UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – MEDIATOR DEI (3)

Entriamo nel vivo della stupenda lettera Enciclica, ritocco ed ultima pennellata, sfumatura definitiva del quadro perfetto del Magistero pietrino, prima che i barbari masso-diretti, distruggessero (si fieri potest!) la sacra liturgia con riti blasfemi e pressoché satanici (anzi … senza pressoché). Si pensi solo alla sostituzione nell’offertorio del « Suscipe Sancte Pater ».. o del « suscipe sancta Trinitas », o nel sacro Canone del « Te igitur, clementissime Pater » con il massonico baphomet-lucifero “signore dell’universo … ” adorato nelle logge e nelle conventicole da apprendisti muratori, cavalieri kadosh, cavalieri del sole, maestri superiori, sovrani inquisitori, ispettori, commendatori, illuminati di Baviera, Patriarchi universali, e da tutta quanta la “feccia” umana dedita al culto del demonio. Questo culto obbrobrioso, imposto dall’illuminato [non dallo Spirito, ma … di Baviera] eresiarca G. B. Montini, coadiuvato dal “massoncello” BUAN 1365/75 e da altri sei “compagni di merenda” masso-protestanti, ha sostituito nelle chiese di tutto l’orbe il venerando immutabile Rito Divino della Santa Messa, così meravigliosamente descritto in questo infallibile ed inoppugnabile documento, a beneficio dei mala-coscienziosi eretico-scismatici del “novus ordo”, intruppati come pecore condotte al macello nella falsa chiesa dell’uomo, OVE NON C’È MINIMAMENTE POSSIBILITÁ DI SALVEZZA, (… non c’è Fede divina, manca la Carità divina, c’è una falsa coscienza, c’è un culto blasfemo ed una dottrina gnostica falsissima …), guidata dai lupi marrani usurpanti. Solo per fermarci alle temerarie innovazioni, citiamo: « … L’uso della lingua latina come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile segno di unità e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina … » – « … chi vuole eliminare dai paramenti liturgici il colore nero; chi vuole escludere dai templi le immagini e le statue sacre; chi vuole cancellare nella raffigurazione del Redentore crocifisso i dolori acerrimi da Lui sofferti; chi ripudia e riprova il canto polifonico anche quando è conforme alle norme emanate dalla Santa Sede … », e poi la “mazzata fatale”:

« è fuori strada chi vuole restituire all’altare l’antica forma di mensa … ».

Che doveva dire di più il Sommo Pontefice per farci comprendere l’inganno ordito da lì a poco dai “… nemici di Dio e di tutti gli uomini, la razza di vipere, i figli di satana,… coloro che hanno avete per padre il diavolo, etc., etc.”? – Ma senza scomporci, armati da retta coscienza, leggiamo questa parte della lettera, che sembra proprio diretta ai falsi cattolici  del “novus ordo”, che hanno messo in opera tutto ciò che il Sommo Pontefice condannava e denunciava come falso. Al termine invito tutti i residui cattolici del « pusillus grex » ad unirsi in preghiera perché i fratelli separati e scismatici della “montiniana chiesa dell’uomo”, siano illuminati dalla Grazia divina per tornare all’unica arca di salvezza, ove solamente c’è salvezza ed eterna felicità: la Chiesa istituita dal Cristo, la CHIESA CATTOLICA APOSTOLICA ROMANA. Che Dio lo conceda per intercessione del Cuore Immacolato di Maria … et IPSA CONTERET …

ENCICLICA

”MEDIATOR DEI”

DI S. S. PIO XII

“SULLA SACRA LITURGIA” (3)

La sola autorità competente

Del medesimo suo diritto in materia liturgica si è servita la Chiesa per tutelare la santità del culto contro gli abusi temerariamente introdotti dai privati e dalle chiese particolari. Così accadde che, moltiplicandosi usi e consuetudini di questo genere durante il secolo XVI, e mettendo le iniziative private in pericolo l’integrità della fede e della pietà con grande vantaggio degli eretici e a propaganda del loro errore, il Nostro Predecessore di immortale memoria Sisto V, per difendere i legittimi riti della Chiesa e impedire le infiltrazioni spurie, istituì nel 1588 la Congregazione dei riti, organo cui tuttora compete di ordinare e prescrivere con vigile cura tutto ciò che riguarda la sacra Liturgia. – Perciò il solo Sommo Pontefice ha il diritto di riconoscere e stabilire qualsiasi prassi di culto, di introdurre e approvare nuovi riti e di mutare quelli che giudica doversi mutare; i Vescovi, poi, hanno il diritto e il dovere di vigilare diligentemente perché le prescrizioni dei sacri canoni relative al culto divino siano puntualmente osservate. Non è possibile lasciare all’arbitrio dei privati, siano pure essi membri del Clero, le cose sante e venerande che riguardano la vita religiosa della comunità cristiana, l’esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo e il culto divino, l’onore che si deve alla SS. Trinità, al Verbo Incarnato, alla sua augusta Madre c agli altri Santi, e la salvezza degli uomini; per lo stesso motivo a nessuno è permesso di regolare in questo campo azioni esterne che hanno un intimo nesso con la disciplina ecclesiastica, con l’ordine, l’unità e la concordia del Corpo Mistico, e non di rado con la stessa integrità della fede cattolica.

Innovazioni temerarie

Certo, la Chiesa è un organismo vivente, e perciò, anche per quel che riguarda la sacra Liturgia, ferma restando l’integrità del suo insegnamento, cresce e si sviluppa, adattandosi e conformandosi alle circostanze ed alle esigenze che si verificano nel corso del tempo; tuttavia è severamente da riprovarsi il temerario ardimento di coloro che di proposito introducono nuove consuetudini liturgiche o fanno rivivere riti già caduti in disuso e che non concordano con le leggi e le rubriche vigenti. Così, non senza grande dolore, sappiamo che accade non soltanto in cose di poca, ma anche di gravissima importanza; non manca, difatti, chi usa la lingua volgare nella celebrazione del Sacrificio Eucaristico, chi trasferisce ad altri tempi feste fissate già per ponderate ragioni; chi esclude dai legittimi libri della preghiera pubblica gli scritti del Vecchio Testamento, reputandoli poco adatti ed opportuni per i nostri tempi. L’uso della lingua latina come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile segno di unità e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina. In molti riti, peraltro, l’uso della lingua volgare può essere assai utile per il popolo, ma soltanto la Sede Apostolica ha il potere di concederlo, e perciò in questo campo nulla è lecito fare senza il suo giudizio e la sua approvazione, perché, come abbiamo detto, l’ordinamento della sacra Liturgia è di sua esclusiva competenza. Allo stesso modo si devono giudicare gli sforzi di alcuni per ripristinare certi antichi riti e Cerimonie. La Liturgia dell’epoca antica è senza dubbio degna di venerazione, ma un antico uso non è, a motivo soltanto della sua antichità, il migliore sia in se stesso sia in relazione ai tempi posteriori ed alle nuove condizioni verificatesi. Anche i riti liturgici più recenti sono rispettabili, poiché sono sorti per influsso dello Spirito Santo che è con la Chiesa fino alla consumazione dei secoli, e sono mezzi dei quali l’inclita Sposa di Gesù Cristo si serve per stimolare e procurare la santità degli uomini. – È certamente cosa saggia e lodevolissima risalire con la mente e con l’anima alle fonti della sacra Liturgia, perché il suo studio, riportandosi alle origini, aiuta non poco a comprendere il significato delle feste e a indagare con maggiore profondità e accuratezza il senso delle cerimonie; ma non è certamente cosa altrettanto saggia e lodevole ridurre tutto e in ogni modo all’antico. Così, per fare un esempio, è fuori strada chi vuole restituire all’altare l’antica forma di mensa; chi vuole eliminare dai paramenti liturgici il colore nero; chi vuole escludere dai templi le immagini e le statue sacre; chi vuole cancellare nella raffigurazione del Redentore crocifisso i dolori acerrimi da Lui sofferti; chi ripudia e riprova il canto polifonico anche quando è conforme alle norme emanate dalla Santa Sede. – Come, difatti, nessun Cattolico di senso può rifiutare le formulazioni della dottrina cristiana composte e decretate con grande vantaggio in epoca più recente dalla Chiesa, ispirata e retta dallo Spirito Santo, per ritornare alle antiche formule dei primi Concili, o può ripudiare le leggi vigenti per ritornare alle prescrizioni delle antiche fonti del Diritto Canonico, così, quando si tratta della sacra Liturgia, non sarebbe animato da zelo retto e intelligente colui il quale volesse tornare agli antichi riti ed usi ripudiando le nuove norme introdotte per disposizione della Divina Provvidenza e per le mutate circostanze. Questo modo di pensare e di agire, difatti, fa rivivere l’eccessivo ed insano archeologismo suscitato dall’illegittimo concilio di Pistoia, e si sforza di ripristinare i molteplici errori che furono le premesse di quel conciliabolo e ne seguirono con grande danno delle anime, e che la Chiesa, vigilante custode del «deposito della fede» affidatole dal suo Divino Fondatore, a buon diritto condannò. Siffatti deplorevoli propositi ed iniziative tendono a paralizzare l’azione santificatrice con la quale la sacra Liturgia indirizza salutarmente

al Padre celeste i figli di adozione. Tutto, dunque, sia fatto nella necessaria unione con la Gerarchia ecclesiastica. Nessuno si arroghi il diritto di essere legge a se stesso e di imporla agli altri di sua volontà. Soltanto il Sommo Pontefice, in qualità di successore di Pietro al quale il Divin Redentore affidò il gregge universale, ed insieme i Vescovi che, sotto la dipendenza della Sede Apostolica, «lo Spirito Santo pose . . . a reggere la Chiesa di Dio», hanno il diritto e il dovere di governare il popolo cristiano. Perciò, Venerabili Fratelli, ogni qual volta voi tutelate la vostra autorità all’occorrenza anche con severità salutare, non soltanto adempite il vostro dovere, ma difendete la volontà stessa del Fondatore della Chiesa.

Il Culto Eucaristico

Il mistero della Santissima Eucaristia, istituita dal Sommo Sacerdote Gesù Cristo e rinnovata in perpetuo per sua volontà dai suoi ministri, è come la somma e il centro della Religione cristiana. Trattandosi del culmine della sacra Liturgia, riteniamo opportuno, Venerabili Fratelli, indugiare alquanto e richiamare la vostra attenzione su

questo gravissimo argomento.

Il Sacrificio Eucaristico

Cristo Signore, « sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedec » che, « avendo amato i suoi che erano nel mondo », « nell’ultima cena, nella notte in cui veniva tradito, per lasciare alla Chiesa sua sposa diletta un Sacrificio visibile – come lo esige la natura degli uomini – che rappresentasse il Sacrificio cruento, che una volta tanto doveva compiersi sulla Croce, e perché il suo ricordo restasse fino alla fine dei secoli, e ne venisse applicata la salutare virtù in remissione dei nostri quotidiani peccati, … offrì a Dio Padre il suo Corpo e il suo Sangue sotto le specie del pane e del vino e ne diede agli Apostoli allora costituiti sacerdoti del Nuovo Testamento, perché sotto le stesse specie lo ricevessero, mentre ordinò ad essi e ai loro successori nel sacerdozio, di offrirlo ». L’augusto Sacrificio dell’altare non è, dunque, una pura e semplice commemorazione della passione e morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio Sacrificio, nel quale, immolandosi incruentamente, il Sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla Croce offrendo al Padre tutto se stesso, vittima graditissima. «Una … e identica è la vittima; egli medesimo, che adesso offre per ministero dei sacerdoti, si offrì allora sulla Croce; è diverso soltanto il modo di fare l’offerta ». Identico, quindi, è il sacerdote, Gesù Cristo, la cui sacra Persona è rappresentata dal suo ministro. Questi, per la consacrazione sacerdotale ricevuta, assomiglia al Sommo Sacerdote, ed ha il potere di agire in virtù e nella persona di Cristo stesso; perciò, con la sua azione sacerdotale, in certo modo « presta a Cristo la sua lingua, gli offre la sua mano ». – Parimenti identica è la vittima, cioè il Divin Redentore, secondo la sua umana natura e nella realtà del suo Corpo e del suo Sangue. Differente, però, è il modo col quale Cristo è offerto. Sulla Croce, difatti, Egli offrì a Dio tutto se stesso e le sue sofferenze, e l’immolazione della vittima fu compiuta per mezzo di una morte cruenta liberamente subita; sull’altare, invece, a causa dello stato glorioso della sua umana natura, « la morte non ha più dominio su di Lui » e quindi non è possibile l’effusione del sangue; ma la divina sapienza ha trovato il modo mirabile di rendere manifesto il sacrificio del nostro Redentore con segni esteriori che sono simboli di morte. Giacché, per mezzo della transustanziazione del pane in corpo e del vino in sangue di Cristo, come si ha realmente presente il suo corpo, così si ha il suo sangue; le specie eucaristiche poi, sotto le quali è presente, simboleggiano la cruenta separazione del corpo e del sangue. Così il memoriale della sua morte reale sul Calvario si ripete in ogni sacrificio dell’altare, perché per mezzo di simboli distinti si significa e dimostra che Gesù Cristo è in stato di vittima. Identici, finalmente, sono i fini, di cui il primo è la glorificazione di Dio. Dalla nascita alla morte, Gesù Cristo fu

divorato dallo zelo della gloria divina, e, dalla Croce, l’offerta del sangue arrivò al cielo in odore di soavità. E perché questo inno non abbia mai a cessare, nel Sacrificio Eucaristico le membra si uniscono al loro Capo divino e con Lui, con gli Angeli e gli Arcangeli, cantano a Dio lodi perenni, dando al Padre onnipotente ogni onore e gloria. Il secondo fine è il ringraziamento a Dio. Il Divino Redentore soltanto, come Figlio di predilezione dell’Eterno Padre di cui conosceva l’immenso amore, poté innalzarGli un degno inno di ringraziamento. A questo mirò e questo volle « rendendo grazie », nell’ultima cena, e non cessò di farlo sulla Croce, non cessa di farlo nell’augusto Sacrificio dell’altare, il cui significato è appunto l’azione di grazie o eucaristica, e ciò perché è « cosa veramente degna e giusta, equa e salutare ». – Il terzo fine è l’espiazione e la propiziazione. Certamente nessuno al di fuori di Cristo poteva dare a Dio Onnipotente adeguata soddisfazione per le colpe del genere umano; Egli, quindi, volle immolarsi in Croce « propiziazione per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo ». Sugli altari si offre egualmente ogni giorno per la nostra redenzione, affinché, liberati dalla eterna dannazione, siamo accolti nel gregge degli eletti. E questo non soltanto per noi che siamo in questa vita mortale, ma anche « per tutti coloro che riposano in Cristo, che ci hanno preceduto col segno della fede e dormono il sonno della pace »; poiché sia che viviamo, sia che moriamo, «non ci separiamo dall’unico Cristo ». – Il quarto fine è l’impetrazione. Figlio prodigo, l’uomo ha male speso e dissipato tutti i beni ricevuti dal Padre celeste, perciò è ridotto in somma miseria e squallore; dalla Croce, però, Cristo «avendo a gran voce e con lacrime offerto preghiere e suppliche … è stato esaudito per la sua pietà », e sui sacri altari esercita la stessa efficace mediazione affinché siamo colmati d’ogni benedizione e grazia. Si comprende pertanto facilmente perché il sacrosanto Concilio di Trento affermi che col Sacrificio Eucaristico ci viene applicata la salutare virtù della Croce per la remissione dei nostri quotidiani peccati. L’Apostolo delle genti, poi, proclamando la sovrabbondante pienezza e perfezione del Sacrificio della Croce, ha dichiarato che Cristo con una sola oblazione rese perfetti in perpetuo i santificati. I meriti di questo Sacrificio, difatti, infiniti ed immensi, non hanno confini: si estendono alla universalità degli uomini di ogni luogo e di ogni tempo, perché, in esso, sacerdote e vittima è il Dio Uomo; perché la sua immolazione come la sua obbedienza alla volontà dell’Eterno Padre fu perfettissima, e perché Egli ha voluto morire come Capo del genere umano: « Considera come fu trattato il nostro riscatto: Cristo pende dal legno: vedi a qual prezzo comprò …; versò il suo Sangue, comprò col suo Sangue, col Sangue dell’Agnello immacolato, col Sangue dell’unico Figlio di Dio … Chi compra è Cristo, il prezzo è il Sangue, il possesso è tutto il mondo ».

L’efficacia del Sacrificio

Questo riscatto, però, non ebbe subito il suo pieno effetto: è necessario che Cristo, dopo aver riscattato il mondo col carissimo prezzo di se stesso, entri nel reale ed effettivo possesso delle anime. Quindi, affinché, col gradimento di Dio, si compia per tutti gli individui e per tutte le generazioni fino alla fine dei secoli, la loro redenzione e salvezza, è assolutamente necessario che ognuno venga a contatto vitale col Sacrificio della Croce, e così i meriti che da esso derivano siano loro trasmessi ed applicati. Si può dire che Cristo ha costruito sul Calvario una piscina di purificazione e di salvezza che riempì col sangue da Lui versato; ma se gli uomini non si immergono nelle sue onde e non vi lavano le macchie delle loro iniquità, non possono certamente essere purificati e salvati. Affinché, quindi, i singoli peccatori si mondino nel sangue dell’Agnello, è necessaria la collaborazione dei fedeli. Sebbene Cristo, parlando in generale, abbia riconciliato col Padre per mezzo della sua morte cruenta tutto il genere umano, volle tuttavia che tutti si accostassero e fossero condotti alla Croce per mezzo dei Sacramenti e per mezzo del Sacrificio dell’Eucaristia, per poter conseguire i frutti salutari da Lui guadagnati sulla Croce. Con questa attuale e personale partecipazione, siccome le membra si configurano ogni giorno più al loro Capo divino, così anche la salute che viene dal Capo fluisce nelle membra, in modo che ognuno di noi può ripetere le parole di San Paolo: « Sono confitto con Cristo in Croce e vivo non già io, ma vive in me Cristo ». Come, difatti, in altra occasione abbiamo di proposito e concisamente detto, Gesù Cristo « mentre moriva sulla Croce, donò, alla sua Chiesa, senza nessuna cooperazione da parte di Essa, l’immenso tesoro della redenzione; quando invece si tratta di distribuire tale tesoro, Egli non solo partecipa con la sua Sposa incontaminata quest’opera di santificazione, ma vuole che tale attività scaturisca in qualche modo anche dall’azione di lei ». – L’augusto Sacrificio dell’altare è un insigne strumento per la distribuzione ai credenti dei meriti derivati dalla Croce del Divin Redentore: «ogni volta che viene offerto questo Sacrificio, si compie l’opera della nostra Redenzione ». Esso, però, anziché diminuire la dignità del Sacrificio cruento, ne fa risaltare, come afferma il Concilio di Trento, la grandezza, proclama la necessità. Rinnovato ogni giorno, ci ammonisce che non c’è salvezza al di fuori della Croce del Signore nostro Gesù Cristo; che Dio vuole la continuazione di questo Sacrificio « dal sorgere al tramontare del sole » perché non cessi mai l’inno di glorificazione e di ringraziamento che gli uomini debbono al Creatore dal momento che hanno bisogno del suo continuo aiuto e del sangue del Redentore per cancellare i peccati che offendono la sua giustizia.

DOMENICA II DOPO PENTECOSTE (2019)

DOMENICA II DOPO PENTECOSTE (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XVII: 19-20.

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me. [Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene] Ps XVII: 2-3

Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus. [Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.]

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me. [Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]

Oratio

Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis. [Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III: 13-18

“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”

I Omelia

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929]

L’ODIO

“Carissimi: Non vi meravigliate se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida; e sapete che nessun omicida ha la vita eterna abitante in sé. Abbiam conosciuto l’amor di Dio da questo: che egli ha dato la sua vita per noi; e anche noi dobbiam dare la vita per i fratelli. Se uno possiede dei beni di questo mondo e, vedendo il proprio fratello nel bisogno, gli chiude le sue viscere, come mai l’amor di Dio dimora in lui? Figliuoli miei, non amiamo a parole e con la lingua, ma con fatti e con sincerità”. (1 Giov. III, 13-18).

L’Epistola è tolta dalla prima lettera di S. Giovanni. Poco prima delle parole riportate, aveva detto che Caino uccise il fratello, perché era figlio del maligno. Caino è tipo del mondo, schiavo del demonio. Non vi stupite quindi — prosegue S. Giovanni — se il mondo vi odia. Ci sia di conforto il sapere che l’amore verso i fratelli è un segno che dalla morte del peccato siamo passati alla vita della grazia. Rimane nella morte, invece, chi odia il proprio fratello, essendo egli omicida e, come tale, escluso dalla vita eterna. Dall’esempio di Gesù Cristo, che ha dato la vita per noi, abbiamo conosciuto qual è la carità vera: essere anche noi disposti a dare la vita per il proprio fratello. Tanto più dobbiamo, almeno, soccorrerlo coi nostri beni quando si trova nella necessità. Senza questo il nostro amore non è né sincero, né utile. Ci fermeremo a fare qualche osservazione sull’odio.

L’odio:

1. Non si può giustificare,

2 Specialmente dal Cristiano che teme Dio,

3 E che non è insensibile alla bontà di Lui.

1.

Chiunque odia il proprio fratello è omicida. È un’affermazione che, sulle prime, sembra esagerata; ma non esprime che la pura verità. Da che cosa proviene l’omicidio? Spesso proviene dall’odio. L’odio spinse all’omicidio Caino, e ne spinse e ne spinge ancora tanti altri dopo di lui. Non sempre colui che odia arriva a compiere l’atto materiale dell’omicidio; ma quante volte l’omicidio è nel suo cuore. Non commette il delitto esternamente perché ha paura delle conseguenze, non tanto da parte della giustizia divina, quanto da parte della giustizia umana. Se non sempre l’odio arriva a tal punto d’essere equiparato all’omicidio, è sempre cosa condannevole, è sempre una cattiva passione. E la ragione e il buon senso insegnano che il lasciarsi dominare dalla passione è un degradare la dignità di uomo, è un andar contro al fine per il quale Dio ci ha creati. Dio ci ha dato la ragione, perché di essa ci serviamo per tendere sempre al bene. Non è sempre in nostro potere di dimenticare le offese ricevute. Ma l’andar sempre rimuginandole, il parlarne sempre, a proposito e a sproposito; dir male del nostro nemico ogni volta che ci capita l’occasione; cercar di pregiudicarne gli interessi, è cosa che dipende dalla nostra volontà, e che non può avere alcuna scusa. Non è sempre in nostro potere di non provare dei sentimenti d’odio; è sempre in nostro potere di non assecondarli. Il dire: non dimenticherò mai il torto ricevuto; un giorno o l’altro quella persona me la pagherà; me la son legata a un dito, ecc. sono disposizioni d’animo poco benevolo, e che vanno energicamente combattute. – Non sarà inutile, poi, considerare che queste disposizioni d’animo fanno generalmente più male a chi odia che a chi è odiato. Questi può non curarsi dell’odio del suo nemico, che intanto è agitato, triste, senza pace. Odio e invidia intorbidano la vita. «L’uomo — dice Giobbe — ha vita corta e piena di turbamento» (XIV, l). E questa misera vita già così corta e piena di turbamento per sé, dobbiamo turbarla ancor più, aggiungendovi di nostro la tortura che porta con sé l’odio?

2.

Noi Cristiani non dobbiamo dimenticare che l’odio è contro il nostro bene spirituale. Chi cova nel cuore un odio grave contro il fratello, non ha la vita eterna abitante in sé; cioè non ha la vita della grazia, e senza questa non può aver diritto alla vita eterna. Chi odia va contro a un comando espresso da Dio: «Non odierai il tuo fratello nel tuo cuore» (Lev. XIX, 17). Gesù Cristo aggiunge: «Amate i vostri nemici: fate del bene a coloro che vi odiano: e pregate per coloro che vi perseguitano o calunniano» (Matt. V, 44). «Se — dice Tertulliano — siamo obbligati ad amare i nostri nemici, chi ci resta da odiare? Così pure, se ci è proibito di rendere il ricambio quando siamo offesi, per non diventare nel fatto pari ai nostri offensori, chi possiamo noi offendere?» (Apol.) Non possiamo né odiare, né offendere nessuno, se non vogliamo perdere la grazia di Dio, e procurarci i castighi di lui. E che Dio castigherà severamente quelli che nel loro odio non vogliono perdonare ai fratelli, è pur scritto nel Vangelo. Il servo spietato della parabola del Vangelo, che non volle perdonare il debito al suo conservo, fu dal padrone consegnato nelle mani dei manigoldi, che lo mettessero in carcere. E Gesù chiude la parabola con questa osservazione: «Così farà con voi il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdonerà di cuore al proprio fratello » (Matt. XVIII, 35). Un giorno il Signore chiamerà il Cristiano ostinato nel suo odio. Sarà una chiamata perentoria. Nessuna dilazione sarà ammessa. Non titoli, non cariche, non grandezza, non scienza, non oro, potranno impedirvi l’andata. E all’andata seguirà un rimprovero da togliere ogni illusione: «Servo malvagio… non dovevi aver pietà del tuo compagno, come io n’ho avuta per te?» (Matt. XVIII, 33) E dopo un rimprovero e un confronto così schiacciante verrà una condanna ben dura: essere dato in mano ai ministri della giustizia divina. – Un giovane indiano di Spokane, nelle Montagne Rocciose, era stato ferito mortalmente da un bianco. Il padre di lui avvisa i missionari, i quale avevano raccolto il moribondo, che se il figlio moriva, egli avrebbe ucciso quanti bianchi poteva. Il padre Cataldo, gesuita, s’incaricò di disporre alla morte l’indiano ferito, e l’avvisò che doveva fare una buona confessione e prepararsi a comparire al tribunale di Dio. Dopo una breve esortazione l’indiano si dichiarò pronto a fare tutto quanto era necessario per salvare la sua anima. Prima della confessione il Padre Cataldo gli domanda, se perdona ai suoi nemici. E il giovane risponde: « Non mi hai detto forse di prepararmi a morir bene e di fare una buona confessione? Come oserei domandar perdono a Dio, se io non perdonassi prima al nemico? » (Celestino Testore, Memorie di un Vestenera, P. Giuseppe M. Cataldo S. J. in: Le Missioni, della Compagnia di Gesù. 1928. p. 442-43). Questo giovane Pellerossa, aveva tratto profitto a meraviglia dal Vangelo, che ci impone di perdonare a tutti, e di non odiar nessuno.

3.

Più che dal timore dei castighi, l’uomo dovrebbe esser spinto ad amare i suoi nemici, anziché odiarli, dalla grande bontà di Dio che ha dato la sua vita per noi, che eravamo peccatori, che non eravamo meritevoli che dei suoi castighi. La sua bontà arriva al punto da ricevere il bacio da Giuda e da chiamarlo col nome di amico, quando questi sta per tradirlo. Sulla croce prega in modo particolare per i suoi carnefici: « Padre, perdona loro, perché non sanno quel che si fanno » (Luc. XXIII, 34). Se è vero che gli esempi muovono più che le parole, nessun Cristiano può rimanere indifferente a quanto ha fatto Dio per i suoi nemici. Nessuno può dire: è impossibile amarli. Dio ci aiuta con la sua grazia a vincere i sentimenti di avversione, di odio che sorgono nel nostro cuore verso dei nostri nemici. « Temete il Signore Dio vostro, ed gli vi libererà dalle mani di tutti i vostri nemici » (4 Re XVII, 39), dice il Signore a Israele. Nessun dubbio che l’odio è un nemico spirituale molto difficile da vincere, se ci appoggiamo sulle sole nostre forze. Non è più invincibile, se con noi c’è l’aiuto di Dio. E Dio che ci comanda di vincer l’odio, ci dà anche l’aiuto necessario a liberarcene. Chi teme di offendere il Signore ricorre a Lui fiducioso, e il Signore lo aiuterà certamente. Ce l’assicura il discepolo prediletto. «Carissimi, se il nostro cuore non ci condanna, abbiamo fiducia dinanzi a Dio: e qualunque cosa domanderemo, la riceveremo da lui» (1 Giov. III, 2-22). Anzi, nella sua bontà ci darà oltre quello che domandiamo. – L’eloquenza del suo esempio, la promessa del suo aiuto ci lasciano indifferenti? Ecco, che si interpone fra noi e il nostro offensore. E’ questo l’ultimo tentativo cui si ricorre quando si vuol mettere la pace tra due persone. Se non si vuole perdonare all’offensore, perché indegno, si perdoni per rispetto alla persona che interpone i suoi buoni uffici. Filemone, ricco benefattore dei Cristiani, ha uno schiavo che fugge, portandogli via del danaro. S. Paolo si interpone e scrive a Filemone: «Se tu mi tieni per tuo intrinseco, accoglilo come me stesso; e se ti ha fatto torto o ti deve ancora qualche cosa, metti ciò a mio conto» (Filem. 17-18). Così fa Dio con noi. Se ti ha fatto torto. — dice al Cristiano che cova l’odio contro il proprio fratello — se ha dei debiti da scontare, questi mettili a mio conto, ecco che io rimetto tutto a posto. Le tue offese contro di me sono innumerevoli, sono gravi. Ebbene, io voglio essere con te tanto buono da perdonarti i tuoi gravi ed innumerevoli peccati se tu perdoni di cuore le poche e leggere offese che ti ha fatto il tuo fratello: «Perdonate e vi sarà perdonato. Date e vi sarà dato: vi sarà versato in grembo una misura buona, piena, scossa e traboccante, perché con la medesima misura con la quale avrete misurato, sarà rimisurato anche a voi» (Luc. VI, 37-38). Hai capito? Dio, tuo giudice, da te offeso, è tanto buono da metterti la sentenza in mano. Sta a te scegliere la sentenza che desideri. Può mai l’odio accecarti tanto da ricusare una condizione favorevole al punto «da mettere in potere del giudicando la sentenza di chi deve giudicare!» (S. Leone M. Serm. 17, 1). Se ancora non sei deciso a cedere sappi che «non potrai trovare nessuna scusa nel giorno del giudizio, quando sarai giudicato secondo la norma da te usata, e tu stesso subirai ciò che hai fatto subire agli altri» (S. Cipriano: De Dom. Oratione, 23). Ma voi non siate di questi. «Con voi sia la grazia, la misericordia e la pace da Dio Padre, e da Cristo Gesù Figliolo del Padre, nella verità e nella carità» (2 Giov. 1, 3).

Graduale

Ps CXIX: 1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me. [Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]

Alleluja

Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja [O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]

Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja. [Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.

Luc. XIV: 16-24

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit coenam meam”.

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XXX

 “In quel tempo disse Gesù ad uno di quelli che sederono con lui a mensa in casa di uno dei principali Farisei: Un uomo fece una gran cena, e invitò molta gente. E all’ora della cena mandò un suo servo a dire ai convitati, che andassero, perché tutto era pronto. E principiarono tutti d’accordo a scusarsi. Il primo dissegli: Ho comprato un podere, e bisogna che vada a vederlo; di grazia compatiscimi. E un altro disse: Ho comprato cinque gioghi di buoi, o vo a provarli; di grazia compatiscimi. E l’altro disse: Ho preso moglie, e perciò non posso venire. E tornato il servo, riferì queste cose al suo padrone. Allora sdegnato il padre di famiglia, disse al servo: Va tosto per le piazze, e per le contrade della città, e mena qua dentro i mendici, gli stroppiati, i ciechi, e gli zoppi. E disse il servo: Signore, si è fatto come hai comandato, ed evvi ancora luogo. E disse il padrone al servo: Va per le strade e lungo le siepi, e sforzali a venire, affinché si riempia la mia casa. Imperocché vi dico, che nessuno di coloro che erano stati invitati assaggerà la mia cena” (Luc. XIV, 16-24).

Il Divin Redentore venuto in sulla terra per salvare le anime e guadagnarle a quella felicità eterna, dove, secondo il detto della Sacra Scrittura: i giusti banchetteranno al cospetto di Dio, rivolse anzi tutto i suoi inviti ai Giudei, mercé la predicazione del Vangelo, che fece tra di essi. Ma tra i Giudei solamente alcuni poveri pescatori, alcuni pubblicani e qualche donna accettarono gli inviti di Gesù Cristo, tutti gli altri del resto ricusarono di ricevere la grazia del Vangelo, escludendosi così da per se stessi dall’eterna beatitudine. Perciò affine di mettere altri al loro posto il divin Redentore mandò per ogni dove i suoi predicatori per annunziare il Vangelo ai Gentili e mettere essi sulla via della salute, facendo anche agli stessi una dolce violenza a forza di preghiere e di istanze. Or bene tutti questi fatti sono indicati dal senso letterale della parabola degli inviti respinti, che ci narra il Vangelo di oggi. Ma nel senso spirituale e figurato, questa medesima parabola ci pone innanzi la generale indifferenza, in cui si trovano gran parte di Cristiani per il banchetto Eucaristico. E poiché ci troviamo nell’ottava del Corpus Domini, non potremmo fare una riflessione più a proposito di questa suggeritaci da un tal senso spirituale e figurato.

1. Gesù si trovava in giorno di sabbato a desinare presso uno tra i principali Farisei, che gliene aveva fatto invito. E rivolgendo la parola ad uno di quelli che sedevano con Lui a mensa disse: Un uomo fece una gran cena, e invitò molta gente. Et reliqua…

Da questa parabola, interpretata in relazione alla SS. Eucaristia, è facile di comprendere tosto qual desiderio vivissimo abbia Gesù Cristo, che noi di qualsiasi sesso, di qualsiasi età, di qualsiasi condizione, ci accostiamo frequentemente al banchetto Eucaristico. Imperciocché la gran cena, di cui qui si parla, raffigura appunto la SS. Comunione, e l’uomo che preparò quella gran cena rappresenta Gesù Cristo stesso, come il servo rappresenta la Chiesa, i Sacri Dottori, i Santi, i Pontefici, i Vescovi, i sacerdoti, che a nome di Gesù invitano e insistono, perché si vada, e frequentemente, alla Comunione. Che tale sia realmente il desiderio di Gesù Cristo, nonché da questa parabola, lo possiamo ancor capire benissimo dalle parole, con cui Egli promise questo gran dono e dal modo, con cui lo istituì. – Siccome questo dono di tutto me stesso, questa meraviglia delle meraviglie, Gesù la faceva con trasporto di gioia, così Egli vi pensò di continuo nella sua vita mortale, e prima di operarla volle prometterla. Aveva Egli con uno stupendo miracolo saziate un giorno più di cinquemila persone, quando tornato in Carfanao, vedendosi circondato da gran folla di quella gente, prese occasione di sollevare i loro animi ad un alimento migliore, e loro parlò di quel pane divino, che prima di morire avrebbe dato in cibo alle anime. Disse pertanto: « Io sono il Pane di vita; Io sono il Pane vivo disceso dal Cielo. I Padri vostri mangiarono la manna nel deserto, eppure morirono; ma chi mangerà di questo Pane vivrà in eterno. Il pane che Io darò, esso è la mia Carne, questo Corpo istesso, che Io esporrò alla morte per la salute del mondo ». . Queste parole significano chiaramente che Gesù voleva dare in cibo il suo Corpo vero e reale, e non già una immagine o figura di esso. I suoi uditori medesimi intesero queste sue parole come suonavano, cioè nel loro senso naturale, e non figurato; ma grossi di mente come erano, non sapevano immaginarsi come Egli avrebbe potuto dare in cibo il suo Corpo, senza farlo tagliare a pezzi, come si usa in un macello. Quindi invece di riflettere che quel Gesù, il quale aveva già date in loro presenza tante e sì luminose prove di sua onnipotenza, avrebbe pur saputo e potuto trovar modo di compiere la sua promessa senza spargimento di sangue, si mostrarono increduli alle sue parole e dissero: Come mai può Egli darci a mangiare la sua Carne? Al vedere le difficoltà ed obiezioni che coloro facevano, Gesù non corresse, né punto moderò le sue parole; anzi premendogli che si ritenesse per verità inconcussa, che nella divina Eucarestia Egli avrebbe lasciato il suo vero Corpo, e che si riconoscesse il desiderio vivo che noi ce ne avessimo a cibare, continuò il suo discorso dicendo: « In verità, in verità vi dico, che se non mangerete la mia Carne e non berrete il mio Sangue non avrete in voi la vita: chi degnamente mangia la mia Carne, e beve il mio Sangue, ha la vita eterna, e Io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Imperocché la mia Carne è un vero cibo, e il Sangue mio una vera bevanda, che, a diversità di ogni altro alimento, nutriscono l’anima, e sono per lo stesso corpo quale un germe di risurrezione e di vita immortale. Chi mangia la mia Carne, prosegue Gesù, e beve il mio Sangue, sta in me ed Io in lui. Siccome il Padre, che mi ha mandato, è il primo fonte della vita ed Io stesso vivo della vita ricevuta da Lui, così ancora chi mangia la mia Carne vivrà della vita ricevuta da me ». Poteva Egli, Gesù, parlare più chiaro per significare il gran dono, che voleva farci, e per esprimere la sua brama vivissima che noi ci accostassimo sovente a riceverlo? No, le sue parole non lasciano dubbio veruno sulla sua intenzione. Ma non meno chiaramente ci fece intendere questa sua brama nel modo con cui, assecondando la sua promessa, istituì poscia questa mensa di vita eterna. Eccolo pertanto nel Cenacolo in quella sera memoranda, in cui sarebbe stato tradito. In quell’istante Gesù brilla d’insolita gioia, e i sacri raggi del fuoco, che gli arde in petto, gli rifulgono in fronte più vividi che mai. Egli pare in un’estasi d’amore. Egli prende pertanto del pane, e tenendolo nelle sue mani adorabili, alza gli occhi al Cielo, quasi per domandare licenza al Padre di operare quel grande portento, e lo ringrazia di avergliela concessa. Abbassati gli occhi, benedice quel pane, lo spezza e distribuisce ai discepoli dicendo: – Prendete e mangiate; questo è il mio corpo: quel Corpo, che sarà dato a morte per voi. » Parole adorabili, parole onnipotenti! In virtù di esse quel pane, non conservando che le sue apparenze, cangiossi sull’istante nel vero Corpo di Gesù. Quindi preso un calice, vi versa del vino, rende grazie a Dio, lo benedice, e lo dà ai discepoli dicendo: « Bevetene tutti: questo è il mio Sangue, il Sangue della nuova alleanza, quel Sangue, che sarà versato per voi e per molti altri in remissione dei peccati. « Detto, fatto: a queste divine parole il vino mutò sostanza, e rimanendone le sole specie, divenne sul momento Sangue di Gesù, divenne anzi Gesù medesimo, facendosi Egli tutto intero, tanto sotto l’una, quanto sotto l’altra specie. Oh! nessuno certamente porrebbe dire la consolazione che godettero gli Apostoli in quella prima comunione. L’amore, l’attaccamento, che già avevano a Gesù, si accrebbe loro nel cuore mirabilmente. Ma per Gesù non basta il darsi agli Apostoli soltanto. Egli in quella sera di tanto amore ha in mente, e sente nel Cuore tutti coloro, che avrebbero creduto in Lui ed abbracciata la sua Religione sino alla fine del mondo. Perciò a tutti Egli vuole donare se stesso, con tutti Egli brama di starsi unito in dolce amplesso, come un padre, come una madre coi figli suoi. Che fa pertanto? In quella sera medesima crea Sacerdoti i suoi Apostoli, dà loro la facoltà di formarne degli altri, e a questi degli altri ancora sino alla fine del mondo. Poscia a tutti e ai presenti e ai futuri Egli comunica la potestà e il comando di operare quello che operò Ei medesimo, e cangiare il pane e il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue, e dice: « Fate questo in memoria di me ». E dove e fino a quando? Dappertutto ove siavi un Sacerdote, e finché Egli torni visibilmente su questa terra, risponde San Paolo. Vedete adunque la bontà grande di Gesù ed il suo amore immenso! Noi non eravamo ancora, eppure Egli già ci vedeva, ci amava, e disponeva di venire a noi, unirsi a noi, stringersi in dolcissimi amplessi con le anime nostre, prima ancora di abbracciarle eternamente in Cielo! Ma così disponendo Egli dimostrava appunto la sua brama ardentissima, che noi andassimo a riceverlo, ed a riceverlo sovente, perché altrimenti come potrebbe in questo Eucaristico banchetto farsi il nostro cibo ed unirsi a noi nel modo più intimo?

