CULTO DEI DEFUNTI

La devozione verso le Anime del Purgatorio, col raccomandarle a Dio affinché le sollevi nelle grandi pene che patiscono e presto le chiami alla sua gloria, è molto vantaggiosa per noi e ad esse. Infatti quando saranno liberate dai loro tormenti a causa delle nostre preghiere non si scorderanno certamente di noi in Cielo. Si crede poi che Dio manifesti loro le nostre orazioni, affinché stando in purgatorio preghino per noi: esse non possono pregare se stesse perché devono espiare, tuttavia, essendo molto care a Dio, possono pregare per noi ed ottenerci delle grazie. S. Caterina da Bologna ogni volta che ricorreva alle anime del Purgatorio, si vedeva subito esaudita.  – È un dovere pregare per le anime del Purgatorio perché la carità cristiana richiede che noi aiutiamo il nostro prossimo che è in stato di necessità: e chi ha maggior necessità di esse che sono tormentate nel fuoco? Inoltre sono prive della visione di Dio, pena che le affligge più di titte le altre. Pensiamo poi che facilmente si trovano in Purgatorio le anime dei nostri genitori, fratelli, parenti ed amici, e che aspettano il nostro soccorso, – Pregando per loro acquisteremo molti meriti e soprattutto le grazie per la salvezza eterna. Scriveva S. Alfonso:  « Io giudico per certo che un’anima, la quale è liberata dal Purgatorio per i suffragi avuti da qualche devoto, giunta in Paradiso, non smetterà di dire a Dio: “Signore non permettere che si perda quegli che mi ha liberata dal Purgatorio, » e mi ha fatto venire più presto a godervi” ». I mezzi per aiutarli sono: la preghiera, la Via Crucis, l’elemosina, la mortificazione e soprattutto la Santa Messa, la “vera” Messa Cattolica di sempre, officiata da un “vero”sacerdote con Missione canonica e Giurisdizione in unione con Papa Gregorio XVIII – le messe sacrileghe dei non-preti delle fraternità para-massoniche e dei non-preti delle sette sedevacantiste e sedeprivazioniste, oppure i riti rosa+croce della setta modernista-vaticana del “novus ordo” [che si spaccia attualmente per cattolica senza esserlo nemmeno lontanamente ed usurpando uffici ed ambienti Cattolici], non hanno alcuna efficacia per le anime dei defunti, e costituiscono puro sacrilegio: a) per chi le officia invalidamente ed illecitamente, e b) per chi vi partecipa o le ordina. – Pio è il pensiero di deporre corone di fiori e ceri sulle tombe dei defunti; ma è ben più efficace assistere alla S. Messa Cattolica di sempre e farne celebrare in loro suffragio da preti cattolici in unione con il Santo Padre “canonico”. Suffragate i vostri cari ed assicuratevi dei suffragi prima di morire. Le Messe gregoriane (celebrazione di 30 Messe consecutive per un solo defunto) prendono il loro nome da S. Gregorio Magno, non perché egli le abbia istituite, ma perché racconta di averne costatata l’efficacia; non si deve credere che liberino infallibilmente l’anima, però la Santa Sede (1884) dichiarò pia e ragionevole la fiducia nella speciale efficacia di esse per la liberazione di un’anima purgante.

Devozione dei cento Requiem

Per questo pio esercizio, ognuno può servirsi di una comune corona di cinque decine, percorrendola tutta due volte, onde formare dieci decine, ossia cento Requiem. Si inizia recitando un Pater Noster e poi una decina di Requiem sui grani piccoli della corona, alla fine della quale si dirà sul grano grosso la seguente giaculatoria:

Anime sante del Purgatorio, pregate Iddio per me, che io pregherò per voi, affinché Egli vi doni la gloria del Paradiso.

Indi si recitano le altre decine con la giaculatoria sul grano grosso. Terminate le dieci decine, si recita il De Profundis [Salmo 129].

 

Atto eroico di carità in suffragio delle Anime del Purgatorio

Il padre teatino Gaspare Oliden d’Alcalà, infiammato di zelo straordinario per il suffragio dele anime del Purgatorio, insinuò con la voce e con la stampa una pratica vecchia nella sostanza ma nuova nella forma, cioè di offrire con una specie di voto tutte quante le buone opere e presenti e future in espiazione dei debiti delle anime purganti , per cooperare nel miglior modo alla loro più sollecita liberazione da quelle pene. Benedetto XIII, Papa Orsini, con il suo Breve 13 agosto 1728, approvò solennemente tale pratica e la arricchì di tre privilegi riportati qui di seguito, confermati poi da Pio VI. Pio IX, con decreto Urbis et Orbis del 30 settembre 1852, dichiarò solennemente l’utilità e l’eccellenza di questa devozione confermando tutti i privilegi concessi dai suoi predecessori. – Questo atto di carità, già predicato ne passato da due celebri gesuiti, p. Moncado e p. Ribadeneira, nonché da S. Liduina, S. Caterina da Siena, S. Teresa, dal ven. Ximenes, e particolarmente da S. Brigida, la quale in punto di morte fu dal celeste suo Sposo assicurata che per la carità da lei usata alle anime del Purgatorio, le erano perdonate tutte le pene che avrebbe dovuto soffrire in Purgatorio e le sarebbe di molto aumentata la corona di gloria in Paradiso.

I tre privilegi concessi sono:

.1° I Sacerdoti che fanno questo atto di carità, godono l’indulto dell’Altare Privilegiato personale (de anima) per tutti i giorni dell’anno.

.Tutti i fedeli che avranno fatto questo atto di carità. Potranno lucrare indulgenza plenaria, applicabile però solamente ai defunti, liberando un’anima del Purgatorio in qualunque di quei giorni in cui si accosteranno alla SS. Comunione, e in tutti i lunedì dell’anno in cui ascolteranno la Santa Messa in suffragio dei medesimi defunti.

.3° Gli stessi possono applicare a pro dei defunti tutte le indulgenze che acquisteranno in qualunque modo fossero concesse, o da concedersi in avvenire.

Formula del Pio e Caritatevole Atto

“Mio Dio, in unione ai meriti di Gesù e di Maria, Vi offro per le anime del Purgatorio tutte le mie opere satisfattorie, e quelle da altri a me applicate in vita, in morte e dopo la mia morte.”

Osservazioni sul detto Atto Eroico

.1° Per fare questo non è necessario pronunziare le parole, basta volerlo ed emetterlo con il cuore. Neppure è prescritto di ripeterle più volte, benché ciò sia utile assai per fomentare il fervore della carità, che ci renderà industriosi ad accumulare beni spirituali in aiuto delle anime benedette del Purgatorio.

2° Siccome questo atto è semplice donazione universale, non impedisce ai Sacerdoti di applicarla Santa Messa per chi essi vogliono e secondo l’intenzione degli offerenti, essendo ciò dichiarato nella concessione del Sommo Pontefice Benedetto XIII.

3° Questo atto non si oppone punto all’ordine della carità che ci obbliga prima a pregare per i nostri defunti, poiché altro è il pregare , cui risponde il frutto impetratorio, del quale in questo voto non si tratta, ed altro è il suffragare, cui risponde il frutto soddisfatorio. Sebbene anche in questo uffizio di offrire suffragi, la carità ci obblighi prima di tutto verso i nostri congiunti, pure Iddio conosce meglio di noi quali siano i nostri doveri, e però farà sì che le nostre buone opere siano utili dapprima ai nostri parenti ed confratelli, e poi agli altri, secondo che davanti a Dio lo meriteranno. Così possiamo, anzi dobbiamo , praticare tutte le altre nostre devozioni dirette ad ottenere da Dio, dalla SS. Vergine qualche grazia per noi e per il prossimo, poiché ciò non si oppone all’atto per il quale si applica alle anime sante il solo frutto soddisfatorio delle nostre opere, restando sempre a noi il meritorio, il propiziatorio e l’impetratorio.

 

GIORNO DEI MORTI

GIORNO DEI MORTI

[J. J. Gaume: “Il Catechismo di perseveranza”, VI ed., Vol. 4; Torino 1881]

Giorno dei morti, – Sue armonie, sua origine, suoi fondamenti nella tradizione. — Sua istituzione. — Tenerezza della Chiesa. — Lamenti de’ defunti. — Esequie cristiane.

I. Festa dei morti. — Nel giorno degli Ognissanti la Chiesa è tutta intenta a scuotere le fibre del nostro cuore; e ben si scorge che mira a compiere un importante disegno e ad ottenere un grande effetto, vale a dire il disgusto della terra, la brama del cielo, la compassione reciproca, la carità universale fra i suoi figli. Se nel mattino di quella giornata memorabile la magnificenza delle sue cerimonie, l’allegrezza dei suoi inni presentano l’espressione di una gioia senza amarezza, la sera, ai suoi cantici si mescolano lunghi sospiri ed un palese colore di mestizia. Ed infatti ecco la scena, già in parte cambiata, prendere tutt’altro aspetto. Ai canti della gioia, ai sospiri dell’esilio succedono lugubri suoni; neri ornamenti, simboli di duolo surrogano i piviali arabescati d’oro; ecco che noi più non vediamo nel santo tempio fuorché un monumento funebre dipinto con immagini di scheletri, di teschi, di ossa. Che cosa significa tal mutazione? È una nuova festa, la Festa dei morti. Madre affettuosa, la Chiesa vuole che oggi sia una festa di famiglia; ella si presenta ai nostri occhi nelle sue tre differenti situazioni: trionfante nel cielo; esiliata sopra la terra; gemente in mezzo alle fiamme espiatrici. E i cantici del cielo, e i sospiri della terra, e i gemiti del purgatorio, in questo giorno si alternano, si mischiano, si rispondono a coro, ci fanno sovvenire che misteriosi vincoli legano in un sol corpo i figli di Cristo: che le tre Chiese come tre sorelle, si danno la destra, s’incoraggiano, si consolano, si confortano fino al giorno in cui, abbracciate fra loro nel cielo, formeranno una sol Chiesa eternamente trionfante. – Quale splendida armonia! Ma eccone un’altra che è impossibile di non osservare. Oh! quanto è bene scelto quel giorno per celebrare la Festa dei morti! Quegli uccelli che emigrano, quei giorni che si raccorciano, quelle foglie che cadono ai nostri piedi per lieve trastullo dei venti, quel cielo oramai cupo, quelle nuvole grigiastre foriere delle brezze, tutto questo spettacolo di decadenza e di morte non è egli straordinariamente acconcio a riempiere l’anima nostra dei gravi pensieri cui la Chiesa vuole inspirarci? Né ciò è tutto. Al paro di tutte le altre, e fors’anche più di tutte le altre, la Festa dei morti ristringe i vincoli di famiglia. Si vedeva in passato e si vedono tuttora per le campagne, fratelli, sorelle, parenti, vicini radunarsi nel cimitero, pregare, piangere sulle sepolture degli avi, e far elemosine per implorare riposo ai loro cari defunti. [Nel giorno d’Ognissanti si leggerà con infinito diletto il cap. XLVIII del lib. III dell’imitazione di Cristo; ovvero il cap. XXXV de’ Soliloqui di sant’Agostino, De desiderio et siti animas ad Deum.]E se nel corso dell’anno è sorta fra taluno qualche ombra di discordia, in questo giorno ella si dilegua più agevolmente, poiché davvero siamo inclinati ad amarci quando preghiamo e piangiamo insieme. Anche testé in alcuni paesi un uomo, detto della veglia, percorreva nella notte le strade della città, e fermandosi ogni venti passi, e facendo suonare la sua squilla, gridava: Svegliatevi, voi che dormite, pregate per i defunti. Perché sono state dismesse queste commoventi usanze? Dacché noi abbiamo obliato i nostri morti, siamo divenuti indifferenti verso i vivi; l’egoismo ha inaridito il cuor nostro, quell’egoismo che avvilisce l’uomo, annienta la famiglia e sconvolge la società.

Origine di questa festa. — Ma è tempo di parlare dell’istituzione della Festa de’ morti. Fino dalia sua origine la Chiesa ha pregato per tutti i suoi figli quando morivano. Le sue preghiere erano supplicazioni per quelli che ne avevano bisogno e rendimento di grazie per i martiri. Si rinnovava il sacrificio e le supplicazioni nel giorno della loro morte. Tertulliano lo accenna chiaramente : « Noi celebriamo , ei dice, l’anniversario della natività de’martiri ». E più innanzi: « Secondo la tradizione degli antichi, noi offriamo il sacrificio per i defunti nell’anniversario della loro morte ». Gli altri Padri ci offrono le medesime testimonianze La Chiesa inoltre, sempre buona e sempre affettuosa per i suoi figli, aveva fin dal principio due maniere di pregare e di offrire il sacrifizio per i morti. L’una per ciascuno di essi e per qualcuno in particolare, l’altra per tutti i morti in generale, affinché la sua carità abbracciasse quelli che non avevano né congiunti né amici che potessero adempiere a quel dovere di pietà a loro riguardo ». [Tertull., Exhort. ad Cast. — Aug., Conf., lib, IX, c. ultim.] Essa praticava così anche prima di sant’Agostino. « È antichissimo, dice questo Padre, e universalmente praticato in tutta la Chiesa l’uso di pregare per tutti quelli che sono morti nella comunione del corpo e del sangue di Gesù Cristo » [De cura prò mort., cap. 4]. – Non vediamo per altro che vi sia stata una festa particolare per raccomandare a Dio tutti i defunti; vediamo bensì i fondamenti sui quali può essere stata instituita; perché se fino dalla sua origine la Chiesa, secondo la testimonianza dei Padri, ha pregato e sacrificato per i morti in particolare e per tutti in generale, se in tutte le liturgie e in tutte le Messe dell’anno è stato pregato per tutti i morti in comune, non è forse evidente che su questi fondamenti si poté instituire una festa speciale, per adempiere con maggior cura ed applicazione questo dovere verso i defunti? – Così avvenne infatti, e sarà vanto esimio e gloria eterna della Franca-Contea, conosciuta allora col nome di Borgogna, l’aver dato nascimento a questa pia istituzione. – Uscito da una delle famiglie più nobili della Borgogna , il beato Bernone, abate di Beaume-les-Messieurs, vicino a Lons-le-Saulnier, aveva fondato la Badia di Cluni. Questa illustre Congregazione, che aveva ereditato la pietà del fondatore verso i defunti, fu sollecita di adottare la commemorazione generale dei trapassati, che rese stabile e perpetua con decreto dell’anno 998. Ecco le parole del Capitolo generale di Cluni: « E stato ordinato dal nostro beato padre, Oddone, di consenso e ad istanza di tutti i monaci di Cluni, che siccome in tutte le chiese si celebra la festa degli Ognissanti nel primo giorno di novembre, così presso noi sarà celebrata solennemente in questa maniera la commemorazione di tutti i fedeli defunti. Il giorno della festa di tutti i santi, dopo il capitolo, il decano e i cellerari faranno una elemosina di pane e di vino a tutti quelli che si presenteranno: dopo il vespro saranno suonate tutte le campane, e sarà cantato il Notturno dei morti. La Messa sarà solenne, e saranno cibati dodici poveri. Noi vogliamo che questo decreto sia osservato a perpetuità, tanto in questo luogo come in tutti quelli che ne dipendono; e chiunque osserverà come noi questa istituzione parteciperà alle nostre buone intenzioni ». [“Venerabilis pater Odilo per omnia monasteria sua constituit generale decretum, ut sicut primo die mensis novembris, iuxta universalis Ecclesiæ regulam, omnium Sanctorum solemnitas agitur; ita sequenti die in psalmis et eleemosynis et præcipue Missarum solemniis, omnium in Christo quiescentium memoria celebretur.” S. Petr. Dam, in Vita B. Odil. — Baron., an. 1048, n. 6; et in Not. ad Martyrol., 2 novemb. — Helyot, etc.]. Tale è il decreto di Cluni. La devota pratica s’introdusse ben presto in altre chiese, e quella di Besanzone fu la prima ad adottarla. Era, possiamo dire in certa maniera, una sua sostanza, un suo patrimonio, che le tornava, consacrato dal suffragio dei santi amici di Dio. Indi a non molto la commemorazione generale de’ morti, fatta nel giorno successivo agli Ognissanti, era comune a tutta la Chiesa cattolica.Terminiamo quello che ci rimane a dire intorno all’origine di questa festa con un’osservazione capacissima a far risplendere l’immensa carità della Chiesa nostra madre. La Commemorazione generale dei defunti non è che un supplemento a tutte le altre feste, uffizi e sacrifici dell’anno; ed essa ha questo di comune non solo con la festa di tutti i Santi, ma anche con quella della Trinità e del santo Sacramento. Infatti in tutte le feste, in tutti gli uffizi o sacrifizi dell’anno si presta un culto supremo alla Trinità per mezzo dell’adorabile sacrificio dell’Eucaristia, in cui Gesù Cristo è immolante ed immolato con tutti i suoi santi che vi sono nominati, almeno in generale. Quindi anche le feste particolari della Trinità, del santo Sacramento e degli Ognissanti non sono state instituite che come supplemento della festa generale per risvegliare l’attenzione e il fervore con cui dobbiamo celebrarla in tutto l’anno. Ciò pure avviene rispetto alla Commemorazione generale dei morti. La Chiesa l’ha instituita per supplire alle preghiere e ai sacrifici che si fanno per essi ogni giorno, e per avvertirci che dobbiamo adempiere ai nostri doveri verso di loro con singolare pietà ed attenzione.Non ripeteremo qui la spiegazione di tutti i motivi che abbiamo di pregare per i morti; ma ci contenteremo di sottoporre alla meditazione de’ cristiani i seguenti.

III. Pianto dei defunti. — La gloria di Dio, la carità, la giustizia, il nostro interesse medesimo, ecco i potenti motivi che abbiamo di pregare per i defunti. Oh potessimo noi soddisfare all’obbligo che la natura e la Religione c’impongono d’accordo, in modo da impor silenzio a quella voce lamentevole, a quella voce accusatrice che sorge dal purgatorio e ferisce costantemente l’orecchio del cristiano che vi presta attenzione: Hominem non habeo! hominem non habeo! « Non ho un uomo; non ho un uomo ! » [Ioan., V 7] Il primo che fece udire queste parole dolenti fu il paralitico di cui si parla nel Vangelo. Rattratto in tutte le membra, quell’infelice era da trent’anni inchiodato sulle sponde della probatica piscina. Sempre esposto alla vista della folla immensa che la curiosità o il desiderio della guarigione conduceva in quel luogo celebre, il suo male era conosciuto da tutta la Giudea. E in quella moltitudine vi erano senza dubbio dei congiunti, dei conoscenti, degli amici di quel disgraziato, se i disgraziati aver potessero amici. Che chiedeva egli per esser guarito? Il semplice impulso d’una mano caritatevole che lo gettasse entro la piscina nel momento in cui l’Angelo del Signore veniva ad agitare l’onda salubre. E tuttavia egli aspettava invano quel meschino servigio, invano lo implorava da trentotto anni. Non è forse questa per fede vostra la viva immagine delle anime del purgatorio? – Ritenute dalla divina giustizia in orribili patimenti, esse aspettano con impazienza, esse implorano con alte grida l’aiuto della mano caritatevole, che spezzerà le loro catene e le introdurrà in quella città eterna, ove non si conosce il dolore. Quei giusti che soffrono sono nostri fratelli: tutto ci richiama la loro memoria: e i luoghi che percorriamo, e le case che abitiamo, e i beni di cui godiamo, e il nome stesso che portiamo, e quelle lugubri cerimonie alle quali assistiamo, e quelle tombe che possiamo vedere ogni giorno! E nondimeno quei cari defunti non sono sovvenuti. Chiedete loro perché soffrano gli uni da vent’anni, gli altri forse da trenta o quaranta. La loro risposta sarà quella del paralitico: Ohimè, non ho alcuno per me: hominem non habeo! Ho ben lasciato sulla terra dei parenti, ma mi accorgo di non avervi lasciato un amico; ho ben lasciato sopra la terra una moglie, ma conosco ch’ella ha presto asciugato le lacrime, che il mio nome non è più sulle sue labbra, che la mia memoria non vive più nel suo cuore: hominem non habeo. Ho ben lasciato sulla terra dei figli che ho colmati delle più affettuose premure, che ho nutriti, che ho educati a costo dei miei sudori, ma vedo che il loro padre più nulla è per essi: hominem non habeo; non ho alcuno per me! E pure è ben poco quello ch’io chiedo: qualche preghiera, qualche elemosina, elemosina, null’altro; e le chiedo invano Non ho alcuno per me; schiavi dei piaceri e degli interessi, tutti hanno obliato i loro morti, i loro morti più cari! Nomine non habeo; non ho alcuno per me! Deh! questa voce accusatrice, questo lamento straziante, giunga a commuovere il nostro cuore e a procurare gloria a Dio. riposo ai morti, e a noi la ricompensa della misericordia! Beati i misericordiosi, perché otterranno misericordia.

IV. Cerimonie del dì dei defunti. — Egli è questo il luogo opportuno d’intrattenerci alquanto circa le esequie cristiane. La Chiesa che consacra la nostra culla e che circonda di una protezione sì augusta e sì rispettabile il bambino che entra nella valle delle sventure, è egualmente sollecita di render l’uomo rispettabile, allorché, giunto al termine del suo viaggio, egli scende nel sepolcro per subirvi la sentenza che lo condanna a ridivenir polvere. E primieramente v’ha una cosa che mi colpisce nelle nostre cerimonie. Vedo da un lato dei parenti, degli amici, dei fanciulli piangenti, odo il funebre suono della campana, non vedo nel tempio fuorché immagini lugubri, e da un altro lato odo la Chiesa che canta, e canta senza riposo. Quale contraddizione! Come mai può una madre cantare sulla morte del proprio figlio? E non è la Chiesa la più affettuosa delle madri? Ah! si, la Chiesa ci ama di un amore tanto più vivo quanto è più nobile! Proviamoci a comprenderne il cuore. Depositaria delle promesse d’immortalità, essa le proclama altamente in presenza della morte: se vi è lamento nella sua voce, vi scorgi eziandio della gioia. Essa piange, ma più fortunata dell’affettuosa Rachele essa consola sé stessa, e consola noi pure, perché sa che i suoi figli le saranno restituiti. Perciò nelle lacrime dei parenti io ravviso le lacrime della natura; nei canti della Chiesa io ravviso la fede. L’una si rattrista dicendo: Io devo morire; l’altra la conforta rispondendo: tu resusciterai! – Quando dunque l’anima del cristiano si è separata dal corpo, la campana invita i cristiani a pregare per il loro fratello; e al fine di eccitare il loro fervore, il suono lugubre vien rinnovato ad intervalli fino al punto in cui è consegnato alla terra ciò che appartiene alla terra. Prima di trasportare il corpo, il sacerdote, nel gettare acqua benedetta sopra la bara, dice: Requiem æternam. « Signore, concedetegli un eterno riposo; e la luce che giammai si estingue splenda sempre a’suoi occhi». Poi si recita il De profundis a voci alterne. Infatti vi ha due voci in quei lugubri cantici: voce dell’anima inquieta e turbata che teme i giudizi di Dio, e voce dell’anima che sente rinascere la sua speranza alla vista della Redenzione del Signore, che scancella tutte le iniquità d’Israele. Il trasporto del cadavere si fa processionalmente; la croce, arca di speranza e pegno di risurrezione, precede il convoglio, e il defunto è tradotto alla Chiesa ove comincia e finisce la sua carriera cristiana. Quale ravvicinamento tra la cuna e la tomba, tra il battesimo e la sepoltura! – In mezzo all’apparato funebre che circonda il cadavere si vedono splendere delle faci; sono esse il simbolo della fede e della carità del defunto, son esse il confortevole emblema del suo ritorno futuro ad una vita migliore, il pegno che la tristezza cristiana sarà cangiata in giubilo. Cosi la vita presente e la vita avvenire, il tempo e l’eternità si riuniscono intorno alla bara, l’uno con le sue lacrime e con le sue speranze deluse, l’altra con le sue contentezze e con le sue promesse immortali. Incomincia la Messa, e ben presto la voce grave dei cantori fa rimbombare le sacre volte dell’inno Dies iræ. Nulla più imponente e più idoneo a ghiacciare di spavento, come quel cantico della morte e dell’ultimo giudizio; la Chiesa lo fa cantare tanto per istruzione dei vivi, quanto per sollievo de’morti. La morte con i suoi sepolcri e la fredda sua polvere, il giudizio con i suoi segni formidabili e con i suoi rigori ci si presentano a vicenda all’immaginazione. Quindi per sollevare alquanto l’anima costernata, un’ultima parola, una parola di speranza, viene a colpire l’orecchio, e vi discende nel cuore svegliando il sentimento che deve dominarla. Eccola: « Per redimermi voi avete sofferto la croce. Ah! non resti senza frutto uno spasimo sì grande. Giusto giudice, terribile vindice del peccato, perdonatemi prima di citarmi al vostro tribunale. Io gemo come un colpevole, io arrossisco alla memoria dei miei delitti. Mio Dio, pietà di un colpevole che vi supplica! Misericordioso Gesù, date il riposo ai defunti». – L’autore di questo splendido inno si crede comunemente il cardinale Malabranca, della famiglia Orsini, che viveva nel secolo XIII. – Dopo la Messa il coro va a situarsi per l’Assoluzione intorno alla bara, e si canta il responsorio Libera me, etc. Liberatemi, o Signore, ecc. In questa lugubre e affettuosa preghiera è il morto che parla, e pare di udir Giona che esclama verso Dio dal fondo dell’abisso e dalle viscere del mostro nel quale era sepolto vivo: «Liberatemi, o Signore, liberatemi, e la profonda voragine non si rinchiuda sopra di me». Poi ad un tratto il grido della speranza si fa udire: Io so, prosegue il morto per l’organo dell’immortale sua madre, io so che il mio Redentore è vivente, e ch’io uscirò nel giorno finale da questa terra. Il celebrante dice: «Signore abbiate pietà di noi ». Il coro: «Cristo, abbiate pietà di noi». Il sacerdote: « Signore, abbiate pietà di noi». Poi intona il Pater che recita a voce bassa. In questo tempo ei fa il giro della bara e l’asperge d’acqua benedetta, che è un’ultima purificazione pel morto; poscia lo incensa, e quell’incenso rammenta sì la preghiera della Chiesa pel defunto suo figlio, sì il buon odore di quelle virtù che quel cristiano ha praticate, e che lo fanno salire al cielo, insieme col fumo degli incensi. Sarà egli così di voi, che leggete queste pagine? Che cosa lascia sperare la vostra vita? È giunto il momento d’incamminarsi al cimitero. Addio, Chiesa santa, ove io ricevei il battesimo; addio, sacro pulpito, da cui scesero sopra di me, a guisa di rugiada benefica, le parole di salute: addio, tribunale di misericordia, ove ho ricevuto tante volte, insieme col perdono dei miei falli, eterni consigli e inenarrabili conforti; addio, santa mensa, ove il mio Dio mi nutrì con la sua carne immortale: addio, parenti, amici, figli, addio a tutti fino alla risurrezione generale. Ecco quanto dice questo avviarsi della Chiesa verso il cimitero. Quindi le lacrime, le strida dei congiunti si raddoppiano in quel momento solenne. Che fa allora la Religione? Con voce dolce (per poco non dissi lieta) ella dà il segnale della partenza cantando quelle parole sì consolanti: Deducant te angeli, etc. « Gli angeli ti conducano al paradiso; vengano i martiri ad incontrarti e t’introducano nella immortale Gerusalemme: il coro degli Angeli ti accolga e ti faccia partecipare col povero Lazzaro al riposo e all’eterna felicità. [Rituale Romano] – Così mentre la natura piangente non scorge al termine del cammino che un cimitero con la spaventosa sequela di decomposizione e di putrefazione, la Religione raggiante d’immortalità ci mostra il paradiso, con le sue gioie e la sua felicita; sicché sulla fossa ella pronunzi un’altra parola di conforto. Il sacerdote dice nel gettare un poco di terra sopra la bara: La polvere ritorni alla terra dalla quale è uscita, e l’anima ritorni a Dio, che l’ha creata; riposi ella in pace, cosi sia. – Dopo un’ultima aspersione di acqua benedetta, la sepoltura viene rinchiusa, e la croce, che le sta sopra, indica che ivi è il corpo d’un cristiano che ha vissuto pieno di speranza, e che aspetta con fiducia il giorno della Risurrezione generale. Idea consolante! Sii benedetta, o santa Religione! In questa fossa sormontata da una croce, il cristiano somiglia al viaggiatore, che stanco si riposa dolcemente all’ombra d’un albero, aspettando l’ora di riprendere il suo cammino.

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio della tenerezza, che avete inspirata alla Chiesa per i defunti; concedeteci la grazia che facciamo per loro tutto ciò che vorremmo un giorno che fosse fatto per noi. – Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose ed il prossimo, come me stesso per amor di Dio, e in prova di questo amore:

io consacrerò tutti i lunedì a pregare per i morti.

FESTA DI TUTTI I SANTI

FESTA DI TUTTI I SANTI

Santa MESSA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]
Ps XXXII:1.
Exsultáte, justi, in Dómino: rectos decet collaudátio.
[Esultate nel Signore, o giusti: ai retti si addice il lodarLo.]

Gaudeámus omnes in Dómino, diem festum celebrántes sub honóre Sanctórum ómnium: de quorum sollemnitáte gaudent Angeli et colláudant Fílium Dei [Godiamo tutti nel Signore, celebrando questa festa in onore di tutti i Santi, della cui solennità godono gli Angeli e lodano il Figlio di Dio.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui nos ómnium Sanctórum tuórum mérita sub una tribuísti celebritáte venerári: quǽsumus; ut desiderátam nobis tuæ propitiatiónis abundántiam, multiplicátis intercessóribus, largiáris.
 [O Dio onnipotente ed eterno, che ci hai concesso di celebrare con unica solennità i meriti di tutti i tuoi Santi, Ti preghiamo di elargirci la bramata abbondanza della tua propiziazione, in grazia di tanti intercessori.]

Lectio
Léctio libri Apocalýpsis beáti Joánnis Apóstoli.
Apoc VII:2-12
In diébus illis: Ecce, ego Joánnes vidi álterum Angelum ascendéntem ab ortu solis, habéntem signum Dei vivi: et clamávit voce magna quátuor Angelis, quibus datum est nocére terræ et mari, dicens: Nolíte nocére terræ et mari neque arbóribus, quoadúsque signémus servos Dei nostri in fróntibus eórum. Et audívi númerum signatórum, centum quadragínta quátuor mília signáti, ex omni tribu filiórum Israël, Ex tribu Juda duódecim mília signáti. Ex tribu Ruben duódecim mília signáti. Ex tribu Gad duódecim mília signati. Ex tribu Aser duódecim mília signáti. Ex tribu Néphthali duódecim mília signáti. Ex tribu Manásse duódecim mília signáti. Ex tribu Símeon duódecim mília signáti. Ex tribu Levi duódecim mília signáti. Ex tribu Issachar duódecim mília signati. Ex tribu Zábulon duódecim mília signáti. Ex tribu Joseph duódecim mília signati. Ex tribu Bénjamin duódecim mília signáti. Post hæc vidi turbam magnam, quam dinumeráre nemo póterat, ex ómnibus géntibus et tríbubus et pópulis et linguis: stantes ante thronum et in conspéctu Agni, amícti stolis albis, et palmæ in mánibus eórum: et clamábant voce magna, dicéntes: Salus Deo nostro, qui sedet super thronum, et Agno. Et omnes Angeli stabant in circúitu throni et seniórum et quátuor animálium: et cecidérunt in conspéctu throni in fácies suas et adoravérunt Deum, dicéntes: Amen. Benedíctio et cláritas et sapiéntia et gratiárum áctio, honor et virtus et fortitúdo Deo nostro in sǽcula sæculórum. Amen. – 
[In quei giorni: Ecco che io, Giovanni, vidi un altro Angelo salire dall’Oriente, recante il sigillo del Dio vivente: egli gridò ad alta voce ai quattro Angeli, cui era affidato l’incarico di nuocere alla terra e al mare, dicendo: Non nuocete alla terra e al mare, e alle piante, sino a che abbiamo segnato sulla fronte i servi del nostro Dio. Ed intesi che il numero dei segnati era di centoquarantaquattromila, appartenenti a tutte le tribú di Israele: della tribú di Giuda dodicimila segnati, della tribú di Ruben dodicimila segnati, della tribú di Gad dodicimila segnati, della tribú di Aser dodicimila segnati, della tribú di Nèftali dodicimila segnati, della tribú di Manasse dodicimila segnati, della tribú di Simeone dodicimila segnati, della tribú di Levi dodicimila segnati, della tribú di Issacar dodicimila segnati, della tribú di Zàbulon dodicimila segnati, della tribú di Giuseppe dodicimila segnati, della tribú di Beniamino dodicimila segnati. Dopo di questo vidi una grande moltitudine, che nessuno poteva contare, uomini di tutte le genti e tribú e popoli e lingue, che stavano davanti al trono e al cospetto dell’Agnello, vestiti con abiti bianchi e con nelle mani delle palme, che gridavano al alta voce: Salute al nostro Dio, che siede sul trono, e all’Agnello. E tutti gli Angeli che stavano intorno al trono e agli anziani e ai quattro animali, si prostrarono bocconi innanzi al trono ed adorarono Dio, dicendo: Amen. Benedizione e gloria e sapienza e rendimento di grazie, e onore e potenza e fortezza al nostro Dio per tutti i secoli dei secoli.]

