LO SCUDO DELLA FEDE (269)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

RISPOSTE POPOLARI ALLE OBIEZIONI PIU’ COMUNI CONTRO LA RELIGIONE (12)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO XII.

FEDE

I. Io non posso credere. II. Mi bastano le verità naturali. III. La mia ragione non può ammettere altro.

Che ci voglia una religione, sia pure in buon’ora, ma sia la religione che insegna la stessa natura. Alla contemplazione dei cieli e della terra, delle campagne, dei fiori, delle marine surgono naturalmente nell’uomo di vani affetti: la mente è rapita in estasi di ammirazione, il cantico dell’amore si sprigiona dal cuore, l’inno di ringraziamento sale come incenso al cielo; ed ecco la religione. A che dunque metterci sempre dinanzi la vostra fede che è lo scoglio, la morte, l’annientamento di quella nobil ragione che il Signore ci ha data? Io per me non posso credere, non posso riconoscere la vostra soprannaturalità, ed è la mia ragione stessa che ne lo vieta. – Così discorrono certe teste romantiche ed irreligiose: ma con quanto onore di quella ragione che tanto vantano, ora lo vedremo.

I. Prima di tutto, dicono, io non posso credere: ma hanno costoro mai compreso una volta ed un po’ chiaramente quello che sia la fede? Ecco, o lettore, la prima cosa che si vuol discorrere un istante. La fede, in quanto oggetto delle nostre credenze, non è altro che una serie, una collezione preziosa di verità che Iddio, veracità infinita, si è compiaciuto di palesare agli uomini: la fede, in quanto è in noi, non è altro che l’assenso dell’intelletto a quelle medesime verità: assenso prestato sull’autorità di Dio medesimo che le ha rivelate: ondeché credere non è altro che prestare assenso ad un Dio che parla. – Ora io vi domando, qual è in questo atto così semplice il punto sì arduo che voi non potete superare? Qual è quello intorno a cui la vostra ragione urta sì gravemente? Forse la vostra ragione v’insegna che Dio non possa parlare agli uomini? Ma sarebbe pur bella che quegli, che ha formato l’uomo, che gli ha dato la favella, non potesse far intendere la sua voce e la sua volontà. A niuno, credo, cadde mai in mente pazzia così solenne. Forse non conviene a Dio il parlare? Ma qual ragione, anche solo apparente, può persuadere che disconvenga a chi ha formato l’uomo l’averne anche provvidenza, e rifornirlo di tutte quelle cognizioni ed ammaestramenti che possono tornargli giovevoli? Sarebbe un paradosso l’affermarlo. Forse manca a Dio il diritto per farlo? Ma questo sarebbe più che un paradosso, sarebbe una bestemmia. Imperocché, come fonte di tutti gli esseri, Egli ha pieno diritto d’imporre ad ogni uomo i suoi voleri, senzaché vi sia in cielo od in terra chi possa appellare dalla sua suprema autorità. Certo la ragione vostra non potrà mai persuadervi alcuna di quelle storture, niuno di que’ deliri. Fin quì dunque non si vede troppo perché, in nome della vostra ragione, non possiate credere. – Resterebbe dunque che ciò avvenisse per una di queste due ragioni, o perché non siate certo che Dio abbia parlato, o perché, essendo certo che Dio ha parlato, possiate sospettare della sua veracità. Questa seconda supposizione, oltre all’esser empia, è così assurda, che mai nessuno né eretico né incredulo osò affermarla; non vo’ dunque fare al mio lettore il torto di confutarla: ci riduciamo adunque alla prima, del non essere voi ben certo se poi veramente Iddio abbia parlato. – Il proporre e spinger oltre questa difficoltà proviene solo dal non conoscere in qual modo ci sia proposta ad esercitare la fede. Presupponete dunque che nell’esercizio di essa vi sono due atti: l’uno è l’atto del credere, l’altro di voler credere. Il primo atto è dell’intelletto, il quale si sottopone all’autorità di Dio che parla, l’altro è l’atto della volontà, la quale comanda, dirò così, all’intelletto che si sottoponga. Ciascuno di questi due atti ha il proprio motivo. L’atto dell’intelletto ha per motivo l’autorità di Dio che parla, l’atto della volontà ha per motivo tutte quelle prove, per cui ci appare fuori di ogni dubbio che Dio abbia parlato. Così in una corte si crede a quello che dice un. ambasciatore, perchè è ambasciatore : ma the egli sia tale non si crede se non perché ha mostrato le sue credenziali. Ora la nostra fede ci nasconde forse le credenziali, vo’ dire le prove che dimostrano che è un Dio quello che ha parlato, che è quel solo che possiamo chiedere ragionevolmente? Tutto l’opposto: ce le schiera dinanzi e belle e limpide ed evidenti, ed in tanto gran numero che si può dire che non solo siano bastevoli ma pur soverchie: Testimonia tua credibilia facta sunt nimis. – Sarebbe lungo il mettervele qui tutte in nota e spiegarle in tutta lor forza, perché non basterebbero ampi volumi: tuttavia ricordate così in confuso che a provare che Cristo è Dio, e che quindi è un Dio che ha parlato, vi sono quaranta secoli di oracoli e profezie che, raccolte insieme, formano tutta la vita del Redentore, ed autentiche per testimonianze dei Gentili non meno che dei Giudei; che vi è la vita stessa di Gesù piena di prodigi strepitosissimi operati in confermazione dì tal verità; che vi è la propagazione e la conservazione del Cristianesimo, ottenuta per mezzi che umanamente dovevano anzi spegnerlo e metterlo in fondo; che vi è una cattedra di verità da Lui eretta, ed inconcussa ed immota dopo diciannove secoli di lotte e contraddizioni; che vi è in favore di tal verità la testimonianza di legioni intere di Martiri e l’eletta degli ingegni più preclari che abbia avuto il mondo: che se dopo tante prove il mondo fu ingannato, l’errore è partito dal trono della stessa divinità. Vedete adunque che la nostra fede non lascia di rischiararci in quel solo punto che può ragionevolmente chiamarsi ad esame. Ma dopo che ha bene stabilito che Dio ha parlato, ci fa poi forse torto a pretendere che noi ci sottomettiamo a quello che un Dio ha manifestato? Sarebbe un oltraggio gravissimo il non arrendersi prontamente ad ogni sua parola. Anche voi che siete un omiciattolo della terra vi avete per male che alcuno mostri di non credervi, quando favellate da senno: eppure potreste anche allora voler ingannare per malizia, poiché siete capace di colpa, od essere ingannato per ignoranza, perché siete fallibile. Fate ragione adunque se competa a Dio l’esser creduto sulla parola, mentre Egli è suprema verità in sé stesso; e veracità infinita rispetto a noi. Resta adunque evidente che non è per verun modo contrario alla nostra ragione che Dio ci obblighi a credere, e che quindi quel non posso credere altro non è che un superbo non voglio piegarmi alla divina autorità.

II. Io ho bisogno, replicano, di altre verità; mi basti quello che la mia ragione m’insegna. Questa replica è sacrilega e blasfema per ogni verso. Basta a voi.., ma non si tratta di vedere quello che basta a voi, si tratta di quello che basta a Dio. E se Dio volesse per sua bontà manifestarvi verità, cui non può arrivare la vostra ragione, vi darebbe l’animo di rifiutarle e gettargliele sul volto? E se Dio volesse colla sua autorità imporsi obbligazioni, e darvi precetti che non può naturalmente conoscere la vostra ragione, avreste mai qualche diritto di sottrarvici? Ebbene questo appunto è accaduto. Gesù Cristo volle manifestarvi che il fine ultimo degli uomini non è una felicità qualunque, ma una beatitudine consistente nella visione chiara di Lui; che per conseguirla ci volevano opere fatte in istato di grazia; che per ottenere queste grazie s’aveva da credere al divin Redentore, che Egli aveva legato i mezzi della salute ad un sacrificio determinato ed a riti speciali che chiamiamo Sacramenti; che in una società sola, qual è la Chiesa, sono accolti tutti i mezzi della salute; che Egli non avrebbe riconosciuti per suoi se non quelli che fossero vissuti conformemente a queste sue leggi; che avrebbe condannato a fiamme eterne quanti non si fossero arresi a’ suoi dichiarati voleri; ha dilatato, in una parola, i confini della natura, ha perfezionata la ragione, ha sublimato l’uomo, l’ha innalzato per grazia alla dignità di figliuolo di Dio, l’ha fatto Dio per partecipazione, e vuole che viva ed operi siccome tale: non ha forse diritto a tutto ciò? Sto a vedere che l’uomo ormai farà la legge a Dio, e che gli prescriverà quello che basta e quello che non basta, che porrà limiti alle comunicazioni divine, che farà le Condizioni sotto cui si contenta di accettarle! Quando avete questi diritti potevate anche crearvi da voi, da voi conservarvi, da voi provvedervi, e formarvi da voi l’ultima beatitudine: così sarebbe compiuta la vostra indipendenza. Il ridicolo non è qui congiunto col blasfemo? – E tuttavia v’è da fare un passo più oltre. La fede non solo non è in opposizione colla ragione, ma anzi le è conformissima. E come no, se noi per mano di natura siamo condotti a non vivere se non di fede, accíocché l’essere lungamente avvezzi alla fede umana ci prepari a quella tanto più nobile che è la divina? L’osservazione è di antichissimi Padri e di molti tra i moderni, e voi la potete fare a vostro agio. Che cosa è tutta la nostra infanzia e gioventù se non un credere cieco ai genitori, un fidarci sicuro ai maestri? Che cosa è il commercio intimo della vita se non un credere perpetuo agli uomini? Cominciando dal credere che questi e non altri sono i nostri genitori, crediamo al servo che così s’ha da lavorare, al cuoco che così s’hanno da governare le vivande, all’artiere che così si ha da condurre l’opera, al contadino che così si ha da arare il campo, al leggista che così abbiamo da racconciare i nostri interessi, al medico che così abbiamo da trattare la nostra infermità, e crediamo tanto che giungiamo a mettere loro in mano le nostre sostanze, i nostri interessi e persino la nostra vita: non è vero? Ora comprendiamo noi forse le ragioni intime dell’operare di tutti costoro? Niuno v’ha al mondo che possa promettersi tanto di sé: crediamo che ognuno in particolare sappia quello che si fa, e noi ci sottomettiamo pienamente. E chi volesse prima di accettare l’opera di alcuno •farsi dar conto di ogni motivo della sua condotta, sarebbe stimato un pazzo, e trattato qual pazzo da tutta la società. E con tutto ciò non si è mai inteso che fosse contrario alla nostra ragione l’aver sempre in atto la fede umana? Se già non si vogliono condannare come irragionevoli tutti gli uomini, non certo. Ma se non è contrario alla ragione il credere agli uomini, perché sarà contrario alla ragione il credere a Dio? Oh che? Saremo di una natura per quello che risguarda le cose terrene, e di un’altra per le celestiali? Chi sa che non si faccia un bel giorno anche questa scoperta. Finché però non è fatta, noi continueremo a credere che la nostra ragione abbia nulla di ragionevole da opporre alla fede. – Anzi più, tanto crederemo ragionevole la fede che stimeremo cosa al tutto da pazzi il rifiutarvisi. Se non vi farò toccare con mano che sia così, non mi date più retta. Non è egli vero che è ugualmente assurdo il credere quando non vi è fondamento di credere, ed il non credere quando questo fondamento vi è? La sana ragione condanna il primo perché è troppo credulo, perché beve grosso: ma condanna anche l’altro perché è capocchio, è ostinato. Difatti immaginate che io ricusassi di credere che esista l’America perché ormai non vi ho navigato, o che non sia stato al mondo il primo Napoleone perché mai non l’ho veduto, che concetto fareste di me? Senza farmi gran torto, mi potreste confinare all’ospedale dei pazzi. Come! È piena l’Europa dei prodotti dell’America, vi sono fra noi degli Americani, molti de’ nostri concittadini l’hanno percorsa, e se ne può dubitare? Similmente abbiamo tutta la storia di quell’Imperatore minutamente descritta, sono al mondo anche molti che lo hanno veduto, persino i fanciulli sanno a mente i nomi di Marengo, di Ulma, di Dresda, della Beresina dove ha fatto le sue imprese, e tuttavia si perfidia a negare la sua esistenza? Vedete adunque che può operarsi contro ragione anche nel discredere un fatto. Ora è da sapere che niun fatto consegnato nella storia, comprovato coi monumenti è così solenne, così indubitato, così innegabile, che non sia ad assai inferiore nel numero e nella autenticità delle prove al gran fatto della venuta di Cristo e della sua rivelazione. Qui convengono la storia, la tradizione, i monumenti eretti dagli amici e dai nemici, dai dotti e dagl’ignoranti, dai creduli e dagli increduli, dai barbari e dai civili, sì che non si possa recare in dubbio senza dare una mentita solenne a tutto l’umano genere: come dunque non sarà un’assurdità agli occhi stessi della ragione il non credere un fatto così provato? E dunque vero a tutto rigore quello che affermano i savi che, per discredere al Cristianesimo e per gittare la fede, bisogna prima aver perduta la ragione. Pensate adunque se la ragione possa opporsi alla fede! – E si conferma tutto ciò con due ragioni di gran peso: La prima è che di fatto gli uomini, che ebbero maggior potenza di ragione che sono i grandi ingegni, tutti credettero. Niuno sarà per negare che quelli, che noi chiamiamo Padri della Chiesa, fossero in ogni secolo quello che il mondo ebbe di più chiaro e profondo in sapere. Levate dall’Africa Tertulliano, S. Agostino, S. Fulgenzio, S. Cipriano ed Arnobio, e poi ditemi in quelle età quali fossero i veramete dotti Africani. Togliete dalla Grecia i Basili, i Crisostomi, i Gregori, gli Origèni, i Teodoreti, in una parola i Padri, e poi indicate uomini che in quell’età abbiano lasciati monumenti uguali ai loro. Fate lo stesso intorno ai Latini: mettete Girolamo; Ambrogio, Leone, Gregorio, Ruffino in confronto dei dotti di quell’età, e vedete se non sopravvanzino tutti nel paragone. Nei secoli di mezzo le fiaccole che rompono le tenebre più dense sono senza stanco veruno Beda , Alcuino , S. Anselmo, Lanfranco, Alberto Magno, d’Ales, lo Scoto, S. Tommaso, S. Bonaventura. Or questi che furono i maggiori uomini de’ loro secoli, quelli che più usarono la ragione, come ne fanno fede indubitata i loro volumi che riempiono le nostre biblioteche, tutti credettero, e credettero sì fermamente, che operarono quasi tutti eroicamente in favore della lor fede: che cosa vuol dir questo? Non è una evidente confermazione che la ragione tanto non si oppone alla fede, che anzi le rende la chiara testimonianza? In caso contrario, converrebbe ‘dire che l’errore fosse il retaggio principalmente de’ savi; ma spero che il lettore n0n sarà tanto pazzo da affermarlo. – L’altra osservazione in confermazione dello stesso vero, si tolga dal contrario. Chi sono stati in tutti i tempi quelli che non hanno potuto credere? Quelli che hanno usato meno della ragione. Non solo per sentenza degli uomini di Chiesa, ma pure per autorità dei filosofi, gli uomini che adoperano meno la ragione, sono gli ignoranti ed i passionati. Quelli sono incapaci di formare discorsi e deduzioni più ampie, poste le tenebre in cui giacciono immersi; questi ne sono incapaci, perde la passione falsa loro in capo il giudizio e dà il tracollo all’intelletto. E siccome fra le passioni, le due più veementi sono la superbia dello spirito e la corruzione del cuore, così queste due tolgono più che qualunque altra l’uso della ragione. Ora, mirate fatalità! da queste classi appunto, cioè dagli stupidi per ignoranza, dai frenetici per orgoglio, dai fracidi per immondezza, si riempiono le file degl’increduli. – Degli ignoranti in primo luogo. Questa è questione di fatto, e col fatto si vuol definire. L’incredulità pullula a’ dì nostri pur troppo fra la gioventù e fra le classi operaie e cittadinesche, come deplorano tutti i savii. Ma dove e come si forma tale la gioventù? Essa esce da que’ collegi che, tolti agli uomini di Chiesa e confidati a mani o inesperte o infedeli, ricevono solo una cognizione superficiale di religione, o non ne ricevono punto. Come si formano increduli gli artieri? Col distorglierli che si è fatto con mille arti di seduzione dall’apprendere nelle Chiese nei dì festivi un po’ chiaramente la verità di essa fede. E le classi cittadine come giungono a perder la fede? Si sono totalmente per rispetto umano sviate dalla Chiesa, e col non udir mai dichiarazioni opportune, annebbiandosi sempre più in loro quelle imperfettissime cognizioni della fede che ebbero nell’infanzia, sono diventati la vittima di ogni più meschino sofisma. – E come potrebbe essere diversamente? Se vivete in mezzo alla società, dovete aver conosciuto più d’uno di quelli che fanno professione d’incredulità; se usate legger giornali, avete dovuto imbattervi spesso in chi bestemmia da incredulo. Ora, ditemi con sincerità: E gli uni e gli altri sono poi quello che di più savio, di più dotto, di maggiormente istruito possiede la società? Vi sembrano proprio quelli gli uomini che debbono avere scoperte ragioni novissime, che erano sfuggite all’acutezza di un Agostino, di un Tommaso e di tanti Dottori che hanno logorata tutta la vita nello studiare ed ammirare le profondità santissime della fede? Possono essi adunque per scienza che ne abbiano, sfatare tutta l’antica sapienza? Essi cogli studi che hanno fatto…. colle occupazioni gravissime in che li vediamo inabissati tutto il giorno, di godere la vita, di deliziare, di giocare, di trescare, e peggio? Il solo guardarli in faccia basta a dimostrare con ogni evidenza che è ignoranza crassa, ignoranza brutale quella che li fa miscredenti. – Che se aprono poi la bocca e fanno sentire le profonde ragioni, sopra le quali stabiliscono la loro incredulità, la dimostrazione prende l’evidenza che ha il sole nel pien meriggio. Che cosa hanno finalmente da opporsi alla fede? Sofismi volgari, triviali, ripetuti le mille volte, e mille volte già esposti e risoluti con tutta chiarezza dai sacri Dottori. S’avvolgono in una confusione che è una pietà a vederli. Non sanno quale sia la dottrina cartolica, quale l’eterodossa. Impugnano quello che nessun difende, difendono quello che nessuno impugna; attribuiscono alla Chiesa quello che la Chiesa tanto non professa, che anzi condanna: si fingono avversari dove non li hanno, per aver la gloria dell’eroe celebre della Mancia di combatterli sino all’ultimo sangue; mentre non sanno poi profferir parola contro quello che è veramente dottrina della Chiesa e verità. Le profonde speculazioni teologiche dei Renan, degli’About, dei Botteri, dei Govean, dei Bianchi-Giovini, dei Bonavini, ed anche del Siécle e dei Débats , e di altri paladini della miscredenza odierna bastano a far ampia fede della peregrina scienza di religione onde sono adorni. E proprio tutta luce quella che li acceca! – Qualche anno fa un Sacerdote gravissimo trovossi in una vettura pubblica a fare un viaggio, e come uomo un po’ astratto che era, stava tutto immerso nella lettura di un suo libro senza por mente ai suoi compagni di viaggio. Una signora che s’annoiava di tanto silenzio, un tratto che quegli aveva deposto il libro, colse il destro di avviare un poco di conversazione, e cominciò col protestare e vantarsi che essa, in fatto di religione, era incredula pienamente. Avrà, replicò allora il Sacerdote, avrà la signora letto qualche cosa, io mi penso, di Bossuet, di Fénélon, di La Luzerne, di Bergier. Non perdo il mio tempo in quelle cianciafruscole. Ma almeno il Valsecchi, il Segneri, qualche Catechismo un po’ ampio. Sì, proprio autori da occuparsene! Quando è così, perché dice di essere incredula? essa non è mai stata incredula, l’assicuro io; ella è semplicemente una stolida, un’ignorante. E questa conclusione quadra a cappello a moltissimi che si vantano d’incredulità. – L’altra fonte della incredulità è la superbia. Lasciando in disparte le prove che ne danno tutti gli eresiarchi antichi, è certo che i due padri dell’incredulità moderna sono Lutero e Calvino. Or l’orgoglio del primo fu tale, che lo portò ad insultare tutti i principi e re ed imperatori del suo tempo, a disprezzar tutti i Padri della Chiesa, a protestare che mille Cipriani ed Agostini non valevano quanto lui, Che prima di lui mai nessuno aveva inteso nulla della Chiesa, della fede, della legge, dei Sacramenti, delle Scritture, e ciò con tanta frenesia, che, per sentenza anche dei suoi, diede nel pazzo. L’arroganza, la superbia, l’impudenza resero Calvino sì intollerabile a’ suoi seguaci, che ne uscì allora il detto, esser meglio ire all’inferno con Teodoro Beza, che andare in cielo con Calvino. E la superbia che fondò il regno della incredulità è poi quella che lo mantiene a’ dì nostri. Ricusarono quelli per orgoglio diabolico di sottomettersi a quello che credettero tutti i loro contemporanei, ricusano tanti spiriti superbi al presente di sottomettersi a quello ché credono i fedeli odierni. Come! dicono tra sé, io che ho tanti studi, tante cognizioni, ho da credere quello stesso che crede un uomo dozzinale, ho da praticar quello stesso che usa una femminuccia? Non è possibile. E qui lo spirito della superbia li punge, gli aizza, non li lascia quetare: per brama di apparir singolari si appartano dagli altri, vantano nuove dottrine, la fanno da increduli e bestemmiatori. – Un mediconzolo, qualche tempo fa, davanti a varie persone che parlavano di religione: non so perché, disse, i preti abbiano tanta difficoltà ad ammettere la transustanziazione, quando. . . . Ma, scusi, l’interruppe un altro, non vi hanno alcuna difficoltà, poiché la difendono contro i luterani. Volevo dire, ripigliò il dottore, con tanto calore la difendono, quando.. . . Non vada oltre, gli disse allora uno che lo aveva a maraviglia compreso, anche senza quella dramma d’incredulità, sappiamo che ella è uomo di gran polso. E questo è per molti tutta la ragione dell’essere increduli, il voler apparire uomini tanto agli altri superiori, quanto audaci e più singolari. – Così certo l’hanno confessato al letto di morte tutti gli increduli più svergognati del secolo scorso. Alla luce tuttoché fioca della candela mortuaria hanno veduto le cose alquanto meglio che non le avevano vedute in vita. Tutte le grandi obiezioni e difficoltà erano scomparse, restava solo in piè la colossale superbia da confessare e da detestare in tempo per non dovere incorrere i castighi che la fede aveva minacciato. – La sorgente però che mena in maggior copia le acque fangos della incredulità è, a detta dei savi, senza alcun dubbio la corruzione del cuore. L’uso soverchio dei diletti corporei turba la mente e non lascia più concepir nulla che non sia animalesco; gli affetti del cuore impigliati nelle sordidezze non possono volgersi alla fede che è purissima, e soprattutto il bisogno di non credere alla fede per non doverne temere i castighi, aguzza l’ingegno ad investigare ragioni, affine di persuadersi che la fede non è altro che una finzione. – Se io dovessi parlare a quattr’occhi ad uno di costoro, vorrei convincerlo in questo modo: Orsù, io gli direi, voi affermate di non poter credere: ma da quanto tempo è che vi sono entrati in mente dubbi sì gravi? Forse nei primi anni di vostra giovinezza, quando costumato, sobrio, pudico menavate con tanta tranquillità giorni innocenti? Eh allora la vostra fede vi pareva pur bella, e non vi saziavate di ammirarne le glorie. Era bello per voi vederla sorgere maestosa fra le rovine dell’idolatria da lei conquisa, e di sotto le mannaie dei proconsoli e degli imperatori che la volevano spegner nel sangue. Le si presentavano contro tutti i vizi armati per farle ostacolo, la superbia, l’avarizia, la libidine, ogni abominazione, ed essa passava oltre calpestandoli tutti, e rendeva casti i dissoluti, umili i superbi, amanti solo del cielo quei che non sospiravano che alla terra. Che se non bastando a contenerla già soverchiante verun riparo, si corse al ferro ed alle stragi, oh allora sì che cominciano le sue glorie. Cadeva una vittima e cento sorgevano ad occuparne il luogo; uno era tolto e cento gliene invidiavano la sorte. Vi ricordate di quelle dolci memorie che forse vi hanno cavato un tempo le lagrime, di una Cecilia, di un’Agata, di un’Agnese, di un Vito, di un Primo, di un Valeriano, e di altri innumerevoli o verginelle delicate, o fanciulletti innocenti che volavano al cospetto de’ proconsoli infelloniti, e col cuore pieno di Gesù e coll’anima giubilante pel vicino martirio li sfidavano ad arrotare le seghe, ad affilare i rasoi, a liquefare i piombi, ad appaiare i graffi, ad affamare i leoni, per esserne così più straziati, più laceri, più martoriati? Chi sa quanto non v’hanno commosso allora narrazioni tanto pietose! E quando poi, levata di sotto la mannaia la testa, presero nei secoli posteriori eretici di ogni maniera ad impugnarla, nuovo spettacolo vi appariva dinanzi: levarsi dall’Oriente e dall’ Occidente i più chiari ingegni, le anime più generose, i Santi più perfetti a farle schermo de’ petti loro e combattere quei mostri, fintantoché non fossero rientrati nell’abisso donde erano sbucati. Insomma, ammiravate questa fede riempir le valli più cupe di santi monaci, popolar le boscaglie più incolte di fervidi anacoreti, fiorire le balze più inospite di austeri penitenti, colmare il mondo di portenti e di maraviglie. Oh allora la fede vi appariva qual è, illustre di profezie, gloriosa di miracoli, chiara di martiri, santa di opere, ricca di popoli; e la vedevate con giubilo veleggiar sulla navicella di Pietro affrontando scogli, correnti e tempeste senza niun pericolo mai di affondare. Questo e tanto più di questo vi appariva allora, e chi vi avesse detto che un giorno sareste stato nemico della fede, vi avrebbe ricolmati di orrore. Che però? Più tardi vi assalirono passioni violente, e non domandandolo voi da principio, s’afforzarono, s’aggrandirono, s’impossessarono di voi. Per alcune volte forse risorgeste dalle vostre cadute, ma stanco alfine di sì duro contrasto, cominciaste a lasciar orazioni chiese, Sacramenti, esercizi di pietà quali vi pareva di non conciliare coi vostri sfoghi. Per attutire i rimorsi della coscienza vi volgeste a dissipazioni, a letture laide, a libri irreligiosi per vedere se vi riusciva di mettere in dubbio la fede che vi minacciava l’inferno. Aggregandovi poi con compagni della medesima risma, e crescendo ogni dì più la dissolutezza del vivere, vi siete condotto finalmente al punto di potere in certi momenti, in cui siete come un mare in tempesta, dubitare della vostra fede internamente e nell’esterno vantarvi d’incredulità. Ed ecco, conchiuso finalmente, ecco tutte le vie per cui giungeste ad essere miscredente. Lettore, quello che fosse per rispondermi questo infelice, io non so: ma più d’uno che ha voluto esser sincero, ha confessato schiettamente, questa essere la storia veritiera del suo misero cuore. – Il perché ad assommare in poche parole il ragionato fin qui, quella formula: io non posso credere; la mia ragione mel vieta, torna in quest’altra: io non posso credere o perché un’ignoranza brutale non mi lascia levare gli occhi più in là di questa misera terra, perché la superbia mi ha levato il cervello, o perché i vizi hanno sommerso il cuore nel fango: quindi non posso fare quel che la sana ragione mi consiglia, mi comanda, m’inculca, benché sotto pena di essere infelice nel tempo e più infelice nella eternità. Lettore, converrete meco che si può usare un po’ meglio la ragione per tenere un po’ più salda la fede.

15 SETTEMBRE: I SETTE DOLORI DELLA B. V. MARIA

I sette Dolori della B. V. Maria (2023)

Doppio di 2° classe. – Paramenti bianchi.

Maria stava ai piedi della Croce, dalla quale pendeva Gesù (Intr., Grad,. Seq., All., Vangelo) e, come era stato predetto da Simeone (Or.) una spada di dolore trapassò la sua anima(Secr.). Impotente, ella vede il suo dolce Figlio desolato nelle angosce della nmorte, e ne raccoglie l’ultimo sospiro » (Seq.). L’affanno che il suo cuore materno provò ai piedi della croce, le ha meritato, pur senza morire, la palma del martirio (Com.). – Queste festa era celebrata con grande solennità dai Serviti nel XVII secolo. Fu estesa da Pio VII, nel 1817, a tutta la Chiesa, per ricordare le sofferenze che la Chiesa stessa aveva appena finito di sopportare nella persona del suo Capo esiliato e progioniero, e liberato, grazie alla protezione della Vergine. Come la prima festa dei dolori di Maria, al tempo della Passione, ci mostra la parte che Ella presa al Sacrificio di Gesù, così la seconda, dopo la Pentecoste, ci dice tutta la compassione che prova la Madre del Salvatore verso la Chiesa, sposa di Gesù, che è crocifissa a sua volta nei tempi calamitosi che essa attraversa. Sua Santità Pio X ha elevato nel 1908 questa festa alla dignità di seconda classe.

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostrs, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.
V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Joann XIX:25
Stabant juxta Crucem Jesu Mater ejus, et soror Matris ejus, María Cléophæ, et Salóme et María Magdaléne.

[Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Salome, e Maria Maddalena.]Joann XIX:26-27

Múlier, ecce fílius tuus: dixit Jesus; ad discípulum autem: Ecce Mater tua.

[Donna, ecco tuo figlio, disse Gesù; e al discepolo: Ecco tua madre]

Stabant juxta Crucem Jesu Mater ejus, et soror Matris ejus, María Cléophæ, et Salóme et María Magdaléne.

[Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Salome, e Maria Maddalena.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléiso

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, in cujus passióne, secúndum Simeónis prophetíam, dulcíssimam ánimam gloriósæ Vírginis et Matris Maríæ dolóris gladius pertransívit: concéde propítius; ut, qui transfixiónem ejus et passiónem venerándo recólimus, gloriósis méritis et précibus ómnium Sanctórum Cruci fidéliter astántium intercedéntibus, passiónis tuæ efféctum felícem consequámur:

[O Dio, nella tua passione, una spada di dolore ha trafitto, secondo la profezia di Simeone, l’anima dolcissima della gloriosa vergine e madre Maria: concedi a noi, che celebriamo con venerazione i suoi dolori, di ottenere il frutto felice della tua passione:]

Lectio

Léctio libri Judith.
Judith XIII:22;23-25
Benedíxit te Dóminus in virtúte sua, quia per te ad níhilum redégit inimícos nostros. Benedícta es tu, fília, a Dómino, Deo excélso, præ ómnibus muliéribus super terram. Benedíctus Dóminus, qui creávit cœlum et terram: quia hódie nomen tuum ita magnificávit, ut non recédat laus tua de ore hóminum, qui mémores fúerint virtútis Dómini in ætérnum, pro quibus non pepercísti ánimæ tuæ propter angústias et tribulatiónem géneris tui, sed subvenísti ruínæ ante conspéctum Dei nostri.

[Il Signore nella sua potenza ti ha benedetta: per mezzo tuo ha annientato i nostri nemici. Benedetta sei tu, o figlia, dal Signore Dio altissimo più di ogni altra donna sulla terra. Benedetto il Signore, che ha creato il cielo e la terra, perché oggi egli ha tanto esaltato il tuo nome, che la tua lode non cesserà nella bocca degli uomini: essi ricorderanno in eterno la potenza del Signore. Perché tu non hai risparmiato per loro la tua vita davanti alle angustie e alla afflizione della tua gente: ci hai salvato dalla rovina, al cospetto del nostro Dio.]

Graduale

Dolorósa et lacrimábilis es, Virgo María, stans juxta Crucem Dómini Jesu, Fílii tui, Redemptóris.
V. Virgo Dei Génitrix, quem totus non capit orbis, hoc crucis fert supplícium, auctor vitæ factus homo. Allelúja, allelúja.

V. Stabat sancta María, cœli Regína et mundi Dómina, juxta Crucem Dómini nostri Jesu Christi dolorósa.

[Addolorata e piangente, Vergine Maria, ritta stai presso la croce del Signore Gesù Redentore, Figlio tuo.
V. O Vergine Madre di Dio, Colui che il mondo intero non può contenere, l’Autore della vita, fatto uomo, subisce questo supplizio della croce! Alleluia, alleluia.
V. Stava Maria, Regina del cielo e Signora del mondo, addolorata presso la croce del Signore.]

Sequentia

Stabat Mater dolorósa
Juxta Crucem lacrimósa,
Dum pendébat Fílius.

Cujus ánimam geméntem,
Contristátam et doléntem
Pertransívit gládius.

O quam tristis et afflícta
Fuit illa benedícta
Mater Unigéniti!

Quæ mærébat et dolébat,
Pia Mater, dum vidébat
Nati pœnas íncliti.

Quis est homo, qui non fleret,
Matrem Christi si vidéret
In tanto supplício?

Quis non posset contristári,
Christi Matrem contemplári
Doléntem cum Fílio?

Pro peccátis suæ gentis
Vidit Jesum in torméntis
Et flagéllis súbditum.

Vidit suum dulcem
Natum Moriéndo desolátum,
Dum emísit spíritum.

Eja, Mater, fons amóris,
Me sentíre vim dolóris
Fac, ut tecum lúgeam.

Fac, ut árdeat cor meum
In amándo Christum Deum,
Ut sibi compláceam.

Sancta Mater, istud agas,
Crucifixi fige plagas
Cordi meo válida.

Tui Nati vulneráti,
Tam dignáti pro me pati,
Pœnas mecum dívide.

Fac me tecum pie flere,
Crucifíxo condolére,
Donec ego víxero.

Juxta Crucem tecum stare
Et me tibi sociáre
In planctu desídero.

Virgo vírginum præclára.
Mihi jam non sis amára:
Fac me tecum plángere.

Fac, ut portem Christi mortem,
Passiónis fac consórtem
Et plagas recólere.

Fac me plagis vulnerári,
Fac me Cruce inebriári
Et cruóre Fílii.

Flammis ne urar succénsus,
Per te, Virgo, sim defénsus
In die judícii.

Christe, cum sit hinc exíre.
Da per Matrem me veníre
Ad palmam victóriæ.

Quando corpus moriétur,
Fac, ut ánimæ donétur
Paradísi glória.
Amen.


[Sequenza
Stava di dolore piena e di pianto
la Madre presso la croce,
da cui pendeva il Figlio.

L’anima di Lei gemente,
di tristezza e di dolore piena,
una spada trafiggeva.

Oh! quanto triste ed afflitta
fu la benedetta
Madre dell’Unigenito!

S’affliggeva, si doleva
la pia Madre contemplando
le pene del Figlio augusto.

E chi non piangerebbe
mirando la Madre di Cristo
in tanto supplizio?

E chi non s’attristerebbe
vedendo la Madre di Cristo
dolente insieme al Figlio?

Per i peccati del popolo suo
Ella vide Gesù nei tormenti
e ai flagelli sottoposto.

Ella vide il dolce Figlio,
morire desolato,
quando emise lo spirito.

Orsù, Madre fonte d’amore,
a me pure fa’ sentire l’impeto del dolore,
perché teco io pianga.

Fa’ che nell’amar Cristo, mio Dio,
così arda il mio cuore
che a Lui io piaccia.

Santa Madre, deh! tu fa’
che le piaghe del Signore
forte impresse siano nel mio cuore.

Del tuo Figlio straziato,
che tanto per me s’è degnato patire,
con me pure dividi le pene.

Con te fa’ che pio io pianga
e col Crocifisso soffra,
finché avrò vita.

Stare con te accanto alla Croce,
a te associarmi nel piangere
io desidero.

O Vergine, delle vergini la più nobile,
con me non esser dura,
con te fammi piangere.

Fammi della morte di Cristo partecipe,
e della sua passione consorte;
e delle sue piaghe devoto.

Fammi dalle piaghe colpire,
dalla Croce inebriare
e dal Sangue del tuo.

Perché non arda in fiamme
ma da te sia difeso, o Vergine,
nel dì del giudizio

O Cristo, quando dovrò di qui partire,
deh! fa’, per la tua Madre,
che al premio io giunga.

E quando il corpo perirà,
fa’ che all’anima
la gloria del cielo sia data.
Amen.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Glória tibi, Dómine.
Joann XIX:25-27.
In illo témpore: Stabant juxta Crucem Jesu Mater ejus, et soror Matris ejus, María Cléophæ, et María Magdaléne. Cum vidísset ergo Jesus Matrem, et discípulum stantem, quem diligébat, dicit Matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus. Deinde dicit discípulo: Ecce Mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua.

[In quel tempo, stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Maria Maddalena. Gesù, dunque, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che amava, disse a sua madre: « Donna, ecco tuo figlio». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

OMELIA

(Otto Ophan: Maria; Marietti ed. Torino, 1953)

« Presso la croce di Gesù stava ».

