazione dei santi e per la edificazione del suo corpo. – Pertanto, ciascuno nel luogo dove da Dio fu posto a custodia del gregge, sforziamoci con ogni mezzo affinché alle sacre missioni siano forniti quegli aiuti che, come abbiamo ricordato, la Chiesa usò sin dai primordi, vale a dire la predicazione del Vangelo, le preghiere e le elemosine degli uomini pii. Se dunque troverete alcuni zelanti della gloria divina e pronti ed idonei ad intraprendere le sacre missioni, rincuorateli affinché, esplorata e conosciuta la volontà di Dio, non si facciano impigrire dalla carne e dal sangue, ma si affrettino ad assecondare le voci dello Spirito Santo. – Agli altri Sacerdoti, poi, agli ordini religiosi dell’uno e dell’altro sesso, e infine a tutti i fedeli affidati alle Vostre cure, inculcate con insistenza affinché con preghiere incessanti implorino l’aiuto celeste a favore dei seminatori della divina parola. Adoperino poi quali intercessori la Vergine Madre di Dio, che può uccidere tutti i mostri degli errori, il suo purissimo Sposo, che molte missioni hanno già eletto a proprio protettore e custode, e che la Sede Apostolica ha recentemente dichiarato Patrono della Chiesa universale; i Principi degli Apostoli e tutta la schiera da cui partì per la prima volta la predicazione del Vangelo che risuonò per tutta la terra; infine, tutti gli altri uomini illustri per santità, che nello stesso ministero consumarono le forze o profusero il sangue e la vita. – Alla supplice preghiera si unisca l’elemosina, la cui forza consiste nel far sì che coloro i quali aiutano gli uomini dell’apostolato, ancorché separati da grandi distanze o trattenuti in altre occupazioni, si rendano loro soci, tanto nei travagli quanto nei meriti. Per la verità, il tempo è tale che molti sono presi dalla povertà familiare, tuttavia nessuno per questo si perda d’animo, in quanto a nessuno certamente può essere grave l’oblazione della piccola moneta che si richiede per questo scopo, dato che molte offerte convogliate unitariamente possono approntare aiuti abbastanza grandi. Ognuno poi consideri, secondo il Vostro insegnamento, Venerabili Fratelli, che la sua liberalità non gli sarà di iattura ma di vantaggio, poiché chi dà al povero presta a Dio, e perciò l’elemosina fu detta la più lucrosa di tutte le attività. Infatti se, come da promessa dello stesso Gesù Cristo, non perderà la sua mercede colui che abbia dato un bicchiere d’acqua fresca ad uno dei suoi poveri più miseri, amplissima mercede certamente spetterà a colui che, spesa per le sacre missioni una somma anche esigua ed aggiuntavi la preghiera, sollecita contemporaneamente molte e diverse opere di carità, e si fa collaboratore di Dio per la salute del prossimo in quell’opera che i Santi Padri chiamarono la più divina fra le opere divine. – Nutriamo certa fiducia, Venerabili Fratelli, che tutti coloro i quali si gloriano del nome di cattolici, meditando nella loro mente queste considerazioni ed infiammati dalle Vostre esortazioni, non verranno meno a questa opera di pietà, che a Noi sta tanto a cuore, né permetteranno che le loro premure di dilatare il regno di Gesù Cristo siano vinte dall’attività e dall’impegno di coloro che si sforzano di propagare il dominio del principe delle tenebre. – Frattanto, implorando Iddio propizio alle pie imprese dei popoli cristiani, impartiamo affettuosamente nel Signore l’Apostolica Benedizione, testimone della Nostra singolare benevolenza, a Voi, Venerabili Fratelli, al Clero ed al popolo affidato alla Vostra cura.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 3 dicembre 1880, anno terzo del Nostro Pontificato.

DOMENICA DELLA SANTISSIMA TRINITÁ (2021)

FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITÁ (2021)

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O Dio, uno nella natura e trino nelle Persone, Padre, Figlio e Spirito Santo, causa prima e fine ultimo di tutte le creature, Bene infinito, incomprensibile e ineffabile, mio Creatore, mio Redentore e mio Santificatore, io credo in Voi, spero in Voi e vi amo con tutto il cuore.

Voi nella vostra felicità infinita, preferendo, senza alcun mio merito, ad innumerevoli altre creature, che meglio di me avrebbero corrisposto ai vostri benefìci, aveste per me un palpito d’amore fin dall’eternità e, suonata la mia ora nel tempo, mi traeste dal nulla all’esistenza terrena e mi donaste la grazia, pegno della vita eterna.

Dall’abisso della mia miseria vi adoro e vi ringrazio. Sulla mia culla fu invocato il vostro Nome come professione di fede, come programma di azione, come meta unica del mio pellegrinaggio quaggiù; fate, o Trinità Santissima, che io mi ispiri sempre a questa fede e attui costantemente questo programma, affinché, giunto al termine del mio cammino, possa fissare le mie pupille nei fulgori beati della vostra gloria.

[Fidelibus, qui festo Ss.mæ Trinitatis supra relatam orationem pie recitaverint, conceditur: Indulgentia trium annorum;

Indulgentia plenaria suetis conditionibus (S. Pæn. Ap.,10 maii 1941).

[Nel giorno della festa della Ss. TRINITA’, si concede indulgenza plenaria con le solite condizioni: Confessione [se impediti Atti di contrizione perfetta], Comunione sacramentale [se impediti, Comunione Spirituale], Preghiera secondo le intenzioni del S. Padre, S. S. GREGORIO XVIII]

Canticum Quicumque


(Canticum Quicumque * Symbolum Athanasium)


Quicúmque vult salvus esse, * ante ómnia opus est, ut téneat cathólicam fidem:
Quam nisi quisque íntegram inviolatámque serváverit, * absque dúbio in ætérnum períbit.
Fides autem cathólica hæc est: * ut unum Deum in Trinitáte, et Trinitátem in unitáte venerémur.
Neque confundéntes persónas, * neque substántiam separántes.
Alia est enim persóna Patris, ália Fílii, * ália Spíritus Sancti:
Sed Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti una est divínitas, * æquális glória, coætérna majéstas.
Qualis Pater, talis Fílius, * talis Spíritus Sanctus.
Increátus Pater, increátus Fílius, * increátus Spíritus Sanctus.
Imménsus Pater, imménsus Fílius, * imménsus Spíritus Sanctus.
Ætérnus Pater, ætérnus Fílius, * ætérnus Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres ætérni, * sed unus ætérnus.
Sicut non tres increáti, nec tres imménsi, * sed unus increátus, et unus imménsus.
Simíliter omnípotens Pater, omnípotens Fílius, * omnípotens Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres omnipoténtes, * sed unus omnípotens.
Ita Deus Pater, Deus Fílius, * Deus Spíritus Sanctus.
Ut tamen non tres Dii, * sed unus est Deus.
Ita Dóminus Pater, Dóminus Fílius, * Dóminus Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres Dómini, * sed unus est Dóminus.
Quia, sicut singillátim unamquámque persónam Deum ac Dóminum confitéri christiána veritáte compéllimur: * ita tres Deos aut Dóminos dícere cathólica religióne prohibémur.
Pater a nullo est factus: * nec creátus, nec génitus.
Fílius a Patre solo est: * non factus, nec creátus, sed génitus.
Spíritus Sanctus a Patre et Fílio: * non factus, nec creátus, nec génitus, sed procédens.
Unus ergo Pater, non tres Patres: unus Fílius, non tres Fílii: * unus Spíritus Sanctus, non tres Spíritus Sancti.
Et in hac Trinitáte nihil prius aut postérius, nihil majus aut minus: * sed totæ tres persónæ coætérnæ sibi sunt et coæquáles.
Ita ut per ómnia, sicut jam supra dictum est, * et únitas in Trinitáte, et Trínitas in unitáte veneránda sit.
Qui vult ergo salvus esse, * ita de Trinitáte séntiat.
Sed necessárium est ad ætérnam salútem, * ut Incarnatiónem quoque Dómini nostri Jesu Christi fidéliter credat.
Est ergo fides recta ut credámus et confiteámur, * quia Dóminus noster Jesus Christus, Dei Fílius, Deus et homo est.
Deus est ex substántia Patris ante sǽcula génitus: * et homo est ex substántia matris in sǽculo natus.
Perféctus Deus, perféctus homo: * ex ánima rationáli et humána carne subsístens.
Æquális Patri secúndum divinitátem: * minor Patre secúndum humanitátem.
Qui licet Deus sit et homo, * non duo tamen, sed unus est Christus.
Unus autem non conversióne divinitátis in carnem, * sed assumptióne humanitátis in Deum.
Unus omníno, non confusióne substántiæ, * sed unitáte persónæ.
Nam sicut ánima rationális et caro unus est homo: * ita Deus et homo unus est Christus.
Qui passus est pro salúte nostra: descéndit ad ínferos: * tértia die resurréxit a mórtuis.
Ascéndit ad cælos, sedet ad déxteram Dei Patris omnipoténtis: * inde ventúrus est judicáre vivos et mórtuos.
Ad cujus advéntum omnes hómines resúrgere habent cum corpóribus suis; * et redditúri sunt de factis própriis ratiónem.
Et qui bona egérunt, ibunt in vitam ætérnam: * qui vero mala, in ignem ætérnum.
Hæc est fides cathólica, * quam nisi quisque fidéliter firmitérque credíderit, salvus esse non póterit.

MESSA

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Doppio di I° classe. – Paramenti bianchi.

Lo Spirito Santo, il cui regno comincia con la festa di Pentecoste, viene a ridire alle nostre anime in questa seconda parte dell’anno (dalla Trinità all’Avvento – 6 mesi), quello che Gesù ci ha insegnato nella prima (dall’Avvento alla Trinità – 6 mesi). Il dogma fondamentale al quale fa capo ogni cosa nel Cristianesimo è quello della SS. Trinità, dalla quale tutto viene (Ep.) e alla quale debbono ritornare tutti quelli che sono stati battezzati nel suo nome (Vang.). Così, dopo aver ricordato, nel corso dell’anno, volta per volta, pensiero di Dio Padre Autore della Creazione, di Dio Figlio Autore della Redenzione, di Dio Spirito Santo, Autore della nostra santificazione, la Chiesa, in questo giorno specialmente, ricapitola il grande mistero che ci ha fatto conoscere e adorare in Dio l’Unità di natura nella Trinità delle persone (Or.). — « Subito dopo aver celebrato l’avvento dello Spirito Santo, noi celebriamo la festa della SS. Trinità nell’officio della domenica che segue, dice S. Ruperto nel XII secolo, e questo posto è ben scelto perché subito dopo la discesa di questo divino Spirito, cominciarono la predicazione e la credenza, e, nel Battesimo, la fede e la confessione nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo ». Il dogma della SS. Trinità è affermato in tutta la liturgia. È in nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo che si comincia e si finisce la Mesa e l’Ufficio divino, e che si conferiscono i sacramenti. Tutti i Salmi terminano col Gloria Patri, gli Inni con la Dossologia e le Orazioni con una conclusione in onore delle tre Persone divine. Nella Messa due volte si ricorda che il Sacrificio è offerto alla SS. Trinità. — Il dogma della Trinità risplende anche nelle chiese: i nostri padri amavano vederne un simbolo nell’altezza, larghezza e lunghezza mirabilmente proporzionate degli edifici; nelle loro divisioni principali e secondarie: il santuario, il coro, la navata; le gallerie, le trifore, le invetriate; le tre entrate, le tre porte, i tre vani, il frontone (formato a triangolo) e, a volte le tre torri campanili. Dovunque, fin nei dettagli dell’ornato il numero ripetuto rivela un piano prestabilito, un pensiero di fede nella SS. Trinità. — L’iconografia cristiana riproduce, in differenti maniere questo pensiero. Fino al XII secolo Dio Padre è rappresentato da una mano benedicente che sorge fra le nuvole, e spesso circondata da un nimbo: questa mano significa l’onnipotenza di Dio. Nei secoli XIII e XIV si vede il viso e il busto del Padre; dal secolo XV il Padre è rappresentato da un vegliardo vestito come il Pontefice.Fino al XII secolo Dio Figlio è rappresentato da una croce, da un agnello o da un grazioso giovinetto come i pagani rappresentavano Apollo. Dal secolo XI al XVI secolo apparve il Cristo nella pienezza delle forze e barbato; dal XIII secolo porta la sua croce, ma è spesso ancora rappresentato dall’Agnello. — Lo Spirito Santo fu dapprima rappresentato da una colomba le cui ali spiegate spesso toccano la bocca del Padre e del Figlio, per significare che procede dall’uno e dall’altro. A partire dall’XI secolo fu rappresentato per questo sotto forma di un fanciullino. Nel XIII secolo è un adolescente, nel XV un uomo maturo come il Padre e il Figlio, ma con una colomba al disopra della testa o nella mano per distinguerlo dalle altre due Persone. Dopo il XVI secolo la colomba  riprende il diritto esclusivo che aveva primieramente rappresentare lo Spirito Santo. — Per rappresentare la Trinità si prese dalla geometria il triangolo, che con la sua figura, indica l’unità divina nella quale sono iscritti i tre angoli, immagine delle tre Persone in Dio. Anche il trifoglio servì a designare il mistero della Trinità, come pure tre cerchi allacciati con il motto Unità scritto nello spazio lasciato libero al centro della intersezione dei cerchi; fu anche rappresentata come una testa a tre facce distinte su un unico capo, ma nel 1628 Papa Urbano VIII proibì di riprodurre le tre Persone in modo così mostruoso. — Una miniatura di questa epoca rappresenta il Padre e il Figlio somigliantissimi, il medesimo nimbo, la medesima tiara, la medesima capigliatura, un unico mantello: inoltre sono uniti dal Libro della Sapienza divina che reggono insieme e dallo Spirito Santo che li unisce con la punta delle ali spiegate. Ma il Padre è più vecchio del Figlio; la barba del primo è fluente, del secondo è breve; il Padre porta una veste senza cintura e il pianeta terrestre; il Figlio ha un camice con cintura e stola poiché è sacerdote. — La solennità della SS. Trinità deve la sua origine al fatto che le ordinazioni del Sabato delle Quattro Tempora si celebravano la sera prolungandosi fino all’indomani, domenica, che non aveva liturgia propria. — Come questo giorno, così tutto l’anno è consacrato alla SS. Trinità, e nella prima Domenica dopo Pentecoste viene celebrata la Messa votiva composta nel VII secolo in onore di questo mistero. E poiché occupa un posto fisso nel calendario liturgico, questa Messa fu considerata costituente una festa speciale in onore della SS. Trinità. Il Vescovo di Liegi, Stefano, nato verso l’850, ne compose l’ufficio che fu ritoccato dai francescani. Ma ebbe vero, principio questa festa nel X secolo e fu estesa a tutta la Chiesa da Papa Giovanni XXI nel 1334. — Affinché siamo sempre armati contro ogni avversità (Or.), facciamo in questo giorno con la liturgia professione solenne di fede nella santa ed eterna Trinità e sua indivisibile Unità (Secr.).

Incipit 

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus 

Tob XII: 6.

Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam.

[Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]

Ps VIII: 2

Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in univérsa terra!


[O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!]

 Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam.

[Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]

Oratio

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui dedísti fámulis tuis in confessióne veræ fídei, ætérnæ Trinitátis glóriam agnóscere, et in poténtia majestátis adoráre Unitátem: quaesumus; ut, ejúsdem fídei firmitáte, ab ómnibus semper muniámur advérsis. 

[O Dio onnipotente e sempiterno, che concedesti ai tuoi servi, mediante la vera fede, di conoscere la gloria dell’eterna Trinità e di adorarne l’Unità nella sovrana potenza, Ti preghiamo, affinché rimanendo fermi nella stessa fede, siamo tetragoni contro ogni avversità.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom XI: 33-36.

“O altitúdo divitiárum sapiéntiæ et sciéntiæ Dei: quam incomprehensibília sunt judícia ejus, et investigábiles viæ ejus! Quis enim cognovit sensum Dómini? Aut quis consiliárius ejus fuit? Aut quis prior dedit illi, et retribuétur ei? Quóniam ex ipso et per ipsum et in ipso sunt ómnia: ipsi glória in sæcula. Amen”. 

[O incommensurabile ricchezza della sapienza e della scienza di Dio: come imperscrutabili sono i suoi giudizii e come nascoste le sue vie! Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi gli fu mai consigliere? O chi per primo dette a lui, sí da meritarne ricompensa? Poiché da Lui, per mezzo di Lui e in Lui sono tutte le cose: a Lui gloria nei secoli. Amen.]

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

DIO É CARITA’.

