Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (3), capp. III e IV

 

CAPITOLO III.

NASCITA E NOME DEL BUON LADRONE.

Pagano di nascita.— Egiziano di origine. — Particolarità sulle ruine presenti del Latroun nella Giudea. — Citazioni di Quaresime e di Monsignor Mislin. — Testimonianze del Vescovo di Equilium, di S. Agostino, del Vescovo Eusebio, di S. Giovanni Damasceno, di Pietro de Natalibus, del P. Orilia. — Secondo le tradizioni più antiche e più comuni, il nome del buon Ladrone era Dima. — Prove di questa tradizione: l’Evangelio di Nicodemo, il Vescovo di Equilium, Salmerone, Masino, Quaresimo, Pipino, Ravisio, Mauralico, i Bollandisti, Godoffredo di Vandume, Tcofilo de Raynaud, Silveira, il P. Orlila, il B. Simone da Cassia. — Particolarità del Martirologio Romano e decisione della Congregazione dei riti. — In qual modo si ò potuto conoscere il nome proprio del buon Ladrone. — L’araldo della giustizia e lo scritto. — Particolarità storiche.

Sul buon Ladrone, e la sua nascita, il suo nome e la sua vita, come su molti altri personaggi che vi figurano, il Vangelo serba un misterioso silenzio. Ma se non ci illumina il sole, non siamo perciò condannati a camminar nelle tenebre. Alla luce della rivelazione, almeno in parte, supplisce la fiaccola della tradizione. – Prestiamole orecchio. – Sulla Croce, dice S. Giovanni Crisostomo, Nostro Signore parlava ad un uomo digiuno delle sublimi verità della Religione; ad un uomo che non aveva conoscenza alcuna dei Profeti; che aveva passata tutta la vita net deserto a far opere di sangue; che mai, neppur di passaggio, aveva intesa un’istruzione religiosa; ad un uomo che mai aveva letto un brano qualunque della sacra Scrittura. – Come il Crisostomo parla S. Agostino: « Prima della sua crocifissione il Ladrone non conosceva punto il Cristo: se l’avesse conosciuto, forse non sarebbe stato l’ultimo degli apostoli, egli che fu il primo a salire al Cielo. » Lo stesso linguaggio trovasi nella bocca del Vescovo Eusebio: « Prima di montare al Calvario Quest’uomo (egli dice) non conosceva né religione né Cristo. » – Esser nell’ignoranza completa della verità della fede, non conoscer nulla né dei profeti né delle scritture, e non sapere neppure se esistesse una religione ed un Messia; ad un Giudeo di nascita, per abbandonato che voglia supporsi, non pare che possa convenir un somigliante ritratto. – Un altro motivo da crederlo pagano si è che sul Calvario egli era il rappresentante e la figura dei Gentili, come il cattivo Ladrone lo era dei Giudei. « Sulla croce, dice il Crisostomo, i due ladroni furono immagine dei Giudei e dei Gentili. Il ladrone penitente è 1’immagine del gentilismo, che dapprima camminava nelle vie dell’errore, e viene poi alla verità: il ladrone che rimane ladrone fino alla morte, è la immagine dei Giudei. – Fino all’ora della crocifissione eglino batterono di conserva la via dell’iniquità. La croce li separò. » — Da tutti questi indizi possiamo conchiudere che il buon ladrone fosse pagano; né ci pare una tal conclusione forzata. Oltre poi i tratti distintivi del buon ladrone, che si applicano perfettamente ad un idolatra, tutti sanno che la Palestina era circondata da popolazioni pagane. Rimane a sapersi però qual fosse il luogo della sua nascita. Nacque egli nel deserto, in una caverna di masnadieri, o vide la luce in paese abitato? A siffatte domande la tradizione non dà una risposta certa, e solo ci dà notizia dei luoghi in cui dimorava, e che erano il teatro delle sue imprese. Il dotto Quaresmio commissario apostolico in Terra Santa, che ci lasciò due volumi in folio sulla Palestina, descrive in questi termini il viaggio da Jaffa a Gerusalemme. – « Da Rama, ove prendono riposo i pellegrini di Gerusalemme, si dirigano all’oriente verso la santa città. « Da Rama a Gerusalemme si contano pressoché trenta miglia. Tranne la valle di Rama che è fertile, deliziosa e dell’estensione di circa otto miglia, il rimanente della via è di accesso difficile, e non vi si incontrano che montagne e rupi. – « A circa dieci miglia da Rama, a dritta e ad un mezzo miglio dalla strada maestra, si scorge un diruto villaggio sulla cima di un colle. Lassù esisteva già una gran Chiesa, che oggi è quasi interamente distrutta. Quell’ammasso di rovine porta nel paese il nome di Villaggio del Buon Ladrone. Ma non è certo però che ivi egli nascesse. La tradizione ci fa solo sapere che in suo onore fu edificata la Chiesa, della quale ora non si scorgono che le rovine. » – Ecco quanto lasciava scritto al principio del secolo decimosettimo uno dei più accurati storici della Palestina. Ai tempi nostri un viaggiatore non meno autorevole ci prova anche una volta, che nell’Oriente tutto sembra immortale, così le tradizioni, come le rovine.  