Possiamo chiederci se a Maria sul Calvario non sia stato domandato troppo. Non fu ivi posto sulle spalle d’una donna delicata, d’una povera Madre una tale enormità, ch’Ella sotto tanto peso doveva crollare, fisicamente e ancor più spiritualmente? Per Maria l’impotenza sarebbe stata benefica, perché avrebbe occultata al suo spirito l’ora della scena più straziante. Ma il suo spirito sul Calvario restò sveglio; era come un lago turchino, sul quale il sole cocente bruciava senza misericordia. Quali insopportabili strazi dovette Maria sostenere sul Calvario! Se persino il Figlio suo gridò nell’abisso del suo strazio le parole: « Mio Dio, mio Dio, perché mi hai tu abbandonato? », che cosa non dovette passare anche nel cuore della Madre sua? Tempeste di chiarezza infuriavano sull’anima di Lei; i flutti del suo cuore non La cacceranno sulle bianche spiagge, sicché spumeggino e s’impennino nella disperazione e nella ribellione? Qual minaccia non costituisce per la fede un grande patire, anzi già il semplice patire! Come si presenta pericolosa vicino al sofferente l’audace domanda: ma v’è Iddio? ma v’è proprio un Dio? Può esserci un Dio, se accade il fatto più raccapricciante, l’uccisione… dell’Uomo-Dio? E se L’hanno ucciso, Iddio dunque è morto! Questo fatto enorme, pazzesco, folle non si oppone anche al minimo d’intelligenza? Le orribili sofferenze e i delitti del nostro tempo hanno bruciata la fede in Dio in esseri innumerevoli precisamente con queste fiaccole infuocate. Ma se tuttavia Iddio è — ed Egli è! —, non è Egli un Dio totalmente diverso da quello che Gesù aveva annunziato, un essere oscuro, indifferente, sublimissimo, che troneggia nelle lontane e gelide altezze? Maria sul Calvario ricordò forse con dolore la predicazione del Figlio suo circa il Padre, il Padre che veste i gigli del campo, che nutre gli uccelli del cielo, e si prende cura d’ogni capello del nostro capo. Ov’è adesso Egli, questo Padre provvido, questo Padre amante? Ma v’è anzi quaggiù anche solamente il governo d’un Dio giusto? il Figlio suo lacerato non è una palpabile confutazione, un sanguinoso sprezzo della consolante predica intorno a un Dio paterno? Quanto dev’esser crudele quest’essere sublimissimo, che procura al più nobile, al più santo di tutti gli uomini e alla Madre sua innocente tanto tormento o anche permette che lo si procuri, mentre noi stessi non lo arrecheremmo al peggiore dei nostri nemici! La bestemmia contro Dio sta vicina al credente più di quello che non si possa sospettare. L’incredulo conclude presto: nega semplicemente Iddio, e con questa misera soluzione si « spiega » gli enigmi della vita; il credente invece sa troppo bene dell’esistenza di un Essere supremo; i problemi della vita e del mondo lo disorientano non quanto all’esistenza, ma quanto al modo d’essere di Dio, quanto alla provvidenza, alla bontà e alla giustizia di Dio. E ora il Vangelo dà netto risalto all’atteggiamento della Vergine: « Stava accanto alla croce di Gesù sua Madre ». Ella stava sommersa nell’uragano che su di Lei muggiva. La terra tremò e le rocce si spaccarono: Maria stava. Il velo del Tempio si stracciò dall’alto al basso, e il Figlio suo rese il suo spirito con un forte grido: Maria stava. Ritta, solitaria stava là, come un albero principesco, attorno al quale un’intera selva giace abbattuta. Nelle Litanie lauretane noi esaltiamo Maria quale « Torre eburnea »: « eburnea » fu accanto alla croce per il pallore; ma Ella fu anche « torre », che resistette agli assalti paurosi del dubbio e della disperazione intrepida e invitta. Maria non è solamente la Madre amabile, quale spesso ci viene mostrata; ancor meno Ella è la figurina graziosa, quasi leziosa d’una merce fuori d’uso; Maria è la donna forte, che, degna del Figlio suo, va innanzi con Lui all’esercito dei martiri di sangue asperso qual Regina, la Regina dei martiri. Maria sul Calvario non disse alcuna parola. Non si lamentò, non dubitò, non maledisse, nemmeno interrogò più. Al Dodicenne chiese in dolorosa sorpresa: « Fanciullo, perché ci hai fatto tu così? »; anche alle nozze di Cana Gli presentò la sommessa preghiera: « Non hanno più vino »; sul Calvario Ella non è altro che silenzio. C’è un silenzio anche per alterigia o per impietrimento, come secondo l’antica leggenda greca fu il silenzio di Niobe, cui la saetta di Apollo aveva ucciso tutti i figli; Maria sopravvanza in grandezza d’animo le povere madri sofferenti degli antichi pagani, Niobe ed Ecuba, per l’infinita perfezione cristiana. Il suo silenzio non è protesta, ma silenziosa adesione. A dir il vero, le sue labbra sono sigillate dal dolore, sicché non può più gridare, come nell’ora felice dell’Annunciazione laggiù a Nazaret, il suo “Fiat”. Anche nella nostra vita giungono momenti, nei quali non possiamo più parlare, non più pregare, nemmeno più gemere; in quei momenti. non resta che il linguaggio dell’atteggiamento. Maria sul Calvario disse il suo Sì nella lingua commovente dell’atteggiamento: « Ella stava presso la Croce ». Questo stare era più che un discorso; con questa resistenza e perseveranza Ella espresse tutto quello che quassù sul Calvario aveva da dire. – L’informazione evangelica dice certamente: « Stavano presso la croce di Gesù la madre sua e la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria Maddalena », e anche il discepolo che Gesù amava stava lì. Maria dunque stava presso la croce di Gesù non da sola; anche le altre stavano, e di questo dovrebbe tener conto anche l’arte, la quale preferisce rappresentare Maria Maddalena svenuta ai piedi della Croce, sopraffatta dal dolore. L’atteggiamento eretto della coraggiosa Madre di Gesù fu però più eroico che quello delle altre: le altre attinsero energia in quell’atteggiamento della Madre per non abbandonarsi senza ritegno al dolore; la fortezza d’animo della Madre tenne ritte presso la croce anche le altre: se accanto alla croce sta ritta persino la Mamma, neppure le altre devono ivi cadere, non devono di là fuggire. Il racconto evangelico sottolinea intelligente questa posizione eretta; non scrive cioè: « Quando Gesù vide sua Madre e il suo discepolo che Egli amava presso la croce », ma: « Quand’Egli vide ch’Ella stava ritta »; non la presenza di Maria sul Calvario fu il grande fatto, ma la sua posizione eretta. E qui sta nascosto qualche cosa di ancor più profondo. Lo stare di Maria accanto alla croce del Figlio manifestava non solamente la sua magnanimità, ma anche il suo consenso, che voleva dire ben di più. Maria non stava soltanto presso la croce, Ella stava per la croce, l’approvava. Ella sul Calvario era di nuovo posta, come un tempo laggiù a Nazaret, dinanzi a una decisione, stavolta dinanzi a una « decisione sanguinante » nel senso più terribile della parola: a Nazaret Ella dovette decidersi se accogliere il Figlio suo, sul Calvario dovette decidere se darLo. Sul Calvario avrebbe potuto richiamarsi a buon diritto alla splendida profezia di Gabriele in occasione dell’Annunciazione, la quale diceva che Iddio « avrebbe dato il trono di suo padre David al Figlio di Lei »; adesso ne eravamo così lontani, che Gesù pendeva dalla croce fra due delinquenti. La raccapricciante realtà del Calvario non era una stridente offesa di quella lontana promessa? non era Maria una povera donna ingannata, cui le promesse fatte non erano state mantenute? Molti sul Calvario si sarebbero querelati e stizziti con simili amarezze, sarebbero stati per il Figlio, non però per la sua croce. Maria invece non stette solamente per il Figlio, ma anche per la croce di suo Figlio. Col Sì di Nazaret Ella aveva data a Dio carta bianca per tutta la sua vita; quanto Iddio scriveva sulle bianche pagine della sua vita, è già in precedenza ratificato e sottoscritto dal “Fiat” di Lei; quando quella sublimissima mano cominciò a scrivere con scrittura di sangue, col sangue del Figlio suo, Maria non disdisse il suo Sì di Nazaret, ma lo completò col Sì del Calvario. Non si lamentò dicendo: « Oh, adesso basta! adesso è troppo! »; neppure come preghiera e supplica raccolse la parola risuonataLe vicina, che i nemici avevan scagliata contro la croce a dileggio di Gesù e quasi a tentazione per Lei: « Figlio mio, discendi dalla croce! hai aiutato gli altri, aiuta anche te stesso! »; Ella Lo lasciò sulla croce. Non mosse un dito, non mosse labbro per liberarLo dall’abbraccio della morte. Ella, come la magnanima madre dei Maccabei il figlio suo più giovane e ancor più eroica di quella, incoraggiava con la sua silenziosa presenza il Figlio morente: «Figlio mio, abbi pietà di me! sostieni la morte! ». Sul Calvario quindi Maria stette sulla cima del sacrificio che tutto comprende. Niente, niente affatto Ella ritenne per sé; donò, per compiere la volontà di Dio e per la nostra salvezza, persino il Figlio suo, persino il suo… Dio. La parola, che del Padre celeste Gesù aveva detta e che scrisse il discepolo allora presente con Maria presso la croce, valeva anche per Lei: « Tanto la Madre ha amato il mondo che ha dato il suo Figlio unigenito, affinché chiunque in Lui crede non perisca, ma abbia la vita eterna ». Maria sapeva della donazione generosa del Figlio voluta dal Padre per la salvezza del mondo, e, sostenuta dalla solida base di questa parola, scorse il segreto delle paurose vicende del Calvario: quivi si compiva la salvezza dell’umanità; la redenzione, la redenzione per amore; il Figlio suo, con le mani lacerate dai chiodi, portava di nuovo in alto, su, su, alla casa del Padre l’umanità allontanatasi da Dio. Quivi era in questione la misericordia, la misericordia sconfinata, non la crudeltà. E in realtà in nessun’opera la divina misericordia e la divina giustizia si son così strettamente abbracciate come… nell’inchiodamento del Figlio di Dio sulla croce, e in nessun luogo arde l’amore di Dio più caldo che nel suo Sangue, che fu « versato per molti in espiazione dei peccati ». L’umanità sofferente del Signore ricevette senza dubbio forza e conforto dalla coraggiosa presenza della Madre accanto alla croce. Durante la sua ineffabile tristezza sul Monte degli Olivi il Signore aveva cercato conforto nei discepoli; ma questi non stavano, essi dormivano; e allora Iddio benigno per incoraggiare il Figlio suo sofferente Gli inviò un Angelo dal Cielo; sulla vetta del Calvario non volò nessun Angelo, ma ivi stava la Madre; una madre è l’angelo più consolatore di tutti. Ella baciava quei piedi inchiodati, e le sue labbra pallide divennero rosse di sangue; a Lui pendente dalla croce sussurrava tutti i nomi dell’amore, nomi così soavi quali dall’infanzia non aveva più osato dirGli. Ella stava là, vicina alla croce, e intercettava gli sguardi dei suoi occhi, perché non dovessero andar vaganti nella notte e fra le bestemmie, ma trovassero difesa e riposo negli occhi della Madre sua. Il Padre suo L’aveva abbandonato, ma la Madre era là, e nella Madre era vicino anche il Padre, perché una madre è la garanzia più soave e più sensibile dell’invisibile ed eterno amore di Dio. Senza dubbio la presenza della Madre presso la sua croce fu per il Signore anche una indicibile sofferenza. Che cosa non doveva soffrire a causa sua la Poveretta, la buona Donna! Tommaso d’Aquino scrive commosso che anche gli occhi di Gesù, come gli altri suoi sensi, dovettero soffrire sulla croce una pena propria: essi scorsero la Madre e il discepolo dell’amore piangenti ai piedi della croce. A questo penoso dolore però andava unito un grande conforto, quello di possedere una Madre dall’amore talmente invincibile e d’una fortezza insuperabile. Pietro ieri sera Gli aveva giurato: « Anche se tutti pigliassero scandalo di te, io, io non lo piglierò giammai ». Dov’era Pietro? Sua Madre non si scandalizzò di Lui; Ella stava presso di Lui anche nella defezione di tutti, anche in mezzo al più compassionevole fallimento, anche sommersa in un inferno di tormenti. Proprio la Madre, la Madre sua buona e cara, la migliore e la più santa di tutti gli uomini, proprio Lei resse accanto a Lui, l’impalato, il crocefisso. E da questa Madre s’apriva dinanzi allo sguardo del Signore una via luminosa perdentesi nell’infinito. Questa Donna solitaria accanto alla sua croce è la prima redenta, la redenta perfettamente. Sin dal momento della sua concezione rumoreggia in Lei la grazia della redenzione talmente ricca e possente, che sarebbe valsa la pena di soffrire e di morire già solamente per Lei; era pure grazia di redenzione ch’Ella ora se ne stesse nella bufera del Calvario. Maria però non è sola, Ella accanto alla croce è la rappresentante di tutti i redenti; in Lei si inginocchia la Chiesa dell’avvenire; in Lei le schiere, che nessuno può contare, dicono grazie al l’Agnello, perché le loro vesti son divenute bianche nel suo Sangue. In Maria il Padre presenta al Figlio che muore l’umanità redenta; in Maria il Figlio scorge come in un modello e in un simbolo l’infinito valore della sua passione. Era come se dalla Madre accanto alla croce ascendesse verso l’infuriar dei tormenti e verso il fremito del Sangue del Figlio morente un canto lontano e bello: « Degno è l’Agnello, che fu ucciso, di ricevere potenza e regno e sapienza e fortezza e onore e gloria e lode ». In quel momento un sorriso sfiorò il volto sfigurato del Figlio e un raggio penetrò anche negli occhi della Madre. Da tutto questo appare chiaramente che alla Madre del Signore spetta una parte importante anche per la nostra redenzione. Maria sul Calvario non fu semplicemente la mamma amante e sofferente d’un figlio morente: milioni di povere madri hanno assistito i figli morenti; Maria stette sul Calvario quale « Madre del Redentore »: « Pro peccatis suæ gentis vidit Jesum in tormentis — ah! Ella vide Gesù sopportare martiriiper i peccati dei suoi fratelli, flagelli, spine. derisioni e scherni».A questa redenzione dell’umanità per mezzo del Sangue e della mortedel Figlio suo Maria disse il suo Sì stando accanto alla croce; per questoil suo amore e il suo dolore materno si elevavano immensamente piùin alto che quelli di qualunque altra povera madre sofferente, si portaronosu, nell’altipiano del mistero della redenzione, furono un contributoper la salvezza del mondo.Il Vangelo stesso allude a questo posto ufficiale di Maria accanto allacroce del Figlio: esso ha sempre taciuto di Lei durante tutto il lungoperiodo della vita nascosta di Gesù a Nazaret come della sua attivitàpubblica; accanto alla croce di Gesù invece Ella riappare nuovamentenella relazione evangelica grande, in una luce singolare; qui dunque civien segnalato che la presenza di Maria presso il Figlio morente non fusoltanto l’esigenza d’un commovente affetto materno; quivi si trattò d’unatto solenne e addirittura ufficiale.Questo spettacolo commovente della Madre presso la croce è comeuna solenne ed edificante Liturgia. Questa Donna regale sta ritta, nonassopita dal dolore, non sprofondata nella disperazione, ma, come osaaffermare con parola ardita San Bonaventura, « intenerita per la gioiache il suo Unigenito debba essere offerto in vittima per la salvezza delmondo ».Maria accanto alla croce prega col Sommo Sacerdote dell’umanità,offre con Lui, soffre con Lui. « Ella sul Calvario, quale nuova Eva, Lo offrì all’Eterno Padre per tutti i figli di Adamo con sacrificio totale dei suoi diritti materni e del suo materno amore ». Per questo già dal tempo di Alberto Magno, Maria è chiamata con senso profondo « aiutante » della redenzione, a somiglianza di Eva che era stata « aiutante di Adamo »; Ella è la « inserviente » della redenzione, la « diaconessa » della redenzione. Il diacono porta all’altare le offerte del pane e del vino per la Messa solenne, egli le prepara; egli assiste il sacerdote offerente, è pure a lui unito con intima comunione e sentimento sacrificale. Maria sul Calvario fece così: Ella preparò l’Offerta santa, il Corpo del Figlio suo, nell’Incarnazione e lo fece grande a Nazaret; Ella presentò questa preziosissima Proprietà per il sacrificio, Ella entrò in perfettissima comunanza d’amore e di dolore col Sacerdote offerente, che era nello Stesso tempo la Vittima offerta. Questo confronto « sacerdote-diacono » ci richiama però anche alla differenza essenziale fra l’oblazione di Gesù e quella di sua Madre. Il diacono non raggiunge l’indipendenza del Sacerdote offerente; egli non pregiudica la sufficienza del sacrificio sacerdotale; egli piuttosto compie il suo ufficio in piena dipendenza dal Sacerdote, come conviene al suo posto di sott’ordine quale diacono. Maria ebbe parte in questo modo alla nostra redenzione: il sacrificio sulla croce del nostro Eterno e Sommo Sacerdote, che mediante il suo Sangue penetrò i Cieli e aprì a noi peccatori la via al trono della grazia, tanto che adesso ci è concesso di accostarci con fiducia dinanzi alla terribile maestà di Dio e ivi conseguire grazia per l’aiuto opportuno, è d’una sufficienza e d’una sovrabbondanza talmente infinita, che non ha bisogno d’alcun umano completamento e sostegno. La cooperazione di Maria non fu un contributo necessariamente richiesto per la redenzione operata dal nostro unico e solo Signore e mediatore Gesù Cristo; Ella non poté portare nessun completamento a quello che in sé era già perfetto; ora l’azione di Cristo fu sufficiente per la redenzione di mille mondi. Però « l’opera della salvezza doveva in questa cooblazione della nuova Eva ornarsi di bellezza in ogni parte ed essere del tutto completa anche in linea dell’essere e dell’operare semplicemente creato » (Feckes). E così l’augusta Signora sul Calvario, accanto alla croce del Figlio suo, presentò anche il dolore e la riconoscenza del suo cuore materno e la indigenza e la povera buona volontà della stirpe umana, che Ella fu chiamata a rappresentare. Ella ornò il calice traboccante del Sangue di Cristo con le pietre preziose delle sue lagrime e col ramo di mirra della sua pena amara, che sopportò per noi peccatori. E chi potrebbe dubitare che questo materno dolore, unito al sacrificio del Figlio suo, divenisse benedizione per il mondo intero, se già la preghiera e il sacrificio delle nostre povere madri torna a noi di salvezza? Persino Paolo, l’inesorabile predicatore dell’unico e solo redentore Gesù Cristo, scrive e per di più di se stesso le misteriose parole: « Io godo nei patimenti in pro vostro, e in contraccambio compio le deficienze delle tribolazioni del Cristo nella mia carne in pro del Corpo di Lui, che è la Chiesa ». Se così, il tremendo patire della Madre accanto alla Croce potrebbe essere rimasto privo d’una efficacia tutta particolare per la vita della Chiesa? La passione infinita di Cristo non abbisogna affatto in sé d’un « compimento », però a tutte le membra del mistico Corpo di Gesù Cristo spetta anche una determinata misura di sofferenza; se il Capo, Cristo, soffre, con Lui soffriamo noi tutti, suoi membri. In questo misterioso Corpo di Cristo ogni membro, soffrendo e offrendo, deve giovare alla salvezza anche degli altri, ciascuno in proporzione del suo posto e dell’importanza in questo « Corpo », questi solamente per pochi, quell’altro per molti, Maria, la Madre del Redentore, per tutti quanti furono redenti dal Sangue del Figlio suo. Non v’è « dunque affatto nessuno (fra tutti i membri dell’organismo mistico di Cristo) che abbia contribuito o che abbia potuto mai contribuire alla riconciliazione di Dio con gli uomini quanto vi contribuì Maria ».  –  Ti siano rese grazie, o augusta e amata e povera Signora, per le lacrime, che tu, ai piedi della Croce hai pianto e che si mescolarono col Sangue del Figlio tuo in salvezza per noi! E onore e gloria sia al Figlio tuo, unico nostro Salvatore e Redentore, Gesù Cristo!

« Presso la Croce di Gesù stava sua Madre ».

« Gesù, vedendo sua Madre e vicino ad essa il discepolo, che prediligeva, dice alla madre: “Donna, ecco il tuo figliuolo”. E poi dice al discepolo: “Ecco la Madre tua”. E da quel momento il discepolo se la prese con sé in casa sua ». Questa parola del Signore morente alla Madre sua derelitta è così commovente che vorremmo piangere su di essa. Molto tempo è passato dall’ultima parola che Gesù rivolse pubblicamente alla Madre sua; la disse a Cana, e quella parola fu apparentemente dura; anche adesso, sulla croce ancora, Egli dapprima si ricordò dei suoi nemici e poi del ladrone; la Madre, che accanto alla sua croce piangeva, La lasciò in disparte. Ha così poca importanza per Lui la Madre sua, è così un niente, che persino in quest’ultimo momento Egli parli ancora per gli altri, con gli altri, ma alla propria Madre non dica nemmeno una paroletta? oppure quegli altri hanno bisogno delle sue amorose parole più urgentemente dell’abbandonata Madre piena di grazia? Finalmente, a metà, nel cuore delle sette ultime parole di Gesù in croce, rifulse la parola anche per la Madre sua, ancor prima del grido al Padre. Si sente chiaramente che questa parola si sprigionò da un fortissimo ingorgo d’amore del Figlio per la Madre; essa dà sfogo all’amore di Gesù per la Madre rimasto legato durante la vita pubblica, ne svela la profondità e la delicatezza. Quest’unica ed ultima parola del Signore a sua Madre presso la croce lascia intravvedere quanto in realtà Maria stesse vicina al cuore del Figlio suo; Egli non può morire se non sa che sua Madre versa in migliori condizioni di protezione; Egli stesso in quel momento stava quasi per affogare in un mare di tormenti e la grigia notte dell’abbandono di Dio già Gli si avvicinava: per questo, prima d’entrare nella sua suprema tortura e morte; vuole mettere al sicuro sua Madre quasi da una bufera imminente. In quell’ora ogni parola era per il Signore una pena. Ah, i morenti, anche con lo sforzo dell’ultimo amore, possono appena dire « sì, sì » e « oh, oh »… Il Signore in quel momento raccolse le sue forze, strinse più fortemente le teste dei chiodi e dalle labbra del Figlio, come una stella d’oro nell’oscurità della notte, si librò sulla Madre l’ultima sua parola: « Donna, ecco tuo figlio! », e al discepolo: « Ecco tua Madre! ». « Donna », chiama Gesù in croce Maria, non « Madre ». Come già a Cana infatti e ancor più che a Cana, Maria sul Calvario tiene un posto ufficiale quale aiutante della redenzione del mondo. Ella non è soltanto colma di dolore, è anche adorna di sublimità e di solennità, più regale di Ester, più forte di Giuditta, la Donna del mondo, la rappresentante dell’umanità, l’assistente accanto alla Vittima sanguinante sulla croce. Questa parola è piena di rispetto e di onore, forse anche piena d’un intimo singhiozzar d’amore, come se Gesù in quell’ora non osasse più rivolgersi a Maria con il tenero nome di Madre per non provocare lo straripamento degli umani sentimenti di cui era colmo il loro cuore. La parola del Figlio morente mette la Madre sotto la protezione di Giovanni e Giovanni sotto la benedizione di Maria. Il Signore s’era preoccupato già il giorno precedente di tutti i suoi discepoli, poiché il dolore più acuto d’un nobile morente è l’abbandono e la mancanza di sicurezza di coloro che egli ama. Tutti i discepoli la sera del Giovedì Santo erano stati da Lui affidati allo Spirito Santo: « Non vi lascerò orfani: Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro confortatore ». Anche Giovanni stava in questa sicurezza dello Spirito Santo e ancor più Maria, a cominciare dall’Incarnazione, anzi già dal primo momento della sua esistenza; ma Maria era anche donna, la quale abbisognava d’una assistenza visibile; e Giovanni era il discepolo dell’amore; il Signore voleva dargli un pegno anche terreno dell’amore dello Spirito Santo in quella Donna, che di Spirito Santo era stata adombrata. Quest’ultimo legato del Signore fece di Giovanni il figlio di Maria, e di Maria la madre di Giovanni; l’uno ora era dato all’altra in dono e a carico. Maria ricevette dal Figlio morente un altro figlio, l’amico di Lui, Giovanni, la persona più cara che Gesù possedesse sulla terra accanto alla Madre sua, quel discepolo dell’amore, che la sera precedente aveva potuto ascoltare, riposando sul cuore di Gesù, il fluttuare del suo amore. Per Maria Giovanni era l’aureo scrigno, entro il quale l’amore di Gesù s’era nascosto prima della morte come in un Sacramento. Giovanni era per Lei il monumento vivente dell’amore di Gesù verso la Madre. Ancor più di Maria in Giovanni aveva ricevuto da Gesù Giovanni in Maria. Fu un onore senza uguali. Un giorno insieme con suo fratello Giacomo Maggiore egli aveva preteso un primo posto nel regno messianico; adesso gli tocca di più. Ieri ebbe per un’ora il suo posto sul cuore del Signore; da oggi in poi il suo posto è a fianco della Madre del Signore per tutta la vita. Il Signore anche nell’estrema povertà della croce poté arricchire di doni i due esseri a Lui più cari, Maria con Giovanni e Giovanni con Maria. Le sue due più care creature! Accanto alla croce v’eran certo anche altri, la sorella di sua Madre, la moglie di Cleofa, e Maria Maddalena; anch’esse avevan dato prova al Signore di tanta bontà, e il Signore era legato in amore anche a loro; esse ricevettero una preziosa benedizione per la fedeltà sino alla sua morte; ma solo a Maria e a Giovanni fece dono della preziosità d’un’ultima parola tutta propria per loro e della preziosità d’una cara persona. Quella parola fu certamente per i due anche un obbligo. Maria doveva adesso essere la madre di Giovanni. Giovanni aveva già una madre, quella nobile Salome, che secondo l’informazione di Matteo era presente anche sul Calvario e « osservava da lontano »; « da lontano », perché lei e le altre « molte donne di Galilea » non furono ammesse dai soldati presso la Croce; essi, ascoltando un sentimento d’umanità, avevan permesso l’accesso soltanto alla Madre e a un esiguo accompagnamento. La parola del Signore a Giovanni: « Ecco tua madre! » non voleva privare Salome dei suoi diritti materni: Maria deve essere per Giovanni madre spirituale. Ella adesso deve donare a Giovanni il suo amore materno privo di Gesù; Ella deve proteggere in questo discepolo dell’amore l’eredità, che Gesù in lui ha deposto; Ella lo deve formare come aveva formata l’anima umana di Gesù; in una parola Ella dev’esserGli « madre ». Giovanni dev’essere figlio di Maria. Egli deve offrirLe e casa e sostegno e patria; deve essere sollecito del sostentamento della Donna a lui affidata; deve rallegrare alla Solitaria le sere e l’età. Quale esempio non aveva dato a Giovanni, il secondo figlio della Vergine, Gesù stesso nella sollecitudine per la Madre! Sino al trentesimo anno di vita, per un tempo così lungo Egli aveva provveduto alla Mamma con la propria augusta mano; probabilmente, per il periodo della sua attività pubblica, aveva pregato d’interessarsi di Maria quanti Gli erano stretti per amicizia. Ed ora, morente, affida la Madre all’amico suo, indicandogli così insieme il motivo e la misura della sollecitudine per la Madre. Per mezzo di Gesù tutti e due, Giovanni e Maria, sono adesso legati l’uno all’Altra come figlio e madre, e per mezzo di Maria anche Gesù e Giovanni si son fatti ancor più vicini, come fratello rispetto a fratello. Giovanni nel Vangelo può tributarsi questa lode modesta: « Da quel momento il discepolo se La prese con sé ». L’espressione greca « eis tà idia — in proprietà » nell’uso corrente del discorso significa « in casa sua ». Può essere frattanto che Giovanni abbia usato questa espressione, che può avere vari sensi, di proposito; la parola si presta a una spiegazione ancor più profonda: «eis tà idia — in proprietà » significa nel suo senso pieno più che « casa » solamente; con essa può essere indicato tutto l’insieme della vita esterna ed intima d’un uomo; Giovanni non accolse Maria soltanto in casa, ma anche nel suo cuore, nel suo sentimento e sollecitudine, nel suo dolore e amore. – Con quale maternità dal canto suo Maria abbia accolto Giovanni « nella sua proprietà », più che non dalle pie descrizioni, risulta con evidenza dagli scritti di Giovanni. Gli scritti di Giovanni, e anzitutto il suo Vangelo, sono percorsi da un mirabile afflato mariano; esso si diffonde dalla possente affermazione del prologo del Vangelo giovanneo: « Il Verbo si fece carne » attraverso Cana sino al Calvario. Da Giovanni e solamente da lui noi veniamo a sapere che il Signore era stretto alla Madre sua anche durante il tempo della sua attività pubblica — Cana! — e nella passione — Calvario! —. Nei lunghi anni di convivenza Maria dischiuse al discepolo dell’amore visioni e connessioni sempre più profonde nel mistero di Gesù. Non solamente Giovanni accolse Maria, anche Maria accolse Giovanni nella « sua proprietà ». La parola di congedo, che il Signore morente rivolse a sua Madre e al suo amico, ha una profondità che la cristianità ha scoperta e scopre soltanto un po’ alla volta lungo il corso dei secoli; poiché anche oggi il mistero di questa parola non è ancora dischiuso in ogni sua parte, il mistero cioè della maternità di Maria rispetto all’intera cristianità. Il sentimento cristiano cominciò a sospettare e capì sempre più chiaramente che Gesù sulla croce aveva costituita Maria Madre non solamente di Giovanni bensì di tutti noi, e che non solamente Giovanni, ma noi tutti siamo figli e figlie di Maria. Giovanni non è che un nostro rappresentante; Maria è la Madre dell’intera umanità raccolta in Cristo; « Giovanni » è quindi… « ognuno di noi ». La parola evangelica, considerata in sé sola, non permette certamente una conclusione così spinta; ivi non si fa parola che di Giovanni, a lui, a lui solo viene trasmesso presso la croce l’onore e il dovere della cura di Maria; e a lui, a lui solo, non a un altro discepolo Maria viene indirizzata come a un figlio, cui da parte sua dev’esser, può essere madre. I Padri della Chiesa, quindi, intesero questo testo sempre e ovunque del rapporto di madre e figlio solamente, che sussistette fra Maria e Giovanni, mentre non hanno una parola per la maternità spirituale della Vergine rispetto a noi tutti. Soltanto presso Origene (f 254) si trova un testo, che estende quella parola del Signore anche ai credenti in Cristo, a quanti Cristo amano. Nondimeno passarono ancora secoli prima che in Occidente, per la prima volta l’abbate Ruperto di Deutz, all’inizio del secolo x, e poi con tutta chiarezza e direttamente Dionisio Cartusiano nel secolo xv mettessero quella parola del Signore in relazione con una maternità spirituale universale di Maria. Ma questa maternità spirituale della Vergine è una realtà; è dottrina sicura, cattolica; essa però non si erige su questa parola, bensì sui fatti che si svolsero sul suo medesimo suolo insanguinato, nelle sue immediate vicinanze, sul Calvario. – Due fatti han creata la maternità spirituale di Maria. L’uno fu il suo assenso all’Incarnazione. Sin d’allora, a quel primo Sì, Ella è divenuta anche Madre spirituale di noi tutti: « Mentre Maria portava in grembo suo il Redentore, portava anche tutti coloro la vita dei quali era rinchiusa nella vita del Redentore. Noi, che siamo incorporati a Cristo, siamo nati dal seno di Maria come Corpo Mistico legato col capo ». Nell’incarnazione Gesù è divenuto nostro fratello, Maria, la Madre di Gesù, è divenuta così anche la Madre di tutti i suoi fratelli. Presso la Croce Maria portò al suo compimento amaro e sanguinoso quel Sì del principio. Ella accanto alla croce patì col Figlio suo, e quanto dolore trova posto nel cuore d’una madre, specialmente nel cuore della Madre di Dio! Ella cooffrì con il Figlio suo, fu internamente d’accordo per la morte di Gesù a nostra salvezza, e quella morte ha dato a noi la vita. Poiché Ella ebbe parte nella morte, ebbe parte anche nella vita; Ella col suo dolore materno ha reso a noi possibile questa nuova vita, che si eleva al di sopra della natura. Quale aiutante di Cristo nell’opera della salvezza, Ella divenne la madre della cristianità. Per questo Pio XII, nella sua Enciclica sul « Corpo Mistico di Cristo », richiama con insistenza a questo vincolo di causalità fra la compassione e la cooblazione di Maria presso la Croce e la sua spirituale maternità: « Ella, che sul Golgota col sacrificio totale dei suoi diritti materni e del suo materno amore, ha offerto all’Eterno Padre il Figlio suo, a motivo di questo nuovo titolo di dolore, già Madre del nostro Capo quanto al Corpo, divenne anche la Madre di tutti i suoi membri quanto allo spirito ». La maternità spirituale di Maria quindi è più che una figura solamente, più che una bella espressione poetica soltanto, essa è una realtà misteriosa che si erige sui due misteri fondamentali della nostra fede, l’Incarnazione e il Sacrificio della croce. – Quest’invisibile realtà diventa visibile, come in un simbolo, in Maria e Giovanni presso la Croce; quivi Maria fu costituita Madre di Giovanni e Giovanni figlio di Maria. Proprio in quell’ora, nella quale essi si unirono dinanzi alla croce del Signore per contrarre un legame dolorosamente bello, proprio nell’ora della redenzione Maria divenne anche la Madre dei redenti, e i redenti divennero tutti figli di Maria. A motivo nostro Ella perdette Gesù, il Figlio suo, a motivo di Gesù noi fummo generati figli suoi. Quanto si svolse dinanzi alla Croce, quasi sul proscenio, ci sospinge a guardare in fondo, al di là di Giovanni: in Giovanni siamo presi in considerazione noi tutti, in Maria è data a tutti noi una Madre. – O Donna, ecco qui dunque il figlio tuo! È vero, noi siamo meno, molto meno degni di Te che non il gentile e nobile Giovanni, il quale Ti fu affidato in figlio dal Figlio sulla croce. Colpito da quello scambio con Giovanni, già S. Bernardo esclama: « Quale scambio! Giovanni Ti vien dato al posto di Gesù, il servo invece del Signore, il discepolo invece del Maestro. il figlio di Zebedeo invece del Figlio di Dio, un puro uomo invece del vero Dio ». E ora Tu devi accogliere addirittura noi invece del Figlio! Le nostre meschinità devono farTi nausea, o regale Signora! Di fronte al tuo nobil animo noi siamo d’una condizione tanto inferiore. o Santissima, o Purissima! Noi siamo piccini, poco buoni, impuri, cenciosi, talvolta anche diavoli camuffati, ripieni di reale malizia. E costoro devon essere i tuoi figli! A costoro Tu devi essere madre! Tu, che sei passata sulla terra come un giglio e in Cielo troneggi sopra gli Angeli. Tu però stesti anche sul Calvario, accanto alla croce del Figlio, sulla quale Egli morì per noi peccatori. Tu udisti com’Egli fece grazia al ladrone, e pregò persino per la malignità ostinata. Il Figlio tuo Ti impegna per noi peccatori. Ma perché scongiuriamo noi con parole retoriche il tuo cuore e spesso in tal modo che si potrebbe pensare che valga a persuaderTi, a costringerTi ad esser buona? Non sei Tu il vertice più tenero dell’eterno amore di Dio verso di noi? Egli ha scelto il tuo cuore materno a simbolo della sua propria bontà sconfinata e della sua immensa misericordia. Iddio cioè non è solamente Padre; in Te e per Te, o Maria, Egli vuol manifestare anche la sua infinita maternità. Se anche una madre qualunque consacra le cure più premurose al più povero dei suoi figli, quanto amore non vi sarà per il peccatore nel tuo cuore, ch’è il riflesso più soave dell’amore di Dio! Madre! Madre della misericordia! « Peccatores non abhorres, sine quibus numquam fores mater tanti Filii — Tu non aborri i peccatori, senza dei quali mai saresti Madre d’un tanto Figlio ». E così, o Signora, guarda a noi tuoi figli! Accogli anche noi « eis tà idia — in tua proprietà ». E questa proprietà tutta a Te propria è Gesù: riempici dei sentimenti di Gesù, che da Te si irradiano luminosissimi! E dopo questa miseria mostraci Gesù, il Frutto benedetto del tuo ventre. Poi, « o Vergine, Madre di Dio, mentre stai dinanzi al Signore, ricordaTi di dire una buona parola per noi, perché Egli storni da noi il suo sdegno ». Figlio, ecco pure tua Madre! È una grandissima gioia per un uomo possedere una madre, alla quale egli possa guardare, alla quale possa elevarsi. La sua figura resta viva anche al di là della morte; essa l’accompagna come un angelo. Lungo tutta la vita sino al giorno del lieto arrivederci sui portali dell’eternità. Le nostre ottime madri si son formate in Maria, ed esse, quasi preoccupate per il tempo nel quale non avrebbero più potuto precederci col loro esempio, richiamarono la nostra attenzione a Maria, la Madre eterna. Nessuna madre può come Maria elevare i nostri pensieri e i nostri desideri; Ella è il segno grande nel cielo, ammantata di sole e irradiata di dodici stelle; Ella tiene sveglia la nostra eterna nostalgia. E Maria è il grande segno anche sulla terra, aspersa del sangue del Figlio suo ed elevantesi presso la Croce sul Calvario. Figlio, dalla notte della tua tribolazione, guarda alla Madre tua sul Calvario! Neppure accanto alla croce del Figlio suo Ella si querelò, dubitò, vacillò; Ella stette, forte e ferma. E così « io attacco ogni tedio e il dolore di tutte le notti e ogni nostalgia dell’ultima meta al tuo abito d’argento, o Madre » (Hauser). Maria non ritornò dal Calvario col cuore spezzato; insieme con la tristezza era in Lei una grande ed intima gioia: il mondo adesso era redento; tanto aveva fatto il Figlio suo. E dopo tre giorni Egli risorgerà. Ella sapeva della prossima risurrezione come era stata al corrente della prossima passione. Se ne andò dal sepolcro del Figlio, mentre calava la notte, con la fiaccola della speranza. Questa eterna speranza è l’atteggiamento cristiano più profondo; essa oltrepassa e sopravvanza le tre disposizioni che sono alla radice della esistenza umana puramente naturale, la tristezza, l’angoscia e la nausea. Noi come Maria, al di sopra di tutte le notti, guardiamo a Cristo; Egli non è solamente morto, Egli è anche risorto dai morti, è asceso al Cielo e un giorno Egli ritornerà per giudicare i vivi e i morti. Vi son Calvari, tanti e tetri; ma io credo anche nella risurrezione dei morti e nella vita eterna.

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Jer XVIII:20
Recordáre, Virgo, Mater Dei, dum stéteris in conspéctu Dómini, ut loquáris pro nobis bona, et ut avértat indignatiónem suam a nobis.

[Ricordati, o Vergine Madre di Dio, quando sarai al cospetto del Signore, di intercedere per noi presso Dio, perché distolga da noi la giusta sua collera].

Secreta

Offérimus tibi preces et hóstias, Dómine Jesu Christe, humiliter supplicántes: ut, qui Transfixiónem dulcíssimi spíritus beátæ Maríæ, Matris tuæ, précibus recensémus; suo suorúmque sub Cruce Sanctórum consórtium multiplicáto piíssimo intervéntu, méritis mortis tuæ, méritum cum beátis habeámus:
[Ti offriamo le preghiere e il sacrificio, o Signore Gesù Cristo. supplicandoti umilmente: a noi che celebriamo. in preghiera i dolori che hanno trafitto lo spirito dolcissimo della santissima tua Madre Maria, per i meriti della tua morte e per l’amorosa e continua intercessione di lei e dei santi che le erano accanto ai piedi della croce, concedi a noi di partecipare al premio dei beati:]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.


de Beata Maria Virgine
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Transfixióne beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Transfissione della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:
Pater noster
Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.

V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Felíces sensus beátæ Maríæ Vírginis, qui sine morte meruérunt martýrii palmam sub Cruce Dómini.

[O Signore Gesù Cristo, il sacrificio al quale abbiamo partecipato celebrando devotamente i dolori che hanno trafitto la vergine tua Madre, ci ottenga dalla tua clemenza il frutto di ogni bene per la salvezza:]

Postcommunio

Orémus.
Sacrifícia, quæ súmpsimus, Dómine Jesu Christe, Transfixiónem Matris tuæ et Vírginis devóte celebrántes: nobis ímpetrent apud cleméntiam tuam omnis boni salutáris efféctum:
[O Signore Gesù Cristo, il sacrificio al quale abbiamo partecipato celebrando devotamente i dolori che hanno trafitto la vergine tua Madre, ci ottenga dalla tua clemenza il frutto di ogni bene per la salvezza:]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (IX)

IL CATECHISMO DI F. SPIRAGO (IX)

CATECHISMO POPOLARE O CATTOLICO SCRITTO SECONDO LE REGOLE DELLA PEDAGOGIA PER LE ESIGENZE DELL’ETÀ MODERNA

DI

FRANCESCO SPIRAGO

Professore presso il Seminario Imperiale e Reale di Praga.

Trad. fatta sulla quinta edizione tedesca da Don. Pio FRANCH Sacerdote trentino.

Trento, Tip. Del Comitato diocesano.

N. H. Trento, 24 ott. 1909, B. Bazzoli, cens. Eccl.

Imprimatur Trento 22 ott. 1909, Fr. Oberauzer Vic. G.le.

PRIMA PARTE DEL CATECHISMO:

FEDE (5).

9. GLI UOMINI-

La creazione dell’uomo.

La creazione dell’uomo è raccontata da Mosè all’inizio del suo 1° libro (Genesi). – La Bibbia non dice quando Dio creò l’uomo. Si è accettato che sia avvenuta circa 4000 anni prima di Gesù Cristo (rappresentate dalle quattro settimane di Avvento).