La gloria del Cristianesimo, della Rivelazione cristiana, che ha per oggetto suo primo Dio, è di aver saputo e di saper parlare alla nostra mente e al nostro cuore, appagando i due supremi bisogni dell’anima, sapere e amare. Ce n’è per le intelligenze più aristocratiche, ce n’è per i cuori più umili, quelle si arrestano pensose, questi si fermano giocondi.  Oggi l’Epistola della domenica ha una parola delle più sublimi e delle più consolanti. Dio è carità: «Deus charitas est». Dio è un fuoco, una promessa, un suono infinito di amore, di bontà, di carità. La carità è il suo attributo, per noi Cristiani più alto, più caratteristico. Vedete, o fratelli, le armonie mirabili del dogma, della morale di N. S. Gesù Cristo. La carità è il grande comandamento della sua Legge, così grande che può parere e dirsi in qualche modo il solo: in realtà riassume, compendia in sé tutti gli altri. È « praeceptum magnum in lege ». Bisogna amar Dio e tutti quelli e tutto ciò che Egli desidera vedere amato da noi. Amare Dio! Che gran parola! Se Dio permettesse all’uomo di amarlo, pensando quanto Egli è grande, quanto noi siamo piccini, dovremmo riguardarlo come una concessione straordinaria da parte di Dio. Ebbene, no, Dio non ci permette: Egli ci comanda di volerGli bene, come figli al Padre, come amici all’Amico. Ma noi Gli dobbiamo voler bene, perché (ecco il dogma) Egli è buono, anzi è la stessa bontà, una bontà non contegnosa, non fredda, una bontà calda, espansiva: è carità. Questo dogma corrisponde a quel precetto: nel precetto si raccoglie tutta la morale, in quel precetto e in questo dogma si compendia la storia dogmatica dei rapporti di Dio con noi. La carità è la chiave della creazione, della Redenzione, della Santificazione. Noi siamo da tanti secoli ormai abituati a sentirci predicare questo ritornello: Dio è carità, che rimaniamo quasi indifferenti. Ma quei primi che raccolsero queste parole dalle labbra di Gesù e poi dagli Apostoli, ne rimasero estatici. Per secoli i Profeti avevano con una commossa eloquenza celebrato la grandezza di Dio e la Sua giustizia. Certo non avevano dimenticato la misericordia, attributo troppo prezioso perché nella sinfonia profetica potesse mancare. Ma la grande predicazione profetica era la predicazione della grandezza e della giustizia: volevano incutere il timore di Dio in quel popolo dalla dura cervice e dal cuore incirconciso. E parve una musica nuova e dolce questa del Figlio di Dio, di Gesù: Dio è bontà, è amore, è carità: vuole essere amato. E lo so, e l’ho detto e lo ripeto: al ritornello ci abbiamo fatto l’orecchio. Ma siamo noi ben convinti di questo dogma? Crediamo noi davvero, crediamo noi sempre alla bontà di Dio? Purtroppo l’amara interrogazione ha la sua ragion d’essere. Perché crederci davvero vuol dire amare Dio fino alla follia come facevano i Santi, e ciò è più difficile in certi momenti oscuri della vita, è un po’ difficile sempre. La carità di Dio è anch’essa misteriosa come sono misteriosi tutti gli attributi di Dio, dato che Dio stesso è mistero. – Oggi la Chiesa ce lo ricorda celebrando la SS. Trinità, il primo mistero della nostra fede, e cantando con le parole di Paolo: « O altitudo divitiarum sapientiæ et scientiæ Dei! » – Dio è un abisso dove la ragione da sola si smarrisce, guidata dalla fede cammina quanto quaggiù è necessario ed è possibile, come chi tra le tenebre ha una piccola, fida lucerna. È un abisso, è un mistero anche l’amore di Dio. Dobbiamo accettarlo, crederlo. Perciò l’Apostolo definisce i Cristiani così: gli uomini che hanno creduto e credono alla carità di Dio. « Nos credidimus charitati ». Ma credendo, e solo credendo a questo mistero della bontà, della carità di Dio per noi, per tutti, ci si rischiara il buio che sarebbe altrimenti atroce della nostra povera esistenza: ci si illumina quel sovrano dovere di amare anche noi il nostro prossimo che renderebbe tanto meno triste il mondo e la vita se noi ne fossimo gli esecutori fedeli. Il Dio della carità accenda nei nostri cuori la Sua fiamma e faccia splendere ai nostri sguardi la Sua luce!

 Graduale 

Dan III: 55-56. Benedíctus es, Dómine, qui intuéris abýssos, et sedes super Chérubim, 

[Benedetto sei Tu, o Signore, che scruti gli abissi e hai per trono i Cherubini.]

Alleluja

Benedíctus es, Dómine, in firmaménto cæli, et laudábilis in sæcula. Allelúja, 

[V.Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, alleluia.]

Dan III: 52 V. Benedíctus es, Dómine, Deus patrum nostrórum, et laudábilis in sæcula. Allelúja. Alleluja. 

[Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, allelúia]

Evangelium

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum Matthæum. Matt XXVIII: 18-20

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Data est mihi omnis potéstas in coelo et in terra. Eúntes ergo docéte omnes gentes, baptizántes eos in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti: docéntes eos serváre ómnia, quæcúmque mandávi vobis. Et ecce, ego vobíscum sum ómnibus diébus usque ad consummatiónem sæculi”. 

« Gesù disse a’ suoi discepoli: Ogni potere mi fu dato in cielo ed in terra: andate adunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo, insegnando loro di osservare tutte le cose, che io vi ho comandate: ed ecco io sono con voi tutti i giorni, fino al termine del secolo ».

OMELIA

[Mons. G. Bonomelli, Misteri Cristiani; vol. IV, Queriniana ed. Brescia, 1896]

RAGIONAMENTO II.

La SS. Trinità secondo il Simbolo – Mistero che trascende la ragione umana – Vestigia della Trinità nel creato.

Ci sta dinanzi un essere qualunque, una pietra, un albero, un animale, un uomo. Noi lo vogliamo studiare e conoscere. Qual via terremo per raggiungere l’intento? Se non erro, non vi sono che due vie. Noi possiamo e dobbiamo considerare e studiare la pietra, l’albero, l’animale, l’uomo nelle loro manifestazioni esterne, nelle loro qualità, nei loro effetti, che cadono sotto dei nostri sensi e che possiamo sottoporre alla esperienza. È la prima via, più facile e comune. Ma noi possiamo anche andare più oltre e spingere l’occhio nostro più addentro nella pietra, nell’albero, nell’animale, nell’uomo; possiamo armare la mano e l’occhio di strumenti potentissimi e penetrare l’intima loro natura, scrutarne le fibre più riposte, numerare, misurare e pesare gli elementi, afferrare e stabilire le leggi a cui soggiacciono e ridurle ad un codice sicuro ed invariabile. È  questa la seconda via, più difficile, ma più perfetta e riserbata a pochi. Fratelli dilettissimi! La fede e la ragione ci mettono dinanzi l’Essere degli esseri, Dio infinito. Per conoscerlo noi possiamo tenere le due vie, che vi ho accennate: noi possiamo studiarlo e conoscerlo nelle sue meravigliose ed ineffabili manifestazioni esterne, nelle opere tutte delle sue mani, come Creatore e  conservatore ed anche come Redentore e della bellezza, varietà e grandezza delle medesime assurgere al conoscimento della sua esistenza e delle sue perfezioni divine quali risplendono nell’universo creato e nella economia della Redenzione. È ancora la prima via, rischiarata dalla ragione e dalla fede. Parimenti dinanzi alla maestà di Dio, posti in faccia a questo Essere che è infinito, che tutte le cose produce dal nulla, conserva, regge e penetra, che faremo noi? Ci prostreremo noi tremebondi e in religioso silenzio lo adoreremo? È il consiglio che ci dà il Nazianzeno (Oraz. 35) e potremmo seguirlo. Oseremo noi, tenendo nella destra la face della fede, riverenti e consci della nostra debolezza, entrare nei misteri della vita divina e scandagliare secondo le nostre forze gli abissi della sua essenza e fissare l’occhio in quelle tre Persone, nelle quali essa sì svolge e si appunta? E questo pure possiamo fare ed è bene il fare, seguendo l’esempio dei Padri e camminando sulle loro tracce, Investigare la Trinità è da temerario; crederla è proprio delle anime pie; conoscerla è la stessa vita, ci grida S. Bernardo (Lib. V, de Consid., c. 8). –  Accostiamoci adunque con animo umile a questo mistero dei misteri, addentriamoci in mezzo a questa luce sfolgorante, che per il suo eccesso diventa tenebre per la nostra debolezza, E per non mettere piede in fallo nell’alto cammino, ecco i termini del nostro assunto in questo Ragionamento, che deve essere l’introduzione del prossimo. 1.° Vedremo la dottrina della SS. Trinità quale ci è data dalla Chiesa, Maestra infallibile. 2.° Vedremo come a noi pellegrini sulla terra e contemplanti le eterne verità, quasi in ispecchio e in enigma, non sia possibile dimostrare in se stessa la SS. Trinità. Finalmente 3.° Vedremo nel creato lo ombre, dirò meglio, le vestigia della Trinità. – E dove potremo noi trovare esposta nettamente ed autorevolmente la dottrina della Chiesa cattolica intorno al dogma del SS. Trinità? Senza dubbio ne’ suoi Simboli e nominatamente in quello che più ampiamente la spiega e porta il nome del grande Atanasio. (Il simbolo volgarmente detto Atanasiano non è di S. Atanasio, ma corre sotto il suo nome perché esprime la dottrina di quell’incomparabile campione intorno alla Trinità. Questo simbolo appartiene ad un’epoca Posteriore, perché proscrive gli errori dei Nestoriani, dei Monofisiti, dei Monoteliti e degli Apollinaristi, con una precisione che lo mostra composto dopo di essi, nel 5° secolo. Lo si attribuisce a Virgilio di Tapsa). Lo volto nella nostra lingua parola per parola. « Questa è la fede cattolica, che veneriamo un Dio solo nella Trinità e la Trinità nella Unità; che non confondiamo le persone, né separiamo la sostanza. Perocchè altra è la Persona del Padre, altra quella del Figlio e altra quella dello Spirito Santo; ma una sola è la Divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, eguale la gloria, coeterna la maestà! Qual è il Padre, tale è il Figlio, tale lo Spirito Santo: increato il Padre, increato il Figlio, increato lo Spirito Santo: immenso il Padre, immenso il Figlio, immenso lo Spirito Santo: eterno il Padre, eterno il Figlio, eterno lo Spirito Santo, e tuttavia non sono tre eterni, ma un solo eterno; come non sono tre increati, né tre immensi, ma un solo increato, e un solo immenso. Similmente onnipotente è il Padre, onnipotente il Figlio, onnipotente lo Spirito Santo; e tuttavia non sono tre onnipotenti, ma un solo onnipotente. Così Dio è il Padre, Dio il Figlio, Dio lo Spirito Santo, e nondimeno non sono tre Dei, ma un solo Dio. Così Signore è il Padre, Signore il Figlio, Signore lo Spirito Santo, e nondimeno non sono tre Signori, ma un solo Signore; perché come la verità cristiana ci obbliga a confessare che ciascuna persona è Dio e Signore, così la Religione Cattolica ci vieta di dire che sono tre Dei e tre Signori. Il Padre non è fatto da alcuno, né creato, né generato; il Figlio viene dal solo Padre; non è fatto, né creato, ma generato; lo Spirito Santo viene dal Padre e dal Figlio; non è fatto, né creato, né generato, ma procede. Un solo pertanto è il Padre, non tre Padri; un solo il Figlio, non tre Figli; un solo lo Spirito Santo, non tre Spiriti Santi. E in questa Trinità non vi è nulla che sia prima o poi, nulla di maggiore o di minore; ma tutte tre le Persone sono tra loro coeterne e coeguali, onde per ogni rispetto, come sopra si disse, si ha da venerare l’Unità nella Trinità e la Trinità nella Unità ».  Non sarebbe possibile esprimere con maggior precisione la fede cattolica intorno al dogma fondamentale della Trinità, su cui si impernia l’altro dogma fondamentale della Incarnazione, dal quale poi, come da fonte immediata, scaturiscono tutti gli altri. – La dottrina della Trinità si aggira tutta su due punti, l’unità della natura, o essenza, o sostanza, che dire vogliamo, e la Trinità delle Persone, come chiaramente afferma il Simbolo. E poiché è pur necessario determinare i concetti per sapere ciò che crediamo, non vi sia grave che vi intrattenga qualche minuto sui due concetti di natura, o essenza o sostanza, e su l’altro di Persona. Il concetto di natura, o essenza, o sostanza, che per noi qui non differiscono, sta racchiuso nella risposta alla domanda sì comune: — Che cosa è questa? – Voi rispondete: – Questa è acqua: questa è una pianta: questo è un uomo -. La parola “è” vi dice la natura della cosa, il genere, a cui appartiene, la base, la radice, che sta nel fondo della cosa stessa. La sostanza, o la natura, o essenza, noi non la vediamo; essa si nasconde nella cosa e si invola incessantemente ai nostri sensi. – Ma questa natura si circoscrive, si determina, mi si presenta nelle sue proprietà specifiche, che la distinguono da tutti gli altri esseri, ed allora io dico: Ecco l’acqua, ecco il cedro, ecco il cavallo. Le qualità proprie indicano l’acqua, la vita vegetale specifica il cedro, e la vita animale determina il cavallo. –  Salgo più alto: vedo un uomo: la sua natura si determina in modo incomparabilmente più perfetto, perché intende, ragiona, vuole, è padrone di sé, ed è impossibile confonderla con altra, e giunge a dire: Io esisto, io vivo, io sento, io intendo, io voglio, io sono libero, io sono io, e non posso essere altro che io, io Pietro, io Giovanni, e allora dico: ecco che spunta la persona: ecco la natura pervenuta al supremo suo grado di determinazione e di affermazione coscienziosa dell’essere mio. La persona adunque non è un’altra natura sovrapposta alla natura, ma la natura stessa nella massima sua perfezione ed è per questo che la parola persona non si dice degli esseri inferiori, ma soltanto dell’uomo (S. Tomm. S. Th. Ia, q. 29, a,3). Ora la natura divina, infinita, immensa, tutta e sempre in atto, da cui tutto muove e deriva ogni perfezione, debb’essere sovranamente determinata e perciò il concetto di persona le è proprio come quello di natura. Una sola persona? No: quell’infinita Essenza fiorisce necessariamente in tre Persone. Perché in tre Persone e non in una sola Persona, come una sola è l’Essenza? Perché in Dio tutto è infinito. Mi spiego. Tu, o uomo, sei e pensi e vuoi: sono tre cose, o tre proprietà inseparabili dalla tua natura: nella tua natura spuntano due forze o potenze tra loro distintissime, l’intelligenza e la volontà, e questa emana da quella, come quella emana da chi per essa e con essa intende. Queste tre proprietà, rampollanti tutte dal fondo dell’anima tua in modo che ciascuna tutta la possiede e la comprende, in te, che sei finito, concorrono in una sola persona, in un solo io: in Dio, che è infinito, ciascuna di queste proprietà è infinita ed ecco che ciascuna è una persona, eguali tra loro, perché la natura è comune e da tutte e tre egualmente posseduta. La prima Persona, l’io intelligente, produce la seconda Persona, l’io pensato o inteso, sua Immagine perfetta e sostanziale; e l’io intelligente e l’io pensato, o inteso producono l’eterno e sostanziale Amore, che li congiunge e tu hai il terzo io, o terza Persona. In te stesso adunque, o uomo, hai un riflesso, una pallida immagine delle tre Persone della S. Trinità e dei rapporti loro vicendevoli. Ma di questo profondissimo dei misteri della nostra fede e delle sue convenienze razionali, in altro Ragionamento : per ora è da vedere che la ragione, per sé stessa, è impotente a darcene una rigorosa dimostrazione. – Vi furono alcuni Padri (e dei maggiori) e sulla loro autorità alcuni scrittori ecclesiastici, degnissimi di rispetto, i quali affermarono, Platone e la scuola platonica aver conosciuto la Trinità e questa, almeno dopo la rivelazione evangelica, potersi dimostrare colla ragione, come si dimostrano le altre verità filosofiche. Ma questa affermazione, messa alla prova, non regge e devesi abbandonare. –  La terra, l’universo, l’ordine che vi regna, la ragione, la coscienza, il grido dell’umanità tutta proclamano che vi è Dio; che è l’Essere primo e sovrano, ordinatore Supremo d’ogni cosa, eterno, sapientissimo, giustissimo: chi sia in se Stesso non è facile conoscerlo: sappiamo che vi è: argomentiamo alcune sue perfezioni da ciò che Egli squaderna, come dice il poeta, nell’universo: come sia in se stesso: qual sia la sua vita intima: quali le azioni e le processioni, che si compiono nelle inscrutabili profondità della sua natura, a noi non è possibile saperlo, s’Egli non ce lo dice. – Scorrete col pensiero tutte le creature uscite dalla mano di Dio: fissate l’occhio della mente sopra di esse, ciascuna di esse, studiatele per ogni verso e dovrete confessare, che voi non potete penetrare nell’intima loro natura: che al di là di ciò che conoscete vi è pur sempre qualche cosa che sfugge alle vostre indagini, che si vela al vostro sguardo, che si sottrae a tutti i vostri sforzi e questo qualche cosa inesplorata e inesplorabile è ciò che forma il fondo d’ogni essere, volete materiale, volete spirituale. Ora se le creature tutte nel fondo dell’essere loro sfidano e sfideranno l’occhio più acuto del sapiente, come credere ch’esso possa penetrare nelle profondità dell’Essere divino e vedere e contemplare gli atti ineffabili, che vi si compiono? Più che una presunzione audace e intollerabile sarebbe una follia degna di compassione. Noi non possiamo conoscere Dio che salendo dalle creature, quasi per altrettanti gradini, a Lui, che ne è il Creatore e Conservatore: dal visibile montiamo all’invisibile, dal temporario all’eterno, dall’effetto argomentiamo la Causa, la Causa prima. È questa l’unica via additata e battuta da tutti i filosofi e teologi di tutti i tempi e di tutti i paesi, Cristiani e non Cristiani. Ebbene: le creature tutte vi dicono ch’esse sono effetti e che Dio è loro Causa: vi presentano in sé stesse il suggello della Causa e questa Causa è una sola, Dio, non trino, ma uno. Illustrerò la verità con una similitudine. Voi vedete una statua: che vi dice essa? Vi dice, che vi è uno scultore e che essa è sua creazione. Egli per farla, l’ha pensata e nella sua mente ne ha formata l’immagine: poi colla sua volontà ha determinato di eseguirla nel marmo; poi collo scalpello, colla mano, guidata dall’occhio, l’ha scolpita. Guardando la statua, voi conoscete lo scultore, come unica sua causa, ma non potrete mai neppure immaginare la pluralità di cause, se così posso esprimermi, che concorsero insieme, con unico atto, a produrre la statua. – I teologi cattolici, con a capo S. Tommaso, insegnano che gli atti di Dio, fuori di Dio, cioè che hanno per termine le creature sotto qualsiasi forma, si riferiscono a Dio in quanto è uno nella sua essenza, precisamente come gli atti dell’uomo fuori dell’uomo provengono da lui in quanto è un solo operante, benché vi concorrano l’intelligenza e la volontà. Questi atti fuori di Dio provengono da Dio Padre, da Dio Figlio, da Dio Spirito Santo, ma non in quanto si distinguono, sebbene in quanto sono un solo Dio, una sola Natura e per conseguenza i loro effetti rappresentano Dio come un solo, come una sola Natura, ed è impossibile che lo rappresentino nella Trinità delle Persone. Queste sono prodotte dagli atti interni del conoscere e dall’amare, che rimangono nella essenza divina. È dunque impossibile che l’uomo, salendo dalle creature a Dio, conosca la Trinità delle Persone: potrà averne qualche barlume, qualche conoscenza, come diremo, ma conoscimento chiaro, dimostrazione certa, non mai. – E in vero, se noi sottoponiamo a severo esame le dottrine di Platone e d’altri filosofi antichi e moderni, che parvero mettere il dogma della Santa Trinità nel numero di quelle verità che si dimostrano colla sola ragione, almeno dopo la rivelazione evangelica, troveremo che sono manchevoli, piuttosto ipotesi che tesi, piuttosto analogie, similitudini, verosimiglianze, che verità dimostrate e poste fuori d’ogni controversia. Chi poi afferma che in Platone si trova chiaramente esposta la dottrina cattolica della Santa Trinità, mostra che non ha letto Platone, o, lettolo, non vi ha posto ben mente: giacché la dottrina di Platone su questo capo presenta tali e tante differenze col dogma cattolico, che se quella si accettasse, questo sarebbe non solo alterato, ma totalmente distrutto. Noi dunque, camminando sulle tracce di S. Tommaso e dei grandi teologi, che esprimono il senso della Chiesa, diremo, che la Trinità è il segreto di Dio, è il mistero dei misteri, che dobbiamo credere ed adorare. Ma perché la Trinità Santa è un mistero e mistero dei misteri, non vi sia tra voi chi pensi, esser questo un dogma, una dottrina, che urti e offenda comecchessia la ragione umana. Mistero non vuol dire cosa o dottrina contraria alla ragione, ma cosa o dottrina superiore alla ragione; che certamente esiste, ma che sfugge ai suoi calcoli, e ch’essa non può afferrare nei rapporti intimi e sottoporre al suo sindacato. Fratelli miei! Il mondo materiale e intellettuale, come il mondo morale e sociale, sono pieni di fatti e di fenomeni indubitati, che vediamo co’ nostri occhi e tocchiamo colle nostre mani, e dei quali andiamo ansiosamente cercando le ragioni: noi li chiamiamo misteri di natura, ben differenti senza dubbio dai misteri della fede, perché di quelli si può trovare la spiegazione intrinseca e forse la si troverà, ma di questi sulla terra non si troverà mai; ma pure, almeno per ora, sono misteri: e chi oserebbe negare quei fatti e quei fenomeni, ancorchè l’intima loro ragione di esistere rimanga occulta? Nessuno per fermo, perché un fatto, un fenomeno può essere certo quantunque inesplicato e inesplicabile. L’esistenza d’una cosa può essere fuori d’ogni dubbio, anche quando il modo della esistenza è avvolto tra fitte tenebre. Tali sono: i dogmi della nostra fede, tal è il dogma della Santa Trinità, chiaramente rivelato e imposto da Cristo, ma non spiegato in modo che la ragione lo comprenda e faccia suo. Noi diciamo e professiamo che vi è il mistero d’una sola essenza con tre Persone eguali, perché Dio lo ha rivelato; ma con ciò non diciamo, né professiamo una dottrina, che offenda la ragione, come non offendete la ragione neppur voi allorché riconoscete nell’uomo l’unione d’una sostanza spirituale con una sostanza materiale in un’unica persona e il passaggio della forza da un corpo ad un altro e la sua azione a distanze enormi, benché ignoriate il modo dell’unione, del passaggio e della sua azione, ed ignoriate persino che cosa siano anima e materia e forza in sé stesse. – E non è fare oltraggio alla ragione, ci si dice, quando voi affermate che Dio è un solo e in pari tempo trino? S’Egli è un solo, non può essere trino: se è trino non può essere un solo. Perdono! o fratelli. Noi diciamo che Dio è un solo per ragione della natura, trino per ragione delle Persone, che è ben altra cosa. Io dico: Tu, o uomo, sei un solo: eppure in qualche vero senso tu hai due nature, o sei uno solo in due nature: dico io forse cosa che ripugna alla ragione, o non anzi alla ragione conforme? Io dico: Uomo, la tua anima è una sola, un solo io, semplicissimo io. Tu lo confessi e lo senti: eppure la tua intelligenza non è la tua volontà, e la tua intelligenza e la tua volontà non sono la tua memoria, quantunque la tua intelligenza sia tutta la ripugnanza, perché due cose, o due termini incerti od oscuri mi tolgono di vedere e affermare la conseguenza del loro raffronto e me la devono lasciare incerta ed oscura. È verità che non si dimostra. Ora, parlando della Santa Trinità, i termini che si opporrebbero sarebbero l’essenza, che è una sola, e le Persone, che sono tre. Conosco io che cosa sia l’Essenza divina? So che essa esiste: so che è eterna, infinita, immutabile, che trascende infinitamente la povera mia intelligenza. Dite altrettanto delle Persone, esse pure eterne, infinite, immutabili ed eccedono le forze di qualunque intelligenza creata, fosse pur quella del più sublime degli spiriti celesti. Dunque io non conosco, non posso, non potrò mai conoscere perfettamente i due termini del dogma della Trinità, l’Essenza unica, e la Trinità delle Persone. Se è così, io non potrò mai dire, che codesti termini ripugnano e involgono contraddizione: dal confronto di due termini oscuramente conosciuti traggo una conseguenza chiarissima, dicendo: – si contraddicono -. Questo è offendere le regole della logica. Che dovrò io dire? Non comprendo i due termini e non mi è lecito affermare che si contraddicono. L’astronomo fissa l’occhio sopra una stella, che si perde nella immensità de’ cieli: applica la paralasse: le due linee tirate sopra un lato comune e distanti milioni e milioni di leghe sono parallele, perfettamente parallele ed egli vi dice: – Impossibile misurarne la distanza – ed è vero. Ma dunque quelle due linee sono veramente parallele? – L’occhio, l’esperienza, più scrupolosa vi dicono: si, sono parallele: ma la ragione mi dice con maggiore sicurezza: No; è impossibile che siano parallele; sono impotente a rilevare l’inclinazione. Ma questa vi è. È ciò che dobbiamo confessare noi a maggior diritto, allorché ci pare di scorgere contraddizione tra l’unità dell’Essenza divina e la Trinità delle Persone. L’immensurata e immensurabile distanza tra noi e Dio, crea un’oscurità profonda e attraverso quel buon effetto del nostro corto vedere, ci sembra che l’unità dell’Essere divino non si possa comporre nella Trinità delle Persone. È vera sapienza il dire: Dio ha detto che Egli è uno nella natura e trino nelle Persone: io non lo comprendo, ed è naturale ch’io, essere finito e piccolo, non lo comprenda e mi sembri contrario alla ragione: ma Egli non erra, né può errare, mi basta: credo. Il figlio non crede egli al padre, il discepolo al maestro, il servo al padrone anche in ciò che non intende e che talvolta ripugna alla sua ragione, perché sicuro di non essere ingannato? Si: e questa è pure sapienza. Perché non farò io altrettanto con Dio, mio padre, mio maestro, mio padrone assoluto? Sarei stolto se non lo facessi, e perciò lo faccio. Ma egli è poi vero che la nostra ragione nel mistero della Santa Trinità non vede nulla, che risponda alle sue esigenze? Nulla che la ischiari, e in qualche modo la introduca nei penetrali della sua vita intima? No, essa non ci può dare una formale e perfetta dimostrazione della divina Trinità, ma qua e là nel creato la trova adombrata. Vediamo queste ombre o queste vestigia di Dio uno e trino. – La sapienza greca, rappresentata da Aristotele, poneva quale aforisma, questo motto: – Omne trinum est perfectum -. Essa considerava questo numero come sacro e quel motto ebbe sempre un’eco fedele presso molti popoli antichi e moderni. Quale e d’onde la ragione di questo fatto? Non sembra inverosimile che la si debba ripetere da una antica e venerabile tradizione, che si nasconde nelle tenebre dei secoli, che risale all’origine dell’umanità e che è forse il riverbero d’una divina rivelazione. Nella quale opinione ci conferma un altro fatto anche più degno di considerazione. Noi, e sopra l’abbiamo notato, siamo ben lungi di ammettere in Platone la dottrina della Santa Trinità, quale è insegnata dai Libri Santi, e professata dalla Chiesa Cattolica. Troppe e troppo sostanziali differenze corrono tra le due dottrine perché possiamo menar buona l’opinione di alcuni Padri e dotti scrittori, che in Platone riconobbero per poco un precursore dell’Evangelista S. Giovanni. Ma è pur sempre vero che il sommo Platone in Dio intravvide una cotale Trinità a suo modo: è pur vero, che qualche sprazzo di questo dogma si trova sparso nei poeti e filosofi greci ed anche nella loro mitologia. È anche vero che nei Libri Sacri dell’India e della Persia e in fondo a quasi tutte le credenze religiose dei popoli, sotto forme più o meno esplicite, si incontrano espressioni e simboli che abbastanza chiaramente alludono ad una certa Trinità nell’Essere divino. Ora come Spiegare l’esistenza senza dubbio confusa e talora contradditoria di questa nozione d’una Trinità divina senza ricorrere o ad una tradizione primitiva, poi alterata, o ad un Vago presentimento della natura umana, che scorge il lontano riflesso del Mistero, che Dio nasconde negli abissi dell’essere suo? Quale che ne sia la vera origine, il fatto è indubitato, ed è un vestigio dell’augusto mistero. – E non basta: Scrutate questa materia inorganica e organica che vediamo e tocchiamo. Perché questa pietra, questo cristallo, questo corpo inanimato, è intimamente congiunto nelle singole sue parti, ne’ suoi atomi e mi presenta, la forma, che vedo? Perché in ogni sua parte, ancorchè minima, v’è una forza invisibile, che opera e stringe in uno gli atomi tutti e forma il corpo, che ci sta dinanzi? Questa forza è distinta dalla materia, che essa trae a sé, unisce e condensa in modi sì diversi e mirabili. Qui dunque abbiamo due Principii distinti, materia e forza, o forma, se così vi piace chiamarla. Ma due termini distinti non si possono concepire senza un rapporto, un nesso qualsiasi tra loro; ed eccoci nella stessa materia un’orma, un vestigio, appena visibile, è vero, ma un vestigio d’un essere, che è uno solo e che mi presenta alcun che di trino. La materia! Qualunque sia la sua natura e quali che siano le sue forme, essa non potrà mai avere che tre dimensioni, la lunghezza, la larghezza, la profondità. Trasformate come meglio vi piace la materia; voi la troverete sempre sottoposta a questa triplice dimensione della larghezza, della lunghezza e della profondità: esse sì intrecciano e si fondono tutte insieme nello stesso corpo, formando un solo corpo e rimanendo tra loro sempre distinte in guisa che l’una non è, né può essere l’altra. E nella materia non abbiamo il numero, il peso e la misura, tre cose distinte nella stessa identica cosa? – Vedete (il pensiero lo tolgo da S. Anselmo) l’acqua: essa è sempre la stessa nella sua fonte, nel fiume, che percorre, nel mare dove entra: così è la stessa essenza nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Vedete il sole: esso è un solo corpo immenso, tutto luce e tutto calore; e la luce non è il sole, né il calore, né il calore è il sole e la luce; tre cose distinte in una sola sostanza, e quel che è una è l’altra, inseparabili e distinte ad un tempo. Vedete l’albero: è una sola sostanza, che comincia dalla radice, si svolge nel tronco, si compie nel frutto: sempre tre cose distinte in una sola sostanza. Non fa mestieri il dire che tutte queste sono similitudini tolte dalla materia, la quale per essere l’ultima eco dell’azione creatrice e il punto più lontano da Dio, ne riverbera debolissima l’immagine. – Vedete l’animale: la Vita, la stessa vita, parte dall’uno, si svolge nell’unione col secondo e si compie nella produzione di un terzo; nella distinzione di tre esseri separati esiste la stessa natura. La famiglia umana consta del padre, della madre, del figlio. La società stessa (espansione della famiglia), come la famiglia, domanda un principio organatore, che risiede nella autorità, un principio che vuolsi organare, la moltitudine, e il mezzo che l’uno e l’altro congiunge, che è la forza delle leggi; principe, personale, o collettivo, sudditi e molteplici vincoli, che li collegano. – Vedete l’uomo nella sua parte più nobile, l’anima; essa è una sola e semplicissima sostanza, come sopra accennava, e da essa emanano perennemente due facoltà, intelligenza e volontà, due principii procedenti l’uno dall’altro e che necessariamente suppongono un primo principio, fonte di entrambi e tutti e tre sussistenti nella comune e unica sostanza. Ma di questa immagine della S. Trinità, la più bella e la più perfetta, che sia tra gli esseri creati, ci occuperemo più a lungo nel prossimo Ragionamento. E qui non si vogliono dimenticare altre e pur belle analogie, che effigiano il mistero della S. Trinità. Carattere inalienabile dell’uomo è il ragionare: ora per ragionare è necessario formare il giudizio: e il giudizio, base d’ogni ragionamento, consta di tre termini, non uno più, non uno meno, il soggetto, il predicato e il vincolo, che li unisce: – il cielo è sereno -. Eccovi i due termini, il cielo, soggetto; sereno, il predicato, e il verbo è, che li unisce. Tutti i giudizi possibili si riducono a questi tre termini, che congiunti formano un solo giudizio. L’uomo ragiona e forma giudizi: e due giudizi, raffrontati tra loro, producono una conseguenza, ed eccovi il sillogismo, forma suprema di tutti i ragionamenti: una proposizione generale, una particolare e la conseguenza, che ne scaturisce: tre in uno ed uno in tre! Finalmente considerate la forma di tutti i verbi, di tutti i tempi, di tutti i paesi, di tutte le grammatiche, di tutti i popoli: essa vi presenta costantemente le tre persone, io, tu, quegli, e per tormentarvi il cervello che facciate, non potrete mai aggiungervi una quarta persona. Che è tutto questo, o fratelli miei? Ho io forse dimostrato l’ineffabile mistero della Trinità? No, sicuramente. Vi ho messo innanzi alcune similitudini, alcune vestigia, alcune immagini, che in qualche modo adombrano il dogma cattolico, lo chiariscono, scemano le difficoltà di pensarlo e ce lo rendono, umanamente parlando, concepibile e credibile. E possiamo noi, proseguendo per questa via, sollevarci più in alto, accostarci ancor più a questa luce sfolgorante e affissarvi l’occhio nostro mortale, rischiarato dalla fede? Sì, lo possiamo!

