IL MATRIMONIO CATTOLICO – 2 –

IL MATRIMONIO (2)

[ENCICLOPEDIA CATTOLICA, vol. VIII, Coll. 407 e segg.  – Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico – Città del VATICANO – impr. 1952]

III. FINI DEL M. –

Già si è accennato come Dio stesso fissi i fondamenti naturali del M., promulgandone le leggi e determinandone le finalità nella procreazione e nel mutuo aiuto (Gen. 1, 26 – 31; 2, 7 – 25). Tali concetti sono altrove richiamati nei libri del Vecchio e Nuovo Testamento. La dottrina di s. Paolo a questo riguardo ha una importanza particolare, poiché indica un altro scopo a cui Dio ha ordinato l’istituto matrimoniale dopo il peccato originale, cioè il rimedio della concupiscenza. Nella prima Epistola ai Corinti, parlando delle vedove e dei non coniugati, dice: « È bene per essi se rimangono come me; ma se non possono osservare la continenza, si sposino; è meglio, infatti, sposare che bruciare » (7, 8 – 9); inoltre: « E bene per un uomo non toccar donna; tuttavia, per evitare la fornicazione, ciascuno abbia la propria moglie e ciascuna il suo proprio marito » (ibid. 7, 1-2). E dopo aver insegnato che è bene astenersi dai rapporti matrimoniali per dedicarsi all’orazione, soggiunge: « Poi siate nuovamente insieme, affinché non vi tenti Satana per la vostra incontinenza » (ibid. 7, 5). Questi dati rivelati sobri e profondi vennero poi sviluppati dalla tradizione cattolica nella dottrina sistematica.

Fini essenziali del M. nella dottrina della Chiesa.Movendo dalle linee tracciate dalla S. Scrittura, l’insegnamento cattolico è stato sempre concorde nell’assegnare al M. tre fini essenziali: la generazione ed educazione della prole, il mutuo aiuto, il temperamento della concupiscenza. La generazione e l’educazione della prole è una finalità, che sulla scorta del sacro testo viene per prima messa in rilievo dalla tradizione cattolica. Il pensiero dei Padri è riassunto da s. Agostino: « Che le nozze si contraggono per ragione della prole, così ne fa fede l’Apostolo: voglio che le giovani si sposino (I Tim. V, 14). E come se gli dicesse: E perché?, subito soggiunge: A procreare figlioli ed nessere madri di famiglia » (De bono coniug., cap. 24, n. 32; cf. encicl. Casti Connubii, Denz-U, n. 2228 sgg.). – Nel M. l’uomo e la donna, oltre il prolungamento della stirpe, cercano e trovano il compagno della vita. Il M., infatti, mediante l’unione intima, totale, definitiva dei due coniugi, offre a ciascuno di essi il complemento cui aspirano naturalmente: un sostegno materiale e spirituale prezioso, che costituisce per la generalità degli uomini il mezzo provvidenziale del loro perfezionamento personale e sociale, del loro progresso morale e della loro santificazione. Si parla anche di « completamento » o « perfezionamento » degli sposi. Questi termini bene esprimono l’idea di un vuoto colmato, di pienezza, di equilibrio di tutto l’essere suscitati dall’amore scambievole. Di qui nei coniugi la gioia, la dedizione alla persona amata e al focolare, il coraggio nell’ora della prova e lo sviluppo armonico e completo della propria personalità. – Oltre al mutuum adiutorium nel M. si aggiunge nell’ordine attuale, il remedium concupiscentiœ. La concupiscenza della carne, infatti, non è solo un provvidenziale impulso verso il soddisfacimento di una esigenza della natura, ma, dopo il peccato originale, è spesso del naturale impulso una pericolosa deviazione, in quanto insorge contro il governo della ragione e spinge l’uomo verso l’uso disordinato del piacere sensuale ; vulnus naturæ lo ha ritenuto la teologia: rimedio legittimo per la natura ferita è il M., che, pure temperando l’ardore della passione, argina la concupiscenza, ordinandola al nobile fine della procreazione.

Rapporto tra i fini del M. – Tra i fini del M., non c’è opposizione, ma armonia. Gli sposi infatti, cercando il completamento reciproco, contribuiscono al benessere della società, d’altra parte la procreazione e l’educazione dei figli non giova soltanto allo Stato e alla Chiesa, ma viene pure a cementare l’amore coniugale con nuovi vincoli. Questi fini, tuttavia, non sono su di uno stesso piano e tra loro eguali: esiste un rapporto gerarchico per cui uno è più elevato e importante dell’altro. – « Fine primario del M . è la procreazione ed educazione della prole; fine secondario, il mutuo aiuto ed il rimedio della concupiscenza» (CIC, can. 1013 § 1).  Questo enunziato è una sintesi della dottrina tradizionale della Chiesa. Infatti, sulla scorta dei Padri, i teologi, i moralisti e i canonisti anteriori al CIC si mossero costantemente entro questo schema dottrinale acquisito. In modo particolare nessuno ritenne che il fine primario del M. sia altro dalla procreazione ed educazione della prole: il solo Ugo di San Vittore vi sostituì l’unione d’amore tra l’uomo e la donna, da cui deriva, come conseguenza, la funzione generativa dei coniugi (cf. M . Abellan, El fin y la significación sacramental del matrimonio, desde s. Anselmo hasta Guillermo de Auxerre, Granata 1939).  S. Tommaso lo disse il « fine più essenziale senza del quale il M. non può né essere compreso né definito : « Proles est essentialissimum in Matrimonio; et secundo fides, et tertio Sacramentum (Sum. Theol., Suppl., q. 49, a 3). Così la Chiesa fece anche dopo il CIC. La Casti connubii di Pio XI (31 dicembre 1930) riaffermò « quanto viene pure espresso efficacemente nel Codice di diritto canonico », riferendo il can. 1013 § 1. Del resto, è la natura che fa concludere a questa gerarchia di rapporti: solo la prole infatti, può essere considerata come il termine naturale a cui è stata ordinata la differenza stessa dei temperamenti, che corrispondono alle diverse mansioni dell’uomo e della donna entro l’ambito della famiglia. La cosa è ancora più evidente se si considera il rimedio della concupiscenza. Voler separare questo fine dalla procreazione, significa invertire l’ordine stabilito da Dio, secondo cui il piacere congiunto con l’uso del M. è per sua natura un mezzo provvidenziale per facilitare ai coniugi il compito della procreazione del genere umano, e quasi a controbilanciare le gravi responsabilità. – Occorre ancora sottolineare che i tre fini sono subordinati, ma distinti e assolutamente irreducibili. Il fine secondario, cioè, non si esaurisce nell’essere semplicemente un mezzo, uno strumento, sia pure del fine principale, ma conserva la sua ragione di fine, benché subordinato a un altro, che è principale, ossia non è qualcosa di accessorio e di accidentale che si aggiunge all’essenza del M., ma appartiene alla sostanza dell’istituzione e del Sacramento, e pertanto è perseguibile per se stesso. Si spiega così come in certi periodi, in cui il fine primario è assolutamente e temporaneamente irrealizzabile, il M. e il suo uso rimangono ragionevoli e leciti, poiché continua ad esistere un fine sufficiente a dar loro una ragione d’essere. L’unione matrimoniale però, privata allora « per accidens » del suo fine superiore, verso cui non cessa di essere orientata nella sua intima costituzione, è imperfetta senza il suo ultimo coronamento.

Nuove teorie e autorevoli riconferme della dottrina tradizionale. – Recentemente, invece, si è cercato di dare rilievo primario all’elemento psicologico e affettivo della società coniugale, che deve essere una piena comunione di anime tra due sposi. In Italia, tra gli altri, si orientano verso questa corrente B. Brugi (L’art. 107 del Codice Civile italiano e lo scopo del M. in Rivista intern. di Filosofia del diritto, 5 [1925], pp- 113 segg.); L. Cornaggia Medici (Dell’essenza del M., in Il diritto eccles., 39 [1928], p. 398 sgg.); G. Viglino (Oggetto e fine primario del M., in Diritto eccles., 40 [1928], p. 142 sgg.). In Germania, sono da ricordare Von Hildebrand (Die Ehe, Monaco 1928), N. Rochol (Die Ehe als geweites Leben, Dulmen, 1936) soprattutto H. Doms (Vom Sinn und Zwek der Ehe, Breslavia 1935), e B. Krempel (Die Wzechfrage der Ehe in neue Beheuchtung begriffen aus dem Wesen der beiden Geschlechter im Lichte der Beziehunglehre des hl. Thomas, Benzinger 1941). – Sulle ragioni che hanno determinato questo abbandono della posizione tradizionale prevale il motivo psicologico, il desiderio sincero cioè di introdurre nel M. una nota più alta di spiritualità. La concezione canonistica non sembra sufficiente, perché secondo essi, ridurrebbe il M. a una funzione specificamente sessuale, sminuendo la sua spiritualità e riducendolo a qualcosa di materiale e quasi volgare. Quindi si ritiene superata la dottrina corrente, che sarebbe collegata con lo stato delle scienze biologiche del secolo XIII, e che pertanto occorre aggiornare col pregresso degli studi psicologici. Queste teorie minacciarono di determinare sbandamenti dottrinali e pratici in una materia che più di ogni altra esige perspicuità di termini e di concetto. Per tali motivi la Chiesa ritenne opportuno riaffermare i principi immutabili della sua dottrina. Un primo intervento si ebbe il 3 ott. 1941, con il discorso che Pio XII tenne alla S. Rota: « Due tendenze sono da evitarsi, quella che nell’esaminare gli elementi costitutivi dell’atto della generazione dà peso unicamente al fine primario del M. , come se il fine secondario non esistesse, o almeno non fosse finis operis stabilito dall’Ordinatore stesso della natura; e quella che considera il fine secondario come egualmente principale, svincolandolo dalla sua essenziale subordinazione al fine primario, il che, per logica necessità, condurrebbe a funeste conseguenze » (AAS, 38 [1941], p. 423).Il S. Uffizio, in data 1°apr. 1944 (AAS, 36 [1944], p. 103), insiste sulla pericolosità del nuovo modo di pensare fatto apposta per favorire errori ed incertezze. Il che fu largamente dimostrato dagli autori che difesero la linea tradizionale. Secondo essi è già una affermazione grave il fatto di interpretare il can. 1013 § 1 come una semplice formula pastorale. Ma gli errori non si limitano a ciò. Per accennare alcuni: 1) se lo scopo principale del M. è il completamento dei coniugi, e la prole è soltanto un mezzo a tale fine, ne segue che questa potrebbe venire sacrificata quando potesse costituire una minaccia per la vita della madre. – 2) Considerando poi il M. come un essenziale perfezionamento della vita umana, quasi che fuori del M. l’uomo resti incompleto, ne segue un deprezzamento del celibato virtuoso, o dello stato sacerdotale e religioso, contro la dottrina tradizionale della Chiesa. 3) Ugualmente non rimane sufficientemente spiegata la gravità intrinseca dell’onanismo, così decisamente asserita dalla Chiesa, in quanto appunto si oppone al fine primario del M. – Secondo le ultime direttive del magistero ecclesiastico, occorre conservare la dicitura e il significato dei termini: fine primario e fine secondario, e affermare che i fini secondari sono subordinati al principale, e non indipendenti.

Il M. PRESSO I PRIMITIVI [omissis]

III. STORIA DEL M. [Omissis]

IV DIRITTO E TEOLOGIA MORALE

SOMMARIO: I. Diritto Canonico. – II. Diritto concordatario italiano. – III. Seconde nozze. – IV. M. di coscienza. – V. M. morganatico. – VI. M. putativo. – VII. M. rato e non consumato. – VIII. Uso del M.

 

DIRITTO CANONICO. – .1. Nozione. – Il M. può essere considerato giuridicamente, come è stato rilevato nella trattazione dogmatica, sotto due diversi aspetti,  come atto transeunte o come stato permanente. Il primo, chiamato matrìmonium in fieri, è l’atto costitutivo della società coniugale, ossia il contratto matrimoniale. Il secondo, chiamato matrimonium in facto esse, è la società coniugale costituita, ossia, il rapporto matrimoniale. In altri termini il matrimonium in fieri è il momento iniziale dello stato coniugale o matrìmonium in facto esse. – La disciplina giuridica matrimoniale potrebbe dunque teoricamente sistemarsi in relazione a tali due momenti; ricollegando al primo tutto quanto concerne i requisiti di capacità e di forma necessari per la istituzione di un valido negozio matrimoniale, cioè del contratto-Sacramento, e al secondo quanto concerne il regime del vincolo, i suoi effetti nei rapporti tra i coniugi e di questi con la prole, la separazione e lo scioglimento. Nel sistema canonico, peraltro, è da notare che l’interesse giuridico è prevalentemente, se non quasi esclusivamente, concentrato sul primo momento, o atto costitutivo. E questo sia per l’efficacia permanente e definitiva attribuita al consenso iniziale dei nubenti e conseguente proscrizione del divorzio, sia perché, mentre la Chiesa afferma la propria esclusiva competenza e giurisdizione su ciò che concerne la formazione del vincolo fra i cristiani in quanto questo è inseparabilmente contratto-Sacramento, una volta costituito il vincolo ne considera il regime essenzialmente sotto il profilo teologico-morale, di foro interno; e lascia allo Stato di disciplinarne gli effetti civili, consentendo talora, come nel Concordato italiano, che esso ne regoli aspetti anche non puramente civili, come quello della separazione.

2. Fondamenti dogmatici. — Per una chiara comprensione dei principi del diritto canonico in materia, occorre tener sempre presenti i fondamenti dogmatici sui quali si basa l’istituto matrimoniale secondo la dottrina cattolica; e cioè  che il M. è stato istituito e restaurato da Dio e che il contratto è stato elevato alla dignità di Sacramento. – Al M. così considerato vanno connessi tre grandi beni, che in senso rigoroso costituiscono anche tre capi di obbligazioni: proles, fides, sacramentum. Il bonum prolis consiste nella procreazione e nella educazione cristiana della prole; il bonum fidei nella fedeltà che ognuno dei coniugi deve all’altro nell’adempimento del contratto matrimoniale, ossia nel diritto esclusivo e reciproco obbligo di ognuno di essi ad officia coniugalia verso l’altro; esso richiede inoltre amore vero e aiuto vicendevole, e ordine gerarchico familiare (encicl. Casti connubii, I); il bonum sacramenti nell’indissolubilità del vincolo matrimoniale e nella comunanza di vita; indissolubilità assoluta per il M. rato e consumato, mentre può eccezionalmente venire meno per i M. rati ma non ancora consumati. Questa dottrina dei bona matrimonii ha fondamentale importanza sotto l’aspetto giuridico, come si vedrà più oltre, specialmente per la determinazione della validità del consenso.

Requisiti. — Per la costituzione di un valido rapporto matrimoniale (che può essere, ma non necessariamente, preceduto dal contratto di promessa di M.) occorrono i seguenti requisiti: la capacità; il consenso o volontà matrimoniale; la forma legittima della manifestazione del consenso, ossia della celebrazione. Questi requisiti, analoghi nella loro formulazione generica a quelli di ogni altro contratto, vanno intesi però in relazione alla peculiarissima natura e disciplina giuridica dell’istituto matrimoniale. Essi non devono quindi valutarsi alla stregua degli altri negozi giuridici, ma secondo i principi speciali dettati per questa materia.

3. – La capacità matrimoniale e gli impedimenti. – Questa osservazione vale soprattutto in ordine al requisito della capacità. Principio generale è che tutti possono contrarre M. quando non ne abbiano divieto dal diritto (can. 1035), ossia quando non sussistano i peculiari ostacoli preveduti dalla legge in opposizione alla valida esistenza del M. Quindi la capacità matrimoniale non va apprezzata in base alla capacità giuridica ordinaria, ma in relazione alla sussistenza o meno di tali ostacoli, detti impedimenti, o condizioni relative alle persone dei contraenti. Nel diritto anteriore al CIC sotto il nome di impedimento erano comprese tanto le cause che costituivano ostacoli al M . in dipendenza della condizione personale dei contraenti (ex parte personæ), quanto quelle che costituivano motivo di invalidazione del M. in dipendenza di difetti della volontà (ex parte consensus) o della forma della celebrazione (ex parte formæ). Il loro elenco era consuetamente espresso in versi mnemonici di cui ecco una delle versioni più usate dopo il Concilio di Trento: « Error, conditio, votum, cognatio, crimen, / Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas, / Ætas, affinis, si clandestinus et impos, / Raptave sit mulier loco nec reddita tuto : / Hæc facienda vetant connubia, facta retractant ». A questi impedimenti, detti dirimenti, perché causa di nullità del M., si aggiunge l’elenco degli impedimenti semplicemente impedienti, cioè che non rendono il M. nullo ma solo illecito : « Ecclesiæ vetitum; nec non tempus feriatum / atque catechismus, sponsalia, iungito votum, / Impediunt fieri, permittunt facta teneri », ridotti poi a quelli contenuti nel versicolo « sacratum tempus, vetitum, sponsalia, votum ». – Nel sistema del CIC, invece, pur usandosi talora saltuariamente la parola impedimento ancora in senso lato, più razionalmente si considera quanto si attiene alla validità o meno del consenso o della forma della celebrazione distintamente dalle circostanze inerenti alla persona dei contraenti e che possono limitare la capacità matrimoniale. Solo queste ultime si dicono ora, in senso proprio, impedimenti, e dal loro esame si desumono, con processo a contrario, i requisiti di capacità richiesti per la validità del M. – Gli impedimenti sogliono classificarsi sotto diversi punti di vista (cann. 1036-42), ma di tali distinzioni due soprattutto hanno qui importanza fondamentale. La prima ed essenziale è quella già accennata, fra impedimenti impedienti (che inducono una grave proibizione di contrarre M. e perciò lo rendono illecito, ma non invalido se il M. ciò nonostante sia stato celebrato), e impedimenti dirimenti (che non solo vietano di contrarre M., ma ne impediscono la valida celebrazione, e, se il M. sia stato ugualmente contratto, ne producono l’invalidità: can. 1036). – Altra distinzione è quella fra impedimenti di diritto divino e impedimenti di diritto umano od ecclesiastico, a seconda che siano posti dal diritto divino (naturale o positivo), o da leggi della Chiesa. Questa distinzione è pure di importanza capitale perché di regola possono essere dispensati gli impedimenti di diritto umano od ecclesiastico, e non invece quelli di diritto divino. Solo alla suprema autorità della Chiesa, cioè al Pontefice, spetta di dichiarare in modo autentico quando il diritto divino impedisce o dirime il M. (can. 1038). Devono distinguersi dagli impedimenti i divieti individuali, che possono essere stabiliti per un determinato M., temporaneamente e per giusta causa, dagli Ordinari locali (can. 1039 § 1). Il loro effetto è semplicemente proibente, e perciò rende il M. illecito ma non invalido. Soltanto la S. Sede può aggiungere a tale divieto la clausola irritante, cioè la sanzione di invalidità, nel caso di inosservanza del divieto medesimo (can. 1039 § 2). Gli impedimenti impedienti, più numerosi nel diritto antico e in quello anteriore al Tridentino, si riducono nel sistema attuale a due: 1) il voto semplice di verginità, di castità perfetta, di non sposarsi, di ricevere gli Ordini Sacri e di abbracciare lo stato religioso; 2) la mista religione. A questi due può eventualmente aggiungersi un terzo impedimento, la cognazione legale. – Nel diritto vigente gli impedimenti dirimenti sono in numero di dodici di diritto generale, più un tredicesimo di diritto particolare, per quei luoghi dove è ritenuto tale dalla legge civile. Essi sono l’età, l’impotenza; la disparità di culto; il M. precedente; l’Ordine Sacro; la professione religiosa solenne e quella dei professi di voti semplici a cui, per indulto della S. Sede, fu aggiunta la forza di irritare le nozze (can. 132 § 2); il ratto; il delitto, ossia l’adulterio qualificato; la consanguineità; l’affinità; la pubblica onestà; la cognazione legale e quella spirituale. Per quelli fra gli impedimenti che sono dispensabili, competenti a dispensare sono il Sommo Pontefice e chi ne abbia concessa facoltà o per diritto comune o per speciale indulto della S. Sede (can. 1040). Il Pontefice esercita il suo potere di dispensare o personalmente (nel caso di sovrani o di prìncipi reali) o a mezzo di organi della Curia romana (Congregazione Disciplina dei Sacramenti; S. Penitenzieria; Congregazione del S. Uffizio; Congregazione per la Chiesa orientale), a seconda che si tratti di foro interno o di foro esterno, e a seconda degli impedimenti (v. cann. 247 § 3; 249 § 1; 251 § 3; 257 § 3; 259 § 1). I vescovi possono concedere dispense dagli impedimenti matrimoniali o per potestà ordinaria, cioè attribuita loro per diritto comune (così nel caso di pericolo di morte, o di impedimento scoperto nell’imminenza delle nozze; v. cann. 1043-45) o per potestà delegata, cioè attribuita loro con indulto particolare dalla S. Sede. Poteri analoghi spettano anche al parroco, al sacerdote che assiste al M. e al confessore (ma a quest’ultimo soltanto per il foro interno all’atto della confessione sacramentale), nei casi in cui non si possa ricorrere all’Ordinario locale (cann. 1044, 1045 § 3).

