UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO IX – “CUM SANCTA MATER”

Il Santo Pontefice scrive questa lettera per promuovere, indire e sollecitare, presso i suoi Vescovi, le preghiere dei fedeli per invocare dal Dio della pace, la pace tra i popoli cristiani allora minacciata da conflittuali eventi storici. Questa è la pratica che tutti i fedeli cristiani hanno avuto nei secoli passati per evitare o almeno attenuare l’animosità di popoli e nazioni agitate dalle forze del male che spingevano al confronto bellico. Oggi questa voce è ancora più opportuna, dal momento che all’orizzonte si prospettano eventi terrificanti indotti da personaggi chiaramente gestiti e manipolati da sette satanico-esoteriche che trovano ogni pretesto per scardinare l’ordine costituito della civiltà cristiana fondata dall’opera redentiva del Figlio di Dio fatto uomo nel seno della Vergine Maria. La ricerca della pace per mezzo del ricorso a Dio elargitore della pace nei cuori e nei popoli, è l’unica possibilità che l’uomo ha per evitare cataclismi e rovine inimmaginabili con gli odierni arsenali militari. Ma tutti si affannano a cercare soluzioni politiche, finanziarie, diplomatiche … tutto inutile se non si ricorre prima a Dio. Anzi, scriveva Geremia: maledetto l’uomo he confida nell’uomo… Tutti siamo maledetti se confidiamo nell’uomo, qualunque costume indossi, senza rivolgerci a Dio, non solo con le labbra ed il cuore, ma con i comportamenti morali ed il recupero degli autentici valori cristiani. Inganno moderno sono le elezioni politiche e la democrazia fondata su disvalori laici, atei, pagani … maledetti saremo da Dio, e le preghiere che saranno costretti a dire come uomini spinti dal terrore di perdite materiali e fisiche, suoneranno come orribili sacrilegi respinti da Dio…

Pio IX

Cum Sancta Mater

In questi sacri giorni di festa, Venerabili Fratelli, la Santa Madre Chiesa celebra con solennità l’annuale ricorrenza del Mistero Pasquale, effondendo il suo gaudio in tutto il mondo, e richiama alla memoria di tutti i suoi fedeli quelle lietissime parole di soavissima pace che l’Unigenito Figlio di Dio Cristo Gesù, Nostro Signore, annunciò frequentemente e amorosamente ai suoi Apostoli e Discepoli, risorgendo dopo aver vinto la morte e debellato la tirannia del demonio. Ma ecco si leva un ben triste clamore di guerra fra nazioni cattoliche, e risuona nelle orecchie di tutti. – Pertanto, Noi, che, pure immeritevoli, continuiamo l’opera vicaria di Colui che, nascendo dalla Immacolata Vergine, annunziò per mezzo degli Angeli la pace agli uomini di buona volontà e, risorgendo da morte e ascendendo al cielo per assidersi alla destra del Padre, lasciò la pace ai suoi Discepoli, non possiamo non invocare e proclamare sempre e ripetutamente la pace, per quella paterna carità che Ci spinge particolarmente verso i popoli cattolici. Cercando di inculcare in tutti, con il massimo sforzo del Nostro animo, le parole del Nostro Divin Redentore, ripetiamo incessantemente: Pace a Voi! La Pace sia con Voi! E con queste parole di pace, parliamo a Voi con tanto affetto, Venerabili Fratelli, che siete stati chiamati a partecipare alla Nostra sollecitudine, affinché esortiate i fedeli affidati alla vostra vigilanza e li sproniate con ogni cura e zelo con tutta la vostra esimia pietà a ricorrere con le preghiere al Dio Ottimo e Massimo affinché elargisca a tutti la sua desideratissima pace. Per questa ragione e per quanto riguarda il Nostro Ufficio pastorale, non abbiamo omesso di ordinare che in tutto il territorio della Nostra Pontificia giurisdizione, si offrano pubbliche preghiere al clementissimo Padre di ogni misericordia. E seguendo le vestigia e gli esempi illustri dei Nostri Predecessori, abbiamo stabilito di ricorrere e rifugiarci nelle preghiere vostre e di tutta la Chiesa. – Pertanto con questa Lettera, Venerabili Fratelli, Vi chiediamo, per la vostra esimia devozione, di indire al più presto nelle vostre Diocesi come vorrete, per i fedeli a Voi affidati, pubbliche preghiere con le quali, implorando il patrocinio dell’Immacolata e Santissima Madre di Dio, la Vergine Maria, preghino e supplichino il nostro Dio, ricco di misericordia, di rimuovere da noi la sua indignazione, per i meriti del suo Unigenito Figlio, il Signore Nostro Gesù Cristo. Allontani così le guerre fino agli estremi confini della terra, e illumini la mente di tutti con la sua divina grazia; infiammi il cuore di tutti all’amore della pace cristiana; e faccia sì con la sua Onnipotenza che, radicati e fondati nella fede e nella carità, osservino fedelissimamente i Suoi comandamenti; implorino umilmente e col cuore contrito il perdono dei loro peccati; e distaccandosi dal male e facendo il bene, possano camminare nei sentieri della giustizia; esprimano fra di loro un continuo amore, vi si esercitino, e così possano conseguire una pace salutare con Dio, con se stessi e con tutti gli uomini. – Non dubitiamo, Venerabili Fratelli, che per l’ossequio e la obbedienza già sperimentata verso Noi e questa Sede Apostolica, Voi cercherete di assecondare con molta diligenza questi Nostri desideri e voti. Affinché, poi, i fedeli si dedichino con ardente diligenza e con sempre maggior frutto alle preghiere che Voi stabilirete, abbiamo deciso di mettere a disposizione e di erogare i tesori delle celesti grazie la cui competenza è stata a Noi conferita dall’Altissimo. Pertanto, concediamo ai fedeli trecento giorni di indulgenza nella forma consueta della Chiesa, ogni volta che essi interverranno devotamente alla recita di tali preghiere per la pace e le ripeteranno. Inoltre durante il tempo della recita di tali preghiere concediamo agli stessi fedeli l’Indulgenza Plenaria da lucrarsi una volta al mese, allorché purificati e assolti dalla Confessione sacramentale e nutriti della santissima Eucaristia, visitino devotamente una Chiesa e qui recitino preghiere a Dio per lo stesso scopo. – Infine niente è a Noi più gradito di poter usufruire di questa occasione per testimoniare ancora una volta, Venerabili Fratelli, la Nostra benevolenza verso Voi tutti. E di questo grande affetto verso di Voi sia pegno la Benedizione Apostolica che dal profondo del cuore impartiamo con amore a Voi stessi, Venerabili Fratelli, e a tutti i Chierici e fedeli Laici affidati alla vostra fede.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 27 aprile 1859, anno tredicesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2022).

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La liturgia di questa Domenica ci insegna il vero concetto dell’umiltà cristiana che consiste nell’attribuire alla grazia dello Spirito Santo la nostra santità; poiché le nostre azioni non possono essere soprannaturali, cioè sante, se non procedono dallo Spirito Santo, che Gesù ha mandato agli Apostoli nel giorno della Pentecoste e che dona a tutti quelli che glielo chiedono. Dunque la nostra santificazione è impossibile se vogliamo raggiungerla da soli, perché, abbandonati a noi stessi noi non siamo che impotenti e peccatori. Dobbiamo a Dio se evitiamo il peccato, se ne otteniamo il perdono, se riusciamo a fare il bene, poiché nessuno può pronunciare neppure il santo nome di Gesù con un atto di fede soprannaturale, che affermi la sua regalità e divinità, se non mediante lo Spinto Santo. L’orgoglio è, dunque, il nemico di Dio, perché si appropria dei beni che solo lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno nella misura che crede conveniente e impedisce alla potenza divina di manifestarsi nelle nostre anime in modo da farci credere che noi bastiamo a noi stessi. Come Dio potrebbe perdonarci (Oraz.), se noi non vogliamo riconoscerci colpevoli? Come potrebbe aver compassione di noi ed esercitare su noi la sua misericordia (Oraz.), se nel nostro cuore non vi è nessuna miseria riconosciuta cui il suo Cuore divino possa compatire? L’umile, invece, riconosce il proprio nulla perché sa che solo a questa condizione discenderà su lui la virtù di Cristo. Mentre la Chiesa sviluppa in questa Domenica tali pensieri, le letture, che fa durante questa settimana nel Breviario, danno due esempi di orgoglio e di grande umiltà. Dopo la figura del profeta Elia che si oppone così fortemente a quella di Achab e di lezabele, dei quali nell’ufficio è ricordato il terribile castigo, vi è quella del giovane Gioas che contrasta fortemente con quella di Atalia. Figlia di Achab e di lezabele, empia come sua madre, Atalia sposa il re di Giuda Ioram, che morì poco dopo. Allora la regina si trovò padrona del regno di Giuda e per esserlo per sempre fece massacrare tutta la famiglia di David. Ma losabeth, sposa del gran sacerdote Joiada tolse dalla culla l’ultimo nato della famiglia reale e lo nascose nel Tempio. Questi si chiamava Gioas. Per sei anni Atalia regnò ed innalzò templi in onore del dio Baal perfino nell’atrio del Tempio. Nel settimo anno il gran sacerdote attorniato da uomini risoluti e armati, mostrò Gioàs che allora aveva sette anni e disse: « Voi circonderete il fanciullo regale e se qualcuno cercherà di passare fra le vostre file, lo ucciderete! ». E quando il popolo si riversò nell’atrio, all’ora della preghiera, Joiada fece venire avanti Gioas, l’unse e lo coronò al cospetto di tutta l’assemblea che applaudi’ e gridò: «Viva il Re!». Quando Atalia intese queste grida, uscì dal palazzo ed entrò nell’atrio e quando vide il giovane re assiso sul palco, circondato dai capi e acclamato dal popolo col suono delle trombe, stracciò le sue vesti e gridò: « Congiura! Tradimento! ». Il gran sacerdote ordinò di farla uscire dal sacro recinto e quando essa giunse nel suo palazzo venne uccisa. La folla allora saccheggiò il tempio di Baal e non lasciò pietra su pietra. E il re Gioas si assise sul trono di David, suo avo; regnò quarant’anni a Gerusalemme e si dedicò a riparare e abbellire il Tempio (All., Com.). La Scrittura fa di lui questo bell’elogio: « Gioas fece quello che è giusto agli occhi di Dio » È questa l’Antifona del Magnificat dei Vespri alla quale fa eco quella dei II Vespri che è tratta dal Vangelo di questo giorno: « Questi (il pubblicano) ritornò a casa sua giustificato e non quello (il fariseo), poiché chi si esalta sarà umiliato e chi s’umilia sarà esaltato ». – « Quelli che si innalzano sono visti da Dio da lontano, dice S. Agostino. Egli vede da lontano i superbi, ma non perdona loro. « L’umile invece, come il pubblicano, si riconosce colpevole! ». Egli si batteva il petto, si castigava da sé, e Dio perdonava a quest’uomo perché confessava la sua miseria. Perché meravigliarsi che Dio non veda più in lui un peccatore dal momento che si riconosce da sé peccatore? Il pubblicano si teneva lontano ma Dio l’osservava da vicino » (Mattutino). Così l’umile fanciullo Gioas fu gradito a Dio perché la sua condotta avanti a Lui era quale doveva essere. Egli fece ciò che era giusto agli occhi del Signore. Atalia, invece, orgogliosa ed empia, non fece ciò che era giusto avanti al Signore, e sdegnò e insultò quelli che facevano il loro dovere, poiché l’orgoglio verso Dio si manifesta ogni giorno nel disprezzo verso il prossimo. Dice Pascal che vi sono due categorie di uomini: quelli che si stimano colpevoli di tutte le mancanze: i Santi; e quelli che si credono colpevoli di nulla: i peccatori. I primi sono umili e Dio li innalzerà glorificandoli, i secondi sono orgogliosi e Dio li abbasserà castigandoli. « Il diluvio, dice S. Giovanni Crisostomo, ha sommerso la terra, il fuoco ha bruciato Sodoma, il mare ha inghiottito l’esercito degli Egiziani, poiché non è altri che Dio, il quale abbia inflitto ai colpevoli questi castighi. Ma, dirai tu, Dio è indulgente. Tutto ciò allora non è che parola vana? E il ricco che disprezzava Lazzaro non fu punito? … e le vergini stolte non furono discacciate dallo Sposo? E quegli che si trova nel banchetto con le vesti sordide non verrà legato mani e piedi e non morrà? E colui che richiederà al compagno i cento denari non sarà dato al carnefice? Ma Dio si fermerà solo alle minacce? Sarebbe molto facile provare il contrario e dopo quello che Dio ha detto e fatto nel passato possiamo giudicare quello che farà nell’avvenire. Abbiamo piuttosto sempre in mente il pensiero del terribile tribunale, del fiume di fuoco, delle catene eterne nell’inferno, delle tenebre profonde, dello stridore dei denti e del verme che avvelena e rode » (2° Nott.). Questo sarà il mezzo migliore per rimanere nell’umiltà, che ci fa dire con la Chiesa: « Ogni volta che io ho invocato il Signore, questi ha esaudita la mia voce. Mettendomi al sicuro da quelli che mi perseguitavano, li ha umiliati, Egli che è prima di tutti i tempi » (lntr.). « Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dei tuoi occhi, perché i tuoi occhi vedono la giustizia » (Grad.). « Signore, io ho innalzata l’anima mia verso te, i miei nemici non mi derideranno perché quelli che hanno confidenza in te non saranno confusi » (Off.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

.Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis tuis, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.

S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LIV: 17; 18; 20; 23
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.

[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.

[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, 9salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Deus, qui omnipoténtiam tuam parcéndo máxime et miserándo maniféstas: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, ad tua promíssa curréntes, cœléstium bonórum fácias esse consórtes.

[O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto perdonando e compatendo, moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché quanti anelano alle tue promesse, Tu li renda partecipi dei beni celesti.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XII: 2-11
Fratres: Scitis, quóniam, cum gentes essétis, ad simulácra muta prout ducebámini eúntes. Ideo notum vobis facio, quod nemo in Spíritu Dei loquens, dicit anáthema Jesu. Et nemo potest dícere, Dóminus Jesus, nisi in Spíritu Sancto. Divisiónes vero gratiárum sunt, idem autem Spíritus. Et divisiónes ministratiónum sunt, idem autem Dóminus. Et divisiónes operatiónum sunt, idem vero Deus, qui operátur ómnia in ómnibus. Unicuíque autem datur manifestátio Spíritus ad utilitátem. Alii quidem per Spíritum datur sermo sapiéntiæ álii autem sermo sciéntiæ secúndum eúndem Spíritum: álteri fides in eódem Spíritu: álii grátia sanitátum in uno Spíritu: álii operátio virtútum, álii prophétia, álii discrétio spirítuum, álii génera linguárum, álii interpretátio sermónum. Hæc autem ómnia operátur unus atque idem Spíritus, dívidens síngulis, prout vult.

[“Fratelli: Voi sapete che quando eravate gentili correvate ai simulacri muti, secondo che vi si conduceva. Perciò vi dichiaro che nessuno, il quale parli nello Spirito di Dio dice: «Anatema a Gesù»; e nessuno può dire: «Gesù Signore», se non nello Spirito Santo. C’è, sì, diversità di doni; ma lo Spirito è il medesimo. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore; ci sono operazioni differenti, ma è il medesimo Dio che opera tutto in tutti. A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia d’utilità. Mediante lo Spirito a uno è data la parola di sapienza, a un altro è data la parola di scienza, secondo il medesimo Spirito. A un altro è data nel medesimo Spirito la fede; nel medesimo Spirito a un altro è dato il dono delle guarigioni: a un altro il potere di far miracoli; a un altro la profezia; a un altro il discernimento degli spiriti; a un altro la varietà delle lingue, a un altro il dono d’interpretarle. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, il quale distribuisce a ciascuno come gli piace”].

UNITA’ NELLA VARIETA’ E VICEVERSA.

Gli uomini piccoli si rivelano colle loro unilateralità. C’è chi al mondo non vede, non vuole, non ama che la unità, una unità esagerata che diviene, né essi se ne dolgono, uniformità; c’è chi non vede, non vuole, non ama che la varietà, la diversità, una diversità che diviene, così esagerata, del che ad essi non cale, confusione babelica, caos. Per i primi tutti dovrebbero pensare allo stesso identico modo in tutto e per tutto, fare tutti la stessa cosa, farla tutti allo stesso modo. Per gli altri il rovescio, tutti pensare e agire diversamente. Estremismi opposti, figli della stessa micromania. Il Vangelo, il Cristianesimo ci si rivela grande e divino anche per quella formula « unitas in varietate » che è la sua divisa. N. S. Gesù ha detto una parola nella quale è lo spunto di quello che oggi dice San Paolo nel brano domenicale della Epistola prima ai Corinzi: « nella casa di mio Padre vi sono molte dimore. » La Casa è una, una la Chiesa, Casa di Dio, edificio classico e prediletto di Gesù Cristo; una per unità di culto. Se non fosse così, non sarebbe divina. Una nelle cose essenziali, sostanziali. Ma in questa bellissima e forte e compatta e vigorosa unità non si esaurisce la vita della Chiesa; se no saremmo nell’uniformità plumbea. La casa è una e le stanze, anzi i piani sono molti e diversi. San Paolo riprende il pensiero evangelico e dice testualmente così: « Or vi sono (nella Chiesa) distinzioni (ossia varietà) di doni, ma non c’è che un medesimo Spirito; e c’è distinzione nei ministeri, ma non c’è che un medesimo Signore; e c’è distinzione nei modi di operare, ma non c’è che un medesimo Dio, il quale opera ogni cosa in tutti ». Varietà, continua l’Apostolo, utile al corpo sociale, come, dico io, la varietà dei cibi è utile al corpo umano. Di questa varietà non bisogna né scandalizzarsi, né abusare. Alcuni estremisti se ne sono scandalizzati. Per esempio: i Greci, che poi si separarono dalla Chiesa, si scandalizzarono quando fu aggiunta una paroletta « Filioque » al Credo di Nicea, senza domandarsi se essa stonava o sintetizzava, armonizzava col Credo nel suo insieme, nel suo spirito. Altri ne abusano e vorrebbero portare la diversità dappertutto, dappertutto le novità, dimenticando l’aureo principio: «in necessariis unitas ». Varietà che nel campo pratico, l’operare e il modo dell’operare sono ben altrimenti ricche e accentuate che non siano nel campo teorico. Quante diversità, salva la unità essenziale, nei riti! Quante nell’azione dei Santi! Ecco qua dei Santi e delle spirituali famiglie dei Santi che son tutto calcolo e prudenza; altri e altre che sono tutta spontaneità e ingenuità. Santi che edificano monasteri grandiosi come spirituali reggie, quasi ad affermare la maestà dello spirito, e santi che fabbricano modestissimi conventini; Santi che sono tutto zelo e severità, altri il cui zelo realissimo è fatto di mansuetudine. Paolo che va a destra, Barnaba che va a sinistra e camminano per le vie di un unico apostolato. Ma lo Spirito è uno; lo spirito di Dio, spirito di verità d’amore. Rallegriamoci di questa varietà che è ricchezza e rispettiamola; rallegriamoci di questa unità e cerchiamola, lieti per conto nostro ciascuno del posto che gli è toccato nella casa del Padre, nella vigna del Signore, non smaniosi di cambiarlo, avidi solo di occuparlo degnamente.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps XVI: 8; LXVIII: 2
Custódi me, Dómine, ut pupíllam óculi: sub umbra alárum tuárum prótege me.

[Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio: proteggimi sotto l’ombra delle tue ali.]

V. De vultu tuo judícium meum pródeat: óculi tui vídeant æquitátem.

[Venga da Te proclamato il mio diritto: poiché i tuoi occhi vedono l’equità.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

 Ps LXIV: 2
Te decet hymnus, Deus, in Sion: et tibi redde tu votum in Jerúsalem. Allelúja.

[A Te, o Dio, si addice l’inno in Sion: a Te si sciolga il voto in Gerusalemme. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc XVIII: 9-14.
In illo témpore: Dixit Jesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisæus, et alter publicánus. Pharisæus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, injústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Jejúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri. Dico vobis: descéndit hic justificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.” 

 [“In quel tempo disse Gesù questa parabola per taluni, i quali confidavano in se stessi come giusti, e deprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio: uno Fariseo, e l’altro Pubblicano. Il Fariseo si stava, e dentro di sé orava così: Ti ringrazio, o Dio, che io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri; ed anche come questo Pubblicano. Digiuno due volte la settimana; pago la decima di tutto quello che io posseggo Ma il Pubblicano, stando da lungi, non voleva nemmeno alzar gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: Dio, abbi pietà di me peccatore. Vi dico, che questo se ne tornò giustificato a casa sua a differenza dell’altro: imperocché chiunque si esalta, sarà umiliato; e chi si umilia, sarà esaltato”].

