Il Magistero impedito: ORTODOSSIA, ERRORI E PERICOLI (1)

Gregorio XVII [26, X, 1958 – 2, V, 1989]:

il Magistero impedito.

ORTODOSSIA, ERRORI E PERICOLI (1)

.I.— Ortodossia

 [Lettera pastorale scritta il 1° agosto 1959; «Rivista Diocesana Genovese», 1959]

Cari confratelli, la verità soprattutto. La verità, qualunque verità, ha il fondamento in Dio e questa è la ragione per cui qualunque errore o prima o poi turba i rapporti con Dio. Dunque si deve difendere la verità, massimamente quella che Dio ha rivelato agli uomini e della quale è custode autorizzata la Chiesa. La verità può essere insidiata da proposizioni apertamente contrarie e questo, se accade, suscita ben presto le reazioni necessarie. Ma ben più frequentemente viene insidiata da posizioni inesatte od improprie attribuite a punti di vista, a problemi e a dubbi da prospettive false, da impostazioni vaghe ed inafferrabili, da stati d’animo, da preoccupazioni fantastiche e letterarie. In questi casi la reazione è difficile, perché richiede in genere una profonda e vasta cultura teologica. Sono precisamente questi i casi dei quali ci preoccupiamo, impressionati dalle confusioni mentali e dalle carenze che si delineano e delle quali, nel corso di questo scritto, cercheremo di cogliere le principali e le più sintomatiche. Infatti, nel secondo modo sopra elencato esiste in Italia una vera seminagione di errori. Dobbiamo levare la voce. – Cominciamo intanto a guardare «dove» tutto questo accade. Si possono individuare tre aree. Chi legge ci farà grazia se ci asteniamo dal fare citazioni di scritti, di fatti e di nomi: non abbiamo qui da fare citazioni di scritti, di fatti e di nomi: non abbiamo qui da fare della polemica, abbiamo solo da mettere in guardia. Non occorre molto a capire che la polemica non si conviene a noi.

La prima area è quella in cui prevale l’istinto letterario ai danni della teologia. Esiste infatti una produzione nella quale è chiaro che la Teologia fa le spese dell’estro letterario. Facciamo un esempio. All’istinto letterario vien bene, ad esempio, fare del dramma. Nel campo delle idee i drammi si fanno coi problemi accascianti, coi dubbi mortali, colle questioni tragiche, cogli stati d’animo arrossati e frementi. Ecco allora creare prospettive, cercare scorci intellettuali coi quali gettare le anime in una ansimante ricerca di cose che non vale la pena di cercare, per il fatto che sono già trovate. Ecco che ci si chiede allora, e ad esempio,. come si fa a conciliare umanesimo e grazia, ossia amore del mondo e amore di Dio. E una domanda questa? Leggete il Vangelo e saprete che la risposta è stata data chiarissima da venti secoli. Ma se si dice questo, non si può più esistenzialisticamente agonizzare sul margine di inafferrabili verità!

La seconda area sta nel campo politico. Bisogna dirlo con franchezza. Esistono in Italia pubblicazioni facenti capo a correnti politiche, le quali per scopi siti evidentemente al livello puramente politico comportano stati d’animo ed affermazioni difficili a conciliarsi colla ortodossia cattolica.

La terza sta nel campo sedicente sociale. Abbiamo messo intenzionalmente la parola «sedicente sociale». Non andremo mai d’accordo con coloro che intendono far il bene del popolo rovinando anzitutto quello con cui si fa il bene del popolo e cioè il regime di vera libertà ed un ordine economicamente solido. Non occorre molta intelligenza a capire che quando si enunciano donazioni o attribuzioni universali ai meno abbienti e se ne accaparrano così le simpatie, ma si imbastisce lentamente la congiura contro la libertà e l’ordine economico, si è semplicemente dei traditori e non dei sociali. Il giorno in cui avremo fatto dei magnifici contratti di lavoro e li avremo fermamente tutelati, ma avremo distrutto il lavoro perché avremo distrutte o ridotte le possibilità economiche colle quali soltanto si dà lavoro, noi avremo fatto qualcosa di più che un brutto scherzo. E quando giunti all’ultimo spalto, per salvare ancora questa possibilità, noi arrivassimo ad ipotizzare una pianificazione nella folle idea che la pianificazione sia sorgente, miniera, pozzo di san Patrizio etc. distruggendo la libertà, noi saremo diventati degli assassini di coloro che hanno sperato e che si sono fidati. E in questo spaventoso equivoco che sta l’area da noi detta francamente come «sedicente sociale». Orbene, in questa area si dicono talvolta cose, le quali possono non sembrare eresie e sono invece una somma di eresie. – Noi siamo ben consci di rendere un grande servizio, allorché difendiamo la verità, costi quello che vuol costare. Infatti il vero bene non si salva mai, o prima o poi, nel solco degli errori. Per debito di chiarezza noi enunceremo gli errori serpenti sotto forma di proposizioni definite e chiare, avvertendo che difficilmente si troveranno gli errori espressi in forma cruda, ma la sostanza dei quali esiste pericolosamente palliata sotto menzognere apparenze.

I.

«Il Cristianesimo non è completamente attrezzato per produrre un ordine puramente terreno che sia di pieno benessere e di solido ordine civile. Ciò perché Dio ha voluto con esso provvedere alla vita eterna, disinteressandosi di quello al quale aveva già provveduto coll’ordine naturale. Pertanto il Cristianesimo deve lasciare il campo a quelle umane iniziative possibilissime, le quali meglio e più direttamente provvedono al benessere e all’ordine terreno. La Chiesa deve agire di conseguenza». Questa proposizione è il reale fondamento di affermazioni non ben delineate e pudicamente contenute, di allusioni, di prospettive, di simpatie e di stati d’animo reattivi e violenti. Bisogna avere il duro coraggio di vederla dove è. Bisogna dire a taluni uomini chiaramente che essi, anche se mentiscono a se stessi, accettano e vivono o per lo meno si comportano come se quella proposizione ritenessero vera e sicura. Orbene tale proposizione in un modo o nell’altro contiene una generale interpretazione errata della rivelazione divina, in più contiene esplicitamente o virtualmente errori incompossibili con certe proposizioni teologiche. Dobbiamo vederlo ordinatamente.

1. La proposizione della quale ci occupiamo suppone in modo formale la negazione di quest’altra proposizione: «l’ordine soprannaturale innalza tutto l’ordine naturale sia colla destinazione dell’uomo alla vita eterna, sia logicamente colla elevazione di lui nella grazia». – Infatti l’ordine di grazia eleva tutto, tocca tutto e nulla lascia fuori del suo raggio. Dire pertanto che esiste un ordine naturale il quale se ne va per conto proprio accanto ad un ordine soprannaturale, costituendo una coppia di parallele le quali non si incontrano, è incongruenza con tutta la rivelazione divina.

2. La citata proposizione è poi direttamente contraria a quest’altra: «Gesù Cristo, Verbo di Dio, è quello nel quale sono state fatte tutte le cose, nel quale tutto è stato restaurato, sicché a Lui genuflettono tutte le realtà in cielo in terra e negli inferni, mentre di tutta la storia anche semplicemente terrena Egli è il giudice definitivo non solo secondo un codice di legge naturale, ma secondo il codice evangelico. Infatti al giudizio universale il mondo sarà giudicato anzitutto a proposito della carità, legge tipicamente evangelica. Per tutti questi motivi Gesù Cristo non è valevole solo dinnanzi alle anime che si debbono salvare, ma è il Signore, il Redentore, il Legislatore dinnanzi a tutta la realtà terrena. Questa deve scegliere tra Lui e quello che non è di Lui, ma in questa scelta elegge tra la propria vita e la propria morte come asserì, Lui bambino, il vecchio profeta Simeone». Il Cristianesimo non è parallelo alla storia, è l’anima della storia. Gesù Cristo non è in terra un divino turista in incognito, che segretamente si interessa di anime e di destini eterni, è Lui stesso uomo, Figlio dell’uomo e Signore degli uomini, i quali non possono ignorarlo che colpevolmente e che debbono rinnegare qualunque cosa per seguirlo, anche il padre e la madre, anche i beni terreni, anche la vita.

3. La proposizione in esame non è affatto compossibile con la seguente proposizione, la quale riassume una dottrina certa: «Gesù Cristo ha dato, sia confermando, sia perfezionando la antica legge morale, una legge completa per condurre tutti gli uomini meritoriamente alla vita eterna». Infatti tale legge ordinando ogni atto «umano» ordina tutte le situazioni possibili dell’uomo in tutta la sua storia concreta. In più la «ordina» in modo esclusivo, perché nessuna altra legge può venire accettata in contrasto con questa. Che tale legge «ordini» significa come per divina volontà indirizzi gli uomini al massimo di perfezione possibile sia nei confronti della natura, sia nei confronti del cosmo, sia nei confronti delle possibili contingenze. E carattere inalienabile della legge divina essere, per la stessa unità di Dio, coerente con quanto Dio fa e coerente pertanto con quanto esiste. Tanto basta per dedurne che la legge cristiana, in base alla Rivelazione, rappresenta il massimo apporto normativo, sotto tutti i punti di vista, anche per il vero e durevole benessere terreno. Si noti bene che tale conclusione impegna principi sommi ed indiscutibili ed è garantita in modo perentorio dagli stessi sommi e indiscutibili principi. In realtà la proposizione errata, che stiamo esaminando, proviene da una colpevolissima confusione di sommi principi, oltreché da una sostanziale mutilazione della rivelazione divina. Se coloro i quali si lasciano, o per ignoranza di teologia o per carenza di strutture logiche, «tingere» da essa riflettessero bene, sarebbero inorriditi dallo scempio che fanno di una somma verità. – Lo scempio equivale ad una negazione di Gesù Cristo. Essi infatti credono o vorrebbero credere solo in un Gesù Cristo incognito divino turista in questo mondo, resosi tale per non disturbare la superbia e la leggerezza umana.

4. La proposizione non è compossibile colla seguente proposizione: «La Chiesa è vera società, perfetta, visibile, gerarchica». Tutti pensare ad una possibile media di perfezione degli uomini colle loro sole forze, se si considera quanto accade pur avendo a disposizione la grazia di Dio. E difficile pensare che una possibilità di perfezione tra gli uomini, abbandonati alle loro forze, non sia puramente platonica e in contrasto netto colla più semplice esperienza. Quanto a pensare che un ordine umano e durevole possa costruirsi senza una sufficiente perfezione nella media degli uomini è lo stesso che pensare possibile un ordine tra uomini liberi senza interiorità, senza convinzione, senza giustizia e senza verità. – Dobbiamo anche fare l’ipotesi che qualcuno pensi alla possibilità di realizzare un ordine puramente umano, mediante l’aiuto della grazia ai singoli, in modo però da lasciar fuori la Chiesa. Qualcuno di fatto pensa così. Si disilluda: l’ordine della grazia non lo si disgiunge dal quadro nel quale lo ha collocato Gesù Cristo. Egli ha fatto la Chiesa società necessaria. Dunque condiziona anche la grazia in modo che a escludere la Chiesa (salvo il beneficio della ignoranza incolpevole), si esclude anche la amicizia con Gesù Cristo. La verità è che il Cristianesimo non ha avuto lo scopo ultimo di creare maggiori agi agli uomini in questo mondo, perché esso ha lo scopo eterno. Tuttavia è non meno certo che esso, ordinandoli alla vita eterna, offre il miglior ordinamento pensabile per la vita terrena. Offre il più alto perfezionamento delle loro azioni, i più alti motivi per stimolarle ed animarle rettamente, le più alte verità per dare ad esse inconcussa sicurezza ed efficace controllo, i più fecondi sussidi per ridurne e vincerne le naturali debolezze, i massimi punti di riferimento al disopra della umana saggezza, la più completa visione di una contingente ed effimera vita che, proprio perché effimera, non ha in sé sola alcunché di pieno e di conclusivo. – Il Cristianesimo non è un sistema economico, o politico; lascia agli uomini libertà di sfruttare le proprie risorse intellettuali e volitive in differenti modi; ma nessun sistema economico o politico potrà andar bene se non si accorderà con la suprema norma della quale esso solo è fatto da Dio depositario. Anzi nessuno potrà avere vero vantaggio, se non ispirandosi direttamente e fiduciosamente a quanto la sua dottrina formula e propone. Non possono infatti esistere due verità e due ordini indipendenti non più di quanto non possono esistere due dei. Quanto detto serva a rimanere in guardia sul permanente equivoco, talvolta non voluto, ma sempre pericoloso, che dilaga allorché si parla di «umanesimo» in senso sociale e politico. Non ci interessa qui la parola «umanesimo» se con essa si vuol significare un mondo letterario ed artistico che ha avuto la sua storica funzione; qui la parola ci interessa per la costante insinuazione che oggi fa sul terreno sociale politico, giuridico e religioso di affermazioni confuse, indigeste, cangianti, le quali possono in qualunque momento cambiarsi in errori formali o in complete apostasie, siccome sopra si è dimostrato. – Non si dica che bisogna incoraggiare il bene dovunque si trova, che non si deve fuggire da questo mondo costretti come si è a viverci, che bisogna presentare una buona cera a quelli che sono lontani da Cristo, che non si deve far la parte dei suoceri tirchi e dei mentori fastidiosi. Tutto questo può avere un senso anche legittimo; ma non è affatto legittimo per fare questo alterare la verità del peccato originale (con un ritorno a Lutero), la verità della necessità della grazia (con un ritorno a Pelagio), la verità della riduzione di tutto ad un unico principio (con un ritono alla gnosi e a Manete). Sorridiamo pure alle molte cose belle che Dio ha posto generosamente anche in questo mondo; incoraggiamo pure e sempre tutti i nostri simili, ma badiamo a non diventare così sprovveduti da rovinare la impalcatura della verità con la quale si salveranno per questa e per l’altra vita. Siamo pure generosi colle cose nostre, ma non facciamo getto del patrimonio di Dio!

(Continua…)

 

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (5), cap. VII

CAPITOLO VII.

PRELUDI DELL’ESECUZIONE.

Anno, giorno ed ora dell’esecuzione.— Numerosi passi dei Padri, e degli Storici; tra gli altri di Tertulliano, di S. Agostino, di S. Giovanni Crisostomo, di Petavio, di Marianov, di Baronio. — Luogo ove fu emanata la sentenza: il Pretorio. — Descrizione del Pretorio. — Condotta dei condannati al luogo della esecuzione. — Descrizione della ina dolorosa. — La Porta giudiziaria. — Perché gli antichi rendevano giustizia presso le porte della città.

Era il venerdì, 25 marzo, il trigesimoquarto anno dell’èra cristiana, e il diciottesimo del regno di Tiberio, sotto il consolato di Rubellio Gemino e di Rufio Gemino, tra la quinta e la sesta ora del giorno, vaie a dire tra le ore undici e il mezzodì, come lo dimostreremo. Sono le date precise, che la Scrittura e gli antichi Padri, più che noi a portata di conoscere l’epoca degli avvenimenti, assegnano alla crocifissione di Nostro Signore, e per conseguenza del buon Ladrone. – « La passione, dice Tertulliano, o secondo l’espressione del profeta, lo sterminio del Signore, ebbe luogo nel corso delle 72 settimane di Daniele, sotto Tiberio Cesare, essendo consoli Rubellio Gemino, e Rufio Gemino, nel mese di marzo, ricorrendo la Pasqua il giorno otto avanti le calende di aprile, primo degli azzimi. » – S. Agostino tiene Io stesso linguaggio di Tertulliano. « Nostro Signore soffrì, nessuno lo pone in dubbio il sesto giorno avanti il sabato; ed è perciò che il sesto giorno è consacrato al digiuno. La tradizione degli antichi tenuta dall’autorità della Chiesa, ci fa sapere che Nostro Signore fu concepito il 25 di marzo, e che nel medesimo giorno fu crocifisso. Nostro Signore è dunque morto sotto il consolato dei due Gemini, il 25 di marzo » [De Civ. ei, cap. XVIII, c. LIV] – La medesima testimonianza si ha da s. Giovanni Crisostomo. « Nostro Signore, egli dice, ha sofferto l’ottavo giorno avanti le calende di aprile, nel mese di marzo, che è il giorno della Pasqua della Passione del Signore, come del suo concepimento; perché egli morì lo stesso giorno in cui fu concepito 8 [Ser. de S. Joan. Bapt.]. – Riassumendo l’ antica tradizione, a sostegno della quale sarebbe assai facile allegare altre testimonianze, Beda si esprime così: « Nostro Signore fu crocifisso e seppellito il venerdì. . . Ch’Egli fosse crocifisso il giorno ottavo avanti le calende di aprile, e che risuscitasse il sesto giorno prima delle stesse calende è un sentimento divenuto volgare per l’autorità di un gran numero di dottori della Chiesa. » [De rat. Temp. c. XIV]. Termineremo aggiungendo che questa data venne consacrata nel martirologio Romano, ed è talmente rispettata nella Chiesa, che Ruggiero Bacone alla fine del secolo decimoterzo, e Alfonso Tostato nel secolo appresso, avendo osato rivocarla in dubbio, furono severamente rimproverati dalle autorità competenti. – A questa venerabile tradizione, alcuni si avvisarono di opporre non so quali tavole astronomiche. « Nelle sue Regole sull’uso della critica, il dotto Onorato di santa Maria dimostrò, che quelle tavole non eran punto d’accordo fra loro; ed il dottissimo P. Petavio, dopo averle accuratamente esaminate, ne rilevò i molti difetti. » – Passiamo all’ ora della crocifissione. È noto che gli Ebrei dividevano il giorno e la notte in quattro parti eguali che chiamavano ore. Ciascuna ora giudaica equivaleva a tre delle nostre. Le ore del giorno avevano dei nomi, che la nostra Chiesa, in memoria delle varie scene della Passione, ha religiosamente conservati nel divino officio. Quella che cominciava al levar del sole era detta prima; e trovandoci all’equinozio di primavera, il giorno della morte di Dima, essa era incominciata alle ore sei. La seconda chiamata tertia durava dalle nove al mezzo dì. La terza chiamata sexta correva da mezzo giorno alle tre pomeridiane. La quarta detta nona si svolgeva dalle tre alle sei pomeridiane. Il buon Ladrone fu crocifisso all’ora medesima di Nostro Signore; ma qui si presenta una difficoltà. S. Marco dice che Gesù fu crocifìsso all’ora terza [« Erat autem hora tertia et crucifìxerunt eum. » XV, 25]. S. Giovanni, testimonio oculare, scrisse: « Ed era la Parasceve della Pasqua, e circa la sesta ora, e Pilato disse ai Giudei: Ecco il vostro Re. Ma essi gridavano: togli, togli, crocifiggilo. Allora dunque lo diede nelle loro mani, perché fosse crocifisso. Presero pertanto Gesù, e lo menarono via. » [XIX, 14, 15, 16]. – Non ci vuol molto a conciliare i due Evangelisti, e dimostrare che entrambi dicono la precisa verità. Con s. Marco i Padri della Chiesa affermano, che Nostro Signore e i due compagni furono affissi alla croce verso il fine dell’ora terza, ciò è dire poco innanzi al mezzodì; e con s. Giovanni dicono che fossero crocifissi verso il cominciar dell’ora sesia. In altri termini vogliono dire che la crocifissione ebbe luogo nel preciso momento, che univa la fine dell’ora terza col principio della sesta. « All’ora sesta, dicono le Costituzioni apostoliche, lo attaccavano alla croce; alla terza avevano ottenuta la sentenza che lo condannava. » La sentenza della crocifissione, pronunziata nel corso dell’ora terza, era il principio della crocifissione, la cui materiale esecuzione avvenne sul finire di detta ora ed al principiar della seguente, cioè dalla sesta (quasi hora sexta come disse s. Giovanni. « Quindi è, prosegue s. Ignazio di Antiochia, che la vigilia di Pasqua, all’ora terza, Pilato, permettendolo l’Eterno Padre, condannava Gesù, ed immediatamente all’ora sesta Gesù fu crocifisso. [Epist. ad Trallens.] Ora conosciamo l’ora della condanna, tra le undici ore cioè ed il mezzogiorno; ma dove fu emanata? Essa lo fu nel Pretorio di Pilato. E che cosa era mai questo luogo divenuto sì tristemente e sì gloriosamente celebre? Si chiamava Pretorio la residenza del Pretore. Presso i Romani il Pretore era un magistrato incaricato di rendere giustizia. Siccome i grandi magistrati civili e militari inviati in missione erano rivestiti del potere giudiziario, erano perciò chiamati Pretori, e la loro abitazione era detta Pretorio. Nella residenza poi il Pretorio propriamente detto era una sala del palazzo pretoriale. ove il magistrato rendeva giustizia. In campagna la stessa tenda del generale diveniva il Pretorio. A fine d’ispirare maggior rispetto all’autorità e dignità dei capi, quella tenda collocavasi nel luogo più eminente, dal quale si potesse scorgere tutto il campo, ed in mezzo ad un quadrato, ciascun lato del quale si discostava di cento passi dalla tenda; nei quattro angoli di un tal quadrato, erano le tende destinate alle guardie del generale. Quando egli voleva dar l’ordine del combattimento, spiegava in cima alla sua tenda un rosso vessillo, acciò potessero ben vederlo i soldati. Così parimente in quella tenda si raccoglievano gli ufficiali per ricevere gli ordini del capo, il quale quando doveva far le parti di giudice, assidevasi sopra un palco circolare. – A Gerusalemme il Pretorio di Pilato era l’antico palazzo del re Erode I, il qual palazzo era a piè del colle, su cui elevavasi la torre o fortezza Antonia. Anche oggigiorno se ne vedono i ruderi, ed il palazzo è divenuto una caserma dei Turchi. A somiglianza dei Pretori militari, in prossimità e sotto il portico posto all’Occidente, e che prospettava il Calvario, era la guardia Romana, la quale ordinariamente era stabilita nel pian terreno del Pretorio, ove si rinchiudevano i prigionieri. La piazza, che si apriva innanzi a quella residenza, aveva un pavimento in mosaico, secondo il lusso di quella età; lusso portato allora tanto oltre, che Cesare fin nel campo faceva coprir di mosaico il luogo nel quale ergeva il suo tribunale. – Su questa piazza erano raccolti i sacerdoti, i seniori o tutto il popolo, quando chiesero la morte di Nostro Signore. Una loggia sul portico del Palazzo fu il luogo d’onde Pilato mostrò l’uomo Dio flagellato, dicendo: Ecce homo. Qual consolazione per il cristiano pensare che quel loggiato, mezzo rovinato, fu ai giorni nostri comprato dalle Religiose di Sion, e che nella Chiesa, in cui venne rinchiuso quel venerabile monumento, le Figlie d’Israele offrono le loro preghiere e le loro lacrime per espiare il delitto dei loro padri, ed ottenere la conversione dei loro fratelli! – Erano passate le ore undici quando Pilato fece un ultimo tentativo per salvar la vita del Giusto. In memoria della loro liberazione dall’ Egitto, i Giudei avevano conservato 1’uso di dare nelle feste di Pasqua la libertà ad un condannato. Pilato non propose loro la grazia né di Dima, né del suo compagno, forse perché non erano abbastanza odiosi al popolo; [Si noti che i due ladroni, come si disse più sopra, furono condannati in Gerico, e non in Gerusalemme; non potevano perciò essere tanto odiosi al popolo dì Gerusalemme, come lo era Barabba, che giaceva da qualche tempo nelle prigioni di questa Città, ed era un famoso assassino], ma pose loro innanzi Barabba sperando senza fallo che non 1’avrebbero preferito a Gesù. Vana speranza! Qui noi entriamo in una serie di profondi misteri, che andranno svolgendosi fino alla morte di Nostro Signore e dei suoi due compagni. Due uomini son posti a confronto: il novello Adamo tutto ricoperto di piaghe: il vecchio Adamo tutto ricoperto di delitti. Il novello Adamo rappresentato dall’Uomo-Dio, che si lascia condannare per la salvezza del vecchio Adamo: Barabba che rappresenta il vecchio Adamo, salvato per la condanna del nuovo. Siccome il Giusto per eccellenza raffigura tutta l’umanità rigenerata, il gran delinquente raffigura l’umanità degradata, e da quattro mila anni rea di delitti, di sedizioni, di assassinii e di furti. – La condanna del Giusto, appena pronunziata, apre le porte della prigione a Barabba. Così la morte del novello Adamo cava fuori tutta quanta l’umanità dal tenebroso carcere, nel quale gemeva da tanti secoli, e la rende alla libertà dei figli di Dio. Questo momento è il più solenne della storia, ed il più fecondo di conseguenze per il passato e per l’ avvenire. – Posposto il Giusto al colpevole, si traggono dalla loro prigione i due ladroni, e si riuniscono col Figliuolo di Dio. Tutti e tre hanno sugli omeri la loro croce. Gesù è coperto della sua veste inconsutile, i ladroni vanno ignudi. Una folla immensa, avida, affannata, fremente si porta sulla piazza del Pretorio, e tutte occupa le vie che debbono percorrere i condannati. La romana coorte di circa mille e duecento soldati basta appena a frenare i moti incomposti della moltitudine. Alle ore undici e mezzo fu dato il segno della partenza, e l’esecuzione ebbe luogo a mezzodì, poiché dal Pretorio alla sommità del Calvario v’ha poco più di un chilometro; e questa strada è quella che a giusto titolo è chiamata la Via dolorosa. – Il corteggio passò sotto il loggiato, dall’alto del quale Nostro Signore era stato mostrato al popolo. La via sulla quale Egli si trova, lunga quasi due cento passi, è a china, scende fin dove s’incontra con quella che vieti dalla porta di Damasco, altra volta detta di Efraim. – A sinistra scendendo, si trovava la Santissima Vergine, che in tutta quella crudele mattinata si era trattenuta nelle vicinanze del Pretorio. Volendo per l’ultima volta vedere il suo divino Figliuolo, Ella si pose sul luogo del di Lui passaggio, e alla sua vista cadde tramortita. – Uscendo da quella via i condannati passarono innanzi la casa del cattivo ricco, di cui parla il Vangelo, ed entrarono in un’altra via dritta, e di faticosa salita. Verso la metà di essa, a sinistra, era la casa di santa Veronica; e fu qui che la pia e coraggiosa donna, traversando il folto drappello dei soldati, giunse a portata di asciugare con un bianco lino, divenuto poi immortale, il volto del Salvatore, grondante di sudare e di sangue. Dima e il suo compagno furono testimoni di quest’atto eroico. E che mai pensar dovettero del loro compagno di supplizio, oggetto di sì ardente amore? E soprattutto qual dovette essere la loro meraviglia allorché sereno e pietoso lo videro volgersi alla moltitudine e alle donne, che lo seguivano piangendo, e dire ad esse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete sopra di me, ma piangete su di voi stesse, e sopra i vostri figliuoli! » Pare a noi che non sia mestieri di un grande acume, e di una grande intelligenza per ravvisare in questi fatti disposti dalla divina Provvidenza, altrettante operazioni preparatorie della miracolosa conversione, che ben tosto era per divenire un fatto. – All’estremità di quest’ultima via era la Porta giudiziaria, sotto la quale i condannati passar dovevano prima di giungere al luogo del supplizio. Qui finiva la città a quell’epoca, ed anche oggidì è facile di riconoscere che in quel luogo era un’antica porta. La porta giudiziaria trovavasi in tutte le città della Giudea, e le si dava un tal nome, perché i seniori ivi seduti rendevano giustizia. Nel Deuteronomio si legge: Se un uomo avrà generato un figliuolo contumace e protervo, che non ascolta i comandi del padre o della madre, e castigato ricusa dispettosamente di obbedire; ei lo prenderanno e lo condurranno davanti ai seniori di quella città, alla porta dove si tiene ragione, e diranno loro: questo nostro figliuolo è protervo e contumace, si fa beffe delle nostre ammonizioni, non pensa ad altro che a bagordi, dissolutezze, e conviti; allora il popolo della città lo lapiderà, ed ei morrà; affinché sia tolta di mezzo a voi l’iniquità. » [Deutcr., XXI, 18]. – Perché mai gli antichi popoli avevano fissato i loro tribunali o pretorii alle porte della città? Diverse sono le ragioni che se ne arrecano. In primo luogo, perché gli stranieri entrando nella città fossero compresi di rispetto alla vista dell’autorità costituita. Di ciò viene che appo i Giudei il vocabolo porta era sinonimo di potenza; ed è pur tale oggigiorno in quella frase che molti profferiscono senza comprenderla, la sublime porta, per indicare la potenza musulmana. È inutile aggiungere che il più solenne impiego di questa espressione ritrovasi nelle divine parole, che alla nostra Chiesa son arra della sua immortalità: Tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo ecclesiam meam: et portæ inferi non prævalebunt adversus eam. La seconda ragione si era di conservare la tranquillità e l’ordine nella città, l’ingresso alla quale era interdetto ai litiganti prima del termine del loro processo, o di aver convenuto fra loro in un pacifico accomodamento.