4. – Il consenso matrimoniale. — Il secondo dei requisiti voluti per la sussistenza di un M. valido, e cioè il consenso o la volontà matrimoniale da parte dei contraenti, è definito l’« atto della volontà con il quale ognuna delle due parti conferisce e riceve il diritto sul corpo, perpetuo ed esclusivo, in ordine agli atti per sé idonei alla generazione della prole » (can. 1081 § 2). Su questo elemento consensuale è costruito con rigorosa coerenza tutto l’istituto matrimoniale canonico. Con l’unione dei consensi il M. diviene perfetto, senza che occorra la consumazione. Il consenso dei contraenti, che non può venire supplito da alcun potere umano (can. 1081 § 1), deve essere dato da persone che ne abbiano la capacità, e cioè che, oltre a non trovarsi in alcuno dei casi già visti costituenti impedimento, siano fornite di sufficiente capacità di intendere e di volere, e non siano quindi prive di ragione, tanto per cause transitorie (ebrietà, ipnotismo, sonnambulismo), quanto per cause permanenti (demenza, paranoia, ecc.). È ovvio che, per la validità del consenso, i contraenti non devono ignorare almeno che il M. è una società permanente tra l’uomo e la donna per la procreazione dei figli (ma tale ignoranza dopo la pubertà non si presume). Il contratto è invalido se una o entrambe le parti escludono con un atto positivo della volontà, anche solo interno, il M. stesso, oppure ogni diritto all’atto coniugale o qualche proprietà essenziale del M. (can. 1086 § 2). Però si richiede una precisa intenzione, e cioè, come espressamente dice il CIC, un positivo atto di volontà escludente qualche proprietà essenziale del Sacramento, e non è sufficiente a determinare l’invalidità un pensiero accessorio o secondario nel senso suddetto, né il semplice desiderio né il proposito di non adempiere le obbligazioni assunte. La validità del M. può inoltre essere infirmata, sotto l’aspetto del consenso, per altre cause dipendenti da vizi nel processo di formazione o di determinazione della volontà, oppure da discordanze tra la volontà manifestata e la volontà interna. Nella descrizione e valutazione di tali elementi, per altro, la disciplina matrimoniale segue criteri peculiari che la differenziano nettamente da quella relativa agli altri contratti, ai cui concetti pertanto non si può d’ordinario, in questa materia, fare sicuro riferimento. Così, in ordine al vizio di consenso per errore il CIC, oltre al tipico caso di errore sull’identità della persona (ove si ha piuttosto un assoluto difetto di consenso, per discordanza fra la manifestazione di volontà e la volontà reale), considera influente sulla validità del M. solo l’errore sulla qualità che ridondi in errore sulla persona (tale sarebbe la qualità che serve a individuare la persona), o quello per cui una persona libera contragga M. con una schiava, credendola libera (can. 1085). Non invalida il consenso l’errore di diritto (error iuris) intorno all’unità o all’indissolubilità del M., o alla sua dignità sacramentale dia causa al contratto (can. 1084), ma solo quello consistente nell’ignoranza dell’essenza del M. (v. can. 1052). – Il consenso può anche essere viziato per violenza o timore che abbia influito nella determinazione della volontà matrimoniale, purché concorrano determinati estremi. È invalido il M. contratto per timore grave (ob vim vel metum gravem) incusso dall’esterno ed ingiustamente (ab extrinseco et iniuste) e per liberarsi dal quale alcuno sia costretto a scegliere il M. (Can. 1087). Così non è influente il timore che manchi di gravità, quale il semplice timore reverenziale verso i genitori, (a meno che non si tratti di timore reverenziale qualificato, ossia intervengano minacce di gravità tali, o maltrattamenti o rimproveri, sì da rendere impossibile la vita nella casa paterna); così pure il timore che non provenga dall’esterno, come quello di castighi soprannaturali, etc.; così infine il timore che, benché grave, sia incusso per giusta causa, ad es., per costringere il seduttore a sposare la sedotta, purché la minaccia non ecceda e perciò ingiusta quoad modum. – Il diritto stabilisce come regola generale che il consenso o volontà interiore (internus animi consensus) si presume sempre conforme alle parole o dai segni adoperati nella celebrazione del M. (can. 1086 § 1). Tale presunzione però è iuris tantum, e quindi può vincersi dalla prova contraria con la quale si dimostri che la volontà reale era discordante da quella manifestata, il che rende il M. invalido. Tale è il caso della simulazione, che si ha quando il contraente finge esternamente di voler contrarre, esprimendo con serietà e in modo rituale che invece internamente non ha. Sia nel caso di simulazione bilaterale, cioè quando le parti d’intesa fra loro fingano di contrarre M. per raggiungere invece un altro scopo (ad es., di conseguire un mutamento di cittadinanza, ecc.), sia nel caso di simulazione unilaterale o riserva mentale, quando una sola delle parti simuli traendo in inganno l’altra parte ignara, il M. è invalido. Gli stessi effetti della simulazione produce lo scherzo (iocus), per quanto questa sia un’ipotesi oggi assai difficilmente avverabile. –  La funzione di elemento centrale riconosciuta al consenso nel M. cristiano, fa sì che il diritto canonico prenda anche in considerazione le ipotesi in cui esso sia prestato con l’aggiunta di qualche modalità o determinazione accessoria da parte dei contraenti, che intendano far dipendere da essa la validità o la sussistenza, o il permanere del vincolo. Escluse assolutamente le condizioni di questa ultima specie, ossia le condizioni risolutive (perché contrarie al principio dell’indissolubilità), si ammette entro determinati limiti che possa condizionarsi il consenso, con effetto sospensivo del M., o con effetto di farne dipendere la sussistenza o validità, alla esistenza o meno di determinate circostanze, denominate genericamente condizioni. Esse però comprendono sia condizioni sospensive vere e proprie (e cioè la determinazione di un avvenimento futuro e incerto) sia condizioni impropriamente dette, costituite dalla determinazione di fatti passati o presenti della cui esistenza le parti sono incerte oppure dalla aggiunzione re al consenso, come indissolubilmente connessi al medesimo, di patti riguardanti il futuro. I loro effetti (sempre quando la condizione apposta non sia stata in seguito revocata) sono notevolmente diversi. Il CIC distingue le condizioni in de futuro e de futuro e de præterito vel de præsenti. Le condizioni proprie o relative a fatti futuri leciti, sospendono il valore del M. (Can. 1092 n. 3). Pendente la condizione, la vita coniugale non è permessa;  se la condizione si avvera, il M. è valido e si producono senz’altro tutti i suoi effetti, senza bisogno di rinnovare il consenso; se la condizione non si verifica, il M. è nullo. Se però si tratta di fatti futuri necessari (ad es. se domani sorgerà il sole), o impossibili (ad es. se toccherai il cielo col dito), o turpi ma non contrari alla sostanza del M. (p. es., se ucciderai) la condizione si considera apposta (can. 1092, n . 1). Se si tratta invece di condizioni contrarie alla sostanza del M., esse lo rendono invalido (can. 1092, n. 2). Tali sono quelle che escludono lo jus in corpus, o quelle contrarie o i nconciliabili con i tre bona del M. – Quanto alle condizioni improprie de præterito vel de præsenti, il M. sarà valido o no, a seconda che il fatto dedotto in condizioni sussista o no (can. 1092, n. 4). Possono in tal modo essere assunte come condizioni qualità personali dell’altra parte, la cui esistenza o inesistenza sarebbero invece irrilevanti a determinare la nullità del M. a titolo di errore, qualora non dedotte espressamente

5. – La celebrazione del M. — Il terzo requisito per la esistenza del M. valido, la celebrazione, non ha avuto una disciplina uniforme che in epoca relativamente recente. Fino al Concilio di Trento non vi era una norma generale che prescrivesse una determinata forma essenziale per la validità del M. Essa fu stabilita col celebre decreto Tametsi (sess. XXIV, c. I, de reform. Matr.), nel quale per eliminare gli inconvenienti che si verificavano per il passato, si stabilì che fosse non solo illecito, ma anche invalido il M. ( detto clandestino [v. sopra]) non contratto dinanzi al proprio parroco o ad altro sacerdote, con licenza di questi o dell’Ordinario, e di almeno due testi. La mancata promulgazione del decreto tridentino in molte regioni, fece sì che esso non fosse applicabile dovunque; onde questo punto del diritto matrimoniale canonico, restò regolato diversamente nei vari paesi a seconda che vi fosse stato o meno pubblicato il decreto. Tale disuguaglianza non cessò che agli inizi di questo secolo con il decreto del 2 ag. 1907, Ne temere, di Pio X, con il quale fu estesa a tutti i cattolici ed anche ai M. tra Cattolici ed acattolici, la forma stabilita dal Concilio di Trento. Il CIC accolse pressoché integralmente le norme  del decreto Ne temere.- Prima che il M. sia celebrato deve constare che nulla osti alla sua validità   o lecita celebrazione (can. 1019 § 1). A tale fine, (salvo nel caso di pericolo di morte, can. 1019 § 2, è prescritta l’osservanza di certe forme preliminari: le investigazioni. o processetto prematrimoniale e le pubblicazioni. Adempiute queste formalità senza che risulti l’esistenza di qualche impedimento, può procedersi alla  celebrazione nella forma ordinaria. Questa consiste nella espressa manifestazione del consenso dinanzi o all’Ordinario del luogo o ad un sacerdote delegato da uno di costoro e alla presenza di due testimoni. Per le determinazione della competenza ad assistere validamente e lecitamente al M. da parte del parroco o dell’Ordinario (la cui figura giuridica è propriamente quella di teste qualificato del M., ministri essendone, come noto, gli sposi) il CIC detta varie norme (cann. 1094-1097). Per regola generale il M. deve celebrarsi davanti al parroco della sposa se non vi sia giusta causa in contrario (can. 1097 § 2). Non si ri chiedono particolari requisiti per i testimoni, è soltanto necessario che abbiano l’uso di ragione e siano i n grado di testimoniare sulla prestazione del consenso. I contraenti devono essere presenti realmente o a mezzo di procuratore (cann. 1088 § 1, 1089, 1091); è permesso l’uso dell’interprete (cann. 1090, 1091). – Oltre alla forma ordinaria della celebrazione sono ammesse, in casi eccezionali, due forme straordinarie: a) il M. davanti ai soli testi, che può contrarsi in pericolo di morte (M. in extremis), quando non sia possibile senza grave incomodo avere la presenza del parroco o del vescovo o di un loro delegato, o anche fuori del pericolo di morte, quando parimenti non sia possibile avere tale presenza e si preveda che la mancanza di uno dei suddetti ecclesiastici durerà per un mese (can. 1098); b) il M. di coscienza (v. oltre), detto anche M. segreto od occulto, che è contratto senza pubblicazioni, in segreto, davanti al parroco proprio o ad altro sacerdote delegato d all’Ordinario e a due testimoni (can. 1104). Esso deve essere autorizzato dall’Ordinario, il quale non può permetterlo se non per causa gravissima, e importa l’obbligo di serbare il segreto da parte del sacerdote assistente, dei testi, dell’Ordinario e suoi successori, e anche del coniuge, se l’altro non consenta alla divulgazione (cann. 1104, 1105). L’obbligo del segreto da parte del vescovo cessa se ne derivi scandalo o ingiuria alla santità del M. o se i genitori manchino alle loro obbligazioni verso i figli (can. 1106).

  1. Effetti del M. Separazione. Scioglimento.Dal M. valido sorgono particolari effetti giuridici, sia nei rapporti dei coniugi, sia in quello della prole. I primi sono: l a creazione di un vincolo per sua natura perpetuo ed esclusivo (can. 1110); il rispettivo diritto e dovere al debito coniugale (can. 1111); la partecipazione, salvo sia diversamente stabilito per diritto speciale, della donna allo stato del marito (can. 1112); l’obbligazione gravissima di curare l’educazione della prole, sia religiosa che morale, sia fisica che civile (can. 1113). A tali effetti, detti canonici, si aggiungono anche quelli puramente civili (mere civiles) che cioè non sono, come i precedenti, essenziali al M. ed inevitabilmente connessi ad esso (ad. es., quelli inerenti ai rapporti dotali, ecc.), e che sono regolati dalla legge civile. Rispetto alla prole il M. ha inoltre l’effetto di determinare la legittimità dei figli concepiti o nati nel medesimo, salvo che la professione religiosa solenne o l’Ordine sacro vietasse ai genitori l’uso del M. anteriormente contratto (can. 1114). Il M. valido rato e consumato non può essere sciolto da nessun potere umano e da nessuna causa, all’infuori della morte (can. 1118). Il M . non consumato tra battezzati o fra un battezzato e un infedele, si scioglie ipso iure con la solenne professione religiosa di uno degli sposi e, fuori di questo caso, può anche essere sciolto per dispensa concessa dalla S. Sede per giusta causa, e sopra istanza di una sola o di entrambe le parti (can. 1119). Quanto al M. legittimo dei non battezzati, per quanto pure considerato dalla Chiesa come rigorosamente indissolubile, esso può in via di eccezione essere sciolto in seguito al Battesimo di uno dei coniugi, in favore della fede, in forza del Privilegio paolino. – Il divorzio, come scioglimento del M., non è dunque ammesso dal diritto canonico. Gli sposi possono invece per giusti motivi, sempre restando fermo il vincolo, essere liberati dall’obbligo della comunione di vita che il M. impone, mediante la sospensione della convivenza maritale o separazione (separatio; talora anche detta, nelle fonti e negli scrittori, divortium). La legge canonica regola (cann. 1129-32) i casi e le modalità in cui può essere concessa la separazione, che non è lasciata al semplice arbitrio delle parti, ma va sempre giustificata da una giusta causa.

5. – Il M. nullo: convalidazione e dichiarazione di nullità.Verificandosi un caso di nullità del M., in cui o le parti non vogliano ottenere o non possa farsi luogo né alla convalidazione semplice né all’altra più favorevole forma di convalidazione costituita dalla sanazione in radice, le parti incolpevoli, come pure l’autorità ecclesiastica per gli impedimenti di loro natura pubblici, possono chiedere che la nullità venga dichiarata giudizialmente. Benché nel sistema canonico non abbia luogo la distinzione, che vien fatta nella dottrina civilistica, fra M. inesistente e M. semplicemente annullabile, e quindi la mancanza di uno qualsiasi dei requisiti necessari alla valida esistenza del M . ne produca sempre la nullità assoluta (le espressioni di M. irrito, nullo, invalido, vanno intese nel CIC come sostanzialmente equivalenti), tuttavia non è lecito alle parti, anche nella certezza soggettiva della nullità del precedente M., contrarne un altro prima che di tale nullità consti in modo legittimo e certo (can. 1069 § 2). A tal fine è necessaria una pronuncia del giudice ecclesiastico, unico competente a conoscere delle cause relative al M. fra battezzati, cattolici e non cattolici, o in cui anche una sola delle parti sia battezzata (can. 1960; v. oltre: M. rato non consumato e Nullità).

IL MATRIMONIO CATTOLICO – 1 –

 

Uno dei temi più dibattuti tra i residui Cattolici del “pusillus grex”, è il matrimonio. Ci si chiede soprattutto se il matrimonio contratto nella falsa chiesa dell’uomo, o nelle chiesuole scismatiche dei sedevacantisti o dei gallicani fallibilisti, etc., sia valido, nullo, sacrilego, se ci si possa ritenere “coppie di fatto” mai unite dal vincolo matrimoniale o conviventi, se il vincolo falso si possa sciogliere, o di fatto sia già sciolto, se i figli siano legittimi … e non mancano amenità o facezie quanto mai inopportune in una questione sì seria e che coinvolge la salvezza o la dannazione di numerose anime. In effetti l’argomento è stato da sempre dibattuto e complicato, come cominceremo a vedere tra poco, conteso tra legislatori, teologi, canonisti etc. Per tanti aspetti l’argomento è di non facile approccio e può risultare per certi versi troppo tecnico o addirittura noioso. Armati di santa pazienza, come l’importanza dell’argomento giustifica ampiamente, ci “abbeveriamo” alla fonte della “Enciclopedia Cattolica”, ultima opera cattolica edita nella Città del Vaticano, quando ancora c’erano autorità valide, che garantiscono così la veridicità e l’affidabilità, diremmo la infallibilità, dello scritto riportato quasi per intero. Abbiamo ritenuto di suddividere in 5 parti la voce in esame, ed alla fine abbiamo tratte alcune considerazioni generali da utilizzare nei casi più comuni onde rispondere agli interrogativi più pressanti, lasciando alle autorità competenenti “in esilio” l’esame di ogni singola problematica, se richiesto. In ogni caso, si resta aperti al contributo di Cattolici ed acattolici in buona fede, onde chiarire al meglio possibile la vicenda “Matrimonio” in questo tempo in cui questo istituto di fondamentale importanza per la vita del Cattolico e della società in generale, riceve rovinose picconate da ogni parte, dai governi a guida massonica e laica (compreso il nostro, gestito dai “fratelli d’Italia” delle logge del grande oriente e degli illuminati, per non parlar d’altro … ); dalla falsa chiesa della setta modernista vaticano-cattolica usurpante, che ha addirittura istituito il “divorzio cattolico breve” (sic!), con allo studio nientemeno che il matrimonio tra sodomiti; da tutti i papaveri prezzolati dei mass-media, oramai assurti a “sibille cumane” e “pitonesse di Efeso”, che profetizzano ed offrono oracoli a buon mercato con l’unico intento di abbattere [si fieri potest] la dottrina cattolica e la vita familiare cristiana. Ma bando alle polemiche e si dia inizio all’esame della problematica in oggetto. [Nota redazionale]

MATRIMONIO (1)

[ENCICLOPEDIA CATTOLICA, vol. VIII, COLL. 407 e segg.  – Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico – Città del VATICANO- impr. 1952]

MATRIMONIO [M.]: – Storicamente considerato, può definirsi l’unione dell’uomo e della donna al fine della propagazione e dell’educazione del genere umano. E poiché tale scopo non potrebbe rettamente conseguirsi se le relazioni fra i due sessi non fossero sottoposte ad una disciplina, fin dall’epoca più antica, per necessità stessa di natura, si assiste, presso tutti i popoli, allo stabilirsi di un istituto giuridico-sociale che è appunto il M. . La parola M. viene dal latino matris munus munium, che indica la parte rilevante della donna nella famiglia. Altri  nomi: coniugio (lat. coniugium), che il Catechismo di Trento ( parte 2 a , cap. 6, 8) spiega: « quia mulier cum viro quasi uno iugo astringitur »; connubio (lat. connubium, da nubere, velare, dall’usanza di porre sul capo della sposa il flammeum) dalla stessa radice viene la parola nozze (lat. nuptiæ).

SOMMARIO : I. Il M. come Sacramento. – II. Il M. presso i primitivi.[omissis] – III. Storia del M . – IV. Diritto e teologia morale. – V. Liturgia del M.

IL M. COME SACRAMENTO. È il Sacramento che prepara i nuovi candidati al regno di Dio. Ha origine (M. in fieri) dal mutuo e libero consenso di due persone di diverso sesso, che si uniscono in perpetuo, allo scopo di procreare e educare la prole al culto di Dio. Dal mutuo consenso nasce il vincolo indissolubile tra i coniugi (M. in facto esse).

SOMMARIO : I. Il M. in teologia dogmatica. Indole sacramentale del M. – II. Natura del Sacramento del M. – III. Fini del M.

I. IL M. IN TEOLOGIA DOGMATICA. INDOLE SACRAMENTALE DEL M.

I Sacramenti della Nuova Legge sono segni sensibili produttivi della Grazia, istituiti da Gesù Cristo. Siccome il M. è un’istituzione naturale, che vige fin dalle origini dell’umanità, occorre cercare nelle fonti della Rivelazione, se consti della sua positiva elevazione all’ordine soprannaturale disegno efficace della Grazia.

1. Scrittura. – Nelle prime pagine della Bibbia è delineata la struttura del M. come istituzione naturale (Gen. I, 27-28; II, 18-24), i cui elementi costitutivi sono chiaramente indicati: a) come officium naturæ risultante dall’indole dei sessi e dalla loro mutua attrazione; Dio vi soggiunse una positiva conferma: « Et creavit Deus nomine ad imaginem suam; ad imaginem Dei vreavit illum, masculum et feminam creavit eos. Benedivitque illi Deus et ait: crescite et multiplicamini et replete terram » (ibid.,I,27-28) ; b) è caratterizzato da due doti fondamentali: l’unità e l’indissolubilità « quamobrem relinquet homo patrem suum et matrem et adhærebit uxori suæ; et erunt duo in carne una (ibid., II, 24); c) è orientato al fine principale della procreazione: « Crescite et multiplicamini et replete terram » (ibid., 1, 28; cf. Tob. 8, 9 ) e a quello secondario  del mutuo aiuto: « Dixitque quoque Dominus Deus: non est bonum hominem esse solum, faciamus ei adiutorium simile sibi » (Gen. 2, 18); d) porta fin dalle origini qualche cosa di sacro (cf. I Tob. 8, 9; P. Heinisch, Teologia del Vecchio Testamento, trad. it., Roma 1950, p. 217), che tutti i popoli riconobbero nelle cerimonie religiose, di cui circondarono le nozze. Dal vecchio al nuovo Adamo la primitiva unità e indissolubilità non venne sempre osservata, neppure presso il popolo eletto, che per la sua dura cervice ottenne da Dio stesso una temporanea dispensa (cf. Heinisch, op. cit., pp. 220- 22), né, tanto meno presso i pagani, che, abbandonatisi al divorzio ed alla poligamia, scesero presto a quel basso livello morale, da cui Gesù Cristo venne a liberare il mondo. Egli infatti prima restituì il M. alla primitiva purezza,  richiamando in vigore la legge dell’unità: Mat. XIX, 9; Mc. X, 11; Lc. XVI, 18) e della indissolubilità: « Quod Deus coniunxit, homo non separet (Matt. XIX, 6), poi lo elevò alla dignità di Sacramento. – Tale elevazione adombrata nel modo di agire di Cristo (cf. Leone XIII, encicl. Arcanum, divinæ sapientiæ, 10 febbr. 1880) è più chiaramente suggerita da s. Paolo, nel celebre testo di Eph. 5; dopo aver detto che l’uomo deve armare la sposa come Cristo ha amato la Chiesa, soggiunge: « per questo l’uomo abbandonerà il padre e la madre sua e si stringerà alla sposa sua e saranno i due una sola carne sola. Questo mistero è grande, io però parlo rispetto a Cristo e alla Chiesa. Pertanto anche voi, ciascuno ami la sua sposa come se stesso, la sposa poi abbia in riverenza il marito. » – Largamente discusso l’inciso: « Sacramentum hoc, mysterium magnum est, ego autem dico in Christo et in Ecclesia » (v. 32). Il Gaetano, G. Estio, B. Giustiniani soprattutto L. Godefroy (Mariage dans l’Ecriture, in DThC, IX, coll. 2066-71), I. Vosté (Commentarius in epist. ad Eph., 2a ed., Roma 1932, pp. 272-88) e F. Amiot (L’enseignement de st Paul, II, Parigi 1938, p.8) ritengono che da questo testo nessuna prova può dedursi dell’indole sacramentale del M., poiché il versetto va riferito al mistero dell’unione di Cristo con la Chiesa, di cui la primitiva istituzione del M. fu simbolo (figura, typus). Ma, come osserva F. Prat (La teologia di San Paolo, trad. it., II, Torino 1937, p. 270), quest’ipotesi non sembra ammissibile, poiché suppone una intollerabile tautologia: questo mistero, cioè l’unione di Cristo con la Chiesa, è grande, relativamente a Cristo e alla Chiesa. Pertanto la maggior parte degli interpreti, riferisce il μυστήριον [musterion] al M. e vi scorge il fondamento di una prova biblica della sua indole sacramentale. Il processo dimostrativo, molto vario, può essere ridotto a tre tipi di argomentazione:

a) Ex analogia fidei. — I segni sacri seguono l’indole dell’economia soprannaturale cui appartengono; nel Vecchio Testamento non ebbero efficacia santificatrice (Gal. IV, 9 : « infirma et egena elementa »), ma furono soltanto immagini e figure futurorum honorum; nel Nuovo Testamento al contrario hanno avuto da Dio, per i meriti del Redentore, una virtù soprannaturale, con cui penetrano nella coscienza, santificandola (cf. IX-10). In Eph. V, 32 si tratta di un segno sacro, che ebbe origine nella creazione e perdura nella Redenzione (s. Paolo infatti parla ai cristiani ed esalta la grandezza morale del loro M. considerato come segno sacro), si deve pertanto ritenere che nel Vecchio Testamento il M. fu un simbolo ordinato da Dio a significare la futura unione di Cristo con la Chiesa (signum prognosticum, senza alcuna efficacia santificatrice), e che nel Nuovo Testamento rimane, per volere divino, come segno di una realtà già compiutasi sulla Croce, le mistiche nozze di Cristo con la Chiesa e pertanto un signum rememorativum, che appartenendo alla Nuova Legge possiede la prerogativa di santificare interiormente (signum demonstrativum Gratiæ). Né deve fare impressione il diverso orientamento, che acquista il M. nei successivi stati della Legge e della Grazia… se la circoncisione fosse stata conservata da Gesù Cristo come segno della sua alleanza con l’umanità, si avrebbe ragione di pensare che essa sarebbe divenuta un Sacramento in senso stretto. Rivolta verso il passato e non più verso l’avvenire, avrebbe mutato significato e direzione, sarebbe divenuta capace di produrre effettivamente la Grazia dell’alleanza interiore tra Dio e le anime, mentre abbandonata, come un elemento naturale, perdette ogni valore alla morte di Cristo. Così il M., che sotto la Legge era il tipo e la figura della futura unione di Cristo con la Chiesa, cambiò significato (perché Dio lo conservò in ratione signi) quando questa unione fu consumata sul Golgota; da profetico divenne commemorativo, da speculativo pratico, da inerte efficace. – Questo genere di d’argomentazione, svolto con calore da D. Palmieri (De M. christiano, Roma 1880, pp. 62-70), fu accolto da H. Hurter (Theologiæ dogmaticæ compendiun, III, Innsbruck 1900, p. 592), L. Billot (De Sacramentis, Roma 1930, pp. 346-50), L. Lercher – F. Dander (Institutiones theologiae dogmaticae, IV, II, Innsbruck, 1949, pp. 336-39) e da molti altri. – b) Ex oneribus. – Gli sposi cristiani, nei loro mutui rapporti, devono ispirarsi alle relazioni che vigono tra Cristo e la Chiesa: da una parte sottomissione rispettosa fino al sacrificio (Eph. V, 22-24), dall’altra amore e devozione fino alla morte (ibid., 25-29). La gravità di questi obblighi soprannaturali (cf. Mt. XIX, 10) implica una fonte corrispondente di grazie e di aiuti divini. S. Paolo suppone appunto che le a n i m e dei coniugi cristiani siano immerse in una sfera di soccorsi celesti, quando li esorta con calore, a imitare i rapporti di Cristo con la Chiesa, di cui il loro M. è l’emblema. Quest’argomento è comune a tutti i teologi (v., p. es., M. Cordovani, Il Santificatore, 2a ed., Roma 1946, p. 364 sgg). – c) Ex parallelismo. — Il M. cristiano riceve la sua fisionomia dal mistero dell’unione di Cristo con la Chiesa, di cui, secondo s. Paolo, è l’immagine vivente. Non è soltanto un esemplare che rimane fuori, ai margini delle mistiche nozze di Cristo, ma una copia, una riproduzione germogliata da quell’unione, impregnata della medesima essenza, che non solo raffigura, ma riproduce, attivo ed efficiente dentro di sé, il mistero dei rapporti di Cristo con la Chiesa. I due coniugi cristiani, già membri del Corpo mistico, rafforzano nella loro unione soprannaturale i vincoli vigenti tra Cristo e la Chiesa, del cui mistico connubio diventano una propaggine e un prolungamento. L’espressione vivente e l’attuazione concreta dell’unione di Cristo con la Chiesa, affinché realizzi perfettamente quanto significa, deve necessariamente riprodurre e incarnarne le linee fondamentali e le note distintive, cioè l’unità, l’indissolubilità e la santità. Questa prova, toccata con l’usuale profondità da M. – G. Scheeben ( I misteri del cristianesimo, trad. it., Brescia 1949, p. 445-46) , è stata svolta da J . Fischer (Ehe und Jungfràulichkeit im Neuen Test., Mùnster 1919, p. 44), I. B. Colon (Paul [saint], in DThC, XI, coll. 2421-22), C. Adam (La dignità sacramentale del M., trad. it., Milano 1935, p. 16), B. Bartmann (Manuale di teologia dogmatica, trad. it. , III, Alba 1950, p. 350), J . Huby (Les Epitres de la captività, 13° ed., Parigi 1947, pp. 246-248). Questi argomenti, pur non essendo decisivi e tali non ritenuti dai loro autori, rivestono un carattere di spiccata probabilità, che dà piena ragione della studiata frase del Concilio di Trento: « Paulus innuit » ( Denz – U, 969).

