MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -VII- di mons. J. J. Gaume [capp. XXIII-XXVI]

CAPITOLO XXIII

AFRICA OCCIDENTALE.

I.

Dalle isole del Capo Verde sino al Congo, le coste occidentali d’Africa su d’una larghezza di venti a quaranta leghe, e forse più, rosseggiano continuamente di sangue umano; e ciò da’ secoli i più remoti. Allorché alla fine del decimoquinto secolo, verso il 1481, gli Europei approdarono alle coste occidentali d’Africa, trovarono il regno di Benin in pieno potere dei sacerdoti de fetisci. Questi sacerdoti, oracoli della nazione, vantavano familiari rapporti col demonio, e l’arte di penetrare nell’avvenire, per mezzo d’un vaso che portava tre fori, onde traevano un certo suono. Erano consultati dai negri in tutti gli affari di Religione, e tutto si faceva secondo i loro consigli.

II.

Regolatori del culto, essi avevano stabiliti molti giorni consacrati al servizio degli dèi. Il giorno di riposo aveva luogo ogni cinque giorni. Veniva celebrato con offerte e con sacrificio I grandi immolavano vacche, montoni e capre, in quella che il popolo contentavasi di sacrificar cani, gatti e polli. – Nella festa anniversaria, celebrata ad onore dell’ultimo re defunto, si sacrificavano non solo un gran numero d’animali, ma molte vittime umane; ed erano d’ordinario rei condannati a morte, riservati per questa solennità, giusta il consueto in numero di venticinque.

III.

Quando non arrivassero a questo numero, gli officiali del re dovevano percorrere le vie di Benin, durante la notte, e portar via indistintamente chiunque avessero incontrato senza lume. Era permesso ai ricchi di riscattarsi, ma i poveri erano immolati senza pietà. Gli schiavi d’un grande potevano essere riscattati dal loro padrone, purché apprestasse altre vittime. [Walkenarer, Hist. gen. dos. Voy., t 4, p. 91].  

IV.

Dopo la scoperta degli Europei, il regno di Bènin non ha punto rimesso della sua ferocia. Come uno de’più potenti Stati della Nigrizia marittima, estendesi da Lago sino a Bonny, e conta tra i suoi vassalli i regni d’Avissia, di Kosia, e la repubblica di Bonny. Anche oggidì i suoi abitanti feroci e guerrieri, immolano vittime umane, vendono quel che non uccidono, e riguardano il loro re siccome un dio, che vive senza nutrirsi. Un pozzo profondo serve di sepoltura a questo capo, e precipitano sopra il suo corpo una folla di persone, specialmente i favoriti da lui. Nel 1648 il loro numero giunse alcune volte fino a trecento.

V.

La repubblica di Bonny si distingue per un’atrocità tutta propria. Ogni anno in una certa stagione, gettasi all’imboccatura del Niger, fiume del paese, una gran quantità di carne, per attirare i pesci. Si prende in seguito una fanciulla di sei a sette anni, e si pone in una piccola piroga ornata di foglie. La calano all’imboccatura del fiume, tra mille grida selvaggie e al suono del tam-tam. Giunta al luogo indicato, fan capovolgere la piroga, e cosi la povera fanciulla cade in mezzo ai pesci, che ne fan loro pasto. Il sacrificio di quest’innocente vittima si fa al genio del fiume, collo scopo d’attirarvi i commercianti. Questa ributtante crudeltà non fa più meraviglia, quando si sa che un grosso serpente appellato nel Gabon, Guelè-Toppia, è il dio degli abitanti. Ecco quel che accade tuttavia nel regno di Benin, che ancora non ha ricevuta la predicazione del Clericalismo. E oggidì vogliono sterminare il Clericalismo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone! [Lettera del R, P. Deforme, miss, al Gabon, 7 sett. 1876].

VI.

Costeggiando verso il sud, la parte occidentale d’Africa, arriviamo al Congo. Nel quindicesimo secolo l’antica idolatria vi regnava con pieno potere, e senza misura esigeva dai poveri negri il doppio tributo del corpo e dell’anima. Scoperto nel 1487 dal capitano portoghese Diego Cans, questo paese vide giungere, due anni dopo, i primi missionari cattolici. Allorché gli apostoli della buona novella posero il piede su questa sventurata terra furono testimoni de’ seguenti barbari riti.

VII.

Il negro che voleva offrire un sacrificio a qualunque delle numerose divinità, di cui é pieno il paese, ne dava avviso al ministro dell’idolo. Questi non perdeva l’occasione di esagerar l’importanza del servigio domandato, e di esortare il negro a non mostrarsi avaro nelle oblazioni prescritte. Minacciavate della collera dell’idolo, che saprebbe prender vendetta della sua avarizia. – Il negro, rientrato nella sua casa, faceva venire i migliori musici della contrada, affin di pubblicar l’ora in cui avrebbe luogo la cerimonia. Nel giorno stabilito ritornava, accompagnato dai suoi parenti e dai suoi amici, alla casa del sacerdote, e lo supplicava di voler intervenire qual suo mediatore appresso l’idolo.

VIII.

Questi seduto in circolo coi suoi colleghi, si levava all’avvicinarsi del negro, correva alla porta, esaminava la presentata mercede; e se la trovava maggiore della convenuta, atteggiandosi a gravità diceva al negro, che acconsentiva rendergli un tal servigio. Seguito da’ suoi colleghi, portavasi all’abitazione dell’idolo, dove entrava battendo le mani, in segno di gioia. Diceva ad alta voce il nome e il grado di colui che offriva il sacrificio, il numero ed il valore delle oblazioni; quindi deponendole sull’altare con aria di profondo rispetto, pregava l’idolo di conservare in pace ed in salute quegli, che, offrendo il sacrificio, nulla risparmiava per onorarlo.

IX.

Fatta questa preghiera, ecco scoppiare col più terribile fracasso la musica dei barbari concertisti, miscuglio di grida e di suono che si riproducevano di lontano. Questo violento esercizio non si sarebbe potuto continuar lungo tempo dai musici, se il negro non avesse loro dato da bere; ma prodigava ad essi i liquori più forti del paese, e li riscaldava talmente che il frastuono andava crescendo sino a che il sacerdote non lo facesse cessare.

X.

Dopo tre ore di questo orribile strepito, si recavano alla casa del negro, attorno alla quale i canti, la musica e la danza duravano tre giorni e tre notti. Il quarto giorno, che era propriamente quello del sacrificio, tutto il rumoroso corteggio andava di nuovo all’abitazione dell’idolo. Vi si conducevano gli uomini e le bestie che dovevano essere immolati. Il sacerdote li presentava al nume, e li scannava. Il numero delle vittime umane era proporzionato alla qualità dell’idolo, la cui figura era subito imbrattata del sangue fumante, che tutti si davano premura di bere. Quando il sangue delle vittime infelici cessava di scorrere; si tagliavano in pezzi i corpi; si mettevano in sul fuoco; e senza aspettar nemmeno che fossero cotti, gli assistenti vi si gettavano sopra e li divoravano avidamente. Quelli che erano tanto insensati da far tali dispendiosi sacrifici, d’ordinario impoverivano totalmente, altro loro non rimanendo che il vano onore d’essere impoveriti per cotal festa abominevole. [Relazione storica dell’Etiopia occidentale, del P. Labat, t. I, p. 312]. Ecco quel che accadeva nel Congo, prima della predicazione del Clericalismo. Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

CAPITOLO XXIV

AFRICA OCCIDENTALE (Continuazione.)

I.

Non men tristo era lo stato dei vicini regni di Cacongo e d’Angoy. Alle superstizioni più crudeli e ridicole aggiungevasi il sacrificio umano. I negri di questo paese credevano che l’uomo lasciasse, morendo, una vita miserabile, per entrare in un’altra piena di felicità; e si tenevano a questa credenza per affrettar la morte ai malati. Si vede qui la gran malignità del demonio, che travolge a barbari atti il domma più consolante del Cristianesimo.

II.

Laonde i parenti d’un negro agonizzante gli tiravano con tutta forza il naso e le orecchie; gli davano pugni nel viso, gli agitavano con violenza le braccia e le gambe, e gli chiudevano la bocca per più presto soffocarlo. Altri il prendevano per i piedi e per la testa; e dopo averlo alzato in alto il più possibile, lo lasciavano di botto cadere; altri ancora ponevano le ginocchia sul suo petto e lo premevano tanto da schiacciarlo. Facevano questo, dicevano, per compassione, per togliere all’agonizzante i dolori d’una lunga lotta e liberarlo senza indugio dalle pene della vita terrestre. [Ecco da dove prende origine la nobile e civile EUTANASIA! –ndr.-.]

III.

Morto che era il malato, i suoi schiavi, i suoi parenti e i suoi amici si radevano affatto la testa in segno di duolo, e ungendosela ben bene di olio, si ricoprivano di polvere di differenti colori, mista a piume e foglie secche triturate. I funerali cominciavano col sacrificio di qualche pollo, del cui sangue si spruzzava la casa di dentro e di fuori. Poscia si gettava lo scheletro sul letto, ad impedire che l’anima del morto non facesse il Zumbi, ossia non tornasse ad impaurire gli abitanti con apparizioni; imperocché credevano che chiunque vedesse l’anima d’un morto, cadrebbe morto anch’egli all’istante.

IV.

Dopo la cerimonia dei polli, si continuavano i lamenti sul cadavere. Allorché si era pianto e gridato per qualche tempo, si passava ad un tratto dalla tristezza alla gioia, banchettando a spese de’ più prossimi parenti del defunto. Il banchetto finiva con la danza, terminata la quale, si procedeva alla sepoltura.

V.

Il cammino doveva farsi in linea retta, e se si incontrava qualche muro, ed anche qualche casa per via, non s’esitava punto di abbatterla. L’uso ordinario (bell’uso veramente!) era di seppellir nella medesima tomba, per servizio del morto, qualche persona viva con una provvisione di viveri e di liquori. Questo accadeva nei regni di Cacongo e di Angoy prima della predicazione del Clericalismo. Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

VI.

Veniamo ad un’altra parte considerevole dell’Africa: la Guinea o le due Guinee. Questo vasto paese è compreso fra la colonia inglese di Sierra-Leone al Nord, ed il capo Lopez al sud. Gli spagnoli e i portoghesi lo scoprirono successivamente negli anni 1446 e 1484. Siccome tutte le altre parti della costa, essi trovaron questo paese sotto la dominazione sanguinaria ed assoluta del demonio. Intanto l’ora della misericordia giunse per questo povero popolo, che i figli del venerabile Padre Libermann continuano anche ai nostri giorni ad evangelizzare con eroico sacrificio.

VII.

Nel 4605, il celebre missonario gesuita Balthazar Barreira, sbarcò sulla costa di Guinea. Erasi imbarcato a Lisbona con molti de’ suoi fratelli. Tutti arrivarono felicemente all’isola di Sant-Iago, la principale dell’Arcipelago del Capo Verde. Era questa come il deposito generale degl’infelici schiavi negri, i quali v’eran condotti dall’interno della Guinea, per esser esportati lontano. Il primo benefico atto dei mis-sionari fu d’aprire gli occhi a questi poveri negri sui prestigi dei loro indovini, che sotto colore di rendere la sanità ai malati, nuocevano egualmente ai loro corpi ed alle loro anime.

VIII.

Un altro male non men deplorabile, si è che gli appaltatori, impazienti di guadagno, facevan battezzare frettolosamente gli schiavi, talvolta a truppe di seicento uomini, affin di trasportarli al più presto in differenti contrade del mondo. I Padri ottennero la libertà per un gran numero di questi sventurati, che venivano con violenza strappati dalla patria e dalla famiglia. Per tutti essi ottennero la dilazione che richiedeva l’insegnamento della religione, che si faceva abbracciare loro.

IX.

Avanzandosi nell’interno delle terre, il Padre Barreira arrivò a Quinola, il 7 gennaio 1605; ma non potè abboccarsi col vecchio re di Bissan che avevagli date speranze di conversione. Solamente ottenne dal ministro protezione pel Cristianesimo, e la promessa di non macchiar di sangue umano i funerali del re; imperocché era uso di quel popolo di scannare sulla tomba del loro principe le sue donne, i suoi principali servitori, e il suo cavallo di battaglia, affinché, nell’altro mondo, potesse presentarsi con un corteggio reale. [Du Iarric, Storia delle cose più memorabili, t. III, p. 377]. – Nel 1607, il generale dei gesuiti spedì molti ausiliari al Padre Barreira, fra gli altri il Padre Emmanuele Alvarez. Questo coraggioso missionario s’internò nelle terre, e sua prima cura fu di raddolcire i costumi degli abitanti. Ottenne la soppressione dei sacrifici umani, accompagnati da circostanze atroci, con le quali i negri pretendevano onorare i loro principi defunti. Il re di Quinola abolì questa barbara usanza, e domandò il battesimo. Ecco quel che accadeva nella Guinea prima della predicazione del Clericalismo! Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone! [Du Iarric. Storia delle cose più meviorabili, t. III, p. 377].

CAPITOLO XXV

AFRICA OCCIDENTALE

(Continuazione.)

I.

Continuiamo il nostro viaggio sulle coste africane. Il 18 ottobre 1801 un dei nostri missionari venuto a Parigi dopo dodici anni di dimora nelle diverse parti dell’Africa occidentale, ne diceva, e più tardi ne scriveva quanto segue: « Era il mese di settembre 1850. Io stesso mi trovava nei luoghi, dove si compì il sacrificio di cui voglio parlarvi. È da notare che questo non è già un fatto unico, perché tal sorta di sacrifici son d’un uso frequentissimo. La vittima era un bel giovane, preso da una popolazione vicina. Per quindici giorni, fu legato mani e piedi ad un tronco d’albero, in mezzo alle case del villaggio.

II.

«.L’infelice conscio del destino che lo attendeva, fece, durante la notte del quattordicesimo al quindicesimo giorno, un ultimo sforzo per sciogliersi dai suoi legami; e vi riuscì. Sbalordito giunse avanti giorno ad una posta francese. Non intendendo alcuno la sua lingua, fu preso per uno schiavo fuggitivo; e senza difficoltà fu consegnato ai negri, che, essendosi posti ad inseguirlo, non tardarono a reclamarlo. Ricondotto al villaggio, il sacrificio fu stabilito pel medesimo giorno, che era di venerdì, ed ebbe luogo nel modo usato.

III.

« La vittima vien legata su di una pietra che ha forma d’altare, nel centro della gran piazza. Attorno alla piazza son collocate sul fuoco pentole piene di acqua. Una musica assordante accompagnata da numerosi tamburi, occupa una delle estremità della piazza, e attende il segnale. La popolazione del villaggio e dei villaggi vicini, sovente in numero di tre a quattro mila persone, vestite de’i oro abiti di festa, si dispone in circolo attorno la vittima. È in piccolo un anfiteatro Romano.

IV.

« Dato che è il segno, la musica, i tamburi, le grida della folla riempiono l’aria d’uno strepito infernale: è questo l’annunzio del sacrificio. I sacrificatori s’approssimano alla vittima, armati di coltelli», e danno mano all’atroce ministero. La vittima deve essere, secondo il rito, fatta a pezzi ancor viva. « Incominciasi dalla mano diritta che viene staccata dal braccio, tagliando l’articolazione del polso. Quindi si passa al piede sinistro che vien reciso disotto la noce; poi si viene alla mano sinistra e al piede destro. Dai polsi passano ai gomiti, dai gomiti ai ginocchi, dai ginocchi alle spalle, dalle spalle alle cosce, alternando sempre fino a che resti il solo busto, sormontato dalla testa. In tal guisa fu immolato quel giovane infelice.

V.

« A misura che vengono recise, le membra della vittima son portate nelle caldaie piene di acqua bollente. Si pone fine all’operazione troncando, o meglio, segando la testa che gettasi nel mezzo della piazza. Allora comincia uno spettacolo di cui mai si potrebbe dare una debole idea; gli astanti sembrano presi da un furore diabolico. « Al suono d’una musica orribilmente assordante, allo schiamazzo di fiere vociferazioni, le donne scapigliate, e gli uomini presi da non so qual diabolica frenesia, s’abbandonano a certe danze, o piuttosto a contorsioni orrende. La ridda infernale obbliga ciascun danzatore di batter col piede, ballando continuamente, la testa della vittima, che si fa cosi rotolare su tutti i punti della piazza; di prender con un coltello, mentre passano vicino alle caldaie, un pezzo di carne, e mangiarlo colla voracità della tigre. Credono così di placare il fetisco adirato.» [Lettera di Mons. Duret, vic. apost. della Senegambia].

VI.

Ascoltiamo ora il racconto d’un altro missionario, testimone oculare del fatto che ci racconta. « Da qualche mese, la febbre infieriva in una delle nostre tribù, e mieteva un gran numero di vittime. Il re si porta a trovare il sacerdote del serpente, e: Non hai tu, gli dice, un mezzo di far cessare il flagello? — Gli dèi sono irritati, risponde il sacerdote, e chiedono del sangue. — Vai, gli dice il re, scegli nella tribù la gioventù più bella e più pura, e tu stesso la scorticherai viva. »

VII.

« All’indomani, nell’uscir io di mia casa, ahi! quale scena spaventevole non mi s’offrì alla vista: un corpo rosseggiante ancora di sangue, ond’esalavano ineffabili singhiozzi, coi piedi avvinti da un nodo scorritoio, trascinato con lunga fune, da una folla delirante, attraverso i bronchi della foresta. Era una giovanetta stata da poco scorticata, e la madre era li che dietro la traccia del sangue e dei brani di carne attaccati alle spine, seguiva il corpo della figlia, immolala al demonio! »

VIII.

I fatti seguenti, d’una data affatto recente, poiché sono accaduti nel mese di dicembre 1874, e nel mese d’aprile 1875, mostrano l’ostinata persistenza del sacrificio umano, sulla disgraziata terra dell’Africa. – « Messi, re di Porto-Nuovo, scrivono i nostri missionari, é morto vittima della dissolutezza e della crapula. Nella notte seguente alla sua morte, si è scavata in una parte isolata della sua dimora una larga fossa. A mezzanotte, le vittime imbavagliale e mezzo ebbre, in numero di sei, son portate via dal migan, o carnefice. Queste vittime sono il confidente, la prima donna del re, il suo piccolo schiavo, la donna addetta a rinfrescare il re con un largo ventaglio, quella che distende la stoia sotto i suoi piedi e quella che tiene l’ombrellino.

IX.

« Posto sull’orlo della fossa, il capo delle Bottiglie (il Gogan) le presenta al sacrificatore che le riceve e le offre agli dèi, spargendo sopra d’esse un po’ d’olio d’oliva mescolato a farina di formentone. Poscia s’accordano alle vittime, come ultima consolazione, alcune gocce d’acquavite. Le tre prime avvinte e inginocchiate ricevono il colpo fatale, e le loro teste cadono sotto la sciabola del fetiscio. « Le altre tre, distese nella fossa, son battute alla nuca con un bastone rotondo e liscio. I carnefici prendono il sangue caldo e fumante, che esce in abbondanza dalla bocca e dal naso delle vittime, e lo spargono sul fondo e sulle pareti della fossa. Ricevono dalle mani del capo delle Bottiglie, trecce e stoffe, e le stendono su questo letto di sangue.

X.

« Ai primi raggi del sole, la bara reale è discesa nella fossa. A un lato avvolti in una stuoia si depongono i cadaveri della prima donna del re e del piccolo schiavo, e la fossa si ricopre di terra. Gli altri cadaveri son gettati in una fossa a parte. « Tre mesi dopo, han luogo i funerali solenni. Son dessi occasione d’orribili sacrifici umani, che si succedono per lo spazio di nove giorni, con incredibile barbarie. La testa del re, tratta di nuovo fuor della fossa, vien portata alla casa fetiscia di Mezé, e i funerali si compiono in un boschetto vicino, celebre per secolari delitti. Questi secondi funerali sono l’apoteosi del re, che addiviene allora fetiscio.

XI.

« Per rialzare lo splendor di sua corte nel suo nuovo regno, gli s’inviano alcuni ministri e un gran numero di donne e di schiavi, che sono immolati con gran cerimonia. Queste povere vittime, riccamente vestite, portano le insegne degli alti personaggi che esse rappresentano. Lo schiavo o il capo del palazzo porta il nome e le decorazioni del suo padrone; è condotto al sacrificio tenente nelle sue mani una pelle di leopardo ed un piatto. La vittima del secondo ministro arriva al rogo funebre, traendo un cavallo per la briglia. « I principi delle campagne conducono pur essi i loro schiavi destinati al sacrifizio. Le principesse ancora offrono al re defunto una giovane e bella negra, per danzare e cantare avanti a lui.

XII.

« A mezzanotte cominciano le uccisioni, e continuano fino a giorno. Si compiono nella corte del palazzo, presso una capanna di bambù. Vi è prima condotto uno sventurato che vedendosi fra le mani brutali dei carnefici, comprende che dev’essere immolato, e manda fuori grida di dolore: « Aiuto! mi vogliono uccidere! che ho io fatto? Bianchi, soccorretemi. » Ma invano, perché nessuno può intervenire sotto pena di morte. Intanto non viene imbavagliato, per dargli prima di spirare commissioni per l’altro mondo.

XIII.

« Il sangue della vittima vien raccolto in una zucca; si recide al cadavere una mano e si sospende alla porta del fetiscio; si distacca abilmente la pelle dalle reni, per farne un tamburo che servirà alle prossime festiscerie. I grumi di sangue si spargono qua e là, misti allo sterco di vacca, e se ne strofina il suolo della capanna. Quanto agli ultimi pezzi di carne, vengono strascinati e vergognosamente esposti dinanzi al palazzo, alla vista di tutto il popolo.

XIV.

« Si conduce quindi una nuova vittima. È un giovane che ignora del tutto quanto l’attende. Vien menato alla capanna, e mentre è invitato a sonar la trombetta, è afferrato dagli esecutori, che gli danno le usate commissioni per 1’altro mondo, lo gettan per terra e l’ammazzano sotto una grandine di colpi di bambù. Il suo sangue è raccolto per finir d’asperger la casa. Nella maniera stessa furono per tre giorni immolate le altre vittime.

XV.

«Avvicinandosi il nono giorno, tutta la città rimbomba di grida, di canti, d’urli, di strepito di moschetterie. Si passa così la mattina in festa. Si ripartiscono le vittime, di cui la maggior parte ignora la sorte che l’attende. Verso le due pomeridiane, si preparano all’ultima cerimonia. Tutti gli sgherri del Porto-Nuovo si dispongono in battaglioni nella piazza, vicino ai loro capi di guerra, i quali hanno il loro parasole. Si pongono in marcia, al suono lugubre del tamburo, formato colla pelle della vittima immolata il primo giorno.

XIV.

« Dalla casa della missione possiamo vedere tutto ciò che sia per accadere. In faccia a noi, a cinquanta passi fuor del bastione, s’innalza nel mezzo della pianura un boschetto sacro, di forma rotonda, foltissimo. I negri vi aprirono nella vigilia a colpi di sciabole, un largo e tortuoso sentiero, che conduce ai piedi di un grande albero, ove si debbono immolare le vittime. Una lunga schiera d’uomini armati giunge colle bandiere spiegate, e viene ad ordinarci in battaglione da ciascun canto del boschetto. Ecco la prima vittima: è bianco vestita, e conduce un cavallo per la briglia; è dessa il rappresentante del capo delle scuderie del re. Cammina d’un passo accelerato e par felice; gli è un giovane d’in su ì venti anni.

XVII.

« Il palafreniere capo gli dice alla vigilia: « Desidero far presente d’un cavallo al re; vuoi tu condurglielo là in quella boscaglia, ove va a ricrearsi?» Il giovane accetta. «Bene, dice il palafreniere, va a lavarti e torna, mangia e bevi assai. Domani tu condurrai il cavallo, e porterai al re le commissioni che ti si daranno. » – « Ed ecco avanzarsi il povero giovane. Giunto dinanzi al boschetto, si ferma col cavallo, e trova in sull’entrata l’esecutore, e più lungi i suoi figli e i suoi schiavi, armati di sciabole e di bastoni.

XVIII.

« Arriva la seconda vittima, vestita come il capo che rappresenta, e tenente un parasole sopra la testa. Piantasi un sedile fuori del boschetto. La vittima vi s’asside, e i negri vengono a prostrarsele dinanzi ed a complimentarla. A vedere l’infelice che parla, gestisce, sorride, si siede e s’alza, parrebbe fosse un vero capo. « Tosto arrivano due uomini e quattro donne che debbono portare nel boschetto le teste delle vittime immolate al palazzo. Infelici! ignorano che vanno a preparare l’altare che deve divorarli.

XIX.

Finalmente si pone fuoco al rogo. Gli esecutori snudano le loro armi, e si precipitano sopra le vittime, che vengono così immolate. Frattanto un giovine si svincola da’carnefici, slanciasi nel bosco e cerca di porsi in libertà. Una fila d’uomini gli interdice il passo; riceve un colpo di fuoco alla testa, e vien tratto al supplizio. Nella confusione prodotta da questo accidente, la giovane che le principesse spedivano al re per cantare e danzare avanti a lui poté sfuggirsela nel bosco. La sventurata, bentosto raggiunta, manda fuori grida, che il tumulto c’impedisce d’intendere. Coloro che eran più d’accosto l’hanno intesa gridare: « Soccorso! Soccorso! » Molti curiosi spaventati son fuggiti. Altre vittime han mandato questo grido che io ho udito : « Ou pa mi ó ! mi uccidono. » Malgrado le sue lacrime e le sue supplicazioni, la giovine è sacrificata siccome pure il conduttore del cavallo ed un gran numero d’altre vittime, i cui corpi ancora palpitanti sono gettati sul rogo. « L’orribil sacrificio è consumato. I colpi di fuoco, in segno di festa, continuano ancora per due ore, e ciascuno riprende il cammino di sua casa. – « Io non so se gl’ Inglesi lasceranno impunite queste crudeltà, ovvero chiederanno riparazione della violazione del trattato che hanno fatto con Sungi padre di Toffa, e che questi non ha rispettato. » [Annal. de la Prop. de la foi, n. 98i, Gennaio 1876]. – Tali sono gl’ incredibili orrori che si commettono tuttavia sulle coste occidentali della malavventurata terra di Cam. La ragione n’è perché il Clericalismo non v’è stato predicato. Ed oggidì vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

CAPITOLO XXVI.