2. Tuttavia perché siamo sempre più persuasi di quella sua brama, facendo propriamente come il ricco Signore della Parabola, nel quale si degnò di raffigurarsi, Gesù Cristo manda a manifestarcela il suo servo, anzi la sua Sposa medesima, la Chiesa, la quale è assai più fedele interprete dei desideri del suo sposo, che non lo sia un servo di quelli del suo padrone. – Ed ecco appunto la Chiesa farcisi innanzi, ed a grandi e a piccoli, a ricchi e a poveri, a giovani e a vecchi, a lieti ed a tribolati, agli uomini di ogni condizione, raffigurati nei mendici, negli storpi, nei ciechi, negli zoppi della parabola raccomandare insistentemente che andiamo spesso, e se è possibile anche ogni giorno al banchetto Eucaristico. Di fatti ecco anzitutto gli Apostoli, i quali, immediatamente ammaestrati alla scuola di Gesù Cristo, insegnarono ai primi Cristiani di comunicarsi tutti i giorni, come si legge negli atti Apostolici; pia usanza che durò parecchi secoli, poiché S. Girolamo asserisce che ai suoi tempi perseverava lo stesso pio costume in Roma e nella Spagna. Quando poi i Cristiani si intiepidirono nella pratica della Comunione quotidiana, la Santa Chiesa ordinò che essi si comunicassero almeno tutte le domeniche. E l’uso di comunicarsi ciascuna domenica sussisteva ancora nell’ottavo e nel nono secolo, come si scorge nelle costituzioni dei Vescovi adottate da Carlo Magno. Avendo in seguito i fedeli trascurata anche la Comunione di ciascuna Domenica, la Chiesa ingiunse di comunicarsi almeno tre volte all’anno, a Natale, Pasqua e Pentecoste; quindi per la negligenza dei fedeli nel comunicarsi tre volte all’anno, decise di non fare stretti precetti che per la Comunione Pasquale. Ma nel prescrivere di comunicarsi almeno a Pasqua, mostra chiaramente con quella parola “almeno”, il desiderio che Essa ha di vedere i suoi figli comunicarsi più frequentemente. E il sapientissimo Pontefice Benedetto XIV, insistendo su queste medesime parole, dice: Conviene che i Vescovi e i pastori esortino i popoli a ricevere il più spesso possibile i santi Misteri, e soprattutto nelle principali feste dell’anno. – La Chiesa adunque ha tanto a cuore la Comunione frequente dei fedeli, che si induce sino a pregarli, a supplicarli per le viscere della misericordia divina, di rendersene degni con la fermezza e costanza della loro fede, con la loro pietà, devozione e rispetto verso questo angusto Sacramento. Essa desidererebbe ardentemente che i fedeli si accostassero alla S. Comunione ogni volta che assistono al santo Sacrificio della Messa, che è quanto dire ogni giorno. Ecco come la Chiesa, ch’è la stessa in tutti i tempi, invita tutti i suoi figli alla Comunione frequente. – Il Catechismo del Concilio di Trento, spiegando i voti e i desideri di questo santo Concilio intorno alla Comunione, insegna che i Pastori devono esortare spesso le loro pecorelle non solo alla Comunione frequente, ma anche giornaliera, facendo ben capire che, siccome è necessario alla vita del corpo prendere cibo con frequenza e abitualmente, così è necessario per la vita cristiana dell’anima accostarsi abitualmente alla Mensa eucaristica. Poscia soggiunge: Gioverà inoltre assai richiamare qui alla memoria quella figura che abbiamo della Manna, con la quale era necessario rifocillare le forze corporali tutti i giorni: così pure le autorità dei santi Padri, le quali raccomandano caldamente la frequente Comunione, imperocché non fu solamente di San Agostino quella sentenza: “Ogni giorno pecchi; ogni giorno comunicati”: ma se si studia con diligenza, facilmente si vedrà che di questo avviso furono pure tutti i santi Padri che scrissero di questo argomento. Ed invero per citarne qualcuno, perché, dice S. Giovanni Grisostomo, voi che siete nel numero di quelli che possono comunicarsi, non volete curarvene? Rifletteteci bene, io ve ne scongiuro. Ditemi, di grazia, che pensereste voi di colui che, essendo stato invitato a pranzo, si mettesse a tavola e non mangiasse punto? Gesù Cristo c’invita al banchetto della Comunione. Noi assistiamo alla S. Messa: e perché non ci comunichiamo noi anche ogni giorno? Non è questo, in qualche maniera, disprezzare gl’inviti e il banchetto del nostro divin Maestro Gesù? S. Cipriano diceva: Quando noi nell’orazione domenicale chiediamo a Dio il nostro pane quotidiano, noi chiediamo Gesù Cristo nella Eucaristia, perché in questo Sacramento Gesù Cristo è pane di vita, pane non comune a tutti ma solamente nostro, cioè di noi Cristiani; e chiediamo che ci si dia ogni giorno questo Pane divino; perchè una volta che abbiamo ricuperata la vita della grazia, ed abbiamo cominciato a vivere in Gesù Cristo, la frequente Comunione è il mezzo più efficace onde mantenere in noi la sua santificazione e il suo amore. San Basilio il Grande, S. Ilario, San Girolamo, S. Gregorio Magno dicono replicatamente che questo è ciò che tanto desidera Dio, di abitare proprio ogni giorno in noi per mezzo della S. Comunione. S. Ambrogio scrisse: Se l’Eucaristia è il vero pane quotidiano, per quale stolidezza, o uomo, non ti accosti a riceverlo se non una sola volta all’anno? E S. Tommaso c’insegna che essendo la virtù del Sacramento dell’Eucaristia quella di dare all’uomo la salute, così sarebbe utile parteciparne anche tutti i giorni, affine di riceverne tutti i giorni i frutti salutari. E dopo d’aver uditi alcuni Santi Padri, osservate ancora, o miei cari, gli esempi di quei grandi Santi, che Dio suscitò nel secolo XVI in opposizione ai mostri di eresia, che il demonio aveva istigati per distruggere il Cristianesimo. S. Gaetano, S. Ignazio, S. Filippo Neri, S. Carlo Borromeo, S. Francesco di Sales, S. Andrea, San Giovanni della Croce, S. Teresa, posero tutto il loro zelo nell’attirare i fedeli alla Comunione frequente: e con questa pratica salutare, che promossero ardentemente con la voce e con gli scritti, riuscirono a riformare il rilassato costume dei popoli, a rianimarvi la pietà mezzo estinta, a farvi rifiorire tutte le virtù del Vangelo!

3. Ma se la Chiesa per mezzo degli Apostoli, dei Pontefici, dei Santi, de’ suoi ministri raffigura così al vivo il servo della parabola, che ossequente al volere del suo padrone, tornò tante volte a fare l’invito alla gran cena, vi hanno pur troppo tra i Cristiani un gran numero di coloro, i quali sgraziatamente si incaricano di raffigurare quegli invitati, che villanamente respinsero l’invito. Ed in vero quanti Cristiani passano le settimane, i mesi, e persino gli anni interi senza venire alla sacra mensa! Si sa, ancor essi come i convitati del Vangelo arrecano di questa condotta le loro scuse. Taluno, come il primo convitato, adduce il pretesto dell’imbarazzo, in cui si trova per le cose temporali: Villam emi bisogna che si occupi dei suoi lavori, delle faccende del suo stato, della coltura della sua mente, dell’apprendimento delle sue lezioni. Insensato! il quale dimentica, che l’affare più importante, l’unico affare è quello della salute. Un altro, raffigurato da quello che aveva da andare a provare i buoi, mette innanzi la difficoltà di domare le sue passioni. Egli dice che impetuose tendenze lo travagliano e lo trascinano al male, e che ei non può vincersi… Che più tardi, quando i ghiacci dell’età avranno raffreddato e i suoi sensi e il suo cuore, approfitterà della calma dei vecchi suoi anni, per far la pace con Dio e ricevere poi allora, anche frequentemente, la divina Eucaristia. Or questo non è un dire: O mio Gesù, quando la vita sarà logorata, quando non vi sarà più nulla pel piacere, quando non mi resterà altro che un cuore macchiato dalle turpitudini della vita, questo allora sarà per voi…? E non è questa una sanguinosa ingiuria per Gesù nel suo SS. Sacramento? Senza dubbio fa bisogno d’esser padrone delle proprie passioni per ricevere con frequenza la SS. Comunione; ma se non le signoreggiate, di chi è la colpa? Un terzo poi dirà: Io so che non faccio delle buone Comunioni; mi trovo in condizione difficile, ho contratto una certa amicizia; sono vincolato da’ suoi legami, epperò di andare alla Comunione non mi sento affatto: Uxorem duxi, et ideo non possum venire. A tutte queste scuse, aggiungete il rispetto umano, che spadroneggia tanti poveri Cristiani e specialmente tanti poveri giovani, i quali pure andrebbero ben volentieri a comunicarsi spesso, se non temessero gli altrui sguardi e le altrui derisioni, ed avrete così un’idea della stoltezza dei pretesti, che da tanti si adducono per scusare la loro lontananza dalla SS. Comunione. – E noi, o miei cari, vorremo restare nel numero di questi insensati? Quando non valesse altro, ci spinga a non appartenervi la terribile sentenza, con cui Gesù Cristo chiudendo la sua parabola ci fa intendere, che chi si rifiuta di accostarsi alla mensa Eucaristica, sarà sbandito eternamente dalla mensa celeste. Ma più ancora di questa minaccia ci sproni alla frequenza della Comunione l’amore di nostro Signor Gesù Cristo. Oh sì! Che la sua carità immensa trovi un po’ di ricambio nei nostri cuori e ci unisca spesso a quel Dio, che tanto ha fatto per unirsi a noi!

Credo …

Offertorium

Orémus Ps VI: 5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam. [O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]

Secreta

Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem. [Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]

Communio

Ps XII: 6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi. [Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]

Postcommunio

Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza].

LO SCUDO DELLA FEDE (65)

LO SCUDO DELLA FEDE (65)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

CAPITOLO XVII.

IL PROTESTANTISMO È FALSO PERCHÉ SI DEPONE NELL’ULTIMA ORA.

L’ uomo fintantoché è sano, è vegeto, è in istato fiorente suol avere un modo di pensare, che spesse volte poi cambia quando le calamità, l’infortunio gli piombano addosso. Le mutazioni più meravigliose però succedono nell’ora della morte. Quale sarà la ragione di ciò? É che l’uomo nell’esaltamento che gli cagionano le passioni e le pazze allegrezze del mondo, dimentica se stesso, i suoi doveri, la giustizia, la verità: e quando la mano di Dio lo percuote, allora fa come Antioco, rientra in se stesso e dice: Ah ora mi rammento dei mali che ho fatto e dei peccati che ho commesso (I. Mac. VI. 12)! Si, la candela che si accende al letto di morte, dissipa molte tenebre e spande una luce sì viva, che vedonsi le cose al tutto diversamente da quello che si erano vedute in vita. Ed il giudizio che dà la morte sopra di esse, lo Spirito Santo afferma che è molto buono (Eccli. XLI, 3). Sentite dunque vari giudizi, che la morte pronunzia al nostro proposito. Si è mai trovato alcuno che all’ora della morte si sia pentito di essere stato Cattolico, o di non avere abbracciato il Protestantismo? Su dite, vi è stato mai qualche Cattolico che si sia pentito di avere obbedito in tutto e per tutto alla Chiesa Cattolica, di essere stato sottomesso al Papa, di avere ricevuti spesso i Santi Sacramenti, di avere pregato nelle Chiese, riverita la S. Vergine, onorati i Santi, di aver digiunato, fatta penitenza e di essersi esercitato in tutte le pratiche della Religione Cattolica? Su, ne avete mai trovato alcuno, che abbia fatto tutto ciò? che in quell’ora proprio si sia ritrattato, che vi abbia rinunziato, che per

assicurare la sua salute abbia chiesto in grazia di morire Protestante? Cercate tutti i libri, leggete tutte le storie, questo caso non vi si presenta mai. Tutto al contrario, chi ha praticato bene la S. Fede Cattolica in quel punto vi si attiene strettamente e continua a raccomandarsi a Gesù, alla Vergine, ai Santi, chiede tutti i Sacramenti, tutte le benedizioni della Chiesa, e trova in esse quegli aiuti che la sua buona Madre gli somministra, un salutare conforto, una dolce rassegnazione, una vena perfino di santa allegrezza, e muore benedicendo Iddio d’essere vissuto Cattolico e desidera di morire come è vissuto. Se qualcuno vi è che soffra rimorsi, è appunto per non avere osservate abbastanza tutte quelle prescrizioni che la S. Chiesa gli aveva inculcate. Questo è un fatto sicuro, continuo, costante, di cui voi stessi ne siete stati mille volte testimoni. Ora che vuol dir ciò? In quel momento più non si burla e non si ride: vuol dire adunque che al letto di morte si giudica che la Religione Cattolica è la sola che apre la strada della salute. Il savio Ulrico Duca di Rrunswich mosso principalmente da questa ragione lasciò il Protestantismo, e si fece Cattolico. Tenetevi dunque stretti a quella Religione che a quel punto vi darà tanta fiducia. Che se al letto di morte mai nessun Cattolico si è pentito di avere osservata scrupolosamente la sua Religione, e mai si è voluto far Protestante per assicurare viepiù la sua salute, è forse accaduto lo stesso anche ai Protestanti? Oh quanti di loro hanno desiderato invece di rendersi Cattolici in quel gran punto non tenendosi sicuri di lor religione! Perfin quella peste che fu Arrigo VIII seminatore di tante discordie nella Chiesa di Dio, in quelle ore per acquetare i rimorsi della coscienza volle rifarsi Cattolico sebbene non si sa troppo con qual esito. Negli ospedali Cristiani è frequentissimo il caso di poveri Protestanti, che in quelli estremi tocchi dalla grazia di Dio ed in faccia all’eternità vogliono essere dei nostri. Perfino neh’ ultima guerra di Sebastopoli si diedero molti casi di poveri soldati che chiesero in grazia ed ottennero di poter morire Cattolici: e tutto ciò mentre neppur uno dei nostri Cattolici sognò mai di farsi Protestante in quell’ora. Che vuol dire tutto ciò? Ah la candela mortuaria getta pure la gran luce! Ma di quelli poi che essendo Cattolici, si fecero Protestanti, che cosa avvenne in punto di morte? Non pochi di loro morirono lasciando segni aperti di lor dannazione, altri si pentirono e si ritrattarono dei loro errori, confessando pubblicamente che avevano prevaricato e chiedendo perdono dei loro scandali. Lutero stesso morì dopo certi disordini ed eccessi nel bere; quasi subitamente al pari di una bestia e poco dopo mandò tal fetore, che anche chiuso in una cassa di piombo, non poteva sopportarsi. Calvino morì menando tanti vermini e tanta puzza ed in mezzo a grida e bestemmie così disperate, che per testimonio dei suoi medesimi Protestanti metteva orrore. Di Zuinglio, diceva Lutero, che il demonio l’aveva strozzato per le sue bestemmie. La perfida Regina Elisabetta chiamava se stessa una miserabile ed esclamava: han messo un giogo intorno al mio collo; e morì in una malinconia e disperazione desolante. Lo Spalatino amico intimo di Lutero finì la vita in preda ai rimorsi ed alla disperazione che gli tolse il senno. Giusto Giona morì disperando della misericordia di Dio. Mattezio passò l’ultimo anno di sua vita in mezzo a rimorsi e terrori continui e in preda alla disperazione. Il celebre Ridembah non cessava di ripetere che aveva incorsa la dannazione sostenendo una falsa dottrina, ed in un momento di furore si gettò da una finestra. Sei anni dopo morì disperato il suo fratello imbrattato degli stessi errori. I1 famoso Kenniz passò l’ultimo anno di sua vita piangendo e singhiozzando sempre. Altri molti morirono impazzati. Se io dovessi raccontarvi tutte le morti orribili di questi fabbricatori di eresie, vi metterei raccapriccio ed orrore (V. Perrone, Regola di Fedo P. III. c. 6). E certo quando si troverà uno di questi infelici apostati a quel tremendo passo, gli torneranno in mente tutti gli insegnamenti della S. Chiesa Cattolica, la prima Comunione fatta nello stato d’innocenza, le Confessioni, le Messe, e tutti gli aiuti che aveva sempre trovati pressò di noi, ed oh allora che rimorsi, che strazi, che terrori non proverà! Ci vorrà altro a consolarlo, che la lettura del Diodati, del De Sanctis, del Borella e di altri simili infami libercoli. Allora vedrà chiaro che tutto fu un inganno volontario delle sue passioni, e che se poté ingannare gli uomini, non ingannò né Dio, né la propria coscienza. Quelli poi che nell’ultima ora ebbero dal Signore tanta grazia di ravvedersi, patirono tuttavia tanti rimorsi e spaventi che mai non finivano di acquetarsi, e di chiedere perdono a Dio ed agli uomini dell’orrendo peccato, che avevan commesso abbandonando la S. Fede. Ora che cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire quel che il Protestante Melantone significò alla sua madre. Questa buona donna richiese al suo figliuolo che spacciandosi Dottore della nuova Religione, menava tanto strepito con le sue fallaci predicazioni, che le volesse significare sinceramente se era meglio esser Cattolico o Protestante. Egli allora rispose, che si rimanesse Cattolica, perché (notate bene la ragione) il Protestantismo era buono per vivere, ma per morire era meglio il Cattolicismo. Avete capito? Per contentare il senso, per sfogare tutte le passioni, per vivere secondo il capriccio è buono il Protestantismo, che non ha l’impaccio della Confessione, della Comunione, della Chiesa, della Messa, dei digiuni etc. etc: ma per quel momento terribile in cui uno si ha da presentare al divin Giudice, in cui ha da entrare neh’ eternità, in cui si ha da render conto di tutte le proprie azioni, in cui si ha da subire la sentenza di eterno premio o di eterno supplizio, per quel momento è meglio il Cattolicismo. Ora non siamo noi forse sulla terra per altro che per fare acquisto della beata eternità? Quale sarà dunque la Religione che abbracceremo? Quella sola che dà consolazione in morte, che rassicura nelle agonie, che provvede all’eternità.

IL SACRO CUORE DI GESÙ (19): Il Sacro Cuore di GESÙ e la società

Il Sacro Cuore di Gesù e la società.

Esiste Dio ed esiste l’uomo; Dio infinito ed eterno e l’uomo finito e mortale. Dio adunque è il Creatore, il padrone, il benefattore; l’uomo, la creatura, il servo, il beneficato. Potrà essere pertanto, che l’uomo creatura, servo e beneficato di Dio. possa fare a meno di Lui e vivere senza darsene alcun pensiero e senza rendergli alcun omaggio? E potrà essere ancora, che Iddio dopo d’aver creato l’uomo, lo lasci abbandonato nelle mani del caso, senza inchinarsi mai verso di quest’opera sua. senza punto curarsi della sua felicità? Il supporre tutto ciò sarebbe far dell’uomo un bruto, e di Dio un imbecille. No, l’uomo, dotato di ragione per conoscere e di cuore per amare, non può non tendere al conoscimento ed all’amore di Dio; e se egli non vi si applica per sua negligenza o per sua deliberata volontà, violenta la sua natura. E Dio da parte sua, avendo creato l’uomo nell’amore, non per necessità certamente, ma ancora per amore vuol farsi vicino all’uomo, mettersi in intima relazione con lui, pigliarsene cura, ascoltare i suoi gemiti, le sue preghiere, i suoi bisogni, come fa una madre col bambino, che ha dato alla luce. Ed ecco, o miei cari, in questo ammirabile discendimene di Dio con l’uomo e in questa sublime ascensione dell’uomo a Dio, ecco la Religione; ed ecco ancora per l’uomo il suo fine, la sua felicità. Fuori di Dio, senza Dio, lontano da Dio, l’uomo nella irreligione, per quanto possa apparire uomo e felice, non è che un miserabile in preda alle angosce più tormentose, alle torture più orribili. Ma quello che è dell’uomo individuo, non lo è meno dell’uomo-società. Poiché Iddio ha fatto l’uomo sociale, è Dio ancora, che ha fatto la società, e ne ha cura. E la società fatta da Dio e da Dio curata, ancor essa non può viver e senza di Lui, senza basarsi in Lui, senza stare sul le sue braccia, senza tendere al suo pieno possesso, giacché, come nota S. Tommaso, il fine della società non può esser altro che quello dell’uomo individuo. In quel dì pertanto, che la società si attenta di vivere senza Dio, comincerà a sentire nel suo seno dolori spaventosi, terribili sconvolgimenti, forieri della sua rovina nel tempo e nell’eternità. Or ecco, o miei cari, uno dei supremi benefizi, che Gesù Cristo, venuto al mondo per la salvezza dell’umanità, le ha recato. Egli per mezzo della sua Religione, della sua dottrina, dei suoi dogmi e della sua morale, non solo si è studiato di mettere Dio nel cuore dell’uomo individuo, perché l’uomo individuo con Dio nel cuore viva in pace quaggiù e un giorno sia felice in cielo, ma si è ancora adoperato per mettere Dio, più che era possibile, nel cuore, nell’anima, nella vita della società, perché la società animata in tutte le sue differenti classi, dalla fede, dall’amore e dal timore di Dio, godesse essa pure la pace qui in terra, e un giorno fosse incorporata nella società dei beati in cielo. Sì, certamente, la Religione santissima che Gesù Cristo è venuto a stabilire quaggiù è essa la base, la fonte, la generatrice dell’ordine, della pace, della prosperità di qualsivoglia popolo. Non è possibile adunque gettare lo sguardo sopra le fiamme, che invadono il Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo, senza rammentare questa prova così grande, e pur troppo così poco considerata e riconosciuta, della sua carità infinita per noi. Ma se vi è tempo tanto opportuno di considerarla e riconoscerla, è certamente questo, in cui il delitto esecrando, a cui si è posto mano, anche nell’Italia nostra, è propriamente questo: di rinchiudere Iddio nelle Chiese e nel cuore di chi ancora intende di aprirglielo, di sbandeggiare Iddio dalle credenze, dai costumi nazionali, dalle assemblee, dalle leggi, dall’esercito, dalle scuole, dalle officine, da tutto ciò insomma, che forma la vita della società. Vediamo adunque come Gesù Cristo con la sua Religione abbia dato alla società il gran mezzo del suo benessere.

I. Come ogni corpo umano è formato del capo, che governa, e delle membra che sono governate, e come le membra di questo corpo non sono tra di loro uguali, perché non hanno lo stesso fine e lo stesso ufficio da compiere, così ha da essere di un corpo sociale. Ancor esso deve avere il capo che governi e le membra che siano governate; e le membra di questo corpo non possono aver neppur esse nella vita sociale né le stesse proprietà, né lo stesso aspetto, né la stessa importanza. Queste sono verità di senso comune, e non hanno bisogno di altro che di essere enunciate. Coloro, che contro il senso comune sognano di togliere i capi alle società, ne attentano la dissoluzione, perché dove non vi è capo il popolo cade: Ubi non est gubernator, populus corruet; (Prov. IX, 14) e quegli altri, che si travagliano per togliere dalle società le disuguaglianze e i contrasti, anzitutto si travagliano intorno ad un opera inutile, perché le disuguaglianze ed i contrasti derivano da cause indistruttibili, che durano da che dura il mondo, e si rinnoveranno sino all’ultima generazione; e supponendo pure che avessero a riuscirvi non potrebbero far altro che ridurre la società presente bella, libera e grande nella sua varietà, ad una società uniforme, volgare, laida, abbruttita e vile. Ciò prestabilito, io dico tuttavia che uno degli spettacoli più meravigliosi, che possa presentare il mondo è quello della sussistenza di un popolo, i cui membri siano in unione, in armonia, in pace fra di loro. Questo popolo, come ogni altro si compone necessariamente di governanti e di sudditi, di padroni e di operai, di signori e di servitori, di ricchi e di poveri, di forti e di deboli, di grandi e di piccoli. Ma in tanta disparità di condizioni regna l’ordine tuttavia, perché i deboli sono sostenuti dai forti, i poveri non invidiano la sorte dei ricchi, e i ricchi aiutano i poveri, i servitori e gli operai prestano volentieri il lavoro delle loro mani ai signori ed ai padroni, e i signori ed i padroni danno agli stessi la conveniente mercede e li trattano con bontà e con amore, i sudditi obbediscono ai governanti che esercitano con autorità e giustizia i loro poteri. Or come accade, che in un popolo siffatto i forti non si fanno ad opprimere i deboli, i poveri, che sono assai più numerosi dei ricchi, non sì lanciano contro le porte dei loro palagi per abbatterle e penetrare nelle loro sale e spogliarli dei loro averi, e i ricchi non legano alla catena questi poveri ad impedire l’invasione delle loro sostanze, e i servitori e gli operai non rinunziano alla fatica ed al servizio dei padroni con animo di invertire le parti, e i signori e i padroni non stivano in fondo agli ergastoli e i servitori e gli operai, e i governanti non schiacciano i sudditi? Come accade ciò? Che cosa è, che impedisce tra queste classi così diverse i cozzi spaventosi? Che cosa ingenera la pazienza, l’obbedienza, il rispetto nei piccoli, e la moderazione, la giustizia, la carità nei grandi? Che cosa salva la libertà, la grandezza e l’onore di questo popolo? Questa, o miei cari, è la domanda che si fecero gli stessi filosofi antichi, ogni qual volta si incontrarono in un tal popolo o lo immaginarono. E a questa domanda essi seppero rispondere esattamente anche col solo lume della ragione. « Nello stabilimento di uno Stato, ha detto Platone, noi dobbiamo invocare Iddio, perché Egli ci sia benigno e propizio e ci insegni le leggi che ne formeranno il benessere e l’ornamento. La vera base di uno Stato è la vera religione; epperò di nulla devono essere maggiormente solleciti i magistrati che della cura della religione e della punizione di ogni empietà. » Gli stessi sentimenti furono espressi colla medesima chiarezza da Senofonte, da Cicerone e da Valerio Massimo. E Pindaro, con uno di quei voli, che sono del tutto suoi, ha proclamato che lo stolto ed il vile possono bene sovvertire le città, ma a tornarle in fiore non vi riesce che il prode, il quale sa che perciò fa d’uopo aver Iddio propizio. – In sostanza, la stessa sapienza pagana ha intuito, che fondamento dell’armonia, della pace e della prosperità di un popolo, è la religione e l a vera Religione. Ma ciò che essa intuì, non poté mai vedere attuato, appunto perché ai suoi popoli mancava la vera religione. Epperò lo stesso popolo romano, benché si grande nel culto degli dèi, fu il popolo più furente nella lotta tra le diverse classi sociali. La sola religione adunque, ma ben inteso la sola Religione che Gesù Cristo è venuto a stabilire nel mondo, è quella che può condurre un popolo all’unione, all’armonia, alla pace, alla sua possibile perfezione, perché la sola Religione di Gesù Cristo è quella che co’ suoi

dogmi, co’ suoi insegnamenti, produce quelle virtù, che sono perciò indispensabili. Ed in vero è solo la Religione di Gesù Cristo  quella, che chiaramente ci disvela che nella società ogni potere viene da Dio ed è perciò ministro e rappresentante di Dio per il bene dei sudditi. Che quindi bisogna star soggetti al potere come si sta soggetti a Dio, e che chi resiste al potere è a Dio che resiste. È la sola Religione di Gesù Cristo adunque quella che dice anzi tutto al pubblico potere: « Rispettati, perché rappresenti Iddio; » e poi ai sudditi: « Rispettate il potere, obbeditelo, non per timor della pena, ma per coscienza, aiutatelo anzi con le vostre preghiere, affinché Iddio gli sia largo di consiglio e di forza. » È la sola Religione di Gesù Cristo, che ne insegna che sebbene vi siano nel mondo disparità di classi, tuttavia tutti siamo fratelli, perché figliuoli tutti di uno stesso padre che è Dio, perché tutti fatti a sembianza di un solo, perché tutti destinati a possedere Iddio eternamente in cielo. Ed è perciò questa sola Religione, che anche ai grandi impone di rispettare i piccoli, di amarli anzi, e di usare ad essi quella carità che si usa a Dio, perché è questa sola Religione, che ci mostra un Dio di sapienza infinita, che nel farsi uomo elegge la sorte dei piccoli a preferenza di quella dei grandi, e ci apprende che questo Dio ritiene fatto a sé quello che si fa al più piccolo degli uomini. È la sola Religione di Gesù Cristo ancora, che a tutti impone il rispetto per l’altrui proprietà e per l’altrui vita, la rassegnazione al proprio stato, e persino il sacrifizio non solo per il bene proprio, ma anche per il bene altrui. Si, è questa Religione, che dice a tutti: Sacrificatevi. Ti sacrifica tu, o contadino, che ti alzi prima che spunti l’aurora e pigliando la tua marra in spalla ti avvii al campo ad irrorarlo de’ tuoi sudori per procacciare al tuo popolo il pane ed il vino, necessari alla vita fisica. Ti sacrifica tu, o minatore, che discendi nelle viscere della terra per cavarne fuori il carbon fossile, il ferro, l’oro e l’argento, tu, o operaio nel battere i metalli, nel segare i legni, nello scalpellar le pietre, essendo tutto ciò necessario alla vita industriale. Ti sacrifica tu, o impiegato alle poste, ai telegrafi, alle strade ferrate, vegliando e viaggiando, mentre gli altri uomini sono abbandonati al sonno, per agevolare la vita di relazioni. Ti sacrifica tu, o soldato, nelle asprezze degli esercizi, nelle privazioni del campo, nel furore della battaglia, por conservare alla patria la vita dell’onore. Ti sacrifica tu, o scienziato, tu, o magistrato, tu, o uomo del potere tu, o governante, per dare al tuo paese la vita del benessere intellettuale, morale e sociale. Ti sacrifica tu, o sacerdote, per dare ai tuoi compagni non già la vita del tempo, ma quella dell’eternità. Sì, sacrificatevi tutti, perché è il sacrifizio la strada della gloria e della felicità di un popolo. È infine la sola Religione di Gesù Cristo, che dopo aver dati alla società questi grandi insegnamenti, tutti li sancisce efficacemente con l’idea della libertà e della responsabilità umana, con quella di un Dio supremo rimuneratore dei buoni e terribile punitore dei malvagi, di un eterno godere e di un eterno patire, gridando: «Guai ai tiranni! i potenti saranno potentemente tormentati. Guai ai ribelli! saranno gettati eternamente in catene. Guai ai ricchi senza cuore per il povero! Saranno eternamente sepolti nell’inferno. Guai ai poveri, ai piccoli, che odiano i grandi e i ricchi, che maledicono alla lor sorte! Guai, guai a tutti coloro, che trasgrediscono non solo i doveri individuali, ma eziandio quelli sociali! Beati invece i saggi governanti, beati i forti aiuto del debole, beati i ricchi caritatevoli col povero, beati gli operai che lavorano, beati i poveri che soffrono, sì beati tutti costoro, perché a tutti costoro sarà dato un giorno l’eterno premio. » Ecco, o miei cari, dove sta il gran segreto di un popolo ordinato e prospero: nella Religione di Gesù Cristo. Quale carità adunque non ha mai dimostrato Gesù Cristo verso la società, avendole dato una Religione ed una dottrina sociale così sublime ed insieme così efficace! Eh! io so bene, che certi saputi, ebbri del moderno filosofismo, vanno predicando, che ad ottenere tutto ciò possono bastare benissimo e l’idea del dovere e dell’onore, e il pensiero del proprio interesse, e l’autorità delle leggi, e il timore della forza. Ma è così realmente? È vero, che l’idea del dovere, il puro suo sentimento, sia sufficiente a far sopportare l’ineguaglianza delle condizioni, la povertà, la fatica? È vero che faccia incontrare generosamente il sacrifizio per non infrangere l’ordine della società? Ma dove ha radice questo dovere? Come sussiste? Perché si impone ad una classe soltanto di uomini? alla classe dei diseredati, dei nulla abbienti? — È vero che abbia tanta efficacia l’idea dell’onore? Un pubblicista ha scritto: « Poiché noi più non abbiamo la follia della croce, abbiamo in sua vece la follia dell’onore. » Ma che cosa è l’onore, o meglio ancora il punto d’onore, quando più non vi ha la coscienza? Che cosa vale il punto d’onore per la massa degli esseri volgari? E ben anche per certe anime elevate che cosa è in certe materie? Chi ignora quante infamie morali si possono commettere pur restando uomini di onore? — Dunque sarà più efficace il pensiero dell’interesse? Ma vi sono cento occasioni, in cui non è affatto nel proprio interesse di soffrire, di obbedire, di lavorare; e quando pure fosse vero il dire, che rassegnarsi alla propria condizione, per quanto infelice, è sempre del proprio interesse, essendo che l’ordine, che procede da tale rassegnazione, non manca di produrre dei grandi vantaggi, ciò è qualche cosa di troppo elevato e sottile, perché la società in genere arrivi a comprenderlo. E poi alla fin fine, a che si riducono questi grandi vantaggi, quando non si possa sperare quello imperituro del cielo? Gesù Cristo ha detto: « Beati quelli che piangono; » ma ha tosto soggiunto: « perché saranno consolati. » Costoro invece, che alla Religione vogliono sostituire l’interesse, vorrebbero dare ad intendere agli uomini, che sono beati nel patire, sopprimendo che saranno consolati. Ma gli uomini non sono così stolti! E ragionando diranno: Se dunque l’interesse è lo scopo della vita, speculiamo; e quando abbiamo l’interesse ad obbedire, a servire, a faticare, obbediamo, serviamo, fatichiamo; quando in ciò non vi è per noi alcun interesse, facciamo il comodo nostro. Oh Dio! Nessuno vi ha che non veda quanto sia bassa e calamitosa questa dottrina, quanto invilisca le anime, quanto guasti i caratteri e perverta il senso morale! E dunque saranno di maggior efficacia l’autorità delle leggi, e il timor della forza? Ma le leggi, diceva già Aristotile, sono come la tela di ragno, che ferma i moscherini e lascia passare gli uccelli di rapina. E poi dove mai le leggi attingeranno la loro autorità, se la Religione non conta e più non si crede al Legislatore supremo? Se queste leggi non si basano che sull’autorità dell’uomo, io non so perché le debba osservare, perché uomo sono anch’io uguale a colui che le ha fatte, e agli uguali non si presta obbedienza di sorta. In quanto poi alla forza, io tosto mi domando: E così, io, uomo dotato di un’intelligenza per ragionare e di un cuore per amare, dovrò stare al mio posto e seguire la mia strada come il giumento, solo per le minacce della sferza e in vista dei colpi di bastone? Ma in questo caso non potrei io come il giumento sprangar calci fatali a chi mi percuote? Non potrei io rompere le briglie e pigliare una corsa sfrenata per condurre al precipizio con me chi mi sta sopra? Ah! si moltiplichino pure all’infinito le leggi, si accresca a dismisura la forza, si raddoppino le precauzioni, si triplichino le serrature, si allarghino le prigioni, si aumentino le galere e i domicili coatti, si mettano gli stati d’assedio, si istituiscano i tribunali militari, si sguinzaglino gli eserciti, si punti il cannone, quest’ultima ragione dei re, e si spari contro le moltitudini in rivolta: tutto ciò potrà atterrirle per qualche giorno e domarne la ferocia, ma non ristabilire il vero ordine e la vera tranquillità di un popolo. Anche i vulcani si calmano nelle loro eruzioni, ma non cessano mai per ciò di essere vulcani. E se queste moltitudini inferocite un dì riescono esse ad impadronirsi delle baionette e del cannone, quali stragi e quali rovine in quel dì non accadranno? Con tutto ciò, o miei cari, io non nego ogni efficacia e al dovere e all’onore, e all’interesse e alle leggi e alla forza. Ma gira e rigira, qualunque sia la efficacia, che queste cose esercitano e devono esercitare, non d’altronde la ritraggono, che dalla Religione cristiana, e solo allora la esercitano piena e giusta, quando nella Religione onninamente sono basate. Messa la nostra Religione da banda, una ragione, una ragione sola non vi ha più, perché, come ha detto assai fortemente un illustre autore, questo uomo che vi lucida le scarpe e vi porta l’acqua debba essere contento della sua sorte. Egli vi avrà aspettato sino oltre la mezzanotte che voi tornaste a casa dal festino per accendervi il lume nella stanza. E voi mettendovi in pianelle, gli direte: Giacomo, prendete le scarpe da lucidare: questo è il vostro dovere. Ma egli vi potrebbe rispondere: Ah! il mio dovere è quello di lucidarvi le scarpe! E il vostro è quello forse di andarvi a divertire fino alla mezzanotte e di tornare poi a casa per comandarmi con tanta sicumera? E perché questo diverso dovere? Perché voi siete ricco ed io sono povero? Ma non si potrebbe invertire le parti? — Ma caro Giacomo, il tuo onore richiede così. — Il mio onore! l’onore di lucidarvi le scarpe! Si dirà: Giacomo lucida bene le scarpe del suo padrone. Eccomi dunque molto onorato. Ma io rinunzio a quest’onore. — Folle! tu non puoi rinunziarvi che rinunziando al tuo interesse, perché se tu mi lucidi le scarne, io ti pago. — Bell’interesse non arrivare a guadagnare in un mese la metà di quello, che voi avete speso nel divertimento stasera. Il mio interesse sarebbe di andare a scassinare la vostra cassa forte per gettarvi entro la mano. — Ma temerario, e la legge? — Se io rubo molto la legge non è per me. — E la forza? — La forza? Allora forza contro forza; e in quanto a forza noi servitori ed operai stiamo meglio di voi padroni e signori. Uniti insieme, i milioni che siamo, potremo anche rompere i nostri ferri sul capo dei nostri tiranni, ed allora sarà fatto: noi avremo il dovere di comandare e di godere, e voi … avrete voi l’interesse di soffrire, di lavorare, di mangiar male e il bell’onore di lucidarci le scarpe! — Signori! ecco le conseguenze più logiche di una vita sociale senza Religione.

II. — Eppure … ecco a che siam giunti dopo tanti progressi! Noi siamo giunti a questo, che la religione non è più socialmente curata, e che anzi è combattuta. Non si dica, che vi ha piena libertà di parola, che le chiese si lasciano aperte ed è lecito a chiunque lo voglia di entrarvi e soddisfare la sua pietà! Guai! se non restasse ancora questo. Ma dal lasciar aperte le chiese al curare la Religione ci passa assai. E voi, uomini del potere, voi signori del comando, voi padroni di immensi stabilimenti e di smisurate possessioni, voi, alla cui dipendenza avete un nugolo di servitori, voi la Religione potete dire di curarla? Quando è, che vi radunate in corpo nella casa di Dio? Quando è, che pubblicamente invocate il suo aiuto? Quando è, che venite a chiedere la benedizione alle vostre assemblee, ai vostri lavori, alle vostre imprese, alle vostre armi? Quando venite ad ascoltare la parola di Dio, che deve predicarsi anche per voi? Signori! la risposta è data. Un dì li vedevamo gli uomini della toga e quelli della spada venirsi ad umiliare qui, nella chiesa, davanti a colui, pel quale reges regnant et potentes decernunt iustitiam. Come erano grandi in quelle umiliazioni! Oggidì più nulla di tutto ciò. L’Italia ufficiale e pubblica non ha più Religione, o dirò meglio, di Religione non ha più altro che un articolo, il primo dello Statuto, che non si comprende come non sia stato le mille volte radiato. Ora io domando: Non basta questo male esempio per scemare nel popolo la stima e l’amore per la Religione? Ma viva Dio! Egli è vero che il popolo in generale non verrà mai a perdere del tutto il sentimento religioso non ostante lo scandalo di coloro, che stanno in alto. Ma almeno gli date voi pieno agio di esplicare questo sentimento e ridurlo alla pratica? Alla domenica, per esempio, questi poveri soldati, che nel partire dalle loro case hanno inteso a ripetersi da una madre in lagrime: figlio, non dimenticarti di Dio e della Madonna; li lasciate sempre in libertà per tempo, perché vadano a sentire una Messa? E a questi poveri operai dei grandi stabilimenti ed opifici, a questi lavoratori delle miniere e delle immense possessioni, concedete voi sempre nel giorno del Signore di non esser gravati dal lavoro perché diano un po’ della lor vita al tempio e alla famiglia? E qual è la libertà, che date ai poveri ferrovieri, a questi uomini, che vivono quasi sempre appartati dalla società e dalla famiglia? quale comodità, quali mezzi date loro, perché soddisfacciano almeno ai doveri più essenziali della Religione? Ah! oggidì è gran cosa, che ad un povero manuale della ferrovia s i concedano in tutto l’anno dieci giorni di licenza. Eppure in mezzo al pericolo continuo di essere massacrati e stritolati sotto alle ruote di un treno non avrebbero bisogno più che altri di invocare sovente l’aiuto di Dio e di renderselo propizio? Ma ciò non è tutto. Non solo la Religione non è socialmente curata: essa è ancor combattuta. Perciocché non si impediscono le tante volte quelle grandi manifestazioni religiose, alle quali il popolo si sente irresistibilmente attratto? Negli uffici, nei banchi, nelle amministrazioni, nelle scuole, nei laboratori, negli opifici, e persino nei campi, non si prendono di meni coloro che praticano la Religione? Non vi hanno padroni e signori, che deridono i servi e le fantesche per la loro pietà? Col pretesto insensato di combattere un nemico non si osteggia, non si incaglia, non si inceppa tutto ciò che gli uomini di Religione vanno facendo per difenderla e sostenerla? E a noi sacerdoti non si pone forse il bavaglio alla bocca, perché più non diciamo liberamente quella parola di Dio, che Gesù Cristo ha pur fatto essenzialmente libera? Ah! voi uditori Cristiani, ci accusate talora che noi, banditori del Vangelo, non siamo più eloquenti? Ma possiamo noi esserlo, se non a pericolo della libertà e della vita? Non vi ha sempre di mezzo a noi chi sta col metro alla mano per misurare le nostre parole? Cosicché, chi è di noi che possa levarsi su, come un Crisostomo od un Ambrogio e dire apertamente dove sta il male, e correggere arditamente gli errori dei grandi? Togliete la libertà alla parola di Dio e l’eloquenza è perduta. Ma no, noi non la perderemo del tutto, perché Gesù Cristo ci ha mandati dicendo: « Andate e predicate; » e prima che agli uomini è a Gesù Cristo che obbediremo, sempre pronti alle catene e al supplizio; ma intanto il maggior bene delle anime non richiede per lo più, che noi siamo guardinghi e misurati? E qui, o miei cari, finisse il male! Ma peggio ancora, oltre al non curare e combattere la Religione, non di rado dai pubblici poteri si favorisce l’irreligione; si favorisce nella stampa atea, che ogni dì si lascia inondare il paese da un capo all’altro, si favorisce nelle società settarie, nemiche rabbiose di Dio e della Chiesa, alle quali si lascia ampia libertà di sussistenza, si favorisce nella educazione laica ed empia, che si lascia, o dirò meglio, che si fa impartire ai fanciulli ed ai giovani, si favorisce financo nelle dimostrazioni dichiaratamente in odio alla Religione, che si lasciano compiere pubblicamente alla piena luce del giorno. E mentre dagli uomini del potere si favorisce l’irreligione, da quelli del piacere non si fa altro che accendere viemaggiormente nel popolo le più funeste cupidigie. Molti di costoro si abbandonano ad un lusso incredibile; banchetti sontuosissimi, cavalli di gran prezzo, gioielli inestimabili, acconciature, mode, fantasie, capricci, nei quali in un’ora si profonde, ciò che sarebbe bastato a nutrire famiglie intere per un anno. E dopo tutto ciò non si è ancor paghi: e una specie di rabbia assale questi esseri degradati, che non cercano altro che nuove e straordinarie emozioni dei sensi. Essi se la pigliano coi pranzi, se la pigliano coi teatri, se la pigliano coi festini, se la pigliano coi pubblici spettacoli, perché in essi non vi è nulla di nuovo, che valga a compulsare più forte i loro sensi. Ah cercate altre cose, essi gridano, inventate altri piaceri. I Romani avevano trovato: essi avevano le murene, essi avevano i pesci dell’oceano, essi avevano il circo, avevano il combattimento delle bestie, avevano il combattimento degli uomini, facevano denudare gli attori e svestire le vergini, dandole in pasto ai leoni; cercate anche voi e non lasciateci perire di noia in mezzo a questi godimenti insipidi, che non ci dicono più nulla, e a quest’oro che più non sappiamo come spendere! E dopo tutto ciò, vi è ancora da meravigliare, che accada quel che accade, e non vi sia più né sicurezza né pace? Una volta la Religione diceva al povero chiaro e netto, perché egli è povero e nudo, intimava al ricco con voce potente di aver cura del povero, e d’impiegar ivi le sue sostanze superflue. Una volta la Religione spiegava efficacemente la disparità delle condizioni e a tutti additava il cielo, agli uni come premio del patire, agli altri come ricompensa del donare ; oggi la Religione non curata e combattuta non può più dire questi grandi verità alla società, che assai languidamente, e per di più la sua voce è sopraffatta da nuovi dottori che, presentandosi al popolo gli hanno detto: Tu hai diritto alla felicità, e chi te la nega sono i poteri; il potere spirituale, il potere proprietario, il potere civile; e il popolo a questa nuova parola si è scosso e si è levato su contro chi credeva nemico della sua felicità. Il popolo si è levato contro del potere spirituale, e ha detto con la più amara ironia: Tu, o prete, ne dicevi di pazientare fino al giorno della giustizia: di radunare le lagrime nostre e quelle delle nostre famiglie, le grida dei nostri figli e i singhiozzi delle nostre mogli per portarle ai piedi di Dio, nell’ora della morte. Ma tu sei un bugiardo, perché Dio non esiste e la felicità è nella vita presente. Odio adunque a te, che hai mentito a nostro danno per accarezzare il ricco! Il popolo si è levato su contro del potere proprietario ed ha detto: Voi dunque, o ricchi, o padroni, credete che noi, domestici e fantesche, testimoni quotidiani del vostro lusso, dei vostri pranzi, delle vostre danze, dei vostri ozi, dei vostri intrighi, noi, che vi aspettiamo fino a mezzanotte assiderati talvolta sulla cassetta delle vostre carrozze: credete che noi miseri ferrovieri, che vi vediamo salire in quei comodi carrozzoni salons, mentre a noi non è assegnata che una aperta garetta, ove si gela d’inverno e si cuoce di estate; credete che noi, poveri operai, inzaccherati in passando dalla vostra pompa equivoca, e che rientriamo la sera nella stamberga, dove ci aspettano la moglie e i figli in miseria; credete che noi non sentiamo la disparità immensa della nostra condizione? Sì, che la sentiamo, e se Dio non c’è, se la Religione non conta, noi malediciamo a noi stessi e faremo sentire sopra di voi la nostra indignazione, e tenteremo di mutare le parti. – Il popolo si è levato su infine contro del potere civile e ha detto: Se Dio non c’è, se tu non sei il rappresentante di Dio, se tu sei uguale a me, che al par di te sono uomo, io non ne voglio più sapere né delle tue leggi, né del tuo comando. E in quanto alla forza io risponderò con la forza. Così ha parlato il popolo, così ha operato. E torno a dirlo, o miei cari, come meravigliarsi di ciò? Come stupirsi che ogni superiorità si sia fatta intollerabile al popolo, e la cieca passione di tutto sconvolgere lo domini e lo punga per mutare una condizione, alla quale non può più adattarsi, perché condizione senza conforti e senza speranze? Il popolo è logico, come lo è stato sempre, e dai principii ha cavato le conseguenze. Voi, apostoli e ministri dell’inferno, avete fatto il popolo irreligioso, e il popolo perché irreligioso si è fatto ingovernabile. – Conchiudiamo adunque che è tempo: Di qui non si sfugge: Nella società o Religione o rivoluzione, o Vangelo o anarchia.