SS. Padri. — La Chiesa visse la dottrina di s. Paolo prima di spiegarla scientificamente. In pratica ritenne il M. un negotium sanctum, avvolto nelle ombre del mistero di Cristo. S . Ignazio di Antiochia, all’inizio del sec. II, attesta che il M. dei fedeli era celebrato con l’autorizzazione del vescovo: « Decet ut sponsi et sponsæ de sententia episcopi coniugium faciant, ut nuptiæ secundum Dominum sint, non secundum cupiditatem. Omnia ad honorem Dei fiant » (Ad Polyc, 5, 1). Tertulliano, riferendo quanto era già in uso fin dal sec. II, enumera con precisione gli interventi della Chiesa nella celebrazione del M.: « Unde sufficiamus ad enarrandam felicitatem eius Matrimonii, quod Ecclesia conciliat et confirmat oblatio et obsignat benedictio, Angeli renuntiant, Pater rato habet ? » (Ad uxorem, 2, 9: PL 1, 1415). Da questo testo risulta che il M. non solo si solennizzava coram Ecclesia (« de sententia episcopi, Ecclesia conciliat »), ma era già circondato dai più augusti riti: l’offerta del sacrificio eucaristico (oblatio) e la benedizione sacerdotale (benedictio), di cui si ha una testimonianza esplicita nel Prædestinatus, 3, 31: « Sacerdotes nuptiarum initia consecrantes et in Dei mysteriis sociantes » (cf. s. Ambrogio, Ep. 19, 7: PL 16, 98). L’originario innesto dei nuptiarum solleoni nell’actio liturgica era richiesto dalla persuasione, che la Chiesa in seguito esplicitamente manifestò nei suoi Sacramentari ed Eucologi, nei quali pose il M. tra i Sacramenti veri e propri, e formulò preghiere che espressamente attribuiscono alle nozze cristiane l’efficacia della Grazia (cf. D . Palmieri, De Matrimonio christiano, Roma 1880, pp. 54-55; L. Duchesne, Origines du culte chrétien, 2 a ed., Parigi 1898, pp. 413 – 19 ; A . Villien, Les Sacrements. Histoìre et liturgie, 2a ed., ivi 1931, pp. 335 – 402) . La stessa idea è svolta nei monumenti archeologici. Ivi gli sposi cristiani sono comunemente rappresentati nell’atto di porgersi la mano; tra loro viene posto come segno della mutua unione (concepita sempre nell’ambito della Grazia) o la mano del Signore circondata dai monogrammi costantiniani, talora seguita da una iscrizione (p. es., nel sarcofago di Tolentino: « Quos paribus mentis iunxit M. dulci Omnipotens Dominus »), o la colonna gemmata simbolo della Chiesa, o Gesù ritto in mezzo ai coniugi con la scritta;, o Cristo, considerato come « Pro nubo » delle nozze dei suoi fedeli, p. es., nel frammento Albani, secondo la spiegazione di s. Paolino da Nola: « Absit ab his thalamis vani lascivia vulgi Iuno, Cupido, Venus, nomina luxuriæ. Sancta sacerdotis veneranda pignora pacto iunguntur; comun pax, pudor et pietas … Tali lege suis nubentibus adstat Iesus Pronubus » (Carm., XXV, 9-12, 151 : P L 51, 633. 636; cf. O. Marucchi, La santità del M. confermata dagli antichi monumenti cristiani, Roma 1902; G . Wilpert, La fede della Chiesa nascente secondo i monumenti dell’arte funeraria antica, Città del Vaticano 1928, pp. 249 – 55). – Parallelo alla tradizione liturgica ed archeologica, d’indole prevalentemente pratica, è il ripensamento teoretico dei motivi evangelici e paolini concernenti il M. Dal sec. III al V tre concetti sono costantemente ripetuti: a) il M. cristiano è il simbolo dell’unione di Cristo con la Chiesa (Clemente Aless., Strom., 3, 12: PG 8, 1186; Origene, Fragm. in Io., 3, 29: CB, IV, 520; id., Hom. 11 in Num.: PG 12, 643; Crisostomo, Hom. 40 in Eph.: ibid., 62, 140; s. Ilario di Poitiers, Tractatus de mysteriis, 3: CSEL, 65, 4 – 5; s. Ambrogio, Ep., 76: PL 16, 399; Ambrosiaster, In Eph., 5, 31: ibid., 17, 399); b) cui è connessa l’infusione della Grazia: « Siratum est apud Deum Matrimonium … habens iam ex parte divina e Gratia; patrocinium » (Tertulliano, Ad uxorem, 2, 7, PL I, 1229); « Deus quidem est, qui duo in unum compegit … et quotiamo coniunctionis auctor est Deus, propterea iis in est Gratia, quia Deo coniuncti sunt; quod non ignorans Paulus connubium Verbo Dei consentaneum gratiam esse pronuntiat » (Origene, In Mt., 14, 16: PG 13, 1229; cf. s. Epifanio, Hæres, 51, 30: ibid., 41, 941; s. Innocenzo, Ep., 3 6 : PL 20, 602; s. Cirillo Aless., In Io., 2, 1: PG 73, 224); c) la cui elevazione all’ordine della Grazia avvenne a Cana di Galilea, ove il Redentore perfezionò l’opera del Creatore : « In Cana Galilea e externæ sunt celebratæ nuptiæ… ut quod deerat emendaret ac iucundissimi vini suavitat emulceret et Gratia » (s. Epifanio, Hæres., 51, 30: PG 41, 941); « Cum nuptiæ celebrarentur … adest quidam Mater Salvatoris, sed et ipse cum discipulis suis invitatus venit … ut gener ationis humanæ principium sanctificaret » (s. Cirillo Aless., In Io., 2, 1 : PG 73, 224); « Vadit ad nuptias Dei Filius ut, quas dudum potestate constituit, tunc praesentiæ suæ benedictione sanctificet » (s. Massimo di Torino, Hom., 23 : PL 57, 274; cf. Teodoreto di Ciro, Hæret. fabularum compendium, 5, 25: PG 83, 537; s. Giov. Damasceno, De fide orihod., 4, 2 4 : ibid., 94, 1209). S. Agostino, caldo difensore della liceità del M. contro i manichei e Gioviniano, era preoccupato di porre in luce il tripartitum bonum: fides, proles, Sacramentum (De nuptiis et concupiscentia, 11: PL 44, 421; De bono coniugali, 24, 32 : ibid., 40, 394). Fermando la sua attenzione sull’ultimo punto della trilogia (Sacramentum), s. Agostino svolge ampiamente il simbolismo paolino (cf. B. Alves Pereira, La doctrine du Mariage selon st. Augustin, Parigi 1930, pp. 184-223) e conclude costantemente che la res Sacramenti è l’indissolubilità del M., la quale imita in modo perfetto la inscindibilità delle mistiche nozze di Cristo con la Chiesa: « Huius procul dubio Sacramenti res est ut mas et fœmina connubio copulati, quamdiu vivunt, inseparabiliter perseverent » (De nuptiis et concupiscentia, 1, 10: PL 44, 420); « Bonum nuptiarum, quod ad populum Dei pertinet, est etiam in sanctitate Sacramenti, per quam nefas est etiam repudio discedentem alteri nubere. » (De bono  coniugali, 24, 31 : ibid., 40, 394). Il vincolo dei coniugi cristiani (res Sacramenti) è talmente profondo che può essere paragonato al carattere indelebile del dell’Ordine (ibid.). In questa prospettiva la Grazia è vista nel M. solo di scorcio, come la regione ultima (cui si allude forse nella parola sanctitas) del vincolo dei coniugi, immagine perfetta dell’unione di Cristo con la Chiesa.  Ma s. Agostino non deve essere isolato dagli altri Padri di cui accettò l ‘ insegnamento, e tanto meno dagli scrittori africani, soprattutto da Tertulliano, di cui continuò  la tradizione dottrinale.

Scolastici. – L’insegnamento dei Padri nella particolare formulazione agostiniana, divenne comune. Trasmesso al medio evo nella rapida sintesi di S. Isidoro di Siviglia (De ecclesiasticis officiis, 2, 20: PL: 83, 812), riaffiorò timidamente nei secc. IX-XI, per affermar pur nelle modifiche e negli ampliamenti che subì , attraverso le opere teologiche e canonistiche del secolo XII: Ugo di Amiens (Contra hæreticos, 3, 4: PL 192, 1289), Abelardo (Epitome theologiæ, 31: ibid. 178, 1747), Ugo di S. Vittore (De Sacramentis: ibid. 176, 481-82, 494: con una distinzione singolare tra Sacramentus majus e minus), Onorio di Autun (Elucidarium, 2, 16, ibid. 172, 1147, Pietro Lombardo (IV Sent., d. 26, c, 6), presso il quale è già imbastita un’intera trattazione sistematica de Matrimonio, che, perfezionata da s. Bonaventura e da s. Tommaso, divenne la dottrina classica della teologia cattolica.Maturatasi fin dalla metà del sec. XII la speculazione sul significato intimo di Sacramento della Nuova legge  che implica il concetto inscindibile di segno e di causa (id efficit quod significat), esso fu applicato al M. si ebbe così l’occasione di affermare, in forma scientifica quanto la tradizione dei Padri, attinta dalle fonti bibliche, aveva  insegnato in modo semplice e popolare. L’applicazione  non avvenne senza contrasti: nel sec. XII Abelardo, pur riconoscendo al M. la dignità di magnæ rei Sacramentum, lo riteneva Sacramento non spirituale e pertanto « non alicuius meriti ad salutem, sed propter inconvenientiam ad salutem concessum » (Epitome theologiæ, 28: PL 178,  1738); mentre Ugo di S. Vittore lo considerava vera fonte di Grazia (De Sacramentis, II, 2, C. 8: ibid. 186, 496). – Questa oscillazione dottrinale continuò per un secolo (dal 1150 al 1250) presso canonisti e teologi e venne definitivamente eliminata dal chiaro insegnamento di S. Tommaso (IV Sent., d. 26, q. 2, a. 3), la cui efficacia non fu sminuita dalla tenace resistenza dell’Olivi e di Durando, poiché accolta nel Decretum prò Armenis (Denz.-U, 695e 702), divenne dottrina autentica della Chiesa. –  Già da secoli i romani pontefici avevano annoverato il M. tra i veri e propri Sacramenti della Nuova Legge:  nel Concilio Lateranense II (1139) e Veronese sotto  Lucio III (1184), nella Epist. ad Umbertum, (1198) e nella Professio fidei Waldensìbus præscripta (1208) di Innocenzo III, nella Professio fidei M. Paleologo proposita (1274) di Gregorio X, nella condanna dei Fraticelli da parte di Giovanni XXII ( Denz – U , 367, 402, 406, 424, 465, 490).

Errori protestanti. — È contro questo secolare e solenne insegnamento, che urtarono le audaci innovazioni di Lutero: « Mai si legge che abbia ricevuto la Grazia di Dio chi ha preso moglie. Anzi neppur il simbolo stato istituito da Dio nel M . . . I l M . dunque venga pure inteso come un’allegoria dell’unione di Cristo e della Chiesa, ma non come Sacramento istituito da Dio; è un Sacramento introdotto nella Chiesa degli uomini per ignoranze delle cose e delle parole » (De capti vitate Babylonica, 7, in M. Lutero, Scritti politici, a cura di G. Panzieri Saija, Torino 1949, pp. 314, 317). Per il « riformatore » il M. è una necessità assoluta della vita, come il bere e il mangiare, regolato quindi da leggi maramente umane, da ritenersi pertanto un affare esclusivamente civile: ein weltlich Ding (cf. A. Kawerau. Die reformation und die Ehe, Halle 1892; L. Cristiani, Du lutheranisme au protestantisme, Parigi 1911, pp. 181-82;  J. Pasquier, Luther, in DThC, IX, coll. 1276-82) . Queste idee furono  condivise da tutti i protestanti, particolarmente da Calvino (cf. Institutio christianæ religionis, 4, 19), che nel commento alla Lettera agli Efesini stigmatizzò l’insegnamento cattolico di crassæ ignorantiæ hallucinatio (Opera Calvini, in Corpus reformatorum, LXXIX, 227).

Concilio di Trento. – Contro questo svisamento della verità lottarono con ardore e erudizione i teologi cattolici del cinquecento (cf. V. Zollini, De Matrimonii Sacramento novatorum errores, catholicorum exsplanationes, Roma 1943 ; tesi inedita dell’Ateneo di Propaganda Fide) e emise le sue solenni definizioni di Concilio di Trento, sess. XXIV (11 nov. 1563), che vigorosamente affermò l’indole sacramentale del M., trattando inoltre delle sue proprietà (Denz – U, 969-82). Le limpide e precise formule di Trento, felice epilogo della tradizione cristiana, che tanta uggia recarono ai regalisti e ai febroniani, accesi « secolarizzatori » del M., vennero riprese e illustrate, secondo le esigenze dei tempi, da Pio VI contro Scipioni Ricci (Denz-U, 1556-60), da Pio IX, nel Syllabo (Ibid. 1765-76); da Leone XIII nell’enciclica Arcana divinæ sapientiæ, 10 febbr. 1880 (ed. F. Hürt, Roma 1942), di cui sono celebri la concisione del dettato e la robustezza delle formole; da Pio X, nel decreto Lamentabili contro i modernisti ( Denz-U, 2251); da Pio XI nella classica encicl. Casti connubii, 31 dic. 1930 (ed. ed. Hürt, Roma 1942).

NATURA DEL SACRAMENTO DEL M. –

Contratto e Sacramento. – Intorno alla natura di questo Sacramento, la questione fondamentale, da cui tutte le altre logicamente dipendono, riguarda il rapporto in cui si trovano il contratto e il Sacramento: se cioè il M. dei cristiani, prima di essere un Sacramento, debba considerarsi come un contratto, in modo da potere distinguere in esso due elementi successivi, il primo dei quali debba considerarsi come fondamento necessario del secondo; o se invece il contratto resti compenetrato totalmente dal Sacramento.La concezione che separa il contratto dal Sacramento entrò tardi nella dottrina, ed ebbe propugnatori fino al sec. XIX, per motivi non sempre di ordine teologico. Vi contribuirono alcuni teologi in buona fede, i quali non prevedevano certamente i frutti funesti che ne sarebbero derivati.Il primo fu Melchior Cano (Opera theologica, II, Roma 1900, cap. 8), secondo cui il contratto matrimoniale non è che la materia del Sacramento, al quale si aggiunge la benedizione del sacerdote ministro come forma sacramentale. Ciò conduceva direttamente a ritenere concepibile un vincolo matrimoniale che non fosse Sacramento: e lo affermava egli stesso senza ambagi. Il teologo spagnolo ebbe molti seguaci fino alle soglie del sec. XIX (p. es., Silvio, Estio, Tournely, lo stesso Benedetto XIV, prima che divenisse papa). Alla medesima conclusione conduceva la teoria del Vasquez e dei Salmanticensi, secondo cui i due elementi sono certamente legati tra di loro, ma il contratto conserva il suo valore naturale, nel caso che i fidanzati intendessero concludere solo un contratto: rimarrebbe quindi in loro potere separare il contratto dal Sacramento.Alcuni teologi e canonisti moderni, gallicani e giuseppinisti (p. es., M. A. de Dominis, Launoy, Nuytz), separavano ancor più il contratto dal Sacramento. Essi ritenevano che tra questi due elementi non esistessero che rapporti estrinseci, in quanto la benedizione del sacerdote si aggiungerebbe esteriormente al contratto. Per opera di questi teologi la distinzione dal terreno teologico scese su quello politico, prestando un valido argomento alle pretese dello Stato in materia matrimoniale. In tal maniera si favorì il M. civile moderno. – Secondo l’insegnamento cattolico, invece, nel M. cristiano il contratto e il Sacramento, pur essendo logicamente distinti, realmente si identificano, poiché « Cristo Signore elevò a dignità di Sacramento lo stesso contratto matrimoniale tra battezzati » (CIC, can. 1012 § 1). Il contratto, quindi, dal piano di officium naturæ viene innalzato all’ordine della Grazia, in maniera che questa sublimazione di valore compenetra il contratto integralmente. Non è concepibile una vivisezione, per cui il contratto rimanga nella zona di natura, e acceda, quasi a perfezionarlo, il Sacramento. Pertanto il CIC dichiara che « tra battezzati non può esistere valido contratto che non sia al tempo stesso Sacramento » (can. 1012 § 2). Tale dottrina, pur non essendo proposta nell’insegnamento ufficiale della Chiesa tamquam divinitus revelata, è però certa, anzi dalla S. R. Rota è stata giudicata proxima fidei (AAS, 11 [1919], p. 933). Del resto i Padri hanno ignorato la distinzione, come pure i teologi prima del sec. XVI. Inoltre Eugenio IV nel Decretum prò Armenìs implicitamente affermò che il contratto matrimoniale e il Sacramento nei fedeli non sono due cose distinte (Denz – U, 702) . L o stesso concetto è supposto dal Concilio di Trento, che attribuì valore sacramentale ai M. clandestini celebrati prima del decreto Tametsi (Denz-U, 990); ed è difeso validamente da Pio IX in un breve al Re di Sardegna (1852) e inoltre nell’allocuzione Acerbissimum vobiscum del 27 sett. 1852 ( Denz – U, 1640) e nella condanna degli errori contrari, contenuti nelle proposizioni 66 e 73 del Sillabo (Denz-U, 1766, 1773); da Leone XIII nell’encicl. Arcanum (10 febbr. 1880: Denz-U, n. 1854) e da Pio XI nell’encicl. Casti connubii (31 dic.1930: ibid., n. 2237).

Materia e forma. — Poiché il Sacramento non è altro che il contratto naturale elevato all’ordine della Grazia, ne segue che gli elementi costitutivi del Sacramento devono identificarsi con gli elementi costitutivi del contratto stesso. Il segno sensibile del Sacramento del M. pertanto è costituito dal reciproco consenso dei due sposi. Le parole che esprimono tale consenso vengono considerate come materia, in quanto contengono la donazione di una parte all’altra, e come forma, in quanto implicano l’accettazione di questa donazione. – Non si richiede tuttavia la formalità di determinate parole, perché Cristo non richiese come segno sensibile di questo Sacramento se non ciò che è necessario a costituire il contratto umano: è sufficiente pertanto qualsiasi segno, con cui venga espresso il consenso interno. – Tale dottrina, formulata dal Bellarmino, dal Suàrez, dal Sanchez, è ritenuta comunemente da quasi tutti i teologi moderni, e ricorre nella stessa cost. Paucis, del 19 marzo 1758, di Benedetto XIV. Non possono ad essa opporsi le parole del Concilio di Firenze, che stabilisce un triplice elemento per la costituzione del Sacramento « rebus tamquam materia, verbis tamquam forma et persona ministri », in base alle quali alcuni teologi sostennero che materia sono i corpi, e forma sono le parole con cui i contraenti si trasferiscono reciprocamente lo ius in corpus. Nel M. infatti, come nel Sacramento della Penitenza, non esiste una materia vera e propria. I corpi dei contraenti non costituiscono il contratto, ma ne sono piuttosto l’oggetto (materia remota circa quam). Il contratto viene concluso formalmente per il fatto che le parti esprimono esteriormente il loro consenso. In ciò consiste il segno sensibile del Sacramento del M. (cfr. s. Tommaso, IV Sent., d. 26, q. 1, a. I sol. 2). In un secondo momento vengono distinti, per analogia con gli altri Sacramenti, un elemento determinabile ed uno determinante, ossia una mutua donazione e una mutua accettazione del diritto sul corpo, rispettivamente chiamata materia e forma. – I teologi, che considerano il sacerdote come ministro del Sacramento del M., ritengono che il contratto sia la materia, e le parole della benedizione siano la forma che suggella e conferma il contratto. Già si è rilevato come tale opinione parta da un principio insostenibile. I sostenitori portano come argomento le parole del Rituale « Ego coniungo vos », ma occorre osservare come esse non esistono nei Rituali più antichi, e che il Concilio i Trento ne lasciò facoltativo l’uso e permise altre formule alquanto diverse (Denz-U, 990). Ciò non sarebbe stato stabilito, se la Chiesa avesse ravvisato in queste parole la forma sacramentale del M.

Ministri. – Ministri del Sacramento del M. sono i contraenti stessi: data l’inseparabilità del Sacramento dal contratto, chi fa il contratto fa anche il Sacramento. Il sacerdote celebra il rito, non il Sacramento; la sua assistenza è solo di testimone qualificato, che riceve il consenso degli sposi in nome della Chiesa. – I Padri misero in rilievo la benedizione della Chiesa e la richiesero, ma nulla fa supporre che nella benedizione abbiano visto la forma necessaria: essi infatti non negarono mai la validità dei M . clandestini, La Scolastica ebbe un identico punto di vista. S. Tommaso considerò la benedizione del sacerdote come un sacramentale. Il M . si compie con il mutuo consenso (Sum. Theol.., Suppl. q. 45, a. 5), e questa concezione presso gli scolastici è tanto più degna di nota, in quanto essi misero molto in risalto l’azione del sacerdote nel Sacramento. – Il Concilio di Trento suppose la medesima dottrina poiché, sebbene abbia imposto di contrarre davanti al parroco e a due testimoni, tuttavia non contestò la validità dei M . clandestini (Denz-U, 990. Pio X, nella cost. Provida (18 genn. 1906) sul M., richiese la forma tridentina, ma in caso di assenza prolungata del sacerdote, dichiarò che il M. può essere contratto validamente e lecitamente davanti a due testimoni laici (Denz-U, 2069).  Il Codice ha stabilito: « Matrimonium facit partium consensus in personas iure habiles legitime manifestatus »  (can. 1081) [Il matrimonio nasce dal legittimo consenso manifestato]. Pertanto la sentenza contraria di Melchior Cano, dei gallicani e giuseppinisti, che un tempo ebbe molti aderenti, è oggi totalmente abbandonata.

Soggetto. – Soggetto capace di ricevere « validamente » il M. è solo il battezzato, che non abbia impedimenti dirimenti. – Per ricevere « lecitamente e con frutto » il M., occorre l’assenza degli impedimenti impedienti e lo stato di Grazia. Il M . contratto con gli impedimenti impedienti è valido, ma la Grazia non viene conferita, a motivo dell’ostacolo posto dal peccato grave al momento della conclusione del contratto. Quanto allo stato di Grazia, esso è richiesto perché il M. è un Sacramento dei vivi; tale stato può essere procurato o con la contrizione perfetta oppure con la Confessione. Quantunque lo stato di Grazia ottenuto con il Sacramento della Penitenza sia prescritto solo per l’Eucaristia, il CIC tuttavia ordina che il parroco esorti i fidanzati a confessare i loro peccati ed a ricevere piamente la S. Comunione prima della celebrazione del M. (can. 1033). – Non può darsi M. valido tra battezzati al tempo stesso anche Sacramento: ciò si verifica anche quando i contraenti non sono consapevoli di questo, o vogliono contrarre M. valido con l’esclusione del Sacramento, oppure errano credendo che il M. non sia un Sacramento. Ricevono quindi il Sacramento non solo i Cattolici, ma anche gli eretici, gli scismatici e gli apostati. Su questo non c’è controversia. Dibattuta invece è la questione se si abbia il Sacramento quando due coniugi infedeli si convertono e si battezzano. Secondo alcuni, si richiede la rinnovazione, espressa o tacita, del consenso; secondo altri tale M. non può mai elevarsi alla dignità di Sacramento. Oggi prevale l’opinione, già difesa dal Bellarmino (De Matrim. Sacramento, cap. 5), secondo diventa Sacramento nell’atto stesso in cui i due coniugi ricevono il Battesimo. Il Bellarmino è stato seguito da Sànchez, Perrone, Pesch, Billot, Cappello, De Smet, Wernz-Vidal. Tale opinione ha un fondamento biblico, poiché le parole di s. Paolo agli Efesini (Eph. 5, 32) erano rivolte a cristiani, di cui molti certamente si erano sposati nell’infedeltà; è fondata anche teologicamente, se si considera che causa efficiente del vincolo sacramentale nel M. tra battezzati è il consenso naturale dei fedeli, e che pertanto al carattere sacramentale del M. degli infedeli si oppone soltanto la carenza del Battesimo; sopravvenendo questo, il vincolo, permanente, viene elevato a significare l’unione di Cristo con la Chiesa, e a tale M. nulla manca perché ad esso non debba applicarsi il principio generale: « Matrimonium inter christianos est Sacramentum ». Un nuovo consenso, necessario per avere il Sacramento,  è da escludersi, perché il Battesimo non scioglie, ma lascia in vigore il precedente M.; c’è sempre, quindi, un unico M. sempre perseverante, in cui l’originale consenso conserva sempre il suo valore.Diversa : conclusione prevale nel caso del M. contratto tra un battezzato e un infedele. Vi è chi ritiene che un tale M. sia un Sacramento per la parte fedele (Sasse, Rosset, Pesch). Altri ciò affermano, quando sia intervenuta la dispensa dall’impedimento relativo. Ma la sentenza più comune non ammette questo sdoppiamento: se Sacramento non c’è, com’è certissimo, per il coniuge infedele, così, per l’inscindibilità del contratto e del Sacramento non vi può essere neppure per il coniuge fedele (Wernz-Vidal, Cappello, Noldin, Gasparri).

