UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – NOSTIS ET NOBISCUM

Indubbiamente, questa lettera enciclica merita attenta riflessione ancor oggi in una Nazione oramai allo sbando sociale, culturale, politico, istituzionale, e soprattutto spirituale. I mali denunciati dal Sommo Pontefice dell’epoca, si sono ampliati fino a raggiungere una portata incommensurabile. Tutti gli argomenti, seppure brevemente, ma efficacemente, sono stati toccati e denunciati dal Pontefice, come le perverse ideologie politiche, socialismo e comunismo, le perverse ed ingannevoli macchinazioni della stampa e della empietà protestante nonché delle conventicole (massoniche e kazare), ma somma attenzione è posta al male sovrano che ha poi sconvolto non solo la Nazione italica, fino a farla divenire terra di Sodoma e di Babilonia, ma tutto l’orbe Cattolico: « … Questi superiori ricorderanno incessantemente, e cogli avvertimenti, e colle rimostranze, e coi rimproveri, ai religiosi delle loro case, ch’essi devono seriamente considerare con quali voti si sono a DIO legati, attendere e mantenere le promesse fatte osservare inviolabilmente le regole del loro istituto, e portando nei loro corpi la mortificazione di GESÙ, astenersi da tutto ciò che è incompatibile colla loro vocazione, dedicarsi interamente a quelle opere che alimentano e crescono la carità verso DIO ed il prossimo, e l’amore della perfetta virtù. Oltreciò, i moderatori di questi ordini invigilino attentamente perché l’ingresso in Religione non sia aperto a chicchessia se non dopo maturo e scrupoloso esame della sua vita, de’ suoi costumi e del suo carattere, e perché nessuno possa esser ammesso alla professione religiosa, se non dopo aver date, in un noviziato fatto secondo le regole, prove di vera vocazione … ». Queste raccomandazioni, allora e successivamente, sono state disattese al punto da corrompere totalmente il clero ed i religiosi [tranne rarissime eccezioni], e rendere possibile l’insediamento e l’infiltrazione dei nemici più tenaci della Chiesa, fino ai vertici – come la Vergine a La Salette e a Fatima, e Papa Leone XIII avevano ben profetato, così da rendere possibile l’azione scardinante di personalità come Rampolla, Lienart, Tisserant, Bea, Roncalli, G. B. Montini, Frings, S. Baggio, Casaroli, A. Bugnini, M. Lefevre, C. M. Martini… ed una massa infinita di gay massoni e kazari-marrani di ogni livello e grado, che hanno permesso il trionfo [apparente!] del nemico sulla società tutta e le nazioni un tempo strappate al potere tenebroso del demonio, nemico oggi tronfio nella sinagoga satanica del “novus ordo” del Vatigay e delle conventicole pseudotradizionaliste, stampelle traballanti della falsa chiesa dell’uomo. Non ci resta che approfondire e fare nostre, se pur tardivamente, ma pur sempre valide e degne di ogni considerazione, tutte le indicazioni di sua Santità, il Beato Pio IX, disconoscendo totalmente le s. s. [… sue satanità] attuali, guide infernali e della dannazione eterna: Nostis et nobiscum una conspicitis, Venerabiles Fratres, quanta …

Nostis et nobiscum

PIUS PP. IX.

AGLI ARCIVESCOVI E VESCOVI D’ITALIA

Venerabili Fratelli,

Salute ed Apostolica Benedizione!

Voi sapete e vedete siccome noi, Venerabili Fratelli, per quale perversità hanno prevalso in questi ultimi tempi certi uomini perduti, nemici d’ogni verità, d’ogni giustizia, i quali, sia colla frode e con artifizi d’ogni maniera, sia ancora apertamente e gettando, come mare spumoso, la feccia delle loro nequizie, si sforzano di spandere per ogni dove, tra i popoli fedeli d’Italia, la sfrenata licenza del pensiero, della parola, di ogni atto empio ed audace, per abbattere nell’Italia stessa la Religione Cattolica e, se fosse possibile, schiantarla dalle fondamenta. Tutto il piano del loro diabolico divisamento si è rivelato in diversi luoghi, ma specialmente nella diletta città, sede del supremo Nostro Pontificato, nella quale, dopo averci costretti ad abbandonarla, essi poterono per alcuni mesi dar più libero sfogo a tutti i loro furori. Là, in un orribile e sacrilego tramestamento delle cose divine ed umane, la loro rabbia s’accrebbe a tal punto che, disprezzando l’autorità dell’illustre Clero di Roma e dei Prelati, che per ordine Nostro stavano intrepidi alla sua testa, non li lasciarono neppure continuar in pace l’opera del santo lor ministero, e senza pietà pei poveri malati in preda alle angosce della morte, allontanavano da loro tutti i soccorsi della Religione e li costringevano a rendere l’anima fra gli allettamenti di qualche sfrontata meretrice.  – Ora benché la città di Roma e le altre provincie dello Stato Pontificio siano state, grazie alla misericordia di Dio, restituite mediante le armi delle nazioni cattoliche, al nostro temporale governo; benché le guerre ed i disordini che ne sono la conseguenza, siano egualmente cessate nelle altre contrade d’Italia, cotesti infami nemici di DIO e degli uomini non desistettero però, né desistono dal loro lavoro di distruzione; essi non possono adoperare la forza aperta, e ricorrono perciò ad altri mezzi, quali velati sotto fraudolenti apparenze, quali visibili a tutti. In mezzo a sì grandi difficoltà portando Noi il carico supremo di tutto il gregge del Signore, e penetrati essendo dalla più profonda afflizione alla vista dei pericoli cui vanno specialmente esposte le Chiese d’Italia, riesce però alla nostra infermità, fra tanti dolori, di grande consolazione, o Venerabili Fratelli, lo zelo pastorale, del quale voi, anche nel più forte della burrasca testè passata, deste tante prove, e che si manifesta ogni giorno con sempre più splendide testimonianze. Ciò non pertanto la gravità delle circostanze ci stimola ad eccitare anche più vivamente colle nostre parole ed esortazioni, secondo il dovere del nostro apostolico ufficio, la vostra fraternità, chiamata a parte delle nostre sollecitudini, a combattere e con noi e nell’unità le guerre del Signore, e preparare ed a prendere d’unanime consenso tutte quelle misure, per le quali colla benedizione di Dio, ne venga dato riparare al male già fatto in Italia alla nostra santissima Religione, e siano pervenuti e respinti i pericoli, de’ quali un avvenire prossimo la minaccia.  – Tra le frodi senza numero che i suddetti nemici della Chiesa sogliono adoperare per mettere in uggia agl’Italiani la fede Cattolica, una delle più perfide si è l’affermare che essi fanno impudentemente e spacciare per tutto a piena gola, che la Cattolica Religione è un ostacolo alla gloria, alla grandezza, alla prosperità dell’italica nazione, e che perciò, per restituire all’Italia lo splendore degli antichi tempi, vale a dire dei tempi pagani, gioco forza è toglier di mezzo la Religione Cattolica, ed in sua vece insinuare, propagare e stabilire gl’insegnamenti dei protestanti e le loro conventicole. Non si saprebbe giudicare qual cosa in tali affermazioni sia più detestabile; se la perfidia dell’empietà furibonda, ovvero l’impudenza della sfrontata menzogna. – Il bene spirituale per cui, sottratti noi alla potestà delle tenebre, siam trasportati nella luce di Dio e, giustificati colla grazia, siam fatti eredi del CRISTO nella speranza della vita eterna, questo bene delle anime derivante dalla santità della Religione Cattolica è certamente di tal pregio e valore che, a petto di esso, tutta la gloria e felicità di questo mondo deve essere riguardata come puro nulla: «Quid enim prodest homini si mundum universum lucretur, animæ vero suæ detrimentum patiatur? aut quam dabit homo commutationem pro anima sua? (Matt. XVI, 26). » Ma tanto è lungi che la professione della vera fede abbia cagionato alla gente italica i danni temporali di cui si parla, che anzi alla sola Religione Cattolica essa va debitrice, se nello sfasciarsi del romano impero ella non fu ravvolta nella rovina che toccò ai popoli dell’Assiria, della Caldea, della Media, della Persia, della Macedonia. In fatti, nessun uomo leggermente istruito ignora che non solo la santissima Religione del CRISTO ha liberato l’Italia dalle tenebre di tanti e sì gravi errori che tutta la coprivano, ma di più frammezzo alle rovine dell’antico impero, e le invasioni de’ barbari devastanti tutta Europa l’ha innalzata in gloria e grandezza sopra tutte le nazioni del mondo, per forma che par singolar beneficio di DIO, possedendo l’Italia nel suo seno la sacra Cattedra di Pietro, ottenne per la divina Religione un impero troppo più solido ed esteso, che non l’antica sua terrestre denominazione. Questo peculiarissimo privilegio di possedere la Sede Apostolica, e del metter che fece conseguentemente la Religione Cattolica più forti e profonde radici tra i popoli d’Italia, fu per lei la sorgente di altri insigni ed innumerevoli benefici. Imperocchè la santissima Religione del Cristo, maestra della vera sapienza, protettrice e vindice dell’umanità, madre feconda di tutte virtù, spense nell’animo degl’Italiani quella sete funesta di gloria, che aveva trascinati i loro maggiori a fare perpetuamente la guerra, a tener i popoli stranieri nell’oppressione, a ridurre, secondo il diritto di guerra allor vigente, un’immensa quantità d’uomini alla più dura schiavitù, e nello stesso tempo rischiarando le loro menti cogli splendori della Cattolica Verità, li recò con potente impulso alla pratica della giustizia, della misericordia, alle opere più magnifiche di pietà verso Dio e di beneficenza verso gli uomini. Di che sorsero nelle principali città italiane tante sante basiliche ed altri monumenti delle età cristiane, i quali non furono già l’opera dolorosa di una moltitudine gemente nel servaggio, ma sì veramente il libero frutto di una carità vivificante. Al che voglionsi aggiungere le pie istituzioni d’ogni maniera consacrate sia all’esercizio della vita religiosa, sia all’educazione della gioventù, alle lettere, alle arti, alla savia coltura delle scienze, sia infine al sollievo degl’infermi e degl’indigenti. Tale è dunque quella religione divina, che abbraccia: sotto tanti titoli diversi, la salute, la gloria e la felicità dell’Italia, quella Religione che oggidì si vorrebbe far rinnegare ai Popoli della Penisola. Noi non possiamo trattenere le lagrime, Venerabili Fratelli, nel vedere che si trovano in quest’ora degl’Italiani così perversi, così accecati da miserabili illusioni, che non temono di applaudire alle depravate dottrine degli empii, e cospirare con essi alla rovina della lor patria. Ma voi troppo sapete Venerabili Fratelli, che i principali autori di questa orribile macchinazione hanno per scopo di spingere i popoli, agitati da ogni vento di perverse dottrine, al sovvertimento d’ogni ordine nelle cose umane, e di traboccarli negli orrendi sistemi del nuovo socialismo e del comunismo.  – Ora cotesti uomini ben sanno e il veggono per la lunga esperienza di molti secoli, che essi non possono sperare nessun assenso per parte della Chiesa Cattolica, la quale, custode gelosissima del deposito della Rivelazione, non soffre mai che né un apice sia tolto od aggiunto alle verità proposte dalla Fede. Quindi è che eglino son venuti nel disegno di trarre gl’Italiani alle opinioni ed alle conventicole dei protestanti, nelle quali (ripetono essi continuamente a fin di sedurli) non si deve vedere altro che una forma differente della stessa vera Religione Cristiana, in cui si può piacere a DIO egualmente che nella Chiesa Cattolica. Frattanto essi sanno benissimo che nulla può tornar più utile all’empia lor causa, che il primo principio del protestantismo, il principio della libera interpretazione delle Sacre Scritture, fatto dal privato giudizio di ciascuno. Posto questo, dopo aver abusato delle Sacre Scritture, traendole a cattivo senso per ispandere i loro errori, essi sperano di potere, quasi in nome di Dio, spingere dipoi gli uomini, già gonfi dell’orgogliosa licenza di giudicare delle cose divine, a rivocar in dubbio eziandio i principii comuni del giusto e dell’onesto.  – Piaccia a DIO, Ven. Fratelli, piaccia a DIO che l’Italia, nella quale le altre Nazioni sono avvezze ad attingere le acque pure della sana dottrina, perché la Sede Apostolica è stabilita a Roma, non divenga per esse d’or in poi una pietra d’inciampo e di scandalo! Piaccia a Dio che questa cara porzione della Vigna del Signore non sia lasciata in preda alle fiere! Piaccia a Dio che i popoli italiani, dopo aver bevuta la demenza alla coppa avvelenata di Babilonia, non arrivino mai ad impugnar armi parricide contro la Chiesa lor madre! Quanto a Noi ed a Voi, cui DIO nel suo segreto giudizio ha riserbati a tempi di sì gran pericolo, guardiamoci bene dal temere le astuzie e gli attacchi di cotesti uomini che cospirano contro la Fede d’Italia, quasichè noi dovessimo vincerli colle nostre proprie forze, mentre che il Cristo è il nostro consiglio e la nostra forza; il CRISTO, senza del quale possiamo nulla, ma col quale possiamo tutto. Operate dunque, Venerabili Fratelli, operate, vegliate con attenzione sempre maggiore sul gregge che vi è affidato, e fate tutti i vostri sforzi per difenderlo dalle insidie e dagli attacchi dei lupi rapaci. Comunicatevi vicendevolmente i vostri disegni, continuate, siccome avete già cominciato, a tenere riunioni tra di voi, affinché, dopo avere scoperto per comune investigazione l’origine dei nostri mali, e, secondo la diversità dei luoghi, le sorgenti principali dei pericoli, voi possiate trovarvi, sotto l’autorità e la condotta della S. Sede, i rimedi più pronti, ed applichiate così, d’unanime accordo con Noi, coll’aiuto di DIO e con tutto il vigore dello zelo pastorale, le vostre cure e le vostre fatiche a render vani tutti gli sforzi, tutti gli artifizi, tutte le trame e tutte le macchinazioni dei nemici della Chiesa. – A questo fine bisogna che vi adoperiate continuamente, per timore che il popolo, troppo poco istruito intorno alla dottrina cristiana ed alla legge del Signore, istupidito dalla lunga licenza dei vizi, a mala pena arrivi poi a distinguere gli agguati che gli son tesi, e la tristizia degli errori che gli son proposti. Noi domandiamo con istanza alla vostra pastorale sollecitudine, Ven. Fratelli, di non cessar mai dall’adoperare tutte le vostre cure, acciocchè i fedeli a voi confidati vengano ammaestrati, secondo l’intelligenza di ciascuno, circa i santissimi dogmi e precetti di nostra Religione, e nello stesso tempo siano avvertiti ed eccitati con tutti i mezzi a confermar a questi la loro vita ed i loro costumi. – Infiammate per questo fine lo zelo degli ecclesiastici, specialmente di quelli che hanno cura di anime, affinché, meditando profondamente sul ministero ricevuto dal Signore, e tenendo dinanzi gl’occhi le prescrizioni del Concilio di Trento, si adoperino colla massima attività, secondo che esige la necessità dei tempi, all’istruzione del popolo, e procaccino d’imprimere in tutti i cuori le sacre verità, gli avvisi della salute, facendo loro conoscere con discorsi brevi e semplici i vizii che debbono fuggire per evitare la pena eterna, le virtù che devono praticare per ottenere la gloria celeste.  – Bisogna invigilare specialmente a ciò che i fedeli stessi abbiano profondamente scolpito nell’animo il dogma della nostra santissima Religione sulla necessità della Fede cattolica per ottener la salute. A quest’effetto sarà sommamente vantaggioso che, nelle pubbliche preghiere, i fedeli uniti al Clero rendano di tanto in tanto particolari azioni di grazie a Dio per l’inestimabile beneficio della religione cattolica, della quale van tutti debitori alla sua infinita bontà, e chiedano umilmente al Padre delle misericordie di degnarsi di proteggere e conservar intatta nelle nostre contrade la professione di questa medesima Religione. – Tuttavia voi vi farete uno studio speciale di amministrare a tutti i fedeli, in tempo conveniente, il Sacramento della Confermazione, il quale, per sommo benefizio di Dio, conferisce la forza di una grazia particolare per confessare con costanza la Fede Cattolica anche fra’ più gravi pericoli. Voi non ignorate pure esser molto conducevole allo stesso fine, che i Fedeli, purificati dalle sozzure dei loro peccati, espiati con una sincera detestazione e col Sacramento della Penitenza, ricevano frequentemente e con divozione la Santissima Eucaristia, la quale è il cibo spirituale delle anime, l’antidoto che ci libera dalle colpe quotidiane, e ci preserva dai peccati mortali; il simbolo di quel solo corpo di cui Cristo è il capo, ed al quale Egli volle che noi fossimo raggiunti col legame sì forte della Fede, della Speranza e della Carità, affinché formiamo tutti un sol corpo, e non siano scismi tra noi. Noi non dubitiamo punto che i parrochi i loro vicari e gli altri sacerdoti, i quali in certi giorni, e specialmente nel tempo del digiuno, lavorano nel ministero della predicazione, non siano per farsi premura di prestarvi il loro concorso in tutte queste cose. Ciò non pertanto, bisogna di tempo in tempo confortare le loro sollecitudini coi soccorsi straordinari degli esercizi spirituali e delle sante missioni, le quali, quando sono affidate a uomini capaci, sono, colla benedizione di Dio, utilissime a rinfiammare la pietà dei buoni, eccitare a salutar penitenza i peccatori e gli uomini depravati da inveterate abitudini viziose; far crescere il popolo fedele nella scienza di Dio, condurlo a praticare ogni sorta di bene, e munendolo cogl’abbondanti aiuti della grazia celeste inspirargli un’invincibile orrore per le dottrine perverse dei nemici della Chiesa. Del resto in tutte queste cose le vostre cure e quelle dei sacerdoti vostri cooperatori tenderanno particolarmente a far concepire ai fedeli il più grande orrore per quei delitti che si commettono con grande scandalo del prossimo. Imperocchè voi ben sapete quanto è cresciuto in diversi luoghi il numero di coloro che osano bestemmiare pubblicamente i santi del Cielo e lo stesso Santissimo nome di DIO, o che sono conosciuti come concubinari e talora anche incestuosi, o che ne’ giorni festivi si danno alle opere servili, tenendo aperte le botteghe, o che, anche in presenza di molti, disprezzano i precetti del digiuno e dell’astinenza, o che finalmente non arrossiscono di commettere allo stesso modo altri diversi delitti. Alla voce del vostro zelo il popolo si rappresenti e consideri seriamente l’enorme gravezza di cotesti peccati e le pene severissime onde saranno puniti i loro autori, tanto per la colpa lor propria, che pel pericolo spirituale a cui essi espongono i loro fratelli pel contagio del loro mal esempio. Imperocch? sia scritto: Væ mundo a scandalis…. Væ homini illi per quem scandalum venit (Matt. XVIII, 7). – Tra i diversi generi di lumi con che i più sottili nemici della Chiesa e dell’umana società cercano d’invescar i popoli, uno de’ principali è certamente quello che essi avean già preparato da lunga mano nei colpevoli loro disegni, cioè l’uso depravato dell’arte della stampa. Essi vi si appigliano con tutta l’anima, per forma che non passano un giorno senza moltiplicare e spargere nelle popolazioni libelli empi, giornali, fogli volanti pieni di menzogne, di calunnie, di seduzioni. Non basta; servendosi dei soccorsi delle società bibliche già da lunga pezza condannate dalla S. Sede, essi non vergognano di diffondere gran numero di Sacre Bibbie tradotte, senza che si siano osservate le regole della Chiesa, in lingua volgare, profondamente alterate e tratte a cattivo senso con audacia inaudita, e di raccomandarne la lettura al popolo fedele, sotto un falso pretesto di religione. Voi intendete ottimamente nella vostra saviezza, Venerabili Fratelli, con quanta vigilanza e sollecitudine voi dobbiate affaticarvi acciò che i fedeli rifuggano con orrore da questa avvelenata lettura, e si ricordino che, in quanto alle Divine Scritture segnatamente, nessuno appoggiato alla propria prudenza può arrogarsi il diritto ed avere la presunzione d’interpretarle altramente che non le ha interpretate e le interpreta la Santa Chiesa nostra madre, alla quale sola Cristo Signor nostro ha confidato il deposito della Fede, il giudizio sul vero senso dei libri divini. Sarà cosa utilissima, Venerabili Fratelli, per arrestare l’infezione dei libri cattivi, che libri della stessa mole, scritti da uomini forniti di scienza sana e distinta, e previamente da voi approvati, siano pubblicati per l’edificazione della Fede, e la salutare educazione del popolo. Voi vi adoprerete affinché cotesti libri ed altre di dottrina egualmente pura, scritti da altri uomini secondo l’esigenza dei luoghi e delle persone, siano diffusi tra i fedeli. – Tutti coloro che cooperano con voi alla difesa della Fede avranno specialmente in mira di far penetrare, rassodare e scolpire profondamente nell’animo de’ vostri fedeli la pietà la venerazione ed il rispetto verso questa suprema Sede di Pietro, sentimenti questi, pei quali voi eminentemente vi distinguete, o Venerabili fratelli. Si rammentano i popoli fedeli che qui vive e presiede, nella persona dei suoi successori, Pietro il Principe degli Apostoli, la cui dignità non è separata dalla persona del suo indegno erede. Si sovvengano che GESÙ-CRISTO Signor Nostro ha collocato su questa Cattedra di Pietro l’inespugnabile fondamento della sua Chiesa, e che a Pietro Egli ha date le chiavi del regno de’ cieli, e che perciò Egli ha pregato, affinché la Fede di Pietro non venisse mai meno, e comandato a Pietro di confermare i suoi fratelli in questa Fede, di qualità che il Successore di Pietro, il Romano Pontefice, tenendo il primato in tutto l’universo è il vero Vicario di GESÙ-CRISTO, il Capo di tutta la Chiesa, il Padre ed il Dottore di tutti i Cristiani. – Egli è nel mantenimento di quest’unione comune dei popoli nell’ubbidienza al Pontefice Romano che dimora il mezzo più spedito e più diretto per conservarli nella professione della Cattolica verità. Infatti non è possibile ribellarsi alla Fede Cattolica senza rigettare ad un tempo l’autorità della Chiesa Romana, nella quale risiede il Magistero irreformabile della Fede, fondato dal Divin Redentore, e nella quale, per conseguenza, fu sempre conservata l’Apostolica Tradizione. Quindi nasce che gli antichi eretici ed i protestanti moderni, così divisi nel resto delle loro opinioni, sono tutti unanimi nell’attaccare l’autorità della Sede Apostolica, cui non poterono però mai in nessun tempo e con nessun artificio o macchinazione, indurre e tollerare neppur uno dei loro errori. Quindi è parimenti che gli attuali nemici di DIO e dell’umana famiglia niun mezzo tralasciano per strappare i popoli italiani dalla Nostra ubbidienza e dall’ubbidienza della Santa Sede, persuasi che, ottenuto questo troppo verrà lor fatto di ammorbare l’Italia coll’empietà delle loro dottrine e colla peste dei loro nuovi sistemi. – Quanto a questa dottrina di depravazione ed a cotesti sistemi, tutto il mondo conosce che il loro scopo primario si è di spargere nel popolo, abusando delle parole di libertà e di eguaglianza, i perniciosi trovati del comunismo e del socialismo. È cosa evidente che i capi, vuoi del comunismo, vuoi del socialismo, avvegnacchè adoperino metodi e mezzi differenti, hanno per scopo comune di tenere in continua agitazione ed avvezzare a poco a poco ad atti, anche più criminosi gli operai e gli uomini d’inferior condizione, ingannati dal loro scaltrito linguaggio e sedotti dalle promesse di una vita più felice. Essi contano di servirsi poi del loro braccio per attaccare il potere d’ogni autorità superiore, per invadere, saccheggiare, oltraggiare, dilapidare le proprietà della Chiesa dapprima, e poi di tutti gli altri particolari, per violare finalmente tutti i diritti divini ed umani, disperdere dal mondo il culto di Dio e sovvertire da capo a fondo le civili società. – In così grande pericolo per l’Italia, egli è vostro dovere, Venerabili Fratelli, di spiegare tutte le forze dello zelo pastorale per far intendere al popolo fedele che, se essi si lasciano trascinare a queste opinioni da questi perversi sistemi, ne avranno per solo frutto l’infelicità temporale e l’eterna perdizione.  – I fedeli affidati alle vostre cure siano dunque fatti avvertiti che è essenziale alla natura stessa dell’umana società, che tutti ubbidiscano all’autorità legittimamente in essa costituita, e che nulla può esser cangiato nei precetti del Signore, che in questa materia ne vengono enunciati nelle Sacre Lettere.  – Conciossiacchè è scritto: «Subiecti estote omni humanæ creaturæ propter Deum sive Regi, quasi præcellent, sive ducibus, tamquam ab eo missis ad vindictam malefactorum, laudem vero honorum; quia sic est voluntas Dei, ut benefacientes obmutescere faciatis imprudentium hominum ignorantiam: quasi liberi, et non quasi velamen habentes malitiae libertatem, sed sicut servi Dei [1 Piet. II, 13 ss.] (In nome di DIO siate soggettiad ogni umana creatura, sia al re,come sovrano, sia ai governatori, come da Lui inviato a punire i malfattori e a premiare i buoni; poiché questa è la volontà di DIO: comportandovi virtuosamente fate ammutolire l’ignoranza degli stolti; conpotandovi come uomini libri e non servendovi della libertà come un velo per coprire la malizia, ma come servitori di DIO)»; ed ancora: « Omnis anima potestatibus sublimioribus subdita sit: non est enim potestas nisi a Deo: quæ autem sunt, a Deo ordinatæ sunt: itaque, qui resistit potestati, Dei ordinationi resistit: qui autem resistunt, ipsi sibi damnationem acquirunt » ( Ciascuno sia sottomesso ai più alti poteri: non vi è infatti alcun potere se non da DIO; ogni potere esistente è ordinato da DIO. Pertanto chi si oppone al potere, resiste all’ordinamento di DIO. Coloro che resistono, si procurano la condanna) [Rom. XIII, 1 ss.].  – Sappiano essi ancora che, nella condizione delle cose umane, è cosa naturale ed invariabile che, anche tra coloro che non sono costituiti in autorità, gli uni sovrastino agli altri, sia per diverse qualità di spirito o di corpo, sia per ricchezze od altri beni esteriori di questa fatta: e che giammai, sotto nessun pretesto di libertà e di eguaglianza, può esser lecito invadere i beni od i diritti altrui, o violarli in un modo qualsiasi. A questo riguardo, i Comandamenti divini, che sono scritti qua e colà nei libri santi, sono chiarissimi, e ci proibiscono formalmente non pure d’impadronirci del bene altrui, ma eziandio di desiderarlo.  – I poveri, gl’infelici si ricordino soprattutto di quanto essi son debitori alla religione cattolica, la quale guarda viva ed intatta e predica altamente la dottrina di GESÙ-CRISTO, il quale ha dichiarato di riguardare come fatto a sé il bene fatto ai poveri ed ai miserabili [Matt. XVIII, 15]. Egli ha pronunziato a tutti il conto particolare che chiederà, nel giorno del giudizio, intorno alle opere di misericordia, sia per ricompensare colla vita eterna i fedeli che le avranno praticate, sia per castigare colla pena del fuoco eterno quelli che le avranno trasandate [Matt. XXV, 34 ss.]. Da questo avvertimento di CRISTO Nostro Signore, e dagl’avvisi severissimi che Egli ha dati circa l’uso delle ricchezze ed i loro pericoli, [Matt. XIX, 23; Lc. VI, 4; Gc. V, 1] avvisi conservati inviolabilmente nella Chiesa Cattolica, ne è risultato che la condizione dei poveri e dei miserabili è fatta molto più dolce presso le nazioni cattoliche, che presso tutte le altre. Ed i poveri riceverebbero nelle nostre contrade soccorsi troppo più abbondanti, se in mezzo alle recenti commozioni della cosa pubblica numerosi stabilimenti fondati dalla pietà dei nostri antenati, non fossero stati distrutti o derubati. Del rimanente, i nostri poveri non si dimentichino che dietro l’insegnamento di GESÙ-CRISTO medesimo, essi non devono punto accorarsi della lor condizione; poiché, a dir vero, nella povertà la strada della salute è fatta loro più facile, purché tuttavolta essi portino in pazienza l’indigenza loro, e siano poveri non materialmente soltanto, sì ancora di spirito. Perocché è scritto; Beati pauperes spiritu, quoniam ipsorum est regnum Cœlorum. [Matt. V, 3]. – Il popolo fedele tutto quanto sappia che gli antichi re delle nazioni pagane ed i capi delle loro repubbliche hanno abusato del loro potere troppo più gravemente e più spesso: e quindi riconosca che è tutto benefizio della nostra santissima religione, se i principi cristiani tementi, alla voce di questa religione, il giudizio severissimo che sarà fatto da coloro che comandano, e l’eterno supplizio destinato ai peccatori, supplizio nel quale i potenti saranno potentemente tormentati (Sap. VI, 6-7), hanno usate, riguardo ai popoli loro soggetti, un modo più clemente e più giusto di governare. – Finalmente i fedeli, confidati alle Nostre cure ed alle Vostre, riconoscano che la vera e perfetta libertà ed uguaglianza degli uomini sono state poste sotto la custodia della legge cristiana, poiché il DIO onnipotente che ha fatto il piccolo ed il grande e che ha cura eguale di tutti (Sap. VI, 8) non esimerà dal giudizio la persona di chicchessia, e non guarderà a nessuna grandezza: egli ha fissato il giorno in cui giudicherà l’universo nella sua giustizia in Gesù Cristo, suo figlio unico, il quale deve venire nella gloria del Padre cogli Angeli suoi, e renderà allora a ciascuno secondo le opere sue (Sap. VI, 8).  – Che se i fedeli, disprezzando gli avvisi paterni dei loro pastori ed i precetti della legge cristiana che abbiamo accennati, si lasciassero aggirare dai promotori delle odierne macchinazioni, e consentissero a cospirare con loro nei perversi sistemi dal socialismo e del comunismo, sappiano essi e considerino seriamente che ciò non fanno che accumularsi presso il Divin Giudice tesori di vendetta nel giorno dell’ira, e che frattanto da questa cospirazione non uscirà alcun vantaggio temporale pel popolo, sì veramente un accrescimento smisurato di miserie e di calamità. Imperocché non è dato agli uomini di poter stabilire nuove società e comunanze opposte alla condizione naturale alle cose umane; epperciò il risultamento di cotali cospirazioni, se si propagassero in Italia, sarebbe questo: Lo stato attuale della cosa pubblica sarebbe scardinato e rovesciato da cima a fondo per le lotte dei cittadini contro i cittadini, per le usurpazioni, per gli omicidi; e poi alcuni pochi arricchiti delle spoglie del gran numero afferrerebbero la somma del potere in mezzo alla comune rovina.  – Per salvar il popolo dagli agguati degli empi, per mantenerlo nelle professione della Religione Cattolica ed infiammarlo alle opere della vera virtù, l’esempio e la vita di coloro che sono consacrati al santo ministero, ha, Voi lo sapete, una grande efficacia. Ma, oh dolore! si son trovati in Italia degli ecclesiastici, in piccol numero è vero, i quali sono passati nelle file dei nemici della Chiesa, e li hanno aiutati non poco ad ingannare i fedeli. Per Voi, Venerabili Fratelli, la caduta di questi è stata un nuovo stimolo che vi ha eccitato a vegliare, con zelo sempre più attivo, al mantenimento della disciplina del Clero. E qui volendo, secondo il Nostro dovere, prendere delle misure preservatrici per l’avvenire, Noi non possiamo trattenerci dal raccomandarvi di bel nuovo un punto, sul quale abbiamo già insistito nella Nostra prima Lettera Enciclica a tutti i Vescovi dell’universo, ed è di non imporre mai leggermente le mani a chicchessia, [1 Tim. V, 22] e di apportare la più attenta sollecitudine nella scelta della milizia ecclesiastica. È necessaria una lunga ricerca, una minuta investigazione a proposito di quelli specialmente che desiderano di entrare negli ordini sacri; fa d’uopo assicurarvi che essi si raccomandano per scienza, per gravità di costumi e zelo del culto divino in siffatta guisa, da darvi certa speranza che, simili a lampade ardenti nella casa del Signore, essi potranno, colla loro condotta e colle loro opere, tornare al vostro gregge di edificazione e di utilità spirituale. – La Chiesa di Dio ritrae dai monasteri, quando questi sono ben regolati, un’immensa utilità ed una grande gloria, ed il Clero regolare fornisce a Voi stessi, nelle vostre fatiche per la salute delle anime, un soccorso prezioso. Egli è perciò che vi sollecitiamo dapprima, Venerabili Fratelli, ad assicurare, da nostra parte, le famiglie religiose di ciascuna delle vostre diocesi, che in mezzo a tanti dolori, Noi abbiamo particolarmente risentiti i mali, che molte di loro ebbero a soffrire in questi ultimi tempi, o che la coraggiosa pazienza, la costanza nell’amore della virtù e della propria Religione, di cui in gran numero di religiosi diedero l’esempio, fu per Noi sorgente di consolazioni tanto più vive, in quanto che alcuni altri furono visti, dimentichi della santità di lor professione, con grande scandalo dei buoni e con infinita amarezza del Nostro cuore e cordoglio dei loro fratelli, prevaricare vergognosamente. In secondo luogo, voi sarete solleciti di esortare, in Nostro nome, i capi di queste Famiglie religiose ed, ove fosse necessario, i superiori, che ne sono i moderatori supremi, a nulla trascurare dei doveri della loro carica, a fine di rendere sempre più rigorosa e fiorente la disciplina regolare dove questa si è conservata, ed a ristabilirla in tutta la sua forza ed integrità dove si fosse illanguidita. Questi superiori ricorderanno incessantemente, e cogli avvertimenti, e colle rimostranze, e coi rimproveri, ai religiosi delle loro case, ch’essi devono seriamente considerare con quali voti si sono a DIO legati, attendere e mantenere le promesse fatte osservare inviolabilmente le regole del loro istituto, e portando nei loro corpi la mortificazione di GESÙ, astenersi da tutto ciò che è incompatibile colla loro vocazione, dedicarsi interamente a quelle opere che alimentano e crescono la carità verso DIO ed il prossimo, e l’amore della perfetta virtù. Oltreciò, i moderatori di questi ordini invigilino attentamente perché l’ingresso in Religione non sia aperto a chicchessia se non dopo maturo e scrupoloso esame della sua vita, de’ suoi costumi e del suo carattere, e perché nessuno possa esser ammesso alla professione religiosa, se non dopo aver date, in un noviziato fatto secondo le regole, prove di vera vocazione, di maniera che si possa a buon diritto presumere che il novizio abbraccia la vita religiosa col solo intendimento di vivere unicamente a Dio, ed attendere, secondo le regole del proprio istituto, alla propria salute ed a quella dei prossimi. Su questo punto Noi vogliamo ed intendiamo che si osservi tutto ciò che è stato stabilito e prescritto, pel bene delle famiglie religiose nei decreti pubblicati il 25 gennaio dell’anno scorso dalla nostra Congregazione sullo stato dei regolari, decreti rivestiti della nostra Apostolica autorità.  – Dopo avervi così parlato del Clero regolare, Noi ci facciamo premura di raccomandare alla Vostra Fraternità l’istruzione e l’educazione dei chierici minori; che la Chiesa non può guari sperare di trovar degni ministri, se non tra coloro che fin dalla loro giovinezza e prima età, sono stati, secondo le regole prescritte, informati a questo sacro Ministero. Continuate dunque, Venerabili Fratelli, ad usare di tutti i vostri mezzi, a fare tutti i vostri sforzi, affinché i giovani, destinati alla sacra milizia, siano ricevuti, per quanto è possibile, nei seminari ecclesiastici fin dalla loro più tenera età, ed affinché, raccolti intorno al Tabernacolo del Signore, essi vigoreggino e crescano, come piantagione novella nell’innocenza della vita, nella Religione, nella modestia, nello spirito ecclesiastico, imparando nello stesso tempo da scelti maestri, la cui dottrina sia al tutto scevra da ogni pericolo, di errore, le lettere, le scienze elementari e le alte scienze, ma soprattutto le lettere e le scienze sacre.  – A quest’effetto, Voi vi rivendicherete la principale autorità, un’autorità pienamente libera sui professori delle sacre discipline e su tutte le cose che spettano alla religione o le si attengono da vicino. Vegliate acciò che in nulla e per nulla, ma specialmente in tutto che tocca alle cose di religione, non si adoperino altro che libri esenti da ogni sospetto di errore. Avvertite quelli che hanno cura di anime, di essere vigilanti cooperatori in tutto ciò che concerne le scuole dei fanciulli e della prima età. Le scuole non siano affidate se non a maestri e maestre di provata onestà, e per insegnare gli elementi della Fede ai ragazzi ed alle ragazze non si usino altri libri, fuorchè quelli approvati dalla Santa Sede. Su questo punto, Noi non possiamo dubitare che i parrochi non siano i primi a dar l’esempio, e che, sollecitati dalle vostre incessanti esortazioni, essi non si applichino ogni giorno più ad istruire i fanciulli intorno agli elementi della Dottrina Cristiana, ricordandosi che questo è uno dei più gravi doveri della carica loro commessa. Voi dovrete parimenti rammentar loro che, nelle loro istruzioni sia ai fanciulli che al popolo, eglino non devono mai perdere di vista il Catechismo Romano, pubblicato conformemente al decreto del Concilio di Trento, per ordine di San Pio V, nostro predecessore, d’immortale memoria, e raccomandato a tutti i pastori di anime da altri Sommi Pontefici, ed in ispecie da Clemente XIII, come un aiuto valevolissimo a respingere le frodi delle perverse opinioni, a propagare e stabilire solidamente la vera e sana dottrina [Enc. 14 giu. 1761. – Voi non vi meraviglierete punto, Ven. Fratelli, se Noi vi parliamo un po’ stesamente su questa materia. La vostra prudenza ha certamente riconosciuto che, in questi tempi pericolosi, Noi dobbiamo, Voi e Noi, fare i più grandi sforzi, lottare con una costanza invincibile, spiegare una vigilanza continua per tutto ciò che s’attiene alle scuole all’istruzione ed all’educazione dei fanciulli e dei giovani dell’uno e dell’altro sesso. Voi sapete che, ai giorni nostri, i nemici della religione e dell’umana società, aggirati da uno spirito veramente diabolico, si sbracciano per pervertire il cuore e l’intelligenza dei giovani fin dalla loro primissima età. Quindi è che s’appigliano ad ogni mezzo, tentano ogni più audace partito per sottrarre interamente all’autorità della Chiesa ed alla vigilanza de’ sacri pastori le scuole ed ogni stabilimento destinato all’educazione della gioventù.  – Noi abbiamo pertanto ferma speranza che i nostri dilettissimi figli in Gesù Cristo, tutti i Principi d’Italia, aiuteranno la Vostra Fraternità col loro potente patrocinio, affinché voi possiate adempiere con maggior frutto i doveri del vostro ufficio che vi abbiam rinfrescati. Non dubitiamo pure in verun modo che essi non abbiano la volontà di proteggere la Chiesa e tutti i suoi diritti, sia spirituali che temporali. Nulla è più conforme alla Religione e pietà che essi hanno ereditata dai loro maggiori, e dalla quale si mostrano animati. Non può sfuggire alla loro sapienza che la causa prima di tutti i mali, onde siam travagliati, non fu altra che il male fatto alla Religione ed alla Chiesa cattolica nei tempi anteriori, ma specialmente all’epoca in cui comparvero i protestanti. Essi veggono, per esempio, che il disprezzo crescente dell’autorità de’ sacri Pontefici, le violazioni, sempre più moltiplicate ed impunite dei Precetti divini ed ecclesiastici, hanno scemato in analoga proporzione il rispetto del popolo verso il potere civile, ed aperto agli attuali nemici della pubblica tranquillità una via più larga alle rivolte ed alle sedizioni. Essi veggono in pari modo, che lo spettacolo sovente rinnovato dei beni temporali della Chiesa invasi, divisi, venduti pubblicamente, avvegnachè a Lei appartenessero in virtù di un legittimo diritto di proprietà, e che l’indebolimento, presso i popoli, del sentimento di rispetto per la proprietà consacrata ad una destinazione religiosa, hanno avuto per effetto di rendere un gran numero d’uomini più accessibili alle audaci asserzioni del novello socialismo e del comunismo, insegnanti che si può, alla stessa guisa, porre la mano sulle altre proprietà, impadronirsene, e spartirle o trasformarle in qualunque altra maniera per uso di tutti. Essi vedono ricadere poco a poco sul potere civile gl’impacci e le pastoie già una volta moltiplicate con tanta perseveranza per impedire i pastori della Chiesa dall’usare liberamente di loro sacra autorità.  – Essi veggono finalmente che, in mezzo alle calamità che ci premono tutt’intorno, è impossibile trovare un rimedio di effetto più pronto, di efficacia maggiore che il far rifiorire e ridonare tutto l’antico splendore alla Religione ed alla Chiesa Cattolica per tutta Italia, a quella Chiesa Cattolica, la quale possiede, non si può dubitarne, i mezzi più acconci a soccorrere le diverse indigenze dell’uomo in tutte le condizioni.  – Ed in verità, per usare qui le parole di sant’Agostino: «La Chiesa Cattolica abbraccia non pure DIO stesso, ma ancora l’amore e la carità verso il prossimo in guisa che ella ha rimedii per tutte le malattie che provano le anime a cagione dei loro peccati. Essa esercita ed ammaestra i suoi figliuoli in modo appropriato alla loro età, i giovani con forza, i vecchi con tranquillità, in una parola, secondochè esige l’età non solamente del corpo, ma eziandio della loro anima. Essa assoggetta la donna al marito, non per appagare il libertinaggio, sì veramente per propagare la specie umana e conservare la dimestica società. Essa fa il marito superiore alla moglie, non già perché egli si faccia giuoco del sesso più debole, ma perché entrambi ubbidiscano alla legge di un sincero amore. Essa assuddita i figli ai loro genitori in una specie di libere servitù, e l’autorità onde investe i parenti è una cotal foggia d’amorevole dominazione. Essa raggiunge i fratelli ai fratelli con un vincolo di religione più forte, più stretto di quello del sangue. Essa stringe e rafferma tutti i legami di parentela e di alleanza per una vicendevole carità, la quale rispetta nodi della natura e quelli formati dalle diverse volontà. Essa insegna ai servitori a star soggetti ai loro padroni, non tanto per la necessità di lor condizione, quanto per l’attrattiva del dovere; essa rende i padroni miti e dolci verso i loro servi col pensiero del comune signore, il sommo Iddio, e far loro preferire le vie della persuasione a quella del costringimento. Essa lega i cittadini ai cittadini, le nazioni alle nazioni, e tutti gli uomini tra di loro, non solamente col vincolo sociale, ma ancora con una specie di fratellanza, frutto della memoria dei nostri primi parenti. Essa addottrina i re ad aver sempre di mira il bene dei loro popoli, ed ammonisce i popoli a sottomettersi ai loro re. Essa fa conoscere a tutti con una sollecitudine instancabile a chi sia dovuto l’onore, a chi l’affezione, a chi il rispetto, a chi il timore, a chi la consolazione, a chi l’avvertimento, a chi l’esortazione, a chi la disciplina, a chi il rimprovero, a chi il supplizio, mostrando come tutte le cose non son dovute a tutti, ma che a tutti è dovuta la carità, a nessuno l’ingiustizia [S. August.: De moribus Cath. Eccl. Lib. 1].  – Egli è dunque Nostro dovere e Vostro, Venerabili Fratelli, di non indietreggiare dinanzi a nessuna fatica, di affrontare tutte le difficoltà, di porre in opera tutta la forza del Nostro zelo pastorale per proteggere, presso i popoli italiani, il culto della Cattolica Religione, non solamente coll’opporci energicamente agli sforzi degl’empi che congiurano a divellere l’Italia stessa dal seno della Chiesa, ma ancora lavorando potentemente per ricondurre nelle vie della salute quei figli degenerati d’Italia, che già ebbero la debolezza di lasciarsi sedurre. – Ma ogni bene eccellente ed ogni dono perfetto viene dall’alto; accostiamoci adunque con fiducia al trono della grazia, Ven. Fratelli, non cessiamo dal supplicare e scongiurare con preghiere pubbliche e particolari il Padre celeste dei lumi e delle misericordie, affinché pei meriti del suo Figliuolo unico GESÙ-CRISTO, rivolgendo il suo sguardo dai nostri peccati, illumini, nella sua clemenza, tutti gli spiriti e tutti i cuori colla virtù della sua grazia, e domando le ribelli volontà, glorifichi la sua Chiesa con nuove vittorie e nuovi trionfi; così che in tutta l’Italia e per tutta la terra, il popolo che lo serve, cresca in numero ed in merito. – Invochiamo altresì la Santissima Madre di Dio, Maria Vergine Immacolata, la quale, col suo onnipossente patrocinio presso Dio, ottenendo tutto ciò che domanda, non può domandar invano. Invochiamo con Lei, Pietro Principe degli Apostoli, Paolo suo fratello nell’apostolato, e tutti i santi del Cielo, affinché il clementissimo IDDIO, placato dalle loro preghiere, volga dai popoli fedeli i flagelli della sua collera, e conceda, nella sua bontà a tutti quelli che portano il nome di cristiani, di potere colla sua grazia e rigettare tutto ciò che è contrario alla santità di questo nome, e praticare tutto ciò che le è conforme. – In fine, Venerabili Fratelli, ricevete in pegno del nostro vivo amore per Voi, l’Apostolica benedizione, che dal fondo del Nostro cuore affettuosamente vi compartiamo, a Voi ed al Clero ed ai Fedeli laici commessi alla vostra vigilanza.