Omelia I

(Omelia di S. S. Gregorio XVII – S. Messa 1973)

Cari fedeli, oggi, festa di tutti i Santi, abbiamo ascoltato dal Vangelo (Mt V, l-12a) il codice della santità, perché il codice della santità è questo. Mi sia concesso di invitarvi a considerare che molte altre cose che si dicono non sono il codice della santità [soprattutto quel che si dice dal Vaticano II in poi! – ndr.-]; il codice sta qui nelle otto beatitudini, non altrove. Ma non è sul Vangelo che oggi voglio attirare la vostra attenzione, bensì sulla prima lettura. La prima lettura è tolta dal capitolo VII (vv. 2-4.9-14) del libro dell’Apocalisse di Giovanni l’Apostolo. È una visione che lo stesso Giovanni ha avuto nell’isola di Patmos; fa parte di un gruppo di cinque visioni. – Questa visione è reale nel senso che il veggente vide realmente queste cose che avete sentito, ma è simbolica perché le cose che Giovanni ha visto e riferisce sono semplicemente il simbolo di altre e più alte. Ho detto: sono simboliche; che cosa è il simbolo? Il simbolo è una cosa che si vede, ma richiama in mente un’altra che è invisibile, e nel caso nostro è invisibile perché è troppo grande, non perché è nascosta, ma perché sta ad un livello diverso da quello nel quale stiamo noi e le nostre potenze conoscitive. Pertanto, quello che vorrei farvi notare, data la definizione del simbolo, è che quello che è indicato dalla visione concessa all’Apostolo è immensamente più alto, più grande. Quando siamo dinnanzi a questi simboli, siamo lanciati verso l’infinito e l’eterno, e questo fa capire perché nell’orazione mentale, alla quale tutti i fedeli sono chiamati, non c ‘ è una sponda sulla quale ci si debba arrestare, perché possiamo camminare nell’orazione mentale meditativa tutta la vita senza toccare le sponde, tanto è grande quello che è messo in nostra cognizione da Dio. – Ma messo chiaro questo, dico: questa visione dell’Evangelista che cosa presenta a noi? Mi riferisco alla seconda parte. Nella seconda parte l’Evangelista riferisce la liturgia eterna, cioè porta l’anima nostra – non dico lo sguardo – a ripensare alla vita eterna, al Paradiso, nel quale stanno i Santi. La vita eterna non è essenzialmente un luogo; lo potrà essere in tanto in quanto ci sono delle cose estense, quantitative – come è il corpo umano di Gesù Cristo e della Vergine Santissima assunta in Cielo -, ma il Paradiso, la vita eterna, non è tanto un luogo, quanto uno stato, un modo di essere. E noi qui abbiamo assistito a questa liturgia eterna. Noi potremmo pensare indefinitamente a quello che abbiamo sentito nel libro dell’Apocalisse, ma attenti: la sponda non la tocchiamo! Oggi, il giorno dei Santi – e sotto questo punto di vista la festa dei Santi ha una ragione di principato su tutta la liturgia dell’anno – invita a pensare al Paradiso. – Vedete, cari, le cose che ci aspettano, se meriteremo di salvarci l’anima, sono talmente grandi che le cose più stupende, che possono essere chieste dalla nostra immaginazione e della nostra fantasia, sono soltanto dei simboli. Diceva bene S Francesco d’Assisi: “Tanto è il bene ch’io mi aspetto che ogni pena mi è diletto”. Aveva ragione! E la vita eterna dove sono i Santi – anche i nostri parenti che sono santi sono tra i Santi -, la vita eterna è cosa che trascende ogni simbolo della stessa Sacra Scrittura ed è il vero riferimento della vita umana. Vedete: quando si pensa alla vita eterna – e qui si vede il crimine che compiono coloro che non ne parlano! [cioè i falsi cattolici modernisti –ndr.] -non c’è più nessuna difficoltà ad osservare la legge di Dio; tutto diventa incredibilmente piccolo; le difficoltà vengono perché non si pensa alla liturgia eterna, alla quale un giorno arriveremo anche noi. Non c’è più difficoltà a portare la croce, non c’è più difficoltà ad abbracciarla, abbracciarla come il centro delle nostre delizie: cambia proporzione e volto ogni esperienza di questo mondo. Ma tutto ciò accade nella misura in cui questa liturgia eterna è presente a noi. Quando Giovanni ha visto la visione ed è lì tutto trasecolato, poveretto anche lui – allora, non ora! -, il vegliardo gli chiede: “Hai visto, hai capito?” E dà la risposta: “Costoro con le vesti bianche sono coloro che vengono dalla grande tribolazione”. Evidentemente Giovanni alludeva non solo a tutti i Santi, ma ai molti martiri delle due persecuzioni che già erano passate, quella di Nerone e quella di Diocleziano, della quale fino a un certo punto era stata vittima lui stesso. Traduciamo in forma teorica. Cosa dice il Vecchio? Dice questo: la vita eterna è il riflesso di quello che è stato portato, accettato, sofferto, nella vita presente; dà il concetto della vita. Che vale questa vita destinata a morire, se non perché si riflette tutta nella vita eterna, tutta? I momenti fissati dal merito, gli atti decorati dalla libertà cosciente, il tempo e le circostanze assunte dai medesimi riflessi nell’eternità: questo è il concetto della vita. Al di fuori di questo concetto, o prima o poi, o in superficie o in profondità, non c’è che la disperazione, che è quella che leggiamo negli occhi di troppi nostri fratelli ai quali vogliamo bene. – Cari, il giorno dei Santi ci porta lassù. Con la mente sarà bene restarci e, possibilmente, non discenderne mai!

Graduale
Ps XXXIII:10; 11
Timéte Dóminum, omnes Sancti ejus: quóniam nihil deest timéntibus eum.
V. Inquiréntes autem Dóminum, non defícient omni bono. [Temete il Signore, o voi tutti suoi santi: perché nulla manca a quelli che lo temono.
V. Quelli che cercano il Signore non saranno privi di alcun bene.]

Alleluja

(Matt. XI:28)
Allelúja, allelúja – Veníte ad me, omnes, qui laborátis et oneráti estis: et ego refíciam vos. Allelúja.
[Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi: e io vi ristorerò. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt V:1-12
“In illo témpore: Videns Jesus turbas, ascéndit in montem, et cum sedísset, accessérunt ad eum discípuli ejus, et apériens os suum, docébat eos, dicens: Beáti páuperes spíritu: quóniam ipsórum est regnum cœlórum.
Beáti mites: quóniam ipsi possidébunt terram. Beáti, qui lugent: quóniam ipsi consolabúntur. Beáti, qui esúriunt et sítiunt justítiam: quóniam ipsi saturabúntur. Beáti misericórdes: quóniam ipsi misericórdiam consequéntur. Beáti mundo corde: quóniam ipsi Deum vidébunt. Beáti pacífici: quóniam fílii Dei vocabúntur. Beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam: quóniam ipsórum est regnum cælórum. Beáti estis, cum maledíxerint vobis, et persecúti vos fúerint, et díxerint omne malum advérsum vos, mentiéntes, propter me: gaudéte et exsultáte, quóniam merces vestra copiósa est in cœlis.”

[In quel tempo: Gesú, vedendo le turbe, salí sulla montagna. Sedutosi, ed avvicinatisi a Lui i suoi discepoli, cosí prese ad ammaestrarli: beati i poveri di spirito, perché di questi è il regno dei cieli. Beati i mansueti, perché possederanno la terra. Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di questi è il regno dei cieli. Beati siete voi, quando vi malediranno, vi perseguiteranno, e, mentendo, diranno di voi ogni male per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.]

Omelia II

Mirabilis Deus in Sanctis suis. (Ps. LXVII, 36)

[A. Carmignola: Stelle Fulgide; SEI. –Torino, 1904]

I.

La Chiesa celebra oggi la solennità di tutti i Santi, solennità, che trae origine dalla Consacrazione, che si fece qui in Roma del Panteon, ad onore di tutti i Santi. Questo stupendo edificio innalzato da Menenio Agrippa, genero dell’imperatore Augusto, era stato dedicato a tutti gli dèi falsi e bugiardi del paganesimo. Ma sul principiare del secolo VII essendo stato ceduto dall’imperatore Foca al sommo pontefice S. Bonifacio IV, questi lo purificò ed aperse al culto cristiano, consacrandolo alla SS. Vergine e a tutti i SS. Martiri, ordinando che se ne facesse la festa al 13 di maggio. Ma Gregorio IV nell’anno 834 estese questa festa a tutti i Santi e Sante del cielo, da celebrarsi non solo in Roma, come erasi fatto sino allora, ma per tutto il mondo cristiano, assegnandole il 1° novembre. E ben a ragione, perciocché essendo il numero dei Santi pressoché infinito, e non potendosi nel corso di un anno celebrare la festa di ciascun santo in particolare, era conveniente con una solennità ad onore di tutti celebrare anche quelli, che nel corso dell’anno sono in certa guisa forzatamente negletti, E tanto più perché una tale solennità servendo efficacemente a fermare il nostro pensiero sulla grande meraviglia divina, che sono i santi, ci avrebbe indotti altresì a lodare e ringraziare il Signore d’aver santificati i suoi servi in terra e d’averli coronati di gloria in cielo, a riconoscere la loro grandezza e la loro potenza e ad onorarli ed invocarli, a ricordare gli splendidi e salutari esempi, che essi ci hanno dato in ogni età, in ogni sesso e in ogni condizione, e ad imitarli colla memoria della grande ricompensa, che ora essi godono in paradiso. – Perciocché se Iddio è veramente ammirabile in tutte le sue opere, lo è senza dubbio in modo particolare nei suoi santi: Mirabilis Deus in sanctis suis. Egli è ammirabile nella loro predestinazione, ammirabile nella loro vocazione, ammirabile in tutta l’economia della loro salute, ammirabile nella loro gloria e nella loro beatitudine, ma ammirabile sopra tutto, come nota S. Leone Magno, per averci dato in essi dei protettori e degli esemplari: Mirabilis Deus in sanctis suis, in quibus et præsidium nobis constituit et exemplum. – Entriamo dunque oggi nelle mire sapienti della Chiesa e, fissando lo sguardo sopra i Santi tutti del cielo, animiamoci a compiere i tre principali doveri che abbiamo verso di essi. – E voi, o Vergine Santissima, amabile S. Giuseppe, Angeli e Santi tutti del Paradiso, con la intercessione vostra presso Dio rendete fruttuose le nostre considerazioni: Omnes sancti et sanctæ Dei, intercedete prò nobis.

II

L’Apostolo S. Giovanni nella sua divina Apocalisse vide una moltitudine di Santi di ogni nazione, di ogni popolo e di ogni lingua, rivestiti di candide stole e recanti nelle loro mani delle palme, simbolo della vittoria da loro riportata sopra il demonio, sul mondo e sulla carne. Questi Santi tutti stavano dinnanzi al trono dell’ Altissimo, e pieni di gioia benedicevano, glorificavano e ringraziavano il Signore e l’Agnello, cioè Gesù Cristo, riconoscendo, come osserva S. Agostino, che nel mondo essi vinsero la prova delle tribolazioni, onde furono assaliti, non già per propria virtù, ma coll’aiuto di Dio, e che nel Cielo essi posseggono quella gloria ineffabile per i meriti dello stesso Signore Gesù Cristo. Epperò lo stesso Apostolo S. Giovanni vide ancora che i Santi deponevano le loro corone a pie’ del trono di Dio e si gettavano colla faccia per terra innanzi all’Agnello, adorando Lui che vive per tutti i secoli. Eziandio gli Angeli come custodi ed amici dei Santi prendevano parte alla loro allegrezza, e intorno al medesimo trono di Dio facevano eco alle loro voci dicendo: « Sempre e per tutti i secoli sia benedizione, gloria, lode, onore e rendimento di grazie a Dio nostro Signore ». – Ecco adunque il primo nostro dovere nella presente solennità, e in tutte le feste dei Santi: unire le nostre voci a quelle degli Angeli e Santi medesimi, e lodare, glorificare e ringraziare Iddio, perché con la sua gratuita misericordia li ha eternamente eletti e predestinati a quella gloria, che ora godono in Cielo; perché nel tempo della loro vita mortale li ha chiamati al suo santo servizio e li ha giustificati in virtù dei meriti di Gesù Cristo, Agnello immacolato, ricolmandoli delle grazie e dei doni dello Spirito Santo, e finalmente li ha coronati di onore e di gloria nel suo celeste regno in Paradiso. Uniamo adunque le nostri voci con quelle degli Angeli e degli Arcangeli, dei Troni e delle Dominazioni e di tutta la corte celeste, e cantiamo anche noi l’inno della gloria di Dio, dicendo: Santo, Santo, Santo è il Dio di Sabaoth. Pieni sono della tua gloria i cieli e la terra: osanna nel più alto dei cieli. Benedetto tu, che sei venuto sulla terra, e vi vieni ancora ogni giorno a renderla feconda di Santi: osanna, osanna nel più alto dei cieli!

III.

Il secondo dovere, che noi dobbiamo compiere verso i Santi, si è quello di onorarli ed invocarli nei nostri bisogni, rendendo in tal guisa ad essi il culto loro dovuto. Vi hanno di coloro, i quali nel culto, che la Chiesa Cattolica ordina peri Santi, vogliono vedere una specie di idolatria. Ma che cosa è l’idolatria? Essa è un rendere a chi non è Dio il culto supremo di adorazione dovuto a Lui solo. Ora è questo forse il culto, che noi rendiamo ai Santi? No certamente. Il culto supremo di onore e di gloria è a Dio solo che lo rendiamo, e i Santi li veneriamo soltanto, non già riconoscendo in essi altrettanti Dei, ma unicamente degli uomini sommamente di noi benemeriti e da Dio stesso grandemente amati e glorificati. E qual cosa più naturale di questa? Forsechè si agisca diversamente nella civile società? Allora che in essa si tratta di uomini, che ben meritarono pei servigi resi alla patria o nel governo dei popoli, o nelle vittorie sui nemici, o nelle benefiche istituzioni, o nell’arte letteraria od in qualsiasi altra, non si sogliono essi onorare del culto civile? Non è la loro fronte, che si cinge di corona ? Non è il loro petto, che si orna di medaglie? Non è per essi, che si fanno splendide sepolture, che si intessono orazioni di lode, che. si adornano i sepolcri? E qual secolo andrà più famoso del nostro per la manìa d’innalzar monumenti, di apporre lapidi e di deporre corone? E quello che si fa e si sente di dover fare nella società civile, sarà idolatria il farlo nella società religiosa della Chiesa Cattolica? Se le fibre del cuor umano mostrano di fremere dinanzi agli eroi, non dico del valore e dell’ingegno, ma dell’audacia e dell’impostura, non dovranno esaltarsi davanti agli eroi della virtù? – Ma vedete strana logica di certa gente. Essa per le onoranze ai suoi grandi toglie persino ad imprestito il linguaggio della Chiesa, e parla ancor essa di martiri, di are sacrosante, di commemorazioni, di pellegrinaggi, di santificazione e simili; e poi grida la croce addosso a noi e ci chiama idolatri o fanatici, perché veneriamo i Santi! quei Santi, che hanno reso a Dio il più umile e rispettoso servigio, che dalla creatura si possa rendere al creatore! quei Santi, che servendo a Dio hanno pur tanto beneficato la società e la beneficano tuttora con gli esempi che ci hanno lasciati! quei Santi, che possedettero la scienza più sublime e dispiegarono il valore più eroico! E oltre ai grandi meriti, che i Santi acquistarono durante la loro vita, non sono ora per eccellenza gli amici di Dio? E chi potrà penetrare le tenerezze, che Dio ha per loro! I giusti sono per Iddio oggetto d’ineffabile predilezione fin da questa vita, nella quale vanno ancor soggetti a tante miserie e colpe veniali, sì che egli posa sopra di loro con compiacenza i suoi occhi: Oculi mei super iustos (Ps. XXXIII, 14); e non li chiama più servi, ma amici: jam non dicam vos servos, sed amicos (Ioann., XV, 15), Or che sarà adesso, che al tempo della prova è succeduto quello della ricompensa? Adesso, che dopo aver richiesto da loro obbedienza, generosità, sacrifici, ed aver tutto ottenuto, è giuntoli tempo di ricambiar tutto ciò? Ah! mirate prove di amore che Iddio dà ora a suoi Santi ! Ei li vuole con sé: Volo ut ubi ego sum, illie sit et minister meus (Ioann. XII, 26); vuole essere egli stesso la loro mercede; ergo ero merces tua (Gen. XV, 1); vuole che siano inebriati della medesima felicità, di cui Egli gode: torrente voluptatix tuæ poiabis eos (Ps. XXXV, 9). E noi potremmo amare ed onorare Iddio senza amare ed onorare codesti suoi figli prediletti? Ma alla fin fine, quando un re ama ed onora egli stesso il suo suddito, vuole forse che dagli altri sia disprezzato o per lo meno tenuto in nessun conto? Allora che Faraone costituiva Giuseppe secondo nel suo regno per avere con la spiegazione dei suoi sogni procacciata la salvezza dell’Egitto, intendeva forse di riconoscerlo per tale egli solo? E quando Assuero volle onorar Mardocheo per avergli salvata la vita, si contentò egli di onorarlo nelle chiuse stanze della sua reggia? E quando Baldassarre ebbe spiegato da Daniele l’enigma di quella scritta tremenda: Mane, Thecel, Fares, fu egli pago di dargli collane ed anelli preziosi? La storia ben diversamente ci attesta che quei sovrani non paghi di onorare essi medesimi questi uomini grandi, vollero eziandio che fossero onorati da tutti i loro sudditi, epperò mandandoli in trionfo per le città dei loro regni, li facevano precedere da un banditore che ad alta voce doveva gridare: « Così si onori colui, che il re vuol onorare!» E noi dunque non dovremo onorare i Santi, che Dio stesso tanto onora e glorifica? – Ma, soggiungono i protestanti, voi altri cattolici non ci potrete negare che nella Bibbia non si trova alcuna traccia di questo culto. E per ciò? Risponderemo noi, dovremo astenerci dall’onorare i santi? Sappiamo bene che voi pretendete che nulla debbasi fare, che non sia prescritto nella Bibbia; ma sappiamo pure che oltre al falsificare la Bibbia stessa, voi non fate poi quanto essa prescrive di fare. La Bibbia ad esempio nel Vangelo di S, Matteo al capo XVIII, versicolo decimosettimo, dice che « se alcuno non ascolta la Chiesa, ha da essere considerato come un gentile ed un pubblicano ». Or bene, quale ascolto date voi alla Chiesa? Se foste docili ai suoi santi insegnamenti, riterreste che non è la Bibbia sola, che deve formare la norma dei nostri insegnamenti, ma che oltre alla parola di Dio scritta, vi ha pure la parola di Dio venutaci per Tradizione, la quale ha la stessa autorità, perché tutta è parola dello stesso Iddio. Ed allora dalla Tradizione imparereste, che il culto dei Santi da noi rimonta sino ai tempi apostolici; che non solo ne hanno articoli espressi il Concilio Tridentino e Niceno II, ma che la pratica di questo culto si trova ancora nei cimiteri, nelle catacombe, negli oratori, nei monumenti, che innalzavansi a celebrare la memoria dei martiri, e presso dei quali recavansi per pregare i fedeli; udreste dirvi da S. Agostino, da S. Giovanni Crisostomo e ripetutamente da S. Cipriano e da Tertulliano che nei giorni anniversari della morte dei martiri offrivasi a Dio il Santo Sacrificio in loro onore; vedreste gli onori speciali tributati dalle loro Chiese a S. Pionio, a S. Policarpo, a S. Ignazio, discepoli questi ultimi degli stessi Apostoli; leggereste nelle Costituzioni Apostoliche i giorni, in cui devesi far festa per onorare gli Apostoli ed i martiri, e finalmente ricavereste l’uso di questo culto dagli stessi eretici Manichei, che nel terzo e quarto secolo ne facevano come voi, rimprovero alla Chiesa Cattolica. – Del resto è vero che nella Bibbia non vi è traccia del culto dei Santi? Io l’apro nel libro del Genesi (XVIII, 2 — XIX, I) e vi leggo che Abramo e Lot s’inchinarono d’innanzi agli angeli loro inviati da Dio: io l’apro nel libro dell’Esodo (XXIII, 20) e vi leggo che così parla Iddio al suo popolo: « Ecco, io manderò il mio Angelo, che ti preceda nel cammino; onoralo, ascolta la sua voce e guardati dal disprezzarlo; imperciocché il mio nome è con lui ». Io l’apro nel libro di Giosuè (V, 15) e vi leggo che egli si incurva dinnanzi all’Angelo, che gli è apparso, e che ei riceve l’ordine dall’angelo stesso di togliersi i calzari, perchè il luogo dove sta è santo; io l’apro nel libro IV dei Re (I, 10-13) e v i leggo il castigo terribile, con cui Iddio punì i due capitani, che mancarono di rispetto al profeta Elia, e l’atto di venerazione usato al medesimo da un terzo capitano. Nello stesso (II, 24) leggo l’aspra vendetta, che Dio fece dei fanciulli schernitori di Eliseo, e (IV, 37) l’onore che allo stesso profeta rese la Sunamitide, dopo ché ebbe da lui il figlio risuscitato. Come dunque si osa dire che nella Bibbia, non vi è traccia del culto dei Santi? Né è una difficoltà il dire che il culto, di cui si parla nella Bibbia, trovasi tributato a santi ancor viventi: perché se Iddio e con la parola e col fatto approvò l’onore, che fu reso agli uomini santi, mentre ancor vivevano quaggiù soggetti alle umane imperfezioni, si potrà forse dubitare ch’Egli non si compiaccia dell’onore, che rendiamo ai Santi, quando già uscirono da questo mondo, e la Chiesa col suo giudizio ci assicura che sono beati in cielo? Non solo adunque non siamo idolatri nell’onorare i santi, ma neppure novatori, come pretenderebbero i protestanti. Onorando i Santi non facciamo né più né meno di quel che si fece per testimonianza della Bibbia nell’antica legge, e né più né meno di quello che per testimonianza della Tradizione sempre si fece nella legge nuova.

IV.

Ma, udite, o fratelli: il protestantesimo non è pago ancora, e dopo d’averci contraddetto l’onore ai Santi vuole contraddirci eziandio l’invocazione del loro aiuto. Udite come esattamente riproduce i suoi sentimenti un illustre scrittore: « Quelli che furono santi in questo mondo, quelli che ebbero il cuore sì ricco d’amore e la mano sì feconda di benefizi, non hanno più per noi che la fredda luce della loro gloria. Non domandiamo loro nulla, perché essi non intendono le nostre domande; non confidiamo nella loro intercessione; essi non possono più nulla per noi. La perfezione consummata, in cui essi si trovano, ha inaridito nel loro seno l’ammirabile potere di far del bene a quelli che essi amavano. Un padre non è più padre, una madre non è più madre, un fratello non è più fratello, un amico non è più amico. Versiamo lacrime senza speranza, e come il re Agag solleviamo questo lamentevole grido: Sicóim separat amara mors? Così ci separa la morte amara? » Ecco la dottrina del protestantesimo, che rompe quella catena preziosa, che lega la Chiesa trionfante del cielo colla Chiesa militante della terra. – E non sentite, o fratelli, rivoltarsi contro di essa i sentimenti più delicati e profondi del vostro cuore? Non udite voi la natura gridare sdegnata al protestantesimo: tu menti? I suoi larghi e generosi istinti non vi dicono forse: la verità non può essere questa? ed è impossibile questo separatismo brutale, che isola la terra dal cielo? Ah! ben diversa è la dottrina della Chiesa cattolica! Ogni giorno essa invita i suoi figli a ripetere colle parole del Simbolo: Credo la Comunione dei Santi, vale a dire: credo che e anime beate del cielo, e anime militanti della terra, ed anime purganti del Purgatorio siamo tutti un solo e medesimo corpo, il cui capo è Gesù Cristo; credo che in questo mistico corpo l’interesse di un membro è l’interesse di un altro, il bene dell’uno è il piacere dell’altro, la pena dell’uno è la compassione dell’altro: credo che la carità più viva è quella, che lega insieme tutte queste membra, che sebbene ancora in luoghi diversi formano tuttavia un solo corpo, la Chiesa di Gesù Cristo. – E stando salda questa unità, del cui dogma sono ripiene le sacre scritture, come si potrà, senza sragionare, negar le comunicazioni tra i santi del cielo e gli nomini della terra? La Chiesa militante, prosegue il grande Monsabré, per rapporto alla Chiesa trionfante è nelle condizioni analoghe a quelle d’un esercito, che combatte in lontano paese, di fronte alla patria, ove tutto è ordine, prosperità e pace. Forseché l’esercito non ha sempre gli occhi rivolti alla patria, d’onde attende i soccorsi ed i rinforzi, dei quali ha bisogno per condurre a buon termine una faticosa campagna? E forseché la patria per godere d’una felicità egoistica non si dà pensiero delle fatiche, dei patimenti di quei valorosi, che tengono alto l’onore della bandiera? Forseché tra l’esercito e la patria non esiste una solidarietà intima, che si manifesta in uno scambio generoso e pieno di fiducia, di preghiere e di sollecitudini, di voti e di benefizi, fino al giorno, nel quale i vincitori attraverseranno in trionfo la folla commossa dei cittadini, che col cuore erano con essi sulla terra straniera? Onta e sventura al paese, che dimentica i suoi soldati! Voi sapete troppo bene, o fratelli, fino a qual punto il patriottismo si sdegni contro simile delitto. – Or bene, esercito di Gesù Cristo sempre in battaglia contro i nemici della salute, noi imploriamo ed attendiamo dai Santi, che abitano la patria celeste, nella quale un giorno dovremo noi pure trionfare, un’assistenza necessaria ed efficace. È questo un diritto che noi abbiamo, appartenendo noi allo stesso corpo, cui appartengono i Santi. E perché non lo eserciteremo? Se la gloria che inonda i Santi avesse, come credevano gli antichi del fiume Lete, la strana proprietà di far loro dimenticare la terra, dove testé combattevano nelle nostre file, allora sì che sarebbe inutile invocare i Santi. Sarebbe pure inutile, se la luce, in cui vivono, loro impedisse di stendere lo sguardo alle nostre miserie; se Iddio dopo d’esser stato con essi sì generoso quando erano in terra, fosse adesso con loro sì scarso; se finalmente il costume dei Santi fosse il medesimo degli uomini volgari ed egoisti del mondo, che saliti dal basso all’alto, dalle miserie alle prosperità, dimenticano sì facilmente i parenti e gli amici rimasti allo stesso posto di prima. Ma tutto è ben diverso, Ah! i Santi saliti al Cielo ricordano l’aspra lotta, che dovettero a tal fine sostener qui in terra; vedendo Dio vedono tutto ciò che egli ama, tutto ciò, di cui egli ha cura, epperò conoscono i nostri bisogni meglio di quanto li conosciamo noi stessi; la loro potenza è cresciuta in cielo in ragione della loro perfezione, e come è cresciuta in essi la potenza di aiutare gli uomini, così è cresciuta la loro volontà di aiutarli, e quanto più sono sicuri della loro felicità, tanto più sono solleciti della, nostra salute: Quantum de sua felicitate securi, tantum de nostra salute solliciti (S. Ciprianus, lib. de Mortal.); epperò meritano di essere da noi con tutta fiducia invocati. – E dica pure il protestantesimo che l’apostolo san Paolo asserisce che un solo è il mediatore tra Dio e gli uomini, Gesù Cristo (1 Timot. II, 5), ma noi riterremo senza dubbio che un solo per natura è il mediatore tra il cielo e la terra, un solo per natura è il Salvatore del genere umano, un solo per natura è il nostro avvocato presso il trono dell’Altissimo; ma che ciò non toglie che altri mediatori ed avvocati vi possano essere per partecipazione e per grazia. Il protestantesimo dica pure che col rivolgerci ai Santi facciamo affronto a Dio, quasi riconoscendo in essi e non in Dio i padroni ed i dispensatori della grazia, ma noi riterremo che ci rivolgiamo ai santi non come ad autori e padroni delle grazie, ma semplicemente come ad intercessori per ottenerle. Tanto è vero che la Chiesa nella S. Messa non mai si dirige con le sue orazioni ai Santi, ma si rivolge direttamente a Dio pregandolo a concederle, le sue grazie, per la intercessione dei Santi, e sempre per i meriti di Gesù Cristo: Per Dominum nostrum Iesum Christum. Il far rimettere nelle mani del re una supplica per mezzo di un suo favorito, sarà questo un affronto al re stesso e un riconoscere per autore della grazia, che si implora, il suo favorito? Il protestantesimo dica pure che Dio, è ottimo padre, pronto sempre ad esaudirci e che Gesù Cristo, per mezzo della sua passione e morte ci ha meritate tutte le grazie, di cui abbisogniamo, e che perciò è inutile il ricorrere ai Santi, e noi riterremo che se Iddio è ottimo Padre, noi siamo pur troppo figliuoli cattivi, ai quali può giustamente negare quello che noi gli chiediamo, per avere noi tante volte negato a Lui quello che da noi richiedeva; ed essere perciò sommamente utile ad ottenere le grazie sue l’interporre l’intercessione dei figliuoli santi, che Iddio per la loro bontà predilige: che se Gesù Cristo basta senza alcun dubbio a meritarci ogni favore, ciò non impedisce che Egli si compiaccia di onorare i Santi, facendoci ottenere le grazie anche per la intercessione degli stessi. Finalmente quando il protestantesimo ci dirà ancora che nella Bibbia non trovasi parola dell’invocazione dei Santi, e noi colla Bibbia alla mano mostreremo loro che nel vecchio testamento gli amici di Giobbe a lui si raccomandano, perché plachi Iddio con essi sdegnato; che Mose ed Aronne s’interpongono più volte in favore degli Israeliti prevaricatori; che il popolo ebreo ricorre alle preghiere di Samuele; che nel libro di Zaccaria si parla d’un Angelo, che prega Dio per i Giudei; che nel libro II dei Maccabei si manifesta la cura che degli stessi presero Onia e Geremia già passati di questa vita; che nel nuovo testamento il Divin Salvatore compie il suo primo miracolo per intercessione di Maria; che S. Paolo si raccomanda alle orazioni dei fedeli; che S. Giacomo li esorta a pregare gli uni per gli altri; che S. Pietro promette loro di ricordarsene dopo morte; e finalmente che S. Giovanni nella sua Apocalisse vede in cielo ventiquattro seniori, che prostrati dinanzi all’Agnello tengono in mano ampolle d’oro piene di soavi fragranze, che sono le orazioni dei Santi (V, 8). – Per noi cattolici poi aggiungeremo che l’invocazione dei Santi è sempre stata nella Chiesa una pratica costante, da noi sino ai primi secoli: le cui chiare testimonianze si ritrovano nelle più antiche liturgie, negli atti dei martiri, negli scritti di Origene, di S. Cipriano, di S. Eusebio, di S. Gregorio Nazianzeno, di S. Cirillo Gerosolimitano, scrittori tutti del III, IV e V secolo, nei concilii ecumenici Costantinopolitano III e Niceno II, e che però ben a ragione il Concilio Tridentino comanda ai sacri Pastori di insegnare ai fedeli che « i Santi, i quali regnano con Cristo, offrono a Dio le loro orazioni per gli uomini; essere quindi cosa buona ed utile l’invocarli supplichevolmente ».