Effetti. – Gli effetti di questo Sacramento consistono nella formazione del vincolo sacramentale, nell’aumento della Grazia santificante e nel diritto a tutte le grazie attuali necessari e per vivere cristianamente lo di M. – Il vincolo coniugale costituisce la res et Sacramentum; funge da causa dispositiva per l’infusione della Grazia, e preserva fino a quando non sia legittimamente disciolto. Il conferimento della Grazia santificante è verità di fede definita dal Concilio di Trento nella sess. VII, can. 6, 8 (Denz – U, 849, 851) e XXIV, can. 1 (Denz. – U, 791). Si tratta della Grazia seconda perché il M., simboleggiando l’unione di Cristo con la Chiesa, è un Sacramento dei vivi. Quando è ricevuto consapevolmente in stato di peccato mortale, è valido se ci sono tutte le altre condizioni, ma illecito. La Grazia in tal caso rivive in seguito, quando vien tolto l’ostacolo. Se invece è ricevuto in stato di peccato inconsapevolmente, produce « per accidens » la prima giustificazione per mezzo dell’attrizione. – Il diritto alle grazie attuali speciali costituisce uno degli aspetti della Grazia sacramentale, propria di questo sacramento, per mezzo della quale i coniugi vengono messi in grado di raggiungere le alte finalità della vita matrimoniale. Già s. Paolo accenna all’effetto negativo della moderazione della concupiscenza: « Per evitare l’impudicizia, ognuno abbia la sua moglie, e ogni donna abbia il suo marito » (I Cor. VII, 2 ; cf. I Thess. IV, 4 – 5). Il Concilio di Trento ricorda inoltre, tra gli effetti operati dal Sacramento, il perfezionamento dell’amore naturale e il consolidamento dell’unità indissolubile, dai quali gli sposi sono santificati, allo stesso modo che il vincolo che unisce Cristo con la Chiesa è vincolo di carità e santità (Denz–U, 969). La Casti connubii parla di vivere il M. « la cui efficace virtù, sebbene non imprima il carattere, è tuttavia permanente ». A questo riguardo l’enciclica commenta un testo di S. Roberto Bellarmino: « Il Sacramento del M. è simile all’Eucaristia, la quale è Sacramento non solo mentre si fa, ma anche mentre perdura; perché, fin quando vivono i coniugi, la loro unione è sempre il Sacramento di Cristo e della Chiesa » (De Matr., II, 6). Perciò tutti gli atti che traducono nella pratica, che continuano e ratificano nei particolari il dono vicendevole, ossia tutto quello che tra gli sposi è manifestazione dell’amore santificato, è fonte di Grazia. Per tal modo lo stato del M . può essere eminentemente santificante.

Poteri della Chiesa. – Il M. dei fedeli è sempre Sacramento, e il potere di amministrare i Sacramenti fu conferito esclusivamente da Gesù Cristo alla sua Chiesa; ad essa pertanto compete il diritto proprio, esclusivo, indipendente, di determinare quanto è necessario per la valida e lecita celebrazione del M. cristiano (can. 1038). – In particolare, rientra nei poteri specifici della Chiesa: a) interpretare e dichiarare in forma autentica ed esclusiva (non derogare e dispensare senza espresso mandato di Dio) il diritto divino, in virtù della sua potestà di magistero (can. 1322); b) determinare gli impedimenti dirimenti e impedienti, e prescrivere le condizioni richieste per la lecita e valida celebrazione del M.; c) procedere e sentenziare su tutte le cause matrimoniali circa l’esistenza, la validità, gli effetti e la soluzione degli sponsali e del M. stesso, e circa la separazione coniugale; d) costringere i coniugi delinquenti, anche con pene, all’osservanza delle sue leggi e delle sue sentenze. Questi poteri della Chiesa indirettamente si estendono anche sull’infedele, qualora questi voglia contrarre M. con un battezzato; onde la legge che obbliga direttamente uno dei contraenti, vincola indirettamente anche l’altro. Nel caso, il Battesimo di una parte basta a determinare la competenza della Chiesa in merito. – Da ciò segue che allo Stato non compete potere alcuno sulla liceità o validità del M. dei fedeli, per i quali il Sacramento non si distingue dal contratto. Esso può unicamente: a) fissare certe condizioni, obbligatorie civilmente, per chi voglia contrarre M., purché ciò sia richiesto dal bene pubblico e non contrasti con il diritto divino e canonico; b) legiferare sugli effetti temporali, separabili dalla sostanza del M. In questo la sua competenza è propria ed esclusiva. L’esercizio di questo potere della Chiesa già si riscontra in s. Paolo (I Cor. 5); fin dai primi secoli la Chiesa affermò questi suoi diritti, indipendenti dal potere civile, così che durante il medioevo il diritto canonico divenne prevalente, se non esclusivo. Non mancarono resistenze da parte dei principi, ed errori da parte dei canonisti e teologi regalisti. I protestanti, considerando il M. non più come Sacramento ma come semplice contratto, lo fecero dipendere esclusivamente dalla giurisdizione civile. Ma non mancarono teologi (Sànchez, Soto, Billuart) che, pur tenendo inseparabile per i fedeli il contratto dal Sacramento, concedevano ad ambedue le autorità il diritto proprio sul M., a meno che la Chiesa non volesse riservarsi, come si riservò, il diritto di stabilire l’esclusività. Ma anche in questo caso si concedeva allo Stato il diritto di stabilire impedimenti proibenti, riservando alla Chiesa i dirimenti. – La dottrina cattolica emerge da numerose ed esplicite dichiarazioni dell’insegnamento ufficiale della Chiesa: Concilio Tridentino (sess. XXIV, cann. 3, 4, 9, 12); Pio VI, Errores Synodi pistoriensis, propp. 58-60 (Denz – U, 1558 – 60); Breve ad archiep. Trevirensem, 1782; Ep. Ad episc. Motulensem, 1788; Pio IX, Syllabus, propp. 68-70 ( Denz – U, 1768-70); Leone XIII, encicl. Arcanum; Pio XI, encicl. Casti connubii; CIC, cann. 1016, 1038, 1040, 1960-61.

OMELIA DI NATALE a GRAND STRAND – USA –

“Sulla Natività di Cristo e la verginità della sua Madre Santissima “

Un sermone ai cattolici di rito orientale di FatherUK., sacerdote di Sua Santità, Gregorio XVIII

Santo Natale, 7 gennaio 2018, The Grand Strand, SC, USA

Sia benedetta la Natività del nostro Salvatore.

Questa festa è tanto importante per ogni cattolico, poiché, grazie alla Natività, prendiamo parte al Mistero dell’Incarnazione della Seconda Persona della Santissima Trinità, che mediante questo Mistero è diventato così vicino a noi. – Cosa dovremmo ricordare durante la celebrazione della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo? Ebbene, troviamo la risposta nel Santo Vangelo di San Matteo:

Pariet autem filium: et vocabis nomen ejus Jesum : ipse enim salvum faciet populum suum a peccatis eorum”. (Ella partorirà un figliuolo, cui tu porrai il nome Gesù; imperocchè egli libererà il suo popolo dai suoi peccati.) –  (San Matteo 1:21).

“Ecce virgo in utero habebit, et pariet filium: et vocabunt nomen ejus Emmanuel, quod est interpretatum Nobiscum Deus.” – (Ecco, una vergine sarà incinta e partorirà un figliuolo: e lo chiameranno per nome Emmanuele: che, interpretato, significa Dio con noi) (San Matteo 1:23).

 “Et non cognoscebat eam donec peperit filium suum primogenitum : et vocavit nomen ejus Jesum.” – (Ed egli non la conosceva fino a quando partorì il suo figliuolo primogenito; e lo chiamò con il nome Gesù)( San Matteo 1:25).

– Innanzitutto dunque vediamo che lo scopo della Natività, o il primo Avvento di Cristo, era quello di “salvare il suo popolo dai suoi peccati” e divenire il “Dio con noi”: Emmanuel.

Sin dal primiero peccato  di Adamo ed Eva, tutta la razza umana è stata contaminata dal peccato originale. A causa del peccato originale, Adamo ed Eva, e tutta l’umanità attraverso di loro, persero la loro “verginità spirituale” e conseguentemente persero il dono della vita eterna con il loro Creatore. I loro corpi  andarono così soggetti alla debolezza e alla decadenza estrema … la loro vita sulla terra divenne triste e difficile:

… maledicta terra in opere tuo : in laboribus comedes ex ea cunctis diebus vitae tuae…pulvis es et in pulverem reverteris. – (maledetto sia il suolo per causa tua: con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita … polvere tu sei e in polvere tornerai!”.)

Ciò accadde perché Adamo ed Eva accettarono volontariamente la menzogna del serpente, cioè del diavolo … essi trasgredirono imprudentemente l’unico comandamento che Dio aveva loro dato: “Di ogni albero del paradiso tu mangerai; ma dell’albero della conoscenza del bene e del male, non mangerai. Perché in qualunque giorno tu ne mangerai, tu morirai “( Genesi 2: 16-17). [Ex omni ligno paradisi comede; de ligno autem scientiae boni et mali ne comedas : in quocumque enim die comederis ex eo, morte morieris.]

Essendo giusto Giudice, Dio ha dato loro la punizione, ma allo stesso tempo ha dato loro la possibilità di essere salvati. Dio diede loro il Salvatore, il Quale “salverà il suo popolo dai suoi peccati”. [salvum faciet populum suum a peccatis eorum]. Ogni uomo ha la possibilità di essere salvato, ma sfortunatamente non tutti gli uomini sfruttano questa possibilità. Solo il suo popolo sarà salvato.

Ma chi sono i suoi?

Dio fondò la Sua unica Chiesa su Pietro Apostolo (San Matteo XVI:18); pertanto gli uomini che appartengono alla Sua Chiesa, questi sono il Suo popolo … ed usano prudentemente la possibilità, data loro da Dio.

Quando le persone diventano membri della Chiesa di Dio, fondata su San Pietro, non hanno solo la possibilità, ma la vera opportunità di essere salvati, perché il Fondatore della Chiesa, l’Emmanuel“Dio con noi”, in effetti è sempre con noi, cioè con la sua Chiesa, alla quale ha fornito  numerosi mezzi necessari per la salvezza, specialmente i SS. Sacramenti. Quando il nostro Salvatore disse ai Suoi Apostoli che sarebbe stato con loro “fino al compimento del mondo” ( San Matteo XXVIII: 19-20), lo disse non solo ai suoi Apostoli, sebbene ad essi per primi, ma a tutta la Chiesa, attraverso di loro. – Per essere salvati è assolutamente necessario essere membri della Chiesa di Cristo, non importa che uno sia chierico o laico. E se si vuole essere salvati, non si deve solo essere parte del suo popolo, cioè appartenere alla sua Chiesa costruita su San Pietro, ma si deve fare tutto quanto il nostro Salvatore ha comandato.

(Sulla perpetua verginità della madre di Dio)

In secondo luogo, durante la festa della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, professiamo la nostra fede nella perpetua Verginità di sua Madre, Maria. Il Profeta Isaia e San Matteo Evangelista dicono le stesse parole: “Ecco, una vergine sarà incinta e partorirà un figlio”. Credere nella Verginità Perpetua della Madre di Dio è parte integrante della nostra salvezza. – Molti eretici in tutta la storia del Cristianesimo, fino ai nostri giorni, rifiutano la Verginità perpetua di Maria … e si sottomettono ad una menzogna del diavolo. La “logica” del diavolo è infatti questa: – se la madre è una “non vergine”, allora anche il figlio è un “non-innocente” – ed in tal caso nessuno è obbligato ad osservare i comandamenti di un figlio “peccaminoso”. – Ma la Parola di Dio insegna che la Madre del Salvatore è “la Vergine”, e suo Figlio, il Salvatore, è “l’Innocente”. Lui stesso, essendo l’Innocenza stessa, desiderava che anche sua Madre fosse Vergine. San Giuseppe “non la conosceva” poiché era “un uomo giusto” e obbediva alla volontà ed ai comandamenti di Dio, come sappiamo dalla Sacra Scrittura. – Se qualcuno non crede nella Perpetua Verginità della Madre di Dio, non sarà salvato. Perché? Perché la Volontà di Dio ha comandato che la Beata Vergine Maria fosse uno strumento molto speciale di salvezza … la Chiesa infallibilmente insegna che la Perpetua Verginità di Maria è dottrina “de fide”!

(I tre saggi)

Un’altra lezione molto importante della Natività è la storia dei Tre Saggi che vennero  dall’Oriente a Betlemme. Prima che arrivassero dal Bambino Gesù, essi erano seguaci di un culto pagano, l’astrologia. Uno degli inni natalizi che cantiamo, dice che prima di Cristo adoravano le stelle, ma dopo essere venuti a visitare Cristo, furono convertiti e diventarono seguaci e adoratori dell’unica “Stella, il Sole della Verità”, come la Chiesa chiama metaforicamente Gesù Cristo. – Prima di Cristo essi adoravano le creature. Ma dopo il loro incontro con il Salvatore, adorarono solo il Creatore e non tornarono mai all’adorazione delle creature. – Prima di Cristo erano maghi pagani, ma dopo l’incontro con Gesù Cristo in persona, divennero dei cristiani savi. – Prima di Cristo erano in amicizia con i rappresentanti delle false autorità, come Erode –  questo era normale per loro – per comunicare con coloro che erano del loro circolo … ma dopo aver incontrato il Salvatore, abbandonarono la loro amicizia con le false autorità, iniziando  la loro amicizia esclusivamente con la Vera Autorità: Gesù Cristo. “E avendo ricevuto una risposta nel sonno che non dovevano tornare ad Erode, tornarono indietro nel loro paese” (Et responso accepto in somnis ne redirent ad Herodem, per aliam viam reversi sunt in regionem suam.) (San Matteo II:12).  – Quindi, durante la celebrazione annuale della Natività dovremmo accettare la Verginità della Madre di Dio, come fece San Giuseppe. E poi, proprio come i Re Magi, non dovremmo mai tornare ai culti pagani! Poiché abbiamo trovato Gesù Bambino e lo abbiamo accettato come Vero Dio, non dovremmo tornare mai più dalle false autorità, come Erode allora, Wojtyła, Ratzinger o Bergoglio oggi, perché l’amicizia con loro è inutile e dannosa. – Abbiamo la sempre Vergine Madre di Dio, abbiamo gli Angeli di Dio, abbiamo San Giuseppe, abbiamo i Re Magi: Essi sono tutti membri dell’unica Chiesa di Gesù Cristo, che Egli stesso ha fondata su San Pietro. E tutti loro sono i nostri veri amici e mecenati in preghiera davanti a Dio Salvatore, di cui celebriamo la Natività. –  Imitiamo la loro fede e chiediamo loro di aiutarci a rimanere nello stato di verginità spirituale, che è assolutamente necessario per la salvezza.

Sia benedetta la Natività di Cristo Bambino e la Sua sempre Vergine Madre!

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ALLEANZA DI CRISTO E DELLA CHIESA

ALLEANZA DI CRISTO E DELLA CHIESA

[Dom P. Guéranger: l’Anno Liturgico, vol. I, Ed. Paoline, 1957 – impr.]

Il grande Mistero dell’Alleanza del Figlio di Dio con la sua Chiesa universale, rappresentata nell’Epifania dai tre Magi, fu intravisto in tutti i secoli che precedettero la venuta dell’Emmanuele. Dapprima lo fece risuonare la voce dei Patriarchi e dei Profeti, e la stessa Gentilità vi rispose spesso con un’eco fedele. – Fin dal giardino delle delizie, Adamo innocente esclamava, alla vista della Madre dei viventi uscita dal suo costato: « Ecco l’osso delle mie ossa, la carne della mia carne: l’uomo lascerà il padre e la madre, e si unirà alla propria sposa: e saranno due in una sola carne ». La luce dello Spirito Santo penetrava allora l’anima del nostro progenitore; e – secondo i più profondi interpreti dei misteri della Scrittura, Tertulliano, sant’Agostino, san Girolamo – celebrava l’Alleanza del Figlio di Dio con la Chiesa, uscita attraverso l’acqua e il sangue dal suo costato squarciato sulla croce; con la Chiesa, per il cui amore egli discese dalla destra del Padre, e umiliandosi fino alla forma di servo, sembrava aver lasciato la Gerusalemme celeste per abitare in mezzo a noi in questa dimora terrena. – Il secondo padre del genere umano, Noè, dopo aver visto l’arcobaleno che annunciava nel cielo il ritorno dei favori di Dio, profetizzò sui suoi tre figli l’avvenire del mondo. Cam aveva meritato la disgrazia del padre; Sem sembrò per un momento il preferito: era destinato all’onore di veder uscire dalla sua stirpe il Salvatore della terra; tuttavia il Patriarca, leggendo nell’avvenire, esclamò: « Dio allargherà l’eredità di Jafet, ed abiterà sotto le tende di Sem ». E così vediamo a poco a poco nel corso dei secoli l’antica Alleanza con il popolo d’Israele indebolirsi e quindi rompersi; le stirpi semitiche vacillare e presto cadere nell’infedeltà, e infine il Signore abbracciare sempre più strettamente la famiglia di Jafet, la gentilità occidentale, così a lungo abbandonata, porre per sempre nel suo seno la Sede della religione, e costituirla a capo di tutta la specie umana. – Più tardi, è Dio stesso che si rivolge ad Abramo, e gli predice l’innumerevole generazione che deve uscire da lui. « Guarda il cielo – gli dice – conta le stelle, se puoi: così sarà il numero dei tuoi figli ». Infatti – come ci insegna l’Apostolo – la famiglia uscita dalla fede del Padre dei credenti doveva essere più numerosa di quella ch’egli aveva generata attraverso Sarà; e tutti quelli che hanno ricevuto la fede del Mediatore, tutti quelli che, avvertiti dalla Stella, sono venuti a lui come al loro Signore, tutti questi sono figli di Abramo. – Il mistero compare ancora nel seno stesso della sposa di Isacco. Essa sente intimorita due figli combattersi nelle sue viscere. Rebecca allora si rivolge al Signore, e si sente rispondere: « Due popoli sono nel tuo seno: essi si attaccheranno l’un l’altro; il secondo sopraffarrà il primo, e il maggiore servirà il minore ». Orbene, il minore, questo figlio indomito, chi è – secondo l’insegnamento di san Leone e del Vescovo d’Ippona – se non quel popolo gentile che lotta con Giuda per avere la luce, e che, semplice figlio della promessa, finisce con l’avere la meglio sul figlio secondo la carne? – Ora è Giacobbe che, sul letto di morte, circondato dai suoi dodici figli, padri delle dodici tribù d’Israele, affida in maniera profetica a ciascuno il suo compito nell’avvenire. Il preferito è Giuda, perché egli sarà il re dei fratelli, e dal suo sangue glorioso uscirà il Messia. Ma l’oracolo finisce per essere tanto terribile per Israele quanto consolante per tutto il genere umano. « Giuda, tu reggerai lo scettro; la tua stirpe sarà una stirpe di re ma soltanto fino al giorno in cui verrà Colui che deve essere mandato, Colui che sarà l’atteso delle genti ». – Dopo l’uscita dall’Egitto, quando il popolo d’Israele entrò in possesso della terra promessa, Balaam esclamava, con lo sguardo rivolto verso il deserto popolato delle tende e dei padiglioni di Giacobbe: « Io lo vedrò, ma non ancora; lo contemplerò, ma più tardi. Una Stella uscirà da Giacobbe; un reame si leverà in mezzo a Israele ». Interrogato ancora dal re infedele, Balaam aggiunse: « Oh, chi vivrà ancora quando Dio farà queste cose? Verranno dall’Italia su delle galee, sottometteranno gli Assiri, devasteranno gli Ebrei, e infine essi stessi periranno ». Ma quale impero costituirà questo impero di ferro e di carneficine? Quello di Cristo che è la Stella, e che è il solo Re per sempre. – David è pregno dei presentimenti di quel giorno. Ad ogni pagina celebra la regalità del suo figlio secondo la carne; ce lo mostra armato di scettro e cinto di spada, consacrato al padre dei secoli e nell’atto di estendere il suo dominio dall’uno all’altro mare; quindi conduce ai suoi piedi i Re di Tarsi e delle isole lontane, i Re d’Arabia e di Saba, i Principi d’Etiopia. E celebra le loro offerte d’oro e le loro adorazioni. – Nel suo meraviglioso epitalamio, l’autore del Cantico dei Cantici passa quindi a descrivere le delizie dell’unione celeste dello Sposo divino con la Chiesa; e questa Sposa fortunata non è la Sinagoga. Cristo la chiama per incoronarla; ma la sua voce si rivolge a colei che era al di là dei confini della terra del popolo di Dio. « Vieni – egli dice – mia sposa, vieni dal Libano; scendi dalle vette di Amana, dalle alture di Samir e d’Ermon; esci dagli impuri rifugi dei draghi, lascia le montagne abitate da leopardi ». E la figlia del Faraone non teme di dire: « Sono nera», perché può aggiungere che è stata resa bella dalla grazia del suo Sposo. – Si leva quindi il Profeta Osea, e dice in nome del Signore: « Ho scelto un uomo, e d’ora in poi non mi chiamerà più Baal. Toglierà dalla sua bocca il nome di Baal, e non se ne ricorderà più. Mi unirò a te per sempre, o uomo nuovo! Seminerò la tua stirpe per tutta la terra; avrò pietà di colui che non aveva conosciuto la misericordia; a quello che non era il mio popolo dirò: Popolo mio! E mi risponderà: Dio mio! ». – Anche Tobia a sua volta profetizzò eloquentemente, dal seno della cattività, ma la Gerusalemme che deve ricevere i Giudei liberati da Ciro scompare ai suoi occhi, alla visione d’un’altra Gerusalemme più splendente e più bella. « I nostri fratelli che sono dispersi – egli dice – ritorneranno nella terra d’Israele; la casa di Dio sarà ricostruita. Tutti quelli che temono Dio verranno a rifugiarvisi; anche i Gentili lasceranno i loro idoli, e verranno a Gerusalemme, e vi abiteranno, e tutti i re della terra accorsi per adorare il Re di Israele vi fisseranno contenti la loro dimora ». E se le genti debbono essere frantumate nella giustizia di Dio per i loro delitti, è solo per arrivare quindi alla felicità d’una alleanza eterna con Dio. Perché ecco quanto Egli stesso dice per bocca del suo Profeta Sofonia: « La mia giustizia sta nel radunare le genti e riunire in fascio i regni; ed affonderò su di esse la mia indignazione e il fuoco della mia ira; e tutta la terra ne sarà divorata. Ma poi darò ai popoli una lingua eletta, affinché invochino tutti il Nome del Signore, e portino tutti insieme il mio giogo. Fino al di là dei fiumi dell’Etiopia essi m’invocheranno, e i figli delle mie stirpi disperse verranno a portarmi degli splendidi doni ». – Il Signore aveva già proclamato i suoi oracoli di misericordia per bocca di Ezechiele: « Un solo Re comanderà a tutti, dice Dio, non vi saranno più due nazioni nè due regni. Essi non si contamineranno più coi loro idoli; nei luoghi stessi dove hanno peccato, Io li salverò; e saranno il mio popolo, e io sarò il loro Dio. Non vi sarà più che un solo Pastore per tutti loro. Farò con essi un’alleanza di pace, un patto eterno; li moltiplicherò, e il mio santuario sarà per sempre in mezzo ad essi ». – Per questo Daniele, dopo aver predetto gli Imperi che l’Impero Romano doveva sostituire, aggiunge: « Ma il Dio del cielo susciterà a sua volta un Impero che non sarà mai distrutto, e il cui scettro non passerà a nessun altro popolo. Questo impero sorpasserà tutti quelli che l’hanno preceduto, e durerà in eterno ». – Quanto ai perturbamenti che devono precedere l’avvento del Pastore unico e di quel santuario eterno che deve sorgere nel centro stesso della Gentilità, Aggeo li predice in questi termini: « Ancora un poco, e scuoterò il cielo, la terra e il mare; mescolerò tutte le genti; e allora verrà il Desiderato di tutte le genti ». Bisognerebbe citare qui tutti i Profeti per dare la rappresentazione completa del grande spettacolo promesso al mondo dal Signore il giorno in cui, ricordandosi dei popoli, doveva chiamarli ai piedi del suo Emmanuele. – La Chiesa ci fa ascoltare Isaia nell’Epistola della Festa e il figlio di Amos ha superato i suoi fratelli. Se ora prestiamo l’orecchio alle voci che salgono verso di noi dal seno della Gentilità, sentiamo quel grido d’attesa, l’espressione di quel desiderio universale che avevano annunciato i Profeti ebrei. La voce delle Sibille ridestò la speranza nel cuore dei popoli, e perfino nel cuore della stessa Roma il Cigno di Mantova (P. Virgilio M.) consacra i suoi versi più belli a riprodurre i loro consolanti oracoli: « È giunta – egli dice – l’ultima era, l’era predetta dalla Vergine di Cuma; sta per aprirsi una nuova serie di anni, e una nuova stirpe scende dal cielo. Alla nascita di questo Bambino, l’età del ferro finisce, e un popolo d’oro si appresta a scoprire la terra. Saranno cancellate le tracce dei nostri delitti, e svaniranno le paure che opprimono il mondo ». – E come per rispondere con sant’Agostino e tanti altri santi Dottori ai vani scrupoli di coloro che esitano a riconoscere la voce delle tradizioni antiche che si manifesta per bocca delle Sibille, Cicerone, Tacito, Svetonio, filosofi e storici gentili vengono ad attestarci che il genere umano, ai loro tempi, aspettava un Liberatore; che questo Liberatore doveva uscire non soltanto dall’Oriente, ma dalla Giudea; che erano sul punto di avverarsi i destini d’un Impero che doveva contenere il mondo intero.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: Breve « Neminem fugit »