IL CREDO

Offertorium

Orémus

 Tob XII: 6. Benedíctus sit Deus Pater, unigenitúsque Dei Fílius, Sanctus quoque Spíritus: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. 

[Benedetto sia Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Secreta

Sanctífica, quæsumus, Dómine, Deus noster, per tui sancti nóminis invocatiónem, hujus oblatiónis hóstiam: et per eam nosmetípsos tibi pérfice munus ætérnum. 

[Santífica, Te ne preghiamo, o Signore Dio nostro, per l’invocazione del tuo santo nome, l’ostia che Ti offriamo: e per mezzo di essa fai che noi stessi Ti siamo eterna oblazione.]

Præfatio de sanctissima Trinitate

… Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in unius singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre cotídie, una voce dicéntes:

[ …veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola Persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce: ]…

COMUNIONE SPIRITUALE

Sanctus,

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt coeli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Communio

Tob XII:6. Benedícimus Deum coeli et coram ómnibus vivéntibus confitébimur ei: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. 

[Benediciamo il Dio dei cieli e confessiamolo davanti a tutti i viventi: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Postcommunio 

Orémus.

Profíciat nobis ad salútem córporis et ánimæ, Dómine, Deus noster, hujus sacraménti suscéptio: et sempitérnæ sanctæ Trinitátis ejusdémque indivíduæ Unitátis conféssio.

[O Signore Dio nostro, giòvino alla salute del corpo e dell’ànima il sacramento ricevuto e la professione della tua Santa Trinità e Unità.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (157)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA

Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (27)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA – 1861

SECONDA PARTE.

Genuino prospetto del Cattolicismo, e del Pretestantismo, delineato dai Protestanti.

PRATTENIMENTO II

Alcune sovrumane bellezze della Chiesa Cattolica

Punto II.

L’invincibilità della Chiesa Cattolica nei suoi grandi e continui combattimenti; suoi stupendi trionfi e progressi.

23. Lasciando da parte per brevità i tempi antichi, dei quali alcuna cosa ho già detto: « La storia ecclesiastica degli ultimi sette secoli racconta dei fatti continuamente vacillanti. Da che la cristianità occidentale si trova sotto l’amorevole autorità della Chiesa  Romana, quattro volte lo Spirito umano si è a questa ribellato per togliersene dal collo il giogo soavissimo, E ben due volte la Chiesa ha riportata una vittoria compiuta e perfetta: e due volte Ella sortì dalla battaglia colle onorate cicatrici è vero di gravi ferite, ma nullameno conservando tutto intiero e vigoroso il Principio della sua Vita. Se noi, lungi dal porle in non cale, richiamiamo alla memoria le tempestose e terribi procelle a cui essa ha potuto sì fermamente resistere, oh! allora io non so che cosa ci rattiene dal confessare che essa non può.

24. «La storia delle due seguenti generazioni (dal principio del protestantismo) è la storia della gran lotta tra il protestantismo che possedeva l’Europa settentrionale, ed il Cattolicismo che occupava la meridionale per ottenere il territorio dubbio posto tra mezzo … – Al principio la Speranza sembrava decisamente favorire il protestantismo, ma la vittoria restò alla Chiesa di Roma. In tutti i punti essa trionfò. Se oltrepassiamo un altro mezzo Secolo, la troviamo Vittoriosa e dominante in Francia, nel Belgio, nella Baviera, in Boemia, in Austria, Polonia ed Ungheria. Né il protestantismo nel corso di due secoli (ora sono più di tre) ha potuto riconquistare qualunque porzione di quel che allora perdette. né si deve dissimulare che questo mirabile trionfo del Papato debba attribuirsi principalmente non alla forza delle armi, ma ad una grande influenza della pubblica opinione.

25. » Non è da far gran meraviglia se nell’anno 1799 alcuni osservatori di alto ingegno ed acutissimo avessero questa sentenza, che la speranza di rivivere per la Chiesa Romana era pressoché morta, anzi esserne già sonata l’ultima ora. Un potere salito al più splendente fastigio e menante trionfo per ogni parte, era nemico della Chiesa Cattolica e se non all’aperto, con segrete mene guerresgiavala. Il Pontefice era vicino a dar l’estremo spirito nella captività; cacciati in esilio i prelati di Francia, e tanto più malmenati quanto più erano esemplari ed illustri, costretti poi a viver la vita degli accattoni colle limosine de’ protestanti. Gli edifizii che facevano di sé mostra della più grande magnificenza, consacrati dalla liberalità de’ secoli al culto divino, si erano tramutati in templi della vittoria, o in profane sale tutte occupate da banchetti e da adunanze politiche, o in fine, mutati in cappelle teoso-filantropiche. Per la qual cosa non poteva essere opinione al tutto malfondata ed ingiusta, vedere in quello che infino a qui si è detto un indizio probabilissimo dell’estrema rovina di un dominio, comechè continuatosi per così lungo tempo.