Al di là di Rama, dice Monsignor Mislin, la strada prosegue per due ore di cammino sopra un terreno sassoso ed ineguale fino alle prime gole delle montagne della Giudea. Là si incontra qualche tugurio abitato, e sulla collina si scorgono le rovine di Latroun luogo della abitazione presunta del Buon Ladrone. Latroun al pari dei castelli di Plans e di Maé, dei quali si vedono appena gli avanzi sulle vicine eminenze, fu distrutto da Saladino dopo la demolizione di Ioppe, di Rama, e di Àscalon. Quelle rovine, il cui aspetto è sinistro come le loro memorie, erano anche pia terribili alcuni anni addietro, poiché servivano di ricovero a banditi, che del Buon Ladrone avevan soltanto seguito la tradizione della vita e non quella del suo pentimento; ma Ibrahim aveva distrutto quei ridotti del brigantaggio, e sotto il suo governo tornata era la sicurezza. Se non che caduta nuovamente quella regione sotto il dominio dei Pascià di Costantinopoli, vi tornarono anche i ladroni di Latroun, e pare anche in buon numero. » [Luoghi Santi, t. I, c. XVII, p. 408]. – A qual razza apparteneva il Buon Ladrone? Era egli Arabo, Sirio, o Fenicio ? La più comune sentenza lo fa Egiziano. « Gli autori che io citava, dice Quaresimo, mi persuadono che egli fosse Egiziano di nascita. Egli dunque non nacque nella Giudea, nel luogo il cui nome richiama la sua memoria. Certo è soltanto che in quel luogo la pietà de fedeli edificò una Chiesa in di lui onore. » – Che Disma fosse Egiziano, uno dei dotti collettori delle nostre antiche tradizioni, il vescovo di Equilio, l’afferma decisamente sulla testimonianza di S. Giovanni Damasceno. « Questo ladro era Egiziano, come vedesi in S. Giovanni Damasceno; e quando Nostro Signore fu costretto a fuggire in Egitto, esso esercitava colà il mestiere di brigante, e coi suoi compagni spogliava i viandanti. » Questa opinione, aggiunge il P. Orilia, pare assai ben fondata per dare la certezza morale che il buon Ladrone fosse Egiziano di nascita. Se egli è così, il ladro del deserto era immerso nella più profonda e crassa idolatria del mondo antico. Adoratore del serpente vivo, del serpente familiare, del serpente dio e re, del dragone di Meteli, del Capro di Mendès, del coccodrillo del Nilo, del gatto, del bue, della cipolla, in una parola adoratore del demonio nelle sue svariate manifestazioni, le une più degradanti e più abominevoli delle altre, ecco qual era il buon ladrone. Dal fondo di questo abisso alla sommità del Calvario, misurate qual è l’intervallo, e conoscerete la grandezza e potenza del miracolo, che in un batter d’occhio fece di un idolatra brigante del deserto un santo. E qual’ era il nome di questo privilegiato della grazia? A siffatta domanda non abbiamo trovata risposta né monumenti anteriori alla fine del secondo secolo. A partir da quell’epoca, la tradizione più comune in Oriente e nell’Occidente, sicuramente fondata su testimonianze oggi non più conosciute, afferma che il buon Ladrone chiamavasi Dima, e Gesta il cattivo. – « Pilato, dice il vangelo di Nicodemo, ordinò che a seconda dell’accusa fatta dagli Ebrei, si scrivesse in una tabella in lettere ebraiche, greche, e latine: Questi è il re dei Giudei Uno dei ladroni ch’era pur crocifìsso, chiamato Gesta, disse a Gesù: « Se tu sei il Cristo salva te stesso e noi. » Dima parlando alla sua volta, lo rimproverò dicendo: « E non hai punto timor di Dio, tu che sei di quelli contro i quali la condanna fu meritamente pronunziata? » [Evang. Apocr. c. ix, p. 243, edit. Brunet.]. – Pietro de Natali, nel suo Catalogo dei Santi ci dà i medesimi nomi. « Al tempo della morte di Nostro Signore – furono arrestati i due masnadieri Dima e Gesta. Condannati a morte, essi furono crocifìssi insieme con Gesù Cristo. » Il dotto arcivescovo di Genova, Giacomo di Voragine, predicando al suo popolo, si espresse così: « Il giovane ladro che persuase i suoi compagni a lasciar passare incolume la sacra famiglia, è il ladrone Dima. » Il sommo teologo Salmerone parla come quegli antichi. Secondo Nicodemo i due ladri si chiamavano Dima e Gesta: erano essi i due più famosi ladroni del loro tempo. » Nella sua Bologna illustrata il Masino scrive. «San Dima, il buon Ladrone, è onorato nella Chiesa dei