L’AFFRICA OCCIDENTALE. — IL DAHOMEY.

I.

Entriamo finalmente nel terribil regno del Dahomey, le cui principali città sono Abomey, Cana, e Widah sul lido del mare. Il sangue umano vi scorre tuttavia, non in ruscelli, ma a torrenti. In ciascun anno vi si celebra una festa solenne, appellata la festa delle Costumanze. Ecco qui la relazione di questa festa, scritta, nel 1860, da un viaggiatore europeo, testimone oculare di ciò che riferisce.

II.

« Il 16 luglio è presentato al re, successore e figlio del re defunto, un prigioniero tutto imbavagliato. Il re gli dà commissioni per suo padre, gli fa dare pel viaggio una piastra ed una bottiglia d’acquavite, e quindi lo spediscono. Due ore dopo, quattro altri messaggieri partivano colle stesse condizioni. Il 23, io assistei alla nomina di ventitré officiali e musici, che dovevano esser sacrificati per entrare al servizio del re defunto. Il 28, immolazione di quattordici prigionieri, le cui teste son portate su differenti punti della città, al suono d’una campanella. – « Il 29, si preparano ad offrire alla memoria del re Ghezo le vittime d’uso. I prigionieri portano un bavaglio a forma di croce, che li fa oltremodo soffrire; poiché gliene applicano in bocca la punta aguzza sulla lingua, ciò che impedisce di muoverla e per conseguenza di gridare. Questi infelici han quasi tutti gli occhi schizzanti fuori delle occhiaie. I canti non cessano, siccome le uccisioni. Durante la notte del 30 e del 31 son cadute a terra più di cinquecento teste. Moltissimi fossati della città sono colmi d’ossa umane. Nei giorni seguenti, continuazione de’ medesimi massacri. – « La tomba d’un ultimo re è una gran fossa, scavata nella terra. Ghezo è nel mezzo di tutte le sue donne, le quali, prima d’avvelenarsi, si sono disposte attorno a lui, secondo l’ordine che occupavano alla corte. Queste morti volontarie possono ammontare a seicento.

III.

« II 4 agosto, esibizione di quindici donne prigioniere, destinate a prender cura del re Ghezo, nell’altro mondo. Saranno uccise questa notte con un colpo di pugnale nel petto. Il 5 è riservato alle oblazioni del re; quindici donne e trentacinque uomini vi figurano, imbavagliati e legati, colle ginocchia ripiegate sino al mento, le braccia attaccate al basso delle gambe, e posti ciascuno in un paniere che è portato in testa; lo sfilare ha durato più d’un’ ora e mezzo. Era uno spettacolo diabolico il vedere i gesti, i contorcimenti di tutti quei negri.

IV.

« Dietro a me vedevo quattro magnifici negri, far l’ufficio di cocchieri attorno una piccola carrozza, destinata ad essere spedita al defunto, insieme coi quattro infelici. Essi ignoravano la sorte loro. Allorché furono chiamati, s’avanzarono, tristemente, senza profferir parola. Uno di loro aveva due grosse lacrime che luccicavano come perle sulle sue guancie. Sono stati uccisi tutti e quattro qual polli, dal re in persona.

V.

« Dopo l’immolazione, il re è salito su d’un palchetto, ha acceso la pipa e ha dato il segnale del sacrificio generale; e ad un tratto si cavarono fuori le scimitarre, e caddero le teste. Il sangue scorreva da ogni parte; i sacrificatori ne erano ricoperti, e gli infelici che attendevano il loro turno, ai piedi del palco reale, erano anch’essi tinti di sangue. – « Queste cerimonie dureranno ancora un mese e mezzo, dopo il qual tempo il re si porterà in campagna per fare nuovi prigionieri, e ricominciare la festa delle Costumanze. Verso la fine d’ottobre vi saranno eziandio sette ad otto cento teste abbattute. [L’autore di questo racconto non è un missionario cattolico. Abbiamo veduto un missionario che ci ha confermato tutti i particolari, aggiungendo che da dodici anni che è in Africa, si può, senza esagerazione portare a 46.060 il numero delle vittime umane, immolate nel regno di Dahomey, che conta quasi un milione d’abitanti. Vedi il Voyage del Stg. Repin, medico di Marina, e Annales de la Prop. de la Foi, Marzo 4664, p. 422 e seg.]. « Al re Ghezo è succeduto suo figlio, il principe Badon. L’ascensione al trono del novello monarca è stato il trionfo delle antiche leggi, che hanno ripreso tutto il vigor sanguinario reclamato dai sacerdoti fetisci. » Non bisogna credere che la carneficina umana si limiti alle grandi feste. Neppur una ne passa senza che qualche testa cada sotto la scure del fanatismo. Ultimamente l’Europa fremette al sapere che il sangue di tremila creature umane aveva innaffiato il sepolcro di Ghezo. Oimè! altro che tremila. [Annales, maggio 4862].

VI.

Infatti, non solamente a Cana, città santa del Dahomey, ma ancora ad Abomey, capitale del regno, han luogo queste sanguinose tragedie. « Chiamati al palazzo del re, scrive recentemente un viaggiatore, vedemmo novanta teste umane troncate la mattina stessa: il loro sangue scorreva ancora per terra. Questi spaventevoli avanzi erano esposti a ciascun lato della porta, di maniera che il pubblico potesse bene osservarli.

VII.

« Tre giorni dopo, novella visita al palazzo, e lo stesso spettacolo. Settanta teste di fresco recise, disposte come le prime, in ciascun canto della porta, e tre giorni più tardi, ancora trentasei. Il re aveva fatto costruire, sulla piazza del mercato principale, quattro terrazzi, donde gettò al popolo dei cauris, conchiglie che passavano per monete, e sui quali fece ancora immolare sessanta vittime umane.» [le tour du Monde, N. 163, p. 107].

 

VIII.

Ecco quale fu la forma di questo nuovo sacrifìcio: « Si portarono grandi zane o ceste, contenenti ciascuna un uomo vivo, di cui solo la testa sporgeva fuori. Furon allineati per un istante sotto gli occhi del re, poscia precipitati, l’un dopo l’altro, dall’alto dei terrazzi sul lastrico della piazza, dove la moltitudine danzando, cantando e urlando, se ne disputavano gli avanzi come in altre contrade i fanciulli si disputano i confetti del battesimo. « Ogni Dohomyese, a cui arridesse la sorte di afferrare una vittima e segarle la testa, poteva cambiare al momento stesso questo trofeo in una collana di cauris, circa LI. 2,50. Io non potei tornare a casa, se non dopo che l’ultima vittima fu decollata, e due sanguinosi mucchi, l’una di teste, 1’altra di busti, furono innalzati alle.due estremità della piazza. » [Le tour du Monde, ibid., p. 410].

IX.

E dei cadaveri che ne fanno? La storia ci dice che sempre e dappertutto la manducazione, sotto una forma o sotto un’altra, accompagna il sacrificio. Che accade dunque dei corpi delle innumerevoli vittime del Moloch Dahomyese? « Io ho spesso, scrive un viaggiatore, posta questa questione ai Dahamyesi di diverse classi, e giammai ho potuto ottenere una risposta categorica. Non credo antropofagi gli abitanti del Dahomey. Potrebbe accadere nondimeno che essi ammettessero qualche idea superstiziosa alla consumazione di questi avanzi, e che questi servissero ad occulte e ributtanti agapi; ma, lo ripeto, i miei su ciò non sono che sospetti fatti nascer nel mio animo dall’esitazione e dall’imbarazzo dei negri, da me interrogati su tal affare. » [Le tour du Monde, ibid., p. 110].

X.

A giudicare dalla tirannia assoluta che il grande Omicida esercita su questo sventurato paese, è probabilissimo che i sospetti del viaggiatore non tarderanno a diventare una spaventevole realtà. Coll’odio dell’uomo e colla sete del suo sangue, questa tirannia si rivela da un ultimo fatto. « In Abomey trovasi la tomba dei re, vasto sotterranea scavato da mani d’uomo. Quando un re muore, gli si erige, nel centro di questa tomba, una specie di cenotafio attorniato da sbarre di ferro e sormontato da un feretro, cementato col sangue d’un centinaio di prigionieri, provenienti dalle ultime guerre, e sacrificati per servire di guardie al sovrano nell’altro mondo. Il corpo del monarca è deposto in questo feretro, colla testa riposante sui crani dei re vinti. Come altrettante reliquie della sovranità defunta, si deposita ai piedi del cenotafìo, quanto si può di crani e d’ossa.

XI.

« Terminati tutti i preparativi, si apre la porta del sepolcro, e vi si fanno entrare otto Abaies, ballerine della corte, in compagnia di cinquanta soldati; ballerine e soldati, che muniti d’una certa quantità di provvisioni, sono incaricati di accompagnare il loro sovrano nel regno delle ombre: in altri termini, sono offerti vivi in sacrificio ai mani del re morto.

XII.

« Diciotto mesi dopo, per l’ascensione al trono del novello re, il feretro è aperto, ed il cranio del re morto n’è tratto fuori. Il reggente prende questo cranio nella mano sinistra, e, tenendo una piccola accetta colla mano destra, la presenta al popolo, proclama la morte del re e l’innalzamento al trono del suo successore. Coll’argilla impastata nel sangue di vittime umane, formasi un gran vaso, in cui il cranio e le ossa del defunto re sono definitivamente suggellate. Non v’è altro caso in cui la sete di sangue del Moloch africano tanto si manifesti quanto in questa solennità. Migliaia di vittime umane sono immolate, sotto pretesto di mandare al defunto re la nuova dell’incoronazione del suo successore. » [Le tour da Monde, p. 103-104].

XIII.

Tutti questi orrori si commettono a qualche centinaio di leghe dalle coste di Francia. E 1’Europa cristiana, che ha migliaia di soldati per fare la guerra al Papa, non ne ha pur uno a far rispettare le più sante leggi dell’umanità! Una sola cosa ha liberata 1’Europa da crudeltà simili, una sola cosa ne impedisce il ritorno; il Cristianesimo. E si trovano oggi in Europa migliaia d’uomini che non han voce se non per insultare al Cristianesimo e chiederne lo sterminio; che non han penne se non per calunniarlo; non han mani se non per flagellarlo! Ingrati! che, senza il Cristianesimo, sarebbero forse stati offerti vittime a qualche Ghezo d’una volta, o bruciati vivi in un paniere di vinchi in onore di Teutate!

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -VI- di mons. J. J. Gaume [capp. XX-XXII]

CAPITOLO XX

L’ AFRICA ANTICA.

I.

Portiamoci adesso nell’Africa, in questa gran fabbrica della schiavitù, e che porta tuttavia la pena del peccato di Cam. Gli storici antichi ed i viaggiatori moderni han provalo che la memoria del peccato del loro antico avo si è conservata in modo chiarissimo nelle molteplici tribù di questo infelice paese. – « Le popolazioni Africane, scrive Charlevoix [Hist. de l’ile espagnole, t. Il, p. 385.], le quali abitano fra il capo Bianco e il capo Nero, confessano schiettamente che un sentimento intimo loro dice esser essi una razza maledetta. I più istruiti, come quei del Senegal, hanno appreso da una tradizione, la quale perpetuasi fra di essi, che questa disgrazia è un effetto del peccato del loro Papa-Tarn (Cam) che si fece beffe del padre suo.»

II.

Un dotto viaggiatore che ha esplorato l’Africa, non è meno esplicito. « il negro ha una coscienza quasi commovente della sua inferiorità. Questa coscienza posa su una tradizione vera, benché un poco alterata. Nel Mozambico, presso la potente tribù dei Machnas, è voce che in principio gli Africani erano intelligenti quanto gli Europei. – « Ma un giorno Maluka (il buon Dio) essendosi ubriacato, cadde in mezzo alla strada con le vesti in disordine. Gli Africani che passavano, risero della sua nudità; gli Europei al contrario ebbero pietà di lui: colsero dei fiori, e rispettosamente lo ricoprirono. Perciò Dio punì gli Africani. La medesima tradizione esiste nella Guinea e nell’interno del continente. Dapertutto i negri si dichiarano diseredati e sotto il peso d’una maledizione divina [l’Afrique nouvelle, par Alfred Jacobs. Parigi, 1863] .»

III.

Ne è da poco tempo che il sacrificio umano si pratica nell’Africa; ma in questa parte del mondo come nelle altre rimonta alla più alta antichità. Si é presi da spavento in pensare alle moltitudini innumerabili di vittime umane, che in tutta l’estensione della terra e durante migliaia di secoli, sono state immolate al demonio. Questo calcolo, matematicamente impossibile, può nondimeno servire a misurar l’odio implacabile che il grande omicida porta all’uomo, perché fratello del Verbo incarnato.

IV.

Penetriamo nella Libia. In questo paese dei leoni si offriranno alla vista selvaggi più feroci delle fiere abitatrici degli ardenti suoi deserti. « I barbari della Libia avevano, dice Porfirio, imitato i sacrifici dei Taurini [Abitanti del Chersoneso o Crimea, famosi per la loro ferocia e per i loro continui sacrifici umani] , e mangiavan la carne degli uomini sacrificati. Fatto questo odioso pasto, montavano in furore contro loro stessi, mordendosi scambievolmente; e non cessarono di nutrirsi del sangue, se non quando i demoni, i quali avevano introdotto questa specie di sacrifici, ebbero distrutta la loro razza. » [De abstin., lib. Il, 4, 56 ediz. Didot., pag. 45]. – Rifacciamoci sui nostri passi ed entriamo a Cartagine. La Roma africana è la patria dei grandi uomini di guerra. Essa è popolata da ricchi negozianti e da abili navigatori. Questo incivilimento materiale la sottrarrà alle esigenze tiranniche del demonio? Per rispondere, assistiamo allo spettacolo di cui fu essa un giorno testimone. – « Dopo la morte di Alessandro Macedone, e vivendo il primo Tolomeo, scrive Diodoro di Sicilia, i Cartaginesi furono assediati da Agatocle, tiranno della Sicilia. Vedendosi ridotti all’estremo, supposero che Saturno fosse loro contrario. Il loro sospetto si fondava su ciò, che avendo pel passato avuto in costume d’immolare a questo Dio i fanciulli delle migliori famiglie, più tardi compratene clandestinamente, li allevavano per sacrificarli. Fecero una ricerca, e si scopri che molti dei fanciulli immolati erano stati supposti.

VI.

« Prendendo in considerazione questo fatto, e vedendo il nemico accampato sotto le loro mura, furono assaliti da un terrore religioso, per aver trascurato di rendere gli onori tradizionali ai loro dèi. A riparare al più presto questa omissione, scelsero, per via di suffragi, duecento fanciulli delle migliori famiglie e gl’immolarono in un sacrificio solenne. Poscia, quelli stessi che il popolo accusava d’aver frodati gli dèi, offrirono spontaneamente i loro figli in numero di trecento. [“Primum quidem eximios communibusque lectus suffragis adolescentes, omnino ducentos, pubblice immolarunt. Deinde vero alii præterea, qui violatæ relìgionis suspecti vulgo erunt, ultro sese ac sponte obtulerunt, trecentis haud panciores”. Hist., lib. XX.]. – Anche il modo del sacrificio era ordinato dagli oracoli. Nulla v’ha che meglio provi la presenza dello spirito infernale, quanto la maniera onde compivasi l’uccisione abominevole di cui abbiamo parlato. In un tempio di Cartagine, si trovava una statua colossale di Saturno, la quale era di bronzo. Aveva le braccia stese e inclinate a terra; a’suoi piedi una voragine di fuoco. Il fanciullo posto sulle braccia dell’idolo, non essendo rattenuto da cosa veruna, sdrucciolava nella fornace, dove era consumato fra lo strepito di canti e di suoni „ [Diod. Sicul., ibid.].

VIII.

Sotto nomi diversi, questa statua omicida esisteva in Oriente ed in Occidente, presso gli Ebrei e presso i Galli. Essendo l’Africa assai poco conosciuta dagli antichi, ci mancano i documenti del sacrificio umano esistente nelle diverse parti della vasta penisola. Sappiamo solamente che l’Egitto, la contrada più incivilita del paese, offriva vittime umane. Da questo si può giudicare di ciò che accadeva altrove. E lo si può con gran sicurezza, in quanto che nei tempi moderni, i missionari e i viaggiatori hanno trovato il sacrificio umano in pieno esercizio nell’interno e su tutte le coste orientali e occidentali della terra di Cam. Lo vedremo nei capitoli seguenti.

 

CAPITOLO XXI.

L’AFRICA ORIENTALE. — I CONDÌ, POPOLO DELL’INDIA.

— AFRICA ORIENTALE

I.

La costa orientale d’Africa si estende dal canale Mozambico, passando pel Zanguebar, fino al capo dei Profumi: vale a dire per uno spazio di più che cinquecento leghe. Su questa immensa costa e nelle tribù dell’interno più o meno vicine, il sacrificio umano è tuttora in uso, anche presso certi popoli maomettani. « Vicino alla costa orientale della nostra Africa, scriveva non ha guari uno dei nostri missionari, in una città araba, città ch’io conosco, visitai la casa dove furono immolate, quattro anni or sono, tre giovani vergini per allontanare una disgrazia che minacciava la contrada. « Questa barbarie non era commessa da un solo, ma per decisione presa in consiglio dai grandi del paese. So da fonte sicura, e potrei addurre i testimoni, che queste disgraziate vittime della superstizione mussulmana sono state fatte a pezzi, e le loro membra portate e sotterrate in diversi luoghi del territorio minacciato. » [Annal. de la Pr. de la Foi, n. 138, p. 399, 480].

II.

Riportiamo qui un fatto simile che avvenne nell’India inglese. Colà s’ingrassano dei fanciulli, che si scannano a centinaia nella primavera, e il cui sangue sparso sulle praterie, credesi avere la virtù di renderle fertili. In data 6 settembre 1850, il vescovo di Olenia, Vicario apostolico di Visigapalam (India inglese), scrive: « Il governo inglese ha creduto di dover portare la guerra sino ai lari de’ Condi. La ragione è che i sacrifici umani sono ancora in uso presso quel popolo infelice. In occasione d’una festa o d’una calamità, al tempo delle seminagioni specialmente, immolano fanciulli dell’uno e dell’altro sesso. A tal fine, si fan dei depositi di queste innocenti vittime da servire per le diverse circostanze. Basta un qualunque pretesto per fare una tale strage, come un pubblico flagello, una grave malattia, una festa di famiglia.

III.

«Otto giorni avanti il sacrificio, lo sgraziato fanciullo o giovanetto che deve subirlo, è preso, e gli si dà a bere ed a mangiare tutto quel che brama. Durante questo intervallo, i villaggi vicini sono invitati alla festa, e vi accorrono in gran numero. Allorché tutti sono riuniti, si conduce la vittima al luogo del sacrificio. In generale, si ha cura di metterla in istato di ebbrezza.

IV.

«Legata che è, ecco la moltitudine danzarle attorno; e dato il segnale, ciascuno degli spettatori strappa alla vittima un pezzo di carne e il porta via, in modo che la sbranano ancor viva. Il pezzo che ciascuno strappa per proprio conto, deve essere palpitante e, tuttora caldo e sanguinolento, portasi con tutta fretta sul campo che si vuol fecondare. Tal’è la sorte riservata a coloro che mi parlavano, e frattanto danzarono una gran parte della notte.» [Annal., de la Prop. de la foi, n. 438, p. 402 e segg.; vedi anche Annales, marzo 1863, p. 132; ibid., n. 138, p. 377, 380 ibid., n. 116, p. 49, etc.].

V.

Torniamo all’Africa orientale. Uno dei nostri più celebri missionari, il Reverendo padre Homer, superiore della missione di Zanzibar, cui dirige da tredici anni con ammirabile successo, ci dà i particolari più certi e più tristamente notevoli sul sacrificio umano. Egli scrive: « Fra i costumi religiosi dei Vazaramo, tribù vicina alla costa, ve ne sono di quelli che fanno orrore. Se si teme la guerra, il Mganga (indovino) ispeziona il sangue e le ossa d’un pollo scorticato affin di conoscere l’esito della lotta. Cosi facevano i Greci e i Romani, questi popoli tanto vantati e sì follemente ammirati.

VI.

« Se la vittoria è dubbia, il mago si fa portare un fanciullo, l’uccide e Io scortica. Poi fattone distendere il cadavere insanguinato attraverso la strada maestra del villaggio, ordina ai guerrieri di passarvi sopra per assicurarsi della vittoria. – « Se si tratta di conoscere il momento preciso in cui debbon cominciare le ostilità, il ministro del grande omicida pianta sul fuoco una graticola, e attaccavi un fanciullo vivo ed un pollo. Se questi dopo un certo dato tempo trovansi morti, la guerra debbo esser differita; se trovansi vivi, le ostilità cominciano immediatamente.» [Voyage à la côte urient. d’Afrique, p. 99].

VII.

Presso gli Ounyamouezi, altra tribù della costa orientale, la sepoltura di alcuni grandi capi è accompagnata da orribili circostanze. Velato d’una pelle di bestia e coperto da un mantello di cuoio, il corpo è depositato in un sepolcreto murato, seduto e coll’arco in mano. Tre schiave, l’una davanti a lui, l’altra alla sua destra e la terza alla sua sinistra, sono seppellita vive, per risparmiare al capo le noie della solitudine. Mentre si chiude il mausoleo, si fanno con grande strepito copiose libazioni, a fine, senza dubbio, di distrarre queste tre malarrivate vittime, la cui sorte fa rabbrividire [Voyage à la còte orient. d’Affrique. p.154].

VIII.

L’intrepido capitano inglese, Speke, riferisce il fatto seguente, di cui fu testimone. Essendo morto Dagara, re del Karagué, il suo corpo fu portato sopra una montagna. Invece di sotterrarlo, il popolo costruì una capanna per ricoprirlo; vi fecero entrare a forza cinque giovanotte e cinquanta vacche, e chiuse fortemente tutte le uscite, ve le lasciarono morir di fame. [Tour du monde, n. 322]. Povere figliuole di Eva! Quando sarà che cesserete d’essere schiave dell’uomo, e vittime prescelte delle crudeli superstizioni di satana? quando diverrete le figlie di Maria!

CAPITOLO XXII.

AFFRICA ORIENTALE

(Continuazione.)

I.

Presso la maggior parte delle tribù africane, è opinione che un capo od anche un uomo libero, non muore mai di morte naturale; si suppone sempre che sia dovuto soccombere ad un avvelenamento o a qualche maleficio. Fra i Mouezi, tribù vicina a Vazaramo, questo errore dà luogo ad abominevoli crudeltà. – Se uno dei grandi capi cade malato, subito chiamasi il mganga. Il mèdium, come è chiamato in Europa, prende una gallina, le fa inghiottire un filtro misterioso, la uccide, la sventra, e ne esamina le viscere. Tolte alcune circostanze accessorie, tale era, nella bella antichità, la condotta di tutti i sacerdoti di satana. Se la carne dell’uccello presenta qualche difetto nelle ali, son convinti di delitto i fanciulli e gli altri parenti. Una macchia nella colonna vertebrale accusa di reità la madre e l’ava; la coda accusa la sposa; le cosce incolpano le concubine, e le gambe gli schiavi.

II.

Finito l’esame, si riuniscono i pretesi colpevoli; e prestata la medicina ad una seconda gallina, il mganga la getta sugli accusati: l’infelice, sul quale cade l’animale, è dichiarato colpevole. Subito gli si pone la testa fra due tavole, che strette fortemente a forza di corde, ne fanno schizzar fuori le cervella. – Queste orribili immolazioni, si rinnovano ogni giorno, sino alla morte o alla guarigione del capo. Ne segue, che se la malattia si prolunga, un gran numero di disgraziati sono vittime di questa spaventevole superstizione; ma se il capo muore, il mago è seppellito insieme con l u i . [Voyage, etc. p. 163].

III.

« Passati sei giorni a Bagamoyo, continua il Padre Horner, navigammo verso il nord passando dinanzi l’imboccatura del Kmgani. Questo bel fiume separa il paese dei Vazaramo, da quello dei Vadoè: quest’ ultima tribù è essenzialmente antropofaga. Arrivati a Kipombouy, incontrammo alcuni Vadoè, che sembrano demoni. – « Gli uomini e le donne ti presentano, come ornamento, due larghe cicatrici nel volto; alla loro bocca mancano i due incisivi della mascella superiore, che essi hanno cura di sradicare. Le loro vesti di pelli gialle finiscono di compiere il loro selvaggio aspetto.

IV.

« Oltre le armi proprie di tutti gli Africani, gli uomini portano un gran coltello a doppio taglio, una mazza, un’accetta da guerra, uno scudo di pelle di rinoceronte, e, quel che è spaventevole, crani umani per bere. « Allorché un uomo libero muore, si sotterrano vivi insieme con lui due schiavi di sesso diverso. L’uno armato di un’accetta, deve tagliar le legna e farne fuoco per riscaldare il suo padrone nell’umida regione dei morti; l’altro è destinato a sostenere la testa del defunto.» 1. [Voyagc, ecc. pag, 169.]

