LA GRAZIA E LA GLORIA (38)

LA GRAZIA E LA GLORIA (38)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO VI.

Le cause da cui dipende per le nostre opere la misura del loro merito.

Il merito ha per oggetto la grazia e la gloria; per meglio dire, l’aumento di entrambe, poiché presuppone, in colui che lo acquisisce, lo stato di grazia con le sue appendici inseparabili, le virtù infuse. Non ci resta quindi che, dopo aver determinato i fattori, le condizioni e la portata del merito, indagare sulla sua misura. Fatto questo, possiamo poi apprezzare il grado di crescita che vi corrisponde nei figli adottivi di Dio. Per fare questo con maggiore chiarezza, stabiliamo quattro principi o regole, che derivano dalla dottrina dimostrata in precedenza.

1) Primo principio. – A parità di condizioni, più un atto è libero, più è meritorio (S. Thom, II, D. 29, q. 4, a. 4). La prova di ciò è evidente: poiché i nostri atti sono nostri per la libertà, daremo tanto più del nostro a Dio quanto più la volontà che li offre è libera da ogni impedimento.

Secondo principio. – A parità di altre condizioni, più un figlio di Dio è tale, più intima è la presenza dello Spirito Santo nel suo cuore; in altre parole, più perfetta è la grazia santificante, più grande è il merito delle opere e l’incremento che ne deriva. Questa regola, è vero, non è approvata da tutti i teologi che concordano con noi sulla sostanza della dottrina. Ma è sostenuta da una base così solida che mi rimprovererei di doverla passare sotto silenzio. Questo, credo, è il significato da attribuire a queste parole del Dottore angelico, San Tommaso d’Aquino: « Quanto maggiore è la grazia di cui un atto è informato, tanto più meritorio è quell’atto (« Quanto majori gratia actus informatur, tanto magis est meritorius. – S. Thom, II, D. 29, q: 1, a. 4). È noto, infatti, che per lui, come per tutta la Scolastica antica, la parola grazia esprime la grazia santificante, quella che perfeziona l’anima e la unisce a Dio. Suarez approva il principio e lo dimostra con Gregorio di Valencia ed altri teologi di grande autorità (Suar., de Gratia, L. XII, c. 22: Gregor. a Valent.. in 1. 2, q-6, p. 3). Ora, tra le ragioni che portano a sostegno del loro sentimento, ce ne sono due che sembrano assolutamente convincenti. In primo luogo, in base a che cosa giudichiamo che ogni singolo atto con cui il Salvatore Gesù ci ha redenti avesse di per sé un valore non solo pari al prezzo richiesto dalla giustizia divina, ma sovrabbondante, semplicemente infinito? Sul fatto che la dignità soprannaturale della persona sia come la forma suprema che determina il valore delle azioni soddisfattorie e meritorie. Se, nel caso delle offese, la grandezza dell’insulto aumenta con l’eccellenza della persona a cui è stato rivolto, quando si tratta di onore, la regola deve essere invertita, e deve essere valutato non in base alla condizione di chi lo riceve, ma in base a quella di chi lo dà. Che una creatura, vile e umile com’è l’uomo, osi scagliare il proprio disprezzo su Dio, suo Signore e Maestro, è un’offesa di tipo infinito, perché la distanza tra il ribelle e la maestà divina supera ogni misura finita. Ma se questo stesso uomo, con la sua dignità nativa, cerca di rimediare all’oltraggio nello stesso modo, non ci riuscirà mai. Infelici come siamo, potenti all’infinito per oltraggiare Dio, restiamo impotenti fino al nulla per riparare al nostro disprezzo e per restituirgli la gloria. Infatti tutto ciò che possiamo fare da soli non supererà mai i limiti della nostra bassezza. Per questo, solo un Dio fatto uomo poteva offrire a Dio, ferito nella sua gloria, l’onore e la rigorosa soddisfazione di cui aveva bisogno per restituire al genere umano prevaricatore le sue grazie e il suo antico amore. E questo basterebbe anche a spiegare i terribili colpi con cui la giustizia di Dio colpisce eternamente i peccatori ostinati, che non hanno voluto applicarsi né i meriti né le espiazioni del Redentore. – Ora, per tornare al nostro principio, ciò che conferisce una dignità veramente divina alla persona del giusto è la grazia, poiché essa lo rende figlio di Dio, un “dio per partecipazione”. Pertanto, quanto più avremo questa nobiltà soprannaturale, tanto più questa aureola divina risplenderà sulla nostra anima, tanto più parteciperemo alla divinità; tanto più il nostro omaggio glorificherà la suprema maestà e, di conseguenza, tanto più sarà meritorio ai suoi occhi. – La semplice considerazione del ruolo della grazia santificante nella questione del merito ci porterà direttamente alla stessa conclusione. Come abbiamo già visto, è in questa grazia che dobbiamo cercare la prima e fondamentale ragione del merito: essa è la sua causa primordiale. Ne deriva, come conseguenza molto naturale, che la grazia non può crescere in un’anima senza che il merito cresca in essa. Così, poiché uno dei principi che rendono meritevoli i nostri atti è il dominio in virtù del quale sono nostri, il loro valore è ineguale a seconda che li compiamo con libertà più o meno intera. Certo, c’è molto da consolare chi, con una lunga perseveranza al servizio di Dio Nostro Signore, ha sviluppato ampiamente in sé questo incomparabile tesoro di grazia. A volte non possono, senza un profondo senso di desolazione, pensare a quanto poco sembrano fare per glorificare il giusto Ricompensatore delle nostre opere. Questi atti di così scarso valore in sé hanno un peso immenso, se c’è l’abbondanza della grazia interiore a nobilitarli e a renderli forse incomparabilmente più vantaggiosi per chi li compie, di quanto non lo sarebbero per altri con opere apparentemente più belle e più gloriose. E questa consolazione crescerà nelle loro anime quando avranno compreso e meditato il principio assolutamente certo che stiamo per esporre.

2Terzo principio. – Quanto più un atto, al di là di ogni altra considerazione, appartiene propriamente alla carità, tanto più partecipa al suo influsso vivificante, tanto più si presta a meritare un aumento di grazia e di gloria. Questa regola deriva naturalmente dalle conclusioni tratte nel capitolo precedente. Se nessun’altra virtù può produrre atti meritori indipendentemente dalla carità, è perché il primato del merito è la sua sorte speciale e il suo privilegio incomunicabile. Perché dunque dovrebbe essere la prima delle virtù, la più nobile, la più eccellente, una regina tra il suo seguito, se ci fosse qualcuno che compie opere superiori alle sue nella stima di Dio? Essa può dire allora: « Io, che faccio partorire gli altri, non potrei partorire io? Io, che do agli altri la loro posterità, resterò sterile » (Is., LXVI, 9. Questa è una sicura applicazione dell’antico adagio: Propter quod unumquodque tale, et illud magis). Perciò, tra tutte le opere, la più meritoria di per sé è quella della carità; tanto più meritoria perché è un’operazione più intensa e più elevata. Pertanto, man mano che la carità entri più profondamente negli atti delle altre virtù, e le assimili maggiormente, esse toccheranno più fortemente il cuore di Dio (« Premium respondens merito ratione charitatis, quantumcunque sit parvum, est majus quolibet præmio respondente actui ratione sui generis ». S. Thom, IV, D. 49. q. 5, a. 5, a.d. 5). Per una madre nulla è più gradito, dopo l’amore dei figli, degli atti in cui la virtù di questo amore filiale si manifesti più chiaramente. Un esempio preso in prestito dalla teologia morale farà ancora più luce sul nostro pensiero. Appropriarsi dei beni altrui è un’offesa a Dio, tanto più grave quanto più alto è il valore degli oggetti ingiustamente sottratti. Se un uomo, spinto da una diabolica malizia, commette un furto non solo per amore dell’oro, ma per odio e disprezzo formale di Dio, non è forse vero che il suo demerito e la sua colpa saranno ben diversi da quelli del semplice furto? Perché? Perché se l’uno e l’altro furto sono contrari all’amore di Dio, questo amore è incomparabilmente più oltraggiato nel secondo che nel primo: perché in un caso l’opposizione è direttamente voluta, mentre nell’altro caso non lo è che per contraccolpo. (Ogni peccato mortale è contro la carità, e proprio per questo è mortale. Infatti appartiene alla carità porre l’ultimo fine dell’umanità praticamente in Dio. Ora, peccare mortalmente significa essere talmente attaccati al bene creato da sceglierlo come ultimo fine, a scapito della bontà sovrana. Ogni uomo che pecca mortalmente preferisce, in virtù del suo atto, il bene che brama per se stesso, al bene per eccellenza, Dio suo ultimo fine, e di conseguenza all’amicizia divina. Cfr. S. Thom, de Malo, q. 7, a. 1). Da questo principio derivano diverse conclusioni di grande importanza per la nostra vita spirituale. Non indagherò, come si fa in un trattato di teologia morale, su quando siamo assolutamente tenuti a compiere atti di carità; in altre parole, a riferire formalmente noi stessi, tutto il nostro essere e tutte le nostre azioni alla gloria di Dio: una questione molto oscura, su cui si può dissertare a lungo senza arrivare, in mancanza di autorità sufficienti, ad una piena certezza. Ma ciò che è importante considerare qui è che quanto più frequentemente si ripetono gli atti di amore di Dio e quanto più fervidamente un’anima vi si dedica, quanto più si applica a diffondere il motivo della carità divina su tutte le sue opere, cioè a farle per piacere a Dio, per puro amore della suprema bontà, tanto più rapida è la sua crescita spirituale e il suo progresso nella santità. – Se la dilezione è ardente, potente ed eccellente in un cuore, essa arricchirà e perfezionerà anche tutti gli atti di virtù che ne derivano. Si può soffrire la morte e il fuoco per amore di Dio senza avere la carità, come presuppone San Paolo e come dichiaro altrove; a maggior ragione si può soffrire con un po’ di carità. Ora io dico, Teotimo, che può darsi che una piccolissima virtù sia più preziosa in un’anima dove regni ardentemente l’amore sacro, che non il martirio in un’anima dove l’amore sacro è debole e lento. Così le virtù minori della Madonna, di San Giovanni e degli altri grandi Santi, avevano un valore maggiore davanti a Dio, rispetto a quelle più elevate di molti santi inferiori; così come molti dei piccoli slanci amorevoli dei Serafini sono più infiammati che quelli dei più elevati tra gli Angeli dell’ultimo ordine; così come il canto degli usignoli principianti è incomparabilmente più armonioso di quello dei cardellini meglio impostati. – Così, Teotimo, le piccole semplicità, le abiezioni e le umiliazioni in cui i grandi Santi si sono tanto compiaciuti per fortificare e per proteggere i loro cuori dal pericolo della vana gloria, essendo state fatte con una grande eccellenza di parte e con l’ardore dell’amore celeste, sono state trovate più gradevoli davanti a Dio che le grandi o illustri opere di molti altri che sono state fatte con poca carità e devozione » (S. Fr. de Sales, Trattato dell’amor di Dio, L. XI, c. 5). Chi non ha riconosciuto l’enfasi di San Francesco di Sales e non ha visto quanto questa dottrina sia consolante e vera? – Certamente, non si può negare, la nostra vita sarà tanto più perfetta, e di conseguenza tanto più meritoria, quanto più sarà formata sul modello della vita beata, dalla quale speriamo di morire un giorno con Dio. Ora, in questa vita benedetta, ameremo soprattutto tutto ciò che amiamo in Dio per se stesso; lo ameremo al di fuori di Lui e faremo tutto per Lui. Le altre virtù, se escludo quelle che, come la speranza e la fede, presuppongono essenzialmente uno stato di imperfezione, non saranno assenti dal cielo: poiché sono nel dolore, è giusto che un giorno siano nell’onore: ne avremo atti compatibili con la gloria e la gioia di cui sarà piena la nostra anima; ma, in tutto e sempre, con l’intenzione di piacere a Dio, per il suo beneplacito e perché li approva. Non tutto sarà un atto esplicito di carità; ma poiché tutto sarà fatto sotto il moto più amorevole e universale della carità, sarà veramente la vita dell’amore puro. Lavoriamo, dunque, camminiamo, mortifichiamo il nostro corpo o diamogli un adeguato riposo; siamo giusti, casti e obbedienti, con l’intenzione sempre più presente e viva di piacere al cuore di Dio; nulla può contribuire più efficacemente alla crescita del figlio di Dio in noi, perché nulla aggiunge di più alla dignità dei nostri meriti. – Da ciò si evince cosa dobbiamo pensare della pratica così urgentemente raccomandata da tutti i maestri di vita spirituale: offrire le nostre azioni a Dio e protestare che vogliamo portarle interamente alla sua gloria. Non si tratta di un precetto, ma di un consiglio; né di una condizione necessaria per il merito, ma di un mezzo sovranamente utile per aumentarlo senza misura. –  San Francesco di Sales, che mi piace tanto citare in questa materia, e del quale forse nessun autore ha parlato in modo così dotto e chiaro, non si stanca di lodare questa pratica e di insegnarne il metodo: « Per progredire in modo eccellente nella devozione, dobbiamo, non solo all’inizio della nostra conversione, e poi ogni anno (con i pii esercizi) dedicare a Dio la nostra vita e tutte le nostre azioni; ma dobbiamo anche offrirgliele ogni giorno, secondo l’esercizio mattutino che abbiamo insegnato a Filotea: Infatti, in questo rinnovamento quotidiano della nostra oblazione, riversiamo sulle nostre azioni il vigore e la virtù della dilezione attraverso una nuova applicazione del nostro cuore alla gloria divina, per mezzo della quale viene sempre più santificato. – « Inoltre, applichiamo la nostra vita cento e cento volte al giorno all’amore divino con la pratica delle preghiere giaculatorie, delle elevazioni del cuore e dei ritiri spirituali: perché questi santi esercizi lanciano e fissano continuamente la nostra mente su Dio, e quindi portano a Lui tutte le nostre azioni. E come potrebbe essere, vi prego, che un’anima, che aspiri sempre alla bontà divina e sospiri incessantemente parole di devozione per mantenere il suo cuore sempre nel seno di questo Padre celeste, non sia stimata che compia tutte le sue buone azioni in Dio e per Dio? – Colei che dice: “Ehi Signore, sono tuo”. La mia amata è tutta mia e io sono tutto suo (Cant., IV, 16). Mio Dio, tu sei il mio tutto. O Gesù, tu sei la mia vita… Non dedica forse, dico, continuamente le sue azioni allo Sposo celeste? » (S. Franç. de Sales, Trattato dell’amor di Dio, L. XI, c, 9, 2). Si realizza così alla lettera, e nel modo più eccellente, ciò che San Paolo raccomandava ai Corinzi: « Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto a gloria di Dio » (1 Cor. X, 31). Ecco, quindi come l’influenza della carità contribuisca non solo all’esistenza, ma anche alla perfezione dei meriti. – Dal libro dei Cantici, vi mostrerò che questa carità divina ha davvero la virtù di trasformare tutto in oro. Leggete e vedrete come tutto ciò che è presente nella sposa inebri e delizi il cuore dello Sposo celeste. Lei parla: « Le tue labbra – le dice – sono come una fascia di scarlatto e la tua conversazione è più dolce del latte e del miele ». Lei cammina: « O figlia del principe – dice lui – come sono belle le tracce dei tuoi piedi ». Lei dorme, e il suo sonno è così incantevole per lui che proibisce alle figlie di Gerusalemme di disturbarlo: « Vi prego, per i caprioli e i cervi della montagna, lasciate che la mia amata dorma, finché non si sveglierà da sola ». Tutto in lei ha un fascino per lui, una grazia ineguagliabile, uno sguardo, un gesto, un niente. Da qui le esclamazioni dell’amata: « Hai ferito il mio cuore, sorella mia, sposa mia, hai ferito il mio cuore con uno dei tuoi occhi, con un pelo del tuo collo » (Cant. IV, 3, 11; VI, 1; III; V 5, IV, 9). È perché essa è l’amante, perché è tutta intera nel diletto: « Ego dilecto meo »; è perché la grazia del suo fervore e la purezza del suo amore comunicano alle sue minime opere un valore incomparabile. Con quanto ardore lo Sposo che lei ama in modo unico la chiama a godere della sua presenza e dei suoi beni. « Alzati, mia colomba, mia bella, e vieni. Vieni dal Libano, mia sposa, vieni dal Libano; vieni e sarai incoronata » (Ibid. V, 8). Notiamo un altro influsso della carità che porta ad un aumento dei meriti. Come già sappiamo, le nostre azioni sono tanto più meritorie quanto più spontanee, volontarie e libere provengano dall’anima. Ora, cosa fa la carità quando regna e governa come sovrana in un’anima? Che quest’anima, essendo condotta dall’amore alle cose di Dio, agisce con meno ripugnanza, con un cuore migliore; in una parola, più spontaneamente e più liberamente. – La vita dei santi ce lo dimostra chiaramente. Dal modo in cui accettano, o meglio, cercano, i sacrifici più ripugnanti per la natura, sembrerebbe che questi non siano né difficili né amari per loro. Laddove chi ha come movente la paura piuttosto che la carità, esita, indietreggia o avanza solo con rammarico, spinto dal terrore dei giudizi di Dio, essi si precipitano in avanti, trascinati dal peso dell’amore. Hanno mille cuori e mille vite che darebbero per il loro Signore e Maestro. Per questi uomini non c’è bisogno di una legge. La loro legge è il loro amore. Infatti, « l’amore è una grande cosa. Solo esso fa luce su tutto ciò che è pesante. Appesantisce un peso senza esserne gravato; rende piacevole e dolce ciò che è più amaro. Chi ama, corre, vola; è felice, è libero, nulla lo ostacola » (Imit. J. C. G. L. III c. 5). – Per questo l’Angelo della Scuola, dopo aver dimostrato la necessità della carità per rendere meritorie le nostre opere indirizzandole verso Dio, nostro sommo Bene, aggiunge subito: « È evidente che facciamo una cosa più volentieri quando è l’amore a condurci ad essa. Pertanto, poiché il merito richiede la volontarietà, esso deve essere attribuito principalmente alla carità » (S. Thom, 1. 2, q. 114, a. 4, in corp.). – Posso ben prevedere l’obiezione che può essere fatta: come può la carità, più attiva e più intensa, essere causa di un aumento del merito nelle nostre opere, se lungi dall’aumentare le difficoltà, le diminuisce? Infatti, insegnarci, come fa l’Apostolo, che ciascuno riceverà la sua ricompensa in proporzione al suo lavoro (II Cor., III, 8), significa dirci equivalentemente che la grandezza del merito è proporzionale allo sforzo, alla fatica, alla violenza che ci imponiamo, in una parola, alla difficoltà del lavoro. Basta una semplice osservazione per ribaltare l’obiezione. Un’opera può essere laboriosa in molti diversi modi. È faticosa per sua natura, come il martirio o come l’olocausto offerto a Dio nella professione religiosa. Da questo punto di vista, la difficoltà del lavoro contribuisce ad aumentare il merito. Non è in questo modo che la carità diminuisce il lavoro, che ci fa intraprendere cose così grandi per l’onore di Dio. Un’opera è faticosa per la mollezza della volontà di chi la deve compiere: il minimo sacrificio sembra troppo duro per un Cristiano così imperfetto; ed è solo questa difficoltà che diminuisce il merito, e che l’amore fa svanire con la paura. Si rallegrino dunque coloro ai quali la lunga abitudine a portare la croce del Signore Gesù ha reso quasi amabili le loro fatiche, le loro penitenze e le loro rinunce. L’olio che li addolcisce è quello dell’amore; e proprio questa dolcezza è il segno e la causa di un merito più abbondante, di una penitenza più fruttuosa (S. Thom., 1. 2. D. 114, a. 4, ad 2; de Verit., q. 26, a. 6, ad 12).

3. – Quarto e ultimo principio. – Più la virtù che l’amore informa è di ordine superiore, più il suo atto è meritorio. Suppongo che il merito, pur appartenendo principalmente alla Carità, non sia una sua prerogativa esclusiva. Mille luoghi della Scrittura e dei Concili confuterebbero chiunque pretendesse di affermare questo: ora queste virtù, le cui opere la carità fa proprie, non sono dello stesso rango. Seguono le orme della carità, ma a distanze diseguali. Tutti i seguaci di una regina non sono ugualmente vicini al suo trono, né partecipano ai suoi privilegi nella stessa misura. È il caso delle virtù in questo impero spirituale dove la carità, sostenuta dalla grazia, è la regina. Alcune, come la speranza e la fede, sono quasi del suo sangue, poiché hanno Dio come oggetto immediato; altre, senza andare direttamente a Dio, sono tuttavia legate in modo più prossimo alle sue perfezioni: come, ad esempio, la religione, la pietà e la penitenza. Chi oserebbe sostenere, con quegli antichi eretici, che non ci sia differenza tra la castità coniugale e la verginità, tra il buon uso delle ricchezze e l’abnegazione volontaria, tra qualche giorno di digiuno e il martirio? E questa disuguaglianza che trovo tra le virtù, la ritrovo anche tra i loro atti. Che io faccia una piccola elemosina o che mi spogli delle mie ricchezze a favore del mio prossimo, è la stessa virtù a fare entrambe le cose; ma sarebbe una cecità affermare che questi due atti abbiano di per sé lo stesso valore. – È vero che tutti gli atti virtuosi debbano essere vivificati dalla carità per essere meritori, ma questo da solo non basta a metterli sullo stesso piano. Gli organismi viventi non sono tutti paragonabili per vigore e finezza di forma, anche se l’anima che li anima è ugualmente perfetta in tutti. E, per prendere a prestito da San Francesco di Sales uno dei suoi paragoni più graziosi, il sole, pur dando a tutti i fiori la colorazione brillante di cui erano privi nell’oscurità, non ne eguaglia tuttavia i colori o la bellezza. Illuminati diversi tipi di fiori nella stessa luce, la rosa e il giglio manterranno i loro privilegi. Così come la carità per quei fiori profumati dell’anima che sono le virtù. Lungi dal privarli del posto d’onore che spetta loro in virtù della loro natura, essa li perfeziona ciascuno secondo la sua misura e il suo grado; così che, sotto la stessa luce, il merito non è lo stesso, mentre l’eccellenza nativa è diversa. Ciò non impedisce, tuttavia, come abbiamo già spiegato, che un atto particolare della virtù più umile possa prevalere su un’opera di una virtù superiore, quando sia una più grande carità a darle vita. Così, questo piccolo fiore ci affascinerà di più con il suo alone di luce rispetto ad un altro, sarà più elegante nella forma e più ricco di colori, appena illuminato da un debole chiarore. (Ecco come il Dottore Angelico riassume in un unico testo tutta la questione della misura del merito: « Quanto majori charitate et gratia actus informatur, tanto magis est meritorius; similiter, quanto magis est voluntarius, plus habet de ratione meriti; similiter etiam, quanto magis objectum est arduum, tanto magis actus est meritorius. » II, D. 29, q. 1, a. 4).

4. – Non concluderò queste spiegazioni senza aggiungere qualche parola sulla gloria di questo Stato religioso oggi così perseguitato nel mondo. Il Dottore Serafico, San Bonaventura, d’accordo in tutto e per tutto con il suo amico Angelico, sembra aver pensato che la sola presenza della carità non sia sufficiente a trasformare in merito le azioni più ordinarie della vita. Per lui, come per la Scuola Francescana in generale, ci sono atti deliberati che sono indifferenti, non solo per la loro natura specifica, su cui tutti concordano, ma nella loro realtà individuale. Si tratta, per esempio, delle azioni del mangiare, del bere, del camminare per svago; tutte quelle, in una parola, che l’infermità della natura ci richiede. Tali azioni, non avendo alcun carattere di moralità per un uomo ragionevole, non potrebbero diventare meritorie che per il fatto stesso che l’agente porta in sé la grazia e vive nell’amicizia di Dio (S. Bonav., in II, D. 41, a. 1, q. 3). Ma accanto a questa dottrina, che è in contrasto con il sentimento più comune delle altre scuole, ne insegna un’altra che eleva infinitamente il privilegio della vita religiosa. Traduco il brano parola per parola, per non indebolirne il significato e la forza. – Il Santo parla del rapporto che le nostre opere devono avere con l’onore di Dio per essere meritevoli. « Questa relazione – egli dice – si trova nei religiosi per il fatto stesso che, all’inizio della loro vita religiosa, hanno fatto professione di portare il giogo del Signore per amore di Dio. Infatti, tutte le loro opere senza eccezione, intendo quelle che appartengono all’osservanza religiosa, sono, in virtù della loro prima intenzione, meritorie di salvezza, a meno che, Dio non voglia, non si verifichi un’intenzione contraria » (Id. Ibid.). Vogliamo sapere fino a che punto può estendersi il dominio dell’osservanza religiosa? Impariamo questo da San Tommaso d’Aquino, dato che San Bonaventura non l’ha detto esplicitamente. Contro la tesi secondo cui l’intera perfezione della vita religiosa consista nell’osservazione dei tre voti, sorge una difficoltà. È che, tra la povertà, l’obbedienza e la castità che rientrano nel voto, ci sono per i religiosi molti altri esercizi: il lavoro, la preghiera, le veglie ed il resto. – Al che il santo Dottore risponde: « Tutte le osservanze della vita religiosa sono ordinate a questi tre voti principali. Infatti, se ci sono azioni che si riferiscono al sostentamento della vita corporea, come lavorare o chiedere l’elemosina, esse sono collegate alla povertà, poiché è per conservarla che i religiosi si procurano le necessità della vita. Se altre pratiche, come il digiuno, la veglia e simili, servono a macerare il corpo, chi non vede che abbiano come fine diretto l’osservanza del voto di castità? Infine, se ci sono pratiche istituite per ordinare gli atti dei religiosi al fine della religione, cioè all’amore di Dio e del prossimo, come la lettura, lo studio, la preghiera, la visita agli ammalati e cento altre cose dello stesso genere, tutto questo è compreso nel voto di obbedienza, la cui funzione propria è quella di dirigere, sotto la direzione di un altro, sia la volontà che l’azione dei religiosi verso il fine comune. » (S: Thom, 2. 2, q. 186, a. T7, ad 2). È dunque a tutto questo che si estende per il religioso l’influsso della carità primordiale che gli ha dettato i suoi voti, sia per rendere meritoria ciascuna di queste azioni, secondo il sentimento di San Bonaventura, sia per dare loro un merito più abbondante, secondo la dottrina di San Tommaso d’Aquino. Vogliamo anche sottolineare che gli stessi atti, oltre al valore meritorio che deriva loro dalla virtù particolare a cui appartengono, ricevono universalmente un altro valore ancora più eccellente dalla virtù della religione, che li ha fatti propri attraverso i voti? Infine, devo dire che c’è un altro punto di vista sotto cui la professione religiosa porta a coloro che l’hanno giurata un ammirevole aumento di merito? Ricordiamo che un atto è tanto più nostro, e quindi più degno di premio o di punizione, quanto più proviene da una volontà più ancorata al male o più fissata nel bene. – Ecco perché i peccati più grandi, quelli che più di ogni altra cosa distolgono la fonte delle grazie, sono i peccati di pura malizia. Chiamo con questo nome i peccati in cui la passione, l’ignoranza, la debolezza, l’allenamento e la sorpresa hanno una parte minore; quelli che vengono commessi freddamente, deliberatamente, con pieno possesso di sé e con una chiara visione dell’ingiuria fatta a Dio. Tale fu il peccato degli angeli ribelli; e tale è anche la ragione per cui, per una sola ribellione, essi meritarono un castigo più terribile degli uomini sfortunati che scendono all’inferno dopo una lunga serie di peccati inescusabili. Ora, cosa fa la professione religiosa, o meglio, cosa diventa la volontà sotto l’influenza e la virtù dei voti religiosi? È liberamente fissata nella necessità morale di fare bene, di agire secondo le regole della perfezione: così fissata che toglie a se stessa il potere di omettere senza prevaricazione ciò che altri possono, liberamente e senza dispiacere, rifiutare al loro Dio. – Dopo questo, che si dica che la professione religiosa conti poco per la perfezione; che si aggiunga addirittura che dove non c’è voto, l’omaggio offerto alla maestà divina è più spontaneo, più volontario, e di conseguenza altrettanto meritorio, se non di più; ascolterò i nostri due grandi Dottori da cui ho tratto la mia dottrina, e considererò falso e pernicioso ogni sentimento contrario (S. Thom, Opusc. de perfectione vitæ spirit…), Questo opuscolo è scritto contro vari errori, uno dei quali è formulato in questo modo: « È più meritorio compiere le opere di virtù di propria volontà, senza la necessità imposta dall’obbedienza o dal voto, che compierle sotto la pressione dell’una o dell’altra. » Allora San Tommaso emette questo giudizio: « È evidente che questa tesi è contraria a ciò che la Chiesa universalmente pratica e insegna! Perciò deve essere rimproverata come eresia » (Ibidem). Riassumiamo con una bella esortazione dell’Apostolo tutto ciò che abbiamo scritto sulla crescita spirituale per mezzo del merito. « Cresciamo in ogni cosa in Colui che è il nostro capo e la nostra testa, Cristo, operando la verità nell’amore. – Veritatem autem facientes in caritate, crescamus in illo per omnia, qui est Caput Christus » (Ef. IV, 15). – San Paolo ha mostrato come il fine di tutte le grazie, i privilegi e i ministeri comunicati con tanta liberalità alla Chiesa di Dio sia la consumazione dei Santi e l’edificazione del Corpo mistico. Membri di Cristo in formazione, cosa dobbiamo fare? Questo è l’incoraggiamento alla crescita spirituale ed è anche la sua legge fondamentale: non crescerà in Cristo chi non è ancora parte di Cristo. Pertanto, se vogliamo meritare questa crescita dell’uomo interiore, del membro di Gesù Cristo, viviamo prima in Gesù Cristo, cioè conserviamo in noi quella grazia santificante e unificante che ci rende membra vive di Cristo. Crescamus in illo….. qui est caput Christus. – Ma con quali movimenti avverrà la nostra crescita; facciamo, pratichiamo la verità. Sta a noi praticare e fare; questi movimenti devono quindi essere nostri, liberi. Pertanto, poiché solo la libertà può portarli sotto il nostro dominio, Facientes veritatem; facciamo la verità, cioè opere rivestite di bontà morale. Nelle nostre Sacre Lettere, il peccato è la menzogna. Ogni uomo è bugiardo, cioè, in misura maggiore o minore, è soggetto a peccare, soggetto al peccato (Sal. CXV, 11).  « Figli di uomini. Perché seguite le vanità e abbracciate la menzogna? » (Salmo, IV, 3. Vedi il Commento di Sant’Agostino, L. I, c, 4, p. 48). Quindi, per necessaria opposizione, praticare la verità significa compiere azioni buone e virtuose, in conformità alla regola della ragione e a quella della fede. Veritatem facientes. Fare la verità nella carità; Veritatem facientes in charitate. Non vedete un’altra condizione necessaria perché le nostre opere siano meritorie? Infatti, agire nella Carità non è forse agire sotto la sua influenza, la sua direzione, il suo impulso benefico? Così, facendo liberamente la verità nella carità, cresciamo in Cristo. E quale sarà la portata di questa crescita? Crescamus per omnia. Cresciamo in tutte le cose e attraverso tutte le cose: nessuna eccezione. In tutte le opere, se operiamo la verità nell’amore. Un piccolo aumento nel piccolo, un grande aumento nel grande, ma sempre un aumento, per omnia. – Infine, non ci sono limiti fissi ai quali dovremmo dire: “Basta così, mi fermo”. Crescamus in illo. Quando il membro di Cristo sarebbe così perfetto da eguagliare la perfezione della testa, o che il corpo non potrebbe ammettere, senza disgrazia, questo sviluppo in una delle sue parti? Il limite finale sarà fissato solo dalla nostra negligenza o dalla morte, che sola ci immobilizzerà per l’eternità nel Corpo glorioso del Cristo.

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (2)

LA VITA INTERIORE DEL CATTOLICO (2)

Mons. ALBAN GOODIER S.J. (Arcivescovo di Hierapolis)

Morcelliana Ed. Brescia 1935

Traduzione di Bice Masperi

CAPITOLO I

LA VITA IN DIO

1. Dio e la sua creatura

Debbo definire il pensiero cattolico; da dove incominciare? o quale dei suoi numerosi aspetti dovrò tentar di analizzare? In ogni caso, dovunque conducano in definitiva le mie riflessioni, posso incominciare dal fatto di Dio. So che Dio esiste, Dio uno e vero, oggettivamente reale, che contiene in se stesso tutto quanto intendiamo con la parola “personalità” e più ancora. So ch’Egli è al difuori della creazione e da essa indipendente, mentre la creazione, con tutto quanto contiene, da Lui dipende e deve dipendere: so ch’Egli è vicino ad essa e a ciascuna delle sue creature, vicino a me quanto lo sono io stesso. So che nulla gli è impossibile perché è l’Onnipotente, è quello che i teologi dicono immenso, intimamente essenziale a tutte le cose, di modo che nulla gli è ignoto, neppure i più segreti pensieri dell’uomo, non il passato né il futuro, non le cause né gli effetti. So che il mio Dio è infinito in sapienza e non può che far sempre il meglio secondo i suoi disegni, che è perfetto nella giustizia pur essendo la sua misericordia superiore ad ogni sua perfezione; so che la sua provvidenza regge e cura ciascuna cosa da Lui fatta, e soprattutto gli uomini affinché in Lui siano salvi. So che il mio Dio è non solo reale, più reale di quanto lo siamo noi, non solo giusto e misericordioso e infinitamente veritiero, fedele e immutabile. Egli è anche un Dio d’amore. Infinitamente amoroso e infinitamente degno di amore: è l’amore stesso dal quale deriva ogni amore e al quale ogni amore ritorna. Se sono coerente, non posso pensare a Dio senza che il mio pensiero si risolva in amore; non posso giudicare i suoi atti se non li considero con gli occhi dell’amore; se qualche cosa di Lui voglio scoprire, l’amore; soltanto potrà rivelarmelo. So che in questo Dio sono tre Persone che noi mortali chiamiamo Padre, Figlio e Spirito Santo precisamente perché son questi i nomi che per amore ci furon rivelati insieme alle reciproche relazioni delle tre Persone divine; e quando arriviamo a una qualche comprensione della essenza della SS. Trinità, vediamo ch’Essa altro non è che la perfetta espressione di un amore infinitamente perfetto. Il Padre e il Figlio, il Padre che dà al Figlio tutto ciò che ha e che è: se stesso; il Figlio e il Padre, il Figlio che restituisce al Padre tutto ciò che è e che ha; lo Spirito Santo, — come debolmente lo esprimiamo! — l’amore reciproco del Padre e del Figlio, infinito, e perciò unico. È questo il nostro Dio, veduto da questa oscurità ed in maniera oscura, ma che speriamo di contemplare un giorno a faccia a faccia. – E se l’amore è l’unica chiave alla conoscenza di Dio in se stesso, non ne esiste altra neppure per la comprensione dei suoi rapporti con le creature. Questo mio Dio mi conosce assai meglio di quanto mi conosca io stesso, assai meglio di quanto possan conoscermi gli altri, e ciò nonostante mi ama. Conosce il mio nulla, la mia miseria, le mie colpe, eppure, e forse per ciò stesso, Egli non ha per me che compassione ed amore. Fin da tutta l’eternità — mi esprimo come umanamente posso — io ero nella sua mente ed Egli mi amava; e nel tempo, proprio perché mi amava, mi volle e mi diede la vita. Quell’amore medesimo lo spinse non solo a far di me un essere umano, ma anche a farsi uomo Egli stesso come me e per me: dopo avermi dato me stesso, l’amore lo portò a darmi anche se stesso. Divenne uomo per me, ma ciò non gli parve abbastanza. Doveva continuare a dare, doveva darmi tutto ciò che aveva, la sua stessa vita: e come visse per amore di me, per amore di me morì. E per amor di me risuscitò; ma, risorto, essendo “passato da questa vita al Padre” ancora mi amò. Per amor mio ascese al cielo, per prepararmi un posto, come aveva detto, affinché dov’Egli era fossi io pure, quando il tempo non sarà più, per tutta l’eternità. Ma neppur questo bastava al suo amore infinito. Quando passò da questa terra non volle lasciarci orfani, volle ancora venire a noi. Era necessario che andasse, ma volle ritornare in questa valle di lagrime e dimorarvi finché vi resteremo noi. In quanto al mezzo di questa permanenza quaggiù, il suo amore l’avrebbe escogitato, e lo trovò in un po’ di pane e in un po’ di vino. L’amore lo indusse a darsi nuovamente tutto; a me si diede tutto intero nel Sacramento dell’Altare e non solo come compagno, ma come cibo. Se avesse voluto semplicemente dimorare con me sulla terra, avrebbe potuto farlo in altro modo, rimanendo accanto a me come uomo, trasfigurato magari, e in tutta la sua gloria attuale. E io l’avrei riconosciuto e adorato, amorosamente, come il povero cieco nato ch’Egli guarì a Gerusalemme. Invece Egli volle far di più: l’amore richiedeva qualche altra cosa e questa non gli fu negata. Per amor mio volle unirsi a me, venire a me, in me, nascosto in quel sacramento divino, e nutrir la mia vita della Sua. “Colui che mangia di me vivrà per me. Colui che mangia di questo pane vivrà in eterno ”. Né questo è tutto, ché l’amore non è mai pago quaggiù, e sempre vuol darsi e sempre brama un contraccambio. Perciò Egli volle unirsi ancor maggiormente a me: come aveva trovato il mezzo di venire in me, volle che ancor io fossi attratto a Lui. E per questo volle vivere sulla terra in un altro modo ancora: il suo spirito, la sua vita dovevano dimorare fra gli uomini come la linfa della vite circola nei suoi tralci, come il calore del fuoco rimane nel ferro arroventato, come l’anima vive nel corpo dell’uomo. Volle dimorare in un nuovo corpo, Corpo mistico è vero, ma non per questo meno reale, che avrebbe chiamato la sua Chiesa. E mi volle membro di quel corpo, parte di se stesso, inserito in Lui come il tralcio è inserito all’ albero, e volle che da Lui attingessi vita. Volle che io vivessi, no non più io, volle Egli stesso vivere in me per mezzo di questo organismo vivente suo che è la Chiesa. Così, dal principio alla fine, la storia dei rapporti fra questo Dio d’amore e me è perfettamente coerente, tutta degna di un Dio. Ammesso l’amore, amore ineffabile e sconfinato di un Dio che tutto dà e tutto chiede e tutto può, io vedo susseguirsi i suoi doni che lo abbassano fino a me e mi attirano a Lui, finché tutto il resto svanisce e io sono accolto, sol che lo voglia, nel suo tenero amplesso. –

Dio mi ha amato prima ch’io fossi, perciò Egli mi fece.

