GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (3)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(3)

4. – L’atto di fede

Sospendiamo per un momento lo studio dei motivi che ci spingono a prendere la decisione di perfezione, per cominciare a studiare gli elementi della perfezione stessa, di cui avete avuto ieri la definizione e di cui spero avrete l’idea chiara, semplice, riassuntiva. Il primo punto che logicamente si presenta a proposito della perfezione è la fede. Perché tutto parte dalla fede, tutto è proporzionato dalla fede nel nostro cammino spirituale verso Dio, nel ritmo di questo incedere verso Dio, nel modo e nel metodo di questo nostro progresso verso l’alto. Tutto comincia dalla fede, e tutto in certo modo è proporzionato dalla fede. Pertanto chi si mettesse a battere la via di Dio, che è la via della perfezione, prescindendo da uno studio della fede, perderebbe semplicemente il bandolo della matassa, non avrebbe più la luce, se ne andrebbe avanti con la testa nel sacco. Richiamo la vostra attenzione su una verità. La ricerca della perfezione, l’esplorare il cammino nostro d’avvicinamento a Dio non è una questione dell’istinto né del sentimento. L’istinto e il sentimento potranno venir bene, perché sono due capacità in fondo emotive che sussidiano la nostra energia, che umanizzano la nostra strada e la fanno digerire meglio; ma chi credesse di poter affidare il proprio cammino verso Dio all’iniziativa dell’istinto e, quanto sarebbe peggio, all’iniziativa del sentimento, credo che finirebbe per concludere poco o niente. – Bisogna sempre cominciare a ragionare, e prima di tutto bisogna raggiungere la saggezza, la sapienza, e per raggiungere la sapienza bisogna aver prima la scienza, e per avere la scienza, in questo caso, bisogna prima ragionare della fede. E’ ben questo il tracciato logico, altrimenti la via spirituale rimane sospesa sui trampoli e non si conclude nulla. Che cosa è l’atto di fede? E’ essenzialmente un atto d’intelletto, un atto con il quale l’intelletto aderisce, ossia accetta una verità, e l’accetta spinto da questo motivo: l’autorità di Dio rivelante. Ossia io faccio l’atto di fede quando dico: la mia mente aderisce e accetta questa proposizione, per esempio: Dio è trino, e l’accetta e vi aderisce perché Dio l’ha rivelata. Il motivo è questo e solo questo. Non l’accetto perché a me pare conveniente, no; questo non sarebbe un atto di fede; non l’accetto perché a me pare molto logico e molto opportuno supponendo d’aver studiato l’Ars Magna di Raimondo Lullo; se anche a me sembra possibile, se anche a me sembra razionale, io non l’accetto perché a me sembra razionale, l’accetto perché Dio l’ha rivelata, l’accetto sulla parola di Dio. Questo è l’atto di fede. – Ora vediamo un po’ punto per punto. L’atto di fede è un atto dell’intelligenza, un atto di adesione intellettuale. Pertanto qui non c’entra nessun sentimento, nessuna emozione. Le emozioni aiuteranno, spingeranno, imbottiranno, levigheranno, ma le emozioni qui non c’entrano. La sostanza dell’atto di fede è un atto essenzialmente intellettuale; badate che è per questo che lo si fa in piedi, perché nell’atto di fede è la sommità dell’uomo che si muove, l’intelletto. L’atto di fede è domandato all’uomo nella sua sostanza, espressione e azione migliore. Se voi cantate il Credo gregoriano, il terzo, quello che normalmente si canta alla Messa degli Angeli, osserverete una cosa: il Credo terzo è un canto sillabico, non vi è alcun lirismo; però quando finisce e arriva all’Amen, l’Amen non è più sillabico, diventa lirico; è un lirismo abbastanza lungo e complicato, tanto che riesce difficile farlo eseguire con uniformità quando si tratta di una grande massa corale. Perché quando si canta il Credo tutto il testo è sillabico e l’Amen diventa lirismo? Bisogna riportarci a quei monaci i cui nomi si sperdono nel Medioevo. Noi non sappiamo chi furono i compositori di questa melodia del Credo terzo, non sappiamo dire se non che si proiettano talmente indietro che non arriviamo a individuarli; ma siccome erano persone che vivevano abbastanza lontane dal mondo per potere intendere Dio, nella stessa costruzione musicale erano guidate da una intuizione teologica perfetta. – Chi sente la Messa di Papa Marcello, di Pier Luigi da Palestrina, rimane stupito dalla velocità con la quale si canta il Credo. Passa in un attimo il Credo della Messa di Papa Marcello, la più grande Messa forse della prima epoca classica della musica polifonica. Passa in un attimo; ma quando arriva all’Amen, si direbbe che non finisce più, perché si trasforma in una fuga; prende quegli andamenti arditissimi della grande composizione e pare che non trovi, come un uccello che vola, dove andare a posare, come una colomba di Noè. Ma perché questo? Perché quella gente costruiva la musica, ma viveva in un ambiente che era saturo di teologia. La parola più grande che si dice nel Credo è l’Amen; e l’Amen perché dalla prima all’ultima parola del testo le proposizioni si enunciano, si mettono lì davanti; e non è mica detto che mentre si dicono non ci sia l’atto di adesione dell’intelletto: io credo in Dio Padre Onnipotente; ma la espressione ufficiale, riassuntiva, per la quale si dice: è così, accetto, è l’Amen. Badate che l’atto di fede è in questo momento dell’intelletto che aderisce, che accetta e dice: ita est. Diteli bene tutti gli Amen che si dicono in chiesa, diteli con tutta l’anima: sono la vittoria sul mondo. Sapete perché? Osservate bene gli uomini: sono buoni poi, in fondo, non sono poi tutti cattivi, gli uomini; ma sono talmente nell’incertezza che si direbbe non hanno più nessuna sicurezza di vita. E tutto è incerto, tutto è problematico, tutto è dubbio. Oggi uno ha 1’impressione d’ essere scemo se non fa della problematica. Questo povero mondo fa veramente pietà; dove noi sentiamo la superiorità sul mondo, perché noi dobbiamo sentirla questa superiorità sul mondo in cui siamo quando andiamo verso Dio, è quando diciamo quell’Amen, quando abbiamo la sicurezza definitiva, quando viviamo di sicurezza. Dunque l’atto di fede è un atto di intelletto. Ma l’intelletto non è una ruota che giri a vuoto. L’intelletto si dipana attraverso le idee, attraverso il giudizio, attraverso il raziocinio. Lo sanno bene quelli che studiano la logica, visto che senza studiare la logica è difficile studiare la teologia. L’intelletto non gira a vuoto: o ha un oggetto o non gira, e allora è chiaro che perché l’atto di fede sia veramente una cosa seria, bisogna che ci sia la cognizione dell’oggetto, ossia della verità di fede. E’ vero che questa cognizione può essere anche riassuntiva, implicita, ma allora si avranno degli atti di fede molto riassuntivi e molto impliciti. – Io posso dire: credo tutto quello che mi insegna la Santa Chiesa Cattolica; faccio un atto di fede che è completo, d’accordo, ma l’oggetto di questo atto di fede è molto riassuntivo: quello che insegna la Santa Chiesa Cattolica. In questo c’è atto di ossequio alla volontà di Dio il quale vuole che io accetti come maestra infallibile e unica della rivelazione divina la Santa Chiesa Cattolica; ma sarebbe meglio che sapessi il I, il II, il III, il IV, il V e gli altri articoli del Credo. Li sapessi bene, li sapessi con quella diffusione e profondità che mi può dare la teologia. Più ne so e meglio è. Lo capite ora perché la teologia serve sempre di più a fare gli atti di fede? Io insisto su questo punto perché la ricchezza della vita spirituale comincia dall’ atto di fede, perché l’atto di fede dipana una delle sue grandi ricchezze, non l’unica, proprio la ricchezza dell’oggetto, la ricchezza conosciuta dell’oggetto. Più conosco, più ne so; più riesco a contemplare e più il mio atto di fede è vivificante e più la fede entra nella mia vita trionfalmente, come una di quelle grandi travature che reggono tutto il tetto e non lasciano ad altri di reggere niente. Perciò è opportuno che regga tutto la fede, che non lasciamo a nessuna altra cosa l’incarico, la possibilità di reggere in noi. Ma tutto finisce per essere retto dalla fede in noi se l’oggetto della fede è molto chiaro, cioè se è chiara la proposizione a cui si aderisce, che si accetta, quando l’oggetto della fede è così dettagliato, è così, vorrei dire, sezionato e reso per tal modo in una distribuzione di toni