Datum Neapoli in Suburaano Portici, die viii decembris anni MDCCCXLIX Pontificatus Nostri ann. iv.

PIUS PP. IX.

DOMENICA DI SETTUAGESIMA (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XVII:5; 6; 7
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam.  [Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.]
Ps XVII: 2-3
Díligam te, Dómine, fortitúdo mea: Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus.
[Ti amerò, o Signore, mia forza: Signore, mio firmamento, mio rifugio e mio liberatore.]
Circumdedérunt me gémitus mortis, dolóres inférni circumdedérunt me: et in tribulatióne mea invocávi Dóminum, et exaudívit de templo sancto suo vocem meam. [Mi circondavano i gemiti della morte, e i dolori dell’inferno mi circondavano: nella mia tribolazione invocai il Signore, ed Egli dal suo santo tempio esaudì la mia preghiera.

Oratio

Orémus.
Preces pópuli tui, quǽsumus, Dómine, cleménter exáudi: ut, qui juste pro peccátis nostris afflígimur, pro tui nóminis glória misericórditer liberémur. [O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo: affinché, da quei peccati di cui giustamente siamo afflitti, per la gloria del tuo nome siamo misericordiosamente liberati.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

1 Cor IX: 24-27; X: 1-5

Fratres: Nescítis, quod ii, qui in stádio currunt, omnes quidem currunt, sed unus áccipit bravíum? Sic cúrrite, ut comprehendátis. Omnis autem, qui in agóne conténdit, ab ómnibus se ábstinet: et illi quidem, ut corruptíbilem corónam accípiant; nos autem incorrúptam. Ego ígitur sic curro, non quasi in incértum: sic pugno, non quasi áërem vérberans: sed castígo corpus meum, et in servitútem rédigo: ne forte, cum áliis prædicáverim, ipse réprobus effíciar. Nolo enim vos ignoráre, fratres, quóniam patres nostri omnes sub nube fuérunt, et omnes mare transiérunt, et omnes in Móyse baptizáti sunt in nube et in mari: et omnes eándem escam spiritálem manducavérunt, et omnes eúndem potum spiritálem bibérunt bibébant autem de spiritáli, consequénte eos, petra: petra autem erat Christus: sed non in plúribus eórum beneplácitum est Deo.

OMELIA I

[A. Castellazzi: La Scuola degli Apostoli. S. Tip. Artig. – Pavia, 1929]

“Fratelli: Non sapete che quelli che corrono nello stadio corrono bensì tutti, ma uno solo riceve il premio? Correte anche voi così da riportarlo. Ognuno che lotti nell’arena si sottopone ad astinenza in tutto: e quelli per ottenere una corona corruttibile; noi, invece, una incorruttibile. Io corro, appunto, così, non già come a caso; così lotto, non come uno che batte l’aria; ma maltratto il mio corpo e la riduco in servitù: perché non avvenga che, dopo aver predicato agli altri, io stesso sia riprovato. Non voglio, infatti che ignoriate, o fratelli, che i nostri padri furono tutti sotto la nube, e tutti passarono a traverso il mare, e tutti furono battezzati in Mosè nella nube e nel mare; e tutti mangiarono dello stessa cibo spirituale; e tutti bevettero la stessa bevanda spirituale; (bevevano infatti della pietra spirituale che li seguiva; e quella pietra era Cristo): pure della maggior parte di loro Dio non fu contento”. (1. Cor. IX, 24-27 e X, 1-5).

S. Paolo, volendo incoraggiare i Corinti a sostenere qualunque sacrificio per conseguire l’eterna salvezza, porta l’esempio di se stesso. Come un corridore, perché  vinca, non basta che sia sceso nello stadio, ma deve correre in modo da superare gli altri; così egli corre, nell’aringo della vita, senza sbandarsi qua e là, con la mente fissa al fine da conseguire. Come il lottatore, abbattuto il nemico, se lo conduce schiavo attorno per l’arena, così egli, con le privazioni e le mortificazioni, abbatte il suo corpo, e se lo rende schiavo. È vero che i Corinti avevano ricevuto molti favori da Dio. Anche gli Ebrei, sotto la guida di Mosè, ricevettero tutti da Dio favori segnalatissimi; ma pei loro peccati furono puniti nel deserto; e ben pochi di loro poterono entrare nella terra promessa. La conseguenza da tirare da questo passo della prima lettera ai Corinti è chiara. Quello che avvenne agli Ebrei poteva venire anche ai Corinti, potrà avvenire anche a noi, se non saremo perseveranti. Nessuna presunzione, dunque, perché:

1 Non basta cominciar bene; bisogna continuare,

2 Anche sottoponendosi a sacrifici e privazioni,

3 Sempre sostenuti dal primitivo favore.

1.

Non sapete che quelli che corrono nello stadio, corrono bensì tutti, ma uno solo riceve il premio?

Qui c’è allusione alle corse che avevano luogo, periodicamente a Corinto,e alle quali tanto si appassionavano i Greci.Oggi le corse sono più varie, più frequenti e anche più pericolose; e le popolazioni dei nostri tempi non vi si appassionano meno che quelle dei tempi andati. Ma il buon successo della corsa è sempre il medesimo: arrivare alla fine in tempo. Corrono bensì tutti — osserva l’Apostolo— ma uno solo riporta il premio. Gli altri, o arrivano troppo tardi, o, rimasti scoraggiati, si ritirano dalla corsa. È quello che avviene anche oggi. È indetta una corsa? Un gran numero di corridori si fa inscrivere. Non tutti però prendono parte alla partenza; e non tutti quelli che vi prendono parte arrivano alla meta, specialmente se le corse sono lunghe. Chi ha ceduto il campo nella prima tappa, chi nella seconda, chi nelle successive. Molti sono partiti tra gli applausi e gli auguri, pieni di ardire e di speranza; pochi sono stati accolti dall’applauso finale.Quello che avviene nelle corse, avviene in altre circostanze della vita. Avviene nel campo delle scienze, delle arti, delle lettere, delle industrie, e specialmente nel campo spirituale. Attratti dalla grandezza del premio molti si mettono a servir Dio con slancio, ma non tutti terminano la corsa. Quanti giovani danno sul principio belle speranze! Ci fanno pensare d’aver un giorno degli Apostoli della Religione, e in pochi anni la dimenticano,quando non si volgono a combatterla. Tanti, che sul principio attirano l’attenzione per la loro vita morigerata ed esemplare, o presto o tardi, diventano pietra d’inciampo.Erano entrati pieni di buona volontà nella corsa della vita spirituale; ma non ebbero la forza di continuare.Incominciare, è necessario: chi non comincia, non finisce.Cominciar bene, è assai importante! poiché chi. ben incomincia, è alla metà dell’opera. Ma chi è, che si mette all’opera, senza, pensare di condurla a termine? Qual corridore scende in pista, con la previsione di restare a mezza via? Il buon risultato di un’opera è il suo compimento.Il fine corona l’opera. Chi ha cominciato una corsa per fermarsi a metà, ha sprecato tempo e fatica.La fatica promette il premio, e la perseveranza lo porge. Il Cristiano che ha cominciato una vita buona per fermarsi poi a metà fa pure opera inutile. Si è affaticato un po’ per la speranza del premio, ma il premio, non è dichi si ferma a metà. Chi vuol il premio deve perseverare.« Sii fedele fino alla morte, e ti darò la corona della vita » (Ap. II, 10). Dice il Signore.

2.

Dopo aver incitato i Corinti a imitare i corridori, in modo da poter riportare la vittoria finale, l’Apostolo passa a parlare dei lottatori.

Ognuno che lotti nell’arena si sottopone ad astinenze in tutto. Con queste parole viene a indicare il segreto della perseveranza finale: Non prendersi pensiero delle difficoltà. I lottatori non si accingono alla vittoria dormendo sopra un letto di rose. E si sottopongono a disagi, a sudori, a privazioni, a sacrifici, a prove durissime per mettersi in grado di riportar vittoria. – Il Cristiano, invece, trema davanti alle difficoltà, che incontra per giungere alla meta. Quanto più si dirada il numero di coloro che avevano cominciato bene; tanto più dà nell’occhio chi continua coraggiosamente. Sulle prime si farà poco caso di lui; ma quando si vede che continua sul serio, si cerea di disturbarlo. Non si parla davanti a un ladro, si rimane muti davanti a un bestemmiatore o a un impudico. Bisogna divertirsi a punzecchiare un Cristiano che continua coraggiosamente per la propria via. Forse i primi frizzi fanno poca impressione, Ma se continuano, cominciano a seccare. Poi si va pensando se non sia il caso di non dar pretesto a queste seccature. E quando si discute in queste cose, vuol dire essere vinti presto. Per non dar nell’occhio, prima si dissimula, poi si tralascia. Proprio tutto all’opposto di quanto fanno i lottatori, i quali tanto più si sentono spinti a lottare coraggiosamente, quanto più danno nell’occhio agli spettatori. Così, quelli che si erano messi di buon animo a occuparsi di Dio e dell’anima, tornano a occuparsi del mondo. Altra difficoltà è il cattivo esempio. Non tutti possono ripetere le parole del Salmo: « I superbi agiscono sempre iniquamente, ma io non mi allontano dalla tua legge» (Salm. CXVIII, 51). «L’imitazione dei vizi è pronta» (S. Gerolamo Ep. 107, 4 ad Læt.), più pronta che l’imitazione della virtù. E anche chi non abbandona sulle prime la legge di Dio, non sa sottrarsi alla deleteria influenza che il male continuato esercita sugli uomini. Quando, poi, la cattiva condotta diventa generale, si produce il rilassamento anche nei buoni. « Quando abbonda la dissolutezza, la carità si raffredda »; osserva in proposito S. Ilario (Comm. in Matth. cap. XXV, 2). E chi aveva messo le sue delizie nella legge del Signore, finisce col trascurare i propri doveri. Non mancano neppure in questo caso i forti, ma son pochi. Difficoltà particolare, accennata dall’Apostolo è la lotta contro le nostre cattive inclinazioni. Maltratto il mio corpo e lo riduco in servitù: perché non avvenga, che dopo aver predicato agli altri, io stesso sia riprovato.Le nostre cattive inclinazioni hanno una forza particolare per trattenerci sulla buona via intrapresa. Se non si dominano continuamente, riescono ad avere il sopravvento.Nel primo fervore della vita spirituale, si crocifigge volentieri la carne, si accettano le umiliazioni, si sopportano le privazioni per ridurre in servitù le nostre cattive tendenze. Ma poi, cominciamo a stancarci. A lungo andare pesa anche la paglia. Molto più pesa questa lotta che ci imponiamo da noi stessi, o, più frequentemente,accettiamo dagli altri. Se appena, appena perdiam di vista la meta da raggiungere, vacilliamo nella lotta, e veniamo soggiogati.La vita dei Santi è come uno specchio, che ci fa vedere ciò che facciamo di bene, ciò che facciamo di male.«Vi troviamo — per dirla con S. Gregorio M. — quale è il nostro progresso e quale è la lunga distanza dal progresso» (Mor. L. 2, c. 1). Nella perseveranza tra le difficoltà, siamo in progresso o in regresso? Il Beato Ghebre Michele, nato ed educato nell’eresia eutichiana. la quale in Gesù Cristo ammette una sola natura, non trova appagata la sua ardente aspirazione alla verità. Per trovare questa verità va pellegrinando di convento in convento in cerca di libri e di maestri, che rispondano alle sue domande sulla Persona di Gesù Cristo. Non di rado accolto male, sempre disilluso, si rimette in cammino in cerea di altri libri e di altri maestri che lo possano illuminare: e continua la non piacevole peregrinazione per ben dieci anni, sempre sostenuto dal fervore dei primi giorni. Venuta l’ora della grazia, abiura l’eresia, e abbracciata la verità, non l’abbandonerà più. Ne sarà uno zelante e strenuo banditore, non ostante la guerra spietata dell’eretico vescovo Salama che vuol chiudergli la bocca. Dieci anni di persecuzione non trovano in lui un istante di titubanza. Il carcere e i tormenti più raffinati non lo smuovono d’un passo dalla sua via. Davanti al tiranno Teodoro II, che vuol fargli piegare la coscienza, è incrollabile. I carnefici fanno scendere sul santo vecchio, colpi di flagelli fitti come la gragnola. Ne restano talmente stanchi che devono darsi il cambio. Chi resiste a ogni stanchezza è il nostro Beato. Sospesa la flagellazione, perché lo si crede morto, disteso com’è in un lago di sangue, egli solleva la testa, e rompe il silenzio sepolcrale con queste parole, rivolte ai carnefici: « Siete già stanchi? » (A. Otti S. I . Abessiniens Heimkehr, in Die Katholischen Missionen, 1926, p. 322 segg.).  Da questo eroe della costanza non abbiam proprio nulla da imparare? Per la maggior parte di noi non sarebbe fuor di proposito, e non avrebbe alcun ombra di ironia, la domanda del Beato: « Siete già stanchi? ».

3.

Ci sono altri che camminano nella via del bene come a caso. Si direbbe che non hanno uno scopo fisso. Si muovono, ma non corrono. Si avanzano come uno schiavo che trascina le catene. Si dimenticano lo scopo della loro vocazione.Il mondo dà pure noie e guai a coloro che vogliono arrivare a una meta; eppure quanta costanza! Uno vuol arricchire. Vedetelo: non si stanca mai. Viaggi, privazioni, notti insonni, pericoli di perdere la vita e i beni, acquistati con tante fatiche, non valgono a rallentare il fervore dei primi giorni. Sentieri ripidi, passaggi pericolosi, ascese affaticanti, ghiacciai, tormente, non trattengono l’alpinista dal tentare di raggiungere la vetta. Gli aviatori lottano coi venti, non si curano del pericolo della nebbia, non si spaventano dell’aria gelata. Se le loro macchine si guastano, atterrano con la più grande calma.Tranquilli, attendono alle riparazioni, senza un momento di sfiducia. Se altre circostanze ritardano la ripresa del volo, aspettano pazienti che le circostanze si mutino, in attesa di proseguire il viaggio con lo stesso entusiasmo che li ha spinti alla partenza. È degna di ammirazione la costanza di chi vuol arrivare a una scoperta, a una invenzione. Sono veglie, studi, esperimenti non mai interrotti. Incanutiscono i capelli, ma il suo spirito è sempre giovane. Anzi, quanto più è vicino alla meta, tanto più cresce il suo ardore negli studi e nei tentativi. E tutto questo per acquistarsi una gloria che forse non verrà. Il Cristiano, invece, si scoraggia, e abbandona ben presto i lavoro per l’acquisto della gloria eterna. Sulla bocca di chi lavora, e non si crede retribuito abbastanza o vede il frutto dei suoi sudori dissipato da altri, si sente, delle volte, questo lamento: « Per chi lavoro io? ». E’ una domanda troppo fondata, fatta da chi lavora per il mondo. È una domanda che deve ringagliardire le forze, fatta da chi lavora per Dio, il quale dice ai perseveranti: « Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli» (Matth. V, 12).Quando non si è sotto l’occhio del padrone o di chi lo rappresenta, si è tentati di rallentare il lavoro o magari di sospenderlo. Tanto, il padrone non vede. I pigri, i neghittosi nel servizio di Dio possono dire: «Tanto il padrone non vede »? Nulla del bene che facciamo sfugge all’occhio di Lui; e quindi nulla andrà perduto. «Pertanto, o fratelli, state fermi e irremovibili, sempre assidui nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è infruttuosa nel Signore ».

Graduale

Ps IX: 10-11; IX: 19-20

Adjútor in opportunitátibus, in tribulatióne: sperent in te, qui novérunt te: quóniam non derelínquis quæréntes te, Dómine, [Tu sei l’aiuto opportuno nel tempo della tribolazione: abbiano fiducia in Te tutti quelli che Ti conoscono, perché non abbandoni quelli che Ti cercano, o Signore]

Quóniam non in finem oblívio erit páuperis: patiéntia páuperum non períbit in ætérnum: exsúrge, Dómine, non præváleat homo. [Poiché non sarà dimenticato per sempre il povero: la pazienza dei miseri non sarà vana in eterno: lévati, o Signore, non prevalga l’uomo.]

Tractus

Ps CXXIX:1-4

De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi vocem meam. [Dal profondo ti invoco, o Signore: Signore, esaudisci la mia voce.]

Fiant aures tuæ intendéntes in oratiónem servi tui. [Siano intente le tue orecchie alla preghiera del tuo servo.]

Si iniquitátes observáveris, Dómine: Dómine, quis sustinébit? [Se baderai alle iniquità, o Signore: o Signore chi potrà sostenersi?]

Quia apud te propitiátio est, et propter legem tuam sustínui te, Dómine. [Ma in Te è clemenza, e per la tua legge ho confidato in Te, o Signore.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

[Matt XX: 1-16]

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Simile est regnum coelórum hómini patrifamílias, qui éxiit primo mane condúcere operários in víneam suam. Conventióne autem facta cum operáriis ex denário diúrno, misit eos in víneam suam. Et egréssus circa horam tértiam, vidit álios stantes in foro otiósos, et dixit illis: Ite et vos in víneam meam, et quod justum fúerit, dabo vobis. Illi autem abiérunt. Iterum autem éxiit circa sextam et nonam horam: et fecit simíliter. Circa undécimam vero éxiit, et invénit álios stantes, et dicit illis: Quid hic statis tota die otiósi? Dicunt ei: Quia nemo nos condúxit. Dicit illis: Ite et vos in víneam meam. Cum sero autem factum esset, dicit dóminus víneæ procuratóri suo: Voca operários, et redde illis mercédem, incípiens a novíssimis usque ad primos. Cum veníssent ergo qui circa undécimam horam vénerant, accepérunt síngulos denários. Veniéntes autem et primi, arbitráti sunt, quod plus essent acceptúri: accepérunt autem et ipsi síngulos denários. Et accipiéntes murmurábant advérsus patremfamílias, dicéntes: Hi novíssimi una hora fecérunt et pares illos nobis fecísti, qui portávimus pondus diéi et æstus. At ille respóndens uni eórum, dixit: Amíce, non facio tibi injúriam: nonne ex denário convenísti mecum? Tolle quod tuum est, et vade: volo autem et huic novíssimo dare sicut et tibi. Aut non licet mihi, quod volo, fácere? an óculus tuus nequam est, quia ego bonus sum? Sic erunt novíssimi primi, et primi novíssimi. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

[In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fissare degli operai per la sua vigna. Avendo convenuto con gli operai un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. E uscito fuori circa all’ora terza, ne vide altri che se ne stavano in piazza oziosi, e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà giusto. E anche quelli andarono. Uscì di nuovo circa all’ora sesta e all’ora nona e fece lo stesso. Circa all’ora undicesima uscì ancora, e ne trovò altri, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché nessuno ci ha presi. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. Venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti dunque quelli che erano andati circa all’undicesima ora, ricevettero un denaro per ciascuno. Venuti poi i primi, pensarono di ricevere di più: ma ebbero anch’essi un denaro per uno. E ricevutolo, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora e li hai eguagliati a noi che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo. Ma egli rispose ad uno di loro, e disse: Amico, non ti faccio ingiustizia, non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi quel che ti spetta e vattene: voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso dunque fare come voglio? o è cattivo il tuo occhio perché io son buono? Così saranno, ultimi i primi, e primi gli ultimi. Molti infatti saranno i chiamati, ma pochi gli eletti.]

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

Tutti i secoli, che già passarono dal principio del mondo, uniti insieme con tutti quelli che restano a passare sino alla fine del medesimo, mentre per noi sembrano gran cosa, dinanzi a Dio, secondo la spiegazione di Origene, non sono altro che un giorno. Ora, poiché Iddio vuole che tutti gli uomini, i quali compaiono successivamente sulla terra durante questo gran giorno, attendano al lavoro della loro santificazione, perciò in tutte le ore diverse di questo giorno istesso nella sua bontà infinita si degnò di chiamarli a questo lavoro. – Al mattino, ossia alla prima ora, chiamò i nostri progenitori Adamo ed Eva; all’ora terza chiamò Noè e la sua famiglia; all’ora sesta chiamò Abramo e gli altri patriarchi; all’ora nona chiamò il suo servo Mosè. Finalmente all’ora undecima, che dura tuttora e durerà sino alla fine del mondo, per la bocca dello stesso divin Redentore chiamò gli Apostoli e nella loro persona tutte le nazioni che essi dovevano convertire. Queste varie chiamate rivolte dal Signore al suo popolo e segnatamente agli infedeli, secondo l’insegnamento dei Santi Padri, sono mirabilmente designate nella parabola del Vangelo d’oggi. Noi tuttavia, per nostra maggiore utilità ne faremo l’applicazione alla nostra vita cristiana.

1. Il regno dei cieli, disse Gesù Cristo, è simile ad un padre di famiglia, il quale andò di gran mattino a fermare dei lavoratori per la sua vigna. Ed avendo convenuto coi lavoratori a un denaro per giorno, li mandò alla sua vigna. Ed essendo uscito fuori circa all’ora terza, ne vide degli altri, che se ne stavano per la piazza senza far nulla, e disse, loro: Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quel che sarà di ragione. E quegli andarono. Uscì anche di nuovo circa l’ora sesta e la nona e fece l’istesso. Circa l’undecima poi uscì e ne trovò degli altri, che stavano a vedere, e disse loro: Perché state qui tutto il giorno in ozio? Quelli risposero: Perché  nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. – E qual è adunque questa vigna, che il padre di famiglia, che è Dio, vuol far lavorare da noi che siamo i suoi operai! Questa vigna è l’anima nostra. Iddio l’ha creata Egli immediatamente; l’ha fornita di tanti bei doni, l’ha arricchita di moltissime grazie, e sopra tutto l’ha innaffiata del sangue preziosissimo del suo divin Figlio per mezzo dei santi sacramenti: Egli l’ha posta ora su questa terra, destinandola tuttavia ad essere un giorno trapiantata nel Paradiso. E chi può dir quanto egli ami e quanto desideri che, arricchendosi di abbondanti frutti, abbia a raggiungere il suo fine? Con tutto ciò sebbene egli vi abbia sparso, senza che essa ne avesse alcun merito, i tesori della sua grazia, l’anima nostra non raggiungerà la sua salvezza, se noi non presteremo il nostro concorso all’azione divina, vale adire, se noi non lavoreremo efficacemente a santificarla. Importa adunque sommamente che tutti, mentre siamo in tempo, ci diamo attorno per far delle opere buone, senza le quali è impossibile la santificazione dell’anima. Guai a noi se ce ne stiamo oziosi! E sapete voi di qual maniera ce ne staremmo oziosi? Lo spiega chiaramente S. Tommaso. Si chiamano oziosi, dice egli, non solamente coloro che operano il male, ma coloro eziandio che trascurano di operare il bene: dicuntur otiosi non solum qui mala faciunt, sed etiam qui bonum non agunt (In Matth. cap. XX). Certamente sono oziosi per la vigna della loro anima coloro, che impiegano la loro intelligenza, il loro cuore, i loro sensi, il loro ingegno, la loro sanità, le loro ricchezze, la loro forza come strumenti ad operare il male e a coprire la loro anima degli sterpi del peccato. Ma sono oziosi del pari coloro, che pur non commettendo deliberatamente e di proposito gravi peccati, non impiegano tuttavia le loro forze morali, intellettuali e fisiche a far del bene. Perciocché impiegare queste forze a metter insieme denari, a far delle grandi fortune, a conseguire cariche ed onori, a raggiungere posti elevati, a far acquisto di scienza peregrina e cose simili è lavorare attorno alla santificazione dell’anima propria! Ahimè! Quid hæc ad æternitatem? Che cosa giovano tutte queste cose per l’eternità? Importa adunque che non ci lasciamo con tanta facilità distrarre dal pensiero degli affari temporali. Sì, attendiamo pure con diligenza a quella professione, a quell’arte, a quello studio, nel quale Iddio ci vuole in questa vita, ma non dimentichiamo mai che in capo a tutto deve stare l’affare della nostra eterna salute, che è questa l’unica cosa sommamente necessaria. A che mai, esclama Gesù Cristo, a che mai, o mortali, vi andate occupando in tante cose del mondo ? Una sola cosa è necessaria, e questa è la salute dell’anima vostra. Se voi salvate quest’anima, per voi tutto è salvo, ma se la perdete, tutto è perduto. Voi potete acquistarvi ricchezze, onori, impieghi,gloria; voi potete comparire gran sapiente in faccia agli uomini; essere riputati i più valenti, i più dotti dei vostri compagni, del vostro paese, di tutto il mondo: ma tutte queste cose sono niente se le confrontate con la salvezza dell’anima vostra, che di tutto il mondo è il tesoro più prezioso. Nulla può paragonarsi al valore dell’anima, poiché essa vale il sangue di Gesù Cristo, avendo Gesù Cristo sparso il sangue per la salvezza di ciascuna delle nostre anime. Epperò, che cosa potrai dare, dice lo stesso Gesù, che possa compensare l’anima tua? Che ti giova, o uomo, guadagnare tutto il mondo, se questo guadagno reca danno all’anima tua? E l’Apostolo S. Paolo avvisava i Cristiani della città di Filippi, che con timore e tremore attendessero a salvar l’anima. S. Francesco Zaverio diceva che nel mondo avvi un solo bene ed un solo male, l’unico bene è salvarsi, l’unico male è dannarsi. E S. Teresa andava spesso ripetendo alle sue compagne: Sorelle, un’anima, un’eternità: volendo dire: un’anima sola, perduta questa, tutto è perduto, e per un’eternità. Oh quanto rincresce adunque il sentire talvolta certi Cristiani, che poco o nulla pregando,

andando di mala voglia in chiesa, trascurando di istruirsi convenientemente nella Religione e lasciando da parte molti altri doveri, si scusano col dire che hanno da pensare ad altro, a studiare e a lavorare! Quanto fa pena il vederli talvolta nella chiesa istessa anziché rivolgere la mente a Dio, dissiparla nel pensiero dei loro affari mondani! Ma poveri Cristiani! Pensano essi forse che al suo divin tribunale Dio menerà loro buone queste scuse? Ahimè! Ogni albero, che non produce buoni frutti, diceva già il Precursore di Cristo, sarà tagliato e gettato nel fuoco. E Gesù Cristo medesimo confermò ampiamente questa dottrina. Ricordiamoci adunque che non basta la fede, come insegnano i protestanti, ma sono anche necessarie le opere. « Che prò, domanda l’Apostolo S. Giacomo, che prò se uno dica di avere la fede e non abbia le opere? Potrà forse salvarlo la fede? Che se il fratello e la sorella sono ignudi e bisognosi del vitto quotidiano e uno di voi dica loro: Andate in pace, riscaldatevi e satollatevi; né diate loro le cose necessarie al corpo, che gioverà? Così come le vostre parole non sono di alcuno sollievo al fratello ed alla sorella che sono in urgente necessità ed han bisogno non di parole, ma di effettivo soccorso, così la sola fede non gioverà a voi essendo priva della carità, senza di cui la fede è morta ». Operiamo, operiamo adunque. In mezzo alle nostre occupazioni, ai nostri studi avvezziamoci a mettere le buone opere in cima ai nostri pensieri. Le preghiere del mattino e della sera, la frequenza dei Sacramenti, la santificazione delle feste, le opere di carità, l’esercizio delle cristiane virtù, siano cose che nella nostra estimazione e nella pratica passino innanzi a tutte le altre. Per tal modo, vale a dire col lavoro di una vita cristiana, noi coopereremo con Gesù Cristo, nostro Dio e nostro padrone, alla coltura di quella vigna spirituale, che è l’anima nostra, ed asseconderemo la chiamata, che Egli a tal fine ci fa udire in tutte le età della vita umana.