V.

Ma riguardo a questo secondo dovere, che noi dobbiamo compiere coi Santi, il protestantesimo si scandalizza ancora, e l’incredulità ci deride, perché dei Santi veneriamo le reliquie e le immagini. Ora non torna neppur difficile il riconoscere quanto ingiusto sia questo scandalo e questa derisione. Forseché noi adoriamo le immagini e le reliquie dei Santi, come facevano i Pagani coi loro idoli? Forseché riponiamo nelle stesse una qualche fiducia? Se noi baciamo e veneriamo le immagini e le reliquie dei Santi, non intendiamo forse di riferire il culto e la venerazione nostra ai Santi medesimi? Vedete strana incoerenza: si protesta contro il culto delle immagini e reliquie dei Santi; ma si protesta forse contro il culto, che il soldato serba alla sua bandiera? si protesta forse contro il rispetto, che il popolo serba alla casa, che vide nascere un uomo grande e ne raccolse l’estremo sospiro? si protesta forse contro del figlio, che guarda con riverenza uno scritto del padre? si protesta forse contro la sposa, che serba con tenerezza l’anello dello sposo? contro l’amico, che tiene caro un fiore staccato dalla tomba dell’amico? contro la famiglia, che appende con affetto i ritratti dei maggiori? Ma che dico? si protesta forse contro i governi e i municipii che nei loro musei serbano e venerano capelli, calzoni, tabacchiere, bastoni, badili e persino altri più vili istrumenti degli uomini che si dicono grandi? Eh via! l’iniquità mentisce mai sempre a se stessa: mentita est iniquitas sibi (Ps. XXVI, 12). Le immagini dei Santi che noi veneriamo ci parlano al cuore, ci ricordano le loro virtù, l a loro potenza, ci stampano in mente il dovere, che noi abbiamo di imitarli, e ci spronano a seguire i loro esempi, e noi non rigetteremo giammai un culto per noi tanto utile. I corpi e le reliquie dei Santi sono corpi e reliquie di coloro, che sono membra vive di Gesù Cristo e templi dello Spirito Santo per là grazia, onde furono ripieni; ed un giorno saranno con le anime glorificati in cielo, e noi non disprezzeremo giammai la voce della ragione, che ci dice di venerarli. La Chiesa in ogni tempo ebbe in uso il culto delle reliquie; i cristiani serbarono sempre con venerazione l’arena inzuppata dal sangue dei martiri, e si gloriarono sempre d’inginocchiarsi nei santuari dinanzi agli avanzi gloriosi di quei Santi, che essi invocano a difesa e tutela della loro patria; e Dio stesso più volte con grazie e miracoli ha mostrato come questo culto gli torni accettevole.

VI.

Se non che, o fratelli, se è a dolere che i nostri fratelli separati non vogliano saperne di culto e d’invocazione dei Santi, non è a dolere anche più, che praticamente facciano lo stesso certi cristiani? Allorquando nel secolo III i pagani di Roma piangevano nel vedere disprezzati dai Cristiani i loro dei, Tertulliano rispondeva loro: Io non so se gli dei vostri più abbiano a lamentarsi di noi, che di voi: Nescio plusne dii vestri de nóbis quam de vóbis querantur. E giustamente, perché i Cristiani disprezzavano gli dei di Roma per ragione e per principio; laddove i pagani pretendevano d’onorarli con il libertinaggio e con lo sregolamento delle loro passioni. Or bene, se noi badiamo come taluni tra noi cattolici onorino ed invochino i Santi, sapremmo asserire se i Santi più abbiano a lamentarsi di noi, che degli eretici? Ed in vero, vi dirò con un grande oratore: noi sappiamo che i Santi sono gli amici di Dio e i nostri patroni, sappiamo che prostrati dinanzi al trono del Signore del continuo pregano per noi, sappiamo che tanto si occupano della nostra salute, che ci salvano dall’ira di Dio, che ci scampano da mille disgrazie e pericoli, sappiamo che sono i nostri più grandi benefattori, potendosi dir di ciascuno: Me fratrum amator et populi: questi è il vero amante dei suoi fratelli e del popolo (2 Mac. XV). Ma intanto poi li copriamo, non dico solo di oblio e di ingratitudine, ma di oltraggio e di disonore. I Santi implorano sul nostro capo le benedizioni celesti, e noi talora apriamo la bocca a bestemmiare il loro nome. – Per essi la Chiesa innalza dei templi e noi con la nostra irreligione li violiamo; per essi istituisce delle feste e noi con la noncuranza nostra le profaniamo; per essi celebra offici e intesse elogi e noi vi assistiamo, non dico con indifferenza, ma persino con spirito di disprezzo. A renderci profittevoli le loro solennità la Chiesa ci obbliga alla vigilia ed al digiuno e noi calpestiamo questa legge, e quei giorni medesimi, che per essere ai Santi consacrati dovrebbero essere per noi giorni di onesta gioia e di religiosa pietà, sono invece giorni di licenza, di divertimenti, di giuochi, di gozzoviglie e di disordini. Ecco, o fratelli, per nostra onta, qual è il culto, che molti di noi cattolici prestiamo ai Santi! Che dirò poi dell’invocazione che rivolgiamo talora ai medesimi? Io non parlo, no, di quelle preghiere abominevoli, e secondo il termine della Sacra Scrittura, esecrabili, che se fossero dai Santi esaudite, farebbero di loro altrettanti fautori dei nostri vizi, di quelle preghiere cioè con cui s’invocano i Santi per il successo d’una impresa ingiusta, pel mantenimento di una fortuna iniqua, per la prosperità d’un affare malvagio, per la soddisfazione d’una sregolata cupidigia, per la riuscita d’una scellerata vendetta. Questo, come dice Agostino, sarebbe il massimo degli affronti, perché se gl’infedeli domandavano tali cose ai loro falsi dei, egli è perché li ritenevano per più corrotti di loro, e non v’è perciò da stupirne; ma sapere che i Santi sono glorificati in cielo per la virtù e chiedere loro quello, che mira all’annientamento della medesima, sarebbe questa la più orrenda delle indegnità. Non parlo neppure di quelle preghiere affatto mondane, con le quali invochiamo dai Santi beni del tutto profani, agi, ricchezze, onori, e non mai ciò che riguarda il nostro avanzamento nelle cristiane virtù, e la santificazione delle anime nostre. Anche, questa sarebbe una riprovevole usanza, mostrarsi così solleciti d’invocare i Santi quando si tratta di ottenere un bell’impiego, di raggiungere una carica, di aver robustezza di salute, di guarire da una infermità, di scampare da una malattia contagiosa, di abbattere i nemici della patria, di ottenere un tempo favorevole alle campagne, di fare un raccolto abbondante, di riuscir bene in un negozio, e poi trascurare d’invocarli, anzi non invocarli affatto quando si tratta di distruggere un’abitudine viziosa, di vincere una passione che ci domina, di abbattere la carne che si ribella, di superare la tentazione che ci travaglia, di preservarci dalle piaghe del mondo e dalla sua corruzione. Sì, anche questa sarebbe noncuranza e cecità dannosissima. Io voglio parlare soltanto del grande abuso, che della invocazione dei Santi noi facciamo in quelle preghiere medesime in apparenza le più religiose, in quelle preghiere, con le quali protendiamo di ottenere dai Santi quello che non ci studiamo di ottenere noi stessi, in quelle preghiere, con cui abbiamo l’impudenza di chiedere ai Santi l’intercessione per la nostra salvezza, avendo poi la pretesa di vivere noi senza vigilanza e senza attenzione per la stessa. – Noi invochiamo i Santi, e vorremmo che ad ottenere il compimento dei nostri voti bastasse l’invocarli: noi invochiamo i Santi, e domandando loro lo spirito di penitenza, vorremmo continuare a vivere a nostro genio: noi invochiamo i Santi, e domandando loro la grazia di convertirci, vorremmo che la nostra conversione non importasse alcuna violenza, alcun distacco, alcun sacrificio per parte nostra; noi invochiamo i Santi, e domandando loro il possesso della virtù vorremmo non aver da prendere alcuna misura per conseguirlo, e soventi volte, come Agostino prima che rompesse le sue ree catene, non crediamo d’essere esauditi giammai; noi invochiamo i Santi e vorremmo determinare le grazie che ci hanno a fare, e grazie non di rado, che non ci convengono affatto e che più ancora che a nostra salute servirebbero a nostra rovina! Ah cristiani! ricordiamoci che se i Santi sono potenti appresso Dio, non lo sono contro di Dio e contro del suo volere: che se sono potenti, il sono d’una potenza regolata ed ordinata, d’una potenza raffermata ogni giorno secondo l’intendimento della legge eterna: vale a dire essi, sono potenti per consolarci nelle nostre pene e non già per farcene esenti; essi sono potenti per darci mano ad operare e non già per trattenerci in una rilassata indolenza; potenti secondo i disegni di Dio e non secondo le nostre velleità e i nostri capricci. Invochiamoli adunque i Santi, perché Iddio, in essi ammirabile, ce li ha dati per nostri protettori; ma appunto perché sono Santi invochiamoli santamente. Che se per nostra storditezza e malizia li invocheremo alla mondana, anziché farci dei protettori, che ci difendano e ci soccorrano, ricordiamoci che ci faremo dei testimoni e dei giudici per accusarci e condannarci. – S. Giovanni nell’Apocalisse tra le altre cose intese pure i Santi a domandare a Dio non grazie per gli uomini, ma giustizia e vendetta contro gli uomini: Usquequo non vindicas sanguinem nostrum de iis qui habitant in terra? (VI, 10): Signore, giustizia e vendetta non solo contro gli uomini, che nel corso della vita ci hanno disprezzati, perseguitati, accusati, condannati, messi a morte: giustizia e vendetta non solo contro gli uomini libertini ed empii, che hanno profanato le nostre feste, e beffeggiato il nostro culto; ma giustizia e vendetta contro di coloro eziandio, che hanno fatto e vogliono fare della nostra protezione un uso sì contrario ai tuoi divini voleri e sì iudeguo della nostra santità: Usquequo non vindica? sanguinem nostrum de iis qui habitant in terra ?

VII.

Ma passiamo ora a dir brevemente del terzo dovere, che noi dobbiamo compiere verso dei Santi, che è quello d’imitarli. Stava per morire l’illustre Matatia, quel generoso principe de’ Maccabei, e chiamati a sé dappresso i suoi figlinoli così disse loro : « Figli, zelate la legge di Dio e ricordate soprattutto gli esempi, gloriosi dei padri vostri, ed anche voi vi acquisterete una gloria ed un nome immortale. Eicordate la fedeltà di Àbramo, la sofferenza di Giuseppe, l’obbedienza di Giosuè, la moderazione di Davidde, lo zelo di Elia, la integrità di Daniele e ricopiate nell’animo vostro così belle virtù e così operando di generazione in generazione toccherete con mano che non v’ha cosa più onorata e sicura quanto quella di servire a Dio ». Così parlò quel venerando vegliardo, che S. Giovanni chiama uomo evangelico prima ancor dell’evangelio. E così parla a noi il Signore del continuo. «Ricordate le virtù dei Santi, egli dice, considerate i loro esempi e seguiteli: anche per questo fine io li ho suscitati. Ecco gli eroi della vostra fede, ecco gli uomini, di cui il mondo non era degno, e che disprezzati dal mondo si resero degni di me. Contemplateli, paragonateli con voi e scoprendo l’infinita distanza, che vi separa, studiatevi di avvicinarvi. Invece di affettare virtù mondane, che non hanno né verità né sodezza, invece della prudenza della carne, che vi danneggia e vi fa nemici di Dio, invece di quella sconsigliata politica, che vi violenta la coscienza e vi getta in un abisso di colpa, invece di quella scienza mondana, che tanto vi gonfia e niente vi giova, abbracciate quelle virtù che hanno praticato i Santi, e se pur volete uno sfogo alla vostra ambizione, cercatelo nell’emulare i loro esempi : Æmulamini charismata meliora » (1 Cor. 1,12). – Ecco, o fratelli, quel che vi dice Cristo, quel che vi dice sopratuttto in questo giorno sacro a tutti i Santi. – Ma io so bene che a sottrarsi all’adempimento di questo precetto non mancano i pretesti. E primo è quello di figurarci difficile e quasi impossibile la santità. Ma come, esclama S. Bernardo, difficile la santità? Se Dio richiedesse da voi la possanza dei miracoli, la predizione delle cose future, la grazia delle guarigioni, il discernimento degli spiriti, la sublimità delle visioni, la grandézza delle rivelazioni, allora capirei esser difficile il farsi santi: ma è questo forse che richiede da noi? No per certo. Ei si contenta che noi siamo umili, pazienti, caritatevoli, temperanti, casti, misericordiosi; questo gli basta per averci in conto di santi e questo forse sarà difficile? Mirate i Santi, ci dice l’Apostolo, essi provarono gli scherni e le battiture, furono lapidati, furono segati, furono tentati, perirono sotto la spada, andarono raminghi, coperti di pelli di pecora e di capra, mendichi, angustiati, afflitti, errando per le solitudini, e per le montagne, e nelle spelonche e caverne della terra; e se questi e quelli, soggiunge S. Agostino, con l’aiuto di Dio hanno potuto tanto, perché non potrò anch’io assai meno? Si isti et illi cur non ego? Perché non potrò essere casto anch’io? Perché non potrò essere umile anch’io? Perché non potrò perdonare anch’io? Perché non potrò anch’io essere paziente? – Ma i Santi, si dice, ed ecco il secondo pretesto, erano uomini diversi da noi, né soggetti alle stesse miserie. Oh quale inganno! I Santi erano uomini e donne deboli come siamo noi, erano composti della stessa fragile creta; essi ancora, dice S. Bernardo, provarono le molestie di questo esilio, le afflizioni di questo misero pellegrinaggio, essi ancora sentirono il peso di questo corpo mortale e gli stimoli della ribelle concupiscenza. Essi pure furono esposti alle tentazioni, ai tumulti delle passioni, alle contraddizioni ed agli scandali del mondo. Anzi molti furono peccatori come noi, e forse più di noi, e sperimentarono gravissime difficoltà e ripugnanze al bene; pure confidati nella grazia di Dio vinsero e tentazioni e passioni e scandali e riuscirono a santificarsi. Oh! abbandoniamoci anche noi nelle braccia del Signore, ed il Signore ricco nella sua misericordia ci sosterrà nella lotta coi nostri nemici e ce ne darà come ai Santi la vittoria. Finalmente, si dice ancora, come è possibile farci santi nello stato nostro? Com’è? nello stato vostro è impossibile farvi santo? Ma quale stato è il vostro? Siete giovani? ecco dei santi giovani. Siete vecchi? ecco dei santi vecchi. Siete nobili? ecco dei santi nobili. Siete di bassa condizione? ecco dei santi plebei. Siete dotti? ecco dei santi dotti. Siete idioti? ecco dei santi idioti. Siete vergini? ecco dei santi vergini. Siete coniugati? ecco dei santi coniugati. Siete preti? ecco dei santi preti. Siete soldati? Ecco dei santi soldati. Siete sovrani? ecco dei santi sovrani. Siete ricchi? ecco dei santi ricchi. Siete poveri? ecco dei santi poveri. Ah! non vi è stato, no non v’è stato alcuno, che non abbia i suoi santi e non v’è stato alcuno, in cui non sia dato di farsi santo. Anche l’accattone che va elemosinando il pane di porta in porta, o che chiede la carità alla porta delle nostre chiese, anch’esso sempre che il voglia può farsi santo. – Non lo credete? Intorno alla metà del secolo XVIII nasceva in Piccardia, provincia di Francia, un figlioletto. Nel 1770 gli balenava alla mente una divina ispirazione e si trasformava in tale figura da metter compassione negli uomini di buon cuore e da destar il riso negli uomini mondani. – Vestito di logora veste, cinto di una fune, nudo il capo, e con scarpe sdruscite nei piedi pellegrinava nei più celebri santuari della Germania, della Svizzera, della Francia, della Spagna e dell’Italia; e nel 1777 poneva da ultimo sua stanza in Roma. Al bisogno del cibo soddisfaceva con frusti di pane e con erbe gittate per la via, al bisogno della sete con l’acqua, e se riceveva elemosina sollevava gli altri poverelli. Macilento com’era e squallido, se talvolta veniva fastidiosamente rigettato o schernito dalla procace plebaglia, non solo non risentivasi punto, ma lieto anzi e tranquillo riceveva ogni ludibrio ed ingiuria. Passava la massima parte della giornata nelle chiese dinanzi l’immagine di Maria e dinanzi a Gesù in Sacramento. Finalmente una volta dopo passate molte ore in preghiera nella chiesa di S. Maria dei monti cadeva in deliquio, e trasportato nella vicina casa di un uomo benefico, dopo avere inutilmente chiamato di venire disteso sulla nuda terra, spirava l’anima nel bacio del Signore il 16 aprile del 1783. Era l’ora in cui suonavano tutte le campane di Roma per la recita di tre Salve Regina ordinata da Pio VI pei bisogni della Chiesa, e quasi che quel suono fosse voce celeste pareva rivelare la morte di quel povero agli innocenti fanciulli, i quali andavano gridando per le vie della città: È morto il santo: è morto il santo! Ed un santo davvero era morto! S. Giuseppe Benedetto Labre! – Oh come è vero, o fratelli, che Dio è mirabile ne’ suoi santi: mirabilis Deus in sanctis suis! e che tutti, se il vogliono, possono farsi santi! Mettiamoci adunque di buona volontà; affidiamoci alla grazia di Dio; interponiamo la mediazione dei Santi, di quelli particolarmente, di cui portiamo il nome e che abbiamo scelti a protettori, e non dubitiamo che o poco o tanto ci faremo santi anche noi, e non indarno avremo rivolta a Dio questa grande preghiera: Aeterna fac cum Sanctis tuis in Gloria numerari!

Credo … 

Offertorium
Orémus
Sap III:1; 2; 3
Justórum ánimæ in manu Dei sunt, et non tanget illos torméntum malítiæ: visi sunt óculis insipiéntium mori: illi autem sunt in pace, allelúja.
[I giusti sono nelle mani di Dio e nessuna pena li tocca: pàrvero morire agli occhi degli stolti, ma invece essi sono nella pace.]

Secreta
Múnera tibi, Dómine, nostræ devotiónis offérimus: quæ et pro cunctórum tibi grata sint honóre Justórum, et nobis salutária, te miseránte, reddántur. [Ti offriamo, o Signore, i doni della nostra devozione: Ti siano graditi in onore di tutti i Santi e tornino a noi salutari per tua misericordia.]

Communio
Matt 5:8-10
Beáti mundo corde, quóniam ipsi Deum vidébunt; beáti pacífici, quóniam filii Dei vocabúntur: beáti, qui persecutiónem patiúntur propter justítiam, quóniam ipsórum est regnum cœlórum.
[Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio: beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio: beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.]

Postcommunio
Orémus.
Da, quǽsumus, Dómine, fidélibus pópulis ómnium Sanctórum semper veneratióne lætári: et eórum perpétua supplicatióne muníri.
[Concedi ai tuoi popoli, Te ne preghiamo, o Signore, di allietarsi sempre nel culto di tutti Santi: e di essere muniti della loro incessante intercessione.]

 

Ite, Missa est.
R. Deo gratias.

CALENDARIO LITURGICO della Chiesa Cattolica: NOVEMBRE [2017]

NOVEMBRE

è il mese che la Chiesa dedica alle Anime Sante del Purgatorio

L’espiazione del peccato.

Ogni peccato causa al peccatore due danni, perché insudicia l’anima e la rende passibile di castigo. Dal peccato veniale, che implica un semplice disgusto del Signore e la cui espiazione dura soltanto qualche tempo, si arriva alla colpa mortale, che implica difformità e rende il colpevole oggetto di abominio davanti a Dio, sicché la sanzione non può essere che un bando eterno, se l’uomo non previene col pentimento, in questa vita, la sentenza irrevocabile. Però, anche cancellando il peccato mortale, si evita la dannazione, ma non ogni debito del peccatore è sempre cancellato. È vero che un’eccezionale sovrabbondanza di grazia sul prodigo può talvolta, come avviene regolarmente nel battesimo e nel martirio, sommergere nell’abisso dell’oblio divino anche l’ultima traccia del peccato, ma è cosa normale che, in questa vita o nell’altra, la giustizia sia soddisfatta per ogni peccato.

Le indulgenze.

È noto come la Chiesa in questo assecondi il desiderio dei suoi figli e, con la pratica delle Indulgenze, metta a disposizione della loro carità un tesoro inesauribile al quale di epoca in epoca le soddisfazioni sovrabbondanti dei Santi si aggiungono à quelle dei martiri, a quelle di Maria Santissima e alla riserva infinita delle sofferenze del Signore. Quasi sempre la Chiesa permette che queste remissioni di pena concesse col suo potere diretto ai viventi siano applicate ai morti che non appartengono più alla sua giurisdizione, per modo di suffragio, nel modo cioè che abbiamo veduto. Per cui ogni fedele può offrire a Dio, che lo accetta, il suffragio o soccorso delle proprie soddisfazioni. È sempre la dottrina di Suarez, il quale insegna pure che l’Indulgenza ceduta ai defunti nulla perde dell’efficacia e del valore che avrebbe per noi che siamo ancora in vita. – Le Indulgenze ci sono offerte dappertutto e in tutte le forme e dobbiamo saper utilizzare questo tesoro, ottenendo misericordia alle anime in pena. Vi è miseria più toccante della loro? É così pungente che nessuna miseria della terra l’uguaglia e tuttavia così degna che nessun lamento turba il « fiume di fuoco, che nel suo corso impercettibile le trascina poco a poco all’oceano del paradiso » (Mons. Gay, Vita e virtù cristiane. Della carità verso la Chiesa, 2). Per esse il cielo è impotente perché in cielo non si merita più e Dio stesso, infinitamente buono, ma infinitamente giusto, non può concedere la liberazione, se non hanno integralmente pagato il debito che le ha seguite oltre il mondo della prova (Mt. V, 26). E il debito forse fu contratto per causa nostra, forse insieme con noi e le anime si volgono a noi, che continuiamo a sognare piaceri mentre esse bruciano, e potremmo con facilità abbreviare i loro tormenti! Abbiate pietà di me, abbiate pietà di me voi almeno che siete miei amici, perché la mano del Signore mi ha raggiunto (Giob. XIX, 21). (Dom. Guéranger: l’Anno Liturgico – 1957]

SEQUENZA DIES IRÆ

Dies iræ, dies illa
Solvet sæclum in favílla:
Teste David cum Sibýlla.

Quantus tremor est futúrus,
Quando judex est ventúrus,
Cuncta stricte discussúrus!

Tuba mirum spargens sonum
Per sepúlcra regiónum,
Coget omnes ante thronum.

Mors stupébit et natúra,
Cum resúrget creatúra,
Judicánti responsúra.

Liber scriptus proferétur,
In quo totum continétur,
Unde mundus judicétur.

Judex ergo cum sedébit,
Quidquid latet, apparébit:
Nil multum remanébit.

Quid sum miser tunc dictúrus?
Quem patrónum rogatúrus,
Cum vix justus sit secúrus?

Rex treméndæ majestátis,
Qui salvándos salvas gratis,
Salva me, fons pietátis.

Recordáre, Jesu pie,
Quod sum causa tuæ viæ:
Ne me perdas illa die.

Quærens me, sedísti lassus:
Redemísti Crucem passus:
Tantus labor non sit cassus.

Juste judex ultiónis,
Donum fac remissiónis
Ante diem ratiónis.

Ingemísco, tamquam reus:
Culpa rubet vultus meus:
Supplicánti parce, Deus.

Qui Maríam absolvísti,
Et latrónem exaudísti,
Mihi quoque spem dedísti.

Preces meæ non sunt dignæ:
Sed tu bonus fac benígne,
Ne perénni cremer igne.

Inter oves locum præsta,
Et ab hœdis me sequéstra,
Státuens in parte dextra.

Confutátis maledíctis,
Flammis ácribus addíctis:
Voca me cum benedíctis.

Oro supplex et acclínis,
Cor contrítum quasi cinis:
Gere curam mei finis.

Lacrimósa dies illa,
Qua resúrget ex favílla
Judicándus homo reus.

Huic ergo parce, Deus:
Pie Jesu Dómine,
Dona eis réquiem.
Amen.

 

[Giorno d’ira sarà quello: il fuoco distruggerà il mondo come disse David con la Sibilla. – Qual terrore vi sarà, quando verrà il giudice ad esaminare tutto con rigore! – La tromba spanderà il suono mirabile sulle fosse della terra, radunerà tutti presso il trono. – Stupirà la morte e la natura, quando la creatura risorgerà per rispondere al Giudice. – Sarà aperto il libro scritto, dove è tutto quello riguardo a cui il mondo sarà giudicato. – Quando il Giudice si assiderà, tutto ciò che è occulto sarà svelato: niente resterà segreto. – Misero che sono! che dirò allora? A chi mi raccomanderò se appena il giusto sarà sicuro? – O Re di tremenda maestà, che salvi gratuitamente gli eletti, salvami, o fonte di pietà. – Ricorda, o Gesù pio, che io son la causa della tua venuta: non mi dannare in quel giorno. – Ti affaticasti a cercarmi, per salvarmi hai sofferto la croce: non sia vano tanto lavoro. – Giusto giudice vendicatore, dammi la grazia del perdono avanti il giorno dei conti. – Come reo gemo, la colpa copre di rosso il mio volto, o Dio, perdona a chi ti supplica. – Tu che assolvesti la Maddalena ed esaudisti il ladrone, da’ anche a me la speranza. – Le mie preghiere non son degne, ma tu buono e pietoso fa’ che non bruci nel fuoco eterno. – Mettimi tra le pecorelle, e separami dai capretti, ponendomi dalla parte destra. – Condannati i maledetti, e consegnatili alle orribili fiamme, chiama me coi benedetti. – Ti prego supplice e prosteso, col cuore contrito come la cenere, abbi cura del mio fine. – Giorno di lacrime sarà quello in cui dalla cenere l’uomo reo risusciterà per essere giudicato. – A lui dunque perdona, o Dio. O pio Signore Gesù, dona loro il riposo. Così sia.]

Le FESTE del mese di NOVEMBRE

1 Novembre Omnium Sanctorum  –  Duplex I. classis *L1*

2 Novembre In Commemoratione Omnium Fidelium Defunctorum – Duplex I. classis *L1*

3 Novembre I Venerdì

4 Novembre S. Caroli Epíscopi et Confessoris  Duplex I Sabato

5 Novembre Dominica XXII Post Pentecosten II. Novembris  Semiduplex Dominica minor

8 Novembre In Octavam Omnium Sanctorum  –  Duplex majus

9 Novembre In Dedicatione Basilicæ Ss. Salvatoris  –  Duplex II. classis *L1*

10 Novembre S. Andreæ Avellini Confessoris  – Duplex

11 Novembre S. Martini Epíscopi et Confessoris   – Duplex *L1*

12 Novembre Dominica XXIII Post Pentecosten III. Novembris  Semiduplex Dominica minor *I* – Martini Papæ et Martyris

13 Novembre S. Didaci Confessoris  – Semiduplex

14 Novembre  S. Josaphat Epíscopi et Martyris  –  Duplex

15 Novembre S. Alberti Magni Epíscopi Confessoris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

16 Novembre  S. Gertrudis Virginis – Duplex

17 Novembre   S. Gregorii Thaumaturgi Epíscopi et Confessoris  –  Duplex

18 Novembre  In Dedicatione Basilicarum Ss. Apostolorum Petri et Pauli    Duplex *L1*

19 Novembre  Dominica VI Post Epiphaniam IV. Novembris – Semiduplex Dominica minor *I* Elisabeth Víduæ

20 Novembre  S. Felicis de Valois Confessoris – Duplex

21 Novembre In Præsentatione Beatæ Mariæ Virginis  –  Duplex

22 Novembre  S. Cæciliæ Virginis et Martyris  – Duplex *L1*

23 Novembre  S. Clementis Papæ et Martyris  –  Duplex

24 Novembre  S. Joannis a Cruce Confessoris et Ecclesiæ Doctoris -Duplex

25 Novembre S. Catharinæ Virginis et Martyris  –  Duplex

26 Novembre S. Silvestri Abbatis  –  Duplex

30 Novembre S. Andreæ Apostoli  –  Duplex II. classis *L1*

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (14), cap. XXV

CAPITOLO XXV.

IMITATORI DEL BUON LADRONE IN ORIENTE.

I sette ladroni nell’isola di Cipro. — Convertiti da due discepoli di S. Paolo.— Prigionieri com’essi. — Divenuti gloriosi martiri. — Loro nomi. — La grande cortigiana di Antiochia. — Suo prestigio. — Suo lusso. — Storia particolareggiata della sua conversione. — Suo battesimo. — Suo vero nome. — Sua penitenza.— Sua morte in Egitto. — David brigante ed assassino, convertito subitamente, e divenuto un fervente solitario ed un taumaturgo. — Un altro ladrone solidamente convertito. — Santità della sua vita. — Eroismo della sua morte. — Conversione collettiva. — Incoraggiamento al secolo XIX. — I Niniviti. — Quello che erano. — Estensione e magnificenza della loro città riconosciute per la recente scoperta delle sue rovine.

