UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: ANNUS QUI HUNC

Questa lettera enciclica mette in rilievo la cura che il Santo Padre voleva fosse posta sia nella decorosa decenza dei luoghi santi, in particolare ove si celebravano i Santi Misteri, sia nella devozione della recita del Santo Ufficio da parte dei chierici. Ma la parte più straordinaria si rileva nella accurata analisi della musica sacra e del canto sacro, analisi compiuta con somma perizia e maestria degna di un colto maestro di cappella. Infatti questo documento resta poi la base di tutti i riferimenti magisteriali successivi inerenti l’argomento della musica sacra, come ad esempio la “Musicæ sacræ” del 1955 di S. S. Pio XII. I modernisti attuali della setta del “novus ordo” dovrebbero impallidire e vergognarsi del neopaganesimo musicale introdotto nei sacri luoghi [sacri … un tempo, in verità], al ritmo di rockettari chiassosi e strampalati, che suonano [si fa per dire, naturalmente …] di strumenti elettrici, percussioni sciamaniche e tribali, dei più sofisticati karaoke ed elucubrazioni vocali degne di messe nere o consimili [ma tanto la messa del baphomet lucifero è proprio tale, e quindi essi giustamente non si meravigliano … anzi vi partecipano sull’onda di danze suadenti e lascive … il trionfo del kitch oltretutto!]. Se qualcuno avesse ancora qualche dubbio sulla satanità del “novus ordo”, lo fugherebbe immediatamente entrando in queste moderne “discoteche-sale da ballo” costruite da avveniristici architetti, approvati con entusiasmo dalle finte autorità religiose, ove al ritmo frenetico di chitarroni elettrici [il più delle volte male accordati da approssimativi Jimmy Hendrix in erba], o di batteristi alla Tony Esposito [mi perdoni il percussionista partenopeo se lo tiro in ballo, ma è giusto per far comprendere meglio l’andazzo del novus ordo!] si accompagnano, nelle sfacciataggine più macabra dei finti chierici, dei riti che di sacro non hanno più nemmeno le candele, adulterate anch’esse, non più di cera d’api ma di sintetica paraffina! – Leggere la lettera di S. S. Benedetto XIV serve a farsi un’idea di cosa era e di cosa dovrà essere nuovamente la musica sacra, sconosciuta alla stragrande maggioranza non solo dei giovani, ma anche di quelli che si avvicinano oramai all’età vetusta, quando la falsa chiesa dell’uomo, parodia della Chiesa Cattolica e tragica anticamera del noachismo talmudico, sarà dal Nostro Signore Gesù Cristo distrutta con il soffio della sua bocca, secondo la profezia di San Paolo ai Cristiani di Tessalonica. Cominciamo allora a ripulire i condotti uditivi dalle orribili immondezze vocali e sonore accumulate nelle pseudo-celebrazioni sacrileghe e blasfeme del novus ordo con la lettura delle parole di Papa Lambertini, augurandoci quanto prima di innalzare a Dio il nostro spirito con canti liturgici gregoriani e con il suono maestoso dell’organo a canne suonato da un maestro vero dell’arte musicale sacra, magari un redivivo C. Frank o un novello Camille Saint Saens, o un emulo di Max Reger! Chissà?! … nel Vangelo il divin Maestro ci ha promesso: chiedete e vi sarà concesso …. E torneremo ai tempi felici del: “Confitemini Domino in cithara; in psalterio decem chordarum psallite illi. Cantate ei canticum novum; bene psallite ei in vociferazione…” [Ps XXXII].

Benedetto XIV

Costituzione Apostolica

Annus qui hunc

vertentem annum insequitur, ut  Fræternitas Tua cognitum …

Terminato l’anno in corso, quello che verrà – come Ella ben sa – sarà l’anno del Giubileo, detto Anno Santo. Essendo – per somma misericordia di Dio – terminata la guerra e fatta la pace fra i Principi belligeranti, si può sperare che sarà grande il concorso dei forestieri e dei pellegrini di tutte le nazioni, anche delle più lontane, a questa nostra Città di Roma. Noi di vero cuore preghiamo e facciamo pregare Iddio, affinché tutti coloro che verranno conseguano il frutto spirituale delle sante Indulgenze, e Noi faremo tutto ciò che è in Nostro potere perché ciò si verifichi. Desideriamo inoltre che tutti coloro che vengono a Roma, ne ripartano non scandalizzati, ma pieni di edificazione per quanto avranno veduto non solo in Roma, ma anche in tutte le Città dello Stato Pontificio attraverso le quali sarà loro convenuto passare, sia nel venire come nel ritornare alle loro patrie. – Per quanto si riferisce a Roma, Noi abbiamo già preso alcune misure, né si tralascerà di prenderne altre. Abbiamo bisogno del Suo zelo e della Sua sperimentata attenzione per ciò che appartiene alla Città e Diocesi da Lei lodevolmente governate. Se Ella Ci darà, come speriamo, l’aiuto necessario, non solo si conseguirà il fine da Noi desiderato, cioè che i forestieri partano edificati e non scandalizzati di Noi, ma ne deriverà un altro buon effetto, cioè che le cose da Noi ordinate e da Lei eseguite, determineranno una buona disciplina non solo nell’Anno Santo, ma per molto tempo avvenire. Si ripeterà ciò che appunto accade nelle Sue Visite Pastorali; l’esperienza dimostra che i visitati, essendo imminente la Visita, fanno alcune cose, correggono alcuni difetti per non essere ripresi da Lei, e per non restare esposti alle dovute pene; il bene fatto in occasione della visita dura anche nel tempo successivo.

1. Ma venendo al particolare, la prima cosa che Le raccomandiamo è che le Chiese si presentino in buono stato, pulite, monde e provviste di sacri arredi; ci vuole poco a capire che se i forestieri vedessero le Chiese delle Città e Diocesi dello Stato Ecclesiastico in cattive condizioni, sporche o sprovviste di sacri arredi, o provviste di arredi laceri e degni d’essere sospesi, ritornerebbero ai loro paesi pieni di orrore e indignati. Teniamo a sottolineare che non parliamo della sontuosità e della magnificenza dei sacri Templi, né della preziosità delle sacre suppellettili, sapendo anche Noi che non si possono avere dappertutto. Abbiamo parlato della decenza e della pulizia che a nessuno è lecito trascurare, essendo la decenza e la pulizia compatibili con la povertà. Tra gli altri mali da cui è afflitta la Chiesa di Dio, anche di questo si doleva il Venerabile Cardinale Bellarmino, quando diceva: “Passo sotto silenzio ciò che si vede in certi luoghi: i vasi sacri ed i paramenti che si adoperano nella celebrazione dei Misteri sono spregevoli e sporchi, e del tutto indegni di essere adoperati nei tremendi Misteri. Può darsi che coloro che adoperano questi oggetti siano poveri; ciò è possibile, ma se non è possibile avere arredi preziosi, si abbia almeno cura che tali arredi siano puliti e decorosi“. Benedetto XIII, di santa memoria e Nostro benefattore, che tanto ha travagliato nel corso della sua vita per la retta disciplina e per la decenza nelle Chiese, era solito portare come esempio le Chiese dei Padri Cappuccini, povere di somma povertà e pulite di grandissima pulizia. Il Dresselio al tomo 17 delle sue opere stampate a Monaco, nel trattato intitolato Gazophylacium Christi (§ 2, cap. 2, p. 153), così scrive: “La prima e più importante cosa che si deve curare nelle Chiese è la pulizia. Non solo vi debbono essere gli arredi necessari al culto, ma bisogna anche che essi, per quanto è possibile, siano estremamente puliti“. Con tutta ragione egli inveisce contro coloro che hanno le loro case ben fornite e lasciano le Chiese e gli Altari nello stato miserabile in cui si vedono: “Vi sono alcuni che hanno case assolutamente infruttuose e adorne di tutto, ma nelle loro Chiese e nelle loro Cappelle tutto è squallido; gli Altari sono disadorni e ricoperti da tovaglie cenciose e luride; in tutto il resto regnano confusione e squallore” (Dresselio, Gazophylacium Christi, § 2, cap. 2). – Il grande dottore della Chiesa San Girolamo, nella sua lettera a Demetriade si mostrò assai indifferente sul fatto che le Chiese fossero povere o ricche: “Che altri edifichino Chiese, ne rivestano le pareti con lastre di marmo, vi elevino delle colonne maestose, indorino i loro capitelli, non sentenzio su tali preziosi ornamenti; che ornino le porte con avorio ed argento e rivestano di pietre preziose gli Altari dorati io non biasimo e non impedisco. Ciascuno abbondi nel proprio sentimento: è meglio fare così che custodire con avarizia le ricchezze accumulate“. Invece dichiarò apertamente di stimare la pulizia delle Chiese quando con somme lodi celebrò Nepoziano che era sempre stato attento a tener pulite le Chiese e gli Altari, come si legge nell’epitaffio dello stesso Nepoziano che il Santo scrisse ad Eliodoro: “Egli si adoperava con grande sollecitudine affinché l’Altare fosse nitido, le pareti non fossero ricoperte di fuliggine, i pavimenti fossero tersi, il portinaio fosse sempre presente all’ingresso; le porte fossero sempre provviste di tende, la sagrestia fosse pulita, i vasi sacri lucenti e in tutte le cerimonie non mancasse nulla. Non trascurava nessun dovere, né piccolo né grande“. Certamente si deve provvedere con grande cura e diligenza che non succeda, con disonore dell’Ordine Ecclesiastico, ciò che il suddetto cardinale Bellarmino racconta essere accaduto a lui: “Io – dice – trovandomi una volta in viaggio fui ospitato presso un nobile Vescovo assai ricco; vidi il suo palazzo risplendente di vasi d’argento e la mensa ricoperta dei cibi più squisiti. Anche tutto il resto era nitido e le tovaglie erano soavemente profumate. Ma il giorno dopo, essendo disceso di buon mattino nella Chiesa attigua al palazzo per celebrare le sacre funzioni, trovai un assoluto contrasto: tutto era spregevole e ripugnante, tanto che dovetti farmi violenza per arrischiarmi a celebrare i divini Misteri in un simile luogo e con simile apparato“.

2. La seconda cosa sulla quale richiamiamo la Sua attenzione riguarda le Ore Canoniche, siano esse cantate o recitate nel Coro secondo la pratica di ciascuna Chiesa, con la dovuta diligenza, da parte di coloro che ad esse sono obbligati. Infatti non c’è niente di più avvilente e pernicioso per la disciplina Ecclesiastica che entrare nelle Chiese e vedere e sentire le Ore Canoniche cantate o recitate nel Coro con strapazzo. Ella ben conosce l’obbligo che hanno i Canonici e gli addetti al servizio delle Chiese Metropolitane, Cattedrali o Collegiate, di cantare ogni giorno le Ore Canoniche nel Coro, e che a quest’obbligo non si soddisfa se non si adempie al tutto con assoluta devozione. – Il Sommo Pontefice Innocenzo III nel Concilio Lateranense (riferito nel capitolo Dolentes, de celebratione Missarum) parla del suddetto obbligo nei seguenti termini: “Noi ordiniamo rigorosamente, in virtù di obbedienza, di celebrare l’Ufficio Divino, tanto di notte quanto di giorno, per quanto sarà possibile, con diligenza e devozione. (La Chiesa, spiegando la parola studiose – con diligenza – soggiunge che essa si riferisce alla esatta e completa pronuncia delle parole; e quanto al termine devote – con devozione – annota che esso si riferisce al fervore dell’animo). – Il Nostro Predecessore Clemente V durante il Concilio Viennese, nella sua Costituzione che si trova tra le Clementine e che comincia con la parola Gravi, sotto il titolo De celebratione Missarum parla con lo stesso linguaggio: “Nelle Chiese Cattedrali, Regolari e Collegiate si tenga la salmodia alle ore stabilite, e con devozione“. – Il Concilio di Trento, trattando degli obblighi dei Canonici Secolari, dice: “Si faccia a tutti obbligo d’intervenire agli Uffici, di persona e non per mezzo di sostituti; di assistere e di servire il Vescovo quando celebra o compie qualche altra funzione pontificale; e infine di lodare il nome di Dio con inni e cantici, con riverenza, chiarezza e devozione, e ciò nel Coro istituito per la salmodia” (Conc. Trid., sess. 24, cap. 12, De reformatione). Dal che deriva che si deve vigilare con molta attenzione affinché il canto non sia precipitoso: o più affrettato del conveniente; le pause siano fatte nei punti indicati; una parte del Coro non incominci il versetto del Salmo se l’altra parte non ha terminato il proprio. Ecco le precise parole del Concilio di Saumur dell’anno 1253: “Nec prius Psalmi una pars Chori versiculum incipiat, quam ex altera praecedentes Psalmi, et versiculi finiantur“. – Infine, il canto deve essere eseguito con voci unisone ed il Coro deve essere diretto da persona esperta nel canto Ecclesiastico (chiamato canto piano o fermo). Questo è quel canto per regolare il quale e disporlo secondo i canoni dell’arte musicale tanto faticò San Gregorio il Grande, Nostro Predecessore, come attesta Giovanni Diacono nella Vita di lui (libro 2, cap. 7). Al che non sarebbe difficile aggiungere molte belle notizie ricavate dalla erudizione Ecclesiastica sull’origine del canto Ecclesiastico, sulla Scuola dei Cantori e sul Primicerio che ad essa presiedeva; ma lasciando da parte ciò che sembra meno utile, ritorniamo al punto da cui Ci siamo un poco allontanati, per proseguire l’argomento iniziato. Questo canto è quello che eccita le anime dei fedeli alla devozione e alla pietà; è pure quello che, se eseguito nelle Chiese di Dio secondo le regole ed il decoro, è ascoltato più volentieri dagli uomini devoti e, a ragione, è preferito al canto detto figurato. I Monaci appresero questo canto dai Preti Secolari come ben riferisce Giacomo Eveillon: “Il virtuosismo di ogni armonia musicale diventa ridicolo alle devote orecchie, se paragonato al canto piano e della semplice salmodia, qualora questa sia bene eseguita. Perciò oggi il popolo fedele diserta le Chiese Collegiate e Parrocchiali e corre volentieri e avidamente alle Chiese dei Monaci, i quali, avendo la pietà come maestra del culto divino, salmodiano santamente con moderazione e – come già disse il Principe dei Salmisti – con sapienza; servono al loro Signore, come a Signore e come a Dio, con somma riverenza. Ciò deve certamente tornare a vergogna delle Chiese più importanti e maggiori, dalle quali i Monaci hanno appreso l’arte e la regola di cantare e di salmodiare” (G. Eveillon, De recta ratione psallendi, cap. 9, art. 9). È per questo che il sacro Concilio di Trento, che non trascurò nulla di quanto poteva contribuire alla riforma del Clero, dove tratta della fondazione dei seminari, fra le altre cose che si devono insegnare ai seminaristi include anche il canto: “Perché siano meglio formati nella disciplina Ecclesiastica, portino sempre la tonsura e l’abito Ecclesiastico appena li abbiano ricevuti; studino le regole della grammatica, del canto, del computo Ecclesiastico e delle altre buone arti” (Conc. Trid., sess. 23, ca. 18, De Reformatione).

3. La terza cosa di cui Noi dobbiamo avvertire Lei, è che il canto musicale, che oggi si è introdotto nelle chiese e che, comunemente, è accompagnato dall’armonia dell’organo e di altri strumenti, sia eseguito in modo tale da non apparire profano, mondano o teatrale. L’uso dell’organo e degli altri strumenti musicali, non è ancora accolto in tutto il mondo cristiano. Infatti (senza parlare dei Ruteni di Rito Greco, che, secondo la testimonianza del Padre Le Brun, in Explication Miss. (tomo 2, p. 215 pubblicato nel 1749), non hanno nelle loro chiese né l’organo, né altri strumenti musicali), la Nostra Cappella Pontificia, come tutti sanno, pur ammettendo il canto musicale, a condizione che sia grave, decente e devoto, non ha mai ammesso però l’organo, come fa notare anche il Padre Mabillon, dicendo: “Nella domenica della Trinità abbiamo assistito alla Cappella Pontificia, come è chiamata, ecc. In queste cerimonie non si fa uso alcuno di organi musicali, ma soltanto la musica vocale, di ritmo grave, è ammessa col canto piano” (Mabillon, Museo Italico, tomo 1, p. 47, § 17). – Il Grancolas riferisce che anche ai nostri giorni vi sono in Francia delle Chiese insigni che non adoperano nelle funzioni sacre né l’organo, né il canto figurato: “Vi sono tuttavia anche oggi insigni Chiese della Gallia che ignorano l’uso degli organi e della musica” (Grancolas, Commentario storico del Breviario Romano, cap. 17). – L’illustre Chiesa di Lione, sempre contraria alle novità, seguendo fino ai nostri giorni l’esempio della Cappella Pontificia, non ha mai voluto introdurre l’uso dell’organo: “Da ciò che si è detto, consta che gli strumenti musicali non furono ammessi né fin dal principio né in tutti i luoghi. Infatti, anche ora, a Roma, nella Cappella del Sommo Pontefice, gli Uffici solenni si celebrano sempre senza strumenti, e la Chiesa di Lione, che ignora le innovazioni, ha sempre rifiutato l’organo, ed al presente ancora non lo ha accolto“. Queste sono parole del Cardinale Bona nel suo trattato De Divina Psalmodia (cap. 17, § 2, n. 5). – Stando così le cose, ciascuno può facilmente immaginare quale opinione si faranno di noi i pellegrini appartenenti a regioni dove non si adoperano gli strumenti musicali, e che, venendo da noi e nelle nostre città, ne udranno nelle chiese il suono, come si fa nei teatri ed in altri luoghi profani. Certamente vi verranno anche degli stranieri appartenenti a regioni ove, nelle chiese, si usano il canto e gli strumenti musicali, come avviene in alcune nostre regioni; ma, se questi uomini sono persone sagge ed animate da vera pietà, certamente si sentiranno delusi di non trovare nel canto e nella musica delle nostre Chiese il rimedio che desideravano applicare per guarire il male che imperversa a casa loro. Infatti, lasciando da parte la disputa che vede gli avversari divisi in due campi (quelli che condannano e detestano nelle Chiese l’uso del canto e degli strumenti musicali, e, dall’altra parte, quelli che lo approvano e lo lodano), non vi è certamente nessuno che non desideri una certa differenziazione tra il canto Ecclesiastico e le teatrali melodie, e che non riconosca che l’uso del canto teatrale e profano non deve tollerarsi nelle Chiese.

4. Abbiamo detto che vi sono alcuni che hanno riprovato ed altri che riprovano l’uso nelle Chiese del canto armonico con strumenti musicali. Il principe di costoro può in qualche modo essere considerato l’Abate Elredo, coetaneo e discepolo di San Bernardo, che nel libro 2 della sua opera intitolata Speculum Charitatis, così scrive: “Da dove provengono, malgrado siano cessati i tipi e le figure, donde vengono nelle Chiese tanti organi, tanti cembali? A che, di grazia, quel soffio terribile che esce dai mantici e che esprime piuttosto il fragore del tuono che non la soavità del canto? A che quella contrazione e spezzettamento della voce? Questi canta con accompagnamento, quell’altro canta da solo, un terzo canta in tono più alto, un quarto infine divide qualche nota media e la tronca” (cap. 23, tomo 23, della Biblioteca dei Padri, a p. 118). – Noi non Ci impegneremo ad affermare che, al tempo di S. Tommaso d’Aquino, non vi fosse in qualche Chiesa l’uso del canto musicale accompagnato dai musicali strumenti. Si può però affermare che tale usanza non esisteva nelle Chiese conosciute dal Santo Dottore; e perciò sembra che egli non fosse favorevole a questo genere di canto. Trattando infatti la questione nella Somma teologica (2, 2, quest. 91, art. 2) “se nelle lodi divine si debba usare il canto“, risponde di sì. Ma alla quarta obiezione, da lui formulata, che la Chiesa non suole usare nelle lodi divine strumenti musicali, come la cetra e l’arpa, per non sembrare voler giudaizzare – in base a quanto si legge nel Salmo: “Confitemini Domino in cythara, in psalterio decem chordarum psallite illi; Celebrate il Signore sulla cetra, a lui salmeggiate con arpa da dieci corde” – egli risponde: “Questi strumenti musicali eccitano il piacere piuttosto che disporre interiormente alla pietà; nell’Antico Testamento sono stati adoperati perché il popolo era più grossolano e carnale, ed occorreva allettarlo per mezzo di questi strumenti, come con promesse terrene“. Aggiunge inoltre che gli strumenti, nell’Antico Testamento, avevano valore di tipi o prefigurazioni di certe realtà: “Anche perché questi strumenti materiali raffiguravano altre cose“. – Del Sommo Pontefice Marcello II, ci è stato tramandato dalla storia che aveva deciso di abolire la musica nelle Chiese, riducendo il canto Ecclesiastico al canto fermo. Questo si può vedere leggendo la Vita di detto Pontefice, scritta da Pietro Polidori, testé defunto, e già Beneficiato della Basilica di San Pietro, e uomo noto fra i letterati. – Ai nostri giorni, abbiamo veduto che il Cardinale Tomasi, uomo di grande virtù, insigne liturgista, non volle il suono musicale, nella sua Chiesa titolare di San Martino ai Monti, il giorno della festa di questo Santo, in onore del quale quella Chiesa è dedicata. Non volle musica né alla Messa né ai Vespri, ma ordinò che nelle funzioni sacre si usasse il canto piano, come si costuma fare dai Religiosi.

5. Abbiamo detto che vi sono alcuni che approvano l’impiego del canto musicale ed il suono degli strumenti negli Uffici Divini. Infatti nello stesso secolo in cui visse il lodato Abate Elredo, fu celebre anche Giovanni Sariberiense, Vescovo di Chartres, il quale nel suo Policratius (libro 1, cap. 6) fa l’elogio della musica strumentale, e del canto vocale accompagnato da strumenti: “Per elevare i costumi e trascinare gli animi verso il culto del Signore, in una sana giocondità, i Santi Padri stimarono bene doversi ricorrere non soltanto al concento di uomini, ma anche all’armonia degli strumenti: purché ciò si facesse in modo che servisse ad unire di più al Signore e ad accrescere il rispetto per la Chiesa. Sant’Antonino nella sua Somma non rigetta l’impiego del canto figurato nei Divini Uffici: “Il canto fermo, nei Divini Uffici, è stato stabilito dai Santi Dottori, da Gregorio il Grande, da Ambrogio, e da altri. Chi abbia introdotto il canto a più voci negli Uffici Ecclesiastici, io lo ignoro. Questo canto sembra piuttosto fatto per solleticare le orecchie che per alimentare la devozione, ancorché una mente devota possa ricavare frutto anche ascoltando questo canto” (parte 3, tit. 8, cap. 4, par. 12). Ed un poco più avanti, ammette nei Divini Uffici non solamente l’organo, ma anche altri strumenti musicali: “Il suono degli organi e degli altri strumenti cominciò ad essere usato con frutto, nella lode di Dio, dal Profeta Davide“. – Il Pontefice Marcello II aveva certamente deciso di bandire dalle Chiese il canto in musica e gli strumenti musicali, ma Giovanni Pier Luigi da Palestrina, Maestro di Cappella della Basilica Vaticana, compose un canto musicale, da usarsi nelle sante Messe solenni, con un’arte così eccellente da muovere gli uomini alla devozione ed al raccoglimento. Il Sommo Pontefice udì questo canto ad una Messa, alla quale presenziava, e mutò parere, recedendo da quanto aveva già divisato di fare. Ne fanno fede antichi documenti citati da Andrea Adami nella Prefazione storica delle Osservazioni sulla Cappella Pontificia (p. 11). – Nel Concilio di Trento si era stabilito di eliminare la musica dalle Chiese, ma l’imperatore Ferdinando avendo, per mezzo dei suoi legati, annunziato che il canto musicale, o figurato, serviva di incitamento alla devozione per i fedeli e favoriva la pietà, si mitigò il Decreto già preparato; ed ora questo decreto si trova nella sessione 22, al titolo: De observandis et evitandis in celebratione Missae. Con esso sono state escluse dai sacri Templi solo quelle musiche in cui, “sia nel suono sia nel canto, si mescola alcunché di lascivo o di impuro“. – Il fatto è riferito da Grancolas nel suo lodato Commentario (p. 56), e dal Cardinale Pallavicino nella Storia del Concilio (libro 22, cap. 5, n. 14). – Certamente Scrittori Ecclesiastici di gran nome seguono di buon grado la stessa sentenza. Il venerabile Cardinale Bellarmino nel tomo 4 delle sue Controversie, al libro 1 De bonis operibus in particulari, 17, in fine, insegna che deve essere mantenuto nelle Chiese l’uso degli organi, ma che non devono essere facilmente ammessi altri strumenti musicali: “Da ciò ne viene che, come l’organo si deve conservare nelle Chiese per riguardo ai deboli, così non devono essere introdotti alla leggera altri strumenti“. – Anche il Cardinale Gaetano è di questo parere, e nella sua Somma, alla voce organum, così scrive: “L’uso dell’organo, sebbene per la Chiesa costituisca una novità – perciò la Chiesa Romana fino ad ora non ne fa uso alla presenza del Pontefice –, è però lecito avuto riguardo ai fedeli ancora carnali ed imperfetti“. – Il venerabile Cardinale Baronio, all’anno 60 di Cristo [dei suoi Annali], così scrive: ” In verità nessuno potrà con ragione disapprovare che dopo molti secoli si sia introdotto l’uso nella Chiesa degli organi, strumenti formati da canne di diversa grandezza assieme unite“.- Cardinale Bona, nel De Divina Psalmodia, cap. 17, trattando degli organi suonati nelle Chiese, dice: “Non bisogna condannare un uso moderato di essi, ecc. Il suono dell’organo reca letizia agli animi tristi degli uomini, e richiama alla giocondità della celeste Città, scuote i pigri, ricrea i diligenti, provoca i giusti all’amore, richiama i peccatori a penitenza“. – Il Suarez (tomo 2 De Religione, al libro 4 De Horis Canonicis, cap. 8, n. 5) fa rilevare che la parola organo non indica soltanto quel particolare strumento musicale che oggi si suole ordinariamente chiamare organo – il che prima di lui fu avvertito da Sant’Isidoro nel libro 2 Originum, cap. 20: “La parola organo indica in generale tutti gli strumenti musicali” –; dicendo che l’organo può essere usato nelle Chiese, s’intende che possono essere usati altri strumenti musicali. – Silvio (tomo 3 delle sue Opere sulla 2, 2 di San Tommaso, quest. 91, art. 2) non rigetta dalle Chiese il canto armonico o figurato: “Perciò deve essere grandemente curato il canto Ecclesiastico, sia quello detto piano, o gregoriano, che è propriamente canto Ecclesiastico, sia quello introdotto dopo nella Chiesa, e che si chiama canto figurato o armonico. E poco più avanti dice ancora: “Tuttavia, essendosi, dopo molti secoli, accolto l’uso di accompagnare gli Uffici Ecclesiastici con strumenti musicali, ciò non deve essere disapprovato“. – Il Bellotte, nel libro De Ritibus Ecclesiae Laudunensis (p. 209, n. 8), dopo aver a lungo e minuziosamente parlato degli strumenti musicali, che si suonano alle volte nei Divini Offici; e, dopo aver dimostrato che anticamente questi strumenti non si usavano nelle Chiese, ritiene che la cagione di tale antica usanza e diversa consuetudine, debba riporsi nella necessità che spingeva allora i Cristiani a stare lontani, il più possibile, dai riti profani dei pagani, i quali, nei teatri, nei festini, nei sacrifizi, usavano strumenti musicali. – “Perciò, dice il Bellotte, non si deve vedere una sconvenienza negli strumenti musicali stessi, se la Chiesa ha fatto uso di cantori in musica e di musicali strumenti soltanto negli ultimi secoli. Il motivo sta solo nel fatto che i pagani usavano simili strumenti musicali per scopi turpi e immorali, appunto nei teatri, nei conviti e nei sacrifizi“. – Il Persico, nel suo trattato De Divino et Ecclesiastico Officio (al dubbio 5, n. 7) così scrive del canto figurato nelle Chiese: “In secondo luogo dico: ancorché nel canto organico, o figurato, possano introdursi molti abusi – come suole d’altronde avvenire in tutte le altre cerimonie Ecclesiastiche – , esso tuttavia è di per sé lecito, e per nessun motivo vietato, quando viene eseguito in maniera regolata, devota e decente. – Al dubbio 6, numero 3, sostiene che “l’uso ormai universale di suonare l’organo e altri strumenti musicali, durante i Divini Uffici, è un uso lodevole, e molto utile per elevare alla contemplazione di Dio gli animi delle persone imperfette“. – L’uso del canto armonico, o figurato, e degli strumenti musicali, sia nelle Messe, come nei Vespri e in altre funzioni di Chiesa, è ora talmente esteso, da essere giunto anche nel Paraguay. – Essendo quei novelli fedeli americani dotati di straordinaria propensione ed abilità al canto musicale ed al suono dei musicali strumenti, tanto da imparare con tutta facilità ciò che riguarda l’arte musicale, i Missionari si servono di questa tendenza per avvicinarli alla Fede Cristiana, mediante pie e devote canzoni. Così che, al presente, non vi è più quasi nessun divario, sia nel canto come nel suono, tra le Messe ed i Vespri di casa nostra con quelle delle suddette regioni. Ciò riferisce l’Abate Muratori, riportando relazioni degne di fede, nella sua opera: Descrizione delle Missioni del Paraguay (cap. 12).

6. Abbiamo pure detto che non c’è alcuno che non condanni il canto teatrale nelle Chiese, e che non desideri una differenziazione tra il canto sacro della Chiesa e il canto profano delle scene. Celebre è il testo di S. Girolamo, riferito nel Canone Cantantes: “Cantando e salmeggiando nei vostri cuori al Signore. Ascoltino questo gli adolescenti; lo ascoltino coloro che hanno nella Chiesa il dovere di salmeggiare. Non basta cantare ad onore di Dio con il suono della voce, ma bensì è necessario unirvi il cuore. Né alla moda degli attori teatrali occorre spalmare la gola e le labbra di soave unguento affinché nella Chiesa si sentano melodie e canti teatrali” (distinzione 92). – L’autorità di S. Girolamo fu abusivamente invocata da coloro che, con troppa audacia, volevano rimuovere dalle Chiese ogni sorta di canto. Ma S. Tommaso, nel luogo già citato, così risponde, alla seconda obiezione ricavata dal detto testo di S. Girolamo: “Riguardo alla seconda obiezione, occorre notare che S. Girolamo non condanna il canto, ma riprende coloro che nelle Chiese cantano come canterebbero in un teatro. – San Nicezio, nel libro De Psalmodiae bono (cap. 3, nel tomo 1 dello Spicilegio), così descrive il canto che deve adoperarsi nelle Chiese: “Si usi un suono ed un canto di salmodia che siano conformi alla santità della Religione, e non piuttosto espressioni del canto tragico; che vi faccia apparire veri cristiani, e non piuttosto riecheggi suoni teatrali; che vi induca alla compunzione dei peccati“. – I Padri del Concilio di Toledo (riuniti nell’anno 1566, nell’azione 3, al cap. 11 del tomo 10 della Collezione dei Concilii dell’Arduino), dopo aver molto parlato della qualità del canto da usarsi nelle Chiese, così concludono: “ Bisogna assolutamente evitare che il suono musicale porti nel canto delle divine lodi qualche cosa di teatrale; o che evochi profani amori, e gesta guerresche, come suole fare la musica classica.– Non mancano numerosi e dotti scrittori, che severamente condannano la paziente tolleranza, nelle Chiese, del suono e del canto teatrali, e domandano che simile abuso venga tolto dalle Chiese. – Si consultino il Casadio (De veteribus sacris Christianorum ritibus, cap. 34) e l’Abate Lodovico Antonio Muratori (Antiqua Romana Liturgia tomo I; dissertazione De rebus liturgicis, cap. 22, in fine). – E per terminare il Nostro dire su questo argomento, ossia dell’abuso dei teatrali concerti nelle Chiese (che è cosa per sé evidente e che non richiede parole per dimostrarla), basterà accennare che tutti quelli che Noi abbiamo sopra citati, come favorevoli al canto figurato ed all’uso degli strumenti musicali nelle Chiese, chiaramente dicono ed attestano di aver sempre nei loro scritti inteso e voluto escludere quel canto e quel suono propri i dei palcoscenici e dei teatri. Canto e suono che essi, come gli altri, condannano e deprecano. Quando si professavano favorevoli al canto ed al suono, sempre intesero un canto ed un suono adatto alle Chiese, e che eccita il popolo a devozione. Questa loro intenzione ognuno può conoscere leggendo i loro scritti.

7. Stabilito che, essendo già introdotta la consuetudine del canto armonico o figurato e degli strumenti musicali negli Uffici Ecclesiastici, se ne condanna soltanto l’abuso; il Bingamo (Delle Origini Ecclesiastiche, tomo 6, libro 14, par. 16), benché sia autore eterodosso, concorda; ne consegue che bisogna diligentemente studiare quale sia il retto uso e quale l’abuso. – Riconosciamo che per fare Noi bene quanto Ci siamo proposto, avremmo bisogno della perizia musicale di cui erano adorni alcuni dei Nostri santi e illustri Predecessori, quali Gregorio il Grande, Leone II, Leone IX e Vittore III. Noi però non abbiamo avuto né il tempo e né l’occasione di imparare la musica. Tuttavia Ci accontenteremo di dire alcune cose ricavate dalle Costituzioni dei Nostri Predecessori, e dagli scritti di uomini virtuosi e dotti. – Per procedere però con ordine, parleremo prima di tutto ciò che si deve cantare nelle Chiese. Poi parleremo del modo e del metodo che si deve tenere nel canto. Infine parleremo degli strumenti musicali adatti alle Chiese, e che devono essere suonati nei sacri Templi.

8. Guglielmo Durando, che visse sotto il Pontificato di Nicolò III, nel suo trattato De modo Generalis Concili i celebrandi (cap. 19), apertamente riprova l’uso, allora frequente, di quelle cantilene dette mottetti: “Sembra assai opportuno togliere dalla Chiesa quel canto non devoto e disordinato dei mottetti e di altre cose simili. In seguito il Pontefice Giovanni XXII, Nostro Predecessore, promulgò la sua Decretale, che comincia con le parole Docta Sanctorum e che si trova tra le Extravaganti comuni, al titolo De vita et honestate Clericorum. In questa sua Decretale, il Papa si mostra contrario al canto dei mottetti in lingua volgare: “Talora v’inseriscono mottetti in lingua volgare. – I Teologi hanno fatto oggetto d’indagine siffatto genere di cantilene o mottetti che solitamente si cantano nelle Chiese. Uno di essi, il Paludano (Sentenze, libro IV, dist. 15, q. 5, art. 2), ritenne il canto dei mottetti una specie di canto teatrale, e riprende coloro che ne fanno uso: “coloro, cioè, che nelle solennità cantano i mottetti, poiché il canto (nelle Chiese) non deve essere simile a quello delle tragedie. – Il Suarez (De Religione, tomo 2, libro 4; De Horis Canonicis, cap. 13, n. 16) sembra favorevole al canto dei mottetti, ancorché essi siano stati scritti in lingua volgare, purché siano seri e devoti. A provare quanto asserisce adduce il costume e l’uso di alcune Chiese governate da sapienti prelati, che non condannano queste cantilene o modulati carmi. Aggiunge inoltre che, nei primi tempi della Chiesa, ogni fedele cantava nel tempio quei pii e devoti inni che egli stesso aveva composti; e che tale antica consuetudine serve, in certo modo, ad approvare l’uso dei mottetti. – Prevedendo l’obiezione che gli si può muovere, che da simili canti modulati, chiamati mottetti, rimane interrotta la salmodia ecclesiastica, ad essa così risponde: “Questa interruzione, o pausa, che per questo fatto viene a stabilirsi tra le parti di un’Ora (canonica), non è da condannarsi. Questa parte dell’ufficiatura rimane moralmente non interrotta, a causa della devozione che questo canto stesso si propone di eccitare. Così questo canto può essere considerato come una preparazione all’ufficiatura che segue, e come una solenne e degna conclusione dell’ufficiatura precedente, e come un ornamento di tutta l’Ora. – Il Sommo Pontefice Alessandro VII, nell’anno 1657, emanò una Costituzione, che comincia con le parole Piae sollicitudinis, e che è la trentaseiesima tra le Costituzioni di questo Pontefice. In tale documento il Papa comanda di non cantare, nel tempo dei Divini Uffici, e nel tempo in cui nelle Chiese è esposto il Sacramento dell’Eucaristia alla pubblica venerazione dei fedeli, nessun canto che non sia formato da parole desunte dal Breviario o dal Messale Romano. Questi canti possono essere desunti dall’ufficiatura propria o comune della solennità di ciascun giorno, o della festa del Santo; questi brani possono pure essere tolti dalla Sacra Scrittura o dalle opere dei Santi Padri, ma prima devono essere sottoposti alla revisione ed all’approvazione della Sacra Congregazione dei Riti. – Da questa Costituzione pontificia appare, senza alcun dubbio, che il canto dei mottetti, composti seguendo le norme prescritte dallo stesso Alessandro VII, Nostro Predecessore, e riveduti ed approvati dalla Sacra Congregazione dei Riti, fu dichiarato legittimo. Questa Costituzione di Alessandro VII fu confermata dal Venerabile Servo di Dio Innocenzo XI, in un suo Decreto del 3 dicembre 1678. – Essendo però sorto qualche dubbio sul significato e sulla interpretazione della Costituzione di Alessandro e del Decreto di Innocenzo XI, il Nostro Predecessore di felice memoria Innocenzo XII, emise, in data 20 agosto 1692, un nuovo Decreto, che è il settantaseiesimo del suo Bollario. Questo decreto, dissipando la confusione causata dalle diversità di interpretazioni, e illuminando tutta la questione, proibì in genere il canto di ogni cantilena o mottetto. Nelle sante Messe solenni permise soltanto, oltre al canto del Gloria e del Simbolo, di poter cantare l’Introito, il Graduale e l’Offertorio. Nei Vespri non ammise nessun cambiamento, neppure minimo, nelle Antifone che si dicono all’inizio e alla fine di ogni Salmo. – Inoltre volle e comandò che i cantori musici seguissero in tutto le regole del Coro e che con esso si conformassero perfettamente. E siccome nel Coro non è permesso aggiungere qualche cosa all’Ufficio o alla Messa, così proibì pure questo ai musici, e soltanto permise di prendere dall’Ufficio e dalla Messa della solennità del Santissimo Sacramento del Corpo del Signore – ossia dagli inni di San Tommaso o dalle antifone, o da altri brani passati nel Breviario dal Messale Romano – qualche strofa o mottetto, senza cambiarne le parole, e di poterli cantare, al fine di eccitare la devozione nei fedeli, durante l’elevazione della sacra Ostia, o quando è esposta alla venerazione ed all’adorazione del pubblico.