1. DIO FORMÒ IL CORPO DELL’UOMO DALL’ARGILLA E GLI ISPIRÒ UN’ANIMA (Genesi II, 7).

Come il vapore muove la macchina, così il soffio comunicato da Dio all’uomo vivifica il suo corpo. L’esistenza dell’anima è dimostrata dai movimenti del corpo. (S. Theof. d’Ant.) La scrittura telegrafica presuppone una persona pensante. Allo stesso modo le parole pronunciate dagli organi vocali, messe in moto dal sistema nervoso, presuppongono un essere pensante. A chi diceva di non credere all’anima, perché non riusciva a vederla, un altro rispose: “Allora tu non hai ragione, perché non puoi vederla”. Diciamo anima, quando parliamo della sua unione con il corpo, e di spirito, quando si tratta delle facoltà intellettuali della ragione e volontà. – In noi c’è una sola anima, allo stesso tempo iniziatrice della vita corporea e dotata di ragione e libertà (IV Conc. di Costantinopoli, 862). Dal fatto che l’uomo abbia diverse inclinazioni, che sia, per esempio, attratto da un lato dai piaceri sensuali e che dall’altro sia portato a combattere questa attrazione, alcuni hanno concluso che l’uomo abbia due anime, un’anima materiale e un’anima spirituale. Ma queste inclinazioni derivano semplicemente dalla diversa attrazione esercitata sull’anima dai vari beni, da quelli sensibili e da quelli spirituali. – Ecco il rapporto tra l’anima e il corpo. Il corpo è il luogo in cui risiede l’anima come una mandorla nel suo nocciolo, come un gioiello nella sua custodia, un uomo nella sua veste, un eremita nella sua cella. Il corpo è lo strumento dell’anima, il corpo è per l’anima ciò che la sega, la pialla e il martello sono per l’artigiano, il pennello per il pittore, l’organo per l’artista. L’anima è la guida del corpo, svolge per esso il ruolo di cocchiere, di pilota. (S. G. Cris..) Come il cavaliere guida il suo cavallo con le redini, così l’anima deve guidare e domare il corpo. (S. Vinc. Ferr.) Ahimè, l’anima spesso si lascia guidare e domare dalle passioni malvagie del corpo, degrada l’uomo al livello della bestia e si rende eternamente infelice. Che confusione”, dice San Bernardo, “quando la padrona serve e il servo comanda! L’anima anima il corpo, cioè gli dà vita. L’uomo non era vivo finché Dio non gli ha dato un’anima (Gen II,7); non appena l’anima lascia il corpo, esso cessa di vivere e torna alla terra (Eccles. XII, 7): il corpo senza anima è un cadavere (S. Giac. II, 26). – L’anima umana è essenzialmente diversa dall’anima degli animali; quest’ultima ha facoltà e bisogni completamente diversi. L’anima delle bestie è incapace di cercare il progresso: la rondine costruisce il suo nido oggi come lo faceva secoli fa; è incapace di ricercare le cause, e quindi non può elevarsi alla conoscenza del Creatore. Guidato dal solo istinto, l’animale è inconsapevole delle sue azioni, non ha bisogni intellettuali o morali e nessun desiderio di felicità suprema; è perfettamente soddisfatto dei suoi piaceri corporei. L’anima animale non può quindi essere della stessa natura dell’anima umana: potremmo quindi dire che l’animale abbia un’anima, ma non che abbia una mente.

Sono in balia all’errore coloro che immaginano che il corpo umano sia stato prodotto dall’evoluzione di esseri inferiori.

Molti sostengono che l’uomo, o almeno il suo corpo, si sia evoluto da esseri inferiiri attraverso l’evoluzione. Credono che questo spieghi le parole della Bibbia, (Genesi II, 7). Questa dottrina non è accettata dalla Chiesa. Il principale sostenitore di questa ipotesi è stato Darwin, un naturalista inglese, che ritiene che l’uomo sia disceso dalla scimmia attraverso uno sviluppo successivo. Questo è impossibile come la discendenza di un pisello da un castagno, perché l’uomo e la scimmia differiscono fondamentalmente sia nella struttura corporea che nella forma del cranio. (Huxley dice: “Ciascuna delle ossa del gorilla presenta caratteri facilmente distinguibili dalle corrispondenti ossa dell’uomo”. La differenza tra un cranio di gorilla e un cranio umano è immensa. Inoltre, il cervello di un uomo è molto diverso da quello della scimmia più perfetta). L’uomo ha anche il vantaggio rispetto alla scimmia della parola, il vantaggio di esprimere i sentimenti nella fisiognomica. La scimmia è incapace di sorridere; non ha l’andatura eretta. L’uomo, a causa della sua crescita, ha bisogno di molti anni ed ha un’infanzia abbastanza lunga; lo stesso non vale per la scimmia, che si sviluppa rapidamente. L’uomo può vivere fino a cento anni, mentre la scimmia può vivere al massimo fino a trent’anni. Gli uomini più degenerati sono capaci di cultura, ma non la scimmia. I paleontologi non hanno mai trovato uno scheletro che indicasse questo passaggio dalla scimmia all’uomo; in migliaia di anni, lo scheletro dell’uomo non ha subito alcun cambiamento. I più antichi monumenti dell’arte e della scienza dimostrano che l’uomo non è nato come una scimmia, ma come un essere umano; al contrario, le tradizioni e la linguistica rimandano ad una civiltà e a tempi migliori, e portano alla conclusione di una cultura da cui degradano sempre più nel peccato. Inoltre, le scimmie assomigliano all’uomo, ma gli assomigliano solo in un punto, nella forma apparente delle mani, piedi e cranio, per il resto ne differiscono radicalmente. Le scimmie, con la loro stupidità e bestialità, sembrano essere state create da Dio per mostrare all’uomo come sarebbe stato senza la sua anima immortale e quanto debba essere grato al suo Creatore, “Faccio fatica a credere – ha detto Seb. Brunner, (scrittore austriaco) – che l’uomo discenda dalla scimmia”. Il peccato contro la castità produce spesso nella fisionomia dei bambini e degli adolescenti tratti scimmieschi. (Alb. Stoltz).

2. I PRIMI UOMINI CREATI DA DIO FURONO ADAMO ED EVA.

Eva fu formata dalla costola di Adamo addormentato (Genesi II, 21). Secondo i Padri il sonno fu un’estasi, perché quando Adamo si svegliò sapeva esattamente cosa fosse successo.

3. TUTTI GLI UOMINI DISCENDONO DA ADAMO ED EVA.

S. Paolo disse all’Areopago di Atene: “Dio ha fatto discendere l’intera razza umana da un solo uomo e lo ha fatto abitare su tutta la terra” (Act. Ap. XVII, 26).

Tutti gli uomini formano dunque una sola famiglia e sono figli di uno stesso Padre. (S. G. Cris.).

Le razze umane non hanno differenze essenziali. (Ce ne sono cinque; ma non sono più chiaramente definite dei colori dell’arcobaleno). Il colore della pelle e la forma del cranio derivano dal clima e dallo stile di vita. Infatti, queste caratteristiche si perdono gradualmente nei discendenti emigrati. Gli stessi fenomeni si osservano nel regno animale: i bovini perdono le corna nel nord e subiscono profondi cambiamenti nella formazione del loro cranio; le pecore trasportate in Guinea assumono la forma di un cane, in Angora gli animali si ricoprono di peli lunghi e setosi, e così via. Le proprietà più essenziali del corpo, lo scheletro, la durata della vita, la temperatura corporea normale, la frequenza del polso ed i fenomeni morbosi sono comuni a tutte le razze; tutte hanno le stesse strutture spirituali: intelligenza, memoria, volontà, ecc. Le lingue e le antiche tradizioni di tutti i popoli, sulla caduta originaria, sul diluvio, ecc. indicano un’origine comune. Inoltre, l’incrocio tra famiglie di razze diverse è indefinitamente fertile. (Lo stesso non vale per gli incroci tra specie animali diverse).

Gli uomini discendono da Adamo solo corporalmente, perché l’anima è creata da Dio.

L’anima di ogni uomo è creata da Dio. Non è l’uomo, ma Dio che comunica l’anima. (V. Conc. Later.), è Lui, dice Zaccaria (XII, 1) che ha creato lo spirito nell’uomo, ed è in questo senso che Cristo ha detto “Io e il Padre mio”, sempre continuiamo ad agire (S. Giovanni V, 17). Come nel Battesimo e nella Penitenza, lo Spirito Santo scende nell’uomo per dargli la vita spirituale, così è con Dio quando si forma il corpo. Dio, al momento della formazione del corpo, gli comunica un’anima per vivificarlo. Egli infonde un’anima in ogni uomo come ha fatto con Adamo; la crea nel momento in cui la infonde. Questa infusione è creazione. (S. Bonav.) È pertanto un errore credere (con Platone e Origene) che Dio abbia creato tutte le anime all’inizio, allo stesso tempo degli Angeli. Tertulliano cadde in un altro errore, sostenendo che le anime discendono dalle anime dei loro genitori, come una fiaccola si accende su un’altra fiaccola. Altri arrivano a sostenere che tutti gli uomini hanno una sola anima. Ne conseguirebbe che tutti gli uomini avrebbero un’unica coscienza, il che è contraddetto dai fatti.

10. L’ANIMA UMANA.

1. L’ANIMA UMANA È UN’IMMAGINE DI DIO PERCHÉ È UNO SPIRITO SIMILE A DIO.

Prima della creazione dell’uomo, Dio aveva detto: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza, e abbia il dominio sulle bestie e su tutta la terra.” (Gen. I, 26). – L’uomo è dunque creato ad immagine e somiglianza di Dio e deve quindi avere alcune analogie con Dio. Queste analogie si trovano nell’anima; come Dio, ha un’intelligenza libera ed una volontà libera, che lo rendono capace di conoscere ed amare il bene, ed è attraverso di esse che domina il mondo visibile, che è il re della creazione visibile, così come Dio è il re dell’universo. Non è dunque senza ragione che Dio abbia unito nella stessa espressione, sia la somiglianza dell’uomo con Dio sia la sua regalità terrena. L’uomo diventa un’immagine ancora più perfetta di Dio quando egli possiede la grazia santificante, perché in tal caso viene elevato alla partecipazione con la natura divina (II S. Pietro, II, 4) ed a una più esatta somiglianza con essa. Quando un uomo è santo, domina veramente la terra e le sue creature. Quando è peccatore, è il loro schiavo. Infine, nello stato di grazia, l’uomo è in grado non solo di conoscere ciò che è vero, bello e buono, ma anche di vedere Dio stesso nella sua gloria, di amarlo, e di goderne. – Così come l’orbe terrestre è un’immagine bella ma debole della terra, l’anima è un’immagine bella ma molto debole di Dio. È persino un’immagine della Santissima Trinità, perché ha tre facoltà, memoria, intelletto e volontà, pur essendo un’unica sostanza. Nella memoria assomiglia al Padre, nella ragione al Figlio e nella volontà allo Spirito Santo. (San Bernardo). Le parole pronunciate da Dio al momento della creazione dell’uomo avevano quindi un significato profondo, perché la forma plurale che ha usato indicava che voleva formare l’uomo ad immagine e somiglianza della Santa Trinità. Il valore di un’anima agli occhi di Dio è quindi immenso, come possiamo vedere dalla redenzione; un’anima vale più di tutto il mondo siderale (S. G. Cris.). – Il corpo non è un’immagine di Dio che non ha corpo, essendo un puro spirito; l’uomo è quindi ad immagine di Dio solo nella sua anima. Senza dubbio, questa somiglianza divina dell’anima si manifesta anche nel corpo, che è lo strumento dell’anima, ha un’andatura eretta, segno evidente della sua regalità sulla natura; così come le sue mani, abili in ogni tipo di lavoro, nel maneggiare ogni tipo di strumento e di arma, gli conferiscono il dominio su tutta la natura animata e inanimata. – Da qui il grido di ammirazione di Davide: “Signore, nostro Dio, che cos’è l’uomo perché te ne ricordi, tu l’hai posto solo un po’ al di sotto degli Angeli, tu l’hai coronato di onore e di gloria” (Sal. VIII, 2-7).

2. L’ANIMA È IMMMORTALE, CIOÈ NON PUÒ CESSARE DI ESISTERE.

Il corpo muore in breve tempo, l’anima sussisterà in eterno. L’anima non può cessare di esistere, ma può perdere la grazia santificante ed essere spiritualmente morta, cosa che avviene attraverso il peccato mortale. “L’anima muore e non muore. perché è sempre cosciente di se stessa; muore quando abbandona Dio. (S. Aug.) Un ramo tagliato dal tronco è ancora un essere, ma cessa di essere un ramo vivo; così è per l’anima che ha commesso un peccato mortale. È separata da Dio, e quindi morta, ma continua a esistere. Il corpo, allo stesso modo, non ricade nel nulla assoluto dopo la morte; ma cessa di vivere non appena l’anima si separa da esso. L’anima può quindi cessare di vivere senza cessare di esistere quando abbandona Dio attraverso il peccato mortale. “I peccatori sono morti anche quando vivono, i giusti vivono anche dopo la loro morte”. (S. G., Cris.). Contraddizione apparente, facilmente risolvibile da quanto appena detto.

Noi sappiamo dalle parole di Gesù Cristo che l’anima sia immortale.

Non temete, dice, coloro che possono uccidere il corpo, ma non l’anima. Inoltre disse al ladrone penitente: “Oggi sarai con me in paradiso”. (S. Luc. XXIII, 43). Cristo ha insegnato questo dogma anche nella parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro (S. Luca XVI, 19), e dice anche (S. Matth. XXII, 32) che il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe non è il Dio dei morti, ma dei vivi.

Inoltre, le apparizioni dei morti sono innumerevoli.

Alla trasfigurazione di Cristo sul Monte Tabor, apparve Mosè, morto da tempo. (S. Matth. XVII, 3). Molti morti apparvero a Gerusalemme alla morte di Cristo. (ibid. XXII 1,53). Il profeta Geremia e il sommo sacerdote Arias apparvero a Giuda Maccabeo prima della battaglia (II. Mach. XV). La Vergine Maria è apparsa spesso nel corso dei secoli, tra l’altro a Lourdes nel 1858. “Non c’è stato, dopo Gesù Chr. un solo secolo senza numerose apparizioni di anime sante, per consolare i morti, o di anime del purgatorio, per chiedere preghiere” (Scaram). L’apostolo di Vienna, B. Cl. Hofbauer, apparve al suo amico Zacharie Werner della stessa città, splendente, portando una palma, un giglio ed un ramoscello d’ulivo, e annunciò all’amico la sua imminente morte (B. Cl. Hofbauer) (1820). La stessa cosa accadde quando morirono molti Santi. La maggior parte dei teologi rifiuta l’apparizione dei dannati come impossibile, perché nessuno torna dal luogo della riprovazione. Essi ammettono che i demoni appaiono sotto forma di dannati. – Queste apparizioni sono fatte attraverso il ministero degli angeli (S. Aug.), che assumono corpi eterei (S. Grég. Gr.) o che provocano una certa percezione ai nostri occhi. (S. Thom. Aq.). Se per mezzo del telescopio possiamo vedere chiaramente oggetti impercettibili ad occhio nudo, l’onnipotenza divina può anche permetterci di percepire gli spiriti (Scar.). Non dobbiamo né credere ingenuamente a tutte le apparizioni che ci vengono raccontate (è necessario un esame molto serio), né dobbiamo ridere di queste apparizioni come di una vana immaginazione. Chi ride è come un animale che crede solo a ciò che vede. (Scar.) L’intelligenza di un uomo carnale non va oltre il suo occhio corporeo. (S. Aug.). Molti uomini non vogliono esaminare seriamente i casi di apparizioni, perché se li vedessero sarebbero costretti a cambiare vita, cosa che non vogliono fare.

La nostra stessa ragione ci dice che la nostra anima è immortale.

L’uomo ha dentro di sé la sete, il desiderio di una felicità duratura e perfetta. Questo desiderio è comune a tutti gli uomini, quindi è stato depositato in noi dal Creatore stesso. Ma questa sete non può essere placata quaggiù da nessun bene, da nessun godimento terreno. Ora, se questo desiderio non potesse essere soddisfatto da nessuna parte, né mai, l’uomo sarebbe più miserabile della bestia che non è tormentata da questo desiderio, e Dio, l’essere perfetto, non sarebbe più buono ma crudele: una supposizione assurda. – Se l’anima non fosse immortale, l’uomo malvagio che ha commesso solo crimini sulla terra resterebbe impunito, e l’uomo giusto che si è reso la vita difficile combattendo le sue passioni, non verrebbe ricompensato. Un Dio sovranamente perfetto sarebbe ingiusto: una supposizione assurda quanto la precedente. Se, dunque, esiste un Dio, l’anima deve essere immortale. – Noi conserviamo la nostra coscienza psicologica e morale, i nostri ricordi giovanili, nonostante la trasformazione della giovinezza, nonostante la trasformazione del nostro corpo, le cui molecole si rinnovano ogni sette anni; queste facoltà rimangono intatte, anche se perdiamo un arto importante, un braccio, una gamba, persino una parte del cervello. C’è quindi una sostanza nel corpo che è indipendente dalla materia che cambia e che cambia, e quindi anche nonostante la morte, rimane indistruttibile. – Nel sogno vediamo, sentiamo e parliamo, anche se gli occhi, le orecchie e la lingua non sono attivi; allo stesso modo, dopo la morte, viviamo e pensiamo anche se i nostri sensi sono completamente inattivi. S. Agostino racconta che Gennadius, un medico di Cartagine, che si rifiutava di credere nell’immortalità dell’anima, fece il seguente sogno. Egli vide un bel giovane vestito di bianco che gli chiese: “Mi vedi? – Io ti vedo, Ti vedo. – Riesci a vedermi con gli occhi? – No, sono addormentati. – Come mi vedi? – Non lo so. – Riesci a sentirmi? – Con le tue orecchie? – No, sono addormentate. – Allora con cosa mi senti? – Non lo so. – Ma infine, parli adesso? – Sì. – Con la bocca? – No. – Con cosa allora, con cosa? – Beh, non lo so. – Allora! Ora dormi, ma parli, vedi, senti; verrà il sonno della morte e sentirai, vedrai, parlerai. “Il medico si svegliò e capì che Dio gli aveva insegnato, attraverso un angelo l’immortalità dell’anima (Mehler I, 494). Nulla, nemmeno il più piccolo atomo di polvere, va perduto in natura. La materia cambia forma, ma la sua massa in natura rimane sempre la stessa. Il corpo dell’uomo non sarà quindi annientato; e lo spirito umano, così elevato al di sopra del mondo visibile, sarebbe peggiore della materia inerte, del nostro povero corpo? Le stelle sopra di noi, la terra sotto di noi, che non pensano, né sentono, né sperano, mantengono intatta la loro forma esteriore; e l’uomo, il coronamento della creazione, viene creato solo per poche e fugaci ore?

Tutti i popoli credono nell’immortalità dell’anima.

Prima di tutto gli Ebrei. – Giacobbe voleva raggiungere suo figlio Giuseppe nel regno dei morti. (Gen. XXXVI 1,35). Tra gli Ebrei era vietato evocare i morti. (Deut. XVIII, 11). I Greci parlavano del Tartaro e dei Campi Elisi. Gli Egizi credevano in una migrazione di tremila anni delle anime. Le usanze di tutti i popoli: onoranze funebri, sacrifici funebri, ci portano a concludere che essi credessero nell’immortalità delle anime. “Il dogma della vita futura è antico quanto l’universo, diffuso come l’umanità” (Gaume). – Coloro che dicono che tutto finisce con la morte sono uomini che vivono nel peccato mortale e hanno paura del futuro. Con queste parole cercano di dissipare le loro paure, come i bambini impauriti fischiano al buio per nascondere e dissipare la paura dei fantasmi. Ma ciò che dicono singoli individui non può prevalere sulla fede universale; un individuo può sbagliarsi, ma non il genere umano. Chi desidera vivere come un animale, ovviamente non può desiderare la vita futura. “Anche il suicida, che è troppo vigliacco per sopportare il peso della vita, non ha alcuna intenzione di precipitarsi, vuole semplicemente trovare la pace che ha invano cercato quaggiù”. (Sant’Agostino).

11. I DONI SOPRANNATURALI.

I primi uomini erano felici quasi quanto gli Angeli buoni; “Signore – disse Davide -lo hai posto solo un po’ al di sotto degli Angeli; lo hai coronato di onore e di gloria” (Sal. VIII, 6). Tutte le mitologie pagane parlano della felicità dei primi uomini; i Romani la chiamavano l’Età dell’Oro ed Esiodo scrisse che la razza umana primitiva viveva come gli dei in perfetta felicità.

1. I PRIMI UOMINI POSSEDEVANO LO SPIRITO SANTO E ATTRAVERSO DI ESSO I PRIVILEGI SPECIALI PER L’ANIMA ED IL CORPO.

Erano “partecipi della natura divina” (II S. Pietro I, 4). Adamo era in stato di giustizia e santità (Conc. Tr. V, 1). Gli uomini non avevano da sé questa giustizia e santità, l’hanno avuta solo da Dio. L’occhio non produce luce, per vedere deve riceverla dall’esterno (Alb. Stolz).

I loro principali privilegi dell’anima erano i seguenti: avevano una ragione illuminata, una volontà priva di debolezza e la grazia santificante; erano quindi graditi a Dio, erano suoi figli ed eredi del cielo.

La ragione dei primi uomini era molto illuminata. (Sap. XVII, 5-6);

Adamo ne diede prova chiamando tutti gli animali con un nome che corrispondeva loro perfettamente. Egli riconobbe anche, dalle luci dello Spirito Santo l’indissolubilità del matrimonio. (Conc. Tr. S. 24). La loro volontà non era indebolita dalla concupiscenza. Rivestito della sola grazia che veniva dal cielo (S. G.. Cris.), non si vergognavano di se stessi; non c’era quindi la sensualità che eccitava i loro corpi contro la loro volontà. (S. Aug.). Per peccare, dunque, dovevano combattere una battaglia altrettanto violenta come la nostra per fare il bene. – Attraverso lo Spirito Santo che abitava in loro, i nostri primi genitori possedevano la grazia santificante, erano quindi simili e graditi a Dio. Avevano anche un grande amore per Dio, inseparabile dalla grazia santificante. – Poiché lo Spirito Santo abitava in loro, erano figli di Dio, perché “tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio sono suoi figli” (Rm VIII, 14). ed “essendo figli, erano anche eredi, cioè eredi di Dio e coeredi di Cristo” (ibid. 17). I figli hanno sempre diritto all’eredità del padre.

I loro principali privilegi nel corpo erano i seguenti: anch’esso era immortale e libero da ogni malattia; essi abitavano il paradiso e avevano sotto il loro dominio tutte le tutte le creature inferiori. Dio ha creato l’uomo immortale (Sap. II, 23). Da questo fatto risulta chiaro che Dio minacciò gli uomini di morte come castigo, dicendo loro dell’albero della conoscenza: “Nel giorno in cui ne mangerete, morirete della morte della vostra vita” (Gen. II, 17). Ma non si trattava solo di morte spirituale; Dio aveva in mente anche la morte corporea. Infatti, quando pronunciò la sentenza, disse: “Polvere sei e in polvere ritornerai. ” (Gen. IJJ, 19). L’uomo primitivo era privo di malattie; la malattia è il precursore della morte e siccome non esisteva la morte, non doveva esistere nemmeno la malattia. Senza dubbio, anche in paradiso, l’uomo doveva lavorare; ma questo lavoro faceva parte della sua felicità. “Il lavoro dava loro gioia ed era esente da ogni fatica; essi lo desideravano volontariamente come una gioia (Leone XIII).

– Il Paradiso era un magnifico giardino di delizie dove c’erano alberi splendidi con i frutti più gradevoli, molti animali belli e un fiume diviso in quattro rami. Accanto all’albero della conoscenza (quest’albero era la l’obbedienza di Adamo) c’era l’albero della vita: il frutto di quest’ultimo lo avrebbe salvato dalla morte. (Questo albero è stato sostituito dal SS. Sacramento). Gli studiosi ritengono che il paradiso fosse situato vicino ai fiumi Tigri ed Eufrate. Secondo le visioni di Caterina Emmerich, il paradiso esisterebbe ancora oggi e non sarebbe su questa terra; gli esseri umani sarebbero stati collocati sulla terra solo dopo la caduta, nel luogo del Giardino degli Ulivi dove il Cristo passò la notte in preghiera e dove soffrì la sua agonia la sera del Giovedì Santo. (Brentano, letterato tedesco che ha raccolto i racconti della Emmerich). L’uomo del paradiso dominava gli animali; essi erano docili davanti a lui: gli apparivano perché li vedesse e desse loro un nome adatto. (Gen. II, 19). La ragione di questa mansuetudine degli animali non è assolutamente da ricercare in una differenza di natura: è difficile, secondo S. Tommaso, ammettere un cambiamento di natura dopo la caduta, come se i carnivori non fossero stati carnivori in precedenza; dobbiamo piuttosto pensare che la fisionomia dell’uomo, una certa grandezza e maestosità esercitasse una grande influenza sugli animali. Dio ha reso l’uomo terribile per tutte le creature viventi” (Sap. XVII, 4). Anche oggi l’uomo ha conservato un po’ di quella maestosità; è capace con la sua presenza di terrorizzare gli animali. Dio disse anche a Noè: “Che tutti gli animali siano colpiti dal terrore e tremino davanti a te” (Gen. IX, 2). Gli animali feroci mostrano quale impero l’uomo possa esercitare sulle bestie più crudeli; ma questo impero è molto imperfetto rispetto a quello che era prima del peccato. Si dice di diversi Santi, tra cui San Francesco d’Assisi, che molti animali erano molto mansueti in loro compagnia; questo sembra essere una conseguenza della loro eminente santità: Dio avrebbe reso l’impero ai suoi servitori fedeli la cui innocenza era vicina a quella del paradiso.

2. QUESTI PRIVILEGI SPECIALI DEI NOSTRI PRIMI GENITORI SI CHIAMANO DONI SOPRANNATURALI PERCHÉ ERANO UN SUPPLEMENTO ALLA NATURA UMANA.

Alcuni esempi ci aiuteranno a comprendere questa dottrina. Un sovrano, per compassione fa impartire ad povero orfano un’educazione adeguata alla sua situazione: si occupa del suo cibo, dei suoi vestiti, della sua abitazione, della sua istruzione, del suo apprendistato di mestiere. (È così che Dio ha dato all’uomo doni assolutamente a lui indispensabili). Ma il sovrano può spingersi ancora oltre nella sua benevolenza: può adottarlo come suo figlio, ospitarlo nel suo palazzo, vestirlo come un principe, riceverlo alla tavola reale, assicurargli la successione al trono, ecc. (Allo stesso modo, Dio ha dato ai primi uomini doni soprannaturali che li hanno elevati ad un ordine superiore). L’acqua è composta da idrogeno e ossigeno. Togliete una di queste sostanze e l’acqua cesserà di essere acqua, perché ognuna di esse costituisce la propria natura. – (Così la natura dell’uomo è costituita dalla ragione, dalla libertà e dall’immortalità, senza le quali l’uomo cesserebbe di essere uomo e cadrebbe al livello degli animali). Ma quando a quest’acqua si aggiunge zucchero o vino, essa subisce un cambiamento, ha più sapore, più colore, più forza, in una parola, è più preziosa. (È così che Dio ha aggiunto molte qualità alla natura di Adamo ed Eva, qualità che l’hanno migliorata ed impreziosita, abbellita, nobilitata ed elevata. Si trattava di doni soprannaturali, che cioè non erano indispensabili alla natura dell’uomo e che potevano quindi scomparire in qualsiasi momento, senza che l’uomo cessasse di essere uomo). Questi doni soprannaturali producevano una più spiccata somiglianza con Dio; senza di essi una certa somiglianza, attraverso l’anima ragionevole ed immortale, sarebbe comunque esistita, ma non in questa misura. Un pittore può, con pochi tratti definire la figura di una persona, ma se usa ancora i colori e ne dipinge gli occhi, le guance, i capelli, ecc. il ritratto sarà più realistico, più bello e più prezioso. Lo Lo stesso vale per i doni naturali ed i doni soprannaturali; quelli costituiscono l’immagine naturale, questi l’immagine soprannaturale di Dio. Quando Dio, prima di creare l’uomo disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”, la parola immagine si riferiva ai doni naturali, mentre la parola somiglianza ai doni soprannaturali. (Bellarmino).

12. IL PECCATO ORIGINALE.

Il racconto della caduta originale ci viene dato da Mosè come un vero racconto storico, non come un mito o una favola. Questa è l’opinione di tutti i Dottori della Chiesa.

1. DIO NEL PARADISO DIEDE AI PRIMI UOMINI UN COMANDAMENTO: PROIBÌ LORO DI MANGIARE IL FRUTTO DI UN ALBERO PIANTATO AL CENTRO DEL PARADISO.

L’albero era al centro del paradiso, e l’uomo era al centro tra Dio e satana, tra la vita e la morte. (S. G. Cris.). Questo frutto non era cattivo di per sé, perché come avrebbe potuto Dio, in un paradiso così felice, creare qualcosa di malvagio? Questo frutto era cattivo e dannoso solo nella misura in cui era proibito. (Sant’Agostino).

L’osservanza di questo comandamento doveva far guadagnare ad Adamo ed Eva la beatitudine eterna.

Indubbiamente gli uomini, essendo figli di Dio per la grazia santificante, dovevano ottenere la felicità eterna come dono, come eredità. Ma una felicità meritata è una felicità più grande, e Dio, nella sua bontà, ha voluto anche che gli uomini meritassero il paradiso come ricompensa. – Se i nostri primi genitori non avessero trasgredito questo comandamento, tutti gli uomini sarebbero nati come la Santa Vergine, in stato di santità e, se fossero stati fedeli a Dio, sarebbero entrati in paradiso senza morire (S. Thom. Aq.). I discendenti di Adamo, pur essendo nati in santità, avrebbero potuto peccare e sarebbero morti come Adamo. Ma la colpa di questi singoli peccatori non sarebbe passata alla loro posterità, perché Dio aveva costituito l’unico Adamo come capo della razza umana (S. Thom. Aq).

2. GLI UOMINI SI SONO LASCIATI SEDURRE DAL DEMONIO E TRASGREDIRONO IL COMANDO DI DIO.

Il diavolo invidiava questi uomini che erano così felici in paradiso. “L’invidia del diavolo ha prodotto il peccato nel mondo” (Sap. II, 23); egli è stato omicida fin dal principio. (S. Giovanni VIII, 44). Nei confronti di Eva ricorse alla menzogna, ecco perché Cristo lo chiama padre della menzogna (ibid.). Egli prese una forma visibile, come gli Angeli buoni e cattivi, come Dio stesso, quando si rivelano agli uomini; egli prese la forma di serpente, perché Dio gli ha concesso solo la forma di questo animale che, con il suo veleno e la sua astuzia, è l’immagine esatta dell’astuzia e della malizia mortale del diavolo (S. Aug.; S. Th. Aq.). Il demone era costretto a prendere in prestito una forma visibile e ad attaccare gli uomini con l’esterno, perché interiormente non aveva ancora alcuna azione su di loro, in quanto le loro anime non erano ancora rovinate dalla concupiscenza. Sant’Agostino dice che Dio ha permesso questa tentazione, perché i nostri primi genitori, prima di peccare di disobbedienza si erano già resi colpevoli di negligenza, pensando poco a Lui e distraendosi nella contemplazione delle cose visibili; da qui la rapida comparsa della tentazione. (Eccles. VII, 30). La loro felicità originaria aveva reso imprevidenti i nostri primi genitori. (Mehler racconta la storia molto istintiva di un taglialegna. Un giorno, mentre lavorava davanti al principe con cui lavorava, pronunciò orribili imprecazioni contro Adamo ed Eva, che avevano trasgredito ad un comando così facile e avevano fatto precipitare la loro posterità in una miseria spaventosa. Mia moglie e io – disse – non saremmo stati così insensati”. – Bene rispose il principe, vedremo. D’ora in poi, tu e tua moglie sarete con me in paradiso come Adamo ed Eva. Ma verrà il giorno di Eva”. La coppia ricevette vestiti ed una casa magnifica, furono esonerati dal lavoro, sedettero alla tavola del principe, in breve, non conobbero nulla delle loro lacrime e del loro sudore. Poi arrivò la prova. Un giorno di festa il principe organizzò uno splendido banchetto, fece servire le pietanze più squisite, tra cui un piatto coperto da un piattino. Puoi mangiare tutto”, disse, “ma non devi mangiare il piatto coperto con un piattino fino al mio ritorno. Non dovrete nemmeno toccarlo, altrimenti la vostra felicità sarà finita”. Con ciò si recò nel suo giardino e impiegò molto tempo per tornare. La curiosità dei suoi due ospiti cresceva di minuto in minuto, e alla fine la donna non poté più resistere dal sollevare leggermente il coperchio. La disgrazia era compiuta: un bellissimo uccello che era stato dentro saltò fuori dal piatto e volò fuori dalla finestra. In quel momento apparve il principe che cacciò la coppia dal suo castello, dopo aver dato loro alcuni consigli salutari. Questo è un esempio lampante della debolezza umana.). – La maggioranza dei dottori ritiene che la caduta sia avvenuta a partire dal 6° giorno della creazione, lo stesso giorno e la stessa ora della redenzione, un venerdì alle 3. In effetti, è notevole che, secondo le Sacre Scritture, Dio, quando chiese ai nostri primi genitori un resoconto delle loro azioni, stava passeggiando nel giardino nel fresco del pomeriggio. (Gen. III, 8).

3. LA TRASGRESSIONE DEL COMANDAMENTO DIVINO EBBE TERRIBILI CONSEGUENZE: GLI UOMINI PERSERO LO SPIRITO SANTO E CON ESSO I DONI SOPRANNATURALI, INOLTRE SUBIRONO DEI DANNI NEI LORO CORPI E NELLE LORO ANIME.

Questo peccato è stato punito così severamente perché il comandamento era facile da adempiere (S. Aug.) e perché gli uomini hanno perso lo Spirito Santo e i doni soprannaturali ed avevano un’intelligenza molto illuminata. Questo peccato era mortale; lo sappiamo dalla morte che dovette subire un Dio per ripararlo, perché dalla forza del rimedio possiamo dedurre la gravità del male; dal rimedio possiamo dedurre la profondità e la pericolosità del danno. (S. Bern.) – Peccando, ad Adamo è successo quello che succede ad un uomo che cade nel fango. (S. Greg. Nys.) Il samaritano, che andava da Gerusalemme a Gerico, cadde nelle mani dei briganti e non solo fu spogliato di tutte le sue sostanze, ma venne anche coperto di ferite; gli uomini erano anche spogliati dei doni soprannaturali. Ma anche i doni naturali erano diminuiti. In altre parole, la somiglianza con Dio scomparve completamente e l’immagine naturale fu sfigurata. “Con il peccato originale l’uomo si è corrotto nel corpo e nell’anima”. (Concilio di Trento 5, 1).

Il peccato ha danneggiato l’anima dei nostri primi genitori, 1º oscurando la loro ragione, 2º indebolendo la loro volontà e inclinandola al male, 3° privandola della grazia santificante per cui hanno dispiaciuto a Dio e non hanno potuto entrare in paradiso.

La loro ragione era oscurata, cioè non conoscevano più così chiaramente il Dio buono, né la sua volontà, né lo scopo della loro vita, ecc. – La loro volontà era indebolita. Peccando, l’uomo aveva disturbato l’armonia tra le sue facoltà spirituali e le sensibili. I sensi non si sottomettevano più senza resistenza al dominio della ragione e della volontà. Per punirlo di essersi ribellato a Dio, la carne dell’uomo si è ribellata a lui. Per questo l’uomo si vergogna del proprio corpo (S. Euch.). S. Paolo dice anche: “Sento nelle mie membra un’altra legge, che ripugna alla legge dello spirito”. (Rom. VII, 23). La carne cospira contro lo spirito” (Gal. V, 17). Come la pietra è attratta dalla sua gravità verso il suolo, così la volontà dell’uomo è costantemente diretta verso le cose terrene. “Lo spirito dell’uomo e tutti i pensieri del suo cuore sono inclini al male fin dalla giovinezza” (Gen. VIII, 21). Il peccato originale ha prodotto in noi in modo particolare le inclinazioni malvagie che satana aveva suscitato nei nostri primi genitori: dubitare della parola di Dio o l’incredulità, la messa in dubbio della sua giustizia o leggerezza, l’orgoglio, le passioni sensuali. (Hirscher) Eva, che per prima scrutava gli alberi del paradiso, che conversava colpevolmente con satana e poi con il marito, che per prima voleva essere come Dio, ha trasmesso al suo sesso i vizi della curiosità, della loquacità e della vanità. Ma le facoltà spirituali dell’uomo, la ragione ed il libero arbitrio, sono state solo indebolite dal peccato originale, non distrutte come sosteneva Lutero. L’uomo ha quindi ancora il suo libero arbitrio, nonostante la caduta (Conc. Tr. S. 6, 5); se l’avesse perso del tutto, perché avrebbe deliberato prima di compiere le sue azioni, perché si sarebbe talvolta pentito? Così Agostino dice: ” anche se Dio ci avesse creato così come siamo dopo la caduta, la nostra anima avrebbe ancora qualità preziose e avremmo motivo di essergli molto grati. – I nostri primi genitori hanno perso la grazia santificante, cioè la giustizia e la santità in cui erano stati creati (Conc. Tr. S. 6, 1), e di conseguenza l’amicizia di Dio. Chi muore con il peccato originale non raggiunge la visione di Dio, ma non è affatto condannato alle pene dell’inferno. La pena del peccato originale – dice Innocenzo III – è la privazione della visione di Dio, la pena del peccato personale è il fuoco eterno dell’inferno. – Da questo possiamo trarre le conclusioni circa i bambini morti senza Battesimo.

Nel loro corpo i nostri primi genitori hanno sofferto i seguenti mali: 1. furono soggetti alla malattia e alla morte; 2. furono espulsi dal paradiso e sottoposti a lavori forzosi e la donna fu messa sotto la dominazione dell’uomo; 3. le forze della natura e le creature inferiori potevano nuocere all’uomo, e infine lo spirito maligno era in grado di tentarlo più facilmente e, con il permesso di Dio, di danneggiare i suoi beni temporali.