2. E qui notiamo quale fosse il costume degli antichi. Essi dividevano il giorno in dodici ore. La prima cominciava al levar del sole, la dodicesima al suo tramonto. Tale giorno aveva quattro parti di tre ore, più o meno lunghe, secondo che il sole stava più o meno tempo sull’orizzonte. Quindi la prima, la terza, la sesta, la nona, l’undecima ora corrispondevano a ciò che noi chiamiamo le sei, le nove ore del mattino, il mezzodì, le tre e le cinque ore pomeridiane. Ora, chi non vede come tutte le età della vita umana, assai più acconciamente delle epoche della storia, possono essere paragonate alle ore di un solo e medesimo giorno? Sì, la vita dell’uomo è come un giorno, ma un giorno, cui assai presto succede la notte, dice il profeta Isaia: Venti mane et nox. La prima ora, dice S. Gregorio, è l’infanzia dell’uomo; la terza è la sua adolescenza, in cui comincia a crescere il calore dell’età, come il sole nella terz’ora del giorno; la sesta è la giovinezza, in cui è nella sua forza la pienezza dell’età, come quando il maggior astro è al suo mezzodì; la nona è l’età matura, l’età perfetta, in cui decresce e si diminuisce tutti i giorni il calore; l’undecim’ora è la vecchiezza, in cui per così dire non vi è più che un punto tra la vita e la morte, tra il giorno ed una notte eterna. Ebbene, o miei cari, in tutte le età della vita Dio chiama gli uomini a lavorare nella sua vigna. Egli li chiama anzi tutto nell’infanzia. Benché nulla possiamo ancora fare per Iddio, Egli si mostra fin d’allora infinitamente generoso. Per mezzo del santo Battesimo egli infonde in noi le virtù soprannaturali, che sono in allora altrettante potenze, per cui siamo obbligati ad operare il bene, appena saremo giunti all’uso della ragione. Epperò col compiere in noi questa opera, benché noi non possiamo intendere

la sua voce, tuttavia Iddio ci chiama al suo santo servizio, alla santificazione dell’anima nostra, facendo con noi la convenzione di darci per mercede del nostro lavoro la vita eterna del cielo. Egli chiama gli uomini nell’adolescenza, età, in cui le nostre facoltà incominciano a metter fuori i primi raggi e a dare i primi slanci. E chi sa dire le molteplici guise, con cui Iddio fa sentire la sua voce al cuore di un fanciullo? Egli lo chiama con la sana educazione dei genitori e dei maestri, lo chiama col catechismo e con l’apprendimento delle prime verità cristiane, lo chiama con gli insegnamenti, che il sacerdote dà in modo adatto alla sua tenera mente, lo chiama colle dolcezze delie pratiche di pietà e soprattutto con quelle della prima Comunione;

lo chiama insomma in mille modi ed amorosamente lo invita a darsi interamente al suo amore. – Ma Iddio non chiama meno all’età della giovinezza, età delle passioni e de’ suoi scatti impetuosi. Pur troppo allora più che mai anche il mondo fa sentire la sua voce e grida che quella è l’età del piacere. E guai se il giovane insensatamente ascolta la voce del mondo! Egli allora butta nel vizio la forza e l’energia della sua vita e da se stesso si conduce innanzi tempo ad una vergognosa vecchiaia. Ma se invece egli ascolta le chiamate di Dio, chi sa dire il gran bene, di cui diventa capacissimo operatore? Che non fecero mai in questa età un S. Luigi Gonzaga, un S. Stanislao Kostka, un S. Giovanni Berchmans? Iddio chiama ancora all’età matura. Anzi allora, quanto più il giorno della vita si avanza, tanto più insistente diventa la sua chiamata. E quando l’uomo ha resistito, quando ha passato il fiore della sua vita nell’indifferenza, nella mollezza e nell’ingratitudine, quando arriva alla triste età della vecchiezza, quando già porta sulla fronte il segnale d’una morte vicina, Iddio degnasi di chiamarlo ancora, accontentandosi degli estremi avanzi di una vita, che sta per spegnersi, e che forse fu passata tutta a disconoscerlo e ad oltraggiarlo. Con tutto ciò, o miei cari, guardiamoci bene dall’inganno del demonio, dal fidarci cioè di poter poi rispondere facilmente alla chiamata di Dio nell’estrema nostra età. S. Agostino e S. Girolamo insegnano, che colui il quale nella sua gioventù si dà al mal fare, si viene abituando allo stesso, e l’abitudine forma come una seconda natura, una catena di ferro, una forza tirannica e prepotente, che malgrado qualche buon desiderio in contrario, trascina al male. Or come farà a darsi al servizio del Signore e per conseguenza a cangiare costume di vita, colui che per una lunga serie di anni è sempre vissuto nella spensieratezza della vita cristiana e talvolta nei più gravi disordini del vizio? Ecco perché si vedono pur troppo talora dei vecchi, che hanno già il crin canuto e bianco e pur sono sì spudorati nel parlare, sì disonesti nell’agire, sì irreligiosi nel sentire. Ecco perché costoro talvolta scendono nella tomba senza aver punto corretta la loro vita, che cominciò ad essere malvagia nella loro gioventù. È proprio la sentenza dello Spirito Santo, che si avvera: Ossa eius implébuntur vitiis adolescentiæ eius, et curri eo in pulvere dormient: Le ossa di lui saranno imbevute dei vizi della sua gioventù, e questi andranno a giacere con lui nella tomba (Giobb. XX, 11). Tutti adunque, in qualunque età ci troviamo, ascoltiamo la voce di Dio che ci chiama al lavoro della santificazione, e tutti senza dubbio ne avremo l’adeguata mercede. È Gesù Cristo stesso, che ce lo assicura nella seconda parte della parabola di quest’oggi.

3. Venuta la sera, prosegue egli, venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama i lavoratori, e paga ad essi la mercede, cominciando dagli ultimi sino ai primi. Tenuti adunque quelli che erano andati circa l’undecima ora, ricevettero un denaro per ciascheduno. Et reliqua. Or bene, o miei cari, la sera, di cui trattasi qui è il fine della vita. L’economo è Gesù Cristo, a cui il suo padre ha dato ogni podestà, e che dopo essersi a noi dato come Salvatore, si presenterà un giorno come rimuneratore divino. Il denaro consegnato all’operaio laborioso si è la vita eterna, retaggio di tutti gli eletti. E se, come accadde agli operai della prima ora, ci sorprende che gli operai dell’ultima ricevano come gli altri quel denaro della beatitudine infinita, riflettiamo, che Dio pesa piuttosto i santi ardori dell’anima di quello che misuri la durata del lavoro. Vi sono di quelli che datisi assai tardi al servizio del Signore, vi hanno portato tuttavia un ardore sì grande, una così mirabile energia, una forza di volontà così potente, che ben presto hanno sorpassato coloro che, non avendo mai disertato dalla via del bene, non vi hanno però fatto progressi sensibili, e non camminarono che a piccioli passi nel sentiero della perseveranza. Non han fatto così un S. Paolo, un S. Agostino, un S. Ignazio di Loyola, un S. Francesco Zaverio e tanti altri? Inoltre non dobbiamo dimenticare quella sentenza del Salvatore: « Nella casa di mio Padre vi sono molte mansioni » (Ioann. XIV, 2); e quell’altro insegnamento di S. Paolo: « In quella guisa che le stelle differiscono in chiarezza, così sarà nella risurrezione dei morti » (1 Cor. XV, 41). I Santiri fletteranno gli splendori divini del Signore secondo la maggiore o minore loro santità e perfezione. Finalmente riflettiamo, che se molti sono i chiamati, pochi sono gli eletti; vale a dire, come molti commentatori spiegano, se il numero dei Cristiani chiamati con grazie ordinarie ad una vita ordinaria è grande, in quella vece è scarso quello di coloro, che con grazie straordinarie sono chiamati ad una straordinaria santità; epperò se Iddio darà un premio specialissimo a quei pochi che da lui eletti praticarono una santità eroica, la comune dei Cristiani dovrà accontentarsi della ricompensa ordinaria, che sarà ad ogni modo troppo grande in confronto dei loro pochi meriti, secondo quel che disse Iddio al suo servo Abramo: « Ego merces tua magna nimis » (Gen. XV, 1). Quindi senza più oltre voler scrutare quanto vi restasse di impenetrabile in questa condotta del Signore, Padre di tutta quanta l’umana famiglia, accertiamoci, nulla di meno, che Egli, giusto rimuneratore dei buoni, in paradiso darà certamente a ciascuno il premio corrispondente a quel tanto di bene che avrà fatto, e con questo consolantissimo pensiero animiamoci senz’altro a fare il maggior bene per noi possibile. Suvvia, mettiamoci davvero con impegno. Obbediamo al comando del padrone delle anime nostre: « Ite et vos in vineam meam ».

Credo …

Offertorium

Orémus
Ps XCI:2

Bonum est confitéri Dómino, et psállere nómini tuo, Altíssime. [È bello lodare il Signore, e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

Secreta

Munéribus nostris, quæsumus, Dómine, precibúsque suscéptis: et coeléstibus nos munda mystériis, et cleménter exáudi. [O Signore, Te ne preghiamo, ricevuti i nostri doni e le nostre preghiere, purificaci coi celesti misteri e benevolmente esaudiscici.]

Communio

Ps XXX: 17-18

Illúmina fáciem tuam super servum tuum, et salvum me fac in tua misericórdia: Dómine, non confúndar, quóniam invocávi te. [Rivolgi al tuo servo la luce del tuo volto, salvami con la tua misericordia: che non abbia a vergognarmi, o Signore, di averti invocato.]

Postcommunio

Fidéles tui, Deus, per tua dona firméntur: ut eadem et percipiéndo requírant, et quæréndo sine fine percípiant. [I tuoi fedeli, o Dio, siano confermati mediante i tuoi doni: affinché, ricevendoli ne diventino bramosi, e bramandoli li conseguano senza fine.]

LO SCUDO DELLA FEDE XLIX

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S. E. I. Ed. Torino, 1927

XLX.

IL PARADISO.

Esistenza ed essenza del paradiso. — Come vi si veda Iddio — Come in Dio si conoscano tutte le creature. — Differenza fra i beati e contentezza che tutti provano nonostante tale differenza. — Felicità dell’anima prima della risurrezione, e del corpo dopo di essa. — Se si possa in cielo essere sorpresi dalla noia. — Se ivi si soffra per la perdita di qualche nostro caro.

— Ed ora eccomi a farle alcune domande intorno al paradiso. E primieramente: esiste esso davvero?

L’esistenza del paradiso è verità di fede, espressa nel simbolo sotto il nome di vita eterna; e tutti i popoli l’hanno sempre ammessa, benché molti di essi abbiano  errato ed errino tuttora, intorno alla sua essenza. Tutte le nostre aspirazioni più sublimi e più pure lo reclamano; e se l’uomo sopporta la vita con i suoi dolori, con le sue fatiche, con i suoi travagli è perché sente che un giorno sarà consolato e ricompensato in cielo. Infine gli attributi di Dio lo esigono non meno delle facoltà dell’uomo; la sua giustizia, la sua potenza, la sua sapienza, il suo amore, tutte insomma le sue perfezioni importano l’esistenza di una felicità eterna per colui che, ossequente alla legge del Signore, ha menato quaggiù una santa vita, o per lo meno è morto nella grazia di Dio.

— E dove si trova il paradiso?

Questo non si può dire. « Certamente, dice l’illustre Bougaud è un luogo, e un luogo materiale, perché deve accogliere non solamente delle anime, ma delle anime unite ai corpi, e già a quest’ora ne accoglie. È un luogo immenso, milioni di volte più grande della terra, perché deve riunire senza ombra di confusione tutti i santi, che hanno abitato il nostro globo dalle sue più remote origini, e che lo abiteranno sino al chiudersi dei secoli. È un luogo d’uno splendore ineffabile, in confronto del quale la terra, con tutte le sue meraviglie, non è che un luogo di esilio ed una regione di tenebre ». Ma dove sia collocato non si sa. Che se alcuni, anche dotti, in tempi remoti, hanno collocato il cielo nel firmamento, negli astri, ciò essi non fecero che esprimendo le loro supposizioni. D’altronde a me pare inutile ricercare dove il paradiso materialmente si trovi, giacché il paradiso piuttosto che dal luogo dev’essere costituito dallo stato di felicità, che gode il beato.

—- E in che cosa consiste propriamente la felicità del cielo?

La felicità o beatitudine essenziale consiste nel veder Dio, nel contemplare la sua infinita bellezza, chiara com’è, e nell’amare la sua infinita bontà con un amore che procaccia una gioia ed una dolcezza ineffabile.

— Perché mi disse beatitudine essenziale?

Perché questa è la beatitudine, che costituisce davvero il paradiso e così compiutamente da saziare per sé sola, tutti i desideri dei beati. Tuttavia questi godono ancora della bellezza materiale del cielo, della compagnia dei Santi loro compagni e di quella degli Angeli, della presenza della Regina del cielo Maria, e soprattutto della SS. Umanità di Gesù Cristo. Ma siccome questo gaudio non è punto necessario alla perfetta felicità dei beati, perciò si può chiamare accidentale ossia accessorio. – Inoltre secondo l’insegnamento di S. Tommaso i vergini, per la vittoria che riportarono sulla carne, vivendo da Angeli in corpo umano, i Martiri che trionfarono delle persecuzioni del mondo, e i Dottori che abbatterono il demonio con la difesa e spiegazione della dottrina di Gesù Cristo, avranno una gloria accidentale tutta loro propria, la quale dopo la risurrezione ridonderà pure nel loro corpo, glorificato. – Infine la felicità di tutti i beati del paradiso sarà compitissima dalla sicurezza che hanno di non perderla più mai e di goderla per sempre.

— In paradiso pertanto si vede davvero Iddio?

Senza alcun dubbio, e si vede faccia a faccia, quale Egli è. Così c’insegnano la Sacra Scrittura e la Chiesa.

— E lo si vede con questi occhi materiali?

No, certamente, neppure dopo la risurrezione, quando i beati saranno in cielo non solo con l’anima ma eziandio col corpo: perché i nostri occhi materiali non potendo vedere le cose spirituali non potranno neppure mai vedere Iddio, che è purissimo spirito. Anzi neppure con la sola intelligenza si può vedere Iddio, quando pure, dice S. Tommaso, egli aumentasse indefinitamente le sue forze proprie e native, perché vi sarebbe sempre tra la sua natura e la nostra un abisso insormontabile. Lo si vede adunque con la intelligenza fornita da Dio di una disposizione nuova, apposita, d’ordine superiore, che si chiama lume della gloria.

— Dunque neppure in cielo senza questo lume della gloria Dio non si vede?

No, certamente, di quella guisa che cogli stessi occhi materiali non possiamo vedere nemmeno una montagna per quanto a noi vicina senza l’aiuto della luce.

— E vedendo Iddio col lume della gloria, i beati lo comprendono chiaramente?

Questo no. Per comprendere Iddio non basta vederlo; bisognerebbe arrivare a conoscerlo con quella perfezione, con cui Dio conosce se stesso con la sua scienza infinita, la qual cosa è impossibile ad ogni creatura.

— E allora che cosa significa quel vedere Iddio, che costituisce in cielo la felicità dei beati?

Significa che i beati in cielo conoscono Iddio, la sua divina sostanza, le sue divine perfezioni, la sua augustissima Trinità quanto è loro possibile, secondo le forze della natura elevata dalla grazia; le quali forze essendo finite non possono perciò procacciare un conoscimento infinito di Dio, ossia la sua comprensione.

— Dunque anche lassù in cielo continuano ad esservi dei misteri, che i beati non possono comprendere. E così persistendo l’ignoranza, come può essere pienamente appagata la loro mente ?

No, caro mio, non è come tu dici. Benché il conoscimento, che i beati hanno di Dio, non sia infinito, tuttavia è tale da far scomparire ogni mistero e da mostrar loro con chiarezza ogni verità, ragione per cui in paradiso cessa la fede, che serve a farci credere ciò che non vediamo. Siccome poi la mente dei beati in cielo conosce Iddio quanto può bramare di conoscerlo con tutte le sue forze di natura e di grazia, perciò resta pienamente appagata in tutti i suoi desideri spinti all’ultimo punto, si trova perfettamente sazia e felice di tale conoscimento, ancorché non sia la comprensione, e non soffre alcun patimento, neppure minimo.

— È vero che nel conoscimento di Dio i beati hanno altresì il conoscimento di tutte le creature?

Verissimo. Essi conoscono anche le creature come effetti nella loro causa. « Mettiamoci innanzi agli occhi della mente, ti dirò con l’illustre Mons. Bonomelli, tutte le creature materiali, dall’atomo inorganico al cedro del Libano, dal microbo all’elefante. Quante creature! Quante forze! Quante doti e proprietà e rapporti infiniti tra loro! Quale immensa moltitudine! Salite all’uomo, alla sua mente, alla mente di ciascuno. Quanti pensieri e cognizioni in una sola! in tutte! Poi salite agli Angeli! Tutte le loro cognizioni, atti, ecc. ecc. Poi tutto l’universo con tutte le sue evoluzioni passate, presenti, future; è tal mole di cose, di pensieri ed atti da opprimere qualunque intelligenza. Ebbene: tutto ciò che fa l’Artefice è nella sua mente, nella sua volontà: così tutte le cose create in cielo, in terra, nell’universo, le loro evoluzioni, i loro fenomeni sono tutti in Dio, che come Creatore li precontiene in se stesso; tutte le cognizioni degli uomini e degli Angeli, tutti gli atti delle loro menti, delle loro volontà, sono in Dio, in quanto che tutto questo è esplicazione di quella forza che Iddio ha collocato in essi, e perciò tutto precontiene in se stesso; Più: Dio contiene in se stesso tutti i possibili, relativamente a sé ed agli altri tutti, tutto ciò che può fare e quello che realmente farà. Come dunque chi potesse entrare nella mente dell’uomo, vi leggerebbe tutti i suoi pensieri, così chi può entrare nella mente di Dio (come i beati in paradiso) vi vede senza studio, senza speculazioni, senza fatica, senza sforzo alcuno ogni cosa, comprese quelle che non furono, che non saranno mai, ma che potrebbero essere; è un oceano sterminato di cognizioni certe, limpide, perfette, inamissibili, in cui il beato ènaufrago. Quale gioia! quale felicità!»

— Davvero che questa è una gioia ed una felicità, che allieta al solo pensarvi. Ma il conoscimento di Dio, della sua grandezza, della sua potenza e volontà, da cui questa gioia e felicità emana, è desso per tutti i beati eguali?

Oh! no, certamente. Là si è tutti uguali in quanto che tutti si possiede lo stesso Dio immediatamente e sempre; ma in quanto al conoscerlo e goderlo si è differenti a seconda del maggiore o minore lume di gloria, che i santi hanno ivi da Dio, in conformità ai loro maggiori o minori meriti e alla maggiore o minore carità, di cui conseguentemente arderanno. È perciò appunto che Gesù Cristo ha detto nel Vangelo che «nella Casa del suo Padre vi sono molte mansioni, » cioè in numero sterminato e di diversi gradi.

— Ma questa diversità non è causa di invidia e di disgusto ai beati?

Niente affatto. I beati non possono essere capaci né di invidia per il maggior bene altrui, né di disgusto per il loro minore, perché sono tutti animati dalla carità più perfetta, e tutti godono del bene degli altri come del proprio. D’altronde siccome la felicità di quegli stessi beati, che in cielo sono fra i minori, è tanto perfettamente commensurata alla capacità che hanno di godere, perciò neppure a loro rimane alcun minimo desiderio da soddisfare. Supponi che un uomo adulto ed un fanciullo arrivino assetati ad una sorgente abbondantissima di acqua pura e fresca, e che tutti e due bevendo di quell’acqua, quanto ciascuno di essi ne può bere, si dissetino ciascuno pienamente. Forseché il fanciullo, che per la minore capacità del suo stomaco non può bere tant’acqua come quell’uomo adulto, provi perciò dell’invidia e del disgusto? No, certamente, essendo egli contentissimo di poter bere quanto vuole e quanto può. Così è dei beati in cielo. Quindi bellamente il nostro sommo poeta fingendo nel Paradiso (Canto III) di interrogare un’anima celeste così:

Ma dimmi: Voi, che siete qui felici,

Desiderate voi più alto loco,

Per più vedere, e per più farvi amici?

si fe’ rispondere:

Frate, la nostra volontà quieta

Virtù di carità, che fa volerne

Sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta,

sicché in fine conchiuse:

Chiaro mi fu allor, com’ogni dove

In cielo è paradiso, e sì la grazia

Del Sommo ben d’un modo non vi piove.

— Ho inteso. Ma questa grande felicità è certo che Iddio la conceda alle anime di coloro, che muoiono in grazia, prima ancora della risurrezione dei corpi e dell’universale giudizio?

— Certissimo, anzi di fede secondo l’insegnamento datone dalla Chiesa in uno de’ suoi Concilii, nel Concilio Fiorentino. Le anime dei giusti appena sciolte dal loro corpo, se sono libere da ogni pena temporale e da ogni neo di colpa veniale, subito vanno al paradiso; altrimenti vi vanno tosto che abbiano scontata la pena temporale e compiuta la loro purificazione nel purgatorio.

— E dopo la risurrezione e l’universale giudizio, il corpo unito all’anima in cielo godrà esso dei piaceri come ne gode qui in terra?

No, caro mio, in cielo il corpo godrà dei piaceri come si conviene alla condizione gloriosa, in cui è risuscitato. Perciò non vi saranno più per lui questi piaceri meschini, grossolani, materiali e terreni, ma piaceri di ordine superiore, del tutto spirituali ecelesti.

— Con tutto ciò a me pare che in cielo si debba finire per essere sorpresi dalla noia. Quello starsene lì sempre allo stesso posto, intenti alla stessa contemplazione non è cosa, che per lo meno ad un certo punto renda indifferenti?

Ben si vede che tu ti fai del cielo una idea molto meschina e ben diversa da quella che dovresti farti. È vero che i pittori sogliono rappresentare il cielo come un vasto cerchio, ove i beati se ne stanno ciascuno estatico al proprio posto, nella contemplazione di Dio. Ma i pittori fanno così non già per rappresentarci il cielo quale esso è, ma per aiutare in qualche modo la nostra fantasia a figurarcelo. Così fanno pure i poeti e gli oratori colle loro descrizioni, anzi così fa la stessa Scrittura, la quale a darci qualche idea del cielo si serve di immagini materiali, di tutto ciò che di bello, di buono, di piacevole vi è in questo mondo. Perché nell’ordine presente non è possibile per noi formarci un’idea pura di tutto ciò che è spirituale e soprasensibile, senza l’involucro d’una forma o immagine sensibile: sempre abbisogniamo dell’aiuto dei fantasmi per rappresentarci l’anima, gli Angeli, le virtù, le perfezioni, lo stesso Dio. Epperò come quando la Scrittura ci parla di posti, di seggi, di mansioni in cielo, di corone, di palme, di vesti che là si hanno ecc., non intende parlarci di posti, di seggi, di mansioni, di corone, di palme, di vesti materiali, ciò che sarebbe ridicolo degli Angeli e delle anime ancora separate dai corpi, ma di gradi diversi di felicità, così i pittori seguendo queste stesse immagini ci rappresentano i beati fermi ciascuno al proprio posto, nella stessa contemplazione di Dio. Ma la cosa è ben diversa. Ed anzitutto i beati sia con la sola anima prima della risurrezione, sia con l’anima e col corpo dopo la risurrezione, come insegna san Tommaso, potranno muoversi e recarsi di qua e di là a seconda della loro volontà, sia per esercitare quegli atti di cui sono capaci, e per essi rendere gloria alla divina sapienza, sia per ricreare la loro vista dalla bellezza delle diverse creature, nelle quali la stessa divina sapienza eminentemente risplende; e tutto ciò senza che avvenga il menomo decrescimento della loro beatitudine, essendo che da per tutto hanno presente Iddio e ne godono la visione. Come dunque si può ingenerare la noia nei beati, i quali, ora da soli, ora in compagnia di altri beati andranno di sfera in sfera, visiteranno i milioni e milioni di astri, vi contempleranno le bellezze che in essi vi sono, le meraviglie che in ciascuno si trovano? E che dire di quello che i beati potranno considerare ed ammirar nel mondo degli Angeli e in quello delle anime ? « Una sola anima in cielo, dice Bougaud, ben conosciuta, basta a rapire. Si vede a rilucervi la bontà di Dio, la sua pazienza, la sua delicatezza infinita, i suoi colpi di folgore temprati dalla tenerezza per divellerla dal male. La biografìa di ciascuna di esse rivela, starei per dire, una nuova scienza di Dio, siffattamente getterà luce nuova e inaspettata sopra i suoi attributi ». Che dire ancora di quei colloqui e di quelle relazioni dolcissime, che i beati del cielo hanno coi loro parenti coi loro amici salvi con essi, e tra i quali vi èperfetto riconoscimento, con gli Angeli e coi Santi tutti, per cui del continuo si scambiano nuovi pensieri, nuovi sentimenti, nuove adorazioni, nuovi entusiasmi, nuove espansioni di carità e di gioia! E poi la stessa visione di Dio, bellezza infinita, nella quale vivono e palpitano tutte le bellezze, e che pur appagando pienamente la nostra intelligenza e il nostro cuore, senza lasciarci nulla da cercare o desiderare, come felicemente si esprime il Padre Felix, « dà ai beati, con un’espressione sempre nuova dell’infinito, una felicità che ringiovanisce eternainente, » come mai puòlasciarci cadere nella noia? No, certamente, ciò non è possibile: se così fosse, il cielo non sarebbe più cielo.

— Ma per lo meno in Paradiso non si prova dai beati qualche pena nel sapere dannato qualcuno dei loro cari?

È fuori di dubbio che nessun’ombra di dolore offusca la felicità dei beati in cielo; epperò non possono soffrire neppure per la dannazione dei loro cari, perché la vedono giustissima, pienamente conforme ai loro demeriti. Tuttavia a capire e spiegare come ciò avvenga ti confesso che è difficile assai, e di tutte le spiegazioni, che si adducono, non appaga interamente la ragione che questa: Dio con la sua onnipotenza può dare ai beati una miracolosa disposizione d’animo, per cui mentre essi godono ineffabilmente ed eternamente, e vedono certi loro cari a soffrire spaventosamente e pure eternamente, non restano tuttavia menomamente amareggiati.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (23)

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXII.

(fine del precedente)

Esistenza degli oracoli divini e degli oracoli satanici provata dal fatto dei sacrifici — Parole d’Eusebio — Nuovo tratto di parallelismo — Lo Spirito Santo, oracolo permanente della Città del bene; satana, oracolo permanente della Città del male — satana si serve d’ogni cosa per parlare — Non si contenta del sacrificio del corpo: in odio del Verbo incarnato vuole il sacrificio dell’anima — Egli esige delle infamie e delle ignominie: prove generali — Quando egli non può uccidere l’uomo, lo deforma — Tendenza generale dell’uomo a deformarsi fisicamente — Spiegazione di questo fenomeno — Un sol popolo fa eccezione, e perché — Altro tratto di parallelismo: per far l’uomo a sua similitudine, Iddio si mostra a lui nei quadri e nelle statue. Per fare l’uomo a sua similitudine, satana adopra lo stesso mezzo: ciò che predicono le sue rappresentazioni.

A meno che non si voglia negare ogni certezza storica, i due fatti che siamo per leggere sono lampanti per quei che negano gli oracoli. Essi lo sono non solamente a causa della gravità degli autori che li riferiscono, ma ancora per la loro connessione con una moltitudine di altri fatti, egualmente certi. Per conservare il minimo dubbio sull’esistenza universale degli oracoli demoniaci, e sulla terribile autorità dei loro ordini, fa d’uopo essere giunti ad un partito preso di negazione che concerne la stupidità. Tutta la storia del mondo incivilito non riposa essa sulla certezza di un oracolo satanico? Cento volte nella Scrittura non vediamo noi la consultazione degli oracoli? cento volte questi oracoli non chiedono agli Ebrei, come ai Cananei, l’immolazione dei loro figli e delle loro figlie? Ci si citi una pagina della storia profana che non affermi l’esistenza degli oracoli presso tutti i popoli pagani d’una volta, che non raffermi altresì presso tutti i popoli pagani d’oggidì. Fra le innumerevoli pratiche, ridicole, infami e crudeli che deturpano la loro esistenza, ve ne ha forse una sola che essi non riferiscano alla prescrizione delle loro divinità? Intorno a questo punto, se la storia conferma la ragione, la fede dal canto suo spiega la storia. satana, come rivale implacabile del Verbo incarnato, vuole essere tenuto per Iddio. Il segnale della divinità, è il culto di latria. L’atto supremo del culto di latria, è il sacrificio. Il mezzo d’ottenere il sacrificio, è di comandarlo. Il mezzo di comandarlo, è l’oracolo. satana, immutabile nel male, ha sempre voluto farsi passare per Iddio, e sempre lo vorrà. Dunque egli ha voluto sempre e sempre vorrà il sacrificio. Dunque sotto un nome o sotto un altro, vi furono sempre e sempre vi saranno oracoli, dappertutto dove la scimmia di Dio potrà esercitare il suo impero. Eusebio dice: « Che nulla prova meglio l’odio dei demoni contro Dio, quanto la loro rabbia di farsi passare per iddìi, con la mira di togliergli gli omaggi che gli sono dovuti. Ecco perché essi impiegano le divinità e gli oracoli, a fine di attirare, gli uomini a sé, di strapparli al Dio supremo, e di sommergerli nell’abisso senza fondo dell’empietà e dell’ateismo. » (Præp. evang., lib. VII, c. XVI; vedi pure S. Tomm. I p., q. 115, art. 5 ad 3). Non è soltanto in cose di religione, e quando si tratta del sacrificio, che il ee della Città del male vuole essere consultato. Ei lo vuole e lo è nelle cose dell’ordine puramente sociale ed umano. Quest’è un nuovo tratto del parallelismo di già notato. Sappiamo che innanzi di incominciare qualche cosa d’importante, l’antico popolo di Dio aveva ordine di consultare l’oracolo del Signore: os Domìni. Il Vangelo non ha niente cambiato a questa prescrizione. Non vediamo noi il nuovo popolo di Dio, la Chiesa Cattolica, fedele ad implorare i lumi dello Spirito Santo all’oggetto di sapere, in circostanze importanti, quel che conviene di fare, e il modo di farlo? Le nazioni d’Oriente e d’Occidente finché furono cristiane, non si indirizzarono al Sovrano Pontefice, come oracolo vivente dello Spirito Santo, per domandare a lui regole di condotta, pregandolo a decidere tra il vero ed il falso, tra il giusto e l’ingiusto? Che cosa vuol dire, se non consultare l’oracolo del Signore: Os Domìni! Nella loro vita privata gli stessi Cattolici che hanno conservato la fede alle relazioni necessarie del mondo superiore col mondo inferiore, si mostrano religiosi osservatori di questa pratica. Cosa è infine questo, se non un consultare l’oracolo del Signore: Os Domìni? – È molto evidente che satana abbia dovuto contraffare a suo profitto un uso cosi proprio, ad ottenere la confidenza e gli omaggi degli uomini; prima di averne le prove ne abbiamo la certezza. Di fatti che cosa vediamo noi presso tutti i popoli pagani? degli oracoli che si va a consultare intorno a cose di guerra o di pace; circa a pubbliche calamità e intorno a sciagure domestiche; circa a matrimoni, a intraprese commerciali e malattie. Questi oracoli sono talmente rispettati, che i più fieri generali non ardiscono porsi in campagna senza averli interrogati. Essi sono talmente numerosi, che Plutarco non teme di scrivere questo celebre detto: « Sarebbe più facile trovare una città fabbricata nell’aria che una città senza oracoli. » (Vedi pure Theatrmn magnrnn vitæ hunanæ. Art. Oracula) Per tutti i popoli dell’antichità, l’esistenza degli oracoli satanici era dunque un articolo di fede, e la base della religione. Quanto al modo con cui venivano pronunziati, per quanto apparisca strano, esso non ha nulla che debba meravigliare, nulla che riguardi la certezza del fenomeno. Come il corpo è sotto la potestà dell’anima che lo fa muovere e parlare, così il mondo materiale in tutte le sue parti è soggetto al mondo degli spiriti, e specialmente degli spiriti maligni che sono chiamati i moderatori, ed i governatori: rectores mundi tenébrarum harum.D’allora in poi, per pronunziare i loro oracoli, fu per loro ogni cosa buona; per esempio un serpente o un pezzo di legno come nella Scrittura; una tavola, come vediamo in Tertulliano: un uomo, una donna, come si vede nella Storia Sacra e nella storia profana; una querce, come si vede in Plutarco; una statua di bronzo, come la statua di Memnone; una fontana, come quella di Colofone o di Castalia; una fava, un chicco di frumento, le interiora di un animale, una capra, un corvo, come vediamo in Clemente Alessandrino, e in venti autori pagani. (Fascinationis veluti negotiationis sociς habeantur capr  ad diviuandum informatæ, nec non corvi illi, quos ad responsa reddenda homines (i medium) erudiere. Exhort. Ad Græc., ec., ec.). – Porfirio aggiunge che, « nulla è più evidente né più divino, né più naturale di questi oracoli. » (Bis, nihil evidentius, nihil aut cum divinitate, aut cum ipsamet natura conjunctius dici queat. Apud Euseb., Præp. evang. lib. V, c. III). – Con tutto ciò, per quanto sia abominevole, il sacrificio del corpo, tante volte comandato per mezzo degli oracoli, non basta al demonio. Il suo odio ne esige un altro ancor più abominevole: quest’è il sacrificio dell’anima. Come ispira il primo, cosi ispira il secondo. Nella Citta del bene, lo scopo finale del sacrificio, come di tutte le pratiche religiose, si è di riparare o di perfezionare nell’anima l’immagine di Dio, affinché resa simile al suo Creatore, essa entri, al momento della morte, in possesso della felicità eterna. Spogliare l’anima della sua beltà natia, come ancora della sua santità, cioè cancellare in lei perfino le ultime vestigia di rassomiglianza con Dio, affinché all’uscir della vita essa divenga la vittima eterna del suo corruttore; è il fine diametralmente opposto che ha il Re della Città del male. Con la stessa tirannia con cui egli esige l’effusione del sangue, così esige la profanazione delle anime. La penna nostra rifugge dal descrivere l’ecatombe morali, compiute per suo ordine, su tutti i punti del pianeta, come pure le circostanze ributtanti, di cui il principe delle tenebre le circonda. Ignominie ed infamie: queste due parole riassumono il suo culto pubblico o segreto (quest’ultimo oggi praticato senza orrore nelle conventicole e logge massoniche! – ndr. – ).

Ignominie. Non vedete voi satana padrone di queste anime immortali, immagini viventi del Verbo incarnato, che le costringe a prostrarsi dinanzi a lui, non sotto la figura di un Serafino,, risplendente di luce e di bellezza; ma sotto la figura di tutto ciò che vi ha di più laido e di più ributtante nella natura? Coccodrillo, toro, cane, lupo, caprone, serpente, animali anfibi, animali di terra e di mare, sotto tutte queste forme, egli chiede omaggi, e li ottiene (Si pensi al baphomet adorato nelle logge massoniche – ndr. -). Questa lunga galleria di mostruosità non gli basta. A fine di trascinare l’uomo in più profonde ignominie, egli ne inventa una nuova. Sotto la sua ispirazione l’Oriente e l’Occidente, l’Egitto, la Grecia, Roma, tutti i luoghi insomma dove il genere umano respira, hanno visto le città e le campagne, i templi e le abitazioni particolari, popolarsi di figure mostruose sconosciute alla natura. Esseri spaventosi, metà femmine e metà pesci, metà uomini e metà cani, donne con chioma composta di serpenti, uomini coi pié di montone, donne con la testa di toro, uomini con quella di lupo, serpenti con la testa d’uomo o di sparviero, Magots e Budda aventi per testa un pan di zucchero, per bocca una tana spaventosa, correre da un orecchio all’altro; per ventre un tonno, tutti in attitudini ridicole, minacciose o ciniche; a questi dei, incarnazione moltiforme e lungo sogghigno di disprezzo dello spirito maligno, dovrà l’uomo, tremando, offrire i suoi incensi e domandare i suoi favori. Infamie. A qual prezzo sarà ricevuto l’incenso? A quali condizioni accordati i favori? Lo si domandi ai misteri di Cerere, ad Eleusi; a quelli della Dea Buona, a Roma; a quelli di Bacco, in Etruria; a quei di Venere, a Corinto ; a quei d’Astarte, in Fenicia; di Mendòs, in Egitto; del tempio di Gnido, di Delfo, di Cìaros, di Dodona e di certi altri che ci asteniamo dal nominare; in una parola, lo si domandi a tutti i santuari tenebrosi, dove, simile al tigre che aspetta la sua preda, satana notte e giorno attende l’innocenza, il pudore, la virtù, e l’immola senza pietà, con raffinamenti d’infamia che il Cristiano più non sospetta, e che lo stesso pagano non avrebbe mai inventati. (Clem. Alexand., Exhortat, ad Græc.; ed Euseb.,, Præp. evang. lib. IV, c. XVI. — Il Sig. di Mirville, Pneumatologìa ecc., t. III, seconda Memoria, p. 846 e seg.). – Quel che satana faceva presso tutti i popoli pagani, ei lo fece presso gli Gnostici loro eredi (i massoni odierni ad es. – ndr. -): lo fa ancora, quanto al fondo, tra i settari moderni, soggetti più direttamente al suo Impero. Udiamo il racconto di ciò che accade da lungo tempo in America, terra classica degli spiriti percussori, e dei grandi medium. Nel mese di settembre, dopo successe le raccolte, i metodisti hanno l’abitudine di tenere delle riunioni notturne, che durano tutta una settimana. Un annunzio è fatto nei giornali, affinché ogni fedele sia debitamente prevenuto, e possa profittare delle grazie che lo Spirito Santo prodiga in queste circostanze. Si sceglie un vasto spazio in mezzo alle foreste; il meeting ha luogo all’aperto, e nel silenzio della notte. Si vedono arrivare i settari da tutte le strade e per tutti i veicoli immaginabili: uomini, donne, bambini, tutti accorrono al convegno. Il luogo del meeting è ordinariamente in forma ovale. Ad una estremità si costruisce il palco per i predicatori, che sono sempre in buon numero. Questa specie disgraziatamente non manca in America. Da ciascun lato, in forma di ferro di cavallo, si erigono delle tende, e dietro di esse si pongono le vetture ed i cavalli. All’intorno sopra dei pali stanno lampioni o torce, che gettano una pallida luce. Il centro è vuoto. Qui si tiene il popolo, durante il meeting. Verso le nove o le dieci di sera, ad un dato segno, i ministri salgono sul palco; accorre il popolo, e se ne sta in piedi, o seduto sull’erba. Un ministro incomincia alcune preghiere, quindi declama un piccolo speech, che è il preambolo. Parecchi altri si succedono, e cercano di eccitare l’entusiasmo. Presto la scena si anima pigliando uno strano aspetto. Uno dei ministri intuona con voce lenta e grave un canto popolare; (È il carmen, consueto in tutte le evocazioni), la moltitudine accompagna su tutti i tuoni; poi il ministro aumenta la voce e va sempre crescendo, accompagnando il suo canto con gesti i più eccentrici. La Sibilla non era più tormentata sul suo tripode. Si canta, si declama a quando a quando, e l’entusiasmo aumenta. Ciò dura delle ore intere; l’eccitazione finisce col giungere ad un tal punto, di cui è impossibile dare un’idea (la stessa identica scena si osserva nei meeting del c. d. Rinnovamento dello spirito, dei pseudo-carismatici del novus ordo – ndr. – ). Fra le altre esclamazioni che odonsi risuonare, citiamo questa: Nella nuova Gerusalemme avremo del caffè senza denaro, e del vìn vecchio. Alleluia!. Tosto tutta questa moltitudine che riempie il recinto si mescola, si urta; tutto ciò in mezzo alle grida, a danze, a gemiti e a scoppi di risa. Viene lo Spirito! viene lo Spirito! Sì, viene di fatti; ma deve essere uno spirito infernale, a vedere quei contorcimenti, a udire quelle urla. Allora una confusione, una gazzarra degna del manicomio. Gli uomini si battono il petto, si onduleggiano come tanti scimmiotti cinesi, o eseguiscono evoluzioni come tanti dervis. Le donne si avvoltolano per terra con i capelli sparsi. Le giovani si sentono sollevarsi in aria e sono infatti trasportate da una forza soprannaturale. Frattanto i ministri, che sembrano presi dalla stessa follia, continuano a cantare e a dimenarsi come tanti ossessi: è una completa confusione, un caos…. all’infuori del pudore e della morale, tutto è puro per questi energumeni. Dio perdona tutto. Onta e infamia sopra i ciechi capi di un popolo cieco!… Le stelle del firmamento spargono una dolce luce su questo orrendo quadro; talora il vento muggisce nella foresta, e le torce fanno apparire gli uomini come tante ombre. La notte si passa allo stesso modo. Il mattino tutta quella moltitudine è sdraiata, inerte, stanca, snervata. Il giorno è consacrato al riposo, e la notte successiva si ricomincia. (Storia d’un meeting, del 1868, Estratti dai giornali americani). – Ecco che cosa si fa nella setta puritana dei metodisti. Chi oserebbe raccontare ciò che ha luogo presso i Mormoni? Noi siamo dunque in diritto di ripetere: perseguitare il Verbo incarnato nell’uomo suo fratello e sua immagine; perseguitarlo imitando, per perderlo, tutti i mezzi divinamente stabiliti per salvarlo; perseguitarlo senza posa e su tutti i punti del pianeta; perseguitarlo di un odio che va fino all’uccisione del corpo e dell’anima: tale è l’unica occupazione del Re della Città del male. Se egli non sempre raggiunge quest’ultimo risultato, sempre vi tende: quando non gli è dato distruggere l’immagine del Verbo, ei la sfigura. In mancanza di una completa vittoria, egli ambisce un successo parziale. Quel luminoso principio della filosofia cristiana ci conduce dinanzi a un fatto notabilissimo, fino ad ora poco notato in sé medesimo, e per nulla studiato nella sua causa. Vogliamo parlare della tendenza generale dell’uomo, a sfigurarsi. Noi diremmo universale, se un sol popolo che tosto nomineremo, non facesse eccezione. Avanti di occuparci della causa, avveriamo il fenomeno. La manìa di trasfigurarsi, o di deformarsi fisicamente, s’incontra dappertutto. Inutile d’aggiungere che essa è particolare all’uomo; quale esso sia, l’animale n’è esente. Se noi percorriamo le differenti parti del pianeta, troviamo in tutte le epoche e sopra un’ampia scala le deformità seguenti: deformazione dei piedi, mediante la compressione; deformazione delle gambe e delle cosce con legature; deformazione della statura, per mezzo di maggior corporatura; deformazione del petto e delle braccia col dipingersi il corpo; altra deformazione del petto, delle braccia, delle gambe e del dorso, con delle spaventevoli escrescenze di carne provenienti da incisioni, fatte per mezzo di conchiglie; deformazioni di unghie colorandole; deformità delle dita, per via dell’amputazione della prima falange. Deformazione del mento, mediante l’epilazione; deformazione della bocca, mediante lo spacco del labbro inferiore; deformazione delle gote, col bucherellarsele e colorirle; deformazione del naso, con lo schiacciarlo e forarlo dall’una all’altra estremità; con l’appendervi una larga placca di metallo, o un allungamento esagerato, derivante da una compressione verticale delle pareti; deformazione delle orecchie, per mezzo di pendenti che le allungano fino alla spalla; (« Nei dì di festa, le donne dell’isola di Pasqua si mettono i loro orecchini. Esse cominciano di buon ora a bucarsi il lobo dell’orecchio con un pezzetto di legno appuntato; a poco a poco si fanno entrare più avanti quel legno, e il foro s’ingrandisce. Quindi esse vi introducono un piccolo cilindro di scorza, il quale facendo l’ufficio di molletta, si distende ed allarga sempre più l’apertura. In capo a qualche tempo il lobo dell’orecchio è diventato una piccola correggia che ricade sulla spalla come un nastro. I giorni di festa vi introducono un enorme cilindro di scorza: questa è una grazia perfetta! » Tanto perfetta quanto il chignon moderno. Annali della propag. della fede. 11); deformazione degli occhi, dipingendoseli; o con la pressione dell’osso frontale che gli fa uscire dalla loro orbita; deformità della fronte con caratteri osceni, incisi in rosso col legno di sandalo; deformità del cranio, sotto l’azione di varie compressioni che gli fanno prendere, ora la forma conica, ora appuntata, ora convessa, rotonda, ora triangolare, ora stiacciata, ora quadra; deformazione generale mediante il belletto, con i cosmetici e con le ridicole mode; ecco il fenomeno. (Per le autorità e il nome dei popoli, vedi l’opera del medico dottor L. A. Glossò di Ginevra, intitolata: Saggio sulle formazioni del cranio; Parigi, 1855; Annali della propag. della fede, n. 98, p. 75). – Quale spirito suggerisce all’ uomo che esso non è ben fatto, come Dio lo fece? D’onde gli viene questa imperiosa mania di deformare, nella sua persona, l’opera del Creatore? Dare per causa la gelosia degli uni, la civetteria degli altri, non è un risolvere la difficoltà, ma respingerla. Si tratta di sapere qual principio ispiri questa gelosia brutale, questa civetteria ributtante; perché l’una e l’altra procedano mediante la deformazione, vale a dire in senso inverso della bellezza, e come esse si trovino su tutti i punti del pianeta. Se vogliamo non appagarci di parole ed avere il segreto dell’enimma, bisogna ricordarsi di due cose, del pari certe: la prima, che l’uomo è stato fatto nel suo corpo e nella sua anima ad immagine del Verbo incarnato, la seconda, che il fine di tutti gli sforzi di satana è di fare sparire dall’uomo l’immagine del Verbo incarnato, a fine di formarlo alla propria. Queste due verità certissime conducono logicamente alla seguente conclusione: che la tendenza generale dell’uomo a sfigurarsi, è l’effetto di una manovra satanica. Parecchi fatti il cui senso non è equivoco, vengono a confermare questa conclusione.