santi Vitale ed Agricola nella quale si conserva un frammento della sua croce. – Quaresimo è l’eco della medesima tradizione. Egli dice: « Quanto al nome del Buon Ladrone, che è nella memoria del Signore, gli antichi martirologi lo chiamano Dima. Lo stesso nome gli è dato da Guglielmo Pipino e dal Ravisio, i quali lo han pure per Egiziano di origine. » Uno dei predecessori del Baronio nella relazione del Martirologio, il celebre Maurolico, la cui parola è di grande autorità, pone senza alcuna riserva il nome di S. Dima nel suo Martirologio, ed i Bollandisti lo citano senza fare alcuna osservazione in contrario. Il medesimo nome si trova in Teofilo Rainaldo, in Gotofredo di Vendòme, nel Maionio, nel P. Orilia, nel B. Simone da Cassia, nel dotto teologo spognuolo Sylveira ed in molti altri autori. Al 25 marzo, il Martirologio romano, riveduto dall’immortale Baronio, fa menzione del Buon Ladrone in questi termini. « A Gerusalemme, commemorazione del Buon Ladrone che confessò Gesù Cristo sulla croce e meritò di sentirsi dire: Oggi sarai meco in paradiso. » [« Hierosolymis commemoratio sancti latronis, qui in cruce Christum cunfessus ab eo meruit audire: Hodie meeum eris in paradiso. »] – Sulla qual cosa il prudente cardinale fa questa nota, la cui riserva si spiega per la natura di un’opera, come il Martirologio, redatta nel secolo decimosesto. « I più lo chiamano Dima. Ciò nondimeno, siccome un tal nome è tratto dagli apocrifi, pare che avvenentemente e per questa ragione fosse omesso nel Martirologio. Malgrado ciò, sappiamo trovarsi un certo numero di santuari e di altari eretti sotto il nome di s. Dima » Egli è certamente nel medesimo spirito (cioè per prevenire il gracchiare dei protestanti e degli Ipercritici moderni) che Sisto V alla fine del medesimo secolo, e la congregazione dei riti nel 1724, soppressero il nome di Dima, accordando all’ordine della mercede, ed a quello dei Pii Operai la facoltà di recitare l’officio del Buon Ladrone [Vedi Bened. XlV, De canonizat. SS., lib. IV, p. II, c. XII, n. 10]. La medesima concessione fu fatta alle stesse condizioni ai Chierici Regolari di s. Gaetano Tiene. La prudente riserva della Chiesa Romana distrugge forse la tradizione della quale abbiamo ragionato? Non dubitiamo punto di ciò. Ammettendo che il nome proprio del buon Ladrone unicamente siasi tratto dagli apocrifi, tutti convengono che quei libri posseggono un qualche fondo di verità, e ne abbiamo già date le prove. Sul punto poi di cui si tratta presentemente, la verità è molto ben raffermata dall’aver ottenuto dall’un canto, il consenso del più gran numero degli organi della tradizione (plerique dice il Baronio), e per avere dall’altro, senza osservazione o richiamo della Chiesa, dato luogo in diversi paesi della Cristianità, e segnatamente in Italia, alla erezione di sacri edifici sotto il nome di s. Dima, nome proprio del buon Ladrone. E siccome a noi parrebbe temeraria cosa tacciar di leggerezza tanti uomini rispettabili, che di secolo in secolo hanno a noi trasmesso il nome di Dima, questo nome conserveremo nel corso di quest’opera, al glorioso crocifisso del Calvario. D’altronde se riflettiamo agli usi dell’antichità, comprenderemo facilmente essersi potuto sapere con certezza il nome dei due ladroni. Ai nostri giorni, almeno in Francia, si mettono a morte i rei condannati senza pubblicare i loro nomi al momento dell’esecuzione della condanna, e senza affiggerli in appositi cartelli; e nondimeno tutti li conoscono. Anticamente, oltre i dibattimenti giudiziaria v’era un’altra specie di pubblicità più immediata e più solenne. Presso gli Ebrei come presso i Romani, quando il momento dell’esecuzione era giunto, costumavasi di far proclamare il nome del condannato da un araldo che lo precedeva, o di scriverlo a grossi caratteri su di una tavoletta sospesa al di lui collo durante la funebre marcia, ed appesa poi all’istromento del supplizio sul capo del condannato: e questo appunto ebbe luogo a riguardo di Nostro Signore. L’adorabile nome suo fu scritto in tre lingue su di una tabella, la quale o venne fissata sulla croce nell’uscire dal Pretorio di Pilato, e così appesa fu portata da Nostro Signore; o innanzi a lui la portò un ministro della giustizia, nel percorrere ch’Ei fece la via dolorosa. Certo è che giunto il corteggio sulla cima del Calvario, lo scritto fu collocato sulla Croce al di sopra del capo del divino Condannato. Fra i moltissimi spettatori, venuti di fresco a Gerusalemme da ogni parte