Dio mi ha amato dopo che m’ebbe creato, perciò si fece uomo per me.

Dio mi ha amato dopo essersi fatto uomo per me, perciò Egli morì per me.

Dio mi ha amato dopo esser morto per me, perciò risuscitò per me.

Dio mi ha amato dopo che risuscitò per me, perciò ascese al Cielo per me.

Dio mi ha amato dopo la sua, ascensione, perciò Egli ritornò a me.

Dio mi ha amato dopo che ritornò a me, perciò Egli venne in me.

Dio mi ha amato dopo che venne in me, perciò mi fece una cosa sola con Sé, membro del suo stesso corpo “che è la Chiesa”.

Quel che Dio sarà per me quando lo incontrerò a faccia a faccia “occhio non vide, orecchio non udì, né fu dato al cuor dell’uomo di Intendere”, ma intanto tutto questo e più ancora è per me il mio Dio anche quaggiù e in questa vita. O per lo meno, questo e più Egli sarebbe per me se io lo lasciassi fare. Poiché, ecco un’altra manifestazione del suo amore: Egli mi lascia libero di accettare o di rifiutare il suo dono. L’amore perfetto, come sappiamo, ha tre prerogative: desidera di possedere, anela di darsi e brama un contraccambio d’amore da parte del suo diletto. Ma perché questo avvenga, perché l’amore sia perfetto, deve essere spontaneo, e l’amato deve esser libero. Dio ama tutte le creature che fece, e in cambio esse dicono incessantemente la sua gloria. “Cœli enarrant gloriam Dei, et opera manuum suarum annuntiant firmamentum”. Ma non potrebbe essere altrimenti: l’amore di queste creature non è proprietà loro, allo stesso modo che l’immagine non appartiene allo specchio che la riflette. Questi esseri del creato sono specchio di Dio, sono belli perché lo riflettono, degni di amore appunto perché e in quanto rivelano l’amor suo, ma per se stessi non sono che creature, opera delle sue mani, senz’alcuna libertà o volontà propria con cui offrirgli quel dono spontaneo che fa dell’amore un olocausto perfetto. – All’uomo solo, su questa terra, fu concessa la facoltà di volere liberamente e di liberamente donare. Per ottenere questo olocausto e la gloria di un amore liberamente ricambiato e offerto a Lui dalla sua creatura, direi — se l’espressione non suonasse irriverente — che il mio Dio ha voluto tentare la prova. Ha dato la vita a una creatura che fosse libera, ha dato a me ch’Egli ama il potere di dire se voglio o no riamarlo. Mi ha manifestato tanta della sua bellezza, ha voluto che i cieli mi narrino la sua gloria, mi ha svelato il suo segreto, mi ha attratto e allettato in mille modi. Ha domandato esplicitamente il mio amore, me ne ha fatto un vero precetto, il suo unico grande comandamento, lasciandomi libero di mangiare del frutto di tutti gli altri alberi del suo paradiso. E libero davvero mi ha lasciato: malgrado tutti gli inviti, tutti gli allettamenti coi quali mi ha attirato e vincolato a Sè, io ho ancora in me il tremendo potere di respingerlo, di rinnegarlo, di dire che non voglio amarlo, che amerò invece di Lui qualche altra cosa, magari me stesso. – E l’uomo libero lo ha tradito. Io l’ho tradito. Egli ha messo alla prova affinché gli dimostrassi il mio amore, poiché l’amore non si accontenta di parole; e io non ho dato buona prova. Gli ho detto “Signore, Signore”, ma non sono entrato nel suo regno. A Lui ho preferito me stesso, ho posposto il suo infinito preziosissimo amore a un misero orpello, a qualche effimera soddisfazione. Quella stessa capacità d’amore, che era il suo dono sovrano a me e per la quale più gli rassomigliavo e di cui Egli solo era perfettamente degno, io l’ho distolta da Lui e l’ho rivolta ad altre cose, e in esse l’ho sperperata. Ecco il peccato. Per quanto è dipeso da me, mi sono distolto dall’amore di Dio, ho dichiarato al suo cospetto che non volevo saperne di Lui e che gli preferivo altri. Gli ho fatto l’ingiuria e l’insulto non solo di relegarlo a un secondo posto, ma anche di rifiutargli un posto qualsiasi, di lasciarlo al di fuori e al di dietro di me. Gli ho voltato le spalle, l’ho disprezzato, dichiarandomi pronto a subirne le conseguenze. Ho fatto ciò, e deliberatamente. Per quanto cerchi di scusarmi adducendo la mia profonda ignoranza, la mia cecità, la mia debolezza, l’attrattiva del momento, la pressione delle circostanze contrarie, non posso negare che, alcune volte almeno, sapevo benissimo quel che facevo. Avevo coscienza del suo sguardo amoroso posato su me, della sua mano tesa ad aiutarmi, eppure ho preferito continuare per la mia strada e abbandonarlo per seguire il mio capriccio. E una volta abbandonato Lui e fatta deliberatamente la mia scelta, era naturale che io non potessi da me tornare indietro. Non potevo riprender da me il bene cui avevo così liberamente rinunciato. Fin da principio non potevo vantare alcun diritto su di esso, ché tutto era suo dono gratuito; e tanto minor diritto poteva rimanermi ora che l’avevo respinto. Non mi era dato neppure di implorarne la restituzione: avevo peccato contro il cielo e contro il Padre mio. Tutt’al più, conoscendo l’amore costante di quel Padre, avrei potuto supplicarlo di accettarmi qual servo. Ma il mio Dio era pur sempre il Dio dell’amore e ancora mi amava d’immenso amore. Sebbene io lo avessi abbandonato e mi fossi recato in terra straniera per sfuggirgli, la sua misericordia non si stancava d’inseguirmi: Egli non poteva cambiare. Gli avevo rifiutato quanto gli dovevo non solo in qualità di beneficato, oggetto di un così tenero amore, ma anche in qualità di creatura sua; eppure Egli non volle castigarmi. Se un altro mi avesse fatto quel che io avevo fatto a Lui, mi sarei sentito in diritto di ripudiarlo; ma Egli non volle trattarmi così. Se pure il pentimento mi fosse stato possibile, io non avevo nulla con cui ripagare il mio Dio. Avevo offeso l’Infinito e commesso quindi una offesa infinita che nessuna creatura finita avrebbe potuto riparare. Avevo sperperato i miei tesori d’amore e non potevo aspirare ad altra sorte che a quella da me scelta. Ma Egli trovò la soluzione, per Sé come per me. Infinito e costante nella misericordia e nell’amore, Egli trovò il mezzo con cui pagare il mio debito. Giustizia si farebbe nei suoi riguardi, e al tempo stesso mi verrebbe reso l’amore sol ch’io lo volessi. E sarei perdonato, restituito alla perduta dignità, rigenerato sulle mie stesse rovine, e mi verrebbe dato un cuor puro e nuovo, anzi più di prima capace d’amore. E come poteva farsi tutto ciò? Debbo ancora servirmi di espressioni umane, ché altre non ne conosco. Debbo rendere la verità nell’unico modo in cui essa mi appare, “in maniera oscura e come in uno specchio”, ma io so che l’ombra che vedo è reale, sebbene non altro che ombra di una realtà assai più grande. Un giorno conoscerò anche la realtà, così come sono conosciuto io stesso. Dio Padre guardò dunque la sua creatura, diletta per quanto ostinata, la guardò e ancora l’amò. Dio Figlio, la Sapienza, il Verbo del Padre, guardò pure la creatura sua poiché “per Lui tutto fu fatto e nulla fu fatto senza di Lui”. E vide l’offesa recata dall’uomo al Padre, offesa che l’uomo non avrebbe mai potuto da sé riparare. Lo Spirito Santo Dio, l’amore del Padre e del Figlio, vide l’ingiustizia del peccato; e l’ingiustizia doveva esser riparata. Non poteva quel disaccordo durare per tutta l’eternità: fosse pur necessaria per ciò una riparazione divina, l’amore e l’onnipotenza di Dio ne troverebbero il mezzo. L’uomo sarebbe salvo, sol ch’Egli volesse accettare la salvezza offertagli. Dio stesso lo salverebbe, anche a costo di farsi uomo per pagarne il riscatto, fino all’ ultima stilla del suo sangue. – Ecco, in sostanza, ciò che costituisce pel Cristiano la dottrina della riparazione e della Redenzione. Considerata da un punto di vista umano e coi soli mezzi umani, essa ci appare incredibile, fantastica addirittura, null’altro che un sogno poetico; lo stesso San Paolo sembra talvolta sbalordito che si sia compiuta così grande meraviglia. Ma considerandola dalla visuale di Dio, guidati dalla visione e dall’amore di Lui, riconosciamo in questa sua immolazione l’espressione più completa della sua natura, e dobbiamo dire che era proprio degno di Dio fare tal cosa e in modo talmente magnifico. Egli è l’amore essenziale, e se mai fu compiuto atto di vero amore esso è precisamente la Redenzione. Quell’atto superò qualunque sogno umano anche il più ardito, ma fu atto ben degno di un Dio amorosissimo e in perfetta armonia col suo amore infinito. L’uomo non sarebbe mai giunto a concepirlo, e, misurandolo alla sola stregua delle sue facoltà umane, dubita che un tale eccesso d’amore sia possibile. Ma nell’accettarlo perché Dio stesso ha detto che così è, per l’autorità e sulla parola di Colui che l’ha compiuto, l’uomo deve dichiarare che solo un Dio d’amore poteva concepirlo e compierlo. « Dio ha talmente amato il mondo da dare il Figlio suo Unigenito ». (Giov. III, 16). “Cristo mi ha amato e ha dato se stesso per me”. (Gal. II, 20). “Da questo abbiamo conosciuto la carità di Dio, perché Egli ha dato la sua vita per noi”. (I Giov. III, 16). – “In questo si manifesta la carità di Dio verso di noi, che Dio mandò il suo Figlio Unigenito nel mondo affinché per mezzo di Lui abbiamo vita. In questo è la carità; che senza aver noi amato Dio, Egli per primo ci ha amati e ha mandato il suo Figliolo come propiziazione per i nostri peccati ”. (I Giov. IV, 9, 10). Eppure l’amore non ha ceduto per nulla affatto sul debito d’ onore contratto verso Dio stesso. Poiché dobbiamo ricordare che, oltre che infinitamente amoroso e misericordioso, Dio è infinitamente giusto, giusto verso tutte le sue creature come verso se stesso, e l’opera del Figlio di Dio è opera di amore infinito ma anche di infinita giustizia. L’offesa della colpa commessa contro un Dio infinito è offesa infinita nelle sue conseguenze in ragione della dignità dell’offeso, ma per la soddisfazione dell’Uomo-Dio la riparazione è completa: infinito per infinito. Anzi, considerando la Persona che ha compiuto la riparazione, troviamo che questa è sovrabbondante: il sacrificio dell’Uomo-Dio infinito dà al Padre una gloria ancor più grande di quella che il peccato dell’uomo finito gli ha tolta. – “Dove abbondò il peccato, ivi sovrabbondò la grazia, affinchè, come aveva regnato il fallo nella morte, così regni la grazia propria della giustizia, in eterno, per opera di Gesù Cristo nostro Signore”. (Rom. V, 20, 21). Così la misericordia infinita di Dio ha potuto applicarsi in pieno, pur rimanendo completamente soddisfatta la sua infinita giustizia. “La misericordia e la verità si sono incontrate, la giustizia e la pace si sono baciate. La verità è spuntata su dalla terra e la giustizia ci ha mirati dal cielo”. (Sal. LXXXIV, 11,12). Il Verbo di Dio fatto carne, vero Dio e vero Uomo, l’unica Persona del Verbo, il Figlio eterno di Dio, Nostro Signore Gesù Cristo Uomo e Dio, ecco la verità essenziale su cui si fonda il Cristianesimo. Per difenderla esso combatté attraverso secoli, per essa i suoi figli morirono a migliaia. Per essa e su di essa, il Cristianesimo ha edificato la nostra civiltà; senza di essa non esiste Cristianesimo. Modificatela, e d’un colpo modificherete l’essenza stessa del Cristianesimo. Sopprimete la divinità di Cristo e subito il Cristianesimo perde tutta quella visione, quella speranza e quell’amore, quell’energia che trascina, tutta quella gloria nella sofferenza e quella forza nella morte, tutto quello slancio verso un ideale che, fin dal tempo di Cristo, ha dato alla vita un significato nuovo ed è stato il contrassegno sicuro del suo progresso. Senza questo fondamento la civiltà che ancora si dice cristiana non differisce in nulla da qualsiasi altra civiltà o professione di fede: Senza di esso, non può vantare nessuna priorità, non può in alcun modo giustificare la propria influenza sulla storia dell’umanità, non ha nulla da replicare all’infedele. che le rinfaccia sdegnosamente l’unica superiorità dei suoi cannoni e delle sue navi da guerra. Invece, una volta accettata la fede nella divinità di Cristo, sino a farne la base della nostra vita, tutto diventa subito chiaro. E non è necessario perciò oltrepassare la nostra esperienza naturale, ché anche su questa terra gli effetti di questa verità sono abbastanza visibili. Il primo, naturalmente, è che la stessa natura umana ne risulta nobilitata. Perché il Figlio di Dio, anch’Egli Dio come il Padre, si fece uomo, la condizione dell’uomo fu riabilitata. Il fatto che il Verbo di Dio, vero Figlio di Dio, per amore dell’uman genere ne abbia assunto la natura e rivestito la carne, e per esso abbia dato la vita, innalza subito la natura umana a una dignità affine a quella di Lui. Per amore il Verbo incarnato ha dato la propria personalità alla natura umana e con ciò l’ha sollevata fino a Sé; e se tale è la misura dell’amore di Dio per l’uomo quanto deve risultarne accresciuto l’amore dell’uomo stesso per il suo simile! “Carissimi, se Dio ci ha amati così, anche noi dobbiamo amarci l’un l’altro… Se ci amiamo l’un l’altro, Dio abita in noi e la carità di Lui è perfetta….. – “Noi dunque amiamo Dio, poiché Egli per il primo ci ha amati. Ma se uno dirà: “Io amo Dio” e odierà il suo fratello, è mentitore. Infatti, chi non ama il suo fratello che vede, come può amare Dio che non vede?” (1 Giov. IV, 11, 20). – In queste parole San Giovanni riassume il risultato pratico dell’Incarnazione e della Redenzione nella vita dell’uomo in questo mondo. Così, egli ci dà la chiave della storia del Cristianesimo. Ma in secondo luogo, non solo la natura umana nel suo insieme è tanto nobilitata ed esaltata; noi pure, ogni singolo essere umano che partecipa della nostra natura è nobilitato in se stesso. Poiché questo Cristo che è Dio è anche nostro fratello nella carne e in un certo senso possiamo dire che ogni uomo è imparentato con Lui. Ma non basta: come speriamo di considerare con maggior agio in un prossimo capitolo, sappiamo che Cristo ha lasciato sulla terra il suo Corpo mistico. Ad esso Egli ha incorporato tutti coloro che in Lui credono e che lo amano. Li ha resi tutti partecipi della sua stessa nobiltà divina. Proprio come il Verbo di Dio si è dato al Cristo uomo e in Esso vive, così, vedremo, sebbene in un ordine inferiore, Nostro Signore si è dato a noi e ci ha fatti una cosa sola con Lui. San Paolo non si stanca mai di ripeterlo. Noi siamo membri di quel Corpo mistico vivente; come tali ci è stato dato il diritto di appropriarci la sua soddisfazione, i suoi meriti, la sua stessa preghiera, affinché come cosa nostra possiamo offrirla a Dio in espiazione delle nostre colpe per ottener da Lui misericordia e favori. Così le nostre deboli petizioni umane, i piccoli atti di riparazione che possiam compiere, i poveri sacrifici che possiamo offrire, acquistan valore in e “per Cristo Signor Nostro”, poiché il Padre non disdegnerà preghiere e sacrifici per quanto meschini commisti al sangue del suo diletto Unigenito e animati dalla vita stessa di Lui.

NOVENA AI SS. SIMONE E GIUDA (Inizia il 19 ottobre, festa il 28 ottobre)

NOVENA AI SS. GIUDA E SIMONE

(inizia il 19 ottobre, festa 28 ottobre).

[G. Riva: il Manuale di Filotea, XXX Ed. – Milano, 1888]

I. Glorioso S. Simone, che, chiamato da Gesù Cristo medesimo all’apostolato, vi distingueste per modo col vostro impegno nel sostenere la sua causa e nel predicare la sua legge da essere soprannominato lo zelante, titolo che sempre più vi meritaste allorquando percorreste evangelizzando, non solo l’ampia terra d’Egitto, ma anche le vaste provincie dell’Africa, ottenete a noi tutti la grazia di zelare sempre nella nostra vita la pura gloria di Dio coll’adoperarci nel miglior modo per la salute dei nostri prossimi. Gloria.

II. Glorioso S. Giuda, che, dopo avere in compagnia di Gesù Cristo indefessamente travagliato a predicare nella Palestina il regno santo di Dio, portaste la luce del suo Vangelo in tutta quanta la Mesopotamia, e la diffondeste in tutti i popoli, e la tramandaste a tutti i secoli colla lettera da voi indirizzata a tutti quanti i fedeli per premunirli contro la seduzione dei falsi sapienti del secolo, ottenete a noi tutti la grazia di praticare sempre con esattezza tutti i doveri del nostro stato, e di tenerci sempre immobili nella fede di Gesù Cristo, malgrado tutti gli scandali del mondo sempre corrotto e corrompitore. Gloria.

III. Gloriosissimi Apostoli Simone e Giuda, che, dopo avere in diverse provincie travagliato per ben trent’anni alla diffusione dell’Evangelo vi trovaste per divina disposizione simultaneamente nella Persia, onde consumarvi il vostro sacrificio, l’uno tagliato in mezzo dai denti di una sega, l’altro decapitato con un colpo di scure, dopo avere ammutoliti gli oracoli colla vostra presenza, illuminati i fedeli colla vostra predicazione, e convertito un intero esercito colle vostre profezie, ottenete a noi tutti la grazia di essere sempre disposti a confessare anche col sangue la nostra fede, dopo di averla costantemente glorificata colla santità delle nostre opere. Gloria.  

LA GRAZIA E LA GLORIA (37)

LA GRAZIA E LA GLORIA (37)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO V

Alcuni chiarimenti sulla necessità della grazia per il merito.

1. La dottrina cattolica ci insegna che non c’è merito se non attraverso la grazia. Questo è ciò che abbiamo sufficientemente dimostrato quando abbiamo ricordato le condizioni universalmente richieste in tutte le scuole e da tutti i Dottori (Suppl. T. VII). Ma questo crea anche una difficoltà. Infatti, quale potrebbe essere l’influenza della grazia divina su un’azione comune e semplice come un atto di cortesia, una moderata ricreazione, in un figlio di Dio? È necessario che lo Spirito Santo sia presente per illuminare la sua mente e muovere il suo cuore, e non è sufficiente la volontà naturale diretta dalla retta ragione? E qui, sembrerebbe ci sia un’azione meritoria secondo noi, fatta senza la grazia. – A queste domande più di un illustre teologo ha risposto che in realtà alcuna influenza attuale della grazia sia assolutamente richiesta perché gli atti di questo genere rientrino tra i meriti di un uomo giustificato (Domin. Soto qui Conc. Trid. interfuit. De natura et gratia, L. III, c. 4). Ma pur mantenendo la loro dottrina, respingono ben lungi l’accusa di pelagianesimo che viene loro rivolta. E certamente, tra le idee di Pelagio e il loro sentire ci sono degli abissi. Cosa sosteneva Pelagio? Che le forze della natura siano pienamente sufficienti a dare ai nostri atti il premio di cui la gloria è la ricompensa. E questi teologi, invece, cosa dicono? Le nostre azioni moralmente buone acquistano questa incomparabile dignità solo a due condizioni: la prima è che chi le compie sia figlio di Dio per partecipazione della sua natura, e di conseguenza porti in sé la Trinità, come in un santuario vivente; la seconda, che l’azione presupponga la grazia santificante, attraverso la quale la carità divina siede come padrona al vertice delle facoltà umane. È questa, chiedo, l’eresia di Pelagio, o non è forse la solenne affermazione della necessità della grazia più eccellente per ogni azione meritoria davanti a Dio? – Inoltre, quando negano la necessità di un soccorso esterno che debba prevenire ogni singolo atto perché sia meritorio, questi teologi non sostengono affatto che la sola grazia santificante sia sufficiente al giusto. Ciò significherebbe andare troppo direttamente contro gli insegnamenti più evidenti della nostra fede. Affinché il peccatore, una volta giustificato, possa resistere ai pressanti attacchi del nemico, per l’adempimento di tutti i comandamenti divini, in una parola, perché egli perseveri e si conservi nell’amicizia divina. ha bisogno, oltre che della cooperazione generalmente richiesta per tutti gli atti della creatura, di un’assistenza speciale da parte di Dio. Tali sono, dopo la caduta originaria, le tenebre diffuse sulla nostra intelligenza, la debolezza e l’incostanza della nostra volontà; tale anche gli assalti frequentissimamente rinnovati della concupiscenza, del mondo o del demonio, che se lo Spirito di Dio non venisse a illuminare la nostra ignoranza, a rafforzare la nostra infermità, a scuoterci dal nostro torpore, la vita soprannaturale si indebolirebbe presto e si spegnerebbe in noi (cfr. L. III, c. 5). « Per questo motivo – dice San Tommaso, trattando questo argomento – è opportuno non solo per i peccatori, ma anche per coloro che la grazia ha reso figli di Dio, ripetere la preghiera del Signore: « Non lasciateci soccombere alla tentazione, etc. … sia fatta la vostra volontà sulla terra come in cielo » (S. Thom., 1. 2, q. 109, a. 9 e 10; Sum. c. Gent, L. III, c, 156).  Ma si guarda bene dal rivendicare queste luci ed ispirazioni dall’alto per ogni singola nostra operazione meritoria, senza escludere le più facili e semplici. L’aiuto particolare che egli chiede oltre alla grazia santificante con le virtù, i suoi annessi, e il moto generale senza il quale nessuna causa creata può compiere il suo atto, non è tanto una grazia elevante quanto una grazia medicinale. Non è, infatti, uguale il caso dell’uomo giustificato a quello del peccatore. e l’errore di molti teologi è quello di applicare al primo ciò che si dice solo dell’ultimo. Leggo nei Concili che, « senza l’ispirazione preveniente e l’assistenza dello Spirito Santo, l’uomo non può credere, sperare, amare, pentirsi »; … far nulla, in una parola, che lo disponga alla salvezza (Concilio Tridentino, sess. VI, can. 3; capp. 5 e 6). Ma, come si vede, tutti i testi in cui si richiedono queste eccitazioni e questi tocchi dello Spirito Santo per ciascuno degli atti in particolare, parlano del peccatore che si prepara alla giustificazione, cioè di colui che non porta ancora in sé né l’essere né i principi soprannaturali. – Non ignoro neppure il canone del Concilio di Trento, che anatematizza chiunque dica che un uomo giustificato possa, senza uno speciale aiuto di Dio, perseverare nella giustizia che ha ricevuto, o che non lo possa con Lui (Conc, Trid., sess. VI, can. 22; col, cap. 13). Ma l’aiuto speciale è qui richiesto solo per la perseveranza. È come se il Concilio avesse detto: Né la grazia né le virtù infuse che costituiscono lo stato di giustizia sono sufficienti all’uomo per evitare ogni caduta e per rimanere saldo nell’osservanza dei precetti divini e nella carità. Cosa si intende per aiuto speciale di cui si parla nel canone conciliare?  Per chi conosce la terminologia teologica in uso all’epoca, non ci sono dubbi: si tratta di un’illuminazione della mente, di un’eccitazione della volontà, di un’ispirazione dello Spirito Santo che ci risveglia e ci aiuta a superare una tentazione o a compiere un dovere più difficile; perché la perseveranza si ottiene a questo prezzo. Ma notiamo ancora una volta, il santo Concilio non dice affatto che l’assistenza indispensabile per la perseveranza, lo sia anche per ogni atto meritorio singolarmente considerato. Domenico Soto (De nat. et gratia, L. III, c. 4) sottolinea felicemente la stretta analogia che lega due opinioni apparentemente molto diverse. « Gregorio da Rimini – egli dice – e Capreolo, hanno immaginato che, secondo San Tommaso, un uomo che non abbia la grazia (santificante) non possa, senza un aiuto speciale da parte di Dio, fare alcuna azione moralmente buona; da qui la conclusione logica che, secondo lo stesso santo Dottore, sia necessaria anche un’assistenza speciale per ogni opera meritoria, anche quando si è in grazia. Ma noi, che teniamo (e molto giustamente) il sentimento contrario, per quanto riguarda gli atti moralmente buoni, lo riteniamo anche (de peritorum censura) per quanto riguarda gli atti meritori, cioè che non sia richiesta, oltre alla grazia, un aiuto speciale per ciascuno di essi, e questa è l’opinione che sembra di gran lunga preferibile a Cajetano, nel suo commento a S. Tommaso – 1. 2, q. 109, a. 10″).

2. – Certamente la soluzione, così come l’ho appena presentata, ha un valore. Ma diventa molto più chiara se ci riferiamo a ciò che abbiamo stabilito quando abbiamo parlato delle virtù morali. Dio Nostro Signore non potrebbe essere meno liberale nei confronti della vita soprannaturale di quanto lo sia nei confronti della vita razionale. Se, dunque, non c’è alcun tipo di atto moralmente buono a cui non corrisponda una qualsiasi delle virtù acquisite, non ce ne devono essere altri che non rientrino nelle virtù infuse soprannaturalmente. Se negate questo, rimpicciolite il cuore di Dio: perché non è forse un rimpicciolimento fargli rifiutare nell’ordine della grazia ciò che concede così largamente alla natura? (cfr. L. III, c. 3) Pertanto, le parole del Dottore Angelico con cui abbiamo concluso il capitolo precedente: « … le virtù abbracciano tutto ciò che può essere il bene dell’uomo », valgono per le virtù infuse ancor più che per quelle naturali. – Da qui questa bella dottrina che trovo altrove nelle opere di San Tommaso. Egli doveva dimostrare l’esistenza delle virtù infuse e poneva l’obiezione che « l’atto di virtù acquisita può essere meritorio della vita eterna per il fatto stesso che è informato dalla grazia ». Ascoltiamo la risposta: « Poiché non ci può essere merito senza la carità, l’atto di una virtù acquisita (per esempio il pagamento di un debito di giustizia) non può essere meritorio senza la stessa carità. Ora, con la carità tutte le altre virtù sono infuse; quindi, l’atto di virtù acquisita è meritorio solo per mezzo della virtù infusa. Infatti, affinché una virtù ordinata per sua natura a un fine inferiore possa produrre un atto ordinato a un fine superiore, ha bisogno di una virtù superiore che la nobiliti e la elevi » (De virtut. in comm:, q. un., a. 10, ad 4). La grazia non distrugge la natura e la virtù divinamente infusa non sopprime quella naturalmente acquisita. Se si aggiunge la grazia alla natura, si ottiene un essere soprannaturale e divino: unite in uno stesso principio prossimo, la volontà, la virtù naturale e la virtù infusa, e potete avere l’atto soprannaturale e meritorio, senza bisogno di un ricorso perpetuo alle grazie prevenienti e speciali. – Ciò che, temo, fa esitare di fronte ad una dottrina così chiara è che, stabilita l’esistenza delle virtù infuse, si dimentichi che esse siano una grazia superiore agli aiuti transitori, e soprattutto che costituiscano dei principi superiori di azione. Tutto ciò che le Sacre Scritture, i Padri e i Concili hanno insegnato sulla necessità della grazia per le opere sante, è inteso come grazia attuale; come se, nell’uomo giusto, le abitudini infuse non integrassero in modo sovrabbondante gli aiuti transitori concessi al peccatore in vista delle azioni salutari. Leggiamo che le virtù sono date all’uomo per agire in modo connaturale nell’ordine divino; e questa espressione, di per sé molto corretta, sembra aver perso la sua vera interpretazione. Con la virtù io agisco in modo connaturale, perché porto immanentemente e permanentemente dentro di me il principio integrale del mio atto; con la grazia puramente attuale non agisco più in modo connaturale, perché il principio che rende salutare la mia azione, mi giunge da un’influenza esterna e transitoria. – Per riassumere in poche parole: le opere dei giusti, non solo quelle che vanno più dritte a Dio, ma anche le più umili, che dipendono dalla grazia e sono in tutta verità « dona Dei, doni di Dio », sono tali, dico, perché partono da un’anima divinizzata dalla grazia e dalla dimora in permanenza dello Spirito Santo; da una volontà in cui la carità risiede come regina e che le opera con delle forze soprannaturali: le virtù divinamente infuse. Cos’altro servirebbe per verificare tutti i requisiti della dottrina cattolica? Confesso che non lo so, e molti altri non lo sapevano prima di me (vedi l’Appendice 10).

LA GRAZIA E LA GLORIA (38)

SAN LUCA – 18 OTTOBRE (2022)

SAN LUCA

[Otto Hophan: Gli Apostoli; Marietti ed.Torino, 1951]

Luca chiude in questo libro la galleria degli avi santi della nostra fede. E potrebbe il loro numero chiudersi con una figura più amabile e significativa? Le parti più belle e più calde del lieto messaggio, i cantici più cari e le immagini più tenere sono legate al suo nome. Nell’opera di Luca s’armonizzano tutte le campane della Scrittura del Nuovo Testamento, Marco, Matteo, Pietro, Paolo ed egli è un’eco anche della campana maggiore e più solenne, e cioè di Giovanni. Ma Luca è un accordo e un’ultima vibrazione anche nella sua stessa persona. Se lo lasciamo per riandare, sfogliando questo libro, ai quindici uomini, che esso ha tentato di presentare, e risaliamo sino al primo, sino a Simone Pietro, abbiamo la percezione della vastità del Cristianesimo. Pietro-Luca! La via dall’uno all’altro è lunga, i portatori del lieto messaggio sino a quest’ultimo son del tutto diversi; in questi uomini tanto differenti trova la sua espressione tangibile l’ampiezza e la molteplicità del mondo spirituale del Cristianesimo, la «cattolicità» della Chiesa di Cristo nel senso più ampio della parola; e però essi tutti stanno al servizio del medesimo Signore. Luca, che fra tutti loro è l’unico gentile e un laico dell’accademia, è quasi un simbolo di quella verità, che in Cristo « non vale più pagano o giudeo, circonciso o incirconciso, barbaro o scita, schiavo o libero. No! Cristo è tutto e in tutti ». Per poter scrivere del caro Luca come conviene, bisognerebbe possedere la pienezza: e il colore della sua penna. Purtroppo le notizie, che intorno a lui ci fornisce direttamente la Santa Scrittura, sono molto scarse: tre brevi note nelle lettere di Paolo son tutto. La tradizione ecclesiastica più antica pure sa dire molto poco oltre a quello, che conosciamo dagli scritti del Nuovo Testamento. Ma la opera letteraria di Luca, e cioè il terzo vangelo e gli Atti degli Apostoli in quelle, che son dette « Sezioni-Noi », ci rivela chiaramente il suo autore, anche se indirettamente; come scrisse, così fu, giacché nell’opera d’un uomo risplende la sua personalità.