1° Certi popoli riconoscono positivamente in queste deformazioni, l’influenza dei loro Dei. « Quanto alle donne australiane, scrive un missionario, è meno il gusto dell’acconciatura che l’idea di un sacrificio religioso, che le porta a mutilarsi. Allorché esse sono tuttora di piccola età gli si lega la punta del dito mignolo della mano sinistra con fili di tela di ragno; la circolazione del sangue trovandosi così interrotta, si stacca in capo a pochi giorni la prima falange, che si dedica al serpente boa, ai pesci, o ai kanguroos. » (Annali ec., n. 98, p. 75). – Così è della deformazione della faccia, mediante la colorazione. Il suo carattere d’oscenità ributtante rivela un’altra causa, cioè la gelosia dell’uomo, o la civetteria della donna.

2° La parte del corpo più universalmente e più profondamente deformata è il cervello. Donde viene questa preferenza? Dal punto di vista dell’azione demoniaca, è facile comprenderne il motivo. Il cervello è il principale istrumento dell’anima. L’alterarlo, è alterare tutto l’uomo. Ora questa deformazione ha per resultato d’impedire lo sviluppo delle facoltà intellettuali, di favorire le passioni brutali, e di degradare l’uomo al livello della bestia. (Gosse, p. 149, 150. — In diversi punti della Francia e dell’Europa, la deformità della faccia ha luogo anche oggidì. Ivi-).

3° Fra tutti i popoli, uno solo, misto a tutti i popoli, rifugge da questa tendenza, ed è il popolo ebreo; e satana non ha il permesso di sfigurarlo. « Come esente dalla deformazione, io citerò questa piccola nazione ebrea che ha rappresentato una parte cosi notabile nella umanità, e il cui tipo si è conservato puro sino dai più remoti tempi. » (Gosse, p. 16).

4° Quanto più le nazioni si trovano straniere all’influenza del Cristianesimo o dello Spirito Santo, tanto più la tendenza alla deformazione è generale; al contrario più esse sono cristiane e più essa diminuisce. « Parlando degli abitanti della Colombia, il sig. Duflot di Mofras, fa notare che là dove il Cattolicismo si è introdotto, la deformazione ha cessato. » (Gosse, p. 9). Essa scompare completamente presso i veri Cattolici, i santi, i preti, i religiosi e le monache. Non basta difformare l’uomo allo scopo di cancellare in esso l’immagine di Dio; satana vuole ad ogni costo farlo a immagine sua. Qui viene ad aggiungersi ancora un nuovo tratto al costante parallelismo che abbiamo osservato. – Nella Città del bene, l’immagine di Dio, la più eloquente e popolare, è il Crocifisso. Dunque il Crocifisso è l’immagine obbligata dell’uomo quaggiù. Mortificazione universale della carne e dei sensi, impero assoluto dell’anima sul corpo, sacrificio senza limiti, distacco dalle cose temporali, rassegnazione, dolcezza, umiltà, aspirazione costante verso la realtà della vita futura: non è in tutto ciò l’uomo vincitore? Ed ecco il Crocifisso. Quindi, quella definizione della vita, data dal concilio di Trento. La vita cristiana è una penitenza continua, vita Christiana, perpetua pænitentia. Con queste immagini, il re della Città del male definisce parimente la vita: ma la definisce alla sua maniera. In tutte le innumerevoli statue che si presentano agli omaggi degli uomini, vi è sempre un appello ad una certa passione. Abbiamo più volte visitato le gallerie di Firenze, i musei di Roma e di Napoli, le rovine di Pompei e di Ercolano. Abbiamo visto gli Dei dell’Oceania; altri han visto per noi i templi del Thibet, le pagode dell’India e della Cina. Ora, quelle migliaia di figure, emblemi, statue antiche e moderne che ingombrano quei luoghi, cosi differenti di età e di destinazione, ripetono, ciascuna a suo modo, la parola seducente che perdé l’uomo nel paradiso terrestre. Godi, cioè dire, dimentica i tuoi destini, dimentica il fine della tua vita, adora il tuo corpo, disprezza la tua anima, degradati, deformati; che l’immagine del Crocifisso si cancelli dalla tua fronte, dai tuoi pensieri e dai tuoi atti, affinché tu sii l’immagine di colui che tu adori, la Bestia. Si potrebbe facilmente continuare, sotto il rapporto religioso, la storia parallela delle due Città, ma è tempo di delineare la loro storia sotto il rapporto, non meno istruttivo, dell’ordine sociale.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (22)

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XXI.

(altro seguito del precedente.)

Nuovo tratto di parallelismo tra la Religione della Città del bene e la religione della Città del male: il cibarsi della vittima — L’antropofagia: sua causa — Lettera di un missionario d’Africa: storia di un sacrificio umano con divoramento della vittima — Altre testimonianze— L’antropofagia presso gli antichi; prove — Altro tratto di parallelismo: il sacrificio comandato da Dio e da satana — Prove di ragione — Testimonianza d’Eusebio — Tirannie di satana per ottenere vittime umane: passi di Dionigi d’Alicarnasso e di Diodoro di Sicilia.

Non è solamente nella istituzione del sacrificio che il re della Città del male contraffà il Re della Città del bene: ei lo scimmiotta altresì nelle circostanze che l’accompagnano e nella ispirazione misteriosa che lo comanda. Conosciamo le purificazioni, le astinenze, le preparazioni che nella Città di Dio hanno sempre preceduto l’oblazione del sacrificio. Conosciamo del pari i trasporti di gioia, i canti, le danze, la musica sacra che l’accompagnavano presso l’antico popolo di Dio, come pure l’allegrezza e la pompa con cui il nuovo popolo l’accompagna nelle grandi solennità. – Inutile provare che tutto ciò si ritrova intatto, benché sfigurato nella Città del male. Il fatto è conosciuto da chiunque ha la più lieve nozione dell’antichità pagana. (Vedi tra altri Theatrum magnum vitæ humanæ art. Sacerdotes.). Ve n’ha un altro che ci sembra chiedere una speciale spiegazione. In tutte le condizioni del sacrificio la più universale, perché la più importante, è la partecipazione alla vittima mediante il mangiare. Abbiamo visto che quest’atto è materiale, morale o figurativo. Ad imitazione del vero Dio, satana lo vuole per se medesimo. Come egli esige delle vittime umane, cosi spesso esige dai suoi adoratori la partecipazione all’abominevole sacrificio, con un mangiare reale. Di qui l’antropofagia. Che in generale l’antropofagia sia dovuta ad una ispirazione satanica, ci sembra facile il provarlo con un perentorio ragionamento. L’antropofagia è un fatto. Ogni fatto ha una causa. La causa dell’antropofagia è naturale o soprannaturale. Naturale, se ella si trova negli istinti della natura o nei lumi della ragione. Ora gli istinti della natura portano cosi poco l’uomo a mangiar l’uomo, che per esempio, in una città assediata o sopra una nave priva di ogni mezzo di sussistenza, si è all’ultima estremità e con una ripugnanza estrema, che l’uomo si decide per salvar la sua vita, a nutrirsi della carne del suo simile. La ragione nei suoi lumi, non trova niente che comandi, che approvi, ed a più forte ragione, che glorifichi una simile azione. Che dico? appena si giunge a scusarla. Non vi è nessuno che non provi un sentimento di orrore, leggendo nella storia i fatti, per fortuna assai rari, di antropofagia, allorquando pare che sieno comandati dalle circostanze. Ci si lamenta, si deplora, ma non si applaudisce mai. – Se la causa dell’antropofagia non è naturale, essa è dunque soprannaturale. Vi sono due soprannaturali, quello divino, e quello satanico. È forse nel primo, che noi troviamo la causa dell’antropofagia? No per certo. Iddio la condanna. A meno che non si ammetta un effetto senza causa, rimane dunque l’attribuirlo al secondo, vale a dire all’eterno nemico dell’uomo,. Difatti è desso l’ispiratore, esso la cui infernale malizia perverte tutti gli istinti della natura, spegne tutti i lumi della ragione, sino al punto di far trovare all’uomo il suo piacere in un atto, che è il rovescio completo di tutte le leggi divine ed umane. Noi ritorneremo su questo fatto: per il momento dobbiamo occuparci dell’antropofagia, considerata come appendice obbligata del sacrificio. L’antichità ce la mostra praticata presso i Bassari, popolo della Libia. « Essi avevano, dice Porfirio, imitato i sacrifici dei Tauri e mangiavano la carne degli uomini sacrificati. Chi non sa che dopo quegli orrendi pasti, essi entravano in tal furore contro sé medesimi, che mordendosi reciprocamente, non cessavano di nutrirsi di sangue, se non quando, coloro che primi (i demoni) avevano introdotto quella specie di sacrifici, non ebbero distrutta la loro razza. » (De abstinent., lib. II, i, 56, ediz. Didot, p. 45). – Sotto la stessa forma l’abbiamo trovata presso la maggior parte dei selvaggi del nuovo mondo; essa si pratica ancora nell’Oceania e nell’Africa centrale. Non potendo trattenerci a lungo, ne riferiremo un solo esempio: « Il 18 ottobre 1861 uno dei nostri missionari, venuto a Parigi, dopo dodici anni di dimora sulla costa occidentale dell’Africa, ci diceva e, più tardi, voleva altresi scriverci ciò che segue: « Nel mese di settembre 1850 io stesso era in quei luoghi, dove si fece il sacrificio di cui ora vi parlo. Bisogna notare, che questo non è un fatto isolato; ma questa sorte di sacrifici sono di un uso molto frequente. La vittima era un bel giovane, preso da un borgo vicino. « Per quindici giorni fu tenuto attaccato per i piedi e per le mani ad un tronco d’albero in mezzo alle case del villaggio. Sapendo egli la sorte che gli toccava, questo disgraziato fece durante la notte, tra il quattordicesimo e quindicesimo giorno, un supremo sforzo per liberarsi da quei legami, e vi riuscì. Smarrito egli giunge avanti giorno ad un posto francese. Nessuno intendeva la sua lingua, per cui fu preso per uno schiavo fuggitivo, e si consegnò senza difficoltà ai negri, i quali essendosi posti in cerca di lui, non tardarono a reclamarlo. Ricondotto al villaggio, il sacrificio fu deciso per quello stesso giorno, che era un venerdì; ed ebbe luogo al solito modo. « La vittima fu strettamente legata e distesa sopra una pietra, a guisa di altare, nel centro di una gran piazza. Intorno alla piazza vengono poste sopra dei focolari, delle marmitte piene d’acqua. Una musica assordante accompagnata da innumerevoli tamtam, occupa una delle estremità della piazza, e aspetta il segnale. La popolazione del villaggio e di quei all’intorno, spesso in numero di tre o quattro mila persone, vestite dei loro abiti da festa si distendono in cerchio intorno alla vittima: in piccolo, assomigliava agli anfiteatri dei Romani. « Al dato segnale, la musica, i tamtams, i clamori della moltitudine riempiono l’aria di un frastuono infernale: è l’annunzio del sacrificio. I sacrificatori si accostano alla vittima, armati di pessimi coltelli, ed incominciano il loro atroce ministero. Secondo i riti, la vittima deve essere fatta a pezzi ancor viva, e con le articolazioni. Si comincia dalla mano destra che si stacca dal braccio, tagliando l’articolazione del polso; quindi si passa al piede sinistro, che viene tagliato sotto la noce; poi si viene alla mano sinistra, e al piede destro. Dai polsi si passa ai gomiti, dai gomiti ai ginocchi, dai ginocchi alle spalle, dalle spalle alle cosce, alternando sempre fino a che non resta che il tronco, sormontato dalla testa. Così fu immolato il mio disgraziato giovine. – « Via via che cadono le membra della vittima, vengono esse portate in quelle caldaie piene d’acqua bollente. L’operazione si termina troncando, o meglio, segando il capo che è gettato in mezzo alla piazza. Allora comincia uno spettacolo, del quale nulla saprebbe dare neppure una debole idea. Gli spettatori sembrano invasati da un furore diabolico. Al suono di una musica orribilmente scordante, al rumore di vociferazioni umane, le donne scapigliate, gli uomini strafiguriti da non so quale magica ebbrezza, si abbandonano a dei balli, o piuttosto a delle contorsioni spaventose. La ronda infernale non ha altra regola che l’obbligo per ciascun danzatore di dare, ballando e senza fermarsi, una pedata alla testa della vittima, da farla rotolare per tutti i punti della piazza, e di cogliere con un coltello, passando vicino a quelle caldaie, un pezzo di carne, mangiato con la voracità della tigre. Con ciò essi credono pacificare il feticcio scorrucciato. « Sotto una forma palliata, l’antropofagia religiosa si manifesta nei banchetti che seguono la vittoria. L’uomo comprende benissimo ch’è diretto da esseri a lui superiori, che senza distinzione di razze, di climi, o di civiltà, tutti i popoli celebrano gli avvenimenti felici, come i successi riportati in guerra, con feste religiose. Le nazioni cristiane offrono il loro Dio in olocausto, e cantano il Te Teum in rendimento di grazie. Il sacrificio dell’uomo è l’Eucaristia di quelle che non lo sono; e il mangiare della carne umana, è il Te Deum dell’antropofago: qui i fatti abbondano. « Innanzi la loro conversione gli abitanti delle Isole Gambier erano in continua guerra. Essi erano antropofagi a tal punto che una volta, dopo una lotta sanguinosa tra le due parti, un enorme cumulo di cadaveri essendo stato innalzato, i vincitori lo divorarono in un gran banchetto che durò otto giorni. » (Annali, ecc., n. 148, p. 299). – Quelli dell’Arcipelago Fidji non depongono mai le armi. « Tutto quel che cade nelle mani del vincitore, scrivono i missionari, è in un attimo, massacrato, arrostito e divorato. Adesso vi è una battaglia o piuttosto una strage di questo genere tra Pan e Reva, dove ogni giorno si rinnovano scene di un cannibalismo degno di bestie feroci. Immense piroghe vanno da una sponda all’altra, cariche, di corpi morti, dei quali ogni partito fa omaggio alle sue divinità sanguinarie,, innanzi di portarli al forno…. In certe isole si aggiunge l’insulto alla crudeltà. Si taglia la testa della vittima; la si profuma di olio; si accomodano con gran simmetria i suoi capelli, e quando il .corpo è arrostito, ella viene a riprendere il suo posto sulla tavola del banchetto. » (Id., n. 115, p. 509). « A Viti-Levou, quando arriva il tempo delle pubbliche feste, una vivanda qualunque è sempre decretata a prezzo d’omaggio al vincitore. Allorché noi sbarcammo, era il corpo arrostito di un infelice Vitiano. Io era stato invitato a prender parte alla festa. Voi indovinate il motivo del mio rifiuto. Del resto, in questa isola, e in quelle più prossime, i desinari di carne umana sono frequentissimi…. Per celebrare un avvenimento, ancorché sia di poco rilievo, il re ha uso di servire i suoi amici delle membra di qualcuno dei suoi disgraziati sudditi. » (Annali, ecc., n. 82, p. 198). – Sotto questo punto di vista l’antropofagia religiosa è molto più antica che non si crede. Nessun popolo l’ha praticata con pari tracotanza e sopra una più grande scala, dei Romani. Che cosa erano in ultima analisi quei combattimenti di gladiatori, quei giochi sanguinosi dell’anfiteatro, se non vasti banchetti di carne umana? Come presso i selvaggi, così erano imbanditi per ringraziare gli dei di qualche vittoria. Ond’è che lo stesso spirito che gli ordinava anticamente, gli comanda oggi; là sotto il nome di Marte o di Giove; qui sotto il nome di Feticcio o di Manitou. L’Oceanico mangia le sue vittime con i denti, mentre il Romano le divorava con gli occhi, e le gustava con delizia. L’Oceanico è un selvaggio incolto, il Romano era un selvaggio incivilito. Ma nell’uno come nell’altro, trovasi la sete naturalmente inesplicabile di sangue umano. (Credere che l’antropofagia fosse sconosciuta dai popoli dell’antico mondo sarebbe un errore. Sino al IX secolo essa regnava nella Cina, al Pegu, a Giava, è presso i popoli dell’Indocina. I condannati a morte, i prigionieri di guerra, erano uccisi e divorati; si facevano persino dei pasticci di carne umana. – Lettera del Sig. De Paravey. Annali di Filosofia cristiana, t. VI, 4a serie, p. 162). A questo proposito, dice il sig. Veuillot, « che l’Antica Roma, vista attraverso della Roma cristiana, ispira subito disgusto. Quei grandi Romani, quei padroni del mondo non appariscono se non che tanti selvaggi letterati, Vi è egli presso i cannibali nulla di più atroce, di più abominevole o di più abietto, della più parte delle costumanze religiose, politiche e civili dei Romani? Non vi si vede un lusso il più sfrenato, una crudeltà la più infame, un culto il più stupido? Che differenza di forma può segnalarsi, tra il Feticcio ed il nume Lare? Che differenza, tra il capo di un’orda antropofaga, che mangia il suo nemico vinto, ed il patrizio che compra dei vinti, perché essi combattono e si uccidono nei banchetti? » (Profumo di Roma. — Lo stolto pagano). – Fra le circostanze che accompagnano il sacrificio nella Città del bene, come nella Città del male, vediamo che il parallelismo è completo. Non lo è meno nella ispirazione misteriosa che lo comanda. Abbiamo mostrato che sotto nessun punto di vista l’idea del sacrificio si trova logicamente nella natura umana. Nonostante essa vi è dappertutto, e vi è fino dall’origine del mondo. Viene dunque dal di fuori; ed i fatti confermano il ragionamento. Che cosa dicono gli annali della Città del bene, l’Antico e Nuovo Testamento? Nell’immensa varietà di sacrifici offerti, sotto la legge mosaica, vi dicono che non ve ne ha uno, il cui ordine non sia venuto da un oracolo divino. Essi vi dicono che nella legge evangelica, l’augusto Sacrificio sostituito a tutti i sacrifici, è una rivelazione divina, Dio ha parlato, e l’uomo sacrifica. Ecco quel che succede nella Città del bene. – Per una ragione analoga, la stessa cosa ha luogo nella Città del male. satana ha parlato, e l’uomo sacrifica. La sua parola è tanto più certa, quanto più l’uomo sacrifica il suo simile. Ei lo sacrifica su tutti i punti del globo; la parola dunque di satana è universale. Ei lo sacrifica malgrado le più vive ripugnanze della natura, la parola dunque di satana è assoluta, minacciosa. Ei lo sacrifica dappertutto, dove il vero Dio non è adorato: l’Ebreo stesso, tosto che abbandona Jehovah, cade nel Moloch e gli sacrifica i suoi figli e le sue figlie. Il sacrificio umano non è dunque, né l’effetto dell’immaginazione, né il resultato di una deduzione logica, né un affare di razza, di clima, di epoca, di civiltà o di circostanze locali: è un affare di culto. Così nella Città del male, come nella Città del bene ogni sacrificio riposa sopra un oracolo: qui ancora l’istoria consacra la logica. – (Si è preteso spiegare il sacrificio umano dicendo: « L’uomo si è immaginato che quanto più la vittima era nobile, tanto più era accetta alla Divinità. Questo ragionamento ha dato luogo al sacrificio umano. » L’uomo si ‘è immaginato! Ecco che ciò è presto detto. Questo ragionamento, o piuttosto questa immaginazione, suppone che l’idea del sacrificio sia naturale all’uomo. Ora ciò è falso, come noi lo abbiamo provato. L’uomo non ha potuto immaginare il sacrificio di un pollo; perché ha egli immaginato il sacrificio del suo simile? L’uomo si è immaginato! ma quando gli è venuta questa immaginazione? Come si trova essa presso tutti i popoli che non adorano il vero Dio? come mai non si trova altro che là? Come sparisce ella con lo sparire del culto del grande omicida? L’uomo si è immaginato! non avvi di immaginario in tutto ciò che il ragionamento di coloro, i quali, per ignoranza o per paura del soprannaturale, hanno immaginato una simile spiegazione). – « I sacrifici umani, dice Eusebio, debbono essere attribuiti agli spiriti impuri, i quali hanno congiurato la nostra perdita. Non è la nostra voce, ma quella di coloro che non partecipano alle nostre credenze, che rende omaggio alla verità. È quella che accusa altamente la perversità dei tempi che ci hanno preceduto: dove la superstizione degli infelici, avidamente stimolata e ispirata dai demoni, era venuta sino al punto di abiurare tutti i sentimenti naturali, credendo di placare le potestà impure, mediante lo spargimento del sangue degli esseri più cari, è con innumerevoli vittime umane. Il padre immolava al demonio il suo unico figlio; la madre la sua figlia adorata; i vicini scannavano i loro parenti; i cittadini i loro concittadini ed i loro commensali nelle città e nelle campagne. Trasformando in una ferocia inaudita i sentimenti della natura, essi mostravano evidentemente, che una frenesia demoniaca

erasi impadronita di loro (la medesima assurda frenesia del “diritto all’aborto” diffusa in tutto il mondo scristianizzato ed oggi soggetto nuovamente alla schiavitù del demonio, al lucifero-baphomet, il signore dell’universo! – ndr. -). – La storia greca e barbara ne offre esempi innumerevoli. » (Præp. Evang. lib, IV, c. XV). – La voce di cui parla Eusebio, è quella degli autori pagani. Dopo averne nominati un gran numero, aggiunge: « Io citerò ancora un altro testimone della ferocia crudele di questi demoni, nemici di Dio e degli nomini: è Dionigi d’Alicarnasso, scrittore versatissimo nella Storia romana che ha tutta abbracciata in un’opera, fatta con grandissima cura. I Pelasgi, dice egli, rimasero poco tempo in Italia, grazie agli dei che vegliavano sugli aborigeni. Avanti la distruzione delle città, la terra era rovinata dalla siccità; nessun frutto giungeva a maturità sugli alberi. I grani che arrivavano a germogliare ed a fiorire, non potevano giungere al tempo in cui la spiga si forma. Lo strame non bastava più al nutrimento del bestiame. Le acque perdevano la loro salubrità; e tra le fontane, le une seccavano durante l’estate, le altre a perpetuità. « Una sorte simile colpiva gli animali domestici e gli uomini. Essi perivano prima di nascere, o poco dopo la loro nascita. Se taluni scampavano alla morte, erano colpiti da infermità o da deformità d’ogni specie. Per colmo di mali, le generazioni giunte al loro intero sviluppo erano in preda a malattie ed a mortalità che oltrepassavano tutti i calcoli di probabilità. « In questi estremi, i Polasgi consultarono gli oracoli per sapere quali dii mandavano loro queste calamità, per quali trasgressioni e infine con quali atti religiosi potevano essi sperare la cessazione. Il nume rese questo oracolo : « Nel ricevere i beni che avevate sollecitati non avete reso ciò che avevate fatto voto di offrire; ma vi ritenete il più prezioso. » Infatti i Pelasgi avevan fatto voto d’offrire in sacrifizio a Giove, ad Apollo ed ai Cabrii, la decima di tutti i loro prodotti. (Offerte delle primizie e delle decime: altro tratto di parallelismo…). – « Allorché fu loro riferito questo oracolo, essi non poterono comprenderne il senso. In questa perplessità uno dei loro vecchi disse: Voi siete in un completo errore, se voi credete che gli dei vi facciano ingiuste richieste. È vero, avete dato fedelmente le primizie delle vostre ricchezze; … ma la parte della umana generazione, la più preziosa di tutte per gli dei, è ancora dovuta. Se voi pagate questo debito, gli dei saranno placati e vi restituiranno il loro favore. « Taluni considerarono questa soluzione come perfettamente ragionevole; altri come un inganno. In conseguenza si propose di consultare il nume per sapere se infatti, gli conveniva di ricevere la decima degli uomini. Deputarono essi dunque una seconda volta, dei sacri ministri, e il nume rispose in un modo affermativo. Si sollevarono tosto delle difficoltà tra di loro circa il modo di pagare questo tributo. La dissensione ebbe luogo da primo tra i capi della città; quindi scoppiò tra tutti i cittadini, i quali sospettavano dei loro magistrati. Intere città furono distrutte; una parte degli abitanti disertò il paese, non potendo tollerare la perdita di esseri che erano più a loro cari, e la presenza di quelli che gli avevano immolati. Però i magistrati continuarono ad esigere rigorosamente il tributo, parte per essere offerti agli dei, parte pel timore di essere accusati di avere dissimulato delle vittime, finché alla fine la razza dei Pelasgi, trovando la sua esistenza intollerabile, si disperse in lontane regioni. » (Dion. Halyc lib. I).A questa testimonianza contentiamoci di aggiungere quella di un altro storico non meno autorevole: « Dopo la morte di Alessandro il Macedone e vivente il primo Tolomeo, scrive Diodoro di Sicilia, i Cartaginesi furono assediati da Agatocle tiranno di Sicilia. Vedendosi ridotti all’estremo, essi sospettarono che Saturno gli fosse contrario. Il loro sospetto si fondava su ciò che in tempi anteriori, avendo uso di immolare a questo dio i figli delle migliori famiglie, più tardi ne avevano fatti comprare alcuni clandestinamente, che educavano per essere sacrificati. Un’inchiesta ebbe luogo, e si scopri che parecchi dei fanciulli immolati erano stati supposti. « Pigliando questo fatto in considerazione, e vedendo i nemici accampati sotto le loro mura, furono presi da un religioso terrore per avere trascurato di rendere gli onori tradizionali ai loro dei. A fine di riparare al più presto questa omissione, scelsero a voce di suffragi duecento fanciulli delle migliori famiglie, e li immolarono in un solenne sacrificio. Quindi coloro che il popolo accusava di avere defraudato gli dei, si eseguirono da se medesimi, offrendo spontaneamente i propri figli. Ve ne furono circa trecento. » (Lib. XX). – La terribile potenza che esigeva il sacrificio dei fanciulli, comandava tutte le altre pratiche sanguinarie od oscene dei culti pagani. Ascoltiamo un altro rivelatore non sospetto dell’abominevole mistero. « Le feste, dice Porfirio, le immolazioni, i giorni nefasti e consacrati al lutto, che si celebrano, divorando delle crude vivande, sbranandosi le membra, imponendosi delle macerazioni, cantando e facendo cose oscene, con clamori, agitazioni violente di capo e movimenti impetuosi, non si rivolgono a nessun nume, ma ai demoni, per distornare la loro collera e come un addolcimento all’antichissima usanza di sacrificare loro delle vittime umane. – « Riguardo a questi sacrifici, non si può né ammettere che gli dei li abbiano pretesi, né supporre che alcuni re o generali li abbiano offerti spontaneamente, sia consegnando i propri loro figli ad altri per sacrificarli, ossia consacrandoli ed immolandoli essi medesimi. Essi volevano mettersi al coperto dalle ire e dalle violenze di esseri terribili e malefici, o saziare gli animi frenetici di quelle viziose potenze, le quali volendolo, non potevano unirsi corporalmente alle loro vittime. Come Ercole assediando Oechalia per amore di una vergine, così del pari i demoni forti e violenti, volendo godere di un’anima, tuttora impacciata dai legami del corpo, mandano alle città, pesti e sterilità, fanno nascere guerre e divisioni intestine, fino a che essi non abbiano ottenuto l’oggetto della loro passione. » (Apud Euseb., Pmep. evang., lib. IV, c. IV). – Come lo stesso sacrificio, cosi era il modo del sacrificio prescritto dagli oracoli. Non vi è miglior prova della presenza dello spirito infernale, quanto la maniera con cui si compieva l’uccisione abominevole di tutto ciò che l’uomo ha di più caro. A Cartagine esisteva una statua colossale di Saturno di bronzo: essa aveva le mani aperte e volte verso la terra. Ai suoi piedi era un fornello pieno di fuoco. Il fanciullo posto sulle braccia dell’idolo, non essendo ritenuto da niente, scivolava nel fornello, dove era consumato al rumore di canti e d’istrumenti musicali. (Diod. Sicul., ibid., ecc.,etc.). Sotto nomi differenti, questa statua omicida esisteva in Oriente ed in Occidente, presso i Giudei e presso i Galli.

 

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (21)

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XX.

(seguito del precedente).

Il Sacrificio: atto religioso il più significativo ed il più inesplicabile — Esso racchiude due misteri: un mistero d’espiazione e un mistero di rinnovamento; un mistero di morte e uno di vita — Tristezza e gioia; due caratteri del sacrificio — Manifestazione della gioia: danza, canti, banchetti — Triplice modo di mangiare la vittima — Parodia satanica di tutte queste cose — Come il Re della Città delbene, cosi il re della Città del male esige sacrifici — Esso ne determina la materia e tutte le circostanze: nuova testimonianza di Porfirio — Egli comanda in odio del Verbo incarnato, il sacrificio dell’uomo — Parallelismo: il Capro emissario presso gli Ebrei ed i Targelii presso i Greci — Medesimi sacrifici presso i popoli pagani,antichi e moderni: testimonianza.

Di tutti gli atti religiosi il sacrificio è senza dubbio il più significativo e nel tempo stesso il più inesplicabile.

Il più significativo. — Nessuno eleva così in alto la gloria di Dio: poiché nessuno proclama così eloquentemente il supremo suo dominio sulla vita e sulla morte di tutto quello che esiste. Ecco perché nell’antico come nel nuovo Testamento il Signore riserba a sé solo il sacrificio; perché colpisce con i suoi fulmini il temerario che osasse attribuirselo; (Qui immolat diis occidetur, praeterquam Domino soli. – Èxod. XX, 20.); perché non dissimula il piacere misterioso ch’egli prende all’odore delle vittime; perché infine lo chiede per sempre. (Vedi la maggior parte del capitolo del Levitico e dei Numeri).