per le solennità della Pasqua, quanti solamente per quella tabella vennero forse a sapere il nome e le qualità della Vittima augusta? Nella stessa guisa tutta Gerusalemme e tutti gli stranieri accorsi poterono sapere il nome del buon Ladrone, e saperlo con certezza. Quello che ebbe luogo a riguardo di Nostro Signore non era già una singolarità, nè un’eccezione. Come l’abbiamo fatto rilevare, nelle esecuzioni capitali la proclamazione dei nome del condannato o la tabella, o l’una o l’altra cosa, era d’uso comune. L’erudito Giusto Lipsio parlando della crocifissione in particolare ci dice: « Sospeso che fosse il condannato alla croce, si appendeva la iscrizione. E che diceva essa? La causa del supplizio, il delitto commesso… e usavasi portare questa iscrizione avanti al condannato, o obbligare lui stesso a portarla. »  L’asserto di Giusto Lipsio ha per fondamento la storia. Ecco ciò che narra Svetonio di Caligola. « Uno schiavo a Roma in un pubblico banchetto avendo tolta da un letto una bandella dì argento, Caio lo diede sul momento in mano al carnefice con ordine di tagliargli le mani, e appendergliele al collo innanzi al petto, e di condurlo cosi attorno ai convitati, preceduto da una tavoletta che significasse la causa del suo supplizio. » Domiziano imita Caligola, o per dir meglio si uniforma all’uso. Dava quel barbaro imperatore dei giuochi al popolo nel Colosseo. Fra i cento mila spettatori, eravi un padre di famiglia, un veterano appartenente al Corpo dei Parmularii. Codesti erano soldati che prendevano il nome dal loro scudo, chiamato parma. Facendo uso della libertà di cui godevano i soldati romani, egli si permise una facezia nel vedere un gladiatore della Tracia di meschina apparenza, e disse: « Questo Trace è un gladiatore poco degno di chi dà questo spettacolo. » Domiziano prese per fatto a lui lo scherzo, vi trovò un offesa alla sua divinità, e senza indugio lo fece uscire dalla folla, e gli fece appendere al collo un’iscrizione che diceva : Questo Parmulario ha parlato empiamente. Condotto in mezzo al circo fu sbranato dai cani. – I fatti qui narrati non sono già eccezioni da attribuirsi alla personale crudeltà dei due coronati tiranni. Essi erano, lo ripetiamo, conformi all’uso. Non solamente si proclamava il nome del condannato, ma si suonavano campanelli e trombe innanzi ad esso, per avvisarne il popolo. Ascoltiamo Tacito e Seneca. « Allorquando i Consoli, dice il primo, ebbero condotto Publio Marzio fuori della porta Esquilina fecero suonare la tromba, e mettere a morte il colpevole secondo l’uso dei nostri maggiori. » Descrivendo un supplizio, il secondo si esprime così: « Il Pretore sale sul suo tribunale, tutti sono rivolti a lui. Si legano al reo le mani dietro le spalle: gli occhi di tutti sono aperti a mirarlo, su tutti i volti è dipinta la tristezza. L’araldo impone silenzio, pronunzia la formula della legge, e la tromba suona di nuovo. » Cosi praticavasi in tutto l’impero. Giammai un reo condannato conducevasi ai supplizio senza lo scritto, o l’araldo che proclamasse la causa della sua condanna. Di là quel detto volgare. « Il tale ò comparso innanzi al giudice colla tabella. Citiamone ancora alcuni esempi. Sparziano riferisce che Settimio Severo prima di essere imperatore, fu nominato governatore della provincia proconsolare di Africa. Uno dei suoi antichi compagni di studio, del municipio di Lepli, gli uscì incontro accompagnato da fiaccole; e benché plebeo, credé di poterlo abbracciare. L’orgoglioso Proconsole lo fece battere con verghe, nell’atto che un araldo gridava: Plebeo non essere temerario a tal segno da osare di stringere fra le tue braccia un Delegato del popolo Romano. Nella vita di Alessandro Severo troviamo un fatto consimile. Era tra i cortigiani di questo Principe un tal Vetronio Turino, che confidavasi di aver molta influenza sull’imperatore e di ottener da lui ogni cosa che dimandasse. Chiunque aveva da impetrar grazia, o chiedere un impiego, si raccomandava a Turino. Questi prometteva di parlarne all’imperatore, ma non ne faceva nulla. Ciò nondimeno accettava di nascosto larghi compensi per quel supposti suoi buoni uffici. Sotto una forma un po’ diversa, quelle largizioni erano ciò che sono le mance nel secolo decimonono. Alessandro venne in cognizione della frode, e sul momento fece arrestare Turino. Per suo comando il venditore di fumo fu condotto sulla pubblica piazza chiamata Foro Transitorio, e sospeso ad un trave o croce semplice, a pie della quale