9. Dopo avere con una legge regolato l’uso delle canzoncine, o delle strofe cantate o mottetti, bisogna ammettere che si era già fatto molto per rimuovere dalle Chiese i canti teatrali, ma occorre pure confessare che ciò non era sufficiente per raggiungere lo scopo desiderato. – Era ancora possibile, e troppo ancora ciò si fa con Nostro dispiacere, cantare tutte le parti che è lecito e che si sogliono cantare nelle Messe e nei Vespri, come è stato su riferito (ossia il Gloria, il Simbolo, l’Introito, il Graduale, l’Offertorio e tutto il resto), ma cantarle alla maniera teatrale e con strepito da palcoscenico. – Il grande vescovo Guglielmo Lindano, nella sua Panoplia Evangelica, al libro 4, cap. 78, non è contrario al canto musicale nelle Chiese, ma disapprova le molte ripetizioni, e le confusioni delle voci, e propone che nelle Chiese si adoperi una musica adatta alle cose che si cantano: “So bene, dice egli, che alcuni giudicano più conveniente conservare la musica, con strumenti e musici. Darei volentieri il mio consenso a costoro, qualora avvenisse, nello stesso tempo, la sostituzione del metodo, attualmente in vigore ovunque nelle Chiese, con un metodo più serio, più aderente alle cose, e, se non più vicino alla pronunzia che alla melodia, almeno sia più adattato alle cose che si cantano e più in armonia con esse“. – Il Dresselio, nella sua opera Rhetorica caelestis (libro I, cap. 5), scrive opportunamente in proposito: “Qui, o musicisti, sia detto con vostra pace, prevale ora nelle Chiese un genere di cantare che è nuovo, ma eccentrico, spezzettato, ballabile, e certamente poco religioso; più adatto al teatro ed al ballo che non al Tempio. Si cerca l’artifizio e si perde il primiero desiderio di pregare e di cantare. Abbiamo cura di destare la curiosità, ma in realtà trascuriamo la pietà. Che è infatti questo nuovo e danzante modo di cantare se non una commedia, in cui i cantori si mutano in attori? Essi si esibiscono: ora uno da solo, ora in due, ora tutti assieme, e dialogano tra di loro col canto; poi nuovamente uno domina solo, e poco dopo gli altri lo seguono. – Uno scrittore moderno, Benedetto Girolamo Feijo o, Maestro Generale dell’Ordine di San Benedetto in Spagna, nel Theatrum criticum universale, discorso 14, basandosi sulla perizia e sulla conoscenza delle note musicali, indica il metodo da seguirsi per ottenere composizioni musicali per le Chiese, del tutto diverse dai concerti musicali dei teatri. – Ma Noi qui Ci contenteremo di ricordare – tenendo presenti le prescrizioni dei Sacri Concili e le sentenze di Scrittori autorevoli – che il canto musicale dei teatri viene fatto in modo (come Ci fu riferito) che il pubblico presente, ascoltando i canti musicali ne riporti diletto, e goda degli artifizi della musica, si esalti per la melodia, per la musica in se stessa; provi piacere per la soavità delle varie voci, senza percepire, il più delle volte, l’esatto significato delle parole. Non cosi invece deve essere nel canto Ecclesiastico; anzi in questo si deve avere di mira l’opposto. – Nel canto Ecclesiastico si deve badare innanzi tutto ad ottenere una audizione perfetta e facile delle parole. Nelle Chiese, infatti, la musica è accolta per elevare le menti degli uomini a Dio, come insegna Sant’Isidoro nel libro I del De Ecclesiasticis Officiis, al cap. 5: “Si usa dalla Chiesa salmeggiare e cantare soavi melodie per indurre più facilmente gli animi alla compunzione“; ciò non può ottenersi se non s’intendono le parole. – Il Concilio di Cambrai (tenuto nel 1565, al titolo 6, cap. 4, tomo 10, p. 582 della Collezione di Arduino) così prescrive: “Del resto ciò che si deve cantare in coro è destinato ad istruire; lo si canti perciò in modo da essere capito dalla mente. – Nel Concilio di Colonia (riunito nel 1536, al cap. 12 del De officiis privatis) si legge quanto segue: “In alcune Chiese si giunse a commettere l’abuso di omettere o di abbreviare, per favorire l’armonia del canto e del suono, quello che era più importante. E la parte più importante è costituita appunto dalla recita delle parole dei Profeti, degli Apostoli, od Epistola, del Simbolo della fede, del Prefazio o azione di ringraziamento e dell’Orazione del Signore. Per la loro importanza, questi testi devono essere, come tutti gli altri, cantati in modo chiarissimo e intelligibile. – Nel primo Concilio di Milano (tenuto nell’anno 1565, nella parte 2, n. 51 della Collezione di Arduino, p. 687) si legge: “Negli Uffici Divini, e in generale nelle Chiese, non si devono cantare o suonare cose profane; le cose sacre poi devono essere cantate senza languide flessioni di voce, senza suoni più gutturali che labiali; mai si deve usare un tono di canto passionale. Il canto ed il suono siano seri, devoti, chiari, adatti alla casa di Dio e confacenti con le divine lodi; fatti in modo che coloro che ascoltano capiscano le parole e siano mossi a devozione“. – Sulla materia qui trattata esistono parole assai gravi dei Padri convenuti nell’anno 1566 al Concilio di Toledo (Azione 3, cap. 2, p. 1164 della Collezione di Arduino): “Siccome tutto ciò che si canta nelle Chiese per lodare Dio, deve essere cantato in modo da favorire, per quanto è possibile, l’istruzione dei fedeli, e deve essere un mezzo per regolare la pietà e la devozione e per spronare le menti degli uditori fedeli a prestare a Dio il culto, e a desiderare le cose celesti; stiano in guardia i Vescovi, che mentre ammettono nel coro musicale la pratica di variazioni melodiche in cui le voci si mescolano secondo ordini diversi, le parole dei salmi e delle altre parti che sogliono cantarsi, non rimangano incomprese e soffocate da uno strepito disordinato. I Vescovi coltivino invece una musica così detta organica, che permetta di capire le parole di quelle parti che si cantano, e gli animi degli uditori siano portati a lodare Dio più dalla pronunzia delle parole che da curiosi gorgheggi. – Ciò giustifica i lamenti espressi dal Vescovo Lindano nel testo citato (Panoplia Evangelica): “Ai nostri giorni, il canto dei musici è piuttosto fatto per distogliere, sviare, allontanare gli animi degli uditori, che non per eccitarli a pietà e a desideri celesti. Ricordo infatti di aver partecipato qualche volta alle divine lodi, di aver prestato grande attenzione mentre si cantava per riuscire a capire le parole, ma non riuscì ad intenderne neppure una sola. Tutto era un groviglio di sillabe ripetute, di voci confuse; il senso rimaneva sommerso da ciò che, più che canto, era un clamore assordante, un boato scomposto. – Ciò dimostra quanto saggio fosse il desiderio, e quanto prudente sia l’esortazione con la quale Dresselio, pure nell’opera citata (Rethorica caelestis) esorta i musici alla devozione: “Fate rivivere, ve ne supplico, qualche cosa almeno del primiero fervore religioso nella musica sacra. Se voi avete a cuore, se desiderate l’onore divino, adoperatevi per questo, faticate per questo scopo: affinché cioè le parole che si cantano siano pure comprese. Che mi giova sentire nel Tempio varietà di suoni, profusione di voci, se a tutto ciò manca un’anima, se non riesco a comprendere il significato e le parole, che il canto dovrebbe invece instillarmi?” – Ciò finalmente giustifica la risposta data dal Cardinale Domenico Capranica al Sommo Pontefice Nicolò V, dopo aver assistito ad una sacra funzione ed alla Divina Ufficiatura, eseguite in canto musicale, in modo però che non si poterono udire le parole. Il Pontefice chiese al Cardinale che cosa ne pensasse di simile musica; la risposta che il Cardinale diede si può leggere presso Poggio, nella Vita di questo Cardinale edita dal Baluzio, nella Miscellanea (libro 3, § 18, p. 289). – Il grande Padre Agostino racconta di se stesso che sentendo cantare soavemente gli inni nella Chiesa, piangeva dirottamente: “Quanto piansi tra gl’inni ed i cantici tuoi, vivamente commosso alle voci della tua Chiesa soavemente echeggiante! Quelle voci si riversavano nei miei orecchi, stillava la verità tua nel mio cuore, e da essa mi veniva fervore. Di qui provenivano sentimenti di devozione, e scorrevano lacrime, e mi facevano del bene!” (Confessioni, libro 9, cap. 6). Ma poi essendogli venuto lo scrupolo del gran diletto che provava sentendo cantare gli inni nelle Chiese, quasi fosse un’offesa a Dio, e portandolo la severità a disapprovare il detto canto, ritornò però al primo pensiero di approvarlo, perché il suo animo si commuoveva, non per l’armonia solamente, ma per le parole che l’armonia accompagnava, come apertamente egli dichiarò (Confessioni, libro 10, cap. 33). – Piangeva perciò Agostino di devota tenerezza, sentendo cantare nelle Chiese le sacre lodi, e ben intendendo le parole accompagnate dal canto. Piangerebbe forse ancora oggi, se sentisse qualcheduna delle musiche delle Chiese, ma non piangerebbe per devozione, ma per dolore di sentire bensì il canto, ma di non intenderne le parole.

10. Fin qui abbiamo parlato del canto musicale; ora dobbiamo parlare del suono dell’organo musicale, e degli altri strumenti, il cui uso, come abbiamo detto sopra, è ammesso in alcune Chiese. È pure necessario trattare del suono, perché se il canto non deve essere teatrale, altrettanto deve dirsi del suono. Gli Ebrei non avevano bisogno di questa indagine, ossia di stabilire differenze fra il canto nel Tempio e il canto profano nei teatri. Infatti dalle Sacre Scritture si desume che il canto ed il suono degli strumenti musicali erano in uso nel Tempio, ma non nei teatri, come fa notare ottimamente il Calmet nella sua dissertazione sopra la musica degli Ebrei. – Noi abbiamo bisogno di fissare dei limiti tra il canto ed il suono di Chiesa, e quelli dei teatri. Noi dobbiamo definire la diversità tra i due, perché oggi il canto figurato, o armonico, con il suono degli strumenti, si adopera tanto nei teatri come nelle Chiese. – Avendo già a lungo parlato del canto, rimane ora da parlare anche del suono. E per discorrere con ordine, tratteremo prima degli strumenti musicali, che possono essere tollerati nelle Chiese; in secondo luogo parleremo del suono di quegli strumenti che si suole accompagnare al canto; in terzo luogo parleremo del suono separato dal canto, ossia della sinfonia strumentale.

11. Quanto agli strumenti, che possono tollerarsi nelle Chiese, il sopra citato Benedetto Girolamo Feijo o, nel citato discorso (Theatrum criticum universale, discorso 14, par. 11, n. 43) ammette gli organi e altri strumenti, ma vorrebbe escludere le lire tetracorde (violini), perché l’archetto fa emettere alle corde suoni armoniosi, ma troppo acuti, che eccitano in noi piuttosto ilarità puerile, che non composta venerazione per i sacri misteri, e raccoglimento. – Il Bauldry (Manuale nelle sacre cerimonie, § I, cap. 8, n. 14) non vorrebbe nelle Chiese, con l’organo pneumatico, che le trombe o gli strumenti a fiato o pneumatici: “Non si suonino, con l’organo, altri strumenti musicali all’infuori delle trombe, flauti o cornette. Al contrario, i Padri del Primo Concilio Provinciale di Milano, tenuto sotto San Carlo Borromeo, nel titolo De Musica et Cantoribus, bandiscono dalle Chiese gli strumenti a fiato: “Nella Chiesa vi sia solo l’organo; si escludano i flauti, le cornette e ogni altro strumento musicale. – Noi non abbiamo omesso di richiedere il consiglio di uomini prudenti e di insigni Maestri di musica. In conformità del loro parere, Ella, venerabile Fratello procurerà che nelle sue Chiese, se in esse vi è l’uso di suonare gli strumenti musicali, con l’organo, siano ammessi soltanto quegli strumenti che hanno il compito di rafforzare e sostenere la voce dei cantori, come sono la cetra, il tetracordo maggiore e minore, il fagotto, la viola, il violino. Escluderà invece i timpani, i corni da caccia, le trombe, gli oboe, i flauti, i flautini, le arpe, i mandolini e simili strumenti, che rendono la musica teatrale.

12. Sul modo poi di usare quegli strumenti che si possono ammettere nella musica sacra, ammoniamo soltanto che essi vengano usati esclusivamente per sostenere il canto delle parole, affinché vieppiù il senso di esse si imprima nella mente degli uditori, e gli animi dei fedeli vengano eccitati alla contemplazione delle cose spirituali, e siano spronati ad amare di più Dio e le cose divine. Il Valenza, parlando dell’utilità della musica e degli strumenti musicali, giustamente dice: “Servono a ravvivare il proprio e l’altrui fervore, specialmente dei rozzi, che spesso sono deboli, e devono essere portati al gusto delle realtà spirituali, non solo a mezzo del canto vocale, ma anche con il suono dell’organo, e di musicali strumenti” (nel tomo 3 sulla 2, 2 di San Tommaso, disp. 6, quest. 9). – Se però gli strumenti suonano in continuazione, e solo qualche volta si chetano, come si usa oggi, per lasciare tempo agli uditori di sentire le armoniche modulazioni, le vibranti puntate delle voci, volgarmente chiamati i trilli; se, per il rimanente, non fanno altro che opprimere e seppellire le voci del coro, e il senso delle parole, allora l’uso degli strumenti non raggiunge lo scopo voluto, diventa inutile, anzi rimane proibito ed interdetto. – Il Pontefice Giovanni XXII, nella citata sua Extravagante Docta Sanctorum, fra gli abusi della musica mette il seguente, che esprime con queste parole: “Spezzettare la melodia con rantoli” ossia con singulti, come spiega Carlo Dufresne nel suo Glossario: questo nome indica quelle concise modulazioni, volgarmente dette trilli. – Il grande Vescovo Lindano, nel luogo citato, inveisce contro l’abuso di coprire, con il suono degli strumenti, le parole dei cantori: “Il clamore delle trombe, lo stridore dei corni, e altro vario fracasso, nulla viene omesso di ciò che può rendere incomprese le parole che si cantano, oscurarle, seppellirne il significato. – Il pio e dotto Cardinale Bona, nel più volte lodato trattato De Divina Psalmodia (cap. 17, § 2, n. 5), così scrive in proposito: “Prima di terminare, darò un avvertimento ai cantori di Chiesa: non facciano servire ad una illecita passione ciò che i Santi Padri hanno ordinato ad aiutare la devozione. Il suono deve essere eseguito in modo grave e moderato, da non assorbire tutte le facoltà dell’anima, ma da lasciare la maggior parte dell’attenzione per comprendere il significato di quello che si canta, e per i sentimenti di pietà“.

13. Infine, per ciò che riguarda le sinfonie, dove il loro uso è già introdotto, potranno tollerarsi, purché siano serie, e non rechino, a causa della loro lunghezza, noia o grave incomodo a quelli che sono nel Coro, o che funzionano all’Altare, nei Vespri e nelle Messe. Di queste sinfonie parla il Suarez: “Da ciò si comprende che, di per sé, non è da condannarsi l’uso di intercalare agli Uffici Divini il suono dell’organo senza canto, adoperando solo con soavità la musica degli strumenti, come succede qualche volta durante la Messa solenne, o nelle Ore Canoniche, tra i Salmi. In questi casi tale suono non è parte dell’Ufficio, e ridonda a solennità ed a venerazione dell’Ufficio stesso ed a elevazione degli spiriti dei fedeli, affinché più facilmente si muovano a devozione o vi si dispongano. Ancorché però nessun canto vocale si associ a questo suono, occorre che detto suono sia grave e adatto a eccitare la devozione” (Suarez, De Religione, libro 4, cap. 13, n. 7). – Non si deve però qui tacere essere cosa assai sconveniente e da non più tollerarsi, che in alcuni giorni dell’anno si tengano sinfonie sontuose e rumorose, si tengano canti musicali nei Templi, del tutto sconvenienti ai Sacri Misteri che la Chiesa in quel dato tempo propone alla venerazione dei fedeli. – Lo zelo di cui era animato, spinse il più volte nominato Maestro Generale dell’Ordine di San Benedetto in Spagna a protestare nel citato discorso (Theatrum criticum universale, discorso 14, § 9) contro le arie ed i recitativi, ohimè!, troppo usati nel cantare le Lamentazioni del Profeta Geremia, la cui recita è dalla Chiesa prescritta nei giorni della Settimana Santa, e nelle quali ora si piange la distruzione della Città di Gerusalemme ad opera dei Caldei, ora la desolazione del mondo ad opera dei peccati, ora l’afflizione della Chiesa militante nelle persecuzioni, ora le angustie del nostro Redentore nei suoi dolori. – Mentre sedeva sulla Cattedra Apostolica il Nostro santo Predecessore Pio V, la Chiesa di Lucca era governata da Alessandro, Vescovo zelantissimo della disciplina Ecclesiastica. Egli aveva osservato che, durante la Settimana Santa, si facevano nelle Chiese dei concerti solennissimi con numerosi cantori e suono di strumenti svariati. Ciò non era per nulla intonato al clima di mestizia delle sacre funzioni che si celebrano in quei giorni. Ad udire tali concerti accorreva una numerosissima avida folla di uomini e di donne, e succedevano peccati e scandali gravi. Il Vescovo con un suo editto proibì questi concerti nella Settimana Santa e nei tre giorni seguenti la Pasqua. Siccome alcuni, esenti dalla giurisdizione episcopale, pretendevano di non essere tenuti ad obbedire al Vescovo, costui deferì la questione al Sommo Pontefice Pio V, il quale rispose con un Breve, in data 4 aprile 1571. – Il Papa deplora la cecità delle menti umane e degli uomini carnali, che non solo nei giorni sacri, ma specialmente in quelli stabiliti dalla Chiesa in modo speciale per venerare la memoria della passione di Cristo Signore, messa da parte la pietà, e la sincera purità della mente, si lascino trasportare dai piaceri del mondo, e si abbandonino in balìa e si lascino dominare dalle passioni. “Questo – dice poi – deve essere sempre evitato, in ogni periodo sacro, ma deve essere evitato in modo tutto speciale in quel periodo di tempo fissato dalla Chiesa per commemorare la passione del Signore. In tale tempo invece massimamente conviene che tutti i Cristiani rivolgano la loro mente alla contemplazione di così grande ed eccelso beneficio fatto a noi dal Nostro Redentore, e che si tengano liberi ed immuni da ogni impurità di cuore e di sensi. – Riferisce poi l’abuso introdotto nella Chiesa di Lucca di fare scelta nella Settimana Santa di bravi musici, e di radunare ogni sorta di strumenti per tenere solenni concerti musicali. Dice al Vescovo: “Recentemente, con grande Nostro dispiacere, abbiamo saputo che in codesta Città, ove eserciti l’ufficio di Vescovo, vi è un abuso assai detestabile, di tenere cioè concerti nelle Chiese, durante la Settimana Santa, con la riunione di scelti cantori e di ogni genere di strumenti. A questi concerti, più che non ai Divini Uffici, accorre una folla di giovani di ambo i sessi, attrattavi da una vera passione, e l’esperienza ha dimostrato che si commettono gravi peccati e che avvengono dei non meno gravi scandali“. – Infine loda l’ordine del Vescovo, e, basandosi sui decreti del sacrosanto Concilio di Trento, dichiara che questo ordine si estende ed obbliga anche le Chiese che si dicono esenti dall’autorità dell’Ordinario, per privilegio apostolico o per qualsiasi altra ragione. – Nel Concilio Romano (tenutosi da poco tempo a Roma, nell’anno 1726, al titolo 15, n. 6) si leggono vari decreti sopra l’uso del canto musicale e degli strumenti, durante l’Avvento, nelle Domeniche di Quaresima, e durante le esequie dei defunti. Ci basti avervi accennato. –

14. Ci ricordiamo aver letto che l’Imperatore Carlo Magno, essendosi proposto di ridurre a regole di arte il canto Ecclesiastico, che nelle Chiese della Gallia era allora eseguito in maniera disordinata e rozza, chiedesse al Pontefice Adriano I l’invio da Roma di persone istruite nella musica di chiesa. Questi inviati facilmente introdussero nel Regno delle Gallie il Canto Romano, come ognuno può venire a sapere leggendo la notizia presso Paolo Diacono (Vita di San Gregorio, libro 2, cap. 9); presso Rodolfo de Tongres (De Canonum observantia, prop. 12); presso Sant’Antonino (Summa Historica, parte 2, tit. 12, cap. 3). Il Monaco d’Angoulême (Vita di Carlo Magno, cap. 8), racconta inoltre che i cantori giunti da Roma insegnarono nelle Gallie anche l’arte di suonare l’organo musicale, che era stato introdotto nel regno delle Gallie sotto il re Pipino. – Essendo costume e regola generale che la città di Roma debba precedere, con l’esempio e l’insegnamento, tutte le altre Città, in ciò che concerne i Riti Sacri e le altre cose Ecclesiastiche: anche la storia lo conferma, così come lo conferma quanto Noi ora abbiamo narrato di Carlo Magno, che volendo introdurre il canto Ecclesiastico nel suo Regno, lo fece venire da Roma come dalla sua propria sede. – Questo fatto Ci spinge pressantemente e Ci stimola a fare sparire del tutto e tutti gli abusi che si fossero introdotti nel canto Ecclesiastico, e che Noi sopra abbiamo condannati; a farli sparire da ogni Chiesa, se fosse possibile, ma in modo speciale dalle Chiese della Città di Roma. – E come Noi non lasciamo di dare gli ordini necessari ed opportuni al Nostro Cardinale Vicario in Roma, cosi lei, Venerabile Fratello, non lasci di pubblicare, se è necessario, editti e leggi, che siano in armonia con questa Nostra Lettera circolare, e che regolino il canto Ecclesiastico in base alle disposizioni prescritte e stabilite nella presente Nostra Lettera, affinché si dia finalmente inizio alla riforma della musica ecclesiastica. – Questa riforma fu già ardentemente desiderata e sospirata da moltissimi, tanto che, già cento anni fa Giovanni Battista Doni, patrizio fiorentino, scriveva in un suo trattato, De Praestantia Musicae veteris (libro I, p. 49): “Le cose stanno ora a questo punto, che non si trova nessuno che stabilisca una legge severa che proibisca questo canto quasi effeminato e molle, che si è introdotto ovunque; nessuno che veda la necessità di imporre una disciplina a queste melodie affettate, prolisse e spesso aride; nessuno infine che non sia convinto che i giorni di festa solenni, e gli edifici sacri perderebbero celebrità e non sarebbero più frequentati se non rimbombassero per canti molli e spesso poco decorosi, e per la gran confusione di voci e di suoni in gara tra di loro“.

15. Abbiamo detto “se ve ne sia bisogno“, sapendo Noi molto bene che, nello Stato Ecclesiastico, vi sono alcune Città nelle quali vi è bisogno di riformare la musica delle Chiese; e vi sono invece altre Città che non hanno questo bisogno. – Temiamo però, e ne siamo vivamente preoccupati, che in alcune Città, le Chiese e i sacri Altari abbiano bisogno di una necessaria pulizia e del necessario addobbo. In molte Chiese cattedrali e collegiate il canto corale avrà bisogno di essere riformato, e bene, secondo le regole che Noi abbiamo più sopra date. -Se nella Sua Diocesi è necessario, bisogna che Ella metta tutta la diligenza e sollecitudine possibili, per correggere tali abusi. – Volesse il Cielo che in tutte le Diocesi del Nostro Stato i Sacerdoti celebrassero il sacrosanto Sacrifizio della Messa con quel devoto estrinseco decoro, che è dovuto! Che ogni Sacerdote si presentasse in pubblico vestito con l’abito da prete; e, nel decente vestito del corpo, anche con quei modi di fare, con quella modestia e con tutto quel decoro proprio di un Ecclesiastico! – Su questo argomento Noi non aggiungeremo qui altro, avendone già trattato diffusamente nella Nostra Notificazione XIV (§ 4 e 6, libro 2 edizione italiana, che è la XXXIV nella edizione latina), e nella Notificazione IV (tomo 4, edizione italiana, che è la LXXI nella edizione latina): ad esse rimandiamo quanti sono solleciti della disciplina Ecclesiastica. – Terminiamo spronando il Suo zelo sacerdotale ricordandole che non vi è cosa che si manifesti di più agli uomini se le Chiese sono mal guidate e mal governate dai Vescovi, quanto il vedere i Sacerdoti celebrare le sacre funzioni facendo male od omettendo le cerimonie Ecclesiastiche, portando vestiti indecenti, o non adatti assolutamente alla sacerdotale dignità, eseguendo ogni cosa con precipitazione e negligenza. – Queste cose cadono sotto gli sguardi di tutti, si offrono al giudizio sia degli abitanti del luogo come a quello dei forestieri. Scandalizzano specialmente coloro che provengono da regioni dove i Sacerdoti portano abiti convenienti, e celebrano la Messa con la dovuta devozione. – Il pio e dotto Cardinale Bellarmino, non senza lacrime si lamentava: “È pure causa di grande pianto che i sacrosanti Misteri siano trattati in modo così indecoroso, per l’incuria e l’empietà di alcuni Sacerdoti. Costoro che così fanno dimostrano di non credere che la Maestà del Signore è presente. Così alcuni celebrano Messa senza spirito, senza affetto, senza timore e tremore, con una precipitazione incredibile! Agiscono come se non credessero alla presenza di Cristo Signore, e come se non credessero che Cristo Signore li vede. – Dopo alcune altre considerazioni, il Cardinale Bellarmino prosegue: “So che vi sono, nella Chiesa di Dio, molti ottimi e religiosissimi Sacerdoti, che celebrano i Divini Misteri con cuore puro, e con paramenti pulitissimi. Per questo tutti devono render grazie a Dio. Ma anche ve ne sono che muovono al pianto, e non sono pochi, il cui esteriore sordido manifesta le turpitudini e l’impurità della loro anima“. – Noi intanto L’abbracciamo, o Venerabile Fratello, nella carità di Cristo, ed impartiamo, di gran cuore, a Lei ed al Gregge alle Sue cure affidato, la Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 19 febbraio 1749, anno nono del Nostro Pontificato.

 

DOMENICA XII dopo PENTECOSTE

Introitus
LXIX:2-3
Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam. [O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]
Ps LXIX:4
Avertántur retrórsum et erubéscant: qui cógitant mihi mala.
[Vadano delusi e scornati coloro che tramano contro di me.]

Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam. [O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, de cujus múnere venit, ut tibi a fidélibus tuis digne et laudabíliter serviátur: tríbue, quǽsumus, nobis; ut ad promissiónes tuas sine offensióne currámus.
[Onnipotente e misericordioso Iddio, poiché dalla tua grazia proviene che i tuoi fedeli Ti servano degnamente e lodevolmente, concedici, Te ne preghiamo, di correre, senza ostacoli, verso i beni da Te promessi.]


Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 2 Cor III:4-9.

Fratres: Fidúciam talem habémus per Christum ad Deum: non quod sufficiéntes simus cogitáre áliquid a nobis, quasi ex nobis: sed sufficiéntia nostra ex Deo est: qui et idóneos nos fecit minístros novi testaménti: non líttera, sed spíritu: líttera enim occídit, spíritus autem vivíficat. Quod si ministrátio mortis, lítteris deformáta in lapídibus, fuit in glória; ita ut non possent inténdere fili Israël in fáciem Moysi, propter glóriam vultus ejus, quæ evacuátur: quómodo non magis ministrátio Spíritus erit in glória? Nam si ministrátio damnátionis glória est multo magis abúndat ministérium justítiæ in glória.

OMELIA I

 [Mons. Bonomelli: Omelie, Vol. III, Torino 1898; Omelia XXV]

“Tal fiducia noi abbiamo per Cristo presso Dio, non mai che noi fossimo atti a pensare alcun che da noi, come da noi; ma l’attitudine nostra è da Dio, il quale ci ha fatti ministri idonei del nuovo Testamento, non della lettera, ma sì dello spirito; perché la lettera uccide e lo spirito vivifica. Che se il ministero della morte, scolpito in lettere sopra le pietre, fu glorioso, a talché i figli d’Israele non potevano fissare il volto di Mose per lo splendore passeggero del suo volto, quanto non sarà egli più glorioso il ministero dello spirito? E veramente se il ministero della condanna fu glorioso, quanto più sarà ricco di gloria il ministero della giustificazione? „ (II. Corinti, 4-9). –

Questi sei versetti noi leggiamo nella Epistola della Messa odierna, e sono tolti dal capo terzo della seconda di S. Paolo ai Corinti. Questa seconda lettera di S. Paolo ai fedeli della Chiesa di Corinto si può considerare come una appendice ed una continuazione della prima, ed una parte non piccola di essa va in difesa personale della sua condotta e del suo apostolato, alternando destramente le lodi ed i rimproveri, i consigli ed i comandi. Dopo aver condonata la pena inflitta allo scandaloso da lui scomunicato nella prima lettera ed esortato i fedeli ad accoglierlo benignamente ed accennati gli incrementi della fede, S. Paolo parla di se stesso, afferma la propria fedeltà nel ministero apostolico, protestando di non lodare se stesso, perché i Corinti stessi colla loro fede erano la sua più bella giustificazione, la lettera più eloquente, che tutti potevano leggere a sua difesa. Qui comincia il brano sopra riportato, che dobbiamo meditare insieme e che non è privo di interesse. Vi piaccia seguirmi colla vostra solita attenzione. – Ve lo dissi più volte, commentando le lettere di S, Paolo, ch’egli dal dì della sua conversione fino alla sua morte, fu sempre fatto segno di feroci persecuzioni: queste gli venivano dai pagani e più ancora dagli Ebrei ostinati, che lo consideravano come un apostata e un traditore. E non era tutto: contro di lui erano pieni di diffidenza, di mal animo e peggio non pochi Cristiani, passati dalla legge di Mose a quella del Vangelo: essi dubitavano della purezza della sua dottrina, lo mettevano in mala voce, come un nemico di Mosè, un novatore, un falso apostolo, in opposizione con gli altri Apostoli, e ponevano grave inciampo alla sua predicazione. Questi sospetti ingiuriosissimi, queste accuse e calunnie, questa incessante guerra di coloro, ch’egli chiama falsi fratelli, affliggevano profondamente la sua grand’anima, e più volte amaramente se ne lagna, come in questa lettera. È un prezioso ammaestramento e conforto per quegli uomini e non pochi, che dai tempi dell’Apostolo furono e sono nella Chiesa, hanno la coscienza di essere suoi figli e suoi ministri fedeli, e non possono cessare le male lingue dei malevoli e degli ignoranti, che li designano come erranti, come prevaricatori o di dubbia fede. Non sarebbe facile trovare un santo solo, massime dei più illustri e posti in alto per l’ufficio, o per l’ingegno, o per le opere, che non abbia sofferto contraddizioni ed anche vessazioni da Cristiani cattolici buoni e talvolta santi. Chi ignora ciò che Origene, S. Giovanni Grisostomo, S. Cirillo di Gerusalemme, S. Cesario, S. Ignazio di Lojola, S. Giuseppe di Calasanzio, S. Francesco di Sales, S. Alfonso de’ Liguori patirono da persone pie e da Uomini santi! È Dio che lo permette per purificare i suoi servi, per tenerli nella umiltà, e certo non vi è dolore più acuto del sentirsi combattuti dai buoni e tenuti in conto di erranti. Quelli che si trovano in questo caso nella vita dell’Apostolo Paolo hanno un conforto ed un modello sicuro da imitare. Ora veniamo al commento della nostra Epistola.