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

SUPERBIA

Gesù aveva sedato la burrasca del lago, ma non disse mai: « Imparate da me a comandare all’acqua e al vento ». Gesù aveva moltiplicato il pane e il pesce, ma non disse mai: « Imparate da me a moltiplicare il cibo e la bevanda ». Neppure quando ebbe guarito i lebbrosi, gli storpi, i ciechi, i muti disse: « Imparate da me a sanare le malattie ». Però a tutti comandò: « Da me dovete imparare ad esserne umili e miti di cuore ». Umili e miti! Invece molti erano gonfi di sé, sprezzanti degli altri. Allora il Maestro contò una parabola. « Al tempio di Gerusalemme, nello stesso giorno e nella stessa ora, si trovarono due uomini: uno era fariseo, l’altro pubblicano. Stando in piedi, il primo cominciò la sua preghiera: Signore! La legge ordina di digiunare una volta all’anno; ed io digiuno due volte alla settimana. La legge ordina al coltivatore di pagare la decima dei suoi prodotti; ed io, non solo di quelle che raccolgo nel campo ma anche di quello che acquisto al mercato, pago la decima. Signore! dopo tutto ciò, non è meraviglia che tu sia stato come costretto a riempirmi di grazie. Poiché, tutti lo possono dire, io non sono un ingordo di roba altrui, non sono frodatore nel commercio, non sono un disonesto adultero: queste cose le lascio a certa gente come quel disgraziato pubblicano, laggiù… » Laggiù, infatti, lontano dall’altare, dove sapeva risiedere un Dio giusto, v’era un umile pubblicano che neanche ardiva levar gli occhi al cielo, e si batteva il petto e gemeva: — O Dio, sii buono con me che son gran peccatore. A questo punto Gesù terminò la parabola e conchiuse: « Vi dico che costui ritornò a casa sua giustificato, ma l’altro no: perché chi si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà esaltato ». Tanto chiara è la parabola, che ogni spiegazione sarebbe di troppo. Piuttosto vediamo se anche contro di noi è rivolta: Dixit ad quosdam qui în se confidebam tamquam iusti, et aspernabantur ceteros: la disse per quelli che si stimano perfetti e disprezzano tutti gli altri. Oh la superbia! ora è smascherata: essa è vanteria di sé e sprezzo degli altri. Il contrario precisamente di come Gesù ci vuole: umili e miti.1. PER QUELLI CHE SI STIMANO PERFETTI. S. Giovanni Climaco, raccogliendosi intorno i suoi monaci, amava spesso raccontare la cattiva figura che fece un giorno la cornacchia. Si era essa fatto prestare da ciascun uccello una piuma colorita, e con quelle adornandosi, si vantava di essere più bella di tutti. Gli uccelli indignati di tanta superbia vollero indietro ciascuno la propria piuma: apparve allora agli occhi di tutti la deformità naturale della cornacchia, che svergognata in mezzo alle risa dei compagni, voleva morirsene di rabbia. « È cosa vergognosa — concludeva S. Giovanni Climaco — insuperbire delle piume altrui: ma il vantarsi dei doni ricevuti da Dio come se si trattasse di roba nostra è il colmo della pazzia. Il Dio nostro resiste ai superbi; se il superbo si gonfia appropriandosi i suoi doni, subito Egli li riprende, ed il disgraziato millantatore resta deforme spoglio tra le risa maligne dei demoni ». La favola della cornacchia sarà ingenua, però non manca d’opportunità neppure oggi, per noi. Vediamo un po’ queste penne di cui ci gloriamo. Per molti sono le dignità umane: hanno un posto di fiducia nel paese, nella città; sono consultati in casa, inchinati per le strade, onorati da per tutto. Costoro, dimenticando che ogni autorità viene da Dio, che ogni onore è un peso in favore degli altri, si curano soltanto di emergere e di raccogliere gli incensi delle lodi, come fossero piccole divinità. Per altri invece le piume di cornacchia sono le ricchezze: perché hanno un palazzo, una casa, servi, automobile, vesti lussuose, danaro in quantità si credono superiori ad ognuno meno ricco di loro; quasi che anch’essi non fossero figliuoli peccatori di Adamo, ma appartenenti ad una stirpe privilegiata. Altri ancora, e non sono pochi, insuperbiscono per la bellezza del loro volto, per la compitezza della loro persona. Quanto al corpo che cosa eravate voi? chiede San Bernardo; che cosa sarete più tardi? Voi eravate un vero niente, voi sarete vermi e cenere. Ci sono infine di quelli che son gonfi del loro sapere. Ebbene, infinitamente maggiore è il numero delle cose che ignorano di quelle che conoscono; ed il numero di quelli che sanno più di loro è pur esso grandissimo. E poi bisogna ricordare che gli uomini dotti sono umili, poiché la superbia è madre dell’ignoranza. Non io negherò che in tutte queste cose, — dignità, ricchezza, bellezza, scienza — vi sia un certo valore. Ma donde vengono esse? Sono opera delle nostre mani? Che cosa abbiamo di non ricevuto? Perfino il Fariseo di questo s’era persuaso e ne ringraziava il Signore: « O Dio, ti dico grazie… ». Ma poi se ne vantava come se non avesse nulla ricevuto. E noi l’imitiamo. Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis? (I Cor., IV, 7).2. PER QUELLI CHE SPREZZANO GLI ALTRI. I santi han sempre avuto per divisa il motto: « Tutto per Dio »; ma i superbi vi hanno sostituito quest’altro: « Tutto per sé ». Essi si credono altrettanti soli in giro a cui tutte le stelle e i pianeti si raccolgono e girano. Per ciò, se qualche cosa non piega davanti a loro, la disprezzano: disprezzo che, a volta a volta, si cambia in giudizi maligni, in invidia, in odio. Il disprezzo che i superbi hanno per il loro prossimo appare facilmente nei giudizi malevoli: tacciono i meriti altrui e palesano solo i difetti. Di meriti anzi negli altri essi non ne scorgono, ma, se proprio sono costretti a far qualche concessione, per non sembrare malintenzionati, sanno dosare la lode con molte riserve, reticenze, insinuazioni: « Sì, senza dubbio è buono… lo dicono tutti, ma… tempo addietro! Sì, è laborioso, ma… ma!… Sì è onesto, è devoto, ma…, a frequentarlo un po’, a stargli vicino!… ». E sempre, come una vipera in mezzo ai fiori, c’è quel terribile « ma » della superbia. Quando poi si tratta di scoprire i difetti altrui, essi hanno occhi di lince mentre a vedere i propri hanno occhi di talpa. Essi si usurpano l’autorità di giudicare tutto e tutti, e non pensano che Dio solo è giudice: « Sono io il loro giudice! » (Ger., XXIX, 23). A loro non toccherà certo la bella morte di quel santo monaco, che sentendo prossima la fine sorrideva: « Non avete paura del tribunale di Dio? » — gli fu chiesto. « Io non ho mai giudicato nessuno, — rispose — e non sarò giudicato ». Ma chi invece, come il Fariseo nel tempio, avrà giudicato gli altri per rapaci, ingiusti, adulteri, lui stesso davanti a Dio sarà tenuto per tale. L’invidia, che insieme al disprezzo occupa il cuor del superbo, si manifesta in due modi: o col dispiacere del bene altrui o col piacere dell’altrui male. Saul era sempre stato il re forte, il re vincitore; ma ecco che un giorno, dai campi in cui pascolava il gregge, arriva David. Esso pure è forte e vincitore. Lo applaude il popolo e dice: « Valoroso è Saul, ma David lo è di più. Mille ne uccise Saul e diecimila David ». Saul sente, ne riceve un colpo al cuore: diviene intrattabile, taciturno, cupo fino a impazzirne. Ecco l’invidia: rincrescimento del bene altrui. Quando davanti alla fortuna d’un nostro vicino, quando davanti alla gioia di un nostro parente, noi ci sentiamo afflitti, ricordiamoci che la superbia ha invaso il nostro cuore e se lo fa schiavo. Se lo fa schiavo fino al punto di desiderare il male agli altri, e di goderne allora che sono colpiti. Da lungo tempo quel negoziante ha guardato con l’occhio torbido d’invidia il fiorente negozio di un suo collega; ma ecco che il suo sguardo si schiarisce e brilla di piacere maligno, ora che crede di constatare una disavventura dell’invidiato. E quel medesimo contadino che si è sempre afflitto per la fertilità del campo d’un altro, quella donna che si è irritata per la bellezza d’un’altra, quello stesso uomo che s’angustiava per gli onori ottenuti da un altro, quanto si rallegrano appena gli invidiati incontrano una disgrazia, una malattia, una calunnia! Guai a chi si lascia trascinare dalla superbia per queste vie! Giungerà fino a procurare egli stesso al prossimo quel male che tarda a venire. Non è così che Caino ha ucciso Abele? Non è così che gli undici fratelli han venduto Giuseppe? che Saul ha vibrato la lancia contro David? che la gente di Palestina rovinò i pozzi d’Isacco? « Aveva seminato Isacco in quella terra, e, l’anno stesso, ne raccolse il centuplo, avendolo benedetto il Signore. S’arricchì, divenne grande e potente, ebbe armenti e servi. Per questo i Palestinesi si rodevano d’invidia e gli riempirono di terra i pozzi che servivano di beveraggio al gregge ed innaffiamento agli orti ». (Gen., XXVI 12-14). Ancora una cosa è da aggiungersi: ed è che nessun cuore è pieno di odio come quello del superbo. Il superbo non bada per il sottile se i suoi pensieri, le sue parole le sue azioni offendono gli altri. Che cosa sono questi altri in suo confronto? Egli è il centro del mondo. Ma quando l’offeso è lui, fosse pure leggera l’offesa, allora non dimentica, non perdona: e aspetta settimane e settimane l’occasione propizia per una vendetta completa. Vi sentirete rinfacciare un torto di cui non vi eravate nemmeno accorti, un’ingiuria d’antica data, uno sbaglio di cui avevate già fatto le scuse e date riparazione. Dio può dimenticare e perdonare le offese, ma il superbo, no! – Povero S. Bernardo! Era stato assalito dal demonio della superbia e nella tentazione aveva titubato un istante. Subito comprese che il Signore s’era da lui ritirato. Sentiva il cuore indurito come un sasso, e l’anima arida come terra senz’acqua. Voleva piangere, ma non una lacrima cadeva dagli occhi; voleva pregare, ma i salmi non gli volevano uscire dalla bocca; voleva meditare, ma la mente s’annebbiava come una vetta durante il temporale. Vagava come un fantasma angosciato sotto gli archi del chiostro, e guardava con interiore sofferenza i suoi monaci lieti e fervorosi: Heu! omnes montes în circuito meo visitat Dominus, ad me autem non appropinquat. A tutti i Cristiani che si lagnano di non ottenere grazie, di non avere pace, e di essere dimenticati da Dio ripeterò le parole di S. Bernardo: « Non senza ragione sono abbandonato. Ti signoreggiò la superbia: quella del cuore, per cui tu non pensi che a te e alle tue virtù, quella della bocca, per cui tu non parli bene che di te e delle tue cose, mentre degli altri e delle loro cose non sai che criticare; quella dell’azione per cui tu cerchi sempre il primo posto, non fai il bene che per essere lodato, non vuoi perdonare le offese, non vuoi rallegrarti con quelli che godono, non vuoi dolerti con quelli che soffrono: quella del vestito, per cui vuoi parere più ricco, più bello, più istruito di quello che sei. Ti signoreggia la superbia: perciò Dio s’avvicina a tutti gli altri cuori umili e miti, ma non al tuo ». Heu!… ad me autem non appropinquat! (In Cantica, sermo LIV, 8). – CUOR CONTRITO ED UMILIATO. Dico vobis descendit hic iustificatus in domum suam. Quante volte anche noi siamo andati al tempio per confessare i nostri peccati davanti a Dio e al suo ministro: siamo sempre ritornati a casa nostra giustificati? Se le nostre confessioni furono simili a quella del superbo Fariseo che accusava i peccati degli altri e le proprie virtù, non solo non siamo stati perdonati ma abbiamo fatto sacrilegio. Iddio perdona soltanto a quelli che hanno un cuore umile e contrito. Cor contritum et humiliatum Deus non spernit. (Ps., L. 19). Ed umile era il cuore del Pubblicano che si riconosceva con gemiti peccatore: Deus propitius esto mihi peccatori. L’umiltà infatti non è che sincerità, e consiste nel riconoscerci quali noi siamo: senza nascondere nulla di ciò che abbiamo commesso, senza aggiungere nulla di ciò che abbiamo tralasciato. Contrito era il cuore del Pubblicano. La contrizione non è un dolore sensibile come il male di testa o di denti; non consiste in piangere o sospirare: la contrizione è un dispiacere del cuore che sente d’aver offeso Dio e promette di non offenderlo più. Per ciò sul cuore si batteva il Pubblicano: percutiebat pectus suum. Dal cuore, ha detto Gesù, escono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri,, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie (Mc., VII, 21); e dal cuore esce anche la contrizione dei peccati. La confessione del pubblicano c’insegna le due condizioni necessarie a un vero peccatore: sincerità e dolore. Le voglio spiegare con due esempi. – 1. Sincerità. Cromazio prefetto di Roma era malato di un male strano che nessun medico sapeva guarire. Gli dissero allora che in Roma v’erano due  Cristiani che compivano guarigioni miracolose, e, chi sa, avrebbero forse guarito ancor lui. Cromazio li fece chiamare: erano Sebastiano e Policarpo. « Cromazio — dissero i due santi al prefetto pagano — se tu vuoi guarire, dacci in mano tutti gli idoli della tua casa, ché noi vogliamo distruggerli ». « Se è necessario — rispose a malincuore, — io v’insegnerò dove sono, e voi prendeteli ch’io non oso ». Sebastiano e Policarpo presero tutte le immagini dei falsi dei e le frantumarono, poi tornarono da Cromazio. Ma Cromazio non era guarito; anzi stava peggio. « Cromazio! » dissero i santi, guardandolo fisso nella nube ch’era nel bianco dei suoi occhi, « Cromazio, tu hai mentito: nella tua casa ci sono idoli ancora ». Ed il prefetto dovette confessarlo: egli ne aveva nascosti alcuni nella sua camera vicino a lui, perché gli erano più cari. Solo quando si decise a consegnare anche quelli, poté guarire. Così è pure nella Confessione; quelli che tengono nascosti nel più fondo della loro anima anche un solo peccato mortale, non saranno perdonati neppur degli altri, anzi si incolpano di un pessimo sacrilegio. S. Giovanni Crisostomo esclamava: « O uomo, che cosa è peggiore: fare il male o dirlo? Se dunque al cospetto di Dio non hai avuto rossore a far male, perchè hai vergogna a dirlo davanti agli uomini? Se non hai avuto vergogna a macchiarti, perché  avrai vergogna a lavarti? ». In tre modi la superbia ci fa mancare di sincerità in confessione: non accusando, accusando per metà, scusando. Non accusando: anche il Fariseo ha fatto così, egli ha taciuto le sue colpe, per dir soltanto le proprie virtù, per dir soltanto i peccati degli altri. Ma uscì dal tempio senza giustificazione. Infelici noi se taciamo, di proposito, anche un peccato solo, profaneremmo il sangue di Cristo, e cominceremmo il primo anello d’una catena maledetta: la catena che ci strapperà giù nell’inferno. Accusando per metà: alcuni dicono d’aver un po’ d’ambizione, e non dicono che per questa ambizione hanno seguito una moda pagana, ed hanno suscitato discorsi e passioni cattive. Altri dicono d’aver detta qualche bugia, e non dicono che questa bugia l’hanno detta in confessione, oppure non dicono che dalla loro bugia è derivato un grave danno al prossimo. Scusando: ci sono di quelli, infine, che mentre si confessano involgono i lori peccati in una miriade di scuse, quasi quasi, in faccia a Dio son loro che ne avanzano. Non c’è umiltà in queste confessioni, e per ciò non c’è perdono. – 2. DOLORE. Santa Caterina da Genova, nata da una delle più ricche e nobili famiglie della città, contro sua voglia, costretta dai genitori sposò Giuliano Adorno. Ma la bontà di Dio permise che le fosse dato un marito contrario e difforme alla sua vita, il quale consumò il patrimonio nei giochi e la fece soffrire moltissimo. Ella, stanca del lungo martirio, aveva cessato d’essere buona, cercando qualche consolazione nelle delizie e nelle vanità del mondo. Ma il giorno arriva che queste dilettazioni stancano, che sotto le belle apparenze si trovan frutti di cenere e tosco; allora l’anima scontenta anela di sciogliersi dai legami del peccato e implora. Era appunto in questo stato di tristezza quando la sorprese una mirabile e dolorosa visione. La porta di casa si aperse d’un tratto da sola, e in un’aureola luminosa Gesù con la croce in spalla entrò ospite silenzioso nelle sue stanze. Camminava faticosamente senza parlare: dalla testa coronata, dalle spalle flagellate, dagli occhi piangenti grondava sangue per modo che tutta la casa ne pareva bagnata. Caterina si gettò in ginocchio esclamando: « O Amore, mai più, mai più peccati! Se bisogna, sono disposta a confessare le mie colpe in pubblico ». Voleva dir altro e la parola non le usciva, voleva piangere e non poteva: uno scroscio come di fiume cadente le rimbombava negli occhi, sotto le palpebre chiuse. Era il giorno dopo la festa di S. Benedetto del 1473. Quando vi accostate al Sacramento della confessione pensate voi che i vostri peccati sono stati la vera causa della passione di Cristo? pensate voi che quel perdono che implorate vi è concesso solo per il sangue versato da Cristo? Che fu l’agonia del Getsemani, che fu l’umiliazione dei tribunali di Caifa e di Pilato, che fu la morte in croce a liberarci dal fuoco della maledizione eterna; lo pensate voi quando vi confessate? Non si può pensare a questo attentamente senza gridare dal profondo dell’anima il grido di Santa Caterina da Genova: « O Amore, mai più, mai più peccati! ». Dite: che dolore può avere certa gente che va a confessarsi come si va all’osteria, senza pregare, senza esame di coscienza, senza riflettere che s’accosta al sangue del Figlio di Dio? Che dolore possono avere taluni che prevedendo di doversi confessare presto, accrescono il numero dei peccati dicendo: — confessarne dieci e confessarne venti è la stessa fatica? E quelli che trascinano la loro vita in un’altalena di confessioni e di peccati, e non si decidono mai, e non si sforzano mai di cambiar vita, come possono illudersi di avere il dolore dei peccati? E senza dolore non c’è perdono. – Si presentò a S. Antonio di Padova un gran peccatore per confessarsi: ma era tanto confuso che non gli riusciva d’articolar parola e dava in singhiozzi. Il santo gli disse: « Va, scrivi i tuoi peccati e poi ritorna ». Il penitente ubbidì. Poi tornò: e leggeva i suoi peccati come li aveva scritti. Appena ebbe terminato di leggere vide che dalla carta era scomparsa ogni traccia di scrittura e restava solo il foglio candido. Così sarà dell’anima nostra quando ci confesseremo con l’umiltà e con il dolore del pubblicano descritto da Gesù nella sua parabola bella. Ogni macchia di peccato svanirà dal nostro cuore e apparirà soltanto il candore dell’innocenza riacquistata. E dal Cielo Gesù che ci segue, si rivolgerà a’ suoi Apostoli ancora e agli Angeli e dirà: « Io vi dico che costui torna a casa giustificato ». Dico autem vobis descendit hic iustificatus in domum suam. L’UMILTÀ –  Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato. Essere giustificato, ottenere il perdono delle nostre colpe e poter possedere la grazia di Dio, per l’anima è cosa essenziale: sta qui tutta la vita cristiana! Ma bisogna avere l’umiltà del pubblicano, bisogna presentarsi al Signore adorno di questa virtù, coi segni di possederla davvero. – 1. COSA È L’UMILTÀ. Michelangelo lavorava per la Cappella Sistina. Doveva dipingerne la volta e da parecchi mesi, con passione indomita si affaticava attorno ai disegni. Finalmente, quando tutto fu pronto, diede inizio alla esecuzione. Saliva al mattino sui ponti e non scendeva che al calar del sole. Il lavoro presentava difficoltà enormi. Doveva starsene tutto il giorno disteso o rannicchiato sull’impalcatura, colla faccia verso l’alto. La volta era tanto vicina che spesso pareva lo volesse schiacciare. Che fatica scegliere i colori giusti! Che fatica cambiare ed intingere il pennello; quando poi lo sollevava in alto verso la volta, gli cadevano addosso le gocce di pittura che gli sporcavano tutta la faccia. Ci vollero lunghi mesi di questo martirio, ma alla fine su quelle pareti lasciò capolavori di fama imperitura. Ma almeno doveva metterci il suo nome? Dopo tanta fatica ne aveva tutto il diritto, eppure non volle. Invece del suo nome scrisse un alfa ed un omega per indicare che a Dio riferiva ogni gloria; al Signore principio e fine d’ogni cosa creata, consacrava il frutto dei suoi lunghi sudori. Cristiani, sulle nostre opere e su quello che è in nostro possesso, noi abbiamo meno diritto di scriverci sopra il nostro nome che non ne avesse Michelangelo. Fossero pure dei capolavori, come i dipinti della Sistina, noi dobbiamo mettervi il Nome Santo di Dio. L’umiltà sta appunto in questo, riconoscere i diritti di Dio su quello che noi possediamo, a Lui riferire ogni gloria ed onore. Trenta, cinquanta, cento anni fa nessuno di noi era al mondo: il Signore ci ha dato la vita! È forse un merito nostro se abbiamo salute, se possiamo lavorare, se ci sentiamo ripieni di vita? L’oggi ed il domani è nelle mani di Dio e da parte nostra non potremmo allungare di un solo minuto i giorni della esistenza quaggiù. Se poi guardassimo i beni dell’anima, vi troveremmo sopra il nome di Gesù. È scritto collo stesso suo sangue poiché la grazia e la gloria sono i frutti della sua Passione. Oseremmo cancellare quel nome divino e sostituirlo col nostro? Quid habes quod non accepisti? Si autem accepisti quid gloriaris quasi non acceperis? (I Cor., IV, 7). – 2. SEGNI DELL’UMILTÀ. S. Tommaso d’Aquino, colla sua sapienza, aveva meravigliato il mondo. Sulle cattedre delle più celebri Università del suo tempo, negli scritti profondi e chiari, dai pulpiti più famosi e affollati mostrava di avere una delle più grandi intelligenze della umanità. Un giorno, nel convento di Bologna, passeggiava sotto i portici, assorto in contemplazione. Come al solito, teneva lo sguardo rivolto al Cielo. Un frate domenicano entra allora in Convento e neppur sospettando che parlava col grande Dottore si accosta e gli dice: « Fratello, seguitemi in città! Debbo fare la questua e mi fu dato licenza di farmi accompagnare dal primo religioso che qui avessi incontrato ». S. Tommaso sorridente accetta ed è tutto felice di attraversare Bologna stendendo umilmente la mano. Ma… alle prime porte cominciano le più alte meraviglie ed il povero frate s’accorge di avere con sé Tommaso d’Aquino. Gli si butta ai piedi, gli domanda perdono e vuole subito far ritorno al convento. Ed il Santo: « No, fratello, proseguiamo per amore di Cristo. Torneremo quando avremo finito! ». Parlar di umiltà non è cosa difficile, che anzi… lo facciamo così volentieri! Ma saremmo ben stolti se soltanto per questo pensassimo di essere umili. Forse, anche quando preghiamo, noi ci accontentiamo di parole. Domandiamo al Signore che ci dia l’umiltà, ma… e perché non chiediamo che ci mandi umiliazioni? Il nome di umiltà è qualche cosa di astratto, ma se la virtù non vuol essere un nome, deve constare di fatti concreti. Sarà umile colui che ubbidisce ai suoi genitori e superiori senza discussioni di sorta, non già per servire all’occhio dell’uomo, ma soltanto per la gloria di Dio. Potrà dirsi davvero Cristiano chi dimentica che Gesù si è fatto ubbidiente fino alla morte in Croce? La vita è una lotta che bisogna vincere: ma è l’uomo ubbidiente che canterà la vittoria. Ha l’umiltà chi accetta i consigli degli altri e li segue nel suo operare. È umile davvero chi ama gli inferiori e li tratta con amore fraterno. Quando c’è umiltà il padrone vuol bene all’operaio che lavora sotto di lui; il ricco non disprezza il povero che gli tende la mano; il dotto va volentieri insieme a quelli che sono ignoranti. Non è forse vero che un po’ di umiltà renderebbe più bella la vita sociale, e ancor più dolce la vita domestica? – Non tutti quelli che vanno in paradiso han predicato il Vangelo ai popoli infedeli; non tutti hanno versato il sangue o perduta la vita per amore di Cristo; non tutti hanno la stola sacerdotale o vengono dal chiostro. Ma tutti, nessuno escluso, devono aver praticato l’umiltà perché verrà esaltato solo colui che si sarà umiliato.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XXIV: 1-3
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.

[A Te, o Signore, ho innalzata l’anima mia: o Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire: che non mi irridano i miei nemici: poiché quanti a Te si affidano non saranno confusi.]

Secreta

Tibi, Dómine, sacrifícia dicáta reddántur: quæ sic ad honórem nóminis tui deferénda tribuísti, ut eadem remédia fíeri nostra præstáres.

[A Te, o Signore, siano consacrate queste oblazioni, che in questo modo volesti offerte ad onore del tuo nome, da giovare pure a nostro rimedio.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

… de sanctissima Trinitate
:
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps L: 21.
Acceptábis sacrificium justítiæ, oblatiónes et holocáusta, super altáre tuum, Dómine.

[Gradirai, o Signore, il sacrificio di giustizia, le oblazioni e gli olocausti sopra il tuo altare.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quos divínis reparáre non désinis sacraméntis, tuis non destítuas benígnus auxíliis.

[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché benigno non privi dei tuoi aiuti coloro che non tralasci di rinnovare con divini sacramenti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (215)

LO SCUDO DELLA FEDE (215)

MEDITAZIONI AI POPOLI (III)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE IIL