V.

Ascoltiamo ora un officiale inglese, incaricato dal viceré d’Egitto d’una spedizione in alcune parti dell’Africa, vicino al Nilo. È questi il Signor Samuele While Baker, il quale ha pubblicato la relazione del suo viaggio nel 1875. « Arrivato colla mia truppa nel paese d’ Ounyoro, io non cessavo di discorrere coi diversi capi. Ottenni da loro il racconto delle cerimonie funebre, che avevano avuto luogo alcuni mesi innanzi, al sotterramento del re Kamrasi. Quando un re dell’Ounyoro muore, il cadavere vien deposto sopra una tavola quadrata di legno verde, simile a una gigantesca graticola, al di sopra di un lento fuoco che lo va man mano disseccando; e mummificato che è, l’avvolgono in una tela di fresche scorze, e lo espongono in una gran capanna costruita appositamente.

VI.

« I suoi figli si disputano il trono. La guerra civile può prolungarsi per lo spazio di alcuni anni; ma durante questo periodo d’anarchia, il corpo del re defunto rimane insepolto. Infine, quando la vittoria si è decisa in favore dell’uno dei figli, il vincitore va a visitare la capanna, dove si trova il corpo di suo padre. S’approssima al cadavere, pianta in terra la sua lancia, e ve la lascia così fissata presso la mano destra del re; il che è un simbolo di vittoria. Asceso che è sul trono, primo suo dovere dev’esser quello dei funerali a suo padre.

VII.

« Scavasi una fossa ben grande, capace a contenere parecchie centinaia d’individui, tutta guarnita di lisce scorze. In fondo sono assise molte donne del re defunto, sulle ginocchia delle quali riposa il cadavere. « Nella vigilia dei funerali, durante la notte, le guardie del cadavere del re attorniano alcuni villaggi, e si impadroniscono indistintamente degli abitanti, a misura che costoro escono all’alba fuori delle loro capanne. Questi prigionieri son condotti all’orlo della fossa, e indi spezzate loro braccia e gambe, son precipitati nella fossa, dove cadono sul gruppo delle donne che sostengono il corpo del re.

VIII.

« I suoni dei corni, dei tamburi e degli zufoli, misti agli urli d’una folla frenetica, soffocano le grida di questi infelici. L’immensa fossa è tosto ripiena, calcata dai piedi della moltitudine, e si innalza al di sopra un mucchio di terra.» [Ismaelia, e. XVIII, p. 201]. Ecco in quale stato trovasi ancora l’Africa orientale, che non ha punto ricevuta la predicazione del Clericalismo. E oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone! – Da tutti gli orrori che abbiam descritti sia dell’Africa che delle Gallie; da tutti i sotterramenti di vittime viventi che abbiamo veduti compiersi per accompagnare e servire i defunti nell’altro mondo, risulta un fatto costantemente avveratosi nel corso dell’umanità; la credenza voglio dire all’immortalità dell’anima, che mette al di sotto dei selvaggi i moderni materialisti, per i quali l’uomo non è che un mucchio di fango: corruptio optimi pessima.

UN’ENCICLA AL GIORNO TOGLIE L’APOSTATA SCISMATICO DI TORNO: “QUAM GRAVE”

Benedetto XIV

“Quam grave”

Riteniamo superfluo dimostrare con molte parole quanto grave ed orrendo delitto commette chiunque, non investito dell’Ordine sacerdotale, presume di celebrare il sacrificio della Messa, dal momento che a tutti sono evidenti le motivazioni per le quali un simile sacrilego crimine giustamente si ritiene che sia da detestare e da punire con una rigorosa applicazione di sanzioni. Sarà sufficiente qui richiamare le Costituzioni Apostoliche dei nostri Predecessori, che stabiliscono pene severissime contro i colpevoli del delitto sopraddetto; quelle cioè che furono emanate dai Romani Pontefici di felice memoria, Paolo IV, Sisto V, Clemente VIII e Urbano VIII; in base alle quali si stabilisce che chiunque è stato scoperto a celebrare la Messa senza avere il carattere sacerdotale debba essere consegnato al Foro secolare per una giusta punizione. – 2. Tutte queste Costituzioni Noi stessi le abbiamo richiamate e confermate nella nostra Costituzione che abbiamo pubblicato fino dall’anno 1744 dell’Incarnazione del Signore, IV del nostro Pontificato, in dato 20 aprile, che inizia con le parole: “Sacerdote in eterno” e che è stata stampata nel Nostro Bollario, Tom I, n. 97; dove inoltre vengono abolite molte eccezioni e scappatoie che la Difesa era solita citare per sottrarre i colpevoli alla pena che loro spettava, di essere consegnati al braccio secolare, ogni volta che con prove inoppugnabili si dimostrasse che i soggetti in questione, senza avere mai ricevuto l’ordinazione Sacerdotale, avevano celebratola Messa. – 3. Benché la Chiesa abbia stabilito che coloro che celebrano senza essere stati ammessi, per esigenza di giustizia debbano essere consegnati al Foro secolare, tuttavia, essendo Madre pietosa e, come tutti sanno, piena di bontà e di misericordia, non ha mai tralasciato e nemmeno ora tralascia di dare prova della sua clemenza, sia nel determinare la forma della degradazione verbale, che di solito precede la degradazione reale, sia nel mettere in atto la degradazione reale, e anche con il ricorso a richiami e interventi per distogliere anche i più depravati dal sacrilego tentativo di intromettersi nella celebrazione dei Sacri Misteri senza l’ordine e il carattere Sacerdotale; chiudendo loro in qualche modo la strada che li avrebbe portati alla pena suddetta, quella di essere consegnati al braccio secolare. – 4. Nel Pontificale Romano si trova la formula della degradazione verbale mediante la quale si proferisce la sentenza che comporta la degradazione reale, non solo nei riguardi di coloro che sono insigniti dei Sacri Ordini, escluso il Presbiterato, ma anche contro tutti gli altri che hanno ricevuto solo la Tonsura Clericale o gli Ordini Minori. – Fra le due c’è solo questa differenza: nei riguardi dei Chierici che hanno ricevuto gli Ordini Minori o solo la Tonsura, la degradazione verbale e parimenti quella reale sono stabilite dal solo Vescovo, senza l’intervento di altre persone; nei riguardi degli altri, insigniti degli Ordini Maggiori precedenti il Sacerdozio, il Vescovo non può procedere alla degradazione verbale se non con l’assistenza e il suffragio di alcune altre persone, la cui presenza e il cui parere sono richiesti dalle Leggi Canoniche. – 5. Nota è la Decretale del nostro Predecessore, il Papa Bonifacio VIII, nella quale si legge: “Circa questo argomento, ecco la nostra risposta: la degradazione verbale o deposizione dagli Ordini o dai Gradi Ecclesiastici deve essere fatta dal proprio Vescovo con l’assistenza di un certo numero di Vescovi stabilito dai Canoni, se si tratta di Chierici costituiti nei sacri Ordini; se invece si tratta della degradazione di coloro che hanno ricevuto solo Ordini Minori, è sufficiente il parere del proprio Vescovo, senza la presenza di altri Vescovi” (cap. Degradazione delle Pene, al sesto). .2. Note pure sono le sanzioni dei Canoni, indicate dalla Glossa Canonica (nel cit. cap. Degradazione, sezione canonica delle pene, al sesto), che definiscono il numero dei Vescovi la cui assistenza è richiesta quando si deve pronunciare la degradazione verbale nei confronti di un Chierico costituito negli Ordini Maggiori. – 7. E non si può ignorare ciò che è stato stabilito dal Concilio di Trento (sess. XIII, cap. 4, Della Riforma): constatato che non sarebbe stato facile reperire il numero di Vescovi richiesto dai Canoni ogni volta che si deve procedere alla degradazione, il Vescovo può procedere anche senza di essi, servendosi tuttavia, in tale situazione, di altrettanti Abati residenti nella Città o nella Diocesi e decorati, per indulto della Sede Apostolica, di Mitra e Pastorale, o, se questi non ci sono, di altre persone insigni per Dignità Ecclesiastica, di età matura, e profondi conoscitori delle leggi sacre. – 8. Poiché secondo l’antica disciplinale degradazioni verbali venivano fatte nei Sinodi Provinciali e in essi i singoli Vescovi esprimevano il proprio voto, tenuto presente che attualmente i Vescovi, o gli altri Ecclesiastici di cui abbiamo detto sopra, tengono il posto dei Padri che partecipavano ai Concili i Provinciali, se ne deduce chiaramente che ad essi è trasferito il diritto di voto nelle degradazioni verbali a cui sono invitati come Assessori; come abbiamo chiaramente dimostrato nel nostro Trattato “Del Sinodo Diocesano” (lib. 9, cap. 6, n. 4), recentemente pubblicato. – 9. Alla degradazione verbale segue la degradazione reale; nel Pontificale Romano sono indicate chiaramente le norme con cui metterla in atto. E anche in questo la Chiesa non tralascia di dare prove evidenti della sua bontà e della sua comprensione. Infatti, prima che il degradato venga consegnato al Ministro del Foro secolare, si chiede insistentemente per lui che non gli venga inflitta né la pena di morte né la mutilazione di membra: “Signor Giudice – sono parole del Pontificale sopraccitato –, con tutto l’affetto possibile Vi supplichiamo, per amore di Dio, in vista della pietà e della misericordia, e anche di queste preghiere che Vi rivolgiamo, di non esporre questo miserabile al pericolo di morte e di mutilazione“. E molto prima della compilazione del Pontificale Romano, la stessa cosa si legge espressamente nel cap. “Sappiamo“, dell’opera “Sul significato delle Parole”, dove è detto: “Per lui tuttavia – si parla del degradato che deve essere consegnato al Foro secolare – la Chiesa deve efficacemente intercedere – presso il Giudice laico – perché, esclusa la pena di morte, la sentenza nei suoi confronti sia benigna“. Si può vedere anche Alteserra al cit. cap. “Sappiamo” dell’opera “Sul significato delle parole“, in cui raccoglie molte testimonianze dei Padri perfettamente in linea con quanto stabilito nella sopraindicata Decretale. – 10. Per confermare il nostro asserto circa la grandissima premura che la Chiesa usa anche verso quelli che non la meriterebbero e cerca di fermarli perché non incorrano nella pena di morte in conseguenza di qualche loro delitto, affermiamo che, con una previdenza che risale ai tempi antichi, è stato stabilito: chi dalla propria si trasferisce in altra diocesi, se in questa non è ben conosciuto, rechi con sé una lettera del suo Ordinario con la quale dimostrare che egli è sacerdote e, per quello che si sa, non è soggetto ad alcun impedimento canonico che gli vieti la celebrazione dei Sacri Misteri. Questo era già stato decretato anche dal Santo Sinodo di Calcedonia; nel quale, là dove si legge che non è lecito ad un Chierico e Lettore trasferirsi dalla sua in altra Diocesi senza aver prima ottenuto dal proprio Vescovo la lettera ricordata sopra, che chiameremo di Congedo, Giacomo Cuiazio e, dopo di lui, altri attenti Scrittori, hanno notato che la parola “Lettore” non combina con il contesto e pertanto si deve leggere “non conosciuto“; cosa che noi stessi abbiamo fatto notare nella nostra Istruzione 34 (edizione latina, par. 1). Che se poi si vogliono ricercare anche i più antichi princìpi di questa disciplina, si possono consultare i Canoni detti Apostolici, presso il Cotelerio nella edizione dei Padri Apostolici (tomo I, lib. 8); tra i quali c’è il Canone XIII che stabilisce: “Se un Chierico, o un laico, sospeso dalla comunione, o anche in comunione, si reca in altra Città ed è accolto senza la lettera commendatizia, sia coloro che l’hanno accolto, sia colui che è stato accolto, siano scomunicati; e allo scomunicato si faccia giungere la stessa correzione che si farebbe a chi ha mentito e ha ingannato la Chiesa di Dio“. Concorda con questo il Canone XXIV, come risulta da queste parole in esso contenute: “Nessun Vescovo in viaggio, o Presbitero, o Diacono, sia accolto senza le lettere commendatizie; e quando presentano le lettere, se ne esamini attentamente il contenuto; e siano accolti, se risultano di provata pietà; altrimenti non si dia loro neanche il necessario e in nessun modo siano ammessi nella comunione: da un comportamento surrettizio possono derivare molte cose“. – 11. Anche se vi è discussione fra gli studiosi circa il vero Autore dei Canoni Apostolici, la loro autorità comunque è grande, essendo stati raccolti almeno nel secolo terzo della Chiesa dai vari Concili celebrati prima del Sinodo di Nicea; cosa sulla quale ora sembrano d’accordo i ricercatori di antiche memorie sacre. – 12. A queste santissime leggi sono conformi le sanzioni del Concilio di Trento, come sono conformi le Encicliche inviate con frequenza dalle Congregazioni romane ai Vescovi delle varie Chiese. E si deve tenere per certo anche questo: benché il Vescovo non debba preoccuparsi dei Religiosi che intendono celebrare Messa nelle proprie chiese, dato che la responsabilità è demandata ai loro Superiori Regolari, tuttavia se un Sacerdote secolare vuole celebrare Messa in una Chiesa di Religiosi, anche in questo caso è tenuto a presentare la lettera di congedo ottenuta dal proprio Ordinario al Vescovo della Diocesi in cui vuole compiere il Sacro rito; come si può vedere anche nella nostra Istruzione 34 (edizione latina, par. 1). – 13. Questa antica e giustissima sanzione, della cui esecuzione molti particolari ci hanno tramandato i nostri Scrittori esperti di diritto pratico (tra i quali è degno di particolare menzione il diligentissimo, Monacellio (Formule Legali, Parte I, Tit. 4, Formula 8, p. 81 e Formula 6, p. 79; così pure Tit. 6, Formula 18, p. 160), l’ha resa ancora più efficace, con previdenti norme di prudenza, quel grande riformatore della disciplina ecclesiastica che è San Carlo Borromeo; esortiamo a leggere e studiare attentamente i Decreti da lui emanati in questa materia, presenti in molti documenti: nel primo Concilio provinciale di Milano, tenuto nel 1565, parte 2; poi nel Concilio provinciale secondo del 1569, Decr. 1, e nel Concilio provinciale terzo del 1573; poi nella Istruzione ai Sacerdoti circa la celebrazione della Messa; e infine nel Concilio provinciale quarto tenuto nel 1576. In questi passi troviamo prescritto che il Parroco nella cui Parrocchia un Sacerdote straniero pone il suo domicilio, se questo avviene nel Forese, entro otto giorni al massimo deve segnalare il suo arrivo al Vicario Foraneo, che a sua volta informerà il Vescovo; se invece avviene in Città, il Parroco stesso informi direttamente il Vescovo che si farà consegnare dal Sacerdote in questione la lettera di congedo e la esaminerà e ne valuterà attentamente il tenore. Se infatti l’Ordinario al Sacerdote a lui soggetto ha dato il permesso di assentarsi per un periodo di tempo ben definito, si prescrive che la facoltà di celebrare Messa gli sia concessa solo per quel tempo. E si prescrive anche di prendere nota del giorno in cui fu consegnata la lettera di congedo: dal giorno in cui viene presentata per essere letta ed esaminata non debbono essere passati rispettivamente più di due o di quattro o di sei mesi; di due, se è stata scritta in Provincia; di quattro, se è stata scritta fuori Provincia, ma in Italia; di sei, se risulta datata fuori d’Italia. – 14. Da tutte queste norme generali e particolari si deduce chiaramente quanto la Chiesa sia riluttante nell’applicare quella pena che i Sacri Canoni hanno stabilito contro coloro che celebrano senza essere stati promossi al sacerdozio; essa eleva in qualche modo degli argini affinché nessuno cada in tale delitto che darebbe luogo alla pena determinata dalle Sacre Leggi. – 15. A dimostrazione di questo tuttavia è ancora più importante ciò che stiamo per dire. Uno si presenta al Giudice Ecclesiastico e si accusa di aver celebrato il sacrificio della Messa o anche di avere ascoltato la Confessione Sacramentale dei fedeli pur non avendo ricevuto l’Ordine Sacerdotale. Presentandosi spontaneamente usufruisce di un privilegio in forza del quale gli si assegnano salutari penitenze e poi viene dimesso, purché non sia, come si dice, “in ipso suo Constituto diminutus” o abbia precedenti penali; in questi casi infatti deve essere trattenuto e custodito in carcere. Ma se il medesimo soggetto in seguito alla domanda del Giudice se conosca il motivo per cui è stato associato al carcere, subito, senza attendere ulteriori domande o interrogatori, confessa il tutto apertamente, benché non ci sia dubbio sul fatto che è incorso nelle sanzioni penali previste dalle Costituzioni Apostoliche e che quindi, come reo di delitto capitale, meriti di essere consegnato liberamente al Foro secolare, tuttavia gli si può concedere il beneficio della diminuzione della pena, commutando la pena di morte nella condanna alle triremi in perpetuo; come attesta il Cardinale Albizio di fel. mem., espertissimo in questa materia: “Se colui che è citato in giudizio e convocato, alla domanda generica se sappia per quale motivo è stato chiamato o se conosca la causa della sua carcerazione o come mai si trovi lì, confessa tutta la verità, viene trattato come se fosse spontaneamente reo confesso e con lui si procede con mitezza, specialmente dopo la condanna, e cioè la pena più grave viene commutata in una pena più mite ecc. E così fu deciso nella Sacra Congregazione il 12 maggio 1604” (trattato Dell’Incostanza nella Fede, part. I, cap. 14, n. 70). – 16. Altro fatto degno di nota: benché il Pontificale Romano prescriva tassativamente la degradazione, anche per chi ha ricevuto solo la prima Tonsura clericale – quantunque poi si discuta se questa debba o no essere posta fra gli Ordini, e si discuta se il Giudice Ecclesiastico possa, come abbiamo notato, procedere da solo alla degradazione nel caso di Ordini Minori, cosa che invece non può fare senza l’intervento di altre persone quando si tratta di Ordini Maggiori –, tuttavia attualmente accade che Sacerdoti e altri Chierici, sia di Ordini Maggiori che Minori, vengano liberamente condannati alle triremi o anche al carcere in perpetuo, senza che sia stata fatta prima la Degradazione verbale e tanto meno quella reale; come a tutti è noto, e come anche è stato fatto notare dal Sacerdote Catalani nel Commentario al Pontificale Romano (Tit. 16, § 4, n. 6, tomo III). – 17. Nelle prigioni dei Tribunali Ecclesiastici anche ora è possibile trovare alcuni detenuti, incarcerati per il fatto che, privi dell’Ordine Sacerdotale, hanno celebrato la Messa, hanno ricevutola Confessione Sacramentale dei fedeli, e inoltre ai fedeli che chiedevano la Comunione Eucaristica hanno distribuito loro particole non consacrate, in quanto consacrate da loro. Fra questi ve ne erano due che alla domanda se conoscessero la causa della loro detenzione hanno ingenuamente confessato tutto; di qui è nata la questione se fosse il caso di concedere loro la diminuzione della pena, cioè invece di consegnarli al Foro Secolare, come meritevoli di sentenza capitale, condannarli alle triremi o al carcere perpetuo. – 18. Da parte di coloro che emisero la sentenza o come consulenti o come giudici non ci fu alcun dissenso sul fatto che ambedue i rei erano incorsi nella pena che li faceva consegnare al Foro secolare e perciò alla pena capitale. Alcuni però fecero osservare che, in vista della loro pronta confessione, nella quale ognuno dei due aveva ammesso pienamente il proprio delitto senza attendere ulteriori domande da parte del Giudice, ambedue avevano meritato di essere considerati rei confessi e perciò era il caso di condannarli alle triremi o al carcere perpetuo. Ma altri in numero maggiore espressero parere contrario, cioè che erano incorsi nella pena capitale e quindi dovevano essere consegnati al braccio secolare. – 19. Il persistere della nostra malattia ci ha impedito di partecipare, come in simili casi ci siamo proposti di fare sempre, alle Congregazioni in cui sono stati discussi questi casi; ma poiché dopo non abbiamo tralasciato di leggere ed esaminare tutta la documentazione, abbiamo giudicato più conforme alla clemenza e mansuetudine propria del Pontefice aderire alla sentenza più mite; tanto più che anche il Cardinale Albizio, versatissimo in questa materia, ha lasciato scritto che è consuetudine concedere come premio questa diminuzione di pena a coloro che alla prima interrogazione del Giudice avessero confessato integralmente e apertamente il proprio delitto; e vi sono parecchi esempi di cause che in questo modo in simili circostanze sono state commutate. Pertanto è nostra volontà che i rei soprannominati godano della diminuzione della pena meritata, cioè che siano condannati in perpetuo alle triremi, cosicché non ne possano mai essere liberati né ottenere una commutazione di questa pena, a meno che non venga disposta dal Romano Pontefice allora in carica e che sia al corrente dei loro delitti con tutte le circostanze che li hanno accompagnati; resta però la facoltà ai Giudici di sostituire quella pena con l’ergastolo o il carcere perpetuo qualora risulti che la condanna alle triremi in perpetuo non conviene in alcun modo a siffatti rei, sempre che non manchino le altre condizioni necessarie allo scopo. Inoltre stabiliamo e decretiamo che quando dovrà essere formalmente intimata ai rei suddetti la condanna alle triremi o alla reclusione perpetua, come si è detto sopra, questa intimazione venga fatta dal Giudice, alla presenza di coloro che sono incaricati di gestire le Sagristie delle Chiese e che perciò dovranno essere convocati a questo scopo dallo stesso Giudice, sotto pena di sanzioni da infliggersi loro a suo arbitrio; e in quella occasione venga loro fatta una grave ammonizione sulla rigorosa osservanza ed esecuzione di tutte le prescrizioni in materia: cioè che non permettano mai a sacerdoti non conosciuti di celebrare la Messa se non dopo che la lettera di congedo, che hanno portata dalla propria diocesi e presentata, sia stata esaminata e valutata da colui che ha questo incarico. Ricordiamo che altre volte questo si è verificato in questa medesima Città, sotto il nostro Predecessore di felice memoria il Papa Clemente XI, quando si dovette consegnare al Foro secolare un reo condannato alla pena capitale, perché aveva celebrato la Messa senza essere insignito dell’Ordine Sacerdotale. – 20. Decretiamo quindi che dai Giudici competenti e dati Tribunali si proceda secondo le norme fin qui descritte contro coloro dei quali risulta fino ad oggi che hanno celebrato la Messa o hanno ricevuto la Confessione Sacramentale senza essere stati ammessi al Sacro Ordine del Presbiterato. Ma poiché siamo convinti che questo delitto, gravissimo in sé e ogni giorno più frequente, con ogni mezzo deve essere impedito e, per quanto possibile, eliminato ed estirpato dalle Nazioni Cristiane, decretiamo che la nuova legge in materia determinata mediante una Costituzione Apostolica (di cui la Tua Fraternità riceverà un esemplare annesso a questa Lettera) in futuro, passati cioè tre mesi dalla data della medesima Costituzione, sia rigorosamente osservata e messa in atto. – Frattanto a te, Venerabile Fratello, con molto affetto impartiamo la Benedizione Apostolica.

Datum Romæ, apud S. Mariam Maiorem, die 2 Augusti 1757, Pontificatus Nostri Anno XVII.

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Se le norme citate in questa Lettera enciclica del Santo Padre Benedetto XIV, venissero applicate oggi, praticamente non ci sarebbe più posto nelle carceri italiane, d’oltralpe, ed anche d’oltre oceano. Qui di persone che pseudo-celebrano messe e somministrano sacramenti (per fortuna falsi) ce n’è una quantità incalcolabile. Infatti: 1) da un lato ci sono i finti sacerdoti e vescovi del novus ordo: sacerdoti che non hanno mai ricevuto la tonsura ecclesiastica, non hanno mai ricevuto gli ordini minori né maggiori, secondo le norme del Concilio di Trento che sono infallibili ed irreformabili in eterno; in più sono stati “ordinati” (si fa per dire!) dai falsi vescovi sacrileghi, gli eletti manichei consacrati (anche qui … si fa per dire!) dalla formula mostruosa del “mago-trasformista” Bugnini ed autorizzata dal marrano omosex. il 18 giugno 1968! I pochissimi sacerdoti canuti ancora viventi, ordinati da vescovi anziani negli anni 50 0 60, oramai si contano sulle dita di pochissime mani, e sono tutti “ipso facto” scomunicati latæ sententiæ dalla bolla “Exsecrabilis” di Papa Piccolomini, e dalle altre numerose bolle [Paolo IV, Pio V, Sisto V Clemente VIII, Pio VI, Pio IX, Leone XIII, Pio X etc. etc.,] e costituzioni conciliari, e infarciti dalle relative censure. 2) Dall’altra parte abbiamo gli eredi di Lienart, massone 30° Cavaliere kadosh, “nokem Adonay” ben prima di farsi coinvolgere in riti di consacrazione mai validi per difetto, assenza di intenzione, o meglio per “proposito di contro-intenzione! Questa non consacrazione è stata poi trasferita al suo “compariello” Lefevbre, che a sua volta non ha potuto [poverino!] mai passare a nessuno quel che egli stesso non aveva mai posseduto. Da questa “vite” selvatica sono pure spuntati molti germogli fradici e secchi [i cosiddetti sedevacantisti ed i sedeprivazionisti, Papi di se stessi [una cum nemine], che hanno dato vita a cappellucce, chiesette autogestite ed autoreferenziate, oltre a vari cani sciolti, lupi rapaci, che non hanno nessuna missione canonica, alcuna giurisdizione ed ancor meno alcuna “lettera di congedo” da chicchessia. Qui ci vorrebbe una flotta di triremi per “sistemare” quelli che in tempi passati sarebbero stati dei galeotti, triremi che potrebbero essere utilizzate per trasportare clandestini … o pardon! … migranti in giro per il mondo! Le norme per questo tipo di sciacallaggio spirituale, erano veramente terribili ed affidate al braccio secolare, che con grande rigore, non ne risparmiava alcuno. Perciò il Santo Padre credette opportuno intervenire per mitigarne le pene e scongiurarne la morte prevista dal codice penale. Oggi questo pericolo per la numerosa “banda” dei falsari, non esiste più purtroppo, per la società che è eramai scristianizzata e massonizzata, ma un vero Cattolico deve continuare ad usare per la preghiera, la formula del Pontificale Romano, riportata nell’Enciclica,  rivolgendosi non più al giudice del tribunale umano, bensì al Sommo Giudice del Tribunale celeste: “Domine Iudex, rogamos Vos cum omni affectu, quo possimus, ut amore Dei, pietatis et misericordiæ intuitu, et nostrorum interventu precaminum, miserrimo huic nullum mortis, vel mutilationis periculum inferatis” [Signor Giudice, con tutto l’affetto possibile Vi supplichiamo, per amore di Dio, in vista della pietà e della misericordia, e anche di queste preghiere che Vi rivolgiamo, di non esporre questo miserabile al pericolo di morte e di mutilazione … “spirituale”!]