si dà fuoco a della paglia o legna umide. Nell’atto ch’egli era così soffocato, un araldo gridava: « Si punisce col fumo chi ha fatto mercato di fumo. » Un rescritto imperiale di Severo e di Antonino si esprime così: « Chiunque avrà spergiurato pel genio del principe, sarà battuto colle verghe, e gli sarà gridato: Impara a non spergiurare. » Tertulliano fa parola dell’uso medesimo praticato a riguardo dei Cristiani; e numerosi fatti confermano la testimonianza dell’illustre Apologista. Eccone soltanto due fra tanti. Nel racconto del martirio di S. Agnese, S. Ambrogio dice: « Il Giudice ordinò che la fosse condotta al lupanare accompagnata dall’araldo della giustizia che gridava: Agnese, vergine sacrilega, colpevole di bestemmie contro gli Dei, condannata al lupanare. » La città di Lione, in quella fiera persecuzione che la inondò di sangue cristiano, fu testimone di somiglianti spettacoli. Uno dei suoi più gloriosi martiri, Attalo, fu fatto passeggiare per tutto l’anfiteatro preceduto da una tabella nella quale leggevasi: « Costui è Attalo Cristiano. » La iscrizione dei nostri Padri generalmente era questa: « Nemici degli imperatori e degli Dei: Imperatorum et Deorum inimici. » – L’immobile o tenace Oriente nulla ha cambiato all’antico uso. Preceduti tuttavia da una tabella scritta vanno al martirio i nostri Missionari del Tonchino, della Concincina, o della Corea. Nel Seminario delle Missioni straniere a Parigi, possono vedersi alcune di siffatte tabelle, su cui sono impressi i nomi, e la cagione della loro condanna. Citeremo quella di Schaoftler martirizzato il 1 maggio 1851. Pochi passi innanzi al confessore della fede un soldato portava in alto, a guisa di stendardo, una tavoletta, nella quale leggevasi scritto a grossi caratteri: « Non ostante la severa proibizione emanata contro la religione di Gesù, il signor Agostino, prete europeo, ha osato venir qui clandestinamente a predicarla e sedurre il popolo. Arrestato egli confessò tutto, e il suo delitto è patente. Il signor Agostino abbia reciso il capo, e sia questo gettato nel fiume. » Nel 1806 noi troviamo l’ uso medesimo in Corea. Il giovedì 8 marzo, i quattro martiri Monsignor Berneux, i signori de Bretenieres, Beaulieu e Dorie, furono tratti dalla prigione, e posti a sedere sopra una lunga sedia portata da due uomini; avevano mani e piedi legati ai pioli della detta sedia, e la testa elevata perché anche i capelli erano attaccati. Andavano essi alla morte guardando il cielo, ove tra poco erano per essere coronati. Al di sopra del loro capo era fissa una tabella, sulle cui due facce leggevasi questa sentenza: « Ribelli e contumaci, condannati a morte dopo di aver sofferto molte torture. » Due giorni appresso, il 10 marzo, si ebbe altro simile spettacolo. Un carro sul quale è innalzata una croce, si ferma innanzi alla prigione dei martiri. Se ne fa venir fuori il venerabile Pietro Tjoi, e viene attaccato alla croce. I suoi piedi posano sopra uno sgabello, le sue gambe sono legate all’albero della croce, le sue braccia distese su quella, ed i suoi capelli annodati ad un travicello che sormonta lo strumento del supplizio. Al di sopra il capo, si legge la sentenza di morte. Quanto praticavasi presso i romani, e si pratica tuttavia presso i differenti popoli di Oriente, invariabilmente era in uso presso gli Ebrei. L’iscrizione era una lezione data al popolo, affinché tutti fossero ammaestrati dall’altrui sventura. Al pari di Nostro Signore ebbero anche i due ladroni nel Calvario la loro iscrizione? Tutto ci porta a crederlo; ma checché ne sia, le particolari notizie di quest’uso che abbiamo raccolte, mostrano per qual via si poté conoscere il nome proprio del buon Ladrone, e danno un buon fondamento alla tradizione, che ce lo ha trasmesso.

CAPITOLO IV.

VITA DEL BUON LADRONE.

Suo padre era un capo di masnada.— Il buon Ladrone nacque in mezzo ai ladri. — Crebbe in mezzo ad essi. — Commise tutti i delitti soliti a commettersi dai briganti. — Testimonianze di Feste, di S. Ambrogio, di S. Crisostomo, di S. Leone e del Vescovo Eusebio. — Fu omicida del proprio fratello.—Passi di S. Eulogio e di S. Gregorio Magno. — La crocifissione, prova della sua estrema colpabilità. — Uso della crocifissione presso i pagani; esempi citati dagli storici dell’Oriente e dell’Occidente. — Dima ladro di strada per trenta o quarant’anni.— Giudicato, dicesi, a Gerico, e condotto a Gerusalemme per dare maggior pubblicità al suo supplizio. — Particolarità  sulla sua prigione.