L’ELLENISTA

Il Prologo antimarcionista del vangelo di Luca, scritto nel secondo secolo, ci informa sommariamente della vita dell’autore: «Luca, un siro di Antiochia, di professione medico, discepolo degli Apostoli, più tardi seguì Paolo sino alla sua confessione (morte). Servì senza biasimo il Signore, non prese mai moglie né ebbe figli. Morì all’età di 84 anni in Beozia, pieno di Spirito Santo ». Fa pensare alla sua origine non giudaica la stessa sua patria, l’importante città di Antiochia; ma Paolo lo conferma esplicitamente, perché nella lettera ai Colossesi egli fa distinzione fra i suoi collaboratori giudeocristiani ed etnicocristiani e annovera Luca fra questi ultimi: « Vi salutano Aristarco e Marco… inoltre Gesù dal soprannome di Giusto. Sono gli unici fra quelli della circoncisione, che come cooperatori nel regno di Dio mi sono stati di conforto. Vi saluta il vostro compatriota Epafra… Vi saluta Luca, il medico amato, e Dema ». Da questo testo conosciamo che Luca non ricevette la circoncisione nemmeno più tardi; è vero che Girolamo lo dice un proselito, e cioè un pagano passato al giudaismo; però si fa distinzione fra « proseliti della giustizia », che si sottomettevano a tutte le esigenze della Legge, e i « proseliti della porta », i quali, standosene per così dire solamente alle porte d’Israele, professavano la fede pura in un Dio unico e osservavano il sabbato e le prescrizioni riguardanti i cibi. – Luca alle porte! Il paganesimo, con le sue favole vergognose intorno agli dei, con le sue tenebre spirituali e con l’imbarbarimento morale, l’aveva spinto alla ricerca religiosa sino a raggiungere le sante soglie d’Israele; qui però s’arrestò e non entrò nel giudaismo, perché tutto quell’apparato esterno e l’arrogante alterigia giudaica dovettero sorprenderlo. Posto così fra paganesimo e giudaismo, anelava penosamente a chi lo liberasse dalla sua intima meschinità e nell’oscurità opprimente del suo spirito sospirava a una grande luce; quando vediamo ch’egli, unico fra i quattro Evangelisti, prende nota della parola detta dal vecchio Simeone intorno al bambino Gesù: « I miei occhi han visto la salute, che Tu hai preparato dinanzi a tutte le genti, per i pagani una luce d’illuminazione », possiamo sentirvi a buon diritto la gioiosa risonanza nell’anima dello stesso Luca. Egli prese nota pure della parabola del grande convito, al quale furono chiamati « i poveri, gli storpi, i ciechi e i paralitici della città », persino anzi gli uomini delle « strade della campagna e delle siepi » ed anche lui era seduto sull’orlo della via qual mendicante dello spirito; seppe quindi apprezzare tanto più profondamente la chiamata a Cristo. Girolamo e dopo di lui  Sedulio Scoto danno una interpretazione molto significativa del nome di Luca, forma abbreviata di Lucano: il nome dev’essere di origine eolica, dal dialetto greco cioè dello stesso nome, e significare lo stesso che « alzarsi », «elevare se stesso », « perchè Luca, con l’assistenza della grazia, ha innalzato se stesso dal vizio del paganesimo alla luminosa altezza della cristiana verità e virtù ». Elevante se stesso e insieme elevato dalla grazia … il doppio segreto d’ogni cristiana vocazione. – La professione di medico, che esercitò più tardi, presuppone che Luca nei suoi giovani anni abbia consacrato un periodo assai lungo allo studio. In un antico discorso commemorativo, tenuto nel giorno della sua festa, si dice ch’egli sino dall’infanzia fu istruito nel miglior modo nella lingua siriaca ed ebraica; da giovanetto si segnalò per tanto progresso nella grammatica, retorica, poesia e filosofia da non esser secondo a nessuno dei suoi condiscepoli; apprese poi la medicina nell’Ellade e in Egitto. Ce lo raffiguriamo quindi con piacere giovane studente, disinvolto ed esemplare, che nobile e desioso si muove nel viavai delle città universitarie, con l’occhio fisso allo scopo sublime, che il suo Vangelo ci rivela ancor oggi, di soccorrere l’umanità sofferente. Ad Atene, nella città studentesca della Grecia ristette forse, immergendosi in profonda riflessione, dinanzi all’altare del « dio ignoto », del quale alcuni decenni più tardi avrebbe scritto negli Atti degli Apostoli?. Particolarmente celebri per la formazione medica erano le scuole superiori dell’Egitto, quali quella di Alessandria e soprattutto di Eliopoli e Sais, come pure quelle di Coo e Gnido; il tirocinio però per la specializzazione nell’arte medica veniva compiuto sotto la guida dei medici, che esercitavano già la professione e s’erano stabiliti nei templi di Esculapio. – È  probabile che Luca abbia studiato per qualche tempo anche a Tarso, che era tanto vicina alla sua città di Antiochia e quivi forse mosse incontro per la prima volta al suo destino e al suo Maestro Paolo. Terminata la sua formazione, prima di dar inizio alla sua arte, anch’egli emise il nobile giuramento di Ippocrate, di trattare cioè schiavi e liberi non altrimenti che come liberi, d’aver cura del frutto non ancor nato del ventre, di badare alla dieta e di non esercitare la professione per vile sete di guadagno; e a testimonio del suo giuramento chiamò Apollo, mentre il vero ed altissimo Iddio vedeva quanta serietà il giovane studente metteva nel giurare. Sappiamo che nell’antichità i medici erano spesso degli schiavi messi in libertà; quindi ci fu chi pensò a quest’umile origine anche per Luca e nell’« eccellentissimo Teofilo », cui egli dedicò il suo Vangelo e gli Atti degli Apostoli, scoprì il suo antico padrone; ma questa supposizione manca d’ogni fondamento sia intrinseco che estrinseco ai due libri. – La formazione scientifica di Luca si rivela chiara nei suoi scritti. Marco nei termini e nello stile è arruffato, come un giovane indomito; Giovanni è dimesso e cauto, come uno scolaro prudente, che è alle prese con la lingua; Luca invece scrisse il suo Vangelo in un greco scorrevole, terso e bello, sebbene nella lingua così detta «koiné »; egli ha a sua disposizione un vocabolario considerevolmente più ricco degli altri scrittori neotestamentari e 373 termini non s’incontrano che presso di lui; le sue proposizioni sono eleganti, i suoi periodi costruiti ingegnosamente, il suo prologo è lodato come « l’incanto del competente in filologia »; quando prende le notizie da Marco per inserirle nel suo vangelo, le stilizza e le distribuisce convenientemente, proprio come fa la mano d’una buona mamma col suo figliolo irrequieto. Al nostro Evangelista, infatti, stava a cuore non di annunziare il lieto messaggio semplicemente, ma di annunziarlo in bella maniera; come Maria, con la cooperazione dello Spirito Santo, ha intessuto alla persona del Verbo di Dio col suo purissimo sangue non un corpo umano qualunque, ma un corpo saturo di nobiltà e grazia — « Beato il ventre che T”ha portato! » —, in modo analogo Luca ha procurato alla Parola di Dio una splendida veste linguistica; poiché la Parola di Dio è degna d’ogni diligenza; tutti le devono offrire le espressioni più stupende, di cui sono capaci. A un mondo viziato dalla cultura e dalla letteratura Luca s’adoperò per accostare la stessa verità religiosa in una forma accurata; e quale prezioso contributo poté egli dare in questo modo al Vangelo, perché colto! Lo potrebbe e lo dovrebbe dare anche oggi ogni persona colta! – Luca però apportò al Cristianesimo un vantaggio, che va anche al di là di una delicata spiritualità soltanto; egli è come l’incarnazione dell’umanità nel senso dell’espressione del poeta: « L’uomo sia pietoso, nobile e buono »; non abbiamo certamente a questo riguardo nessuna testimonianza esplicita, ma di nuovo bastano gli scritti a rivelarci pure la nobiltà, la delicatezza e l’amabilità della persona del loro autore. Quando la cosa può andare senza pregiudizio della fedeltà storica, egli mitiga o tace espressioni, che avrebbero potuto ferire i suoi lettori etnicocristiani — « Non è giusto prendere il pane ai figli (del popolo eletto) e gettarlo ai cagnolini (i pagani) » ! —; omette dei conflitti e getta un ponte fra le parti in contrasto. Luca non è ironico, ma irenico, conciliativo, discreto, riservato, non si lascia mai sfuggire di mano il temperamento, ritiene per se stesso le cose più intime; spesso viene spontaneo un confronto con la musica di Mozart. In stridente contrasto con la sua indole educata, come evangelista gli è stato assegnato per simbolo un toro o almeno un bue, perché nel primo capitolo del suo Vangelo scrive del culto sacrificale del Vecchio Testamento; ma questo toro accanto a lui disturba veramente; si deve infatti ad esso se proprio al nobile ellenista ed evangelista è toccato il patrocinio dei macellai e, nelle Fiandre, persino dei legatori di libri, che confezionano anche legature di vacchetta! Ma non è possibile scoprire nessun rapporto fra questo simbolo curioso e l’Evangelista stesso, come invece fra l’Angelo e Matteo, il leone e Marco, l’aquila e Giovanni, a meno che non dicessimo che Luca, come Francesco al lupo feroce, può comunicare mansuetudine e amabilità anche a un toro. Non abbiamo indicazioni sufficienti per dire con certezza quando e dove la sua nobile e benigna figura, che offriva alla grazia un terreno così felice, si sia incontrata col Cristianesimo; secondo qualche tradizione, egli sarebbe stato uno dei settanta discepoli di Gesù, dei quali di fatto solo lui ci informa nel suo vangelo; altri volle ravvisare l’Evangelista in uno dei discepoli di Emmaus e precisamente in quello, di cui egli non fa il nome, quando ne descrive a tinte così vivaci il viaggio pasquale. A queste ipotesi però, per quanto rimontino ad epoche antiche, si oppone la prefazione stessa del suo Vangelo; in essa si distingue lui stesso dai « primi testi oculari e ministri della Parola »; se fosse appartenuto al ristretto gruppo dei discepoli di Gesù, sarebbe stato poi esonerato dalla fatica, per usare le sue stesse parole, di « seguire con diligenza gli avvenimenti sin dai primi loro inizi »; e il Frammento Muratoriano conferma espressamente che Luca « stesso non ha visto il Signore nella carne ». La sua patria però, Antiochia di Siria, ci permette di rispondere alla proposta questione con sicurezza sufficiente. Antiochia era il centro del Cristianesimo fra i gentili, e Luca, negli Atti degli Apostoli, si mostra ottimamente informato della prima comunità etnicocristiana, che fioriva nella città dei suoi padri; egli stesso quindi dovette vedere i banditori della nuova fede, dispersi sino ad Antiochia dalla persecuzione di Gerusalemme, aspersi e benedetti col sangue di Stefano; vide quell’uomo ragguardevole ed esimio, ch’era Barnaba, e il profondo pensatore Saulo di Tarso; s’accorse pure del numero crescente dei fedeli, che si convertivano al Signore. A quel modo che Marco crebbe, per dir così, nella culla della chiesa giudeocristiana di Gerusalemme, così Luca venne a trovarsi fra gli inizi della chiesa etnicocristiana di Antiochia; non poteva non avvenire che il giovane medico, serio e ricercatore di Dio, si sentisse allettato dalla predicazione del Vangelo sempre più fortemente ed « elevando sè ed elevato » dalla grazia, facesse il gran passo verso « la salute e la luce per l’illuminazione delle genti». Il testo occidentale degli Atti degli Apostoli ha una delle così dette « Sezioni-Noi » sin dal capitolo II, 27: « Mentre noi eravamo radunati, s’alzò Agabo e predisse una grande carestia ». Noi! Luca, che riferisce questa notizia, con quel « noi» vi include se stesso; faceva dunque parte della comunità cristiana di Antiochia già dall’anno 41-42, purché, com’è evidente, si supponga certa questa lezione variante, che risale al secondo secolo e probabilmente è un’estensione degna di fede del testo canonico. L’ellenista entrò nel Vangelo, e fu una benedizione per lui e per il Vangelo; giacché ogni persona colta è in grado di prestare utilissimi servigi al lieto messaggio e, coltivando la propria natura, prepara e facilita la vita al lavorio della grazia in se stessa; il Vangelo però dona ancor molto di più all’uomo e la soprannatura alla natura, dona il compimento, senza il quale anche la natura più nobile resta sempre un tronco soltanto, anelante alla corona, dona inoltre un fine, che per lo più e forse solo compensa la vita.

IL COLLABORATORE

Molti Padri e scrittori della Chiesa antica, da Ireneo in poi, ci assicurano con sorprendente decisione che Luca fu compagno e discepolo degli Apostoli; lo storico ecclesiastico Eusebio sottolinea con forza ch’egli « ebbe relazioni con tutti gli Apostoli, quanto mai premuroso ». E in realtà ad Antiochia, sua città natale, porta d’entrata e di uscita per le missioni fra gli etnicocristiani — Luca alle porte —, poté far conoscenza con parecchi di quei Principi di Cristo e custodire molte parole, che allora caddero dalle labbra di quei Grandi, per i libri, che avrebbe scritto più tardi. Per servire il Vangelo, dovette essere ben contento di stare a disposizione di quegli uomini, che si trovavano impacciati nel tramestio del gran mondo; e i semplici pescatori del lago di Galilea dovettero ben rallegrarsi che questo medico giovane e simpatico, questo caro fratello Luca portasse, in vece loro, il Vangelo negli ambienti a loro inaccessibili. Ma un Apostolo posò il suo occhio singolarmente perspicace su di lui e ne intravvide tutta l’importanza per il Vangelo; e fu Paolo, che nella breve lettera a Filemone ne ricorda il nome fra i suoi « collaboratori ». Egli dovette sentirsi attratto a Luca per vari motivi. Essendo colto, aveva in lui un compagno della sua stessa elevatezza spirituale; con lui poteva trattare di non poche questioni, che non ottenevano nessuna risonanza nell’animo degli Apostoli, una volta semplici pescatori e contadini. Come etnicocristiano, Luca era insieme un miracolo ambulante della grazia, un’apologia vivente della tesi fondamentale di Paolo: «Il Vangelo è una virtù di Dio per la salvezza d’ognuno, che crede, anche per i gentili ». E infine Paolo, ardente di passione come un vulcano, andava cercando nelle profondità del suo spirito, forse inconscio a se stesso, un compenso e un completamento, che riscontrava nella bella armonia della personalità di Luca; quale vantaggio non fu per lui avere nel discepolo un confidente perspicace e delicato insieme, quando il cuore, come un mare agitato, gli tumultuava in petto per le tante sollecitudini e per gli intricati problemi; in quei momenti Luca avanzava forse una domanda prudente, suggeriva sommessamente una proposta e così si delineava la via da prendere. Dal canto suo, il discepolo guardava stupito al gigante dello spirito, ch’era il suo maestro, e quanto abbia profittato di lui per arricchirsene, lo fanno intendere bene i suoi scritti anche oggi; sono saturi di idee paoline, quali l’universalità della salvezza, l’impotenza delle forze naturali, la misericordia della grazia; non quasi queste concezioni s’incontrino soltanto in Paolo; esse appartengono al patrimonio comune delle idee del Nuovo Testamento; l’Apostolo delle genti però vi mette l’accento e nel suo discepolo Luca riecheggiano vibrate e belle in modo tutto particolare; questi anzi si è così acclimatato con la vita del suo maestro, che si può dire che parli con le parole di lui — sono state segnalate 84 espressioni esclusive dei due — e di quando in quando trapianti nel suo Vangelo dei passi della predicazione paolina parola per parola. I rapporti dunque fra Luca e Paolo non furono quelli d’un impiegato o d’un suddito col suo superiore; fra 1’Apostolo e il suo « collaboratore » alitò il soffio caldo dell’amicizia; tutti e due erano convertiti, benché l’uno fosse giunto a Cristo in modo diverso dall’altro: Paolo abbattuto dalla folgore e sotto il soffio della bufera, Luca invece nel soave spirar del vento. Ma quale vantaggio per il Vangelo, che Paolo e Luca, la tempesta e lo spirar soave del vento, vadano insieme! Il primo testo degli Atti degli Apostoli, che ci presenta, l’uno a fianco dell’altro, Luca e Paolo, l’abbiamo nella relazione del secondo viaggio apostolico: « Essi (Paolo, Sila e Timoteo) attraversarono la Frigia e la regione della Galazia… Andarono verso la Misia e tentavano di raggiungere la Bitinia… Passarono innanzi alla Misia e discesero a Troade. Nella notte Paolo ebbe una visione. Dopo questa visione, noi cercammo subito d’andare in Macedonia ». Qui comincia la prima delle tre « Sezioni-noi », che son di disuguale lunghezza; Luca, l’autore degli Atti degli Apostoli, passa qui improvvisamente dal pronome « essi » di terza persona plurale al pronome di prima persona « noi », indicando così chiaramente, sebbene discretamente, ch’egli stesso, l’autore del libro, s’era trovato presente ai fatti, che riferisce nelle « Sezioni-noi »; questa è l’interpretazione, che a buon diritto fu data sin dai tempi di Ireneo di questa mutazione curiosa nel racconto degli Atti. – Luca probabilmente lavorava a Troade, importante città del Mare Egeo fornita di porto, in qualità di medico, e forse medico di nave, sino da quando aveva lasciato Antiochia; ci induce a pensarlo la sorprendente perizia in materia di navigazione e di linee di navigazione, ch’egli dimostra negli Atti degli Apostoli; adesso però si faceva sentire la chiamata del Signore a farsi missionario. Insieme con Paolo, che conosceva bene già da quando era ad Antiochia, verso gli anni 50-51 compie il memorabile viaggio a Filippi, su suolo europeo. Tutti e due, Luca e Filippi, il missionario e la missione, erano delle primizie. Anch’egli a Filippi abitò presso Lidia, la donna timorata di Dio; con lo sguardo scrutatore del medico, constatò la guarigione della fanciulla ossessa, medicò certamente anche le piaghe doloranti, che Paolo aveva riportate dai « molti colpi » della flagellazione patita a Filippi. Da questo momento Luca scompare dagli Atti degli Apostoli per una durata di cinque, sei anni; le « Sezioni-noi » s’interrompono con la partenza di Paolo da Filippi per Tessalonica; egli dunque non fu col maestro ad Atene, non a Corinto, non a Efeso; ricompare direttamente nel racconto solo quando, dopo il terzo viaggio apostolico, verso gli anni 57-58, l’Apostolo si mette in viaggio per ritornare a Gerusalemme: « Dopo i giorni dei pani azzimi, partimmo da Filippi ». Dove fu Luca durante il lungo intervallo? Leggiamo nella seconda lettera ai Corinti una nota, che forse può portar luce sulla nostra questione. Nell’estate dell’anno 57 Paolo inviò questa lettera a Corinto per mano del suo discepolo Tito, cui diede per compagno un altro, del quale tesse il seguente elogio: « Con Tito vi mandiamo il fratello, che viene lodato presso tutte le comunità per la predicazione del Vangelo. Egli inoltre è stato nominato dalle comunità a nostro compagno di viaggio per quest’opera di carità », la colletta cioè delle comunità etnicocristiane per soccorrere la comunità madre di Gerusalemme, che versava in povertà. Già Origene riteneva per certo che sotto il nome di «fratello» qui si doveva intendere non altri da Luca, e la stessa sentenza difendono in vari luoghi anche il Grisostomo e Girolamo. Ora questa notizia di Paolo illumina la vita nascosta dell’Evangelista durante gli anni 51-57. L’Apostolo, partendo nell’anno 51 da Filippi, lo lasciò in quella città, ch’era la sua prediletta; Filippi era degna di Luca e Luca, il medico amato, era degno di Filippi. Nei cinque o sei anni, che seguirono e di cui nulla è riferito, egli vi esplicò un’attività così meravigliosa, che la sua lode era sulla bocca di tutti, le comunità anzi della Macedonia e dell’Acaia lo elessero a loro uomo di fiducia per la colletta. Nel ritorno da Corinto, Paolo volle rendere a lui e alla sua comunità l’onore di celebrare la festa di Pasqua a Filippi. Luca, il fratello, cui viene tributata lode da tutte le comunità! Questa stupenda parola, che Paolo consegnò alla Sacra Scrittura, ci fa l’impressione d’una canonizzazione di Luca mentr’era ancora in vita. Da questo punto, negli Atti dal capitolo 20, 7, le notizie che vi leggiamo sono come un diario: « Noi li raggiungemmo a Troade… facemmo vela verso Asso… Noi toccammo Samo e il giorno dopo giungemmo a Mileto… Nella stessa direzione venimmo a Coo e il giorno seguente a Rodi e di lì a Patara… Dirigemmo il timone verso la Siria e arrivammo a Tiro… da Tiro pervenimmo a Tolemaide… il giorno dopo proseguimmo il viaggio per Cesarea… Ci disponemmo per la partenza e ascendemmo a Gerusalemme ». Sempre la prima persona plurale! Fedele, umile, rispettoso, Luca seguì il suo grande maestro Paolo per tutte le vie e in tutte le tempeste, anche durante la crudele sommossa di Gerusalemme, nella quale l’Apostolo quasi quasi periva; lo seguì sino alla soglia del carcere di Cesarea e anzi anche oltre la soglia, poiché il procuratore Felice « aveva dato l’ordine al centurione di non impedire a nessuno dei compagni di Paolo d’essere ai suoi servizi ». Chissà quanto spesso Luca sarà entrato e uscito dal carcere di Paolo! Gli portava le notizie liete o tristi delle varie comunità, gli procurava delle medicine e gli diceva certamente anche non poche parole buone, che all’oppresso maestro facevano più bene del balsamo. –  Mentre in questi anni 58-60 la fedeltà a Paolo lo teneva per così dire prigioniero anche lui, fermo e inattivo, non avrà fatto null’altro? È comune sentenza fra i Cattolici che la composizione del Vangelo di Luca abbia avuto luogo negli anni 59-63; ora questa sentenza trova nella vita di Luca una sorprendente spiegazione e conferma, Egli infatti proprio in questi anni soggiornava in Palestina e durante i lunghi mesi della prigionia di Paolo ebbe abbastanza comodità e occasione di informarsi degli avvenimenti evangelici presso i testi oculari e auricolari e di renderne nota. Strano che il più amabile dei Vangeli debba la sua origine a una prigionia! Quanto può essere fecondo un carcere! – Luca fu pronto sul posto, quando Paolo fu trasferito al carcere di Roma: « Quando fu stabilita la partenza per l’Italia… noi montammo su d’una nave adramitica, che doveva costeggiare i porti asiatici ». Noi! Egli accompagnò il suo maestro sulla via della croce, quasi come Giovanni aveva accompagnato Gesù. Anch’egli si trovò con gli altri in quella raccapricciante tempesta, che descrive negli Atti. Durante i due anni della prigionia romana di Paolo, utilizzò nuovamente il tempo prezioso per la stesura di scritti sacri; terminò forse in questo tempo la composizione del Vangelo e mise mano al suo secondo libro, gli Atti degli Apostoli; l’improvvisa conclusione di questi fa pensare che egli non si sia fermato a Roma tutt’interi i due anni, ma se ne sia andato prima ancora della liberazione del maestro, della quale non scrive sillaba; può darsi che Paolo stesso l’avesse allontanato da sé per rinviarlo, come Marco e Timoteo, ai campi, ch’erano rimasti orfani: « Nella mia prima difesa nessuno mi ha assistito », scriverà più tardi l’Apostolo stesso; il Vangelo infatti gli stava più a cuore che la sua stessa persona. Un’antica tradizione romana del secondo secolo afferma che Luca non avrebbe accompagnato Paolo in Spagna; d’altra parte fa spesso capolino la notizia che egli abbia scritto il suo Vangelo nell’Acaia; potremmo forse concluderne negli anni 63-65 egli esercitava il suo ministero di nuovo in Grecia; il suo pensiero però volava e si fermava frequentemente in Paolo. Questi, triste e però confortato, scrive dalla sua seconda prigionia di Roma: « Solo Luca è ancora presso di me ». Se nella lontana e pagana Roma, nelle ultime ore penose gli sta a fianco Luca, non è del tutto solo, ché nel discepolo diletto si vede intorno la patria, la mamma, un fratello, un’anima. Gli « Atti di Paolo », della metà del secondo secolo, riferiscono che Luca era presente anche nel luogo del supplizio; fu dunque così fedele da accompagnare Paolo, padre suo e suo amico, sino alle porte dell’eternità. Luca alle porte! E l’Apostolo, che tanto spesso aveva beneficiato nel corpo e nello spirito della presenza del discepolo, posò sulle sue spalle il capo stanco, che tosto doveva cadere sotto il colpo della spada per dargli l’ultimo addio, e con voce flebile, affettuosa e riconoscente gli ripeté ancora una volta la parola, con la quale lo ha eternato nella Scrittura: « Luca! Tanto amato! Medico! ».

IL MEDICO

Fu bene che Paolo avesse accanto a sé per compagno un medico; forse, dopo che a Dio, noi dobbiamo a Luca, se la vita preziosa dell’Apostolo dei popoli della terra fu conservata così a lungo; se gli fossero mancate le sollecitudini e le cure di Luca, probabilmente sarebbe venuto meno prima sotto il peso delle malattie, degli strapazzi e dei martiri subiti. Ma, quando il maestro progettava dei piani troppo arditi, il discepolo gli si opponeva supplicando; quando minacciavano gli assalti febbrili ormai cronici, il medico conosceva l’erba e la pozione adatte; si sedeva sul giaciglio dell’Apostolo estenuato in carcere, ne ascoltava il polso, ne osservava l’inspirazione e l’espirazione e, con l’accoramento che si rifletteva nel volto, prescriveva di cambiare medicina; il suo amore guarì pure le ferite, che l’odio aveva inferto al caro maestro. Siano rese grazie al medico Luca e a tutti i buoni medici, che si danno pensiero della vita, dono prezioso di Dio! Gli Atti degli Apostoli, specialmente riferendoci il soggiorno a Malta, ci fanno intendere che Luca funse da medico anche nei viaggi apostolici, e certamente esercitò la sua arte a Roma, dove si trattenne per quasi due anni; forse molti visitarono l’abitazione, che Paolo aveva presa a pigione, non spintivi da desideri spirituali, ma perché era possibile incontrarvi anche Luca, che poteva curare i loro acciacchi fisici, e così finivano per risanare nel corpo e nell’anima, come il paralitico guarito e assolto del Vangelo. La via infatti all’anima passa per il corpo e spesso per il corpo ammalato, che per la grazia è come una porta aperta. Vi sono delle immagini antiche, che rappresentano Luca con la borsa delle medicine: medico ed Evangelista! che accoppiamento significativo! Il medico prepara la via al Vangelo e il Vangelo è per molti il migliore dei medici. Luca è una bella immagine di nostro Signore Gesù Cristo, perché anch’Egli non si limitò ad annunziare la Parola, ma s’aggirò elargendo benefici; sì, per mezzo di Cristo deve trovare redenzione fin da quaggiù tutto l’uomo, non solo l’anima, ma anche il corpo per quanto è possibile. – Luca ha eretto a se stesso come medico un monumento perenne d’inesauribile benedizione, scrivendo il Vangelo; questo suo libro avrà sempre una parola tutta speciale per l’umanità ammalata, perché l’Evangelista dà in esso speciale rilievo alla compassione del Signore per le miserie umane. Matteo tratteggia Gesù come Messia, Marco come Figlio di Dio, Luca come Redentore; Gesù, il Salvatore del mondo: ecco il tema del Vangelo di Luca. La professione medica dell’autore traspare da molte espressioni e descrizioni; a quel modo che il pubblicano Matteo scrive più frequentemente degli altri di denaro e di beni, e il pescatore Giovanni scrive dell’acqua e delle nubi, così Luca nel suo Vangelo riferisce più spesso degli altri, e di loro più preciso, le guarigioni. Un’indagine accurata ha rilevato nei due libri di Luca non meno di 400 termini tecnici della medicina. Egli, ad esempio, non scrive semplicemente, come Marco o Matteo, della « febbre », ma della « grande febbre » in opposizione alla « piccola febbre », secondo la distinzione in uso fra i medici dell’epoca. Il lebbroso, che Gesù guarì, non aveva semplicemente « la lebbra », era « coperto di lebbra », il che accenna a un grado progredito della sua malattia. La mano inaridita e l’orecchio tagliato a Malco non erano una mano e un orecchio qualunque, ma « la mano destra », « l’orecchio destro », come ci fa notare, contro Marco, il nostro medico, abituato all’osservazione attenta. Egli fa pure sapere la durata esatta della malattia: « La donna del tutto ricurva, che non poteva in nessun modo drizzarsi », soffriva di questa lenta malattia già da « diciotto anni », sì che una guarigione, umanamente parlando, era esclusa. Il paralitico, che Pietro guarì presso la porta Bella, e quello guarito da Paolo a Listri erano ambedue paralitici « dal seno materno » , e solo questa precisazione mette il miracolo nella sua giusta luce. Questa esattezza in campo medico ci fa già pensare alla genuinità del Vangelo di Luca; e a questo riguardo non possiamo non scorgere una speciale disposizione della Provvidenza nel fatto che proprio un medico abbia dovuto riferire e descrivere i miracoli di Gesù e dei suoi Apostoli; il Vangelo di Luca… è il primo ufficio medico di controllo dei miracoli! Deliziosa sopra tutte è la differenza fra Marco e Luca nel racconto della guarigione dell’emorroissa; il primo, senza peli sulla lingua, narra: « Era ivi una donna, che soffriva di perdite di sangue già da dodici anni. Aveva molto patito da parte di molti medici e aveva dato fondo a tutto il suo patrimonio senza risentirne nessun beneficio, ma piuttosto era peggiorata. Quando udì Gesù… ». Luca mitiga quest’ultima osservazione poco favorevole ai medici, scrivendo: « Era ivi una donna, che soffriva di perdite di sangue già da dodici anni. Aveva speso l’intero suo patrimonio in medici, senza che nessuno l’avesse potuta guarire »; dipendeva cioè dalla malattia, non dal medico ch’ella fosse inguaribile; l’autore di questo tratto di Vangelo salva tacitamente l’onore dell’arte medica, e chi ha già goduto dei benefici del medico, non avrà difficoltà a dargli ragione. Ma la professione dell’Evangelista s’è impressa molto più profondamente, che non in simili espressioni, nell’intera sua opera letteraria. Il pensiero fondamentale del suo Vangelo è soccorrere e sanare; egli seppe e volle trascegliere dalla vita di Gesù quegli episodi e quelle sentenze, che asciugano le lacrime, attutiscono i dolori, creano la fiducia, apportano la salute e la guarigione. Luca e Luca soltanto fra gli Evangelisti narra del mendico Lazzaro, cui i cani lambivano le ulcere e che adesso si allieta eternamente nel seno di Abramo; del pubblicano peccatore, al quale Iddio usa benignità e misericordia; della madre di Naim, che piangeva inconsolabile e alla quale il Signore rivolse la confortatrice parola: « Non piangere »; del ladrone sulla croce, cui Gesù promise il paradiso per quello stesso giorno. – Oh, come infonde consolazione, quanto incoraggia e tranquillizza l’amabile Vangelo del medico Luca! D’ineffabile bellezza è la trilogia della divina misericordia, ch’egli ci ha donato nel capitolo decimoquinto — meriterebbe una cornice d’oro e di lacrime! —, che ben a ragione fu detto « il cuore del Vangelo », nel quale si legge quella storia, che conosciamo ma che è sempre nuova, della dramma perduta, della pecora smarrita e del figlio prodigo: « Il figlio disse: “Padre, io ho peccato”; e il padre rispose: “Portate subito la veste migliore e un anello per la mano e i calzari per i piedi. Banchettiamo e rallegriamoci! Poiché questo mio figlio era morto e vive di nuovo, era perduto ed è stato ritrovato” ». « In Cielo vi sarà gioia più grande per un solo peccatore, che si converte, che non per novantanove giusti, che non hanno bisogno di convertirsi ». Nella parabola del pietoso samaritano, che versa olio e vino sulle ferite, Luca ha tratteggiato se stesso e ha insieme regalato ai samaritani di tutti i tempi nome e onore. Così il medico Luca ci rende familiari dell’evangelista Luca; ma di lui in quanto evangelista resta ancora da scrivere qualche cosa in particolare.

L’EVANGELISTA

« Molti hanno già intrapreso a riferire quello, che è avvenuto fra noi e che adesso ha raggiunto un certo compimento. Nel far questo si sono attenuti alle tradizioni, che ci sono giunte da parte dei primi testi oculari e ministri della Parola. Così mi son deciso anch’io di far un’indagine accurata in tutti questi avvenimenti sin dai loro primi inizi e di stenderli in scritto per te, o nobile Teofilo, in ordinata concatenazione. Possa tu persuaderti della sicurezza di questi racconti, dei quali hai già avuto notizia ». Questo prologo, che Luca premette al suo Vangelo, ci permette di vedere quale sia il compito, il disegno e il fondamento del Santo Libro. Il compito: secondo l’uso letterario del tempo, esso è dedicato a un’alta personalità, « al nobilissimo — eccellentissimo — Teofilo », cui più tardi Luca dedicherà pure gli Atti degli Apostoli; non doveva però, come un talento sepolto, riposare fra le mani di Teofilo, ma per mezzo di lui, che forse godeva di grande ascendente ed era facoltoso, doveva essere reso noto e diffuso. Luca in Teofilo e per mezzo di lui volle far dono del lieto messaggio all’intero mondo etnicocristiano, conquistato dal maestro Paolo; il suo Vangelo quindi ha un’impronta diversa da quella del Vangelo di Matteo, che fu scritto per i giudeocristiani; tenendo conto della condizione dei suoi lettori etnicocristiani, egli tralascia la sofistica e da casistica dei Farisei e le polemiche del Signore; la scena sacra nel terzo Vangelo è dominata non dalla casistica, ma dalla carità, dall’amore, non dalla Legge! Questa differenza fra il primo e il terzo Evangelista balza manifesta specialmente a un confronto delle loro due redazioni del discorso sul monte: Luca VI, 17-49; Matteo V. 6. 7. – Le comunità paoline erano certamente composte anche di giudeocristiani; e il Vangelo di Luca ne tiene conto; non è quindi come il vangelo di Marco, che ha scritto esclusivamente per gli etnicocristiani; ma anche di fronte ai giudeocristiani: Luca resta… Luca, il tipo benigno e pieno d’attenzioni, il medico, che procura di far meno male ch’è possibile; Matteo e Giovanni ci hanno trasmesso delle parole di Gesù molto più dure dell’etnicocristiano Luca nei riguardi del loro popolo, che aveva ripudiato il proprio Messia; questi invece, se trova qualche fatto a favore di Israele, l’accoglie subito nel suo Vangelo. Così Cristo è la gloria e la redenzione (specialmente) del popolo d’Israele; Luca, e non Matteo né Giovanni, ha raccolto pure le lacrime e il lamento di Gesù su Gerusalemme: « Se anche tu conoscessi quello che serve alla tua pace!… ». « Non piangete su di Me, ma piangete sopra di voi e i vostri figli! ». Quale vasta risonanza trovò la bontà del Signore nel buon Luca! – Il disegno del terzo Vangelo è storico-cronologico; l’Evangelista incornicia gli avvenimenti della nostra salute nel contesto della storia universale; e questo è quanto mai prezioso. La vita di Gesù non si svolse in un’epoca lontana lontana, avviticchiata da miti e da favole, e neppure in un’illusoria luce crepuscolare di poesia e verità; no, essa si svolse nella chiara luce meridiana della storia: « Nei giorni di Erode, re della Giudea… Nei giorni dell’imperatore Augusto… Nell’anno decimoquinto del governo dell’imperatore Tiberio, quando Ponzio Pilato era procuratore della Giudea ». Anche nel riferire le singole notizie Luca si attiene, per quanto gli è possibile, all’« ordine », vale a dire al corso cronologico dei fatti; non possiamo però aspettarci che il suo Vangelo sia un racconto della vita del Signore al modo d’un diario; dov’egli non può indicare il luogo storico delle parole e delle opere riferite, si serve delle espressioni generiche: « Un giorno Gesù insegnava… »; spesse volte unisce l’ordine cronologico con quello oggettivo, come, ad esempio, nella biografia del Battista, quando d’un tratto racconta le opere di lui sino all’imprigionamento. Il terzo Vangelo quindi, per questo suo disegno, è articolato in modo chiaro e trasparente: precede, come un coro d’Angeli, la storia dell’infanzia di Gesù: 1, 1-2, 52; quanto al ministero pubblico del Signore, l’Evangelista, deflettendo un po’ da Matteo e da Marco, lo divide in tre grandi sezioni: il ministero galilaico: III, 1-9, 59; la « relazione dei viaggi », detta pure la « grande inserzione », fatta da Luca nel materiale evangelico di Marco: IX, 51-19, 28; la conclusione a Gerusalemme: XIX, 29-24, 53. – Nel prologo Luca sottolinea specialmente il fondamento del suo Vangelo. È evidente che, come a colto ellenista, gli sta a cuore moltissimo assicurare, contro tutti i dubbi e le esitazioni, la certezza storica delle notizie non mai udite; e a questo riguardo è ammirabile la Provvidenza, perché s’è fatta garante della credibilità dei quattro Vangeli, valendosi dell’indole dei diversi Evangelisti, in un modo sempre nuovo: si servì dell’oggettività di Matteo per il primo, della fedeltà di Marco a Pietro per il secondo, della familiarità di Giovanni con Gesù per l’ultimo e dell’indagine di Luca per il terzo. Luca stesso ricorda fonti orali e scritte, cui si rifece nella stesura del suo libro; quella mano premurosa, che gli era propria anche come medico, vagliò ed esaminò pure scientificamente le fonti evangeliche. Poichè fu sollecito d’investigare la lieta novella sin dai suoi « primi inizi », non v’è dubbio che da Cesarea si portò lassù a Gerusalemme per far visita a Maria. Maria… Luca! Fu un’ora veramente grande quella, in cui egli, silenzioso quasi come l’Arcangelo Gabriele, entrò nella piccola stanza solitaria della Donna tanto benedetta. Maria cominciò a dire con semplicità e Luca la seguiva con venerazione, scrivendo sui suoi foglietti di papiro: «L’Angelo entrò e disse: “Ave, o Piena di grazia, il Signore è con te” ». L’Evangelista tese l’orecchio, per lui era come se suonassero le campane in tutto il mondo. E continuò a scrivere: « Magnificat — l’anima mia glorifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore », ed era così bello, ch’egli pregò Maria di cantargli ancora una volta quell’inno; ed Ella proseguì eseguendo, sommessamente, il cantico del sacerdote Zaccaria, il « Gloria in excelsis » degli Angeli nella Notte Santa, il cantico del sole del vecchio Simeone, cui risposero tripudiando centomila cori dell’avvenire. Sui due primi capitoli del vangelo di Luca è diffuso il profumo dei gigli e delle prime rose illibate; fu tanta la sua timida venerazione nel concepire questi primi messaggi per opera di Colei, che aveva concepito per opera di Spirito Santo, che non ebbe l’ardire di tradurli nel suo greco elegante; lasciò le parole così, come erano fiorite sulle labbra di Maria; ecco perché in questi due primi capitoli, a differenza del resto del Vangelo, echeggia spiccatamente la lingua aramaica: sono suoni della Mamma. Ave, Maria! – Lo storico della Chiesa Teodoro Lettore, del sesto secolo, ch’è anche detto Anagnoste, in un frammento della sua storia ecclesiastica, che si Conserva ancora, riferisce che l’imperatrice Eudossia da Gerusalemme inviò a Pulcheria l’immagine della Madre di Dio dipinta dall’evangelista Luca; Niceforo Callisto informa inoltre che si tratta dell’immagine di Maria, onorata nella bella chiesa « Segnavia », edificata da Pulcheria — «apò tòn hodegòn », donde anche il nome dell’immagine: « Hodegetria » —; aggiunge pure che Luca avrebbe dipinte molte altre immagini della Vergine non solo, ma anche di Pietro e Paolo e anzi di Cristo stesso; la leggenda poi finì per contare sino a seicento le immagini di Luca; sono per lo più d’origine bizantina e la più celebre di tutte è la dignitosa e cara immagine della Madonna della Neve. Non ci fa più meraviglia che l’Evangelista sia stato eletto a patrono — e con più diritto che non dai macellai! —, oltre che dai medici, anche dagli artisti. In realtà non è impossibile che il medico Luca fosse insieme anche pittore; quand’anche però tutto questo non fosse che una zara leggenda, è fuor di dubbio ch’egli nel suo Vangelo ha delineato un’immagine di Maria, che serve di tema e di modello per tutti gli artisti. Nei giorni lieti e in quelli di dolore, quest’immagine vo’ portar nel cuore. –  Luca aveva conosciuto Barnaba già ad Antiochia; ora a Cesarea prese alloggio nella casa del diacono Filippo, che aveva evangelizzata la Samaria; a Gerusalemme s’incontrò con Giacomo e forse anche con altri Apostoli; a Roma dimorò probabilmente nel medesimo tempo di Pietro e sicuramente di Marco: da tutti questi « testimoni oculari e ministri della Parola » egli raccolse con assiduità e diligenza le notizie del Vangelo; esse però scorrevano a lui da cento altri rigagnoli, ed egli le esaminò e discusse con gli Apostoli. Paolo, il suo grande maestro, non era in grado di riferirgli molto intorno alla vita storica di Gesù, perché non aveva vissuto accanto a Lui; nondimeno Luca gli sottopose lo schema del suo Vangelo e le idee basilari. Possiamo notare nel suo Vangelo un chiaro influsso anche da parte di Giovanni. Luca… Giovanni! il terzo e il quarto Evangelista! È possibile che Luca abbia incontrato Giovanni già a Gerusalemme, ma può darsi che l’incontro sia avvenuto solo nei decenni seguenti a Efeso. Quando Giovanni cominciava a parlargli del Verbo di Dio, Luca congiungeva le mani commosso, e forse egli fu uno dei primi a pregare Giovanni di scrivere un Vangelo proprio e sublime; frattanto però gli tolse e anticipò, per così dire, nel proprio Vangelo non poche sentenze intorno allo Spirito Santo, a Maria e anche a Maria e a Marta di Betania e alle altre pie donne; quando Giovanni le lesse, se ne rallegrò, sorridendo. – Nel suo prologo Luca parla anche di « molti, i quali hanno già intrapreso a scrivere una relazione sui fatti». Tutte queste relazioni scritte non ebbero certamente l’approvazione dei ministri della Parola; il nostro Evangelista si attenne anzitutto al Vangelo scritto e approvato di Marco e forse anche a quello di Matteo; probabilmente ebbe a sua disposizione una terza fonte ancora, che oggi però noi non conosciamo. Del vangelo di Marco prese per il proprio 350 versetti, più dunque d’una metà dell’intero Vangelo; con Matteo concorda in 230 versetti e per lo più nei discorsi del Signore; nonostante però questo sfruttamento dei precedenti Vangeli, la maggior parte del terzo è patrimonio di Luca, proprio a lui solamente; mendicando per tutte le vie e per tutti i sentieri, ch’egli ebbe occasione di percorrere, instancabile, fedele e buono, seppe raccogliere e metter insieme un Vangelo, che fra i quattro canonici è il più ricco, il più esteso e il più caldo. Sì, il più esteso e il più caldo! Esteso quanto i mari, che l’Evangelista solcò, caldo e lieto quanto il primo accordo, ch’egli tocca: « Ecco, io vi annunzio il lieto messaggio! ». Lieto messaggio! Nel Vangelo di Luca il Salvatore del mondo allarga le sue braccia e le protende lontano lontano verso l’umanità, gettando un ponte fra tutti i contrasti nazionali, sociali e persino religiosi, stringendo nel suo Cuore giusti e peccatori, poveri e ricchi, giudei, samaritani e pagani. Oggi noi siamo più che mai frantumati in razze, classi, popoli e individui, non siamo più quasi un’umanità: Luca mostra il Cuore che tutti unisce; oggi vi sono anche molti derubati sull’orlo della via, molti figli di vedove morti, molti prodighi che intristiscono in terra straniera e nella disperazione: Luca addita il misericordioso Samaritano, che fascia ferite, asciuga lacrime e si rallegra per ogni prodigo che rincasa più che per novantanove giusti.