intellettuali digeribile da farlo diventare facilmente e abitualmente sangue nostro e vita della vita nostra. E tutto questo discende dal fatto che l’atto di fede è un atto di intelletto. – Ma io qui ho detto molto poco. Quest’atto d’intelletto da che cosa viene, non dico determinato, che è un’altra cosa, ma azionato? Che cos’è che prende il mio intelletto, consentitemi l’espressione, per il collo e lo fa piegare? Perché qui ci vuole una presa per il collo, dato che la fede non è la visione, perché la visione annullerebbe la fede; difatti noi perderemo tutti la fede e la virtù della fede nel momento in cui moriremo. Quando entreremo di là, quando arriveremo al cospetto di Dio, in Paradiso, dove speriamo di giungere tutti quanti, dove ci diamo appuntamento, allora perderemo la fede, perché c’è la visione, mentre la fede è adesione a una verità non perché io la veda con evidenza ma perché me lo ha detto Iddio. Capite perché c’è inconciliabilità tra la visione beatifica e l’atto della virtù della fede? Sicché la fede, così utile, così magnifica, è una cosa moritura, di natura sua, come la speranza. Anche la speranza cessa nel momento in cui si tocca la cosa sperata; quando non c’è più niente da sperare perché si ha tutto, la speranza muore. Lo dice chiaramente S. Paolo nel cap. 13 della Prima Lettera ai Corinti: « Nunc autem fides, spes, caritas, maior autem caritas ». Però quando io non sarò più bambino, dice S. Paolo, lascerò le cose che sono dei bambini; e cioè fin qui io vedo in specchio e in enigma la fede, ma allora io vedrò chiaramente, sicut cognitus sum, come sono veduto da Dio: la visione immediata, e pertanto cesserà la fede. Allora che cos’è che prende il mio intelletto per il collo e dice: aderisci, accetta? E’ la volontà. Qui c’entra la volontà. C’entra come motore estrinseco; « l’atto della fede in sé stesso è intellettivo, ma ha bisogno d’essere piegato dalla volontà; ci vuole l’energia della volontà. A questo punto non è questione soltanto di luce, è questione di forza, e allora è proprio qui che, essendo l’atto di fede piegato dalla volontà che interviene a imporlo, chiama in causa l’energia; ha bisogno di quella e può risentire della debolezza di quella. Fermiamoci un istante. E’ evidente che la fede ha bisogno di un nutrimento, non solo del nutrimento dello studio, ma anche del nutrimento energetico dell’orazione. E’ a questo punto della analisi dell’atto di fede dove si capisce che la fede ha bisogno continuo della orazione, e naturalmente ha bisogno di tutti gli altri mezzi coi quali si aumenta l’energia nostra, cioè ha bisogno di tutte quelle sorgenti della grazia di Dio che sono i sacramenti, i sacrifici, ecc. Ha bisogno di tutto, perché la nostra volontà, poveretta, ha bisogno di ricevere l’elemosina da ogni cosa, tanto è meschina. – Ora quando si tratta di quello che viene a noi ex opere operato dalla Santa Messa e dai sacramenti, beh, ci pensa abbastanza per conto suo a venire; ma quando andiamo un po’ più in là e l’iniziativa rimane nostra, l’iniziativa si chiama orazione. Se non si prega, è molto difficile che la virtù della fede rimanga con quella chiarezza, solidità ed efficacia innervante tutta quanta la vita, senza la quale non possiamo parlare di cammino alla perfezione. Su questo secondo punto ritornateci spesso, perché fa vedere, con l’introspezione dello stesso atto di fede, la necessità di abbinare sempre la fede con la orazione. Noi non possiamo dare alla nostra fede tutto quello splendore e tutta quella forza che trascina, che costruisce, che edifica, che penetra i cieli, se manca l’orazione. Ed è per questo che Nostro Signore ha detto: « Sine intermissione orate ». La fede è la prima cosa che è dentro di noi, e la fede a gran voce chiede l’orazione e soprattutto l’orazione mentale. Ma a questo punto come fa la volontà a muoversi e a imporre l’atto di fede? Badate bene com’è l’analisi della fede. L’atto di fede è un atto d’intelletto; era, mentre questo atto d’intelletto non è mosso dall’evidenza, che non è il suo motivo proprio, ma dalla volontà, a sua volta questa volontà è mossa dall’intelletto. Insomma l’intelletto fa due parti, quello di cui vi ho parlato prima è la parte costitutiva essenziale dell’atto di fede, ma prima di fare quella, ne fa un’altra che è sua propria: passa un ordine alla volontà. Ve lo spiego subito. La volontà da che cosa è mossa per poter muovere l’intelletto? Da un ordine dell’intelletto; è l’intelletto che dice alla volontà: prendi me stesso e piegami. L’intelletto dà un ordine alla volontà, perché alla volontà si danno ordini, alla volontà non si danno ragionamenti, perché la volontà è una facoltà motiva, non facoltà intellettiva; è spirituale, sì, ma motiva. Ma questo ordine dato alla volontà è preceduto da un giudizio emesso dall’intelletto, in quanto l’intelletto si determina a dare quest’ordine alla volontà perché prima ha dato un giudizio. E il giudizio qual è? E il cosiddetto giudizio di credibilità e di credendità. Il giudizio è questo: ci sono motivi sufficienti perché io possa credere. Non solo il giudizio di credibilità. Se io posso credere, io debbo credere; allora do un ordine alla volontà che muova tutto l’apparato. – Su che cosa è basato questo giudizio di credibilità e di credendità? Sono tutti i prolegomeni della fede. E su che cosa vertono i prolegomeni della fede? Sull’oggetto della fede? Cioè i prolegomeni della fede mi dimostrano forse che Dio è Padre onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo, l’Incarnazione? No, i prolegomeni della fede non dimostrano l’oggetto della fede; dimostrano il motivo della fede, cioè il fatto che Dio ha interposto la sua autorità rivelando e ha garantito con la sua autorità, che è la ragione più alta della certezza. L’autorità di Dio è infinitamente più alta della mia evidenza, ed è infinitamente più valevole della scienza, di ogni scienza umana e anche sovrumana; l’autorità di Dio si è interposta e pertanto mi dà la garanzia di questa verità. Io non vedo, la verità, non vedo l’oggetto, non lo vedo direttamente, ma interviene Iddio e mi dice: t’avverto che ci sono Io. Allora mi posso fidare. Allora il lavoro previo dell’intelletto è di assicurare se è vero che Dio ha parlato o no; e questo può essere fatto in modo scientifico, e ci sono parecchie strade per farlo applicando gli stessi canoni coi quali si giudicano tutti gli altri fatti che cadono nell’ambito della storia e che sono registrati dalla storia. Lo stesso criterio, gli stessi strumenti di constatazione, di prova, la stessa efficacia di conclusione scientifica. L’intelletto dice: posso credere e, continuando a guardare, dice: debbo credere. Allora posso dare ragionevolmente l’ordine alla volontà. Ma forse voi direte: e perché l’intelletto deve dare ordine alla volontà che muova sé stesso? Non potrebbe muoversi da sé? Non può. Perché? Perché l’intelletto è mosso dall’oggetto suo proprio, dall’evidenza; e non c’è l’evidenza nella fede; si può raggiungere tutt’al più, il che è bastevole, l’evidenza del « motivo ». Io non dimostro la verità di fede, dimostro l’autorità del testimone, il quale testimone, essendo Iddio, è più che sufficiente, e mi permette di colmare ogni passaggio logico e d’arrivare alla certezza assoluta. – Mi direte: ma perché ha fatto questo riassunto dell’analisi della fede? L’ho fatto per poter venire a delle conclusioni, perché vediate chiaro nelle conclusioni. Intanto perché capiate che la fede è razionale, ha un procedimento razionale, ma non poggia sulla ragione; perché la ragione si ferma a dimostrare il motivo della fede, ma non l’oggetto, e per questo rimane il merito della fede. Ma si chiude un anello, e la fede è perfettamente razionale perché è provato il motivo, cioè l’autorità del teste. – Anche se io non ho assistito al fatto, sono pienamente qualificato per accettare il fatto che mi ha affermato il teste quando il teste è Dio. Ma il mio scopo non è tanto di fare della teologia, il mio scopo è spirituale; io sono qui e sto predicando a me stesso gli Esercizi a voce alta. E ho detto tutto questo, oltre che per dimostrare la razionalità della fede, per farvi toccare con mano le caratteristiche dell’atto di fede. E la prima caratteristica dell’atto di fede è la fermezza: cioè è l’atto più fermo di tutti. Perché la fermezza è proporzionata alla solidità del motivo sul quale ci si appoggia, è vero? Questa cosa è ferma tanto quanto sono fermi i fondamenti che la reggono. Se questi fondamenti sono di nebbia, misurate voi! Se questi fondamenti sono di pietrisco, andrà un po’ meglio. Se questi fondamenti sono di pietra, pietre ben cementate, sarà ancor meglio. Se questi fondamenti sono tutti quanti di cemento armato e rivestiti in modo tale da essere assicurati contro qualsiasi deterioramento del ferro stesso, sarà ancora meglio. E se questi fondamenti sono la roccia stessa, allora siamo a posto. Non saremo a posto per i terremoti, perché la roccia trasmette meglio le vibrazioni del terremoto, ma comunque, fuori dei terremoti, certo colla roccia ci si sta benissimo, le cose sono assicurate nel modo massimo. Siccome il fondamento sul quale poggia l’atto di fede, cioè il motivo della fede, è la stessa autorità di Dio rivelante, non si può concepire un atto più certo, più sicuro, più capace di dare garanzia; e siccome la sicurezza dell’atto è sempre proporzionata al motivo su cui s’appoggia, l’atto di fede fruisce di una certezza che è superiore a tutte le altre certezze scientifiche che noi possiamo avere. Perché quelle sono date, quando lo sono; dall’evidenza nostra naturale, niente più, quando pure lo sono. Perché non bisogna dimenticare che regolarmente il 50% delle conclusioni scientifiche sono rimangiate da quelle che vengono dopo, perché non erano affatto conclusioni scientifiche. Dico 50% nella ipotesi più benigna; io non posso dimenticare che un giorno il più grande scolaro di Fermi, che forse era più scienziato del suo maestro, mi diceva che è il 95%. Io non sono in grado di giudicare; ma ho interpellato altri grandi uomini e, facendo la media delle risposte che mi hanno date, sono arrivato al 50%. Questo per dire cosa dobbiamo pensare della cosiddetta sicurezza e certezza scientifica. Ma fosse anche il 100%, v’avverto che è di natura diversa; la fermezza dell’atto di fede è superiore a qualunque certezza di carattere scientifico, fosse anche certezza del 100%. Noi siamo della gente certa, non della gente tormentata come da un complesso d’inferiorità, che dubita di tutto, che sempre presenta la realtà più innegabile in forma problematica; cioè noi non siamo degli ammalati. Il mondo è ammalato, e la sua malattia è l’incertezza. Noi siamo al suo servizio per cavarlo fuori. Ma noi Cristiani siamo della gente certa, e tanto siamo Cristiani in quanto siamo certi. Badate. Siamo nel secolo V e principio del VI: è l’epoca delle invasioni barbariche, durante le quali l’uno o l’altro di questi messeri del nord si prende il capriccio di fare delle passeggiate per tutte le varie strade dell’impero; e giungono fino a Roma; epoca in cui t’arrivano i Vandali in Africa, e S. Agostino se ne muore leggendo i Salmi penitenziali mentre la sua città è circondata dai barbari. In questo momento in cui la Chiesa Occidentale tutta raccolta attorno ai Papi, ai Vescovi, succede qualcosa. Quattro monaci marsigliesi si sono montati la testa. Si tratta di un puntino invisibile. Ma la Chiesa, che ha avuto l’incarico di custodire la verità, bada anche ai puntini quasi invisibili, perché questi finiscono col fare come le nuvole che s’allargano e poi viene la tempesta. Si trattava di questo: citavano che proprio all’initium fidei non è necessario che arrivi la grazia, si può fare anche senza la grazia di Dio. All’initium, cioè all’attimo primo nel quale in una mente sboccia fuori questa puntina, questa testa d’erba che si chiama fede, l’atto di fede ci si può arrivare da sé. E ci si sono accaniti per un secolo sul Semipelagianesimo. La questione e stata risolta definitivamente nel 529 con la condanna nel Concilio di Orange. Se all’initium fidei si dovesse ammettere che ci si arriva da soli, si sconvolgerebbe tutta quanta la costruzione che sta sopra. Guardate che conto ha fatto la Chiesa anche dei più piccoli particolari che riguardano la dottrina circa l’atto di fede. Perché ha fatto questo conto? Perché la purezza della dottrina circa lo stesso atto di fede domina tutta la perfezione, tutta la vita spirituale. Questo è l’insegnamento storico. Ecco perché, parlando della perone e dicendo che dobbiamo uscire da questi Santi Esercizi con la volontà seria della perfezione, ho voluto occuparmi dell’atto di fede e della fede.

5. -Continuazione dell’atto di fede

L’atto di fede, fondamento della vita spirituale e pertanto della perfezione, non è tale da escludere la dubitabilità. Che significa questo? Significa che, con tutte le sue caratteristiche, non impedisce che intorno vi possano essere delle tempeste, che il dubbio possa assalirvi. E’ per questo che l’atto di fede ha bisogno d’essere armato dello studio del catechismo, della religione, della teologia, per dire i diversi gradi, secondo le diverse possibilità dei fedeli. Ha bisogno di essere armato della orazione umile che chiede a Dio il superamento dei difetti, delle ombre, dell’anemia. Ha bisogno d’essere armato di un metodo completo di vita spirituale. E’ chiaro che la dubitabilità può essere sconfitta da tutta questa armatura che l’esperienza indica come pienamente efficiente nella vita dei fedeli che intendono servire seriamente Dio. – Ma detto questo in linea generale, io vorrei venire a una questione di grande importanza in ordine al tema di questi Santi Esercizi. Il tema più particolare è questo: tra le onde adirate che possono gettarsi contro questa scogliera dell’atto di fede, c’è quella dei diversi modi di pensare che la fantascienza mentale moderna ci può regalare in una forma inconscia. Perché è facile mettere in guardia contro le eresie, contro gli errori, appunto perché si suppone che si presentino come sono, con proposizioni chiare, che chiaramente denunciano la deformazione della verità, tali che eccitano sempre in chi vuol vivere secondo Dio l’immediata reazione, la presa di posizione, la difesa, la ripugnanza. – Ma il guaio sta in quello che viene ammannito in dosi omeopatiche e che, peggio, viene diluito nell’atmosfera culturale in modo tale da togliere quello che stimola la reazione, da creare nella mente, più che degli errori contro la fede, degli stati d’animo, i quali finiscono poi col produrre lo stesso effetto, come se si fosse diventati erranti nella fede. E ne parlo, non perché io mi preoccupi qui dell’aspetto intellettuale, ma perché mi preoccupo dell’aspetto spirituale; perché l’insorgere di taluni stati d’animo finisce sempre col far deragliare qualche cosa dalla ordinata e giusta via spirituale e diventa un attentato costante contro la perfezione. – Se noi fossimo costituiti in grazia, costituiti nella verità, se avessimo i doni preternaturali dei nostri primi parenti e potessimo non essere attaccati nella nostra ignoranza, potremmo non preoccuparci di queste tempeste subcoscienti, di questi attacchi marginali che vengono in forme diluitissime e quasi non avvertibili. Ma siccome siamo deboli e deboli su tutta la linea, siccome siamo facilissime prede delle ombre che emergono dagli stati d’animo, siccome non sempre abbiamo quella difesa della dottrina profondissima, agguerritissima, delicatissima nel saper sceverare anche i filamenti più reconditi, bisogna che, proprio per amore di questa perfezione alla quale ci vorremmo incamminare, noi ci immunizziamo, ci vacciniamo a tempo. Ecco, si tratta di fare una vaccinazione tempestiva perché, ripeto, dinanzi a tutti i rumoreggiamenti che il male può fare dinanzi alla nostra fede e che possono essere sempre magnificamente superati, ce n’è uno che mi pare il più difficile a superarsi, perché è il più nascosto ed è diluito nell’aria. Non è mai accaduto in tutta la storia a noi nota che determinate dottrine filosofiche siano filtrate così in tutta la cultura, in tutto il costume al punto da

far pensare la massa della gente a modo loro e in modo che non si accorga di pensare a quel modo. Fino a qualche decennio fa, i mezzi di trasmissione della cultura erano legati a due sole forme: alla scuola e ai libri. La scuola era frequentata relativamente da pochi, i libri erano letti ancor meno. Io ricordo quando uno, comperando una dozzina di libri all’anno, in fondo poteva dirsi al corrente. Oggi io credo che se anche uno ne compera non una dozzina ma milleduecento all’anno, non potrà dire veramente di essere al corrente. Comunque una volta c’era la scuola, e questo era uno strumento ridotto, e il libro, e questo era uno strumento non troppo diffuso. Oggi questi due strumenti sono ingranditi enormemente. Ma a questi si sono aggiunti degli strumenti diffusori della, chiamiamola così, cultura annacquata; la radio e la televisione sono entrate in tutte le case. La gente è rimpinzata dalla mattina alla sera di cultura. Per conseguenza la maggior parte della gente si trova impregnata senza saperlo di una dottrina filosofica. Quale? Se noi passiamo al filtro tutte le pubblicazioni, dico tutte quelle che escono fuori dell’ambiente cattolico, compreso anche qualche pezzo di qualcuna che esce nell’ambiente cattolico, noi vediamo che il 40% si riduce a opere idealiste; l’altro 40% si riduce a opere esistenzialiste; quello che rimane è il freudismo; è il meno appariscente ma è quello che beneficia più dei due precedenti. E voi trovate nello stile della gente tutte queste cose; perfino nello stile dell’operaio che impasta il cemento trovate queste cose. – Il nostro tempo vive essenzialmente di idealismo. E’ opportuno avvertirne un aspetto concreto perché, avvertendolo, ci se ne può guardare. L’idealismo ha fatto la trasposizione completa dall’oggetto il soggetto, ha invertito le parti. Non è il soggetto che dipende dall’oggetto, ma l’oggetto che dipende dal soggetto. Questo rovesciamento l’aveva iniziato Lutero, ha camminato qua e là per l’Europa nella testa degli uomini per quattro secoli e alla fine è stato completo. La cosa avvenuta nella trasposizione tra soggetto e oggetto è questa, che siccome non siamo noi che dipendiamo dalla realtà, ma siamo noi che la creiamo, ecco, della realtà si può dire quello che si vuole. Esaminate voi ora la mentalità diffusa oggi e troverete costantemente questo carattere: si dice quello che si vuole. Io parlo della stampa del gran mondo; a certi margini dove sta la brava gente che non è completamente intossicata, le cose vanno diversamente, ma purtroppo non sono i più. Nel gran mondo le cose stanno così: ognuno dice quello che vuole, quello che crede. Dà dei fatti l’interpretazione più spontanea che gli sgorga dalla penna con meno difficoltà. E perché tutto questo? Per quel tanto di idealismo che sta dietro le spalle. L’idealismo è morto, così lo si insegna poco ufficialmente, pochissimo. Ma hanno applicato qualche canone dell’idealismo, quello sì. E quello è l’idealismo che sopravvive; l’idealismo classico è press’a poco tramontato, ma rimane il metro dell’idealismo, e noi ne siamo inquinati. V’è persino chi scrive libri spirituali con metodo idealistico. Perché uno dice quello che gli viene in mente, se lo inventa; non studia, non va a fare la consultazione mentre scrive; pensa quel che gli pare e vende così, e tutto va bene. Noi siamo stati intrisi di questo metodo. C’è un secondo coefficiente che rappresenta il 40% di tutta la cultura non cattolica del nostro tempo. E’ l’esistenzialismo. Non ripeto quello che ho detto, perché le cose se ne vanno con lo stesso ritmo, con la stessa penetrazione, con gli stessi effetti dell’idealismo. Ma vorrei darvi un elemento concreto per reperirli. L’esistenzialismo capovolge l’essenza e l’esistenza. Per l’esistenzialismo la cosa più vera che vale non è l’essenza, è l’esistenza. Traducete in parole povere: è il fatto che vale, non l’idea. Tra i fatti, il più clamoroso è l’angoscia, il nichilismo. Pertanto il pessimismo. Vi prego di guardare il modo di ragionare che s’è diffuso da tutti questi strumenti che io vi ho messo dinanzi. Ciò che conta è il fatto. E’ questo che vale e basta. Ecco il capovolgimento tra essenza ed esistenza. Potevano sembrare questioni oziose, queste, quando nell’800 si stava a discutere fra i teologi se essenza ed esistenza si distinguevano o non si distinguevano; se si doveva stare con i Suareziani o contro i Suareziani. Allora, per grazia di Dio, queste questioni si facevano nella scuola, e anche se qualcheduno poteva deviare dalla linea obbiettiva, la cosa rimaneva nella scuola e finiva lì. Nel nostro tempo di queste cose non c’è più rimasto nulla nella scuola, ma è rimasto lo stile, che annulla l’idea. Il fatto è questo. – Basta. E così siamo arrivati alla legge della giungla. Dei fatti poi, quello più sintomatico è quello dell’angoscia e della disperazione. Oggi non si scrive più un romanzo che, o nella conclusione o nella stesura o nel modo con cui la vicenda è pensata, non sia tale da ispirare le idee più nere e la più profonda tristezza della vita. E badate che questo entra anche in casa nostra più di quello che non si creda. Io parlò della problematica, della mania della problematica; la problematica non è altro che un sottobosco della filosofia esistenzialista. – Il terzo coefficiente è il freudismo. La filosofia di Freud è morta prima che morisse Freud, ma ne è rimasta di lui qualche cosa nella terapia medica, qualche cosa più o meno discutibile, più o meno apprezzabile. La sua filosofia è morta prima che morisse lui, ma quello che è tragico è che non ne è morto il metodo. Come dell’idealismo dove dell’idealismo, è rimasto il metodo e sta entrando dappertutto, nella testa di tutti e porta la responsabilità delle stravaganze del nostro tempo, e dell’esistenzialismo di cui è entrato incoscientemente il metodo nella cultura, nei modi di agire, in tutte le stravaganze della nostra età, così allo stesso modo è avvenuto del freudismo: morto Freud, è entrato il suo metodo nel costume, ed è il più diffuso di tutti. – Voi sapete che il metodo di cura di Freud sta nel portare il paziente a gettar fuori di sé stesso tutto quello che ha di più recondito e di più brutto in fondo all’anima; e di più brutto perché questo metodo terapeutico, nel piano filosofico concepito da Freud, ha due principi: l’uomo sarebbe azionato da due principi: il principio del sesso e il principio della morte, uno più macabro dell’altro. E pertanto si vede il freudismo nell’atto in cui obbliga una povera creatura a metter fuori tutto quello che ha di più orribile, di più innominabile; che se per caso non ce l’ha, per fare come fanno gli altri, lo inventerà. – Ma dovrà mettere fuori quello, la passione in sostanza. Andare a rimescolare in fondo al lago che raccoglie gli scoli di una città per far tornare a galla quello che fortunatamente s’era depositato in fondo: questo è il freudismo. – Ora vedete fino a che punto questo metodo è diventato pane dell’esperienza quotidiana quando osservate la mania di ricercare dappertutto il peggio, lo scandalo. Guardate i giornali di che cosa sono fatti e perché la gente legge i giornali: li legge il 70% per cercare quello, ecco il suggello del freudismo. – La ricerca del bassofondo melmoso, la dilettazione di trovare quello. E guardate fino a che punto s’è diffuso, come aleggia dappertutto il senso del disprezzo di tutto. Il che è logico, è coerente. Viviamo di disprezzo. Si disprezza tutto. La gente è contenta se può arrivare a sputare sugli altri, sull’autorità, sui grandi nomi della storia. Ma è infame abituare la gente a non avere più stima di nulla. Se qualcheduno di voi, che sta qua dentro, qualche giorno si trovasse a non stimare più nulla, è possibile, stia attento: non è farina del suo sacco. Quella è farina del sacco altrui. Cosa bevuta, di quelle diluite nell’ambiente. Quando uno si trova al punto che non ha più stima di nessuno, vuol dire che è annegato nell’ambiente. Cerchi di farsi la respirazione artificiale per un bel po’, poi può darsi che respiri coi suoi polmoni. – Vivete secondo Dio, vivete la fede. Vi dicevo, parlando della trama della vita, che vi sono persone che credono di vivere cristianamente, ma che hanno una trama pagana, anche se fanno la Comunione tutti i giorni. Ora debbo dire la stessa cosa di persone che credono di pensare cristianamente, cattolicissimamente, ma il loro pensare cattolicissimamente è cosa artificiale, di qualche momento, mentre nel sottofondo costante e compatto, che regge tutto, c’è un modo di vedere, di pensare, di giudicare, di sentire che è completamente avulso dall’indicazione cristiana. Hanno un concetto pessimistico di tutto e se lo sono presi dal freudismo. – Guardate un po’ ora; fate bene l’esame di coscienza. Guardate bene se per caso non ci sono dentro di voi questi reliquati coscienti o subcoscienti. Perché se nella vostra abitudine mentale voi doveste trovare la facilità alla problematica senza senso; se doveste trovare nelle vostre abitudini mentali la facilità di dire, così, quello che vi viene in bocca, senza preoccuparvi mai d’obbiettivare, di documentare, di ricercare, di essere aderenti alle indicazioni di una documentazione obbiettiva; se nelle vostre abitudini mentali doveste trovare questo rassegnato cedimento al fatto: quando una cosa è fatta, è inutile andare a cercare teorie; se nelle vostre abitudini mentali doveste trovare questa, di andare a rimescolare il peggio, di dover dare alle cose sempre l’interpretazione cattiva, di cavare sempre l’intenzione cattiva dai fatti, di tendere sempre al disprezzo, alla sottovalutazione dei propri fratelli, attenti! Prima di camminare nella via della santità bisogna levare questa roba dall’anima. Perché con questo piombo fuso e osceno nell’anima non si cammina, non ci si eleva, non si vola. E pensate che questa colata di piombo avviene di notte, mentre noi dormiamo, quando noi non ce ne accorgiamo, e poi la ritroviamo dappertutto. Bisogna difendersi. – Ci sono delle perversioni morali che non si catalogano e sono peggiori delle altre. Come bisogna rigenerarsi nell’acqua della semplicità, della purità, della chiarezza, della parola di Dio che sola ci fa intendere! Come avviene questa perversione? Come stato d’animo, non come idee. Poi, come una cellula fotoelettrica opera e trasforma,  a un certo momento questi stati d’animo riemergono come se fossero idee. Mi sono provato a domandare a molti artisti come intendevano l’arte. E mi hanno dato delle risposte. Ho chiesto loro se sapevano che cosa quelle risposte supponevano. Quasi mai mi è stato risposto quello che le loro risposte supponevano, potrei anche dire mai. Allora taluni di loro hanno sudato a spiegare che le loro risposte supponevano, né più né meno, il Breviario di Estetica del Croce, cioè la filosofia, e questa a sua volta supponeva la filosofia che il Croce aveva appresa dall’idealismo di Hegel. E cosa è avvenuto? E ‘ avvenuto che in costoro sono entrati degli stati d’animo, non avvertiti intellettualmente, non tradotti in proposizioni leggibili: ma questi stati d’animo a poco a poco sono diventati delle idee e li hanno innervati. Non hanno coscienza di dipendere da una filosofia; ma molte volte sembra più filosofia che arte, anche se essi non sanno quale filosofia seguano. Ho finito. Voi capite, vero, come persone che vivono nella cultura o ai suoi margini, che entrano nella grande corrente della vita, che debbono agire là e per quello che là si trova, debbano prepararvisi? E avrete anche capito che se non si risolve bene questa questione di perfetta indipendenza dell’anima nostra, nella sua fede, da quello che anche incoscientemente o subcoscientemente ci può essere propinato dal mondo nel quale viviamo, rischiamo di perdere la via della perfezione.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (2)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(2)

3. Il Giudizio

La seconda ragione per cui Dio chiede a noi la perfezione è perché lui ci giudicherà. Bene inteso, neppure questa è la ragione suprema per cui noi dobbiamo essere perfetti; ma è una grande ragione. Saremo giudicati da Dio, ed è sotto questo profilo che ora dobbiamo brevemente ragionare del giudizio di Dio. C’è un punto che interessa e che dobbiamo sceverare dagli altri, perché, agli effetti logici dell’orientamento che abbiamo preso in questi Santi Esercizi, è quello il punto importante. Saremo giudicati da Dio un giorno; ma voi sapete bene che noi siamo continuamente giudicati da Dio: il giudizio di beneplacito o il giudizio di riprovazione Dio lo dà contemporaneamente alla nostra azione. Questo è il punto che talvolta ci sfugge. Non è che la valutazione dei fatti nostri se ne vada in quiescenza tanto tempo quanto ci separa dalla morte; no, noi siamo sotto il giudizio di Dio, e dobbiamo sentirci continuamente sotto il giudizio di Dio. Poi il giudizio che sia riassuntivo, perché decisivo della nostra sorte, verrà dato al momento della nostra morte. E finalmente il giudizio inquadrante la nostra sorte nell’unitario destino dell’umanità verrà dato al giudizio finale, all’ultimo giudizio, dopo la nostra risurrezione. Ma quello che a noi interessa ora è di sapere il criterio col quale saremo giudicati. Neppure vi starò ora a commentare la parabola dei talenti, nella quale Nostro Signore ci ha dato il criterio col quale saremo giudicati. Mi basta semplicemente richiamarvi che nella parabola dei talenti il criterio del giudizio appare esigentissimo. – Naturalmente non si deve fare un computo matematico, perché non siamo in sede di computi matematici di quantità; siamo in sede di valori ontologici. A ogni modo l’espressione matematica: Dio domanda il cento per uno d’interesse è tale da far capire che il criterio è questo. E’ inutile che ci si gingilli a pensare che il criterio non sarà duro perché Dio è misericordioso: noi talvolta abbiamo la brutta abitudine mentale di opporre una verità all’altra per metterle da parte tutte e due. Si tira fuori a sproposito la misericordia di Dio per mettere a posto la giustizia. Così si fa a meno dell’una e dell’altra, e si fa quel che si vuole; e anche questa è una forma di ipocrisia. Ricordiamoci che il criterio del giudizio di Dio è un criterio duro! Ma non è neppure su questo che io voglio stamattina attirare la vostra attenzione; il punto è un altro, ed è questo: che il criterio col quale saremo giudicati sia la legge di Dio, è vero, e il modo con cui saremo giudicati sarà quello del cento per uno; ma il riferimento, cioè il paragone tra noi e qualche altra cosa, verrà fatto su che cosa? Nello stendere la legge alla quale dobbiamo uniformarci e sulla quale saremo giudicati, Dio stesso ha voluto essere il nostro modello. Dio stesso. È questo che impressiona. E la conclusione la vedete subito: se Dio stesso ha voluto essere il nostro modello, vuol dire che noi dobbiamo essere perfetti. Non ci ha dato un altro modello, ma ci ha dato sé stesso. – Io non starò a tratteggiarvi una coreografia del giudizio particolare, perché tutti gli elementi di fantasia sarebbero elementi di simbolo, ossia noi potremmo richiamare tutte le cose più terribili che in materia si possano immaginare, a proposito di giudizio, ma per dire: badate che questi elementi terribili appaiono nella concezione umana che possiamo farci del giudizio; immaginatevi che cosa sarà il giudizio di Dio nella sua realtà! Potrei cominciare a parlare di Edipo che, quando scopre quello che è e si sente sottoposto al giudizio dei suoi figli, dei suoi stessi figli, si strappa gli occhi, e ricordarvi il terribile cantico del coro col quale la celebre tragedia finisce. Tragedia che può dare il senso di che cosa voglia dire per un padre essere giudicato dai suoi figli. Ed essere giudicato da Dio? Altro che essere giudicato dai propri figli! Io potrei stare a costruire tutti questi elementi, ma dovrei dire: guardate che sono tutti elementi metaforici, cioè non descrivono un bel niente; se qui è tanto, di là che sarà? Ma qui io dovrei fermarmi, perché quando si tratta di parlare di cose che stanno al di là del muro è meglio non dire troppo; quando le cose che noi non abbiamo sperimentate direttamente le sappiamo soltanto per divina rivelazione o le sappiamo per deduzione intellettuale da principi a noi noti, la fantasia è meglio lasciarla un po’ stare. – Voi siete tutta gente che non ha bisogno di essere sollecitata troppo dalla fantasia, avete tutti studiato, e pertanto non posso farvi la catechesi e andarmi a raccomandare agli elementi di sentimento; io non ho bisogno di mettervi paura con ombre vaganti, con strumenti di tortura. Quello invece che è serio nel giudizio di Dio è che il modello è Lui. – Allora ragioniamo un po’ su questo modello che è Lui. Vedete, c’è, così, grosso modo, una distinzione simile a quella fra l’Antico Testamento e il Nuovo. Non è una distinzione che si possa dire perfettamente adeguata e netta, ma in via sommaria è una distinzione che si sostiene, è giusta, ed è questa: nell’Antico Testamento Dio si presenta come modello attraverso le opere sue; sono le opere di Dio che fanno da modello, è la creazione, ed è anche un certo lineamento dell’azione di Dio nella provvidenza della storia.  Noi vediamo che i profeti richiamano questo elemento di Provvidenza nella storia; soprattutto Isaia e poi Daniele. Invece nel Nuovo Testamento non è che venga rinnegato il criterio che Dio ci fa da modello con le opere sue, affatto, ma Dio si presenta modello nostro in sé stesso e per sé stesso, il che del resto è perfettamente in ritmo e segue, direi, l’onda della rivelazione divina. Perché nel Nuovo Testamento è Dio in sé stesso che si rivela, anche se qualche accenno lontano, accenno lasciato all’acume degli interpreti, viene fatto nell’Antico Testamento. A ogni modo è bene considerare tutte e due le cose. Dio si è presentato, ha presentato come modello delle nostre opere la creazione. Questo del resto ce lo dice S. Paolo nel primo capitolo della sua Lettera ai Romani, dove parla della funzione che hanno le creature: le creature hanno una funzione di rivelare agli uomini qualche cosa: Dio ha scritto qualcosa creando, e questo divino scritto deve essere decifrato dagli uomini, essi devono camminare con gli occhi aperti perché in quello che hanno davanti possono benissimo decifrare la indicazione, la volontà e una naturale rivelazione di Dio. Tutte le cose sono un modello, tutte. Perché ogni cosa ci mostra un ordine, anzi in quest’ordine le cose ci battono e ci precedono perché, non essendo libere ma determinate, agiscono sempre con una sufficiente perfezione. – Tutte le creature ci danno l’impressione di un ordine grande, di un ritmo che non si smentisce mai, in tutto il ciclo della loro vita. Gli animali non rompono mai la norma, perché anche quando determinati stimoli esterni che gli animali possono liberamente porre li spingono piuttosto in una direzione che in un’altra, si comportano secondo leggi predeterminate. E pertanto l’ordine non viene meno mai. Certo fa impressione quel volteggiare delle rondini la sera in primavera; poi accade qualche cosa per cui improvvisamente cessa il loro volare, improvvisamente, come se avessero ricevuto un segno, e tutte ordinatamente si ritirano in un attimo; quella sarabanda di danze sui nostri tetti, davanti alle nostre finestre, cessa di colpo a un determinato momento del crepuscolo; pare che vadano a dire le loro preghiere e poi se ne vadano a dormire. Se anche gli uomini facessero così! – Ecco, le creature ci parlano di una infinita saggezza e sapienza, ci mostrano un’intelligenza obbiettiva ordinante le cose stesse; e cioè dall’ordine e dall’effetto ci fanno risalire al disegno, alla causa dell’ordine stesso, ci parlano dell’intelligenza di Dio e sono testimoni di una incredibile luce che, al di là di loro stesse, fatte così diafane, fatte trasparenti come cristalli, esse ci rivelano. E’ così che la intelligenza sovrana, il lume dato, il lume ricevuto e la sostanza delle stesse cose materiali tradotta in termini intelligibili, e non più sensibili, cioè trasformata in una espressione che è fedelissima ed è invece, senza cessare quella sua fedeltà, infinitamente superiore, al di sopra della stessa realizzazione concreta e materiale, sono un continuo ribadire di quanto la luce intellettuale, doverosamente guidata, ragionevolmente nutrita, debba sovrastare alle azioni degli uomini. Tutte le creature sono appetibili in sé stesse, e voi sapete che l’appetibilità è la « bonitas »; la qualità per cui una cosa diventa appetibile è la sua bontà. Le creature pertanto ci rivelano la loro bontà, e rivelandoci la bontà ce la insegnano, ce la richiamano, non omettendo di richiamare che la bontà si verifica in esse secondo il grado della loro costituzione, secondo la elevatezza della loro individualità, secondo insomma i limiti della loro natura. E parlandoci della bontà, ci parlano dell’infinita bontà di Dio. E’ così che le creature terrene nel momento stesso in cui si fanno conoscere e ci si rivelano all’intelletto attraverso i sensi, in quello stesso istante ci danno un gusto soddisfatto, un piacere, una gioia, ci rivelano la bellezza, perché la bellezza è lo splendore dell’ordine e ha questo particolare effetto di dare il gusto, il godimento nel momento in cui la cosa bella viene conosciuta. La bellezza che viene stemperata per tutto quanto il creato ci parla di Dio, ci parla di una bellezza obbiettiva, e questa bellezza obbiettiva prende il ritmo dalla prima causa, ci fa ascendere col modello. Il mondo è un modello, il sole col suo sorgere e col suo tramontare è un modello, la luna col suo apparire nella notte, non con la sua volubilità ma con la luce e con quel carattere tipico della sua luce in mezzo alle tenebre, diventa un modello. Le stelle del cielo sono un modello, e gli animali stessi sono un modello, e la natura stessa in tutti i suoi ordini, nel suo fiorire e nel suo sfiorire, con le sue primavere e coi suoi autunni, è tutto un ordine e diventa un modello. – Dio ha parlato così. E Dio è stato modello così. Guardate che questo mondo che gira intorno a noi è una perenne testimonianza del giudizio di Dio. Perché Dio questo immenso panorama ce l’ha costruito intorno perché imparassimo, perché fosse norma, ispirazione, elevazione e perché segnasse a noi una strada, perché accogliesse con immensa dolcezza i nostri sentimenti e li incanalasse, perché stimolasse con appropriata forza la nostra intelligenza e la guidasse, perché avvolgesse con inimitabile calore la nostra vita e la sostenesse, perché fosse un modello. E’ cosa grandiosa, certo, è cosa che è stata la vera sorgente d’ogni poesia, per quanto sia stata stemperata e talvolta anche contaminata dall’uomo. Ma con tutto questo, la natura non è ancora il vero modello perché il vero modello ha voluto essere Iddio stesso. – Cerchiamo d’avvicinarci ora al Nuovo Testamento. Noi sentiamo come parla N. S. Gesù Cristo. Un giorno Egli fa questo discorso: « Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli…, il quale fa sorgere il suo sole sui giusti e sugli ingiusti, manda la sua pioggia sui buoni e sui cattivi ». C’è l’affermazione generale e c’è la documentazione particolare. L’affermazione generale: perfetti come è perfetto il Padre vostro che sta nei cieli, termine ultimo, criterio sovrano, il diagramma prestabilito alla nostra volontà.. La stessa perfezione del Padre. E poi c’è la documentazione particolare che restringe il campo, perché la documentazione non è mai la cosa documentata, è parte rispetto al tutto. Guardate la documentazione. Agisce da Signore, Iddio, dà a chi gli porta via: ai cattivi e agli ingiusti dà la sua pioggia, dà il suo sole. Lo stile del Signore è dare anche a chi gli porta via; Egli non si impoverisce a dare a chi gli porta via. La magnificenza divina ne troverà un’applicazione grandissima nel Vangelo, la legge del perdono. Che c’è di più grande della legge del perdono? Essa trova una sua eco in quella dottrina del Salvatore, che non è scritta nel Vangelo, ma che S. Paolo ha riportato in un suo discorso: essere cioè precetto del Signore Gesù che è più beato dare che prendere. È il rovescio del mondo. È lo stile del Signore: è più beato e più grande dare che prendere. E qui il mondo è servito, perché il mondo è più beato a prendere che a dare; e invece non è vero; questo è lo stile del pitocco; lo stile del Signore è un altro. Ma questo è un esempio della legge, esempio della formulazione generale. – Gesù Cristo dice: « Dovete essere perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli » a cui dovete assomigliare. È quello il modello. Ecco un elemento che vi fa assomigliare al modello; agite da signori, non da pitocchi, perché lo stile del Signore è questo: far sorgere il sole tanto sui buoni che sui cattivi, mandare la sua pioggia sui giusti e sugli ingiusti. Del resto Gesù stesso, e qui attenti bene perché c’è una indicazione forte, in un certo momento dirà: « Uno è il vostro maestro, il Padre » e un’altra volta dirà: « Voi mi dite Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono ». È un punto dove si vede che Egli e il Padre sono un unico modello. È il richiamo alla dottrina su cui torna con tanta forza nei discorsi delle ultime settimane, registrati nell’Evangelo di Giovanni, dal cap. 9 in poi, la consustanzialità tra il Padre e il Figlio: il Figlio è modello perché è consustanziale al Padre, una cosa sola col Padre, e allora si comprende la funzione — bene intesa, in una forma che non è stata mai superata nella teologia degli apologeti del secolo II, quando hanno parlato del Logos, il Verbo che è in Dio stesso — del Verbo ad extra, al di fuori di Dio. Si capisce allora come la incarnazione del Verbo prende, oltre tutti gli altri significati, questo: d’essere la traduzione fatta a uso degli uomini della perfezione di Dio. Siccome la traduzione segue il diagramma: Padre, Figlio e Spirito Santo, vuol dire che il modello è la Trinità augusta, ossia è Dio in sé stesso e per sé stesso, non Dio soltanto in quanto Creatore, in quello che può sembrare la sua vita protesa ad extra, fuori di sé, ma nella sua stessa vita intima, dove una è la sostanza trina nelle Persone: è Padre veramente, è veramente Figlio, è veramente Spirito Santo. Dio è in sé stesso il modello, ed è perché è modello, Lui, nella sua vita intima, che è stata data la grazia agli uomini ed è stata data la verità più piena attraverso la rivelazione, sicché gli uomini conoscessero cose che con l’intelligenza non avrebbero mai potuto raggiungere. Affinché il ritmo fosse pieno, dovevano assimilarsi a Dio, perché chiamati ad essere figlioli adottivi di Dio. – Ora vedete perché ci è domandata la perfezione? Potevano gli uomini pensare che Dio sarebbe venuto in terra con l’incarnazione, atto di traduzione del divino modello rispecchiato in Dio fatto uomo, per essere accessibile così all’intelligenza umana? Per fare una traduzione che non alterasse il testo, c’è stata l’incarnazione; badate bene, qui raggiungiamo uno dei motivi profondi del mistero centrale della nostra fede: perché non si alterasse il testo nella traduzione. C’è stata l’incarnazione perché non accadesse, affidando la traduzione del modello semplicemente alla parola e non al fatto, che la parola restasse lontana, troppo lontana dal modello. Siamo dinanzi al perno della nostra fede; non dimentichiamo che noi abbiamo per modello Iddio, Padre, Figlio e Spirito Santo, e che se c’è una luce alla quale dobbiamo volgerci, non è quella di qualunque faro acceso in questo mondo, è una luce che sta al di là del mondo, e questo spiega perché dobbiamo continuamente rendere la veduta nostra più acuta, fare spiritualmente quel gesto che facciamo coi nostri occhi quando cerchiamo di vedere lontano. Dobbiamo farlo sempre spiritualmente questo gesto. È una abitudine di meditazione, di continua ricerca della verità, di contemplazione, che dobbiamo rendere ordinaria nella nostra vita. Non parlo della contemplazione straordinaria, l’ho già esclusa dal principio, ma di contemplazione ordinaria proprio perché il modello sta oltre. Voi capite che sorta di liberazione per gli uomini sia questa dalle cose che li circondano! Perché quello che hanno intorno è stimolante, avanguardia del modello di Dio, ma non è il loro modello ultimo; il loro modello ultimo lo hanno solo attraverso la fede, e questa attraverso la rivelazione, e questa nell’incarnazione, con la incarnazione e per l’incarnazione. Per ipsum, cum ipso et in ipso: esattamente come si dice nella Santa Messa, dopo che l’atto sacrificale è stato compiuto. – Il modello è Lui; ma se il modello è Lui, nasce una tale colleganza, meglio la necessità di una tale colleganza tra il nostro contegno morale ed il divino contegno che non c’è più bisogno di spendere parole per dire che o tendiamo alla perfezione o ci mettiamo fuori strada. Per Ipsum, cum Ipso et per Ipso.

 

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (1)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(1)

Cosa c’è di meglio, all’inizio di un nuovo anno, che praticare gli esercizi spirituali, per aver chiaro nella propria vita le cose da fare ed operare in questo tempo donatoci da Dio per crescere nello spirito? E qual modo migliore di farlo è ascoltare e leggere le parola del Santo Padre Gregorio XVII, già Cardinal Siri? – Pubblichiamo la prima serie di esercizi spirituali: “La perfezione”, tenuti agli inizi degli anni 60 anni ad Assisi, registrati, raccolti e resi pubblici dal generoso valoroso sac. Giovanni Rossi, al quale saremo per questo eternamente grati, nel 1962. Si tratta di veri e propri “tesori di sapienza cristiana”, come li definisce nella pregazione, giustamente il Rossi, contenuti in queste piissime meditazioni che sono ancora più opportune, anzi diremmo necessarie e salvifiche, oggi, nei nostri tempi di confusione in cui gli uomini ignorano in pratica, spesso volutamente e colpevolmente, tutta la dottrina cristiana, anche la più elementare, sostituita da un sentimentalismo “buonista” personal-faidatè, falsamente filantropico, e da un vago deismo gnostico profuso a piene mani dagli apostati imbonitori del “novus ordo”, quelli che hanno sostituito il Dominus Sabaoth, il Dio uno e Trino, con “il signore dell’universo”, il falsario diabolico che si spaccia e si fa passare per dio, in realtà il baphomet delle logge massoniche, il lucifero-obbrobrio, l’«abominio della desolazione», colui che governa tutti gli attuali monoteismi che stanno per confluire nella “religione unica mondiale”, cioè il noachismo talmudico …, d’altra parte ci aveva già messo in guardia millenni orsono il Re-Profeta: “omnes dii gentium dæmonia” (Ps. XCV)! In queste due settimane faremo il pieno di dottrina cristiana pratica, lucidamente e sapientemente esposta dal Santo Padre “impedito” Gregorio XVII, sperando così di promuovere la crescita spirituale di noi tutti appartenenti al “piccolo gregge” di Cattolici “eclissati”, e di qualche pecorella smarrita di buona volontà … se ancora ce ne sono! Pubblicheremo così una meditazione ogni giorno, a volte due, ma in modo tale che possano essere ben meditate e fatte proprie lentamente e profondamente. Si raccomanda in ogni caso di riguardarle anche nel corso dell’anno per consolidarne e rinnovarne i benefici.

I CORSO

1.- LA PERFEZIONE

Comincio col dirvi quale è il tema di questi Santi Esercizi, poi ve lo illustro brevemente. Il tema è questo: la perfezione. Di che? La perfezione della vita cristiana. E lo scopo di questi Esercizi è incluso nell’enunciato del tema. Noi dobbiamo arrivare alla fine di questi Esercizi con la volontà precisa, inderogabile, concreta, e per noi cogente, di essere più perfetti. Non con la presunzione di essere dei perfetti, è una cosa diversa, ma con la volontà di esserlo, perché la volontà è umile ed è sempre un dono; la presunzione è superba ed è sempre presunzione. La prima è un dare, l’altra è un rubare. Dobbiamo fissare il punto a cui dobbiamo arrivare. Io vorrei che questi Esercizi vi portassero in quella atmosfera spirituale — non sarò certamente io a farlo e per questo mi affido alla Grazia di Dio — nella quale si sente che a questo mondo si perde il tempo se non si studia la perfezione e se non ci si studia di arrivare alla perfezione. – Voi sapete bene che io faccio gli Esercizi con voi e li predico a me stesso; soltanto li predico a voce alta, e vedrete che qualche cosa potrà servire anche a voi. Tema e finalità, pur non scostandoci dalla linea ordinaria dei Santi Esercizi, ci daranno la interpretazione dei diversi oggetti che andiamo via via presentando. Ho detto che debbo dichiarare il tema, perché altrimenti non è possibile che noi orientiamo ragionevolmente la nostra anima in una forma umana e non semplicemente emotiva; l’emozione si spegnerebbe subito, se non ne conosciamo bene, con accurata definizione l’oggetto. Che cos’è la perfezione? La perfezione sta: primo, nell’aderire completamente alla volontà di Dio; secondo, nell’aderirvi attivamente, non passivamente; terzo, nell’aderirvi con tutte le risorse di natura e di grazia a nostra disposizione. Questa è la perfezione. Il giorno in cui noi avremo fatto quello che dovevamo fare, lo avremo fatto attivamente e in questo fare avremo gettato tutte le nostre risorse, con tutta l’energia, senza nessuna riserva per noi, allora toccheremo lo stato di perfezione. – Per quello che dipende da noi, certo, perché a questo punto e anche prima di questo punto si può entrare in contatto con Dio mediante certi suoi armeggi dei quali io non vi saprei parlare e dei quali io non parlo, perché se qualcheduno ci arrivasse, stia tranquillo che per sapere quello che deve fare ci penserà Iddio a dirglielo, non occorre affatto che glielo dica io. Ecco cos’è la perfezione! La perfezione non è volare, non è fare il teatro, non è smuovere il