A causa del peccato originale, l’uomo fu condannato a morire. Diodisse ad Adamo: “Mangerai il tuo pane con il sudore della fronte, finché non tornerai sulla terra da dove sei uscito; perché polvere sei e in polvere ritornerai. (Gen. III, 19). Il Sacerdote ci ripete questa frase il mercoledì delle Ceneri, mentre ci cosparge la fronte di cenere. La morte è la peggiore conseguenza del peccato originale. La morte corporea è solo una piccola immagine della morte spirituale ed eterna, ancora più terribile, decretata contro l’umanità e dalla quale può essere salvata soltanto dalla Redenzione e penitenza. – La chiusura delle porte dell’Eden era anche un simbolo della chiusura del paradiso celeste (S. Th. Aq.). Gli uomini del peccato furono sottoposti a lavori penosi. Dio infatti disse ad Adamo: “Sia maledetta la terra a causa della vostra azione, produca rovi e spine… mangerai il tuo pane con il sudore della tua fronte” (Gen. III, 17). È stato per eliminare questa maledizione, che la Chiesa istituì un gran numero di benedizioni. – Da quel momento in poi, la donna fu sottomessa all’uomo, perché lo aveva sedotto. “Sarai sotto il potere dell’uomo – disse Dio – ed egli avrà il dominio su di te”. (Gen. III, 16). Anche la donna subirà molte tribolazioni attraverso i suoi figli (ibidem), perché li ha resi infelici con il suo peccato. – Le creature inferiori da quel momento in poi furono in grado di fare del male all’uomo: dato che si era ribellato a Dio, suo padrone, è giusto che a loro volta le creature si ribellino a colui che doveva essere il loro re. Dio non allontana più dall’uomo le influenze nocive degli elementi, piante e animali, da cui le varie piaghe del fuoco, dell’acqua e delle bestie. Queste fuggono tutte dall’uomo e molte gli sono addirittura ostili. Gli uomini, che prima terrorizzavano tutti gli animali, ora hanno tutti paura”. (S. Pier Chris.) – Anche il diavolo ha ora una grande influenza sull’uomo, in base al principio che chi è sconfitto, diventa schiavo del suo conquistatore”. (2 S. Pietro II,19). Il diavolo, soprattutto ora che l’uomo è incline al peccato, può tentarlo molto più facilmente e condurlo al peccato mortale (ad esempio Giuda) e, con il permesso di Dio, danneggiare anche i suoi beni temporali. (Giobbe, ad es.) Per questo il diavolo è chiamato principe di questo mondo. (S. Giovanni XII, 31; XIV, 30), il principe della morte (Eb. 11, 14). – Siamo viaggiatori su questa terra, viaggiatori sul cui cammino i demoni tendono agguati come briganti. (S. Greg. M.) Il mondo intero (I S. Giovan. V, 19) è sotto l’impero dello spirito maligno. Un pesante giogo grava sui figli di Adamo dal giorno della loro nascita fino al giorno della loro sepoltura. (Eccl. XL, 1). È per questo che il bambino inizia la sua vita piangendo. – Tutti questi castighi inflitti all’uomo erano anche un rimedio per lui. La malattia, la morte, la necessità di lavorare, l’assoggettamento e sottomissione agli altri uomini sono utili per frenare l’orgoglio e la sensualità. Egli fu espulso dal paradiso perché non mangiasse dallalbero di vita; questo lo avrebbe reso da immortale in una terribile miseria; questa espulsione è stata anche un mezzo efficace per eccitarlo alla penitenza.

4. IL PECCATO DEL PRIMO UOMO, CON TUTTE LE SUE INFELICI CONSEGUENZE PASSÒ A TUTTI I SUOI DISCENDENTI. (Conc. Tr. S. 5, 2).

Ogni giorno sento il dolore del peccato e, poiché sento il dolore, ne ricordo anche la colpa. (S. Greg. M.) Tuttavia, non è solo il dolore che ci è stato trasmesso, ma il peccato stesso, la colpa di Adamo, perché sarebbe empio pensare che un Dio giusto voglia punire qualcuno che è assolutamente esente da colpe. (S. Prosp.) Siamo nati figli dell’ira (Ef. II, 3), abbiamo tutti peccato in Adamo (Rom. V, 12). Abbiamo peccato in Adamo, come le membra del corpo cooperano al peccato, quando sono mossi da una volontà malvagia dell’anima. È possibile avvelenare tutti i frutti di un albero avvelenando la radice; questo processo riuscì al diavolo in paradiso (Segneri). Ecco altre analogie. Il Signore dà, per esempio, una terra a uno dei suoi servi a condizione che gli sia fedele. Se non mantiene la promessa, perde la terra non solo per sé ma anche per i suoi figli. Qualcosa di simile è accaduto nel peccato originale. (Atti del Conc. Tr.) Supponiamo ancora un padre nobile. Se manca gravemente al suo signore, gli verranno tolti sia la nobiltà che i feudi. I figli erediteranno il titolo e la fortuna? No, ma erediteranno la povertà e la miseria del padre. Il peccato originale è ereditario come alcune malattie del corpo. – Questo è un errore condannato dalla Chiesa (Conc. Tr. ô) credere che siamo peccatori in Adamo per imitazione del suo peccato. Come spiegare la morte dei bambini piccoli che non imitano il peccato di Adamo? La dottrina della Chiesa, secondo cui anche noi siamo diventati peccatori attraverso l’atto libero di Adamo, è un mistero della fede. –

Questo peccato è chiamato originale, perché lo abbiamo fin dalla nostra origine in Adamo.

Siamo infettati dal peccato prima di respirare l’aria (S. Ambr.), concepiti nel peccato (Sal. L, 7), perché siamo figli della concupiscenza. (I figli dei cristiani non sono esenti dal peccato originale. – Conc. Tr.) Non si nasce Cristiani, ma con il battesimo si rinasce Cristiani (S. Girol.). Così è per le olive: anche i noccioli degli ulivi coltivati producono solo olive selvatiche. (S. Aug.).

Gesù Cristo e la Beata Vergine Maria furono i soli esenti dal peccato originale.

Alcuni dottori credono che Geremia (Ger. I, 5) e 8. Giovanni Battista (S. Luc. I, 15), sebbene affetti dal peccato originale, fossero santificati prima della loro nascita. (S. Ambr., S. Athan.) Tutti gli altri uomini sono purificati dal peccato originale solo con il Battesimo (di acqua, di sangue o di desiderio). – Rifiutare il peccato originale significa condannarsi a non comprendere nulla della storia dell’umanità; ammetterlo significa comprendere se stessi e la storia del mondo (Ketteler – Vescovo di Magonza). Quanto grande è la miseria in cui il peccato originale ha fatto precipitare il genere umano. Sono pochi quelli che se ne rendono conto; molti pensano addirittura di essere molto felici qui! Sono come un bambino nato in una prigione buia, nella quale gioca, si diverte, perché non sa cosa sia la luce: la madre, invece, è triste e geme. Allo stesso modo i figli del mondo sono pieni di gioia, ma i Santi, che conoscono le gioie del paradiso, sono pieni di tristezza e versano lacrime quaggiù. (Didac.).

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (19)

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (19)

FRANCESCO OLGIATI,

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA.

Soc. ed. Vita e Pensiero, XIV ed., Milano – 1956.

Imprim. In curia Arch. Med. Dic. 1956- + J. Schiavini Vic. Gen.

Capitolo ottavo

MORALE E SANZIONE

Il pensiero della morte può proiettare un’ombra scura e sinistra su tutta l’esistenza terrena, se si prescinde dall’amore di Dio. Per questo il vecchio proverbio indiano, dopo d’aver osservato che di una vita umana, metà degli anni passa nel sonno, metà dell’altra nella incoscienza della fanciullezza e della vecchiaia, ed il resto nel lavoro, nelle malattie, nelle separazioni e nei dolori, si domandava: « Come possono gli uomini trovar pace in una vita, che somiglia al suono di un maroso? ». E Lenau, il poeta pessimista, esclamava: “Umano cor, cos’è il piacer quaggiù?/Un momento che, nato a mo’ d’enimma, salutato s’invola e non vien più.”

L’anima di verità del pessimismo sta appunto nel cogliere con precisione e con intensità il nulla di tutti i valori umani, quando il relativo è considerato avulso dall’Assoluto, quando il tempo è riguardato senza il nesso che ha con l’eternità, quando l’uomo è visto sotto un’altra luce che non sia la luce di Dio.

La scena si trasforma se la vita e la morte — come dicemmo — vengono illuminate dall’Amore divino e se tutto viene contemplato e vissuto come un raggio di quest’unico Sole. Allora la realtà umana non è più un’ombra lieve che dilegua, ma tutto ha un valore eterno. Il vero problema della sanzione nella morale cristiana non può essere impostato, nè tanto meno risolto, se non da chi afferra la connessione tra l’Amore di Dio e l’atto umano, tra l’azione nella sua apparenza esteriore e l’azione nella sua anima vivificatrice, tra il tempo che scorre e l’eternità che resta. Ancora una volta: bisogna ripensare ogni questione dell’etica in funzione del concetto di Amore.

1. – La triplice sanzione.

Innanzi tutto è uno sbaglio madornale credere che la sanzione della virtù o del vizio, dell’atto buono o dell’atto malvagio, sia — secondo la morale cristiana — da relegarsi solo nell’al di là, o che l’al di là sia senza collegamento organico con la vita di quaggiù. Per null’affatto.

I. Siccome l’uomo è ordinato a Dio e deve vivere secondo la legge dell’Amore di Dio, ogni volta che egli tradisce il suo dovere e resta affascinato dalle inezie, ha una prima sanzione in se stesso. « Omnis animus inordinatus pœna sui ipsius », notava sant’Agostino nelle Confessioni e le pagine intorno al rimorso abbondano in tutta la letteratura patristica ed ascetica. Ciò che di vero c’è nell’etica stoica è stato sempre dal Cristianesimo riconosciuto e proclamato. Quando la stoicismo antico e moderno insegna che « virtus pretium sui » e che « vitium pœna sui », quando ricorda che ad ogni azione umana è immanente una sanzione, non fa altro se non ripetere ciò che il Vecchio ed il Nuovo Testamento hanno proclamato e che l’esperienza di ognuno può confermare. La propria dignità, elevata, depressa o distrutta, ossia in altri termini, il vero ed illimitato amore a noi stessi, è connesso col nostro agire libero. Chi ama le cose grandi, si sente grande; chi ama Dio, è da Dio trasformato e divinizzato; chi, al contrario, pecca, si abbassa e il verme roditore della coscienza lo avverte e lo angustia. Questo premio e questo castigo immanente, però, non sono da interpretarsi come un semplice « sentimento », che potrebbe essere trascurato o impunemente disprezzato; ma sono da ridursi all’amore di Dio per noi. La gioia della coscienza e il suo intimo tormento sono un frutto della volontà nostra, che accetta o rifiuta l’Amore di Dio e ci cantano questo Amore stesso. Persino le conseguenze tristi, che talvolta ci provengono da una colpa, e soprattutto la coscienza lacerata dai rimorsi hanno un simile significato. Giustamente all’Innominato che esclamava: « Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio? », il buon cardinale Federico rispondeva: « Voi me lo domandate? Voi? E chi più di voi l’ha vicino? Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una speranza di quiete, di consolazione che sarà piena, immensa, subito che voi lo riconosciate? ». Giustamente l’autore dell’Imitazione di Cristo sussurra al nostro orecchio: « Essere con Gesù è un dolce paradiso »: il paradiso o l’inferno non cominciano col momento della morte, ma con l’azione nostra quaggiù. « Ho l’inferno nel cuore », diceva ancora l’Innominato; « ho il paradiso nell’animo », asserisce il giusto. E non si tratta di metafore. Poiché, cos’è la vera essenza dell’inferno, se non la separazione da Dio e dal suo Amore? Cosa sarà il cielo, se non l’unione nostra con Dio nella visione beatifica e nell’Amore eterno? Certo il fiore pienamente sbocciato non è uguale al germe dal quale proviene; tuttavia è col germe stesso organicamente congiunto: la felicità o l’infelicità eterna non sono se non il completo svolgimento della realtà attuale.

2. Siccome noi non siamo atomi dispersi, ma costituiamo un unico organismo mistico in Cristo, è evidente che ogni colpa ha una ripercussione ed ogni atto virtuoso ha un benefico influsso su tutti i fratelli. C’è una sanzione anche su questa terra, non solo individuale, ma altresì sociale. E con questa espressione non voglio alludere tanto agli onori che la società può tributare al buon cittadino o alle pene che usa contro il disonesto; ma piuttosto, ai risultati delle nostre azioni. Come è innegabile, per dirla con Elisabetta Leseur, che « chi eleva sè innalza tutto il mondo », così non è meno inevitabile che ogni colpa divenga la prima scintilla provocatrice di un incendio distruttore. Ed anche qui, quando coi positivisti e con gli utilitaristi si illustra la sanzione sociale che accompagna il bene ed il male, si afferma una grande verità che il Cristianesimo ha sempre rammentato, inculcando il senso della responsabilità che deve illuminarci nella quotidiana battaglia. Ma, ancora una volta, è in forza dell’Amore che dobbiamo tener vigile in noi tale consapevolezza. È l’amore al prossimo nostro che rischiara questo punto essenziale dell’etica e questa sua speciale sanzione. Al Caino che dovesse dirci: « Sono forse io il custode di mio fratello? E che importa a me del benessere o del danno altrui? », il Cristianesimo ricorda che noi siamo responsabili non solo di quanto facciamo, ma anche delle conseguenze dell’azione nostra, la quale, anzi, per essere seriamente valutata, deve venir esaminata non soltanto in sè e nella sua intrinseca malizia o bontà, ma altresì in rapporto agli altri. Accendere un fiammifero per fumare una sigaretta può essere un delitto, se ci troviamo vicino ad un po’ di dinamite…

3. C’è una terza sanzione, collegata non già all’amore che dobbiamo avere e coltivare per noi stessi e per il prossimo, ma all’amore di Dio, la quale si manifesta bensì inizialmente in questa vita con le due sanzioni imperfette che abbiamo descritto, ma si sviluppa poi in quella sanzione completa dell’eternità, che si chiama paradiso, inferno, purgatorio e che dobbiamo ora studiare, sempre in rapporto all’Amore.

2. – Il paradiso e l’amore.

Notiamo subito come sarebbe pretesa assurda il volersi avviare pei floridi sentier della speranza, ai campi eterni, al premio che i desideri avanza, senza esser sorretti dall’Amore. Iddio per amore ci ha creati; per amore ci ha elevati all’ordine soprannaturale e ci ha uniti a Lui con la grazia e con la carità; per amore vuole che non siamo da Lui separati, nè in questa né nell’altra vita. Il paradiso, dunque, da parte di Dio, non è altro se non l’Amore suo per noi e il premio dell’amore nostro per Lui. Da parte nostra, in questo periodo di prova che Iddio ha voluto concederci, perché ci ama, ossia perchè con un gesto squisitamente bello d’amore, ha voluto che noi cooperassimo all’acquisto della felicità, conquistiamo il paradiso con l’amore che portiamo a Dio, osservando per amore la legge morale, amandolo sopra ogni cosa ed amando il prossimo nostro per amor suo; e secondo il grado del nostro amore sarà il grado del premio. In se stesso, cos’è il Paradiso? Esso consiste nella visione di Dio non più per speculum et in ænigmate, ma a faccia a faccia e nell’amore che ci unirà a Lui in eterno. Il paradiso sarà la immersione nostra nel mare della Trinità, per esprimerci con la Santa da Siena. Gesù Cristo ci unisce a Lui in questa vita e noi costituiamo un unico corpo mistico col Figlio, divenendo così per tale nostra incorporazione, figli adottivi di Dio. Insieme con Cristo, noi conosceremo il Padre e lo ameremo, non già con una conoscenza ed amore puramente umani, ma con la conoscenza del Verbo e con l’amore dello Spirito Santo. Pregava santa Caterina nel pio fervore dell’animo in festa: « O potente ed eterna Trinità! o dolcissima ed ineffabile Carità, chi non s’infiammerebbe a tanto amore? Qual cuore potrebbe difendersi dal consumarsi per te? O abisso di Carità! Tu sei dunque così perdutamente attaccato alle tue creature, che sembra che tu non possa vivere senza di loro! Eppure tu sei il nostro Dio! Tu non hai bisogno di noi. Il nostro bene non aggiunge nulla alla tua grandezza, poichè tu sei immutabile. Il nostro male non potrebbe cagionare alcun danno verso di te, che sei la sovrana ed eterna Bontà!… Chi porta te, Dio infinito, verso di me, piccola creatura? Nessun altro che tu stesso, o fuoco d’amore! L’amore, sempre, solo ti spinge e ti spinge ancora a far misericordia alle tue creature, colmandole di grazie infinite e di doni senza misura. O bontà superiore ad ogni bontà, tu solo sei sommamente buono! ». – La felicità eterna consiste in questo possesso sicuro e perenne dell’essere che è tutto l’Essere e che perciò sazia ogni desiderio, nella visione intuitiva che ci rivelerà i segreti della Carità infinita, nell’infinito amore di Dio. Desiderare il paradiso significa, quindi, aspirare all’Amore che incorona la vita cristiana e che, essendo eterno ed immortale in sè, sarà premio eterno ed immortale anche per noi. Il cupio dissolvi di san Paolo; il grido di Caterina da Siena: « Come il cervo sospira l’acqua della fonte, così l’anima mia deve uscire dal carcere tenebroso del corpo, per vederti in verità »; il gesto di san Filippo Neri, che prende il cappello cardinalizio, inviatogli dal Papa, e gioca lanciandolo in alto e ripetendo « paradiso! paradiso! », sono voci di amore, che non rinnegano i valori umani, che anzi li utilizzano e li svolgono, ma non in essi ripongono il cuore, quasi che avessimo quaggiù la città che rimane, bensì guardando il Cielo e di cielo riempiono la terra. Vi sarà il Cristiano imperfetto, che all’Amore eterno del paradiso penserà come ad una felicità; vi sarà il Cristiano perfetto, che volgerà di preferenza l’occhio al Dio dell’Amore; ma nell’uno e nell’altro caso il paradiso non è se non il trionfo dell’Amore.

3. – Il purgatorio e l’amore.

Evidentemente, allora, cosa implica il Paradiso? Che si ami Dio con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze. Non può entrare in paradiso chi non ha la purezza dell’amore, ossia chi muore avendo ancora una soddisfazione da dare od anche un solo filo d’amore per le creature o per la colpa. Bisognerebbe poter riassumere le opere di san Francesco di Sales o la Salita del Carmelo di san Giovanni della Croce, per comprendere meglio la purificazione totale dell’essere umano, che ci rende degni — per usare una frase di san Paolo ai Colossesi — d’entrare a far parte della compagnia dei santi nella luce e ci trasferisce nel regno del Figlio dell’Amore. Fin quando, pur non avendo un peccato grave, non s’è passati per la notte oscura della mortificazione degli appetiti umani, dell’abnegazione dei piaceri umani, delle affezioni alle creature; fin quando o il peccato veniale o le pene delle colpe — gravi o leggere — perdonate non hanno compiuto l’annientamento delle macchie di ciò che è terreno, non ci è possibile entrare in cielo. Il paradiso è amore di Dio; se si amano, in modo non ordinato, le creature, ossia se in noi esiste anche un minuscolo idoletto, se ci resta ancora qualcosa da pagare alla divina giustizia, Dio non ci unisce a Lui nella gloria. Ecco la ragione del purgatorio. L’Amore di Dio l’ha creato per purificare le anime da ogni e qualsiasi altro amare e da qualsiasi macchia, per renderle capaci della visione e del possesso dell’Amore infinito. E noi, che da quelle anime non siamo divisi, ma ad esse siamo uniti in Cristo, possiamo affrettare loro la purificazione interiore assoluta, coi suffragi della carità. La preghiera per le anime purganti non è altro se non una forma di amore per il prossimo, per le glorie dell’amore di Dio.

4. – L’inferno e l’amore.

Qualcuno si stupirà ora di sentir parlare dell’inferno in funzione del concetto di Amore. Ma non si meravigliò il poeta teologo, Dante nostro, nelle sue terzine:

“Per me si va nella città dolente,/ per me si va nell’eterno dolore,/ per me si va tra la perduta gente./ Giustizia mosse il mio alto Fattore:/ fecemi la divina Potestate,/ la somma Sapienza e il primo Amore./ Dinanzi a me non fur cose create/ se non eterne, ed io eterno duro./ Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate.”

Per capire il pensiero di Dante, giova fare una riflessione. Analizziamo lo stato d’animo di coloro che non vogliono concepire un inferno eterno, ossia che lo vogliono sostituire col purgatorio. Se ben si osserva, tale pretesa ricopre l’egoismo più brutale e più sfacciato. Essa, press’a poco, si potrebbe enunciare così: Io, peccatore, adesso, in questo periodo di prova in cui dovrei dimostrare con la vita morale di amare Dio, non lo voglio amare; preferisco a Lui la carne, l’oro, il mio io e via dicendo. Fino alla morte, proprio fino all’ultimo istante, voglio conservarmi in questo mio orientamento spirituale. Poi, quando, col termine della mia esistenza terrena, più non potrò godere questi beni, allora… allora Dio sarebbe ingiusto, se non mi ammettesse al suo amore! Perché dovrebbe farmi soffrire per sempre? In quel tempo, io cambierò parere. Quando non avrò null’altro da desiderare, mi rivolgerò a Dio. Ma, intendiamoci: se anche allora io potessi godermela come oggi, non saprei che farmene di Dio… ». – Tale, dunque, si prospetta il contrasto tra Dio e il dannato. Da una parte, abbiamo l’Amore infinito; abbiamo Gesù Cristo che tanto ci ha amato da incarnarsi e da morire per noi; abbiamo una profusione di amore e di grazie, che dà diritto a Dio di chiedersi: « Che cosa avrei potuto far di più per la mia vigna, che non abbia fatto? »; abbiamo una continua insistenza di Dio verso il peccatore sino all’ultimo respiro; dall’altra parte, abbiamo il rifiuto, voluto, colpevole, ostinato dell’Amore di Dio. Con la morte, il tempo della prova finisce. Fino alla separazione dell’anima dal corpo, Dio chiama il figlio ribelle e lo avverte che da lui dipende un’eternità. Ed il Figlio re spinge l’appello del Primo Amore. Non esige forse la giustizia un castigo proporzionato alla colpa? E come si può negare che la colpa, in questo caso, sia d’una gravità infinita, essendo infinito l’Amore insultato dalla stolta ribellione? Di qui la pena del danno, in cui consiste essenzialmente l’inferno, ossia la separazione perenne dell’Amore e l’odio contro Dio; di qui anche la pena del senso, in quanto il dannato brucerà tra le fiamme, vere e proprie, che gli rammenteranno il fuoco rifiutato dell’Amore divino; di qui la definizione esattissima, che santa Caterina da Genova dava di satana: « Colui che non ama e non può amare».

5. – Conclusione

In tal modo la legge morale avrà la sua perfetta sanzione con l’Amore conquistato o perduto per sempre. E all’ultimo dei giorni, nel giudizio universale, la sanzione sarà proclamata non più solo individualmente, ma per tutta l’umanità. Sarà distrutto il mondo. I beni di quaggiù, che furono preferiti all’Amore di Dio, appariranno nel loro nulla. L’empio — descrive la Sapienza — dirà: « Che ci ha giovato l’arroganza? e la ricchezza con la boria che bene ci ha apportato? Tutto ciò è passato come ombra e come fugace notizia. Come nave che traversa l’acqua ondeggiante, che una volta passata non se ne trova più traccia, né il solco della sua carena tra le onde; e come un uccello, che vola per l’aria, non lascia segno del suo cammino… Così anche noi, messi al mondo, siam venuti meno, V’è e non avemmo nemmeno un segno di virtù da mostrare, quaggiù anzi nella nostra malvagità ci siamo spenti. I giusti invece vivono in eterno e il loro premio sta nel Signore ».

Due eserciti saranno allora di fronte: l’esercito dell’Amore e l’esercito dell’odio. Comparirà in cielo il simbolo eterno dell’amore, la Croce. Verrà Gesù Cristo e dirà il venite benedicti, ai figli dell’amore, a coloro che hanno amato Dio re di ogni cosa e che nel prossimo hanno veduto e riconosciuto Lui stesso: « Avevo fame e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere… Ogni volta che avete fatto questo anche all’ultimo di costoro, l’avete fatto a me ». – Le offese all’Amore saranno in quel giorno riparate. L’ite, maledicti, in ignem aeternum sarà la vittoria dell’Amore, che si volle disconoscere, calpestare e distruggere. Così termineranno le vicende di un mondo, dove l’Amore di Dio è lasciato alla libera scelta dell’uomo e si inizieranno i secoli futuri. – Basta la semplice esposizione della morale cristiana per disperdere come una nube al soffio del vento le trite e ritrite obbiezioni intorno all’ingiustizia di Dio, all’utilitarismo ed all’egoismo dell’etica nostra, od alla degradazione della dignità umana a proposito di paradiso e di inferno. Sono accuse che morrebbero sulle labbra, se si approfondisse l’insegnamento del Cristianesimo. Ciò che mai morrà è il grido col quale santa Caterina da Siena chiudeva una sua lettera alla regina Giovanna di Napoli: « O Gesù dolce! O Gesù amore! ». Così deve terminare la nostra vita. Così anche terminerà la storia.

Riepilogo.

V’è una sanzione immanente ad ogni atto buono o cattivo, anche quaggiù, e consiste nell’intima gioia del bene compiuto o nel rimorso del male fatto; inoltre, v’è anche su questa terra una sanzione, non solo individuale, ma altresì sociale. Questa duplice sanzione risponde all’amore che dobbiamo avere a noi ed al prossimo nostro; ed è più o meno imperfetta. V’è una sanzione perfetta, che è collegata all’amore che dobbiamo a Dio e si ha nell’altra vita col paradiso, il purgatorio e l’inferno. Il paradiso è il trionfo dell’amore. Il purgatorio è la purificazione da tutto ciò che contrasta all’amore di Dio, ed i suffragi per le anime purganti sono una forma nobilissima di amore per il prossimo. L’inferno, per la pena del danno, consiste nella separazione definitiva dall’Amore di Dio; per la pena del senso, è un fuoco vero, che punisce le fiamme delle passioni appagate. Nel giorno del giudizio, la sanzione della legge morale sarà proclamata, non solo individualmente, ma per tutta l’umanità. Staranno di fronte l’esercito dell’Amore e l’esercito dell’odio. Trionferà il segno dell’Amore, la Croce.

IL SILLABARIO DELLA MORALE CRISTIANA (20)

FESTA DEL SANTISSIMO NOME DI MARIA (2023)

FESTA DEL SS. NOME DI MARIA (2023).

Doppio maggiore. – Paramenti bianchi.

Come qualche giorno dopo Natale si celebra il Santo Nome di Gesù, così dopo la festa della Natività di Maria, si glorifica il suo santo Nome. Otto giorni dopo la nascita della Vergine, come era uso presso i Giudei, i suoi Genitori, ispirati da Dio, dicono San Gerolamo e Sant’Antonino, la chiamarono Maria. Per ciò, durante l’Ottava della Natività, la liturgia ha una festa che ci fa onorare questo Santo nome. La Spagna, con l’approvazione di Roma, fu la prima a celebrarla nel 1513, e nel 1683 questa festa fu estesa da Innocenzo XI a tutta la Chiesa per ringraziare Maria della vittoria che Giovanni Sobieski, re di Polonia, riportò contro i Turchi, che assediavano Vienna e minacciavano l’Occidente. « Il nome della Vergine, dice il Vangelo, era Maria. » – « Il nome Maria in ebraico significa Signora » come ben dice san Pier Crisologo. Questo nome ben si conviene alla Vergine Santissima in quanto che, come Madre di nostro Signore, partecipa in qualche modo della signoria di Gesù su tutto il mondo. Pronunziare il suo nome, è affermare la sua grande potenza. Offriamo il santo Sacrificio a Dio per onorare il Santissimo Nome di Maria e ottenere, mediante la sua preghiera, di sperimentare sempre e in ogni luogo la sua protezione (Postcom.).

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

 V. Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

… Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis tuis, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.
M. Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et tibi, pater: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et te, pater, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur vestri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis vestris, perdúcat vos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam,
absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps XLIV:13;15-16
Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

Ps 44:2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi.
V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sǽcula sæculórum. Amen.

Vultum tuum deprecabúntur omnes dívites plebis: adducéntur Regi Vírgines post eam: próximæ ejus adducéntur tibi in lætítia et exsultatióne.

[I ricchi del popolo implorano il tuo volto. Dal re sono introdotte le vergini con lei: le sue compagne ti sono portate con festevole esultanza.

Vibra nel mio cuore un ispirato pensiero, mentre al Sovrano canto il mio poema.



I ricchi del popolo implorano il tuo volto. Dal re sono introdotte le vergini con lei: le sue compagne ti sono portate con festevole esultanza].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléiso

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Orémus.

Concéde, quǽsumus, omnípotens Deus: ut fidéles tui, qui sub sanctíssimæ Vírginis Maríæ Nómine et protectióne lætántur; ejus pia intercessióne a cunctis malis liberéntur in terris, et ad gáudia ætérna perveníre mereántur in cœlis.
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.
R. Amen.

[Concedi benigno, o Dio onnipotente, che i tuoi fedeli, che si rallegrano del Nome e della protezione della Vergine Maria, per la sua protezione, siano liberati da ogni male in terra e meritino di pervenire ai gaudi eterni in cielo.]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli 24:23-31
Ego quasi vitis fructificávi suavitátem odóris: et flores mei fructus honóris et honestátis. Ego mater pulchræ dilectiónis et timóris et agnitiónis et sanctæ spei. In me grátia omnis viæ et veritátis: in me omnis spes vitæ et virtútis. Transíte ad me, omnes qui concupíscitis me, et a generatiónibus meis implémini. Spíritus enim meus super mel dulcis, et heréditas mea super mel et favum. Memória mea in generatiónes sæculórum. Qui edunt me, adhuc esúrient: et qui bibunt me, adhuc sítient. Qui audit me, non confundétur: et qui operántur in me, non peccábunt. Qui elúcidant me, vitam ætérnam habébunt.
R. Deo grátias.

[Come una vite, io produssi pàmpini di odore soave, e i miei fiori diedero frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell’amore, del timore, della conoscenza e della santa speranza. In me si trova ogni grazia di dottrina e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, voi tutti che mi desiderate, e dei miei frutti saziatevi. Poiché il mio spirito è più dolce del miele, e la mia eredità più dolce di un favo di miele. Il mio ricordo rimarrà per volger di secoli. Chi mangia di me, avrà ancor fame; chi beve di me, avrà ancor sete. Chi mi ascolta, non patirà vergogna; chi agisce con me, non peccherà; chi mi fa conoscere, avrà la vita eterna].

Graduale

Benedícta et venerábilis es, Virgo María: quæ sine tactu pudóris invénta es Mater Salvatóris.
V. Virgo, Dei Génitrix, quem totus non capit orbis, in tua se clausit víscera factus homo. Allelúja, allelúja.
V. Post partum, Virgo, invioláta permansísti: Dei Génitrix, intercéde pro nobis.

Allelúja.

[Tu sei benedetta e venerabile, o Vergine Maria, che senza offesa del pudore sei diventata la Madre del Salvatore.
V. O Vergine Madre di Dio, nel tuo seno, fattosi uomo, si rinchiuse Colui che l’universo non può contenere. Allelúia, allelúia.
V. O Vergine, anche dopo il parto tu rimanesti inviolata; o Madre di Dio, prega per noi. Alleluia].

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam.
R. Glória tibi, Dómine.
Luc 1:26-38
In illo témpore: Missus est Angelus Gábriel a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Joseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus. Quæ cum audísset, turbáta est in sermóne ejus: et cogitábat, qualis esset ista salutátio. Et ait Angelus ei: Ne tímeas, María, invenísti enim grátiam apud Deum: ecce, concípies in útero et páries fílium, et vocábis nomen ejus Jesum. Hic erit magnus, et Fílius Altíssimi vocábitur, et dabit illi Dóminus Deus sedem David, patris ejus: et regnábit in domo Jacob in ætérnum, et regni ejus non erit finis. Dixit autem María ad Angelum: Quómodo fiet istud, quóniam virum non cognósco? Et respóndens Angelus, dixit ei: Spíritus Sanctus supervéniet in te, et virtus Altíssimi obumbrábit tibi. Ideóque et quod nascétur ex te Sanctum, vocábitur Fílius Dei. Et ecce, Elisabeth, cognáta tua, et ipsa concépit fílium in senectúte sua: et hic mensis sextus est illi, quæ vocátur stérilis: quia non erit impossíbile apud Deum omne verbum. Dixit autem María: Ecce ancílla Dómini, fiat mihi secúndum verbum tuum.

[In quel tempo, l’angelo Gabriele fu inviato da Dio in una città della Galilea, di nome Nazareth, ad una vergine sposa di un uomo di nome Giuseppe, della stirpe di Davide; e il nome della vergine era Maria. L’angelo, entrando da lei, disse: «Ave, piena di grazia; il Signore è con te; tu sei benedetta fra le donne». Mentre l’udiva, fu turbata alle sue parole, e si domandava cosa significasse quel saluto. E l’angelo le disse: «Non temere, Maria, poiché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai nel tuo seno e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore Iddio gli darà il trono di Davide, suo padre: e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». L ‘angelo le rispose, dicendo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’ Altissimo ti coprirà della sua ombra. Per questo il Santo, che nascerà da te, sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anch’essa un figlio nella sua vecchiaia ed è già al sesto mese, lei che era detta sterile: poiché niente è impossibile a Dio ». Allora Maria disse: « Ecco la serva del Signore: sia fatto a me secondo la tua parola ».

Omelia

[E. Campana: Maria nel dogma cattolico. Ed. VI. – Marietti ed. Torino, 1945]

VII. — Ed ora, dopo la questione critico-filologica, un’ultima questione dogmatica intorno al nome di Maria. Si tratta di sapere qual valore ed efficacia abbia il nome di Maria nei rapporti della nostra salute eterna. Facciamo una tale questione perché non mancarono teologi che riconobbero nel nome di Maria una efficacia salutifera ex opere operato, simile a quella che per divina istituzione dobbiamo credere nei Sacramenti. Esposta con questa formola, la virtù e l’efficacia del nome di Maria, la crediamo esagerata, e siamo d’avviso che non si possa accettare. Altri teologi mantengono la dicitura che il nome di Maria opera salutari effetti ex opere operato, ma hanno cura di ben spiegarsi, e dicono che non intendono perciò di equipararlo ai Sacramenti. Fra questi è da porsi in prima linea Sedlmayr O. S. B., del cui trattato su Maria a nessun studioso può essere ignoto il pregio singolare. Egli pone la tesi: Dico: nomen Mariæ habet suos effectus ex opere operato. Ma poi, rispondendo alle obbiezioni, dice: « Rispondo chevi è una grande differenza tra il nome di Gesù e di Maria, ed i Sacramenti, poiché l’immediato effetto dei Sacramenti è la grazia santificante: mentre invece il nome di Gesù e di Maria producono immediatamente altri effetti; per lo meno non producono immediatamente la grazia santificante; inoltre, i Sacramenti, quando non trovino ostacolo (l’obice) producono il loro effetto infallibilmente: mentre invece l’effetto del nome di Gesù e di Maria è fallibile, e legato alla condizione, se piace a Dio, e se giova alla salute di chi lo invoca ». Date queste spiegazioni, ci pare che la cosa si riduca a questione di nome. Si dice ex opere operato quello stesso, che altri classificano per opus operanti. Noi crediamo che sia meglio non ridurre la cosa a limiti così angusti; epperò, senza voler discutere sui nomi, diremo in genere col Canisio « che il nome di Maria è di una singolare energia, ed ha in sé una forza divina » per impetrare a noi i celesti benefizi. Mariæ nomen singularem energiam, divinamque virtutem continet. E non vi può essere dubbio, perché pronunciare il nome di Maria, è impegnare in nostro favore la intercessione di Lei, della quale già sappiamo la smisurata potenza. Il nome è il simbolo della persona e del di lei valore. E così nel nome di Maria è riassunto tutto il pregio e tutto il potere di Colei che Dio elevò al di sopra di tutto il creato, facendola Madre sua, e costituendola di conseguenza per noi Madre di misericordia. Per questo non vi è per noi, non vi può essere, dopo quello di Gesù, altro nome in cui porre tutta la nostra fiducia come quello di Maria. I genitori di Lei, quando le imposero questo nome benedetto, certo erano ben lontani dal pensare di qual fascino questo nome sarebbe stato rivestito. Ma i consigli di Dio sono immensamente superiori a quelli degli uomini. Ora il nome che risuonò per la prima volta sulle labbra di Gioachino e di Anna, accompagnato forse solo dal sentimento della paternità soddisfatta, ora risuona in un concento indescrivibile di divozione da un capo all’altro del mondo. S. Bernardo toccava uno dei punti più sensibili delle aspirazioni cristiane, e più che fare un’esortazione, rilevava un fatto già da lunga mano praticato, quando scriveva: « Se si scatenano i venti della tentazione, se urti contro gli scogli delle tribolazioni, guarda alla stella, chiama Maria. Se t’accorgi che i flutti dell’ira o dell’avarizia, o della sensualità agitano la navicella della tua mente, guarda a Maria. Se turbato dalla gravezza dei tuoi delitti, se confuso dalla bruttezza della tua coscienza, se spaventato dal terrore del giudizio, ti senti calare nella voragine della tristezza, nell’abisso della disperazione, pensa a Maria. Nei pericoli, nelle difficoltà, nelle perplessità, pensa a Maria, chiama Maria: il suo nome risuoni sempre sul labbro, ti resti sempre scolpito nel cuore » (Om. su Missus). Davanti al nome, mormorato un giorno con trepidante gioia attorno alla culla della piccola figlia di Gioachino e di Anna, ora, come si esprime il celebre Idiota, « tutto il mondo genuflette: genuflette il cielo, la terra, l’inferno. Questo Nome, meglio di quello di ogni altro santo, ristora gli stanchi, sana i languenti, illumina i ciechi, commuove gl’induriti, conforta i combattenti, scuote il giogo di satana. Al sentirlo si rallegra il cielo, esulta la terra, gioiscono gli Angeli, i demoni tremano, l’inferno si conturba. È tanto grande il tuo nome, o Maria, che meravigliosamente raddolcisce, e vince persino l’induramento del cuore umano ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus.
Luc 1:28; 1:42
Ave, María, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

Secreta

Tua, Dómine, propitiatióne, et beátæ Maríæ semper Vírginis intercessióne, ad perpétuam atque præséntem hæc oblátio nobis profíciat prosperitátem et pacem.
[Per la tua clemenza, Signore, e per l’intercessione della beata vergine Maria, l’offerta di questo sacrificio giovi alla nostra prosperità e pace nella vita presente e nella futura].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.


de Beata Maria Virgine
…. Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepí il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesú Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtú celesti e i beati Serafini la célebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus:

Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei,

 qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Beáta víscera Maríæ Vírginis, quæ portavérunt ætérni Patris Fílium.

[Beato il seno della Vergine Maria, che portò il Figlio dell’eterno Padre].

Postcommunio

Orémus.
Sumptis, Dómine, salútis nostræ subsídiis: da, quǽsumus, beátæ Maríæ semper Vírginis patrocíniis nos úbique protegi; in cujus veneratióne hæc tuæ obtúlimus majestáti.
[Ricevuti i misteri della nostra salvezza, ti preghiamo, o Signore, di essere ovunque protetti dalla beata sempre vergine Maria, ad onore della quale abbiamo presentato alla tua maestà questo sacrificio].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (51)

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA DAGLI APOSTOLI A S.S. PIO XII (51)

HENRICUS DENZINGER

ET QUID FUNDITUS RETRACTAVIT AUXIT ORNAVIT

ADOLFUS SCHÖNMATZER S. J.

ENCHIRIDION SYMBOLORUM DEFINITIONUM ET DECLARATIONUM

De rebus fidei et morum

HERDER – ROMÆ – MCMLXXVI

Imprim.: Barcelona, José M. Guix, obispo auxiliar

INDICE DEGLI ARGOMENTI -VIII-

J. DIO SANTIFICANTE MEDIANTE I SACRAMENTI.

J 1 1. I Sacramenti prima dell’istituzione della Chiesa.

Tra le leggi del Vecchio Testamento esistevano anche i Sacramenti (1310) 1348 1602.

Questi sacramenti differivano dai Sacramenti del N.T. in quanto non producevano la grazia, ma significavano che essa sarebbe stata solo in futuro da Cristo. 1310 1602.

La Circumcisione come sacramento rimetteva il peccato originale 780.

Dopo l’avvento di Cristo i Sacramenti del Vecchio T. cessarono ed il loro uso, promulgato il Vangelo divenne peccato punibile 1348.

J 2 Sacramenti del Nuovo Testamento in genere.

J 2a. a. — ESSENZA DEI SACRAMENTI.