III. — Ma da questa conclusione, o miei cari, ne viene ancora per legittima conseguenza, che se si vuole procacciare efficacemente all’Italia nostra la pace, il benessere, la prosperità, bisogna assolutamente, ciascuno per la parte che gli spetta, rimettervi in fiore il Vangelo di Gesù Cristo, la cristiana Religione. Epperò se io potessi ora sollevare la mia voce e farla giungere sino ai supremi moderatori dello Stato, ai ricchi signori, ai grandi padroni, benché così piccolo e meschino, tuttavia perché ministro del Vangelo vorrei dir loro: Presto, all’opera, che il tempo urge; restituite al nostro paese la Religione. Restituitela anzi tutto a voi, al vostro cuore, alla vostra vita privata, perché è su di voi che il popolo tien volto lo sguardo, per decidere dalla condotta vostra in questo punto, qual è la condotta che deve tener egli. A voi, o governanti, guardano i sudditi, a voi, o padroni, guardano gli operai, a voi, o signori, guardano i servi e le fantesche, a voi, o ricchi, guardano i poveri, a voi insomma, o grandi, guardano i piccoli. Il vostro esempio adunque è ciò, che anzi tutto, si richiede. Ma il restituire la Religione alla vostra vita di privati, per voi che avete in mano il potere e la grandezza sarebbe troppo poco. So bene, che non pochi di voi si credono che ciò basti. Ma non è così affatto. Certamente a voi non incombe di regolare le coscienze altrui; ciò non potreste farlo senza ledere i diritti stessi di Dio; ma avendo voi ricevuto il potere e la grandezza per il bene del vostro paese e del vostro prossimo, come siete in obbligo di tutelare l’autorità paterna perché riesca sempre a procacciare alla famiglia i beni, di cui è fonte, così siete in dovere di tutelare i supremi interessi della Religione, di farla vivere di piena vita in tutta la società nostra, affinché per essa la nostra società si abbia i beni del tempo e più ancora quelli dell’eternità. Per opera vostra adunque sia di nuovo la Religione, che animi le vostre assemblee, le vostre legislazioni, le vostre magistrature, le vostre associazioni, i vostri eserciti, e tornerà in fiore la giustizia, la fedeltà, il valore. Per opera vostra sia di nuovo la Religione, che animi le vostre accademie, le vostre università, i vostri istituti, le vostra scuole, e la gioventù crescendo meno atea, sarà meno immorale e petulante. Per opera vostra sia di nuovo la Religione che animi le vostre officine, i vostri stabilimenti, le vostre possessioni, e l’operaio ed il povero saranno più rassegnati e contenti. Sì, di quella guisa medesima che la Religione cristiana un giorno spense la ferocia delle orde barbariche, ne ingentilì i costumi, e li rese docili alla voce della verità e della legge evangelica, così anche ora ammanserà gli istinti malvagi delle moltitudini. Senza discussione, senza coazione, facendo rilucere alle loro menti i grandi dogmi della fede e stillando nei loro cuori i santi precetti e gli ammirabili esempi della morale di Gesù Cristo, la Religione farà loro efficacemente sentire la voce della coscienza e del dovere. Ed allora le grandi questioni si avvieranno verso la migliore e più completa soluzione; l’autorità prenderà il posto della forza, la libertà impedita di degenerare in licenza servirà al bene e sarà degna dell’uomo, il rispetto e l’amore saliranno e scenderanno come due angeli tutelari, lungo la scala sociale e ne avvicineranno le estremità. Il povero più non invidierà il ricco, che si inchinerà teneramente verso di lui. L’operaio rispetterà il padrone, che amerà l’operaio. Il popolo non solo obbedirà al potere, ma lo amerà, e questo amore che dal popolo salirà ai governanti, ridiscenderà sopra di esso tramutato in benefizio. Non già che allora nel nostro paese non vi saranno più miserie; sempre una società sarà imperfetta, perché ogni società si compone quaggiù di esseri imperfetti. Ma delle miserie sociali l’Italia nostra sol conoscendo quelle, che sono inevitabili all’umana debolezza, piena di energia per sopportarle di buona voglia, cessati i pericoli e i danni di questi giorni, in pace all’interno, libera e rispettata al di fuori, incederà a grandi passi verso la felicità, e riavrà quelle grandezze e quelle glorie che un giorno la Religione e la Chiesa le hanno donate. Ma io getto il flato invano. La più parte di coloro, cui sono rivolte queste parole non sono qui ad udirmi, né per lo stato presente delle cose, quando pure fossero convinti, che quanto ho detto è quello che devono fare, non avrebbero certo la grandezza d’animo di farlo. Il potere pubblico soprattutto non ne sarebbe in grado. Gran cosa sarebbe se arrivasse, non dico a comprendere, ma a mostrarsi compreso, che nulla almeno ha da temere per il benessere e la sicurezza del paese dalla Religione, e che l’espediente più meschino e colpevole per farsi perdonare la politica è quello di dar a mangiare del prete alle passioni rivoluzionarie. Sì, ciò sarebbe una gran cosa, e la Religione già avrebbe spezzato un qualche anello delle sue catene. Sul fluire pertanto è a voi, o dilettissimi, che siete qui ad udirmi, che io mi rivolgo dicendo: voi almeno, per quanto piccola possa essere l’influenza, che vi sia dato esercitare sulla società cui appartenete, deh! non lasciate tuttavia di fare la parte vostra. La Religione, questa grande detronizzata, anche a voi protende la mano per essere riposta sul soglio, che le spetta; lavorate a suo prò con le parole, con le opere, con l’esempio; e lavorando per lei, non solo di lei vi sarete resi benemeriti, ma checché si pensi e si blateri dagli empi e dagli stolti, voi, sì veramente voi, avrete anche ben meritato della patria. E tu, o povero popolo, non respingere la parola di amore, perché la odi da questa cattedra. Tu, allontanato dalla Religione, tu sei tradito. Fuori della casa del gran Padre che è Dio, tu come il prodigo non puoi diventare che schiavo delle più torbide passioni, e sentire la fame più rabbiosa dell’anima e del corpo. Deh, scuotiti adunque dalla tua abbiezione: ricaccia in gola a’ tuoi esecrati maestri la orrenda parola: « Tu hai diritto alla felicità presente; » e fatto di nuovo libero e altero della tua Religione canta con gioia: Sì, ho diritto alla felicità, non a quella temporale, a quella imperitura del cielo. E voi, o Cuore Santissimo di Gesù che tanto amate tutte le nazioni cristiane, ma che con prove così grandi avete dimostrato un amore di predilezione verso dell’Italia nostra, soprattutto facendola il centro di quel Cristianesimo che è fonte di pace e di prosperità per i popoli, deh! continuate, non ostante i suoi tanti demeriti, a volgere pietoso lo sguardo sopra di lei. Ridonatele presto la fede avita, che già la rese sì grande presso le altre nazioni, nelle sue vittorie, ne’ suoi Comuni, nelle sue arti, nelle sue lettere, nelle sue scienze e specialmente nel suo amore per Voi. Fate che spinta soavemente dalla grazia vostra si getti un’altra volta pentita e fidente ai piedi vostri come un dì la povera Samaritana, e a voi chieda essa pure quell’acqua di salute, bevendo della quale sarà nel tempo una nazione felice e nell’eternità una nazione del cielo.

FESTA DEL CORPUS DOMINI (2019)

FESTA DEL CORPUS DOMINI (2019)

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXX: 17.
Cibávit eos ex ádipe fruménti, allelúia: et de petra, melle saturávit eos, allelúia, allelúia, allelúia.
Ps 80:2 [Li ha nutriti col fiore del frumento, allelúia: e li ha saziati col miele scaturito dalla roccia, allelúia, allelúia, allelúia.]

Exsultáte Deo, adiutóri nostro: iubiláte Deo Iacob. [Esultate in Dio nostro aiuto: rallegratevi nel Dio di Giacobbe.]
Cibávit eos ex ádipe fruménti, allelúia: et de petra, melle saturávit eos, allelúia, allelúia, alleluja [Li ha nutriti col fiore del frumento, allelúia: e li ha saziati col miele scaturito dalla roccia, allelúia, allelúia, allelúia.

Oratio

Orémus.
Deus, qui nobis sub Sacraménto mirábili passiónis tuæ memóriam reliquísti: tríbue, quǽsumus, ita nos Córporis et Sánguinis tui sacra mystéria venerári; ut redemptiónis tuæ fructum in nobis iúgiter sentiámus:
[O Dio, che nell’ammirabile Sacramento ci lasciasti la memoria della tua Passione: concedici, Te ne preghiamo, di venerare i sacri misteri del tuo Corpo e del tuo Sangue cosí da sperimentare sempre in noi il frutto della tua redenzione:]

Lectio

Léctio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor XI: 23-29
Fratres: Ego enim accépi a Dómino quod et trádidi vobis, quóniam Dóminus Iesus, in qua nocte tradebátur, accépit panem, et grátias agens fregit, et dixit: Accípite, et manducáte: hoc est corpus meum, quod pro vobis tradétur: hoc fácite in meam commemoratiónem. Simíliter ei cálicem, postquam cenávit, dicens: Hic calix novum Testaméntum est in meo sánguine. Hoc fácite, quotiescúmque bibétis, in meam commemoratiónem. Quotiescúmque enim manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat. Itaque quicúmque manducáverit panem hunc vel bíberit cálicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini. Probet autem seípsum homo: et sic de pane illo edat et de calice bibat. Qui enim mánducat et bibit indígne, iudícium sibi mánducat et bibit: non diiúdicans corpus Dómini.

OMELIA I

A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli, Sc. Tip. Vesc. Artigianelli, Pavia 1929)

IL SACRIFICIO DELLA NUOVA LEGGE

Fratelli: Io lo appreso appunto dal Signore, ciò che ho trasmesso anche a voi: che il Signore Gesù la notte che fu tradito, prese del pane, e dopo aver reso le grazie, lo spezzò, e disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che sarà offerto per voi: fate questo in memoria di me. Parimenti, dopo aver cenato, prese il Calice, e disse: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. Tutte le volte che Lo berrete, fate questo in memoria di me. Poiché ogni volta che mangerete questo pane, e berrete questo calice, annunzierete la morte di Signore fino a che egli venga. Perciò chiunque mangerà questo pane, o berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso, e poi mangi di questo pane e beva di questo calice. Poiché chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna, non distinguendo il corpo del Signore. (2a Cor. XI, 23-29).

Nei primi tempi della Chiesa aveva luogo, in giorni determinati, un banchetto in comune, chiamato, agape, che doveva significare a stringere il vincolo della mutua carità tra i fedeli. Per seguire più da vicino l’esempio di Gesù Cristo che aveva istituito l’eucaristia dopo la cena pasquale, si faceva seguire/all’agape la celebrazione dell’Eucaristia. Non tardò l’introduzione degli abusi. A Corinto p. e. i ricchi, invece di mettere in comune il vitto sovrabbondante che portavano, affinché anche/i poveri potessero avere la loro parte, cominciavano, prima ancora che avesse principio il banchetto, a mangiare e bere più di quanto era richiesto da una cena simbolica. La conseguenza era duplice: accontentare la gola e privare della cena i più poveri, i quali ne provavano confusione. S. Paolo rimprovera severamente i Corinti, per questa loro sregolatezza e per la mancanza di carità verso il prossimo. E richiamata alla loro mente l’istituzione della S. Eucaristia, vuole che la si riceva degnamente, astenendovisi chi si riconosce reo di peccato grave. Quanto dice S. Paolo della istituzione della S. Eucaristia ci presenta l’opportunità di parlare di essa come:

1 Sacrificio della nuova Legge,

2 Superiore all’antico,

3 Che non ha limiti né di luogo, né di tempo.

1.

Fin dal principio gli uomini usavano rendere omaggio a Dio con l’offerta di cose sensibili, conforme al loro genere di vita. Così leggiamo che Caino, agricoltore, offre a Dio i frutti della terra, e Abele, pastore, gli offre le primizie del gregge. Sappiamo che Noè, uscito dall’arca, «eresse un altare al Signore, e, presi di tutti gli animali e di tutti gli uccelli mondi, li offri in sacrificio sopra l’altare» (Gen VIII, 20). E ai tempi di Abramo vediamo Melehisedech, re di Salem, offrire a Dio pane e vino in ringraziamento della vittoria riportata sopra i cinque re (Gen. XIV, 18-20). Più tardi Mosè, per ordine di Dio, prescrive delle norme che devono regolare i sacrifici. Ci sono i sacrifici cruenti, in cui si immolano animali, e se ne sparge il sangue; e ci sono i sacrifici incruenti, in cui si offrono alimenti, bevande, profumi. Nei sacrifici cruenti sono determinate varie qualità delle vittime, secondo la specie dei sacrifici, ed è determinato l’ufficio di chi presenta la vittima, l’ufficio del sacerdote e di coloro che lo coadiuvano. – Tutto questo doveva durare fino a che sarebbe stato offerto il sacrificio predetto dai profeti, del quale i sacrifici della legge erano una figura. Col sacrificio della croce Gesù Cristo compie la redenzione eterna, ma vuole che la Chiesa non manchi di un sacerdozio visibile e di un sacrificio visibile, che rappresenti il sacrificio della croce, ne rinnovi la memoria, e ne applichi i frutti. Ed ecco che  prima di incominciar la passione, trovandosi a cena con gli Apostoli, prese del pane, e dopo aver rese le grazie lo spezzò, e disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che sarà offerto per voi… Parimenti, dopo aver cenato prese il calice e disse: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. – In virtù di queste parole la sostanza del pane e del vino è totalmente cambiata nel corpo e nel sangue di Gesù Cristo. Del pane e del vino non rimangono che le apparenze. La consacrazione a parte, poi, del pane e del vino, ci dà la separazione mistica del corpo e del sangue di Gesù Cristo; per la quale Gesù Cristo ci si presenta come sulla croce, mentre compie il sacrificio versando il proprio sangue. Questo è il mio corpo che sarà offerto per voi. Ecco la nuova vittima: Gesù Cristo. Egli « offre se stesso per noi e immola la vittima, essendo nel medesimo tempo sacerdote e quell’agnello di Dio che toglie i peccati dal mondo » (S. Greg. Nisseno, In Christi Resurr. Orat. 1).

2.

 Sacrifici antichi hanno ormai perduta la loro ragione di essere. Ora abbiam il gran Sacrificio: il solo che possa piacere a Dio a salvare il mondo. «La luce scaccia le tenebre. In questa mensa del nuovo Re la nuova Pasqua della nuova Legge pon fine alla Pasqua antica » (Seq. Luada Sion), come dice S. Tommaso. Gesù dichiara: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue. La nuova Alleanza è, senza confronto, superiore all’antica. Anche il sacrificio che suggella questa alleanza deve, necessariamente, essere superiore all’antico. Quando il popolo ebraico, strinse alleanza con Dio obbligando a osservare i suoi comandamenti e le sue leggi; e Dio, da parte sua, promise di dar loro la terra di Cana e di proteggerli, Mosè prese il sangue dei giovenchi e lo sparse sopra il popolo dicendo: «Ecco il sangue del patto che il Signore ha stretto con voi» (Es. XXIV, 8.). Nel nuovo patto non si tratta di immolare giovenchi, e di versare il loro sangue.Si tratta di immolare il Verbo fatto carne; si tratta di versare il sangue dell’Unigenito di Dio. Vittima più preziosa, più gradita a Dio, più degna di Lui, la nostra mente non arriverà mai a immaginare.Gesù Cristo si sacrifica e si annienta mistica mente nella Messa per il ministero del sacerdote: il primo e principale offerente, però, è Gesù Cristo stesso. Egli, dunque,è vittima e sacerdote. E qui abbiamo, oltre una vittima di valore infinito, un offerente senza macchia, segregato dai peccatori, che non ha bisogno di offrire il sacrificio per ipropri peccati prima di offrirlo per i peccati degli altri.Se consideriamo poi i fini pei quali si soffre un sacrificio nessuno può dubitare dell’eccellenza del Sacrificio della Messa sopra gli antichi sacrifici. Se vogliamo rendere onore a Dio come padrone supremo dell’universo, non potremo mai farlo in modo migliore che offrendogli ciò che gli è più caro. E nella Messa gli offriamo appunto ciò che gli è più caro: gli offriamo il Figlio suo diletto.Tutte le adorazioni degli uomini e degli Angeli non onorano Dio come questa offerta. — Se vogliamo ringraziare Dio dei suoi benefici, che cosa potremo rendergli? Nessuno può dare quel che non ha. E noi non possediamo nulla,che sia degno dei benefici che Dio ci ha fatto. Quando i due Tobia, padre e figlio deliberano di ricompensare l’Arcangelo Raffaele, il figlio osserva: «Qual cosa vi sarà che possa essere degna dei suoi benefici?» (Tob. XII, 2) Nella Messa noi abbiamo ciò che è degno non solo dei benefici degli Angeli, ma di tutti gli innumerevoli benefici che dispensa il loro Creatore. Abbiamo una vittima divina. Tutti abbiam bisogno della grazia del pentimento e della remissione dei peccati. Per questo c’era nell’antica legge il sacrificio propiziatorio. Nessun sacrificio, però, può essere propiziatorio come il sacrificio della Messa. In essa Gesù Cristo stesso offre all’eterno Padre offeso il proprio sangue per la remissione dei peccati degli uomini. — Come sacrificio impetratorio, poi, per ottenere grazie e aiuto in tutte le necessità dell’anima e del corpo, la superiorità del S Sacrificio della Messa sul sacrificio ebraico, risalta subito se si considera che in essa viene immolato «il mediatore tra Dio e gli uomini. Cristo Gesù» (1 Tim. II, 5) « nelle cui mani il Padre ha posto ogni cosa » (Giov. III, 35). – Per dir tutto in breve, basti considerare che il s Sacrificio della Messa sostanzialmente è lo stesso che il s Sacrificio della croce. Tanto nel Sacrificio della croce, quanto nel Sacrificio della Messa Gesù Cristo è la vittima. Gesù Cristo è l’offerente. L’unica differenza è che sulla croce il sacrificio fu cruento; nella Messa, invece, è incruento. Nel Sacrificio della croce si ebbe la pienezza dei frutti della redenzione: nel s Sacrificio della Messa questi frutti vengono applicati. –  

3.

Il Salvatore, dopo aver consacrato il pane, disse agli Apostoli: fate questo in memoria di me. Con queste parole dava agli Apostoli e ai loro successori il potere di fare ciò che Egli ha fatto; cioè, di convertire il pane nel suo corpo e il vino nel suo sangue; in una parola, istituiva il sacerdozio, per mezzo del quale il sacrificio si sarebbe celebrato ovunque e sempre, come Malachia aveva predetto: « Da levante a ponente è grande il mio nome tra le genti; e in ogni luogo si sacrifica e si offre al mio nome un oblazione monda » (Mal. I, 11). Il sacrificio ebraico era ristretto ad un solo Paese. Il Sacrificio della nuova legge si offrirà in tutti i luoghi del mondo, e non sarà, come il sacrificio ebraico, privilegio d’una sola nazione. In ogni ora del giorno, tra popoli civili e tra popoli ancora barbari si offre questo Sacrificio vero e pieno. E dove non si offre ancora questo Sacrificio adesso, si offrirà un giorno. « Vi chiedo un altare per dirvi una Messa e un’isola selvaggia per morirvi ». Così pregava Dio il giorno della sua professione religiosa Mons. Verjus, l’Apostolo della Nuova Guinea (Cesare Gallina, Mons. Enrica Verjus, Roma 1925, p. 157). Ed ebbe l’isola selvaggia, in cui poté erigere l’altare, e celebrare il Sacrificio cruento, ove non era mai stato celebrato. Questo voto è quello di tutti i missionari. Poter innalzar un altare e offrirvi a Dio un’oblazione monda. E il voto si compie, mano mano che essi, succedendosi, allargano il campo delle conquiste della fede. A poco a poco scompaiono i sacrifici dell’idolatria per lasciar posto al Sacrificio della Messa. – Ogni volta che mangerete questo pane e berrete questo calice annunzierete la morte del Signore fino a che Egli venga. Queste parole pronunciate da Gesù Cristo dopo la consacrazione, oltre che dichiarare che l’eucaristia è un vero sacrificio commemorativo della passione di Gesù Cristo compiuta sul Calvario, dichiarano anche che il Sacrificio dell’eucaristia si offrirà per tutti i tempi sino alla fine del mondo, quando il Redentore verrà per il giudizio universale. Come dice S. Agostino, l’eucaristia è « il sacrificio quotidiano della Chiesa » (De Civ. Dei L. 10, 20). E siccome la Chiesa durerà sino alla fine dei secoli secondo la promessa di Gesù Cristo, sino alla fine dei secoli si offrirà il sacrificio eucaristico. – Qual fortuna per i Cristiani poter assistere tutti i giorni a un Sacrificio di tanto valore, e così partecipare in modo particolare dei suoi frutti. Il Sacrificio della croce la sorgente delle grazie: il Sacrificio della Messa è il canale che fa discendere queste grazie sui fedeli: ma è naturale che discendano più abbondantemente sui fedeli che vi assistono. Il sacerdote, che prega durante la Messa non prega solamente in nome suo; ma prega in nome di tutti gli astanti. Con la parola: «preghiamo» incominciano sempre le orazioni. Quando offre al Padre l’offerta ricorda in modo particolare «i circostanti»; cioè, coloro che assistono alla Messa. E quando si avvicina il momento più solenne invita i presenti a unirsi a lui nella preghiera: «Pregate, o fratelli, affinché il sacrificio mio e vostro torni accetto a Dio Padre onnipotente». È impossibile assiste alla Messa con le dovute disposizioni senza riportar abbondanza di grazie. E maggiori grazie si avrebbero ancora se coloro che assistono al sacrificio della Messa — assecondando il desiderio della Chiesa — si comunicassero non solo spiritualmente, ma anche col ricevere sacramentalmente l’Eucaristia. Ciascuno dovrebbe darsi premura di assistere, appena lo possa, al santo Sacrificio della Messa, anche quando non vi è obbligato, e di compire l’opera, accostandosi a ricevere la vittima immolata su l’altare, Gesù. Le miserie spirituali d’ogni giorno non devono trattenerci, quando non manchi la grazia e la retta intenzione; anzi, devono essere uno stimolo a non privarci «della medicina quotidiana del corpo del Signore».

Graduale

Ps CXLIV: 15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno,

[Gli occhi di tutti sperano in Te, o Signore: e Tu concedi loro il cibo a tempo opportuno,]

V. Aperis tu manum tuam: et imples omne animal benedictióne. Allelúia, allelúia,[Apri la tua mano: e colma ogni essere vivente della tua benedizione,]
Ioannes VI: 56-57
Caro mea vere est cibus, et sanguis meus vere est potus: qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo. Alleluia. [La mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui. Alleluia.]

Sequentia
Thomæ de Aquino.

Lauda, Sion, Salvatórem,
lauda ducem et pastórem
in hymnis et cánticis.

Quantum potes, tantum aude:
quia maior omni laude,
nec laudáre súfficis.

Laudis thema speciális,
panis vivus et vitális
hódie propónitur.

Quem in sacræ mensa cenæ
turbæ fratrum duodénæ
datum non ambígitur.

Sit laus plena, sit sonóra,
sit iucúnda, sit decóra
mentis iubilátio.

Dies enim sollémnis agitur,
in qua mensæ prima recólitur
huius institútio.

In hac mensa novi Regis,
novum Pascha novæ legis
Phase vetus términat.

Vetustátem nóvitas,
umbram fugat véritas,
noctem lux elíminat.

Quod in coena Christus gessit,
faciéndum hoc expréssit
in sui memóriam.

Docti sacris institútis,
panem, vinum in salútis
consecrámus hóstiam.

Dogma datur Christiánis,
quod in carnem transit panis
et vinum in sánguinem.

Quod non capis, quod non vides,
animosa fírmat fides,
præter rerum órdinem.

Sub divérsis speciébus,
signis tantum, et non rebus,
latent res exímiæ.

Caro cibus, sanguis potus:
manet tamen Christus totus
sub utráque spécie.

A suménte non concísus,
non confráctus, non divísus:
ínteger accípitur.

Sumit unus, sumunt mille:
quantum isti, tantum ille:
nec sumptus consúmitur.

Sumunt boni, sumunt mali
sorte tamen inæquáli,
vitæ vel intéritus.

Mors est malis, vita bonis:
vide, paris sumptiónis
quam sit dispar éxitus.

Fracto demum sacraménto,
ne vacílles, sed meménto,
tantum esse sub fragménto,
quantum toto tégitur.

Nulla rei fit scissúra:
signi tantum fit fractúra:
qua nec status nec statúra
signáti minúitur.

Ecce panis Angelórum,
factus cibus viatórum:
vere panis filiórum,
non mitténdus cánibus.

In figúris præsignátur,
cum Isaac immolátur:
agnus paschæ deputátur:
datur manna pátribus.

Bone pastor, panis vere,
Iesu, nostri miserére:
tu nos pasce, nos tuére:
tu nos bona fac vidére
in terra vivéntium.

Tu, qui cuncta scis et vales:
qui nos pascis hic mortáles:
tuos ibi commensáles,
coherédes et sodáles
fac sanctórum cívium.
Amen. Allelúia.

[Loda, o Sion, il Salvatore,  loda il capo e il pastore,  con inni e càntici.
Quanto puoi, tanto inneggia:  ché è superiore a ogni lode,  né basta il lodarlo.
Il pane vivo e vitale  è il tema di lode speciale,  che oggi si propone.
Che nella mensa della sacra cena,  fu distribuito ai dodici fratelli,  è indubbio.
Sia lode piena, sia sonora,  sia giocondo e degno  il giúbilo della mente.
Poiché si celebra il giorno solenne,  in cui in primis fu istituito  questo banchetto.
In questa mensa del nuovo Re,  la nuova Pasqua della nuova legge  estingue l’antica.
Il nuovo rito allontana l’antico,  la verità l’ombra,  la luce elimina la notte.
Ciò che Cristo fece nella cena,  ordinò che venisse fatto  in memoria di sé.
Istruiti dalle sacre leggi,  consacriamo nell’ostia di salvezza  il pane e il vino.
Ai Cristiani è dato il dogma:  che il pane si muta in carne,  e il vino in sangue.
Ciò che non capisci, ciò che non vedi,  lo afferma pronta la fede,  oltre l’ordine naturale.
Sotto specie diverse,  che son solo segni e non sostanze,  si celano realtà sublimi.
La carne è cibo, il sangue bevanda,  ma Cristo è intero  sotto l’una e l’altra specie.
Da chi lo assume, non viene tagliato,  spezzato, diviso:  ma preso integralmente.
Lo assuma uno, lo assumino in mille:  quanto riceve l’uno tanto gli altri:  né una volta ricevuto viene consumato.
Lo assumono i buoni e i cattivi:  ma con diversa sorte  di vita e di morte.
Pei cattivi è morte, pei buoni vita:  oh che diverso esito  ha una stessa assunzione.
Spezzato poi il Sacramento,  non temere, ma ricorda  che tanto è nel frammento  quanto nel tutto.
Non v’è alcuna separazione:  solo un’apparente frattura,  né vengono diminuiti stato  e grandezza del simboleggiato.
Ecco il pane degli Angeli,  fatto cibo dei viandanti:  in vero il pane dei figli  non è da gettare ai cani.
Prefigurato  con l’immolazione di Isacco, col sacrificio dell’Agnello Pasquale,  e con la manna donata ai padri.
Buon pastore, pane vero,  o Gesú, abbi pietà di noi:  Tu ci pasci, ci difendi:  fai a noi vedere il bene  nella terra dei viventi.
Tu che tutto sai e tutto puoi:  che ci pasci, qui, mortali:  fa che siamo tuoi commensali,  coeredi e compagni dei santi del cielo.  Amen. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangéli secúndum S. Ioánnem.
Ioann VI: 56-59
In illo témpore: Dixit Iesus turbis Iudæórum: Caro mea vere est cibus et sanguis meus vere est potus. Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in illo. Sicut misit me vivens Pater, et ego vivo propter Patrem: et qui mandúcat me, et ipse vivet propter me. Hic est panis, qui de coelo descéndit. Non sicut manducavérunt patres vestri manna, et mórtui sunt. Qui manducat hunc panem, vivet in ætérnum.

OMELIA II

[A. Monti: La Parola Evangelica, vol. IV – Ed. Queriniana, Brescia, 1922]

Gesù disse un giorno alle turbe della Giudea: « La mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, resta .in me, e Io in lui. Come il Padre vivente ha mandato me, e io vivo per il Padre; così chi mangerà da me, vivrà per me. Questo è il pane che discese dal cielo. Non come i vostri padri, che mangiarono la manna e morirono: chi mangia di questo pane, vivrà in eterno » (Giov. VI, 56-59).

Queste parole affermano la presenza reale di Gesù nell’Eucaristia e gli effetti salutari di essa in chi se ne ciba con le debite disposizioni; effetti che si assommano nell’unione dell’anima con Cristo e nella partecipazione dell’uomo alla vita intima di lui. La Chiesa le fa leggere molto opportunamente nella Messa di questo giorno del Corpus Domini, che è appunto la festa dell’Eucaristia. Nell’Epistola abbiamo un tratto della prima lettera di S. Paolo a quei di Corinto, che descrive l’istituzione dell’Eucaristia e i tristi effetti che ne derivano a chi vi s’accosta indegnamente. Dice l’Apostolo: (I Cor. XI, 23-30) — Chiunque mangerà questo pane, o berrà il calce del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue del Signore… Chi mangia e beve indegnamente, si mangia e beve la sua propria condanna, non distinguendo il Corpo del Signore. — I due passi, l’evangelico e il paolino, s’integrano mirabilmente, e potrebbero dar luogo a una ben grave meditazione. Ma io mi contento d’averli accennati, e riserbandomi di studiarli in altra occasione, mi volgo oggi a trattare del dogma stesso dell’Eucaristia per dimostrare quello che dobbiamo creder e circa l’alto Mistero, e per quali ragioni dobbiamo credere. Il tema può sembrare strano. Tenendo io discorso a un uditorio cristiano, dovrei supporre in chi m’ascolta la chiara notizia del Mistero e la fede viva in esso; dovrei supporla, si; e frugarvi per entro con la parola per destarvi fiamme e faville. Ma purtroppo la cognizione dei misteri cristiani suol essere oggi molto scarsa e incompleta, e suol essere poca la fede. Perciò il tema non è fuori di proposito. Abbiate adunque la bontà di prestare benevola e pia attenzione alla parola di Dio, che viene a cercare la vostra anima. »

1. Che cos’è, o fratelli, l’Eucaristia secondo gli insegnamenti della nostra Fede? Eccovi un’ostia non ancora consacrata. Che cosa è mai questa piccola cosa bianca sottile, lievissima, se non appunto una piccola cosa, meno pregevole d’un frusto di pane, un soffio, un nulla? Ed eccovi un po’ di vino accolto dentro la coppa di un calice, su cui non è ancora discesa la parola dello Spirito. Che cos’è questo po’ di vino se non il volgare umor della vite, di cui si fa uso sì comune, e sì deplorevole abuso? È esso forse più nobile della stilla d’acqua che geme dalla roccia muscosa, o d’una lagrima di rugiada che il cielo depone nel calice odorato di un giglio, nel grembo di una rosa, o sulla tremula punta verde dell’erbe? Il sacerdote prende l’ostia e il calice nelle sue mani, leva gli occhi al cielo, benedice, e mormora parole misteriose; poche e semplici parole pronunciate la prima volta venti secoli fa da un falegname di Galilea; poi genuflette e solleva sul suo capo, solleva incontro al cielo il calice e l’ostia: e il popolo si prostra, adora, prega; adorano e pregano i Vescovi, i Pontefici,i re; squillano le campane, suonano gli organi, e si curvano in riverente atto le bandiere delle nazioni. Niuna festa, niuna gloria, niun trionfo si stimerebbe mai troppo per quella piccola cosa; niun oltraggio si reputerebbe sì profano e tristo, come quello che venisse fatto a quella piccola cosa. O che è avvenuto, fratelli miei, che è avvenuto? Udite di canto che rompe lieto dall’anima della Chiesa: — Tantum ergo sacramentum veneremur cernui. — Udite il canto che esala dall’anima del poeta cristiano:

Ostia umil, sangue innocente,

Dio presente, Dio nascoso.

Figlio d’Eva, eterno re.

China il guardo, o Dio pietoso.

A una polve che ti sente.

Che si perde innanzi a te

(A. Manzoni, strofe per prima Comunione)

Le parole della consacrazione hanno posto nell’ostia e nel vino l’augusta divina Persona di Gesù. Ecco la nostra Fede. Nell’Eucaristia noi adoriamo Dio presente.

2. Presente! Si, fratelli miei. Ma noi dobbiamo chiarir bene questa parola, se vogliamo determinare nettamente i limiti della nostra fede. Che cos’è questa presenza di Cristo nell’Eucaristia? Una setta ereticale insegnava e insegna che il pane e il vino in forza delle parole della consacrazione diventano simbolo e figura del corpo e del sangue di Cristo. Notate bene: simbolo e figura, e nulla più. Cristo è presente, si; ma come è presente una cosa o una persona in un’immagine, o in un ricordo, che si connetta in qualche modo con essa. Eccovi la nostra bandiera, la gloriosa bandiera, che sventolava or non è molto oltre i mal segnati confini d’Italia, vendicatrice di diritti offesi e di civiltà conculcata; la bandiera intorno a cui s’agitava e rugghiava la formidabile possa dei nostri eserciti, e tutto il fremito del nostro orgoglio e delle nostre aspirazioni. Cos’è, fratelli miei, la bandiera? Si dice: è la patria. È vero, è vero. E dov’è presente la bandiera, è presente la patria; dov’è offesa la bandiera, è offesa la patria; dov’è onorata la bandiera, è onorata la patria. La bandiera è la patria, si; ed è per questo che noi l’amiamo; è per questo che la baciamo con l’anima ogni volta ch’essa ci appare; è per questo che noi la vogliamo alta e trionfatrice al sole, sulle terre del nostro diritto, sulle terre consacrate dal sangue dei nostri eroi. La bandiera è la patria. Ma sarebbe più esatto il dire: la bandiera è simbolo e immagine della patria. Non è se non in forza di una metafora che noi diciamo: l’Italia è presente nella sua bandiera. Di fatto non è presente, ma è soltanto rappresentata. O ma, quando noi diciamo che Gesù è presente nell’Eucaristia, diciamo forse una metafora? Sarebbe Egli presente nel pane e nel vino, com’era, poniamo, nel serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto; o nell’agnello pasquale degli Ebrei; o come potrebbe essere in un rito, o in una immagine qualsiasi designata da lui o dalla Chiesa a fare le sue veci? È forse questo l’insegnamento della fede? Certamente noi possiamo e dobbiamo credere che l’Eucaristia è simbolo e figura del corpo e del sangue di Cristo in quanto adombra la sua passione e morte, e rende immagine del nutrimento sublime che ne deriva alle anime; ma se la nostra fede s’arrestasse a questo, sarebbe troppo manchevole. E a che si ridurrebbe allora il tanto sublime e incomprensibile Mistero? No, no, fratelli miei; Cristo è veramente e realmente presente nell’Eucaristia. Le parole sono del Concilio di Trento, e furono adoperate precisamente ad escludere questo errore che l’Eucaristia sia un puro simbolo, un’immagine vuota, una semplice figura o immagine di Gesù.

3. Ebbene, fratelli miei, pensiamo a una presenza più vera e più reale. Eccovi il sole. Esso passa sotto l’ardua volta di zaffiro e d’oro come un trionfatore; passa, e gettando il suo sguardo possente nelle profondità degli spazi, desta un brivido di gioia e di vita, una festa di colori e di luce nella nostra piccola terra. Noi diciamo: ecco il sole; esso è presente. — Si, fratelli miei; ma è tanto tanto lontano. A noi non perviene che una sua benefica virtù, una misteriosa irradiazione del suo essere, una come vibrazione possente della sua anima di fuoco. È forse così che Gesù è presente nell’Eucaristia? Forse emana dal suo corpo glorioso e remoto una qualche mirabile energia che mescolandosi alla sostanza del pane e del vino, come la luce e il calore del sole all’essere delle cose, conferisce a quella volgare materia una dignità e una forza che prima non possedeva? Anche questo fu detto. Ma la Chiesa definì: Cristo è presente sostanzialmente, il che è quanto dire con la sua stessa Persona nella duplice natura umana e divina; Cristo Dio con l’Infinito essere suo; Cristo uomo con la sua anima e il suo corpo, con la sua mente, con la sua volontà, con tutte le sue energie; Lui, Lui, com’era un dì vivo e operante fra gli uomini. Questa è ben altro che una presenza per via di operazione o virtù.

4. Eppure non basta ancora. Si potrebbe pensare: forse Gesù è presente proprio di persona nell’Eucaristia, ma senza che del pane e del vino sia alterata la sostanza. Dio non è forse sostanzialmente presente all’intimo essere delle cose, senza che per questo esse cessino di essere quello che sono? Il pane rimane pane, il vino rimane vino anche dopo la consacrazione; ma v’è dentro, io non so come la Persona gloriosa di Gesù. Così il Mistero verrebbe di molto semplificato, di molto accostato alla nostra intelligenza. — Ebbene, fratelli miei, ancora una volta io vi rispondo: la Fede non insegna così. — La Chiesa si spiega su questo punto con terribile chiarezza. Dice la Chiesa: Per le parole della consacrazione il pane e il vino si sono transustanziati, cioè trasmutati nella sostanza del Corpo e del Sangue di Cristo. Il pane e il vino non esistono più, se non quanto alle apparenze sensibili. Il sottil velo delle specie nasconde non più la sostanza di prima ma l’essere vero, reale e sostanziale dell’Uomo — Dio. – Ecco, o fratelli, l’insegnamento puro e semplice del catechismo. In forza di questa dottrina l’Eucaristia è il maggiore dei Sacramenti; che negli altri Sacramenti è contenuta la grazia, nell’Eucaristia è presente l’Autore della grazia; là il raggio, qui l’astro, là i rivi, qui la sorgente; là i doni, qui il donatore. Come Egli nascose un giorno la maestà di Dio sotto il mistero dell’infanzia, della povertà, del dolore e della croce, così ora nasconde e divinità e umanità sotto i veli sacramentali; ma è ancora Lui, sempre Lui, veramente e personalmente Lui, rimossa ogni altra sostanza. Se la nostra fede non giunge ad accettare tutto questo senza cavilli, senza restrizione, senza esitazione, noi non siamo Cristiani; lo ripeto, fratelli miei, non siamo Cristiani.