Diciamo addio all’Europa, e torniamo ai luoghi donde ebbe principio il nostro viaggio. Nel passare per l’isola di Cipro penetriamo nelle sue prigioni. Osservate nel fondo di quella segreta due illustri discepoli di s. Paolo, Giasone e Sosipatro, prigionieri di Gesù Cristo. Stanno insieme con essi sette ladroni arrestati poc’anzi nelle montagne. Volete voi saperne i nomi? Essi son degni di essere conosciuti, dappoiché non più si trovano scritti negli annali del delitto, ma son nei fasti della gloria. Eglino erano chiamati Faustino Saturino, Gennaro, Marsalio, Eufrasio, Iascicolo e Mammio. Imitatori del Buon Ladrone nella sua vita di brigantaggio, noi li vedremo divenire imitatori della sua conversione. È affatto proprio de’ santi, animati dallo spirito del Salvatore, l’aver pietà dei peccatori, e, può dirsi, pietà proporzionata alla morale miseria di costoro. Giasone e Sosipatro sono incatenati, ma la parola di Dio non lo è già. Eglino la rivolgono ai loro compagni di pena: essa è ascoltata, compresa e gradita. I novelli Disma non indugiano a domandare il battesimo, Io ricevono, e poco stante muoiono coi loro evangelisti, ma non come ladri, sebbene come confessori e martiri. Annualmente il 29 aprile la Chiesa solennizza nel suo Martirologio questo novello trionfo della misericordia [Martyrol. Rom., 29 Aprile..] – Or eccoci tornati in Antiochia capitale della Siria. Una conversione non meno miracolosa ci attende. Lasciamo ad un testimonio oculare il compito di esporne il fatto e le circostanze. « Una discussione importante aveva riuniti molti vescovi in Antiochia, e di questo numero era Nono, il mio santo vescovo. Egli era un uomo ammirabile, vissuto da perfetto solitario nel monastero di Tabenne. Essendo i prelati assisi innanzi alla porta del tempio, pregarono Nono, il mio santo pastore, di tener loro un qualche spirituale discorso. Egli accingevasi a secondare il lor desiderio, allorché vedemmo passare a cavallo la più rinomata commediante di Antiochia, in grandissima pompa e sì riccamente vestita, che sembrava un ammasso di oro, di perle, e di pietre preziose; poiché non contenta che le sue vesti ne fossero ornate a dovizia, pur anco i calzari n’eran coperti. Ella veniva accompagnata da gran numero di giovani e di fanciulle riccamente vestiti, dei quali alcuni la precedevano, ed altri la seguivano. « Sì grande era la sua bellezza, che gli uomini del secolo non potevano saziarsi dal guardarla; sebbene ella non avesse fatto altro che passare, tutto all’intorno olezzava di soave fragranza, per le odorose essenze delle quali ella era profumata. Tutti quei vescovi al vederla passare con tal corredo di seduzioni, senza un velo sul capo né sulle spalle affatto scoperte, con un contegno sì poco modesto, gemerono in lor cuore senz’aprir bocca, e come dalla vista di un gran peccato, volsero altrove lo sguardo. – « Non così il santo vescovo Nono; egli la considerò lungamente, e quando fu passata, volgendosi ai vescovi ch’eran seduti con esso lui, disse loro: Non avete voi trovato un gran piacere nel contemplare la singolare bellezza di quella donna? Né rispondendo nessuno di essi a tale domanda, egli piegò il capo sulle sue ginocchia, e sciogliendosi in lacrime, ripeté ancora a quei suoi compagni: Non provaste voi un gran diletto nel contemplare la singolare bellezza di quella donna? E non ottenendo alcuna risposta, soggiunse: Io dal canto mio ne ebbi una grandissima compiacenza, perché Iddio la porrà un giorno dinanzi al suo formidabile trono, per servirsene a giudicare noi stessi. Imperocché, miei cari fratelli, quante ore credete che abbia ella impiegate ad abbigliarsi per piacere al mondo? E noi quanta cura e sollecitudine mettiamo a purificare le anime nostre, ed a farle belle di virtù per piacere a Dio? « Ciò detto, ei mi prese per mano, ed essendo giunti insieme al suo alloggio, nel quale pur io avevo una cella, egli entrò nella sua stanza, e prosteso a terra esclamò, picchiandosi il petto: O Gesù, mio Signore e mio Maestro, abbiate pietà di me povero peccatore, che in tutta la mia vita non ebbi mai tanta premura di abbellire l’anima mia, quanta n’ebbe in un sol giorno quella donna di mondo per adornare il suo corpo. « Il giorno dopo ch’era domenica, tutti i vescovi furono presenti per assistere alla messa solenne. Dopo il Vangelo l’Arcivescovo d’Antiochia prendendo il libro degli Evangeli lo presentò al vescovo Nono, pregandolo a voler istruire il popolo. Prendendo allora la parola, fece egli un discorso pieno di quella divina sapienza ch’era in lui, e che nulla aveva di affettato, di sottile, né di superfluo. Con semplici e naturali parole egli così al vivo rappresentò il giudizio finale, che tutti gli uditori ne furono estremamente commossi. « La provvidenza volle che la famosa cortigiana, della quale parlava poc’anzi, si trovasse presente a quel commovente discorso; e non avendo essa avuto mai alcun sentimento dei suoi peccati, il timor di Dio giudice fece una tale impressione sul suo cuore, che incominciò a sospirare, e quindi ruppe in un gran pianto senza ch’ella potesse in alcun modo frenarlo. Nell’uscir dalla chiesa, disse a due dei suoi domestici: Rimanete qui, ed allorquando il santo vescovo Nono uscirà dalla chiesa, seguitelo per sapere ove egli alloggi, e venite a dirmelo. I domestici di lei seguirono i nostri passi fino alla nostra abitazione. « Informata che fu della nostra dimora dessa inviò subito al santo vescovo alcune tavolette nelle quali erano scritte queste parole: Al santo discepolo di Gesù Cristo una povera peccatrice discepola del demonio. Io ho appreso che il Dio che voi adorate, è disceso dal cielo sulla terra, non per amore dei giusti, ma per salvare i peccatori. Avendo poi saputo dai cristiani quale e quanta sia la vostra santità, e che da gran tempo servite un sì buon Signore, io vi scongiuro di mostrare come voi siete suo vero discepolo, non tenendo a vile il vivissimo desiderio che ho di avvicinarmi ad esso. Il santo vescovo le rispose, che Iddio conosceva le di lei disposizioni, e che qualora fossero sincere, ella poteva liberamente venire a lui, poiché egli la riceverebbe in presenza degli altri vescovi, e non altrimenti. Questa risposta la ricolmò di tal gioia, che dopo di averla letta e riletta, difilato venne a trovarci nella nostra abitazione. – « Nono al momento radunò i suoi fratelli vescovi, ed ordinò che si lasciasse libera di avanzarsi. Appena entrata, si gettò ai suoi piedi ed abbracciandoli disse: Io ti scongiuro d’imitar Gesù Cristo tuo Maestro facendomi risentire gli effetti della tua bontà. Fammi cristiana, poiché io sono un’abisso di peccati, una voragine di ogni specie d’iniquità. Io ti domando il battesimo, « I santi canoni, le rispose Nono, proibiscono di battezzare una cortigiana, a meno ch’essa non presenti dei ragguardevoli personaggi, che rispondano del suo fermo proposito di non più ricadere negli stessi peccati. « Allora ella strinse più tenacemente i piedi del santo, li bagnò di lacrime, ed avendoli rasciutti con le sue chiome gli disse: Se tu rimetti ad altro tempo il mio Battesimo, benché macchiata di tanti peccati, attribuirò a te quanti ne potrò commettere in avvenire, e tu renderai conto dell’anima mia a Dio. Se differisci di pormi oggi nelle braccia della sua misericordia, io fo voti perché tu lo rinneghi, e venga ad adorare gli idoli. – Tutti i vescovi e sacerdoti presenti, udendo così parlare una gran peccatrice, s’interposero chiedendo premurosamente che si battezzasse. Allora il santo vescovo le disse: Come ti chiami? Ella rispose: Il mio vero nome è Pelagia, ma gli abitanti di Antiochia mi chiamano Perla, a motivo della gran quantità di perle e di altre gemme, di che divenni ricca per i miei peccati; perché io era la bottega più splendida e più magnifica che avesse il demonio. – Pelagia fu battezzata, e rientrata in sua casa, mandò al mio santo vescovo quanto essa aveva di prezioso, gemme, oro, argenti e sontuose vesti, acciò le disponesse come più gli fosse in piacere. L’ottavo giorno dopo il suo Battesimo, ella si levò la notte segretamente, si coprì di un cilizio e di un logoro mantello che il vescovo le aveva dato, abbandonò Antiochia per non più ritornarvi, e andò a chiudersi in un tugurio a Gerusalemme, sulla Montagna degli Olivi, poco lungi dal luogo ove Nostro Signore fece, sudando sangue, la sua ultima preghiera nell’orto. Ivi ella restò quattro anni, separata affatto dal mondo, e vi morì in fine della morte dei predestinati » [Vedi la sua vita scritta da Giacomo Diacono, nelle Vite dei Padri del deserto, t. I, p. 566 e seg.]. – Tale si fu la conversione di questa donna la cui salute pareva disperata. O santa Pelagia, illustre fra tutte le penitenti, ottenete a tutte quelle che avessero avuto la sventura d’imitarvi nel traviamento, la grazia di divenire pur esse monumenti dell’infinita misericordia di Dio! Per un altro genere di peccatori, rivolgiamo la stessa preghiera ai gloriosi penitenti, dei quali ora passiamo a raccontare la storia. – Vivea nel sesto secolo dell’ era nostra, poco lungi dalla città d’Ermopoli in Egitto, un famoso masnadiere per nome David. Spiando incessantemente il passaggio dei viandanti, ei spogliava gli uni, uccideva gli altri, e si bruttava di tanti altri delitti, che nessuno poteva pareggiarlo in crudeltà. Un giorno ch’egli commetteva un audacissimo furto alla testa della sua banda composta di più che trenta assassini, fu d’improvviso colpito da tale un pentimento dei suoi peccati, che abbandonò i suoi compagni, e si diresse al più vicino Monastero. Bussato che ebbe alla porta, il portinaio gli domandò che mai volesse; ed ei rispose: « Voglio farmi eremita. » Quegli andò subito a prevenirne l’Abate, che al momento discese, e vedendo quest’uomo già inoltrato negli anni, il venerabile Abate gli disse: « Tu non potresti rimaner qui; perché le nostre austerità sono sì grandi che alla età tua, non ti sarebbe possibile sopportarle. » « Padre mio, rispose il brigante, ricevimi, te ne scongiuro; non v’ha cosa alcuna ch’io non sia risoluto di fare. » L’ abate continuò a negare per le addotte ragioni. « Ebbene, riprese il ladro, io te lo dichiaro, Padre mio; io sono David, il capo dei briganti che qui vengo per piangere i tanti miei peccati, e ti protesto per il Signore Iddio, che abita nei cieli, che se tu mi respingi, ed io abbia a tornare a vivere come finora ho vissuto, risponderai innanzi a Lui di tutti i delitti che continuerò a commettere. » L’abate commosso ad un tale discorso, lo fece entrare e gli fece indossare l’Abito di eremita. – Questo soldato giovine ad un tempo e vecchio, incominciò immantinente a combattere con tal coraggio nella spirituale milizia, che presto superò in austerità e vigilanza tutti i Solitari compagni, benché fossero settanta di numero. La obbedienza, l’umilia, l’astinenza del novello Disma eran per tutti un continuo soggetto di edificazione. Un giorno ch’era seduto nella sua cella, gli apparve un Angelo e gli disse: « David, Iddio ti ha rimesso tutti i tuoi peccati. » « Il numero dei miei peccati, rispose David, sorpassa quello delle arene del mare! Io non posso credere che in sì breve tempo il Signore mi abbia perdonato. » L’Angelo riprese: « Per aver ricusato di credere che egli avrebbe un figliuolo, Zaccaria fu privato dell’uso della favella; e tu pure ne sarai privo in punizione della tua incredulità. » David cadendo prostrato a terra gli disse: « Quando io passava la mia vita a spargere il sangue umano, ed a commettere tanti altri enormi delitti, avevo libero l’uso della parola, e vorresti tu togliermelo ora, ch’io desidero unicamente di servire Dio, e di pubblicare le lodi della sua misericordia? » — « Quando bisognerà cantare le lodi del Signore, rispose il celeste Messaggero, tu riavrai libera la parola. Fuori di ciò, non sarà più in poter tuo di profferire un sol accento. » Così fu, e 1’umile David proseguì a vivere santamente, operò miracoli, e morì come il suo glorioso modello il beato Disma. [Joan, Mose., c. XXXVII]. – A questa veramente ammirabile conversione, che mostrandoci il subitaneo procedere e la piena efficacia della divina Misericordia, e sì propria a bandire ogni inquietudine dall’animo dei peccatori veramente contriti, se ne aggiunge un’altra, nella quale l’eroismo del pentimento va fino al sublime. – Un gran ladrone, toccato dalla grazia, andò a trovare l’Abate Zosimo di Cilicia, e pregollo in nome di Dio, a volerlo accogliere nel suo Monastero per ritrarlo dal commettere gli assassinii e i delitti d’ogni natura, dei quali si era egli fatta lunga ed imperiosa abitudine. Dopo di avergli diretta una calorosa esortazione, il buon vecchio lo accolse e lo vestì dell’abito di Solitario. Dopo qualche tempo, l’Abate gli disse: « Sentimi, figlio mio, a te non conviene di rimanere qui fra noi. Se la giustizia viene a sapere ove sei, ben presto cadrai nelle sue mani. Or vieni con me, ed io ti condurrò al monastero dell’Abate Doroteo, che è tra Gaza e Majuma. » – Ciò detto, quel venerabile superiore lo prese per mano e lo condusse all’indicato Monastero, ove restò per nove anni, e pieno del primitivo fervore edificò tutti i religiosi per la costante osservanza della Regola. Imparò tutto il Salterio e tutte le preci che bisognava sapere nella pratica della vita monastica. Alla fine poi del nono anno tornò a visitare l’Abate Zosimo, e gli disse: « Padre mio, ti prego di lasciarmi smettere quest’abito santo che tu mi desti, e di rendermi quello ch’io avevo quando venni qui. » Tali parole afflissero profondamente il santo vecchio, che lo richiese del motivo di una tale risoluzione; e quegli rispose: « Io ho passato nove anni in perfetto riposo nel monastero, al quale tu mi conducesti, digiunando il più che mi fu possibile, e vivendo nella continenza, nell’ubbidienza, e nel timor di Dio; il che mi fa sperare che il Signore, per la sua infinita misericordia mi abbia rimesso una gran parte dei miei peccati. Cionondimeno, o ch’io vegli, o che dorma, o che sia nella Chiesa, o al refettorio, e paranco nell’accostarmi alla santa Comunione, io vedo sempre e dappertutto un giovinetto che una volta uccisi, e che sempre mi ripete: Perché bagnasti tu del mio sangue le tue mani? e non mi dà un sol momento di tregua. Ed è perciò, Padre mio, che voglio andarmene, per correre ad espiare con la mia morte un sì gran delitto, avendo ucciso senz’alcun motivo quel giovine. » Dopo questa dichiarazione ei riprese il suo vecchio abito, si diresse a Diospoli; e nello stesso giorno venne arrestato per via, ed il dì seguente ebbe troncata la lesta. [Joan. Mose., c XLVI] Le conversioni che abbiamo fin qui ricordate, ed altre molte che ad esse potrebbero aggiungersi, son fatti individuali capaci d’incoraggiare questo, o quel peccatore in particolare. Ma per determinare il nostro secolo stesso a convertirsi, rimane che per noi gli si mostri la subitanea conversione di un intero popolo. Col provargli che nulla è impossibile alla divina Misericordia, un simile esempio risponderà a tutte le obbiezioni della sua mente e del suo cuore. Cosi lo scoraggiamento farà luogo alla fiducia, la stupida indifferenza al ravvedimento, ed il gran figlio prodigo dirà: « Io mi alzerò per andare dal Padre mio » Morire dopo di aver inteso una tale parola, sarebbe un morir di gioia. – Nell’antico Oriente esisteva un impero, famoso per la sua potenza, per le sue ricchezze, pel suo lusso, per la colossale sua idolatria e per tutti i vizi che sono la conseguenza inevitabile del sensualismo e del culto dei demoni. La capitale di quell’impero singolarmente si distingueva per la corruzione degli innumerevoli suoi abitanti. – Egli è provato dal fatto che i grandi centri di popolazione furono sempre e sono tuttavia grandi focolari di corruzione, fisica e morale. Quale pertanto doveva essere la depravazione della città, di cui vogliamo parlare! – Nella cinta delle sue mura ch’eran alte cento piedi, e di tale larghezza da potervi correr sopra tre carri di fronte, e fiancheggiate da mille e cinquecento torri, alte due cento piedi, Ninive chiudeva in un sì sterminato ambito la popolazione di tutto un regno. Tre giornate di marcia bastavano appena per attraversarla. – In mezzo al tumulto di questa immensa città ubriaca di voluttà e sozza di abominazione, il cui grido di vendetta era giunto al cielo, risuona ad un tratto la voce di un uomo sconosciuto. Quest’uomo è un Profeta, e la sua voce diceva: « Ancora quaranta giorni, e Ninive sarà distrutta. » A questa minaccia, confermata dai miracoli, il Re per primo rientra in se stesso. Egli scende dal suo trono e si umilia, e tutto il popolo ne imita l’esempio. La dissipata, l’orgogliosa, la splendida e voluttuosa Ninive si copre di cenere e di cilizio: prega, digiuna, piange e si pente: Essa è salva. – L’esempio di Ninive è un immortale insegnamento lasciato alle nazioni colpevoli. Se esso mostra con quale estrema facilità Iddio apra ad esse le sue braccia paterne, indica loro altresì qual sia l’unico mezzo di ottenere misericordia. Così per i popoli, come per gli individui, il pentimento è la prima condizione del perdono. Invece di ostinarsi nella ribellione, e di correre ansiosamente in cerca di mezzi impossibili per trarsi fuora dai mali passi, nei quali si è gettato, il secolo decimonono rivolga i suoi sguardi a Ninive, ed al buon Ladrone, due grandi colpevoli, così di subito convertiti e contenti della loro conversione. Sull’esempio del Re di Ninive, rientrino in se stessi i Re d’Europa, e piangano le loro iniquità: che i popoli imitino i Re, e da ogni petto prorompa il grido salutare: « Smarrimmo la via di verità: Ergo erravimus: » e tutte le questioni sociali saranno risolute all’istante. La società sconvolta si raffermerà sulle sue basi fondamentali, la rivoluzione sarà vinta, e per quanto lo permettano le condizioni della vita presente, la pace regnerà sulla terra. – Pentirsi o perire: tale è l’alternativa alla quale il secolo decimo nono [analoga considerazione vale anche per il secolo presente, il XXI –ndr.-] non può più sfuggire. In luogo di sceglier la morte, perché non preferirebbe egli la vita? Né il numero, né l’enormità dei suoi colpevoli eccessi debbono sgomentarlo. « Allorquando si vedono, dice un Padre della Chiesa, aprirsi le porte del Cielo e spalancarsi innanzi ad un gran ladro, chi mai potrebbe disperare » Fatti animo adunque e sappi volere, gli diremo col Bocca d’oro dell’Oriente. Il male non è dell’essenza di tua natura; dotato come sei di libero arbitrio, lo puoi vincere. Certamente, le tue iniquità sono grandi. Tu sei un secolo dedito al denaro; ma puoi divenire un evangelista. Tu sei un secolo di bestemmie; ma puoi divenire un apostolo. Tu sei un secolo di rapine e di furti; ma puoi rubare il cielo. Tu sei un secolo di pratiche diaboliche; ma puoi adorare il vero Dio. Non v’han catene che non si rompano, non v’han delitti che non si cancellino con la penitenza. Morendo il Redentore del mondo scelse per convertirlo, tutto ciò che vi ha di più reo, affine di non lasciare, fino alla fine dei secoli, alcun sotterfugio allo scoraggiamento. In questo modo egli da te prese commiato [S. Chrysost., Ve Chananæa, n. 2, Opp., t. III, 518.]

 

LA GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (10) – Eredi moderni –

Qualche EREDE MODERNO della GNOSI

[Elaborato dal vol. “De la gnose a l’œcumenisme”, cap. II, di É. Couvert]

“L’uomo moderno è uno “gnostico senza saperlo”. Come stupirsene? La società di oggi è quasi interamente impregnata da idee massoniche [v. il vol. F. Sarda y Salvani: “Massonismo e Cattolicesimo”, pubblicato in questo blog). Le modalità del pensiero attuale, il cosiddetto pensiero “unico”, sono uscite dalle logge di numerose società, clubs, scuole universitarie e di pensiero, di gruppi di pressione forgiati ed emananti dalle logge. La Chiesa stessa non si è umanamente trincerata contro questa nuova invasione barbarica, molto più devastante di quella dei popoli nordici del passato, poiché essa si accanisce nel demolire ciò che resta della civilizzazione cristiana. [Parliamo naturalmente della “vera” Chiesa Cattolica, quella che dal 1958 è “eclissata” e scorre come un fiume carsico sotto i meandri e le caverne montuose del “mostro conciliare oscurante”, la dove la gnosi impera incontrastata attraverso la massoneria “ecclesiale”]. Non si tratta di fare opera di erudizione, anche perché ne esistono già di diverse, anche mastodontiche nelle loro dimensioni, ma semplicemente di “decantare” queste “forme di gnosi” per ritrovarne le formula primitive [quelle denunciate in precedenza nella serie di questi scritti]; ancor meglio, noi cerchiamo di sforzarci di ritrovare tra i bislacchi “particci” e sotto le coperture mitologiche moderne, le filantropie o zoofilie varie, le grandi direttive del pensiero che si mantiene e inalterato si perpetua sviluppandosi nel corso dei secoli. In effetti esiste una progressione nell’errore, così come nella verità. Determinati spiriti, attirati dall’apparenza di verità che possono contenere i falsi principi, non vedono tutte le conseguenze delle loro affermazioni; ma le generazioni successive ne vedono gli effetti, perché le conseguenze sono contenute implicitamente nelle premesse. Così vedremo che Freud, Jung, Hegel e Marx non hanno mancato di sviluppare la gnosi nella linea della più grande sovversione, per cui la psicanalisi o il marxismo sono delle vere religioni ma completamente invertite, come pure il modernismo teologico. Si può impunemente sostituire il culto di satana a quello di Gesù-Cristo: la sovversione di tutto l’ordine cristiano è “fecondo” di catastrofi apocalittiche; satana rimane l’“omicida”, l’“ingannatore” fino alla consumazione dei secoli. Noi stiamo per dimostrare che la franco-massoneria è l’erede e la vera detentrice e “dispensatrice” della gnosi. Abbiamo già visto come essa pratichi l’amore dell’umanità, che insegni la ruota universale delle cose e l’evoluzione del gran tutto. È dal seno delle logge che sono nati i grandi movimenti contemporanei che si sforzano di divulgare, in una società scristianizzata, le formule e le pratiche della gnosi, insite abbondantemente nell’anti-magistero della setta vaticana del novus ordo che, spacciandosi per Chiesa Cattolica, strombazza attraverso tutti i mezzi di informazione, nella quasi totalità gestiti dalle logge o dai “maestri” superiori, che controllano e censurano le poche voci ancora relativamente libere.

LA PSICOANALISI

Freud ha partecipato regolarmente alle attività della loggia massonica dei B’nai B’rith (= figli dell’alleanza) di Vienna. Egli fu inizialmente attirato dalla “Natürphilosophie”, una sorta di misticismo panteista, ricavato in particolare dagli scritti massonici di Goethe, aderente anch’egli a questa medesima loggia dei B’nai B’rith (loggia di soli componenti ebrei veri o più di frequente di coloro che si dicono ebrei, ma non lo sono: i falsi kazari). Egli seguì le idee di Jacob Frank. Quest’ultimo insegnava che “ogni cosa era santa”, che in Dio c’è  la radice del male, ma che questo male risultava solo dalla dispersione delle “scintille divine” (cioè le anime) e che gli uomini dovevano librarsi al male per rassomigliarle. Il peccato, egli dice, è santo, bisogna immergervisi; … è il nuovo Messia [o meglio anti-Messia]. L’idea fondamentale dello “scienziato” Freud è che bisogna sbarazzarsi di tutte le leggi religiose e principalmente della Thorah. Egli trae le sue conclusioni dalla cabala che è la forma essenzialmente giudea della gnosi. Si dice nel “libro dello zohar” (dello splendore):  « Con questo albero (quello della conoscenza), Dio creò il mondo; mangia dunque da questo frutto e sarai simile a Dio, perché conoscerai il bene ed il male; poiché è per questa conoscenza che egli è Dio. Magia dunque e sarai creatore dei mondi. Dio sa tutto ciò ed è per questo che vi proibisce di mangiare questo frutto; perché è un artigiano (“un demiurgo”), ed un artigiano detesta tutti i colleghi che esercitano il suo stesso mestiere ». Noi riconosciamo in questa, una delle tesi classiche della gnosi, ma con un nuovo sviluppo. In effetti se il male ha la sorgente in Dio, esso vi coesiste con il bene che ha essenza divina. Dunque in Dio (il gran tutto-pleroma) il male ed il bene sono intercambiabili. Se l’uomo mangia del frutto dell’albero della gnosi, conoscerà il bene ed il male; egli ne sarà il maestro; è lui che definisce cosa sia l’uno e l’altro e da se stesso stabilirà la sua legge. In un colpo: … ecco il Creatore! Adamo ed Eva non hanno voluto tirare le conseguenze di un tale regalo! [regalo del serpente]; noi abbiamo detto in precedenza  che la Psicoanalisi sia il più grande tentativo intrapreso dal mondo moderno per scagionare l’uomo, per togliergli la responsabilità dei propri atti, “liberarlo” dai suoi scrupoli di coscienza e permettergli di darsi senza segreti e remore alle sue pulsioni istintive. Dio, dice Freud, è l’immagine che produce il sentimento di colpa. La malattia della nevrosi proviene da questo [eziologia propriamente scientifica!]. Bisogna trovare una contro immagine: sarà satana che permette a tutte le pulsioni della “psiche” di aprirsi, di essere accessibili alla coscienza, di essere accettate come liberatrici. satana prende il posto di Dio, egli ha vinto questa immagine soffocante del Padre; egli ha dato alla nevrosi il sollievo che essa attende; ha così appagato la sua angoscia. Tale è il tema essenziale della “scienza dei sogni”. Jung aggiunge a questa impresa di “liberazione”, già di per se stessa luciferina e priva di ogni logica razionale, la nozione di “inconscio collettivo”; “la parola, egli dice, è inerente ad un sé superiore che sarà il centro di una personalità psichica totale, illimitata ed indefinibile … e pertanto « non c’è che una umanità dotata di un’anima sola ». Siamo in pieno panteismo! Questa grande anima illimitata ed indefinibile è il “pleroma” degli gnostici, che contiene tutte le “scintille” disperse nei corpi degli uomini, e che bisogna raccogliere con la pratica del “santo peccato”, come diceva appunto l’altro figlio dell’alleanza [… alleanza con satana] Jacob Frank.

La nozione di INCONSCIO

La parola ed il concetto di inconscio appare per la prima volta presso Fichte ed Hegel. La psicoanalisi ne ha fatto da allora un uso delirante. La necessità dell’inconscio è apparsa nei filosofi idealisti o soggettivisti senza che essi spieghino l’apparizione delle idee nell’anima. Nei filosofi realisti, ad esempio san Tommaso d’Aquino, la percezione dell’oggetto sveglia nella nostra anima una facoltà intenzionale che, applicandosi a questo oggetto ne trae l’idea intellegibile (S. Tommaso dice “la forma”). Così l’idea è il risultato di un’astrazione. La conoscenza è preceduta puramente e semplicemente dall’ignoranza (ignoranza è non conoscere, come direbbe la Palice). Nei filosofi idealisti, invece, l’idea è già nell’anima prima che l’oggetto sia percepito. L’apparizione dell’oggetto costituisce l’occasione, la circostanza che sveglia nell’anima l’idea che già in precedenza essa conteneva. La nostra anima era, secondo loro, prima di ogni conoscenza dovuta ad una percezione, già piena di idee delle cose che andava percependo nel corso della sua esistenza; ma queste idee erano in uno stato di “sonno”, di letargo … dunque inconsce. La percezione dell’oggetto costituisce uno shock illuminante: l’anima riconosce nell’oggetto l’idea che ne aveva precedentemente senza conoscerla direttamente. È ciò che si chiama l’“Inneismo” (le nostre idee sono già nella nostra anima al momento della nascita). Si tratta di un inconscio pieno di idee, di un’anima piena di conoscenze ancora sconosciute (???!!). Per gli gnostici in effetti, le anime umane sono delle scintille divine cadute dal cielo a causa di una caduta catastrofica nei corpi. Il loro novo stato è contro natura e fa violenza alla loro massima aspirazione terrena: il ritorno al divino. Ma il loro stato anteriore era divino, dunque onnisciente ma … dove sono passate le conoscenze anteriori? In qualche parte bisognerà pur trovarle. Questa parte sarà l’inconscio! Jung aggiunge che le “scintille” divine sono particelle di un’unica anima universale; le idee umane sono dunque particelle di una idea universale: disperse nelle anime esse appartengono ad una collettività, la divinità originale incaricata di “incanalare” le anime per ricostituire il gran tutto. Da qui l’inconscio collettivo che suppone la preesistenza delle anime prima del concepimento e che permetterà poi di realizzare la nozione di reincarnazione, insegnata nella metempsicosi, altro “cavallo” gnostico. Infatti già i grandi gnostici insegnavano questi due ultimi punti. La psicoanalisi non ha fatto null’altro che trarne le conseguenze: le nostre idee non sono personali, esse sono comuni non perché l’oggetto conosciuto è lo stesso per tutti quelli che lo percepiscono (ciò che costituisce il buon senso naturale), ma perché la nostra anima non possiede che particelle di una stessa idea collettiva dell’inconscio. È fondendo le nostre idee nella corrente del pensiero collettivo che potremo prepararci al ritorno nel gran tutto originale divino. Questa idea gnostico-inneista è quella che si vuole ad ogni costo far passare nel cosiddetto “pensiero unico”, il “politicamente corretto”, cioè il “massonicamente diretto”: tutti devono avere le stesse idee, gli stessi concetti perché parte di un’idea inconscia collettiva universale e preesistente, e quindi inconscia, la cui pratica deve prepararci al ritorno nel panteistico “gran tutto”. Precisiamo ancora che le sedute di psicoanalisi sono assimilabili a riti di iniziazione, con tanto di svelamento dei misteri dell’Inconscio, ammantati da una “molto scientifica” e pittoresca mitologia: complessi di Edipo, di Elettra, di Diana. Dio, la Madre, il Bambino divino sono, sulla bocca dello psicanalista degli archetipi, cioè dei simboli religiosi e non esseri reali. Jung ruba alla gnosi e all’astrologia qualche termine “scientifico” importante del suo insegnamento. Così, l’espressione della perfezione o della totalità, è il quadrato, la tetrade o “Tetractys” (la Tetractys è il nome composto di quattro lettere che in ebraico significano: Dio). La Trinità divina è in realtà una quaternità incompiuta. Occorre aggiungervi il male o satana per raggiungere la perfezione o l’essenza divina. Presso Jung anche il male è Dio; ma Dio ed il sé sono identici. Il “sé” è sacro: “noi osserviamo che i due, Dio ed il sé, sono espressi da due simboli identici. » – Jung sempre “scientificamente” aggiunge: « Non possiamo comparare l’interesse sollevato dalla psicoanalisi di Freud che all’efflorescenza del pensiero gnostico. Le correnti spirituali attuali hanno un’affinità profonda con lo gnosticismo. La teosofia [“elisir” spirituale al quale si era pure abbeverato abbondantemente il “santo” della sinagoga di satana K. Woitiła -n.d.r.-] con la sua consorella continentale che è l’antroposofia, sono puro gnosticismo sotto una casacca induista: … ciò che è sorprendente nei sistemi gnostici, è che essi sono basati esclusivamente sulle manifestazioni dell’inconscio e che i loro insegnamenti morali non indietreggiano davanti ai lati oscuri della vita (tra parentesi, questo inconscio è la “psiche” degli gnostici, sede delle passioni e delle agitazioni del corpo). Io non credo di andar troppo oltre dichiarando che l’uomo moderno, contrariamente al fratello del XIX secolo, si volge verso la psiche con grandi speranze e senza riferirsi ad una qualunque credenza tradizionale, ma piuttosto nel senso di una esperienza religiosa gnostica. » [in “Il problema dell’anima moderna”]. – Non si poteva dir meglio: la gnosi ha fatto, con la psicoanalisi, il grande ingresso in un mondo scristianizzato. Ma la psicoanalisi presenta una importante novità. In effetti la gnosi si prestava a diverse incoerenze, contraddizioni varie che non riusciva a risolvere, e ne abbiamo esaminate già alcune nei numeri precedenti. La psicoanalisi supera queste difficoltà. Ad esempio: il problema del male. – Gli gnostici non sanno come conciliare il bene ed il male nella divinità! … e qual è il problema? Non vi agitate! Tra bene e male non c’è alcuna differenza, dicono gli psicoanalisti (meglio forse psico-satanisti!). Anzi meglio ancora, il male è la perfezione del bene, il compimento della divinità, satana stesso fa parte integrante di dio [quello con le corna, ovvio!] Egli è quell’essere divino, strisciante … che ha insegnato all’uomo che essi erano maestri di se stessi, capaci di discernere tra il bene ed il male. Gli gnostici affermano che la nostra anima, scintilla divina, doveva restare indifferente, impassibile davanti alle agitazioni ed alle pulsioni della psiche. Gli psicoanalisti affermano al contrario, che l’uomo deve lasciar libero corso a queste pulsioni, anzi deve immergersi nella soddisfazione dei suoi piaceri, come in un’orgia sacra, perché i movimenti della psiche sono anche i simboli della perfezione divina!. Ciò che altre volte era riservato a qualche iniziato nel corso di una cerimonia “sacra” sarà praticato correntemente oggi da tutti! La pratica dell’ascesi presso gli gnostici, i perfetti, i puri, catari, era in precedenza non un mezzo per raggiungere la divinità, ma il segno che essa era già raggiunta, che l’uomo aveva in se stesso realizzato l’unità perfetta. La pratica della dissolutezza nello gnostico moderno sarà dunque il segno che l’uomo ha oltrepassato le categorie del bene e del male arrivando a padroneggiare totalmente se stesso, diventando capace di darsi la legge del piacere senza dover rendere conto a nessuno: la libertà totale senza alcuna responsabilità, … a metà strada tra l’imbecillità assoluta e la criminalità spietata. Come sovversione di tutto l’ordine naturale e divino, non si poteva trovare di meglio; tuttavia vedremo che i marxisti spingono le tesi gnostiche fino alle loro estreme conseguenze. Con essi finiremo con il piombare nell’estremo grado dell’odio satanico contro l’Ordine del Creatore.