 

DOMENICA TRA L’ASCENSIONE

Introitus

Ps XXVI:7; XXVI:8; XXVI:9 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te, allelúja: tibi dixit cor meum, quæsívi vultum tuum, vultum tuum, Dómine, requíram: ne avértas fáciem tuam a me, allelúja, allelúja. [Ascolta, o Signore, la mia voce, con la quale Ti invoco, allelúia: a te parlò il mio cuore: ho cercato la Tua presenza, o Signore, e la cercherò ancora: non nascondermi il Tuo volto, allelúia, allelúia.]

Ps XXVI:1 Dóminus illuminátio mea et salus mea: quem timébo? [Il Signore è mia luce e la mia salvezza: di chi avrò timore?] V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sæcula sæculórum. Amen

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te, allelúja: tibi dixit cor meum, quæsívi vultum tuum, vultum tuum, Dómine, requíram: ne avértas fáciem tuam a me, allelúja, allelúja. [Ascolta, o Signore, la mia voce, con la quale Ti invoco, allelúia: a te parlò il mio cuore: ho cercato la Tua presenza, o Signore,e la cercherò ancora: non nascondermi il Tuo volto, allelúia, allelúia.]

Oratio

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo.

Orémus. – Omnípotens sempitérne Deus: fac nos tibi semper et devótam gérere voluntátem; et majestáti tuæ sincéro corde servíre. [Dio onnipotente ed eterno: fa che la nostra volontà sia sempre devota: e che serviamo la tua Maestà con cuore sincero.]. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet IV:7-11

“Caríssimi: Estóte prudéntes et vigiláte in oratiónibus. Ante ómnia autem mútuam in vobismetípsis caritátem contínuam habéntes: quia cáritas óperit multitúdinem peccatórum. Hospitáles ínvicem sine murmuratióne: unusquísque, sicut accépit grátiam, in altérutrum illam administrántes, sicut boni dispensatóres multifórmis grátiæ Dei. Si quis lóquitur, quasi sermónes Dei: si quis minístrat, tamquam ex virtúte, quam adminístrat Deus: ut in ómnibus honorificétur Deus per Jesum Christum, Dóminum nostrum.” [Carissimi: Siate prudenti e perseverate nelle preghiere. Innanzi tutto, poi, abbiate fra di voi una mutua e continua carità: poiché la carità copre una moltitudine di peccati. Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri senza mormorare: ognuno metta a servizio altrui il dono che ha ricevuto, come si conviene a buoni dispensatori della multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia come fossero parole di Dio: chi esercita un ministero, lo faccia come per virtù comunicata da Dio: affinché in tutto sia onorato Dio per Gesù Cristo nostro Signore.] R. Deo gratias.

 [Mons. Bonomelli: “Omelie” – Torino 1899; vol. II, Omelia XXV]

“Siate prudenti e vegliate nelle preghiere; ma sopra tutto abbiate costante carità tra di voi; perché la carità copre una moltitudine di peccati. Osservate la scambievole ospitalità, senza mormorio, volgendo ognuno a beneficio degli altri il dono che ha ricevuto, come buoni amministratori della molteplice grazia di Dio. Se alcuno parla, lo faccia come della parola di Dio: se alcuno ministra, sia come con potere datogli da Dio, acciocché in ogni cosa Dio sia glorificato per Gesù Cristo, al quale sia gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen „ (I. di S. Pietro, IV, 7-11).

In questa Domenica dopo l’Ascensione la Chiesa ci fa leggere nella santa Messa le poche linee, che avete udite, e che si trovano nella prima epistola di S. Pietro. L’avrete rilevato voi stessi, o cari; sono poche linee, ma in esse si racchiude un vero tesoro di dottrina morale e pratica, che è una applicazione della gran legge della carità fraterna. Vero è che queste verità più e più volte le avete udite nelle omelie che vi tengo: ma se i Libri santi spesso le ripetono egli è perché è utile il ripeterle. Avviene dello spirito ciò che avviene del corpo. Per conservare e ristorare le forze di questo noi più volte al giorno pigliamo lo stesso cibo e la stessa bevanda e non ce ne stanchiamo: per conservare e ristorare le forze dello spirito, è necessario nutrirlo collo stesso cibo e colla stessa bevanda, e cibo e bevanda dello spirito sono le verità che Gesù Cristo ci ha insegnato. Ascoltiamole dunque con animo riverente e docile, e studiamoci di porcele ben addentro nell’animo. – Il Principe degli apostoli, dopo aver esortati i fedeli a staccarsi dai peccati, dei quali vissero schiavi da Gentili: dopo aver accennato allo stupore dei Gentili, vedendoli signori delle basse voglie del senso, tocca del giudizio divino, che si avvicina: “Omnium finis appropinquavit.” – Dobbiamo tutti prepararci a quel giorno, che infallibilmente verrà, quantunque ignoriamo quando verrà. E come prepararci? “Siate prudenti — Estote prudente», . risponde S. Pietro. La prudenza! Essa importa anzi tutto il conoscimento delle cose che dobbiamo fare o fuggire [“Prudentia est rerum appetendarum et fugiendarum scientia” – S. August., De lib. arb., lib. 1, c. 13]. Non basta: essa importa il conoscimento del fine che in ogni cosa ci proponiamo e dei mezzi, che siano più acconci per raggiungerlo più perfettamente. Ond’è che la prudenza deve tener d’occhio il tempo, il luogo, le circostanze tutte, affinché l’opera felicemente riesca ed esige ponderazione, sagacia e costanza di propositi. La prudenza è non solo virtù cardinale, ossia fondamentale riguardo alle virtù morali, ma tiene fra di esse il primo luogo, perché essa deve regolare l’intelligenza, come questa deve poi regolare la volontà, e perché non vi è virtù senza la prudenza; anzi potrebbe essere, che una virtù, anche eccellente, scompagnata dalla prudenza, tralignasse in vizio. Così la fortezza separata dalla prudenza può diventare temerità, la giustizia durezza, la pazienza pusillanimità, la generosità prodigalità, l’umiltà bassezza e via via. E in vero quante virtù si tramutano in vizi perché non regolate dalla prudenza! Il coraggio di Pietro diventa temerità e presunzione. La prudenza pertanto deve accompagnare sempre i nostri atti, deve essere l’arme di tutte le virtù. Siate prudenti, „ grida S. Pietro, e perciò a tutte le nostre azioni vada innanzi la face della prudenza, affinché non poniamo il piede in fallo e delle parole ed opere nostre non sentiamo il tardo ed inutile pentimento. Sorella inseparabile della prudenza è la vigilanza, che ha il suo alimento ed il suo appoggio nella preghiera; il perché S. Pietro soggiunge tosto: “Vegliate nelle preghiere —Vigilate in orationibus. „ Si direbbe che qui l’apostolo ripete ai fedeli l’ammonimento di Cristo, là nell’orto, e che doveva risonar continuamente all’orecchio: “Vigilate et orate, ut non intretis in tentationem.” Egli, S. Pietro, non poteva non aver sempre innanzi agli occhi quella notte fatale, in cui egli e Giacomo e Giovanni erano là nel Getsemani in preda alla tristezza e al sonno. Doveva ricordare come Gesù per ben tre volte l’aveva riscosso dal sonno e ripetute quelle parole — Vegliate e pregate, — e come conseguenza di quella sua trascuratezza nel vegliare e pregare era stata la sua miserabile caduta. Perciò qui la ripete anche egli ai primi cristiani. “Vegliate nell’orazione. „ Noi cristiani siamo come soldati in campo, che ad ogni istante, di giorno, di notte, possiamo essere assaliti da nemici astuti e potenti: bisogna stare sempre in sull’avviso, coll’arme in pugno per difenderci e rigettarli, e l’arme più spedita per tutti è la preghiera, e perciò S. Pietro ha congiunto la vigilanza e l’orazione: la vigilanza ci fa scorgere il nemico, che si avanza, e scoprire le insidie, che tende; l’orazione è il grido che leviamo a Dio perché ci aiuti, che gettiamo contro il nemico per atterrirlo: “Vigilate in orationibus”. Segue un’altra raccomandazione, che sì spesso si incontra nei Libri santi: “Sopra tutto abbiate costante carità tra di voi. „ Qui si parla della carità del prossimo, che deve essere l’effetto e la prova della carità verso di Dio, e S. Pietro vuole, che tra le altre, abbia due doti, sia cioè costante e mutua o vicendevole. Generalmente parlando gli uomini si amano tra loro, giacché l’odiarsi è di poche anime volgari e schiave d’una passione, che ripugna alla natura. Ma che amore è desso? E forza confessarlo: è un amore debole, interessato, che al primo urto, alla prima prova cede e forse si muta in risentimento e rancore mal dissimulato. L’amore nostro verso i fratelli deve essere costante e saldo, e lo sarà se la scintilla che l’accende, scende dall’alto, viene da Dio. Se l’amore verso del prossimo ha la sua radice o nell’interesse, o nelle sole qualità fisiche o morali, ond’esso è fornito, non potrà essere costante: cessi l’interesse, deve cessare con esso l’amore; se le qualità fisiche o morali fanno difetto nel prossimo, o possedute da esso un tempo, poi scemarono od anche interamente si dileguarono, con esse dovrà pure andarsene l’amore. Perché dunque l’amore del prossimo sia costante, conviene che sia costante il motivo che l’accende ed alimenta, conviene che si appunti in Dio, che non si muta mai. Oh! quando amiamo il prossimo in Dio e per Iddio, noi lo ameremo sempre, anche quando agli occhi nostri apparisce indegno, anche quando ci odia e ci perseguita perché Dio merita sempre che Lo amiamo! In secondo luogo l’amore del prossimo vuol essere mutuo o vicendevole, simile al sole, dice S. Basilio: il sole, dice il Santo, quanto è da sé, spande egualmente in ogni parte la sua luce e il suo calore, ancorché non tutti gli oggetti lo ricevano in egual misura; ciascuno dunque sia come il sole e spanda su tutti l’amor suo, e la terra presenterà lo spettacolo del cielo, dove l’amore regna sovrano. Dopo avere inculcata la carità costante e vicendevole, il nostro apostolo accenna ad uno dei suoi frutti, dicendo: “La carità copre una moltitudine di peccati — Quia charitas operit multitudinem peccatorum. „ La copre dinanzi agli uomini, dissimulando e dimenticando le loro offese, e per tal modo inducendo gli offensori a riconciliarsi con Dio e cogli offesi: la copre, sedando le discordie tra i fratelli e ristabilendo tra loro la pace: la copre, correggendo gli erranti, e colla soavità dei modi riconducendoli alla verità: la copre, beneficando tutti, e colla larghezza della elemosina guadagnando i cuori: la copre dinanzi a Dio, perché, amandoLo perfettamente, come la Maddalena e Paolo, monda le anime e tosto a Dio le riconcilia: la copre, perché, quantunque non perfetta, essa dispone l’uomo a cancellare tutti i suoi peccati col Sacramento della Penitenza. La carità dunque, nel senso più largo della parola, copre, cioè cancella, distrugge i peccati e giustifica l’uomo o lo prepara alla giustificazione, onde fu paragonata al fuoco, che consuma ogni cosa. Carità dunque, o cari, carità verso Dio, che è la carità stessa, carità verso gli uomini; carità nelle parole, più nelle opere, carità, che erompa dal cuore: carità verso i buoni e carità anche verso i cattivi, perché diventino buoni, o meno cattivi, perché è questa la virtù delle virtù, il compimento della legge. Di questa carità S. Pietro rammenta ai fedeli una applicazione a quei tempi e in quei luoghi importantissima, e a noi, nei nostri paesi e coi nostri usi moderni, quasi inesplicabile. Frequentemente nei libri del nuovo Testamento si inculca e si loda la ospitalità, e Cristo la pose tra le opere della misericordia: per formarci un’idea dell’importanza della ospitalità e dell’opera caritatevole ch’essa era, bisogna dimenticare tutti i comodi, tutti gli agi di vie sicure, di alberghi, che noi abbiamo oggidì e che rendono facilissimo il viaggiare; ma a quei tempi non strade, o malagevoli, infestate da ladroni ed assassini, non servigi pubblici, malsicuri, e perciò l’ospitalità era un bisogno, una necessità pubblica e in pari tempo una squisita carità, come nei paesi poco inciviliti lo è tuttora. Eccovi la ragione delle tante lodi e sì calde raccomandazioni della ospitalità, che troviamo nei nostri Libri santi. Da ciò che ho detto intorno alla ospitalità sì necessaria ai tempi degli apostoli, ospitalità, che era una esplicazione della carità e che oggi ha sì poca importanza, si fa manifesto che anche la virtù regina, che è la carità, può mutare e muta le sue applicazioni secondo i tempi e i luoghi e gli uomini, che certe opere di carità necessarie in altri tempi, oggidì sono cessate, ed altre ignote nei tempi passati oggidì sono imposte. Non si muta la virtù nella sua radice, ma si mutano le sue applicazioni e noi, figli del Vangelo, dobbiamo essere uomini di tutti i tempi, come lo è il Vangelo, ed esercitare la carità quale è richiesta nei vari paesi e nei vari tempi. Né si vuole dimenticare una avvertenza che riguarda questa lettera. Essa è indirizzata ai cristiani dispersi nelle provincie dell’Asia Minore, e prima tra queste da S. Pietro è nominata la provincia del Ponto: ora è a sapere che quella provincia aveva fama d’essere inospitale, come sappiamo dagli scrittori pagani (Ovidio), e forse fu questa una ragione di più che indusse l’apostolo a ricordare a quei popoli il dovere della ospitalità, aggiungendovi una raccomandazione particolare, ed è di usarla “sine murmuratione”, senza mormorio o lamento. — Vi sono persone, che esercitano la carità, ma in mal modo, brontolando, lagnandosi: questa non è carità secondo il Vangelo. – Ciò che si dice della carità, devesi pur dire della ospitalità, che ne è una parziale applicazione: anch’essa deve essere benigna, graziosa e offerta con volto ilare, anzi S. Gregorio Magno vuole che in qualche modo sia imposta: “Peregrini ad hospitium non solum invitandi, sed etiam trahendi sunt”. Seguitiamo il nostro commento. Alla raccomandazione della scambievole ospitalità tiene dietro un’altra raccomandazione più particolareggiata e più grave. Uditela: “Ognuno volga a beneficio degli altri il dono che ha ricevuto, come buoni amministratori della molteplice grazia di Dio. „ Qui si parla di coloro che tengono qualche officio o ministero sacro nella Chiesa, come sarebbe l’officio o ministero dell’annunciare la parola di Dio, del dispensare i Sacramenti, o del governo delle anime. S. Pietro intima a tutti costoro senza eccezione, che si considerino non come padroni, ma amministratori dei doni ricevuti, delle grazie loro largite, non a proprio vantaggio, ma a vantaggio e beneficio altrui. Noi, uomini di Chiesa, ministri e dispensatori dei misteri di Cristo, come ci chiama S. Paolo, siamo tali, non per nostra utilità, ma sì per la vostra, o figliuoli dilettissimi: “Uniquique datur manifestatio spiritus ad utilitatem” (I. Cor. c. XII, vers. 7). Il nostro ministero è un potere, vero potere, che abbiamo ricevuto non da voi, ma da Cristo, ma che dobbiamo esercitare a vostro beneficio; è un servizio, non un dominio, e se il nostro Capo supremo, il romano Pontefice si chiama ed è Servo dei servi di Dio, cioè deve servire al bene di tutti i fedeli, che sono servi di Gesù Cristo, quanto più lo saremo noi sacerdoti e parroci? Perciò è nostro dovere prestare l’opera nostra a tutte le vostre domande ragionevoli, anche con nostro disagio, con nostro sacrificio, in certi casi, ne andasse la vita. Noi siamo amministratori dei doni di Cristo, non padroni, e guai a noi se per la nostra trascuratezza, per nostra imprudenza, per nostra colpa, alcuni ne rimanessero privi: ne dovremmo rendere strettissima ragione a Dio, dal Quale li teniamo! Specificando meglio la cosa, S. Pietro dice: “Se alcuno parla, cioè se ha l’officio di istruire, lo faccia come è richiesto di farlo, e come la parola di Dio deve essere annunziata; se alcuno amministra, cioè esercita l’officio di dispensatore dei Sacramenti, lo faccia in quel modo e con quello spirito che domanda sì alto potere. Così facendo, l’opera nostra sarà profittevole a noi, a quelli ai quali la prestiamo, e ne sarà glorificato Iddio per Gesù Cristo, al quale sia gloria ed impero nei secoli dei secoli. „ È il fine ultimo e supremo di tutte le cose sulla terra e particolarmente della grand’opera della redenzione da Gesù Cristo stabilita in mezzo a noi: è la gloria, di Dio, che si ottiene colla santificazione delle anime!

 Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XLVI:9 V. Regnávit Dóminus super omnes gentes: Deus sedet super sedem sanctam suam. Allelúja. [Il Signore regna sopra tutte le nazioni: Iddio siede sul suo trono santo. Alleluja.] Joannes XIV:18 V. Non vos relínquam órphanos: vado, et vénio ad vos, et gaudébit cor vestrum. Allelúja. [Non vi lascerò orfani: vado, e ritorno a voi, e il vostro cuore si rallegrerà. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! Joannes XV:26-27; XVI:1-4

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Cum vénerit Paráclitus, quem ego mittam vobis a Patre, Spíritum veritátis, qui a Patre procédit, ille testimónium perhibébit de me: et vos testimónium perhibébitis, quia ab inítio mecum estis. Hæc locútus sum vobis, ut non scandalizémini. Absque synagógis fácient vos: sed venit hora, ut omnis, qui intérficit vos, arbitrétur obséquium se præstáre Deo. Et hæc fácient vobis, quia non novérunt Patrem neque me. Sed hæc locútus sum vobis: ut, cum vénerit hora eórum, reminiscámini, quia ego dixi vobis”. [In quel tempo: Disse Gesù ai suoi discepoli: Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità, che procede dal Padre, Egli renderà testimonianza di me: e anche voi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin da principio. ho detto a voi queste cose, affinché non siate scandalizzati. Vi cacceranno dalle sinagoghe: anzi, verrà tempo che chi vi ucciderà crederà di rendere onore a Dio. E vi tratteranno così, perché non hanno conosciuto né il Padre, né me. Ma vi ho dette queste cose, affinché, venuto quel tempo, vi ricordiate che ve le ho predette.] R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia della Domenica fra l’ottava dell’Ascensione

 [Canonico G. B. Musso “Omelie”- Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

-Apparecchio alla Festa dello Spirito Santo-

    Egli è Gesù Cristo, che nell’odierno Vangelo parla ai suoi discepoli nel seguente tenore: “Quando manderò sopra di voi lo Spirito Santo, Spirito di verità, che procede dal Padre, Ei vi darà di me la più ampia testimonianza, Ei vi farà conoscere la mia Persona, la mia dottrina e la Divinità che in me si asconde. Voi, poscia, da questo Spirito illuminati nell’intelletto, infiammati nel cuore, renderete di me, dell’Evangelio mio, della mia fede, testimonio fedele e costante a tutte le nazioni, fino a suggellarlo col proprio sangue”. Per disporsi a ricevere questo Spirito santificatore, promesso dal divino Maestro, si congregarono i discepoli sul monte santo di Sion, sollecitando con i più vivi desideri, colle più fervide preghiere la sua discesa. Vogliamo ancor noi, uditori amatissimi, ricevere lo Spirito Santo che illumini le nostre menti, che infiammi i nostri cuori? Conviene prepararsi, conviene disporsi. Due sono le disposizioni necessarie a premettersi, e che tutte le altre racchiudono: disposizione negativa, disposizione positiva. Disposizione negativa, che consiste nell’allontanarsi dal peccato; disposizione positiva, che consiste in praticare le cristiane virtù. Io leggo nei santi Vangeli che lo Spirito Santo venne in forma di colomba in riva al Giordano, e si fermò sul capo del Redentore, battezzato dal suo precursore Giovanni, e questo simbolo di colomba da noi richiede la disposizione negativa; Io leggo che lo Spirito discese sopra gli Apostoli nel cenacolo in forma di fuoco, e questo simbolo esige da noi una disposizione positiva. Vediamolo.

I. Lo Spirito Santo, disceso dal cielo in forma di colomba, assunse forse la natura di volatile? E allora che venne in forma di fuoco, prese la natura di questo elemento? E quella colomba, e quel fuoco furono e sono inseparabilmente uniti alla Persona del divino Spirito? No, risponde a queste domande il grand’Agostino (Lib. 4 de Trin.), né la natura della colomba, né quella del fuoco fu unita allo Spirito Santo, né queste reali figure, formate di purissimo aere per ministero degli Angeli, furono in Lui permanenti. Ciò premesso ad istruzione dei men colti, io dicevo che la colomba, in forma della quale apparve lo Spirito del Signore, richiede da noi per riceverlo una disposizione negativa, cioè l’allontanamento dal peccato. Infatti il reale Profeta, per volare a riposarsi in seno a Dio, desiderava e chieder ali di colomba, simbolo di innocenza. “Quis dabit mihi pennas sicut columbæ, et volabo, et requiescam” (Psa. LIV,7)? Il nostro divin Salvatore, in raccomandare ai suoi Apostoli e a noi l’evangelica e virtuosa semplicità, ci propone l’esempio della colomba, estote semplices sicut columbæ(Matt. X, 16). La colomba in realtà è un augello che di sua natura abborre le immondezze e le sozzure, fugge dalle fogne, dalle cloache e dalle limacciose paludi; amante di respirar l’aria più pura suole sempre spiccare il volo sulla cima delle più alte torri, ed ha pochi eguali nella nitidezza delle sue piume. Date uno sguardo alla colomba spedita dell’arca, dal Patriarca Noè. Spiccato il volo si aggirò per gl’immensi spazi dell’aere, e non scorgendo sotto di sé che acque mortifere e galleggianti cadaveri, non trovando ove fermare il piede senza macchiarsi, fece presto ritorno in seno all’arca. Quanto fece la colomba di Noè dopo il diluvio, altrettanto si protestò che fatto avrebbe riguardo all’uomo carnale il grande Iddio, pentito d’averlo creato: “Non permanebit Spiritus meus in homine in æternum, quia caro est(Gen. VI, 3). L’uomo dimentico di essere stato da me creato a mia immagine e somiglianza, dimentico della nobiltà del suo spirito, si avvilisce a riporre la sua felicità negl’immondi piaceri, nella carne, nell’opere carnali? Ah dunque non abiterà lo spirito mio in esso lui in eterno, non permanebit spiritus meus in homine in æternum, quia caro est”. Chiunque ha il cuore imbrattato da questo fango, attaccato a questa pece, non isperi poter ricevere lo Spirito Santo. L’uomo carnale è l’oggetto di sua necessaria ed infinita abominazione; già lo fu con sommergerlo tutto in massa nell’acque micidiali di un universale diluvio, seguirà ad esserlo fino alla consumazione dei secoli, e in tutti i secoli eterni. “Non permanebit spiritus meus in æternum, quia caro est”. – Se lo spirito del Signore (diceva fin dai suoi tempi S. Vincenzo Ferrerio, quel gran Santo che ha predicato su quest’istesso pulpito da cui ho l’onore di parlarvi) se lo Spirito Santo discendesse un’altra volta dal cielo in forma di colomba e venisse fra noi, ditemi dove fermerebbe il suo volo, dove poserebbe il suo piede? Nelle nostre contrade? ma no; l’allontanerebbero da queste le oscene parole, le maledizioni, gli scandali, le bestemmie. Forse nelle nostre case? Ma no; in molte abita il demonio della discordia, la guerra tra marito e moglie, la lite tra padre e figlio, l’odio tra fratello e sorella, l’invidia tra congiunti e congiunti; in questo sta la mala pratica, in quella la rea amicizia; qui è la conversazione dissoluta, là veglia scandalosa. Nelle botteghe forse e nelle officine? Ma no; lo metterebbero in fuga le bugie, le frodi, gl’inganni, le usure. Via, troverà luogo almeno nelle Chiese; né pure, anche dal luogo santo dovrebbe ritirarsi con orrore per non sentire i cicalecci, i rumori sconvenevoli, i prolungati discorsi, per non vedere gli amoreggiamenti, le occhiate libere, le sacrileghe profanazioni della santa sua casa. – Ma dunque non vi sarà luogo alcuno fra noi, ove possa discendere lo Spirito del Signore? Si, miei dilettissimi, vi sarà, e quale? Torniamo alla colomba di Noè. Questa spedita la seconda volta dall’arca adocchiò un arboscello di verde ulivo, su quello fermò il volo, e col rostro un ramicello, con quello in bocca ritornò all’arca. Simbolo di pace è l’ulivo; e perciò la colomba (mi servirò della frase del citato S. Vincenzo), la colomba dello Spirito Santo discenderà in quei cuori che sono in pace con Dio per la giustificante grazia; in quei cuori che vogliono far pace con Dio per mezzo di una sincera penitenza, in quei cuori che sono in pace col prossimo per vera inalterabile carità. Simbolo di misericordia è il soave liquore che produce l’ulivo; verrà di buon grado a far altresì la sua mansione in quei cuori che d’olio di misericordia sono ripieni, che di misericordia son ridondanti a pro degli afflitti, a vantaggio dei bisognosi, a sollievo dei miserabili. – Ed eccoci entrati nella seconda disposizione positiva che nell’esercizio consiste delle cristiane virtù, le quali da noi esige lo Spirito Santo venuto in forma di fuoco.