(Continua ...)

 

 

UN’ENCICLICA al giorno, TOGLIE GLI APOSTATI ED ERETICI DI TORNO: “E SUPREMI APOSTOLATUS”

Scegliamo oggi, 3 settembre, una lettera Enciclica dell’Ultimo Papa canonizzato validamente, San Pio X, Giuseppe Sarto, la prima enciclica del Santo, nella quale già si delineavano perfettamente le caratteristiche del suo Pontificato, per la custodia gelosa del deposito della fede Apostolica nel Magistero Cattolico di sempre. E la sua visione del mondo di allora, oggi ancor più drammatica di quella dell’epoca, è molto  reale, pragmatica, lucida. Il rimedio che propone per risolvere i mali denunciati è il “rinnovare tutte le cose in Cristo”, come già si esprimeva l’Apostolo delle genti nella lettera indirizzata ai fedeli di Efeso. È una ricetta semplicissima che, se messa in pratica, [allora non lo fu … con le conseguenze che ben sappiamo dalla storia] risolverebbe i mali ancor più decuplicati di oggi. Tutti i presunti nemici della Chiesa, della società, dell’uomo, di volta in volta indicati da dotti analisti attenti, letterati, uomini di cultura o di fede, e finanche dai cosiddetti complottisti “lucidi”, di qualunque appartenenza, etnica, politica, settaria, etc. non avrebbero più spazio se si tornasse a Dio, ad onorare il Figlio suo Gesù-Cristo, la sua Santa Chiesa Cattolica. Il male non parte allora dai “castigatori” che il Signore lascia operare apparentemente indisturbati e dilaganti, ma da noi tutti falsi cristiani che abbiamo pensato, e tuttora pensiamo, di poter fare a meno di Dio e dei suoi Strumenti per abbandonarci nelle mani di scienziati, filosofi, tecnocrati, pedagoghi, sociologi, finanzieri, pensatori, politici, neo-teologi del nulla, professori universitari, ciarlatani vari, illudendoci che potevamo risolvere ogni problema da soli! Pazzi illusi, come illusi sono tutti coloro che, pur  analizzando inappuntabilmente e con dotte argomentazioni, i vari mali dell’umanità, non vedono o chiudono poi gli occhi davanti alla loro unica e vera causa, rimossa la quale, sarebbero presto risolti i nostri guai: materiali, sociali e spirituali. Non diceva forse già il Re-Profeta, o per lui Asaf, in uno dei suoi Salmi più eloquenti e profondi: “Exsultate Deo”: “Si populus meus audisset me, Israel si in viis meis ambulasset, pro nihilo forsitan inimicos eorum humiliassem, et super tribulantes eos misissem manum meam. Inimici Domini mentiti sunt ei, et erit tempus eorum in sæcula. Et cibavit eos ex adipe frumenti, et de petra melle saturavit eos.” [Ps. LXXX] “… se il mio popolo mi ascoltasse, se [i cristiani] camminassero per le mie vie! Subito piegherei i suoi nemici e contro i suoi avversari porterei la mia mano. I nemici del Signore gli sarebbero sottomessi e la loro sorte sarebbe segnata per sempre; li nutrirei con fiore di frumento, li sazierei con miele di roccia”. È inutile puntare il dito verso questi o quelli, settari, atei, eretici, finanzieri, banchieri, famiglie di kazari ed altro, … se ascoltassimo il Signore, se praticassimo la sua giustizia, le sue leggi ed i dettami della Santa Madre Chiesa di Cristo, la sorte dei nemici, sarebbe segnata per sempre. In fondo è quanto dice il Santo Pontefice in questa stupenda Enciclica scritta all’inizio del suo santo Pontificato come manifesto programmatico. Leggiamola attentamente e facciamola nostra in tutte le sue parti, cacciando via tutti gli azzeccagarbugli atei, i mondialisti, i marrani del novus ordo e degli scismatici pseudo chierici da strapazzo. Solo il ritorno sincero, contrito e penitente a Dio, potrà salvarci dalla inevitabile rovina che già aleggia tenebrosamente sull’umanità tutta: “E supremi Apostolatus Cathedra, ad quam, consilio Dei inscrutabili, …”

LETTERA ENCICLICA
E SUPREMI

DEL SOMMO PONTEFICE
PIO X
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA,
SUL PROGRAMMA DI PONTIFICATO
 

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

1. Nel momento in cui vi rivolgiamo la parola per la prima volta dall’alto di questa cattedra apostolica alla quale, per imperscrutabile volontà di Dio, Noi siamo stati elevati, non è il caso di ricordare con quali lacrime e con quali ardenti preghiere Noi abbiamo tentato di allontanare da Noi questo tremendo peso del Pontificato. Infatti, malgrado l’assoluta disparità dei meriti, Ci sembra di poter fare Nostro il lamento di Sant’Anselmo, uomo santissimo, quando, malgrado la sua energica opposizione, fu costretto ad accettare l’onore dell’episcopato. Gli stessi segni d’afflizione che egli manifestò allora, sono anche in Noi, e rivelano con quale animo e con quale volontà Noi abbiamo accolto il gravosissimo mandato di pascere il gregge di Cristo. “Sono qui a testimoniarlo — sono parole sue [1] — le mie lacrime e le voci e i ruggiti del mio cuore afflitto, quali non ricordo di avere mai espresso per nessun dolore prima di quel giorno in cui parve si abbattesse su di me la grave sventura dell’arcivescovado di Canterbury. Coloro che in quel giorno fissarono il loro sguardo sul mio volto non poterono ignorare tale fatto… Più simile a un cadavere che a persona viva, ero pallido di stupore e di costernazione. A questa mia elezione, o piuttosto a questa violenza, mi sono finora opposto, in verità, per quanto ho potuto. Ma ora, volente o nolente, sono costretto ad ammettere ogni momento che la volontà di Dio sempre più resiste ai miei tentativi, sicché in nessun modo posso sottrarmi ad essa. Pertanto, non già vinto dalla violenza degli uomini quanto piuttosto da quella di Dio, contro la quale non esiste riparo, dopo avere pregato quanto ho potuto ed essermi adoperato per allontanare da me, se possibile, questo calice senza che ne bevessi, … posponendo il mio sentimento e la mia volontà, mi sono rimesso interamente alla decisione e alla volontà di Dio”.

2. Certamente non mancavano molte e serie ragioni per sottrarCi all’incarico. Infatti, tenuto conto che per la Nostra fragilità in nessun caso eravamo degni dell’onore del Pontificato, chi non si sarebbe turbato per essere designato a succedere a colui che, avendo governato la Chiesa con grande sapienza per quasi ventisei anni, si segnalò per tanta vivacità d’ingegno, per tanto splendore d’ogni virtù da farsi ammirare anche dagli avversari e da consacrare la memoria del suo nome con nobilissime opere?

3. Inoltre, tralasciando il resto, eravamo terrorizzati dall’attuale, deplorevole condizione del genere umano. Chi può ignorare, infatti, che la società umana è ora afflitta, più ancora che nelle età trascorse, da un gravissimo, intimo morbo che, aggravandosi di giorno in giorno, e corrompendola in ogni fibra, la conduce allo sfacelo? Voi comprendete, Venerabili Fratelli, quale sia tale malattia: l’abbandono e il rifiuto di Dio, ai quali è inesorabilmente associata la rovina, secondo le parole del Profeta: “Ecco, coloro che si allontanano da te periranno” [2]. Pertanto Noi comprendevamo che, nel nome della missione pontificale che si voleva affidarCi, occorreva che contrastassimo tanto male. Ritenevamo infatti come rivolto a Noi il precetto di Dio: “Ecco, oggi ti ho posto sopra le nazioni e sopra i regni, affinché tu sradichi e distrugga e disperda e dissolva ed edifichi e pianti” [3]. Ma, consapevoli della Nostra debolezza, temevamo d’intraprendere un’impresa della quale nulla è più urgente e più difficile.

4. Tuttavia, poiché a Dio piacque innalzare l’umiltà Nostra a questa pienezza di potere, rivolgemmo l’animo a “Colui che ci conforta”, e sorretti dalla virtù divina mentre mettiamo mano all’impresa, dichiariamo che nell’esercizio del Pontificato Noi abbiamo un solo proposito: “Rinnovare tutte le cose in Cristo” [4], affinché sia “Tutto e in tutti Cristo” [5]. Vi saranno certamente taluni che, applicando alle cose divine una misura umana, tenteranno di spiare le Nostre riposte intenzioni e di volgerle a scopi terreni e ad interessi di parte. Per togliere a costoro ogni vana speranza, Noi affermiamo con grande determinazione che Noi altro non vogliamo essere — e con l’aiuto di Dio lo saremo nella società umana — che ministri di Dio, il quale Ci ha investito della sua autorità. Le ragioni di Dio sono le ragioni Nostre; è stabilito che ad esse saranno votate tutte le Nostre forze e la vita stessa. Perciò se qualcuno chiederà quale motto sia l’espressione della Nostra volontà, risponderemo che esso sarà sempre uno solo: “Rinnovare tutte le cose in Cristo”. Nell’intraprendere e perseguire questa magnifica opera, Venerabili Fratelli, infonde in Noi un grande ardore la certezza di avere in voi tutti degli strenui collaboratori nel realizzare tale impresa. Se ne dubitassimo, dovremmo giudicarvi, a torto, come ignari o indifferenti verso questa nefasta guerra che ora e dovunque è dichiarata e condotta contro Dio. Infatti contro il loro Creatore “le nazioni ebbero fremiti di ribellione e i popoli concepirono idee insensate” [6], e quasi unanime è il grido dei nemici di Dio: “Allontànati da noi” [7]. Perciò si è estinta del tutto nei più la riverenza verso l’eterno Dio, e nella condotta della vita, sia pubblica sia privata, non si tiene in alcun conto il principio della Sua suprema volontà; ché anzi con tutte le forze e con ogni artificio si tende a sopprimere completamente addirittura il ricordo e la nozione di Dio.

5. Chi considera ciò, deve pur temere che questa perversione degli animi sia una specie di assaggio e quasi un anticipo dei mali che sono previsti per la fine dei tempi; e che “il figlio della perdizione”, di cui parla l’Apostolo [8], non calchi già queste terre. Con somma audacia, con tanto furore è ovunque aggredita la pietà religiosa, sono contestati i dogmi della fede rivelata, si tenta ostinatamente di sopprimere e cancellare ogni rapporto che intercorre tra l’uomo e Dio! E invero, con un atteggiamento che secondo lo stesso Apostolo è proprio dell’“Anticristo”, l’uomo, con inaudita temerità, prese il posto di Dio, elevandosi “al di sopra di tutto ciò che porta il nome di Dio”; fino al punto che, pur non potendo estinguere completamente in sé la nozione di Dio, rifiuta tuttavia la Sua maestà, e dedica a se stesso, come un tempio, questo mondo visibile e si offre all’adorazione degli altri. “Siede nel tempio di Dio ostentando se stesso come se fosse Dio” [9].

6. Ma nessuno sano di mente può mettere in dubbio l’esito della battaglia condotta dai mortali contro Dio. È concesso infatti all’uomo, che abusa della propria libertà, di violare il diritto e l’autorità del Creatore dell’universo; tuttavia è da Dio che dipende sempre la vittoria: ché anzi è tanto più prossima la sconfitta, quanto più l’uomo, sperando nel trionfo, si ribella con maggiore audacia. Dio stesso ci ammonisce nelle sacre Scritture: “Chiude gli occhi sui peccati degli uomini” [10] come fosse immemore della propria potenza e della propria maestà [11], ma poi, dopo questo apparente ripiegamento, “risvegliandosi come un potente inebriato dal vino, spezzerà le teste dei suoi nemici” [12] affinché tutti sappiano “che Dio è re di tutta la terra” [13] e “perché le genti comprendano che sono soltanto uomini” [14].

7. Tutto ciò, Venerabili Fratelli, fa parte della nostra salda fede e delle nostre attese. Tuttavia tale fiducia non ci dispensa, per quanto dipende da noi, di propiziare il compimento dell’opera di Dio, e ciò non solo insistendo nella preghiera: “Sorgi, o Signore, perché l’uomo non prevalga” [15]. In verità, ciò che più interessa è che nelle opere e nelle parole, in piena luce, sostenendo e rivendicando il supremo dominio di Dio sugli uomini e su tutte le altre creature, siano santamente onorati e rispettati da tutti il Suo diritto e il Suo potere di comandare. E ciò non è soltanto richiesto dal dovere imposto dalla natura, ma anche dal comune interesse del genere umano. Chi mai, infatti, Venerabili Fratelli, non si sentirà turbato dalla trepidazione e dall’angoscia nel vedere che gli uomini — mentre si esaltano giustamente i progressi umani — si combattono atrocemente la maggior parte fra loro, così che quasi vi è guerra di tutti contro tutti? Il desiderio di pace è certamente un sentimento comune a tutti, e non vi è alcuno che non la invochi ardentemente. La pace, tuttavia, una volta che si rinneghi la Divinità è assurdamente invocata: dove è assente Dio, la giustizia è esiliata; e tolta di mezzo la giustizia, invano si nutre la speranza della pace. “La pace è opera della giustizia” [16]. Noi sappiamo infatti che non sono pochi coloro che, sospinti dall’amore di pace e anche di “tranquillità” e di “ordine”, si raggruppano in associazioni e fazioni che definiscono “d’ordine”. Ahi, quali vane speranze e fatiche! Di partiti “dell’ordine”, che possano portare una pace reale nelle perturbazioni, ce n’è uno solo: il partito dei partigiani di Dio. Pertanto è necessario incoraggiarlo e condurre ad esso quante più persone si può, se ci sollecita l’amore per la sicurezza.

8. Invero, Venerabili Fratelli, questo stesso richiamo delle genti alla maestà e alla sovranità di Dio, per quanto ci impegniamo non potrà mai compiersi se non per intercessione di Gesù Cristo. Ci insegna infatti l’Apostolo: “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già si trova, e che è Cristo Gesù” [17]. È Lui solo “che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo [18]; irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” [19] in quanto Dio vero e vero uomo: senza di Lui nessuno potrebbe conoscere Dio come si deve. Infatti, “nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” [20]. Ne consegue che vi è perfetta concordanza fra il “ristabilire tutte le cose in Cristo” e il ricondurre gli uomini all’obbedienza a Dio. Dobbiamo dunque rivolgere il nostro impegno a questo, al fine di ricondurre il genere umano sotto l’impero di Cristo; raggiunto tale fine, l’uomo ritornerà a Dio medesimo. A un Dio, diciamo, non inerte e indifferente verso gli uomini, come lo ritrassero, delirando, i materialisti; ma un Dio vivo e vero, uno di natura, in tre persone, creatore dell’universo, onnisciente, e infine giustissimo legislatore che punisce i colpevoli e assicura premi alle virtù.

9. Pertanto è ovvio quale sia il cammino che ci porta a Cristo: passa attraverso la Chiesa. Perciò dice giustamente Crisostomo: “La tua speranza è la Chiesa, la tua salvezza è la Chiesa, il tuo rifugio è la Chiesa” [21]. Per questo Cristo l’ha fondata, conquistandola a prezzo del suo sangue; ad essa affidò la sua dottrina e i precetti delle sue leggi, prodigandole ad un tempo i sovrabbondanti doni della divina grazia per 1a santificazione e la salvezza degli uomini. Voi vedete dunque, Venerabili Fratelli, quale missione sia parimenti affidata a Noi e a voi: richiamare la società umana, che ripudia la sapienza di Cristo, alla disciplina della Chiesa; la Chiesa a sua volta la sottoporrà a Cristo, e Cristo a Dio. Se, con l’aiuto di Dio, giungeremo a questa meta, Ci rallegreremo che l’iniquità abbia ceduto alla giustizia, e allora udiremo con gioia “una gran voce che in cielo annuncia: ora sono fatti compiuti la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio, e la potenza del suo Cristo” [22]. Ma perché questo esito corrisponda ai voti, è necessario che con ogni mezzo e con ogni azione estirpiamo del tutto quell’immane e detestabile crimine (tipico di questa età) per cui l’uomo si è sostituito a Dio; perciò dobbiamo ricondurre all’antica dignità le santissime leggi e gl’insegnamenti del Vangelo; dobbiamo proclamare a gran voce le verità tramandate dalla Chiesa, tutti i suoi documenti sulla santità del matrimonio, sulla educazione e l’istruzione dei fanciulli, sul possesso e sull’uso dei beni, sui doveri dei pubblici amministratori; occorre ristabilire infine un certo equilibrio tra le varie classi sociali secondo le leggi e le istituzioni cristiane. In verità, Noi Ci proponiamo, durante il Nostro Pontificato, ubbidendo alla divina volontà, di raggiungere questi obiettivi, e li perseguiremo con ogni energia. Spetta a Voi, Venerabili Fratelli, assecondare i Nostri sforzi con la santità, con la dottrina, con l’azione e soprattutto con l’ossequio alla divina gloria; a nient’altro intesi se non a “formare Cristo in tutti” [23].

10. Ora, di quali mezzi dobbiamo far uso in un’impresa così grande, è appena il caso di dirlo, tanto sono ovvi di per sé. Il primo impegno sarà quello di formare Cristo in coloro che sono destinati per vocazione a formare Cristo negli altri. Il pensiero, Venerabili Fratelli, è diretto ai sacerdoti. Infatti, tutti coloro che sono stati iniziati al sacerdozio devono sapere che fra le genti con cui vivono hanno il compito che Paolo testimoniava di aver ricevuto con queste affettuosissime parole: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco finché Cristo non sia formato in voi” [24]. Ma chi potrebbe esercitare tale missione se non coloro che per primi si sono rivestiti di Cristo? Rivestiti in tal modo, essi possono fare proprie le parole dello stesso Apostolo: “Sono vivo, ma non sono io: in me vive veramente Cristo [25]. Per me la vita è Cristo” [26]. Pertanto, sebbene sia rivolta a tutti i fedeli l’esortazione affinché “arriviamo… allo stato di uomo perfetto nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” [27], tuttavia ciò riguarda soprattutto colui che esercita il sacerdozio; egli è quindi chiamato un “altro Cristo” non certo per la sola trasmissione del potere, ma anche per l’imitazione delle opere, attraverso le quali mostra in sé la chiara immagine di Cristo.

11. Stando così le cose, Venerabili Fratelli, quale e quanto impegno dovrete porre nel formare il clero alla santità! A questo fine, qualunque cosa accada, è necessario che cedano il passo tutte le occupazioni mondane. Perciò la maggior parte delle vostre cure sia rivolta ad ordinare e a governare come si conviene i sacri seminari, perché fioriscano parimenti nella integrità della dottrina e nella santità dei costumi. Fate del seminario la delizia del vostro cuore, e per il suo giovamento non omettete nulla di ciò che è stato provvidenzialmente stabilito dal Concilio Tridentino. Quando poi verrà il tempo di iniziare i candidati agli ordini sacri, di grazia non si dimentichi ciò che Paolo scrisse a Timoteo: “Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno” [28], riflettendo con somma attenzione che spesso i fedeli saranno come coloro che destinerete al sacerdozio. Perciò non abbiate alcun riguardo verso qualsivoglia interesse privato, ma volgete lo sguardo soltanto a Dio e alla Chiesa e all’eterna felicità delle anime, in modo da evitare, come l’Apostolo ammonisce, di partecipare “ai peccati altrui” [29]. Inoltre, i sacerdoti recentemente ordinati ed usciti dal seminario non abbiano a sentire la mancanza della vostra sollecitudine. Dal profondo dell’animo vi esortiamo ad avvicinarli il più spesso possibile al vostro petto, che deve ardere di fuoco celeste: accendeteli, infiammateli, in modo che si impegnino per l’unico Dio, a vantaggio delle anime. Noi pure, Venerabili Fratelli, Ci adopreremo con tutto il Nostro zelo in modo che i membri del sacro clero non siano catturati dalle insidie di una certa nuova, fallace scienza, che non ha sentore di Cristo e che, con artificiosi ed astuti argomenti, si industria di introdurre gli errori del razionalismo o del semirazionalismo: errori che l’Apostolo invitava già Timoteo ad evitare, scrivendogli: “Custodisci il deposito, evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta scienza, professando la quale taluni hanno deviato dalla fede” [30]. Tuttavia nulla Ci indurrà a considerare meno degni di lode quei giovani sacerdoti che si dedicano allo studio di utili discipline in tutti i rami del sapere, in modo che poi saranno più idonei a difendere la verità e a respingere le calunnie dei nemici della fede. Nondimeno non possiamo nascondere, ma anzi apertamente dichiariamo, che Noi saremo sempre portati verso coloro che, pur senza trascurare le discipline sacre e umanistiche, si dedicano in particolare al bene delle anime, procurando loro quei doni che sono propri di un sacerdote che s’impegna per la gloria di Dio. Abbiamo “nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua” [31] quando constatiamo che si adatta anche all’età nostra il pianto di Geremia: “I fanciulli hanno chiesto il pane e non v’era chi lo spezzasse per loro” [32]. Infatti non mancano tra il clero coloro che, seguendo le proprie inclinazioni, si dedicano ad attività più apparenti che di concreta utilità: ma forse non sono molti coloro che, sull’esempio di Cristo, fanno proprio il detto del Profeta: “Lo spirito del Signore… mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato ad evangelizzare i poveri, a sanare gli afflitti, ad annunciare la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi” [33].