L’acqua che scaturisce da sorgente fangosa potrà ella esser mai limpida? L’albero, la cui radice è guasta potrà egli dare frutti sani e saporosi? Se la prima divien chiara e cristallina, ed il secondo senza punto risentire della natia infezione, darà frutti eccellenti, sarà questo un miracolo della natura. Nell’ordine morale avviene il medesimo. Quale è il padre, tale è il figlio: e nella sua generalità il proverbio è vero. Il contrario non è che l’eccezione; e l’eccezione conferma la regola. Vogliamo noi sapere qual si fosse il Buon Ladrone? Vediamo qual ne fosse il padre. Era costui un capo brigante: Princeps latronum. Nei diversi stati sociali, nel militare a cagion d’esempio, si giunge ai gradi superiori per il sangue freddo, il coraggio e le generose azioni, non che per provata scienza dell’arte della guerra. Come lotta di banditi contro la società, il mestiere di brigante non fa eccezione. Per divenire capo brigante, le qualità richieste sono l’astuzia e l’abilità nel concertare il delitto, l’audacia e la forza che non esitano di venire alla scalata delle mura e all’atterramento delle porte: la cupidigia e la crudeltà che ha per cose da nulla 1’omicidio, il saccheggio e l’incendio. – Un capo di briganti deve essere un eroe del misfatto. La ragione lo dice, e la storia lo conferma. Tal era il padre di Dima; ed il figlio fu degno del padre. Le notizie che la storia profana ci ha tramandate intorno ai briganti della Palestina al tempo di Gesù Nazareno, ci permettono di asserire come cosa verosimile che Dima nascesse in una spelonca di ladri. Dall’un canto noi vedemmo il capo di masnada Eleazaro, sfidare i gendarmi di quel tempo, ed anche interi corpi di truppe romane, e tenere per venti anni in un continuo allarme il paese. Ben si comprende ch’egli ebbe il tempo di ammogliarsi e di aver figli. Dall’altro pare che s. Giovanni Crisostomo senza ambagi asserisca che la culla del buon Ladrone fu una caverna di ladri. « Quest’uomo, egli dice, non aveva mai conosciuto che le lande del deserto: Omne tempus in desertis loci transegerat » Checche ne sia della nascita di Dima, il testo da noi citato ci fa sapere che fu educato in mezzo ai ladri, e da ladri. Lo sciagurato giovane non conobbe gli altri uomini, se non pel male che vide far ad essi, o ch’egli stesso fece loro; ed ebbe certamente occasione di farne. Tale è la testimonianza della tradizione, della quale si fecero interpreti i Padri della Chiesa. Da principio la sua professione lo forzava a mal fare. – Por vivere faceva d’uopo rubare, e per conseguenza assaltare, ferire, ed al bisogno, uccidere. Per propria difesa bisognava commettere i medesimi attentati. Per fare delle rappresaglie, nel caso di un colpo fallito, era necessario ricorrere agli stessi, ed anche a più odiosi mezzi. Si può aggiungere anche il desiderio di mostrarsi degno figlio del padre; un certo stimolo dì amor proprio onde distinguersi tra i suoi compagni; in fine, il bisogno di ispirare un gran terrore per meglio riuscire. Siffatte condizioni, la cui realtà è facile a comprendersi, erano per Dima altrettanti incentivi a perfezionarsi nella scelleratezza: senza di che non si è un buon Ladro, e soprattutto ladro di professione e di pubblica strada. – Dima era stato educato a troppo buona scuola per non comprendere tutto questo. Al dire di s. Ambrogio, egli visse ed invecchiò nell’abitudine dei più gravi delitti. Lo confessò egli stesso, o su di se attirò la spada della giustizia. E quali erano i suoi delitti? S. Leone e s. Giovanni Crisostomo ne riferiscono alcuni. Assalti a mano armata sui viandanti; invasioni con rottura di porte; omicidi, e tutto ciò che la perversità può ispirare di più iniquo contro la vita e le sostanze altrui. Come lo star nella tomba conduco i corpi alla putrefazione, così la lunga abitudine del delitto aveva tutte guaste e corrotte le facoltà dell’anima sua. A tanti misfatti s. Gregorio Magno e s. Eulogio ne aggiungono un altro che li sorpassa tutti; ed è il fratricidio. « Dolce cosa ella è, dice il primo, fermare lo sguardo su questo ladrone, che dall’abisso del delitto ascende sulla croce, e dalla croce al paradiso. Vediamo qual egli arriva al patibolo, e quale ne parte. Egli viene reo del fraterno sangue, e tutto cosperso di altro sangue; ma sulla croce la grazia interiore lo trasforma. – Colui che aveva dato la morie al fratello, esalta e glorifica la vita del Signore moribondo con queste fiduciose parole: Sovvengati di me quando sarai nel tuo regno » – E S. Eulogio dice : « Quale ostacolo fu mai per il ladrone del Calvario l’esser asceso sulla croce macchiato del sangue di suo fratello? Per quali miracoli poté segnalarsi nelle angosce della morte? Questo uomo aveva, per così dire, consumata la sua vita in azioni da brigante, in furti