IL CRONISTA

Noi andiamo debitori a Luca anche d’un secondo libro: gli Atti degli Apostoli. Che cosa ci mancherebbe, se non avessimo gli Atti! Son l’unico libro, che ci ragguaglia intorno al primo e importante periodo del giovane Cristianesimo. Molto opportunamente gli Atti degli Apostoli vengono posti fra i santi Vangeli e le lettere apostoliche, poiché essi presentano la realizzazione e il primo coronamento del Vangelo, mentre le lettere apostoliche in parecchi tratti sono un riflesso degli Atti. Ci richiama all’intima connessione degli Atti col Vangelo Luca stesso, quando nel prologo al secondo suo libro scrive: « Nella mia prima opera, o Teofilo, ho riferito intorno a tutto quello, che Gesù ha operato e insegnato dal principio sino al giorno, in cui fu assunto in Cielo » e poi riprende a descrivere di nuovo più dettagliatamente l’ultimo episodio riferito nel Vangelo, l’ascensione del Signore, per passare quindi alla narrazione di quanto avvenne nella Chiesa primitiva, la quale così, senza stacco né cucitura, si connette immediatamente e naturalmente col Vangelo, come l’estate con la primavera e il frutto col fiore: seguono infatti l’elezione di Mattia, la festa di Pentecoste, la guarigione del paralitico dalla nascita, il primo arresto degli Apostoli, l’interno ed esterno rafforzamento della comunità cristiana, la cattura di tutti gli Apostoli, l’opera e la morte di Stefano, la dispersione e i frutti del Cristianesimo in Samaria, la conversione dell’eunuco etiope, l’entrata di Saulo, la accettazione nella Chiesa del primo gentile, Cornelio, la fondazione della prima chiesa di gentili ad Antiochia, la persecuzione del re Erode Agrippa I il supplizio di Giacomo Maggiore, la liberazione di Pietro; dal capitolo decimoterzo entra nel cuore degli Atti l’Apostolo Paolo. – Luca però non mette semplicemente insieme episodi su episodi, come perle in un cordoncino; il suo libro è diretto da un disegno e animato da una passione. Il tema di tutta l’opera è indicato subito, nella prima pagina, e a forti colori con le parole di addio del Signore: « Voi sarete miei testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e Samaria, sino anzi ai confini della terra »; e l’ultima proposizione degli Atti è come un allegro grido di soldati: « Ordine eseguito! », poiché « Paolo (a Roma) predicava con tutta franchezza e libertà il regno di Dio e la dottrina intorno al Signore Gesù Cristo ». Luca raggruppa tutti gli avvenimenti intorno a tre grandi figure e a tre grandi città, come intorno a un simbolo; le figure sono Pietro, Paolo e Giacomo; le città sono Gerusalemme, Antiochia e Roma; Gerusalemme è la chiesa dei giudeocristiani, Antiochia quella dei giudeocristiani ed etnicocristiani insieme, Roma quella degli etnicocristiani. Sebbene avesse ripudiato il Messia, non fu tolto a Gerusalemme l’onore d’essere la sua figlia primogenita; solo più tardi, quando persistette nella sua pervicacia, la grazia migrò lentamente altrove, in Samaria, ad Antiochia, dalla capitale dei Giudei alla capitale dell’universo, a Roma. Giacomo è l’Apostolo dei giudeocristiani; Pietro à l’apostolo dei giudeocristiani ed etnicocristiani insieme; Paolo è l’Apostolo degli etnocristiani; nella prima parte degli Atti domina Pietro, nella seconda Paolo, in parecchie svolte importanti Giacomo. Degli altri Apostoli, se prescindiamo dal catalogo degli Apostoli, sono ancora ricordati Giovanni e suo fratello, Giacomo Maggiore; il titolo quindi del libro « Atti degli Apostoli » non è esatto; non tratta di tutti gli Apostoli — se così fosse, quanto più facile sarebbe stata questa nostra opera! —, ma riferisce alcune vicende di alcuni Apostoli. –  Si comprende facilmente che il distacco della Chiesa dalla sinagoga e il suo trapasso ai pagani non si effettuò senza tensioni e crisi; se ne percepiscono le vibrazioni anche negli Atti degli Apostoli, sebbene non vi si riflettano così violente come nelle lettere di Paolo. Si confronti, ad esempio, la relazione del Concilio apostolico nel capitolo decimoquinto degli Atti col secondo capitolo della lettera ai Galati: Luca narra oggettivamente, impersonalmente quello stesso episodio, che Paolo descrive con impeto, perché deve autodifendersi e precisare la sua condizione personale nei raffronti degli Apostoli più anziani. Anche come scrittore Luca è irenico, Paolo è polemico; Luca mette in luce l’unione, Paolo la tensione; anche Luca però conosce la tensione, come Paolo l’unione. Paolo infatti, nei riguardi di Gerusalemme, di Giacomo e di Pietro non si trova affatto in quella inconciliabile opposizione, che gli eruditi « paolinisti » vanno spacciando ai nostri giorni, egli non è così « paolino »; anche dopo ch’egli ebbe fatta la sua esposizione, gli Apostoli più anziani gli stesero la mano in segno di società. Luca dunque e Paolo anche nei loro scritti non si contradicono, ma felicemente si completano. Già gli antichi Padri fecero notare che Luca nel primo libro, il Vangelo, mise in iscritto quello che aveva udito, mentre negli Atti degli Apostoli scrisse quello che aveva visto. Di fatto egli fu presente a molti episodi narrati negli Atti e specialmente nella seconda parte di essi; altri gli furono riferiti da Paolo nei lunghi anni, nei quali gli stette a fianco con tanta bontà; e chi sa quante volte l’Apostolo gli avrà parlato soprattutto della propria conversione! Negli Atti non ne leggiamo meno di tre relazioni. Può darsi che ben volentieri abbiano fatto dono d’un mattone al nostro cronista, per la sua seconda opera, anche Pietro, Giovanni, Giacomo, Barnaba, Marco, il diacono Filippo e parecchi altri; probabilmente stavano pure a sua disposizione delle relazioni scritte, ch’egli accolse nel suo racconto, quali ad esempio, il decreto del Concilio apostolico, la lettera del tribuno Lisia, il discorso dell’avvocato Tertullo e forse anche degli schizzi delle prediche di Pietro e di Paolo. Non poté invece ancora utilizzare, per il suo libro, le lettere di Paolo, perché in quel tempo non erano ancora raccolte, ma disperse fra le comunità, che vivevano lontane le une dalle altre. Per essere in grado di conoscere a fondo la lealtà e la limpidezza degli Atti degli Apostoli, bisogna farne un confronto con i così detti « Atti degli Apostoli » apocrifi; che pio cicaleccio, quali miracoli ridicoli non si costruiscono mai in questi scritti non genuini. Ne abbiamo fornito qualche saggio nel corso di quest’opera « Le relazioni di Luca invece quanto sono sobrie, dignitose e precise quando si tratta di indicare il luogo, il tempo e le circostanze! I suoi Atti degli Apostoli hanno in se stessi il sigillo della genuinità. Volesse il Cielo che questo libro fosse letto e predicato di più, specialmente oggi! In esso soffia la bufera di Pentecoste, la bufera del primo amore e della prima fede, ma anche quella delle prime e pericolosissime persecuzioni; nell’ora più grave di tutta la storia della Chiesa, quando tutti gli Apostoli con unico colpo dovevano essere stesi a terra e il Cristianesimo con loro, Iddio ispirò la parola salvatrice al saggio Gamaliele: « Israeliti, badate bene a quello che state per fare con questa gente… Questo disegno o impresa viene soltanto dagli uomini: va in rovina di per sè; ma se è da Dio, non lo potete annientare ». Quell’« impresa » non andò in rovina; viene dunque da Dio; si affermerà quindi anche fra le tempeste del nostro tempo, ne abbiamo la lieta speranza!

IL SANTO

Chi può immaginare i sentimenti che avranno occupato lo spirito di Luca e quello di Marco, quando, il primo dal luogo del supplizio di Paolo e il secondo da quello di Pietro, si levarono e se n’andarono soli? Adesso l’onere e la beatitudine d’essere testimoni di Gesù sino alle estremità della terra incombeva su di loro. Ma purtroppo anche intorno agli ultimi anni di Luca abbiamo delle informazioni troppo scarse. Le testimonianze antiche sono imprecise, divergenti e contradittorie, provando così la loro poca sicurezza. Epifanio, il teste più antico (nacque verso il 315), riferisce che Luca evangelizzò la provincia della Dalmazia, le Gallie (confonderà con la Galazia?), l’Italia e la Macedonia. Gregorio di Nazianzo, Girolamo, Gaudenzio nelle loro relazioni additano come campo dell’attività apostolica di Luca l’Acaia, l’antica Grecia; anche Niceforo riferisce: « Dopo essere stato con Paolo a Roma, Luca andò nuovamente in Grecia, dove illuminò molti con la luce della dottrina e della scienza divina ». Mentre andava in Grecia o movendo da essa, visitò probabilmente anche Efeso, dove, dopo la morte di Paolo, aveva la sua sede l’apostolo Giovanni; il racconto dettagliato e caratteristico ch’egli negli Atti degli Apostoli ci fa di Efeso, induce a pensare che quella gli fosse ben nota e cara. – Molti scrittori greci ci informano d’un’attività missionaria di Luca nel basso Egitto; ad Alessandria, dopo la morte del vescovo Aniano, costituitovi da Marco, egli gli avrebbe dato un successore in Abilio; secondo Metafraste, sarebbe stato il primo pastore della città di Tebe, già da Omero chiamata la città dalle cento porte; ma è più probabile un’attività di Luca nella Tebe dalle sette porte, ch’era la capitale della provincia greca della Beozia, schernita per la goffaggine di spirito dei suoi abitanti. Le informazioni degli scrittori latini trasferiscono l’attività di Luca nella provincia di Bitinia nell’Asia Minore, un giorno percorsa da Pietro e lambita da Paolo; e anche questa tradizione ha le sue buone ragioni, e il Martirologio romano se l’è appropriata. Ma alla fin fine, che importa dove annunzi il lieto messaggio, se in una città con cento porte o solo con sette, se presso gli eruditi alessandrini o presso i tardi beoti. Purché Cristo sia predicato in tutti i modi e in tutto il mondo! Forse queste notizie tanto discordi intorno all’opera apostolica di Luca hanno il loro fondamento nella sua attività realmente molto estesa; si potrebbe dire ch’egli adì l’attività spirituale dell’Apostolo delle genti; ora quant’era stato vasto il mondo di Paolo! Può darsi che a Roma il gigante morente abbia trasmesso all’unico amico, che lo accompagnava alla porta dell’eternità, gli ultimi incarichi e commissioni per le sue molte comunità; e il fedele Luca portò la benedizione e le preghiere del padre, passato a vita migliore, in Beozia e in Bitinia, in Grecia e ad Alessandria e in tutto il mondo! Alla fine giunse anche per il nobile Luca il rimpatrio ai monti eterni, dove il Magnificat, l’encomio della divina misericordia, ch’egli aveva notato nel suo Vangelo, non tace mai. Con quanta clemenza Maria avrà rivolto al suo Evangelista i suoi occhi misericordiosi nel momento del suo ingresso nell’eternità e poi l’avrà condotto a Gesù, il frutto benedetto del ventre suo! Tutte le informazioni concordano nell’affermare che Luca s’addormentò nel Signore a età avanzata; i loro dati oscillano fra i 73 e 84 anni. Gli scrittori più antichi non sanno nulla d’un suo martirio, e noi ci aspetteremmo ch’egli morisse d’una morte tranquilla e soave; solo Gregorio Nazianzeno (+ 390) fa una prima allusione al suo martirio in una predica contro Giuliano l’apostata; più tardi Niceforo Callisto amplifica questa notizia e dice che Luca fu impiccato dai dileggiatori del Verbo di Dio a un albero di fertile olivo, perché non era stato possibile rintracciare nessun legno secco per prepararne una croce; sul suo sepolcro sarebbero piovuti dei panini, che avevano la virtù di guarire gli ammalati. E davvero noi tutti sino ad oggi gustiamo di quei pani e parole, ch’egli, anche dopo la sua morte, ci dona nelle sue opere. – L’antichità cristiana riferisce con singolare sicurezza, con precisione di dati riguardo al tempo e alle altre circostanze, la traslazione delle ossa di Luca dal loro primo sepolcro a Costantinopoli, nella magnifica chiesa degli Apostoli, edificata dall’imperatore Costanzo. Il giorno 3 marzo 357, quasi dunque trecento anni dopo la morte dell’Evangelista, avrebbe avuto luogo la detta traslazione e secondo gli uni dall’Acaia, secondo gli altri dalla Bitinia o da Efeso, a seconda del luogo, in cui lo ritengono morto. Il più antico testimonio di questo trasferimento delle reliquie di Luca è Girolamo, il quale ci riferisce che furono portate a Costantinopoli e ivi sepolte insieme con i resti mortali dell’apostolo Andrea, trasportati da Patrasso, nel ventesimo anno di governo dell’imperatore Costanzo. Luca… Andrea! Questi due nobili uomini, che evangelizzarono lo stesso suolo di Grecia quasi nel medesimo tempo, erano simili nell’anima, e finirono per riposare nell’imperiale Costantinopoli l’uno accanto all’altro. Non però per tutti i secoli! Le loro reliquie erano tanto desiderate — si desiderasse altrettanto il loro spirito! —, e oggi parecchie località si gloriano di possedere i resti mortali di San Luca: la cattedrale di Brescia, la chiesa di Fondi, il monastero di Sant’Andrea a Roma e più di tutte Padova, secondo la testimonianza del Martirologio romano. L’amato Luca riposerebbe solo a pochi passi dalla basilica di Sant’Antonio a Padova, nella chiesa di Santa Giustina; ma se così, sarebbe tanto desiderabile che le innumerevoli candele e baci, che gli italiani donano al sepolcro del loro « Santo », valessero ad accendere una luce e un amore anche per la tomba solitaria dell’evangelista Luca! Celebriamo la festa di San Luca il giorno 18 ottobre. In quel torno di tempo qui, da noi, i giorni sono spesso insolitamente miti e limpidi; tutto è maturato e si offre per donare: è un simbolo di Luca! Egli è una figura meravigliosamente chiara, mite e matura; in lui si sono disposate natura e sovrannatura, scienza, arte e religione, come la virtù del sole, la cura degli uomini e la benedizione dall’alto nei generosi grappoli dell’autunno; Luca, l’ellenista e il Cristiano, il medico e l’evangelista, la persona care ed il santo silenzioso, è come un grappolo generoso, venuto a maturazione nella vita vera, ch’è Cristo.

LA GRAZIA E LA GLORIA (36)

LA GRAZIA E LA GLORIA (36)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO IV

Il ruolo della carità nel merito e la sua compatibilità con la dottrina esposta in precedenza.

1. Se c’è una cosa che stupisce è vedere teologi che, come il Dottore Angelico, estendono così ampiamente la portata del merito, con poche eccezioni, da reclamare per gli atti meritori una condizione che altri non considerano necessaria per il merito ristretto che essi insegnano. Chiedete a questi ultimi quali siano le condizioni sufficienti per un’opera meritoria. Vi rimanderanno a quelle che abbiamo elencato nel secondo capitolo di questo libro, e non ne vogliono altri. Interrogate ora S. Tommaso e la maggior parte di coloro che lo hanno seguito; li sentirete affermare la necessità della carità per qualsiasi atto di merito. La carità è la forma che conferisce alle virtù il loro carattere meritorio e la loro perfezione: se essa non è là ad ordinare le nostre azioni più sante verso lo scopo finale della nostra vita, queste azioni possono anche essere buone, ma non hanno alcun valore per il cielo. A volte sembra che essi non attribuiscano che alla sola carità il potere e il diritto di acquisire la sostanziale ricompensa che ci è stata promessa: tanto essi esagerano il suo ruolo, e sembrano sminuire nei suoi confronti il ruolo delle altre virtù. – Io non propongo nulla che non possa essere facilmente provato da cento testimonianze; e queste testimonianze sono supportate da ragioni che sono convincenti per questi stessi autori. « Il primo principio del merito è la grazia santificante, ma la carità è il principio prossimo. Ecco perché le opere dei giusti sono meritorie di un merito di condignità (ex condigno) solo nella misura in cui la carità le rapporti a Dio. » È in questi termini che Gregorio di Valencia, spiegando il proprio pensiero, riassume anche la teoria dell’Angelo della Scuola (Gr. a Valentia, l. jam cit.). – E di certo non si sbagliava nell’apprezzare questo insegnamento magistrale. Una prova inattaccabile è la risposta del grande Dottore ad una domanda capitale in questa materia. È vero che la grazia sia un principio di merito per la carità, molto molto più (principalius) che per le altre virtù? – Sì – dice San Tommaso – il primato del merito deve essere attribuito alla carità. La grande ragione che egli adduce è che la vita eterna consiste nel godimento di Dio; ora, il movimento e come il volo dell’anima umana verso il godimento del Bene sovrano è l’atto proprio della carità. Ad essa sola appartiene il tendere direttamente verso l’ultimo fine, perché essa sola lo raggiunge per riposare in esso. Se gli atti delle altre virtù sono orientati dai loro fini particolari verso questo fine supremo, è sotto il suo impero e grazie alla sua direzione (per andare a Dio e condurci a Lui, i nostri atti devono essere fatti per Dio “propter Deum“: ora, essi hanno questo non per loro natura, ma per la carità. S. Thom, de Carit, q. un., a. 5). In ogni ordine in cui diverse operazioni concorrono in qualche modo allo stesso fine, spetta alla potenza che mira direttamente all’ultimo fine coordinare tutto in vista di questo fine. Così, in ogni essere ragionevole l’appetito inferiore deve sottomettersi al governo della ragione, pena l’insorgere di gravi disturbi nella vita morale; così, in un esercito che va in battaglia, ci deve essere un Comando Superiore che riunisca tutte le energie individuali e tutti gli elementi che lo compongono, verso la meta suprema che è la vittoria. Qualunque sia la bravura dei soldati, la devozione e l’abilità dei capi subalterni, dove questa direzione manca, ci possono essere battaglie parziali più o meno vittoriose, ma nessun trionfo finale. – L’uomo, soprannaturalizzato dalla grazia, è fatto per marciare alla conquista di Dio. Il suo esercito è composto dalle facoltà e dalle virtù di cui la munificenza divina lo ha ampiamente dotato. Se non volete che questo esercito lavori invano, essendo ciascuna delle sue forze vitali confinata, per così dire, al perseguimento del suo oggetto particolare, dategli come sovrano la carità: perché, ancora una volta, è la carità che persegue immediatamente il fine supremo verso il quale tutta la nostra vita deve convergere (S. Thom, 1. 2, q. 114, a. 4; Col. 2, 2, q. 23, a. 7; de Carit, q. un., a. 5, ecc.). – È in questo senso che l’Apostolo, nel suo mirabile panegirico fatto della carità, l’ha raffigurata con la scorta di tutte le virtù: così incorporata, per così dire, con ciascuna di esse, che i loro atti diventano come le sue opere (I Cor. XIII, 4-8). Tutti i nemici di essa, non sono gli avversari di ciascuna delle altre virtù; ma queste non hanno nulla che non sia suo, diventando loro. E, per dirla di sfuggita, questo è il motivo per cui ogni colpa grave, qualunque sia la virtù particolare che attacca, colpisce la carità nel cuore. In quanto regina, prende come proprie sia le opere che le offese di coloro che la seguono (S. Thom, De Carit., q. un., a. 5, ad 7 e 8); ed è questo che fa sì che le prime portino a un aumento della vita spirituale, e le seconde ad un fallimento o alla morte. La dottrina che ho appena riassunto, secondo i nostri grandi teologi scolastici, questi l’avevano appresa dalle Scritture e dai Padri. A sostegno di ciò, l’Angelo della Scuola cita queste parole del Maestro: « Se uno mi ama, sarà amato dal Padre mio e Io lo amerò e mi manifesterò Io stesso a lui » (Gv. XIV, 21): per questa manifestazione, la ricompensa della carità è la vita eterna. Così eccellente è la carità tra tutte le virtù, che essa è la prima, se non l’unica, a trionfare (1 Cor., XIII, 8-10, 43). La fede, questa virtù eccelsa, merita, senza dubbio, ma a condizione che operi attraverso la carità (Galati, V, 6). Perciò, se non avete in voi la carità, tutti i vostri atti più virtuosi, dal punto di vista del merito, non sono nulla (1 Cor., XIII, 1-4.). « Quale verzura – si chiede San Gregorio – potrà avere il ramo di un’opera buona se non ha come radice la carità? » (San Gregorio M., hom. 7, in Evang.). «Tutte le virtù senza la carità sono nulle; e per quanto perfetta possa essere una virtù morale, essa è infeconda se il suo frutto non ha per madre la carità », dice il grande San Leone. (S. Leo. M., serm. 47, de quadrag. 10, c. 3.). Invocherei l’autorità di S. Agostino, se tutti non conoscessero il ruolo preponderante che egli attribuisce alla carità nell’ordine del merito, al punto da aver fatto credere ad alcuni teologi, a torto è vero, che la sola carità sia per lui tutto il nostro merito.

2. – Dopo quanto abbiamo appena detto, possiamo comprendere perché i teologi e gli autori ascetici abbiano chiamato virtù quelle che non siano unite nell’anima alla carità, virtù informi; o, il che equivale alla stessa cosa, come la carità divina sia la forma delle virtù. Queste parole hanno un significato perfettamente determinato. La virtù formata è la virtù nella sua perfezione finale, mentre la virtù è informe quando manca della stessa perfezione: perché la forma è ciò che dà ad ogni cosa il complemento che le è appropriato. Da qui le espressioni teoria informe, blocco informe e mille altre dello stesso tipo. Ora, quando si tratta di atti considerati dal punto di vista morale, è dall’ordinarsi verso il fine che dipende in gran parte la loro perfezione. Fate l’elemosina per aiutare un fratello e per l’amore di Dio, Padre comune dei bisognosi e dei ricchi: nulla di più lodevole. Ma la stessa elemosina sarebbe cattiva se fosse data con l’intenzione perversa di spingere un disgraziato al crimine. Da qui il principio: « Nelle cose morali, ordinare un atto verso il fine significa dargli la sua forma. In moralibus id quod dat actui ordinem in finem dat ei formam » (S. Thom., 2. 2, q. 25, 2. 8). Pertanto, poiché appartiene alla carità l’ordinare non solo i propri atti, ma anche quelli di tutte le virtù, al fine generale e finale di ogni uomo e di tutto il genere umano, cioè a Dio, bontà suprema, è manifesto che essa sia la forma delle virtù. Infatti, le virtù sono formate in sé stesse da ciò che le rende capaci di produrre degli atti formati (Id., ibid.). Ma non fraintendiamo il significato della nostra formula, immaginando la carità come un elemento intrinseco e costitutivo delle virtù che informa. No, la distinzione rimane intera. Ognuna di esse conserva la propria natura specifica e il proprio fine. Ciò che deriva dalla carità è, come detto, un orientamento più alto e più perfetto, e l’efficacia che rende l’atto delle virtù inferiori un merito nel senso proprio. Pertanto, per virtù formate intendiamo quelle virtù che sono strumento di merito, e per virtù non formate quelle che, data l’assenza della grazia e della carità, sono radicalmente impotenti a produrre atti meritori davanti a Dio (Possono esistere vere virtù senza carità? Sì e no. Sì, se è sufficiente che una virtù sia vera per tendere a un oggetto che sia un vero bene, come sarebbe un atto di giustizia; no, se intendiamo per vera virtù quella che non si ferma al bene particolare, ma si spinge fino al Bene supremo dell’uomo. Quindi la scienza perfetta è tale solo quando si basi sulla conoscenza sicura dei principi primi – S. Thom., 2. 2, q. 23, a. 7).  Così, in ciascuna delle virtù meritorie c’è una doppia forma: una forma particolare che le costituisce nel loro essere specifico; una forma più generale, ma esterna, che le completa e le perfeziona: quella venendo loro dal proprio oggetto e fine speciale, e questa dall’ultimo fine attraverso la carità. – Per questo, dice l’Angelo della Scuola, « la carità entra nella definizione di ogni virtù, non in quanto tale, ma in quanto meritoria » (S. Thom, de Carit., q. un., a. 3, ad 1, 3, ecc.). Ma se la carità non è una forma informante, cos’è dunque? Essa è per analogia la forma esemplare e la forma efficiente delle altre virtù: efficiente, in quanto le rende meritorie e perfette; esemplare, perché, impadronendosi delle loro operazioni per ordinarle al fine che esse perseguono in proprio, dà loro con questa non so quale somiglianza e quale aria familiare (1d., ibid., ad 15; 2, 2, q. 23, a.8, ad 1.). – Pertanto, questo non impedisce che la carità sia formata a sua volta dalla grazia. Consultiamo nuovamente il nostro Dottore su questo punto. Egli ci dirà « che la grazia e la carità sono la forma delle virtù, ma in modo diverso. La carità è la forma delle virtù dal punto di vista operativo, perché le convoca, per così dire, con tutti i loro atti, al perseguimento del suo fine. E la grazia è la loro forma dal punto di vista dell’origine: perché è dalla grazia che emanano con la carità come dal loro principio comune. Ora, ciò che scaturisce da un principio riceve la sua forma e la sua natura da esso, e conserva la sua vitalità nativa solo nella misura in cui aderisce a questo stesso principio » (S. Thom, II D. 26, q. 1, a. 4, ad 5; col. di Virtut. in communi, q. 2, a. 3, ad 2.). Queste considerazioni ci portano a comprendere anche come la grazia e la carità siano, ciascuna in modo diverso, madre e radice delle virtù. La grazia è madre, poiché è essa che, sotto l’influsso dello Spirito Santo, concepisce le virtù e ne conserva l’essere; radice, poiché queste stesse virtù devono continuamente attingere da essa. La carità, da parte sua, è anche madre e radice: infatti, sebbene gli atti delle altre virtù non provengano fisicamente da essa, è tuttavia attraverso di essa che la grazia stimola queste virtù a produrle e conferisce loro questa direzione verso il fine ultimo, che è il carattere indispensabile di ogni merito propriamente detto. Si ricordi che Rachele diede figli a Giacobbe da Balam, sua serva (Gen. XXX, 1-7). – Cfr. S. F. de Sales, Trattato dell’amor di Dio L. XI c. 11), e si potrà concepire, se non mi sbaglio, un’idea più esatta di questa maternità generale: della carità che fa i propri atti che non escono da essa.

3. – Cerchiamo ora di conciliare questa dottrina con quanto detto nel capitolo precedente sul merito universale delle opere moralmente buone, quando però l’agente che le compie è un figlio adottivo di Dio per grazia. Sarà necessario che ogni azione compiuta dal giusto sia accompagnata da un atto di carità che la comandi e la coordini con il fine ultimo; sarà necessario, almeno, che gli atti d’amore di Dio siano ripetuti abbastanza frequentemente perché rimanga in essi un “non so che” di cui l’anima, al momento dell’azione, sperimenta l’influenza reale e positiva influenza? Diciamolo forte e chiaro: tali richieste, anche se si trovano in alcuni autori generalmente inclini al rigorismo, non sono fondate. Inoltre, l’Angelo della Scuola ed i molti illustri teologi che lo hanno seguito, pur mantenendo il privilegio della carità, sono lontani da tali esagerazioni. Cosa chiedono essi in effetti? Un orientamento di tutte le nostre opere moralmente buone che, secondo loro, si trova ovunque regni la grazia santificante. La grazia che ci rende figli di Dio ci orienta verso di Lui nel nostro essere; spetta alla carità operare la stessa conversione nella nostra attività vitale. In che modo lo farà? Impariamo questo da un bellissimo commento di San Tommaso d’Aquino su queste parole dell’Apostolo: « Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio » (1 Cor. X, 31). Agire per la gloria di Dio, riferire a Lui le sue opere, è la funzione propria della virtù della carità. « Ora, non è più possibile in questa vita rapportare tutto attualmente a Dio, più di quanto sia in nostro potere il pensare sempre a Dio: questa è la perfezione della patria. Ma riferire virtualmente tutto a Dio è la perfezione della carità, che è strettamente obbligatoria per tutti. – « Per comprendere questa dottrina, dobbiamo considerare che se la virtù della causa prima rimane nelle cause subordinate, l’intenzione del fine principale rimane virtualmente anche in tutti i fini secondari; ed è per questo che chi persegue un fine secondario, per il fatto stesso di dirigere virtualmente la sua intenzione verso il fine principale…  Quando, dunque, l’uomo si è ordinato egli stesso a Dio, per quanto riguarda il suo ultimo fine, l’intenzione di questo fine, che è Dio, bontà sovrana, rimane virtualmente in tutto ciò che egli fa per se stesso; e, quindi, può meritare in tutte le cose, se ha la carità. Ed è in questo senso che l’Apostolo ci impone di rapportare tutto alla gloria di Dio » (S. Thom, De Carit, q. un., a. 1, ad. 2). – Citiamo un altro passo dello stesso Dottore. Perché un atto sia meritorio in chi possiede la carità non è necessario che lo si riporti attualmente a Dio, ma è sufficiente che si riporti attualmente ad un fine adeguato e che questo fine sia legato a Dio in modo abituale (habitu). – (Come si può notare da questo passaggio, i termini ordinazione, relazione virtuale, non hanno in San Tommaso il significato attribuito loro dai teologi più moderni. Per questi ultimi, l’atto praticamente rapportato alla gloria di Dio, fine della carità, deve dipendere, almeno mediatamente, da un atto anteriore di carità, talmente che non lo potrebbe, se l’influenza di questo atto anteriore fosse totalmente assente. Per San Tommaso, è sufficiente per la relazione virtuale che il fine particolare, oggetto dell’atto, si armonizzi con il fine ultimo, e che l’agente rimanga abitualmente ordinato verso questo fine della carità). « Per esempio, consideriamo un Cristiano che voglia fare un pellegrinaggio in onore di Dio.  Se, a questo scopo, compra un cavallo, senza pensare a Dio, ma preoccupandosi solo del viaggio che ha preordinato in anticipo per la gloria di Dio, l’acquisto è meritorio. Ora, chi ha la carità nel cuore, ha ordinato la sua persona e tutto ciò che dipende da lui verso Dio (omnia sua); infatti si è legato a Dio come fine ultimo. Pertanto, qualsiasi cosa faccia per sé o per gli altri, nel proprio interesse o a beneficio di coloro che ama, la fa con merito, anche se non ha Dio in vista in quel momento, a meno che non ci sia un disordine nel suo atto che gli impedisca di essere riferito a Dio. E poiché questo disordine non può stare senza un peccato almeno veniale, ne consegue che ogni atto, una volta che si abbia la carità, è o merito o peccato » (S. Thom., de Malo, q. 2, 5, obi. 1l cum. Sol.). Non mi dite che si tratti di testi isolati, che non rappresentino l’intero pensiero dell’Angelo della Scuola. Oltre al fatto che egli non ha l’abitudine di parlare con leggerezza e di contraddirsi, insiste in mille punti sulle stesse idee, tanto sono chiare e certe per lui (Vid. ad es.: II. D. 40, q. 4, a. 5, ad 7; coll. 2. 2; q 24, a 8; 1, 2, q. 88, a. 2, ad 2). – Quindi, per riassumere tutto in due parole, se volete che tutte le vostre opere libere, tutte, dico, senza eccezione, siano meritorie davanti a Dio, diventate o restate figlio di Dio per grazia; e per la carità, ordinatevi con tutto ciò che siete, con tutto ciò che avete e con tutto ciò che fate, alla gloria di Dio, il vostro fine ultimo; poi, non ammettete nessun atto che sia ribelle a questo ordinamento universale di voi stessi, cioè nessun fine particolare che non possa essere coordinato con la vostra intenzione generale: questo basta a far rientrare tutta la vostra vita morale nel dominio della carità e a renderla meritoria davanti a Dio.