5. Ma ciò è terribile. L’Eucaristìa non è solamente il maggiore dei Sacramenti, ma anche il maggiore dei misteri; anzi non un mistero solo, ma una selva inestricabile di misteri, dentro la quale la nostra ragione si smarrisce. Gli occhi, il gusto, il tatto sono trascinati su una falsa via. Essi mi dicono: — Ecco del pane e del vino. Le parole misteriose non hanno cangiato nulla: noi vediamo, tocchiamo, gustiamo ancora lo stesso pane e lo stesso vino. — Ma no, io debbo credere che quelle parole pronunciate da un povero prete, hanno operato uno stupendo prodigio, la transustanziazione, in forza della quale la sostanza del pane e del vino non esiste più. Ma che è avvenuto di essa? E come s’è potuta cangiare in un essere che già esisteva, e che non ne riceve nulla nulla? E le specie, cioè le apparenze sensibili, la forma, il colore, l’odore, il sapore, il peso, la estensione, come possono stare senza il fulcro di una sostanza? Come dura li fenomeno, rimossa la causa? Come restano le qualità senza il soggetto al quale aderivano? E se qui dov’era la sostanza del pane e del vino, abbiamo la Persona di Gesù col suo Corpo vero e vivo, come mai non se ne vede nulla, non se ne sente nulla? E come s’è Egli così rimpicciolito? Come si spiega quel non avere Egli più né forma, né peso, né alcuna delle qualità che sono proprie dei corpi? E come avviene che spezzando il pane e dividendo il vino, non si spezza, né si divide Gesù, ma si moltiplica tutta intera la sua presenza? E non è forse un mistero inesplicabile la moltiplicazione stessa della sua presenza? Pensate. Si consacra di dì e di notte, nei continenti e nelle isole più lontane, nelle grandi cattedrali, nei templi dalle cento guglie e nelle capanne del missionario coperte di paglia, e in ogni chiesa del mondo; da per tutto ove sorga un altare, e si celebri il santo rito. Sono milioni e milioni di particole che si consacrano e si conservano simultaneamente in mille luoghi diversi. Come è possibile che Gesù sia egualmente presente in ciascuna di esse? Ma qui sono sconvolte tutte le leggi. È questo un buio profondo, o una luce impenetrabile? Non so, non so. La mia mente ne rimane schiacciata. Avessimo almeno qualche segno di ciò che si compie sotto i veli sacramentali; di quel mutarsi di sostanza, di quel fervore di vita nova e divina, che palpita dentro l’ostia consacrata! Ma no; nessun indizio, ancor che minimo: nulla, nulla. La nostr’anima è invisibile: ma si rivela attraverso il corpo; e quand’essa si ritrae, tutto accusa la sua assenza. Dio è invisibile ma brilla nell’universo la sua luce, come letizia per pupilla viva. Ma nell’Eucaristia non v’è nulla, proprio nulla, che aiuti in qualche modo la fede. Dio dimentica se stesso fino al punto di scendere al livello della materia insensibile, di un frusto di pane, di un po’ di vino, velando ai nostri occhi perfino le forme della sua umanità; e tutto questo senza lasciare il minimo spiraglio per cui l’anima possa, non dico intendere il mistero, ma almeno sentire che qualche cosa di nuovo e di grande è stato operato dalla parola del Sacerdote. Quasi ciò fosse poco, questo nostro Iddio, sceso così basso, sembra subire tutte le vicende della materia; cadere, essere sollevato, essere trasportato qua e là, essere inghiottito, corrompersi, potersi frangere, sminuzzare, bruciare. V’è anche di peggio: Egli giace abbandonato come cosa morta alla balia e ai capricci dell’uomo, perfino dell’uomo corrotto e malvagio; offeso non si risente; maltrattato e calpestato non si dilegua, non si difende non insorge, non punisce. O Gesù, o Gesù; ma è proprio vero che Tu sai lì sotto i veli del Sacramento? Ah! nella spoglia umana, benché umile e dispetta, e perfino negli strapazzi orribili della passione, con la tua corona di spine, col tuo viso contuso e sanguinante, col tuo corpo lacero e disfatto, con la porpora dell’ignominia e la canna dello scherzo, tra i lazzi e le beffe dei nemici, tra lo scroscio delle imprecazioni di un popolo cieco e ingrato, io ti riconosco ancora per Iddio. Ti riconobbe il ladrone; ti riconobbe Longino: un raggio misterioso usciva ancora dalla tua carne contrita, dal tuo sguardo languido e morente. Ma qui, qui nell’Eucaristia, come riconoscerti, o Gesù? Non è l’ostia più chiusa, più muta del tuo stesso sepolcro? Vedete, fratelli miei che io non dissimulo le difficoltà. Sì è vero: l’Eucaristia è un groviglio inestricabile di misteri; ma io non posso dir altro: il dogma è questo. Bisogna chinare la fronte, o separarsi da Cristo e dalla Chiesa; poiché questo appunto è quello che ci insegnano l’uno e l’altra; ed è sull’autorità della loro parola che si appoggia la nostra fede.

6. Cristo ha parlato, fratelli miei: perché non dovremmo noi accettare la sua parola? Poteva Egli dirci una sciocchezza, o un assurdo? Un anno avanti la sua morte Egli, essendo in Cafarnao, disse al popolo una strana cosa. Disse: I vostri padri mangiarono la manna nel deserto e morirono. Io sono il pane vivo che discende dal cielo. Chi ne mangerà, non morirà. E il pane che Io darò a voi, è la mia carne per la vita del mondo. — Gli uditori scuotevano il capo, e guardandosi in faccia l’un l’altro, mormoravano: — Come può egli darci a mangiare la sua carne? — Nel racconto evangelico s’indovina il sorriso dell’incredulità. Ma Gesù ripiglia e conferma con forza: In verità in verità vi dico: se non avrete mangiato la mia carne e bevuto il mio sangue non avrete la vita in voi. La mia carne è veramente cibo, e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne, e beve il mio sangue, resta in me, e Io in lui. — Le parole sono ben chiare. E non parliamo di metafore, no: Gesù non ha parlato in metafora questa volta, ma in senso vero e proprio. Le sue parole bisogna pigliarle alla lettera. Ponete mente. Gli uditori di Gesù non le intesero affatto metaforicamente, ma così come suonano. La metafora non avrebbe generato scandalo e scissura. Invece ecco quello che accadde: udita la parola di Gesù corse un fremito di disgusto fra la gente; e scuotevano il capo, sogghignavano, mormoravano: O come! Vuol Egli darci a mangiare se stesso? Come è possibile? — E disputavano qua e là in diversi gruppi molto vivacemente. I discepoli stessi inarcavano le ciglia e dicevano: — È duro questo linguaggio. Chi lo può tollerare. — E molti s’allontanarono sdegnosamente. Che fece, o fratelli, Gesù a questo scoppio generale e violento d’incredulità? Ha egli chiarita la metafora? Ha egli tentato di trattenere la gente con qualche facile spiegazione? No. Egli permise che gli increduli se ne andassero. Anzi si voltò agli Apostoli, e disse: — Volete andarvene anche voi? — Il che è quanto dire: — La cosa è proprio così, com’Io v’ho detto. È dura? Vi ripugna? Non la potete accettare? Ebbene andatevene. Io non ho nulla a correggere, nulla a disdire. — Gesù adunque aveva promesso davvero la sua carne il suo sangue. Gli uditori di Cafarnao, grossolani com’erano, immaginavano un mangiare e un bere materiale e carnale, un osceno spettacolo di antropofagia, e in ciò avevano torto; ma la sostanza della promessa era quella, o fratelli: e la narrazione evangelica è troppo chiara per potersi torcere ad altro significato. Dopo questo le parole dell’ultima Cena (questo è il mio corpo, questo è il mio sangue) non hanno più bisogno di spiegazione. Esse contengono l’adempimento della promessa fatta a Cafarnao. Voi comprendete che se l’Eucaristia si riducesse a un po’ di pane e di vino benedetti, l’alta promessa, la promessa che ha gettato lo stupore e lo scisma dell’uditorio di Cafarnao, e messa in forse la fedeltà stessa degli Apostoli, avrebbe condotto a ben piccolo risultato; a una cerimonia volgare, che proprio non valeva la pena di essere annunciata un anno prima con tanta solennità e con sì crudo realismo, e che non era affatto degna di costituire il punto culminante dell’ultima Cena, in cui la parola e gli atti di Gesù sono tutti improntati di una grandiosità veramente divina. La parola di Gesù afferma adunque la sua presenza e reale e sostanziale nell’Eucaristia. E, notatelo bene, rafferma proprio nel senso del dogma. Quando Gesù nell’ultima Cena presentò il pane consacrato, non disse: — Questo rappresenta, questo contiene il mio corpo; — ma disse: Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo, che per voi sarà dato in remissione dei peccati. — E quando presentò il vino, non disse: Questo rappresenta, questo contiene il mio sangue; — ma disse: Prendete e bevete; questo è il calice del mio Sangue, del nuovo ed eterno testamento, che per voi sarà sparso in remissione dei peccati. — Il pane adunque non è più pane, ma ne ha soltanto le apparenze; e similmente il vino. Ecco il dogma. La nostra fede s’appoggia alla parola di Gesù.

7. Facciamo una domanda, fratelli miei: capirono gli Apostoli fin dal principio la grandezza di questo dono? Capirono essi l’importanza e il significato di ciò che Gesù, aveva detto e fatto nell’ultima Cena, in quella triste vigilia di tradimento e di morte? Non so. Se non capirono subito, certo capirono ben presto, quando lo Spirito Santo scese a illuminare le loro anime; e certo fin dal principio circondarono il Mistero di riverenza e d’amore, e ne fecero il punto culminante dell’adunanze dei fedeli. Poco più di vent’anni dopo l’istituzione dell’Eucaristia S. Paolo scriveva nella prima lettera a quelli di Corinto: — Chiunque mangerà questo pane, o berrà il calice del Signore indegnamente, sarà reo del corpo e del sangue dei Signore. Perciò provi l’uomo se stesso, e così mangi di quel pane e beva di quel calice. Imperocché chi mangia e beve indegnamente, si mangia e beve la sua propria condanna, non distinguendo il corpo del Signore. — S. Paolo era certamente l’eco della fede degli Apostoli e dei primi fedeli. – Più tardi venne la scienza teologica; e sorsero dibattiti e questioni circa lo sostanza e le specie, circa il modo di essere di Cristo nell’Eucaristia, e il come e il quando della transustanziazione, e altre e altre, che si affacciavano man mano alle menti col crescere degli studi e con l’incalzare dell’eresie; questioni e dibattiti che gli Apostoli e i credenti dei primi secoli nella semplicità della loro fede, non sospettavano nemmeno; ma la presenza vera, reale e sostanziale di Gesù nell’Eucaristia non fu mai recata in dubbio nella Chiesa nemmeno un istante. La parola di Cristo — questo è il mio corpo; questo è il mio sangue — pigliata nel senso letterale e, umanamente parlando, meno credibile, anzi affatto incredibile, è passata indiscussa traverso i secoli. Mi sarebbe agevole il dimostrarlo; ma lascio volentieri la facile erudizione. La storia è là con nomi e le opere poderose dei Padri e dei Concili ecumenici, in cui si concreta visibilmente la Chiesa insegnante, è là con le liturgie antiche e nuove, e con le eresie condannate. Essa ci dimostra la fede unanime della Chiesa, tutti i cuori fusi in uno, da cui esala, come incenso, l’adorazione a Cristo vivente sui nostri altari sotto le specie del pane e del vino. Perfino le chiese eretiche e scismatiche, che si separarono dalla Chiesa Cattolica prima del protestantesimo, la chiesa nestoriana, l’eutichiana, l’armena, la greca foziana, la rutena, tennero e tengono ancora come indubitata la presenza reale e sostanziale di Gesù nell’Eucaristia. Quale stupendo consenso! A questa fede risponde lo splendore del culto. L’ostia santa è il centro dei misteri cristiani già nell’aura morta delle catacombe, tra il canto delle vergini alla vigilia del martirio. Là si consacra, si prega, si comunica, s’adora; là un tepore di vita divina si spande nell’anime dall’Eucaristia mentre di fuori imperversa la rabbia delle persecuzioni e il verno mortale del paganesimo. Ma dopo tre secoli la Chiesa esce trionfante dal suo sepolcro, e il mondo si rinnovella. La fede, mirabile aura di primavera divina, suscita a migliaia i templi, che lanciano al cielo, le bianche moli maestose, e sotto il fiorire delle marmoree colonne, che s’intrecciano in alto come rami d’alberi giganteschi, sotto i lacunari dorati e le auree cupole che s’incurvano come la volta del cielo, accorrono le arti a portare il loro tributo. La pittura inonda le pareri e le tele; la scultura avviva i marmi; l’arte del cesello prepara i candelieri, i calici, gli ostensori, le lampade superbe; la musica esprime l’impeto del sentimento religioso; e l’organo, lo strumento cristiano per eccellenza, rugge e piange e sospira e prega con la grande anima sua come agitato da una profonda passione. Il sacerdote esce ai sacri misteri: la liturgia si fa grande e magnifica; le feste si moltiplicano; i popoli si prostrano riverenti. Ma dov’è Gesù, fratelli miei? Dov’è il centro di questi omaggi, l’oggetto dii questo culto? Ah! ecco Gesù, fratelli miei: Egli è là nell’ostia santa, in quella piccola cosa, che è un po’ di pane e un po’ di vino. E notate che non si tratta dell’omaggio di popoli schiavi e brutali, di popoli barbari e selvaggi, presso i quali l’immaginazione abbia soffocato il buon senso e sommersa la ragione, no, no; si tratta dell’omaggio di popoli coscienti, di popoli civili, di popoli liberi e illuminati; si tratta del fior fiore dell’umanità. A questo culto dell’Eucaristia si lega il Sacrificio e il sacerdozio defila nuova Legge. Sopprimete l’Eucaristia e cade ogni cosa. Il Cristianesimo non ha più né Sacrificio, né Sacerdozio, né culto. Pertanto chi respinge o reca in dubbio il dogma eucaristico è subito costretto ad accettare questo gravissimo assurdo, che la Chiesa insegnante, cioè la famiglia di Gesù, la naturale e non mai interrotta espansione del collegio apostolico, e quindi la conservatrice e l’interprete più autorevole della sua parola; la famiglia di Gesù, che ha raccolto la verità dalle sue labbra stesse, e l’ha di poi tramandata di mano in mano come prezioso tesoro fino ai secoli più lontani, fino a noi, sia caduta in un grossolano errore. Essa non avrebbe affatto compreso la parola del Maestro; avrebbe pigliato in senso proprio e letterale un modo di dire, un’audace metafora; avrebbe costretto per secoli, e costringerebbe ancora i fedeli, ad accettare questo errore, respingendo dal suo seno i renitenti; essa adorerebbe per Dio un pezzo di pane e un po’ di vino, abbandonandosi e trascinando i credenti a un culto idolatrico, che sarebbe ridicolo, se non fosse detestabile; essa sarebbe una religione senza sacrificio, e perciò assurda. Solo dopo quindici secoli, e per opera d’uomini ribelli e spergiuri si sarebbe venuto a scoprire il vero significato delle parole di Gesù: questo è il mio corpo; questo è il mio sangue. — Ciò è ben strano, fratelli miei. Ciò è addirittura incredibile.

8. Più strano e più incredibile se si rifletta a chi dovrebbe risalire la responsabilità di questi errori. Io vi domando, fratelli miei: sapeva o non sapeva Gesù il grave abbaglio che la Chiesa avrebbe preso circa il significato delle sue parole? Sapeva o non sapeva l’enorme errore, che essa avrebbe insegnato ai popoli in suo nome? Se non lo sapeva, non era Dio. Se lo sapeva, come l’ha potuto permettere? Perché non ha Egli chiarito subito l’equivoco fin da quel giorno che poté avvertire la falsa interpretazione data alle sue parole dall’uditorio di Cafarnao? Perché non l’ha Egli fatto almeno nell’ultima Cena, tra i suoi cari, tra quelli che dovevano predicare e interpretare la sua parola? Non ha Egli posta la sua Chiesa tra gli uomini come maestra infallibile di verità? Non ha Egli detto a Pietro: — Pasci i miei agnelli e le mie pecorelle? — Non ha Egli detto agli Apostoli: Andate, predicate, insegnate quello che Io ho insegnato a voi: chi crederà, sarà salvo; chi non crederà, sarà condannato? — Non ha Egli detto: Chi ascolta voi, ascolta me? — Non ha egli promesso: Io sarò con voi fino alla consumazione dei secoli? — E dopo tutto questo, come mai, ripeto, la Chiesa avrebbe potuto cadere nell’incredibile errore? E quando mai o in che cosa dovremmo noi prestarle l’assenso dalla nostra fede dopo sì colossale fallimento del suo Magistero? Ma di ciò, ripeto, risalirebbe la colpa allo stesso Gesù. Egli avrebbe fatto alla sua Chiesa una ben deplorevole burla. Ah! perdonate, perdonate, o Signore, l’indegna parola, che m’è  sfuggita dalle labbra: il mio cuore la cancella; e la mia mente si prostra, e riconosce che Voi siete verace e fedele. Voi avete detto: Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue. — La Chiesa ha raccolto il vostro Sacramento e l’ha tramandato a noi nel significato naturale della vostra parola; e Voi l’avete permesso; anzi avete consolidato la nostra fede col peso dei secoli, della santità e del genio. Ebbene io credo, o Signore. Si, voi siete veramente, realmente, sostanzialmente presente sotto i veli sacramentali. La mia anima vi vede, vi benedice, vi ama, vi adora.

9. A meglio confermare la nostra fede, facciamo un’altra osservazione, che non parrà fuor di luogo. Noi crediamo nella divinità di Gesù: ebbene, io vi dico che il dogma dell’Eucaristia, universalmente accettato dalla Chiesa, è una splendida riprova di Essa divinità. Ragioniamo, fratelli miei. L’Eucaristia, noi l’abbiam visto, è il più inesplicabile dei misteri, la sfida più audace che si potesse fare alla ragione, al senso, al buon senso. Con tutto ciò il terribile dogma ha trovato fede nel mondo cristiano, fra le nazioni più civili, fra le menti più elevate, e il Sacramento è diventato il centro, la vita, il cuore della Religione, del culto, degli affetti, delle adorazioni, il fonte vivo e perenne della santità. Si, anche della santità; poiché, per testimonianza stessa dei santi, è dall’Ostia adorabile che essi attingono la forza di resistere a tutte le umane passioni, e quell’ardore di carità, che colpisce di stupore e di riverenza anche i profani. Ecco il fatto, fratelli miei. Si creda, o non si creda nell’Eucaristia, il fatto è questo; e i fatti non si negano: bisogna spiegarli. O che importa, se vi sono uomini che non credono? Innanzitutto essi (dico fra i Cristiani) sono pochi al paragone del numero sterminato di credenti, che riempiono venti secoli di storia. Poi il difficile, nel caso nostro, non è già nello spiegare come vi possa essere chi non crede, ma come vi possa essere chi crede. Qui sta il difficile! Voi non meravigliereste, o fratelli, se, dicendo io che questa cattedrale è sorta da sé, come un fiore, in una bella primavera di arte, nessuno mi prestasse fede. Ma ben fareste le meraviglie, se io in questo uditorio trovassi, non dirò mille, né cento, ma solamente dieci persone, che credessero seriamente alla mia parola. Pertanto eccovi il problema: come spiegate voi la fede, una fede viva, tenace, persistente, operosa, di tanti milioni di uomini nell’Eucaristia? Come la spiegate? – Io ragiono così: se Gesù è Dio, tutto si spiega. Egli non può aver detto né una menzogna, né una sciocchezza, né un assurdo quando disse: Questo è il mio corpo; questo è il mio sangue. — Anzi in così grave argomento Egli non può avere permesso nemmeno un’ambiguità, una falsa Interpretazione, che avrebbe gettato la sua Chiesa nell’idolatria più grossolana. Che importa, se io non comprendo nulla del mistero? È ben naturale che Dio abbia delle azioni incomprensibili al mio corto intelletto. Ma se Gesù non è Dio, allora la fede nella Eucaristia è un Mistero anche più grande dell’Eucaristia stessa. Ed è un fatto anche umiliante per la ragione umana. Si, umiliante, molto umiliante; poiché cosa si ha mai a pensare della ragione umana, quando si vedono accettate senza prove, e con tanto ardore di fede le più inaudite e incredibili affermazioni? Si direbbe che Gesù si sia divertito a far credere le più strane cose. Egli dice al mondo: Io sono Dio; e il mondo crede e adora. Egli innalza sul mondo un patibolo infame; e il mondo si prostra e canta: Vexilla regis prodeunt. Egli dice: Beati i poveri; beati i perseguitati; beati quelli che piangono e insegnano le più dure verità, e mette l’uomo in contrasto e in guerra con le sue più care inclinazioni; e il mondo lo proclama maestro. Non basta ancora. Egli presenta un po’ di pane e un po’ di vino e dice: Prendete: questo è il mio corpo; questo è il mio sangue — e il mondo accetta e crede; crede anche questo e canta: O salutaris Hostia. — Ma viva Dio! se Gesù non è il figlio dell’Altissimo; se Egli, prima di imporre sì incredibili cose non ha dimostrato di esserlo; se Egli non ha prima imposto la sua divinità; se non s’è rivelato Dio prima che maestro, bisogna riconoscere che il mondo è impazzito, e perdere ogni fiducia nel valore della ragione umana. Io lascio agli increduli il divertimento di sciogliere l’arduo problema. Per noi credenti esso è già sciolto. Cristo è Dio; e il dogma dell’Eucaristia fondato sulla sua parola e su quella della sua Chiesa non può essere che la verità. Crediamo, fratelli miei, crediamo fermamente, e portiamo alta la nostra fede in faccia al mondo. Lasciamo pure che si scuota il capo e si sorrida intorno a noi: lasciamo che si ripeta il durus est hic sermo dei cafarnaiti, e che i mondani s’allontanino dal Mistero che non possono comprendere. Cristo ci guarda dal suo tabernacolo, e ci dice: Volete andarvene anche voi? — Ma noi gettiamoci ai suoi piedi, e gridiamogli con la fede di Pietro: — No no, Signore. A chi andremo noi? Tu hai parole di vita eterna.

CREDO …

Offertorium

Orémus
Levit. XXI: 6
Sacerdótes Dómini incénsum et panes ófferunt Deo: et ideo sancti erunt Deo suo, et non pólluent nomen eius, allelúia. [I sacerdoti del Signore offrono incenso e pane a Dio: perciò saranno santi per il loro Dio e non profaneranno il suo nome, allelúia.]

Secreta

Ecclésiæ tuæ, quǽsumus, Dómine, unitátis et pacis propítius dona concéde: quæ sub oblátis munéribus mýstice designántur. [O Signore, Te ne preghiamo, concedi propizio alla tua Chiesa i doni dell’unità e della pace, che misticamente son figurati dalle oblazioni presentate.]

Communio

1 Cor XI: 26-27
Quotiescúmque manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat: itaque quicúmque manducáverit panem vel bíberit calicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini, allelúia. [Tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore, finché verrà: ma chiunque avrà mangiato il pane e bevuto il sangue indegnamente sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.
Fac nos, quǽsumus, Dómine, divinitátis tuæ sempitérna fruitióne repléri: quam pretiósi Corporis et Sanguinis tui temporalis percéptio præfigúrat: [O Signore, Te ne preghiamo, fa che possiamo godere del possesso eterno della tua divinità: prefigurato dal tuo prezioso Corpo e Sangue che ora riceviamo].

EXTRA ECCLESIAM NULLUS OMNINO SALVATUR (13 -C-)

EXTRA ECCLESIAM NULLUS OMNINO SALVATUR (13-C)

IL DOGMA CATTOLICO:

Extra Ecclesiam Nullus Omnino Salvatur

[Michael Müller C. SS. R., 1875]

La carità non può essere conservata fuori dall’unità della Chiesa,

e così puoi vedere che senza di essa non sei nulla, anche se hai il Battesimo e la Fede, e con la tua Fede puoi anche smuovere le montagne Se questa è anche la tua opinione, non detestiamo e non disprezziamo né i Sacramenti che riconosciamo in te, né la Fede stessa, ma professiamo la carità, senza la quale non siamo nulla, nemmeno con i Sacramenti e la Fede. Professiamo la carità quando abbracciamo l’unità; e abbracciamo l’unità quando la nostra conoscenza è nell’unità con le parole di Cristo, non quando mediante le nostre parole ci formiamo un quadro parziale. – « Un altro pretesto – dice Brownson – per queste persone è: alcuni dicono che Dio deve essere creduto secondo la misura della grazia da Lui ricevuta; i Cattolici, in effetti, credono a molte cose che i protestanti non professano, ma i primi hanno ricevuto i cinque talenti, i ​​secondi solo due o tre. Essi non condannano i Cattolici, ma sperano di essere salvati nella misura ridotta che essi hanno ricevuto. » – « Ma qui ci si può avvalere di ciò che abbiamo appena riportato da Sant’Agostino; poiché se anche il Battesimo e la Fede non servono a nulla senza l’indispensabile Carità, molto meno trarranno profitto da una semplice porzione che si è ottenuta dalla divisione e nello scisma. (De controversiis Tract. General, IX de unità. Eccl. Et Schism, cap. 15; Vide etiam Lib. 1. de Bapt. Contr. Donat. Cap. V.; lib, 1 contr. Litt. Petil. Cap. 23, et lib. 2. cap. 8; et de Unit. Eccl. Cap. 2. S. Optat. Melevit. 1 e 2.). » Questa è la più alta autorità espressa in merito. Elimina tutti i possibili pretesti che i nostri compatrioti possano sostenere, o che possano essere addotti da loro. Coloro che vengono educati nella Chiesa, istruiti nella sua Fede e ammessi ai suoi Sacramenti, se si staccano da Essa, possono essere salvati solo ritornandovi e facendo penitenza; e tutti coloro che, consapevolmente resistono alla sua Autorità o aderiscono a società eretiche e scismatiche, sapendo che sono tali, sono nella stessa categoria e non hanno mezzi possibili di salvezza senza essersi riconciliati con la Chiesa e sciolti dai lacci con i quali erano legati. Fin qui tutto è chiaro e innegabile! Ma anche coloro che si trovano in società separate dalla Chiesa per ignoranza, credendo che queste siano la Chiesa di Cristo, secondo le autorità citate, sono rei di “sacrilegio”, un peccato molto grave, sono carenti di carità, che non può essere praticata fuori dall’unità della Chiesa, e senza la quale essi non sono nulla; quindi, qualunque sia il grado comparativo o l’entità della loro peccaminosità, essi sono comunque sulla via della perdizione, così come quegli altri, e non più degli altri possono essere salvati senza essersi riconciliati con la Chiesa. Ma queste diverse classi includono tutti i nostri concittadini che non siano nella Chiesa, e quindi, poiché ognuno di questi è esposto all’ira e alla condanna di Dio, abbiamo il diritto, anzi siamo in dovere, di predicare a tutti, senza eccezione, che, a meno che non entrino nella Chiesa, e si sottomettano umilmente alle sue leggi, perseverando nel loro amore e nell’obbedienza, saranno inevitabilmente persi. « Fuori dalla Chiesa non c’è nessuna salvezza per nessuno! ». (Quarto Consiglio del Lat.) – « Indiscutibilmente, tutti devono entrare nella Chiesa – diranno alcuni – ma non necessariamente nella Chiesa visibile; dobbiamo distinguere tra il Corpo o la comunione esteriore della Chiesa, e l’anima, o la comunione interiore: ma il dogma della fede dice semplicemente: “fuori dalla Chiesa non c’è salvezza”, e nessuno ha il diritto di aggiungere la parola visibile o esterno. »  – « Aggiungiamo la parola “esteriore” o visibile – dice il dottor O. A. Brownson – per distinguere la Chiesa da cui non c’è salvezza, dalla Chiesa invisibile pretesa dai protestanti, e che nessun Cattolico professa o può ammettere. Senza di Essa, il dogma della Fede non ha significato. Indiscutibilmente, poiché nostro Signore nella sua umanità aveva due parti, il suo corpo e la sua anima, così possiamo considerare la Chiesa, sua Sposa, come avente due parti, quella esteriore e visibile, l’altra interiore e invisibile, o visibile solo dall’esterno, come l’anima dell’uomo è visibile dalla sua faccia; ma sostenere che le due parti siano separabili, o che l’interno esista scollegato dall’esterno e sia sufficiente indipendentemente da esso, significa affermare, in molte parole, la dottrina predominante dei protestanti, e per quanto riguarda le condizioni indispensabili di salvezza, cederle, almeno nella loro comprensione, sull’intera questione. Allo stato attuale delle controversie con i protestanti, non possiamo salvare l’integrità della fede, a meno che non aggiungiamo l’epiteto, visibile o esterno. Ma non è vero che così facendo aggiungiamo qualcosa al dogma della fede. Il senso dell’epiteto è necessariamente contenuto nella semplice parola Chiesa stessa, e l’unica necessità di aggiungerlo è nel fatto che gli eretici hanno mutilato il significato della parola Chiesa, così che per loro non ha più il suo significato pieno e corretto. Ogni volta che la parola Chiesa sia usata genericamente, senza alcuna qualifica specifica, espressa o necessariamente implicita, significa, con la sua stessa forza: Chiesa visibile e invisibile, il Corpo non meno dell’anima; perché il Corpo, la comunione visibile o esterna, non è un semplice accidente, ma elemento essenziale per la Chiesa. « La Chiesa – per sua stessa definizione – è la congregazione di uomini chiamati da Dio attraverso la dottrina evangelica, che professano il vero Cristianesimo, la medesima Fede sotto il loro infallibile Pastore e Capo, il Papa. » Questa definizione non contiene nulla di essenziale per l’idea stessa della Chiesa. La Chiesa, quindi, è sempre essenzialmente visibile ed invisibile, esteriore ed interiore; e escluderne dalla nostra concezione la sua visibilità, sarebbe altrettanto discutibile come l’escludere la visibilità del corpo dalla costituzione dell’uomo. L’uomo è essenzialmente corpo ed anima; e chiunque parli di lui – come uomo vivente – deve considerarlo, con tutte le leggi del linguaggio, della logica e della morale, nel senso in cui includa entrambe le componenti. Quindi, parlando della Chiesa, l’analogia è assolutamente simile. Di conseguenza, quando la fede ci insegna che: “fuori dalla Chiesa non c’è salvezza” e non si aggiunge alcun’altra qualifica, siamo tenuti a intendere la Chiesa nella sua integrità, come Corpo non meno che come Anima, visibile non meno che invisibile, non meno esterno che interno. In effetti, se proprio non dovessero essere inclusi entrambi, piuttosto che l’altra, sarebbe indicato il Corpo; ed infatti il Corpo, la congregazione o la società, è ciò che la parola primariamente e correttamente designa; e designa l’anima solo per il motivo che il Corpo vivente presupponga necessariamente l’anima con la quale il Corpo è vivente e non un cadavere. Abbiamo quindi il diritto, anzi, siamo vincolati dalla forza della parola stessa, a comprendere che nella Chiesa, fuori dalla quale non esiste salvezza, debba esservi sia la comunione visibile o esteriore, sia quella invisibile o interiore. – « Quello che Bellarmino, Billuart, Perrone e altri dicono di persone che appartengono all’anima e tuttavia non al Corpo della Chiesa non toglie nulla a questa conclusione: in realtà essi insegnano che c’è una classe di persone che possono essere salvate, e che non si può dire che siano realmente e propriamente nella Chiesa. Bellarmino e Billuart si riferiscono ai catecumeni e alle persone scomunicate, nel caso abbiano ancora fede, speranza e carità; Perrone, per quanto abbiamo visto, considera solo i catecumeni, ed è evidente da tutta la portata del loro ragionamento che tutto ciò che dicono su questo punto debba essere limitato ai catecumeni e a coloro che sono sostanzialmente nella stessa categoria, poiché non ne includono altri, e siamo costretti ad interpretare rigorosamente ogni eccezione alla regola, in modo da renderla il meno possibile un’eccezione. Se, quindi, la nostra conclusione è vera, nonostante l’apparente eccezione nel caso dei catecumeni e di quelli che sostanzialmente sono nella stessa categoria, nulla da quanto dicono questi autori può impedire da mantenere vero  l’universalmente accettato. – « I catecumeni sono persone che non hanno ancora ricevuto il Sacramento visibile del Battesimo (in realtà), e quindi non sono realmente e propriamente nella Chiesa, poiché è solo con il Battesimo che si diventa membri di Cristo e incorporati nel suo corpo ». – « Riguardo a questi non ci sono difficoltà – dice Bellarmino – perché essi sono dei Fedeli, e se muoiono in quello stato possono essere salvati; eppure nessuno può essere salvato fuori dalla Chiesa, poiché nessuno è stato salvato fuori dall’arca, secondo il decreto del quarto Concilio Lateranense, C. 1: “Una est fidelium Universalis Ecclesia, extra quam nullus omnino salvatur. « Tuttavia, non è meno certo che i catecumeni siano nella Chiesa, non in realtà e correttamente, ma solo potenzialmente, come un uomo concepito, ma non ancora formato e nato, si chiama solo uomo potenzialmente, perché leggiamo (Atti, II. 41.) “ … perciò quelli che ricevettero la sua parola furono battezzati; e in quel giorno vi furono aggiunti circa tremila anime”. Così il Concilio di Firenze, nelle sue istruzioni per gli Armeni, insegna che gli uomini sono fatti membri di Cristo e del Corpo della Chiesa quando sono battezzati, e così tutti i Padri insegnano che « … I catecumeni non sono realmente e propriamente nella Chiesa, come puoi dire che sono salvati, se sono fuori dalla Chiesa? » – « È chiaro che questa difficoltà, come afferma Bellarmino, nasce dalla consapevolezza che essere nella Chiesa significa essere nella Chiesa visibile e che, quando la fede dichiara che fuori dalla Chiesa nessuno possa essere salvato, significa fuori dalla comunione visibile, altrimenti si potrebbe rispondere, poiché si presume che abbiano fede, speranza e carità, che appartengano all’anima della Chiesa, e questo è tutto ciò che la fede richiede. Ma, Bellarmino non risponde così, e da allora non lo fa, ma procede a dimostrare che in un certo senso appartengono al corpo, ed è certo che intende l’articolo di fede come facciamo noi, e sostiene che gli uomini non sono nella Chiesa a meno che, in un certo senso, non appartengano al corpo ». –  « Ma – continua Bellarmino – l’autore del libro “De Ecclesiasticis Dogmatibus”, risponde, che non vengono salvati. » Ma questo sembra troppo severo; certo è che Sant’Ambrogio, nella sua orazione sulla morte di Valentiniano, afferma espressamente che i catecumeni possono essere salvati, del qual numero era Valentiniano quando lasciò questa vita. È quindi da cercare un’altra soluzione. Melchior Cano dice che i catecumeni possono essere salvati, perché, se non nella Chiesa propriamente detta cristiana, sono ancora nella Chiesa che comprende tutti i fedeli, da Abele fino alla consumazione del mondo. Ma questo non è soddisfacente; poiché, prima della venuta di Cristo, non esisteva una vera Chiesa, quella che è propriamente chiamata cristiana, e quindi, se i catecumeni non ne fanno parte, non ne sono membri. Rispondo quindi che l’affermazione « non si può salvare nessuno fuori dalla Chiesa » deve essere intesa « … da coloro che non sono né della Chiesa, né del desiderio, come dicono generalmente i teologi nel trattare il Battesimo. » (De. Eccl. Milit. Lib. 3, cap 3). – « Ho detto – dice Billuart – che i catecumeni non sono realmente e propriamente nella Chiesa, perché, quando chiedono l’ammissione nella Chiesa, e quando hanno già la fede e la carità, si può dire che siano prossimi alla Chiesa e nel desiderio di farvi parte, come si può dire di essere nella casa perché si è già nel suo vestibolo allo scopo di entrarvi immediatamente. E in questo senso deve essere preso ciò che ho detto altrove della loro appartenenza alla Chiesa, cioè che essi appartengono ad Essa, come “aspiranti” che volontariamente si sottomettono alle sue leggi, e possono essere salvati, nonostante non ci sia salvezza fuori dalla Chiesa, poiché questo va distinto da chi non è nella Chiesa né in realtà, né virtualmente – nec re nec in voto ». Nello stesso senso deve essere compreso Sant’Agostino (Tratc. 4 in Giovanni 13) quando dice “Futuri erant aliqui in Ecclesia excelsioris gratiæ catechumeni“, cioè, nella volontà e disposizione prossima, ‘in voto et proxima dispositione.’ (Teolog. De Reg. Fid. Dissert. 3, art. 3.). « È evidente, sia da Bellarmino che da Billuart, che nessuno può essere salvato se non appartiene alla comunione visibile della Chiesa, realmente o virtualmente, e anche che la salvezza dei catecumeni può essere affermata solo perché essi lo sono; cioè, poiché sono nel vestibolo, con lo scopo di entrare, sono già entrati nella loro volontà e nella disposizione prossima. – San Tommaso insegna riguardo a questi, nel caso in cui abbiano fede operando con la carità, che tutto ciò che manca loro è la ricezione del Sacramento visibile nella realtà; ma, se sono impediti dalla morte dal riceverlo in realtà prima che la Chiesa sia pronta ad amministrarlo, Dio supplisce al difetto, accetta la volontà dell’azione e reputa che siano come battezzati. Se il difetto è supplito, e Dio li reputa battezzati, come se così in effetti avessero ricevuto il Sacramento visibile, essi sono veramente membri della comunione esterna della Chiesa, e quindi sono salvati in Essa, non da esso ». (Summa, 3, q.68, a.2, corp. Ad 2. e ad 3. – « Il caso dei catecumeni si applica a tutti coloro che sono sostanzialmente nella stessa categoria: le uniche persone, oltre ai catecumeni, che possono essere nella stessa categoria, sono le persone che sono state validamente battezzate e che stanno nella stessa relazione con il Sacramento di Riconciliazione, come i catecumeni stanno al Sacramento della fede. Gli infanti, validamente battezzati, da chiunque siano stati battezzati, sono fatti membri del Corpo di nostro Signore e, se muoiono prima di giungere all’età della ragione, vanno immediatamente in Paradiso. Ma le persone giunte all’età della ragione, battezzate in una società eretica, o le persone battezzate in tale società durante l’infanzia e che aderiscono ad essa dopo aver raggiunto gli anni della comprensione – poiché non ci può essere differenza tra le due classi – quella dell’ignoranza colpevole o meno, sono, come abbiamo visto, escluse dall’unità, e quindi dalla carità, senza la quale non sono nulla: la loro fede, se ne hanno, non li avvantaggia, i loro sacramenti sono sacrileghi, la ferita del sacrilegio è mortale ed il solo  possibile modo di essere guariti è mediante il Sacramento della riconciliazione o della Penitenza. Ma affinché questi abbiano la stessa relazione con questo Sacramento, come i catecumeni fanno col Sacramento della Fede …

« … devono cessare di aderire alle loro società eretiche, devono uscire da esse, cercare e trovare la Chiesa, riconoscerla come Chiesa, credere a ciò che insegna, assoggettarsi volontariamente alle sue leggi, bussare alla porta, se si vuole entrare, restare in attesa di entrare, e non appena si apre e si dice: Entra! … entrare ».

Se fanno tutto questo, sono sostanzialmente nella stessa categoria dei catecumeni; e se, impediti dalla morte di ricevere il Sacramento visibile nella realtà, essi possono essere salvati, non così semplicemente uniti all’anima della Chiesa, bensì come in effetti uniti o restaurati alla sua Comunione esterna. Con la loro volontaria rinuncia alle loro società eretiche o scismatiche, con il loro esplicito riconoscimento della Chiesa, con il loro effettivo ritorno alla sua porta, con le loro disposizioni e la volontà di entrare, sono efficacemente, e non solo nella forma, anche membri del Corpo così come dell’anima. Le persone scomunicate stanno sullo stesso piano di queste. Esse sono escluse dalla Chiesa, a meno che non si pentano. Se si pentono e ricevono il Sacramento visibile della Riconciliazione, o nella realtà o nel desiderio, possono salvarsi perché la Chiesa, scomunicandole, ha voluto il loro emendamento, non la loro esclusione dal popolo di Dio; ma non abbiamo nessuna autorità per affermare che ci sia salvezza in qualsiasi altra condizione.  – « L’apparente eccezione presunta risulta, quindi, non essere affatto una vera eccezione; poiché le persone escluse sono in effetti ancora membri del Corpo della Chiesa, come le autorità (citate) hanno con il loro lavoro dimostrato. Sono esse quelle persone che hanno rinunciato alle loro società infedeli ed eretiche e hanno trovato ed esplicitamente riconosciuto la Chiesa. Il loro approccio alla Chiesa è esplicito, non in via di costruzione, da dedurre cioè solo da un certo desiderio vago ed indefinito della verità e dell’unità in generale, prevedibile in effetti, potremmo supporre, per quasi tutti gli uomini; … perché nessun uomo si aggrappa mai alla menzogna e alla divisione, credendo che esse siano tali. Il loro desiderio di verità e unità qui, è invece esplicito. Questa fede è la fede Cattolica; l’unità che si vuole è l’unità cattolica; la Chiesa alla cui porta bussano è la Chiesa Cattolica; il Sacramento che sollecitano, lo sollecitano dalle mani del suo legittimo Sacerdote. Sono in effetti Cattolici e, sebbene non realmente e propriamente nella Chiesa, nessuno si sognerebbe mai di travisare l’articolo di fede per il quale: « fuori dalla Chiesa nessuno può essere salvato », così da essere esclusi dalla salvezza. (*).