“Noi, così S. Paolo, non alteriamo la parola di Dio, come fanno molti, ma con schiettezza parliamo, in Cristo, come mandati da Dio ed alla sua presenza „ (C. II, 17)… ” e tale fiducia abbiamo per Cristo presso Dio, „ cioè abbiamo ferma ed intima convinzione e persuasione, per la grazia di Gesù Cristo, d’essere sinceri e fedeli annunziatori della divina parola, checché altri possa pensare e dire. E questa attitudine e fedeltà nell’esercizio dell’apostolico ministero, della quale la Chiesa fondata in Corinto è una prova, a chi si deve ascrivere? Di chi ne è il merito? È forse opera tua, frutto delle tue forze naturali, o grande Apostolo? No, no, risponde subito il Dottore delle genti, e con una frase ammirabile riconferma la dottrina cattolica intorno alla gratuità della grazia. Uditela: “Non mai che noi fossimo atti a pensare alcun che da noi, ma la nostra attitudine è da Dio. „ E dottrina di fede, o cari, che senza l’aiuto della grazia divina noi non possiamo fare nulla che meriti la vita eterna: svolgiamo alquanto più largamente questa verità. – Dio Creatore ci ha dato il corpo coi suoi sensi e l’anima colla sua intelligenza e volontà libera, e tutte le cose esterne necessarie od utili a conservare la vita e perfezionare l’essere nostra: tutti questi beni si dicono naturali e costituiscono quello che chiamiamo ordine naturale. Ora avevamo noi qualche diritto, qualche merito, perché Iddio ci creasse e ci elargisse i doni della natura? Nessun diritto, nessun merito, benché minimo: basti dire che non esistevamo nemmeno e perciò nulla potevamo fare. É coi doni della natura, con l’uso della nostra intelligenza, volontà e libertà, con le opere proprie delle sole nostre forze possiamo noi, o cari, meritare la grazia divina, anche nella minima misura? No, mai. La natura colle sue opere non può meritare se non ciò che è naturale, non mai ciò che è sovrannaturale. Ditemi: l’albero selvatico potrà esso mai produrre altri frutti che selvatici? No, per fermo. Volete che produca frutti domestici, copiosi, dolci a gustarsi? Innestatelo e li avrete. Il somigliante accade della nostra natura: abbandonata a sé non da che frutti selvatici, agresti, acerbi: fate che abbia la grazia divina, che la illumina, la eleva, la trasforma: eccovi i frutti di vita eterna. Come senza la natura non potevamo fare cosa alcuna nell’ordine naturale, non pensare, non volere, non operare; cosi senza la grazia non possiamone pensare, né volere, né operare in ordine alla vita eterna. L’occhio senza la luce può esso vedere cosa alcuna? Il campo senza il seme può produrre una sola spiga? Così noi senza la luce della grazia, senza il germe della grazia siamo al tutto impotenti a conoscere, amare e possedere Iddio come si deve. Questa è necessaria a principio, è necessaria a mezzo, è necessaria in fine, necessaria sempre. Prima di fare una cosa bisogna conoscerla, bisogna pensarla; senza conoscerla, senza pensarla è impossibile il farla, voi lo comprendete: dunque prima di amare e servire Iddio e praticare la virtù è necessario conoscere e pensare a Dio, conoscere e pensare la virtù, come è necessario il fondamento per fabbricare. Ebbene S. Paolo ci fa sapere che da noi, con le sole nostre forze non siamo capaci nemmeno d’un primo buon pensiero: Non quod suffieientes simus cogitare aliquid a nobis quasi a nobis; se lo siamo, lo siamo perché Dio con la sua grazia ce lo concede : Sed sufficientia nostra ex Deo est. Questa verità dovrebbe fiaccare il nostro orgoglio, farci sentire il nostro nulla e. costringerci a gettarci nelle braccia della divina misericordia, unica nostra speranza. Vedo io in me alcun bene, qualche virtù? Devo dire: Non è cosa mia, è dono, tutto e puro dono di Dio. S’Egli ritira il suo dono, la sua grazia, tutto si dilegua, ed io cado nell’abisso, come il sasso che la mano dell’uomo lascia cadere nel precipizio. – Seguitiamo l’Apostolo. Tutto ciò che ho, la dignità di Apostolo e l’attitudine ad adempirne le parti tutte, non è cosa, mia: è dono di Dio. scrive S. Paolo: dono di Dio, “il quale ci ha fatti ministri idonei del nuovo Testamento, non secondo la lettera, ma sì secondo lo spirito. „ Non vi è religione, né vera, né falsa, che non abbia il suo sacerdozio e i suoi ministri, come non vi è Stato, sia monarchico, sia repubblicano, che non abbia i suoi magistrati. Abbiamo il vecchio Testamento o il Mosaismo, e con esso abbiamo il suo sacerdozio e i suoi ministri: abbiamo il nuovo Testamento o il Cristianesimo, e con esso il nuovo sacerdozio e i nuovi ministri. E chiaro che il sacerdozio e i ministri della legge mosaica dovevano informarsi allo spirito di quella legge, come il sacerdozio ed i ministri della legge evangelica devono informarsi allo spirito di questa, precisamente come i magistrati civili si devono informare allo spirito della legge, della quale sono interpreti. S. Paolo dichiara, che Dio ha fatto di lui e dei suoi colleghi altrettanti ministri idonei del nuovo Testamento. – E qual è lo spirito del nuovo Testamento e per conseguenza dei suoi ministri? In che sta la differenza tra l’antico ed il nuovo Testamento, tra i ministri di quello e di questo? Eccovela scolpita in due parole con lo stile sì incisivo. dell’Apostolo: “Non secondo la lettera, ma secondo lo spirito: „ Non littera, sed spiritu. L’antica legge mosaica è la lettera, la nuova cristiana è lo spirito. Non era possibile ritrarre più al vivo l’indole dei due Testamenti. – Spieghiamola alquanto. La legge antica o mosaica rimaneva al di fuori dell’uomo, riguardava più il corpo che lo spirito; purificazioni continue del corpo, dei vasi sacri, offerte materiali, continui ed innumerevoli sacrifici, oblazioni, riti senza fine e minutissimi e sotto pene gravissime, e andate dicendo: erano tutti atti esterni, era tutto culto e tutta religione esterna principalmente, che dell’interno quel popolo ben poco si curava, anche perché ben poco ne capiva. La legge, nuova o cristiana va direttamente all’interno, riguarda principalmente lo spirito, esige la purezza del cuore, e senza rigettare, anzi imponendo anche il culto esterno, lo fa servire all’interno, vuole l’ossequio della mente e del cuore, inculca la rinnovazione dell’uomo interiore; insomma proclama, che Dio è spirito e che perciò Dio vuole adoratori in ispirito e verità. Ecco la differènza essenziale tra la legge mosaica e la cristiana. – Ma l’Apostolo chiarisce ancor meglio il suo pensiero con un’altra sentenza, soggiungendo: “Poiché la lettera uccide e lo spirito per contrario vivifica: „ Littera enim occidit, spiritus autem vivificai. Come mai si può dire che la lettera, cioè l’antica legge uccide, e lo spiritò, cioè la legge evangelica vivifica? Lo spiegano i Padri, e tra questi S. Agostino e S. Ambrogio. La legge antica o mosaica si contiene nei cinque libri di Mose, e più particolarmente nel libro del Levitico, che determina le leggi e le cerimonie sacre. Pigliatelo in mano, percorretelo, e voi troverete, che ogni trasgressione ha la sua pena e grave, e assai volte la pena di morte. Chi bestemmia, sia messo a morte: a chi lavora in sabato, la morte: a chi dice ingiuria ai genitori, la morte: a chi commette adulterio, la morte: al falso profeta, la morte, e via via di questo tenore: era, possiamo dirlo, una legge scritta col sangue, e necessaria per raffrenare quel popolo riottoso e di dura cervice. – Pigliate in mano il Vangelo: esso intima ai peccatori ostinati le pene della vita futura, anche eterne, ma neppure una sola volta la pena di morte nella vita presente. Il Vangelo vuole la conversione del peccatore e non la morte, si impone con la persuasione, non colla forza, a dir breve, è legge d’amore e non di timore, di figli, non di schiavi. – In queste due sentenze dell’Apostolo noi abbiamo messa in tutta la loro luce la natura della legge mosaica e della evangelica. Permettetemi una domanda, o dilettissimi. Certo la legge mosaica è cessata, è abrogata, ed a quella Gesù Cristo ha sostituita la sua, la evangelica: ma benché la legge mosaica, la legge della lettera, sia cessata ed abrogata, ditemi, è dessa cessata al tutto nella pratica tra i Cristiani? Duole il dirlo, ma bisogna confessarlo; essa è ancor viva in molti senzachè se ne accorgano. Tali sono coloro, che recitano molte e lunghe orazioni con le labbra e non si curano di accompagnarle con la mente e col cuore: tali sono coloro che osservano le astinenze dalle carni nei giorni stabiliti, che ascoltano la S. Messa la festa, che digiunano anche, ed hanno il cuore e la mente pieni di immondezze, opprimono i poveri, bestemmiano, rubano a man salva, odiano i fratelli, ne lacerano la fama e si reputano buoni Cristiani: tali sono coloro,, che vanno ai Sacramenti, anche frequentemente, e non fanno sforzo alcuno per reprimere le passioni e praticare la virtù, e credono d’aver fatto ogni loro dovere: quelli che abbondano in pratiche religiose, tridui, ottave, novene, benedizioni, prediche, pellegrinaggi e andate discorrendo, e si rifiutano al più lieve sacrificio. per vincere se stessi, per combattere l’amor proprio, per esercitare la carità, regina di tutte le virtù. La religione di costoro è la religione degli Ebrei, degli scribi, dei farisei, tante volte e con frasi sì roventi folgorata da Cristo: è religione tutta esterna, religione del corpo, non dello spirito, che riempie di superbia chi la pratica, tutte foglie e frasche inutili. Carissimi! guardiamoci da siffatta religione, e studiamoci di unire alle pratiche esterne, che sono la lettera, la fede, la speranza, la carità, che sono lo spirito, e allora vivremo. – Ripigliamo il nostro commento. In questi versetti S. Paolo istituisce un parallelo o confronto tra l’antica legge mosaica e la nuova legge cristiana, fra il sacerdozio di quella e il sacerdozio di questa, affine di mostrare la eccellenza del secondo sul primo, e prosegue: “se il ministero della morte, cioè la legge mosaica, sì terribile contro i suoi trasgressori, che spesso colpiva di morte; legge scritta materialmente sopra tavole di pietra, fu gloriosa, massime nel suo. promulgatore Mose, il quale scendendo dal Sinai ne riportò raggiante il volto, sicché il popolo d’Israele non poteva sostenerne la vista, legge ch’era pure destinata a scomparire: se quella legge, se quel ministero, dico, fu glorioso, quanto più gloriosa sarà la legge nuova, il nuovo ministero, che è tutto spirituale e che deve durare fino al termine dei secoli? E non è ancor pago l’Apostolo d’avere magnificato il ministero evangelico sopra il mosaico con sì gagliarde espressioni: egli, nel versetto che segue ed ultimo della nostra lezione, ritorna sulla stessa verità, e con altre parole la ribadisce, scrivendo: E veramente, se il ministero della condanna, cioè se la legge mosaica sì facile alla condanna, alle pene corporee, alla stessa morte, fu nondimeno grande e glorioso, quanto sarà più glorioso il ministero della nuova legge, che cancella i peccati, che giustifica i peccatori, che rigenera le anime e trasforma i figli degli uomini in figli di Dio ed eredi della sua gloria? In altri termini: il ministero dell’antica legge ebbe gran gloria, specialmente nella persona di Mosè, che vide Dio, udì la sua parola e ne riportò sfolgorante il volto: ebbe gran gloria, benché fosse sì severo contro i trasgressori, dovesse finire ed avesse in mira più che la purificazione delle anime quella dei corpi: sé tale fu quel ministero, quanto più glorioso deve essere questo della nuova legge, istituito da Gesù Cristo stesso, che non infligge pene materiali ai trasgressori, sì benigno, sì paterno, che durerà fino al termine dei secoli, e che è ordinato a santificare direttamente le anime? Ebbene: questo è il ministero mio, il ministero, che ho ricevuto, non dagli uomini, ma da Gesù Cristo stesso, e che io ho esercitato in mezzo a voi e continuerò ad esercitare finché abbia filo di vita, come implicitamente, ma chiaramente, innanzi S. Paolo protesta. In sostanza, in queste sentenze e nelle seguenti S. Paolo è tutto inteso a mettere in rilievo la sua dignità e il suo ufficio di apostolo della nuova legge sulla dignità ed ufficio dei ministri della legge antica. – A noi forse può sembrare alquanto strana questa condotta dell’Apostolo, e non ne comprendiamo tutta l’importanza e la necessità. Ma se ci trasportiamo ai suoi tempi; se consideriamo le lotte ch’egli doveva sostenere coi cristiani giudaizzanti, che volevano legare la legge evangelica alla mosaica e restringere il benefìcio della redenzione operata da Cristo ai soli figli d’Israele e chiudere le porte ai Gentili, noi comprenderemo la ragione di queste sì frequenti e sì gagliarde difese, che l’Apostolo fa del suo ministero. Si trattava, non della sua persona, ma della verità, dell’avvenire della Chiesa, che si voleva sottomessa alla Sinagoga, e l’Apostolo, che vedeva tutto il pericolo, leva la sua voce, non risparmia questi apostoli, che, ignoranti o perversi, col nome di Mosè in bocca, ponevano inciampo gravissimo alla fede e turbavano e confondevano le menti dei deboli. – Miei cari, una riflessione opportuna ai nostri tempi, ed ho finito. La Chiesa di Gesù Cristo, dai tempi di san Paolo a noi, ebbe sempre le sue prove e le sue lotte, e le avrà finché sarà sulla terra. Queste lotte variano secondo i tempi, i luoghi, le persone e le circostanze: ora sono intense e feroci, ora più lievi e più blande, ma non cessano mai, ed è nella natura delle cose che durano, e Gesù Cristo apertamente le predisse. L’ombra segue sempre il corpo e le infermità più o meno sono compagne dei sani e robusti; così l’errore cammina sempre a fianco della verità, la insidia e la combatte e gli apostoli di quello non danno mai tregua agli apostoli di questa. Vogliamo o non vogliamo, noi tutti siamo trascinati in questa lotta, che sì fieramente si combatte tra i seguaci dell’errore e quelli, della verità, tra gli apostoli del mondo e quelli di Gesù Cristo. Che fare, o dilettissimi? Noi, per uscirne vincitori, dobbiamo tener sempre fisso l’occhio sulle guide sicure, che ci dà la Chiesa, porgere l’orecchio docile alla loro parola e chiuderlo alla parola di quelli, che si vantano maestri, sì, ma non ci sono dati dalla Chiesa. – I fedeli, al tempo di S. Paolo, come rimasero fedeli alla verità ed al Vangelo di Gesù Cristo? Ascoltando e seguendo il grande Apostolo, che aveva ricevuto direttamente da Cristo la sua missione, e volgendo le spalle a quelli che pur venivano da Gerusalemme e si gloriavano d’essere maestri di verità. Forse saranno stati dotti e valenti, più dotti e più valenti, se volete, di S. Paolo, nelle lettere e nelle scienze umane, la cui parola, egli stesso lo confessa, era incolta e spregevole; ma non dimentichiamolo mai, o carissimi, perché il bisogno è grande anche al giorno d’oggi, la verità della fede non è congiunta per volere Cristo alla scienza, all’ingegno, ai doni naturali, ma è affidata a quelli che tengono la missione da Cristo stesso, ai vescovi in comunione col Vescovo dei vescovi, il Romano Pontefice. Se volete conservare con sicurezza il tesoro della fede in mezzo a questo turbine di opinioni e di dottrine, che mutano sì spesso, non ascoltate quelli che dicono: “Noi siamo con Paolo, e noi con Apollo, e noi con Pietro, e noi con Cristo, „ come si diceva ai tempi di Paolo stesso; ma ascoltate veramente Paolo e Apollo e Pietro, quelli cioè che nella Chiesa hanno l’ufficio di ammaestrarvi e guidarvi, e questi vi condurranno a Cristo, che è la verità stessa. Forse non mai, come al presente, fu sì necessaria l’ubbidienza ai pastori della Chiesa, che stanno uniti col Pastore supremo, perché forse non mai come al presente si cercò di sostituire alla sacra gerarchia l’opinione pubblica, all’autorità, che viene da Dio, l’ingegno e l’autorità umana, all’insegnamento dei pastori legittimi quello dei dottori privati! [Volentieri avrei aggiunto alla parola dei vescovi quella dei giornalisti, divenuti oggimai i maestri e le guide del popolo. Il giornalismo è una necessità nelle condizioni attuali: ma è un pericolo, e parlo del giornalismo che si dice cattolico. Talvolta senza che altri se ne avvedano il giornalismo cattolico (cioè quei preti o laici, che lo dirigono) si sostituisce al vescovo ed esercita una influenza pericolosa, sconvolgendo il principio gerarchico.]

Graduale
Ps XXXIII:2-3.
Benedícam Dóminum in omni témpore: semper laus ejus in ore meo.
[Benedirò il Signore in ogni tempo: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra.]
V. In Dómino laudábitur ánima mea: áudiant mansuéti, et læténtur. [La mia ànima sarà esaltata nel Signore: lo ascoltino i mansueti e siano rallegrati.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps LXXXVII:2
Dómine, Deus salútis meæ, in die clamávi et nocte coram te. Allelúja.
[O Signore Iddio, mia salvezza: ho gridato a Te giorno e notte. Allelúia.]

Evangelium

.Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc X:23-37
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Beáti óculi, qui vident quæ vos videtis. Dico enim vobis, quod multi prophétæ et reges voluérunt vidére quæ vos videtis, et non vidérunt: et audire quæ audítis, et non audiérunt. Et ecce, quidam legisperítus surréxit, tentans illum, et dicens: Magister, quid faciéndo vitam ætérnam possidébo?
At ille dixit ad eum: In lege quid scriptum est? quómodo legis? Ille respóndens, dixit: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo, et ex tota ánima tua, et ex ómnibus víribus tuis; et ex omni mente tua: et próximum tuum sicut teípsum. Dixítque illi: Recte respondísti: hoc fac, et vives. Ille autem volens justificáre seípsum, dixit ad Jesum: Et quis est meus próximus? Suscípiens autem Jesus, dixit: Homo quidam descendébat ab Jerúsalem in Jéricho, et íncidit in latrónes, qui étiam despoliavérunt eum: et plagis impósitis abiérunt, semivívo relícto. Accidit autem, ut sacerdos quidam descénderet eádem via: et viso illo præterívit. Simíliter et levíta, cum esset secus locum et vidéret eum, pertránsiit. Samaritánus autem quidam iter fáciens, venit secus eum: et videns eum, misericórdia motus est. Et apprópians, alligávit vulnera ejus, infúndens óleum et vinum: et impónens illum in juméntum suum, duxit in stábulum, et curam ejus egit. Et áltera die prótulit duos denários et dedit stabulário, et ait: Curam illíus habe: et quodcúmque supererogáveris, ego cum redíero, reddam tibi. Quis horum trium vidétur tibi próximus fuísse illi, qui íncidit in latrónes? At ille dixit: Qui fecit misericórdiam in illum. Et ait illi Jesus: Vade, et tu fac simíliter.”

[In quel tempo: Disse Gesú ai suoi discepoli: Beati gli occhi che vedono quello che voi vedete. Vi dico, infatti, che molti profeti e re vollero vedere le cose che vedete voi e non le videro, e udire le cose che udite voi e non le udirono. Ed ecco che un dottore della legge si alzò per tentare il Signore, e disse: Maestro, che debbo fare per ottenere la vita eterna? Gesú rispose: Che cosa è scritto nella legge? che cosa vi leggi? E quello: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua ànima, con tutte le tue forze, con tutta la tua mente: e il prossimo tuo come te stesso. E Gesú: Hai detto bene: fa questo e vivrai. Ma quegli, volendo giustificarsi, chiese a Gesú: E il prossimo mio chi è? Allora Gesú prese a dire: Un uomo, mentre discendeva da Gerusalemme a Gerico, si imbatté nei ladroni, che lo spogliarono e, feritolo, se ne andarono lasciandolo semivivo. Avvenne allora che un sacerdote discendesse per la stessa via: visto quell’uomo passò oltre. Similmente un levita, passato vicino e avendolo visto, si allontanò. Ma un samaritano, che era in viaggio, arrivò vicino a lui e, vistolo, ne ebbe compassione. Accostatosi, fasciò le ferite versandovi l’olio e il vino e, postolo sulla propria cavalcatura, lo condusse in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tratti fuori due denari, li dette all’albergatore, dicendo: Abbi cura di questi, e quanto spenderai in piú te lo rimborserò al mio ritorno. Chi di quei tre ti sembra che sia stato prossimo dell’uomo caduto nelle mani dei ladroni? Il dottore rispose: Colui che ebbe compassione. E Gesú gli disse: Vai e fai lo stesso anche tu.]

OMELIA

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Luca X, 23-33]

-Carità-

Di quella carità, ch’è il compimento della legge di quella carità necessaria per la vita eterna, il nostro divin Redentore ci presenta una viva immagine nell’odierno Vangelo. Udite: “Un cert’uomo faceva suo viaggio da Gerusalemme a Gerico, quando all’improvviso vien assalito da masnadieri che di tutto lo spogliano, e ignudo, ferito ed insanguinato lo lasciano semivivo sulla pubblica strada. Poco dopo il crudele assassinio arriva in quel luogo un sacerdote Ebreo, e sul misero impiagato lascia cadere un’occhiata indifferente, e prosegue il suo cammino. Passa indi un levita, e anch’egli appena lo degna di un freddo sguardo e tira avanti. Sopraggiunge finalmente un Samaritano, e veduto il dolente spettacolo, tocco in cuore da tenero senso di compassione, smonta di sella, si adopera intorno al misero languente, lava con vino le sue ferite, le medica con olio, le fascia con bende, l’adatta sul suo giumento, lo segue alla staffa, e lo conduce al più vicino albergo. Qui giunto, lo pone a letto, l’assiste nel resto del giorno, lo veglia la notte, e obbligato dopo a partire per i suoi affari, chiama l’albergatore, gli raccomanda l’infermo, gli mette in mano due monete di argento dicendogli: “provvedetelo di tutto il bisognevole, e se alcuna spesa sarà occorsa di più, al mio ritorno vi renderò soddisfatto.” Ecco un tratto di esimia carità operante, che non risparmia né fatica, né dispendio. È tale la carità dei moderni Cristiani? Se ben si considera, una gran parte di Cristiani ha una carità, che non è carità. A distinguere la vera dalla falsa carità, ci dà S. Paolo in mano la pietra del paragone in quelle sue parole: “Charitas non quaerit quæ sua sunt” (Ad Cor. I; XIII, 5). La carità non cerca il proprio interesse, e se lo cerca, non è più carità. Vediamo come vada intesa la dottrina del santo Apostolo, e di qual sorta sia la nostra carità. – Varie sono le specie di amore, con cui gli uomini si amano vicendevolmente. Amore di amicizia, amore di riconoscenza, amor di genio, amor di concupiscenza. Tutti questi amori non sono carità, perciocché hanno tutti per oggetto e per fondamento il proprio gusto, la propria soddisfazione, il proprio interesse. Oltre a ciò sono amori che non sono durevoli, amori che mancano al mancar del pascolo che li alimenta. Per l’opposto, la carità non cerca sé stessa, e non è soggetta a venir meno; “Charitas numquam excidit”. Io riscontro questi diversi amori in quei metalli, che componevano la statua veduta in sogno da Nabucco. Aveva questa il capo d’oro, il petto d’argento, il ventre di bronzo, le gambe di ferro, i piedi di terra; quando un picciolo sasso, staccatosi dal vicino monte, rotolando venne a dar nei piedi del gran simulacro; ed ecco sull’istante atterrata la statua, e quel che è più sorprendente, tutt’i metalli ridotti in minutissima polvere. Oro è l’amor di amicizia, argento l’amor di gratitudine, bronzo e ferro l’amor di genio, di naturale inclinazione o di altra bassa lega, terra finalmente e fango l’amor di concupiscenza; ma ad incenerir questi amori basta un sassolino, una parola, un motto mal inteso, un gesto mal interpretato, un sospetto, un dubbio, un geloso pensiero: dunque nessuno di questi amori appartiene alla carità, perché la carità ha per carattere di non venir mai meno: “Charitas numquam excidit”. – Di questa falsa carità abbiamo un esempio nel re Saul. Si vide appena comparire innanzi il pastorello Davide biondo nel crine, leggiadro nel volto e robusto nel corpo, tanto che piacque agli occhi suoi. Crebbe il suo genio per lui in sentir la sua abilità in suonar l’arpa: crebbe il suo amore in udire che era pronto a cimentarsi in singolar tenzone col temuto Golia. Bellezza, abilità, coraggio, legano il cuor del regnante ad amarlo: il suo amore fa che lo dissuada dal periglioso cimento, non consente che un inesperto garzone vada contro un gigante agguerrito, che fa spavento alle falangi di tutto Israele: e all’ascoltare che con mano inerme aveva strozzato alla foresta gli orsi ed i leoni, sempre più si aumenta il suo amore; ordina che sia vestito delle stesse sue reali armature: anzi egli di sua mano gli adatta l’elmo alla fronte, al petto l’usbergo. Che dite di tanta degnazione, di tanta benevolenza? Sospendete di grazia il vostro giudizio e la vostra risposta: ritorna Davide vincitor glorioso dalla valle di Teberinto, l’accolgono con canti e musicali strumenti le donzelle ebree, “re Saul, vanno esclamando, ha ucciso mille Filistei, Davide ne ha atterrati diecimila in un sol colpo”. Ohimè! Questa lode ferisce l’animo di Saul, produce un tarlo di gelosia, un verme d’invidia, per cui non lo guarda più di buon occhio. Questo è ancor poco, gli nega in sposa la promessa sua figlia: più, cerca che resti ucciso dall’armi dei Filistei; più ancora, tenta per ben due volte trafiggerlo con una lancia, e non riuscendogli il colpo lo perseguita apertamente come suo singolare nemico sulle più alte montagne. Ecco ove andò e terminare un amor geniale, sensibile, interessato. – Eh! Che la carità è un fuoco che non arde dell’altrui legna, un fuoco che non ha mistura di fumo, la carità è un fuoco tutto semplice, tutto puro che mai non ispegne le sue fiamme quand’anche le molte acque delle umane vicissitudini tentino estinguerlo: “Charitas numquam excidit”. – Questa carità è un amore, al dir dei Teologi, che può chiamarsi amor teologale, perché l’amor del prossimo non si distingue dall’amor di Dio. Questi due amori sono due fiamme, ma d’uno stesso fuoco: sono come le due pupille degli occhi nostri, che collo stesso moto si portano, si fissano ad un sol oggetto. Da ciò ne segue che amando noi il nostro prossimo per amore di Dio, amiamo Iddio nel prossimo, e il prossimo in Dio. Pura allora sarà la nostra carità per l’oggetto che è Dio, durevole per il fondamento che è lo stesso Dio; e siccome in ogni tempo, in ogni occasione siamo tenuti ad amare Iddio, così in ogni qualunque occorrenza dobbiamo amare il prossimo in Dio e per Dio, come immagine del medesimo Dio. – A far ciò meglio comprendere ai men colti, interrogo così: “L’immagine del santo Crocifisso è ella degna di venerazione?” Non vi è dubbio. “E qual ‘è più degno di adorazione: un Crocifisso fuso in oro o in argento, scolpito in legno o in avorio, impresso sulla seta o sulla carta?” Tanto, voi rispondete, la sua immagine in oro, come quella sulla semplice carta; poiché non è la preziosità del metallo o la viltà della materia che dà norma al nostro culto, ma il prototipo, ma la Persona che rappresenta, cioè l’Uomo Dio, Cristo Gesù nostro Redentore. Ottimamente. “Ora, io ripiglio, il nostro prossimo è non una morta, ma una viva immagine di Dio, sia dunque quest’immagine d’oro per il merito, sia d’argento per l’eccellenza, sia di legno per la bassezza, sia di carta per la leggerezza, è sempre immagine di Dio, e sempre degna di amore e di rispetto. Sia dunque il nostro prossimo per noi benevolo o maligno, sia per noi utile o nocivo, piacevole o disgustoso, favorevole o contrario, amico o nemico, egli è sempre immagine di Dio e, come tale in ogni tempo, in ogni avvenimento, meritevole del nostro amore”. – Amava Mosè il suo popolo, di cui era legislatore e condottiero: lo aveva a forza di portenti liberato dalla schiavitù in Egitto, pasciuto e dissetato nel deserto; e pure questo popolo beneficato, oltre il mormorare sovente della sua guida, giunse per fino un dì a dar di mano alle pietre per lapidarlo: e Mosè a tratti d’ingratitudine così mostruosa non cessava di corrispondere con un amore a tutte prove costante. Iddio, Iddio medesimo era così mal soddisfatto di quella gente di dura cervice e di cuore perverso, che voleva abbandonarla al suo furore. Che farà Mosè in vista di un Dio che prende le sue parti, che vuol castigare esemplarmente i suoi oltraggiatori? Che farà Mose? Lo chiedete a me? Chiedetelo al suo cuore acceso d’inestinguibile carità. Proteso innanzi l’Altissimo Lo prega a calmar la sua collera, a rimettere la spada della sua giustizia, a perdonare ai suoi offensori; e trovando in Dio resistenza, mirate a che partito ai appiglia la sua carità: come un che per soverchio amore delira, si abbandona ad una strana enfatica espressione e, “Signore, dice, se non volete perdonare al mio popolo, ingrato è vero e prevaricatore, scancellate il nome mio dal libro della vita”. Di questi sentimenti non è capace se non un cuore infiammato di arditissima carità, come dopo Mosè leggeremo dell’Apostolo Paolo, che per la salvezza dei suoi fratelli desiderava, se fosse stato spediente: “Anathema esse a Christo” (Rom. IX, 3). – A questo modello, Cristiani uditori, è lavorata e somigliante la nostra carità? Ohimè! Io temo, e non vorrei avere ragione di temerlo, io temo che la carità d’una gran parte de fedeli sia simile a quell’amore che comunemente si ha per un albero. Di grazia non vi offendete del paragone. Si ama un albero, o perché ci fa goder l’ombra delle sue fronde, o perché ci ricrea colla vaghezza dei suoi fiori, o perché ci pasce colla dolcezza dei suoi frutti. Ma se poi l’albero stesso inaridisce, quelli che più l’amavano sono i primi ad armarsi di scure, a tagliarlo a pezzi, a gettarlo al fuoco. Quel padre di famiglia era prima un albero, che accoglieva all’ombra delle sue fronde e figli e congiunti e amici e vicini; ora, o per vecchiezza  o per lunga infermità, o per occorse disavventure, ritrovasi come un albero secco, a cui tutti fan legna. Quella moglie finché, come la donna forte, con i suoi lavori, industrie, diligenze fu di sollievo e di vantaggio alla casa, era amata come una pianta fruttifera. Ora che da qualche tempo è confinata in un letto, si riguarda come un aggravio alla famiglia, come una pianta inaridita, a cui e marito e figli e domestici fan sentire i tagli delle loro lingue e dei mali loro trattamenti. Quella serva, finché robusta come una quercia, sostenne per lungo tempo le fatiche di casa e di campagna, era dai padroni ben vista e meglio trattata; ora che à consumata la sua gioventù e la sua vita, divenuta pianta vecchia ed inutile, si abbandona alle fiamme, si caccia fuori di casa, si ha cuore di vederla mendicare per città e finir poi allo spedale. – È forse questa la carità, di cui ci à dato comando ed esempio il nostro Redentore? A rivederci al suo tribunale! Quivi Egli ci domanderà conto rigorosissimo di questo precetto: “questo precetto, dirà Egli, Io l’ho chiamato mio singolarmente per farvi conoscere quanto mi preme che sia adempiuto: “Hoc est præceptum meum, ut diligatis invicem” (Jon. XIII, 12)”. Questo precetto Io l’ho chiamato nuovo, perché è l’apice della nuova legge e dell’evangelica perfezione; come l’avete voi osservato? Doveva osservarsi da voi a norma di quella carità di cui vi ho dato l’esempio: “Ut diligatis invicem sicut dilexi vos”. Io per amarvi non ho cercato in voi né merito, né bontà; vi ho anzi amati in attuale nimistà con Me, e col mio Padre, vi ho amati immondi per l’originale peccato, impiagati per tante colpe attuali, vi ho  amati sconoscenti, ingrati, offensori, nemici, e l’amor mio non è stato un affetto sterile ed ozioso, ma mi ha portato fino a dare per voi la vita, e tutto il sangue delle mie vene. Maggior carità nessuno può avere, che dar la vita per i suoi amici; or che sarà l’averla data per i suoi attuali nemici? Tale fu la mia carità, è questo l’esempio, la regola, la misura della vostra verso dei vostri fratelli”. Regge la vostra carità a questo confronto? Indegni! Amaste i vostri prossimi, ma in essi avete amato il vostro gusto, il vostro vantaggio, laonde in quelli amaste turpemente voi stessi. È stato simile il vostro amore a quel che aveste per il vostro cane che amaste, perché vi faceva carezze, perché vi seguiva alla caccia, perché vi custodiva la casa. Cessato il piacere e l’interesse, il vostro amore si è cambiato in indifferenza, in freddezza, sovente in corruccio e disprezzo, talvolta in odio e indignazione. Or che potete aspettarvi da me, se non i rigori della mia giustizia, come tralignanti dal mio esempio, come trasgressori del miti precetto?” A queste giustissime invettive quale risposta potremo noi dare, quale scusa addurre? – Deh preveniamo, Cristiani amatissimi, il colpo irreparabile d’una sentenza fatale al tremendo giudizio di Dio. Eviteremo questo colpo se la carità sarà diffusa nel nostro cuore, ma quella carità ch’è propria dei figli di Dio. Udite S. Giovanni l’evangelista, predicatore della carità, e ponderate bene le sue parole: “Dedit potestàtem filios Dei fieri” (Joan. I), avranno diritto ad essere computati figli di Dio tutti coloro che animati dalla fede nel santo suo nome adempiono i suoi precetti, “his qui credunt in nomine eius”, tutti coloro l’amor dei quali verso de’ prossimi non avrà per base né l’attenenza del sangue, né l’inclinazione della natura “non ex sanguinibus”; molto meno se sarà fondato sull’avvenenza, sul genio, sull’interesse, su qualche altra passione, cose tutte che, secondo le divine Scritture, vengono sotto il nome di carne, “neque ex voluntate carnis”; neppure sull’umana ragione o sulla mondana prudenza, “neque ex voluntate viri”; ma per soprannaturali motivi avrà Dio per fondamento, avrà per fine Iddio, Iddio, da Cui hanno la vita e la filiazione: “sed ex Deo nati sunt”. – La sola carità, concludo con S. Agostino, è il distintivo dei figli di Dio: “Sola dilectio discernitur inter filios Dei, et filios Diaboli(Ad Rom. VIII). Siate figli di Dio per una vera, pura, disinteressata carità, e sarete eredi del suo beato regno, “si filii, et haeredes”, che Dio vel conceda.

CREDO…

Offertorium
Orémus
Exod XXXII:11;13;14
Precátus est Moyses in conspéctu Dómini, Dei sui, et dixit: Quare, Dómine, irascéris in pópulo tuo? Parce iræ ánimæ tuæ: meménto Abraham, Isaac et Jacob, quibus jurásti dare terram fluéntem lac et mel.
Et placátus factus est Dóminus de malignitáte, quam dixit fácere pópulo suo. [Mosè pregò in presenza del Signore Dio suo, e disse: Perché, o Signore, sei adirato col tuo popolo? Calma la tua ira, ricordati di Abramo, Isacco e Giacobbe, ai quali hai giurato di dare la terra ove scorre latte e miele. E, placato, il Signore si astenne dai castighi che aveva minacciato al popolo suo.]

Secreta
Hóstias, quǽsumus, Dómine, propítius inténde, quas sacris altáribus exhibémus: ut, nobis indulgéntiam largiéndo, tuo nómini dent honórem. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda propizio alle oblazioni che Ti presentiamo sul sacro altare, affinché a noi ottengano il tuo perdono, e al tuo nome diano gloria.]

Communio
Ps CIII:13; CIII:14-15
De fructu óperum tuórum, Dómine, satiábitur terra: ut edúcas panem de terra, et vinum lætíficet cor hóminis: ut exhílaret fáciem in oleo, et panis cor hóminis confírmet.
[Mediante la tua potenza, impingua, o Signore, la terra, affinché produca il pane, e il vino che rallegra il cuore dell’uomo: cosí che abbia olio con che ungersi la faccia e pane che sostenti il suo vigore.]

 Postcommunio

Orémus.
Vivíficet nos, quǽsumus, Dómine, hujus participátio sancta mystérii: et páriter nobis expiatiónem tríbuat et múnimen.
[O Signore, Te ne preghiamo, fa che la santa partecipazione di questo mistero ci vivifichi, e al tempo stesso ci perdoni e protegga.]

 

Abbigliamento del Cristiano: Beata Umbelina

ABBIGLIATURA

[G. Bertetti: Il Sacerdote predicatore. S.E.I. Torino, 1921]

1. – Decadenza e abbrutimenti. — 2. Il lusso.- 3. La nudità. — 4. La moda dei Cristiani.

1.- DECADENZA E ABBRUTIMENTO. Da quando il Signore rivestì egli stesso con tuniche di pelli Adamo ed Eva dopo il peccato, venne agli uomini l’obbligo di coprirsi….. Le vestimenta devono esser per noi un continuo ricordo della caduta, della corruzione, della morte…. Semplice e modesto fu il vestire di Gesù, della Madonna, dei Santi….. sfarzoso e procace è il vestire ch’è oggi di moda Segno della decadenza d’un popolo è il lusso.., segno di abbrutimento la nudità..: questi due disordini si sono riuniti nelle mode odierne….. Anche nel tempio santo di Dio penetra talvolta questo abominio…..

2. IL LUSSO. — «Non ti gloriar mai nel tuo vestito » (Eccli. XI 4); « … quanto più splendida appare la donna agli occhi degli uomini, tanto più è dispregiata da Dio » (S. AMBROGIO); … « il lusso del vestire. indica la nudità dell’anima » (S .Giov. CRISOSTOMO)… « perché adornare il corpo e non adornar d’opere buone quell’anima che dagli uomini dovrà esser presentata a Dio in cielo? Perché disprezzar l’anima ed anteporre il corpo? enorme abuso è questo: che comandi chi dovrebbe servire e che serva chi dovrebbe comandare » (S. BERNARDO)… — E questi abbigliamenti sfarzosi «spesso son frutto d’infamia, e di delitto. Le superbe matrone romane si vantavano di portar indosso il patrimonio d’intere province depredate dai loro mariti…. di dove proviene il lusso sproporzionato addirittura alle modeste rendite familiari di certa gente?… E quelle madri che non hanno denari per procurare una cameretta e un letto ai bambini, ma sanno trovar il modo di mandar vestite le ragazze come altrettante reginette?

3. L A NUDITÀ. -Il santo Vescovo Nonno, nell’apprendere il vestire scandaloso di certa Pelagia, proruppe in pianto; domandatone del perché, rispose: « due pensieri m’affliggono; l’uno è la perdita di questa donna e di tante anime da lei sedotte; l’altro si è che io non cerco di piacer tanto a Dio, quanto costei di piacere agli uomini. » Le lacrime del santo Vescovo salvarono Pelagia, che si convertì e divennè santa anche lei. – Potessero le lacrime della Chiesa far rinsavire certe Palagie dei nostri giorni!… – Nè serve il dire che la moda vuol così… Prima della moda c’è il Vangelo…; anche per gli uomini c’è la moda di bestemmiare, di profanar le feste, di non far più pasqua; menate loro buona la scusa della moda? — E neppure si dica che se l’esterno è sfrontato, il cuore è puro…. Credo allo Spirito Santo che dice: « Il vestito, il riso, il portamento ci fanno conoscere chi uno sia» (Eccli. XIX, 27); non credo alle spampanate di certi poeti pagani, i quali si vantavano d’essere immacolati nella condotta e luridi nei versi; non c’è fumo senza fuoco! Ma poniamo pure che, nonostante l’abbigliatura immodesta, siate angeli di costumi … ed il male che fate commettere agli altri?.… e i pensieri, ed i desideri cattivi che suscitate? Il vizio trionfa di più per la l’ingenua galanteria delle donne oneste, che per la sfacciata provocazione delle donne perdute … si badi però che l’onestà voluta da Dio nella donna è qualcosa di molto superiore all’onestà secondo il moderno concetto pagano …

4. LA MODA DEI CRISTIANI. — Con ciò non si vuol dire che i semplici fedeli debbano vestire come i monaci… molto meno che debbano imitare le fogge da strapazzo di certi Santi, che ciò facevano per umiltà e mortificazione… chi vive in società ha il dovere di rendersi amabile e non ributtante … ci furono delle regine e delle principesse che vestirono riccamente e furano sante… le splendide vesti nascondevano però il cilicio … —Vestendo ognuno decorosamente secondo la sua condizione non si tralasci di portar indosso qualche segno di penitenza e di devozione: l’abitino del Carmine… quello del terz’ordine di S. Francesco… la medaglia della Madonna… il Crocifisso……

Leggiamo a proposito la storia della beata Umbelina, sorella di S. Bernardo [da Massini: Vita dei Santi; vol. VIII – Venezia, MDCCLXXVIII]

Beata UMBELINA.

Secolo XII.

Nella vita di S. Bernardo, e negli Annali Cisterciensi sono riportate le virtuose azioni di questa B. Sorella del Santo Abate.

1.- Umbelina sorella di S. Beranardo nacque circa l’anno 1092, e la B. Aletta sua madre, dopo averla offerta a Dio, subito nata, secondo il lodevole costume da lei tenuti in tutti i suoi parti, la nutrì col proprio latte e curò che fosse educata in una maniera, conveniente bensì alla sua nobile condizione, ma cristiana. Le ricordava frequentemente quella verità che stentano tanto a comprendere i Grandi del secolo, cioè: che è molto meglio l’esser povero ma caro a Dio, che l’esser ricco ma senza virtù; attesochè il principale fondamento della vera nobiltà e delle sole ricchezze consiste nell’amore di Dio e nell’esatta osservanza della sua santa Legge. Umbelina vide tutte quelle massime praticate dalla sua piissima madre, e si può credere che le avrebbe seguite ella se avesse avuto il vantaggio di esser istruita più lungo tempo da una sì saggia conduttrice. Ma Dio ritirò da questo mondo Aletta, mentre la sua figliuola era ancor fanciulla, onde i materni ricordi, che a cagione della tenera età poca impressione avevano fatta nel suo animo, si andarono insensibilmente cancellando e cederono il luogo all’amore del mondo, da cui si lasciò talmente signoreggiare che non pareva la sorella di San Bernardo e degli altri suoi virtuosi fratelli. Ma il momento in cui ella doveva imitarli non era ancora giunto; e Dio permise che vivesse qualche tempo secondo il mondo, non solo perché avesse poi occasione di maggiormente umiliarsi, ma anche perché provasse con la propria esperienza quanto siano vani e folli i piaceri mondani che appena giungono a soddisfare per un momento i sensi quando si prendono, e poi lasciano, quando sono passati, un lungo ed amaro rammarico e pentimento.

2- Umbelina, divenuta erede di un ricchissimo patrimonio, lasciatole dai suoi fratelli, che si erano tutti ritirati dal mondo e fatti monaci cistercensi, ad altro più non pensò che a godere del presente, poco o nessun pensiero prendendosi del futuro e dell’eternità. Si maritò con un giovane cavaliere che era stretto parente della duchessa di Lorena, e tutta si occupò nel soddisfare non tanto al genio del suo sposo, quanto alla propria inclinazione per la vanità. Così quella pecorella smarrita, che la misericordia del Signore aveva destinato di richiamare un giorno al suo ovile, andava inconsideratamente preparando a se stessa la materia di un gran pianto e di una lunga penitenza. Ella passò più anni in questa vita mondana e rilassata, e intanto S. Bernardo e gli altri fratelli, amareggiati per la sua mala condotta, facevano continue e ferventi oraziani a Dio per la sua conversione. Si degnò finalmente il Signore di esaudire le loro preghiere, inspirando ad Umbelina il desiderio di andare a rivedere i propri fratelli a Chiaravalle. Il lusso e lo sfarzo dell’abito e dell’equipaggio con cui ella comparve e si presentò alla porrà del monastero, non poteva essere uno spettacolo accetto e confacente a quel sacro luogo, che da tutte le parti spirava modestia e penitenza. Infatti S. Bernardo, avendo saputo che la sorella era venuta carica degli ornamenti del secolo e con un accompagnamento pomposo, si protestò dì averla in aborrimento e in orrore; e riguardandola come una rete tesa dal demonio in pregiudizio dell’anime, ricusò costantemente di abboccarsi con lei. Anche gli altri suoi fratelli, informati della sua venuta e del suo fasto, deplorando la sua cecità, non vollero in alcun modo vederla né parlarle. Ad un tale inaspettato rifiuto, Umbelina si riempì di tristezza e di confusione; tanto più che Andrea, uno dei suoi fratelli, che era più giovane di lei, essendosi accidentalmente trovato alla porta e non potendo sfuggire di parlarle, la riprese fortemente perché fosse venuta in quella maniera tanto contraria allo spirito e all’umiltà di Gesù Cristo; e trasportato dal suo zelo francamente le disse: Con tutti i vostri abiti preziosi che cosa siete voi, se non un sacco di lordura ben coperto? Umbelina pertanto prorompendo in un dirotto pianto, disse al fratello: lo son peccatrice, è vero, ma Gesù Cristo è morto per li peccatori. Per questo appunto io ricorro alle persone dabbene. Che Bernardo disprezzi il mio corpo, io l’intendo, ma non conviene ad un servo di Dio che disprezzi l’anima mia. Venga dunque, parli, comandi; e mi troverà pronta e disposta a far tutto ciò che vorrà.

3. – Riferito a Bernardo quel discorso, andò a trovarla con tatti gli altri fratelli, e dopo averle con dolcezza insieme e con forza parlato della necessità di fu penitenza, le diede utilissimi consigli intorno al metodo della nuova vita che doveva intraprendere; e perché essendo legata in matrimonio non poteva separarsi dal suo marito, il S. Abate le disse che doveva cominciare la riforma e la mutazione della vita dal riseccare affatto ogni superfluità e vanità, ogni sorta di lusso dalle sue vesti e dal suo treno, e dal privarsi di tutti i piaceri, i divertimenti profani del secolo. Le propose per modello da imitare, la vita, della. B. Aletta loro madre che, sebbene facoltosa e nobilissima, era però vissuta sempre con gran semplicità ed umiltà cristiana, e aveva mostrata una particolar avversione alle mode e ai passatempi mondani. Dopo averle dati questi ed altri salutari consigli, S. Bernardo si congedò dalla sua sorella e si ritirò a pregar Dio, acciocché si degnane d’imprimer bene nell’animo di lei tutte le verità che aveva in quei giorno ascoltate.