Il più inesplicabile. — Nulla accusa più altamente una origine soprannaturale. I lumi della ragione non giungeranno giammai a scoprire, come il peccato dell’uomo può essere cancellato col sangue di una bestia. Qui essendo ogni cosa divina, si comprende che nulla è stato lasciato all’arbitrio dell’uomo. Perciò noi vediamo che nella Città del bene, la scelta delle vittime, le loro qualità, il loro numero, il modo di offrirle, il giorno e l’ora del sacrificio, i preparativi dei sacerdoti e le disposizioni del popolo; in una parola tutto ciò che si riferisce da presso o da lontano a quest’atto solenne, è divinamente ispirato e ordinato. – Ora, il sacrificio contiene un duplice mistero; mistero di espiazione e mistero di rinnovamento: mistero di morte e mistero di vita. Mistero di espiazione: l’uomo nell’offrire alla morte un essere qualunque, confessa da un lato che è desso che meriterebbe d’essere immolato, e che la vittima non è altro che il suo rappresentante; dall’altro egli proclama la più assoluta dipendenza riguardo a Dio, il bisogno che ha di Lui, e la riconoscenza alla quale è tenuto per la vita e per tutti i mezzi di conservarlo. – Mistero di rinnovamento: l’uomo mediante l’autentica protesta che egli fa della sua colpabilità e del suo nulla, si ripone di rimpetto a Dio nei suoi veri rapporti; egli si ritempera e si rigenera. Di qui due caratteri invariabili dei sacrifici: una tristezza solenne accompagnata, o seguita da una gioia che si manifesta con le dimostrazioni le meno equivoche, la danza, il canto ed i banchetti. (Come la musica, così la danza è un linguaggio divino nella sua origine e nel suo fine. Per ciò tutti i popoli hanno ballato in onore dei loro dei. David ballava in onore del vero Dio. Nella Chiesa Cattolica si è, per parecchi secoli, danzato nelle feste religiose. satana si è impadronito del ballo, e tutti i popoli, suoi schiavi, hanno ballato in suo onore, cominciando dai Coribanti della Grecia e dai Salii di Roma, sino ai Dervisci di Stamboul: dai Gitunpers e i Metodisti sino ai settari del Vandoux. — In Dionigi d’Alicamasso si legge (Kb. II, c. 18): « I Romani gli chiamano Salii (sacerdoti di questo nome) a motivo del loro movimento e del loro agitarsi continuo: imperocché essi si servono della voce salire per ballare e saltare: è per questa ragione che essi chiamano salitores tutti gli altri danzatori, traendo il loro nome da quello di Salii, perché essi saltano ordinariamente nel ballare. Ma ognuno potrà giudicare da ciò che essi fanno, se ho ben riscontrato, rapporto all’etimologia del loro nome. Imperocché essi ballano in cadenza al suono del flauto, tutti armati, ora insieme, ora uno dopo l’altro, e mentre che ballano essi cantano altresì alcuni inni del paese.) –  Tuttavia il banchetto è più che un segno di gioia. II sacrificio non è utile all’uomo se non in quantoché l’uomo partecipa della vittima. Cosi insegna la fede di tutti i popoli, fondata sulla natura medesima del sacrificio. Ora l’uomo mangiando si assimila la carne immolata, facendosi vittima. Tale è il modo più energico di proclamare che è lui e non essa che deve perire. Quindi l’uso universale di mangiare, in tutti i sacrifici. Solamente succede materialmente, moralmente o in modo figurato. Materialmente, quando si mangia realmente la carne della vittima; moralmente, quando invece si mangiano delle frutta o delle focacce offerte insieme; in modo figurato quando si prende parte ai pasti dati in occasione del sacrificio. Tali sono nella Città del bene le leggi, la natura e le circostanze di questo grande atto. –

Con una abilità sovrumana, il re della Città del male si è impadronito di questi mezzi divini e li ha fatti volgere a pro suo. Il sacrificio è la proclamazione autentica della divinità dell’essere a cui si rivolge. satana che vuole essere tenuto per Dio, se l’è fatto offrire; e persino nei minimi particolari egli contraffà Jehovah: « I demoni vogliono essere dii, dice Porfirio, e il capo che li comanda aspira a sottentrare al Dio supremo. Essi si dilettano nelle libazioni e nel fumo delle vittime, che ingrassa nel tempo stesso la loro sostanza corporea e spirituale. Essi si nutrono di vapori, di esalazioni, diversamente, secondo la diversità della loro natura, ed acquistano delle forze nuove col sangue e col fumo delle carni abbrustolite. » (Apud Euseb., Præp. evang., lib. IV, c. XXII). – Sant’Agostino e san Tommaso ci danno il vero significato delle parole di Porfirio, spiegandoci la natura del piacere che i demoni pigliano dall’odore delle vittime: « Quel che si stima nel sacrificio non è il pregio della bestia immolata, ma ciò che essa significa. Ora significa l’onore reso al sovrano padrone dell’universo. Quindi quella parola: I demoni non godono dell’odore dei cadaveri, ma degli onori divini. 2 » [In oblatione sacrifìcii non pensatur pretium occisi pecoris, sed signifìcatio, qua fìt in onorem summ rectoris totius universi. Unde sicut Augustinus dicit (De civ. Dei, lib. X, c. xix, ad fin.): « Dæmones non cadaverinis nidoribus, sed divinis honoribus gaudent. » 2a 2æ, q. LXXXIV, art. 2, ad 2]. satana non si contenta di domandare dei sacrifici: come il vero Dio, così egli si permette di determinarne la materia e di regolarne le cerimonie. Dopo aver fatto giuramento di dire la verità intorno ai misteri demoniaci, Porfirio si esprime in questi termini: « Trascriverò per conseguenza i precetti di pietà e di culto divino che l’oracolo ha proferiti. Quest’oracolo d’Apollo espone l’insieme e la divisione dei riti che debbonsi osservare per ciascuno Dio. « Entrando nella via tracciata da un Dio propizio, ricordati di compiere religiosamente i sacri riti. Immola una vittima alle beate divinità: a quelle che abitano gli emisferi celesti; a quelle che regnano nell’aria e nell’atmosfera piena di vapori: a quelle che presiedono al mare ed a quelle che sono nell’ombre profonde dell’Èrebo. Imperocché tutte le parti della natura sono sotto la potestà degli dei che la riempiono. Io conterò da prima il modo con cui le vittime debbono essere immolate. Inscrivi il mio oracolo sopra vergini tavolette. « Agli dei Lari tre vittime; altrettante agli dei celesti. Ma con questa differenza: tre vittime bianche agli dei celesti; tre di color di terra agli dei Lari. Dividi in tre le vittime degli dei Lari; quelle degli dei infernali tu le seppellirai in una fossa profonda col loro sangue ancor caldo. Alle ninfe, fai delle libazioni di miele e doni di Bacco. Quanto agli dei che svolazzano intorno la terra, che il sangue inondi i loro altari da ogni parte; e che un uccello intero sia gettato nei sacri focolari; ma innanzi tutto consacra loro delle focacce di miele e di farina e orzo, misti ad incenso e ricoperti di sale e di frutta. Allorché tu sarai venuto per sacrificare sulla riva del mare, immola un uccello e gettalo intero nelle profondità dei flutti. « Compiute tutte queste cose secondo i riti, avanzati verso gli immensi cori dei celesti dei. A tutti rendi lo stesso onore sacro. Che il sangue mescolato alla farina sgorghi a grosse gocce, e formi dei depositi stagnanti. Che le membra conosciute delle vittime rimangano come dono agli dei; getta le estremità alle fiamme e il rimanente serva per i conviti. Co’ grati profumi di cui tu riempirai l’aria, fai salire sino agli dei le tue ardenti suppliche.1 » – Ibid.,lib. IV, c. IX). – Tali sono con molti altri, i riti obbligati dei sacrifici richiesti dal re della Città del male. Sono tutti una contraffazione sacrilega delle prescrizioni religiose del Re della Città del bene. Ora l’immaginazione indietreggia spaventata dinanzi all’incalcolabile moltitudine di animali di ogni specie, dinanzi alla somma favolosa di ricchezze d’ogni genere, involate alla povera umanità dal suo odioso e insaziabile tiranno. Pur tuttavia, respirare la fragranza dei più preziosi aromi, assaggiare l’offerta delle più belle frutta, bere a lunghi sorsi il sangue degli scelti animali, non gli basta: gli bisogna il sangue dell’uomo. La storia degli umani sacrifici rivela nelle sue ultime profondità l’odio del grande Omicida, contro il Verbo incarnato e contro l’uomo suo fratello. Quest’odio non potrebbe essere più intenso nella sua natura, né più esteso nel suo oggetto. Da una parte esso va fin dove può andare, cioè alla distruzione; d’altra parte, il sacrificio umano ha fatto il giro del mondo. Egli regna ancora dappertutto dove regna senza contrapposto il re della Città del male. Tanto ò il divertirsi a stabilire l’esistenza del sole, che l’accumulare le prove di questo mostruoso fenomeno. Noi ci contenteremo di ricordare alcuni fatti, atti a mostrare fin dove satana spinge la parodia delle divine istituzioni, la sua sete inestinguibile di sangue umano e la sua preferenza, libera o forzata, per la forma del serpente. – Tra i riti sacri prescritti a Mosè, io non so se ve ne sia nessuno dei più misteriosi e più celebri di quello del “caprone emissario”. Due caproni, nutriti per quest’uso, erano condotti dal gran sacerdote all’ingresso del Tabernacolo. Carichi di tutti i peccati del popolo, uno era sacrificato in espiazione, l’altro cacciato nel deserto per segnare l’allontanamento dei meritati flagelli. Il sacrificio aveva luogo ogni anno verso l’autunno, per la festa solenne delle Espiazioni. Questa istituzione divina, il re della Città del male si dà premura di contraffarla. Ma egli la contraffà a suo modo: invece del sangue di un caprone, esige il sangue di un uomo. Ascoltiamo come ce lo raccontano gli stessi pagani con la loro gelida calma e orribile usanza. Nelle repubbliche della Grecia, e specialmente ad Atene, si nutrivano a spese dello Stato alcuni uomini vili ed inutili. Accadeva una peste, una fame od altra calamità, si andava a prendere due di queste vittime e le si immolavano per purgare la città e liberarla! Queste vittime si chiamavano demosioi, nutriti dal popolo; pharmakoi, purificatori; Katarmata, espiatori. Era costume sacrificarne due alla volta: uno per gli uomini, ed uno per le donne, senza dubbio, allo scopo di rendere più completa la parodia dei due capri emissari. L’espiatore per gli uomini portava una collana di fichi neri; quello delle donne una di fichi bianchi. Affinché tutti potessero godere della festa, si sceglieva un luogo comodo per il sacrificio. Uno degli arconti, o principali magistrati, era incaricato di curarne tutti i preparativi e di sorvegliarne tutti i particolari. Il corteggio si poneva in marcia accompagnato da cori di musici, esercitati da lunga mano e superbamente organizzati. Durante il tragitto, si battevano sette volte le vittime con rami di fico e con reste di cipolle selvatiche, dicendo: Sia la nostra espiazione e il nostro riscatto. Giunti al luogo del sacrificio, gli espiatori erano arsi sopra un rogo di legno selvatico e le loro ceneri gettate al vento in mare, per la purificazione della città infetta. D’accidentale che era in principio, il sacrificio divenne periodico, e ricevette il nome di festa dei Thargelii. Lo si faceva in autunno, e durava due giorni, durante i quali, i filosofi celebravano con allegri banchetti la nascita di Socrate e di Platone. Così ogni anno nella stessa stagione, mentre il vero Dio si contentava del sangue di un montone, satana si faceva offrire il sangue di un uomo. (Annali, luglio 1861, p. 46 e seg. Si crederebbe forse che i dizionari greci classici, invece di darci delle parole il loro vero significato, amino di fare dei contro sensi, piuttosto che rivelare questi abominevoli particolari? Cosi è che il Rinascimento inganna la gioventù e con essa l’Europa cristiana, sul conto della bella antichità. Id., ib.). – Nella stessa categoria si può collocare l’annuo sacrificio offerto dagli Ateniesi a Minosse. Gli Ateniesi, avendo fatto morire Androgeo, essi furono decimati dalla peste e dalla fame. L’oracolo di Delfo, interrogato sulla causa della duplice calamità e sul modo di porvi un termine, rispose: « La peste e la fame cesseranno, se voi designate con la sorte sette giovanetti e altrettante giovanette vergini per Minosse: voi le imbarcherete sul mare sacro come rappresaglia del vostro delitto. A questo modo voi vi renderete propizio il Nume. » (Ex Oenomao apud, Euseb., Præp. e vang. lib. V. c. XIX). Le infelici vittime venivano condotte nell’isola di Creta e rinchiuse in un labirinto, dove esse erano divorate da un mostro, mezz’uomo e mezzo toro, il quale non si nutriva che di carne umana. « Chi è dunque quell’Apollo, quel dio salvatore che consultano gli Ateniesi, chiede Eusebio agli autori pagani, storici del fatto? Senza dubbio, egli va ad esortare gli Ateniesi al pentimento ed alla pratica della giustizia. Si tratta bene di simili cose! Che cosa importano tali cure per questi eccellenti dei, o piuttosto per questi demoni perversi? Al contrario fa loro d’uopo di atti dello stesso genere, spietati, feroci, inumani, aggiungendo, come dice il proverbio, la peste alla peste, la morte alla morte. « Apollo ordina loro di mandare ogni anno al Minotauro sette adolescenti e sette giovani vergini, scelti tra i loro figli. Per una sola vittima quattordici vittime innocenti e candide! E non una volta solamente, ma per sempre; di maniera ché sino al tempo della morte di Socrate, più di cinquecento anni dopo, l’odioso e atroce tributo non era ancora soppresso presso gli Ateniesi. Ciò fu infatti la causa del ritardo apportato all’esecuzione della sentenza capitale decretata contro questo filosofo. » (Præp. evang., lib. V, c. XVIII). – Oltre queste periodiche immolazioni, gli Ateniesi nelle circostanze difficili, non esitavano nulla più degli altri popoli della bella antichità di ricorrere, a richiesta degli Dei, ai sacrifici umani. Era il momento di dichiarare battaglia alla flotta di Serse. « Mentre che Temistocle, scrive Plutarco, faceva agli Dei dei sacrifici sulla nave ammiraglia, gli si presentarono tre giovani prigionieri di una straordinaria bellezza, magnificamente vestiti e carichi di ornamenti d’oro. Dicevasi che fossero i figli di Sandace, sorella del re, e di un principe di nome Artaycte. « Al momento in cui gli apparve l’indovino Eufrantide osservò che una pura e chiara fiamma usciva di mezzo alle vittime, ed un augure a destra mandò uno starnuto. Allora appoggiando la sua mano diritta sopra Temistocle gli ordinò, dopo avere invocato Bacco Omestis (mangiatore di carne cruda), di sacrificare a lui questi giovanetti, assicurandolo che la vittoria e la salute dei Greci sarebbero in tal modo assicurati. » Temistocle, sembra esitare; ma i soldati vogliono che sia secondato il parere dell’indovino, ed i giovani sono sacrificati.22 (In Themist, c. III , n. 8). – A similitudine dei Greci, avevano i Romani eziandio i loro pubblici espiatori. Erano tante vittime scelte e anticipatamente consacrate. Nelle pubbliche calamità si andava a prenderle per scannarle nel luogo in cui erano nutrite: simile al macellaio che va a cercare nella stalla il bove che dee esser macellato. (Com. a Lap., in Levit., xvi, 10; et Dyon, Halicarn. apud Euséb., Præp. evang., lib. IV, c. XVI). – La capitale della civiltà pagana, Roma, ha sacrificato umane vittime sino alla comparsa del Cristianesimo; e tra i sacrificatori, Dione Gassio cita l’uomo il più eminente dell’antichità, Giulio Cesare. « In seguito ai giuochi ch’egli fece celebrare dopo i suoi trionfi (nei quali fu scannato Vercingetorige) i suoi soldati si ammutinarono. Il disordine non cessò che allor quando Cesare si fu presentato in mezzo ad essi, e che ebbe preso da sé uno degli ammutinati per consegnarlo al supplizio. Questi fu punito per questo motivo; ma altri uomini furono inoltre scannati a modo di sacrificio. Essi furono sacrificati nel campo di Marte, dai pontefici e dal flamine di Marte. (Hist. Rom., XLIII, c. 24).Aggiungiamo con Tito Livio, che era permesso al console, al dittatore ed al pretore, quando consacrava le legioni dei nemici, di consacrare non sé medesimo, ma il cittadino che egli voleva, preso nella legione romana. (Lib. VIII, c. 10 – Tutti i giochi dell’ anfiteatro in onore di Giove Laziale cominciavano con un sacrificio umano). – I Romani ed i Greci non erano che gli imitatori dei popoli dell’Oriente e dei Fenici in particolare. Vicini degli Ebrei, dei quali conoscevano i sacri riti, questi ultimi poterono infatti ricevere sino da principio, e accettare senza resistenza, la contraffazione del capro emissario. « Presso questo popolo, dice Filone di Biblos, vi era un’antica usanza, che nei gravi pericoli, per prevenire una rovina universale, i capi della città o della nazione consegnano i più cari dei loro figli per essere immolati, come riscatto ai due vendicatori. Cosi Crono re di quel paese, minacciato di una guerra disastrosa, sacrificò egli medesimo il suo unico figlio sull’altare che aveva per questo eretto. L’immolazione della vittima era accompagnata da misteriose cerimonie. » (Apud Euseb., Præp. evang. lib. IV, c. XVI). – In tutti i luoghi in cui il Cristianesimo non ha distrutto il suo impero, il re della Città del male continua la feroce parodia. I Tergelii sussistono tuttora presso i Condii popolo dell’India, tali all’incirca come gli abbiamo visti nella Grecia or sono tre mila anni. Ivi si ingrassano dei fanciulli che si scannano a centinaia a primavera, ed il cui sangue sparso sui prati, passa per avere la virtù di fecondarli. Alla data del 6 settembre 1850 il vescovo d’Olène vicario apostolico di Visigapatam (India inglese) scrive: « Il governo inglese ha creduto dover portare la guerra sin nel centro dei Condi: eccone la ragione. Gli umani sacrifici sono ancora in uso presso questo popolo disgraziato. In occasione di una festa o di una calamità, all’epoca soprattutto delle semente, essi immolano dei fanciulli dell’uno e dell’altro sesso. A questo fine si formano di queste vittime innocenti come tanti depositi per servire nelle differenti circostanze…. Ogni pretesto è buono per questo macello: un pubblico flagello, una grave malattia, una festa di famiglia ecc. « Otto giorni innanzi il sacrificio, l’infelice fanciullo o adolescente, che deve farne le spese, viene legato. Gli si dà da bere e da mangiare quel che desidera. Durante questo intervallo, i vicini villaggi vengono invitati alla festa. Vi accorrono in gran numero. Allorché tutti sono riuniti, si conduce la vittima nel luogo del sacrificio. In generale si ha cura di metterla in uno stato di ubriachezza. Dopo averla attaccata, la folla gli balla intorno. Ad un dato segnale, ogni astante corre a tagliare un pezzo di carne che porta via seco. La vittima è fatta a brani ancor viva. Il pezzo che ciascuno ne stacca per suo proprio conto, deve essere palpitante. A questo modo caldo e sanguinante è portato in tutta fretta sul campo che si vuol fecondare. Tale è la sorte riserbata a coloro che mi parlavano, e pur tuttavia ballarono una gran parte della notte. » (Annali della Propag. della Fede, n. 138, p. 402 e seg.). – Gli stessi sacrifici succedono presso certe popolazioni maomettane dell’Africa orientale: « In una città araba che io conosco,scrive un missionario, (Id. marzo 1863, p. 132), ho visitato una casa nella quale si immolò, quattro anni sono, tre verginelle per allontanare un infortunio che minacciava il paese. Questa barbarie non era il fallo di un solo, ma l’adempimento d’una decisione presa in consiglio dai grandi del paese. Io so da fonte certa, e potrei addurre i testimoni, che quelle infelici vittime della superstizione mussulmana furon fatte a pezzetti, e le loro membra portate e sotterrate in diversi punti del territorio minacciato. » (Annali della Prop. della Fede, n. 138, p. 337, 380). – Simili orrori si commettono in Cina e nell’Oceania: satana è sempre e dappertutto lo stesso. (Ibid., n. 116, p. 49, etc., etc.). – Il genere particolare di sacrifici che abbiamo segnalati, non offre che un’idea molto imperfetta della sua sete insaziabile di sangue umano. Per conoscerla un po’ meglio, è d’uopo ricordarsi che i sacrifici umani hanno esistito dappertutto per duemila anni; che essi sono stati praticati sopra una grande scala; che i giuochi dell’anfiteatro, nei quali comparivano in un solo giorno parecchie centinaia di vittime, erano tante feste religiose; che sotto i Cesari questi giuochi si rinnovavano parecchie volte la settimana; che vi erano anfiteatri in tutte le citta importanti dell’impero romano; che il sacrificio umano aveva luogo fuori delle frontiere di quest’impero; che in America egli ha oltrepassato tutte le conosciute proporzioni; finalmente che la stessa carneficina continua anche adesso, su tutti i luoghi rimasti sotto l’intera dominazione del principe delle tenebre. [Oggi il sacrificio umano offerto a satana, continua nei macelli-sale-operatorie delle cliniche e degli ospedali pubblici e privati, con la barbara pratica omicida degli aborti, che miete milioni di vittime innocenti… – ndr.-]. Nel 1447, trentaquattro anni innanzi la conquista spagnola, ebbe luogo al Messico la consacrazione del Teocalli, o tempio del Dio della guerra, fatto da Ahuitzotl, re del Messico. In nessun paese aveva avuto luogo mai tanta spaventevole carneficina, per onorare questa divinità. Gli storici indigeni, che non si possono accusare né d’ignoranza né di parzialità in questa occasione, portano a 80 mila il numero delle vittime umane immolate in quella festa, della quale danno la seguente descrizione. Il re ed i sacrificatori salirono sopra la piattaforma del tempio. Il monarca messicano si pose accanto alla pietra dei sacrifizi, sopra una sedia ornata di orribili pitture. Ad un segnale dato da una musica infernale, gli schiavi cominciarono a salire i gradini del teocalli; essendo coperti di abiti da festa, e col capo ornato di penne. Via via che arrivavano in cima, quattro ministri del tempio, col volto tinto di nero e le mani di rosso (immagini viventi del demonio), afferravano la vittima e la distendevano sulla pietra ai piedi del regio trono. Il re s’inginocchiava, volgendosi successivamente verso i quattro punii cardinali (parodia del segno della croce), gli apriva il petto, dal quale strappava il cuore, presentandolo palpitante agli stessi lati, e lo rimetteva in seguito ai sacrificatori. Questi andavano a gettarlo al quanhxicalli, specie di trogolo profondo, destinato a quest’orribile sacrifizio. Essi compievano la cerimonia scuotendo ai quattro punti cardinali il sangue, che gli era rimasto attaccato alle mani. Dopo avere sacrificato in tal guisa una moltitudine di vittime, il re stanco presentò il coltello al gran sacerdote; poi questi ad un altro, e così di seguito, fino a che le loro forze non furono esaurite. Secondo le memorie contemporanee, il sangue scorreva lungo i gradini del tempio, simile all’acqua durante i rovesci tempestosi dell’inverno; e si sarebbe detto che i ministri erano vestiti di scarlatto. Questa spaventevole ecatombe durò quattro giorni. Essa aveva luogo alla stessa ora e con lo stesso cerimoniale nei principali templi della città; ed i più grandi signori della corte vi disimpegnavano insieme ai sacerdoti, le stesse funzioni che Àhuitzotl nel santuario del dio della guerra. Ire tributari ed i grandi che avevano assistito al sacrificio, vollero imitarlo nella consacrazione di qualche tempio. Il sangue umano non fu risparmiato. Un autore messicano, Ixtlixochitl, stima a più di cento mila il numero delle vittime che si immolarono quell’anno. Il fiume di sangue umano, che in certe circostanze diventava un gran lago, non cessava mai di scorrere. Come i Greci, i Romani, i Galli ed altri popoli dell’antichità, così i Messicani avevano eziandio i loro Tergelii. In mezzo ad una folta foresta si trovava il sotterraneo consacrato a Pètela, principe dei tempi antichi. Sotto le sue oscure vòlte, il viaggiatore contempla con stupore la bocca spalancata di un abisso senza fondo, dove si precipitano muggendo le acque di un fiume. Quivi si conducevano nei momenti di prova pomposamente gli schiavi od i prigionieri, con questa intenzione. Si coprivano di fiori e di ricche vesti, e si precipitavano nell’abisso in mezzo a nuvole d’incenso, indirizzate all’idolo. Tutti i mesi dell’anno erano segnalati da sacrifici umani. Quello che corrisponde al nostro mese di febbraio, era consacrato ai Genii delle acque. Si acquistavano, per il loro sacrificio, dei piccoli bambini che i padri offrivano sovente da sé medesimi, a fine di ottenere per la prossima stagione, l’umidità necessaria alla fecondazione della terra. Questi bambini si portavano in vetta alle montagne, dove si producono le burrasche, e là si immolavano; ma se ne serbava sempre qualcuno per sacrificarli al principio della pioggia. Il sacerdote apriva loro il petto, strappandone il cuore che veniva offerto in propiziazione alla Divinità; ed i loro corpicini erano serviti dipoi in un banchetto di cannibalismo ai sacerdoti ed alla nobiltà. Un altro mese era appellato lo Scorticamento umano. Il suo patrono era Xipè, il calvo o lo scorticato, detto altrimenti Toiec, cioè dire, nostro signore, morto giovane e di morte infelice (contraffazione evidente del N. S. G. C.). Questa divinità ispirava a tutti un grande orrore. Gli si attribuiva il potere di dare agli uomini le infermità che cagionano il maggior disgusto (mezzo infernale di fare aborrire il Crocifisso); perciò gli si offrivano giornalmente sacrifici umani. Le vittime condotte ai suoi altari erano prese per i capelli e portate sino alla terrazza superiore del tempio. A questo modo sospese, i sacerdoti le scorticavano vive, si rivestivano della loro pelle sanguinosa, e se ne andavano per la città offrendo ad onore del nume. Quelli che le presentavano erano obbligati a digiunare per venti giorni in precedenza, dopo di che si regalavano di una parte dellaloro carne. (Storia delle nazioni incivilite del Messico, dell’abate Brasseur de Bombourg, t. III, p. 341, 21-503 ecc.). Citiamo ancora la festa delle Costumanze nel regno di Dahomey, nell’Africa occidentale. Eccone la relazione scritta nel 1860 da un viaggiatore europeo, testimone oculare di quel che narra: « Il 16 luglio viene presentato al re uno schiavo fortemente sbarrato. Il re gli dà delle commissioni pel suo padre defunto, gli fa rimettere pel suo viaggio, una piastra ed una bottiglia di acquavite, dopo di che lo si licenzia. Due ore dopo, quattro nuovi messaggi partivano nelle stesse condizioni. Il 23 io assisto alla nomina di ventitré ufficiali e musicanti, che stanno per essere sacrificati per entrare al servigio del re defunto. Il 28 immolazione di quattordici prigionieri di cui si portano le teste sopra differenti punti della città, al suono di una grossa campanella. « Il 29 si preparano ad offrire alla memoria del re Ghezo le vittime d’uso. Gli schiavi hanno una sbarra in forma di croce che deve fargli enormemente soffrire: si passa loro un ferro appuntato nella bocca, gli si applica sulla lingua, il che gli impedisce di chiuderla, e per conseguenza di gridare. Questi disgraziati hanno quasi tutti gli occhi fuori del capo. I canti non smettono, come pure le uccisioni. Durante la notte del 30 e del 31 sono cadute più di cinquecento teste. Parecchie fosse della città sono colme di ossa umane. I giorni seguenti continuazione degli stessi massacri. « La tomba dell’ultimo re è un gran sepolcro scavato nella terra. Ghezo sta in mezzo a tutte le sue mogli, le quali prima di avvelenarsi, si sono poste intorno a lui secondo il grado ch’esse occupavano alla di lui corte. Queste morti volontarie possono ascendere al numero di seicento. – Il 4 agosto esposizione di quindici donne prigioniere, destinate a prender cura del re Ghezo nell’altro mondo. Saranno uccise questa notte di un colpo di stile nel petto. – Il 5 è riserbato alle offerte del re. Quindici donne e trentacinque uomini vi figurano, sbarrati e legati con corde, con le ginocchia ripiegate sino al mento, le braccia attaccate al basso delle gambe, e contenuti ciascuno in una paniera da portarsi in capo: la processione ha durato più di un’ora e mezzo. Era uno spettacolo diabolico il vedere il movimento, i gesti, le contorsioni di tutta quella massa di negri. – Dietro di me erano quattro magnifici negri che funzionavano da cocchieri intorno ad un carrozzino destinato ad essere mandato al defunto in compagnia di quei quattro disgraziati. Essi ignoravano la loro sorte. Fattigli tosto chiamare, si sono avanzati tristamente senza proferire una parola ; uno di essi aveva due grosse lacrime che cadevano sulle sue gote. Essi vennero uccisi tutt’e quattro come tanti polli, dal re in persona…. Dopo questa immolazione il re è salito sopra un palco, ha acceso la sua pipa e dato il segnale del sacrificio generale. Furono tosto sguainate le scimitarre, e le teste caddero. Il sangue scorreva da ogni banda; i sacrificatori ne erano ricoperti, e quegli infelici che attendevano la lor volta ai piè del regio palco erano come tinti di rosso. –  Queste cerimonie dureranno ancora un mese e mezzo, dopo di che il re si porrà in campagna per fare nuovi prigionieri, e ricominciare la sua festa delle Costumanze;  verso la fine d’ottobre vi saranno ancora sette o ottocento teste abbattute. » (Ann. della Propag. della Fede; marzo 1861, p. 152 e seg. L’autore di questo racconto non è un missionario. Abbiamo visto un missionario che ci ha Confermato tutti questi particolari, aggiungendo che da dodici anni che è in Africa si può senza esagerazione portare a 16 mila il numero delle vittime umane, immolate nel regno di Dahomey. Vedi il Viaggio del S. Bepin, medico di marina, 1862). – Al re Ghezo è succeduto suo figlio, il principe Badou. L’ascensione al trono del nuovo monarca è stato il trionfo delle antiche leggi, che hanno ripreso tutto il rigore sanguinario reclamato dai Fetisci. « Non bisogna credere che la carneficina si limiti alle grandi feste. Non passa giorno senza che qualche testa non cada sotto la scure del fanatismo. Ultimamente l’Europa ha fremuto, apprendendo che il sangue di tremila creature umane aveva bagnato la tomba di Ghezo. Ahimè! se non vene fossero state che tremila! » Ibid., maggio 1862). – Non solamente a Cana, la città santa di Dohomey, ma ancora a Abomey, capitale del regno, si rappresentano queste sanguinose tragedie. « Chiamati al palazzo reale, scrive un viaggiatore, noi vedemmo novanta teste umane, troncate la mattina stessa; il loro sangue scorreva ancora sul terreno. Quegli avanzi spaventevoli erano schierati da ciascun lato della porta, di modo che il pubblico potesse ben vederli. Tre giorni dopo, nuova visita obbligata al palazzo e lo stesso spettacolo; sessanta teste troncate di fresco, accomodate come le prime da ciascun lato della porta, e tre giorni più tardi altre trentasei. Il re aveva fatto costruire sulla piazza del mercato principale, quattro grandi piattaforme, di dove gettò al popolo dei cauri, sorta di conchiglie che servono di moneta e sulle quali egli fece ancora immolare sessanta vittime umane. (Vedi Il Giro del mondo, n. 168, p. 107). Ecco la forma di questo nuovo sacrificio. « Si recarono grandi ceste contenenti ciascuna un uomo vivo del quale la sola testa usciva fuori. Le si ponevano in un istante in fila sotto gli occhi del re, poi le si precipitarono l’una dopo l’altra, dall’alto della piattaforma sul suolo della piazza, dove la moltitudine, ballando, cantando e urlando, si disputava questa fortuna inattesa, come in altre contrade, i fanciulli si disputano i confetti di battesimo. Ogni Dahomiano abbastanza favorito dalla sorte, per prendere una vittima e segargli la testa, poteva andare all’istante stesso a cambiare quel trofeo in tanti cauris (circa due lire e mezzo.) Quando l’ultima vittima fu decollata, e che due sanguinose pile, una di teste, l’altra di tronchi furono innalzate alle due estremità della piazza; allora soltanto mi fu permesso di ritirarmi Che cosa succedeva dei cadaveri? La storia ci insegna che sempre e dappertutto, il pasto sotto una forma o sotto un’altra, accompagna il sacrificio. Che cosa diventano dunque i corpi dell’innumerevoli vittime del Moloch Dahomiano? « Io ho posto sovente, dice un viaggiatore, questa questione a dei Dahomiani di varie classi, né ho potuto mai ottenere una risposta molto categorica. Io non credo i Dahomiani antropofagi…. Potrebbe darsi nonostante che essi annettessero qualche idea superstiziosa alla consumazione di quegli avanzi, e che essi servissero a delle segrete e ributtanti agapi; ma ripeto, io non ho su di questo che sospetti, i quali han fatto nascere nel mio animo l’esitanza e l’imbarazzo dei negri che ho interrogati a questo proposito. » (Il Giro del mondo, p. 102). Se ne giudichiamo dalla tirannia assoluta, che il grande omicida esercita su quel disgraziato popolo, è più che probabile che i sospetti del viaggiatore non tarderanno a diventare una spaventosa certezza. Con l’odio dell’uomo, e con la sete del suo sangue questa tirannia si rivela da un ultimo passo, unico nella storia: « È ad Abomey che si trova la tomba dei re, vasto sotterraneo scavato da mano umana. Quando muore un re gli si erige nel centro di quel sepolcreto una specie di cenotafio contornato di barre di ferro, e sormontato da un sarcofago, cementato di sangue di un centinaio di prigionieri provenienti dalle ultime guerre, e sacrificati per servire di guardie al sovrano nell’altro mondo. Il corpo del monarca è deposto nel sarcofago, con la testa che riposa sopra i crani dei re vinti. Come tante reliquie della monarchia defunta, si depone a piè del cenotafio tutto quel che si può porvi di crani e di ossa. – « Terminati tutti i preparativi, si apre la porta di quella tomba e vi si fanno entrare otto ahaies, danzatrici della corte, in compagnia di cinquanta soldati; ballerine e guerrieri, muniti di una certa quantità di provvisioni, sono incaricati di accompagnare il loro sovrano nel regno delle ombre: in altri termini, essi sono offerti in olocausto alle ceneri del re morto. Dopo diciotto mesi per l’esaltazione al trono del nuovo re, il sarcofago è aperto ed il cranio del re morto viene ritirato. Il reggente prende quel cranio nella mano sinistra, e tenendo una piccola scure dalla mano destra, ei la presenta al popolo, proclama la morte del re e l’avvenimento del suo successore. Con dell’argilla intrisa di sangue delle vittime umane, si forma un gran vaso, nel quale il cranio e le ossa del defunto re sono definitivamente chiusi. Giammai la sete del sangue del Moloch africano si manifesta più che in queste solennità. Migliaia di vittime umane sono immolate, sotto pretesto d’inviare e portare al fu re la nuova dell’incoronazione del suo successore. » (Il Giro del mondo, 108, 104). Tutti questi orrori si commettono in nome della religione, e vi sono dei pretesi grandi ingegni che dicono che … tutte le religioni sono buone. È dunque indifferente il praticare una Religione che difende sotto pene eterne, l’attentare alla vita dell’uomo, ed una religione che comanda d’immolare gli uomini a migliaia? … una Religione che protegge il fanciullo, la pupilla dell’occhio, e una religione che ordina ai genitori di portare quest’essere prediletto al coltello del sacrificatore, o di gettarlo vivo nelle braccia di una statua incandescente? … una Religione che condanna persino il pensiero del male, e una religione che fa della prostituzione pubblica una parte del suo culto? una Religione che dice: I beni di altri non piglierai, e una religione che adora delle divinità protettrici dei ladri? – Tutti questi orrori si commettono, oggi pure, ad alcune centinaia di leghe distante dalle coste della Francia! E l’Europa cristiana che ha delle migliaia di soldati per fare la guerra al Papa, non ne ha neppure uno per far rispettare le più sante leggi dell’umanità! Una sola cosa ha liberato l’Europa da simili crudeltà, una sola cosa ne impedisce il ritorno, ed è il Cristianesimo. E si trova oggidì in Europa migliaia d’uomini che non hanno voce se non che per insultare il Cristianesimo, non altre penne che per calunniarlo, mani che per batterlo! Ingrati! i quali senza il Cristianesimo sarebbero forse stati offerti in vittima a qualche Ghezo antico, o arsi in un canestro di vetrice, in onore di Teutatès!

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (20)

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XIX.

Storia religiosa delle due Città.

L’uomo nato per diventare simile a Dio e fratello del Verbo incarnato — Nella Città del bene la religione lo conduce a questa rassomiglianza e a questa fraternità — Nella Città del male la Religione lo conduce alla rassomiglianza ed alla fraternità di satana —Parallelismo generale delle due religioni — Tre punti particolari di confronto: la Bibbia, il Culto, il Sacrifizio — La Bibbia di Dio e la Bibbia di satana: parallelismo — Il culto di Dio e il culto di satana — Nel culto satanico, come nel culto divino, nulla è lasciato all’arbitrio dell’uomo: importante testimonianza di Porfirio.

L’uomo compie il suo pellegrinaggio quaggiù tra i due eserciti nemici. Noi conosciamo questi formidabili eserciti, i loro Re, i loro Principi, la loro formazione, i loro piani. Resta da studiare i loro mezzi d’azione, le loro vittorie e le loro sconfitte. Nate nel cielo, la Città del bene e la Città del male, non aspettano che la creazione dell’uomo per stabilirsi sulla terra. Difatti, l’obiettivo della lotta è l’uomo. Adamo è creato; egli respira, apparisce agli sguardi dell’universo, nella maestà della sua regia potenza. Adorno di tutte le grazie dell’innocenza e di tutti gli attributi della forza, egli è bello della bellezza dello stesso Dio, la cui immagine risplende in tutto il suo essere. Per mantenerlo nella sua dignità, durante la vita del tempo; per innalzarlo ad una più alta dignità, durante l’eternità, divinizzandolo, gli è data la Religione. Unire l’uomo al Verbo incarnato, in modo da fare di tutti gli uomini e di tutti i popoli altrettanti verbi incarnati; tale è il fine supremo della Religione. satana nel vedere svilupparsi sulla terra il concetto divino da lui combattuto in cielo, fremette. Per arrestare l’opera della infinita Sapienza, il suo odio spiega tutti i suoi mezzi. Egli oppone alla Religione che deve divinizzare l’uomo e condurlo ad una eterna felicità, una religione che deve imbestiarlo e trascinarlo per sempre nell’abisso dell’infelicità. Tutto ciò che Dio fa per salvare 1′ uomo, satana lo scimmiotta per perderlo. Fra questi mezzi di santificazione e di perdizione il parallelismo è completo. Il Re della Città del bene ha la sua Religione. Il re della Città del male ha la sua. Il Re della Città del bene ha i suoi Angeli; ha la sua Bibbia, i suoi Profeti, le sue apparizioni, i suoi miracoli, le ispirazioni, le minacce, le sue promesse, i suoi apostoli, i suoi sacerdoti, i suoi templi, le formule sacre, le sue cerimonie, le sue preghiere, i sacramenti, i sacrifici. Il re della Città del male ha i suoi angioli; ha la sua Bibbia, i suoi oracoli, le sue manifestazioni,‘i suoi prestigi, le sue tentazioni, le sue minacce, le sue promesse, i suoi apostoli, i suoi sacerdoti, i suoi templi, le sue formule misteriose, i suoi riti, le sue iniziazioni e sacrifici. Il Re della Città del bene ha le sue feste, i suoi santuari privilegiati, i suoi pellegrinaggi. Il re della Città del male ha le sue feste, i suoi luoghi fatidici, i suoi pellegrinaggi, i suoi soggiorni preferiti. Il Re della Città del bene ha le sue arti e le sue scienze; ha la sua danza, la sua musica, la sua pittura, la sua statuaria, la sua letteratura, la sua poesia, la sua filosofia, la sua teologia, la sua politica, la sua economia sociale, la sua civiltà. Il re della Città del male ha parimente tutte queste cose. [Non ha egli forse Satana trovato il suo cantore in Italia in Giosuè Carducci che ha composto un inno in suo onore, e lo stendardo di lucifero non ha egli sventolato e trionfato più volte in questi ultimi anni? – N. d. Ed.] –

Il Re della Città del bene ha i suoi segni di riconoscenza e di preservazione: il segno della croce, le reliquie, le medaglie, l’acqua benedetta.