12. A chi può sfuggire, Venerabili Fratelli, che quando gli uomini siano guidati dalla ragione e dalla libertà, la formazione religiosa è il mezzo più efficace per ristabilire negli animi l’impero di Dio? Quanti sono coloro che odiano Cristo, che detestano la Chiesa e il Vangelo più per ignoranza che per malvagità d’animo! Di essi si potrebbe dire giustamente: “Bestemmiano tutto ciò che ignorano” [34]. Questo atteggiamento non si riscontra soltanto tra la plebe o tra l’infima moltitudine che può essere tratta facilmente in errore; ma anche nelle classi colte e perfino tra coloro che emergono per non comune erudizione. Ne deriva, in molti, il venir meno della fede. Non si deve ammettere che la fede possa essere spenta dai progressi della scienza, ma piuttosto dalla ignoranza; infatti ove maggiore è l’insipienza, ivi più ampiamente si manifesta il tracollo della fede. Perciò agli Apostoli fu ordinato da Cristo: “Andate e insegnate a tutte le genti” [35].

13. Ora, affinché dal dovere e dall’impegno dell’insegnamento si traggano i frutti sperati e in tutti “si formi Cristo”, si imprima con forza nella memoria, Venerabili Fratelli, la convinzione che nulla è più efficace della carità. Infatti “il Signore non si trova in una emozione” [36]. Invano si spera di attrarre le anime a Dio con uno zelo troppo aspro; ché anzi rinfacciare troppo severamente gli errori, biasimare con troppa foga i vizi, procura spesso più danno che utile. L’Apostolo pertanto rivolgeva a Timoteo questo monito: “Ammonisci, rimprovera, esorta”, ma tuttavia aggiungeva: “con molta pazienza” [37]. Invero, Cristo ci ha offerto esempi di tal genere. Leggiamo infatti che Egli si è così espresso: “Venite, venite a me, voi tutti che siete infermi ed oppressi, ed Io vi ristorerò” [38]. Gli infermi e gli oppressi non erano altri, per Lui, che gli schiavi del peccato e dell’errore. Quanta mansuetudine in quel divino Maestro! Quale soavità, quale compassione verso tutti gli infelici! Con queste parole Isaia descrisse il suo cuore: “Posi il mio spirito sopra di lui; … non alzerà la voce; … non spezzerà la canna già scossa, e non spegnerà il tessuto che fumiga” [39]. La carità, dunque, “paziente” e “benigna” [40] dovrà essere esercitata anche verso coloro che sono a noi ostili o che ci perseguitano. “Siamo maledetti e benediciamo; — così Paolo diceva di se stesso — siamo perseguitati e sopportiamo; siamo calunniati e noi preghiamo” [41]. Forse sembrano peggiori di quello che sono. Infatti, la consuetudine con gli altri, i pregiudizi, i consigli e gli esempi altrui, e infine un malinteso rispetto umano li hanno sospinti nel partito degli empi, ma la loro volontà non è così depravata come essi stessi cercano di far credere. Perché dunque non sperare che la fiamma della carità cristiana possa fugare le tenebre dagli animi e contemporaneamente recare la luce e la pace di Dio? Talora sarà forse tardivo il frutto della nostra missione; ma la carità non si stanca mai di soccorrere, memore che Dio non assegna ricompense per i frutti delle fatiche ma per la volontà con la quale ci si impegna.

14. Tuttavia, Venerabili Fratelli, non intendiamo che — in tutta questa opera tanto ardua di restituzione del genere umano a Cristo — voi e il vostro clero non abbiate collaboratori. Sappiamo che Dio ha raccomandato a ciascuno la cura del suo prossimo [42]. È dunque necessario che non solo coloro che si dedicarono al sacerdozio ma che tutti i fedeli si votino alla causa di Dio e delle anime: non che ciascuno debba adoperarsi arbitrariamente secondo il proprio punto di vista, ma sempre sotto la guida e il comando dei Vescovi. Infatti nella Chiesa a nessuno è concesso presiedere, insegnare e governare se non a voi, che “lo Spirito Santo pose a reggere la Chiesa di Dio” [43]. I Nostri Predecessori già da tempo approvarono e benedissero i cattolici che si uniscono in associazioni con intendimenti diversi, ma sempre per il bene della religione. Anche Noi non abbiamo alcun dubbio nell’ornare con la Nostra lode un proposito così nobile, e desideriamo ardentemente che esso si diffonda largamente nelle città e nelle campagne. Tuttavia vogliamo che tali associazioni in primo luogo e soprattutto mirino a che tutti coloro che vengono accolti in esse vivano costantemente secondo l’etica cristiana. Invero, ben poco interessa discutere sottilmente su molti problemi, e dissertare con eloquenza su leggi e doveri qualora tutto ciò sia separato dalla pratica. I tempi infatti esigono l’azione; ma questa deve essere tutta rivolta a rispettare integralmente e santamente le leggi divine e le prescrizioni della Chiesa, a professare liberamente e apertamente la religione, e infine a compiere opere di carità di ogni genere, senza alcun riguardo per sé o per gl’interessi terreni. I luminosi esempi di tanti soldati di Cristo varranno assai più a scuotere e a trascinare gli animi che non le parole e le ricercate disquisizioni; e facilmente accadrà che, rimosso ogni timore, deposti i pregiudizi e le titubanze, moltissimi saranno ricondotti a Cristo, e quindi recheranno ovunque la conoscenza e l’amore di Lui: questa è la via della fraterna e durevole felicità. Certamente, se nelle città e in ogni villaggio saranno fedelmente seguiti gl’insegnamenti divini, se si onoreranno le cose sacre, se sarà frequente l’uso dei sacramenti, se verranno osservati tutti i princìpi che informano la vita cristiana, allora, Venerabili Fratelli, non vi sarà più alcuna ragione di affaticamento ulteriore perché tutto si risolva in Cristo. E non si creda che tutto questo miri soltanto al conseguimento dei beni celesti: gioverà moltissimo anche al nostro tempo e alla pubblica convivenza. Ottenuti infatti questi risultati, i notabili e i ricchi, con senso di giustizia e di carità, saranno accanto ai più poveri, e questi sopporteranno con tranquillità e pazienza le angustie di una condizione più sfortunata; i cittadini non ubbidiranno alla loro passione ma alle leggi; sarà giusto rispettare ed amare i prìncipi e i governanti, i quali “non hanno potere se non da Dio” [44]. Che dire ancora? Allora, finalmente, tutti saranno persuasi che la Chiesa, quale fu fondata da Cristo, deve godere di piena e integra libertà e non sottostare ad estraneo potere; e Noi, nel rivendicare questa stessa libertà, non solo proteggiamo i sacrosanti diritti della religione, ma provvediamo anche al bene comune e alla sicurezza dei popoli. “La pietà è utile a tutte le cose” [45], e là dove essa è integra e regna “il popolo riposerà nella bellezza della pace” [46].

15. Dio, “che è ricco di misericordia” [47], acceleri benigno questa restaurazione delle umane genti in Cristo Gesù; infatti “questa non è l’opera né di chi vuole, né di chi corre, ma di Dio misericordioso” [48]. In verità, Venerabili Fratelli, Noi “in spirito di umiltà” [49] con quotidiana e insistente preghiera chiediamo questa grazia a Dio per i meriti di Gesù Cristo. Ricorriamo inoltre alla potentissima intercessione della Madre di Dio; e perché sia a Noi propizia, in quanto questa Lettera porta la data del giorno destinato a celebrare il Rosario Mariano, Noi disponiamo e confermiamo quanto il Nostro Predecessore ha ordinato, dedicando il mese di ottobre all’augusta Vergine con la pubblica recita dello stesso Rosario in tutte le chiese. Inoltre esortiamo a considerare come intercessori anche il castissimo Sposo della Madre di Dio, patrono della Chiesa cattolica, e i santi Pietro e Paolo, prìncipi degli Apostoli.

16. Affinché tutto questo avvenga, e tutto abbia un esito conforme ai vostri desideri, invochiamo il copioso soccorso delle grazie divine. Quale testimonianza della dolcissima carità con la quale abbracciamo voi e tutti i fedeli che la provvidenza di Dio volle affidarCi, a voi, Venerabili Fratelli, al clero e al vostro popolo impartiamo con tanto affetto nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 ottobre 1903, nel primo anno del Nostro Pontificato.

PIUS X

 

 

[1] Eph. 1. III, ep.1

[2] Ps. LXXII, 27.

[3] Jerem. I, 10.

[4] Ephes. I, 10.

[5] Coloss. III, 11.

[6] Ps. II, 1.

[7] Job XXI, 14.

[8] II Thess. II, 3.

[9] II Thess. II, 2.

[10] Sap. XI, 24.

[11] Ps. LXXVII, 65.

[12] Ib. LXVII, 22.

[13] Ps. XLVI, 8.

[14] Ib. IX, 20.

[15] Ib. IX, 19.

[16] Is. XXXII, 17.

[17] I Cor. III, 11.

[18] Job X, 36.

[19] Hebr. I, 3.

[20] Matth. XI, 27.

[21] Hom. “de capto Eutropio”, n. 6.

[22] Apoc. XII, 10.

[23] Gal. IV, 19.

[24] Gal. IV.

[25] Gal. II, 20.

[26] Philipp. I, 21.

[27] Ephes. IV, 3.

[28] I Tim. V, 22.

[29] Ibid.

[30] Ib., VI, 20 et seq.

[31] Rom. IX, 2.

[32] Thren. IV. 4.

[33] Luc. IV, 18-19.

[34] Jud. II, 10.

[35] Matth. XXVIII, 19.

[36] III Reg. XIX, 11.

[37] II Tim. IV, 2.

[38] Matth. XI, 28.

[39] Is. XLII, 1 et seq.

[40] I Cor. XIII, 4.

[41] Ibid., IV, 12.

[42] Eccli. XVII, 12.

[43] Act. XX, 28.

[44] Rom. XIII, 1.

[45] I Tim. IV, 8.

[46] Is. XXXII, 18.

[47] Ephes. II, 4.

[48] Rom. IX, 16.

[49] Dan. III, 39.

 

 

DOMENICA XIII dopo PENTECOSTE

Introitus
Ps LXXIII:20; 19; 23
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]
Ps LXXIII:1
Ut quid, Deus, reppulísti in finem: irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ?
[Perché, o Signore, ci respingi ancora? Perché arde la tua ira contro il tuo gregge?]

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, da nobis fídei, spei et caritátis augméntum: et, ut mereámur asséqui quod promíttis, fac nos amáre quod præcipis.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, aumenta in noi la fede, la speranza e la carità: e, affinché meritiamo di raggiungere ciò che prometti, fa che amiamo ciò che comandi.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas. Gal III:16-22
“Fratres: Abrahæ dictæ sunt promissiónes, et sémini ejus. Non dicit: Et semínibus, quasi in multis; sed quasi in uno: Et sémini tuo, qui est Christus. Hoc autem dico: testaméntum confirmátum a Deo, quæ post quadringéntos et trigínta annos facta est lex, non írritum facit ad evacuándam promissiónem. Nam si ex lege heréditas, jam non ex promissióne. Abrahæ autem per repromissiónem donávit Deus. Quid igitur lex? Propter transgressiónes pósita est, donec veníret semen, cui promíserat, ordináta per Angelos in manu mediatóris. Mediátor autem uníus non est: Deus autem unus est. Lex ergo advérsus promíssa Dei? Absit. Si enim data esset lex, quæ posset vivificáre, vere ex lege esset justítia. Sed conclúsit Scriptúra ómnia sub peccáto, ut promíssio ex fide Jesu Christi darétur credéntibus”.

Omelia I

 [Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia I .- Torino 1899]

“Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua prole; non dice: Ed alle proli, come parlando a molte, ma come ad una: e dalla sua prole, la quale è Cristo. Ora io dico così: La legge, venuta dopo quattrocento trent’anni, non poté annullare un patto prima fermato da Dio, sicché restasse senza effetto la promessa. Perché, se l’eredità è per legge, non è più per la promessa. Eppure Dio la conferì ad Abramo per promessa. Perché dunque fu data la legge? Fu essa aggiunta in grazia delle trasgressioni, promulgata per angeli, per mezzo di un mediatore, finché non fosse venuta la prole, alla quale era stata fatta la promessa. – Ora mediatore non è di uno; eppure Dio è uno. Sarà dunque la legge contraria alle promesse di Dio? No. Ma se fosse stata data una legge capace di dare la vita, se ne avrebbe di fatto la giustificazione. Ma la Scrittura ha racchiusa ogni cosa sotto peccato, affinché la promessa di fede fosse data per Gesù Cristo ai credenti „ (Ai Galati, capo III, 16-22).

Anzitutto, o carissimi, devo dirvi che questi sette versetti della Epistola odierna, che vi ho recitati, sono difficili ad intendersi, e voi stessi, udendoli, ve ne sarete accorti. La difficoltà ed oscurità di queste sentenze si deve far dipendere da varie cause. Primieramente si tratta dei rapporti tra la legge antica mosaica e la legge evangelica, e si accenna alla efficacia di questa sopra quella, verità a quel tempo assai contrastata: in secondo luogo si fa un’allusione di volo; ad alcuni oracoli dell’antico Testamento, per noi oscuri, se ne deducono conseguenze d’alta importanza, con una concisione tutta propria dell’Apostolo. Finalmente il modo di fraseggiare e di argomentare qui usato da S. Paolo è così rapido e serrato e il giro del periodo sì involuto e duro, che rende faticoso il seguirlo ed afferrarne il significato. Ma se voi avrete la bontà di tenermi dietro con tutta l’attenzione, nutro fiducia di farvi comprendere perfettamente la dottrina dell’Apostolo, e troverete ampia mercede della fatica durata. Dio con la sua grazia, faccia sì che la mia parola sia semplice e chiara, e la vostra mente aperta e docile a riceverla. – La lettera di S. Paolo ai Galati si può dividere in tre parti: nella prima difende se stesso contro coloro che lo accusavano di aver alterato o frainteso il Vangelo e prova la sua missione divina; nella seconda svolge l’insegnamento dogmatico intorno alla giustificazione; nella terza inculca alcune verità morali pratiche. Il tratto che vi devo spiegare appartiene alla parte dogmatica, che aveva una importanza grande e pratica allorché l’Apostolo scriveva la sua lettera. Un cenno storico necessario. Molti Ebrei della Galazia, convertiti prima da S. Paolo, sedotti da falsi maestri, erano entrati nella persuasione che, per salvarsi, fosse necessario unire alla fede cristiana l’osservanza della legge mosaica in ogni sua parte, e nominatamente il rito della circoncisione. L’Apostolo vuol dissipare questo errore gravissimo, che rendeva perpetuo il giudaismo e tra gli altri argomenti; S. Paolo, parlando ad Ebrei, ricorda che Abramo fu giustificato dinanzi a Dio con la fede che prestò alla parola di Lui, non con la legge mosaica che non esisteva e che venne assai più tardi. E come Abramo piacque a Dio, non per la osservanza della legge mosaica, ma sì per la fede, così anche i veri suoi figli si giustificarono con la fede. Qui cominciano le sentenze, che dobbiamo interpretare: “Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua prole: non dice alle proli, come parlando a molte, ma come ad una: ed alla sua prole, che è Cristo. Ecco come ragiona S. Paolo: “La Scrittura c’insegna che Abramo piacque a Dio e si santificò allorché credette alla sua parola ed ubbidì ad essa, lasciando la patria sua: Dio allora gli fece una promessa solenne, assoluta, dicendogli: “Tutte le genti saranno benedette in te, cioè riceveranno come te e allo stesso modo la mia grazia. „ Ora allorché Abramo ricevette la grazia, non vi era né la legge di Mose, né la circoncisione: dunque si giustificò non in forza della legge mosaica e della circoncisione, ma per la fede che ebbe e per l’ubbidienza sua alla parola di Dio; ma Dio promise che allo stesso modo si sarebbero giustificate tutte le genti, o Gentili; “dunque, o Galati, per piacere a Dio si esige la fede e l’obbedienza ai voleri divini, ma non l’osservanza della legge di Mosè”; e S. Paolo avverte che la promessa della giustificazione fu fatta non solo ad Abramo, ma anche alla sua “prole”, non proli, perché si indicava Cristo e tutti quelli che nella fede si sarebbero mostrati figli di Cristo. L’Apostolo prosegue argomentando così: “La legge venuta dopo 430 anni non poté annullare il patto già stabilito da Dio, sicché rimanesse la promessa senza effetto: „ che è quanto dire: la legge di Mose, data da Dio sul Sinai, venne 430 anni dopo; ora se fosse necessaria l’osservanza di questa legge per essere figli di Dio, Dio stesso avrebbe annullata la promessa od il patto stretto con Abramo in forza del quale i Gentili dovevano ricevere la benedizione alla maniera stessa di Abramo. Se la grazia divina venisse a noi dalla legge di Mose, allora non verrebbe secondo la promessa fatta ad Abramo; eppure questa grazia fu promessa da Dio fuori e prima della legge, e la promessa di Dio sta e deve stare, come sta e deve stare un testamento a cui non è lecito né aggiungere, né levare una sillaba. È questo l’argomento, sottile sì, ma valido dell’Apostolo. – Ora qualche osservazione acconcia ai nostri bisogni. In questi versetti si parla della giustificazione ottenuta da Abramo, e che doveva ottenersi dai suoi figli secondo lo spirito, mediante la fede in Cristo. Che cosa è questa giustificazione? È la grazia, è una forza stabile, che penetra tutta l’anima, la trasforma, la abbellisce e stampa in essa l’immagine di Dio e le dà il diritto di vederlo un giorno ed amarlo svelatamente ed essere felice della sua stessa felicità. Vedete un ferro: esso è di per sé freddo ed oscuro: fate che il fuoco, un fuoco potente lo investa; diventa non solo caldo, ma rovente e lucente senza cessare d’essere ferro: ciò stesso avviene dell’anima che riceve la grazia di Dio: non cessa d’essere anima, ma acquista doti e qualità ammirabili; diventa bella della bellezza di Dio, forte della sua forza stessa, e perciò i suoi atti acquistano un valore sovrumano. Quest’anima si dice giustificata, cioè fatta giusta e retta dinanzi a Dio, bella di quella bellezza ch’Egli vuole in lei, e perciò cara a Lui ed oggetto dell’amor suo: essa diviene partecipe della stessa divina natura, come il fiore è partecipe della bellezza del sole che lo colora ed abbellisce. Questa giustificazione o grazia divina non può essere il frutto delle opere nostre, né merito dei nostri sforzi, come non è merito del fiore l’essere abbellito dal sole: è dono, tutto e puro dono di Dio: tutto il nostro merito sta nel riceverlo, ancorché, ricevutolo, possiamo e dobbiamo accrescerlo con la nostra cooperazione. Questa grazia, che è il massimo dei doni di Dio, noi la riceviamo per i meriti di Gesù Cristo, nel quale e per il quale soltanto, come altrove scrive S. Paolo, siamo arricchiti d’ogni bene spirituale. – Seguitiamo l’Apostolo: “Voi direte, così egli fa parlare i Galati: Se la legge mosaica con tutte le sue prescrizioni e con la stessa circoncisione, non ci riconcilia con Dio e non ci santifica, che vale essa? Perché ci fu data? Qual pro di questa legge, che pure viene da Dio? Quidigitur lex?” — Risponde tosto l’Apostolo con la sua forma sì concisa: “Vi dico che la legge mosaica fu aggiunta alla promessa fatta ad Abramo a causa delle trasgressioni del popolo d’Israele, il quale per la sua lunga dimora in Egitto, era caduto in tanta ignoranza ed in tanto pervertimento, che spesso faceva il male senza nemmeno conoscerlo: (Lex) posìtà est propter transgressiones”. Spieghiamo un po’ meglio, se almeno ci vien fatto, la mente dell’Apostolo, che qui può parere oscura. – Abramo si giustificò innanzi a Dio, credendo alle sue parole e promesse ed ubbidendo ai suoi voleri; alla stessa maniera potevano e dovevano giustificarsi tutti i suoi discendenti: bastava che credessero alle divine promesse fatte ad Abramo e operassero conformemente ad esse, ma che avvenne? I suoi discendenti crebbero in gran numero, divennero un gran popolo in Egitto: a poco a poco dimenticarono le promesse avute per Abramo: caddero ripetutamente nell’idolatria e si resero colpevoli di gravissimi delitti. Che fece allora Iddio? Viste le male inclinazioni del popolo e le sue miserande cadute, nella sua misericordia gli diede la legge con tutto quel cumulo di minute prescrizioni ond’essa è ripiena: (Lex) propter transgressionea posita est. Questa legge di timore era un aiuto possente dato al popolo per tenerlo sulla via della verità e mantenere viva in lui la memoria delle promesse divine; questa legge, come poco appresso dice lo stesso Apostolo, era la guida, il pedagogo che doveva condurre Israele a Cristo e prepararlo al suo Vangelo (vers. 25). “La legge mosaica, soggiunge Paolo, fu promulgata dagli Angeli, per mezzo di un mediatore, che è Mosè. „ Da queste parole apprendiamo che la legge data sul Sinai fu data per mezzo degli Angeli: Ordinata per angelos, e che dagli Angeli la ricevette Mosè, il quale fu poi il mediatore tra Dio e il popolo: In manu mediatoris. Forse alcuno tra voi dirà: Noi abbiamo sempre udito dire che Mosè  ricevette la legge da Dio stesso: come sta che qui S. Paolo ci insegna che Mosè la ricevette dagli Angeli? Nessuna difficoltà, o carissimi. Ciò che Iddio fa per mezzo degli Angeli o dei suoi ministri dicesi fatto da Lui stesso, perché Egli ne è la causa principale. Non diciamo noi che Dio santifica il bambino nel Battesimo, scioglie dai peccati l’adulto, benché il Battesimo sia conferito dal ministro, e la penitenza amministrata dal sacerdote ? Similmente le Scritture sante ci dicono che la legge fu data a Mosè, ora da Dio ed ora dagli Angeli, ed è l’una e l’altra cosa. E qui è superfluo il ciò che altre volte ebbi a dire, cioè Dio nelle opere tutte che compie fuori di sé, anche le più alte, suole usare come strumento le cause seconde, Angeli ed uomini, perché in tal guisa apparisce meglio la sua grandezza e la sua gloria, e perché eleva alla dignità di cause le creature, le nobilita e le rende più simili a sé. Impariamo dunque ad  venerare questi spiriti eccelsi, gli Angeli che stanno tra Dio e noi, e che sono i ministri ordinari dei suoi voleri sulla terra. E fino a quando doveva durare la legge di Mosè, data in aiuto delle promesse fatte prima ad Abramo? Finché fosse venuto il seme a cui aveva promesso — Donec veniret semen cui promiserat, „ E chi è questo seme? Non occorre il dirlo, è Cristo, nel quale avrebbe avuto compimento la benedizione promessa ad Abramo. Allorché il fanciullo diventa uomo, cessa l’opera del pedagogo: dunque alla venuta di Cristo doveva cessare la legge, e cessò. –  Continua S. Paolo e scrive: “Ora mediatore non vi fu per uno, eppure Dio è uno. „  È una sentenza che ha bisogno di essere chiarita, e così mi pare si possa chiarire: Dio è uno solo e Padre di tutti gli uomini, e tutti li vuol salvi, e la sua volontà è eterna ed immutabile: agli Ebrei diede la legge in aggiunta alla promessa per condurli a salute, e la diede per Mosè, come per un mediatore: a quelli che non sono Ebrei provvede Egli stesso, ponendo a loro capo Cristo stesso e in Lui unificando i figli di Abramo, ch’ebbero il mediatore in Mosè, ed i Gentili, che chiama a sé senza l’opera di Mosè. In altri termini: come gli uomini si salvavano senza la legge prima di Mosè, per la fede in Cristo ventura, così ora si salvano senza la stessa legge, purché credano in Cristo già venuto: la legge di Mosè fu un aiuto temporaneo dato da Dio ai soli Ebrei. La conseguenza pratica di questo insegnamento dell’Apostolo nei versetti citati, si riduce in sostanza a stabilire questo punto fondamentale: la salute per tutti gli uomini, Giudei e non Giudei, prima e dopo Cristo, sta riposta unicamente in Cristo, Salvatore universale. Egli comparisce sulla terra nel mezzo dei tempi: una parte dell’umanità lo precede: l’altra viene dopo di Lui e continuerà, fino alla fine dei tempi: quella prima parte guarda a Cristo venturo con la fede nelle promesse divine, come Adamo, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, o con la fede aiutata dalla legge mosaica, come Mosè, Davide e tutti i profeti; la seconda parte guarda a Cristo venuto, e a Lui si unisce colla fede, che opera per la carità. Per tal modo Cristo è il gran centro di tutta l’umanità, e in Lui si appuntano tutti gli sguardi, tutti i desiderai e tutti gli amori di quelli che cercano e vogliono la salvezza. Fratelli e figliuoli carissimi! Gesù Cristo è la luce delle nostre menti, è la forza delle nostre volontà, è la nostra vita. Tutti dunque uniamoci a Lui, perché solo per Lui abbiamo accesso a Dio, come scrive, altrove San Paolo. Ma come  possiamo unirci a Lui sì che la sua vita divina si spanda in noi? Eccovelo. L’anima nostra si svolge tutta negli atti di quelle due potenze, che le sono proprie e caratteristiche: l’intelligenza e la volontà. L’intelligenza è ordinata al possesso della verità, come l’occhio è ordinato a ricevere la luce: e la volontà tende necessariamente ad amare, come i polmoni a respirare. Ora Gesù Cristo, autore e consumatore dalla fede, per mezzo della Chiesa, ci presenta le verità che sono la luce dalla nostra intelligenza, ci mostra se stesso, come oggetto degno di tutto il nostro amore. Ebbene:  appuntiamo la nostra intelligenza in queste verità che sgorgano da Cristo, come i raggi emanano dal sole; volgiamo il nostro cuore a Gesù, come il fiore volge il suo calice al sole, che lo colora, e posiamolo in Lui, ed ecco compiuta la nostra unione con Gesù Cristo. Dietro alla mente ed al cuore, con la fede e con la carità intimamente uniti a Gesù Cristo, verranno le opere, verrà il corpo stesso, fedele esecutore di ciò che si conosce e si vuole od ama. Congiunti mente e cuore a Gesù Cristo nel tempo, lo saremo nella eternità. Ma è da passare alla spiegazione degli ultimi due versetti della nostra Epistola. “Sarà dunque la legge contraria alle promesse di Dio? No. „ — È una nuova difficoltà che l’Apostolo, secondo il suo stile sì conciso e vibrato, muove a se stesso. La legge di Mosè, come sopra si è stabilito, non dava la grazia e la santificazione per se stessa, ma questa veniva soltanto dalla fede salda alle promesse divine; ora l’essere aggiunta la legge di Mosè alle promesse divine fa sì che sembri non bastevole la fede, e che la giustificazione derivi dalla legge stessa. In altra forma: l’aggiunta della legge mosaica alle promesse divine arguirebbe il difetto di queste e la necessità e sufficienza di quella. No, no, risponde Paolo, quasi inorridito: Absit. Se la legge mosaica avesse avuto virtù di santificarci per se stessa, allora sarebbe vero che è contraria alle promesse, perché la giustificazione ci verrebbe dalla legge e non dalle promessa divine e dalla fede alle medesime. Resta dunque verità indubitata, che la legge mosaica non può sostituire la fede nell’opera della nostra giustificazione, e che fu soltanto un aiuto temporaneo dato agli Ebrei, per renderla più sensibile e conservarla finché venne Cristo, che la rese inutile. Siamo all’ultima sentènza dell’Apostolo: “Ma la Scrittura ha racchiusa ogni cosa sotto peccato, affinché la promessa di fede fosse data per Gesù Cristo ai credenti. „ Non ve lo dissimulo, o carissimi; anche quest’ultima sentenza è dura ad intendersi per la forma del dire e per la struttura del periodo: ma questo è il senso: No, la legge di Mose non è contraria alle promesse di giustificare gli uomini con la fede in Gesù Cristo; anzi serve di mezzo a compirle. In qual modo? La legge mosaica data agli Ebrei tolse forse le trasgressioni ed arrestò le colpe loro? No; anzi crebbero a dismisura fino all’eccesso di mettere a morte il Figliuolo di Dio: la legge mosaica mise in piena luce la debolezza dell’uomo, e gli fece sentire dopo sì lunga prova la necessità dell’aiuto divino, e che solo per la fede in Gesù Cristo poteva giustificarsi. Questa dottrina dell’Apostolo mi richiama al pensiero ciò ch’egli stabilisce nei primi tre capi della sua lettera ai Romani, e particolarmente nel terzo (vers. 20). S. Paolo mostra con robusta eloquenza, che tanto i Gentili con la sola ragione e con la sola forza della natura, come gli Ebrei con la loro legge mosaica, non poterono piacere a Dio, e che tanto quelli che questi dovevano confessare la loro impotenza assoluta nell’opera della propria giustificazione, ed erano forzati a riconoscerla soltanto da Gesù Cristo, e così nessuno possa gloriarsi dinanzi a Dio e tutti soggiaciamo al suo giudizio (Rom. III, 19). Tutti, Gentili ed Ebrei, sono peccatori: tutti egualmente, per piacere a Dio e salvarsi, hanno bisogno della fede in Gesù Cristo (Rom. III, 22, 23, 27, 29, 30). Deh! che questa fede, che riceveste nel santo Battesimo, che fu nutrita dalla parola di Dio e dai Sacramenti, che è la radice della nostra santificazione e che opera per la carità, sia sempre viva nei vostri cuori [Comprendo molto bene che il testo dell’Apostolo è oscuro e che anche dopo la mia spiegazione rimangano molti punti non abbastanza chiariti. Mi studierò di esporre in breve e più chiaramente il pensiero dell’Apostolo. S. Paolo vuol dimostrare che la legge mosaica per sé non salva e che salva la fede in Dio e in Gesù Cristo. Come lo mostra? Udite. Abramo si giustificò col credere a Dio e alle sue promesse: quelle promesse e quella fede furono anteriori alla legge di Mose e alla circoncisione: dunque la legge di Mosè e la circoncisione, per sé, non sono necessarie, perché l’uomo si giustificò sènza di esse con la fede allo promesse divine. Vanne la legge, venne la circoncisione. Perché? A che servono? Unicamente come aiuto e mezzo per avvivare la fede nelle divine promesse, attese le debolezze e la infedeltà d’Israele. La legge mosaica e la circoncisione non tolse dunque nulla alla efficacia della fede nelle divine promesse. Ora è venuto il termine delle divine promesse: Cristo. Via dunque la legge mosaica, via la circoncisione, ch’erano soltanto un aiuto per tenerci saldi alla fede nelle divine promesse: si leva l’impalcatura quando la fabbrica è compiuta. Così parmi spiegato meglio il testo apostolico].