4. – Umbelina, tornata che fu alla propria casa, eseguì puntualissimamente tutto ciò che le aveva prescritto il S. Abate, e la sua conversione fu a tutti i suoi parenti e cittadini un oggetto di stupore insieme e di edificazione, poiché ciascuno ammirava una dama giovane, nobile e ricca, non distinguersi più dalle altre, se non per la modestia e costumatezza: digiunare frequentemente, orare, vegliare ed osservare un esatto ritiro. Suo marito, lungi dal contraddirla e opporsi a questo nuovo tenore di vita così diverso da quello che aveva tenuto per l’addietro, se ne mostrò contentissimo, e ne ringraziò, e benedisse il Signore; anzi due anni dopo la sua conversìone, liberandola affatto dal giogo maritale, consentì ch’ella si dedicasse interamente al servizio di Dio.

5. – Tostochè Umbelina si vide in quella libertà che tanto bramava, andò a ritirarsi nel monastero di Tulli, che era stato poco prima fondato per le donne per opera di S. Bernardo, e dopo aver ivi abbracciata e professata la vita religiosa, vi passò il resto dei suoi giorni in una continua penitenza. Per l’abbondanza delle grazie che il Signore Iddio si compiacque di spargere sopra di lei, giunse a tal grado di santità che divenne in breve tempo l’ammirazione di tutti quelli che la vedevano ed un soggetto di estrema gioia per S. Bernardo e per gli altri suoi fratelli. Passava sovente le intere notti in recitar Salmi e in meditare la Passione di Gesù Cristo; e quando si sentiva oppressa dal sonno, prendeva un poco di riposo, coricandosi sopra le nude tavole. Era sempre la prima agli esercizi della Comunità, e li faceva con tanto fervore, che edificava le più osservanti e stimolava insieme le più tepide ad imitarla. Visse così per lo spazio di diciassette anni, meritando con quella continua penitenza la corona di gloria, che è prometta a quelli che perseverano nel bene fino al fine. Nella ultima sua infermità accorgendosi le sue compagne che ella andava giornalmente perdendo le forze, e che si avvicinava alla sua morte, ne fecero avvertito S. Bernardo, il quale venne subito a visitarla, e dopo un lungo e tenero colloquio ch’ebbero insieme sopra la divina misericordia, di cui ella aveva provati in se stessa con tanta abbondanza gli effetti, nelle braccia di lui placidamente spirò nel1’anno 1141 della nostra salute, e cinquantesimo dell’età sua. Pare a prima vista eccessiva la durezza e severità con cui S. Bernardo trattò Umbelina, eppure ella fu il mezzo di cui il Signore si servi per umiliarla, compungerla, e convertirla. La carità, dice S. Agostino, usa il rigore e la severità quando lo crede opportuno in benefizio del prossimo, come il chirurgo adopra qualche volta il ferro ed il fuoco, per restituire la sanità all’infermo. Senza di un tal rigore forse Umbelina non avrebbe conosciuto il suo errore, né avrebbe rinunziato a quelle pompe e vanità, che il cieco mondo purtroppo crede innocenti. Quante vi sono anche ai giorni nostri, che menano una vita tutta mondana e tutta voluttuosa, e che non si fanno scrupolo di portare, come in trionfo, il fasto, l’orgoglio, la vanità e l’immodestia fino nel luogo santo e in faccia ai sacri altari. Sarebbe dunque per queste tali un effetto della divina misericordia, se qualche ministro di Dio mosso da quello spirito, da cui era animato S. Bernardo, facesse loro conoscere l’inganno in cui vivono e il pericolo, a cui espongono la loro eterna salute! Oltre l’esempio di un Santo sì illuminato, qual era S. Bernardo, basta leggere il capo terzo del Profeta Isaia per rimanere persuoso quanto dispiacciano al Signore i vani e preziosi abbigliamenti, il portamento altero ed immodesto, ed il lusso delle femmine alle quali per mezzo dello stesso Profeta, Iddio minaccia terribili castighi.

“Et dixit Dominus: Pro eo quod elevatæ sunt filiæ Sion, et ambulaverunt extento collo, et nutibus oculorum ibant, et plaudebant, ambulabant pedibus suis, et composito gradu incedebant; decalvabit Dominus verticem filiarum Sion, et Dominus crimen earum nudabit. In die illa auferet Dominus ornamentum calceamentum, et lunulas, et torques, et monilia, et armillas, et mitras, et discriminalia, et periscelidas, et murenulas, et olfactoriola, et inaures,  et annulos, et gemmas in fronte pendentes, et mutatoria, et palliola, et linteamina, et acus, et specula, et sindones, et vittas, et theristra. Et erit pro suavi odore foetor, et pro zona funiculus, et pro crispanti crine calvitium, et pro fascia pectorali cilicium.” [Is. III, 16-24] [Dice il Signore: “Poiché si sono insuperbite le figlie di Sion e procedono a collo teso, ammiccando con gli occhi, e camminano a piccoli passi facendo tintinnare gli anelli ai piedi, perciò il Signore renderà tignoso il cranio delle figlie di Sion, il Signore denuderà le loro tempie”. In quel giorno il Signore toglierà l’ornamento di fibbie, fermagli e lunette, orecchini, braccialetti, veli, bende, catenine ai piedi, cinture, boccette di profumi, amuleti, anelli, pendenti al naso, vesti preziose e mantelline, scialli, borsette, specchi, tuniche, cappelli e vestaglie. Invece di profumo ci sarà marciume, invece di cintura una corda, invece di ricci calvizie, invece di vesti eleganti uno stretto sacco, invece di bellezza bruciatura.]

S. GENESIO MARTIRE.

Non vi è altro Re, che Gesù Cristo. Questi è quello, che io adoro; e ancorché mi faceste soffrire mille morti, non cesserei mai di adorarlo. Tutti i tormenti non potranno mai togliermi Gesù Cristo dalla bocca, Gesù Cristo dal cuore”

GENESIO MARTIRE.

Secolo III.

[Raccolta di vite dei Santi – vol. VIII – Venezia 1778]

Gli Atti sinceri della mirabile conversione, e del martirio di S. Genesio si riportano nella Raccolta del Ruinart alla pag. 236. Dell’edizione di Verona.

1. La storia dei matririo di S. Genesio quantunque breve, è però assai edificante, e ci somministra un efficace motivo di ammirare sempre più e lodare l’infinita bontà di Dio, il quale alle volte si degna far uso della sua onnipotenza, con dispensare la sua grazia in una maniera insolita, e fuori delle regole ordinarie della sua provvidenza, come appunto avvenne nella conversione, e nel martirio di San Genesio, che si crede accaduto in Roma nel principio dell’Impero di Diocleziano verso l’anno 285. e si rileva da autentici monumenti nella seguente maniera

2. Era San Genesio un capo commediante, e così nemico dei Cristiani, che non poteva udirne neppure il nome senza accendersi di sdegno, e fremere di furore. Insultava tutti quelli, che vedeva mantenersi costanti, e fedeli a Gesù Cristo in mezzo ai tormenti; e non aveva potuto tollerare nemmeno i medesimi suoi parenti, che erano Cristiani. Per eccesso finalmente dell’odio suo contro la Religione cristiana, aveva procurato di prendere per mezzo forfè di qualche apostata, un’esatta informazione dei riti e delle sacre cerimonie, che la Chiesa praticava nel conferire il Battesimo, a quest’unico oggetto di profanare con le sue sacrileghe buffonerie quanto v’è di più santo nella cristiana Religione. Volle indi farne materia di divertimento all’Imperatore Diocleziano, e al popolo Romano, e beffeggiando in pubblico teatro gli augusti misteri del Cristianesimo».

3. Dopo aver dunque bene istruiti gli altri Attori suoi compagni di ciò che dovevano fare, egli comparve sul teatro contraffacendo uno, che fosse infermo, e richiese il Battesimo, ma con frasi ridicole, e proporzionate al luogo, in cui si trovava. Gli risposero i compagni col medesimo linguaggio, e si fecero venire nel teatro altri due istrioni, che facevano la figura l’uno di Prete, e l’altro d’esorcista. Ma che? In quello stesso momento egli fu toccato da Dio il quale operò invisibilmente e in maniera prodigiosa nel cuore di lui la sua conversione. Sembra, ch’egli avesse dovuto dichiararsi immantinente Cristiano, e procurare di ricevere il Battesimo dai ministri della Chiesa nelle solite forme, se avesse potuto, senza continuare la scena incominciata. Ma il Signor Iddio, le cui mire sono di gran lunga superiori alle nostre, volle condurlo per una via straordinaria, e mostrare la santità dei misteri della sua santa Religione, e confondere i suoi nemici con quei mezzi medesimi, con cui essi tentavano di beffeggiarla.

4. Il finto Prete adunque postosi a sedere vicino a Genesio: “A che, disse, figliuol mio, ci avete voi chiamati?” Ed ei rispose, ma con tutta serietà, e sincerità di cuore: “Io desidero dì ricevere la grazia di Gesù Cristo per rinascere in Lui ed esser liberato dalle iniquità, e dai peccati che mi opprimono”. Si praticarono indi le cerimonie, che sogliono premettersi al Battesimo, gli furono fatte le interrogazioni ordinarie, ed egli rispose davvero, e senza emulazione, che credeva tutto ciò, che gli veniva proposto. Finalmente fu battezzato, come si costuma nella Chiesa e nel medesimo tempo si vide discendere dal Cielo un Angelo tutto risplendente di luce, il quale avendo in mano un libro, in cui erano scritti tutti i peccati da lui commessi fino dall’infanzia, lo immerse in quella medesima acqua, in cui era battezzato, e gli fece poscia vedere, che i suoi peccati erano stati tutti da quel libro cancellati, e ch’egli era divenuto più candido della neve.

5. Terminata la funzione del Battesimo, rivestirono Genesio con abiti bianchi, com’era solita farsi dai Cristiani con i novelli battezzati; e poiché tutto ciò nel concetto degli spettatori passava per una buffoneria, si continuò la commedia, fintantoché vennero per ultimo altri Attori travediti da soldati, i quali arrestarono Genesio, come Cristiano, e lo condussero innanzi all’imperatore, contraffacendo essi gli atti e le maniere che praticavano i Gentili, quando presentavano qualche Cristiano al Tribunale degli Augusti. Ma Genesio allorché si trovò davanti a Diocleziano, manifestò francamente la visione che aveva avuta nell’atto di ricever il Battesimo, e protestò di desiderare ardentemente, che tutti riconoscessero, e confessassero, come egli faceva, essere Gesù Cristo il vero Dio, la vera luce, la vera bontà, e l’unico mediatore, per cui noi possiamo ottenere la remissione dei nostri peccati. Stupefatto Diocleziano, e oltremodo irritato per un tal discorso, lo fece tosto caricare di bastonate, e poi lo lasciò in mano di Plauziano, Prefetto del Pretorio, affinché a forza di tormenti lo costringesse a disdirli, e a rinunziare a Gesù Cristo. Plauziano lo fece stendere sull’eculeo, ove fu il «corpo del S. Martire straziato per lungo tempo con uncini di ferro e bruciato in più parti con torce accese, senza però che si potesse mai far vacillare la sua costanza, e la sua Fede, ripetendo spesso quelle parole: Non vi è altro Re, che Gesù Cristo. Questi è quello, che io adoro; e ancorché mi faceste soffrire mille morti, non cesserei mai di adorarlo. Tutti i tormenti non potranno mai togliermi Gesù Cristo dalla bocca, Gesù Cristo dal cuore. L’unico, e il massimo mio dispiacere è di aver aborrito, e perseguitato il suo sacrosanto Nome nei suoi Santi, e di aver cominciato così tardi ad adorare il mio vero Re, perché il mio orgoglio mi impediva di riconoscerlo”. Fu alla fine per ordine del tiranno decollato, e così ottenne la corona del Martirio.Se negli odierni teatri non si mettono più, come una volta, in ridicolo i sacrosanti mister della nostra Religione, non si può negare però, che in quelli anche di presente non si deridano [oggi si fa anche di molto peggio nelle chiese del “novus ordo” -ndr.- ], almeno tacitamente, le principali e fondamentali virtù cristiane, l’umiltà, la modestia, la mortificazione, la pazienza, la dilezione dei nemici etc., esaltandosi, e mettendosi in piacevole vista, e onorevole comparsa l’ambizione, il lusso, il falso, la vendetta, e sopra tutto l’amor profano. E pure quanti Cristiani credono innocenti quei divertimenti, che fomentano il vizio, e le passioni sregolate, e che sono tanto opposti allo spirito di Gesù Cristo? – Preghiamo S. Genesio, che siccome egli con un prodigio straordinario della divina grazia ottenne di esser illuminato, e convertito in un teatro, così impetri a noi con la sua intercessione lume sufficiente per ben discernere i pericoli dei teatri, e quanto sia ripugnante al carattere di vero Cristiano il frequentare simili spettacoli, funesti avanzi del Gentilesimo, e lacci deplorabili delle anime, specialmente dell’incauta gioventù.

Noi Cattolici “pusillus grexG” [leggi “grex Greg. XVIII”] invochiamo S. Genesio per impetrare da Dio la conversione dei tanti teatranti, buffoni, nani, giullari, lacché, tirapiedi, fanfaroni, azzeccagarbugli, baldracche, cortigiane, favorite/i, sodomiti, pedofili, “travestiti” da carnevaleschi chierici, etc. che hanno invaso i sacri palazzi e le chiese dell’orbe per conto della sinagoga di satana manovrata dai marrani, dagli apostati traditori di Cristo e della sua Santa infallibile Sposa mistica, la Chiesa Cattolica, unica arca di salvezza eterna. Preghiamo, poiché ad onta delle apparenze: « … tu, Domine, deridebis eos; ad nihilum deduces omnes gentes… Disperge illos in virtute tua, et depone eos, protector meus, Domine! » [Ps. LVIII; 9, 12]. Che il nostro Signore Gesù Cristo, per intercessione di S. Genesio, ce ne ottenga la grazia! Amen.

 

LA COMMEMORAZIONE DI PIO XII del S. P. GREGORIO XVII

S. GREGORIO XVII:

LA COMMEMORAZIONE DI PIO XII

[Tenuta alla presenza del massone 33° A. Roncalli,

l’antipapa sedicente Giovanni XXIII]

S. S. Pio XII con il Cardinal Siri, suo successore con il nome di  Papa Gregorio XVII

Sono ben certo di interpretare il comune pensiero ringraziandovi per l’insigne esempio che voi ci date manifestando, si può dire ogni giorno, ammirazione venerazione e rimpianto per il vostro antecessore Pio XII [in realtà Gregorio XVII sapeva bene chi era e quale era il vero intento del massone Roncalli, usurpatore all’epoca della Sede Pontificia … – ndr.-]. Ed è tale convinto, affettuoso vincolo di soprannaturale pietà, che vi ha spinto a donare a questa commemorazione il lustro, singolare davvero, della vostra augusta presenza. [si può cogliere la nota sarcastica del “vero” Santo Padre nei confronti dell’usurpatore massone 33° –ndr.- ]. L’esempio che voi, padre santo, ci date ponendo tale cura a che rimanga viva e venerata la memoria del defunto Pontefice, mi pare così preziosa anche perché a pochi uomini accade di ricordare degnamente quelli che li hanno preceduti. Grazie, padre santo. Per quel che mi riguarda debbo dire che solo pensando alla sincerità e forza di questo esempio ho trovato il coraggio di far risuonare l’umile mia voce in tale solenne adunanza. Per questo, fatto sicuro della benignità vostra, ritrovo la gioia di esprimere la riconoscenza che lega i moltissimi di tutto il mondo alla santa memoria di Pio XII. – La odierna commemorazione è promossa con augusto consenso di vostra santità [si legga satanità! – ndr. -] dal benemerito circolo di san Pietro e dalla Pontificia opera di assistenza, per i particolari vincoli che quel sodalizio illustre e quell’ente benefico ebbero con Pio XII; ma è ovvio che, dovendo io parlare di lui, prenda l’avvio da quella più ampia considerazione che la storia deve pure accordare ad un vicario, ad un successore di Pietro. Sento dunque il dovere di leggere, quanto mi riesce nei fatti la grandezza di un Pontificato per poi ravvisare nel Pontificato stesso il valore egregio e non comune dell’uomo, che fu romano, che si chiamò Eugenio Pacelli fino al 2 marzo 1939 e che da quel giorno portò, dodicesimo nella serie, il nome di Pio. – Naturalmente questo farò per la vastità della materia e grandezza del soggetto solo indugiando in qualche linea generale. La prospettiva storica ci obbliga a vedere subito con chiarezza che Pio XII fu Papa durante una guerra, che il suo Pontifìcato ha accompagnato una guerra. Questa fu cruenta fino all’8 maggio 1945 e, da quel giorno, abbandonato l’uso degli strumenti bellici, volse in più ampia anzi universale competizione gli strumenti naturalmente assegnati alle umane relazioni della pace, non disdegnando talvolta parziali ritorni al furore della vicendevole offesa o della distruzione. In realtà, di quella guerra che scoppiò nel 1939, pochi mesi dopo la assunzione di Pio XII al Pontificato, è sancita e non del tutto, a causa di permanenti pendenze, la pace diplomatica; non è certamente fatta la pace spirituale. Esprimo il modesto parere che questo Pontificato non lo si possa “leggere” fuori di quella generale qualifica “che ha accompagnato una guerra”. Mi chiedo allora: ma che significa per un Papa avere accompagnato il mondo attraverso una guerra? Vediamo. I palazzi apostolici divennero il punto di partenza per arginare con svariatissima azione, contenere, umanizzare. La loro naturale fisionomia di essere casa di tutte le genti si avvivò in mille modi. Essi divennero quel tal punto di passaggio, tra i diversi belligeranti, tra belligeranti e non belligeranti, nel quale lo scambio delle notizie volte a lenire infinite ansietà e lacrimevoli miserie, la organizzazione dei soccorsi, riassunse e sviluppò la prima esperienza del 1914. Fu opera grandiosa e qui sono presenti molti fedeli e piissimi strumenti di essa. Però non mi posso arrestare qui. La organizzazione della carità prese in qualche momento un posto preminente. Ciò fu in modo particolare per Roma prima e poi per tutta l’Italia. Il 18 aprile 1944, sorgeva, per volontà del Papa, la Pontificia opera di assistenza: egli dichiarò di fare così “guerra alla guerra” e di imporsi il criterio “che si doveva fare una carità fino in fondo”. In quegli anni tragici 1943-1945 il suo contatto con Roma, alla quale rimane unico vero schermo, divenne più intimo, più semplice, più affettuoso e vibrante nella comune pena. Il 13 giugno del 1943 radunava nel cortile del Belvedere 23 mila oratori come in un grande abbraccio; il 19 luglio seguente era tra il popolo sulle fumanti rovine dei quartieri di san Lorenzo; il 13 agosto era nello strazio del quartiere Prenestìno. La domenica 12 Marzo 1944 concesse una grande udienza in piazza san Pietro: era la folla del terrore, della miseria, della fuga in cerca di un rifugio; sprizzò dalle sue parole la scintilla e i figli si sentirono fusi nella fede e nella fiducia del padre. L’abbraccio alle immense folle restò fino all’ultimo una consuetudine della sua vita. Resisté alla pressione di abbandonare Roma: rimase ed affrontò gli eventi. Il suo rimanere, l’immenso prestigio col quale egli fece da schermo alla città eterna, i suoi interventi consci e decisi, si ha motivo di credere abbiano salvata la città stessa, come furono causa di salvezza per altre città e terre italiane. Il 4 giugno 1944 fu giornata decisiva: il popolo attendeva che il Papa andasse a visitare la Madonna del Divino Amore e la misericordia di Dio fu manifesta: gli occupanti lasciavano Roma senza opporre quella resistenza che avrebbe trasformata la città in un nefasto campo di battaglia. – Pio XII ha accompagnata la guerra, materialmente intesa, ben da vicino: le bombe hanno violata anche la Città del Vaticano. Come le vicende belliche tacquero, tutto fu volto al sollievo delle immense miserie, al ricupero delle giovanissime generazioni minacciate per la scarsità del nutrimento, alla supplenza di un periodo che tutto doveva ricostruire. Per quanto concerne l’Italia fu suo strumento principe la Pontificia commissione di assistenza trasformata il 15 giugno 1953 in Pontificia opera di assistenza, mentre già dal 20 ottobre 1951 era sorta per suo volere la conferenza internazionale delle “Carità cattoliche”, detta anche semplicemente “Caritas internationalis”. – Debbo venire a parlare d’altro: Pio XII ha accompagnato quel periodo di guerra cruenta ed incruenta in ben altro modo, sia nei confronti del mondo, sia nei confronti della Chiesa. Alla base della guerra stavano delle idee, anzi stavano degli errori. È naturale pensare che le guerre scaturiscano da passioni, da appetiti incontenuti e da interessi; ma tutto questo aveva il suo fondamento in errori che fermentavano da secoli per causa di altri errori e che per ragioni non intellettuali erano stati aiutati a fermentare e ad esplodere. La grande trama era orrendamente scavata su linee deformatrici della verità. La vera guerra si germinava là e stava là. Se non si arriva a questo punto credo non si possa capire la nota saliente del Pontificato di Pio XII. Egli ha visto questo. Forse nessuno lo ha visto come lo ha visto lui; da questa visione è nata la sua più grande fatica, la fedeltà ad essa scavando di essa profondissimo il solco e stabilendo una diversa caratura ai diversi impegni. Di questi taluni debbono per necessità storica passare in secondo piano quando un maggiore impegno si impone, lo capiscano o non lo capiscano gli altri che non sono sul ponte di comando della navicella. La fedeltà alla sua tipica missione ha reso eroico Pio XII, siccome dovrò ancora illustrare. – Mi si consenta di ritornare alla affermazione: la trama della guerra stava in errori o, se piace, in carenze di verità. Il fatto va considerato accuratamente perché è quello che illumina Pio XII. Tutti sanno del determinismo biologico figlio, speriamo unico, di quello teologico, del relativismo, dell’individualismo, dell’amoralismo, del criticismo e quelli che conoscono la storia in modo sufficiente da poter risalire per i rami sanno anche dove fanno capo, tanto da avere con impressionante evidenza documentato quanto il mondo paghi col sangue le ferite inferte alla verità di Dio, sia pure espressa soltanto in natura. Gli errori obbligano i fatti ad uscire di strada. Implacabilmente. Gli errori entrano dovunque anche dove non c’è neppure capacità di percepire in modo profondo la sana dottrina, perché hanno due vie insinuanti: quella delle loro metodologie e quella degli stati d’animo. Molte filosofie hanno conosciuto, se non un tramonto, un declino; eppure la loro metodologia si afferma poderosamente. I metodi di pensare e valutare idealisticamente, positivisticamente, esistenzialisticamente sono vivi anche se maneggiati dai più senza alcuna conoscenza del loro fondamento teorico. Gli stati d’animo possono generarsi concependo idee e presentando anche artisticamente fatti secondo quella vibrazione emotiva che è omogenea ad una filosofia — supponiamo — rovinosa e come tali entra in tutti, anche in quelli che nulla sanno di cultura. Ma, una volta entrati, orientano ad agire ed a simpatizzare come se quelle filosofie accettassero e vivessero. È così che gli errori hanno raggiunto una capacità nelle masse tanto incosciente quanto esplosiva. – Tutto questo accadeva ed accade mentre la fretta e la molteplicità degli oggetti offerti in sovrabbondanza alla considerazione di tutti ogni giorno, diminuiscono in tutti la possibilità di approfondimento, di sviluppo logico, di critica e pertanto di difesa. Si ha allora l’errore subcosciente, che è assai più difficile a combattere ed anche solo ad isolare e denunciare, che non l’errore aperto, definito ed espresso con proporzioni pertinenti. – Era dunque duplice l’aspetto negativo della situazione: gli errori fermentanti al disotto della inquietudine degli uomini, ed il modo crepuscolare col quale tali errori agivano ed inquinavano. – In questo soggiacere all’indettamento degli errori, senza averne coscienza chiara e precisa, per essere travolto dagli strumenti che si è creato, sta per il mondo il suo più grande dramma, assai peggiore di quello della guerra cruenta. – L’insegnamento multiforme per il bene delle anime e dei popoli Colui che fu detto “pastore angelico” vide tutto questo. Le pupille gli si dilatarono — lo si è osservato quando benediceva spalancava in croce le braccia e guardava in alto e lontano lontano —, salì idealmente su un podio in atteggiamento concentrato e raccolto, di asceta e quasi eremita proveniente da una lunga considerazione interiore e parlò. Parlò sempre toccando col pensiero vette di verità e abissi di errori, obbligando a dipanarsi questioni che stavano avviluppate e sornione, chiamando in giudizio tutti i fatti sostanziali del nostro tempo per obbligarli ad un tempestivo esame di coscienza, non avendo timori dinanzi alle scienze che salutò ed aiutò nel loro naturale e supremo raccordo a Dio loro Autore; incalzò, perseguì, analizzò, toccò sempre la corda del cuore. E parlò fino all’ultimo giorno in cui resse in piedi. Il giorno dopo l’ultimo discorso di Castelgandolfo Pio XII era alle soglie della morte. Parlare! Per Pio XII parlare era questo. Studiare personalmente portandosi con singolare acutezza in tutte le direzioni. Lo studio di un discorso talvolta durava molti mesi. Se l’argomento eccedeva il campo delle ordinarie discipline familiari ad un ecclesiastico, egli vedeva tutta la bibliografia recente di un determinato argomento, l’ultima che fosse uscita nel mondo. Aveva per questo una sorta di contratto con una organizzazione attrezzata all’uopo. La singolare conoscenza delle lingue gli facilitava il compito dello studio diretto e personale. Parlare una sola volta, per lui era raccogliere un materiale e spesso un ritornare a lunghi impegnativi colloqui — fuori di tabella — con uomini anche di disparate tendenze per acquisire una più completa ed obiettiva informazione. In taluni discorsi era meticolosissima la cura degli stessi particolari tecnici, dovuti non ad esibizione ma unicamente allo scrupolo di documentare obiettivamente l’onesto studio, per manifestare che le considerazioni inerenti ai rapporti colla fede e al giudizio morale non erano né inconsapevoli, né avventati. Per Pio XII il parlare era questo ed era anche qualcosa d’altro: lo dirò appresso. Per parlare impose limitazioni a sé e agli altri; il dovere principale in un momento prevale sui doveri in quel momento secondari. Svolse così una catechesi di una serietà ineccepibile, di un raggio universale, di una concludenza fascinosa. Il silenzio, che amava e lo stesso isolamento, che spesso prediligeva non erano altro che il raccogliersi necessario alla sua catechesi; del resto è ovvio che il serio parlare sia punteggiato dall’altrettanto serio silenzio. E certe caratteristiche proprie di Pio XII hanno la giustificazione nella particolarità della sua missione. – La definizione solenne del dogma della Assunzione della Vergine, per la rilevanza obiettiva, sta al centro del suo compito magisteriale e non sono poche le questioni teologiche e morali, le quali hanno avuto da lui ricchezza di documentazione magisteriale e di precisazione. Mi si conceda però di soffermarmi brevemente su alcuni punti che per il mondo affaticato nel quale viviamo, hanno una particolare importanza. Nel Natale del 1942 rivolse al mondo un messaggio relativo a un ordine nell’interno delle nazioni. Quel messaggio credo rimanga tuttavia il punto di riferimento per quanti in materia sociale vogliano ragionare esattamente e vogliano evitare il pericolo di essere dannosi ai propri simili. Egli aveva avvertito il centro della questione. Che era questo: accettare inconsciamente — siccome ho già detto sopra — sia da parte materialistica che dalla banda opposta l’idea di un determinismo, nel quale gli uomini si sarebbero meccanicamente cambiati verso il meglio, deducendo la logica di quel determinismo a poggiare riforme sociali piuttosto su elementi soggettivi ed anonimi, dimenticando pertanto con nefasta carenza che gli uomini sono liberi e sono persona? Di qui la sovrana indicazione di quel messaggio: strumento delle giuste riforme essere essenzialmente la legge, sia perché è elemento obiettivo sia perché essa si propone agli uomini in modo “morale”, ossia in modo conveniente al rispetto della persona umana. La imponenza di quel messaggio e di quel supremo richiamo ritengo non sia ancora sufficientemente intesa. Non mi meraviglia questo: è infatti proprio dei Papi, vicari di Dio, parlare per i secoli, inserirsi da maestri nella tradizione cristiana e restarvi. Ad essi può dunque benissimo accadere di non essere del tutto ascoltati dai contemporanei, perché la provvidenza ha loro preparato ascoltatori che li seguiranno anche dopo molti secoli. – L’ordine internazionale e la pace dovevano giustamente temere le molte e facili illusioni. Nel radiomessaggio ai governanti e ai politici del 24 agosto 1939 Pio XII affermò che « nulla è perduto con la pace, tutto può essere perduto con la guerra ». Lo stesso anno a Natale trattò — nella allocuzione al sacro collegio — dei punti fondamentali per la pacifica convivenza dei popoli. Nel messaggio del Natale 1940 disse i presupposti essenziali di una pace giusta e duratura, completando questo corpo dottrinale nel Natale del 1941 col messaggio sulle sicure basi per il nuovo ordinamento del mondo. Aveva di fronte il rassegnato cedimento alla ineluttabilità del male, la disonorevole rinuncia alla fiducia nell’intimo valore della verità e della giustizia. Allora il richiamo a valori morali e soprannaturali, nei quali si possono redimere le cose umane, si fa preciso, incalzante, concreto. Egli vedeva, e giustamente, lo stesso danno, diffuso da un cedimento di più secoli, sul valore della persona e sulla capacità di reagire alle avverse fortune: nel Natale del 1943, dovrei dire, cantò la vittoria sulla delusione, e l’attesa della pace. – Quando la stanchezza stessa degli eventi fece presagire forse non lontana la ricostruzione dalle rovine, ne trattò gli strumenti. Cosi nel messaggio natalizio del 1944 dissertò della democrazia nei suoi aspetti e nei suoi strumenti, completando il grande messaggio del 1942. – È proprio dei grandi dolori conferire la capacità di alterare i confini tra la realtà ed il sogno; è nefasto nel reggimento dei popoli che quella alterazione dia avvio a linee e programmi difformi dalla umana natura e dal comportamento naturale della umana società. Pio XII si prese cura di riportare in quel messaggio la questione sul terreno concreto e trattò dei caratteri dei cittadini e del carattere dei responsabili in regime democratico, avvertendo che a questo né si convengono, né mai saranno utili le astrazioni. I problemi sociali sarebbero riapparsi per ragione di ovvia giustizia, ma coi caratteri conseguenti alle immani prove subite: cioè brucianti e frettolosi. Fino all’ultimo riprese il messaggio sociale di Leone XIII, di Pio XI. Fu accanto a quelli che attendevano una migliore promozione ai beni della terra, una maggiore considerazione obiettiva nel concreto della vita civile. Soprattutto, mirò sempre a difenderli dal supremo oltraggio pel quale usandosi la fascinosa proposizione di dare a loro un migliore pane, non si attuasse in verità il disegno di defraudarli della libertà e della dignità umana, fomentando passioni per averne frutti di tirannia sui popoli. La sua voce fu severa e chiara. Non accolse le facili suggestioni della popolarità che inganna; reciso nella giustizia, austero nei doveri maggiori, nelle maggiori responsabilità ammonì a non seguire metodi i quali partendo da false concezioni dell’uomo, l’uomo oltraggiano e non redimono affatto dalla miseria e dall’avvilimento. – Questo insegnamento magistrale è arrivato dappertutto; esso si rifrange per mille raggi su ogni argomento, su errori, su costumi pericolosi, su stati d’animo equivoci, su illusioni facili e seducenti per gli uomini. Ha il carattere dell’universalità ed appare dominato dalla ansietà di tutto raggiungere e per arrivare a tempo. Pio XII avvertiva che le articolazioni di una guerra fredda seguono le articolazioni di idee vaganti; avvertiva non meno che, oltre una guerra fredda tra schieramenti, esiste non meno grave una guerra tra uomini ed interessi. L’ansietà sua di chiarire ed ammonire crebbe cogli anni, anche se negli ultimi anni la sua visione appariva meno preoccupata ed angosciata. Così accompagnò il tempo di questa singolare guerra. Ed il suo insegnamento fu l’asse della sua azione di governo, aperto, unitario, coerente. Le guerre fanno camminare le cose, perché sono fatte di mutamenti. La accelerazione delle esperienze e del progresso, tali da far superare un secolo in pochi decenni non lo sorprese: chi numera le riforme, le possibilità date alla vita religiosa, l’amore all’Azione Cattolica, i ritocchi apportati all’ordinamento liturgico, il respiro della metodologia, il ritmo dei contatti, può rilevare che con lui la Chiesa ha accompagnato il ritmo stesso del nostro tempo. La guerra talune cose ha livellate, altre ne ha svuotate, altre ha spogliate di moto e di ideale, altre finalmente ha ricominciate a vestirne di illusioni. Se ne è disegnata una mentalità, che forse, solo la prospettiva storica permetterà di afferrare. Chi guarda da un punto unitario il multiforme operato di Pio XII si accorge che egli aveva compreso. – La seconda guerra è lo scoppio, per ora ultimo, di una prevalenza materiale sullo spirituale, di un comando che la macchina, creatura degli uomini, esercita ormai sugli uomini, senza risolvere più problemi di quanti ne aggrava. Pio XII parve sfiorare la terra, che toccò solo con gentilezza e carità grandi. Fu colle caratteristiche che tutti videro, col suo riserbo colla sua pietà, mite che poté sfiorare la terra e librarsi sopra di essa, sovra del suo dramma. La Chiesa? La Chiesa è per la salvezza del mondo e rappresenta bene la Chiesa chi sulle orme del Salvatore lavora bene per la salvezza del mondo. Pio XII ne vestì la responsabilità e la gloria, accompagnando il mondo nella sua grande prova. È evidente che nell’ultimo secolo le pagine della storia si accompagnano ai Pontificati e che i Pontificati sono essi a scandirla. Ciò è naturale, se si considera che in ragione della Incarnazione la storia cammina nel senso del regno di Dio e pertanto ne assume di fatto l’incomparabile ritmo. Il clero, le scuole, le scienze, le missioni, le nuove prospettive accolsero di Pio XII l’attenzione impegnata, non scevra di dolorosa preoccupazione, la fatica incessante. L’azione di governo gli impose l’usura di una precisione assorbente. I contatti coi popoli, con tutti, li moltiplicò imponendo ad un temperamento per natura riservato lo sforzo continuo della parola e del tratto accoglientissimo. Era evidente in lui una disciplina imposta per altissimo senso di dovere. Non gli era facile il parlare, nonostante le straordinarie capacità. Scrisse e imparò a memoria: solo negli ultimi anni si rassegnò a leggere, non sempre. In un solo anno tenne 183 discorsi: erano stati tutti diligentemente vergati da lui e detti inappuntabilmente con scrupoloso rispetto dell’esattezza, spesso con sforzo e disagio penosi. Era suo dovere, così pensava. A considerarlo ci si accorge di una grande limatura fatta in se stesso ed attorno a se stesso come se il superfluo del grande servizio a Dio dovesse essere allentato e nulla potesse ingombrare il tempo, la mente ed il diuturno sacrificio. La sua figura fisica ben si acconciava a questa sorta di transumanazione anche esterna, che le innumerevoli genti, passate di qui, comprendevano anche senza saperla analizzare e ricevendone per irradiazione quasi il dono di una divina grazia. Il Papa imponeva a sé limitazioni, che parvero estendersi al di là di lui stesso e che erano un atto di virtù e di fedeltà alla missione, portando con sé, e lo si intuiva, il segreto di un sacrificio, raccolto e penitente. La gentilezza dell’animo, la finezza della sensibilità gli moltiplicarono le pene, gli aggravarono le preoccupazioni, gli resero più dolorosi i timori e le ansietà. La fermezza del pensiero, il nitore del magistero, la forza delle grandi decisioni passavano in lui attraverso questo personale travaglio che trasformarono in purissimo sacrificio non pochi giorni del suo Pontificato. Con tale sacrificio, illuminato dalle caratteristiche della sua natura e dai tratti della sua personalità egli accompagnò la grande prova del mondo e della Chiesa. A lui, per temperamento restio, toccò di stabilire nella carità della dedizione e con una sorta di violenza fatta a se stesso, il più grande contatto che — in ragione dei moltiplicati mezzi tecnici — sia mai stato attuato dai Papi prima di lui. Quello che fece, fece per comprensione profonda, per comprensione lungimirante, soffrendo, ove i limiti si imponevano per sé e per tutti gli altri. La sua radiosa pietà, che lo aveva portato a scrivere e compiere cose grandi nella teologia mariana e nella glorificazione della Vergine Santissima, Assunta in cielo, che lo faceva inginocchiare con chiunque si trovasse nella sua biblioteca privata allorché percepiva il segno dell’Angelus per recitarlo, completò in angelica luce i suoi tratti. – Verso il termine della vita parve crescere una luminosa serenità, come se avesse sentito il profumo di una messe matura e nel messaggio della Pasqua del 1958, l’ultimo dei grandi messaggi della sua vita, additò non solo speranze, ma esultò come chi si trova in cospetto di luminose certezze: contemplò, si direbbe, lo splendore di una aurora. Molti furono stupiti ad intenderlo parlare cosi. – Quella visione di aurora è auspicio e promessa, suggello gioioso della continuità di sacrificio e di vittoria che raccoglie i Papi nella unica indefettibile realtà di Pietro vivente.

Roma, 8 marzo 1959

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (3), capp. III e IV

 

CAPITOLO III.

NASCITA E NOME DEL BUON LADRONE.

Pagano di nascita.— Egiziano di origine. — Particolarità sulle ruine presenti del Latroun nella Giudea. — Citazioni di Quaresime e di Monsignor Mislin. — Testimonianze del Vescovo di Equilium, di S. Agostino, del Vescovo Eusebio, di S. Giovanni Damasceno, di Pietro de Natalibus, del P. Orilia. — Secondo le tradizioni più antiche e più comuni, il nome del buon Ladrone era Dima. — Prove di questa tradizione: l’Evangelio di Nicodemo, il Vescovo di Equilium, Salmerone, Masino, Quaresimo, Pipino, Ravisio, Mauralico, i Bollandisti, Godoffredo di Vandume, Tcofilo de Raynaud, Silveira, il P. Orlila, il B. Simone da Cassia. — Particolarità del Martirologio Romano e decisione della Congregazione dei riti. — In qual modo si ò potuto conoscere il nome proprio del buon Ladrone. — L’araldo della giustizia e lo scritto. — Particolarità storiche.