In questa domenica dedicata alla festa della Sacra Famiglia di Nazaret, leggiamo parte della lettera Apostolica di S. S. LEONE XIII “Neminem fugit” nella quale appunto si elogia la Sacra Famiglia invitando tutti: padri, madri, figli, operai, ricchi, etc., a trarne esempio per la propria vita e renderla modello di operato cristiano. Quanto distante è il modello della famiglia cristiana dipinto nel quadro della povera abitazione di Nazaret, dai fallaci ed ingannevoli modelli prospettati dalle moderne ideologie (?!?) sostenute dai falsi prelati del satanico “novus ordo” modernista della setta vaticana degli impostori “marrani”, che propongono: “secondi matrimoni”, “divorzi cattolici brevi”, “unioni di fatto” compresi i rapporti impuri sodomitici contro natura, da sempre condannati dalla Chiesa Cattolica come “peccato che grida vendetta agli occhi di Dio”. Questa sovversione luciferina dei valori naturali, divini, ed ecclesiastici, viene sfacciatamente sbandierata come “rinnovamento” nella Chiesa, senza specificare però che si tratta della falsa chiesa dell’uomo, quella insediata in modo truffaldino il 26 ottobre del 1958 con il colpo di mano della massoneria degli Illuminati, diretta dal B’nai B’rith e dal Gran Kahal [evento ufficialmente rifiutato ma noto oramai a tutti: ad ipovedenti per convenienza, a miopi volontari, agli affetti da cataratta gnostica marcescens, ai cani in talare muti e dormienti, ai mercenari tronfi e grassi che aprono le porte ai lupi famelici mentre essi si affannano a contendersi l’osso nella scodella, agli adepti vari tra i quali i falsi tradizionalisti di ogni risma, gallicani, fallibilisti, sedevacantisti scismatici ed eretici tesisti]. – Per le orecchie cattoliche del pusillus grex, questa lettera è musica soave che dalle orecchie passa direttamente al cuore ed all’anima che vibrano all’unisono di intensa commozione perché sentono affermare e risuonare la VERITA’, l’unica Verità, la sola Verità che l’Uomo-Dio, Egli stesso VERITA’, Via di salvezza e Vita, ha da sempre insegnato attraverso la sua unica e vera CHIESA, la Chiesa Una, Santa, Cattolica Apostolica Romana, Sposa mistica di Cristo, Maestra infallibile e luce di tutti i popoli e di ogni uomo che viene in questo mondo …

LEONE XIII

Breve « Neminem fugit » 14 junii 1892 [ASS 25, 8-10]

Ex Lítteris Apostólicis Leónis Papæ décimi tertii

… Allorché giunse il tempo fissato dai suoi decreti per il compimento della grand’opera dell’umano riscatto, che i secoli da tempo attendevano, il Dio di misericordia ne dispose in tal guisa l’ordine e l’economia, che gl’inizi di quest’opera offrissero al mondo l’augusto spettacolo d’una Famiglia divinamente costituita, nella quale tutti gli uomini potessero contemplare l’esemplare più perfetto della società domestica e d’ogni virtù e santità. Tale fu infatti questa famiglia di Nazaret, in cui, prima d’irradiare su tutte le nazioni lo splendore della sua piena luce, il Sole di giustizia, cioè il Cristo Dio nostro Salvatore, dimorò nascosto colla Vergine sua Madre e Giuseppe, uomo santissimo, che ricopriva a riguardo di Gesù l’ufficio di padre. Quanto alle mutue prove d’amore, alla santità di costumi, all’esercizio della pietà nella società famigliare e nelle relazioni abituali di quelli che vivono sotto un medesimo tetto, non si può senza verun dubbio trovare a celebrare alcuna virtù che non rifulgesse in sommo grado in questa sacra Famiglia destinata a divenire il modello di tutte le altre. E la Provvidenza la stabilì così nel suo disegno pieno di bontà, perché tutti i cristiani, di qualsiasi condizione o patria, possano facilmente, se la riguardano con attenzione, avere e l’esempio di ogni virtù e un invito a praticarla. – I padri di famiglia hanno sicuramente in Giuseppe un modello ammirabile della vigilanza e sollecitudine paterna: le madri hanno nella santa Vergine, Madre di Dio, un esempio insigne di amore, di rispetto modesto e della sottomissione d’un’anima di fede perfetta: i figli di famiglia hanno in Gesù, sottomesso ai suoi genitori, un divino esempio d’obbedienza d’ammirare, onorare, imitare. Quelli che sono nati nobili, apprenderanno da questa Famiglia di sangue reale a conservare la moderazione nella prosperità e la dignità nelle afflizioni: i ricchi riconosceranno a questa scuola quanto siano da stimarsi meno le ricchezze che le virtù. Gli operai poi e tutti quelli che soffrono tanto per le angustie del sostegno d’una famiglia e d’una condizione povera, se guardano ai membri santissimi di questa società domestica, non mancherà loro né motivo né occasione di rallegrarsi della sorte loro toccata piuttosto che di rattristarsene. Difatti le fatiche loro sono ad essi comuni colla Sacra Famiglia, e comuni con essa le cure della vita quotidiana: anche Giuseppe dové provvedere guadagnandosi il pane, al sostegno dei suoi; e anzi, le stesse mani divine s’esercitarono al lavoro di un’arte meccanica. Non è dunque a stupire se uomini sapientissimi aventi copiose ricchezze, abbiano voluto rinunziarvi per scegliere la povertà e trovarsi uniti con Gesù, Maria e Giuseppe. – Per tutti questi motivi a buon dritto il culto della Sacra Famiglia, prontamente affermatosi fra i cattolici, ogni giorno più prende sviluppo. Come lo provano sia le associazioni cristiane istituite sotto il nome della Sacra Famiglia, sia gli onori singolari che le furono resi, e soprattutto i privilegi e favori spirituali accordati dai nostri predecessori per eccitare verso di essa lo zelo della pietà. Questo culto pertanto fu in grande onore fin dal secolo XVII, e propagato ovunque in Italia, Francia e Belgio si sparse quasi in tutta Europa; quindi valicate le immensità degli Oceani, si estese nella regione del Canada nell’America per fiorirvi sotto i più felici auspici. Niente infatti si può trovare di più salutare e più utile per le famiglie cristiane che l’esempio della Sacra Famiglia, la quale abbraccia la perfezione e l’insieme di tutte le virtù domestiche. Implorati così in seno alle famiglie, Gesù, Maria e Giuseppe verranno in loro aiuto, vi conserveranno la carità, vi regoleranno i costumi e ne provocheranno; membri ad imitarne la virtù e addolciranno o renderanno sopportabili le mortali prove che ci minacciano da ogni parte.

FESTA DELLA SACRA FAMIGLIA

FESTA DELLA SACRA FAMIGLIA

[Dom P. Guèranger: l’ANNO LITURGICO, vol. I, Ed. Paoline, 1957 – impr.]

Scopo di questa festa.

Fino a pochi anni fa era la Regalità di Cristo, il suo impero eterno che la Liturgia cantava in questa Domenica, unendo i suoi cantici a quelli dei Cori angelici nell’adorazione del Dio fatto uomo (Introito della Messa della Domenica nell’Ottava della Epifania). Ma la Chiesa, guidata dallo Spirito Santo e dalla sua materna sollecitudine, ha pensato che poteva essere opportuno invitare le generazioni del nostro tempo a considerare oggi le mutue relazioni di Gesù, di Maria e di Giuseppe, per raccogliere le lezioni che esse contengono e trarre profitto dai soccorsi così efficaci che offre il loro esempio (Martirologio romano). Il fatto che nel Messale è assegnato lo stesso brano evangelico alla Domenica nell’Ottava dell’Epifania e alla recente festa della Sacra Famiglia, non è stato senza influsso – si può supporre – sulla scelta del posto che occupa ormai nel calendario la nuova solennità. Questa d’altronde non distoglie completamente il nostro pensiero dai misteri del Natale e dell’Epifania: la devozione alla sacra Famiglia non è forse nata a Betlemme, dove Maria e Giuseppe ricevettero dopo Gesù, gli omaggi dei pastori e dei Magi? E se l’oggetto dell’odierna festa sorpassa i primi momenti dell’esistenza terrena del Salvatore e si estende ai trenta anni della sua vita nascosta, non si trovano forse già presso la mangiatoia alcuni dei suoi aspetti più significativi? Gesù, nella volontaria debolezza in cui lo pone il suo stato d’infanzia, si abbandona a coloro che i disegni del Padre suo hanno affidato alla sua custodia; Maria e Giuseppe esercitano, nell’umile adorazione riguardo a Colui che ha loro dato l’autorità, tutti i doveri che impone la loro sacra missione.

Modello del focolare cristiano.

Più tardi il Vangelo, parlando della vita di Gesù fra Maria e Giuseppe a Nazareth, la descriverà con queste sole parole: « Ed era loro sottomesso. E la madre custodiva nel suo cuore tutte queste cose, e Gesù cresceva in sapienza, in età e in grazia davanti a Dio e davanti agli uomini» (Lc. 2, 51, 52). Per quanto breve sia in questo caso il testo sacro, esso scopre tuttavia al nostro sguardo una luminosa visione d’ordine e di pace, nell’autorità, nella sottomissione, nella dipendenza e nei mutui rapporti. La santa casa di Nazareth si offre a noi come il modello perfetto del focolare cristiano. Qui Giuseppe comanda con la calma e con la serenità, perché ha coscienza, agendo in tal modo, di fare la volontà di Dio e di parlare in suo nome. Sa che riguardo alla sua castissima Sposa e al suo divin Figlio egli è molto inferiore, tuttavia la sua umiltà gli fa accettare, senza timore né turbamento, il compito che gli è stato affidato da Dio di essere il capo della sacra Famiglia, e come un buon superiore non pensa a far uso dell’autorità se non per adempiere più perfettamente l’ufficio di servitore, di suddito, di strumento. Maria, come conviene alla donna, rimane modestamente sottomessa a Giuseppe e, a sua volta, adorando Colui cui essa comanda, dà senza esitare gli ordini a Gesù nelle mille occasioni che presenta la vita di famiglia, chiamandolo, chiedendo il suo aiuto, affidandogli questa o quella occupazione, come fa una madre con il figlio. E Gesù accetta umilmente tale soggezione; si mostra sollecito ai minimi desideri dei genitori, docile ai loro minimi ordini. In tutti i particolari della vita ordinaria, egli, più abile, più sapiente, più santo di Maria e di Giuseppe, e benché ogni onore sia dovuto a lui, resta sottomesso a loro, e lo sarà fino ai giorni della sua vita pubblica, perché quelle sono le condizioni della umanità che ha rivestito e quello è il beneplacito del Padre. « Sì – esclama san Bernardo preso dall’entusiasmo davanti a spettacolo così sublime – il Dio al quale sono sottomessi gli Angeli, al quale obbediscono i Principati, le Potestà, era sottomesso a Maria; e non soltanto a Maria, ma anche a Giuseppe a motivo di Maria! Ammirate dunque l’uno e l’altro, e osservate ciò che vi sembra più ammirevole, se la benignissima condiscendenza del Figlio o la gloriosissima dignità della Madre. Motivo di stupore da entrambe le parti; miracolo sublime ancora da entrambe le parti. Un Dio obbedisce a una creatura umana: ecco un’umiltà che non ha riscontro; una creatura umana comanda a un Dio: ecco una sublimità che non ha uguali » ( Omelia I sul Missus est). – Salutare lezione quella che qui ci è presentata! Dio vuole che si obbedisca e si comandi secondo il compito e le funzioni di ciascuno, non secondo il grado dei meriti e della virtù. A Nazareth, l’ordine dell’autorità e della dipendenza non è lo stesso che quello della perfezione e della santità. Così avviene pure spesso in qualsiasi società umana e nella stessa Chiesa: se il superiore deve talvolta rispettare nell’inferiore una virtù più alta della sua, l’inferiore ha sempre il dovere di rispettare nel superiore un’autorità derivata dall’autorità stessa di Dio. – La sacra Famiglia viveva del lavoro delle sue mani. La preghiera in comune, i santi colloqui con i quali Gesù si compiaceva di formare ed elevare in maniera sempre crescente le anime di Maria e di Giuseppe, avevano un proprio tempo, e dovevano cessare davanti alla necessità di provvedere alle esigenze della vita quotidiana. Povertà e lavoro sono mezzi di santificazione troppo importanti perché Dio non li imponesse al piccolo gruppo benedetto di Nazareth. – Giuseppe esercitava dunque assiduamente il suo mestiere di falegname, e Gesù, appena sarà in grado di farlo, condividerà il suo lavoro. Nel II secolo, la tradizione conservava ancora il ricordo dei gioghi e degli aratri fabbricati dalle sue mani divine (S. Giustino, Dialogo con Trifone, 88). In quelle ore. Maria compiva tutti i suoi doveri di padrona d’una umile casa. Preparava i pasti che Giuseppe e Gesù dovevano trovar pronti dopo il lavoro, attendeva all’ordine e al disbrigo delle faccende, e senza dubbio – secondo l’usanza di quel tempo – provvedeva Ella stessa in gran parte ai vestiti suoi e della famiglia, oppure faceva per altri qualche lavoro il cui compenso sarebbe servito ad aumentare il benessere di tutti. Così, con la sua vita oscura ed attiva nella bottega di Giuseppe, Gesù ha elevato e nobilitato il lavoro manuale che è la sorte della maggior parte degli uomini. Assumendo per sé e per i genitori la condizione di semplice artigiano, egli ha meravigliosamente onorato e santificato la condizione delle classi lavoratrici, che possono d’ora in poi venire a cercare, in così augusti esempi, insieme ad un incoraggiamento nella pratica delle più nobili virtù, un motivo costante di soddisfazione e di felicità (Leone XIII, Breve Neminem fugit del 14 giugno 1892). Così ci appare la sacra Famiglia sotto l’umile tetto di Nazareth, vero modello di quella vita domestica con i suoi mutui rapporti di carità e le sue ineffabili bellezze, che è la sfera d’azione di milioni di fedeli in tutto il mondo; dove il marito comanda come faceva Giuseppe, la moglie obbedisce come faceva Maria; dove i genitori sono solleciti dell’educazione dei figli, e dove questi ultimi tengono il posto di Gesù con l’obbedienza, il progresso, la gioia e la luce che diffondono intorno a sé. Secondo l’espressione d’un pio autore che ci piace citare, il focolare cristiano, per le grazie che ogni giorno e ad ogni istante sono riversate dal cielo su di lui, per la moltitudine delle virtù che mette in azione e infine per la felicità di cui è lo scrigno, è « come il vestibolo del Paradiso » (Coleridge, La vita della nostra vita, ovvero la Storia di Nostro Signor Gesù Cristo, III, c. 16). Cosicché non c’è da stupire se esso forma l’oggetto di continui attacchi dei nemici del genere umano. E se questi riportano talora qualche notevole vittoria sul regno fondato quaggiù da Nostro Signore, ciò avviene « quando riescono a contaminare il matrimonio, a distruggere l’autorità dei genitori, a raffreddare gli affetti e i doveri che legano i figli al padre e alla madre. Non v’è invasione di orde barbariche avanzanti attraverso una fiorente regione che mettono a ferro e fuoco, che sia tanto odiosa agli occhi del cielo quanto una legge che sanzioni lo scioglimento del vincolo matrimoniale, o che sottragga i figli alla custodia e alla direzione dei genitori. In tutto il mondo per misericordia di Dio, la famiglia cristiana è stata stabilita e difesa dalla Chiesa come la sua più bella creazione e il suo più grande beneficio verso la società. Ora la luce, la pace, la purezza e la felicità del focolare cristiano, è derivato tutto dalla vita trascorsa da Gesù, Maria e Giuseppe nella santa casa di Nazareth.

Storia del culto.

II culto della sacra Famiglia si sviluppò particolarmente nel secolo XVI, sotto la forma di pie associazioni aventi come fine la santificazione delle famiglie cristiane sul modello di quella del Verbo incarnato. Questa devozione, introdotta nel Canadà dai Padri della Compagnia di Gesù, non tardò a propagarsi rapidamente grazie allo zelo di Francesco di Montmorency-Laval, primo vescovo di Quebec. Il virtuoso Prelato, con il suggerimento e il concorso del Padre Chaumonot e di Barbara di Boulogne, vedova di Luigi d’Ailleboùt di Coulonges, antico governatore del Canadà, eresse nel 1665 una Confraternita di cui egli stesso ebbe cura di stendere i regolamenti, e poco tempo dopo istituì canonicamente nella sua diocesi la festa della Sacra Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, disponendo che ci si servisse della Messa e dell’Ufficio che aveva fatto comporre per tale circostanza (Gosselin, Vie de Mgr. de Lavai, I, c. 27). – Due secoli più tardi, davanti alle crescenti manifestazioni della pietà dei fedeli riguardo al mistero di Nazareth, il papa Leone XIII, con il Breve « Neminem fugit » del 14 giugno 1892, istituiva a Roma l’associazione della Sacra Famiglia, con lo scopo di unificare tutte le Confraternite costituite sotto lo stesso nome. L’anno seguente, lo stesso Sommo Pontefice decretava che la festa della Sacra Famiglia si celebrasse nella terza Domenica dopo l’Epifania dovunque era stata concessa, e la dotava d’una nuova Messa e d’un Ufficio di cui egli stesso aveva voluto comporre gli inni. Infine Benedetto XV, nel 1921, rendeva obbligatoria la festa in tutta la Chiesa, e la fissava alla Domenica tra l’Ottava dell’Epifania (La Francia però festeggia la Sacra Famiglia nella seconda Domenica dopo l’Epifania, a motivo della solennità dell’Epifania che ha luogo oggi).

DOMENICA I DOPO L’EPIFANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Prov XXIII:24;25
Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te. [Esulti di gaudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato.]
Ps LXXXIII:2-3
Quam dilécta tabernácula tua, Dómine virtútum! concupíscit et déficit ánima mea in átria Dómini.
[Quanto sono amabili i tuoi tabernacoli, o Signore degli eserciti: anela e si strugge l’anima mia nella casa del Signore.]
Exsúltat gáudio pater Justi, gáudeat Pater tuus et Mater tua, et exsúltet quæ génuit te. [Esulti di gaudio il padre del Giusto, goda tuo Padre e tua Madre, ed esulti colei che ti ha generato.]

Oratio
Orémus.
Dómine Jesu Christe, qui, Maríæ et Joseph súbditus, domésticam vitam ineffabílibus virtútibus consecrásti: fac nos, utriúsque auxílio, Famíliæ sanctæ tuæ exémplis ínstrui; et consórtium cénsequi sempitérnum:
[O Signore Gesú Cristo, che stando sottomesso a Maria e Giuseppe, consacrasti la vita domestica con ineffabili virtú, fa che con il loro aiuto siamo ammaestrati dagli esempi della tua santa Famiglia, e possiamo conseguirne il consorzio eterno:]

Lectio

[Ad Romanos, XII, 1-5]
Obsecro itaque vos fratres per misericordiam Dei, ut exhibeatis corpora vestra hostiam viventem, sanctam, Deo placentem, rationabile obsequium vestrum. Et nolite conformari huic saeculo, sed reformamini in novitate sensus vestri : ut probetis quae sit voluntas Dei bona, et beneplacens, et perfecta. Dico enim per gratiam quae data est mihi, omnibus qui sunt inter vos, non plus sapere quam oportet sapere, sed sapere ad sobrietatem: et unicuique sicut Deus divisit mensuram fidei. Sicut enim in uno corpore multa membra habemus, omnia autem membra non eumdem actum habent: ita multi unum corpus sumus in Christo, singuli autem alter alterius membra.

Omelia I

[Mons. Bobomelli, Omelie, vol. I, Torino, 1899]

Omelia XI.

– Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi in sacrificio vivo, santo, accettevole a Dio: ad offrire il vostro culto ragionevole. Non vi conformate a questo secolo; anzi riformatevi, rinnovando il vostro spirito, affinché conosciate quale sia la volontà di Dio buona, accettevole e perfetta. Perciocché in virtù della grazia concessami, io dico a tutti voi di non farla da savi più di quello che conviene, ma di essere savi con modestia secondoché Dio dà a ciascuno la misura della fede. Poiché come in un corpo abbiamo molte membra, ma non tutte le membra hanno la stessa operazione, così in molti siamo un corpo solo in Cristo, e ciascuno è membro l’uno dell’altro „ (Ai Rom. XII, vers. 1-5).