26. » Ciò non ostante non era quella la sua fine. La cerva bianca sebbene ferita a morte, nulla dimeno non doveva morire. Fumavano ancora gli altari per le esequie, e pei sacrifizii offerti a Dio per l’eterna pace di Pio VI, quando contrarii e potentissimi conati incominciavano a sollevarsi per ogni banda; ed al presente, dopo un giro di quarant’anni, hanno preso novella vita e più crescente vigore. Scomparsa per benigno riguardo del cielo l’anarchia, un nuovo ordinamento di cose è surto, per così dire, fuori del caos. Nuove dinastie sono apparse, nuove leggi, nuovi titoli, e di mezzo a tutto questo l’ ANTICA RELIGIONE.

27.» In verità, qual altra istituzione sarebbe stata ferma a difendersi vittoriosamente da tante tempeste che le si mossero contro? E volendo parlare anche in una maniera non cristiana, dodici secoli di (doveva dire più di 18) ogni fatta di avvenimenti, e l’intelligenza, e le cure perseveranti di quaranta generazioni di grandi politici, hanno condotto la Chiesa a tale una perfezione, che il governo di lei al cospetto di tutte Ie umane invenzioni sale degnamente nel primo e più alto grado …. – Secondo che ci vien raccontato da una favola araba, la grande piramide edificata già dai re empi del diluvio è stata lo sola che tra tutte le opere degli uomini sia rimasta i piedi dopo quella universale inondazione. Tale è la sorte del Papato. sembrava sepolto col rimanente della terra allagata, e pure le buone e sode sue fondamenta, salde e profondissime che erano, non crollarono già, ma (mirabile a vedersi!) come le acque andavano declinando al basso, esse comparivano a grado a grado maestose tra gli ultimi avanzi del mondo rovinato e distrutto. La repubblica Olandese, l’impero alemanno, il gran senato di Venezia, l’antica confederazione degli alleati elvetici, le case dei Borboni, i parlamenti e le aristocrazie di Francia, tutto era scomparso, e l’Europa avea cangiato sembiante. Era tutta piena di novelle creazioni, contava nel suo seno un impero Francese, un regno Italico, un’alleanza Renana.

28. » Nè alcuno pensi che questi sconvolgimenti avessero solamente disfatte le istituzioni politiche, cambiati i confini de’ territori; poiché le possessioni de’ terreni erano state per diverso modo distribuite, e lo spirito e l’intiero ordinamento della società quasi in tutta l’Europa cattolica con subite maniere totalmente mutato. Intanto la Chiesa si manteneva sempre immutabile ne suo primiero stato. Dopo di che sarà riserbato ad uno storico venturo il narrare le manifestazioni novelle che farà di sé e della potenza sua il Cattolicismo nel ‘secolo XIX!» (Meculay, Op. e luogo cit.)..

29. « L’opinione pubblica nell’Alemagna non ha saputo rendersi conto del nuovo sviluppo del Cattolicismo, che dall’arresto dell’Arcivescovo dî Colonia in poi. Protestanti assennati, a capo de’ quali è l’attuale Re di Prussia, han ben presto preveduto a che sarebbe riuscito un tal atto; imperocché ogni Chiesa (una Chiesa dovea dire) che riposa sulla verità cristiana, possiede delle armi contro le quali si spuntano e sempre si spunteranno quelle della gendarmeria. Alcuni anni dopo, alcuni falsi profeti  hanno gridato: Convien che Roma cada. Da quel punto Roma ha preso un possente e nuovo slancio; e quando è venuto l’anno 1848 con, tutte le potenze delle tenebre, quando Roma parve rovinare, noi abbiamo veduto che Roma poteva esistere eziandio fuori di Roma. Sul Vaticano sventolava la bandiera rossa, il Papa pigliava la fuga; ma la Chiesa Romana non ispiegava perciò meno un’attività sorprendente. Essendo un potere uno in sé, che sa ciò che vuole (la monarchia ben potrebbe richiederla di questo segreto), la Chiesa Romana fa le più grandi conquiste, ne’ tempi di desolazione universale? Ella sa trar partito da tutte le vicissitudini. Sulla vertigine dell’unità germanica ella edificò il duomo di Colonia. Nelle assemblee costituenti ed effimere: ella sola con mano sicura afferrò il ben reale, la libertà d’insegnamento. Le sue missioni percorrono il paese. Di tutte le folli associazioni del delirio rivoluzionario non vi rimane che il rannodamento dell’episcopato tedesco appoggiato sulle riunioni cattoliche.

30. « Un nuovo legno surse per la Chiesa Cattolica nella vecchia Inghilterra in mezzo a mille turbini. Sulle rovine della Francia ella pianta la sua bandiera protettrice. Le aberrazioni costituzionali nel Mecklemburg, vecchio paese Luterano, fanno rinascere il Cattolicismo: Colla reazione in Austria prende egli un nuovo accrescimento; come in Francia egli solo sa salvare la sua libertà in mezzo alle manette universali. Nel suo centro; sedendo sopra un vulcano, nè sostenendosi che per l’appoggio dello straniero, offre il suo soccorso a regni potenti. In Inghilterra; ove la Chiesa Cattolica è soltanto tollerata, ella vi comparisce di botto qual padrona. Più uno la opprime, più vien maltrattata; più ella riporta. vittorie. Ella non chiede che uguaglianza di libertà per guadagnare ad un trattò tutta la palma. Vien privata in tutti i paesi cattolici de suoi beni; della sua potenza temporale; ed ella guadagna. il doppio per la stessa sua povertà. Vien ridotta al più assoluto spogliamento; ed ella non manca né di denaro per dar la vita a nuove creazioni, né di cuori e di mani che travagliano nelle privazioni. Ora ella aspira a far ritorno verso i tempi del Medio Evo, ed ora ella tien dietro al progresso del tempo. Mentre che ne’ suoi ordini monastici logori ella ristabilisce i vecchi regolamenti di energia e di condotta severa (e prestando fede alle nuove provenienti di Fiandra e di Westfalia, il fervore interno degli antichi tempi non ha tardato di riaccendersi), ella entra risolutamente nell’idea moderna delle associazioni.

31. « Verso i Yancheys, verso il fratello Jonathan si avanza il trappista col suo unico — Memento mori, = nell’atto che ne villaggi e nelle città della Silesia, imitando i democratici, la Chiesa appende degli affissi e solleva, nelle adunanze pubbliche accessibili a tutti, le questioni tutte ardenti dell’epoca, le quali ella risolve senza agitazione. Ella è per tutto. Il suo Arcivescovo di Parigi cade sulle barricate, opponendo alle palle la sua parola di Pastore; ed appena gli ammutinati sono legati e stretti, che ella si offre per consolarli, e per seguirli nell’esilio e nella disgrazia. Mentre che tra noi si stanno elaborando mille progetti di costituzione di Chiesa, e che ognuno di essi appena è nato spira sotto le proteste della destra, della sinistra e del centro, la Chiesa Romana, di una mano ferma e senza dir parola, fa uscir fuori dal vecchio tesoro delle sue tradizioni i Concili provinciali e i Sinodi diocesani. Frattanto che presso noi si discute per anni, e senza verun risultato, sulle relazioni della libertà di riunione, e del dovere di obbedienza clericale, la Chiesa Romana, senza controversia e dissensione, copre delle riunioni libere tutti i paesi dell’Europa: Società di S. Vincenzo per gli uomini, e di Santa Edwige per le donne; Società di S. Francesco Regis per legittimare matrimoni selvaggi; Società di Maria-Herz per la conversione degli impenitenti; di S. Francesco Saverio per le missioni agli infedeli; di S. Bonifazio per la Chiesa germanica, in opposizione agli associati di Gustavo Adolfo; finalmente Società di Pio IX, le cui riunioni generali si tengono su di ogni punto dell’Alemagna. La Francia abbonda di Fratelli e di Suore insegnanti.

52. « Le scuole dello stato si vuotano, le scuole cattoliche riboccano assolutamente, come la facoltà cattolica improvvisata a Magonza ha lasciati i professori: dell’Università di Gnesen predicare e dissertare davanti ai banchi e a calamai.. Nel Belgio la libertà d’insegnamento ha talmente aumentata l’influenza dei Cattolici, che i liberali credendosi perduti, hanno decretato, grazie alla maggioranza, l’insegnamento forzato imposto dallo Stato. Nell’Annovria un secondo Vescovato è conceduto ai cattolici, e ve ne sarà ben presto un altro in Amburgo! Un Vescovato surse nell’America settentrionale in mezzo allo sperpero delle sette senza numero che vi brulicano. In Inghilterra la Chiesa Romana stabilì la sua Gerarchia alla barba dello Stato; né le dimostrazioni clamorose del popolo, né i decreti del Parlamento la fanno indietreggiare di un sol passo. Una Chiesa si aderge dopo l’altra, un convento dopo l’altro: tutti si popolano dei dotti discepoli della Università di Oxford. Nel cuor di Londra si dedica una cattedrale arcivescovile, ed a Berlino l’ospitale cattolico rivaleggia con successo in favore di tutte le confessioni con la Betania reale. Alle serie luminose e cospicue de’ suoi convertiti della Germania del Nord, il Conte Federigo Leopoldo di S. Fulbergo in capo, ella aggiunge un gran numero nel Mecklemburg….In tutti i paesi ella guadagna, non so come, i talenti più vigorosi, i meglio dotati! » (Dal foglio del popolo di Alta, sul progresso del Cattolicismo: articolo riportato per intiero dalla nuova Gazzetta di Prussia, e quindi nell’Univers, 4 Maggio 1852, e negli altri giornali di Francia).

33. « O posizione degna d’invidia della Chiesà Caltolica! Attaccata da tutte parti, minacciata di estese apostasie, premuta dalla incredulità e dalla frivolezza della nostra epoca, che la rodono al cuore, e nel momento in cui il suo Capo è circondato e tenuto captivo da bande associate a tutti che alzano le lor mani contro l’edifizio della Chiesa, i suoi rappresentanti tengono lo stesso linguaggio, qual noi troviamo in tutte le pagine della sua storia, la barca di Pietro, qualunque siasi la tempesta che l’agita, ha la promessa di giungere al porto; sempre porta seco Cesare e la sua fortuna. » (Un protestante Alemanno: Vedi la Gazzetta Universale di Augusta, Gennaio 1849)

Apost. Quando finirà questa predica ? Ormai comincia a seccarmi…

Prot. Devo dirti ancora poche parole; che ti prego a non dimenticare….

34. « Io non posso far senza di non andar meco stesso continuamente domandando: è può esser mai che una Religione, la quale con tanta perseveranza, e con tanta costanza coopera. Chiaramente alla umana felicità, non sia poi riguardo a tutti i suoi comandamenti Religione divina? Io resto compreso da grande stupore in considerando attentamente la venerabile antichità di questa sublime Chiesa, la sua ampiezza, la magnificenza e gli ordini de’ suoi edifizi: poi? ammirabile e santa disciplina di lei, la quale, per ciò che è, sembra chiaramente originare da una mente sovrumana. Quindi la costanza con che tollerò ogni fatta di persecuzioni, le grida, le villanie, le calunnie che le scagliarono contro i nemici suoi, e che pure non valsero a nulla e furono impotenti; il carattere, la dignità, le virtù, l’ingegno dei difensori della medesima Chiesa, il mal affare e la nulla fede de’ primi che la inimicarono; tutte queste verità rendono l’uomo attonito e come fuori di sé. Da ultimo ponendo ben mente allo sparire di tante differenti sette che presero le mosse e si levarono per combatter la Chiesa: la breve durata di quelle che al presente sì sarebbero volute rannodare: i dogmi dissonanti, e le discordie di fede che si alimentano nelle medesime sette; queste cose nel mentre colmano i buoni di consolazioni dolcissime, presentano in pari tempo agli sguardi dell’universale, una prossima rovina eziandio delle più innumerabili sette, siano esse protestanti, o non protestanti. E potrebbe per avventura succedere che entrando alcuno in cosifatte congregazioni, dovesse di necessità vedersele dileguare dinnanzi, e sopravvivendo ad esse, arrossire di trista vergogna, e per soprassalto di delirio correre ai baci; ai disonesti abbracciamenti, ed alle infinte carezze di un’altra setta.» (Lord Fitz-William, lettere di Attico, ossia, Considerazioni sopra la Religione Cattolica ed il Protestantesimo,  p. 30)

55. « Quante volte la Cattolica fede fosse così falsa, come taluni pretendono che ella siasi, d’onde nasce che essa non sia stata per l’addietro giammai estirpata? Quando per verità il Papa godea di una grande possanza, quando persino i Re eran costretti di curvarsi a lui, poteva per avventura dirsi, e dirsi con ripiego alcuno poco più aggiustato, che niuno osava brandire le armi della ragione contro la Cattolica fede. Ma noi abbiamo veduto il Papa captivo in terra straniera; lo abbiamo veduto privo quasi di vitto e vestito; e abbiamo veduto in fine i torchi di più che metà del nostro pianeta posti in piena libertà per trattar con la stampa Esso e la sua fede in quella guisa che ad ognuno più andava a grado. E poi non abbiamo noi vedute le sette protestanti affaticarsi tutte per lo spazio di trecento anni a distrugger la Cattolica credenza? E non veggiamo alla fine di questi tre secoli, che quella Fede è tuttora la fede dominante del Cristianesimo? Che anzi non veggiamo forse che ella va dilatandosi in questo stesso momento perfino in questo medesimo regno. (d’Inghilterra), ove una gerarchia protestante riceve otto milioni di lire sterline all’anno, e dove i Cattolici sono tuttora severamente esclusi da ogni potere, e in alcuni casi da tutti i politici e civili diritti, sotto una costituzione dai loro Cattolici antenati stabilita? Può egli dunque essere che questa fede sia falsa? Può stare che questo culto sia idolatra? Possibile che fosse necessario l’abolirlo in Inghilterra per quanto era in poter della legge? È egli credibile infine; che fosse pel nostro bene, pel nostro onore il saccheggiare il nostro suolo nativo, il violare tutti i diritti di proprietà, l’inondare il paese di sangue, affine di cangiar la nostra Religione?? » (Cobbet, Opera cit. Lett. 7, § 203) Ascoltami ancora …:

36. Apost. No!… no!… no!… ne ho abbastanza!… Avete esaltata sino alle stelle, avete voluto incielare la Cattolica Chiesa, il Papa, il Papato, la sua Gerarchia, i Preti, i Frati, le Monache, e persino i Gesuiti!… Sì (ahi rabbia), anche i Gesuiti e collocati li avete quasi sul trono del Padre Eterno!…. Questo da voi non mi aspettava. Mi basta: non ne voglio più… Se volete riconciliarmi con voi, narratemi l’origine, i progressi le bellezze, i trionfi della vostra Riforma., che deve ‘certamente aver molto di buono e di bello. Su via, da bravo: mettetevi un poco a sedere, che io faccio lo stesso. Quanto più bella e magnifica sarà la descrizione che ne farete, tanto più vi ascolterò volentieri, tanti più vi amerò. Avanti.

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (6) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (III)

OBBLIGHI DEI PASTORI E DEI FEDELI NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (6)

ESPOSTI DAL P. ALFONSO MUZZARELLI DELLA COMPAGNIA DI GESÙ,

ROMA – STAMPERIA DELLA S. GC. DE PROPAGANDA FIDE – AMMINISTRATA DAL SOC. CAV. PIETRO MARIETTI – 1866

DEGLI OBBLIGHI DI UN PASTORE NELLE TRIBOLAZIONI DELLA CHIESA (III)