II. Insegna l’angelico dottor S. Tommaso (3 P. q. 39, a 7), che lo Spirito Santo prese forma di fuoco per significare gli effetti meravigliosi ch’Egli produce nell’anime nostre, purché in noi ritrovi le necessarie disposizioni. Il fuoco illumina, e lo Spirito Santo che luce si appella, rischiara le tenebre della nostra notte. Il fuoco consuma, ed Egli consuma i nostri vizi e le colpevoli abitudini: “Deus noster ignis consumens est” (Ebr. XII, 29). Il fuoco infiamma ed Egli infiamma i nostri cuori del suo santo amore; ma la massima parte dei cristiani resiste a questo fuoco a somiglianza degl’induriti Ebrei usciti dall’Egitto. Parlò Iddio a Mose fra mezzo alle fiamme d’un ardente roveto per dimostrare l’eccesso amor suo, intento a liberarli dal tirannico giogo di Faraone, e in una colonna di fuoco si fece loro per condurli alla terra promessa. E pur quella gente di dura cervice, e di cuore incirconciso, fu sempre insensibile e sconoscente a così amorevoli rimostranze. Ma che cerchiamo di quel popolo? Volgiamoci a noi. Gesù Cristo si dichiara esser Egli disceso dal cielo per accendere nel nostro cuore questo divin fuoco, “ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur” (Luc. XII, 49). E non ostante l’amoroso suo desiderio e l’espresso suo volere, a questo fuoco divino fa resistenza l’umana freddezza. Al fuoco elementare non resistono i più duri macigni, gli stritola in polvere, non reggono i più sodi metalli, li fa correre liquidi. Solo la cenere gli fa resistenza, e giunge ad estinguere la sua fiamma, e a spegnere il suo calore. Or mirate, dice lo scrittore della Sapienza, se questa cenere ingrata non è il simbolo più espressivo della sconoscenza dell’uman cuore che, dimentico di Chi lo creò, volge gli affetti suoi a tutt’altro, che al suo Fattore. “Cinis est cor eius … quoniam ignoravit qui se finxit” (Sap. XV, 10, 12). Così è, miei cari, al fuoco dello Spirito Santo fa colpevole resistenza la cenere della nostra ingratitudine, quando si chiudono gli occhi ai suoi lumi, quando si fa il sordo alle sue voci, alle sue sante ispirazioni, quando si soffocano i salutari rimorsi, che desta nella nostra coscienza per trarci a ravvedimento e a salute. Meritiamo, allora il rimprovero che S. Stefano fece ai caparbi Giudei: “Vos semper Spiritui Sancto resistitis(Act. VII, 51). – Affinché non si rinnovi in noi, o non si confermi questa mostruosa resistenza, conviene disporre in questa già cominciata novena, conviene preparare il nostro cuore, acciò lo Spirito Santo accenda del suo santo amore. Volete ch’io ve ne accenni il modo? Rammentatevi il profeta Elia, allorché per confondere i falsi profeti di Baal, e far conoscere al popolo astante che il Dio d’Israele era il vero Dio, si accinse a far discendere fuoco dal cielo per accendere e consumare un olocausto. Scelse egli dodici pietre, secondo il numero delle Tribù d’Israele, e ne formò un altare; su quello dispose le legna, e sopra la massa delle medesime collocò le parti della vittima immolata; indi per ben tre volte sparse acqua abbondante sopra la vittima, le legna e l’altare; finalmente con fervide preghiere invocò il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, e al tempo stesso ecco cadere dal cielo un’ardentissima fiamma che divorò vittima, legna e le stesse pietre che componevano l’altare. Ecco fedeli amatissimi, ecco la norma. Acciò sopra di noi discenda il fuoco del vivificante Spirito del Signore, fa d’uopo comporre l’altare con mistiche pietre. Saranno queste le astinenze, i digiuni, la mortificazione dei sensi, le opere di spirituale e corporale misericordia. Edificato l’altare, si devono su quello preparare le legna. Legna opportune a formar questo mistico rogo, sono le lezioni spirituali, le limosine ai poverelli, le volontarie penitenze. Su di tal rogo dobbiamo collocare la vittima. Vittima non v’è, non v’è sacrifizio a Dio più accettevole d’uno spirito contristato, d’un cuore umiliato e contrito pel dolore dei propri peccati: “Sacrificium Deo spiritus contribulatus, cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies(Ps. L, 19). Su questa vittima di cuor contrito bisogna versare acqua abbondante, acqua di lacrime, acqua d’amarissima vena, lacrime che partano dall’intimo del cuor compunto, ad imitazione di S. Pietro che in questi giorni nel cenacolo, in aspettazione dello Spirito Santo, quantunque certo del perdono delle sue colpe, non cessava di piangere i suoi spergiuri; ad imitazione di S. Tommaso, che piangeva la sua incredulità; ad imitazione di tutti gli Apostoli congregati, che piangevano la loro fuga e l’abbandono del loro divino Maestro. Finalmente siccome la preghiera di Elia ottenne la prodigiosa discesa del fuoco del Signore, che consumò l’olocausto, così le nostre preghiere muoveranno il cuore di Dio a mandarci il Santo suo Spirito che in noi, distrugga ogni colpa, purghi ogni macchia, dissipi ogni affetto terreno, e ci accenda del fuoco dell’eterna sua carità. Così avvenne nella Pentecoste agli Apostoli, alle pie donne, ai devoti fedeli con Maria Vergine nel cenacolo adunati. Essi tutti concordemente uniti in viva orazione e perseverante preghiera, sollecitarono l’arrivo del loro promesso Spirito del Signore che sopra ciascuno di essi si fece vedere in forma di lucidissime fiamme. “Hi omnes erant perseverantes unanimiter in oratione cum Maria matre lesu(Act. I, 14.). Felici noi se al termine di questa santa novena che è da Gesù Cristo istituita e a tutte l’altre ha dato il nome, si troveranno in noi le fin qui indicate disposizioni. Lo Spirito Santo verrà nelle nostre anime, e vi farà la sua mansione: con i sette suoi doni, colla superna sua luce diraderà le tenebre del nostro intelletto, ci farà conoscere la vanità delle cose terrene, e la grandezza ed importanza delle eterne: ci renderà luminosa, convincente testimonianza della Persona, della Divinità, della dottrina e della fede di Gesù Cristo. E noi rischiarati nella mente, infiammati nel cuore, Gli daremo, ad imitazione degli Apostoli, prove e testimonianze di fedeltà, di riconoscenza coll’integrità della nostra fede, coll’osservanza della sua legge, coll’esemplarità dei nostri costumi, coll’imitazione dei suoi esempi, coll’esercizio delle cristiane virtù, fino a pervenire ove col Padre e con lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Così sia.

Credo …

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps XLVI:6. Ascéndit Deus in jubilatióne, et Dóminus in voce tubæ, allelúja.

 Secreta

Sacrifícia nos, Dómine, immaculáta puríficent: et méntibus nostris supérnæ grátiæ dent vigórem. [Queste offerte immacolate, o Signore, ci purífichino, e conferiscano alle nostre ànime il vigore della grazia celeste.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Communio

Joannes. 17:12-13; 17:15 Pater, cum essem cum eis, ego servábam eos, quos dedísti mihi, allelúja: nunc autem ad te vénio: non rogo, ut tollas eos de mundo, sed ut serves eos a malo, allelúja, allelúja. [Padre, quand’ero con loro ho custodito quelli che mi hai affidati, allelúia: ma ora vengo a Te: non Ti chiedo di toglierli dal mondo, ma di preservarli dal male, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus. Repléti, Dómine, munéribus sacris: da, quæsumus; ut in gratiárum semper actióne maneámus. [Nutriti dei tuoi sacri doni, concedici, o Signore, Te ne preghiamo: di ringraziartene sempre.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen

Il terzo segreto di Fatima

Il terzo segreto di Fatima

Siamo nel 1936. Poco prima del suo viaggio negli Stati Uniti d’America, il Segretario di Stato di Pio XI, il cardinale Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, disse al Conte Enrico Pietro Galeazzi: “Supponga, mio caro amico, che il comunismo sia soltanto il più visibile degli organi di sovversione contro la Chiesa e contro la Tradizione della Rivelazione divina, allora noi andremo a vedere l’invasione di tutto quanto è spirituale, la filosofia, la scienza, il diritto, l’insegnamento, l’arte, i giornali, la letteratura, il teatro e la religione. Sono esterrefatto per le confidenze fatte dalla Vergine alla piccola Lucia di Fatima. Questo insistere da parte della Madonna sui pericoli che minacciano la Chiesa è un avvertimento divino contro il suicidio per l’alterazione della Fede, nella sua liturgia, nella sua teologia e della sua anima”. (…). “Sento intorno a me gl’innovatori che vogliono smantellare la Sacra Cappella, distruggere la fiamma universale della Chiesa, respingere i suoi ornamenti, infliggerle il rimorso per il suo passato storico”. “Così, mio caro amico, sono convinto che la Chiesa di Pietro deve difendere il suo passato; altrimenti si scaverà la fossa”. …un giorno verrà che il mondo civilizzato rinnegherà il suo Dio, che la Chiesa dubiterà come Pietro ha dubitato. Essa sarà tentata a credere che l’uomo sia diventato Dio, che suo Figlio è soltanto un simbolo, una filosofia come tante altre, e nelle chiese i Cristiani invano cercheranno la fiamma rossa che indica che Dio li aspetta. (Mgr. Georges Roche e Père Philippe St. Germain, “Pie XII devant l’histoire”, Laffont, Paris, 1972, pp 52-53 ; Abbé Daniel Le Roux Pierre m’aimes tu?”, Fideliter, Brout Vernet, 1986; p. Padre Dominique Bourmaud, “Cien Años de Modernismo”, Fundación San Pio X, Buenos Aires, 2006, p.312. [Gli autori qui citati facevano parte, forse senza volerlo, della falsa chiesa del “novus ordo”, pertanto noi rigettando i loro insegnamenti, ci serviamo esclusivamente delle notizie riferite al Cardinale Pacelli, il futuro Santo Padre Pio XII- ndr.-] – Che profezie precise! Sicuramente, però, il cardinale Pacelli, non ancora eletto Papa, non era un profeta! Egli affermava che era rimasto impressionato da quello che la Madonna aveva detto insistentemente a Lucia [quella vera, naturalmente!], una delle veggenti di Fatima, su il suicidio per l’alterazione della Fede, nella Sua liturgia, la Sua teologia e la Sua anima. Ma, ci chiediamo, anche noi meravigliati, visto che le previsioni si sono avverate in modo sì meticolosamente esatto, sia nella società civile, che nella chiesa ecumenico-modernista [conchiglia morta della Chiesa di Cristo!] oramai a-Cattolica: come ha conosciuto il Cardinale Pacelli queste predizioni della Madonna di Fatima alla veggente Lucia? – Da quanto ne sappiamo, all’epoca, neppure un libro aveva mai raccontato che la Madonna avesse detto tali cose a Lucia. E allora, il cardinale Pacelli, futuro Pio XII, da dove ha appreso queste predizioni? Sicuramente solo dall’autentico testo del Terzo Segreto di Fatima, che Suor Lucia scrisse; segreto al quale il Cardinale segretario di Stato possibilmente aveva avuto accesso, senza che il testo fosse ancora pubblicato [e … manipolato dalla falsa suora degli “Illuminati”, e dalla falsa gerarchia usurpante!]. Il Vaticano, sede della setta apostatica del “Vat. II” ha pubblicato soltanto la descrizione della visione riportata nel terzo segreto; recentemente poi, sempre l’apostatico “colle” Vaticano ha dato una versione del terzo segreto, “patacca mal confezionata”, ampiamente sconfessata finanche dal (falso) Prefetto della Congregazione della Fede, l’allora (falso)cardinale J. Ratzinger; per convincersene basta dare un’occhiata al libro di Laurent Morlier: Il Terzo Segreto di Fatima pubblicato dal Vaticano è un falso. Eccone le prove…”. E il card. Oddi, che ebbe un colloquio con suor Lucia, ne trasse la convinzione “che il terzo segreto predicesse qualcosa di terribile che la Chiesa aveva fatto” (ovviamente nel senso improprio degli uomini di Chiesa); addirittura anche il falso cardinale M. L. Ciappi, non-vescovo mai consacrato nel 1977 con la formula eretica di Bugnini-Montini, poi non-cardinale “da burla” dallo stesso Montini), prima di morire, forse in un momento di strana lucidità ebbe a dire: “ … Nel terzo segreto si profetizza, tra le altre cose, che la grande apostasia nella Chiesa partirà dalla sua sommità”, senza però dire che essa fosse già iniziata e senza pentirsi, fuori dalla Chiesa cattolica. – L’apostasia è il rigetto, il rinnegamento, la perdita della fede cattolica, non necessariamente per non credere più a niente, ma, cosa più insidiosa, per sostituirla con una falsa fede (… è quello che è sotto gli occhi di tutti: la chiesa dell’uomo trionfante e tronfio che sostituisce Dio Padre ed il Figlio Gesù Cristo mediante un culto falso e sacrilego che baratta l’Olocausto con una volgare sacrilega agape rosacrociana!). È il monito più grave che la Madre del Verbo Incarnato potesse rivolgere. Il 15 ottobre 1963, circa tre anni dopo la data indicata al Vaticano da Lucia dos Santos per la divulgazione del Terzo Segreto di Fatima, sul giornale tedesco di Stoccarda Neues Europa, a firma del giornalista Louis Emrich, apparve il testo: “Il Segreto di Fatima”, presentato col titolo: L’avvenire dell’umanità alla luce dell’accordo di Mosca e delle rivelazioni della Madre di Dio a La Salette e a Fatima.Il testo, trapelato per una indiscrezione diplomatica, sarebbe stato inviato a titolo informativo dalle Autorità Vaticane a quelle di Washington, Londra e Mosca, ritenendolo indispensabile alla convenzione sulla cessazione degli esperimenti nucleari. Lo stesso identico documento fu pubblicato su L’Araldo di Sant’Antonio n. 15 del 15 maggio 1975, a cura di un gruppo di figli spirituali del Servo di Dio, Padre Pio da Pietrelcina. Nel 1963, la Rivista tedesca Neues Europa rivelò quello che poteva essere parte del contenuto del Terzo Segreto: “Cardinale contro Cardinale e Vescovo contro Vescovo”. – Sappiamo quel che disse il cardinale Ottaviani, il quale aveva pure letto il “Terzo Segreto”, quando gli venne chiesto se fosse il caso di ripubblicare l’articolo del “Neues Europa”: egli disse con grande enfasi: Pubblicatene 10.000, 20.000, 30.000 copie!; l’affermazione è ancor più sorprendente proprio perché proviene dal cardinale Ottaviani, un uomo dalla personalità fredda e sorvegliata e che fu sempre piuttosto scettico sulla maggior parte delle apparizioni» (Cfr. P. Paul Kramer, La battaglia finale del Diavolo, The Missionary Association, Buffalo, New York – USA, p. 213). – Padre Mastrocola, direttore del foglio religioso “Santa Rita”, chiese al Cardinale Ottaviani il permesso di riprendere l’anticipazione fatta da Neues Europa. La risposta fu incoraggiante: “Fatelo, fatelo pure – rispose il porporato custode del Terzo Segreto – pubblicatene quante copie vi pare, perché la Madonna voleva che fosse reso noto già nel 1960”. E di quel testo parlò anche la Radio Vaticana nel 1977, nel Decennale del viaggio di G. Montini (il marrano antipapa Paolo VI) a Fatima. Il testo di Neues Europa conobbe grande fortuna, e venne ripreso persino, il 15 ottobre 1978, dall’Osservatore Romano» (Cfr. P. Paul Kramer, “La battaglia finale del Diavolo”, The Missionary Association, Buffalo, New York, p. 213, nota 18). Nella presentazione dell’articolo: “Il Segreto di Fatima”, pubblicato della “Neues Europa”, c’è scritto: L’autenticità di tale documento non è mai stata smentita dal Vaticano. – Il sacerdote don Luigi Villa, noto per essere stato incaricato da Papa Pacelli di stanare i massoni infiltrati nella Chiesa, [cosa solo in parte riuscitagli, non per sua colpa, ma per l’eccessiva quantità di personaggi da denunciare], poco prima di morire, purtroppo fuori dalla “vera” Chiesa Cattolica, ha indicato ad un suo collaboratore le frasi di quell’articolo del Neues Europa effettivamente contenute nel “Terzo Segreto” di Fatima, scritto da Lucia dos Santos [quella autentica!] su un foglio di carta, il 3 gennaio 1944, e visto, toccato con le proprie mani e letto dal cardinale Ottaviani, a mezzogiorno del 13 maggio del 1960.

Il terzo segreto di Fatima

Un grande castigo cadrà sull’intero genere umano, non oggi, né domani, ma nella seconda metà del Secolo XX. In nessuna parte del mondo vi è ordine, e satana regnerà sui più alti posti, determinando l’andamento delle cose. Egli effettivamente riuscirà ad introdursi fino alla sommità della Chiesa. Anche per la Chiesa, verrà il tempo delle Sue più grandi prove. Cardinali si opporranno a Cardinali; Vescovi a Vescovi. Satana marcerà in mezzo alle loro file e a Roma vi saranno cambiamenti. Ciò che è putrido cadrà, e ciò che cadrà più non si alzerà. La Chiesa sarà offuscata, e il mondo sconvolto dal terrore. Una grande guerra si scatenerà nella seconda metà del XX secolo. Fuoco e fumo cadranno dal Cielo, le acque degli oceani diverranno vapori, e la schiuma s’innalzerà sconvolgendo e tutto affondando. Milioni e milioni di uomini periranno di ora in ora, coloro che resteranno in vita invidieranno i morti. Vi sarà morte ovunque a causa degli errori commessi dagli insensati e dai partigiani di satana il quale allora, e solamente allora, regnerà sul mondo. In ultimo, allorquando quelli che sopravviveranno ad ogni evento, saranno ancora in vita, proclameranno nuovamente Iddio e la Sua Gloria, e Lo serviranno come un tempo, quando il mondo non era così pervertito.

Nel Terzo Segreto di Fatima, quindi, la Madonna avrebbe anticipatamente accusato il Concilio Vaticano II e il Novus Ordo Missae come suicidi ed insensati! [infatti sono i frutti velenosi della montiniana chiesa-baraccone, sinagoga di satana]È proprio per questo che i “falsi” Papi, da Roncalli a Montini, e … compagnia cantando, quasi tutti clowns marrani, non hanno mai voluto pubblicare il Terzo Segreto di Fatima [pubblicandone, come detto, uno falso della ancora più falsa “pseudo-suor Lucia”], tergiversando senza motivi plausibili [… e sì che c’erano i motivi, altroché!]. La Santa Vergine non ha fatto solo la diagnosi e la prognosi del morbo, del cancro putrido che affligge l’umanità, il bubbone dell’anticristo, ma ne dato la cura per non farlo diventare irrimediabilmente causa di eterna morte e dannazione.

Per salvarsi occorre seguire attentamente le indicazioni di Cristo, del suo Vicario in terra [si intende i “veri” Papi legittimamente eletti da veri Cardinali in “liberi” Conclavi] e della Vergine Maria nelle sue apparizioni approvate [evitare nel contempo le apparizioni “patacche”, con i falsi messaggini … tipo whats App]. E queste indicazioni sono essenzialmente: – 1° la Chiesa Una, Santa, Cattolica, Apostolica, Romana è infallibile, immutabile, navicella inaffondabile, vera arca di Noè, sulla quale alcun diluvio, né le porte del male prevarranno giammai! – 2° Il Vicario di Cristo, assistito dallo Spirito Santo, è infallibile in materia di fede e di morale, custode del deposito apostolico immutabile della fede, Pietra inalterabile, Roccia sulla quale Gesù-Cristo ha fondato la sua UNICA Chiesa e che resterà tutti i giorni con noi fino alla fine dei tempi, in una sequenza ininterrotta di rappresentanti … sia materiali che formali, come recita la sana Teologia tomistica; – 3° Cercare ed ottenere solo i “veri” autentici Sacramenti da “veri” prelati e sacerdoti con Giurisdizione e Missione canonica, evitando più che la peste quelli fasulli, sacrileghi, invalidi ed illeciti, “flatus” e sterco di satana, corsia preferenziale per l’inferno; nell’attesa: esame di coscienza con profonda contrizione e Comunione spirituale – 4° La Chiesa “vera” c’è, è eclissata, offuscata, sotterranea, nelle catacombe, in grave pericolo, … ma c’è! MAI morirà né si trasformerà nella sinagoga di satana!… bisogna assolutamente cercarla e con l’aiuto del Signore farne parte (… extra Ecclesia nulla salus!) scrollandosi, con la rimozione di chi ne ha la potestà, le innumerevoli censure contratte. – 5° Osservare tutte le devozioni approvate e con indulgenza, praticare le opere di misericordia, pentirsi delle proprie colpe e farne oggettiva penitenza. – 6° Pregare sempre, in particolare con il Santo Rosario e con la Salmodia in latino. -7° Perseverare fino alla fine della “corsa”, conservando la fede Cattolica di sempre, per conseguire il premio eterno. Che Dio ci aiuti e .. exsurgat Deus et dissipentur inimici ejus! … et:

… et Ipsa conteret caput tuum!

XXVI. GIORNO: L’ASCENSIONE

XXVI. GIORNO.

L’Ascensione.

[G. Gilli: “Piccolo mese di maggio”- Tip. Imm. Conz. Ed. Modena, imprim.]

Terminata era la missione dell’ Uomo-Dio sulla terra; gettate le fondamenta della sua Chiesa, istituiti i sacramenti, ammaestrati gli apostoli, non più rimaneva all’adorabile Salvatore che dare ai beneamati del suo cuore un’ ultima benedizione, pegno di quell’eterna benedizione che accorderebbe loro ben presto in cielo. Non v’ha dubbio che cogli apostoli e gran numero di discepoli non si sia trovata Maria sul monte degli olivi in quella commovente circostanza. Appena colà radunati, ecco Gesù comparire in mezzo al suo piccolo gregge, e dopo aver loro dato un ammonimento ancora, e la benedizione, i suoi piedi abbandonano la terra, ed Egli s’innalza maestosamente verso il cielo. Se, come insegna antica tradizione, il Salvatore concesse alla Madre di poter essere testimonio del suo trionfante ingresso nel cielo, chi varrà a descrivere il rapimento, 1’estasi di felicità in che Fl’avrà piombata la vista del corpo glorificato del suo Gesù sedente alla destra del Padre? Ah! Qui innanzi la vita di quest’anima immacolata non sarà più che un ardente aspirazione verso il cielo, un’accesa brama di veder finire il suo esilio, sopportando tuttavolta gli inenarrabili dolori di sì fatta lontananza con perfetta e paziente rassegnazione alla volontà del Signore. – Desideriamo noi il cielo come la nostra divina Madre? Il cielo! Ah! egli è pure la dimora del nostro Padre, l’eredità nostra, la nostra patria, il luogo ove si tergeranno per sempre le lacrime nostre. Coraggio dunque; ogni giorno di quaggiù è un passo che a Dio ci avvicina. Che cosa importano le fatiche del viaggio, le pene, le prove, dacché ci attende colassù una felicità inenarrabile, felicità proporzionata alla grandezza delle nostre afflizioni? Sì, Dio misurerà le sue consolazioni al regolo delle nostre croci; più avremo sofferto, più grandi saranno le nostre gioie; e quel che più monta, tutti i dolori saranno passati per non ritornare più mai, e la felicità la quale ne sarà il guiderdone, avrà 1’eternità per durata.

ESEMPIO.