e rapine. Ciò nondimeno un solo istante di pentimento non solamente lo giustifica da quel gran misfatto, ma lo rende pur degno di accompagnare il Redentere, e di entrar per il primo nel cielo, giusta la promessa dello stesso Signore: Oggi sarai meco in paradiso » Quest’ultimo delitto del fratricidio, dico più che qualunque altro discorso. Colui che, misconoscendo i più sacri legami, non dubitò di bagnarsi le mani nel sangue di suo fratello, di che mai non fu capace? Laonde per caratterizzare d’un solo tratto il novello Caino, il vescovo Eusebio lo chiama insigne scellerato, uomo tutto ravvolto nelle iniquità. – Infine, le testimonianze de’ Padri sono solennemente confermate dal supplizio, al quale Dima fu condannato. La crocifissione era il più crudele ed il più ignominioso di tutti i generi di morte. « È delitto, dice Cicerone, legare un cittadino romano; scellerata cosa il batterlo colle verghe; quasi parricidio il metterlo a morte. E che dirò io del crocifiggerlo? Supplizio crudele, il più atroce d’ogni altro: io non trovo parole per qualificare una simile iniquità » – S. Giovanni Crisostomo fa osservare che per disonorare Nostro Signore, gli Ebrei lo vollero condannato al supplizio della croce, « In vero, egli dice, la morte sulla croce è una morte obbrobriosa, infamante; morte crudele, e la più crudele di tutte le altre; maledizione presso gli Ebrei, e abominazione pei Gentili. » Per tal motivo in tutta l’antichità questo genere di morte era riservato a ciò che v’era di più vile, e di più criminoso. Tacito lo chiama « il supplizio degli schiavi » servile supplicium. Ora nessuno può ignorare che presso gli antichi nulla v’era di più vile di uno schiavo. Ed anche meno che vile, esso non era nulla: Non tam vilis, quam nullus. « Asiatico che era uno schiavo reso libero, dice quello storico, espiò col supplizio degli schiavi l’abuso che aveva fatto del suo potere. » In Giovenale noi vediamo una donna romana che dice: « È uno schiavo, crocifiggilo. » All’occorrenza di una congiura di schiavi, così narra Dionigi di Alicarnasso: « Tosto gli uni furono strappati dalle case, gli altri arrestati nelle pubbliche piazze, e tutti crocifissi. » Capitolino ci narra di Macrono che, per far onta ai soldati si permetteva di farli mettere in croce, siccome schiavi. – Nella vita di colui che si volle chiamare il Divino Augusto, e del quale parecchi scrittori lodano ancor la clemenza, si trova un tratto che mostra qual peso delibasi dare agli elogi resi a certuni: ed il fatto storico del quale ci occupiamo lo prova. Dopo la guerra di Sicilia, il dementissimo Ottavio fece ricerca degli schiavi che in quella avevano combattuto. Quelli, dei quali si trovarono i padroni, furono ad essi restituiti; gli altri furono crocifìssi; ed erano sei mila. – Tito all’assedio di Gerusalemme, Tito la delizia dell’uman genere, nello stesso modo diè prova della bontà dell’animo suo e del conto che faceva degli Ebrei. Giuseppe, testimonio oculare, lasciò scritto: « Durante l’assedio, Tito in ciascun giorno fece crocifiggere cinquecento Ebrei e più: e per la gran moltitudine, mancava lo spazio alle croci, e le croci a tanti corpi. » – Dopo gli schiavi, nulla v’era di più vile dei ladri di pubblica strada. Si aggiungeva al disprezzo l’orrore, ed il supplizio della croce esprimeva questi due sentimenti. « Parve conveniente, dice il codice penale dei Romani, che i masnadieri famosi fossero crocifìssi sui luoghi stessi ne’ quali avevano esercitato il loro brigantaggio. » Riassumendo tutta la legislazione criminale degli antichi, il dottissimo P. Lamy si esprime così: « Il supplizio degli schiavi, dei briganti, degli assassini, dei sediziosi, era la croce. Eglino vi rimanevan appesi fino a che morissero di fame, di sete, e di dolore; e dopo la morte, eran fatti pasto dei cani, e dei corvi. – Così presso i Romani non v’era supplizio più crudele e più infame. » Qui faremo notare un miracolo non abbastanza rivelato, ed un uso tuttavia praticato, del quale pochi sicuramente sanno il significato. Quanto la croce era una cosa ignominiosa, o mal compresa nell’antichità pagana, altrettanto, dopo l’avvenimento del Calvario, è essa un simbolo sacro, eloquente e glorioso presso i popoli cristiani. Fra mille altri segui di rispetto, gli antichi imperatori nei pubblici atti apponevano sempre una croce innanzi alla loro firma. Questa era l’autentica sacra di ciò che intendevano dire. In prova della verità di loro parole, i vescovi han ritenuto quest’uso. Sempre, ed anche oggigiorno, coloro che non sanno scrivere, si sottoscrivono con una croce. Egli è questo un atto di fede nelle scritture pubbliche. – Né soltanto per punire i famosi malfattori si usava il supplizio della croce; ma altresì per dare un gran risalto alla loro punizione, e