L’incontinenza

Abbiamo pur gran motivo di umiliarci, quando leggiamo come ai primi tempi della Chiesa i santi Padri Cipriano, Ambrogio, il Grisostomo, Gregorio ed altri erano tutti a tessere l’elogio della più bella, della più amabile, della più angelica di tutte le virtù, la santa purità. Tempi fortunati erano quelli, in cui la purità aveva i suoi martiri, e ne aveva pur tanti! Negli antri delle catacombe nelle notturne adunanze i santi Vescovi ai fedeli « siate puri, esclamavano, accennando a Gesù nel Sacramento , siate puri, o figliuoli di questo Sangue santissimo. » E sant’Apollonia per impulso dello Spirito Santo, prima di lasciarsi oltraggiare, si slancia in mezzo al fuoco, e vola coll’anima colomba immacolata in grembo allo Sposo Divino in cielo, « Siate puri » e sant’Agata grida davanti al persecutore « tagliami il petto, o uom brutale; ma io mi serbo intemerata a Gesù Cristo! » « Strappami gli occhi di fronte, o tiranno, dice santa Lucia; ché io vedrò più pura l’Amor mio celeste. » E fino Agnese bambina, quando il giudice in rabbia per le ributtate esecrate moine la fa stringere colle manette della ladronaia; ella tirando fuori dalle manette di ferro le braccioline troppo minute, gitta quei ferri da ladri ai piedi del sozzo crudele, e « guarda, gli dice, non sono ancora adattata a’ tuoi tormenti; ma Gesù mi ha fatto atta a’ suoi trionfi » ; e consunta dal fuoco quell’angioletto di fanciulla batte l’ali diritta al Paradiso. « Siate puri, » e un santo giovane, avvinto a ghirlande di rose sopra il letto della voluttà, solleticato con terribil tentazione, si taglia la lingua coi denti e la getta in faccia alla spudorata. « Siate pure, o figliuole, » e cento e mille verginelle in sul bel mattino della vita cadevano colle teste sotto le mannaie dei manigoldi, come nelle mattine del mese di maggio cadono sotto le falci dei mietitori i fiori brillanti di rugiade, ridenti anch’esse col volto al cielo. Sentite quanto convenga guardare il pudore, o spose cristiane. Santa Perpetua giovine sposa veniva gittata nell’anfiteatro, le si aizzavano intorno i tori infuriati; e un toro gli dié di cozzo col corno nel fianco, e le ebbe squarciata la veste. La sposa cristiana, più che di quel terribil frangente, paurosa che non si offendesse il pudore, per togliersi agli sguardi procaci, subito si mette intrepida a serrarsi la veste: mentre il toro la fa balzar sulle corna! Signori, allora il popolo cristiano in mezzo alla universale corruzione aveva questo carattere, che lo distingueva, la purità. Cosicché i pagani dicevano degli antichi fedeli (come racconta uno scrittore di quei tempi): « Abbiamo scoperto i Cristiani nelle caverne in ragunate. Sono gente pazza i Cristiani! che, invece di profumarsi le membra, se le straziano coi cilizi, e muoiono di digiuno, per dare pascolo alla poveraglia; i Cristiani son gente che non sa goder piaceri. » O miei cari, se gl’infedeli dei nostri giorni ci sorprendessero nelle nostre case in mezzo agli usi della vita, potrebbero dire: che noi siamo gente pazza che non sa godere i piaceri? Ahi che abbiamo perduto ogni resto di evangelica severità! La mollezza, le sozzure, il vitupero inondano il popolo santo di Dio; e l’immondezza è portata fin nell’interno del santuario ad insultare lo sguardo di Gesù Santissimo in Sacramento! E perché va più audacemente tronfia la sfacciata impudenza dovremmo tacere noi?… Parole di fuoco sul labbro del Sacerdote di Gesù Cristo, a fulminare l’infame peccato che non nomineremo mai; perché non possiamo pur nominarlo, senza lordarci le labbra. Venite meco voi, o fratelli, ora a meditare con orrore come il brutto peccato di carne fa il peggior oltraggio alla immagine di Dio in noi, e profana in noi Gesù Cristo; e così di peccato in peccato precipita i disgraziati ché vi si abbandonano, nell’abisso di perdizione: terribile peccato in se stesso e nelle conseguenze sue, e nelle conseguenze di altri peccati. – Non temete, o venerati, che io possa fare insulto alla purità delle orecchie vostre cristiane. La mia parola sarà pura, quale debbe esser sul labbro, che tutte le mattine si bagna nel Sangue di Gesù Cristo. Ah sì Voi, Sposo purissimo dell’anime nostre, dal vostro Sacramento purgate prima di tutto questa lingua mia di terra d’ogni leggerezza di mondanità, e datemi quella parola vostra che irraggia sulle anime il candor verginale. Voi poi, o santissima Immacolata, che siete la sola gran Madre della purità, tenete ai vostri piedi noi poveri Sacerdoti, destinati che siamo, come voi col Bambino, a servirlo sempre intorno a Lui sull’altare. Noi (ci vedete nell’anima!) vorremmo farlo amare da tutti i fedeli di casto amore. Deh quando io parlo, s’accorgano questi cari vostri figli, che il mio povero cuore, benché di fango, è vicino a Voi, e che si accorda col vostro Cuore, per mettere in salvo la loro virtù dall’esecrato demonio che li perseguita. Noi intanto cogli Angioli Custodi, per terror dei brutti peccati, ci getteremo in seno a Gesù qui velato col Cuor vostro purissimo, o Maria (Ave Maria). –  Debbo trattar del più brutto peccato, spaventoso in se stesso, ma più terribile nelle sue conseguenze. Noi abbiamo un’anima capace di tendere alla virtù, e alla virtù ordinare il nostro corpo a dar gloria a Dio; questa è la dignità dell’uomo, dice Tertulliano. Abbiamo un’anima che debbe del corpo nostro regolare gl’istinti, e frenargli le vibrazioni dei sensi, perché non la disturbino nell’elevarsi a Dio: e anzi dobbiamo fare del corpo un’ostia pura a Dio piacente, crocifiggendo le passioni della carne sull’altare di Dio appiè del Crocifisso; questa è la vocazione del Cristiano. In questo santo pensiero noi abbassiamo lo sguardo sopra di voi, e nel vedervi modesti in nobile decoro di vita onorata, cogli occhi alto levati quasi in cerca di luce in cielo che vi consoli, ci vien dal cuore questo saluto a Voi: « Care speranze di Paradiso, non siete voi no, destinati a restare consunti in questo fango della terra; le vostre persone sono venerate immagini di Dio vivente, e quest’anime vostre, qui alle prove della virtù, insieme coi corpi vostri, cara porzione della nostra umanità crocifissa e risorta in Gesù Cristo, debbono essere in Lui assorte nella beatitudine in Paradiso. » Ora fare, che il corpo nostro comandi all’anima, il maltalento alla volontà, e si strascini lo spirito nelle indegne corruttele di una carne bollente in sozzure, è tale disordine, che avvilisce la dignità dell’uomo alla condizione dei bruti senza ragione: Homo, cum in honore esset, comparatus est iumentis insipientibus et similis factus èst illis. Anche le favole della superstizione dicevano, che gli uomini che si abbrutiscono nei piaceri delia carne, abbietti in vita bestiale, vengono dalla maga passione cangiati in sozzi animali; e s. Bernardo ne dà la ragione. Perocché, egli dice, se l’uomo pecca d’orgoglio, in certo qual modo pecca (sia pure da angelo cattivo), ma pecca da angelo; perché anche l’angelo poté rizzare il capo superbo contro di Dio. Se l’uomo pecca d’avarizia, pecca da uomo; perché è proprio dell’uomo poter far calcolo dei beni che può procacciarsi a danaro. Ma, se l’uomo pecca di carne, pecca da bestia, perché si abbandona all’istinto ch’è nelle bestie il più prepotente. Anzi dirovvi con velata parola con s. Giovanni Grisostomo: che almeno l’istinto mira nell’ordine provvidenziale alla propagazione della specie; e non trasmoda più in là: ma l’uomo, che ha per fine la beatitudine eterna in seno a Dio, se, lasciato Dio, fonte inesausta di felicità, si abbandona al reprobo senso, la tendenza all’eterna felicità diventa brama di carne fremente. Ei vuole che la carne gli basti per Dio, s’incoccia a voler trovare un paradiso di godimento eterno nella carne che va in corruzione: affamato in foia di carne caninamente latra, e per divorare che faccia, ha sempre più fame che prima. Come ciacco immondo, va col grugno a grufolare le immondezze, si tuffa perdutamente a gola in ogni più indegno pantano. Ahi! che la corruzione dell’ottimo si è fatta pessima!… Deh ritiriamo lo sguardo da quella ribalda sozzura! Grand’Iddio! Quale sacrilego oltraggio alla immagine vostra si fa dall’uomo brutale, che nello stemperamento di lascivie si lascia andare in tal volume di vituperi! Ma vi è un sacrilegio maggiore; poiché noi non siamo solo immagine di Dio, ma gli siamo figli rinati nel Sangue del suo Figlio: siamo Cristiani! Or che peccassero di carne i pagani, non è da far meraviglia, diceva Tertulliano: impastati di carne corrotta si abbandonavano alla corruzione: ma non dum caro Christi erant: essi non erano carne di Gesù Cristo. Quale espressione!….. La spiega col dire, che non eravamo ancora, come dice Tertulliano con tanta energica parola, impastati di Spirito Santo, come siamo noi: poiché il Verbo Divino fatto carne trasfonde in noi il Sangue ristoratore dell’umanità, e ci ricrea figliuoli di Dio, santificandoci non solo dell’anima, ma anche della carne, la quale diventa così carne della carne di Gesù Cristo. Venite a consolarvi nel vedere la Madre Chiesa con quante fine e sante cure va preparando il corpicciolo del bambino, che debbe rinascere in Gesù Cristo nel battesimo. Gli segna di croce tutte le membroline; lo consacra col sacro crisma tutto intorno alla vita; gli soffia in petto coll’alito del Sacerdote caldo del Sangue di. Gesù Cristo; gl’infonde in bocca il mistico sale, segno della sapienza di chi vuol vivere dell’incorruttibile immortalità; lo avvolge in bianca veste, come angioletto in candida nube; l’adorna della stola, simbolo dell’eterna gloria, e gli fa tenere la candela ardente al fianco, che vuol dire come debba ardere il cuor suo nello slancio in amore a Dio. È così veneranda una creatura battezzata, che il santo martire Leonida, battezzato che s’ebbe il suo fanciulletto (che fu poi il grande Origene), se lo portò a casa, e sel guardava come cosa tutta santissima. Quando il fanciullo dormiva (padri e madri, udite il rispetto, che si deve usare coi bambini dell’innocenza battesimale), si avvicinava al letticciuolo, gli scopriva con venerazione il petto, gli s’inginocchiava al lato, e diceva « tempietto dello Spirito Santo, tabernacoletto del Dio vivente, io adoro in te Gesù Cristo, che in te abita personalmente » e davanti al fanciullo battezzato si faceva il segno della croce, come davanti al Santissimo! Noi adunque col Battesimo fummo consacrati tempi di Dio in anima e in corpo. Ora ben vedo io in questa bella Chiesa vostra, in quegli splendidi ori, in quei magnifici drappi, quanto voi amate l’onor del luogo santo. Siate benedetti! Ma dite: se in questo momento uno sciagurato invaso dal demonio del sacrilegio entrasse in questa augusta magione di Dio, e qui, sugli occhi vostri, buttasse il fango contro le pareti sacre, gettasse le immondezze, ahi! fino sull’immagine della santissima Immacolata e sul Crocifisso, tanto cari alla vostra pietà; dite voi, qual non v’infuocherebbe furore di sdegno contro quel maledetto? — Bene! ma ragionate per poco: è più santa questa chiesa, od è più santo il vostro corpo? Si veramente queste sono mura consacrate coll’olio santificato dal sangue di Gesù Cristo; ma esse poi sono mura morte; ma voi siete tempi vivi, consacrati dello Spirito Santo che in voi abita personalmente. Dite in vero ancora: è più santa l’immagine di Maria santissima, e il Crocifisso, od è più santa la vostra persona? Ma queste venerate immagini sono d’insensibile e morto legno: ma voi, vergini e spose cristiane, siete immagini vive dell’Immacolata Vergine Madre, e voi, fratelli, siete immagini vive di Gesù Crocifisso. E vi sarà chi vorrà gettare le immondezze del brutto peccato sopra le immagini vive di Dio che siamo noi? E chi sarà così protervo che osi mettere la mano immonda sopra le vergini e spose, immagini di Maria Santissima? Voi pure inorridite al sentire che un ladro mise la mano sugli ori e sulle gemme della Madonna nei santuari! e fino sui sacratissimi vasi dell’altare! Ora, se poteste sorprendere il ladrone sacrilego nella sagristia nell’atto che rompe i forzieri, tira fuori il calice, l’ostensorio e la pisside; anzi lo vedeste che con maggior sacrilegio corre fuori sopra la via ad empire i santi vasi delle sozzure di strada…. Ah che già vi sentite furiosamente indegnati! Voi vi gettereste sul mal capitato ladrone, e vel dico io, come l’acconciereste , neh!… Ma or via, perché tanto furore?… Voi mi rispondete « ma quei vasi toccarono nella specie il Corpo, il Sangue di Gesù santissimo! » Bene sta; e voi non avete mai osservato, come il Santissimo tocca solamente i vasi sacri, vi passa sulla superficie; ma non si mischia coll’oro e coll’argento! Ma nelle nostre persone entra proprio il Corpo di Gesù e ci compenetra nelle nostre carni, il Sangue suo si mischia col nostro sangue: e noi oseremo pigliare questo corpo nostro incorporato col Corpo di Gesù, per farne esecrate oscenità, e verseremo in vitupero il sangue nostro così consacrato!….. Inorridite! Ma vi è da fremere pel sacrilegio ancor più tremendo. Mi trema l’anima nell’addentrarmi in questi orrori! … Voi sapete, come nella frenesia del fanatismo protestante, gli eretici indemoniati, atterrate le porte a colpi di scure nelle nostre chiese, si slanciarono dentro nei penetrali del santuario ….ruppero i cancelli del santo dei santi…. infransero la porticella del sacro ciborio…. misero l’orribile mano sulla pisside sacratissima, e trattala fuori dal tabernacolo, versaron per terra…. mi manca l’animo !…. Ah, nostro buon Gesù, anche questo insulto!… perché volete restar qui con noi?… Piangiamo insieme all’adorabile suo Cuore!… Ma deh! che noi dobbiamo fremere egualmente per l’orror di un brutto peccato nelle nostre persone; e vorrem dire che ci pare simile sacrilegio: Poiché, dice s. Paolo, noi formiamo un sol corpo con Gesù, e siamo come le sue membra. Ed ahi piglierò un membro di Gesù Cristo, e lo farò membro di una infame creatura venduta al peccato? Tollam membrum Jesu Christi et faciam membrum meretricis!… È orrendo troppoil sol pensarvi! – Perciò vengono appresso come conseguenze propriedei peccati di carne, la perdita delle più caresperanze delle famiglie e la perdita della fede. Si, sì, lo Spirito di Dio si ritira da una carne,si lascia andare nella via della corruzione: ed allora perdute le più belle speranze, perduta la fede,il disgraziato, sgocciolante in sozzura d’abisso inabisso precipita nel baratro della disperazione, seDio non lo salva ancora.Diciamo che van perdute le più belle speranze;e le più care sono nei nostri giovani, che con tantoamore coltiviamo nelle famiglie. Avviene a noi comeal tradito giardiniere, che coltiva con ogni più finacura una pianticella preziosa che la primavera mettefiori e fiori. Al vedere quei rami brillanti di fiori,egli si aspetta abbondanza di frutti che gli consolila vita. Passa la bella stagione, non è fiore maiche leghi; e non vi restano che foglie. Cerca cercail perché, e trova alla ceppaia nel coletto vitale unverme, che corrode l’’alburno e consuma il sugoche dà frutta. Genitori, anche voi vi vedete fioriredinanzi gli amati figliuoli, con quegli occhi, in quegliaspetti più eloquenti di ogni più eloquente parola;e voi, o madri, siete le prime a compiacervene:e se li menate con frequenza ai Sacramenti, i giovanetti, irrorati di grazie celesti, finché restano devoti,vi fanno gustare in casa i profumi del paradisoterrestre. Ma, se una brutta biscia di maligna compagnasi avvinghia alla vita di quel fior di fanciulla;se lasciate per poco vi serpeggi intorno un seduttore….ve’..,! che getta via il libro di divozione..va sfrontata in chiesa, alterata in casa; morde come una vipera la madre: pallida come la morte, con un romanzo nelle mani, si consuma in sospiri; e se diventerà sposa quella bizzarra, colla matta poesia d’amore in corpo, la sarà una disgrazia per una famiglia! Ma chi guastò questo fiore di soavi speranze? È un verme schifoso ingeneratole in seno dalla serpe compagna! Se poi un tristo amico è ai panni del giovane vostro, se colla malizia gli guasta la vita nel suo germoglio, egli resta guasto per sempre. Eccolo già pauroso d’aspetto, lo sguardo incantato, luride macchie sul volto, penzolone il labbro, incapace al sorriso dell’affezione. Il meschino! spenta la vivacità, perduta la memoria, ora è inetto agli studi, snervato nei lavori: guarda come una prigione la casa, ulula come il mal augello lungo le vie di notte; si butta ai giuochi, ai teatri, alle osterie, alle orge; va a gettarsi fin nelle tane.. Ahi diventa un nemico di Dio, perché i brutti vizi fan perdere poco a poco la fede. Lo Spirito Santo ce l’assicura, che uno stolto ha detto: « non è vero che vi sia Dio. » Ma chi è, dimanda sant’Agostino, questo pazzo da catena che nega Dio? Forse fu egli, il frenetico, che creò questo ammirando universo? Eh leggete, commenta il santo, leggete: ché lo spirito del Signore ci dà la ragione di tanto abborramento: corrupti sunt, abominabiles: facti sunt in studiis suis: sono questi che si sono guastati, che divenuti abominevoli nelle lorobrame, vanno in foia frenetica fino a negar Dio,perché lo guardano come un nemico che a loro disputale agognate soddisfazioni. E per vero il primopasso all’empietà è il cattivo costume. La storiaè li ad attestarlo. « Io lessi, disse l’uomo della piùprodigiosa memoria, il grande Pico della Mirandola,tutti i libri che potei (e la sua biblioteca è una dellepiù ammirande in Roma), e posso assicurare chegli atei sono tutti gentame di mala vita. » È questoun gran fatto negli annali del mondo, che la guerrasistematica e poi continua, continua contro alla solaReligione cattolica cominciò d’allora che il Vangeloportò sulla terra la purità. È d’allora che la bordaglia dei corrotti asserragliossi fremente intorno alla Chiesa per cacciar Gesù Cristo dal mondo, se lo potesse. Questa è la bella gloria della Chiesa, che tutti i nemici che la combatterono e la combatteranno sempre, sono e saranno sempre un’accozzaglia di uomini di costumi indegni, dai primi eretici, cioè dagli gnostici e simil lordura, che nelle orge notturne in ridde infernali sacrificavano al demonio del vitupero nelle più esecrande sozzure, fino ai capi delle presenti e future eresie. Lutero, il bel padre dei protestanti! imprecava con atra bile al Sommo Pontefice in questa infernale bestemmia: « Che?… Voglio ben io purificare la Chiesa….. a me! a me! che monterò sul triregno del Papa!…» Ora questo frate lucifero ve’ in qual putridume è caduto! Per purificare la Chiesa licenzia a donne i religiosi sconsacrati; strappa dagli altari le vergini dedicate a Dio, le getta sulle piazze, e piglia a mogliera la sozza smonacata Catterina Boré.. Eh! guarda guarda, dice Erasmo con frizzo schernitore, come la gran commedia della Riforma finisce col matrimonio universale degli sconsacrati che avevan giurato la castità. Calvino tenta elevarsi sopra il maestro; ma ripiomba nell’istessa putredine, e resta ad infamia bollato per esecratissima laidezza. – Sempre fino ad ora così. E noto che uno scomunicato di prete scriveva un libercolo contro la Confessione; ma l’empio ne rendeva al mondo la vera ragione: egli viveva con una cotale, e non è molto moriva in Torino al fianco alla schifosa serva con una scurrile bestemmia in bocca! Un monaco vituperato al nostro tempo va a far guerra alla Chiesa ed all’Episcopato in Inghilterra: ma fuggito di Svizzera è processato in Italia per donne tradite. Ieri un altro sconsacrato predicava contro la purità del sacerdozio; ed uno schifoso cialtrone in sottana abbaiava arrabbiato sulle piazze di Torino ed in altri luoghi contro il Papa ed i Sacerdoti, a tutti in ribrezzo; ma questi due se la fanno colle lupe nelle tane, a rinfuocarsi nell’apostolato dell’empietà. Ma sentite oggi uno smonacato che fa guerra alla verità di Dio nel sommo Pontefice, che la rappresenta infallibile; sentitelo come con un’impudenza schifosa pubblica colle stampe, che egli, se volle tradire i voti, la religione e Dio, è per giurare ad una indegna donna esecrati amori! Via là ché così almeno copre lo scandalo dell’apostasia col fetore della sozzura, che lo fa ributtare da tutti! Ah non rimescoliamo questo immondezzaio; poiché di questo fango ne vedete fino nelle vostre contrade. Quando nella famiglia vostra un azzimato narciso, cadente di smorfie, consunto di brama, si avvicina alle vostre spose e fanciulle, egli insulta subito la loro devozione, e le schernisce, perché usano ai Sacramenti; e ride fin dell’inferno: credete a me, ch’è giusta la regola dei naturalisti colla quale osservando un augellaccio del becco adunco, della larga bocca, che manda puzza e fa il brutto verso, gli guardano sotto gli artigli, ed ha gli adunchi unghioni come di ferro, dicono subito: è un sozzo carnivoro. E voi, mariti e madri, affrettatevi di portargli via d’appresso le vostre colombe, perché non le strazi quel brutto augellaccio…. che mangia la carne… E poi ve’ ve’, che tutti questi immondi si dan l’aria d’alteri increduli, e non sono che bavosi ranocchi che ingozzano melma! Gran Dio santissimo! eccovi chi vi fa guerra. Almeno a fare guerra al falso dio Giove furono i giganti che misero le montagne una sopra l’altra, dice la favola. Ora più che giganti, son questi sconci pigmei, anzi vermi che guizzano in brago, che schizzando veleno fetente, vorrebbero oscurare il trono dell’eterna vostra gloria. – Ma finalmente, come si perde la fede nel brutto peccato, così esso manda a male ogni virtù. Dobbiamo tremare; perché non vi è santità che possa vantarsi di tenersi sicura. Davide era gran santo; ma egli fermossi a guardare una creatura in un brutto cimento; e Davide dopo di aver parlato con Dio, si lascia andare…. diventa omicida e peggio….. Avviso a voi, accioché non confidiate nella pietà vostra, né vi affidiate a persone, che l’allettamento della virtù rende più terribilmente pericolose. Non vi ha sapienza che possa gloriarsi di non andare tradita da certe lusinghe. Salomone era l’uomo più sapiente del mondo; ma Salomone, dopo che gli era apparso pur Dio a comunicargli della divina sapienza, apostatò per le donne infedeli che gli fecero adorare idoli indegni. Avviso a voi che confidate nella vostra accortezza, e state sicuri che non vi lascerete ingannare. Uno sguardo, una lacrimuccia gettò in catene e fece dare in pazzie tanti e tali sapienti… che non vi dico io! Non vi ha forza, che possa bravare di non avere paura. Sansone era tanto forte che sbarrò le porte della città, e se le portò sul monte in ispalla a dileggio dei Filistei; ma Sansone passa la veglia presso una fanciulla una sera, poi un’altra sera, poi nell’altra sera ancora; le si affida; e la scaltra gli taglia i capelli, gli cava gli occhi, lo dà legato a scherno dei Filistei; ed egli muore in mezzo di loro. Avviso a voi che trattate, avviso a voi che lasciate trattare le fanciulle per tante ore in tanto pericolo, fino di notte…. Avviso a tutti, perché noi non siamo più santi di Davide, né di Salomone più saggi, né di Sansone più forti (dice s. Gerolamo). Ulula abies, quia cecidit cedrus: caddero quei grandi! Quando certo vento furioso sradica i robusti cedri, che tanto si sprofondano di radici sotterra, quanto elevano i rami fino alle nubi, le pianticelle di pioppo si abbassino a terra, se non vogliono restare sverzate… Deh! se ci son care le nostre persone, noi non abbiamo che due mezzi per poterle salvare: ciò sono fuggire i pericoli, e ripararci in seno a Gesù Cristo nei Sacramenti, e tra le braccia a Maria in divozione. Se il brutto demonio ci sorprende all’abbandonata, egli alla malora ci rompe addosso con sette diavoli a tutta prova, e d’abisso in abisso ci strascina in perdizione. Gesù Cristo ne avverte, che, se il demonio dei brutti peccati coglie alla sprovveduta un’anima che sia stata pura, vi mena dentro i sette diavoli a far riddone. Al demonio della carne viene compagno il demonio del turpiloquio, il demonio dello scandalo, quello del tradimento, e quello della distruzione, il demonio dell’omicidio, quello del sacrilegio, ed infine il demone della disperazione. Diciamo, che il brutto peccato mena seco il demonio del turpiloquio, il diavolo mal parlatore, il quale come una serpe maligna, col fiato ammorba, colla bava avvelena e colla lingua dà la morte. L’uomo guasto di cuore mescola sempre nella bocca bavosa avvelenate parole: e negli scherzi maliziosi, negli osceni discorsi agita la lingua invasata per ferire da ogni lato il santo pudore. Genitori, cacciate gl’immondi dalle vostre case, se vi sono cari i vostri figli. Oh dite voi: se vi entrasse in famiglia un indemoniato furioso, e menasse giù colpi alla cieca, e dicesse che fa per divertirsi; e qui con un crudo colpo tagliasse il volto ahi! all’avvenente fanciulla, di lì troncasse un membro, e la gettasse a terra con una piaga fitta nel corpo il bel giovinetto, voi non vi scagliereste addosso al maledetto omicida?…. Deh! quando sentite dire brutte cose, sorgete sdegnati, serrate in gola all’assassino delle anime le avvelenate parole. Egli fa un’orrida ferita in quell’angioletto di bella innocenza, e la vostra figlia, che resta guastata in malizia per sempre: egli coll’insegnare un brutto peccato corrompe nel germe la vita del giovinetto, e lo colpisce di piaga schifosa, che diventerà forse cancrena da non potersi sanare mai più. – Mena seco il demonio dello scandalo, il più pericoloso, perché sa pigliare mille forme a tradir sempre. Ora invasa una donna vana, ed essa col suo demonio in corpo immodestamente vestita porta gli scandali fin dentro le sante chiese sugli occhi stessi degli angioli di Dio. Nei libri se invasa la storia, rimescola il putridume già sepolto, per ammorbare e presenti e futuri, come ammorbò i passati: nei romanzi cambia le tinte, camaleonte sempre da schifo per tutti ingannare: della letteratura e dei giornali fa un immondezzaio; e dei. teatri, infami bordelli. Se avvicina una fanciulla, la artiglia: se mette la mano su di un figlio, egli è perduto: se col tiranno bisogno incatena una meschinella, la tiene legata nella tana, e ne fa esca velenosa da dar la morte; che se poi corrompe un grande, ammorba una intiera nazione… Così gli scandalosi con una smania infernale perseguitano il pudore in ogni luogo… La povera innocenza è come il grazioso pesciolino detto angel del mare per la sua bellezza. Egli dalle squame colore di rosa, dalle carni delicatissime, non ha dove possa fermarsi. Se guizza in alto mare, il pesce cane l’ingoia: se cala nei bassi fondi lo soffoca la melma: se costeggia le spiagge, l’arraffa l’orrido granchio: se rade gli scogli, il polipo delle lunghe braccia l’attrappa: se vola fuor d’acqua, lo sparviero procellario gli piomba alla vita. No, no: noi non possiamo ormai più salvarvi in questo mare d’immondezze, se voi, cari figli, non vi cercate da voi stessi lo scampo solo in seno a Gesù ,nel Sacramento, e tra le braccia della Madre della purità, la Madre nostra Maria. E per vero il demonio degli infami peccati mena seco il demonio del tradimento. Bella gioventù: tu folleggi ingenua pei prati dei piaceri, e ti pare tiranno chi mira a tenerti in guardia lontano dai pericoli. Vieni a vedere l’incauto usignolo! Anche quell’augelletto in mezzo al prato scherza tra i rami della pianta, che mette fiori: gorgheggia allegro, e tempra l’armonia del canto coll’aere d’aprile, che gli ride d’intorno, e bacia il venticello, che gli accarezza le piume, geme e sospira; sospira!,.. poi si sfoga repente in fuga di trilli. Ma al piede dell’albero, sotto il fogliame si appiatta la serpe, che apre la bocca tra l’erbe, guizza la lingua a Spire a mo’ di vermicello, e fischia per richiamo all’augellino. Ei vola giù ad imbeccarlo… Ah! due occhi di brage gli fanno paura: fugge stridendo, e ciancia per l’aere, e si querula del tradimento. Va, che sei salvo ancora. Ma il boccone l’attira: fa la ronda, svolta…; e via…. Ma il fascino l’insegue, e torna svolazzando tra il cespuglio e l’arboscello, casca languido tra l’erbe, l’ali dimena e la coda; poi su tra i rami librasi ancora, guarda al verme…. pigola, geme, tremola, tremola, e vola in bocca al serpe… Ahi! stride l’usignuolo, tenta sfuggire, ma la biscia si alza indragata, e dall’orrida bocca misto alla bava gronda il sangue del divorato augellino. Fanciulle, vi fa spavento? L’usignuolo siete voi! E voi, o giovani….. vel dico io, che m’intendete. Eccovi dove vanno a finire le avventure d’amore! E ricordatevi tutti che, se d’Adamo in qua i pesci si sono presi cogli ami, ora poi vi è gran progresso nel sapere adattare le fogge degli ami alla bocca di tutti. Per prendere i pesci di carne grossa si getta un boccone di carne che manda fetore; e il pesciolone abbocca e resta preso dall’uncino alla gola. Così da una carne avvelenata si dà sovente la morte all’anima e al corpo ai peccatori più sozzi. Per prendere pesci più buoni si veste l’amo di un vermicello, che a mezza vita infilzato, si contorce nell’onda; e il buon pesce resta preso al palato, come anche per certe donne oneste certe offerte e regalucci e favori e servitù sono segni di una castità che va a morire, seppure non è già morta come dice s. Girolamo. Ma per pesciolini più delicati si veste l’amo a mo’ di un moscherino di ciniglie di colori cangianti, col fil trasparente si fa danzare nello specchio dell’acqua: il pesciolino la sfiora guizzando, e spruzza d’intorno come perline le gocce illuminate dal sole, si rituffa, poi dimena la coda, agita le pinne… e guizza al moscherino… Ve? la canna lo balza in aria e mostra il ventre inargentato al sole, e muore con un palpito in mano al pescatore. Con ciò vogliamo dire, che certe occhiate e moine e sospiri di alcuni svenevoli, sono di perdizione e che certe creature tradirebbero fino gli angioli in carne. – Ho detto che mena seco il demonio distruggitore della pace della famiglia. Guai se entra tra marito e moglie il demonio dell’infedeltà! mena esso seco il demonio della guerra in casa, e della distruzione della famiglia. E non sentite, o. fratelli, un ruggito?… E la belva infernale del divorzio, che adocchia il momento in cui una nazione sia corrotta abbastanza, per slanciarsi a distruggere le famiglie. Già la Prussia e l’Inghilterra invano tentano frenarlo: rotto il ritegno del Sacramento del matrimonio, essa è già dentro a straziarle. Ecco perché il demonio vorrebbe fare unioni, che dicono matrimoni senza Sacramento. Intanto, mentre il voto della castità da questo mondo senza amore raccoglie tanti, che non sì conoscono fra loro, e forma care famiglie di fratelli e sorelle di un cuor solo nei monasteri, il laido demonio distruggitore gettò all’abbandonata tanti infelici che si credono liberi perché non si maritano. – Meschini! Alcuni pensano che l’amore si compri a danaro dalle perfide, che li tradiscono, per chi più le paghi. Così senza affezioni di famiglia, senza consolazioni di parenti vanno vagolando nella società, come nello spazio certi areoliti infuocati, slanciati fuori dalle orbite dei pianeti, i quali dove cadono abbruciano, e mandan fetore di zolfo, né si sa in qual regno della natura classificarli. Povero scapolo! troverà la pace nelle osterie e nei caffè, che sono le sue case senza tenerezza? No; ché dalle invetriate dei caffè delle sale dei piaceri forse travede per la piazza un monello mezz’ignudo, educato per le carceri che manda maledizioni a chi contro le leggi dell’onore gli diede la vita, e contro la legge della natura non gli fa da padre! E le maledizion del sangue fan sempre male al cuore!… Il mal demonio li perseguita dappertutto, né giova cercar la pace in calcolatrice scaltrezza, in un matrimonio di convenienza ad una certa età, dopo di aver tradito forse una giovane incauta. Perché fino nel torbidi sonni nella camera nuziale gli appare uno spettro colla faccia ingiallita, coi capelli rabbuffati. È la figlia tradita che piglia dal seno una manata di nero sangue, e glie la getta in volto, per funestargli l’affezione maritale. Va, disgraziato! Ti sei riso dei traditi amori: ma il demonio struggitore del bene dell’anima ti insegue a funestarti fino l’agonia. Allora.., quando benedirai morendo i fanciulli del tardo matrimonio, che abbandoni col cuore lacerato ancor bambini, cupa una voce ti griderà: ma i tuoi figliuoli sono tutti qui?… Sono tutti qui?… – Ma ecco che vien appresso il demonio dell’omicidio, che agogna tuffarsi nel sangue umano. Fino le favole antiche dicevano che fu un pazzo di re pastore, che rubò una donna; e che quel pazzo attirò tutti i guerrieri di Grecia a distruggere il gran reame di Troia. E la storia antica ricorda che fu Taide, la svergognata famosa, la quale dal meretricio amplesso di Alessandro corse colla fiaccola alla mano come una furia a dar l’incendio che ridusse la capitale della Persia in una montagna di cadaveri e di rovine. Ah lo dice pur bene il Vangelo, che al più sant’uomo del mondo, al Battista dal sozzo Erode fu troncata la testa, perché una laida donna voleva saziarsi di quel sangue in una festa da ballo! La storia moderna poi segnala all’orrore di tutti il traditore della Chiesa Enrico VIII, che inferocito dall’osceno demonio non rifiniva mai di tagliare le teste alle proprie mogli per mutare pascolo alla insaziabile brama. Eh che dal diluvio universale, che affogò tutta la carne umana marcia in peccato, alle fiamme che abbruciarono le cinque città infangate d’orrende carnalità, fino alle creaturine spente prima di aver veduto la vita, e fino ai molti duelli e suicidi moderni è il sozzo demonio che diguazza nel sangue! Guai alle nazioni che si affogano nelle immondezze! In quel putridume cadono i troni dei re! E, signori! Allora sull’altare di Gesù, Dio del santo amore, s’innalza da adorare una druda oscena. Per quest’orrido dio gli apostoli sono gli assassini: pel coro delle vergini, le petroliere le Taidi d’adesso lupe dei bordelli, furie d’inferno: per sacerdoti, i boia dell’internazionale: e pei sacrifici i milioni di uomini che agognano sgozzare. Vi è da tremare per noi! – Il demonio del brutto peccato mena seco nell’anima il demonio del sacrilegio. E non vi accorgete che fa riddone infernale nelle chiese intorno alle processioni, ad insultare Gesù fino sugli altari, a morderlo nelle sacrileghe comunioni, e fino ad abusar del Sacramento santissimo in…. Maledizione all’orrido sacrilegio che non si può nominare! Gesù nostro! fuggiamo da quei luoghi dove la bordaglia dei sozzi indemoniati non contenti di andar sfrenati pei teatri, in mezzo alle città, in tante case o tane di vizi, vi portano fin nelle chiese il sacrilegio sui sacratissimi occhi vostri in Sacramento, fin nell’ora che spandete sui vostri fedeli col vostro Cuore, le sante benedizioni! Ah fratelli! pur troppo Gesù sì ritira, come si ritirò dalla Turchia, quando la civiltà si tuffa nel più orrendo pantano di vizi. Gesù più di tutto aborre dai civili bordelli, e preferisce le capanne dei selvaggi, ed ha più cari i popoli barbari delle Americhe, dell’Australia, del Nord, dei mari ghiacciati, che abitano cogli orsi marini, anziché l’accozzaglia ammorbata di viziosi eleganti. Tocca a voi tanto buoni, a fermarlo qui colla purità dei vostri costumi, o figlie di Maria, o giovani uniti in devoti consorzi, o caste spose, buona gente del popolo: voi costringetelo a rimaner qui. Siete puri, l’otterrete. Mane, Domine! Mane, Domine! Finalmente l’osceno demonio mena seco troppo sovente nell’anima il demonio della disperazione. – Sentite caso terribile ed inorridite! Ve lo racconto quasi con tutte le parole del padre Segneri. Un cavaliere sordido di costumi si teneva in casa una fanciulla a libidinoso trastullo. Se alcuno gli parlava di licenziarla, ei se lo levava d’intorno con un disdegnoso: non posso. Però venne la morte a distaccarlo. Si ammala lo sciagurato, si abbandona, sì colca; ed essendo già il male dichiarato pericoloso, viene un Sacerdote per prepararlo a quel passo estremo… Con accorta carità sì ben lo dispone, che l’infermo gli risponde, che, quantunque egli abbia menato cattiva vita, desiderava di sortire una buona morte con una santa Confessione. Pigliato tanto animo, il buon religioso avrebbe voluto venire al ,taglio di quella pratica scellerata, che con cordoglio e stomaco eguale vedeva nella camera stessa del moribondo, il quale la voleva sempre efficacemente vicina: ma la prudenza gli persuase di andarlo disponendo prima con richieste più facili. E come pareva pronto a far tutto « Non volete, gli disse per ultimo, ricevere i Sacramenti, come conviensi ad un buon Cristiano? » « Volentierissimo li riceverò, se voi, o padre, vi compiacete di amministrarmeli…. » « Ma sapete pure che questo non sì potrà, se prima non licenziate da voi quella giovane. » « Oh questo, padre, non posso! » « E perché non potete? e potete, e dovete, signor mio caro, se volete salvarvi! » « Io dicovi che non posso. » « Ma non vedete che tanto vi converrà partire da lei fra breve per necessità? Scacciatela adunque per elezione. » « Non posso, padre, non posso! » « Come! ad un Dio crocifisso che ve lo chiede, è Maria nostra Madre che l’aspetta?….» « Non posso, non posso!» « Ma voi non parteciperete dei Sacramenti! voi perderete il cielo!… » « Non posso! » « Ma voi precipiterete nell’inferno! » « Non posso! » « È possibile, che io non debba cavarvi di bocca altra voce? Meschino! perderete la donna, la riputazione, il corpo, l’anima, i Santi, la Madonna, Gesù, e il paradiso e così farete una morte da scomunicato, e sarete sepolto da bestia! » Allora quello svergognato, gettando un crudo sospiro, tornò ancora a replicare: non posso! non posso! — Afferrò improvvisamente la perfida per un braccio, e con volto angoscioso, con Voce alta: « Questa, proruppe, è stata la mia gloria in vita, questa è la mia gloria per tutta l’eternità! » Quindi con forza stringendola, ed abbracciandola, tra per la veemenza del male, e l’agitazione dell’affetto esalò sulle sozze braccia, l’anima disperata. Oh miei cari fratelli! E troppo vero che i brutti peccati di carne sono il peggiore oltraggio all’immagine di Dio che siamo noi. Sono un sacrilego insulto alle membra di Gesù Cristo, e sono cagione di tanti altri rovinosi peccati: poiché l’orrido demonio, che spinge a quegli esecrati delitti, trabocca gl’infelici in tutti i vizi, e li subissa nell’inferno. Deh! salviamoci tutti in seno a Gesù nel Sacramento. Nella santa Comunione mette Gesù dentro di noi il suo Sangue, che fa diventar pure le nostre persone, fa palpitare il cuore in purità. Nelle tentazioni chiamate Gesù e Maria! e sempre Gesù e Maria, che vi hanno da salvare.

LA GRAZIA E LA GLORIA (9)

LA GRAZIA E LA GLORIA (9)

Del R. P. J-B TERRIEN S. J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO II

LA NATURA DELLA NOSTRA FILIAZIONE ADOTTIVA. – IL PRINCIPIO COSTITUTIVO CREATO, VALE A DIRE LA GRAZIA SANTIFICANTE CON LE VIRTÙ ED I DONI.

CAPITOLO III

La Grazia creata secondo gli insegnamenti dottrinali dei Concili e dei Sovrani Pontefici.

.I. – Questi insegnamenti, che non devono mai essere persi di vista quando si tratta di questioni così delicate, confermano sotto ogni aspetto la dottrina esposta nei capitoli precedenti. Ascoltiamo, prima di tutto, il grande Concilio di Trento. Sarebbe difficile leggere qualcosa di più decisivo sull’esistenza della grazia abituale, cioè di una forma permanente, il fondamento e la ragione della nostra filiazione divina, il termine formale della generazione nell’ordine divino, come la natura è il termine formale della generazione nell’ordine della paternità comune. È nel settimo capitolo della Sesta Sessione che il Concilio afferma la sua dottrina. Ma per comprenderlo appieno, è necessario fare un’osservazione importante: la giustificazione di cui parla il santo Concilio e la filiazione adottiva, sono la stessa cosa. Adottarci è giustificarci: il Concilio lo insegna chiaramente nel terzo e quarto capitolo della stessa sessione. Dopo aver riportato le parole con cui l’Apostolo ci invita a rendere eternamente grazie a Dio Padre per averci salvato dal potere delle tenebre, chiamati alla sua luce meravigliosa e fatti entrare nel regno del Figlio suo diletto (Col. I, 12, 13), esso aggiunge immediatamente: « Queste parole ci insinuano la descrizione della giustificazione dell’empio: è come un passaggio dallo stato in cui l’uomo nasce figlio del primo Adamo, allo stato di grazia e all’adozione dei figli di Dio da parte del secondo Adamo, Gesù Cristo nostro Salvatore » (Conc. Trid., Sess. VI, c. 4). – Quindi, se vogliamo sapere cosa, secondo il Concilio, renda i figli adottivi, chiediamogli la causa intrinseca e formale della giustificazione. La risposta si trova nel capitolo successivo dello stesso Concilio. Esso afferma: « Queste sono le cause della giustificazione. La causa finale è la gloria di Dio e del Cristo e la Vita eterna; la causa efficiente, è Dio che nella sua misericordia ci lava gratuitamente, ci santifica..; la causa meritoria, il Figlio unico e diletto di Dio, Gesù.-Cristo Nostro Signore ….; la causa strumentale, il Sacramento del Battesimo… – Infine, l’unica causa formale è la giustizia di Dio, non quella giustizia con cui Dio stesso è giusto, ma la giustizia con cui ci rende giusti; cioè, questa giustizia ci rinnova anche nel profondo dello spirito, quando è infusa in noi interiormente: così che non siamo solo reputati giusti, ma siamo in realtà giusti, per la giustizia veramente ricevuta nelle nostre anime… « Demum, unica formalis Causa est justitia Dei, non qua ipse justus est, sed qua nos Justos facit, qua videlicet ab eo donati renovamur spiritu mentis nostræ; et non modo reputamur, sed vere justi nominamur et sumus, justitiam in nobis recipientes….. ». – Due righe più avanti, il Concilio aggiunge nello stesso capitolo: « È vero che giusti sono solo coloro ai quali sono comunicati i meriti della passione di nostro Signore Gesù Cristo; ma questo vale anche per la giustificazione degli ingiusti, quando per il merito di questa santissima Passione, la carità effusa dallo Spirito Santo nel cuore dei giustificati diventa inerente a loro. » Lungi dal diminuire il significato di queste formule, l’undicesimo canone, che risponde al nostro capitolo, le conferma: « Se qualcuno pretende che gli uomini siano giustificati o dalla semplice imputazione della giustizia di Cristo, o dalla semplice remissione dei peccati, ad esclusione della grazia e della carità che viene riversata dallo Spirito Santo nei loro cuori, e diventa inerente ad essi; oppure che la grazia che ci giustifica sia un puro favore di Dio, sia anatema. » – Nel XIV secolo, un Concilio ecumenico, quello di Vienne, aveva già emesso un notevole decreto sulla questione che ci riguarda. Clemente V, il Papa allora regnante, lo promulgò come segue: « Per quanto riguarda l’effetto prodotto nei bambini dal Battesimo, si trovano diverse opinioni tra i teologi. Alcuni hanno pensato che la virtù del Battesimo rimetta la colpa originale ai bambini, ma non conferisca loro la grazia; altri, al contrario, affermano che, oltre al perdono della colpa originale, essi ricevano la grazia informativa e le virtù infuse, quanto all’abitudine, ma non quanto all’atto, almeno per un certo tempo. Per noi, considerando l’efficacia universale della morte di Cristo che, attraverso il Battesimo, si applica ugualmente a tutti i battezzati, scegliamo, con l’approvazione del Concilio, la seconda opinione secondo la quale la grazia informante e le virtù sono conferite nel Battesimo agli infanti, non meno che agli adulti; la scegliamo come la più probabile e la più conforme agli insegnamenti dei Santi e dei Dottori moderni di teologia » (De Summa Trinit. et cath. fide, apud Denzing. Enchirid., n. 411). – Come prova che questa dottrina sia veramente, come afferma il decreto, basata sulla tradizione dei Santi, si potrebbero citare tra le altre queste rimarchevoli parole di Sant’Agostino: « Al Battesimo, i bambini ricevono in uno stato latente lo stesso principio di vita che più tardi si manifesterà con le sue operazioni quando saranno adulti. lllud autem eis datur principium vitæ, quarmvis latenter, quod in adultis prorumpit in actus ». De peccat. merit. et remiss., L. I, c. 2). Come abbiamo detto, questo decreto merita tutta la nostra attenzione. Vi vediamo, prima di tutto, che anche al tempo di Clemente V, l’infusione negli adulti battezzati di una grazia informante, assolutamente diversa dalle operazioni soprannaturali e dai tocchi di Dio sull’anima, era universalmente ammessa nelle scuole teologiche, poiché la controversia e la decisione che la conclude, riguardano solo i bambini. Inoltre, il termine “grazia informante” ci spiega in anticipo il significato delle parole « causa formale » usate più tardi a Trento. – Senza dubbio, di fronte ai riformatori che negavano qualsiasi rinnovamento interiore, qualsiasi santificazione positiva, il santo Concilio afferma soprattutto il rinnovamento ontologico e reale che ha luogo nell’anima del giustificato. Ma il significato naturale e completo dei termini va oltre. Precisando, per così dire, la natura del rinnovamento che esso insegna, il Concilio lo fa consistere in un’elevazione non solo immanente ma permanente; diciamo la parola, anche se i Padri di Trento non l’hanno usata, in una qualità fisica intrinseca inerente, infusa, dalla quale risulta un nuovo essere, l’essere di figlio di Dio (Conc. Trid…. Sess. VI, capp. 7, 10. 14, 16; can. 32, ecc,1). – Ne abbiamo come garanzia il Catechismo del Concilio, al quale l’approvazione del Papa S. Pio V ha dato tanta autorità nella Chiesa. « La nostra anima – esso dice – in virtù del Battesimo è riempita di grazia divina che, rendendoci giusti e figli di Dio, ci costituisce per lo stesso mezzo eredi della salvezza eterna… Ora questa grazia, come il Concilio di Trento ci ordina di credere sotto pena di anatema, non consiste unicamente nella remissione dei peccati; ma è anche una quintessenza divina, inerente all’anima, e come una luce il cui splendore avvolge le anime, cancella le loro contaminazioni e conferisce loro una bellezza radiosa. E questo è ciò che la Scrittura ci dà per concludere con evidenza quando dice che la grazia è versata nei nostri cuori, e che è il pegno dello Spirito Santo » (Catechismo. Conc. P. II, de Baptismo, § 6). – La forza di questa prova non viene meno quando si sottolinea che i Padri di Trento avevano come unico scopo la condanna degli errori dei protestanti sulla giustificazione. Che questo fosse il fine principale dei loro decreti non può essere negato. Ma non è meno vero che, per definire la verità cattolica, abbiano impiegato formule che non hanno alcuna spiegazione plausibile al di fuori di quella che noi difendiamo. – Che cosa è in effetti, una grazia infusa, una grazia inerente ai cuori, la grazia, infine, che svolge il ruolo di causa formale, se non questa partecipazione permanente della natura divina che rende figli di Dio? – Non dimentichiamo che, per i Padri di Trento, la giustificazione dei bambini non è di natura diversa da quella degli adulti, come chiarisce espressamente il capitolo 4 della quinta sessione. È vero che, per riceverlo, alcuni richiedono delle disposizioni che non sono richieste agli altri. Ma per gli uni e gli altri, le cause e l’essenza della giustificazione sono identiche. Per entrambi, essere giustificati è rinascere in Cristo; per entrambi, la giustificazione deve portare all’anima dei doni che sono infusi in essa, una forma che è inerente ad essa. Se, dunque, né questi doni, né questa forma possono essere per i bambini tocchi transitori di Dio sull’anima del giusto, ancor meno delle operazioni soprannaturali che questi tocchi divini ecciterebbero, né nell’intelligenza né nella volontà, non è in questo che dobbiamo collocare la grazia giustificante, e il principio formale dell’adozione per gli adulti. – Inoltre, questa dottrina, presa nel senso che andiamo dicendo, non era una novità nella Chiesa. Quando la guardiamo da vicino, vediamo chiaramente che essa riassume e chiarisce le affermazioni dei Padri; e presto vedremo anche come gli antichi Dottori della Scuola la insegnassero nei loro scritti, tanto che i Concili di Vienne e di Trento presero in prestito la maggior parte delle loro espressioni per definirla. – I più illustri maestri venuti dopo il Concilio di Trento hanno interpretato il suo insegnamento come noi. « I teologi – scrive uno dei più gravi tra loro – insegnano di comune e costante accordo che Dio infonde nelle anime un abito soprannaturale, ornamento intrinseco e perfezione dell’anima che lo riceve. E sebbene il Concilio di Trento non abbia voluto definire se la grazia che ci santifica sia un’abitudine (habitus) propriamente detta o qualche altra qualità, sembra tuttavia aver deciso chiaramente che è una qualità permanente alla maniera delle abitudini, e per questo, inerente all’anima. » (Bellarmin. de Grat. et liber. arbit.: L I, c. 3.). – Gli altri teologi non parlano in modo diverso, e li vediamo tutti, con poche eccezioni, appellarsi al Concilio di Trento. – Finanche i più accesi avversari del Concilio manifestano con i loro attacchi quello che era stato il suo vero pensiero. « È falso – dice Calvino nel suo Antidoto contro il Concilio di Trento – che la giustizia consista in minima parte in un’abitudine o qualità che risiede in noi; ciò che costituisce giusti, è unicamente un favore gratuito » (Calvin. Antid. Conc. Trident., c. 7, n. 6) – Anche un luterano, Martin Chemnitz, rimprovera ai Padri di Trento di aver messo la giustificazione tra le qualità e le virtù infuse (Chemnitz, Exam. Conc. Trid. ecc.). A queste testimonianze si può aggiungere quella del Card. Pallavicini – « Oservare est mentem Concilii fuisse statuere Speciatim habitum infusum justitiæ, et non generatim meram interiorem Iustitiam, nihil definendo ea ne sit actus an habitus. H. Conc. Trid. L. VIII, c. 14; col. Suar. d. Grat, L. c. 3, n. 6).