(*) (Altrove noi abbiamo parlato, in alcuno dei nostri lavori, dell’anima e del corpo della Chiesa, e desideriamo essere compresi in nessun altro modo che non sia quello che sia stato appena spiegato).  –

« La Chiesa è sempre e dappertutto, allo stesso tempo e indissolubilmente, Chiesa vivente, interiore ed esteriore, che consiste, come l’uomo stesso, di anima e corpo; Essa non è né uno spirito disincarnato, né un cadavere. La separazione del corpo e dell’anima della Chiesa è come, alla sua morte, avviene per la separazione dell’anima dal corpo dell’uomo. Essa è la Chiesa, la Chiesa vivente, solo per il reciproco rapporto dell’anima e del corpo. Nel suo corpo possono esserci gravi peccatori che non hanno comunione con la sua anima, questi sono ancora davvero membri, ma non membri viventi e sono nel Corpo piuttosto che in Essa, poiché gli umori viziosi possono sì essere nel sangue, ma questo non vuol dire che siano in comunione con l’anima come membri viventi.  – « La vita della Chiesa, come insegnano tutti i teologi, è nel mutuo sussistere dell’esterno e dell’interno, del corpo e dell’anima; e quindi nessun individuo non unito al suo corpo può vivere la sua vita. In effetti, supporre che la comunione con il solo corpo possa essere sufficiente, è cadere nel mero formalismo, scambiare il cadavere con l’uomo vivente; e, d’altra parte, supporre che la comunione con l’anima fuori dal corpo ed indipendentemente da esso, sia possibile, significa cadere nel puro spiritualismo, semplice quaccherismo, che si assorbe nel trascendentalismo o nel sentimentalismo. Si considera allora o che la Chiesa sia un organismo morto, o che Essa sia, come abbiamo detto, da considerare sempre, immediatamente e indissolubilmente, unita in anima e corpo ». (Vedi Perrone, de Loc. Theolog., P.1, cap 2, art.3, et cap. 4, art. 1. ad 1) – « Presumere che la comunione reale o virtuale con il corpo non sia necessaria, o che possiamo essere uniti allo spirito senza essere uniti al corpo, è rendere il corpo solo occasionalmente o accidentalmente necessario per la salvezza, e, in effetti, alcuni moderne speculazioni lo implicano e forse insegnano espressamente, che esso è necessario solo nel caso di coloro che lo riconoscono necessario, come se la sua necessità dipendesse dallo stato dell’intelletto umano, e non dalla rivelazione di Dio, o come se fosse possibile ad un uomo per potere scusare o compensare la sua mancanza di fede, elaborare una dottrina non contenuta dalla Sacra Scrittura, non insegnata da nessun padre o dottore medievale, e alla quale, dovremmo supporre, che ogni Cattolico si rivolterebbe istintivamente con odio e disgusto.  – «La Chiesa è il tempio vivente di Dio, in cui i credenti devono essere incorporati come tante pietre viventi. E il suo corpo, non è meno indispensabile della sua anima; altrimenti non potremmo chiamarla sempre visibile, perché ad alcuni sarebbe visibile, agli altri invisibili, e quindi non ci sarebbe nessuna Chiesa cattolica visibile ». Quindi siamo stati sorpresi di trovare la seguente opinione errata in un piccolo lavoro, “Catholic Belief”, pagina 230, § 7: – “I Cattolici non credono che i protestanti che siano battezzati, che conducano una buona vita, che amano Dio e il loro prossimo, e sono incolpevolmente ignoranti delle giuste ragioni della Religione Cattolica di essere l’unica vera Religione (come è chiamato l’essere in buona fede), siano esclusi dal Cielo, purché credano che vi sia un Dio in tre Divine Persone, che Dio ricompenserà debitamente i buoni e punirà i malvagi, che Gesù Cristo è il Figlio di Dio fatto uomo, che ci ha redenti e in cui dobbiamo confidare per la nostra salvezza e purché si pentano completamente di aver mai, per i loro peccati, offeso Dio.  – I Cattolici sostengono che i protestanti che hanno queste disposizioni e che non sospettano che la loro religione sia falsa, e non hanno alcun mezzo per scoprirlo, o falliscono nei loro onesti tentativi di scoprire la vera Religione, e che sono così disposti nel loro cuore che ad ogni costo abbracciarebbero la Religione Cattolica se sapessero che è quella vera, sono Cattolici nello spirito e sono in un certo senso all’interno della Chiesa Cattolica, senza che loro lo sappiano. Questa tesi sostiene che questi Cristiani appartengano e siano uniti all’”anima”, come viene chiamata, della Chiesa Cattolica, sebbene non siano uniti al corpo visibile della Chiesa per mezzo della comunione esteriore con Essa e per la professione esteriore della sua fede ». –

In che modo ingannevolmente viene esposta questa opinione! È risaputo che molti protestanti vengono battezzati solo quando sono adulti. Se validamente battezzati, essi sono stati, è vero, segnati indelebilmente con il carattere del Sacramento del Battesimo, ma non hanno ricevuto gli effetti soprannaturali del Battesimo – quindi non sono giustificati – per mancanza delle giuste disposizioni. Il Concilio di Trento insegna che la primissima condizione per ricevere la grazia della giustificazione nel Battesimo è la vera Fede Cattolica. Quando questa Fede in una persona è mancante, gli effetti soprannaturali del Battesimo rimangono sospesi fino a quando un tale battezzato non divenga un vero membro della Chiesa Cattolica. Se tali protestanti battezzati muoiono in quello stato, saranno persi per sempre. Quei protestanti che sono stati battezzati nella loro infanzia e sono cresciuti nell’eresia dopo essere venuti all’uso della ragione, per questo si separarono dalla Chiesa e non poterono conservare, come dice Sant’Agostino, la carità divina derivante dall’unità della Chiesa, e senza tale carità è impossibile essere salvati. – Inoltre, queste quattro grandi verità di salvezza (citate sopra) devono essere credute, come osserva Cornelius a Lapide, con la Fede Divina, l’unica utile per la salvezza. Ma come potrebbero quelle persone avere questa Divina Fede ed un vero pentimento per i peccati senza la speciale misericordia di Dio, che conferisce questi doni solo ai veri convertiti alla Chiesa? « La remissione dei peccati – dice San Fulgenzio, – non può essere ottenuta da nessuna parte se non nella Chiesa ».  E come potrebbero tali persone pensare di unirsi alla Chiesa, se non sia stato fatto loro capire che possono trovare la loro salvezza solo nella stessa Chiesa? E poi avrebbero bisogno di una grazia speciale per venire al loro dovere. E come potrebbero essere Cattolici nello spirito senza avere la vera Fede e la Carità Divina? E come potrebbero appartenere all’Anima della Chiesa, dal momento che quell’anima non è in loro – cioè, la vera Fede e la Carità divina, che, ripetiamo, si può avere solo nell’unità della Chiesa? – « Il Cattolico – afferma il dottor O. A. Brownson – che detiene implicitamente la Fede Cattolica, ma erra attraverso un’invincibile ignoranza nei confronti di alcuni dei suoi corollari e persino dei dogmi, può essere salvato; ma come si può dire che un uomo abbia implicitamente la Fede Cattolica, se non la professa in nulla o rifiuta ogni principio che lo sottintenda? Non è sicuro applicare ai protestanti, che in realtà negano tutto ciò che sia cattolico, una regola che è molto giusta, solo però quando viene applicata ai Cattolici sinceri ma ignoranti, o ai Cattolici che errano attraverso l’ignoranza incolpevole. Il protestantesimo si regge su di una eterodossia ordinaria; non è più cristiano di quanto lo fosse il paganesimo greco e romano. – « È degno di speciale attenzione – dice Brownson – che quei teologi recenti che sembrano non voler aderire a questa dottrina non citino autorità di anche un solo Padre o dottore della Chiesa medievale, strettamente compatibili con essa. » – « Indubbiamente, le autorità a qualunque numero assommino, possono essere citate per dimostrare ciò che nessuno contesta, che la pertinacia nel respingere l’autorità della Chiesa sia essenziale per l’eresia formale o colpevole, che le persone possano trovarsi in società eretiche senza essere eretici colpevoli, e quindi, non possiamo dire di tutti quelli che vivono e muoiono in tali società, siano dannati proprio per il peccato di eresia. Padre Perrone cita in abbondanza passaggi in tal senso, che, come dice Suares, è la dottrina uniforme di tutti i teologi della Chiesa; ma lui e gli altri non citano una sola autorità che sia precedente al diciassettesimo secolo, che accenni mai a qualcosa di più di questo; e questo non significa affatto essere militanti contro Sant’Agostino, San Fulgenzio e altri, perché non ne consegue per nulla il fatto che uno che è un eretico formale sia, finché è in una società estranea alla Chiesa, sulla via della salvezza. « Un uomo può, non essere dannato per la sua errata fede, e tuttavia essere dannato per i peccati non remissibili senza la vera fede, e per la mancanza di virtù impraticabili fuori dalla comunione della Chiesa. » Padre Perrone distingue molto correttamente gli eretici materiali dai formali, ma trattando la domanda ex-professo, egli non pronuncia in alcun modo che il primo sia sulla via della salvezza, ma li rimette semplicemente al giudizio di Dio, il quale, ci assicura, – senza acun dubbio – che non consegnerà alcun uomo alla tortura eterna, a meno che non si tratti di un peccato di cui è vittima volontariamente (Tract. do Vera Relig. adv. Heterodox., prop. ix.).  – « Inoltre, Padre Perrone, quando confuta coloro che sostengono che la salvezza sarebbe raggiungibile se la Chiesa visibile dovesse fallire, cioè con mezzi interni, essendo unita in spirito alla vera Chiesa, sostiene che in tal caso non ci sarebbe alcun mezzo ordinario di salvezza; che, quando Cristo fondò la sua Chiesa, intendeva offrire agli uomini un mezzo ordinario, o piuttosto una raccolta di mezzi, che tutti indiscriminatamente, e in ogni momento, avrebbero potuto usare per procurare la salvezza; che, se Dio avesse voluto operare la nostra salvezza con l’aiuto di mezzi interni, non ci sarebbe stata alcuna ragione per istituire la Chiesa; dire di essere uniti alla Chiesa attraverso lo spirito, parlare di invincibile ignoranza, di eretici materiali, potrebbe essere ammesso solo sull’ipotesi che Dio non dovesse fornire altri mezzi; poiché, siccome è certo che Dio ha voluto salvare gli uomini con altri mezzi, vale a dire, con l’istituzione della Chiesa visibile ed esterna, e che Essa è sempre facilmente distinguibile da ogni setta, è evidente che i sotterfugi immaginati dai non Cattolici, siano completamente improponibili. » (De Loc. Theologic., P.1, cap.4, art.1). – Il Rev. A. Young sembra non stancarsi di ripetere, anche se con altre parole, la stessa errata opinione circa la fede dei protestanti. Così dice ancora: « Se noi cattolici potessimo essere, devo dire, abbastanza impavidi da riconoscere che la comune fede reale dei protestanti, che sono in buona fede, è identica alla nostra nella sua qualità essenziale e salvando la loro grande pia ignoranza, sono convinto che aprirebbe la strada alla conversione di molti di essi. » Ripetiamo quindi una qualità essenziale della nostra Fede come definita di San Tommaso. Egli dice:  L’oggetto formale della fede è la Prima Verità (cioè Dio stesso), come è reso noto nella Sacra Scrittura ed è nella dottrina della Chiesa, che (la dottrina) viene dalla Prima Verità. » – Ma in effetti, chiunque non aderisca alla regola infallibile e divina (di fede), alla dottrina della Chiesa, che procede dalla Prima Verità (Dio) come resa nota nella Sacra Scrittura, tale persona non ha l’abitudine della fede; pertanto quelle verità di fede che egli professa, non le ritiene per fede, ma in qualche altro modo. Ma è evidente che colui che aderisce alla dottrina della Chiesa come regola infallibile (di fede), dà il suo assenso a tutto ciò che la Chiesa insegna; ma colui che ritiene le Verità di Fede che la Chiesa insegna secondo una propria scelta, e rifiuta ciò che non sceglie, non aderisce alla dottrina della Chiesa come infallibile regola di fede; aderisce piuttosto al proprio giudizio privato come regola della sua fede. La “fede” aderisce a tutti gli articoli di fede sulla base di un solo mezzo, vale a dire, a motivo della prima Verità (Dio) proposta per la nostra fede nella Sacra Scrittura secondo la dottrina della Chiesa; (cioè, come spiega Sylvius, la Chiesa, proponendo o dichiarando ciò che è di fede, è il mezzo ordinario stabilito da Dio, in modo che noi possiamo sapere con certezza ciò che Egli abbia rivelato e ciò che obbliga i fedeli tutti a credere). « E quindi – continua San Tommaso – chi non ha questo mezzo (cioè chi non ha la Chiesa come sua maestra in tutte le questioni di fede) non ha alcuna fede. »  – « Formale objectum fidei – dice San Tommaso – est veritas prima” (Deus ipse) secundum quod manifestatur in Scripturis sacris et in doctrina Ecclesiæ, quæ procedit ex veritate prima. Unde quicunque non inhærit sicut infallibili et divinae regulae, doctrinae Ecclesiæ, quæ procedit ex veritate prima in Scripturis sacris manifestata, ille non habet habitum fidei: sed ea quæ sunt dei, alio modo tenet quam per fidem. Manifestum est autem, quod ille, qui inspireret doctrinæ Ecclesiæ tanquam infallibili regulæ, omnibus assentit quæ Ecclesia docet: alioquin, si de his quæ Ecclesia docet, quæ non vult non tenet, jam non inhæret Ecclesiæ doctrinæ, sicut infallibili regulæ, sed propriæ voluntati. Omnibus articulis fidei inhæret fides propter unum. Medium, scilicet propter veritatem primam propositam nobis in Scripturis secundum doctrinam Ecclesiæ intelligentis sane; (i. e., Sylvius explicat: Ecclesiæ propositio vel declaratio, medio est ordinarium a Deo institutum, ut certo sciamus, quænam ipse revelaverit et fidelibus credenda voluerit). “Et ideo, qui ab hoc medio decidit, TOTALITER fide caret .” – Tale è la dottrina di San Tommaso, di Sant’Alfonso e di tutti i Padri e Dottori della Chiesa riguardo a coloro che hanno la Fede Divina e a coloro che non ne hanno alcuna. La nostra Fede è Divina ed infallibile, perché ci viene da Dio attraverso il mezzo divino e infallibile della Chiesa. Ma i “protestanti materiali”, come dice candidamente il Rev. A. Young, « … rifiutano apertamente di ascoltare l’autorità divina della Chiesa, e così sono eretici in foro externo » della Chiesa. Pertanto, essi non hanno una regola di fede infallibile e divina e, di conseguenza, non possono avere la Fede Divina. La loro fede è umana, la nostra è divina. – Un’altra qualità essenziale della nostra Fede è che essa è sempre una e immutabile; la fede protestante è mutevole come il vento; quindi possiamo vedere così tante diverse sette di protestanti. Ancora una volta, una qualità essenziale della nostra fede è che essa è santa, perché proviene da Gesù Cristo. Noi crediamo assolutamente in Gesù Cristo e in tutto ciò che ci insegna attraverso la sua Chiesa. I protestanti, i protestanti materiali non esclusi, non hanno fede assoluta in Cristo, in primo luogo, perché non credono che Egli sia tale come è reso noto nella Sacra Scrittura e nella Dottrina infallibile della sua Chiesa; secondo, perché non credono a tutto ciò che Cristo ha comandato alla sua Chiesa di insegnare a tutte le nazioni, obbligando tutti a credere alla sua Dottrina sotto pena della dannazione eterna. Inoltre, la Chiesa è santa, perché ha i sacramentiistituiti da Gesù Cristo come mezzo mediante il quale la sua grazia è conferita a coloro che sono membri del suo corpo: la Chiesa Cattolica. I protestanti hanno respinto la maggior parte di questi mezzi di santità, e quindi anche gli eretici materiali ne sono privati. Se ricevono il battesimo, non è per la loro salvezza, come dicono San Tommaso, Sant’Agostino e altri Padri della Chiesa (solo i bambini protestanti sono salvati che, se battezzati, muoiono prima che arrivino agli anni della comprensione); ma quelli che crescono nell’eresia perdono le grazie soprannaturali del Battesimo e sono fatalmente feriti dall’eresia. Ma nella nostra Fede si ottiene il perdono dei peccati e noi diventiamo santi vivendoci. Tutto ciò è impossibile nella fede protestante. La loro fede deriva dai nemici di Cristo. La nostra Fede ci insegna un santo culto, stabilito da Gesù Cristo – il santo Sacrificio della Messa – in cui Gesù Cristo si offre, per mano del suo Sacerdote, al Padre suo celeste in modo incruento, come ha fatto in modo sanguinoso sulla croce; è grazie a questo sacro Sacrificio incruento che applica alle anime nostre i meriti del suo sacrificio cruento, e che noi, offrendolo al Padre celeste, lo onoriamo con quell’onore infinito con cui Gesù Cristo lo ha onorato sulla terra, specialmente con la sua morte sulla Croce, e continua a onorarlo per noi, a ringraziarlo per noi, a pacificarlo per noi e ad ottenere immense benedizioni per i membri della sua Chiesa militante e sofferente; cosicché Egli si unisce con il suo Padre celeste per ogni fedele cattolico che è unito al suo corpo: la Chiesa, e che ogni fedele Cattolico si presenta al Padre celeste, in Cristo e con Cristo, con il quale è unito per mezzo del suo Corpo: la Chiesa, dalla quale Cristo non sarà mai separato. Ahimè! La fede protestante ha rifiutato Cristo quando ha rigettato il santo Sacrificio della Messa. Con il rifiuto di questo Sacrificio incruento ha rifiutato la santissima adorazione di Dio. Se il peccato dei figli di Eli era molto grande agli occhi del Signore, perché impedivano al popolo di offrire i sacrifici imperfetti della Legge ebraica, che erano soltanto figure del Sacrificio totale ed infallibile della Nuova Legge, e che erano abolite da Cristo e sostituite dal suo Sacrificio incruento, quale non debba essere il peccato di coloro che impediscono ai protestanti di diventare Cattolici, di servire ed onorare Dio nel modo che Gesù Cristo ha prescritto sotto pena della dannazione eterna! La credenza protestante allontana tutti i suoi seguaci da questa fonte inesauribile di benedizioni temporali e spirituali; li fa adorare Dio mediante una falsa adorazione, che è così severamente condannata da Dio nel primo comandamento. Dall’inizio del mondo Dio stesso prescrisse i sacrifici e il modo in cui il suo popolo avesse dovuto adorarlo; nella nuova Legge anche Cristo istituì una nuova e perfetta adorazione di Dio, poiché il culto divino che Dio desidera ricevere dal proprio popolo è una parte essenziale della vera Religione. Quindi ecco che i buoni Cattolici sono così ansiosi nelle Domeniche e nei santi giorni di precetto, di essere presenti a tempo debito al santo Sacrificio della Messa, di dare a Dio, con questo Sacrificio di infinito valore, quell’onore divino che Egli ha prescritto, e di ottenere da essa tutte le benedizioni possibili per l’anima e il corpo. – Con la fede cattolica il mondo è stato cristianizzato e civilizzato; ma secondo i principi della credenza protestante il mondo è stato riempito da milioni di infedeli, perché la qualità essenziale della credenza protestante è che essa si basa sulla negazione; se i protestanti, anche quelli materiali, detengono alcune verità cattoliche, le hanno prese dai Cattolici, e queste verità sono in realtà tante prove tali da convincerli a dover credere anche alle altre verità della Chiesa Cattolica e diventare Cattolici; ma essi sono separati dalla Chiesa, che è il Corpo di Cristo, e conseguentemente separati da Cristo stesso; e quali che siano le verità cattoliche che sembrano professare, non possono possederle per fede, ma in qualche altro modo, come dice San Tommaso; e queste verità non sono le loro, ma le nostre, dice Brownson; tutto ciò che è loro, è solo la negazione delle altre verità della Chiesa Cattolica. – Un’altra qualità essenziale della nostra fede è che essa è apostolica, cioè è giunta a noi dagli Apostoli attraverso i loro legittimi successori che hanno, attraverso gli Ordini sacri, tutti i poteri che Cristo ha conferito ai suoi Apostoli; ma la fede protestante viene dai Cattolici apostati, che hanno abbandonato la Chiesa per la passione della lussuria, dall’orgoglio o dall’avarizia, e quindi i loro predicatori e vescovi non hanno alcun potere da Cristo, più di quanto possa un uomo nella luna aver potere dal governo degli Stati Uniti di dichiarare guerra al governo inglese. – Un’altra qualità essenziale della nostra fede è che essa è cattolica, vincolante in coscienza tutti gli uomini che vengono a conoscerla per abbracciarla, sotto pena di dannazione eterna; ma la fede protestante, poiché non viene da Cristo, non ha il potere di legare le persone in coscienza. La nostra fede durerà fino alla fine del mondo e rimarrà invariata; quella dei protestanti, come tante altre eresie, scomparirà gradualmente nel vapore dell’infedeltà. La nostra fede è stata confermata da migliaia di miracoli; ma tutti gli autori di eresie sono morti di una morte molto malinconica, e terribili punizioni sono state inflitte da Dio a tutti i persecutori della Fede Cattolica, come è ben noto dalla storia. Ora tutto ciò dimostra che la differenza tra le qualità essenziali della nostra fede e quelle della fede protestante è ben maggiore della distanza che corre tra il cielo e la terra.  – Che peccato, quindi. per il Rev. A. Young proclamare, attraverso il “Catholic Union & Times of Buffalo”, « … Se noi Cattolici potessimo essere abbastanza impavidi da riconoscere che la comune fede reale dei protestanti materiali sia identica alla nostra nella sua qualità essenziale … ». Che oltraggio ed insulto alla Fede Cattolica! Un tale temerario riconoscimento eretico non è mai stato fatto e non sarà mai fatto da nessun vero Cattolico che sia ben istruito. – Dicendoci: « Se noi Cattolici potessimo essere abbastanza impavidi da riconoscere che la fede comune e attuale dei protestanti materiali sia identica alla nostra nella sua qualità essenziale… », il Rev. A. Young dà ai Cattolici ragioni sufficienti per credere che ciò che dice di se stesso è vero, cioè che, diventando Cattolico, la sua fede non ha subito cambiamenti! [perché in realtà è rimasto protestante! – ndt.] Che grande differenza tra il suo modo di parlare del credo Cattolico e protestante e quello dei cardinali Manning e Newman, del vescovo Hay, del dottor O. A. Brownson, di Marshall e di molti altri convertiti celebri: essi parlano come uomini di grande fede; ma il Rev. A. Young parla come uno la cui fede non è molto illuminata. – Che padre Young non dimentichi mai ciò che dice sant’Agostino degli scismatici: « Siamo abituati alle parole dell’apostolo (… se parlassi con le lingue degli Angeli, ecc., I. Cor. XIII 1-8) che mostrano agli uomini che non li avvantaggia l’avere né i Sacramenti né la Fede, se non hanno la Carità, di modo che, quando si perviene all’unità cattolica, tu possa capire ciò che ti è conferito, e quanto era enorme quello in cui eri prima del tua defezione. Perché la CARITA’ cristiana non può essere ottenuta fuori dall’unità della Chiesa, e così puoi vedere che senza di essa non sei nulla, anche se hai il battesimo e la fede, e con la tua fede puoi persino spostare le montagne ».

EXTRA ECCLESIAM NULLUS OMNINO SALVATUR (13 -B-)

EXTRA ECCLESIAM NULLUS OMNINO SALVATUR (13b)

IL DOGMA CATTOLICO:

Extra Ecclesiam Nullus Omnino Salvatur

[Michael Müller C. SS. R., 1875]


« Ancora una volta – continua il Rev. A. Young – Dio dà la sua grazia a tutte le persone; cioè, muove la loro volontà, come dice san Tommaso nella sua definizione, per costringere l’intelletto a dare assenso alla verità divina. Perciò Dio ha trasferito la mia volontà a tal fine. » –

Rev. Muller: Per capire quanto sia necessaria la grazia di Dio e credere nella vera Religione, riportiamo la seguente citazione di san Tommaso: « la beatitudine finale dell’uomo – dice san Tommaso – consiste nella visione beatifica di Dio. Poiché questo fine dell’uomo è molto al di sopra della forza della natura umana, era necessario che Dio gli insegnasse come ottenere la beatitudine eterna. Così Dio ha rivelato certe verità soprannaturali, che sono al di sopra della comprensione umana, per condurlo alla beatitudine del cielo. Per acquisire la conoscenza di queste verità, egli deve impararle da Dio, attraverso coloro ai quali Dio le ha comunicate e che ha incaricato di insegnare infallibilmente, nel suo nome. Quindi è necessario che colui che impara queste verità da Dio, attraverso il suo infallibile insegnameno, dovrebbe dare il suo fermo assenso ad esse. La causa che induce l’uomo a dare il suo assenso a queste verità soprannaturali può essere duplice: essa può essere esteriore, come un miracolo che una persona vede, o nel caso in cui qualcuno cerchi con le sue parole di persuadere una persona a credere. Nessuna di queste due cause è però sufficiente per creare la fede; tra quelli che vedono uno stesso e medesimo miracolo, e tra quelli che ascoltano lo stesso sermone sulla fede, ci sono alcuni che credono ed altri che non credono. Quindi è necessario assegnare un’altra causa interiore che induca una persona ad aderire alle verità di Fede. I pelagiani (eretici) hanno insegnato che questa causa interiore sia il libero arbitrio dell’uomo che induce a credere, e che in questo senso l’inizio della fede, è nell’uomo stesso, in quanto egli è pronto a credere alle verità divine, ma che la perfezione della Fede viene da Dio, che propone le verità che devono essere credute. Ma questo è falso, perché dando il suo assenso alle verità di Fede l’uomo è innalzato al di sopra della sua condizione naturale, mentre la causa che solleva l’uomo al di sopra del suo stato naturale deve essere soprannaturale: nel muovere l’uomo interiormente a credere, questa causa interiore soprannaturale è Dio. Quindi l’assenso alle Verità di fede, che è l’atto principale della Fede, deve essere attribuito a Dio che, con la sua grazia, muove interiormente l’uomo a credere alle verità della Fede. Sebbene l’atto del credere consista nella volontà, tuttavia è necessario che la volontà dell’uomo sia preparata dalla grazia di Dio, per essere elevato a quelle cose che sono al di sopra della natura umana. » (2. 2. q. II ., art. e q.VI., art. 1.) È pertanto necessario che Dio illumini l’intelletto e muova la volontà dell’uomo a credere nella vera Religione quando gli venga predicata; ma sarebbe blasfemo dire che Dio muove la volontà dell’uomo nel credere alla dottrina eretica. Eppure il Rev. A. Young afferma « che Dio mosse la sua volontà per dare il suo assenso alla verità divina » nel protestantesimo. È ciò che credeva del vero insegnamento divino di Dio – la Chiesa Cattolica Romana – e lo afferma candidamente quando dice: « Sono stato educato a credere che la Chiesa Cattolica Romana fosse la Chiesa dell’Anticristo; che era la donna scarlatta di Babilonia, e il Papa l’uomo del peccato; che insegnava le false dottrine; che Essa era il grande nemico di tutta la verità cristiana, la moralità e l’amore di Dio. Leggevo “l’ebreo errante”, leggevo anche molti altri libri orribili, bugiardi e immorali scritti per diffamare la Chiesa Cattolica Romana; e poiché non c’era alcuna possibilità per me di imparare meglio, credevo che fossero veri ». Ora, chi sarà abbastanza sciocco da credere che Dio abbia mosso la volontà del Rev. A. Young a credere a tali dottrine diaboliche? Dio ha illuminato il suo intelletto e ha mosso la sua volontà quando egli ha detestato quelle dottrine e ha fatto la sua professione di fede nell’unica vera Chiesa, la Cattolica; Dio muove la volontà verso ciò che è buono, ma non verso ciò che è male; non può essere l’autore del male. « Come protestante – continua il reverendo A. Young – mi è sempre stato insegnato che la Religione cristiana era divinamente vera, perché era la Religione di Cristo, che era Dio incarnato. Mi è stato insegnato e inculcato con fermezza come tutte le dottrine della Religione cristiana fossero formulate nel Credo degli Apostoli e in quello niceno, esattamente con le stesse parole, e, a tutti gli effetti, proprio nello stesso senso in cui ora le recito come Cattolico. Volevo credere e credevo qualunque cosa intendessero gli Apostoli e qualunque cosa il Concilio di Nicea intendesse trasmettere, che io lo comprendessi o meno perfettamente; e perciò, ogni volta che recitavo quei “Credo”, facevo indiscutibilmente degli atti distinti di fede divina. Ed è anche oltre ogni dubbio che includo implicitamente nei miei atti di fede divina tutta la verità divina che Dio abbia mai rivelato all’umanità ».  – Dal tempo degli Apostoli ci sono stati uomini che si chiamavano Cristiani, perché erano battezzati; ma poiché non credevano in Cristo come reso noto nella Sacra Scrittura e nella dottrina della Chiesa, furono chiamati anti-Cristo. (“Qui enim non credit Christum esse sub his conditionibus, quas fides determinat” dice San Tommaso, “non vere Christum credit et ideo Christum non convenit ipsis sub e ratione qua ponitur actus fidei.”)  – « Le persone pazze – mi disse un giorno un tale – sono anche chiamate uomini, ma non sono il tipo giusto di uomini ». Allo stesso modo gli eretici materiali possono chiamarsi Cristiani e le loro sette chiese cristiane; ma non sono il giusto tipo di Cristiani e le loro sette non sono la vera Chiesa di Cristo. Non sono Cristiani Cattolici e quindi non sono la Chiesa di Cristo. – Nel suo catalogo di eresie, Sant’Agostino menziona ottantotto eresie, e poi aggiunge: «Se qualcuno non crede a queste eresie, non deve quindi pensare o dire che sia un Cristiano Cattolico, perché forse ci sono altre eresie, o altre ne possono ancora sorgerne, e colui che dovesse aderire a qualcuna di esse, non può essere un Cristiano Cattolico ». – Quindi il Rev. A. Young credeva in una religione cristiana, ma non nel giusto tipo di Religione Cristiana, perché non era la Religione Cattolica Cristiana. Credeva in una chiesa cristiana, ma non nella Chiesa Cristiana Cattolica, « che – come ha candidamente confessato – egli nella sua ignoranza, odiava, detestava e temeva, credendo che fosse la Chiesa dell’Anticristo, ecc. ». Che abbia recitato il Credo degli Apostoli e il Credo di Nicea non cambia la questione, perché « può accadere – dice Sant’Agostino – che un eretico sostenga tutte le parole del Credo, e tuttavia non creda giustamente, perché non crede alle divine verità del Credo, così come spiegate dalla Chiesa; sotto queste parole gli eretici generalmente nascondono le loro dottrine velenose. » (De Fide et Symb. c. 1). – San Cipriano dice la stessa cosa (Epist. 76 ad Magn.): « Qualcuno potrebbe dire che un novaziano abbia la stessa legge della Chiesa Cattolica, che battezza nel simbolo (Credo) come facciamo noi, ecc.: ma prima sappia che la legge del nostro simbolo non è la stessa cosa di quella degli scismatici, né le nostre questioni sono le stesse loro: perché se qualcuno chiedesse loro: credi alla remissione dei peccati e alla vita eterna attraverso la Santa Chiesa?, la loro risposta a questa domanda sarebbe un falso, poiché essi non hanno la Chiesa ». – San Girolamo (adverso Lucif. C. V) dice: « Quando battezziamo, solennemente chiediamo, dopo la professione di fede nella Santissima Trinità: « Credi nella Santa Chiesa? Credi nel perdono dei peccati? A quale Chiesa dici di credere? In quella degli Ariani? Ma loro non hanno il nostro Credo; e perciò, essendo stato battezzati da essa, non potevano credere in quello che non conoscevano. » – « Chiedi, in modo analogo, ad un episcopale: “Credi alla Chiesa cattolica?” Egli ti risponderà, “Sì; ma non alla Chiesa Cattolica Romana “, che gli viene insegnato ad odiare e detestare e a considerare il Papa come l’uomo del peccato. « Essendo cresciuto sfortunatamente protestante – continua il reverendo A. Young – ero come un Cattolico ignorante in buona fede che non è riuscito ad imparare tutto ciò che insegna la Chiesa Cattolica, l’insegnante visibile e autorizzato di tutta la verità divina. » –

Ora è del tutto falso che il Rev. A. Young come protestante « fosse come un Cattolico ignorante che non è riuscito a imparare tutto ciò che insegna la Chiesa Cattolica, insegnante autorizzato e visibile di tutta la verità divina ».  Un Cattolico ignorante non è un eretico materiale; è un membro del Corpo di Cristo; se è un membro morto di esso, essendo nello stato di peccato mortale, in quanto tale è ancora in grado di compiere atti di Fede Divina, sebbene non meritevole, perché crede tutto ciò che Dio gli insegna attraverso il suo infallibile maestro: la Chiesa Cattolica; se è in stato di grazia santificante, i suoi Atti di fede saranno meritori della vita eterna. Nulla di questo genere però è vero per un eretico materiale, perché egli è fuori dalla Chiesa e quindi non è un membro del corpo di Cristo. – « Come sono vivificati dall’anima solo quei membri – dice Sant’Agostino – che sono uniti al corpo, così, allo stesso modo, sono vivificati dallo Spirito di Cristo, solo quelli che rimangono membri del suo Corpo: la Chiesa … Colui che è separato dal Corpo di Cristo non è un membro di Cristo; e se non è un membro di Cristo, non può essere vivificato dallo Spirito di Cristo. Pertanto chiunque non abbia lo Spirito di Cristo non appartiene a Cristo. Quindi un Cristiano non deve temere nulla più della separazione dal Corpo di Cristo, che è la Chiesa. » (Tratto 27, in Giovanni). « Così dopo tanto tempo – continua il Rev. A. Young – poiché la propria fede è una oblazione volontaria, o un sacrificio spirituale dell’autorità personale, basandosi sulla sua ragione nel credere a ciò che pensa (secondo le sue luci e le sue opportunità) essere la fonte divinamente autorizzata delle istruzioni mediante la quale viene istruito direttamente, e attraverso le quali crede onestamente che Dio gli voglia insegnare la verità divina, l’uomo è Cattolico agli occhi di Dio, ed è Cattolico agli occhi della Chiesa, non importa come egli la chiami e, sebbene tale persona muoia devotamente come episcopaliano, presbiteriano, metodista, battista o cosa altro, San Pietro lo farà entrare in paradiso come Cattolico. E molti di loro gioiranno nel ritrovarsi così riconosciuti dopo la morte, nonostante il suo nome terreno e la sua l’ignoranza. Che un tale protestante battezzato sia Cattolico agli occhi della Chiesa è provato dal fatto che sia trattato come tale, quando si converte e chiede di essere accolto nella Chiesa Cattolica, poiché è assolto come uno che lo sia stato, o, come dice saggiamente il rituale, “se per caso egli è stato un cattolico scomunicato, a causa di un’eresia professata “. –

Rev Muller: Il Reverendo A. Young sarà stato abbastanza onesto da credere veramente a quello che ha appena detto? Come avrebbe potuto scrivere: « Essi (gli eretici materiali) rifiutano apertamente di ascoltare l’autorità divina della Chiesa, e così sono eretici” in foro externo” (della Chiesa). Come il Rev. A. Young è stato ben infelice nello spiegare la dottrina di San Tommaso sulla Fede, così, allo stesso modo, è di nuovo ed ancor più infelice nella spiegazione della formula dell’assoluzione dall’eresia, che la Chiesa ha prescritto al Sacerdote ed usa per assolvere gli eretici dall’eresia quando stanno per essere ricevuti nella Chiesa. – Prima di dare la vera, genuina spiegazione di quella formula di assoluzione, dobbiamo osservare che questa formula di assoluzione non è mai usata dalla Chiesa quando un Cattolico scomunicato deve essere assolto dalla censura della scomunica, né la Chiesa considera l’eretico scomunicato come un Cattolico scomunicato. Con quale diritto, dunque, il Rev. A. Young paragona un eretico scomunicato ad “un cattolico scomunicato”? Ora qual è la vera spiegazione della formula dell’assoluzione prescritta dalla Chiesa per il ricevimento di un eretico scomunicato? « Si può presumere – dice il reverendo J. O ‘Kane – che tra i protestanti ci siano molti la cui eresia sia solo materiale; e si può aggiungere che questo sia molto probabilmente il caso di coloro che si siano convertiti alla fede, per il fatto stesso della loro conversione, essendo questa, in generale, una prova della sincerità con cui in precedenza hanno aderito ai loro errori. » Ora è solo l’eresia formale (vale a dire, l’eresia a cui si aderisce pertinacemente, benché la vera dottrina e le motivazioni della sua credibilità siano chiaramente proposte) che è riservata al Papa, e non l’eresia materiale, anche quando la persona sia colpevole di peccato grave per la sua negligenza nell’indagare quando si sono avuti dubbi, o per la sua colpevole ignoranza, perché questo, sebbene possa essere un peccato grave contro la Fede, non è, dopo tutto, il peccato di eresia formale. Accade che nessuna speciale facoltà è richiesta per l’assoluzione di questi convertiti. (LACROIX, lib. VI., p., II., 1613.).  « Ancora, poiché c’è un dubbio, come supponiamo, se siano stati veramente battezzati, ci deve essere il dubbio che possano incorrere nelle censure della Chiesa. De Lugo discute la questione, e dà come sua opinione che, quando, dopo un’indagine diligente, rimane un dubbio sulla validità del Battesimo di colui che è colpevole di eresia, non deve essere considerato come incorso nelle censure della Chiesa legate all’eresia. (De Fide, Disp. XX., N. 143. « Noi consideriamo, quindi, molto probabile, che i convertiti che ne fanno domanda, non abbiano subìto la scomunica annessa all’eresia; altrimenti il caso sarebbe riservato al Papa, a causa dalla scomunica annessa. (Sant’Alfonso, lib. VI., N. 580), e dal momento che un confessore ordinario può assolvere dai casi riservati in cui vi è un dubbio in merito alla legge o al fatto (Ibid., 600), sembrerebe così che non sia necessaria alcuna facoltà speciale per assolvere nei casi di cui stiamo discutendo, almeno per quanto riguarda la riserva papale. – « La pratica comunque è quella di trattare tutti i convertiti dalle sette eretiche, come se avessero subìto la scomunica riservata. » Osserva Kenrick (De Bapt., 243) che la Chiesa non riconosce, in foro esterno, la distinzione tra ” materiale ” e ” formale “, che escluderebbero dalla censura riservata coloro vivono in una comunione eretica e cita un decreto del Sant’Uffizio, riprendendo chi, facendo affidamento su quella distinzione, aveva assolto un calvinista: “Eo quod ignarus hæresum et errorum Calvini non posset dici hæreticus formalis, sed tantum materialis.” Il dubbio che un convertito abbia subito una censura riservata può essere espresso sotto forma di assoluzione, come indicato nel rituale per l’uso del clero americano, inserendo la parola forsan: ‘… a vinculo excommunicationis quam forsan incurristi,’ etc.  “Sebbene i Vescovi non possano, per il loro potere ordinario, assolvere dall’eresia, possono farlo in virtù di facoltà speciali, che di solito hanno dalla Santa Sede, e possono delegare un Sacerdote ad assolvere dalla scomunica”. (Rev. J O ‘Kane su Rubrics, n ° 467, 468.). La parola “forsan” (forse), quindi, invece di provare che gli eretici materiali appartengono alla Chiesa Cattolica e sono considerati da Essa come appartenenti ad Essa stessa, dimostra chiaramente il contrario. La Chiesa considera tutti i protestanti (sia formali che materiali) come Cristiani separati, ma gli eretici materiali ed i dubbiosi non sono scomunicati con quel tipo di scomunica, l’assoluzione dalla quale, è riservata al Papa. Quindi Sant’Alfonso dice: “Gli eretici, benché battezzati, sono separati dalla Chiesa”. (Primo Comando, n. 4.) Il fatto che la Chiesa riceva la conversione nella sua comunione dimostra chiaramente che Essa li considera come persone che non ne fanno parte. E si ricordi anche che la Chiesa Cattolica non avrebbe mai seppellito un eretico materiale deceduto, né permesso ad un Prete di annunciare alla sua congregazione che il sacro Sacrificio della Messa fosse da offrire per lui, per la semplice ragione che Essa lo considera come separato dalla sua Comunione o dal Corpo di Cristo. – Ahimè! Come potrebbe la Chiesa considerare  un eretico materiale uno dei suoi membri, dal momento che aderisce a dottrine piuttosto opposte alle sue, finché non ha rinunciato agli errori della sua setta, non ha fatto professione della sua fede, e non è accolto nella sua comunione. Per diventare un cittadino degli Stati Uniti, devi rinunciare alla fedeltà a tutti i potentati stranieri, ecc.; allo stesso modo, per diventare un membro della Chiesa, un cittadino del Regno di Dio sulla terra, deve rinunciare all’alleanza con ogni dottrina contraria a quella della Chiesa. –

« Io, inoltre – continua il reverendo A. Young – naturalmente (devo dire, provvidenzialmente, poiché non è stata colpa mia) avevo scambiato la mia Chiesa episcopaliana con quella che è la Chiesa Cattolica Romana. Perciò non si può mettere in dubbio che, quando recitavo il Credo, e dicevo: “Credo nella Santa Chiesa cattolica” e credevo nello stesso tempo che la Chiesa episcopale fosse essa la Chiesa Cattolica, certamente fecevo atti di fede divina ».