Così S.Paolo nei primi cinque versetti del capo XII ai Romani. — Nei capi antecedenti il grande Apostolo ha ragionato profondamente e a lungo della grazia di Dio, della sua gratuità e che nessuno può insuperbire dei doni ricevuti: in questi versetti discende alla parte pratica e tocca verità troppo necessarie a qualunque cristiano, qualunque sia il suo stato. Vi piaccia udirle e meditarle. “Vi esorto, o fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi in sacrificio vivo, santo, accettevole a Dio: ad offrire il vostro culto ragionevole.„ Due qualità soprattutto brillano nelle lettere dell’Apostolo, che sembrano ripugnanti tra loro, eppure in lui si accoppiano mirabilmente, e sono la forza del dire e la tenerezza dell’affetto, l’intrepidezza dell’Apostolo e il cuore del padre. Egli, come Apostolo, potrebbe comandare; invece preferisce esortare e supplicare, chiamando fratelli i suoi figli spirituali. Egli esorta, supplica, obsecro vos, fratres, per ciò che vi è di più commovente e di più dolce e caro, per la misericordia di Dio, per ciò che Iddio ha di più intimo, per la sua carità sì pietosa per noi. Vi piaccia, o dilettissimi, rilevare la differenza che corre tra l’autorità umana e civile e l’autorità sacra e religiosa. La prima riguarda solo gli atti esterni e si appoggia alla forza: la seconda entra nel santuario delle coscienze e domanda la persuasione e ritrae l’indole della autorità paterna. Perciò l’autorità sacra ed ecclesiastica, benché vera autorità e di tanto superiore alla terrena e civile, in generale rifugge dall’impero, dal costringimento, dal dominio, secondo le parole di Cristo e quelle del suo primo Vicario, che dissero di non esercitare il potere alla foggia dei re signoreggiando, ricordandoci che siamo fratelli e che chi comanda si governi come chi è soggetto. S. Paolo, ripieno di questo spirito di Cristo, scrive: “Fratelli, io vi scongiuro. „ L’Apostolo prega, non comanda! Questa idea sì sublime e sì bella della autorità fu portata sulla terra da Gesù Cristo. – Carissimi! Non sarebbe buona e santa cosa, allorché possiamo comandare ai nostri fratelli, imitassimo l’Apostolo, e invece li pregassimo e supplicassimo? Forse saremmo più prontamente e più soavemente obbediti. – E di  cosa S. Paolo prega e supplica i suoi fratelli? Egli li prega di offrire i loro corpi in sacrificio vivo, santo, accettevole a Dio. Presso gli Ebrei e presso gli stessi Gentili si offrivano moltissimi sacrifici; si svenavano buoi, agnelli ed altri animali. No, no, grida l’Apostolo: non sono questi i sacrifici che dovete offrire a Dio: offrite i vostri corpi stessi, dice S. Paolo. Ma dobbiamo noi uccidere i nostri corpi in onore di Dio? No, non occorre uccidere i nostri corpi, che sarebbe delitto: il nostro sacrificio, a differenza degli antichi, che non piacquero a Dio, deve essere sacrificio vivo. Non dobbiamo ferire od uccidere il corpo per compire questo sacrificio, ma dobbiamo ferire, e se fosse possibile, uccidere le nostre passioni, che si annidano nel corpo. Uccidiamo la superbia, l’avarizia, la lussuria, la gola, l’ira, tutte le malnate tendenze, che militano nel nostro corpo, ed avremo offerto un sacrificio vivo, santo, gradito a Dio. Vi furono e vi sono ancora alcuni, che abusando di alcune sentenze della S. Scrittura, dissero, doversi onorare Dio in ispirito e verità e gli atti esterni del corpo non giovare a nulla, ed essere quasi d’impaccio al culto dello spirito. Voi vedete che l’Apostolo qui vuole che offriamo a Dio i nostri corpi: dunque anche il culto esterno e materiale è gradito a Dio. E in vero: non è esso ancora congiunto allo spirito e da esso inseparabile? Chi offre il corpo e i suoi atti se non lo spirito? E poi il corpo non è esso pure dono di Dio? Perché non lo offriremo a Dio, restituendogli, quasi dissi, lo stesso suo dono? Certo è il sacrificio del cuore, dello spirito, che Iddio vuole principalmente, ma non senza del sacrificio del corpo, che deve seguire quello dello spirito. — Non basta. L’Apostolo vuole un altro sacrificio, “il sacrificio o culto ragionevole. „ Che è questo culto o sacrificio ragionevole? Noi abbiamo il corpo e nel corpo le passioni disordinate: al di sopra del corpo abbiamo l’anima, e il vertice, la punta dell’anima è la ragione, di cui siamo sì teneri e sì superbi. Ebbene anche questa ragione dobbiamo sacrificarla a Dio, che ce l’ha data. In che modo? Con la fede. Allorché ci si presentano i misteri della fede, la nostra ragione ricalcitra, si irrita, vorrebbe ribellarsi, perché non li comprende e si sente umiliata e ferita. Ma i misteri ci sono imposti da Dio, che ci fa udir la sua voce per mezzo della Chiesa: noi li dobbiamo ammettere e credere con tutta la certezza; ancorché in se stessi non li intendiamo. Con uno sforzo supremo, sorretti dalla grazia, noi diciamo a Dio: Non comprendo ciò che mi imponete di credere: sottometto la mia mente, ve ne fo il sacrificio e credo. — Ecco il sacrificio più nobile che l’uomo possa fare dopo quello delle sue passioni e della sua volontà, il sacrificio della mente! — E noi lo facciamo ogni volta, che diciamo il Credo. – Non vi conformate a questo secolo. „ Offrendovi totalmente, corpo ed anima a Dio, è impossibile, soggiunge l’Apostolo, che abbiate a seguire questo secolo. Con la parola secolo, qui come altrove, l’Apostolo, vuol significare il mondo con le sue passioni e con la sua corruzione. Lo storico Tacito prende la parola secolo nel senso di S. Paolo, dove scrive: ” Corrumpere et corrumpi sæculum vicatur — il secolo altro non è che corrompere e corrompersi. „ Magnifica definizione! Ah! no, noi non seguiremo questo secolo, non approveremo le sue massime, non praticheremo i suoi costumi, condannati da Gesù Cristo, “ma ci riformeremo, rinnovando il nostro spirito. „ Con queste parole S. Paolo ci esorta ad ordinare la nostra vita internamente ed esternamente secondo i principii insegnati da Gesù Cristo nel Vangelo. – L’uomo nuovo è Adamo giusto ed innocente; nuovo, perché fatto immediatamente da Dio: ma quell’uomo nuovo si è profondamente alterato e corrotto per il peccato: Gesù Cristo è venuto per rifarlo, per rinnovarlo in se stesso, illuminando la sua mente con la luce della verità, e creando nel suo cuore uno spirito nuovo, lo spirito della grazia. –  Figliuoli dilettissimi! Siamo noi simili al secolo, o siamo conformi a Gesù Cristo? La prova infallibile l’avremo nelle opere nostre: esse diranno se siamo discepoli del mondo o di Gesù Cristo. Se possederemo i principii, le verità predicate dal secondo Adamo, Gesù Cristo, potremo, continua S. Paolo, “giudicare qual sia la volontà di Dio buona, accettevole e perfetta.„ Al lume della fede, delle eterne verità insegnateci da Gesù Cristo ci sarà facile distinguere ciò che Dio vuole da ciascuno di noi: conosceremo chiaramente ciò che è bene, ciò che è meglio e ciò che è perfetto od ottimo, giacche sembra che questo voglia dire l’Apostolo con quelle tre parole volontà di Dio buona, accettevole, perfetta. Il Signore non vuole tutto da tutti egualmente: come nell’ordine naturale vi è la varietà dei doni, così vuole la stessa varietà nell’ordine sovrannaturale o della grazia. Questi vuole che vivano nel mondo, quelli chiama al chiostro: vuole che gli uni si santifichino in mezzo alle ricchezze, agli onori, nell’esercizio del potere e del comando; gli altri nella povertà, nelle umiliazioni, nell’ubbidienza; perché Egli, Iddio! è padrone de’ suoi doni e a Lui spetta determinare a ciascuno le vie che deve percorrere! Nostro dovere è quello di conoscere queste vie e metterci animosamente e confidentemente per esse per fare ciascuno la volontà di Dio. – Prosegue S. Paolo e dice: “Perciocché in virtù della grazia concessami, io dico a tutti voi di non farla da savi più di quello che conviene.,, Sono varie le grazie e vari gli offici che Dio dispensa secondo la sua volontà; a me ha concesso la grazia e il ministero dell’apostolato, e in virtù di questo ministero affidatomi, io dico e comando a voi tutti e singoli, senza distinzione, che cosa? “Di non farla da savi più di quello che conviene, ma di essere savi con modestia, secondoché Dio dà a ciascuno la misura della fede.,, – Questa espressione dell’Apostolo ebbe ed hai molte e varie interpretazioni, tutte buone per se stesse: ma mi sembra più naturale e migliore di tutte questa, che è confortata dall’autorità di S. Basilio e di S. Ambrogio. Sono varie e diverse le grazie di Dio, vari e diversi gli uffici, che affida agli uomini: ebbene! che ciascuno si contenga nel proprio ufficio e si guardi dall’invadere l’altrui. – Onde quella parola “secondo la misura della fede, „ si deve pigliare largamente, come se l’Apostolo dicesse: Ciascuno si contenga entro i limiti dei suoi doni e dell’ufficio suo, quale che esso sia. — Insegnamento fecondissimo di pratiche applicazioni è questo, o fratelli miei. Dio, che è la stessa sapienza e perciò lo stesso ordine, vuole che tutto sia ordinatissimo; perché tutto sia ordinatissimo e la terra rappresenti l’immagine del cielo e gli uomini abbiano in sé la somiglianza di Dio, è necessario che ciascuna creatura e ciascun uomo rimangano al proprio posto e adempiano le loro parti. Quando, o cari, una macchina lavora bene quando i singoli pezzi, ond’è composta, stanno al loro luogo e ciascuno fa la parte sua debitamente. Così la famiglia, la parrocchia, la società si trovano bene allorché i singoli membri stanno al loro posto e compiono a dovere il loro ufficio. Studiamoci, o cari, di mettere in pratica il documento dell’Apostolo e saremo buoni cristiani e buoni cittadini. Questa dottrina sì bella e sì naturale è illustrata dall’Apostolo con una similitudine a lui famigliare e che qualunque persona, anche di corta intelligenza, può facilmente comprendere. Eccovi la similitudine: “Poiché come in un corpo abbiamo molte membra, ma non tutte le membra hanno la stessa operazione,  così in molti siamo uno solo in Cristo; e ciascuno è membro l’uno dell’altro. „ – Vedete il corpo umano, dice S. Paolo: esso è un solo corpo, ma ha molte e varie membra, occhi, orecchie, lingua, capo, mani, piedi, e via dicendo. Ciascun membro poi ha il suo ufficio speciale, di vedere, di udire, di parlare, di reggere, di lavorare, di camminare: un solo corpo, e molte membra, e queste non contrastano tra loro, né l’occhio vuol udire, né l’orecchio vedere, né il capo ubbidire, né le mani camminare, né i piedi sostituirsi alle mani: tutte le membra attendono al loro ufficio e l’uomo se ne trova benissimo. Così, conchiude S. Paolo, debb’essere nel corpo di Cristo, che è la Chiesa. Ciascun membro, ossia ciascun cristiano, non si consideri come isolato, ma come membro dello stesso corpo, e il bene comune consideri come bene proprio, ed allora nessuno violerà i diritti altrui ed avremo nella Chiesa, nella parrocchia, nella famiglia, nell’individuo l’ordine più perfetto, e nell’ordine la pace, la carità e tutto quel benessere anche materiale, che è possibile su questa terra. Felici le famiglie, felici le parrocchie, felice la società tutta se la gran legge qui stabilita dall’Apostolo fosse debitamente osservata!

Graduale
Ps XXVI:4
Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. [Una sola cosa ho chiesto e richiederò al Signore: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita.]
Ps LXXXIII:5.
Beáti, qui hábitant in domo tua, Dómine: in saecula sæculórum laudábunt te. Beati quelli che àbitano nella tua casa, o Signore, essi possono lodarti nei secoli dei secoli.
Allelúja

Allelúja, allelúja,

Isa 45:15
Vere tu es Rex abscónditus, Deus Israël Salvátor. Allelúja. [Tu sei davvero un Re nascosto, o Dio d’Israele, Salvatore. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc II:42-52
“Cum factus esset Jesus annórum duódecim, ascendéntibus illis Jerosólymam secúndum consuetúdinem diéi festi, consummatísque diébus, cum redírent, remánsit puer Jesus in Jerúsalem, et non cognovérunt paréntes ejus.
Existimántes autem illum esse in comitátu, venérunt iter diéi, et requirébant eum inter cognátos et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Jerúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos et interrogántem eos. Stupébant autem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis ejus. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit Mater ejus ad illum: Fili, quid fecísti nobis sic? Ecce, pater tuus et ego doléntes quærebámus te. Et ait ad illos: Quid est, quod me quærebátis? Nesciebátis, quia in his, quæ Patris mei sunt, opórtet me esse? Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis. Et Mater ejus conservábat ómnia verba hæc in corde suo. Et Jesus proficiébat sapiéntia et ætáte et grátia apud Deum et hómines.” [Quando Gesú raggiunse i dodici anni, essendo essi saliti a Gerusalemme, secondo l’usanza di quella solennità, e, passati quei giorni, se ne ritornarono, il fanciullo Gesú rimase a Gerusalemme, né i suoi genitori se ne avvidero. Ora, pensando che Egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, dopo di che lo cercarono tra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a cercarlo a Gerusalemme. E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, mentre sedeva in mezzo ai Dottori, e li ascoltava e li interrogava, e tutti gli astanti stupivano della sua sapienza e delle sue risposte. E, vistolo, ne fecero le meraviglie. E sua madre gli disse: Figlio perché ci ha fatto questo? Ecco che tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo. E rispose loro: Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi di quel che spetta al Padre mio? Ed essi non compresero ciò che aveva loro detto. E se ne andò con loro e ritornò a Nazareth, e stava soggetto ad essi. Però sua madre serbava in cuor suo tutte queste cose. E Gesú cresceva in sapienza, in statura e in grazia innanzi a Dio e agli uomini.]
R. Laus tibi, Christe!

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Luca II, 42-52)

Perdita di Dio.

Maria e Giuseppe perdono il fanciullo Gesù, giunto all’età di dodici anni. Credevano, come ci narra S. Luca nell’odierno Vangelo, ch’Egli fosse in lor comitiva, insieme con altri molti della Galilea, che discendevano da Gerusalemme dopo la celebrazione d’una festa solenne; ma giunti ad un ospizio sull’imbrunir della sera, si mirano intorno e non veggono il divino Fanciullo. L’attendono ma inutilmente: ne domandano ai compagni del loro viaggio, ma nessuno ne sa dare conto: lo cercano fra gli amici e fra i congiunti, ma tutto è vano: immaginate qual dovett’essere il loro affanno. Pensavano bensì che qualche giusto e ragionevole motivo tratteneva Gesù da essi lontano; ma questo riflesso non era bastevole a consolarli. Oh con quanta amarezza passarono quella notte! Al primo spuntar del giorno si posero a rifare il cammino dall’ospizio a Gerusalemme, e al terzo dì finalmente lo ritrovarono nel Tempio, che in mezzo ai dottori li interrogava con loro stupore, e con meraviglia del popolo circostante. “Eh! figlio, prese a dirgli la Vergine Madre, figlio, io e il vostro nutrizio padre siamo andati in cerca di Voi con la mestizia nel volto e con la doglia nel cuore” : “Fili… pater tuus et ego dolentes quaerebamus te”. Maria e Giuseppe perdono Gesù e, come osserva il venerabile Beda con altri sacri espositori, lo perdono senza loro minima colpa, e pure tanto si attristano di questa perdita, e tanto si affannano per ritrovarlo. Quanto è mai diversa la condotta di molti cristiani! Perdono questi Gesù per propria colpa, perdono Dio e la sua grazia per lo peccato, e pur non si commuovono, non si contristano, non se ne pigliano pensiero. Così è: quanto sono sensibili e premurosi per la perdita di cose temporali, altrettanto sono stupidi e indolenti per la perdita di Dio. – E questo è appunto ciò che v’invito a meco compiangere, uditori devoti. Non ha bisogno di prova la prima parte del mio assunto; cioè, che per l’ordinario gli uomini della perdita dei beni terreni son tutti in pena ed in contristamento; pure diamo così di volo uno sguardo alle sacre pagine, per riscontrarne fra molti alcuni esempi. Perde Esaù la primogenitura, e alza clamori, e trae dal petto ruggiti a guisa di leone piagato a morte, “irrugiit clamore magno” ( Gen XXVII, 34) . Perde Cis le sue giumente, spedisce Saul suo figlio ad andarne in cerca. Saul, per quanto si aggiri per valli, per monti e per foreste, non gli vien fatto trovarle; e preso il consiglio del suo servo compagno, va a consultarne Samuele gran profeta in Israele. Perde il suo figliuol prodigo le sostanze assegnategli per sua porzione dal suo buon padre, ed è inconsolabile. Perde quel pastore, descritto in parabola nel santo Vangelo, una pecorella, e lascia nel deserto l’armento intero, e ne va in traccia per balze e per dirupi. Perde, a finirla, quella donna evangelica una dramma, moneta di poco valore, e mette tutta sossopra la casa finche non la ritrovi. Ma a che rammentar cose antiche? Non è questo il naturale effetto che producono nel cuor dell’uomo le cose smarrite? e la pena ordinaria di chi più o meno è attaccato ai beni di questa terra? Compatiamo la misera umanità, qualora per gravi infortuni è posta in cimento, qualora o per naufragio si perdono ricche mercanzie, o per sentenza contraria liti di somma importanza, o per prepotenza pingui eredità. Compatiamo ancora coloro, che per un anello, per un orecchino, per un fazzoletto ricorrono al parroco, acciò avvisi il popolo di quegli oggetti smarriti, e loro ricordi il proprio dovere per la necessaria restituzione. – Non si possono costoro né riprendere, né disapprovare, se usano diligenze, se adoprano mezzi per riavere ciò che hanno perduto. Ma di grazia perché almeno non si tiene questa pratica, quando per grave reato si perde Dio e la sua amicizia? Perché non si fa ricorso alla Vergine Madre, ai Santi del cielo, al confessore, acciò vi aiutino a ricuperare la grazia, e a riconciliarvi con Dio? Perché tanta sollecitudine per le perdite temporali, e tanta indifferenza, tanta freddezza per la perdita di Dio, perdita incalcolabile infinitamente maggiore della perdita d’un mondo intero? – Bramate sapere onde nasce tanta stupidezza? Ecco tre cagioni, alle quali, per ben comprenderle, vi prego porgere l’attento orecchio. La prima cagione, per cui, perduto Dio per lo peccato, non si sente il dolore di perdita, sì grande, è perché non c’è lume, non c’è fede, non c’è cognizione di Dio. Avviene a molti ciò che non di rado accade ad un fanciullo non ancor giunto all’uso di ragione. Perde questi una gemma preziosa, e non la cura, e non vi pensa: perde una carta dipinta, una palla da giuoco, un palco da trastullo, ed è inconsolabile, piange, singhiozza, pesta coi piedi la terra. Ed ecco il nostro caso. Perdiamo i beni fallaci, che un giorno bisogna lasciare, e siamo trafitti; si perde il sommo bene, ch’è Dio, e siamo insensibili. E fino a quando, o uomini già adulti e forse incanutiti, amerete ancora i pregiudizi dell’infanzia?Usquequo… diligìtis infatiam? ( Prov. I. 22) Se conosceste che dir voglia perdere Dio, piangereste a lacrime di sangue. La spada più acuta, che ferisce il cuor d’un dannato, la pena più atroce che lo tormenta, è quel fisso contristante pensiero, quell’interna voce di acerbo rimprovero, che gli dice ad ogn’istante: “ubi est Deus tuus?” dov’è quel Dio che ti creò, quel Dio che ti ha redento, quel Dio che ti voleva salvo? dov’è, infelice, tu l’hai perduto! “Ubi est Deus tuus?” Dov’è quel Dio che nello stato di tua dannazione è l’oggetto dell’odio tuo, e al tempo stesso lo scopo del tuo desiderio, come unico rimedio a’ tuoi tormenti, dov’è? Questo Dio non è più per te, non è più tuo. Conosci ora per tua pena quel che conoscere non volesti per tua malizia. – La seconda cagione dell’umana insensibilità nella perdita di Dio è una fiducia ingannevole, una speranza fallace di riacquistare Iddio perduto con una penitenza futura. È vero, dice colui, dice colei, che sono in disgrazia di Dio, ch’Egli contro di me è giustamente sdegnato; ma voglio ben io riconciliarmi con Lui; non voglio vivere in questo stato, in cui non vorrei morire: perciò dato ch’io avrò compimento ai miei affari, ultimato quel negozio, finita quella lite, collocata la famiglia, quando avrò un tempo più comodo, più quiete, penso ben prevalermene per ricuperare tanto bene perduto, e non perdere me stesso. Ahi miei cari, queste vostre proteste non fan che mitigare il rimorso di vostra coscienza, e il dolore della vostra perdita; vi lusingano, vi addormentano in seno al peccato, con una speranza tanto più traditrice, quanto più lusinghiera. Accade a voi come a quel giocatore, che sente meno la pena del danaro perduto, perché spera in un altro giuoco rifarsi del danno sofferto; e questa speranza per lo più moltiplica le sue perdite, e lo getta in rovina. E poi se in questo tempo che differite la vostra conversione vi cogliesse la morte, che sarebbe di voi? Oh allora presi dallo spavento, chiamato in nostro aiuto un confessore, più facilmente ci volgeremo a Dio con un cuor contrito, e pieni di fiducia nella sua misericordia. Non più, miei dilettissimi, non più: questo è il maggior degl’inganni. Questa, seducente speranza ha popolato l’inferno; Iddio, dice S. Agostino, vi promette perdono, se in tempo vi convertite, non vi promette né tempo, né perdono, se differite. – Ma torniamo al nostro argomento. La terza, forse più forte cagione della nostra insensibilità nella perdita di Dio, è perché, se si perde Dio in questa vita, pure si godè dello stesso Dio. E come? Ecco: tutti i beni, che anche dai peccatori si gustano su questa terra, sono altrettante stille emanate da quell’oceano immenso di bontà ch’è Dio. Il sole che c’illumina, l’aria che ci pasce, i fiori che ci dilettano, le piante che ci ricreano, i frutti che ci nutriscono, tutte insomma le creature, o inanimate o sensibili o ragionevoli, son tutti beni che discendono da Dio sommo bene; ond’è che se il peccatore perde Dio bene infinito, pur gode Iddio ne’ beni sparsi nelle sue creature, e non si avvede della perdita del fonte, perché si disseta ai ruscelli. Ma quando poi l’anima sciolta dai legami del corpo comparirà, spirito ignudo, abbandonato e solo, innanzi a Dio, conoscerà allora che Dio è l’unico bene; l’infinito bene; che fuor di Lui in quel nuovo inondo altro bene non v’è, con cui trattenersi, con cui sfamarsi. E perciò una delle due: o l’anima è amica dì Dio, e troverà in Dio come in suo centro ogni bene, o di Dio nemica, e da Lui ributtata e divisa, non avrà più un attimo, un’ombra di bene. Non più mondo in quel terribile istante, non più corpo, non più creature. Piaceri, onori, gradi, ricchezze, amici, congiunti, tutto è finito; Dio, Dio solo è l’unico eterno, incommutabile bene, e fuori di Lui né si può sperare, anzi né pur si può immaginare, o fingere un altro bene. – Vogliamo noi, uditori carissimi, aspettare al mondo di là a conoscer la perdita del sommo bene, che è Dio? Ah anime mie care non vi sarà allora più riparo all’inganno, più rimedio all’errore, non più tempo a profittevole ravvedimento. Dovremo allora esclamare con quel Sovrano, di cui parla la storia: “Omnia perdidimus”. Sedotto questi da lusinghiera beltà, e da furiose passioni invasato, corse a precipizio le vie del piacere, dell’errore e dell’empietà, e giunse in fine a quel termine da Dio a tutti costituito, al quale non si può passar oltre. Infermo, aggravato, giacente a letto, conobbe, come il grande Alessandro, che bisognava morire; “decidit in lectum, et cognovit quia moreretur” ( Mac. I), e data in giro una mesta occhiata a’ suoi favoriti, ahi me disgraziato! esclamò, che ho perduto la fede, la reputazione, l’amor de’ sudditi, la sanità, e fra poco sarò per perdere la vita, il regno, l’anima e Dio, “omnia perdidimus”. Tanto dovrà ripetere un’anima che abbia perduto Dio per colpa e per pena, “omnia perdidimus”. – Infelice pertanto chi aspetta a conoscere la sua disavventura quando non è più in tempo di ripararla. Infelicissimo chi aspetta a cercare Dio quando non si può più ritrovare. Cari ascoltanti, facciamo senno, ravviviamo la fede, apriamo gli occhi sul massimo nostro interesse. Ora in questo tempo accettevole, che ci accorda il pietoso Signore, andiamo in cerca di Dio, e sarà facile il trovarLo, “Quærite Dominum dum inveniri potest” (Isai. LV, 6). In punto di morte, ahi! che forse Lo cercheremo invano. No, peccatori fratelli miei, con Dio non si burla, “Deus non irridetur”. Cercate Dio in vita, perché in morte non lo troverete! Non son io che vel dico, lo dice a me, lo dice a voi l’infallibile Verità, lo dice Gesù Cristo, “quæretis me, et non invenietis” (Joan. VII, 34). E in un altro luogo ce lo ripete in termini di maggiore spavento: mi cercherete, e morrete in seno al vostro peccato: Quæretis me, et in peccato vestro moriemini (Joan. VIII, 21). – Che facciamo dunque? fino a quando noi stolti figliuoli degli uomini ameremo la vanità, e terremo dietro ai beni fuggevoli e bugiardi di questa terra? Deh! se ci cale l’eterna nostra salvezza, procuriamo essere di quella santa generazione, che altro non cerca, che Dio. Cerchiamo Dio sull’esempio e sulla scorta di Maria Vergine, e di S. Giuseppe, cerchiamoLo nel tempio ai piedi degli altari, a piedi dei suoi ministri; che poi dopo il breve corso di nostra vita Lo vedremo nel tempio della beata eternità, e al primo incontro sarà per noi oggetto di consolazione perpetua, come lo fu di temporanea alla Vergine Madre, ed al suo nutrizio padre. Che Dio ce ne faccia la grazia.