La ristrettezza, di un esempio non mi permette che di far parola di alcuna soltanto delle più rinomate Statue rappresentanti la B. V. Maria: — In Saragozza evvi la statua detta del Pilar (della colonna) di cui già diedi un cenno; la s. Vergine sta in piedi col bambino Gesù tra le braccia, il quale tiene una colomba in mano; pretendesi scolpita ai tempi dell’apostolo s. Giacomo. — Una delle più celebri statue che vanti la Francia è incontestabilmente quella di Puy-en-Velay; vuolsi colà portata da quegli arabi che primi, dopo i Magi, venerarono Maria ed il bambino, e la scolpirono a loro modo: essa tiene Gesù sulle ginocchia. — La statua d’ ebano della B. V. di Loreto, annerita dal tempo e dal fumo delle numerose lampade e candele, che ardono giorno e notte, è pure di antichissima data; v’ha delle cronache, le quali ne attribuiscono la scultura allo stesso s. Luca; rapita dall’armata repubblicana nel 1797, e trasferita a Parigi, venne riportata a Loreto per ordine di Napoleone, appena divenuto primo console. — La Madonna di Spoleto dicesi colà portata di Palestina nel 352 da tre eremiti: dapprima addimandossi S. Maria di Giosafat, poi la Madonna degli Angeli o della Porziuncula: questa chiesa fu la calla dell’ ordine del Serafino d’ Assisi. — Celeberrima è la statua posta all’ ingresso della chiesa del santo Sepolcro in Gerusalemme; a questa si riconobbe debitrice della sua conversione s. Maria egiziaca nel 370. — La più antica statua di Maria venerata nel Belgio è quella di Bruges. — Beatrice vedova del conte di Dampierre ricevette dal sommo Pontefice Gregorio IX una statua della B. Vergine deposta, dice una tradizione, dagli Angeli in una foresta d’Italia. Collocata nella chiesa dell’abbazia di Courtrai, divenne ben presto celeberrima per i suoi prodigi. Finalmente nella chiesa di Afflighem esiste la famosa statua, la quale nel 1150, salutata da s. Bernardo colle parole: Salve, Maria, gli rese il saluto: “Salve, Bernardo”.

Orazione.

O Maria che tenete in mano lo scettro della misericordia, ricordatevi di me, povero vostro figlio che pellegrino qui in terra, sospiro verso il cielo, che è la patria mia, verso Dio che è Padre mio, verso Gesù che è mio fratello, verso di voi che siete la Madre mia. Deh! Guidate tutti i miei passi finché deporre possa ai vostri piedi l’immortale corona, non dovuta ai meriti miei, ma a quelli del vostro divin Figlio, ed alla materna vostra protezione. Così sia.

OSSEQUIO.

Recitate un De profundis per 1’anima del purgatorio che in vita fu più devota della B. V.

GIACULATORIA.

Virgo potens, ora prò nobis.

ASCENSIONE

ASCENSIONE

Et cum hæc dixisset, videntibus illis, elevatus est: et nubes suscepit eum ab oculis eorum. Cumque intuerentur in cælum euntem illum, ecce duo viri astiterunt juxta illos in vestibus albis, Qui et dixerunt: Viri Galilæi, quid statis aspicientes in cælum? Hic Jesus, qui assumptus est a vobis in cælum, sic veniet quemadmodum vidistis eum euntem in cælum. [Act. I, 9-11.]

 “… Perciò i beatissimi Apostoli e tutti i discepoli, ch’erano sgomenti per la morte (di Gesù) sulla croce ed avevano esitato sulla fede nella sua risurrezione, furono talmente confermati dall’evidenza della verità, che, lungi dall’essere rattristati al vedere il Signore ascendere nelle altezze dei cieli, furono al contrario ripieni di grande gioia. E certo, c’era là una grande ed ineffabile causa di gioia, allorquando in presenza di questa santa moltitudine, una natura umana s’innalzava al di sopra della dignità di tutte le creature celesti, per sorpassare gli ordini Angelici, per essere elevata più alto degli Arcangeli, e non arrestarsi nelle sue elevazioni sublimi che allorquando, ricevuta nella dimora dell’eterno Padre, ella sarebbe associata al trono e alla gloria di colui alla natura del quale si trovava già unita nel Figlio.”

[S. Leone Papa, Sermon. 1 de Ascensione Domini]

[J.-J- Gaume: “Catechismo di perseveranza”, Torino, 1881 – vol. IV]

I. Ascensione. — Abbiamo veduto il Figlio di Dio sceso dal cielo nascere, vivere e morir per redimere e restaurare l’opera propria, danneggiata dal peccato originale. Erano quaranta giorni dacché il divino Riparatore aveva provato ai più increduli la propria risurrezione. Per riposarsi dai patimenti della sua umanità, egli avrebbe potuto rimanere minor tempo sopra la terra; ma il suo amore per noi lo tratteneva lontano dagli Angeli. Sarebbesi detto un reale proscritto, il cui bando era stato tolto, ma che non voleva tornare subito alla propria patria, perché durante il suo esilio Ei si era abituato ad amare gli uomini coi quali aveva sofferto. S’Ei si allontana in questo giorno è questo parimente un segno d’amore. Il nobile vincitore va a prender possesso del regno acquistato col proprio sangue e a collocare l’umanità sul trono della gloria immortale. Volete voi essere testimoni di questo mistero che corona l’opera della redenzione? Partiamo per Gerusalemme. Eccovi il Salvatore attorniato dai suoi discepoli; eccolo presso Betania, borgo da voi tutti ben conosciuto, fabbricato sul declive del monte Oliveto, a circa quindici stadii da Gerusalemme, da dove l’Uomo-Dio era partito per fare il suo ingresso trionfale nella città deicida. Con essi Egli salì quella montagna, poco fa testimone della sua agonia. Essa vi si presenta sulla via che va da Gerusalemme a Gerico, è la più elevata collina attorno alla città di David, i lati sono coperti di verdura, la cima è coronata di viti e di olivi. Giunti alla sommità il Figlio di Dio si ferma e dice ai suoi discepoli situati in cerchio attorno a Lui: « E stata a me conferita tutta la podestà in cielo ed in terra, istruite tutte le genti battezzandole nel nome del Padre del Figliuolo e dello Spirito Santo; insegnando loro di osservare tutto quello che Io vi ho comandato, ed ecco che Io sono con voi in ogni tempo fino alla consumazione dei secoli ». – Nel tempo stesso Egli aprì loro l’intelletto affinché comprendessero, affinché intendessero le Scritture e vedessero che tutto ciò ch’era stato annunziato dai profeti a proposito di Gesù Cristo si era adempiuto nella persona di Lui. « Testimoni voi di tutte queste cose, Ei soggiunge, non dovete obliarle. Io sto per mandare sopra di voi il dono del Padre mio che vi è stato promesso; ma fino a qual momento restate nella città finché non siate stati rivestiti della forza di lassù». – Per consolarli della sua partenza e per mostrar loro che tutti i suoi passi erano guidati dall’amore di loro: « È per voi vantaggioso, diss’Egli, ch’Io me ne vada; se Io non me ne vo, lo Spirito non verrà in voi ». E che, mio Salvatore? Dunque la vostra presenza sensibile è un ostacolo alle comunicazioni dello Spirito Santo? Ciò sembrano indicare le vostre parole: ora quale ne è il significato? – In principio fu necessario distaccare gli Apostoli dall’amore delle cose sensibili col mezzo dell’amore della presenza sensibile del Figlio di Dio nella nostra carne. Ma ilSalvatore non volle affezionarli per un certo tempo alla sua presenza visibile fuorché per abituarli insensibilmente all’amore della giustizia, della verità, della carità, dell’umiltà e di tutte le altre virtù di cui dava loro tanti mirabili precetti e tanti illustri esempi. L’amore di Gesù Cristo è utile ed anche necessario a coloro che incominciano, ma sarebbe finalmente nocivo a quelli che debbono transitare dall’infanzia spirituale ad una età e ad una condizione più perfetta, nelle quali essi debbono amare Gesù Cristo come Dio, come eterna verità, come incorruttibile giustizia e santità. Ecco perché fu necessario che Gesù Cristo salisse al cielo, senza di che gli Apostoli non avrebbero potuto amarlo di amore puramente spirituale, e non avrebbero per conseguenza potuto ricevere il suo Spirito Santo. Ma è giunto ormai il momento supremo; il precettore dell’uman genere sta per privare il mondo della sua presenza visibile; la bocca divina che ha istruito l’universo è per chiudersi. Era giorno di giovedì, verso il meriggio, il dì quarantesimo dopo la risurrezione, quando il Salvatore gettando per l’ultima volta i suoi sguardi su la sua santa Madre e sopra i discepoli, stese le mani, li benedisse e fu rapito di mezzo a loro. Come nella sua risurrezione egli era uscito dalla tomba per suo proprio potere, così si alzò del pari nella sua ascensione senza abbisognare, a guisa di Elia, di carro di fuoco, né di Angeli, né di alcuno estraneo soccorso. Una splendida nube, simbolo della sua gloria, lo avvolse, e questo nuovo carro trionfale lo tolse ben presto alla loro vista. – Mentre erano tutti intenti a considerarlo, due Angeli, simili a due bei giovani, apparvero loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state mirando verso il cielo? Quel Gesù, il quale tolto a voi è stato assunto in cielo, cosi verrà, come l’avete veduto andare in cielo». – Avendolo dunque i discepoli adorato, prostrandosi con la faccia per terra, e avendo baciato le orme dei suoi tornarono giubilanti a Gerusalemme rimasero aspettando l’adempimento della promessa che aveva fatta loro il Signore e rimpiegando il tempo dell’aspettativa a lodare Iddio, a prepararsi coll’orazione al grande avvenimento. – Ecco pertanto narrata in succinto la partenza del Cristo da questa terra, che la sua mano potente aveva creata nel dì che trasse le cose dal nulla, e che aveva in seguito bagnata del proprio sangue nel giorno della redenzione.

II. Vestigie dei piedi di Nostro Signore. — Dal punto più elevato del monte degli Olivi il Salvatore sali al cielo, e quivi lasciò le vestigie de’ suoi piedi divini, impressi nel posto ove egli toccò la terra per l’ultima volta. Molti secoli le hanno vedute, le hanno baciate con rispetto e bagnate di lagrime di pentimento e d’amore. San Girolamo, san Sulpizio Severo, san Paolino di Nola, sant’Ottato, sono testimoni irrefragabili di questo fatto miracoloso; e alla loro autorità si aggiunge quella di sant’Agostino. « Si va in Giudea, dice l’illustre vescovo d’Ippona, per adorare le vestigia de’ piedi di Gesù Cristo che si vedono nel luogo dove Ei salì al cielo ». [“Ibi sunt vestigia cius, modo adorantar ubi novissime stetit, unde ascendit in coelum. S. Aug. XXXVII in Joan.]. – Nel tempo dell’assiedio di Gerusalemme fatto da Tito, l’esercito Romano stette molto tempo accampato sul monte degli Olivi, senza che né il movimento dei soldati, né lo scalpitare dei cavalli, né i lavori dell’accampamento, pei quali non si poteva a meno di rivoltare la terra, potessero scancellare quelle sacre vestigia. – Si scorgevano tanto bene al tempo dell’Imperatrice Elena, madre del gran Costantino, che quando quella pia principessa fece edificare la basilica dell’Ascensione, nel luogo stesso della montagna, da dove si sapeva che Gesù Cristo era salito al cielo, si volle lastricare e coprire di marmo l’orma dei piedi egualmente che il resto di quella magnifica chiesa, ma giammai si poté venirne a capo. Tutto quanto vi si poneva sopra era rigettato da una forza invisibile, e fu di mestieri lasciare il sito scoperto e nello stato in cui siera trovato. Fin da quel tempo divenne uno dei dei grandi oggetti di devozione per i cristiani che, pellegrinando da tutte le Provincie dell’impero e di tutte le nazioni straniere, si recavano a visitare i luoghi santi. – San Girolamo racconta a questo proposito un altro splendido miracolo: «Quando vollero, dice il gran dottore, finire il tetto della Basilica dell’Ascensione fu impossibile chiudere la volta che corrispondeva perpendicolarmente al posto delle vestigia del Signore. Furono costretti a lasciar libero e scoperto lo spazio dal quale Egli era innalzato da terra e veniva accolto dalle nubi; il che permetteva ai fedeli di contemplare il sentiero che Gesù Cristo aveva preso per salire al cielo ». – Le cose erano tuttavia in questo stato verso la fine del settimo secolo, quando un vescovo di Francia, chiamato Arnolfo, visitò i luoghi santi. Nel medio evo l’edificio fu distrutto dai Saraceni; finalmente un viaggiatore che giunse da poco tempo dalla Palestina, il reverendo padre de Geramb, parla in tal guisa: «Sulla sommità del monte degli Olivi si trova una moschea, sul ripiano della quale era anticamente una chiesa della più gran magnificenza, fabbricata da sant’Elena nel luogo dal quale Gesù Cristo salì al cielo dopo la risurrezione. Questa moschea che minaccia rovina è circondata da miserabili casupole abitate da Turchi. Nel centro, in una specie di cappella, si vede l’orma impressa nel masso dal piede sinistro di Nostro Signore nel momento di lasciare la terra per salire al cielo. Si assicura che i Turchi hanno sottratto l’impronta del piede diritto e l’hanno sotterrata per poi trasportarla nella moschea dal tempio. Quanto all’impronta del piede sinistro, ella esiste in modo da non lasciare alcun dubbio, quantunque sia ora alquanto consunta dagl’innumerabili baci che da più secoli i pellegrini non cessano d’imprimervi, e fors’anche da qualche devoto furto, che un’attenta vigilanza non ha potuto impedire ».

III. Ingresso trionfale nei cieli di nostro Signore Gesù Cristo. — Il Figlio di Dio che aveva lasciata sul masso l’impronta dei suoi piedi, come un monumento eterno del suo passaggio sopra questa terra, che Egli aveva santificata col proprio sangue, si avanzava rapidamente verso la Gerusalemme celeste. Ma quale armata invisibile, quali carri di fuoco plaudono al suo trionfo? Ecco Egli è accompagnato dagli antichi patriarchi, dai profeti e da tutti gli uomini virtuosi, ai quali il cielo era stato fino allora chiuso, e che Egli innalzava allora seco Lui, menando schiava la stessa schiavitù. Tutti quegli schiavi, ora liberati, seguivano il loro Redentore nel suo trionfo, cantando la vittoria dì Gesù che dopo averli sottratti alla podestà del demonio, gli traeva seco al cielo come trofei della propria vittoria, come ricche spoglie tolte al nemico, come prezzo del suo sangue adorabile, come l’ornamento e la gloria del suo trionfo. « Qual grande qual brillante processione, esclama san Bernardo, alla quale gli apostoli non erano ancora degni d’assistere! » [Serm. II in Ascens., n. 8].Ad un tratto si schiudono le porte eterne. Chi potrà narrare lo stupore degli angeli al vedere la natura umana di Gesù Cristo innalzata al di sopra di loro e collocata a destra di Dio medesimo? Al vedere Gesù Cristo che come uomo era stato ignominiosamente condannato e messo a morte sulla terra ora riconosciuto come il Signore di tutto il creato e come il supremo Giudice degli uomini?E in questo giorno la Chiesa della terra unendosi alla Chiesa del Cielo palesa il proprio entusiasmo per celebrare il trionfo del suo Sposo e del suo capo; l’uffizio dell’Ascensione spira la più viva gioia ed è accompagnato da una processione particolare. Essa è stata instituita col disegno di figurare la gita degli Apostoli da Gerusalemme a Betania, e di là al monte degli Olivi per vedervi nostro Signore salire al cielo, e il loro ritorno a Gerusalemme, per ivi prepararsi nella solitudine a ricevere lo Spirito Santo, ecco il perché essa non deve farsi che dopo terza, cioè dopo le ore nove. In fatti in quel momento il Salvatore, accompagnato dai suoi discepoli, salì la santa montagna. Deh! nel giorno dell’Ascensione richiami alla mente ciascuno di noi le circostanze di questo viaggio: pensiamo tutti che siamo noi medesimi che accompagniamo il Salvatore; abbandoniamo il cuor nostro ai sentimenti della fede; sopra tutto non dimentichiamo che diciotto secoli ci precedono nella celebrazione di questa festa gli esempi, la divozione, le lagrime pie, i santi desideri dei padri nostri ci tornino al pensiero, e allora credetemi, questa festa, questa processione non ci saranno più indifferenti.

IV. Mezzi di celebrare degnamente la festa dell’Ascensione. — Frattanto questo mistero, sì idoneo a svegliare l’allegrezza degli spiriti beati, non deve essere un soggetto di duolo per noi che rimaniamo orfani sulla terra? « Qual parte ho io a queste solennità? dice san Bernardo? » [Serm. III in Ascen. Dom.]. – E che? Obliate voi, o gran santo che tutti i passi di nostro Signore sono inspirati dall’amor suo? Ecco i motivi del vostro giubilo. – 1° Gesù Cristo sale al cielo a prender possesso della sua gloria, e godere dei frutti delle sue umiliazioni e dei suoi patimenti. Per un figlio pietoso si potrebbe mai aver soggetto più grande di gioia, che il vedere suo padre trionfante e ricco delle spoglie dei nemici suoi, entrare al possesso di quel riposo e di quella gloria guadagnatosi con lunghe fatiche e molte battaglie, e vederselo onorato, esaltato, benedetto da tutto l’universo? – 2° Gesù Cristo sale al cielo per inviarci lo Spirito consolatore, quello Spirito che doveva rigenerare il mondo intero a quel modo che fecondò il caos nel giorno della creazione. “Se io non me ne vo, dice Gesù Cristo, non verrà a voi il paraclito”. Se il Padre nostro ci priva della sua presenza sensibile, ciò non fa per lasciarci orfani, ma per riempire i nostri cuori dei doni preziosi dello Spirito Santo. Preghiamo dunque e sospiriamo, affinché il divino Consolatore ci trovi degni delle sue i nfrazioni; preghiamo che rischiari il nostro intelletto e che purifichi il nostro cuore. Il serpente di Mosè divorò tutti i serpenti dei maghi; lo spirito deve egualmente consumare tutte le nostre propensioni e tutti i nostri appetiti sensuali. In questo gran giorno diciamo al Salvatore per noi e per il mondo intiero: Inviate il vostro spirito, e tutto sarà creato, e voi rinnoverete la faccia della terra; ella ne ha gran bisogno!!! – 3° Gesù Cristo sale al cielo per aprircene le porte e prepararvi il nostro luogo. La vittoria di Gesù Cristo è completa. Nuovo Adamo Egli apre al genere umano il cielo chiuso dai peccati del primo Adamo. Qual nobile orgoglio deve far palpitare il mio cuore! Io ho un seggio nel cielo: si, io povera e meschina creatura, io sebbene coperto di cenci, io mendicante, io umile pastore, io oscuro agricoltore, io debole fanciullo, io sconosciuto, forse disprezzato da tutti, io ho un seggio nel cielo! Demonio invidioso della felicita dei nostri primi padri, oh! tu sei vinto! Osserva, la nostra natura era maledetta e condannata all’obbrobrio, e ad un tratto ella è esaltata, e il cielo le è aperto; noi eravamo indegni della vita e siamo chiamati all’immortalità; in Gesù Cristo, questa umana natura, che tu avevi contaminata, occupa il primo posto in cielo; e ciò che fu l’oggetto dei tuoi sarcasmi sacrileghi è adorato dagli Angeli; osserva bene, questa stessa umana natura perseguitata dal tuo furore, di cui tu credevi aver cagionata la perdita, è adesso coronata in cielo, essa occupa il tuo posto e quello dei tuoi angeli maledetti; essa è nel cielo e tu sei nell’inferno, dopo ciò ti rallegra, se puoi, della tua invidia e delle tue menzogne. – Così in Gesù Cristo nostro capo noi siamo oggi in possesso del cielo; egli vi è salito in qualità di foriero; il foriero suppone qualcuno che viene dietro a lui; e questo qualcuno sei tu, sono io, è tutto il genere umano, perché Gesù Cristo è morto per lutti gli uomini.

4° Gesù Cristo sale al cielo per conservarci i nostri posti. Non contento di averci sgombrata la via della Gerusalemme celeste, di averne schiuse le porte, di averci preparato dei posti, Gesù Cristo vuole assicurarcene il possesso. Che fa Egli nel cielo? Come avvocato Ei patrocina incessantemente la nostra causa. Miei figli, diceva il discepolo prediletto, io vi scrivo queste cose, affinché voi non pecchiate: ma se qualcuno ha peccato non si disanimi; noi abbiamo un avvocato presso il Padre ed è Gesù Cristo il giusto, Egli che ha sparso il proprio sangue non solamente per i nostri peccati ma anche per quelli del mondo intero. Pontefice eterno, Ei ci riconcilia col Padre suo, presentandogli le stimmate delle proprie piaghe rimaste nelle sue mani e nei suoi piedi adorabili; poi, continuando sopra la terra il Sacrificio del proprio corpo e del proprio sangue, Ei l’oppone costantemente come un infallibile parafulmine alle folgori della divina vendetta. Primogenito dei suoi fratelli (e i suoi fratelli siamo noi) Ei fa valere a nostro favore i suoi titoli sacri al paterno retaggio. Come Dio, Ei vi ha diritto per natura: come uomo Ei vi ha diritto pel suo sangue; il cielo è sua conquista, ed Ei lo ha conquistato per noi.

V. Armonia di questa festa con la stagione in cui ricorre. — Seguiamo dunque l’aquila generosa che si lancia oggi verso il cielo: noi siamo i suoi aquilotti; Egli stende le proprie ali, e ci invita a posarci su di esse per seco trasportarci. « Ma rammentiamoci, dice sant’Agostino, che l’orgoglio non sale al cielo insieme col Dio dell’umiltà, né l’avarizia col Dio povero, né la mollezza col Dio dei dolori, né l’impurità col figlio della Vergine, né i vizi col padre delle virtù ». Solleviamo i cuori; solleviamoci; strappiamoci alle affezioni che ci degradano; si salga; si salga sempre; tutta la natura c’invita; sembra che ella pure voglia salire al cielo. Osservate in qual modo, al tempo dell’Ascensione, tutte quelle miriadi di giovani augelletti che escono dai loro nidi provano il primo loro volo verso il cielo! Osservate le piante che spingono i loro deboli germogli verso il cielo; osservate gli alberi che slanciano i loro nascenti rami verso il cielo. In alto, in alto i cuori! egli è questo l’invito dell’intera natura. – Sant’Agostino scorge di più un’altra armonia tra la festa di questo giorno e la stagione in cui ella viene celebrata. « Autore della natura e della grazia, Dio ha voluto, dice questo gran dottore, mettere qualche analogia tra i misteri del Figlio suo e le stagioni dell’anno. Il Redentore viene al mondo quando i giorni sono più brevi e incominciano a crescere, per significare che Ei trova il mondo nelle tenebre e che Ei vi reca la luce; e muore e risuscita nel plenilunio del primo mese. Allora quell’astro, che per le sue variabilità è l’emblema delle cose caduche, è totalmente oscurato nella sua parte che guarda il cielo, e non ha luce e bellezza che nella parte che guarda la terra; però Ei comincia a rivoltarsi dalla terra e a ravvicinarsi al sole per non ricever luce e chiarezza che dalla parte del cielo. « Questo spettacolo è in perfetta armonia con la morte e con la risurrezione del Salvatore; per mezzo delle quali noi volgiamo verso il sole di giustizia tutta la propensione che avevamo verso la terra. Il Figlio di Dio è salito al cielo ed ha inviato il fuoco del suo santo spirito verso il tempo in cui il sole è nel suo apogeo, cioè nella sua più grande elevazione, nella sua maggiore distanza della terra; nuova armonia che ci rammenta che dopo essersi sollevato dalla terra, Gesù Cristo ha sparso nel mondo le più vive fiamme della sua carità » – Questi mirabili rapporti, di cui la mente abituata a riflettere conosce tutta la realtà, si provano assai bene per l’analogia delle leggi divine. Infatti poiché l’autore della grazia è anche il Creatore della natura, non era forse conveniente che Ei ponesse armonia tra queste due grandi opere, affinché i cambiamenti che accadono nella natura, egualmente che lo spettacolo dell’universo, anziché distrarci richiamassero il nostro spirito ai pensieri della religione? Se si aggiunga a questa osservazione quello che abbiamo detto circa la storia del genere umano nella quale Iddio ha anche voluto scrivere a grandi caratteri la verità della Religione cristiana, noi dovremo concludere che la natura, la storia universale del genere umano e l’economia della Chiesa sono tre libri meravigliosi, tra i quali regna una straordinaria armonia: libri ad un tempo semplici e sublimi, che si rendono testimonianza l’uno altro ed ove Dio ha scolpito a caratteri di fuoco tutto ciò che è necessario per distaccare da questo mondo i nostri pensieri e le nostre affezioni e per innalzarle al cielo insieme con Gesù Cristo

VI. Origine di questa festa. — La festa dell’Ascensione risale ai tempi apostolici, e le prime età della Chiesa videro istituirsi la processione che oggi pure si compie in memoria del viaggio di nostro Signore e degli apostoli sul monte de. Olivi, dove il divino Maestro benedisse i discepoli e in loro presenza abbandonò la terra! Questa festa è il complemento di tutte le solennità di nostro Signore e il felice termine del suo viaggio sopra la terra. Laonde così pure deve avvenire di noi tutti; noi siamo figli di Dio, e dobbiamo ritornare a Lui; egli è questo il fine ultimo della vita.

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio che siate salito al cielo per aprirmene la porta e prepararmi un posto; fatemi grazia ch’io quivi mi riunisca a voi. – Mi propongo d’amar Dio sopra tutte le cose e il prossimo come me stesso, per amor di Dio, e in prova di questo amore, io guarderò spesso il cielo, dicendo: colà vi ha un posto che mi attende.

 

 

 

VIGILIA DELL’ASCENSIONE

Dopo i giorni delle rogazioni, ci accingiamo alla …

VIGILIA DELL’ASCENSIONE

[Dom Guéranger, l’anno liturgico, vol. II]

Il terzo mattino delle Rogazioni è passato; si ode ormai l’ora del mezzogiorno che viene ad aprire l’ultima giornata che il Figlio di Dio passerà insieme agli uomini sulla terra. Potrebbe sembrarci di aver perduto di vista, durante questi tre giorni, il momento così vicino della separazione; ma i sentimenti della perdita che ci minaccia viveva in fondo al nostro cuore, e le suppliche che presentavamo al cielo, in unione con la santa Chiesa, ci preparavano a celebrare l’ultimo dei misteri dell’Emmanuele.