I Sacramento sono segni sensibili ed efficienti della grazia invisibile (1310 1606) 3315 3858; sono simbolo di cosa sacra e forma visibile della grazia invisibile 1639; riprov.: [I S. sono nudi simboli o segni esterni della fede praticata] 1602 1606 3489.

Nel rito dei Sacramenti si distingue la parte essenziale (materia e forma) e la parte cerimoniale 3315.

Tre sono le cose che producono un Sacramento: (una cosa tq.) materia, (le parole tq.) forma (nella persona del suo ministro) l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa. 1262 1312 1998 2536 3126 CdIC 742, § 1; l’essenza del sacramento è costituita dalla materia e dalla forma 1671.

La materia di per sé non è parte determinata (onde determinare la forma) 3315;

Pertanto l’imposizione della mano usata per sé non designa nulla di definito negli Ordini sacri, alla Confermazione, alla a.riconciliazione a110 a123 a127 a183 211 316 320 3315.

La forma dece significare l’effetto sacramentale 3315.

J 2b. b. — ORIGINE DEI SACRAMENTI.

2ba. Origine remota cioè,l’istituzione di Cristo. a.Tutti i Sacramenti del N.T. sono stati istituiti da Cristo 1864 2536 CdIC a731, § 1; si riprovano le asserzioni dei modernisti circa l’origine dei Sacram. 3439s.

I Sacramenti sono sette 860 1310 1601 1603 1864 2536.

2bb. Origine prossima o amministrazione. La Chiesa è originalmente ed universalmente dispensatrice dei Sacramenti: Cristo battezza per mezzo della Chiesa, sacrifica etc. 3806; crede nella remissione dei peccati, in resurrezione, nella vita eterna attraverso la Chiesa 21s.

Potestà della Chiesa nei Sacramenti. La Chiesa non ha il diritto di mutare ciò che attiene alla sostanza (o all’ a.integrità e al necessitare dei Sacramenti a1061 1699 1728 3556 3857.

Nel dispensare i Sacramenti la Chiesa ha il diritto di stabilire o mutare ciò che giudica meglio indicato per i tempi, i luoghi, la varietà delle cose, salvo la loro sostanza 1728.

Il Ministro dei Sacramenti ne è causa strumentale 1314.

La potestà del ministro e l’effetto dei Sacramenti non dipendono dalla probità (morale) del ministri 580 644s 793s 912 914 1019 1154 (1208) 1211-1213 1219//230 1262 1612 1684; add. condizioni del ministro del Battesimo, penit, ordin., J 3b 6b 8b.

Riprov. gli errori circa l’ambito dei ministri [Tutti i Cristiani possono amministrare i Sacramenti] 1610; [qualsiasi Sacerdote può conferire qualunque Sacramento] 1136; [la restrizione del potere di conferire i Sacramenti ai semplici Sacerdoti è stata fatta per il lucro e l’onore dei Vescovi] 1178.

Uno stesso ministro deve usare la materia e pronunziare la forma 2524.

Per l’efficienza dei Sacramenti è necessaria l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa 1262 1312 1315 1611 1617 (2536) 3126; si riprova l’opposta asserzione dell’esteriorismo 2328; chi usa la debita materia e forma, si presume abbia l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa 3318 3874:

Errore circa l’effetto del Sacramento (a. anche professato pubblicamente) per se non esclude l’intenzione di fare ciò che la Chiesa fa (3100-3102) a.3126; in questo principio è compresa la dottrina circa la validità del battesimo degli eretici (cf. J 3b), in qualunque modo sia conferito il rito cattolico; contra, mutato il rito, si dubita circa la retta intenzione 3318.

Quando i Sacramenti siano da conferire in forma condizionale CdIC 941; ved. ai singoli Sacramenti.

Si riprova l’asserzione più lassa circa l’applicazione del probabilismo nell’amministrazione dei Sacramenti. 2101.

Rito e cerimonie della Chiesa non sono condannati senza peccato, se disprezzati o mutati per qualsiasi motivo 1255 1613 1811; il S. Pontefice può tollerare diversi riti fermo che siano di necessità di Sacramento 1061.

Si rivendica la legittimità di certi riti, ctr. i denigratori 1062 1864 2631-2633.

J 2c. c. — FINI, EFFETTO, IMPORTANZA DEI SACRAMENTI.

2ca. Fini. I Sacramenti sono mezzi specifici di salvezza e santificazione 2536

CdIC “731, § 1; si riprovano errori circa il fine 1605 3441 3489.

2cb. Effetto. I Sacramenti conferiscono (o aumentano) la grazia quando a.non si pone ostacolo (b.degnamente ricevuti) b1310 a1451 a1606 1602//1608 1864 2536 a3714 (a3845) CdIC a1110.

L’efficacia dei Sacramenti è ex opere operato, cioè i Sacramenti hanno virtù da se stessi come azioni di Cristo medesimo. 3844-3846.

Alcuni Sacramenti , a.cioè. batt., confermazione, ordine, imprimono un carattere, b.pertanto non possono ripetersi 781 ab1313 a1609 a1767 a1864 2536 CdIC ab732, § 1; il carattere è un segno spirituale indelebile nell’anima 1313 1609; dunque non è il Verbo di Dio 3228; il carattere è impresso quando non è ostacolato dalla volontà contraria 781; si imprime anche nella finta ricezione del Sacramento 781.

2cc. Necessità. I Sacramenti non sono superflui 1604 1864; senza i Sacramenti reali o di desiderio, . L’uomo non è giustificato, riprovata l’asserzione: [l’uomo è giustificato dalla sola fede senza Sacramento] 1604 1605s 1608 CdIC 737.

§ 1; in certi aggiunti effetti necessari per ottenere la salvezza si può col solo voto o desiderio (a.anche implicito) (1524 1543) 3869 a3870-3872; o per la fede del Sacramento 121.

Non tutti i Sacramenti sono necessari ai singoli uomini 1604 18642536.

2cd. Dignità. Non senza peccato i Sacramenti sono disprezzati o negletti. 1259 1699 1718 1775 2523 CdIC 944.

Tra i Sacramenti del N.T. vi è diversità di dignità 1603; l’Eucarestia eccelle sopra i restanti Sacramenti 1639s (3847).

J 2d. d. – SOGGETTO DEI SACRAMENTI.

Soggetto legittimo non è l’eretico o lo scismatico anche se errante in buona fede e se non chiede di essere riconciliato CdIC 731, § 2.

Il soggetto deve avere in qualche modo l’intenzione di ricevere il Sacramento CdIC 752, § 3 754, § 3; contradicendo l’accoglienza non si riceve né l’oggetto né il carattere del Sacramento 781; per i dormienti e dementi non si ha l’effetto del Sacramento anche se prima di questo stato consentirono o contraddissero 781.

3. Sacramento del Battesimo.

J 3a. a. ESSENZA DEL GIUDICETIA BATTESIMO.

Il Battesimo è un sacramento 761 777 860 1310 1314 1601 1864 2536; succede alla circumcisione 780.

La materia (remota) è l’aqua a.naturale 802 903 1082 a1314 a1615 CdIC a737, § 1; è lecito mescolare un siero antisettico 3356; materia invalida -: saliva 787; -: birra 829.

La materia prossima è l’abluzione (per mezzo di a.immersione b.infusione o c.aspersione) a229 a589 a757 CdIC 737, § abc758.

Si riprova: [Materia essenziale del battesimo è l’acqua, il crisma, l’eucaristia] 1016.

La forma è l’invocazione del nome della Trinità divina 111 (cap. 9) 123 176s 214 445 580 582 (588) 589 592 (637) 644 646 757 802 903.

Il Battesimo “in nomine Christi” (a.resta in ambiguo, b.ammesso, c. riprovato) a111 (cap. 8) a211 c445 b646; non è valido il Battesimo nel nome degli Angeli 176.

Le parole (espressione dell’azione) “ego te baptizo” sono necessarie per la validità 757; vale la loro forma attiva e passiva 1314; la falsa pronunzia per mera ignoranza o per difetto di lingua non invalida il battesimo 588 592; asserzioni riprovate circa la forma 2327s 2627.

J 3b. b. – ORIGINE DEL BATTESIMO.

Il ministro deve essere diverso dal soggetto battezzato (non si può battezzare se stesso) 788.

Il minister del Battesimo solenne (ordinario) è solo il Sacerdote 1315 CdIC 738; min. del bpt. straordinario è il diacono CdIC 741; in caso di necessità può essere ministro-: qualsiasi uomo, che in qualche modo conservi la forma della Chiesa ed intenda fare ciò che fa la Chiesa 1315 2536 CdIC 742,

§ 1; – anche un laico 120 1315 1349 (2536); – : anche uno scismatico 356; – : eretico 110s 123 127s 183 211 214 305 315s 320 478 1315 1617 (2536) 2567-2570 3126; -: giudeo 646; -: pagano 646 1315 (2536).

La qualità morale del ministro non influisce sulla validità 580 644.

L’errore del ministro circa l’effetto del battesimo non esclude l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa 3100-3102; laddove si possa veramente dubitare circa l’intenzione, si deve conferire il Battesimo condizionato 2838; in caso di battesimo ricevuto nell’eresia non sempre è di principio il battesimo condizionato, ma è da indagare e distinguere 3128; nel dubbio è da battezzare 319 582; in qualunque caso di Battesimo condizionato si disserta 2835-2839 3128

CdIC 746, § 2-5 747-749 752, § 3; formula del Battesimo condizionato da usarsi 758.

Rito del Battesimo da tollerare ed abolire 830.

J 3c. c. — FINE, EFFETTO, VALORE DEL BATTESIMO.

3ca. Effetto. Si riceve la grazia di Cristo (a.infusione della grazia informante e delle virtù, b. l’abito della fede) 111 a780 a904 b2567; riprov.: [il Battesimo di Cristo ha la stessa virtù del battesimo di Giovanni Battista ] 1614.

Il Battesimo produce —: la rinascita spirituale (a.nuova creatura) 219(239) 1311 a1672. – : un membro della Chiesa cattolica 1314 1671 2567-2570 3685 CdIC 87 737, § I;

Il battezzato ottiene tutti i diritti ed i doveri del membro, se non oppone un ostacolo (censura), un vincolo che impedisce la comunione CdIC 87; —: membro del Corpo mistuco di Cristo 1314 1671.

— : la remissione dei peccati (a.pecc. originale, b.dei peccati attuali) (3s) 41//48 (51) 60 150 a223s a231 a239 a247 308 ab325 575 a637 a685 a741 777 a780 ab794 ab1076 ab1316 a1514s 1672 a2559; tale remissione è piena, integra 1672; i peccati non solo da imputare 1515; il Battesimo elimina egualmente a tutti il peccato orig. 637; si riprov. gli errori circa l’effetto: [è tolto solo il reato alla pena] 1957; [già il solo ricordo del Battesimo e la sua fede rimette i peccati dopo il Battesimo o li muta in veniali] 1623.

— : la remissione di ogni pena (pertanto a.ai battezzati non è da imporre nessuna soddisfazione) a1316 1543.

— l’impressione del carattere (anche nel Battesimo a.degli eretici ed b.in quello ricevuto fittiziamente). b781 1998 a2566 CdIC 732, § 1; pertanto non è lecito ritardate il Battesimo 183 316 319s (478) 580 (582) 644 758 810 855 1081 1624 1671 CdIC 732, § I: da qui la fede in un soloBattesimo 3s 41//5 I 150 319 684; riprov. l’errore circa il carattere 3228.

Sequele per la vita morale: la grazia del Battesimo per sé sola non è sufficiente ad assicurare la salvezza, ma si richiede un ulteriore ausilio della grazia e la cooperazione unana. 241, 397; il Battesimo non libera dagli obblighi della legge di Dio, della Chiesa, dei voti 1620-1622; il Battesimo pt. non dissolve i matrimoni degli infedeli (ma conferisce solo il diritto ad un nuovo matrimonio in forza del privil. Paolino) 777 2582 2585 CdIC 1126.

3cb Necessità. Il Battesimo è un mezzo prescritto da Cristo 219; è necessario o in forma o almeno a.come voto (o desiderio), questo è il Battesimo di b.fiamma (121) 184 231 b741 a1524 1672 2536 a3869 CdIC ‘737, § I; add. luoghi del Battesimo degli infanti: J 3d.

In caso di necessità il Battesimo può essere amministrato in ogni tempo, anche nella Chiesa antica, nella quale era lecito solo nei giorni di Pasqua e di Pentecoste 184; in tal caso giustifica anche la fede senza Sacramento 121.

3cc. Dignità. Il Battesimo è il primo di ogni Sacramento ed il a.loro fondamento 1314 CdIC a737, § 1; è la a.porta di entrata nella Chiesa, b.dei Sacramenti, c.della vita spirituale c1314 a1671 a3685 CdIC b737, § 1.

J 3d. d. — SOGGETTO DEL BATTESIMO.

Il soggetto del Battesimo è solo ogni uomo viatore non ancora battezzato CdIC 745; è legittimato il Battesimo degli infanti 184 219 223 (224 247) 718 780 794 802 903 1349 1514 1625-1627; il Battesimo degli infanti (richiesto) di genitori acattolici, sotto quali condizioni sia lecito 2552-2562 3296 CdIC 750s;

Ugualmente il Battesimo conferito ai moribondi adulti infedeli 3333-3335.

Nell’adulto è richiesta per una valida ricezione a.l’intenzione, per una lecita disposizione b.la fede e c.la penitenza b2380s bc2835-2839 ab3333-3135.

4. Sacramento della confermazione.

J 4a. – ESSENZA DELLA CONFERMAZIONE.

Il battezzato deve essere condotto a: a.la benedizione b.l’imposizione della mano del Vescovo b120 a121 b123; c.il crisma sulla fronte, i. e. b.l’imposizione della mano è la confermazione a785 ab794 a831 b860 a1990 a2522 CdIC 780 781, § 2.

La confermazione è un Sacramento (785 794) 860 1310 1317 1601 1628 1864 2536.

La materia (remota) è il crisma (a.dal balsamo ed olio di olivo) b. benedetto dal Vescovo a831 a1317s b1992 CdIC 734, § 1 b781, § 1.

Forma delle parole della confermazione 1317.

J4b. b. – ORIGINE DELLA CONFERMAZIONE.

Si riprova l’asserzione dei Modernist. circa l’origine remota della confermazione 3444.

Il ministro a.ordinario è (solo) il Vescovo 120 123 183 187 215 320 785 794 831 860 a1069 a1318 a1630 1768 1777 a2588 CdIC .782, § 1; ministro straordinario può essere il semplice Sacerdote (a.ma non il diacono) b.fornito di facoltà della Sede Ap. a187 215 b10705 b1318 b2522 b2588 CdIC 781, § 2 a782, § 2; in mancanza di tale delega, proibita ed invalida è la confermazione del semplice Sacerdote 1990s 2522.

Ministro del crisma è solo il Vescovo, questo pure per a.ministro straord., il crisma deve essere benedetto d Vescovo (catt.) 187 215s 1068 (1071) 1317 a1318 (a1992) a2588 (CdIC .781, § 1).

Si riprovano le asserzioni circa il ministro 866 1178 3556.

Riti tollerati nella preparazione del crisma nella confermazione 831.

J 4c. c.0- FINE, EFFETTO, VALORE DELLA CONFERMAZIONE.

Si conferisce lo Spirito Santo 215 785 831 1318s; si dà come un aumento di grazia ed un rinforzo della fede 785 1311 1319.

Si imprime un carattere, pertanto la confermazione a.non si può ripetere 1313 1609 1767 CdIC a732, § 1; riprovato: [al cresimati non è da attribuire alcuna potenza] 1629.

La Confermazione non è un mezzo necessario alla salvezza 2523 CdIC 787; ma il trascurarlo non è senza peccato 1259.

J 4d. d. – SOGGETTO DELLA CONFERMAZIONE

Soggetto è qualsiasi battezzato CdIC 786.

Per una lecita e fruttuosa ricezione si richiede lo stato di grazia. CdIC 786.

5. Sacramento dell’Eucaristia.

J 5a. a. – INSTITUZIONE DA CRISTO.

Cristo istituì: a.il Sacramento o b.Sacrificio eucar. c.nell’ultima Cena ac846 ac1637 ac1727 bc1740-1742 b1752; si riprova l’asserzione dei Modernisti 3445.

J 5b. b. – L’ESSENZA DEL SACRAMENTO DELL’EUCARISTIA.

5ba. Indole sacramentale. L’Eucar. è un Sacramento 718 761 846 860 1310 1320 1601 1635-1637 1727 1864 2536.

Nell’Eucaristia il pane e il vino è “Sacramento e non cosa”, carne e sangue di Cri. “sacram. e cosa”, effetto sacramentale “cosa e non sacramento” 783.

Materia è il pane di frumento (783) 860 1320 CdIC 814, § 1; e il vino di vite (783) 1320 CdIC 815, § 2; il pane presso i latini è azimo, preso i Greci fermentato 860 1303 CdIC 816; precauzioni ctr. corruzione del vino della Messa 3198 3264 3312s.

La Forma sono le parole consacratorie di Cristo 1321 1352; l’epiclesi non ha alcuna capacità consecratoria 1017 2718 3556; nella concelebrazione di più Sacerdoti si richiede la comune pronuncia delle parole della consacr. 3928.

5bb. Presenza eucaristica di Cristo. Le parole di Cristo Sono consacratorie non in senso tropico, ma sono presentate in senso proprio 1637.

Per la consacrazione si opera la conversione di a.tutta la sostanza in corpo di Cristo e di a.tutta la sostanza del vino in sangue di Cristo. 1321 1352 a1642 a1652 a1866 a2535 a2629 a2718; questa conversione si chiama transustanziazione 782 802 860 1352 1642 1652 1866 2535 2629; post dopo la consacrazione si separano le specie (forma) del pane e del et vino, è creduta la verità della carne e del sangue di Cristo 782s, ovvero: nel sacram. dell’altare è contenuto il corpo e il sangue di Cristo a.veramente, b.realmente, c.sostanzialmente, d.essenzialmente sotto le specie del pane e del vino 690 700 794 a802 (846) abd849 abc1636 1640 abc1641 a1651 abc1866 abc2535 abc2629.

Tutto il Cristo è contenuto sotto qualunque specie (b.sia per la virtù delle parole sia per la naturale connessione e concomitanza) e c. sotto qualunque parte della specie dopo la separazione a1199 a1257 ac1321 ab1640 ac1641 a.1651 ac1653 (a1729 a1733) a1866 ac2535.

Cristo eucaristicamente presente è lo stesso Cristo nato e crocifisso 1083 1256; nell’Eucar. è contenuto il corpo e sangue di Cristo insieme all’anima e divinità di Cristo  (a.in virtù dell’unione ipost.) a1640 1651 1866 2535; Cristo è eucaristicamente presente sotto le specie, localmente (a.sec. modo di esistere naturale) è in cielo 849 a1636.

Riprov. l’asserzione negante la transustanziazione 849 1018 1151-1153 1256 (1652) 1654 3891; si riprovano le sinistre spiegazioni 3121-3124 3229-3231 3891; si disputa per come l’acqua mista al vino della Messa si trasformi in sangue 784 798.

La presenza eucaristica di Cristo non si limita al tempo di volubilità 834; remane per i giorni che restano le specie 1101-1103.

Al Sacramento dell’Eucaristia si deve il culto di latria 1643s 1656 CdIC 1255, § 1.

La presenza di Cristo in tal senso è dirsi come mistero liturgico della Chiesa 3855.

J 5c. c. — DIGNITÀ DELL’EUCARISTIA.

L’Eucaristia è come il capo e centro della religione cristiana 3847; è come l’anima della Chiesa (per questo i vari gradi del sacerdozio, sono diretti all’Euch.) 3364; pertanto la Chiesa ha tanti beni, virtù, gloria 3364.

J 5d d. — EUCARISTIA COME SACRIFICIO.

5da. Sacrificio della Messa come tale. Cristo nell’Eucaristia è sacerdote et sacrificio 802.

Nella Messa si offre il a.vero, b.proprio, c.visibile sacrificio a1740-1742 a1741 c1764 ba1866 ab2535 b3847.

Il Sacrificio eucar. è l’incruenta rappresentazione del sacrificio cruento in Croce e sua memoria 1740s 1743 3847s (S3339); le specie eucar. figurano la cruenta separazione del corpo e del sangue 3848; ita Cristo è significato nello stato di vittima 3848 3852; ill sacrificio della Messa non si discosta dal sacrificio della croce 1743 1754 7S3339.

La Messa è offerta al solo Dio (benché in onore e per l’intercessione dei Santi) 1744 1755.

Si Riprovano le asserzioni: [la Messa non è stabilita nel Vangelo] 1155; [la Messa è la nuda commemorazione del sacrificio della Croce] 1753 3316 3847 S3339; [la Messa non è sacrificio se non generale in cui di sacrifica ogni opera che si debba compiere per unirsi a Dio nella santa società 1945.

5db. Ministro. Per consacrare è richiesta la persona (ministro), la forma (le parole) e l’intenzione nel proferirle 794.

Ministro del sacrificio è solo a.il presbitero ordinato dal Vescovo (b.non il diacono c.non il laico) d.avente la debita intenzione 794 ab802 c1084 d1352 CdIC bd802; il sacerdote consacrante parla in persona Christi 1321; quando sia lecita la concelebrazione di più sacerdoti (3928) CdIC 803.

La Messa in cui si comunica il solo sacerdote non è illecita 1747 1758 3854.

La Consacrazione della materia fuori dalla Messa è illecita anche in estrema necessità.. CdIC 817. Per la lecita celebrazione della Messa è richiesto lo stato di grazia, mancando il quale il sacerdote ha urgente necessità di confessarsi quanto prima 1647 2058s CdIC 807.

5dc. Partecipazione dei fedeli alla Messa e loro sacerdozio. 3849-3853; si riprova l’asserzione -circa la partecipazione alla vittima 2628; -: circa la concelebrazione dei fedeli 3850; circa la Messa privata senza popolo 3853.

5dd. Rito dell’offerta. Sii rivendica la legittimità delle cerimonie della Messa 1746 1757 5dd 1759; si rivendica la libertà da errori (dogmatici) del canone della Messa 1745 1756.

Il vino della Messa va mescolato a un poco d’acqua 822 834 (784 798) 1320 1748 1759 CdIC 814.

Uso della lingua latina, restrizione della lingua volgare 1749 1759 CdIC 819.

5de. Effetto del sacrificio della Messa. La sua efficacia è – : ex opere operato 3844;

– la stessa del sacrificio della Croce S3339; -: non dipende dalla probità del Sacerdote 794.

La Messa è sacrificio propiziatorio per i vivi ed i defunti 1743 1753. 1866 2535 CdIC 809; si riflettono i peccati quotidiani 1740; vale per impetrare ed espiare S3339; si riprova l’asserzione circa l’applicazione del frutto speciale della Messa. 2630; applicazione per coloro il cui cadavere sia stato cremato. 3277.

J 5c. c. – EUCARISTIA COME COMUNIONE.

5ea. Modo e rito ministrante.

a.ai laici la comunione è somministrata dal Sacerdote, b.il Sacerdote comunica se stesso ab1648 b1660 CdIC a845, § 1; il diacono è ministro straordinario CdIC 845, § 2.

La Comunione sotto una sola specie del pane (non solo sotto entrambe a. Riprovata dai riformatori, b.deliberata nel Cc. Trid.) è legittima 11981200 1258 1466 a1731s 1726-1734 ‘1760 CdIC 852; questa non è non defraudata per qualche grazia necessaria 1729 1733; i laici e i chierici che non celebrano non sono obbligati alla comunione con entrambe le specie 1726s 1731s.

Si legittima la conservazione dell’Eucaristia (riprovato tuttavia l’a.abuso presso i Greci) a834 1645 1657 CdIC 1265.

5eb. Fine. Nell’Eucar. si fa grata memoria del Salvatore 846 1322 (1637) 1638; il fine non è precipuamente, procurare l’onore del Signore o per prendere quasi un premio delle virtù (ma è da cogliersi dagli effetti) 3375-3378.

5ec. Effetto. Va distinta tanto l’assunzione sacramentale, tanto spirituale sacramentale simultaneamente et spirituale 1648 (1658); si riprova: [Cristo nell’Eucaristia, è mangiato non realmente ma spiritualmente] 1658.

Il Cristo eucar. è vita dei fedeli 3360; è cibo dell’anima 847 1311 1638 3360; pertanto l’Eucaristia ha per la vita spirituale lo stesso analogo effetto del cibo materiale 1322.

Effetto singolo — remissione dei peccati 1020; (più accuratamente:) liberazione dalle lievi colpe quotidiane 1638 3375; —: attenuazione delle pene 1020; —: preservazione dai peccati mortali (846 1322) 1638 3375; —: soppressione della libidine 3375; —:  846 1020 1322; —: incremento della grazia, incremento delle virtù 846; —: unione e conformazione con Cristo 802 847 1320 1322; —: unità e carità 783 1635 (1638 1649) 3362; —: pegno della futura gloria 1638; si riprova l’asserzione che restringe l’effetto solo alla remissione dei peccati 1655.

5ed. Necessità della comunione eucaristica. Si raccomanda la comunione frequente (a.anche ai piccoli) 1649 1747 2090 (2093s) 3361 3375s 3379 3383 a3534 3854 CdIC 863; reprobatur vero: [la Com. eucar. quotidiana è di diritto divino] 2095 3377.

È comandata la comunione annuale da fare a pasqua (a.anche i bambini adulti giunti all’età della siscrezione) 812 1659 a3533 Cd1C a859; questo precetto non viene soddisfatto da una comunione sacrilega 2155 CdIC 861.

I piccoli non sono obbligati alla comunione 1730 1734 CdIC 854, § 1; il viatico deve essere preso in pericolo di morte (a.anche i piccoli dopo aver raggiunto l’uso della ragione) 121 212 1645 1657 a3536 CdIC a854, § 2 864, § I.

5ee.Soggetto della comunione eucaristica. Gli atti alla prima comm. dei piccoli 3530 (3533) 3535; dopo aver raggiunto l’uso della ragione anche ai piccoli è da dare il viatico 3536 CdIC 854, § 2; riprov. l’asserzione circa la comunione eucar. dei defunti 3232.

Disposizione e preparazione alla com. in genere: sono, riprovate simultaneamente le affermazioni a.rigoristiche e b.piu blande b1661 2090-2092 b2156 a2322s a3376-3378 3382; in specie la lecita ricezione suppone lo stato di grazia

(a.confessione, non solo acquistata con la contrizione) e b.proposito di non peccare successivamente mortalmente a1647 a1661 3379 b3381 CdIC 856; si richiede anche la retta intenzione 3379s.

Cognizione religiosa richiesta nei piccoli e nel neofito è quella di saper discernere il corpo di Cristo dal cibo comune e di adorarlo 2382 353 l s CdIC 854, § 2.

6. Sacramento della penitenza.

J 6a. a. — ESSENZA DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

6aa. Indole sacramentale. La confessione dei peccati ossia penitenza è un sacramento

761 (794) 860 1310 1323 1601 1667 (-1693) 1701 18642536; riprov.:

[Il potete di rimettere i peccati è rimessa solo dalla potestà di dichiarare i peccati ossia di predicare la parola di Dio] 1670 1685 1709; [la penitenza, onde ricevere grazia, è Sacramento di natura, non legge V. N.T.1 1418.

6ab. Parti della penitenza in genere. Mediante la penitenza, la confessione e le opere soddisfattorie sono rimessi i peccati 794; quasi-materia sono gli stessi atti di penitenza, cioè la contrizione, la confessione, la soddisfazione (riprovata l’asserzione negante il fondamento biblico) 1323 1455 1673 1704; riprov.: [le Parti della penit. sono terrori o una fede in una coscienza mortificata] 1675 1704.

6ac. La contrizione è il dolore del peccato commesso con il proposito di non peccare ancora a.contenente anche l’odio della vita precedente) 1323 a1676.

La contrizione è necessaria per la remissione dei peccati 1676s 3334; riprovate le asserzioni deroganti dalla contrizione. [tra le altre: la contrizione rende ancor più peccatori. 1455-1457 1461s I464s 1678 (1685) 1705.

La contrizione perfetta riconcilia l’uomo già prima di ricevere il Sacramento della penitenza, includendone tuttavia il voto (1260) 1677 1971;

riprov.: [la contrizione rende superflua la confessione esteriore] 1157 1412.

È da distinguere la contrizione in carità perfetta è la contrizione imperfetta o attrizione 1677s; la attrizione, se esclude la volontà di peccare, con la speranza di perdono, è dono di Dio a.disponendo al Sacramento della penit. 1678 a1705; infatti questa richiede l’atto di amore di Dio liberamente esposto 2070; riprov.l’asserzione a.più lassa e b.rigorista circa l’attrizione a2157 b2314s (b2462-2467 a2625 ) b2636.

6ad. Confessione dei peccati. Oggetto: si richiede la confessione integrale dei peccati (a.secondo l’istituzione di Cristo) 1323 1679-1681 1706; cioè di tutti i peccati mortali dei quali il penitente è conscio 1085 1680 1682 1707; sono da accusare anche i peccati occulti 1680 1707; -: peccati mortali commessi anche di pensiero (a.non è sufficiente il solo dispiacere). a1413 1680 1707.

I peccati sono da dichiararsi- : distintamente, nella specie, singolarmente, spiegando le circostanze (mutanti la specie) 813 1085 1411 1679 a1681 a1707 2158 CdIC .a901; : sec. il numero 1707.

I peccati omessi per dimenticanza si intendono inclusi nella confessione 1682; sono tuttavia da accusare nella prossima confessione 2031 3835.

Si enumerano le cause scusanti dall’integrità 3834; si riprova l’asserzionecontro l’integrità 1458s 1682 2192 2247s 2259s.

La confessione dei peccati veniali in confessione è: a.lecita, (recando sufficiente materia), b.utile ma c.non necessaria ab14585 bc1680 a1707 b2639 b3818 CdIC ac902.

La reiterata confessione dei peccati già debitamente rimessi è lecita, raccomandata, ma non necessaria 880 CdIC 902.

Modo di confessarsi: la confessione segreta è legittima, la pubblica anche, quando non vietata, ma non è raccomandata 323 1414 1683s 1710.

Nel Sigillo sacramentale al confessore è proibito l’uso della scienza con il rivelare il penitente 814 1989 2195 CdIC 889s; al sigillo sono tenuti anche tutti colore ai quali siano pervenuti in qualunque modo notizie della confessione CdIC 889, § 2: ugualmente è proibita anche la rivelazione del nome del complice 2543s CdIC 888, § 2.

La Confessione può essere fatta anche con un interprete CdIC (889, § 2) 903; in caso di necessità, sono sufficienti i segni del penitente è degli astanti testimoni 310; non è lecita la confessione di un sacerdote assente né l’assoluzione a distanza 1994s.

6ac. La soddisfazione è imposta ai penitenti perché a.da sè sia adempiuta 308 16891692 1714s a2035 CdIC a887; si spiega la sua ragione 1543 1692.

La Soddisfazione deve corrispondere alla qualità e al numero dei peccati

(riprovato l’uso più blando e l’uso della falsa penitenza, o parziale) 717 1692 CdIC 887: si propongono come soddisfazione (sec. l’arbitrio del sacerdote) preghiere, digiuni, elemosine, altri esercizi di pietà 1323 1543;

modo di soddisfare: è mitigato dalla Chiesa dai modi antichi e non è da ripristinarsi 129 212 231602322: come soddisfazione valgono anche (oltre alle sacramentali) le pene temporali inflitte da Dio 1693; l’abuso dell’unzione del penitente in soddisfazione 832.

Riprov. asserzione dell’efficacia della soddisfazione umana adeguata 1959 1977; riprov. (Come insufficiente): [Nuova vita è ottima penitenza] 1457 1692 1713.

6af. Assoluzione. La forma del Sacramento della penit. sono le parole dell’assoluzione 1323 1673;

Le altre preghiere non sono di necessità del Sacramento CdIC 885.

L’assoluzione è un atto giuridico 1671 1679 1685 1709 CdIC 870 888, § I; riprov. l’uso della formula deprecatoria 1013; riprovato: [l’Ass. non è se non una dichiarazione che i peccati sono rimessi] 1685 1703 1709; si riprovano le asserzioni circa l’efficacia dell’assoluzione rispetto alla sola fede del penitente 1460-1465.

Quando è lecita l’assoluzione plurima simultanea 3832-3837; formula da impiegare in tal caso 3837; riprovata l’assoluzione dimezzata in occasione di grande concorso 2159.

Al disposto non va differita l’assoluzione CdIC 886; non è da negare la riconciliazione in pericolo di morte 129 136 212 309s (325); si riprovano le asserzioni più blande ed in parte più rigide 2160s 2164 2638.

J 6b. b. — ORIGINE DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

6ba. Origine remota. Prima di Cristo non vi fu il Sacramento della penitenza 1670.

Il Sacramento della penit. è istituito a.dopo la resurrezione 308 348s a1542 a1670 1679 (1706); è un altro sacramento, distinto dal battesimo 1668 1702.

Il potere di rimettere i peccati a fu conferita agli Apostoli e ai loro successori nel sacerdozio 308 348 1670 1679 1764 1771; questo potete si estende ad ogni peccato: vd. D 2eb.

Si riprovano le affermazioni dei modernisti circa l’origine della penitenza 3443 3446s.

6bb. Ministro è solo il Vescovo o il Sacerdote 1260 1323 1684 1706 1710 CdIC 871; non il laico 866 1260 1463 1684 1710; mancando il Sacerdote la remissione è procurata dalla contrizione 1260; add. J 6ac.

Il Ministro deve possedere (oltre il potere dell’Ordine) giurisdizione 1323 1686 2637 CdIC 872; il potere di giurisdizione di vari ambiti ha diverso grado 1261 1265.

Il potere del ministro non dipende dalla sua probità 912 914 (1019 1262) 1684 1710.

Non è più necessario fare la Confessione, come a.un tempo dal proprio sacerdote o da altro solo su suo permesso a812 921923 1085 CdIC 905; riprov. l’asserzione negante agli Ordini mendicanti la facoltà di udire Confessioni 921-924; riprov. l’ass. lassa circa la giurisdizione dei confessori 2032s 2036 (2056 2064).

È diritto del Vescovo riservarsi dei casi 1687 1711 CdIC 893-900; in pericolo di morte la riserva è nulla 1688 CdIC 882; riprov. l’asserzione ctr. la riserva dei casi 1136 2023s 2032 2064 (2594) 2597 2644s.

6bc. Ordine della penitenza.

La maggior rigidità della Chiesa non è più ripristinabile (soprattutto il negare l’assoluzione prima della completa soddisfazione) : cf. 129 212 1415 2316//2322 2487-2489 2634s.

J 6c. c — FINE, EFFETTO, VALORE DELLA PENITENZA.

6ca. Fine è la guarigione spirituale 1311; il sacram. della penit. è più laborioso rispetto al Battesimo 1672.

6cb. Effetto. “Fatto ed effetto” è la riconciliazione con Dio 1674; il sacram. della penit. è il rimedio dei peccati commessi dopo il Battesimo 308 348s 802 855 1323 1542 1579 1668 1680 1701 CdIC 870; la remissione non avviene con la sola fede 1685 1709.

Insieme alla colpa, viene rimessa anche la pena eterna 1543; non sempre è rimessa anche tutta la pena temporale 838 1010 1543 1580 1689 1712 1715; si riprova: [Elimina solo la pena] 1957s.

La legittima assoluzione libera dalle censurr CdIC (2247) 2248 (2249).

6cc. Necessità di mezzo. Il Sacramento della penitenza ai peccatori dopo il Battesimo è necessario di a.diritto divino 1542s 1668s 1670 1672 a1679 a1706 679 CdIC 901;

è la seconda tavola dopo il naufragio della perdita della grazia 1542; in caso di necessità è sufficiente il voto della penitenza (121) 1543 3869; add. J 6ac (circa la contrizione perfetta).

N. di precetto, sci. la confessione almeno annuale 812 1683 1708 CdIC 906;

a questo precetto non soddisfa la confessione sacrilega o volontariamente nulla (2033) 2034 CdIC 907.

J 6d d. – SOGGETTO DEL SACRAMENTO DELLA PENITENZA.

Il potere della Chiesa di rimettere i peccati si restringe agli uomini viventi, non ai morti 348.

Già i bambini sono obblianti alla confessione 3533; una volta che con l’età abbiano acquisito una conoscenza religiosa 3530s 3533.

Quando l’assoluzione sia lecita allo scismatico moribondo 3635s.

7. Sacramento dell’unzione degli infermi.

J7a. a. – ESSENZA DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI.

L’U. degli infermi o Estrema u. è un Sacramento 794 (833) 860 1310 1324 1601 1694 1716 1864 2536; si riprova l’asserzione ctr. l’indole sacramentale 1699 1716s 3448.

La materia è l’unzione con l’olio di ulivo benedetto dal Vescovo (a.non dal semplice Sacerdote, b.se non ne ha facoltà dalla Sede Ap.) 216 1324 1695 a2762s CdIC 734, § 1 937 ab1945.

La forma sono le parole della formula 1324 1695.

In caso urgente è lecita l’unica unzione con una formula speciale brevissima 3391 CdIC 947, § I.

J 7b. b. – ORIGINE DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI.

L’U. degli infermi è instituita da Cristo 1694 1695 (1699) 1716.

Il Ministro è (a.solo ed ogni) Sacerdote 216 1325 1695 1697 1719 CdIC a938, § I.

L’unzione può essere fatta da uno o più ministri, purché ognuno simultaneamente usi la materia e pronunzi la forma 2524.

J7c C. c. – FINE, EFFETTO E VALORE DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI.

Fine . l’U. degli inferm. è ordinata -: alla guarigione spirituale e, se riesce, alla corporale 7ca 620 1311 1325 1696; -: a fortificare l’uscita dalla vita 1694.

7cb. Effetto. Conferisce la grazia che è a.la remissione dei peccati, b.la pulizia dei peccati residui, c.conforto all’anima del malato a620 abc1696 ab1717.

7cc. Necessità. Per sé l’u. degli infermi non è necessità di mezzo CdIC 944; peccato è in vero disprezzarla 1259 1718.

7dd. d. – SOGGETTO DELL’UNZIONE DEGLI INFERMI.

Sogge è l’uomo infermo a.dopo aver raggiunto l’uso della ragione in pericolo do morte.

1324 1698 a3536 CdIC 940.

L’Unzione può essere ripetuta ogni volta che l’uomo dopo la guarigione, ricada in pericolo di vita 1698 CdIC 940, § 2.

È richiesta nel soggetto la conoscenza religiosa e l’intenzione 2382; per se suppone lo stato di grazia: infatti un tempo era negata al non riconciliato nella Chiesa antica l’unzione degli infermi 620.

Quando sia lecito somministrare agli inf. scismatici moribondi l’unzione degli infermi 3635s.

8. Sacramento dell’Ordine.

J 8a a. – ESSENZA DEL SACERDOZIO CRISTIANO

Nel Nuovo Testamento esiste il Sacerdozio visibile esterno 1764 1771.

Il Sacerdozio del N.T. o Ordine è un (proprio) sacramento 718 860 1310 1326 1601 1764 1766 1773 1864 2536 3857: l’arruolamento nel clero non viene fatto dal popolo o dal potere secolare per chiamata o consenso, ma con l’ordinazione sacra 3850 CdIC 109.

L’Ordine è propriamente uno dei sette sacramenti (a.ugualmente un Sacramento per la Chiesa universale) 1766 a3857.