Graduale
Ps LXXIII:20; 19; 22.

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum: et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem.
[Signore, abbi riguardo al tuo patto: e non dimenticare per sempre le ànime dei tuoi poveri.,+

Exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam: memor esto oppróbrii servórum tuórum. Allelúja, allelúja
[
V. Sorgi, o Signore, e difendi la tua causa e ricordati dell’oltraggio a Te fatto. Allelúia, allelúia].

Alleluja

Ps LXXXIX:1
Dómine, refúgium factus es nobis a generatióne et progénie. Allelúja. [O Signore, [Tu fosti il nostro rifugio in ogni età. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XVII:11-19
In illo témpore: Dum iret Jesus in Jerúsalem, transíbat per médiam Samaríam et Galilaeam. Et cum ingrederétur quoddam castéllum, occurrérunt ei decem viri leprósi, qui stetérunt a longe; et levavérunt vocem dicéntes: Jesu præcéptor, miserére nostri. Quos ut vidit, dixit: Ite, osténdite vos sacerdótibus. Et factum est, dum irent, mundáti sunt. Unus autem ex illis, ut vidit quia mundátus est, regréssus est, cum magna voce magníficans Deum, et cecidit in fáciem ante pedes ejus, grátias agens: et hic erat Samaritánus. Respóndens autem Jesus, dixit: Nonne decem mundáti sunt? et novem ubi sunt?
Non est invéntus, qui redíret et daret glóriam Deo, nisi hic alienígena. Et ait illi: Surge, vade; quia fides tua te salvum fecit.”  [In quel tempo: Recandosi Gesù a Gerusalemme, attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli corsero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono distanti e, alzando la voce, esclamarono: Gesú, Maestro, abbi pietà di noi. E come Egli li vide, disse: Andate, mostratevi ai sacerdoti. Ora avvenne che mentre andavano furono mondati. Ma uno di quelli, come vide che era guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce e cadde con la faccia a terra ai piedi di Gesú, ringraziandolo; e questi era Samaritano. Allora Gesú disse: Non sono stati guariti dieci? e gli altri nove dove sono? Non è stato trovato chi tornasse indietro e desse gloria a Dio, se non questo straniero? E gli disse: Alzati, va, poiché la tua fede ti ha salvato.]

OMELIA II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Luca XVII, 11-19]

Sollecitudine per i mali del Corpo –

L’uomo è tutto sollecitudine per guarire dai malori del corpo, tutto indolenza per guarire dai mali dell’anima. Di questa propensione, che io pianto e stabilisco per soggetto della presente spiegazione, ci somministra una prova assai convincente l’odierna evangelica storia. Mentre il divin Salvatore passava per mezzo alla Samaria e alla Galilea, all’avvicinarsi ad un certo castello, ecco venirgli incontro dieci lebbrosi che, alzate le mani e la voce: “Gesù, esclamano, abbiate di noi pietà, vedete di quali obbrobriose macchie siamo noi ricoperti: vedete che giusta il prescritto della legge di Mose siamo segregati dal consorzio degli uomini, muovetevi a compassione del nostro misero stato”. Fin qui in queste preghiere altro non vedo se non una gran brama di ricuperare la pristina sanità, e che a quest’unico oggetto han fatto ricorso al divino Maestro. Ma ciò, ancor più chiaro si manifesta dalla loro condotta. Gesù Cristo ad essi intima di presentarsi ai sacerdoti, come la legge prescriveva; essi ubbidiscono e a mezzo del cammino si trovano con sorpresa e con gioia tutti mondati da quel morbo schifoso; indi senza più di altro curarsi si portano ai loro affari, dimentichi affatto d’un segno di riconoscenza verso il pietoso loro liberatore. Uno solo fra questi, uomo di Samaria, ritorna sui suoi medesimi passi e da lontano, alzata la voce, esalta la divina beneficenza e si getta poi ai piedi di Gesù Cristo, L’adora col volto a terra, e Lo ringrazia quanto può del prodigioso suo risanamento. “E gli altri nove dove sono? dice il divin Maestro”. “Ah! Rispondiamo noi, mostrano ben così non aver avuta altra mira che la sanità del corpo, e nessuna premura dell’anima propria e della grazia del Salvatore”. Il solo Samaritano mostrò che gli era cara e la salute del corpo e la salute dell’anima, e l’una e l’altra ottenne in effetti, come ricavano i sacri interpreti dalle parole del Redentore a lui dirette: “Vade fides tua te salvum fecit”. – Ditemi ora, cristiani amatissimi, siamo noi somiglianti al riconoscente lebbroso, o pure ai nove ingrati? Già ve lo dissi dal bel principio, l’uomo per l’ordinario è tutto sollecitudine per risanare i mali del proprio corpo, e tutto trascuratezza per guarire dai mali dell’anima. Vediamolo senza più. – Non vi è studio che si ometta per arrivare alla guarigione del corpo. Non bastano gli aforismi d’Ippocrate, le sentenze di Galeno, gli immensi volumi dei Greci e dei Latini, si fanno ogni giorno, dai fisici moderni, sempre nuovi studi, sempre nuove scoperte. Tutti, e semplici e composti, e vegetabili e minerali, tutte l’erbe, tutte le piante, dall’umile issopo fino ai cedri del Libano, sono il soggetto dei pìù sottili sperimenti. I Botanici non lasciano cosa intentata, i Chimici convertono i veleni in opportuni rimedi. Licei aperti di medicina, stipendi ai professori, premi agii studenti, son tutte prove dell’impiego dall’uomo per l’acquisto di questa scienza. Ottimamente! “E per l’anima, ripiglio io, quale studio si fa, quale scienza si apprende? Ohimè! “Non est scientia animæ(Prov. XIX, 2). Tanti e tanti han l’anima inferma, “multi infirmi et imbecilles(Ad Cor. I, XI, 39), l’hanno impiagata da gravi ferite, e ignorano la via di risanarla: la contrizione e la penitenza sono per essi rimedi ignoti e sconosciuti, “non est scientia animæ”. –  Per guarire il corpo infermo sono necessarie le droghe del Messico, i balsami del Perù, i giulebbi, gli elettuari, le medicine più preziose; non si risparmia spesa purché si salvi la vita. Nuovi danari ci vogliono per i consulti dei medici, per chiamare da remote parti professori di grido. Si ordinano cambiamenti d’aria, bagni d’acque minerali; per ciò effettuare è spediente abbandonar la famiglia, lasciar i propri affari in mano altrui, intraprendere lunghi viaggi, incontrar debiti per far fronte alle spese, che fuori paese assorbiscono gran capitali. Vada tutto, tutto si sacrifichi, purché si viva. E il più delle volte non si vive, e tante spese non servono che a comprare una vana lusinga, una fallace speranza. – Ditemi ora, cristiani amatissimi, se tanti dispendi fossero necessari per procurare la sanità dell’anima, non saremmo tentati a credere che Iddio esigesse troppo da noi, ed a lagnarci della sua provvidenza? Se poi da noi richiede tanto e tanto di meno, non ci renderemo più rei e inescusabili trasandando la cura delle nostre anime? E che cosa Egli vuole da noi? Uditelo dallo stesso nel libro della Sapienza, “neque erba, neque maliagma sanavit eos(Sap. XVI, 12). Per sanare le infermità dell’anima non vi vogliono né erbe, né impiastri, ma quel che il Signore prescrive colla sua divina parola: “sed tuus, Domine, sermo qui sanat omnia”, cioè un cuore umiliato e contrito, una volontà che odia il peccato, che risolve subir la morte prima che più commetterlo, che con una confessione sincera brama riconciliarsi con Dio. Ecco il farmaco che ci darà vita e salute. E pure a così dolci prescritti del Celeste Medico, si fa il sordo, si scrolla il capo, o si rimette la cura ad un incerto avvenire, che per ordinario non arriva giammai. – Andiamo innanzi. Per il corpo ammalato tutto si soffre. Fa d’uopo inghiottire sughi amarissimi; pillole disgustose e bibite nauseanti s’inghiottono. Conviene osservare rigorose diete, prolissi digiuni si osservano. Bisogna aprir la vena, non basta, son necessari vessicanti, senapismi, ventose, … si applichino. Ohimè! La piaga infistolisce, si converte in cancrena, il ferro non giova, l’osso s’infracidisce, è indispensabile il troncamento del braccio, della gamba, o del piede; si tagli, si tronchi … purché si salvi la vita! Si tronca, si taglia, e il più delle volte dopo tanti tormenti la vita non si salva, e si muore. Guai a noi se per la sanità dell’anima fossero prescritti così dolorosi e violenti rimedi. Atterriti dalla sola apprensione ci getteremmo in braccio alla disperazione. Ma  no, i rimedi del nostro divin Medico sono d’un’altra specie, tutti con la sua grazia soavi, e non costano che un atto di generosa volontà. Comanda Gesù Cristo, che se noi abbiamo una mano, un piede che ci sia cagione di scandalo, dobbiamo reciderli. Non si deve già questo intendere in senso materiale, ma vuol dire: avete voi un’amicizia, una pratica, che vi è cagion di peccato, dovete troncar quell’amicizia, abbandonar quella pratica, sebbene vi fosse cara ed utile come una mano. “Si manus tua vel pes tuus scandalizat te, abscide eum, et proiice abs te”. Voi avete un impiego di giudice, di avvocato, di medico, di maestro, e questo o per ignoranza, o per malizia, o per debolezza è per voi una pietra d’inciampo, occasione di peccato, dovete dismettere la carica, lasciar l’impiego, quand’anche vi fosse necessario come un piede per reggervi e camminare, se volete salvarvi. Tutto ciò da taluni si ascolta come un linguaggio straniero; amano l’occasione del male per quel piacere o guadagno che ne riportano, come quei poveri che a bello studio mantengono aperte le loro piaghe per buscare più facilmente limosine. – Qui non finiscono le cure del corpo infermo. Quando si vedono tornar vani tutti i rimedi della farmacia, tutte le industrie dell’arte medica, si suol ricorrere a Dio. Presto che il male si avanza, presto che l’infermo s’abbatte, un triduo a tal Santo, una novena alla Vergine, una limosina allo spedale. Son ben lontano dal condannare queste pratiche di cristiana pietà: è cosa lodevolissima fare ricorso  ai Santi acciò per noi s’impegnino presso l’Autor della vita e della morte. Dico solo che v’è da piangere, perché non si vede uguale premura per la salute dell’anima inferma. Pregate pure Iddio e i Santi per la sanità del corpo, ma se fia spediente per il bene dell’anima: pregate, non come l’empio Antioco per la sola brama di campare, e perciò non fu esaudito, ma come il penitente Davide, che chiedeva insieme e la salute del corpo e quella dell’anima: “Miserere mei, Domine, quoniam infirmus sum. Sana animam meam quia peccavi tibi(Ps. XL, 4). – Finalmente per guarire da’ mali del corpo si fa ricorso al demonio»! Possibile? Così non fosse! Così fece lo scellerato Ochozia, che infermo per una mortale caduta, mandò a consultare Belzebub idolo di Accaron. Così fanno molte sciocche femminuzze, e non pochi scaltri impostori, qualora presumono medicar certi mali con un miscuglio di sacre e tronche parole, con segni insulsi e superstiziosi, pei quali si fa una tacita invocazione del demonio. A questi eccessi s’arriva per lo smodato amore del corpo; e che l’anima intanto ne resta offesa, aggravata, nemica di Dio, non importa. – Ecco la stravaganza veduta da Salomone. “Vidi servos in équis, et principes ambulantes super terram quasi servos(Eccl. X, 7). Io ho veduto un servo vile di nascita, e più vile di mestiere, garzone di stalla, seduto su d’un cavallo adorno di nobile e ricca bardatura, e servito alla staffa da una principessa a piedi, come la più abbietta di tutte le serve. Questo servo vilissimo e cosi ben trattato è il nostro corpo, “sacco di vermi”, come lo chiama S. Bernardo; questa serva tanto avvilita e depressa è la nostr’anima. O stranezza degna di orrore e di pianto! Udite come la deplora un S. Agostino: “Tanta sollecitudine per morire un poco più tardi, e nessuna per non morir mai: tanta premura per tenere alquanto lontana la morte, che poi finalmente non si può evitare, e nessun impegno per non incorrere la morte sempiterna: tanto amore per lo schiavo, tanta indifferenza per la regina: tutto per un vaso d’immondezze e di putredine, nulla per uno spirito nobile e viva immagine del Creatore: tutto per quel che finisce in quattro giorni, niente per quel che durerà per secoli infiniti”.- O forsennatezza, o delirio dell’uomo cieco e di se stesso nemico! – Deh! almeno (io non ve lo contrasto) se tanta indulgenza avete pei mali del corpo, abbiatene almeno altrettanta per i mali dell’anima, che è vostra, che è la miglior porzione di voi medesimi; io ve ne prego, ve ne scongiuro colle parole dello Spirito Santo: “Miserere animæ tuæ placens Deo” (Eccl. XXX, 24). Imitate il riconoscente lebbroso, che, come dal bel principio abbiamo osservato, mostrò aver premura e del corpo e dell’anima, e meritò d’essere risanato e nell’anima e nel corpo. “Fides tua, te salvum fecit”.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps XXXIII:15-16
In te sperávi, Dómine; dixi: Tu es Deus meus, in mánibus tuis témpora mea.
[O Signore, in Te confido; dico: Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono le mie sorti.]

Secreta
Popitiáre, Dómine, pópulo tuo, propitiáre munéribus: ut, hac oblatióne placátus, et indulgéntiam nobis tríbuas et postuláta concedas. [Sii propizio, o Signore, al tuo popolo, sii propizio alle sue offerte, affinché, placato mediante queste oblazioni, ci conceda il tuo perdono e quanto Ti domandiamo.]

Communio
Sap XVI:20
Panem de coelo dedísti nobis, Dómine, habéntem omne delectaméntum et omnem sapórem suavitátis.
[Ci hai elargito il pane dal cielo, o Signore, che ha ogni delizia e ogni sapore di dolcezza.]

Postcommunio
Orémus.
Sumptis, Dómine, coeléstibus sacraméntis: ad redemptiónis ætérnæ, quǽsumus, proficiámus augméntum.
[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, ricevuti i celesti sacramenti, progrediamo nell’opera della nostra salvezza eterna.]

“GNOSI” LA TEOLOGIA DI sATANA (2)

“GNOSI” LA TEOLOGIA DI sATANA (2)

QUATTRO INTERPRETAZIONI DELLA CABALA

Dopo aver ben riletto lo scritto precedente [“Gnosi: teologia di satana (1)”] passiamo a considerare le interpretazioni della cabala nella quale sono confluite, in modo più o meno evidenti, con elaborazioni più o meno fantasiose o, se preferite, deliranti, tutte le idee gnostiche già considerate. Come si è visto, gli influssi pagani, soprattutto egizi, inducono una contaminazione nella dottrina rivelata affidata agli Ebrei, dando origine alla gnosi “spuria” ebraica che si stratifica in una «tradizione» o «Gabbala», opposta alla Tradizione della Rivelazione divina, ed alla sinagoga mosaica. Non si tratta di un pensiero omogeneo, ma di un sincretismo proteiforme di nozioni legate a una concezione cosmica emanatistica, ingannatrice e falsa sotto vaghe apparenze spirituali, ma pur sempre riconducibili ai principi gnostici di base della “teologia di satana” (v. articolo 1), concezione cosmica che poi ritroveremo in tutte le (false) religioni orientali e nel modernismo attuale infiltrato, con il c.d. Vaticano II, nella Chiesa Cattolica. La molteplicità delle interpretazioni della cabala ne conferma la confusa complessità. – Cominciamo dunque  ad esplorare i tentacoli della complessa piovra gnostica iniziando dall’epoca recente in cui la cabala citata, è stata soggetta a quattro diverse interpretazioni.

1.- INTERPRETAZIONE CRISTIANA di DRACH

P. Drach: era questi un ebreo finto-convertito (il solito marrano!), che non ha mai rivelato però i testi rabbinici dai quali traeva le sue dottrine: si tratta quindi di una cabala riduttiva. Alcuni concetti, espressi senza la limpidezza nitida del tomismo, sono accettabili per le loro vaghe analogie col pensiero cristiano. Inizia già, come sempre, il sottile inganno della “ermeneutica” dei marrani, utilizzata di recente e spudoratamente, dai tempi del conciliabolo [Vaticano II], dai finti papi, effettivamente quasi tutti marrani. La pubblicazione di tali scritti ha incontrato l’ostilità degli ebrei in quanto portava, secondo loro, alla conversione al Cristianesimo. Noi sappiamo oggi che al massimo questa concezione produce il modernismo teologico, cioè un Cristianesimo di facciata, una maschera dietro alla quale si cela il ghigno del “nemico”. Ed infatti vi ritroviamo le idee della “teologia di satana”:

– l’idea di Dio infinito, En-sof;

l’idea dei sefirot, splendori divini, perfezioni divine;

– un vago concetto di Trinità nei primi tre sefirot, che si identificano con Dio stesso;

gli altri sette sefirot, «occhi di Dio», «luminari della menorah» (= il candelabro giudaico), indicano attributi che Giovanni (Apoc l, 4) chiama «sette spiriti», e non angeli (elencati in Apoc. IV,12);

– i dieci sefirot sono rami dell’unico albero divino, non distinti da Dio, che è temerario investigare: quattro investigatori che hanno preteso di «entrare nel verziere», ossia nel mistero, hanno pagato rispettivamente con la morte, la pazzia, la perversione in empietà, la rinuncia a investigare;

L’Adam Qadmon non è Adamo (Adam hari’son), ma è ad esso anteriore, è uno e multiplo, ed in lui e di lui sono tutte le cose: vaga allusione (distorta) al Verbo Incarnato;

-l’Infinito è simboleggiato dal serpente a spirale che si morde la coda.

2.- INTERPRETAZIONE PANTEISTA dell’ebreo GERSHOM SCHOLEM: autogenesi divina dal nulla.

Questo seguace della falsa teologia satanica, riprende e aggiorna, nel suo studio, le grandi correnti della mistica ebraica e quella affermatasi dal 1843 ad opera dell’ebreo ADOLFO FRANK [questi merita un approfondimento ulteriore non proponibile in questa sede].  – Scholen sostiene che Sefer ha Zoar, pubblicato da MOSÈ DE LEON in Castiglia tra il 1280 e ’90, scritto dal quale riprende i suoi concetti anti-teologici, non abbia precedenti cabalistici anteriori. Il suo pensiero scorre su due grandi temi: Dio e l’Uomo in rapporto con Dio; egli afferma: Dio è infinito, En-Sof, avvolto nel mistero. I zefirot sono emanazioni divine, come la fiamma emana dal carbone, il quale però può sussistere senza fiamma. Essi formano il mistico albero di Dio emanante dall’En-Sof, albero che si dilata nell’intero cosmo.

L’uomo, Adam Qadmon, è fatto ad immagine di Dio così come Dio è fatto a immagine dell’Adam Qadmon.