Ma intanto io procedo più oltre. Ho mostrato quello, che deve far colla lingua un Vescovo in ogni circostanza. Passo a cercare il debito e l’uso della sua giurisdizione. Quando il sacro Concilio di Trento afferma, che un Pastore è tenuto ad amministrare al suo gregge i Sacramenti, comprende in queste parole i principali offici della giurisdizione di un Vescovo. Ora io cerco, che cosa porta questo debito in tempo di pace, per prender poi norma di ciò, che esige in tempo di persecuzione. Distinguo due parti nella giurisdizione di un Pastore; cioè quella, ch’egli può e deve esercitare; e quella, che non deve e non può mai praticare. – Comincio subito dalla prima, e dico così. Il Vescovo amministra i Sacramenti in due modi. Alcuni ne amministra solo da sé, cioè la Cresima e l’Ordine Sacro. Alcuni ne amministra insieme cogli altri, ma però in modo, che gli altri dipendano nell’amministrazione di questi Sacramenti della sua autorità. L’obbligo di conferire da sé a tutti la Cresima, e a quelli, che vi sono chiamati, l’Ordine Sacro, genera nel Vescovo un’altra obbligazione, cioè quella della residenza nella sua Diocesi. Non è questo realmente il solo titolo della residenza, ma è per altro il principale. Anche gli altri doveri del Pastore colla sua greggia lo costringono ad invigilare colla sua presenza ed autorità, affinché il lupo non divori le pecore senza ch’egli neppure il sappia. Per non dipartirci dalla nostra brevità, specialmente in un punto, che non ha mestieri di prova, eccovi le sanzioni del Sacro Concilio di Trento (Sess. 6 de reform. cap. 1). Dopo di aver raccomandato a tutti i Pastori l’adempienza del lor ministero, soggiunge così: « Implere autem illud se nequaquam posse sciant, si greges sibi commissos mercenarioruin more deserant; atque ovium suarum, quarum sanguis de eorum est manibus a supremo iudice requirendus, custodiæ minime incumbant: cum certissimum sit, non admitti pastoris excusationem, si lupus oves comedit, et pastor nescit. – [Sappiano poi, che non potranno adempierlo in nessun modo se, come mercenari, abbandoneranno i greggi loro affidati, e non attenderanno alla custodia delle loro pecore, del cui sangue il Giudice supremo chiederà conto alle loro mani. È certissimo infatti che non sarà accettata alcuna scusa per il pastore se il lupo ne divora le pecore e egli non se ne accorge.] »  Passa di poi il Concilio a rinnovare gli antichi canoni, e a decretare giuste pene ai Pastori, che non risiedono nella loro Diocesi. Ripete le stesse cose alla Sessione de reform. cap. 1; né  questo è un dovere, che possa in verun conto chiamarsi in questione. Passiamo adunque ad altro. – Al Vescovo spetta per ufficio proprio e inalienabile l’esaminare ed approvare quelli, che domandano d’entrare nel Santuario. La ragione è palpabile ed evidente. Il Pastore è il custode dell’ovile: tocca a lui lo scegliere i cani da mettervi in guardia. Il prelato è il Padre di famiglia: tocca a lui il deputare i custodi e i maestri de’ suoi figliuoli. Il Vescovo è il primo nella Casa di Dio: tocca a lui l’eleggere i ministri idonei al divino servigio (can. 24 dist. Concil. Carth. 3, c. 22). Quindi il Sacro Concilio di Trento inerendo agli antichi Canoni comanda ai Vescovi di esaminare insieme con altre persone esercitate nelle leggi Ecelesiastiche, e da lui scelte a tal fine, tutti quelli, che si accostano a domandare il Sacro Ministero: (Conc. Trid. Sess. XXIII de refor. cap. 7). « Sancta Synodus, antiquorum canonum vestigiis inhærendo, decernit, ut, quando Episcopus ordinationem facere disposuerit, omnes, qui ad sacrum ministerium accedere voluerint, feria quarta ante ipsam ordinationem, vel quando Episcopo videbitur, ad civitatem evocentur, Episcopus autem, Sacerdotibus, et aliis prudentibus viris peritis divinæ legis, ac in Eccelesiasticis sanctionibus exercitatis, sibi adscitis, ordinandorum genus, personam, ætatem, institutionem, mores, doctrinam, et fidem diligenter investiget, el examine. » E infatti avendo Iddio conferita ai Pastori podestà di creare i Ministri della Chiesa, deve anche aver loro conferito i mezzi necessari a questo fine, cioè l’autorità di esaminare i costumi e la fede. Quindi è, che S. Paolo a Tito, e non ad altri prescriveva alcune riflessioni da praticarsi nell’elezione de’ Sacerdoti (ad Tit. I., 2 et seq.): « Huius rei gratia reliqui te Cretæ, ut ea qua desunt, corrigas, et constituas per civitates Presbyteros, sicul et ego disposui tibi. – [Per questo ti ho lasciato a Creta perché regolassi ciò che rimane da fare e perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato] » E quindi passa ad insegnargli, quali debbano esser le doti dei Ministri, che deve introdurre nel Santuario. Così pure prescrive a Timoteo (1 ad Timoth. III, 2 et seq.), e non solo per la scelta de’Sacerdoti, ma anche de’ Diaconi, e vuole, che da lui siano prima provati, e poi passino ad esercitare il lor ministero: « Et hi autem probentur primum: et sic ministrent, nullum crimen habentes. » – Perciò siano prima sottoposti a una prova e poi, se trovati irreprensibili, siano ammessi al loro servizio. – Anche i Parrochi da lui dipendono: e spetta ad esso il distribuire il popolo in certe e proprie Parrocchie, affinché ognuno abbia il suo Parroco determinato, a cui ubbidire, e da cui ricevere i Sacramenti. Così comanda (c. Ecclesias. 13, g. 1, c. pœn. de iis, quæ fiunt a prælat. c.1, 13, q.1, cap. plures 16, qu. 1, cap.1, de paroch. Conc. Tolos. an. 843, c. 7) il Sacro Concilio di Trento sulla scorta delle antiche leggi (Sess. 14 de reform. c. 9, sess.24, c. 4 et sess. 24, c. 13). « Mandat Sancta Synodus Episcopis, pro tutiori animarum eis commissarum salute, ut distincto populo incertas propriasque parochias, unicuique suum perpetuum, peculiaremque Parochum assignent, qui eas cognoscere valeat, et a quo solo licite Sacramenta suscipiant, aut alio utitiori modo, prout loci qualitas exegerit, provideant. Idemque in iis civitatibus, ac locis, ubi nullac sunt parochiales, quam primum fieri curent: non obstantibus quibuscumque privilegiis, et consuetudinibus etiam immemorabilibus. » Aggiungo di più, che al Vescovo istesso spetta l’assegnare e ai Sacerdoti, e ai Parrochi il congruo loro sostentamento, e il regolare le tasse funerali, ed altri simili. Quindi è, che il Sacro Concilio di Trento ha ingiunto ai Vescovi di non promuovere (Sess. XXI de ref. c.2 et 3) nessuno agli ordini sacri, se non è bastantemente provveduto a vivere onestamente, e senza disonore del suo carattere. AI Vescovo ha ingiunto di fissare in tutte le Cattedrali, e Collegiate le quotidiane distribuzioni. A lui (ibid. e. 5) pure di unire più Chiese Parrocchiali, se divise non possono sussistere per la loro povertà. E il Concilio medesimo alle (sess. XXV de reform. c. 13) Cattedrali e Parrocchie ha voluto, che si paghi dai fedeli la tassa, che chiamasi la Quarta funerale. È facile il dire, che tutto questo si è fatto dal Concilio con intelligenza, e con dipendenza dalla secolar podestà; ma è impossibile il provarlo con argomenti positivi, poiché nell’ordinazioni del Concilio di Trento, e negli antichi canoni su tali materie, non si fa nessuna menzione del consenso dei Laici. Se nei capitolari dei Franchi, o anche nelle leggi degl’Imperatori si trovano alcune simili ordinazioni, abbiamo anche un’espressa accettazione dei Concili, da cui concludere, che questi ordini hanno avuto il lor vigore dall’approvazione della Chiesa; e si sono vedute tali sanzioni emanate privativamente dai Concili, ma non privativamente e impunemente dai Magistrati, in modo che la Chiesa o non abbia mai reclamato, o pure abbia confessato una vera e necessaria dipendenza dalle leggi del secolo. – In realtà per qual titolo devono avere i Sacerdoti dai fedeli il lor congruo sostentamento? per essere Ministri di Dio, per occuparsi della salute dell’anime, per il servigio dell’Altare. Ma la mercede degli operai della vigna spirituale, deve assegnarsi dai ministri del padron della vigna, i quali sono i depositari della volontà del Signore, conoscono l’abilità, le forze, e il lavoro degli operai, e devono render conto della vigna medesima. Dunque, non ha da farsi l’assegno di questa mercede da uomini non chiamati da Dio alla ispezione della sua vigna. Se questi tali, vorranno intromettersi in un ufficio non loro, non è forse troppo facile, che paghino gli operai senza discrezione di meriti e di lavoro? Essi non sanno e non devono sapere della coltura di una vigna spirituale: Come, dunque vorranno pagarne con dovuta misura i suoi coltivatori? Inoltre, chi sono questi stipendiati? sono i Ministri di Dio e della sua Chiesa. Ora domando, qual è in tutto il mondo quella casa privata, che non abbia né pur diritto di pagare di proprio arbitrio i suoi servi e i suoi ministri? E quel diritto, che ha ogni casa privata anche tra i barbari, non l’avrà la Casa di Dio in mezzo ai Cristiani? In fine di dove si trae questa mercede dei Ministri di Dio? Dalle decime, dalle primizie e dalle oblazioni; e queste sono di Dio medesimo (Concil. Trid. Sess. XXV de refor. c. 12, Exod. 22 et 23, Levit. 27, num. 12, Tob. 1, Malach. 3, c. decimas 16, q.1, c. decimas cum seq. 16, q. 7, c. parochianos c. ex transmissa. Conc. Matiscon. 2 Ticin. versi in sacris); o pure dai fondi Ecclesiastici; e questi parimenti appartengono a Dio (Concil. Trident. Sess. XXIII de refor. c. 1, e l’Opuscolo dell’Immunità reale letter. prima). Dunque da’ suoi Ministri devono dispensarsi, e non già dagli stranieri. Dunque e per la qualità delle persone, che ricevono lo stipendio ecclesiastico, e per la situazione del campo, dove lavorano, e per la natura dei beni, dai quali ricavasi un tale stipendio, la distribuzione del congruo sostentamento ai Parrochi e agli altri Sacerdoti dipende privativamente dalla podestà Ecclesiastica. Il fare altrimenti sarebbe un invertire e sconvolgere tutte le idee, e i diritti comuni, e le pratiche universali, e specialmente il buon ordine della Chiesa. Questa confusione di cose non può essere da Dio. Dunque da Dio non può avere avuto la podestà secolare il diritto della distribuzione de’ beni ecelesiastici ai Ministri della stessa Chiesa. – In fatti negli Atti Apostolici noi leggiamo, che gli Apostoli eran quelli, che distribuivano le sostanze della Chiesa secondo il bisogno di ciascheduno; e’ che essi destinaron di poi (Act. IV et VI) alcuni Diaconi per questo Ministero. S. Paolo ingiungeva a Tito (ad Tit. V, 16 et sequ.) di non dispensare l’entrate ecclesiastiche a quelle vedove, che potevano essere mantenute da’ loro congiunti, ut non gravetur Ecclesia; e all’opposto voleva, che i Sacerdoti più degni ricevessero un doppio stipendio. Non sarà dunque mai giusto e lodevole, che la Chiesa resti priva di quella libertà, che godeva sotto Caligola e Nerone. – Quindi nel Concilio Lateranense quarto sotto Innocenzo III anno 1215, cap. 44 si proibisce ai Laici di fare costituzioni, che si chiamano piuttosto distruzioni, e colle quali si alienino e si vendano i beni ecclesiastici, e si usurpi la giurisdizion della Chiesa, anche sulle tasse funerali, o altre simili cose che sono annesse allo spirituale diritto, e si condannano i contravventori ad essere scomunicati. Così pure nella sessione 10 del Lateranese quinto sotto Leone X. (Labbé tom. 19, col. 911). Circa l’età e le disposizioni di quelli, che vogliono essere ammessi nel Santuario, il Concilio di Trento (Sess. XXIII de reform.) ha saggiamente prescritte ai Vescovi le regole più opportune secondo i sacri canoni. A loro dunque appartiene il riconoscere e le persone e l’età di quelli, che vogliono dedicarsi al divino servigio. Non può la secolar podestà impedire a veruno il mettersi fra le mani della Chiesa contro i decreti della Chiesa medesima. Se si trovano delle leggi Imperiali, che proibiscono ad alcuni occupati nei pubblici impieghi, o nella milizia di entrare nel Santuario e nel Chiostro; bisogna anche sapere due cose; Primo, che alcune di queste proibizioni erano conformi ai canoni stessi della Chiesa (Tomassini de Benefic. part. 4, lib. 3, c. 61) e perciò lecite anche al Principe Secolare difensore dei canoni. Per esempio il Concilio d’Orleans all’anno 1141 vieta di ascriversi al Clero a quelli, che non avessero licenza del Re, o dai Magistrati. Faceva la Chiesa questo divieto appunto per l’indennità dell’ordine civile che per quanto si può deve aversi presente dalle leggi Ecclesiastiche. Secondo, che quando gl’Imperatori promulgarono delle leggi su questo particolare contrarie alla volontà della Chiesa, i Papi e i Vescovi reclamarono, e non ubbidirono. Maurizio Imperatore e Carlo Magno fecero leggi in cui si vietava ai militari di entrare ne’ Monasteri. Ma S. Gregorio (Vit. S. Gregor. per Ioan. Diacon. l. 3, c.16, et S. Gregor. 1.12, ep. 23), e gli altri Vescovi vi si opposero, e queste leggi furono distrutte. Basta leggere su tal proposito ciò, che scriveva Inemaro Arcivescovo di Reims a Carlo Calvo Re di Francia: « Tulianus, et postea Imperator Mauritius decreverunt, ut ei, qui semel in terrena militia signatus fuerit, nisi aut expleta militia, aut pro debilitate corporis repulsus in Monasterio recipi, et Christo eum militare non liceat. Quod religiosi Imperatores, et Sanctus Gregorius auctoritate Apostolica, et generali Episcoporum consensu, Ecclesiastico vigore, et Reipublicæ Christianæ cohibente religione destruxerunt; velut in eius epistolis ad Mauritium Imperatorem, et ad plurimos Episcopos directis ostenditur. Quod, et divæ memoriæ avo vesto Carolo surripuit, sicut maiorum traditione, et verbis, et scriptis discimus. Et in libro 1 Capitul. cap. 112 demonstratur de liberis hominibus ad servitium Dei sine sua licentia non convertendis. Quod Ecelesia, et Respublica non consentit, quodque postea correxit, sicut in eodem libro cap.134 monstratur (Spilic. tom. 2, pag. 823). » Così pure Giustiniano volle prefiggere al suddiaconato l’anno vigesimo quinto. Ma il canone Trullano non ostante la legge dell’Imperatore ordinò, che fosse sufficiente l’anno ventesimo. E Leone il sapiente inerendo ai canoni abrogò la (Novel. 123, constit. 16 ) legge di Giustiniano appunto come contraria ai decreti della Chiesa. Che se S. Gregorio dopo aver disapprovata la legge di Maurizio, nondimeno la promulgò, bisogna avvertire, che S. Gregorio non la credé affatto empia, ma (4b. 3, epist. 65), solo non conforme alla pietà; quia lex Deo minime concordat; e che quella legge poteva sostenersi col Concilio Gangrense can. 3, e molto più col canone 4 del Concilio Calcedonese. E nondimeno questa legge fu poi in seguito, come abbiam detto, del tutto abrogata. Niente dunque provano questi fatti contro l’autorità ecclesiastica. Mostrano solo, che la secolar podestà ha tentato talvolta d’invadere i confini del Santuario, ma che poco dopo si è pentita delle sue invasioni. – Per tale autorità il Sacro Concilio di Trento (Sess. XXV de regularib. c. 18), ha fulminato l’anatema contro tutti quelli, anche rivestiti di qualunque dignità, i quali sanctarum virginum vel aliarum mulierum voluntatem vel accipiendi, vel voti emittendi, quoquo modo sine iusta causa impedierint (che non impedirono con giusta causa il forzare la volontà delle sante vergini o di altre donne a di prendere o emettere voti). E certamente non può essere causa giusta quella, che espressamente combatte i decreti della Chiesa, come sarebbe nel nostro caso il motivo dell’età, dopo che l’istesso Concilio di Trento (ibid. cap. 15) ha fissato l’anno decimo sesto compito, come termine, dopo cui può ciascuno essere ammesso alla religiosa professione. In fine sarà tenuto il Vescovo ad invigilare sui costumi e sulla fede di tutti i suoi sudditi, perché per questo appunto si chiama Vescovo. Episcopus, dice Alcuino (de offic. divin. cap. de tons. Cleric.), dicitur superintendens, supervidens: quia ipse debet supervidere vitam subiectorum suorum, qualiter vivant, qualiter Dei præcepta custodiant. Al qual proposito si può anche vedereciò che ne serive Rabano Mauro (de Inst. Cleric. lib. 1, c. 5), eS. Isidoro (de Eccles. Offic. lib. 2, cap. 5); e Ugone da S. Vittore(Erudit. Theol. lib.1, cap. 40). Imperocchè se il Vescovo è ordinato a indirizzare i Cristiani alla vita eterna, non può ometterela vigilanza sulla loro fede, che è il principio della salute.Veduto adesso ciò, che spetta sempre ai Pastori per l’esercizio della loro giurisdizione, diamo un’occhiata a ciò, che a loro non appartiene senza l’intervento della Chiesa universale, o del Romano Pontefice. Non può per esempio il Vescovo ampliare i confini della sua diocesi, o lo faccia di propria autorità, o lo faccia per intervento, e per comando della podestà secolare. La ragione è non, solo chiara, ma evidente. La giurisdizione di un Vescovo è spirituale; dunque non può essere conferita, né ampliata dai secolari magistrati. La giurisdizione di un Vescovo è stata limitata o dalla Chiesa, o dal Capo della Chiesa a un territorio determinato; dunque non può il Vescovo usurparsi alcuna maggior estensione senza l’intervento della podestà ecclesiastica. – Molto meno potrà un Vescovo permettere, che i suoi Chierici frequentino scuole sospette, o studino libri infetti e condannati dalla Chiesa. Se a tutte le pecore è obbligato il Pastore d’interdire i pascoli nocivi, molto più a quelle, che devono un giorno divenir guide delle sua greggia. Non solo la podestà secolare, ma neppur qualunque ecclesiastica podestà. può dispensarlo da questo suo dovere, inerente per natura e per divina istituzione al suo pastoral ufficio, Questo sarebbe un permettere espressamente, e tacitamente acconsentire, che la sua greggia fosse divorata dai lupi. Che se mai avesse il Pastore nella sua Diocesi alcuno o maestro in privata scuola, o lettore in pubblica Università, che insegnasse dottrine eretiche, o sospette, non potrà per verun modo dissimulare con lui, ma dovrà resistere, ed opporsi con tutto il vigore Apostolico. – Che sarebbe mai, se un Pastore vedesse il lupo in mezzo alla greggia, e non alzasse la verga per discacciarlo? Questi sarebbe peggiore di un mercenario, perché il mercenario vedendo accostarsi il lupo fugge per timore, ma questo tale avrebbe il coraggio di vedersi scannare senza dolore sotto degli occhi tutta la greggia. Io confesso, che quasi quasi mi ha fatto tremare il leggere negli Atti dei Concilii di Milano quello, che si prescriveva due secoli fa contro il commercio degli eretici, e l’obbligo, che s’ingiungeva ai Parrochi d’invigilare sulla loro condotta in ogni ora, e per così dire in ogni momento: È da sperarsi (Concil. Province. 5 part. 1, edit. Lugdun. 1862 tom. 1, pag. 167) dice il Concilio, che i Principi e i Magistrati pel loro dovere di difendere la Fede cattolica, e pel loro amore verso la religione, non permetteranno mai, che vengano in questi paesi soggetti al lor dominio soldati di diversa fede da quella della Cattolica Romana Chiesa, né pure a riposarvi di passaggio; essendo cosa certa e ben sperimentata, che nessuna cosa offende tanto gravemente Iddio, né tanto provoca la sua collera, quanto la peste dell’eresia: e inoltre, che non v’è cosa, la quale tanto cooperi alla rovina dei Regni e delle Provincie, quanto questa spaventosa infezione. Ma se ciò mai accadesse (il che tenga Iddio lontano), metta il Vescovo tutta la diligenza dell’animo suo, e tutta l’industria del pastoral ufficio, e si adoperi in ogni maniera, affinché le pecorelle redente col Sangue di Gesù Cristo, e a lui commesse, non restino in verun modo attaccate da questo contagio. Primieramente per tanto si porti egli stesso in persona a quei luoghi, ne’ quali saranno alloggiati questi uomini pestilenti; avvisi con tutto calore, e diligenza il popolo fedele, che non prenda mai norma dai loro costumi; che non dia mente, né orecchio alle loro parole; che non conversi in nessuna maniera con loro; che non imiti la loro dissolutezza e la libertà del loro vivere; ma che perseverando con timore e con tremore nella Fede ortodossa, e nella grazia del Signor nostro Gesù Cristo, si mantenga nell’unità ed obbedienza della santa Romana Cattolica Chiesa, e negli esercizi di Cristiana pietà. Passa indi a prescrivere ai Parrochi, « … che osservino, se è possibile non solo ad ogni ora, ma anche ad ogni momento, che essi facciano, che cosa si pensi, e si macchini intorno alla Fede: che tengan lontane le insidie di satana, e per quanto possono impediscano ogni sforzo degli avversarii. » Vuole inoltre il Concilio, che i detti Parrochi informino ogni giorno il Vescovo dello stato delle cose, e che il Vescovo non sia contento di tutte queste diligenze, ma ne studi sempre delle nuove, e mandi in que’ luoghi de’ zelanti Predicatori per conservare la sua greggia; e ch’egli (ibid. p. 169, col. 1) medesimo invigili di continuo secondo le costituzioni de’ Sommi Pontefici, e specialmente d’ Innocenzo III, e di Martino V per impedire ed estirpare l’eresia. . Chi non ha da tremare vedendo, che tanto sono mutati i tempi, non essendo per altro mutata la dottrina di Gesù Cristo, e della Chiesa? Oggi tra i Cattolici sono mescolati senza necessità non solo gli eretici, ma persino gl’increduli; e che diligenza si usa per preservare i sani Cattolici da questo veleno? Oggi una buona parte dei libri, che vengono alla luce del mondo dalle tenebre dell’inferno, insegnano espressamente, o tacitamente l’empietà e la dissolutezza; e a questa ingratitudine infernale, che riparo si oppone? Oggi nelle Cattedre dell’Università cattoliche siedono impunemente maestri di proscritta dottrina; e chi alza la voce per farli tacere? Oggi persin quelli, che devono entrare nel Santuario si fanno prima discepoli in questa scuola di satana, e chi li respinge? Chi renderà conto di tanta infezione della greggia, e di tante pietre di scandalo, che s’incastrano persin nelle mura del Santuario e del Tempio? Questa digressione veniva più opportuna, quando parleremo di poi della giurisdizione de’ Vescovi in tempo di persecuzione; ma non si può aspettar troppo a spremere il proprio dolore sulle piaghe esacerbate della Chiesa Cattolica. Torniamo al filo del nostro esame. – Per queste istesse ragioni non può un vero Pastore servirsi di ministri sospetti nell’esercizio della sua giurisdizione; e i ministri saranno sospetti, quando gli saranno proposti dai nemici della Chiesa; molto più se, per pubblica fama fossero già notoriamente mal costumati, o poco Cattolici. Molto meno potrà assegnar alle Chiese vacanti qualche Parroco di cattiva dottrina, o tollerarlo nell’attuale esercizio, s’egli sia tale; e tale sarà, se si vedrà, che stringa lega cogli uomini dichiarati contro la Chiesa. In fine, per accorciare questa materia, non può il Vescovo di propria autorità dispensare da quelli impedimenti, che al matrimonio appose la Chiesa. Solo la Chiesa stessa, e il di lei Capo, cioè il Vicario di Gesù Cristo in terra, possono dispensare da questi impedimenti, che per comune consenso vi furono apposti. Se un Vescovo intraprendesse un qualche attentato contro i canoni della Chiesa, sarebbe lo stesso, come se un privato volesse disfar le leggi del suo Monarca. Non v’è podestà civile, che possa al Pastore conferire questa autorità negl’impedimenti del matrimonio. Imperocchè la Chiesa può mettere nuovi impedimenti al Sacramento del matrimonio, che non solo lo rendano illecito, ma anche invalido. Questo è di fede (Concil. Trid. Sess. XXIV, can. 3). Ma le leggi si devono dispensare solo da quella legittima potestà che le ha stabilite. Dunque, alla Chiesa tocca il dispensare da quelli impedimenti, ch’Ella «medesima ha fissati nel Sacramento del matrimonio. Ogni altra dispensa non solo è illecita, ma anche invalida. Come, dunque, potrebbe un Pastore prevalersene per la sua greggia senza delitto?