Sul buon Ladrone, e la sua nascita, il suo nome e la sua vita, come su molti altri personaggi che vi figurano, il Vangelo serba un misterioso silenzio. Ma se non ci illumina il sole, non siamo perciò condannati a camminar nelle tenebre. Alla luce della rivelazione, almeno in parte, supplisce la fiaccola della tradizione. – Prestiamole orecchio. – Sulla Croce, dice S. Giovanni Crisostomo, Nostro Signore parlava ad un uomo digiuno delle sublimi verità della Religione; ad un uomo che non aveva conoscenza alcuna dei Profeti; che aveva passata tutta la vita net deserto a far opere di sangue; che mai, neppur di passaggio, aveva intesa un’istruzione religiosa; ad un uomo che mai aveva letto un brano qualunque della sacra Scrittura. – Come il Crisostomo parla S. Agostino: « Prima della sua crocifissione il Ladrone non conosceva punto il Cristo: se l’avesse conosciuto, forse non sarebbe stato l’ultimo degli apostoli, egli che fu il primo a salire al Cielo. » Lo stesso linguaggio trovasi nella bocca del Vescovo Eusebio: « Prima di montare al Calvario Quest’uomo (egli dice) non conosceva né religione né Cristo. » – Esser nell’ignoranza completa della verità della fede, non conoscer nulla né dei profeti né delle scritture, e non sapere neppure se esistesse una religione ed un Messia; ad un Giudeo di nascita, per abbandonato che voglia supporsi, non pare che possa convenir un somigliante ritratto. – Un altro motivo da crederlo pagano si è che sul Calvario egli era il rappresentante e la figura dei Gentili, come il cattivo Ladrone lo era dei Giudei. « Sulla croce, dice il Crisostomo, i due ladroni furono immagine dei Giudei e dei Gentili. Il ladrone penitente è 1’immagine del gentilismo, che dapprima camminava nelle vie dell’errore, e viene poi alla verità: il ladrone che rimane ladrone fino alla morte, è la immagine dei Giudei. – Fino all’ora della crocifissione eglino batterono di conserva la via dell’iniquità. La croce li separò. » — Da tutti questi indizi possiamo conchiudere che il buon ladrone fosse pagano; né ci pare una tal conclusione forzata. Oltre poi i tratti distintivi del buon ladrone, che si applicano perfettamente ad un idolatra, tutti sanno che la Palestina era circondata da popolazioni pagane. Rimane a sapersi però qual fosse il luogo della sua nascita. Nacque egli nel deserto, in una caverna di masnadieri, o vide la luce in paese abitato? A siffatte domande la tradizione non dà una risposta certa, e solo ci dà notizia dei luoghi in cui dimorava, e che erano il teatro delle sue imprese. Il dotto Quaresmio commissario apostolico in Terra Santa, che ci lasciò due volumi in folio sulla Palestina, descrive in questi termini il viaggio da Jaffa a Gerusalemme. – « Da Rama, ove prendono riposo i pellegrini di Gerusalemme, si dirigano all’oriente verso la santa città. « Da Rama a Gerusalemme si contano pressoché trenta miglia. Tranne la valle di Rama che è fertile, deliziosa e dell’estensione di circa otto miglia, il rimanente della via è di accesso difficile, e non vi si incontrano che montagne e rupi. – « A circa dieci miglia da Rama, a dritta e ad un mezzo miglio dalla strada maestra, si scorge un diruto villaggio sulla cima di un colle. Lassù esisteva già una gran Chiesa, che oggi è quasi interamente distrutta. Quell’ammasso di rovine porta nel paese il nome di Villaggio del Buon Ladrone. Ma non è certo però che ivi egli nascesse. La tradizione ci fa solo sapere che in suo onore fu edificata la Chiesa, della quale ora non si scorgono che le rovine. » – Ecco quanto lasciava scritto al principio del secolo decimosettimo uno dei più accurati storici della Palestina. Ai tempi nostri un viaggiatore non meno autorevole ci prova anche una volta, che nell’Oriente tutto sembra immortale, così le tradizioni, come le rovine.  Al di là di Rama, dice Monsignor Mislin, la strada prosegue per due ore di cammino sopra un terreno sassoso ed ineguale fino alle prime gole delle montagne della Giudea. Là si incontra qualche tugurio abitato, e sulla collina si scorgono le rovine di Latroun luogo della abitazione presunta del Buon Ladrone. Latroun al pari dei castelli di Plans e di Maé, dei quali si vedono appena gli avanzi sulle vicine eminenze, fu distrutto da Saladino dopo la demolizione di Ioppe, di Rama, e di Àscalon. Quelle rovine, il cui aspetto è sinistro come le loro memorie, erano anche pia terribili alcuni anni addietro, poiché servivano di ricovero a banditi, che del Buon Ladrone avevan soltanto seguito la tradizione della vita e non quella del suo pentimento; ma Ibrahim aveva distrutto quei ridotti del brigantaggio, e sotto il suo governo tornata era la sicurezza. Se non che caduta nuovamente quella regione sotto il dominio dei Pascià di Costantinopoli, vi tornarono anche i ladroni di Latroun, e pare anche in buon numero. » [Luoghi Santi, t. I, c. XVII, p. 408]. – A qual razza apparteneva il Buon Ladrone? Era egli Arabo, Sirio, o Fenicio ? La più comune sentenza lo fa Egiziano. « Gli autori che io citava, dice Quaresimo, mi persuadono che egli fosse Egiziano di nascita. Egli dunque non nacque nella Giudea, nel luogo il cui nome richiama la sua memoria. Certo è soltanto che in quel luogo la pietà de fedeli edificò una Chiesa in di lui onore. » – Che Disma fosse Egiziano, uno dei dotti collettori delle nostre antiche tradizioni, il vescovo di Equilio, l’afferma decisamente sulla testimonianza di S. Giovanni Damasceno. « Questo ladro era Egiziano, come vedesi in S. Giovanni Damasceno; e quando Nostro Signore fu costretto a fuggire in Egitto, esso esercitava colà il mestiere di brigante, e coi suoi compagni spogliava i viandanti. » Questa opinione, aggiunge il P. Orilia, pare assai ben fondata per dare la certezza morale che il buon Ladrone fosse Egiziano di nascita. Se egli è così, il ladro del deserto era immerso nella più profonda e crassa idolatria del mondo antico. Adoratore del serpente vivo, del serpente familiare, del serpente dio e re, del dragone di Meteli, del Capro di Mendès, del coccodrillo del Nilo, del gatto, del bue, della cipolla, in una parola adoratore del demonio nelle sue svariate manifestazioni, le une più degradanti e più abominevoli delle altre, ecco qual era il buon ladrone. Dal fondo di questo abisso alla sommità del Calvario, misurate qual è l’intervallo, e conoscerete la grandezza e potenza del miracolo, che in un batter d’occhio fece di un idolatra brigante del deserto un santo. E qual’ era il nome di questo privilegiato della grazia? A siffatta domanda non abbiamo trovata risposta né monumenti anteriori alla fine del secondo secolo. A partir da quell’epoca, la tradizione più comune in Oriente e nell’Occidente, sicuramente fondata su testimonianze oggi non più conosciute, afferma che il buon Ladrone chiamavasi Dima, e Gesta il cattivo. – « Pilato, dice il vangelo di Nicodemo, ordinò che a seconda dell’accusa fatta dagli Ebrei, si scrivesse in una tabella in lettere ebraiche, greche, e latine: Questi è il re dei Giudei Uno dei ladroni ch’era pur crocifìsso, chiamato Gesta, disse a Gesù: « Se tu sei il Cristo salva te stesso e noi. » Dima parlando alla sua volta, lo rimproverò dicendo: « E non hai punto timor di Dio, tu che sei di quelli contro i quali la condanna fu meritamente pronunziata? » [Evang. Apocr. c. ix, p. 243, edit. Brunet.]. – Pietro de Natali, nel suo Catalogo dei Santi ci dà i medesimi nomi. « Al tempo della morte di Nostro Signore – furono arrestati i due masnadieri Dima e Gesta. Condannati a morte, essi furono crocifìssi insieme con Gesù Cristo. » Il dotto arcivescovo di Genova, Giacomo di Voragine, predicando al suo popolo, si espresse così: « Il giovane ladro che persuase i suoi compagni a lasciar passare incolume la sacra famiglia, è il ladrone Dima. » Il sommo teologo Salmerone parla come quegli antichi. Secondo Nicodemo i due ladri si chiamavano Dima e Gesta: erano essi i due più famosi ladroni del loro tempo. » Nella sua Bologna illustrata il Masino scrive. «San Dima, il buon Ladrone, è onorato nella Chiesa dei santi Vitale ed Agricola nella quale si conserva un frammento della sua croce. – Quaresimo è l’eco della medesima tradizione. Egli dice: « Quanto al nome del Buon Ladrone, che è nella memoria del Signore, gli antichi martirologi lo chiamano Dima. Lo stesso nome gli è dato da Guglielmo Pipino e dal Ravisio, i quali lo han pure per Egiziano di origine. » Uno dei predecessori del Baronio nella relazione del Martirologio, il celebre Maurolico, la cui parola è di grande autorità, pone senza alcuna riserva il nome di S. Dima nel suo Martirologio, ed i Bollandisti lo citano senza fare alcuna osservazione in contrario. Il medesimo nome si trova in Teofilo Rainaldo, in Gotofredo di Vendòme, nel Maionio, nel P. Orilia, nel B. Simone da Cassia, nel dotto teologo spognuolo Sylveira ed in molti altri autori. Al 25 marzo, il Martirologio romano, riveduto dall’immortale Baronio, fa menzione del Buon Ladrone in questi termini. « A Gerusalemme, commemorazione del Buon Ladrone che confessò Gesù Cristo sulla croce e meritò di sentirsi dire: Oggi sarai meco in paradiso. » [« Hierosolymis commemoratio sancti latronis, qui in cruce Christum cunfessus ab eo meruit audire: Hodie meeum eris in paradiso. »] – Sulla qual cosa il prudente cardinale fa questa nota, la cui riserva si spiega per la natura di un’opera, come il Martirologio, redatta nel secolo decimosesto. « I più lo chiamano Dima. Ciò nondimeno, siccome un tal nome è tratto dagli apocrifi, pare che avvenentemente e per questa ragione fosse omesso nel Martirologio. Malgrado ciò, sappiamo trovarsi un certo numero di santuari e di altari eretti sotto il nome di s. Dima » Egli è certamente nel medesimo spirito (cioè per prevenire il gracchiare dei protestanti e degli Ipercritici moderni) che Sisto V alla fine del medesimo secolo, e la congregazione dei riti nel 1724, soppressero il nome di Dima, accordando all’ordine della mercede, ed a quello dei Pii Operai la facoltà di recitare l’officio del Buon Ladrone [Vedi Bened. XlV, De canonizat. SS., lib. IV, p. II, c. XII, n. 10]. La medesima concessione fu fatta alle stesse condizioni ai Chierici Regolari di s. Gaetano Tiene. La prudente riserva della Chiesa Romana distrugge forse la tradizione della quale abbiamo ragionato? Non dubitiamo punto di ciò. Ammettendo che il nome proprio del buon Ladrone unicamente siasi tratto dagli apocrifi, tutti convengono che quei libri posseggono un qualche fondo di verità, e ne abbiamo già date le prove. Sul punto poi di cui si tratta presentemente, la verità è molto ben raffermata dall’aver ottenuto dall’un canto, il consenso del più gran numero degli organi della tradizione (plerique dice il Baronio), e per avere dall’altro, senza osservazione o richiamo della Chiesa, dato luogo in diversi paesi della Cristianità, e segnatamente in Italia, alla erezione di sacri edifici sotto il nome di s. Dima, nome proprio del buon Ladrone. E siccome a noi parrebbe temeraria cosa tacciar di leggerezza tanti uomini rispettabili, che di secolo in secolo hanno a noi trasmesso il nome di Dima, questo nome conserveremo nel corso di quest’opera, al glorioso crocifisso del Calvario. D’altronde se riflettiamo agli usi dell’antichità, comprenderemo facilmente essersi potuto sapere con certezza il nome dei due ladroni. Ai nostri giorni, almeno in Francia, si mettono a morte i rei condannati senza pubblicare i loro nomi al momento dell’esecuzione della condanna, e senza affiggerli in appositi cartelli; e nondimeno tutti li conoscono. Anticamente, oltre i dibattimenti giudiziaria v’era un’altra specie di pubblicità più immediata e più solenne. Presso gli Ebrei come presso i Romani, quando il momento dell’esecuzione era giunto, costumavasi di far proclamare il nome del condannato da un araldo che lo precedeva, o di scriverlo a grossi caratteri su di una tavoletta sospesa al di lui collo durante la funebre marcia, ed appesa poi all’istromento del supplizio sul capo del condannato: e questo appunto ebbe luogo a riguardo di Nostro Signore. L’adorabile nome suo fu scritto in tre lingue su di una tabella, la quale o venne fissata sulla croce nell’uscire dal Pretorio di Pilato, e così appesa fu portata da Nostro Signore; o innanzi a lui la portò un ministro della giustizia, nel percorrere ch’Ei fece la via dolorosa. Certo è che giunto il corteggio sulla cima del Calvario, lo scritto fu collocato sulla Croce al di sopra del capo del divino Condannato. Fra i moltissimi spettatori, venuti di fresco a Gerusalemme da ogni parte per le solennità della Pasqua, quanti solamente per quella tabella vennero forse a sapere il nome e le qualità della Vittima augusta? Nella stessa guisa tutta Gerusalemme e tutti gli stranieri accorsi poterono sapere il nome del buon Ladrone, e saperlo con certezza. Quello che ebbe luogo a riguardo di Nostro Signore non era già una singolarità, nè un’eccezione. Come l’abbiamo fatto rilevare, nelle esecuzioni capitali la proclamazione dei nome del condannato o la tabella, o l’una o l’altra cosa, era d’uso comune. L’erudito Giusto Lipsio parlando della crocifissione in particolare ci dice: « Sospeso che fosse il condannato alla croce, si appendeva la iscrizione. E che diceva essa? La causa del supplizio, il delitto commesso… e usavasi portare questa iscrizione avanti al condannato, o obbligare lui stesso a portarla. »  L’asserto di Giusto Lipsio ha per fondamento la storia. Ecco ciò che narra Svetonio di Caligola. « Uno schiavo a Roma in un pubblico banchetto avendo tolta da un letto una bandella dì argento, Caio lo diede sul momento in mano al carnefice con ordine di tagliargli le mani, e appendergliele al collo innanzi al petto, e di condurlo cosi attorno ai convitati, preceduto da una tavoletta che significasse la causa del suo supplizio. » Domiziano imita Caligola, o per dir meglio si uniforma all’uso. Dava quel barbaro imperatore dei giuochi al popolo nel Colosseo. Fra i cento mila spettatori, eravi un padre di famiglia, un veterano appartenente al Corpo dei Parmularii. Codesti erano soldati che prendevano il nome dal loro scudo, chiamato parma. Facendo uso della libertà di cui godevano i soldati romani, egli si permise una facezia nel vedere un gladiatore della Tracia di meschina apparenza, e disse: « Questo Trace è un gladiatore poco degno di chi dà questo spettacolo. » Domiziano prese per fatto a lui lo scherzo, vi trovò un offesa alla sua divinità, e senza indugio lo fece uscire dalla folla, e gli fece appendere al collo un’iscrizione che diceva : Questo Parmulario ha parlato empiamente. Condotto in mezzo al circo fu sbranato dai cani. – I fatti qui narrati non sono già eccezioni da attribuirsi alla personale crudeltà dei due coronati tiranni. Essi erano, lo ripetiamo, conformi all’uso. Non solamente si proclamava il nome del condannato, ma si suonavano campanelli e trombe innanzi ad esso, per avvisarne il popolo. Ascoltiamo Tacito e Seneca. « Allorquando i Consoli, dice il primo, ebbero condotto Publio Marzio fuori della porta Esquilina fecero suonare la tromba, e mettere a morte il colpevole secondo l’uso dei nostri maggiori. » Descrivendo un supplizio, il secondo si esprime così: « Il Pretore sale sul suo tribunale, tutti sono rivolti a lui. Si legano al reo le mani dietro le spalle: gli occhi di tutti sono aperti a mirarlo, su tutti i volti è dipinta la tristezza. L’araldo impone silenzio, pronunzia la formula della legge, e la tromba suona di nuovo. » Cosi praticavasi in tutto l’impero. Giammai un reo condannato conducevasi ai supplizio senza lo scritto, o l’araldo che proclamasse la causa della sua condanna. Di là quel detto volgare. « Il tale ò comparso innanzi al giudice colla tabella. Citiamone ancora alcuni esempi. Sparziano riferisce che Settimio Severo prima di essere imperatore, fu nominato governatore della provincia proconsolare di Africa. Uno dei suoi antichi compagni di studio, del municipio di Lepli, gli uscì incontro accompagnato da fiaccole; e benché plebeo, credé di poterlo abbracciare. L’orgoglioso Proconsole lo fece battere con verghe, nell’atto che un araldo gridava: Plebeo non essere temerario a tal segno da osare di stringere fra le tue braccia un Delegato del popolo Romano. Nella vita di Alessandro Severo troviamo un fatto consimile. Era tra i cortigiani di questo Principe un tal Vetronio Turino, che confidavasi di aver molta influenza sull’imperatore e di ottener da lui ogni cosa che dimandasse. Chiunque aveva da impetrar grazia, o chiedere un impiego, si raccomandava a Turino. Questi prometteva di parlarne all’imperatore, ma non ne faceva nulla. Ciò nondimeno accettava di nascosto larghi compensi per quel supposti suoi buoni uffici. Sotto una forma un po’ diversa, quelle largizioni erano ciò che sono le mance nel secolo decimonono. Alessandro venne in cognizione della frode, e sul momento fece arrestare Turino. Per suo comando il venditore di fumo fu condotto sulla pubblica piazza chiamata Foro Transitorio, e sospeso ad un trave o croce semplice, a pie della quale si dà fuoco a della paglia o legna umide. Nell’atto ch’egli era così soffocato, un araldo gridava: « Si punisce col fumo chi ha fatto mercato di fumo. » Un rescritto imperiale di Severo e di Antonino si esprime così: « Chiunque avrà spergiurato pel genio del principe, sarà battuto colle verghe, e gli sarà gridato: Impara a non spergiurare. » Tertulliano fa parola dell’uso medesimo praticato a riguardo dei Cristiani; e numerosi fatti confermano la testimonianza dell’illustre Apologista. Eccone soltanto due fra tanti. Nel racconto del martirio di S. Agnese, S. Ambrogio dice: « Il Giudice ordinò che la fosse condotta al lupanare accompagnata dall’araldo della giustizia che gridava: Agnese, vergine sacrilega, colpevole di bestemmie contro gli Dei, condannata al lupanare. » La città di Lione, in quella fiera persecuzione che la inondò di sangue cristiano, fu testimone di somiglianti spettacoli. Uno dei suoi più gloriosi martiri, Attalo, fu fatto passeggiare per tutto l’anfiteatro preceduto da una tabella nella quale leggevasi: « Costui è Attalo Cristiano. » La iscrizione dei nostri Padri generalmente era questa: « Nemici degli imperatori e degli Dei: Imperatorum et Deorum inimici. » – L’immobile o tenace Oriente nulla ha cambiato all’antico uso. Preceduti tuttavia da una tabella scritta vanno al martirio i nostri Missionari del Tonchino, della Concincina, o della Corea. Nel Seminario delle Missioni straniere a Parigi, possono vedersi alcune di siffatte tabelle, su cui sono impressi i nomi, e la cagione della loro condanna. Citeremo quella di Schaoftler martirizzato il 1 maggio 1851. Pochi passi innanzi al confessore della fede un soldato portava in alto, a guisa di stendardo, una tavoletta, nella quale leggevasi scritto a grossi caratteri: « Non ostante la severa proibizione emanata contro la religione di Gesù, il signor Agostino, prete europeo, ha osato venir qui clandestinamente a predicarla e sedurre il popolo. Arrestato egli confessò tutto, e il suo delitto è patente. Il signor Agostino abbia reciso il capo, e sia questo gettato nel fiume. » Nel 1806 noi troviamo l’ uso medesimo in Corea. Il giovedì 8 marzo, i quattro martiri Monsignor Berneux, i signori de Bretenieres, Beaulieu e Dorie, furono tratti dalla prigione, e posti a sedere sopra una lunga sedia portata da due uomini; avevano mani e piedi legati ai pioli della detta sedia, e la testa elevata perché anche i capelli erano attaccati. Andavano essi alla morte guardando il cielo, ove tra poco erano per essere coronati. Al di sopra del loro capo era fissa una tabella, sulle cui due facce leggevasi questa sentenza: « Ribelli e contumaci, condannati a morte dopo di aver sofferto molte torture. » Due giorni appresso, il 10 marzo, si ebbe altro simile spettacolo. Un carro sul quale è innalzata una croce, si ferma innanzi alla prigione dei martiri. Se ne fa venir fuori il venerabile Pietro Tjoi, e viene attaccato alla croce. I suoi piedi posano sopra uno sgabello, le sue gambe sono legate all’albero della croce, le sue braccia distese su quella, ed i suoi capelli annodati ad un travicello che sormonta lo strumento del supplizio. Al di sopra il capo, si legge la sentenza di morte. Quanto praticavasi presso i romani, e si pratica tuttavia presso i differenti popoli di Oriente, invariabilmente era in uso presso gli Ebrei. L’iscrizione era una lezione data al popolo, affinché tutti fossero ammaestrati dall’altrui sventura. Al pari di Nostro Signore ebbero anche i due ladroni nel Calvario la loro iscrizione? Tutto ci porta a crederlo; ma checché ne sia, le particolari notizie di quest’uso che abbiamo raccolte, mostrano per qual via si poté conoscere il nome proprio del buon Ladrone, e danno un buon fondamento alla tradizione, che ce lo ha trasmesso.

CAPITOLO IV.

VITA DEL BUON LADRONE.

Suo padre era un capo di masnada.— Il buon Ladrone nacque in mezzo ai ladri. — Crebbe in mezzo ad essi. — Commise tutti i delitti soliti a commettersi dai briganti. — Testimonianze di Feste, di S. Ambrogio, di S. Crisostomo, di S. Leone e del Vescovo Eusebio. — Fu omicida del proprio fratello.—Passi di S. Eulogio e di S. Gregorio Magno. — La crocifissione, prova della sua estrema colpabilità. — Uso della crocifissione presso i pagani; esempi citati dagli storici dell’Oriente e dell’Occidente. — Dima ladro di strada per trenta o quarant’anni.— Giudicato, dicesi, a Gerico, e condotto a Gerusalemme per dare maggior pubblicità al suo supplizio. — Particolarità  sulla sua prigione.

L’acqua che scaturisce da sorgente fangosa potrà ella esser mai limpida? L’albero, la cui radice è guasta potrà egli dare frutti sani e saporosi? Se la prima divien chiara e cristallina, ed il secondo senza punto risentire della natia infezione, darà frutti eccellenti, sarà questo un miracolo della natura. Nell’ordine morale avviene il medesimo. Quale è il padre, tale è il figlio: e nella sua generalità il proverbio è vero. Il contrario non è che l’eccezione; e l’eccezione conferma la regola. Vogliamo noi sapere qual si fosse il Buon Ladrone? Vediamo qual ne fosse il padre. Era costui un capo brigante: Princeps latronum. Nei diversi stati sociali, nel militare a cagion d’esempio, si giunge ai gradi superiori per il sangue freddo, il coraggio e le generose azioni, non che per provata scienza dell’arte della guerra. Come lotta di banditi contro la società, il mestiere di brigante non fa eccezione. Per divenire capo brigante, le qualità richieste sono l’astuzia e l’abilità nel concertare il delitto, l’audacia e la forza che non esitano di venire alla scalata delle mura e all’atterramento delle porte: la cupidigia e la crudeltà che ha per cose da nulla 1’omicidio, il saccheggio e l’incendio. – Un capo di briganti deve essere un eroe del misfatto. La ragione lo dice, e la storia lo conferma. Tal era il padre di Dima; ed il figlio fu degno del padre. Le notizie che la storia profana ci ha tramandate intorno ai briganti della Palestina al tempo di Gesù Nazareno, ci permettono di asserire come cosa verosimile che Dima nascesse in una spelonca di ladri. Dall’un canto noi vedemmo il capo di masnada Eleazaro, sfidare i gendarmi di quel tempo, ed anche interi corpi di truppe romane, e tenere per venti anni in un continuo allarme il paese. Ben si comprende ch’egli ebbe il tempo di ammogliarsi e di aver figli. Dall’altro pare che s. Giovanni Crisostomo senza ambagi asserisca che la culla del buon Ladrone fu una caverna di ladri. « Quest’uomo, egli dice, non aveva mai conosciuto che le lande del deserto: Omne tempus in desertis loci transegerat » Checche ne sia della nascita di Dima, il testo da noi citato ci fa sapere che fu educato in mezzo ai ladri, e da ladri. Lo sciagurato giovane non conobbe gli altri uomini, se non pel male che vide far ad essi, o ch’egli stesso fece loro; ed ebbe certamente occasione di farne. Tale è la testimonianza della tradizione, della quale si fecero interpreti i Padri della Chiesa. Da principio la sua professione lo forzava a mal fare. – Por vivere faceva d’uopo rubare, e per conseguenza assaltare, ferire, ed al bisogno, uccidere. Per propria difesa bisognava commettere i medesimi attentati. Per fare delle rappresaglie, nel caso di un colpo fallito, era necessario ricorrere agli stessi, ed anche a più odiosi mezzi. Si può aggiungere anche il desiderio di mostrarsi degno figlio del padre; un certo stimolo dì amor proprio onde distinguersi tra i suoi compagni; in fine, il bisogno di ispirare un gran terrore per meglio riuscire. Siffatte condizioni, la cui realtà è facile a comprendersi, erano per Dima altrettanti incentivi a perfezionarsi nella scelleratezza: senza di che non si è un buon Ladro, e soprattutto ladro di professione e di pubblica strada. – Dima era stato educato a troppo buona scuola per non comprendere tutto questo. Al dire di s. Ambrogio, egli visse ed invecchiò nell’abitudine dei più gravi delitti. Lo confessò egli stesso, o su di se attirò la spada della giustizia. E quali erano i suoi delitti? S. Leone e s. Giovanni Crisostomo ne riferiscono alcuni. Assalti a mano armata sui viandanti; invasioni con rottura di porte; omicidi, e tutto ciò che la perversità può ispirare di più iniquo contro la vita e le sostanze altrui. Come lo star nella tomba conduco i corpi alla putrefazione, così la lunga abitudine del delitto aveva tutte guaste e corrotte le facoltà dell’anima sua. A tanti misfatti s. Gregorio Magno e s. Eulogio ne aggiungono un altro che li sorpassa tutti; ed è il fratricidio. « Dolce cosa ella è, dice il primo, fermare lo sguardo su questo ladrone, che dall’abisso del delitto ascende sulla croce, e dalla croce al paradiso. Vediamo qual egli arriva al patibolo, e quale ne parte. Egli viene reo del fraterno sangue, e tutto cosperso di altro sangue; ma sulla croce la grazia interiore lo trasforma. – Colui che aveva dato la morie al fratello, esalta e glorifica la vita del Signore moribondo con queste fiduciose parole: Sovvengati di me quando sarai nel tuo regno » – E S. Eulogio dice : « Quale ostacolo fu mai per il ladrone del Calvario l’esser asceso sulla croce macchiato del sangue di suo fratello? Per quali miracoli poté segnalarsi nelle angosce della morte? Questo uomo aveva, per così dire, consumata la sua vita in azioni da brigante, in furti e rapine. Ciò nondimeno un solo istante di pentimento non solamente lo giustifica da quel gran misfatto, ma lo rende pur degno di accompagnare il Redentere, e di entrar per il primo nel cielo, giusta la promessa dello stesso Signore: Oggi sarai meco in paradiso » Quest’ultimo delitto del fratricidio, dico più che qualunque altro discorso. Colui che, misconoscendo i più sacri legami, non dubitò di bagnarsi le mani nel sangue di suo fratello, di che mai non fu capace? Laonde per caratterizzare d’un solo tratto il novello Caino, il vescovo Eusebio lo chiama insigne scellerato, uomo tutto ravvolto nelle iniquità. – Infine, le testimonianze de’ Padri sono solennemente confermate dal supplizio, al quale Dima fu condannato. La crocifissione era il più crudele ed il più ignominioso di tutti i generi di morte. « È delitto, dice Cicerone, legare un cittadino romano; scellerata cosa il batterlo colle verghe; quasi parricidio il metterlo a morte. E che dirò io del crocifiggerlo? Supplizio crudele, il più atroce d’ogni altro: io non trovo parole per qualificare una simile iniquità » – S. Giovanni Crisostomo fa osservare che per disonorare Nostro Signore, gli Ebrei lo vollero condannato al supplizio della croce, « In vero, egli dice, la morte sulla croce è una morte obbrobriosa, infamante; morte crudele, e la più crudele di tutte le altre; maledizione presso gli Ebrei, e abominazione pei Gentili. » Per tal motivo in tutta l’antichità questo genere di morte era riservato a ciò che v’era di più vile, e di più criminoso. Tacito lo chiama « il supplizio degli schiavi » servile supplicium. Ora nessuno può ignorare che presso gli antichi nulla v’era di più vile di uno schiavo. Ed anche meno che vile, esso non era nulla: Non tam vilis, quam nullus. « Asiatico che era uno schiavo reso libero, dice quello storico, espiò col supplizio degli schiavi l’abuso che aveva fatto del suo potere. » In Giovenale noi vediamo una donna romana che dice: « È uno schiavo, crocifiggilo. » All’occorrenza di una congiura di schiavi, così narra Dionigi di Alicarnasso: « Tosto gli uni furono strappati dalle case, gli altri arrestati nelle pubbliche piazze, e tutti crocifissi. » Capitolino ci narra di Macrono che, per far onta ai soldati si permetteva di farli mettere in croce, siccome schiavi. – Nella vita di colui che si volle chiamare il Divino Augusto, e del quale parecchi scrittori lodano ancor la clemenza, si trova un tratto che mostra qual peso delibasi dare agli elogi resi a certuni: ed il fatto storico del quale ci occupiamo lo prova. Dopo la guerra di Sicilia, il dementissimo Ottavio fece ricerca degli schiavi che in quella avevano combattuto. Quelli, dei quali si trovarono i padroni, furono ad essi restituiti; gli altri furono crocifìssi; ed erano sei mila. – Tito all’assedio di Gerusalemme, Tito la delizia dell’uman genere, nello stesso modo diè prova della bontà dell’animo suo e del conto che faceva degli Ebrei. Giuseppe, testimonio oculare, lasciò scritto: « Durante l’assedio, Tito in ciascun giorno fece crocifiggere cinquecento Ebrei e più: e per la gran moltitudine, mancava lo spazio alle croci, e le croci a tanti corpi. » – Dopo gli schiavi, nulla v’era di più vile dei ladri di pubblica strada. Si aggiungeva al disprezzo l’orrore, ed il supplizio della croce esprimeva questi due sentimenti. « Parve conveniente, dice il codice penale dei Romani, che i masnadieri famosi fossero crocifìssi sui luoghi stessi ne’ quali avevano esercitato il loro brigantaggio. » Riassumendo tutta la legislazione criminale degli antichi, il dottissimo P. Lamy si esprime così: « Il supplizio degli schiavi, dei briganti, degli assassini, dei sediziosi, era la croce. Eglino vi rimanevan appesi fino a che morissero di fame, di sete, e di dolore; e dopo la morte, eran fatti pasto dei cani, e dei corvi. – Così presso i Romani non v’era supplizio più crudele e più infame. » Qui faremo notare un miracolo non abbastanza rivelato, ed un uso tuttavia praticato, del quale pochi sicuramente sanno il significato. Quanto la croce era una cosa ignominiosa, o mal compresa nell’antichità pagana, altrettanto, dopo l’avvenimento del Calvario, è essa un simbolo sacro, eloquente e glorioso presso i popoli cristiani. Fra mille altri segui di rispetto, gli antichi imperatori nei pubblici atti apponevano sempre una croce innanzi alla loro firma. Questa era l’autentica sacra di ciò che intendevano dire. In prova della verità di loro parole, i vescovi han ritenuto quest’uso. Sempre, ed anche oggigiorno, coloro che non sanno scrivere, si sottoscrivono con una croce. Egli è questo un atto di fede nelle scritture pubbliche. – Né soltanto per punire i famosi malfattori si usava il supplizio della croce; ma altresì per dare un gran risalto alla loro punizione, e per produrre sulle moltitudini una durevole e profonda impressione. Per tal ragione Dima, uno dei più famigerati briganti del suo tempo, aveva diritto alla crocifissione. Noi dicemmo un’impressione durevole, perché tranne presso gli Ebrei, era uso comune di lasciar sulla croce i corpi dei giustiziati fino a che fossero divorati dagli uccelli di rapina, o putrefatti cadessero a brani. Col medesimo intendimento di vilipendere il condannato e d’ispirar terrore, vediamo la crocifissione praticata in alcune solenni occasioni, le quali ci fan risovvenire un avvenimento di data recente. Il mondo civilizzato dai Cristianesimo fu compreso di orrore alla notizia del tragico fine dell’imperatore Massimiliano. – Facendo fucilare quello sventurato principe, il selvaggio Juarez fece di bel nuovo ciò che solevano fare i Pagani a riguardo delle teste coronate. Quando essi volevano sfogare il maltalento e l’odio loro, atterrire le moltitudini e coprire di vergogna un re, o un qualche illustre personaggio, lo crocifiggevano. Tal fu l’intendimento del barbaro Messicano. Per mezzo del suo luogotenente Escobedo, non dubitò egli di notificare al mondo intero l’iniquo attentato. « Con l’uccisione di quei capi dei traditori, ho posto il terrore all’ordine del giorno. » Non altrimenti la pensavano gli antichi pagani. Sul conto degli Egiziani, Tucidide narra che avendo essi, come Juarez, arrestato a tradimento il re Inaro, lo crocifissero. Altrove noi vediamo Àgatocle condannato a morte, e talune matrone crocifisse per vendicare Euridice. Presso i Cartaginesi, i più illustri personaggi della repubblica, i generali dell’esercito, colpevoli di aver riportato anche vittoria operando in contrario alle istruzioni del senato, erano senza pietà condannati al supplizio della croce. Finalmente Plutarco e Quinto Curzio ci fan sapere che Alessandro non si mostrò men crudele di Augusto, di Tito, e degli altri, poiché fece crocifiggere il medico Glauco, e buon numero di bravi soldati, colpevoli di aver valorosamente protetta e difesa la città che ad essi era stata confidata. Riserbato egli stesso al supplizio della croce, e come brigante di professione, e come masnadiere famoso, Dima aveva colmata la misura dei suoi misfatti. Àmmettendo, secondo la tradizione, ch’egli fosse nel primo fiore degli anni, quando incontrò la sacra Famiglia, avrebbe egli passato trenta o quarant’anni della sua vita nel brigantaggio. Quindi è che all’ epoca del supplizio era tra i 50 e i 60 anni di età. Istrumento della divina giustizia doveva pure la giustizia umana aver la sua parte. È questa una legge invariabile, senza la quale non potrebbe la società umana sussistere. Se in questo mondo ancora il delitto andasse sempre impunito, la terra diverrebbe un teatro di sangue, ed il genere umano una mandria di lupi, che si sgozzerebbero fra loro. Egli è vero che, per un altro motivo, spesse volte la giustizia divina è lenta a punire; ma ben sovente compensa l’indugio colla severità della pena. Dima ne fece la prova. Fortunatamente per lui, che alla giustizia tenne dietro la misericordia. La tradizione non ci ha fatto conoscere come e dove cadesse nelle mani della giustizia. Si crede che l’arresto di lui avesse luogo nelle vicinanze di Gerico, e ch’egli ed i suoi compagni fossero giudicati in quella città. Ma certamente per disposizione di Pilato, furono condotti a Gerusalemme, per darvi lo spettacolo del loro supplizio nella ricorrenza della Pasqua. Questo era il mezzo di dare la più gran pubblicità alla loro punizione, e di rassicurare così le popolazioni, facendole assistere alla morte di quelli, che per lungo tempo erano stati per loro di tanto terrore. Non occorre dire che i due masnadieri furono caricati di catene e gettati nelle tenebre di un’orrenda prigione. – In Gerusalemme erano le carceri nei sotterranei del palazzo di Erode, poco lungi dal pretorio di Pilato. In esse erano custoditi i grandi malfattori rei di delitti capitali; per attendervi il loro supplizio. Noi dicemmo orrenda la prigione, nella quale Dima fu rinchiuso, perché tali erano tutte le prigioni degli antichi: ergastoli oscuri, umidi sotterranei, con porte di ferro, nei quali gli sciagurati con catene ai piedi, e la persona attaccata pel collo al muro con un anello, soffrivano torture non meno crudeli della morte. Se voglia aversene un saggio, non si ha che a visitare in Roma il carcere Mamertino. – Quel che le prigioni erano allora, Io sono ancora oggidì presso i Turchi, i Cinesi, n gli Annamiti, insomma ovunque non è tollerato il Cristianesimo. La sola legge di carità ha mitigato il rigore della carcere, e addolcita la sorte dei prigionieri. Quanto tempo rimase Dima nel carcere? La tradizione non lo dice: essa soltanto ci lascia presumere quanto egli ci abbia sofferto.

MESSA del SACRO CUORE IMMACOLATO DI MARIA

FESTA DEL CUORE IMMACOLATO DI MARIA

La devozione al Cuore Immacolato.

La devozione al Cuore Immacolato di Maria è antica come il Cristianesimo. Lo Spirito Santo l’insegnò per mezzo di san Luca, l’evangelista dell’infanzia del Salvatore: «Maria conservava nel suo Cuore e meditava tutte queste cose ». « E la Madre di Gesù conservava tutte queste cose nel suo Cuore» (Lc. II, 19; 51). La devozione, che porta i fedeli a rendere a Maria l’onore e l’amore che a Lei si devono, ha qui la sua origine. I più grandi Dottori della Chiesa cantarono le perfezioni del suo Cuore: sant’Ambrogio, sant’Agostino, san Giovanni Crisostomo, san Leone, san Bernardo, san Bonaventura, San Bernardino da Siena, le due grandi monache sante, Gertrude e Metilde… Nel secolo XVII, san Giovanni Eudes « padre, dottore e apostolo del culto al Sacro Cuore » (Bolla di Canonizzazione) si fece dottore e apostolo del culto al Cuore purissimo di Maria e dal dominio della pietà privata, lo introdusse nella Liturgia cattolica.

Oggetto della devozione.