Il re della Città del male ha i suoi segni cabalistici, le sue parole di passo, i suoi emblemi, i suoi amuleti, i suoi talismani, la sua acqua lustrale.

Il Re della Città del bene ha le sue congregazioni di propaganda e di devozione, legate a voti solenni.

Il re della Città del male ha le sue società segrete, destinate ad estendere il suo regno, e legate da giuramenti terribili.

Il Re della Città del bene ha i suoi doni, i suoi frutti, le sue beatitudini.

Il re della Città del male possiede la contraffazione di tutto ciò.

Il Re della Città del bene è adorato da una parte del genere umano.

Il re della Città del male è adorato dall’altra.

Il Re della Città del bene ha la sua dimora eterna oltre la tomba.

Il Re della Città del male ha la sua nelle stesse regioni.

Svolgiamo alcuni punti di questo parallelismo tremendo e tanto poco temuto: la Bibbia, il culto ed il sacrificio.

L’uomo è un essere istruito. A fine di conservarlo eternamente simile a se stesso, eterizzando l’insegnamento primitivo, il Re della Città del bene ha degnato fissare la sua parola mediante la scrittura: Egli ha dettato la Bibbia. La Bibbia dello Spirito Santo dice la verità, sempre la verità, nient’altro che la verità. Essa la dice intorno all’origine delle cose, intorno a Dio, intorno all’uomo e intorno a tutto quanto il creato. Essa la dice sul mondo soprannaturale, sui suoi misteri, sui suoi abitanti, e sopra i fatti luminosi che provano la loro esistenza ed il loro intervento nel mondo inferiore. Essa la dice sulle regole dei costumi, sulle lotte obbligate della vita, sul governo delle nazioni mediante la Provvidenza, sopra i castighi del delitto e sulle ricompense della virtù. Per illuminare il cammino dell’uomo attraverso ai secoli, consolare i suoi dolori, sostenere le sue speranze, essa gli annunzia mediante numerose profezie, gli avvenimenti che debbono compiersi nel suo passaggio, mostrando in lui tutto il termine finale verso cui deve camminare. La Bibbia dello Spirito Santo dice tutta la verità. Da lei, come da un focolare sempre acceso, escono la teologia, la filosofia, la politica, le arti, la letteratura, la legislazione, in una parola, la vita sotto tutte le sue forme. Per quanto siano così numerosi e così vari tutti i libri della Città del bene, non sono né possono essere che il commento perpetuo del libro per eccellenza. La Bibbia dello Spirito Santo non si contenta d’insegnare, ma canta le glorie ed i benefici del Creatore, canta la bellezza della virtù, la felicità dei puri cuori; canta i nobili trionfi dello spirito sulla carne; e, per educare l’uomo alla perfezione, canta le perfezioni di Dio medesimo, suo modello obbligato e suo magnifico rimuneratore. Ora a misura che il Re della Città del bene ispira la sua Bibbia, il re della Città del male ispira la sua. – La Bibbia di Satana è un miscuglio artificioso di molte menzogne e di alcune verità: verità alterate ed oscure per servire di passaporto alla favola. Essa mentisce intorno all’origine delle cose: mentisce su Dio, sull’uomo e sul mondo inferiore: essa mentisce nel mondo soprannaturale, sui suoi misteri ed i suoi abitanti, mentisce sulle regole dei costumi, sulle battaglie della vita, sui destini dell’uomo. Per mezzo d’oracoli sparsi in ogni sua pagina, essa inganna la curiosità umana, sotto pretesto di rivelarle i segreti del presente ed i misteri dell’avvenire. Ad ogni popolo soggetto al suo impero, satana dà un esemplare della sua Bibbia, lo stesso per il fondo, ma diverso nei particolari. Percorrete gli annali del mondo, voi non troverete una sola nazione pagana che non abbia per punto di partenza della sua civiltà un libro religioso, una Bibbia di satana. Mitologie, libri sibillini, Vedas; sempre e dapertutto avete un codice che ispirato dà nascita alla filosofia, alle arti, alla letteratura ed alla politica. La Bibbia di satana diventa il libro classico della Città del male, come la Bibbia dello Spirito Santo diventa il libro classico della Città del bene. La Bibbia di satana unisce alla prosa la poesia. Sotto mille nomi diversi essa canta lucifero e gli angeli ribelli; essa canta le loro infamie e le loro malizie: inneggia tutte le passioni; e per attirare l’uomo nell’abisso della degradazione essa gli mostra gli esempi degli dei. Oggetto di infiniti commenti, la Bibbia di satana diviene un mortale veleno, anche per la Città del bene. Sant’Agostino ne piange le devastazioni, e san Girolamo denunzia in questi termini il libro infernale: « La filosofia pagana, la poesia e la letteratura pagana, sono la Bibbia dei demoni. » [Cibus est dæmoniorum, sæcularis philosophia, carmina poetarum, rhetoricorum pompa verborum. Epist. de duób. Filiis). – All’insegnamento scritto o parlato non si limita il parallelismo della Città del bene e della Città del male: esso si manifesta in un modo forse più imponente nei fatti religiosi. Nella Città del bene, nessun ragguaglio del culto è lasciato all’arbitrio dell’uomo. Tutto è regolato da Dio medesimo. L’antico Testamento ce lo mostra dettando a Mosè, non solamente gli ordinamenti generali ed i particolari regolamenti, concernenti i sacerdoti e le loro funzioni; ma altresì dando il disegno del tabernacolo, determinandone le dimensioni e la forma, indicante la natura e la qualità dei materiali, il colore delle stoffe, la misura degli anelli, e persino il numero dei chiodi che devono essere adoprati nella sua costruzione. La forma dei vasi d’oro e d’argento, i turiboli, gli arnesi, le figure di bronzo, i sacri utensili, tutto è di ispirazione divina. Lo stesso è del luogo in cui l’Arca deve riposare, dei giorni in cui fa d’uopo consultare il Signore, delle precauzioni da prendere per entrare nel santuario, delle vittime che debbono essere immolate, o delle offerte che bisogna fare per piacere a Jehovah ed ottenere i suoi responsi e i suoi favori. (Exod., xxxv, e seg.). In ciò per cui vi era legge sacra nella Sinagoga, continua ad esservene una non meno sacra nella Chiesa. Nessuno ignora che tutti i riti del culto cattolico, la materia e la forma dei Sacramenti, le cerimonie che li accompagnano, gli abiti dei sacerdoti, la materia dei vasi sacri, l’uso dell’incenso, il numero ed il colore degli ornamenti, la forma generale, e il mobiliare essenziale dei templi, come pure i giorni più favorevoli alla preghiera sono determinati non per i particolari ma per lo stesso Spirito Santo, ovvero in suo nome, per la Chiesa. –  Si comprende quanto questa origine soprannaturale sia propria a conciliare al culto divino il rispetto dell’uomo, e necessaria per prevenire l’anarchia nelle cose religiose. satana ha compreso meglio di noi. Questa grande scimmia di Dio ha regolato da se medesimo tutti i particolari del suo culto. Ecco ciò che bisogna sapere e ciò che non si sa, attesoché, a malgrado dei nostri dieci anni di studi alla scuola dei Greci e dei Romani, noi non conosciamo la prima parola dell’iniquità pagana. Le sue usanze religiose, la forma delle statue, la natura delle offerte e delle vittime, le formule di preghiere, i giorni fasti o nefasti, e tutte le altri parti dei culti pagani, ci appariscono come il resultato della ciarlataneria, dell’immaginazione e del capriccio degli uomini; ma è un errore capitale. La verità è, che niente di tutto ciò è arbitrario. Ascoltiamo l’uomo, che meglio di tutti ha conosciuto i misteri della religione di satana. « É cosa costante, dice Porfirio, che i teologi del paganesimo hanno appreso tutto ciò che risguarda il culto degli idoli dalla scuola medesima dei grandi dei. Essi medesimi hanno loro insegnato i propri segreti più nascosti; le cose che loro piacciono; i mezzi di costringerli; le formule per invocarli; le vittime da offrirli e il modo di offrirle; i giorni fasti e nefasti; le figure sotto le quali volevano essere rappresentati; le apparizioni per le quali essi rivelavano la loro presenza; i luoghi che frequentavano con più assiduità. In una parola, non havvi assolutamente niente che gli uomini non abbiano appreso da essi per ciò che riguarda il culto da rendersi a loro, poiché tutto vi si pratica dietro i loro ordini ed i loro insegnamenti. 1 » (Apud Euseb., Præpar. evang., lib. V, c. XI). – Ed aggiunge: « Quantunque noi si possa affermare ciò che anticipiamo con una infinità di prove senza replica, ci limiteremo a citarne un piccolo numero, per mostrare che parliamo con cognizione di causa. Così l’oracolo di Ecate ci mostrerà, che sono gli dei che ci hanno insegnato come e di qual materia le loro statue debbano esser fatte. Quest’oracolo dice: Scolpite una statua di legno ben levigato come ve lo insegnerò: fate il corpo di una radice di ruta selvatica, poi ornatelo di piccole lucertole domestiche, stiacciate della mirra, dello storace e dell’incenso con gli stessi animali, e lascerete questo impasto all’aria aperta durante il crescer della luna; allora, indirizzate i vostri voti nei seguenti termini. « Dopo aver dato la formula della preghiera, l’oracolo indica il numero delle lucertole che devonsi prendere: quante differenti formule pronunzierò tanti di questi rettili piglierete; e fate queste cose con diligenza. Voi mi costruirete una abitazione con i rami di un olivo selvatico; e rivolgendo fervide preghiere a quella immagine, voi mi vedrete mentre dormirete ». Il gran teologo del paganesimo continua: « Quanto alle attitudini nelle quali devonsi rappresentare gli dei, essi medesimi ce l’han fatto conoscere; e gli statuari si sono religiosamente conformati alle loro indicazioni. Così Proserpina parlando di se stessa dice: Fate tutto ciò che mi spetta nell’ideare la mia statua. La mia figura è quella di Cerere adorna dei suoi frutti, con candide vesti e calzatura d’oro. Attorno alla mia figura scherzano lunghi serpenti che strisciandosi sino a terra, solcano le mie tracce divine; dalla sommità del mio capo, altri serpenti arrivano sino a miei piedi e avvolgenti intorno al mio corpo formano tante spire piene di grazia. Quanto alla mia statua essa deve essere di marmo di Paros, o d’avorio molto liscio. » (Apud Euseb., Præpar., evang. lib. V, c. XIII). – Pane insegna ad un tempo la forma sotto cui vuole essere rappresentato e l’inno che si deve cantare in onore suo: « Mortale, rivolgo i miei voti a Pane, il dio che unisce le due nature ornate di corna, bipede, con le estremità di un capro e propenso all’amore. » (Ib. Id.) – Non è dunque il Medio Evo che per primo abbia rappresentato il demonio sotto la forma di un montone. Prediligendo questa forma, satana, libero o forzato, si faceva giustizia: e nel dargliela il paganesimo restava fedele ad una tradizione troppo universale per essere falsa, troppo inesplicabile per essere inventata. Lo stesso Spirito Santo lo conferma, insegnandoci che i demoni hanno costume di apparire e di eseguire de’ giri infernali, sotto la figura di questo animale immondo. A causa di questi delitti, il paese di Edom è condannato ad essere distrutto: E in mezzo a queste ruine danzano i demoni sotto la forma di caproni e di altri mostri conosciuti dall’antichità pagana.  La contraffazione satanica va anche più oltre. Il Re della Città del bene si chiama lo Spirito dei sette doni. A fine di scimmiottarlo e di ingannare gli uomini imitandolo, il Re della Citta del male si fa chiamare il Re dei sette doni. Quindi egli indica i giorni favorevoli per invocare i suoi sette grandi satelliti, ministri dei sette doni infernali. Nei suoi oracoli, Apollo pigliando in imprestito la forma biblica così parla: « Ricordati d’invocare nello stesso tempo Mercurio ed il Sole, il giorno consacrato al Sole: di poi la Luna, allorché apparirà il suo giorno; poi Saturno; finalmente Venere. Tu adopererai le parole misteriose, trovate dai più grandi maghi, il Re dai sette doni conosciutissimo da tutti…. chiama sempre sette volte, a voce alta, ciascuno degli dei. » Sarebbe facile moltiplicare le testimonianze: ma a che giova? quelli che sanno le conoscono. Vale meglio affrettarsi a concludere, dicendo con Eusebio: « Che l’illustre filosofo dei Greci, il teologo per eccellenza del paganesimo, l’interprete dei misteri nascosti, fa conoscere con tali citazioni la sua filosofia per via di oracoli come racchiudenti i segreti ammaestramenti degli dei, allorquando evidentemente essa non rivela altro che le insidie tese agli uomini mediante le potenze nemiche, vale a dire per mezzo dei demoni in persona. » (Id. ib.). L’ispirazione satanica a cui si deve nel suo complesso e nei suoi ultimi particolari, la religione pagana dei popoli dell’antichità, prescrive con la stessa autorità e regola, con la stessa precisione i culti idolatri dei popoli moderni. Interrogate i sacerdoti, o come oggi noi diciamo i medium,, i quali presiedono a queste forme differenti di religione, tutti vi diranno che esse vengono dagli spiriti, dai manitous o da qualche personaggio amico degli dei e incaricato di rivelare agli uomini il modo di onorarli: essi non mentono. Satana è sempre lo stesso, ed egli regna presso questi popoli infelici con lo stesso impero ch’egli esercitava anticamente tra noi. Cosi le formule sacre dei Tibetani, dei Cinesi, dei negri dell’Africa, dei selvaggi dell’America e dell’Oceania, i loro misteriosi riti, le loro pratiche, ora vergognose, ora crudeli e ridicole, la distinzione dei giorni buoni o cattivi, del pari che la forma bizzarra, orrida, spaventevole o lascivia dei loro idoli, non debbono essere imputati a malizia naturale dell’uomo, ai capricci dei sacerdoti od all’immaginazione ed alla inabilità degli artisti. (1) Tutto viene dai loro dei, e tutti i loro dei sono tanti demoni: omnes dii gentium dæmonia.

(1) [Chi crederà che i Cinesi per esempio, supposto che siano Cinesi, non potessero rappresentare i loro dei, altrimenti che con fantocci ridicoli o idoli mostruosi? « In Cina, scrive un missionario, l’idolo principale è ordinariamente di una straordinaria grandezza, con un viso gonfio, col ventre di una ampiezza smisurata, una lunga barba finta e altri vezzi dello stesso genere…. Noi trovammo dentro una pagoda parecchi idoli alti 12 piedi, il cui ventre aveva almeno 18 piedi di circonferenza. » Annali etc., n° 72, p. 481; e n° 95, p. 341. — Si può dire la stessa cosa di tutti i popoli idolatri, antichi e moderni].

 

PILLOLE DI SALVEZZA -2- RAPPORTI CONIUGALI – ACQUA BENEDETTA.

– 1 Rapporti coniugali. -765-

A. — LICEITÀ.

I. L’atto coniugale è lecito, quando si compie per la procreazione dei figli o, senza escludere positivamente la procreazione, per qualche altro fine onesto.

Motivi onesti sono: fomento del mutuo amore e della mutua concordia; ristabilimento della pace, evitare il pericolo di incontinenza per sé o per il coniuge, ecc. — Le relazioni coniugali sono lecite anche quando è certo che non potrà avvenire la concezione in modo alcuno, per es. nei vecchi, negli sterili, quando alla donna furono levate le ovaie o la matrice, quando si è certi che avverrà un parto morto o precoce (settimino), quando, per una disposizione patologica della donna, il semen, dopo la copula, fluisce da se stesso, aut si ob senectutem vel similem causam semen virile saepe extra vas effunditur. Secondo parecchi autori l’atto coniugale resta lecito anche quando i coniugi sono divenuti impotenti dopo lo sposalizio, purché sia ancora possibile una « penetratio vaginæ », per es. quando all’uomo furono asportati i testicoli o quando subì la vasectomia. Circa i tempi agenesici, cfr.

n. 776.

Fœcundatio artificialis est illicita, si maritus semen extra vaginam effundit (est enim pollutio vel onanismus), et medicus semen ope instrumenti colligit et in uterum inicit; ad vitanda incommoda vere gravia uxor passive se habere potest. Hæc fæcundatio artificialis est illicita, quia actus coniugalis natura sua est coniugum cooperatio personalis, simultanea et immediata. (Cfr. discorso di Pio XII alle ostetriche, 29 ott. 1951).

— Licita est fila praxis, qua ope instrumenti vagina dilatatur vel uterus in naturali positione collocatur, et maritus copulam habet modo ordinario. Sunt etiam qui putent licitam esse illam fœcundationem artificialem, in qua vir intra vaginam semen effundit et medicus ope instrumenti semen colligit et in uteri fundum inicit. ( Cfr. il discorso di Pio XII, 29 sett. 1949, al IV Congresso intern. dei medici cattolici: AAS, XLI, 1949, p. 557 ss.).

II. La copula diviene illecita solo nelle seguenti condizioni, quando:

1° La procreazione è resa più difficile.

Nessuna posizione o sito pertanto è gravemente colpevole, se può ancora avvenire la concezione. Ma se questa si rende difficile, si ha peccato veniale, compiendosi l’atto in tal modo, senza motivo sufficiente. — Effusio seminis in ore vaginæ (copula dimidiata) est peccatum leve, si quis hoc modo se gerit, ut conceptionem difficiliorem reddat; nullum autem peccatum est, si copula alio modo haberi non potest aut saltem non sine gravi incommodo. — Peccatum veniale uxor committit, si seminationem cohibet ad difficiliorem reddendam conceptionem.

766

2° Ne risente danno la sanità.

Qualora con l’atto coniugale fosse congiunto un immediato pericolo di morte, la copula è proibita sotto pena di peccato mortale. — Se da essa risulta un grave danno o un pericolo remoto di morte, occorre un motivo grave per la sua liceità, per es. che, specialmente in caso di malattia diuturna di un coniuge, l’altro non violi la fedeltà coniugale, o che resti assicurata la pace domestica. Tuttavia non v’è obbligo di compiere l’atto coniugale dietro preghiere dell’altra parte (cfr. n. 772). In caso di malattie veneree, per un motivo grave si può tollerare che il coniuge malato chieda al coniuge sano il debito coniugale, dopo però aver avvertito il sano della propria malattia; se l’altro coniuge, poi, vuol compiere tale sacrificio, può, ma non è tenuto. In generale però è da sconsigliarsi che uno affetto da simili mli compia l’atto coniugale. — Ai tubercolotici sono leciti i rapporti coniugali, ma con moderazione. — Dopo un parto, l’atto coniugale è proibito generalmente sub gravi durante le prime due settimane, sub levi durante le quattro seguenti; è lecito durante il periodo dell’allattamento.

— Durante la gravidanza, i rapporti coniugali sono leciti, purché si eviti il pericolo di aborto. — Durante le mestruazioni, come norma, è da sconsigliarsi l’atto coniugale; pure, per motivo ragionevole, è lecito. In caso di emorragie morbose della matrice, piuttosto prolungate, può derivare dall’atto coniugale un grave danno alla donna in certe forme di malattie; perciò è necessario richiedere il consiglio di un medico competente e cosciente. — La circostanza che i figli nati da un matrimonio, per es. per causa di malattia dei genitori, resteranno deboli e infermicci o moriranno già prima di nascere, non rende illecito l’atto coniugale.

3 ° Ne soffre danno la salute dell’anima.

È gravemente peccaminoso compiere l’atto in presenza di terzi. Se inaspettatamente sopraggiunge alcuno, si deve troncare subito l’atto coniugale, anche se certamente ne seguirà la polluzione; alla quale però non è mai lecito acconsentire.

— Chi emise il voto di castità, non può chiedere il debito coniugale, salvo che l’altro coniuge non si trovi in pericolo di incontinenza e abbia ripugnanza a chiedere; alla richiesta (almeno tacita) dell’altro coniuge, deve invece prestare il debito coniugale, anche quando l’altra parte avesse fatto similmente il voto di castità. — In caso di invalidità del matrimonio, l’atto coniugale è proibito sotto pena di peccato mortale, anche se un coniuge soltanto è a conoscenza della nullità. — In caso di dubbio serio sulla validità del matrimonio ci si deve accertare con una accurata inchiesta. Nel frattempo non è lecito chiedere il debito coniugale; ma se l’altro coniuge non ha dubbio alcuno in merito, dietro sua richiesta glielo si deve prestare. Non potendosi appurare il dubbio, il matrimonio deve ritenersi valido, e quindi lecito l’uso.

Nota. — I TEMPI SACRI non rendono illeciti i rapporti coniugali, benché in tempi di penitenza debba consigliarsi la moderazione. — Anche la notte precedente la Comunione sono leciti i rapporti coniugali, quantunque coloro che si comunicano di rado faranno bene ad astenersi dall’atto coniugale; alla richiesta dell’altro coniuge, però, la copula è un dovere. E le donne devono ben guardarsi dal prestare l’atto coniugale di malumore.

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III. Gli atti incompleti (actus imperfecti luxuriæ, v. g. aspectus, oscula, amplexus, tactus, etc.) in quanto alla loro liceità devono essere distinti nel modo seguente:

In unione con l’atto coniugale come preparazione e come complemento sono sempre leciti. Hoc valet de aspectibus, osculis vel tactibus etc. honestis vel minus honestis, sive in corpore proprio sive in corpore compartis. Si uxor in copula ipsa plenam voluptatem non habet, eam sibi procurare potest tactibus immediate ante vel post copulam; et vir postquam rite seminavit, non debet, imo generaliter non potest exspectare seminationem uxoris, quia relaxatio partium virilium generaliter sequitur immediate post seminationem. Pauci auctores putant uxori quoque licere sibi procurare tactibus, etc, istam plenam voluptatem postquam vir onanista se retraxerit, ut semen extra vas effundat. — Marito vero non licet sibi procurare istam plenam voluptatem, si mulier se retrahit postquam ipsa seminavit, quia seminatio viri extra vas nihil confert ad generationem.

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 2° Extra copulam, id est quando coniuges copulam habere aut nolunt aut non possunt:

a) actus mutui licent, si fiunt ex iusta causa (v. g. signum amoris), et periculum pollutionis abest (etsi pollutio per accidens aliquando sequatur) aut si cum periculo pollutionis fiunt ex gravi causa (v. g. ad avertendam suspicionem, ad retrahendum virum a viis adulterinis, ad obœdiendum comparti petenti, ut illi actus permittantur aut reddantur). – Quæ vero dieta sunt de periculo pollutionis solummodo valent, si actus per se graverri influxum in pollutionem habent, non vero si influxus est per accidens, v. g. ob singularem dispositionem agentis (cfr. n. 225). — Actus qui natura sua gravem influxum in pollutionem habent, sunt peccata gravia, si absque proportionata causa excercentur. — Alii actus, qui levem influxum habent et sine justa causa fiunt, peccata levia sunt; si vero ponuntur cum intentione pollutionis evadunt peccata mortalia. — Consensus in delectationem cum pollutione coniunctam est peccatum mortale; multi vero hoc nesciunt, nec expedit eos hac de re monere.

b) actus solitarii delectationis venereæ causa exerciti sunt peccata mortalia, si natura sua gravem influxum in pollutionem habent, vel si fiunt cum intentione pollutionis; si absque hoc periculo et absque hac intentione fiunt, in praxi prohiberi non possunt sub comminatione peccati mortalis.

c) delectatio morosa in coniugibus est, excluso periculo pollutionis, peccatum nullum aut leve aut grave, prout res, de quibus coniugibus delectantur, ipsis licitæ sunt vel prohibitæ sub levi vel sub gravi. Idem dicendum est de desideriis. — Delectatio, quæ oritur e cogitationibus speculativis de re turpi, non est peccatum grave prò coniugibus, modo absit et periculum proximum pollutionis et grave periculum consentiendi delectationibus morosis vel desideriis graviter peccaminosis facile oriundis.

B . — IL DEBITO CONIUGALE.

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I. Alla prestazione del debito coniugale ciascun coniuge per sé è obbligato sotto pena di peccato grave, quando l’altro lo chiede seriamente, in modo particolare se si trovasse in pericolo d’incontinenza, o dovesse fare un grande sacrificio per superare la tentazione. – La richiesta della prestazione del debito coniugale di solito avviene esplicitamente da parte del marito; da parte della moglie invece soltanto tacitamente, per es. con espressioni di tenerezza. — Il rifiutarsi è soltanto peccato veniale (a meno che l’altro coniuge venga esposto al pericolo di peccare gravemente), quando la parte richiedente rinuncia facilmente alla sua richiesta, oppure quando si differisce la prestazione soltanto per breve tempo o quando, in caso di frequenti rapporti, il rifiuto avviene di rado, per es. una volta al mese. — Si devono però lasciare in buona fede le donne attempate o madri di numerosa prole, quando credono che commetterebbero peccato grave soltanto se rifiutassero quasi sempre il debito coniugale al marito, oppure se il marito corresse il pericolo di peccare gravemente. — In genere sarà bene, di solito, richiamare l’attenzione delle donne sulla gravità del loro obbligo, ed esortare invece gli uomini alla moderazione.

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II. Esistono cause che scusano dal prestare il debito coniugale:

1° In caso di adulterio dell’altra parte.

L’adulterio però deve essere certo; deve inoltre essere stato commesso scientemente e volontariamente. In caso di violentazione, quindi, non si dà causa scusante. Infine occorre che l’adulterio non sia stato ancora perdonato, per es., mediante volontaria prestazione del debito coniugale, nonostante la conoscenza dell’adulterio stesso.

2° Se il marito è trascurato nel dovere di mantenere la moglie e i figli.

Quando il marito sciupa il guadagno in gozzoviglie e fa ricadere la preoccupazione del mantenimento della famiglia sulla moglie, questa non è tenuta a prestargli il debito coniugale. Ma se la famiglia deve vivere nelle ristrettezze senza colpa del marito, ciò non costituisce motivo alcuno per rifiutare il debito coniugale; come pure, per sé, non è ragione sufficiente il fatto che in caso di prole numerosa la famiglia debba fare qualche maggiore restrizione. — In alcuni casi, lo stesso vale se la moglie manca ai suoi doveri della cura familiare.

3° Nel caso che chi lo chiede manchi dell’uso di ragione.

Non vi è dunque obbligo di prestare il debito coniugale ad un demente o a un individuo molto ubriaco; lo si può fare.

4° In caso di richieste esagerate. Ciò si verifica principalmente quando un coniuge chiede l’atto coniugale con tale frequenza che la costituzione fisica dell’altro non lo può sopportare senza danno piuttosto grave.Il giudizio, in merito, spetta a un medico coscienzioso.

5° In caso di grave pericolo per la sanità o per la vita.

Si hanno cause simili, per es. trattandosi di malattie infettive, di grave mal di cuore, ecc. — Non costituiscono invece causa sufficiente i soliti disturbi congiunti con la gravidanza, col parto o con l’educazione della prole; per es. dolori sia pur forti, ma di breve durata, diuturno mal di capo, ma non eccessivamente forte. Così non è sufficiente motivo il timore, confermato dall’esperienza, che la donna, in caso di concepimento, non porti a termine la gravidanza, ma possa abortire involontariamente o avere un parto morto. — Per maggiori particolari, cfr. n. 766.

6° Per il bene spirituale.

Per maggiori dettagli, cfr. n. 767, e I Cor. 7, 5. — De debito reddendo viro onanistæ, cfr. n. 774.

C. — PECCATI DEI CONIUGI.

I principali peccati gravi che possono commettere i coniugi sono: azioni contro la vita in formazione (cfr. n. 214), adulterii (cfr. n. 227), rapporti coniugali in circostanze che li rendono illeciti (cfr. n. 765 ss.), atti posti senza motivo suffìciente, che hanno grande influsso sulla polluzione, così pure gli atti compiuti con l’intenzione di procurarsi la polluzione (cfr. n. 768 s.), il rifiuto del debito coniugale (cfr. n. 770 ss.); gli atti coi quali viene frustrato il fine principale del matrimonio. — Qui non ci resta che trattare precisamente di questi ultimi peccati. Essi sono: sodomia imperfecta, onanismus, usus mediorum vel instrumentorum, quibus impeditur nesemine rite effuso conceptio sequatur.

I . Sodomia imperfecta, id est concubitus mariti cum uxore in vase præpostero grave peccatum est sive vir in ilio vase seminat, sive semen extra illud frustratur. Excluso affectu sodomitico, non est sodomia nec peccatum mortale si vir copulam incipit in vase praepostero cure animo consummandi copulam in vase naturali, aut si genitalibus tangit vas praeposterum sine periculo pollutionis.

— Positiva cooperatio uxoris ad congressum sodomiticum numquam licita est; ideo saltem interne semper resistere debet. Exteme tamen potest pati concubitum, si eum impedire conatur et tunc solum permittit, quando absque periculo gravissimi mali eum impedire non potest; consensus vero in delectationem veneream est illicitus.

774 II. Onanismus triplici modo perfici potest.

Naturali modo vir copulam incipit, ante seminationem vero se retrahit et semen extra vaginam effundit. Onanismo vir et uxor grave peccatum committunt. Quia vero ante abruptionem copulæ nihil fit quod sit illicitum, uxori cooperatio materialis (cfr. n. 149) ex causa mediocriter gravi licita est. Tales causæ sunt: pax domestica, timor ne maritus adulteria committat. Si grave est uxori carere copula, licite eam petit a viro onanista (rationem cfr. n. 146). Uxor delectationi venereæ inde ortæ consentire potest, non vero peccato viri. Aliquando vero ex caritate monere debet maritum, ne peccet; excusatur ab hac monitione ob grave periculum dissidii vel indignationis, etc. — Obligatio reddendi debitum viro onanistæ non existit, excepto casu, in quo uxor ad debitum ex caritate obligatur, v. g. ut dissidia præcaveat vel virum a commercio adulterino avertat.

— Abruptione copulæ grave peccatum committitur, etiamsi solummodo uxor seminaverit, excepto casu necessitatis, v. g. si maritus hac vice seminare non potest.

Abruptio copulæ non est peccatum: a) si improvisa necessitas adest, v. g. propter adventum tertii; b) si fit communi consensu ex rationabili causa et in neutro coniuge periculum pollutionis adest; est enim hoc in casu solummodo tactus impudicus (de quo cfr. n. 768); alterutra parte invita, grave peccatum est, etiamsi periculum pollutionis non adesset.

Instrumento vel involucro quodam (vulgo condom) efficitur, ne semen vaginam attingere possit. Hic modus copulæ jam ab initio omnino illicitus est; ideo uxor ne materialiter quidem cooperari potest; sed se gerere debet, sicut in casu in quo vir sodomiam intendit. — Idem dicendum est de introductione alicuius « pseudovaginæ ».

775

Usu quorundam mediorum vel instrumentorum impeditur, quominus semine intra vaginam effuso conceptio sequatur. Artes quibus mulieres potissime utuntur, sunt praecipue sequentes: a) lavant irrigatore vaginam interiorem, ut semen expellant; b) spargunt per vaginam substantiam chemicam, qua sperma occidatur; c) comprimunt vaginam, ut exprimant semen; d) surgunt, ambulant, saltant, laborant vel mingunt, ut semen expellant; e) ante copulam aliquo medicamento vel instrumento (pessario) claudunt os uteri, ne semen ascendat in uterum.

a) Mulier, quae semen expellere vel eius ascensum in uterum impedire vult, graviter peccat. Excipitur solummodo femina vi vel dolo oppressa, quæ antequam conceptio facta est, expellere vel necare potest semen, quia semen (in casu) comparatur iniusto aggressori. Minctio post copulam non impedit conceptionem, quamobrem non est peccatum; intentione prava tamen mulieres graviter peccare possunt. — Exclusa prava intentione, lotio vaginalis jam post unam vel alteram horam a copula licita videtur, cum generationem non impediat; statim post copulam vero illicita est, etsi fiat ad dolores acerbos compescendos.

b) Vir tota sua auctoritate maritali uti debet, ne uxor adhibeat istas artes. Si uxorem impedire non potest, quominus istis mediis utatur, maritus se gerere potest simili modo ac uxor respectu viri onanismo dediti. Hoc paucis auctoribus etiam licitum esse videtur in casu, in quo uxor os uteri claudit, v. g. ope illius instrumenti, quod vocatur « pessarium ».

Nota. — Trattamento degli onanisti in confessione.

a) L’obbligo d’interrogare esiste per sé tutte le volte che v’è un sospetto fondato. In simili casi la domanda può suonare per es.: « Non Le rimorde per nulla la coscienza circa la santità del matrimonio? » — « Non è avvenuto nulla contro il fine del matrimonio? »; o altre secondo l’uso di buoni sacerdoti nelle diverse regioni.

b) E necessario istruire il penitente circa la gravezza di questo peccato, anche se finora è stato in buona fede. Veramente ai nostri tempi difficilmente vi sarà la buona fede, salve circostanze molto scabrose: per es. quando un medico di coscienza ha dichiarato che una nuova gravidanza metterebbe a repentaglio la vita della donna. In tal caso si può lecitamente omettere l’istruzione, se si prevede che altrimenti i peccati materiali non farebbero che diventare formali.

c) Chi non ha la volontà risoluta di evitare il peccato, non è disposto, e non può essere assolto. — Non essendo mai lecito far ciò che è intrinsecamente cattivo, ne segue che l’onanismo nel matrimonio è grave peccato anche quando i coniugi (caso rarissimo del resto) dovessero altrimenti vivere sempre in continenza. Come a nessuno, nelle persecuzioni contro i Cristiani, fu lecito rinnegare la propria fede per non essere ucciso fra spaventosi tormenti, così non è lecito l’onanismo per non dover vivere in perpetua continenza. Quali sacrifici eroici non esigono sovente gli Stati moderni! E allora anche Dio può certamente esigere che noi facciamo sacrifici per il Cielo. Del resto, Dio dà anche le grazie corrispondenti al sacrificio da Lui richiesto. L’uomo, certo, deve avere tanto spirito di sacrificio da impegnarsi a chiedergliele (cfr. discorso

di Pio XII alle ostetriche, 29 ott. 1951).

d) recidivi, che assicurano di avere il miglior proposito, devono essere trattati come i recidivi che si trovano nell’occasione prossima di peccato; e precisamente, se di fatto non possono più aver figli, per es. a causa di malattia della moglie o di una povertà che è indigenza, devono considerarsi in occasione prossima necessaria di peccato (cfr. n. 617); quelli invece che per ripugnanza al sacrificio, ecc. non vogliono più avere figli, si devono trattare come persone nell’occasione prossima libera del peccato (cfr. n. 616).

e) Secondo l’opinione dei medici il concepimento si verifica soltanto quando l’atto coniugale si compie in tempi determinati. – Non peccano i coniugi facendo l’atto coniugale anche nei tempi agenesici. Ma se essi, sempre e deliberatamente, senza un grave motivo, hanno rapporti coniugali soltanto nei periodi infecondi, peccano contro il senso stesso della vita coniugale. Tuttavia, l’osservanza dei tempi infecondi o agenesici, per motivi proporzionati (sanitari, eugenici, economici, sociali), di comune accordo è lecita, fino a tanto che sussistono tali motivi (cfr. discorso di Pio XII alle ostetriche, 29 ott. 1951 e quello al «Fronte della Famiglia », 29 nov. 1951). — Circa la precisazione di questi periodi agenesici, però, i medici stessi non sono ancora pienamente d’accordo. Negli ultimi tempi guadagna sempre più terreno l’opinione che gli ultimi undici giorni precedenti la prossima mestruazione siano fisiologicamente sterili e che la concezione si verifichi soltanto quando l’atto coniugale ha luogo nel tempo che decorre dal 19° al 12° giorno precedente la prossima mestruazione. Ma poiché alcune donne non hanno un ciclo mestruale regolare e in certi casi possono aggiungersi anche dei turbamenti patologici, il  confessore si guardi dall’entrare in spiegazioni del genere, ma invìi le persone, che per validi motivi non desiderano più figli, a un medico competente e coscienzioso, il quale indicherà loro esattamente i giorni in cui devono vivere in continenza. Certamente è questo uno dei punti più delicati del ministero pastorale; Pio XI nella Enc. « Casti Connubii » (31 dic. 1930; AAS, XXII, 1930, p. 539-592) e Pio XII nel discorso alle ostetriche (29 ott. 1951) e in quello al « Fronte della Famiglia » (29 nov. 1951) hanno richiamato con energia e chiarezza la dottrina cattolica della santità del matrimonio cristiano contro tutte le recenti teorie e pratiche materialistiche.

OCCASIONI

616 E. — CONFESSIONE DI OCCASIONARI E ABITUDINARI E RECIDIVI.

I . Occasionari — 1° Nozione di occasione. Per occasione s’intende una circostanza esterna al soggetto che alletta qualcuno al peccato, rendendone facile l’esecuzione. Qui non si tratta dell’occasione remota, ma soltanto della prossima, di quell’occasione cioè alla quale è congiunto un pericolo grave che uno pecchi, sia che cadano generalmente tutti gli uomini (occasione assoluta) sia che vi cada sempre o quasi sempre un individuo determinato per le sue particolari disposizioni (occasione relativa). — Non si tiene qui conto dell’occasione remota, essendo lecito esporsi ad essa per un motivo ragionevole. L’occasione prossima può essere volontaria o necessaria. La prima si può facilmente evitare; schivare la seconda è fisicamente o moralmente impossibile per causa del grave danno alla vita, alla sanità, alla riputazione, che ne deriverebbe. Un’occasione prossima necessaria di peccato è per es. una relazione, in cui sia in vista un prossimo matrimonio; la convivenza coniugale, dei figli, ecc.

Assoluzione di chi si trova nell’occasione prossima di peccato.

a) Chi non vuole evitare l’occasione prossima volontaria di peccato, non può essere assolto.Ciò vale anche quando con la preghiera ecc. si vorrebberendere l’occasione remota.