Si rivendica come legittima la diversità degli Ordini con cui ascendere al sacerdozio 1765 1772; per diritto divino esiste la gerarchia costituita dai Vescovi, presbiteri e ministri (a.diacono) 1776 Cd1C .108, § 3; si recensiscono tuttavia in tre gli Ordini sacri nella Chiesa Romana (Vesc. presb., diac.) poi sette 836; cioè sacerdote, diacono, subdiac. e quelli che sono gli ordini maggiori), accolito, esorcista, lettore, ostiario (a che sono ord. minori) 1765 CdIC a949; per altre distinzioni vd.: G 4da.

I Vescovi sono presbiteri superiori per potere di ordine 1768 1777.

Materia dell’ordinazione al diaconato, presb., Vescovo (a.unica) almeno nei tempi posteriori, è l’imposizione delle mani 326-328 826 3325 a3858-3860; è sufficiente per la validità il contatto morale, si comanda il contatto fisico 3861.

La Tradizione degli strumenti come prescrizione della Chiesa fu prescritta per la validità solo nella Chiesa latina, mentre nella Chiesa grecale ordinazioni si fecero sempre validamente senza la tradizione degli strumenti 1326 3858.

La Forma sono le parole che riferiscono il potere determinante (grazia sacramentale) in ciò che competa ad ogni ordine (a. in questo mancano gli ordini anglicani) 1326 a3316s 3858-3860.

J 8b b. — ORIGINE DEL SACERDOZIO CRISTIANO.

8ba. Istituzione. Il vecchio etus sacerdozio è passato nel nuovo 1764.

Cristo ha istituito il Sacerdozio del N.T. 1740 1752 1764 1773 3857; agli Apostoli ed ai loro successori nel sacerdozio è affidato il potere di consacrare, offrire, amministrare il corpo ed il sangue di Cristo (1740 1752) 1764 1771.

Riprov. l’asserzione dei Modernisti circa l’istituzione del sacerdozio 3449s.

8bb. Ministro dell’ordinazione. Ministro a.ordinario del sacram. dell’Oordine è (solo) il Vescovo 128 a1326 1768 1777 CdIC 951; ministro straordinario è chi senza carattere episcopale, per diritto o dalla Sede Apostolica riceve indulto per conferire alcuni ordini CdIC 951; privilegio che si traduce nella facoltà del semplice sacerdote di conferire il subdiaconato, b.diaconato, c.presbiteriato, d.tutti gli ordini sacri abc1145s d1290 ab1435; si riprovano le asserzioni: [Qualsiasi sacerdote può conferire qualunque Sacramento (quindi anche gli ordini)] 1136; [l’Ordinazione del clero si riserva al Vescovo per lucro temporale ed onore] 1178.

Validità dell’ordinazione conferita dal ministro a.scismatico o b.eretico — si riconosce a356 b478 a705; — si nega (richiedendo la “riordinazione”)

Nel caso dei a.Paulianisti e b.Anglicani (qui per difetto di forma ed intenzione) a128 b3315-3319; ambigue decisioni in caso di ordinazione simoniaca 691-694 701s 705 707 710; chi ignora la sua ordinazione è da rigettare 592.

Riprov. le asserzioni circa la amministrazione del sacram. dell’ordine 1651-1657.

J8c. c. — FINE, EFFETTO, IMPORTANZA DEL SACRAMENTO DELL’ ORDINE.

8ca. Fine è la conduzione dei fedeli ed il ministero del culto divino CdIC 948; è il governo e l’accrescimento spirituale della Chiesa 1311.

8cb. Effetto. Il Sacram. dell’Ordine conferisce la grazia per l’idoneità del ministro 1326 3857.

Si imprime il carattere, a.per cui è impedita la reiterazione 825 1767 1774 CdIC a732, § 1;

Una volta ricevuta validamente l’Ordinazione non si può più deporre CdIC 211, § 1; pertanto il a.sacerdote (più precisamente: il b.constituito negli ordini maggori) non può più tornare laico a1767 (1771) a1774 CdIC b211, § 1.

8cc. Dignità. Il sacerdote è per ufficio pubblico il deprecante e adoratore di Dio. 3757; è ministro di Cristo, in “personam Chr.” similmente a Cristo è capo dei membri. 3755 3850.

J8d. d. — SOGGETTO DEL SACERDOTE CRISTIANO.

Non tutti i fedeli sono dotati di pari potere spirituale 1767; soggetto valido del sacram. dell’Ordine è solo l’uomo battezzato CdIC 968, § 1.

Sacerdozio generale dei fedeli: concetto e sequele 3849-3853.

9. Sacramento del matrimonio.

9a. a. — ESSENZA DEL MATRIMONIO.

9aa. Concetto e varie specie di matrimonio. Il Matrimonio è una società individuale contratta da un uomo e una donna 3142.

Il Matrimonio valido tra non-battezzati si dice vero non-rato 769; o si dice legittimo CdIC 1015, § 3; il matrim. valido tra battezzati si dice vero e rato 769; oppure rato e consumato CdIC 1015, § 1.

9ab. Indole sacramentale. Il Matrim. tra fedeli è un Sacramento 761 794 9ab 860 916 1310 1327 1601 1800 1801 1864 2536 2598 2965 2973 2990s 3142 3145s 3700 3710 3713s CdIC 1012; si riprovano le asserzioni ctr. la sacramentalità del matrim. 3451 3715.

La Forma (ossia la causa efficiente) del matrimonio è solo il consenso a.tra i presenti 643 a755s 766 a776 a1327 a1497 3701 CdIC (1012) 1081.

Il Consenso matrimoniale è un atto di volontà al quale entrambe le parti si soggettano e accettano in perpetuo il potere esclusivo del corpo in ordine all’atto di per sé idoneo alla generazione della prole CdIC 1081; il consenso regolarmente è manifestato dalle parole, a.in caso di impossibilità bastano i cenni a766 1327 CdIC 1086, § I a1088, § 2.

Il contratto matrimoniale non è dissociabile dal Sacramento 2966 (2974) 3145s (CdIC 1012); su riprova: [il Sacram. matrim. consiste nella sola benedizione] 2966.

Le condizioni ctr. la sostanza del matrimonio lo rende nullo, come le condizioni turpi ed impossibili che lo hanno come oggetto, 827 CdIC 1092; i diriitti matrimoniali per l’uomo e la moglie sono uguali (778) 3144.

La professione solenne di castità invalida il matrimonio 1809 (CdIC 1119).

Il Matrimonio contratto senza il consenso dei genitori per sé non sono validi 1813:

I matrimoni clandestini di per sé sono veri e rati 1813; ma sono proibiti dalla legge eccl.; vd. J 9bb.

I Matrimoni misti per sé sono validi, anche se non si è osservata a forma Tridentina 2518s 3387; ma sono riprovati se non sussista una giusta causa 2518 3386; i matrimoni tra apostati sono validi, se non sussiste il patto di dissolubilità 2340; circa la validità dei matrimoni tra gli eretici 2515 2517; i matrimoni degli acattolici (per sé) sono validi 3388; la loro validità non dipende dalla forma stabilita dalla Chiesa 3474.

J9b. b. — ORIGINE DEL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO.

9ba. Origine remota. Il Sacramento del matrimonio è istituito da Cristo (1799) 1801 2965 2990 3142 3700 3713 CdIC 1012.

9bb. Il diritto della Chiesa nella questione matrimoniale dei fedeli si estende ad ogni causa 1812 2598 2967-2974 2990 3144-3146 CdIC 1016 1960; al potere civile compete il diritto circa l’effetto meramente civile CdIC 1016.

Da osservarsi è la legislazione della Chiesa circa la forma (in specie a.proibendo i matrim. clandestini, b.proibendo il matrim. civile, c.istituendo la pubblicazione dei prossimi sposalizi.

ac817 ac18131816 2515-2520 b2990-2993 a3385 b3386 3468-3473.

Si riprova l’asserzione circa gli sponsali 2658.

La Chiesa ha il diritto di stabilire gli impedimenti 817 860 1803s 1812 1814s 2659s 2968-2970 (2972 2974) CdIC 1038 1040; ha in essi il diritto di dispensare 1803; i matrimoni contratti nell’infedeltà non costituiscono impedimenti meramente ecclesiastici in caso della conversione dei coniugi 777.

Si richiede l’assistenza del parroco (a.eccetto il caso in cui non sia possibile averlo entro un mese) 1814-1816 a3471; modo di agire nel matrimonio misto 2590.

9c. c C. — FINE, EFFETTO, VALORE DEL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO.

9ca. Ragione e causa primaria del matrimonio è la mutua interiore conformazione dei coniugi 3707.

9cb. Fine. a.propagazione e conservazione del genere umano per b.procreazione ed educazione della prole, aumento corporale della Chiesa, d.mutuo aiuto, e.mutuo amore, f.rimedio della concupiscenza c1311 ac3143 abc3705 def3718 b3838 CdIC bdf1013, § 1; si distinguono fine primario (sci. a.generaz. ed educ. della prole) e fini secondari (b.al primo subordinati) 3718 ab3838 CdIC a1013, § 1.

9cc. Beni del matrimonio (prole, fede, Sacramento 1327 3703-3714.

9cd. L’effetto è il diritto alla grazia attuale —: nel sostenere il compito coniugale 3911 CdIC 1110; —: per confermare il nesso del mutuo amore naturale 1799 3142 3713; —: per confermare l’indissolubile unità del connubio. 1327 1799 3142 3713; —: per la santificazione dei coniugi 1799 3142 3713; il Sacramento in vero non è instituito, se non perchè l’uso del coniuge sia strumento maggiormente atto alla carità degli sposi nei confronti di Dio 3911.

9ce. Proprietà essenziali. Gli effetti del Sacramento sono l’unità e l’indissolubilità CdIC 1013, § 2: il matrimonio è un vincolo perpetuo ed esclusivo tra i coniugi (3142) CdIC 1110.

L’unità concede il nesso tra i due 778 (1797) 1798 1802 2536 CdIC 1013, § 2; non è lecito ad un uomo avere più mogli simultaneamente (b.se non a chi sia connesso per rivelazione) né c.ad una donna avere più uomini abc778s ac860 (a1497) a1802; l’unità comprende l’amore coniugale, la mutua interna conformazione, il soggettarsi della moglie all’uomo 3706-3709.

L’indissolubilità o l’inviolabile fermezza è propria al matrimonio cristiano (117) 794 1797 1799 2536 2705s 2967 3142 3710s 3724 3953 3962 CdIC 1013, § 2; nel caso in cui si è ritenuto un secondo matrimonio (es. coniuge disperso), dopo il ritorno del marito è da restaurarsi il precedente matrimonio 311-314.

L’indissolubilità non conviene ai singoli coniugi in ugual misura 3711; il matrimonio rato e consumato nessun potere umano può dissolvere 754s 3712 CdIC 1118; circa la cooperazione di ufficiali cattolici nel divorzio civile 3190-3193; anche il matrim. rato di per sé non può essere sciolto 769 3712; può essere disciolto tuttavia per la pronunzia di un voto di religione di professione solenne (a.in forza di dispensazionedel Sommo Pontefice) 754s 786 1806 CdIC a1119.

Anche al Matrimonio naturale (pertanto) e legittimo conviene l’indissolubilità

(a. Così come al legislatore secolare per cui non può sciogliere il vincolo), b.esiston comunque eccezioni di diritto divino 779 b3712 a3724; in forza del privilegio Paolino può essere sciolto il matrimonio degli infedeli 768s 779 1497 1983 1988.2580-2585 2817-2820 CdIC 1120-1123; conversione di uno dei coniugi tuttavia da sè stess9 non dissolve il vincolo del matrimonio contratto nell’infedeltà, ma produce solo il diritto a nuove nozze (Ovvero: a.scioglie, se realmente le nozze sono validamente iniziate) (777) 2582 2585 CdIC a1126; il privil. Paol. non può applicarsi —: quando si è contratto il matrimonio con l’infedele previa dispensa per disparità di culto ottenuta dalla Sede Apostolica 2584 2817 2819; —: nel caso della defezione della fede nel matrimonio tra i fedeli 769; per defezione del coniuge infedele (richiesta per diritto) a.sotto qualunque condizione dispensato a1988 a2583 2818 CdIC 1121-1123.

Non può essere sciolto il matrimonio per a.eresia, b.molesta coabitazione, c.adulterio di uno dei coniugi c756 ab1805 c1807 c2536; è invero lecito per diverse cause procedere alla separazione del talamo e della coabitazione 1327 18082536 CdIC 1129.

Sono leciti anche matrimoni plurimi successivi (secondo, terzo, etc.), più a.onorabile invero è la casta vedovanza 794 837 860 1015 a1353 CdIC a1142.

9cf. La Dignità del matrimonio è rivendicata ctr. l’accusa di peccaminosità 206 321 461-463 718 761 794 802 (916) 1012.

Il Matrim. chr. significa il mistico connubio di Cristo e la Chiesa 1327 3712.

La superiorità della verginità a.non rinnega l’indole sacramentale del matrimonio 802 1353 1810 a3911s.

J9d. d. — SOGGETTO DEL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO.

Soggetto sono l’uomo e la donna liberi da impedimenti CdIC 1035.

Si difende il diritto (in genere) dell’uomo al connubio, che non può essere eliminato dalla umana autorità 3702 3722 3771.

10. Sacramentali.

J10a. a. — SACRAMENTALI IN GENERE.

I Sacramentali sono cose o azioni che la Chiesa usa con una certa imitazione dei Sacramenti per ottenere effetti specialmente spirituali CdIC 1144; tra di essi si enumerano consacrazioni, benedizioni, esorcismi CdIC 1147-1153.

La loro efficacia è “ex opere” della Chiesa operante 3844 CdIC 1144.

È solo della Sede Ap. istituire, mutare, abolire i sacramentali CdIC 1145.

Ministro ne è il chierico istruito della debita potestà CdIC 1146.

Soggetto sono i fedeli, i catecumeni ed anche gli acattolici CdIC 1149 1152.

Si riprova la trascuratezza dei sacramentali sotto il pretesto della contemplazione 2191.

J10b. b. — INDULGENZE.

10ba. Essenza. Le indulgenze sono la remissione della pena temporale contratta con i peccati già rimessi in quanto alla colpa 1448 CdIC 911; sono concessi dal tesoro dei meriti di Cristo e dei Santi 1025-1027 1398 1406 1448 1467 CdIC 911

10bb. Origine. La Chiesa, il a.S. Pontefice, b.i Vescovi episcopi (suoi sudditi) possono elargire le indulgenze a819 (868) a1025-1027 a1059 (1192) a1266 b1268 a1398 a1416 a1447-1449 1835 1867 2537 CdIC b349, §2,2 911 a912.

10bc. Efficacia. Le indulgenze si applicano per i fedeli vivi e defunti che sono le membra vive di Cristo 1266s 1448 CdIC 925; ai vivi si applicano per modo di assoluzione 1448 CdIC 911; ai defunti per modo di suffragio 1398 1405-1407 1448 CdIC 911; circa l’efficacia dell’indulgenza dell’altare privilegiato 2750; riprovata l’asserzione circa l’efficacia delle indulg. 1192 1416 1468s 1960.

10bd. Utilità. Le indulgenze si raccomandano come utili, salutari 1835 1867 2537 CdIC 911; non per questo con tanta facilità ed indiscrezione si ottengono in concessione in soddisfazione penitenziale 819 1835; asserzioni riprovate circa l’uso e l’utilità 1470-1472 2057 2216 2640-2643.

10be. Soggetto capace di indulgenza è il battezzato non scomunicato, in stato di grazia (a.contrito e confessato) almeno alla fine delle opere prescritte a1266s CdIC 925, § 1; per l’acquisto dell’indulgenza si richiede l’intenzione ed il compimento delle opere ingiunte. CdIC 925, § 2.

TUTTO IL DENZINGER SENTENZA PER SENTENZA (52)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: SS. BENEDETTO XV – “IN PRÆCLARA SUMMORUM”

Questa volta non è un gran Santo della Chiesa e della fede cattolica, ad essere l’oggetto della lettera Enciclica del Sommo Pontefice, bensì il poeta medioevale Dante Alighieri nel centenario della sua morte. Il Sommo Pontefice rivendica l’importanza del poeta nel diffondere alcuni principi della religione cattolica enunciati nella sua Commedia. Su altri particolari sorvola o li scusa con indulgenza forse eccessiva, senza spiegare perché ad esempio il poeta fuggisse ramingo per tutto il territorio nazionale, la sua devozione all’imperatore e l’avversione per il potere pontificio con tanto di Papi collocati nel fondo degli inferi, e parteggiante per gli eretici “fraticelli”, senza volere approfondire nel contempo opere di dubbia morale cristiana come il Convivio o il De Monarchia, senza contare la sua “ispirazione” ultraterrena presa di sana pianta da un poema arabo a lui di poco precedente di Ibn al Arabi. Ma nel complesso, senza andare troppo per il sottile come per un’operazione di canonizzazione, di enunciati dottrinali o  teologici, viene enucleata gran parte del fondamento della fede cattolica dell’epoca in parte riferita a San Tommaso l’aquinate. Una lettura godibile che rinfresca memorie letterarie giovanili e riporta alla mente verità dogmatiche eterne.

LETTERA ENCICLICA
IN PRÆCLARA SUMMORUM

DEL SOMMO PONTEFICE
BENEDETTO XV
AI DILETTI FIGLI PROFESSORI ED ALUNNI
DEGLI ISTITUTI LETTERARI E DI ALTA CULTURA
DEL MONDO CATTOLICO
IN OCCASIONE DEL VI CENTENARIO DELLA MORTE
DI DANTE ALIGHIERI

Diletti figli, salute e Apostolica Benedizione.

Nella illustre schiera dei grandi personaggi, che con la loro fama e la loro gloria hanno onorato il Cattolicesimo in tanti settori ma specialmente nelle lettere e nelle belle arti, lasciando immortali frutti del loro ingegno e rendendosi altamente benemeriti della civiltà e della Chiesa, occupa un posto assolutamente particolare Dante Alighieri, della cui morte si celebrerà tra poco il sesto centenario. Mai, forse, come oggi fu posta in tanta luce la singolare grandezza di questo uomo, mentre non solo l’Italia, giustamente orgogliosa di avergli dato i natali, ma tutte le nazioni civili, per mezzo di appositi comitati di dotti, si accingono a solennizzarne la memoria, affinché questo eccelso genio, che è vanto e decoro dell’umanità, venga onorato dal mondo intero.

Noi pertanto, in questo magnifico coro di tanti buoni, non dobbiamo assolutamente mancare, ma presiedervi piuttosto, spettando soprattutto alla Chiesa, che gli fu madre, il diritto di chiamare suo l’Alighieri.  Quindi, come al principio del Nostro Pontificato, con una lettera diretta all’Arcivescovo di Ravenna, Ci siamo fatti promotori dei restauri del tempio presso cui riposano le ceneri dell’Alighieri, così ora, quasi ad iniziare il ciclo delle feste centenarie, Ci è parso opportuno rivolgere la parola a voi tutti, diletti figli, che coltivate le lettere sotto la materna vigilanza della Chiesa, per dimostrare ancor meglio l’intima unione di Dante con questa Cattedra di Pietro, e come le lodi tributate a così eccelso nome ridondino necessariamente in non piccola parte ad onore della fede cattolica. – In primo luogo, poiché il nostro Poeta durante l’intera sua vita professò in modo esemplare la religione cattolica, si può dire consentaneo ai suoi voti che questa commemorazione solenne si faccia, come si farà, sotto gli auspici della religione; e che se essa avrà compimento in San Francesco di Ravenna, s’inizi però a Firenze, in quel suo bellissimo San Giovanni, a cui negli ultimi anni di sua vita egli, esule, con intensa nostalgia ripensava, bramando e sospirando di essere incoronato poeta sul fonte stesso dove, bambino, era stato battezzato.

Nato in un’epoca nella quale fiorivano gli studi filosofici e teologici per merito dei dottori scolastici, che raccoglievano le migliori opere degli antichi e le tramandavano ai posteri dopo averle illustrate secondo il loro metodo, Dante, in mezzo alle varie correnti del pensiero, si fece discepolo del principe della Scolastica Tommaso d’Aquino; e dalla sua mente di tempra angelica attinse quasi tutte le sue cognizioni filosofiche e teologiche, mentre non trascurava nessun ramo dell’umano sapere e beveva largamente alle fonti della Sacra Scrittura e dei Padri. Appreso così quasi tutto lo scibile, e nutrito specialmente di sapienza cristiana, quando si accinse a scrivere, dallo stesso mondo della religione egli trasse motivo per trattare in versi una materia immensa e di sommo respiro. – In questa vicenda si deve ammirare la prodigiosa vastità ed acutezza del suo ingegno, ma si deve anche riconoscere che ben poderoso slancio d’ispirazione egli trasse dalla fede divina, e che quindi poté abbellire il suo immortale poema della multiforme luce delle verità rivelate da Dio, non meno che di tutti gli splendori dell’arte. Infatti, tutta la sua Commedia, che meritatamente ebbe il titolo di divina, pur nelle varie finzioni simboliche e nei ricordi della vita dei mortali sulla terra, ad altro fine non mira se non a glorificare la giustizia e la provvidenza di Dio, che governa il mondo nel tempo e nell’eternità, premia e punisce gli uomini, sia individualmente, sia nelle comunità, secondo le loro responsabilità. Quindi in questo poema, conformemente alla rivelazione divina, risplendono la maestà di Dio Uno e Trino, la Redenzione del genere umano operata dal Verbo di Dio fatto uomo, la somma benignità e liberalità di Maria Vergine Madre, Regina del Cielo, e la superna gloria dei santi, degli Angeli e degli uomini. Ad esso si contrappone la dimora delle anime che, una volta consumato il periodo di espiazione previsto per i peccatori, vedono aprirsi il cielo davanti a loro. Ed emerge che una sapientissima mente governa in tutto il poema l’esposizione di questi e di altri dogmi cattolici.  – Se il progresso delle scienze astronomiche dimostrò poi che non aveva fondamento quella concezione del mondo, e che non esistono le sfere supposte dagli antichi, trovando che la natura, il numero e il corso degli astri e dei pianeti sono assolutamente diversi da quanto quelli ne pensavano, non venne meno però il principio fondamentale, che l’universo, qualunque sia l’ordine che lo sostiene nelle sue parti, è opera del cenno creatore e conservatore di Dio onnipotente, il quale tutto muove, e la cui gloria risplende in una parte più, e meno altrove; questa terra che noi abitiamo, quantunque non sia il centro dell’universo, come un tempo si credeva, tuttavia è sempre stata la sede della felicità dei nostri progenitori, e testimone in seguito della loro miserrima caduta, che segnò per essi la perdita di quella felice condizione che fu poi restituita dal sangue di Gesù Cristo, eterna salvezza degli uomini. Perciò Dante, che aveva costruito nel proprio pensiero la triplice condizione delle anime, immaginando prima del giudizio finale sia la dannazione dei reprobi, sia l’espiazione delle anime pie, sia la felicità dei beati, deve essere stato ispirato dalla luce della fede. – In verità Noi riteniamo che gl’insegnamenti lasciatici da Dante in tutte le sue opere, ma specialmente nel suo triplice carme, possano servire quale validissima guida per gli uomini del nostro tempo. Innanzi tutto i Cristiani debbono somma riverenza alla Sacra Scrittura e accettare con assoluta docilità quanto essa contiene. In ciò l’Alighieri è esplicito: « Sebbene gli scrivani della divina parola siano molti, tuttavia il solo che detta è Dio, il quale si è degnato di esprimerci il suo messaggio di bontà attraverso le penne di molti ». Espressione splendida e assolutamente vera! E così pure la seguente: « Il Vecchio e il Nuovo Testamento, emessi per l’eternità, come dice il Profeta » contengono « insegnamenti spirituali che trascendono la ragione umana », impartiti « dallo Spirito Santo, il quale attraverso i Profeti, gli Scrittori di cose sacre, nonché attraverso Gesù Cristo, coeterno Figlio di Dio, e i suoi discepoli rivelò la verità soprannaturale e a noi necessaria ». Pertanto Dante dice giustamente che da quell’eternità che verrà dopo il corso della vita mortale « noi traiamo la certezza che viene dall’infallibile dottrina di Cristo, la quale è Via, Verità e Luce: Via, perché attraverso essa giungiamo senza ostacoli alla beatitudine eterna; Verità, perché essa è priva di qualsiasi errore; Luce, perché ci illumina nelle tenebre terrene dell’ignoranza ». Egli onora di non minore rispetto « quei venerandi Concìli principali, ai quali tutti i fedeli credono senza alcun dubbio che Cristo abbia partecipato ». Oltre a questi, Dante tiene in grande stima « le scritture dei dottori, di Agostino e di altri ». In proposito, egli dice: « Chi dubita che essi siano stati aiutati dallo Spirito Santo, o non ha assolutamente visto i loro frutti o, se li ha visti, non li ha mai gustati ».

Per la verità, l’Alighieri ha una straordinaria deferenza per l’autorità della Chiesa Cattolica e per il potere del Romano Pontefice, tanto che a suo parere sono valide tutte le leggi e tutte le istituzioni della Chiesa che dallo stesso sono state disposte. Da qui quell’energica ammonizione ai Cristiani: dal momento che essi hanno i due Testamenti, e contemporaneamente il Pastore della Chiesa dal quale sono guidati, si ritengano soddisfatti di questi mezzi di salvezza. Perciò, afflitto dai mali della Chiesa come fossero suoi, mentre deplora e stigmatizza ogni ribellione dei Cristiani al Sommo Pontefice dopo il trasferimento dell’Apostolica Sede da Roma [ad Avignone], così scrive ai Cardinali Italiani: « Noi, dunque, che confessiamo il medesimo Padre e Figliuolo: il medesimo Dio e uomo, e la medesima Madre e Vergine; noi, per i quali e per la salvezza dei quali fu detto a colui che era stato interrogato tre volte a proposito della carità: “ Pasci, o Pietro, il sacrosanto ovile ”; noi che di Roma (cui, dopo le pompe di tanti trionfi, Cristo con le parole e con le opere confermò l’imperio sul mondo, e che Pietro ancora e Paolo, l’Apostolo delle genti, consacrarono quale Sede Apostolica col proprio sangue), siamo costretti con Geremia, facendo lamenti non per i futuri ma per i presenti, a piangere dolorosamente, di essa, quale vedova e derelitta; noi siamo affranti nel vedere lei così ridotta, non meno che il vedere la piaga deplorevole delle eresie ». – Dunque egli definisce la Chiesa Romana quale « Madre piissima » o « Sposa del Crocifisso », e Pietro quale giudice infallibile della verità rivelata da Dio, cui è dovuta da tutti assoluta sottomissione in materia di fede e di comportamento ai fini della salvezza eterna. Pertanto, quantunque ritenga che la dignità dell’Imperatore venga direttamente da Dio, tuttavia egli dichiara che « questa verità non va intesa così strettamente che il Principe Romano non si sottometta in qualche caso al Pontefice Romano, in quanto la felicità terrena e in un certo modo subordinata alla felicità eterna ». Principio davvero ottimo e sapiente, che se fosse fedelmente osservato anche oggi recherebbe certamente copiosi frutti di prosperità agli Stati.  – Ma, si dirà, egli inveì con oltraggiosa acrimonia contro i Sommi Pontefici del suo tempo. È vero; ma contro quelli che dissentivano da lui nella politica e che egli credeva stessero dalla parte di coloro che lo avevano cacciato dalla patria. Tuttavia, si deve pur compatire un uomo, tanto sbattuto dalla fortuna, se con animo esulcerato irruppe talvolta in invettive che passavano il segno, tanto più che ad esasperarlo nella sua ira non furono certo estranee le false notizie propalate, come suole accadere, da avversari politici sempre propensi ad interpretare tutto malignamente. Del resto, poiché la debolezza è propria degli uomini, e « nemmeno le anime pie possono evitare di essere insudiciate dalla polvere del mondo », chi potrebbe negare che in quel tempo vi fossero delle cose da rimproverare al clero, per cui un animo così devoto alla Chiesa, come quello di Dante, ne doveva essere assai disgustato, quando sappiamo che anche uomini insigni per santità allora le riprovarono severamente? – Tuttavia, per quanto si scagliasse nelle sue invettive veementi, a ragione o a torto, contro persone ecclesiastiche, però non venne mai meno in lui il rispetto dovuto alla Chiesa e la riverenza alle Somme Chiavi; per cui nella sua opera politica intese difendere la propria opinione « con quell’ossequio che deve usare un figlio pio verso il proprio padre, pio verso la madre, pio verso Cristo, pio verso la Chiesa, pio verso il Pastore, pio verso tutti coloro che professano la religione Cristiana, per la tutela della verità ». –  Pertanto, avendo egli basato su questi saldi principi religiosi tutta la struttura del suo poema, non stupisce se in esso si riscontra un vero tesoro di dottrina cattolica; cioè non solo il succo della filosofia e della teologia cristiana, ma anche il compendio delle leggi divine che devono presiedere all’ordinamento ed all’amministrazione degli Stati; infatti l’Alighieri non era uomo che per ingrandire la patria o compiacere ai prìncipi potesse sostenere che lo Stato può misconoscere la giustizia e i diritti di Dio, perché egli sapeva perfettamente che il mantenimento di questi diritti è il principale fondamento delle nazioni. – Indicibile, dunque, è il godimento che procura l’opera del Poeta; ma non minore è il profitto che lo studioso ne ricava, perfezionando il suo gusto artistico ed accendendosi di zelo per la virtù, a condizione però che egli sia spoglio di pregiudizi, ed aperto alla verità. Anzi, mentre non è scarso il numero dei grandi poeti cattolici che uniscono l’utile al dilettevole, in Dante è singolare il fatto che, affascinando il lettore con la varietà delle immagini, con la vivezza dei colori, con la grandiosità delle espressioni e dei pensieri, lo trascina all’amore della cristiana sapienza; né alcuno ignora che egli apertamente dichiara di aver composto il suo poema per apprestare a tutti vitale nutrimento. Infatti, sappiamo che alcuni, anche recentemente, lontani sì, ma non avversi a Cristo, studiando con amore la Divina Commedia, per divina grazia, prima cominciarono ad ammirare la verità della fede cattolica e poi finirono col gettarsi entusiasti tra le braccia della Chiesa. – Quanto abbiamo esposto fino ad ora è sufficiente per dimostrare quanto sia opportuno che, in occasione di questo centenario che interessa tutto il mondo cattolico, ciascuno alimenti il suo zelo per conservare quella fede che sì luminosamente si rivelò, se in altri mai, nell’Alighieri, quale fautrice della cultura e dell’arte. Infatti, in lui non va soltanto ammirata l’altezza somma dell’ingegno, ma anche la vastità dell’argomento che la religione divina offerse al suo canto. Se la natura gli aveva fornito un ingegno tanto acuto, affinato nel lungo studio dei capolavori degli antichi classici, maggiore acutezza egli trasse, come abbiamo detto, dagli scritti dei Dottori e dei Padri della Chiesa, che consentirono al suo pensiero di elevarsi e di spaziare in orizzonti ben più vasti di quelli racchiusi nei limiti ristretti della natura. Perciò egli, quantunque separato da noi da un intervallo di secoli, conserva ancora la freschezza di un poeta dell’età nostra; e certamente è assai più moderno di certi vati recenti, esumatori di quell’antichità che fu spazzata via da Cristo, trionfante sulla Croce. Spira nell’Alighieri la stessa pietà che è in noi; la sua fede ha gli stessi sentimenti, e degli stessi veli si riveste « la verità a noi venuta dal cielo e che tanto ci sublima ». Questo è il suo elogio principale: di essere un poeta cristiano e di aver cantato con accenti quasi divini gli ideali cristiani dei quali contemplava con tutta l’anima la bellezza e lo splendore, comprendendoli mirabilmente e dei quali egli stesso viveva. Conseguentemente, coloro che osano negare a Dante tale merito e riducono tutta la sostanza religiosa della Divina Commedia ad una vaga ideologia che non ha base di verità, misconoscono certo nel Poeta ciò che è caratteristico e fondamento di tutti gli altri suoi pregi. – Dunque, se Dante deve alla fede cattolica tanta parte della sua fama e della sua grandezza, valga solo questo esempio, per tacere gli altri, a dimostrare quanto sia falso che l’ossequio della mente e del cuore a Dio tarpi le ali dell’ingegno, mentre lo sprona e lo innalza; e quanto male rechino al progresso della cultura e della civiltà coloro che vogliono bandita dall’istruzione ogni idea di religione. È, infatti, assai deplorevole il sistema ufficiale odierno di educare la gioventù studiosa come se Dio non esistesse e senza la minima allusione al soprannaturale. Poiché sebbene in qualche luogo il « poema sacro » non sia tenuto lontano dalle scuole pubbliche e sia anzi annoverato fra i libri che devono essere più studiati, esso però non suole per lo più recare ai giovani quel vitale nutrimento che è destinato a produrre, in quanto essi, per l’indirizzo difettoso degli studi, non sono disposti verso la verità della fede come sarebbe necessario. – Volesse il cielo che queste celebrazioni centenarie facessero in modo che ovunque si impartisse l’insegnamento letterario, che Dante fosse tenuto nel dovuto onore e che egli stesso pertanto fosse per gli studenti un maestro di dottrina cristiana, dato che egli, componendo il suo poema, non ebbe altro scopo che « sollevare i mortali dallo stato di miseria », cioè del peccato, e « di condurli allo stato di beatitudine », cioè della grazia divina. – E voi, diletti figli, che avete la fortuna di coltivare lo studio delle lettere e delle belle arti sotto il magistero della Chiesa, amate e abbiate caro, come fate, questo Poeta, che Noi non esitiamo a definire il cantore e l’araldo più eloquente del pensiero cristiano. Quanto più vi dedicherete a lui con amore, tanto più la luce della verità illuminerà le vostre anime, e più saldamente resterete fedeli e devoti alla santa Fede.

Quale auspicio dei celesti favori ed a testimonianza della Nostra paterna benevolenza, impartiamo con affetto a voi tutti, diletti figli, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 aprile 1921, nell’anno settimo del Nostro Pontificato.  
 

BENEDICTUS PP. XV 

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2023)

XV DOMENICA DOPO PENTECOSTE. (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani,

comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

La Lezione dell’Ufficio in questo giorno coincide spesso con quella del libro di Giobbe. Questo pio e ricco signore del paese di Hus, dapprima ripieno d’ogni bene, fu colpito dai mali più spaventosi che si possano quaggiù immaginare. « satana, dicono le Sacre Scritture, si presentò un giorno avanti a Dio e gli disse: Circuivi terram, ho percorsa tutta la terra e ho visto come hai protetto Giobbe, la sua casa, le sue ricchezze. Ma stendi la tua mano su di lui e tocca quello che possiede e vedrai come ti maledirà. Il Signore gli rispose: Va: tutto quello che lui possiede è in tuo potere, ma non togliergli la vita. E satana uscì dal cospetto del Signore. E ben presto Giobbe perdette il bestiame, i beni, la famiglia e fu colpito da satana con un’ulcera maligna dalla pianta dei piedi fino alla testa ». E Giobbe, disteso su un letamaio, fu costretto a togliere il putridume delle sue ulceri con un coccio » La Chiesa, pensando alla malizia di satana, ci fa domandare di essere sempre difesi contro gli assalti del demonio, contra diabolicos incursus (Segr.). satana ha l’impero della morte e, se Dio lo lasciasse fare, dicono i Padri, egli toglierebbe a tutti gli esseri la vita che posseggono. S. Paolo definisce una sua malattia: «L’angelo di satana che lo colpisce. « Ed il demonio, dice la S. Scrittura, riduce Giobbe ad un punto tale, che il santo uomo può gridare: « Il soggiorno dei morti è diventato la mia dimora, io ho preparato il mio giaciglio nelle tenebre, e ho detto al marciume: tu sei mio padre; alla putredine: madre mia, sorella mia. (XVII, 14). Le mie carni si sono consumate come un vestito roso dai tarli, e le mie ossa si sono appiccicate alla mia pelle ». Così la Chiesa applica ai defunti il disperato appello che Giobbe fece allora ai suoi amici: « Abbiate pietà di me almeno voi, o amici, poiché la mano del Signore m’ha colpito. Ma il suo appello rimase senza risposta; Giobbe allora si rivolse verso Dio e gridò con una salda speranza: « Io so che il mio Redentore vive e ch’io risusciterò dalla terra l’ultimo giorno; che sarò di nuovo rivestito della mia pelle e nella mia carne rivedrò il mio Dio. Lo vedrò io stesso e i miei occhi lo contempleranno: questa speranza riposa nel mio cuore ». E Giobbe descrive la gioia con la quale ascolterà un giorno la voce di Dio che lo chiamerà a una vita nuova: « Tu mi chiamerai e io ti risponderò, tu stenderai la tua destra verso l’opera delle tue mani ». – « Il Signore, mettendo fine ai mali che lo travagliavano, gli rese il doppio di quello che possedeva prima e lo colmò di benedizioni più negli ultimi anni di vita che non nei primi ». — La Chiesa, raffigurata in Giobbe, domanda a Dio « di essere purificata, protetta, salvata e governata da Lui » (Oraz.). Col Salmo dell’Introito essa dice: « Rivolgi, o Signore il tuo occhio verso di me ed esaudiscimi, che io sono povera e mancante di tutto (Versetto 1°). Signore, abbi pietà di me, che ho gridato verso di te tutto il giorno. Vieni alla mia anima che io ho elevata fino a te (Versetto 4°). Io ti loderò, o Signore, poiché mi hai liberato dall’inferno più profondo (Versetto 13°) ». Col Salmo dell’Offertorio essa aggiunge: « Io ho atteso il Signore con perseveranza, ed Egli infine si è volto verso di me, ha esaudita la mia preghiera e ha messo sulle mie labbra un cantico nuovo ». Questo cantico è quello delle anime cristiane risuscitate alla vita di grazia. « È bello, esse dicono, lodare il Signore e annunciare la sua grande misericordia » (Grad.). « Sì, davvero il Signore è il Dio onnipotente, il Gran Re che regna su tutta la terra » (All.).L’Epistola di S. Paolo è intieramente consacrata alla vita soprannaturale che lo Spirito Santo dà o rende alle anime. « Se noi viviamo per lo Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito », cioè siamo umili, dolci, caritatevoli, verso quelli che cadono, ricordandoci che noi siamo deboli e che di fronte al supremo Giudice porteremo il fardello delle nostre colpe personali. Contraccambiamo generosamente con beni temporali (denaro, cibi, vesti) le persone che ci predicano la parola di Dio (divina parola che dà la vita) e non indugiamo, perché Dio non tollera che ci burliamo di Lui. Il raccolto sarà conforme alla natura della semenza gettata. Seminiamo opere piene di spirito soprannaturale e mieteremo la vita eterna. Non tralasciamo un istante di fare il bene. Evitiamo le opere della carne che sono la mancanza di carità, l’orgoglio, l’avarizia e la lussuria, poiché quelli che commettono peccati sono morti alla vita di grazia e non mieteranno che corruzione. Usciamo, dunque, dalla morte e viviamo come veri risuscitati. — Il Vangelo ci dà questo stesso insegnamento raccontandoci la risurrezione del figlio della vedova di Naim. Gesù, vedendo il dolore di questa madre, fu mosso a compassione: si accostò al feretro e toccando il morto disse: « Giovinetto, te lo comando, alzati! ». E subito il morto si levò e cominciò a parlare. E tutti glorificavano Iddio dicendo; « un grande profeta è apparso in mezzo a noi e Dio ha visitato il suo popolo ». Il Verbo facendosi carne si è accostato alle anime che giacevano nella morte del peccato, e, commosso dalle lacrime della Chiesa, nostra madre, le ha resuscitate alla vita della grazia. Poi, mediante l’Eucaristia ha posto nei corpi un germe di vita, affinché essi risuscitino nell’ultimo giorno (Com.). — Fa, o Signore, che il nostro corpo e la nostra anima siano interamente sottomessi alla influenza dell’Ostia divina, affinché l’effetto di questo sacramento domini sempre in noi (Postcom.). – Vivificati dallo Spirito Santo, solleviamo con sollecitudine quelli che sono morti alla vita della grazia, aiutiamo con le nostre sostanze quelli che con la parola della verità diffondono la vita dello Spirito, e promuovono sempre più in noi la vita soprannaturale che abbiamo ricevuta nel Battesimo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.