Di questa devozione egli ci dice: « Nel Cuore santissimo della prediletta Madre di Dio, noi intendiamo e desideriamo soprattutto venerare e onorare la facoltà e capacità naturale e soprannaturale di amare che la Madre dell’amore tutta impegnò nell’amare Dio e il prossimo. Poiché sia che il cuore rappresenti il cuore materiale che portiamo in petto, organo e simbolo dell’amore, o piuttosto la memoria, la facoltà d’intendere con cui meditiamo, la volontà, che è radice del bene e del male, la finezza dell’anima per la quale si fa la contemplazione, in breve, tutto l’interno dell’uomo (noi non escludiamo alcuno di questi sensi) intendiamo e vogliamo soprattutto venerare e onorare prima di ogni cosa e sopra ogni cosa, tutto l’amore e tutta la carità della Madre del Salvatore verso di Dio e verso di noi » (Devozione al Sacro Cuore di Maria, Caen, 1650, p. 38 e Cuore ammirabile, 1. I, c. 2). – La cosa più dolce per un figlio è onorare la madre e pensare all’amore di cui è stato oggetto. San Bernardo, parlando del Cuore di Gesù, ci dice: « Il suo Cuore è con me. Il Cristo è mio capo. Come potrebbe non essere mio tutto quello che appartiene alla mia testa? Gli occhi della mia testa sono miei e allo stesso modo questo Cuore spirituale è veramente mio cuore. È veramente mio e io possiedo il mio cuore con Gesù» (Vigna mistica, c. 3). Possiamo dire allo stesso modo del Cuore di Maria. Una madre è tutta di suo figlio e gli appartiene con i suoi beni, il suo amore, la sua vita stessa. – Un figlio può sempre contare sul cuore della madre. Noi tutti siamo figli della Santa Vergine, che ci accolse con Gesù nel suo seno nel giorno dell’Incarnazione. Ci generò nel dolore sul Calvario e ci ama in proporzione di quanto a Lei siamo costati. Essa ha offerto al Padre, per noi, quanto aveva di più caro. Gesù, ha detto il suo fiat per l’immolazione, lo ha dato a noi e come l’avrebbe dato senza dare se stessa?

Confidenza nel Cuore Immacolato.

Maria ridice a noi le parole di Gesù: Venite a me voi tutti e vi consolerò… Ci sorride e ci chiama come a Lourdes e nessuno, per la sua indegnità, ha motivo di starne lontano. Il Cuore di Maria fu sede della Sapienza, dimora per nove mesi del Verbo fatto carne, formò il Cuore stesso di Gesù e gli insegnò la misericordia verso gli uomini, pulsò all’unisono col Cuore di Gesù e per quel Cuore fu ornato dei più preziosi doni di grazia. Cuore materno per eccellenza, resta il rifugio dei poveri peccatori. Per questo fu fatto Immacolato e ne sgorgò soltanto sangue purissimo, il sangue dato a Gesù, perché lo versasse per la nostra salvezza. È il Cuore depositario e custode delle grazie meritate dal Signore con la sua vita e con la sua morte e sappiamo che Dio non distribuì mai, né distribuirà grazie ad alcuno se non per le mani e il Cuore di Colei, che è tesoriera e dispensatrice di tutti i doni. È il Cuore, infine, che ci è stato dato con quello di Gesù, « non solo per modello, ma perché sia il nostro, perché, essendo membra di Gesù e figli di Maria, dobbiamo avere con il nostro Capo e con la nostra Madre un solo cuore e dobbiamo compiere tutte le nostre azioni con il Cuore di Gesù e di Maria » (S. Giov. Eudes, Cuore ammirabile, 1. XI, c. 2).

Consacrazione al Cuore Immacolato.

Se la consacrazione individuale di un’anima a Maria le assicura le grazie più grandi, quali frutti non potremo attendere dalla consacrazione del genere umano fatta dal Sommo Pontefice? La Vergine stessa si degnò farci sapere che desiderava tale consacrazione e, rispondendo al desiderio della Madonna di Fatima, S. S. Pio XII, il giorno otto dicembre 1942, pieno di confidenza nell’intercessione della Regina della pace, solennemente consacrò il genere umano al Cuore Immacolato di Maria. Le nazioni cattoliche si sono unite al supremo Pastore.

MESSA

La festa del Cuore di Maria era stata concessa a parecchie diocesi e a quasi tutte le Congregazioni religiose, che la celebravano in date differenti. S. S. Pio XII l’estese a tutta la Chiesa e la fissò al giorno 22 Agosto. – Vangelo (Gv. XIX, 25-27). – In quel tempo: Stavano vicino alla croce di Gesù la sua Madre, la sorella della sua Madre, Maria di Cleofa, e Maria Maddalena. Gesù dunque, vedendo la sua Madre e il discepolo ch’Egli prediligeva, disse a sua Madre: Donna, ecco il tuo figlio. Poi disse al discepolo: Ecco la tua Madre. E da quel momento il discepolo la prese con sé. La maternità di Maria data dall’Incarnazione, ma fu proclamata in modo solenne sul Calvario da Gesù morente. Dandoci sua Madre, Gesù ci diede la prova più grande del suo amore e Maria, accettando di divenirlo, ci mostrò quanto il suo Cuore possedesse di tenerezza e di misericordia. Maria non si sentì mai Madre come in quel momento in cui vedeva il Figlio soffrire e morire in croce, intendeva che ci confidava e ci donava a Lei, e accettò di estendere l’affetto che nutrì in vita per Gesù, non solo su san Giovanni, ma su noi tutti, sui carnefici del suo Figlio, su tutti quelli, che erano stati causa della morte di Lui. – Quando il centurione venne ad aprire il cuore di Gesù già morto, la spada predetta dal vecchio Simeone penetrò nell’anima, nel Cuore di Maria e produsse una ferita che, come quella del Salvatore, resterà sempre aperta.

Preghiera al Cuore Immacolato di Maria.

« Quali cose grandi e ricche di gloria bisogna dire e pensare del tuo amabile Cuore, o Madre degna di ogni ammirazione! Lo Spirito Santo dice che Tu sei un abisso di prodigi e noi diremo, senza ingannarci, che il tuo Cuore è un mondo di meraviglie. L’umiltà del tuo Cuore ti ha innalzata al più alto trono di gloria e di grandezza, che possa essere occupato da una creatura. L’umiltà, la purezza e l’amore del tuo Cuore ti resero degna di essere Madre di Dio e di possedere per conseguenza tutte le perfezioni, tutti i privilegi, tutte le grandezze, che sono dovute a tale dignità. Per questo io ammiro, saluto e onoro il tuo Cuore verginale come un Mare di grazia, un miracolo d’amore, uno specchio di carità, un abisso di umiltà, come il trono della misericordia, il regno della divina volontà, il santuario dell’amore divino, come il primo oggetto dell’amore della Santissima Trinità» (San Giov. Eudes, Cuore ammirabile, 1 IX, c. 14). – «Apri, o Madre di misericordia, apri la porta del tuo Cuore benignissimo alle preghiere che noi facciamo sospirando e gemendo. Tu non rigetti il peccatore, non lo disprezzi, anche se è al colmo della corruzione e del delitto, purché sospiri a te, purché implori con cuore contrito e penitente la tua intercessione » (San Bernardo, Preghiera alla Vergine). – « Sia sempre benedetto, o Madre, il tuo nobilissimo Cuore, onorato di tutti i doni della divina Sapienza e infiammato dagli ardori della carità. Sia benedetto il Cuore nel quale meditasti e conservasti con tanta diligenza e fedeltà i sacri misteri della Redenzione, per rivelarceli nel momento opportuno. A te la lode, a te l’amore, o Cuore amantissimo, a te l’onore, a te la gloria da parte di tutte le creature, per tutti i secoli dei secoli. Così sia » (Nicola de Saussay, Antidotario dell’anima, Parigi, 1495).

[Dom Gueranger, l’Anno Liturgico, vol II]

SANTA MESSA

Introitus
Hebr IV:16.
Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio
[Accostiamoci al trono delle grazie con piena e sicura fiducia, per avere misericordia e trovare grazia che ci soccorrano al tempo opportuno].

Ps XLIV:2

Eructávit cor meum verbum bonum: dico ego ópera mea regi.  [Vibra nel mio cuore un ispirato pensiero, mentre al Sovrano canto il mio poema.]

Adeámus cum fidúcia ad thronum grátiæ, ut misericórdiam consequámur, et grátiam inveniámus in auxílio opportúno opportúno [Accostiamoci al trono delle grazie con piena e sicura fiducia, per avere misericordia e trovare grazia che ci soccorrano al tempo opportuno].
Oratio
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spiritu tuo.
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui in Corde beátæ Maríæ Vírginis dignum Spíritus Sancti habitáculum præparásti: concéde propítius; ut ejúsdem immaculáti Cordis festivitátem devóta mente recoléntes, secúndum cor tuum vívere valeámus.
[O Dio onnipotente ed eterno, che nel cuore della beata Vergine Maria hai preparato una degna dimora allo Spirito Santo: concedi a noi di celebrare con spirito devoto la festa del suo cuore immacolato e di vivere come piace al tuo cuore.]

Lectio  Léctio libri Sapiéntiæ.
Eccli XXIV:23-31
“Ego quasi vitis fructificávi suavitátem odóris: et flores mei, fructus honóris et honestátis.
Ego mater pulchræ dilectiónis, et timóris, et agnitiónis, et sanctæ spei. In me grátia omnis viæ et veritátis: in me omnis spes vitæ, et virtútis. Transíte ad me omnes qui concupíscitis me, et a generatiónibus meis implémini. Spíritus enim meus super mel dulcis, et heréditas mea super mel et favum. Memória mea in generatiónes sæculórum. Qui edunt me, adhuc esúrient: et qui bibunt me, adhuc sítient. Qui audit me, non confundétur: et qui operántur in me, non peccábunt. Qui elúcidant me, vitam ætérnam habébunt.” [Come una vite, io produssi pàmpini di odore soave, e i miei fiori diedero frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell’amore, del timore, della conoscenza e della santa speranza. In me si trova ogni grazia di dottrina e di verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, voi tutti che mi desiderate, e dei miei frutti saziatevi. Poiché il mio spirito è più dolce del miele, e la mia eredità più dolce di un favo di miele. Il mio ricordo rimarrà per volger di secoli. Chi mangia di me, avrà ancor fame; chi beve di me, avrà ancor sete. Chi mi ascolta, non patirà vergogna; chi agisce con me, non peccherà; chi mi fa conoscere, avrà la vita eterna.]

Graduale
Ps XII:6
Exsultábit cor meum in salutári tuo: cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi
[Il mio cuore esulta nella tua salvezza. Canterò al Signore perché mi ha beneficato, inneggerò al nome del Signore, l’Altissimo.]
Ps XLIV:18

Alleluja
Mémores erunt nóminis tui in omni generatióne et generatiónem: proptérea pópuli confitebúntur tibi in ætérnum. Allelúja, allelúja
[Ricorderanno il tuo nome di generazione in generazione, e i popoli ti loderanno nei secoli per sempre. Alleluia, alleluia.]
Luc 1:46; 1:47
Magníficat ánima mea Dóminum: et exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo. Allelúja.
[L’anima mia magnifica il Signore, e si allieta il mio spirito in Dio, mio Salvatore. Alleluia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann XIX:25-27
“In illo témpore: Stabant juxta crucem Jesu mater ejus, et soror matris ejus María Cléophæ, et María Magdaléne. Cum vidísset ergo Jesus matrem, et discípulum stantem, quem diligébat, dicit matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus.
Deinde dicit discípulo: Ecce mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua”. [In quel tempo, stavano presso la croce di Gesù sua Madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, e Maria Maddalena. Gesù, dunque, vedendo la Madre e accanto a lei il discepolo che amava, disse a sua Madre: «Donna, ecco tuo figlio». Poi disse al discepolo: «Ecco tua Madre». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

Omelia

 per la Festa del SACRO CUORE DI M. VERGINE

[Del Padre Bonaventura da Venezia, dei minori riformati in:

 “Omelie” del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

 “Omnis gloria eius filiæ regis ab intus”. [Ps. 44.]

Sconsigliate figliuole di Sion, che vana pompa seguendo e fallaci ornamenti, dell’esteriore comparsa soltanto andate superbe, niente chiudendo in voi stesse di buono, e sotto una corteccia splendida e rilucente il loto ascondete di un frale mal composto, e di un vizioso animo; ah! copritevi pur di rossore la fronte, e di qua vi togliete. Ecco la bella Figliuola del principe, che d’ogni vezzo e grazia fornita, non stima che i tesori nel suo cuore raccolti, non va superba che delle eccellenti doti dell’animo suo. A Lei pure non manca soavità di linguaggio, leggiadria di volto, elevatezza di spirito, splendore di dignità; ma più di tutte queste sì belle doti, che provocar potrebbero l’ambizione e l’invidia di parecchie a voi simili, Ella si pregia del candor del suo cuore, e dell’altre belle virtù, che sì vagamente l’adornano: “Omnis gloria eius filiæ regia ab intus”. Siccome ella non cerca che d’incontrare il genio del suo Creatore Iddio, così non dell’apparenza fa conto ch’esteriormente appaga l’umano vedere, ma dell’interna sostanziale bellezza, ch’è l’oggetto del compiacimento divino: “Deus autem intuetur cor”. Di questa Ella fa degna stima qual di preziosa margarita d’inestimabile prezzo e valore, o qual di ben fortunato campo, in cui sta nascosto assai ricco tesoro, che solo può invogliare il giusto estimatore e buon discernitore celeste. Ora di questa sì rara margarita e tanto dalla Vergine avuta in pregio, di questo eccellente prezioso Cuore egli è ben giusto il favellare con lode; ed è ben saggio il consiglio vostro, o Signori, d’aggraduirvi l’affetto della gran Donna in questo giorno del suo lieto apparire fra noi mortali, di celebrarne festevole pompa e devota, e di presentarle insieme coi vostri affetti, gli ossequi e gli encomi. – Il che sebbene non molto acconciamente per me fare si possa, non potendo con disadorna e breve orazione i pregi tutti adeguare di sì nobile ed eccelso argomento; pure la devozione vostra seguendo, io mi lusingo di poter in qualche modo riuscir nell’impresa, se riconoscendo’ nel cuor di Maria tre sublimi caratteri, io vel fo veder senza più un Cuore purissimo, un Cuore dolcissimo, un Cuore afflittissimo, che sono appunto gli aspetti sotto dei quali la pietà vostra, a grande vostro profitto, è solita riguardarlo. Sotto di queste semplicissime idee adunque io vi propongo il Cuor di Maria quale specchio di purità, e ciò dovrà servire a vostra particolar edificazione: qual fonte di dolcezza, e ciò potrà servire a vostra spiritual consolazione: in fine qual pelago di amarezza, e ciò dovrà destare nei vostri petti la più tenera compassione. Me felice, se tali pregi devotamente esponendo, potrò meritarmi in oggi il favor della Vergine, potrò piacere all’amabile suo Cuore, e potrò godere insieme e gloriarmi del vostro spirituale profitto.  – La purità di un Cuore, comeché sostanziale divisione non ammetta in sé stessa, siccome neppur variazione o esteriore frammischianza; pure al proposito nostro in negativa e positiva agevolmente si distingue. Consiste la prima nell’aver il cuore immune da ogni macchia e difetto, e da quello eziandio sì universale, che per infelice retaggio dai nostri progenitori ci fu partecipato; consiste la seconda nella bellezza della castità, e nell’aver il cuore netto interamente e puro dal fango d’ogni sensuale brutto piacere. Or sì dell’una e sì dell’altra eccovi, signori miei, quasi centro, anzi quasi lucido specchio il cuor della Vergine. E a riscontrarvi in esso la prima, io salgo tosto col pensiero ad Adamo e a quella, per nostra mala ventura, debole e lusinghiera sua compagna; e li vedo creati da Dio di un animo per natura innocente, di una coscienza tutta pura e illibata, di un cuore d’ogni passione sgombro, di speciale grazia forniti, di scienza, di carità, delizia agli occhi di Dio, cui solo riguardano coi loro purissimi affetti: che già non uscì giammai della mano di Dio opera che tutta pura non fosse e nel primo esser suo tutta bella e perfetta. Ma poco tratto seguendo, ahimè io vedo smarrirsi di questi il bel candore, lo splendore oscurarsi, mancar la beltà. Ambedue queste creature sì monde ribellansi a Dio, si macchiano di grave colpa, e perdono del loro animo la sì pregiata originaria innocenza. Disubbidisce Adamo, ed Eva con esso, e in conseguenza di sì funesto delitto, tutta rendono prevaricatrice la in sé stessi raccolta umana generazione. Or che fia mai della Vergine? Essa pure è di Adamo figliuola; essa pure dallo stesso ceppo e radice trae la sua discendenza. Dovrà dunque essa pure essere a parte… Essa pure dovrà soggiacere… Che mai vi pensate, o signori? S’io ben intendo le Scritture, se non mi fallisce la Chiesa, no che Maria, sebbene da Adamo progenerata, sebbene per natura agli altri tutti congiunta, non porterà, per grazia almeno, di un sì gran disordine il Cuore unquemai macchiato. E vaglia pur sempre la verità, miei ornatissimi. – Di chi si parla là per l’Ecclesiastico a quel passo: “Ego ex ore Altissimi prodivi primogenita ante omnem creaturam”? Io so che la divina sapienza proferisce letteralmente di sé un oracolo sì bello, ma so pur che la Chiesa in quegli arcani detti riconosce significata e rappresentata a vivo la Vergine. Che se Maria fu il primo parto della privilegiante divina bocca, come potrà ella aver parte nel contagio dell’umana perduta discendenza? S’Ella fu innanzi nella sua spirituale generazione e nella predilezione celeste, come dipenderà dalla sorte infelice di chi le viene dietro peccando? Ella al più lo potrà essere secondo la carne, non lo potrà secondo Io spirito; quella al più in qualche maniera potrà apparire ad alcuno della paterna concupiscenza ingombrata, lo spirito e il cuore non lo potrà esser mai. Poiché il suo Cuore predestinato da Dio con elezione speciale, antecedente e opponentesi ad ogni preveduta umana colpa e miseria, nacque innanzi alle cose tutte nello straordinario decreto della grazia (che questo è il nascer vero), nacque prima alla purità che alla vita, prima alla salute che alla corruzione, e però non va soggetta ai danni della già preveduta e ristorata in Maria umana prevaricazione. Quindi prima essendo di tutte le creature, ogni altra creatura avanza nella purità, né può mai essere soggetta alle altrui triste affezioni, poiché dalla parola efficace di Dio uscì primogenita: “Ego ex ore Altissimi prodici primogenita ante omnem creaturam”. – M’inganno io forse, o signori, o cerco con strani arditi pensieri di far onta e violenza alla verità? I nostri cuori, pur troppo avvezzi a incontrare fin dal primo loro nascere la impurità della colpa, non sanno intendere nel prediletto Cuor di Maria una tanta purezza. Del resto Ella fu preordinata fin dai secoli eterni a noi tutta dissimile, non soggetta ad alcun posteriore infortunio o miseria, tutta pura ed intatta: “Ab eterno ordinata sum, et ex antiquis”. Ella apparì appunto siccome la luce, che fin dal primo giorno tratta con impero sovrano dal sen delle tenebre e degli abissi, purissima sfavillò, brillante, serena, e d’ogni macchia e vapore sgombra e purgata: ed anzi la separò Iddio in tutto dall’orrore e dall’oscurità delle tenebre: “iussit separari lucem a tenebris”; che quantunque involgessero poi queste di fosca notte il mondo e tutte le create cose, pure non ne ricevette giammai offesa od oltraggio, ma sempre bella in sé stessa ritenne la sua primiera purezza, e l’antico splendore. Tale Maria; luce nata prima ancor della luce, fu separata dalle tenebre della colpa con esterna irreconciliabile nimistà; e quantunque destinata fosse a risplendere fra le tenebre e fra gli orrori della morte, non mai, però queste offuscarono la sua beltà, il suo chiarore; ma sempre in tutta la sua vita, pura si conservò senza ombra e senza macchia, tutta bella e immacolata: “Tota pulcra es, et macula non est in te”. Ma stringiamoci sempre più, miei signori, al Cuor della Vergine, e veggiamone l’altra sorta di purità positiva e più propria, di cui fu fornita, e da cui la sua virtù riceve siccome il compimento e la perfezione. Purità di un Cuore si è più propriamente, e più distintamente lo zelo e la premura di mantener intatto il giglio purissimo della castità. Questa virtù è delicata cotanto, che ogni legger fiato l’appanna, ogni ombra la tinge e la scolora, e quindi, chi questa sa mantener veramente illibata, dà mostra sicura della sua universale mondezza e integrità. A questa si applicò con gran fervore il Cuor della Vergine vago oltremodo di possederla. E voi già l’avreste veduta fin dai più teneri anni, allorché sapeva reggere appena i primi passi, tutta sollecita del suo bel candore, palpitare ad ogni umano incontro, starsi vegliante sempre e guardinga, che il suo tenero fior non languisse, e comparire così fin d’allora fra le donzellette di Sion, qual comparisce candido giglio, in mezzo ad ispide e brutte spine, o qual maligna stella in mezzo a dense e fosche nuvole. Voi La avreste veduta sempre grave nel portamento, modesta negli atti, circospetta nel conversare, nel ragionare parca, amare il ritiro, il silenzio, il riserbo, la semplicità, di verecondia assai spesso coprirsi, e gli occhi di colomba, e gli altri sensi tutti fra gl’innocenti pensieri ed i purissimi affetti tener in Dio rapiti, e al mondo chiusi sempre; e rimaner sempre così qual ben suggellato fonte, che non perde giammai la tranquillità delle cristalline sue acque, o qual orto ben chiuso, che non vede giammai appassito da rio tocco o velenoso fiato alcun suo fiore. Voi l’avrete veduta… Ma che vederla voi? Già La vide il tempio replicar frequenti i voti per la sua integrità; La vide la casa in continue orazioni, in solitudine, in penitenza, in disagio; La vide il mondo viaggiar con fretta fuggendo sempre la vista e la comunanza degli uomini; La vide e l’ammirò il cielo palpitare e smarrire alla vista in fino dei suoi Angeli stessi; La vide, sì, La vide anche Iddio, e se ne compiacque, e amor lo prese di quest’anima eletta; e deliberò di affrettar in Essa il suo riposo e di venire a deliziarsi nel suo castissimo seno, per uscir poi del suo seno a purgar le macchie del tristo mondo. – Bello innocente Cuor di Maria, or che dite di questo divino consiglio? Il Signore della purità, quegli che a voi La ispirò, La mantenne e La stabilì con eterno decreto, Quegli che compiacesi tanta delle anime pure e caste, questi vuole adesso in voi discendere, in voi e di voi ingenerarsi. Ah! voi vi turbate a un tale annuncio? Non temete o Maria, Voi siete la favorita da Dio, Voi siete la privilegiata, destinata a fortunatissima Madre del gran Messia e Dio Salvatore, Voi siete la Regina del cielo e della terra. Tutto bene, Ella dice, ma pur “quomodo, quomodo fiet istud” O parole degne di eterno encomio! O Cuor di Maria geloso troppo di sua purità! Si tratta di esser genitrice del Monarca dei cieli, del Salvatore del mondo e si frammettono dimore, e s’interpongono domande? Eh, non tardate. Il compiacimento di Dio, la salute del mondo, la gloria vostra dipende da Voi. Maria pensa, sospira, ma non risolve. O cimento sorprendente invero e terribile all’illibatissima sua purità! O angustie maggiori ancora di quelle, in cui fu posto il patriarca Abramo nel punto del gran sacrifizio! Imperciocché ivi combatteva l’immancabile promessa di Dio col nuovo comando, qui la inviolabile promessa fatta a Dio col richiesto consenso; la speranza contro speranza, qua evidenza, dirò cosi, contro evidenza; là l’amore del figlio con l’amore di Dio, qua amore di Dio contro lo stesso Dio; là il paterno dolore col divino piacere, qua il piacere di Dio con la premura di più sempre piacerGli. Voi volete, diceva Ella, o mio diletto, venire nell’orto ch’è vostro? Veniteci pure in buona pace, ch’Io di gigli lo adorno, e ve ne farò satollo; ma soffrite che i miei gigli, onde è cinto tutto e vallato, ve ne contendano per poco il passo; Voi volete discendere nel mio seno, ma il mio seno a Voi consacrato non può ammettere mischianza alcuna di umano consorzio, Voi mi proponete la vostra maternità per esaltarmi, ma io lasciar non posso la mia integrità per sempre e maggiormente piacervi: “Quomodo, dunque, “quomodo fiet istud”? Sapete come, o gran Vergine? Con un portento, che coroni la vostra incomparabile purità, che vi renda il miracolo di tutti i secoli, lo stupore di tutte le generazioni. La vostra Virginità stessa diverrà feconda, ed essa stessa vi renderà adorna e lietissima del divin Parto. – Sì, o gran Vergine, il vostro cuore è veramente un sole di purità; e Iddio appunto in questo sole vuol porre il suo tabernacolo: “In sole posuit tabernaculum suum”. Il vostro cuore è letto florido d’intemerato pudore, e in esso appunto vuol posarsi il diletto: “Adorna thalamum tuum, Sion, et suscipe Regem Christum”. Siccome il sole manda fuori di sé il puro raggio senza lesione neppur menoma del suo splendore, così dal verginale seno vostro uscirà Cristo senza il minimo pregiudizio della vostra interezza. Siccome lo Sposo si leva del letto tutto riguardoso per non recar disturbo alla sposa, che soavemente riposa; così da Voi, dal vostro verginale chiostro, se ne uscirà chetamente e quasi non avvertito Gesù: “In sole posuit tabernaculum suum, et ipse tamquam sponsus procedens de thalamo suo”. O miracolo adunque, o portento! “Maria virginitate placuit”, dirò con Bernardo, ma più forte chiuderò ancor col Crisostomo: “Propterea Christum ventre concepit”. Ella in premio della sua purità ricevette la gloria di sì nobile fecondità; Ella l’una e l’altra in sé stessa mirabilmente congiunse: “Gloria Libani data est ei, decor Carmeli et Saron”; e la maternità sua è divenuta la prova più bella e più autentica della nitidezza del suo Cuore illibato. – Che dite voi pertanto, amatissimi, a un esempio sì bello? Non vi par veramente il Cuor di Maria un miracolo di purità? Ma che vi par poi di voi stessi in faccia a questo limpidissimo specchio? Ah! che alcuno non potrà forse fissar in esso lo sguardo senza coprirsi tutto di confusione e di vergogna. La scostumatezza che corre ai giorni presenti, il disordine in cui sono poste le umane passioni, la niuna custodia dei sentimenti, lo sregolamento di tutti gli affetti fanno pur brutto un tale confronto, e fanno apparir questo specchio a guisa di un cristallo orribile, quanto più bello in sé, tanto più disviato e sconcio elle altrui triste apparenze. Per me non si faranno adesso su di ciò maggiori o più lunghe parole per non contaminare di tali sozzure un argomento sì casto, e per non funestare con troppo amari rimproveri l’allegrezza di un sì bel giorno. Voi da voi stessi già vel vedete, amatissimi, a vostra emendazione; che io a più leggiadre cose rivolgendo adesso il pensiero, della dolcezza del Cuor di Maria mi fo a ragionarvi, secondo argomento proposto alla vostra attenzione. – Se il tempo avaro troppo non mi premesse ai fianchi, e se virtù di dire m’avessi pari al leggiadro argomento; oh! le belle cose che io vorrei qui dirvi, amatissimi, atte a stemperare ad ognuno per dolcezza il cuore. Ma io debbo cedere alla delicatezza del nobile soggetto, io dunque d’una tanta dolcezza or vi darò sol qualche saggio, e voi, gentili anime e devote, ne riconoscerete per le vie del cuore la miglior parte, che ancora vi taccio, né saprei qui palesare. – La dolcezza di un cuore non da altro procede, né  da altro si può meglio conoscere, che dall’amore; essendo l’amore, al definire dei mio serafico Bonaventura, una dolce pendenza dell’animo verso un qualche oggetto, che più ne diletta, o da cui il Cuore riempiuto viene di dolcezza e di soavità. Ora due amori considero nella gran Vergine; uno più nobile, che ha Dio per oggetto, ed è della sua dolcezza siccome il principio e la fonte; 1’altro inferiore, che noi riguarda, ed è della sua dolcezza siccome effetto e testimonio. L’amor di Dio in Lei infuso la riempì di soavità, di delizie; l’amor suo a noi diffuso fe’ conte e palesi a noi le sue dolcezze. Abbondò in Lei l’amor di Dio; e ciò fin d’allora, che chiamandola all’esser primiero di sua innocenza, Vieni, le dice con voce tutta di grazia, vieni mia Bella, mia Colomba, mia Immacolata, che già per te è finito il crudo inverno, il diluvio della colpa è ormai passato, e sul terreno ch’è mio spuntano i vaghi fiori dell’innocenza, e i primi frutti della mia redenzione; vieni; mia sposa e mia diletta, tutta secondo il mio cuore formata; vieni, ch’io già ti eleggo al mio amore, al mio trono; e in così dire, stendendo a Lei le caste braccia, e facendo della manca sostegno al capo, e della destra dolce ritegno al colpo, se La strinse pieno di amore al seno. Chi può mai spiegare qual si restasse allora il Cuor di Maria a questa prima sorpresa di amore? Qual bianca neve, cui fervido raggio di sole batte immoto e ferisce, tosto si dilegua in umor radioso, o qual molle cera a fuoco ardente appressata, si strugge tosto e si sface; tal si rimase della Vergine il cuore ai raggi di quel Sole divino: “Factum est cor meum quasi cera liquescens”. La sua anima restò allora liquefatta tutta d’amore alle voci del suo Diletto, e fu allora che a formar venne un Cuore di tempra sì amabile e sì dolce, che solo amore e tenerezza respira, solo di amore e dolcezza si pasce. Soavi pensieri, dolci e teneri affetti, estasi giocondissime, sfinimenti, grazie, tenerezze, delizie sono il suo continuo esercizio, la sua vita, il suo nutrimento. – Ma qual poi non divenne allora quando, disceso il Verbo dal seno del Padre, La riempi tutta di sé, e nelle sue viscere prese giocondo albergo e umane spoglie dalla sua carne, e sua Madre chiamolla e sua Signora, allora quando i monti stessi distillarono dolcezza, e giù dai colli si vide scorrere il puro latte e il dolce miele; che sarà stato allora del Cuor della Madre? Allora il suo cuore e la sua carne esultarono unitamente nel suo Dio di nuova vita; allora il suo spirito restò tutto compreso d’un immenso ardore di carità al vedersi unita sì strettamente al suo diletto, e d’una strabocchevole piena di dolcezza e di gaudio restò inondato. E in verità, miei signori, se la grazia divina è una specie di giocondità e di dilettazione procedente da amore, per cui al dir di S. Agostino sopra qualunque oggetto 1’anima si diletta e piace di Dio, e dolce le diventa ed amabile. “Per quam dulcescit Deus”; di qual giocondità e dolcezza, di qual amore non sarà stato ricolmo il Cuore della Vergine, s’Ella in quel punto fu piena di grazia non solo, ma sovrappiena, al dire dei Padri, e sopraffluente, che mai la maggiore o simile, siccome non si troverà giammai la più capace? E se Gesù Cristo è il fonte della dolcezza e della grazia, che in sé i tesori tutti racchiude della divinità; come non ne sarà rimasta piena Colei che doveva essere qual canale al fonte, anzi del fonte e della grazia stessa la produttrice? E se Iddio d’un torrente di giocondità e di piacere allaga il cuor dei beati in Paradiso; di qual soavità e dolcezza non avrà riempito il Cuore di Maria, mentre conteneva in sé stessa quello, per cui solo è delizia il Paradiso? Se non che sì belle congetture ancora non bastano; che a riconoscer la dolcezza del Cuor di Maria più chiara prova e più sensibile a noi pur rimane da quell’amore, ch’Ella per noi nutre ancora e conserva. – Amore, miei dilettissimi, amore niente men che di madre, che tale divenne, poiché del comun nostro fratello Gesù in Genitrice fu eletta; che tale divenne, poiché da Gesù Cristo medésimo sopra il Calvario in Madre Ei fu lasciata. – Del che se ogni altra prova pur ci mancasse, il suo Cuore abbastanza per tale la ci avrebbe data a conoscere. E qual miglior cuore per noi del Cuor della Vergine? Madri infelici, onde venimmo a questa mortale vita di supplizio e lamento, voi d’ordinario avete il nome e l’apparenza di madri, ma non ne avete già il cuore. – Solo Maria, e dicasi pure che è dolcissima gioia il dirlo, solo Maria ha propriamente viscere e cuor vero di Madre. Per Lei noi siamo alla grazia divina rigenerati, per Lei diletti noi diventiamo e cari al divino suo Figliuolo; per Lei le dolcezze del cielo a noi piovono copiosamente. Lo  dicano pure quelle anime, che a Lei, siccome a madre, han ricorso, e che di Lei fanno spesso amorosa e pia rimembranza, qual rugiada di grazie non le conforta? Qual latte soavissimo di devozione non le nutrisce? Qual amore beatissimo non le infiamma ed accende? E perché, a dire di Bernardo Santo, la misericordia agl’infelici appare ancora più dolce; voi, o peccatori, voi che vi trovate nelle tenebre e nell’ombre della morte, voi meglio ancora lo dite, se sia dolce della Vergine il Cuore. In tanta vostra disgrazia, in tanto abbandono, dov’è l’unico vostro rifugio? Ov’è il dolce conforto vostro? Se non nel Cuor amantissimo della Vergine, se non nel cuor della Madre? A Lei non temete già voi di ricorrere, che niente ha Ella in sé di aspro e terribile, tutta … tutta è soave; e a tutti esibisce ricreazione e riposo. Già non sa Ella, né può ai vostri prieghi resistere, se parlano e pregano per voi le stesse sue viscere, e s’interpone per voi l’amoroso suo Cuore: “Urgentur Matris viscera: intus est, qui interventi et exorat affectus”. Ma che dico resistere? Ella anzi vi viene incontro, e va in cerca di voi ansiosa e sollecita, siccome del suo smarrito figliuolo? Ella vi viene appresso a stimolarvi con la dolcezza e con l’amore; e qual esca soavissima, come la chiamò Gesù Cristo, sempre intenta a far preda di miseri peccatori, Ella vi tira dietro di sé col grato odore dei suoi unguenti e delle sue virtù, vi conduce soavemente in braccio alla misericordia, v’introduce alle nozze del Re celeste, alle delizie del Paradiso. O Maria, dunque veramente nostra Madre, nostra vita, nostra dolcezza! O clemente e pia Vergine! Che Cuore è il vostro sì dolce, sì pietoso, sì amabile? Già non è egli questo un Cuore, ma puro miele, anzi del miele stesso più soave e più dolce: “Spiritus meus super mel dulcis”. – Un Cuore egli è questo, amatissimi, più ancor che di madre, poiché Ella ci amò più ancora in qualche guisa, che non amò lo stesso unigenito suo diletto Figliuolo, avendocelo Ella dato in dono per la nostra salute, e per dimostrarci la estrema dolcezza del suo Cuore amantissimo. – Ella ce Lo diede fino a privarsene e a perderLo in questo mondo; e quasi minore avesse per Lui la tenerezza e l’affetto, Ella lo diede a nostro riguardo a strazi inumani, e Lo sacrificò per noi a barbara e cruda morte . . . Ma quale a tal riflessione idea di onore mi si apre innanzi, e tutta m’ingombra di dolore e di tristezza la mente? Sospendiamo, in grazia, sospendiamo per poco il discorso, poiché mi convien mutare e tuono e stile e pensieri, se da un Cuore dolcissimo io mi vedo costretto a dimostrarvi in fine il Cuor di Maria veramente afflittissimo. – Doveva pure, o signori, un Cuore sì dolce, per quanto il pensiero nostro porta e l’affetto, andar esente da ogni angustia e travaglio, e ogni contrario insulto infrangere e superare; ma non fu così, che anzi per questo stesso egli è il Cuore più afflitto, il più addolorato di tutti, Lo stesso amore, che della sua dolcezza fu il principio e la fonte, rivolto adesso in amarezza, è il più fiero carnefice, che La tormenta. Passati erano i giorni felici della deliziosa dimora di Gesù nel suo verginal utero; quando appena uscito alla luce Lo vide esposto alle pubbliche contraddizioni, bersaglio fatto alle più fiere persecuzioni. Qual tormento al Cuor della Madre nel vedere si villanamente oltraggiato il divino suo Figliuolo! O come poi al vederLo in sul Calvario crocifisso e piagato spasimava nell’anima di un atroce supplizio! “Tota es … ”, esprime pur bene un tanto dolore il mio piissimo Bonaventura, “tota es in vulneribus crucifixi”. Stava Maria con tutta l’anima nelle piaghe del suo amor crocifisso, con tutta l’anima ne accoglieva i tormenti. Dimentica di sé stessa e di ogni sua gloria, pendeva Essa pur dalla croce del suo caro Figlio, agonizzava con Gesù moribondo, e nelle sue piaghe e sulla sua croce Essa pure moriva: “Christo confixa sum cruci, tota es in vulneribus crucifixi”; e quasi ciò ancor non bastasse, di un sì doloroso oggetto la sanguinosa immagine tutta in sé ritraendo, scolpiva altamente a colpi di fiero dolore nella più tenera e più delicata parte del Cuor suo a farlo scoppiare di un estremo rammarico: “Totus Christus crucifixus est in intimis visceribus cordis tui”. Così nave che, abbandonata alle furie di mar procelloso, dopo di aver sofferti gli oltraggi tutti del cielo irato, dell’onda fremente e terribile apre in fine il fianco lacero a ricevere il nemico elemento, che già la sommerge: Maria pure così: “Miserere mei, quoniam intraverunt aquae usque ad animam meam” … “Tota es in vulneribus crucifixi: totus Christus crucifixus est in intimis visceribus cordis tui”. Oh lo strano combattimento! Oh il fiero spasimo! Oh la tempesta atrocissima dell’amabile suo Cuore! – Tempesta che non si calma già al riflettere del nostro vantaggio e della nostra salute, ma si accresce anzi, e più fiera diventa al comprendere, che la maggior parte dei figli suoi non si sarebbe approfittata di una tanta passione e di un sì acerbo tormento. Ed ecco nel nuovo amore una nuova e più aspra cagione di dolore; ecco il Cuor di Maria per ogni parte combattuto e trafitto. “Ahimè, va Ella dicendo con Giacobbe, e con quella sapiente di Tecue, ahimè! madre dolente e infelice che sono, che mi vedo estinto a’ fianchi un Figliuolo, vedo gli altri spinti da furor cieco condursi a eterna morte. Io per vederli salvi, ho dato questo, che era la mia delizia, il mio amore; ed ora che Lo vedo esanime nel mio seno, quelli ricusano la salute e la vita, e me lasciar vogliono vedova desolata e senza conforto. E dovrò dunque dopo un tanto costo, dopo un sì grande affanno vederli morire? Dovrò vederli ancora seguaci del peccato, prigionieri del demonio; vittime infelici di eterna morte? Ah figli, ingrati figli, mie viscere, parlo di questo Cuore, con tanto affanno sopra il Calvario da me generati, perché trafiggete di sì acuta saetta il cuor della Madre? Deh! vi sovvenga di questo seno, che sì amorosamente vi accolse, mirate il vostro dolce Fratello, che sì stranamente per voi morì, lasciate il peccato, e fate a Lui e a questo mio Cuore ritorno.” Ove son questi figli sì ingrati, che tanto accrescono con le loro colpe a Maria il tormento? E chi dei suoi cari le arreca adesso qualche consolazione? – Questi ingrati forse qui non si trovano, o che io non li discerno. Ed io sol vedo una illustre e pia congregazione tutta applicata a onorare con nobil pompa e devoti il Cuor della Vergine, e compatendone i suoi dolori, imitarne la purità, per godere abbondantemente dì sue delizie! Vedo una corona di anime gentili e devote, che nulla più bramano che di piacere al cuor di Maria, e di meritarsi il suo amore e il suo patrocinio. Queste belle e pie anime, che si specchiano sovente nella sua purità, che bevono al fonte di sua dolcezza, che non ricusano di essere a parte delle sue amarezze; queste sono il suo gaudio, la sua corona, il suo conforto. Sopra di queste adunque si allarghi, o pia Vergine, il vostro Cuore dolcissimo, e in esso accogliendole tutte, fate che vi abbiano sicuro asilo, tranquilla pace, dolce consolazione, e per esso siano trasferite un giorno, quando che sia, al sommo gaudio, ove giubilar possano e deliziarsi con esso Voi in Dio eternamente.