I discepoli al Cenacolo.

Ora i discepoli sono tutti uniti a Gerusalemme, stretti intorno a Maria nel Cenacolo e aspettano l’ora in cui il Maestro si manifesterà per l’ultima volta. Raccolti e silenziosi rivivono nei loro cuori tutte le prove di bontà e di condiscendenza che egli ha loro prodigato in questi quaranta giorni, e gli insegnamenti che hanno ricevuto dalla sua bocca. Adesso lo conoscono, sanno che è venuto da Dio; da Lui hanno appreso quale sia la missione, alla quale li ha destinati: saranno loro, uomini ignoranti, che istruiranno tutti i popoli della terra. Ma ormai. Egli si prepara a lasciarli: « ancora un poco e più non mi vedrete » (Gv. XVI, 16).

Preghiera.

O Gesù, nostro Creatore e fratello nostro, noi ti abbiamo seguito fin dalla tua nascita con gli occhi e con il cuore; nella Liturgia abbiamo celebrato ciascuno dei tuoi passi da « gigante » (Sal. XVIII, 6) con speciali solennità; ma osservando la tua continua elevazione, nell’opera redentrice, dovevamo prevedere il momento nel quale saresti andato a prendere possesso del solo posto che ti conviene, del trono sublime dove starai eternamente assiso alla destra del Padre. Lo splendore che ti circondava dopo la resurrezione, non era di questo mondo; e Tu non puoi più restare con noi. In questi quaranta giorni, ti sei trattenuto con noi soltanto per consolidare la tua opera; e domani, la terra, che ti possedeva da trentatré anni, sarà priva di Te. Noi ci rallegriamo del trionfo che ti aspetta insieme con Maria tua Madre, ai discepoli che ti sono sottomessi alla Maddalena ed alle sue compagne; ma alla vigilia di perderti permetti anche ai nostri cuori di provare un sentimento di tristezza poiché Tu eri l’Emmanuele, il « Dio con noi », e d’ora in avanti sarai l’astro divino che aleggerà su noi e non potremo più né vederti né toccarti con le nostre mani, o Verbo di Vita! (I Gv. i, i). Tuttavia diciamo ugualmente: a Te sia gloria e amore! poiché ci hai trattati con una misericordia infinita. Tu non ci dovevi niente, noi eravamo indegni di attirare i tuoi sguardi, e sei sceso su questa terra macchiata dal peccato, hai abitato tra noi, hai pagato il nostro riscatto con il sangue, ristabilendo la pace tra Dio e gli uomini. Sì, adesso é giusto che Tu ritorni a Colui che Ti ha mandato (Gv. XVI, 5). – Noi sentiamo la voce della Chiesa che accetta il tuo esilio, e che non pensa che alla tua gloria: « Fuggi diletto mio, ed imita la gazzella o il cerbiatto sul monte degli aromi » (Cant. VIII, 14). Potremmo noi, peccatori come siamo, non imitare la rassegnazione di colei che é, allo stesso tempo, tua Sposa e nostra Madre?

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -V- di mons. J. J. Gaume [capp. XVI-XIX]

CAPITOLO XVI

EUROPA.

I.

I privilegi di cui godevano i Druidi, attiravano loro una infinità di discepoli che venivano da tutte parti. Gli uni erano mandati dai genitori; gli altri venivano da per loro stessi. Tutti, durante i loro studi, menavano una vita separata dal mondo; perché i Druidi tenevano le loro scuole, e dimoravano nelle foreste di querce, e qualche volta negli antri.

II.

II loro insegnamento religioso consisteva in quattro punti principali: l’adorazione degli dèi, l’immortalità dell’anima, il divieto di far male ad alcuno, e l’obbligo d’essere coraggiosi. Quanto alle dottrine umane, insegnavano la medicina, l’astronomia, il corso della luna, e insegnavano a conoscere dal moto degli astri la volontà degli dèi. La dottrina dell’immortalità dell’anima faceva che i Galli, in bruciare i loro morti, mettessero nel rogo o nell’urna funerea, un conto esatto degli affari del defunto, affinché se ne potesse servire per essere più felice nel cielo, o meno infelice nell’inferno. Era anche una costumanza assai ordinaria fra essi quella di prestarsi l’argento in questo mondo, con obbligazione di restituirlo nell’altro. Di più scrivevano lettere ai morti, convinti che i defunti le avrebbero lette nei loro ozi.

III.

Le loro lezioni, come quelle dei Germani, consistevano principalmente nel fare imparare a memoria ai loro discepoli una gran quantità di versi senza scriverli. Ciò richiedeva molto tempo, e non si permetteva di mettere in iscritto alcuna cosa. Così alcuni dei loro discepoli passavano sino a venti anni, occupati unicamente in questo genere di studi. – « Io credo, dice Cesare, che essi proibiscano di scrivere per due ragioni; la prima, affinché la loro dottrina non fosse conosciuta da nessuno, e sembrasse più misteriosa. La seconda, affinché coloro che sono obbligati ad apprendere questi versi, non avendo l’aiuto dei libri, siano più solleciti nel coltivare la loro memoria. »

IV.

Oltre alcune verità apprese dalla tradizione, i Druidi insegnavano delle superstizioni, che aveva comunicato loro il padre della menzogna. Ne riferiamo qui due ridicole e celebri sia l’una che l’altra. I Galli si servivano della verbena per trarre le sorti e formare i responsi. I Druidi erano pressoché pazzi per quest’erba. Pretendevano che stropicciandosela addosso, si ottenesse tutto ciò che si voleva, che fugasse le febbri, riconciliasse i nemici, e guarisse ogni sorta di malattie. – Ma bisogna coglierla nel momento della canicola, avanti il levar del sole e della luna, e dopo aver offerto alla terra fave e miele in sacrificio espiatorio. Bisognava nel coglierla scavar la terra all’intorno con un coltello nella mano sinistra, facendo saltare la terra per aria; quindi far seccare all’ombra stelo, foglie e radice, separatamente.

V.

Questo relativamente alle guarigioni. Quanto poi al successo degli affari, i Druidi vantavano soprattutto una specie d’uovo, conosciuto da essi soli e dai loro iniziati. Quest’uovo, dicevano, era formato da una quantità prodigiosa di serpenti, i quali vi deponevano sopra della bava e della schiuma che usciva loro dal corpo. Gli si dava perciò il nome d’anguinum. – Al sibilo dei serpenti, l’uovo si sollevava in aria, e bisognava raccoglierlo per aria, per timore che non cadesse a terra. Quegli che aveva avuto il bene di raccoglierlo, doveva prender tosto un cavallo e fuggire, perciocché i serpenti correvano tutti dietro a lui, fino a che fossero arrestati da una fiumana che loro impedisse il cammino.

VI.

Per farlo valere sempre più, i Druidi dicevano che bisognava raccoglierlo in un dato giorno della luna. Colui che aveva la gran fortuna di soddisfare a tutte queste condizioni, era sicuro di vincere in tutte le liti, e d’aver sempre libero l’accesso ai re. Il demonio, sempre geloso di farsi onorare nel serpente, aveva, pare incredibile, messo in voga questa superstizione, e le aveva conciliato credenza. « L’è una superstizione sì grande, dice Plinio il naturalista, che l’imperatore Claudio fece morire un cavaliere romano del Delfinato, solo perché portava uno di queste uova in seno per vincere una causa. »

VII.

Ogni anno i Druidi tenevano un’assemblea generale in un luogo sacro del paese di Chartres, il qual luogo era un’immensa ed oscura foresta di querce. I Galli vi si portavano da tutte le provincie, per sottometter le loro liti ai Druidi che le giudicavano senza appello. Siccome Dio ha lasciato sempre qualche testimonianza di se, i Druidi furono alcune volte quel che erano le Sibille dell’Oriente: annunziarono cioè alcuni dei grandi misteri dell’avvenire. È più che probabile aver essi in una di queste riunioni generali in mezzo alle oscure foreste di Chartres, che fu come il loro quartier generale, annunziato il divin parto della santissima Vergine. E infatti tra quei boschi famosi, fu trovata la celebre iscrizione: « Virgini parituræ, Druides: Alla Vergine che deve partorire, i Druidi. »

VIII.

Nelle Gallie, non vi erano solo i Druidi, vi erano anche le Druidesse. Queste vergini o donne ammaestrate dai Druidi, partecipavano alla loro autorità religiosa e civile, e davano dei responsi. Più ancora degli uomini, sottoposte all’influenza del demonio, facevano cose straordinarie, che non si possono negare senza negar la storia. Vi erano tre sorte di Druidesse: le une custodivano sempre la verginità, come quelle dell’isola di Sain sulle coste della Bretagna; altre sebbene maritate, erano obbligate alla continenza ed a restar sempre nei templi, al cui servizio erano addette. Quelle della terza classe non si separavano affatto dai loro mariti, allevavano i loro figliuoli, ed attendevano agli affari della famiglia.

IX.

Secondo che rapporta Tacito, i Germani credevano che le giovani della loro nazione fossero dotate di santità e di conoscere l’avvenire. I Galli avevano la stessa opinione rispetto alle loro. Di qui l’immensa autorità, onde godevano le Druidesse. Vi fu un tempo, anteriore alla conquista romana, in cui le Druidesse decidevano della pace e della guerra, e dei più importanti affari dello Stato. Godevano ancora di questo potere sovrano, e rendevano la giustizia, allorché Annibale passò le Alpi, per portar la guerra in Italia.

X.

Uno degli articoli dell’alleanza conchiusa tra lui e i Galli era, che se un Gallo avesse da lagnarsi d’un Cartaginese, il Gallo porterebbe la sua lagnanza davanti ai magistrati che il senato di Cartagine avrebbe stabiliti in Ispagna; ed allorché un Gallo arrecasse qualche torto a un Cartaginese, la causa sarebbe portata davanti al tribunale delle donne dei Galli. – La reputazione delle Druidesse non era punto ristretta nei confini della Gallia; essa si estendeva dappertutto e faceva sì che le Druidesse rappresentassero una grande figura nel mondo. Tutti premurosamente le consultavano, e tenevano per oracoli le loro decisioni.

XI.

Sacerdotesse degli idoli, le Druidesse avevano il dritto d’offrire sacrifici, ed oimè! offrivano sacrifici umani. Vestite d’una tunica bianca, che attaccavano con borchie, e stringevano con una cintura di rame, con i piedi scalzi accompagnavano gli armati al combattimento. Appena i Galli avevan fatto dei prigionieri, esse attraversavano l’armata, con alla mano una spada snudata, volavano addosso ai prigionieri, li gettavano a terra, li strascinavano a un labrum, che era una vasca della capacità di venti anfore. Vicino al labrum era un rialto, sul quale montava la Druidessa sacrificatrice; immergeva un coltello nella gola di ciascuna vittima, e toglieva i suoi auguri dal sangue che colava nel labrum. A misura che scannava quegl’infelici, altre Druidesse gli afferravano, gli sparavano, frugavano nelle loro viscere, e ne ricavavano predizioni sugli affari della nazione.

XII.

Le Druidesse erano vere maliarde, la cui generazione s’è perpetuata lungo tempo nelle Gallie. Bisogna rimontare ad esse per trovar 1’origine di quelle assemblee notturne, a cielo scoperto, presiedute dal demonio, il cui spirito di lussuria si pasceva di abominazioni tali da far impallidir la luna. Un dotto canonista del dodicesimo e tredicesimo secolo, Burchard, riferisce i numerosi decreti che si erano fatti sino ai suoi giorni, per condannar queste assemblee notturne. Quindi si leva con energia contro le donne del suo tempo, tratte dai demoni, trasformati in uomini, dæmonum turba, in similitudinem hominum transformata, i quali entravano in società con tutte le femmine disposte a seguirli. « Demonii e donne, dice egli, sen vanno durante la notte a cavallo a far grandi corse nell’aria, avendo alla loro testa Diana, da cui bisogna dipendano senza riserva, obbedendole ciecamente. La frotta o società appellasi Olila. Le donne tuttora coricate al fianco dei mariti, escono à porte chiuse, sì sollevati nelle nuvole, attraversano l’aria, uccidono senza arma visibile uomini battezzati e riscattati dal sangue di Gesù Cristo; fan cuocere le loro carni e le mangiano. Queste corse sono alcune volte intraprese per combattere altre donne simili, e ferirsi scambievolmente. Del resto, esse affermano che non possono dispensarsi dal trovarsi a queste assemblee nel modo che è detto: Se affirmant necessario et exprecepto facere debere. »

XIII.

Alcuni statuti manoscritti dell’ antico vescovado di Conserans, del tredicesimo o quattordicesimo secolo, fanno anche menzione delle femmine che facevano il mestiere d’andare a cavallo durante la notte con Diana, e facevano iscrivere i loro nomi nel catalogo di tutte quelle del loro sesso, le quali passavano per dee.

XIV.

Ecco l’origine delle Tregende, la cui realtà è messa fuor di dubbio, non solamente dalle costituzioni dei nostri re, dalle testimonianze dei teologi; ma ancora dalle recenti opere de’ signori de Mireville, Des Mousseux, Bizouard, de Lancre, e particolarmente dal fatto giuridicamente provato, che ha avuto luogo in Isvezia alcuni anni sono. Se affermare non è provare, anche negare non è rispondere; e il negar senza ragione è una stoltezza. [Vedi Relig. des Gaulois t. II. Lib. IV. e. XIII.]

CAPITOLO XVII.

I DRUIDI. — IL VISCHIO.

I.

Due fatti principali distinguevano la religione dei Druidi, e per conseguenza dei Galli: la cerimonia del vischio e il sacrificio umano. Il solo vischio della quercia era l’oggetto del loro culto. Perché e donde questa strana superstizione? Prima di tutto richiamiamo alla mente che la quercia è stata tenuta da tutti i popoli antichi come un albero sacro, e come tale onorato d’un culto fiducioso ad un tempo e terribile. Non è difficile spiegare un mistero di tal fatta.

II.

Satana è la scimmia di Dio. Tutto quel che Dio fa per la sua gloria, egli lo contraffa a suo prò. Oracoli, prestigi, templi, altari, sacrifici, pellegrinaggi, non v’ ha cosa santa, di cui non si sia impadronito. L’antica memoria della quercia di Mambre, all’ombra della quale Abramo accolse, sotto la figura di tre angeli, le tre persone della santa Trinità, era un mezzo favorevolissimo per attirare alla quercia di Mambre prima, e poi alle querce ordinarie, la venerazione de’ suoi ciechi seguaci per non conservarne la memoria.

III.

La quercia di Mambre, che vedevasi ancora al quarto secolo, al tempo di san Basilio, fu da tempo immemorabile oggetto di un gran concorso d’ogni sorta genti che venivano dalle diverse parti del mondo, fin dalle più lontane. Questo concorso si cangiò in fiere; e, per dirlo di passaggio, fu in queste fiere che venne venduta una moltitudine d’Ebrei, i quali s’erano ribellati contro i Romani, al tempo dell’imperatore Adriano. (S. Hier. in Jerem., XXXI; et in Zach. X).

IV.

La venerazione che i cristiani portavano a questa quercia, fu tosto cangiata dai pagani in ree superstizioni ed in abominevoli sacrifici. Non poteva essere altrimenti. Da una parte Satana si sforzava di far profanare quel sacro luogo; dall’altra, tutta la contrada era pagana, anche ai tempi d’Abramo. Onde seguì, mercé le ispirazioni gelose dello spirito di menzogna, che i pagani fecero di quella quercia oggetto principale del loro culto, di cui tutto il fondamento era che il Dio del Cielo s’era mostrato ad Abramo e gli aveva parlato sotto quell’albero. Quindi dal credere al far credere agli altri che il Dio del Cielo abitasse sotto quella quercia, era facile il passo: e questo passo fu fatto.

V.

Col progresso del tempo e dell’idolatria trasformandosi e corrompendosi le nozioni primitive, avvenne che in mancanza della quercia di Mambre, presero il costume di riguardare la quercia ordinaria, gli uni come un albero dove il Dio del cielo si compiaceva di far suo soggiorno: gli altri come la figura del Dio del cielo; ed altri finalmente come un albero consacrato per sua natura al Dio del cielo. Siccome tutte le nazioni pagane convenivano che Giove fosse il Dio del cielo, cosi tutti convennero che la quercia fosse la dimora, o la figura, o l’albero di Giove.

VI.

Cosi spiegasi la religiosa venerazione di tutti i popoli dell’antichità verso la quercia, la quale fu presso i nostri antenati più grande che altrove. Nessun di loro, uomo o donna, osava toccar la quercia colla mano. L’uso costante era di lasciarla infracidire sul suo tronco, di non impiegarla ad uso alcuno, neppure a quello del fuoco, e d’esser presi al suo cospetto da un sacro terrore. Quanto si è detto provasi, tra gli altri, dal fatto seguente. Cesare aveva alcuni Galli nel suo esercito. Un giorno ordinò loro d’abbattere alcune querce. Dovettero obbedire; ma con mani tremanti, e penetrati sì vivamente dalla maestà del luogo, da temere che tutti i colpi dati contro le querce non si rivolgessero contro di loro. (Lucan. Lib. III).

VII.

Ciò non è tutto. I Druidi portavano la loro venerazione alla quercia tant’ oltre, che non osavano offrire alcun sacrificio senza la quercia, o senza le foglie, o senza i rami di essa. Giungevano a tale che appendevano e crocifiggevano alle querce e mai ad altri alberi, se non in mancanza di esse, i prigionieri fatti ai nemici, in modo che il loro supplizio era un sacrifìcio in onore dell’albero sacro.

VIII.

Per sempre più dimostrare il loro rispetto per quest’albero misterioso, i Druidi s’erano, come noi abbiamo già notato, fatta una legge di stabilire la loro dimora nei boschi di querce, di tenervi le loro assemblee, di piantarvi i loro tribunali per render giustizia, d’avervi i loro collegi per l’educazione della gioventù gallica; e tutto ciò col fine di non perder mai di vista la quercia, d’essere ognora in grado di potervi fare i sacrifìci o di meditar con maggior raccoglimento sulla divinità, di cui la quercia era il rappresentante.

IX.

Quindi è che i Galli non avevano altri templi che le foreste, e particolarmente le foreste di quercie. « Essi non hanno, dice Tacito, per tempio che una foresta, dove adempiono tutti i doveri della religione. Niuno può avere ingresso nella foresta, se non porta una catena in testimonianza della sua dipendenza da Dio e del sovrano dominio di Dio su lui. – « Se gli avviene di cadere, non gli è permesso di rialzarsi, né è permesso a chicchessia di prestargli aiuto; fa d’ uopo che si strisci sul suo ventre.» [De morib. Germ.]

X.

Veniamo ora alle cerimonie osservate dai Druidi in cogliere il vischio della quercia. Plinio ce ne ha lasciata la descrizione. « I Druidi, dice egli, che sono presso i Galli quel che sono i maghi altrove, non hanno nulla di più sacro quanto la quercia ed il vischio da essa prodotto. Scelgono dunque sempre un legno di quercia. Hanno di quest’albero una sì alta idea, che non fanno la più piccola cerimonia senza portare una corona di foglie di quercia. Stimano che tutto ciò che nasce su quest’ albero venga dai cieli, e che sia un segno evidente che Dio lo ha scelto.

XI.

« Il vischio è difficilissimo a trovarsi. Quando lo si è trovato, i Druidi vanno a prenderlo con profondo rispetto. E ciò fan sempre nel sesto giorno della luna, giorno sì celebre per loro, che 1’han preso pel principio dei loro mesi, dei loro anni ed anche dei loro secoli, i quali non sono che di trenta anni. La scelta che fanno di questo giorno, viene da ciò che la luna ha allora molta forza, benché non sia giunta al suo completo accrescimento; finalmente sono tanto prevenuti in favore di questo giorno, che gli danno nella loro lingua un nome che significa: medico di tutti i mali.

XII.

« Allorché i Druidi han preparato sotto l’albero quanto serve al sacrificio ed al banchetto che debbono celebrarvi, fanno avvicinare due buoi bianchi, cui per la prima volta legano insieme per le corna. Poscia un sacerdote rivestito di un abito bianco, sale sull’albero, taglia con una falciuola d’oro il vischio e lo riceve in un sagum (tela bianca). Quindi seguono i sacrifici, che i Druidi offrono a Dio, chiedendogli che il vischio formi la felicità di coloro che lo ricevono. – « Perché credono che l’acqua del vischio renda fecondi gli animali sterili, e che sia uno specifico contro ogni sorta di veleni. » [Hist. Nat., lib. XVI, c. XLIV].

XIII.

Pare certo che la cerimonia del vischio non si facesse che nelle foreste del paese di Chartres, e quando v’era l’assemblea generale dei Druidi. Ora i Druidi non si riunivano che una volta all’anno, e nel paese di Chartres. La cerimonia del vischio era la più solenne della religione. E dunque naturalissimo che i Druidi scegliessero, per compierla, il momento in cui i Galli di tutte le provincie eran riuniti. Infine, quanto a quel che dice Plinio, che il vischio della quercia era difficile a trovarsi, non poteva ciò verificarsi che ne boschi del paese di Chartres, dove i Druidi si radunavano, e dove senza dubbio era sì raro, perchè eravi una legge che vietava di prenderlo altrove che là. – Passiamo ora al secondo punto, più importante ancora, della religione dei Galli: il sacrificio.

CAPITOLO XVIII

IL SACRIFICIO UMANO PRESSO I GALLI.

I.

La Santa Scrittura ci dice che tutti gli dèi dei pagani erano demoni: Omnes dii gentium dæmonia (Ps. XCV). Ora i Galli ne adoravano quattro dei principali, ossia quattro grandi demonii, conosciuti sotto i nomi d’Eso, Tettiate, Taranis, e Beleno. Il primo era il più celebre e il più temuto. Come il suo nome lo indica, sembra essere il Zeus, o il Giove, deus pater, dei Greci e dei Romani. In onore di questi quattro demoni, il sangue umano inondò, durante molti secoli, tutte le Provincie Galliche.

II.

La crudeltà era il carattere dei Galli; quindi quel costume barbaro d’offrire agli dèi quasi esclusivamente vittime umane. Tutti gli autori son d’accordo su questo punto. «Quando v’ha deiGalli, dice Cesare, aggravati da malattie, ed avvolti in guerre ed in pericoli, o immolano per vittime altri uomini, o fan voto d’immolarli. Credono essi che gli dèi si compiacciano di tali sacrifici, come più perfetti; e son persuasi non potersi altrimenti placare la possanza degli immortali dèi, se non se col sacrificare per la vita d’un uomo quella d’un altro uomo.

III.

« Hanno essi istituito pubbliche cerimonie, che quando si compiono questi sacrifici vi ha obbligo di osservare. Hanno simulacri di smisurata grandezza, intessuti di vinchi, i quali riempiono d’uomini vivi, a cui mettono fuoco. Le fiamme subitamente si apprendono, e quei miseri tosto soffocati, esalano lo spirito. Il supplizio degli uomini colti in furto, ladroneccio, od altro delitto, il tengono pel più accetto agli dèi immortali; ma, ove non abbiano vittime fra cotale gente, non lasciano di eleggerne anche fra gli innocenti.

IV.

« I funerali, sono magnifici; e tutto ciò che in vita credono essere stato caro agli estinti gettano sul rogo, non esclusi gli animali; anzi anche i servi e clienti, che sapevasi essere stati loro prediletti, erano gettati sul rogo; e si trovavano ancora parenti del defunto che si gettavano volontariamente nel fuoco, sperando vivere con lui nell’ altro mondo. » [De bell. Gall., lib. VI].

V.

Un’altra maniera di sacrificare gli uomini era quella di trafiggerli con frecce, o d’inchiodarli in croce, o di farne un olocausto con un certo numero d’ogni sorta di bestie, che facevano bruciare entro una gran macchina col fieno, attaccata ad un piolo. Alcune volte riservavano i rei per lo spazio di cinque anni. Quindi li attaccavano ai pali, costruivano all’intorno un gran rogo, che coprivano delle primizie dei loro frutti, e facevano d’ogni cosa un sacrificio ai loro dèi [Strab., lib. IV; Diod., lib. VI, c. IX].

VI.

Per garantirsi dalla peste, quando ne erano minacciati o assaliti, prendevano un povero, che presentavasi volontariamente ed lo nutrivano un anno intero molto delicatamente e sontuosamente, a spese del pubblico tesoro. Dopo il qual tempo, lo rivestivano d’ornamenti sacri, l’ornavano di verbene, e dopo averlo condotto per tutta la città caricandolo di maledizioni, e pregando che tutti i mali, da cui erano afflitti o minacciati, cadessero sopra lui, era precipitato dall’alto d’una roccia. Chi può dire quante volte le grandi rocce della cittadella di Besançon furono testimoni di questo spettacolo?

VII.

Non erano sempre i poveri quelli che servivano per siffatte vittime; procuravasi ancora in tutti i modi di guadagnar qualche persona delle più avvenenti e meglio conformate aliquis de elegantissimis, a forza di denaro, di ricompense e con la prospettiva dell’immortalità fra gli dèi, perché si sacrificasse per la salute della città o della provincia. E in tal caso si osservavano le medesime cerimonie che si osservavano per i poveri; ed alla fine d’un anno si ammazzavano fuori le mura a colpi di pietre.