4. – È giunto il momento di chiarire alcuni dubbi che presenterò sotto forma di domande. Come può questa relazione virtuale dei nostri atti essere in grado di renderli meritori, dal momento che è fondamentalmente una relazione puramente abituale, e dal momento che, inoltre, quest’ultima è agli occhi del nostro santo Dottore assolutamente insufficiente per il merito? Per avere una soluzione chiara e definita, dobbiamo innanzitutto dare ai termini il loro significato preciso: perché essi abbiano in San Tommaso il significato attribuito loro dalla maggior parte degli autori più moderni. Per lui, c’è un’intenzione abituale dell’ultimo fine per il fatto stesso che si porta la grazia nell’anima e la carità nel cuore. Ecco, ad esempio, un uomo giusto che dorme, o che è colpevole di una colpa lieve; questo uomo giusto è di solito ordinato verso Dio (S. Thom., de Carit., q. un., to. 11, ad 3). Cosa deve fare perché questa conversione diventi virtuale ed un principio di merito? Un atto di carità? No: è sufficiente che agisca e che la sua operazione sia buona, cioè in grado di relazionarsi con il fine abituale dell’agente, in altre parole, col fine ultimo, alla gloria di Dio. « Capita spesso che un uomo non riesca a mettere in relazione l’atto che compie con Dio al momento attuale, anche se questo atto non contiene alcun disordine che possa impedire questa relazione; e non è detto che l’atto non sia buono. In questo caso, poiché l’anima è abitualmente ordinata verso Dio, come verso il suo ultimo fine, questo atto non solo non è colpevole, ma è anche meritorio » (S. Thom… de Malo, – q. 9 a. 2). Accade che la relazione che rimane puramente abituale, finché l’anima sia inattiva, diventa virtuale, per il fatto stesso che la volontà si determini all’operazione se, tuttavia, nell’agire, essa non vada contro l’ordine divino. Ora, poiché lo stato di grazia non si trova mai senza questa conversione abituale dell’anima verso Dio, che si consuma nella carità, da questo ne consegue che il santo Dottore a volte richieda solo la presenza della grazia per rendere meritorie le nostre opere. – È necessario ripetere spesso questa generale offerta di sé all’onore di Dio? Ecco la risposta, unita nella stessa sequenza con la soluzione del dubbio precedente. « Non è sufficiente per il merito avere un ordinamento abituale di tutto il nostro essere verso Dio: perché ciò che è puramente abituale non può essere meritorio ». (Il santo Dottore vuol dire che non è sufficiente avere in sé la grazia e la carità per il merito, benché siamo abitualmente orientati a Dio: perché in questo stato si può o non agire, o anche peccare venialmente, come notato in altra parte; cosa che ovviamente non è un merito).  D’altra parte, non è necessario che un’intenzione attuale, che rapporti al fine ultimo, debba sempre accompagnare i nostri atti di tendenza verso un fine prossimo. Che cosa è necessario fare dunque? Che tutti i fini secondari siano a volte rapportati attualmente al fine ultimo della nostra vita, come accade quando noi ci consacriamo all’Amore divino. Infatti, una volta supposta questa consacrazione di sé, tutto ciò che l’uomo ordina al proprio bene viene ordinato verso Dio. Ora, se mi chiedete quando sia necessario mettere in relazione le proprie opere con l’ultimo fine, è come se cercaste di capire quando l’abitudine alla carità debba passare all’atto; poiché questo stesso è ordinare tutto l’uomo al suo ultimo fine, e di conseguenza rapportare alla gloria di Dio tutto ciò che l’uomo ordina a se stesso come suo proprio bene » (S. Thom, in II, D. 40, q: 1, a.5, ad 6). – Concludiamo anche da questo che non tutte le azioni del peccatore siano peccati, anche se non ha nel cuore la carità che lo ordini a Dio, suo fine ultimo. Il peccato per lui sarà non adempiere, nel tempo voluto da Dio, al precetto positivo della carità perfetta (Id., 1-2, q. 100,8. 10.). – Ultimo dubbio e ultimo chiarimento.  Abbiamo detto che l’oblazione generale di tutti noi, contenuta nell’atto di carità, è dovuta al merito delle nostre opere buone, a condizione che questa offerta non venga ritratta da una delle colpe che uccidono la carità nel cuore, cioè da un peccato mortale. Ma cosa accadrebbe se il peccatore che torna a Dio portasse al sacramento della penitenza solo un pentimento imperfetto, cioè un’attrizione? Sarebbe stato giustificato, perché questo pentimento è una disposizione alla grazia, quando è unita alla virtù del sacramento. Ma nell’attrizione non c’è la carità perfetta, e di conseguenza non c’è l’oblazione generale di tutto l’uomo alla gloria di Dio, poiché questa offerta è la natura propria della carità. Dobbiamo ammettere per questo uomo giusto degli atti di virtù che non abbiano valore meritorio, almeno finché non ha infangato il comandamento positivo della carità? Né il Dottore Angelico, né i molti teologi che fanno causa comune con lui, si sono occupati esplicitamente di questo caso singolare. Forse perché lo considerano puramente accidentale. Infatti, l’ordine naturale della giustificazione prevede, al vertice degli atti che la preparano, un atto di perfetto amore (Concil. Trid. sess. VI, cap. 6; col. S. Thom. 1- 2, q. 113, a, 3-6); anche se la virtù del sacramento può supplire alla sua mancanza, e giustificare l’uomo, il peccatore non ha che l’attrizione che ha solo il logorio. Quindi nulla è più facile del passaggio dall’attrizione, che è sufficiente con il sacramento della Penitenza, alla contrizione perfetta, che può giustificare con la semplice volontà di ricevere lo stesso sacramento. E questo non è uno degli errori minori, propagato da teologi più o meno contaminati dal giansenismo, quella di aver reso questa contrizione perfetta un tesoro quasi inaccessibile alla massa dei Cristiani. Posso capire che un uomo il cui cuore è attaccato ad affetti disordinati, un uomo che né le minacce di Dio né le sue promesse siano riuscite a convincere a rompere con i suoi vizi, non ami sovranamente questa bontà onnipotente che egli offende, perché vedo gli ostacoli che gli sbarrano la strada e gli impediscono di gettarsi nelle braccia del suo Dio. Ma perché un peccatore che, attraverso un serio pentimento, quale è l’attrizione, rinunci al peccato per vivere una vita cristiana, dovrebbe esitare ad amare Dio sopra ogni cosa? I suoi rimpianti per il passato, il suo proposito per il futuro, hanno abbattuto tutte le barriere che lo separavano dall’amore. Lo stesso timore del tormento eterno e la speranza dei beni celesti, cioè i due motivi più forti della sua conversione, lo spingono verso l’Amore divino, nulla essendo efficace come questo Amore per evitare l’uno e meritare l’altro. Questo non è l’amore che distacca tutte le anime penitenti dal peccato; ma, a mio avviso, una volta effettuato questo necessario distacco, l’amore in atto si fa strada nei cuori. – Inoltre, in ogni virtù, come in ogni facoltà dell’anima umana, c’è la tendenza ad affermarsi con gli atti. Come possiamo credere che la carità, penetrando in un cuore con la grazia santificante, sia molto lenta a rivelarsi lì con qualche operazione? La immaginate come una regina distratta e pigra, che si impossessa del trono dell’anima e non si degni di fare un solo atto di sovranità per riprenderselo? – Ma l’ipotesi, per quanto strana possa sembrare, non è chimerica. Supponiamolo, allora, e chiediamoci cosa accadrebbe alle opere moralmente buone. Sarebbero meritorie, o dovremmo vedere in esse, come accade nello stato di peccato, azioni che sono lodevoli, senza dubbio, ma prive di vero merito? Accettare quest’ultima ipotesi significherebbe, nella fattispecie, andare oltre coloro che ritengono che la tesi dell’Angelo della Scuola apra un campo troppo ampio al merito delle nostre opere: questi, infatti, almeno non negano il valore meritorio di un atto di fede, di speranza o di qualsiasi altra virtù soprannaturale, compiuto in tali circostanze. Cosa fare allora per risolvere questa difficoltà? – Diremo ciò che i teologi dicono dell’atto di attrizione unito alla ricezione del sacramento: sebbene non contenga il movimento perfetto dell’amore, ha la virtù di introdurre la grazia e la carità nell’anima del peccatore. Inoltre, contiene, se c’è una prossima disposizione al loro ingresso, l’intenzione assoluta di adempiere a tutti i comandamenti e, di conseguenza, al più grande e primo di tutti, quello dell’amore di Dio. Di conseguenza, l’oblazione di se stessi, fatta a causa di questo atto, è un equivalente di quella che sarebbe contenuta in un atto esplicito di carità. Di conseguenza, ogni azione contraria alle virtù morali sarà, allo stesso tempo e nella stessa misura, in contrasto con la carità, così come è nell’anima. Pertanto, in virtù dello stesso principio, le opere emanate da queste virtù saranno in necessaria armonia con esso. Cosa occorre ancora perché la carità riconosca queste opere buone come proprie e le porti al suo fine, alla gloria di Dio? Perché voler essere più esigenti da una parte che dall’altra, e chiedere per il bene ciò che non è richiesto per il male? – Non so se sto spiegando il mio pensiero in modo sufficientemente chiaro. Un esempio, preso in prestito nella sostanza da San Francesco di Sales, lo renderà più chiaro. Supponiamo che una banda armata invada una provincia; gli abitanti si alzano prima di ricevere qualsiasi ordine, sicuri di fare cosa gradita al loro principe, e inseguendo l’aggressore lo ricacciano oltre la frontiera. Direte che questi sudditi fedeli non hanno seguito le intenzioni del loro re? Lo stesso vale per le virtù morali. Le loro azioni partono da un cuore in cui regna la carità, anche se la carità non le ha mai espressamente ordinate; appartengono ad essa e compiono la sua opera, e di conseguenza non le sono estranee.  « Se infine – dice a questo proposito il nostro Santo amabile – alcune virtù compiono le loro operazioni senza il suo comando, purché servano alla sua intenzione, che è l’onore di Dio, Egli (il sacro amore) non manca di riconoscerle come sue » (San Francesco di Sales, Trattato sull’amore di Dio, L, XI, c. 4). Ed è per questo che tra tutti gli autori, asceti o teologi, di cui ho invocato la testimonianza dopo quella del Dottore Angelico, non ce n’è uno solo che neghi il valore meritorio di tutte le azioni moralmente buone di un figlio di Dio; tutti, dico, senza alcuna eccezione. Infatti, San Tommaso stesso ci mostra a sufficienza che la nostra soluzione sarebbe anche la sua, quando scrive: « Non è il solo atto di carità ad essere meritorio, ma anche l’atto delle altre virtù, nella misura in cui esse siano informate dalla grazia, sebbene questi atti, per essere meritori, debbano riferirsi al fine della carità. Tuttavia, non è affatto necessario che siano sempre esplicitamente collegate a questo fine; per il merito è sufficiente che siano effettivamente riferite ai fini particolari delle altre virtù. Per esempio, chi desidera essere casto, anche se non ha alcun pensiero di carità, è degno, purché sia in stato di grazia. – Ora, ogni atto che tende ad un oggetto moralmente buono, a meno che la tendenza non sia essa stessa disordinata, ha per fine il bene di qualche virtù, perché le virtù abbracciano assolutamente tutto ciò che può essere il bene dell’uomo » (Thom, II, D. 40, q. 1, a. 5, ad. 3 Altrove il Santo, riferendosi al testo di San Paolo, omne quod non est ex fide, peccatum est, obietta che tutta la vita degli infedeli dovrebbe essere peccaminosa, come tutta la vita dei fedeli è meritoria: « Sed dicendum est quod aliter se habet fidelis ab bonuun, et infidelis ad malum. Nam in homine qui habet fidem formatam nihil est damnationis, ut dictum est, sed in homine infideli cum infidelitate est bonum naturæ. Et ideo cum aliquis infidelis ex dictamine rationis aliquod bonum facit, non referendo ad malum finem; non peccat.  Non tamen opus ejus est meritorium, quia non est gratia informatum ». – S. Thom, in Romani, c. XIV, lett. 3, dove vediamo che secondo lui lo stato di grazia non va senza il merito delle opere, perché l’influsso della carità che esso richiede è assolutamente inseparabile da esso). – Il linguaggio cristiano usa un’espressione molto significativa per caratterizzare il cambiamento che avviene in un’anima quando passa dallo stato di peccato a quello di grazia; lo chiama conversione, perché quest’anima si volge verso Dio, come verso il suo ultimo fine e il suo bene supremo. Così parlano i fedeli, e la teologia ci insegna che la conversione dell’uomo a Dio (conversio hominis ad Deum) che segue l’avversione, ha il suo complemento nella virtù della carità. Così la carità abituale è sufficiente con la grazia per il merito, poiché l’una rivolge il nostro essere verso Dio e l’altra il nostro principio di attività, cioè la nostra volontà. Pertanto, possiamo applicare qui la parola di San Paolo: « Tutte le cose concorrono al bene di coloro che amano Dio. Diligentibus Deum omnia cooperantur in bonum ». In altre parole: amate Dio, abbiate la carità in voi, e tutto sarà profitto e merito.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XI “RERUM ORIENTALIUM”

« … chi mai, riguardando a tanta mole di opere intraprese specialmente a vantaggio degli Orientali, non si sente crescere forte nel cuore la speranza che il benignissimo Redentore degli uomini Cristo Gesù, mosso a pietà della sorte lacrimevole di tanti uomini erranti lungi dal retto sentiero, e favorendo i Nostri sforzi, vorrà finalmente ricondurre le sue pecorelle nell’unico ovile sotto l’unico Pastore? » Questo è uno dei passaggi “ecumenici” della lettera Enciclica scritta sulla promozione degli studi orientali desiderata dal Sommo Pontefice S. S. Pio XI per favorire il riavvicinamento alla santa Sede degli scismatici orientali erranti nelle tenebre. Il vero ecumenismo è l’accoglienza di ogni uomo nell’unica vera Chiesa istituita da Nostro Signore Gesù Cristo ed affidata al suo Vicario ed ai successori apostolici in unione con il Sommo Pontefice. Non si tratta certo dell’accozzaglia di infedeli adoratori di idoli di ogni sorta in posizione di parità con il culto divino voluto da Dio nella Chiesa a sua gloria, quel minestrone di volgarità, idolatria, riti pagani ed esoterici visti nella falsa chiesa dell’uomo  – ad esempio nella cittadina del Santo serafico ove obbrobri infernali furono posti accanto ad immagini mariane ed oggetti liturgici almeno in apparenza, così da mettere in scena un teatrino buonista di ispirazione massonica, ove il Cristo fu posto accanto a beliaal ed ai suoi empi adoratori creando orrore e confusione grande tra i già fin trioppo disorientati ed ingannati cristiani. Che spettacolo demoniaco, al quale il Signore non mancherà di corrispondere con un altro Tito che distruggerà fin dalle radici il tempio che Cristo aveva voluto per sé ed i suoi adoratori. Il tempio di Gerusalemme ed i Giudei decidi furono divelti in poche ore come fuscelli gettati nel fuoco divoratore e dispersi su tutto il pianeta, maledetti ancora oggi. Cosa attende i Cristiani falsi ed apostati del nostro tempo dopo duemila anni di Cristianesimo così mal ripagato, tradito, violato e rifiutato? Non osiamo immaginarlo, ma volendolo, non è difficile intravedere i castighi feroci che ci attendono e che già scorgiamo all’orizzonte.

LETTERA ENCICLICA
RERUM ORIENTALIUM
DI SUA SANTITÀ
PIO XI
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
ED AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICASULLA PROMOZIONE
DEGLI STUDI ORIENTALI

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica benedizione.

Con quanto zelo i Nostri predecessori si siano adoperati, nei secoli passati, per promuovere gli studi e una conoscenza più profonda del mondo orientale fra i fedeli, e in modo particolare fra i Sacerdoti, è noto a chiunque abbia percorso anche affrettatamente gli Annali della Chiesa Cattolica. Essi sapevano infatti assai bene che la causa sia di molti danni precedenti, sia della dolorosissima scissione che aveva strappato dalla radice dell’unità molte Chiese, un giorno floridissime, derivava come necessaria conseguenza specialmente dal vicendevole ignorarsi, dalla poca stima e dai pregiudizi nati nel tempo dei lunghi dissidî, e vedevano quindi che a tanti mali non si potrebbe recare rimedio se non rimovendo tali impedimenti. Ora, per accennare per sommi capi ad alcuni documenti storici di quei tempi, appunto, in cui cominciarono a rallentarsi gli antichi vincoli dell’unione e che attestano le cure sollecite del Romani Pontefici in questa vicenda, tutti conoscono con quale benevolenza, non solo, ma anzi con quale venerazione Adriano II accolse i due Apostoli degli Slavi, Cirillo e Metodio, e con quali prove di particolare stima li volle onorati; ed inoltre lo zelo con cui favorì la celebrazione dell’ottavo Concilio ecumenico, il Costantinopolitano quarto, inviandovi anche i suoi legati mentre, da poco, tanta parte del gregge di Cristo era stata così lacrimevolmente staccata dal Romano Pontefice, divinamente costituito Pastore Supremo. E simili sacre riunioni, intese a provvedere agli interessi della Chiesa fra gli Orientali, nel corso dei tempi si andarono successivamente rinnovando, come quando a Bari, presso la tomba di San Nicolò di Mira, il celebre Dottore di Aosta e Arcivescovo di Canterbury, Sant’Anselmo, con la sua dottrina e la santità esimia destò in tutti ammirazione; o a Lione, dove da Gregorio X erano stati insieme chiamati quei due luminari della Chiesa, l’Angelico Tommaso e il Serafico Bonaventura, benché poi l’uno morisse nello stesso viaggio, e l’altro in mezzo alle gravi fatiche del Concilio; o a Ferrara e a Firenze, dove grandemente si segnalarono quelle due glorie insigni dell’Oriente cristiano, Bessarione di Nicea ed Isidoro di Kiev, più tardi creati Cardinali, e dove la verità del dogma cristiano, stabilitasi con solidi argomenti e come perfusa dell’amore di Gesù Cristo, parve aprire la via alla riconciliazione dei Cristiani d’Oriente col Supremo Pastore. – Le poche cose fin qui rammentate, Venerabili Fratelli, sono senza dubbio prova della paterna provvidenza e dello zelo di questa Sede Apostolica verso le nazioni orientali; esse sono certamente le più note, ma per la loro stessa natura piuttosto rare. Ma molti altri sono i vantaggi che, senza alcuna interruzione, derivarono a favore di tutte le regioni d’Oriente da parte della Chiesa Romana con la continua e, per così dire, quotidiana elargizione di benefìci, massime con l’invio di religiosi, che spendessero la vita stessa a vantaggio dei popoli orientali. Infatti, sostenuti, per così dire, dall’autorità di questa Sede Apostolica, sorsero, specialmente dalle famiglie religiose di San Francesco d’Assisi e di San Domenico, quei magnanimi che, eretti domicili e fondate nuove province del loro Ordine, non solo coltivarono con immensi travagli la Palestina e l’Armenia, con la teologia e le altre scienze spettanti a religione e civiltà, ma anche le altre regioni, in cui gli Orientali, soggetti al dominio dei Tartari o dei Turchi, con la violenza tenuti separati da Roma, con ciò stesso erano sprovvisti d’ogni migliore cultura e specialmente di sacri studi. Queste insigni benemerenze e lo spirito della Sede Apostolica mostrarono di aver ben compreso, fin dal secolo XIII, i Professori dell’Università di Parigi, che, assecondandone i desideri, fondarono, come si ricorda, accanto alla loro stessa Università, un collegio orientale, intorno a cui Giovanni XXII, Nostro Antecessore, alcun tempo dopo chiedeva con premura a Ugone, Vescovo di Parigi, quali frutti producesse nello studio delle lingue orientali. – Non meno notabili sono altri fatti, attestatici dalla storia di quell’epoca. Il sapientissimo Umberto de Romanis, Maestro generale dell’Ordine dei Predicatori, scrivendo in un suo libro « degli argomenti che sembrava si dovessero trattare nel Concilio ecumenico da celebrarsi a Lione », raccomandava in particolare quali cose necessarie per guadagnare gli animi degli Orientali, la conoscenza e la correttezza della lingua greca « in quanto per mezzo delle varie lingue la diversità delle genti si riunisce nell’unità della fede »; da qui l’abbondanza di libri Greci e similmente un’opportuna provvista di libri nostri tradotti nelle lingue orientali; e parimenti insegnava ai suoi frati, riuniti in Capitolo generale a Milano, di tenere in gran conto la conoscenza e lo studio delle lingue orientali, e di coltivarle nell’intento di rendersi abili e pronti alle missioni presso quei popoli, se tale fosse il volere di Dio. Similmente il dottissimo Ruggero Bacone dell’Ordine di San Francesco, carissimo a Clemente IV, Nostro predecessore, non solo scrisse con molta erudizione sulle lingue dei Caldei, degli Arabi e dei Greci, ma ne spianò anche agli altri la conoscenza. Emulando i loro esempi, il celebre Raimondo Lullo, uomo di straordinaria erudizione e pietà, molte cose e con più vivace ardore, proprio dell’indole sua, chiese ai Nostri predecessori Celestino V e Bonifacio VIII, e ne ottenne parecchie, per quei tempi assai ardite, circa il modo di promuovere gli affari e gli studi Orientali; il designare, fra gli stessi Cardinali, uno che presiedesse a siffatti studi; infine del modo di intraprendere frequenti sacre missioni sia tra i Tartari, i Saraceni ed altri infedeli, sia fra gli scismatici, da ricondurre all’unità della Chiesa. – Ma assai più celebre e più degno di speciale menzione è quello che, come si narra, per suggerimento ed esortazione di lui, sappiamo essersi decretato nel Concilio Ecumenico Viennese e da Clemente V, Nostro predecessore, promulgato. In esso scorgiamo già quasi abbozzato il moderno Nostro Istituto Orientale: « Con l’approvazione di questo Sacro Concilio, abbiamo provveduto che si debbano erigere scuole delle diverse lingue qui appresso menzionate, ovunque si trovi a risiedere la Curia Romana, come pure nelle Università di Parigi, di Oxford, di Bologna e di Salamanca, ordinando che in ciascuno di tali luoghi si tengano professori cattolici, che abbiano sufficiente conoscenza delle lingue ebraica, greca, araba, e caldaica; vale a dire due periti di ciascuna lingua, perché vi reggano le scuole e traducano in latino con fedeltà libri da quelle lingue; altri poi insegnino agli altri con diligenza le lingue stesse e ne comunichino con l’accurato loro insegnamento la perfetta conoscenza, acciocché sufficientemente istruiti in tali lingue, possano produrre per grazia di Dio il frutto sperato, propagando salutarmente la fede fra gli stessi popoli infedeli … ». E poiché tra le stesse popolazioni dell’Oriente, in quel tempo, a cagione dei pubblici sconvolgimenti e dello sperpero della maggior parte dei mezzi che potevano aiutare la scienza, era appena possibile coltivare in più alte discipline le menti degli studiosi, per quanto perspicacissimi, voi sapete, Venerabili Fratelli, come i Nostri predecessori mettessero ogni cura perché, mentre nelle principali Università di quell’epoca si avevano già cattedre proprie per gli studi Orientali, molto più, alla luce di questa Alma Città, si erigessero alcuni istituti più adatti, quasi seminari dai quali poi alunni di quelle stesse nazioni, diligentemente provveduti di ogni ornamento di dottrina, potessero uscire in campo ben preparati a combattere la buona battaglia. Di qui, anzitutto, l’erezione in Roma di monasteri e di collegi per i Greci e i Ruteni, poi la costruzione di case per i Maroniti e gli Armeni; e ciò, con quale vantaggio delle anime e progresso della scienza, è comprovato chiaramente dalle opere sia liturgiche sia di altri argomenti, pubblicate a cura della Sacra Congregazione di Propaganda Fide, come pure dai preziosi codici orientali, raccolti diligentemente e gelosamente custoditi dalla Biblioteca Vaticana. – Né qui è tutto, perché i Nostri più vicini predecessori, come sopra dicemmo, ben sapendo che a favorire la carità e la stima vicendevoli avrebbe assai giovato una migliore conoscenza delle cose orientali fra i popoli dell’Occidente, si adoperarono con ogni mezzo per procurare un vantaggio tanto rilevante. Ne è prova Gregorio XVI il quale, innalzato al Sommo Pontificato nell’anno stesso in cui doveva essere inviato presso l’Imperatore di Russia Alessandro I, aveva studiato con ogni diligenza quanto riguardava le cose russe; ne è prova Pio IX il quale, prima e dopo il Concilio Vaticano, aveva caldamente raccomandato la diffusione degli studi sui riti e sulle tradizioni orientali; ne è prova Leone XIII, il quale dimostrò tanto amore e sollecitudine pastorale non solo per i Copti e gli Slavi, ma per tutti gli Orientali, al punto che, oltre la nuova Congregazione detta degli Agostiniani dell’Assunzione, stimolò altre famiglie religiose ad applicarsi o a perfezionarsi nello studio delle cose orientali, fondò per gli Orientali stessi nuovi Collegi nelle loro regioni e in questa medesima Città, onorò coi più grandi encomi l’Università aperta a Beyrouth dalla Compagnia di Gesù, ancor oggi floridissima e a Noi carissima; ne è prova Pio X il quale, eretto in Roma il Pontificio Istituto Biblico, accese nuovo ardore in molti animi per le cose e le lingue orientali, non senza lietissima raccolta di frutti. – L’immediato Nostro predecessore Benedetto XV, emulando con ardentissimo zelo tale paterna provvidenza verso i popoli orientali, al punto che la considerò quale sacra eredità ricevuta da Pio X per recare aiuto e incremento, per quanto possibile, alle cose orientali, non solo istituì una Sacra Congregazione per i riti e per gli affari Orientali, ma « determinò di fondare in questa Città, capitale del mondo cristiano, una propria sede di superiori studi orientali, provvista di tutti i mezzi richiesti dalla odierna cultura, e insigne per professori peritissimi nelle diverse discipline e studiosissimi dell’Oriente », dotata della facoltà di conferire « lauree dottorali nelle discipline ecclesiastiche che riguardano i popoli Cristiani Orientali » [6]; volle inoltre che essa fosse aperta non solo agli Orientali, anche se tuttora separati dalla cattolica unità, ma altresì e specialmente ai sacerdoti latini, sia che desiderassero arricchirsi di sacra erudizione, sia che volessero dedicarsi al sacro ministero fra gli Orientali. Sommamente degni di lode sono pertanto quei dottissimi professori, i quali per circa quattro anni si adoperarono ad istruire nelle discipline orientali i primi alunni dell’Istituto. – Tuttavia, allo svolgimento di provvidenziale Istituto era di non lieve ostacolo il trovarsi sì vicino al Vaticano, ma troppo distante dal centro più abitato della città. Pertanto, Noi, effettuando ciò che Benedetto XV aveva desiderato fare, ordinammo che l’Istituto Orientale si trasferisse nella sede dell’Istituto Biblico, come quello che più gli si avvicinava per genere di studi e per intenti, ma lo volemmo distinto e con l’intenzione di dotarlo di sede propria, non appena lo permettessero le circostanze. Inoltre, perché nell’avvenire non venisse mai a mancare un corpo di professori adatti all’insegnamento delle scienze orientali, e ritenendo di poter più facilmente ottenere ciò affidando sì importante impresa ad un Ordine religioso, con Nostra lettera del 14 settembre 1922 ordinammo al Preposito Generale della Compagnia di Gesù che, per il suo amore e per l’obbedienza dovuta alla Santa Sede e al Vicario di Cristo, superando qualsivoglia difficoltà, prendesse su di sé tutta la cura dell’Istituto, a queste condizioni: che restandone a Noi e ai Nostri successori la direzione suprema, debba il Preposito Generale della Compagnia di Gesù fornire soggetti idonei per i difficili uffici del Preside e dei professori, e che in perpetuo, o personalmente, o per mezzo del Preside, proponga direttamente a Noi e ai Nostri successori, per l’approvazione, le persone che crederà di destinare alle varie cattedre dell’Istituto, e tutti i provvedimenti che sembrino giovevoli alla conservazione e al progresso sempre maggiore dell’Istituto stesso. – Pertanto, allo spirare ormai del sesto anno dal giorno in cui, non senza una certa divina ispirazione, giudicammo di prendere questi provvedimenti, Ci si conceda di ringraziare di tutto cuore Iddio per i lietissimi frutti che già hanno coronato le Nostre fatiche. Infatti, il numero degli alunni e degli uditori, se, come porta la natura stessa dell’Istituto, non fu né sarà mai ingente, non fu nemmeno così esiguo da non doverCi intimamente rallegrare al vedere ormai un’eletta schiera di uomini, che va ogni giorno crescendo, i quali potranno fra breve uscire dall’ombra di questa palestra in campo aperto, forniti di tale, corredo di scienza e di pietà, da potersene sperare non lievi vantaggi per gli Orientali. – E qui, mentre grandemente encomiamo quegli Ordinari, Vescovi e Superiori delle famiglie religiose che, assecondando volonterosamente i Nostri desideri, hanno inviato a Roma, dalla più varia diversità di nazioni e di paesi, dall’Oriente e dall’Occidente, alcuni loro sacerdoti perché fossero istruiti nelle cose orientali; e mentre esortiamo anche i Superiori delle altre istituzioni più diffuse nel mondo di seguire sì bell’esempio, non trascurando di inviare, per formarli alle scuole di questo Nostro Istituto Orientale, quegli alunni che trovino a tali studi più atti e più propensi, lasciateCi, Venerabili Fratelli, richiamarvi alla memoria l’argomento da Noi trattato, non è molto, con una certa larghezza, nell’Enciclica «Mortalium animos ». E chi potrebbe ormai ignorare i discorsi che si vanno moltiplicando intorno all’attuazione di una certa unione del tutto contraria alla mente di Gesù Cristo, Fondatore della Chiesa, da promuoversi fra tutti i Cristiani? O chi non ha inteso parlare delle dispute che spesso si tengono in moltissime parti specialmente dell’Europa e dell’America, dispute di gravissima importanza, in cui si tratta delle popolazioni orientali o unite con la Chiesa Romana, o da essa tuttora separate? Orbene, se gli alunni dei nostri Seminari, istruiti come sono durante tutto il corso degli studi (cosa questa certamente di cui si ha da esser lieti) circa gli errori dei Novatori, ne sanno facilmente scorgere e sciogliere le capziose argomentazioni, non sono poi, almeno d’ordinario, tanto forniti di dottrina da poter dare sicuro parere in questioni di cose e costumi orientali, o dei legittimi riti da essi adoperati e da ritenersi così religiosamente nella cattolica unità, richiedendo tal genere di gravi argomenti uno studio particolare e diligentissimo. – Perciò, non dovendosi trascurar nulla di quanto può giovare al desiderato ritorno di sì cospicua parte del gregge di Cristo all’unione con la sua vera Chiesa, o a favorire maggiormente la carità verso coloro che, diversi nei riti, aderiscono però intimamente con la mente e col cuore alla Chiesa Romana e al Vicario di Cristo, caldamente esortiamo e scongiuriamo voi, Venerabili Fratelli, a voler ciascuno scegliere almeno uno dei vostri sacerdoti, il quale, ben Istruito nelle questioni orientali, sia in grado di ammaestrare in esse gli alunni del Seminario. Sappiamo benissimo che l’erezione di una speciale Facoltà, come suol dirsi, di studi orientali è piuttosto ufficio delle Università Cattoliche; e Ci congratuliamo di cuore che ciò si sia già cominciato a fare, col Nostro stesso consiglio e aiuto, a Parigi, a Lovanio e a Lilla; come pure godiamo che in parecchie altre sedi di studi, anche a spese dello Stato, e col consenso e l’esortazione dei Vescovi, di recente siano state fondate cattedre di queste discipline orientali. Ma non sarà difficile preparare, per ciascun Seminario teologico, qualche Professore, il quale, insieme con la propria materia, o di storia o di liturgia o di diritto canonico, possa spiegare almeno alcuni degli elementi degli studi orientali. In tal modo, rivolgendo la mente e il cuore degli alunni alle tradizioni e ai riti degli Orientali, ne seguirà necessariamente un vantaggio non lieve, né soltanto a favore degli Orientali, ma degli stessi alunni, i quali, com’è naturale, ne attingeranno una più profonda cognizione della teologia cattolica e della disciplina latina, e insieme concepiranno un più vivo amore per la vera Sposa di Cristo, mentre ne ammireranno la meravigliosa bellezza ed unità nella stessa varietà dei riti, risplendere, in qualche modo, più fulgida. E appunto per la considerazione dei vantaggi che derivano alla causa cristiana dalla formazione dei giovani, quale l’abbiamo descritta, abbiamo stimato Nostro dovere di non badare a fatiche pur di assicurare all’Istituto Orientale, da Noi così confermato, una vita non solo sicurissima ma, per quanto è possibile, florida di sempre nuovi progressi. Perciò non appena Ce ne fu dato modo, gli assegnammo una sede propria presso Santa Maria Maggiore sull’Esquilino destinando all’acquisto e all’adattamento del convento di Sant’Antonio anzitutto una somma che Ci era pervenuta dalla liberalità di un munifico Prelato passato, non è molto, a miglior vita, e di un pio signore degli Stati Uniti di America, per i quali perciò desideriamo e chiediamo la più larga ricompensa dei celesti premi. Né si deve passare sotto silenzio l’aiuto che dalla Spagna Ci è pervenuto per la costruzione, nella nuova sede dello stesso Istituto, di una più ampia e più conveniente biblioteca. Nel lodare questo esempio di liberalità, Noi che per la pratica e l’esperienza di tanti anni passati nella prefettura delle Biblioteche Ambrosiana e Vaticana, possiamo ben comprendere quanto importi fornire questa nuova biblioteca di tutti quei mezzi, dai quali professori e alunni, come da vene nascoste e talora ignorate, ma ricchissime, possano attingere comodamente notizie del mondo orientale e diffonderle a pubblica utilità, senza atterrirCi per le difficoltà, che prevediamo molte e gravi, attenderemo con tutte le forze a procurare quanto riguarda le regioni, usanze, lingue e riti orientali, gratissimi a coloro che, per la devozione che nutrono verso il Vicario di Cristo, con offerte o di denaro, o di libri, o di codici, o di quadri o di altri simili monumenti e orme dell’Oriente cristiano, Ci verranno in aiuto, secondo le loro forze, a compiere un’opera tanto grande. – E di qui, come speriamo, avverrà che le nazioni orientali, vedendo coi propri occhi tanti splendidi monumenti della pietà, della dottrina, delle arti dei loro antenati, per ciò stesso apprenderanno in quale onore sia tenuta dalla Chiesa Romana la vera, la legittima, la perenne « ortodossia » e con quale diligenza sia conservata, difesa e propagata. Da questo spettacolo, come ben si può sperare, come colpiti dal più valido degli argomenti, massime se al vicendevole scambio di studi si aggiunga il motivo della carità di Cristo, perché moltissimi Orientali, ripensando alle glorie avite e deposti i pregiudizi, non dovrebbero affrettarsi a quella desideratissima unità, fondata su una professione di fede, non già mutila, ma intera ed aperta, quale si addice a veri adoratori di Gesù Cristo, che debbono stare uniti in un solo ovile sotto un solo Pastore? – Mentre dunque con i desideri e con le preghiere domandiamo a Dio che presto spunti un giorno sì lieto, potrà essere utile, Venerabili Fratelli, accennare, sia pure brevemente, al metodo con cui presentemente il Nostro Istituto Orientale impiega l’opera e le fatiche sue, secondando i Nostri voleri, per raggiungere un obiettivo così importante. Doppio è il genere di studi cui attendono diligentemente i Professori; l’uno è, per così dire, ristretto nell’ambito delle pareti domestiche, l’altro esce alla luce con pubblicazioni di documenti dell’Oriente cristiano, o fin qui non mai pubblicati, per ingiuria dei tempi dimenticati. – Orbene, per quanto concerne la formazione dei giovani, oltre la teologia dogmatica dei dissidenti, la spiegazione dei Padri orientali, e quanto riguarda l’introduzione scientifica agli studi orientali o la storia, la liturgia, l’archeologia e le altre materie sacre e le varie lingue di quelle nazioni, ricordiamo volentieri e di preferenza che, finalmente, abbiamo potuto aggiungere alle bizantine le istituzioni islamiche, cosa forse non più udita, fino ai nostri tempi, nelle Università romane. Infatti, per un tratto singolare di bontà della divina Provvidenza, potemmo incaricare di questa cattedra utilissima un Professore il quale, Turco di origine, indi, per divina ispirazione, dopo lunghi studi fattosi Cristiano e ordinato sacerdote, ci parve adattissimo a insegnare a quanti eserciteranno il sacro ministero fra i suoi connazionali, il modo di trattare con buon esito la causa di Dio uno indivisibile e della legge evangelica, sia con i meno istruiti come con le persone più colte. – Né di minore importanza, per la diffusione del cattolicesimo e per il conseguimento della legittima unità fra i Cristiani, riescono le opere che si pubblicano per cura e studio dell’Istituto Orientale. Infatti i volumi intitolati «Orientalia Christiana », editi in questi ultimi anni — i più dai Professori dell’Istituto stesso, altri preparati per consiglio dello stesso Istituto da altri studiosi, assai versati in cose orientali — o espongono le condizioni antiche o moderne che riguardano questo o quell’altro popolo e che ai nostri sono per lo più sconosciute; o da documenti finora nascosti traggono nuova luce per illustrare la storia dell’Oriente, e narrano le relazioni, sia dei Monaci orientali, sia degli stessi Patriarchi con questa Sede Apostolica, e le provvidenze dei Pontefici Romani nel tutelarne i diritti e beni; o confrontano e riscontrano con la verità cattolica le sentenze teologiche dei dissidenti intorno alla Chiesa e ai Sacramenti; o illustrano e commentano codici orientali. Infine, per non dilungarci nell’enumerazione, non v’è nulla che tocchi la dottrina, l’archeologia e le altre scienze sacre o che abbia qualche attinenza con la cultura orientale — come, per esempio, le orme della civiltà greca conservatesi nell’Italia meridionale — che a tali uomini sembri alieno dai diligentissimi loro studi. – Stando così le cose, chi mai, riguardando a tanta mole di opere intraprese specialmente a vantaggio degli Orientali, non si sente crescere forte nel cuore la speranza che il benignissimo Redentore degli uomini Cristo Gesù, mosso a pietà della sorte lacrimevole di tanti uomini erranti lungi dal retto sentiero, e favorendo i Nostri sforzi, vorrà finalmente ricondurre le sue pecorelle nell’unico ovile sotto l’unico Pastore? – E ciò massimamente vedendo quanto grande parte della divina Rivelazione si sia religiosamente tra essi conservata: l’ossequio sincero verso il Signor nostro Gesù Cristo, il singolare amore e la pietà verso la purissima sua Madre, l’uso stesso vigente dei Sacramenti. Perciò avendo Iddio nella sua bontà disposto di servirsi del ministero degli uomini, e in ispecie dei Sacerdoti, per compiere l’opera della Redenzione, che altro resta, Venerabili Fratelli, se non di tornare a pregarvi e scongiurarvi il più caldamente che possiamo, affinché non soltanto siate uniti a Noi di mente e di cuore, ma vi adoperiate voi pure, con le fatiche vostre, perché più presto spunti il giorno, da tanto tempo sperato, quando potremo salutare il ritorno non di pochi soltanto, ma della maggior parte dei Greci, degli Slavi, dei Rumeni e delle altre nazioni orientali, fin qui separate, alla pristina unione con la Chiesa Romana? Ripensando a ciò che Noi, con l’aiuto di Dio, abbiamo intrapreso e intendiamo compiere per ottenere più presto tanta consolazione, Ci sembra di poterCi paragonare a quel padre di famiglia, che Gesù ci rappresenta in atto di pregare gli invitati alla cena « che venissero, perché tutto era già apparecchiato » (Luca, XIV, 17). Applicando tali parole al nostro caso, ardentemente esortiamo tutti, e ciascuno di voi in particolare, a voler con ogni mezzo unirvi a Noi nel promuovere gli studi delle cose orientali per realizzare il grande intento. In tal modo, rimossi finalmente tutti gl’impedimenti che si frappongono alla desideratissima unione, sotto gli auspici della Beata Vergine Immacolata Madre di Dio, e dei Santi Padri e Dottori dell’Oriente ed Occidente cristiano, potremo abbracciare, reduci nella casa paterna, i fratelli e figli da sì lungo tempo da noi dissidenti, e ormai a noi strettissimamente uniti da quella carità che posa come sopra solido fondamento sulla verità e sulla intiera professione della legge cristiana. – E affinché alle Nostre iniziative arrida un felicissimo esito, auspice dei doni celesti e a testimonianza della Nostra paterna benevolenza, a voi, Venerabili Fratelli, e a tutto il gregge affidato alle vostre cure, impartiamo con ogni affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 8 del mese di settembre, nella festa della Natività della B. V. M., dell’anno 1928, settimo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA XIX DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La liturgia fa leggere nell’Ufficio divino la storia di Ester verso quest’epoca (5a Domenica di Settembre). Reputiamo quindi cosa utile, al fine di rivedere ogni anno con la Chiesa tutte le figure dell’Antico Testamento e per continuare a studiare le Domeniche dopo Pentecoste in corrispondenza del Breviario, di parlare in questo giorno di Ester. – L’lntroito della Domenica 21 dopo Pentecoste è la preghiera di Mardocheo. Non potremo noi vedervi un indizio della preoccupazione della Chiesa di unire, a questo periodo liturgico, la storia di Ester ad una Messa di questo Tempo? « Assuero, re di Susa in Persia, aveva scelto per prima regina Ester, nipote di Mardocheo. Aman, l’intendente del palazzo, avendo osservato che Mardocheo rifiutava di piegare le ginocchia davanti a lui, entrò in grande furore e, saputo che era ebreo, giurò dì sterminare insieme a lui tutti quelli che fossero della sua razza. Accusò quindi al re gli stranieri che si erano stabiliti in tutte le città del suo regno e ottenne che venisse dato ordine di massacrarli tutti. Quando Mardocheo lo seppe, si lamentò e fu presso tutti gli Israeliti un gran duolo.- Mardocheo disse allora a Ester che essa doveva informare il re di quanto tramava Aman, fosse pure col pericolo della sua vita medesima. » Se Dio ti ha fatta regina, non fu forse in previsione di giorni simili? ». Ed Ester digiunò tre giorni con le sue ancelle; e il terzo giorno, adorna delle sue vesti regali, si presentò davanti al re e gli domandò di prender parte ad un banchetto con lui e Aman. Il re acconsentì. E durante questo banchetto Ester disse al re: « Noi siamo destinati, io e il mio popolo, ad essere oppressi e sterminati ». Assuero sentendo che Ester era giudea, e che Mardocheo era suo zio, le disse: « Chi è colui che osa far questo? ». Ester rispose: « Il nostro avversario e nostro nemico è questo crudele Aman ». Il re, irritato contro il suo ministro, si levò e comandò che Aman fosse impiccato sulla forca che egli stesso aveva fatto preparare per Mardocheo. E l’ordine fu eseguito immediatamente, mentre veniva revocato l’editto contro i Giudei. Ester aveva salvato il suo popolo e Mardocheo divenne quel giorno stesso ministro favorito del re e uscì dal palazzo portando la veste regale azzurra e bianca, una grande corona d’oro e il mantello di porpora, e al dito l’anello regale ». — Il racconto biblico ci mostra come Dio vegli sul suo popolo e lo preservi in vista del Messia promesso. « Io sono la salvezza del popolo, dice il Signore, in qualunque tribolazione mi invochino, li esaudirò e sarò il loro Signore » (Introito). « Quando cammino nella desolazione Tu mi rendi la vita, Signore. Al di sopra dei miei nemici, accesi d’ira, tu mi stendi la mano e la tua destra mi assicura la salvezza » (Off.); il Salmo del Communio parla del giusto che è oppresso dall’afflizione e che Dio non abbandona; quello del Graduale, ci mostra come, rispondendo all’appello di coloro che in Lui sperano, Dio fa cadere i peccatori nelle loro proprie reti; il Salmo dell’Alleluia canta tutte le meraviglie che il Signore ha fatto per liberare il suo popolo. Tutto questo è una figura di quanto Dio non cessa di fare per la sua Chiesa e che farà in modo speciale alla fine del mondo. Aman che il re condannò durante il banchetto in casa di Ester, è come l’uomo che è entrato al banchetto di nozze di cui parla il Vangelo, e che il re fece gettar nelle tenebre esteriori, perché non aveva la veste di nozze, cioè « perché non era rivestito dell’uomo novello che è creato a somiglianza di Dio nella vera giustizia e nella santità, per non aver deposto la menzogna e i sentimenti di collera, che nutriva in cuore verso il prossimo » (Epistola). Cosi iddio tratterà tutti coloro che, pur appartenendo al corpo della Chiesa per la loro fede, sono entrati nella sala del banchetto senza essere rivestiti, dice S. Agostino, della veste della carità. Non essendo vivificati dalla grazia santificante, non appartengono all’anima del Corpo mistico di Cristo, e rinunziando alla menzogna, dice S. Paolo, ognuno di voi parli secondo la verità al suo prossimo, perché siamo membri gli uni degli altri. Possa il sole non tramontare sull’ira vostra » (Epistola). E quelli che non avranno adempiuto a questo precetto saranno dal Giudice supremo gettati nel supplizio dell’inferno, come pure gli Ebrei che hanno rifiutato l’invito al pranzo di nozze del figlio del re, cioè di Gesù Cristo con la sua sposa che è la Chiesa (2° Notturno) e che hanno messo a morte profeti e gli Apostoli recanti loro questo invito. — Assuero in collera, fece impiccare Aman. Anche il Vangelo ci narra che il re montò in furore, inviò i suoi eserciti per sterminare quegli assassini e bruciò la loro città. Più di un milione di Giudei morirono nell’assedio di Gerusalemme per opera di Tito, generale dell’esercito romano, la città fu distrutta e il Tempio incendiato. Aman infedele, fu sostituito da Mardocheo; gli invitati alle nozze furono sostituiti da coloro che i servi trovarono ai crocicchi. I Gentili presero il posto degli Ebrei e verso di quelli si volsero gli Apostoli, riempiti di Spirito Santo, nel giorno di Pentecoste. E al Giudizio universale, che annunziano le ultime domeniche dell’anno, queste sanzioni saranno definitive. Gli eletti prenderanno parte alle nozze eterne e i dannati saranno precipitati nelle tenebre esteriori e nelle fiamme vendicatrici, ove sarà pianto e stridore di denti. – Bisogna spogliarsi dell’uomo vecchio, dice S. Paolo, come ci si toglie una veste vecchia e rivestirsi di Cristo come ci si mette una veste nuova. Bisogna dunque rinunziare alla concupiscenza traditrice delle passioni che, come figli di Adamo, abbiamo ereditato, e aderire a Cristo accettando la loro verità evangelica, che ci darà la santità nei nostri rapporti con Dio e la giustizia nei nostri rapporti col prossimo.