L’INDUISMO OCCIDENTALIZZATO.

Nei tempi moderni, la gnosi si è sbarazzata di ogni linguaggio oscuro e complicato con il quale mascherava il suo vero insegnamento. Occorreva infatti rinnovare il suo vocabolario e le sue formule, indossare degli abiti nuovi per raggiungere un pubblico nuovo. Essa andò allora a cercare nelle Indie delle “novità” capaci di ridare un certo prestigio al suo insegnamento. La gnosi lanciò allora una nuova moda rinverdita e lustrata dall’attrattiva di paesi esotici! – C’è forse bisogno di sottolineare che se il formulario è rinnovato, il contenuto resta invariato, o se l’abito è nuovo, il burattino è lo stesso? La gnosi resta come definizione l’antitesi della Fede Cristiana, anche se essa si presenta piena di “benevolenza” per la Chiesa e di rispetto apparente per i suoi insegnamenti. Rispetto e benevolenza di pura convenienza per non destare allarmi e sospetti. Non si va al primo approccio all’attacco delle convinzioni di coloro che si spera attrarre a sé! Al contrario si va a mostrare loro che il nuovo insegnamento non fa che perfezionare, completare, esplicitare la loro fede cristiana. Questo sarà infatti l’obiettivo privilegiato della “nuova destra”: presentare questo insegnamento come la perfezione dell’insegnamento cristiano, riprendendo così il processo degli gnostici d’altri tempi che si mostravano ai loro futuri discepoli con tutta l’apparenza dell’ortodossia, affermando di aver meglio compreso l’insegnamento di Gesù – Cristo, molto meglio dei Capi della Chiesa. È questo ovviamente il metodo del modernismo anti-cattolico sfociato nel rifiuto pratico. oltre che della Tradizione apostolica, soprattutto del Magistero apostolico ritenendo i Papi del passato [i veri Papi] antiquati ed inadatti ai nostri tempi nei quali c’è bisogno di una “rispolverata” delle antiche dottrine cristiane alla luce del pensiero moderno, della [satanica] “nuovelle Theologie”, la “gnosi in talare”, il sepolcro gnostico imbiancato!

1) La Teosofia

Dalla storia di M.me Blavatsky, fondatrice della società teosofica, si rileva che la sua formazione è di origine totalmente massonica. Dal 1856 ella aderisce ai carbonari della “giovane Europa” del maestro della Massoneria mondiale di rito palladiano, G. Mazzini; un anno dopo, nel 1857 c’è il salto di qualità: una società rosa+croce in America e solo nel 1878 parte per le Indie ove presume di scoprire una reincarnazione di Pitagora [ma … questa era proprio da internare in manicomio!]. Confortata da questa strepitosa “scoperta” fonda delle riviste tra le quali spiccano “l’Isis svelata”, “lucifero”, il “lotus bleu”[strano non le abbiano conferito il premio Nobel, come al satanista Carducci!]. Nel 1907 M. Oltramare pubblicava negli “Annales du Musée Guimet” una puntualizzazione molto energica: “Si sa come gli apostoli del nuovo vangelo occultista abbiano tentato di chiedere all’India la soluzione dei problemi della vita e della morte … Ma non è dall’India, bensì dalla tradizione antica, dal Giudaismo e dal Rinascimento che traggono l’essenziale le concezioni teosofiche moderne. Nella ricerca di autorità che sembrano decisive, che i nostri teosofi hanno chiesto all’India, c’è la conferma di teorie che essi già possedevano. Essi hanno soltanto estratto i termini esotici e la nomenclatura dalle atmosfere orientali”. La teosofia è tutta una derivazione della gnosi, della cabala e del neopitagorismo. Essa si trova esposta nel “libro degli spiriti” di Allen Kardec, pubblicato nel 1857, dove si ritrovano tutte in fila le dottrine dell’emanazione, del ritorno al “tutto”originario, così come furono insegnate già dagli gnostici senza fare il minimo riferimento all’Induismo.

2) René Guenon

René Guenon è anche un esempio rimarchevole dello gnostico moderno che possiede l’arte di presentarsi come un cristiano, collaboratore di riviste cattoliche, che del mondo moderno ateo fa una critica pertinente che inganna più di una persona sulle sue vere intenzioni, un prototipo del modernista contemporaneo che, ancora peggio di Guenon, addirittura celebra riti sacrileghi facendoli apparire cattolici, soprattutto da quando è stata “confezionata” la nuova “messa”, il rito rosa+croce, come già abbiamo avuto modo di dire in precedenza. La conversione all’islam di Guenon finì per aprire gli occhi alla maggior parte di coloro che furono all’epoca attirati da lui, [mentre oggi, coloro che, fingendosi cattolici, dicono che l’islam sia moderato ed un monoteismo che si rifà ad un libro di “pace” come il Corano, sono addirittura seduti sul trono più alto usurpato. In realtà Guenon ricevette tutta la sua formazione negli ambiti massonici, ed è notorio: ha aderito dal 1906 alle società iniziatiche come l’ordine martinista, il rito di Memphis, la chiesa gnostica, la gran loggia di Francia [la stessa loggia ove furono iniziati i mons. Roncalli e Montini], etc., creò poi delle riviste: “la gnosi”, poi “gli studi tradizionali”. Inizialmente disprezzava il buddismo vedendo in esso un’eresia protestante dell’induismo. Poi ritrattò, ed interessato vivamente alle Indie, iniziò a studiare il bramanesimo. – Esaminiamo la sua dottrina che è detta tutta proveniente dal “vedanta” nella sua forma tradizionale ed ortodossa. Il mondo è la manifestazione di un principio supremo, “non manifestato”: Brahma. Questi è l’universale, il tutto assoluto, l’infinito. Non si può parlarne che per negazione. Il mondo, la sua manifestazione universale, non si distingue da Brahma. “Brahma si modifica diversamente … ogni cosa esiste perché è una sua modifica” (“l’uomo e il suo divenire”). Il movimento di esistenza è una espansione del principio immutabile. René Guenon, benché lo neghi, con tali formule non sfugge all’accusa di panteismo. – L’essere umano comporta un principio universale, il sé, identico a Brahma, delle modalità mediatrici tra il sé e le modalità inferiori, “sottili o psichiche”, “grossolane o corporali”, il sé è avviluppato come in un grano di riso. La liberazione consiste nel passare attraverso diversi gradi di ritorno a Brahma, la “discesa agli inferi”, vale a dire sviluppo dell’individualità corporea, poi l’accesso progressivo agli stati superiori dell’essere, la realizzazione poi degli stati angelici, infine approdo all’identità suprema, unità con Brahma … “la resurrezione dei corpi è la trasposizione fuori dalla forma e delle altre condizioni dell’esistenza individuale”, dunque il ritorno al gran tutto. Poiché l’uomo possiede al centro di se stesso il “sé” identico a Brahma, non deve che raccogliere le sue forze concentrandole sul sé. Occorre inizialmente ricevere una “influenza spirituale”, un soffio dello spirito, poi praticare degli esercizi progressivi di concentrazione, passare nello stato di estasi, poi in degli stadi “sopra-individuali”. Arriva un momento in cui l’essere “non può più essere detto umano, è uscito oramai dalla corrente delle forme”. È la liberazione, l’unione con l’assoluto; lo yoga è divenuto yogi, identificazione suprema, definitiva, eterna! Più felice di Adamo, egli è divenuto uomo universale, re del mondo. – È  allora che si può parlare dell’essere che è legge a se stesso, perché è pienamente identico alla sua ragione sufficiente, che è nello stesso tempo la sua origine ed il suo destino finale (stati multipli dell’essere). Egli percepisce direttamente gli stati superiori del suo essere, una sorta di estasi o ipnosi; poi raggiunge “la restaurazione dello stato primordiale”, prerogativa che era naturale nelle prime ere dell’umanità, e che fu perduta da Adamo ed Eva. Ora occorre un “alto grado di iniziazione” per diventare l’emulo del primo Adamo e riuscire là dove egli ha fallito. – La Chiesa Cattolica possiede in se stessa una forza latente, nascosta, della quale deve prendere coscienza per essere in possesso del “Cattolicesimo integrale”. È sufficiente restituire alla sua dottrina, senza nulla cambiare alla forma religiosa sotto la quale si presenta all’esterno, il senso profondo che ha in se stessa, ma di cui i rappresentanti attuali sembrano non aver più coscienza né della sua unità essenziale con le altre forme tradizionali …” [i rappresentanti attuali ne hanno invece “finalmente” preso coscienza! -n.d.r.-]. La tradizione sussiste nella Chiesa “come modalità di espressione simbolica”. Il Cristo è l’“uomo universale”, il più grande degli iniziati, il simbolo dell’identificazione suprema dell’uomo con Dio. – Ma trascriviamo adesso tutto questo in greco: Brahma è il pleroma; il sé è lo “pneuma”; poi vengono le modalità mediatrici: la “psiche”, modalità sottile, il “soma”, modalità grossolana. Il grano di riso che avviluppa il sé, è la materia che tiene prigioniera la scintilla divina. La risalita verso gli stati superiori è il passaggio attraverso gli eoni degli gnostici. In Guenon si ritrova il panteismo e l’emanatismo propri di ogni gnosi. Non c’è nulla di originale, siamo in un mondo ben conosciuto … la solita “solfa”. – Per lasciarsi attirare da tali elucubrazioni bisogna che i Cristiani di oggi abbiano veramente perduto, con ogni buon senso, l’essenziale della dottrina cristiana poiché essi non trovano più nell’insegnamento della Chiesa i punti di appoggio necessari per resistere a questa invasione gnostica mascherata da induismo. Da qui il successo attuale della pratica Yoga, delle sedute di espressione corporea, del “pellegrinaggio alle sorgenti” di un Lanza del Vasto, etc.

VEGANESIMO

Una recente invenzione gnostica è il cosiddetto Veganesimo, punta di diamante del vegeterianesimo, dove col pretesto di aborrire la violenza sugli animali, viene a questi riconosciuto uno status immanentistico, nel senso che anche la natura, ed in particolare gli animali, sarebbero materia che riveste una scintilla divina, parte dell’uno divino, decaduta per l’azione del demiurgo “maldestro”, scintilla anche essa destinata a riunirsi poi, con l’uomo e tutte le specie viventi, nel tutt’uno universale. Anche il cosiddetto evoluzionismo delle specie animali, è un “ritrovato” panteistico in cui la divinità si espande autocreandosi in specie sempre nuove. In tale chiave gli animali e la natura in generale altro non sarebbero che espressione dell’evoluzione della divinità cosmica imprigionata nella materia, per cui non è l’animale come tale che deve essere rispettato nel quadro ecologico o dei cicli biologici, ma l’essenza “divina” prigioniera della materia, in una prospettiva iniziatico-religiosa. Non a caso tutte le grandi organizzazioni mondiali ecologiste (tipo wwf e simili) sono gestite e sostenute da conventicole e personaggi notoriamente legati agli ambienti massonici, per cui l’adorazione dello Jehovah baphomet [cioè lucifero], viene esportato fuori dalla loggia stessa e ricoperta con una maschera verde-ecologista zoofila che affianca la falsa solita filantropia di facciata, con annesso rigetto della sana filosofia tomistica dell’Angelo della scuola, S. Tommaso. Anche la setta gnostico-massonica vaticana del “novus ordo” si è affrettata a dare un contributo in senso ecologistico del panteismo immanentista utilizzando impropriamente l’inno di lode a Dio Creatore del Santo di Assisi, trattato alla stregua di un verde-arcobaleno, ecologista ante litteram. Anche in questo caso la copertura è nuova e moderna, ma spolverando un poco la polvere dorata, e raschiando la “cromatura” luccicante, ci ritroviamo il solito vecchio ferro arrugginito che puzza di zolfo sul quale sibila e striscia l’antico serpente ingannatore sprofondato dall’eden! – Ma la sana teologia ci ha già opportunamente edotto a proposito, ed infatti il Dottore angelico declama: «Le anime dei vegetali e degli animali non sussistono e non sono prodotte per se stesse o direttamente, ma soltanto come il principio per mezzo del quale il vivente esiste e vive. Siccome dipendono totalmente dalla materia, una volta distrutto il composto di corpo e anima vegetale o animale, ipso facto  anche esse scompaiono in maniera indiretta o per accidens e non per sé» (S. Th., I, q. 75, a. 3; ivi, q. 90, a. 2; S. Cont. Gent., lib. II, cap. 80 e 82.). Ed ancora precisa per i finti tonti: «Al contrario dell’anima vegetale e sensibile, l’anima umana è per sé sussistente. Essa viene creata da Dio quando il soggetto che la riceve è sufficientemente disposto ed allora può esservi infusa. Essa è per sua natura incorruttibile ed immortale» (S. Th., I, q. 75, a. 2; ivi, q. 90; ivi, q. 118; Q. disp. De Anima, a. 14; De Potentia, q. 3, a. 2; S. Cont. Gent., lib. II, cap. 83 ss.). – Per tagliare la testa al toro e premunirci dalla peste mortifera, San Paolo scrive a Timoteo: «Lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, sedotti dall’ipocrisia di impostori, già bollati a fuoco nella loro coscienza. Costoro vieteranno il matrimonio [tranne quello omosessuale, ma … il povero San Paolo mai avrebbe immaginato …!], imporranno di astenersi da alcuni cibi che Dio ha creato per essere mangiati con rendimento di grazie dai fedeli e da quanti conoscono la verità. Infatti tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera.» (1Timoteo IV, 1-5) ». – Per arginare la peste gnostica dei manichei e dei prescilliani, [morbo endemico fin da sempre] il Concilio di Braga 572, presieduto da Papa Giovanni III, anatemizzava già i precursori dei vegani moderni e quindi pure i vegani attuali [alcuni dei quali si credono finanche cristiani] così: «Se qualcuno reputa cibi immondi le carni, che Dio diede in uso agli uomini e, non per disciplina del suo corpo, ma perché li ritiene immondi, si astiene da essi in modo da non gustare neppure verdura cotta con la carne come dissero Manicheo e Priscilliano, sia anatema.» [Denz. 244] (Papa Giovanni III, Concilium Bragense I, 572). Identica prescrizione è presente nella “Bolla di unione dei Copti” del Concilio di Firenze, sess. XI 1442, con il S. S. Eugenio  IV.

DALLA GNOSI AL MARXISMO:

 I PROGRESSI DELO SPIRITO UMANO NELL’ERESIA.

Se, al dire di Tertulliano, Adamo ed Eva non furono che novizi in fatto di eresia, bisogna confessare e riconoscere che gli gnostici abbiano perfezionato il loro sistema. L’ispirazione satanica ha questo di notevole: essa si sforza di introdurre una logica rigorosa nell’inversione del reale, cosa che costituisce un vero tour de force. A partire da un falso principio, la confusione tra Dio ed il mondo, abbisognava una sottile intelligenza per immaginare una costruzione nella quale tutte le parti fossero ben disposte, presentando un edificio completo, attirante gli sguardi e le intelligenze. D’altra parte è necessario che la menzogna abbia le apparenze della verità per ottenere il consenso degli uomini! Non potendo trarre questa apparenza dal suo punto di partenza, poiché per definizione esso è falso, lo trarrà dalla coesione interna delle proposizioni con le quali il “menzognero” espone il suo insegnamento. Ora, i primi gnostici si sono trovati impelagati nelle loro distinzioni tra il bene ed il male, senza poter risolvere questa antinomia. Abbiamo visto la psicoanalisi cancellare con un colpo di spugna una tale distinzione: “non esiste né Bene, né Male”. Per un essere divino, tutto è Bene. Resta una difficoltà suprema: tra il gran “Tutto” immutabile, eterno e le sue manifestazioni multiple e cangianti, così come appaiono allo sguardo del primo venuto, c’è ancora antinomia: come conciliare all’interno dell’unica Divinità totale, l’immutabilità ed il cambiamento, l’eternità ed il tempo, l’unità e la molteplicità degli esseri? – In effetti il panteismo costringe coloro che lo professano ad introdurre e far coabitare in Dio, l’eternità ed il tempo, l’immutabile e l’evoluzione, in breve l’Essere ed il nulla. Difficoltà singolare! Essa non è sfuggita agli gnostici.

1) Gli scritti ermetici

Ecco come M. Vacherot, nel suo “Storia critica della scuola di Alessandria”, riassume l’insegnamento di Ermete Trimegisto sulla divinità: « Dio è il bene, come il bene è Dio. Egli è il non-essere quando è superiore all’essere. Dio produce tutto ciò che è e contiene tutto ciò che non è ancora … Dio è la vita universale, il tutto del quale gli esseri individuali sono che delle parti … Dio è tutto, tutto è pieno di Dio. Tutti i nomi gli convengono come Padre dell’universo; ma poiché è padre di tutte le cose, nessun nome è il suo nome. L’uno è il tutto, il tutto è l’uno … » – « Dio, il Padre, il Bene, che cosa è … se non l’essenza di ciò che ancora non è ? » – Ecco un’altra formula di Ermete Trimegisto: « Io sono l’Essere ed il Niente … Io sono il generatore di tutte le cose; in me l’universo si sviluppa. Io sono l’inizio, il mezzo, e la fine. » – « L’Eterno non è stato generato da un altro, si è creato egli stesso eternamente [ecco perché il baphomet è un ermafrodito]!. Se il Creatore non è altri che colui che crea, si crea necessariamente da se stesso, perché è creando che diviene creatore. Egli è ciò che è e ciò che non è » (sottinteso: ciò che non è ancora, ma ciò che più tardi sarà). – Tutto questo può essere riassunto con alcune proposizioni elementari:

– L’Emanatismo: tutto emana da Dio, perché Egli genera da se stesso e non crea.

– L’universo è il suo sviluppo, una estensione del suo essere.

– L’autocreazione: mediante questo tipo di generazione [in pratica una partenogenesi “divina”], Dio non produce esseri fuori di sé, né sotto la sua dipendenza, ma si crea egli stesso per espansione della sostanza propria. Pertanto non è il creatore di un mondo distinto da lui. Bisogna quindi fare molta attenzione a questo nuovo senso della parola “creazione” nei testi che seguiranno, in particolare in Hegel! – L’evoluzione: Dio generando perpetuamente un universo in costante espansione è egli stesso l’evoluzione (ecco spiegato perché la teoria dell’evoluzionismo non è una dottrina scientifica, bensì una concezione “teologica”). Diciamo meglio: l’evoluzione è Dio che si sviluppa e produce la molteplicità degli esseri per generazione interna. Egli pertanto è in ogni istante in fase di sviluppo, l’essere di ciò che esiste già, ed il niente che non esiste ancora e che sarà ulteriormente. – C’è dunque in lui un movimento perpetuo dal nulla all’essere, una gestazione dolorosa e difficile, in pratica un parto distocico, per far passare all’essere il niente che resiste. Ecco la matrice, la sorgente della dialettica hegeliana!

2) Hegel nella sua “Filosofia della storia”

« In origine, egli dice, Dio non era che solitudine senza vita », dunque un essere non-essere, un niente universale, una coscienza universale incosciente (ecco dove portano tali presupposti!), asserzione fondamentale del panteismo: 1) posizione della Tesi. Ma esiste la necessità di manifestarsi per “contemplarsi” come in uno specchio, o ancora per divenire coscienza, che costringe questo “tutto astratto” a sdoppiarsi ed a proiettare davanti a sé una frazione di se stesso, la natura concreta: 2) ecco l’Antitesi. – Non si tratta quindi di una creazione, benché Hegel usi impropriamente questo termine [o ingannevolmente? … una delle due: o è un ignorante o è uno gnostico satanista!]; si tratta di una generazione, di un processo di sdoppiamento. Dal “niente” superessenziale, è generato un mondo concreto, la natura. È una auto-creazione interna. In effetti – Hegel aggiunge – : « L’essenza divina è la stessa cosa della natura in tutta la sua ampiezza ». L’essenza divina, dapprima “ombra increata”, non-essere, pura astrazione, si eleva allo stato di esistenza esteriore. Non c’è caduta, benché Hegel utilizzi l’espressione di “peccato originale cosmico” (vedremo in effetti che egli riporta formule ispirate al linguaggio cristiano, ma solo per sovvertirne il senso); c’è realmente uno sviluppo dell’essere divino per sdoppiamento, come un essere vivente si sviluppa per sdoppiamento delle sue cellule [mitosi]. Questo processo di esteriorizzazione di Dio permette alla coscienza incosciente di divenire manifesta, “finita”, delimitata, conoscibile, dunque “cosciente”. Ma così facendo, essa si manifesta come divisa. Ecco una dualità introdotta in Dio. – L’uomo non è divino come il resto della natura, egli lo è in modo sovreminente, poiché solo egli possiede il privilegio di essere cosciente della propria esistenza. Egli costituisce la frazione della coscienza universale pervenuta alla propria conoscenza. L’uomo solo è spirito ed è la coscienza divina concretizzata. Egli è generato come Dio, dunque Figlio di Dio. Egli è pertanto il Verbo di Dio perché è lui che dà coscienza e parola allo Spirito divino universale inconscio (si vede qui, l’utilizzazione blasfema degli attributi del Cristo). Egli è, nel processo della genesi stessa di Dio, il momento cruciale, la realizzazione di uno stato superiore della Divinità. Ma questa realizzazione è un parto doloroso e tragico, una prova divina. In effetti, la legge universale dell’evoluzione provoca così in Dio, uno stravolgimento, delle metamorfosi qualitative interne. L’uomo è uno spirito cosciente, una frazione della Divinità: egli si conosce ma come sottomesso alla coscienza universale primitiva (e incosciente). È uno spirito limitato, “finito”. Egli vuole diventare simile alla coscienza universale. Non accetta di esserne una frazione. È il gesto di rivolta di Adamo, il tentativo di un movimento per un “legittimo recupero” della divinità totale. “Adamo ha inaugurato i giganteschi lavori del suo accesso allo Spirito”; egli fallisce e perde il paradiso che gli viene tolto per le “gelosia” del Dio incosciente primitivo: “Ecco che Adamo è divenuto come uno di noi, che conosce il bene ed il male!, dice quest’ultimo, confermando così le parole del serpente: “se mangerete di questo frutto, sarete come dei” (eritis sicut Dei). Ora in Dio, satana è il motore dell’evoluzione, la forza interna del divenire, la potenza evolutiva della coscienza. È lui che genera il Dio finale perfetto, che fa la storia. Ispirando la rivolta dell’uomo, egli prepara l’avvento della Divinità perfetta, e completa il mondo. La promessa fatta ad Adamo è in divenire. L’incarnazione del Cristo inizia una nuova fase di questo recupero divino, di questa montata progressiva verso la perfezione in divenire. In effetti, privati della loro parte celeste, la natura e l’uomo sono divenuti dei frammenti insoddisfatti di Dio. Il Cristo, o questa parte celeste della divinità, facendosi progressivamente cosciente, raggiunge così una perfezione sovreminente, quella di una coscienza che si riconosce. Da questo, Dio riconosce questa eguaglianza che aveva rifiutato ad Adamo. L’incarnazione è l’elevazione della divinità primitiva cieca alla realtà concreta e cosciente della persona umana. È ugualmente una caduta: è la “morte di Dio in Gesù-Cristo”. – “divenendo uomo, dice Hegel, Dio è morto come Dio”, cioè il Cristo ha ucciso in lui la divinità primitiva inconscia e si è fatto uomo cosciente, uomo incomparabile. È un grande passo in direzione dell’unità divina; ma perché “la riconciliazione del divino e dell’umano in Dio” sia completa, bisogna ancora che il Cristo “muoia” in quanto uomo. Allora non ci saranno più privilegi, né sulla terra, né in cielo, la fusione sarà totale. L’uomo solo sarà Dio: egli è spirito finito che opera una metamorfosi in Spirito infinito. Ma per fare questo, l’uomo deve “uccidere” il Cristo, Dio fatto uomo. – L’umanità futura sarà la Chiesa, la “coscienza collettiva” che avrà ritrovato la sua unità interna. Allora l’uomo avrà “l’intuizione del “sé del divino”. La genesi di Dio sarà terminata. Il Dio primitivo e geloso sarà cancellato davanti all’uomo. « L’uomo solo è divino ». La sintesi sarà completata. Ecco il vero senso della storia [sembra la barzelletta del pazzo che nel suo delirio si crede Dio!] Ed è questa la storia vista « dall’angolazione del serpente ». Non resta che da comparare Hegel con i primi gnostici, ed eventualmente … ricoverarli nello stesso manicomio! – L’apparizione del mondo materiale non è più considerato come una catastrofe, ma come lo sviluppo biologico, secondo l’evoluzione, di un essere in divenire, sviluppo doloroso, certo, come parto distocico, ma secondo un processo regolare, quello di un essere in espansione e non come una rottura. L’espressione “peccato originale cosmico” [meglio comico!], ripreso dalla formula cristiana è destinata a notare  che per l’uomo non ancora pervenuto alla perfezione divina, questa evoluzione conduce ad una frattura della propria coscienza in una moltitudine di individualità, così come le cellule di un essere vivente si scindono in due per assicurare lo sviluppo di tutto l’organismo. Così la materia non può essere detta cattiva. Essa è soltanto un momento (nel senso di una fase) imperfetta in una evoluzione. – L’anima umana non è più una particella caduta, decaduta, racchiusa nella materia dalla volontà di un essere malevolo; essa al contrario, è l’efflorescenza della natura divina che passa da uno stato di incoscienza allo stato cosciente che è il pensiero umano. Lo spirito fuoriesce dalla materia con una emanazione naturale. È la materia divenuta pensante, cosciente da se stessa per un processo di “coscienzizzazione”! [il manicomio è lo stesso ma i reparti son diversi!] – La rivolta di Adamo contro una divinità gelosa, l’incarnazione del Cristo che rigetta la divinità primitiva per elevarsi verso la coscienza umana, sono le tappe (Hegel dice “i momenti”) successive e capitali del divino verso il suo compimento. In effetti, come ogni essere vivente che, fatto grande, rigetta gli inutili rifiuti, i vecchi vestiti troppo piccoli per rivestire le nuove dimensioni e l’accrescimento dell’essere (è la legge medesima di ogni evoluzione biologica), così una perfezione nuova nel processo di divinizzazione rende caduche tutte le forme precedenti: che può fare un dio incosciente, ma che inizia a conoscere, davanti alla scienza di Adamo, se non ritardare il momento in cui questa scienza lo dominerà? Che può fare un Cristo divenuto uomo, se non spogliarsi di una divinità divenuta illusoria alla presenza della perfezione dello spirito umano? Etc. – Infine la distinzione del bene e del male non ha più alcun senso. L’evoluzione del tutto nel panteismo non lascia posto che a due nozioni: le forze che danno propulsione al movimento (e sappiamo che satana ne è il “maestro”) e le forze che frenano il processo di auto divinizzazione, e noi sappiamo già che saranno schiacciate dalla velocità che il movimento stesso acquisisce … Allo stesso modo non c’è più bisogno dell’iniziazione, del segreto riservato a coloro che stanno per realizzare la loro unione perfetta e raggiungere questo pleroma, e rifiutata agli altri condannati a restare chiusi ciecamente nei loro corpi materiali. Ma al contrario, tutti gli uomini sono coinvolti nel movimento, che lo vogliano o meno: coloro che trascinano sono schiacciati e gli avvenimenti della storia non sono che scossoni provocati dalle variazioni di velocità tra gli essere multipli che si lasciano più o meno facilmente spingere verso l’unità del gran tutto. – Ciò che resta immutabile, eterno in questa evoluzione, è la legge del movimento, legge assoluta, alla quale alcun essere sfugge. Le resistenze di taluni non sono che sussulti senza conseguenze. Una spinta più forte data dal “maestro” dell’evoluzione rimette ciascuno al suo posto nella “ruota universale delle cose”.

3) Qualche conseguenza nella dottrina marxista-leninista.

Il marxismo è uno sforzo gigantesco per far passare nella pratica il tema della morte di Dio e la divinità del mondo. « Prendere coscienza della inesistenza di Dio e non prendere coscienza nello stesso tempo della propria divinità, è assurdo », fa dire Dostoievsky ad uno dei suoi eroi. In altri termini non c’è altra alternativa al teismo che il panteismo, l’ateismo resta una nozione puramente negativa. L’uomo deve appropriarsi della potenza creatrice attribuita già a Dio. La promessa di satana: “voi sarete come dei” deve essere realizzata dall’uomo: questa sarà la deificazione dell’uomo « per l’uomo, con l’uomo e nell’uomo »; si osservi l’inversione blasfema della formula liturgica del “per Ipsum”! – Gli attributi di Dio d’ora in avanti diventano del mondo e dell’uomo! – Il culto del lavoro; Karl Marx scrive: « Tutta la storia universale non è altro che la procreazione dell’uomo attraverso il lavoro umano. L’uomo così possiede la prova visibile ed irrecusabile della nascita di se stesso, del processo della propria auto-creazione ». L’uomo è il prodotto del lavoro umano. Il lavoro è potenza creatrice e liberatrice. – Noi abbiamo visto che gli gnostici affermano l’autocreazione di Dio da se stesso. Creando, Dio crea se stesso poiché gli esseri che egli genera non sono che lo sviluppo interno della sua divinità. L’uomo è Dio, dice Hegel, lo è sovrimentemente, perché è il Dio coscienza. egli si procrea da se stesso con la sua azione. Ma è il lavoro che trasforma la natura, la trasforma e la conduce verso il completamento della sua auto divinizzazione. Il lavoro è dunque obbligatorio. « Niente lavoro, niente pane”, poiché “senza il lavoro che trasforma il mondo obiettivo, l’uomo non può trasformare se stesso”, ha detto Marx. Vediamo così bene che non è possibile non solo resistere al movimento della storia, ma neppure incrociare le braccia per assistere da spettatore indifferente: la ruota universale schiaccia anche coloro che si arrestano ai lati del sentiero ». – satana è il grande tentatore. La sua menzogna ha veramente le apparenze di una verità totale. Ecco perché egli attira tante anime nelle sue trappole. È molto difficile resistervi se non si è armati di una solida conoscenza della vera fede. È nella misura in cui gli spiriti si sono svezzati dall’insegnamento della Chiesa, che essi si precipitano nelle  sette “gnostiche” moderne, comprese la setta vaticana del “novus ordo” o le sette eretico-scismatiche dei sedicenti tradizionalisti [tutte sempre più staccate dall’insegnamento cattolico e dal Magistero pietrino], o nel marxismo, che propongono loro una conoscenza perfetta ed una efficacia temporale che conduce ad una “riuscita” sicura in questo mondo divino.