Credo …

 Offertorium
Orémus
Luc 1:46; 1:49
Exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo; quia fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus.
[L’anima mia esulta perché Dio è mio Salvatore, perché il Potente ha operato per me grandi cose e il Nome di Lui è Santo].

Secreta
Majestáti tuæ, Dómine, Agnum immaculátum offeréntes, quǽsumus: ut corda nostra ignis ille divínus accéndat, cui Cor beátæ Maríæ Vírginis ineffabíliter inflammávit. [Offrendo alla tua maestà l’Agnello immacolato, noi ti preghiamo, o Signore: accenda i nostri cuori quel fuoco divino che ha infiammato misteriosamente il cuore della beata Vergine Maria.]

 Communio
Joann XIX:27
Dixit Jesus matri suæ: Múlier, ecce fílius tuus: deinde dixit discípulo: Ecce mater tua. Et ex illa hora accépit eam discípulus in sua. [Gesù disse a sua Madre: «Donna, ecco il Figlio tuo». Poi al discepolo disse: «Ecco la Madre tua». E da quell’ora il discepolo la prese con sé.]

Postcommunio
Orémus.
Divínis refécti munéribus te, Dómine, supplíciter exorámus: ut beátæ Maríæ Vírginis intercessióne, cujus immaculáti Cordis solémnia venerándo égimus, a præséntibus perículis liberáti, ætérnæ vitæ gáudia consequámur. [Nutriti dai doni divini, ti supplichiamo, o Signore, a noi che abbiamo celebrato devotamente la festa del suo Cuore immacolato, concedi, per l’intercessione della beata vergine Maria: di essere liberati dai pericoli di questa vita e di ottenere la gioia della vita eterna.]

 

IL MALE COME UN FUOCO DIVORANTE

COME FUOCO DIVORANTE

etenim Deus noster ignis consumens est [Hebr. XII, 29]

[Les Prophéties de La Fraudais, 9°ed. 2007, p. 270]

Si avranno gravi malattie [dopo i tre giorni di buio –ndr.-] che l’arte medica dell’uomo non potrà alleviare. Questo male attaccherà dapprima il cuore, poi lo spirito e nello stesso tempo la lingua. Sarà orribile. Il calore che l’accompagnerà sarà come un fuoco divorante, insopportabile e tanto forte che le aree del corpo colpite ne saranno arrossate, infiammate in modo insopportabile. Nell’arco di sette giorni questo male, seminato come il grano nei campi, germoglierà rapidamente dappertutto e farà progressi immensi. Figlioli miei, ecco il solo rimedio che potrà salvarvi:  Voi conoscete le foglie del biancospino che cresce vicino a tutte le siepi. Le foglie di questo biancospino potranno fermare l’avanzarsi di questa malattia.  – Raccogliete le foglie, non le parti legnose: esse anche secche, conserveranno la loro efficacia. Voi le metterete in acqua bollente e le lascerete per 14 minuti, coprendo il recipiente per conservarne il vapore. Quando si presenterà il male, bisognerà servirsi di questo rimedio tre volte al giorno.

«IL LUNEDI DOPO LA MIA ASSUNZIONE, tu mi presenterai queste foglie di biancospino ed ascolterai attentamente le mie parole. … il male produrrà nausea, palpitazioni continue e vomito. Se il rimedio è assunto troppo tardi, le parti del corpo affette diverranno nere e nel nero si formeranno come dei solchi che tenderanno ad un giallo pallido.

Si chieda alla nost­ra Madre Santissima di benedire le foglie per guarire le persone eventualmente colpite dalla malattia ventura; si chie­da l’aiuto per farlo correttam­ente. Si offrano poi tre Ave Maria in onore del­la Purezza del corpo, della Purezza della mente e della Pure­zza dell’anima della Beatissima Vergine. È opportuno spruz­zare dell’acqua santa, debitamente benedetta da un “vero” Sacerdote cattolico, sulle fogl­ie raccolte.”

[M. J. Jahenny; 5 agosto 1880]

alcune varietà di biancospino: “Cratægus”

Ulteriori informazioni in:www. MJJProphecy.com,  sito approvato dalla Gerarchia Cattolica in esilio.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: DOCTOR MELLIFLUUS

Questa stupenda lettera Enciclica di S. S. Pio XII è interamente dedicata alla figura di uno dei più grandi Cattolici di ogni tempo: San Bernardo di Chiaravalle. Strenuo difensore della Santa Chiesa Cattolica e del ruolo essenziale del Santo Padre, ha portato immenso lustro alla teologia speculativa e pratica ed alla dottrina mariana. Certo è stato un gigante, specie se paragonato ai “nani” ed ai “buffoni” attuali che operano nel baraccone del modernismo postconciliare foriero di una totale apostasia, che dal confronto esce “nudo”, coperto dal lurido e consunto abito del nemico-ingannatore, con tanto di corna, zoccoli e coda caprina. Chiediamo tra lacrime ed invocazioni a Dio Trino: Padre, Figlio e Spirito Santo, di suscitare tanti nuovi San Bernardo, amanti della Chiesa, del Papa, e della Vergine Maria, per distruggere ed annientare la sinagoga infernale che occupa usurpandola la Santa Sede ed i palazzi sacri, perché possano questi tornare quanto prima sotto il dominio di Cristo, del suo Vicario, e dei credenti rimasti fedeli e senza deviazione alcuna alla dottrina del Salvatore ed alla sua “vera” Chiesa, unica arca di salvezza che conduce alla vita eterna.

PIO XII

LETTERA ENCICLICA

DOCTOR MELLIFLUUS

NEL VIII CENTENARIO DELLA MORTE
DI SAN BERNARDO

Il dottore mellifluo «ultimo dei padri, ma non certo inferiore ai primi», si segnalò per tali doti di mente e di animo, cui Dio aggiunse abbondanza di doni celesti, da apparire dominatore sovrano nelle molteplici e troppo spesso turbolente vicende della sua epoca, per santità, saggezza e somma prudenza, consiglio nell’agire. Perciò grandi lodi gli vengono tributate non solo dai sommi pontefici e dagli scrittori della chiesa cattolica, ma non di rado persino dagli eretici. Il Nostro predecessore di f.m. Alessandro III, nell’atto di iscriverlo tra l’universale giubilo nell’albo dei santi, così scrisse con riverenza di lui: «Abbiamo rievocato alla nostra memoria la santa e venerabile vita di questo spirito eletto: come egli, sostenuto da una non comune prerogativa di grazia, non solo risplendesse per la sua vita pia e santa, ma anche irradiasse dappertutto nella chiesa di Dio la luce della sua fede e della sua dottrina. Quali frutti egli abbia recato nella casa di Dio con la sua parola e il suo esempio non c’è nessuno, si può dire, in tutta l’estensione della cristianità che lo ignori, avendo egli diffuso le istituzioni della nostra santa religione fino nelle terre straniere e barbare … e avendo revocato alla retta pratica della vita religiosa … una moltitudine infinita di peccatori». «Egli fu infatti – scrive C. Baronio – uomo davvero apostolico, anzi vero apostolo inviato da Dio, potente per l’opera e per la parola, che ha reso illustre in ogni dove e fra tutti il suo apostolato con i prodigi che lo accompagnavano, sì da doversi dire che nulla ebbe in meno dei grandi apostoli … ornamento e sostegno a un tempo di tutta la chiesa cattolica».  – A queste testimonianze di somma lode, cui altre senza numero si potrebbero aggiungere, si rivolge il Nostro pensiero, mentre si compiono otto secoli dal giorno in cui il restauratore e propagatore del sacro ordine cistercense piamente passò da questa vita mortale, che egli aveva illustrata con tanto lume di dottrina e fulgore di santità, alla suprema vita. Ci è cosa assai grata meditare e scrivere sui suoi grandi meriti in modo che, non solo i suoi seguaci, ma altresì tutti coloro che pongono il loro diletto in ciò che è vero, bello, santo, ne traggano incitamento a seguire i suoi preclari esempi di virtù. – La sua dottrina fu attinta quasi interamente dalle pagine della sacra Scrittura e dei santi Padri, che giorno e notte aveva tra mano e meditava a fondo; non già dalle sottili dispute dei dialettici e filosofi, che più di una volta mostra di stimar meno. Si noti però che egli non rigetta l’umana filosofia che sia genuina filosofia, che conduca cioè a Dio, alla vita onesta e alla cristiana sapienza; ma quella che con vuota verbosità e col fallace prestigio dei cavilli presume con temeraria audacia di assurgere alle cose divine e penetrare interamente i misteri divini, sì da violare – come spesso accadeva anche allora – l’integrità della fede e miseramente sdrucciolare nell’eresia. – «Vedi … – egli scrive – come [san Paolo apostolo [cf. 1Cor 8,2]] fa dipendere il frutto e l’utilità della scienza dal modo di sapere? Ma che vuol dire modo di sapere, se non che tu sappia con quale ordine, con quale animo, a qual fine, che cosa si debba sapere? Con quale ordine: anzitutto, ciò che è più opportuno per la salvezza; con quale animo: più appassionatamente ciò che più accende l’amore; a qual fine: non per vana gloria o per curiosità o per qualcosa di simile, ma solo per tua edificazione o del prossimo. Vi sono infatti alcuni che amano di sapere solo per sapere; ed è turpe curiosità. Altri che desiderano di conoscere perché essi stessi siano conosciuti; ed è turpe vanità. Ci sono alcuni che desiderano di sapere per vendere la loro scienza, ad esempio, per denaro, per gli onori; ed è turpe mercimonio. Ma ci sono anche di quelli che vogliono sapere per edificare; ed è carità. Ci sono poi coloro che desiderano sapere per esser edificati; ed è prudenza». – Qual sia la dottrina, o meglio la sapienza che egli segue ed intensamente ama, felicemente esprime con queste parole: «C’è lo spirito di sapienza e d’intelletto, il quale come un’ape che reca cera e miele, ben ha donde accendere il lume della scienza e infondere il sapore della grazia. Non speri dunque di ricevere il bacio, né colui che afferra la verità ma non ama, né colui che ama, ma non comprende». – «Che cosa produrrebbe la scienza senza l’amore? Gonfierebbe. Che cosa l’amore senza la scienza? Errerebbe». – «Risplendere soltanto è vano; ardere soltanto è poco; ardere e risplendere è perfetto». – Da dove abbia origine la vera e genuina dottrina e come debba essere congiunta con la carità, egli spiega con queste parole: «Dio è sapienza, e vuol essere amato non solo dolcemente, ma anche sapientemente. … Altrimenti assai facilmente lo spirito dell’errore si farà giuoco del tuo zelo, se trascurerai la scienza; e l’astuto nemico non ha strumento più efficace per strappar dal cuore l’amore, che se riesce a far sì che si cammini in esso incautamente e non sotto la guida della ragione». – Da queste parole appare ben chiaro che Bernardo con lo studio e la contemplazione ha unicamente inteso di dirigere, stimolato dall’amore più che dalla sottigliezza delle opinioni umane, verso il Sommo Vero i raggi di verità da qualsiasi parte raccolti; da lui impetrando la luce alle menti, la fiamma della carità agli animi, le rette norme per la condotta morale. È questa la vera sapienza, che supera ogni umana realtà e tutto riconduce alla propria fonte, cioè a Dio, per convertire a lui gli uomini. Il dottore mellifluo, dunque, non si fonda sull’acutezza del suo ingegno per procedere con piede di piombo fra gli incerti e malsicuri anfratti del ragionamento, non si fonda sugli artificiosi e ingegnosi sillogismi, di cui tanto abusavano sovente al suo tempo i dialettici; ma come aquila, con lo sguardo fisso al sole, con rapidissimo volo mira al vertice della verità. Infatti, quella carità che lo stimolava non conosce impedimenti e mette ali, per così dire, all’intelligenza. A lui, insomma, la dottrina non è ultima meta, ma è piuttosto via che conduce a Dio; non è cosa fredda, in cui vanamente indugi l’animo, come gingillandosi affascinato da fulgori evanescenti, ma dall’amore è mosso, stimolato, governato. Perciò Bernardo, sostenuto da tale sapienza, meditando, contemplando e amando si eleva alle supreme vette della scienza mistica e si congiunge con Dio stesso, quasi fruendo già in questa vita mortale della beatitudine infinita. – Il suo stile poi, vivace, fiorito, abbondante e sentenzioso, è così dolce e soave da attirare l’animo del lettore, dilettarlo, elevarlo alle cose di lassù; da eccitare, alimentare, dirigere la pietà; da indurre infine l’animo a perseguire quei beni che non sono caduchi e passeggeri, ma veri, certi, eterni. Perciò i suoi scritti furono sempre in grande onore; da essi la chiesa stessa ha tratte non poche pagine celestiali e calde di pietà per la sacra liturgia. – Sembrano quasi vivificate dal soffio dello Spirito Santo e vivide di tal luce, che mai può estinguersi nel corso dei secoli, perché nasce dall’animo di colui che scrive, assetato di verità e carità, e desideroso di nutrirne gli altri conformandoli a propria immagine. – Ci piace, venerabili fratelli, riferire circa questa mistica dottrina dai suoi libri, a comune utilità, alcune bellissime sentenze: «Abbiamo insegnato che ogni anima, benché piena di peccati, irretita nei vizi, schiava delle passioni, prigioniera dell’esilio, incarcerata nel corpo, benché, dico, a tal punto condannata e priva di speranza; abbiamo insegnato che essa tuttavia può scorgere in sé tanto, da poter non solo dilatare l’animo alla speranza del perdono, della misericordia, ma perfino da osar aspirare alle nozze del Verbo, da non temere di stringere patto d’alleanza con Dio, da non dubitare di stringere soave giogo d’amore con il Re degli angeli: Che cosa non può osare con sicurezza presso Colui di cui essa scorge in sé la nobile immagine, conosce la splendida somiglianza?». – «Tale conformità marita l’anima col Verbo, poiché così essa si rende simile per mezzo della volontà a Colui cui è simile per natura e Lo ama come ne è amata. Se dunque ama perfettamente; ha contratto le nozze. Che cosa vi è di più giocondo di tale conformità? Qual cosa più desiderabile di quella carità da cui proviene che tu, o anima, non contenta degli insegnamenti degli uomini, da te stessa con fiducia ti avvicini al Verbo, sia sempre unita al Verbo, interroghi familiarmente il Verbo e lo consulti su ogni cosa, fatta tanto capace di comprendere, quanto sei audace nel desiderio? È questo veramente un contratto di connubio spirituale e santo. Ho detto poco, contratto: è un amplesso. Amplesso, in verità, in cui volere e non volere le stesse cose fa di due uno spirito solo. E non c’è da temere che la disparità delle persone renda in qualche modo imperfetto l’accordo delle volontà, perché l’amore non sente soggezione reverenziale. Infatti amore viene da amare, non da riverire. … L’amore abbonda nel proprio senso, l’amore quando giunge assimila e sottomette tutte le altre affezioni. Perciò chi ama, ama ed altro non sa». – Dopo aver notato che Dio vuole dagli uomini esser amato, ancor più che temuto e onorato, aggiunge queste acute e sottili osservazioni: «Esso (l’amore) basta da sé, piace in sé e per sé. Esso è merito, è premio a se stesso. L’amore non ricerca motivo, non frutto fuori di sé. Il suo frutto è l’uso di sé. Amo perché amo; amo per amore. Grande cosa è l’amore, purché ricorra al suo principio, ritorni alla sua origine, rifluisca alla sua fonte, sempre vi attinga di che perennemente scorrere. È solo l’amore, fra tutti i moti, sentimenti e affetti dell’animo, quello in cui la creatura può, anche se non a parità, corrispondere al suo Autore, ovvero restituire vicendevolmente in cosa simile». – Poiché egli stesso ha sovente sperimentato nella contemplazione e nella preghiera questo divino amore che ci permette di congiungerci strettamente con Dio, dal suo animo prorompono queste parole infocate: «O felice (anima), resa degna di esser prevenuta con la benedizione di tanta dolcezza! Felice, poiché le è stato dato di sperimentare un abbraccio così beatificante! Ciò non è altro che amore santo e casto, soave e dolce; amore tanto sereno, quanto sincero; amore scambievole, intimo e forte, che congiunge due non in una sola carne, ma in un solo spirito, fa sì che due non sian più due, ma uno solo, come dice Paolo (cf.1 Cor 6,17): “Chi aderisce a Dio, è un solo spirito con Lui”». – Questa sublime dottrina mistica del Dottore di Chiaravalle, che supera e può saziare ogni umano desiderio, sembra al giorno d’oggi talora negletta, o messa da parte, o dimenticata da molti; costoro, presi dalle sollecitudini e dalle faccende quotidiane, non cercano e desiderano altro se non ciò che è utile e redditizio per questa vita mortale; e quasi mai elevano l’occhio e la mente al cielo; quasi mai aspirano alle cose di lassù, ai beni non perituri. – Eppure, anche se non tutti possono attingere le vette di tale contemplazione divina, di cui Bernardo discorre con sublimi pensieri e parole, anche se non tutti possono congiungersi così intimamente con Dio, da sentirsi uniti col Sommo Bene con i vincoli come di un arcano celeste connubio; tutti possono e debbono però elevare di tanto in tanto l’animo da queste cose terrene alle celesti e amare con attiva volontà il Supremo Datore di ogni bene. – Pertanto, mentre oggi in molti animi l’amore verso Dio o insensibilmente si raffredda, o anche non raramente si spegne del tutto, stimiamo che siano da meditarsi attentamente questi scritti del dottore mellifluo; dalla loro dottrina, che del resto scaturisce dal Vangelo, tanto nella vita privata di ciascuno, quanto nell’umano civile consorzio può diffondersi una nuova soprannaturale energia che regga il pubblico costume, lo renda conforme ai precetti della morale cristiana e possa in tal modo offrire gli opportuni rimedi ai tanti e così gravi mali che turbano e travagliano la società. Quando infatti gli uomini non amano come si deve il loro Creatore, donde viene tutto ciò che essi hanno, allora non si amano neppure tra loro; anzi – come troppo spesso accade – nell’odio e nella contesa si separano vicendevolmente con asprezza si avversano. Dio è padre amorosissimo di noi tutti; noi siamo fratelli in Cristo, che egli ha redento versando il suo sacro sangue. Ogni qualvolta, dunque, non riamiamo quel Dio che ci ama e non riconosciamo con riverenza la sua divina paternità, anche i vincoli dell’amore fraterno sono disgraziatamente lacerati; e sventuratamente spuntano fuori – come purtroppo talora si vede – le discordie, le contese, le inimicizie; e queste possono arrivare a tal punto da sconvolgere e scalzare i fondamenti stessi dell’umana convivenza. – È dunque necessario restituire a tutti gli animi questa divina carità che infiammò così ardentemente il Dottore di Chiaravalle, se vogliamo che i costumi cristiani rifioriscano dappertutto, che la religione cattolica possa efficacemente compiere la sua missione e che, sedati i dissidi e restaurato l’ordine nella giustizia e nell’equità, al genere umano affaticato e travagliato rifulga serena la pace. – Di questa carità, per mezzo della quale dobbiamo sempre e con gran fervore essere uniti con Dio, siano infiammati in primo luogo coloro che hanno abbracciato l’ordine del dottore mellifluo, e parimenti tutti i sacerdoti ai quali spetta particolarmente l’obbligo di esortare ed eccitare gli altri a riaccendere il divino amore. Di questo divino amore – come abbiamo detto – se altre volte nel passato, in questi nostri tempi hanno immenso bisogno i cittadini, la domestica convivenza, l’umanità intera. Se esso arde e porta gli animi a Dio, fine ultimo dei mortali, si corroborano le altre virtù; se invece si affievolisce o si estingue, anche la tranquillità, la pace, la gioia e tutti gli altri veri beni a poco a poco si affievoliscono o si estinguono del tutto, come quelli che vengono da colui che «è carità» (1Gv 4,8). – Di questa divina carità nessuno forse ha parlato così bene, con tanta profondità, con tanta forza come Bernardo. «Il motivo per amare Dio, è Dio stesso; la misura, amarlo senza misura». – «Dove c’è amore, non c’è fatica, ma gusto». –  Egli stesso confessa di averlo sperimentato, quando scrive: «O amore santo e casto! O dolce e soave affetto, tanto più soave e dolce, perché è tutto divino il sentimento che se ne prova. Sperimentarlo è divinizzarsi». –  E altrove: «È cosa buona per me, o Signore, piuttosto stringermi a te nella tribolazione, averti con me nella fornace, che essere senza di te fosse pure in cielo». – Quando poi è giunto a quella somma e perfetta carità che lo unisce in intimo connubio con Dio stesso, gode di tanta gioia, di tanta pace, da non potervene essere di più grande: «O luogo della vera quiete, in cui non si vede Dio come turbato da ira o occupato in sollecitudini, ma si sperimenta in lui la sua volontà buona, benevola e perfetta! Questa visione non spaventa, ma accarezza; non eccita inquieta curiosità, ma mette in calma; non stanca i sensi, ma dà pace. Ivi veramente si riposa. Dio tranquillo dà tranquillità in tutto; vederlo pacifico è stare in pace». – Questa perfetta quiete non è già morte dell’animo, ma vera vita: «Tale sopore vitale e vigilante illumina piuttosto il senso interiore e, scacciata la morte, dona la vita eterna. È veramente un sonno, che per altro non assopisce, ma è evasione. È anche morte – non temo di dirlo – poiché l’apostolo elogiando alcuni ancor vivi nella carne, dice così (Col 3,3]: “Siete morti, e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio”». – Questa perfetta quiete dell’animo, di cui godiamo nel riamare Dio che ci ama, e fa sì che a lui volgiamo e dirigiamo noi e ogni nostra cosa, non ci porta alla pigrizia, non all’ignavia, non all’inerzia, ma ad un’alacre, solerte, operosa diligenza, con la quale cerchiamo di procurare, con l’aiuto di Dio, la nostra salvezza e anche quella degli altri. Infatti, tale sublime meditazione e contemplazione, incitata e stimolata dall’amore divino, «governa gli affetti, dirige le azioni, corregge gli eccessi, regola i costumi, adorna la vita e vi fa regnare l’ordine, dona infine la scienza delle cose divine e umane. È essa che distingue ciò che è confuso, unisce ciò che è diviso, raccoglie ciò che è disperso, investiga ciò che è nascosto, ricerca il vero, pondera ciò che è verosimile, scopre la finzione e l’artificio. Essa preordina ciò che è da farsi, riflette su ciò che è stato fatto, di modo che nulla rimanga nell’animo di poco corretto o bisognoso di correzione. Nella prosperità essa presente l’avversità, nelle avversità quasi non le sente; l’una è fortezza, l’altra prudenza». – E infatti, benché aneli a restar immerso in sì alta meditazione e soave contemplazione, alimentata dal divino spirito, tuttavia il dottore mellifluo non rimane chiuso tra le pareti della sua cella, che pur «custodita è dolce», ma dovunque sia in questione la causa di Dio e della chiesa, è subito presente col consiglio, con la parola, con l’azione. Asseriva infatti che non «deve ognuno vivere per sé, ma per tutti». –  Di se stesso, poi, e dei suoi così scriveva: «In tal modo anche ai nostri fratelli tra cui viviamo, siamo debitori, per diritto di fraternità e umano consorzio, di consiglio e di aiuto». – Quando con dolore vedeva minacciata o perseguitata la nostra santa Religione, non risparmiava fatiche, non viaggi, non premure per difenderla strenuamente e porgerle aiuto secondo le sue possibilità. «Nulla mi è estraneo – diceva – di ciò che si riveli interesse di Dio». –  E al re Ludovico di Francia scrive queste coraggiose parole: «Noi figli della Chiesa, non possiamo in alcun modo dissimulare le ingiurie recate alla nostra Madre, il disprezzo verso di lei, i suoi diritti conculcati… Per certo staremo saldi e combatteremo fino alla morte, se sarà necessario, per la nostra madre, con le armi che ci si addicono; non con gli scudi e le spade, ma con le preghiere e le lacrime al cospetto di Dio». A Pietro, abate di Cluny: «Mi glorio nelle mie tribolazioni, se sono stato ritenuto degno di soffrirne alcuna per la Chiesa. Questa è la mia gloria che esalta il mio capo, il trionfo della Chiesa. Se infatti siamo stati compagni nella fatica, lo saremo anche nella consolazione. È stato doveroso collaborare con la nostra Madre, unirci alla sua passione …». – Quando poi il corpo mistico di Gesù Cristo fu conturbato da scisma così grave che anche i buoni rimanevano dubbiosi tra le due parti, egli si consacrò interamente per comporre i dissidi e per la felice riconciliazione e unione degli animi. Poiché i prìncipi, per ambizione di dominio terreno, erano separati da spaventose discordie, dalle quali potevano derivare gravi danni per i popoli, egli si fece artefice di pace e riconciliatore per una mutua concordia. Infine, poiché i luoghi santi della Palestina consacrati al divino Redentore col proprio sangue erano in gravissima condizione ed esposti all’ostile pressione di eserciti stranieri, per mandato del Sommo Pontefice incoraggiò con alte parole e più alta carità i prìncipi e i popoli cristiani ad una nuova crociata; se questa non sortì felice esito, non fu certo per sua colpa. – Trovandosi poi soprattutto esposta a gravissimi pericoli l’integrità, trasmessa dagli avi quale sacra eredità, della fede cattolica e dei costumi, per opera soprattutto di Abelardo, di Arnaldo da Brescia e di Gilberto della Porretta, egli, sia con la pubblicazione di scritti colmi di dottrina, sia con faticosi viaggi, tentò, sorretto dalla divina grazia, tutto ciò che gli fu possibile, per debellare e far condannare gli errori, e perché gli erranti, per quanto era in suo potere, ritornassero sulla retta via e a miglior consiglio. – Egli, consapevole che in questa cosa non importava tanto la sapienza dei dottori, quanto l’autorità soprattutto del romano pontefice, si diede cura d’interporre tale autorità, da lui riconosciuta, nel dirimere tali questioni, come suprema e del tutto infallibile. Pertanto al Nostro predecessore di f.m. Eugenio III, già suo discepolo, scrive queste parole, che rivelano il suo amore e la profonda riverenza verso di lui, unita con quella libertà d’animo che si addice ai santi: «L’amore non conosce il padrone, conosce il figlio anche sotto la tiara. … Ti ammonirò dunque non come maestro, ma come madre; certamente come uno che ti vuol bene». Lo interpella in seguito con queste ardenti parole: «Chi sei? Il gran sacerdote, il Sommo Pontefice. Tu sei il principe dei vescovi, l’erede degli apostoli … Pietro per potestà, per unzione Cristo. Sei colui al quale sono state consegnate le chiavi, affidate le pecorelle. Vi sono anche altri portinai del Cielo e pastori di greggi; ma tu sei tanto più glorioso, quanto più grande è la differenza con cui hai ereditato al disopra degli altri entrambi questi nomi. Quelli hanno assegnati i loro greggi, a ciascuno il proprio: a te sono stati affidati tutti, a te solo nell’unità. E non soltanto tu sei pastore dei greggi, ma unico pastore di tutti i pastori». E ancora: «Deve uscir al di fuori di questo mondo chi volesse ricercare ciò che non appartiene alla tua cura». – Riconosce poi apertamente e pienamente l’infallibilità del magistero del romano pontefice, per quanto riguarda la fede e i costumi. Infatti, quando combatte gli errori di Abelardo, il quale «allorché parla della Trinità, risente di Ario; quando della grazia, sa di Pelagio; quando della persona di Cristo, sa di Nestorio»; «egli che pone dei gradi nella Trinità, delle modalità nella maestà, successione numerica nell’eternità»; e in lui «l’umana ragione usurpa tutto per sé e nulla lascia alla fede»; egli non discute le sottili, contorte e ingannevoli fallacie e cavilli, li dissolve e li confuta, ma scrive altresì al Nostro predecessore d’immortale memoria Innocenzo II per simile motivo queste gravi parole: «Occorre riferire alla vostra autorità apostolica ogni pericolo… quelli soprattutto che riguardano la fede. Penso esser giusto che ivi soprattutto si riparino i danni della fede, dove la fede non può venir meno. E questa è la prerogativa di tale sede… È tempo, Padre amatissimo, che voi riconosciate la vostra potestà… In questo fate veramente le veci di Pietro, del quale occupate la sede, se con i vostri moniti confermate gli animi incerti nella fede, se con la vostra autorità sterminate i corruttori della fede». – Ma da dove questo umile monaco, quasi senza alcun mezzo umano, abbia potuto attingere la forza per vincere anche le più ardue difficoltà, per risolvere intricatissimi problemi e dirimere le questioni più imbarazzanti, solamente si può capire se si pensa all’esimia santità di vita che lo adornava, congiunta con un grande amore della verità. Era infiammato soprattutto, come abbiamo detto, della più accesa carità verso Dio e verso il prossimo, che è, come ben sapete, venerabili fratelli, il principale precetto e quasi il compendio di tutto il Vangelo; di modo che non solo era sempre misticamente unito col Padre celeste, ma ancora niente più desiderava che guadagnare gli uomini a Cristo, sostenere i sacrosanti diritti della Chiesa e difendere con invitto coraggio l’integrità della Fede Cattolica. -In mezzo ai tanti favori e alla stima di cui godeva presso i Sommi Pontefici, presso i prìncipi e presso i popoli, non si insuperbiva, non andava in cerca della mutevole e vana gloria umana, ma risplendeva in lui sempre quella cristiana umiltà che «raccoglie le altre virtù … dopo averle raccolte le custodisce … e conservandole le perfeziona»; sicché «non sembrano nemmeno virtù … senza di quella». – Perciò non agitarono la sua anima gli onori che gli furono offerti, e il suo piede non fu mosso per dirigersi verso la gloria; e non lo attirava «più la tiara o il sacro anello, che il rastrello e il sarchio». – Mentre poi si sobbarcava a tali e tante fatiche per la gloria di Dio e l’incremento del nome cristiano, si professava «inutile servo dei servi di Dio», «vile vermiciattolo», «albero sterile», «peccatore, cenere …». – Alimentava quest’umiltà cristiana e le altre virtù con l’assidua contemplazione delle realtà celesti; le alimentava con le infiammate preci rivolte a Dio, con le quali attirava la grazia celeste su di sé e sulle opere da lui intraprese. – In modo specialissimo era preso da così ardente amore per Gesù Cristo, divino redentore, che sotto la sua mozione e il suo stimolo scriveva pagine bellissime e nobilissime, che ancor oggi destano l’ammirazione universale e infiammano la pietà del lettore. «Quale altra cosa arricchisce l’anima che vi medita sopra … irrobustisce le virtù, fa fiorire i buoni e onesti costumi, suscita casti affetti? È arido ogni cibo dell’anima, se non vi si infonde questo olio; è insipido, se non è condito con questo sale. Se scrivi qualcosa, non lo gusto se non vi leggo Gesù. Se fai una disputa o un ragionamento, non mi piace se non vi risuona Gesù. Gesù è miele nella bocca, dolce concerto all’orecchio, giubilo al cuore. Ma è anche medicina. C’è tra voi qualcuno triste? Gesù scenda nel cuore, salga poi al labbro; ed ecco, alla luce di questo nome ogni nube si dissolve, torna il sereno. Qualcuno ha commesso una colpa? corre disperato al laccio di morte? Ma se invocherà questo nome di vita, non sentirà subito speranza di vita?… C’è qualcuno che, angustiato e trepido tra i pericoli, invocando questo nome di forza non senta subito la fiducia e fugato il timore?… Nulla meglio infrange l’impeto dell’ira, reprime il tumore della superbia, sana la ferita dell’invidia…». – A questo infiammato amore per Gesù Cristo si univa una tenerissima e soave devozione verso la sua eccelsa Madre, che egli, come propria amorosissima Madre, ricambiava di amore nutrendo per lei un culto profondo. Aveva tanta fiducia nel suo potente patrocinio, da usare queste espressioni: «Dio ha voluto che noi nulla ottenessimo, che non passi per le mani di Maria». Così pure: «Tale è la volontà di Colui, che ha voluto che noi avessimo tutto per mezzo di Maria». – A questo punto ci è grato, venerabili fratelli, proporre a tutti da meditare quella pagina che è forse la più bella per le lodi della santa vergine Madre di Dio, la più ardente, la più atta a suscitare in noi l’amore verso di lei, la più utile per infiammare la pietà e a imitare i suoi esempi di virtù: «… È detta Stella del mare e la denominazione ben si addice alla Vergine Madre. Ella con la massima convenienza è paragonata ad una stella; perché come la stella sprigiona il suo raggio senza corrompersi, così la Vergine partorisce il Figlio senza lesione della propria integrità. Il raggio non menoma alla stella la sua chiarità, né il Figlio alla Vergine la sua integrità. Ella è dunque quella nobile stella nata da Giacobbe, il cui raggio illumina tutto il mondo, il cui splendore rifulge in cielo e penetra gli inferi… Ella è, dico, la preclara ed esimia stella, che è necessariamente al di sopra di questo grande e spazioso mare, fulgente di meriti, chiara dei suoi esempi. O tu, chiunque sia, che ti avvedi di essere in balìa dei flutti di questo mondo, tra le procelle e le tempeste, invece di camminare sulla terra, non distogliere gli occhi dal fulgore di questa stella, se non vuoi essere travolto dalle tempeste. Se insorgono i venti delle tentazioni, se incappi negli scogli delle tribolazioni, guarda la stella, invoca Maria. Se sei sballottato dalle onde della superbia, della detrazione, dell’invidia: guarda la stella, invoca Maria. Se l’ira, o l’avarizia, o l’allettamento della carne scuotono la navicella dell’anima: guarda a Maria. Se tu, conturbato per l’enormità del peccato, pieno di confusione per la laidezza della coscienza, intimorito per il tenore del giudizio, incominci ad essere inghiottito dall’abisso della tristezza, dalla voragine della disperazione: pensa a Maria. Nei pericoli, nelle angustie, nelle incertezze, pensa a Maria, invoca Maria. Ella non si parta mai dal tuo labbro, non si parta mai dal tuo cuore; e perché tu abbia ad ottenere l’aiuto della sua preghiera, non dimenticare mai l’esempio della sua vita. Se tu la segui, non puoi deviare; se tu la preghi, non puoi disperare; se tu pensi a lei, non puoi sbagliare. Se ella ti sorregge, non cadi; se ella ti protegge, non hai da temere; se ella ti guida, non ti stanchi; se ella ti è propizia, giungerai alla meta…». – Ci sembra che meglio Noi non potremmo terminare questa lettera enciclica, che invitandovi tutti con le parole del dottore mellifluo ad accrescere ogni giorno più la devozione verso l’alta Madre di Dio, e parimenti a imitare col più grande impegno le sue eccelse virtù, ciascuno secondo le peculiari condizioni della propria vita. Se nel secolo XII gravi pericoli minacciavano la chiesa e l’umanità, altri non meno gravi, senza dubbio, minacciano la nostra età. La fede cattolica, che dà all’uomo le più grandi consolazioni, non di rado è indebolita negli animi, e perfino in alcuni paesi e nazioni è aspramente combattuta in pubblico. E quando la religione cristiana è negletta e combattuta dai suoi nemici, si vede purtroppo che i costumi privati e pubblici tralignano dalla retta via e anche talora attraverso i meandri dell’errore si scende infelicemente nel fondo dei vizi. – Al posto della carità, che è vincolo di perfezione, di concordia e di pace, si fanno strada gli odi, le contese, le discordie. Un che d’inquieto, d’angustioso e di trepido penetra nell’animo umano: c’è proprio da temere che, se la luce del Vangelo a poco a poco diminuisce e languisce in molti, o – peggio ancora – se viene respinta del tutto, verranno a crollare i fondamenti stessi della civiltà e della vita domestica; e in tal modo verranno tempi anche peggiori e più infelici. – Come, dunque, il dottore di Chiaravalle chiese l’aiuto della vergine Madre di Dio Maria e lo ebbe per l’età sua turbolenta, così noi tutti, con la medesima costante pietà e preghiera dobbiamo ottenere dalla divina madre nostra che a questi gravi mali, sovrastanti o temuti, essa impetri da Dio gli opportuni rimedi; e benigna e potente conceda che, con l’aiuto divino, arrida finalmente una sincera, solida e fruttuosa pace alla chiesa, ai popoli, alle nazioni. – Siano questi i pingui e salutari frutti, mercè la protezione di Bernardo, delle celebrazioni centenarie della sua pia morte; tutti si uniscano a Noi in queste preci e suppliche, e ad un tempo, osservando e meditando gli esempi del dottore mellifluo, si sforzino di seguire volenterosamente e con zelo le sue sante tracce. – Di questi salutari frutti sia propiziatrice l’apostolica benedizione che a voi, venerabili fratelli, ai vostri greggi e particolarmente a coloro che appartengono all’istituto di san Bernardo, impartiamo con effusione di cuore.

Roma, presso San Pietro, nella festa di pentecoste, il 24 maggio 1953, anno XV del Nostro pontificato.

 

 

DOMENICA XI dopo PENTECOSTE

Introitus
Ps LXVII:6-7; 36
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]
Ps LXVII:2
Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus.
[Sorga Iddio, e siano dispersi i suoi nemici: fuggano dal suo cospetto quanti lo odiano.
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ. [Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui, abundántia pietátis tuæ, et merita súpplicum excédis et vota: effúnde super nos misericórdiam tuam; ut dimíttas quæ consciéntia metuit, et adjícias quod orátio non præsúmit.
[O Dio onnipotente ed eterno che, per l’abbondanza della tua pietà, sopravanzi i meriti e i desideri di coloro che Ti invocano, effondi su di noi la tua misericordia, perdonando ciò che la coscienza teme e concedendo quanto la preghiera non osa sperare.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV:1-10
“Fratres: Notum vobis fácio Evangélium, quod prædicávi vobis, quod et accepístis, in quo et statis, per quod et salvámini: qua ratione prædicáverim vobis, si tenétis, nisi frustra credidístis. Trádidi enim vobis in primis, quod et accépi: quóniam Christus mortuus est pro peccátis nostris secúndum Scriptúras: et quia sepúltus est, et quia resurréxit tértia die secúndum Scriptúras: et quia visus est Cephæ, et post hoc úndecim. Deinde visus est plus quam quingéntis frátribus simul, ex quibus multi manent usque adhuc, quidam autem dormiérunt. Deinde visus est Jacóbo, deinde Apóstolis ómnibus: novíssime autem ómnium tamquam abortívo, visus est et mihi. Ego enim sum mínimus Apostolórum, qui non sum dignus vocári Apóstolus, quóniam persecútus sum Ecclésiam Dei. Grátia autem Dei sum id quod sum, et grátia ejus in me vácua non fuit.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, Torino 1899 –imprim.]