Chi promette sinceramente di evitare subito l’occasione, può essere assolto subito. — Chi mancò più volte a questa promessa, dimostra che ha disposizioni dubbie; d’ordinario quindi non può essere nuovamente assolto, se prima non abbia allontanata l’occasione (cfr. n. 614). — Se il levare l’occasione (supposta volontaria) importa grandi sforzi morali (licenziamento di persona, disdetta d’un servizio) si può fin dalla prima volta differire l’assoluzione fino a quando l’occasione sarà tolta.

b) Chi non lascia l’occasione prossima necessaria, ma usando i mezzi idonei vuol renderla remota,può essere assolto.Tali mezzi possono essere destinati ad accrescere le forzespirituali (preghiere, sacramenti, meditazione delle veritàeterne) od a diminuire le forze dell’occasione (custodia degliocchi, contegno molto riservato con quella persona, schivaredi trovarsi da soli con essa).Chi non ostante l’uso dei mezzi ricade sempre dinuovo, non può essere costretto ad abbandonare l’occasionea qualunque costo; si deve però esigere con insistenza che usicon più energia i mezzi convenienti. — Ma se questa occasionelo ponesse nel pericolo prossimo di eterna dannazione, per sé dovrebbe troncarla anche a costo della propriavita. — Non può essere assolto colui che non vuole usare imezzi convenienti per rendere remota l’occasione prossimanecessaria.

Nota.

Fra l’occasione remota e l’occasione prossima vi sono diversi gradi intermedi; quanto maggiore è il pericolo di peccare, tanto più gravi devono essere i motivi che disobbligano dall’abbandonare l’occasione. – Chi senza motivo sufficiente non evita un’occasione che non è propriamente remota, ma neppure è ancora prossima, commette almeno peccato veniale.

II. Peccatore abitudinario si dice colui che, durante un periodo piuttosto lungo di tempo, cade sovente nei medesimi peccati, senza che tra i singoli peccati vi sia un intervallo troppo grande. Nel giudicare di una abitudine si deve tener conto anche dell’indole del peccatore e della natura del peccato. Si distingue dal recidivo principalmente per questo che non è ricaduto ancora di continuo nei medesimi peccati dopo varie confessioni. L’abitudinario per sé deve essere assolto subito, anche se non è preceduta alcuna emendazione, purché sia realmente ben disposto.

III. Recidivo dicesi chi, non ostante ripetute confessioni, ricade sempre negli stessi peccati senza sforzarsi seriamente di correggersi.

Per assolverlo per sé si devono applicare le regole generali. La difficoltà sta appunto nel verificare se di fatto sia ben disposto.

Come norma: è ben disposto chi cade soltanto per fragilità; chi in genere sente orrore del peccato e lotta contro la tentazione e subito dopo la caduta detesta la sua azione (ciò accade spesso in chi pecca di polluzione). Si può rilevare se uno sia ben disposto, e ciò con facilità, chiedendogli non soltanto quante volte sia caduto, ma anche quante volte abbia resistito alla tentazione. — Di solito sono mal disposti quei recidivi che hanno un persistente attacco all’oggetto peccaminoso (relazione illecita, attacco alla cosa rubata, sistema dei due figli e non più). Tuttavia se vi sono segni positivi che un tale individuo sia ora più seriamente pentito che nelle confessioni precedenti, si può ammettere in lui una disposizione sufficiente. – In caso di disposizione dubbia, si devono ordinariamente assolvere quelli che peccano per debolezza, poiché è ad essi necessaria la grazia dei Sacramenti. — Si deve invece di solito rifiutare l’assoluzione a quanti ricadono nel peccato, perché non vogliono compiere il loro dovere (per es. restituire, troncare una relazione illecita).

97 – Il peccato in genere.

I. Nozione. Il peccato è la volontaria trasgressione di una legge divina. Poiché ogni legge è un’emanazione della legge divina, così anche la trasgressione di qualunque legge costituisce peccato.

I requisiti che costituiscono un peccato, sono: a) la trasgressione di una legge, almeno di una legge ritenuta per tale; b) la cognizione della trasgressione (basta però una cognizione confusa); c) il libero consenso.

Tali elementi costituiscono il peccato formale; il quale si distingue dal peccato materiale, che è la trasgressione di una legge senza saperlo né volerlo; tale trasgressione non viene da Dio attribuita come colpa; ma dalla società, in certi casi, si è citati a rispondere di dette azioni.]

ERIBERTO JONE O. F. M. Cap.:

COMPENDIO DI TEOLOGIA MORALE

Trad. dalla 14° edizione tedesca a cura dei Frati Minori Cappuccini della Provincia di Lombardia. –

MARIETTI Ed. 1952

Nihil obstat, ex parte Ordinis, quosimus imprimatur. Romæ, 12 dec. 1951

Fr. CLEMENS A. MILWAKEE

Min. Gen. O. F. M. Cap.

Imprimatur

Casali, 30 dec. 1951.

Ca. Laurentius Oddone, Vic. Gen.

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II. ACQUA BENEDETTA

L’acqua santa è “l’acqua benedetta da un sacerdote con una preghiera solenne, per chiedere la benedizione di Dio a coloro che la usano e la protezione dai poteri delle tenebre”. È un sacramentale molto importante della nostra Chiesa.

L’acqua è l’elemento naturale per la purificazione, e il suo uso simbolico per indicare la purificazione interiore era comune a molte antiche religioni: greca, romana, egiziana e altre; ed è così usata pure dai bramini dell’India, dagli indiani d’America e dagli altri pagani del tempo presente. Tra gli ebrei, le leggi di Mosè (contenute nei libri dell’Esodo e del Levitico nell’Antico Testamento), ingiungevano l’aspersione delle persone, i sacrifici, i vasi sacri, ecc .; e la nostra Chiesa ha seguito molte di queste pratiche ebraiche.

C’è una tradizione secondo cui l’acqua santa era usata dall’Apostolo San Matteo, ma questo è incerto. È stato riportato da alcuni all’inizio del secondo secolo e il suo uso è diventato più tardivo.

I tipi di acqua santa.

Ce ne sono di quattro tipi, ognuno benedetto in un modo diverso. Sono i seguenti:

1. L’acqua battesimale, che è benedetta il Sabato Santo, e può anche essere benedetta alla vigilia di Pentecoste. L’olio dei catecumeni e il santo crisma si mescolano con essa. (Lezione 41.) È usata solo nell’amministrazione del Battesimo.

2. Acqua di consacrazione, o acqua gregoriana, così chiamata perché il suo uso fu ordinato da Papa Gregorio IX. È usato nella consacrazione delle chiese ed ha vino, ceneri e sale mescolati con esso.

3. Acqua di Pasqua, così chiamata perché distribuita alle persone il Sabato Santo, la vigilia di Pasqua.

Una parte di quest’acqua è usata per riempire il fonte battesimale, benedetta come acqua battesimale; il resto è dato ai fedeli. In alcuni paesi quest’acqua viene usata dal clero per la solenne benedizione delle case il Sabato Santo.

4. Acqua santa ordinaria, benedetta dal Sacerdote per l’aspersione del popolo prima della messa e per l’uso alla porta della chiesa. Può essere usata anche per la benedizione di persone e cose, in chiesa e a casa. Il sale si mescola con essa – usanza che risale probabilmente al secondo secolo.

Questa acqua santa e l’acqua di Pasqua sono quindi le uniche varietà di acqua santa che riguardano direttamente i fedeli. Sono santificate da diverse formule, ma il loro valore e i loro usi sono quasi gli stessi.

Gli usi dell’Acqua santa.

Essa viene usata in quasi tutte le benedizioni rituali della Chiesa, nelle cerimonie del Matrimonio e nell’Estrema Unzione, nel dare la Santa Comunione agli ammalati e negli uffici  dei defunti.

Per uso in funzioni di chiesa è generalmente contenuto in un vaso a forma di scodella con una maniglia oscillante, provvisto di un irrigatore.

Le aspersioni.

Vi è l’aspersione della gente la domenica prima della Messa principale nella chiesa parrocchiale.

Prende il nome dalla prima parola (in latino) del versetto 9 del Salmo 50, versetto recitato dal Sacerdote e cantato dal coro durante questa cerimonia durante la maggior parte dell’anno: “Asperges me hyssopo et mundabor, lavabis me et super nivem dealbabor”.

Gli “Asperges” risalgono al IX secolo. È destinato a rinnovare in noi ogni domenica il ricordo del nostro Battesimo e a scacciare tutte le distrazioni nel corso della Messa.

In questa cerimonia, l’acqua santa non deve realmente toccare ogni persona nella chiesa. L’intera assemblea è benedetta insieme e tutti ricevono la benedizione, anche se l’acqua non può raggiungere ogni individuo.

Durante il periodo pasquale (dopo Pasqua) al posto degli “Asperges” viene cantato il “Vidi aquam”.

L’usanza di porre l’acqua santa alla porta della chiesa in un fonte di acqua santa è molto antica – probabilmente risalente al secondo secolo. Tra gli Ebrei era richiesta una cerimonia di purificazione prima di entrare nel Tempio, e la pratica cattolica potrebbe essere stata suggerita da questo uso. Nel Medioevo era consuetudine usare l’acqua santa solo quando si entrava in chiesa, e non quando si usciva,  per indicare che la purificazione era necessaria prima di entrare, non dopo aver assistito alla Messa. Al giorno d’oggi l’acqua santa può essere usata sia entrando e uscendo, specialmente quando si guadagna un’indulgenza ogni volta che viene usata.

La benedizione con l’acqua santa. Questo di solito viene fatto poco prima della Messa principale di domenica, ma può essere fatto in qualsiasi altro momento. Il prete legge diverse preghiere, tra cui un esorcismo del sale e dell’acqua, dopo di che il sale viene messo nell’acqua sotto forma di una triplice croce, nel nome delle Persone della Trinità.

Un esorcismo è una preghiera destinata a liberare persone o cose dal potere del Maligno.

Il simbolismo dell’acqua santa.

L’acqua è usata per la pulizia e per spegnere il fuoco; il sale è usato per preservare dalla decomposizione. Perciò la Chiesa li combina in questo Sacramentale, per esprimere il lavaggio delle macchie del peccato, la tempra del fuoco delle nostre passioni e la conservazione delle nostre anime dalle ricadute nel peccato.

Il sale è anche un simbolo di saggezza. Nostro Signore chiamò i suoi Apostoli “il sale della terra”, perché dovevano istruire l’umanità.

L’indulgenza.

C’è un’indulgenza di cento giorni nell’usare l’acqua santa.

Pio IX lo rinnovò nel 1876, a queste condizioni:

1. Il segno della croce deve essere fatto con l’acqua santa.

2. Dobbiamo dire: “Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”.

3. Dobbiamo avere contrizione per i nostri peccati.

4. Per questa, come per ogni indulgenza, dobbiamo essere nello stato di grazia.

THE VISIBLE CHURCH

BY Rt. Rev. JOHN F. SULLIVAN, D.D.

A TEXT-BOOK FOR CATHOLIC SCHOOLS

NEW YORK, P. J. KENEDY & SONS

PUBLISHERS TO THE HOLY APOSTOLIC SEE

Nihil Obstat: ARTHURUS J. SCANLAN, S.T.D. Censor Librorum

Imprimatur: Patritius J. Hayes, D.D. Archiepiscopus Neo-Eboracensis

Neo-Eboraci die 5, Aprilis 1921.

Copyright, 1920, 1922, by P. J. Kenedy & Sons, New Yobk

Printed in U. S. A.

Lesson 33

HOLY WATER, p.p. 125-129

Aqua benedicta è un sacramentale molto importante della Chiesa cattolica.

Nel Rituale Romanum “Aqua benedicta” è normalmente tradotta come “Acqua Santa”, cioè acqua santificata attraverso il rito prescritto, che consiste in un esorcismo del sale, la benedizione del sale, l’esorcismo dell’acqua, la benedizione dell’acqua, la miscelazione del sale con l’acqua con la formula prescritta e una raccolta finale.

Aqua benedicta può anche essere tradotto letteralmente: “Acqua benedetta”.

Il legittimo ministro di quel sacramentale è un Sacerdote (Sacerdos), non un laico.

La procedura descritta di seguito non è un sacramentale approvato dalla Chiesa. Se avesse avuto l’approvazione ufficiale, sarebbe nel Rituale Romano, che non lo è.

Invece, sembra una superstizione. Quindi, le seguenti istruzioni superstiziose su come i laici possano ottenere “l’acqua benedetta”, cosa che non è approvata dalla Chiesa, devono essere respinte:

CAN. 1148

1. In Sacramentalibus conficiendis seu administrandis accurate serventur ritus ab Ecclesia probati.

2. Consecrationes ac benedictiones sive constitutivae sive invocativae invalidae sunt, si adhibita non fuerit formula ab Ecclesia praescripta.

Nell’eseguire o amministrare i Sacramentali, i riti approvati dalla Chiesa devono essere attentamente osservati.

Le consacrazioni e le benedizioni, quelle chiamate costitutive, così come quelle chiamate invocative, non sono valide se non sono state impiegate le formule prescritte dalla Chiesa.

Per la maggior parte di queste benedizioni, la Chiesa ha prescritto determinati riti o formule, che sono tutti contenuti nel rituale romano, e dovrebbero essere seguiti attentamente e accuratamente, senza mescolanze di cerimonie frivole o l’uso di oggetti inadatti. Questo vale soprattutto per le preghiere prescritte per gli esorcismi.

A COMMENTARY ON THE NEW CODE OF CANON LAW

By THE REV. P. CHAS. AUGUSTINE, O.S.B., D.D.

Professor of Canon Law

BOOK III

De Rebus, or Administrative Law

VOLUME IV

On the Sacraments (Except Matrimony) and Sacramental

(Can. 726-1011, 1144-1153)

B. HERDER BOOK CO.

17 SOUTH BROADWAY, ST. Louis, Mo.

AND 68, GREAT RUSSELL ST., LONDON, W. C.

1920

CUM PERMISSU SUPERIORUM

NIHIL OBSTAT Sti. Ludovici, die 11 Martii, 1920. F. G. Holweck, Censor Librorum.

IMPRIMATUR Sti. Ludovici, die 12. Martii, 1920. +Joannes J. Glennon,

Archiepiscopus, Sti. Ludomci.

Copyright, 1920 by Joseph Gummersbach

All rights reserved. Printed in U. S. A. pp. 565, 566

Nostro Signore Gesù Cristo ci ha dato un mezzo facile per ottenere la Sua benedizione per il nostro cibo e la nostra bevanda, e questa è la preghiera di ringraziamento prima e dopo i pasti.

RINGRAZIAMENTO PRIMA DEI PASTI

Benedic, Domine, nos et hæc tua dona, quæ de tua largitate sumus sumpturi. Amen.

Mensæ cœlestis particepes faciat nos, Rex æternæ gloriæ. Amen.

[Benedici noi, o Signore, e questi tuoi doni, che stiamo per ricevere dalla Tua generosità. Per Cristo nostro Signore. R. Amen. – Il Re dell’eterna gloria ci faccia partecipi della mensa celeste. Amen.]

RINGRAZIAMENTO DOPO I PASTI

Agimus tibi gratias, omnipotens Deus, pro universis beneficiis tuis: qui vivis et regnas in sæcula sæculorum. Amen.

[Ti rendiamo grazie, O Dio Onnipotente, per tutti i Tuoi benefici. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen.]

Degnati, o Signore, di ricompensare con la vita eterna tutti quelli che ci fanno del bene per il tuo nome. R. Amen.

V. Benedici il Signore.

R. Grazie a Dio.

Possano le anime dei fedeli defunti, per la misericordia di Dio, riposare in pace.

R. Amen.

A MANUAL OF PRAYERS

FOR THE USE OF THE CATHOLIC LAITY PREPARED AND PUBLISHED BY ORDER OF THE THIRD PLENARY COUNCIL OF BALTIMORE

New York: The Catholic Publication Society Co., 9 Barclay Street. London: Burns & Oates, Limited

The Prayer Book ordered by the Third Plenary Council of Baltimore, having been diligently compiled and examined, is hereby approved.

+ James Card. Gibbons, Archbishop of Baltimore, Apostolic Delegate. Baltimore, May 17, 1889.

Imprimatur. + Michael Augustine, Archbishop of New York

Copyright, 1888, BY CLARENCE E. WOODMAN. pp. 58,59

AN ACT OF SPIRITUAL COMMUNION – L’ATTO DI COMUNIONE SPIRITUALE.

AN ACT OF SPIRITUAL COMMUNION

L’ATTO DI COMUNIONE SPIRITUALE

To the faithful who make an act of spiritual Communion, using any formula they may choose, there is granted:

 An indulgence of 3 years;

A plenary indulgence once a month on the usual conditions when the act is performed every day of the month (S. P. Ap., Mar. 7, 1927 and Feb. 25 1933).

The following forms of prayer are given as example of spiritual Communion:

a) My Jesus, I believe that Thou art present in the Blessed Sacrament. I love Thee above all things  and I desire Thee in my soul. Since I cannot now receive Thee sacramentally, come at least spiritually into my heart. As though thou wert already there, I embrace Thee and unite myself wholly to Thee; permit not that I should ever be separated from Thee.(St. Alphonsus Maria de’ Liguori).

b) At Thy feet, O my Jesus, I prostrate myself and I offer Thee the repentance of my contrite heart, which is humbled in its nothingness and in Thy holy presence. I adore Thee in the Sacrament of Thy love, the innefable Eucharist. I desire to receive Thee into the poor dwelling that my heart offers Thee. While waiting for the happiness of sacramental Communion, I wish to pocess The in spirit. Come to me, O my Jesus, since I, for my part, am coming to Thee! May Thy love embrace my whole being in life and in death. I believe in Thee, I hope in Thee, I love Thee. Amen. (Raphael Cardinal Merry del Val).

THE RACCOLTA
A MANUAL OF INDULGENCES PRAYERS AND DEVOTIONS
IN FAVOR OF ALL THE FAITHFUL IN CHRIST
OR OF CERTAIN GROUPS OF PERSONS AND
NOW OPPORTUNELY REVISED
Edited and in part newly translated into English from the 1950
official edition “Enchiridion Indulgentiarum – Preces et Pia Opera”
issued by the Sacred Penitentiary Apostolic.
By Rev. Joseph P. Christopher, Ph.D.
The Catholic University of America, Washington, D.C.
The Rt. Rev. Charles E. Spence, M.A. (Oxon.),
St. Gregory’s Seminary, Cincinnaty, Ohio
The Rt. Rev. John F. Rowman, D.D.,
St. Charles Seminary, Philadelphia, Pa.
By authorization of the Holy See
BENZIGER BROTHERS, Inc.
PRINTERS TO THE HOLY SEE  AND
THE SACRED CONGREGATION OF RITES
NEW YORK, BOSTON, CINCINNATI, CHICAGO, SAN FARNCISCO
1952. MADE IN U.S.A.
SACRA PAENITENTIARIA APOSTOLICA
OFFICIUM DE INDULGENTIIS
May 30, 1951. The Sacred Penitentiary Apostolic, by virtue of the faculties given it by His Holiness, Pope Pius XII, hereby graciously grants the petition as set forth, provided that His Eminence, the petitioner, is
sure of the fidelity of the translation. All to the contrary notwithstanding: By order of His Eminence.
N. Card. Canali, Major Penitentiary. S. Luzio, Regent
IMPRIMATUR. Francis Cardinal Spellman, Archbishop of New York
IN FESTO SANCTAE FRANCISCAE XAVERII CABRINI, 1951. pp. 95,96

When we cannot go really to Communion we can merit God’s grace by making a spiritual Communion. What is a spiritual Communion? It is an earnest desire to receive Communion. You prepare yourself as if you were really going to Communion; you try to imagine yourself going up, receiving the Blessed Sacrament, and returning to your place. Then you thank God for all His blessings to you as you would have done had you received. This is an act of devotion, and one very pleasing to God, as many holy writers tell us.

I cannot leave this lesson on the Holy Eucharist without telling you something of the devotion to the Sacred Heart of Jesus, now so universally practised and so closely connected with the devotion to the Blessed Sacrament. The Church grants many indulgences, and Our Lord Himself promises many rewards to those who honor the Sacred Heart. But what do we mean by the Sacred Heart? We mean the real natural heart of Our Lord, to which His divinity is united as it is to His whole body. But why do we adore this real, natural heart of Our Lord? We adore it because love is said to be in the heart, and we wish to return Our Lord love, and gratitude for the great love He has shown to us in dying for us, and in instituting the sacraments, especially the Holy Eucharist, by which He can remain with us in His sacred humanity. When Our Lord appeared to Saint Margaret Mary He said: “Behold this Heart, that has loved men so ardently, and is so little loved in return.” The first Friday of every month and the whole month of June are dedicated to the Sacred Heart.

AN EXPLANATION OF THE Baltimore Catechism
of Christian Doctrine
FOR THE USE OF Sunday-School Teachers and Advanced Classes
BY Rev. THOMAS L. KINKEAD
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO:
BENZIGER BROTHERS,
Printers to the Holy Apostolic See
Nihil Obstat. D. J. McMAHON, Censor Librorum
lmprimatur. + MICHAEL  AUGUSTINE, Archbishop of New York
New York, September 5, 1891
Nihil Obstat. ARTHUR J. SCANLAN, S.T.D., Censor Librorum
lmprimatur. + PATRICK J. HAYES, D. D. Archbishop of New York
New York, May 7, 1927
COPYRIGHT, 1891, 1921, BY BENZIGER BROTHERS
Printed in the United States of America
LESSON TWENTY-FOUR
ON THE SACRIFICE OF THE MASS p. 242

Spiritual Communion

Jesus, my Saviour and my God! I am not worthy to appear before Thee, for I am a poor sinner; yet I approach Thee with confidence, for Thou hast said, “Come to Me, all you that labor and are burdened, and I will refresh you.” Thou wilt not despise a contrite and humble heart. I am truly sorry for my sins, because by them I have offended Thee, Who art infinitely good. Whatever may have been my foolish transgressions in the past, I love Thee now above all things, and with all my heart. I desire, good Jesus, to receive Thee in holy communion, and since I can not now receive Thee in the Blessed Sacrament, I beseech Thee to come to me spiritually and to refresh my soul with Thy sweetness.

Come, my Lord, my God, and my All ! Come to me, and let me never again be separated from Thee by sin. Teach me Thy blessed ways; help me with Thy grace to imitate Thy example; to practise meekness, humility, charity, and all the virtues of Thy sacred Heart. My divine Master, my one desire is to do Thy will and to love Thee more and more; help me that I may be faithful to the end in Thy service. Bless me in life and in death, that I may praise Thee forever in heaven. Amen.

Shorter Acts for a Spiritual Communion

I

I BELIEVE that Thou, O Jesus, art in the Most Holy Sacrament! I love Thee and desire Thee! Come into my heart. I embrace Thee; oh, never leave me!

II

My Jesus, I love Thee with my whole heart, and I wish to live always united to Thee. As I can not now receive Thee sacramentally, I receive Thee in spirit. Come, then, into my soul; I embrace Thee, and I unite my entire self to Thee; and I beseech Thee never more to allow me to be separated from Thee.

III

O my Jesus, living in the blessed Eucharist,  come and live in my heart in the might of Thy love, by which all within me may become transformed. Reign in me over all my faculties, so that I may no longer live or act but by Thy life and movement. Be Thou, O my Love, the Life of my life, that so each day my heart may become more and more like Thine.

IV

My sweet Jesus, come into my poor heart and remain with me. Poor as it is, may it be to Thee a sanctuary from those who hate Thee, as Thy Heart is to me a refuge and a sanctuary from my enemies.

V

My heart is ready, O my Jesus, to receive Thee. Enter, and stay with me, for the day is far spent. Tribulation draws nigh and there is none to help, but if Thou art with me, I shall not fear.

WITH GOD A Book of Prayers anb Reflections
By Rev. F.X. Lasance
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO:
BENZIGER BROTHERS, Printers to the Holy Apostolic See 1911
Nihil Obstat. Remy Lafort, Censor Librorum.
lmprimatur. + JOHN M. FARLEY, Archbishop of New York
New York, June 7, 1911.
Copyright, 1911, by Benziger Brothers.
pp. 644-647

From the Most Rev. William Henry Elder, D. D., Archbishop of Cincinnati.

” … With very particular pleasure I welcome your new edition of Goffine’s Instructions, with an introduction by His Eminence Cardinal Gibbons. And I am glad that you offer it at a reduced price, for it is a book that I commonly recommend all our families to procure and keep and use diligently. Particularly for families living at a distance from church, and not able to attend Mass regularly, GOFFINE’S INSTRUCTIONS for the Sundays and Festivals will help them more than any other book that I know of to sanctify the Sunday in the spirit of the Church …”

From the Right Rev. John Dunne, D.D., Bishop of Wilcannia, Australia.

” … The edition is indeed worthy of your well-known firm, and reflects the highest credit on it. To the isolated family unable to hear Holy Mass on Sunday, it is especially to be recommended for devotion and instructions … “

From the Right Rev. N. Z. Lorrain, P.P., Vicar Apostolic of Pontiac, Ont.

” … No better book can be recommended to Catholic families, particularly to those living far away from the church, and, consequently, are unable to attend Mass every Sunday. I will do my best to have this good and instructive book introduced among the Catholic families of the Vicariate … “

A METHOD OF HEARING MASS SPIRITUALLY,

WHICH MAY BE USED BY THOSE WHO ARE PREVENTED
FROM GOING TO CHURCH.

A GOOD INTENTION BEFORE MASS.

I BELIEVE, Lord Jesus, that in the Last Supper Thou didst offer up a true sacrifice; I believe it because Thou hast made it known to us through the Catholic Church, which from the apostles’ times has constantly taught it to us. Since Thou didst command the apostles and the priests ordained by them, to do the same till the end of time, I therefore offer to Thee, with the priest, this holy sacrifice of the Mass (which I believe to be one with that offered on Mount Calvary), to Thy honor and glory, in acknowledgment of my most bounden service, in thanksgiving for the innumerable benefits which Thou hast con ferred upon me and upon the whole world, in satisfaction for my sins and the sins of all mankind, and for obtaining the grace of perfect contrition for my sins. I also offer to Thee this holy Mass for my friends, benefactors, for those for whom I am bound, and for whom Thou wiliest me to pray. I also offer it for my enemies, that they may be converted, for all the faithful departed, particularly for my parents and relatives, and for the welfare of all Christendom.

I. HEARTFELT DESIRE TO PARTICIPATE IN THE HOLY SACRIFICE.

Most Holy Trinity, God, Father, Son, and Holy Ghost, almighty source of all things; my best Father, my merciful Redeemer, the Fountain of my sanctification and happiness, I, Thy most unworthy creature, venture to appear before Thee, to show Thee, my true God and Creator, all honor, adoration, and trustful submission; to thank Thee for the innumerable benefits which I have received from Thee; to praise Thee for Thy glory (for I am created for Thy praise); to implore Thy mercies, and to appease Thy justice, because I have so often and so grievously sinned against Thee. All this I cannot do in a worthier and more perfect manner than by hearing, with faith and devotion, holy Mass. For in that holy sacrifice is offered to Thee the most sublime sacrifice of praise and thanksgiving, the most efficacious sacrifice of supplication and propitiation, the most worthy sacrifice of salvation for the living and the dead. But because I cannot this day be present bodily at the holy Mass, I will, at least in spirit, place myself before the altar where Jesus Christ in an unbloody manner offers Himself, O heavenly Father, to Thee. With this glorious sacrifice I unite my present prayer; I fervently desire, united with the Son of God, in the strongest manner to praise, love, supplicate Thee, O heavenly Father, to repair all the wrong and shame that I have wrought, and com pletely to accomplish all that can be accomplished by the holy sacrifice of the Mass. To this end give me Thy divine grace, and grant that I may perform all this with sincere devotion. Amen.

II. CONTRITION FOR SINS, WITH FAITH AND CONFIDENCE IN
JESUS CHRIST, AND AN OFFERING OF HIS PRECIOUS MERITS.

Holy Father, I confess with sorrow that I have seldom served Thee with an undivided heart, but rather have often offended Thee, and by my slothfulness and neglect have brought upon myself infinitely great guilt before Thee. I therefore take refuge in the merits of Thy beloved Son, now present upon the altar, Who so freely commends and imparts to us His grace and favor. In the holy sacrifice of the Mass Jesus offers to Thee, for me, the highest veneration and love, the most perfect praise, the most hearty thanksgiving, and the most kind expiation. For the perfect forgiveness of my sins, O heavenly Father, I offer to Thee the whole suffering and death of Jesus Christ, which now, in an unbloody manner, is renewed upon the altar. O most benign Father, Thy Son has suffered and died even for me, a poor sinner. With thankful love I bring before Thee as a precious and pleasing offering, the infinite merits of His suffering and death. I firmly trust that, on account of this inestimable sacrifice of Thy Son, Thou wilt not regard my guilt, and that Thou wilt increase in me Thy graces. Amen.

O Father of mercies, and God of all consolation, to Thee I turn for help and grace. Graciously look upon my misery and wretchedness, and let my supplications come before Thee. That I may the more surely be heard by Thee, I appear before the throne of Thy grace, which for our salvation, is set up in the holy sacrifice of the Mass, where the innocent Lamb of God is mysteriously offered up to Thee, holy Father, Almighty God, for the remission of our sins. Regard, I beseech Thee, the innocence of this holy sacrifice, and for the sake thereof extend to me Thy mercy. O my Saviour, how great is Thy love for me which, to make satisfaction for my sins, and to gain me the grace of Thy Father, impelled Thee to endure for me such bitter pains, and even death itself. Oh, how great is yet Thy love for me, which causes Thee, in every holy Mass to renew, in an unbloody manner, Thy death of propitiation, in order to apply and communicate to me Thy merits. With my whole heart I thank Thee for Thy great love, and from the depths of my soul I beseech Thee to make me a partaker of the fruits of it, and to strengthen and confirm me by the grace of the Holy Ghost, that I may detest sin and all unholy living, that I may crucify my flesh, with all its passions, deny myself, and follow in Thy foot steps, that all my thoughts and words, all that I do or leave un done, may be a living service of God, and a sacrifice well pleasing to Him. As Thou hast offered up Thyself to Thy heavenly Father, so take me also in the arms of Thy love and mercy, and present me, a poor erring sinner, as an offering to Thy Father, and let me no more be separated from His love. Amen.

III. ADORATION OF THE MOST HOLY BODY AND BLOOD OF JESUS
CHRIST, UNDER THE APPEARANCES OF BREAD AND WINE.

O most holy Jesus, before Thee the heavenly choirs kneel and adore; with them I lift up my voice and cry. Holy, holy, holy, art Thou, O Lord of hosts. Heaven and earth are full of Thy grace and glory. Thou art present, O Jesus, under the appearances of bread and wine. Hear, O hear my prayer. I strike my breast and confess my unworthiness; but with firm confidence I implore Thee, O Jesus, be merciful to me. O most benign Jesus, forgive me my sins. O holy blood, wash me from my sins. O precious blood of Jesus, O blood of Jesus, rich in grace, cry out to Heaven for mercy upon me. Most holy God, receive this precious blood, together with the love through which it was shed ; receive it as an offering of my love and thankfulness, for the greatest glory of Thy name; for the forgiveness of my sins; in satisfaction of the punishments which I have deserved; for the washing away of the stains of my guilt, as reparation for all my neglects, and as amends for all the sins which I have committed through ignorance or frailty; receive it also as a sacrifice for the consolation of the afflicted; for the conversion of sinners; for the recovery of the sick and suffering; for the strengthening of those who draw near to death; for the refreshment, purification, and deliverance of the souls of the departed in purgatory. Amen.

IV. UNSHAKEN CONFIDENCE IN JESUS CHRIST.

To Thee, O most benign Jesus, I lift up my eyes and my heart. Oh, turn upon me Thy gracious countenance, and Thy true love. Behold, O Lord, my manifest need, and the great danger of my soul. Oh, receive me, Thou Who art my only true mediator and helper. Be Thou, through the holy sacrifice of the Mass, my salvation, and obtain for me the entire remission of my sins. Oh, represent to Thy Father how cruelly Thou wast scourged, crowned, crucified, and put to death for us, and thereby reconcile with the strict justice of God me, a miserable sinner. Amen.

Our Father. Hail Mary.

V. HE WHO ASKS IN THE NAME OF JESUS SHALL RECEIVE.

O Lamb of God, Who suffered for us miserable sinners, have mercy upon me, and offer up to the Father Thy passion for the forgiveness of my sins. O Lamb of God, Who died for us miserable sinners, have mercy upon me, and offer up to God Thy death in satisfaction for my sins! O Lamb of God, Who didst sacrifice Thyself for us miserable sinners, have mercy upon me, and offer up Thy holy blood to the Father for the cleansing of my soul. Heavenly Father, I offer to Thee this precious and most worthy oblation. My sins are more in number than the hairs of my head, but, O just and merciful God, lay this precious offering in the one scale and my sins in the other, and that will far outweigh my guilt. O merciful, O holy God, give me Thy blessing before I end my prayer, and through this blessing let me obtain grace at once to begin to amend my life, and to re nounce whatever is sinful and displeasing to thee. Support me in my weakness; strengthen me when temptations assail me, and let me never forget that Thou art near me. O precious day! but perhaps the last of my life. O happy day! if it shall make me better. Holy Mother of God, Mary, holy angels and friends of God, pray for me and lead me in the way of truth. O God, grant Thy love to the living, and Thy peace to the dead. Amen.

GOFFINE’S DEVOUT INSTRUCTIONS
ON THE EPISTLES AND GOSPELS
FOR THE SUNDAYS AND HOLYDAYS;
WITH THE LIVES OF MANY SAINTS OF GOD,
EXPLANATIONS OF CHRISTIAN FAITH
AND DUTY AND OF CHURCH CEREMONIES,
A METHOD OF HEARING MASS, MORNING AND EVENING PRAYERS,
AND A DESCRIPTION OF THE HOLY LAND.
WITH A PREFACE BY HIS EMINENCE JAMES, CARDINAL GIBBONS,
ARCHBISHOP OF BALTIMORE.
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO
BENZIGER BROTHERS
Printers to the Holy Apostolic See
PUBLISHERS OF BENZIGER’S MAGAZINE
Nihil Obstat. THOMAS L. KINKEAD, Censor Librorum.
lmprimatur. + MICHAEL AUGUSTINE, Archbishop of New York.
New York, April 29, 1896.
Copyright, 1896, by BENZIGER BROTHERS
APPROBATIONS from sixty one Catholic bishops.
pp. 508-512

UN ATTO DI COMUNIONE SPIRITUALE

Ai fedeli che compiono un atto di comunione spirituale, usando qualsiasi formula che vogliano scegliere, si concede:

 Un’indulgenza di 3 anni;

Iindulgenza plenaria una volta al mese alle solite condizioni, se recitato per ogni giorno del mese (S. S. Pænit. Ap., 7 marzo 1927 e 25 febbraio 1933).

Si propongono le seguenti formule di preghiera come esempio di comunione spirituale:

a) Mio Gesù, credo che Voi siate presente nel Santissimo Sacramento. Vi amo sopra ogni cosa e Vi desidero nella mia anima. Poiché non posso ora ricevervi sacramentalmente, venite almeno spiritualmente nel mio cuore. Come già venuto, vi abbraccio e mi unisco a Voi; non permettere che io mi abbia a separare da Voi. (Sant’Alfonso Maria de’ Liguori).

b) Ai vostri piedi, o mio Gesù, mi prostro e vi offro il pentimento del mio cuore contrito, che è umiliato nel suo nulla e nella vostra santa presenza. Vi adoro nel Sacramento del vostro amore, l’ineffabile Eucaristia. Desidero ricevervi nella povera dimora che il mio cuore vi offre. Nell’attesa della felicità della Comunione sacramentale, desidero processarvi in  spirito. Venite a me, o mio Gesù, poiché io, per parte mia, vengo a Voi! Che il vostro amore abbracci tutto il mio essere nella vita e nella morte. Io credo in Voi, spero in Voi, vi amo. Amen. (Cardinale Raffaele Merry del Val).

ENCHIRIDION INDULGENTIORUM

PRECES ET PIA OPERA – EDITIO ALTERA

TYPIS POLYGLOTTIS VATICANIS MCMLII

Quando non possiamo materialmente andare alla Comunione, possiamo meritare la grazia di Dio facendo una Comunione spirituale. Cos’è una comunione spirituale? È un desiderio sincero di ricevere la Comunione. Ci si prepara come se si stesse veramente andando alla Comunione; si immagina di andare, ricevere il Santissimo Sacramento e tornare al proprioo posto. Allora si ringrazia Dio per le Sue benedizioni su di noi come se l’avessimo ricevuto. Questo è un atto di devozione molto gradito a Dio, come ci dicono molti santi scrittori.

Non posso lasciare questa lezione sulla Santa Eucaristia senza dirvi qualcosa della devozione al Sacro Cuore di Gesù, ora così universalmente praticato e così strettamente connesso con la devozione al Santissimo Sacramento. La Chiesa concede molte indulgenze e Nostro Signore stesso promette molte ricompense a coloro che onorano il Sacro Cuore. Ma cosa intendiamo per il Sacro Cuore? Intendiamo il vero cuore naturale di Nostro Signore, al quale la Sua divinità è unita come lo è per tutto il Suo corpo. Ma perché adoriamo questo cuore reale e naturale di Nostro Signore? Lo adoriamo perché l’amore si dice che sia nel cuore e desideriamo restituire l’amore del Nostro Signore e la gratitudine per il grande amore che Lui ci ha mostrato morendo per noi e istituendo i Sacramenti, specialmente la Santa Eucaristia, mediante la quale Egli può rimanere con noi nella Sua sacra umanità. Quando Nostro Signore apparve a Santa Margherita Maria le disse: “Guarda questo Cuore che ha amato gli uomini così ardentemente, ed in cambio è così poco amato “. Il primo venerdì di ogni mese e l’intero mese di giugno sono dedicati al Sacro Cuore.