« Dio Padre, dice S. Gregorio, ha celebrate le nozze di Dio suo Figlio, allorché l’unì alla natura umana nel seno della Vergine. E le ha celebrate specialmente allorché, per mezzo dell’Incarnazione, lo unì alla santa Chiesa. Inviò due volte i servi per invitare i suoi amici alle nozze, perché i Profeti hanno annunziata l’Incarnazione del Figlio di Dio come cosa futura e gli Apostoli come un fatto compiuto. Colui che si scusa col dover andare in campagna, rappresenta chi è troppo attaccato alle cose della terra; l’altro che si sottrae col pretesto degli affari, rappresenta chi desidera smodatamente i guadagni materiali. E ciò che è più grave, è che la maggior parte non solo rifiutano la grazia data loro di pensare al mistero dell’Incarnazione e di vivere secondo i suoi insegnamenti, ma la combattono. La Chiesa presente è chiaramente indicata dalla qualità dei convitati, tra i quali si trovano coi buoni anche I cattivi. — Cosi il grano si trova mescolato con la paglia e la rosa profumata germoglia con le spine che pungono. — All’ultima ora Dio stesso farà la separazione dei buoni dai cattivi che ora la Chiesa contiene. Quegli che entra al festino nuziale senza l’abito di nozze appartiene alla Chiesa colla fede, ma non ha la carità. Giustamente la carità è chiamata abito nuziale perché essa era posseduta dal Creatore allorché si unì alla Chiesa. Chi per la carità è venuto in mezzo agli uomini ha voluto che questa carità fosse l’abito nuziale. Allorché uno è invitato alle nozze in questo mondo, cambia di abiti per mostrare che partecipa alla gioia della sposa e dello sposo e si vergognerebbe di presentarsi con abiti spregevoli in mezzo a tutti quelli che godono e celebrano questa festa. Noi che siamo presenti alle nozze del Verbo, che abbiamo fede nella Chiesa, che ci nutriamo delle Sante Scritture e che gioiamo dell’unione della Chiesa con Dio, rivestiamo dunque il nostro cuore dell’abito della carità, che deve comprendere un doppio amore: quello di Dio e quello per il prossimo. Scrutiamo bene i nostri cuori per vedere se la contemplazione di Dio non ci faccia dimenticare il prossimo e se le cure verso il prossimo non ci facciano dimenticare Dio. La carità è vera se si ama il prossimo in Dio e se si ama teneramente il nemico per amore di Dio » (Omelia del giorno).

Incipit

In nomine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum

[Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.]

Ps LXXVII: 1
Attendite, pópule meus, legem meam: inclináte aurem vestram in verba oris mei.

[Ascolta, o popolo mio, la mia legge: porgi orecchio alle parole della mia bocca.]

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum

[Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.].

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, univérsa nobis adversántia propitiátus exclúde: ut mente et córpore páriter expedíti, quæ tua sunt, líberis méntibus exsequámur.

[Onnipotente e misericordioso Iddio, allontana propizio da noi quanto ci avversa: affinché, ugualmente spediti d’anima e di corpo, compiamo con libero cuore i tuoi comandi.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 23-28


“Fratres: Renovámini spíritu mentis vestræ, et indúite novum hóminem, qui secúndum Deum creátus est in justítia et sanctitáte veritátis. Propter quod deponéntes mendácium, loquímini veritátem unusquísque cum próximo suo: quóniam sumus ínvicem membra. Irascímini, et nolíte peccáre: sol non occídat super iracúndiam vestram. Nolíte locum dare diábolo: qui furabátur, jam non furétur; magis autem labóret, operándo mánibus suis, quod bonum est, ut hábeat, unde tríbuat necessitátem patiénti.”

(“Fratelli: Rinnovatevi nello spirito della vostra mente, e rivestitevi dell’uomo nuovo, che è creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità. Perciò, deposta la menzogna, ciascuno parli al suo prossimo con verità: poiché siamo membri gli uni degli altri. Nell’ira siate senza peccato: il sole non tramonti sul vostro sdegno. Non lasciate adito al diavolo. Colui che rubava non rubi più: piuttosto s’affatichi attendendo con le proprie mani a qualche cosa di onesto, per aver da far parte a chi è nel bisogno.”)

IDEALE E REALTÀ.

Il Cristianesimo è venuto al mondo con una realtà nuova e divina ch’era un ideale e con un ideale umano che era una realtà divina. Non è per quanto possa parerlo, non è un bisticcio, un gioco di parole: le parole qui traducono un concetto magnifico e che a voi, Cristiani miei uditori, dovrebbe essere famigliare. O non è forse il Cristianesimo venuto al mondo con Gesù Cristo? E non è Gesù Cristo vero uomo e vero Dio? È la formula precisa che la Chiesa mette sulle nostre labbra nelle famose benedizioni popolari e semiliturgiche. Vero. C’è l’eco di una frase di San Paolo nel brano che oggi leggiamo. Vero vuol dire qui: reale, che è realmente uomo e Dio. Ma vero vuol dire che N. S. Gesù Cristo rappresenta in sé l’umanità quale deve, quale dovrebbe essere. Egli è il nostro modello. E San Paolo lo proclama oggi apertamente. Invita i suoi lettori, a diventare copie di Gesù Cristo. –  Dobbiamo trasformarci interiormente, ricreare in noi l’uomo nuovo, che è poi viceversa molto antico, in quanto nell’uomo nuovo si realizza quell’ideale di umanità che brillò davanti a Dio Creatore. Gesù, Signor Nostro, nella Sua reale umanità (ipostaticamente unita alla divinità) è perfetto, è ciò che Dio voleva fare e sognò di fare sin da principio, fece anzi da parte sua fin da principio. Ecco il paganesimo. – Chi è l’uomo vero? forse l’uomo pagano? l’uomo passionale e passionato? che alla passione si abbandona? alla passione, che è ragione contro la ragione? Purtroppo molti lo pensano. Salutano l’umanesimo pagano. È un ritornello preferito degli anticlericali. Il paganesimo è (o era) umano: e ciò significa ed implica che il Cristianesimo non lo è: è antiumano. Il Cristianesimo è veramente umano. È stato e continua ad essere una restaurazione. Quando si restaura un edificio, che cosa si fa? lo si prende deformato e lo si riconduce alla purezza, alla verità delle linee primitive. Dio ha restaurata l’umanità in Gesù Cristo. La linea primitiva, il disegno divino dell’uomo era bello. Dio lo aveva creato a Sua immagine e somiglianza: con un intelletto fatto per la verità, con una volontà indirizzata verso il bene. E l’uomo guastò in se stesso l’opera di Dio, si scostò dal disegno divino. Adoperò l’intelletto per ributtare coi sofismi la verità: adoperò la sua volontà per fare il male. Il senso si sovrappose alla ragione, e la passione alla volontà. Umanità rovesciata: ecco il paganesimo. – Ma viene Gesù Cristo, l’uomo nuovo, dice San Paolo, il nuovo Adamo; proprio così dice San Paolo e lo dice benissimo. Nuovo Adamo quello (è San Paolo che continua), che fu creato proprio secondo il disegno di Dio (secundum Deum) e perciò fu creato giusto e vero. E il nostro sforzo d’uomini e di Cristiani deve essere quello di ricopiare, di rifare Gesù Cristo.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps CXV: 2

Dirigátur orátio mea, sicut incénsum in conspéctu tuo, Dómine.

[Si innalzi la mia preghiera come l’incenso al tuo cospetto, o Signore.]
V. Elevatio mánuum meárum sacrifícium vespertínum. Allelúja, allelúja

[L’elevazione delle mie mani sia come il sacrificio della sera. Allelúia, allelúia]
Ps CIV: 1

Alleluja

Alleluja, Alleluja

Confitémini Dómino, et invocáte nomen ejus: annuntiáte inter gentes ópera ejus. Allelúja.

[Date lode al Signore, e invocate il suo nome, fate conoscere tra le genti le sue opere.]

Evangelium

Sequéntia   sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt XXII: 1-14


“In illo témpore: Loquebátur Jesus princípibus sacerdótum et pharisaeis in parábolis, dicens: Símile factum est regnum cœlórum hómini regi, qui fecit núptias fílio suo. Et misit servos suos vocáre invitátos ad nuptias, et nolébant veníre. Iterum misit álios servos, dicens: Dícite invitátis: Ecce, prándium meum parávi, tauri mei et altília occísa sunt, et ómnia paráta: veníte ad núptias. Illi autem neglexérunt: et abiérunt, álius in villam suam, álius vero ad negotiatiónem suam: réliqui vero tenuérunt servos ejus, et contuméliis afféctos occidérunt. Rex autem cum audísset, iratus est: et, missis exercítibus suis, pérdidit homicídas illos et civitátem illórum succéndit. Tunc ait servis suis: Núptiæ quidem parátæ sunt, sed, qui invitáti erant, non fuérunt digni. Ite ergo ad exitus viárum et, quoscúmque invenéritis, vocáte ad núptias. Et egréssi servi ejus in vias, congregavérunt omnes, quos invenérunt, malos et bonos: et implétæ sunt núptiæ discumbéntium. Intrávit autem rex, ut vidéret discumbéntes, et vidit ibi hóminem non vestítum veste nuptiáli. Et ait illi: Amíce, quómodo huc intrásti non habens vestem nuptiálem? At ille obmútuit. Tunc dixit rex minístris: Ligátis mánibus et pédibus ejus, míttite eum in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.”

(“In quel tempo Gesù ricominciò a parlare a’ principi dei Sacerdoti ed ai Farisei per via di parabole dicendo: Il regno dei cieli è simile a un re, il quale fece lo sposalizio del suo figliuolo. E mandò i suoi servi a chiamare gl’invitati alle nozze, e non volevano andare. Mandò di nuovo altri servi, dicendo: Dite agl’invitati: Il mio desinare è già in ordine, si sono ammazzati i buoi e gli animali di serbatoio, e tutto è pronto, venite alle nozze. Ma quelli misero ciò in non cale, e se ne andarono chi alla sua villa, chi al suo negozio: altri poi presero i servi di lui, e trattaronli ignominiosamente, e gli uccisero. Udito ciò il re si sdegnò; e mandate le sue milizie, sterminò quegli omicidi e diede alle fiamme le loro città. Allora disse a’ suoi servi: Le nozze erano all’ordine, ma quelli che erano stati invitati, non furono degni. Andate dunque ai capi delle strade e quanti riscontrerete chiamate tutti alle nozze. E andati i servitori di lui per le strade, radunarono quanti trovarono, e buoni e cattivi; e il banchetto fu pieno di convitati. Ma entrato il re per vedere i convitati, vi osservò un uomo che non era in abito da nozze. E dissegli: Amico, come sei tu entrato qua, non avendo la veste nuziale? Ma quegli ammutolì. Allora il re disse ai suoi ministri: Legatelo per le mani e pei piedi, e gettatelo nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridor di denti. Imperocché molti sono i chiamati e pochi gli eletti”)

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

1.