per produrre sulle moltitudini una durevole e profonda impressione. Per tal ragione Dima, uno dei più famigerati briganti del suo tempo, aveva diritto alla crocifissione. Noi dicemmo un’impressione durevole, perché tranne presso gli Ebrei, era uso comune di lasciar sulla croce i corpi dei giustiziati fino a che fossero divorati dagli uccelli di rapina, o putrefatti cadessero a brani. Col medesimo intendimento di vilipendere il condannato e d’ispirar terrore, vediamo la crocifissione praticata in alcune solenni occasioni, le quali ci fan risovvenire un avvenimento di data recente. Il mondo civilizzato dai Cristianesimo fu compreso di orrore alla notizia del tragico fine dell’imperatore Massimiliano. – Facendo fucilare quello sventurato principe, il selvaggio Juarez fece di bel nuovo ciò che solevano fare i Pagani a riguardo delle teste coronate. Quando essi volevano sfogare il maltalento e l’odio loro, atterrire le moltitudini e coprire di vergogna un re, o un qualche illustre personaggio, lo crocifiggevano. Tal fu l’intendimento del barbaro Messicano. Per mezzo del suo luogotenente Escobedo, non dubitò egli di notificare al mondo intero l’iniquo attentato. « Con l’uccisione di quei capi dei traditori, ho posto il terrore all’ordine del giorno. » Non altrimenti la pensavano gli antichi pagani. Sul conto degli Egiziani, Tucidide narra che avendo essi, come Juarez, arrestato a tradimento il re Inaro, lo crocifissero. Altrove noi vediamo Àgatocle condannato a morte, e talune matrone crocifisse per vendicare Euridice. Presso i Cartaginesi, i più illustri personaggi della repubblica, i generali dell’esercito, colpevoli di aver riportato anche vittoria operando in contrario alle istruzioni del senato, erano senza pietà condannati al supplizio della croce. Finalmente Plutarco e Quinto Curzio ci fan sapere che Alessandro non si mostrò men crudele di Augusto, di Tito, e degli altri, poiché fece crocifiggere il medico Glauco, e buon numero di bravi soldati, colpevoli di aver valorosamente protetta e difesa la città che ad essi era stata confidata. Riserbato egli stesso al supplizio della croce, e come brigante di professione, e come masnadiere famoso, Dima aveva colmata la misura dei suoi misfatti. Àmmettendo, secondo la tradizione, ch’egli fosse nel primo fiore degli anni, quando incontrò la sacra Famiglia, avrebbe egli passato trenta o quarant’anni della sua vita nel brigantaggio. Quindi è che all’ epoca del supplizio era tra i 50 e i 60 anni di età. Istrumento della divina giustizia doveva pure la giustizia umana aver la sua parte. È questa una legge invariabile, senza la quale non potrebbe la società umana sussistere. Se in questo mondo ancora il delitto andasse sempre impunito, la terra diverrebbe un teatro di sangue, ed il genere umano una mandria di lupi, che si sgozzerebbero fra loro. Egli è vero che, per un altro motivo, spesse volte la giustizia divina è lenta a punire; ma ben sovente compensa l’indugio colla severità della pena. Dima ne fece la prova. Fortunatamente per lui, che alla giustizia tenne dietro la misericordia. La tradizione non ci ha fatto conoscere come e dove cadesse nelle mani della giustizia. Si crede che l’arresto di lui avesse luogo nelle vicinanze di Gerico, e ch’egli ed i suoi compagni fossero giudicati in quella città. Ma certamente per disposizione di Pilato, furono condotti a Gerusalemme, per darvi lo spettacolo del loro supplizio nella ricorrenza della Pasqua. Questo era il mezzo di dare la più gran pubblicità alla loro punizione, e di rassicurare così le popolazioni, facendole assistere alla morte di quelli, che per lungo tempo erano stati per loro di tanto terrore. Non occorre dire che i due masnadieri furono caricati di catene e gettati nelle tenebre di un’orrenda prigione. – In Gerusalemme erano le carceri nei sotterranei del palazzo di Erode, poco lungi dal pretorio di Pilato. In esse erano custoditi i grandi malfattori rei di delitti capitali; per attendervi il loro supplizio. Noi dicemmo orrenda la prigione, nella quale Dima fu rinchiuso, perché tali erano tutte le prigioni degli antichi: ergastoli oscuri, umidi sotterranei, con porte di ferro, nei quali gli sciagurati con catene ai piedi, e la persona attaccata pel collo al muro con un anello, soffrivano torture non meno crudeli della morte. Se voglia aversene un saggio, non si ha che a visitare in Roma il carcere Mamertino. – Quel che le prigioni erano allora, Io sono ancora oggidì presso i Turchi, i Cinesi, n gli Annamiti, insomma ovunque non è tollerato il Cristianesimo. La sola legge di carità ha mitigato il rigore della carcere, e addolcita la sorte dei prigionieri. Quanto tempo rimase Dima nel carcere? La tradizione non lo dice: essa soltanto ci lascia presumere quanto egli ci abbia sofferto.