Credo …

Offertorium
Orémus
Luc II:22
Tulérunt Jesum paréntes ejus in Jerúsalem, ut sísterent eum Dómino.
[I suoi genitori condussero Gesù a Gerusalemme per presentarlo al Signore.]

Secreta
Placatiónis hostiam offérimus tibi, Dómine, supplíciter ut, per intercessiónem Deíparæ Vírginis cum beáto Joseph, famílias nostras in pace et grátia tua fírmiter constítuas. [Ti offriamo, o Signore, l’ostia di propiziazione, umilmente supplicandoti che, per intercessione della Vergine Madre di Dio e del beato Giuseppe, Tu mantenga nella pace e nella tua grazia le nostre famiglie.]

Communio
Luc II:51
Descéndit Jesus cum eis, et venit Názareth, et erat súbditus illis. [E Gesù se ne andò con loro, e tornò a Nazareth, ed era loro sottomesso.]
Postcommunio
Orémus.
Quos cœléstibus réficis sacraméntis, fac, Dómine Jesu, sanctae Famíliæ tuæ exémpla júgiter imitári: ut in hora mortis nostræ, occurrénte gloriósa Vírgine Matre tua cum beáto Joseph; per te in ætérna tabernácula récipi mereámur: [O Signore Gesú, concedici che, ristorati dai tuoi Sacramenti, seguiamo sempre gli esempii della tua santa Famiglia, affinché nel momento della nostra morte meritiamo, con l’aiuto della gloriosa Vergine tua Madre e del beato Giuseppe, di essere accolti nei tuoi eterni tabernacoli.]

MESSA DELL’EPIFANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Malach 3:1; 1 Par 29:12
Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium [Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero.]
Ps LXXI:1
Deus, judícium tuum Regi da: et justítiam tuam Fílio Regis.
[O Dio, concedi al re il tuo giudizio, e la tua giustizia al figlio del re.]
Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium [Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero.]

Oratio
Orémus.
Deus, qui hodiérna die Unigénitum tuum géntibus stella duce revelásti: concéde propítius; ut, qui jam te ex fide cognóvimus, usque ad contemplándam spéciem tuæ celsitúdinis perducámur.
[O Dio, che oggi rivelasti alle genti il tuo Unigenito con la guida di una stella, concedi benigno che, dopo averti conosciuto mediante la fede, possiamo giungere a contemplare lo splendore della tua maestà.]
Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum.
R. Amen.

Lectio
Léctio Isaíæ Prophétæ.
Is LX:1-6
Surge, illumináre, Jerúsalem: quia venit lumen tuum, et glória Dómini super te orta est. Quia ecce, ténebræ opérient terram et caligo pópulos: super te autem oriétur Dóminus, et glória ejus in te vidébitur.
Et ambulábunt gentes in lúmine tuo, et reges in splendóre ortus tui. Leva in circúitu óculos tuos, et vide: omnes isti congregáti sunt, venérunt tibi: fílii tui de longe vénient, et fíliæ tuæ de látere surgent. Tunc vidébis et áfflues, mirábitur et dilatábitur cor tuum, quando convérsa fúerit ad te multitúdo maris, fortitúdo géntium vénerit tibi. Inundátio camelórum opériet te dromedárii Mádian et Epha: omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes. [Sorgi, o Gerusalemme, sii raggiante: poiché la tua luce è venuta, e la gloria del Signore è spuntata sopra di te. Mentre le tenebre si estendono sulla terra e le ombre sui popoli: ecco che su di te spunta l’aurora del Signore e in te si manifesta la sua gloria. Alla tua luce cammineranno le genti, e i re alla luce della tua aurora. Leva gli occhi e guarda intorno a te: tutti costoro si sono riuniti per venire a te: da lontano verranno i tuoi figli, e le tue figlie sorgeranno da ogni lato. Quando vedrai ciò sarai raggiante, il tuo cuore si dilaterà e si commuoverà: perché verso di te affluiranno i tesori del mare e a te verranno i beni dei popoli. Sarai inondata da una moltitudine di cammelli, dai dromedarii di Madian e di Efa: verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore.]

Graduale
Isa LX:6;1
Omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes.
[Verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore.]

Surge et illumináre, Jerúsalem: quia glória Dómini super te orta est. Allelúja, allelúja. [Sorgi, o Gerusalemme, e sii raggiante: poiché la gloria del Signore è spuntata sopra di te.

Allelúja.

Allelúia, allelúia
Matt II:2.

Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum. Allelúja.
[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni per adorare il Signore. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum
Matt II:1-12

Cum natus esset Jesus in Béthlehem Juda in diébus Heródis regis, ecce, Magi ab Oriénte venerunt Jerosólymam, dicéntes: Ubi est, qui natus est rex Judæórum? Vidimus enim stellam ejus in Oriénte, et vénimus adoráre eum. Audiens autem Heródes rex, turbatus est, et omnis Jerosólyma cum illo. Et cóngregans omnes principes sacerdotum et scribas pópuli, sciscitabátur ab eis, ubi Christus nasceretur. At illi dixérunt ei: In Béthlehem Judae: sic enim scriptum est per Prophétam: Et tu, Béthlehem terra Juda, nequaquam mínima es in princípibus Juda; ex te enim éxiet dux, qui regat pópulum meum Israel. Tunc Heródes, clam vocátis Magis, diligénter dídicit ab eis tempus stellæ, quæ appáruit eis: et mittens illos in Béthlehem, dixit: Ite, et interrogáte diligénter de púero: et cum invenéritis, renuntiáte mihi, ut et ego véniens adórem eum. Qui cum audíssent regem, abiérunt. Et ecce, stella, quam víderant in Oriénte, antecedébat eos, usque dum véniens staret supra, ubi erat Puer. Vidéntes autem stellam, gavísi sunt gáudio magno valde. Et intrántes domum, invenérunt Púerum cum María Matre ejus, hic genuflectitur ei procidéntes adoravérunt eum. Et, apértis thesáuris suis, obtulérunt ei múnera, aurum, thus et myrrham. Et re sponso accépto in somnis, ne redírent ad Heródem, per aliam viam revérsi sunt in regiónem suam,”
R. Laus tibi, Christe!

[Nato Gesù, in Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco arrivare dei Magi dall’Oriente, dicendo: Dov’è nato il Re dei Giudei? Abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo. Sentite tali cose, il re Erode si turbò, e con lui tutta Gerusalemme. E, adunati tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, voleva sapere da loro dove doveva nascere Cristo. E questi gli risposero: A Betlemme di Giuda, perché così è stato scritto dal Profeta: E tu Betlemme, terra di Giuda, non sei la minima tra i prìncipi di Giuda: poiché da te uscirà il duce che reggerà il mio popolo Israele. Allora Erode, chiamati a sé di nascosto i Magi, si informò minutamente circa il tempo dell’apparizione della stella e, mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e cercate diligentemente il bambino, e quando l’avrete trovato fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo. Quelli, udito il re, partirono: ed ecco che la stella che avevano già vista ad Oriente li precedeva, finché, arrivata sopra il luogo dov’era il bambino, si fermò. Veduta la stella, i Magi gioirono di grandissima gioia, ed entrati nella casa trovarono il bambino con Maria sua madre qui ci si inginocchia e prostratisi, lo adorarono. E aperti i loro tesori, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non passare da Erode, tornarono al loro paese per un altra strada.]

Omelia

FESTA DELL’EPIFANIA

Sopra il mistero dello stesso giorno

[Mons. Billot: “Discorsi parrocchiali”; S. Cioffi ed. Napoli, 1840]

 

Vidimus stellam eias,

et venimus adorare eum. Matth. II.

-Appena Gesù Cristo è nato che chiama alla sua culla pastori dalla Giudea e magi dall’oriente, perché viene a salvare tutti gli uomini. Dopo aver fatto annunziare la sua nascita ai pastori con la voce di un Angelo, fa risplendere agli occhi di quei saggi della gentilità una stella miracolosa, la quale li avvisa che un nuovo re è venuto al mondo per riscattarli. Subitamente fedeli alla grazia, abbandonano il loro paese, vengono in Gerusalemme ad informarsi dove è nato il re dei Giudei; apprendono dai dottori della legge che Betlemme, piccola città di Giuda, è il luogo della sua nascita: escono dunque da Gerosolima e col favore della nuova luce che li guida si trasferiscono a Betlemme: vi trovano l’oggetto dei loro desideri, il tesoro che cercano, il loro re; il loro salvatore nella persona di un bambino che è tra le braccia di Maria sua Madre. Senza essere ributtati dal povero apparecchio che lo circonda, penetrano con gli occhi di una viva feda il mistero di un Dio fatto uomo per la loro salute; innanzi a Lui s’inginocchiano, e mettendo ai suoi piedi il loro scettro e la loro corona, gli offeriscono regali insieme col loro cuore; ed avvertiti da un angelo ritornano nei loro paesi per una strada diversa da quella che tenuta avevano: Per aliam viam reversi sunt in regionem suam. Tale è, cristiani, la storia del mistero che celebriamo in questo giorno; mistero di gaudio per la Chiesa, poiché ci rammenta il felice momento della nostra vocazione al Cristianesimo nella persona dei re magi. Benediciamo mille volte la provvidenza che ci ha cavati dalle ombre della morte oveimmersi eravamo , per chiamarci alla luce ammirabile del Vangelo; ma nello stesso tempo profittiamo dell’esempio che ci danno i re magi per cercar Gesù Cristo e conservare la sua grazia nei nostri cuori dopo averla ritrovata. Qual fu dunque la premura dei magi nel cercar Gesù Cristo? Primo punto. Qual fu la loro fedeltà nei conservar la grazia che avevano trovato? Secondo punto. Tale è il modello che noi imitare dobbiamo, ed il soggetto della vostra attenzione.

I.° Punto. Qual differenza, fratelli miei, tra la condotta del re Erode, e quella dei re magi? Erode, che regnava in un paese dove era nato il Salvatore del mondo, accecato dalle sue passioni chiude gli occhi alla luce che lo rischiara. Sebbene convinto dalla testimonianza e dagli oracoli dei profeti che il Cristo è nato in Betlemme, poco distante da Gerosolima, non si degna di fare il minimo passo per rendergli omaggio; e i re che abitano all’estremità dell’ oriente non sì tosto hanno veduto la stella che loro addita la sua nascita che si mettono in viaggio per venirlo ad adorare. Erode non conosce e non cerca Gesù Cristo che per perderlo , e i re magi altra premura non hanno che di sottomettersi a lui e farlo regnare nel loro cuore. Detestiamo la condotta di quel principe cieco e barbaro, ed imitiamo la fedeltà dei re magi in corrispondere alla grazia. – Cercano Gesù Cristo con prontezza, con coraggio e con costanza. in simil guisa dobbiamo noi cercarlo, se ritrovar lo vogliamo. No, i magi non stanno sospesi sul partito che hanno da prendere; non si arrestano a formare lungi progetti né a prendere gran misure per mettersi in viaggio; unicamente attenti alla luce che li rischiara, vanno a cercar Colui ch’essa loro annunzia: premurosi di giunger al termine ove la stella li chiama, sono impazienti di arrivare. Sanno benissimo che, qualora si tratta di cercar il suo Dio e di darsi a lui, non convien arrestarsi, deliberare, discorrere; perché in deliberando, quantunque abbiasi intenzione di trovar Dio, non si trova giammai. Di già lasciato hanno il loro paese; loro sembra d’udire la voce del divin Bambino che a sé li chiama: fedeli a questa voce, affrettano i loro passi e solleciti sono di andar a rendergli i loro omaggi. Giunti a Gerusalemme ed impazienti di sapere il luogo ove è nato il Salvatore, s’indirizzano a coloro che essi credono i meglio informati. Dove è dunque questo nuovo re? Perciocché abbiamo veduta la sua stella e siamo partiti per venirlo ad adorare : Vidimus stellam eius et venimus adorare eum. Qual premura! Qual prontezza! Qual attività! In poco tempo hanno percorsa la strada tutta che il loro paese separa dalla Giudea. Ahi quando si cerca Dio sinceramente, niuna cosa evvi che arrestar possa l’anima fedele. Grazie immortali vi sieno per sempre rendute, o mio Dio, che chiamati ci avete alla fede in quelle nobili primizie della gentilità convertita! Per quanto piccolo comparite, voi già siete il vincitore delle nazioni; Voi in un istante le sottomettete, e senza resistenza voi le abbattete ai vostri piedi con tutta la loro pompa e grandezza. – Imitate voi, fratelli miei, la condotta di questi santi re, voi che, allevati nel Cristianesimo, avete lumi maggiori per camminare nella strada che conduce a Dio? Voi, la cui fede esser deve meglio stabilita e più formata, e a cui la volontà di Dio è più chiaramente manifestata, questa fede è la vostra stella; e perché; come i magi, non ne seguite i movimenti? Oltre la fede che vi rischiara, quanti lumi non ha fatto Dio risplendere alle vostre menti, or con le grazie interiori, or con la divina parola v’istruisce dei vostri doveri, ed or con i buoni esempi che avete avanti agli occhi, i quali vi animano alla pratica della  virtù? Tutte queste grazie interiori ed esteriori sono tanti astri luminosi che vi condurrebbero infallibilmente a Dio, se voi fedeli foste a seguirli.  Con tutto ciò voi rimanete sempre nelle vostre tenebre; immersi nel pantano del peccato, non fate sforzo alcuno per uscirne. Da lungo tempo la voce di Dio vi chiama e vi sollecita di disfarvi di quell’affetto che divide il vostro cuore tra Dio e la creatura; di combattere quell’orgoglio segreto che vi predomina; di restituire quella roba che ingiustamente possedete, di perdonare a quella persona che non volete neppur vedere, di menar una vita più mortificata, più penitente e più regolata; e voi non avete ancor fatto ciò che la grazia da sì lungo tempo vi domanda. Ma non dovete voi temere che la stella che adesso vi illumina non dispaia dagli occhi vostri? Che questa grazia di conversione che Dio vi dà non siavi più accordata, e che l’abuso che voi ne fate seguito non sia dall’accecamento e dall’ostinazione, che vi condurrà all’impenitenza finale? – Osservate la prontezza dei magi nel seguitare la stella che li conduce; partono tosto che 1’hanno veduta: Vidimus et venimus. Ecco ciò che far dovete, e così conchiudere tra voi medesimi: ho veduta la stella che mi conduce a Dio in questo buon pensiero che mi ha ispirato, in questo pio movimento che mi ha toccato il cuore: voglio seguirla; voglio amar il mio Dio meglio che non ho sinora fatto: dandogli la preferenza sopra le creature tutte. Voglio riconciliarmi con quel nemico, restituire quei beni mal acquistati, essere il buon esempio nella mia famiglia, abbandonar quelle occasioni, quei luoghi di dissolutezza che m’hanno perduto, esser assiduo nell’orazione, frequentare i sacramenti, riceverli con migliori disposizioni, osservare la santa legge del Signore; in una parola, vivere in una maniera più regolata: Vidimus, et venimus. – È necessario per ciò fare un gran coraggio, ma i magi ve ne danno ancora 1’esempio. Di qual coraggio, infatti, non fanno mostra in tutti i loro portamenti? Conviene, per obbedire alla voce di Dio che li chiama, abbandonare, come Abramo, il loro paese, le loro case, i loro amici, il loro regno? L’abbandonano generosamente. Bisogna intraprendere un lungo e faticoso viaggio, esporsi a tutti i pericoli, sopportare tutti i travagli che ne sono inseparabili, nella stagione la più rigida dell’anno, sacrificare il loro riposo, la loro tranquillità, rinunziare a tutti gli agi, a tutti i loro piaceri? Rinunziano a tutto, sacrificano tutto; né l’affetto ai loro comodi può ritenerli, né il rigore delle stagioni sgomentarli, né la cura delle loro famiglie e dei loro regni è capace di far loro cangiar risoluzione. Quante ragioni ciò non ostante, quanti pretesti per cuori meno coraggiosi dei loro? Ma no, malgrado tutti gli ostacoli che si oppongono al loro disegno, già sono giunti in Gerusalemme capitale della Giudea, col favore dell’astro che li rischiara. Ma, oh cielo! qual nuova prova per la loro virtù! La luce che li guida s’invola ai loro occhi, la stella sparisce, la loro fede appena nascente non ne resterà forse commossa? Non penseranno forse a ritornar nei loro paesi? No, fratelli miei, no, non temete, non soccombono essi alla tentazione, ed è qui appunto dove ci danno un esempio di coraggio che deve animarci allorché sembra Dio occultarsi a noi ed abbandonarci a noi medesimi. Qui è dove ci apprendono a ricercarlo, in quelle vie tenebrose ove ci ricusa quelle consolazioni sensibili che ci addolciscono il sentiero della virtù. Si è in quel tempo di prove in cui gli piace di metterci che il nostro amore appare più coraggioso e più sincero, perché non cerca Dio che per Dio solo. – Ma ammiriamo ancora il coraggio dei magi in cercare Gesù Cristo: nella città di Gerusalemme, sino nella capitale della Giudea, sino nella corte di un re che regna sopra i Giudei, chiedono dove è nato il re dei Giudei. Che temere non debbono dalla gelosia di Erode, che si offenderà di una simil domanda e soffrire non verrà alcun rivale! Non importa che Erode se ne offenda, che se ne conturbi; vogliono a qualunque siasi prezzo trovar Gesù Cristo e darsi a Lui; né il rispetto umano né la tema dei supplizi e della morte cui si espongono, fa sopra quei generosi cuori impressione veruna. Fate voi così, fratelli miei, allorché, illuminati, tocchi dalle verità della fede, risolvete di abbandonare i vostri disordini e di ritornare a Dio? La minima difficoltà vi spaventa; il più leggiero ostacolo vi sembra insuperabile; la più leggiera tentazione vi fa soccombere. Converrebbe un poco di coraggio per lasciare quell’abito peccaminoso che avete di bestemmiare, di adirarvi, di abbandonarvi agli eccessi dell’ impurità, converrebbe fare un po’ di violenza alla vostra indole, alle vostre passioni, alla vostra inclinazione: ma voi non volete fare alcuno sforzo; non volete in alcun modo incomodarvi né soggettarvi: ora il peso delle vostre propensioni vi strascina, ora il rispetto umano vi abbatte e sconcerta tutti i vostri progetti. Ed in tal modo pretendete voi trovare Iddio? Ed in tal modo aspirate voi al suo regno, il quale non si acquista che con la violenza? Ignorate voi che, per pretendervi, bisogna sacrificare quanto uno ha di più caro, mortificare le proprie passioni, tenerle soggette alla legge, disprezzare gli umani rispetti, in una parola, combattere per guadagnare la corona? Ora tutto ciò suppone in voi una forza ed un coraggio a tutte prove. Non basta dunque aver fatto qualche passo per cercar Gesù Cristo, aver formata qualche buona risoluzione: conviene eseguirla, malgrado gli ostacoli che si presentano; conviene, come i magi, uscire dalla corte di Erode, cioè lasciar quelle compagnie pericolose, quelle occasioni di peccato, dove la stella del Signore non vi rischiarirà più, dove la voce del Signore non si fa intendere: e questa stella, siccome i magi, vi condurrà al presepio del Salvatore. Voi lasciate pur quelle compagnie quando si tratta della vostra fortuna, di un interesse temporale; e quando si tratta della vostra salute, della vostra eternità, il minimo ostacolo vi rattiene. Dove è dunque la vostra fede? Dove è la vostra ragione? Dio non chiede già che, come i magi, voi abbandoniate la vostra patria, i vostri parenti, i vostri amici, quando non sono per voi occasione di peccato: non chiede che intraprendiate lunghi viaggi, che tolleriate fatiche eccessive, ma vi chiede il sacrificio delle vostre passioni; vi chiede il vostro cuore, che gli è già dovuto per tanti titoli, vi chiede un poco di contegno e di violenza per lasciare i vostri agi e i vostri comodi, affine di andare a visitare quel povero infermo o prigioniero; chiede che assidui siate a visitarlo nel suo santo tempio, ad assistere ai divini offizi, ad accostarvi ai sacramenti, a compiere i doveri di buon cristiano, Dio vuol rendervi felici e poco costo, e voi siete si codardi e sì vili di non voler fare quel poco che vi richiede? Ah! non siate cotanto insensibili ai vostri veri interessi! Voi avete in questo nuovo anno formato o dovuto formare la sincera risoluzione d’essere di Dio, di servirlo fedelmente durante quest’anno, e tutto il restante di vostra vita; siate dunque, come i magi, coraggiosi e costanti per eseguire le vostre risoluzioni. – All’uscire da Gerusalemme videro di nuovo i magi la stella che era agli occhi loro sparita; il che fu per essi un gran motivo d’allegrezza: la sua vista non fece che confermarli nel buon disegno che formato avevano di andare ad adorare il nuovo re: continuano dunque il loro viaggio, arrivano a Betlemme, entrano nella casa; ma qual esser deve la loro sorpresa alla vista dell’oggetto che agli occhi loro si presenta! Una povera abitazione ed un bambino povero che è tra le braccia d’una madre povera! Ed è questo dunque, dice debole loro ragione, il re che la stella ci ha annunziato, il Signore del cielo e della terra, il desiderato dalle nazioni, il Messia da tanti secoli aspettato? Qual palazzo! Quali cortigiani! Quale apparecchio di grandezza! Ah! gli è in questo momento che mostrano l’attività tutta e la costanza della loro fede. No, non sono sgomentati né dalla povertà del luogo né da quella del Bambino e della Madre; la loro fede, che s’innalza al di sopra della loro ragione, mostra ad essi un Dio nascosto sotto la debolezza di quel bambino, ed adorano, dice S. Leone, il Verbo nella carne, la sapienza nell’infanzia, la forza nell’infermità, ed il Dio di maestà sotto la forma di nostra natura. Gli danno testimonianza della fede che li anima con i regali che gli offrono; riconoscono il suo regno con l’oro che gli presentano; la sua umanità con la mirra, e la sua divinità con l’incenso: ma l’omaggio ed il regalo il più prezioso che gli fanno si è quello dei loro cuori e delle loro persone. Non contenti di mettere ai suoi piedi il loro scettro e la loro corona, gli fanno omaggio della loro mente con una viva fede, e del loro cuore con l’amor più generoso; si dedicano interamente al suo servizio, sottomettono al suo impero le loro persona e i loro regni. – Tale è, cristiani, il bel modello che noi dobbiamo imitare. Giacché formata abbiamo la risoluzione di donarci a Dio, dobbiamo essere fedeli e costanti nei nostri buoni proponimenti, darci a Lui senza riserva. Non ci chiede egli i nostri beni, non ne ha bisogno; ma ci chiede i nostri cuori. No, non vuole che gli presentiate né oro né mirra né incenso, ma bensì l’amore del vostro cuore rappresentato dall’oro; perché siccome l’oro è il più prezioso di tutti i metalli, cosi l’amor di Dio è la più preziosa di tutte le virtù: la mortificazione dei vostri corpi è rappresentata dalla mirra; perché siccome la mirra preserva i corpi dalla corruzione, così la mortificazione, preserva l’anima dal contagio del peccato. Finalmente, per l’incenso che i magi offrirono a Gesù Cristo, convien presentargli il sacrificio delle vostre menti coll’orazione; perché in quella guisa che l’incenso s’innalza col suo fumo nell’aria, nello stesso modo l’orazione sale al trono di Dio per far discendere su di noi le grazie di cui abbiamo bisogno. Tali sono, fratelli miei, i donativi che Gesù Cristo da voi attende; con quest’offerta acquisterete il suo cuore e regnerà su di voi. Egli è vostro Dio, vostro re, vostro Salvatore; quanti titoli che vi sollecitano a darvi a Lui senza riserva, fargli sacrificio delle vostre menti, dei vostri cuori e dei vostri corpi! Delle vostre menti con una viva fede e con ferventi preghiere; dei vostri cuori con un amore ardente; dei vostri corpi con una mortificazione continua che portar dovete sopra di voi medesimi per essere del numero dei suoi discepoli. In questa guisa convien cercare Gesù Cristo, e così lo troverete. Ma, dopo averlo ritrovato, bisogna, come i magi, conservare sollecitamente la sua grazia ed il suo amore, e con questo finisco in poche parole.