Il Tu divino nelle sue manifestazioni supreme si identifica con

L’Io divino, immanente a tutto il creato come «Chekina», divina «presenza ». Esso costituisce al tempo stesso il fondamento immanente di ogni uomo nel quale afferma pienamente la sua stessa personalità. Il rapporto tra l’Io e il Tu divino, tra l’attivo e il passivo, tra il maschile e il femminino divino (Chekina) è espresso in termini sponsali. Lo Zoar assume il simbolismo fallico. – «Dio è il nulla» che si dispiega nell’autocoscienza dell’uomo. Il nulla è lo zefirot primordiale e la corona della divinità. «Se qualcuno  ti chiede come ha fatto ad uscire il suo essere dal nulla, rispondi: a colui che ha fatto il suo essere dal nulla non manca nulla, poiché l’essere è nel nulla alla maniera del nulla, e il nulla è nell’essere alla maniera dell’essere». Questo pensiero è espresso da altri cabalisti in modi diversi ma equivalenti: il nulla genera il tutto come il punto, in sé in esteso, genera la linea e la superficie, che già in esso son preformate: il punto primordiale (il nulla) è il centro mistico intorno al quale si concentrano i processi della teogonia e della cosmologia. – « La trasformazione del nulla in essere è un avvenimento che si colloca in Dio stesso» (REUCHLIN); il nulla è coesistente con l’infinita pienezza di Dio. Questa autogenesi di Dio dal nulla è affermata già nella teogonia egizia. – Secondo la teoria del Tzimtzum, Dio soggiace a un processo di alternanze tra espansioni e contrazioni cosmiche attraverso le quali Dio si libera dalle incrinature del male. «Il tutto.., è legato al tutto fino all’ultimo anello della catena». «Dio, il mondo, l’anima non hanno ciascuno nel proprio piano vite separate»; la separazione è indotta dal peccata di Adamo, subentrato a rompere la perfetta unità inducendo una frattura tra Dio e il cosmo, rendendo cosi trascendente l’Immanente. Dalla frattura dell’unità divina nasce satana. – Con la caduta di Adamo l’anima umana, preesistente alla creazione nel seno dell’eternità, da scintilla spirituale si è immateriata in un corpo e porta in sé gli stadi divini (sefìrot) attraverso i quali è passata. La metempsicosi [che ritroviamo tra l’altro nelle concezioni gnostiche orientali, in primis nel buddismo] è insegnata dalla scuola cabbalistica di LAURIA, il quale afferma che il processo di purificazione è agevolato dalla preghiera e dalla mortificazione.Nella sua profondità l’anima è intangibile dal peccato. L’uomo ristabilisce l’unità infranta applicandosi all’osservanza della Legge (Torah). Al centro di questo processo di riunificazione sta l’ebreo, che con la pratica della Torà unisce tutte le scintille disperse nella materia. L’opera di restaurazione sarà condotta a termine dalla venuta del Messia e il cosmo intero si redimerà nella redenzione d’Israele. Il male sta nella frattura dell’unità cosmica, germoglia dalla stessa divinità come detrito della «vita nascosta» di Dio, come frutto staccato dall’albero, o «corteccia dell’albero» cosmico, «buccia della noce» (v. l’eretico neo-gnostico TEILHARD DE CHARDIN). – Questa dottrina, che si dispiega su un gioco dialettico di parole che identificano l’essere col non-essere, l’infinito con l’indefinito, il sì col no, la verità con l’errore, il bene col male, ecc., offre l’ispirazione chiave alla dialettica hegeliana [la celebre, purtroppo, tesi-antitesi-sintesi applicata oggi, senza vergogna, dalla finta chiesa dell’uomo che così ha tradotto i termini: Cattolicesimo, modernismo anticattolico, tradizionalismo di facciata dei falsi chierici lefebvriani o sedevacantisti].

 

3.- INTERPRETAZIONE OCCULTISTA (LEVY, GUAITA, AGRIPPA,

PAPUS, PELADAN, S. MARTIN, IVES D’ALVEYDRE, ecc.): cosmogenesi androgina.

Libera da condizionamenti universitari, questa interpretazione rivendica un’origine antichissima di ispirazione esoterica induista, con apporti mosaici, orfici, pitagorici, giovanniti. Si incentra nell’uomo microcosmo che rispecchia il macrocosmo, uomo fatto di corpo e anima congiunti dallo spirito. L’uomo è scintilla divina emanata da Dio come puro spirito «androgino», sessualmente indifferenziato. La caduta originaria ha provocato la scissione tra i due sessi, immateriali in Adamo ed Eva. Ogni uomo porta l’impronta della primitiva unità differenziata in Adamo (nel cervello) e in Eva (nel cuore). L’uomo riacquista la primitiva unità attraverso vari stadi di reincarnazione che lo purificano nell’amore, ricostituendolo androgino e, identificandolo con Dio attraverso il nirvana, ossia la perdita della sua individualità materializzata. L’uomo passa dunque attraverso l’involuzione della caduta, l’evoluzione, il ritorno tramite il nirvana. [Alla base delle teorie “gender”, oltre alle considerazioni neomalthusiane, appaiono evidenti le radici gnostico-occultistiche che ne giustificano le assurdità, evidenti pure ad un unico “neurone” funzionante; uguali considerazioni per l’esondazione dell’orgoglio ed il diritto alla “sodomia”  che si affaccia pure già prepotentemente nella falsa chiesa dell’uomo,  il c.d. “novus ordo”].  – L’universo, modellato sull’uomo, è composto di materia, di vita (Angeli, forze attive della natura), di volontà presente come magnetismo universale. Oscilla tra stati di involuzione e di evoluzione, come l’uomo. – Dio è prototipo dell’uomo e del cosmo, incomprensibile nella sua essenza, conoscibile nelle impronte trinitarie della natura sotto vari nomi. Sole-Terra-Luna, Brahma-Vishnu-Shiva, Iside-Osiride-Phta, Giove-Giunone-Vulcano, Padre-Figlio-Spirito, Kether-Chocmach-Binah (triade cabbalistica conispondente ai primi tre sefirot). Esistono anche i demoni (quliphot), spiriti del male. – Questa cabbala è veicolata storicamente da alchimisti, templari, rosacrociani, massoni, ed oggi in modo larvato anche dai chierici modernisti finto-cattolici.

4.- INTERPRETAZIONE MASSONICA.

Sotto l’insegna del relativismo teorico e morale, la massoneria, nata come strumento dell’egemonia angloebraica, assume nel suo patrimonio culturale tutte le correnti della cabala orientandole verso la costruzione di un One World [il Nuovo Ordine Mondiale, oramai alle porte], in cui l’Adam Qadmon, l’uomo prototipo, è lo stesso ebreo incoronato con il Kether-Malkhut (diadema regale) dominatore del mondo. Tutta la letteratura ebraica illustra questo «grande disegno», di cui già i Rosacroce furono interpreti dal momento in cui la cabala invase l’occidente cristiano. I Rosacroce portarono il Kether-Malkhuth come loro insegna, assunta dal libro di Ester. La cabala trova la sua continuità nella massoneria, che è lo strumento dell’ebraismo anticristiano per la lotta contro la Chiesa di Cristo: Una, Santa, Cattolica, Romana. – Alla cabala giudaico-massonica confluiscono in blocco tutte le correnti del paganesimo antico e moderno, dall’induismo al bramanesimo, a Zarathustra, al manicheismo, al buddismo, alle religioni dell’Egitto, della Grecia, della Mesopotamia, alle gnosi iraniane, al maomettanesimo, al satanismo. – Secondo il MEURIN, ma non solo, i dogmi massonici sono gli stessi della cabala e in particolare l’emanatismo dello Zohar. L’Infinito (En-Sof) è un essere inconsapevole che si autogenera dal nulla, simboleggiato dal punto inesteso (lo jod ebraico), che è la prima sefìra donde emanano gli altri nove sefirot e con essi il cosmo con l’uomo e gli spiriti buoni e cattivi, nei quali l’En-Sof acquista coscienza. La sapienza che emana dall’En-Sof è simboleggiata dalla «corona», come la regina Ester, insignita del diadema regale – il Kether Malkhuth – dopo la vendetta contro Aman e lo sterminio dei nemici, avvenimento emblematico commemorato annualmente dagli ebrei nella festa del Purim (14 febbraio). La corona, viene consegnata ai figli degli ebrei quando compiono il tredicesimo anno come simbolo di forza e incitamento alla conquista. La massoneria rivendica la pretesa di formare l’uomo nuovo, puro (EMEROH: rito del Cavaliere Eletto, immagine del Pinocchio della favola di iniziazione massonica, che da pezzo di legno si trasforma in un essere umano), sul modello dell’Adam Qadmon, l’unico uomo vero (umanesimo ateo), emancipato e moralmente autonomo. . I tre puntini di cui si fregiano i massoni richiamano i tre jod disposti a triangolo in un cerchio come espressione dei tre sefirot o splendori divini superiori, con cui i cabalisti designano l’Assoluto, con allusione al «Tre volte santo», Qados, Qados, Qados [invocazione massonica che ha sostituito il trisagio di Isaia nel nuovo rito montiniano, detto novus ordo missæ, invocazione appunto fatta al signore dell’universo, cioè il baphomet-lucifero].

#     #     #

L’inganno del nemico infernale, attraverso la sua falsa teologia, è oramai evidente per tutte le attività umane, sociali, culturale, filosofiche e massimamente religiose [il vero fine ultimo, l’obiettivo finale del “dragone”]. La sua struttura proteiforme si adatta di volta in volte alle condizioni che si presentano nel tempo e nella società, ma i frutti sono sempre gli stessi: l’allontanarsi dal vero Dio per correre verso il fuoco infernale insieme all’omicida maestro dell’inganno! Pure sempre identiche sono la matrici di base, benché variamente camuffate, che troveremo in situazioni impensabili, nella letteratura profana, nella poesia [ad es. lo gnosticismo dantesco] nelle arti grafiche, nelle espressioni musicali, nella pedagogia, nella medicina, soprattutto nella psicologia e scienze affini, etc.,  … ma avendo la bussola della sana teologia e del magistero della Chiesa Cattolica, tenendo sempre presenti gli otto punti considerati nell’articolo 1, potremo facilmente decodificare e sfuggire alla trappola del feroce nemico, il “leone ruggente” che gira per afferrare anime da spedire all’inferno. Occhio, perché la posta in gioco è veramente importante!]

[Continua …]

 

Inserzione a pagamento, listata a lutto, apparsa all’indomani della morte di A. Roncalli, il massone 33° antipapa con il nome di Giovanni XXIII, omonimo di uno degli antipapi  dello scisma d’Occidente, sul quotidiano messicano EL INFORMADOR di Guadalajara (4 giugno 1963). Vi si legge: «La GRAN LOGGIA OCCIDENTALE MESSICANA dei Massoni liberi e accettati, in occasione del decesso del PAPA GIOVANNI XXIII, rende pubblico il suo cordoglio per la scomparsa di questo grande uomo, che venne a rivoluzionare le idee, i pensieri e le formule della liturgia romana. LE ENCICLICHE “MATER ET MAGISTRA” e “PACEM IN TERRIS” hanno rivoluzionato i concetti in favore dei DIRITTI DELL’UOMO E DELLA SUA LIBERTÀ. L’umanità ha perduto un grande uomo e i Massoni riconoscono in LUI i suoi elevati principi, il suo umanitarismo e la sua condizione di GRAN LIBERALE [= GRAN MASSONE].

Guadalajara, Jalisco, Messico, 3 giugno 1963. – GRAN LOGGIA OCCIDENTALE MESSICANA».

Questo è un manifesto di celebrazione funebre della massoneria per il “fratello” iniziato nella gran loggia di Parigi e poi affiliato alla Loggia di Costantinopoli, da essa introdotto, con la collaborazione della 5^ colonna dei prelati massoni, [capeggiati dal card. Tisserant, Lienart, Bea etc., fino al soglio di Pietro, come profeticamente già annunziato da Leone XIII nella preghiera a S. Michele dell’Esorcismo Breve. La gnosi massonica inizia i suoi fasti modernisti ma … non prævalebunt!

… Et reddet iliis iniquitatem ipsorum: et in malitia eorum disperdet eos: disperdet illos Dominus, Deus noster. [Ps. XCIII, 23]

… et IPSA CONTERET caput tuum!

 

Calendario liturgico della Chiesa Cattolica: SETTEMBRE

SETTEMBRE è il mese che la Chiesa dedica ai sette dolori della Madonna

Corona dei sette dolori

I.– Regina dei Martiri, addolorata Maria, per quell’acuto dolore che vi trafisse allorquando vi fu predetta da Simeone la futura passione e la morte ignominiosa del vostro dilettissimo Figlio, vi supplico ad impetrarmi un perfetto conoscimento dei miei peccati, ed una ferma risoluzione di non peccare mai più. Ave.

II.– Regina dei Martiri, addolorata Maria, per quell’intenso dolore che aveste allorquando vi fu annunziata dall’Angelo la crudele persecuzione di Erode, e la necessità di fuggire col vostro carissimo Figlio in Egitto, vi supplico ad impetrarmi un efficace soccorso per superare gli assalti dell’infernale nemico, e una generosa fortezza per fuggir ogni pericolo di peccare. Ave.

III.– Regina dei Martiri, addolorata Maria, por quell’acerbo dolore che vi ferì allorquando smarriste nel tempio il vostro amatissimo Piglio, e sollecita lo cercaste per ben tre giorni, vi supplico ad impetrarmi un aiuto possente per non perdere giammai la grazia di Dio, e per ottenere la finale perseveranza nel divino servizio. Ave.

IV.– Regina dei Martiri, addolorata Maria, per quell’aspro dolore che voi sentiste, allorquando vi fu annunziata la presa del vostro divin Figlio nell’Orto degli ulivi, e il barbaro trattamento che riceveva dai suoi nemici, vi supplico ad impetrarmi un generale perdono delle mie passate infedeltà, ed una pronta corrispondenza alle divine chiamato. Ave.

V.– Regina dei Martiri, addolorata Maria, per quell’atroce dolore che vi sorprese, allorquando vi incontraste sulla strada del Calvario col vostro insanguinato Figliuolo, vi supplico ad impetrarmi forza bastevole per soffrire pazientemente tutte quante le avversità, e rassegnarmi in tutti gli eventi allo divine disposizioni. Ave.

VI.-Regina dei Martiri, addolorata Maria, per quell’acerbo dolore che voi provaste, quando assisteste alla barbara crocifissione del vostro innocentissimo Figlio, vi supplico ad impetrarmi la grazia di ricevere nella mia morte i ss. Sacramenti, e di spirare l’anima mia nelle vostre amorosissime braccia. Ave.

VII.- Regina dei Martiri, addolorata Maria, per quell’immenso dolore che vi comprese, allorquando vedeste morto e sepolto il vostro amabilissimo Figlio, vi supplico ad impetrarmi un generale e perfetto distacco da ogni oggetto terreno, e una ardentissima brama di servirvi sempre più perfettamente fino alla morte, onde venire dopo di essa a lodarvi per sempre nel cielo. Ave, Gloria.

Orazione a Maria Addolorata.

O gran Regina dei Martiri e la più desolata di tutte le Madri, il vostro dolore è immenso come il mare, perché tutto le piaghe che i peccati degli uomini hanno impressa nel sacro corpo del vostro divin Figliuolo, sono ivi tutto, riunite a trafiggere il vostro cuore. Ecco prostrato ai vostri piedi il peccatore più indegno, sinceramente pentito d’aver trafitto il divino Redentore. Le colpe che io ho commesso sono più gravi di quello che io posso soffrire per cancellarle. Deh, Madre, beata, imprimete nel mio cuore le piaghe santissimo del vostro amore, onde non brami che di patire e morire con Gesù crocifisso, e spirar l’anima penitente nel vostro purissimo cuore. Così sia.

[Manuale di Filotea, del sac. G. Riva, XXX ed. Milano 1888]

STABAT MATER.

Per cui il Papa Innocenzo XI il 1 Settembre 1681 concesse indulgenza di 100 giorni. Tale indulgenza fu confermata da Pio IX con Rescritto 18 Giugno 1876.

Stabat Mater dolorosa

Juxta crucem lacrimosa,

Dum pendebat Filius;

 Cujus animam gementem,

Contristatam et dolentem

Pertransivit gladius.

 O quam tristis et afflicta

Fuit illa benedicta

Mater Unigeniti 

Quæ mœrebat et dolebat

Pia Mater dum videbat

Nati pœnas inclyti.

 Quis est homo qui non fleret

Matrem Christi si videret

In tanto supplicio?

 Quis non posset contristavi

Christi Matrem contemplari

Dolentem cum Filio?

 Pro peccatis sum gentis

Vidit Jesum in tormenlis

Et flagellis subditum,

 Vidit suum dulcem Natum

Moriendo desolatum,

Dum emisit spiritum.

 Eia Mater, fons amoris,

Me sentire vini doloris,

Fac ut tecum. lugeam.

 Fac ut ardeat cor meum

In amando Christum Deum,

Ut sibi complaceam.

Sancta Mater, istud agas,

Crucìfixi fige plagas

Cordi meo valide.

 Tui Nati vulnerati

Tam dignati prò me pati,

Pœnas mecum divide.

 Fac me tecum pie flere:

Crucifixo condolere,

Donec ego vixero.

Juxta crucem tecum stare,

Et me Tibi sociare

In planctu desidero.

 Virgo virginum præclara

Mihi jam non sis amara;

Fac me tecum plangere.

 Fac ut portem Christi mortem;

Passionis fac consortem,

Et plagas recolere

 Fac me plagis vulnerari,

Fac me Cruce inebriari

Et cruore Filii

 Flammis ne urar succensus,

Per te, Virgo, sim defensus

In die Judicii.

 Christi, cum sit hinc exire

Da per Matrem me venire

Ad palmam victoriæ.

 Quando corpus morietur,

Fac ut anima donetur

Paradisi gloria. Amen.

Festa della Natività della Beata Vergine Maria: 8 settembre 2016

 

Novena a Maria Bambina

Santa Maria Bambina della casa reale di David, Regina degli Angeli, Madre di grazia e di amore, vi saluto con tutto il mio cuore. Ottenete per me la grazia di amare il Signore fedelmente durante tutti i giorni della mia vita. Ottenete per me una grandissima devozione a Voi, che siete la prima creatura dell’amore di Dio.

Ave Maria,…

O celeste Maria Bambina, che come una colomba pura nasce immacolata e bella, vero prodigio della saggezza di Dio, la mia anima gioisce in Voi. Oh! Aiutatemi a preservare nell’Angelica virtù di purezza a costo di qualsiasi sacrificio.

Ave Maria,…

 

Beata, incantevole e Santa Bambina, giardino spirituale di delizia, dove il giorno dell’incarnazione è stato piantato l’albero della vita, aiutatemi ad evitare il frutto velenoso della vanità ed i piaceri del mondo. Aiutatemi a far attecchire nella mia anima i pensieri, i sentimenti e le virtù del vostro Figlio divino.

Ave Maria,…

Vi saluto, Maria Bambina ammirevole, rosa mistica, giardino chiuso, aperto solo allo Sposo celeste. O Giglio di paradiso,  fatemi amare la vita umile e nascosta; lasciate che lo Sposo celeste trovi la porta del mio cuore sempre aperta alle chiamate amorevoli delle sue grazie ed ispirazioni.

Ave Maria,…

Santa Maria bambina, mistica Aurora, porta del cielo, Voi siete la mia fiducia e speranza. O potente avvocata, dalla vostra culla stendete la mano per sostenermi nel cammino della vita. Fate che io serva Dio con ardore e costanza fino alla morte e così possa giungere all’eternità con Voi.

Ave Maria,…

Preghiera:

Beata Maria bambina, destinata ad essere la Madre di Dio e la nostra tenera Madre, provvedetemi di grazie celesti, ascoltate misericordiosamente le mie suppliche. Nei bisogni che mi opprimono e soprattutto nelle mie presenti tribolazioni, ho riposto tutta la mia fiducia in Voi.

O Santa bambina, i privilegi che a Voi sola sono stati concessi dall’Altissimo, i meriti che avete acquistato, mostrano che la fonte dei favori spirituali ed i benefici continui che dispensate sono inesauribili, poiché il vostro potere presso il cuore di Dio è illimitato.

Degnatevi attraverso l’immensa profusione di grazie con cui l’Altissimo Vi ha arricchito fin dal primo momento della vostra Immacolata Concezione, di esaudire, o celeste Bambina, le nostre richieste e staremo eternamente a lodare la bontà del vostro Cuore Immacolato.

IMPRIMATUR : In Curia Archiep. Mediolani -31 agosto 1931 Canon. CAVEZZALI, Pro Vic. Gen.

Fonte: www.themostholyrosary.com/appendix3.htm

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Le feste del mese di

SETTEMBRE

 1 Settembre S. Ægidii Abbatis    Simplex – Primo VENERDI’

Commemorazione dei Santi Martiri dodici fratelli

2 Settembre S. Stephani Hungariæ Regis Confessoris   Semiduplex –

                         Primo  SABATO

3 Settembre Dominica XIII Post Pentecosten I. Septembris   

                Semiduplex Dominica minor *I* S. Pii X Papæ Confessoris

5 Settembre S. Laurentii Justiniani Epíscopi et Confessoris    Semiduplex

8 Settembre In Nativitate Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis *L1*

Commemorazione di San Adriano m.

9 Settembre Sanctæ Mariæ Sabbato    Ferial S. Gorgonii Martyris    Simplex

10 Settembre Dominica XIV Post Pentecosten II. Septembris   

                     Semiduplex Dominica min. –  S. Nicolai de Tolentino Confessoris

11 Settembre Ss. Proti et Hyacinthi Martyrum    Simplex

12 Settembre S. Nominis Beatæ Mariæ Virginis    Duplex

14 Settembre In Exaltatione Sanctæ Crucis    Duplex II. classis *L1*

15 Settembre Septem Dolorum Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis *L1* – Commemorazione di San Nicomede m.

16 Settembre Ss. Cornelii Papæ et Cypriani Epíscopi, Martyrum

Semiduplex – Commemorazione di SS. Eufemia Vergine, Lucia

e Geminiano martiri.

17 Settembre Dominica XV Post Pentecosten III. Septembris   

       Semiduplex Dom. min. *I* Impressionis Stigmatum S. Francisci 

18 Settembre S. Josephi de Cupertino Confessoris    Duplex *L1*

19 Settembre S. Januarii Epíscopi et Sociorum Martyrum    Duplex

20 Settembre S. Eustachii et Sociorum Martyrum    Simplex

Merc. di QUATEMPORA

21 Settembre S. Matthæi Apostoli et Evangelistæ    Duplex II. classis

22 Settembre S. Thomæ de Villanova Epíscopi et Confessoris    Duplex

Comm. dei Santi Maurizio e compagni martiri. –

                      Ven. di QUATEMPORA

23 Settembre S. Lini Papæ et Martyris    Semiduplex

com. di s. Tecla Vergine e martire. –

Sab. di QUATEMPORA

24 Settembre Dominica XVI Post Pentecosten IV. Septembris   

                    Semiduplex Dominica min.*I*Beatæ Mariæ Virginis de Mercede

 26 Settembre Ss. Cypriani et Justinæ Martyrum    Simplex

27 Settembre S. Cosmæ et Damiani Martyrum    Semiduplex

28 Settembre S. Wenceslai Ducis et Martyris    Semiduplex

29 Settembre In Dedicatione S. Michaëlis Archangelis  Duplex I. classis *L1*

30 Settembre S. Hieronymi Presbyteris Confessoris et Ecclesiæ Doctoris

IL PAPA

Il Papa

[Giacomo Bertetti: “Il Sacerdote Predicatore”- S.E.I. ED. Torino, 1919)

.1. Chi è il Papa. — 2. Il nostro dovere.

1.- CHI È IL PAPA. — Il Papa non è un angelo:… è un uomo composto come noi d’anima e di corpo;… nato come noi col peccato originale,… sottoposto come noi alle conseguenze del peccato originale,… può come noi peccare, e peccare anche gravemente;… è Pietro … Ma quel Dio che elegge le cose stolte del mondo per confondere i sapienti, e le cose deboli del mondo per confondere le forti, e le ignobili cose del mondo e le spregevoli e quelle che non sono per distruggere quelle che sono, affinché nessuna carne si dia vanto innanzi a lui » (la Cor., 1, 27 – 29) , ha fatto di Pietro la pietra fondamentale della Chiesa; .., «.Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei; e a te darò le chiavi del regno dei cieli; e qualunque cosa avrai legato sopra la terra sarà legata anche nei cieli, e qualunque cosa avrai sciolto sopra la terra, sarà sciolta anche nei cieli » (MATTH. , 16, 18, 19) Una casa non può sussistere senza fondamenta:… e così per volontà di Dio non potrebbe sussistere la Chiesa senza il Papa, che n’è la pietra fondamentale… Tutt’i fedeli sono parti di quella Chiesa ch’è fondata su Pietro, finché rimangono uniti col Papa; … ove se ne scostassero, cesserebbero di far parte della Chiesa… Lontani dal Papa, s’è lontani dai Sacramenti, lontani dalla grazia santificante, lontani dalla verità, lontani dalla salvezza eterna… A Pietro soltanto Gesù diede il potere supremo di pascere gli agnelli e le pecorelle del mistico ovile (JOAN. , XII, 15-17,);… e chiunque ci si presentasse a parlarci di Dio e delle cose celesti, senza essere mandato dal Papa, lo dovremmo riguardare come un ladro e come un assassino dell’anima; … « In verità, in verità vi dico: chi non entra nell’ovile per la porta, ma vi sale per altra parte, è ladro e assassino » ( JOAN., X, 1). Nel mistero dell’Incarnazione la natura divina e la natura umana furono riunite in una sola persona;… nell’opera della santificazione la persona umana e le persone divine si uniscono in una sola natura, poiché Dio per mezzo di Gesù Cristo « fece a noi dono di grandissime e preziose promesse, affinchè per queste diventaste partecipi nella divina natura » (2a PETR., 1, 4 ) … E questa partecipazione della divina natura proviene in noi dalla spirituale unione con Cristo (la Cor., VI, 15; Ephes., III, 17; V, 30);… dall’adozione in figli di Dio (JOAN., 1, 12; 1a JOAN., IV, 7); … dall’abitazione dello Spirito Santo in noi (la Cor., III, 16, 17);… dall’imitazione della bontà e della santità di Dio (Ephes., V, 8)… — Ma al Papa, e al Papa soltanto, è stata concessa una partecipazione tutta speciale della divina natura, a beneficio di tutt’i fedeli;… la partecipazione dell’eterna verità, per cui, quando in materia di fede e di costumi ammaestra tutta la Chiesa, qual supremo suo pastore e dottore, dandone un giudizio definitivo, gode di quella medesima infallibilità, di cui Cristo volle adorna la Chiesa… Pietra fondamentale della Chiesa, principio d’unità e di fermezza del mistico edificio e pastore supremo dell’ovile di Cristo, deve sostenere quel regno ch’è anzitutto regno di verità e congregazione di credenti; deve somministrare il pascolo d’eterna salute al gregge; deve con sicura mano esercitare il potere delle somme chiavi, mettendo la terra in diretta comunicazione col cielo… Dell’infallibile magistero di Pietro abbiamo l’esplicita, formale e assoluta promessa di Gesù Cristo: « Simone, Simone, ecco che satana va in cerca di voi per vagliarvi, come si fa del grano; ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno: e tu una volta ravveduto conferma i tuoi fratelli» (Luc., XXII, 31, 32).