In risposta a questo, diciamo con il Dr. A. O. Brownson, che si chiede: “Ma non possono essere considerati come sulla via della salvezza coloro che siano battezzati nelle società eretiche per ignoranza, credendo che esse siano la Chiesa di Cristo? Non sono loro che sono nati e istruiti nelle Chiese protestanti che si sono separati dall’unità della “Chiesa Cattolica”, ma i loro antenati, Calvino, Lutero, Enrico VIII, ecc. Risponde Agostino: « Ma quelli che per ignoranza sono battezzatt là (con gli eretici), giudicando la setta come la Chiesa di Cristo, peccando meno di questi (che sanno che sia eretico); tuttavia sono rei del sacrilegio dello scisma, e quindi peccano più leggermente, mentre gli altri peccano più gravemente. Perché, quando viene detto a certe persone, che la sorte di Sodoma sarà più tollerabile nel giorno del giudizio che per esse, non è detto questo perché i Sodomiti non saranno puniti, ma perché gli altri saranno puniti più severamente”. E ancora, Sant’Agostino dice: « È vero, i donatisti che battezzano i pagani li guariscono dalla ferita dell’idolatria o dell’infedeltà; ma infliggono loro una ferita più seria, la ferita dello scisma. Quelli del popolo di Dio nell’antica legge, che caddero nell’idolatria, furono distrutti dalla spada, ma sotto i piedi degli autori dello scisma si aprì la terra che li inghiottì, (Salmo CV, 17) e il resto dei loro seguaci furono consumati da una fiamma di fuoco dal cielo. (Eccl. XLV, 24). Chi, dunque, può dubitare che anche coloro che erano più severamente puniti peccassero più gravemente? » (De Bapt, contr. Donatist., Lib. I, c. 8). I battezzati dai donatisti e credutisi in Cristo, furono guariti dalla loro ferita di infedeltà; ma essi non hanno mai vissuto nell’unità della Chiesa Cattolica. Non l’hanno mai volontariamente lasciata che nei loro antenati, come ha fatto il Rev. A. Young ed altri eretici; eppure sant’Agostino ci dice che la ferita dello scisma che hanno ricevuto aderendo alla setta dei donatisti fu per loro più fatale di quella che avevano ricevuto prima dal crimine dell’idolatria. Ora la ferita inflitta dall’eresia, benché materiale, è ancora più fatale di quella dello scisma. Quindi quelli che sono separati dalla Chiesa non possono essere innocenti. (S. Agostino, lib. I. Contr. Epist. Parm., C. 3.) « Dove non c’è unità nella fede, non può esserci alcuna carità divina. Perciò la carità divina può essere mantenuta solo nell’unità della Chiesa . » (Sant’Agostino, contr. Petil. Lib. Ii. C. 77.) – Una persona che ha, nella sua ignoranza, assunto cibo molto velenoso, ne diventa molto malato e potrebbe anche morire, se gli effetti di esso non possono essere controllati in tempo debito dalla medicina; così, allo stesso modo, colui che ha preso, sebbene ignorantemente, il cibo molto velenoso delle dottrine eretiche, ne viene ferito più gravemente nell’anima, e a meno che questo veleno non sia espulso dall’anima prima della morte, cioè da una sincera rinuncia all’eresia e dalla professione della vera fede nella Chiesa, l’anima sarà persa per sempre. – Il nostro Santo Salvatore, in una breve frase, mostra chiaramente il destino miserabile di tutti coloro che seguono i falsi maestri, quando dice: « Sono ciechi, maestri dei ciechi; e se il cieco guida i ciechi, entrambi cadranno nella fossa ». (Matteo XIV, 14). Ciò dimostra evidentemente che la sorte di entrambi sarà la stessa, e che tutte le terribili maledizioni pronunciate nelle Sacre Scritture sugli insegnanti delle false religioni cadranno anche su coloro che li seguono ciecamente. – « Se qualcuno senza la vera fede – dice San Tommaso – riceve il battesimo dalla Chiesa, non lo riceve a sua salvezza. » Quindi S. Agostino dice (De Bapt. Contr. Donatist., Lib. Iv., In princip.) : « La Chiesa paragonata al Paradiso ci indica che la gente può, è vero, ricevere il suo Battesimo da Essa, ma nessuno può, da Essa, ricevere o OTTENERE la felicità eterna, “cioè, OTTENERE la grazia santificante nella sua anima. (Sum. Pars. III. Q. 68, art. 8.) – « Non c’è salvezza fuori dalla Chiesa – dice Sant’Agostino. Chi nega questa verità? E quindi tutto ciò che è tenuto fuori dalla sua comunione, non serve alla Chiesa. Quelli che sono fuori dalla sua unità, non si radunano con Cristo, ma si disperdono. » (Matteo XII. 30). (Contra Donatist.) « Fuori dalla Chiesa –  dice san Fulgenzio – il battesimo non è di alcuna utilità per la salvezza, né alcuno da esso può ricevere il perdono dei suoi peccati, né ottenere la vita eterna nonostante tutte le elemosine che si possano dare. » (Lib. 1, de Remiss, Peccat, Cap. 22, e Lib. De Fide ad Petrum.) – Com’è assurdo, quindi, che il Rev. A. Young asserisca che se un tale, un eretico materiale, muoia, egli sarà ammesso come Cattolico in paradiso. « Un altro pretesto – dice Brownson – che è addotto da questi (scismatici) è questo: Essi dicono che sono stati battezzati, che credono in Cristo, si applicano alle buone opere, e quindi possono sperare nella salvezza, anche se aderiscono ad una fazione divisa dalla Chiesa. »  – « Sant’Agostino risponde: Siamo dissuasi da queste parole dell’Apostolo “Se anche parlassi con la lingue degli Angeli, ecc.” (I Cor. XIII, 1-8); esse mostrano agli uomini che l’avere i Sacramenti e la Fede non li avvantaggia per nulla, se non hanno la carità, in modo che, quando si giunge all’unità cattolica, si può capire ciò che sia stato conferito, e quanto fosse enorme ciò in cui prima si era carente.

[Continua …]

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IL DOGMA CATTOLICO:

Extra Ecclesiam Nullus Omnino Salvatur

[Michael Müller C. SS. R., 1875]

§ 6. AVENDO SPIEGATO CHE COSA SIA LA COSCIENZA E I DIVERSI TIPI DI COSCIENZA, POSSIAMO ORA FACILMENTE MOSTRARE CHI NON SIA COLPEVOLE DEL PECCATO DI ERESIA.

[Eretici formali ed eretici materiali fuori dalla Chiesa]

Non colpevoli del peccato di eresia sono tutti quelli che, senza alcuna colpa loro, sono stati educati in una setta del protestantesimo e che non hanno mai avuto l’opportunità di conoscerla meglio. Questa classe di protestanti è chiamata invincibilmente o incolpevolmente ignorante della vera Religione, o eretici materiali. – Ora, vediamo che cosa dice il Rev. Alfred Young, un padre paolista di New York, circa gli eretici materiali, in un articolo che aveva pubblicato su Buffalo Union e Times il 22 marzo 1888. Egli dice: “Fu battezzato nella sua infanzia, ed era poi un bambino cattolico buono come qualsiasi altro bambino cattolico “. – Questo è del tutto corretto, e se fosse morto prima che arrivasse all’uso della ragione, sarebbe andato dritto in paradiso. Ma, dopo essere giunto agli anni della comprensione, fu allevato nell’eresia; ma, secondo la sua dichiarazione, era solo un eretico “materiale”, non  “formale”.  Difficilmente si può dubitare che, tra i protestanti, molti siano solo eretici materiali. Reiffenstuel dà questa opinione per un grande numero tra la massa degli eretici. Medesima è l’opinione di Lacroix e di molti altri autori da lui citati, riguardo ai protestanti della Germania; e ciò che è vero per loro è altrettanto vero per i protestanti in altri Paesi. « Alcuni di loro – egli dice – sono così convinti, o così pregiudizievoli a causa dell’insegnamento dei loro ministri, che sono persuasi della verità della propria religione, e allo stesso tempo così sinceri e coscienziosi, che, se essi avessero saputo che in realtà era falsa, avrebbero subito abbracciato la nostra: essi non sono eretici formali, ma solo materiali, e ce ne sono molti di cui danno testimonianza numerosi confessori in Germania ed autori della più grande esperienza ». – « Ciò che è più deplorevole nel loro caso – dice Lacroix – è che, se cadono in qualsiasi altro peccato mortale, come può facilmente accadere a tali persone, (perché senza la grazia speciale è impossibile osservare i comandamenti), essi sono privati della grazia dei principali Sacramenti, e sono comunemente perduti, non a causa dell’eresia materiale, ma a causa di altri peccati che hanno commesso, e dai quali non sono liberati né dal Sacramento della Penitenza, che non esiste tra loro, né con un atto di contrizione o di carità perfetta, della quale non si prendono cura, o perché pensano di esserne dispensati (per non parlare della grandissima difficoltà che tali uomini avrebbero nel farlo, pensando di essere giustificati solo per la fede e la fiducia in Cristo; a causa di questa maledetta fidanza essi sono miseramente persi. » (Lacroix, Lib. II, 94.)  – È bene distinguere tra due classi di protestanti. La prima è quella di coloro che vivono tra i Cattolici o che hanno Cattolici che vivono nello stesso Paese con essi, che sanno che ci sono tali persone e spesso ne sentono parlare. La seconda riguarda coloro che non hanno queste possibili relazioni e parlano solo raramente dei Cattolici, ponendoli in una luce falsa ed odiosa. – Leggiamo nella Sacra Scrittura che Dio Onnipotente, in epoche diverse, disperse gli ebrei tra i pagani e compì grandi miracoli in favore del suo popolo eletto. Così ha voluto che i Gentili venissero a conoscenza del vero Dio. Allo stesso modo, Dio Onnipotente ha disperso i Cattolici Romani, i figli della sua Chiesa, tra i pagani del nostro tempo e  tra i protestanti. Egli non ha mai mancato di fare miracoli nella Chiesa Cattolica: chi, ad esempio, non ha sentito parlare dei molti grandi miracoli compiuti in Francia, e altrove, con l’uso dell’acqua miracolosa di Lourdes? Chi non ha assistito alla meravigliosa protezione della Chiesa Cattolica? Chi non ha letto le verità della Chiesa Cattolica, anche sui giornali protestanti? Chi non ha mai sentito parlare della conversione di tanti ricchi e colti protestanti alla Chiesa Cattolica? Il Signore, che desidera che tutti vengano alla conoscenza della vera Religione, si serve di questi e di altri mezzi per far sorgere dubbi nelle anime di coloro che sono separati dalla sua Chiesa. « Quindi – come dice il vescovo Hay – è quasi impossibile per quei protestanti che vivono tra i Cattolici, essere in uno stato di invincibile ignoranza ».  Tali dubbi sulla loro salvezza nel protestantesimo sono, per i nostri fratelli separati, una grande grazia, poiché Dio Onnipotente, attraverso questi dubbi, inizia a condurli sulla via della salvezza, obbligandoli a cercare in tutta sincerità luce ed istruzione. Ma coloro che non ascoltano questi dubbi rimangono colpevolmente nell’errore in una questione della massima importanza; e morire in questo stato significa morire nello stato di riprovazione, significa perdersi per sempre per colpa propria, come abbiamo visto sopra. – Ma ricordiamoci che « … è un errore – come dice bene il vescovo Hay – supporre che sia necessario un dubbio formale per rendere l’ignoranza del proprio dovere involontaria e incolpevole, basta infatti che ci sia una ragione sufficiente per dubitare, anche se gli ingiusti pregiudizi, l’ostinazione, l’orgoglio o altre cattive disposizioni del cuore, impediscono a queste ragioni di eccitare un dubbio formale nella propria mente: Saul non aveva dubbi quando offrì il sacrificio prima che arrivasse il profeta Samuele; al contrario, era persuaso di avere le più forti ragioni per farlo, tuttavia fu condannato per quella stessa azione, e lui e la sua famiglia furono rigettati da Dio Onnipotente. Gli Ebrei credevano di agire bene quando misero a morte il nostro Salvatore, anzi il loro sommo Sacerdote dichiarò in pieno consiglio che fosse opportuno per il bene e la sicurezza della nazione il doverlo fare: erano però grossolanamente in errore anzi, e tristemente ignoranti del loro dovere; ma la loro ignoranza era colpevole e sono stati severamente condannati per quello che hanno fatto, anche se era stato fatto nell’ignoranza. E, in effetti, tutti quelli che agiscono con una coscienza falsa ed erronea sono altamente biasimevoli per avere una tale coscienza, sebbene non abbiano mai avuto dubbi formali. Anzi, il loro non avere un tale dubbio, quando hanno invece solidi motivi per dubitare, li rende piuttosto ancor più colpevoli, perché questo mostra una maggiore corruzione del cuore, una maggiore depravazione nella disposizione. Una persona cresciuta in una falsa fede, che le Scritture chiamano « sette di perdizione, dottrine di diavoli, cose perverse, bugie e ipocrisia » – e che ha sentito parlare della vera Chiesa di Cristo che condanna tutte queste sette, e vede le loro divisioni e dissensi – ha sempre davanti ai suoi occhi le più forti ragioni per dubitare della sicurezza del proprio stato. Se fa ogni valutazione con sincere disposizioni di cuore, deve convincersi di essere nel torto; e più esamina, più chiaramente lo vedrà, per questa semplice ragione, che è semplicemente impossibile che la falsa dottrina, le menzogne e l’ipocrisia possano essere sostenute da argomenti solidi e sufficienti a soddisfare una persona ragionevole, che cerca sinceramente la verità e implora la luce da Dio per essere guidato nella ricerca. Quindi, se una tale persona non dubita, ma continua, come egli suppone, in buona fede, a modo suo, nonostante i forti motivi di dubbio che ha quotidianamente davanti ai suoi occhi, questo evidentemente dimostra: o che è supinamente negligente circa la preoccupazione della sua anima, o che il suo cuore è totalmente accecato dalla passione e dai pregiudizi. C’erano molte persone simili tra gli Ebrei e i pagani nel tempo degli Apostoli se, nonostante la splendida luce della verità che questi santi predicatori mostravano ovunque, e che era la ragione più potente per portarli a dubitare delle loro superstizioni, erano così lungi dall’avere tali dubbi, tanto da pensare che uccidendo gli Apostoli, facessero un servizio a Dio. Da dove nasce tutto questo? San Paolo stesso ci informa. « Rinunciamo – egli dice – alle dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti ad ogni coscienza, al cospetto di Dio. » Qui egli descrive poi la strana luce della verità che ha predicato, questa luce tuttavia nascosta al gran numero, e immediatamente ne dà la ragione: « … E se il nostro Vangelo rimane velato, lo è per coloro che si perdono, ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso Vangelo di Cristo che è immagine di Dio. » (II Cor. IV, 2). Ecco la vera causa della loro incredulità: sono così ridotti in schiavitù delle cose di questo mondo dalla depravazione del loro cuore, che il diavolo li acceca così tanto da non poter vedere la luce, e l’ignoranza derivante da tali disposizioni depravate è una colpevole ignoranza volontaria, e quindi mai in grado di scusarli. – Se questo genere di eretici materiali, allora, sono persi, non sono persi a causa della loro eresia, che per essi non era peccato, ma a causa dei peccati gravi che hanno commesso contro la loro coscienza. « Chiunque ha peccato senza la legge – dice San Paolo – perirà senza la legge ». (Rom. II, 10). Il grande Apostolo desidera dire: « Quelli tra i pagani che non sanno nulla della Legge Cristiana, ma peccano contro la Legge naturale, contro la loro coscienza, saranno persi, ma non a causa del peccato di infedeltà, che non era peccato per coloro che erano invincibilmente ignoranti della Legge Cristiana, bensì a causa del grande peccato che commettono contro la voce di Dio che parlava loro attraverso la loro coscienza. » Lo stesso deve dirsi di quei protestanti che pur essendo incolpevolmente ignoranti della Religione Cattolica, peccano gravemente contro la loro coscienza. « Dio – dice San Tommaso – illumina ogni uomo che viene nel mondo e produce in tutta l’umanità la luce della natura e della grazia, come il sole fa con la luce che conferisce colore e animazione a tutti gli oggetti. Se l’ostacolo impedisce ai suoi raggi di cadere su un certo oggetto, potresti attribuire quel difetto al sole? Oppure se chiudessi tutte le finestre e rendessi la tua stanza completamente buia, potresti dire che il sole è la causa di quella oscurità? Lo stesso è per l’uomo che, per gravi peccati, chiude gli occhi della sua intelligenza alla luce del cielo, perché è avvolto in una profonda oscurità e cammina nell’oscurità morale. Uno studioso che desidera apprendere una scienza o una dottrina la più sublime, deve avere una concezione più luminosa e più completa, per capire chiaramente il suo maestro: allo stesso modo, l’uomo, per essere capace di ricevere maggiori ispirazioni divine, deve avere una disposizione particolare verso di esse. « Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro ». (Is., L. 5.). Quindi tutti i vizi sono contrari ai Doni dello Spirito Santo, perché sono in opposizione all’ispirazione divina; e sono anche contrari a Dio e alla ragione, poiché la ragione riceve le sue luci e le ispirazioni da Dio. Perciò colui che offende gravemente Dio, ed è, per questo motivo, non illuminato per conoscere e credere le verità della salvezza, deve biasimare se stesso per la sua disgrazia e la punizione spirituale. Di questi dice san Paolo: « … ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula, perché non vedano lo splendore del glorioso Vangelo di Cristo che è immagine di Dio » (Cor. IV, 4.). – « Rendi insensibile il cuore di questo popolo, fallo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi » (Is., VI, 10.).  Si ricordi anche che la luce della Fede viene negata da quei protestanti che assomigliano ai Farisei. « Si formano di loro stessi – dice il vescovo Hay – una grande idea delle loro buone opere, non discernendo la grande differenza tra le buone azioni morali naturali e le buone opere cristiane soprannaturali, che soltanto porteranno un uomo in Paradiso. La nostra natura è sì corrotta dal peccato, eppure ci sono comunque pochi o quasi nessuno della semenza di Adamo, che non abbiano certe buone disposizioni naturali, per cui alcuni sono più inclini ad una virtù, certuni ad un’altra. Infatti alcuni sono di umana benevola disposizione, timorosa e compassionevole verso gli altri in difficoltà, alcuni giusti e onesti nei loro rapporti, alcuni temperati e sobri, alcuni miti e pazienti, alcuni hanno anche sentimenti naturali di devozione e di riverenza per l’Essere Supremo. Ora, tutte queste buone disposizioni naturali di per sé sono lungi dall’essere delle virtù cristiane, e sono del tutto incapaci di portare un uomo in Paradiso, anzi li rendono graditi agli uomini, e procurano loro stima e rispetto da parte di coloro con cui vivono, ma questo non ha alcun valore di fronte a Dio riguardo all’eternità. Per convincersene, dobbiamo solo osservare che buone disposizioni naturali di questo tipo si trovano pure in maomettani, ebrei e pagani, così come tra i Cristiani; tuttavia nessun Cristiano può supporre che un maomettano, ebreo o pagano, che muore in quello stato, otterrà il regno dei cieli per mezzo di queste virtù. – I Farisei, tra il popolo di Dio, erano notevoli per molte di queste virtù; avevano una grande venerazione per la legge di Dio; avevano reso aperta professione di pietà e devozione; facevano grandi elemosine ai poveri; digiunavano e pregavano molto; erano assidui in tutte le osservanze pubbliche della religione; erano notevoli per la loro stretta osservanza del Sabbath e avevano in orrore ogni profanazione del santo Nome di Dio; tuttavia Gesù Cristo stesso dichiara espressamente: « Se la tua giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, non entrerai nel regno dei cieli ». (Matt. V. 20). Ci viene detto di uno di loro, salito al tempio per pregare, che egli era, agli occhi del mondo, un uomo molto buono, conduceva una vita innocente, libera da quei crimini più grossolani che sono così comuni tra gli uomini, digiunava due volte a settimana, dava la decima di tutto ciò che possedeva; eppure Cristo stesso ci assicura che fu condannato agli occhi di Dio. Tutto ciò prova che nessuna delle suddette buone disposizioni della natura sia in grado di portare in cielo alcun uomo. E la ragione è, perché « … non c’è nessun altro Nome dato agli uomini sotto il cielo per mezzo del quale possiamo essere salvati, ma solo il Nome di Gesù » (Atti IV, 10), quindi, nessuna buona opera, eseguita attraverso le buone disposizioni della sola natura, potrà mai essere incoronata da Dio con l’eterna felicità. Per ottenere questa gloriosa ricompensa, le nostre buone opere devono essere santificate dal Sangue di Gesù e diventare virtù cristiane. Ora, se cerchiamo le Sacre Scritture, troviamo due condizioni assolutamente necessarie per rendere le nostre buone opere gradite a Dio e favorevoli alla nostra salvezza: in primo luogo, essere uniti a Gesù Cristo mediante la vera Fede, che è la radice e il fondamento di tutte le virtù cristiane, poiché san Paolo dice espressamente: « Senza fede è impossibile piacere a Dio ». (Ebr. XI, 6). Si osservi la parola “impossibile”; non dice che sia difficile, ma che è impossibile. Quindi, se pure un uomo ha sempre così tante buone disposizioni naturali ed è caritatevole, devoto e mortificato come lo erano i Farisei, ma non ha vera Fede in Gesù Cristo, non può entrare nel regno dei cieli. Si rifiutarono di credere in Lui, e quindi tutte le loro opere non erano buone a nulla per la loro salvezza; e a meno che la nostra giustizia non superi la loro in questo punto, come ci assicura Cristo stesso, non entreremo mai nel suo regno celeste. Ma anche la vera Fede stessa, per quanto necessaria, non è sufficiente da sola per rendere le nostre buone opere disponibili alla salvezza; perché è necessario, in secondo luogo, che siamo in Carità con Dio, nella sua amicizia e nella sua grazia, senza le quali nemmeno la stessa vera Fede ci salverà mai. Per convincerci di questo, prestiamo orecchio solo a San Paolo, che dice: « Anche se dovessi avere tutta la fede, in modo da smuovere le montagne, … anche se dovessi distribuire tutti i miei beni per nutrire i poveri, anche se dovessi dare il mio corpo per essere bruciato, e non avessi la carità, niente mi giova » (I Corinzi XIII. 2) Quindi, che un uomo sia sempre così pacifico, regolare, inoffensivo e religioso a suo modo, caritatevole con i poveri e quant’altro ti pare, ma se non ha la vera Fede di Gesù Cristo, e non si trova nella Carità con Dio, tutte le sue apparenti virtù non servono a nulla, è impossibile che egli piaccia a Dio per loro mezzo, e se vive e muore in quello stato, queste non gli gioveranno a nulla: quindi è evidente che coloro che muoiono in una falsa religione, per quanto ineccepibile possa essere la loro condotta morale agli occhi degli uomini, tuttavia, poiché non hanno la vera Fede in Cristo, e non sono in Carità con Lui, non sono sulla via della salvezza, perché nulla può servirci in Cristo, se non « la fede che opera per mezzo della carità ». (Gal. V, 6)  – Vediamo ora cosa dice il Rev. A. Young dell’altra classe di protestanti, gli  incolpevolmente ignoranti. Nel suo articolo “I protestanti hanno fede divina”, pubblicato il 22 marzo 1888, nella Buffalo Catholic Union and Times, il Rev. A. Young dice: « I protestanti possono avere Fede Divina. Che per alcuni protestanti sia possibile avere una Fede Divina è un fatto di cui sono certo quanto me stesso ché anch’io avevo una tale fede. Una volta ero un protestante, e la mia fede era altrettanto autentica e teologicamente divina, come lo è oggi. Non ho mai avuto una fede umana, e quando mi spiego onestamente credo che un gran numero di protestanti, leggendo le mie parole, potrebbero dire: « Hai dichiarato esattamente il mio caso ».  – Per non lasciarci fuorviare da idee fantasiose o da nozioni su ciò che sia la fede divina, ne darò subito la definizione per bocca di uno dei più grandi dottori della Chiesa: San Tommaso – Egli dunque dice: «Ipsum credo est actus intellectus assentientis veritati divinæ ex imperio voluntatis a Deo motæ per gratiam. » (2., q, II, art. 9.) – Credere è un atto dell’intelletto che ci assicura la Verità divina per comando della volontà mossa dalla grazia di Dio. Questa è una definizione esatta di ciò che era la mia credenza (fede) protestante, e nel diventare cattolico ESSA NON HA SUBITO NESSUN CAMBIAMENTO, e chiaramente non potevo subirne alcuno. » –

Rev. Muller: Quando San Tommaso dice: “Ipsum, (cioè Deum) credere, credere in Dio “, ecc., parla dei Cattolici che hanno la vera Fede, come è evidente da tutto ciò che precede, specialmente dal q. I, art. 10., in cui dice che essa appartiene soprattutto al Papa, che Cristo ha reso il Capo visibile della sua Chiesa, per vedere la disposizione e la pubblicazione del simbolo di fede. – È, per così dire, poco saggio per il Rev A. Young applichi a se stesso e ad altri eretici materiali ciò che San Tommaso dice solo della Fede dei Cattolici, perché l’aquinate dice espressamente che coloro che non hanno la vera Fede non possono fare un atto di Fede come dovrebbe essere fatto, cioè, nel modo determinato dalla vera Fede, e ciò che San Tommaso intende con “Ipsum credere, credere in Dio“, ce lo dice in q. V, art 3, in cui continua: « L’oggetto formale della fede è la Verità Prima (cioè Dio stesso) come è noto dalla Sacra Scrittura e dalla dottrina della Chiesa, dottrina che procede dalla Prima Verità. Quindi chiunque non aderisca alla regola infallibile e divina della Fede – cioè alla dottrina della Chiesa, che procede dalla Prima Verità, come è reso noto nella Sacra Scrittura, non può avere l’abito della Fede; e se detiene certe verità di fede, non le ha per Fede, ma per altri motivi. Ora è chiaro che colui che aderisce alla dottrina della Chiesa riguardo alla regola infallibile della Fede, assentisce a tutto ciò che la Chiesa insegna; tuttavia, chi sceglie di credere ad alcune di quelle verità che la Chiesa insegna e ne respinge altre, invece di aderire alla dottrina della Chiesa come regola infallibile della Fede, aderisce solo alla propria volontà o al giudizio personale.  – « In questi articoli di Fede in cui un eretico non sbaglia, non c’è lo stesso modo di credere di quello con cui un Cattolico crede; perché un Cattolico li crede aderendo senza esitazione alla Prima Verità (come è noto nella Sacra Scrittura e nella dottrina della Chiesa), ed è per fare ciò che ha bisogno dell’aiuto dell’abito alla Fede; ma un eretico non possiede certi articoli di fede da questa regola infallibile, ma solo per sua propria scelta e per giudizio privato. Colui la cui fede non è basata sull’infallibile e divina regola della Fede, non ha affatto la vera Fede; poiché colui che non crede a Dio nel modo determinato dalla vera Fede, non crede veramente a Dio.  – « Non possiamo credere assolutamente una verità divina proposta  alla nostra convinzione se non sappiamo che tale verità sia proposta per nostra convinzione da un’Autorità infallibile e divina; è solo allora che sia l’intelletto che la volontà sono infallibilmente diretti a credere e ad aderire all’Oggetto della Fede – Dio e le sue verità rivelate – come il principale fine dell’uomo, a causa del quale egli acconsente alle Verità Divine. Poiché questa Autorità infallibile e divina si trova solo nella Chiesa Cattolica, è evidente che i veri atti di fede possono essere fatti solo da colui che aderisce a questa Autorità. (Somma 22 q. ii. Art. II, Ad 3; 3, 22, q.v., art. 5). Siccome il Rev. A. Young, quando era un protestante, non aveva, e non poteva avere questo infallibile e divina regola della Fede, non ha fatto, e non poteva, secondo la dottrina di San Tommaso fare atti di Fede Divina. Se è vero, quindi, quello che afferma, cioè, « che la sua fede non ha subito alcun cambiamento quando è diventato cattolico », deve essere vero anche che è un tipo particolare di Cattolico. – Che il Rev. A. Young, fino a quando era protestante, non potesse compiere atti di Fede Divina nel modo determinato dalla fede, è pure evidente dalla dottrina di Sant’Alfonso: « Dio inizia l’opera della salvezza dell’uomo – dice S. Alfonso – lavorando sull’anima interiormente ed esteriormente. Dio lavora sull’anima interiormente, ispirandola prima al pensiero della salvezza. Dal pensiero della salvezza nasce poi il desiderio della salvezza. Il desiderio della salvezza prepara l’anima a rispettare le condizioni della salvezza. Ora, la prima condizione della salvezza è la vera Fede, la Fede Divina. L’inizio della vera Fede, quindi, è il desiderio di essa, derivante dal pensiero della salvezza. Il pio desiderio della Fede, tuttavia, non è ancora la Fede formale; è solo il buon pensiero di voler credere che, come dice sant’Agostino, precede la credenza. Il desiderio di salvezza, ispirato da Dio Onnipotente, deve anche essere compiuto da Lui che quindi lavora anche sull’anima esteriormente. Il mezzo più usuale che Egli impiega per lavorare sull’anima all’esterno è il portarla al possesso della vera Fede con il dargli l’opportunità di apprendere le Verità di salvezza dalla Chiesa Cattolica. “La fede proviene dall’ascolto”, dice San Paolo. Essa quindi illumina l’intelletto dell’uomo perché possa vedere le verità della salvezza, inclini la volontà a credere a quelle verità che gli vengono da Dio attraverso l’Autorità divina della sua Chiesa, a confidare nella fedeltà di Dio alle sue promesse: così esso crede soprattutto che Dio perdoni il peccatore pentito e lo accolga nella sua amicizia a causa dei meriti di Gesù Cristo. Ma nell’udire la sacra Legge promulgata, egli percepisce di essere un peccatore, e quindi teme la giustizia di Dio, che è provocata dalle sue iniquità: dopo essere stato colpito da questo shock salutare, si presenta e lo risolleva un sentimento di fiducia nell’infinita misericordia di Dio. Egli spera che, in considerazione dei meriti di Cristo, Dio lo perdonerà, e animato da questa speranza, inizia ad amare; questo amore lo porta a detestare i suoi peccati, a pentirsene, a ripararli, per quanto possibile, a risolversi ad osservare i comandamenti e a riconciliarsi con Dio con i mezzi dati da Lui, cioè il Battesimo per i non battezzati, e il Sacramento della Penitenza per quei Cristiani che hanno perso la grazia di Dio. – La Fede, quindi, per essere veramente divina e salvatrice, deve essere basata sull’Autorità divina di Dio come investita nella Chiesa Cattolica Romana. – « Senza un capo della Chiesa visibile e infallibile – dice Sant’Alfonso – sarebbe impossibile avere una regola infallibile di fede, in base alla quale sapere con certezza cosa credere e cosa fare. Quindi chi è separato dalla Chiesa e non le è obbediente non ha regole infallibili di fede; non ha più alcun criterio per cui possa sapere cosa debba credere e cosa fare. Senza questa Autorità divina della Chiesa, né i princîpi della rivelazione divina, né quelli della ragione umana hanno alcun sostegno, perché le espressioni dell’uno e quelle dell’altro saranno quindi interpretate da ciascuno a suo piacimento; e quindi ognuno può negare tutte le verità di fede: la Santissima Trinità, l’Incarnazione di Cristo, il Paradiso e l’Inferno, e qualsiasi altra cosa egli scelga di negare. Io, quindi, ripeto: se si rinuncia alla divina Autorità della Chiesa e all’obbedienza che le è dovuta, ogni errore possibile sarà sostenuto e deve essere tollerato anche negli altri. Questa argomentazione innegabile ha fatto sì che un predicatore calvinista rinunciasse ai suoi errori. ». (Appendice al suo lavoro, Concilio di Trento). – Ecco che san Tommaso, parlando di Fede, dice: « La virtù della Fede consiste principalmente nel sottomettere il nostro intelletto e la volontà, con l’aiuto della grazia di Dio, all’Autorità divina della vera Chiesa incaricata da Gesù Cristo di insegnarci ciò che dobbiamo credere. Colui che non segue questa regola di fede, non ha affatto la vera Fede. » La ragione di ciò è data sopra da S. Alfonso, perché: come potremmo noi, senza la Chiesa, sapere che Dio abbia rivelato qualcosa? Come sappiamo cosa abbia rivelato? Come potremmo conoscere il significato delle sue rivelazioni? Come potremmo conoscere la Parola di Dio scritta? Come potremmo conoscere il significato della Sacra Scrittura? Perché la Sacra Scrittura non consiste nelle parole, ma nel senso delle parole: come possiamo conoscere la profondità delle rivelazioni divine? Poiché la portata delle rivelazioni divine è più grande di quella della Sacra Scrittura, noi senza la divina autorità della Chiesa Cattolica Romana, non possiamo ritenere le verità rivelate dall’Autorità divina, e se riteniamo delle Verità cattoliche, noi le crediamo solo sull’autorità umana, e quindi tale credenza non è una Fede Divina. Gli atti di Fede divina, quindi, consistono nel credere fermamente a ciò che Dio ci dice attraverso l’Autorità divina della sua Chiesa. Gli eretici, sia formali che materiali, sono separati da questa Autorità divina, e quindi anche gli atti di Fede fatti dagli eretici materiali non sono affatto degli atti di Fede Divina, nonostante la loro incolpevole ignoranza dell’Autorità divina della Chiesa. Supponiamo che un certo protestante abbia in suo possesso del denaro contraffatto, che crede innocentemente essere legale, certo è che i suoi soldi, essendo contraffatti, non sono trasformati in denaro genuino dalla sua incolpevole ignoranza in materia. Allo stesso modo, gli atti di Fede fatti da un eretico materiale sono atti di fede falsi, perché non sono basati sull’Autorità di Dio, che parla attraverso l’Autorità della sua vera Chiesa. Questi atti pertanto sono senza un fondamento divino. – Nell’ignoranza incolpevole di questa verità fondamentale per i veri atti di Fede, non c’è alcun potere di cambiare gli atti di fede contraffatti in atti di Fede Divina. Tutto ciò che si può dire a favore di questo tipo di eretici è che possono avere la disposizione a credere ciò che è giusto, e questa disposizione viene da Dio e prepara tali protestanti a ricevere il dono della vera Fede quando vengono a conoscerla. – Ora supponiamo che sia vero ciò che è impossibile che sia vero, cioè che l’atto di fede compiuto da un eretico materiale sia un atto divino di Fede, come afferma il Rev. A. Young: è molto errato che egli dica che tale atto di fede, così come lo ha descritto, sia, secondo San Tommaso, meritorio; il che significherebbe meritevole di una ricompensa eterna in cielo. San Tommaso non ha mai detto nulla del genere; egli dice che un atto di Fede è meritorio solo quando procede e si unisce alla Carità divina. Tutte le opere buone, che sono compiute da una persona senza essere nello stato di vera Carità divina, sono opere morte. Se il Rev. Young dà la definizione di Fede data da San Tommaso, perché non ci ha dato pure  la spiegazione di San Tommaso sulla sua definizione di Fede? -Alcune righe dopo infatti, San Tommaso dice: “Charitate superveniente actus fidei fit meritorius per caritatem”. « Quando la Carità divina si unisce alla Fede, allora l’atto di Fede diventa meritorio ». Quando san Tommaso dà la succitata definizione di un atto di Fede, parla di una persona che crede in Dio che gli parla attraverso la sua Chiesa, come è evidente da altri passaggi in cui egli parla della fede degli eretici: finché, quindi, come eretico materiale, sebbene attraverso un’incolpevole ignoranza, aderisca ad una setta eretica, egli è separato da Cristo, perché è separato dal suo Corpo, la Chiesa Cattolica, e in quello stato non può egli fare tutti gli atti soprannaturali di Fede Divina, di speranza e carità, che sono necessari per ottenere la vita eterna, e quindi, se muore in quello stato, viene dichiarato infallibilmente perduto da Sant’Agostino, Sant’Alfonso e tutti i grandi Dottori della Chiesa. – Ma, dice il Rev. A. Young: « Sono stato battezzato in tenera età da un ministro della Chiesa evangelica protestante. Ho poi ricevuto, come accade per tutti i battezzati, adulti o bambini, le Virtù infuse della fede, della speranza e della carità divina, insieme alla grazia santificante, ed ero stato reso capace, con la grazia di Dio così donata, di compiere atti meritori distinti di fede divina, di speranza e di carità ».  – Uno degli effetti del Battesimo è che, quando i bambini sono validamente battezzati, ricevono, insieme al carattere indelebile di un Cristiano, l’Abitudine alla fede, o una capacità, un potere o una facoltà che li abilita, quando arrivano all’uso della ragione, e sono istruiti dalla Chiesa Cattolica nelle verità rivelate, a compiere atti di Fede Divina; questa abitudine di fede consente loro di vedere chiaramente e di credere fermamente alle Verità della Religione Cattolica. Un bambino battezzato è un figlio di Dio, e Dio vive nell’anima di quel bambino ed è suo Padre. Quindi, quando Dio parla attraverso la sua Chiesa a quel bambino, riconosce facilmente la voce che gli parla come la voce di Dio, e crede fermamente a qualunque verità gli insegni a credere. Ma questa abituale Fede Divina viene persa dalla professione dell’eresia, non esclusa l’eresia materiale. Ad un bambino cresciuto nell’eresia, Dio non parla quando sente la voce di un insegnante eretico; se crede a quell’insegnante, non crede a Dio ma all’uomo, e la sua fede è umana, fede che non può condurlo a Dio. (Vedi S. Tommaso, De Fide, Q V, art. III.; Cursus Compl. Theologiæ, vol. 21, Q. III., Art. III., De Suscipientibus Baptismum. Istruzione in Crist, Doct. Capitolo II.)  – Ciò può essere più chiaro da quanto segue: Se una persona che è venuta all’uso della ragione e professa l’eresia al momento del suo battesimo, è in effetti indelebilmente segnata come cristiana, ma non è santificata, perché gli altri effetti soprannaturali del battesimo vengono sospesi per mancanza delle giuste disposizioni o dei preparativi che sono richiesti per ricevere non solo il Sacramento, ma anche i suoi effetti soprannaturali. Uno dei requisiti più essenziali per ricevere questi effetti è avere la vera Fede, cioè, credere in Dio, che parla attraverso la Chiesa Cattolica. Ora l’eresia, l’eresia materiale non esclusa, è una mancanza di questa Fede, a causa della quale gli effetti soprannaturali del battesimo sono sospesi. Dio non può unirsi con un’anima che vive nell’eresia, anche se è solo un’eresia materiale. Poiché gli effetti santificanti soprannaturali in questo caso sono sospesi, così sono per la stessa ragione, distrutti in colui che fu battezzato nella sua infanzia e divenne poi un eretico, anche se solo un eretico materiale, quando arrivò all’uso della ragione. Questa persona, per riconciliarsi di nuovo con Dio, deve rinunciare all’eresia, credere nella Chiesa Cattolica e ricevere degnamente il Sacramento della penitenza; o se questo non può essere avuto, deve avere una contrizione o carità perfetta con il desiderio (almeno implicito) di ricevere il Sacramento della Penitenza. L’altra persona, tuttavia, sarà riconciliata con Dio e veramente santificata, non appena rinuncia all’eresia, crede alla Chiesa Cattolica, e ha almeno l’attrizione (dolore soprannaturale imperfetto) per i suoi peccati, perché è allora che gli effetti santificanti soprannaturali del Battesimo hanno luogo. È quindi evidente che, se queste persone ed altri come loro morissero nell’eresia, sarebbero persi per sempre. (Vedi Teolog. Curs. Compl. De Confirmatione, Parte II., Q. II., Art. VI.). – « La Chiesa – dice il dottor O. A. Brownson – insegna che il bambino validamente battezzato, da chiunque sia amministrato il Battesimo, riceve nel Sacramento l’abitudine infusa di fede e santità, e che questa abitudine è sufficiente per la salvezza fino a quando il bambino non giunga all’uso della ragione Quindi tutti i bambini battezzati che muoiono nell’infanzia vengono salvati. » – « Ma quando arriva l’uso della ragione, il bambino ha bisogno di qualcosa che vada al di là di questa abitudine infusa e sia destinato a suscitare l’atto di fede. L’abitudine non è la vera Fede, ed è solo una struttura soprannaturale infusa dalla grazia, per suscitare l’effettiva virtù della Fede. L’abitudine alla santità è perduta per il peccato mortale, ma l’abitudine alla fede, ci viene detto, viene persa anche da un atto positivo di infedeltà o di eresia. Questo non è strettamente vero, perché l’abitudine può essere persa dall’omissione nel suscitare l’atto di fede, che non è, né può essere suscitato fuori dalla Chiesa Cattolica; poiché fuori di Essa non c’è l’oggetto credibile, che è Deus revelans et Ecclesia proponens, (Dio che rivela e la Chiesa che propone alla nostra fede). Di conseguenza, al di fuori della Chiesa non può esserci salvezza per nessuno, anche se battezzato, che sia venuto all’uso della ragione: l’abitudine data nel Battesimo cessa quindi di essere sufficiente, e comincia l’obbligo di suscitare l’atto. » – « Potremmo sentirci dire che potrebbe non essere per colpa propria che si omette di suscitare l’atto, specialmente se si è nati e cresciuti in una comunità ostile o estranea alla Chiesa. Chi lo nega? Ma da ciò non segue né che l’abitudine non venga persa dall’omissione, né che la provocazione dell’atto non sia necessaria, nel caso di ogni adulto, alla salvezza. L’ignoranza invincibile scusa dal peccato – lo ammettiamo – in ciò di cui uno è invincibilmente ignorante, ma non conferisce alcuna virtù ed è puramente negativa. Scusa dal peccato e, se si vuole, dall’omissione del suscitare l’atto, ma non può riparare il difetto causato dall’omissione. Per la salvezza è necessario qualcosa di più che essere scusato dal peccato di infedeltà o di eresia. » – « Ma, continua il reverendo A. Young – poiché ero un battezzato Cristiano, non volevo, né potevo, perdere la capacità di compiere atti meritori di fede divina, non importa se li avessi fatti o meno; non importa quello che credevo o non credevo mentre crescevo; non importa se sono diventato protestante, ebreo, maomettano o infedele. Sarò un Cristiano battezzato per l’eternità, perché il segno indelebile del Battesimo non può essere tolto dalla mia anima. In questa condizione ero capace di compiere atti meritori di Fede divina ».  –

Rev Muller: Che asserzione stupida e assurda! È possibile che un prete possa essere così ignorante da affermare ciò che nessun bambino Cattolico ben istruito affermerebbe!? Solo chi vive nella vera Fede e nella vera carità con Dio ha la capacità di compiere atti meritori di Fede divina. Eppure il Rev. A. Young, nella sua ignoranza imperdonabile, afferma solennemente che un protestante battezzato, o un ebreo battezzato, o un Maomettano battezzato, o un infedele battezzato, sia in grado di compiere atti meritori di Fede divina, perché porta inciso nella sua anima il marchio indelebile del battesimo. Chi ha mai insegnato e creduto a tali assurdità!? Come può un Prete essere così ignorante da confondere il carattere indelebile del Battesimo con le grazie soprannaturali di questo Sacramento, che sono perse dalla professione dell’eresia e dell’infedeltà!