II. Punto. Invano avrebbero i magi fatto tanti passi per cercar Gesù Cristo, invano superato avrebbero tanti ostacoli per ritrovarlo, se non si fossero dati a Lui per sempre! Per esser efficacemente di Dio, non bisogna mai rallentarsi dalle buone risoluzioni che si sono formate: è necessario perseverare nel suo servigio sino alla morte: da questa fedeltà dipende la nostra felicità eterna. Ce ne danno i magi un bell’esempio nel ritorno ai loro paesi. Ben lungi dal ritornare in casa di Erode, come questo principe aveva loro detto, prendono, dice il Vangelo, una altra strada per andarsene a casa loro: Per aliam viam reversi sunt in regionem suam (Matth. II). Sanno che questo barbaro principe va macchinando la morte di Gesù Cristo; la terna che egli non colga il momento di sacrificare al suo furore il nuovo re, fa loro preferire un viaggio più lungo e più difficile per sottrarre Gesù Cristo dalla morte e non espor se stessi al rischio di perdere la vita della grazia.

Pratiche generali. Ecco il modo, fratelli miei, con cui regolar vi dovete, dopo aver pur veduto Gesù Cristo nascere nei vostri cuori; fuggir bisogna le occasioni di offenderlo e di perder la grazia; bisogna aver in orrore la casa di Erode, cioè quelle case di dissolutezza e di libertinaggio ove si trama e si dà la morte a Gesù Cristo, ove si perde la vita della grazia; bisogna fuggire lo stesso Erode, cioè quelle persone scandalose che servono di strumento al demonio per indurre gli altri al peccato. Invano vi lusinghereste voi di conservar la vita della grazia nelle occasioni che altre volte ve l’hanno fatta perdere; se voi vi esponete al pericolo, infallibilmente vi perirete, qualunque buona risoluzione abbiate presa di salvarvi. Conviene, sull’esempio dei magi, seguire una strada diversa da quella che avete sinora seguito. Invece di andare in quelle case, di frequentare quelle persone che sono state per voi pietre d’inciampo, bisogna allontanarvene; frequentare piuttosto dovete i luoghi santi, le persone di pietà, i cui buoni esempi vi animeranno alla virtù. Vegliate su di voi medesimi, abbiate una continua attenzione per scansare le insidie che il mondo ed il demonio vi presentano, se conservar volete la grazia del vostro Dio. Ohimè! Fin adesso voi forse non avete seguite che le vie d’iniquità; abbandonati vi siete al torrente delle vostre passioni; la vostra vita si è forse tutta passata nel peccato e nella disgrazia di Dio; voi non vi siete sforzati di ricuperare la sua amicizia; voi non avete riandati nell’amarezza del vostro cuore gli anni scorsi che avete sì mal impiegati. Ecco un nuovo anno che il Signore vi dà per riparare il passato: forse non avete più che questo a vivere; forse non ne vedrete il fine. Impiegatelo dunque unicamente alla vostra salute; profittatene per accumular tesori per il cielo, vivendo diversamente da quello che avete fatto sino al presente; sicché vi vediamo più assidui ai divini uffizi, più esatti a frequentar i sacramenti, più diligenti, più edificanti nelle vostre famiglie, di modo che voi ne siate gli apostoli, siccome i magi lo furono nei loro regni, dove conoscer fecero il Salvatore a quelli, che l’ignoravano. Fatene altrettanto colle vostre istruzioni, coi buoni consigli, coi buoni esempi. Conservate diligentemente il prezioso deposito della fede; siate fedeli a seguire i lumi di questa celeste fiaccola che vi rischiara; rendete pratica questa fede con le buone opere, e la sua luce vi condurrà al porto della salute eterna.

Pratiche particolari. Venite ad adorare Gesù Cristo nel suo santo tempio con i medesimi sentimenti, con cui i magi l’adorarono nella sua culla; visitatelo nei poveri e negl’infermi, i quali tengono la sua vece; ma le vostre visite non siano sterili: offritegli qualche porzione dei vostri beni nella persona dei suoi poveri; tiene Egli come fatto a sé stesso tutto ciò che si fa per essi. – Ringraziate questo divin Salvatore di avervi chiamati alla fede nella persona dei re magi; producete spesso atti di questa fede, fatela conoscere con le buone opere. – Invece dei tre regali che i magi fecero a Gesù Cristo, offritegli il vostro cuore acceso di carità, si è l’oro che Egli domanda da voi; offritegli la vostra mente applicata all’esercizio, dell’orazione è questo l’incenso ch’Egli esige; offritegli il vostro corpo dedicato alla pratica della mortificazione, è la mirra che Egli da voi attende; in virtù di questa offerta privatevi di qualche agio, evitate soprattutto gli eccessi cui molti si abbandonano in questo santo giorno. Domandate perdono per quelli che offendono il Signore, recitando a tal fine il salmo Miserere! Se vi prendete qualche sollazzo, il Signor ne sia il principio e il fine: Gaudete in Domino. Ricordatevi sempre che ricercar non dovete alcuna vera allegrezza se non nel cielo. Io ve la desidero.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps LXXI:10-11
Reges Tharsis, et ínsulæ múnera ófferent: reges Arabum et Saba dona addúcent: et adorábunt eum omnes reges terræ, omnes gentes sérvient ei.
[I re di Tharsis e le genti offriranno i doni: i re degli Arabi e di Saba gli porteranno regali: e l’adoreranno tutti i re della terra: e tutte le genti gli saranno soggette.]

Secreta
Ecclésiæ tuæ, quǽsumus, Dómine, dona propítius intuere: quibus non jam aurum, thus et myrrha profertur; sed quod eisdem munéribus declarátur, immolátur et súmitur, Jesus Christus, fílius tuus, Dóminus noster: [Guarda benigno, o Signore, Te ne preghiamo, alle offerte della tua Chiesa, con le quali non si offre più oro, incenso e mirra, bensì, Colui stesso che, mediante le medesime, è rappresentato, offerto e ricevuto: Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore:

Communio
Matt 2:2
Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum.
[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni ad adorare il Signore.]

Postcommunio
Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, quæ sollémni celebrámus officio, purificátæ mentis intellegéntia consequámur.
[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che i misteri oggi solennemente celebrati, li comprendiamo con l’intelligenza di uno spirito purificato.]

S. SIMEONE STILITA

5 Gennaio.

S. SIMEONE STILITA

[Raccolta di vite dei Santi – I vol. Prima ed. veneta, Venezia, 1778]

Secolo V

Le azioni meravigliose di S. Simeone Stilita sono state descritte nel suo Filoteo al cap. 26. da Teodoreto, il quale viveva nel medesimo tempo, ed era Vescovo di  Ciro, città della Siria, dove il Santo dimorava ; e anche da Antonio discepolo dello stesso S. Simeone, e da altri. Il Filoteo di Teodoreto è riportato dal Rofweido nella Vite dei Padri dell’Eremo lib. 9, e la vita di Antonio, la più sincera si trova presso i Bollandisti. Si veda ancora il Tillemont nelle Memorie su la Stor. Eccl, Tom, 15.

1. Simeone, soprannominato lo stilita, a cagione di aver vissuto lungo tempo sopra una colonna, è uno di quei personaggi straordinari, che Iddio ha fatto comparire nel mondo, piuttosto come monumenti della sua onnipotenza, e dell’efficacia della sua grazia, che come modelli, ed esempi da imitarsi. Nondimeno servirà la sua storia sincerissima, ed autentica ad animare la nostra fiducia nell’aiuto divino per superare tutte le difficoltà, che s’incontrano nella via della salute: giacché il Signore si degnò di assistere questo suo Santo nell’esercizio di una vita prodigiosissima, nella quale ancora, se la considereremo bene, troveremo non poche cose, che possono servire per nostra istruzione, e per nostro profitto.

2. La patria di Simeone fu un borgo di Cilicia chiamato Sisan, in cui nacque circa lanno 391, ed i suoi genitori attendevano alla cura delle pecore, nel qual mestiere allevarono ancora quel loro figliuolo. Un giorno, in cui il gregge non poteva uscire a pasturare, a cagione delle nevi, andò Simeone alla Chiesa, dove sentì leggere quelle parole del Vangelo: Beati sono quei, che piangono: beati quelli, che hanno il cuor puro; e non intendendone bene il senso, domandò ad un buon vecchio, che cosa si doveva fare per entrare nel numero di questi beati. Bisogna digiunare, rispose il vecchio, bisogna sopportare la nudità, le ingiurie, gli obbrobri, bisogna gemere, e vegliare, e fare orazione, prendendo appena un poco di sonno ed essere paziente nelle malattie, rinunziare a quelle cose del Mondo che più si amano; essere umiliato, e perseguitato dagli uomini, senza affettare alcuna consolazione in questa vita. “Capite voi queste cose, o figliuolo? Se le capite, si degni anche il Signore di darvi per sua misericordia la volontà dì praticarle”.

3. Allora Simeone aveva solamente tredici anni; ma pure queste parole fecero in lui tale impressione, che dopo aver pregato Dio, acciocché lo guidasse per la strada della perfezione, se ne andò ad un monastero vicino, ove si trattenne due anni fotto la disciplina di un Santo Abate, chiamato Timoteo.. Passato questo tempo, il desiderio di sempre più avanzarsi nella pietà lo indusse a portarsi ad un altro monastero, governato da Eliodoro, e composto di ottanta Monaci, che si esercitavano nelle più penose opere di mortificazione. Ma il nostro Santo superava tutti gli altri nel rigore dell’attinenza; e dove gli altri digiunavano un giorno si, e un giorno no. Egli si ristorava una sola volta la settimana, e dava il resto del suo cibo segretamente ai poveri.

4. Aggiunse altresì a questo digiuno sì austero un altro supplizio per macerare il suo corpo; poiché essendosi accorto, che la corda, con cui si attingeva l’acqua del pozzo, era molto ruvida per essere composta di foglie di palma; egli si cinse il corpo con essa, e si strinse talmente i reni, che penetrò ben dentro alla carne. Questo nuovo genere di penitenza fu ignoto ai Monaci per lo spazio di dieci giorni; dopo dei quali il fetore ed il sangue, che usciva dalla piaga, lo rendé palese al monastero. L’Abate pertanto volle che si levasse quella corda, e bisognò nel cavarla fuori portar via della carne viva con grandissimo dolore dei paziente, il quale stentò due mesi a guarire; dopo i quali fu licenziato da quel luogo per timore, che l’esempio dell’eccessiva sua penitenza non pregiudicasse a qualcuno dei compagni. Per la. qual cosa Simeone si ritirò sulle montagne vicine, dove avendo ritrovato una cisterna secca, vi discese, e si pose ivi a cantare le lodi del Signore, fintantoché l’Abate Eliodoro coi principali del monastero da lui governato lo richiamarono, e cavatolo da quel luogo, lo condussero tutto languido all’antica abitazione, donde per altro egli partì poco dopo e si ritirò a Telanisse, luogo situato ai piedi di una montagna non molto discosta da Antiochia, rinchiudendosi per tre anni in un piccolo tugurio abbandonato.

5. Ivi il Santo determinò d’imitare il digiuno di Mosè, di Elia, e di Gesù Cristo, passando i quaranta giorni della Quaresima senza mangiare. Comunicò una tal risoluzione a Basso visitatore delle parrocchie di quei contorni, e lo pregò a murar la porta del suo tugurio senza lasciarvi niente da mangiare. Basso, che era un Prete virtuoso, ed illuminato, gli rappresentò le conseguenze di questa straordinaria condotta, aggiungendo ancora, che il darsi la morte da se medesimo non era già una virtù, ma anzi il più enorme di tutti i delitti. Allora Simeone disse: Mettetevi, o padre, dieci pani, e un vaso di acqua acciocché se ho bisogno di ristoro possa prevalermene. Il che fu prontamente eseguito, e poi fu murata la porta. Passati i quaranta giorni ritornò Basso, ed essendo entrato in quel tugurio, ritrovò tutto il pane, che non era stato toccato, e il vaso di acqua parimente pieno, e Simeone colcato per terra senza voce, e senza moto. – Basso inumidì coll’acqua la bocca del Santo, gli lavò il viso, ed avendolo fatto ritornare in sé, gli diede l’Eucaristia, e dopo lo fece mangiare; e questo cibo non consistè se non in lattughe, e cicoria, che egli masticò, e inghiottì a poco a poco. Essendogli così riuscita questa prova, continuò ogni anno a passare nello stesso modo la Quaresima; nei primi giorni della quale lodava Dio, stando sempre diritto in piedi: indi non potendo più reggersi in quella positura, sedeva facendo pure orazione; e negli ultimi giorni stava steso per terra tutto languido, e spossato.

6. Finiti i tre anni di dimora in quel tugurio, salì sulla cima della montagna, ove fece fare uno steccato di pietre, e vi si rinchiuse, risoluto di vivere allo scoperto, ed esposto alla inclemenza delle stagioni; portando al piede destro una catena di ferro lunga venti cubiti, attaccata ad una grossa pietra, affinché gli si rendesse impossibile 1’uscire da quel recinto. Ma Melezio, vicario pel Patriarca di Antiochia, in occasione che visitava quei luoghi della sua diocesi, avendo veduto in tale stato Simeone, gli disse, che una volontà stabile e fissa nel bene lo doveva tenere attaccato alla solitudine, e non una carena di ferro, e così lo persuase levarsela subito, come fece.

7. La fama della santità di Simeone cominciò allora a spargersi da per tutto: onde gli erano condotti dei malati, acciocché li guarisse, ed ottenendo essi il loro intento, palesavano la virtù di Simeone che era perciò visitato da un gran numero di persone, le quali venivano ad implorare il suo aiuto. Per non esser disturbato dalla orazione, egli credette a proposito di collocarsi sopra una colonna e ne fece fabbricare di varie e differenti altezze, la più alta delle quali fu quaranta palmi, o cubiti; la cima di essa aveva tre piedi di diametro, ed era circondata da un piccolo recinto simile ai nostri pulpiti. Moltissimi biasimavano un genere di vita sì st, altri lo schernivano; ed alcuni oltraggiavano il Santo, e lo trattavano da impostore, talmenteché gli altri Solitari giunsero a volersi separare dalla sua comunione. Ma i più savi fra loro stimarono, che prima di prendere alcuna risoluzione, fosse necessario di bene informarsi, da quale spirito procedesse una simile straordinaria condotta di Simeone. Mandarono  pertanto a lui in nome dei Vescovi, e dei Solitari un deputato, che gli comandasse di calar subito dalla colonna; con quello però, che se vedeva Simeone disposto ad ubbidire, lo lasciasse vivere a suo modo, ma se ricusasse di ubbidire, lo trattasse come un impostore, e ribelle. Il deputato dunque avendo dichiarato il suo ordine, ed avendo ritrovato il Santo prontissimo a scendere dalla colonna, lo confortò a perseverarvi, accorgendosi, che esso era guidato dallo Spirito Santo per una strada sì difficile, e sì impraticabile senza un particolare celeste soccorso.

8. Il Patriarca di Antiochia volle vedere uno spettacolo sì prodigioso della onnipotenza divina, e però andò a ritrovar Simeone; ed avendo veduto il suo tenore di vita, ne rimase oltre modo ammirato, ed esso stesso gli portò i sacrosanti Misteri, dandogli di sua mano l’Eucaristia. L’orazione era quasi la continua occupazione del Santo, ed ora la faceva diritto in piedi, ora col corpo chino; e nelle principali solennità passava tutta la notte in piedi con le mani stese. Ogni giorno cominciava a far orazione dopo il tramontar del Sole, e durava fino a tre ore dopo il mezzo giorno del dì seguente, e d’allora fino alla sera istruiva gli astanti, che a lui venivano da tutte le parti, rispondeva a quelli che lo interrogavano, guariva i malati, componeva le differenze, riconciliava i discordi.

9. Si mostrava Simeone mansueto, e gioviale ad ognuno, non facendo distinzione di persone, ed esercitava la sua carità ugualmente verso di tutti; e perciò non ricusava di soccorrere con i suoi consigli, e con le sue preghiere gli uomini più bassi, e più poveri, niente meno che i ricchi, ed i potenti. Venendo eziandio molti per curiosità a vedere un sì nuovo, e straordinario spettacolo, Iddio si servì di questo mezzo, per convertire molte migliaia d’infedeli di diverse nazioni, i quali se ne ritornavano penetrati, e compunti dalle parole divine, che uscivano dalla sua bocca. I Vescovi, e gli Imperatori lo consultavano sugli affari della Chiesa per i quali il Santo si interessava moltissimo, e rispondeva con gran libertà, e coraggio tanto ai Magistrati, che ai Prelati, inculcando loro i propri doveri. Ma nello stesso tempo era sì umile, e sì abietto agli occhi suoi, che si considerava, come il più vile di tutti gli uomini; e diceva agli infermi, che aveva risanati: Se qualcuno vi domanda, chi vi ha guarito, rispondete, che è stato Dio; e guardatevi dal nominar Simeone, altrimenti ricadrete nelle vostre infermità.

10. Piacque al Signore di dare occasione al Santo di esercitarsi vieppiù nell’umiltà, che è il carattere di tutti gli eletti, permettendo, che non ostante i doni, che aveva ricevuti, e di profezia, e di miracoli, fosse oltraggiato, e villanamente vilipeso da più d’uno. Si aggiungevano a ciò le sue infermità, e le sue piaghe, le quali sebbene erano cagionate dalle sue austerità, servivano però ad umiliare il Santo, e ad esercitarlo nella virtù della pazienza; né gli mancarono eziandio gagliarde e continue tentazioni, con le quali il demonio, invidioso di tanta virtù, non il lasciava di molestarlo. Una volta tra le altre, gli apparve in un carro risplendente di fuoco, e come se fosse un Angelo di luce, lo invitò a salirvi, per essere trasportato in Paradiso. Il Santo non esaminando bene in quel punto la visione, alzò un piede per accettare l’invito, e si segnò col segno della Croce. Ma in un momento, dopo fatto questo segno salutare, disparve ogni cosa; |e Simeone per punire la sua troppa credulità, si condannò a tener sospeso in aria quel piede, ch’era flato sì pronto ad alzarli. L’incomodità di tal positura, unita ai rigori dell’ inverno gli cagionò una gran piaga in una coscia, la quale egli non volle curare, come neppur faceva curare un’altra, che da gran tempo aveva in un piede. Da queste piaghe, uscivano continuamente dei vermi, dai quali si lasciava divorare: e Iddio per mostrare, quanto gradisse la mortificazione, e pazienza di Simeone, e quanta gloria tenesse preparata a quelle membra mezzo infradiciate dalle penitenze, dispose che essendo un giorno caduto dalla colonna, dove dimorava, uno di quei vermi, e preso in mano da Basilio Re de’ Saracini, ch’era venuto a visitarlo, si cangiasse in una bellissima perla preziosa, come riferisce Antonio suo discepolo, e testimonio di vista, che è uno degli Scrittori della sua Vita.

11. Visse Simeone un anno intero dopo la sofferta illusione del demonio; e trovandoli già quali interamente consumato da un sì lungo martirio, sentì avvicinarsi il suo termine: ed essendosi chinato per fare orazione, senza rialzarsi all’ora, in cui soleva far le solite istruzioni, né arrischiandosi alcuno d’interrompere la sua orazione; dopo tre giorni dall’odore soave, che tramandava il suo corpo, e dallo splendore del suo volto s’avvidero, ch’era passato all’altra vita: il che seguì l’anno 461, essendo il Santo in età d’anni sessantanove, trentasette dei quali aveva passati sopra varie colonne di diversa altezza, come di sopra si è detto, l’ultima delle quali era distante d’Antiochia circa quaranta miglia. – La vita prodigiosa di questo Santo martire della penitenza, attestata dal gran Teodoreto Vescovo di Ciro nella Siria, che più volte parlò con lui, e da altri testimoni irrefragabili, e contemporanei, oh quanto deve riempiere di confusione coloro, che professandosi seguaci di un Dio crocifisso, menano una vita molle, e deliziosa, né sanno soffrire e con pazienza e rassegnazione le malattie, o altre tribolazioni, con cui piace al Signore di visitarli per loro bene! Quanto ancora dobbiamo temere le insidie di satanasso, il quale, come avverte l’Apostolo, non di rado si trasfigura in Angelo di luce per ingannare, e sedurre: Siamo vigilanti, ed attenti sopra di noi stessi; con lo scudo della Fede, e con la spada della parla di Dio, e dell’orazione, come ci esorta lo stesso Apostolo, procuriamo di ribattere le saette infocate delle sue tentazioni, e muniamoci del segno salutare della Croce, per mettere in fuga un sì furibondo

GREGORIO XVII IL MAGISTERO IMPEDITO: DIO E MAMMONA

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

DIO E MAMMONA

[«Renovatio», VI (1971), fasc. 1, pp. 3-4]

 Molti teologi hanno la grave tentazione di ridurre la teologia all’«antropologia». Si tratta di vera tentazione, perché se una teologia antropologica vuol mettere l’uomo al centro, cioè al posto di Dio, rischia di diventare addirittura blasfema; se intende sostituire le istanze umane a quelle divine, dando importanza preminente al benessere di questo mondo sull’asse vita eterna, diventa degenerata rispetto al suo compito. Può semplicemente occuparsi della parte che riguarda l’uomo – e questa esiste realmente ed obiettivamente in teologia – ma, il farlo in modo unilaterale, implica il pericolo di cadere nei due casi sopra esposti. – Conseguenza grave di una teologia ridotta ad antropologia è il costringere il Cristianesimo ad una mera istanza sociale. Il sociologismo, infatti, ha molte sfumature e varianti; però sposta sempre più o meno l’ago della verità e della realtà da come sono nella divina rivelazione. E per questo motivo che la nostra rivista non esce dalla sua programmatica funzione, se deve toccare qualche argomento in qualche modo sociologico. Per i veri Cristiani l’argomento sociale ha sempre avuto come perno la persona umana, tanto degnata da Dio; per gli altri in modo più generale il perno è sempre stato non la persona, anche se si usa ed abusa del termine «libertà», ma il benessere e la sua spartizione. Perché esista una società, e non un mero aggregato, una folla, occorre un’autorità, comunque venga designata. I più accesi sostenitori di rivoluzioni sociali, da essi presentate come redentrici dei lavoratori, hanno terribilmente dilatato i compiti dell’autorità. Non solo non ne hanno potuto fare a meno – il che è eloquente – ma hanno dovuto esasperarli. Ma c’è un altro fatto interessante. Si è allargato lo spazio dell’autorità: costruendola come un potere delegato dal basso. Questo è il potere quale oggi lo abbiamo di fronte: in diverse forme di esercizio, dalla legittima spregiudicatezza alla disonestà. Naturalmente bisogna tenere conto del potere che taluni, senza alcuna delega, si sono costruiti per conto proprio [Qui è evidente l’allusione agli usurpanti “vertici” della Chiesa Cattolica, agli antipapi imposti dalle conventicole massoniche al servizio del Gran Kahal!-ndr. -]. Il potere non è il denaro, ma, ordinariamente, al punto a cui siamo arrivati oggi, esso dispone a suo piacimento del denaro. La corsa al potere, che è lo spettacolo più impressionante del nostro piccolo mondo, è spesso giustificata dalla sete del denaro. Tra i «poteri» ci sono quelli sull’opinione pubblica, oggi i più tracotanti ed i meno controllati. Ma si tratta sempre di denaro, economia. In sé non è pertanto cattivo; ma, per la capacità che ha di aprire tutte le porte, condiziona ogni potere prettamente terrestre, tanto quanto ne è condizionato. La sua mobilità e il suo impiego ne fanno il centro di tutti gli appetiti. E tuttavia molte strutture stanno spingendo le cose in modo da assoggettare il denaro al potere. – Questa è la verità brutale della lotta per la quale una parte degli uomini combatte, mentre gli altri credono sia questione di ideali.

Il Vangelo ha opposto «mammona» a Dio. Nella sua corsa più generosa, quella verso la parità dei diritti, l’equa distribuzione dei beni, la serena convivenza dei popoli, il genere umano si trova impegolato di fatto nel gioco a spirale tra il potere e il denaro. Per i più il soggetto della economia non è, come dovrebbe essere, l’uomo: sono le «cose». – È su questo sfondo realistico e brutale che si colora il tentativo di far diventare la teologia un’antropologia. E ripiglieremo il discorso perché ha aspetti anche più gravi.

L’uomo si salva solo quando è umile e diventa grande quando adora Dio.