LE TRIBOLAZIONI NELLA CHIESA (7) – OBBLIGHI DI UN PASTORE (IV)

LA PARUSIA (7)

CARDINAL LOUIS BILLOT S.J.

LA PARUSIA (7)

PARIS – GABRIEL BEAUCHESNE, Rue de Rennes, 117 – 1920

TOUS DROITS RÉSERVÉS

ARTICOLO SETTIMO

LA PARUSIA NELLE EPISTOLE DEGLI APOSTOLI. TESTI PARENETICI.

Era abbastanza naturale che dopo aver imputato a Gesù Cristo stesso l’errore che abbiamo visto sulla prossimità della fine del mondo, il razionalismo moderno lo imputasse anche agli Apostoli di Gesù-Cristo. Perché se l’errore del Maestro è come regola generale, e questo per la natura stessa delle cose, l’errore dei suoi discepoli, quanto più nel caso molto particolare di un errore che coinvolge tutta l’opera che Egli avrebbe lasciato loro, come ai confidenti del suo pensiero, la cura di continuare dopo di Lui. Questo era il terrore di Gesù, secondo i modernisti, poiché per loro il Vangelo era originariamente un’opera di riforma da promuovere all’interno del giudaismo, in vista dell’imminente crollo del mondo attuale, che doveva essere seguito dall’instaurazione del Regno di Dio in un mondo completamente nuovo, sotto la presidenza di Cristo nella sua parusia.  Pertanto, su un punto così caratteristico e fondamentale, qualsiasi dissenso tra il Maestro ed i discepoli non era verosimilmente sostenibile, e quindi occorreva bene che gli Apostoli fossero a loro volta convinti, volenti o nolenti, di avere avuto, sulla questione escatologica, esattamente le stesse opinioni, le stesse idee, la stessa credenza, diciamo la parola, gli stessi sogni chimerici e le stesse illusioni. Ecco, quindi, che ci troviamo di fronte ad una serie di testi tratti dai loro discorsi e dai loro scritti. Non è più qui il Vangelo ad essere posto in questione, sono gli Atti, le Epistole e soprattutto l’Apocalisse. Da qui una nuova serie di argomenti e di ragioni, al cui esame saranno dedicati questo e gli articoli successivi.

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Ma prima di entrare nei dettagli della discussione, è opportuno porre davanti agli occhi del lettore i passi in cui la questione del tempo della parusia è espressamente riferita e, come si usa dire, trattata ex professo. Non è, infatti, in questi luoghi che si cerca generalmente l’espressione corretta ed esatta del pensiero degli autori su un dato punto, e di conseguenza la norma di interpretazione, almeno negativa, per ciò che, nel resto dei loro scritti, potrebbe essere equivoco o ambiguo? Niente è quindi più appropriato che farne un inventario fin dall’inizio, se non altro come prima indicazione della mentalità degli scrittori, e un’indicazione generale del senso del loro pensiero. Ora, i passaggi in cui il pensiero apostolico si è pertinentemente e categoricamente espresso sull’epoca della parusia, sono in numero di tre, e tre solamente. Il primo si trova nella prima lettera ai Tessalonicesi, V., 1-3: « Quanto ai tempi e ai momenti – dice San Paolo – non c’è bisogno di scriverne. Perché voi stessi sapete molto bene che il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte. Quando gli uomini diranno: ‘Pace e sicurezza!” allora una distruzione improvvisa si abbatterà su di loro, come un dolore sulla donna che sta per partorire, ed essi non potranno sfuggirvi. Ma voi, fratelli miei, non siete nelle tenebre, perché quel giorno vi colga come un ladro… Non dormiamo dunque come il resto degli uomini, ma vegliamo e siamo sobri, ecc. » – La seconda è sulla seconda ai medesimi Tessalonicesi, II, 1-9: « Riguardo alla venuta del Signore nostro Gesù Cristo – scrive l’Apostolo – vi preghiamo di non essere scossi nei vostri sentimenti, né di allarmarvi, né per alcuna profezia, né per alcuna parola o lettera che possa essere supposta venire da noi, come se il giorno del Signore fosse imminente. Nessuno vi tragga in inganno, perché quel giorno non verrà prima che sia giunta l’apostasia e sia apparso l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, l’avversario che si eleverà al di sopra di tutto ciò che è chiamato Dio, o onorato con un culto. Non vi ricordate che vi ho detto queste cose quando ero ancora tra voi? E ora sapete cosa lo trattiene …, perché il mistero dell’iniquità è già in opera, aspettando solo che sparisca colui che lo tiene. Poi sarà scoperto l’empio che il Signore Gesù sterminerà con il soffio della sua bocca e annienterà con lo splendore della sua venuta. » Infine il terzo passaggio è nella seconda epistola di San Pietro (III, 8-14), dove leggiamo: « Una cosa, fratelli miei, non dovete ignorare: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno solo. No, il Signore non ritarda l’adempimento della sua promessa, come alcuni immaginano; ma Egli è paziente con voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento. Il giorno del Signore verrà come un ladro. In quel giorno i cieli passeranno con un grande rumore, e gli elementi saranno dissolti con il fuoco, e la terra sarà bruciata con le opere che vi si trovano… Poiché tutte queste cose sono destinate a dissolversi, cosicché dovreste essere impegnati in una vita tutta santa e tutta dedita alla pietà, affrettandovi verso l’avvento del giorno di Dio, in cui tutte queste cose sono destinate a dissolversi e gli elementi infuocati si scioglieranno. Ma noi attendiamo, secondo la Sua promessa, un nuovo cielo ed una nuova terra dove abita la giustizia. In questa attesa, fate ogni sforzo per essere trovati da Lui senza macchia e irreprensibili nella pace. »  – E questo è il totale delle indicazioni date dagli Apostoli, nei luoghi in cui affrontano espressamente la questione che allora agitava tante menti ed era oggetto di tante conversazioni. Sarà difficile, immagino, trovare una traccia di ciò che Renan ha osato darci come la credenza più “profonda” e “costante” della prima generazione cristiana. C’è forse almeno una parola, un’insinuazione, un’allusione qualsiasi che tradisca la persuasione di un prossimo ritorno di Cristo sulle nuvole del cielo, o non sarebbe piuttosto il contrario? San Paolo ricorda che Gesù, lasciando la terra, aveva detto ai suoi: Non sta a voi conoscere i tempi e i momenti, “χρόνους ἢ καιρούς” [cronous e kairous] che il Padre ha fissato con la sua propria autorità », ed ispirandosi a questa parola, riferendosi a questo avvertimento, riprendendo il discorso, per non sbagliare, negli stessi termini, inizia dichiarando ai suoi Tessalonicesi che, sui tempi e i momenti, [περί δή τών χρόνων καί καίρών – peri de ton kronon kai ton kairon] non ha bisogno di scrivere a loro. E perché mai? Per il motivo che erano già informati di tutto ciò che se ne poteva sapere: che l’ora della parusia sarebbe stata l’ora del “ladro di notte”, che non è possibile prevederla in anticipo; che, inoltre, sarebbe stato inutile cercare di penetrare segreti la cui conoscenza è stata negata ai mortali, e che, di conseguenza, invece di cercare inutilmente di soddisfare una vana curiosità, bisognava pensare a non lasciarsi sorprendere impreparati, disponendosi con una vita santa al giudizio di Dio, in qualunque momento esso dovesse venire: « Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri, prendendo per corazza la fede e la carità, e per elmo la speranza della salvezza ». Questo è l’intero significato, l’intera portata, l’intera conclusione del primo passaggio. – Tuttavia, mentre le voci sull’imminenza della catastrofe continuavano a diffondersi, San Paolo torna alla carica in una seconda Epistola, e va ancora più avanti su ciò che aveva detto nella prima. Questa volta, corregge espressamente l’errore, non vuole che si dia credito alle voci messe in circolazione in modo così avventato, annunciando inoltre che prima che venga la parusia, dovranno aver luogo degli eventi, il cui corso e la cui sequenza egli spiega, è vero, per iscritto, solo in modo molto enigmatico, ma che, in ogni caso, sembrano richiedere, per svolgersi, un tempo piuttosto considerevole. Infatti questa apostasia di cui parla, questa defezione generale dalla fede di Gesù Cristo, questa elaborazione dell’opera d’iniquità, la cui manifestazione fu ritardata da qualche misterioso impedimento, questo avvento dell’”empio“, cioè, senza difficoltà, del grande e principale anticristo, di cui tanti altri dovevano essere i precursori (1 Giov. II, 18), tutto questo non fu evidentemente una di quelle cose che avvengono in un batter d’occhio, che iniziano, si sviluppano, si evolvono da un giorno all’altro. Qualunque sia dunque la vera interpretazione del famoso “καtέχον” [katechon], ciò che lega, ciò che ostacola, che si legge nel versetto 6, o dell’altra espressione “ό καtέχων” [o kathecon], ciò che tiene, o contiene, o occupa, che ritorna nel verso successivo (Vedi Bossuet: Avvertimento ai protestanti sul loro preteso adempimento delle profezie, n. 45 e segg.), resta vero che l’ipotesi di una venuta immediata o imminente del Signore fu chiaramente respinta dall’Apostolo, e che, se era già abbastanza chiaro per i suoi diretti corrispondenti, a maggior ragione lo è per noi, che tanti eventi ormai compiuti hanno messo in grado di penetrare meglio il significato della sua profezia, e di misurarne la portata. – E finalmente sentiamo San Pietro: San Pietro che non solo abbonda, ma sovrabbonda nello stesso senso, dichiarando che fa suo tutto ciò che è stato detto da colui che chiama un po’ più in basso, il suo diletto fratello Paolo. Anche lui è lontano mille leghe dal fissare, anche approssimativamente, qualsiasi misura del tempo. Anch’egli si attiene puramente e semplicemente all’unica cosa che ci è utile sapere, cioè che: come tutti, senza eccezione alcuna, devono vedere il giorno del Signore che verrà a giudicare i vivi e i morti (II Tim., IV, 1); tutti senza eccezione, che debbano morire o meno prima della sua venuta, hanno l’obbligo di prepararsi ad essa senza indugio, con l’esercizio delle buone opere ed una costante applicazione per purificarsi dall’amore delle cose deperibili, destinate a passare per sempre. Ma ciò che è particolarmente sottolineato è che la questione del ritardo di Dio nell’adempimento della sua promessa sarebbe, in ogni caso, del tutto priva di senso, perché Dio non ha fissato alcuna data, e inoltre, nessun tempo è lungo, o meglio, nessun tempo è abbastanza lungo. “Un giorno è come mille anni, e mille anni come un giorno”, e così il ritardo, per quanto lungo si possa immaginare essere nelle epoche a venire, sarebbe ancora chiamato con il suo vero nome, non un ritardo, ma un piano di misericordia e di salvezza da parte di Colui « che non vuole che nessuno perisca, ma che tutti giungano a penitenza ». – Questo è il cuore e l’anima del pensiero apostolico. Niente di più, niente di meno, e in mezzo a tutto questo cerco la cosiddetta mentalità che ci è stata rappresentata come confinata o circoscritta dall’idea fissa di una parusia che sta per scoppiare e di un mondo che sta per finire. Possiamo dunque già concludere che in tutti i passi in cui la questione del tempo della parusia è posta dagli Apostoli come oggetto proprio, diretto e categorico del loro discorso, non c’è nessun segno, nessuna traccia, nessuna vestigia della persuasione che il razionalismo contemporaneo presenta, ma piuttosto, per quanto lo permetteva il riserbo in cui Gesù stesso intendeva porsi, tutte le indicazioni di una persuasione diametralmente opposta. – Così, non è da questa parte che si volta il libero pensiero. Questi passaggi, senza dubbio i più importanti di tutti, e anche in un certo senso, gli unici veramente convincenti, non vengono nemmeno discussi, vengono lasciati nell’ombra, si vuole ignorarli, per ripiegare esclusivamente su testi che, a dir poco, sono fuori tema, e che tutte le indicazioni che si crede di trovarvi alla breve scadenza dell’ultimo giorno del mondo, non vi si vedono che attraverso il prisma di ragionamenti costruiti su falsi presupposti, provenienti, per la maggior parte, dall’ignoranza del linguaggio proprio della Scrittura, e del suo stesso modo di considerare le cose. Dobbiamo ora esaminare questi testi da vicino e, per ordine e chiarezza, li ridurremo ad alcune categorie principali.