IL NOSTRO BATTESIMO

Il regno dei cieli — dice la parabola — è simile alla festa che un re ordinò per le nozze del figlio. Mandò i servi a chiamare gl’invitati, e questi non vollero venire. Mandò, quando tutto fu pronto, un’altra volta altri servi. Degli invitati alcuni fecero gl’indifferenti e se ne andarono in campagna o al mercato; altri fecero gli offesi per quell’insistenza e assaltarono i servi oltraggiandoli o uccidendoli. Il re adirato comandò lo sterminio degli omicidi e l’incendio della loro città, ma non rinunciò alle nozze. Altri invitati, raccolti da tutte le strade, buoni e cattivi, riempirono la sala del banchetto. Uno però sedeva senza la veste nuziale. « Amico, che fai in quest’arnese? » domandò il re. L’altro non ebbe parola. « Legatelo mani e piedi, gettatelo fuori: che pianga nel buio e digrigni i denti ». Il senso di questa parabola è la chiamata degli uomini alla fede, alla vita soprannaturale simboleggiata nelle nozze del figlio del re. Negli invitati che rifiutarono e uccisero i servi, bisogna vedere i Giudei ostinati che malmenarono i profeti e misero in croce Gesù, onde furono poi essi dispersi e la loro città messa a ferro e a fuoco dai Romani. Negli altri invitati che subentrarono al posto dei primi, bisogna vedere i popoli che da ogni parte del mondo vennero alla fede cristiana. Due motivi nella parabola ci fanno pensare al nostro Battesimo. Il Battesimo, infatti, è la porta per la quale entrammo nella sala del re cioè la Chiesa Cattolica, fummo ammessi a partecipare alle nozze del figlio di Dio, a vivere della sua stessa vita divina. Inoltre, nel Battesimo ricevemmo anche noi quella bianca veste nuziale, senza la quale se fossimo scoperti dal gran Re quando verrà nel momento della morte, saremmo anche noi gettati nelle tenebre e nel fuoco eterno. Approfittiamo dunque per ricordare il nostro Battesimo, il grande Sacramento che ci fece e ci vuole uomini di carattere cristiano. Santa Gertrude dà questo prezioso consiglio: « Perché tu possa, al termine della tua vita, presentare immacolata al Signore la veste della tua innocenza battesimale e inviolato il sigillo della fede cristiana, procura in tempi determinati di celebrare la memoria del Battesimo » (Esercizi di S. Geltrude, Praglia, 1932, pag. 2). Da parte sua la santa, a Pasqua e a Pentecoste, ripensava ad una ad una le cerimonie battesimali, accompagnandole con appropriate e fervide preghiere. Ripensiamo anche noi a qualcuna di quelle cerimonie, così comprenderemo meglio ciò che siamo e ciò che dobbiamo fare. Così non avverrà più che qualcuno ritardi, senza serio motivo, anche di un sol giorno il Battesimo dei suoi bambini. – 1. LA CACCIATA DEL DEMONIO.  Ogni uomo che nasce appartiene a una stirpe decaduta. Discende da un progenitore, Adamo; che si lasciò sedurre e travolgere da satana, il quale esercita da allora su tutta l’umanità una signoria nefasta. Bisogna liberare l’uomo dalla schiavitù demoniaca, e dai perversi influssi che promanano dalla presenza del Maligno. Ed ecco alla porta della chiesa il sacerdote che ferma il candidato al Battesimo ed esige da lui una triplice rinunzia. Rinunzi tu a satana? Rinunzio. Rinunzi alle sue opere? Rinunzio. Rinunzi alle sue pompe? Rinunzio. Allora il Sacerdote, soffiando lievemente sulla bocca del battezzando, dirà rivolgendosi al demonio: « Esci, spirito immondo e lascia il posto allo Spirito Santo ». E poi ancora chiederà a Dio di rompere ogni sua insidia. « Io ti esorcizzo, spirito immondo, nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo, perché tu esca e ti allontani da questo servo di Dio; te lo comanda, o maledetto, colui che camminò sulle acque del mare, che sostenne con la sua mano Pietro mentre stava per affondare. Riconosci, maledetto, la tua condanna… allontanati da questo servo di Dio, poiché Lui stesso s’è degnato chiamarlo alla sua santa grazia; e non osar mai, diavolo maledetto, di violare questo segno di croce che tracciamo sulla sua fronte ». Così, o Cristiani, il nemico fu scacciato dalle anime nostre. Così noi abbiamo giurato di rinunciare a satana. Ricordate che venne scritta sul libro eterno della vita quella nostra irrevocabile rinuncia. Bisogna mantenere i nostri giuramenti: mantenerli non appena con le parole, mai coi fatti; non appena con le labbra, ma con le opere. « Sappiate — dice S. Agostino — che avete mosso guerra ad un nemico esperto e scaltro. Non possa più avere nessun diritto, per trascinarvi di nuovo alla sua schiavitù. O Cristiano, tu ti scopri e tradisci quando pratichi diversamente da quello che dici di credere: vai in Chiesa a pregare, e poi corri ai divertimenti proibiti. Perché ti confondi con le pompe del diavolo a cui rinunziasti? » (Lezione del II Nott. della Vigilia di Pentec.). – 2. L’ACQUA BATTESIMALE. Scacciato dalla casa colui che indegnamente la occupava, è necessario ripulirla e ornarla e adattarla come dimora del nuovo Ospite divino. Perciò il Sacerdote traccia la croce sulla fronte e sul petto del battezzando; gli mette tra le labbra un po di sale benedetto simbolo della sapienza evangelica di cui la sua anima dovrà nutrirsi; gli tocca con le dita bagnate di saliva le orecchie e le narici, perché siano aperte all’armonia e al profumo della grazia di Cristo; infine l’unge, tracciando la croce, sul petto e tra le spalle. Ed eccoci al Battesimo. Nel momento in cui il Sacerdote versa l’acqua lustrale, (oppure, secondo il rito ambrosiano, immerge) avvengono tre operazioni: a) La scomparsa del peccato originale e la conformazione dell’anima a immagine del Cristo. Naaman, capo dell’esercito del re di Siria, aveva contratto la lebbra che gli aveva sconciato il volto orrendamente. Il profeta Eliseo lo fece immergere sette volte nell’onda del Giordano e ne uscì senza più una piaga e col viso rifatto nuovo, fresco e splendido (IV Re, V). Ebbene, Dio aveva creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. Il peccato originale lo sfigurò come una turpe malattia, ma il Battesimo lo risana dal peccato e gli ridona la primitiva bellezza, e la conformità a Cristo. L’acqua battesimale è vero simbolo del sangue divino del Redentore alla cui virtù non può resistere nessuna macchia e da cui si esce divinamente rinnovellati. b) L’adozione a figlio di Dio. Quando, sulle rive del Giordano, il Battista versò l’acqua sul capo del Salvatore, i cieli si aprirono, lo Spirito Santo discese in figura di bianca colomba, e s’udì la voce del Padre celeste dire: « Questi è il mio Figlio diletto in cui Io mi sono compiaciuto ». Qualcosa di simile avviene nel nostro Battesimo. Configurati a Cristo, incorporati in Lui, partecipiamo alla sua stessa vita. Perciò anche su noi s’aprono i cieli, anche su noi discende lo Spirito Santo, anche a noi il Padre dice: « Questi è il mio figlio diletto ». C’è però una profonda differenza: Gesù Cristo è Figlio consustanziale del Padre, il battezzato non è che un figlio adottivo di Dio, partecipe della natura divina. « Sicché tu non sei più servo, ma figlio, e, se figlio, anche erede per opera di Dio » (Gal., IV, 7). c) L’inabitazione della SS. Trinità è la terza meraviglia operata dal Battesimo. Nel momento in cui il Sacerdote versando l’acqua pronunzia il Nome delle tre Persone Divine, esse entrano, nell’anima del battezzato e la santificano. L’anima d’un Cristiano è un piccolo cielo; più sacra del tabernacolo di marmo degli altari. Così si compie il desiderio del cuore di Dio, che non avendo bisogno di nulla, che bastando sovrabbondantemente alla propria inesauribile felicità, trova le sue delizie nell’abitare tra i figli degli uomini. I primi Cristiani conoscevano bene questa verità dell’inabitazione divina in noi. S. Paolo scriveva ai Corinti: « Non sapete che le vostre membra sono tempio dello Spirito Santo?… portate Dio nei vostri cuori… Chi profanerà questo tempio sarà dannato da Dio, perché il tempio è santo, il tempio siete voi » (I Cor., VI, 20; III, 6-17). –  3. LA VESTE BIANCA E LA FIACCOLA ACCESA. Prima di terminare il rito, il Sacerdote consegna al battezzato la veste bianca e la fiaccola accesa. Consegnando la bianca veste dice: « Ricevi la veste candida, serbala immacolata, perché tu possa presentarti puro al tribunale di Dio e ricevere la vita eterna ». Il commento più bello a questo simbolico gesto sono le parole dell’Apostolo: « Ricordatevi che avete deposto il vecchio uomo con tutti i suoi vizi; ricordatevi che vi siete rivestiti del nuovo, che continuamente si rinnova ad immagine di colui che l’ha creato. Rivestitevi di misericordia, di bontà, d’umiltà, di pazienza e dolcezza, sopportandovi e perdonandovi a vicenda » (Coloss., III, 9-14). E Dobbiamo dunque, con ogni sacrificio e premura, badare di non perdere la nostra veste e di non insudiciarla tanto da renderla irriconoscibile, perché quando meno ce l’aspettiamo il Re divino può passarci accanto per il controllo e rimproverarci: « Amico, come sei entrato qui, senza la veste nuziale? ». Eppure in questo mondo, che è fatto di tenebre e di tranelli, è troppo facile incespicare e cadere. Ma la Chiesa mette maternamente una fiaccola accesa tra le mani del battezzato, che gli illumini il cammino. Essa è simbolo della fede nella dottrina del Signore e nei suoi comandamenti. « Ricevi questa fiaccola ardente. Sii irreprensibile nel conservare la grazia del tuo Battesimo, osserva i comandamenti di Dio, sicché quando il Signore verrà per le sue nozze tu possa andargli incontro con tutti i santi nella sala del convito celeste, possedere la vita eterna e vivere nei secoli dei secoli ». – Ringraziamo dunque Dio Padre per il suo Figlio nello Spirito Santo. Viviamo il nostro Battesimo! che non isterilisca in noi come un seme gettato tra le pietre dei nostri peccati. Deponiamo il vecchio uomo fatto di concupiscenza e d’orgoglio; sviluppiamo la vita divina che è in noi con la preghiera, coi Sacramenti, con le opere buone. Ciascuno si ricordi di quale Capo, di quale Corpo è stato fatto membro. ..– L’UOMO DALLA VESTE SORDIDA. Il senso di questa parabola non è oscuro: la prima metà tocca i Giudei che invitati per i primi al regno spirituale del Messia, oltraggiarono, ferirono, uccisero i profeti; il Figlio di Dio fu suppliziato sul Calvario, Giovanni Battista fu decapitato, Stefano fu lapidato, Giacomo fu gettato giù dal tempio. Allora Iddio sdegnato distrusse Gerusalemme; nell’anno 70, le milizie romane sotto la guida di Tito furono lo strumento della vendetta divina: Tito stesso dovette confessare che la distruzione della città fu opera di Dio. Cento undici mila furono schiavi, e delle case non restò pietra su pietra. Ed eccoci alla seconda parte della parabola, e questa tocca noi. Avendo il popolo Giudeo rifiutato di partecipare al banchetto mistico della Chiesa, tutte le genti del mondo furono invitate al loro posto. Ed anche noi lo fummo, e siamo entrati col S. Battesimo: ma la fede, ma il Battesimo non bastano a salvarci, è necessario rivestirci di una veste nuziale fatta di opere buone e di mondezza d’anima. Dite un po’: se quest’oggi il Re del Cielo passasse accanto all’anima nostra non la troverebbe, forse, come l’uomo dalla veste sordida? Non dovrebbe anche per noi ripetere la condanna tremenda: « Prendetelo, legatelo, gettatelo fuori nel buio, nel pianto, nel brividore? ». Nessuno sia fatto come l’uomo dalla veste sordida! Prima che il Re ci sorprenda, esaminiamo l’anima nostra, e, se è necessario, deposto l’abito indecente, adorniamola con il velo nuziale. – 1. DEPONETE LA VESTE SORDIDA. I figli di Giacobbe avevano peccato molto: avevano con frode devastata la città di Salem: avevano commesso omicidio, furto di oro e di armenti; avevano inclinato il cuore verso gli idoli. Il vecchio patriarca non faceva che gemere: — Voi m’avete addolorato, m’avete reso odioso al cielo e alla terra: perirò io e tutta la mia casa. — Ma poi volendo salvare i suoi figli dall’ira di Dio, convocò la famiglia e disse: « Cambiate le vesti, mondatevi! gettate via gli dèi stranieri! ». Lo ubbidirono e gli consegnarono tutti gli idoli, e gli oggetti d’oro che Giacobbe sotterrò ai piedi del terebinto che è al di là della città di Salem. Così Dio tornò a benedire il patriarca e la sua discendenza (Gen., XXXV). La santa Chiesa, tenerissima madre, facendoci meditare la parabola dell’uomo dalla veste sordida, non intende forse imitare con noi quello che Giacobbe fece con i suoi figliuoli? Noi pure abbiamo molto peccato e forse in questo momento l’anima nostra porta un abito di ignominia: ascoltiamo dunque la supplichevole voce della Chiesa: « Cambiate le vesti, mondatevi! gettate via gli dei stranieri! ». Deponete la veste sordida dell’ingratitudine, che ci ha reso ribelli ai nostri superiori, che ci ha reso cattivi coi nostri genitori. Deponete la veste sordida degli odi che amareggiano a noi e agli altri la vita: la vendetta è aspra e solo il perdono è soave; soltanto coll’amore del prossimo potremo avviarci. all’amore di Dio; soltanto concedendo perdono, otterremo perdono. Deponete la veste diabolica, intessuta con le bestemmie, con giuramenti sacrileghi, con ingiurie, con le calunnie, con le mormorazioni, con le bugie, con le parole oscene: « se uno crede di essere religioso e non tiene a freno la lingua, e anzi seduce il suo cuore, la sua religione è vana » (Giac., I, 26). Deponete la veste sordida della sensualità: quelle amicizie pericolose, quelle letture avvelenate, quegli spettacoli immodesti, quegli sguardi incustoditi, quegli affetti illeciti, quei pensieri impuri, tutta l’anima vostra hanno ricoperto di immondezze. Oh se il gran Re vi sorprendesse nel giorno della morte così, avrebbe schifo di voi. Deponete la veste sordida delle ingiustizie: ogni cosa sia del suo padrone: ogni lavoro abbia la giusta ricompensa; ogni commercio sia senza frode. Sono questi i cattivi abiti di cui dovete spogliarvi, sono questi gli dei stranieri a cui già troppo avete servito. Mondatevene, poiché ancora siete a tempo. Seppelliteli sotto il terebinto del confessionale: Dio ritornerà a benedirvi. – 2. RIVESTITE LA VESTE NITIDA. Non basta entrare nella sala del banchetto nuziale, bisogna anche indossare una veste bella. Non basta purgare il campo dalle spine e dalla gramigna, bisogna anche fenderlo con l’aratro e con la vanga e seminarlo. Non basta dire « Signore, Signore! », ma bisogna anche fare la volontà di Dio. Non basta la fede, ci vogliono anche le buone opere. Le buone opere sono dunque la veste nuziale. È una sera d’inverno. Nevica. Un fratello e una sorella orfani, ignudi, affamati battono alla porta di un palazzo. Dalle finestre escono fasci di luce che investono la nebbia e la tramutano in polvere d’oro; viene anche il profumo di squisite pietanze fumanti sul bianco della tovaglia. Come si sta bene là dentro, nella luce, nel caldo, nell’abbondanza, nell’amore, ed essi sono nella notte e nel freddo e nella miseria, soli. Bussano: ed ecco appare un signore avvolto in pelliccia. « Oh poverini! — esclama scorgendo le due creature palpitanti d’angoscia. — Voi avete bisogno di ricoprirvi, di riscaldarvi, di nutrirvi e state qui a morire di inedia; andatevene via in fretta, correte a ripararvi e a rifocillarvi ». Poi ravvolgendosi il collo nelle morbide pelli sparisce, senza dar nulla ai due infelici. « Ebbene così è la fede senza le opere, come se a un fratello e a una sorella ignudi e bisognosi del vitto quotidiano uno di voi dicesse: — Andate in pace, riscaldatevi e satollatevi — senza dar loro le cose necessarie al corpo » (Giac., II, 14-17). Vano è quindi essere diventati Cristiani, se poi di cristiano non avete la vita. Vano è l’essere entrati al mistico banchetto della Chiesa, se poi non vi rivestite con l’abito della grazia e delle opere buone. Deposta quindi la veste sordida, rivestite — come han fatto San Paolo e Davide — la veste nitida. S. Pietro, nella notte della passione, tre volte aveva rinnegato il Signore per rispetto umano e per timore dei patimenti; ma poi pianse il suo peccato e, dopo la Resurrezione, per due volte affermò il suo amore a Gesù. Ma alla terza volta l’Apostolo si conturbò, e nel suo animo riecheggiò, lungo e straziante, un canto di gallo, e singhiozzante rispose: « Signore, tu vedi in me, tu lo sai se io ti amo »; una trentina d’anni dopo, quando i Romani lo crocifissero con la testa in giù, dimostrò quanta forza di sincerità racchiudevano le sue parole. Anche noi, Cristiani, abbiamo rinnegato il Signore: forse tre volte abbiamo perduto la S. Messa in domenica per rispetto umano, per divertimento; ebbene ora dobbiamo affermare il nostro amore con ascoltarne tre nei giorni feriali. Forse abbiamo rinnegato il Signore con molte bestemmie; ebbene. ora dobbiamo affermargli il nostro amore con molte giaculatorie. Forse abbiamo rinnegato il Signore tralasciando per pigrizia il Rosario e le preghiere; ebbene ora affermiamogli l’amore nostro aggiungendo qualche orazione di più. Ricordate anche Davide: egli aveva gravemente peccato abusando della donna di Uria. Ma poi, quando un giorno di guerra e di calura bruciava di sete, egli prese l’acqua della cisterna Betlemitica che i suoi soldati con tanto eroismo gli recavano nell’elmo, e la rovesciò per terra senza gustarne. Una volta si era preso un piacere illecito, ed ora si puniva privandosi di un altro lecito. I nostri occhi pure, o Cristiani, si sono talvolta presi dei piaceri illeciti, ed ora siano privati anche di qualcuno lecito e siano custoditi con santa modestia. Il nostro corpo, o Cristiani, molti piaceri illeciti si è preso; ed ora è giusto che noi l’abbiamo a mortificare negandogli qualche piacere innocente: nel cibo, nel sonno, nelle vesti. – Frate Francesco predicava nel convento di S. Severino, e molta gente andava per ascoltarlo; diceva egli della sventura dell’anima peccatrice e dello splendore dell’anima buona. Vi andò anche il trovatore Guglielmo Divini, tanto famoso a quei tempi, che si era meritato una corona d’alloro in Campidoglio ed il bel titolo di « re dei versi ». Le parole semplici del Poverello d’Assisi trafissero il suo cuore bramoso di vera gloria. Finita la predica, Guglielmo Divini andò a gettarsi ai piedi di S. Francesco, gridandogli: « Frate! conducimi lontano dagli uomini e consacrami a Dio. Toglimi questa veste del mondo, e ricoprimi con quella del paradiso ». Il giorno seguente, S. Francesco lo vestì dell’abito grigio dei frati, gli cinse i fianchi di una corda, e gli mise il nome di Pacifico, perché aveva egli trovata la pace di Dio. Anche voi, Cristiani, oggi avete sentito una predica che somiglia a quella di S. Francesco: avete compreso come è sordida la veste dell’anima se essa è in peccato, e come è nitida se è in grazia e compie opere buone. Cercate dunque presto un Sacerdote di Dio, e confessandovi dite anche voi: « Toglimi questa veste del mondo, e ricoprimi con quella del paradiso. » È certo che troverete allora anche voi la pace di Dio. — LA GRAZIA. Dunque: per entrare nel Regno de’ cieli, all’eterno banchetto di nozze con Cristo, non è necessario essere nobili; e neppure essere sapienti; e nemmeno essere ricchi; e neanche essere sani e belli di corpo. Una cosa sola è necessaria: indossare la veste nuziale. Quale profondo mistero Gesù ha svelato sotto questo simbolo? Il mistero della grazia. Si sa che la grazia si riceve nel S. Battesimo; si sa che s’accresce con le opere buone e specialmente coi Sacramenti; è risaputo anche che al primo peccato mortale si perde, e di solito non si può riaverla se non per mezzo d’una buona Confessione. Ma pochi sono quelli che hanno compreso e che vivono il mistero della grazia. Alcuni credono che essere in grazia, significhi soltanto essere senza peccati mortali; è troppo poco questa; essa importa molto di più. Che cos’è allora la grazia? È difficile dirlo, tanto è cosa meravigliosa e divina; però dagli effetti che essa produce nelle anime, possiamo formarcene un’idea. È difficile dire che cosa sia la forza che noi chiamiamo elettricità: ma quando noi osserviamo la differenza che v’è tra un filo con la corrente ed uno senza, quando vediamo il treno divorare le distanze rumorosamente, quando sentiamo il rullare sordo di gigantesche motrici, quando in un attimo vediamo illuminarsi una città che prima era nelle tenebre, un grido di meraviglia ci sfugge dal labbro: « Ma questa è la più bella forza del mondo! ». Così quando consideriamo l’infinita distanza che v’è tra un un’anima con la grazia ed una senza, quando pensiamo che la grazia ci mette Dio in cuore, ci rende figli di Dio, ci fa degni della vita eterna, allora è un grido d’amore che erompe dal nostro cuore: « Ma questo è il più bel dono di Dio! ». – 1. CI METTE DIO IN CUORE. In diversi modi Dio è presente nel mondo. « Dov’è Dio?» domanda il Catechismo, e risponde: « Dio è in ogni luogo. Egli è l’immenso ». Ma questa presenza universale di Dio in tutti gli esseri, nei minerali e nei vegetali, nelle cose e negli uomini, nei buoni e nei cattivi, finisce per impressionare un piccolo numero soltanto di anime. Per la maggior parte essere da per tutto, equivale a non essere in nessun posto. Dio, inoltre, è presente in Cielo. Ma in Cielo ci si arriva soltanto dopo la morte: e siccome alla morte gli uomini non ci vogliono mai pensare, così non pensano neppure alla presenza di Dio nel Cielo. Dio è presente, ancora sui nostri altari nell’Eucaristia: questa presenza, benché anch’essa molto misteriosa, è assai più sensibile. Noi possiamo sempre dire: — « Dietro a quelle apparenze di pane, vi è realmente Iddio ». Ma la presenza eucaristica, nella Comunione, dura poco; né possiamo restare in chiesa tutto il giorno e far della nostra vita una perpetua visita al Santissimo Sacramento. Ma v’ha un’altra meravigliosa presenza di Dio tra gli uomini: quella per mezzo della grazia. « Se qualcuno mi ama, — ha detto Gesù — mio Padre ed Io l’ameremo: e verremo a lui, e resteremo in lui come in casa nostra ». Dunque, quelli che amano Gesù, ossia che non fanno peccati e si mantengono in grazia, hanno Dio nel loro cuore. Quando S. Ignazio martire fu trascinato davanti a Traiano, non potendo il tiranno indurlo all’apostasia, gli gridò: — Tu sei un miserabile! — E il Martire calmo e solenne gli rispose: « Nessuno osi chiamare, miserabile Ignazio, perché egli porta Cristo ». — Come puoi dire di portar Cristo? « Posso dirlo, perché è verità: io porto Dio in me ». Dio in noi! ecco che cosa è la grazia. E se Dio è con noi, che cosa ci potrà spaventare? Quando verranno le tribolazioni ad angustiarci, non rattristiamoci, che abbiamo con noi il Dio della letizia. Quando il demonio con le seduzioni cercherà di lusingarci al peccato, resistiamogli che abbiamo con noi il Dio della fortezza. E quand’anche in casa nostra ci fosse e la miseria, e la fame, e la nudità, e la malattia, Dio è con noi, non temiamo. Una cosa sola ci deve far paura: il peccato. Perché il peccato ci toglie la grazia, e, con la grazia, Dio. – 2. CI RENDE FIGLI DI DIO. S. Luigi, re di Francia, quando firmava qualche decreto, accanto al suo nome, poneva anche il nome della città in cui era stato battezzato. Gli osservarono: « Perché vi ostinate a chiamarvi Luigi di Poissy, quando ben altri titoli più gloriosi che non quello d’un’oscura città potrebbero far corona al vostro nome? ». — E non sapete, — rispose il Re, — che a Poissy nel santo Battesimo la grazia mi ha fatto figlio di Dio? E v’è forse sulla terra una nobiltà maggiore di quella d’essere figlio di Dio? Quando S. Giovanna d’Arco guidava il gregge sui pascoli paterni e non s’era ancora decisa di lasciare i suoi monti e le sue pecore e di correre, lei fanciulla ignorante e debole, in capo agli eserciti e salvare la Francia, udiva spesso delle voci misteriose gridarle: — Va, Figlia di Dio, va! — Come quella pastorella poteva essere detta figlia di Dio? Sì, qualunque anima in grazia è figlia di Dio. Perché il digiuno di Gesù? Perché i suoi sudori? Perché i suoi flagelli? Perché le sue spine? Perché la sua croce? Perché la sua morte? In una parola, perché da figlio di Dio s’è fatto Figliuolo dell’uomo?… Perché noi che siamo figli dell’uomo avessimo a diventare figliuoli di Dio!… dedit eis potestatem filios Dei fieri (Giov., I, 12). Ecco perché Gesù, compita la redenzione, salendo al Cielo disse alla Maddalena: « Ascendo al Padre mio e Padre vostro ». Considerate, adunque, le meraviglie della grazia: Dio diventa nostro Padre e noi suoi figli! Ma pensate anche l’orrore del peccato mortale: noi cessiamo di essere figli di luce e diventiamo figli d’oscurità, non è più Dio il nostro padre, ma il demonio. Vos ex patre diabolo estis (Giov., VIII, 44). – 3. CI FA DEGNI DELLA VITA ETERNA. Come alle nozze della parabola nessuno poteva entrare senza la candida veste, così in paradiso nessuno può ascendere che non sia rivestito di splendore. La grazia è appunto questo splendore che fa bella l’anima e la rende degna del Cielo e della compagnia degli Angeli e dei Santi. Quando a Montpellier, in un’oscura prigione sotto il letto d’un fiume, morì S. Rocco, nessuno se ne accorse. L’avevano rinchiuso là sotto credendolo una spia, ed invece era il nipote del governatore della città, che tornava dopo aver pellegrinato per tutta la vita. Ma appena la sua anima uscì dal corpo, una gran luce uscì dal carcere per ogni fessura, tanto che un grande incendio vi pareva sepolto. Che cos’era quella luce se non lo splendore della sua anima ornata di grazia? Quando a Lisieux, nella clausura delle carmelitane, morì S. Teresa del Bambino Gesù, tutte le suore sentirono per le scale, per le celle del convento, un finissimo olezzo di violette, tanto che sembrava ritornata la primavera. Che cos’era quell’olezzo se non il profumo della sua anima ornata di grazia? La grazia è splendore, è profumo dell’anima. S. Caterina da Siena vide un giorno, per favore divino un’anima priva di peccato e divinizzata dalla grazia. Era tanta la bellezza di quella visione e la dolcezza che ne ridondava in lei ammirante, che sarebbe venuta meno se Dio non l’avesse sostenuta. E Nostro Signore, indicandole quel divino splendore, le soggiungeva: « Non ti sembra graziosa e bella quest’anima? Chi dunque non accetterebbe qualunque pena per guadagnare una creatura così meravigliosa? ». E chi di noi, ora che abbiam compreso che cos’è la grazia, non preferirebbe qualsiasi sofferenza, pur di non perdere tanto splendore con un peccato mortale? S’io sapessi tutti i libri degli scienziati a che mi gioverebbe senza la grazia? Senza la grazia a che mi gioverebbero gli onori di questo mondo, le ricchezze, la beltà? Tutto finisce con la morte: unica cosa che vale ancora più in là è la grazia. Solo per la grazia ci verrà aperta la porta del paradiso e più grazia avremo e più gloria ci sarà data. Per ciò nell’Imitazione di Cristo c’è questa preghiera: « O Signore, dammi la grazia e mi basta: di tutto il resto non m’importa!  (L., III, 4). Noi invece il nostro cuore l’attacchiamo a tutto il resto, danaro, piaceri, onori, e della grazia non c’importa. Non sappiamo quasi nemmeno che ci sia: per noi Gesù è morto inutilmente. Siam come quell’uomo del Vangelo che aveva nel suo campo un tesoro ingente sepolto e non lo sapeva. — Durante la persecuzione dei Vandali, Elpidoro apostatò. Era stato battezzato da poco tempo, con gioia aveva portato per otto giorni la candida veste simbolo della grazia, ma davanti alle lusinghe e alle minacce dei cattivi, aveva ceduto e aveva rinunciato alla sua fede. Allora il vecchio diacono che l’aveva battezzato, prese con sé la veste con cui aveva rivestito l’altro nel giorno della sua ammissione alla Chiesa e gli andò incontro. Davanti a lui spiegò la veste e l’agitò come un vessillo bianco: « Prendita, Elpidoro, e guarda! Riconosci quest’abito. Oggi tu l’hai profanato, tu l’hai lacerato, tu l’hai insozzato. Esso ti accuserà nel giorno del giudizio. Pensa bene a quello che fai ». Anche a noi, quando fummo battezzati, il Sacerdote ci pose indosso la candida veste, simbolo della grazia. Ma se quest’oggi, tra voi, ci fosse qualcuno che ha ceduto alle lusinghe del demonio e si trova in peccato, anch’io come quel vecchio diacono agito, davanti a lui, la sua veste battesimale come un vessillo bianco; e gli grido: « Prendila, e guardala. Col tuo peccato tu l’hai insozzata, tu l’hai stracciata, Tu hai perso la grazia. Quest’abito ti accuserà nel giorno del giudizio, quando il Re del Cielo vedendoti senza la veste nuziale, dirà anche a te: « Amico; con che coraggio ti presenti così? ». Non aspettate, o Cristiani, quel giorno d’ira. Ma tutti mettetevi in grazia con una santa Confessione, perché Dio non getti voi pure dalla porta del paradiso, legati e mani e piedi, a stridere i denti nel gelo e nel fuoco della notte eterna.

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXXVII: 7
Si ambulávero in médio tribulatiónis, vivificábis me, Dómine: et super iram inimicórum meórum exténdes manum tuam, et salvum me fáciet déxtera tua.

[Se cammino in mezzo alla tribolazione, Tu mi dai la vita, o Signore: contro l’ira dei miei nemici stendi la tua mano, e la tua destra mi salverà.]

Secreta

Hæc múnera, quǽsumus, Dómine, quæ óculis tuæ majestátis offérimus, salutária nobis esse concéde.

[Concedi, o Signore, Te ne preghiamo, che questi doni, da noi offerti in onore della tua maestà, ci siano salutari.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

 Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXVIII: 4-5
Tu mandásti mandáta tua custodíri nimis: útinam dirigántur viæ meæ, ad custodiéndas justificatiónes tuas.

[Tu hai ordinato che i tuoi comandamenti siano osservati con grande diligenza: fai che i miei passi siano diretti all’osservanza dei tuoi precetti.]

Postcommunio

Orémus.
Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et tuis semper fáciat inhærére mandátis.

[O Signore, l’opera medicinale del tuo sacramento ci liberi benignamente dalle nostre perversità, e ci faccia vivere sempre sinceramente fedeli ai tuoi precetti.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (224)

LO SCUDO DELLA FEDE (224)

MEDITAZINI AI POPOLI (XII)

Mons. ANTONIO MARIA BELASIO

Torino, Tip. e libr. Sales. 1883

MEDITAZIONE XII

Il Rosario meditato e recitato col popolo.

PARTE SECONDA

MANIERA DI RECITARE IL ROSARIO.

MISTERI DOLOROSI.

PRIMO MISTERO. — Gesù suda sangue.

Nel primo mistero doloroso si contempla come Nostro Signore Gesù Cristo facendo orazione nell’Orto sudò sangue.

CONSIDERAZIONE.

Come abbiamo da fare per recitare il Rosario? Per recitare il Rosario ci dobbiamo mettere col cuore nel Santissimo Sacramento, ed immaginarci di vedere Gesù lì a quel modo che dice il mistero. Ora il primo mistero doloroso ci dice, che Gesù Cristo, contento di restare sempre qui con noi nel Santissimo Sacramento, andò nell’orto di Getsemani a fine di offerirsi per noi alla morte. Eccolo in ginocchio, che grida al Padre, che Egli si carica dei peccati di tutti. Ma ne sente tanto l’enorme peso da non ne potere più; e cade per terra, e sotto la pressura dello smisuato dolore suda sangue!… – Ahi, Egli ci guarda in volto col volto che piove sangue, boccheggiante nell’agonia pel terrore dei nostri peccati! Poi, ecco che si dà in mano a’ Giudei e va a morire!… Ah noi con parole piene di pianto in contemplando quel Sangue di Gesù in agonia alziamo un gemito che il Padre in cielo dovrà ascoltare per compassione:

Pater noster. O Padre nostro che siete nei cieli, guardateci in volto: noi siamo bagnati del Sangue del vostro figlio, e con Lui piangiamo i nostri peccati. Sia santificato il vostro Nome; siate sempre adorato, amato, glorificato da tutti. Venga, venga il vostro regno; e pel dolore di Gesù sino a sudar sangue sia distrutto il regno del peccato. Pigliateci in braccio, come fa una madre il suo bambino: sia fatta per sempre la vostra volontà, come là in cielo, così in terra. (Si reciti la prima parte del Pater noster). Dateci oggi il nostro pane cotidiano (qui si fa la Comunione spirituale). Buon Gesù, venite nel nostro cuore, offerite per noi i vostri dolori al Padre; e per Gesù nostro, o Padre della bontà, voi dateci tutti i beni. Rimettete a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori: dateci la carità verso tutti. Ah liberateci dalle tentazioni e da tutti i mali; ma dal mal più grande che è il peccato e la dannazione. Così sia.

1. Ave Maria. Ecco Gesù che, dato Se stesso nel Sacramento dopo l’ultima cena, par che ci dica: Ora io sono contento…, ho trovato modo di restare sempre con voi. E voi mi verrete ben sempre d’intorno nella Messa al mio altare: mi bacerete, non è vero? le piaghe che tengo aperte per voi, e ricorderete sempre tra voi i miei dolori: Hoc facite in meam commemorationem… Quoliescumque feceritis, in mei memoriam facietis… Mortem Domini annuntiabitis: Noi rispondiamogli di cuore: Gesù nostro, siamo qui appunto per piangere sulle vostre piaghe le miserie nostre. Oh Madre nostra Maria, metteteci sul Cuore a Gesù, e fateci intendere i cari misteri della sua passione. Dio ti salvi, o Maria.

2. Gesù per terra prostrato: O Padre, esclama, mi avete dato un corpo: eccomi sono uomo anch’io con questi meschinelli miei; io sono della loro famiglia, e vengo a pagare i debiti dei miei fratelli… Padre, essi vi hanno offeso in carne e sangue da uomo; ma io vi darò soddisfazione in Carne e Sangue da Dio. Guardate a me: mi piglio sopra di me i peccati di tutti, e pago Io per tutti! — E noi pigliamo per mano la Madonna e gridiamole: o Maria Santissima, stringeteci a Gesù che ci ama tanto… Voi che l’amate divinamente, aiutateci ad amarlo col vostro cuore… Deh che non l’offendiamo mai più. Dio ti salvi, o Maria. Gesù colla sua mente divina misura quanto orrendo male si è il peccato, e ne è atterrito. Gli vien meno la vita…. cade per terra… il cuor trabalza in sussulti… e sotto la pressura di quello spavento oh!…. suda Sangue!…. e agonizza!… Ahi! ahi! alza il volto tutto insanguinato, e boccheggiante nello spasimo dell’agonia; e par che dica cogli occhi allargati: comprendete che cosa sia peccato… mi fa sudar Sangue… Oh il peccato!… e giù una pioggia di Sangue!.. oh il peccato!… e piove Sangue ancora!…. Oh Madre nostra, fateci piangere inorriditi sul seno a Voi con atti di contrizione tutti quanti i nostri peccati. Dio tv salvi, o Maria.

4. Oh e che fa mai Gesù?…. Sorge…. e. tutto tremante par che voglia fuggire!… No, cade ancora in ginocchio e mette un gemito: Padre, mio buon Padre! questo calice è troppo amaro! Oh nostro caro Gesù, forse siamo noi che ve lo facciamo trangugiare… Questo calice per voi troppo amaro non è forse perché pensate che noi avremmo tuttavia peccato, pur sapendo che il peccato vi ha ridotto a sudar sangue in agonia! Oh Maria noi corriamo tra le vostre braccia: strappateci via da ogni occasione di peccato. Dio vi salvi, o Maria.

5. Ecco Gesù tutto grondante Sangue… col tremito grondante sangue … col tremito dell’agonia, con ansio lamento cercarsi intorno gli Apostoli e dire a gemiti: o Pietro, o Giovanni, o Giacomo, cari miei, venite qui con me!… statemi appresso!… io non ne posso più!… E gli Apostoli dormono!… Anima mia, e tu dormi tranquilla nel tuo peccato, in mezzo a tanti peccati di altri, e non fai niente mai per impedirli… Oh Maria! Oh Maria, svegliateci per carità, e dateci mano Voi ad impedire, come per noi si possa, tutti i peccati. Dio vi salvi, o Maria…

6. In quell’abbandono di cuore Gesù si getta in braccio agli Apostoli, e coll’anelito dell’agonia: Deh pregate, esclama, pregate sempre, sempre, per non peccare più mai!…; e salda, suggella questo suo avviso di pregar sempre col lasciarci bagnati del suo Sangue…. Ah poveri noi! Da noi soli ci perdiamo….; laonde noi ci getteremo sul Cuore a Gesù nel Sacramento: alzeremo la mano a Voi o Maria, e grideremo sempre: Gesù e Maria salvate l’anima mia. Dio vi salvi, o Maria.

7. Gesù sente tutto il peso della nostra debolezza… non ne può più!… Allora scende un Angelo a confortarlo in quel tremendo abbattimento… Anche noi poveri tribolati, allora quando non abbiamo forza di reggere oltre nelle angosce più paurose, gettiamoci in braccio a Gesù: Egli ha provato …, e ci darà un conforto. Egli ci diede Voi, o Maria, consolatrice degli afflitti, rifugio dei peccatori, speranza  fino dei disperati, confortateci voi a soffrire con pazienza in seno a Gesù Cristo. Dio vi salvi, o Maria.

8. Ma ascoltiamo… Oh è il grande grido che val tutti i conforti: O Padre, non la mia, ma sia fatta la vostra volontà; e abbandonandosi al volere del Padre, si dà in mano ai Giudei perché di Lui facciano ogni strazio. Oh Maria, Gesù tutto insanguinato va a morire per noi… Oh Maria, tirateci appresso a Gesù: metteteci voi nelle mani di Dio a fare il suo volere, volesse pure la nostra morte. Dio vi salvi, o Maria.

9. Ve’ quei ribaldi addosso a Gesù!…. e pugni e schiaffi; e gli gittano una catena alla vita…: con una corda al collo lo trascinano, come agnel da macello, e gareggiano a chi gliene fa di più villane… E perché tanta rabbia di tanti contra l’innocente Gesù? Gli è perché hanno in odio la sua santità… O Maria, noi l’intendiamo: dovessimo anche essere perseguitati perciò che vogliamo servire Dio, lasceremo dirci e farci come fecero i Giudei al Salvator nostro. Aiutateci a continuare nella divozione senza rispetto umano. Dio vi salvi, o Maria.

10. Ecco Gesù tutto grondante Sangue colle mani legate, con una corda al collo che s’incammina a morire per noi… Oh Maria, ma noi siamo così deboli e di poco cuore a patire per Gesù…. Madre nostra, deh pigliateci Voi per mano, e tirateci appresso di Gesù. Noi lo vogliamo accompagnare in tutta la vita, non negargli mai niente e seguirlo fino alla morte. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri. Dio santissimo, gli uomini, è vero, vi offesero troppo; ma un Uomo vi placa e vi dà gloria per tutti e quest’Uomo e Dio è il Figlio vostro! Gloria a Voi, o gran Padre della bontà che ci mandaste il vostro Figlio a salvarci. Buon Gesù, gloria a Voi, che vi offeriste per salvare tutti. Spirito Santo, gloria a Voi, che ci darete per Gesù Cristo la sincera contrizione delle nostre colpe. Requiem æternam. O buon Gesù, Salvatore di tutti, in quell’agonia tremenda Voi aveste un gemito anche per le anime del Purgatorio: deh! piovete a loro suffragio del vostro sudore di Sangue. Requiem æternam.

SECONDO MISTERO. — Gesù è flagellato.

Nel secondo mistero doloroso si contempla come il nostro Signore Gesù Cristo, legato ad una colonna, fu flagellato crudelissimamente da’ manigoldi.

CONSIDERAZIONE.

Che cosa vuol dire recitare il Rosario? Giova ripeterlo. Recitare il Rosario vuol dire metterci col cuore in Gesù nel Sacramento, e contemplare Gesù qual se si vedesse lì come ci dice il mistero. Ora il secondo mistero doloroso ci dice che Gesù vien menato dall’un all’altro tribunale davanti a quei giudici ingiusti. E riconosciuto innocente da loro; ma Pilato per accontentare la rabbia dei Giudei, ciò nondimeno lo condanna a esser flagellato. Ah ci par di vederlo sotto quella tempesta di battiture tra quegli indemoniati i quali non conoscono misura al lor furore. Gesù è tutto straziato dai colpi, e ci guarda in volto, mentre offre al divin Padre quell’orrido strazio per ottenerci misericordia. Cadiamogli ai piedi mostrandolo al Padre tutto lacero della Persona. Si, si, gridano con esso noi potentemente le sue membra in quegli strazii.

Pater noster. O Padre nostro che siete ne’ cieli, guardate il vostro Figlio che si piglia sulla sua Persona i colpi per risparmiare a noi i castighi della vostra giustizia. Sia santificato il vostro Nome, tanto che vi rispettino, vi diano gloria tutti gli uomini. Venga il vostro regno. Regnate nel cuore di tutti; e se lo meritiamo, castigateci pure, ma come una madre tenendoci tra le braccia della vostra misericordia a fare sempre la vostra volontà come in cielo, così in terra. (Qui si reciti la prima parte del Pater noster, poi si faccia la comunione spirituale). O Gesù, dateci il vostro Corpo; e per Gesù, Voi o Padre, dateci tutti i beni. Perdonateci, dateci la carità verso tutti, e liberateci dalle tentazioni. Noi vorremmo tutto soffrire con Gesù; ma per Lui liberateci dal più tremendo dei mali, ciò sono il peccato e la dannazione. Così sia.

1. Ave Maria. Contempliamo Gesù in quell’orrida notte condotto in mezzo a quei ribaldi. Ma perché mai soldati e popolani, perché tutto quel gentame a gara in tanta rabbia contra Gesù?…. Perché i farisei soffiavan dentro alle ire di quella bordaglia. Poveri a noi! ché in questo tempo i tristi, come i farisei d’allora, scaldano la testa alla povera gente a rivoltarsi contra Gesù e la sua Chiesa. O Maria guardate noi e i poveri popoli da siffatta gente, la quale con false dottrine e con calunnie contro la Religione e i suoi ministri ci istigano a fare guerra a Gesù nella sua sposa la Chiesa, e nel Papa che

di Gesù è Vicario in terra. Dio vi salvi, o Maria.

2. Lo strascinano pei tribunali di Caifasso, Pilato ed Erode i quali rappresentano tre qualità di gente che dà sempre la sua sentenza contro Gesù Cristo. Caifasso rappresenta gl’ipocriti, mostrandosi religioso e tutto amor del popolo, come i liberali alla moda, egli mira al proprio interesse: è bene, dice, che muoia costui pel popol di Dio. O Maria Santissima, guardateci Voi nel cuor nostro, perché non facciamo il bene né per interesse, né per amor proprio, no, ma solo per servire Dio, per amor di Dio. Dio vi salvi, o Maria.

3. Caifasso lo manda a Pilato il quale troppo bene lo trova innocente; ma il popolaccio urla di fuori, ed egli, vile che è, non ha coraggio di liberarlo. Anche ai nostri dì sonvi tanti Pilati che contra la loro coscienza tradiscono la Religione e fan guerra a Gesù. O Maria madre nostra pietosa, aiutate tanti deboli di questi miseri tempi; e fate sì che tutti abbiamo il coraggio di mostrarci fedeli a Dio e fervorosi nelle pratiche di pietà senza rispetto umano. Dio vi salvi, o Maria.

4. Pilato lo manda ad Erode, il quale menando la mala vita con un’indegna persona, non curante di tutto, solo pensava a fare il godente. Contento di vedersi in mano Gesù, pretendeva che facesse un miracolo per divertirsi; ma Gesù non lo degna di parola. Erode lo giudica pazzo, lo rimanda a Pilato ed ambedue si accordano nel trattar male Gesù. Ah! per chi vive nella bruttura dei vizi non ha una parola Gesù; e la sua dottrina è giudicata una vera pazzia da godenti del mondo. Ma ecco che, come Pilato ed Erode, i godimondo e i vili politici dell’interesse adoratori del dio quattrino si accordano a tener legato Gesù. O Maria, liberate la Chiesa da questo gentame di vili che pretendono tutto serva alle loro passioni e massime ai loro interessi. Dio vi salvi, o Maria.

5. Pilato proclama solennemente che è innocente Gesù Nazareno. Ma dunque perché lo condanna ad esser flagellato? Da buon moderato sì sarà scusato in cuor suo dicendo a se stesso: io così accontento questi arrabbiati fanatici, e lo salvo dalla morte almeno. Senonché quegli indemoniati s’accorgevano di vincere, e s’inferocivano sempre più a volerlo morto. Miseri a noi, se ci lasciamo andare a peccare ancor un poco per acquietare le nostre passioni….. Le passioni sono lupe ingorde che non dicono mai basta. Sono come i rivoluzionari che quando divorano a doppio palmento sentono ognora più arrabbiata la fame, più roba, più fame. O Maria, aiutateci Voi a finirla col peccato e a dichiarare solennemente di voler essere buoni Cattolici e tutti di Dio. Dio vi salvi, o Maria.

6. Ahi! che irrompono quei furenti addosso a Gesù; lo urtano ad una colonna, non lo sveston no, gli strappan d’addosso le vesti, gettan via i farsetti, snudano le braccia, stringono corde, abbrancan bastoni, fan risuonar catene… piomban sopra Gesù!… O buon Gesù Voi trattato a questo modo siete qui con noi?… Ah ora ci par di vedervi le mani legate, inclinato giù sotto a quella tempesta di battiture… O carni immacolate, più delicate di ogni più delicata pupilla!… O Maria, siccome quegli indemoniati….. anche ora tutti i dì vi hanno persone, a cui par che la virtù faccia rabbia; di ché, senza riguardo alcuno e con un far da demonio pur ridendo feriscono gli innocenti coi brutti discorsi….. cogli atti sguaiati….. O Maria, salvate Voi e fate rispettare gli innocenti che sono le più care membra del vostro Gesù. Dio vi salvi, o Maria.

7. Ed ahi! per l’aria guizzano corde, catene e verghe; i colpi coi colpi si urtano e cadono alla dirotta sopra del buon Gesù….. Non cade colpo mai che appien non colga; non coglie appien che piaga anche non faccia… Le membra tremano illividite, la pelle stracciasi, il Sangue piove tutto d’intorno sotto quei colpi, che lo tempestano, e Gesù barcolla… Ah cadrà morto!… Ristanno; guatano come tra lor le tigri ferocemente, e poi tempestano con maggior rabbia e piagano le piaghe, e squarciano gli squarci… O Madre, o Madre, noi nascondiamo il volto in seno a Voi! Perché è appunto pei peccati di carne che hanno lacerate così le carni santissime del nostro Gesù. Gettiamoci inorriditi ai piedi di Gesù flagellato; e Voi, o Maria, Quardateci dai vituperosi falli! Dio vi salvi, o Maria.

8. Caro Gesù tutto flagellato e stracciato, anche noi tribolati, infermi e martoriati d’ogni maniera vogliamo soffrire con esso Voi di buon grado, aspettando il gaudio in cielo che ci meritano i patimenti vostri. O Maria, in braccio a Gesù flagellato, noi vogliamo patire rassegnati. Dio ci salvi, o Maria.