Il TOMISMO contro la gnosi, a guardia dell’unica verità

Come resistere dunque a questa attrazione? Lo abbiamo già più volte indicato, e qui lo ripetiamo: mediante uno studio serio e la riflessione attenta sugli articoli e i dogmi di Fede e della dottrina Cattolica, nonché del Magistero Ecclesiastico. Ma ciò che ha da circa un millennio inchiodato, ed ancora oggi inchioda inesorabilmente le allucinanti proposte ed i deliri orgogliosi della “teologia di satana”, è la filosofia e la teologia del Dottore Angelico, il sommo aquinate, l’Angelo della scuola, San Tommaso d’Aquino, l’ispirato dal “vero” Dio, quello Uno e Trino, sordo alle suggestioni del “serpente” antico, ed apportante luce all’intelligenza umana, CREATA da Dio! Ecco perché i Santi Padri degli ultimi tempi hanno raccomandato supplichevoli, conoscendo i danni immensi della gnosi, lo studio della teologia dell’aquinate: Leone XIII in “Æterni Dei lo ribadisce con fermezza e in una lettera al Generale dei Francescani del 13 dicembre del 1885 si esprime così … « L’allontanarsi dalla dottrina del Dottore Angelico è cosa contraria alla nostra volontà e, insieme, è cosa piena di pericoli». In “Doctoris Angelici [motu proprio del 29 giugno  del 1914] S. Pio X imponeva come testo scolastico la Summa Theologica alle facoltà teologiche, sotto pena di invalidarne i gradi accademici. « Allontanarsi dalla metafisica dell’essere comporta un grave pericolo di conclusioni disastrose …» come abbiamo visto dai neoplatonici fino a Marx, Hegel fino e al Modernismo anti-teologico… « Parvus error in principio, magnus est in fine … » scriveva San Tommaso, e ne abbiamo esaminato rapidamente la giustezza dell’assunto, figuriamoci poi se l’errore iniziale non sia “parvus”, bensì “magnus”! Così Pio X incaricò padre Mattiussi di compilare le XXIV tesi del tomismo, lavoro approvato nel 1914. Benedetto XV decise che le XXIV tesi dovessero essere proposte come “regole sicure di direzione intellettuale”. Perfino il Codice Canonico al n. 1366-2 diceva: “il metodo, i principi e la dottrina di San Tommaso devono essere seguiti santamente o con rispetto religioso” [C. J. C. 1917]. E poi si rimanda alle encicliche: “Pascendi” e al decreto “Sacrorum Antistitum” [1 sett. 1910] di Papa Sarto, a “Fausto appetente die” [29 giugno 1921] « Thomæ docrinam Ecclesia suam propriam esse » [La Chiesa ha stabilito che la dottrina di S. Tommaso è anche la sua dottrina], di Benedetto XV; fino a “Studiorum ducem” [1923] di Pio XI.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: IL SYLLABUS di PIO IX

Tutto quanto il “Syllanus” degli errori condanna, è oggi attualità tenacemente proposta dalla setta vaticana del “novus ordo”, la setta che usurpa il gregge dei fedeli e tutto ciò che appartiene alla Chiesa di Cristo, la Chiesa UNA, Santa, Cattolica, Apostolica, Romana. Non ce n’è uno tra gli 80 articoli che non sia stato ribaltato, non c’è errore che non venga oggi approvato con entusiasmo. Basta questo unico documento magisteriale per rendersi conto dell’inganno funesto nel quale sono caduti, e si ostinano a rimanere con colpevole ignoranza, coloro che si reputano cattolici perchè freuentano sacrilegamente riti blasfemi. E allora: o la Chiesa è quella del Syllabus, o è quella della “setta vaticana” … una terza possibilità non esiste: l’una è Chiesa di Cristo-RE, l’altra è obbligatoriamente sinagoga di satana. O Vicario di Cristo è Pio IX, o l’altro [anzi gli “altri”, i due “sepolcri imbiancati”] è/sono vicario di satana: non c’è altra soluzione, escludendo le ridicole ed eretiche tesi [assolutamente mai contemplate dalla retta teologia cattolica, dalla tradizione apostolica o dal Magistero pontificio] gallicano-fallibiliste, sedevacantiste, feeneyste, o cassiciache, e chi più ne ha …. [ma si sa che per il demonio ci sono tante “verità” contrastanti tra loro, scimmiottamento e parodie dell’unica VERITA’!]. Pertanto chi ha ancora qualche dubbio, si faccia animo e coraggio, respiri forte, con calma, conti fino a tre, dica un salmo di lode al vero Dio Sabaoth e legga attentamente!

«SYLLABUS»

SILLABO DEGLI ERRORI PRINCIPALI DEL NOSTRO TEMPO
CONTENUTI NELLE ALLOCUZIONI CONCISTORIALI,
NELLE LETTERE ENCICLICHE
E NELLE ALTRE LETTERE APOSTOLICHE
DEL SANTISSIMO SIGNOR NOSTRO PIO PP. IX

I.

PANTEISMO, NATURALISMO E RAZIONALISMO ASSOLUTO.

1. Nessun supremo, sapientissimo e provvidentissimo Nume divino esiste distinto da questa universalità di cose, e Dio altro non è che la natura stessa delle cose e perciò soggetto a mutazioni, e diventa Dio realmente nell’uomo e nel mondo, e tutte le cose sono Dio, ed hanno la stessissima sostanza di Dio; ed un’identica cosa è Dio con il mondo, e per conseguenza lo spirito con la materia, la necessità con la libertà, il vero col falso, il bene col male, e il giusto con l’ingiusto.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

2. Devesi negare ogni azione di Dio sugli uomini e sul mondo.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

3. L’umana ragione, senza tener verun conto di Dio, è l’unica arbitra del vero e del falso, del bene e del male, e legge a se stessa, e con le naturali sue forze basta a procacciare il bene degli uomini e dei popoli.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

4. Tutte le verità della religione derivano dalla forza ingenita dell’umana ragione, quindi la ragione è norma precipua, per cui l’uomo possa e debba conseguire la cognizione di tutte le verità di qualsiasi genere.
Epist. Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Epist. Encicl. Singulari quidem, 17 marzo 1856.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862

5. La divina rivelazione è imperfetta e perciò soggetta a un continuo e indefinito progresso, che corrisponde al progresso dell’umana ragione.
Epist. Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

6. La fede di Cristo urta la ragione; e la rivelazione divina non solo non giova a nulla, ma nuoce altresì al perfezionamento dell’uomo.
Epist. Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862,

7. Le profezie ed i miracoli esposti e narrati nelle Sacre Scritture sono invenzioni poetiche, e i misteri della fede cristiana sono la somma delle investigazioni filosofiche; nei libri dei due Testamenti si contengono invenzioni mitiche, e lo stesso Gesù Cristo non e che una mitica finzione.
Epist. Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

II.
RAZIONALISMO MODERATO.

8. Equiparandosi la ragione umana alla stessa religione, perciò le discipline teologiche si hanno da trattare come le filosofiche.
Alloc. Singulari quadam perfusi, 9 dicembre 1854.

9. Tutti i dogmi indistintamente della religione cristiana sono oggetto della scienza naturale, ossia della filosofia; e l’umana ragione, storicamente soltanto coltivata, può in virtù delle proprie forze e principi naturali giungere alla vera scienza di tutti i dogmi anche i più reconditi, purché questi dogmi siano stati proposti come oggetto alla stessa ragione.
Epist. ad Archiep. Frising. Gravissimas, 11 dicembre 1862.

Epist. ad eundem Tuas libenter, 21 dicembre 1863.

10. Altro essendo il filosofo ed altra la filosofia quegli ha diritto e dovere di sottomettersi a quell’autorità che egli medesimo abbia provata vera; ma la filosofia non può né deve sottomettersi a veruna autorità.
Epist. ad Archiep. Frising. Gravissimas, 11 dicembre 1862.
Epist. ad eundem Tuas libenter, 21 dicembre 1863.

11. La Chiesa non solamente non deve metter bocca giammai in filosofia, ma deve anzi tollerare gli errori della filosofia medesima e lasciare che da se stessa si corregga.
Epist. ad Archiep. Frising. Gravissimas, 11 dicembre 1882.

12. I decreti della Sede Apostolica e delle Romane Congregazioni impediscono il libero progresso della scienza.
Epist. ad Archiep. Frising. Tuas libenter, 21 dicembre 1863.

13. Il metodo e i principi coi quali gli antichi Dottori scolastici coltivarono la Teologia non corrispondono alle esigenze dei tempi nostri e al progresso delle scienze.
Epist. ad Archiep. Frising. Tuas libenter, 21 dicembre 1863.

14. La filosofia vuolsi trattare senza avere nessun riguardo alla rivelazione soprannaturale.
Epist. ad Archiep. Frising. Tuas libenter, 21 dicembre 1863.
N.B. Col sistema del razionalismo combinano in gran parte gli errori di Antonio Gunther condannati nella lettera al Card. Arcivescovo di Colonia: Eximiam tuam, del 15 giugno 1847, e nella lettera al Vescovo di Breslavia: Dolore haud mediocri 30 aprile 1860.

III.
INDIFFERENTISMO E LATITUDINARISMO.

15. Ogni uomo è libero di abbracciare e professare quella religione, che, col lume della ragione, reputi vera.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1831.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

16. Gli uomini nel culto di qualsiasi religione possono trovare la via dell’eterna salute e l’eterna salute conseguire.
Epist. Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846
Alloc. Ubi primum, 17 dicembre 1847.
Epist. Encicl. Singulari quidem, 17 marzo 1856.

17. Almeno si deve sperare bene dell’eterna salute di tutti quelli, che affatto non si trovano nella vera Chiesa di Cristo.
Alloc. Singulari quadam perfusi, 9 dicembre 1854.
Lett. Apost. Quanto conficiamur, 17 agosto 1863.

18. Il protestantesimo non è altro che una forma diversa della medesima vera religione cristiana, nella qual forma, del pari che nella Chiesa cattolica, è dato di piacere a Dio.
Epist. Encicl. Noscitis et Nobiscum, 8 dicembre 1849

IV.
SOCIALISMO, COMUNISMO, SOCIETÀ CLANDESTINE,
SOCIETÀ BIBLICHE, SOCIETÀ CLERICO-LIBERALI.

Tali pestilenze sono condannate più volte e con gravissime espressioni nella Lettera Enciclica Qui pluribus, 9 novembre 1846; nell’allocuzione Quibus quantisque, 20 aprile 1849; nella Lettera Enciclica Noscitis et Nobiscum, 8 dicembre 1849; nell’Allocuzione Singulari quadam, 9 dicembre 1854; nella Lettera Apostolica Quanto conficiamur, 17 agosto 1863.

V.
ERRORI SULLA CHIESA E I SUOI DIRITTI.

19. La Chiesa non è una vera e perfetta società completamente libera, né ha diritti suoi propri e permanenti a lei conferiti dal suo divino Fondatore; ma spetta alla civile potestà definire quali siano i diritti della Chiesa e i limiti dentro i quali possa esercitare i medesimi diritti.
Alloc. Singulari quadam perfusi, 9 dicembre 1834.
Alloc. Multis gravibusque, 17 dicembre 1860.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

20. L’ecclesiastica potestà non deve esercitare la propria autorità senza il permesso ed il consenso del civile governo.
Alloc. Meminit unusquisque, 30 settembre 1861.

21. La Chiesa non ha potestà di definire dogmaticamente che la religione della Chiesa cattolica è la sola ed unica vera religione.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.

22. L’obbligazione da cui sono assolutamente legati i maestri e gli scrittori cattolici, si restringe a quelle cose soltanto, che dall’infallibile giudizio della Chiesa vengono proposte a credersi da tutti come dogmi di fede.
Epist. ad Archiep. Frising. Tuas libenter, 21 dicembre 1863.

23. I Romani Pontefici e i Concili ecumenici oltrepassarono i limiti della loro potestà, usurparono i diritti dei principi, e sul definire eziandio le cose di fede ed i costumi errarono.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.

24. La Chiesa non ha potestà di usare la forza, ne alcuna potestà temporale diretta o indiretta.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

25. Oltre la potestà inerente all’episcopato, vi è altra temporale potestà, data dal civile governo o espressamente o tacitamente concessa, e quindi revocabile a talento del medesimo.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

26. La Chiesa non ha un ingenito e legittimo diritto di acquistare e di possedere.
Alloc. Numquam fore, 15 dicembre 1856.
Epist. Encicl. Incredibili, 17 settembre 1863.

27. I sacri ministri della Chiesa e lo stesso Romano Pontefice si debbono al tutto rimuovere da ogni cura e dominio delle cose temporali.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

28. Non è lecito ai Vescovi senza il permesso del governo promulgare neppure le stesse Lettere Apostoliche.
Alloc. Numquam fore, 15 dicembre 1856.

29. Le grazie concesse dal Romano Pontefice si debbono ritenere per nulle, se non furono implorate per organo del governo.
Alloc. Numquam fore, 15 dicembre 1856.

30. La immunità della Chiesa e delle persone ecclesiastiche trasse origine dal diritto civile.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.

31. Il foro ecclesiastico per le cause temporali dei chierici, siano civili, siano criminali, si deve assolutamente sopprimere, anche non consultata e reclamante la Sede Apostolica.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852
Alloc. Numquam fore, 15 dicembre 1856.

32. Senza veruna violazione del diritto naturale e dell’equità si può abrogare l’immunità personale, con cui i chierici sono esonerati dal peso di subire e di esercitare la milizia. Simile abrogazione poi è domandata dal civile progresso massimamente in una società costituita a forma di più libero regime.
Epist. ad Episc. Montisregal. Singularis Nobisque, 29 settembre 1864.

33. All’ecclesiastica potestà di giurisdizione non appartiene esclusivamente per proprio ingenito diritto, dirigere l’insegnamento delle materie teologiche.
Epist. ad Archiep. Frising. Tuas libenter, 21 dicembre 1863.

34. La dottrina d coloro, che pareggiano il Romano Pontefice ad un Principe libero e operante nella Chiesa universale, è dottrina che prevalse nel medio evo.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

35. Nulla vieta, sia per sentenza di qualche Concilio generale, sia per fatto di tutti i popoli, che il Supremo Pontificato, dal Vescovo di Roma e da Roma stessa, si trasferisca ad altro Vescovo e ad altra città.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

36. La definizione del Concilio nazionale non ammette verun’altra disputa, e la civile amministrazione può esigere la cosa a questi termini.37.Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

37. Possono istituirsi Chiese nazionali sottratte e al tutto divise dall’autorità del Romano Pontefice.
Alloc. Multis gravibusque, 17 dicembre 1860.
Alloc. Jamdudum cernimus, 1S marzo 1861.

38. I soverchi arbitrî dei Romani Pontefici produssero la divisione della Chiesa in orientale ed occidentale.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

VI.
ERRORI INTORNO ALLA SOCIETÀ CIVILE
CONSIDERATA IN SE STESSA
E NEI SUOI RAPPORTI CON LA CHIESA.

39. Lo Stato, come origine e fonte di tutti i diritti, gode di un diritto tale che non ammette confini.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

40. La dottrina della Chiesa cattolica è avversa al bene e ai vantaggi dell’umana società.
Epist. Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Quibus quantisque, 20 aprile 1849.

41. Alla civile potestà, sebbene esercitata da un sovrano infedele, compete un potere indiretto negativo riguardo alle cose sacre; quindi le spetta non solo il diritto noto col nome di exequatur, ma altresì il diritto d’appellazione, che chiamano ab abusu.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

42. Nel conflitto fra le leggi delle due potestà prevale il diritto civile.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

43. Il potere laicale ha autorità di rescindere, interpretare e annullare le solenni convenzioni, ossia concordati, intorno all’uso dei diritti spettanti all’ecclesiastica immunità stipulata con la Sede Apostolica, e non solo senza il consenso di questa, ma non ostante eziandio le sue proteste.
Alloc. In Concistoriali, 1 novembre 1850.
Alloc. Multis gravibusque, 17 dicembre 1860.

44. L’autorità civile può immischiarsi delle cose concernenti la religione, i costumi e il regime spirituale. Quindi può giudicare delle istruzioni che i Pastori della Chiesa pubblicano per loro uffizio a regola delle coscienze; ed anzi può decretare sopra l’amministrazione dei Santi Sacramenti, e sopra le disposizioni necessarie a riceverli.
Alloc. In Concistoriali, 1 novembre 1850.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

45. Tutto il regime delle pubbliche scuole, in cui si istruisce la gioventù di qualsiasi Stato cristiano (eccettuati solamente per certi motivi i Seminari vescovili) può e deve essere affidato alla civile autorità; e per siffatta guisa affidato, che non si riconosca verun diritto di altra qualunque autorità diimmischiarsi nella disciplina delle scuole, nel regolamento degli studi, nel conferimento dei gradi, nella scelta ed approvazione dei maestri.
Alloc. In Concistoriali, 1 novembre 1850.
Alloc. Quibus virtuosissimis, 5 settembre 1851.

46. Anzi negli stessi Seminari dei chierici il metodo da seguirsi negli studi si assoggetta alla civile autorità.
Alloc. Numquam fore, 15 dicembre 1856.

47. L’ottimo andamento della società civile richiede che le scuole popolari, aperte ai fanciulli di qualunque classe del popolo, e in generale tutti i pubblici Istituti destinati all’insegnamento delle lettere e delle discipline più gravi, non che a procurare l’educazione della gioventù, siano sottratte da ogni autorità dall’influenza moderatrice o dall’ingerenza della Chiesa, e vengano assoggettate al pieno arbitrio dell’autorità civile e politica, a piacimento dei sovrani e a seconda delle comuni opinioni del tempo.
Epist. ad Archiep. Friburg. Quum non sine, 14 luglio 1864.

48. Ai cattolici può essere accetto quel sistema di educare la gioventù, il quale sia separato dalla fede cattolica e dalla podestà della Chiesa, e che riguardi soltanto la scienza delle cose naturali e i soli confini della terrena vita sociale, o almeno se li proponga per iscopo principale.
Epist. ad Archiep. Friburg. Quum non sine, 14 luglio 1864.

49. La civile autorità può impedire che i Vescovi e i popoli fedeli abbiano libera e reciproca comunicazione col Romano Pontefice.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

50. L’autorità laica ha per se stessa il diritto di presentare i Vescovi, e può da essi esigere che assumano l’amministrazione delle Diocesi prima di ricevere dalla Santa Sede l’istituzione canonica e le Lettere Apostoliche.
Alloc. Numquam fore, 15 dicembre 1856.

51. Anzi il governo laico ha diritto di deporre i Vescovi dall’esercizio del pastorale ministero, e non è tenuto ad obbedire il Romano Pontefice nelle cose concernenti l’Episcopato e l’istituzione dei Vescovi.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852,

52. Il governo può di suo diritto commutare l’età stabilita dalla Chiesa per la professione religiosa degli uomini e delle donne, e può intimare a tutte le religiose famiglie di non ammettere veruno senza il di lui permesso alla solenne professione dei voti.
Alloc. Numquam fore, 15 dicembre 1856.

53. Debbonsi abrogare le leggi spettanti alla sicurezza dello stato delle famiglie religiose, non che ai loro diritti e doveri; anzi il governo civile può prestar mano a tutti quelli che volessero abbandonare l’intrapresa vita religiosa, e infrangere i voti solenni; può eziandio sopprimere le stesse religiose famiglie del pari che le Chiese collegiate e i benefizi semplici, anche di giuspatronato, e i loro beni o redditi sottoporre ed assegnare all’amministrazione e all’arbitrio della civile potestà.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
Alloc. Probe memineritis, 22 gennaio 1855.
Alloc. Cum sæpe, 26 luglio 1855.

54. I Re e i Principi non solo sono esenti dalla giurisdizione della Chiesa, ma di più, nello sciogliere le questioni di giurisdizione sono superiori alla Chiesa.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1551.

55. Si deve separare la Chiesa dallo Stato, e lo Stato dalla Chiesa.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.

VII.
ERRORI INTORNO ALL’ETICA
NATURALE E CRISTIANA.

56. Le leggi dei costumi non abbisognano di sanzione divina, né punto è mestieri che le leggi umane si conformino al diritto di natura, e ricevano da Dio la forza obbligatoria.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

57. La scienza delle materie filosofiche, e dei costumi, del pari che le leggi civili, possono e debbono declinare dalla divina ed ecclesiastica autorità.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

58. Altre forze non debbonsi ammettere fuori di quelle, che sono riposte nella materia, ed ogni regola ed onestà dei costumi collocar si deve nell’accumulare e nell’accrescere per qualsiasi materia le ricchezze, nonché nel contentare la voluttà.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.
Lett. Apost. Q&uanto conficiamur, 17 agosto 1863.

59. Il diritto consiste nel fatto materiale; tutti i doveri degli uomini sono un vuoto nome e tutti i fatti umani hanno forza di diritto.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1882.

60. L’autorità non è altro se non la somma del numero e delle forze materiali.
Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.

61. La fortuita ingiustizia di un fatto non reca verun detrimento alla santità del diritto.
Alloc. Jamdudum cernimus, 18 marzo 1861.

62. Devesi proclamare ed osservare il principio denominato del “Non intervento“.
Alloc. Novos et ante, 28 settembre 1860.

63. È lecito negare obbedienza ai legittimi Principi, anzi ribellarsi a loro.
Epist. Encicl. Qui pluribus, 9 novembre 1846.
Alloc. Q&uisque Vestrum, 4 ottobre 1847.Epist. Encicl. Noscitis et Nobiscum, 8 dicembre 1849.
Lett. Apost. Cum catholica, 26 marzo 1847.

64. Tanto la violazione di qualsiasi santissimo giuramento, quanto qualunque scellerata e criminosa azione ripugnante alla legge eterna, non solamente non è da condannare, ma sibbene torna lecita del tutto, e degna di essere celebrata con comune lode, quando ciò si faccia per l’amore della patria.
Alloc. Quibus quantisque, 20 aprile 1849.

VIII.
ERRORI CIRCA IL MATRIMONIO CRISTIANO.

65. In verun modo si può sostenere che Cristo abbia sollevato il Matrimonio alla dignità di Sacramento.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

66. Il Sacramento del Matrimonio non è se non un che d’accessorio al contratto e da esso separabile, e il Sacramento medesimo è riposto nella sola benedizione nuziale.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

67. Per diritto di natura il vincolo del Matrimonio non è indissolubile, e in vari casi il divorzio, propriamente detto, può essere sancito dalla civile autorità.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.

68. La Chiesa non ha potestà di stabilire impedimenti dirimenti del Matrimonio, ma tale potestà spetta all’autorità civile, per mezzo della quale si hanno da rimuovere gli impedimenti esistenti.
Lett. Apost. Multiplices inter, 10 giugno 1851.

69. La Chiesa cominciò a creare gli impedimenti dirimenti nei secoli di mezzo, non per diritto proprio, ma usando di quel diritto che aveva ricevuto dal potere civile.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

70. I Canoni Tridentini, fulminanti la scomunica a coloro che osano negare alla Chiesa la facoltà di stabilire gli impedimenti dirimenti, o non sono canoni dogmatici, o si debbono intendere nel senso di questa sola ricevuta potestà.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

71. La forma del Tridentino non obbliga sotto pena di annullamento, quando la legge civile prescriva un’altra forma e voglia, con l’intervento di questa nuova forma, render valido il Matrimonio.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

72. Bonifazio VIII fu il primo ad asserire che il voto di castità emesso nell’Ordinazione rende nulle le nozze.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

73. In virtù del semplice contratto civile può sussistere fra cristiani un vero Matrimonio; ed è falso che o il contratto di Matrimonio fra cristiani sia sempre Sacramento, o che nullo sia il contratto, se il Sacramento si escluda.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.
Lettera di S. S. Pio Pp. IX al Re di Sardegna, 9 settembre 1852.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
Alloc. Multis gravibusque, 17 dicembre 1860.

74. Le cause matrimoniali o degli sponsali spettano di loro natura al foro civile.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1852.
N.B. Qui possono richiamarsi due altri errori intorno all’abolizione del celibato clericale, e alla preferenza dello stato di Matrimonio sopra lo stato di verginità. Il primo fu condannato nella Lettera Enciclica Qui pluribus, 9 novembre 1846, e il secondo nella Lettera Apostolica Multiplices inter, 10 giugno 1851.

IX.
ERRORI INTORNO AL PRINCIPATO CIVILE
DEL ROMANO PONTEFICE.

75. Sulla compatibilità del regno temporale con lo spirituale disputano fra di loro i figli della cristiana e cattolica Chiesa.
Lett. Apost. Ad Apostolicæ, 22 agosto 1851.

76. L’annullamento del principato civile che possiede la Sede Apostolica gioverebbe assaissimo alla libertà e felicità della Chiesa.
Alloc. Quibus quantisque, 20 aprile 1849.
N.B. Oltre questi errori espressamente notati, altri moltissimi implicitamente se ne condannano nella proposta e difesa dottrina, che tutti i Cattolici debbono fermissimamente ritenere intorno al civile principato del Romano Pontefice. Tale dottrina è splendidamente sviluppata nell’Allocuzione Quibus quantisque, 20 aprile 1849; nell’Allocuzione Si semper antea, 20 maggio 1850; nella Lettera Apostolica Cum Catholica Ecclesia, 26 marzo 1S60; nell’Allocuzione Jamdudum, 18 marzo 1861; nell’Allocuzione Maxima Quidem, 9 giugno 1862.

X.
ERRORI RIGUARDANTI
IL LIBERALISMO ODIERNO.

77. Ai tempi nostri non giova più tenere la religione cattolica per unica religione dello Stato, escluso qualunque sia altro culto.
Alloc. Nemo vestrum, 26 luglio 1855.

78. Quindi lodevolmente in parecchie regioni cattoliche fu stabilito per legge, esser lecito a tutti gli uomini ivi convenuti il pubblico esercizio del proprio qualsiasi culto.
Alloc. Acerbissimum, 27 settembre 1552.

79. Infatti è falso che la civile libertà di qualsiasi culto o la piena potestà a tutti indistintamente concessa di manifestare in pubblico e all’aperto qualunque pensiero ed opinione influisca più facilmente a corrompere i costumi e gli animi dei popoli e a propagare la peste dell’indifferentismo.
Alloc. Numquam fore, 15 dicembre 1856.

80. Il Romano Pontefice può e deve col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà venire a patti e conciliazione.
Alloc. Jamdudum cernimus, 18 marzo 1861.

 

 

 

 

DOMENICA in festo DOMINO NOSTRO JESU CHRISTI REGIS

ORATIO AD D. N. IESUM CHRISTUM REGEM

Indulg. plenaria suetis condicionibus semel in die (272)

DÒMINE Iesu Christe, te confiteor Regem universàlem. Omnia, quæ facta sunt, prò te sunt creata. Omnia iura tua exérce in me. Rénovo vota Baptismi abrenùntians sàtanæ eiùsque pompis et opéribus et promitto me victùrum ut bonum christiànum. Ac, potissimum me óbligo operàri quantum in me est, ut triùmphent Dei iura tuæque Ecclèsiæ. Divinum Cor Iesu, óffero tibi actiones meas ténues ad obtinéndum, ut corda omnia agnóscant tuam sacram Regalitàtem et ita tuæ pacis regnum stabiliàtur in toto terràrum orbe. Amen.

DOMENICA In festo Domino nostro Jesu Christi Regis ~ I. classis

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Apoc V:12; 1:6
Dignus est Agnus, qui occísus est, accípere virtútem, et divinitátem, et sapiéntiam, et fortitúdinem, et honórem. Ipsi glória et impérium in sǽcula sæculórum.[L’Agnello che fu sacrificato è degno di ricevere potenza, ricchezza, sapienza, forza, onore, gloria e lode; a Lui sia per sempre data gloria e impero, per …]
Ps LXXI:1
Deus, iudícium tuum Regi da: et iustítiam tuam Fílio Regis.
[Dio, da al Re il tuo giudizio, ed al Figlio del Re la tua giustizia] –
Dignus est Agnus, qui occísus est, accípere virtútem, et divinitátem, et sapiéntiam, et fortitúdinem, et honórem. Ipsi glória et impérium in sǽcula sæculórum…[L’Agnello che fu sacrificato è degno di ricevere potenza, ricchezza, sapienza. Forza, onore, gloria e lode; a Lui sia per sempre data gloria e impero, per …]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui in dilécto Fílio tuo, universórum Rege, ómnia instauráre voluísti: concéde propítius; ut cunctæ famíliæ géntium, peccáti vúlnere disgregátæ, eius suavissímo subdántur império:Qui tecum … [Dio onnipotente ed eterno, che ponesti al vertice di tutte e cose il tuo diletto Figlio, Re dell’universo, concedi propizio che la grande famiglia delle nazioni, disgregata per la ferita del peccato, si sottometta al tuo soavissimo impero: Egli che … ]

Orémus.
Commemoratio Dominica XXI Post Pentecosten
Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut a cunctis adversitátibus, te protegénte, sit líbera, et in bonis áctibus tuo nómini sit devóta.

[Custodisci, Te ne preghiamo, o Signore, con incessante pietà, la tua famiglia: affinché, mediante la tua protezione, sia libera da ogni avversità, e nella pratica delle buone opere sia devota al tuo nome.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1:12-20
Fratres: Grátias ágimus Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem ejus, remissiónem peccatórum: qui est imágo Dei invisíbilis, primogénitus omnis creatúra: quóniam in ipso cóndita sunt univérsa in cœlis et in terra, visibília et invisibília, sive Throni, sive Dominatiónes, sive Principátus, sive Potestátes: ómnia per ipsum, et in ipso creáta sunt: et ipse est ante omnes, et ómnia in ipso constant. Et ipse est caput córporis Ecclésiæ, qui est princípium, primogénitus ex mórtuis: ut sit in ómnibus ipse primátum tenens; quia in ipso complácuit omnem plenitúdinem inhabitáre; et per eum reconciliáre ómnia in ipsum, pacíficans per sánguinem crucis ejus, sive quæ in terris, sive quæ in cœlis sunt, in Christo Jesu Dómino nostro.
[Fratelli, ringraziamo con gioia il Padre che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, per opera del quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati. Egli è immagine del Dio invisibile, generato prima di ogni creatura; poiché per mezzo di Lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potestà. Tutte le cose sono state create per mezzo di Lui e in vista di Lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa; il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti, per ottenere il primato su tutte le cose. Perché piacque a Dio di fare abitare in lui ogni pienezza e per mezzo di lui riconciliare a sé tutte le cose, rappacificando con il sangue della sua croce, cioè per mezzo di Lui, le cose che stanno sulla terra e quelle nei cieli.]

Graduale
Ps LXXI:8; LXXVIII: 11
Dominábitur a mari usque ad mare, et a flúmine usque ad términos orbis terrárum. [
Egli dominerà da un mare all’altro, dal fiume fino all’estremità della terra] V. Et adorábunt eum omnes reges terræ: omnes gentes sérvient ei. [Tutti i re Gli si prosteranno dinanzi, tutte le genti Lo serviranno].

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Dan VII7:14.
Potéstas ejus, potéstas ætérna, quæ non auferétur: et regnum ejus, quod non corrumpétur.
Allelúja. [La potestà di Lui è potestà eterna che non Gli sarà tolta e il suo regno è incorruttibile]


Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann XVIII:33-37
In illo témpore: Dixit Pilátus ad Jesum: Tu es Rex Judæórum? Respóndit Jesus: A temetípso hoc dicis, an álii dixérunt tibi de me? Respóndit Pilátus: Numquid ego Judǽus sum? Gens tua et pontífices tradidérunt te mihi: quid fecísti? Respóndit Jesus: Regnum meum non est de hoc mundo. Si ex hoc mundo esset regnum meum, minístri mei útique decertárent, ut non tráderer Judǽis: nunc autem regnum meum non est hinc. Dixit ítaque ei Pilátus: Ergo Rex es tu? Respóndit Jesus: Tu dicis, quia Rex sum ego. Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimónium perhíbeam veritáti: omnis, qui est ex veritáte, audit vocem meam.
[In quel tempo, disse Pilato a Gesù: Tu sei il re dei Giudei?”. Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”. Pilato rispose: “Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?”. Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”.  Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”].

OMELIA

[Lettera Enciclica “Quas primas” di S. S. Pio XI]

Nella prima Enciclica che, asceso al Pontificato, dirigemmo a tutti i Vescovi dell’Orbe cattolico — mentre indagavamo le cause precipue di quelle calamità da cui vedevamo oppresso e angustiato il genere umano — ricordiamo d’aver chiaramente espresso non solo che tanta colluvie di mali imperversava nel mondo perché la maggior parte degli uomini avevano allontanato Gesù Cristo e la sua santa legge dalla pratica della loro vita, dalla famiglia e dalla società, ma altresì che mai poteva esservi speranza di pace duratura fra i popoli, finché gli individui e le nazioni avessero negato e da loro rigettato l’impero di Cristo Salvatore. – Pertanto, come ammonimmo che era necessario ricercare la pace di Cristo nel Regno di Cristo, così annunziammo che avremmo fatto a questo fine quanto Ci era possibile; nel Regno di Cristo — diciamo — poiché Ci sembrava che non si possa più efficacemente tendere al ripristino e al rafforzamento della pace, che mediante la restaurazione del Regno di Nostro Signore. – Frattanto il sorgere e il pronto ravvivarsi di un benevolo movimento dei popoli verso Cristo e la sua Chiesa, che sola può recar salute, Ci forniva non dubbia speranza di tempi migliori; movimento tal quale s’intravedeva che molti i quali avevano disprezzato il Regno di Cristo e si erano quasi resi esuli dalla Casa del Padre, si preparavano e quasi s’affrettavano a riprendere le vie dell’obbedienza.