2. – Qualche tempo dopo il Concilio di Trento, la Chiesa ebbe occasione di tornare su questa importante questione. Essa lo fece con grande forza nella Costituzione promulgata da Pio V contro le Opinioni Temerarie di un innovatore del Protestantesimo (Ss. Pii V, Bulla “Ex omnibus afflictionibus” 1 ott: 1567; apud Denzin., Énchirid., n. 881, sqq.), confermata dalle bolle di Gregorio XIII e Urbano VIII. Bajo, che era l’innovatore, non attaccava direttamente l’esistenza della grazia abituale e delle virtù infuse, ma le considerava di pochissima importanza nel costituire lo stato di giustizia e di merito. Il rinnovamento interiore di cui parla il Concilio di Trento, e che costituisce la parte principale della giustificazione, era per lui interamente nella novità delle opere. E questo è ciò che è chiaramente espresso nella 42a proposizione tra quelle condannate del Pontefice: « La giustizia, con la quale l’empio è giustificato per la fede, consiste in modo formale nell’obbedienza ai comandamenti, che è la giustizia delle opere, e non invece in una qualche grazia infusa nell’anima, con la quale l’uomo viene adottato come figlio di Dio, viene rinnovato secondo l’uomo inferiore e viene reso compartecipe della natura divina, in modo tale che, così rinnovato per mezzo dello Spirito Santo, possa poi vivere bene e obbedire ai comandamenti di Dio. » – Questa sentenza dogmatica ha un grande peso nella presente questione: perché è sufficiente a rimuovere i dubbi che ancora rimanevano nella mente di alcuni teologi subito dopo il Concilio di Trento. E se non ci è permesso classificare la dottrina comune tra i dogmi della nostra fede, almeno ci dà il diritto di proporla non solo come universalmente ammessa, ma anche come assolutamente certa (Suar., de Grat., l. VI, c. 21, n. 4).

3. – Posso portare un ultimo documento che, senza avere l’autorità di una cosa autenticamente giudicata, merita una considerazione molto seria: perché contiene la dotta e lunga esposizione di una dottrina che doveva essere sottoposta ai Padri del Vaticano, in vista di una definizione della materia. Ecco i tre canoni che dovevano rispondere all’esposizione dogmatica della grazia del Redentore: « Se qualcuno dice che Cristo Redentore non abbia restaurato l’ordine della grazia soprannaturale, sia anatema! Se qualcuno dice che la giustificazione non sia altro che la remissione dei peccati, o che la grazia santificante sia solo il favore in virtù del quale Dio riceve l’uomo nelle sue buone grazie e gli prepara l’aiuto della grazia attuale, sia anatema! Se qualcuno nega che la grazia santificante sia un dono soprannaturale inerente e permanente nell’anima, sia anatema! » (Schema Constit. de doctrina cath. Acta et decr. SS. Concil. recent. Collectio Lacensis, vol. 7, p. 566. Il lettore sarà grato se gli poniamo davanti il capitolo del progetto, corretto e riformato dalla Commissione del Dogma, che si riferisce a questa questione. È il capitolo V della suddetta Costituzione. Si intitola: Sulla grazia del Redentore. « Per quanto riguarda la grazia che ci è stata data per i meriti del Santo Redentore, la Chiesa Cattolica professa che non è solo una grazia che ci liberi dalla schiavitù del peccato e dal potere del diavolo, ma anche una grazia che ci rinnova nell’anima, così che per mezzo di essa recuperiamo la giustizia e la santità che Adamo aveva perso per noi, come per lui. Così questa grazia non solo ripara le forze della natura, in modo che, aiutati da essa, possiamo conformare i nostri costumi ed i nostri atti alla regola della morale onestà, ma essa ci trasforma, oltre i limiti della natura, nell’immagine dell’Uomo celeste, Gesù Cristo nostro Signore, e ci rigenera con una vita nuova. – Dio, infatti, ci ha scelti in Cristo Gesù, prima della costituzione del mondo, e ci ha predestinati ad essere conformi all’immagine del suo Figlio, affinché Egli sia il primogenito tra molti fratelli. Era dunque la volontà dell’amore di Dio che noi, essendo nati da Dio, fossimo chiamati figli di Dio, e lo fossimo davvero. E con l’adozione di figli noi abbiamo recuperato quella comunione di natura che, cominciata nella grazia, sarà consumata nella gloria. Ora, unti i consacrati dallo Spirito del Figlio, che Egli stesso ha mandato nei nostri cuori, diventiamo il tempio della maestà divina, in cui la santissima Trinità abita e si comunica all’anima fedele, secondo questa parola del Signore: « Se qualcuno mi ama, osserverà i miei comandamenti, e il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui e faremo la nostra dimora in lui. » Perciò si deve ritenere, e tutti i seguaci di Cristo devono professare, che la grazia santificante che ci unisce a Dio, non sia costituita né da un favore puramente esterno di Dio, né da operazioni transitorie; ma che sia un dono soprannaturale, infuso da Dio nell’anima ed inerente in essa, senza alcuna eccezione per nessuno dei giustificati, sia adulto, sia semplicemente un bambino rigenerato nel Battesimo. Ora, questo rinnovamento dell’uomo per mezzo del Verbo Incarnato è il mistero nascosto per secoli, in virtù del quale ciò che Dio aveva formato in modo meraviglioso nel primo Adamo, fu riformato ancora più meravigliosamente nel secondo. (Ibidem, cap. V, p. 562).

LA GRAZIA E LA GLORIA (10)

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (12)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (12)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO QUARTO

LA LODE DI GLORIA

(II)

3) Ma questo carattere negativo di spogliamento assoluto, carattere distintivo della dottrina spirituale di suor Elisabetta e dei grandi mistici, non è che una fase preliminare. Questo annientamento che l’anima si studia di raggiungere, questo « niente » è la condizione che prepara al possesso del «Tutto », possesso nel quale consiste positivamente la nostra vita spirituale: infatti, lo spirito del Vangelo si manifesta prima di tutto come una religione essenzialmente positiva. Si glorifica Dio nella misura dei suoi doni; ecco perché la Vergine e Cristo Lo hanno più di tutti glorificato: perché più di tutti Essi hanno ricevuto. Questa dottrina à fondamentale, nella buona spiritualità. Si sente dire spesso: Purché io arrivi in Cielo, mi accontento dell’ultimo posto… Significa non aver capito niente del vero amore di Dio e della Sua gloria. Questo è un punto di massima importanza nella dottrina spirituale di suor Elisabetta della Trinità e nella concezione cristiana dell’universo. Che cos’è la gloria di Dio? La manifestazione stupenda di ciò che Egli è, la rivelazione delle Sue perfezioni infinite. Vi è una duplice gloria di Dio: la sua gloria intima, dentro di Lui, e la sua gloria esterna, al di fuori, nell’universo da Lui creato. Non si tratta, qui, della sua gloria essenziale, quella che Dio trova in Se stesso, nel suo Verbo, Pensiero unico, eterno, che esprime adeguatamente tutto ciò che Egli è, nell’indivisibile Unità della sua Essenza e nella Trinità delle Persone. Il Verbo dice tutto: dice la inesauribile fecondità del seno del Padre, e la bellezza del Figlio, e l’Amore che li fonde nell’Unità; tutto, anche l’universo che è scaturito dalla loro potenza creatrice ed è nelle mani di Dio come un trastullo di bimbo. Così, il Padre manifesta al Figlio la sua propria gloria. Nel Verbo, immagine e splendore della sua gloria, il Padre risplende; il Verbo manifesta al Padre tutto ciò che è Egli stesso; nel Verbo, il Padre e il Figlio conoscono l’Amore eterno che li unisce. Tale è la gloria essenziale di Dio, quella gloria intima, intratrinitaria. che è il Verbo. L’universo non aggiunge nulla a questa gloria infinita; e, dinanzi alla Trinità santa, l’anima stessa di Cristo deve confessare il suo niente. Nella Società trinitaria delle divine Persone e nell’indivisibile Unità della loro Essenza, Dio basta a se stesso. Tutto quello che può venire dal di fuori, anche da parte di Cristo, non è che accidentale. E, tuttavia, Dio ci tiene, in modo assoluto: perché così esigono la gerarchia dei valori e l’ordine delle cose. Al Creatore: onore, sapienza, potenza e gloria. Per un equilibrio ammirabile della divina Sapienza e degli altri attributi divini, Dio non trova questa gloria accidentale che nella nostra felicità e nella misura di questa felicità. « La gloria del Padre esige che voi portiate copiosi frutti » (San Giovanni, XV-8.), insegnava Gesù. Chi è più santo Lo glorifica di più; e, in questo senso, il Verbo Incarnato è la più perfetta lode di gloria di tutti i Suoi doni, a causa delle incomprensibili ricchezze della sua umanità santa. Dopo di Lui, ad una distanza infinita, l’anima della Vergine, la creatura che ha ricevuto di più, dopo Cristo; e così, via via, tutti gli altri santi. Significa, dunque, avere un falso concetto della gloria divina, volersi accontentare di una santità mediocre. – Suor Elisabetta della Trinità, con una profondità di pensiero sorprendente in una fanciulla, si è elevata senza sforzo, sotto l’impulso della grazia, a questa altissima luce di Sapienza, la più deiforme nella quale possa porsi uno sguardo creato per considerare l’universo alla luce di Dio. Essa ha perfettamente compreso che deve essere santa, prima di tutto per Dio; tanto santa quanto le è possibile, perché la gloria di Dio è strettamente legata alla sua santità. Nel suo diario di fanciulla, scrive: « Voglio essere santa »; segue una cancellatura, quindi: «Santa per Te ». La fine della sua vita fu la magnifica realizzazione del desiderio concepito a 19 anni. Ha compreso che, quanto più un’anima si innalza sulle vette dell’unione trasformante, tanto meglio compirà il suo ufficio di lode di gloria. Dio è glorificato nella misura in cui « la bellezza » delle sue perfezioni si riflette nelle anime. E i beati l’hanno raggiunta questa trasformazione suprema, essi che « contemplano Dio nella semplicità della Sua Essenza, essi che « Lo conoscono nel modo stesso che sono da Lui conosciuti », cioè per mezzo della visione intuitiva. Ecco perché « sono trasformati, di chiarezza in chiarezza, nella immagine di Lui, dalla potenza del suo Spirito », divenendo così lode incessante di gloria all’Essere divino che in essi contempla il proprio splendore… « A sua immagine e somiglianza »; tale fu l’ideale del Creatore: potersi contemplare nella « creatura, vedere irradiate in essa tutte le sue perfezioni, tutta la sua bellezza, come attraverso un cristallo limpido e terso; non è questa, in certo modo, una estensione della sua propria gloria? L’anima che permette all’Essere divino di riflettersi in lei, questa anima è veramente la lode di gloria di tutti i suoi doni, e in ogni occupazione, anche nelle più ordinarie, canta il canticum magnum, il canticum novum che fa esultare il cuore di Dio nelle sue profondità » (Ultimo ritiro III). – Dare a Dio la testimonianza di tutte le proprie potenze, orientandole verso di 9Lui solo: ecco ciò che suor ,Elisabetta intende per lode di gloria di tutti i suoi doni. Secondo lei, una vera lode di gloria è avida di ricevere Dio al maximum, è un’anima che se ne sta come un’arpa sotto il tocco divino, e tutti i doni che Egli le ha elargiti sono corde armoniose che vibrano giorno e notte per cantare la lode della sua gloria. Siamo ben lontani dalla visuale ristretta di tutte quelle concezioni meschine che, invece di liberare le anime slanciarle in pieno verso Dio, le ripiegano su di sé, le deprimono, paralizzando in esse la libera espansione del  perfetto amore.

4) Attirata sempre verso le alte cime, suor Elisabetta della Trinità va a cercare i suoi modelli di « lode di gloria » fra i beati che stanno continuamente dinanzi al Trono dell’Agnello in preghiera e in adorazione. Sotto l’influenza della sua lettura del Cantico e della Viva fiamma, la visione beatifica diviene il pensiero dominante degli ultimi suoi giorni, comunicando a tutti gli slanci dell’anima sua quasi un ritmo di eternità. Negli ultimi capitoli dell’Apocalisse (nell’ultimo soprattutto), che erano divenuti l’alimento più familiare dell’anima sua, essa attingeva quel senso di eternità che anima quasi tutte le pagine dell’ultimo suo ritiro. A chi le stava vicino in quei giorni ripeteva: «Il mio Maestro non mi parla più che di eternità ». Viene così a congiungersi, con un senso dottrinale sempre impeccabile, ad un’altra dottrina spirituale che è familiare alla teologia cattolica: che, cioè, la nostra vita divina sulla terra è già « la vita eterna incominciata ». « Mi pare — scrive che esercitarsi nel cielo della propria anima in questa occupazione dei beati, sarebbe dare una gioia immensa al cuore di Dio» ( Ultimo ritiro III). « Ieri san Paolo, sollevando un poco il velo, mi permetteva di spingere lo sguardo nell’eredità dei santi, nella luce, perché io vedessi la loro occupazione e procurassi, quanto è possibile, di conformare la mia vita alla loro, per adempiere il mio ufficio di « laudem gloriæ ». Oggi san Giovanni, il discepolo che Gesù amava, mi schiude le porte dell’eternità perché l’anima mia possa riposarsi nella « santa Gerusalemme, dolce visione di pace ». E, prima di tutto, mi dice che non ha bisogno di lumi, la Città, perché lo splendore di Dio la illumina e sua luce è l’Agnello. Ora, se voglio che la mia città interiore abbia qualche tratto di conformità e di somiglianza con quella del Re dei secoli immortali e riceva la grande irradiazione di Dio, bisogna che io estingua ogni altro lume e che l’Agnello ne sia l’unica face » (Ultimo ritiro IV). La vita dei beati è una vita di luce e di amore. Su questo duplice movimento, suor Elisabetta traccia il programma della lode di gloria che vuole, nel cielo dell’anima sua, imitare l’occupazione dei beati. Alla visione beatifica, impossibile sulla terra, supplisce la virtù della fede. « Ecco, mi appare la fede, la bella luce della fede; questa sola deve illuminarmi per andare incontro allo Sposo. Il salmista canta che « Egli si occulta nelle tenebre »; poi in un altro punto, sembra contraddirsi con queste parole: « La luce l’avvolge come una veste ». L’insegnamento che per me risulta da questa contraddizione apparente è che io devo immergermi nella «sacra tenebra », facendo la notte e il vuoto in tutte le mie potenze. Allora incontrerò il mio Signore, e la luce che lo avvolge come una veste avvolgerà me pure, perché Egli vuole che la sposa sia luminosa della Sua luce, della sola Sua luce, ed abbia la chiarezza di Dio. Si dice di Mosè che « era incrollabile nella sua fede, come se avesse veduto l’Invisibile ». Mi sembra che tale debba essere la disposizione di una lode di gloria che vuol proseguire, malgrado tutto, il suo inno di ringraziamento: « Incrollabile nella sua fede, come se avesse visto l’Invisibile », incrollabile nel credere all’« eccessivo amore» … «abbiamo conosciuta la carità di Dio per noi, e vi abbiamo creduto » (I san Giovanni, IV-16.). « La fede è sostanza delle cose che speriamo e convinzione di quelle che non vediamo » (Ebrei, XI-1). Raccolta nella luce che accende in lei questa parola, che cosa importa ormai all’anima sentire o non sentire, essere nel buio o nella luce, godere o non godere? Ella si vergogna, quasi, di fare tali distinzioni… Mi sembra che a quest’anima che possiede una sì grande fede in Dio-Carità, si possano rivolgere le parole del Principe degli Apostoli: « Poiché credete, sarete ricolmi di un gaudio immutabile e sarete glorificati » (Ultimo ritiro IV). Ma la « lode di gloria » che vuole imitare l’occupazione dei beati, deve essere animata da un altro sentimento: l’attività adoratrice dell’amore. Tutta la psicologia della « lode di gloria » deve modellarsi sullo stato d’animo dei beati. – « Essi non hanno riposo né giorno né notte, e ripetono: — Santo, santo, santo, è il Signore, Dio onnipotente che era, che è che sarà nei secoli dei secoli… — Si prostrano, adorano e depongono le loro corone dinanzi al trono, dicendo: Degno Tu sei, o Signore, di ricevere la gloria e l’onore e la potenza…» (Apoc., IV-8… 11.). Come imitare nel cielo dell’anima mia questa occupazione incessante dei beati nel Cielo della gloria? « Essi si prostrano, adorano, depongono le loro corone ». Prima di tutto, l’anima deve prostrarsi, immergersi nell’abisso del proprio niente; penetrarvi così a fondo, da trovare — secondo l’ineffabile espressione di un mistico — la pace vera, invincibile e perfetta che nulla può turbare, perché si è precipitata così in basso, che nessuno andrà a cercarla, laggiù. Allora, potrà adorare… L’adorazione ah, è una parola di cielo, mi sembra che possa definirsi: l’estasi dell’amore. È l’amore schiacciato dalla bellezza, dalla forza, dall’immensa grandezza dell’oggetto amato: « Adorate il Signore, perché Egli è santo », dice il Salmista; e ancora: « Sempre l’adoreremo a motivo di Lui stesso» (Ultimo ritiro VIII.). – Così, questa psicologia dei beati nell’eternità diviene per lei l’esemplare vivente della santità sulla terra. « L’anima che si raccoglie in questi pensieri, che li penetra col « senso divino » di cui parla san Paolo, vive in un paradiso anticipato, al di sopra di tutto ciò che passa, al di sopra di se stessa. Sa che Colui che ella adora possiede in sé ogni felicità ed ogni gloria, e gettando come i beati dinanzi a Lui la sua corona, si disprezza, si perde di vista e, in mezzo a qualunque sofferenza e dolore, trova la sua beatitudine in quella dell’Essere adorato, perché ha abbandonato se stessa ed è passata in un altro. In questo atteggiamento di adorazione, l’anima non somiglia forse a quei pozzi di cui parla san Giovanni della Croce, in cui si radunano le acque che scendono dal Libano? Vedendola, si può dire: « La città di Dio è rallegrata dal corso di impetuosa fiumana » (Ibidem.).

5) La vita spirituale di suor Elisabetta della Trinità, anima essenzialmente trinitaria, rimane però sempre, e con un crescendo continuo, incentrata in Cristo Gesù. Il sogno che « Laudem gloriæ » accarezza durante le lunghe penose insonnie, è di morire, « non solo pura come un Angelo, ma trasformata in Gesù Crocifisso ». Questo modello » divino è dinanzi al suo sguardo, sempre; unico suo ideale è contemplarlo per riprodurlo; vorrebbe potere esprimerlo agli occhi del Padre. Ma, lo sa bene, la conformità suprema dell’immagine del Cristo conduce « alla conformità alla sua morte ». Nel corso dell’ultimo suo ritiro, questo pensiero non l’abbandona un istante; e mentre scrive le sue riflessioni sulla inabitazione della Trinità e sulla lode di gloria, ripete spesso, cuore a cuore, alla sua Madre Priora, con voce languente di malata: « Madre, sento che Egli mi conduce sul suo Calvario ». Ed è qui che si compie ogni santità. Una lode di gloria è essenzialmente un’anima crocifissa: ha contemplato, nel cielo, « la grande moltitudine che nessuno può enumerare », sa che « sono coloro che vengono dalla grande tribolazione, che hanno lavato e reso candide le loro stole nel sangue dell’Agnello; per questo, stanno dinanzi al trono di Dio e lo servono dì e notte nel suo tempio; e Colui che è assiso sul trono stenderà sovr’essi la sua tenda. Non avran più fame né sete, non li colpirà il sole né ardore alcuno, perché l’Agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque di vita; e Dio asciugherà ogni lacrima dei loro occhi ». « Tutti questi eletti che hanno in mano la palma e che sono bagnati dalla grande luce di Dio, hanno dovuto prima passare per la grande tribolazione, conoscere il dolore « immenso come il mare » cantato dal Profeta. Prima di contemplare svelatamente la gloria del Signore, essi hanno partecipato agli annientamenti del suo Cristo; prima di essere trasformati, di chiarezza in chiarezza, nella immagine dell’Essere divino, sono stati conformi all’immagine del Verbo incarnato, il Crocifisso per amore. – « L’anima che vuol servire Dio notte e giorno nel suo tempio, cioè in quel santuario interiore del quale parla san Paolo quando dice: « il tempio di Dio è santo, e questo tempio siete voi », quest’anima deve essere risoluta di partecipare realmente alla passione del suo Signore. Essa è una riscattata che deve a sua volta riscattare altre anime; e canterà perciò sulla sua lira: «Io mi glorio nella Croce di Gesù Cristo. Con Cristo sono confitta alla croce… » ed ancora: « Do compimento, nella mia carne, a ciò che manca alla passione di Cristo, per il corpo di Lui, che è la Chiesa ». « Alla tua destra sta la Regina »: tale è l’atteggiamento di quest’anima. Essa procede sulla via del Calvario, alla destra del suo Re crocifisso, che, annientato, umiliato, eppure così forte, calmo e pieno di maestà, va alla sua passione per far risplendere « la gloria della sua grazia », secondo l’espressione così forte di san Paolo. Ed Egli vuole associare la sua sposa all’opera di redenzione; ma la via dolorosa in cui la fa camminare le sembra la via della beatitudine, non solo perché alla beatitudine conduce, ma ancora perché il Maestro santo le fa comprendere che deve superare quello che vi è di amaro nel dolore, per trovarvi, come Lui, il suo riposo. Allora, può veramente servire Dio « notte e giorno nel suo tempio »; le prove interne ed esterne non possono farla uscire dalla santa fortezza in cui Egli l’ha rinchiusa; non ha più « né fame, né sete » perché, malgrado il suo struggente desiderio della beatitudine, si sente saziata dal nutrimento che fu quello del suo Maestro divino: la volontà del Padre; non sente più « il sole che su lei dardeggia », cioè non soffre più di soffrire; e l’Agnello può condurla, ora, alle sorgenti della vita, dove Egli vuole, come gli pare, perché lei non guarda per quali sentieri passa, ma tiene lo sguardo fisso semplicemente, sul Pastore che la guida. Dio, chinandosi su quest’anima, sua figlia adottiva, così conforme all’immagine del suo « Figlio primogenito fra tutte le creature », la riconosce per una di quelle da Lui « predestinate, chiamate, giustificate »; ed esulta nelle sue viscere di Padre, pensando di consumare l’opera sua, cioè di glorificarla, trasferendola nel suo regno, perché vi canti nei secoli senza fine la lode della sua gloria » (Ultimo ritiro V. 25).

6) Fedele al pensiero dominante degli ultimi suoi giorni, adempiere cioè, fin da questa vita, la sua vocazione eterna di « Laudem gloriæ », suor Elisabetta della Trinità vuol cercare di compiere nel « cielo dell’anima sua » ciò che fanno i beati nel « cielo della gloria ». È lo sviluppo supremo della sua vocazione interiore di « Casa di Dio ». La sua grazia fondamentale fu di vivere raccolta interiormente, nel più profondo dell’anima, con l’intimo Ospite; aveva trovato, in questo, il suo cielo sulla terra. Per una evoluzione normale, ella vivrà pure interiormente la sua vocazione suprema di « lode di gloria »: « Poiché l’anima mia è un cielo dove vivo nell’attesa della celeste Gerusalemme, bisogna che anche questo cielo canti la gloria dell’Eterno, niente altro che la gloria dell’Eterno » (Ultimo ritiro VII.). – In questo cielo interiore, tutte le attività intime, tutto l’esercizio dell’amore e della pratica della virtù è una lode di gloria al Dio che vi abita, come le opere del Signore narrano al di fuori la gloria dell’Eterno. Questa glorificazione divina nel silenzio dell’anima è la lode più sublime che possa salire dalla creatura a Dio. « Cœli enarrant gloriam Dei ». Ecco che cosa narrano i cieli: la gloria di Dio. « Il giorno trasmette al giorno questo messaggio ». Tutti i lumi interiori, tutte le comunicazioni di Dio all’anima mia, sono questo giorno che trasmette al giorno il messaggio della sua gloria. « Il precetto di Jahveh è puro », canta il Salmista, « ed illumina lo sguardo ». Per conseguenza, la mia fedeltà nel corrispondere ad ogni suo precetto, ad ogni suo interno comando, mi fa vivere nella luce sua; anch’essa è un messaggio che annunzia la sua gloria. Ma, ecco la dolce meraviglia: « Jahveh, chi ti guarda, risplende », esclama il Profeta. L’anima che, con la profondità del suo sguardo interiore, nella semplicità che la distacca da ogni estranea cosa, contempla attraverso a tutto il suo Dio, quest’anima è risplendente; essa è un giorno che annunzia al giorno il messaggio della sua gloria » (Ultimo ritiro VII). – Nel cielo interiore, tutto canta la gloria dell’Eterno: gioie e consolazioni spirituali, come pure tutto ciò che crocifigge. « La notte l’annuncia alla notte »: ecco una cosa davvero consolante: le mie impotenze, i miei disgusti, le mie oscurità, persino le mie colpe, narrano la gloria dell’Eterno; e le mie sofferenze fisiche e morali celebrano anch’esse la gloria del mio Signore. David cantava: « Che cosa renderò io al Signore per tutti i suoi benefici? — Prenderò il calice della salute ». Se io lo prendo, questo calice imporporato dal Sangue del mio Maestro, e se, nel mio ringraziamento pieno di gioia, unisco il sangue mio a quello della Vittima santa che lo rende in qualche modo partecipe del suo « infinito », esso può dare al Padre una magnifica lode; allora, il mio dolore è un messaggio che annunzia la gloria dell’Eterno. « Là, (nell’anima che narra la sua gloria), Egli ha posto una tenda per il sole ». Il sole è il Verbo, è lo Sposo. Se Egli trova l’anima mia vuota di tutto ciò che non rientra in queste due parole: il suo amore, la sua gloria, allora la sceglie per sua camera nuziale; « vi si slancia come un gigante che si precipita trionfatore nella corsa… ed io non posso sottrarmi al suo calore ». Questo « fuoco consumante » opererà la felice trasformazione di cui parla san Giovanni della Croce: « Ciascuno — egli dice — sembra essere l’altro, e tutti e due non sono che uno », per essere lode di gloria al Padre» (Ultimo ritiro VII.).