2.- IL NOSTRO DOVERE. -— Se il Papa è la pietra fondamentale della Chiesa, se è il Pastore dei Pastori, se è il Vicario di Gesù Cristo, se è il Maestro infallibile, se fuori di lui non si può aver salute, dobbiamo starcene con lui strettamente uniti, per la vita e per la morte… Dobbiamo dirgli con le opere ciò che Pietro disse a Gesù, quando Gesù disse ai dodici apostoli: « Volete forse andarvene anche voi? » — « Signore, a chi andremo noi? tu hai parole di vita eterna» (JOAN. ,VII, 68, 69)… Consideriamo qual sarebbe la nostra angustia, se il Signore ci avesse lasciati in questo mondo pieno d’errori e d’iniquità senza un Capo visibile della Chiesa, il quale fa conservare intemerato il deposito della fede?… come faremmo ad accertarci d’essere sulla via della salute? … come faremmo ad accertarci se siano veramente pastori quei che ci predicano Dio e la sua legge, e se per essi debbonsi veramente applicare quelle parole: « Chi ascolta voi ascolta me; e chi disprezza voi disprezza me; e chi disprezza me, disprezza chi m’ha mandato »? (Luc,, X, 16) –

Dobbiamo al Papa il più grande rispetto, come la più grande autorità dopo Dio … Se i semplici sacerdoti « debbono essere per noi a ragione non solo più formidabili dei potenti e dei sovrani, ma ancora più venerandi dei nostri padri, perché questi ci hanno generato dal sangue e dalla volontà della carne, mentre quelli sono per noi autori del nascimento da Dio, della beata rigenerazione, della vera libertà e dell’adozione secondo la grazia» (S. Giov. CRIS., De sacerd., 3), che sarà del Sommo Pontefice, da cui unicamente deriva la potestà dell’ordine e della giurisdizione sovra gli altri sacerdoti?… — Rispettiamo il Santo Padre, … il Padre della nostra vita spirituale … Non tocca ai figli il giudicare i difetti e le mancanze del padre, anche quando paressero evidenti e inescusabili … tocca ai figli stendere sul padre quel velo di carità che pur siamo obbligati a stendere su qualsiasi nostro fratello:… facendo altrimenti saremmo maledetti da Dio (Gen.., IX, 25)… Che dire poi di coloro che prestano cieca fede alle maligne dicerie sparse intorno ai Papi da uomini senza timor di Dio, da uomini venduti ai nemici della Chiesa?… Che dire di coloro che sono soliti a leggere senza alcun rimorso di coscienza libri e giornali spiranti odio e disprezzo contro il Papa?

Dobbiamo obbedire al Papa... È la più grande autorità di questa terra;., gli stessi sovrani sono soggetti alla sua spirituale giurisdizione;… e chiunque non obbedisce al Papa, non obbedisce a Gesù Cristo, non obbedisce a Dio … Se l’Apostolo, parlandoci dell’ubbidienza che dobbiamo prestare alle autorità secolari, ebbe a scrivere: « Ogni anima sia soggetta alle podestà superiori; poiché non c’è podestà se non da Dio, e quelle che ci sono, son da Dio ordinate: e perciò chi s’oppone alla podestà, resiste all’ordinazione di Dio; e quei che resistono, si comprano la dannazione » (Rom., XIII, 1, 2), quanto maggior obbedienza non dobbiamo noi prestare al Vicario di Gesù Cristo! … — Ubbidiamo al Papa, non solo nelle cose di fede, ma anche nelle cose di semplice disciplina;… chi non gli ubbidisce nelle cose di fede è un eretico, uno scomunicato;… ma chi non gli ubbidisce nelle cose disciplinari, è pur sempre un ribelle, un figlio indocile e cattivo; … e all’inferno si può andare non solo per i peccati commessi contro la fede, ma anche per i peccati commessi contro qualsiasi altra virtù… —- Ubbidiamo al Papa, accettando con filiale sottomissione gli ordini ch’ei ci comunica mediante i Vescovi, i parroci, i sacerdoti;… pretendere che il Papa parli singolarmente a ciascuno di noi sarebbe stoltezza, e superbia inaudita l’interpretare la volontà del Papa dalle ciance degl’increduli e dei cattivi  cristiani, piuttosto che dalla voce dei legittimi pastori… — Ubbidiamo al Papa non solo con l’ubbidienza dell’opera, facendo ciò che ci viene comandato;… non solo con l’ubbidienza della volontà, conformandola a quella del Papa; … ma anche con l’ubbidienza dell’intelletto, conformando il nostro giudizio con quello del Papa, in modo da ritenere come cosa migliore di qualsiasi altra ciò che il Papa ci comanda… Basta un po’ d’umiltà e un po’ di fede per raggiungere quest’ubbidienza intera e perfetta, … considerando che il Papa si trova in un luogo molto più elevato di quello in cui ci troviamo noi, per giudicare quello che meglio si convenga alla gloria di Dio e alla salute delle anime.

Dobbiamo amare il PapaAnzitutto con la nostra perfetta ubbidienza: … un padre sa d’essere amato sinceramente dai figli, quando li vede docili ai suoi voleri; … allora spariscono per lui le difficoltà e le amarezze, e nell’obbedienza dei figli trova il più caro compenso e la più forte spinta nel continuare a sacrificarsi per loro:… « Siate ubbidienti ai vostri superiori e siate loro soggetti (poiché essi vigilano, come dovendo rendere conto delle anime vostre), affinché ciò facciano con gaudio e non sospirando » (Hebr., XIII, 17)… Quanto deve il Papa sospirare non solo per la guerra mossagli dai nemici, ma ancora per la pervicacia di molti figli, i quali fìngono di non udire e di non comprendere ciò ch’egli prescrive per il loro vantaggio!… —- Amiamo il Papa, pregando per lui e secondo le sue sante intenzioni; … soccorrendo la sua augusta povertà;… favorendo le opere buone da lui raccomandate;… difendendolo contro le ingiurie e le calunnie dei tristi … — Amiamo il Papa, prendendo viva parte alle sue gioie e a’ suoi dolori;… le gioie e i dolori del Papa son gioie e dolori di tutta la Chiesa;… chi ne rimanesse insensibile, chi ne facesse conto come di cosa estranea, chi non considerasse come suoi gl’interessi del Papa, denoterebbe d’essere indegno del nome cristiano, della grazia di Dio e della gloria eterna… «Se un membro soffre, soffrono insieme tutt’i membri; e se un membro gode, godono insieme tutti gli altri: ora voi siete corpo di Cristo e membri uniti a membro » (la Cor., XII, 26, 27); … un membro che non gode o non Soffre quando gode o soffre il capo, non è più un membro vivo, ma è un membro morto …

[Oggi ancor di più, abbiamo il dovere di amare il Santo Padre, ben visibile ma esiliato ed impedito nel suo legittimo ufficio pastorale e magisteriale, perseguitato insieme alla gerarchia apostolica della Chiesa “eclissata”, anch’essa in esilio e sparsa sui 5 continenti, irriso da apostati, eretici, scismatici di ogni risma aderenti a ridicole ed illegittime chiesuole e ad immaginari monasteri, da atei e settari di ogni razza ed obbedienza, da idolatri ed adoratori del baphomet-lucifero. Terribile deve essere il suo Getsemani, abbandonato e sofferente in ogni attimo della sua vita, in costante pericolo ma fiducioso sempre perché assistito dalla grazia divina che giammai permetterà che le porte dell’inferno prevalgano sulla Chiesa di Cristo e sulla sua “Pietra”, pietra sulla quale è fondato l’intero edificio divino voluto dal Padre ed eretto dal Figlio Gesù-Cristo sul Golgota. A noi “pusillus grex” il compito arduo ma ineludibile di pregare e sostenere, come ognuno può, secondo i propri mezzi e possibilità, il Vicario di Cristo in questo momento cruciale per la storia della Chiesa e dell’umanità intera – ndr.-].

  Successori di San Pietro:

San Pietro m. 67
San Lino 67-76
San Anacleto I 76-88
San Clemente I 88-97
San Evaristo 97-105
San Alessandro I 105-115
San Sisto I 115-125
San Telesforo 125-136
San Igino 136-140
San Pio I 140-155
San Aniceto 155-166
San Sotero 166-175
San Eleuterio 175-189
San Vittore I 189-199
San Zefirino 199-217
San Callisto I 217-222
San Urbano I 222-230
San Ponziano 230-235
San Antero 235-236
San Fabiano 236-250
San Cornelio 251-253
San Lucio I 253-254
San Stefano I 254-257
San Sisto II 257-258
San Dionisio 260-268
San Felice I 269-274
San Eutichiano 275-283
San Caio 283-296
San Marcellino 296-304
San Marcello I 308-309
San Eusebio 309(310)
San Milziade 311-314
San Silvestro I 314-335
San Marco 336
San Giulio I 337-352
Liberio 352-366
San Damaso I 366-383
San Siricio384-399
San Anastasio I 399-401
San Innocenzo I 401-417
San Zosimo 417-418
San Bonifacio I 418-422

San Celestino I 422-432
San Sisto III 432-440
San Leone Magno  440-461
San Ilario 461-468
San Simplicio 468-483
San Felice III 483-492
San Gelasio I 492-496
Anastasio II 496-498
San Simmaco 498-514
San Ormisda 514-523
San Giovanni I 523-526
San Felice IV 526-530
Bonifacio II 530-532
Giovanni II 533-535
San Agapito I 535-536
San Silverio 536-537
Vigilio 537-555
Pelagio I 556-561
Giovanni III 561-574
Benedetto I 575-579
Pelagio II 579-590
San Gregorio Magno 590-604
Sabiniano 604-606
Bonifacio III 607
San Bonifacio IV 608-615
San Deusdedit(Adeodato I) 615-618
Bonifacio V 619-625
Onorio I 625-638
Severino 640
Giovanni IV 640-642
Teodoro I 642-649
San Martino I 649-655
San Eugenio I 655-657
San Vitaliano 657-672
Adeodato (II) 672-676
Dono 676-678
San Agato 678-681
San Leone II 682-683
San Benedetto II 684-685
Giovanni V 685-686
Conone 686-687
San Sergio I 687-701
Giovanni VI 701-705
Giovanni VII 705-707
Sisinnio 708

Constantino 708-715
San Gregorio II 715-731
San Gregorio III 731-741
San Zaccaria 741-752
Stefano II 752
Stefano III 752-757
San Paolo I 757-767
Stefano IV 767-772
Adriano I 772-795
San Leone III 795-816
Stefano V 816-817
San Pasquale I 817-824
Eugenio II 824-827
Valentino 827
Gregorio IV 827-844
Sergio II 844-847
San Leone IV 847-855
Benedetto III 855-858
San Niccolò Magno 858-867
Adriano II 867-872
Giovanni VIII 872-882
Marino I 882-884
San Adriano III 884-885
Stefano VI 885-891
Formoso 891-896
Bonifacio VI 896
Stefano VII 896-897
Romano 897
Teodoro II 897
Giovanni IX 898-900
Benedetto IV 900-903
Leone V 903
Sergio III 904-911
Anastasio III 911-913
Lando 913-914
Giovanni X 914-928
Leone VI 928
Stefano VIII 929-931
Giovanni XI 931-935
Leone VII 936-939
Stefano IX 939-942
Marino II 942-946
Agapito II 946-955
Giovanni XII 955-963
Leone VIII 963-964
Benedetto V 964
Giovanni XIII 965-972
BenedettoVI 973-974
Benedetto VII 974-983
Giovanni XIV 983-984
Giovanni XV 985-996
Gregorio V 996-999
Silvestro II 999-1003
Giovanni XVII 1003
Giovanni XVIII 1003-1009
Sergio IV 1009-1012
Benedetto VIII 1012-1024
Giovanni XIX 1024-1032
Benedetto IX 1032-1045
Silvestro III 1045
Benedetto IX 1045
Gregorio VI 1045-1046
Clemente II 1046-1047
Benedetto IX 1047-1048
Damaso II 1048
San Leone IX 1049-1054
Vittorio II 1055-1057
Stefano X 1057-1058
Niccolò II 1058-1061
Alessandro II 1061-1073
San Gregorio VII 1073-1085
Beato Vittore III 1086-1087
Beato Urbano II 1088-1099
Pasquale II 1099-1118
Gelasio II 1118-1119
Callisto II 1119-1124
Onorio II 1124-1130
Innocenzo II 1130-1143
Celestino II 1143-1144
Lucio II 1144-1145
Beato Eugenio III 1145-1153
Anastasio IV 1153-1154
Adriano IV 1154-1159
Alessandro III 1159-1181
Lucio III 1181-1185
Urbano III 1185-1187
Gregorio VIII 1187

Clemente III 1187-1191
Celestino III 1191-1198
Innocenzo III 1198-1216
Onorio III 1216-1227
Gregorio IX 1227-1241
Celestino IV 1241
Innocenzo IV 1243-1254
Alessandro IV 1254-1261
Urbano IV 1261-1264
Clemente IV 1265-1268
Beato Gregorio X 1271-1276
Beato Innocenzo V 1276
Adriano V 1276
Giovanni XXI 1276-1277
Niccolò III 1277-1280
Martino IV 1281-1285
Onorio IV 1285-1287
Niccolò IV 1288-1292
San Celestino V 1294
Bonifacio VIII 1294-1303
Beato Benedetto XI 1303-1304
Clemente V 1305-1314
Giovanni XXII 1316-1334
Benedetto XII 1334-1342
Clemente VI 1342-1352
Innocenzo VI 1352-1362
Beato Urbano V 1362-1370
Gregorio XI 1370-1378
Urbano VI 1378-1389
Bonifacio IX 1389-1404
Innocenzo VII 1406-1406
Gregorio XII 1406-1415
Martino V 1417-1431
Eugenio IV 1431-1447
Niccolò V 1447-1455
Callisto III 1445-1458
Pio II 1458-1464
Paolo II 1464-1471
Sisto IV 1471-1484
Innocenzo VIII 1484-1492
Alessandro VI 1492-1503
Pio III 1503

Giulio II 1503-1513
Leone X 1513-1521
Adriano VI 1522-1523
Clemente VII 1523-1534
Paolo III 1534-1549
Giulio III 1550-1555
Marcello II 1555
Paolo IV 1555-1559
Pio IV 1559-1565
San Pio V 1566-1572
Gregorio XIII 1572-1585
Sisto V 1585-1590
Urbano VII 1590
Gregorio XIV 1590-1591
Innocenzo IX 1591
Clemente VIII 1592-1605
Leone XI 1605
Paolo V 1605-1621
Gregorio XV 1621-1623
Urbano VIII 1623-1644
Innocenzo X 1644-1655
Alessandro VII 1655-1667
Clemente IX 1667-1669
Clemente X 1670-1676
Beato  Innocenzo XI 1676-1689
Alessandro VIII 1689-1691
Innocenzo XII 1691-1700
Clemente XI 1700-1721
Innocenzo XIII 1721-1724
Benedetto XIII 1724-1730
Clemente XII 1730-1740
Benedetto XIV 1740-1758
Clemente XIII 1758-1769
Clemente XIV 1769-1774
Pio VI 1775-1799
Pio VII 1800-1823
Leone XII 1823-1829
Pio VIII 1829-1830
Gregorio XVI 1831-1846
Venerabile Pio IX 1846-1878
Leone XIII 1878-1903
San Pio X 1903-1914
Benedetto XV 1914-1922
Pio XI 1922-1939
Pio XII 1939-1958
Gregorio XVII 1958-1989
Gregorio XVIII 1991-Vivente

(Nota sul Papato in Esilio):

Il Cardinal Camerlengo di Gregorio XVII annunciò il Conclave il 3 giugno 1990: legalmente convocato questo si svolse a Roma il 2 Maggio del 1991 – Gregorio XVIII fu eletto il 3 Maggio del 1991.

Preghiere per il Santo Padre

-652-

Oremus prò Pontifice nostro (Gregorio).

R.. Dominus conservet eum, et vivificet eum, et beatum faciat eum in terra, et non tradat eum in animam inimicorum eius  [Ps. XL] (ex Brev. Rom.).

Pater, Ave.

Indulgentia trium annorum [tre anni]. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, precibus quotidie per integrum mensem devote recitatis  (S. C. Indulg., 26 nov. 1876; S. Pæn. Ap., 12 oct. 1931).

-653-

Oratio

O Signore, noi siamo milioni di credenti, che ci prostriamo ai tuoi piedi e ti preghiamo che Tu salvi, protegga e conservi lungamente il Sommo Pontefice, padre della grande società delle anime e pure padre nostro. In questo giorno, come in tutti gli altri, anche per noi egli prega, offrendo a te con fervore santo l’Ostia d’amore e di pace. Ebbene, volgiti, o Signore, con occhio pietoso anche a noi, che quasi dimentichi di noi stessi preghiamo ora soprattutto per lui. Unisci le nostre orazioni con le sue e ricevile nel seno della tua infinita misericordia, come profumo soavissimo della carità viva ed efficace, onde i figliuoli sono nella Chiesa uniti al padre. Tutto ciò ch’egli ti chiede oggi, anche noi te lo chiediamo con lui. – Se egli piange o si rallegra o spera o si offre vittima di carità per il suo popolo, noi vogliamo essere con lui; desideriamo anzi che la voce delle anime nostre si confonda con la sua. Deh! per pietà fa’ Tu, o Signore, che neppure uno solo di noi sia lontano dalla sua mente e dal suo cuore nell’ora in cui egli prega e offre a te il Sacrificio del tuo benedetto Figliuolo. E nel momento in cui il nostro veneratissimo Pontefice, tenendo tra le sue mani il Corpo stesso di Gesù Cristo, dirà al popolo sul Calice di benedizioni queste parole: « La pace del Signore sia sempre con voi», Tu fa’, o Signore, che la pace tua dolcissima discenda con una efficacia nuova e visibile nel cuore nostro ed in tutte le nazioni. Amen.

Indulgentia quingentorum (500 giorni) dierum semel in die (Leo XIII, Audientia 8 maii 1896; S. Pæn. Ap., 18 ian. 1934).

654

Oratio

Deus omnium fidelium pastor et rector, famulum tuum (Gregorium)., quem pastorem Ecclesiæ tuæ praeesse voluisti, propitius respice; da ei, quæsumus, verbo et exemplo, quibus præest, proficere; ut ad vitam, una cum grege sibi credito, perveniat sempiternam. Per Christum Dominum nostrum. Amen (ex Mìssali Rom.):

Indulgentia trìum annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo devota orationis recitatio, quotidie peracta, in integrum mensem producta fuerit (S. Pæn. Ap., 22 nov. 1934).

655

Oratio

Omnipotens sempiterne Deus, miserere famulo tuo Pontifici nostro (Gregorio)., et dirige eum secundum tuam clementiam in viam salutis æternæ: ut, te donante, tibi placita cupiat et tota virtute perficiat. Per Christum Dominum nostrum. Amen. (ex Rit. Rom.).

Indulgentia trium annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem oratio pia mente recitata fuerit (S. Pæn. Ap., 10 mart. 1935).

 

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (4), capp. V e VI

CAPITOLO V.

LA FLAGELLAZIONE.

Pena che s’infliggeva ai condannati a morte.— Particolarità circa i fasci ed i littori. — Numero e funzioni dei littori. — Diversi strumenti per la flagellazione. — Come venivano in diverse maniere impiegati secondo la qualità delle persone. — Episodio di S. Paolo e di Sila. Crudeltà romana nella flagellazione. — Uso regolato dalla legge presso gli Ebrei. — Il buon Ladrone flagellato secondo la legge dei Romani.