L’Anno Santo e il Regno di Cristo

E tutto quello che accadde e si fece, nel corso di questo Anno Santo, degno certo di perpetua memoria, forse non accrebbe l’onore e la gloria al divino Fondatore della Chiesa, nostro supremo Re e Signore? – Infatti, la Mostra Missionaria Vaticana quanto non colpì la mente e il cuore degli uomini, sia facendo conoscere il diuturno lavoro della Chiesa per la maggiore dilatazione del Regno del suo Sposo nei continenti e nelle più lontane isole dell’Oceano; sia il grande numero di regioni conquistate al cattolicesimo col sudore e col sangue dai fortissimi e invitti Missionari; sia infine col far conoscere quante vaste regioni vi siano ancora da sottomettere al soave e salutare impero del nostro Re. E quelle moltitudini che, durante questo Anno giubilare, vennero da ogni parte della terra nella città santa, sotto la guida dei loro Vescovi e sacerdoti, che altro avevano in cuore, purificate le loro anime, se non proclamarsi presso il sepolcro degli Apostoli, davanti a Noi, sudditi fedeli di Cristo per il presente e per il futuro? – E questo Regno di Cristo sembrò quasi pervaso di nuova luce allorquando Noi, provata l’eroica virtù di sei Confessori e Vergini, li elevammo agli onori degli altari. E qual gioia e qual conforto provammo nell’animo quando, nello splendore della Basilica Vaticana, promulgato il decreto solenne, una moltitudine sterminata di popolo, innalzando il cantico di ringraziamento esclamò: Tu Rex gloriæ, Christe!  – Poiché, mentre gli uomini e le Nazioni, lontani da Dio, per l’odio vicendevole e per le discordie intestine si avviano alla rovina ed alla morte, la Chiesa di Dio, continuando a porgere al genere umano il cibo della vita spirituale, crea e forma generazioni di santi e di sante a Gesù Cristo, il quale non cessa di chiamare alla beatitudine del Regno celeste coloro che ebbe sudditi fedeli e obbedienti nel regno terreno. – Inoltre, ricorrendo, durante l’Anno Giubilare, il sedicesimo secolo dalla celebrazione del Concilio di Nicea, volemmo che l’avvenimento centenario fosse commemorato, e Noi stessi lo commemorammo nella Basilica Vaticana tanto più volentieri in quanto quel Sacro Sinodo definì e propose come dogma la consustanzialità dell’Unigenito col Padre, e nello stesso tempo, inserendo nel simbolo la formula «il regno del quale non avrà mai fine», proclamò la dignità regale di Cristo. – Avendo, dunque, quest’Anno Santo concorso non in uno ma in più modi ad illustrare il Regno di Cristo, Ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro ufficio apostolico, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi sia individualmente, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re. – Questa cosa Ci reca tanta gioia che Ci spinge, Venerabili Fratelli, a farvene parola; voi poi, procurerete di adattare ciò che Noi diremo intorno al culto di Gesù Cristo Re, all’intelligenza del popolo e di spiegarne il senso in modo che da questa annua solennità ne derivino sempre copiosi frutti.

Gesù Cristo è Re

Gesù Cristo Re delle menti, delle volontà e dei cuori

Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re per il sommo grado di eccellenza, che ha in modo sovreminente fra tutte le cose create. In tal modo, infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è Verità ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da Lui la verità; similmente nelle volontà degli uomini, sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perché con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana (Supereminentem scientiæ caritatem) e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità: nessuno infatti degli uomini fu mai tanto amato e mai lo sarà in avvenire quanto Gesù Cristo. Ma per entrare in argomento, tutti debbono riconoscere che è necessario rivendicare a Cristo Uomo nel vero senso della parola il nome e i poteri di Re; infatti soltanto in quanto è Uomo si può dire che abbia ricevuto dal Padre la potestà, l’onore e il regno, perché come Verbo di Dio, essendo della stessa sostanza del Padre, non può non avere in comune con il Padre ciò che è proprio della divinità, e per conseguenza Egli su tutte le cose create ha il sommo e assolutissimo impero.

La Regalità di Cristo nei libri dell’Antico Testamento.

E non leggiamo infatti spesso nelle Sacre Scritture che Cristo è Re ? Egli invero è chiamato il Principe che deve sorgere da Giacobbe,, eche dal Padre è costituito Re sopra il Monte santo di Sion, che riceverà le genti in eredità e avrà in possesso i confini della terra. Il salmo nuziale, col quale sotto l’immagine di un re ricchissimo e potentissimo viene preconizzato il futuro Re d’Israele, ha queste parole: «II tuo trono, o Dio, sta per sempre, in eterno: scettro di rettitudine è il tuo scettro reale». – E per tralasciare molte altre testimonianze consimili, in un altro luogo per lumeggiare più chiaramente i caratteri del Cristo, si preannunzia che il suo Regno sarà senza confini ed arricchito coi doni della giustizia e della pace: «Fiorirà ai suoi giorni la Giustizia e somma pace… Dominerà da un mare all’altro, e dal fiume fino alla estremità della terra». A questa testimonianza si aggiungono in modo più ampio gli oracoli dei Profeti e anzitutto quello notissimo di Isaia: «Ci è nato un bimbo, ci fu dato un figlio: e il principato è stato posto sulle sue spalle e sarà chiamato col nome di Ammirabile, Consigliere, Dio forte, Padre del secolo venturo, Principe della pace. Il suo impero crescerà, e la pace non avrà più fine. Sederà sul trono di Davide e sopra il suo regno, per stabilirlo e consolidarlo nel giudizio e nella giustizia, da ora ed in perpetuo». E gli altri Profeti non discordano da Isaia: così Geremia, quando predice che nascerà dalla stirpe di Davide il “Rampollo giusto” che qual figlio di Davide «regnerà e sarà sapiente e farà valere il diritto e la giustizia sulla terra»; così Daniele che preannunzia la costituzione di un regno da parte del Re del cielo, regno che «non sarà mai in eterno distrutto… ed esso durerà in eterno» e continua: «Io stavo ancora assorto nella visione notturna, quand’ecco venire in mezzo alle nuvole del cielo uno con le sembianze del figlio dell’uomo che si avanzò fino al Vegliardo dai giorni antichi, e davanti a lui fu presentato. E questi gli conferì la potestà, l’onore e il regno; tutti i popoli, le tribù e le lingue serviranno a lui; la sua potestà sarà una potestà eterna che non gli sarà mai tolta, e il suo regno, un regno che non sarà mai distrutto». E gli scrittori dei santi Vangeli non accettano e riconoscono come avvenuto quanto è predetto da Zaccaria intorno al Re mansueto il quale «cavalcando sopra un’asina col suo piccolo asinello» era per entrare in Gerusalemme, qual giusto e salvatore fra le acclamazioni delle turbe?

Gesù Cristo si è proclamato Re

Del resto questa dottrina intorno a Cristo Re, che abbiamo sommariamente attinto dai libri del Vecchio Testamento, non solo non viene meno nelle pagine del Nuovo, ma anzi vi è confermata in modo splendido e magnifico. E qui, appena accennando all’annunzio dell’arcangelo da cui la Vergine viene avvisata che doveva partorire un figlio, al quale Iddio avrebbe dato la sede di David, suo padre, e che avrebbe regnato nella Casa di Giacobbe in eterno e che il suo Regno non avrebbe avuto fine  vediamo che Cristo stesso dà testimonianza del suo impero: infatti, sia nel suo ultimo discorso alle turbe, quando parla dei premi e delle pene, riservate in perpetuo ai giusti e ai dannati; sia quando risponde al Preside romano che pubblicamente gli chiedeva se fosse Re, sia quando risorto affida agli Apostoli l’ufficio di ammaestrare e battezzare tutte le genti, colta l’opportuna occasione, si attribuì il nome di Re, e pubblicamente confermò di essere Re  e annunziò solennemente a Lui era stato dato ogni potere in cielo e in terra. E con queste parole che altro si vuol significare se non la grandezza della potestà e l’estensione immensa del suo Regno? – Non può dunque sorprenderci se Colui che è detto da Giovanni «Principe dei Re della terra», porti, come apparve all’Apostolo nella visione apocalittica «scritto sulla sua veste e sopra il suo fianco: Re dei re e Signore dei dominanti». Da quando l’eterno Padre costituì Cristo erede universale, è necessario che Egli regni finché riduca, alla fine dei secoli, ai piedi del trono di Dio tutti i suoi nemici. – Da questa dottrina dei sacri libri venne per conseguenza che la Chiesa, regno di Cristo sulla terra, destinato naturalmente ad estendersi a tutti gli uomini e a tutte le nazioni, salutò e proclamò nel ciclo annuo della Liturgia il suo autore e fondatore quale Signore sovrano e Re dei re, moltiplicando le forme della sua affettuosa venerazione. Essa usa questi titoli di onore esprimenti nella bella varietà delle parole lo stesso concetto; come già li usò nell’antica salmodia e negli antichi Sacramentari, così oggi li usa nella pubblica ufficiatura e nell’immolazione dell’Ostia immacolata. In questa laude perenne a Cristo Re, facilmente si scorge la bella armonia fra il nostro e il rito orientale in guisa da render manifesto, anche in questo caso, che «le norme della preghiera fissano i principi della fede». Ben a proposito Cirillo Alessandrino, a mostrare il fondamento di questa dignità e di questo potere, avverte che «egli ottiene, per dirla brevemente, la potestà su tutte le creature, non carpita con la violenza né da altri ricevuta, ma la possiede per propria natura ed essenza»; cioè il principato di Cristo si fonda su quella unione mirabile che è chiamata unione ipostatica. Dal che segue che Cristo non solo deve essere adorato come Dio dagli Angeli e dagli uomini, ma anche che a Lui, come Uomo, debbono essi esser soggetti ed obbedire: cioè che per il solo fatto dell’unione ipostatica Cristo ebbe potestà su tutte le creature. – Eppure che cosa più soave e bella che il pensare che Cristo regna su di noi non solamente per diritto di natura, ma anche per diritto di conquista, in forza della Redenzione? Volesse Iddio che gli uomini immemori ricordassero quanto noi siamo costati al nostro Salvatore: «Non a prezzo di cose corruttibili, di oro o d’argento siete stati riscattati… ma dal Sangue prezioso di Cristo, come di agnello immacolato e incontaminato». Non siamo dunque più nostri perché Cristo ci ha ricomprati col più alto prezzo: i nostri stessi corpi sono membra di Cristo.

Natura e valore del Regno di Cristo

Volendo ora esprimere la natura e il valore di questo principato, accenniamo brevemente che esso consta di una triplice potestà, la quale se venisse a mancare, non si avrebbe più il concetto d’un vero e proprio principato. – Le testimonianze attinte dalle Sacre Lettere circa l’impero universale del nostro Redentore, provano più che a sufficienza quanto abbiamo detto; ed è dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui debbono riporre la loro fiducia, ed allo stesso tempo come legislatore a cui debbono obbedire. – I santi Evangeli non soltanto narrano come Gesù abbia promulgato delle leggi, ma lo presentano altresì nell’atto stesso di legiferare; e il divino Maestro afferma, in circostanze e con diverse espressioni, che chiunque osserverà i suoi comandamenti darà prova di amarlo e rimarrà nella sua carità . Lo stesso Gesù davanti ai Giudei, che lo accusavano di aver violato il sabato con l’aver ridonato la sanità al paralitico, afferma che a Lui fu dal Padre attribuita la potestà giudiziaria: «Il Padre non giudica alcuno, ma ha rimesso al Figlio ogni giudizio». Nel che è compreso pure il diritto di premiare e punire gli uomini anche durante la loro vita, perché ciò non può disgiungersi da una propria forma di giudizio. Inoltre la potestà esecutiva si deve parimenti attribuire a Gesù Cristo, poiché è necessario che tutti obbediscano al suo comando, e nessuno può sfuggire ad esso e alle sanzioni da lui stabilite.

Regno principalmente spirituale

Che poi questo Regno sia principalmente spirituale e attinente alle cose spirituali, ce lo dimostrano i passi della sacra Bibbia sopra riferiti, e ce lo conferma Gesù Cristo stesso col suo modo di agire. – In varie occasioni, infatti, quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, egli cercò di togliere e abbattere questa vana attesa e speranza; e così pure quando stava per essere proclamato Re dalla moltitudine che, presa di ammirazione, lo attorniava, Egli rifiutò questo titolo e questo onore, ritirandosi e nascondendosi nella solitudine; finalmente davanti al Preside romano annunciò che il suo Regno “non è di questo mondo”. – Questo Regno nei Vangeli viene presentato in tal modo che gli uomini debbano prepararsi ad entrarvi per mezzo della penitenza, e non possano entrarvi se non per la fede e per il Battesimo, il quale benché sia un rito esterno, significa però e produce la rigenerazione interiore. Questo Regno è opposto unicamente al regno di Satana e alla “potestà delle tenebre”, e richiede dai suoi sudditi non solo l’animo distaccato dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e sete di giustizia, ma anche che essi rinneghino se stessi e prendano la loro croce. Avendo Cristo come Redentore costituita con il suo sangue la Chiesa, e come Sacerdote offrendo se stesso in perpetuo quale ostia di propiziazione per i peccati degli uomini, chi non vede che la regale dignità di Lui riveste il carattere spirituale dell’uno e dell’altro ufficio?

Regno universale e sociale

D’altra parte sbaglierebbe gravemente chi togliesse a Cristo Uomo il potere su tutte le cose temporali, dato che Egli ha ricevuto dal Padre un diritto assoluto su tutte le cose create, in modo che tutto soggiaccia al suo arbitrio. Tuttavia, finché fu sulla terra si astenne completamente dall’esercitare tale potere, e come una volta disprezzò il possesso e la cura delle cose umane, così permise e permette che i possessori debitamente se ne servano. A questo proposito ben si adattano queste parole: «Non toglie il trono terreno Colui che dona il regno eterno dei cieli». Pertanto il dominio del nostro Redentore abbraccia tutti gli uomini, come affermano queste parole del Nostro Predecessore di immortale memoria  Leone XIII, che Noi qui facciamo Nostre: «L’impero di Cristo non si estende soltanto sui popoli cattolici, o a coloro che, rigenerati nel fonte battesimale, appartengono, a rigore di diritto, alla Chiesa, sebbene le errate opinioni Ce li allontanino o il dissenso li divida dalla carità; ma abbraccia anche quanti sono privi di fede cristiana, di modo che tutto il genere umano è sotto la potestà di Gesù Cristo». – Né v’è differenza fra gli individui e il consorzio domestico e civile, poiché gli uomini, uniti in società, non sono meno sotto la potestà di Cristo di quello che lo siano gli uomini singoli. È lui solo la fonte della salute privata e pubblica: «Né in alcun altro è salute, né sotto il cielo altro nome è stato dato agli uomini, mediante il quale abbiamo da essere salvati», è lui solo l’autore della prosperità e della vera felicità sia per i singoli sia per gli Stati: «poiché il benessere della società non ha origine diversa da quello dell’uomo, la società non essendo altro che una concorde moltitudine di uomini». – Non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l’incolumità del loro potere, l’incremento e il progresso della patria. Difatti sono quanto mai adatte e opportune al momento attuale quelle parole che all’inizio del Nostro pontificato Noi scrivemmo circa il venir meno del principio di autorità e del rispetto alla pubblica potestà: «Allontanato, infatti — così lamentavamo — Gesù Cristo dalle leggi e dalla società, l’autorità appare senz’altro come derivata non da Dio ma dagli uomini, in maniera che anche il fondamento della medesima vacilla: tolta la causa prima, non v’è ragione per cui uno debba comandare e l’altro obbedire. Dal che è derivato un generale turbamento della società, la quale non poggia più sui suoi cardini naturali».

Regno benefico

Se invece gli uomini privatamente e in pubblico avranno riconosciuto la sovrana potestà di Cristo, necessariamente segnalati benefici di giusta libertà, di tranquilla disciplina e di pacifica concordia pervaderanno l’intero consorzio umano. La regale dignità di nostro Signore come rende in qualche modo sacra l’autorità umana dei principi e dei capi di Stato, così nobilita i doveri dei cittadini e la loro obbedienza. – In questo senso l’Apostolo Paolo, inculcando alle spose e ai servi di rispettare Gesù Cristo nel loro rispettivo marito e padrone, ammoniva chiaramente che non dovessero obbedire ad essi come ad uomini ma in quanto tenevano le veci di Cristo, poiché sarebbe stato sconveniente che gli uomini, redenti da Cristo, servissero ad altri uomini: «Siete stati comperati a prezzo; non diventate servi degli uomini». Che se i principi e i magistrati legittimi saranno persuasi che si comanda non tanto per diritto proprio quanto per mandato del Re divino, si comprende facilmente che uso santo e sapiente essi faranno della loro autorità, e quale interesse del bene comune e della dignità dei sudditi prenderanno nel fare le leggi e nell’esigerne l’esecuzione. – In tal modo, tolta ogni causa di sedizione, fiorirà e si consoliderà l’ordine e la tranquillità: ancorché, infatti, il cittadino riscontri nei principi e nei capi di Stato uomini simili a lui o per qualche ragione indegni e vituperevoli, non si sottrarrà tuttavia al loro comando qualora egli riconosca in essi l’immagine e l’autorità di Cristo Dio e Uomo. – Per quello poi che si riferisce alla concordia e alla pace, è manifesto che quanto più vasto è il regno e più largamente abbraccia il genere umano, tanto più gli uomini diventano consapevoli di quel vincolo di fratellanza che li unisce. E questa consapevolezza come allontana e dissipa i frequenti conflitti, così ne addolcisce e ne diminuisce le amarezze. E se il regno di Cristo, come di diritto abbraccia tutti gli uomini, cosi di fatto veramente li abbracciasse, perché dovremmo disperare di quella pace che il Re pacifico portò in terra, quel Re diciamo che venne «per riconciliare tutte le cose, che non venne per farsi servire, ma per servire gli altri”» e che, pur essendo il Signore di tutti, si fece esempio di umiltà, e questa virtù principalmente inculcò insieme con la carità e disse inoltre: «II mio giogo è soave e il mio peso leggero?». – Oh, di quale felicità potremmo godere se gli individui, le famiglie e la società si lasciassero governare da Cristo! «Allora veramente, per usare le parole che il Nostro Predecessore Leone XIII venticinque anni fa rivolgeva a tutti i Vescovi dell’orbe cattolico, si potrebbero risanare tante ferite, allora ogni diritto riacquisterebbe l’antica forza, tornerebbero i beni della pace, cadrebbero dalle mani le spade, quando tutti volentieri accettassero l’impero di Cristo, gli obbedissero, ed ogni lingua proclamasse che nostro Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre».

La Festa di Cristo Re

Scopo della festa di Cristo Re

E perché più abbondanti siano i desiderati frutti e durino più stabilmente nella società umana, è necessario che venga divulgata la cognizione della regale dignità di nostro Signore quanto più è possibile. Al quale scopo Ci sembra che nessun’altra cosa possa maggiormente giovare quanto l’istituzione di una festa particolare e propria di Cristo Re. – Infatti, più che i solenni documenti del Magistero ecclesiastico, hanno efficacia nell’informare il popolo nelle cose della fede e nel sollevarlo alle gioie interne della vita le annuali festività dei sacri misteri, poiché i documenti, il più delle volte, sono presi in considerazione da pochi ed eruditi uomini, le feste invece commuovono e ammaestrano tutti i fedeli; quelli una volta sola parlano, queste invece, per così dire, ogni anno e in perpetuo; quelli soprattutto toccano salutarmente la mente, queste invece non solo la mente ma anche il cuore, tutto l’uomo insomma. Invero, essendo l’uomo composto di anima e di corpo, ha bisogno di essere eccitato dalle esteriori solennità in modo che, attraverso la varietà e la bellezza dei sacri riti, accolga nell’animo i divini insegnamenti e, convertendoli in sostanza e sangue, faccia si che essi servano al progresso della sua vita spirituale. – D’altra parte si ricava da documenti storici che tali festività, col decorso dei secoli, vennero introdotte una dopo l’altra, secondo che la necessità o l’utilità del popolo cristiano sembrava richiederlo; come quando fu necessario che il popolo venisse rafforzato di fronte al comune pericolo, o venisse difeso dagli errori velenosi degli eretici, o incoraggiato più fortemente e infiammato a celebrare con maggiore pietà qualche mistero della fede o qualche beneficio della grazia divina. Così fino dai primi secoli dell’era cristiana, venendo i fedeli acerbamente perseguitati, si cominciò con sacri riti a commemorare i Martiri, affinché — come dice Sant’Agostino — le solennità dei Martiri fossero d’esortazione al martirio. E gli onori liturgici, che in seguito furono tributati ai Confessori, alle Vergini e alle Vedove, servirono meravigliosamente ad eccitare nei fedeli l’amore alle virtù, necessarie anche in tempi di pace. – E specialmente le festività istituite in onore della Beata Vergine fecero sì che il popolo cristiano non solo venerasse con maggior pietà la Madre di Dio, sua validissima protettrice, ma si accendesse altresì di più forte amore verso la Madre celeste, che il Redentore gli aveva lasciato quasi per testamento. Tra i benefici ottenuti dal culto pubblico e liturgico verso la Madre di Dio e i Santi del Cielo non ultimo si deve annoverare questo: che la Chiesa, in ogni tempo, poté vittoriosamente respingere la peste delle eresie e degli errori. – In tale ordine di cose dobbiamo ammirare i disegni della divina Provvidenza, la quale, come suole dal male ritrarre il bene, così permise che di quando in quando la fede e la pietà delle genti diminuissero, o che le false teorie insidiassero la verità cattolica, con questo esito però, che questa risplendesse poi di nuovo splendore, e quelle, destatesi dal letargo, tendessero a cose maggiori e più sante. – Ed invero le festività che furono accolte nel corso dell’anno liturgico in tempi a noi vicini, ebbero uguale origine e produssero identici frutti. Così, quando erano venuti meno la riverenza e il culto verso l’augusto Sacramento, fu istituita la festa del Corpus Domini, e si ordinò che venisse celebrata in modo tale che le solenni processioni e le preghiere da farsi per tutto l’ottavario richiamassero le folle a venerare pubblicamente il Signore; così la festività del Sacro Cuore di Gesù fu introdotta quando gli animi degli uomini, infiacchiti e avviliti per il freddo rigorismo dei giansenisti, erano del tutto agghiacciati e distolti dall’amore di Dio e dalla speranza della eterna salvezza. – Ora, se comandiamo che Cristo Re venga venerato da tutti i cattolici del mondo, con ciò Noi provvederemo alle necessità dei tempi presenti, apportando un rimedio efficacissimo a quella peste che pervade l’umana società.

Il “laicismo”

La peste della età nostra è il così detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l’impero di Cristo su tutte le genti; si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al potere civile e fu lasciata quasi all’arbitrio dei principi e dei magistrati. Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione nell’irreligione e nel disprezzo di Dio stesso. – I pessimi frutti, che questo allontanamento da Cristo da parte degli individui e delle nazioni produsse tanto frequentemente e tanto a lungo, Noi lamentammo nella Enciclica Ubi arcano Dei e anche oggi lamentiamo: i semi cioè della discordia sparsi dappertutto; accesi quegli odii e quelle rivalità tra i popoli, che tanto indugio ancora frappongono al ristabilimento della pace; l’intemperanza delle passioni che così spesso si nascondono sotto le apparenze del pubblico bene e dell’amor patrio; le discordie civili che ne derivarono, insieme a quel cieco e smoderato egoismo sì largamente diffuso, il quale, tendendo solo al bene privato ed al proprio comodo, tutto misura alla stregua di questo; la pace domestica profondamente turbata dalla dimenticanza e dalla trascuratezza dei doveri familiari; l’unione e la stabilità delle famiglie infrante, infine la stessa società scossa e spinta verso la rovina. – Ci sorregge tuttavia la buona speranza che l’annuale festa di Cristo Re, che verrà in seguito celebrata, spinga la società, com’è nel desiderio di tutti, a far ritorno all’amatissimo nostro Salvatore. Accelerare e affrettare questo ritorno con l’azione e con l’opera loro sarebbe dovere dei Cattolici, dei quali, invero, molti sembra non abbiano nella civile convivenza quel posto né quell’autorità, che s’addice a coloro che portano innanzi a sé la fiaccola della verità. – Tale stato di cose va forse attribuito all’apatia o alla timidezza dei buoni, i quali si astengono dalla lotta o resistono fiaccamente; da ciò i nemici della Chiesa traggono maggiore temerità e audacia. Ma quando i fedeli tutti comprendano che debbono militare con coraggio e sempre sotto le insegne di Cristo Re, con ardore apostolico si studieranno di ricondurre a Dio i ribelli e gl’ignoranti, e si sforzeranno di mantenere inviolati i diritti di Dio stesso.

La preparazione storica della festa di Cristo Re

E chi non vede che fino dagli ultimi anni dello scorso secolo si preparava meravigliosamente la via alla desiderata istituzione di questo giorno festivo? Nessuno infatti ignora come, con libri divulgati nelle varie lingue di tutto il mondo, questo culto fu sostenuto e sapientemente difeso; come pure il principato e il regno di Cristo fu ben riconosciuto colla pia pratica di dedicare e consacrare tutte le famiglie al Sacratissimo Cuore di Gesù. E non soltanto famiglie furono consacrate, ma altresì nazioni e regni; anzi, per volere di Leone XIII, tutto il genere umano, durante l’Anno Santo 1900, fu felicemente consacrato al Divin Cuore. – Né si deve passar sotto silenzio che a confermare questa regale potestà di Cristo sul consorzio umano meravigliosamente giovarono i numerosissimi Congressi eucaristici, che si sogliono celebrare ai nostri tempi; essi, col convocare i fedeli delle singole diocesi, delle regioni, delle nazioni e anche tutto l’orbe cattolico, a venerare e adorare Gesù Cristo Re nascosto sotto i veli eucaristici, tendono, mediante discorsi nelle assemblee e nelle chiese, mediante le pubbliche esposizioni del Santissimo Sacramento, mediante le meravigliose processioni ad acclamare Cristo quale Re dato dal cielo. – A buon diritto si direbbe che il popolo cristiano, mosso da ispirazione divina, tratto dal silenzio e dal nascondimento dei sacri templi, e portato per le pubbliche vie a guisa di trionfatore quel medesimo Gesù che, venuto nel mondo, gli empi non vollero riconoscere, voglia ristabilirlo nei suoi diritti regali. – E per vero ad attuare il Nostro divisamento sopra accennato, l’Anno Santo che volge alla fine Ci porge la più propizia occasione, poiché Dio benedetto, avendo sollevato la mente e il cuore dei fedeli alla considerazione dei beni celesti che superano ogni gaudio, o li ristabilì in grazia e li confermò nella retta via e li avviò con nuovi incitamenti al conseguimento della perfezione. – Perciò, sia che consideriamo le numerose suppliche a Noi rivolte, sia che consideriamo gli avvenimento di questo Anno Santo, troviamo argomento a pensare che finalmente è spuntato il giorno desiderato da tutti, nel quale possiamo annunziare che si deve onorare con una festa speciale Cristo quale Re di tutto il genere umano. – In quest’anno infatti, come dicemmo sin da principio, quel Re divino veramente ammirabile nei suoi Santi, è stato magnificato in modo glorioso con la glorificazione di una nuova schiera di suoi fedeli elevati agli onori celesti; parimenti in questo anno per mezzo dell’Esposizione Missionaria tutti ammirarono i trionfi procurati a Cristo per lo zelo degli operai evangelici nell’estendere il suo Regno; finalmente in questo medesimo anno con la centenaria ricorrenza del Concilio Niceno, commemorammo la difesa e la definizione del dogma della consustanzialità del Verbo incarnato col Padre, sulla quale si fonda l’impero sovrano del medesimo Cristo su tutti i popoli.

L’istituzione della festa di Cristo Re

Pertanto, con la Nostra apostolica autorità istituiamo la festa di nostro Signore Gesù Cristo Re, stabilendo che sia celebrata in tutte le parti della terra l’ultima domenica di ottobre, cioè la domenica precedente la festa di tutti i Santi. Similmente ordiniamo che in questo medesimo giorno, ogni anno, si rinnovi la consacrazione di tutto il genere umano al Cuore santissimo di Gesù, che il Nostro Predecessore di santa memoria Pio X aveva comandato di ripetere annualmente. – In quest’anno però, vogliamo che sia rinnovata il giorno trentuno di questo mese, nel quale Noi stessi terremo solenne pontificale in onore di Cristo Re e ordineremo che la detta consacrazione si faccia alla Nostra presenza. Ci sembra che non possiamo meglio e più opportunamente chiudere e coronare 1’Anno Santo, né rendere più ampia testimonianza della Nostra gratitudine a Cristo, Re immortale dei secoli, e di quella di tutti i cattolici per i beneficî fatti a Noi, alla Chiesa e a tutto l’Orbe cattolico durante quest’Anno Santo. – E non fa bisogno, Venerabili Fratelli, che vi esponiamo a lungo i motivi per cui abbiamo istituito la solennità di Cristo Re distinta dalle altre feste, nelle quali sembrerebbe già adombrata e implicitamente solennizzata questa medesima dignità regale. – Basta infatti avvertire che mentre l’oggetto materiale delle attuali feste di nostro Signore è Cristo medesimo, l’oggetto formale, però, in esse si distingue del tutto dal nome della potestà regale di Cristo. La ragione, poi, per cui volemmo stabilire questa festa in giorno di domenica, è perché non solo il Clero con la celebrazione della Messa e la recita del divino Officio, ma anche il popolo, libero dalle consuete occupazioni, rendesse a Cristo esimia testimonianza della sua obbedienza e della sua devozione. – Ci sembrò poi più d’ogni altra opportuna a questa celebrazione l’ultima domenica del mese di ottobre, nella quale si chiude quasi l’anno liturgico, così infatti avverrà che i misteri della vita di Gesù Cristo, commemorati nel corso dell’anno, terminino e quasi ricevano coronamento da questa solennità di Cristo Re, e prima che si celebri e si esalti la gloria di Colui che trionfa in tutti i Santi e in tutti gli eletti. – Pertanto questo sia il vostro ufficio, o Venerabili Fratelli, questo il vostro compito di far sì che si premetta alla celebrazione di questa festa annuale, in giorni stabiliti, in ogni parrocchia, un corso di predicazione, in guisa che i fedeli ammaestrati intorno alla natura, al significato e all’importanza della festa stessa, intraprendano un tale tenore di vita, che sia veramente degno di coloro che vogliono essere sudditi affezionati e fedeli del Re divino.

I vantaggi della festa di Cristo Re

Giunti al termine di questa Nostra lettera Ci piace, o Venerabili Fratelli, spiegare brevemente quali vantaggi in bene sia della Chiesa e della società civile, sia dei singoli fedeli, Ci ripromettiamo da questo pubblico culto verso Cristo Re. – Col tributare questi onori alla dignità regia di nostro Signore, si richiamerà necessariamente al pensiero di tutti che la Chiesa, essendo stata stabilita da Cristo come società perfetta, richiede per proprio diritto, a cui non può rinunziare, piena libertà e indipendenza dal potere civile, e che essa, nell’esercizio del suo divino ministero di insegnare, reggere e condurre alla felicità eterna tutti coloro che appartengono al Regno di Cristo, non può dipendere dall’altrui arbitrio. – Di più, la società civile deve concedere simile libertà a quegli ordini e sodalizi religiosi d’ambo i sessi, i quali, essendo di validissimo aiuto alla Chiesa e ai suoi pastori, cooperano grandemente all’estensione e all’incremento del regno di Cristo, sia perché con la professione dei tre voti combattono la triplice concupiscenza del mondo, sia perché con la pratica di una vita di maggior perfezione, fanno sì che quella santità, che il divino Fondatore volle fosse una delle note della vera Chiesa, risplenda di giorno in giorno vieppiù innanzi agli occhi di tutti. – La celebrazione di questa festa, che si rinnova ogni anno, sarà anche d’ammonimento per le nazioni che il dovere di venerare pubblicamente Cristo e di prestargli obbedienza riguarda non solo i privati, ma anche i magistrati e i governanti: li richiamerà al pensiero del giudizio finale, nel quale Cristo, scacciato dalla società o anche solo ignorato e disprezzato, vendicherà acerbamente le tante ingiurie ricevute, richiedendo la sua regale dignità che la società intera si uniformi ai divini comandamenti e ai principî cristiani, sia nello stabilire le leggi, sia nell’amministrare la giustizia, sia finalmente nell’informare l’animo dei giovani alla santa dottrina e alla santità dei costumi. – Inoltre non è a dire quanta forza e virtù potranno i fedeli attingere dalla meditazione di codeste cose, allo scopo di modellare il loro animo alla vera regola della vita cristiana. – Poiché se a Cristo Signore è stata data ogni potestà in cielo e in terra; se tutti gli uomini redenti con il Sangue suo prezioso sono soggetti per un nuovo titolo alla sua autorità; se, infine, questa potestà abbraccia tutta l’umana natura, chiaramente si comprende, che nessuna delle nostre facoltà si sottrae a tanto impero.