VIII.

I sacrificii che si facevan per la nazione, per la provincia o per la città, si rinnovavano due volte il giorno, a mezzodì ed a mezzanotte. Gli altari erano formati di grandi e larghe pietre or quadrate in tutti i sensi, or più lunghe che larghe. La parte superiore era incavata a guisa di bacino o di canale, per ricevere il sangue delle vittime. Questi altari che si trovano ancora nelle foreste della maggior parte delle nostre provincie, portano il nome di dolmens. Confesso che non si può vederli senza dire: forse su questa pietra venne immolato uno degli avi miei! forse io stesso, senza il Cristianesimo, vi sarei stato disteso, legato e sgozzato dalle mani d’un drudo.

IX.

Ho detto legato; invero se la vittima doveva esser strozzata od accoppata, incominciavansi dal legarla fortemente, per impedirle di muoversi, temendo che il colpo mortale non andasse fallito, perché era essenziale nel sacrificio che le vittime sembrassero volontarie. Erano tanto rigorosi su questo punto, che allorquando tratta-vasi d’immolar fanciulli, le madri li tenevano fra le loro braccia colmandoli di carezze per soffocar le loro grida [Tertull. ApoL, IX]. –

X.

Abbiam veduto i Galli offrire vittime umane, sia in espiazione dei pubblici delitti, sia per allontanare i castighi meritati: eran le Targelie de’ Greci. Non è da far le meraviglie se le troviamo a Marsiglia, fondata da una colonia di Focesi. Solamente un lungo soggiorno nelle Gallie avea lor fatto adottare il dio principale dei Galli. Anche dopo la conquista dei Romani, essi adoravano, più o meno pubblicamente, il terribile Eso, con la sanguinaria superstizione delle primitive età.

XI.

« Fuori del ricinto di Marsiglia, dice Lucano, vi era un bosco sacro, sul quale non si era mai osato portar la scure, sin dall’origine del mondo. Gli alberi coronavano coi loro rami la terra ov’erano piantati; e dappertutto formavano de’pergolati, dove i raggi del sole non potevano penetrare, e dove regnava una frescura ed un’oscurità perpetua. Questo luogo era destinato a barbari misteri. In ogni canto non si vedevano che altari, sui quali si scannavano vittime umane, il cui sangue zampillando sugli alberi metteva ribrezzo.

XII.

« Le quercie, che mai agitansi al soffio d’un leggiero zefiro, infondon nell’animo un sacro orrore, non altrimenti che l’acqua oscura serpeggiante e scorrente pei diversi canali. Le forme del dio che vi si adora sono senz’arte, e consistono in tronchi rozzi ed informi; il muschio giallo che li copre da capo a pie’ ispira quella tristezza, che vedesi impressa sulla loro scorza. È proprio dei Galli non compenetrarsi di rispetto che verso quei dèi che son rappresentati in strane forme, e il loro timore aumenta in proporzione che ignorano gli dèi che adorano.

XIII

« La tradizione vuole, che questo bosco spesso si agiti e tremi; che allora escano dalle caverne voci strepitose; che i tassi abbattuti si raddrizzino; che il bosco sembri andar tutto in fuoco senza consumarsi, e che le querce siano attorcigliate da mostruosi dragoni. Nessun Gallo, pel gran rispetto che ne hanno, oserebbe abitar questo luogo si temuto; essi il lasciano tutto quanto al Dio. Soltanto a mezzogiorno ed a mezzanotte vi si porta un sacerdote tutto tremante per celebrare i suoi terribili misteri ; ei teme ognora che un qualche dio, a cui il bosco é consacrato, gli si abbia a presentar dinanzi» Ecco una foresta come tanti altri luoghi frequentata.

XIV.

Sotto una forma più espressiva ancora, quei di Marsiglia avevano le loro Targelie. In tempo di peste, prendevano un povero e il nutrivano delicatamente durante un intero anno; desso era una vittima che ingrassavano per satana. Alla fine dell’anno, prendevan quel poveretto, lo conducevan per la città; e caricandolo di anatemi, gli dicevano: Sii tu la nostra espiazione: Esto nostrum peripsema, e lo gettavano nel mare. [Vedi CORX. a LAP., in I cor., IV, 13]. – Questo avveniva in Francia, nella nostra cara e bella patria, prima della predicazione del Clericalismo. Ed oggi vogliono sterminare il clericalismo! E dicono, che tutte le religioni sono egualmente buone!

[N.d.r.- Così abbiamo capito anche da dove deriva l’uso di donare il vischio augurale e di quale augurio si tratti, da chi è stato istituito e ripreso! – E poi la quercia divenuta simbolo di partiti politici … è chiaro adesso di chi sono servi, no?]

CAPITOLO XIX.

EDITTI CONTRO IL SACRIFICIO UMANO. — IL SACRIFICIO UMANO PRESSO GL’INGLESI.

I.

L’ecatombe umane, che da tanti secoli duravano nella Gallia, avevano preso tali proporzioni, che gl’imperatori romani Claudio e Tiberio fecero parecchi editti per farli cessare; ma non vi riuscirono completamente. Solo il sacrificio divino poteva abolire il sacrificio umano. Questo continuò dunque ad offrirsi in segreto, non solo presso i Galli, ma a Roma stessa. Il fatto ci vien rivelato da Tertulliano: Sed et nunc in occulto perseverat sacrum facinus, e dagli altri storici cristiani e profani. Tutti affermano, che i sacrifici umani han continuato, e presso i Galli, e presso gli altri popoli, sino al terzo ed anche al quarto secolo: vale a dire sino a che l’influenza del cristianesimo non si fece sentire in una maniera efficace.

II.

Ond’è che provasi non so quale indignazione, al sentire gli scrittori di Roma pagana inveire contro la barbarie dei nostri padri, come se potessero esserne assoluti i Romani. Non solo noi potevano quanto al tempo anteriore, ma soprattutto quanto a quello in cui essi scrivevano. Questo tempo è quello che nei collegi sì chiama il secolo d’oro. I Romani, dicono Tertulliano, Lattanzio, Minuzio Felice ed altri scrittori del secondo e del terzo secolo, non si sono meno abbandonati a tale barbarie che gli altri popoli, perciocché ancora oggi giorno immolano vittime umane a Giove Laziale » [“Nec Latini quidem huius immanitatis expertes fuerunt; siquidem latialis Jupiter etiam nunc sanguine colitur humano”. Apol.tÌX; Scorp., VIII]. E che cosa possono essi addurre per colorire il terribile sacrificio, che Plutarco descrive coi seguenti termini? « All’appressarsi della guerra dei Galli, sotto la condotta di Viridomare, i Romani si videro costretti obbedire a certi oracoli, contenuti nei libri delle Sibille, e si portarono a sotterrar vivi nel mercato dei buoi due Greci, un uomo ed una donna, e due Galli all’istesso modo; e a causa di questi oracoli fanno ancora di presente, nel mese di novembre, sacrifici tenuti occulti agli occhi del popolo. » [In Marcel.].

III.

Tito Livio e Plinio mostransi di assai buona fede, quando confessano, che questo sacrificio fu ordinato e compito più d’una volta nel medesimo luogo, specialmente al cominciar della guerra punica, che segui quella di Viridomare. [Tit. Liv., XXII, c. LVI; Plin. ; lib. XXVIII, c. II]. – Esempi di tal fatta si moltiplicherebbero sotto la mia penna, s’io non dovessi tenermi breve. Per quel che resta all’Europa antica, mi contenterò dunque di parlare del sacrificio umano presso gli Inglesi.

IV.

Secondo antiche tradizioni, l’Inghilterra fu popolata dai demoni e dalle druidesse. Checché sia di ciò, l’Inghilterra addivenne per i Galli, quel che era la Toscana o l’Etruria per i Romani: il focolare dell’idolatria. A quella guisa che i Romani spedivano regolarmente in Etruria taluni figliuoli delle migliori famiglie, per farli istruire nei misteri della religione; così secondo le relazioni di Cesare, i Galli si recavano in folla nell’Inghilterra, a perfezionarsi nella conoscenza della religione.

V.

Come i Galli, gl’Inglesi avevano in gran numero druidi e druidesse. Ma neppur essi, come i Galli, avevan templi. I loro orrendi misteri si compievano nelle oscurità delle foreste. Tacito, descrivendo la discesa dei Romani nell’isola di Mona, oggi Anglesey, così si esprime: «Posciachè i Romani se ne resero signori, loro prima cura fu d’abbattere i boschi che i druidi e le druidesse macchiavano sempre col sangue d’umane vittime.» Se quegl’isolani avessero avuto dei templi, i Romani non avrebbero mancato di distruggerli, per quella medesima ragione onde avevano distrutto i boschi. Or, siccome Cesare non fa menzione dei viaggi dei Galli in Inghilterra, che per mostrare che essi si conformavano agl’Inglesi su tutti i particolari della religione, se ne conchiude a ragione che neppure i Galli avevano templi.

VI.

Abbiamo veduto che i Druidi delle Gallie godevano di grandi privilegi; or non così i Druidi d’Inghilterra, almeno quanto a ciò che concerne la guerra. I Druidi delle Gallie ne erano esenti, quei d’Inghilterra v’erano obbligati. N’è prova il fatto seguente, riportato da Tacito: « Sotto l’impero di Nerone, Paolino Svetonio prese a rendersi padrone dell’isola di Mona, situata al nord della Bretagna. « Egli trovò sul lido un fonte, difeso da uomini ben armati. Nelle loro file correvano qua e là donne scapigliate, con in mano la face, e vestite a lutto.

VII.

« D’altra parte, i Druidi giravano attorno l’armata, levando le mani verso il cielo e vomitando imprecazioni contro i Romani. Questo spettacolo spaventò i nostri soldati, sino a lasciarsi uccidere senza difendersi. Ma alla fine riprendendo coraggio ed animati dalle parole del generale, fanno avanzar le schiere, uccidono quanti si fan loro avanti, e li bruciano. In seguito fu loro imposto un tributo, e distrutto il bosco sacro, perché si recavano a dovere di religione di sacrificarvi i prigionieri e di consultare gli dèi nelle viscere degli uomini. » [Annal., lib. XIV, e. XXX. Per tutti i particolari sopra di ciò, vedi Histoir de la relig. de Gaulois. 1 vol. in 4]. Fa d’uopo aggiungere, che in Inghilterra, come nelle Gallie ed in tutte le parti del mondo antico, il serpente vivo, il serpente in carne ed ossa era religiosamente adorato. Il suo culto stesso era il principio del sacrificio umano. Ecco ov’era arrivata l’Inghilterra avanti la predicazione del Clericalismo. Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

[Nota d. r.: Oggi il sacrificio umano sta riprendendo nuovamente piede, mascherato da integralismo islamico, da attentati suicidi, da omicidi etnici di massa, da sacrifici rituali nelle logge massoniche, da omicidi indotti dalle droghe liberalizzate, da aborto ed eutanasia, reclamati addirittura dai satanisti come diritti … certo hanno ragione: è il diritto che lucifero vanta sui popoli scristianizzati, sui quali domina nuovamente addirittura facendosi adorare nella falsa chiesa come “signore dell’universo”!]

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -IV- di mons. J. J. Gaume [capp. XIV-XV]

CAPITOLO XIV.

EUROPA – I ROMANI

I.

Dopo la nostra rapida escursione nell’antica Asia, dirigiamo il nostro viaggio verso l’Europa. Senza dubbio questa parte del mondo privilegiata fra tutte, non ci offrirà lo spaventevole spettacolo dei sacrifici umani. I Romani almeno, oggetto d’ammirazione per i collegi, per i licei ed anche per certi piccoli seminari, ebbero costantemente in orrore una simigliante barbarie. La educazione classica non li accusa mai d’avervi preso parte, è vero; ma l’educazione classica non è la storia. Questa ci aprirà i sanguinosi annali, e ci mostrerà che cosa fossero, non solo sotto il rapporto dei costumi, ma anche della crudeltà, quei Romani cosi vantati, che un cristiano non teme di scrivere, doversene adorar le reliquie.

II

È noto che i Romani avevan ricevuto dai Greci una parte delle loro istituzioni, tra le quali quella del sacrificio umano. I Romani dunque avevano, come i Greci, i loro pubblici espiatori, vittime, cioè, scelte e consacrate anticipatamente agli dèi. Nelle pubbliche calamità andavano a prenderle, affin di sgozzarle, nel luogo dove erano nutrite, come il beccaio a prendere nel pascolo il bue per condurlo al macello [“Romani et Græci tempore communis pestis aut luis homines pecullares seligebant, eosque nefando diis devuvebant ad cladem avertendam” – Cor. a Lap. in Levit.  c. XVI]

III.

Ecco, secondo Dionisio d’Alicarnasso, in qual modo andavan le cose: « Gli antichi Romani offrivano a Saturno delle vittime conforme a quelle che i Cartaginesi non cessarono di offrire per tutto il tempo che stette in piedi la loro repubblica, e conforme a quelle ancora offerte ai nostri giorni presso i Galli ed altri popoli dell’occidente, cioè a dire immolavano vittime umane, fanciulli. – « Non so per qual ragione, questa specie di sacrificio fu surrogata dalla seguente: invece degli uomini, che legati piedi e mani, erano precipitati nel Tevere per placare la collera degli dèi, fecero delle immagini simili ai medesimi uomini, rivestite nella stessa maniera. Poco dopo l’equinozio della primavera, agli idi di maggio, i pontefici, le vestali, i pretori e quelli che hanno il diritto d’ assistere ai sacrificii religiosi, gettano nel Tevere dall’alto del ponte sacro trenta immagini o fantocci rappresentanti uomini che essi chiamano Argivi o Greci. Quest’uso i Romani han conservato sino a’ tempi miei. » [Dionigi d’Alicarnasso viveva venticinque anni avanti Nostro Signore. Apud Euseb., Præp. vang., lib, IV, c. XVI].

IV.

I Romani non si contentaron mai di questi simboli di vittime umane, né di alcune vittime isolate. Primieramente, ogni volta che davansi nell’anfiteatro i giuochi in onore di Giove Laziale [“Latialis Iupiter et nunc sanguine colitur humano”. De divin. instit., lib. I, 13] o Laziare, la festa cominciava col sacrificio d’una vittima umana. La festa si rinnovava ogni anno, e durava quattro giorni. « Anche adesso, dice Lattanzio, Giove Laziale è onorato col sangue umano. » – Prudenzio, Dione Cassio e Tertulliano testificano il medesimo fatto. Il grande apologista cosi si esprime : « Ecco che in quella religiosissima città dei pietosi figli d’Enea, havvi un certo Giove, cui nei loro giuochi essi bagnano di sangue umano. » [“Ecce in Illa religiosissima urbe Æneadorum piorum est Iupiter quidam, quem Ludis suis humano proluunt sanguine”. Apol, IX]. – S. Cipriano conferma il fatto, e descrive la maniera con cui si fa l’immolazione. Il sacerdote scannava la vittima, ne raccoglieva ancor caldo il sangue in una coppa, e lo gettava in faccia all’idolo sitibondo. [“Cruor etiam de jugulo calidus exceptus patera, cum adirne fervet, et quasi sitienti idolo, in faciem jactatur crudeliter propinatur”. De spectaculis. Vedi le note sopra Euseb., Praep. evang.» lib. IV, c XV, nota 2].

V.

Secondariamente, i combattimenti de’ gladiatori nell’anfiteatro non erano altro che ecatombe umane offerte agli dèi, in rendimento di grazie per qualche vittoria, o per qualche grande avvenimento favorevole alla Repubblica. Era l’adempimento della promessa fatta dai generali romani, allorquando assediavano una città. Loro prima cura era di pronunciar la formula d’evocazione, colla quale pregavano le divinità protettrici della città, d’abbandonarla e di venire nel loro campo. A questa condizione promettevano loro dei templi e dei giuochi, vale a dire, combattimenti d’uomini, ovvero immolazioni di vittime umane. Per render grazie agli dèi della presa di Gerusalemme, Tito diede cinquemila coppie di gladiatori; vuol dire che egli fece immolare, nello spazio di venti giorni, dieci mila vittime umane.

VI.

Ottavio, che fu poi l’imperatore Augusto, gliene aveva dato l’esempio. Dopo la presa di Perugia, offri egli in sacrificio a’ mani di Cesare trecento cavalieri o senatori romani. [“Trecentus ex diditiis electos, utriusque ordinis ad aram divo Iulio extructam, idibus Martìi hustiarum more mactatos”.— Svet., in Octav. n. 10]. E con ciò non faceva che seguir l’esempio dello stesso Cesare, « Dopo i giuochi che fece egli celebrare pel suo trionfo riportato sopra Vercingetorige (che fu scannato), i suoi soldati s’ammutinarono. Il disordine non cessò che allorquando Cesare presentatosi nel mezzo di loro, afferrò di sua mano uno degli ammutinati per darlo al supplizio. Questi fu punito per tal motivo; ma due altri uomini furono inoltre scannati a mo di sacrificio. E furono immolati nel campo di Marte dai pontefici e dal flamine di Marte. Del resto, continua Tito Livio, era permesso al console, al dittatore ed al pretore, quando maledivano le legioni de’nemici, consacrare alla morte non solo sé stessi, ma anche uno de’cittadini scelto in mezzo ad una legione romana.»

VII.

Quel medesimo “spirito” che ordinava un dì nel mondo pagano i sacrifici umani, gli ordina anche oggidì in tutti i paesi, ove esso continua a regnare senza controllo: là sotto il nome di Marte, di Giove e d’Apollo: qui sotto il nome di Fetisci, o di Manitu. Cosi l’antropofagia sotto una o sotto un’altra forma continua il sacrificio. Gli abitatori dell’Oceania mangiano le loro vittime coi denti, mentre ché i Romani le divoravano cogli occhi, e le assaporavano con gusto. Quelli sono selvaggi incolti, questi erano inciviliti. Presso gli uni e presso gli altri tu trovi la sete, naturalmente inesplicabile, di umano sangue.

VIII.

Guardata attraverso la Roma cristiana, dice il Sig. L. Veuillot, la Roma antica ispira subito ribrezzo. Quei grandi Romani, quei padroni del mondo non appaiono che letterati selvaggi. V’ha forse tra i cannibali cosa di più atroce, di più abominevole, o di più abietto che la più parte dei costumi religiosi, politici, o civili dei Romani? V’ha forse una lussuria più sfrenata, una crudeltà più infame, un culto più stupido? Qual differenza, fosse pur di semplice forma, può farsi tra i Fetisci e gli dèi Lari? Qual differenza tra il capo dell’orda antropofaga, che mangia il vinto suo nemico, ed il patrizio che compra dei vinti, perché combattano sotto i suoi occhi, o si uccidano nei banchetti? » – Questo accadeva presso i Romani avanti la predicazione del Clericalismo! Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

CAPITOLO XV.

EUROPA — UNIVERSALITÀ DEL SACRIFICIO UMANO.—

GALLI — DRUIDI.

I.

Per non ripetere nella storia di ciascun popolo i sanguinosi particolari, di cui abbiam rapidamente delineato un quadro, diremo in generale che il sacrificio, siccome l’adorazione del serpente, ha fatto il giro del mondo antico, e che ha duralo fino alla predicazione del clericalismo. Ci basterà studiarlo più a fondo presso i popoli che c’interessano particolarmente: i Galli ed i Germani.

II

Quanto alla generalità del sacrificio umano, satana, re e dio del mondo antico, lo ha voluto su tutta la faccia della terra. La sua sete di sangue umano, insaziabile come il suo odio, non fu giammai spenta. Sotto mille forme differenti, presentasi alle adorazioni dei figli di Adamo, e domanda il loro sangue, il sangue di ciò che essi han di più caro. Per non ripetere nella storia di ciascun popolo i sanguinosi particolari, di cui abbiamo rapidamente delineato un quadro, diremo in generale che il sacrificio, siccome l’adorazione del serpente, ha fatto il giro del mondo antico, e che ha durato fino alla predicazione del Clericalismo. Ci basterà studiarlo più a fondo presso i popoli che c’interessano particolarmente: i Galli ed i Germani. – Gli Ebrei, i Fenici, i Moabiti, i Siri, i Giapponesi, i Tartari, gli Arabi, gli Egiziani, i Ciri, i Cartaginesi, gli Ateniesi, gli Spartani, gl’Ioni, i Pelasgi, gli Sciti, i Traci, i Taurini, i Germani, i Romani, gli Spagnuoli, gl’Inglesi ed i Galli hanno, per lunghi secoli, portati agli altari i loro simili ed i loro proprii figli.

III.

Tutti gli storici, pagani e cristiani, fan testimonianza di questo fatto mostruoso ed affatto inesplicabile al di fuori delle idee cristiane. Possiamo tra gli altri citare Manetone, Sanconiatone, Filone di Biblo, Erodoto, Platone, Pausania, Giuseppe, Filone l’Ebreo, Diodoro di Sicilia, Dionigi d’Alicarnasso, Cicerone, Cesare, Porfirio, Strabone, Macrobio, Plutarco, Quinto Curzio, Plinio, Lattanzio, Arnobio, Minuzio Felice, S. Cipriano; la più parte dei poeti greci e latini: Ennio, Virgilio, Sofocle, Silio Italico ed altri; e di più alcuni Padri della Chiesa: Tertulliano, Lattanzio, S. Agostino, S. Girolamo.

IV.

Veniamo ai Galli. La loro conoscenza ha per noi un interesse particolare, atteso che furono i nostri padri. Nel vedere la sanguinosa barbarie, nella quale essi erano immersi avanti la predicazione del Clericalismo, la parola ci verrà meno per qualificare quei tra i loro discendenti, che grandemente rei contraccambiano oggi con moneta d’ingiurie, d’odio, di calunnie e di persecuzioni, il Cristianesimo, cui son debitori dei lumi, della libertà, della civiltà e fin della vita.

V.

Presso i Galli esisteva una casta famosa, formidabile tanto per la sua potenza, quanto per la sua crudeltà; la casta dei Druidi, che è pregio dell’opera far conoscere. – I Druidi erano i sacerdoti dei Galli. Scelti tra i nobili della nazione, tutto dipendeva da essi. Formavano un corpo numeroso, distribuito in quasi tutte le province della Gallia, dove avevano collegi per istruir la gioventù, sopratutto la più nobile, la quale spesso abbracciava la loro professione. Fra tutti i privilegi di cui godevano, il principale era di creare ogni anno, in ciascuna città, quello che doveva governarla coll’autorità, e qualche volta col titolo di re. Il potere che continuavano ad esercitare sopra di lui era tale che egli niente poteva fare senza di loro, neppure convocare il suo consiglio. Cosicché a vero dire i Druidi regnavano, ed i re, benché assisi su troni d’oro, tra le pareti di superbe magioni, e nutriti splendidamente, non erano che ministri dei Druidi.

VI.

A loro apparteneva esclusivamente il dritto di regolare tutto ciò che riguardava la religione. Essendo la religione presso i Galli, come lo era presso tutti gli antichi, l’anima della vita pubblica non meno che della vita privata, i Druidi esercitavano un’autorità indipendente. Essi erano giudici nati ed arbitri assoluti dei diversi interessi della nazione, sì pubblici, che privati. Se mai insorgeva questione per qualche delitto, uccisione, eredità, i Druidi erano quelli che vi pronunziavano sopra senza appello. Se qualcuno, fosse anche dei più nobili, si rifiutava di stare alla loro sentenza, gli interdicevano i sacrifica, nel che presso i Galli consisteva la maggior pena. Colui che era così scomunicato, veniva ritenuto siccome un empio ed uno scellerato. Non era più ammesso a far da testimonio nelle cause; gli erano interdette tutte le cariche o dignità; ciascuno lo fuggiva, per timore che il suo incontro o la sua conversazione non gli arrecasse disgrazia.

VII.

I Galli non facevano sacrifici, senza chiamare i Druidi che li offrissero. Questo, non solamente perché i Druidi erano per condizione sacrificatori, e sacerdoti; ma eziandio perché erano stimati siccome perfettamente istruiti intorno alla volontà degli dèi, coi quali si credeva tenessero un intimo commercio. Quindi, allorché i Druidi volevano por termine a una guerra, bastava si presentassero. Fosse anche stato in mezzo alla mischia, essi arrestavano immantinente l’ardor dei soldati.

VIII.

Potentissimi ad arrestare i combattimenti, non lo erano meno ad eccitare alla guerra. La storia ne ha conservato un esempio memorabile. I Druidi non potevano soffrire il giogo dei Romani, che avevano fatto perdere alla nazione la libertà, e ad essi l’autorità. La morte dell’imperatore Vitellio parve loro un’occasione favorevole per rialzarsi. Il perché fan sollevare tutta la Gallia, promettendo, sulla fede d’un oracolo, che ricupererebbe la libertà. Oracolo funesto di cui si conobbe la falsità pel triste successo della rivolta.

IX.

Nulladimeno i Druidi non andavano mai alla guerra. Ne erano essi esenti come dai tributi. Ma dipendevano da un capo supremo, o gran sacerdote scelto tra essi e che godeva della piena autorità. Dopo la sua morte il più degno gli succedeva. Se v’erano più concorrenti, l’elezione si faceva per mezzo dei suffragi, dove solamente i Druidi davano il voto. Se accadeva che non si potessero accordare, si veniva alle armi, ed il più forte era nominato.

X.

Pare che i Druidi vestissero di stoffe dorate, rigate di porpora, e portassero collari e braccialetti alle mani ed alle braccia, come tutti i Galli sollevati alle prime dignità. È almeno certo che nelle cerimonie religiose, erano sempre bianco vestiti, con una corona di quercia sul capo, ed ai piedi sandali di legno pentagoni per distinguersi.