9. Ecco, per invidia, ecco per rispetto umano, ecco per rabbia, e poi pei brutti peccati di carne flagellato Gesù! O Maria santissima, dateci la mano Voi, acciocché quando sentiamo le tentazioni verso queste passioni gridiamo subito: Gesù e Maria! e ci teniamo stretti a Gesù flagellato. Dio vi salvi, o Maria.

10. Se Gesù è flagellato e porta la pena delle nostre colpe, e noi che siamo i colpevoli, mettiamoci nelle mani di Dio. O Maria, aiutateci a ricevere i colpi dei castighi con cui la bontà divina ci vuol salvare. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri. Gloria a Voi, Padre santo, che ci mandaste a patire per noi il divin Figlio. Gloria a Voi, o Figliuol di Dio qui con noi con queste sante membra per noi lacerate. Gloria a Voi, o Spirito Santo; santificate Voi le nostre persone, sì che possiamo unirci in purità con Gesù Cristo.

Requiem æternam. O Maria, quella tempesta di battiture risparmi i tormenti alle anime martoriate nel purgatorio. Requiem æternam.

TERZO MISTERO. — Gesù viene coronato di spine.

Nel terzo mistero doloroso si contempla come Gesù fu coronato di pungentissime spine.

CONSIDERAZIONE.

Che cosa vuol dire recitare il Rosario? Recitare il Rosario vuol dire metterci col cuore in Gesù nel Sacramento, e contemplarlo quasi si vedesse lì, come dice il mistero. Il mistero ci ricorda Gesù sbattuto per terra, tutto lacero dai flagelli, e grondante Sangue dalla cara e santa Persona. Quei crudi a battergli le mani beffardi d’intorno e gridare: L’abbiam servito il Re dei Giudei. — Ah è Re dei Giudei? grida uno: lascia, lascia che lo vestiamo a festa!… E gli gitta uno straccio di porpora, e con sogghigno da demonio grida: è il tuo manto reale; — poi: piglia lo scettro d’oro, il baston da comando; — e gli pone nelle mani legate una canna rotta. — E la corona? (grida un altro) gli manca la corona. — L’ho io, — risponde un demonio più che un uomo, il quale entra portando tra le mani un fascio di spine, e le compone a mo’ di orribile corona. Tutti battere le mani, e godere dello strazio non mai pensato… Ahi! gliela mettono sull’adorabile Capo: la stirano giù d’intorno colle mani guernite di ferro, e gliela battono in testa conficcandovi le spine… O Gesù, o Gesù grondante Sangue tutto d’intorno! Cadiamogli a’ piedi, stringiamo le ginocchia a Gesù coronato di spine, e gridiamo:

Pater noster. O Padre nostro, guardateci dal cielo; noi siamo qui coronati di crucci intorno al vostro Figlio coronato di spine: egli è il Re nostro; e noi con Lui rassegnati a seguirlo, a fare la Vostra volontà. Sia santificato il vostro nome, venga il regno vostro, sia fatta la volontà vostra, come in cielo, e così in terra. (Qui si reciti la prima parte del Pater noster). Dateci oggi il nostro pane (qui facciamo la Comunione spirituale). Gesù nostro Signore benedetto, uniteci con voi; e per Gesù dateci, o Padre, tutti i beni; il perdono a noi, e la carità verso tutti. Ah! liberateci dalle tentazioni sosteneteci nei combattimenti, e liberateci dal male; per tal modo verremo a regnare con voi in cielo. Così sia.

1. Ave Maria. Ve’ Gesù affranto per terra in mezzo a quelle belve, che godono ferocemente d’intorno! Qualunque colpevole, quando è in mano alla giustizia, merita riguardo, e non si vorrebbe fargli patire di più con crudel giuoco; e noi siamo sensibili per chiunque vediamo per poco soffrire. Solo per Gesù siamo senza cuore! O Maria, otteneteci la compassione pei patimenti di Gesù Cristo, e stampateci voi le sue piaghe sante nel nostro cuore. Dio vi salvi, o Maria.

2. Ecco quella bordaglia in ridda infernale che urla: Il bel Re dei Giudei che abbiamo! Su, su vestiamolo a festa per bene. In così dire gli gittano sulle spalle uno straccio di porpora a maniera di manto, e gli dan per iscettro una canna rotta..— Ah, ah, la corona adesso! — La corona l’ho io! grida un demonio di uomo, il quale entrando compone un fascio di spine e gliene pone sul capo. Ecco ancora a’ giorni nostri e scribi e farisei e popoli spogliare la Chiesa: batterla da ogni lato, legarle le mani in ischiavitù, e fin nel capo del Pontefice incoronarla di spine, e ridurla a essere una autorità da burla. (Quando si stampava questo libretto era in prigione il Papa, e gli si diceva con beffa eguale al sacrilegio: « Sovrano spirituale!»). Maria, voi sempre pronta in aiuto opportuno, è tempo, crediamo, che si dia gloria a Dio, si sperdano i nemici di Gesù Cristo, e venga il regno di Dio e della sua pace in questo povero mondo. Dio vi salvi, o Maria.

3. Caro Gesù, ah quei feroci vi ribattono sul capo l’orribile corona: le spine si ficcan dentro le tempia… e voi grondate il Sangue tutto d’intorno. O Maria, fateci posare la testa sulle ginocchia di Gesù, e il suo caldo Sangue ci piova sopra….. così staremo volentieri con Gesù incoronato di spine. Dio vi salvi, o Maria.

4. Anche Pilato sente indignazione di vederlo maltrattare così. Lo piglia loro di mezzo, e lo mena sul balcone, dicendo in cuor suo: questa canaglia arrabbiata vorrà almeno ora avergli compassione. « Ecco l’uomo, » grida; e, demoni, dice in cuore, siete soddisfatti! — Ma quei furenti: « Morte, morte: al Calvario, alla croce Gesù!… » Ecco Gesù, grida la Chiesa: ecco Gesù che è qui con noi nel Sacramento. Che vi fece Egli di male?… Tutti quelli che gli si avvicinano, anche dei vostri, diventano buoni… Ma i mondani senza cuore rispondono: Costui non lo vogliamo! — Maria Santissima, ci stringeremo a Lui d’intorno più vivamente mentre tanti gli fanno guerra; ci studieremo di servirlo ed amarlo, fino a morire per Lui, che è nostro Re e Salvatore. Madre santa, aiutateci a mostrargli la nostra divozione. Dio vi salvi, o Maria.

5. Ecco: Gesù, Re dei dolori, è lacerato di piaghe, è coronato di spine, è deriso, perseguitato da tutti. Tribolati, infermi, tortunati, perseguitati, infelici di ogni maniera, coraggio: portate le divise del Trionfatore del mondo, e seguitelo alla vittoria. Maria, accompagnateci incoronati di fastidii, pigliandoci per mano fino alla croce. Dio vi salvi, o Maria.

6. Pensiamoci sopra….. Tra le urla di quella bordaglia sentite una parola che ricrea il cuore. E la buona moglie di Pilato, la quale rivolta al marito: O consorte, Gesù è innocente, me lo disse il cuore. Salvalo da quei ribaldi… ne avrai tanto bene. Se Pilato l’avesse ascoltata, non si avrebbe avanzato di darsi una coltellata nel petto e morire disperatamente; sarebbe in paradiso colla sua consorte venerata da noi per Santa. Ah ricordiamoci che una madre, una sposa, una sorella, una persona devota parlano spessissimo da Angeli pel nostro bene. E quando parlano da Angeli per nostro bene? Quando parlano in nome di Dio. E voi, o Maria, benedite alle nostre famiglie; e fateci inchinevoli a ricevere con buon cuore i soavi avvisi delle persone che ci ragionano con amore di Dio. Dio vi salvi, o Maria.

7. Ma Pilato ha paura dei malvagi e vuole tentar modo di farseli amici; di che grida al popolo: « Ho un tal Barabba in carcere; è un rivoluzionarlo, e, perché rivoluzionario, già, è un ladrone e uomo di sangue. Volete questo Barabba, o volete Gesù? I farisei sparsi in mezzo a quei furenti davano la parola d’ordine, e facevan rispondere: « Salva Barabba. » Ma quel gioiello? faceasi ad osservare Pilato. Ed eglino: « Barabba, Barabba!! » Non facciamo le meraviglie adunque se il popolo faccia festa per la Chiesa spogliata, pel Papa imprigionato, gridi: evviva a Barabba; sono i farisei di tutti i tempi che ci guastano il popolo. O Maria, guardate noi e i nostri poveri figli dalle perverse massime, dagli inganni dei tristi, i quali pervertono i popoli. Dio vi salvi, o Maria.

8. Ma Gesù intanto è tra quei feroci. Ma oh…. e che fa quel manigoldo?… Ve’ che gli benda gli occhi, gli s’inginocchia davanti… Ahi! gli scarica uno schiaffo sul volto benedetto… e gli grida: « Indovina, o profeta da burla, chi t’ha percosso! » Oh cielo, e che ne fai dei fulmini, se non incenerisci quest’empio? Piangiamo inteneriti; è Gesù che vuole soffrire anche quest’orrido scherno, perché vuole guadagnare il perdono anche per quelli che gli danno schiaffi nei sacrilegi. Maria, pregate voi perché si salvino tutti. Dio vi salvi, o Maria.

9. Pilato intanto grida al popolo: Ma Gesù è innocente; ed io non voglio il suo Sangue sopra di me: qui me ne lavo le mani. Se non che quegli indemoniati urlano: Il Sangue di Gesù cada sopra di noi e dei figli nostri… Tristi quei disgraziati! Dopo mille e mille anni, ancora oggi i giudei portano il marchio di quella imprecazione… Poveri noi! quanti castighi, coi nostri peccati prepariamo a noi stessi ed alle nostre famiglie!… Ah! ah! Massime le scomuniche contro chi tocca la Chiesa sono tremende: esse sono, che sradicano le famiglie… o Maria, fate piovere voi il Sangue di Gesù sopra di noi nei Sacramenti in benedizione; e così avremo eredità di benedizione per noi e per le famiglie nostre. Dio vi salvi, o Maria.

10. I giudei, veggendo Gesù battuto in ogni parte, battevano le mani con infernali sogghigni. L’abbiamo spuntata, dicevano: Gesù è perduto! Infelici i giudei di tutti i tempi! Havvi in Roma nella più bella piazza dell’universo un magnifico obelisco che torreggiante alza una croce verso del cielo. Su di quell’obelisco si leggono scolpite in bronzo queste parole, da non si dimenticare mai in ogni tribolazione: Cristo vince, Cristo trionfa, Cristo regna ora e per tutti î secoli… Esso, il popolo Giudaico, alcuni anni dopo il deicidio fu colpito con tal orrore di castighi, che non fu mai popolo; ed anche oggi tuttavia si mantiene disperso per tutto il mondo a rendere testimonio della verità che Cristo vince, trionfa e regna. Uomini di poca fede, se abbiamo paura, pensiamo che le rivoluzioni sono burrasche che passano; ma Cristo trionfa sempre, e noi con Lui costanti sempre sino alla morte. Maria, vi raccomandiamo i timidi, i pusillanimi; aiutateci tutti a Seguire Gesù. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri. Gloria al Padre, Re dell’eterna gloria: gloria al Figlio che coronato di spine lo glorifica nei patimenti: gloria allo Spirito Santo, che volge in consolazioni le nostre angustie. Passeranno i secoli, e sarà eterna la gloria di Dio e di coloro che cercano glorificarlo. Gloria Patri. Requiem æternam. O Gesù coronato di Spine, affrettatevi deh! per questo vostro strazio, a tirare in gloria le povere anime del purgatorio, le quali gemono in tanto patire. Requiem aeternam.

QUARTO MISTERO — Condanna di Gesù.

Nel quarto mistero doloroso si contempla come Gesù fu condannato a morte, e come per sua maggiore vergogna e dolore gli fu dato a portare in ispalla al Calvario il pesante legno della croce, sulla quale doveva essere inchiodato.

CONSIDERAZIONE.

Che cosa vuol dire recitare il Rosario? Recitare il Rosario significa mettersi col cuore in Gesù nel Sacramento, e contemplare Gesù istesso il quasi si vedesse cogli occhi, come dice il mistero. Il mistero ci insegna che Gesù è condannato a morte. Sentite le urla: « la croce, la croce! » Ed ecco strascinano nel cortile una trave in forma di croce. Gesù la vede, la abbraccia: la croce gli cade addosso, ed Egli portandola sugli omeri esce tra quella marmaglia che si pigia d’intorno. Contempliamolo ora che va barcollante al Calvario; ed abbracciando nel petto Gesù sotto la croce, alziamo le grida al Padre in cielo:

Pater noster. O Padre nostro che siete nei cieli, noi siamo qui con Gesù sotto la croce: Voi ce lo avete dato il vostro Figlio, il quale va a morire per salvarci: siate benedetto. E Voi, o Gesù, tirateci appresso Voi a formare il regno del Padre; e sia qui in terra il principio del regno eterno in paradiso: sia fatta la vostra volontà come in cielo così in terra. (Si recita la prima parte del Pater noster). Dateci oggi il nostro pane quotidiano. (Si fa la Comunione spirituale). O buon Gesù, uniteci con Voi sotto la croce. Dateci, o Padre, ogni bene per Gesù: rimetteteci i nostri debiti come noi facciamo ai nostri debitori. Liberateci dalle tentazioni per Gesù che va a morire per noi: liberateci dal male del peccato, dall’inferno, e tirateci appresso a Gesù in paradiso. Così sia. (Si recita la seconda parte del Pater noster).

.1. Ave Maria. Il buon Gesù è lì per terra, intorniato da quei feroci che lo maltrattano; tutto immerso nel proprio sangue, mentre i manigoldi tra i fischi di tutti gli strascinano la croce innanzi. Alza il volto grondante vi posa sangue, abbraccia la croce, il capo contra, e pare riavergi per port a morirvi sopra. Caro Gesù, quando ‘oi saremo già tanto aflitti, e si aggiungerà all’afflizione nostra una disgrazia maggiore, l’abbraccieremo ancora noi volontieri » Come Voi la croce. Verrete ben Voi, o Maria, ad accompagnarci sin al Calvario? Dio vi salvi, o Maria.

2. Ma il nostro Gesù porta quella trave della croce sulle sue spalle e va al Calvario. O Maria, o Maria, non abbiam più niente a dire: siam pure afflitti, e in tante miserie vogliam pigliare la croce e seguire Gesù. Dio vi salvi, o Maria.

3. In quest’ora tremenda, quando Gesù va al Calvario, la Maddalena, le pie Marie e Giovanni a non disperarsi si stringono presso di Voi, o Maria. E Voi che dite a quei tribolati? Buona Madre! Ve li tirate con Voi sin sotto la croce. Deh, Madre anche nostra! in questo mondo così sconvolto non ne possiamo proprio più: ahi abbiamo paura di perderci! Salvateci Voi sul petto insanguinato di Gesù Cristo. Dio vi salvi, o Maria.

4. E Pietro? Il povero Pietro guarda da lontano Gesù che va a morire. Si trova solo col suo rimorso… Gli Apostoli son fuggiti, Giuda si é strozzato; ed egli cogli irti capelli, cogli occhi sbarrati… par che la terra gli traballi sotto dei passi… è tentato di perdersi anch’esso… Ma chi mai, chi lo può salvare dalla disperazione?… Pietro è fortunato: in tanta sventura vi è chi lo può aiutare ancora; gliel dice il cuore; e corre a Maria….. E Maria: O Pietro… E del mio Gesù? — E Pietro a Lei: O Maria, io l’ho negato!… chi mi perdonerà?… Egli va alla morte! E in ciò dire si gitta per terra a piè di Maria. Maria lo solleva, gli stringe il volto tra le mani materne; e: povero Pietro, gli dice piangendogli sul volto! fa coraggio: il mio Figliuolo è buono, sai; io lo conosco: il mio Figliuolo ti perdonerà, gli parlerò io, Pietro! E Pietro dalla disperazione è salvo. Maria, voi siete il rifugio alla opportunità anche dei più poveri peccatori, anche dei più tentati di disperazione! Dio vi salvi, o Maria.

5. D’intorno a Maria piangono le pie donne. Entrano Maddalena Giovanni. E Maria a loro: O Maddalena, o Giovanni, lo avete veduto il mio Gesù? E Maddalena le si butta ai piedi; con un braccio le stringe le ginocchia, e coll’altra mano ne’ capelli che getta in aria, cogli occhi sbarrati e la bocca aperta pare che dica convulsa: Madre, non posso parlare. Giovanni la sorregge alle spalle, si abbassa a Lei e le dice a singhiozzi: O Madre, rassegnatevi… Va al Calvario! E Maria: Al Calvario? O mio Gesù, ed io non vi vengo appresso? — Sorge e s’avvia per quella strada che ancora adesso fino i turchi chiamano la via di tutti i dolori. Oh Maria, che vedete Voi mai su quella strada?… Ella vede le strisce del caldo Sangue che perde Gesù!… Oh che fitta di spasimo al vostro cuore nel montare su quel caldo Sangue… Maria! Maria! tirateci appresso: bagnateci del Sangue di Gesù Cristo: accompagnateci sino alla morte. Dio vi salvi, o Maria.

6. Sulla via al Calvario che scorge Maria? Ah… ah sotto quella trave con quel fascio di spine in testa… tutto rigato di Sangue… lì li per cadere ad ogni passo Gesù… Maria si slancia innanzi; i soldati le appuntano le picche al petto… ma a quel tanto dolore in volto a Maria abbassano le lance a terra… tutti ristanno a quel tormento di Madre; e Maria è al collo di Gesù…. Oh Figliuol mio!… e Gesù: mamma! ma Voi qui adesso!… no; Voi qui adesso… Maria sviene sul petto a Gesù!… Gesù con un braccio tenendo la trave, coll’altro sorregge la vita alla Madre e posa il volto insanguinato sul capo a Maria, e la bagna del suo Sangue… Oh Cuor di Gesù posato sul Cuor di Maria che avete provato in quell’istante?! Gesù e Maria pigliatemi tra Voi due come vostro Figlio: miserere di me, mi manca il cuore! ma voi non lasciatemi indietro sulla via del Calvario. Patire con voi è la più grande grazia di Dio! Dio vi salvi, o Maria.

7. Intanto gli scribi, i farisei, il popolaccio, tutti gli uomini d’ogni maniera fremono di gioia infernale in vedere avviarsi alla morte Gesù. Tutti? no; gli uomini non son tutti perduti: vi sono sempre almeno pochi buoni, i quali salvano l’onore dell’umanità e protestano contro tutti i malvagi. Ah si, il drappello dei forti, dei costanti vi è sempre in ogni tempo. Alcune pie donne piangono sopra Gesù: alcune pietose persone sono con Maria sulla montagna del Crocifisso. Oh Maria, salvate anche noi da quell’orda di gente perduta, la quale vorrebbe trascinare tutti a perdizione; tirateci di vostra mano a seguire Gesù, a meditare i suoi patimenti, a piangere i peccati che ne son l’infausta cagione, mentre il gentame del mondo gavazza. Dio vi salvi, o Maria.

8. Quei manigoldi obbligano il Cireneo a portare la croce per Gesù, il quale non ne potendo più della vita vi cade sotto. O Maria, sorreggetemi nella mia debolezza; e se per disgrazia mai cadessi in peccato, datemi mano voi, santa Madre, a rialzarmi. Dio vi salvi, o Maria.

9. Ah! no, noi non potremmo soffrire di vedere una povera madre correre dietro al suo figlio fin sotto al patibolo, dove lo strozzano; eppure noi contempliamo Maria che corre appresso a Gesù fin sotto la croce per vederlo morire squarciato!… Questo troppo orribile patimento è riserbato a Gesù ed a Maria affinché noi pigliamo conforto nelle più strazianti tribolazioni delle nostre più care persone. O Gesù, o Maria, l’avete provato l’uno per l’altra quest’orribile strazio… Consolateci col salvare le anime dei nostri più cari. Dio vi salvi, o Maria.

10. Sì, sì l’abbiamo compreso il mistero! Egli non ci resta, per essere dei più fidi a Gesù, che dare la mano a voi, o Maria addolorata, e metterci tutti dentro del Cuore di Gesù paziente. Mondo non sei più per me: voglio essere crocifisso con Gesù mio. Maria, unitemi voi cuore a Cuore, sangue a Sangue con Gesù nel Sacramento: chi mi ha ancora a separare dal mio Gesù?… O Maria, con voi esser debbo a compiere interamente e santamente la volontà di Dio; deh, fate che io viva e muoia in braccio a voi sulla croce di Gesù. Dio vi salvi, o Maria.

Gloria Patri. Padre santo, gloria a Voi, grideremo sotto le nostre croci: gloria a Voi, Gesù Cristo, che ce le rendeste care da portare in compagnia di Voi. Spirito Santo, gloria a Voi, che se ci infondete la necessaria forza, noi le porteremo fino alla gloria eterna del paradiso, (Si reciti il Gloria Patri). Requiem æternam. Deh, Gesù, deh, Maria, ricordandovi della strada di tutti i vostri dolori, mandate la requie alle povere anime del purgatorio. (Sé reciti il Requiem æternam).

QUINTO MISTERO. — La crocifissione.

Nel quinto mistero doloroso si contempla come Gesù, giunto sul Calvario, fu spogliato e confitto sopra la croce, essendo presente la sua afflittissima Madre; e si contempla come morì in croce dopo tre ore di penosissima agonia.

CONSIDERAZIONE.

O buon Gesù, o buon Gesù; ci pare di vedervi sopra il cruento altare. Quivi v’immaginiamo come in mezzo a quei feroci, i quali strappanvi d’indosso gli abiti, e vi stramazzano di un colpo sui sassi; ai polsi, ai piedi vi stringono corde, e tra i ciottoli e le spine vi strascinano fino sulla croce. Deh, deh, lasciateci qui cadervi sopra a piangere per quell’amore con cui vi adattate a questa croce!… Ecché? vi stendete sopra del legno, voi?… E la benedetta mano, oh allargate? Che vi aspettate?… Un chiodo appuntasi in mezzo alla palma! Ahi! Ahi che battono atroci i colpi! E questi colpi battono sul cuore a Maria!… Povera Madre! Le manca il cuore, e tramortisce per lo terrore quando lo vede distendersi sopra il patibolo!… ma il martellare dei colpi la ridesta all’orrore tremendo di vedersi crocifiggere sugli occhi il Figliuolo suo divino!… O Madre…. povera Madre, fuggiamo via!… Ma no; anzi ella cerca coll’occhio annebbiato e tutto pieno d’immagini di morte in quell’orrore dov’è, dov’è il suo Gesù..: e se lo vede davanti in croce! Figlio, v’hanno già inchiodato in croce! — dice slanciandosi ad abbracciarlo; e Gesù: O Madre, ho tanta sete! — Ma la vostra Madre, o buon Gesù, non ha un gocciol d’acqua da rinfrescarvi le labbra nell’agonia!… Deh, noi potessimo consolare la vostra sete che vi arde di salvare le anime! Il Sangue intanto gronda dalla croce, e piove sul capo, sul volto, sulle vesti di Maria Santissima. Gesù si vede lì sotto la Madre tutta bagnata del suo Sangue; e in quel punto proprio la dà per Madre a noi. Maria, sentendosi che il Figliuol suo muore, lascia cadersi giù le braccia che teneva sollevate alla croce; e le mani cadono sul capo a Giovanni e Maddalena che le gemono ai piedi… Oh Dio che grido: « Tutto è consumato » sclama Gesù! Madre, salvateci che Gesù agonizza, e fateci spirare con Lui!… La Madre sta ancora sott’esso la croce, e nel vedere squarciar al Figliuolo anche il Cuore, quel colpo di lancia passa il Cuore suo: non ne può più… e cade sui sassi insanguinati. Qui a piè del patibolo riceve il Corpo di Gesù tra le braccia, e ce lo mostra tutto squarciato per noi!… Gesù e Maria, che possiamo dirvi noi in questo momento di compunzione che ci opprime il cuore? Qui gettatici ai vostri piedi, non possiamo che gridare: Padre, guardate in faccia al Figlio vostro, guardate le piaghe al Figlio vostro! guardate alla Madre addolorata, bagnata del Sangue del Redentore: guardate a noi in fronte il Sangue suo! Noi vi siam figli del suo Sangue. Padre, ecc… Pater noster. O Padre santo, dal cielo non guardate in faccia a noi, i quali ci nascondiamo in seno a nostra Madre tutta bagnata del Sangue del vostro Figlio; guardate in faccia a Gesù che ci nasconde sotto la sua croce, che ci copre colle sue piaghe. Siamo figli del suo Sangue, e vogliamo vivere insieme con Gesù: regnate voi nella famiglia formata nel Cuore squarciato di Lui: Egli ci accoglie tra le braccia allargate nella croce. (Si reciti la prima parte del Pater noster, e poi si faccia la Comunione spirituale). Gesù, nascondeteci nel vostro cuore; noi vi ameremo tutti insieme colla vostra Madre. Oh tra le sue braccia, e sotto la croce non ci perderemo! (Si reciti la seconda parte del Pater noster).

1. Ave Maria. Ora tremenda! Maria è giunta sul Calvario con Gesù… Ahi vede i chiodi… i martelli… gli strumenti da configgerlo alla croce… e il suo Gesù buttato colla trave per terra. Ahi vede che vi si stende sopra colle braccia larghe… Un demonio di uomo dà mano ai chiodi, al martello… A Maria si oscura la vista; le manca la vita, e cade tramortita tra le braccia a Giovanni. Giù colpi di martello sulle mani, sui piedi a Gesù! Quei colpi battono sul cuore a Maria e la destano dal suo tramortimento. — 0 Figliuol mio, mio Figliuolo!… vi inchiodano in croce! — O Maria, noi non abbiamo più il diritto di lamentarci di qualunque colpo; ci gitteremo sulla croce; e sì finisca pure di crocifiggerci con Gesù appiè di voi, Madre nostra! Dio vi salvi, o Maria.

2. Madre addolorata, gettateci appresso a Gesù, il quale dalle mani e dai piedi inchiodati spiccia Sangue… O Sangue di Gesù, piovete sulle nostre persone crocifisse con Lui……: e Voi, santa Madre, questo fate che le piaghe del Signore sieno impresse nel nostro cuore! Dio vi salvi, o Maria.

3. Maria ismarrita nella tetraggine del dolore, collo sguardo annebbiato e pieno d’immagini di morte cerca del suo Gesù, e sel vede alzato in croce… — Mio Gesù, geme con ansioso lamento: mio Gesù, e che può farvi la vostra Madre?… E Gesù con un gemito: — Oh mamma, ho tanta sete… — Figliuol mio, la vostra Madre… vi darebbe il sangue… ma non ha una goccia d’acqua da refrigerarvi le labbra nell’agonia. — O Maria, ben lo sapete che Gesù ha sete delle anime nostre e dei nostri figli. Maria, noi vogliamo consolargli questa sete delle anime nostre e dei nostri figli! Maria, vogliamo consolare nella sete Gesù, e consolare Voi, o Madre. Vi giuriamo che ci vogliamo salvare. Dio vi salvi, o Maria.

4. Madre mia, fatevi appresso, le dice Gesù, ché io voglio fare il mio testamento. — Maria a farsi più sotto la croce; intanto che il Sangue, il quale gli pioveva dalla divina testa, gli grondava dalle mani e scorreva lungo la croce dai piedi, gocciava sulla testa, sul volto, sulle mani di Maria e le intingeva le vesti. Gesù quando se la vide lì sotto tutta bagnata del suo Sangue, ce l’ha lasciata per Madre. O Maria, o Maria, fateci da Madre ora dunque e sempre, sino alla morte. Deh! non lasciateci perdere; Vi costiamo troppi dolori. Sì che ci salveremo: Maria, siamo vostri figli, salvateci. Quando corpus morietur fac ut animæ donetur paradisi gloria. Dio vi salvi, o Maria.

5. Quando Gesù ci ebbe data per madre la Madre sotto la croce, Egli parlò col ladro. Consolante mistero! Appresso a Gesù vi è Maria, e trovasi eziandio con Lei il ladro: l’innocenza e la santità in Maria, l’uomo pentito nel ladro. Gesù parla con Maria, ma parla pure col ladro; ma al ladro, perché più disgraziato, parla con maggiore misericordia. A Maria, tutta forte nel sacrificio per salvare i figliuoli, dice: — Madre, voi perdete il Figlio, ma vi lascio per madre ai nostri figliuoli! — Al ladro dice: oggi sarai meco in paradiso. — Ah dunque sotto la croce per mezzo di Maria nessuno si bada perdere, sia pur troppo grande peccatore. Vi ci raccomandiamo tutti, o Maria. Dio vi salvi, o Maria.

6. Gesù gronda le ultime gocce delle sue vene. Maria tutta intrisa di Sangue guarda esterrefatta Gesù che agonizza. Gesù e Maria, voi avete presi i concerti per salvare le anime nostre in quell’angoscioso istante! O Gesù, tirateci sotto la croce, noi ci vogliamo stare colla vostra Madre a contemplarvi: Stabat Mater dolorosa, inxta crucem lacrymosa dum pendebat Filius. Dio vi salvi, oMaria.

7. Ma trema la terra, è scuro il cielo, l’aére negro, e l’universo par che pianga anch’esso sopra Gesù. Gesù mette un alto grido: « Tutto è consumato… » Anche i Giudei si battono il petto, ed i morti si ridestano nei sepolcri: tutto è consumato in Gesù. Il peccato dovette esser pagato colla morte di un Dio. Misericordia!… Maria, metteteci sul petto a Gesù nel Sacramento: gli spireremo sul Cuore. Gesù, Maria, vi raccomandiamo l’anima nostra, i peccatori, i giusti, i moribondi: aiutateci nella nostra per la divina agonia. Dio vi salvi, o Maria.

8. Maria quando moriva Gesù lasciò cadere giù le braccia tremanti sopra Maddalena e Giovanni, che rappresentano i giusti e i peccatori convertiti; e stavasi cogli occhi in Gesù morto. Ah! Le balena ad un tratto dinanzi un lampo di lancia, che dà dentro nel petto a Gesù!… Maria manda uno strido.. ahi! ma Gesù non lo sentiva più quel colpo. Senti però Maria ben addentro il conficcarsi di quella lancia; e per questo la ferita del Costato di Gesù è ferita al Cuor di Maria. Per questo il Cuore immacolato di Maria è tutto fatto per la conversione dei peccatori. O Cuore di Maria, dopo il Cuor di Gesù, sarai la speranza nostra e dei poveri peccatori. Dio vi salvi, o Maria.

9. Maria si gitta sotto la croce tra i sassi tutti bagnati del Sangue di Gesù, e lo riceve morto fra le braccia… e in mostrandoci le piaghe di Lui, ci prega di mettere sopra a ciascuna un buon proponimento, e di chiuderci dentro al Cuore divino nei Sacramenti. O Maria, Madre nostra, sì che lo faremo! Dio vi salvi, o Maria.

10. Oh Maria, abbiamo noi Gesù Cristo qui in mezzo di noi colle sue santissime Piaghe, cui vuole sempre tenere aperte per nostro vantaggio. Deh! almeno quando vegnamo in chiesa gliele vorremmo baciare! Metterci in cuore a Lui, acciocché possiamo fare tutto il bene in Lui, e in Lui spirare l’anima nostra all’agonia. Dio vi salvi, o Muria.

Gloria Patri. Gloria a Voi, Padre santo, vi grideremo col Cuor santissimo di Gesù Cristo; gloria a Voi, o Gesù benedetto, che ci salvaste colla vostra morte; gloria a Voi, Spirito Santo. Il mistero della salvezza del genere umano è compiuto nella morte di Gesù: Voi portateci a vivere beati per Lui Ne in paradiso. (Sì reciti il Gloria Patri).  Requiem æternarm. Gesù, Maria, il crocifisso si innalza anche sul purgatorio. Pace eterna per le piaghe santissime alle anime del purgatorio (si reciti il Requiem).

NOVENA ALL’ARCANGELO SAN RAFFAELE (Festa il 24 Ottobre) – Inizio il 15 Ottobre

NOVENA ALL’ARCANGELO S. RAFFAELE (festa 24 ottobre).

inizia il 15 Ottobre

(G. Riva, Manuale di Filotea, XXX Ed. Milano, 1888)

1. Nobilissimo Arcangelo S. Raffaele, che dalla Siria alla Media accompagnaste sempre fedele il giovanetto Tobia, degnatevi di accompagnare anche me miserabile peccatore nel pericoloso viaggio che ora sto facendo dal tempo all’eternità. Gloria.

II . Sapientissimo Arcangelo S. Raffaele, che, camminando presso il fiume Tigri, preservaste il giovine Tobia dal pericolo della morte, insegnandogli la maniera d’impadronirsi di quel pesce che lo minacciava, preservate anche l’anima mia dagli assalti di quel mostro che dappertutto mi circonda per divorarmi. Gloria.

III. Amorosissimo Arcangelo S. Raffaele, che arrivato nella Media col giovane Tobia, andaste voi stesso nella citta di Rages per riscuotere da Gabelo la nota somma di cui era debitore, siate, vi prego, mediatore dell’anima mia presso il Signore, affine d’ottenermi la totale remissione degli enormi debiti da me contratti colla sua tremenda giustizia. Gl.

IV. Potentissimo Arcangelo S. Raffaele, che liberaste la buona Sara dall’immondo Asmodeo, costringendolo a far ritorno ne’ suoi abissi, liberate anche l’anima mia dall’avarizia, dalla superbia, dalla collera, dalla libidine, dalla gola, dall’accidia, e da tutte le altre passioni, che, a guisa di demonj, la tiranneggiano continuamente, e fate che, liberata una volta, non abbia mai più a ritornare sotto l’ignominioso loro giogo. Gloria.

V. Benignissimo Arcangelo S. Raffaele, che procuraste alla buona Sara una compita felicità, maritandola con Tobia dopo di averla prodigiosamente liberata dalla schiavitù del demonio, fate che anche l’anima mia, tolta alla tirannia delle passioni, si unisca come una sposa al suo Gesù con vincoli indissolubili di una fede sempre viva e di una carità sempre ardente. Gloria.

VI. Pietosissimo Arcangelo S. Raffaele, che, con prodigio affatto nuovo, ridonaste al cieco Tobia il prezioso dono della vista, liberate, vi prego, l’anima mia dalla cecità che l’affligge e la disonora, affinché, conoscendo le cose nel loro vero aspetto, non mi lasci mai ingannare dalle apparenze, ma cammini sempre sicuro nella via dei divini comandamenti. Gloria.

VII. Liberalissimo Arcangelo S. Raffaele, che, dopo avere ricolmato di beneficj e di ricchezze la casa di Tobia, generosamente rifiutaste tutti i tesori a voi offerti in attestato di riconoscenza, ottenetemi, vi prego, un totale distacco dalle cose della terra, affinché rivolga tutti i miei sforzi all’acquisto dei beni eterni e inestimabili del paradiso. Gloria.

VIII. Umilissimo, Arcangelo S. Raffaele, che ricusaste di ricevere gli omaggi d’adorazione a voi prestati dalla riconoscente famiglia del buon Tobia, ottenetemi dal Signore un grande amore all’umiltà, affinché, fuggendo tutti gli onori e le distinzioni del mondo, riponga tutta la mia gloria nel vivere una vita nascosta in Gesù Cristo. Gloria.

IX. Perfettissimo Arcangelo S. Raffaele, che state sempre dinanzi al trono dell’Altissimo a lodarlo, a benedirlo, a glorificarlo, a servirlo, fate che anch’io non perda mai di vista la divina presenza, affinché i miei pensieri, le mie parole, le mie opere sieno sempre dirette alla sua gloria ed alla mia santificazione. Gloria.

OREMUS.

Deus, qui Beatum Raphaëlem Arcangelum Tobiæ famulo tuo comitem dedisti in via, concede nobis famulis tuis, ut ejusdem semper protegamur custodia et muniamur auxilio. Per Dominum, etc.

O Dio, che desti al tuo servo Tobia, compagno di via, il Beato Arcangelo Raffaele, concedi a noi, tuoi servi, di essere sempre protetti dalla sua custodia e muniti del suo aiuto. Per il Signore … ecc.

GIACULATORIA.

Fate ch’io seguavi sempre fedele, Mio caro Arcangelo San Raffaele