Conclusione

Cristo regni!

È necessario, dunque, che Egli regni nella mente dell’uomo, la quale con perfetta sottomissione, deve prestare fermo e costante assenso alle verità rivelate e alla dottrina di Cristo; che regni nella volontà, la quale deve obbedire alle leggi e ai precetti divini; che regni nel cuore, il quale meno apprezzando gli affetti naturali, deve amare Dio più d’ogni cosa e a Lui solo stare unito; che regni nel corpo e nelle membra, che, come strumenti, o al dire dell’Apostolo Paolo, come “armi di giustizia”  offerte a Dio devono servire all’interna santità delle anime. Se coteste cose saranno proposte alla considerazione dei fedeli, essi più facilmente saranno spinti verso la perfezione. – Faccia il Signore, Venerabili Fratelli, che quanti sono fuori del suo regno, bramino ed accolgano il soave giogo di Cristo, e tutti, quanti siamo, per sua misericordia, suoi sudditi e figli, lo portiamo non a malincuore ma con piacere, ma con amore, ma santamente, e che dalla nostra vita conformata alle leggi del Regno divino raccogliamo lieti ed abbondanti frutti, e ritenuti da Cristo quali servi buoni e fedeli diveniamo con Lui partecipi nel Regno celeste della sua eterna felicità e gloria. – Questo nostro augurio nella ricorrenza del Natale di nostro Signore Gesù Cristo sia per voi, o Venerabili Fratelli, un attestato del Nostro affetto paterno; e ricevete l’Apostolica Benedizione, che in auspicio dei divini favori impartiamo ben di cuore a voi, o Venerabili Fratelli, e a tutto il popolo vostro.

[Dato a Roma, presso S. Pietro, il giorno 11 Dicembre dell’Anno Santo 1925, quarto del Nostro Pontificato.]

Credo

Offertorium
Orémus
Ps II:8.
Póstula a me, et dabo tibi gentes hereditátem tuam, et possessiónem tuam términos terræ.
[Chiedi a me ed Io ti darò in eredità le nazioni e in dominio i confini della terra]

Secreta
Hóstiam tibi, Dómine, humánæ reconciliatiónis offérimus: præsta, quǽsumus; ut, quem sacrifíciis præséntibus immolámus, ipse cunctis géntibus unitátis et pacis dona concédat, Jesus Christus Fílius tuus, Dóminus noster:Qui tecum …[Ti offriamo, o Signore, la vittima dell’umana riconciliazione; fa’, Te ne preghiamo, che Colui che immoliamo in questo Sacrificio, conceda a tutti i popoli i doni dell’unità e della pace: Gesù Criato Figliuolo, nostro Signore, Egli …]

Præfatio
de D.N. Jesu Christi Rege
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui unigénitum Fílium tuum, Dóminum nostrum Jesum Christum, Sacerdótem ætérnum et universórum Regem, óleo exsultatiónis unxísti: ut, seípsum in ara crucis hóstiam immaculátam et pacíficam ófferens, redemptiónis humánæ sacraménta perágeret: et suo subjéctis império ómnibus creatúris, ætérnum et universále regnum, imménsæ tuæ tráderet Majestáti. Regnum veritátis et vitæ: regnum sanctitátis et grátiæ: regnum justítiæ, amóris et pacis. Et ídeo cum Angelis et Archángelis, cum Thronis et Dominatiónibus cumque omni milítia coeléstis exércitus hymnum glóriæ tuæ cánimus, sine fine dicéntes: [È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: Che il tuo Figlio unigénito, Gesú Cristo nostro Signore, hai consacrato con l’olio dell’esultanza: Sacerdote eterno e Re dell’universo: affinché, offrendosi egli stesso sull’altare della croce, vittima immacolata e pacífica, compisse il mistero dell’umana redenzione; e, assoggettate al suo dominio tutte le creature, consegnasse all’immensa tua Maestà un Regno eterno e universale, regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace. E perciò con gli Angeli e gli Arcangeli, con i Troni e le Dominazioni, e con tutta la milizia dell’esercito celeste, cantiamo l’inno della tua gloria, dicendo senza fine:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt coeli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Communio
Ps 28:10; 28:11
Sedébit Dóminus Rex in ætérnum: Dóminus benedícet pópulo suo in pace.[Sarà assiso il Signore, Re in eterno; il Signore benedirà il suo popolo con la pace]

Postcommunio
Orémus.
Immortalitátis alimóniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, qui sub Christi Regis vexíllis militáre gloriámur, cum ipso, in cœlésti sede, júgiter regnáre póssimus: Qui
[Ricevuto questo cibo di immortalità, Ti preghiamo o Signore, che quanti ci gloriamo di militare sotto il vessillo di Cristo Re, possiamo in cielo regnare per sempre con Lui: Egli che …]

BAMBINI MORTI SENZA BATTESIMO

Bambini morti senza battesimo.

[G. Bertetti: “Il sacerdote predicatore” – S.E.I. Torino, 1919]

1. Non godranno la gloria celeste. — 2. Non saranno condannati all’inferno. —

3. Godranno una felicità naturale.

  1. NON GODRANNO LA GLORIA CELESTE, salvo che abbiano sofferto il martirio per causa di Gesù Cristo, come i Santi Innocenti… Fuori del martirio, essi non potranno essere elevati alla beatitudine sovrannaturale… La legge di Gesù non ammette eccezioni: « Chi non rinascerà per mezzo dell’acqua e dello Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio » (JOANN., III, 5)… Come non si salvano gli adulti senza battesimo, così non si salvano i bambini. – Ma può accadere che un adulto si salvi col battesimo di desiderio …. non così i bambini che non hanno ancor raggiunto l’uso di ragione… E questo un pensiero che non dovrebbe più lasciare un momento di tranquillità a quei genitori che per loro colpa non « lasciarono che i bambini venissero a Gesù » e li privarono per sempre del regno dei cieli. Gesù ha proferito una tremenda minaccia contro chi danneggerà le anime dei bambini: « Meglio per lui sarebbe che gli fosse appesa al collo una macina da asino e che fosse sommerso nel profondo del mare » (MATTH., XVIII, 6)… E qual danno maggiore si potrebbe recare all’anima d’un bambino, che privandolo della felicità del paradiso!…
  2. NON SARANNO CONDANNATI ALL’INFERNO. — « Né la celeste gloria, né l’eterno supplizio dell’inferno essi avranno dal giusto ed eterno giudice, perché, quantunque non battezzati, mancano di malvagità e di malizia e non di propria volontà subiscono la perdita del battesimo;… non subito è degno di supplizio chi non merita onore e gloria; viceversa, non subito merita onore e gloria chi non è degno del supplizio » (S. GREGORIO NAZIANZENO, or. 40 in s. bapt). — È poi insegnamento di S. Tommaso (S. TH., ‘8up.pl., q. 1, a. 1) che la privazione della vista di Dio è l’unica pena riservata dopo morte al peccato originale; non già la pena del senso, ch’è dovuta soltanto a colpe personali e ch’è proporzionata al diletto che si prova nel commettere la colpa, come dice lo Spirito Santo (Apoc, XVIII, 7): « Quanto s’innalzò e visse nelle delizie, tanto datele di tormento e di lutto »; ora, nel peccato originale, come non c’è nessun’opera, così non c’è alcun diletto, perciò nessun castigo sensibile da soffrire dopo morte”. Queste considerazioni valgano a lenire, per quanto si può, l’angustia di quei genitori cristiani che, senz’alcuna loro colpa, ebbero dei bambini morti senza battesimo; e più valgano le considerazioni seguenti:
  3. GODRANNO UNA FELICITÀ TEMPORALE. — I bambini morti senza battesimo «non si trovarono mai in uno stato di proporzione per la vita eterna, perché, oltrepassando questa ogni facoltà della natura, non era loro dovuta in forza dei principii naturali, e perché essi non poterono avere atti loro propri per conseguire un sì gran bene. Perciò non sentiranno alcun dolore per la privazione della vista di Dio: anzi godranno molto nella partecipazione della divina bontà e delle perfezioni naturali ». Né li angustierà il pensiero che altri bambini, battezzati per opera e per merito d’altri, raggiunsero la felicità soprannaturale: « l’essere premiati senza il concorso dell’opera nostra è una grazia sovrabbondante: perciò la mancanza d’una grazia siffatta non cagiona nei bambini morti senza battesimo una tristezza maggiore di quella che nei sapienti cagioni il fatto di non veder fatte a sé molte grazie che son fatte ad altri simili ». (S. TH., Suppl, q. 1, a. 2). – «Vivranno contenti del loro stato» (S. BONAVENTURA, De damn.): « Meneranno una vita più gioconda e più dilettevole di quella che naturalmente può trovarsi in questo mondo » (LIRANO, in Eccles.) – « Avranno una conoscenza di tutte le cose naturali di gran lunga più estesa di quella che n’ebbero tutti i filosofi insieme» (SCOTO, 1. 2, dist. 33, 1). — «Conosceranno chiaramente e distintamente l’essenza della loro anima e anche, in un modo però meno perfetto, le nature angeliche; loderanno eternamente Dio in riconoscenza della creazione loro e di tutto l’universo ». (LESSIO, De perfect., 13, 2).

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (13), cap. XXIV

CAPITOLO XXIV.

IMITATORI DEL BUON LADRONE IN OCCIDENTE.

I ladri delle Alpi. — Arresto di S. Martino, sangue freddo del Taumaturgo, suo discorso ad uno dei ladri, conversione subitanea e durevole di costui. — Margherita da Cortona. — Sua origine. — Causa della sua subitanea conversione. — Eroismo della sua virtù. — I due giustiziati della città di Siena.— Loro bestemmie. — S. Caterina. — Conversione istantanea. — Morte edificante. — Il brigante di Napoli.— Sua crudeltà, suo arresto, sua disperazione.— Convertito con l’esempio del Buon Ladrone. — Delicatezza di coscienza. — Assalti del demonio. — Vittoria completa. — Un vecchio peccatore datosi al diavolo. — Bruttato di ogni sorta di delitti. — Convertito da S. Brigida.— Altro a lui somigliante nella persona di Andrea Naddini ricco borghese di Siena. — Giocatore e bestemmiatore. — Convertito da S. Caterina da Siena.— Mandrino.— Sua vita.— Sua conversione.— Sua morte.

Tra gli insigni favori di Dio, bisogna pure annoverar quello d’imbattersi con un santo nel cammin della vita: da un simile avventuroso incontro è dipesa la salute, vale a dire la eterna felicità di una moltitudine di anime, ed anche di molti gran peccatori. L’umile villaggio di Ars può esso pure farne testimonianza, e nel fatto che noi siamo per riferire, come in quelli che esporremo in seguito, brilla luminosamente questa consolante verità. – II gran taumaturgo delle Gallie, s. Martino, portavasi da Poitiers in Pannonia, per rivedere i suoi parenti, e traversando le gole delle Alpi, s’imbatté in una comitiva di briganti. Miracolosamente sfuggito alla scure di uno di quei malviventi, capitò nelle mani di un altro per essere spogliato. Costui strascinò il santo nel fondo della sua caverna, e gli disse : « Chi sei tu che non temi di venire a morire per mano dei ladri? » Martino rispose: « Io sono cristiano, e non solo non temo la morte, ma non fui mai così tranquillo come in questo momento, perché son sicuro che Iddio vien sempre in aiuto dei suoi servi nelle loro necessità. Per te piuttosto io temo la morte eterna, sorte inevitabile di un assassino tuo pari, a meno che non ti converta, e sull’esempio del Ladrone del santo Evangelio, tu non faccia dimenticare le tue passate iniquità con una vita di sincera, benché tarda penitenza. » E per incoraggiarlo, il santo gli promise, quando volesse profittare dei suoi consigli, di ottenergli questa grazia dalla divina misericordia. La parola del coraggioso vescovo fu come una spada che trapassò il cuore dell’assassino, e prendendo per mano il santo, ei lo ricondusse sano e salvo sulla sua strada, e non se ne separò, se non dopo di avere con la più viva insistenza strappata la assicurazione del promesso beneficio. L’uomo di Dio tenne la parola, e per l’efficacia delle sue preghiere, non solo quel masnadiere lasciò il suo scellerato genere di vita, ma abbracciò con ardore la carriera della penitenza, nella quale perseverò fino alla morte [Sulp. Sever., Vita B. Mart., c. IV]. Traversiamo ora le Alpi con s. Martino, e mentre egli segue la sua via per le terre Lombarde, prendiamo noi la via della Toscana. Eccoci al piccolo villaggio di Laviano. Vedete voi quella giovine sì svelta, vanitosa e dotata della più rara bellezza? Malcontenta della sua matrigna ama piuttosto di frequentare le strade del villaggio, che starsi raccolta nelle domestiche mura. A un signore di Montepulciano, ricco proprietario di quella contrada, diede nell’occhio la incauta giovine; e la vanità da un lato, e dall’altro la passione si posero facilmente d’accordo. La giovane Margherita non è più padrona di se: ella già trovasi nella città di Montepulciano, ed abita nel magnifico palazzo del seduttore. Formati appena, tutti i suoi capricci son soddisfatti; le più ricche stoffe sono il suo corredo; nelle sue chiome brillano le gemme più preziose; ella vince nel lusso tutte le grandi dame della città. Ovunque siano feste, si è certi d’incontrarla. Scandalo pubblico, e scandalo di ogni giorno, ella passa nove anni in così reo disordine. Che sarebbe stato mai di lei se la divina misericordia non l’avesse ad un tratto arrestata sul cammino dell’inferno? Un giorno, nel quale a tutt’altro pensava fuorché a mutar vita, il suo drudo parte per la campagna. Venuta la notte non si vede tornare. Margherita n’è inquieta. L’indomani ella si pone alla finestra per spiare se venga colui ch’essa attende. Invece del suo diletto, ella vede il di lui cane che a lenti passi, abbassata la testa, sen viene, e fermasi sull’uscio, rompendo in dolorosi guai. Margherita discende, il fido animale ne prende coi denti la veste, e le fa segno di seguirlo. Esso la conduce così alla distanza di qualche miglio dalla città, e giunto ad un boschetto, fermandosi a raspar la terra, scopre il cadavere sanguinoso del suo sventurato amante, che caduto vittima di un assassino quivi era stato a fior di terra sepolto. – A tale spettacolo, Margherita cade a terra svenuta, e tornata in sé, versa amarissime lacrime, e sotto la impressione della grazia, fa sul momento la irrevocabile risoluzione di cambiar vita. Reduce alla città, ella abbandona le sue ricche vesti, dispone ogni cosa per lasciare ben ordinata la casa, e coperta di una vecchia e nera tonaca abbandona quella città, ch’aveva sì lungamente scandalizzata. Il suo primo atto di ravvedimento si fu di andare a gettarsi ai piedi del suo povero padre, e di domandargli perdono con un torrente di lacrime. Questo primo passo non le bastò; per riparare i suoi cattivi esempi, volle essa farne un altro ben più penoso al suo amor proprio. Nella prossima domenica, mentre tutto il popolo di Laviano era nella Chiesa, ella entrò nel luogo santo, ed ascesa coi piedi nudi, il capo raso, ed una corda al collo presso all’altare, prostrata umilmente, non profferisce una sola parola, ma inonda di lacrime il pavimento del Santuario. Terminata poi la sacra funzione, ella si accosta ad una pia signora che altra volta aveva frequentata. Genuflessa a lei dinanzi, alla presenza di tutto il popolo che non l’aveva riconosciuta, Margherita pronunzia queste parole interrotte da singhiozzi: « Signora, ecco a vostri piedi una scellerata peccatrice che ha disonorato la sua famiglia e la sua patria. Confesso di aver indegnamente disprezzato i vostri consigli, e vi scongiuro di dimenticare i mici trascorsi, dei quali sono profondamente pentita. Deh, perdonate le colpevoli follie dei miei giovani anni, com’io supplico umilmente tutti quelli che sono qui presenti di perdonarmi gli scandali che loro ho dati, e li scongiuro di ottenermi da Dio con le loro preghiere un dolore sempre maggiore, perché io faccia una vera ed esemplare penitenza dei miei innumerabili peccati. » –  Tacque e rimase in ginocchio. Gli spettatori tutti ne erano inteneriti e commossi; e tanta è la potenza dell’umiltà per riabilitare un’anima, che la pietà e una specie di venerazione presero nel cuore di tutti il luogo di ogni altro sentimento. Le istanze della dama non valsero a far rilevare Margherita da quell’umile posizione. Silenziosa, immobile, ella prolungò quell’atto eroico fino a che rimase alcuno in quella Chiesa. – Rilevatasi appena, abbandonò Laviano per non tornarvi più, e si recò nella città di Cortona. Ivi tutta sola, in un meschino tugurio, per lunghi anni visse di lacrime, di austerità e di elemosine, e in ultimo di abbondanti consolazioni, di quelle consolazioni, delle quali il buon Pastore si piace di colmare le pecorelle smarrite che tornano all’ ovile; né mai si avverò meglio questa sentenza: il pentimento essere fratello dell’innocenza. Non solamente Margherita divenne una gran santa, ma il fu a segno di operar miracoli; ed il suo corpo conservato intatto già da tre secoli, continua sempre, come quello della pura vergine Teresa, a spandere una celeste fragranza [Vita etc., di F. Marchese, passim.] – Scendiamo ora a Siena, poco lontana da Laviano. In questa città ci attendono due nuovi imitatori di Disma; due vecchi peccatori condannati a supplizi eccezionali per la enormità dei loro misfatti. Già si conducevano al supplizio, e legati su di una carretta, il carnefice lacerava loro le carni con dei pettini arroventati. Nessuno aveva potuto indurli a confessarsi; e simili ai ladroni del Calvario, non cessavano di bestemmiare Dio e quanto vi ha di più santo. La perla del suo secolo, la giovane santa Caterina da Siena era allora presso una sua amica, l’abitazione della quale si trovava sul passaggio di quegli sciagurati. Avvicinandosi a quella, li scorse l’amica di Caterina, e la scongiurò di domandare al Signore la salvezza di quei disperati. Si pose tosto in orazione la Santa, e domandò al divino Maestro di poterli in ispirito accompagnare fino al luogo del supplizio. I suoi voti vennero esauditi. Giunto alla porta della città il tristo corteggio, il misericordioso Salvatore, tutto coperto di piaghe e di sangue, apparve ai due ostinati, chiamandoli al pentimento e promettendo loro il perdono. Mutati in un momento come Disma, chiedono con istanza un confessore, e dando segni di profondo dolore confessarono a quello i loro peccati. Da quel momento le loro bestemmie, come quelle del Buon Ladrone, si cambiarono in benedizioni al Dio delle misericordie, e come Disma, non hanno alcuna ripugnanza di riconoscere che son ben meritevoli della punizione cui vanno incontro, e di ogni più crudele tormento. Tutto il popolo è stupefatto di un cambiamento sì subitaneo ed inaspettato. Gli stessi carnefici rimettono della loro fierezza, e più non osano moltiplicar le ferite a coloro che veggono a tal segno ravveduti e pentiti. Vanno essi pertanto alla morte come ad un festino, ripieni di fiducia, che quel momentaneo supplizio gli metterà tosto al possesso di una felicità compiuta e senza termine [Vita s. Cather. Senen. Ap. Sur. 29. Aprii, p. 939. edit.]. – Par superfluo il far qui notare i tratti di rassomiglianza che passano tra la conversione di questi due malfattori e quella del Buon Ladrone: e potremo conchiudere che la misericordia di Nostro Signore è eternamente la stessa. E poiché siamo in Italia, facciamo una corsa fino a Napoli, e la nostra conclusione vi si troverà confermata da un fatto non meno memorabile. L’anno 1558 fu condotto nelle prigioni di quella città un famoso brigante. Quest’uomo era già da ventotto anni il terrore del paese. Carico di ogni delitto, esso era alla testa di una banda di masnadieri che poneva agli agguati sulla pubblica via, e venuto il momento, la guidava in persona all’assalto dei passeggeri, ai quali non si contentava di rubare la borsa, ma gioiva di toglier puranco la vita con raffinamento di crudeltà. – Conosciutosi appena il suo arresto, alcune sante persone della città di Napoli si posero all’impegno di strappare a satana una simile preda. L’impresa era tanto più difficile, dacché lo sciagurato era caduto nel più profondo abisso della disperazione. Per ritrarvelo, non si rinvenne che un mezzo, e si fu quello di porgli innanzi gli occhi l’esempio del Buon Ladrone. Al pensiero del suo simile perdonato in sul punto di morire ei sente rinascere in cuor suo la speranza. Uno dei più zelanti religiosi di s. Camillo de Lellis, il P. Girolamo Uccello, insiste su quel consolante esempio, visita del continuo il condannato, e diviene 1’invidiabile strumento della sua conversione. « Padre, gli disse un giorno quel feroce brigante, io voglio confessarmi, sono già trentotto anni che non l’ho fatto. » – « Io son qui tutto per voi, risponde il santo religioso. » Alla richiesta del penitente, egli presta pazientemente l’orecchio per quattro giorni consecutivi all’ accusa di scelleratezze, delle quali un sol uomo non pare poter esser capace; e di tempo in tempo, il novello Disma chiede di prender fiato non tanto per riposarsi, quanto per ricercare nella sua memoria ciò che può essergli sfuggito. Fatta la sua confessione colla maggior diligenza ed un’eguale pietà, egli si sente tutto pieno di speranza, e sull’esempio del Buon Ladrone impiega in atti di pietà e di religione il poco tempo che gli resta di vita. Per finire di purificarlo, il demonio, di cui sì lungamente era stato lo schiavo obbediente, gli apparve sotto forma visibile, e duramente lo percosse, come altravolta ebbe fatto a s. Antonio, e lo tormentò con un tremito convulsivo dì tutta la persona. La calma finalmente gli fu resa, sopravvenne la morte; ed il brigante del Lazio divenne il fortunato ladro del paradiso: Paradisum feliciter prædatus. [Annal. Cleric. Regai. Ministr. infirm. n. 22. an. 1558]. – Dall’oriente prendemmo le mosse per la ricerca dei miracoli della divina misericordia, ed è pur là che noi vogliamo terminare. Ma prima di abbandonare l’Occidente, citiamo ancora alcuni esempi della rapidità, con la quale la tenerezza del nostro Padre celeste opera sopra i più grandi peccatori, qualunque sia la specie delle loro iniquità. – La illustre principessa di Svezia, Santa Brigida, riferisce il seguente fatto. « Eravi un uomo di mondo, grande per la sua prosapia, che era fra le più illustri della terra, ma più grande ancora per le sue ricchezze e per i suoi vizi. All’età di sessanta anni mai erasi egli confessato, né accostato mai alla mensa eucaristica. Colpito da una mortale infermità, egli era per esser sepolto nell’inferno. Io il feci avvertire dal mio confessore del prossimo gravissimo pericolo ch’egli correva, e sulle prime egli finse di aver perduta la parola: poi disse che non aveva bisogno di confessarsi, avendolo già fatto con assai frequenza. Con questa bugiarda risposta lo sciagurato deluse per due o tre volte la pia sollecitudine del sacerdote. Allora, profondamente commossa dal misero stato di quell’uomo, apertamente gli feci dire per parte di Nostro Signore: Voi siete posseduto da sette demoni, ed ecco perché avete vissuto nell’abitudine dei sette peccati mortali. In questo stesso momento, satana è nel vostro cuore in luogo di Dio, e bentosto esso farà di voi la sua vittima per tutta l’eternità. – Non vi è tempo a perdere; pentitevi al più presto, e Dio vi perdonerà. « L’avvertimento commuove quel cuore di bronzo, e ne fa scaturire una fontana di lacrime. Quale speranza, domandò egli al sacerdote, può mai restare ad un miserabile mio pari? Quando i vostri peccati, rispose il ministro di Dio, fossero infinitamente più enormi e più numerosi, io ve ne prometto con giuramento ed in nome di Dio il sicuro perdono, purché dal vostro canto non più indugiate a fare ciò che è debito vostro di fare. « Confortato da questa promessa, l’infermo piangendo e singhiozzando rispose così: Io ho disperato della mia salute, perché mi son dato al demonio: Homagium feci Diabolo, che mi ha parlato un grandissimo numero di volte. Per questo motivo giunto all’età di sessanta anni mai mi son confessato né comunicato; e quando gli altri sì comunicavano, io allegava dei pretesti per astenermene. Ora, Padre mio, ve lo confesso, io non ricordo di aver mai versato lacrime, come quelle che verso in questo momento. – « Avendo così parlato, ei si confessò ben quattro volte in quel medesimo giorno, e purificato da questa ripetuta confessione, ricevé con grande amore il corpo santissimo di Gesù; e sei giorni appresso spirò dolcemente l’anima pieno di fermissima confidenza nella misericordia di Dio. » 1, S. Brìgid. Revel. lib . VI. c. XCVII; Blosius, In monile, c . II.] – Nel nostro secolo d’invasione satanica, quante volte un sacerdote, che abbia fatto lungo esercizio del suo ministero, non si trova esposto all’incontro di simili casi? Intendiamo parlare di peccatori che muoiono impenitenti, per essersi dati a delle pratiche infernali, o per avere indirettamente dato al demonio la padronanza della loro anima, abbandonandosi senza ritegno a tutte le concupiscenze. Arrivano essi al termine della vita, senza alcuna speranza, duri di cuore al pari del marmo, freddi come il ghiaccio, e talvolta con la bestemmia sul labbro. Faccia Iddio che il precedente esempio e quello che segue, siano per essi, come per il sacerdote, una ragione per non mai disperare. – L’anno di Nostro Signore 1370 viveva in Siena un borghese chiamato Andrea Naddini. Ricco di beni temporali, ma povero di virtù, pieno di vizi e coperto di delitti, passava egli la sua vita a giuocare ed a bestemmiar Dio ed i santi che detestava. All’età di quarant’anni venne assalito da mortale infermità che ben presto lo ridusse agli estremi. Buon numero di religiosi e di pie donne vennero a visitarlo, ed il suo parroco fece quanto era mai possibile per indurlo a ricevere i Sacramenti. Ma l’infelice che da moltissimi anni non aveva neppur messo piede in una chiesa, e che era abituato a disprezzare preti e frati, respinse, come un vero disperato, qualunque esortazione. – Fra Tommaso Domenicano, confessore di s. Caterina, informato di quanto avveniva nella casa dell’infermo, va a trovare quell’ammirabile eroina, e le raccomandò di pregare col più gran fervore per quell’anima vicina a perdersi. La Santa si pose tosto a piangere e supplicare; ma Nostro Signore le disse: « I peccati di quel bestemmiatore son giunti fino al cielo. Senza parlare degli altri, egli ha spinto la sua empietà fino a gettar al fuoco un quadro, nel quale Io con mia Madre ed alcuni santi era rappresentato. Le fiamme dell’inferno sono un conveniente castigo per un tal sacrilegio. » Afflitta, ma non scoraggiata Caterina, divorata com’era dalla sete della salvezza delle anime, non cessò dal piangere sulla sorte di quel peccatore; raddoppiò le preghiere inondando di lacrime i piedi del suo Crocifisso. Quegli ch’era venuto dal cielo in terra per salvare tutto ciò ch’era perduto, Gesù lasciasi piegare da tanta e sì amorosa insistenza: apparisce ad Andrea coricato sul suo letto di morte, lo esorta a confessare i suoi peccati, e gli promette, se il facesse, di perdonargli tutto. A quelle parole, il moribondo ritrova tutte le sue forze, e con voce sonora esclama: « Io vedo Nostro Signor Gesù Cristo, Egli vuol ch’io mi confessi. Si corra dunque a cercarmi un sacerdote. » Indicibile è la gioia degli astanti, e si corre alla ricerca del santo ministro; giunto il quale, Andrea si confessa, amaramente piangendo; detta poi il suo testamento, e subito dopo felicemente varca il terribile passaggio dal tempo all’eternità. [Vita s. Catri. Sin., ubi supra.]. Anche una volta, questo esempio dimostra quanto grande è la grazia che ci dà Iddio, allorché sul cammino della vita ci fa incontrare un santo. Preghiamo pertanto il Padre delle misericordie d’inviare presso ai peccatori moribondi qualcuno dei suoi amici privilegiati, che preghino espressamente per essi. – Prima di abbandonar l’Occidente, abbiamo da ricordare un ultimo fatto. Crederemmo di meritarci rimprovero se lo passassimo sotto silenzio, mentre anch’esso prova con la più consolante chiarezza la inesauribile bontà di Dio verso i più grandi peccatori, e la rapidità con cui la sua grazia agisce sui cuori più induriti e ribelli. – Tutti sanno chi fosse Mandrino, uno dei più famosi briganti dei tempi moderni; ma da pochi per quanto crediamo è conosciuta la sua morte. Nato nel 1714 a Saint-Etienne-Saint-Geoire villaggio del Delfìnato da un padre disertore, che dai suoi più giovani anni lo addestrò al furto, Luigi Mandrino bentosto sorpassò il suo maestro. – Ai venti anni, egli era già a capo di una masnada di banditi. In sulle prime fu fabbricante di moneta falsa, poi contrabbandiere in grande, poi ladro brigante, quindi incendiario, e finalmente assassino. Con la sua banda composta di quaranta in cinquanta uomini a cavallo, ei viveva or nelle caverne, ora sulle montagne e fra le rovine di abbandonati castelli. Nel corso di quindici anni riempì la Francia intera del grido delle sue gesta; portò il terrore, l’assassinio, il saccheggio in molte delle nostre province, rubando fin le casse dello stato, lottando spesso con la forza armata e sfuggendo a tutte le sue persecuzioni. Una tal vita doveva aver pure il suo termine. Tradito da uno dei suoi, Mandrino fu arrestato di notte tempo, e legato da capo a piedi fu condotto, anzi trascinato a Valenza, ov’egli giunse il 10 di maggio 1755. La fama del suo arresto attirò un gran concorso di popolo. Da ogni parte si veniva per vedere questo famoso brigante, nel quale si pensavano alcuni di trovar qualche cosa di grande, quasiché esser vi potesse della grandezza nel delitto. Vero si è che Mandrino era grande della persona, di gagliardìa non comune, e dotato di una gran presenza di spirito, e d’ingegno fertile in ripieghi ed espedienti. A tutto questo egli aggiungeva un’audacia che non conosceva ostacoli, e non indietreggiava innanzi a qualsivoglia pericolo. Non si richiese gran tempo per la istruzione del suo processo, essendo ogni cosa ben nota e provata. Sin dalle prime, gli fu presentato un confessore, ch’egli rifiutò. La malvagità dominava ancora in quell’anima di ferro. Andò poi a visitarlo un Gesuita che gli fece travedere la sua prossima fine. L’ora della misericordia era suonata; e il Dio delle misericordie che aveva convertito Disma sulla croce, convertiva Mandrino sulla rota del supplizio. Quell’uomo sì feroce divenne docile, senza che cessasse di essere fiero. Era però entrato nel suo cuore il rimorso; confessò i suoi delitti e pianse. – Il 26 maggio montò sul palco, che riguardò senza orgoglio e senza debolezza. Volgendosi al popolo, sollevò gli occhi e le mani al cielo, e disse: « Or ecco la fiacche tu mi preparavi, maledetta passione dell’oro. Io vissi nel delitto, e muoio nell’obbrobrio. Io versai il sangue innocente, e vado ora a versare il mio. Possa il mio nome infausto essere dimenticato insieme con i miei delitti, e possa espiar questi col mio dolore ed il mio supplizio » – Dopo queste parole, Mandrino non trattenne il pianto, e fece piangere tutti gli astanti. Egli rese umili grazie al suo confessore, abbracciò il suo carnefice, e si adagiò sul letto doloroso del supplizio che l’aspettava. « Ah! gridò egli versando amare lacrime, qual momento è questo, mio Dio, e come avrei dovuto prevederlo! » Gli furono rotte le braccia, le gambe, le cosce e le reni. Egli morì cogli occhi rivolti ai cielo. [Régley, Vie de Mandrin, p. 145, in 12. Chambéry, 1755].