S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LXXXV: 1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Kyrie
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi.

[Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’anima mia.]

Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur.

[O Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua grazia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V: 25-26; 6: 1-10

Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.

[Fratelli: Se viviamo di spirito, camminiamo secondo lo spirito. Non siamo avidi di vanagloria, provocandoci a vicenda, a vicenda inviandoci. Fratelli, quand’anche uno venisse sorpreso in qualche fallo, voi che siete spirituali ammaestratelo con lo spirito di dolcezza, e bada a te stesso che tu pure non cada nella tentazione. Gli uni portate i pesi degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. Poiché, se alcuno crede di essere qualche cosa, e invece non è nulla, costui inganna sé stesso. Piuttosto ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi soltanto in se stesso, e non nel confronto con gli altri. Perché ciascuno porterà il proprio fardello. Chi poi viene istruito nella parola faccia parte di tutti i beni a chi lo istruisce. Non vogliate ingannarvi: Dio non si lascia schernire. Ciascuno mieterà quello che avrà seminato. Così, chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà corruzione: chi, semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna. Non stanchiamoci dunque dal fare il bene; poiché se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo. Perciò mentre abbiamo tempo facciamo del bene a tutti, e in modo speciale a quelli che, per la fede, sono della nostra famiglia.]  

CONOSCI TE STESSO

L’Epistola di quest’oggi è la continuazione di quella della domenica scorsa, nella quale si inculcava di vivere secondo lo spirito. Per vivere secondo lo spirito, prosegue l’Apostolo, bisogna fuggire la vanagloria e l’invidia. Si deve correggere chi sbaglia con spirito di dolcezza; tutti hanno a sopportarsi vicendevolmente. Persuasi del proprio nulla, devono esaminar spassionatamente le proprie azioni. Siamo, inoltre, generosi con chi ci istruisce nella fede. E conclude esortando di non stancarci di fare il bene, essendo la nostra vita il tempo della semina. Se in questa vita non ci stancheremo a seminare nello spirito, a suo tempo, mieteremo la vita eterna. – Accogliamo l’invito di S. Paolo, a esaminare le nostre opere.

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

Graduale

Ps XCI: 2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime.

[È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemm.

[È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XCIV: 3

Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja.

[Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum S. Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam.

[“In quel tempo avvenne che Gesù andava a una città chiamata Naim: e andavan seco i suoi discepoli, e una gran turba di popolo. E quand’ei fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato fuori alla sepoltura un figliuolo unico di sua madre, e questa era vedova: e gran numero di persone della città l’accompagnavano. E vedutala il Signore, mosso di lei a compassione, le disse: Non piangere. E si avvicinò alla bara, e la toccò (e quelli che la portavano si fermarono). Ed egli disse: Giovinetto, dico a te, levati su; e il morto si alzò a sedere, e principiò a parlare. Ed egli lo rese a sua madre. Ed entrò in tutti un gran timore; e glorificavano Dio, dicendo: Un profeta grande è apparso tra noi; e ha Dio visitato il suo popolo”

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

LA MADRE

Era Naim una borgata di Palestina. Fu proprio alle sue porte, che il Maestro incontrò un funerale. Portavano a sepoltura un giovane, un figlio unico: e sua madre era una vedova. Gran tratta di popolo, mossa dalla pietà del caso, accompagnava la salma. Gesù si fermò ed ecco una donna venire col viso nascosto sotto il velo oscuro, curva sotto il velo oscuro, curva sotto un’angoscia senza parola. La madre! Come la vide, il Figlio di Dio sentì il cuore pieno di misericordia per lei, per la madre. E dicendole — Non piangere! — chiamò il figliuolo fuori dal sonno della morte e lo restituì a lei: alla madre. Quam cum vidisset, motus super eam… Non il pietoso cadavere d’un giovanetta non la commiserazione d’una città, ma una madre in ambascia ha ottenuto il miracolo. Quando una Madre piange, Dio sente straziarsi le viscere (è il significato preciso della parola greca usata da Luca: « esplachnìsthe ») e non sa più resistere. « Madre », che misteriosa parola: essa è la prima che il bambino ignaro della vita riesce a balbettare. Essa è l’ultima che l’uomo esperto d’ogni amara fatica mormora nel turbine dell’agonia. Nelle ore più disperate in cui ci sentiamo schiacciati e soli nel mondo, involontariamente ognuno chiama la sua mamma: « Dov’è ella mai? Perché non sento la sua mano bianca carezzarmi la fronte ardente? » Nelle ore più benedette e fortunate, nessuna gioia è piena, nessuna gloria è colma, se manca la nostra mamma. « Dov’è ella mai? se mi potesse vedere! ». Guardando un giovane ben educato, che fa bella e onesta riuscita nel mondo, subito ci vengono in mente queste parole: « Sono i consigli, sono le preghiere di sua madre ». Incontrando invece qualche cattivo soggetto, fuorviato, depravato, noi diciamo: « Non ha avuto madre ». Ed io sono del parere di quelli che asseriscono come neppure il Figliuol Prodigo sarebbe finito a riempirsi il ventre con le ghiande dei porci, se la parabola gli avesse messo accanto una mamma. E non avete osservato con che accento d’insaziabile pietà gli orfani dicono: « La mia povera mamma… »? E non avete osservato quale tremito d’amarezza trascorre sulla bocca dell’uomo che tormentosamente esclama: « Ho fatto piangere mia madre… »? Madri, voi siete una potenza nel mondo. Perciò, permettete che vi richiami la dignità altissima a cui foste innalzate da Dio e da Cristo Salvatore. Permettete ch’io vi riguardi nella luce della nostra fede, in quella luce in cui Gesù vide la madre di Naim. Madre cristiana, significa Martire, perché la sua vita è un continuo olocausto; madre cristiana significa Angelo, perché la sua vita deve essere una continua elevazione a Dio sulle ali della preghiera. Forse questi pensieri faranno piangere molte che hanno dimenticato ciò che dovrebbero essere; faranno arrossire anche i mariti che in questa luce non hanno considerato mai la loro sposa; faranno pentire tutti i figliuoli che hanno disgustato la loro mamma. Dio voglia che avvenga così. – 1. LE MADRI DOLORANTI. Un lontano venerdì, al meriggio, una Madre ascendeva verso il sommo d’una collina appena fuori dalle mura di Gerusalemme. Era Maria, la madre di Dio: di Dio suo Figlio che agonizzava sopra una croce per la salvezza del mondo. Ed Ella dolorosa e lacrimosa stette a contemplare lo strazio del suo Unigenito. Grande come il mare fu la sua angoscia, e per ciò tutte le generazioni l’hanno riconosciuta come la più addolorata fra le donne. E dopo di Lei, dovrò ricordare tutte le madri cristiane, che l’imitarono nel sacrificio? Ricorderò Santa Sofia che vide co’ suoi occhi le tre figliuole uccise per la fede, e poi raccolse le reliquie delle tre piccole martiri, e le compose nella stessa arca e si adagiò sul loro sepolcro; e vi morì di dolore e di amore. Ricorderò anche la madre di S. Barulo. Mentre camminava per le vie di Antiochia con l’unico suo figlioletto, improvvisamente fu trascinata al tribunale del prefetto Asclepiade. Stavano processando un diacono, perché s’era rifiutato di adorare gli idoli. « Fa venire un fanciullo semplice ed innocente — diceva il martire al giudice — e sentiremo da lui se si devono onorare più dei, o un Dio solo ». E il primo fanciullo trovato, fu Barulo. « Barulo! — gli diceva Asclepiade con voce ingannevole — quella rosa che tieni fra le mani, non la potresti offrire a Giove? » « No! — rispose il bimbo — perché soltanto il Dio dei Cristiani è il Vero ». Scoppiò d’ira il prefetto: « Chi ti apprese a parlar così? ». « Mia madre rispose il piccolo — e a mia madre Iddio ». Allora fu consegnato ai carnefici perché fosse sospeso in alto e flagellato a morte in presenza della madre. E dall’alto, mentre le tenere carni percosse cadono a brani, dalle labbra riarse del fanciullo si sprigiona un lamento: « Oh, mamma, una goccia d’acqua! Ho sete ». « Figlio mio! — risponde la madre straziata — chi beve l’acqua terrena ha sete ancora… sopporta un poco e berrai al fonte dell’acqua che disseta per sempre ». Sopportò un poco ancora e gli fu troncata la testa nel grembo di sua madre! Che la Madre di Dio, che le madri doloranti dei martiri, insegnino anche alle nostre madri l’olocausto della maternità. La vita non è una festa, e i figliuoli non sono balocchi da conservare tra le carezze, gli agi, i capricci. La vita di una vera madre è un sacrificio lento, oscuro, continuo: è un immolarsi corpo ed anima, di giorno in giorno, per i figli e per lo sposo. Ma ora le giovani vanno al matrimonio sognando le rose soltanto, e di spine non vogliono saperne. Ecco perché con peccati e talvolta con delitti esecrandi si arriva fino a rifiutare d’essere madri, per sfuggire ai pesi e ai sacrifici della maternità. – 2. LE MADRI PREGANTI. Nell’infocato deserto di Bersabee da più giorni erravano una madre e un figlio: ed il figlio moriva di sete. Allora la madre lo pose sotto uno degli alberi che v’erano, s’allontanò quanto un tiro d’arco e piangendo alzava le mani e la voce al cielo: « Signore, non vedrò morire il mio fanciullo ». Quel grido fu udito da Dio, e venne un Angelo a dire: « Agar, che fai, non piangere più: prendi il figlio tuo e guarda ». In quel momento i suoi occhi scorsero non lontano un pozzo d’acqua, ove riempiendo l’otre, ella dissetò Ismaele (Gen. XXI). Ascoltate ancora di un’altra madre. Una volta che Gesù s’era spinto entro i confini della regione cananea, una donna che aveva la figlia torturata dal demonio venne a Lui, si buttò ai suoi piedi gridando: « Signore, pietà di mia figlia, e di me ». Ed il Signore dapprima la guardò senza rispondere, ma come ella raddoppiava le insistenze, i discepoli stessi lo pregarono di esaudirla. Egli allora parlò, ma per dire una parola dura: « Il mio popolo è quello d’Israele, tu sei forestiera. Donna, non è bene prendere il pane dei figli per darlo ai cani ». Ma quella donna era madre e pregò con eroica fede così: « E s’io sono un cane, almeno non mi sia negato il diritto dei cani che è ben quello di raccogliere le briciole cadute dalla tavola del padrone ». Gesù non poté più resistere: « La tua fede è grande! — esclamò commosso — ti sia concesso ciò che domandi ». Quante madri ancora somigliano ad Agar dell’Antico Testamento? l’anima del loro figlio, del loro sposo muore di sete nel deserto della vita, poiché da tempo hanno lasciato la Chiesa, le devozioni, l’amor del lavoro e della famiglia… Quante madri ancora somigliano alla Cananea del Nuovo Testamento; la loro figlia è tormentata dal demonio: non vuol più ubbidire, non vuol più vivere onestamente. Le mode, le gite, gli amici, le lunghe ore serotine passate fuori di casa l’hanno rovinata nell’anima… Bisogna pregare. « Signore! — dicono anch’esse piangendo — io non voglio vederlo morire di sete! Fa’ che ritorni a Te ed ai Sacramenti, fa che si disseti con l’acqua della tua grazia, fa che diventi buono » — « Signore! — dicano anch’esse — scaccia da mia figlia il demonio della leggerezza, dell’immodestia, della vanità, della disobbedienza, dello scandalo. Fa che diventi buona ». Alle madri che pregano e piangono con fede, con insistenza di anni e di anni — come santa Monica — Dio non può resistere. Ma perché dunque queste giovani madri dei nostri tempi pregano così poco? Perché non si recita più il Rosario alla sera, la preghiera prima dei pasti e del riposo, l’Angelus del mezzodì, le giaculatorie durante il lavoro? Perché non si sente il bisogno della Comunione frequente, della Messa quotidiana? – Si racconta dell’imperatore Corrado che assediò una città di Germania e la prese a discrezione. « Sia sterminata col ferro e col fuoco e nella rovina perisca ogni abitante ed ogni roba », questo era l’orrido bando. Ma le madri scarmigliate si prosternarono davanti al padiglione del terreo conquistatore e seppero singhiozzare così pietosamente che concesse a loro il permesso di fuggire con ciò che potevano portarsi dietro. E quelle con improvviso ardimento, si presero sulle spalle gli sposi e sulle braccia i figli e li sottrassero alla morte. Ah, le madri cristiane avranno forse meno zelo per sottrarre i loro cari alla morte spirituale? Ecco che il re dell’inferno cinge d’assedio le nostre case: sono mille nuovi pericoli che accerchiano la fede e il buon costume delle famiglie. Solo il sacrificio e la preghiera delle madri potrà strappare fuori dall’eterna rovina gli uomini ed i fanciulli. — LA SANTA MADRE CHIESA PIANGE. Questa donna di Naim mi ricorda un’altra mistica donna che oggi piange dietro alle anime morte non di uno solo, ma di mille e mille suoi figli giovanetti: la santa Madre Chiesa. Non è essa la sposa di Cristo vedovata per l’ascensione di Lui al cielo? Tutti i giovani che hanno perso l’innocenza della vita e l’amore alla preghiera e il desiderio della Comunione, non sono forse i suoi figliuoli morti? La gioventù non respira più nell’atmosfera cristiana, ma agonizza e muore nello spasimo di un’asma morale. V’è un attossicamento di anime, una lebbra di cuori, una tubercolosi spirituale. Perciò la Chiesa oggi piange. O Cristiani aprite una volta gli occhi e vedete la corruzione della nostra gioventù come dilaga; poi ricercatene qualche causa per opporvi rimedio. – 1. LA CORRUZIONE DEI GIOVANI. Un giorno che il Papa San Gregorio attraversava la piazza del mercato di Roma, vide un gruppo di giovani legati sopra un banco: bellissimi di forma, piacevoli di volto e tutti biondi di capelli. Erano schiavi ed aspettavano che qualcuno li comprasse. Il beato Gregorio passando vicino, domandò al mercante donde li avesse condotti. « Di Bretagna, — rispose quello — là, ove gli abitanti risplendono di simigliante bianchezza ». E ancora domandò: « Almeno sono essi Cristiani? » E il mercante rispose: « Non sono Cristiani, anzi sono involti negli orrori del paganesimo ». Allora S. Gregorio incominciò fortemente a sospirare in mezzo al mercato, e a piangere come un fanciullo, così dicendo: « Ohimè, dolente! che bellissimi giovani e che splendidi facce son venduti schiavi agli uomini pessimi e al demonio maligno ». Usciamo anche noi, e guardiamo con occhi cristiani su questa gran piazza di mercato che è il mondo: guardiamo la sorte della nostra gioventù. Sono fanciulli che a otto a dieci anni perdono di già la santa Messa nei giorni festivi; che di già non pregano più né mattina né sera. Sono giovani che non vengono mai alla dottrina cristiana, che non vogliono frequentare più l’oratorio, per divertirsi tutta la domenica e offendere il Signore. – I campi sportivi, i divertimenti; i balli rigurgitano di giovanetti: alla sera tornano a casa, ma il loro occhio non è limpido, ma la loro fronte non è più serena, ma la loro anima è una fiamma. Una fiamma d’impurità che li divora. Essi hanno visto, hanno udito, hanno imparato il male. E quando il demonio del vizio brutto entra in corpo a un nostro figliuolo lo rende muto. Subito ve ne accorgete, perché non prega più, non si confessa più come una volta, non apre più la sua bocca a ricevere il Pane degli Angeli. Allora è finita. E che cosa si può sperare ancora quando finanche le fanciulle hanno perso il senso del pudore istintivo nel cuor della donna? Voi le vedete in giro ad ogni ora, e sole: di giorno, di sera, di notte. Voi le sentite frivolmente ridere e scherzare per le strade; vestono una moda così immorale che forse non s’è vista mai, neppure al tempo dei pagani. E la gioventù ha l’anima bella. Un’anima splendente, che non vien di Bretagna come quei giovani che vide il beato Gregorio, ma viene da Dio e a Dio deve ritornare. Ma chi piange ora che sì belle anime cadono schiave di uomini pessimi e del demonio maligno? Il Papa più volte ha levato il suo grido d’allarme e contro alla moda e contro alla corruzione che dilaga. Il Papa dal Vaticano, come un giorno S. Gregorio sul mercato di Roma, sospira fortemente e piange sulla rovina della gioventù. – 2. QUALCHE CAUSA. « Oh i ragazzi adesso, non sono più come quelli di una volta! Nascono. già con un istinto più perverso… » così dicono le mamme ed anche i papà. Può darsi: ma è proprio possibile che il Signore tutti i buoni figliuoli li abbia già fatti nascere, e per i nostri tempi, abbia riserbato soltanto i cattivi? « Adesso si respira un’aria diversa. Ai nostri tempi non c’erano tanti luoghi di divertimento, tanti sports: e siamo cresciuti più sani e più onesti ». Sì, questo è vero ma non basta a spiegar tutto. Io credo, — e scusate genitori se ve lo dico, è per vostro bene — io credo che la vera colpa di tanto sfacelo morale ricada sui padri e sulle madri. Sapete perché i ragazzi di adesso non sono più come quelli di una volta? Perché anche ì genitori d’adesso non sono più come quelli d’allora. Il figlio in mano vostra è come una cera e cresce come voi lo volete. Il grande Vescovo di Costantinopoli S. Giovanni Crisostomo, quell’uomo meraviglioso che tanta orma di sé ha impresso sui secoli della storia, nacque nel 344, in una ricca e distinta famiglia. Il padre Secondo morì nel fior dell’età e lasciò vedova a vent’anni Antusa. A questa donna, ben degna dell’augusto nome di madre, si deve in gran parte la gloria del figlio. Per donarsi totalmente all’educazione del suo Giovanni, rifiutò un secondo matrimonio. Fu così fedele per ben due decenni ai suoi doveri di madre da strappare al pagano Libanio queste parole: « Che donne meravigliose ci sono tra i Cristiani! ». Or dove sono queste mamme? Che meraviglia allora che non ci siano più figli come Giovanni Crisostomo? Naturalmente non basta sorvegliare e avvisare i figli, sgridarli, castigarli: bisogna dar loro l’esempio. Perché i giovani non ragionano ancora e vivono di imitazione. Il piccolo Origene era un’anima ardente e pura. In quel tempo infieriva la persecuzione contro i Cristiani: lo sapeva il fanciullo, ma non aveva paura. Anzi agognava il martirio, per testimoniare col suggello della vita e del sangue a Cristo tutto il suo amore. Già in segreto aveva deciso di consegnarsi spontaneamente nelle mani dei carnefici. E sarebbe morto martire se l’astuzia della madre non fosse riuscita ad impedirglielo. La santa donna, che aveva intuito l’eroico disegno del suo figliuolo, prima che si svegliasse, nascose tutti i suoi abiti e l’obbligò a rimane a letto (EUSEBIO, Storia Eccl., VI, 2-5). Com’è possibile in un fanciullo tanto coraggio, tanta fede e questo entusiasmo fino alla morte? Com’è possibile? Suo padre gliene aveva dato l’esempio: il beato Leonida era morto martire. O genitori! i vostri figliuoli cresceranno secondo i vostri esempi. Li volete obbedienti? Cominciate voi ad ubbidire a tutte le leggi di Dio. Li volete devoti, che frequentino i Sacramenti? Cominciate voi ad essere devoti e a frequentare i Sacramenti. Li volete puri, onesti, lavoratori? Cominciate voi ad essere puri, onesti, lavoratori. Infine, vi raccomando: pregate per i vostri figliuoli, offrite qualche sacrificio per loro, fate per loro qualche elemosina. Perché noi ci affanniamo, ma quello che fa tutto è Dio. Una volta ho sentito una mamma che in un momento di stizza, fece questa imprecazione contro un suo bambino: « Che Dio ti faccia morire! ». No: non dite mai, non dite più questa parola. Bisogna pregar Dio per i vostri figliuoli ogni giorno, non perché li faccia morire, ma perché ce li preservi dal male, che è tanto nel mondo, che è orribile. Così pregava Gesù per i suoi Apostoli, che teneramente amava come figliuoli: « O Signore! non perché li tolga da questo mondo, ma perché li preservi dal male, io ti prego ». Non rogo ut tollas eos de mundo, sed ut serves eos a malo (Giov., XVII, 15). –  O Gesù! che un giorno hai sentito fremere il tuo cuore davanti alla desolata donna di Naim piangente sul suo giovanetto figlio, oggi ti prenda compassione anche della santa Madre Chiesa, che piange la rovina di tanti suoi figli giovanetti. Non permettere che pianga più oltre: consola il tuo Vicario. O Gesù! come un giorno alle porte di Naim, avvicinati oggi alle porte delle nostre città, alle porte dei nostri paesi, alle porte del cuore dei nostri figliuoli. Toccali Tu. Liberali dalla morte del peccato. Grida anche loro la tua parola di vita: « Giovanetto, risorgi: son Io che te lo comando ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro.

[Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]

Secreta

Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus.

[I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Domine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua gloria, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretionis sentímus. Ut in confessione veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia unitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamare quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigenito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]


Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis. Benedíctus, qui venit in nomine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præceptis salutáribus móniti, et divína institutióne formati audemus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann VI: 52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita.

[Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]

Postcommunio

Orémus.

Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus.

[L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (268)

LO SCUDO DELLA FEDE (268)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (10)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864

CAPO XI.

CATTOLICESIMO

I. La religione non s’ha da immischiare nell’avviamento esterno della società. Il. La prudenza richiede il giusto-mezzo — la moderazione,— non bisogna essere esclusivi.

Abbiamo accennato sopra tante sorti di religione che ormai sembra che dovrebbe bastare: eppure, osservando quel che accade nel mondo, ve n’ha ancora una specie di cui non si può tacere. Ed è un cattolicismo inventato da poco tempo in qua, e di così buona natura, che tollera tutto quello che gli si vuole far tollerare. È modesto e chiude gli occhi, è pacifico e tiene la lingua, è umile e non comanda, è prudente e vive ritirato, non intorbida le coscienze, non agita gli spiriti, condiscende a tutto quello che altri vuole, e restringendosi alla sagrestia ed all’interiore della famiglia non pretende di mostrarsi nell’andamento esterno della società. Questo è il cattolicesimo che è di moda principalmente nelle case di personaggi chiari, come Deputati, Ministri, Magistrati, uomini di Stato, e poi si stende a quelli che ad essi reggono il lume e tengono il sacco. Mi chiederete come si sorregga questa nuova religione? Vi risponderò che con due principii magistrali che vogliono ognuno da sé una dimostrazione: La religione s’occupa del cielo, e non s’immischia degli affari umani;- la prudenza vuole il giusto mezzo in tutte le cose, e non bisogna essere troppo esclusivi nel proprio modo di vedere: con questi sostegni essa cammina snella e non teme d’inciampi.. Vogliamo però credere che anche il Signore, li riconoscerà?

Ora lo vedremo.

I. La religione non s’ha da immischiare nell’andamento esteriore della società. Questa proposizione potrebbe in qualche modo trarsi a buon senso, ma, presa così generalmente come ella suona, è falsissima. La religione non s’ha da immischiare nell’andamento esteriore della società, cioè non ha da ordinare per sé medesima le cose civili, è chiaro. La religione non fa le leggi, non ordina le milizie, non amministra le rendite, non nomina gl’impiegati, non mette in piedi né banche né le borse, non fa le paci né le guerre, la cosa parla da sé: ma la religione non s’ha da-intromettere in tutte queste cose colla sua virtù, colle sue norme, questo è falso, in guado superlativo: Che cosa è la religione? È il complesso; l’accolta di tutti i doveri che si corrono verso il Signore: è dunque chiaro che non abbraccia solo la preghiera, il sacrifizio i sacramenti e le pratiche di pietà, ma ancora e principalmente la giustizia, l’onestà, le virtù, colle quali si presta a Dio un culto perfetto: Come dunque la religione non s’ha da immischiare nell’andamento esterno della società? E può adunque la società andare avanti senza la giustizia, l’onestà, la fedeltà, le leggi eterne di Dio? Ma allora ci farete non una società d’uomini, sebbene un covile di fiere o una mandria di armenti. – Del resto, si comprenderà vie meglio l’assurdo di quella proposizione, percorrendo alcuni di quei punti, da quali si vuole’ più di proposito rimuovere la religione: La politica è la prima ad escluderla. Ad intendere alcuni quando si tratta di vantaggi del proprio paese, delle relazioni che passano tra nazione e nazione, allora la religione non ci ha che vedere. Ma, di grazia, e le società non sono più obbligate al pari degli individui a mantenere la giustizia e ad onorare con essa la divinità? Sarebbe bella che i furti, le rapine, gli omicidii, l’irreligione fossero delitti finché si commettono dai privati ed in materia tenue, e diventassero virtù quando si commettono dalle nazioni, ed in materia tanto più ampia. È chiaro adunque che la religione ha da entrare anche in diplomazia, ha da presiedere alle relazioni internazionali, e tanto. più ha da tenere ivi gli occhi aperti, quanto sarebbero più gravi le ingiustizie o quanto più difficile ne sarebbe il rimedio. Le varie fogge di governo che possono introdursi in un paese, sono di appartenenza della religione. Verissimo; presa la cosa in astratto, poiché può darsi caso in cui sia vera autorità e diritto, e forse anche vantaggio, convenienza e, se volete, perfino necessità, d’innovare e di riformare. Ma non sarebbero possibili anche cambiamenti che pregiudicassero ai diritti preesistenti? E se questo calo si desse, la religione non dovrebbe più chiamare le cose pel loro nome, e dir furto al furto, oppure, cesserebbe ella di essere la custode della giustizia? Inoltre, se questi cambiamenti, oltre alla forma politica, si stendessero anche ad immutare le leggi o la costituzione della Chiesa; se riuscissero di grave danno alla purezza della fede o del costume, nè anche allora avrebbe nulla che dire la religione? – Alla religione sogliono per lo più fare il viso dell’armi i legislatori alla moderna. E tuttavia dove starebbe essa meglio di casa che presso di loro? Tanto hanno da essere commensurate le leggi alle norme della giustizia, della onestà, della religione, che, dove le fossero evidentemente contrarie, non hanno neppure valor di legge. E ciò fu inteso sì fattamente persino dai pagani al lume di natura, che tutti hanno fatto intervenire come assistente ai legislatori la divinità. Perché dunque la religione vera non dovrà offrire a quelli le sue norme di giustizia, di verità, di carità, sia per loro sicurezza come per guarentigia del pubblico bene? Chi pensa potere senza religione dettar leggi, sente più del tiranno che delnprincipe, e fa grande sospetto dove non voglia la religione per consigliera, di volervi solo l’interesse proprio o la passione. Senzaché la legge può essere anche o per ignoranza o per malizia del legislatore offensiva della giustizia, oppure contraria alla medesima religione; ed allora a chi tocca far sentire le sue giuste querele se non a quella che fu data da Dio agli uomini per guida suprema? La magistratura eziandio crede talvolta bastarle la lettera della legge e non abbisognare di religione, ma e chi ne abbisogna nel fatto più di lei? E dove sono leggi siffatte al mondo che non lascino infiniti casi particolari alla prudenza, alla discrezione, alla coscienza dei magistrati? Se però questi non hanno bene stabilita in cuore la religione, come resisteranno alle seduzioni dell’oro, dell’amicizia, della passione, del timore, ed a tutte le corruttele della misera umanità? – La religione viene sbandita al dì nostri dalle università, poiché si stima la scienza non abbisognare di lei. E tuttavia qual è quella scienza che, non confortata dalla religione, possa incedere sicura? Se ne togliete un poco di empirismo nelle scienze naturali, tutte le altre dalla religione ricevono la vita. E ciò per non dir nulla che uffizio così geloso, che è il dare agli uomini una seconda vita qual è l’intellettuale, esige al tutto ne’ maestri come cauzione unanprofonda religiosità: se già non s’ha da cambiare in veleno di errori il farmaco salutare della scienza. • La milizia stessa, che a prima vista può parere meno affine alla religione, pur la domanda a gran voce; conciossiaché che cosa sono i gran corpi di eserciti senza quell’ anima interiore? Sono una forza brutale, smisurata, più pronta a mettere in piedi il disordine, a difenderlo, a patronarlo, che non a tutelare la società. – In una parola, la religione non ha essa da costituire le leggi, né i magistrati, né le milizie, né niuna altra cosa meramente civile, ma ha da èssere l’anima di tutto quello che viene costituito. Ha da prescrivere all’individuo la condotta privata entrandogli fin nell’intimo della coscienza, e reggendone anche tutto l’esteriore. Ha da penetrare nel segreto della famiglia e comporre le relazioni scambievoli dei coniugati fra di sé, dei genitori verso dei figliuoli, dei padroni verso dei servi e viceversa. La religione ha da mostrarsi in pubblico ne’ fondachi, nelle botteghe, nelle officine; ha da spaziare in sulle piazze, in sui mercati, alle borse; ha da accompagnarsi coi campagnoli, coi popolani, coi soldati; ha da salire sulle scranne dei Deputati, dei giudici, dei legislatori; ha da penetrare nei gabinetti dei Ministri, dei diplomatici, e s’ha da assidere sul soglio degl’Imperatori e dei Re. Tutte le azioni dell’uomo hanno da essere informate delle sue massime, regolate co’ suoi precetti, infrenate da’ suoi divieti, confortate dalle sue promesse. I doveri vanno osservati con religione, con religione mantenuti i diritti, e ciò con una costanza saldissima, perché bisogna che sia così sino all’ultimo respiro. Né solo negativamente, in quanto non sia mai lecito in verun tempo far cosa che disconvenga alla religione; ma ancora positivamente, in quanto niuna azione possa mai farsi che non sia commensurata alle norme prescritte dalla religione. – E tuttociò è evidente dalla padronanza suprema che Gesù Cristo, autore della religione, ha sopra tutti gli uomini e grandi e piccoli, e nobili e plebei, e dotti e ignoranti, e sudditi e monarchi; dall’imporre che ha fatto a tutti le stesse norme senza eccettuare persona di sorta; dalla necessità indispensabile di rendere sempre a Dio il culto della giustizia, della verità; dalla permanenza incrollabile de’ suoi divieti, pei quali ha proibito di contravvenire a questa sua volontà sì solenne. Sopra quale fondamento adunque si stabilisce che la religione non ha da entrare nelle cose pubbliche? – Inoltre perché la religione non entri nell’esterior governo della società. sarebbe necessario ammettere una di queste due cose, o che il privato si spogli della coscienza, quando amministra la cosa pubblica, oppur che si provveda di due coscienze ad un tratto. Che si spogli della propria coscienza: poiché se vi apporta la medesima, supposto che stimi doverosa la religione in privato, quella non potrà mai presentare altro che le stesse norme per quello che è pubblico. Chi giudica, a cagion di esempio, in privato non poter rubare uno scudo, o percuotere un innocente, non potrà mai stimarsi lecito rubare un milione, o mandar un innocente al patibolo: oppure che si provveda di due coscienze ad un tratto; l’una per giudicare ad un modo gli affari suoi privati, individuali, domestici; l’altra per trattare i negozi civili, pubblici, politici. Sarebbe questo veramente un trovato meraviglioso, eppure niente raro in questi tempi di coraggio civile. Abbiamo veduto uomini incomparabili, i quali scrivevano libri devoti ed orazioni affettuose, e poi ne scrivevano altri contro dei preti e dei Cardinali: abbiamo veduto Ministri di Stato e uomini di Governo che andavano devotamente alla santa Messa, e poi rientrati ne’ loro uffici s’occupavano più divotamente a tormentare Vescovi e religiosi: abbiamo veduto diplomatici di gran vaglia disputare tutta la sera alla santa Chiesa i più incontrastabili suoi diritti, e poi fare con grand’edificazione la mattina seguente la Comunione: abbiamo veduto uomini che giuravano di esser Cattolici quanto il Papa, ma che frattanto bravavano le più orrende scomuniche con usurpazioni sacrileghe: e vediamo ed udiamo tutto giorno molti di costoro, i quali, grazie a Dio, come parlano essi, sanno quel che debbono alla religione, ma perché sanno anche quel che debbono alla politica, mantengono che è uno scandalo vedere il Sommo Pontefice alla testa di uno Stato, che è un orrore vedere il successor di san Pietro sul trono. E mentre scrivo queste parole, mi giunge alle mani un libretto, dove l’autore, fatte mille proteste di esser cattolico, e prodigati i più grandi elogi alla Sede apostolica; dice poi che il Papa ed i Vescovi ed il clero tutto quanto non conoscono più né la giustizia, né il dovere, perché non caldeggiano la santa rivoluzione d’Italia. – Colla qual religione s’ha poi anche un altro vantaggio tanto più prezioso, quanto finora meno conosciuto: ed è il comporre insieme cose che fìnquì si stimavano al tutto contraddittorie e repugnanti; soddisfare cioè a Dio senza dare troppo ombra al diavolo, acquetar la coscienza e non iscontentar la passione, accettar l’opera dei preti e dei regolari, e perseguitar preti e regolari, incontrar lode vesso i Cattolici e non incorrer biasimo presso dei miscredenti. – In tempo di fusioni siccome è questo, il trovato è inestimabile. Peccato solo che in quella composizione vi sia qualche metallo che al tutto non voglia far lega con gli altri e che Gesù Cristo abbia detto che chi non è con Lui, è contro di Lui; che chi con Lui non raccoglie, disperde; che niuno può servire a due padroni! Ma questo sel vedranno essi: forse avranno trovato il modo come persuadere a sé che la religione non ha da entrar nella cosa pubblica, così di persuadere a Gesù Cristo che non s’ha da mescolar delle cose loro; chi sa? – Voi, frattanto, o lettore, cavate dal fin qui detto una conseguenza di sommo rilievo, ed è il torto che hanno quei che pretendono, il clero non doversi immischiare nelle cose politiche, e l’equivoco da cui procedono tutte le loro declamazioni. Imperocché se vogliono significare solo che il clero non s’ha da occupare di contratti, di merci, di borse, di banche, di brighe secolaresche, di fare e disfare il mondo, noi li ringrazieremo dell’avviso, e solo pregheremo cotesti zelanti a contentarsi di lasciar fare alla Chiesa, che probabilmente se ne intenderà più di loro. Al più, al più lascino la necessaria libertà ai Vescovi per fare osservare i canoni, non prendano la protezione di qualche prete riottoso, non tengano il sacco a qualche frate impazzato che si trafora dove non debbe. Ma se vogliono dire che al clero don appartiene l’occuparsi della cosa pubblica in altri modi, lo negheremo recisamente. Il clero può trattare tutte le quistioni sociali, siccome scienza, al pari di qualunque altro, e forse più e meglio per ragione delle scienze sacre a cui è addetto. Ne’ paesi retti a libere istituzioni, il clero vi ha quel diritto che v’ha ognuno, se già l’essere di sacerdote non toglie ormai l’essere di cittadino, come pare a taluni. Il clero debbe parlare come quello che è custode della moralità, e finora non s’è recato mai in dubbio che spettasse alla Chiesa il definire come e quando la moralità rimanga o non rimanga violata. Il clero debbe parlare perché le questioni politiche, il soggetto delle leggi, i pubblici provvedimenti nella società cristiana hanno infinite relazioni col costume, colla fede, coi sacramenti, colla Chiesa. – Non solo può, ma debbe il clero in molti casi parlare e parlar alto per soddisfare all’obbligo impostogli da Gesù Cristo di mantenere i diritti di lui, di sicurare il popolo fedele contro la seduzione dell’errore. Debbono parlare i sacerdoti, e debbono parlar anche più alto i Vescovi come quelli che succedono agli Apostoli, i quali dicevano agli anziani della sinagoga: non possiamo tacere. So bene che dove non basteranno le declamazioni a farli ammutolire, saranno talora impiegate contro di essi le minacce, le violenze, gli esilii, le carceri e le mannaie; ma so ancora che il sacerdozio non per questo tacerà. Finchè rimarrà una voce (e questa non verrà mai meno), quella voce parlerà é per onore di Gesù Cristo e per salvaguardia del popolo cristiano, e parlando condannerà le leggi ingiuste, i procedimenti arbitrari, le violazioni, i soprusi, le angherie, le usurpazioni sulla Chiesa, la politica di Macchiavello, e tutte non solo le private ma pure le pubbliche iniquità. Se il mondo non ha intelletto per comprendere quanto divina istituzione sia quella che, attraverso i secoli e le passioni, mantiene sempre intatte e proclama le leggi eterne della giustizia, e sfolgora tutti gli errori, tal sia di lui; non per questo Gesù o la cambierà o la lascerà venir meno: e chi non se ne gioverà per iscampo e salvezza, la incontrerà per confusione e condanna.