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La prima categoria comprenderà testi che potrebbero essere chiamati parenetici, testi che esortano alla pratica di tutte le virtù cristiane, in vista della venuta del Signore che è vicina. Ecco gli esempi principali. « È tempo – dice San Paolo ai Romani – di svegliarci dal nostro sonno, che è la conseguenza della diminuzione del nostro primo fervore. Perché ora la salvezza è più vicina a noi di quando abbiamo abbracciato la fede. La notte è passata da un pezzo e il giorno si avvicina. Spogliamoci dunque delle opere delle tenebre e indossiamo l’armatura della luce. » (Rom., XIII, 11-12). E ai Filippesi: « Rallegratevi nel Signore in ogni tempo, ripeto, rallegratevi, che la vostra dolcezza sia nota a tutti gli uomini, perché il Signore è vicino. Non siate in ansia per nulla, ma in ogni circostanza esponete a Dio le vostre necessità con preghiere e suppliche, con ringraziamenti » (Filippo, IV, 4-6). E agli Ebrei: « La perseveranza vi è necessaria, affinché, avendo fatto la volontà di Dio, otteniate ciò che vi è stato promesso. Ancora un po’ e colui che deve venire verrà e non tarderà » (Eb., X, 36-37). E San Giacomo a sua volta: « Siate pazienti, fratelli miei, fino alla venuta del Signore. Il contadino, nella speranza del prezioso frutto della terra, aspetta pazientemente finché non riceve le piogge autunnali e primaverili. Siate pazienti e rafforzate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. Non lamentatevi gli uni contro gli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alla porta » (Jacob., V, 7-9). Questi, dico, sono i testi della prima categoria. L’elenco potrebbe senza dubbio essere esteso, ma senza utilità o profitto; perché il resto consisterebbe solo in ripetizioni o varianti, che sarebbero più che altro una questione di parole, e non modificherebbero in alcun modo, né nel contenuto né nella forma, la difficoltà che si presenta, che consiste interamente in affermazioni come queste: Dominus prope est, adhuc modicum aliquantulum, ecce judex ante januam assistit, e se ci sono altri di uguale forza e portata. – Ma la soluzione di questa difficoltà è ancora da trovare, o non possiamo dire che  già la possediamo? In effetti, abbiamo qui una pura e semplice attuazione delle istruzioni date da Gesù ai suoi discepoli nelle pagine che sono state oggetto del nostro precedente studio. È chiaro che le esortazioni apostoliche a vegliare, a perseverare, ad essere pazienti, a rinunciare alle concupiscenze mondane, ad essere sempre pronti per l’arrivo del Signore, accompagnando l’attenzione e la diligenza con le preghiere, sono solo un’applicazione, adatta ai fedeli della prima ora, delle esortazioni che leggiamo in San Matteo, San Marco e San Luca, come conclusione del discorso escatologico. Dal che consegue chiaramente, se non mi sbaglio, che, per aiutarci a comprendere il legittimo e vero significato del pensiero degli Apostoli, tutti i punti precedentemente messi in luce dovrebbero ora servire, senza bisogno di ulteriori dimostrazioni, all’esatta comprensione delle parole di Gesù; e in particolare, il principale, il più eclatante e il più importante di tutti, che riguardava il doppio aspetto sotto il quale il Vangelo prevede la parousia: da un lato, nella sua sfolgorante realtà del grande giorno di Dio, quando verrà l’ultima ora del mondo, e dall’altro, nelle sue segrete anticipazioni di ogni giorno, quando arriverà l’ultima ora di ogni singolo uomo. Tutta la questione, quindi, è sotto quale di questi due aspetti la parusia è presa nei testi sopra menzionati. È sotto il primo? Allora sì, la difficoltà rimane. È sotto il secondo? Allora la difficoltà scompare per questo stesso fatto, e svanisce del tutto”. Ora, non ci possono essere dubbi sulla risposta. Dipenderà dalle osservazioni che metteremo davanti agli occhi del lettore. – Osserviamo dunque, in primo luogo, il contenuto dei passi in cui troviamo l’intimazione di una prossima parusia, a breve termine, alla vigilia del suo prodursi. Questi passaggi sono forse tra quelli che rappresentano lo scenario, l’apparato, la grande scena del giudizio universale? Niente affatto. Sono solo testi in cui la parusia è presentata come la venuta del Signore o del Giudice, senza alcuna altra precisazione o determinazione, senza alcuna aggiunta, senza alcuna menzione diretta o indiretta della gloria, della potenza e del potere in cui esploderà nell’ultimo giorno del mondo. Leggiamo solo che il Signore è vicino, che Colui che deve venire non tarderà, che il Giudice è già alla porta: da ciò possiamo dedurre la conclusione pratica che c’è motivo di entrare nei sentimenti, e di fare i preparativi necessari per questo arrivo. Non è dunque, come in tanti altri luoghi degli scritti apostolici, dove viene descritto l’avvento glorioso, adventus gloriæ (Tit., n. 13), del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo, come tale; dove la parousia diventa la rivelazione (άποκάλυψις – [apokalipsis]), l’apparizione (ἐπιφάνεια – [epifaneia]) di Gesù Cristo e della Sua gloria. – Come in San Paolo, per esempio, quando parla ai Tessalonicesi del giorno in cui il Signore Gesù apparirà dal cielo, con i messaggeri della sua potenza, in mezzo a una fiamma di fuoco, per fare giustizia a coloro che non obbediscono al Vangelo (II Tess., I; 7), e più giù, … del giorno in cui verrà per essere glorificato nei suoi santi e per essere ammirato in tutti coloro che credono (ibid., 10); e altrove, della manifestazione di Nostro Signore Gesù Cristo, … che apparirà a suo tempo il benedetto e unico Sovrano, il Re dei re e Signore dei signori, (I Tim, VI, 15), e ancora nella Prima Corinzi, I, 7, e in quella ai Colossesi, III, 4, e nella Seconda ai Tessalonicesi, II, 8, e nella prima di Pietro, IV, 13, ecc. – Certamente, sono tutti testi che non si penserebbe mai di applicare a nessun altro giorno che quello della grande assise della consumazione dei secoli, e se fosse nei testi di questo tenore che si trovano gli annunci della prossima venuta e che sono oggetto della presente difficoltà, bisognerebbe riconoscere che i testi della presente difficoltà non rientrano nella suddetta distinzione dei due aspetti della parusia in cui avremmo trovato la soluzione, almeno adeguata e sufficiente. Ma no, per quanto cerchiamo nelle lettere degli Apostoli, dalla prima all’ultima pagina, non riusciremo mai a produrne un solo esempio. Se San Paolo, parlando dell’apparizione della gloria di Nostro Signore Gesù Cristo, menziona allo stesso tempo il tempo in cui sarà realizzata, sarà solo per insinuare ancora una volta il segreto impenetrabile in cui Dio ha voluto che rimanesse nascosto: … fino alla manifestazione di Nostro Signore Gesù Cristo – dice nel testo citato sopra – che nel suo tempo (ἣν καιροῖς ἰδίοις – en kairois idiois), il Re dei re e Signore dei signori (ὁ βασιλεὺς τῶν βασιλευόντων καὶ κύριος τῶν κυριευόντων – o basileus ton basileuonton kai kurios ton kurieuonton) renderà manifesta [μέχρι τῆς ἐπιφανείας τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ – mekri tes epifaneias tou kuriou emon Iesuou Kristou]. “A suo tempo” è tutto quello che l’Apostolo probabilmente sa su di esso; in ogni caso, è tutto quello che ci farà sapere su di questo. E altrove, riguardo alla venuta dell’anticristo, che il Signore Gesù distruggerà con lo splendore della sua venuta, [τῇ ἐπιφανείᾳ τῆς παρουσίας αὐτοῦ – te epifaneia tes parousias autou], farà uso della stassa modalità di linguaggio, che si sottrae ad ogni calcolo, e sfugge ad ogni valutazione: E ora sapete cosa che lo trattiene, in modo che possa manifestarsi nel suo tempo [εἰς τὸ ἀποκαλυφθῆναι αὐτὸν ἐν τῷ ἑαυτοῦ καιρῷ – eis to apokaluftenai auton en to autou kairo] (II Tess., II, 6.). – Perciò, in qualunque modo si prendano i passi degli scritti apostolici in cui la parusia è data come prossima (sia in modo assoluto o in modo comparativo, sia in se stessa o nei molteplici contrasti che ne fanno emergere più chiaramente il significato), tutto ci dice, tutto ci avverte che si tratta di questa venuta del Signore che si compie segretamente e invisibilmente, man mano che la morte raccoglie le anime umane, e che su ognuna di esse viene pronunciata la sentenza irrevocabile e definitiva, dopo la quale rimane solo la pubblicazione, la messa in luce, riservata alla parusia visibile e brillante della fine dei tempi (I Cor, IV, 5); … di questa venuta del Signore, che il Vangelo di San Luca, nel dodicesimo capitolo, ha precedentemente posto davanti ai nostri occhi, dove, indipendentemente da qualsiasi allusione alla catastrofe mondiale, ci è stato ingiunto di essere costantemente in attesa del ritorno del nostro Maestro, in modo che, non appena Egli verrà, sotto le spoglie della morte, o con il bussare alla porta con i colpi che annunciano l’avvicinarsi della morte, noi gli apriremo subito, ed apriremo per essere messi in seguito, se vigilanti, in possesso del suo regno, della sua eterna beatitudine, delle sue inestimabili ricchezze;  e infine, la venuta del Signore, che può essere sempre annunciata con fiducia come molto vicina, senza pretendere di penetrare il grande segreto che è chiuso a tutte le creature, e anche agli Angeli del cielo, il segreto di cui è scritto « Perché quel giorno e quell’ora (quando il Figlio dell’uomo verrà in maestà e potenza per giudicare il mondo), nessuno lo conosce tranne il Padre. » E quanto giustamente, quanto naturalmente, soprattutto, questa stessa venuta del Signore, quella molto vicina, quella che era già in vista e che non poteva più ritardare, non fu presentata dagli Apostoli a coloro di cui volevano ravvivare l’ardore o sollevare il coraggio! A questi primi fedeli, la maggior parte dei quali erano avanti nella vita, che avevano sofferto e stavano ancora soffrendo per la fede (Filipp., I, 29-30; Eb., X, 32-37; Giacomo, I, 2), che si avvicinavano alla corona, che erano tentati di vacillare, o sollecitati a disertare le assemblee cristiane (Eb., X, 25), aveva bisogno solo di un po’ di perseveranza per raccogliere il frutto di tanto lavoro e fatica! « Ricordate quei primi giorni in cui, dopo la vostra conversione, avete sostenuto una grande lotta di sofferenze, a volte esposti come in uno spettacolo all’obbrobrio e alla tribolazione, a volte prendendo parte nelle sofferenze di coloro che venivano trattati in questo modo. Infatti, avete convissuto con i prigionieri e avete accettato il saccheggio dei vostri beni, sapendo che avete una ricchezza migliore, che durerà per sempre. Perciò non abbandonate la vostra fiducia, perché c’è una grande ricompensa legata ad essa. Perché la perseveranza è necessaria per voi, affinché, avendo fatto la volontà di Dio, possiate ottenere ciò che vi è stato promesso. Ancora un poco, e Colui che deve venire verrà, non tarderà. Il mio giusto (dice la Scrittura) vivrà per fede, ma se si ritira, la mia anima non metterà compiacimento in lui. – Perché noi non siamo di quelli che si ritirano per la propria perdita, ma di quelli che conservano la fede per salvare le loro anime » (Eb. X, 32-39). E infine, la venuta del Signore, che può essere sempre annunciata con fiducia come molto vicina, senza pretendere di penetrare il grande segreto che è chiuso a tutte le creature, e anche agli Angeli del cielo, il segreto di cui è scritto « Perché quel giorno e quell’ora (quando il Figlio dell’uomo verrà in maestà e potenza per giudicare il mondo), nessuno lo conosce tranne il Padre. »

E quanto giustamente, quanto naturalmente, soprattutto, questa stessa venuta del Signore, quella molto vicina, quella che era già in vista e che non poteva più ritardare, non fu presentata dagli Apostoli a coloro di cui volevano ravvivare l’ardore o sollevare il coraggio! A questi primi fedeli, la maggior parte dei quali erano avanti nella vita, che avevano sofferto e stavano ancora soffrendo per la fede (Filipp., I, 29-30; Eb., X, 32-37; Giacomo, I, 2), che si avvicinavano alla corona, che erano tentati di vacillare, o sollecitati a disertare le assemblee cristiane (Eb., X, 25), aveva bisogno solo di un po’ di perseveranza per raccogliere il frutto di tanto lavoro e fatica! « Ricordate quei primi giorni in cui, dopo la vostra conversione, avete sostenuto una grande lotta di sofferenze, a volte esposti come in uno spettacolo all’obbrobrio e alla tribolazione, a volte prendendo parte nelle sofferenze di coloro che venivano trattati in questo modo. Infatti, avete convissuto con i prigionieri e avete accettato il saccheggio dei vostri beni, sapendo che avete una ricchezza migliore, che durerà per sempre. Perciò non abbandonate la vostra fiducia, perché c’è una grande ricompensa legata ad essa. Perché la perseveranza è necessaria per voi, affinché, avendo fatto la volontà di Dio, possiate ottenere ciò che vi è stato promesso. Ancora un poco, e Colui che deve venire verrà, non tarderà. Il mio giusto (dice la Scrittura) vivrà per fede, ma se si ritira, la mia anima non metterà compiacimento in lui. – Perché noi non siamo di quelli che si ritirano per la propria perdita, ma di quelli che conservano la fede per salvare le loro anime » (Eb. X, 32-39). Io chiedo, non è questo che potrebbe dire ancora oggi senza cambiare una sola parola, il più risoluto sostenitore di una durata indefinita del mondo, a coloro che vedrebbe nelle condizioni in cui si trovavano gli Ebrei che San Paolo esortava un tempo? E questi, nientemeno, sono i testi in cui la “sapienza” modernista vede l’ossessione dell’idea che erano giunti i tempi che il mondo stava per finire! Chi potrebbe immaginarlo? Ma se avessimo bisogno di confermare quanto appena detto con nuove prove, le troveremmo in abbondanza in ogni pagina in cui gli Apostoli, con le loro raccomandazioni, i loro consigli, le loro istruzioni pratiche, ci fanno vedere, e fino all’evidenza, che l’idea che avevano del futuro era in tutto conforme a quella che ne abbiamo noi stessi, ancora oggi. – Ascoltiamo San Paolo che or ora diceva che il Signore era vicino e che Colui che doveva venire non poteva tardare. Ascoltiamolo, dico, esortare ora i fedeli a vivere nel riposo, a badare ai propri affari (I Tess., IV, 11), a lavorare pacificamente, a mangiare il pane coscienziosamente guadagnato (II Tess., III, 12), a fare preghiere, suppliche, intercessioni, per i re e per quelli costituiti in dignità … affinché possiamo passare una vita tranquilla e pacifica in tutta pietà e onestà (I Tim., II, 1). Questo è dunque il linguaggio di chi si crede alla vigilia del crollo della macchina del mondo, e sente già le prime avvisaglie della terribile tempesta in cui l’universo sta per affondare? Ma, per l’amor di Dio, notiamo come la prospettiva dell’Apostolo era aperta solo ad uno stato di cose assolutamente normale, lasciando spazio ad una vita tranquilla e regolare, alla sola condizione di mantenere l’ordine sociale di cui sono incaricati i responsabili del potere pubblico, per i quali raccomandava di pregare proprio a questo scopo. – Ascoltiamo San Giacomo che, non contento di annunciare che la venuta del Signore si avvicinava, mostrava anche il giudice già sulla soglia della porta: ecce judex ante januam assistit! E ora, nel corso delle sue raccomandazioni, è portato a correggere la presunzione di quei Cristiani che, senza alcun riguardo per l’incertezza del domani, progettavano l’avanzamento e la fortuna, comportandosi in tutto come se il futuro appartenesse a loro e che fossero padroni di disporne come volevano. Certamente, per portare questi temerari alla realtà delle cose, era cosa giusta mettere davanti ai loro occhi la visione dell’imminente catastrofe mondiale, e mostrare loro che l’ultima base di tanti vani calcoli sarebbe presto svanita, poiché non ci sarebbe stato più un futuro terreno per loro o per nessuno. Quale argomento potrebbe essere più conclusivo di questo? Quale motivo potrebbe essere più appropriato, se si deve credere all’esegesi modernista, alla mentalità della prima generazione cristiana? E invece, cosa vediamo? Una pura e semplice ammonizione sulla brevità della vita, la sua fragilità, la sua mancanza di consistenza, la sua durata effimera ed essenzialmente casuale, tutte cose che non hanno nulla a che vedere con la fine del mondo, e che sono rimaste e rimarranno per sempre nei luoghi comuni della predicazione evangelica: voi che dite: « Oggi o domani andremo  in questa o quella città, ci resteremo per un anno, faremo affari e guadagneremo, voi che non sapete cosa succederà domani! Infatti, cosa è la vostra vita? Un vapore che appare per un momento e poi svanisce. Invece di dire: … se il Signore vuole o se siamo vivi faremo questo o quello. Ma ora vi vantate della vostra presunzione. » (Jac., IV, 13-16). Sicuramente non c’è nulla qui che prepari anche lontanamente ai terrori che la storia, o forse più precisamente la leggenda, attribuisce all’anno mille.