Gli alti magistrati romani erano sempre preceduti dai littori che portavano i fasci. Così si appellavano certi mazzi di verghe di pioppo, di frassino o salice lunghi circa un metro, legati insieme e sormontati da una scure. La composizione di questi fasci indica le due specie di pena, che nelle esecuzioni capitali erano inflitte al condannato: la flagellazione cioè, e la morte. Dal numero dei fasci conoscevasi la dignità del magistrato. I consoli ne avevano dodici; sei i Pretori, e ventiquattro il Dittatore. I littori erano mercenari addetti al servizio dei grandi magistrati. Diremo più innanzi d’onde erano tratti. Loro ufficio era 1.° di precedere i magistrati coi fasci, e di aprir loro il passo nella folla. Andavano essi non già alla rinfusa, o più insieme, ma ad uno ad uno in una sola linea: 2.° di flagellare i colpevoli: I, Lictor, adde plagas reo, et in eum lege age: « Va, o littore, flagella il colpevole, e su di lui esegui la legge, » Eraquesta la formula della sentenza: e appena che il magistrato 1’avea proferita, i Littori s’impadronivano del condannato, lo flagellavano, e se occorreva lo mettevano a morte colla scure. Il nome loro di Littori viene dal latino ligare, perché essi legavano le mani ed i piedi del condannato prima del supplizio. Come tutti i condannati a morte, Dima ebbe dapprima a subire la flagellazione. Cinque diversi istrumenti servivano all’uopo. Le verghe, virgæ, erano, come abbiamo già detto, dei rami flessibili della grossezza di un dito, e lunghi pressoché un metro. Noi le vediamo in uso ancor oggi nel Knout dei Russi, nella Schlague degli Alemanni, nel Rotin dei Cochincinesi. In Francia la flagellazione sotto il nome di frusta, fu in uso fino al cadere dello scorso secolo, e tuttavia si pratica nell’esercito Inglese. Per lungo tempo sui vascelli francesi quell’arnese che chiamasi la garcette ne ha conservata la tradizione. Le Cureggie, Loræ, erano strisce di cuoio tagliate in mezzo, e talvolta armate di piombo. La frusta, o staffile, Flagra, o il suo diminutivo Flagello, era composto di sottili corde annodate all’estremità. Era questo, sebbene di più forme, l’istrumento di correzione del padre nella sua famiglia, del maestro nella sua scuola, e del Littore nei tribunali. Le Mazze, o bastoni, Fustes: queste prendevano il nome di Scorpiones scorpioni, quando erano bastoni nodosi, perchè illividivano e laceravano al tempo stesso. Li vediamo spesso adoperati sulla persona dei Martiri. – I Nervi: erano essi nervi di bue, comunemente armati di piombo all’estremità. Si vede bene che per torturare i colpevoli, e troppo spesso anche gli innocenti, gli antichi, e segnatamente i Romani, avevano un copioso arsenale. Questi svariati strumenti di supplizio non erano già sempre messi tutti in uso. Variavano secondo la condizione del condannato, o secondo la disposizione del magistrato. Il meno ignobile erano le verghe, e si adoperavano con gli uomini liberi. Legalmente non potevasi in verun caso battere con esse un cittadino romano. Parecchie leggi, e segnatamente la legge Porcia e la Sempronia, espressamente il vietavano, e guai a chi avesse osato violarle. Da ciò lo spavento dei Magistrati di Filippi, quando seppero che S. Paolo, fatto da essi flagellare, era cittadino romano. Ricordiamo di passaggio questo episodio della vita del grande Apostolo, per mostrare anche una volta la concordanza della storia sacra con la profana. Nelle loro corse apostoliche, Paolo e Sila erano giunti a Filippi. Questa città della Macedonia, celebre per la decisiva battaglia, nella quale da Ottavio furon vinti e disfatti Bruto e Cassio repubblicani, contava tra i suoi abitanti un certo numero di Ebrei. Andando i due apostoli alla Sinagoga, una giovane Pitonessa li seguiva gridando: « Costoro son i servi dell’altissimo Dio, e vi annunziano la via della salute. » Paolo impietosito a lei si volge, e ne caccia lo spirito maligno. Ma i padroni di quella giovane, perdendo così la speranza del loro guadagno, prendono Paolo e Sila, o li conducono innanzi ai Magistrati, accusandoli come perturbatori della pubblica quiete. I Magistrati senza altro esame li fan battere con le verghe, e gettare in prigione. Sul far della mezzanotte, Paolo e Sila oravano; quando ad un tratto tremò la terra, e spontanee si schiusero le porte della prigione. Il carceriere spaventato e convertito, pregava i due apostoli a profittare della loro libertà; e condottili nella sua abitazione, si recò a render conto dell’avvenuto ai magistrati. Costoro avendo insieme deliberato, mandarono un littore a dirgli che desse pure la libertà ai due prigionieri. Il carceriere ne fa avvisato Paolo; ma il grande Apostolo, « E che? rispose; costoro han fatto pubblicamente flagellare noi cittadini romani senza pure ascoltarci, e ci han messi ai ferri; ed ora vogliono farci evadere segretamente? Ciò non sarà mai. Che eglino stessi vengano qua e ci rendano liberi. » Recatasi dal littore una tale risposta, i Magistrati furono altamente commossi nell’udire che eglino avevano fatto flagellare dei Cittadini romani ; e tremanti e confusi si recarono a chieder loro perdono dell’offesa; essi medesimi li trassero dalla prigione, pregandoli ad abbandonare la città. Il che fecero i due apostoli, non senza aver prima pubblicamente usato della libertà visitando i fratelli. [Act., XVI, 12-39]. – La più ignominiosa delle flagellazioni era quella dello staffile o frusta. Questa era la pena propria degli schiavi, e dei rei più insigni per gravità di delitti, onde eransi resi indegni d’ogni dritto dell’uomo libero. E qui siamo portati a fare una riflessione, la cui luminosa chiarezza pone in evidenza la missione del Salvatore, e la dismisura dell’amor suo per l’umana creatura. Per redimere l’uomo schiavo, il Figlio di Dio, rivestitosi della forma di schiavo, subir volle la flagellazione propria degli schiavi. [Baron., an. 34, n- 38-84. Corn. a Lap., in Maith., XXVII, 26]. La durezza che caratterizza i Romani, si appalesa nella loro legislazione, come nei loro costumi. Presso questo popolo, troppo ammirato, il numero delle battiture nella flagellazione non era determinato dalla legge. Rimettevasi all’arbitrio del magistrato, ed anche spesso al capriccio crudele degli esecutori della giustizia. Quindi è che uno dei grandi loro giureconsulti, Ulpiano, altamente si duole, che buon numero di rei, benché non condannati a morte, soccombevano alla flagellazione. Non avveniva Io stesso presso i Giudei. Nella loro legislazione penale la misericordia non era disgiunta dalla severità. Col dimostrarsi Giudice, il Signore non dimentica mai che è Padre. La flagellazione non doveva mai oltrepassare il numero di quaranta colpi. Ecco il testo del sacro Codice, che ci mostra la differenza che passa tra una legislazione divina, e le leggi uscite dal cervello di umani legislatori. « Se vedranno che colui che ha peccato sia degno di essere battuto, lo faranno distendere per terra, e lo faranno battere in loro presenza. La quantità delle battiture sarà secondo la misura del peccato: con questo però, che non passino il numero di quaranta, affinchè non abbia a ritirarsi il tuo fratello lacerato sconciamente sotto i tuoi occhi. » [Deuter., xxv, 2, 3].  Per non esporsi a violare la legge, i Giudei si arrestavano al trigesimo nono colpo. Questa religiosa precisione ci spiega le parole di S. Paolo: « Cinque volte dai Giudei ricevei quaranta colpi meno uno: [Iudeis quinquies quadragenas, una minus accepi. – II. Cor.24.]. – Si sa che Nostro Signor Gesù Cristo condannato non dai Giudei, che avevan perduto il diritto di morte, ma da Pilato, depositario della sovrana potenza, fu flagellato secondo la legge romana, vale a dire che ricevé un numero indeterminato di percosse [« Divit ergo eis Pilatus: Accipite eum vos, et secundum legem vestram judicate eum. Dixerunt ergo ludaei: Nobis non licet interfìcere quemquam. » Joan., XVIII, 31]. – Rivelazioni particolari le fanno ascendere a più centinaia. Giudicati dalla medesima autorità, Dima ed il suo compagno subir dovettero il supplizio medesimo. Tuttavolta tra essi ed il Figlio di Dio vi fu probabilmente un divario, che ci proponiamo di spiegare nel seguente capitolo.

CAPITOLO VI.

LA FLAGELLAZIONE.

(Continuazione)

Momento della flagellazione; prima di condurre il condannato al supplizio, o nell’atto che ve lo conducevano. — Testimonianze degli antichi.— Come la flagellazione si eseguiva.— Flagellazione durante il tragitto dalla prigione al luogo del supplizio, la più usitata. — Numerosi esempi degli autori pagani.— Ministri della flagellazione. — Particolarità storiche sugli abitanti del Piceno e della Calabria. — Essi sposano il partito di Annibale .— Sono condannati dai Romani ad essere i corrieri ed i frustatori pubblici.— Testimonianze di Strabone, di Aulo Gellio e di Festo. — Da chi fu flagellato il buon Ladrone.

La flagellazione aveva luogo o prima che il condannato fosse condotto al supplizio, o mentre vi si conduceva: « aut ante deductionem, aut in ipsa deductione. » Nel primo caso subiva quella pena o nella prigione o nel pretorio, vale a dire nella sala, ove era stato giudicato il reo. Alle parole di rito: Fa, o littore, e flagella il colpevole, era questi spogliato delle sue vesti, gli venian legate le mani dietro al dorso, e le braccia e i piedi attaccavano ad un palo, o ad una colonna. In questa posizione, le percosse cadevano su tutte le parti del di lui corpo, facevano scorrere il sangue, e cadere a brani le carni. Tranne la colonna, rimpiazzata da quattro pali, l’orribile supplizio è ancora usato in Oriente; ed oh! quante volte, nei pretori della Concincina e del Tonchino lo ebbero a subire i nostri eroici missionari! L’uso di flagellare prima di avviarsi al supplizio era il più antico, ma al tempo di Nostro Signore, il meno praticato. Se ne incontrano parecchi esempi presso i Pagani. Per una o per altra ragione, l’antico uso della flagellazione venne preferito riguardo al Figliuolo di Dio. La colonna che servì al crudele supplizio conservasi a Roma nella Chiesa di Santa Prassede, eterno monumento dell’infinito amore del Redentore, e della gravità del vergognoso peccato. Non v’ha testo alcuno dal quale possiamo rilevare che i due ladroni fossero flagellati prima di andare al Calvario. Poiché la flagellazione era di rito nelle condanne a morte, e segnatamente nelle crocifissioni, pare che per essi avesse luogo nel tragitto. Del rimanente, come già si è detto, era questa la pratica più usata. Or ecco in qual modo, secondo gli autori pagani, eseguivasi questo supplizio, la cui ignominia uguagliava la crudeltà. Spogliavasi il reo di tutte le vesti, specialmente se trattavasi di uno schiavo, mille volte talora meno colpevole del suo padrone, la cui crudeltà lo condannava a simili torture: gli si attaccava la croce sulle spalle, e alcuni carnefici andando innanzi lo tiravano con corde, mentre altri lo seguivano armati di staffile, con cui lo percuotevano senza cessa fino al luogo del supplizio. Noteremo qui la perfetta concordanza dell’Evangelio con la storia profana. « Gesù, dice il sacro testo, s ‘incamminava al Calvario portando la sua croce, bajulans sibi crucem; » e tal era infatti l’uso generale. « Ogni condannato, ci assicurano gli autori pagani, dovea portar la sua croce. » I buoni Romani talora si compiacevano di allungare il tragitto, e dei compagni del povero schiavo servirsi come di strumenti della loro atroce barbarie. « Un illustre Romano, racconta Dionigi di Alicamasso, avendo condannato a morte uno dei suoi schiavi, ordinò ai compagni della schiavitù di lui di esserne eglino stessi i carnefici trascinandolo al supplizio; e perché più desse negli occhi il castigo, caricandolo di percosse, gli facessero traversare non solo il Fòro, ma tutte le vie più frequentate della città. Quei che Io conducevano, gli ebbero distese e attaccate ambo le mani alla croce, legandogliela al petto ed alle spalle, in guisa che i bracci della croce si stendessero fino alle palme delle mani di lui. Gli altri schiavi che lo seguivano a colpi di staffile intanto gli laceravano il corpo completamente nudo. » [Antiq. Rom., lib VII]. –  Tito Livio e Cicerone raccontano fatti consimili senza una parola che esprima la pietà o il ribrezzo. « Roma, dice il primo, era al Circo; ed ecco che un padre di famiglia, prima che incominciassero i giuochi, fa traversare l’arena ad uno dei suoi schiavi col peso della croce sulle spalle, mentre in quell’atto subiva la flagellazione. » Pare che questo spettacolo doloroso fosse per i Romani un passatempo, perché essi volentieri ne facevano mostra al popolo. « Si conduceva, dice Cicerone, lo schiavo pel Circo, caricato della sua croce e lacerato dalle battiture. Arnobio aggiunge, che tal era l’uso comune. Bell’uso veramente, e ben degno di un popolo, veduto dal Profeta sotto la figura di bestia coi denti di acciaio! Se vogliamo adunque avere un’ idea della flagellazione dei due ladroni del Calvario, rappresentiamoci il sinistro corteggio avviato al luogo del supplizio. In mezzo a il una folla immensa di popolo che faceva ala a destra ed a sinistra della Via dolorosa, ecco venire innanzi le trombe che annunziavano l’arrivo dei condannati; e dopo quelle un araldo che proclamava i nomi e i delitti di essi; dietro a lui due uomini uno dei quali era Dima già vecchio, entrambi spogliati delle loro vesti, e carichi entrambi della loro croce attaccata alle spalle, colle mani stese fino air estremità delle braccia di essa croce, l’uno e l’ altro preceduti dai carnefici, che con funi li trascinavano, e dai manigoldi che senza tregua li flagellavano dal Pretorio di Pilato fino al Calvario, che è quanto dire per lo spazio di mille e trecento passi. Chi sa che un sì orribile supplizio, subito a fianco di Nostro Signore, non fosse per Dima il principio di un ritorno salutare sopra se stesso, e forse quel germe prezioso che era per svolgersi mirabilmente sulla vetta del Calvario! Checché ne sia, dobbiamo aggiungere che la condotta del nobile romano, che fece giustiziare il suo schiavo da altri schiavi, era un fatto eccezionale. Questo tristo ministero apparteneva ad altri. I romani avevano esecutori e frusta tori pubblici. Ma chi erano mai codesti uomini? e furono essi, rispetto a Nostro Signore e al Buon Ladrone, gli strumenti della giustizia romana? Sotto tre punti di vista, ci par degna di esame una tal questione. Dal punto di vista della storia generale, essa accenna a costumanze poco note dei popoli antichi. Dal punto di vista della storia particolare, ci svela una speciale circostanza del supplizio di Dima. E dal punto di vista religioso, tutto ciò che spetta al gran dramma del Calvario, è l’oggetto di una viva e nobile curiosità. Tutti conoscono la storia dei Gabaoniti. Questo piccolo popolo della terra di Canaan, vedendo come Giosuè per ordine di Dio trattava le vicine nazioni, pensò di sottrarsi a quella dura sorte. Riuniti in consiglio i seniori si appigliarono al seguente stratagemma. Presero dei commestibili, e caricarono sui loro asini dei sacelli vecchi, e degli otri di vino rotti e ricuciti, e dei calzari molto vecchi e rappezzati in segno di vecchiezza, e si vestirono di abiti molto usati: i pani eziandio ch’essi portavano pel viatico erano duri e sbriciolati. Si presentarono al generale degli Ebrei che era negli alloggiamenti a Galgala: e « Noi veniamo, gli dissero, da lontani paesi, attirati dalla fama delle tue imprese e bramosi di fare alleanza con te. Vedi: quando partimmo, i nostri pani erano caldi, e nuovi gli otri. Lo stesso era dei nostri calzari e dei nostri abiti, che ora sono rifiniti a causa del lungo e penoso viaggio. » Furono creduti, e si fece alleanza con essi. Ma tre giorni dopo la loro partenza, Giosuè venne a conoscere, che quei pretesi stranieri erano abitanti di un vicino paese: marciò contro essi, e prese di assalto la loro capitale Gabaon. Ma per rispetto alla fede giurata, risparmiò gli abitanti: e solamente per punirli dell’inganno condannò i Gabaoniti e tutti i loro discendenti a tagliare le legna, e portare l’acqua per servizio del popolo d’Israele [Gios. IX, 21]. – Questa tal condotta, che i diritti della guerra giustificano, fu dai romani imitata, quando Annibale vittorioso al Ticino, alla Trebbia e al Trasimeno, invece di correre direttamente su Roma per la valle dell’Umbria, impadronir si volle delle contrade prossime al mare. Il suo fine era quello di essere a portata di ricevere prontamente e senza ostacolo, soccorsi da Cartagine. Gli abitanti del Piceno e delle Calabrie Picentini e Brutii furono i primi ad arrendersi ed a sposare la sua fortuna: ma cacciato che fu Annibale dall’Italia, i Romani con esemplare castigo punirono quei due popoli, che avevan dato l’esempio della defezione. Lasciamo la parola agli autori pagani. « Picenzia, dice Strabone, era la città capitale dei Picentini; ma questi ora son sparsi per la campagna. Cacciati della loro città dai Romani per punirli della loro alleanza con Annibale, furono esclusi dal servizio militare, e insieme coi loro discendenti condannati ad essere i cursori e i tabellari della repubblica » Più umiliante fu la punizione del Bruzii [ora sono gli abitanti della Calabria]. Essi furono condannati ad essere i littori dei grandi magistrati della repubblica, ed erano loro assegnate parecchie funzioni che erano proprie degli schiavi. La più ignominiosa era quella di essere i pubblici frustatori. « Catone, dice Aulo Gellio, biasimando Quinto Termo, lo rimproverava per aver detto: I Decemviri hanno mal preparato il mio desinar; il perché li fece spogliare dei loro vestimenti, e flagellare. I Bruzii flagellarono i Decemviri, ed il popolo ne fu testimonio. E chi può sopportare una simile ingiuria, un simile affronto, un tale marchio di schiavitù? » – Come gli abitanti del Piceno, i Bruzii furono esclusi dalla milizia romana, e per giunta di pena obbligati a provvedere di littori la repubblica. Giunti che erano dal loro paese, venivano messi a disposizione dei magistrati, che s’inviavano nelle provincie. Essi li seguivano come quei servi che nelle commedie eran chiamati Lorarii, o frustatori, perché legavano e flagellavano quelli che eran dati loro in mano per esser puniti. Appartenevano forse a questo popolo di flagellatori ufficiali coloro che flagellarono Nostro Signore, Dima, e il suo compagno? Il Baronio non osa affermarlo, e noi non saremo più di quel dotto cardinale facili ad asserirlo. Diremo solo, che un simile insulto già da gran tempo si getta in faccia ai Calabresi. Secondo il testo di Aulo Geliio, certo è che fino a qualche anno avanti Nostro Signore, i Bruzìi eseguivano quel vergognoso officio: ed è certo egualmente che Pilato aveva i suoi littori, e che questi si reclutavano nel paese dei Bruzii. Tal era la regola generale. Che poi più tardi ed in molti casi, i soldati ed anche altre persone fossero addetti a quell’odioso ministero, la testimonianza di Tertulliano non ce ne fa dubitare. Ma siccome nella storia della Passione, noi vediamo da un canto che Nostro Signore fu flagellato, come lo furono i due ladroni; e dall’altro che non si parla punto di soldati, che prendessero parte alla flagellazione propriamente detta, parrebbe che si potesse conchiudere, che di quella ignominiosa pena i Bruzii fossero gli esecutori. [Vedi Baron. An. 34. n. 83.-84].

 

 

GLI ULTIMI GIORNI DI PIO VI

I PAPI IN ESILIO

[cioè i “veri” Papi, quelli che, secondo i demenziali tesisti ed i sedevacantisti acefali, sono … Papi “occulti” e che quindi … non hanno neppure l’ombra della cattolicità!]

GLI ULTIMI GIORNI DI PIO VI

[J.-J. Gaume, Catechismo di perseveranza, vol. III – Torino 1881]