[Continua …]

EXTRA ECCLESIAM NULLUS OMNINO SALVATUR (12)

EXTRA ECCLESIAM NULLUS OMNINO SALVATUR (12)

IL DOGMA CATTOLICO:

Extra Ecclesiam Nullus Omnino Salvatur

[Michael Müller C. SS. R., 1875]

§ 5. TIPI DI COSCIENZA

1 . La retta o la vera coscienza.

Una coscienza giusta o vera è quella che, secondo i sani principi, determina ciò che è giusto e ciò che sia sbagliato. Per esempio: prima di pubblicare il nostro piccolo lavoro “Familiar Explanation” della Dottrina Cristiana, abbiamo chiesto al Rev. Francis J. Freel, D. D., poi all’amato Pastore della Chiesa di San Carlo Borromeo, a Brooklyn, New York, e al Rev. A Konings, C.SS.R., uno dei migliori teologi di questo Paese, di esaminare il manoscritto e vedere se fosse corretto in ogni punto della dottrina. Conoscendo essi molto bene la teologia, questi due teologi potevano giudicare bene la dottrina che avevo spiegato.  Ecco cosa hanno scritto sulla Spiegazione della Dottrina Cristiana:

CHIESA DI ST. CARLO BORROMEO, SYDNEY PLACE, BROOKLYN, 28 agosto 1874.

Rev. caro padre Muller:

Ho letto ed esaminato attentamente il tuo eccellente manoscritto, intitolato Spiegazione familiare, ecc. Per quanto io possa giudicare, si tratta di un’esposizione chiara, solida, ortodossa, della Dottrina cattolica, sotto forma di domande e risposte, che non può non essere che estremamente utile per la corretta comprensione delle verità, dei Comandamenti e dei Sacramenti della nostra Religione sacra. Particolarmente utili sembrano essere le parti che spiegano la Vera Fede, la Vera Chiesa, l’infallibilità del Papa e, beh, dovrei menzionare ogni capitolo, dall’inizio alla fine. È un’altra grande manna per questi giorni di incredulità e corruzione. Sono il tuo umile servitore nel Sacro Cuore di Gesù e Maria.

FRANCIS J. FREEL, D.D. –

ILCHESTER, HOWARD Co., MD.,

10 settembre 1874.

Rev. caro padre Muller:

Ho letto ed esaminato attentamente il tuo eccellente manoscritto, “Familiar Explanation of Christian Doctrine”. Mi sono preso la libertà di fare alcune modifiche. Non esiterei un attimo a definire questo tuo lavoro come uno dei più utili per il nostro tempo ed il nostro Paese. È scritto nel vero spirito di Sant’Alfonso. La sua teologia è armoniosa e solida, il suo spirito devoto e il suo linguaggio semplice e popolare. Sono stato particolarmente soddisfatto di quei capitoli che trattano della Chiesa, dell’infallibilità papale, dell’indifferenza verso la Religione, la preghiera e la grazia. Il tuo libro non può che rivelarsi molto utile a coloro che stanno imparando e a coloro che insegnano la Dottrina Cristiana. La sua diligente e frequente lettura non può fallire nel confermare i convertiti nella loro fede e fornire ai Cattolici argomenti abbastanza popolari e solidi per confutare le obiezioni fallaci dei non Cattolici. Sono fiducioso che sia il clero che i laici, saluteranno con gioia la pubblicazione di un libro così ben argomentato per rimediare ai due grandi mali del nostro tempo e del nostro Paese: la mancanza di fede e la vera pietà.

Congratulandomi con te per aver realizzato con successo uno dei lavori più difficili, il tuo devoto confratello,

 A. KONINGS, C. SS. R.

Il Rev. Dr. Freel e il Rev. A. Konings, quindi, hanno dato queste testimonianze secondo la loro coscienza retta e vera.

2. La coscienza certa.

Una coscienza certa è quella che è chiara e assoluta nei suoi dettami, così che, obbedendo ad essa, ci sentiamo moralmente certi di avere ragione. – Quando, per le suddette critiche favorevoli alla Explanation, il Rev. J. Roosevelt Bailey, Arcivescovo di Baltimora, ci ha dato l’Imprimatur per il piccolo volume, la sua coscienza era moralmente certa; ed anche la nostra coscienza era moralmente certa quando abbiamo affidato il manoscritto nelle mani dell’editore. – Per “certezza morale”, si intende un uomo che sia tanto prudente e illuminato da ritenere ragionevole l’agire su questioni importanti. È il più alto tipo di certezza che possiamo ottenere ordinariamente nelle questioni di condotta quotidiana.  – La Chiesa non ha bisogno di altre certezze nel concedere il permesso per la pubblicazione di un’opera che riguardi la fede e la morale. (Vedi terzo Concilio plenario di Baltimora, 100, n. 220). Anche il Rev. B. Neithart, C. SS. R., aveva questa certezza morale quando ci ha scritto: « Se mi fosse possibile, mi procurerei sicuramente migliaia di copie di questo lavoro, e le distribuirei su tutto il territorio, non ritenendomi pago finché questo piccolo volume non sia entrato in tutte le case e venga stretto da ogni mano: cattolica, protestante o infedele. »  – La coscienza del Rev. Thomas L. Grace, Vescovo di St. Paul, era moralmente sicura della verità, nel dire, quando ci ha scritto il 10 dicembre 1881: « Carissimo Rev. Padre: – Ho ricevuto il libro che sei stato così gentile da mandarmi: « Il più grande e primo comandamento ». Lo sto leggendo: ciò che ho già detto degli altri libri della serie, ripeto ora con maggiore enfasi anche per questo come di tutti gli tutti, e precisamente: questi libri non sono semplicemente elementari, né sono aridamente dogmatici; essi porgono ragioni ed autorità, spiegano ed illustrano, e, scritti in uno stile semplice e facile, meritano di essere intitolati: “Teologia cristiana divulgata”. La scienza della teologia, o la filosofia della Religione, è tenuta sigillata tranne che per il clero e per l’alta cultura. Tuttavia, pochi tra questi ultimi, sono coloro che si preoccupano di sottoporsi al lavorio dello studio di una lingua per loro straniera, e che, con forme e terminologia che richiedono una lunga pratica, riescono poi a renderla familiare. Il più grande bisogno della Chiesa oggi è quello di avere dei Cattolici pienamente istruiti sui principi della loro Religione e sulle ragioni della loro Fede. Credo che questo sia il motivo per cui scrivi questi libri, cioè fornire i mezzi con cui questa conoscenza fortemente necessaria possa essere messa alla portata di ogni Cattolico serio. È questo che costituisce l’eccellenza suprema di questi libri. Essi non solo istruiscono con la massima accuratezza e precisione, ma sono profondamente edificanti; e ciò che è più importante, sono gradevoli ed attraenti per il loro stile e le loro modalità. Non intendo fare meri encomi, nello scrivere questo. Questi libri, per essere fruibili nel loro valore reale, devono essere conosciuti dal nostro popolo Cattolico, il che – mi dispiace dirlo – purtroppo non succede. » – Molti altri prelati dotti e sacerdoti e la stampa cattolica del nostro Paese, hanno parlato delle mie opere allo stesso modo, come si può vedere dalle raccomandazioni delle stesse, poste all’inizio dell’ultimo volume di “Dio, il Maestro dell’umanità. – Già all’inizio della pubblicazione di questo grande lavoro, abbiamo dato alle stampe, per i caratteri di Benziger Brothers, la terza edizione migliorata dei nostri Catechismi e la seconda edizione migliorata di Familiar Explanation of Catholic Doctrine. Sua Eminenza, il Cardinale J. Gibbons, scrive di questi Catechismi e del “Familiar Explanation”: « Sono fortemente caratterizzati dalla solidità della dottrina, dalla semplicità e dalla scorrevolezza del linguaggio, da uno spirito di fede e di devozione, e dalla precisione nell’espressione e definizione delle verità cattoliche ». Siate sicuri che il Cardinale ha scritto questo con la certezza morale della verità. È anche con la stessa certezza morale che molti altri prelati, dotti Sacerdoti e la stampa cattolica, hanno testimoniato l’ortodossia della nostra Dottrina, come S. O. può leggere al principio del nostro nono volume di “Dio, Maestro dell’umanità.

3. C’è anche la coscienza delicata o tenera.

Questa teme non solo il peccato, ma finanche qualsiasi cosa che possa avere la minima ombra e il più piccolo sospetto di peccato. Felice è la coscienza così disposta! Splendidi esempi di “delicatezza della coscienza”, che non sono stati ancora registrati in nessun libro cattolico, sono S. O., e il Rev. Editor della BU &  T. Si guardi con quanta cura non hanno mai menzionato il nome dell’autore della Familiar Explanation of Christian Doctrine, né hanno mai espresso una parola di lode per la sua edizione, sia riguardo all’autore, il Rev. M. Muller, C.SS.R ., sia in relazione a qualsiasi altra delle sue opere, in modo da poter essere questi, fortemente tentato di vanagloria, ed esposto perciò ad una tentazione così pericolosa, cosa che non sarebbe giusto per la loro coscienza tenera, che, con un atto così imprudente, potrebbe perdere considerevolmente la sua delicatezza – Alla luce della loro tenera coscienza, prevedevano anche che, se il nome dell’autore o di una sua opera, fosse stato menzionato al pubblico, sia il clero che i laici sarebbero stati scandalizzati per ciò che avrebbero detto del suo piccolo volume, e che non ci avrebbero creduto, sapendo che l’autore, come loro, sarebbe stato uno scrittore veramente ortodosso. Pertanto, affinché la loro coscienza tenera non potesse essere tormentata giorno e notte da un tale scandalo e, allo stesso modo, per non perdere la propria reputazione presso il pubblico, hanno agito in perfetta conformità ai principi della loro tipologia di coscienza. Che felicità innominabile essere benedetti con una coscienza così delicata!

4. La coscienza dubbiosa.

Una coscienza dubbiosa è quella che è, per così dire, in bilico e sospesa, incerta se una cosa sia lecita o meno, se un’azione sia proibita o consentita. Da entrambe le parti vede ragioni plausibili, che fanno uguale impressione, ma tra queste ragioni non ce n’è nessuna che prevalga pesantemente, e sia sufficiente per tradursi in una determinazione. Così oscillando tra queste diverse e opposte ragioni, essa rimane indeterminata, e non osa prendere una decisione per paura di essere ingannata e di cadere nel peccato. Ora, non è mai permesso di agire con una coscienza dubbiosa. Quando facciamo qualcosa, dobbiamo essere moralmente sicuri che ciò che stiamo facendo sia lecito. Fare qualcosa e avere, nello stesso tempo, un ragionevole dubbio sulla legittimità della nostra azione, è commettere peccato, perché esponiamo noi stessi al pericolo del peccato; se mettiamo in dubbio la legalità della nostra azione, ci mostriamo indifferenti nell’infrangere o meno una legge, e conseguentemente ci rendiamo colpevoli del peccato per il pericolo di esporci ad esso. Pertanto san Paolo dice: « Tutto ciò che non è secondo coscienza, è un peccato ». (Rom. XIV, 13.). – Dobbiamo, quindi, cercare luce e istruzioni, se possiamo; oppure, se è necessario agire senza indugi, e non abbiamo né mezzi né tempo per consultare e procurarci informazioni onde chiarire il dubbio e sistemare la nostra coscienza, dopo aver chiesto a Dio di illuminarci, dobbiamo considerare ed esaminare ciò che ci sembra più opportuno dal punto di vista nelle circostanze attuali: quindi prendere la nostra determinazione e procedere; tuttavia sempre riservando l’intenzione di procurarci informazioni, correggendo l’errore in seguito, se qualcosa non fosse secondo la legge. In questo modo non si agisce più nel dubbio, poiché il proposito di fare ciò che sembra più opportuno toglie il dubbio: possiamo, è vero, essere ingannati, ma non possiamo peccare. – Ora, nella nostra mente possono sorgere dubbi sul fatto che abbiamo rispettato o meno una certa legge che deve essere rispettata. È una legge, per esempio, l’essere validamente battezzato. Ora, se sorge un ragionevole dubbio sulla validità del Battesimo di una persona, quella persona deve essere nuovamente battezzata per assicurarsi il rispetto della legge. È una legge certa che, per essere salvato, un uomo debba professare la vera Fede, vivere perseverando in essa e in essa morire. Ora se un non-cattolico, per buone ragioni, dubita della verità della sua religione, non gli è permesso di continuare a vivere e morire in questo dubbio. Deve, al meglio delle sue capacità, informarsi sulla vera Religione, e dopo averla trovata, è obbligato ad abbracciarla, al fine di rispettare la legge della professione della vera Fede e del culto divino. È una legge, che noi dobbiamo confessare tutti i nostri peccati mortali che ricordiamo dopo un attento esame di coscienza. Ora, se dopo la Confessione abbiamo un ragionevole dubbio sul fatto che non abbiamo confessato un certo peccato mortale, siamo obbligati a confessare di nuovo questo peccato, per essere sicuri di aver rispettato la legge della Confessione nel dover confessare tutti i nostri peccati mortali. Se abbiamo preso in prestito denaro dal nostro vicino, e in seguito abbiamo un ragionevole dubbio sul fatto di averlo restituito, siamo comunque tenuti a ripagarlo. Nel tempo della guerra, un ufficiale o un soldato, che dubita che la guerra sia giusta, è tenuto ad obbedire al suo generale, perché è certa legge che nessuno, né tanto meno un superiore, debba essere accusato di comandi e azioni ingiuste, purché non vi siano ragioni abbastanza evidenti per provare il contrario. C’è una legge che dice: “Non uccidere”. Se un cacciatore, quindi, vedendo qualcosa muoversi in una foresta, dubiti che si tratti di un uomo o di un animale, non gli è permesso sparare prima di essere sicuro che non sia un uomo. O ad un medico, che quando prescrive la medicina, dubiti ragionevolmente che il medicinale possa uccidere il suo paziente, non è consentito prescrivere un tale medicinale. – Ogni qualvolta, quindi, che una legge esista per certo, e dubitiamo di averla rispettata, possiamo rimuovere il dubbio solo facendo ciò che è comandato; e se la legge proibisce qualcosa, e dubitiamo ragionevolmente che ciò che stiamo per fare possa violare la legge, siamo obbligati a non compiere tale azione; perché ogni legge certa richiede un’obbedienza positivamente certa. – Ma possono anche far sorgere nella nostra mente dubbi sulla reale esistenza di una legge, cioè sulla sua promulgazione o sul suo obbligo in un determinato caso. Poniamo che ci sia uno che dubiti se una certa guerra sia giusta. Questo dubbio (chiamato dubbio speculativo) ne procura un altro, se sia lecito cioè prendere parte a tale guerra. Quest’ultimo dubbio è chiamato un dubbio pratico, perché c’è una domanda sul fare qualcosa che potrebbe essere contro una certa legge. Agire in un simile dubbio pratico è, come abbiamo detto sopra, diventare colpevoli di peccato. Per non esporsi al pericolo di commettere peccato, dobbiamo essere moralmente certi che ciò che stiamo facendo sia lecito. Questa certezza, tuttavia, non deve essere tale da potersi escludere anche ogni dubbio speculativo. Ad esempio, si dubita che il piatto che venga proposto di venerdì non sia una pietanza di carne. Finora, questo dubbio non è stato che un dubbio speculativo, che suggerisce la questione se questo caso particolare rientri nella legge dell’astinenza. Ma se prima di consumare questo piatto, non si fosse disposti a ordinare un altro piatto, sorge il dubbio pratico: se sia lecito o meno mangiare un piatto che potrebbe essere proibito dalla legge dell’astinenza. È evidente che questa persona, se è coscienziosa, non può mangiare il piatto prima di essere moralmente sicuro che il suo consumo non sia vietato dalla legge dell’astinenza. Che cosa deve fare allora, se non riesce a scoprire se il piatto sia una pietanza di carne vera o no? Se la legge dell’astinenza in questo caso è vincolante per lui o no? Possono verificarsi molti di questi casi, in cui nutriamo dei dubbi speculativi sulla presenza o meno di una legge per un caso del genere, o per una persona del genere, o per tale circostanza di tempo o di luogo, e potremmo non essere in grado di decidere se la legge esista o meno. Ma per il fatto che un tale dubbio speculativo possa continuare, non ne consegue che possiamo affrontare la questione da soli e agire così come ci pare. Una tale condotta ci esporrebbe, senza dubbio, al pericolo di violare una legge che potrebbe realmente esistere. Per acquisire la certezza morale per la liceità della nostra azione, dobbiamo vedere se ci siano ragioni che dimostrino che una legge esista realmente, o non esista, in questo o quel caso. Ora, nel cercare di scoprire tali motivi, potremmo trovare alcuni che potrebbero sembrare dimostrare la reale esistenza della legge, mentre altri potrebbero sembrare dimostrare che la legge non esista. Può succedere che i motivi pro e quelli contro. siano ugualmente o quasi ugualmente forti, e può anche accadere che le ragioni pro siano considerevolmente più forti delle ragioni contro, o viceversa. Quelle ragioni che sono considerevolmente più forti possono aumentare di forza e di peso (e diventare così più forti e pesanti) così tanto da far affondare peso e forza di quelle che si oppongono a loro. Ora sorge la domanda: quanto gravi debbano essere queste ragioni per indurci a giudicare con certezza morale che la legge è incerta e, di conseguenza, non sia vincolante. Se le ragioni che dimostrano che la legge non esista sono forti o forti quasi quanto quelle che provano l’esistenza della legge, allora abbiamo la certezza morale – dice Sant’Alfonso – di credere che la legge non esista; ma se le ragioni che dimostrano l’esistenza della legge sono considerevolmente più forti di quelle che dimostrano il contrario, allora dovremmo credere che la legge esista. – Questo insegnamento è senza dubbio abbastanza ragionevole. In materia di affari, ogni uomo ragionevole aderisce a quella delle due opinioni che sia meglio fondata. In ambito scientifico, quelle opinioni che sono poco fondate sono anche poco curate. Da quanto è stato detto, è facile capire cosa siano il rigore e il lassismo. È rigorismo pronunciarsi a favore dell’esistenza della legge a dispetto di ragioni molto gravi che dimostrino il contrario. Questa dottrina fu condannata da Alessandro VIII. Coloro che insegnano una tale dottrina sono chiamati Tuzioristi rigorosi. – È ancora rigorismo, anche se non così grave, sostenere che dobbiamo pronunciarci a favore dell’esistenza della legge, anche se l’opinione che la legge non esiste è meglio fondata. Coloro che aderiscono a questa opinione sono chiamati Tuzioristi mitigati. Infine, è ancora rigorismo affermare che le ragioni che dimostrano che la legge non esista debbano essere considerevolmente più forti di quelle che dimostrino il contrario, al fine di pronunciarsi a favore della libertà o della non esistenza della legge. Coloro che aderiscono a questa opinione sono chiamati Probabilioristi. Ma ognuno di questi tre pareri deve essere respinto. Nessun uomo ragionevole adotta e passa da tali opinioni nelle sue transazioni commerciali quotidiane e nei rapporti sociali. Nessun uomo di apprendimento rifiuta, nelle domande scientifiche, le migliori opinioni e gli argomenti fondati. Perché non dovremmo agire allo stesso modo nella discussione e nella decisione dei casi morali? Cosa è più irragionevole del contrario?

Il lassismo è il sostenere che la legge non esista, anche se le ragioni per provare il contrario dovessero essere considerevolmente più forti e molto più evidenti. È evidente che tale opinione è molto “lassa”, in quanto favorisce la libertà al di là di ciò che sia ragionevole. È vero, quelli che aderiscono a questa opinione dicono che in teoria insegnano solo che la legge non esiste, quando esiste una solida ragione per la sua non esistenza. Dimenticano, tuttavia, che una vera e solida ragione non è più tale, quando ragioni decisamente più solide si oppongono ad essa. Si preoccupano solo di avere una solida ragione per la non esistenza della legge, e lasciano in quiescenza le ragioni più solide che dimostrino la sua esistenza. È chiaro che, nel discutere la questione dell’esistenza o meno della legge, i motivi pro e contro, debbano essere attentamente vagliati e confrontati, e se i motivi che dimostrano l’esistenza della legge sono considerevolmente più validi dei motivi che dimostrano la sua inesistenza, questi ultimi non sono più fondati. – Tale è la dottrina di Sant’Alfonso. “Quelli – egli dice – che difendono e aderiscono all’opinione contraria sono chiamati lassisti. La loro opinione lassista deve essere respinta nella pratica: « Auctores elapsi sæculi quasi communiter tenuere opinione:` Ut quis possit licite sequi opinionem etiam minus probabilem pro libertate (stantem), licet opinio pro lege sit certain probabilior. Hanc sententiam nos dicimus esse laxam et licite amplecti non posse . » (In Apologia, 1769, et Homo Apost. De consc. 31.) In una lettera, datata 8 luglio 1768, Sant’Alfonso scrive: « Librorum censore D. Delegatum adiit ipsique retulit, se opus Meum Morale legisse ejusque sententias san invenisse, et quod attinet systema circa probabilem, me non sequis systema Jesuitarum, sed ipsis adversari; Jesuitæ enim admittunt minus probabilem, sed ego eam reprobo ». E in un’altra lettera, datata 25 maggio 1767, Sant’Alfonso scrive: « Formidarem confessiones excipiendi licentiam concedere alicui ex nostris, qui sequi vellet opinionem certo cognitam ut minus probabilem. »  – Più le persone sono ignoranti o stupide, meno dubbi hanno. Che felicità, non essere mai tormentati da una coscienza dubbiosa!

5. La coscienza lassa.

Una coscienza lassa è quella che, per una lieve ragione, giudichi essere lecito ciò che invece è molto illegale, o consideri un peccato che è molto grave, solo come un peccato veniale; in altre parole, una coscienza lassa è quella che senza una ragione sufficiente favorisce la libertà, sia per sfuggire alla legge, sia per diminuire la gravità della colpa. La coscienza lassa è generalmente la conseguenza della trascuratezza della preghiera, della tiepidezza dell’anima, della troppa cura e dell’angoscia per le cose temporali, del rapporto familiare con persone corrotte e malvagi, dell’abitudine al peccato che distrugge l’orrore del peccato, di una morbida e tiepida vita che snerva il cuore e lo rende quietamente mondano. Una tale coscienza è molto pericolosa, perché conduce l’anima sulla strada larga per l’inferno. – I rimedi per una tale coscienza sono: il ricorso frequente alla preghiera, gli esercizi spirituali, le letture e le meditazioni devote, la Confessione frequente, la conversazione con uomini pii e l’evitare la compagnia dei malvagi. Ma perché parlare qui di una coscienza lassa e indicare i mezzi per correggerla? Non è molto imprudente farlo? Non è indirettamente un suggerire l’idea alla quale alludiamo verso S. O. e il Rev. Editor della B. U. & T.? Ma chi potrebbe persino sognare simili assurdità?!

6. La coscienza perplessa.

Si dice perplessa la coscienza di un uomo, quando questi venga posto tra due azioni che sembrano cattive. C’è ad esempio una persona che voglia visitare di domenica un vicino malato: pensa però che sia un peccato lasciare quell’ammalato, per andare a sentire la Messa, e, nello stesso tempo, gli sembra pure che sia un peccato stare lontano dalla Messa, per visitare il suo amico malato. Ora, se la coscienza di una persona è così perplessa, egli deve, per quanto possibile, prendere il consiglio di uomini prudenti. Se non si possono consultare subito al momento e sia necessario agire, egli deve scegliere quello che appare il male minore e, così facendo, non commetterà peccato. Gli insegnanti autoreferenziali della Teologia cattolica non soffrono mai di coscienza perplessa. Essi dicono ad esempio: « Io sono S. O. e quando apro la bocca, non lascio nessun cane abbaiare. »

7. La coscienza scrupolosa.

« Uno scrupolo –  dice Sant’Alfonso – è un vano timore di peccare, che nasce da ragioni false ed infondate ». Poniamo una persona: per ragioni frivole egli immagina che qualcosa di non proibito sia proibito, o che qualcosa di non comandato sia comandato. Quindi è disturbato e incontra dei dubbi senza fondamento nè motivi ragionevoli. Sprofonda nello stato di una coscienza scrupolosa, che è un continuo tormento per l’anima stessa, e spesso anche per il suo direttore spirituale. Chiunque abbia letto la “Strana spiegazione” può convincersi del fatto che né il “Sacerdote più eminente” degli Stati Uniti, né il Rev. Editor della B. U. & T. abbiano mai causato fastidio e tormento al loro direttore spirituale. Fossero magari stati essi i direttori spirituali di tutte le persone scrupolose! Che benedizione sarebbe stata questo per loro; con poche parole, da questi direttori così tanto non scrupolosi, esse sarebbero stati interamente liberate dai loro inenarrabili tormenti! Che benedizione per tutti i lettori Cattolici e protestanti del B. U. & T. sapere che il Rev. Editor non ha mai avuto scrupoli nello stampare articoli come la “Strana Spiegazione”. Questi lettori sentono di poterli leggere senza scrupoli, perché sono scritti e stampati senza scrupoli e sono programmati per confermare nella loro fede sia i Cattolici che i protestanti!

8. La coscienza errata o falsa.

Una coscienza è errata o falsa, se ci rappresenta essere buona un’azione quando essa è invero cattiva. Ad esempio: tutti sanno che una bugia intenzionale è un peccato. Ora c’è qualcuno che vede il suo vicino in pericolo di morte e sa che, mentendo, può salvare la vita del suo vicino. Si sente sicuro che una simile menzogna non possa essere un peccato e che peccherebbe contro la carità se non dovesse dirla. La coscienza è errata anche quando rappresenta ciò che è veramente buono come qualcosa di veramente cattivo. Ad esempio: cosa può essere migliore e più santo della Religione Cattolica? Eppure si può trovare un non Cattolico che, essendo cresciuto nell’eresia, sia pienamente convinto, fin dalla fanciullezza, che noi Cattolici contestiamo e attacchiamo la parola di Dio, che siamo idolatri, degli imbroglioni incalliti e che, quindi, dobbiamo essere evitati come la peste. – Un altro esempio: la coscienza di S. O. gli ha suggerito nella sua valutazione circa la spiegazione di padre Muller, che essa è davvero cattiva per molte ragioni, come se fosse una buona azione, e gli ha fatto rappresentare la spiegazione di Padre Muller, che è veramente buona, come qualcosa che sia veramente cattiva, e così, con la sua coscienza errata, ha dichiarato pubblicamente come Padre Muller avesse travisato la teologia cattolica e disonorato il Santo Nome di Dio!  – Ora, tali errori di coscienza sono colpevoli o incolpevoli. Sono colpevoli, se scaturiscono dall’ignoranza volontaria, e sono incolpevoli, se scaturiscono da un’ignoranza involontaria.  L’ignoranza è volontaria, quando uno nel fare qualcosa, abbia dei dubbi sulla bontà o bontà morale della sua azione, e sull’obbligo di esaminare se la sua azione sia veramente buona o cattiva, e tuttavia non prende i mezzi necessari per scoprire se quello che sta per fare sia giusto o sbagliato. È, ad esempio, una legge che si professi la vera Religione per essere salvati. Ora, supponiamo che ci sia un non Cattolico: che un sermone sulla vera Religione, sentito, o un libro letto, o una conversazione avuta con un amico su questo argomento, o la conversione di un uomo ricco o dotto dal protestantesimo alla Fede Cattolica, o qualsiasi altra buona ragione, gli facciano dubitare della verità della sua religione. Questo tale è obbligato in coscienza a cercare luce ed istruzione, se può. Se non può farlo immediatamente, deve fermamente cercare di ottenere informazioni, non appena possibile, da coloro che possono dargliele in modo soddisfacente, e deve essere determinato a rinunciare al suo errore, se scopre che vive in una falsa religione. Nel frattempo, deve chiedere a Dio di essere illuminato e che gli permetta di fare ciò che gli sembra meglio nelle circostanze attuali. Se, tuttavia, trascura di cercare le istruzioni quando potrebbe e dovrebbe farlo, se continua a non prestare attenzione agli scrupoli religiosi sulla sua salvezza nel protestantesimo; se ha persino paura di apprendere la verità, o, se la conosce, contraddice la sua coscienza e la oscura ogni giorno con crimini innaturali, … ah! allora gli indizi non sono difficili da decifrare: un tale protestante pecca contro la sua coscienza, cioè contro lo Spirito Santo; è un albero secco e morto in piena estate, è buono solo … per il fuoco. Se si perde, è perso solo per colpa sua.  – L’ignoranza è involontaria, o invincibile, se uno, nel fare qualcosa, non abbia il minimo ragionevole dubbio sulla bontà della sua azione. Come esempio: un erede entra in possesso di una proprietà che in precedenza era stata acquisita ingiustamente dai suoi antenati; ma nel momento in cui ne aveva preso possesso, non aveva il minimo dubbio sulla giusta e lecita acquisizione della proprietà. In questo c’è errore, ma l’errore è involontario e, quindi, non colpevole. Dopo alcuni anni, tuttavia, scopre il difetto nel suo titolo, e continua tuttavia nel possesso della proprietà. Da quel momento, la sua coscienza diventa volontariamente e criminalmente errata, contrariamente alla buona fede e ai dettami di una buona coscienza. « Se il tuo errore è volontario – dice San Tommaso d’Aquino – e non fai tutto il possibile per scoprire la verità, sei responsabile della tua condotta nel seguire una falsa coscienza ». Tale era la coscienza dei persecutori della Chiesa, di cui Gesù Cristo dice: « Sì, l’ora viene, che chiunque vi uccide, penserà che faccia un servizio a Dio » (S. Giovanni, XVI, 2.). Quando, nel discutere di qualcosa, una delle premesse è falsa, la conclusione dovrà necessariamente essere falsa. Allo stesso modo, tutti gli atti di una coscienza, il cui errore è volontario o vincibile, sono cattivi e prendono parte al cattivo risultato dell’ignoranza volontaria. Se sei intenzionalmente ignorante di ciò che sei tenuto in coscienza a sapere, sei responsabile di tutte le tue azioni. Tale è la coscienza di molti peccatori, che desiderano essere ignoranti nei loro doveri per vivere senza ritegno. « Dicono a Dio – dice Giobbe – allontanati da noi, non desideriamo la conoscenza delle tue vie ». (Giobbe, XXI, 14) Una coscienza che continua ad agire così commette un errore volontario manifesto, e diventa addirittura un criminale agli occhi di Dio. Questo è lo stato più deplorevole e infelice in cui un’anima possa cadere; poiché questo tipo di coscienza spinge il peccatore verso tutti i tipi di crimini, di disordini e di eccessi, e diventa per lui fonte di cecità della comprensione, durezza del cuore e, infine, di eterna riprovazione, se persevera in questo stato fino alla fine della sua vita. Ne sono testimoni gli scrittori della stampa infedele. Per essi è diventato di moda liberarsi della Religione e della coscienza. Un uomo che desidera gratificare i suoi desideri malvagi, senza vergogna, senza rimorso, dice: « Non c’è Dio, non c’è inferno, non c’è l’aldilà, c’è solo questa vita presente, e tutto ciò che è in essa è buono ». Egli considera la coscienza come una creazione dell’uomo. Definisce i suoi dettami un’immaginazione. Dice che la nozione di colpevolezza, che impone quel dettame, è semplicemente irrazionale. Quando difende i diritti della coscienza, questo ovviamente non significa considerare in alcun modo i diritti del Creatore, né il dovere nei suoi confronti, nel pensiero e nelle azioni, da parte della creatura; egli intende solo il diritto di pensare, parlare, scrivere e mangiare secondo il suo giudizio o il suo umore, senza darsi alcun pensiero di Dio. Non pretende nemmeno di seguire alcuna regola morale, ma esige che ciò che pensa sia una prerogativa “americana”, di essere il padrone di sé in tutte le cose, e di professare ciò che gli piace, senza chiedere a nessuno il permesso, e di considerare come impertinente inopportuno chiunque osi dire una parola contro il suo voler andare verso la perdizione, come a lui piace, a suo modo. Per un tale uomo il diritto di coscienza significa “il diritto e la libertà di coscienza dal dispensarsi con coscienza, di ignorare un legislatore o un giudice, di essere indipendente dagli obblighi non visibili; di essere liberi di accettare qualsiasi religione o nessuna religione, di abbracciarne questa o quella, e poi lasciarla di nuovo, vantarsi di essere al di sopra di tutte le religioni e di essere un critico imparziale di ognuna di loro; in una parola, la coscienza è, per quell’uomo, nient’altro che il « diritto alla propria volontà ». Tale è l’idea che gli uomini della stampa infedele hanno della coscienza. La loro regola e misura del giusto o dello sbagliato è l’utilità, o la convenienza, o l’accondiscendenza della maggioranza, o la convenienza dello Stato, o l’opportunità, l’ordine, un egoismo lungimirante, il desiderio di essere coerenti con se stessi. Ma tutte queste false concezioni della coscienza non varranno come scuse davanti a Dio per non aver voluto conoscere di più. L’idea che non ci sia alcuna legge o regola per i nostri pensieri, desideri, parole e azioni e che, senza peccato o errore, possiamo pensare, desiderare, dire e fare ciò che ci piace, soprattutto in materia di Religione è una vera assurdità. « Quando Dio diede all’uomo il libero arbitrio – dice San Tommaso, – intendeva che l’uomo potesse scegliere liberamente ciò che è buono e rifiutare ciò che è cattivo, in modo da ottenerne il merito, un privilegio che è negato agli animali, poiché essi seguono ciecamente i loro istinti. Chi può essere tanto sciocco da pensare che Dio, nel dare all’uomo il libero arbitrio, lo abbia dispensato dall’osservanza delle sue leggi? Dio è infinita bontà, giustizia, saggezza, misericordia e purezza, e ha impresso nell’uomo la nozione di bontà, giustizia, misericordia, purezza, in modo che, come Egli stesso odia ogni malvagità, ingiustizia, errori e impurità, così anche l’uomo dovesse fare lo stesso; quindi è impossibile che Dio possa concedere all’uomo il permesso di commettere ed agire in modo assolutamente ripugnante per la natura divina, e quindi anche ripugnante per la natura dell’uomo, che è fatto a sua immagine e somiglianza. »  – « Il nostro uso della libertà, quindi, deve essere coerente con la ragione, e deve essere basato sull’odio per tutto ciò che è cattivo, ingiusto, crudele, falso o impuro, e sul forte desiderio di raggiungere tutto ciò che è buono, vero e perfetto. « Chi sono i peggiori nemici della libertà dell’uomo? 1° In primo luogo, quell’ignoranza e quell’errore che gli impediscono di distinguere chiaramente ciò che è buono e giusto da ciò che è malvagio e falso. 2° In secondo luogo, le sue passioni, che gli impediscono di abbracciare il bene che conosce e vede e lo inducono a desiderare ciò che sa essere cattivo. 3° Terzo, qualsiasi potere o autorità esterna all’uomo, che gli impedisce di fare ciò che sa essere buono e che desidera fare o lo costringe a fare ciò che considera illegale e che rifiuta di fare. 4° In quarto luogo, tutti coloro che negano e pervertono le Verità religiose e morali. Che malvagità, quale empietà è lo schernire ciò che è buono, per il presente e per il futuro, per l’intelletto e la volontà dell’uomo! Quanto sono detestabili coloro che catturano gli uomini nelle sottili reti dei sofismi, ed espellono la Religione e la moralità dal loro cuore, che infondono dubbi e dispute sulla verità sociale, che è l’unica fondazione stabile su cui le nazioni e gli imperi possono riposare con tranquillità! Gli uomini più esecrabili, sono quelli che si assumono il diritto di insultare il Signore e di distruggere l’uomo. » – « Dopo che il diavolo ha usato questi uomini per i suoi scopi diabolici, getterà via questi miserabili disgraziati, come scope consumate, nel fuoco dell’inferno. – Il privilegio che i cattivi hanno nel male, è che essi restano impuniti dal diavolo. « L’inferno dei malvagi inizia anche in questo mondo, e continua poi per tutta l’eternità nell’altro. Infatti San Paolo dice: « Tribolazione e angoscia su ogni anima dell’uomo che opera il male ». (Rom. II, 9). «  … con quelle stesse cose per cui uno pecca, – dice la Sacra Scrittura – con esse è poi castigato. » (Sap. XI 17.) « Colui che parla (contro la sua coscienza) qualunque cosa gli piaccia, sentirà nel suo cuore ciò che non gli piace sentire », dice Comicus. « Chi nasconde un’anima oscura e pensieri osceni, ottenebrato cammina sotto il sole di mezzogiorno, ed egli stesso è la sua prigione. » – Per evitare tali mali, dobbiamo rettificare la nostra coscienza quando essa sia vincibilmente errata – cioè, quando siamo confusi con dubbi e sospetti sulla legittimità o l’illegalità di un’azione che stiamo per compiere; dobbiamo provare, attraverso l’esame, la consultazione ed impiegando i mezzi ordinari, a scoprire se abbiamo ragione o torto in quello che stiamo per intraprendere. – Ma finché la coscienza di un uomo è invincibilmente errata, la si deve seguire. « La sua volontà non è quindi in colpa », dice San Tommaso. Senza dubbio, una persona che, da una invincibile coscienza errata, crede che la carità lo obblighi a dire una bugia, se così può salvare la vita del suo prossimo, compie un atto meritorio, e peccherebbe contro la carità se non dicesse la bugia. – La coscienza, quindi, è quel fedele controllore interiore che avverte ogni uomo quando sta per offendere Dio e lasciare la retta via per il Paradiso. Ogni volta che siamo sul punto di desiderare, di dire, o di fare qualcosa che sia contro la legge di Dio, la coscienza ci dice, come se fosse da parte di Dio: « Non ti è lecito. » (Mt. XIV, 4). No, non ti è permesso di eseguire quell’azione, di pronunciare quella parola, di avere quel desiderio, di leggere quel libro, di frequentare quella compagnia, di andare in quel luogo di peccato, di fare un affare illecito. Se, nonostante queste rimostranze della coscienza, ancora andiamo avanti, essa si leva contro di noi e grida: « Che cosa hai fatto? » (Re, III, 24). Hai peccato; hai offeso Dio, trasgredendo la sua legge e andando contro la sua voce che ti ha avvertito di non farlo; sei colpevole davanti a Lui e meritevole di essere punito secondo la legge della sua giustizia. Era la sua coscienza che fece dire a David: « Il mio peccato è sempre davanti a me ». (Salmo L). Era la sua coscienza che fece gridare a Giuda: « Ho peccato nel tradire il sangue innocente. » (Matteo XXVII). Così ogni peccatore è responsabile della sua condotta verso la sua coscienza, che, come dice Menandro, è il suo Dio. È per mezzo della coscienza, che Dio giudica l’uomo. La coscienza, in quanto organo e strumento di Dio, pronuncia nel suo nome la sentenza di condanna; comunica, sotto la sua sovrana autorità, il decreto della Giustizia divina. In questo senso si dice che noi stessi siamo i nostri primi giudici, e che il primo tribunale al quale siamo citati è la nostra coscienza, senza poter sfuggire alla sua sentenza. Sì, questo giudizio è giusto, è terribile, è senza appello. Nel pronunciare la sentenza, la coscienza è allo stesso tempo testimone contro di noi e la sua deposizione è tanto più terribile in quanto è interiore, chiara e diretta per noi. Ah! quanto è spiacevole essere condannati da noi stessi e non avere nulla da opporre alla sentenza! E cosa, in effetti, può essere opposto quando la nostra coscienza è l’accusatore, il testimone e il giudice? Pertanto, alla coscienza rimane solo di poter assumere il carattere di esecutore ed esercitare la sua vendetta su di noi… incarico terribile, che è più terribile di tutto il resto! Essa ci punisce! Dio affida gli interessi della sua giustizia e vendetta nelle mani della coscienza; e in quanti modi essa non esegue questo tremendo ufficio contro il peccatore dopo che ha peccato? – Con quei rimorsi che lo lacerano e lo riducono, per così dire, a pezzi; come un verme roditore che lo mangia; con il costante ricordo della sua colpa che lo segue ovunque; con le paure, i terrori e gli allarmi continui in cui vive. Se viene visitato da una malattia, o se la minima infermità lo attacca, la morte si presenta incessantemente ai suoi occhi. Se i tuoni rimbombano, se la terra trema, se accade qualche incidente imprevisto, egli crede che la mano di Dio sia sollevata contro di lui, temendo ogni istante di essere inghiottito. Ahimè! può esserci un più terribile torturatore, un carnefice più crudele, un ministro più severo della vendetta per il peccatore, della sua stessa coscienza? Quale maggior tortura per Caino lo spettro sanguinante di suo fratello Abele che gli si presentava continuamente? Cosa di più spaventoso per l’empio Balthasar la vista della mano apparsa sul muro e che scriveva la sentenza di condanna? Cosa di più terrificante per Antioco della immagine del tempio di Gerusalemme che egli aveva profanato? Che cosa di più allarmante e terrificante per Enrico VIII, re d’Inghilterra, che ammirare sul suo letto di morte le legioni di monaci che aveva trattato così crudelmente? E perché questi uomini sono stati così torturati? Era perché la loro coscienza, di cui avevano calpestato i diritti, cercava l’espiazione ponendo continuamente dinanzi a loro il ricordo dei loro crimini. « Così la coscienza sostiene la sua causa all’interno del seno; ed anche se a lungo ci si ribella, essa non è giammai definitivamente soppressa. »  Non c’è da stupirsi che gli uomini a volte si suicidino. Non sopportano il rimorso della coscienza, e così cercano di trovare riposo nella morte. Ora, un tale rimorso di coscienza, sebbene sia una punizione, è allo stesso tempo una grazia per il peccatore. Lo avverte di rientrare in se stesso, con un sincero pentimento, di chiedere perdono a Dio, promettere un emendamento di vita, ed essere salvato. Ma se un peccatore non prova un tale rimorso è, senza dubbio, in una condizione molto deprecabile. La mancanza di questa grazia provoca una  riprovazione certa per l’eternità. Ora, questa voce della coscienza, che colpisce con il terrore le anime dei malvagi, riempie invece giusti di pace e di felicità.  C’è un grande peccatore: egli è molto dispiaciuto per tutti i suoi peccati; ha fermamente intenzione di modificare la propria vita; fa una buona Confessione. Guardatelo dopo la Confessione. Il suo volto è raggiante di bellezza. Il suo passo è diventato di nuovo leggero. La sua anima riflette sui suoi tratti la santa gioia da cui è inebriata. Sorride a coloro che incontra, ed ognuno vede che è felice. Non trema più quando alza gli occhi al cielo. Egli spera, ama; una forza soprannaturale lo anima. Si sente bruciare di zelo nel fare del bene; un nuovo sole è spuntato sulla sua vita, ed ogni cosa in lui rinnova la freschezza della giovinezza. E perché? Perché la sua coscienza ha gettato via un carico che lo aveva piegato fino a terra, gli dice che ora è di nuovo il compagno degli Angeli; che è di nuovo entrato in quella dolce alleanza con Dio, che ora può giustamente chiamare suo Padre; che è nuovamente reintegrato nella sua dignità di figlio di Dio. Non ha più paura della giustizia di Dio, della morte e dell’inferno. – Dobbiamo, quindi, seguire sempre la voce o i dettami della coscienza, poiché « questo è l’osservanza dei comandamenti », dice la Sacra Scrittura; ma « qualunque cosa sia contraria alla coscienza, è peccaminosa ». (Rom. XIV. 23.) « Quale regola – dice San Tommaso d’Aquino – può seguire un uomo, se non la ragione, che è la voce imperativa della coscienza? » – « Chi non fa appello alla sua coscienza in tutte le occasioni non può avere una regola di condotta. Dubbi e perplessità, oscillando tra il vizio e la virtù, non sanno a quale lato volgersi: si è come una nave il cui timone è andato perso in seguito ad una violenta tempesta ».