7) Curioso è il fatto che, mentre l’ultimo ritiro di « Laudem gloriæ » termina con un movimento dell’anima verso l’inabitazione della Trinità, invece il piccolo trattato composto per la sorella, per insegnarle come trovare il paradiso sulla terra, si chiude con un’elevazione che riassume tutto l’ufficio di una lode di gloria; variazione, questa, che trova però la sua spiegazione nell’unità concreta della psicologia religiosa di suor Elisabetta della Trinità negli ultimi giorni della sua vita. Questa pagina, meno nota della sua preghiera, merita tutta la nostra attenzione. Sotto l’azione irresistibile della grazia, suor Elisabetta ci scopre, nell’ultima ora della sua vita, il suo ideale supremo di santità. Riprendendo il testo di san Paolo agli Efesini da cui era stata così fortemente colpita e che si può considerare, infatti, come il punto classico della teologia sul senso ultimo della nostra predestinazione in Cristo, la sua squisita anima di artista canta su quel tema, con ritmo fortemente accentuato, il suo ufficio supremo, quaggiù. Nulla v’è da aggiungere al suo pensiero così denso e dottrinale, che si può considerare come il testamento del suo cuore, non solo alla sorella, ma anche a tutte le anime che vorranno realizzare, a suo esempio, l’ufficio di una lode di gloria. – « In Lui siamo stati predestinati, per decreto di Colui che tutto opera secondo il consiglio della sua volontà, ad essere la lode della sua gloria » (Ephes. I, 11-12). È san Paolo che ce lo dice, san Paolo istruito da Dio stesso. Come attuare questo grande ideale del cuore del nostro Dio, questa sua volontà immutabile riguardo alle anime nostre? Come, in una parola, rispondere alla nostra vocazione e divenire lodi perfette di gloria alla santissima Trinità. In cielo, ogni anima è una lode di gloria al Padre, al Verbo ed allo Spirito Santo, perché ognuna è stabilita nel puro amore e non vive più di vita propria, ma di quella di Dio. Allora, essa Lo conosce, dice san Paolo, come è conosciuta da Lui. In altri termini: Lode di gloria è un’anima che ha posto la sua dimora in Dio, che Lo ama con amore puro e disinteressato, senza cercare se stessa nella dolcezza di questo amore; un’anima che Lo ama al di sopra di tutti i suoi doni, anche se nulla avesse ricevuto da Lui, e che desidera il bene dell’oggetto a tal punto amato. Ma come si può desiderare e volere effettivamente del bene a Dio, se non compiendo la sua volontà? Poiché questa volontà dispone tutte le cose per la sua maggior gloria. Quest’anima deve dunque abbandonarvisi pienamente, perdutamente, fino a non poter volere altra cosa se non ciò che Dio vuole. Lode di gloria è un’anima di silenzio che se ne sta come un’arpa sotto il tocco misterioso dello Spirito Santo, perché Egli ne tragga armonie divine. Sa che il dolore è la corda che produce i suoni più belli; perciò è contenta che vi sia questa corda nel suo strumento, per commuovere più deliziosamente il cuore del suo Dio. Lode di gloria è un’anima che contempla Dio nella fede e nella semplicità; è un riflesso di tutto ciò che Egli è; è come un abisso senza fondo nel quale Egli può riversarsi ed espandersi; è come un cristallo attraverso il quale può irradiare e contemplare le proprie perfezioni e il proprio splendore. Un’anima che permette in tal guisa all’Essere divino di saziare in lei il bisogno che Egli ha di comunicare tutto ciò che è e tutto ciò che possiede, è veramente la lode di gloria in tutti i suoi doni. Finalmente, una lode di gloria è un’anima immersa in un incessante ringraziamento; tutti i suoi atti, i suoi movimenti, i suoi pensieri, le sue aspirazioni, mentre la fissano più profondamente nell’amore, sono come una eco del Sanctus eterno. Nel cielo della gloria, i beati non hanno riposo né giorno né notte, ma sempre ripetono: — Santo, santo, santo, il Signore onnipotente… — e prostrandosi, adorano Colui che vive nei secoli dei secoli. Nel cielo dell’anima sua, la lode di gloria inizia già l’ufficio che sarà suo in eterno; il suo cantico è ininterrotto e, benché non ne abbia sempre coscienza perché la debolezza della natura non le consente di fissare il suo pensiero in Dio senza distrazioni, pure rimane sempre sotto l’azione dello Spirito Santo che opera tutto, in lei. Canta sempre, adora sempre, è, per così dire, interamente trasformata nella lode e nell’amore, nella passione della gloria del suo Dio. – Nel cielo dell’anima nostra, procuriamo di essere lode di gloria della Trinità santa, lode d’amore della nostra Madre Immacolata. Un giorno il velo cadrà, e saremo introdotte negli atri eterni; ivi canteremo nel seno stesso dell’Amore infinito, e Dio, ci darà il nome nuovo promesso al vincitore. E quale sarà questo nome? « Laudem gloriæ » (Il Paradiso sulla terra, 13° orazione.).

LA GRAZIA E LA GLORIA (8)

LA GRAZIA E LA GLORIA (8)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO II

LA NATURA DELLA NOSTRA FILIAZIONE ADOTTIVA. – IL PRINCIPIO COSTITUTIVO CREATO, VALE A DIRE LA GRAZIA SANTIFICANTE CON LE VIRTÙ ED I DONI.

CAPITOLO II

La Grazia, Partecipazione creata della natura increata. Significato preciso di questa formula.

1- Il principe degli Apostoli, San Pietro, ci insegna che la grazia è una partecipazione della natura increata in un testo che è stato commentato mille volte dai teologi e dai Padri, tanto è pieno di scienza divina. Questo testo di tale importanza capitale ci è dato nella sua seconda Epistola. Dio, « per mezzo di J.-C. N. S. ci ha dato i doni molto grandi e preziosi che ci aveva promesso, per renderci partecipi della sua natura divina attraverso di loro » (II. Piet.., I, 4). Queste sono parole di una profondità grandiosa che, se adeguatamente meditate, gettano un po’ di luce su tutto l’ordine della grazia e della gloria. Tu mi chiedi perché sono un figlio di Dio, un dio divinizzato, portando in me l’immagine e la forma dell’unigenito Figlio del Padre; e io rispondo come l’Apostolo: È perché ho ricevuto doni molto grandi e preziosi: io sono partecipe della natura divina. – Il Verbo di Dio, Gesù Cristo, riceve eternamente dal Padre, suo Principio e non sua causa, la piena comunicazione della natura paterna; e questa natura è la sua propria natura, senza divisione o condivisione, senza diminuzione o moltiplicazione; e per questo è veramente il Figlio unico, in tutto uguale e consustanziale a suo Padre. I figli di adozione, quando sono giustificati per grazia, ricevono da Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, come un effluvio creato di quella natura increata, una partecipazione finita dell’essenza infinita; e per questo diventano figli adottivi di Dio, non più uguali al Padre, ma simili al Figlio per natura, dei deificati come Egli è Dio deificante. – È impossibile ricordare, anche in forma abbreviata, i passi dei santi Dottori in cui questa dottrina è messa in luce. Rileggiamo quelli che abbiamo già citato nel corso di questo lavoro, e ci stupiremo di vedere quanto il pensiero di San Pietro torni naturalmente alla memoria dei Padri, ogni qualvolta essi tocchino il mistero della nostra adozione per grazia. Eppure, quanti altri testi si potrebbero citare! Ne scegliamo alcuni tra i tanti. « Il Figlio, rimanendo nella sua natura, si è reso partecipe della nostra, affinché anche noi, rimanendo nella nostra natura, partecipassimo della sua » (S. Agos., ep. 140, c.4, n. 11). Così, secondo S. Agostino, è uno stesso fine dell’Incarnazione, il rendere figli adottivi, dei deificati e partecipanti della natura divina. – Gli stessi pensieri sono in San Cirillo di Alessandria. Ho già trascritto parte del suo commento al primo capitolo di San Giovanni (Joan, I, 12-13. L. I, p. 9, 10). Ecco la continuazione, che non è meno importante per l’argomento che stiamo trattando: « Questi – egli dice – che sono stati elevati per fede in Cristo all’adozione dei figli di Dio, non hanno ricevuto il Battesimo nel nome di una creatura. No, la Chiesa li ha battezzati nella Santa Trinità, attraverso il Verbo, uno con noi nella natura umana di cui si è rivestito, uno nell’Essenza divina con il Padre. Se i servi e gli schiavi sono chiamati alla figliolanza, è perché la partecipazione del vero Figlio li eleva a quella dignità che Egli ha per natura… Ma poiché ci sono alcuni che hanno il coraggio di negare che il Figlio e lo Spirito Santo siano consustanziali al Padre e Dio come Lui, opponiamo a queste temerarietà sacrileghe la vera dottrina della fede. Se lo Spirito del Figlio non è Dio per natura, se non è da Dio, immanente come sostanza nel suo principio; in una parola, se è così diverso da Lui da essere per essenza di un ordine creato, come possiamo dire che noi, che siamo nati da Lui, siamo nati da Dio? O diciamo che l’evangelista ci abbia mentito; oppure, se lo riteniamo vero, come in effetti è, confessiamo che lo Spirito è Dio, Dio per natura, Colui la cui partecipazione per la fede in Cristo ci rende partecipi della natura divina, e di conseguenza ci dà il diritto di portare il nome di figli di Dio; cosa dico? il titolo di dei! (S. Cyril. Alex., L. I., in Joan. P, Gr., t. 73, p. 155, 157.) – Le stesse idee ancora in San Giovanni Damasceno, l’unico tra i Padri greci che meglio riflette e riassume tutti gli altri. « L’uomo, essendo diventato prevaricatore, fu così sottoposto alla morte e alla corruzione… Questa è la ragione per cui l’Onnipotente Operatore del genere umano abbia voluto, nelle viscere della sua misericordia, farsi come noi, prendendo la nostra natura senza assumere il nostro peccato. Poiché non avevamo conservato né la sua immagine né lo Spirito che ci aveva originariamente dato, Egli entrò in commercio con la nostra povera e debole natura, per purificarla dai suoi crimini, per spogliarla della corruzione e per renderci nuovamente partecipi della sua divinità. Perché era necessario che non solo le primizie del nostro genere umano, ma che ogni uomo che volesse, nascesse di nuovo e con questa seconda nascita partecipasse all’eredità del bene” (S. J. Damasc., de Fid. orth., L. IV; c. 13: P. Gr:, t. 94; n. 1137). – Aggiungiamo un’ultima testimonianza, quella di Sant’Atanasio. « Ogni creatura ragionevole partecipa al Figlio, secondo la grazia dello Spirito Santo che Egli stesso ci ha portato… Ora, quando partecipiamo del Figlio, noi partecipiamo di Dio; e questo è ciò che ci insegna San Pietro quando dice: Affinché diventiate partecipi della natura divina » (S. Atanasio, Or. c. Arian., 1, n. 16, P. Gr., vol. 26, p. 45). – Dire che questa partecipazione alla natura divina debba essere intesa esclusivamente come l’unione dello Spirito Santo con le anime, e che non presupponga alcuna realtà finita che sia un principio costitutivo del nostro stato di grazia, sarebbe una pretesa manifestamente insostenibile. Il principe degli Apostoli non nega che lo Spirito ci venga dato quando diventiamo figli di Dio. ma non è meno vero che i doni che, secondo lui, costituiscono la nostra partecipazione formale alla natura divina, siano distinti sia dal Datore che dal Mediatore attraverso il quale ci sono dati. Il testo sacro significa chiaramente questo: Per quem (Christum Deus) maxima et pretiosa nobis promissa donavit, ut per hæc efficiamini divinæ consortes naturæ (II Piet,., I, 4). Possiamo vedere che ciò che ci rende partecipi della natura divina siano doni molto grandi e preziosi che Dio ci fa attraverso Gesù Cristo; doni al plurale, e non solo il dono per eccellenza che è lo Spirito, il dolce Ospite dell’anima fedele.

2. – La grazia è una partecipazione permanente e molto intima alla natura divina. Ma è proprio vero che questa partecipazione ricevuta nell’anima del giusto abbia la virtù che abbiamo detto, che in essa e per mezzo di essa siamo rinnovati, figli di Dio, addirittura dei? Che cos’è la partecipazione alla natura divina, se non avere una perfezione modellata su questa natura e derivante immediatamente da essa come dal suo principio e dalla sua prima fonte? Questa è la vera idea di partecipazione, quando si tratta del rapporto tra la creatura e il Creatore, tra l’essere contingente e l’Essere in essenza (Ognuno di noi partecipa della natura umana: perché se la possiede interamente nella comprensione, cioè nei principi che la costituiscono, la possiede solo parzialmente nell’estensione, cioè nelle individualità in cui si divide. L’umanità è in me, poiché sono uomo; ma è fuori di me, realmente e numericamente distinta, poiché ci sono altri uomini come me. Ho un’umanità; non sono l’umanità. Ovviamente non è così che la creatura partecipa alla natura divina: perché questa natura non è nostra, e non può moltiplicarsi in individui, poiché è essenzialmente una. Notiamo di passaggio questo testo del Dottore Angelico: Dicendum quod creaturæ non dicuntur divinam bonitatem participare quasi partem essentiæ suæ, sed quia similitudine divina bonitatis in esse constituuntur, secundum juam non perfecte divinam bonitatem imitantur, sed ex parte. S. Thom. II, D 17,- q .1, a. 1 ad 6). Ora, per questo motivo, mi si potrebbe obiettare qui, che tutte le creature partecipano alla divinità, poiché nessuna ha esistenza e realtà se non nella misura di questa partecipazione. Un essere distinto da Dio, l’Essere impartecipato, che non avrebbe in sé qualche somiglianza con il suo Autore, e che non sarebbe di Lui come del suo primo essere, sarebbe il puro nulla. – La Teologia cattolica ci insegna che lo scopo della creazione fosse quello di comunicare in vari gradi e di manifestare esternamente le infinite ricchezze della perfezione di Dio. Ma poiché questa perfezione non ha limiti, non potrebbe essere rappresentata, come dovrebbe essere, da una sola creatura. « Per questo – dice San Tommaso – Dio li ha fatti, li ha moltiplicati e diversificati, affinché ciò che manchi all’una per questa manifestazione della bontà divina sia compensato da un’altra. Perché la bontà che è in Dio molto uno e molto semplice, è frammentata, per così dire, e moltiplicata nella totalità dell’universo che nell’unità di una sola natura, per quanto perfetta possa essere » (S. Thom., 1 p., q. 47, a. 1.). Così l’infermità del linguaggio umano ci obbliga a moltiplicare i discorsi per esprimere qualcosa di sé che Dio si dice in una sola parola, una parola eterna, una parola infinita come lui, il suo Verbo. Così, per usare un esempio più umile, dobbiamo prendere diverse vedute di un palazzo, se vogliamo avere una riproduzione adeguata di esso. – Cos’è dunque il mondo, se non l’insieme delle partecipazioni di questa bellezza divina, che non è altro che l’Essenza e la natura stessa di Dio? Se tutti gli esseri hanno l’esistenza, è perché tutti partecipano all’Essere di Dio. Se alcuni hanno vita con l’esistenza, è perché partecipano all’Essere di Dio. Se altri sono dotati di intelligenza, come gli Angeli e gli uomini, anche questa è una partecipazione alla natura sovranamente intelligente che è Dio. Ovunque vestigia, copie, immagini delle perfezioni divine e, di conseguenza, partecipazione alla natura divina, poiché tutto in cielo e in terra non solo rappresenta Dio, ma viene da Dio. Anche i Santi, il cui occhio è illuminato dall’amore, vedono Dio in ogni creatura, come in uno specchio in cui è dipinta l’immagine più o meno piena delle sue infinite perfezioni. – Pertanto, queste stesse partecipazioni dell’essere, della vita, dell’intelligenza divina, per quanto eccellenti, non sono sufficienti a costituire dei figli di Dio; perché tra i più nobili, tra i più ammirevoli di essi ci sono dei nemici di Dio. Dove dunque possiamo trovare una più alta assimilazione alla natura divina, una comunione così singolare e perfetta che tutte le altre impallidiscono davanti ad essa, e che l’Apostolo può veramente chiamare coloro che la possiedono, e solo quelli, partecipi della natura divina: « divinæ consortes naturæ »?

3. – Per risolvere questo problema non abbiamo bisogno di uscire dal nostro testo: le parole usate da San Pietro, se le penetriamo nel loro significato più intimo e stretto, bastano a risolvere la questione. « La parola natura – insegna San Tommaso – sembra significare l’essenza di una cosa nella misura in cui è ordinata al suo proprio funzionamento. Nomen autem naturæ videtur significare essentiam rei, secundum quod habet ordinem ad propriam operationem » (S. Thom., De Ente et essentia, c. 1). In altre parole, la natura di un essere sostanziale è ciò che in questo essere costituisce il primo principio delle operazioni che gli sono essenzialmente proprie. – Il funzionamento proprio dell’uomo non è il sentimento, poiché tutti gli animali sentono, gustano, vedono e soffrono come lui. Che cos’è allora? Pensare e volere, poiché solo lui tra le creature visibili pensa e vuole. Dunque, la natura specifica dell’uomo, quella per cui si distingue dagli esseri inferiori, in una parola, la natura ragionevole, è la sostanza stessa dell’uomo considerata come il principio radicale delle operazioni di cui l’intelligenza e la volontà sono il principio prossimo. È così che i Padri nelle loro controversie con gli eretici del quarto e quinto secolo hanno inteso la natura, dimostrando contro questi ultimi la natura umana di Cristo con le sue operazioni ragionevoli, dimostrando contro i primi le operazioni ragionevoli con la fede nella natura umana. – Se, dunque, voglio sapere cosa si debba intendere strettamente per natura di Dio, devo prima di tutto cercare di accertare quali siano le operazioni proprie di Dio, quelle che gli appartengono essenzialmente e che possono essere appropriate solo a Lui. Non è l’operazione creatrice, in quanto trae il mondo dal nulla: infatti, oltre al fatto che la creazione è un fatto contingente e libero, uno spirito veramente puro e sovranamente indipendente da tutte le cose deve avere un’operazione propria, di cui l’oggetto e il termine siano in se stesso (Se consideriamo l’operazione creatrice così come è in Dio, essa non si distingue dell’atto caratteristico di Dio; poiché non è altro che il suo atto infinitamente perfetto di conoscere e amare). – Né è la semplice conoscenza delle infinite perfezioni di Dio, né l’amore della sua nota bellezza: perché sia la ragione che la fede insegnano che l’uomo possa arrivare con le sue luci naturali ad una certa conoscenza del vero Dio, nostro Creatore e Signore (Conc. Vatic. Cost. de Fid. Cath. De Revelat., c. 1); e, se lo può conoscere, come potrebbe essere impossibile l’amore? Ma vedere Dio faccia a faccia e contemplarlo così com’è in se stesso nella profondità della sua essenza, amarlo con un amore che corrisponde a questa intima conoscenza, è ciò che supera non solo i poteri naturali dell’uomo, ma la potenza nativa di ogni creatura, per quanto perfetta possa essere, e per quanta altezza possa aver raggiunto nel suo sviluppo intellettuale. Questa, dico, è la corretta operazione di Dio. – Deum nemo vidit unquam, dice la Sacra Scrittura (I Joan. I, 18). Essendo immortale per natura, Egli è anche invisibile (I Tim. I, 17). « Ora – dice San Paolo – vediamo Dio come in uno specchio, in enigma; ma allora (quando saremo tutti inondati della sua stessa luce) sarà faccia a faccia. Ora conosco Dio solo in parte; allora lo conoscerò come Egli conosce se stesso » (I Cor. XIII, 12). Entriamo nel pensiero dell’Apostolo. Noi vediamo Dio non in se stesso, ma come in uno specchio; e questo specchio è il mondo creato in cui Egli offre ai nostri occhi alcune pallide imitazioni delle sue infinite perfezioni. Lo vediamo negli enigmi: perché, oltre al fatto che abbiamo solo una visione molto imperfetta delle sue immagini, queste immagini rappresentano ancora più imperfettamente la copia di cui esse sono la copia. La conosciamo solo in parte: perché Dio ci rivela nelle sue opere solo le perfezioni che gli sono proprie come causa suprema e quelle che si possono logicamente dedurre da essa (S. Thom. , 1 p., q. 32, a,1); le perfezioni esterne all’essenza, «  τά περί τήν οὐσίαν [= ta peri ten ousian], come parlano i Padri. Ma le profondità più intime della divina Presenza e i tesori insondabili dell’essenza divina rimangono nascosti ai nostri occhi, tanto inaccessibile è la luce che vi abita (I Tim. VI, 16), agli occhi di una creatura. – E affinché non siamo tentati di credere che un occhio creato più perspicace del nostro, come l’occhio di un Angelo, di un Arcangelo o di un Serafino possa, con il suo vigore naturale, penetrare questo invisibile, il Figlio di Dio ci dichiara nel suo Vangelo: « Nessuno conosce il Figlio se non il Padre; e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Padre si è degnato rivelarlo » (Matt. XI, 27). E l’Apostolo, a sua volta, parlando di quei misteriosi segreti in cui ci conduce la liberissima condiscendenza del nostro Dio: « Ciò – dice, che non è entrato nel cuore dell’uomo… Dio ce lo ha rivelato attraverso lo Spirito Santo. Perché lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Perché chi tra gli uomini sa cosa ci sia nel cuore dell’uomo, se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così ciò che è in Dio nessuno lo conosce se non lo Spirito di Dio » (1 Cor. II, 9-14). Quindi, per avere in virtù delle sue potenze naturali la visione di Dio, come Egli è in se stesso, si dovrebbe essere o lo Spirito di Dio o “Colui che è nel seno del Padre” (Gv. I, 18). E questa conclusione non è solo dalla fede, ma è la ragione stessa che la proclama. Alcuni eretici, gli Anomei, un tempo rivendicavano per ogni creatura ragionevole il privilegio naturalmente incomunicabile di vedere Dio faccia a faccia. Non devo dire come siano arrivati a questo errore: ci basta sapere che i santi Padri, sostenuti dai principi della sana filosofia, hanno confuso questa pretesa con prove luminose come il sole. Ne indicherò solo una, perché è universale e, quindi, si applica ad ogni intelligenza che non sia il Dio increato. S. Tommaso d’Aquino l’ha sviluppata magnificamente nelle sue opere (S. Thom. 1 p., q.12, a, 4 e 1, 2, q.5, a. 5 cum parall.): ma mi piace presentarla nella forma datale dai nostri antichi Dottori. – Chiunque, ci dicono, pensa e concepisce le cose, volente o nolente, se le rappresenta secondo il suo modo di essere (la Scolastica diceva con il Dottore Angelico « l’oggetto conosciuto è nel conoscente secondo il modo di essere del conoscente – Cognitum est in cognoscente secundum modum cognoscentis »). Voi siete uno spirito incarnato; vi è impossibile concepire degli esseri puramente spirituali senza incorporarli in un’immagine sensibile; ed è così che gli Angeli vi appaiono rivestiti di un involucro di attributi materiali che, voi ben sapete, non appartengono loro (S. Gres. Naz; Orat. 28; n, 12, 13. P. Gr. t. 36, p. 41). L’eternità non ha né cangiamento né successione; e tuttavia è una necessità per noi concepirla come una durata successiva in cui si mescolano le idee del passato, del presente e del futuro; non certo ché vi sia qualcosa di simile in Dio, ma perché « è la legge della nostra intelligenza di rappresentare le cose secondo la nostra propria natura, e di misurare l’eterno con il passato, il presente e il futuro » (S. Greg. Nyss, L. XII c. Eunoim, P. Gr., 45, p. 1064, col. L. 1, p. 336). Se la vastità di Dio ci appare come una distesa senza limiti che nel suo vasto seno include, racchiude e sorpassa tutte le cose, è perché il nostro modo di presenza è, come quello del corpo, in relazione alla distesa. – Non ditemi che gli spiriti puri sfuggano alla regola, poiché non sono né corporei come noi, né soggetti al tempo come noi, né estesi come noi. Poiché se essi sono liberi da queste imperfezioni, almeno non sfuggono all’imperfezione radicale che è essenziale per tutte le creature. Essi non raggiungono la perfetta semplicità. La composizione che non li raggiunge nella loro natura, si ritrova in loro per le loro facoltà e per i loro atti. Infatti, in essi, come in ogni essere che non è l’Essere sussistente, l’Essere per essenza, colui che si definisce: Io sono colui che sono, le potenze, la potenza di conoscere, la potenza di amare, sono distinte dalla sostanza, come lo sono anche dalle loro molteplici operazioni. Dio solo è unità perfetta, semplicità senza distinzione né mescolanza, perché solo lui è l’Essere, tutto l’Essere, nient’altro che l’Essere. Perciò, ancora una volta, Dio non può essere l’oggetto proprio, immediato e diretto delle intuizioni di nessuna creatura immaginabile, perché essendo il semplice, l’incomposto, l’immateriale per eccellenza, Egli supera infinitamente il modo di essere essenziale di tutto ciò che non è Lui (S. Cirillo. Alex, Thesaur. Assert. 31. P. Gr. t. 75, p. 451 cum S. Maxim. Capp. theol. Cent. 2, n. 23. P. Gr., vol. 90, p. 1125).  Per riassumere tutto in una parola, Dio si riflette nel nostro essere intellettuale, come si riflette nel nostro essere fisico; e poiché la creatura è così prodigiosamente al di sotto di Dio quanto all’essenza, è necessario che l’Essenza di Dio superi infinitamente la conoscenza della creatura (S. J. Damasc., de F. Orth., L. I, c. 4. P. Gr., t. 94, p. 800; col Dyonis. De nativ. Nomin. c. 1, § 4 ecc.) – Così, infine, se non abbiamo dimenticato la nozione che abbiamo dato della natura all’inizio di questa considerazione, non ci sarà difficile capire cosa sia per Dio chiamare gli Angeli e gli uomini alla partecipazione della sua propria natura. Egli scende, per parlare con il linguaggio umano, così impotente ad esprimere questi misteri, scende, dico, in quelle profondità adorabili, dove il Padre, per l’intuizione globale che ha di se stesso, genera il suo Verbo; dove il Padre e il Figlio, in un eterno abbraccio d’amore, producono l’Amore personale che è lo Spirito Santo. Egli cerca, in un certo senso, questi abissi per trovare il modello ed il principio di una nuova e più inestimabile comunicazione della sua bontà. E questa perfetta assimilazione la riversa nella nostra sostanza come la fonte vivente da cui possa scaturire la potenza e l’atto di vederlo e amarlo come Egli è in se stesso. Così l’uomo e l’Angelo diventano figli di adozione, partecipano della natura divina, e sono in grado di aspirare e possedere l’eredità paterna. – Indubbiamente, in Dio la natura, le facoltà e le operazioni sono una stessa perfezione infinita. La distinzione è solo nei concetti formati dall’infermità della creatura. Ma questa stessa infermità richiede che la creatura partecipi alla semplicissima unità di Dio per mezzo di perfezioni distinte: di modo tale che, tra le partecipazioni della divinità, le seconde rispondano all’idea di natura, e le prime alle idee di facoltà e operazioni vitali. Così la grazia santificante è una partecipazione della divinità formalmente considerata come natura, cioè come principio primo degli atti che le sono essenzialmente propri. Tale è nella sua suprema realtà la perfezione costitutiva dei figli di Dio. È uno splendore che si fa in noi di ciò che è di più alto, più intimo, più profondo, più naturalmente incomunicabile nella sostanza divina. Così, chi è in stato di grazia, e quindi figlio di Dio per adozione, è in tal modo esaltato al di sopra di tutta la natura creata, perché nessuna natura creata ha nulla né nella sua sostanza sostanziale né nelle facoltà di cui è soggetto e radice, che possa elevarla alla visione beatifica o renderla degna di essa. (Io non ignoro che diversi teologi spiegano diversamente questa partecipazione della natura divina, anche se questa diversità ha forse meno a che fare con la sostanza delle cose che con il modo di concepirle o esprimerle. Per loro la natura divina è Dio formalmente considerato come Essere in essenza, Essere puro, Essere che è solo essere. E questo, dicono, è ciò che rende la partecipazione della grazia eccellentemente superiore ad ogni partecipazione naturale: per grazia, e solo per grazia, la creatura partecipa all’Essere di Dio. È impossibile per me essere d’accordo con questo punto di vista. O voi parlate dell’Essere di Dio, direi a loro, in quanto è l’Essere, o lo considerate formalmente in quanto Essere per essenza. Nel primo senso, ogni essere, fino al più piccolo granello di sabbia, partecipa all’Essere di Dio; Nel secondo senso, nulla partecipa dell’Essere divino: poiché nulla al di fuori di Dio, né per natura né per grazia, può in qualsiasi grado diventare un essere puro, un essere in cui l’essenza è essere, una cosa infine che è in sé il suo essere: sarebbe Dio. – L’Essere per essenza è un essere impartecipato. Così, partecipare alla natura divina, nella misura in cui è l’essere per essenza, in altre parole, rendere possibile in qualsiasi misura questo modo di essere, sarebbe diventare un essere impartecipato, pur rimanendo per ipotesi un essere partecipante e partecipato. Certamente la grazia è una partecipazione formale della natura divina; ma, poiché esclude il modo di essere essenzialmente incomunicabile sotto il quale questa stessa natura si presenta in Dio, è solo una partecipazione per analogia. Ascoltiamo ancora S. Tommaso: « Quiquid perfectionis est in Deo creatura, totum est exemplatum a divina perfectione; tamen perfectius est in Deo quam in creatura; nec secundum illum modum in creatura esse potest quo in Deo est. Et ideo omne nomen quod designat perfectionem, divinam absolute, non concernendo aliquem modum, communicabile est creaturæ, ut potentia, sapientia, bonitas et hujusmodi. Omne autem nomen, concernens modum quo illa perfectio est in Deo, creaturæ incommunicabile est, ut Summum bonum, esse omnipotentem et hujusmodi. » I, D. 43, q. 1, a. 2, ad 1; coll. c Gent, L. I, c. 30 e 1 p., q. 4 a. 3).

4. – Mi si potrebbe dire che queste sono belle considerazioni, ma che diritto hai di concludere che io, figlio adottivo, porti nel mio cuore questa partecipazione alla natura divina, quando non trovo in essa le operazioni di cui essa debba essere il principio? Posso ora contemplare Dio faccia a faccia o amarlo come gli Angeli in cielo? Non è forse un assioma che la natura di un essere sia rivelata dalle sue azioni? – È vero che non è ancora il momento della contemplazione faccia a faccia e del godimento amoroso che l’accompagna. Ma siamo già figli; e se siamo figli, siamo eredi, non di fatto, ma di diritto. Si filii et hæredes, dice San Paolo. Ora, questo doppio titolo di figlio ed erede rivendica, già ora, il principio immanente e permanente delle operazioni che saranno un giorno la nostra eredità e la nostra gloria, cioè la partecipazione creata della natura divina. Più tardi, dovremo considerare nella stessa grazia santificante il principio necessario dei meriti con cui dobbiamo acquistare ciò che è la nostra speranza. Accontentiamoci a questo punto di riflettere sulla nostra condizione di figli ed eredi. – Figli perfetti, lo saremo solo un giorno. Ma fin d’ora noi siamo figli in formazione, modo geniti infantes; figli portati nel grembo della madre loro, la santa Chiesa (V. supr. L. 1, c. 2). « Filioli, figlioli miei – ci dice essa per bocca di San Paolo – figlioli che io faccio nascere di nuovo finché Cristo sia formato in voi » (Gal. IV, 19). Chi non ha notato quante volte queste parole siano usate da Nostro Signore e dai suoi Apostoli (Marco, X, 24; Giovanni, XIII, 33; Galati, l. c.; Giovanni, II; 1, 12, 18, 28; III, 7, 18; IV, 4; V, 21). Possiamo vedere in questo l’espressione di una tenerezza paterna, ma una tenerezza che si manifesta ai figli che sono ancora piccoli “parvulis” nel Cristo, secondo una formula usata frequentemente nei nostri Libri sacri. – Cosa saremo nella beata eternità? Uomini perfetti « secondo l’età e la pienezza di Cristo » (Efesini IV, 13). Ora, la natura del bambino ancora assopito nel grembo materno o tra le braccia di sua madre non è la stessa dell’uomo al culmine del suo sviluppo, anche se allora ha un esercizio più libero delle sue facoltà, e persino certi organi che gli mancavano nei primi giorni della sua esistenza. Ciò che ora possiede in atto, lo aveva in germe; e la perfezione attuale non è altro che il pieno sviluppo della perfezione originale. Ed è in questo senso che i teologi hanno chiamato la grazia un seme di gloria. Dite, se volete, che il figlio degli uomini deve acquisire una nuova natura, un essere nuovo, per diventare un uomo perfetto, ed io dirò che il figlio di Dio non ha già da questa vita la natura soprannaturale che farà la sua perfezione finale. – Non è solo la storia dell’uomo, ma anche quella degli esseri inferiori che protesta contro una tale scissione. Guardate questo rude bruco che si trasforma in una farfalla che risplende d’oro e d’azzurro; questa larva informe che, a lungo immobile nel suo involucro grezzo, improvvisamente prende vita e vola nell’aria, adornata con la più graziosa eleganza. È un essere di un’altra natura? No: perché, per quanto strana sia la trasfigurazione, l’occhio del naturalista ha scoperto nel bruco o nella ninfa il germe di quegli organi della maternità il cui esercizio sarà l’atto supremo della loro esistenza fugace. Così è per i figli di Dio. – Così è anche per i suoi eredi. Il loro attuale diritto all’eredità presuppone che abbiano già la natura che li rende degni. La visione che attendono, e l’ineffabile godimento che è inseparabile da essa, sono già posseduti da loro nella misura che corrisponde alla loro condizione attuale: la visione nella fede, il godimento nella speranza e nell’amore perfetto della carità. Ed è per questo che Pietro e San Giovanni ci parlano con tanta insistenza del seme di Dio che, dimorando in noi, non può allearsi col peccato (Giovanni, III, 9); un seme incorruttibile, causa e principio della nostra rinascita alla vita divina (1 Pet. I, 23). Questa è un’idea veramente grandiosa che non potremo mai meditare o approfondire abbastanza. Un giorno, quando le ore di prova saranno cessate e saremo finalmente nella casa del Padre, ci sarà un bellissimo spettacolo: Dio in piedi nell’assemblea degli dei « Deus stetit in synagoga deorum » (Sal. LXXXI, 5).  Ma grazie a questo seme di Dio, partecipazione creata della natura paterna, che germoglia nelle anime dei figli adottivi, questi dei esistono già, almeno a grandi linee. Se non hanno l’organo della visione immediata che aprirà le profondità di Dio, ne possiedono già l’esigenza e i primi rudimenti, così come il bambino possiede fin dall’inizio la facoltà di vedere e sentire, anche se non è ancora formato o sviluppato (notiamo, di passaggio, che è la stessa cosa partecipare alla natura e partecipare alla vita divina). Infatti, la vita di Dio è conoscersi ed amarsi. Perciò, partecipare alla divinità così come è concepita come principio della sua propria conoscenza è chiaramente partecipare alla vita stessa di Dio).