II. L’altro sostegno del nuovo Cattolicesimo, di cui parliamo, è riposto in un gran numero di principii che si formulano in vari modi: Ci vuol prudenza il giust0 mezzo non esagerare…. accomodarsi non essere esclusivi: tutti segreti opportuni coi quali la religione di alcuni passa in mezzo a tutti gli scogli senza urtare giammai. Ora, o lettore, io non ho veruna difficoltà a concedervi che la prudenza sia sommamente necessaria al mondo, poiché senza di essa gli stessi provvedimenti e i fini più santi non approdano: però neppur voi negherete a Gesù Cristo che lo insegna, che ci possa essere anche una prudenza carnale, animalesca, diabolica. – Inoltre, spero che neppure farete alla Chiesa il torto di credere che proceda all’avventata, che operi per puntiglio, che sollevi pretensioni vane, che faccia e disfaccia a capriccio, che perfidii per ostinazione nelle sue determinazioni. Cento di quelle istituzioni che ora riprendono i libertini in lei, non sono altro che l’effetto della divina prudenza per cui ella s’accomodò, se così volete parlare, alle tendenze dei popoli e delle nazioni nelle varie età e circostanze. Eccovene un saggio. Dopo le invasioni che i barbari del Nord fecero dell’Impero romano, il voto di tutti i popoli già cristianeggiati era che la Chiesa prendesse in mano il governo anche temporale di loro, perché sola potente a ricoprirli colla sua egida da quei fieri padroni che li dominavano: e la Chiesa consentì che essi se ne incaricassero, e fondassero così gl’imperi moderni e la civiltà. Si risvegliò più tardi tra queste nazioni lo spirito cavalleresco e la vaghezza d’imprese ardite, e la Chiesa, cedendo a questo spirito in parte, lo santificò col volgerlo ad opere sante: onde ne nacquero li ordini militari, le crociate, la difesa e l’onore del sesso più debole. Il secolo mirava a correre avventure strane in viaggi folli e romanzeschi, e la Chiesa, cedendo in parte, santificò quei desideri ponendo loro per oggetto il visitare il santo Sepolcro, Nostra Donna di Loreto, S. Giacomo di Galizia, ed altri pellegrinaggi dívoti. Più tardi si risvegliò in mezzo al secolo la brama della vita religiosa pei luminosi esempi che ne porgevano i patriarchi Francesco e Domenico, e la Chiesa, cedendo in parte a queste brame, istituì i terzi Ordini pei laici, ed innumerevoli altre associazioni e fraternità. Ai dì nostri l’amor della umanità e delle associazioni domina soprattutto: e la Chiesa non ha difficoltà di fondare asili, orfanotrofi, ricoveri, scuole pel popolo, purché s’introduca in essi il principio cristiano; e dà vigore alle associazioni di S. Vincenzo de’ Paoli, di S. Bonifacio, di Pio IX, di S. Francesco Regis e ad innumerevoli congregazioni di uomini e di donne di tutte le classi della società. E ciò per non dir nulla delle sue condiscendenze con ogni condizione di persone; ne’ digiuni e nelle astinenze che prescrive e modifica secondo i luoghi e le circostanze; nelle predicazioni che istituisce di conferenze, di catechismi di perseveranza e di ritiri: nelle istituzioni che fa pei vecchi, pei giovani, per le pericolanti, per le ripentite: nelle quali tutte è manifesto anche ai ciechi quanto essa si attemperi ed adatti ai bisogni della società. Non vogliamo dunque escluder la vera prudenza, né distrugger la vera discrezione e la giusta condiscendenza. – Che cosa è pertanto quello che qui si condanna come sostegno fragile di un più fragile Cattolicesimo? È il nascondere che si fa sotto quel velo una vera infedeltà, una vera apostasia. Imperocché non è mai che un Cattolico di questa foggia appelli alla prudenza, al giusto mezzo, alla discrezione, che non sia col fine d’immolare qualche verità di fede, o qualche principio morale alla miscredenza, al filosofismo ed all’empietà. Se non lo credete a me, credete a voi stessi, osservando in quali quistioni ed argomenti siano essi più ordinariamente messi in campo. Fate che si metta discorso intorno alla fede, che è sì frequente a’ dì nostri, e che un Cristiano più fervoroso accenni alle felicità di esser Cattolico, all’infelicità del protestante; udrete subito i moderati dargli sulla voce come ad intollerante, e gridare: oh perché ne staremo noi meglio di loro; chi sa poi alla fine dei conti quello che ne sarà; e colla sua rara discrezione pospone il Cattolicesimo al protestantismo, vi reca in dubbio la fede cattolica, vi scema l’orrore che è giusto che si abbia dell’eresia. Si parli di pratiche religiose, e fate che alcuno esalti il fervore e la fedeltà nel soddisfarvi, che lodi qualche atto più segnalato di virtù, I’annegazione di se stesso, la penitenza, l’austerità : se uno di cotesti moderati lo sente, non fallirà a dir tosto, che ei non intende tutte queste asceticherie ed esagerazioni, che non vede male a godere onestamente i beni del mondo: e così con gran moderazione riprende la dottrina evangelica, biasima quel che hanno fatto tutti i Santi, e disconosce la giusta severità ed il santo rigor cristiano. – Intorno alla Chiesa poi sono infiniti i mezzi termini, i giusti temperamenti che si prendono per isfuggire le esorbitanze, per non essere esclusivi. La Chiesa ha vera autorità di far leggi, perchè gliel’ha conferita il divin Salvatore, ma si provi a tentarlo dinanzi al tribunale dei moderati, e vedrà come ne sarà concia. Le faccia pure, diranno certi Ministri di Stato di questa risma, le faccia pure, ma le comunichi prima a noi; dia pure la sua giurisdizione ai Vescovi, ai sacerdoti, ma quando il consentiremo noi: così lo richiede l’accordo necessario tra le due podestà. E frattanto con questo giusto mezzo si toglie alla Chiesa ogni libertà, e si grava di ceppi più che non fece nè Decio nè Diocleziano. Il Papa sfolgora colle sue costituzioni la libertà di pensiero, di stampa, di culti che si predica oggidì; ma e che gran male c’è, ripiglian costoro, a manifestare un pensiero, a levarsi una curiosità? La Chiesa condanna le società segrete di qualunque fatta, ma e chi lo persuade a costoro, che vi dicono, compassionando la Chiesa che non se n’intende, che le società segrete non sono poi per altro che per esercitare la beneficenza e la carità? Né si avveggono pure che in tutto ciò disconoscono affatto l’autorità della Chiesa, il suo Magistero, la sua infallibilità. – La Chiesa ha avuto dalla Provvidenza divina un trono per la sua indipendenza: qual è quel moderato a cui non sappia ostico quella sovranità, che non conosca a fondo che finalmente non le è poi necessaria, che non ripeta che S. Pietro non regnava sul trono; che cioè dal suo canto almeno colle parole non consenta alla spogliazione più sacrilega che si possa fare dall’empietà congiurata coll’assassinio. – Io non finirei mai se volessi enumerare tutti i punti intorno a cui la discrezione, la prudenza ha inventato mezzi termini per patteggiar coll’errore. Non si parlamenta solo, ma si capitola: si ammette la fede, ma quando la ragione il consente; si ricevono i misteri , ma purché non offendano troppo; i miracoli ma che non siano esorbitanti; l’autorità della Chiesa, ma purché usi modo e maniera; la vita cristiana, ma ben inteso che non sofistichi troppo sopra i divertimenti; l’inferno, purché si rimuova l’idea del fuoco; il paradiso e l’eternità, purché non sia mestieri rinunziare ai godimenti della terra nel tempo. Cosa incredibile ma pur vera, ho inteso colle mie orecchie taluno di costoro rifare sulle labbra del Sommo Pontefice il discorso, e trovare che nelle sue allocuzioni medesime, salve le cose, e doveva e poteva recarvi più moderazione di formole, e credere in sul serio che poteva insegnare al Papa il modo con cui parlare! – Gran Dio! Che cosa è mai tutto ciò? È un rinnegare e snaturare tutta la religione, e commettere un vero atto di apostasia. Dico snaturare la religione, perché, tranne quei punti, ne’ quali ho mostrato ragionevole la condiscendenza della Chiesa, quanto ai dogmi ed alle verità speculative, quanto ai principii ed ai precetti pratici, essa tanto non può cedere quanto non può consentire all’errore. Non sono vere per metà le cose rivelate che ci propone a credere, non sono obbligatori per metà i precetti che essa ci propone ad osservare: i suoi principii non variano colle vicende umane, il suo spirito non è vago, non è incerto, non è fluttuante, non dipende dalla nostra mutabilità. Il perché tutte quelle modificazioni, restrizioni, accomodamenti che altri v’apporta, sono un pervertimento fatto alla verità. – Che se volete comprendere anche meglio il veleno della moderazione rifatevi un istante alla sorgente da cui proviene. La falsa moderazione ha per sorgente in primo luogo la viltà dell’animo. Essa si ingenera in quegli spiriti imbastarditi, molli, infranti, i quali non hanno più veruna forza, veruna energia, e sacrificano alle esigenze della moda e dei libertini quello che v’ha di più santo tra gli uomini: essa scopre quel che cova nel fondo dei loro cuori, uno scetticismo abietto, per cui né sanno più quel che sia vero né quel che falso; quel che debbano credere, quel che discredere, e per conseguente né quel che operare, né quel che omettere per esser Cristiani. Il primo o l’ultimo che loro parla, è sempre quello che presso di loro ha ragione, e quegli stessi che talora vantano, forse per antifrasi, le profonde convinzioni, non sono altro che il ludibrio e lo scherno delle opinioni altrui. Un’altra cagione di questa falsa moderazione è il tornaconto. Non tutti tengono in ispeculazione il sistema utilitario come veritiero: ma pur molti l’abbracciano praticamente siccome comodo. Bisogna farsi degli amici per giungere ai posti, alle cariche, al denaro. Questi non si possono scegliere perchè bisogna ingraziarsi con quelli, la cui protezione può tornar giovevole: dunque se ne adottano i concetti, i pensieri, le maniere di parlare, e se la coscienza protesta in contrario, si attutisce coi mezzi termini che l’ingegno in servigio della passione va ricercando. E così si spiegano quelle trasformazioni d’uomini che vediamo sì frequenti a nostri giorni: di quelli che in pochi anni hanno servito tutte le cause, che hanno sacrificato a tutti gl’idoli, che hanno congiunto Cristo con Belial, e l’incredulità colla religione. La moderazione odierna è la figlia schifosa di una madre più vile ancora, la servilità, l’abiezione dello spirito. – Finalmente cotesto spirito di falsa moderazione è sommamente a detestare, perché è la via ordinaria per cui si introduce nel mondo ogni più grave abominazione e falsità. Chi è che stabilisce nel mondo più efficacemente i principii sovversivi della società, e promuove con miglior esito lo spirito di rivolta? Non certo que’ demagoghi più furenti, i quali dicono tutto quel che vogliono, e vogliono tutto quello che dicono: essi destano orrore. I veri ed efficaci patrocinatori della rivolta sono quegli ipocriti e moderati, i quali apportano temperamento in ogni cosa, si ricoprono sempre col manto della legalità, e tutto pretendono pel maggior bene del mondo. Quelli riescono ad ogni loro intento, poiché si fanno strada, anche presso dei buoni che non veggono troppo oltre. A cagione di esempio, quando nel parlamento subalpino si ventilò la soppressione iniquissima dei regolari, quella proposta mise orrore e non passava: due moderati la spogliarono di certe durezze e violenze, onde era rivestita, e passò, ed il delitto fu consumato. Similmente nel nostro caso; come è che si guasta nei popoli la purezza della fede cattolica ? Se si declamasse apertamente contro di essa alla foggia dei luterani o dei calvinisti non farebbe prova: ma coperte ipocritamente le obiezioni sotto il manto della moderazione, della prudenza, del maggior bene della stessa Chiesa, trovano molti inetti i quali si lasciano prendere al laccio, ed a mano a mano vengono condotti fin dove son giunti i più gran nemici della cattolica verità. Il male non entra e non si fa largo nel mondo sotto aspetto di male: vegga dunque ognuno di non lasciarselo entrar nel cuore sotto la maschera di bene, di virtù.

8 SETTEMBRE: FESTA DELLA NATIVITA’ DI MARIA (2023)

8 SETTEMBRE: FESTA DELLA NATIVITA DELLA B.V. MARIA.

Natività della B. V. Maria

(doppio di II classe)

La tua nascita, o Vergine Maria, ha portato la gioia a tutto l’universo!

I. LA NATIVITA’ DI MARIA. – Mentre la Chiesa considera, e celebra come giorno natale degli altri santi il giorno della loro morte, che li portò al cielo, per Maria e per S. Giovanni Battista fa una eccezione e celebra anche la festa del loro natale terreno. San Giovanni fu purificato dal peccato originale ancora prima della nascita; Maria fu concepita senza il peccato originale. Fin dalla nascita Ella fu la più santa fra tutte le creature. La festa che si celebra nella Chiesa fin dall’VIII secolo (ci viene dall’Oriente), è anzitutto una festa della Redenzione, una specie di avvento che annuncia la venuta del Signore e sta in linea con l’Annunciazione di Maria e con la nascita di S. Giovanni Battista. Essa è però anche una festa del cuore. Appartenenti alla famiglia di Dio, celebriamo con tanta intima gioia le nostre feste di famiglia; oggi è il genetliaco della Madre nostra! Maria è Madre di Cristo ed è Madre nostra, poiché Cristo ci ha fatti fratelli suoi.

2. DALLA MESSA (Salve, sancta). – Poiché la liturgia vede il santo del giorno presente alla Messa, noi possiamo oggi considerare la Messa come il momento in cui presentiamo le nostre felicitazioni alla santissima Madre di Dio. In ogni Messa presentiamo offerte e riceviamo doni: nella Messa dei catecumeni diamo la nostra parola e riceviamo la parola di Dio; nel Sacrificio diamo la nostra offerta e riceviamo il dono di Dio nella S. Comunione. Osserviamo come la liturgia compia in unione intima con il santo di cui ricorre la festa, i quattro atti della Messa che toccano da vicino quelli che vi partecipano (questi atti sono tutti legati ad una azione). Nell’Introito, ci indirizziamo oggi alla santa Madre di Dio : « Salve, santa Madre… ». Le rivolgiamo dunque una parola di felicitazione. E la Vergine ci risponde; Ella è tra noi e ci parla dei suoi antenati ed anche dei suoi figli; ci dà i suoi consigli. L’offerta che noi facciamo è preziosa e cara alla Madre: è l’Agnello divino, il Figlio suo che oggi presentiamo al Padre in suo onore; la Comunione è il banchetto nel quale la Madre ci ricambia il dono. Ed è il dono più prezioso che Ella possa darci: il Corpo e il Sangue del suo Figlio, carne della sua carne, sangue del suo sangue. La Messa è tolta in parte dalle Messe del Comune e in parte ha testi propri. Nell’Epistola Maria si presenta e parla sotto la figura della Sapienza; Ella era nella mente di Dio prima della creazione: « È delizia lo stare coi figli degli uomini ». Ascoltiamo anche le sue esortazioni: « Or dunque figliuoli, ascoltatemi: beati quelli che battono le mie vie. . Chi mi troverà, avrà trovata la vita e dal Signore riceverà la salvezza ». Il Vangelo ci presenta i grandi avi di Giuseppe ed anche di Maria; mentre l’Ufficio divino commemora continuamente la Natività di Maria, il testo della Messa non ne parla che nella Colletta. La Messa esalta Maria come Madre di Dio, secondo il Concilio di Efeso, e rileva la sua partecipazione speciale alla Redenzione. Vediamo oggi chiaramente come è cristocentrico il pensiero della Chiesa nelle feste di Maria. Osserviamo i cinque canti salmodici (Introito. Graduale, Alleluia, Offertorio, Communio): tutti passano dal pensiero della Madre a quello del Figlio suo, esprimendo in conclusione lo stesso concetto: Maria è degna di ogni più alta venerazione perché come Madre ha portato il Figlio di Dio nel suo seno.

3. DAL DIVINO UFFICIO. – Il divino Ufficio è tutto pervaso da sentimenti di intimo fervore; degni di speciale attenzione sono i bellissimi responsori del Mattutino, i quali salutano con grande giubilo l’anniversario della nascita della benedetta tra le donne: La tua natività, o Vergine, Madre di Dio, annunziò la gioia al mondo intero; poiché da te è sorto il Sole di giustizia, Cristo nostro Dio; il quale, distruggendo la maledizione, ci ha dato la benedizione; e confondendo la morte, ci ha donato la vita eterna. Benedetta tu sei fra le donne e benedetto è il Frutto del tuo seno ». Le lezioni del secondo Notturno sviluppano il paragone caro alla Chiesa: Maria — Eva o Ecco, o dilettissimi, il giorno desiderato dalla beata e venerabile Maria sempre Vergine. Si rallegri perciò e gioisca la nostra terra illuminata dalla nascita di tale Vergine. Ella infatti, è il fiore del campo, da cui è uscito il prezioso giglio delle valli; per la cui maternità si è cambiata la natura ereditata dai nostri progenitori e cancellata la loro colpa. Ella non ha subita la maledizione lanciata contro Eva: « Nel dolore darai alla luce i tuoi figli », avendo dato alla luce il Signore nella gioia. Eva pianse, Maria esultò: Eva portò la tristezza, Maria la gioia nel suo seno; poiché quella diede la vita a un peccatore; Maria ad un innocente. La madre del genere umano portò il castigo nel mondo; la Madre di nostro Signore ha portato la salvezza. Eva è sorgente del peccato, Maria è sorgente di grazia. Eva ci fu di danno portandoci la morte; Maria ci ha salvati portandoci la vita. Quella ci ha feriti, questa ci ha guariti. La disobbedienza è stata riparata dall’obbedienza; l’infedeltà compensata dalla fedeltà » (Sant’Agostino).

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti.

V. Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.


S. Indulgéntiam,
absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

Introitus

Sedulius.
Salve, sancta Parens, eníxa puérpera Regem: qui cœlum terrámque regit in sǽcula sæculórum.
Ps 44:2
Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea Regi.
V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.
R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sǽcula sæculórum. Amen.
Salve, sancta Parens, eníxa puérpera Regem: qui cœlum terrámque regit in sǽcula sæculórum.

[Salve, o Madre Santa, che hai dato alla luce il Re: che governa il cielo e la terra nei secoli dei secoli.
Ps 44:2
Erompe da mio cuore una fausta parola: io canto le mie opere al Re.
V. Gloria al Padre, e al Figlio, e allo Spirito Santo.
R. Come era nel principio e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.
Salve, o Madre Santa, che hai dato alla luce il Re: che governa il cielo e la terra nei secoli dei secoli.]

Oratio

Orémus.
Fámulis tuis, quǽsumus, Dómine, cœléstis grátiæ munus impertíre: ut, quibus beátæ Vírginis partus éxstitit salútis exórdium; Nativitátis ejus votíva sollémnitas pacis tríbuat increméntum.


[O Signore, Te ne preghiamo, concedi ai tuoi servi il dono della grazia celeste, affinché, a quanti il parto della beata Vergine fu principio di salvezza, la votiva festa della sua natività procuri incremento di pace.]

Lectio

Léctio libri Sapiéntiæ.
Prov 8:22-35
Dóminus possédit me in inítio viárum suárum, ántequam quidquam fáceret a princípio. Ab ætérno ordináta sum, et ex antíquis, ántequam terra fíeret. Nondum erant abýssi, et ego jam concépta eram: necdum fontes aquárum erúperant: necdum montes gravi mole constíterant: ante colles ego parturiébar: adhuc terram nonfécerat et flúmina et cárdines orbis terræ. Quando præparábat cœlos, áderam: quando certa lege et gyro vallábat abýssos: quando æthera firmábat sursum et librábat fontes aquárum: quando circúmdabat mari términum suum et legem ponébat aquis, ne transírent fines suos: quando appendébat fundaménta terræ. Cum eo eram cuncta compónens: et delectábar per síngulos dies, ludens coram eo omni témpore: ludens in orbe terrárum: et delíciæ meæ esse cum fíliis hóminum. Nunc ergo, fílii, audíte me: Beáti, qui custódiunt vias meas. Audíte disciplínam, et estóte sapiéntes, et nolíte abjícere eam. Beátus homo, qui audit me et qui vígilat ad fores meas quotídie, et obsérvat ad postes óstii mei. Qui me invénerit, invéniet vitam et háuriet salútem a Dómino.
R. Deo grátias.

[Il Signore mi possedette dal principio delle sue azioni, prima delle sue opere, fin d’allora. Fui stabilita dall’eternità e fin dalle origini, prima che fosse fatta la terra. Non erano ancora gli abissi e io ero già concepita: non scaturivano ancora le fonti delle acque: i monti non posavano ancora nella loro grave mole; io ero generata prima che le colline: non era ancora fatta la terra, né i fiumi, né i cardini del mondo. Quando preparava i cieli, io ero presente: quando cingeva con la volta gli abissi: quando in alto dava consistenza alle nubi e in basso dava forza alle sorgenti delle acque: quando fissava i confini dei mari e stabiliva che le acque non superassero i loro limiti: quando gettava le fondamenta della terra. Ero con Lui e mi dilettava ogni giorno e mi ricreavo in sua presenza e mi ricreavo nell’universo: e le mie delizie sono lo stare con i figli degli uomini. Dunque, o figli, ascoltatemi: Beati quelli che battono le mie vie. Udite l’insegnamento, siate saggi e non rigettatelo: Beato l’uomo che mi ascolta e veglia ogni giorno all’ingresso della mia casa, e sta attento sul limitare della mia porta. Chi troverà me, troverà la vita e riceverà la salvezza dal Signore.]

Graduale

Benedícta et venerábilis es, Virgo Maria: quæ sine tactu pudóris invénta es Mater Salvatóris.
V. Virgo, Dei Génitrix, quem totus non capit orbis, in tua se clausit víscera factus homo. Allelúja, allelúja.

[Benedetta e venerabile sei tu, o Vergine Maria: che senza offesa al pudore diventasti Madre del Salvatore.
V. O Vergine, Madre di Dio, nelle tue viscere, fatto uomo, si chiuse Colui che tutto l’universo non può contenere. Allelúia, allelúia.
V. Beata sei, o santa Vergine Maria, e degnissima di ogni lode: poiché da te nacque il sole di giustizia, Cristo, Dio nostro. Allelúia.]

Evangelium

Initium +︎ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
R. Glória tibi, Dómine.
Matt 1:1-16
Liber generatiónis Jesu Christi, fílii David, fílii Abraham. Abraham génuit Isaac. Isaac autem génuit Jacob. Jacob autem génuit Judam et fratres ejus. Judas autem génuit Phares et Zaram de Thamar. Phares autem génuit Esron. Esron autem génuit Aram. Aram autem génuit Amínadab. Amínadab autem génuit Naásson. Naásson autem génuit Salmon. Salmon autem génuit Booz de Rahab. Booz autem génuit Obed ex Ruth. Obed autem génuit Jesse. Jesse autem génuit David regem. David autem rex génuit Salomónem ex ea, quæ fuit Uriæ. Sálomon autem génuit Róboam. Róboam autem génuit Abíam. Abías autem génuit Asa. Asa autem génuit Jósaphat. Jósaphat autem génuit Joram. Joram autem génuit Ozíam. Ozías autem génuit Jóatham. Jóatham autem génuit Achaz. Achaz autem génuit Ezechíam. Ezechías autem génuit Manássen. Manásses autem génuit Amon. Amon autem génuit Josíam. Josías autem génuit Jechoníam et fratres ejus in transmigratióne Babylónis. Et post transmigratiónem Babylónis: Jechonías génuit Saláthiel. Saláthiel autem génuit Zoróbabel. Zoróbabel autem génuit Abiud. Abiud autem génuit Elíacim. Elíacim autem génuit Azor. Azor autem génuit Sadoc. Sadoc autem génuit Achim. Achim autem génuit Eliud. Eliud autem génuit Eleázar. Eleázar autem génuit Mathan. Mathan autem génuit Jacob. Jacob autem génuit Joseph, virum Maríæ, de qua natus est Jesus, qui vocátur Christus.
R. Laus tibi, Christe.

[Libro della generazione di Gesú Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli. Giuda generò Fares e Zara da Tamar. Fares generò Esron, Esron generò Aram, Aram generò Amínadab, Amínadab generò Naasson, Naasson generò Salmon, Salmon generò Booz da Raab. Booz generò Obed da Ruth, Obed generò Iesse. Iesse generò il re Davide, Davide generò Salomone da colei che era stata di Uria. Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abia, Abia generò Asa, Asa generò Giosafat, Giosafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Achaz, Achaz generò Ezechia, Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amon, Amon generò Giosia, Giosia generò Geconia e i suoi fratelli al tempo della deportazione in Babilonia. Dopo la deportazione in Babilonia Geconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabele, Zorobabele generò Abiud, Abiud generò Eliacim, Eliacim generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliud, Eliud generò Eleazar, Eleazar generò Matan, Matan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, sposo di Maria, da cui nacque Gesù chiamato il Cristo.]

OMELIA

[OTTO HOPHAN: MARIA, Marietti ed. Torino, 1953 – imprim.]

L’annoso albero, fra i cui rami v’è misterioso stormir di Maria, ha fornita alla Vergine anche l’origine. Ella sta alla fine di quelle lunghe generazioni, è il frutto più squisito e regale dell’umanità precristiana. Quelle generazioni giunsero a maturare in Maria, il loro ultimo significato e la loro più intensa aspirazione han trovato compimento in Lei, poiché « da Lei nacque Gesù, che è detto il Cristo ». Maria è emersa dal fiume di sangue, che scorse attraverso Abramo, Giacobbe, Giuda, David, sì che il popolo israelitico non Le ha intessuto soltanto una immagine spirituale, ma anche la veste corporea; sia pure la sua dignità al di sopra del creato, Lei stessa non è una creazione eterea, dal cielo per caso libratasi quaggiù; Ella è sangue da quel sangue, figlia di quel popolo e vincolata in venerazione e fedeltà a quelle generazioni, alle quali deve il suo essere. Maria, secondo l’accenno dell’Evangelista stesso, dev’esser vista insieme con quelle generazioni; Ella non appartiene solo al Nuovo Testamento; è vero, è la prima del Nuovo Testamento, la prima cristiana; però è anche — già nel primo capitolo del Vangelo Ella annunzia la sua comunanza col popolo di Dio prima e dopo Cristo — il frutto più delicato dell’Antico Testamento, la perfetta donna israelita, la figlia di David, di Abramo, di Adamo. Maria.., la figlia di David. – La genealogia di Matteo presenta direttamente gli antenati di Giuseppe, non quelli di Maria; all’Evangelista infatti stava a cuore di provare subito, sin dall’inizio del Vangelo, ai suoi lettori giudeo-cristiani l’origine davidica di Gesù: solo se Gesù aveva per antenato David i Giudei potevano discutere se in linea di massima Egli fosse il Messia; a David infatti era stata fatta la profezia che “un frutto delle sue viscere avrebbe posseduto in eterno il trono di Israele”; ora i Giudei potevano ritenere Gesù quale “figlio di David” soltanto se suo ” padre ” Giuseppe discendesse dalla stirpe di David. Per questo Matteo fu costretto a proporre l’albero genealogico di Giuseppe, padre legale di Gesù, quale prova dell’origine di Lui da David; presso gli Ebrei la parentela e persino la paternità non si fondavano solo sul sangue, ma anche sul titolo giuridico. Non si tessevano genealogie per le donne, almeno dalla Sacra Scrittura non se ne può dedurre nessun esempio; però anche Maria per conto suo era una figlia di David. Paolo infatti sottolinea che Gesù « secondo la Carne » — non dunque solo secondo una discendenza legale! — « è figlio di David »; ma « secondo la carne » Gesù poteva risalire a David solo per mezzo di Maria, sua Madre fisica, perché Giuseppe non era padre di Gesù « secondo la carne », ma solo secondo la legge; anche Maria quindi doveva essere figlia di David; del resto, almeno sino a David, gli antenati di Giuseppe son pure gli antenati di Maria. « Noi riteniamo che Maria discenda dalla stirpe di David », scrive Agostino, « perché crediamo alle Scritture; or due cose dicono le Scritture: che Cristo secondo la carne è del seme di David, e che sua Madre Maria era una vergine, che non ebbe relazioni con nessun uomo ». I Vangeli stessi del resto alludono all’origine davidica di Maria in vari luoghi. Nel racconto, per esempio, dell’Annunciazione si dice: « Nel mese sesto l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine fidanzata a un uomo di nome Giuseppe, della casa di David »; questo inciso « della casa di David » può riferirsi a Giuseppe, ma può ben, e più probabilmente, riferirsi anche a Maria, perché Lei è qui la protagonista del racconto. E questa impressione è confermata dal seguito del discorso angelico: « Il Signore Iddio Gli (a Gesù) darà il trono di David suo padre ». Anche l’altra circostanza notata dall’Evangelista: « Giuseppe ascese dalla Galilea, dalla città di Nazaret, in Giudea, alla città di David, chiamata Betlemme, perché era della casa e della famiglia di David, per farsi iscrivere insieme a Maria », fa pensare che Maria sia stata indotta ad ascendere a Betlemme per il censimento perché Lei pure « discendeva dalla casa e dalla famiglia di David ». A buon diritto quindi già nella prima epoca cristiana il martire Ignazio di Antiochia (+ 107), il martire Giustino (+ 165) sottolineavano che “Maria fosse una figlia di David”. Anzi l’antico profeta Isaia stesso richiamò l’attenzione sull’origine davidica della Vergine nel passo conosciuto: « Uscirà un pollone dalla radice di Jesse e un germoglio ascenderà dalla sua radice »; Jesse era padre di David. «Il Profeta », spiega Agostino, « dicendo ” pollone ” indica Maria la vergine, dicendo “germoglio dalla radice » indica il Figlio della Vergine, il Signore Gesù Cristo ». Perché questo lungo discorso per l’origine davidica di Maria? Perché aveva per Lei stessa una grande importanza. Ella manifesta sin dall’Annunciazione una regale riservatezza, prudenza, chiaroveggenza e magnanimità, e mai e poi mai si scopre traccia in Lei della minima scipitezza e affettazione. Donde in questa modesta fanciulla un portamento così elevato? Certamente dalla grazia; ma la grazia anche in Maria costruisce sopra la natura. Scorreva nelle sue vene sangue regale; per quanto la stirpe di David fosse divenuta nel corso dei secoli e povera e insignificante, in quella semplice fanciulla s’era conservata la regale nobiltà dei suoi lontani antenati. Quella fanciulla di stirpe regale fu scelta da Dio a Regina del Cielo e della terra: anche nel regno della grazia non si deve stimare da poco l’origine di una persona da una tribù e casa piuttosto che da un’altra. ,Il nostro tempo crea e vuole e assiste il “proletario “, non l’aristocratico, e così il livello dello spirito e del cuore si è abbassato, in qualche luogo sino alla barbarie. Forse il compito sociale più importante consiste oggi nel risvegliare nuovamente nel così detto “proletario” l’elemento aristocratico, la sua nobiltà interiore, e dalle banalità o anche dalle volgarità elevarlo di nuovo alla regalità, alla coscienza cioè della sua dignità e del suo valore. – Maria.., la figlia di Abramo. Abramo fu scelto a capostipite del popolo di Dio, e per questo la Scrittura lo dice « principe di Dio », « amico di Dio », « prediletto di Dio », « servo di Dio ». A lui fu fatta la promessa: «Nel tuo seme saranno benedette tutte le genti della terra ». Maria è Colei, che partorì al mondo questa Benedizione. Ella quindi non è una qualunque fra le molte figlie di Abramo, ma di quell’eletto è la più eletta, il preziosissimo nocciolo di quel venerando guscio. Il Vangelo ci mette dinanzi quanto questa Figlia eletta sia stata degna di quell’eletto padre. Abramo fu l’uomo della fede eroica e di una tale dedizione a Dio, che fu pronto a offrire in sacrificio al Signore persino il suo unico figlio Isacco, sul quale riposava tutta la divina promessa. Ancor più grande di suo padre Abramo nella fede e nel sacrificio fu la sua figlia Maria: Lei pure, sostenuta dalla fede, accompagnò al luogo del sacrificio il suo Unigenito; ma a Lei non venne in aiuto nessun Angelo, che impedisse col suo comando l’uccisione: Ella dovette condurre a termine il sacrificio nella persona del suo unico e amato Figlio. – Il quadro sarebbe degno d’un artista: Abramo e Maria, il canuto Patriarca con la sua benedetta Figlia; Abramo dovrebbe imporre le sue vecchie mani su questa Fanciulla per significare che le promesse a lui fatte si son adempiute in Lei; poi dovrebbe lentamente inginocchiarsi dinanzi a Maria e adorare in Lei, ostensorio vivente di Gesù, quel Sublime, che come vero Melchisedech offre a Dio “pane santo e vino consacrato”. Ancor più commovente, ancor più profondo è l’ultimo quadro: – Maria.., la figlia di Adamo. Le chiarissime parole del libro veterotestamentario della Sapienza riguardanti l’umana esistenza valgono anche per Maria: « Sono anch’io un uomo mortale al pari di tutti, e rampollo di colui che primo fu plasmato di terra. Nel seno di mia madre fui formato uomo, nello spazio di dieci mesi coagulato in sangue per virtù di uomo, secondo il piacere sensibile. Anch’io, nato che fui, respirai l’aria comune, e caddi sulla medesima terra di tutti gli altri, e la prima voce emessa, come quella di tutti, fu un vagito. Fui nutrito in fasce e con grandi cure. Nessun re ebbe altro principio del suo essere, ma tutti hanno lo stesso ingresso alla vita come anche uguale l’uscita ». Maria non fu una fanciulla favolosa, deposta su questa terra da un altro mondo; la sua origine umana è uguale alla nostra: non fu generata dai suoi genitori in modo miracoloso o addirittura senza uso del matrimonio, come van favoleggiando graziose leggende; il Mistero del suo immacolato concepimento e anche quello della virginale concezione di Gesù non han nulla da che vedere con questo fatto umano, come talora pensano delle anime pie. Maria, come ne fan cenno Matteo e Luca nelle genealogie, sta nella stessa fila con noi, anche Lei è un membro di quella lunga catena, che comincia col primo uomo; Adamo è suo padre e la povera Eva è sua madre. Maria è così perfettamente figlia di Adamo, che il Figlio di Dio per mezzo di Lei e solo per mezzo di Lei divenne pure Figlio dell’uomo; solo per mezzo di Lei la seconda Persona divina fece ingresso nella stirpe umana, per mezzo di Maria soltanto. Il Verbo eterno di Dio non ebbe nessun padre umano che Lo potesse congiungere con Adamo; anello di congiunzione col nostro progenitore fu per il Verbo Maria; Ella introdusse quell’augusto divino Germoglio nella nostra stirpe; senza Maria Gesù non sarebbe affatto in relazione con Adamo, non sarebbe uno di noi, sarebbe al di fuori della nostra schiatta. D’altra parte questo collegamento con Adamo fu per la redenzione del genere umano estremamente significativo e prezioso: il Figlio di Dio assunse la natura umana per strapparla al peccato e ricondurla alla grazia; come il medico deve entrare dagli ammalati, così e ancor più volle il Redentore entrare, penetrare nella discendenza ammalata di Adamo per poterla risanare sin dalla sua radice. Nessuna minaccia per Lui stesso, nessuna infezione rendeva pericoloso questo suo ingresso; Gesù è il Santo, il Figlio di Dio per natura; Egli, qual nuova creazione, fu miracolosamente plasmato in Maria dallo Spirito Santo. Ma come van le cose per Lei? Ella infatti è una figlia di Adamo, sangue del suo sangue, e lo dovette essere proprio a motivo di Gesù stesso; ora il torrente di questo sangue, cui Lei deve la sua origine, è avvelenato nella sua stessa sorgente, in Adamo ed Eva: potrà mai essere che non venga travolta in questo vortice intorbidato? Quanto il peccato abbia reso pesante il torrente del sangue umano da Adamo in poi lo prova, e non senza sconcertare, quella genealogia, che sfocia ansiosa nei sublimi nomi di Maria e di Gesù. Perché veramente in quei gruppi di generazioni non sfilano soltanto venerandi Patriarchi, nobili re e santi sacerdoti; non v’è anzi vizio, non v’è crimine, che non abbia insudiciato quel succedersi di generazioni. Persino i più eletti fra quei personaggi — Abramo, Giacobbe, Giuda, David — pagarono un grosso contributo al peccato; e questo vale in modo speciale per le donne che quell’albero genealogico ricorda; rimase sorpreso lo stesso Girolamo così competente in campo biblico, che la tavola genealogica di Matteo non nomini nessuna delle nobili donne d’Israele — non Sara, non Rebecca, non Rachele —, e invece ricordi Tamar, che commise incesto col proprio suocero Giuda; Rahab, che era una nota meretrice; Ruth, che non apparteneva al popolo eletto; la moglie di Uria, come Matteo stesso scrive con pudica riservatezza a causa del delitto che perpetrò David commettendo adulterio con Betsabea, il cui sposo egli fece poi vilmente uccidere. Che vi è mai in Maria di comune con questa società, perché il suo nome quale astro errante risplenda su quelle torbide generazioni? Noi solleveremmo dei gravi dubbi per un uomo, che ereditariamente fosse gravato di così triste carico. Maria discende da questo sangue curvo sotto la maledizione; David, Giuda, Giacobbe sono i suoi progenitori; Tamar, Rahab, Ruth, Betsabea son le sue progenitrici. Eva, l’infelice madre, abbraccia piangente la più eletta delle sue creature e le confessa la propria colpa; e Adamo tace e piange, perché non può trasmettere alla più nobile delle sue figlie se non un’eredità macchiata. Maria è intrecciata alla generazione di Adamo; come potrà sfuggire al suo destino? La radice è malata: avvizziranno anche i rami; la sorgente è inquinata: tutte le acque saranno contaminate… A questo punto però avvenne qualche cosa; proprio qui, alle origini di Maria, capitò qualche cosa: all’oscura ombra della sua genealogia sbocciò un giglio; a questo primo e importante capitolo del Vangelo si appoggia il suo primo soave Mistero, siccome un delicato fiore a una frana, che s’è arrestata improvvisamente dinanzi ad esso: un fiore tutto bianco, un fiore tutto miracolo, il fiore della sua Immacolata Concezione-

La Chiesa, sin dal secolo settimo, celebra con allegrezza e con giubilo la festa della nascita di Maria: « La tua nascita, o Genitrice di Dio, ha annunziato gioia al mondo tutto; da Te infatti è sorto il Sole della giustizia, Cristo, Iddio nostro. Egli tolse la maledizione e donò la benedizione; Egli annientò la morte e diede a noi la vita eterna ». – Egli tolse via questa comune maledizione anzitutto dalla Madre sua: quando venne sulla terra questa piccola Fanciullina, la gioia piena poté nuovamente, per la prima volta, accompagnare la nascita di un figlio degli uomini, perché allora fu concepita e nacque una creatura umana quale un dì era nel paradiso, senza peccato, nel radioso splendore della grazia precorritrice di Gesù, creatura che era per noi tutti promessa della futura grazia: « … fra tutt’i terreni altri soggiorni sola tu fosti eletta, Vergine benedetta, che il pianto d’Eva in allegrezza torni ». L’immacolato concepimento di Maria fu la prima preparazione di Dio per la divina Maternità; a ogni preparazione divina deve corrispondere la prontezza umana: Maria rispose al privilegio del suo immacolato concepimento con un grazie festante, emettendo il voto della sua verginità.

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Orémus.
Beáta es, Virgo María, quæ ómnium portásti Creatórem: genuísti qui te fecit, et in ætérnum pérmanes Virgo.

[Beata sei, o Vergine Maria, che hai portato il Creatore di tutti: hai generato chi ti ha fatta e resti Vergine in eterno.]

Secreta

Unigéniti tui, Dómine, nobis succúrrat humánitas: ut, qui natus de Vírgine, matris integritátem non mínuit, sed sacrávit; in Nativitátis ejus sollémniis, nostris nos piáculis éxuens, oblatiónem nostram tibi fáciat accéptam Jesus Christus, Dóminus noster:
[Ci soccorra, o Signore, l’umanità del tuo Unigenito: affinché, Egli, che nato da una Vergine non diminuí l’integrità della madre, ma la consacrò; nella festa solenne della sua Natività, spogliandoci delle nostre colpe, Ti renda accetta la nostra oblazione, Gesú Cristo nostro Signore:]

Præfatio  …

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

… de Beata Maria Virgine

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beátæ Maríæ semper Vírginis collaudáre, benedícere et prædicáre. Quæ et Unigénitum tuum Sancti Spíritus obumbratióne concépit: et, virginitátis glória permanénte, lumen ætérnum mundo effúdit, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti jubeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Te, nella Festività della Beata sempre Vergine Maria, lodiamo, benediciamo ed esaltiamo. La quale concepì il tuo Unigenito per opera dello Spirito Santo e, conservando la gloria della verginità, generò al mondo la luce eterna, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di Lui, la tua maestà lodano gli Angeli, adorano le Dominazioni e tremebonde le Potestà. I Cieli, le Virtù celesti e i beati Serafini la celebrano con unanime esultanza. Ti preghiamo di ammettere con le loro voci anche le nostre, mentre supplici confessiamo dicendo:]

Sanctus,

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

Communio

Luc 1:48-49

Beáta víscera Maríæ Vírginis, quæ portavérunt ætérni Patris Fílium.

[Beate le viscere di Maria Vergine, che portarono il Figlio dell’eterno Padre.]

Postcommunio

Orémus.

Súmpsimus, Dómine, celebritátis ánnuæ votíva sacraménta: præsta, quǽsumus; ut et temporális vitæ nobis remédia præbeant et ætérnæ.

Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitáte Spíritus Sancti Deus, per ómnia sǽcula sæculórum.

[Abbiamo ricevuto, o Signore, i sacramenti destinati a celebrare la votiva solennità; fa, Te ne preghiamo, che ci procurino i rimedii temporali e quelli della vita eterna]
R. Amen.

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA