DISCORSO PER IL GIORNO DI NATALE

DISCORSO PER IL GIORNO DI NATALE

Sopra il mistero dì questo giorno.

[Billot: “Discorsi parrocchiali” – 2a Ed. Presso Simone Cioffi, in Napoli, 1840]

Invenietis infantem pannis involutum, et positura in præsepio. Luc. 1.

Strana cosa forse non è che non ci si diano altri segni che una stalla, una mangiatoia e dei pannolini per riconoscer Colui che hanno predetto i profeti, figurato i patriarchi, e le nazioni desiderato di vedere? É possibile che Colui che esser deve il liberatore del suo popolo comparisca legato come uno schiavo; Colui che esser deve la gioia dell’universo nasca in mezzo alle lacrime e al dolore; Colui finalmente che ricolmar ci deve d’ogni sorta di beni prenda la povertà per sua porzione? Non conveniva forse meglio alla sua grandezza comparire fra lo splendore e l’opulenza? Era sotto un’apparenza di possanza e di maestà che il popolo giudeo aspettava il suo Messia. Perciò questa nazione cieca ed incredula fu scandalizzata della povertà e delle umiliazioni di Gesù nascente. Ma quanto diversi sono i disegni di Dio! Se lo stato di Gesù nascente sembrava poco convenire alla sua gloria e alla sua grandezza, era ciò necessario per i nostri propri interessi. L’uomo perduto per lo peccato aveva bisogno di un salvatore: né bastava il riscattar l’uomo, conveniva ancora che 1’uomo imparasse a salvarsi da se stesso, applicandosi i meriti di un Dio salvatore colla pratica delle sue virtù. Il che viene ad insegnarci Gesù Cristo, servendoci di modello sin dalla sua nascita. Or quali esempi ci dà Egli? Esempio di povertà, esempio di patimento e di umiltà. Tali sono i tre rimedi che Gesù nascente oppone alle tre malattie che infetto avevano il genere umano, cioè alle tre cupidigie di cui parla s. Giovanni; la prima, che egli chiama cupidigia degli occhi o amor delle ricchezze -, 1’altra cupidigia della carne o amore dei piaceri; la terza superbia della vita. Gesù Cristo con la sua povertà apprende all’uomo a combattere l’amore delle ricchezze, primo punto; nei suoi patimenti Egli dà un rimedio contro 1’amor dei piaceri, secondo punto; nelle sue umiliazioni Egli insegna a preservarsi dalla superbia della vita, terzo punto.

Punto. Il peccato, che perduto aveva il primo uomo, aveva talmente corrotta la natura umana che con l’andar del tempo il mondo si ritrovò quasi interamente inondato di scelleratezze. L’ignoranza e la concupiscenza, tristi effetti del peccato originale, gettate avevano radici sì profonde che lo spirito dell’uomo, involto da dense tenebre, non seguiva che l’orrore e la menzogna; la volontà, trascinata dalle sue passioni, non cercava la felicità se non in ciò che poteva contentarla. Quindi la gran premura che egli aveva per i beni, i piaceri, gli onori della terra,cui attaccava tutto il suo cuore in pregiudizio dell’amore che doveva al suo Dio. Ma, cercando quei falsi beni, quei vani piaceri e quegli onori caduchi, egli s’allontanava dal bene supremo, che solo poteva renderlo felice. Aveva ei dunque bisogno di una guida che lo disingannasse dei suoi errori e che lo rimettesse nelle vie della giustizia. Or si è ciò che fa Gesù Cristo. Nasce Egli nella povertà per riformar le idee dell’uomo sopra le ricchezze della terra ed indurlo col suo esempio a disprezzarle e a meritare con questo disprezzo i beni eterni che gli sono destinati nel cielo. Ella è una povertà volontaria, una povertà estrema ed universale. No, fratelli miei, la povertà di Gesù Cristo non è 1’effetto del caso o della necessità, ma ella è di sua elezione. Siccome non è stato offerto! In sacrifizio a Dio suo Padre, se non perché l’ha voluto: Oblatus est quia ipse voluti (Imi. 58); così ancora, perché l’ha voluto, è nato in uno stato povero. Signore del cielo e della terra, non era Egli padrone di scegliere un luogo convenevole alla sua grandezza, di nascere in un palazzo magnifico ed in seno dell’opulenza? Colui che dispensa i tesori della terra, che provvede ai bisogni di tutte le creature, non poteva forse sovvenire a quelli della sua santa umanità? Non poteva Egli comandare ai suoi Angeli di servirlo? Sì, senza dubbio; ciò tutto poteva; ma dà la preferenza ad una povera stalla. Scelse la circostanza in cui Maria sul punto di sgravarsi deve trasferirsi a Betlemme in conseguenza degli ordini dell’imperatore, affinché costretta a ritirarsi in un presepio abbandonato vi metta al mondo il Salvatore degli uomini, e noi vedendolo esposto sin dalla sua nascita a tutti i rigori di un’estrema in digenza, imparassimo quale stima egli fece della povertà e quanto dobbiamo noi medesimi stimarla. Così è, o sapienza del mio Dio! ciò che gli uomini riguardano come effetto del caso è stato regolato nei vostri eterni decreti. Così voi censacrate lo stato di povertà con la preferenza che gli date a quello delle ricchezze, e dello splendore, in cui non dipendeva che da voi di nascere; ma, vi ripeto, qual povertà! dissi povertà estrema ed universale. Non uscite, fratelli miei, da Betlemme senza aver esaminate tutte le circostanze del mistero che fa l’ammirazione del cielo e lo stupor della terra. Che cosa vi vedete voi? una vile ed abbietta capanna, ricovero d’animali, esposta alle ingiurie dell’aria, agl’incomodi della stagione. Ecco nulladimeno il palazzo del padrone dei re; l’arbitro dei sovrani vi abita. Si è il soggiorno di colui cui serve la terra di sgabello e che abita nel più alto dei cieli. Una mangiatoia, ecco il trono, ecco la culla dove riposa Colui che prima di tutti i secoli è stato generato nel seno dell’eterno Padre ed assiso sta sopra i cherubini. Un poco di paglia, ecco il letto ove è coricato: una madre povera, che non ha se non alcuni panni per involgerlo, che manca di tutto il restante, che è abbandonata da tutto il mondo, e che non ha che lacrime a dargli per compatire la sua miseria. Qual indigenza! I principi della terra nascono in mezzo dell’opulenza, le loro culle ornate sono di tutto ciò che la natura ha di più magnifico e di più prezioso: sono attorniati da una folla di cortigiani, solleciti di rilevare con elogi pomposi lo splendor della loro nascita; ed il Re del cielo manca di tutto, vien rigettato da ognuno, fuorché da alcuni poveri pastori, che vengono a fargli la corte, non ha neppure i soccorsi che si danno ai fanciulli più poveri degli uomini. Che dico? Gli animali della terra hanno le loro tane, gli uccelli del cielo il lor nido per riposarsi e difendersi dagli incomodi delle stagioni; ed il Figliuol dell’uomo non ha dove riposar il suo capo: Filius hominis non habet ubi caput reclinet (Luc. 9). Che cosa ne pensate, cristiani miei? Non è questo forse un oggetto più che capace di recarci stupore grandissimo? Ma non è altresì una eloquentissima istruzione che vi dà Gesù Cristo nel distacco dai beni del mondo, e dell’amore che aver dovete per le povertà? Imperciocché se Gesù Cristo si è ridotto in questo stato d’indigenza, lo fece non solo per nostra salute, ma ancora per nostra istruzione, dice l’apostolo, affinché rinunciando ai desideri sregolati del secolo, viviamo secondo le regole della temperanza della giustizia e della pietà: Apparuit, gratia Dei salvatoris erudiens nos ut, abnegantes desiderici, saecularia, sorbrie et iuste et pie vivamus in hoc saeculo

( Tit. 2). – Si è questa cupidigia, questo attaccamento ai beni ch’Egli ha voluto sradicare dai nostri cuori: sapeva che le ricchezze erano di grande ostacolo alla salute e che l’uomo il quale erasi già perduto per la ricerca dei beni del mondo, si perderebbe ancora, se non insegnavagli a disprezzarli; e perciò li ha Egli stesso disprezzati, ha abbracciata la povertà, per apprendere all’uomo a stimarla, come la strada più sicura per andare al cielo. Questo Dio salvatore doveva un giorno annunziare un Vangelo tutto ripieno di massime di povertà, doveva dire agli uomini che non v’era beatitudine che per i poveri: Beati pauperes (Matth.V). Ma sapeva ancora che, se insegnava la sua dottrina senza metterla in pratica non 1’avrebbero gli uomini seguita, ben pochi avrebbero voluto mettersi nel numero dei suoi discepoli: la corruzione del cuore avrebbe fatto dare false interpetrazioni alle sue massime, e forse sarebbero state interamente disprezzate. Cosi pratica Egli il primo ciò che insegnar doveva agli uomini: Coepit Jesus facere et docere ( Act. 1). Ora, da che Gesù Cristo ci ha dato l’esempio, possiamo noi ricusare di seguirlo? E non è un volersi smarrire e perdersi il prendere una strada diversa da quella che ci ha Egli indicata? – Avvicinatevi dunque al presepio di Gesù Cristo, voi tutti che mi ascoltate, poveri e ricchi, grandi e piccoli, venite a udir questo divin Signore, che vi predica da quella cattedra di verità; voi v’imparerete da Lui ciò che dovete pensare sopra i beni del mondo, che con tanta ansietà ricercate; voi vi troverete, o ricchi del secolo, di che istruirvi e nello stesso tempo confondervi, e voi, o poveri, vi troverete onde aiutarvi a soffrire lo stato di povertà a cui vi ha la Provvidenza ridotti, – Il bambino coricato in quella mangiatoia è la Sapienza eterna, il Figliuolo di Dio. Egli è incapace d’ingannarsi e d’indurvi in errore; convien dunque ascoltarlo e profittare delle istruzioni che vi dà: Ipsum audite (Matth. XVII), Or che vi dice e quali istruzioni vi dà Egli? Già vi predica quanto vi predicherà un giorno, che non vi è vera felicità se non per i poveri di spirito, che a questi poveri appartiene il regno dei cieli: Beati pauperes spiritu , quoniam ipsorum est regnimi coelorum (Matth. V). Se voi non gli udite pronunziare parola alcuna, tutto ciò che lo circonda vi esprime i suoi sentimenti in un modo molto eloquente; la stalla, il presepio, i panni tengono un linguaggio che assai chiaramente condanna il desiderio insaziabile che avete per le ricchezze: Clamat stabulum, clamat praesepe, clamant panni (S. Bern.). – Ah! potrete voi, ricchi del secolo, resistere a questo linguaggio? Potete non temere, non tremare per la vostra salute, paragonando lo stato di opulenza in cui vivete, all’indigenza estrema cui è ridotto il vostro Dio? Non vi sembra già udire la fulminante sentenza che deve pronunziare nel suo Vangelo: Guai a voi ricchi: Vae vobis divitibus (Luc. VI)! Guai a voi che di nulla mancate, che avete tutti i vostri comodi in questo mondo: Vae vobis! E perchè? perché siete in uno stato tutto opposto a quello che ha scelto Gesù Cristo e che ci ha segnato come la strada sicura per arrivare al porto della salute. Che dovete dunque fare per preservarvi dalle sue minacce e per aver parte alle grazie che ci ha meritate conla sua nascita? Convien forse rinunziare a tutti i vostri beni ed abbandonare tutto ciò che possedete per ridurvi allo stato della miseria! No, cristiani miei, questo da voi non pretende Gesù Cristo. Chiama Egli al suo presepio i ricchi e i poveri, perché viene a salvare gli uomini tutti: vi chiama poveri pastori che custodivano le loro greggi nei contorni di Betlemme; vi chiama altresì dei re, che vennero sin dall’Oriente rendergli i loro omaggi. Ma in quali disposizioni comparvero quei re innanzi a Gesù Cristo? Lasciarono il loro paese e vennero ad offerirgli i loro beni con il loro cuore. Ecco ciò che da voi richiede; si è un distacco di spirito e di cuore dai beni che possedete, è un omaggio che voi far gli dovete pel superfluo di questi beni, soccorrendo i poveri che lo rappresentano, dovendo essere voi persuasi ch’Egli terrà come fatto a sé stesso tutto il bene che voi loro fate. Se Gesù Cristo venendo al mondo vi avesse richiesto qualche soccorso, chi di voi non si sarebbe recato a gran fortuna l’alloggiarlo, il sovvenirgli? Ora voi lo ricevete, il sovvenite, quando ricevete i poveri, quando date loro da mangiare nella loro fame, da bere nella loro sete: quando ignudi li rivestite, quando nelle loro malattie li soccorrete. A questa sola condizione potete voi sperare la beatitudine promessa alla povertà: Beati pauperes (Matth. V). Sì, fratelli miei, nell’opulenza voi potete esser poveri. Staccatevi dai vostri beni, possedeteli come se non li possedeste; fatene un uso santo: meriterete con ciò gli elogi di Gesù Cristo: Beati pauperes. Quanto a voi, o poveri di Gesù Cristo, misero scherno della fortuna, solo consolanti parole ho da dirvi, vedendovi in uno stato che Gesù Cristo ha consacrato con la sua scelta: la vostra povertà è un tesoro più stimabile che tutte le ricchezze della terra, se voi ne sapete far buon uso, cioè se voi pazientemente per Dio la sopportate, se voi con quella 1’unite che Gesù Cristo ha per voi sopportata. Ora che cosa evvi di più capace ad indurvi a questa perfetta rassegnazione che il considerare che Gesù Cristo ha preferito il vostro stato a quello dei ricchi; che Egli ha chiamato al suo presepio poveri pastori prima di chiamarvi dei re; in una parola, ch’Egli è nato povero, ha vissuto ed è morto nella povertà? Ma affinché la vostra povertà sia per voi una sorgente di salute, bisogna che sia volontaria come quella di Gesù Cristo. Imperciocché invano sareste voi ridotti all’ultima miseria, se mormorate contro la provvidenza, se siete ricchi di affetto per l’invidia che portate ai ricchi: voi non avrete giammai parte nel regno dei cieli, perché la vostra povertà, non essendo volontaria, è senza merito. Voi dovete all’opposto aspettarvi una povertà eterna che succederà all’indigenza che quaggiù soffrite. Ah! se siete miseri in questo mondo, fate almeno ogni sforzo per essere più felici nell’altro. Gesù Cristo nascendo povero v’insegna col suo esempio la stima che far dovete della povertà; vediamo come anche v’insegna a soffrire.

1° Punto. Gesù, nascendo, soffre nella sua anima e nel suo corpo: nell’anima per la vista degli oggetti che l’affliggono, nel corpo per i rigori cui egli si sottopone. Patimenti interiori, patimenti esteriori di Gesù Cristo; ecco, o cristiani, il nuovo esempio che vi dà il Salvatore ed il rimedio che vi presenta per guarire quest’amor del piacere che vi perde. Non giudichiamo, fratelli miei, di questo bambino appena nato come degli altri fanciulli, la cui anima, involta, per così dire, nella materia, è incapace di conoscenza e di riflessione. – Gesù Cristo viene al mondo con tutte le cognizioni d’un uomo perfetto; dell’infanzia non ha che la piccolezza del corpo, ma la sua anima unita alla divinità è illuminata da una estensione di cognizioni, la quale gli scopre ciò che è, ciò che sarà, il presente, il passato e l’avvenire. Egli sa che è il padrone del cielo e della terra, il Signore di tutti i re, e ridotto si vede all’ultima indigenza, negletto e rigettato dagli uomini; sa che è la santità stessa e si vede rivestito della figura umiliante di un peccatore; quale impressione fare non doveva un tale stato sopra l’anima di Gesù Cristo? Eppure questa non era la maggiore delle sue pene, poiché questo stato di indigenza e di umiliazione era di sua scelta, ed essendo la volontà umana di Gesù Cristo sommessa a quella di Dio, Egli l’accettava volentieri, come un rimedio necessario per guarirci dalle nostre debolezze e dalle nostre infermità; si credeva anzi in qualche modo compensato della sua povertà, delle sue umiliazioni e dei suoi patimenti, se apprendervi poteva la pratica delle virtù,, di cui dava l’esempio. – Ciò che affliggeva dunque il cuore di Gesù Cristo e che faceva l’oggetto del suo dolore, era il peccato degli uomini, che veniva ad espiare; era l’abuso di tante grazie che veniva loro meritare. Imperciocché non c’immaginiamo, osserva qui s. Bernardo, che le lacrime che Gesù Cristo sparge nel suo presepio siano prodotte dalla medesima cagione che quelle degli altri fanciulli. Questi piangono sopra le loro miserie senza conoscerle; Gesù Cristo piange sopra le nostre, e con le sue lacrime vuol lavare i nostri peccati, dice s. Ambrogio: Meæ lacrymae Meæ debita lavarunt. – Le offre a Dio suo Padre, aspettando che il suo sangue siasi formato nelle sue vene per essere sparso per la redenzione degli uomini. Sebbene bambino, penetra all’avvenire il più lontano, vede tutti i peccati degli uomini, le ingiurie fatte al Padre suo, il disprezzo della legge, la perdita delle anime, la sfrenatezza delle passioni, in una parola, tutti i pensieri, le parole, le azioni malvagie di tutti gli uomini che vissuto avevano sin allora, e che vivere dovevano sino alla fine del mondo. Sa che il sangue che deve spargere è più che bastante per riparare tutti questi mali: vede nulladimeno che questo sangue sarà inutile a molti, che i suoi benefizi verranno pagati d’ingratitudine e che sarà costretto a condannare alle fiamme eterne un gran numero di quelli che viene a riscattare. Qual soggetto di dolore per un cuore sì sensibile e sì generoso come quello di Gesù Cristo! Ma qual istruzione cavare noi dobbiamo dalle lacrime di Gesù Cristo, e che cosa vuol Egli insegnarci col dolore cui s’abbandona sin dalla sua entrata in questo mondo? Piangendo sui nostri peccati, vuol insegnarci a piangerli noi medesimi e gemere a somiglianza di Lui e per la medesima cagione; senza questo le sue lacrime, benché efficaci siano per calmare lo sdegno del Padre suo, non ci sarebbero di alcun vantaggio; perché il suo dolore non può esserci salutevole se non con l’unione del nostro col suo. Comprendete, fratelli miei, questo mistero, e la vista di un Dio nascente nelle lacrime e patimenti ci distacchi per sempre dai vani piaceri del mondo; c’inspiri quella santa tristezza che opera la salute, come dice l’Apostolo. Di più Gesù Cristo ci dice: beati quelli che piangono, perché saranno consolati; guai all’opposto a voi che ridete, che avete tutte le vostre contentezze in questo mondo, perché i vostri piaceri si cangeranno in dolori amari, che non finiranno giammai. – Ah! fratelli miei, potremmo noi essere insensibili ad un linguaggio sì penetrante, come le lacrime di Gesù Cristo? Possiamo noi, sapendo di essere peccatori, rallegrarci, mentre vediamo piangere l’innocente? Possiamo noi ricercare le vane allegrezze del secolo , mentre Gesù Cristo le ha espressamente condannate? Imperciocché conviene così ragionare, dice s. Bernardo: o Gesù Cristo s’inganna, o il mondo la sbaglia: ora è impossibile che la divina sapienza s’inganni; dunque è il mondo che è nell’errore; dunque sono quelli che piangono che prendono il miglior partito. Ma, oh durezza del nostro cuore! esclama ancora qui s. Bernardo: ben lungi dal piangere i nostri peccati con Gesù Cristo, noi li richiamiamo con piacere alla memoria, dimoriamo tranquillamente nello stato di peccato, senza cercare di uscirne per mezzo di una sincera penitenza. Che dico? noi diamo a Gesù Cristo nuova materia di piangere aggiungendo nuovi peccati ai nostri antichi mancamenti; inutili rendiamo i patimenti di un Dio nascente, abbandonandoci alle vane allegrezze del mondo, ricercando piaceri da cui Egli ha voluto staccarci. No, mio Dio, non sarà così; io amo meglio gemere e piangere con Voi sopra la terra per aver parte alle delizie del vostro regno che rallegrarmi e godere col mondo per piangere eternamente coi reprobi nell’inferno; amo meglio fare una penitenza che non dura se non qualche tempo e che mi sarà utile, che fare una penitenza eterna, la quale a nulla mi servirà. Io aggiungerò a questa penitenza, a questo dolore interiore dei miei peccati le mortificazioni salutevoli di cui sin dal vostro nascere Voi mi avete dato l’esempio. – Benché il peccato sia perdonato all’uomo per i meriti e patimenti di un Dio Salvatore e per il dolore interiore che l’uomo concepirne deve, la giustizia di Dio esige nondimeno una soddisfazione per la pena che è dovuta al peccato; ed ancorché ciò non fosse, non sarebbe egli necessario all’uomo un preventivo che lo tenesse dal ricadere? Ora questo preventivo si è quella pena del peccato che Gesù Cristo porta sin dalla sua nascita e che vuole che noi portiamo con Lui. Quali pene infatti, quali rigori non sostiene Gesù Cristo nella stalla ove è nato? Un corpo sì delicato e sì tenero come il suo, esposto ai rigori della stagione, tremante di freddo, al mezzo della notte, coricato sopra un poco di paglia, in una mangiatoia, appena coperto di pochi panni in cui sua Madre l’ha involto, e privo d’ogni altro soccorso; ecco come il Figliuolo di Dio ha voluto trattare il suo corpo innocente, perché è rivestito dall’apparenze del peccato. Che ne pensate voi, o cristiani sensuali e delicati, che procurate a vostri corpi tutto ciò che può lusingarli, che inventate ogni giorno mille mezzi per difendere questa carne di peccato da tutto ciò che può incomodarla? Si è dunque l’innocente che de solo soffrire nel mentre che il colpevole è risparmiato? Voi avete mille volte trasgredito la legge del vostro Dio: i vostri corpi sono stati imbrattati con piaceri brutali, con eccessi d’intemperanza, cui vi siete abbandonati; e invece di far loro espiare con la mortificazione i peccati di cui sono stati i complici e gli strumenti, voi li trattate con delicatezza, loro accordate mille superfluità, vi spaventate al solo nome di un digiuno, di un’astinenza che vi è comandata, cercate con vani pretesti di dispensarcene; ben lungi dal dare a Dio qualche soddisfazione volontaria, voi non volete neppur accettare quelle che vi vengono imposte; in una parola, tutto ciò che chiamasi incomodo, raffrenamento, mortificazione, vi fa orrore. – Ah! potete voi senza arrossire avvicinarvi al presepio del vostro Salvatore e sostenere il confronto della vostra morbidezza con i rigori che Egli patisce? Potete voi non conoscere l’estrema opposizione che si trova tra una stalla esposta ai rigori della stagione e quelle abitazioni che sì agiate vi rendete con tanta cura, inaccessibili a tutto ciò che può incomodarvi; tra i poveri panni onde Egli è coperto e il lusso dei vostri abbigliamenti; tra la paglia ov’è coricato e la morbidezza de’ vostri letti; tra la fame ch’Egli dura e la delicatezza ed abbondanza dei vostri banchetti? E se deve esservi conformità tra il discepolo ed il maestro, potete voi lusingarvi della qualità di discepoli di Gesù Cristo? Riconoscete dunque l’estremo bisogno che avete di portare nel vostro corpo la mortificazione di Gesù Cristo, non solamente per espiare i peccati da voi medesimi, ma ancora per preservarvi da nuove cadute; mentre voi ben sapete per una trista esperienza che una delle cagioni più ordinarie dei disordini che regnano nel mondo è la cura eccessiva che si ha del corpo, 1’attenzione a lusingar la carne ed accordarle tutto ciò ch’ella domanda. Ed ecco perché il Salvatore del mondo, che veniva a riscattarci ed istruirci, dichiarossi particolarmente sin dalla sua nascita e in tutto il corso della sua vita contro il viver effeminato e sensuale, che è la cagione della perdita degli uomini. Trattò il suo corpo con rigore per insegnarci a trattar il nostro nello stesso modo e a sottometterlo alla legge di Dio. Non ci chiede, è vero,  di portar la mortificazione a quel grado di rigore cui la portò Egli; ma vuole che facciamo almeno quanto dipende da noi, avuto riguardo al nostro stato e alla nostra fiacchezza: che rinunciamo non solo ai piaceri vietati, ma che ci priviamo ancora di molti di quelli che ci crediamo permessi, per non esporci ad oltrepassare i limiti della temperanza cristiana : Ut, abnegantes sæcularia desideria, sobrie vivamus (Tit.2). – Vuole, in una parola, che noi facciamo penitenza; ma una penitenza severa e proporzionata al numero e all’enormità delle colpe da noi commesse; vuole che soffriamo in ispirito di penitenza le pene annesse al nostro stato, che ci umiliamo alla vista di quanto Egli ha fatto per noi e del poco che noi facciamo per Lui; vuole che noi gli facciamo il sacrificio delle nostre passioni e dei nostri cuori per supplire a ciò che la debolezza non ci permette di fare! Ah! possiamo noi ricusare questi cuori ad un Dio che li ha riscattati a sì caro prezzo, che ce li chiede con i suoi sospiri o con le sue lacrime? Finiamo d’istruirci coll’esempio dell’umiltà che Egli ci dà sin dalla sua nascita. Terzo ed ultimo punto.

III. Punto. Quantunque trovi l’uomo in se stesso il motivo della sua umiliazione, egli è nulladimeno sì gonfio di superbia che non pensa se non ad innalzarsi. Questa brama d’innalzamento che fece cader dal cielo l’angelo ribelle perdette altresì l’uomo nel paradiso terrestre. L’angelo fu precipitato dall’alto del cielo nel profondo dell’abisso perché volle uguagliarsi a Dio. L’uomo altresì fu scacciato dal paradiso terrestre e privato dei doni dell’innocenza perché si lasciò falsamente persuadere dal tentatore che, mangiando del frutto vietato, diverrebbe simile a Dio: Eritis sicut dìi. Questa superbia che impadronissi del cuor e del primo uomo nell’istante di sua caduta, si comunicò altresì ai suoi discendenti: fu per soddisfarla che veduti si sono uomini sì gonfi di sé stessi e sì avidi di gloria che portarono l’accecamento e l’insolenza sino al punto di farsi rendere onori divini. Tale fu l’origine dell’idolatrìa, che sparse sì lungi le sue tenebre nell’universo che il numero degli dei uguagliava quasi quello degli uomini. Fu dunque per riparar un sì gran disordine che Dio formò Egli stesso il disegno di rendersi simile all’uomo, il quale aveva preteso di rendersi simile a Dio, affine di apprendere all’uomo a tenersi nello stato di dipendenza e di abbassamento come gli conviene. – Tale è, fratelli miei, la grand’istruzióne che Gesù Cristo ci dà nel presepio. Ma qual umiltà in questo Salvator bambino! Oh quanto è ella opportuna confondere 1’orgoglio dell’uomo! Io non posso per esprimerla servirmi di parole più energiche di quelle di cui servesi s. Paolo per farci conoscere le umiliazioni del Verbo incarnato. Ascoltiamo parlare su questa materia quel grande apostolo che aveva meditato profondamente questo mistero, e pesiamo ben bene la forza delle sue espressioni. Gesù Cristo, dic’Egli, il quale, essendo l’immagine di Dio , non ha creduto che esser uguale a Dio fosse per Lui usurpazione, si è umiliato: non basta ciò dire, si è annientato sino a prendere la figura di uno schiavo, essendosi fatto simile agli uomini, ed essendosi ritrovato nella condizione dell’uomo: Exinanivit semetipsum, formam servì accìpiens, in similitudinem hominum factus et habitu inventus ut homo (Philip. 2). Il Figliuol di Dio annientato! qual espressione, fratelli miei! e può dirsi qualche cosa di più forte? Per comprendere questa profonda umiliazione, converrebbe comprendere la distanza infinita che v’era tra Dio e l’uomo; tra Dio, che è la stessa onnipotenza e l’uomo, che non è che fiacchezza; tra Dio , che è il Signore per eccellenza e il padrone dell’universo, e l’uomo, che non è che uno schiavo; tra Dio, che è la sapienza infinita, e1’uomo, che non è che tenebre; in una parola, tra Dio, che è tutto, e l’uomo, il quale è nulla. Venite adunque, uomini vani e superbi, venite a contemplare questo bambino che è nel presepio, venite ad ammirare il mistero che la fede in esso vi scopre: voi vi vedrete la maestà suprema ridotta ad uno stato di schiavo, l’immensità di un Dio rinchiuso nella piccolezza di un bambino, la santità stessa rivestita dell’apparenza di un peccatore, la Sapienza eterna, il Verbo di Dio, che osserva il silenzio Colui che comanda a tutta la natura, fatto ubbidiente ai voleri delle sue creature, che ubbidirà non solamente ad una Vergine Madre, ad un uomo giusto, ma ancora a peccatori, ad empi giudici, a carnefici scellerati. Quale abbassamento, quale umiliazione per un Dio! Evvi Egli niente di più capace per confondere la superbia di quegl’uomini che non cercano che d’innalzarsi su degli altri, ed occultano con tanto artifizio quello che sono per comparir quello che non sono? Come mai osate voi, cenere e polvere, disputare sopra vane precedenze alla vista d’un Dio coricato in un presepio, vestito della forma di schiavo? come osate voi, peccatori ipocriti, adornarvi del manto della virtù per attirarvi gli applausi degli uomini, mentre vedete un Dio, la santità stessa, rivestito delle sembianze di colpevole per venir esposto agli obbrobri e ai disprezzi dei peccatori? Ah! se la vostra superbia non si spezza contro il presepio di un Dio, è un prodigio in qualche modo si incomprensibile, come quegli abbassamenti di cui si stupiscono il cielo e la terra. Imparate a tenervi nel centro del vostro nulla, sappiate che se voi non divenite simili a questo bambino che adorate, non entrerete giammai nel regno dei cieli. Imparate da me, già vi dice, come lo dirà sempre, che sono mansueto ed umile di cuore: Discite a me quia mitis sum et humilis corde. Apprendete che colui che si umilia sarà innalzato , e colui che s’innalza sarà umiliato. Potete voi ricusare di arrendervi ad un esempio sì toccante come quello che egli vi dà ? Si è abbassato per innalzarvi. Non dovete voi altresì abbassarvi per innalzarvi a lui? Ed è in questo che Egli vi permette di diventare a Lui simiglianti; e se il delitto dell’angelo o del primo uomo fu di voler ugualiarsi a Dio, sarà in voi una virtù il diventare simili a Gesù Cristo umiliato. Ecco in che dobbiamo noi, fratelli miei, ammirare la sapienza e la bontà di Dio, il quale si è in tal modo abbassato sino a noi per esser nostro modello. Non è dato all’uomo di arrivare alle perfezioni di Dio, come sono la sua onnipotenza, la sua previdenza, le quali son piuttosto l’oggetto della nostra ammirazione che della nostra imitazione, dice s. Bernardo; ma Dio ha sposata la nostra natura per darci in essa esempi di virtù che fossero proporzionate alle nostre forze, come l’umiltà, la povertà e la pazienza. Entriamo dunque nei sentimenti di questo divin bambino, che è ad uno stesso tempo e nostro salvatore e nostro modello, Hoc sentite in vobis, quod est in Christo Jesu (Philip. 2).

Pratiche. Non contentiamoci di rendergli i nostri omaggi nel suo presepio e di ringraziarlo di esser venuto al mondo per la nostra salute; ma procuriamo di esprimere in noi i tratti di questo divin originale. Il Signore, che altre volte ci ha parlato per i suoi profeti, ci parla in quest’oggi per mezzo del suo proprio Figliuolo: ci mette innanzi agli occhi il Maestro che dobbiamo seguire; rendiamoci docili alle istruzioni che Egli ci dà e che fu il primo Egli stesso a praticare; imitiamo la sua povertà con il distacco dai beni del mondo e con la pazienza a soffrir quella cui ridotti ci ha la previdenza, ed uniamola a quella che Egli ha sofferto per noi. Se noi siamo nell’opulenza, onoriamo la povertà di Gesù Cristo con le nostre liberalità verso i poveri, soccorriamoli contro il rigore della stagione, portiamo su di noi la mortificazione di Gesù Cristo con la rinuncia ai piaceri sensuali e con le pratiche di penitenza che il nostro stato e la nostra fiacchezza permettere ci possono; umiliamoci finalmente ad esempio di Gesù Cristo, reprimendo la brama di comparire e innalzarci, e sopportando pazientemente le umiliazioni e i dispregi. Scacciamo sopra tutto il peccato dai nostri cuori dove chiede Egli di abitare e dove vuole di bel nuovo nascere. Guai a quelli che avranno, come i Giudei, la durezza di non aprirgli la porta; ma felici coloro i cui cuori servirangli di cuna con la santità della loro vita, con la purezza dei costumi e con la pratica delle virtù. Godranno in questo mondo della pace, ch’Egli ha apportato agli uomini di buona volontà e nell’altro della gloria che ha loro meritata.  Così sia.

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA-APOSTATA DI TORNO: A QUO PRIMUM

Benedetto XIV
A quo primum

Il popolo che doveva accogliere il Messia come suo liberatore dalla schiavitù del demonio, e farlo conoscere a tutti i popoli della terra perché anch’essi venissero liberati dalle catene di satana, fallì miseramente nell’espletamento della propria missione, essendosi consegnato alle suggestioni gnostiche e pagane, preferendo alla gloria di Dio, il “vitello d’oro” del deserto, e tanti secoli di preparazione accurata da parte dei profeti, non servirono a far riconoscere il Messia atteso, che fu anzi messo a morte vigliaccamente. Tale disconoscimento vige tuttora sempre più ostinato, e l’odio per il Messia si è riversato sui popoli cristiani in modo sempre più feroce. I Sommi Pontefici hanno sempre cercato, nel corso della storia, di arginare la marea montante di quest’odio profondo fin quando Sisto V, spinto da una misericordia dimostratasi poi imprudente, iniziò a demolire la diga eretta e resistita fino ai suoi immediati predecessori: da quel momento in poi i “marrani” hanno, con pazienza e scaltrezza, minato la Chiesa Cattolica nei suoi fondamenti fino ad insidiarvi la “sinagoga di satana” dal 26 ottobre del 1958! In questa breve enciclica, Papa Benedetto XIV richiama al popolo polacco alcuni principi che la Chiesa cattolica aveva già attuato in passato per difendersi dalle malefiche infiltrazioni, misure che sono state solo dei pannicelli caldi che hanno sortito nel tempo effetti modesti o nulli, fino ad assistere oggi alla devastazione ed all’apparente totale rovina  della Chiesa di Cristo. Ma con la certezza che Dio “irridebit eos”, leggiamo con serena fiducia la lettera “A quo primum” di Papa Lambertini.

Da quando la suprema bontà di Dio si compiacque di porre le fondamenta della nostra Santa Religione Cattolica nel Regno di Polonia, evento che si compì verso la fine del decimo secolo, durante il papato del nostro Predecessore Leone VIII e per opera del sovrano Miecislao e della cristiana sua moglie Dambrowka, secondo quanto racconta Dlugoss, autore dei vostri Annali (lib. 2, p. 94); fin da quell’epoca la pia e devota Nazione Polacca con tanta costanza perseverò nell’intrapreso culto della Santa Religione, tanto ebbe in dispregio ogni genere di sette religiose, sebbene nessun tentativo queste tralasciassero per introdursi in codesto Regno, per elevarsi a fede comune e per spargervi i semi dei loro errori, delle eresie o di aberranti opinioni; tanto più tenacemente la costanza dei Polacchi si oppose ai tentativi di quelle sette e offrì più luminose testimonianze della sua fedeltà.

1. Sicuramente ciò è del tutto conforme al nostro proposito e da ritenere di per sé del massimo valore. Non solo infatti perdura quella gloriosa memoria di Martiri, di Confessori, di Vergini, di Uomini insigni per fama di santità, ai quali toccò in sorte di nascere, di essere educati e di morire nel Regno di Polonia (memoria che è annoverata tra i fasti della Santa Chiesa); ma altrettanto memorabili sono i molti Concili e i Sinodi ivi celebrati e condotti a felice conclusione, per cui con somma gloria fu riportata vittoria sui Luterani, i quali esperirono ogni modo ed ogni via pur di penetrare e di trovare ricetto in codesto Regno. In verità già allora nel grande Concilio Petrocoviense (che fu celebrato al tempo del grande Predecessore e Concittadino nostro Gregorio XIII, e presieduto dal presule Lipomano, Vescovo di Verona e Nunzio Apostolico) a maggior gloria di Dio fu soppressa la libertà di coscienza che cercava adito e dimora in quel Regno; allora infine furono raccolte in ampio volume le Costituzioni Sinodali della provincia Gnesnense, in cui sono trascritti tutti gli utili e sapienti provvedimenti previsti e presi dai Vescovi polacchi affinché nei Popoli affidati al loro governo la Religione Cristiana non fosse contaminata dalla perfidia Giudaica, tenuto conto che la qualità dei tempi comporta che sia i Cristiani, sia anche i Giudei convivano nelle stesse città e villaggi. Ciò conferma con luminosa evidenza (già lo si è detto) quanto merito abbia la Nazione Polacca nell’aver sempre cercato di conservare integra e protetta la Santa Religione tramandata, tanti secoli innanzi, dai suoi Antenati.

2. Anche se molti sono i capitoli delle Costituzioni di cui testé facemmo menzione, di nessuno vi è ragione di dolerci, tranne che dell’ultimo: al punto che siamo costretti ad esclamare con voce di pianto: “È mutato l’ottimo aspetto“. E invero, sia per i fatti che a Noi furono esposti da serie e fededegne persone, esperte di vicende polacche, sia per le rimostranze di coloro che vivono nel Regno e che spinti da sacro zelo fecero ricorso a Noi e a questa Santa Sede, siamo venuti a sapere quanto costì si sia moltiplicato il numero dei Giudei, al punto che non pochi luoghi, città e villaggi che, come appare dai ruderi, erano prima opportunamente protetti da mura e che, come appare dalle antiche Tavole o dai Regesti, erano popolati da un grande numero di abitanti Cristiani, si trovano ora diroccati, sconci per l’abbandono e lo squallore e tuttavia gremiti di un gran numero di Giudei e quasi del tutto deserti di Cristiani. Abbiamo appreso inoltre che nello stesso Regno un certo numero di Parrocchie (i cui fedeli sono sensibilmente diminuiti e di conseguenza il reddito di esse si è contratto) sono già prossime ad essere abbandonate dai loro Parroci. Inoltre, ogni traffico di utili merci, quale quello dei liquori e anche del vino, è gestito dagli stessi Ebrei, i quali sono ammessi ad amministrare il reddito pubblico; per di più essi posseggono osterie, poderi, villaggi, beni per cui, conseguito il potere padronale, non solo fanno lavorare senza posa, esercitando un dominio crudele e disumano, i miseri uomini Cristiani addetti alle attività agricole e li costringono al trasporto di pesi immani; ma anche infliggono pene; coloro che sono sottoposti alle staffilate, ne riportano il corpo piagato. Come può accadere che quegli infelici dipendano dall’autorità dell’uomo Giudeo, quali sudditi sottomessi al cenno e al volere del Signore? Come può essere che nell’infliggere queste pene si lasci loro far uso di una funzione propria del Ministro Cristiano, al quale appartiene la facoltà di punire? Ma poiché questi, per non essere allontanato dall’incarico, è costretto ad eseguire gli ordini del padrone Giudeo, così gli ordini tirannici finiscono per essere rispettati.

3. Oltre alle pubbliche cariche che, come or ora dicemmo, sono ricoperte dai Giudei (la gestione di osterie, di villaggi, di poderi, dal governo dei quali beni tanti danni ricadono sugli uomini Cristiani) si aggiungono altri assurdi fatti che, se rettamente valutati, possono recare maggior danno e iattura a coloro cui furono fatti conoscere. È una cosa assolutamente riprovevole che gli stessi Giudei siano accolti nelle case dei Magnati con l’incarico di amministrare sia gli affari domestici, sia quelli economici (e ciò comporta il titolo di sovrintendente della casa), per cui trovandosi a coabitare in una stessa casa con i Cristiani, con pervicacia impongono e ostentano sopra di questi una sorta di dominio. Ormai, in verità, nelle città e nelle campagne non solo è dato vedere in ogni dove i Giudei frammisti ai Cristiani, ma si aggiunge l’assurdo che i primi per nulla si vergognano di tenere in cassa anche Cristiani di ambo i sessi addetti come famiglie al loro servizio. Inoltre gli stessi Giudei, essendo dediti all’esercizio della mercatura e dopo che in tal modo accumularono una grande somma di danaro, con la smodata pratica dell’usura prosciugano censo e patrimoni dei Cristiani: e benché essi prendano a prestito danaro dagli uomini Cristiani con pesante ed eccessivo tasso d’interesse e con la garanzia delle loro Sinagoghe, risulta chiaro ad ogni osservatore che quel prestito è da loro contratto per questa ragione: dopo aver ottenuto dai Cristiani una somma di danaro e dopo averla investita nell’attività commerciale, non solo da essa traggono tanto guadagno, quanto sarebbe bastevole ad estinguere il prestito ed insieme ad accrescere, in tal modo, le proprie ricchezze; ma nello stesso tempo quanti sono i loro creditori, altrettanti sono considerati Patroni delle loro Sinagoghe e di loro medesimi.

4. Il famoso monaco Radulfo, sospinto una volta da eccesso di zelo, a tal punto s’infiammò contro i Giudei che nel secolo dodicesimo, in cui visse, percorse la Gallia e la Germania e, predicando contro gli stessi Giudei, in quanto nemici della nostra Santa Religione, infiammò anche i Cristiani a tal segno che li distrussero fino allo sterminio: e questo fu il motivo per cui i Giudei furono massacrati in gran numero. E che cosa mai si ritiene che quel monaco farebbe o direbbe oggi se fosse tra i vivi e se vedesse ciò che accade attualmente in Polonia? A questo eccessivo e furente zelo di Radulfo si oppose quel grande San Bernardo, che nella sua Epistola 363, inviata al Clero e al Popolo della Gallia Orientale, così lasciò scritto: “Non si deve perseguitare gli Ebrei, non si deve ucciderli, ma nemmeno cacciarli. Interrogateli circa le Divine pagine. Ho inteso la profezia che nel Salmo si legge circa i Giudei: Dio mi pose sopra ai miei nemici, dice la Chiesa, non perché li uccidessi, neppure quando si dimenticano del mio Popolo. Senza dubbio le vive scritture ci rappresentano la Passione del Signore. Perciò gli Ebrei sono dispersi in tutte le terre e, fin tanto che non avranno espiato la giusta pena per l’immane delitto, siano testimoni della nostra Redenzione“. Poi, nella epistola 365 ad Enrico, Arcivescovo di Magonza, così egli scrive: “Forse che ogni giorno la Chiesa non trionfa sui Giudei o convincendoli o convertendoli e quindi con più frutto che se in un sol tratto e insieme li annientasse con la punta della spada? Forse che vanamente è stata composta quella universale preghiera della Chiesa che viene innalzata a favore dei perfidi Giudei, dall’alba fino al tramonto, affinché il Dio e Signore strappi il velame dai loro cuori, in modo che dalle loro tenebre siano condotti alla luce della verità? Se infatti fosse vana la speranza che essi, increduli quali sono, diverranno credenti, superfluo e vano parrebbe pregare per essi“.

5. Contro Radulfo anche l’Abate cluniacense Pietro, nello scrivere a Ludovico Re dei Franchi, lo esortò a non permettere che si compissero eccidi di Giudei. E invero al tempo stesso lo incitò a rivolgere l’attenzione verso di loro per i loro eccessi e a spogliarli dei loro beni, o carpiti ai Cristiani o accumulati con l’usura, e a trasferire il loro danaro in uso e beneficio della Santa Religione, come si può leggere negli Annali del Venerabile Cardinale Baronio “nell’anno di Cristo 1146“.

Noi pure, non meno in questa questione che in tutte le altre, abbiamo assunto la stessa norma di comportamento che tennero i Romani Pontefici Nostri Predecessori. Alessandro III, minacciando gravi pene, proibì ai Cristiani di prestare servizio continuato alle dipendenze di Giudei: “Non si offrano ai Giudei in assiduo servizio per alcuna mercede“. Il motivo di ciò è esposto dallo stesso Alessandro III con le parole che seguono: “Perché i costumi dei Giudei e i nostri non concordano affatto; gli stessi (ossia i Giudei) facilmente attraggono gli animi delle persone semplici alla loro perfida superstizione con la continua convivenza e con l’assidua familiarità“; così si legge nel Decretale: Ad hæc, de Judæis. Innocenzo III, dopo aver spiegato per qual motivo i Giudei erano accolti dai Cristiani nelle loro città, ammonisce che il metodo e la condizione di tale accoglienza devono essere regolati in modo che essi non ricambino il beneficio con il maleficio. “Coloro che per misericordia sono ammessi alla nostra familiarità, ci ripagano con quella ricompensa che erano soliti offrire ai loro ospiti, secondo un proverbio popolare: un sorcio in bisaccia, un serpente in grembo e fuoco nel seno“. – Lo stesso Pontefice, aggiungendo che è conveniente che i Giudei siano asserviti ai Cristiani e non già che questi prestino orecchio a quelli, così prosegue:”Che i figli di una donna libera non siano al servizio dei figli di un’ancella, ma come servi riprovati da Dio, in quanto tramarono crudelmente per farlo morire, si riconoscano almeno servi di coloro che la morte di Cristo rese liberi, e quelli servi per effetto del loro operato“. Queste parole si trovano nel suo Decretale: Etsi Judaeos. In altri Decretali ancora: Cum sit nimis sotto lo stesso titolo De Judaeis et Saracenis affinché i Giudei non siano assunti in pubblici impieghi, prescrive: “Sia vietato preferire i Giudei in pubblici uffici, poiché in tale veste sono dannosi soprattutto ai Cristiani“. – Anche Innocenzo IV, mentre scriveva al Santo Ludovico Re dei Franchi che aveva intenzione di espellere i Giudei dai confini del suo Regno, approva una tale decisione poiché essi non rispettavano affatto quelle disposizioni che erano prescritte dalla Sede Apostolica nei loro confronti: “Noi, con tutti i nostri sentimenti aspirando alla salute delle anime, concediamo a Te, con l’autorità dettata dalle circostanze, la facoltà di cacciare i predetti Giudei o per opera tua o di altri, soprattutto perché non rispettano (come ci risulta) gli Statuti promulgati contro di essi dalla predetta Sede“. Così si legge presso Rainaldo (Anno di Cristo 1253, n. 34).

6. Se poi si chiede quali siano quelle cose che dall’Apostolica Sede sono proibite ai Giudei che vivono dentro le stesse città in cui abitano i Cristiani, diciamo che si permettono ad essi quelle stesse facoltà che oggi nel Regno di Polonia sono loro concesse e che da noi sono esposte più sopra. Evidentemente per acquisire tale verità non vi sarà bisogno di una vasta lettura di libri. È sufficiente scorrere il titolo dei Decretali De Judaeis et Saracenis, dei Romani Pontefici Nostri Predecessori Nicola IV, Paolo IV, San Pio V, Gregorio XIII e Clemente VIII. Le Costituzioni sono a disposizione e sono custodite nel Bollario Romano. Voi infatti, Venerabili Fratelli, per comprendere chiaramente tali questioni non avete neppure la necessità di affrontare l’impegno della lettura. Vi soccorrono tutte le prescrizioni e le decisioni prese nei Sinodi dei vostri predecessori; poiché essi certamente non omisero di inserire nelle loro Costituzioni tutte quelle disposizioni che – per quanto riguarda l’attuale materia – furono sancite ed ordinate dai Romani Pontefici.

7. Tuttavia il colmo della difficoltà consiste in ciò che o dilegua la memoria delle Sanzioni Sinodali, oppure viene negletta l’esecuzione di esse. Su di voi, pertanto, Venerabili Fratelli, incombe l’onere di rinnovarle. Ciò richiede la natura del vostro ufficio: che insistiate con solerzia nella applicazione di esse. In questa impresa, come è bene e giusto, cominciate dagli uomini Ecclesiastici, per i quali è doveroso mostrare agli altri la via comportandosi rettamente, e con l’esempio far luce ad altri ancora. Per grazia della Divina pietà, a Noi giova sperare che il buon esempio degli Ecclesiastici ricondurrà sul retto sentiero i Laici che si sono sviati. Invero, quelle disposizioni da voi poterono essere accolte e annunciate tanto più facilmente e fiduciosamente in quanto (in base al contributo recato da affidabili e capaci informatori) mi giunse notizia che né i vostri beni né i vostri diritti sono stati da voi concessi in appalto ai Giudei; che nessun affare intercorre con essi, né quello di dare danaro in prestito né di riceverlo; che in breve Voi siete del tutto liberi e immuni da ogni traffico con essi.

8. Il criterio e il metodo prescritti dai Sacri Canoni per esigere la dovuta obbedienza dai ribelli, nei processi della massima importanza e specialmente attuali, consistono nell’applicare le Censure e, inoltre, nel provvedere che tra i casi riservati siano da ascrivere anche coloro che si suppone possano minacciare un esiziale scisma religioso. Certamente vi è noto che il Sacro Concilio Tridentino provvide alla stabilità della vostra giurisdizione allorché a Voi stessi attribuì il diritto d’intervento in casi riservati; né quei casi restrinse soltanto ai pubblici delitti, ma li estese e li ampliò anche ai più gravi ed atroci, purché non siano soltanto affari privati. – Più volte dunque dalle Congregazioni di questa nostra alma Urbe, in vari Decreti e in Lettere Encicliche, fu deciso e deliberato che fra i casi più gravi ed atroci si dovessero annoverare quelli verso cui gli uomini sono più proclivi e che sono il flagello, ad un tempo, sia della disciplina Ecclesiastica sia della salute delle Anime che sono affidate alla cura del Vescovo; come Noi abbiamo diffusamente dimostrato nel nostro trattato De Synodo Dioecesana (Lib. 5, cap. 5).

9. A questo fine non sopporteremo che da parte Nostra si faccia desiderare cosa che sia d’aiuto per Voi e per risolvere le difficoltà che senza dubbio incontrerete se Voi dovrete procedere contro quegli Ecclesiastici che si sono sottratti alla Vostra giurisdizione. Noi al Venerabile Fratello Arcivescovo di Nicea e costà Nostro Nunzio abbiamo assegnato gli opportuni incarichi circa la stessa questione, perché prenda i necessari provvedimenti nei limiti delle facoltà a lui attribuite. Ad un tempo vi promettiamo che Noi, quando si presenterà l’occasione, con ogni premura e con ogni energia non tralasceremo di trattare questa questione anche con coloro che possono fare in modo che dal nobile Regno Polacco siano cancellate una macchia e una ignominia di tal natura. Inoltre voi, Venerabili Fratelli, invocate anzitutto la protezione da Dio, che è l’artefice di ogni bene, con la più fervente commozione del cuore. – E ancora da Lui implorate con le vostre preci l’aiuto per Noi e per questa apostolica Sede; e mentre vi abbracciamo con pienezza di carità, amorevolmente impartiamo alle Vostre Fraternità e ai Greggi affidati alle Vostre cure l’Apostolica Benedizione.

Dato da Castel Gandolfo, il giorno 14 giugno 1751, undicesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA IV AVVENTO

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Exod XVI :16; 7
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus [Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]
Ps XXIII:1
Dómini est terra, et plenitúdo ejus: orbis terrárum, et univérsi, qui hábitant in eo. [Del Signore è la terra  e quanto essa contiene; il mondo e e tutti quelli che vi abitano.]
Hódie sciétis, quia véniet Dóminus et salvábit nos: et mane vidébitis glóriam ejus

[Oggi saprete che verrà il Signore e ci salverà: e domattina vedrete la sua gloria.]

Oratio  
Excita, quǽsumus, Dómine, poténtiam tuam, et veni: et magna nobis virtúte succúrre; ut per auxílium grátiæ tuæ, quod nostra peccáta præpédiunt, indulgéntiæ tuæ propitiatiónis accéleret: [O Signore, Te ne preghiamo, súscita la tua potenza e vieni: soccòrrici con la tua grande virtú: affinché con l’aiuto della tua grazia, ciò che allontanarono i nostri peccati, la tua misericordia lo affretti.]
Letture della IV di AVVENTO

Lectio
Lectio Epístolæ beati Pauli Apostoli ad Corinthios
1 Cor IV:1-5
Fratres: Sic nos exístimet homo ut minístros Christi, et dispensatóres mysteriórum Dei. Hic jam quaeritur inter dispensatóres, ut fidélis quis inveniátur. Mihi autem pro mínimo est, ut a vobis júdicer aut ab humano die: sed neque meípsum judico. Nihil enim mihi cónscius sum: sed non in hoc justificátus sum: qui autem júdicat me, Dóminus est. Itaque nolíte ante tempus  judicáre, quoadúsque véniat Dóminus: qui et illuminábit abscóndita tenebrárum, et manifestábit consília córdium: et tunc laus erit unicuique a Deo.

OMELIA I

Omelia VII.

[Mons. Bonomelli: Omelie, vol. I – Omelia VII; Torino 1899]

“Così ognuno faccia stima di noi come di ministri di Cristo e dispensatori dei misteri di Dio. Del resto nei dispensatori si richiede che ciascuno sia trovato fedele. Quanto a me poco mi importa d’essere giudicato da voi o da tribunale umano; anzi neppur io giudico me stesso. Perchè in coscienza io non mi sento colpevole di cosa alcuna, ma non per questo sono giustificato. Colui che mi giudica è il Signore. Perciò non giudicate prima del tempo, finché non venga il Signore, che metterà in luce le cose nascoste nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori, ed allora ciascuno avrà, la sua lode da Dio „ (I. Cor. IV, 1-5).

Sono questi i primi cinque versetti del capo quarto della prima lettera di S. Paolo ai Corinti, che si legge nella Messa di questa Domenica. I fedeli della Chiesa di Corinto, che S. Paolo aveva fondato, erano sossopra per molte cause, come apparisce dalla stessa lettera. Non fate le meraviglie, o cari, che vi fossero dei disordini anche nella primitiva Chiesa: dove sono uomini ivi sono anche le debolezze e le passioni umane. La causa principale dei dissidi della Chiesa di Corinto era il parteggiare che facevano quei fedeli, chi per l’uno e chi per l’altro. Viveva in Corinto un certo Apollo, sacerdote d’ingegno, di molta eloquenza e virtuoso. Alcuni dicevano: Noi stiamo con Apollo; ed altri rispondevano: E noi stiamo con Paolo; ed altri protestavano di seguire Pietro; ed altri infine, quasi a troncare ogni questione, dichiaravano d’essere discepoli di Gesù Cristo. Erano gare deplorevoli, che dividevano gli animi e che non è raro vedere anche ai giorni nostri. Spesso noi vediamo certi fedeli, anche buoni e pii, che, scambiando le persone con la religione, si legano a quelle più che alla religione stessa: seguono l’uomo più che Gesù Cristo, il ministro più che Colui, del quale il ministro non è che ministro. – L’Apostolo per togliere quel disordine, parla del giudizio che si deve fare dei ministri di Dio. L’argomento riguarda noi sacerdoti e voi, laici, e si raccomanda assai alla nostra attenzione. – “Così ognuno faccia stima di noi come di ministri di Dio. „ A Corinto, come or ora vi dicevo, vi era un grave dissidio tra i fedeli, per il diverso apprezzamento che si faceva dei sacri ministri, parteggiando chi per questo e chi per quello. Voi, o Corinti, diceva l’Apostolo, siete divisi a cagione di noi, ministri di Cristo. Ma in nome del cielo, come dovete voi giudicarci? Unicamente per quello che siamo. Considerate in noi, non l’ingegno, non la scienza, non l’eloquenza, non le altre doti naturali, ma solamente l’ufficio e il potere, che teniamo di ministri di Cristo e di dispensatori dei misteri di Dio. Con la parola dispensatori dei misteri di Dio, S. Paolo significa i misteri della fede, le verità sovraumane del Vangelo, o i Sacramenti, fonti della grazia, e più probabilmente l’una e l’altra cosa insieme. Qui ci si porge un grande ammaestramento, che vuolsi attentamente considerare. Assunti all’altissimo onore di annunziarvi le eterne verità, uscite dalla bocca di Gesù Cristo, e di dispensare i santi Sacramenti, mezzi infallibili della grazia divina, nella virtù e nella santità della vita noi dobbiamo camminare innanzi a voi, o fedeli, e rendere rispettabile e venerando l’ufficio che esercitiamo. È nostro dovere, e guai a noi, se veniamo meno; sarà terribile il giudizio che ci attende. Che se per nostra grande sventura nella nostra condotta non rispondiamo all’altezza dell’ufficio che teniamo, voi, o cari, non dovete mai dimenticare, che noi siamo pur sempre ministri di Gesù Cristo e dispensatori dei misteri di Dio. Un liquore prezioso è sempre prezioso, sia che lo teniate chiuso in un vaso di cristallo o in un vaso d’oro, e un diamante è sempre diamante, sia desso legato in oro finissimo o in vile metallo. Quali che siano le nostre doti di mente e di cuore; siamo buoni o cattivi, assai istruiti o poco istruiti, voi dovete sempre ricordare, che siamo ministri di Cristo, e che i nostri difetti e le nostre colpe non possono né togliere, né diminuire la nostra dignità, perché veramente non è nostra, ma di Gesù Cristo. Al di sopra delle nostre povere persone dovete fissare gli occhi in Colui che ci manda e al quale si deve onore, tutto l’onore nei suoi rappresentanti, anche più indegni. Sublime, divina è la nostra dignità; ma noi non siamo Angeli; siamo fratelli vostri, soggetti come voi alle stesse passioni, e se col manto della carità dovete coprir tutti indistintamente, dovete compatire pur noi, perché noi pure ne abbiamo bisogno e siamo fratelli vostri. È verità che facilmente si dimentica dai laici e che li dovrebbe rendere più giusti, più caritatevoli verso dei sacerdoti erranti. È un fatto, che non so spiegare a me stesso: in generale si compatiscono con grande facilità i falli dei laici, e somma è la severità che si usa con i sacerdoti. Lo comprendo, o fratelli: i falli nostri sono assai più gravi dei vostri: ma è pur vero altresì che maggiore è la necessità che noi abbiamo della carità vostra. Come potremo noi con frutto esercitare il nostro ministero se voi senza pietà gettate in pasto ad un pubblico, avido di scandali, le nostre colpe? Se non noi, il ben pubblico esige che maggiore sia la carità vostra col Clero. E fossero almeno sempre vere le colpe che ci si appongono! Quante volte sono a studio ingrandite, anzi inventate per disonorarci! E poi chi non vede un’altra ingiustizia, che si commette sì spesso contro il Clero? Un prete sarà caduto in una colpa, se volete, gravissima: che si fa? che si dice? Subito si grida: “Vedete chi sono i preti, chi sono i religiosi!” La colpa di uno diventa colpa di tutti. Non è questa una imperdonabile ingiustizia? Pecca un prete, hanno peccato tutti i preti! E perché non si adopera la stessa misura con i laici, con ogni altro ceto di persone? E se la colpa d’un uomo di Chiesa la si vuole colpa di tutti gli uomini di Chiesa, perché non si tiene la stessa regola col bene ch’essi fanno? Perché se un prete, un religioso compie un’opera buona e generosa non si dice egualmente: Vedete chi sono i preti, chi sono i religiosi? Ah! il male che si fa da un prete o da un religioso è male di tutto il clero, il bene poi è solo di colui che lo fa! E questa è giustizia? – Del resto, soggiunge S. Paolo, nel dispensatore dei beni altrui, che cosa si richiede? Una cosa sopratutto si richiede e basta, ed è che sia fedele, cioè adempia fedelmente i voleri del padrone. Questa è la sostanza. Dunque, dice S. Paolo, anche in noi, ministri di Cristo, badate a questo, cioè se adempiamo il nostro dovere, annunziando la parola di Dio, dispensando i Sacramenti, visitando gli infermi e compiendo tutti gli altri uffici del ministero: tutto il resto a voi poco importa. Voi avete il diritto di esigere che il sacerdote sia fedele nel suo ufficio verso di voi; quanto al resto non è cosa che vi riguardi, né avete diritto di occuparvene. S. Paolo procede e conferma la stessa verità. – “Quanto a me poco mi importa d’essere giudicato da voi o da tribunale umano. „ Voi fate differenza tra ministro e ministro, e questo preferite a quello: di ciò non mi curo, e non mi curo dei vostri giudizi favorevoli o sfavorevoli, o di qualsiasi tribunale terreno. L’Apostolo scrisse, non tribunale terreno, ma “giorno umano”, alludendo al giorno del Signore per eccellenza, che è il giorno del giudizio finale. Continua l’Apostolo: “Sì poco mi curo dei giudizi umani, che non mi do pensiero nemmeno di giudicare me stesso. “Neque meipsum judico”. Quale linguaggio degno dell’Apostolo delle genti! Egli non cura le lodi, né teme i biasimi del mondo: non giudica delle sue doti, delle sue intenzioni; intende ad una sola cosa, ad adempire cioè il ministero ricevuto da Gesù Cristo. Ecco il modello perfetto del sacerdote, che, quando occorra, deve sfidare le ire dei tristi, disprezzare le loro lodi e una sola cosa aver sempre dinanzi agli occhi, l’adempimento del proprio dovere. “Perché in coscienza non mi sento colpevole di cosa alcuna. „ Non mi curo, non mi do pensiero, nemmeno di giudicare me stesso, “perché la coscienza, così l’Apostolo, non mi rimorde di nulla quanto all’esercizio del mio ministero. — Felici quelle anime, che, interrogando diligentemente se stesse, possono rispondere con l’Apostolo: “Non sento in coscienza d’essere colpevole! „ È la più cara testimonianza, il più dolce conforto ohe l’uomo possa avere anche in mezzo alle tribolazioni più gravi. Vediamo di meritare questa, che è la mercede del giusto sulla terra e la forza che ci tiene saldi nelle prove sì amare della vita. Sembra strano ciò che S. Paolo soggiunge: Sento in coscienza di non essere colpevole: “con tutto ciò non sono giustificato. „ – “Il non avere rimorsi, quanto all’esercizio del mio ministero, scrive l’Apostolo, non vuol dire ch’io sia giusto, inescusabile, santo, no”. Ben è vero che non si commette mai peccato se non quando sappiamo, od abbiamo coscienza di commetterlo; è verità chiarissima; ma potrebbe accadere di non porre mente al male che facciamo, e ciò per colpevole negligenza, o di non ricordarci al presente del male già commesso con piena deliberazione, e in tal caso il non avere rimorsi non vorrebbe dire che siamo innocenti e giusti, né ci varrebbe di scusa dinanzi a Dio. Pur troppo moltissimi sono quelli, che vivono immersi in ogni sorta di peccati e non sono molestati dal più lieve rimorso. La distrazione, la trascuratezza, in cui vivono, il callo che hanno fatto ad ogni disordine, l’abitudine inveterata di non ascoltare le grida della coscienza, fanno sì che più non sentono i rimorsi. Forseché costoro, perché non sentono i rimorsi, si potranno dire giusti? Certamente, no. Possiamo essere gravemente ammalati e non sentire dolori; così possiamo essere colpevoli e non sentire rimorsi, e ciò non varrà a scolparci innanzi a Dio. Il nostro giudizio non è sicuro, insegna S. Paolo: il solo giudizio di Dio è infallibile, e a Lui rimettiamoci: “Qui judicat me, Dominus est.,, È questa, o carissimi, una verità di sommo conforto per tutti, ma particolarmente per quelli, i quali, esercitando un ufficio, non raramente sono fatti segno a biasimi ingiusti e ad apprezzamenti erronei. Quante volte gli uomini biasimano a torto quel padre e quella madre, quasi trascurati nella educazione dei loro figli! Accarezzano sospetti ingiuriosi a carico di quella persona, condannano l’opera di quel padrone, di quel servo, la condotta di quel prete, di quel parroco, giudicando dalle apparenze! Spesso chi sta in alto diviene bersaglio delle più gravi accuse, delle più nere calunnie ed è impotente a difendersi. Sono pene acerbe, agonie di spirito, che Dio solo conosce. È pur dolce allora il potersi gittare dinanzi a Lui, che tutto conosce, aprirgli il cuore ed effondere l’anima e dirgli: Signore, Voi conoscete tutto; voi conoscete la mia rettitudine, la mia innocenza; mi abbandono nelle vostre braccia paterne. — “Dominus est qui judicat me.,, Credo che tra di voi, che m’ascoltate, non vi sia pur uno che un giorno non abbia sentito il bisogno di dire: “Il Signore sa ch’io sono innocente; Egli solo mi ha da giudicare”. S. Paolo applica a tutti in genere la dottrina stabilita, e dice a modo di conseguenza: “Perciò non giudicate prima del tempo, finché non venga il Signore. „ Noi pure, è vero, possiamo giudicare le cose e le persone in quanto si manifestano con le parole o con le opere e possiamo dire: Questa è buona, questa è cattiva: ma giudicare le cose e le persone in sé, nella loro mente e nella loro coscienza, è riserbato a Dio solo. Quante volte un atto esterno, che giudichiamo buono e lo è in se stesso, è cattivo per l’intenzione di chi lo fa, e quello che reputiamo cattivo, è buono per la retta intenzione dell’operante! Dio solo legge nelle coscienze e perciò non giudichiamo gli altri nel loro interno. Quali veramente siano le opere dell’uomo lo conosceremo allorché verrà Dio e farà il gran giudizio. “Egli illuminerà le cose tenute nelle tenebre e manifesterà i consigli dei cuori, „ come insegna l’Apostolo. Nel presente ordine di cose noi vediamo solo ciò che apparisce; a nessuno di noi è dato di penetrare nelle menti e nei cuori se non tanto quanto essi si aprono volontariamente mediante la parola; parola che non è sempre mezzo sicuro della verità. – I cuori, le menti, le coscienze umane sono avvolte in fitte tenebre, che saranno pienamente rischiarate soltanto in quel dì, che il Giudice supremo verrà sulla terra. Che avverrà allora, o dilettissimi? Udite. Un valente artefice, chiuso in una stanza a tutti inaccessibile, lavora, ponete, una statua di cristallo; per il corso di molti anni, con pazienza ammirabile, vi si travaglia intorno e non vi è un punto solo della statua, che non sia lavorato. Compiuta l’opera sua in quel recesso impenetrabile, al lume d’una lampada, un bel dì la trae fuori e la espone al pubblico sotto la luce del mezzodì, sotto i fulgori del sole di luglio. Ad un tratto voi vedete quella statua, cesellata in ogni parte, e se vi è un solo punto, in cui il cesello abbia fallito, voi lo rilevate tosto. Non è vero che allora in un istante voi vedete il lavoro di molti e molti anni, compiuto occultamente, ignoto a tutti? Ecco una immagine del giudizio divino. Nel corso della nostra vita, che si svolge nelle tenebre di questo secolo, al fioco lume della ragione, avvalorato dal lume della fede, nel fondo della nostra coscienza, impenetrabile ad ogni occhio mortale, noi abbiamo lavorato la nostra statua, compiuta l’opera nostra, che rimarrà eterna. In quel momento, che avverrà il giudizio, l’opera condotta a termine nel corso di tanti anni, sarà posta sotto la luce infinita, che raggia dal volto di Gesù Cristo, e tutto sarà perfettamente manifesto il nostro lavoro, bello o brutto ch’esso sia. Allora saranno svelate le coscienze, rischiarate tutte le tenebre, fatto il giudizio e data a ciascuno la lode che gli si dee, come dice S. Paolo. E chiaro adunque, o carissimi, che nella presente vita ciascuno di noi va scrivendo sul libro della coscienza la sentenza che Cristo leggerà e pronunzierà nel giorno del giudizio e che con lui leggeremo e pronunceremo noi pure. — Figliuoli carissimi! badiamo bene a tutto ciò che pensiamo, vogliamo, diciamo e facciamo in vita, perché tutto si scrive nel libro indistruttibile della nostra coscienza e tutto rimarrà a nostra gloria od a nostra infamia eterna.

Graduale 
Ps 144:18; 144:21
Prope est Dóminus ómnibus invocántibus eum: ómnibus, qui ínvocant eum in veritáte. [Il Signore è vicino a quanti lo invocano: a quanti lo invocano sinceramente.]
V. Laudem Dómini loquétur os meum: et benedícat omnis caro nomen sanctum ejus. [Signore: e ogni mortale benedica il suo santo nome.

Alleluja

Allelúja, allelúja,
V. Veni, Dómine, et noli tardáre: reláxa facínora plebis tuæ Israël. Allelúja [Vieni, o Signore, non tardare: perdona le colpe di Israele tuo popolo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia  sancti Evangélii secundum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc III:1-6
Anno quintodécimo impérii Tibérii Cæsaris, procuránte Póntio Piláto Judæam, tetrárcha autem Galilaeæ Heróde, Philíppo autem fratre ejus tetrárcha Ituraeæ et Trachonítidis regionis, et Lysánia Abilínæ tetrárcha, sub princípibus sacerdotum Anna et Cáipha: factum est verbum Domini super Joannem, Zacharíæ filium, in deserto. Et venit in omnem regiónem Jordánis, praedicans baptísmum pæniténtiæ in remissiónem peccatórum, sicut scriptum est in libro sermónum Isaíæ Prophétæ: Vox clamántis in desérto: Paráte viam Dómini: rectas fácite sémitas ejus: omnis vallis implébitur: et omnis mons et collis humiliábitur: et erunt prava in dirécta, et áspera in vias planas: et vidébit omnis caro salutáre Dei.”  [Nell’anno decimoquinto dell’impero di Tiberio Cesare, essendo governatore della Giudea Ponzio Pilato, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturea e della regione Traconítide, e Lisània tetrarca di Abilene, essendo sommi sacerdoti Anna e Càifa: la parola del Signore venne nel deserto su Giovanni, figlio di Zaccaria. E costui andò nelle terre intorno al Giordano, predicando il battesimo di penitenza in remissione dei peccati, come sta scritto nel libro del profeta Isaia: Voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore: appianate i suoi sentieri: saranno colmate tutte le valli, e i monti e i colli saranno abbassati: i sentieri tortuosi saranno rettificati e quelli scabrosi appianati: e ogni uomo vedrà la salvezza di Dio.]

OMELIA II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. Luca III, 1-6)

Via del Piacere.

L’odierno Evangelio mi porta col veloce pensiero alle sponde del Giordano. Seguitemi, ascoltatori devoti. Ecco innanzi a noi il divin precursore Giovanni, che per comando di Dio predica il battesimo della penitenza per la remissione de’ peccati. Non già che quel battesimo avesse in sé una tale virtù, ma perché era una preparazione per arrivare alla remissione dei peccati, col partecipare de’ meriti del Redentore. Predica dunque la penitenza il Battista, e la predica quasi più con la presenza, che con la voce, più coll’esempio, che con le parole. Osservatelo pallido nel volto, smunto nelle membra, mezzo coperto di rozze spoglie d’agnelli, e di ruvida pelle di cammello: il suo vitto son le locuste del campo e poco miele della selva, la sua bevanda è l’acqua del fiume o del fonte. Comincia la sua predica intimando alle turbe accorse ad ascoltarlo a preparare la via del Signore, “parate viam Domini”. A questo fine fu mandato il Battista nella Giudea, e a questo stesso oggetto io vengo a voi, miei dilettissimi; e vi dico, se volete per la prossima solennità preparare la via del Signore, acciò egli venga a voi, abbandonate le strade del mondo, tornate addietro dalle vie del peccato e del seducente piacere. L’uscir da queste lubriche vie, sarà lo stesso che disporre i retti sentieri, pei quali l’aspettato Salvatore del mondo venga a rinascere nel Vostro cuore: parate, dunque, “parate viam Domini, rectas facite semitas eius”. Per animarvi in questo salutare intraprendimento, io vi farò vedere in una maniera facile e sensibile, quanto la via del mondano piacere sia ingannevole, e quanto dannosa, tanto per la vita presente, che per la vita futura. Se riesco a disingannarvi, io benedirò il Signore, e voi mi saprete grado del vostro disinganno. Di grazia ascoltatemi attentamente. – La via del piacere, (com’io me la figuro) comincia con una porta grandiosa, alta, magnifica, a modo di superbo arco trionfale. La struttura che la rende stupenda è tutta a colonne, a statue vagamente disposte, e a vasi d’ogni forma la più leggiadra. Sull’architrave sui capitelli stanno alati genietti, e di questi chi sparge fiori, chi suona cetre, chi spiega vesti preziose, chi fa le monete d’oro e d’argento, e chi sul limitare di questa porta col riso sulle labbra, col cenno grazioso delle mani invita ad entrare i passeggeri. Entriamo dunque, uditori: la porta è bella, la strada sarà migliore. “Adagio, dite voi, adagio, tanti inviti, tanti allettamenti fan nascere un ragionevole sospetto, che qualche inganno si nasconda sotto così lusinghevoli apparenze”. Ottimamente, queste è pensare e riflettere da uomini prudenti, … facciamo dunque così, vediamo qual sorte hanno incontrata coloro che sono entrati per questa porta, e si sono avviati per questa strada. Si possono questi considerare distinti in due schiere. Molti sono entrati, e non sono più usciti, altri non pochi sono tornati indietro. Quei che sono entrati senza più uscire, sono primieramente tutti gli uomini che passeggiavano su questa terra ai tempi di Noè innanzi il diluvio. Correvano questi velocemente la via del piacere, e del piacere più sordido e più fangoso. “Omnis quippe caro corraperat viam suam” (Gen VI, 12). Gridava intanto Noè dai palchi della sua arca: “ciechi, insensati, tornate indietro, se proseguite, Iddio sdegnato vi coglierà nel più bello del vostro cammino, sarete fra non molto sommersi in un diluvio di acque micidiali; ma gl’ingannati, rapiti dal dolce delle impure loro voglie, sordi al loro bene, sordi al loro male, sordi alle divine minacce, conobbero troppo tardi e senza rimedio il proprio errore, e la fallacia della via da essi battuta. – Spingete ora lo sguardo entro quella porta da noi immaginata: Vedete voi quella lunga, lunghissima strada, che dall’una e dall’altra parte vi presenta un funesto spettacolo di ventiquattromila Ebrei pendenti da altrettanti patiboli? mirateli se potete senza orrore, e poi dite: ecco quanto loro costò un brutale piacere, contro il divieto di Dio e di Mosè, con le donne Madianite “Occisi sunt viginti quatuor millia . . . in patiboli” (Num XXV, 9 e 4). E chi son eglino quegl’infelici stesi su quel campo, sparso di tronche membra e di teste recise, inondato di tanto sangue, ancor tiepido, ancor fumante? Poco avanti fra canti e suoni, sazi dalla crapula ed allegri dal vino, menavano danze e carole intorno a un lido d’oro, ed ora trucidati dalle spade levitiche in numero di quasi ventiquattro mila, c’insegnano che l’allontanarsi da Dio, che il piacer della gola, e gli estremi del gaudio e dell’allegria, vanno a finire in lutto ed in sterminio. – Passeggia per questa strada Sansone allettato dalle lusinghe di Dalila, e sebbene dai propri genitori richiamato ad uscirne, non dà ascolto, persiste nel suo cammino, e i suoi piaceri gli fan perdere la libertà, la vista, la riputazione e la vita. Anche Ammone, figlio di Davide, entra in questo sentiero, rapito dall’avvenenza dì Tamar, e il sozzo incestuoso piacere gli tira addosso un nembo di pugnalate, mentre sedeva a lauto banchetto. Anche i sordidi vecchioni tentatori della casta Susanna corrono la stessa via; e dopo aver sedotte molte figlie d’Israele, s’incontrano finalmente in questa santa matrona, che eroicamente ributtandoli, coll’esecrazione di lutto il popolo, restano sepolti sotto una tempesta di pietre. Di mille altri potrei mostrarvi lo stesso. Per amor di brevità fermiamoci qui, e ditemi uditori miei, non è egli vero che questa strada è fatale per chi vi entra? Le notizie fin qui son molto cattive. Vediamo se si sono trovati contenti almeno quei che ne uscirono! – Il primo che mi viene avanti egli è un re vestito di ruvido cilizio, con un tozzo di pane alla mano, sparso di cenere, e bagnato di lacrime. Ah, sì, lo ravviso, questi è Davide penitente, che abbandonata la via del piacere, si va protestando che odia e abbomina questa strada d’iniquità: “viam iniquam odio habui(Ps. CXVIII, 128). Un altro mi si presenta. È questi un giovane rabbuffato, pallido, smunto, lacero, mezzo ignudo. Nol conoscete? Egli è il Prodigo, che ritorna da quelle remote contrade che ha corso per qualche tempo affianco delle meretrici “vivendo luxuriose”, ed ora a passo avanzato si conduce ai piedi del suo buon padre, a pregarlo che voglia ammetterlo per l’ultimo de’ suoi servitori. E questa donna, nobile all’aspetto e al portamento, che si strappa dal crine le gioie e i vani ornamenti, ella è la Maddalena, che pentita dei suoi traviamenti, corre a lavare di lacrime i piedi al divin Redentore. Una turba immensa, a finirla, sgombra da questa strada, turba di gente d’ogni età, d’ogni sesso e d’ogni clima, ed hanno tutti il pianto sul volto, il digiuno a fianco, il flagello alla mano per vendicare in sé stessi i loro errori nella via seducente dell’iniquità e della perdizione, confessando altamente d’esserne stanchi e pentiti, “lassati sumus in via iniquitatis, et perditionis” (Sap. V, 7). – Che dite ora, miei riveriti ascoltanti? Le notizie da ogni parte son pessime, e senza ricorrere ad antichi esempi, l’esperienza ci fa vedere sovente di queste scene volubili, che dopo una vista dilettevole si cangiano in prospetti di orrore. Voi come più pratici del mondo ne potete narrare a me. Quanti amatori del secolo, gente data al bel tempo, ai giuochi, alle gozzoviglie, agli amori, sono passati dalle delizie alle miserie, dai piaceri agli affanni, dagli onori all’avvilimento, da uno stato comodo allo spedale, o a morir sulla paglia! – Concedo: la strada del piacere è larga, amena, spaziosa, lo dice il Vangelo, “spatiosa est via”, ma dice altresì che conduce alla perdizione. Or se una via piana, fiorita, deliziosa vi portasse ad un precipizio, avreste voi sì poco senno da incamminarvi per quella? E non sapete ch’è proprio dei traditori il far precedere le lusinghe, i vezzi, gli allettamenti per riuscire negl’iniqui disegni, ed ingannare gl’incauti? Caino vuol tradire Abele, ed in aria di buon fratello l’invita a diporto, a spaziarsi in un campo. Gioabbo con un saluto, con una carezza al mento di Amasa gli pianta un pugnale nel fianco. Assalonne per vendicarsi d’Ammone l’invita a sontuoso banchetto. Triffone vuol disfarsi del temuto Gionata Maccabeo, e gli offre il comando della sua armata. Giuda tradisce il suo divino Maestro e si serve d’un bacio. In somma quel che gli uomini praticano cogli uccelli, e coi pesci, usano i traditori a sedurre gl’incauti ad ingannar gl’innocenti. – Ma se voi non siete irragionevoli, non sarà una gran pazzia lasciarvi tirar nella rete per un meschino piacere? – Sarà dunque pazzia per voi, giovane mio, l’associarvi con quella brigata di scostumati compagni, che vi traggono al giuoco per spogliarvi, che vi portano alle crapule, ai furti, alle case sospette, alle ree amicizie per non avere il rossore d’esser soli nei bagordi e negli stravizzi, o per voltarne tutta la colpa a voi. – Sarà pazzia per voi lasciarvi tirar dalla gola e imbandire la mensa de’ rubati polli, vendemmiare l’altrui vigna e bere alla salute di chi in coltivarla vi ha speso danari e sudori, per poi temere e tremare per continua paura, di venir ricercato da ministri di giustizia, d’essere scoperto per ladro, ed in pericolo d’infamia, di prigionia e di galera. – E non sarà maggior pazzia per voi, o figlia incauta se vi lasciate adescare dalle dolci lusinghe, dall’amorose parole, dai seducenti biglietti, dai donativi, dalle promesse anche giurate di matrimonio di quei traditori che insidiano la vostra onestà, ed han per costume vantarsi della vostra debolezza e della loro riuscita? Non sarete la prima, se vi fidate, se vi arrendete, ad essere abbandonata alla vostra confusione, costretta a ritirarvi per nascondere il vostro fallo, a passare i giorni amari in mesta solitudine, a piangere inutilmente la vostra caduta e la vostra stoltezza, e bestemmiare l’empio traditore, che intrepido giura di non conoscervi, insensibile alle vostre lacrime, insultante alla vostra infamia, infamia che porterete fino alla tomba. – Vedete, miei dilettissimi, che non v’ho parlato sin qui se non di temporali infortuni, i quali sono gli effetti infallibili degli smodati piaceri. Or che diremo quando la fede c’insegna che la via del piacere conduce all’eterna perdizione? Così è, miei cari, conviene disingannarsi. Gli amatori del mondo e dei fallaci suoi beni, dopo aver gustato per pochi giorni il dolce delle proprie soddisfazioni, vanno, quando non se l’aspettano, a piombare negli abissi infernali. “Ducunt in bonis dies suos, et in punctu ad inferno, descendant” (Iob. XII, 13). Ci descrive con una ingegnosa parabola la cecità e stoltezza di costoro S. Giovanni Damasceno. – Un cert’uomo faceva viaggio in un deserto, quando all’improvviso si vede venir incontro una feroce pantera. Spaventato a questa vista si dà a precipitosa fuga, e nel fuggire agitato e contuso, cade senz’avvedersene dall’orlo d’un precipizio profondissimo: se non che, com’è proprio di chi cade, stender le braccia, fortunatamente si appiglia ad un albero piantato poco sotto il margine del precipizio stesso. Qui si tiene stretto, e va respirando. Osserva però che la pantera non cessa di minacciarlo, e che l’albero, su cui si è salvato dal peso della persona, va declinando al basso, e gli si stacca da terra or l’una, or l’altra radice. Abbassa finalmente lo sguardo, e mira con raccapriccio in fondo del precipizio un enorme dragone, che a bocca spalancata, e artigli aperti sta aspettando la sua caduta. In questa situazione di tanto orrore, in mezzo a tanti oggetti di spavento, leva gli occhi in alto, e osserva in cima di quella pianta un favo di miele, che per l’abbondanza spande su quelle foglie il dolce liquore. A questa vista esulta di giubilo, e allegro e contento non conosce più il suo pericolo, si dimentica della minacciosa pantera, dell’albero che declina, delle radici che si staccano, del dragone che l’attende, e invece, chi il crederebbe? Col riso in bocca è tutto intento a raccogliere colla punta del dito quelle gocce di miele, e le assapora con gusto, e se ne pasce con gioia, e si stima felice. La parabola, uditori, vi sorprende? Cesserà la sorpresa in sentirne l’applicazione: l’uomo appena comparso in questa valle di pianto, che si può chiamare un deserto, in qualità di viaggiatore, viene minacciato dalla morte come da rabbiosa pantera. Fugge egli in certo modo l’incontro, ma cade nel comune pericolo di morte, che ad ogn’istante può coglierlo. Si salva egli, diciamo così, sull’albero del proprio corpo. Quest’albero, questo corpo in ogni giorno, in ogni stagione va declinando con il peso degli anni. Si staccano le radici con le infermità, col mancar della vista, col cadere dei denti, col debilitarsi le forze. Intanto al fondo dell’abisso lo sta aspettando il dragone infernale, ed egli in mezzo a tanti pericoli dimentico della morte, della caducità della vita, del baratro su cui sta pendente, e del dragone d’inferno, che per le sue colpe ha diritto, e brama d’attenderlo, s’occupa tutto a raccogliere alcune stille di miele or da questo, or da quel sensuale piacere, e solo intento ad appagare i suoi sensi, a soddisfare le sue voglie, si crede al colmo della contentezza e della felicità. – O uomo miserabile, o cieco e insensato figliuolo di questo secolo! Quel che ora non temi, sarà un giorno il soggetto delle tue lacrime e dell’inutile tuo pentimento. Al termine della strada del piacere, sta il letto della tua morte. Dalla sponda di questo darai un’occhiata alla via che hai corsa; pensa se sarai contento d’averla battuta. Deh! per tuo bene intraprendi in questi sacri giorni la via del Signore; questa è la sola che può condurti all’ eterna salvezza.

Credo …

Offertorium

Orémus
Luc 1:28
Ave, María, gratia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus, et benedíctus fructus ventris tui.

Secreta
Sacrifíciis pæséntibus, quǽsumus, Dómine, placátus inténde: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno alle presenti offerte: affinché giovino alla nostra devozione e alla nostra salvezza.]

Communio
Is VII:14
Ecce, Virgo concípiet et páriet fílium: et vocábitur nomen ejus Emmánuel. [Ecco la Vergine concepirà e partorirà un figlio: e si chiamerà Emanuele.]

Postocommunio

Orémus.
Sumptis munéribus, quǽsumus, Dómine: ut, cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Assunti i tuoi doni, o Signore, Ti preghiamo, affinché frequentando questi misteri cresca l’effetto della nostra salvezza.]

 

NELLA NOVENA DI NATALE

NELLA NOVENA DI NATALE

[A. Carmagnola: MEDITAZIONI, vol. I – S.E.I. Torino, 1942 -impr.-]

MEDITAZIONE PRIMA.

Sopra l’editto di Cesare Augusto.

Avvicinandosi la festa del S. Natale, mediteremo sulle particolarità di sì grande mistero per disporre i nostri cuori a ben celebrarlo e a trarne frutti salutari. Cominceremo dal riflettere sui motivi che ebbe la Divina Provvidenza nell’editto di Cesare Augusto. C’immagineremo di vedere Iddio che dall’alto dei cieli tiene rivolto il suo sguardo di compiacenza sopra il suo Divin Figlio e che, giunta la pienezza dei tempi da Lui stabilita per la sua nascita, dispone ogni cosa per essa. Adoreremo queste divine disposizioni e imploreremo da Gesù l’aiuto di saperci sottomettere anche noi a tutto ciò che il Signore dispone per il nostro bene.

PUNTO 1°.

Primo motivo dell’editto di Cesare Augusto.

L’imperatore romano Cesare Augusto, divenuto padrone di quasi tutto il mondo, volendo fare il censimento dell’impero, emana un decreto, per il quale tutti i suoi sudditi devono recarsi nella loro città natale a dare il proprio nome. Ma sebbene sia egli l’autore materiale del decreto ed abbia per movente la sua saggezza amministrativa, pure in realtà è Iddio che ordina così, affinché il suo Divin Figlio abbia a nascere nella città indicata dai profeti, e la sua regale discendenza sia confermata dagli atti pubblici. Così dunque gli uomini si agitano, ma Dio li conduce e ne fa convergere tutte le azioni all’adempimento perfetto dei disegni della sua Provvidenza. Oh! se noi fossimo ben persuasi di questa verità, che solo Iddio regola tutti gli avvenimenti del mondo con sapienza infinita, con forza irresistibile e con bontà paterna, noi vedremmo sempre la mano di Lui che tutto dirige e ordina per nostro bene e per la sua gloria! Tante volte, è vero, le ragioni che Iddio ha nel suo governo ci sono ignote, i suoi disegni sfuggono alla corta vista del nostro intelletto; ma sicuri che in cielo comprenderemo ogni cosa, adoriamo intanto la Provvidenza Divina. E ciò non solo per riguardo alla storia del mondo, ma ancora per ciò che spetta a ciascuno di noi. Gesù ci ha insegnato che un capello solo non cade dalla nostra testa senza permissione divina (Luc., XXI, 18). Nelle contrarietà dunque abbandoniamoci a Dio; questo abbandono sarà per noi fonte di pace e di consolazione.

PUNTO 2°.

Secondo motivo dell’editto di Cesare Augusto.

Giunto anche in Nazaret l’editto imperiale, a cui dovevano ottemperare anche i Giudei, divenuti quasi sudditi romani, Maria e Giuseppe si accingono senz’altro a recarsi a Betlemme, loro terra natale, ancorché si tratti di un viaggio lungo, a piedi, per strade montane, in stagione cruda. Ma ciò essi fanno, perché lo stesso Bambino Gesù con le sue ispirazioni li anima a compiere la volontà di Dio, espressa per la volontà di un re. Oh esempio di obbedienza, che ci dà Gesù non ancor nato, volendo sottomettere sé, la sua Madre e il suo futuro padre nutrizio al decreto di Cesare! Vicino a manifestarsi agli uomini vuol subito offrir loro l’esempio di questa virtù, con la quale viene a ripararne l’orgoglio. Per la disobbedienza di Adamo, dice S. Paolo (Rom., V, 19), gli uomini furono costituiti peccatori, e per l’obbedienza di Gesù gli uomini devono diventare giusti. Pur troppo dal giorno in cui Adamo superbamente disobbedì a Dio, penetrò negli uomini il disdegno degli altrui comandi, benché legittimi, affine di far prevalere la propria volontà. E Iddio volendo sradicare dal cuore degli uomini un sì grave disordine stabilisce che venga fuori un editto, cui il suo Divin Figlio incarnato si sottometta, offrendosi tosto a noi come modello della più perfetta obbedienza. Dinanzi a tanto esempio come non ti animerai tu a obbedire in tutto e sempre?

PUNTO :3°.

Terzo motivo dell’editto di Cesare Augusto.

Il Signore dispose che l’editto di Cesare Augusto desse occasione al suo Divin Figlio di compiere un viaggio prima ancora di nascere, perché con esso si appalesasse ben tosto la missione che Egli veniva a compiere e quanto gli sarebbe premuto di muovere in cerca di noi per salvarci. Giuseppe, figliuolo di Giacobbe, mandato dal padre in cerca dei suoi fratelli, interrogato da chi lo incontrava, rispondeva: Fratres meos quaero, cerco i miei fratelli (Gen., XXXVII, 16). Or ecco la parola che Gesù benedetto va ripetendo in quel viaggio penoso. Infatti il Vangelo ci attesta che Gesù è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto: Venit quaerere et salvum facere quod perierat ( Luc., XIX, 10). Egli altro non vuole che cercare i suoi fratelli per salvarli: Fratres meos quaero, fratres meos quaero. Ed oh! come si reputerà felice, se dopo tanto soffrire potrà ritrovare coloro che Egli cerca, e stringerseli al cuore! E noi non l’abbiamo già troppo a lungo costretto a correrci dietro, chiamandoci con insistenza? È tempo che ci fermiamo nella nostra fuga, che ci stacchiamo dal nostro orgoglio, dalle nostre vanità, dalle nostre insensatezze, e muoviamo incontro a Lui con uno slancio di amore e di fede, massime in questo tempo.

MEDITAZIONE SECONDA.

Sopra l’indifferenza dei Betlemmiti

Mediteremo sopra l’indifferenza dei cittadini di Betlemme per Maria e Giuseppe, indifferenza per la quale Gesù nacque in una povera capanna fuori di quella città. C’immagineremo l’affanno dei due santi sposi e la calma del Verbo incarnato, il quale prima ancora di nascere c’insegna a sopportare per amor di Dio i maltrattamenti altrui. Adoreremo il Divin Verbo in queste sue interiori disposizioni e lo pregheremo con ardore di volercene rendere partecipi.

PUNTO 1°.

I Betlemmiti rifiutano Gesù.

Maria e Giuseppe, compiuto il penoso viaggio da Nazaret a Betlemme, si recarono tosto dal pubblico ufficiale per dare il proprio nome e quello di Gesù, indi mossero in cerca di una casa ove riparare la notte. Si aggirano di porta in porta, benché stanchi dal cammino: ma non trovano persona amica o cortese, che li accolga presso di sé. Oh se i Betlemmiti avessero conosciuto chi erano quei due pellegrini e chi doveva nascere in quella notte! Ah! tutti avrebbero voluto dar loro la propria abitazione o li avrebbero forzati a entrare nella casa più bella che vi fosse in quella città. Al contrario non conoscendoli e non sapendo il gran mistero di quella notte, mentre provvedono di buon alloggio tutti i forestieri di agiata condizione, con tutta indifferenza lasciano in abbandono Maria e Giuseppe e con essi il Salvatore del mondo- Tant’è, Gesù è venuto nella sua città natale e i suoi concittadini non gli han dato ricetto: In proprio venit et sui Eum non receperunt (Jo., I, 11). A Betlemme si può raffigurare quell’anima, in cui Gesù sarebbe pronto a nascere con la sua grazia, ma che per attacco alle misere vanità del mondo lo respinge da sé. E tale anima non sarebbe per avventura la nostra? Ma che cosa ci possiamo aspettare di bene dalle meschinità della terra? Deh! alla vista di Gesù, pronto a visitare la nostra anima per arricchirla dei suoi celesti favori, liberiamoci tosto dagli attacchi terreni e cediamo in essa il posto al nostro buon Redentore.

PUNTO 2°.

Nel pubblico albergo non c’è posto per Gesù.

Maria e Giuseppe, respinti da ogni casa, furono costretti a presentarsi al pubblico albergo. Non si trattava, è vero, che di un recinto quadrato contornato da un portico lunghesso le mura, sotto al quale conveniva distendere delle stuoie per adagiarvisi sopra. Ma almeno avrebbero avuto un riparo in città, frammezzo a gente, che poteva porgere un po’ di aiuto. Eppure nemmeno lì si trova un posto: non erat eis locus in diversorio (Luc., II, 7). Il Creatore e Signore del cielo e della terra non troverà dunque in Betlemme un luogo qualsiasi, ove fare la sua entrata nel mondo? Gesù, dice S. Agostino, permette che fra le mura di Betlemme gli manchi una stanza, per vedere se tu, o cristiano, pensi ad aprirgliela dentro il cuor tuo: non erat eis locus in diversorio, ut tu locum illi praeberes in corde tuo. Se in questo momento Maria si presentasse a me in cerca di un cuore, ove posare il suo Divin Piglio, le potrei offrire il cuor mio? Dio lo voglia: ma voi intanto, o Vergine Santa, aiutatemi a rendere il mio cuore meno indegno di dare ricetto al vostro Divin Figlio.

PUNTO 3°.

Gesù nasce in una grotta.

Maria e Giuseppe respinti non solo dalle case private di Betlemme, ma persino dal pubblico albergo, escono alla campagna e cercano tra l’oscurità e la solitudine un misero tugurio ove ricoverarsi. Trovano finalmente una grotta scavata nella collina, una di quelle grotte, che servivano di rifugio ai pastori sorpresi dalle intemperie nella custodia del gregge. E lì in quella grotta solitaria, mentre tutto all’intorno era profondissimo silenzio e le stelle sul firmamento segnavano la mezzanotte, da Maria Vergine nacque Gesù Cristo, eterno Dio e Piglio dell’Eterno Padre! Oh grotta benedetta! Per quanto umile e meschina, tu sei diventata il luogo santo, la casa di Dio, la porta del Cielo. Così Gesù ci ha fatto conoscere quanto ami l’oscurità e la solitudine, e come a nascere nell’anima nostra con l’abbondanza delle sue grazie voglia che essa per amore di oscurità e di solitudine si renda simile alla grotta di Betlemme. Oh se noi fossimo persuasi di queste grandi verità: che quanto più noi amiamo di essere oscuri, di tenerci nascosti, di vivere lontani dall’ammirazione del mondo e dalle sue frivole conversazioni, tanto più Iddio si avvicinerà a noi, ci parlerà al cuore, ci farà godere della sua amabile presenza e delle sue consolazioni! Come ameremmo di più la vita di ritiro! Come cercheremmo meno di metterei in evidenza! Quanta minor cura avremmo di attirare su di noi gli altrui sguardi! E quanta maggior pace godremmo!

MEDITAZIONE TERZA.

Sopra la capanna di Betlemme.

Mediteremo sopra la povertà e abiezione della capanna di Betlemme, in cui volle nascere il Divin Salvatore. C’immagineremo di vedere il Bambino Gesù che accetta con gioia di nascere nella povertà, nello spogliamento e nella miseria, avendo stabilito da tutta l’eternità di dare fin dalla sua nascita la preferenza a tutto ciò che lo separa dal mondo e lo abbassa e lo umilia, per insegnare anche a noi il distacco dalla terra, l’amore agli abbassamenti e alle umiliazioni. Prostrandoci dinanzi a lui col nostro spirito lo adoreremo umilmente e lo pregheremo di mettere nel nostro cuore quei sentimenti, che ha manifestato di avere nel suo all’atto della sua nascita.

PUNTO 1°.

Povertà della capanna di Betlemme.

Che povera stanza era quella in cui nacque il Re del Cielo! Una misera stalla destinata a rifugio degli animali, mal difesa dalle intemperie dell’aria, sprovvista di ogni mobile, con soltanto una meschina mangiatoia e un po’ di paglia. Perché si abbassò cotanto Colui che non poteva essere degnamente albergato nel più sontuoso palazzo, e a cui nemmeno gli Angeli avrebbero potuto preparare una degna abitazione. Egli ci volle in tal modo insegnare che conto si debba fare delle cose del mondo. Difatti, che cosa sono mai davanti a Dio l’oro, l’argento, le pietre preziose, i più ricchi abbigliamenti, i più sontuosi palazzi, e tutte le grandezze mondane? Tutto ciò davanti a Dio non conta più del fango e della spazzatura. Ma quanti purtroppo mettono la loro felicità nel possesso del danaro, nel godersi le comodità e gli agi della vita, nelle belle comparse, nelle ricche vesti, nelle pompe del secolo, nelle più sciocche vanità! – Noi che in effetto abbiamo rinunziato ai beni caduchi della terra possiamo dire d’avervi rinunziato altresì coll’affetto? Ah! se finora il nostro cuore ha ceduto al fascino delle misere cose di questo mondo, non sia più così dinanzi al grande insegnamento di Gesù Bambino.

PUNTO 2°.

Confronto della capanna di Betlemme con l’anima nostra.

Ben a ragione ci sorprende la degnazione che ebbe i l Re del Cielo col nascere in una capanna sì misera; ma ancora più dobbiamo meravigliarci della degnazione, che Egli ha, di venire a prendere dimora nell’anima nostra per mezzo della Santa Comunione. Difatti, paragonando l’anima nostra a quella capanna, non dobbiamo riconoscere che la miseria della nostra anima è di gran lunga superiore a quella della capanna betlemmitica? Tutta la povertà di questa era solo materiale, mentre l’anima nostra è misera spiritualmente, disadorna delle cristiane virtù, e sordida per tanti peccati. Eppure Egli si degna di visitarla e di abitarvi, oh quanto frequentemente! Ma dovrà sempre trovare questa sua casa così poco degna di Lui? Se fossimo stati là a Betlemme, e avessimo saputo che in quella capanna doveva nascere il Re del Cielo, che premura ci saremmo presa di mondarla e purificarla da ogni sozzura, di ripararla dal rigore della stagione, di provvederla del necessario! Avremmo fatto tutto il possibile perché quell’abitazione di animali diventasse una stanza meno indecente per il Divin Salvatore. – Ora questo dobbiamo fare nell’anima nostra, perché quando Gesù viene in essa con la Santa Comunione vi si trovi meno a disagio. Sebbene sia vero che anche col peccato veniale possiamo accostarci quotidianamente alla Comunione, tuttavia il nostro studio ha da essere quello di evitarlo, di staccarne affatto il cuore e di adornare l’anima nostra delle virtù cristiane e religiose.

PUNTO 3°.

I due animali della capanna ài Betlemme.

Secondo l’antichissima tradizione, ritenuta dalla Chiesa nella sua liturgia, c’erano nella capanna di Betlemme un bue e un giumento, che stando dappresso alla mangiatoia, in cui fu deposto il Bambino Gesù, col loro fiato mitigavano il rigore della fredda aria notturna. Grande argomento di umiltà! Canta la Chiesa: Colui che risplende nei cieli di gloria eterna, giaceva nel presepio tra due animali! Come poteva maggiormente abbassarsi il Re del cielo per insegnare anche a noi l’abbassamento? Eppure quanto facilmente rigettiamo tale insegnamento! Noi cerchiamo tutto ciò che serve a conciliarci la stima degli uomini, non vogliamo cedere nei nostri puntigli, ci irritiamo se siamo ripresi di qualche mancamento, andiamo dietro alle vanità mondane. Dinanzi all’infinita maestà del Signore così umiliata, ceda ogni pretesto che ci tragga a far atti di superbia e c’induca ben anche a commettere gravi errori con danno incalcolabile dell’anima nostra e con scandalo delle anime altrui. Ecco la più bella disposizione del nostro cuore per diventare abitacolo gradito a Gesù.

MEDITAZIONE QUARTA.

Sopra i sentimenti di Maria e di Giuseppe.

Mediteremo sopra i sentimenti di Maria e di Giuseppe nella nascita di Gesù Bambino. C’immagineremo di entrare nella capanna di Betlemme e di vedervi Maria e Giuseppe inginocchiati presso il santo presepio, in atto di profonda adorazione. Ci prostreremo in spirito anche noi, unendo le adorazioni nostre alle loro e pregando il Santo Bambino di volerci rendere partecipi dei sentimenti, che vi ebbero la sua santissima Madre e il suo padre nutrizio.

PUNTO 1°.

Sentimenti di pena di Maria e di Giuseppe.

Quali sentimenti di pena ebbero nel loro cuore Maria e Giuseppe allora che, respinti da Betlemme, furono costretti a entrare nella povera capanna! S. Giuseppe, dalla Divina Provvidenza destinato a essere l’angelo tutelare visibile di Maria, ebbe a soffrire il più grande affanno, non per sé certamente, ma per lei. Per Maria quel luogo gli si mostrava troppo orrido, troppo aspro e inospitale, e pensando poi chi Ella fosse, doveva sentirsi nel petto scoppiare il cuore dall’ambascia. Maria Vergine dal canto suo quanto pure doveva soffrire al pensiero che il suo Divin Figlio, Creatore e Signore del cielo e della terra, doveva nascere in quel meschino tugurio! Con tutto ciò i santi sposi chinarono la fronte ai disegni di Dio, e riconoscendo che così piaceva al Signore, conformarono pienamente la loro volontà alla sua. Ecco la virtù, che noi pure dovremmo esercitare continuamente. Pur troppo noi vorremmo sempre le cose a modo nostro; Dio invece le vuole a modo suo. Noi vorremmo sempre sanità, e invece Iddio talora ci vuole infermi; noi vorremmo sempre essere ben voluti, onorati e rispettati, e Iddio permette che siamo non curati, scherniti e perseguitati; noi vorremmo che non ci mancasse mai nulla, e invece Iddio dispone che ora ci troviamo senza una cosa, ora senza un’altra. Ma tutto ciò che Dio vuole è senza dubbio per la sua gloria e per il bene nostro. Come dunque non conformarci sempre alla sua santa volontà?

PUNTO 2°.

Sentimenti di gioia di Maria e di Giuseppe.

Ai sentimenti di pena sottentrarono ben preso in Maria e Giuseppe i sentimenti della più ineffabile gioia, appena nacque il sacrosanto Bambino. Maria per la prima vide a sè dinanzi il vezzosissimo suo figlio, che la guardava, le sorrideva e le tendeva le candide manine. Per impeto d’ineffabile amore lo adorò dicendo: O Gesù Bambino, nato da Dio prima del tempo, nato da me or ora, tu sei il mio figlio e il mio Dio, ed io sono la tua madre, la Madre di Dio. O Gesù, Salvatore del mondo, Re del cielo e della terra, tu sei il mio tesoro, il mio amore, la gioia del mio cuore! San Giuseppe da parte sua, sebbene come semplice custode di Gesù non potesse esprimergli i medesimi sentimenti, tuttavia anch’egli invaso dalla gioia più viva e più santa non lasciava di sfogare il suo cuore nei più teneri accenti. E noi quali sentimenti proviamo ricevendo Gesù nel nostro cuore per la S. Comunione, o venendo a visitarlo nel SS. Sacramento? Non dobbiamo confessare che purtroppo le nostre comunioni e le nostre visite sono fredde, senza gusto spirituale e senza gioia alcuna del cuore?

PUNTO 3°.

Sentimenti di fede di Maria e di Giuseppe,

I sentimenti di gioia, che riempirono Maria e. Giuseppe per la nascita di Gesù, erano la conseguenza dei sentimenti vivissimi della loro fede. Gesù Bambino, pur essendo vero Dio, sotto il velo della carne nascondeva al tutto la sua divinità, e nella carne stessa non appariva nulla più di quello che sono gli altri bambini appena nati. Di modo che era debole, sofferente, bisognoso di venir ricoperto, allattato, sostentato; come gli altri bambini piangeva, dormiva, non mostrava intelligenza di sorta; insomma sebbene a differenza di tutti gli altri bambini non avesse in sé il peccato e le impure sue conseguenze, era tuttavia, come dice S. Paolo, nella somiglianza della carne di peccato, umiliato e passibile: in similitudinem carnis peccati (Rom., VIII, 3). Ora a riconoscere che questo Bambino era vero Dio, si richiedeva una vivissima fede. E tale fu propriamente la fede di Maria e di Giuseppe. Entrambi riconobbero in Lui il vero Figlio di Dio, incarnatosi e fattosi uomo per la salute del mondo, e come tale Maria lo adorò: Ipsum quem genuit, adoravit. E alle adorazioni di Maria si unirono ben tosto quelle di S. Giuseppe. Oh se anche noi avessimo nel cuore una fede somigliante a quella di Maria e di Giuseppe! La fede sarà tanto più viva in noi, quanto più sull’esempio di Maria e di Giuseppe saremo puri ed umili di cuore.

MEDITAZIONE QUINTA.

Sopra gli atti interiori del Bambino.

Mediteremo sopra gli atti interiori del Bambino Gesù appena nato. C’immagineremo di vedere questo Santo Bambino, che nel presepio si considera come sull’altare, di dove, sacerdote e vittima ad un tempo, si offre al suo Eterno Padre in espiazione dei nostri peccati. E prostrati in spirito dinanzi alla sua culla lo adoreremo e ringrazieremo di quanto comincia a operare in nostro vantaggio e gli prometteremo di non mandare a vuoto ciò che Egli ha tosto fatto per noi appena nato.

PUNTO 1°.

Gesù Bambino si offre al suo Divin Padre.

Secondo la testimonianza di S. Paolo, Gesù Cristo, entrando nel mondo, disse a Dio suo Padre: Tu non hai gradito i sacrifizi di quelle vittime, che furono precedentemente offerte; e perciò a me hai formato un corpo, con cui io fossi atto a venir immolato in luogo di tutte le vittime precedenti per la tua gloria e per la salute del mondo, e questo corpo io te l’offro in espiazione dei peccati degli uomini fin da questo momento, compiendo perfettamente la tua santa volontà (Hebr., X, 5-7). Così dunque Gesù appena nato si offre vittima al suo Divin Padre per ripararlo delle nostre ingratitudini, colpe, tiepidezze, debolezze e miserie, e per espiarle comincia tosto a offrirgli quei patimenti che soffre nel suo tenero corpicciuolo. O vittima adorabile, come non esaltare e ringraziare la vostra bontà infinita! Con quanta prontezza, con quanto zelo voi v’immolate per la mia salute! Ma se Gesù si offre tosto, appena nato, in sacrifizio al suo Divin Padre, c’insegna altresì che noi, dovendo imitarlo come nostro modello, dobbiamo menare volentieri una vita di sacrifizio per espiare i tanti peccati da noi commessi e cooperare in tal guisa alla nostra salvezza. Miseri noi se non siamo fermamente risoluti di immolare a Dio la nostra volontà, il nostro carattere, il nostro io, l’amore dei nostri comodi e delle nostre soddisfazioni! Molto facilmente lasceremo la via del bene per metterci su quella del disordine e della rovina.

PUNTO 2°.

Gesù Bambino prega il suo Divin Padre.

Gesù Bambino appena nato, oltre all’offrirsi al suo Divin Padre come vittima di espiazione per i nostri peccati, gli rivolse pure le più efficaci preghiere a nostro vantaggio, per implorarci la sua misericordia e impetrarci tutte le grazie, di cui abbiamo bisogno. Sì, Gesù ha cominciato le sue preghiere fin dal presepio, preghiere non espresse con parole, ma con lacrime, come furono poi altresì quelle offerte al suo Padre celeste dall’alto della croce. Nei giorni della sua carne, dice S. Paolo, offerse preghiere e suppliche con forti grida e con lagrime: in diebus carnis suae preces supplicationesque… cum clamore valido et lacrimis offerens (Eebr., V, 7). E quanto furono ferventi tali preghiere! Costituito nostro pontefice, resosi simile in tutto a noi, fuorché nel peccato, conoscendo in se stesso le infermità e miserie nostre, ne sente la più tenera compassione, e volendo tosto alleviarle implora col massimo fervore su di noi la misericordia e la grazia di Dio. Oh bontà grande del mio Gesù! Voi appena nato rivolgete subito il pensiero a me, alla mia meschinità e impotenza, e per me indirizzate al vostro Divin Padre i sentimenti del vostro cuore e le lagrime de’ vostri occhi, supplicandolo che si muova a pietà di me, che mi perdoni i miei peccati e mi conceda i suoi celesti favori! Voi senza avere alcun bisogno di pregare, tuttavia appena nato, non curando i vostri patimenti, pregate per l’anima mia, e io con tanto bisogno che ne ho, anche in mezzo ai patimenti, penso così poco a pregare! Concedetemi, o caro Gesù, che comprenda l’importanza e la dolcezza della preghiera, e preghi anch’io e preghi con fervore.

PUNTO 3°.

Gesù Bambino glorifica il suo Divin Padre.

Gesù Bambino appena nato rinnovò l’atto di glorificazione, che al suo Divin Padre aveva fatto sin dal primo istante della sua Incarnazione. Giacché, siccome nessun’altra opera, neanche quanto l’Incarnazione del Verbo eterno, Così ora che l’Incarnazione di lui si era manifestata al mondo con la sua nascita, Gesù dice con slancio: la mia gloria è un niente: gloria mea nihil est (Jo., VIII, 54), non mi preoccupo che della gloria di mio Padre: honorifico Patrem meum (Jo., VIII, 49). Così Egli rese tosto a lui onore e gloria infinita per tutto ciò che aveva stabilito si avesse a fare per la salvezza degli uomini. Che zelo ammirabile! Che purità di amore! Avviciniamoci a questo fuoco sacro, che arde in petto al Bambino Gesù per purificare le nostre intenzioni, guaste così spesso da mire ambiziose, che ci tolgono il merito delle nostre opere, e per accenderci anche noi di zelo per i grandi interessi della gloria di Dio. Non siamo noi tanto caldi per gli interessi della gloria nostra? Per acquistare, o per non perdere questa gloria, che cosa non diciamo, che cosa non facciamo, che cosa non soffriamo? E per la gloria di Dio invece siamo tanto freddi, tanto trascurati? Impariamo, sì, impariamo da Gesù Bambino a non dire, a non fare, a non desiderare nulla per l’amor proprio, per la lode e riputazione nostra, ma tutto per l’onore e la gloria di Dio.

MEDITAZIONE SESTA.

Sopra gli omaggi degli angeli.

Mediteremo sopra gli omaggi resi dagli angeli al Bambino Gesù. C’immagineremo di vederli raccolti intorno al presepio per adorare il Divin Salvatore, lodarlo e benedirlo. Ci uniremo a loro, pregando questi beati spiriti che vogliano congiungere le loro e le nostre adorazioni e benedizioni in una sola oblazione, che riesca così meno indegna del Divino Infante.

PUNTO 1°.

Gli angeli adorano il Bambino Gesù.

Essendo il Divin Salvatore nato pressoché incognito agli uomini, ancorché fosse stato predetto da tanti profeti e aspettato da tutto il mondo, tuttavia ben lo conobbero gli Angeli. Ubbidienti all’ordine del Padre celeste di adorarlo, secondo che ci apprende S. Paolo: cum introduca Primogenitum in orbem terme dicit: Et adorent eum omnes angeli Dei (Hebr., I, 6), discesero tosto dal Paradiso per prosternarsi in adorazione intorno al loro sovrano sotto la forma di tenero bambino. E chi può dire la loro ammirazione, il loro slancio d’amore e di ossequio davanti alle umiliazioni dell’eterno Figlio di Dio! Quanto più lo vedono impicciolito, tanto più riconoscono la sua infinita grandezza e tanto più si fanno con riverenza ad adorarlo. Confrontando le loro perfezioni con quelle di Lui, si riconoscono un nulla al suo cospetto e sentono ad ogni modo che quanto vi ha di bello e grande in loro, da lui l’hanno ricevuto. E col sentimento della più viva gratitudine lo ringraziano e lo esaltano, e confessano che a Lui solo si devono onore e gloria, lode e benedizione per tutti i secoli dei secoli. Oh il bell’esempio, che ci danno in tal modo, del come dobbiamo diportarci con Gesù, che si trova pure realmente presente tra di noi nei Santi Tabernacoli! Quando entriamo nelle dimore del Dio Sacramentato, portiamovi gli stessi sentimenti e affetti, che ebbero gli angeli nella grotta di Betlemme.

PUNTO 2°.

Gli Angeli annunziano la nascita di Gesù.

Gli angeli, non paghi di adorare essi il Santo Bambino, ardono della brama di guadagnargli altri adoratori. Uno, che piamente si crede essere stato l’arcangelo Gabriele, a nome di tutti gli altri, prendendo vaghissima forma umana, apparve, in una fulgidissima luce, ad alcuni pastori che stavano vigilando alla custodia del gregge nei dintorni di Betlemme. E poiché per quella luce i pastori furono presi da gran timore, l’Angelo li rassicurò tosto dicendo: Non temete, perché io vengo ad annunziarvi una grande allegrezza, non solo per voi, ma anche per tutto il popolo: oggi è nato in Betlemme, città dì David, il Salvatore, che è Cristo, il Messia aspettato da tutti i secoli; ed ecco il segnale a cui lo riconoscerete: troverete un bambino involto in pannicelli, messo dentro un presepio. Quando si ama Iddio, si ha zelo di farlo conoscere e amare anche dagli altri, e quanto più vivo è l’amore a Dio, tanto più ardente è lo zelo per acquistargli altri cuori amanti. Le persone religiose, che si sono consacrate a Dio per tendere meglio alla loro perfezione, si sono pure consacrate a Lui per zelare la sua gloria e la salute delle anime in quelle opere apostoliche, le quali

mirano a farlo meglio conoscere, amare e servire. Questo ufficio lo compiamo noi davvero nel debito modo e con rettitudine d’intenzione?

PUNTO 3°.

Gli angeli cantano gloria a Dio e pace agli uomini.

All’Angelo che era apparso ai pastori, si unì la moltitudine degli altri spiriti celesti lodando Dio e dicendo: Gloria a Dio negli altissimi cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà. Gloria a Dio negli altissimi cieli, perchè la nascita del Bambino Gesù ha operato questo primo effetto di procurare a Dio, che abita nel più alto dei cieli, una gloria infinita, essendoché l’abbassamento a cui si è assoggettato Gesù nella sua Incarnazione e nascita, è per Iddio un omaggio di valore infinito. Pace in terra agli uomini di buona volontà, perché la nascita di Gesù ha operato questo secondo effetto di apportare la vera pace a tutti quegli uomini, che, essendo animati da buona volontà, amano praticamente la legge divina, operando il bene e fuggendo il peccato. Anche noi siamo venuti al mondo e vi dobbiamo vivere per dar gloria a Dio. Se persino il sole, la luna, le stelle, le piante, gli animali e tutte le altre creature irragionevoli esistono per dar gloria a Dio, quanto più noi dotati di ragione e d’intelligenza! Il che dobbiamo fare in due modi: praticando opere buone ogni volta che ce ne viene l’opportunità: facendo tutte le nostre azioni, anche indifferenti, per l’onore di Dio. Solo così acquisteremo tesori di meriti per l’eternità; solo così gusteremo intanto su questa terra un preludio di quella felicità, che si gode in cielo nel possesso della pace del Signore, pace che Dio dà realmente a godere a quelli che lo amano e lo servono, anche in mezzo alle tribolazioni del mondo.

MEDITAZIONE SETTIMA.

Sopra la condotta dei pastori.

Mediteremo sopra la santa condotta tenuta dai pastori chiamati dall’Angelo alla grotta di Betlemme. C’immagineremo di vederli davanti alla culla del Bambino Gesù, in atto di vagheggiarlo con gioia ineffabile e di adorarlo col più profondo rispetto. Prostrandoci in spirito accanto a loro, adoreremo anche noi il Divin Salvatore e lo ringrazieremo d’averci concessa una fortuna anche maggiore di quella concessa ai pastori, potendolo noi ricevere dentro i nostri cuori per mezzo della Santa Comunione.

PUNTO 1°.

I pastori si recano prontamente alla capanna.

Con quale prontezza i buoni pastori si recarono alla grotta di Betlemme! Il Vangelo ci dice che appena gli Angeli si furono ritirati da loro verso il cielo, i pastori presero a dirsi l’uno all’altro: Andiamo sino a Betlemme a vedere quello che è ivi accaduto, come il Signore ci ha manifestato. E andarono con prestezza: et venerunt festinantes (Luc., II, 15). Lasciarono dunque i loro armenti e partirono senza indugio, ancorché fosse nel cuor della notte. Le buone ispirazioni sono messaggi celesti che c’invitano a lasciare il male e a operare il bene. Quante volte non ne facciamo caso o lasciamo che si spengano nel nostro cuore, perché differiamo a metterle in pratica! Se in questi santi giorni si faranno sentire più forti le ispirazioni della grazia, che ci chiamino a far sacrifizio di noi stessi, del nostro amor proprio, delle nostre comodità, per dedicarci interamente all’amore del Bambino Gesù, arrendiamoci ad esse con tutta prestezza. I pastori assecondano senza più l’invito dell’angelo, perché sono uomini umili e semplici e credono tosto a quanto è stato loro detto. Così anche noi ci arrenderemo facilmente alle divine inspirazioni, se avremo umiltà e semplicità, scacciando dall’animo nostro quei sentimenti di orgoglio, che soli sono la causa, per cui non seguiamo l’invito dei celesti messaggi.

PUNTO 2°.

I pastori adorano Gesù nella capanna.

I pastori arrivati alla grotta v i trovarono Maria e Giuseppe e il Bambino giacente nella mangiatoia. Con che devozione e fede l’adorarono! Oh come, piegati i ginocchi e giunte le mani, saranno stati estatici a rimirarlo! Ed ecco a quali persone il Signore manifestò se medesimo prima che ad altre. Oh come il Signore intende le cose a rovescio del mondo, il quale si mostra sempre incantato dallo splendore delle ricchezze, della gloria e dell’umana sapienza, dando le sue preferenze a coloro che di tutto ciò sono ammantati! E la condotta che Gesù tiene dalla nascita è quella che seguirà mai sempre; perciocché, dice San Paolo, il Signore elegge le cose stolte del mondo per confondere i sapienti, le cose deboli per confondere le forti, le cose ignobili, le spregevoli e quelle che sono reputate un nulla per distruggere quelle che sono stimate assai, affinché non vi sia alcun uomo che abbia ardire di darsi vanto dinanzi a lui (I Cor., I, 27-29). – Di qui dobbiamo imparare che non la nostra abilità, sapienza, valentia induce il Signore a farci favori speciali e a chiamarci all’onore di compiere le sue grandi imprese, ma l’umiltà, la semplicità, la rettitudine. Non lasciamo, no, di mettere il nostro impegno ad acquistare scienza, idoneità e pratica per compiere bene certi uffici, essendo pur questo il nostro dovere; ma più di tutto adoperiamoci ad avere in noi quelle virtù, per le quali soltanto possiamo piacere a Dio, ed essere da lui prescelti e aiutati a far del bene.

PUNTO 3°.

I pastori ritornano giubilanti dalla capanna.

I pastori, poiché ebbero resi i loro omaggi al Bambino Gesù, se ne ritornarono alle loro abitazioni pieni di santo giubilo, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e veduto, conforme era stato ad essi predetto, di guisa che tutti quelli, che li sentivano a parlare, restarono meravigliati delle cose da essi riferite ( Luc., II, 18, 20). Ecco quello che dovremmo fare anche noi quando il Signore per grazia sua ci fa sentire le dolcezze della vita cristiana e delle pratiche devote. Col nostro contegno, più ancora che colle parole, dovremmo glorificare e lodare Iddio al cospetto degli uomini, dimostrando loro coi fatti che la vita veramente cristiana, anziché riuscire di peso, arreca consolazioni e gioie ineffabili; che sono veramente beati coloro che abitano per la grazia, per l’orazione, e per la frequenza dei Sacramenti, nella casa del Signore; che vale infinitamente più un’ora passata davanti al tabernacolo, che non mille giorni trascorsi nelle case dei peccatori: così il nostro prossimo sarebbe indotto dal nostro esempio a fare anch’esso la prova.

CORONCINA DELLA MISERICORDIA o DELLE SANTE PIAGHE di N. S. GESU’ CRISTO

CORONCINA DELLA MISERICORDIA O DELLE SANTE PIAGHE DI N. S. GESU’ CRISTO

Immagine di Sr. Marie Chambon (1841-1907 A.D.), suora del Convento della Visitazione di Maria, Chambery, Francia – dove Nostro Signore manifestò la Devozione del Rosario delle Sante Piaghe, nel 1867

Coroncina della Misericordia

ossia delle Sante Piaghe

Questa coroncina si comincia con queste invocazioni:

– O Gesù, Divin Redentore, siate misericordioso per noi, per il mondo intero. Così sia.

– Dio forte, Dio santo, Dio immortale,  abbiate pietà di noi e del mondo intero. Così sia.

– Grazia e misericordia, o mio Gesù, nei pericoli presenti; copriteci col vostro Sangue preziosissimo. Così sia.

– O Padre Eterno, fateci misericordia, per il  Sangue di Gesù Cristo, vostro unico Figlio: fateci misericordia, noi ve ne scongiuriamo. Così sia

Indi sui grani piccoli della corona si ripete per dieci volte

Gesù mio, perdono e misericordia per i meriti delle Vostre Sante Piaghe.

(Ind. 300 gg. o. v.)

E sui grani grossi:

Eterno Padre, vi offro le Piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo per guarire quelle delle anime nostre.

(Ind. 300 gg. o. v)

Si termina la corona ripetendo tre volte quest’ultima preghiera.

preghiera: Eterno Padre, etc.

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“Le invocazioni delle Sante Piaghe

otterranno una vittoria imperitura alla Santa Chiesa “.

LE 17 PROMESSE di GESU’ CONCESSE A COLORO CHE

PRATICANO LA DEVOZIONE DEL ROSARIO DELLE SANTE PIAGHE :

1. Ad ogni parola pronunciata della Coroncina delle Sante Ferite, permetto che una goccia del Mio Sangue cadrà sull’anima di un peccatore.

2. Ogni volta che offri a Mio Padre i meriti delle Mie Divine Ferite, otterrai un’immensa fortuna.

3. Le anime che avranno contemplato ed onorato la mia corona di spine sulla terra, saranno la mia corona di gloria in cielo.

4. Concederò tutto ciò che mi viene chiesto attraverso l’invocazione delle mie Sante Piaghe. Si otterrà tutto, perché ciò avverrà attraverso i meriti del Mio Sangue, che ha un prezzo infinito. Con le mie Piaghe ed il mio Divino Cuore, tutto può essere ottenuto.

5. Dalle mie piaghe procedono frutti di santità. Come l’oro purificato nel crogiolo diventa più brillante, così devi mettere la tua anima e quella dei tuoi fratelli nelle Mie sacre Piaghe; lì saranno perfezionate come l’oro nella fornace. Puoi sempre purificarti nella mie Piaghe. 

6. Le mie Piaghe ripareranno le tue. Le mie Piaghe copriranno tutte i tuoi difetti. Coloro che le onorano avranno una vera conoscenza di Gesù Cristo. Nella loro meditazione, troverai sempre nuovo amore. Le mie Piaghe copriranno tutti i tuoi peccati.

7. Immergete le vostre azioni nelle mie ferite ed esse prenderanno valore. Tutte le tue azioni, anche le più piccole, intrise del Mio Sangue, acquisiranno solo da questo meriti infiniti e soddisferanno il Mio Cuore.

8. Nell’offrire le Mie Piaghe per la conversione dei peccatori, anche se i peccatori non sono convertiti, avrai lo stesso merito davanti a Dio come se lo fossero.

9. Quando hai qualche problema, qualcosa da soffrire, mettilo rapidamente nelle mie ferite ed il dolore sarà alleviato.

10. Vicino agli ammalati deve  ripetersi spesso questa invocazione : “Mio Gesù, perdono e misericordia per i meriti delle tue piaghe!” Questa preghiera consolerà l’anima ed il corpo.

11. Un peccatore che dirà la seguente preghiera otterrà la conversione: ” Eterno Padre, ti offro le ferite di nostro Signore Gesù Cristo per guarire quelle delle nostre anime”.

12. Non ci sarà morte per l’anima che si rifugia nelle Mie Sacre Ferite; esse danno vita vera.

13. Questa coroncina è una contrapposizione alla Mia giustizia; essa reprime la mia vendetta.

14. Coloro che pregano con umiltà e meditano sulla Mia Passione, un giorno parteciperanno alla gloria delle Mie Divine Piaghe.

15. Quanto più avrai contemplato le mie dolorose ferite su questa terra, tanto più alta sarà la tua contemplazione di esse, gloriose in cielo.

16. L’anima che durante la vita ha onorato le ferite di nostro Signore Gesù Cristo e le ha offerte al Padre Eterno per le anime del Purgatorio, sarà accompagnata al momento della morte dalla Santa Vergine e dagli Angeli; e Nostro Signore sulla Croce, tutto brillante nella gloria, la riceverà e la incoronerà.

17. Le invocazioni delle Sacre Ferite otterranno una vittoria imperitura alla Santa Chiesa.

PREGHIERA ALLE CINQUE PIAGHE

SIGNORE mio Gesù Cristo, adoro la Piaga della vostra mano destra, e per quel sangue che dalla medesima versaste, vi prego a darmi una invincibile fortezza contro i miei capitali nemici: demonio, mondo e carne, onde io possa dire col Profeta; La vostra destra mi ha difesa dalle insidie infernali; la vostra destra operò in me ogni virtù e benedizione. Amen. Pater, Ave, Gloria

Signor mio Gesù Cristo, adoro la Piaga della vostra mano sinistra e per quel sangue che dalla medesima versaste, vi prego a munirmi con lo scudo di una viva Fede, di una ferma Speranza e di una Carità perfetta, per non avermi a trovare nella valle di Giosafat con i reprobi alla sinistra. Amen. Pater, Ave , Gloria .

Signor mio Gesù Cristo, adoro la Piaga del vostro Piede destro e, per quel sangue che dalla medesima versaste, vi prego a guidarmi per il diritto sentiero delle sante Virtù, perchè giunga a quel beato fine per cui mi avete creato e redento. Amen . Pater, Ave. Gloria.

Signor mio Gesù Cristo, adoro la Piaga del vostro Piede sinistro e, per quel sangue che dalla medesima versaste, vi prego ad innamorarmi dei patimenti e delle umiliazioni, perché, morto a me stesso, viva unicamente in Voi, che siete la Via, la Verità, e la Vita … Amen. Pater, Ave, Gloria.

Signor mio Gesù Cristo, adoro la Piaga del vostro SS. Costato, e del vostro Cuore amoroso, e per quel sangue e quell’acqua che dalla medesima versaste, vi prego a non permettere, che io passi all’ altra vita senza esser munito dei SS. Sacramenti da quella misticamente emanati, affinché esali lo spirito mio in quel Porto sicuro dì eterno riposo. Amen. Pater, Ave, Gloria.

Adoramus te, Christe et benedicimus tibi;

Quia per Sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Oremus.

Deus, qui Unigeniti Filii tui Domini nostri Jesu Christi Passione, et copiosa per sancta vulnera sui Sanguinis effusione humanam naturam peccato perditam reparasti, concede propitius, ut qui ejus Stigmata venerando colimus, haec in nostris cordibus impressa moribus et vita teneamus, Per eumdem Christum etc.

Signor mio Gesù Cristo, per la vostra SS. Vita , Passione, e Morte, per la crudelissima Coronazione di Spine, e per i sublimi meriti di Maria Vergine Addolorata vostra beatissima Madre, e di tutti i Santi, caldamente vi supplico ad esaltare sempre più la S. Romana Chiesa, ad unire in pace i Principi Cristiani, a distruggere l’Eresie, a conservare nella Grazia i Giusti , a convertire i peccatori e gli increduli, a liberare le anime purganti, e a concedermi il frutto delle Sante Indulgenze, affinché tutti cantiamo in eterno le vostre misericordie. Amen”. Pater, Ave, Gloria.

Domine, exaudi Orationem meam.

Et clamor meus ad te veniat.

Oremus.

Ecclesiae tuae, quæsumus, Domine, preces placatus admitte, ut destructis adversitatibus, et erroribus universis, secura tibi serviat libertate.

Deus omnium Fidelium Pastor et Rector, Famulum tuum Gregorium, quem Pastorem Ecclesiæ tuæ præesse voluisti, propitius respice; da Ei, quæsumus, verbo, et exemplo, quibus præest proficere, ut ad vitam una cum grege sibi credito perveniat sempiternam. Per Christum etc. (per l’adorazione alle Sante Piaghe, 10.000 mila anni di indulgenza)

[“Via del Paradiso” – terza ed. Siena; 1823 -impr.]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (4)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

(4)

La efficienza del sacramento

Pare logico occuparsi di questo: che il Sacramento raggiunga tutti i suoi capi, ossia che diventi realmente efficiente. Tutto quello che abbiamo detto fin qui serve alla efficienza del Sacramento, ma occorre una puntualizzazione più diretta e precisa. Infatti nel Sacramento della Penitenza esistono cause, effetti e loro rapporto: bisogna parlare dei penitenti e di quello che i confessori debbono promuovere nei penitenti.

1. – La causa prima dell’effetto del Sacramento è Dio nella Sua infinita bontà. A Lui non dobbiamo ricordare nulla. Ma esistono delle cause strumentali ed è di queste che ci dobbiamo occupare, perché non sono né incoscienti, né automatiche, e pertanto chiamano in causa coscienza, consapevolezza, diligenza, responsabilità. Causa seconda dell’effetto del Sacramento è il segno sacramentale, scelto da Dio ad essere mezzo della Sua superna larghezza. – Il segno sacramentale consta, come accade in tutti i Sacramenti, di materia e di forma. Materia prossima del Sacramento della Penitenza sono i ben noti atti del penitente. Si ritenga il principio generale che il confessore ha la responsabilità di curare che gli atti del penitente siano buoni. Non ci dilunghiamo su tutta la dottrina relativa alla accusa dei peccati ed alla integrità formale della accusa, perché tale dottrina è troppo nota ed ampiamente e dettagliatamente proposta negli accreditati testi di teologia morale. Basta il richiamo. Ecco quello che in merito ci occorre dire. Potranno mutare leggi positive della Chiesa, siccome sono mutate la legge e la obbligazione relative alla astinenza e al digiuno, ma non muta affatto la obbligazione della integrità, almeno formale, della accusa. Riteniamo sia necessario ribadire questo perché taluni andazzi liturgici, dei quali si parla, e dei quali non si può giustificare né la legittimità, né la ignoranza teologica, pare riducano l’accusa dei peccati a un semplice intermezzo tra coreografie appariscenti e certamente assai adatte a distogliere da un raccoglimento interiore. La Penitenza è e resta, per chiara volontà di Cristo, una scelta autoritativa ed efficace tra due estremi positivi e contrari, quindi un «atto di giudizio». Ora non esisterà mai la possibilità di un giudizio in materia penale dove non esiste la accusa. Sappiamo benissimo che quando l’atto di pentimento si estende a tutti i peccati ricordati, non ricordati e possibili, Dio nella Sua infinita bontà si accontenta della integrità semplicemente formale; ma questo non significa che sia infranto o trascurabile il dovere della stessa integrità. Anche perché, in sovrappiù, questa integrità permette al confessore di compiere i doveri di padre e di maestro.

2. – Tra gli atti del penitente il principale e insostituibile è l’atto di dolore, che, di natura sua, include il proponimento.

Cominciamo da precisazioni fondamentali.

Se l’atto di dolore è talmente importante che la sua assenza rende il Sacramento stesso invalido o per lo meno informe, non può essere soffocato da nessun’altra cosa, sia pure coreografica o comunitaria, e deve raccogliere attenzioni minuziose e coscienti. – Il confessore – giudice non deve giudicare solamente della colpa (se c’è o meno, se è piuttosto l’una che l’altra), ma – poiché la Penitenza è essenzialmente volta alla assoluzione – deve giudicare del «meritum causae», ossia se esista o meno la ragione per la quale possa onestamente assolvere. Questa ragione sono le «disposizioni del penitente» in quanto in qualche modo manifestate (il Sacramento esige il signum) e di queste disposizioni la principale è la penitenza interiore, il dolore vero e soprannaturale. Le conseguenze di questi principi teologici assolutamente certi diventano evidenti.

a) Il confessore non può sempre ed a priori «presumere» che il penitente abbia il dolore dei suoi peccati, anche se il suo presentarsi alla penitenza è già un segno.

b) Una presunzione dovrebbe essere sufficientemente fondata su dati, relativi alla persona, all’ambiente etc.

c) Di fatto, salvo il caso in cui ci sia stata una evidente manifestazione di dolore di tutti i peccati prima della confessione e questa sia appresa dal confessore, in via di massima è piuttosto teorico si dia sempre una presunzione legittima. Ed in via generale bisogna sconsigliarla.

d) Ne viene che ordinariamente il confessore deve formulare un giudizio se il penitente ha fatto o fa l’atto di dolore nella forma richiesta dalla serietà del Sacramento. Questo accertamento non deve diventare un supplizio per il confessore e per il penitente, d’accordo. Ma non può neppure essere preso alla leggera. Consigliamo a tutti di non presumere mai il pentimento adeguato, quando si tratta di anime «dette» pie ed abituate al metodico uso del Sacramento. Riteniamo che il fatto della abitudine di confessarsi costituisca nel numero maggiore dei casi una ragione contro la «presunzione» del dolore. “Ab assuetis non fit passio”. Gli abituati al confessionale sono più degli altri in pericolo di non porre molta attenzione al pentimento. Stiano attenti i confessori su questo punto allorché si tratta di scrupolosi e di anime ansiose: queste, impigliate nei loro scrupoli o nelle loro ansie, vi sono talmente concentrate che spesso — più di quel che si creda – non hanno alcun dolore e fanno confessioni invalide od informi. – È da esortarsi perché la attenzione impiegata per l’atto di dolore sia sempre attiva, cosciente, calda e mai frettolosa o meccanica. Per quanto riguarda, non Dio che perdona, ma il penitente, è l’atto di dolore quello che opera il distacco libero dall’affetto al peccato. La grazia di Dio eleva e convalida agli effetti soprannaturali il distacco dal peccato, ma, se questo non è anche nella chiara coscienza del peccatore, nulla ha da elevare e convalidare e il Sacramento non ha esito. – La confessione delle anime che vivono abitualmente in grazia di Dio e si confessano o solo sottoponendo peccati veniali o addirittura solo presentando peccati preteriti e già rimessi, va soggetta ad un pericolo particolare. L’avversione al peccato veniale non è in genere e psicologicamente così decisa come quella al peccato mortale; si aggiunga la coscienza di una vita sostanzialmente buona e perseverante e la mancanza del ribrezzo per uno stato di mortale e corrotta decadenza; è così facile temere che un sentimento superficiale, abitudinario e affatto insufficiente – sia pure senza alcuna coscienza attuale di commettere una deformità – possa prendere il posto dell’autentico e soprannaturale atto di dolore. – La serietà del penitente la si misura anzitutto dall’atto di dolore e la serietà del confessore dal grado attuale di coscienza che ha e mantiene in tutto questo. La efficienza della penitenza è legata profondamente all’atto di dolore. – La grandezza di efficienza che ha la penitenza interiore o atto di colore, anche se il signum sensibile richiede la sua manifestazione, porta a considerazioni gravi. – La prima è l’alta interiorità che irrora e intride tutto il Sacramento della Penitenza. Abbiamo già notato le differenze che corrono tra la prassi penitenziale e la psicanalisi; qui vale richiamarle, sottolineando che la interiorità del Sacramento della Penitenza non è essenzialmente insita in una sfera di sentimento — pur non escludendolo – , di istinto, di passione, di aggrovigliato subcosciente, ma è allo stesso livello degli atti liberi, intelligenti, nobili, coscienti. Non è la interiorità dei fondali dove si accumulano solo rifiuti ed incubi, ma è la interiorità di quella zona pura e illuminata, fatta per gli incontri forti e sereni con il Padre che sta nei Cieli. – La seconda considerazione è che la volontà sostenuta dalla grazia è il grande motore in questo atto decisorio con il quale l’uomo si stacca liberamente dal peccato, giudica e condanna se stesso lealmente e nobilmente, prima di essere assolto dal confessore. La volontà è il distintivo più efficiente della virile levatura ed un uomo non è mai tanto grande e tanto giusto come quando arriva, senza violenza e senza passione, per motivo ben più alto di se stesso, a condannare umilmente e veritieramente se stesso. Poiché l’atto di volontà con il quale si impone il distacco dal peccato include – a causa del proponimento – anche un aspetto relativo al futuro del quale decide, decreta, impone la linea luminosa, diventa atto di grandezza sovrana, in qualche senso profetica. – Su taluni tentativi che, non da noi, ma altrove si fanno per portare la confessione ad un atto coreografico e ben poco o per nulla interiore non si può che pronunciare la più netta, decisa ed aperta disapprovazione. Solo la ignoranza teologica può commettere certe distruzioni.

3. – La efficienza del sacramento è legata pure alla penitenza imposta in soddisfazione almeno parziale del peccato commesso e perdonato. Questo elemento, ove non fosse curato, diminuirebbe qualcosa nella grande e fondamentale «terapia» delle anime. La minor efficienza dell’opera penitenziale talvolta si concreta in due difetti: monotonia e inadeguazione. La monotonia consiste nell’avere un modulo unico di sole orazioni, distinto solo a proposito della quantità, e assunto per tutti o quasi tutti i casi. E frequente, anche se si deve ammettere che talvolta ha qualche scusante nella allergia dei penitenti agli atti penitenziali. Questa allergia può rivelare, se mai, ai pastori d’anime che tutta la catechesi e tutta la preparazione alla confessione va rinforzata, irrobustita, allargata e metodicizzata. E un sintomo che in se stesso scusa solo fino ad un certo punto. – La inadeguazione è la conseguenza logica della monotonia. Consiste nel fatto che non contiene elementi adatti ad ottenere in un determinato penitente l’effetto capace di riempire una lacuna o stimolare una reazione. In pratica bisogna accogliere il principio che per atti penitenziali non ci sono solo preghiere facilissime da far recitare, ma azioni da far compiere e queste di varietà ben maggiore. – Le «azioni», che non vanno affatto considerate come «unico» atto penitenziale, possono aiutare il penitente ad acquistare una più netta convinzione, una ripresa su se stesso, una indicazione abituale, un antidoto diretto. Si dipana una immensa casistica della quale i confessori zelanti e illuminati sanno tenere conto. Questo va detto specialmente per quelle pie persone, non troppo spiritualmente elevate, delle quali si è detto sopra, che corrono talvolta il pericolo di non fare un atto di dolore sufficiente. In esse la abitudinarietà che fa sbiadire il dolore, fa sbiadire anche più l’atto penitenziale con la sua efficienza. Spesse volte, per il confessore che pensa e fa sul serio, la scelta accurata e la imposizione di atti, anziché di facili e troppo comuni preghiere, costituiscono un grande mezzo per scuotere dalla indifferenza spirituale le anime cosiddette «buone» e diventano uno strumento di vittoria sulla imperseverante mediocrità.

4. – La efficienza del Sacramento della Penitenza è legata pure all’assolvimento del compito di padre e maestro, che il confessore ha oltre quello di giudice. Quando si dice «padre e maestro» non si intende dire che il confessore debba sempre compiere, oltre il giudizio assolutorio e la imposizione dell’atto penitenziale, molti altri atti e avventurarsi in lungaggini. Può benissimo in molti casi assolvere ogni dovere con un solo atto. Ma quello quanto più è breve, tanto più deve essere pensato, ponderato, preparato dal confessore mentre ascolta. E in questa funzione di padre e maestro che il confessore illumina, dipana idee imbrogliate, informa per riparare lacune di nozioni, mette il dito sulla piaga, rivela i lati deboli, fa conoscere il temperamento, indica rimedi, conforta, rasserena, consolida. – Non abbiamo enumerato tutto: il nostro elenco è solo un campione, ma è sufficiente per arrivare ad una conclusione importante: la confessione ben condotta secondo la interna logica della confessione diventa in genere un atto di direzione spirituale di per sé. E a questo punto che si capisce come il Sacramento della Penitenza contenga sempre in qualche misura la direzione spirituale delle anime e come ogni direzione spirituale, anche se non necessariamente, ordinariamente bene si collega per un intrinseco motivo al Sacramento della Penitenza, il foro interno sacramentale al foro interno extrasacramentale. – Di questo completamento dell’ordine sacramentale della Penitenza parleremo appresso. Infatti in genere la confessione, quando si intende al vero e completo bene delle anime, esige di essere integrata da una vera e propria direzione spirituale.

5. – La efficienza del Sacramento della Penitenza è legata pure in qualche modo ad una preparazione remota e prossima. È logico si parli prima di una preparazione remota; la quale impegna assai dal punto di vista pastorale. La prima e insostituibile preparazione remota è la catechesi, sia teorica che pratica, a proposito del Sacramento. La catechesi deve rendere a poco a poco familiari soprattutto i seguenti concetti: Dio, la Legge, la obbligazione morale, il peccato sia veniale che mortale, la redenzione, il Sacramento in tutti i suoi particolari, la virtù e la vita integralmente cristiana alla quale la Penitenza deve conferire. Tra i particolari del Sacramento occorre dare rilievo alla necessità del dolore e del proponimento, alla sua vera natura, alla integrità della accusa. Questa catechesi non basta assolutamente farla alla sola dottrina dei ragazzi o – dove ancora esiste – alla catechesi per gli adulti. Bisogna in una parte o nell’altra farla uscire fuori in tutte le circostanze possibili, nei fervorini (tanto cesso così vuoti ed inutili!), nelle ore di adorazione, in tutte le predicazioni a ciclo come le novene, nelle predicazioni degli esercizi al popolo, dei quaresimali, del mese di maggio etc. Questa catechesi teorica deve essere stimolata, sostenuta ed orientata in modo veemente da questo principio: la catechesi per la confessione è un vero breviario della fede, della morale e della ascetica. Si tratta di un’autentica costruzione della vita cristiana, fissa tutto lo spirito cristiano e tutto l’ordinamento dell’uomo a Dio. La catechesi pratica riguarda la procedura concreta, lo svolgimento, le ragioni di quello svolgimento, le formule, almeno nel loro generale significato, gli stessi atti esterni da compiere, e deve continuamente ammaestrare in modo semplice e vero sulla distinzione dei peccati quanto all’aspetto teologico e quanto all’aspetto morale. Questa catechesi pratica è tanto importante che il primo giudizio su di una popolazione il missionario lo formula quasi sempre dal modo e dalla precisione o meno con cui i fedeli si confessano. In tutto ciò nulla è piccolo, trascurabile o, peggio, risibile; tutto ha invece la sua profonda capacità di impressione pedagogica. La catechesi pratica deve essere inserita nella catechesi teorica, quasi a giusto e necessario complemento e può essere inserita nella preparazione prossima, di cui parliamo subito. – Fa parte della preparazione remota al Sacramento la preparazione dell’ambiente e del sito ove esso viene amministrato. Rimandiamo alle istruzioni date in proposito. Qui richiamiamo solo alcune norme:

a) il confessionale deve essere decente e munito di quanto occorre alla spirituale comodità del penitente;

b) è migliore il confessionale debitamente aerato che nasconda non solo il confessore, ma anche il penitente. Ciò è utile per i confessionali degli uomini: si faccia ben caso come la mancanza di separazione, a mezzo parati, o grata del sacerdote dal fedele, diminuisce la facilità di accesso, di sincerità, di libertà;

c) il confessionale deve essere situato ove non impone una ricerca, una esposizione, degli attraversamenti impegnativi. Con queste circostanze molti fedeli, soprattutto uomini, sono inibiti dal confessarsi;

d) possibilmente ci siano i mezzi segnaletici, che dispensano il penitente – soprattutto se ignorante o imbarazzato – dal fare ricerche di un confessore. Per tutti questi motivi ordinariamente consigliamo, nelle nuove chiese, di mettere i confessionali per gli uomini, ben protetti e chiusi, vicini alle porte di ingresso e non troppo esposti. La preparazione prossima, non solo è conveniente, ma è necessaria. – Essa riguarda anzitutto il penitente. Questi deve mettersi nella situazione di ricordare e di staccare in modo completo la sua anima dal peccato. È difficile pensare possa raggiungere questo scopo senza la preghiera previa, la quale, pertanto, deve essere inculcata. – Egli deve preparare il suo materiale di accusa diligentemente; infatti è da questa diligenza, né superficiale, né infirmata da eccessivi scrupoli, che egli potrà approfondire il ricordo dei suoi atti, in modo da offrire una informazione obiettiva ad una utile direzione spirituale. Per questa diligenza, con tutta probabilità, arriverà a conoscere se stesso e ad individuare le ragioni della immobilità nella via della perfezione. Il dolore dei peccati, anche se deve essere manifestato in confessione, è bene sia eccitato prima della medesima. – Siccome questo dolore è essenzialmente atto di volontà, ma può venire spinto o facilitato dall’affetto, è opportuno che, ad ottenerlo, sia mosso tutto un meccanismo psicologico. Di esso si avvale la serietà grande dell’atto di dolore. Questo meccanismo adiuvante richiede attenzione, raccoglimento, riflessione e tempo per la mozione degli affetti. Sopra abbiamo parlato del pericolo di confessioni nulle od informi al quale soggiacciono specialmente gli abitudinari della confessione. Per essi, la diligenza della preparazione prossima va aumentata, non diminuita. Questo per il pericolo troppo vicino di agire per abitudine, cioè meccanicamente. – Credo che il clero debba ritornare con insistenza su questo punto. – Bisogna diffondere l’uso di servirsi di appositi manuali o fogli, deve propagarsi la consuetudine di fare in comune l’esame di coscienza e l’esercizio per il dolore dei peccati, specialmente facile quando si tratta di bambini. E raccomandabilissimo che si affiggano ai confessionali piccoli direttori per la preparazione e che se ne lascino, inquadrati, degli esemplari sulle sedie o panche dove ordinariamente i penitenti attendono il loro turno. – Noi dobbiamo reagire vivacissimamente alla moda del nostro tempo che è quella di fare tutto correndo, senza profondità di riflessione e, il più possibile, con atti meccanici, in modo disattento e quasi divertito. – Il buon confessore fa anche lui la sua preparazione prossima: si segna, assume la stola, si raccoglie in breve preghiera, mettendosi con questa in assoluta chiarezza davanti al dovere che assolve e davanti all’anima della quale diventa giudice, padre e maestro. Senza questo raccoglimento previo facilissimamente e colpevolmente diventerà meccanico e distratto pure lui.

6. – Per completare le considerazioni sulla efficienza del Sacramento deIla Penitenza, occorre vederlo in un quadro complessivo. Esso è costituito da alcuni elementi che qui enumeriamo. – I due concetti di peccato e di redenzione o giustificazione debbono diventare abituali, profondi, famigliari ed in un certo senso polemici. Si tratta dei due concetti che fanno da sfondo al Sacramento della Penitenza, ne alimentano il bisogno, ne danno l’esatta e valida ragione. Come entrerà nella stima e nell’uso il Sacramento della Penitenza se si dissolve il senso e la condanna del peccato? Abbiamo usato la parola «polemica» e a ragione, perché, per tenere al giusto livello di visibilità e di importanza i concetti di peccato e di redenzione, bisogna prendere fieramente posizione contro l’andazzo del «mondo» il quale sta dissolvendo l’idea del peccato, illudendo, con mistificazione ingannevole e velenosa, che l’uomo non deve avere più preoccupazioni morali. I nostri rilievi in fatto di opinione circa la moralità ci segnalano una discesa ogni anno del livello al quale si colloca il margine dell’osceno. In questo campo si hanno le manifestazioni più vergognose e violente della tentata volatilizzazione del senso di peccato. Dissolto il peccato è dissolto il cristiano, è dissolto tutto l’ordine morale. E non perché il peccato costituisca l’ordine morale, ma perché la sua nozione come peccato lo afferma decisamente. – Attraverso tutta la istituzione ascetica deve crearsi nei fedeli il senso della penitenza, non solo come generosa dedizione a Dio, come rimedio contro la debolezza, ma come necessaria riparazione, anzi come elemento equilibratore della vita. Diciamo «equilibratore» perché gli scompensi creati dai peccati e dai difetti sono una realtà presente, più o meno, nella vita di tutti. E ovvio che il senso della penitenza nasce anche dalla giusta valutazione di se stessi, peccatori e imperfetti, sempre perfettibili. Questa realtà non la si conosce e non la si accetta senza una notevole umiltà. Sicché la penitenza si lega per natura sua alla umiltà e fa da sfondo a tutta la vita cristiana, giustifica un modo di pensare che ci è inoculato da tutta la rivelazione evangelica. – Il Sacramento della Penitenza fa parte di una metodologia cristiana. Ossia: non deve considerarsi il solo singolo Sacramento della Penitenza, ma la sua parabola nel tempo. Infatti, poiché detto Sacramento non è solo rimedio dei peccati passati, ma erogazione di forza contro i possibili futuri, richiede sia usato metodicamente. Chi vuol passare indenne tra le molte tentazioni deve avere il Sacramento della Penitenza come un abituale traguardo a scadenze fisse. Esso non è solo il rimedio alla caduta, ma è l’ordinario sussidio di chi deve combattere nel mondo la sua battaglia per poter serenamente e meritoriamente tornare a Dio Padre. In termini poveri: il Sacramento della Penitenza non è fatto straordinario; esso è invece elemento abituale del quale si arma la vita dei cristiani. – Il Sacramento della Penitenza, quando entra nella vita coscientemente, tiene alto ogni concetto di serietà, giustifica a seconda delle circostanze e delle vocazioni la pratica della austerità, modifica le leggerezze alle quali tenta abituarci la instancabile spinta della materia, sempre nel tentativo di degradare l’uomo e la sua convivenza.

La direzione spirituale

1. – L’argomento è completivo di quello della penitenza, perché lo stesso Sacramento ne contiene, come si è già detto, il nucleo e diventa esigitivo di una direzione spirituale. Questa può essere svuppata all’interno del S acramento e può essere sviluppata al di fuori di esso. Non per nulla esiste un foro interno sacramentale ed un foro interno extrasacramentale. La prima può svilupparsi con il senso del penitente al di là di quanto è necessario dire per la integrità della accusa. Infatti tanto più il confessore può orientare e decidere, in caso di dubbio, quanto più conosce. La seconda ha di natura sua bisogno di una informativa che deve andare oltre quanto è richiesto per la integrità formale nel Sacramento.

2. – La direzione spirituale guida praticamente verso la perfezione il singolo fedele. Diciamo «praticamente» perché la direzione spirituale fornisce certamente, ove occorra, dei principi generali e dà nozioni teoriche, ma, anche senza necessariamente enunciare tali principi, li applica al caso circostanziato e definito da particolari di fatto. Essa pertanto illumina su tutto quanto occorre, indica i mezzi del procresso spirituale, porta alla più dettagliata autoconoscenza, sprona all’esercizio della volontà, risolve i dubbi, snebbia lo spirito dai quanto inutili tormenti, fornisce la visione dall’esterno tanto difficile ad aversi dall’interno, prende quelle decisioni per le quali l’animo del fedele sarebbe tentennante ed incerto. Questi compiti della direzione spirituale rispondono ad altrettanti stati o carenze della vita interiore e basterebbe dir questo per dimostrare la necessità di una direzione spirituale.

3. – Quando si parla di necessità della direzione, si fa una affermazione da intendersi in senso relativo, almeno per quello che sta oltre il dovere del penitente nel Sacramento della Penitenza. – Tutti comprendono che non si tratta della stessa necessità che ha la Penitenza per chi ha peccato mortalmente. Tutti possono vedere che molti fedeli, i quali per ignoranza o per le circostanze in cui vivono non hanno altra direzione oltre quella propria del Sacramento, tuttavia vivono bene ed hanno anche un certo progresso spirituale. Bisogna ricordarsi che Dio supplisce con la Sua grazia molte carenze umane.- Ma, se la Chiesa ha il compito e la divina autorità di guidare le anime, affermare che la direzione spirituale è cosa al tutto superflua e non in qualche modo necessaria sarebbe come attribuire inutilità e irragionevoli pleonasmi all’opera di Dio. In altri termini: se «divinamente» esiste la «funzione», deve essercene l’uso. – Ma oltre questa fondamentale ragione teologica, si possono considerare altre ragioni che mostrano la necessità della direzione spirituale.

a) Vi è una zona, che non appartiene affatto alla psicanalisi, siccome già si è detto all’inizio di questa Nostra lettera, che ha bisogno di essere manifestata e che non può avere il suo dignitoso sfogo ottenendo la necessaria luce se non ordinariamente nel foro interno sacramentale ed extrasacramentale. Si pensi che quello che non può essere espulso diventa facilmente veleno o causa di dolorosi complessi.

b) La umana debolezza è sempre volta a velare se stessa. E difficile conoscersi senza l’ausilio di chi sta fuori di noi. La mancata conoscenza di sé sta all’origine, non solo di inganni e disillusioni interiori, ma ancora di tutti i difetti nella vita di relazione, ossia nei contatti e nella convivenza umani.

c) I dubbi e le incertezze attendono tutti a qualche traguardo. Le depressioni non meno. Le fantasie, i falsi ideali e i non meno falsi entusiasmi hanno spesso bisogno di un solvente o di un registratore esterno. Tutte queste ragioni si trovano ordinariamente coadunate, almeno come allucinazioni o tentazioni, nelle anime che vogliono salire per un cammino di perfezione.

d) La non reazione, la stanchezza, l’afflosciamento, la pigrizia tendono ad aumentare con il crescere delle forze abitudinarie e con il passare del tempo. E tuttavia agiscono in qualunque tempo. Qui la direzione spirituale agisce come stimolo, rialzo del tono, incitamento e continuato progresso. – In realtà molti sacerdoti non hanno più un direttore spirituale. È perché pensano di bastare a se stessi e di non aver bisogno d’altri. Sbagliano, perché resteranno quali sono e progressivamente prigionieri della loro unilaterale visione, inconsci del proprio temperamento, intiepiditi, forse persino atoni. – Alcuni non hanno direzione spirituale per pura pigrizia. Sbagliano essi perché resteranno privi di quella rugiada che in ogni età e perfino nei deserti riporta la freschezza della primavera. Essa ripaga naturalmente quanto il sacerdote ha donato a Dio. È assai difficile che una vocazione si schiuda senza direzione recale, che si abbia la spirituale resistenza a lottare, ad intraprendere il piano decisivo senza l’ausilio di un sacerdote che faccia per noi visibilmente la parte di Dio. L’esperienza dice che le Associazioni cattoliche fioriscono veramente quando vi fiorisce, compresa, invocata e corrisposta, la direzione spirituale. – Essa offre ai sacerdoti il migliore giardino della loro spirituale esperienza e dà loro di cogliere i frutti più maturi.

4. – L’esercizio della direzione spirituale comporta per i sacerdoti che danno questo grande servizio le stesse attitudini e le stesse diligenze che occorrono per confessare e delle quali abbiamo prima parlato. Ma le esigono maggiorate, infatti nella direzione spirituale il campo diviene più vasto, più largo vi è l’impiego della ascetica, più dettagliata la responsabilità. Pertanto riflettano i sacerdoti che, se grande e fondamentale è per loro il dovere di offrire la direzione spirituale a tutte le anime, più grande è l’impegno, più netta la serietà e profondità con la quale vi si debbono applicare. – Siano sempre pronti e serenamente disposti, incoraggino i timidi, ma si guardino dal ricercare penitenti, quasi potesse dar gioia l’esercizio di un potere. Si guardino i sacerdoti dall’offrirsi in esclusiva, dall’impedire che i penitenti liberamente vadano a chiedere l’aiuto di altri sacerdoti. Siano severissimi con se stessi nell’evitare che la direzione spirituale diventi un loro gusto, un mezzo per legare a sé, un istrumento per esercitare un potere su oggetti che non entrano nella sfera di loro competenza. Non presumano entrare in cose che non riguardano il bene dell’anima. Soprattutto si sorveglino, perché non accada loro di rendere i loro penitenti partecipi di tutti i loro difetti e di tutti i loro limiti, delle loro simpatie e delle loro antipatie, dei loro discutibili gusti e non meno discutibili originalità. – La cura delle anime va fatta con la mano degli Angeli, va immersa nell’orazione, deve restare servizio distaccato, sofferenza accettata, generosa rinuncia.

Conclusione

Cari sacerdoti! L’esercizio santo, assiduo, responsabile del Sacramento della Penitenza è il grande «regolatore» della vostra vita. Non abbiamo la «grande sorgente», perché quella è l’Eucarestia. Ma è regolatore. Per dirigere altri, bisogna saper governare se stessi; per illuminare altri, bisogna essere illuminati; per mostrare ad altri la giusta via, deve esserci la coerenza che viene dalla giustizia della propria via. Così non graverà sul confessore la vergogna di non avere e non fare quello che esige da altri. – La santa assiduità nella direzione delle anime finisce con l’impregnare di orrore per il peccato, di sete della perfezione. Arriva a far assorbire la mentalità della purezza e della penitenza. Aprendo il mondo delle anime, tiene lontano il mondo della carne e della umana superbia. L’ufficio di redimere mette in primo piano il continuo problema della propria redenzione. L’azione sacramentale, dove agisce soprattutto Iddio e dove si porta il proprio umile merito, finisce con l’ergersi ad allontanare dalla mente, in modo deciso ed austero, tutti gli orientamenti mentali poco ortodossi, più superficiali e leggeri. Il Sacramento della Penitenza fa diventare austeri con sé, sorridenti con gli altri, perché la visione delle miserie ne rinsalda la obiettiva condanna, mentre apre il cuore ad una paternità senza confini. – Non fate a meno di questo «regolatore» che Dio vi ha dato, intendendo Egli santificarvi con il vostro stesso ministero. Riportate il Sacramento e quanto gli è collegato a quel livello di primato nella formazione del popolo di Dio, al quale Egli stesso lo ha posto. Guardiamoci dalla colpa di far svanire qualcosa di quello che Cristo ha stabilito!

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GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (3)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

(3)

La prudenza nell’esercizio della Penitenza

La prudenza è una virtù cardinale che compone nel modo debito la obiettiva riflessione e deliberazione con la motivata e serena decisione. È una sintesi e per questo è una virtù difficile, non eccessivamente usata e più facilmente svisata in precipitazione o irresolutezza. La prudenza nel Sacramento della Penitenza riguarda il contegno generale e riguarda il giudizio in particolare.

1. – Cominciamo dalla prudenza nel contegno in generale. Consta dei seguenti elementi.

– La netta coscienza della propria umana debolezza, della propria emotività, le brecce nella sfera affettiva, le reazioni comuni agli uomini comuni. Questa conoscenza porta ad una umile accettazione di uno stato di fatto ed a tutte le conseguenze. Per taluni entra utilmente la memoria a documentare la debolezza preferita. Quando si sa di esser debole, non si fa l’eroe. Oggi si sfornano teorie per distruggere questo buon senso; purtroppo tali teorie in uomini non molto provveduti distruggono il buon senso, ma non distruggono la realtà dei fatti e delle condizioni. Si dice che i pericoli li creiamo noi con le inibizioni morali e che pertanto basta annullare le inibizioni morali per annullare i pericoli. – La risposta a questa teoria è data dalle conseguenze della medesima: l’accresciuta immoralità, anticipazione di tutte le brutture, crescente inconsistenza della famiglia, degenerazione del tessuto sociale, dilagare della pazzia e della anormalità. Questo, senza tener conto dell’esame obiettivo della natura, al di fuori di quanto è spaventosamente cresciuta la infelicità degli uomini e, si direbbe, la stessa incapacità di godere, nonostante l’aumento generale e vorticoso del benessere. Qualcuno dice anche che il male non esiste, che, comunque agiamo, siamo tutti buoni. Difatti. Lo spettacolo del simile che mangia il proprio simile – per fermarci solo a quello – cresce a tutti i livelli e qualche volta si esibisce anche dove non dovrebbe. Non anestetizziamo il mondo con teorie stupide e ricordiamoci che un mondo anestetizzato è un mondo prossimo a morire. La debolezza c’è e con essa tutti dobbiamo fare i conti: non basta la pubblicità o la popolarità a coprire le sue insufficienze e le sue vergognose deformazioni.

– La netta coscienza delle debolezze degli altri. -Si conoscono a poco a poco e proprio per questa distribuzione della esperienza nel tempo la cautela deve essere aumentata. Il novellino abbia la umiltà di accettare questo, altrimenti sarà facile per lui cadere. Ora, il sesso, le anormalità ben diffuse, la sfera affettiva in cerca di appoggi, sono argomenti che spingono tutti i confessori a rivestire la autentica corazza. E difficile accorgersi subito come e quanto questi elementi si insinuino nella confessione. Pertanto è necessario sempre sospettarne la presenza, ammetterne la possibilità e contenersi con tutti i riguardi. Tale atteggiamento interiore ed esteriore può subire un certo rallentamento quando si è arrivati a conoscere a fondo di che stoffa è fatto il penitente. – Parliamo, anche in questo caso, solo di un «certo» rallentamento, perché anche se c’è posto nella vita per la onesta amicizia, questa non ha come sede delle sue effusioni un Sacramento in cui si agisce in nome e per deputazione divina. L’argomento dovremo riprenderlo in sede propria.

– La netta coscienza dei «limiti» nei quali agisce il Sacramento.

Il salotto, il pettegolezzo, la agenzia di informazione, gli sfoghi di sentimenti di rabbia, di invidia e di gelosia, le dolci conversazioni, il rilassamento della amabile compagnia etc. si trovano tutti fuori dei limiti del Sacramento. Il sacerdote, quando entra in confessionale, è e deve essere un altro uomo da quello che agisce fuori del confessionale. La stessa confidenza, finché indica semplice e pura apertura dell’anima in materia che riguarda il Sacramento o il dovere da esercitare nel Sacramento, potrà ammettersi; diversamente va esclusa. La delicatezza, la soavità senza smancerie, la dolcezza, la amabile pazienza, la educazione – tutte cose che stanno bene nel Sacramento – non debbono arrivare alla pericolosa confidenza. La osservanza delle regole canoniche per il locus aptus della confessione sia mantenuta; ha una profonda giustificazione umana e psicologica. Da venti anni andiamo insistendo con tutti che i confessionali degli uomini vanno assimilati in gran parte a quelli delle donne, almeno per quanto riguarda la distinzione e separazione della sede e l’uso di una certa grata. Sconsigliamo qualunque confessore dall’uso di carezze, abbracci, etc. Dirà taluno: «ma questo si legge di certi santi». Ecco la risposta: si faccia prima santo, comprovi veramente di esserlo con il dono dei miracoli e dopo ne discuteremo. Se noi pensiamo che certe ganghe, note nella storia grande e piccola, sono nate dai confessionali nei quali queste regole non si osservavano, troviamo pieno motivo di insistere con i nostri consigli.

La chiara coscienza dell’ufficio.

L’ufficio è quello del giudice e – dopo – del medico e del padre. L’ufficio del medico e del padre è in ordine al fine del Sacramento che è quello di togliere il peccato e di prevenire il peccato accrescendo la virtù. Non si tratta dunque di fare il medico a tutti gli effetti pensabili. Per questi, se saranno giustificati, ci sarà posto fuori del confessionale, a norma delle leggi canoniche. Il confessore non è un conversatore, un assistente sociale, un amicone. Deve confortare, certamente, ma sempre nella dignità e carità confacenti al Sacramento, mai nella forma, magari diluita, – che potrà essere onesta o disonesta a seconda dei casi – che appartiene ad una sfera di sentimento, al tutto impropria e sconveniente per il Sacramento. Il Sacramento della Penitenza è un contatto spirituale profondo: deve essere terribilmente difeso, anche per il rispetto verso le anime, dal pericolo di diventare un contatto meno che purissimamente spirituale e funzionale.

Il chiaro avveduto giudizio su tutte le colleganze possibili con il Sacramento della Penitenza. Le colleganze sono tutti gli incontri fuori confessionale, i discorsi spirituali a due, le direzioni spirituali. Sembrerebbe che quanto accade fuori del Sacramento sia pure fuori dell’oggetto di cui trattiamo. Non è così, perché esistono, tra il Sacramento e fuori, sia il rapporto di causa ed effetto, sia il rapporto circostanziale od occasionale, sia la identità delle persone che hanno agito nel Sacramento; e pertanto la prudenza, regina in questo, ha il diritto di continuare ad essere regina anche in quanto è a questo per qualunque titolo collegato. – Le chiacchiere prima e poi non sono mai necessarie, se non contenutissime e giustificate da educazione, conoscenza, ragioni di fatto emergenti e valevoli. Esse generalmente servono a far perdere al penitente la pietà e la devozione, che è pur conveniente se non addirittura necessaria, prima e dopo la amministrazione del Sacramento. – I discorsi spirituali a due possono essere santissime cose e possono essere preludio di pessime cose. La maggior parte di coloro che hanno perduto le penne nel loro ministero hanno cominciato con incontri di carattere spirituale e persino mistico. Accadde anche a Tertulliano. Per questo motivo i discorsi spirituali fuori del confessionale e collegati con quello vanno prudentissimamente razionati e cautelati. Il luogo dove si tengono è bene sia controllabile dagli altri; la diversità di sesso, o le particolari caratteristiche degli interlocutori sono da soppesarsi severamente agli effetti della cautela; ogni forma confidenziale va esclusa. Il sacerdote prudente, prima di concedere tali colloqui, ragioni, preghi e sia deciso quando occorre dire di no. –

La direzione spirituale è congeniale con il Sacramento della Penitenza.

Infatti lo stesso Sacramento, con la sua parte di giudizio e di illuminazione, contiene una direzione spirituale. È logico che questa in clima più disteso e più diffuso possa estendersi fuori del Sacramento. Anzi molte volte deve estendersi fuori di esso, perché è uno degli ausili più afferenti alla vera formazione delle anime. Qui ci è sufficiente ricordare che tutte le ragioni di prudenza vanno considerate a proposito della direzione spirituale, con la sola aggiunta che, essendo questa bene spesso necessaria, non può e non deve evitarsi, deve favorirsi e pertanto richiede maggiori sussidi spirituali e la massima serietà in chi la attua. Riparleremo a suo tempo dell’argomento.

– Netta coscienza del dovere del distacco del cuore, della modestia, della vigorosa e pronta rinuncia. Nessuno che non sia libero è in grado di guidare utilmente gli altri, solo le cose or ora enunciate danno la necessaria libertà.

La indipendenza di spirito necessaria al confessore

Nessuno penserà che qui parliamo della indipendenza contraria alla verità, alla legge, alla virtù. Si tratta di altro. Il penitente con le sue doti fisiche, intellettuali e morali, con la sua maggiore abilità può esercitare una influenza indebita sul confessore. Parliamo di influenza indebita, perché, finché si tratta, ad esempio, di dare edificazione, nulla potrebbe essere ritenuto indebito. È adunque da questa indebita influenza che si deve sottrarre il confessore ed è esclusivamente in questo senso che parliamo di indipendenza.

– Tutto ciò che è piacere umano deve essere cautamente ed anche energicamente respinto. Anche se il piacere non è in sé peccaminoso, ma a più forte ragione se fosse peccaminoso. Attenti che parliamo di piacere «umano» per indicare quello che parte dai sensi ed arriva ai sensi, dalla naturale sfera affettiva ed in quella agisce, dalla vana compiacenza ed in quella compie le sue evoluzioni. Un piacere puramente spirituale sul bene che si compie, sulla luce che irradia, sul mutamento di purificazione che viene operato, non potrebbe essere chiamato «piacere umano». Tuttavia certi sentimenti possono quasi incoscientemente mutarsi in piaceri d’altra natura.

– Con non minore rigidità deve respingersi dall’esercizio del Sacramento ogni umano interesse, nel senso che – nell’ambito di esso – nulla deve ammettersi che abbia per fine un interesse. Amministrare il Sacramento ad un certo modo, con particolare selezione di penitenti, con particolari cure e magari attrazioni per taluni di essi, in modo da cavarne un lucro, una possibilità di potere su vicende umane e magari politiche, un dominio di famiglie… sarebbe cosa al tutto dissona dalla santità e dalla indipendenza di un tale sacramento. Vi sono delle conseguenze del genere, che possono venire senza alcuna anche lontana intenzione da parte del confessore. In tal caso nulla gli si potrebbe imputare con giustizia, però bisognerebbe ricordargli che di tali effetti egli deve usare con infinita cautela (talvolta potrebbe esser nel caso di respingerli), sicché non ne venga direttamente od indirettamente danno al Sacramento, alla Religione, all’Ordine ecclesiastico. – Ci sono sacerdoti i quali, per essere i confidenti spirituali di taluni personaggi a loro devoti, possono avere la tentazione di influire su persone e su fatti, su affari e vicende, che non sono assolutamente di loro pertinenza. Non si lascino ingannare scendendo su un terreno che può non essere il loro, evitando ambizioni e vane compiacenze, ricordando che la grazia del loro stato è per guidare anime verso una maggiore purificazione e perfezione. Fa parte del loro obbligo rispondere a quesiti sulla moralità di affari, vicende, imprese; rispondano serenamente per quanto sanno e possono, ma sempre in ordine ad indicare la giusta via secondo Dio e mai in ordine a far essi l’uomo d’affari, l’uomo politico, il gestore d’un qualunque potere umano.

Il Sacramento della Penitenza non è un ponte per raggiungere la posizione o l’esercizio di un potere estraneo a quello del Sacramento.

La serietà del Sacramento domanda che non si faccia sfoggio di una competenza che non si ha. Nessun sacerdote presuma di dare consigli medici. Se ha conoscenze di medicina se ne serva, ove occorresse, per quanto può fare come sacerdote e soprattutto per formulare il ragionevole dubbio di inviare il penitente da un medico. Fosse lui stesso medico, sempre salve tutte le convenienze, il consiglio, è meglio lo dia fuori confessione. Nessuno si prenda responsabilità per le quali Cristo non ha istituito il sacramento della Penitenza. Vi sono tante altre faccende umane per le quali può prendere il prurito di trattare in confessione. Si resti estremamente cauti, perché quella non è per sé materia di confessione. Se una giusta causa, ad esempio di carità, ci fosse, pare consigliabile parlarne dopo aver assolto l’impegno del Sacramento. – La questione è delicatissima allorché si tratta della convenienza o meno di contrarre matrimonio. Finché la convenienza riguarda l’aspetto morale e religioso il confessore, dopo aver pensato a fondo e pregato, potrà cautamente arrivare a dare anche un consiglio risolutivo. Ma quando si è fuori dell’aspetto morale e religioso, il confessore eviti ogni responsabilità che non gli competa. Se fuori del Sacramento, per esperienza, competenza, argomenti ben noti potesse dire in materia qualcosa di più, vada estremamente cauto, perché non ne venga danno a quelli che intenderebbe beneficiare e non scenda un ombra sul suo ministero. Nel nostro, ormai lungo, ministero episcopale abbiamo conosciuto casi nei quali sarebbe stato meglio il sacerdote avesse parlato solo di quello cui era deputato, non oltre. – Nessuno presuma di guidare affari pubblici attraverso qualificati penitenti. Questa di guidare è una tentazione che può venire e non è detto che nessuno ci caschi. Ma, oltreché una grave presunzione ed equivalente responsabilità, costituirebbe una aberrazione nel Sacramento. Se si sa si risponda sul valore morale delle azioni; per il rimanente si rispetti la libertà di chi ha diritto a decidere. Insomma la indipendenza del Sacramento e del ministro stanno in questo: nel distacco del cuore da tutte le cose terrene, nella purezza per cui resta alieno da ogni profana contaminazione. – Non si può finire il discorso senza parlare anche della indipendenza dalla curiosità. Il pericolo di soggiacervi è quasi sempre immediato, sia per la materia, sia per la facilità con cui troppi penitenti indulgono ai particolari, alla prolissità, alla chiacchiera. Per la seconda volta rimandiamo la materia ai testi approvati sul modo e sui limiti della interrogazione al penitente. Chi indulge in confessione alla curiosità non sa mai dove e come può finire.

[Continua …]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (2)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

(2)

La morale soggettiva ha allargato il campo delle sue esperienze

Delle azioni di un uomo due giudizi occorrono: quello oggettivo, ed è il confronto tra l’atto in se stesso e la Legge; quello soggettivo, ed è il confronto tra l’atto medesimo ed il modo o il limite con il quale era appresa la legge nel momento di offenderla obiettivamente. Questo indiscusso principio ammette la possibilità di un divario tra il giudizio morale oggettivo ed il giudizio morale soggettivo, tanto è vero che esiste un peccato meramente materiale ed un peccato formale. Il primo giudizio deve essere sempre completato dal secondo, ma non deve il secondo mai perderlo di vista, avendolo invece come base e criterio. – In altri termini: la situazione soggettiva in concreto (di uno che non sapeva o addirittura non capiva, od era comunque in stato di ignoranza o di disattenzione), può essere diversa da quella che deciderebbe la obiettività della Legge. – Su questo divario si possono inserire gravi abusi ed è necessario chiarire doverosamente la questione. Ecco taluni punti in proposito.

1. – Che una situazione soggettiva modifichi il giudizio dato secondo la legge obiettiva non lo si presume mai, se non ci sono ragioni per presumerlo od almeno per generare il dubbio. L’essenziale è sapere che cosa modifichi soggettivamente il valore oggettivo dell’atto. La risposta è semplice: modifica il valore oggettivo dell’atto tutto ciò che modifica sufficientemente il «volontario». E il «volontario» dipende dal grado di conoscenza intellettuale e dal grado di intervento della volontà. Sono esse le due radici della imputabilità e della responsabilità. Ciò significa che anche uno stato patologico influisce nella valutazione soggettiva dell’atto compiuto, tanto quanto influisce sul «volontario». Il confessore potrà constatare che esiste uno stato patologico, potrà averne soltanto il dubbio e formularne la ipotesi, ma il punto divisorio tra il suo ufficio e le competenze specifiche in fatto di patologia resta sempre e solo il volontario. – Nessuno nega che chiare ed organiche cognizioni di psicologia e di una prudente psicanalisi gli possano giovare, ma il suo ministero non è né quello dello psicologo, né quello dello psicanalista. Questo deve essere affermato con estrema chiarezza, per evitare delle situazioni ibride, quali sorgono allorché si vuole entrare in un campo dove non si ha specifica e vera competenza e dove, spesso, non hanno competenza sufficiente neppure quelli che se ne intendono sul serio. In altri termini, la morale soggettiva ha come confine il limite di coscienza, che è dato intellettuale. Al di là ci saranno cose interessanti e strane, ma che non entrano di per sé nelle valutazioni necessarie alla amministrazione del sacramento della Penitenza. Il dato soggettivo sta nel tener conto di quello che uno ha intellettualmente creduto ed ha voluto. Il rimanente è oggetto di un altro discorso.

2. — Non si può negare che la esperienza e lo studio moderni abbiano attirato l’attenzione su molti fatti interni all’uomo. Un tempo era difficile sentire parlare del «subcosciente»; oggi il subcosciente» è diventato addirittura un mondo. Dell’uomo sappiamo qualcosa di più. Ciò significa che potremo trovare relazioni tra i fatti, scoprire meglio loro cause o concause. E per ciò che al giudizio del confessore sul dato soggettivo, questo presenta oggi elementi più vari, maggiori e più profondi. Per tale motivo i l Concilio Vaticano II ha ripetutamente inculcato l’uso delle nozioni scientifiche circa la pedagogia e la psicologia, chiedendo un progressivo allargamento delle nozioni solite a darsi ai futuri sacerdoti. [In questo il Sommo Pontefice si è tenuto cauto, viste le circostanze, ma egli ben sapeva che la psicoanalisi moderna è solo una congeria gnostico-giudaica di natura luciferina, quindi di nessuna utilità per il “vero” sacerdote … tutt’altro! Ne riparlerà più avanti. -ndr. -] Una migliore conoscenza del «soggetto», portata da questa più ampia prospettiva, sarà certamente utile al confessore. Egli non capirà molte cose, se non avrà cercato di allargare il campo delle sue nozioni. Tuttavia l’oggetto proprio del ministero della Penitenza resta quello che è indicato sopra: la situazione determinata dal volontario. Se il campo soggettivo, utile a conoscersi, si è indubbiamente allargato, non ne viene che il ministero della Penitenza debba adottare una complicazione di procedura, che si converrà all’onesto psicanalista [anche qui “onesto” psicoanalista è una parila molto grossa! -ndr. -], non al confessore. L’allargamento delle nozioni è per capire» e per poter, con la maggiore comprensione, essere più utili al penitente. Né pedagogia, né psicologia, né psicanalisi hanno mutato l’animo umano. Tutt’al più registreranno meglio i suoi fatti superficiali e reconditi. L’esperienza e lo spirito soprannaturale restano per i confessori i primi necessari piloti della loro azione sacramentale.

3. – C’è un senso nel quale il giudizio sul valore morale soggettivo allarga affatto la sua esperienza. Pertanto è falso e va evitato. Ecco di che si tratta. C’è un modo di considerare il comportamento dell’uomo che ha le seguenti caratteristiche:

– è generico, e pertanto non realizza gli aspetti e i particolari definienti e determinanti;

– è collettivista, ossia considera le azioni dei singoli come attività della massa, con l’effetto di trasferire almeno parte della responsabilità dal singolo alla folla, che è come dire farla svanire. Questa caratteristica è il frutto di un modo sbagliato e forse non avvertito di parlare della socialità;

– è farcito di termini e di slogans alla moda; tali termini hanno il potere di sfrangiare talmente tutto, di coprirlo sotto un suono talmente gradito da allontanare tutti i confini tra il bene ed il male. In tali condizioni tutto passa e lo vediamo benissimo. – Ora tutti i confessori sono in pericolo di giudicare molte azioni del penitente nel modo falso sopra denunciato. Stiano attenti.

La finalità sacramentale della Penitenza non muta.

– Il sacramento della Penitenza deve attuarsi attraverso un giudizio. Il giudizio deve rifarsi ad un criterio. Per questo motivo ci siamo preoccupati di avvertire che il criterio, ossia la legge obiettiva, non cambiava e che l’aspetto soggettivo delle azioni umane, pur cangianti in se stesse, doveva farsi con principi che sono immutabili. Ma ora dobbiamo guardare al Sacramento ed agli effetti che come tale gli convengono.

Perché questi effetti non mutano?

Perché la loro esistenza è legata al dogma, alla dottrina cattolica certa ed immutabile. Infatti per ammettere una evoluzione del sacramento della Penitenza bisognerebbe ammettere la evoluzione del dogma. Ora il dogma si approfondisce e approfondendolo se ne aumenta la ricchezza, la efficacia, la applicazione, ma in sé non muta. La considerazione degli effetti del Sacramento come tale merita un discorso serio e porta a conclusioni assai impegnative.

1. – Materia prossima del sacramento della Penitenza sono gli atti del penitente. Ciò significa che, ove mancano gli atti sufficienti del penitente, non esiste il sacramento e che la mancanza di compitezza negli atti menzionati per lo meno mette a repentaglio la efficacia della confessione. Quindi il soggetto è estremamente attivo. Deve esserlo in modo sufficiente, pena il non raggiungere l’effetto del sacramento. Questo dà la retta indicazione sulla pedagogia e sulla procedura della confessione, come vedremo. – Il penitente dovrà accusare, per quanto sa, specie morale e teologica, il numero dei peccati mortali. Infatti senza cognizione non si può fare giudizio. La umiliazione che porta con sé la accusa dei propri peccati è lievissima espiazione, meritata, per il peccato commesso. Tutto ciò che reintegra nella giustizia, anche se è doloroso, non mortifica, ma completa la personalità umana. La quale senza questa reintegrazione di giustizia resterebbe sempre nella ipocrita situazione di chi è coperto, ma incompleto. La accusa deve essere completata dal pentimento o manifestato o tale che dalle circostanze possa essere supposto. Questo pentimento deve essere serio. Non occorre trascriviamo qui una pagina del catechismo. Questo pentimento serio, e pertanto completato dal proposito di non ricadere nel peccato, è il più importante, anzi essenziale concorso che il penitente dà alla effettuazione del Sacramento. Esso è l’atto che deve esigersi più di tutti gli altri ed alla cui verità tutto deve concorrere nella preparazione del sacramento, nella elaborazione delle disposizioni, nella cauta e ferma esigenza da parte del confessore. Dio con atto sovrano di Sua competenza distruggerà il peccato, dopo che l’uomo libero peccatore lo avrà rinnegato nelle forme debite. Non prima. – È chiara la conseguenza di metodo: la catechesi della Penitenza, la metodologia di una preparazione, debbono puntare soprattutto sulla verità dell’atto di dolore, ornato delle ben note caratteristiche. – Ora, la pedagogia di preparazione del penitente su questo punto è gravemente trascurata: non se ne parla quasi mai (ed è senza fallo una colpa), non si creano (salvo che nelle confessioni dei collegi e dei bambini) quasi mai le condizioni di stimolo, di istruzione, di avviamento per la preparazione agli atti della confessione; pochissimi mettono facilmente a disposizione gli strumenti che richiamano un tempo ed efficacemente alla preparazione seria. Non si va errati se si afferma che la maggioranza delle confessioni non sono preparate. La gravità della cosa sta nel fatto che il pericolo di non portare la sufficiente penitenza dell’animo nelle confessioni non preparate è veramente grande. Per la santa Messa almeno si preparano i paramenti, la materia del sacrificio, le candele; per la penitenza, in genere, si prepara e si insegna a preparare nulla. Ripetiamo: la mancanza della penitenza, ossia del dolore ornato di tutte le caratteristiche fissate dal catechismo, compromette tutto il sacramento della Penitenza. – È questo il punto delicato per cui il sacramento della Penitenza viene tenuto ben lontano dal puro formalismo, dalla mera e meccanica tradizione, dal semplice gesto esterno che soddisfa la opinione di chi vede. Se la pastorale non torna ad occuparsi fino in fondo della preparazione delle disposizioni del penitente, si cancella in parte la efficacia di un fondamentale sacramento. – Il luogo adatto è condizione preliminare; per questo i confessionali non si possono mettere dove la gente ciarla e si distrae. I sussidi per la preparazione, tabelle e libretti, devono essere considerati non meno necessari delle candele per celebrare la Messa. Una disciplina osservata nel luogo ove si attende e ci si prepara la si deve inculcare a tutti, cominciando dai bambini. Insomma il sacramento, che è un atto divino, è anche un atto compiuto da uomini (penitente e confessore), umano, e che impegna a fondo tutta la responsabilità e la dignità degli uomini. Anche i peccatori hanno una dignità, nonostante la colpa; quella dignità superstite che hanno la devono portare integra e con solennità al compimento dell’atto divino. Le azioni fatte per direttissima sembrano essere entrate nel margine morale della esperienza moderna. Ma questo è un errore, perché l’uomo impreparato ad un atto, il quale di per sé esige preparazione, è veramente e non nobilmente incompleto. Il che non vale solo per il sacramento della Penitenza.

2. – Il principale effetto del sacramento della Penitenza, ricevuto con tutte le condizioni richieste è la remissione del peccato. Consideriamo anzitutto questo: la stima del sacramento della Penitenza sarà sempre proporzionata al concetto severo che si ha del peccato. – L’orientamento di non parlare di peccato, di non allarmare ed allarmarsi, di non temerlo e vergognarsene è orientamento deleterio della vita cristiana. Non c’è amore del mondo che tenga, rispetto per i non credenti che valga, a questo proposito. Il peccato grave è la morte dell’anima e la conclusione, almeno per il momento, negativa della stessa ragione della propria esistenza. A che prò, in fin dei conti, un sacramento della Penitenza, se il peccato è una trascurabile cosa, è una organizzazione del complesso di inferiorità che distrugge la persona umana, che la dissolve in un mito pietoso e ridicolo, etc? – La valutazione del peccato e del sacramento della Penitenza sono perfettamente correlative: insieme stanno, insieme cadono. Né basta che la valutazione del peccato la si tiri fuori per i bambini, allo scopo di impaurirli e contenerli, in certi momenti in cui brandelli di pratica cristiana istillano o richiedono una certa stima dell’Inferno. No, o questa valutazione sta intellettualmente e coscienziosamente alla base della vita o prende le dimensioni della ipocrisia e la inconsistenza della semplice paura. Tutta la educazione impartita, tutto il contegno, tutti gli enunciati intellettuali debbono fedelmente concorrere alla perfetta valutazione del peccato. – Bisogna spiegarsi. Chi maneggia senza alcun ribrezzo certa stampa, senza dare chiaramente a vedere quale motivo di dovere lo spinge a maneggiarla, educa chiunque lo vede alla svalutazione del peccato. Chi apre incautamente il video, senza ragione e senza cautela, mostrandosi stranamente tranquillo davanti ad esibizioni che per molti temperamenti sensibili possono costituire occasione grave e prossima di peccato, ottiene lo stesso risultato ed è inutile che tuoni contro la ingiustizia o la immoralità. Chi copre con i facili slogans azioni ed orientamenti al tutto alieni in qualsivoglia comandamento di Dio aiuterà tutti coloro che cadono nel raggio della sua influenza a farsi una idea di minimizzazione della colpa e ad ammetterla con allegria comunitaria. – Chi rimane non solo impassibile di fronte a certe esibizioni, ma tenta quasi di sembrare galante semplicemente non crede più al peccato, almeno in modo sufficiente. – La valutazione del peccato ha taluni particolari che debbono colorare sempre la catechesi abituale. Per esempio: è verità certa ed indiscutibile che la persona macchiata dal peccato mortale è incapace di qualsiasi vero merito, retribuito soprannaturalmente nella eternità. Infatti il merito soprannaturale ha per base lo stato di grazia, che non coesiste con il peccato grave. Ciò significa che una volta in peccato mortale è inutile agli effetti della gloria eterna, tanto qanto per essa si è esteso od è durato lo stato di peccato. Potrà non essere inutile ad altri effetti di minore e diversa portata. – Ancora: la valutazione del peccato grave non si separa dal senso di incombente pericolo della dannazione eterna. Sappiamo bene che questa parola da taluni la si pronuncia sottovoce o la si sottace. Non credano per questo di abolire l’Inferno, dato che, mentre per andare in Paradiso bisogna assolutamente crederci, per andare all’Inferno non occorre in alcun modo crederci. – È facile e doveroso prevedere che con questa moda di «non far caso al peccato del mondo», magari per poter meglio gettare ponti con esso, il sacramento della Penitenza avrà zone e livelli di paurosa desuetudine. Nessuno si metta in grado di doverne rispondere a Dio. A forza di far mostra che il peccato non esiste, non macchia e non contamina, se ne distrugge la valutazione, con le conseguenze sopra esposte. – Il peccato non muta nelle sue condizioni essenziali, nella sua fisionomia ontologica, nelle sue conseguenze teologiche. Pertanto muta la principalità del sacramento della Penitenza nel mondo del peccato. E credere che quello in cui viviamo sia diventato mondo di angeli e di profeti è semplicemente una stupidità.

3. – Non muta la grazia sacramentale della Penitenza. Essa è obiettiva nella grazia attuale, erogata per causa sua durante e dopo il sacramento, per un certo tempo con uno scopo ben determinato. Eccolo: contenere la debolezza per cui si pecca, aumentare le capacità reattive alle pericolose attrazioni della colpa, irrobustire la perseveranza alla quale si è impegnati nell’atto di dolore, emesso nel sacramento stesso. Ciò significa che il sacramento della Penitenza, mentre restituisce la santità essenziale, aiuta a perseverare nel bene ed è uno dei più grandi rimedi con i quali si provvede alla propria debolezza. È difficile, in circostanze ordinarie, esista la continua fuga del peccato, almeno grave, senza la periodica immissione della grazia sacramentale della Penitenza. Chi crede di essere intangibile per i propri filosofemi, superbamente affermati, per la propria intoccabile dignità personale, è sull’orlo della caduta tutti i giorni e probabilmente cadrà nel modo più stolido e pacchiano. Ha bisogno del Sacramento. Qui non ci si dimentica affatto della grazia sacramentale della santa Comunione; ma resta vero che, per divina istituzione, i due sacramenti non si sostituiscono in modo da lasciare – per chi ha peccato – una libera alternativa. Essi si integrano. – Finché la debolezza degli uomini non cambierà, ci sarà bisogno della grazia sacramentale del sacramento della Penitenza. Cambierà forse la debolezza degli uomini? Credete? Perché stanno aumentando le suggestioni, tanto che sono l’astuto fondamento della politica di massa, i conformismi, la corruzione di tutti gli organismi umani? Il discorso sarebbe lungo, la risposta è una sola ed è ora di farsela risuonare alle orecchie, prima che sia troppo tardi: la debolezza aumenta, per lo meno nella proporzione con cui aumentano le apparecchiature che impressionano gli uomini oltre misura. – In conclusione: la clientela bisognosa della Penitenza non è diminuita, è spaventosamente aumentata. Abbiamo detto e ripetiamo: «spaventosamente».

4. – Il rito sacramentale è finora immutato.

Infatti il rituale è tradotto in volgare, ma non ha ancora subito una vera riforma. Il rituale costituisce una Legge che obbliga in coscienza e che nessuno può a suo arbitrio alterare. Il Concilio Vaticano [il conciliabolo, il falso concilio c. d. Vaticano II, scomunicato con largo anticipo dalla bolla Exsecrabilis di Pio II, e che come tale non possedeva alcuna autorità ed i cui documenti sono da rigettare in blocco cme abominio della desolazione, cosa che Gregorio XVII sapeva molto bene da profondo teologo e canonista quale egli era, e che lascia sottoindendere a chi ha occhi per vedere ed orecchie per ascoltare ndr. – ] nella Costituzione Liturgica, ha disposto una «recognitio», ossia un ritocco ed eventualmente una riforma dei libri liturgici, ma non ha dato a nessuno l’autorità di innovare. La «recognitio» è affidata ad un Consilium, che trae il suo potere dalla suprema Autorità pontificia [quella vera, che allora come oggi è esautorata ed in esiliondr. – ]. Ci sono poi elementi che una qualunque «recognitio» non potrà mai toccare, perché non sono soltanto elementi rituali, passibili di mutazione, sono invece richiesti dalla sostanza teologica del Sacramento della Penitenza, così come lo ha concepito Cristo e il Magistero della Chiesa ha finora insegnato [fino cioè al 1958, finché c’è stato in successore di Pietro liberamente operantendr. – ]. I due campi: quello liturgico e quello – più grave – teologico sono chiusi alle libere iniziative dei privati e dei Vescovi stessi, le cui conferenze dovrebbero, in ogni caso, avere il benestare della Sede Apostolica [quella vera, naturalmente – ndr. – ]. Quello teologico e sostanziale è chiuso alla innovazione di chicchessia nella Chiesa, la quale non può mutare la dottrina certa e acquisita [questa è una chiara allusione ed un avvertimento per far comprendere da quali mani fosse gestita l’«apparente» chiesa dell’apostasia vaticanandr. – ]. Non ci consta che qui da noi ci siano stati abusi o innovazioni risolubili nell’esercizio del Sacramento della Penitenza. Da noi però si è parlato assai di innovazioni indotte o tollerate altrove e, se abbiamo scritto, ciò è anche perché i cattivi esempi non attecchiscano là ove Noi abbiamo responsabilità davanti a Dio. – Eleviamo la nostra accorata protesta contro tutti gli abusi che sono stati fatti: eleviamo tale protesta perché è nostro il diritto di difendere dai cattivi esempi i nostri figli. I sacerdoti si sappiano regolare secondo quello che abbiamo qui esplicitamente richiamato. – Non siamo disposti a tollerare abusi, qualunque sia il luogo da cui si importano. Sia ben chiaro che certi tentativi illegittimi di innovazioni sono solo la testimonianza di una inquietudine, di una deficienza di criterio teologico e forse di ignoranza, da ispirare vera e profonda pietà. – Il mondo attende da noi un ancoraggio, non delle avventure.

La soprannaturalità deve dominare la amministrazione del Sacramento

Cerchiamo di fissare gli elementi concreti, con i quali si attua questa soprannaturalità.

– Lo spirito di Fede.

Nell’amministrare il Sacramento della Penitenza lo spirito di Fede, per intervento positivo e virtuoso della volontà, obbliga a vedere, con la chiarezza della luce di Dio, alcune cose. Eccole:

– La dignità dell’anima del penitente, chiunque egli sia, dato che per redimerla Cristo è morto in Croce:

– l’avverarsi, a proposito della stessa anima, in quel momento di tutto il mistero della Redenzione;

– la enormità della macchia dalla quale Dio in quel momento libera; anche quando si tratta di colpe veniali, valutandole nella eterna luce della grandezza di Dio, appare chiara la infinita misericordia;

– l’avvenire glorioso dell’anima, che viene ristabilito;

– la debolezza alla quale la grazia sacramentale provvede;

– il passo compiuto verso il compimento del numero degli eletti.

Certo, perché questa visione soprannaturale si componga nell’anima del confessore, siccome richiede il rispetto al Sacramento, occorre che egli faccia «sempre», prima di ascoltare qualunque penitente, uno sforzo di raccoglimento, magari per un solo attimo, e veda l’immenso sfondo sul quale egli in quel momento agisce. Riteniamo che il proponimento di un attimo di raccoglimento faccia parte del dovere sacerdotale e che solo il rispetto a quel proposito lo possa portare al livello, al quale sta un Sacramento. – L’effetto certo sta nella devozione, ossia nella pietà profonda, con cui agisce nel Sacramento.

2. – Combattere la «abitudine», che può prevalere nella amministrazione del Sacramento. Spesso i penitenti sono numerosi e si succedono. Spesso i casi si succedono ripetendosi con monotonia. Raramente salta fuori un complesso spirituale che sveglia l’attenzione, acuisce l’interesse. Tutto questo, unito alla immobilità, al dispendio fisico, ad altre circostanze di fatto o di ambiente, conduce ad una sorta di ripetizione meccanica. Questa lascia intatto il Sacramento in sé e nel suo effetto, tuttavia non si potrebbe dire che il confessore abbia assolto bene e reverentemente il suo compito. Egli deve reagire alla meccanicità con tutte le forze dell’anima sua, aiutandole con una preparazione di preghiera e con il ricorso brevissimo alla stessa preghiera, allorché avverte l’infiacchimento psicologico, che tende a pervaderlo. Solo con queste pie avvertenze egli circonda di ambiente soprannaturale il Sacramento che amministra. Questi piccoli consigli sono «determinanti» per avere una degna amministrazione della Penitenza.

3. — Non confondere il Sacramento con qualcosa di profano.

Non si può ammettere l’esercizio della curiosità. Questa è facile, perché si è nel momento in cui un’anima apre se stessa. Essa è generalmente disposta o rassegnata a lasciarsi «leggere». Questo rende facile la soddisfazione della curiosità. Ma tale soddisfazione nulla ha a che vedere con il Sacramento, perché in esso si rappresenta tutto di Dio e nulla di noi stessi ed il servirsene per uso proprio, per lo meno, prepara una possibile profanazione. Per lo stesso motivo non è ammissibile la divagazione della chiacchiera. La chiacchiera, ammesso che sia onesta, non trova assolutamente il suo collocamento nella Penitenza, deve andare altrove. Resta inteso che quanto è necessario alla integrità della accusa ed all’espletamento del multiplo dovere del confessore non è mai chiacchiera. Questa spesso è desiderata da taluni penitenti e da tutto un settore di penitenti, facilmente individuabile. Ma si deve risolutamente resistere, anche se la resistenza può esser fatta – finché hanno effetto — con modi contenuti, sereni e dolci. La chiacchiera ha la capacità di insinuarsi come l’aria e tutto può esser buona scusa per non ostacolarla: conoscenza, direzione, stanchezza, un po’ di varietà in tanta monotonia. Attenti, quanto entra la chiacchiera, altrettanto se ne va quella soprannaturalità, che dipende dal contegno dei due attori, penitente e confessore. – Il discorso della chiacchiera che sfiora o insozza la sfera dei sentimenti verrà appresso. Il senso soprannaturale del Sacramento esclude nel confessore una certa anche confusa mentalità psicanalista. Cerchiamo di mettere le cose in chiaro. Molti ingenuamente e per fare qualche elogio al Sacramento della Penitenza lo avvicinano alla psicanalisi; qualcuno anzi asserisce che la psicanalisi è una profana imitazione della confessione. La differenza tra i due istituti è netta, totale, enorme. Ed ecco il perché. Anzitutto la psicanalisi ha un presupposto ideologico che non può accordarsi né con la natura obiettiva delle cose, né con la dottrina cristiana. Anche se quel presupposto ideologico è piuttosto tramontato, continua però a sostenere tutta la travatura della pratica psicanalitica e facilmente la contamina. In secondo luogo esiste una linea precisa di demarcazione: la confessione comincia dal «cosciente» in su; la psicanalisi comincia dal «subcosciente in giù». Quindi, anche per chi non credesse al Sacramento, sono due «livelli» al tutto diversi. Spieghiamoci. La confessione considera solo il peccato e questo comincia solo da un atto cosciente e libero. Quanto si è svolto prima o al disotto della attuale coscienza responsabile non interessa direttamente la confessione. – La psicanalisi pesca in tutte le costruzioni fatte al disotto del livello di coscienza e, se anche qualche volta lo psicanalista ascolta il racconto di un fatto libero, non è quello che lo interessa, per definizione. – La psicanalisi sguazza in tutto quello che è istinto, reminiscenza, fantasia e sentimento; ama i fondali dove la umanità conserva ed accumula tutte le testimonianze della sua miseria. La confessione tratta il peccatore in quanto ha mancato per un atto interno di consenso spirituale e non rimescola quanto può umiliarlo. – E qui c’è un punto importante a considerarsi: la persona sottoposta a psicanalisi uscirà dalla seduta sapendo di aver rivelato vergogne, che forse non sono neppur sue perché fluiscono da una registrazione subcosciente di sensazioni dall’esterno; il penitente che esce dal confessionale ha rivelato il peccato, non la deformazione costituzionale, alza la testa e si sa redento. – Nella confessione la persona è rispettata e non solo per il sigillo del segreto, ma per una valutazione teologica; nella psicanalisi il soggetto si trova ravvolto dal manto innominabile delle anomalie patologiche e indicibili. [In pratica la falsa scienza psicoanalitica, che non ha nessuna caratteristica di scienza sperimentale, non essendo dimostrabile in nessun modo, tanto meno con i risultati clinici, è piuttosto “ideologia gnostica”, nella quale la “scintilla divina”, cioè l’essenza divina ingabbiata nella materia “corpo”, e che secondo la gnosi è parte stessa di Dio, sua emanazione, non è corruttibile, per cui i conflitti si instaurano sulla componente “anima”, che viene lasciata ed incitata ad estrinsecarsi libertinamente, soprattutto attraverso il peccato, che per tale ignominiosa pratica, è metodo terapeutico liberatorio da nevrosi, psicosi ed altre psicopatie … una vera idiozia di origine luciferina, in assoluto e diametrale contrasto con la teologia cattolica, quindi da respingersi in toto e sotto ogni aspetto, come ci suggerisce opportunamente il Sommo Pontefice Gregorio XVII! – ndr. – ] I confessori chiariscano bene le loro idee e non indulgano mai alla tentazione di fare un po’ di psicanalisi, quasi che questo aggiungesse un prezzo umano ad un deficiente valore divino. Netta separazione: si tratta infatti di assurde e imperdonabili contaminazioni. La vera cura contro tali contaminazioni consiste in una chiara coscienza dell’argomento e in un solido rispetto a tutte le regole, ben strette, che la tradizionale teologia morale ha dettato e circa i limiti di accusa del penitente e circa i limiti di interrogazione da parte del confessore. – La psicanalisi ha già infettato teste, pratiche, costumi, letteratura, politica, ogni mezzo di comunicazione sociale: sta a noi impedire che infetti il sacramento della Penitenza. La preoccupazione non è fuor di luogo perché taluni moralisti, che sono senza alcun dubbio fuori di ogni consenso teologico, le hanno aperte le porte. – I sacerdoti della nostra Diocesi [e del mondo intero -ndr. -] sono avvertiti. Noi non neghiamo affatto che la terapia psicanalista possa dare dei risultati. No. Ma parliamo di terapia, non di filosofia. Quello che importa è che il possibile onesto nella psicanalisi venga lasciato ai medici specialisti e che i preti non pretendano sostituirsi a detti medici, tanto più contaminando un Sacramento.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA (1)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA

[Lettera pastorale scritta il 17 dicembre 1967; «Rivista Diocesana Genovese»,1968. pp. 28-63 ]

(1)

Lo scopo di questa lettera

Il sacramento della Penitenza è il primo tipico strumento per la remissione dei peccati, nonché il massimo mezzo per la profonda formazione cristiana dei fedeli, come singoli. Il nostro scopo non è quello di ripetere qui quanto può essere facilmente letto in qualunque testo approvato di Teologia morale. Per questo sarebbe sufficiente pubblicare una nota bibliografica con la raccomandazione di servirsene.Il nostro scopo è solo quello di illustrare la proposizione espressa in apertura di questa lettera e di concorrere, per quanto ci è possibile, a crearne nei nostri Sacerdoti il convincimento serio e operante. Riteniamo che, per conseguire questo scopo, si debbano trattare diverse questioni.

Perché la Penitenza è il primo tipico strumento per la remissione dei peccati personali?

Perché, nella ipotesi esistano peccati personali, la penitenza è necessaria, ossia senza di essa in re od almeno in voto non si dà perdono dei peccati. Ciò pone, nel caso esistano peccati mortali personali, una alternativa netta ed impreteribile: o penitenza, almeno in voto, o dannazione. Gli altri mezzi per ottenere il perdono dei peccati senza la attuale amministrazione della Penitenza sono validi e raggiungono l’effetto in quanto contengono in qualche modo il «voto» e pertanto il riferimento al sacramento stesso della Penitenza. La affermazione – estremamente grave – non è una sottigliezza teologica, è un dato fondamentale ed elementare del semplice catechismo. – Per vedere chiaramente la gravità della affermazione, bisogna aver precise e stagliate due verità altrettanto elementari. Il peccato è la più vergognosa e terribile macchia che possa incogliere l’uomo, perché la legge divina – contro cui si lancia il peccato – è condizione impreteribile di salvezza eterna. Legge e peccato sono termini collegati: per dimenticare l’uno bisogna dimenticare anche l’altro. La incarnazione del Verbo ha una sua ragione fondamentale nella redenzione dal peccato; Gesù è l’Agnello che toglie i peccati dal mondo.Il sacramento della Penitenza, collocato nella cornice di queste due verità, assume la sua grandiosità imponente. Se il nostro ministero non compie quello che occorre per togliere i peccati dal mondo, resta un ministero sostanzialmente sterile. Il sacramento della penitenza è la riduzione sacramentale della vicenda espiatrice del Verbo fatto uomo.

Perché la Penitenza è il massimo mezzo per la formazione dei fedeli come singoli?

Perché il confessore, che è nella Penitenza padre e dottore, deve compiere le funzioni di medico dell’anima ed in tale veste deve rendersi conto delle radici dei peccati, deve prescrivere rimedi congrui, deve dare consigli salutari, deve pensare ad evitare le ricadute. Tutto questo fa nel segreto del sigillo, per il quale più facilmente le anime si aprono, nella intimità discreta della cognizione, la quale dispone con singolare naturalezza il penitente alla umiltà, nella dignità di un sacramento del quale non si evita il soprannaturale prestigio. Ossia: nella Penitenza il confessore agisce in maniera diretta sulla vita interiore, vi ha una ineguagliabile capacità incisiva, si impone con giustificata autorità, quanto compie è accompagnato da una divina grazia che supera ogni altra umana efficienza. Nella Penitenza il confessore, ben conscio del suo ministero, illumina, corrobora, orienta, rassicura. Ciò dimostra la capacità educativa dello strumento sacramentale. Nessuno in questo mondo entra nell’anima altrui con la nobiltà, intimità ed efficacia, offerto dalla Penitenza. La psicanalisi entra nella situazione psicologica di fatto, che è un’altra cosa, perché l’anima di un uomo non è da confondersi con la sua fantasia, con i l suo istinto e con il suo subcosciente. Alle spalle della psicanalisi non ci sta un ordine ed una efficacia di ordine divino.

Perché preoccuparsi dello scopo specifico della Penitenza?

Perché si tratta di uno scopo essenziale della nostra Fede. Dove si arriva, infine, se non si tolgono i peccati dal mondo? Poiché nasciamo peccatori, liberi ed immaturi, abbiamo bisogno di una educazione. Poiché la nostra fisionomia interiore e la indefinita varietà degli atti personali che ci seguono portano ad una non minore varietà di situazioni personali, il più delle volte indecifrabili dall’esterno, non è affatto sufficiente ed adeguata una educazione esteriore e di massa. Occorre che il tocco educativo attinga le singole anime. Finalmente a nessuno può sfuggire che l’avvenire del popolo di Dio, formato di fedeli singoli, è intimamente legato alla esistenza di una educazione cristiana, specifica e pertinente. – Questo è necessario capire: che nessuno strumento per quanto ingegnoso, per quanto tecnicamente perfetto, ha nel sacro ministero la potenza penetrativa, la capacità forgiatrice del sacramento della Penitenza. – C’è tuttavia un motivo che dimostra la urgenza di occuparsi dell’argomento. La tecnica ministeriale, che deve pur essere considerata con fiducioso rispetto, tende per un complesso di fatti (che non possiamo esaminare qui) ad invadere e dominare il campo dell’apostolato sacerdotale. I mezzi sacramentali vengono ricercati meno, spesso troppo poco. Un certo umanesimo, di sapore del tutto pelagiano, nel campo intellettuale tende a mettere in primo piano risorse, anche oneste in sé (come la tecnica psicologica, età), ma che in molti servono a distogliere dalla stima per i superiori mezzi: origine divina, quali sono il Sacrificio e i sacramenti. Il naturalismo acquista ogni giorno espressioni scaltre, che paiono accreditarlo non meno del soprannaturale, specialmente se presentato come un ragionevole compromesso per incontrare il mondo, mentre l’incontro con il mondo deve essere fatto nell’ambito segnato dall’Evangelo applicato dai santi Apostoli. Il demonio gioca la tattica di far sostituire ai mezzi dell’Evangelo i sotterfugi di una vacua razionalità mondana. E talvolta ci riesce. Non esitiamo affatto a giudicare tutto questo preoccupante e spaventoso. Ed è per questo che questa Nostra lettera è un grido di allarme. Avevamo cominciato a stenderla or sono diciannove anni allora ci preoccupavamo di richiamare la perfetta e santa amministrazione del sacramento della Penitenza. Quella lettera non fu allora compiuta perché attendevamo l’esito di talune avventure intellettuali. Gli anni sono passati ed oggi a farci ritornare sull’argomento non è solo la preoccupazione della santa amministrazione del Sacramento, bensì il dovere di ridare al Sacramento il prestigio e la preminenza, perdute purtroppo nell’anima di taluni ministri di Dio. Il confronto tra la lettera mai pubblicata e la lettera presente è testimone che talune cose si sono volte al peggio e non al meglio. Contro questa diminuzione di un prestigio della Penitenza si levano alcuni fatti o difetti, che avremo occasione di esaminare appresso. Si leva soprattutto la fame e la sete, che del Sacramento e della direzione spirituale (così legata al Sacramento) prova un numero infinito di anime, pur senza saperlo. Non si dimentichi che il sacramento della Penitenza è la porta più ordinaria al sacramento della Eucaristia, cibo e vita delle anime, ed allora si capirà quanto sia vera la equazione: la formazione profonda dei cristiani è pari alla frequenza ed alla santità con le quali si amministra il sacramento della Penitenza! – C’è un’ultima generale ragione per preoccuparsi assai dello scopo specifico del sacramento della Penitenza. Essa è la necessità della educazione individuale delle anime. Cioè: per educazione non basta affatto quella cosiddetta comunitaria, semplicemente ecclesiale, collettiva, di massa, perché le anime si formano ad una ad una. Nessuno vuol negare che la educazione collettiva sia complementare e qualche volta suppletiva della educazione individuale; si afferma solo che generalmente non è sufficiente. – Sta il fatto che la opinione di comodo scivola verso la convinzione di occuparsi della educazione collettiva, abbandonando la educazione individuale come colpevole di opprimere la libertà della persona umana. E proprio la persona umana, che in ogni caso è ontologicamente persona e in moltissimi casi non è affatto «moralmente» persona, ad invocare l’intervento della formazione individuale. – Ora nella testa di coloro i quali credono alla educazione esclusivamente comunitaria, disprezzando la educazione individuale, entra altrettanto la convinzione che in fin dei conti la Penitenza è solo per rimettere i peccati, una sorta di lavatrice automatica. Noi dobbiamo reagire con tutta la forza contro una simile erratissima concezione che non ha nessuna verità ed un solo pregio: quello di essere molto, ma vergognosamente, comoda. Ecco le principali ragioni per le quali le anime, finché è possibile, vanno formate una per una. Si ammette che è difficile ottenere questo, ma Dio non ci imputerà ciò che diventasse praticamente impossibile, per il numero dei fedeli, per la insufficienza delle forze, per la riottosità delle stesse anime a lasciarsi guidare verso Dio. Mentre dovremo rendere conto di tutto quello che potevamo fare. Le anime sono dissimili. Riesce difficile sostenere che le anime siano o possano essere ontologicamente dissimili. Però, poiché entrano per la unione sostanziale in un composto umano che porta con sé tracce di tutte le generazioni preterite e queste tracce compone e scompone in svariatissimi modi, senza tener conto della intrusione di molti dati di fatto, le anime sono praticamente dissimili tra di loro. A noi poco importa che la ragione della dissomiglianza sia una piuttosto che l’altra; basta il fatto che la dissomiglianza c’è. – La dissomiglianza mette fuori gioco la efficacia di molti mezzi, altri riduce, altri altera. La azione educativa per questo motivo deve partire non solo da una base di principio teorico ed astratto, ma dalla conoscenza del singolo caso in concreto. Spesso accade che lo stesso metodo rende un educando amico ed un altro educando nemico e tanto basta a far capire che i metodi educativi non si possono applicare sempre e dovunque indiscriminatamente. – Le esperienze interiori – oltre che esteriori – delle anime sono dissimili. Queste esperienze infatti dipendono da ambienti, da contatti, da persone, dal grado di doti di relazione, dalle reazioni esterne e finalmente dalla stessa recettività o reattività del singolo. Anime simili possono avere esperienze non solo dissimili, mai addirittura opposte. Tutto ciò porta l’impegno educativo sempre alla considerazione e all’impegno individuale. Affinità ed analogie non mancano, si danno accostamenti che possono permettere anche qualche classificazione, ma con tutto questo non si arriva a poter abitualmente provvedere alla educazione spirituale in una formai semplicemente collettiva. Tanto quanto questa verità entrerà nella convinzione dei nostri confratelli, altrettanto aumenterà la giusta stima del sacramento della Penitenza. – Si potrebbe aggiungere che infinite compressioni di anime trovano uno sfogo giusto solo nell’ombra discreta del sacramento della Penitenza. Pensiamo che i dolori e le solitudini angustiose degli altri debbano avere il loro peso nel farci giudicare con saggezza in merito alla presente questione. Il fatto che lentamente si stia facendo una diversione falsa e dalle incalcolabili conseguenze, – dalla educazione anzitutto individuale alla educazione anzitutto od esclusivamente collettiva, dalla educazione che si adatta alla indefinita ricchezza e varietà delle anime a quella ispirata semplicemente al tipo standard, moda, folla… – deve attirare la nostra attenzione. Esso, soprattutto se entra inavvertitamente (come accade nella maggior parte dei fenomeni), ci fa mettere da parte il sacramento della Penitenza quale lo ha concepito e configurato Gesù Cristo. Infatti da qualche parte – non qui – qualcuno si è provato a dispensare dalla accusa individuale, dando larghe e gratuite assoluzioni generali alla massa. Forse qualcuno ha fatto a meno persino di quella.

La regola morale ed oggettiva divina non cambia

Il sacramento della Penitenza viene amministrato in forma di giudizio, per il fatto che si opera una scelta tra due estremi e questa scelta non è arbitraria, ma guidata dal merito delle cose tra cui si sceglie. I due estremi tra cui si sceglie sono: rimettere o ritenere il peccato. Quale il criterio per scegliere? Gli atti e le disposizioni del penitente. Le disposizioni del penitente in che consistono? Nel pieno rinnegamento del peccato. Allora, presuppongo che qualcosa sia peccato, qualcosa no. Che cosa decide tra i due casi? La Legge, ossia la regola morale obiettiva congiuntamente con la situazione soggettiva. – Comunque tutto comincia a dipendere dal fatto che vi è una regola o legge morale oggettiva, e cioè indipendente da noi, superiore a noi, anche ammettendo la esistenza di leggi positive variabili. Ecco perché in tema di confessione sarebbe inutile continuare ogni discorso ed ogni uso se non esistesse una regola morale oggettiva, capace di discriminare tra il bene ed il male. Ecco perché è importante rispondere alla laconica domanda: cambia la morale? La regola morale oggettiva e divina non cambia. Ed ecco il perché. Il piano di Redenzione delineato nella rivelazione divina ha fissato un tipo dell’uomo con una legge precisa e degli scopi ben definiti. Questo piano non cambia. Per cambiare dovrebbe cadere – contro tutte le affermazioni di Cristo e degli Apostoli – il piano divino. La natura umana non cambia. La sua costituzione, la essenzialità sei suoi rapporti sono immutabili. L’ambiente presenta infinite inazioni accidentali, che non toccano mai l’essenza dell’uomo. La Legge è stata data come definitiva ed eterna. Le norme morali date da Cristo hanno valore fino a che Egli non «verrà di nuovo», e cioè per tutti i tempi fino al momento escatologico. La fissità della norma fino all’ultimo giudizio è una delle cose che risaltano nella predicazione evangelica. – La Chiesa ha in tempo recente chiaramente disapprovato la cosiddetta «morale della situazione» ed il Vaticano II ha richiamato – fatto di morale, sia pure interpretandola secondo lo sviluppo dei tempi [chiaramente questo è criticare il conciliabolo senza che i suoi insipienti “censori” se ne rendessero conto, viste poi le successive affermazioni in evidentissimo contrasto -ndr.-], le norme sempre affermate dal magistero ecclesiastico. Contro questa fissità della regola morale si levano talvolta voci discordi, o – piuttosto – si insinuano «modi» di considerare le cose, i quali dovrebbero a poco a poco arrivare a dissolvere la norma stessa. La confusione in materia, la incompetenza teologica e la presunzione di facili scrittori possono creare il miraggio di una fata morgana possono sedurre anche dei confessori. Noi li mettiamo severamente in guardia. – A tale fine osserviamo più da vicino taluni punti sui quali è facile creare il rovesciamento della norma divina.

1. – Qualcuno ha creduto che nel Concilio venisse indotto qualcosa di nuovo a proposito del matrimonio con tutte le sue conseguenze. Vediamo anzitutto il «creduto nuovo». Si tratta dell’amore coniugale. In effetti a questo amore si dà una attenzione non consueta ai Documenti antecedenti del Magistero. Non è mancato durante la elaborazione conciliare qualcuno che avrebbe voluto si asserisse l’amore essere fine essenziale del matrimonio [tesi eretica -ndr.-]. La verità è che questa asserzione non venne e che quanto detto sull’amore coniugale era già ben noto ed è tutto uno sviluppo di quanto san Paolo afferma al capo 5 della lettera agli Efesini. Vediamo le conseguenze. Essa – la novità – sarebbe stata, nei desideri di qualcuno, una tale precedenza dell’amore sulla fecondità da consentire al primo almeno qualche sbizzarrimento ai danni della seconda. Ma questo non accadde. Si dice invece (1. c. 50) espressamente: «Il matrimonio e l’amore coniugale sono ordinati per loro natura alla procreazione ed educazione della prole. I figli infatti sono il preziosissimo dono del matrimonio». Si è fatto un gran parlare di qualche rimedio costrittore e riduttore della fecondità coniugale. I principi della morale non hanno mai ammesso mutilazioni né anatomiche, né fisiologiche, né biologiche. Restava a vedere se il conclamato rimedio fosse nulla di tutto questo, ma solo un vero ed onesto regolatore nell’ambito della natura. Dire se lo fosse e lo fosse nel senso voluto dalla morale accettata non appartiene ai teologi, ma agli scienziati. Per studiare la cosa il Sommo Pontefice [quello falso del falso concilio -ndr.] ha costituito una numerosa commissione, la quale ha già presentato il frutto dei propri studi. Ma la Santa Sede non si è ancora pronunciata in alcun modo. Pertanto le regole morali restano quelle di prima. [e tali resteranno sempre! – ndr. – ]

2. – Si è notata una certa tendenza qua e là a dare più importanza alla persona umana che alla legge divina. Il che è inammissibile, perché non esiste nella persona umana alcun diritto di legittima emancipazione dalla legge. E non che tutto questo lo si dica chiaro, ma si inducono tali accentuazioni, tali toni e tali sfumature, dalle quali è facile dedurre un qualche lenimento della legge a favore della emancipazione umana. Questi toni sdrucciolevoli si trovano generalmente negli scritti superficiali, dall’andamento più giornalistico che ragionato, tuttavia creano delle perplessità nelle anime. Noi mettiamo severamente in guardia tutti i sacerdoti contro quello che si accenna, nei facili scritti, verso una maggiore emancipazione del volere umano e li esortiamo a stare accuratamente agli insegnamenti dei testi di Teologia morale che la scuola ha messo loro in mano [cioè quelli antecedenti al conciliabolo! -ndr.-]. Facciamo qualche esempio per spiegarci meglio. Quando si mette troppo l’accento sulla incomprensione che taluni giovani constatano da parte dei rispettivi genitori ed educatori, si tace troppo e volentieri che, ad onta di qualsivoglia incomprensione, intatta – e per diritto divino — la patria potestà con le sue emanazioni. Così, per compiangere i giovani, si giunge praticamente ad asserire la loro emancipazione dalla virtù della obbedienza, dal dovere della disciplina, sostituendo un certo colloquio, che sarà sempre utile, ma non è un equivalente della obbligazione voluta da Dio. Per lo stesso motivo si finisce con l’addurre le generazioni giovanili a disprezzare l’apporto insostituibile della esperienza e ciò con danno enorme dei giovani stessi, spinti in tal modo a ricredersi per la via dell’esperimentato e generalmente tardivo dolore inutile. – Pare che molti lentamente stiano arrivando ad ammettere che tutto diventa morale quando è afferente alla libertà ed alla personaumana. Ciò in contrasto con il dato fondamentale della vita che è una prova di come ci si sa diportare di fronte ad una Legge, non deterministica, ma obbligante in linea morale.

3 — E cambiato qualcosa in materia di castità, di purezza, di modestia? (Modernamente si direbbe: «in materia sessuale», ma preferiamo mantenere la vecchia e più cauta terminologia). È certamente cambiato in molti il modo di considerare il sesto comandamento, ma non è cambiata la Legge. Vediamo dunque come è cambiato questo «modo». – Anzitutto si parla della materia come se il parlarne non implicasse più ragioni di educazione, di pudore, di cautela, di difesa dal fomite della concupiscenza. Di conseguenza se ne parla troppo. Ciò è connaturato al diffondersi della teoria freudiana. Ma, riteniamo, è dovuto molto più all’esagerato senso della personalità umana, per cui si cerca di eliminare tutto quanto alla stessa è limite, contenimento, sacrificio. Questo, dopo aver dimenticato che la persona umana è soggetta alla Legge e non è arbitra della Legge. Finalmente se ne parla troppo per non esser da meno della grande stampa, la quale ostenta abitualmente in materia la più grande procacità o la più voluta indifferenza, salvo ad abbandonarla contradditoriamente quando una regola morale le viene bene per creare lo scandalo e l’utile dello scandalo. Guardandosi intorno si può avere anche la impressione che si debba considerare morto il senso del pudore. Ma, stiano attenti i sacerdoti: non esiste un consenso nel male, ossia, il largo consenso nel male non modifica in nulla la legge del bene. Si dovrebbe osservare la Legge di Dio, anche se si restasse soli! Una ben intesa psicologia ed una retta pedagogia, considerando l’insieme del quadro in cui oggi avviene lo sviluppo e la educazione, potranno variare certe impostazioni affatto secondarie e probabilmente nocive nella situazione moderna; ma non toccano né la debolezza, né il fomite, né il rapporto di attrattiva, né la sostanza del peccato e della virtù. Siamo d’accordo nel dire che la sola modestia degli occhi oggi non basta più, data la esibizione del contegno e di tutte le comunicazioni sociali. Ma ciò significa che si deve tutelare la virtù piuttosto con il metodo attivo, positivo e combattivo, e che occorrono maggiori riserve interiori; non significa affatto che la modestia degli occhi oggi non sia più necessaria. Il pericolo di peccato è aumentato, non diminuito. Il rapporto tra l’anima ed il corpo rimane lo stesso; le conseguenze del peccato originale non si sono affatto affievolite; il rumore, la fretta e la incessante varietà delle sensazioni non dispensano dai problemi, ma ne creano uno nuovo togliendo concentrazione e indipendenza all’azione dello spirito. Il mistero del quanto il materiale attinga lo spirito e del quanto lo spirito incida sul materiale è ben grande; rimane non meno il dovere obiettivo di difendere lo spirito, di prendere tutte le necessarie cautele contro le debolezze proprie del composto umano. – Dovremo appresso ritornare sull’argomento.

4. – Non è mutata la fisionomia teologica del sacramento della Penitenza. E dottrina cattolica che esso è intrinsecamente, oltre che un sacramento, un giudizio. La interpretazione che la Tradizione ha sempre dato di tutte le parole evangeliche riferentisi alla istituzione del sacramento ed al conferimento del perdono non lascia dubbi al riguardo. Il consenso di tutta la Chiesa, durato tanti secoli, chiama in causa la sua infallibilità e pertanto la divina garanzia. Chi volesse toccare il carattere giudiziario del sacramento della Penitenza sarebbe obbligato a distruggere la Tradizione ed il magistero ecclesiastico. Per questo motivo la fisionomia teologica e giuridica del sacramento non viene né può venire in discussione, come non possono discutersi tutte le conseguenze della essenza; anche giuridica. È per questo motivo che, salvo il caso di necessità urgente o di impossibilità, nessuno può arbitrarsi di manomettere in qualsivoglia modo la integrità formale della accusa dei peccati, sostituirla con accuse generiche e collettive o trovate simili.

5. – Fino a questo momento non è cambiato neppure il rituale del Sacramento. Il rituale costituisce una Legge, che vincola in coscienza. Pur sapendo che anche il rituale dei sacramenti andrà soggetto ad una riforma, bisogna attendere che venga e nessuno è autorizzato a sostituirsi nelle innovazioni ad una Autorità, quale risiede solo nella Chiesa. In conclusione: solo la Legge può addurre mutazioni; prima della legge, quando non si voglia garantire la perfetta osservanza, non resta altro che la indisciplina e la anarchia. Il diritto liturgico è stato legittimamente per molti secoli riservato al potere supremo della Chiesa; attualmente il Concilio Vaticano II ha riconosciuto alcuni poteri ad organi inferiori [altra chiara stoccata alle mutazioni del falso concilio – ndr.-]. Nella materia di loro competenza bisogna attendere che questi decidano. L’ondata pseudoculturale di estrazione hegheliana che ha investito tutte le manifestazioni intellettuali, impoverendole, ha investito anche talune scuole e persone ecclesiastiche. Si tratta di ignoranza di quella estrazione (come abbiamo già molte volte ammonito), si tratta di complessi di inferiorità rispetto ai grandi colori della messinscena pubblicitaria, si tratta in ultima analisi di uno svanire nella distinzione del bene dal male, della verità dall’errore, di una pretesa creativa dell’essere nel vero e nel buono: gli ecclesiastici se ne guardino specialmente a proposito di un sacramento fondamentale per la salvezza dell’uomo peccatore. L’idea della indifferenza tra bene e male è praticamente presentata in concreto dalla grandissima maggioranza degli attuali mezzi di comunicazione, in termini espliciti da imprese editoriali, che non si occupano né del bene né del male, ma solo del danaro. Essa, immessa dalla lettura quotidiana, a poco a poco, si può insinuare e di fatto in qualche modo si insinua anche nel clero. Questo denunciamo altamente e contro questo pericolo mettiamo tutti in guardia. – Il sacramento della Penitenza è legato con situazioni che non muteranno mai; neppur esso cambierà, quanto alla sua sostanza ed alla base morale che sempre suppone il giudizio morale.

[Continua… ]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: IN DOMINICO AGRO

S. S. Clemente XIII

In questa Lettera Enciclica, il Santo Padre Clemente XIII, propone all’attenzione dei fedeli un argomento centrale per la fede cattolica: il Catechismo! Opportuna ne è la diffusione e la spiegazione, da parte di persone competenti e pieni di amore per le anime da salvare. Non a caso, è infatti pure il motivo per il quale i modernisti usurpanti, insediati dal 1958 nella Chiesa Cattolica ai livelli più elevati (o più abissali), trasformata in sinagoga di satana, hanno provveduto a compilare un catechismo falso, in cui accanto a verità che non potevano essere cancellate senza dar manifesti sospetti, hanno trovato posto espressioni sibilline, biforcute, che dicono una cosa negandola dopo due righi, cose mai contemplate nè dalla tradizione, nè dalla Sacra Scrittura, nè dal Magistero Apostolico … senza parlare dei pseudo-catechismi olandesi di chiara fattura gnostico-massonica, allegramente sdoganati dalle false autorità della setta gnostico-massonica vaticana, infestante tutto l’orbe un tempo cristano [l’urbe è diventata invece una indegna babilonia pagana …!]. Pertanto, ligi alle disposizioni dei Sommi Pontefici, Clemente XIII e successori, abbiamo tutti l’obbligo “sub gravi”, di abbeverarci al catechismo del Concilio di Trento, a quello del Bellarmino, o a quello del Santo Pio X, e fuggire come la peste e la lebbra, i catechismi di lucifero, quelli cioè concepiti, scritti e diffusi dopo l’infame conciliabolo c. d. Vaticano II, soprattutto il deviante e devastante C.C.C., vero obbrobrio e abominio agli occhi di Dio e … dei veri cattolici. Nell’attesa di procurarci, per chi non li possedesse ancora, onde studiarli con somma attenzione e profitto, i testi non manipolati dei Catechismi della Chiesa Cattolica, leggiamo il documento Apostolico ricco di importanti indicazioni ed insegnamenti infallibili ed irreformabili.

In Dominico agro

1. Nel coltivare il campo del Signore, cui per divina provvidenza siamo preposti, nulla richiede sì vigile cura e perseverante attività quanto la custodia del buon seme gettato, cioè della dottrina cattolica affidata da Cristo Gesù agli Apostoli ed a noi consegnata. Se questa viene trascurata a causa di pigra oziosità o inerte accidia, mentre gli operai dormono il nemico del genere umano vi semina sopra zizzania; motivo per cui avviene che al tempo della mietitura, invece di trovare ciò che si deve riporre nei granai, si trova ciò che deve essere bruciato dalle fiamme. – A difendere la fede una volta consegnata ai Santi, Ci spinge ardentemente il beatissimo Paolo, il quale scrive a Timoteo che custodisca il buon deposito (2Tm 1,14), perché sovrastano tempi pericolosi dal momento che si trovano nella Chiesa uomini cattivi, e seduttori, per opera dei quali l’insidioso tentatore cerca di inficiare le menti incaute con questi errori, che sono nemici della verità evangelica.

2. In verità se (come spesso accade) nella Chiesa di Dio cercano di farsi strada idee tendenziose le quali, pur contrastanti tra di loro, in questo solo collimano, nel minacciare in qualche modo la purezza della fede cattolica, allora davvero è molto difficile, nel cautelarci tra l’uno e l’altro nemico, calibrare talmente il nostro discorso da sembrare di aver voltato le spalle a nessuno di loro, ma invece di aver evitato e condannato egualmente l’uno e l’altro nemico di Cristo. Talvolta avviene che facilmente una diabolica falsità, con una certa sembianza di vero, si ricopra di menzogne colorate, mentre l’efficacia delle sentenze viene corrotta da brevissima aggiunta o da mutamento, sì che la testimonianza che portava salvezza, talora con sottile passaggio porta alla morte.

3. Perciò da questi sentieri sdrucciolevoli e angusti, sui quali difficilmente puoi camminare od entrare senza caduta, sono da tenere lontani i fedeli e specialmente coloro che hanno ingegno più rozzo e più semplice: le pecore non si devono guidare ai pascoli attraverso vie impraticabili, né si devono proporre loro talune singolari opinioni, anche di Dottori cattolici; ma deve essere loro insegnata la parte certissima della verità cattolica, la totalità della dottrina, la tradizionale, quella sulla quale c’è consenso. Inoltre, non potendo il volgo salire il monte (Es 19,12) sul quale è scesa la gloria del Signore, e poiché nel tentativo di violare i confini per contemplarla perirebbe, i Dottori devono fissare al popolo i limiti di un circuito, in modo che il discorso non vada oltre quelle cose che sono necessarie o almeno molto utili alla salvezza, ed i fedeli obbediscano al suggerimento dell’Apostolo: “Non voler conoscere più di quanto è necessario, ma conoscere a sufficienza” (Rm 12,3).

4. I Romani Pontefici Nostri Predecessori, conoscendo perfettamente ciò, posero tutto il loro impegno per stroncare non solo con la spada dell’anatema i germi velenosi degli errori fin dal loro nascere, ma anche per amputare certe idee effervescenti che, magari per eccesso, impedissero nel popolo cristiano un più generoso frutto di fede, o potessero nuocere agli animi dei fedeli per un’eccessiva vicinanza all’errore. Perciò, dopo che il Concilio di Trento condannò quelle eresie che avevano cercato allora di offuscare lo splendore della Chiesa, e riportò la cattolica verità in più chiara luce, avendo in certo modo allontanato la nebbia degli errori; i medesimi Nostri Predecessori, avendo compreso che quel sacro Convegno della Chiesa universale aveva adoperato sì prudente saggezza e tanta discrezione nell’astenersi dal riprovare opinioni fondate sull’autorità dei Dottori della Chiesa; secondo il pensiero del medesimo sacro Concilio vollero dar mano ad un’altra opera che comprendesse tutta la dottrina sulla quale era opportuno che i fedeli fossero istruiti, e che fosse assolutamente lontana da qualsiasi errore. Divulgarono, stampato, un libro intitolato Catechismo Romano, e per questo meritano doppia lode. Infatti in esso riposero la dottrina che è comune nella Chiesa ed è lontana da qualsiasi pericolo; e proposero con eloquenti parole di farla conoscere al popolo, obbedendo così al precetto di Cristo Signore, che ordinò agli apostoli di divulgare nella luce (Mt 10,27) ciò che egli avesse detto nelle tenebre, e ciò che avevano udito in un orecchio lo predicassero sopra i tetti, fedeli alla Chiesa sposa, conforme all’espressione: “Dimmi dove riposi nel meriggio” (Ct 1,6). Dove infatti non sia meriggio, e quindi la luce non sia così chiara che apertamente si conosca la verità, facilmente al suo posto si recepisce la falsità a causa di un certa verosimiglianza, che nell’oscurità difficilmente si discerne dal vero. Sapevano infatti che c’erano stati precedentemente, e ci sarebbero stati nel futuro, coloro che potevano invitare i pascenti e promettere più abbondanti pascoli di sapienza e di scienza: verso questi, molti sarebbero accorsi, perché le acque furtive sono più dolci ed il pane nascosto è più soave (Pr 9,17). – Perché dunque la Chiesa sedotta non vagasse al seguito di greggi di complici, vagabondi essi stessi, privi di alcuna certezza di verità, sempre discenti (2Tm III,7) e non mai giunti ad una scienza di verità, proposero fosse chiaramente ed in forma trasparente spiegato e consegnato al popolo cristiano soltanto quello che fosse necessario e sommamente utile per la salvezza.

5. In verità l’amore di novità danneggiò questo libro preparato con non indifferente fatica e zelo, approvato dal consenso comune e ricevuto con le massime lodi in questi tempi dalle mani dei Pastori: furono esaltati altri Catechismi in nessun modo paragonabili col Romano. Ne derivarono due danni: nello stesso insegnamento fu quasi tolto quel consenso, e fu offerto ai pusilli d’animo un certo scandalo, al punto che non sembrava loro di trovarsi sulla stessa faccia della terra (Gen XI,1) e con un linguaggio unico; il secondo, poi, che dai diversi modi d’insegnare la verità cattolica sorsero delle contese; dalla emulazione, mentre uno si dice seguace di Apollo, un altro di Cefa, un altro di Paolo, nacquero divisioni di animi e grandi dissidi. Riteniamo che niente sia più dannoso nel diminuire la gloria di Dio che la crudezza di tali dissensi, niente più rovinoso per impedire di cogliere i frutti che giustamente i fedeli potrebbero ottenere dalla disciplina cristiana. Infine, per allontanare dalla Chiesa questo doppio malanno, ritenemmo opportuno ritornare colà donde alcuni, con poco prudente consiglio, guidati dalla superbia, vantandosi di essere i più saggi nella Chiesa, avevano appunto allontanato il popolo fedele. Ritenemmo opportuno offrire di nuovo ai Pastori d’anime il medesimo Catechismo Romano, in modo che le menti dei fedeli siano distolte il più possibile, anche ora, dalle nuove idee non suffragate da consenso o da tradizione, e siano corroborate in quella che fu la fede cattolica e nella dottrina della Chiesa, che è colonna di verità (1Tm III,15). Affinché fosse più facile avere il libro, emendato dai difetti che aveva contratto per colpa dei lavori, decidemmo che fosse nuovamente stampato con somma diligenza nell’alma città di Roma, sull’esempio di quello che il Nostro Predecessore San Pio V divulgò con decreto del Concilio di Trento; il testo che per ordine del medesimo San Pio fu tradotto in lingua volgare e stampato, ben presto parimenti sarà di nuovo edito per ordine Nostro.

6. Dunque è vostro dovere, Venerabili Fratelli, fare in modo che nel presente difficilissimo tempo della Cristianità questo libro sia ricevuto dai fedeli quale sussidio molto opportuno, offerto per cura e diligenza Nostra, per rimuovere gl’inganni di false opinioni e propagandare e rafforzare la vera e santa dottrina. Pertanto, Venerabili Fratelli, vi raccomandiamo questo libro, quasi norma di fede Cattolica e di cristiana disciplina perché, anche nel modo di riportare la dottrina, vi appare il consenso di tutti i Romani Pontefici: vi esortiamo ardentemente nel Signore perché diate ordine che sia adoperato da tutti coloro che hanno cura delle anime nell’insegnare la verità Cattolica ai popoli, affinché siano conservate l’unità di erudizione, la carità e la concordia degli animi. È compito vostro provvedere alla tranquillità di tutti: questi sono i doveri del Vescovo: il quale perciò deve avere gli occhi attenti perché qualcuno agendo superbamente per la propria gloria, non procuri scismi, dopo aver rotto la compagine dell’unità.

7. Questi libri non porteranno certamente alcun frutto utile, o ben poco, se coloro che devono presentarli e spiegarli agli ascoltatori saranno scarsamente idonei all’insegnamento. Pertanto importa assai che per questo compito d’insegnare la dottrina cristiana al popolo scegliate degli uomini non solo provvisti di scienza delle cose sacre, ma molto più di umiltà e di zelo per la santificazione delle anime, e ardenti di carità. Infatti, tutta la disciplina cristiana consiste non nell’abbondante eloquio, non nell’astuzia del disputare, non nell’appetito di lode e di gloria, ma nella vera e volontaria umiltà. Vi sono infatti taluni che una scienza maggiore innalza, ma disgiunge dalla comunità degli altri; e quanto più sanno, tanto più mancano della virtù della concordia: essi sono ammoniti dalla sapienza stessa, dalla parola di Dio: “Abbiatesale in voi (Mc IX,49) e abbiate pace tra noi“: così infatti è da ritenersi il sale della sapienza, affinché da esso l’amore del prossimo sia custodito, e le debolezze siano temperate. Se essi sono animati dallo zelo della sapienza e sono distolti dalla cura del prossimo ed orientati verso le discordie, essi hanno un sale senza pace, non dono di virtù, ma motivo di dannazione; quanto più sanno, tanto peggio peccano. Li condanna veramente la sentenza di Giacomo apostolo con quelle parole: “Se avete una rivalità amara, e nei vostri cuori albergano contese, non vantatevi di essere mendaci verso la verità: codesta sapienza non viene dall’alto, ma è terrena, animale, diabolica” (Gc 3,14): dove infatti ci sono invidia e contesa, colà si trovano incostanza e ogni opera cattiva. Ma la sapienza che viene dall’alto è anzitutto pudica, quindi pacifica, modesta, docile, consenziente nel bene, piena di misericordia e di frutti buoni, non ipercritica, senza emulazione.

8. Mentre dunque preghiamo Dio con umiltà di cuore e animo afflitto, perché conceda indulgenza alla nostra diligenza ed agli sforzi del nostro operare, e larghezza di misericordia, affinché il dissenso non turbi il popolo fedele, e affinché nel vincolo della pace e nella carità di spirito conosciamo tutti, lodiamo e glorifichiamo un solo Dio e il Signore Nostro Gesù Cristo, salutiamo Voi, Venerabili Fratelli, nel bacio santo; a Voi tutti, e parimenti a tutti i fedeli delle vostre Chiese, con grande affetto impartiamo l’Apostolica Benedizione.

Dato a Castel Gandolfo, il 14 giugno 1761, nell’anno terzo del Nostro Pontificato.