LA GRAZIA E LA GLORIA (9)

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (11)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE I SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (11)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO QUARTO

LA LODE DI GLORIA

(I)

« Nel cielo dell’anima mia: la gloria dell’Eterno, niente altro che la gloria dell’Eterno ».

1) Il nome nuovo — 2) Una lode di gloria è un’anima di silenzio — 3) La lode di tutti i suoi doni — 4) La vita eterna incominciata — 5) La lode dell’anima crocifissa — 6) L’anima è un cielo che canta Dio – 7) Ufficio di una lode di gloria.

Per un antropomorfismo quasi insuperabile, la maggior parte delle anime considerano tutte le cose e persino Dio in relazione a se stesse, mentre dovrebbero considerare tutte le cose e se stesse dal punto di vista di Dio. Così che la santità sembra, a molti, fine a se stessa; mentre, in realtà, la santità medesima è subordinata a un fine superiore, veramente fine ultimo: la gloria della Trinità. Dio non ha creato l’universo e non ha mandato nel mondo il Figlio suo se non per la propria gloria; se Egli agisse per altri all’infuori di Sé, non sarebbe più Dio. Questa verità, di tutte la più elementare per quelli che hanno il senso della trascendenza divina, non appare dominatrice nella vita dei santi, che più tardi, quando la loro anima è già consumata nell’unità. Divenuti un solo spirito con Dio, i pensieri loro si uniformano alla Sapienza divina, e la loro volontà si umilia ai divini voleri. La Vergine e Cristo, Essi solo, hanno realizzato a perfezione fino dal primo istante della loro esistenza, questo programma della glorificazione divina, che è il termine in cui ogni santità raggiunge sulla terra la sua pienezza. Vi è, infatti, un duplice movimento nel nostro amore per Dio: Lo amiamo per noi stessi, e lo amiamo per Lui. Amare Dio per noi è cosa legittima: è cercare in Lui il termine che appaghi tutte le nostre Potenze; in questo senso Cantava il Salmista: « Grande bene è per me lo stare unito a Dio » (Salmo LXXII-28.), e suor Elisabetta non cessava di ripetere: « Ho trovato il mio cielo sulla terra, poiché il cielo è Dio, e Dio è nell’anima mia. È sempre il medesimo Dio posseduto da noi nella fede, dai beati nella visione » (Lettera alla signora De S.. – 1902). Sant’Agostino parla di un’altra maniera di amare Dio e di raggiungere l’unione divina: « Vivere di Dio per Dio ». – E san Tommaso: « Non vivere per sé, ma per Dio » (San Tommaso, IT-IT, q. 17, a. 6, ad 3. Charitas facit tendere in Deum, uniendo affectum hominis Deo: ut scilicet homo non sibi vivat, sed Deo.). Questo è il vertice dell’amore e la più alta definizione della vita spirituale: non purissimo amore disinteressato, che escluda il desiderio della beatitudine cosi atto a santificarci; ma amore che si rivolge innanzi tutto a Dio, come di dovere. In ogni cosa e soprattutto in amore, « Dio abbia il primo posto ». – I santi non si sono profondamente compenetrati di questa verità così evidente se non quando le pene e le croci della vita li hanno completamente liberati dal loro io; comincia allora in essi quella vita deiforme che li riveste dei « divinis moribus ». La loro fede luminosa e incrollabile fa loro vedere tutte le cose nella luce del Verbo; la Speranza li stabilisce in anticipo nel possesso inalienabile delle ricchezze trinitarie; il loro amore sembra identificarsi a quel riposo beatificante ove Dio trova in se stesso compiacenze ineffabili; la giustizia loro è una volontà invincibile di dare onore e gloria a Dio ovunque e sempre; la prudenza discopre loro la Provvidenza sovrana che dirige e governa l’universo, regolandone anche i minimi particolari; la loro forza, trionfatrice e dominatrice di tutte le umane agitazioni, li avvicina all’immutabilità di Dio. Sono puri; di quella purezza inaccessibile che isola l’Essenza divina da ogni contatto col creato. Questa bella, luminosa sera della vita dei santi è come una visione anticipata e pacifica della eternità. L’anima, nello stato deiforme, la vive nella unità della Trinità. È la fase Suprema dell’unione trasformante, abituale nei beati del cielo, ma non raggiunta che da poche, rare anime perfette, qui sulla terra.

1). Qualche cosa di analogo è accaduto nella sera così rapida della vita di suor Elisabetta della Trinità. Per lungo tempo, ella soffrì di sentirsi come impigliata in se stessa, impotente ad uscirne. La liberò Dio stesso con un intervento diretto, dopo averla preparata a questa grazia suprema rivelandole il suo nome nuovo, quel nome che doveva dare alla sua vita spirituale il suo orientamento definitivo. E tale grazia le fu concessa durante il periodo delle licenze. Si era recata a visitare una consorella più anziana (Tutto questo racconto l’ho udito dalla viva voce della suora stessa) nella sua cella; e suor Elisabetta, la discepola, ascoltava. Si scambiavano, con semplicità, le loro idee e a vicenda si incitavano all’amore di Dio, proprio come i cattivi si comunicano le loro trame per compiere il male. Ad un tratto, la consorella dice a suor Elisabetta: — Ho trovato in san Paolo un passo meraviglioso: « Dio ci ha creati per la lode della sua gloria ». L’altra ne fu impressionata e rapita; rientrata nella sua celletta, prese il libro delle Epistole e si mise a cercare il passo che tanto l’aveva colpita, desiderando conoscerlo nel testo latino; ma non lo trovava. Tornò, allora, dalla consorella — Vi prego, volete indicarmi l’epistola e il versetto in cui si trova? L’ho cercato, ma inutilmente. E, raccontandoci l’episodio, la Suora aggiunse: — Poi, non me ne parlo più. Solo Più tardi, quando suor Elisabetta era già in infermeria, mi accorsi che la nostra Madre ed altre suore la chiamavano: « Laudem gloriæ ». lo non avevo dato troppa importanza a questo passo di san Paolo che pure ammiravo; non ho avuto la stessa grazia di suor Elisabetta, che doveva farne il suo « nome nuovo ». Infatti, la grazia divina si servi di questa formula del suo caro san Paolo, per slanciarla verso le più alte cime. Questo incontro era avvenuto nella Primavera o nell’estate del 1905. La grazia lavorò, lentamente dapprima, determinando però un orientamento nuovo nella sua vita interiore; fin dal 1° gennaio 1906, scrive: « Voglio confidarvi una cosa tutta intima: bramo di essere una « lode di gloria ». L’ho trovata in san Paolo questa espressione; e lo Sposo mio mi ha fatto sentire che questa è la mia vocazione fin dall’esilio, nell’attesa di poter intonare il « Sanctus » eterno nella città dei santi. Ma tale vocazione richiede una grande fedeltà, perché, per essere « lode di gloria » bisogna morire a tutto ciò che non è Lui, affine di non vibrare più che al suo tocco divino. E invece, la Povera Elisabetta fa ancora dei torti, talvolta, al suo Signore. Ma, come un tenero Padre, Egli la perdona sempre, la purifica sempre col suo divino sguardo, come san Paolo, cerca « di dimenticare ciò che lascia indietro, per slanciarsi verso quello che le sta dinanzi » (Lettera al Canonico A. – Gennaio 1906.). – D’ora in poi, ogni volta che suor Elisabetta potrà scrivere con intimità ad un sacerdote, gli chiederà che voglia consacrarla, durante il santo Sacrificio, come « ostia di lode », o come « lode di gloria ». Quando, la sera della domenica delle Palme, il suo divino Maestro piombò su di lei come sulla preda, con una crisi fulminea, credette di essere giunta alla fine. E attese la morte, con gioia. – Seguì invece, un lieve miglioramento che la sorprese; e quando il suo Signore le fece comprendere che gli uffici della terra non erano più per lei e che, d’ora innanzi, Egli la voleva tutta Occupata della sola Sua gloria, suor Eli. sabetta prese meglio coscienza del suo nome, quel nome nuovo che sarebbe il suo, ormai, nel tempo e nell’eternità. « Essere una lode di gloria alla Trinità », ecco che cosa le chiede ora il suo Dio, su quel letto di dolore, divenuto « l’altare della sua continua immolazione con Lui» (Lettera al Canonico A… – Luglio 1906.). La sua vita interiore si semplifica: « Lasciarsi crocifiggere per essere lode di gloria », e basta. Ma vi è racchiuso tutto e, per prima cosa, l’oblio di se stessa, intero, assoluto: lo raggiunge, lentamente dapprima, poi con grande rapidità; non mira più che alla lode incessante, sempre ed in tutto: … il resto non le sembra che vanità. Il suo nome stesso di suor Elisabetta della Trinità non basta più ad esprimere interamente il suo programma unico; tanto che, con gl’intimi, non si firma Elisabetta, ma « Laudem Gloriæ ». Suor Elisabetta: significava l’anima celata nella profondità del proprio essere per gioirvi di Dio presente: « Laudem gloriæ » segna un’altra tappa incomparabilmente superiore: la sola Preoccupazione della gloria di Lui. È il canto del cigno di questa vita che si spegne. Dalla sua grande anima d’artista non si sprigioneranno più che armonie divine, sotto i tocchi ineffabili dello Spirito. Non più sforzi violenti per radunare le potenze dell’anima; già le possiede nell’unità, sempre. E senza interruzione sale dall’anima sua il Canticum novum « il cantico del nome nuovo »: la lode di gloria ininterrotta. I pensieri inutili o i desideri vani sono scomparsi; nella sua anima serena e crocifissa, regna l’unità in cui trionfa l’amore. Tutte le corde della sua lira sono tese, pronte a vibrare al minimo soffio dello Spirito: le note gravi del suo doloroso Calvario vi sono unite agli accenti vibranti di giubilo divino che desta nell’anima sua il pregustamento della gioia beatifica, ormai vicina. Tutte si fondono in una armonia che sale a Dio come un inno di gloria che il Verbo si canta in quest’anima tutta trasformata in Lui. Questa sera tanto bella della vita di suor Elisabetta della Trinità è qualche cosa di divino. Il Padre Vallée, rievocando, alla notizia della sua morte, le ultime settimane di quella vita santa, scriverà alla signora Catez che furono ore « straordinariamente belle e divine ». Dio terminava di conformarla a Cristo, sulla croce; compiva quello che era stato il suo unico sogno: essere sempre più simile a Cristo Crocifisso per amore, a « Colui che fu la perfetta lode, di gloria », ed « esprimerlo agli sguardi del Padre » (Ultimo ritiro XIV). « Vivo nel cielo della fede al centro dell’anima mia e procuro di dare gioia al mio Signore, essendo già sulla terra, la « lode della Sua gloria » (Lettera al Canonico A. – Maggio 1906). È questa la parola d’ordine che sempre ritorna spontanea, parlando con gl’intimi. Con la sua Madre Priora, poi, è il tema abituale e il più caro; dopo la malattia soprattutto; l’anima della sua figliola non ha più alcun segreto, per lei; essa è il sacerdote che deve offrire alla Trinità santa la piccola « ostia di lode ». Colloqui e feste intime ve la riconducono invariabilmente. Per la festa di santa Germana, onomastico della Madre sua, e ultimo — lo sa bene — che festeggia sulla terra, suor Elisabetta prega un’amica di rappresentare simbolicamente la Trinità e porre nel quadro tre anime che tengono un’arpa per cantarne la gloria. « Una di queste anime — scrive — dovrebbe essere più bella, perché deve rappresentare la nostra Madre; l’altra, una sorellina dell’anima mia in questo Carmelo; la terza sono io» (Lettera alla signora H.… – 3 giugno 1906.). Su questa immagine, poi, vuole che si scriva: « Deus prædestinavit nos ut essemus laudem gloriæ eïus. Dio ci ha predestinati, perché siamo le lodi della Sua gloria ». Si trattava in fondo, di rappresentare simbolicamente la sua vocazione suprema di lode di gloria. Così, nella sua cameretta dell’infermeria, poté festeggiare per l’ultima volta la sua Madre Priora cosi teneramente, così filialmente amata. « La sera, nella nostra piccola cella, soltanto fra la Madre nostra e le sue due beniamine, si è svolta la semplice festa tutta intima. La mia cara sorellina, che è un vero serafino, vi ricompenserà nella preghiera della gioia che le avete procurata. Aveva preparato, sopra un tavolino, tutta una piccola esposizione: al posto d’onore, il vostro bel quadro con l’immagine della SS. Trinità, per il quale, devo dirvi un grazie vivissimo. Vi era pure la medaglia inviata dalla mamma mia e un piccolo dono di Margherita; inoltre, alcuni lavoretti e dei mazzolini mistici, fra i quali la vostra offerta per una santa Messa era il fiore più bello » (Lettera alla signora H.. – Luglio 1906). – Fra le consorelle, nella confidenza del suo « segreto » di grazia, non si chiamava più che « laudem gloriæ »; e alla lettera d’addio indirizzata alla sorella Margherita, aggiunge come Post-scriptum: « Sarà il mio nome, in cielo » (Estate 1906.). Questo nome nuovo ha un’importanza grandissima per lo psicologo o per il teologo che vuole rendersi conto del grado di sviluppo che la grazia del battesimo ha raggiunto in suor Elisabetta della Trinità. Questo « nome personale », il nome con cui il Pastore divino distingue e chiama ad una ad una le sue pecorelle, ci permette di cogliere il termine della predestinazione di un’anima. Questo nome, ne siamo convinti, à il tratto più caratteristico della missione di suor Elisabetta. – Il grande ostacolo della Carmelitana e di ogni anima contemplativa à il pericolo di vivere di fronte a se stessa invece che vivere di Dio in sé. Ora, la grazia tutta propria di suor Elisabetta della Trinit à, divenuta « Laudem gloriæ », è di raccogliere le anime nell’intimo di se stesse, ma per farle uscire di sé, mediante l’amore e la lode di gloria. Non ci sarebbe dato di conoscere quasi nulla della sua vita spirituale giunta a questa altezza, se la Madre Germana, considerando già suor Elisabetta come una piccola santa, non avesse avuto la provvidenziale ispirazione di chiederle in iscritto il suo segreto. « Quando entrò nel ritiro che doveva essere l’ultimo per lei, dal 15 al 31 agosto, le chiesi di scrivere alcuni pensieri per esprimere come intendeva e considerava la sua vocazione di lode di gloria. La santa malatina comprese, e accettò sorridendo » (Ho saputo questi particolari dalla Madre Germana stessa). Prese allora un quadernetto e, durante le sue lunghe e penose insonnie, dopo le undici e mezzanotte, quando era ormai sicura che la Madre Priora non sarebbe più andata a trovarla, si metteva a scrivere. Riempito il quadernino da cima a fondo, lo consegnò alla sua Priora senza occuparsene più. Quelle pagine che ben chiaramente si sentono dettate dallo Spirito Santo ad un’anima tutta inabissata nel dolore e nella beatitudine, sono un purissimo capolavoro di spiritualità, e pongono suor Elisabetta della Trinità fra i più grandi scrittori mistici. Non si potrebbero davvero spiegare queste elevazioni sublimi, scaturite di primo getto e prive di qualsiasi correzione, senza un vero carisma di composizione che fa ricordare istintivamente la rapidità con cui santa Caterina da Siena, sotto la mozione dello stesso Spirito, dettava ai discepoli che a stento riuscivano starle alla pari, il suo meraviglioso Dialogo. Sono fatti, questi, che sorpassano ogni arte umana ed è impossibile non riconoscervi i tocchi, trascendenti qualsiasi tecnica, dello Spirito di Amore, che è pure arte divina e suprema Bellezza. Se si vuol conoscere il pensiero più profondo di suor Elisabetta della Trinità, bisogna cercarlo nell’ultimo suo ritiro. Esso costituisce, per così dire, la sua piccola « Somma » mistica, la quintessenza della sua dottrina spirituale, nel momento più elevato della sua esperienza mistica. È un vero e proprio trattato dell’unione trasformante, tale quale la concepiva nella linea della sua vocazione di lode di gloria, e quale la viveva, nell’intimo; è tutto un programma di vita da lei lasciato alle « lodi di gloria » che vorranno più tardi seguire le sue tracce nella via di una santità interamente dimentica di sé e tutta orientata verso la gloria purissima della Trinità. Nella sua maniera di concepire l’ufficio di « lode di gloria », si ritrovano le idee fondamentali della sua vita interiore e tutte le grandi linee maestre della sua spiritualità: silenzio, spogliamento assoluto, amore della Trinità e culto del divino volere, conformità sempre più ardente con l’anima di Cristo Crocifisso; ma vi si ritrovano sotto un’altra luce che tutte le modifica: nella pura luce della gloria della Trinità. Tutto un mondo spirituale nuovo se ne sprigiona, come se, ad un tocco di bacchetta magica, apparissero in piena luce dei cari esseri familiari che si sentono vivere intorno, nel buio di una notte oscura. L’anima non sa più nulla, fuorché Cristo, il Crocifisso per amore del quale sogna di morire trasformata; la Trinità della quale vuole essere l’incessante lode di gloria; e la Vergine, questa Madre di grazia, la cui missione è di formare nelle anime l’immagine vivente del Primogenito, il Figlio dell’Eterno, Colui che fu la perfetta lode di gloria del Padre. Sono questi i sentimenti più intimi di suor Elisabetta, nell’istante in cui entra nel raccoglimento dell’ultimo suo ritiro sulla terra, la sera del 15 agosto, supplicando Janua cœli di prepararla alla sua vita dell’eternità. Qui ancora, come sempre, la sua concreta psicologia spiega la sua dottrina.

2) Una Lode di gloria è, prima di tutto, un’anima di silenzio. « Non sapere più nulla »: è il programma di una lode di gloria, spogliata di tutto e di se stessa, libera di vibrare all’unico soffio dello Spirito. Ci troviamo ricongiunti, in tal modo, all’ascesi fondamentale di suor Elisabetta della Trinità. « Nescivi. Non seppi più nulla »: ecco ciò che canta la Sposa dei Sacri Cantici, dopo essere stata introdotta nella cella interiore; e questo, mi sembra, dovrebbe essere il ritornello di una « lode di gloria » in questo primo giorno di ritiro in cui il Maestro la fa penetrare sino in fondo all’abisso insondabile, per insegnarle a compiere quell’ufficio che sarà suo per l’eternità, e nel quale già deve esercitarsi nel tempo, che è l’eternità incominciata. Nescivi: non so più nulla, non voglio più nulla, fuorché « conoscere Lui, essere partecipe dei suoi dolori, essere conforme alla sua morte » (Ultimo ritiro I). « Come è indispensabile, questa bella unità interiore, all’anima che vuol vivere quaggiù la vita dei beati, cioè degli esseri semplici, degli spiriti!.… Possono sopraggiungere, allora, le agitazioni esterne, le interne tempeste; può venire intaccato il suo onore: « Nescivi ». Dio può nascondersi, può sottrarle la sua grazia sensibile: « Nescivi….» (Ultimo ritiro II). L’anima raccolta nelle profondità di se stessa, nel silenzio e nell’unità delle sue potenze, à tutta consacrata alla lode della divina gloria. Suor Elisabetta della Trinità si ricongiunge, quindi, alla dottrina del « nescire, non sapere nulla », che il suo grande maestro spirituale, san Giovanni della Croce, pone come base della propria teologia mistica.

LA GRAZIA E LA GLORIA (7)

LA GRAZIA E LA GLORIA (7)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO II

LA NATURA DELLA NOSTRA FILIAZIONE ADOTTIVA. – IL PRINCIPIO COSTITUTIVO CREATO, VALE A DIRE LA GRAZIA SANTIFICANTE CON LE VIRTÙ ED I DONI.

CAPITOLO PRIMO

L’esistenza e la necessità di una grazia creata per costituire l’adozione. – Dottrina della Sacra Scrittura e dei Padri.

.1 – S. Dionigi l’Areopagita, nella sua opera immortale La Gerarchia Ecclesiastica, insegna che la deificazione degli uomini e degli Angeli consiste essenzialmente « nell’unione e nella somiglianza dell’uomo con Dio » (S. Dionigi Aerop., De Eccl. Hier. c. 1, § 3). In poche parole, si tratta di assegnare i principi costitutivi dell’adozione che ci rende figli di Dio per grazia. Nei libri seguenti dovremo occuparci di questa ineffabile unione che ci lega così intimamente a tutta la Trinità. La somiglianza impressa nelle nostre anime, come Principio interiore dell’essere divino, che ci è data dalla rigenerazione spirituale, sarà l’argomento del presente libro. Io la chiamo grazia creata, secondo la formula universalmente accettata nelle nostre scuole. La grazia: sia perché è un dono di pura liberalità divina, sia perché ci rende gradevoli a Dio, come figli diletti del suo cuore. Grazia creata: perché è una perfezione finita, distinta non solo dall’anima ma anche da Dio che la produce. – Cominciamo a dimostrare la sua esistenza, poi vedremo qual sia la sua intima natura e di quali altri doni sia la fonte. – La questione, quindi, non è il sapere se dobbiamo ammettere delle grazie attuali, tocchi passeggeri di Dio sull’anima, lampi improvvisi che la illuminano, eccitazioni che la sollevano o la inclinano verso le cose di Dio; perché non è questo che ci rende figli. La fede ci mostra queste grazie come aiuti transitori dati all’anima, o perché essa tenda allo stato di giustizia che non ha ancora, o perché operi in modo conforme con quello stato e si conservi in esso. Ci chiediamo in questo momento se Dio mette nelle anime di coloro che Egli accetta come suoi figli, una realtà fisica, positiva e permanente; ciò che abbiamo convenuto di chiamare grazia abituale, grazia santificante, gratia gratum faciens, grazia per eccellenza, grazia (tra i teologi medievali, il termine gratia è comunemente inteso come grazia abituale e santificante, gratia gratum faciens, come si dice. Per designare le grazie attuali si usano le parole adjutorium divinum, adjutorium Dei moventis, illuminantis et inspirantis, auxilium speciale, o altri equivalenti. Questo è ciò che si deve notare, se non si vuole andare fuori strada nell’interpretazione dei loro testi. Non devo ricordare qui tutti i sistemi più o meno erronei o sconsiderati che sono sorti nel corso dei secoli cristiani su questa questione, tanto meno confutarli nel dettaglio, come si farebbe in un trattato di teologia scolastica. Il cardinale Bellarmino nelle sue dotte Controversie (Bell., De Justif., l. II, c. 1), dopo aver enumerato i molteplici e spesso contraddittori errori del protestantesimo sul dogma della Giustificazione, o, il che equivale alla stessa cosa, della nostra adozione divina, ha fatto questa osservazione molto giudiziosa: « Tutto lo stato della controversia può essere ridotto a questa domanda molto semplice: c’è veramente in noi una causa formale della giustificazione che sia come un principio intrinseco dell’anima, e la renda pura e santa davanti a Dio? (Nel seguito avremo occasione di spiegare più pienamente il significato di queste parole « forma e causa formale ». Notiamo solo che significano ciò che in un essere è il principio intrinseco della sua perfezione; ciò che determina l’elemento materiale: ciò che consente a questo essere di essere ciò che è. – Per esempio, è attraverso l’anima e non attraverso il corpo che siamo esseri viventi, intelligenti e liberi; è l’anima che determina la materia, che potrebbe entrare in mille altri composti, nel diventare un corpo umano; è infine l’anima che, come principale parte costituente dell’uomo, causa la sua specifica perfezione. Essa è dunque una causa formale e forma, ma forma sostanziale, perché ciò che costituisce è una sostanza. Per esempio, è attraverso la figura dovuta allo scalpello dell’artista che un blocco di marmo, che potrebbe rimanere senza forma nella cava o essere, per usare un’espressione del nostro grande fabulista, « dio, tavola o ciotola », la statua di questo o di quell’eroe. La figura è la forma della statua, poiché essa determina il marmo, e lo rende la rappresentazione voluta dallo scultore). Se la risposta è affermativa, come effettivamente deve essere, allora tutta l’impalcatura incoerente dei sistemi ideati dagli eretici si sgretola e cade. Perché se il caso formale della nostra giustificazione è una giustizia inerente all’anima, non è dunque la stessa giustizia di Dio che abita in noi (come ha sostenuto Osiandro); non è la giustizia di Dio che ci sarebbe imputata (secondo Illirico e molti altri); non è solo la remissione dei peccati senza alcun rinnovamento interiore (come piaceva a Calvino, per esempio). E se la giustizia intrinseca è la causa formale della giustificazione, allora non è necessario ricorrere all’imputazione della giustizia di Cristo per completare una giustificazione altrimenti imperfetta, né tanto meno alla fede, che sarebbe come la mano con cui faremmo nostra la giustizia di Dio. Infatti, tutti questi errori e altri più o meno simili, concordano nel negare la giustizia intrinseca, nel rifiutare un rinnovamento interiore che ha per principio e causa un dono creato che ha per soggetto l’anima, e la trasforma ad immagine di Dio  (Bellar. De Justif., l II, c. 2). – Questo, dunque, è il nostro compito al momento presente: mostrare contro gli eretici che questa grazia che ci rende figli adottivi e giusti e santi davanti a Dio, sia una realtà creata, una forma intrinseca e non esterna di rinnovamento spirituale. Per dimostrare anche, contro certe idee particolari di alcuni autori cattolici, che questa stessa forma di rinnovamento spirituale è realmente distinta dall’anima e dalle sue operazioni; che è permanente nella sua natura; che non è altro in sé che un titolo della presenza dello Spirito Santo, un diritto morale alla sua assistenza, e non so quale tendenza che, senza aggiungere nulla di fisico alla natura, la spingerebbe tuttavia a produrre teorie più o meno fondate sulla filosofia nominalista o cartesiana, la cui colpa era non solo di allontanarsi dalla dottrina comune e tradizionale, ma anche di aprire la strada ad opinioni assolutamente contrarie alla verità cattolica.

2. – Una volta stabilite queste nozioni preliminari, entriamo ulteriormente nel nostro argomento. Ora, se vogliamo riferirci alle autorità della Sacra Scrittura e dei Padri, che abbiamo citato nello svolgersi del primo libro, sarà sorprendente che l’esistenza della grazia creata, come l’abbiamo appena descritta, possa essere ancora un argomento di discussione. Se siamo figli adottivi di Dio, graditi a Lui non in qualunque modo, ma nati, generati da Lui, come può questa adozione non mettere nulla di positivo e di stabile in noi? C’è generazione senza una certa comunione di natura tra il padre e il figlio che genera? E quale sarà questa comunione di natura, se non c’è alcuna trasfusione finita della sostanza infinita di Dio nella sostanza dei suoi nuovi figli? – Se siamo immagini di Dio, non deve Egli riversare in noi una forma, una proprietà che, applicandosi in qualche modo alla nostra essenza umana, la modelli e la trasfiguri nella rappresentazione dell’archetipo divino? – L’immagine naturale avrebbe come fondamento la natura con tutte le sue facoltà, e l’immagine della grazia poggerebbe su un vuoto, o almeno su un fondamento senza fermezza o consistenza? C’è da credere a questo? – È anche credibile che ci sia un rinnovamento interiore così profondo che il suo termine sia una nuova creatura, e il suo principio una specie di creazione, senza che l’uomo, così rinnovato, così ricreato, acquisisca nella sua sostanza una realtà positiva che con la sua permanenza e la sua perfezione risponda alla grandezza del nuovo essere? Perché parlarci di trasformazione divina, di trasfigurazione, di metamorfosi e rifacimento, di un seme di Dio depositato nelle anime, in una parola, di deificazione, se né l’occhio degli Angeli, né l’occhio di Dio stesso, vedono nel giustificato altre perfezioni immanenti e durature che non siano quelle della natura?  – Come possiamo infine concepire questa vita dei figli di Dio, così magnificamente superiore a tutta la vita naturale, se non siamo disposti a riconoscere il principio vitale da cui scaturiscono connaturalmente le operazioni che si addicono ai figli adottivi di Dio?  Ci avrebbe Dio ingannato con le sue promesse, essendo come noi, poveri uomini, magnifico nelle parole e parsimonioso negli effetti. Lungi da noi sminuirlo a nostra misura! Quello che dice, Egli lo fa; o meglio, fa più e meglio di quello che dice, perché il nostro linguaggio in cui ci parla è impotente a trasmettere la grandezza, la magnificenza e la realtà dei suoi doni.