AN EXPLANATION OF THE Baltimore Catechism
of Christian Doctrine
FOR THE USE OF Sunday-School Teachers and Advanced Classes
BY Rev. THOMAS L. KINKEAD
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO:
BENZIGER BROTHERS,
Printers to the Holy Apostolic See
Nihil Obstat. D. J. McMAHON, Censor Librorum
lmprimatur. + MICHAEL  AUGUSTINE, Archbishop of New York
New York, September 5, 1891
Nihil Obstat. ARTHUR J. SCANLAN, S.T.D., Censor Librorum
lmprimatur. + PATRICK J. HAYES, D. D. Archbishop of New York
New York, May 7, 1927
COPYRIGHT, 1891, 1921, BY BENZIGER BROTHERS
Printed in the United States of America
LESSON TWENTY-FOUR
ON THE SACRIFICE OF THE MASS p. 242

Comunione spirituale

Gesù, mio ​​Salvatore e mio Dio! Non sono degno di comparire davanti a Te, perché sono un povero peccatore; eppure mi avvicino a Te con fiducia, poiché Tu hai detto: “Venite a me, tutti voi che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò”. Non disprezzerai un cuore contrito ed umile, sono veramente dispiaciuto per i miei peccati perché con essi ho offeso Te, sei infinitamente buono. Qualunque possa essere stato il mio insensato peccato nel passato, ti amo ora sopra ogni cosa e con tutto il mio cuore, desidero, Gesù buono, di riceverti nella santa Comunione, e poiché non posso ora riceverti nel Santissimo Sacramento, ti supplico di venire da me spiritualmente e di ristorare la mia anima con la Tua dolcezza.

Vieni, mio ​​Signore, mio ​​Dio e mio Tutto! Vieni da me, e non lasciare più che il peccato mi separi da te. Insegnami le tue sante vie; aiutami con la Tua grazia ad imitare il Tuo esempio: praticare la mansuetudine, l’umiltà, la carità e tutte le virtù del Tuo sacro Cuore. Mio divino Maestro, il mio unico desiderio è di fare la Tua volontà e di amarti sempre di più; aiutami ad essere fedele fino alla fine nel Tuo servizio. Benedicimi in vita e in morte, affinché io possa lodarti per sempre nei cieli. Amen.

Brevi atti per una comunione spirituale

I

IO CREDO che Tu, o Gesù, sia nel Santissimo Sacramento! Ti amo e ti desidero! Vieni nel mio cuore. Ti abbraccio; oh, non lasciarmi mai!

II

Mio Gesù, ti amo con tutto il mio cuore e desidero vivere sempre unito a Te. Poiché non posso ora riceverti sacramentalmente, Ti ricevo in spirito. Vieni, quindi, nella mia anima; Ti abbraccio e mi unisco con tutto me stesso a Te; e Ti prego di non permettermi mai più di essere separato da te.

III

O mio Gesù, vivendo nella benedetta Eucaristia, vieni e vivi nel mio cuore nella forza del Tuo amore, mediante il quale tutto in me può essere trasformato. Regna in me in tutte le mie facoltà, affinché io non possa più vivere o agire se non per la vita Tua ed le Tuoi azioni. Sii, o mio amore, la vita della mia vita, così che ogni giorno il mio cuore possa diventare sempre più simile al Tuo.

IV

Mio dolce Gesù, vieni nel mio povero cuore e resta con me. Povero com’è, possa essere per te un santuario per quelli che ti odiano, come il Tuo cuore è per me un rifugio ed un santuario per i miei nemici.

V

Il mio cuore è pronto, o mio Gesù, a riceverti. Entra, e resta con me, perché il giorno è ormai passato . La tribolazione si avvicina e non c’è nessuno che mi possa aiutare, ma se Tu sei con me, e non avrò paura.

WITH GOD A Book of Prayers anb Reflections
By Rev. F.X. Lasance
NEW YORK, CINCINNATI, CHICAGO:
BENZIGER BROTHERS, Printers to the Holy Apostolic See 1911
Nihil Obstat. Remy Lafort, Censor Librorum.
lmprimatur. + JOHN M. FARLEY, Archbishop of New York
New York, June 7, 1911.
Copyright, 1911, by Benziger Brothers.
pp. 644-647

Dal Rev. William Henry Elder, D.D., Arcivescovo di Cincinnati.

“… Con grande piacere, accolgo con favore la nuova edizione delle Istruzioni di Goffine, con un’introduzione di Sua Eminenza, il Cardinale Gibbons. E sono lieto che tu me la offra ad un prezzo ridotto, perché è un libro che raccomando di solito a tutte le famiglie di procurarsi e mantenere ed usare diligentemente. In particolare per le famiglie che vivono distanti dalla chiesa, e non sono in grado di frequentare regolarmente la Messa, le ISTRUZIONI di GOFFINE per la domenica e i giorni festivi li aiuteranno più di ogni altro libro che conosco per santificare la domenica nello spirito della Chiesa … “

Dal Rev. John Dunne, D.D., Vescovo di Wilcannia, Australia.

“… L’edizione è davvero degna della tua nota azienda, e riflette il più alto merito su di essa. È soprattutto da raccomandare per le devozione e le istruzioni … Alla famiglia isolata ed impossibilitata ad ascoltare la Santa Messa della Domenica, “

Dal Rev. N. Z. Lorrain, P.P., Vicario Apostolico di Pontiac, Ont.

“… Nessun miglior libro può essere raccomandato alle famiglie cattoliche, in particolare a coloro che vivono lontano dalla Chiesa, e, di conseguenza, non sono in grado di partecipare alla Messa ogni domenica. Farò del mio meglio per avere questo libro buono e istruttivo introdotto tra le famiglie cattoliche del Vicariato … “

UN METODO PER ASCOLTARE SPIRITUALMENTE LA MESSA CHE PUO’ ESSERE USATO DA COLORO CHE SONO IMPOSSIBILITATI AD ANDARE IN CHIESA

UNA BUONA INTENZIONE PRIMA DELLA MESSA

CREDO, Signore Gesù, che nell’Ultima Cena hai offerto un vero Sacrificio; lo credo perché ce lo hai fatto conoscere attraverso la Chiesa Cattolica, ché dai tempi degli Apostoli ci è stato costantemente insegnato. Poiché Tu hai comandato agli Apostoli e ai Sacerdoti ordinati da loro, di fare lo stesso fino alla fine dei tempi, io Ti offro così, mediante il Sacerdote, questo santo Sacrificio della Messa (che credo sia tuttuno con quello offerto sul Monte Calvario), a Tuo onore e gloria, in riconoscimento del mio servizio più profondo, in ringraziamento per gli innumerevoli benefici che Tu hai conferito a tutto il mondo, in soddisfazione dei miei peccati ed i peccati di tutta l’umanità, e per ottenere la grazia della perfetta contrizione dei miei peccati. Ti offro questa santa Messa per i miei amici, i miei benefattori, per coloro ai quali sono legato e per coloro i quali Tu mi imponi di pregare. La offro anche per i miei nemici, affinché possano convertirsi, per tutti i fedeli defunti, in particolare per i miei genitori e parenti e per il bene di tutta la cristianità.

I. IL DESIDERIO DEL CUORE DI PARTECIPARE AL SANTO SACRIFICIO

Santissima Trinità, Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo, fonte onnipotente di tutte le cose; il mio miglior Padre, il mio misericordioso Redentore, la Fonte della mia santificazione e della mia felicità, io, la tua più indegna creatura, mi permetto di comparire davanti a Te per mostrarmi a Te, mio ​​vero Dio e Creatore: a Te tutto ogni onore, adorazione e sottomissione fiduciosa; per ringraziarti degli innumerevoli benefici che ho ricevuto da Te; per lodarti per la tua gloria (poiché sono stato creato per la tua lode); per implorare la tua misericordia e per placare la tua giustizia, perché ho così spesso e gravemente peccato contro di Te. Tutto ciò non posso farlo che in modo più saggio e più perfetto che ascoltando, con fede e devozione, la Santa Messa. Perché in quel Santo Sacrificio è offerto a Te il sacrificio più sublime di lode e di ringraziamento, il sacrificio più efficace di supplica e propiziazione, il sacrificio più degno di salvezza per i vivi e per i morti. Ma poiché oggi non posso essere presente fisicamente alla santa Messa, lo farò, almeno in spirito, posto davanti all’altare dove Gesù Cristo in modo incruento offre Se stesso, a Te, o Padre celeste. Con questo glorioso Sacrificio unisco la mia attuale preghiera; io desidero con fervore, unito al Figlio di Dio, nel modo più forte, di lodare, amare, supplicare Te, o Padre celeste, per riparare a tutto il torto e le ignominie che ho operato, e realizzare pienamente tutto ciò che può essere compiuto dal santo Sacrificio della Messa. A tal fine dammi la tua grazia divina e concedici di compiere tutto questo con sincera devozione. Amen.

II. CONTRIZIONE PER I PECCATI, CON FEDE E FIDUCIA IN GESÙ CRISTO E UN’OFFERTA DEI SUOI MERITI PREZIOSI.

Santo Padre, confesso con dolore che raramente ti ho servito con tutto il cuore, ma piuttosto ti ho spesso offeso, e con la mia indolenza e negligenza ho riportato una colpa infinitamente grande davanti a Te. Mi rifugio quindi nei meriti del Tuo amato Figlio, ora presente sull’altare, che ci ha riscattato e ci ha dato la sua grazia e il suo favore. Nel sacro Sacrificio della Messa, Gesù offre a Te, per me, la più alta venerazione ed amore, la lode più perfetta, il ringraziamento più cordiale e l’espiazione efficace. Per il perdono perfetto dei miei peccati, o Padre celeste, ti offro tutta la sofferenza e la morte di Gesù Cristo, che ora, in modo incruento, si rinnova sull’altare. O padre benigno, il tuo Figlio ha sofferto ed è morto anche per me, povero peccatore. Con amore riconoscente ti porto davanti, come offerta preziosa e gradita, i meriti infiniti della sua sofferenza e morte. Confido fermamente che, a causa di questo inestimabile sacrificio del Tuo Figlio, Tu non considererai la mia colpa, ed aumenterai in me le Tue grazie. Amen.

O Padre di misericordia, e Dio di ogni consolazione, a Te chiedo aiuto e grazia. Guarda con benevolenza la mia miseria e disgrazia e lascia che le mie suppliche vengano a te. Che io possa essere ascoltato da Te, che appaia davanti al trono della Tua grazia che, per la nostra salvezza, è posto nel santo Sacrificio della Messa, dove l’innocente Agnello di Dio è misteriosamente offerto a Te, santo Padre, Dio Onnipotente, per la remissione dei nostri peccati. Riguardo, ti supplico, l’innocenza di questo santo Sacrificio, e per suo mezzo estendi a me la tua misericordia. O mio Salvatore, quanto è grande il Tuo amore per me che, per riparare i miei peccati e farmi guadagnare la grazia del Tuo Padre, ti ha spinto a sopportare per me tali dolori amari e persino la morte stessa. Oh, quanto è grande il Tuo amore per me, che ti spinge, in ogni Santa Messa a rinnovare, in modo incruento, la Tua morte propiziatoria, per applicarmi e comunicarmi i Tuoi meriti. Con tutto il mio cuore Ti ringrazio per il Tuo grande amore, e dal profondo della mia anima ti supplico di farmi partecipe dei suoi frutti, e di rafforzarmi e confermarmi per la grazia dello Spirito Santo, affinché io possa detestare il ​​peccato e tutto il vivere empio, perché io possa crocifiggere la mia carne, con tutte le sue passioni, negare me stesso e seguire i tuoi passi, affinché tutti i miei pensieri e le mie parole, tutto ciò che faccio o che non faccio, possano essere un servizio vivente di Dio e un sacrificio ben gradito a lui. Così come Tu hai offerto Te stesso al tuo Padre celeste, prendimi pure tra le braccia del Tuo amore e misericordia, e presentami, povero peccatore errante, come offerta al Padre, e non lasciare più che sia separato dal Suo amore. Amen.

III. ADORAZIONE DEL SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI GESÙ CRISTO, SOTTO LE SPECIE DEL PANE E DEL VINO.

O santissimo Gesù, davanti a Te i Cori celesti si inginocchiano e ti adorano; con loro alzo la voce e piango. Santo, santo, santo, sei Tu, o Signore degli eserciti. Il cielo e la terra sono pieni della Tua grazia e della Tua gloria. Tu sei presente, o Gesù, sotto le specie del pane e del vino. Ascolta, ascolta la mia preghiera. Batto il mio petto e confesso la mia indegnità; ma con ferma fiducia ti imploro, o Gesù: sii misericordioso con me. O Gesù benigno, perdona i miei peccati. O Sangue santo, lavami dai miei peccati. O sangue prezioso di Gesù, Sangue di Gesù, ricco di grazia, grida al Cielo per pietà! Dio Santissimo, ricevi questo prezioso Sangue, con l’amore con cui è stato versato; ricevilo come offerta del mio amore e della mia gratitudine, per la maggior gloria del tuo Nome; per il perdono dei miei peccati; in soddisfazione delle pene che ho meritato; per lavare via le macchie della mia colpa, come riparazione per tutte le mie negligenze e come ammenda per tutti i peccati che ho commesso per ignoranza o fragilità; ricevilo anche come Sacrificio per la consolazione degli afflitti; per la conversione dei peccatori; per il conforto degli ammalati e dei sofferenti; per il rafforzamento di coloro che si avvicinano alla morte; per il ristoro, la purificazione e la liberazione delle anime dei defunti dal Purgatorio. Amen.

IV. INCROLLABILE FEDE IN GESÙ CRISTO.

A te, o benigno Gesù, alzo gli occhi e il cuore. Oh, rivolgimi il tuo grazioso aspetto e il tuo vero amore. Ecco, o Signore, il mio pressante bisogno ed il grande pericolo della mia anima. Oh, accoglimi, Tu che sei il mio unico vero Mediatore e Aiuto. Sii Tu, attraverso il santo Sacrificio della Messa, la mia salvezza, e ottienimi l’intera remissione dei miei peccati. Oh, rappresenta al tuo Padre quanto crudelmente Tu sia stato flagellato, incoronato, crocifisso e messo a morte per noi, e quindi riconcilia. con la rigida giustizia di Dio, me miserabile peccatore. Amen.

Pater noster…. Ave Maria….

V. CHI CHIEDE IN NOME DI GESÙ RICEVE …

O Agnello di Dio, che ti sei offerto per noi miseri peccatori, abbi pietà di me e offri al Padre la Tua passione per il perdono dei miei peccati. O Agnello di Dio, che sei morto per noi miseri peccatori, abbi pietà di me ed offri a Dio la tua morte in soddisfazione dei miei peccati! O Agnello di Dio, che ti sei sacrificato per noi miserabili peccatori, abbi pietà di me e offri il tuo Sangue santo al Padre per la purificazione della mia anima. Padre Celeste, Ti offro questa oblazione preziosa e degna. I miei peccati sono più numerosi dei miei capelli, ma, Dio giusto e misericordioso, pesa questa preziosa offerta in un piatto e i miei peccati nell’altro, ed essa supererà di gran lunga la mia colpa. O misericordioso, o santo Dio, dammi la tua benedizione prima che io finisca la mia preghiera, e attraverso questa benedizione fammi ottenere subito la grazia per cominciare a cambiare la mia vita, e per rimproverare ciò che è peccaminoso e ti dispiace. Sostienimi nella mia debolezza; rafforzami quando le tentazioni mi assalgono affinchè non dimentichi mai che Tu sei vicino a me. O preziosa giornata! … forse l’ultima della mia vita. O felice giorno! se mi renderà migliore. Santa Madre di Dio, Maria, santi Angeli e amici di Dio, pregate per me e guidatemi sulla via della verità. O Dio, concedi il Tuo amore ai viventi e la Tua pace ai defunti. Amen.GOFFINE’S DEVOUT INSTRUCTIONS
ON THE EPISTLES AND GOSPELS
FOR THE SUNDAYS AND HOLYDAYS;
WITH THE LIVES OF MANY SAINTS OF GOD,
EXPLANATIONS OF CHRISTIAN FAITH
AND DUTY AND OF CHURCH CEREMONIES,
A METHOD OF HEARING MASS, MORNING AND EVENING PRAYERS,
AND A DESCRIPTION OF THE HOLY LAND.
WITH A PREFACE BY HIS EMINENCE JAMES, CARDINAL GIBBONS,
ARCHBISHOP OF BALTIMORE.

Fr.UK, Sacerdote Cattolico.

[Trad. redaz. di G.D. G. ]

CONOSCERE SAN PAOLO (44)

LIBRO V

I canali della redenzione.

CAPO II.

I Sacramenti.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

III. L’EUCARISTIA.

1. FORMULE DI PAOLO. — 2. ALLUSIONI AL SACRIFIZIO.

1. Se il Battesimo fa nascere il corpo mistico, l’eucaristia lo alimenta e lo fa crescere. San Paolo presenta insieme il tipo dei due Sacramenti. Gli Ebrei, egli dice, « furono battezzati in Mosè nella nube e nel mare; e tutti mangiarono il medesimo cibo spirituale e bevvero la medesima bevanda spirituale (I Cor. X, 1-21) ». La manna e l’acqua della rupe sono dette spirituali, sia perché erano frutto di un miracolo, sia perché figuravano i due elementi dell’Eucaristia, cibo e bevanda dell’uomo rigenerato nel Battesimo. – Ad una combinazione fortuita noi siamo debitori dell’insegnamento di Paolo riguardo l’Eucaristia. Egli lo aveva dato a viva voce ai Corinti, come a tutti gli altri catecumeni, e non lo avrebbe ripetuto per iscritto, se non fossero stati i dubbi dei nuovi Cristiani circa gli idolotiti, e se non fossero state le loro irriverenze nella celebrazione dell’agape. Si può credere che il suo insegnamento orale sia stato più diffuso, ma è difficile che fosse più preciso. L’Apostolo ci indica anzitutto la fonte delle sue affermazioni, Gesù Cristo medesimo: « Io ho ricevuto dal Signore quello che alla mia volta ho trasmesso a voi (I Cor. XI, 23) ». Nel descrivere l’istituzione dell’Eucaristia, egli insiste su le circostanze di tempo — « la notte stessa in cui il Signore Gesù veniva consegnato » ai suoi nemici, « alla fine del banchetto » di addio — sia per meglio fissare la scena nella mente dei neofiti, sia piuttosto per metterla in relazione diretta con la morte del Signore Gesù. – La formula della consacrazione del pane non potrebbe essere più chiara. Essa sarebbe non soltanto oscura, ma incomprensibile e contradittoria, se il Salvatore avesse detto: « Questo pane è il mio corpo »; poiché è assolutamente impossibile che una cosa sia e non sia nel medesimo tempo, e non si toglierebbe la difficoltà col racchiudere il corpo del Cristo nel pane ordinario, perché sarebbe sempre falso che il pane reale sia il vero corpo del Cristo. Ma Gesù parla senza equivoco: « Questo è il mio corpo il quale (è) per voi (I Cor. XI, 24) ». Il soggetto della frase è il pronome dimostrativo « questo », cioè questo che voi vedete dinanzi a voi. questo che io vi indico col gesto, questo che non è ancora designato né come pane ordinario né come corpo del Cristo, ma il cui senso sarà determinato alla fine della proposizione, quando si sarà affermato qualche cosa.  verbo sostantivo che serve di copula, esprime, come sempre, l’identità pura e semplice tra il soggetto e il predicato. È consolante il vedere oggi gli esegeti protestanti e razionalisti unirsi ai Cattolici nel riconoscere una verità tanto elementare e nel respingere l’esegesi tendenziosa che traduceva « essere » con « significare », contro l’uso biblico non meno che contro l’uso profano. L’equivoco sarebbe nel predicato? Il « corpo » si dovrebbe prendere in senso figurato, per il simbolo del corpo? L’ipotesi è già inaccettabile per questo, che sconvolge senza ragione il senso naturale dei termini; ma se ne sentirà meglio l’assurdo col sostituire a « corpo » il suo preteso equivalente: « Questo è il simbolo del mio corpo, il quale (simbolo) è per voi. Chiunque mangia il pane e beve il calice indegnamente è colpevole del simbolo del corpo e del simbolo del sangue del Signore ». In quanto poi all’identificazione del corpo eucaristico con la Chiesa, è meglio non parlarne: certi sistemi non hanno bisogno di confutazione e si accennano unicamente per far vedere a quali soluzioni disperate si riduca l’abbandono del solo senso naturale e legittimo. Presa in se stessa indipendentemente dalle allusioni e dalle circostanze che la determinano, l’altra formula di consacrazione: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue (I Cor. XI, 25) », presenterebbe qualche oscurità. Vi sono due metonimie delle quali l’una prende il contenente per il contenuto, e l’altra prende l’effetto per la causa, cioè la nuova alleanza conchiusa nel sangue del Cristo, per il sangue del Cristo che suggella la nuova alleanza. Però la prima è di uso tanto comune, che « questo calice » desta subito nella mente l’idea di una bevanda. Del resto, eccetto che si fosse adoperato il solo dimostrativo indeterminato « questo », il linguaggio metonimico era qui indispensabile. Difatti Gesù non poteva dire: « Questo vino è il mio sangue » senza profferire un errore e senza imporre alla fede dei suoi discepoli un’equazione incomprensibile. La seconda metonimia è un po’ meno comune, ma essa diventa chiara se si mette nel suo contesto: non potendo il contenuto di un calice materiale essere l’alleanza sigillata nel sangue, bisogna che questo sia il sangue dell’alleanza.  — Gesù Cristo si comporta nella stessa maniera nelle due consacrazioni; tra i due atti v’è un parallelismo completo; dunque se, in virtù delle parole sacramentali, vi è da una parte il Corpo del Cristo, vi sarà dall’altra il suo Sangue. — L’allusione manifesta al racconto dell’esodo, non lascia più nessun dubbio. Mosè, aspergendo il popolo col sangue del sacrificio, dice: « Ecco il sangue dell’alleanza ». Il sangue dell’alleanza e l’alleanza nel sangue sono dunque una medesima cosa. – Certamente nell’una e nell’altra formola la parola del Figlio di Dio è creatrice. La verità enunciata non è anteriore all’enunciazione stessa, come nelle affermazioni ordinarie; essa ne è il prodotto. Ma Gesù Cristo aveva abituato i discepoli a tali miracoli della sua parola, e Colui che guariva con una parola, dicendo: « Tuo figlio è guarito », eppure: « Tu sei libero dalla tua infermità », meritava la stessa fede quando, con una formola analoga, concedeva il dono promesso del suo corpo e del suo sangue. San Paolo aggiunge alla doppia consacrazione l’ordine dato dal Cristo agli Apostoli, di perpetuare l’Eucaristia fino alla consumazione dei secoli. San Luca lo ricorda soltanto dopo la consacrazione del pane, e gli altri due Sinottici non ne fanno menzione, giudicandolo forse superfluo, per motivo della tradizione vivente della Chiesa.

2. In virtù del precetto divino e della spiegazione data dall’Apostolo, l’Eucaristia diventa un rito commemorativo: « Fate questo in memoria di me. Poiché tutte le volte che mangerete questo pane e che berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore fino a che Egli venga ». Ma il rito eucaristico non è una semplice commemorazione del Sacrificio della croce: è esso medesimo un sacrificio commemorativo. San Paolo non dice già: « Questo calice è commemorativo della nuova alleanza conchiusa sul Calvario nel mio sangue »; egli dice invece: « Questo calice è esso medesimo l’alleanza; » in altri termini: « Il sangue contenuto in questo calice sigilla l’alleanza ». È dunque il sangue di una vittima; e il rito che lo versa misticamente avrà il carattere di un sacrificio. Questo risulta anche più chiaramente dal testo parallelo di san Luca: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue il quale è sparso per voi ». San Luca non dice che il sangue sarà sparso nel momento della passione; ma dice che il sangue è sparso presentemente, nel momento in cui si compie il rito eucaristico; dice anzi, con maggiore energia, che il calice — il sangue contenuto nel calice — è sparso per gli uomini. Presa isolatamente, la formula della consacrazione del pane non suggerisce l’idea del sacrificio: « Questo è il mio corpo il quale è per voi ». Si potrebbe intendere: « che vi è dato come nutrimento » invece di: « che è immolato per voi ». Anche il testo, più esplicito, di san Luca, non toglierebbe pienamente il dubbio: « Questo è il mio corpo che è dato (o abbandonato) per voi ». Si potrebbe, è vero, domandare se un corpo dato in cibo non sia per questo stesso un corpo immolato, e soprattutto se le parole « dato per voi » significhino veramente « dato in cibo » e non indichino piuttosto, come in tutti gli altri casi, l’atto col quale il Cristo si offre come vittima. Ma una certa quale oscurità resterebbe sempre, se si fa astrazione dal parallelismo. – Un altro passo di san Paolo ci fornisce un supplemento di luce. Volendo dimostrare ai Corinzi, che la partecipazione ai banchetti idolatrici è un abuso illecito, qualunque sia l’intenzione con cui si faccia, perché è uno scandalo, un pericolo e un atto formale d’idolatria, l’Apostolo si appella alla loro coscienza: « Io parlo a gente sensata; giudicate voi medesimi quello che dico. Il calice di benedizione che noi benediciamo, non è la comunione al sangue del Cristo? E il pane che spezziamo non è forse la comunione al corpo del Cristo! Poiché vi è un solo pane, noi siamo, nonostante il nostro numero, un solo corpo; perché noi partecipiamo a questo medesimo pane. Vedete Israele secondo la carne: quelli che mangiano le vittime non comunicano forse all’altare? ». E san Paolo, traendo la morale da questa dottrina, conchiude con queste parole: « Quello che i pagani immolano, lo immolano non a Dio ma ai demoni; ora io non voglio che voi siate i commensali dei demoni. Voi non potete bere il calice del Signore e la tazza dei demoni; voi non potete prendere parte alla mensa del Signore e alla mensa dei demoni (I Cor. X, 15-21) ». Se i ragionamenti dell’Apostolo non sono paralogismi, la comunione eucaristica è per i Cristiani quello che per i Gentili è il mangiare gli idolotiti, quello che per gli Ebrei è il banchetto sacro. Ora il banchetto sacro ha un significato religioso; esso costituisce un atto di culto in quanto è il complemento del sacrificio e unisce i fedeli col sacerdote sacrificatore, con l’altare sul quale fu immolata la vittima, e con la vittima stessa.

IV. L’ORDINE.

Il rito d’inaugurazione dei sacri ministri fu sempre e in ogni luogo l’imposizione delle mani. Questo rito, indeterminato per se stesso, prende il suo significato preciso dalle circostanze che lo circondano o dalle parole che lo accompagnano. Noi vediamo nella Scrittura che si fa l’imposizione delle mani dal superiore per benedire, dal taumaturgo per guarire, dagli Apostoli per conferire lo Spirito Santo, dalle autorità ecclesiastiche per comunicare il potere di cui sono investite. L’idea comune a questi quattro modi è la trasmissione di un dono spirituale, di un favore soprannaturale o di un potere sacro. Tutti i fedeli avevano concorso all’elezione dei sette diaconi ellenisti, ma i soli Apostoli imposero loro le mani. Si trattava di renderli atti ad una funzione santa per sua natura, poiché la celebrazione dell’agape era ancora strettamente legata all’Eucaristia. Così si era vigilato affinché i candidati fossero ripieni dello Spirito Santo; l’imposizione delle mani si era fatta in mezzo alle preghiere pubbliche; terminata la cerimonia, i Sette, oltre la cura delle mense, si erano assunto il ministero della predicazione e l’amministrazione del Battesimo, ma senza pretendere di conferire lo Spirito Santo, potere esclusivamente riservato agli Apostoli. La loro istituzione aveva avuto un carattere religioso, e il loro potere era di ordine spirituale, pure rimanendo subalterno (Act. II, 1-6). L’imposizione delle mani era pure adoperata per il grado intermediario del chiericato. Quando Paolo scrive a Timoteo: « Non imporre troppo presto le mani a chiunque (I Tim. V, 22) », parla nominatamente degli anziani nel senso ecclesiastico, e non degli uomini avanzati in età. Finalmente lo stesso rito — fatta astrazione dalle parole o dalle preghiere che dovevano accompagnarlo — serviva egualmente per il grado superiore della gerarchia; e qui i testi sono alquanto più espliciti. Non si può quasi resistere all’impressione, che l’imposizione delle mani descritta nel capo XIII degli Atti avesse lo scopo di trasmettere a Barnaba ed a Saulo il supremo potere dell’ordine. Una semplice benedizione di addio non sarebbe stata circondata da tanta solennità, preceduta da digiuni e compiuta durante la liturgia, per comando dello Spirito Santo. I missionari sono specialmente designati per la conversione dei Gentili, cioè per la fondazione di nuove chiese ove è loro indispensabile il potere dell’ordine. Infatti subito noi li vediamo stabilire degli anziani (πρεβυτέρους = presbuterous) nelle città ove hanno fondato delle cristianità. Si può credere che nessuno avrebbe inteso diversamente il passo degli Atti, senza le difficoltà di trovare in Antiochia un ministro idoneo. Se Barnaba, il personaggio principale di quella chiesa, secondo ogni apparenza, non fosse stato Vescovo, come supporre che fossero Vescovi gli altri profeti e dottori nominati dopo di lui! D’altra parte san Luca non fa menzione della presenza degli Apostoli in Antiochia, in quella circostanza. Si può dire, è vero, che non aveva bisogno di farne menzione, se era cosa riconosciuta, come tutto ci lascia credere, che un potere non viene mai conferito se non da chi lo possiede. Allorché si trattasse di una semplice benedizione, la difficoltà rimarrebbe ancora, perché la benedizione discende dal superiore e non viene data da inferiori o da uguali. – Con la consacrazione di Timoteo da parte di san Paolo, noi ci troviamo in terreno più sicuro. L’Apostolo scrive al suo discepolo: « Non trascurare la grazia (χάρισμα = karisma) che è in te per la profezia (oppure a causa delle profezie . con l’imposizione delle mani del collegio presbiterale. — Io ti esorto a ravvivare la grazia di Dio (χάρισμα = karisma), la quale è in te per l’imposizione delle mie mani (I Tim. IV, 14) ». Noi abbiamo qui un rito esterno — l’imposizione delle mani — ed una grazia interna prodotta dal rito. Qual è questa grazia, questo carisma? Evidentemente non è il dono puramente gratuito che lo Spirito Santo concede o ritira a suo talento, che non è permanente, e che nessuno è in grado di ravvivare o di far nascere. Non è neppure, come certuni suppongono, il carattere episcopale, il potere dell’ordine, poiché non ha nessun bisogno di essere ravvivato, non essendo suscettibile di diminuzione né di perdita. Questo carisma è piuttosto l’attitudine soprannaturale ricevuta col degno esercizio di un ministero sacro, è presso a poco quella che noi chiamiamo grazia dello stato, ossia il complesso dei doni spirituali e il diritto alle grazie attuali che i doveri dell’episcopato esigono. Benché associata al carattere e al potere dell’ordine, ne è tuttavia distinta. Mentre il carattere è indelebile e il potere è inalienabile, il carisma può languire per mancanza di sforzo o di vigilanza; se non arriva a estinguersi, ha bisogno almeno di essere ravvivato. San Paolo indica abbastanza nettamente la natura di questo carisma quando aggiunge: « Poiché Dio non ci ha dato uno spirito di timore ma (uno spirito) di forza, di carità e di temperanza ». Questo carisma ammette dunque un aumento di grazia interiore, con le grazie attuali richieste dalla carica di Vescovo. Ora tutto questo è conferito « dall’imposizione delle mani » dell’Apostolo, non senza il concorso e l’assistenza del collegio presbiterale di Efeso, se la consacrazione, come è probabile, avvenne a Efeso. – Abbiamo dunque, nell’ordinazione di Timoteo, i tre elementi di ciò che la Chiesa oggi chiama Sacramento: un rito esteriore, l’imposizione delle mani; una grazia permanente (χάρισμα = karisma), sorgente di diverse grazie dello stato, prodotta da questo rito; una grazia interiore corrispondente al simbolo del rito esteriore, determinata nel suo significato da un complesso di circostanze, come la designazione profetica e la missione alla quale era destinato Timoteo. L’istituzione divina con la promulgazione immediata o mediata da parte di Gesù Cristo, si sottintende, dal momento che si tratta di annettere la grazia ad un rito.

V. IL MATRIMONIO.

A questa citazione della Genesi: « L’uomo lascerà suo padre e sua madre, e si unirà alla sua sposa, e saranno tutti e due una sola carne », san Paolo aggiunge questa riflessione: « Questo mistero è grande; e io dico: per rapporto al Cristo e alla Chiesa (Ephes. V, 12) ». Secondo il Concilio di Trento, il Sacramento del matrimonio è insinuato in questo testo (Sess. XXIV). Questa è la parola più esatta. In mancanza di affermazione espressa, vi è qui un’indicazione di cui il teologo deve tener conto. Non già che non si possa nulla dedurre dalla traduzione latina: Sacramentum hoc magnum est. Il significato biblico di sacramentum (μυρτήριον= murterion) non è sacramento; esso è o un segreto disegno di Dio relativamente alla salute degli uomini, o una parola o fatto che racchiude un significato simbolico. L’argomentazione da fondare sul testo dell’Apostolo, per provare che il matrimonio è un vero Sacramento, è assai complessa e, qualunque sia la cura con cui venga istruita, vi saranno sempre dei punti deboli. Che l’unione coniugale abbia un carattere sacro — che sia un Sacramento nel senso più largo della parola — non lo nega nessuno. Secondo san Paolo, l’istituzione primitiva del matrimonio o, il che è quasi la stessa cosa, il racconto della Genesi che riferisce tale istituzione, è un gran mistero che simboleggia l’unione del Cristo e della sua Chiesa e che per conseguenza è segno di una cosa eminentemente santa: Sacramentum hoc magnum est, id est sacræ rei signum, scilicet conjunctionis Christi et Ecclesiæ, dice san Tommaso. Se si tratta di un tipo propriamente detto, il matrimonio sarebbe, sotto questo aspetto, un sacramento allo stesso titolo che la circoncisione ed i sacrifici dell’Antica Legge. Siamo ancora ben lontani dal segno sensibile istituito da Gesù Cristo per produrre la grazia che significa. Senza dubbio, una volta che fosse dimostrata la produzione efficace della grazia, l’istituzione divina si dedurrebbe naturalmente dal fatto che a Dio solo appartiene l’annettere la grazia ad un rito esteriore; e la promulgazione da parte del Cristo ne seguirebbe come corollario, poiché Gesù Cristo è il mediatore unico e universale della nuova Alleanza. La questione principale è di sapere se il nostro testo ci permette di concludere che il matrimonio cristiano, al momento in cui si contrae, conferisce la grazia santificante. Non vi è teologo cattolico il quale abbia sostenuto quest’affermazione con più di sottigliezza scolastica o con maggiore erudizione scritturale che il P. Palmieri. Il suo ragionamento si può riassumere così: I riti figurativi della nuova legge sono per loro natura pratici e non speculativi, cioè producono la grazia che significano; ora il matrimonio cristiano, secondo san Paolo, figura l’unione del Cristo e della sua Chiesa; dunque produce la grazia significata da questa unione. Se il matrimonio cristiano in facto esse impone agli sposi obblighi soprannaturali, bisogna che conferisca in fieri una grazia interiore proporzionata a tali obblighi. Si obbietterà che il simbolo del misterioso imene del Cristo e della sua Chiesa è il matrimonio in se stesso, e non il matrimonio cristiano; che per conseguenza, se la dimostrazione precedente provasse qualche cosa, proverebbe che ogni matrimonio è un sacramento. Ma questa obbiezione si può benissimo risolvere. Anzitutto il matrimonio cristiano — e san Paolo parla soltanto di questo perché si rivolge esclusivamente ai fedeli — impone ai coniugi doveri speciali che richiedono l’aiuto di grazie speciali. Gli sposi cristiani, nei loro mutui rapporti, si devono modellare sopra il Cristo e sopra la sua Chiesa: da una parte, sommissione rispettosa fino al sacrificio, dall’altra amore e devozione fino alla morte. Questa fonte di obblighi soprannaturali suppone una fonte corrispondente di grazie soprannaturali; e san Paolo ragiona appunto in tale ipotesi quando esorta i fedeli ad effettuare in se stessi l’imene della Chiesa e del Cristo, di cui la loro unione è l’emblema. In secondo luogo ogni matrimonio potrebbe essere segno, senza essere, per questo, segno efficace, come è il matrimonio cristiano. I riti della nuova legge sono commemorativi e non profetici; essi non guardano verso un avvenire che è ancora in potenza, ma verso il passato che essi fanno rivivere; essi sono pratici e non speculativi: non figurano soltanto la grazia, ma la producono. Se la circoncisione fosse stata mantenuta da Gesù Cristo, come segno della sua alleanza con l’umanità, abbiamo ragione di credere che essa sarebbe diventata un sacramento nel senso stretto della parola. Mutando direzione e significato rivolta verso il passato e non più verso l’avvenire, essa sarebbe stata capace di produrre effettivamente la grazia dell’alleanza; mentre invece, abbandonata a se stessa come un rito infimo e grossolano, perde ogni valore dopo la morte del Cristo. Così il matrimonio, che era in altri tempi il tipo dell’unione del Cristo con la sua Chiesa, cambia significato quando questa unione si consuma sul Golgota: da profetico diventa commemorativo; da speculativo diventa pratico; da inerte diventa efficace. Tuttavia perché l’argomento ricavato dal nostro testo fosse decisivo, bisognerebbe dimostrare: che il simbolismo indicato da san Paolo non è una creazione della sua mente o un rapporto mistico immaginato da lui — ego autem dico — ma che esiste veramente e parte rei per il fatto di una volontà positiva di Dio; che questo simbolo non è un semplice tipo profetico ma un segno pratico e commemorativo; che la grazia annessa al matrimonio non deriva soltanto dai nuovi obblighi inerenti allo stato coniugale — come avviene, per esempio, per lo stato religioso —: ma che essa viene conferita strumentalmente dal rito stesso del contratto matrimoniale in fieri. Ora tutto questo è piuttosto insinuato che affermato nelle parole dell’Apostolo. Quando già si sa che il matrimonio è un Sacramento, si può benissimo trovare in questo testo un’allusione più e meno chiara al rito sacramentale; altrimenti non si penserebbe forse a cercarcela.