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La vita, un vapore che appare per un po’ e poi svanisce! Questo, dunque, è tutto ciò che San Giacomo sapeva del futuro, allorquando rimproverava la presunzione di coloro che facevano piani per il futuro, come se fossero stati i padroni del futuro. E questo, posso aggiungere, è il limite dell’orizzonte degli altri, quando si appellano alla brevità del tempo come motivo per staccarci dal mondo, dai suoi beni, dai suoi piaceri, anche dai suoi godimenti più legittimi, per attaccarci a Colui che solo rimane eternamente. È della breve durata della vita che sentono parlare, non della vicinanza della catastrofe suprema. – Così, ad esempio, è per San Paolo, in questo passaggio della Prima ai Corinzi (VII, 25-35), sul quale la fertile immaginazione degli storici della nuova scuola si è esercitata abbondantemente, e che, per questo, richiede qui una piccola spiegazione. L’Apostolo risponde alle domande che gli sono state poste sul soggetto della verginità ed egli inizia affermando categoricamente che la verginità non è un precetto, ma un puro e semplice consiglio; che è una via più alta e perfetta, che, come aveva già insinuato (vers. 2 e seguenti), non può essere, in ogni caso, la via comune, ma solo quella di un’élite, cioè di pochi (« Per evitare ogni impudicizia, ogni uomo abbia la propria moglie, e ogni donna il proprio marito, ecc. – Versetto 2 e seguenti). Tuttavia, egli è tanto più ansioso di impegnare in essa quelli e quelle ai quali Dio avrebbe concesso il dono di una vocazione così eccellente (« Io vorrei che tutti fossero come me, ma ognuno riceve da Dio il suo dono particolare, uno in un modo, l’altro in un altro » – vers. 7), ed il primo motivo per cui cerca di attirarli è l’esenzione  dalle preoccupazioni, dalle sollecitudini e dalle difficoltà di ogni genere che il vincolo del matrimonio porta con sé: « Per quanto riguarda le vergini – dice – non ho alcun comandamento dal Signore, ma do un consiglio, come per aver ricevuto dal Signore la grazia di essere fedele. Penso, quindi, che a causa della difficoltà inerente allo stato di matrimonio, è bene che un uomo resti così. Sei legato a una moglie? Non cercare di rompere questo legame; non sei legato a una moglie, non cercare una donna. Ma se ti sposi, non pecchi, e se una vergine si sposa, non pecca. Questa, dico, è la prima ragione addotta dall’Apostolo. Consiste nella libertà dai molti imbarazzi, dolori, tribolazioni e preoccupazioni che di solito accompagnano la vita matrimoniale, e che hanno fatto dire a San Francesco di Sales che … se Dio avesse istituito un noviziato per il matrimonio, come ha fatto per la vita religiosa, ci sarebbero ben pochi novizi che vorrebbero fare la professione. (Sul: διὰ τὴν ἐνεστῶσαν ἀνάγκην, [dia ten anestosan anaghketen] che la Vulgata traduce, propter instantem necessitatem (verso 26), e che si correla con il    θλῖψιν δὲ τῇ σαρκὶ ἕξουσιν, [tlipsin de te sarki exousin] tribulatianem carnis hahehunt del verso 28, vedi San Giovanni Crisostomo nel suo libro della Verginità, n. 43-58. Il santo Dottore si sofferma a lungo sulle tribolazioni della vita matrimoniale, mettendo in grande rilievo le condizioni imposte al matrimonio nella Nuova Legge, proprio quelle che avevano portato i discepoli a dire, Matth. xXIX, 10: « Se questa è la condizione di un uomo nei confronti di una donna, è meglio non sposarsi. » Al che Gesù rispose: « Non tutti capiscono questa parola, ma solo quelli a cui è stato dato. Perché ci sono eunuchi che lo sono per nascita…; e ci sono eunuchi che sono eunuchi per mano d’uomini; e ci sono eunuchi che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, che capisca. » Non c’è bisogno di sottolineare il perfetto parallelismo tra il Vangelo e San Paolo. Da entrambe le parti, l’esenzione dalla servitù del matrimonio serve come punto di partenza per condurre alle ragioni di un ordine completamente superiore, che raccomandano come più perfetto, lo stato di verginità). – Tuttavia, questa ragione, che di per sé è ancora solo di ordine temporale e umano, è anche solo una ragione per il primo impegno; prepara solo la strada, o se volete, presenta l’esca come un modo per sollecitare la natura, e ora dobbiamo salire più in alto. San Paolo continua quindi: Ma questo è ciò che io dico, fratelli. Il tempo è breve. Quel tempo? Senza difficoltà, il tempo (καιρός – kairos) che ci è dato per preparare la nostra eternità; il tempo di cui, nella seconda ai Corinzi, dice (VI, 2): « Ora è il tempo buono, ora sono i giorni della salvezza »; e ai Galati (VI, 10: « Mentre abbiamo tempo, facciamo il bene »; e agli Efesini (V, 16): « Sfruttiamo il tempo, perché i giorni sono cattivi. » Il tempo è breve, e un po’ più in basso: « La figura di questo mondo sta passando », non dice al futuro: passerà, o passerà presto (παράξει – paràxei.), come riferendosi a una catastrofe a venire, che secondo lui avrebbe portato via tutto. Ma dice: passa (παράγει – paraghei) al presente, come indicando la condizione propria della figura del mondo, che è sempre in atto di passare. Passa, infatti, e passa incessantemente, come passano le rive del fiume per coloro che sono trascinati dalla corrente (la corrente della vita), e che presto saranno arrivati all’abisso dal quale non c’è ritorno. E dal fatto che il tempo della vita è breve, dal fatto che la figura del mondo sta passando, l’Apostolo trae la conclusione che, se c’è motivo di usare del mondo ed i legittimi piaceri che può offrirci, almeno questo debba essere con moderazione, e senza mettervi o attacarvi il cuore;  inoltre, c’è un modo migliore e incomparabilmente migliore, che è proprio nella beata libertà indicata più sopra, dove, liberati dagli obblighi e dalle preoccupazioni del matrimonio, siamo in grado di darci interamente a Colui che solo non passa e non cambia, cioè a Dio e alle cose del suo servizio. – Ma ascoltiamo attentamente il resto delle parole dell’Apostolo: « Io dico questo, fratelli miei. Il tempo è breve; perciò, quelli che hanno mogli siano come se non ne avessero, e quelli che piangono come se non piangessero, e quelli che gioiscono come se non gioissero, e quelli che comprano come se non possedessero, e quelli che usano del mondo come se non ne usassero; perché la figura di questo mondo sta passando. E per quanto mi riguarda, vorrei che foste spensierati. Chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore; cerca di piacere al Signore per compiacere il Signore; ma chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, cerca di compiacere sua moglie, ed è diviso. Allo stesso modo, la moglie: la donna non sposata e la vergine sono attente alle cose del Signore, per essere sante nel corpo e nello spirito; ma la donna sposata è attenta alle cose del mondo, cercando di piacere a suo marito. Ora lo dico per il vostro bene non per gettare una rete su di voi, affinché siate uniti a Dio senza lotte o divisioni. » – Questo è il pensiero di San Paolo sulla verginità. Potrebbe esserci qualcosa di più chiaro? Per riassumere, la verginità è buona, è da raccomandare, e questo per due motivi: in primo luogo, a causa degli imbarazzi che lo stato di matrimonio porta con sé, e in secondo luogo, a causa dell’eccellenza di una condizione in cui, liberati dalla sollecitudine della vita che è così breve, e che in ogni momento ci sfugge, possiamo con piena libertà occuparci degli affari della salvezza, servire Dio, e adempiere alla nostra preghiera. Queste ragioni, come possiamo vedere, non hanno alcuna connessione, nemmeno apparente, con l’ipotesi di una prossima fine del mondo; perché, sia che supponiamo che il mondo sia sul punto di finire o che gli diamo migliaia di anni di durata, esse conservano invariabilmente la stessa forza, lo stesso peso, lo stesso valore. Eppure il modernismo non si arrende. Con una sola voce predica e proclama che i consigli evangelici sulla continenza volontaria e la povertà procedono direttamente dalla previsione di un’imminente fine dei tempi, da quella preoccupazione costante, per non dire ossessione, che avrebbe pesato sui pensieri di Gesù Cristo e dei suoi Apostoli come un incubo. È incredibile, ho letto in una recente storia della Chiesa, che non è senza una grande reputazione di erudizione e di scienza, e precisamente nel capitolo che tratta dell’organizzazione e della vita delle prime comunità cristiane secondo le lettere di San Paolo, questa sorprendente frase: « La verginità assoluta era lodata, e persino raccomandata, in vista dell’imminenza dell’ultimo giorno » (L. Duchesne, Histoire ancienne de l’Église (Parigi, 1906) tom. I, cap. 4, pagina 47). Certamente, non è più confermativo questo in vista dell’ultimo giorno, ove l’avrebbe visto lo storico? Se San Paolo avesse taciuto sulle ragioni che gli facevano raccomandare la continenza, si poteva porgere a scusante che l’autore, desideroso di fornire  spiegazioni plausibili su un punto importante, si sarebbe ritenuto autorizzato a supplire al silenzio dell’Apostolo, secondo le proprie idee. Ma no, San Paolo si è spiegato, e nel modo più chiaro, più categorico e più intelligibile del mondo. Ha detto che raccomanda la verginità, vedendo prima instantem nécessitatem del versetto 26, che ovviamente porta alla tribulatio carnis del verso seguente; vedendo poi, eprincipalmente, e soprattutto, l’alta convenienza di ciò che facilitava præbet sine impedimenio Dominum obsecrandi [versetto. 35). Invece di questo, si scrive senza battere ciglio, senza glosse, né spiegazioni,né commento: “in vista dell’imminenza dell’ultimogiorno”. Ma in verità, è troppo un abusare della semplicità del lettore, se non lo si avverte, è dargli una ragione troppo buona per concludere che, finché l’ufficio dello storico non consiste nel sostituire le proprie fantasie all’autorità dei documenti, un libro così fatto mancherà sempre delle garanzie che la dignità e la serietà della storia richiedono.

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Ciò che abbiamo detto finora sembrerebbe quindi più che sufficiente per stabilire il vero significato dei passi in cui la venuta del Signore è data dagli Apostoli come prossima, e per mostrare chiaramente quanto questo significato sia diverso da quello dato loro dall’esegesi protestante e modernista. Tuttavia, per non tralasciare nulla che possa contribuire ad illuminare la religione del lettore su un punto di così grande importanza, aggiungiamo, a conferma delle precedenti conclusioni, alcune nuove considerazioni, che ora ci verranno fornite principalmente dalle epistole di San Pietro. Nel quarto capitolo della prima, il Principe degli Apostoli raccomanda ai Cristiani che aveva evangelizzato, che durante il breve tempo che rimaneva loro in questa vita mortale, vivessero non più secondo le concupiscenze degli uomini, ma secondo la volontà di Dio. « Basta – scriveva loro – col tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo, vivendo nelle dissolutezze, nelle passioni, nelle crapule, nei bagordi, nelle ubriachezze e nel culto illecito degli idoli. Per questo trovano strano che voi non corriate insieme con loro verso questo torrente di perdizione e vi oltraggiano. Ma renderanno conto a Colui che è pronto a giudicare non solo i vivi ma anche i morti … ». E l’Apostolo mostra, nel contempo, con il fatto della discesa agli inferi (altrimenti detto Sheol, la dimora dei morti) che la sovranità di Cristo si estende anche ai morti; e che su di loro, e già ora, senza dover aspettare il giorno dell’ultima risurrezione, si esercita il suo giudizio. (Versetto 6: Propter hoc enim et mortuis evangelizatum est, da confrontare con il versetto 19 del capitolo precedente: His qui in carcere erant spiritibus veniens prædicavit). Ora – egli continuava – la fine di tutto è vicina: omnium autem finis appropinquavit. E cosa significa questo … “la fine di tutto”? Senza difficoltà: o la fine di ogni uomo in particolare, o, meglio ancora, la fine di tutti coloro che erano in questione, sia i pagani che bestemmiavano, sia di quelli che volevano riprendere i loro antichi disordini; per tutti loro la morte era vicino, e con la morte, il giudizio per il quale sono giudicati i morti. (È a torto che si traduce “Πάντων δὲ τὸ τέλος ἤγγικεν” – omnium autem finis  appropinquavit  con: la fine di tutte le cose è vicina, come se Πάντων [panton] fosse qui il genitivo del neutro “Πάντα”, e non invece  – come come lo indica il contesto e tutto il resto del ragionamento – il genitivo del maschile “Πάντες” [pantes]: dovrebbe quindi essere tradotto: “è vicina la fine di tutti”, cioè di tutti quelli di cui si parla nei quattro versetti precedenti, cioè i pagani blasfemi e i Cristiani convertiti). Da qui segue, infine, in modo del tutto naturale, l’esortazione a prepararsi che riempie il resto del capitolo, e che è diviso in due parti. Prima di tutto (versetti 7-11), la raccomandazione delle virtù che costituiscono la base comune e invariabile della vita cristiana in generale: … siate prudenti e sobri per dedicarvi nella preghiera, e soprattutto abbiate ardente carità gli uni per gli altri… Ognuno metta il dono che ha ricevuto da Dio al servizio del suo prossimo, ecc. Dopo (versetti 12-19) ci sono gli avvisi speciali dati in vista delle circostanze particolari che la Chiesa stava attraversando, ed è qui, come è naturale, che cercheremo le informazioni più affidabili e autorevoli sulle idee del prossimo futuro che preoccupavano l’Apostolo. Ma cosa troveremo lì? Niente di niente di qualsiasi cosa che vada nella direzione delle conclusioni della nuova scuola. Solo una cosa è stata messa in prospettiva, e non la conflagrazione generale che precederà l’arrivo del Giudice, né lo scuotimento delle potenze del cielo che metterà tutti gli abitanti della terra nel terrore, né lo schianto che accompagnerà la dissoluzione della macchina del mondo, ma semplicemente la persecuzione che aveva già cominciato ad abbattersi sulla Chiesa, e che doveva essere esercitata quasi senza sosta per circa tre secoli. San Pietro stava preparando i fedeli affidati alle sue cure a sopportare l’urto di questa prova, e qualunque cosa si dicesse o facesse, non si poteva trovare nelle sue parole alcun accenno a qualsiasi altra preoccupazione o timore di altro genere: « Miei cari – egli continuava – non stupitevi del fuoco della persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per mettervi alla prova, come se vi fosse successo qualcosa di straordinario. Ma nella misura in cui avete parte alle sofferenze di Cristo, rallegratevi, in modo che quando la sua gloria sarà manifestata, anche voi possiate essere nella gioia ed esultare. Se siete oltraggiati per il nome di Cristo, siate lieti, perché lo Spirito di gloria, lo Spirito di Dio, riposa su di voi. Che nessuno tra voi soffra come assassino, come ladro, come malfattore, o come uno che è avido del bene degli altri. Ma se soffre come Cristiano, non si vergogni, anzi glorifichi Dio proprio per questo stesso Nome. Perché questo è il tempo in cui sta per iniziare il giudizio (per metterlo alla prova e purificarlo) dalla casa di Dio. » – La stessa osservazione può essere fatta sulla seconda Epistola, che fu, come tutti sanno, il testamento dell’Apostolo: l’epistola in cui, dopo aver annunciato la sua fine imminente, rivolgeva le sue ultime raccomandazioni ai fedeli, dicendo che credeva fosse suo dovere, finché era in questa vita mortale, tenerli svegli con i suoi avvertimenti, e fare in modo che dopo la sua morte se ne ricordassero sempre (I, 13-15). Ora, questi avvertimenti che riempiono tutto il corpo della lettera, dalla seconda metà del primo capitolo fino all’epilogo compreso, su cosa vertevano? Sempre e solo, sui pericoli che minacciavano la Chiesa, e questa volta, sulla persecuzione che è la più terribile di tutte, che sarebbe venuta da falsi maestri e predicatori di eresie. Proteggere i Cristiani che egli aveva generato a Gesù Cristo dalla seduzione delle molte eresie pronte a sorgere, questo era l’intero scopo del supremo addio di San Pietro a loro, al momento della sua partenza. E se, alla fine, menziona la parusia, non è per suggerire che sia imminente, ma per denunciare e screditare in anticipo gli schernitori che, a causa del presunto ritardo del Signore nell’adempimento della sua promessa, avrebbero argomentato contro la verità della promessa stessa, come è già stato detto. E ora, chiedo, come si può immaginare che, prendendo congedo da coloro che pensava stessero per essere sorpresi vivi dalla terribile catastrofe, egli avrebbe trascurato la singolarità di una situazione così tragica? Qual è l’apparenza, soprattutto, con la quale egli avesse voluto, in questa occasione, dissimulare i suoi pensieri sulla prossimità dell’evento, ricorrendo alla considerazione artificiale dei mille anni che davanti a Dio sono l’equivalente del giorno passato ieri? È quindi una nuova e manifesta negazione, che si aggiunge a tante altre, che nelle forme più varie, tutte le pagine del Nuovo Testamento si oppongono alla tesi modernista.

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Ma c’è un’ultima considerazione che domina tutto il resto, e che basterebbe da sola a mettere al suo posto (cioè la pattumiera -ndt.- ) l’affermazione degli avversari. È che, lungi dal suonare “a morto” la campana del mondo, le Epistole apostoliche hanno suonato piuttosto il rinnovamento di esso: questo magnifico rinnovamento che il Vangelo e la grazia di Gesù Cristo gli hanno portato. In esse vi vediamo la restaurazione di tutte le cose in Cristo, e non solo di quelle che riguardano la vita futura, ma anche di quelle che sono della terra e del buon ordine della vita presente. Restaurazione della società politicaState sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio. Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re. » (1 Petr. II, 13-17), – « Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono si attireranno addosso la condanna. I governanti, infatti, non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male. Vuoi non aver da temere l’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene. Ma se fai il male, allora temi, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male. Perciò è necessario stare sottomessi, non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza. Per questo, dunque. dovete pagare i tributi, perché quelli che sono dediti a questo compito sono funzionari di Dio. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi l’onore, l’onore. » (Rom., XIII, 1-7). Ripristino della società coniugaleUgualmente voi, mogli, state sottomesse ai vostri mariti perché, anche se alcuni si rifiutano di credere alla parola, vengano dalla condotta delle mogli, senza bisogno di parole, conquistati considerando la vostra condotta casta e rispettosa. Il vostro ornamento non sia quello esteriore – capelli intrecciati, collane d’oro, sfoggio di vestiti -; cercate piuttosto di adornare l’interno del vostro cuore con un’anima incorruttibile piena di mitezza e di pace: ecco ciò che è prezioso davanti a Dio. Così una volta si ornavano le sante donne che speravano in Dio; esse stavano sottomesse ai loro mariti, come Sara che obbediva ad Abramo, chiamandolo signore. Di essa siete diventate figlie, se operate il bene e non vi lasciate sgomentare da alcuna minaccia. E ugualmente voi, mariti, trattate con riguardo le vostre mogli, perché il loro corpo è più debole, e rendete loro onore perché partecipano con voi della grazia della vita: così non saranno impedite le vostre preghiere. » – 1 Petr. III, 1-7). – « … Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore … il marito infatti è capo della moglie …, … così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se stesso … » (Ef., v, 22-33). – Restaurazione della società domestica in tutte le sue parti e dipendenzeVoi servi, siate soggetti ai vostri padroni con ogni tipo di rispetto, non solo a chi è buono e gentile, ma anche a chi è difficile. Perché è gradito a Dio che per amor suo si sopporti una pena ingiustamente inflitta… Questo è ciò che siete stati chiamati a fare, poiché anche Cristo ha sofferto per voi, lasciandovi un modello, affinché seguiate le sue orme. » (1 Petr. II, 18-23), – « Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra. E voi, padri, non inasprite i vostri figli, ma allevateli nell’educazione e nella disciplina del Signore. Schiavi, obbedite ai vostri padroni secondo la carne con timore e tremore, con semplicità di spirito, come a Cristo, e non servendo per essere visti, come per piacere agli uomini, ma come servi di Cristo, compiendo la volontà di Dio di cuore, prestando servizio di buona voglia come al Signore e non come a uomini. Voi sapete infatti che ciascuno, sia schiavo sia libero, riceverà dal Signore secondo quello che avrà fatto di bene. Anche voi, padroni, comportatevi allo stesso modo verso di loro, mettendo da parte le minacce, sapendo che per loro come per voi c’è un solo Signore nel cielo, e che non v’è preferenza di persone presso di lui. »  (Ef., VI. 1-9). – Cfr. Colossesi, III, 18-25; IV, 1, ecc.). – Restauro di tutta la società umana, nelle diverse classi che la compongono, e i doveri reciproci di giustizia e carità che li legano gli uni agli altri (Jacob., II, 1-17, e V, 1-6; 1 -Joan., III, 11-24, ecc.). Meditiamo su queste pagine meravigliose, e si dica pure che essi furono dominati dall’idea che il mondo stava per finire – coloro che le scrissero – che posero in esse con tanta lungimiranza le basi per la ricostruzione di tutto l’ordine sociale, sia pubblico che privato, che con mano così sicura stabilirono i principi di quella mirabile civiltà cristiana che i secoli a venire dovevano vedere sorgere sulle rovine della barbara civiltà del paganesimo! Che si sostenga questo, che si osi sostenerlo, … sarebbe un insulto alla ragione, una sfida al senso comune, il più paradossale delle impertinenze che sia mai apparsa nella lista, per quanto lunga, delle aberrazioni umane. – Eppure, qualcuno dirà qui, tutte le ragioni addotte finora non cancelleranno i numerosi passaggi in cui gli Apostoli dichiarano in termini espliciti che al loro tempo, gli ultimi giorni, l’ultima ora del mondo, la fine, la consumazione dei secoli era arrivata. Al che rispondiamo che, senza dubbio, non li sopprimono, ma che garantiscono già una spiegazione completa e soddisfacente; che, inoltre, questi passaggi costituiscono una nuova categoria di testi che richiedono chiarimenti particolari da riservare all’articolo seguente.

LA PARUSIA (8)