3. – Queste considerazioni sono decisive, e non vedo cosa potrebbe essere addotto per attenuarne la forza. Tuttavia, poiché si è tentato più di una volta di sostenere sull’autorità dei Padri certe opinioni che le combattono, non sarà inutile rimettere in discussione questi testimoni della tradizione divina e questi interpreti dei nostri Libri sacri. Tra tutte le formule impiegate nelle loro opere per caratterizzare l’elemento formale e creato della nostra filiazione, sceglierò prima di tutto le immagini e i paragoni con cui ci rappresentano l’azione di Dio sulle anime giustificate. –  È l’azione del pittore sulla tela. « Dio – dice S. Ambrogio (Hexæm. L. VI, c. 7 e 8, n. 42, 47) – parla dell’anima fatta a sua immagine quando dice: Io, Gerusalemme, ho dipinto le tue mura (Is. XLIX). L’anima dipinta da Dio è l’anima adornata con la grazia della virtù e lo splendore della pietà. Oh, come è meravigliosamente dipinta quest’anima in cui brilla lo splendore della gloria e l’immagine della sostanza del Padre! Perché è per questa pittura che l’anima è così preziosa… O uomo, tu sei stato dipinto; dipinto, ti dico, dal Signore tuo Dio. Che artista eccellente e che pittore ammirevole è il tuo! Attenzione a non distruggere un dipinto così divino, fatto non di menzogne, ma di verità, non di colori deperibili, ma da una grazia immortale » (Il santo, dopo alcuni ottimi consigli che trae da questa idea per i Cristiani in generale e per i poveri ed i ricchi in particolare, si rivolge alle donne del mondo: « O donna, tu distruggi questo quadro quando, per farti più rosa o più bianca, ti metti sul viso dei colori che alterano. Questa pittura è la pittura del vizio e non della bellezza; la pittura della frode e non della semplicità… Vi prego, non andate a sostituire la pittura di Dio con quella di una creatura contaminata… Che disgrazia e che crimine, se si costringe Dio a dire un giorno: non riconosco la mia immagine, né i miei colori, non trovo il volto che ho formato. Lungi da me ciò che non è mio! Vai, cerca colui che ti ha dipinto; goditi la sua società, le sue grazie… ». – Ibid. n. 47). È, dopo l’azione del pittore, quella dello scultore sul marmo, o dello statuario sul bronzo. « Né la creatura è così miserabile, né Dio così debole, da non poter dare alle creature una santa parte della sua infinita bellezza. Perciò, fin dall’inizio, si è degnato di fare l’uomo a sua immagine e somiglianza. Ora, come sappiamo, l’immagine partecipa dei tratti distintivi della copia da cui l’artista la esprime, una volta che il pensiero e la mano dell’artista l’hanno riprodotta sulla tela o nel marmo. Vedete un pittore, o uno scultore, un uomo che vuole fare una statua d’oro o di bronzo, come guarda il modello per formarsene interiormente l’immagine di cui rivestirà la materia. Se gli uomini non possono modellare la materia a somiglianza dei loro modelli senza renderla partecipe della loro idea, come potrebbe la creatura ricevere in sé la somiglianza divina senza partecipare essa stessa al carattere divino? (S. Basilio, c. Eunom, L. V. P. Gr., vol. 29, p. 724) Così parla S. Basilio; e S. Cirillo di Alessandria dice a sua volta: « Lo Spirito di Dio, trasformante in un certo modo le anime umane in se stesso, le impregna di una somiglianza divina, e scolpisce in esse l’effigie della sostanza, regina e vertice di ogni sostanza » (S. Cirillo Alex, L. XI in Joan, XVII, 20, P. Gr.; t. 94, p. 553). – Questa è l’azione del sigillo sulla cera. Ascoltiamo ancora San Cirillo: « Se per questo stesso fatto che siamo marchiati dallo Spirito Santo come con un sigillo misterioso, siamo riformati a somiglianza di Dio, come può essere una creatura colui la cui impronta riproduce in noi l’immagine dell’essenza divina e i tratti della natura increata? …. Il vero Dio, procedendo da Dio, si imprime invisibilmente sulle anime che lo ricevono, come un sigillo sulla cera; e così comunicando la sua somiglianza alla nostra natura, ripercorre in essa la bellezza dell’archetipo divino, e restaura nell’uomo l’immagine di Dio. Come può allora, ancora una volta, essere una creatura, colui del quale la natura umana è rifatta a immagine del suo Creatore e diventa partecipe di Dio? (S. Cyrillus Alex, Thesaur Ass. 34, p. 79, 609). Ecco ancora l’azione del coniatore sulla moneta. « La moneta d’oro per entrare nella tesoreria reale deve portare l’effigie del re. Così l’anima che non mostra incisa nella sua sostanza l’immagine dello Spirito celeste, cioè Cristo stesso, quest’anima non è degna di essere ammessa nei tesori eterni » (S. Macar., Agypt. Bibliot. M. PP. hom. 30, p. 145). – Infine, ecco l’azione del sole sui corpi che esso illumina: « Lo Spirito del Signore ha riempito tutto l’universo… Con la sua luce inonda interiormente colui che ne è degno. Se il sole brilla su una nuvola leggera, brilla d’oro e di luminosità. Così lo Spirito di Dio, quando entra in un’anima, diffonde in essa vita, immortalità e santità » (S. Basilio, adv. Eunom., L. V. P. Gr. T. 29, p.767). – Non so se sia possibile esprimere più chiaramente la realtà creata che dobbiamo dimostrare in questo capitolo. Per coloro che hanno ancora qualche dubbio, ecco alcune dichiarazioni che sono ancora, se possibile, più esplicite. Le prendo in prestito da tre dei nostri Dottori più famosi. Il primo è di San Cirillo di Alessandria: « Come è necessario che ciò che è nato dalla carne sia carne, così è necessario che ciò che è nato dallo Spirito sia spirito (Gv. III, 6): perché dove l’essenza è diversa, il modo di generazione non può essere identico. Ma, sia chiaro, se chiamiamo lo spirito dell’uomo un frutto dello Spirito, non intendiamo con questo che esso abbia ricevuto la propria natura, il che sarebbe il massimo dell’assurdo. Egli è frutto dello Spirito, perché è lo Spirito che lo ha chiamato dal nulla all’essere; lo è anche e soprattutto perché è lo Spirito che lo rifà a immagine di Dio, quando imprime i suoi tratti nelle nostre anime e le trasforma, per così dire, nella sua stessa qualità » (S. Cyrill. Alex, L. II in Joan, III, P. Gr., vol. 73, p. 245). E ancora: « Cristo è formato in noi in virtù di una forma divina che lo Spirito Santo infonde in noi attraverso la santificazione e la giustizia » (S. Cyrill. Alex, L IV, orat. 2, in. Is., c. XLIV, 21-22, P. Gr., t. 70, p. 936). – Sant’Agostino ci darà la seconda affermazione: io la trovo nell’opposizione che egli mette tra la nostra giustizia e quella di Dio che ci giustifica, quando parla della sapienza che, secondo l’Ecclesiastico, « è stata creata per prima, prima di tutte le cose » (Eccl. I, 4): « Non – egli dice – quella sapienza di cui voi siete il Padre, o Dio, uguale e coeterno a Voi medesimo, da cui tutte le cose sono state create, principio in cui avete fatto il cielo e la terra; ma quell’altra sapienza, una creatura, una sostanza intelligente, leggera per la contemplazione della tua luce: infatti, per quanto sia una creatura, essa porta anche il nome di sapienza. Ma c’è una grande differenza tra la luce illuminante e la luce illuminata; tra la sapienza creatrice e la sapienza creata; tra la giustizia giustificante e la giustizia portata dalla giustificazione » (S. Ago., Confess., L. XII, c.15). Il Santo Dottore ritorna allo stesso pensiero nelle sue controversie con i pelagiani. « O uomo! Considera queste parole dell’Apostolo: La giustizia di Dio è stata manifestata dalla testimonianza della legge e dei profeti (Rom. III, 21). È questo sufficiente per i sordi? La giustizia di Dio, dice, è stata manifestata. Non dice la giustizia dell’uomo, la giustizia della propria volontà, ma la giustizia di Dio; non la giustizia per cui Dio è giusto, ma quella di cui riveste l’uomo peccatore quando lo giustifica. – L’Apostolo aggiunge: La giustizia di Dio attraverso la fede di Gesù Cristo, cioè attraverso la fede che ci fa credere in Cristo. Questa fede di Cristo di cui l’Apostolo parla qui non è una fede per cui Cristo stesso crede; così questa giustizia di Dio non è la giustizia per cui Dio è giusto, ma è chiamata la giustizia di Dio, la giustizia di Cristo, perché è dalla sua liberalità che noi l’abbiamo » (S. August., de Spirit. et litt., c. 9, n. 15; col. cont. ep. 2 Pelag.). – E come ha distinto la giustizia, così distingue l’amore basato sulla giustizia: « La carità che, secondo l’Apostolo (Rom. V, 5), è riversata nei nostri cuori, non è la carità con cui ci ama, ma la carità con cui ci rende amanti (dilectores) della sua bontà; come la giustizia di Dio è la giustizia che, per mezzo della sua grazia, ci rende giusti in noi stessi,… e la fede di Cristo, la fede che ci rende fedeli » (S. Agostino, de Trinit., L. V, c. 17). Questa è una dottrina bella e chiara, a cui fa eco San Bernardo quando scrive: « La carità è detta e di Dio e del dono di Dio: perché la carità dà la carità; la carità sostanziale, la carità accidentale. Quando è detto del donatore, è un nome di sostanza; quando è detto del dono stesso, è un nome di qualità. Dicitur charitas et Deus et Dei donum: caritas enim dat caritatem substantiva accidentalem. Ubi danten significat, nomen est substantiæ; ubi donum, qualitatis » (S. Bernard., ep. 11, ad Guidon., priorem Maj. Cartusiæ n. 4. Nota anche questo testo di S. Agost. « Ille in quo omnes vivificabuntur, præterquam quod se ad Justitiam exemplum omnibus præbet, dat etiam sui spiritus occultissimam fidelibus gratiam, quam latenter infundit et parvulis. » L. I, de Peccat. merit. et remiss., c. 9), – Come terzo testimone, dovrei citare Dionigi l’Areopagita, ma poiché l’ho già citato nelle pagine precedenti, diamo la parola a San Gregorio di Nissa. Ecco come fa parlare la sposa, cioè la figura dell’anima giusta, nelle sue omelie sul Cantico: « La sposa, esortando le adolescenti a vestirsi di vera bellezza, offre loro la propria bellezza come modello. Così, il grande Paolo dirà più tardi: “Siate imitatori di me come io lo sono di Gesù Cristo” (Fil. III, 7). Non vuole che le anime che sono alla sua scuola, spaventate dalla loro antica vita, disperino di diventare belle a loro volta. Imparate, dice loro, imparate dal mio esempio che il presente può coprire il passato, se non porta nulla che sia degno di biasimo. Per quanto possa brillare la bellezza che l’amore della giustizia ha diffuso su di me come una forma divina, so che in origine non avevo eleganza né fascino, informe e nero com’ero. Ed ora vedete quello che io sono. Questo esterno di tenebra ha lasciato il posto alla forma di una bellezza senza macchia » (S. Greg. Nyssen. hom. 2 in Cant. P. Gr., vol. 44, p. 790). Non avevo, quindi, il diritto di affermare, all’inizio di questo capitolo, che non ci sia niente di più certo per le Scritture e per i Padri che l’esistenza di una grazia creata, principio e base di ogni adozione divina?

LA GRAZIA E LA GLORIA (8)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S, LEONE XIII – “PASTORALIS VIGILANTIÆ”

non esiste un rimedio più sicuro e più valido della Dottrina cattolica contro i mali che affliggono il nostro tempo e i pericoli che incombono, sempreché essa sia accettata completa ed integra, e gli uomini uniformino il loro modo di vivere alle norme che la stessa propone … Questo è il suggerimento che S.S, Leone XIII impartiva in questa lettera Enciclica diretta ai Vescovi e prelati portoghesi avvertendoli della pericolosità dei tempi e delle azioni più o meno occulte delle forze anticristiane operanti in particolare dalle conventicole infernali di perdizione per minare e distruggere, se possibile, la società cristiana e portare le anime dei fedeli, riscattate dal Sangue preziosissimo di Cristo, nelle vie della dannazione e dello stagno di fuoco eterno. Ancora oggi questa ci sembra l’unica vera barriera da opporre ai mali devastanti della nostra società mondialista in cui trionfano ideologie corrotte al massimo grado, soprattutto nell’ambito spirituale sostenute fa falsi religiosi, mai validamente né  canonicamente eletti, che trascinano un numero incalcolabile di anime con loro nel fuoco eterno, facendo credere che una falsa misericordia, accordata senza pentimento, emendazione e riforma della vita, li conduca addirittura alla beatitudine celeste, e purtroppo sono tantissimi gli ingannati ciechi ignoranti, presuntuosi, paganeggianti gaudenti, che felici corrono a sprofondarsi nel baratro ove già furono condannati gli angeli ribelli che li illudono in vesti talari e atteggiamenti di ipocrita devozione. Purtroppo sembra però che solo pochissimi ascoltino gli ammonimenti della sacra Scrittura, dei Padri della Chiesa, della retta teologia tomistica, del Magistero della Chiesa, e tutto sembra procedere, come scrive San Giovanni nella sua Apocalisse, verso gli ultimi tempi, in cui solo l’intervento del Giudice divino ripristinerà le condizioni di una vita cristiana ormai dimenticata, osteggiata e violata in tutte le sue componenti, sociali, politiche, spirituali. Vieni Signore Gesù, invoca la parte finale dell’Apocalisse, e questo facciamo pure noi, invitando il pusillus grex cattolico a fare altrettanto.

Leone XIII


Pastoralis vigilantiæ

Lettera Enciclica

La Lettera, oltremodo gradita, che annunciava la felice conclusione del nobile Convegno svoltosi di recente a Braga, a Noi inviata da quanti, tra voi, vi hanno presenziato, Ci ha procurato una nuova e significativa testimonianza dello zelo pastorale con il quale vi impegnate nel difendere e nel promuovere la religione. Durante la lettura siamo stati pervasi da sentimenti di gioia, sia per lo zelo e la dedizione del Pastore della città che ha accolto i membri del Convegno e ha assunto in prima persona il compito di organizzarlo e di gestirlo in modo da poterne trarre gli auspicati frutti, sia per l’impegno e la pietà dei Vescovi che l’affiancarono, o che inviarono al loro posto uomini degni di stima che li rappresentassero al Convegno, sia infine per l’imponente affluenza di uomini tra i più rappresentativi del clero e del popolo fedele, segnalati per la dottrina, per la virtù e per il prestigio. Codesto Convegno Ci tornò ancor più gradito, perché vi ha preso forma un mirabile accordo su decisioni particolarmente utili alla grandezza della Chiesa e al successo del Cattolicesimo. Né vogliamo passare sotto silenzio il fatto che, tra le altre cose opportunamente approvate con voto unanime, tenendo conto della condizione del tempo e del luogo, Ci hanno procurato conforto quei capitoli che attestavano la piena deferenza dei convenuti verso questa Sede Apostolica, e il loro ardente desiderio di vederla onorata come richiede la sua dignità e per nulla sminuita nel suo onore e nei suoi diritti. – Nutriamo senz’altro la lieta speranza che quanto è stato deliberato e definito in codesta sede, se sarà attuato con impegno e costanza, produrrà una grande abbondanza di frutti salutari, senza tuttavia dimenticare che resta ancora un vasto terreno che rivendica la vostra attenzione e la vostra operosità. – Per questo motivo, anche se in una lettera a voi inviata poco tempo fa vi abbiamo parlato della situazione religiosa nel regno del Portogallo e della linea di condotta da adottare per potervi opportunamente far fronte, Ci torna tuttavia gradito aggiungere al contenuto di quella lettera alcune cose che vale la pena di farvi sapere, anche perché, essendosi presentata un’occasione per scrivervi, non corriamo il rischio di essere venuti meno, per pigrizia al Nostro dovere. – Non vi sfugge certo, diletti Figli e Venerabili Fratelli, come nel Convegno di Braga sia emerso, in tutta chiarezza, che si è giunti al punto in cui la fede stessa è messa in pericolo presso molti, e s’impone quindi l’obbligo di impedire, per quanto è possibile, che l’ignoranza e la rilassatezza la estirpino dagli animi o la lascino illanguidire, ma occorre impegnarsi perché resti ben fissa nei cuori e dia vita ad una consolante quantità di opere buone e di perfetta virtù, nonché alla dolcezza dei frutti più eccelsi. Ci si deve opporre ai tentativi dei nemici della verità, perché non abbia a diffondersi il malefico contagio che si sprigiona dai loro cattivi esempi e dalle loro idee disseminate per ogni dove. Ci sono da sanare molte ferite che il loro nefasto operare e la malvagità dei tempi hanno inferto nei greggi affidati alle vostre cure; molte sono le cose che giacciono inerti da far rivivere; molti sono ancora i bisogni che assillano le anime e che, se non possono essere del tutto rimossi, occorre almeno lenire. – Tutto questo che reclama, come abbiamo ricordato, le vostre cure e la vostra sollecitudine, potrà essere attuato con maggiore efficacia e con più facilità se la concordia tra i Vescovi diventerà ogni giorno più profonda e se questi, di comune intesa, opereranno per scoprire i bisogni del clero e dei fedeli, per proporre suggerimenti e prendere, con le decisioni, che tutti insieme vedranno meglio accordarsi con le situazioni delle singole diocesi, anche quelle di più ampia portata e di maggior peso per provvedere alla prosperità e alla salvezza dell’intero popolo. L’opportunità di un più stretto raccordo tra i Vescovi non sfuggì alla saggezza di chi si riunì a Braga. Trovano quindi la Nostra piena approvazione le decisioni prese in quel nobile Convegno con il proposito di favorire quest’unità di intenti, capace di garantire al popolo cristiano i più importanti e duraturi benefìci che si ripromette dai suoi Presuli, che sono le sue guide e i suoi pastori. – Ma per rendere veramente stabile questo rapporto, non vi è mezzo più efficace del ricorso alla consolidata prassi, già recepita in altre regioni, di tenere ogni anno, in aggiunta alle riunioni che prevedono la presenza anche dei laici (di tal fatta era il Convegno di Braga), speciali adunanze di Vescovi. È un’usanza che sta prendendo piede anche presso di voi; un’usanza che vi sta a cuore e che Noi auspichiamo con tutte le forze perché, come testimoniano le numerose e documentate esperienze, è possibile trarne benefìci per la Religione. – Di sicuro, con la frequente convocazione di tali assemblee prende anzitutto forma, come abbiamo ricordato, il più rilevante e unanime concorso di energie che può garantire esiti positivi alle iniziative intraprese, ma ravviva anche l’entusiasmo ad agire dei Vescovi convenuti, rafforza la fiducia e illumina le menti con il confronto delle idee e con lo scambio vicendevole del frutto della saggezza. Con queste assemblee si apre come una strada sia per tenere Sinodi diocesani e provinciali, sia per riunire un Convegno nazionale, la celebrazione del quale – notiamo con grande gioia – fa parte dei vostri desideri. La ripetuta esperienza dei vantaggi derivati da Convegni similari già svolti, li consiglia con forza, e le disposizioni dei Sacri Canoni le raccomandano con sincera convinzione. Inoltre, alle menzionate assemblee annuali dei Vescovi farà seguito un evento di somma importanza. I laici, infatti, spinti da nuovi stimoli, si sforzeranno di proseguire con più decisione sulla strada intrapresa; si riuniranno a loro volta in assemblee; confronteranno le loro idee e, facendo leva sulle energie collegate, si adopereranno per difendere la comune causa della Religione e, seguendo le indicazioni dei loro Pastori, metteranno in pratica gl’insegnamenti e gl’incoraggiamenti ricevuti. – Per la verità, nelle riunioni annuali che farete non mancheranno i problemi ai quali dedicare il vostro zelo e le vostre energie. Infatti, oltre i problemi specifici che eventualmente riguarderanno le singole diocesi e che potranno essere più adeguatamente risolti con l’apporto chiarificatore della comune esperienza, sarà oggetto del vostro prudente esame un vasto campo di decisioni e di deliberazioni relative ai mezzi maggiormente idonei per dar vigore all’impegno dei sacerdoti che già lavorano nella vigna del Signore, per educare i giovani che un giorno dovranno risplendere nella casa di Dio per la luce di una solida dottrina, per il merito di uno schietto spirito ecclesiastico e per il corredo di tutte le virtù sacerdotali. – La vostra paterna vigilanza si farà anche carico di una meticolosa ricerca su tutto ciò che è sommamente utile per trasmettere correttamente al popolo i rudimenti della fede, per correggerne i costumi, per divulgare scritti atti a seminare la sana dottrina e a inculcare i principi della virtù, per dar vita ad istituzioni che diffondano i benefìci della carità e per rendere ancor più fiorenti quelle già istituite. – Un ultimo importantissimo punto, che dovrà essere oggetto delle vostre decisioni, vi sarà offerto dall’opportunità di fondare e di accogliere nel Regno del Portogallo delle Congregazioni religiose. Al riguardo abbiamo notato con gioia quanto fosse forte l’impegno di tutti i presenti al Convegno di Braga. – Queste Congregazioni, infatti, non solo potranno offrire al clero, che nelle vostre diocesi si è votato alla sacra milizia di Cristo, delle forze per così dire, ausiliarie, ma saranno anche in grado, ed è ciò che più conta, di preparare uomini animati da spirito apostolico che si faranno carico del ministero missionario nelle regioni d’oltremare soggette al dominio portoghese. L’assolvimento di questo compito, mentre contribuirà all’ampliamento del Regno di Cristo sulla terra, darà anche lustro e onore al Portogallo. Si sono veramente procurati una gloria imperitura i vostri Principi e i vostri antenati quando, con l’aiuto e il favore della Sede Apostolica, portarono la luce della dottrina evangelica e una forma di vita più civile in tutte le vostre terre scoperte. – Occorre dunque, per mantenere vive la natura e la forza delle iniziative intraprese e per non lasciarle decadere dal primitivo stato di persistente floridezza, far leva sulla costante vigilanza e sulle virtù di uomini pienamente affidabili che, mentre si oppongono, pieni di spirito divino, agli ostili attacchi degli acattolici, indirizzino tutta la loro attenzione e la loro energia a far sì che i beni giunti dal Portogallo in quelle contrade non vadano completamente perduti, ma riprendano vita come per nuovo vigore. – Sarà compito di questi uomini che, chi già crede in Dio, sia confermato nella fede, e chi vi è ben ancorato possa anche distinguersi per l’onestà dei costumi, per la pratica della Religione, per la scrupolosa osservanza dei doveri, affinché chi è ancora nelle tenebre si disponga ad accogliere la luce del Vangelo. – Le Congregazioni religiose potranno senz’altro offrire molti di questi uomini ardenti di santo zelo, poiché i loro membri, sulla scorta del giudizio di persone assennate confermato da testimonianze di tutti i tempi, seppero sempre svolgere questo compito con impegno ed efficacia. Infatti, il sistema e la disciplina delle Congregazioni in cui sono inseriti, nonché la pratica costante della virtù che ognuno si impone, li rendono più adatti di ogni altro a svolgere un così importante lavoro. – Siamo pienamente convinti che il Governo del Portogallo, accogliendo con favore le vostre proposte e attribuendo grande valore a quei beni che sopravanzano gli altri, si deciderà anche a rimuovere gli ostacoli che intralciano la libertà dei Sodalizi religiosi e, con la sua autorità, favorirà i vostri propositi che mirano a restituire il pieno vigore e a far rifiorire doviziosamente, con la gloria degli antenati, la Religione cattolica in Portogallo e in tutti i paesi sottoposti al suo dominio. – Questa Nostra convinzione è resa più forte dal fatto che nessuno ormai ignora, e anche voi ne avete piena coscienza, quali siano al riguardo i Nostri sentimenti e i Nostri auspici, che sono sicuramente rivolti al bene della Religione, ma si propongono anche la piena prosperità del popolo portoghese. Sono questi il compito e la funzione che il Divino Fondatore ha assegnato alla Chiesa: porsi nel cuore della società umana come vincolo di pace e garanzia di salvezza. – La Chiesa non toglie nulla all’autorità di chi è posto a capo dello Stato e ne detiene il potere, anzi lo difende e lo rafforza, affiancando alle leggi emanate l’obbligo religioso dell’osservanza, riconducendo il dovere di sottostare alle pubbliche autorità nell’ambito degli obblighi voluti da Dio, esortando i cittadini a tenersi lontano dai moti sediziosi e da ogni altra forma di sovvertimento dello Stato, insegnando a tutti di coltivare la virtù e di assolvere con cura tutto ciò che richiede il proprio stato e la propria condizione. – La Chiesa è dunque il migliore censore dei costumi; la sua salutare disciplina prepara uomini retti, onesti, devoti verso la patria, fedeli e pienamente solidali con i principi, tali cioè da costituire un solido sostegno del pubblico ordinamento degli Stati, in grado di mettere a loro disposizione indomite energie per affrontare imprese ardue e gloriose. È per questo motivo che si provvede in modo saggio e accorto al bene dello Stato quando si permette alla Chiesa di avvalersi di quella libertà d’azione che essa rivendica a buon diritto, e le si apre benevolmente la strada perché possa ampiamente far valere la sua benefica influenza e mettere a disposizione del bene comune tutti i mezzi di cui è dotata. – Anche se un simile assunto riguarda tutte le genti, esso si rivela particolarmente indicato per il popolo portoghese, presso il quale la Religione cattolica svolse un ruolo di primaria importanza nel plasmare, da molto tempo, i costumi e le menti degli uomini, nel promuovere gli studi delle scienze, delle lettere e delle arti, nell’infiammare gli animi a compiere ogni sorta di imprese memorabili in pace e in guerra, quasi da sembrare la madre e la nutrice, donata dal cielo, per generare e far crescere tutto ciò che di splendido prese forma, in tale popolo, nel campo della civiltà, della dignità e della gloria. – Ci siamo intrattenuti più diffusamente con voi su questo argomento nella citata Lettera enciclica che vi abbiamo recentemente indirizzata. Ora però è bene ricordare questa sola cosa: la forza e il valore della Religione non possono in alcun modo venir meno, perché i principi dottrinali che essa trasmette, in quanto voluti da Dio, non sono condizionati dalle leggi del tempo e dello spazio, ma sono rivolti alla salvezza e al conforto di tutti i popoli. Per questo motivo, allo scopo di favorire il benessere e la prosperità della vostra nobilissima gente, la Religione è ancora in grado di fornire quegli straordinari benefìci e quei validi aiuti che mise a disposizione in passato. Specialmente in questo tempo malvagio, nel quale la debolezza e il turbamento degli animi si sono fatti così grandi che i fondamentali principi che garantiscono l’ordine e la pace della società umana non solo vengono messi in dubbio, ma sono apertamente avversati, non vi è nessuno che non comprenda la necessità di far ricorso all’aiuto della Religione e ai suoi sacri precetti e insegnamenti. Tutte le persone assennate ed oneste sono infatti concordi nel riconoscere che non esiste un rimedio più sicuro e più valido della dottrina cattolica contro i mali che affliggono il nostro tempo e i pericoli che incombono, sempreché essa sia accettata completa ed integra, e gli uomini uniformino il loro modo di vivere alle norme che la stessa propone. – Per tutto questo, Diletti Figli Nostri, Venerabili Fratelli, non dubitiamo che, in forza dello zelo pastorale che vi distingue, vi affretterete, con animo deciso e con impegno costante, all’opera che vi abbiamo raccomandato. Sarà per voi, dediti al lavoro, un titolo di sommo onore e di meritata riconoscenza, l’aver potuto conseguire altissime benemerenze verso la religione, che assorbe tutto il vostro interesse, verso la patria e verso il vostro popolo, per il quale auspicate, con un’intensità non inferiore alla Nostra, una stabile pace e un futuro rispondente alle attese. – Mentre eleviamo la Nostra supplica a Dio perché vi colmi dei suoi doni e assecondi le vostre iniziative, impartiamo, con sincero affetto nel Signore, la Benedizione Apostolica, testimonianza del Nostro paterno amore, a voi, al clero e ai fedeli affidati alle vostre cure.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 giugno 1891, quattordicesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA IX DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA IX DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B.; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

La liturgia di questo giorno insiste sui castighi terribili che la giustizia di Dio infliggerà a quelli che avranno rinnegato Cristo. Morranno tutti e nessuno entrerà nel regno dei cieli. Coloro invece che in mezzo a tutte le avversità di questa vita saranno rimasti fedeli a Gesù, saranno un giorno strappati alle mani dei loro nemici ed entreranno al suo seguito nel cielo, ove Egli entrò nel giorno della sua Ascensione, che la Chiesa ha celebrato nel Tempo Pasquale. Questi pensieri sulla giustizia divina sono conformi, in questa IX Domenica dopo Pentecoste, colla lettura che la liturgia fa della storia del profeta Elia nel Breviario. – Dopo la morte di Salomone, le dodici tribù di Israele si divisero in due grandi regni: quello di Giuda e quello d’Israele. Il primo formatosi con le due tribù di Giuda e di Beniamino, ebbe per capitale Gerusalemme: il secondo si compose di dieci tribù con capitale Sichem, poi Samaria. A questo secondo regno appartenne il profeta Elia, che abitava il deserto di Galaad in Samaria. Uomo virtuoso e austero, vestiva una tunica di peli di cammello con ai fianchi una cintura di cuoio: « pieno di zelo per il Dio degli eserciti », uscì tre volte dal deserto per minacciare Achab, VII re di Israele, e la regina Iezabele, che avevano trascinato il popolo all’idolatria; per mandare a morte i 450 profeti di Baal che confuse sul Monte Carmelo; e per annunciare al re, impossessatosi della vigna di Naboth, che sarebbe stato ucciso, e alla regina, che era stata il cattivo genio di Achab, che il suo sangue sarebbe scorso ove era scorso il sangue di Naboth e i cani avrebbero divorate le sue carni. Per tutti questi motivi, Elia fu perseguitato dagli Israeliti, da Achab e da lezabele e dovette fuggire sul monte Horeb per scampare alla morte. Quando più tardi Ochozia, figlio di Achab, divenne re, Elia gli fece dire di non consultare Belzebù, il dio di Accaron, come aveva intenzione, ma il Dio d’Israele. Ochozia allora gli mandò un capitano con cinquanta soldati per indurlo a scendere dalla montagna e rendergli conto delle sue parole. Elia rispose al capitano: « Se io sono un uomo di Dio, scenda dal cielo un fuoco che divori te e i tuoi cinquanta », E scese il fuoco e divorò lui e i suoi cinquanta uomini » (Breviario). Più tardi, Elia andò verso il Giordano con Eliseo e allorché ebbero attraversato il fiume, un carro di fuoco con cavalli di fuoco separò l’uno dall’altro ed Elia sali al cielo in un turbine. Eliseo allora si rivestì del mantello che Elia aveva lasciato cadere e ricevette doppiamente il suo spirito. E tutti i discepoli di Elia dissero: «lo spirito di Elia si è posato su Eliseo ». E mentre Eliseo andava verso Bethel, alcuni ragazzi lo schernirono dicendo: « Sali, sali, calvo! ». Ed Eliseo li maledisse nel nome di Dio che essi offendevano: due orsi uscirono dalla foresta e sbranarono 42 di quei fanciulli. — Per tutta la sua vita Elia, con la sua parola di  fuoco, difese i diritti di Dio. Più tardi Giovanni Battista, « pieno dello Spirito e della virtù di Elia », si presentò vestito come lui ed abitante come lui nel deserto, e difese allo stesso modo gli stessi diritti di Dio, annunziando la separazione che farà Cristo venturo della paglia dal buon grano »: raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia in un fuoco che non si estinguerà. –   « Elia, dice S. Agostino, rappresenta il Salvatore e Signore nostro. Come infatti Elia soffrì persecuzioni da parte dei Giudei; nostro Signore, il vero Elia, fu rigettato e disprezzato dal medesimo popolo. Elia lasciò il paese suo; Cristo abbandonò la sinagoga e accolse i Gentili (2° Nott.). « Dio liberò Elia dai suoi nemici elevandolo al cielo, Dio innalzò Cristo in mezzo ai suoi nemici e lo fece salire il giorno dell’Ascensione in cielo ». « Liberami, o Signore dai miei nemici, dice l’Alleluia, e allontanami da quelli che insorgono contro di me ». Elia, trasportato in un carro di fuoco è, secondo i Padri, la figura di Cristo, che sale al Cielo. Il Graduale è il versetto del Salmo VIII, che la liturgia usa nel giorno dell’Ascensione: « Signore, Dio nostro, come è ammirevole il tuo nome su tutta la terra: poiché la tua magnificenza si solleva al di sopra dei cieli. » E l’Introito aggiunge: « Ecco che Dio viene in mio aiuto e che il Signore accoglie la mia anima. Oh, Dio! salvami nel tuo nome e liberami nella tua potenza ». Questo trionfo di Gesù su quelli che lo odiano, figurato da quello di Elia su coloro che lo disprezzano, sarà anche il nostro se « non tenteremo Cristo », cioè se eviteremo l’idolatria, l’impurità, la mormorazione » (Ep.) rimanendo fedeli alla grazia. Poiché « se Gesù continua a immolarsi sui nostri altari per applicarci i frutti della sua redenzione » (Secr.), e se « mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue,  noi dimoriamo in Lui e Lui in noi » (Com.), si è perché, « uniti a Lui », (Postcom.); osserviamo fedelmente i suoi comandamenti, che sono più dolci del miele » (Off.). S. Paolo ci dice infatti che « Dio, il quale è fedele, non permetterà che noi siamo tentati al di sopra delle nostre forze, ma con la tentazione ci darà anche il mezzo di uscirne affinché possiamo perseverare » (Ep.). Supplichiamo dunque il Signore d’accogliere benignamente le preghiere che noi gli indirizziamo e di fare in modo che gli chiediamo solo quanto gli sia gradito, affinché ci possa sempre esaudire (Oraz.). – Ma la Giustizia divina non si accontenta di proteggere il giusto contro i suoi nemici e di ricompensarlo per la sua fedeltà; essa punisce anche quelli che fanno il male. Elia minacciò il regno di Israele infedele e fece cadere il fuoco dal cielo sui suoi nemici (Brev.); « Gli Israeliti, che tentarono Iddio con le loro mormorazioni, perirono per mezzo dei serpenti di fuoco » (Ep.), e Gerusalemme sulla quale Gesù pianse, minacciandole castighi perché lo respingeva, fu distrutta dalla guerra e dall’incendio (Vang.). « Ventitremila Ebrei perirono in un sol giorno per la loro idolatria, e molti furono colpiti a morte dall’Angelo sterminatore per le loro mormorazioni ». Ma tutti questi avvenimenti, spiega S. Paolo, furono permessi da Dio, e narrati per servire di nostro ammaestramento » (Ep.). Più di un milione di Giudei perirono nella distruzione di Gerusalemme, perché avevano rifiutato il Messia e il Vangelo (Vedi I Domenica dell’Avvento e XXIV dopo Pentecoste). Gesù ha sempre paragonata questa fine tragica alle catastrofi che segneranno la fine del mondo, quando Dio verrà a giudicare il mondo col fuoco. Allora il Giudice divino opererà la separazione dei buoni dai cattivi e mentre ricompenserà i primi, allontanerà dal regno di Dio tutti quelli che lo avranno rinnegato per la loro incredulità e i loro peccati, come cacciò dal Tempio, che è la figura della Chiesa terrestre e celeste, tutti i venditori che avevano trasformato la casa di Dio in una spelonca di ladri (Vang.). « Il male ricada sui miei avversari, chiede il Salmista e, fedele alle tue promesse, distruggili, o Dio, mio protettore! » (Intr.). Allora, infatti il tempo della misericordia sarà passato e non vi sarà più che quello della giustizia ». « Frattanto colui che crede di essere in alto guardi di non cadere!», dice l’Apostolo (Ep.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.