Ma non bastava all’empietà di aver scemato la santa tribù; per annientare il sacerdozio, s’accinse a farne perire il Capo supremo. Possenti armate marciano per l’Italia, entrano a Roma, e s’impadroniscono ben tosto del venerabile Pontefice Pio VI. Uno scellerato entra nel palazzo del Papa, ritenuto in camera da una grave indisposizione, gli significa che non è più Re di Roma, ma che però la repubblica francese vuole assegnargli una pensione: « Io non ho mestieri di pensione, gli risponde dignitosamente il vicario di Gesù Cristo, un semplice bastone invece del pastorale basta alla mia qualità di pontefice: e basta un rozzo saio a chi deve spirare sulla cenere e sotto povere lane. Io adoro la mano dell’Onnipossente che punisce il pastore per le colpe del suo gregge; voi potete tutto sul mio corpo, ma l’anima mia è superiore ai vostri attacchi; voi potete distruggere le abitazioni dei vivi, ed anche le tombe dei trapassati, ma non distrarrete già la nostra santa Religione; essa sussisterà dopo di voi, dopo di me, siccome ha sussistito prima di noi, e si perpetuerà sino alla fine dei secoli ». Quegli a cui il Pontefice volgeva queste parole cosi nobili era un calvinista: nell’uscire, comanda al prelato che si trovava nell’anticamera del Papa, di andargli dire di preparasi a partire da Roma e che èra mestieri che l’indomani alle sei del mattino il Papa fosse in viaggio. Ma vedendo che il Prelato esitava ad incaricarsi della crudele ambasciata, entra egli stesso e notifica il fiero ordine a  Pio VI, che non poté frenarsi dal rispondere: « Io sono vecchio di ottantun anno, e sono stato cosi male questi due ultimi mesi, che mi credevo giunto agli estremi, ed ora appena comincio a riavermi. Del restò, io non posso abbandonare il mio popolo, né i miei doveri; lo voglio morir qui », a che il repubblicano rispose aspramente: «Voi morrete egualmente bene altrove: e se non posso determinarvi a partire, si adopreranno del mezzi di rigore per costringervi ». Quando fu uscito, il Papa si affrettò di andare a rianimare le sue forze ai piedi del crocifisso in una camera vicina, e ritornò poscia dicendo a coloro che lo servivano: « Dio lo vuole; prepariamoci a soffrire tutto ciò che ci destina la Provvidenza». – La notte dal 19 al 20 febbraio del 1798 vennero per toglierlo dal Vaticano. Pio VI volle prima ascoltare la santa Messa, che fu celebrata nella sua camera. Ma i soldati impazienti si sdegnano delle lentézze del sacerdote che offre il santo Sacrificio; e temendo che il popolò si sollevi contro di loro vogliono che Sua Santità sia fuori di Roma prima del crepuscolo; e con nuove bestemmie minacciano di trascinar fuori il Pontefice prima che la Messa sia terminata. Era infatti appena finita, due ore prima del giorno, che lo strappano dalla sua abitazione; ma siccome, a motivo della grave sua età, della sua debolezza e della paralisi che faceva notevoli progressi, non poteva camminare che a lenti passi, soprattutto nel discendere la scala del Vaticano, i satelliti furono arditi di sollecitarlo con parole, ed anche più brutalmente per affrettare il suo passo. – Finalmente, chiuso il Pontefice in una carrozza dei suoi domestici, io si trascinò precipitosamente. Già il 22 febbraio, giunto presso il lago di Bolsena, s’incontra in alcuni preti francesi che là si trovavano errando travestiti per la loro sicurezza chi da mendicante, e chi da soldato, con abiti che alcuni pietosi militari francesi loro avevano prestato. Allora più non ascoltando che il sentimento della riconoscenza e della fede, uno di loro si avvicina al momento della fermata. Pio VI, che lo conosceva, e conservava anche in mezzo ai suoi dolori la santa gioia rdi un’anima pura gli disse sorridendo. «Vi siete voi dunque fatto soldato?—Santo Padre, gli rispose, noi lo siamo tutti, e lo saremo sempre di Gesù Cristo, e di Pio VI. — Ma a quale stato siete voi ridotti? — È nostra gloria di essere al vostro séguito. — Ma dove andate voi? — Che volete, santo Padre, la pecorella segue le tracce del pastore; e se non possiamo sempre seguirvi, voi sarete sempre accompagnato dai nostri voti per la vostra conservazione. — Ebbene conservate là vostra forza ed il vostro coraggio. — Si, beatissimo Padre, noi ne abbiamo un sì grande esempio dinanzi agli occhi, che saremmo ben colpevoli, se non l’imitassimo ». La carrozza parte, ed il Papa è tolto ai loro omaggi; essa lo depone il 29 febbraio a Siena nel convento degli Agostiniani, dove dimora fino al 25 maggio. – Quivi può respirare alquanto, e l’uno dei sacerdoti ch’egli aveva lasciato a Bolsena, quegli che aveva avuto la fortuna di parlargli, è ammesso alla sua presenza. E siccome si mostrava inquieto pei suoi patimenti: « Io soffro, gli rispose il Padre con le parole di san Paolo, ma non sono però abbattuto: — Patiar, sed non confundor ». Questo sacerdote invidiata la sorte di monsignor Marotti, che in qualità di segretario per le lettere latine, non si separava più dal santo Padre; e lo paragonava a san  uhGerolamo incaricato già di somigliante uffizio presso del Papa  Damaso, perseguitate anch’esso per la fede: « Si, rispose Pio VI con la più commovente umiltà, ma il Papa Damaso era veramente un santo, ed io non sono che un povero peccatore. » – La facoltà che aveva il Papa di comunicare con i suoi sudditi, e soprattutto il timore che si volesse da alcuni approfittare della vicinanza del mare per procurargli l’evasione, più ancora che non un terremoto successo, decisero i sospettosi persecutori a trasportarlo in un convento di Certosini a poca distanza da Firenze. Siccome le persone pie sapevano ch’egli era sfornito di sussidi pecuniari, e che i suoi tiranni esigevano inoltre che pagasse le spese del suo viaggio, gli offrirono gualche somma. Il suo cuore fu sommamente commosso di queste offerte di cui la Religione aveva destato la genèrosità; ma egli godeva del pari di poterne far senza, attesoché la munificenza dei sovrani d’Europa aveva creduto esser dovuto alla sua dignità di sovrano il provvedere a tutti i suoi bisogni. Fra gli omaggi di questo genere che ricevette allora, uno ve n’ebbe il quale sta a riguardo del donatore, come dell’oggetto, formava un contrasto troppo forte colla barbara condotta dei nostri rivoluzionari per non arrecargli qualche consolazione. Questo dono consisteva in un calice d’argento colla sua patena; il quale aveva sul piede le armi della Francia da un lato, e dall’altro una piccola croce. Esso gli era mandato dal bey di Tunisi con queste parole: « Santissimo Padre, questi malvagi francesi che vi hanno tutto rapito, non vi lasciarono senza dubbio un calice, ed io vi prego di gradire quello che io mi reco a dovere e ad onore di offrirvi ». Chi non direbbe che le ceneri di san Cipriano esalassero allora un prodigioso profumo di cattolicità, sulle coste di Cartagine, e che gli Arabi più non venivano che dalle rive della Senna? Il Direttorio allarmato dall’affetto che ispirava Pio VI e dall’irruzione delle truppe austriache in Italia, mandò ordine di tradurlo in Francia. Ma intanto già la Sua paralisi faceva spaventosi progressi, ed egli soffriva moltissimo specialmente a motivo dei vescicanti richiesti dalla malattia, allorché, senza punto badare ai suoi mali, gli agenti francesi io tolsero bruscamente dalla Certosa per condurlo a dormire di là da Firenze in un albergo, d’Onde l’indomani lo si fece partire prima dei giorno. Qual nuovo supplizio pel Santo Pontefice di traversare, durante i quattro mesi che gli rimanevano di viaggio, tante città e villaggi agitati dalla febbre rivoluzionaria, ove s’innalza da ogni, parte l’albero infame della rivolta e dell’empietà; ove quasi ogni fronte ne porta il triplice colore, e quasi ogni voce ne profferisce furibonda le orrende bestemmie. Che cibi e che riposi sono mai quelli che gli si lascerà prendere nelle cattive fermate, che si fanno per riposare i trenta dragoni col loro comandante, alla cui guardia è affidatone doloroso tragitto? – Confessiamo nullameno che arrivando a Parma fu alquanto confortato dai rispettosi riguardi del comandante francese di quella città, il quale non ascoltando che il suo cuore, meritò dai Sommo Pontefice un ben lusinghiero contrassegno di riconoscenza. Intanto la salute del papa peggiorava ogni giorno più: e pareva che non si avesse potuto aver la barbarie di trascinarlo più oltre: allorché, a metà della notte, il capitano della sua scorta venne ad intimargli l’ordine di partire fra quattr’ore. Quest’ordine concepito nei termini più minacciosi, non era che l’effetto di un falso allarme dell’avvicinarsi degli Austriaci, da cui si temeva venisse liberato. – Il Santo Padre, che punto non se lo aspettava, oppose la deplorabile sua situazione all’obbligo di partire. Si chiamano i medici per dirne il loro parere, ed obbligati dal capitano repubblicano di alzare le coperte da letto per mostrargli ignudo quel corpo venerabile ammaccato e lacero dai vescicanti, dichiarano che il Pontefice corre rischio di spirar per istrada se viene di bel nuovo esposto alle fatiche del viaggio. L’ufficiale esce allora per pochi istanti e ritorna dicendo tirannicamente: « Bisogna che il Papa parta. vivo o morto ». – Difatti al mattino per tempissimo il santo vecchio fu messo in viaggio per Torino: sperava esso che quivi almeno sarebbe finito il suo viaggio, e che vi troverebbe convenevole albergo; ma quando si vide rilegato in cittadella, alzando gli occhi e le mani al cielo: « io andrò, disse, adorando i divini voleri, ovunque vorranno condurmi ». – Il posdomani a tre ore dopo mezzanotte lo fecero partire per Susa, e per trasportare di là delle Alpi l’augusto vegliardo che fino allora non si era potuto mettere in carrozza o farnelo discendere se non coll’aiuto di una seggiola pieghevole fatta di cuoio e di cinghie, lo si mette sopra di una specie di portantina, che non era altro che una grossolana barella. Ai prelati, siccome alle altre persone del suo seguito, vennero destinati dei muli per salire su per quei greppi. La comitiva viene diretta verso il terribile passaggio del Monginevra, ed il Santo Padre è portato sulla montagna. Per lo spazio di quattr’ore egli cammina sospeso sopra stretti sentieri tra un muro di undici piedi di neve e fra spaventevoli precipizi. Alcuni ussari piemontesi gli fanno offrire le loro pellicce per ripararlo dal freddo insopportabile che regna ancora in quella elevata regione; ma i mali della terra ornai non potevano più nulla su quell’anima celeste: esso li ringrazia dicendo: « Io non soffro punto, e punto non temo: la mano del Signore mi protegge sensibilmente tra tanti pericoli. Su via, miei figli, miei amici, coraggio! mettiamo la nostra fiducia in Dio ». – Con questi sentimenti egli già aveva messo il piede sulla terra francese. Dopo oltre sett’ore di sì penoso tragitto, arrivava finalmente a Brianzone dopo il mezzodì del 30 aprile, giorno di martedì. – Oh come questo grande Pontefice, insensibile al dolore, non fu sorpreso del pari che confortato al vedersi venire incontro tanti cittadini, che guidati dalla fede, in mezzo al più santo entusiasmo gli davano i più splendidi contrassegni di una sincera pietà! Essi meritarono di sentire per i primi questa esclamazione del Pontefice: In verità, io vi dico, che non ho trovato tanta fede in Israello! – Venne alloggiato all’ospedale, in una stretta ed incomoda stanza, vietandogli di affacciarsi alla sola finestra che avesse, e dichiarandogli ch’egli è in ostaggio per la repubblica. Ben tosto gli si fanno sentire altri crepacuori col togliergli la maggior parte dei suoi e mandarli come ostaggi a Grenoble. Presso il Santo Padre più non resta che il suo confessore il P. Fantini, col suo fedele aiutante di camera, chiamato Morelli: ma la sua rassegnazione è sempre uguale. Senonché le vittorie degli Austriaci in Italia ispirando al Direttorio il timore che venissero a rapire il Papa anche a Brianzone, ordinano che egli venga pure trasportato a Grenoble. Ed il Vicario di Gesù Cristo vi viene condotto in un modesto calesse a due posti, avendo ai suoi fianchi i due soli consolatori che gli furono lasciati. – Gli omaggi resigli dalla pietà dei Grenoblesi durante i tre giorni ch’ebbero la sorte di possederlo sono superiori ad ogni espressione; vollero tutti accompagnarlo allorché lo si fece partire per Valenza, dove giunse il 14 di luglio. All’avvicinarsi a guasta città, il Santo Padre vide, siccome aveva ariste lunghesso tutto il cammino, una moltitudine di fedeli accalcati e bramosi di domandargli la sua benedizione: ammirabile e confortevole contrasto con quei feroci repubblicani, che un anno prima in questo giorno anniversario del primo funesto trionfo della rivoluzione, avevano arso con molti altri ritratti, anche quello di Pio VI nella stessa Valenza! Il Pontefice fu alloggiato in casa del Governatore, il cui giardino sovrasta alle rive del Rodano, ma questa casa, chiusa essendo nella cittadella, l’amministrazione centrale del dipartimento della Dròme, che sedeva nella città dichiarò con atto solenne che il Papa si trovava in arresto. Quindi impose alle persone del suo seguito di nulla fare e di nulla dire al di fuori che potesse avere sembiante di pietà; venne interdetta ogni comunicazione tra il terrazzo del castello e quel del convento dei Francescani, ov’erano racchiusi trentadue sacerdoti fedeli, molti dei quali avevano provato la beneficenza del Papa durante il loro soggiorno di carcerazione in Italia. Da parte loro, essi ricevettero la più rigorosa proibizione di farsi avanti per procurar di vedere il loro augusto e santo benefattore, a cui fu perfino vietato di uscire dal ricinto del giardino per timore, come si diceva, che non eccitasse dei tumulti e degli attruppamenti. Nessuno poté giungere sino a lui senza un permesso in iscritto, di cui l’amministrazione si mostrò molto avara. – Intanto il Direttorio della repubblica francese era divenuto più moderato, dacché dei cinque suoi membri i tre singolarmente accaniti contro il Papa erano stati costretti a cedere il loro posto ad uomini più umani. Non si vedeva dunque più dominare nè Treilhard, nè Merlin (de Donai), né specialmente quel Laréveillère Lépaux, il quale con mezzi violenti e con salariare adepti tra i più abbietti rivoluzionari pretendeva stabilire l’assurda sua religione, col nome di Teofilantropia e che consisteva solamente nel far vista di amare Dio e gli uomini. Il Direttorio ricomposto in tal modo non inviava a ciascuno dei Commissari, che aveva in tutte le amministrazioni, se non se ordini e istruzioni pacifiche. Quegli, che apparteneva all’amministrazione della Dròme, giubilò di non riceverne delle contrarie ai sentimenti di rispetto, di cui lo avevano penetrato le virtù, l’età e la triste situazione del Pontefice; ma tutti gli altri amministratori, tranne un solo, conservando lo spirito e l’odio anticattolico di Laréveillère prevalsero sul Commissario di Parigi e continuarono a tormentare progressivamente Pio VI, fino a che egli discese nel sepolcro. – I rapidi progressi delle armate austriache e russe in Italia le avevano condotte quasi alla sommità della catena meridionale delle Alpi; il Direttorio spaventato credeva vederle calare sopra Valenza, onde la paura insinuandogli idee crudeli, comandò che il Papa fosse trasferito a Dijon; « ben inteso però, aggiunse egli, che il viaggio sia fatto a sue spese ». Proibiva anche espressamente di fermarsi a Lione, città rinomata per la sua zelante devozione alla santa Sede; ma quando l’ordine arrivò, l’ostacolo che le infermità del Santo Padre opponevano a tale traslazione si faceva insormontabile, ed egli stesso non più dubitò di esser giunto al suo fine. Alla vista del sepolcro, che si schiudeva davanti a lui, quella pastorale sollecitudine per tutte le Chiese, dalla quale era stato sempre animato, si spiegò più viva ed intensa. – In quel momento stesso in cui i suoi molti dolori lo avvertivano della morte vicina: « I miei patimenti fisici, ei disse, nulla sono in confronto delle angustie del mio cuore… i Cardinali, i Vescovi dispersi…! Roma, il mio popolo…! la Chiesa, ah! la Chiesa… ecco ciò che giorno e notte mi tormenta. In quale stato sono io per lasciarla! » Ei passa quasi le intere giornate a pregare; e nella notte si ode recitare dei salmi e farne fervorose applicazioni allo stato in cui si trova. Il 2° agosto incomincia a soffrire vomiti strazianti e altri accessi non meno violenti, che annunziano aver la paralisi attaccati gl’intestini. Ei fa chiamare il suo confessore, ed il giorno seguente è destinato ad amministrargli il santo viatico. Pio VI volendo riceverlo con tutte le prove di rispetto e di adorazione di cui si sente capace, chiede di essere aiutato ad uscire dal letto, e di esser vestito della sua sottana, del rocchetto , della mantellina e della stola. Rammaricandosi amaramente di non potersi inginocchiare, acconsente a comunicarsi seduto sopra una poltrona. La santa Eucaristia essendogli recata dall’Arcivescovo di Corinto, questo Prelato crede di dover domandargli prima di tutto nel presentargli il corpo di Gesù Cristo, s’ei perdona ai propri nemici: « Oh, si, con tutto il cuore, con tutto il cuore » risponde il Pontefice alzando gli occhi al cielo, e riportandoli sopra un crocifisso che ha in mano. Il suo maestro di cappella legge ad alta voce la professione di fede segnata nel Pontificato, e Pio VI, come se ricevesse dalla medesima forza novella, manifesta la propria adesione anche meglio che con le parole, poiché pone una mano sopra i santi Evangeli, e l’altra sul petto. Finalmente si comunica in maniera angelica, e tutti gli assistenti vivamente commossi si struggono in lacrime. Il giorno di poi alle otto di mattina l’Arcivescovo di Corinto giudica di non differire più oltre ad amministrargli il sacramento dei moribondi, e il Santo Padre accompagna la preghiera di ciascun’unzione con una pietà commovente. Dopo un’ora di raccoglimento, egli detta e forma un codicillo, col quale dà alcune disposizioni particolari a favore di quei che lo servono, e ne affida l’esecuzione al medesimo Arcivescovo, cui egli incarica inoltre di presiedere alle clausole del suo testamento, riguardanti il luogo e le circostanze della sua sepoltura. – Sciolto da ogni cura estranea alla salute dell’anima sua, più non si occupa che di offrire a Dio il sacrificio della sua vita, e le sue frequentissime aspirazioni non esprimono fuorché la impazienza di trovarsi unito a Gesù Cristo; Nell’intervallo ei recita i salmi Miserare mei e De profundis clamavi ad te, Domine. Spesso ripete quei versetti dell’inno Ambrosiano, sì efficace per mantenere la sua fiducia in Dio: Te ergo, quæsumus, tuis famulis subveni, quos pretioso sanguine redimisti; « Noi dunque, ve ne preghiamo, o Signore, accorrete in aiuto dei vostri servi, che avete comprati col vostro prezioso sangue ». –  In te, Domine, speravi, non confundat in æternum; « O mio Dio, poiché ho in Voi riposta la mia speranza, io non andrò confuso nell’eternità ». Sono sì ardenti e si continue le sue preghiere in tutto il restante della giornata, che si crede necessario raccomandargli di moderare il suo fervore, per tema che la sua malattia s’inacerbisca; e realmente ha terminato di estenuare le sue forze, ma gli lascia la testa libera e tutta la sua cognizione. Ei ne profitta per porgere affettuosamente una mano paterna a tutti quelli del suo seguito, che attorniano il suo letto, e prendendo loro la mano la stringe teneramente per esprimere quanto è sensibile al loro attaccamento e grato alle loro premure. Verso mezza notte più certi sintomi annunziano a lui non meno che agli astanti, esser egli prossimo ad esalare l’estremo fiato. L’arcivescovo si mette a recitare le preci degli agonizzanti, e Pio VI, che vuol tenergli dietro con una devozione affettuosa e unirsi a lui di proposito deliberato, gli accenna di pronunziare adagio. Ripetendo interiormente ciascuna parola, ei ne aspira in certo modo i pensieri. Le preci proseguivano quando il santo Pontefice depose tranquillamente l’anima sua nel seno di Dio, ad un’ora e venticinque minuti dopo la mezza notte del 29 agosto 1799, in età di ottantun anni, otto mesi e due giorni. – Non mai la morte di un Pontefice destò negli animi si forte perturbazione, e forse giammai nessun Papa nell’abbandonare questa terra di esilio non ricevé altrettanti tributi di dolore, di amore e di venerazione. In Italia, in Spagna, in Germania, in Francia stessa, da per tutto infine, Pio VI fu benedetto e magnificato come un martire; in Pietroburgo ed in Londra si udirono gli elogi di quel sommo; e inoltre, fra i protestanti, strepitose conversioni furono il frutto di questa morte gloriosa. La stessa città di Ginevra rimase commossa, e uno dei suoi cittadini più illustri scriveva queste notevoli parole: « Il cattolico romano si vanterà della vittoria memorabile, che il suo Capo ha riportato sopra l’empietà, e il cristiano delle altre comunioni vedrà chiaramente ove la vera Chiesa risiede. Tante tribolazioni riserbate ai soli pastori della Chiesa romana gli mostreranno, che le altre Religioni, i cui ministri non ingenerano sospetto negli apostoli dell’empietà e della incredulità, non sono sicure, e che l’errore, quando il vizio fraternizza palesemente con lei, non deve punto sedurre. Ecco quali saranno, io spero, i frutti degli attentati commessi contro il Papa in vita e dopo la sua morte! » – La grande vittima era immolata; i flutti dell’empietà, che fino allora avevano traboccato dilatando le loro devastazioni, erano, come quei dell’Oceano, pervenuti al limite segnato dalla mano divina. Già si preparava il trionfo della Chiesa per mezzo della elezione miracolosa di un nuovo Pontefice, e la giustificazione della Provvidenza incominciava dal castigo dei colpevoli. – La Francia ha osato dire all’Agnello dominatore: Non vogliamo che tu regni sopra di noi; gli uomini si sono abbeverati del sangue dei martiri; ora la mano di Dio si aggrava sopra la Francia e sopra i persecutori. – È sorto uno spaventevole uragano; la Francia ne è commossa fino dai fondamenti; monumenti, ricchezze, città, cittadini, tutto perisce: per dieci anni la storia del regno, già cristianissimo e ora ribelle a Gesù Cristo, è scritta colla punta di una spada intinta nel sangue. Non mai le generazioni furono spettatrici di avvenimenti cosi funesti. I grandi malvagi, che avevano spinta la Francia alla rivolta, non sfuggirono ai colpi della divina vendetta; l’uno è divorato dai cani; l’altro muore di miseria; quasi tutti periscono sul patibolo [Dei Presidenti della Convenzione nazionale in numero di sessanta tre, sedici furono ghigliottinati, tre si uccisero, otto furono deportati, sei condannati a perpetuo carcere, quattro impazzirono e morirono a Bicétre, due soli scansarono ogni condanna]. –  Colui che alla crudeltà aveva unita la sacrilega derisione, Collot d’Herbois, atterrisce gli stessi negri per la spaventevole sua morte. Eccone in succinto la storia; ecco un avviso ai persecutori! Collot d’Herbois, empio forsennato e rivoluzionario esaltato, era intimamente collegato con Robespierre, che secondò negli abominevoli suoi progetti. Fu esso il principale autore dei massacri di Lione; e spedito in quella sventurata città nel 1793, vi fece perire per mano del carnefice, colla fucilazione o colla mitraglia, mille seicento vittime, il cui solo delitto era di aver voluto scuotere il giogo della tirannia. Ma il braccio del Signore non indugiò ad aggravarsi sopra di lui; la Convenzione temendo di opporsi alta pubblica opinione, che si era fortemente pronunziata contro quell’empio, ordinò il suo arresto il 2 marzo 1795, e quindi la sua deportazione alla Cayenne, ove era aborrito non solo dai bianchi ma anche dai negri, che nel loro linguaggio lo chiamavano il carnefice della Religione degli uomini. – « Confinato colà, cosi narra di lui un testimone oculare, egli gridava talvolta: lo sono punito, l’abbandono in cui io vivo è un inferno. Frattanto è assalito da una febbre infiammatoria che lo divora, sicché chiama in suo soccorso Dio e la Santa Vergine. Un soldato, al quale egli aveva predicato l’ateismo, gli domanda perché se ne facesse beffe pochi mesi prima: Oh! amico mio, ei rispose, la mia bocca ingannava il mio cuorl Poi soggiungeva : Dio mio, poss’io àncora sperar perdono? Mandatemi un consolatore, mandatemi qualcuno che distolga il mio sguardo dal braciere che mi consuma; mio Dio, concedetemi la calma! Era cosi tremendo lo spettacolo degli ultimi suoi momenti, che dovettero collocarlo separato da tutti; e mentre cercavano un sacerdote, egli spirò il 7 giugno 1797 con gli occhi semiapertì, con le membra stravolte, e vomitando in copia sangue e bava. I Negri, che avevano fretta di andare ad un ballo, non lo seppellirono che a fior di terra, a tal che il suo cadavere servi di pasto ai porci ed ai corvi! » [Simile in terra sarà la fine di coloro che costringono l’attuale Santo Padre all’esilio: i falsi pontefici marrani, i falsi prelati ingannatori delle anime riscattate da Gesù Cristo con il proprio sangue, il codazzo di sostenitori, imbonitori, inculcatori dell’errore e dell’apostasia, i servi della sinagoga di satana e del mundialismo nachita … ma cosa sarà questo in confronto al castigo eterno che li aspetta, se non si pentono?  Miserere Domine, miserere –ndr.-]

 

 

 

Padroni (I due) – Dio e il demonio.

Padroni (I due) – Dio e il demonio.

[G. Bertetti: Il sacerdote predicatore; S.E.I. Torino, 1920]

1.- Come si presentano a noi. — 2. I patti che ci propongono. — 3.  La mercede. – 4. Bisogna scegliere fra i due padroni.

1.- COME SI PRESENTANO A NOI. Son due padroni secondo il nostro modo di parlare; … ma in realtà si tratta d’un solo padrone vero, assoluto, Creatore e Signore del cielo e della terra; … Creatore e Signore; anche di colui che nella, sua stolta superbia sognò di sedersi al suo fianco … Dio solo può far tutto ciò che Egli vuole …, il diavolo può unicamente fare ciò che Dio gli permette, e non più là.,. Dio permette al diavolo di tentarci al male, ma lo lascia incatenare da un fanciullo e da una vecchierella con un segno di croce, … Dio permeate al diavolo che a’accompagni con lui alla conquista delle anime, ma a patto che se n’esca « innanzi ai piedi di lui » [Habac. III, 5], come un cane,… come una scimmia che cerca d’imitare le opere di Dio, facendo per il male ciò che Dio, fa per il bene.., Dio non si lascia vedere quaggiù faccia a faccia per non opprimerci, con lo splendore della sua maestà:… non si lascia vedere il demonio per non mettere schifo ed orrore con la sua bruttezza… Dio ci si presenta con le sue celesti inspirazioni; il demonio con le sue infernali suggestioni… Dio ci si presenta fatto uomo nella Persona adorabile di Gesù Cristo, il demonio, non potendo farsi uomo, perché Dio solo può creare un corpo e un’anima, ci si presenta con le seduzioni delle ricchezze e dei falsi godimenti della vita lui che in lingua siriaca si chiama mammona, ci si presenta in forma di mammona, che nella stessa lingua vuol dire ricchezza …

2.- I PATTI CHE CI PROPONGONO. – Gesù invita con la persuasione col più grande rispetto della libertà umana a seguirlo, dicendo: chi vuole venire dietro di me venga per amore, non per, forza; chi non vuole è libero di lasciarmi e di passare dalla parte del nemico, troverà però sempre aperte le braccia dalla mia misericordia, finché egli sarà in vita …  Il diavolo adopera la più odiosa delle prepotenze, cercando di conquistare anime o per amore o per forza, e perseguitando ferocemente chi non gli porge ascolto….. – Gesù dice»: Chi vuol venire dietro di me, rinneghi stesso; rinunci alla sua volontà, per fare quella di Dio; rinunci alla sua matura corrotta, per rigenerarsi, alla vita della grazia.. Il demonio eccita l’uomo a scapricciarsi in tutto quel che, gli piace, irretendolo; col pretesto d’un’apparente libertà nella più obbrobriosa delle schiavitù, nella schiavitù del vizio… – Gesù disse: chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce … non la croce pesantissima portata da Gesù, da Maria, dagli eroi della Santità, la croce assegnata da Dio secondo le forze d’ognuno, la croce sopportata con l’aiuto di Dio e in unione con Gesù Cristo… Il demonio non ci parla di croci, ci parla solo di godimenti; ma la croce, se non si porta spontaneamente sulle spalle, si trascina legata ai piedi dalla catena della nostra misera condizione di mortali … – Gesù dice: Chi vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua » (MATTH., XVI, 24);… seguirlo in tutto e per tutto, amando il Signore-Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua e con tutto il tuo spirito e con tutto il tuo potere (MATTH., XII, 30)… Il demonio si contenta di un posticino nel nostro cuore, come si contenta di un posticino nel nostro sangue, quel veleno che ci dovrà portar la morte…..

3.- LA RICOMPENSA: — Gesù non s’impegna, di dare quaggiù come ricompensa né ricchezze, né onori, né salute, che si riserva di dare o non dare come gli piace e a chi gli piace … Ma neppure il demonio s’impegna a tanto, perché ricchezze, onori e salute non sono in sua balia, sicché possa disporre a suo talento oltre la permissione di Dio … Ricchezze, onori e salute possono esser possedute da uomini buoni e d’uomini cattivi, come di uomini buoni e d’uomini cattivi possono esser retaggio la povertà, l’abiezione, le infermità… – Gesù ci dà per ricompensa in questa vita la fede, cioè il possesso di verità sovrannaturali e consolantissime, che ci rischiarano fra il buio che circonda … il demonio da il dubbio, l’incertezza, l’errore, le tenebre … Gesù ci dà la speranza, ossia la possibilità di riguardarci non solò come ospiti e forestieri, ma come concittadini dei santi é della stessa famiglia di Dio;… il demonio dà lo sconforto e la disperazione… Gesù ci dà il suo santo amore che ci trasforma e ci fa partecipi della stessa natura divitaa;… il demonio da l’odio, lo spirito di distruzione, la morte di ogni nobile affetto. Gesù ci da la preghiera, il demonio, la bestemmia … “Gesù ci dà se stesso in corpo, anima e divinità nell’Eucaristia; …. il demonio si pasce delle sue vittime … – Le consolazioni che Gesù dona agli eletti in questa vita sono un saggio delle consolazioni ineffabili che prepara per loro nell’eternità;… i tormenti che il demonio già infligge qui ai reprobi dovrebbe a costoro fare aprire gli occhi sull’eterno castigo che li attende; se il demonio non avesse attutito la mente ed il cuore per non falciar loro comprendere in quale sciagurata condizione si trovino…..

4. – BISOGNA SCEGLIERE TRA I DUE PADRONI. – Bisogna scegliere tre Dio e il demonio … o l’uno o l’altro … questo è l’invito che ci fa il Signore … invece il demonio ci lascia nell’illusione che si possa servire a lui e a Dio nello stesso tempo, poiché sa benissimo che Dio è “geloso” e non vuole altri dei (Es. XX, 3-5) al suo fianco … o tutto o niente … perciò gli omaggi a Dio da un cuore che vuole dividersi tra Lui ed il demonio, non sono da Lui accettati , ma respinti con sdegno….!  – Il demonio c’inganna, ma Dio ci parla chiaro: « Nessuno può servire a due padroni: poiché o odierà l’uno e amerà l’altro; o sarà affezionato all’uno e disprezzerà l’altro » (MATTH., VI, 24);… «non si può servire nel medesimo tempo alla virtù e al vizio; alle cose celesti e alle cose mondane, allo spirito e alla carne, a Dio e al diavolo,perchè ci tirano a sentimenti che esigono cose contrarie; che se all’uno s’obbedisce, è giocoforza che si disobbedisca all’altro» (S. Giov. CRIS . , hom. 12 in Matth.)…. –  Ma chi di noi vorrebbe anche in minima parte servire il diavolo? Chi di noi s’indurrebbe a prostrarsi innanzi a quell’immondo, foss’anche per avere tutt’i regni della terra?… Ebbene, Dio non si contenta che ci asteniamo dal servire direttamente il diavolo, ci proibisce di servirlo anche indirettamente… Serve al diavolo, chi serve alle ricchezze di cui si giova il diavolo per tentarci e per sedurci; si prostra innanzi al diavolo chi si prostra innanzi alle ricchézze (Matth. VI24)… Amar pertanto le ricchezze e amar Dio per se stesso, amar quelle o Questo come fine ultimo, di modo che si serva fedelmente nel tempo stesso all’uno e alle altre, è cosa inconciliabile e assolutamente impossibile  … O Dio o le ricchezze, scegliamo, o far servire a Dio le ricchezze e tutti gli altri beni terreni ricevendone da Dio in cambio il possesso dei beni sovrannaturali ed eterni …  o ridurci schiavi delle ricchezze fugaci e degli altri miserabili godimenti mondani, ricevendone in cambio dal demonio il rimorso della coscienza, l’indurimento del cuore, l’impenitenza finale, la dannazione eterna.