Omelia XXIII.

“Ora vi rammento, o fratelli, il Vangelo che vi ho predicato e che voi avete anche accettato, e nel quale state saldi e per il quale anche vi salverete, se lo ritenete nel modo che vi ho predicato, purché non abbiate creduto indarno. Perché prima di tutto vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto; come cioè Cristo è morto pei nostri peccati, secondo le Scritture, e come fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture: e come apparve a Cefa e poscia agli undici: quindi apparve a più di cinquecento fratelli, dei quali molti vivono tuttora e gli altri morirono. Poi apparve a Giacomo, poi agli Apostoli; finalmente all’ultimo di tutti, quasi ad aborto, apparve anche a me, che sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato apostolo perché ho perseguitata la Chiesa di Dio. Ma per la grazia di Dio sono quel che sono, e la grazia di Dio in me non fu sterile: anzi ho lavorato più di essi tutti: non già io, ma la grazia di Dio con me „ (I. Cor. c. XV, vers. 1-10).

Noi siamo siffatti, che sentiamo il bisogno vivissimo di mutare spesso le cose che ci stanno intorno, e le impressioni che riceviamo, anche belle e gradite. Un cibo, una bevanda, ancorché squisita, se è sempre quella, ci viene a noia: una armonia, una vista, una scena, ancorché incantevole, dopo un certo tempo, non ci interessa gran fatto. Noi abbiamo bisogno di variare le nostre impressioni per gustarne la bellezza: siamo simili alle api, che vanno di fiore in fiore, succhiando da ciascuno il miele e assaporandone sempre nuove dolcezze. I Libri sacri, massime del nuovo Testamento, sono come un immenso panorama, nel quale le scene variano mirabilmente: sono come un vastissimo prato, coperto d’una infinita varietà di fiori, una splendida mensa imbandita d’ogni sorta di cibi. La Chiesa ci spiega dinanzi questo panorama, ci mostra questo prato, ci introduce a questa mensa, ma pone ogni cura di variare le viste ed i fiori, di mutare i cibi, onde colla novità rendere più gradevoli le nostre impressioni. Perciò ogni Domenica la Chiesa ci mette innanzi qualche tratto nuovo, volete nell’Epistola, volete nel Vangelo: ora è un fiore colto in una delle quattordici lettere di S. Paolo, od in una di quelle di S. Pietro, di S. Giovanni o di S. Giacomo; ora ci dà a gustare una scena narrata in uno dei quattro Evangeli, e ci nutre col cibo sostanzioso delle sentenze di Gesù Cristo, che vi sono largamente disseminate. Così la novità delle cose eccita la nostra curiosità e tien desta la nostra attenzione, e la nostra curiosità eccitata e la nostra attenzione più vivamente destata trovano più gradito e più sostanzioso l’alimento della verità, che ci è offerta. – La Chiesa in questa Domenica ci fa leggere e meditare i primi dieci versetti del capo XV della prima lettera ai Corinti, e servono di prefazione alla dottrina della risurrezione finale dei nostri corpi, che l’Apostolo ampiamente vi svolge. Io vi invito a considerare con me questa breve lezione della Epistola, con cui S. Paolo si apre destramente la via a spiegare il dogma fondamentale della futura nostra risurrezione. – È manifesto da questo capo XV di S. Paolo, che a Corinto, nella Chiesa fondata da lui stesso, vi erano alcuni, che negavano la risurrezione dei corpi o almeno ne dubitavano (vers. 12, 35), e muovevano difficoltà, che turbavano la fede dei semplici. Forse era il mal seme già sparso dagli eretici Imeneo e Pileto, riprovati da S. Paolo (II. Timot. II, 17, 18), e che si propagava come gangrena, a detta dello stesso Apostolo. Volendo egli pertanto porre in sodo questo articolo capitale della nostra fede, comincia dal ricordare ai Corinti ciò che loro aveva insegnato, cioè che Cristo era veramente risorto dai morti, e ne cita i testimoni, per conchiudere poi a suo luogo, che se Cristo era veramente risorto, Egli il capo dell’umanità, tutti sarebbero risorti. Udiamolo: ” Ora io vi rammento, o fratelli, il Vangelo, che vi ho predicato, che voi ancora avete accettato, nel quale v i mantenete saldi. „ Il Vangelo, che Paolo qui ricorda ai fedeli di Corinto, non è certamente il libro scritto, ma sì l’insegnamento evangelico, ossia la dottrina di Gesù Cristo: questa dottrina, egli Paolo, l’aveva annunziata, ed essi, i Corinti, l’avevano accolta: Accepìstis, non solo, ma in essa stavano saldi: In quo et statis. Doppio elogio, che l’Apostolo fa ai suoi Corinti, quello d’aver ricevuto il Vangelo e di perseverare in esso in mezzo ai pericoli ed alle persecuzioni, che d’ogni parte li circondavano e molestavano. Figliuoli! quel Vangelo che i Corinti avevano ricevuto adulti, noi l’abbiamo ricevuto ancor bambini, prima ancora di conoscerne il tesoro: i Corinti vi si tennero fermi; imitiamoli, conservando gelosamente e a qualunque costo questa santa eredità lasciataci dai nostri avi: In quo et statis. Pur troppo alcuni dei nostri cari fratelli, massime istruiti, colpa dei tempi e della scaltrezza dei nemici e della debolezza umana, hanno perduta la fede succhiata col latte tra le braccia della madre: deh! Che nessuno di voi la perda, ma la serbi intatta e viva, perché ad essa è legata la nostra speranza e la eterna nostra salvezza. – Seguitiamo S. Paolo. “Per questo Vangelo voi sarete salvi; „ ma a qual patto? ” Se lo tenete nel modo, con cui io ve l’ho predicato, „ risponde l’Apostolo. Non basta, o cari, avere la fede, ma bisogna averla e conservarla quale l’autore e consumatore della fede; ma egli ce la dà per mezzo della sua Chiesa, che ne è la depositaria ed interprete infallibile. Noi dunque dobbiamo ricevere e conservare questa fede secondo l’insegnamento della Chiesa: aggiungervi o levarne una sola sillaba sarebbe delitto, sarebbe sacrilegio. Nessuno può mutare una parola d’una sentenza pronunciata da un tribunale, che giudica secondo il codice e l’applica ai casi particolari, e se la mutasse sarebbe punito: similmente noi dobbiamo ricevere le sentenze della Chiesa, unica interprete infallibile del Vangelo. Teniamo dunque il Vangelo come ce lo porge la Chiesa, e allora non avremo creduto indarno: Nisì frustra credidistìs, giacché pretendere di piegare la fede, allargarla, restringerla, modificarla secondoché pare alla nostra corta intelligenza, è un sottoporre Dio a noi stessi, è un farci giudici della sua parola, è un distruggere la natura stessa della fede, e questa è inutile: Frustra credidistìs. In tal caso non crederemmo a Dio, ma a noi medesimi, e la fede sarebbe, non l’opera di Dio, ma sì l’opera nostra. Che cosa anzi tutto avete voi insegnato, o grande Apostolo, ai vostri Corinti? Qual fu il punto capitale del vostro Evangelo? Eccovelo: “Prima di tutto vi ho trasmesso quello, che anch’io ho ricevuto. „ La verità, sì la naturale, come la sovrannaturale, quella propria della ragione, come quella della fede, non è opera o fattura dell’uomo; se lo fosse, sarebbe in potere dell’uomo annientarla o mutarla: essa viene da Dio, da Dio solo, e l’uomo non può esserne che il mezzo o lo strumento di comunicazione, non mai la sorgente. Bene a ragione pertanto S. Paolo dice: Quelle verità, che io vi ho insegnate, non sono mie, non le traggo da me stesso, ma le ho ricevute anch’io, come voi le ricevete da me: Tradidi vobis in primis quod et accepi. E da chi le ha ricevute S. Paolo? Lo dice e lo ripete altrove; non dagli uomini, né per gli uomini, ma da Gesù Cristo. — E che cosa ricevette da Gesù Cristo? ” Che Gesù Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture. „ Non basta: ” Fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture. ,, In queste poche parole, come vedete, si contiene il compendio di tutta la fede cristiana, la morte di Gesù Cristo per i nostri peccati, la sua sepoltura, la sua risurrezione, in breve, il secondo mistero della fede, che ci insegna il Catechismo. È da notarsi quella espressione ripetuta due volte: “Secondo le Scritture: „ Secundum Scripturas, che la Chiesa volle conservata nel Simbolo, che si canta nella Messa. E perché questa espressione è con insistenza speciale inculcata? Le Scritture, delle quali parla in questo luogo l’Apostolo, non possono essere i libri del nuovo Testamento, che allora non esistevano che in minima proporzione, nè v’era ragione di citarli. Resta dunque che si alluda a quelli dell’antico Testamento, e v’era ben ragione di accennarvi. In quasi tutti i libri dell’antico Testamento si parla di Gesù Cristo, della sua venuta, della sua origine, della sua vita, della sua passione, morte e risurrezione, tantoché non è esagerazione il dire che tutta la vita di Cristo, prima che nei Vangeli, è scritta nei profeti. È questo un vero miracolo, una prova della divinità di Gesù Cristo, e perciò S. Paolo, inteso sempre a raffermare nella fede i suoi neofiti, ricordando la vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, ricorda eziandio che questa vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo era già stata predetta e descritta nei Libri santi, e così delle prove della divinità di Gesù forma un solo fascio, che vince ogni opposizione e schiaccia qualunque mente riottosa. Vedete, sembra dire l’Apostolo, il cumulo di miracoli operati da Cristo che tutti si incentrano nella risurrezione, sono più che bastevoli a mostrare chi Egli sia: eppure vi è un altro cumulo di miracoli, che si legano ai primi, ed è che questi miracoli furono tutti predetti, e se volete persuadervene pigliate in mano i libri del vecchio Testamento e ve li troverete descritti prima che avvenissero: Secundum Scripturas. – Scopo dell’Apostolo, come dicemmo, è di mostrare il dogma della risurrezione universale: per mostrare questo dogma, egli appella alla risurrezione di Cristo, predetta dai profeti. Ma questa risurrezione di Cristo è avvenuta? E certa? Si può provare? La risurrezione di Gesù Cristo è un miracolo, il sommo dei miracoli operati da Cristo, ed è insieme un fatto; un fatto che si può e si deve provare a punta di ragione. Ora i fatti come si provano? Indubbiamente coi testimoni; non c’è altra via. Come provate voi che Cristoforo Colombo abbia scoperto l’America e che Goffredo di Buglione abbia preso Gerusalemme? Colle testimonianze di quelli che videro od udirono quei fatti. Similmente nel caso nostro: se Cristo è veramente risorto noi lo sapremo da coloro che lo videro ed udirono risorto. Fuori dunque i testimoni degni di fede della risurrezione di Cristo. Paolo li accenna per sommi capi, e le sue parole sono come l’eco ed il sunto delle narrazioni evangeliche. “Gesù Cristo, dice S. Paolo, apparve a Cefa, cioè Pietro: „ Visus est Cephæ? È cosa che non deve passare inosservata: l’Apostolo, enumerando le principali apparizioni di Cristo, mette in primo luogo quella fatta a Pietro, avvenuta certamente il giorno stesso della risurrezione, come apparisce dal Vangelo di S. Luca (XXIV, 34), ancorché l’Evangelista non la descriva particolarmente (Senza dubbio la prima apparizione di Cristo risorto e dai Vangelisti narrata, fu fatta alle donne e alla Maddalena, andata al sepolcro in sul far del giorno, ma l’Apostolo la passa sotto silenzio e si restringe a quelle che ebbero gli Apostoli e: discepoli, e la ragione è manifesta). E perché porre in primo luogo l’apparizione di Pietro: Visus est Cephæ? La ragione vuolsi cercare, penso io, nella dignità di Pietro: egli era il capo degli Apostoli, la pietra fondamentale della Chiesa, il Vicario di Gesù Cristo, da Lui stesso ripetutamente designato come tale: la sua testimonianza era la maggiore, e perciò doveva andare innanzi a quella degli Apostoli tutti: è questo un indizio non dubbio del primato di S. Pietro, che l’Apostolo S. Paolo ci dà in questo luogo, e del quale si deve tener conto. Dopo l’apparizione di Pietro viene quella degli Apostoli uniti: Et post hoc undecim. Gesù apparve il giorno della risurrezione, a notte chiusa, ai dieci Apostoli raccolti in Gerusalemme: erano dieci, perché, oltre Giuda, il traditore, mancava Tommaso, come narra S. Luca (XXIV). Otto giorni appresso, ancora secondo il Vangelo di S. Luca Gesù apparve nuovamente agli Apostoli, ed a questa seconda apparizione di Gesù era presente S. Tommaso, ed a questa indubbiamente accenna S. Paolo, allorché dice: ” E poscia agli undici: „ Et post hoc undecim. Credo poi che l’Apostolo, accennando a questa seconda e più completa apparizione fatta a tutti gli Apostoli, in modo indiretto sì, ma certo, alludesse anche alla prima fatta ai dieci e registrata nello stesso Vangelo di S. Luca, che secondo alcuni, è quello che S. Paolo chiama Vangelo suo: Secundum Evangelium meum. Prosegue S. Paolo la sua enumerazione, e dice: ” Quindi apparve a più di cinquecento fratelli insieme: „ Deinde visus plus quam quingentis fratribus simul. La parola, insieme, usata da S. Paolo, non permette di considerare questi cinquecento e più testimoni come la somma totale di quelli, ai quali Gesù risuscitato apparve; qui evidentemente parlasi di una apparizione speciale, a cui erano presenti più di cinquecento persone. Non può essere quella della Ascensione, perché S. Luca (Atti Apost. c. I, vers. 15) afferma che questa avvenne sul monte degli Olivi, presso Gerusalemme e sembra che tutti quelli, i quali ne furono testimoni, si raccogliessero poi nel cenacolo, ed erano in numero di circa cento venti. Quale è dunque questa apparizione fatta a più di cinquecento persone insieme, molte delle quali, allorché S. Paolo scriveva la sua lettera, erano morte, ma alcune vivevano ancora? Dai Vangeli non apparisce né quando, né dove, né come avvenisse la grandiosa apparizione, ma secondo ogni verosimiglianza avvenne nella Galilea, dove Gesù Cristo stesso aveva comandato si radunassero e dove si sarebbe loro mostrato. ” Dite ai fratelli miei, che vadano in Galilea; là mi vedranno „ (Matt. XXVI, 10). – Checché sia del luogo e del tempo di questa apparizione, è indubitato, che oltre a cinquecento persone ne furono testimoni, che è ciò che più importa. S. Paolo continua la enumerazione: “Dopo apparve a Giacomo, poi a tutti gli Apostoli .„ – Ignoriamo i particolari della apparizione fatta a Giacomo, che si crede sia il Minore e poi vescovo di Gerusalemme. L’apparizione poi che dicesi fatta agli Apostoli tutti si può considerare come il compendio o riassunto di tutte le altre narrate o indicate nei Vangeli. – “Finalmente, all’ultimo di tutti, come ad aborto, conchiude S. Paolo, apparve anche a me. „ Io pure, esclama il grande Apostolo, ho veduto Cristo risorto, là sulla via di Damasco; io, ultimo degli Apostoli, io aborto di Apostolo, perché chiamato a tanta dignità dopo gli altri e in modo affatto diverso dagli altri, io pure l’ho veduto Gesù risorto, io pure ne sono testimonio. — Qui la mente dell’Apostolo, com’era naturale, vola sulle memorie e sulle vicende del passato: ricorda ciò che fu e quel che è di presente, raffronta l’alta dignità di Apostolo, della quale è rivestito, e la sua vita e condotta prima della miracolosa sua vocazione, sente la propria indegnità e l’immenso beneficio della grazia ricevuta, e nell’impeto, non so ben dire della sua riconoscenza o del suo dolore, e più probabilmente dell’una e dell’altro, esce in questo grido sublime: “Perché io sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato Apostolo! „ E perché, o vaso di elezione, vi chiamate minimo degli Apostoli, indegno d’essere Apostolo? Non avete voi lavorato come e più degli altri Apostoli? Non siete voi l’Apostolo dei Gentili? Non siete voi stato chiamato da Cristo stesso, e in un baleno da Lui trasformato meravigliosamente? Non avete portate le vostre catene dinanzi ai tribunali della terra per amore di Cristo, per Lui vergheggiato, per Lui lapidato? Migliaia e migliaia di Gentili, guadagnati a Cristo, non formano la corona e la gloria del vostro apostolato? Sì, tutto questo è vero, lo so, risponde l’incomparabile Apostolo; ma io ricordo d’aver perseguitato la Chiesa di Dio: Persecutus sum Ecclesiam Dei; il sangue di Stefano mi sta sempre dinanzi agli occhi: sono Apostolo di Cristo, ma prima fui suo persecutore e feroce persecutore: Persecutus sum supra modum, come scrive altrove: unico tra gli Apostoli fui persecutore della Chiesa prima d’essere Apostolo: ciò mi umilia, mi confonde, mi copre di vergogna, e mi fa sentire d’essere non solo l’ultimo degli Apostoli, ma indegno d’essere Apostolo. Questi due versetti, nella loro semplicità ed inarrivabile eloquenza, ci rivelano tutta la grand’anima dell’Apostolo, ce ne fanno vedere il fondo, e per poco ci strappano le lacrime. Ma torniamo all’argomento, che l’Apostolo sta svolgendo. Vuol provare, come dicemmo, la risurrezione futura dei nostri corpi; per provarla appella alla risurrezione gloriosa del corpo di Gesù Cristo, nostro capo e modello: e per provare il fatto della risurrezione di Gesù Cristo appella all’autorità dei testimoni, Pietro, Giacomo, gli undici Apostoli, tutti gli Apostoli, cinquecento persone, che lo videro, e infine produce la propria testimonianza. Qual serie, quale schiera di testimoni pel numero, per le qualità morali, per la costanza, per la varietà ed unanimità, per le conseguenze pari a questa! Un fatto qualunque attestato da due, tre, quattro persone oneste ed intelligenti e degne di fede genera in noi la certezza del fatto istesso per guisa, che non ci resta ombra di dubbio, e sulla loro testimonianza i tribunali pronunciano sentenze della più alta importanza, e tutti le trovano ragionevoli e giuste: il fatto della risurrezione di Gesù Cristo è affermato da tutti gli Apostoli e i discepoli: è affermato da oltre cinquecento persone, che protestano d’averlo veduto e toccato, d’aver mangiato con Lui e ricevuti i suoi comandi; è affermato dovunque, costantemente, sempre allo stesso modo, e a costo di esili, di carceri, di supplizi e della morte più atroce: chi mai potrebbe dubitarne? Se fosse possibile dubitare di tale e tanta testimonianza, sulla terra non vi sarebbe più un solo fatto, che si potesse dir certo; sarebbe forza dubitare d’ogni cosa. Voi vedete pertanto che il gran fatto della risurrezione di Gesù Cristo, base della nostra fede, riposa sul più incrollabile fondamento, che si possa desiderare, agli occhi stessi della ragione umana. Paolo aveva proclamato d’essere il minimo degli Apostoli, d’essere indegno di sì alta prerogativa: era il grido sincero della sua coscienza, era l’omaggio dovuto alla verità; ma l’umiltà è inseparabile dalla verità, anzi essa è verità, null’altro che verità. Io, per me, dice Paolo, non sono stato che un miserabile persecutore della Chiesa, e lo sarei tuttora; “ma per la grazia di Dio sono quel che sono; „ sono cioè apostolo di Gesù Cristo: Gratìa Dei sum id quod sum. E perché, o grande Apostolo, per la grazia di Dio siete quel che siete? Perché, risponde, la grazia di Dio in me non fu sterile. ., Non fu come un raggio di sole, che cade sopra un occhio chiuso, come un seme sparso sulla pietra, come un ramo innestato sopra un tronco disseccato. A questa grazia, colla quale Iddio mi chiamò senza alcun mio merito, anzi ad onta dei miei demeriti, io risposi, e risposi perché mi diede la grazia di rispondere e feci ogni suo volere. In altri termini, se sono uscito dalla cecità ebraica, ed ho abbracciato il Vangelo di Gesù Cristo, e fattone apostolo, lo devo anzi tutto alla grazia di Dio; ma non solo alla grazia di Dio, sebbene anche alla mia cooperazione. E questa la dottrina cattolica intorno ai rapporti della grazia divina e del nostro libero arbitrio, esposta da S. Paolo con una chiarezza e precisione, che non lascia nulla da desiderare. Dio previene con la sua grazia, illuminando la mente e movendo la volontà, e l’uomo lasciandosi illuminare e muovere e cooperando alla grazia coll’unire all’azione di questa la propria azione. Che cosa sono le opere buone e sante del cristiano? Sono il risultato dell’azione divina, mercé della grazia e dell’azione umana, mercé del concorso della volontà nostra, insieme unite ed armonizzanti. – Badiamo, o cari, che la grazia di Dio non fa mai difetto, come nel seme non fa difetto il principio vitale; ma che questo rimane sterile se la terra, che lo riceve, non è preparata e non risponde. Che non rimanga giammai sterile questo germe della grazia, che Dio ci largisce, onde possiamo dire con S. Paolo: Gratia ejus in me vacua non fuit! L’Apostolo conchiude il suo dire che la grazia di Dio in lui non solo non fu sterile ma fu ricca di opere, a talché, soggiunge: “Ho faticato più di tutti gli Apostoli: „ Abundantius illìs omnibus laboravi. Santa franchezza e mirabile audacia questa del nostro Paolo! Protesta d’essere l’ultimo degli Apostoli, indegno di chiamarsi Apostolo, non Apostolo, ma aborto di Apostolo, e poi non esita a dichiarare di aver fatto più di tutti gli altri Apostoli. Parrebbe una contraddizione manifesta, ed è una lampante verità: egli è veramente l’uno e l’altro, secondochè consideriamo in lui ciò che era da sé, prima dell’opera della grazia e ciò che fu poi dopo l’opera trasformatrice della grazia. E poiché gli parve, che l’aver detto: “Ho faticato più degli altri Apostoli, „ potesse sonare millanteria, quasi fosse opera tutta sua, spiega stupendamente l’espressione, soggiungendo: “Non io, ma sì la grazia di Dio con me: „ Non ego autem. sed gratia Dei mecum. Le opere del mio apostolato sono grandi, maggiori di quelle dei miei fratelli, che mi precedettero; voi le vedete e le vede il mondo tutto; ma esse non sono esclusivamente mie; sono mie e della grazia di Dio, che mi prevenne, mi avvalorò e le condusse a termine. È la stessa verità sopra accennata è  qui ribadita con una frase brevissima e insieme chiarissima: “La grazia di Dio con me. „ – Tenete saldi, o dilettissimi, questi due gran capi di dottrina cattolica, qui stabiliti dall’Apostolo, vale a dire, la necessità della grazia di Dio e la cooperazione della libera nostra volontà per fare il bene ed operare la nostra salvezza eterna; questi due elementi, queste due forze insieme unite portano le anime nostre alle altezze de cieli e le depongono in seno a Dio; separate, le lasciano povere e nude su questa misera terra, anzi le lasciano cadere negli abissi di eterna dannazione. Il far sì che siano o congiunte o separate dipende da noi, onde se bene si guarda la salute eterna o l’eterna perdizione è nelle nostre mani, perché è sempre in nostro potere usare o non usare della grazia divina a tutti e sempre più che bastevolmente offerta.

Graduale
Ps XXVII:7 – :1
In Deo sperávit cor meum, et adjútus sum: et reflóruit caro mea, et ex voluntáte mea confitébor illi.
[Il mio cuore confidò in Dio e fui soccorso: e anche il mio corpo lo loda, cosí come ne esulta l’ànima mia.]
V. Ad te, Dómine, clamávi: Deus meus, ne síleas, ne discédas a me. Allelúja, allelúja [A Te, o Signore, io grido: Dio mio, non rimanere muto: non allontanarti da me.]

Alleluja

Allelúia, allelúia
Ps LXXX:2-3
Exsultáte Deo, adjutóri nostro, jubiláte Deo Jacob: súmite psalmum jucúndum cum cíthara. Allelúja.

[Esultate in Dio, nostro aiuto, innalzate lodi al Dio di Giacobbe: intonate il salmo festoso con la cetra. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Marcum.
R. Gloria tibi, Domine!
Marc VII:31-37
In illo témpore: Exiens Jesus de fínibus Tyri, venitper Sidónem ad mare Galilaeæ, inter médios fines Decapóleos. Et addúcunt ei surdum et mutum, et deprecabántur eum, ut impónat illi manum. Et apprehéndens eum de turba seórsum, misit dígitos suos in aurículas ejus: et éxspuens, tétigit linguam ejus: et suspíciens in coelum, ingémuit, et ait illi: Ephphetha, quod est adaperíre. Et statim apértæ sunt aures ejus, et solútum est vínculum linguæ ejus, et loquebátur recte. Et præcépit illis, ne cui dícerent. Quanto autem eis præcipiébat, tanto magis plus prædicábant: et eo ámplius admirabántur, dicéntes: Bene ómnia fecit: et surdos fecit audíre et mutos loqui.


Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Marco VII, 31-37]

-Lingua oscena-

E perché Gesù Cristo per dar la favella a un muto tanti adopra modi inusitati, e riti misteriosi? Udite, è S. Marco che nel Vangelo della corrente Domenica ci narra come il divin Signore a guarire quel muto si lasciò prima pregare da molti, “deprecabantur eum”: indi lo trasse fuor della turba in disparte, poscia gli pose le dita nelle orecchie, in seguito con poca saliva tratta dalla sua bocca gli toccò la lingua, e alzati gli occhi al cielo, alzò un sospiro, e finalmente in tuono imperioso pronunziò una parola siriaca “Ephetà”, apritevi, ed ecco sull’istante aperte le sue orecchie, e sciolta la sua lingua per modo che felicemente parlava: “Loquebatur recte”. E perché, io ripeto, tanti adopera il Redentore segni misteriosi e insolite maniere? Non eran queste a guarirlo assolutamente necessarie, dice qui un saggio Spositore (Cardin. Cajet.): senza di queste aveva pure risanati infermi, risuscitati morti o col solo tocco della sua mano, o col semplice suono della sua voce. Ecco, se io ben mi avviso, la vera cagione. – Si trattava di dare l’uso della lingua ad un muto: la lingua suole essere strumento di mille peccati, e perciò bisognava, dirò così, consacrarla con mistiche significazioni, e colla saliva dell’Uomo-Dio. Anche verso di noi furono nel nostro Battesimo dalla Chiesa praticati quasi tutti i riti, che Gesù adoperò a riguardo dell’odierno mutolo, e con tutto ciò qual uso abbiamo fatto della nostra lingua? Quante volte l’abbiamo contaminata colle mormorazioni, e colle oscene parole? Delle prime già vi parlai in altra Spiegazione. – Ora mi desidero un fuoco di santo zelo per scagliarmi contro le lingue oscene; la onde passo a dimostrarvi quanto male fa a sé stesso, tanto nell’ordine civile, quanto nel morale, l’impuro parlatore.

I. Il peccato della disonestà è un vizio così infamante, un mostro così abominevole, che ama le tenebre, cerca nascondigli, esige segreti, egli è una colpa così vergognosa, che per nasconderne i turpi effetti si ricorre talvolta a micidiali bevande, anzi che sopravvivere allo scoprimento d’un fallo di questa sorta, si elegge la morte. Ora l’osceno parlatore viene coll’impura sua lingua a scoprire, e ad infamare sé stesso. Non bada è vero alla sua onta, alla sua infamia, ma per sé ne copre, e svela senza riflettere l’interna infezione del suo cuore impuro. È detto evangelico, e la ragione e l’esperienza lo confermano, che la lingua parla dall’abbondanza del cuore, “ex abundantia cordis os loquìtur (Matth. XII, 34); onde per quella relazione tanto fisica quanto morale, che passa tra il cuore e la lingua, ne segue che scopre la lingua l’interne qualità l’intime disposizioni dell’animo buono o malvagio. Fuori la lingua, dice il medico all’infermo, e dalla lingua sporca, nera, immonda, argomenta l’interno malore. – Domandiamo ai Teologi se sia temerario giudizio il pensare di alcuno, che fa sovente laidi discorsi, o vomita spesso disoneste parole, il pensare, dissi che abbia corrotto e marcio il cuore, e ci risponderanno che non è né giudizio temerario e né pur giudizio, ma bensì una giusta necessaria conseguenza derivata da una certa premessa, o pure una evidente cognizione della causa per mezzo del suo effetto, come chi dicesse: “fumus, ergo ìgnis”; così lingua oscena, dunque anima oscena. –  Infatti se la lingua d’un oriuolo [cucù] segna le ore fuor di regola, se l’oriuolo stesso batte l’ore a sproposito, non si può dire che l’interno movimento delle ruote non sia guasto e sconnesso? Se un vaso esala dalla bocca un fetore intollerabile, dovrem dire che sia pieno d’acqua odorifera? Se un tale per tosse frequente, sputa marcia e sangue corrotto, chi potrà dire o credere che abbia sani i polmoni/? È questo il primo male che cagiona a sé stesso l’impuro parlatore, si qualifica per un impudico sfacciato, per uomo carnale, incivile, spregevole, da cui fuggono come da una puzzolente cloaca le oneste persone, meno quelle che com’esso lui son avvezze allo stesso linguaggio. Ma questo è un’ombra di male in paragone degli altri eccessi di cui fa reo, per il suo immondo e scandaloso parlare.

II. Il Re Profeta rassomiglia una di queste bocche immodeste ad un’aperta sepoltura piena di verminosi e fetenti cadaveri, “sepulchrum patens est guttur eorum” (Ps. V, 11). È avvenuto talora che all’alzarsi la lapide d’un sepolcro, per l’esalazione di quell’aria fetida, pestifera, sono caduti morti tutt’i circostanti. Così suole avvenire qualora una bocca immonda s’apre in oscene parole, restano per lo più infetti, avvelenati e morti nell’anima tutti gli ascoltanti. “Sepulchrum patens est guttur eorum”. Or chi può calcolare la strage di tanti innocenti, e la spiritual morte di quegl’incauti, che con piacere ascoltano, o non correggono, o non s’allontanano con orrore da quelle bocche infernali? Tutte quest’anime ferite ed uccise son tutte a carico del sordido e pessimo ciarlatore. Con questo di più che le oscene parole, le favole disoneste, i turpi racconti, i motti allusivi, gli equivoci maliziosi, le sporche buffonerie con gusto s’imparano, si ripetono, come malvagie sementi, passano di bocca in bocca, di orecchio in orecchio, e con diabolica fecondità crescono e si moltiplicano all’infinito. Ecco in effetti quel che asserisce l’Apostolo S. Giacomo: la lingua scorretta è un fuoco d’inferno, “lingua ignis est inflammata a gehenna” (Jacob. III, 6). Una sola scintilla di questo fuoco tartareo basta ad eccitare un incendio immenso, che incenerisca un numero sterminato di mille anime e mille. “Ecce quantus ignis quam magnam sìleum intendit” (V, 7). Ma di questo incendio divoratore, che forse non s’estinguerà mai più, tutta sarà la colpa della lingua oscena. Dirò di più, dirò cosa che a prima giunta sembrerà strana. Può darsi il caso che un parlatore osceno pecchi tuttavia, ancorché confinato col corpo in un sepolcro, e coll’anima nell’inferno. Non è mio questo sentimento, ma del gran Padre S. Agostino, il quale parlando dell’empio eresiarca Ario, già morto e dannato, dice che pur pecca e ancor va peccando, “Arius adhuc peccat”; pecca nei suoi pervertiti seguaci, pecca per l’eresie da esso sparse e seminate, che in tanti incauti pullulano e si riproducono; laonde tutti questi tristi germogli attribuirsi debbono alla velenosa radice, come effetti della causa primiera; e perciò in un senso ancorché Ario sia “in terimino”, nell’eterna dannazione, ove non v’è più luogo a merito o a demerito, pure per le conseguenze funeste a lui imputate in origine, si può dire che ancor pecca. “Arius adhuc peccat”. Già forse mi preveniste nell’applicazione dell’esempio. Un uomo di lingua impura, già incenerito nella tomba, già sepolto nell’abisso, pecca ancora per la zizzania sparsa dalle sue turpi parole, per la peste uscita dalla lorda sua bocca, con cui ha infette tante anime, peste che forse si propagherà fino alla consumazione de’ secoli. – Possibile!? Dirà qui alcuno di voi, possibile un male sì grande, anzi una serie di tanti mali! “Io pronunzio, è vero, qualche sconcia parola, qualche motto allusivo, ma così per ischerzo a muovere il riso, ben lontano dal prevedere, molto meno dal voler tanta rovina”. Lo so, e lo dice nei Proverbi lo Spirito Santo, che lo stolto, cioè il peccatore, fa il male come per riso e per trastullo, quasi per risus et stultus operatur scelus (Prov. I, 23); ma quella turpe facezia, quella ridicola maliziosa parola è un cancro micidiale, dice l’Apostolo, che dall’orecchio passa al pensiero, dal pensiero si attacca al cuore, e fa nell’anima una piaga insanabile, “sermo eorum ut cancer serpit (ad. Tim. II, 17). Scolpatevi ora col pretesto di dire per burla e per scherzo, la vostra scusa accrescerà la vostra colpa. Non trovate voi dunque altro modo di ricreare lo spirito, che ridendo a danno dell’anima vostra, e delle anime altrui che costano tutto il sangue preziosissimo di Gesù Cristo? Sarà dunque minore l’oltraggio fatto alla sua Divina Maestà, perché lo fate per giuoco per sollazzo? Scusereste voi i Giudei quando per burla schernivano il divin Redentore, e con finte adorazioni Lo acclamarono Re da beffe e da teatro? Voi ne fate altrettanto; ma udite le proteste e le minacce di un Dio vilipeso. Voi ridete oltraggiandomi, voi mi oltraggiate ridendo, anch’Io quando sarete tra le fauci di morte nelle angustie estreme della vostra agonia, anch’Io mi riderò di voi: “Ego quoque in interitu vestro ridebo, et subsannabo” (Prov. I, 26). – “Ma noi, soggiungono altri, noi senza malizia alcuna e senza riflessione ci lasciamo uscire di bocca certe parole veramente poco oneste, ma non si bada, la lingua scorre, siamo avvezzi così, bisogna compatire.” – A questo passo vi voleva S. Giovanni Crisostomo per farvi tornar in gola le vostre discolpe, frivole insieme, ed aggravanti il vostro reato. – Un ladro (dice egli in una delle sue Spiegazioni al popolo di Antiochia) un ladro non è così folle da dire al giudice: “Signore perdonate o almeno compatite il mio fallo, io sono assuefatto a rubare che non mi posso astenere”; sarebbe per tale scusa più severamente punito. “Cur non praetendit fur consuetudinem, ut a supplicio liberetur (Rom. XII)? Ecco l’esempio che vi condanna. L’abito malvagio non diminuisce, anzi aggrava la colpa. Si forma quest’abito dagli atti ripetuti, continuati, per i quali la rea consuetudine passa in seconda natura. Da ciò ne segue, che sebbene vi cadan di bocca parole scorrette senz’avvedersene, in forza dell’abito cattivo da voi contratto, siete più rei per inveterata malizia, come d’accordo parlano i Teologi. – E pur non è ancor questo il colmo dei mali che cagiona a sé stessa una lingua oscena. Il colmo dei mali suoi, lasciatemi così esprimere, si è lo scrivere colle sue sozze parole sulla propria fronte il carattere della sua riprovazione. Per poco che uno sia versato nelle divine Scritture sa che figura dei predestinati fu Giacobbe, e immagine dei presciti Esaù. Ora Giacobbe, sebbene nascosto sotto le spoglie del fratello, e sotto le pelli del capretto, fu dal cieco padre riconosciuto alla voce: “Vox quidem, vox Jacob est” (Gen XXVII, 22). Per simil modo sebbene il mistero della predestinazione sia recondito ed inscrutabile, pure da certi contrassegni si può averne una cognizione capace a darcene una probabile e quasi certa congettura. Uno di questi chiari e forti segni è la lingua. Volete sapere se sarete predestinato o reprobo? parlate ch’io vi vegga: “Loquere ut videam”. Dal canto si conoscono gli uccelli, dal linguaggio gli uomini delle diverse nazioni. Aveva un bel dire S. Pietro là nel pretorio, e confermare col giuramento le sue proteste, che l’ancella più che a lui, credeva al suo linguaggio: “tu sei Galileo, gli diceva, il tuo parlare ti scopre per quel che sei”: “Loquela tua manifestum te facit” (Matth. XXVI, 73). Parlate orsù voi, se volete che io argomenti se sarete nel numero dei reprobi o dei predestinati. Voi avete una lingua pessima, laida, immonda, un vocabolario di termini nefandi? Ohimè, voi vi assomigliate ai dannati, voi sarete con essi abitatori dell’inferno. Laggiù si bestemmia, si maledice, si parla e si parlerà sempre male. Voi, come mi giova sperare, avete una lingua modesta, un parlar da buon cristiano, vi servite della lingua, come l’odierno muto risanato, a parlar rettamente, a lodare Dio, a edificare il prossimo? Consolatevi, voi sarete cittadini del cielo. Lassù quei beati comprensori hanno sempre in bocca le glorie dell’Altissimo: “Exaltationes Dei in gutture eorum (Ps. CXLIX). Aspiriamo colla purità delle nostre lingue, ad esser loro consoci.

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps XXIX:2-3
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me, nec delectásti inimícos meos super me: Dómine, clamávi ad te, et sanásti me.
[O Signore, Ti esalterò perché mi hai accolto e non hai permesso che i miei nemici ridessero di me: Ti ho invocato, o Signore, e Tu mi hai guarito.]

Secreta
Réspice, Dómine, quǽsumus, nostram propítius servitútem: ut, quod offérimus, sit tibi munus accéptum, et sit nostræ fragilitátis subsidium. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno al nostro servizio, affinché ciò che offriamo a Te sia gradito, e a noi sia di aiuto nella nostra fragilità.]

Communio
Prov III:9-10
Hónora Dóminum de tua substántia, et de prímitus frugum tuárum: et implebúntur hórrea tua saturitáte, et vino torculária redundábunt.
[Onora il Signore con i tuoi beni e con l’offerta delle primizie dei tuoi frutti, allora i tuoi granai si riempiranno abbondantemente e gli strettoi ridonderanno di vino.]

Postcommunio
Orémus.
Sentiámus, quǽsumus, Dómine, tui perceptióne sacraménti, subsídium mentis et córporis: ut, in utróque salváti, cæléstis remédii plenitúdine gloriémur.
[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, mediante la partecipazione al tuo sacramento, noi sperimentiamo l’aiuto per l’ànima e per il corpo, affinché, salvi nell’una e nell’altro, ci gloriamo della pienezza del celeste rimedio.]