Confíteor

Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur nos omnípotens Deus, et, dimíssis peccatis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
S. Amen.

S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Ps LIII: 6-7.
Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.

[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’anima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Ps LIII: 3
Deus, in nómine tuo salvum me fac: et in virtúte tua libera me.

[O Dio, salvami nel tuo nome: e liberami per la tua potenza.]


Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.

[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’ànima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Páteant aures misericórdiæ tuæ, Dómine, précibus supplicántium: et, ut peténtibus desideráta concédas; fac eos quæ tibi sunt plácita, postuláre.

[Porgi pietoso orecchio, o Signore, alle preghiere di chi Ti supplica, e, al fine di poter concedere loro quanto desiderano, fa che Ti chiedano quanto Ti piace.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.
1 Cor X: 6-13
Fatres: Non simus concupiscéntes malórum, sicut et illi concupiérunt. Neque idolólatræ efficiámini, sicut quidam ex ipsis: quemádmodum scriptum est: Sedit pópulus manducáre et bíbere, et surrexérunt lúdere. Neque fornicémur, sicut quidam ex ipsis fornicáti sunt, et cecidérunt una die vigínti tria mília. Neque tentémus Christum, sicut quidam eórum tentavérunt, et a serpéntibus periérunt. Neque murmuravéritis, sicut quidam eórum murmuravérunt, et periérunt ab exterminatóre. Hæc autem ómnia in figúra contingébant illis: scripta sunt autem ad correptiónem nostram, in quos fines sæculórum devenérunt. Itaque qui se exístimat stare, vídeat ne cadat. Tentátio vos non apprehéndat, nisi humána: fidélis autem Deus est, qui non patiétur vos tentári supra id, quod potéstis, sed fáciet étiam cum tentatióne provéntum, ut póssitis sustinére.

[“Fratelli: Non desideriamo cose cattive, come le desiderarono quelli. Non diventate idolatri, come furono alcuni di loro, secondo sta scritto: «Il popolo si sedette a mangiare e bere; poi si alzarono a tripudiare. Né fornichiamo, come fornicarono alcuni di loro, e caddero in un giorno 23 mila. Né tentiamo Cristo come lo tentarono alcuni di loro, e furono uccisi dai serpenti. Né mormorate come mormorarono alcuni di loro, ed ebbero morte dallo sterminatore. Or tutte queste cose accadevano loro in figura, e sono state scritte per ammaestramento di noi, che viviamo alla fine dei tempi. Colui, pertanto che si crede di stare in piedi, badi di non cadere. Nessuna tentazione vi ha sorpreso se non umana. Dio, poi, che è fedele, non permetterà che siate tentati sopra le vostre forze: ma con la tentazione preparerà anche lo scampo, dandovi il potere di sostenerla”.]

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

IL TIMOR DI DIO

Essere Cristiani non vuol dire essere esenti dalla vigilanza, e da una attenta vigilanza. Nell’Epistola della Domenica di Settuagesima abbiam visto come l’Apostolo per incoraggiare i Corinti alla perseveranza, oltre il proprio esempio, portò l’esempio dei Giudei, i quali, quantunque usciti in gran numero dall’Egitto, dopo aver ricevuto grandi benefici dal Signore, solamente in numero di due poterono entrare nella terra promessa. L’Epistola di quest’oggi continua quel brano. Vi sono enumerate alcune prevaricazioni dei Giudei ed i castighi che ne seguirono, e si esortano i Corinti a non imitarne l’esempio; poiché quanto avvenne agli Israeliti sarà figura di quanto avverrà a noi Cristiani, se abuseremo delle grazie del Signore. – E noi non abuseremo certamente delle grazie del Signore, se avremo il timor di Dio, il quale:

1 Ci fa evitare il peccato,

2 Ci rende diffidenti di noi,

3 Ci lascia calmi e fiduciosi in Dio, durante le prove.

Graduale 

Ps VIII: 2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in universa terra!

[Signore, Signore nostro, quanto ammirabile è il tuo nome su tutta la terra!]


V. Quóniam eleváta est magnificéntia tua super cœlos. Allelúja, allelúja

[Poiché la tua magnificenza sorpassa i cieli. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps LVIII: 2
Alleluja, Alleluja

Eripe me de inimícis meis, Deus meus: et ab insurgéntibus in me líbera me. Allelúja.

 [Allontànami dai miei nemici, o mio Dio: e liberami da coloro che insorgono contro di me. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIX: 41-47
“In illo témpore: Cum appropinquáret Jesus Jerúsalem, videns civitátem, flevit super illam, dicens: Quia si cognovísses et tu, et quidem in hac die tua, quæ ad pacem tibi, nunc autem abscóndita sunt ab óculis tuis. Quia vénient dies in te: et circúmdabunt te inimíci tui vallo, et circúmdabunt te: et coangustábunt te úndique: et ad terram prostérnent te, et fílios tuos, qui in te sunt, et non relínquent in te lápidem super lápidem: eo quod non cognóveris tempus visitatiónis tuæ. Et ingréssus in templum, coepit ejícere vendéntes in illo et eméntes, dicens illis: Scriptum est: Quia domus mea domus oratiónis est. Vos autem fecístis illam speluncam latrónum. Et erat docens cotídie in templo”.

[“In quel tempo avvicinandosi Gesù a Gerusalemme, rimirandola, pianse sopra di lei, e disse: Oh? se conoscessi anche tu, e in questo tuo giorno, quello che importa al tuo bene! ma ora questo è a’ tuoi occhi celato. Conciossiachè verrà per te il tempo, quando i tuoi nemici ti circonderanno di trincea, e ti serreranno all’intorno, e ti stringeranno per ogni parte. E ti cacceranno per terra te e i tuoi figliuoli con te, e non lasceranno in te pietra sopra pietra; perché non hai conosciuto il tempo della visita a te fatta. Ed entrato nel tempio, cominciò a scacciare coloro che in esso vendevano e comperavano, dicendo loro: Sta scritto: La casa mia è casa di orazione; e voi l’avete cangiata in spelonca di ladri. E insegnava ogni giorno nel tempio”.]

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)

I MOMENTI DELLA GRAZIA

Quando dall’alto del monte degli ulivi apparve la città, distesa in basso nella limpida luce del mattino, Gesù cominciò a piangere. E disse: « Gerusalemme! conoscessi tu pure, e fosse almeno in questo giorno, quel che giova alla tua pace! Invece sono cose nascoste ai tuoi occhi. Io vedo venire sopra di te dei giorni nei quali i nemici ti circonderanno da ogni parte, e distruggeranno i tuoi figli con te. Ecco non resterà pietra su pietra, perché non volesti conoscere il tempo che fosti visitata ». Poi il Figlio di Dio riprese la via e discese trionfalmente in città. E quell’ingresso era un richiamo ancora, l’ultimo richiamo che Gesù faceva al suo popolo perché ascoltasse la sua voce, e si assicurasse un santo avvenire. Anche questa visita estrema fu vana. Urlava la città di folle gioia nella vana speranza di un messia conquistatore e politico che restituisse alla nazione l’antica potenza e prosperità materiale: intanto non vedeva quel che vedevano gli occhi profetici di Gesù; la sua miseranda rovina sotto il ferro e il fuoco dei Romani. Perciò il Figlio di Dio piangeva. E non deve forse piangere anche davanti a certe anime più chiuse e più sorde al suo richiamo della stessa città giudaica? Non sentite la sua voce rotta dal pianto ripetere sul vostro cuore il suo lamento? « Conoscessi, almeno in questo giorno, quel che giova alla tua pace… ». E come per Gerusalemme ci fu un limite, oltre il quale fu colma la misura della sua malvagità, e cadde su di lei il castigo terribile, così anche per ciascun cuore ci sono dei limiti, nascosti ai nostri occhi, ma non a quelli di Gesù che vede di là da essi la nostra rovina finale. Bisogna persuadersi che la grazia di Dio ha i suoi momenti: chi ne abusa, procrastinando, non vede quel che giova alla sua pace; non vede che va incontro alla perdizione eterna. Se almeno oggi lo vedesse! Dunque, due pensieri: la grazia ha i suoi momenti; ad essi bisogna corrispondere subito. – 1. LA GRAZIA HA I SUOI MOMENTI. Dice S. Paolo che ci sono tempi e giorni speciali per convertirci: tempus acceptabile, dies salutis (II Cor., VI, 2). Sono i giorni e i tempi in cui la grazia viene a noi. Essa viene in un triplice modo: mostrandoci la nostra miseria, sventando le lusinghe del mondo, attirandoci all’amore di Dio. a). Mostrandoci la nostra miseria. La conversione di un’anima incomincia sempre con una luce oscura che fa vedere lo stato miserevole della coscienza. Immaginate un pellegrino, lontano da ogni casa, di notte smarrito. Non trovando altro riparo, entra in una caverna, e vinto dalla stanchezza si addormenta. Quel luogo è nido di serpenti e rettili velenosi, ma egli in sull’entrare non se n’è accorto tanto che era pieno di sonno, e tanto il luogo era oscuro. Supponete ora, che nel cuor della notte qualcuno entri nella caverna con in mano una fiaccola: il pellegrino si sveglia d’improvviso e scopre in ogni crepaccio e sul suolo vicino a lui schifosi rettili e grovigli di bisce. Che orrore! Che tremito per ogni vena! Come la luce della fiaccola nella caverna, così viene talvolta la grazia nella coscienza del peccatore che ha smarrito la dritta via della salvezza e s’è addormentato in mezzo alle sue ree abitudini. Allora dai suoi occhi cade un velo: le sue iniquità, le azioni vergognose, i suoi peccati, gli appaiono come li vede il Signore. Egli stesso inorridisce e ha schifo di sé, si meraviglia d’essere caduto tanto in basso, si chiede per quale misericordia Dio abbia potuto sopportarlo, invoca dal profondo dello spirito la divina pietà. Tra i momenti propizi alla grazia per illuminarci sulla nostra vera condizione spirituale, io conto il tempo della divina parola, in cui tratto tratto ascoltiamo una frase o una verità che ci tocca sul vivo, e ci illumina tutta una situazione insospettata di miserie e di bassezze. Vi conto anche certi interni rimorsi che picchiano contro la coscienza pietrificata e ne fanno sprizzare scintille e lampi di provvida luce. Vi conto infine la lettura di qualche libro spirituale, del giornale cattolico; della parola buona d’un amico o d’un parente; i salutari avvisi di un santo confessore. b) La grazia viene a noi, sventando le lusinghe del mondo, dalle quali eravamo ingannati. Momenti di tale grazia sono certe umiliazioni che ci persuadono a poco a poco come l’onore mondano è un fiato di vento. Anche certi tradimenti, certe slealtà fattici da persone in cui ponevamo la nostra fiducia e il nostro amore, per le quali forse avevamo perfino sacrificato il nostro interesse e magari la legge di Dio, sono grazie che stroncano i legami colla creatura e lasciano libero il cuore nostro di sollevarsi a Dio. Anche la morte di qualche persona cara, le malattie, anche le disgrazie e i dissesti finanziari sono spesso rudi colpi della grazia che vuol farci sperimentare la vanità e l’insufficienza dei beni terreni. Come la buona madre nasconde al suo figliuolo malato convalescente cibi e bevande che gli sarebbero cagione di ricaduta, così la grazia divina ci strappa con violenza da quelle persone, da quegli affetti, da quelle abitudini che ci farebbero continuamente ricadere in peccato. c) Infine la grazia ci visita con soavi attrazioni alla preghiera, al bene, a Dio. Quando ci prende un fastidio dei divertimenti del mondo, delle chiacchere vane o maliziose degli uomini, e nel medesimo tempo un secreto presagio di pace ci spinge a raccoglierci nella solitudine della casa nostra o della chiesa, e ci pare che se provassimo a pregare, a confessarci bene, ad ascoltare fedelmente e cordialmente la Messa, ci troveremmo più felici, questo è un momento della grazia che ci attrae dolcemente. Se avvicinandoci alla serena gioia di un’anima innocente, se vedendo persone umili e piene di carità per il prossimo, abbiamo sentito una sincera e forte aspirazione ad imitarle, era pur quello uno dei momenti in cui la grazia ci attira al bene ed alle opere. virtuose. Chi neppure una volta ha sentito il desiderio d’essere santo — ha scritto un convertito — non è un uomo, ma una bestia. Penso che ci siano per tutti certi momenti in cui il cuore desidera d’essere più puro, più buono, più leale, più giusto: ebbene, questi sono i momenti della grazia che ci attira più vicino a Dio, che è la stessa Purezza, Bontà, Lealtà, Giustizia. Cristiani, quando spira il vento favorevole, è folle il nocchiero che non apre le vele: si mette a rischio d’essere trattenuto da una calma fatale o d’essere poi incolto dalla burrasca. Così, colui che, navigando sul mare della vita, non approfitta della grazia, corre rischio d’essere abbandonato alle proprie forze e di perdere la felicità eterna. – 2. BISOGNA CORRISPONDERVI SUBITO. S. Giovanni Bosco se ne andava una sera, sull’imbrunire, per un bosco sui colli astigiani, quando un uomo, sbucato d’un tratto davanti a lui, gli intimò: « O la borsa o la vita ». La borsa non l’ho e la vita sta in mano a Dio » rispose il Santo; ma già dalla voce aveva riconosciuto che l’aggressore era un uomo che egli aveva istruito e beneficato nelle prigioni di Torino. Gli disse allora: « Antonio, ti riconosco: Son queste le tue promesse? ».- « Padre — balbettò l’altro — vi lascio andare in pace ». « Come posso andare in pace, mentre ti vedo sull’orlo dell’inferno! È di te che ho paura ». Al brigante cominciò a tremare il cuore e disse: « Padre, vi prometto che presto cambierò vita, che presto andrò ancora a confessarmi ». Ma Don Bosco gli afferrò l’anima con tutta la violenza della sua santità. « No, non presto: io voglio subito: adesso qui ». Sedutosi su una pietra abbracciò il penitente e ne ascoltò la confessione. Poi si fece da lui accompagnare fino a casa, dove gli diede una medaglia della Madonna e un po’ di danaro. Se non avesse corrisposto immediatamente alla grazia, quel brigante non si sarebbe convertito più. Non presto, ma subito; è necessario. Molti altri invece assomigliano alla statua del « Pensieroso » scolpita da Michelangelo in Firenze. (È la statua di Giuliano de’ Medici duca d’Urbino, nella Cappella Medicea). Davanti ad essa si fermò, attorniato da un gruppo di giovani, S. Filippo Neri e con la sua consueta arguzia disse: « Questa statua pensa e ripensa, ma non si decide mai. Proprio come quelli che vorrebbero provvedere all’anima, lasciare il peccato: ma non si decidono mai e dicono: a domani, a domani ». « Mi convertirò quando metterò su casa » dice il giovane che vive licenziosamente. « Mi convertirò, quando sarò più vecchio » dicono le persone sposate, a cui sembra grave la legge di Dio sull’uso del matrimonio. « Mi convertirò un altro anno, un’altra Pasqua, nel prossimo corso d’esercizi o di missioni » dicono quelli che sono ingolfati negli affari e nel tramestio mondano. «Io col prete m’arrangerò sul letto di morte » pensano certi che vivono tra abitudini cattive, e quasi senza più un barlume di fede. Intanto fabbricano i loro castelli su tre fondamenti di cui non possono essere sicuri: il tempo, la forza di volontà, la grazia. « Mi convertirò a Pasqua, quando metterò su casa, quando sarò vecchio, sul letto di morte… »; così si ode dire. Ma chi ti assicura un altro anno, un’altra Pasqua, una vita lunga fino alla vecchiezza? E se la morte ti cogliesse non lentamente in un letto, ma su di una sedia, sul pavimento della bottega, in mezzo alla strada? — Inoltre è illogico sperare di vincere con minore fatica un nemico a cui intanto si lasci il tempo di fortificarsi. Il vizio è come una pianta: più s’aspetta e più s’abbarbica. E se ora rifuggi dalla fatica di sradicarlo, come puoi illuderti d’avere poi energie sufficienti? — Da ultimo è temerario pretendere un giorno quella grazia di Dio che ora rifiuti e disprezzi. « Con Dio non si scherza impunemente » ha detto l’apostolo Paolo. Tommaso Moro ad un suo collega libertino soleva ripetere: « Cambia vita, che è tempo ». « Non temete, amico: in caso di morte improvvisa, me la caverò con una giaculatoria ». Una volta, cavalcando lungo il Tamigi, quel disgraziato fu sbalzato da sella e cadde in acqua. Gli amici accorsi fecero a tempo ad udire le sue grida: non erano giaculatorie, ma bestemmie. In punto di morte il cuore butta fuori quello che durante la vita si è messo dentro. — Gesù entrando nella città di Gerico vide un pubblicano appollaiato sopra un albero. Si fermò e disse: « Zaccheo, vien giù subito, perchè oggi io voglio albergare nella tua casa ». Confuso, commosso, il pubblicano scivolò lungo il tronco e corse ad aprir la porta di casa sua al Redentore. Da quel momento fu salvo per l’eternità. (Lc., XIX, 1-10). Cristiani, Gesù si ferma davanti all’albero frondoso delle nostre cattive abitudini dove ci siamo appollaiati, e ci chiama per nome: «Vieni giù subito, perché oggi io voglio albergare nel tuo cuore ». Chi oggi rifiuta il dolce invito, per quale stolta speranza pretende che Gesù ripassi un altro giorno? Subito abbandoniamo la pericolosa dimora del peccato, ed apriamo l’anima alla grazia che salva. – LE LACRIME DI GESÙ. Piansero i Profeti della Legge Antica. Dio usò i loro occhi per versare lacrime sul suo popolo. Amos, fuggendo la luce del sole splendente sulle colpe umane, scende nel luogo delle tenebre, grida al vento d’oriente e d’occidente il castigo di Dio: e quando attorno a lui vede molti figli d’Israele, con un tremito nella voce e col dolore che sale acuto dal cuore, così a loro parla: « Figli miei, sapete che faccio il dì? sapete che faccio la notte? Sono fissi nella mia mente i vostri peccati e sono piene le mie pupille di pianto. E quando m’assopisco subito mi sveglio ed ho gli occhi bagnati da lacrime ed ho il cuore spezzato dal dolore ». Poi parla al Signore e gli dice: « Jahvé, che debbo fare per la tua gente? ». « Profeta, risponde Iddio, va sulle piazze, corri nelle vie, entra nelle case: e piangi; entra nelle botteghe degli artigiani, penetra nel palazzo di giustizia e dì a tutti costoro: piangete con me i vostri peccati, piangete fino alla tomba ». Anche Geremia pianse sopra le iniquità degli uomini, e diceva: « Ah! mio Dio, ah! mio Dio: m’avete dato la cura di un popolo ribelle, che dirò a lui? ». E Dio gli rispose così: « Mostra quello che io soffro e fa così: afferra a ciocche i tuoi capelli, strappali di colpo, gettali nell’abisso; perché il peccato di questo popolo ha acceso il mio furore » « Ma, Signore, e la tua ira quando cesserà? ». « Vestiti di sacco, mettiti la cenere sulla testa e piangi: piangi così che dì e notte il tuo volto sia bagnato, sì che i peccati del popolo siano lavati ». Anche al profeta Gioele Dio impose di piangere per i peccati, con queste parole: « Piangi la perdita delle anime, come lo sposo che ha perduto la sposa, e da quel dì è inconsolabile e cerca con i deserti di Siria e i colli di Palestina; e non hanno tregua le sue lacrime ». Piansero dunque i profeti della Legge Antica, l’uno dopo l’altro: ma il loro pianto era un preannunzio e una figura del pianto del Figlio di Dio, che sarebbe venuto a salvare l’umanità; le loro lacrime non avevano valore se non perché si univano misteriosamente a quelle che il Redentore avrebbe versato. Bisognava che il Redentore venisse e bisognava che piangesse sui nostri peccati e ottenerci il perdono divino. Venne finalmente Gesù; ed il Vangelo odierno ci narra il suo pianto. Cavalcava tra le acclamazioni del popolo ed il suo viaggio verso Gerusalemme pareva un trionfo e invece era un martirio. Tanto è vero che quando dall’alto dell’oliveto la capitale apparve distesa sotto il suo sguardo, Gesù si fermò a mirarla tristemente e pianse. Pianse vedendo i palazzi e il tempio che sarebbero stati rasi al suolo, ma soprattutto pianse vedendo il cuore di tanti uomini colmo come un sepolcro di corruzione e di miseria. « Gerusalemme, ah, se in questo giorno avessi conosciuto anche tu quello che occorreva per la tua pace, ma ormai ciò è nascosto ai tuoi occhi. Eppure verranno giorni sopra di te, quando i tuoi nemici scaveranno trincee, ti premeranno d’ogni parte, spezzeranno i tuoi figliuoli contro il suolo, non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai conosciuto il tempo della tua visita ». Noi siamo commossi assai delle lacrime divine e spontaneamente ci vengono dal cuore queste due riflessioni: perché piange Gesù e che cosa ottengono le sue lagrime. – 1. PERCHÉ GESÙ PIANGE. Se qualcuno avesse osato interrogare Gesù perché piangesse, indubbiamente si sarebbe sentito rispondere: « Piango perché gli uomini hanno peccato; piango perché  gli uomini non vogliono accogliere il mio amore ». Ma davanti agli sguardi divini di Gesù non era distesa appena Gerusalemme, ma tutta la storia del mondo. Il suo pianto non si fermò appena sui Giudei dalla dura cervice, ma discese anche su di noi che abbiamo peccato e che non vogliamo accogliere il suo amore. Pianse dunque anche su noi: vide le nostre povere anime ingrate e le sue pupille si riempirono di lacrime. Pianse sulla nostra gioventù che cresce lontana da Lui; che non sa più pregare ma sa bestemmiare, non conosce più il sorriso innocente degli occhi divini, ma ha gli occhi pieni di cupi desideri e il cuore pieno di fango. E pianse sugli uomini che hanno perso la via della chiesa e conoscono solo quella delle sale di divertimento, ed hanno sul labbro il motto equivoco ed hanno nell’anima l’odio feroce e la discordia. E pianse sulle donne che l’hanno dimenticato, che si ribellano alla loro missione materna e non sanno più portare la croce senza l’imprecazione contro la Provvidenza. Pianse sul nostro orgoglio, sulla nostra smania di piaceri e di onori. Ed Egli s’è umiliato tanto ed ha sofferto acerbamente! Pianse sulle nostre vendette, ed Egli morì con la parola del perdono. Pianse sui nostri sguardi cattivi, sui nostri discorsi osceni, sui nostri atti bassi e vergognosi: ed Egli era così santo, innocente, sopra ogni peccato!… Almeno avessimo udito il suo lamento e l’avessimo meditato; invece il nostro cuore è rimasto, rimane duro da non conoscere mai il tempo della visita del Salvatore. Ci visita spesso Gesù, ci passa vicino; e noi siamo così distratti dal rumore delle terra che non ce ne accorgiamo. Ci visita con le carezze, quando benedice il lavoro della terra e la fatica dell’officina; e noi non siamo neanche un po’ riconoscenti. Ci visita col rimorso di coscienza, con una buona parola d’un amico, con la frase acerba del predicatore: e noi abusiamo. Non ancora oggi ci siamo convertiti a Lui, oggi in cui grida di più all’anima nostra con angoscia rotta e con amore desolato: « Gerusalemme, mia città, getta lontano il tuo manto d’ignominia, abbandona le orge che ti hanno sedotta: e ritorna al tuo Signore ». Convertere ad Dominum Deum tuum. – 2. L’EFFICACIA DEL PIANTO DI GESÙ. S. Vincenzo de’ Paoli amava con tutta l’anima un giovane che era cresciuto bene, come un giglio in una serra; ma che poi s’era abbandonato al vizio. Il Santo; ogni volta che lo vedeva, non riusciva a trattenere il pianto. « Ebbene, gli disse un giorno S. Vincenzo, non posso più esortarti a lasciare la strada cattiva, perché vedo che delle mie parole e delle mie lagrime non tieni conto. Ti chiedo però una cosa ancora ». « Quale? », domandò il giovane. « Prendi questa immagine e guardala, ogni sera, prima di addormentarti ». Il giovane accontentò la stranezza del santo e promise. La sera vide quell’immagine per la prima volta: e fu scosso e prese il sonno solo dopo un’ora: lo sguardo dolorante del Maestro Divino lo fissava, incatenava i suoi occhi, l’anima sua. E la sera dopo, ebbe paura a guardare, a stento riuscì a mantenere la parola. Ma Gesù sofferente lo guardava, sempre, tutta la notte, così che non poté dormire. Ed al mattino si recò da S. Vincenzo. « Padre, non ne posso più: le lacrime di Gesù hanno vinto ». Questo non è che un piccolo episodio in cui il pianto di Gesù ha ottenuto una conversione: ma voi capite subito quanto valgono le lacrime divine, il pianto che ha fatto la seconda Persona della Santissima Trinità, il Figlio di Dio. Lacrime di valore infinito ci hanno meritato una cosa divina, la grazia, la partecipazione della vita divina, l’essere figli adottivi di Dio. – O Angeli santi, grida Nieremberg, ditemi dunque: che cosa è la grazia? Cherubini, voi così pieni di scienza, ditemi: che cosa è la grazia che è costata tanto al nostro Dio? ». Che ha fatto il digiuno di Gesù? il suo lavoro, i suoi sudori? Che hanno fatto i suoi flagelli, le sue spine, il suo pianto? Hanno meritato la grazia santificante all’anima nostra. E voi sapete che cosa è un’anima in grazia? Quando Giovanni la vide in cielo, era così bella che pareva Dio e si prostrò ad adorarla; ma ella gridò: «che fai? son tua sorella ». Quando a S. Caterina la mostrò il Signore, la Santa fu così meravigliata da dire: se io non sapessi che v’ha un Dio solo, crederei questa esserne uno ». Quando Bossuet meditò sulla sua bellezza, scrisse così: « Chi vedesse un’anima dove Dio regna con la sua grazia, crederebbe vedere Dio stesso, come si vede un secondo sole in un terso cristallo dov’esso si rifletta con tutti i suoi raggi ». Quando il S. Curato d’Ars ne parlava faceva dire così al Signore: « Io l’ho fatta sì grande che io solo posso bastarle: io l’ho fatta sì pura che solo il mio corpo le può servire di alimento ». Lacrime di valore infinito, hanno meritato tante e tante conversioni; così che per i lamenti del Buon Pastore quante pecorelle sono ritornate all’ovile; così che per le lacrime del Buon Pastore quanti figli prodighi sono venuti ancora alla casa paterna; così che per le premure amorose, come quelle della donna di casa, quante dramme si trovano ancora con l’impronta dell’immagine di Dio! Lacrime di valore infinito, ci hanno ottenuto di conservare la grazia. Volete sapere quanto costa l’anima nostra? Domandatelo al demonio che ogni dì vi tenta, anche quando meno pensate all’anima, anche quando pregate. Così potrete anche misurare quanto valgono le lacrime di Gesù. Invece noi stimiamo tanto poco la grazia e l’anima nostra e stiamo in peccato; un orgoglioso la vende per un pensiero di orgoglio, un avaro per un po’ di terra, un lussurioso per un attimo di piacere, un ubriaco per un bicchiere di vino, un vendicativo per un pensiero di vendetta… Invece noi lasciamo di nutrirla col SS. Sacramento, con la S. Comunione, lasciamo aperta la porta e lasciamo entrare il ladro di giorno, di notte, la lasciamo assalire, ferire, morire… Quanto poco stimiamo l’anima in grazia, quanto poco stimiamo le lacrime di Gesù! – « Gettate uno sguardo, esclama commosso Bossuet, contemplate Gesù lacrimoso, doloroso: voi siete nati da quelle lacrime, voi siete stati generati da quei dolori: e la grazia che vi santifica si riversa su voi assieme alle sue lacrime. Figli di dolore, figli di pianto… ». « Ecco l’Uomo »: fu detto ai Giudei nel dì del dolore. Era l’Uomo nuovo che sostituiva l’uomo vecchio, era l’Uomo nuovo che veniva a piangere sui peccati dell’uomo, a darci la grazia, a farci figli di Dio. Da allora cessò il pianto dei profeti: e come ci fu poi un solo Sacrificio a cui partecipano i figli della grazia, così ci fu un sol pianto a cui parteciparono i figli redenti nel dolore. Tanto valsero le lacrime di Gesù.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps XVIII: 9-12
Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulcióra super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.

[La legge del Signore è retta e rallegra i cuori, i suoi giudizii sono piú dolci del miele e del favo: e il servo li custodisce.]

Secreta

Concéde nobis, quǽsumus, Dómine, hæc digne frequentáre mystéria: quia, quóties hujus hóstiæ commemorátio celebrátur, opus nostræ redemptiónis exercétur.

[Concedici, o Signore, Te ne preghiamo, di frequentare degnamente questi misteri, perché quante volte si celebra la commemorazione di questo sacrificio, altrettante si compie l’opera della nostra redenzione.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

Sanctus

Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Joann VI: 57
Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo, dicit Dóminus.

[Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me, ed io in lui, dice il Signore.]

Postcommunio

Orémus.
Tui nobis, quǽsumus, Dómine, commúnio sacraménti, et purificatiónem cónferat, et tríbuat unitátem.

[O Signore, Te ne preghiamo, la partecipazione del tuo sacramento serva a purificarci e a creare in noi un’unione perfetta.]

ORDINARIO DELLA MESSA

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)