[12. Continua…]

DOMENICA I DOPO PENTECOSTE

DOMENICA I DOPO PENTECOSTE (2019)

[Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani – L.I.C.E. Berruti &C. Torino, 1936]

Semidoppio. • Paramenti verdi.

Questa Domenica era un tempo detta vacante perché la liturgia delle Ordinazioni del sabato di Pentecoste si celebrava durante la notte e serviva di Messa per la Domenica: infatti l’Epistola ci ricorda che l’amor di Dio — che è lo Spirito Santo — ci è stato donato nelle feste di Pentecoste. Il Signore ci ha amato inviando a noi suo Figlio, allorquando eravamo suoi nemici per il peccato: il suo amore dunque permane in noi se noi amiamo, come Lui, quelli che ci odiano. Ed è per questo che il Vangelo ci dice che dobbiamo essere misericordiosi come lo è stato il nostro Padre perdendoci e donando a noi il Figlio suo e lo Spirito Santo. « Tenendoci alla porta di questo padre di famiglia grande e possente, che è Dio, noi gemiamo nelle nostre preghiere, dice S. Agostino, e noi vogliamo ricevere un dono: e questo dono è Dio stesso » (Mattutino). «O Signore, dice l’Introito, io ho riposta la mia speranza nella tua bontà». «Dà ascolto, o Signore alle mie parole », aggiunge l’Alleluia. « Ascolta la mia voce che supplica » insiste l’Offertorio. « L’ho detto, o Signore, guarisci la mia anima perché ha peccato contro di te. Beato colui che soccorre il povero e il miserabile, poiché il Signore lo libererà », completa il Graduale. Per ricevere da Dio, bisogna donare. « Un mendicante ti chiede l’elemosina, spiega S. Agostino, e sei tu stesso il mendicante del Signore; poiché tutti noi siamo mendicanti quando preghiamo. Infatti, che cosa chiede il mendicante? un po’ di pane. E tu che cosa chiedi a Dio se non il Cristo, che ha detto: Io sono il pane della vita? » (Mattutino). Se Dio ci ama al punto da donarci l’unico Figlio suo e, per lui, lo Spirito Santo « che è il dono dell’Altissimo», noi pure dobbiamo amarci senza misura. — La Messa della prima Domenica dopo Pentecoste, poiché è sostituita dalla Messa della SS. Trinità, si celebra in uno dei primi tre giorni della settimana, i quale o sia di rito semplice, ovvero giorno fra un’Ottava. In quei giorni la Messa si può mettere in rapporto della lettura del Breviario. All’Ufficio del lunedì della prima settimana dopo l’Ottava di Pentecoste si comincia la lettura del Libro dei Re, che si inizia con la storia di Anna, la donna di Elcana. Il Signore aveva colpito Anna con la sterilità ed essa andò a trovare il gran sacerdote Eli e fece un voto al Signore nel tempio, promettendogli che se avesse compassione del dolore della sua serva, e non l’avesse dimenticata (versetto dell’Introito, Grad., All., Off.) e le donasse un figlio, essa glielo avrebbe consacrato per sempre. Dio «che è tutto amore» (Ep.). le donò un figlio, che essa chiamò Samuele, perché lo aveva chiesto al Signore. E Anna esultò di gioia e di riconoscenza (Intr., Com.) e offrì il figlio suo nel tempio perché egli servisse il Signore.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Tob XII: 6
Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam.
Ps VIII: 2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in univérsa terra!
Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam.

Oratio

Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui dedísti fámulis tuis in confessióne veræ fídei, ætérnæ Trinitátis glóriam agnóscere, et in poténtia majestátis adoráre Unitátem: quǽsumus; ut, ejúsdem fídei firmitáte, ab ómnibus semper muniámur advérsis.
Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum, qui….

Lectio

Epistulae B. Jonnis Ap. 1, IV, 6-21

Qui non diligit, non novit Deum: quoniam Deus caritas est. In hoc apparuit caritas Dei in nobis, quoniam Filium suum unigenitum misit Deus in mundum, ut vivamus per eum. In hoc est caritas : non quasi nos dilexerimus Deum, sed quoniam ipse prior dilexit nos, et misit Filium suum propitiationem pro peccatis nostris.  Carissimi, si sic Deus dilexit nos: et nos debemus alterutrum diligere. Deum nemo vidit umquam. Si diligamus invicem, Deus in nobis manet, et caritas ejus in nobis perfecta est. In hoc cognoscimus quoniam in eo manemus, et ipse in nobis : quoniam de Spiritu suo dedit nobis. Et vos vidimus, et testificamur quoniam Pater misit Filium suum Salvatorem mundi. Quisquis confessus fuerit quoniam Jesus est Filius Dei, Deus in eo manet, et ipse in Deo. Et nos cognovimus, et credidimus caritati, quam habet Deus in nobis. Deus caritas est : et qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo. In hoc perfecta est caritas Dei nobiscum, ut fiduciam habeamus in die judicii : quia sicut ille est, et nos sumus in hoc mundo. Timor non est in caritate : sed perfecta caritas foras mittit timorem, quoniam timor poenam habet : qui autem timet, non est perfectus in caritate. Nos ergo diligamus Deum, quoniam Deus prior dilexit nos. Si quis dixerit, Quoniam diligo Deum, et fratrem suum oderit, mendax est. Qui enim non diligit fratrem suum quem vidit, Deum, quem non vidit, quomodo potest diligere? Et hoc mandatum habemus a Deo : ut qui diligit Deum, diligat et fratrem suum.

OMELIA I

A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – [Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929]D

AMIAMO DIO

“Carissimi: Dia è amore. L’amore di Dio verso di noi si è manifestato in questo: che Dio ha mandato il Figlio suo Unigenito nel mondo, affinché per lui noi avessimo la vita. E in questo sta l’amore: che non noi abbiamo amato Dio, ma che egli per il primo ha amato noi, e ha mandato il suo Figlio quale propiziazione per i nostri peccati. Carissimi: se Dio ci ha amati in tal modo, noi pure dobbiamo amarci l’un l’altro. Nessuno non ha mai visto Dio. Se noi ci amiamo l’un l’altro Dio dimora in noi, e il suo amore in noi è perfetto. Che noi dimoriamo in lui; e che egli dimori in noi conosciamo da questo: che ci ha dato del suo Spirito. E noi abbiamo visto e testifichiamo, che il Padre ha mandato il suo Figlio quale Salvatore del mondo. Chiunque confesserà che Gesù Cristo è Figlio di Dio, Dio dimora in lui, d egli in Dio. E noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amare. Chi sta nell’amore sta in Dio, e Dio in lui. La perfezione dell’amore di Dio in noi sta in questo: nell’aver fiducia pel giorno del giudizio: poiché come è lui tali siamo anche noi in questo mondo. Il timore non sta con l’amore, ma l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore va congiunto col castigo. E chi teme non è perfetto nell’amore. Noi, dunque, amiamo Dio, perché Egli ci ha amati pel primo. Se alcuno dice: «Io amo Dio, e odia il suo fratello, è bugiardo. Poiché, chi non ama il suo fratello che vede, come può amar Dio che non vede! E da Dio abbiam ricevuto questo comandamento: che chi ama Dio, ami anche il proprio fratello”. (1 Giov. IV, 8-21).

L’epistola è tolta dalla prima lettera di S. Giovanni. L’Apostolo dichiara che chi non ama, non conosce Dio, perché Dio è amore. Il suo amore l’ha manifestato mandando il suo Figlio a dar la vita a noi che eravamo peccatori. Anche noi dobbiamo, dunque, amarci scambievolmente, se vogliamo che Dio dimori in noi, e che il nostro amore per lui sia sincero. Se coi fratelli avremo lo spirito di carità, conosceremo che Dio è in noi. Non si può, però, aver vera carità, senza la fede nella divinità di Gesù Cristo. Se noi aspettiamo senza timore il giorno del giudizio, il nostro amore è perfetto. Amiamo, pertanto, Dio che ci ha amati pel primo; amiamo il prossimo, perché chi non ama il prossimo non ama Dio, e perché Dio ci comanda di amare il prossimo. — Avendo già parlato dell’amor del prossimo nella Domenica IV. dopo l’Epifania, quest’oggi parliamo dell’amor di Dio.

Amiamo Dio,

1. Ricambiando il suo amore,

2. Credendo con fede viva in Gesù Cristo,

3. Amando i nostri fratelli.

1.

Dio è amore. Dio è l’amore per essenza: amore che Egli manifesta in mille modi, soprattutto verso l’uomo. Dio mostra il suo amore all’uomo creandolo, lo dimostra nella sua conservazione e nell’abbondanza dei beni di cui lo circonda. Ma specialmente l’amor di Dio verso di noi si è manifestato in questo: che Dio ha mandato il Figlio suo Unigenito nel mondo, affinché per Lui noi avessimo la vita. Dimostrazione più grande dell’amor di Dio non si può immaginare. Da qualunque lato tu voglia considerare, il mistero, trovi che esso è la manifestazione dell’amore di Dio verso gli uomini. Dio che esiste dall’eternità, che non dipende da nessuno, che non ha bisogno di nessuno, che ha posto la sua magnificenza nei cieli, si prende cura dell’uomo, abisso di miseria e di fragilità, dall’esistenza breve come il fiore del prato, fuggevole come la nube sospinta dal vento. Onde il salmista si domanda meravigliato: «Che è mai l’uomo, perché tu lo ricordi, e il figlio dell’uomo perché tu te ne curi?» (Salm. VIII, 5). Qualunque dono, anche minimo, l’uomo ricevesse da Dio, sarebbe di un pregio incalcolabile. È il padrone che dona al servo, è l’Immenso che fa regalo al verme della terra. Ma Dio dà all’uomo nientemeno che il proprio Figlio. Dio come Lui, a Lui uguale in essenza, in sapienza, in potenza e in tutte le altre perfezioni. Questo amore di Dio verso di noi risalta ancor più, se si riflette che noi nulla avevamo fatto per meritarlo; anzi, avevamo offeso Dio eoi nostri peccati. Ed Egli ha mandato il suo Figlio quale propiziazione per i nostri peccati. Le pagine del Vangelo, infatti, ci dimostrano continuamente che Gesù era venuto per cercare e salvare i peccatori, tanto da attirarsi la critica, dei Farisei: « Costui accoglie i peccatori e mangia con loro » (Luc. XV, 2). Esse ci dicono come Egli abbia pianto per loro, come per loro abbia consumato la sua vita sulla croce. È cosa tanto ovvia che l’inferiore tanto più è portato ad amare il superiore, quanto più si accorge d’essere da lui amato, specialmente se non aveva motivi di ripromettersi questo amore. E l’uomo peccatore che poteva ripromettersi da Dio suo giudice, da lui offeso? Gesù Cristo è venuto principalmente, affinché l’uomo conoscesse quanto Dio lo ami; e perché questa conoscenza lo infiammasse nell’amore di Lui, che lo amò pel primo. Dunque « se prima ci rincresceva di amarlo, ora almeno non ci rincresca di riamarlo » (S. Agost.. De Cathec. Rud. 4, 8).

2.

A ricambiar l’amor di Dio è necessaria la fede in Gesù Cristo. Chiunque confesserà che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui, ed egli in Dio. La fede in Gesù Cristo non manca al Cristiano, il quale la confessa esplicitamente in varie circostanze: « Io credo in Dio Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, e in Gesù Cristo suo unico Figliuolo, Nostro Signore ecc.», dice egli ogni qualvolta recita il simbolo apostolico nelle sue azioni private. « Credo in un solo Dio… E in un solo Signore Gesù Cristo, Figliuolo unigenito di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli », ripete, quando accompagna le preghiere del Sacerdote nella Santa Messa. «Credo nel Figliuolo incarnato e morto per noi, Gesù Cristo, il quale darà a ciascuno, secondo i meriti, il premio o la vita eterna », ripete ancora quando recita l’atto di fede. Ma questa può anche essere una fede morta; e allora la sua professione di fede in Gesù Cristo poco gli giova per vivere con Dio in unione intima, così da poter dire: Dio dimora in lui, ed egli in Dio. – Il professar la fede con la bocca è buona cosa, anzi ottima, e in parecchie circostanze può esser cosa doverosa; ma non è tutto. Oltre confessare Gesù Cristo con la bocca, devi rivolgerti a Lui con la mente. Un padre, una madre, non possono allontanare il loro pensiero dai figli. Un esule non può allontanare il pensiero dalla patria. Un monte, un colle, una vallata, una prateria, una foresta, un fiume, gli rammentano il luogo nativo, il luogo ove trascorse la fanciullezza e la gioventù. Egli li contempla oggi, li contempla domani, li contempla fin che dura l’esilio. Il suo occhio è su questi luoghi, ma la sua mente, e il suo cuore sono rivolti alla patria lontana. Quante circostanze ricordano al Cristiano Gesù Cristo, senza che a Lui rivolga un pensiero duraturo, senza che si commuova un istante. Vuol dire che egli professa la fede in Gesù Cristo a fior di labbra, ma non lo ama. Se lo amasse, i suoi pensieri e i suoi affetti sarebbero rivolti a Lui un po’ più frequentemente: « Poiché dov’è il tuo tesoro là v’è anche il tuo cuore» (Matt. VI, 21.). La lingua batte dove il dente duole — dice un proverbio — e Gesù Cristo afferma che: « La bocca parla dalla pienezza del cuore » (Matt. XXII, 34). Chi odia una persona ne parla continuamente per metterla in cattiva vista e per farne risaltare i difetti. Chi ama una persona ne parla continuamente per metterne in evidenza i meriti e, così, farla amare dagli altri. Dall’abbondanza del cuore parlava la profetessa Anna, quando, avendo visto Gesù che era stato presentato al tempio, comunicava il suo entusiasmo agli altri «… e parlava di Lui a quanti aspettavano la liberazione in Gerusalemme » (Luc. II, 38). Dall’abbondanza del cuore parlavano Pietro e Giovanni, i quali al Sinedrio che proibiva loro di non parlar più ad alcuno in nome di Gesù Cristo, rispondono: «Noi non possiamo non parlare di quello che abbiam visto e udito» (Act. IV, 21). Il Salmista, costretto a star lontano dal Santuario di Gerusalemme, arde dal desiderio di poter ritornare in quel luogo santo a godervi la presenza di Dio. E dal cuore gli salgono alle labbra i commossi accenti : «L’anima mia ha sete del Dio forte e vivo: quando verrò e comparirò davanti al cospetto di Dio?» (Ps. XLI, 5), Gesù Cristo, nostro Dio, è là nel tabernacolo; ma quanti hanno sete di lui? quanti si danno premura di comparire al suo cospetto? Egli è là nel tabernacolo ed attende i Cristiani che vadano a trovarlo; pronto a riceverli, ad ascoltare le loro confidenze, a lenire i loro dolori, e la maggior parte dei Cristiani non se ne cura. Quanti varcano la soglia del tempio per andare a far visita a Gesù? Quando le visite agli amici si fanno rare, è segno infallibile che l’amore va diminuendo; quando cessano, l’amore è spento. Si può dire che ami Gesù, che abbia fede in Lui, quel Cristiano che non va mai a trovarlo? Non solo si deve confessare che Gesù Cristo è il Figlio di Dio; ma come tale va onorato e amato; « e tanto più degnamente dev’essere amato dagli uomini, quanto più Egli per gli uomini sostenne cose indegne » (S. Gregorio Magno. Hom. 6, 1).

3.

E da Dio abbiamo ricevuto questo comandamento: che chi ama Dio ami anche il proprio fratello. È tanto importante questo comandamento, che Gesù Cristo l’ha comparato al primo ed al più grande dei comandamenti. « Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, e con tutta la tua mente; questo è il più grande e il primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Matt. XXII, 37-39); disse Egli un giorno a un dottore della legge.Non si tratta di un semplice consiglio; ma di un comando molto chiaro, al quale nessuno può sottrarsi. Amor di Dio e amor del prossimo non possono disgiungersi. Ove c’è amor di Dio deve necessariamente esserci l’amor del prossimo. Anzi l’amor del prossimo è la prova e la dimostrazione dell’amor di Dio. Nel prossimo noi abbiamo sotto gli occhi l’immagine di Dio, e quando facciamo del bene al prossimo non possiamo allontanare il pensiero da Dio. Quando nei fratelli consideriamo riflessa l’immagine di Dio non diamo peso ai loro demeriti; nulla ci costa mettere un velo sui nostri occhi per non vederne i difetti; e poco ci costa chiudere gli orecchi alle accuse che muovono dal nostro amor proprio. E per questo, tanto più riesce efficace il conforto che si porta agli infelici, quanto più chi benefica innalza la mente a Dio.Il Padre Kronenburg, Redentorista, andò un giorno al lebbrosario di Batavia. Fu subito preso da meraviglia al vedersi salutato da tutti i lebbrosi in modo festivo e a vedere sul volto di tutti un’aria sorridente. Un negro dai diciotto ai diciannove anni, con le labbra rose della malattia dichiara a quanti l’interrogano, di essere felice. Un medico ebreo gli domanda: Sei contento? — « Oh!— risponde — sono contento come un re ». — «Perché mai? » — « Prima non avevo nessuno che mi fasciasse le piaghe; adesso le Suore me le fasciano tre volte al giorno con molta premura. Prima mi si buttava un pezzo di pane, ora mi si dà da mangiare a piacimento più volte al giorno ». — Non vuoi dunque ritornare a casa? » —Ah! giammai ». Intanto da un’altra parte gli uomini innalzano giulivi un cantico di speranza: «Il Cielo! IlCielo! Il Cielo è nostro premio! » (Der Katholishen Missionen. Friburg, 1903, p. 249).  Miracoli che compie la carità cristiana che nel prossimo ama Dio. Come il re viene onorato o disprezzato nella sua immagine, così Dio è amato o odiato nell’uomo. Di ciascun uomo, anche se per avventura ci odiasse, noi dobbiamo dire: « Riconosco in te l’immagine del mio padre » (S. Agost. Serm. 357, 4). Se noi non amiamo l’uomo, non amiamo Dio, di cui l’uomo è immagine. E come l’amor del prossimo è la prova che amiamo Dio, la mancanza dell’amor del prossimo è la prova che non amiamo Dio. Non si ama il padre quando si disprezza il figlio. E « non è uno solo il Padre di tutti noi? Non è un solo Dio quegli che ci ha creato? » (Malach. II, 10). Perché dunque non ameremo i nostri fratelli? Amiamoli sinceramente. Poiché, chi non ama il suo fratello che vede, come può amare Dio che non vede?

Graduale


Dan III: 55-56
Benedíctus es, Dómine, qui intuéris abýssos, et sedes super Chérubim,
V. Benedíctus es, Dómine, in firmaménto cæli, et laudábilis in sǽcula. Allelúja, allelúja.
Dan III: 52
V. Benedíctus es, Dómine, Deus patrum nostrórum, et laudábilis in sǽcula. Allelúja.

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Matthǽum
Matt XXVIII: 18-20
In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Data est mihi omnis potéstas in cœlo et in terra. Eúntes ergo docéte omnes gentes, baptizántes eos in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti: docéntes eos serváre ómnia, quæcúmque mandávi vobis. Et ecce, ego vobíscum sum ómnibus diébus usque ad consummatiónem sǽculi.

OMELIA II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XXIX

“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Siate misericordiosi, come anche il Padre rostro è misericordioso. Non giudicate, e non sarete giudicati: non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarà a voi perdonato. Date e sarà dato a voi: misura giusta, e pigiata e scossa, e colma sarà versata in seno a voi: perché con la stessa misura, onde avrete misurato, sarà misurato a voi. Diceva di più ad essi una similitudine: È egli possibile, che un cieco guidi un cieco? non cadranno essi ambedue nella fossa? Non v’ha scolaro da più del maestro: ma chicchessia sarà perfetto, ove sia come il suo maestro. Perché poi osservi tu una pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, e non badi alla trave che hai nel tuo occhio? Ovvero come puoi tu dire al tuo fratello: Lascia, fratello, che io ti cavi dall’occhio la pagliuzza, che vi hai: mentre tu non vedi la trave, che è nel tuo occhio? Ipocrita, cavati prima dall’occhio tuo la trave: e allora guarderai di cavare la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. (Luc. VI, 36-42).

Una delle più belle prove della somma bontà del nostro divin Redentore sono certamente le calde raccomandazioni, che Egli fece più volte della bontà, della misericordia, della carità, la quale Ei vuole da tutti esercitata verso del prossimo, perché essendo Egli buono verso tutti, vuole parimenti che tutti lo siano. Dopo dell’amor di Dio, di null’altra cosa Gesù così spesso ragiona, quanto della bontà di cuore, della compassione degli uni verso gli altri, cioè del vicendevole amore. La sua legge è legge d’amore. E questa legge Egli la promulgò massimamente in un tratto del celebre discorso fatto sul monte ai suoi discepoli e ad una gran turba di popolo: tratto che la Chiesa ci invita a considerare nel Vangelo di questa domenica.

1. Disse adunque Gesù: Siate misericordiosi, come anche il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate, e non sarete giudicati: non condannate e non sarete condannati. Et reliqua …

Ecco adunque gli ammaestramenti che Gesù Cristo ci dà nel Vangelo di quest’oggi riguardo alla carità fraterna. In sostanza, come avete ascoltato, Gesù Cristo con le sue divine parole ci comanda di esercitare la carità verso del prossimo nei pensieri, nelle parole e nelle opere. Ed anzi tutto ci comanda di esercitare la carità nei pensieri, proibendoci di fare contro del nostro prossimo dei giudizi temerari. Non vogliate giudicare, Egli dice, e non sarete giudicati. I giudizi temerari sono quelli, in cui noi teniamo per certo che il nostro prossimo sia colpevole di qualche fallo, benché non ne siamo sicuri in modo da non poterci ingannare. E si chiamano temerari tali giudizi, perché gli uomini che li fanno non sono giudici gli uni degli altri, e giudicando usurpano l’ufficio del Salvatore; temerari, perché la malizia principale del peccato dipende dall’intenzione e dal consiglio del cuore, che noi troppo difficilmente possiamo conoscere; temerari, perché ognuno ha che fare, per giudicar sé medesimo, senza prendere a giudicar il suo prossimo. E donde mai hanno origine cotesti giudizi? Ecco. Alcuni giudicano temerariamente per superbia, dandosi a credere di rialzare l’onor proprio, a misura che deprimono gli altri. Sono spiriti arroganti e presuntuosi, i quali ammirano sé medesimi e pongono tanto in alto la propria stima, che riguardano tutto il resto come cosa piccola e bassa. Io non sono come gli altri uomini, diceva lo sciocco fariseo. Altri non hanno questa manifesta superbia, ma hanno tuttavia una certa compiacenza nell’osservare l’altrui male, affine di far ammirare di più agli altri il bene opposto, di cui essi si stimano dotati. Parecchi altri poi in preda alla correzione del cuore, per lusingarsi e scusarsi interamente e per mitigare i rimorsi delle loro coscienze, giudicano essi volentieri, che gli altri sian presi dello stesso vizio, a cui essi sono dediti, o da qualche altro ugualmente grande, pensando che la moltitudine dei colpevoli renda men biasimevole la loro colpa. Non mancano neppur di coloro che fanno giudizi pel solo piacere, che prendono a filosofare ed indovinare i costumi e le inclinazioni delle persone, come per esercizio d’ingegno. Finalmente l’ambizione, l’invidia, la gelosia, l’avversione sono pur esse altrettante cause, da cui originano i giudizi temerari. Or bene non basta riguardare alle sorgenti avvelenate di questi giudizi per comprenderne la gravità? Del resto considerate quale colpa sarebbe, se voi distruggeste la riputazione del vostro fratello nella mente di un altro, e se denigrandolo presso di lui, veniste a rovinare tutta la stima e tutta la buona opinione, che ne aveva. Ora non minore è l’ingiuria che voi gli fate, quando senza motivo o senza alcuna prova sufficiente, concepite di lui nella mente vostra una falsa idea, perché egli non desidera meno di conservare la sua buona riputazione presso di voi che presso di un altro. Dite, o miei cari, non vi offendereste voi, quando sapeste che altri ha concepito di voi una cattiva opinione? Pertanto giudicate degli altri da voi medesimi, e non penerete a rilevare il male, che vi ha nel giudizio temerario. Comprendete adunque perché oggi Gesù Cristo ci dica: Nolite iudicare et non iudicabimini: non vogliate giudicare, e non sarete giudicati; animandoci per tal guisa ad evitare i giudizi temerari col pensiero dell’immenso vantaggio, che ne ritrarremo, del non essere poi severamente giudicati da Dio.Ma per mettere in pratica questo gran precetto di Gesù Cristo conviene combattere costantemente in noi lo spirito di superbia, di invidia, di ambizione, di odio, e riempierci, più che è possibile, l’anima della carità cristiana. Essa ci libererà da quei cattivi umori, che in noi son causa di tali storti giudizi. La bella virtù della carità è così lontana dall’andar in cerca del male, che ha persin timore di incontrarlo. Essa, come dice l’Apostolo, non pensa mai malamente. Ed è perciò l’unico rimedio potente, a cui dobbiamo appigliarci. Il giudizio temerario è una specie d’itterizia spirituale, la quale fa comparir tutte cattive le cose agli occhi delle persone che ne sono prese; ma chi vuol guarirne bisogna che applichi il rimedio non agli occhi, ma bensì al cuore, agli affetti dell’anima. E così se i nostri affetti saranno piacevoli, sarà piacevole il nostro giudizio, se caritatevoli, anche il nostro giudizio sarà pieno di carità.

2. In secondo luogo nel Vangelo d’oggi Gesù Cristo ci comanda la carità fraterna nelle parole, vietandoci ogni maldicenza contro del nostro prossimo col dirci: Non condannate e non sarete condannati. Come puoi tu dire al tuo fratello: Lascia, fratello, che io ti cavi dall’occhio la pagliuzza che vi hai, mentre tu non vedi la trave, che è nel tuo occhio? – La maldicenza è una specie di omicidio: perché noi abbiamo tre vite: la spirituale che consiste nella grazia di Dio, la corporale che consiste nell’anima, la civile che consiste nella reputazione. La prima ci è tolta dal peccato, la seconda dalla morte, la terza dalla maldicenza. Se non che il maldicente con un sol colpo della sua lingua cagiona per ordinario tre morti; uccide spiritualmente l’anima sua, e quella di chi lo ascolta, e toglie la vita civile a colui del quale egli sparla. Per il che, al dire di S. Bernardo, il maldicente e chi l’ascolta, hanno ambedue il diavolo addosso, il primo nella lingua e il secondo nell’orecchio. Davide parlando dei maldicenti, dice così: Hanno appuntato le loro lingue come un serpente. Dicono taluni che il serpente ha la lingua bipartita; ma comunque sia la cosa, certo è, che è tale quella del maldicente, il quale con un sol colpo ferisce ed avvelena l’orecchio della persona che l’ascolta, e l’onore di quella, di cui si ragiona. – Tra i maldicenti poi coloro, che alle loro maldicenze mandano innanzi preamboli onorevoli, o vi intrecciano qualche piccola leggiadra facezia, sono i maldicenti più fini e più velenosi di tutti. Ah! dice taluno, al tale io voglio bene, perché alla fin fine è un’ottima persona, ma bisogna nondimeno dire il vero: ha fatto male a commettere quella tale azione. Quel giovane è virtuosissimo, dice un altro, ma già i capitomboli li fanno sempre quelli, che stanno più in alto; ed è così che il poveretto è caduto, e altrettante introduzioni. Or non vedete qui l’artifizio? Chi vuol tirar d’arco, trae quanto può la freccia verso di sé, ma non ad altro fine che per scoccarla con maggior forza. Così sembra che costoro tirino indietro o riducano ad una facezia innocente la loro maldicenza, ma non lo fanno per altro, che per vibrarla con più vigore, onde penetri maggiormente nei cuori degli ascoltanti. Difatti mentre la maldicenza, che è entrata sola da un orecchio, uscirebbe presto dall’altro, quando invece è preceduta da proteste di amore e di stima ed è presentata sotto il velo di qualche sottile e faceta espressione, s’imprime assai più in chi l’ascolta. Epperò di questi maldicenti Davide dice che hanno il veleno dell’aspide nelle labbra. L’aspide fa una ferita pressoché impercettibile e il suo tossico produce sulle prime un prurito piacevole, per cui il cuore e le viscere dilatandosi ricevono il veleno, contro il quale non c’è più rimedio. Così queste maldicenze artificiose e raffinate producendo alle volte un certo gusto in coloro che le ascoltano, avvelenano non di meno il loro cuore e lasciano in esso la cattiva stima per il prossimo, la quale molto difficilmente si muta poi in buona. Vi ha poi una maldicenza che più d’ogni altra è grave, ed è quella rivolta contro di coloro, che per qualsiasi ragione sono a noi superiori; perciocché le maldicenze, le mormorazioni e i biasimi diretti contro i superiori cadono sopra Iddio stesso. Come ubbidendo ai superiori, noi ubbidiamo a Dio, ch’essi rappresentano, e di cui tengono il luogo, così quando offendiamo con le nostre parole il rispetto dovuto ai superiori, offendiamo il rispetto, che dobbiamo a Dio medesimo. Perciò il Salvatore dopo aver detto dei superiori: Chi ascolta essi ascolta me, aggiunse subito: Chi disprezza essi, disprezza me. San Paolo ci dice similmente: Ogni potestà viene da Dio, e però chi resiste alla potestà, resiste all’ordine di Dio. Infine, la Scrittura è piena di passi che confermano questa verità. D’altronde i castighi straordinari con cui Iddio ha così sovente punito le offese e le mormorazioni contro i superiori, ci provano quale interesse Egli prenda a tutto ciò che li riguarda, e come della lor causa Egli faccia la sua propria causa. Da quale orribile punizione non fu mai seguita la mormorazione di Core, Dathan e Abiron contro Mosè ed Aronne, ai quali essi rimproveravano di prender troppa autorità nel governo del popolo! La terra si aprì sotto i loro piedi, e li inghiottì vivi con le loro famiglie e con tutte le loro ricchezze, ed il fuoco del cielo divorò duecento e cinquanta uomini per aver seguito il loro partito. S. Tommaso osserva a questo proposito che Dio castigò più rigorosamente coloro che avevano mormorato contro i loro superiori, che non quelli i quali avevano offeso Lui stesso direttamente, adorando il vitello d’oro. Gli Israeliti, avendo mormorato in un’altra circostanza contro Mosè ed Aronne, Dio tosto mandò dei serpenti, i quali ne fecero morire un gran numero. Poco mancò un’altra volta, che Dio sterminasse tutto quel popolo in occasione di nuove mormorazioni, ch’ei fece al ritorno di coloro i quali erano stati inviati per esplorare la terra promessa. Egli lo perdonò alla preghiera di Mosè, ma non perdonò già a coloro, i quali erano stati causa della mormorazione. Essi, dice la Scrittura, furono puniti di morte alla presenza del Signore. Maria, sorella di Mosè, non fu ella pure punita per aver mormorato contro suo fratello? Dio la colpì con una lebbra orribile, e non volle né guarirla, né perdonarla, non ostante le preghiere di Mosè, prima che fosse stata sette giorni fuori del campo, separata da tutto il rimanente del popolo. Se tali pertanto sono i castighi che Dio infligge a coloro che si fanno audacemente a criticare le azioni e le disposizioni dei loro superiori, non è egli vero, che questo mancamento torna a Lui di grave dispiacere, e che perciò dobbiamo attentamente guardarcene? Sì, evitiamo assolutamente di mormorare contro i nostri superiori. Ma non solo contro dei superiori: guardiamoci ancora da ogni maldicenza contro qualsiasi dei nostri fratelli. Sì, mettiamo il massimo impegno per non mormorare mai né direttamente, né indirettamente d’alcuno: guardiamoci dall’imputar falsi delitti e peccati al prossimo, dallo scoprir quelli che son segreti, dall’ingrandir quelli che son manifesti, dall’interpretar in male un’opera buona, dal negar quel bene che sappiamo trovarsi in qualcuno, dal dissimularlo maliziosamente, o sminuirlo con le parole; perché in tutte queste maniere col nostro parlare ingiurioso del prossimo offenderemmo Iddio grandemente, ed un giorno ne saremmo severamente condannati, conforme allo spirito della sentenza di questo Vangelo: non vogliate condannare e non sarete condannati: nolite condannare et non condemnabimini. E quando vi accadesse di sentire a parlar male degli altri, mettete in forse l’accusa, se giustamente potete farlo; se non potete, scusate l’intenzione dell’accusato; se neppur questo può farsi, mostrate di compassionarlo o divertite altrove il discorso, ricordando a voi stessi e facendo che si ricordino gli altri, che è troppo facile il veder la pagliuzza uell’occhio del fratello e non veder la trave che sta nel proprio, e che quei che non cadono in errore, devono riconoscer tutto dalla grazia di Dio. Anzi usate qualche soave maniera, onde il maldicente rientri in se stesso, e dite qualche altra enea in vantaggio della persona offesa, se ne sapete. Per tal modo impedirete del male e farete del bene.

3. Finalmente Gesù Cristo ci raccomanda oggi la carità nelle opere. Siate misericordiosi, dice egli, come anche il Padre vostro è misericordioso. Date e sarà dato a voi; misura giusta, e pigiata, e scossa, e colma sarà versata in seno a voi; perché con la stessa misura, onde avrete misurato, sarà misurato a voi. E questo precetto della elemosina così chiaro, così positivo, che il Divin Redentore  ci dà con queste parole, è pure il precetto, che tante altre volte ripete nel santo Vangelo. Ed invero altrove dice: « Ciò che sopravanza ai vostri bisogni datelo ai poveri. Chi ha due vesti ne dia una al bisognoso, e chi ha già oltre il necessario, ne faccia parte a chi ha fame ». Altrove ci assicura, che quanto facciamo pei poveri, Egli lo considera fatto a sé medesimo. « Tutto quello, dice Gesù Cristo, che farete ad uno dei miei fratelli più infelici, lo avete fatto a me. Desiderate poi che Dio vi perdoni i peccati e vi liberi dalla morte eterna? Fate limosina. Volete impedire che la vostra anima vada alle tenebre dell’inferno? Fate limosina ». Insomma ci assicura Iddio che la limosina è un mezzo efficacissimo per ottenere il perdono dei peccati, farci trovare misericordia agli occhi di Dio e condurci alla vita eterna. Perciò il santo Tobia diceva a suo figlio queste memorabili parole: « Fa limosina secondo la tua sostanza, e non mai rivoltare la faccia da alcun povero; perché così avverrà, che neppure la faccia del Signore sia rivoltata da te. Sii misericordioso nel modo che potrai. Se hai molto, dà in abbondanza, se hai poco, dà quel poco, che potrai, ma volentieri, imperciocché la limosina ti sarà un premio che ti guadagnerai, e ti sarà poi un tesoro dinanzi a Dio nel giorno della necessità. Ricordati, o figlio, che Iddio ama colui che dà volentieri ». Adunque, o miei cari, quando potete, fate volentieri qualche elemosina anche voi. Ma forse voi direte: Noi non abbiamo ricchezze, e siamo in condizione da non poter fare elemosina. Ma in questo caso dovrete richiamare alla mente che qualunque opera di misericordia o temporale o spirituale esercitata verso il prossimo è una elemosina. Non vi sono adunque persone inferme da visitare, da assistere e vegliare? Non vi sono amici da ammonire, dubbiosi da consigliare, afflitti da consolare, risse da calmare, ingiurie da perdonare? Vedete con quanti mezzi voi potete fare limosina e meritarvi la vita eterna! Di più: non potete voi fare qualche preghiera, qualche confessione e comunione, recitare un Rosario, ascoltare una Messa in suffragio delle anime del purgatorio, per la conversione dei peccatori, o perché siano illuminati gl’infedeli e vengano alla fede? – Ma qui notiamo bene che Gesù Cristo vuole che noi esercitiamo la misericordia con grande rettitudine d’intenzione, vale a dire secondo il suo spirito e non secondo lo spirito del mondo. È egli possibile, dice Gesù Cristo, che un cieco guidi un cieco? non cadranno ambedue nella fossa? Non v’ha scolaro da  più del maestro, ma chicchessia sarà perfetto ove sia come il suo maestro. Colui che nell’esercitare la misericordia verso il prossimo si lascia guidare dallo spirito del mondo è un povero cieco che pretende di essere guidato da un altro cieco. Perciocché il mondo riguardo alla misericordia è cieco; non vede propriamente che essa sia una virtù cristiana; la riguarda solo come una virtù umana, cui dà il nome di filantropia, epperò anima ad essa unicamente con motivi umani, di acquistarsi un gran nome, di essere ammirati, di evitare dei danni, e simili. Chi pertanto si lascia guidare da questo spirito mondano nella misericordia verso il prossimo finirà per cadere nella fossa, in cui cadranno tutti i mondani, vale a dire le sue opere di misericordia a nulla gli gioveranno per l’altra vita e non ostante le medesime, andrà tuttavia all’eterna perdizione. Ma colui invece, che farà opere di misericordia con buono spirito, cioè per amor vero di Dio, per farsi dei meriti per il cielo, seguendo gli esempi di Gesù Cristo suo divino Maestro, se non arriverà giammai ad eguagliare la carità di Lui, avrà tuttavia quella perfezione che rassomiglia a quella di Lui, e perciò sarà un giorno grandemente lodato e premiato da Dio. No, non vi ha discepolo da più del maestro, ma chicchessia sarà perfetto, se sarà come il suo maestro. Coraggio adunque, secondo lo spirito di Gesù Cristo mettetevi con grande impegno ad esercitare la misericordia verso il prossimo, stampando bene nella vostra mente quello che dice ancora Gesù Cristo nel Santo Vangelo: Con la stessa misura, con cui avrete misurato agli altri, sarà misurato a voi; epperò siamo misericordiosi come è misericordioso il nostro Padre celeste.

Credo

Credo in unum Deum, Patrem omnipoténtem, factórem coeli et terræ, visibílium ómnium et in visibílium. Et in unum Dóminum Jesum Christum, Fílium Dei unigénitum. Et ex Patre natum ante ómnia saecula. Deum de Deo, lumen de lúmine, Deum verum de Deo vero. Génitum, non factum, consubstantiálem Patri: per quem ómnia facta sunt. Qui propter nos hómines et propter nostram salútem descéndit de coelis. Et incarnátus est de Spíritu Sancto ex María Vírgine: Et homo factus est. Crucifíxus étiam pro nobis: sub Póntio Piláto passus, et sepúltus est. Et resurréxit tértia die, secúndum Scriptúras. Et ascéndit in coelum: sedet ad déxteram Patris. Et íterum ventúrus est cum glória judicáre vivos et mórtuos: cujus regni non erit finis. Et in Spíritum Sanctum, Dóminum et vivificántem: qui ex Patre Filióque procédit. Qui cum Patre et Fílio simul adorátur et conglorificátur: qui locútus est per Prophétas. Et unam sanctam cathólicam et apostólicam Ecclésiam. Confíteor unum baptísma in remissiónem peccatórum. Et exspécto resurrectiónem mortuórum. Et vitam ventúri sæculi. Amen.

Secreta

Sanctífica, quǽsumus, Dómine, Deus noster, per tui sancti nóminis invocatiónem, hujus oblatiónis hóstiam: et per eam nosmetípsos tibi pérfice munus ætérnum. [Santífica, Te ne preghiamo, o Signore Dio nostro, per l’invocazione del tuo santo nome, l’ostia che Ti offriamo: e per mezzo di essa fai che noi stessi Ti siamo eterna oblazione.]

Communio

Tob XII: 6
Benedícimus Deum cœli et coram ómnibus vivéntibus confitébimur ei: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. [Benediciamo il Dio dei cieli e confessiamolo davanti a tutti i viventi: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Postcommunio

Orémus.
Profíciat nobis ad salútem córporis et ánimæ, Dómine, Deus noster, hujus sacraménti suscéptio: et sempitérnæ sanctæ Trinitátis ejusdémque indivíduæ Unitátis conféssio.
[O Signore Dio nostro, giòvino alla salute del corpo e dell’ànima il sacramento ricevuto e la professione della tua Santa Trinità e Unità.]