mondo, non è raccogliere dei frutti. Attenti bene, perché tutte le parole hanno un significato. La perfezione non è godere, anche se Dio può permettere che vi sia del godimento. La perfezione è la volontà di Dio abbracciata, seguita, fatta e, lasciatemi dire, preceduta da noi con tutto noi stessi. Ecco la perfezione! Come vedete, non è un concetto difficile quando si tratta di esprimerlo in via teorica. La musica difficile comincia quando si tratta di fare, ed è per questo che il discorso non finisce questa sera, anche se la definizione è già detta questa sera. E anche quando io finirò di parlare e voi di starmi a sentire, ne avrete per tutto l’anno da rifletterci sopra. Detto questo, vorrei farvi considerare in linea generale la definizione della perfezione. Prima di tutto io non parlo, l’ho già escluso, della perfezione straordinaria, cioè di quelle vie che Dio risolve con interventi suoi, che stanno nell’ordine dei miracoli, che Dio riserva a certe anime che hanno già penetrato i cieli con la loro umiltà. Parlo della perfezione ordinaria, cioè di quella che sta usando gli strumenti che sono dal Vangelo proposti a tutti i cristiani e non a qualcuno soltanto. La perfezione è una cosa semplice, non arzigogolo; la complicazione sta nel movimento che dobbiamo fare noi per toglierci la nostra complicazione e arrivare a quella semplicità. E appunto perché è semplice, esclude tutto quel complesso di pose, di mode, di ricercatezze, di fissazioni che si trovano largamente distribuite negli affari degli uomini e che negli uomini anche perbene riescono a rendere terribilmente antipatica la virtù. È semplice la perfezione! E finalmente è concreta: concreta vuol dire che è tanto nell’idea quanto nei fatti. È realizzabile tutta e deve essere realizzabile tutta nel dettaglio. Quando una cosa non è realizzabile nel dettaglio e nel fatto, è astratta, è cerebrale; serve per dare una pia illusione all’anima e lasciarla perfettamente con tutti i conti scoperti in banca. Prima di andare avanti, io mi fermo per qualche minuto su questo concetto che la perfezione è un fatto concreto, e devo mettervi subito in guardia contro tutto quello che può essere cerebrale e astratto. Se nella nostra vita spirituale c’entra qualche cosa di cerebrale e di astratto, siamo subito fuori strada. Purtroppo il cerebralismo è una tendenza che va largamente serpeggiando in mezzo ai cristiani un po’ più evoluti come tali, in mezzo agli uomini e alle donne che vivono più vicino alla Chiesa, in mezzo ai cattolici che sono militanti. E poi su tanti libri la troverete. E io sento di richiamarvi fortemente su questo concetto concreto, che è poi il linguaggio estremamente concreto di Nostro Signore Gesù Cristo nel Vangelo, perché Nostro Signore Gesù Cristo ha sempre parlato in modo concreto, ha usato l’astratto solo una volta in cui ha parlato di sé stesso e ha detto: « Io sono la via, la verità, la vita ». L’Evangelo ci ha sempre detto cose concrete. Non ci ha detto: abbiate una grande personalità, Gesù Cristo non ha mai pronunciato nemmeno una volta questa parola; Gesù Cristo ci ha detto: « Siate umili e poveri di spirito », in cui si realizza il massimo che esista di personalità al mondo. Perché l’unico modo per essere personalità in questo mondo, cioè per non essere dei confusi, come le facce riflesse nel mare, è quello di essere umili. Studiatevele un po’ le facce riflesse nel mare; vedete se ci riuscite; sono le più distese di tutti, quelle non le prende per il collo nessuno. Io sento molta gente che parla del Corpo Mistico di Gesù Cristo. Che pensano quando lo dicono? E’ una cosa di cui subito sospetto. Perché se continuassero e dicessero: il Corpo Mistico di Gesù Cristo per noi che siamo qui attaccati alla terra è la Santa Chiesa Cattolica Apostolica Romana, allora sì che ci siamo! E per essere nel Corpo Mistico di Gesù Cristo, io devo essere ubbidiente al Papa, altrimenti sono bell’e fuori dalla porta. Con tutti i miei sentimenti spirituali, con tutte le mie visioni, con tutto il Corpo Mistico, con tutto Cristo vivente, sono fuori della porta, se non ho l’obbedienza del piccolo bambino al Papa, se non ho questa disposizione d’animo verso il mio Vescovo. E se credo di mettermi a fare l’anticlericale e di poter dire alla Chiesa, come a quelle vecchie nonne, senza denti e con rughe e baffi lunghi così che, poveretta, bisogna dirle: nonna, mangia adesso; siediti, nonna; sta’ sù, va’ giù, va’ a dormire adesso…. Voi mi avete inteso vero? La perfezione è concreta. Vi metto in guardia perché molti spiriti del nostro tempo sono fuori strada e si salveranno solamente perché hanno una fondamentale rettitudine e perché Iddio è tanto buono che tiene conto anche della paglia. Ma se non fosse così, ci sarebbe da temere per molti che si dicono cattolici e persino spirituali. – Ora vorrei farvi fare un’altra considerazione. Noi possiamo esigere la perfezione soltanto nel campo spirituale. Negli altri campi non la possiamo esigere. Non è misura degli uomini. Io non posso esigere la perfezione letteraria da tutti, non posso esigere, non parliamone neppure, la perfezione artistica. È possibile invece esigere la perfezione spirituale. Voi lo capirete bene attraverso tutto quello che io spero di dirvi in questi giorni; ma vorrei che vi rimanesse già fin dall’inizio questo concetto: che è solo su questo terreno religioso-morale che noi possiamo parlare di perfezione. Vedete che cosa avviene nel contatto tra noi e il mondo materiale? Possiamo noi entrare in contatto con la materia, per es. con questi mattoni? Direte: sì! Io vi dico: molto poco. Vi meraviglia? Ve lo dimostro subito. Io, di questi mattoni che sono qui e che sto toccando, posso percepire soltanto quello che delle loro qualità è analogo ai miei cinque sensi, cioè poco più di nulla. Per il resto io posso dilatare leggermente questo inizio di mia cognizione usando elementi di trasformazione, cosa che noi impariamo a fare nella fisica e nell’applicazione della fisica, e con poche, leggerissime intuizioni matematiche. Non avete mai osservato che l’unico col quale possiamo pienamente e totalmente entrare in rapporto è Dio? Perché persino con questa penna, che io posso toccare, che io posso spezzare, io entro in contatto in una forma parzialissima, necessaria e sufficiente alla mia vita, ma niente più. Il mondo perde le staffe quando scopre un filamento di più. Che cos’è tutta la teoria nucleare? È un filamento e niente più. Il mondo, come vi ho detto, si prende persino paura di sé stesso perché ha scoperto questo filamento. Con le cose con le quali crediamo di essere in un contatto così profondo, così totale da dominarle, siamo invece in contatto parzialissimo. L’ente col quale possiamo essere in contatto completo con tutto il nostro essere è Iddio. Sembra una vendetta questa? Non lo è, è misericordia. L’unica strada che è veramente aperta, anche se è, si direbbe, intercettata da una cortina di nebbia, la chiamiamo fede. L’unica strada che è veramente aperta è quella che ci conduce all’unico Padre che è Creatore e Signore. Ed è proprio per tale motivo che la perfezione può essere richiesta solo in questo campo, e che in questo campo la perfezione è possibile a tutti, mentre non lo è negli altri campi. – Ed ora che l’argomento ve l’ho presentato, lasciate che io faccia una riflessione sul fine che ci proponiamo con questi Esercizi. Noi dobbiamo arrivare alla fine degli Esercizi con nella testa questo: Io devo essere perfetto. Basta, questo non si discute più. E poiché non bisogna mai dimenticare quello che è estremamente concreto nelle cose, ci vengo subito. – Guardate come è facile nella vita spirituale, quando si fa l’esame di coscienza, trovare che forse non c’è materia di cui chiedere perdono a Dio. Ci sono tanti che la sera fanno l’esame di coscienza, seppure lo fanno, e alla fine dicono: Beh! insomma, Signore, veramente oggi è andata proprio bene. E posso essere soddisfatto. Questa è la sostanza di certi modi di pregare. Ma se, facendo l’esame di coscienza la sera, noi di questo giorno ci abitueremo a tenere la velina delle eventuali imperfezioni quotidiane sopra il disegno della perfezione, che sta sotto, in modo da averlo sempre davanti agli occhi, credo che la finale degli esami di coscienza, anche quando avremo fatto parecchio cammino nella via della perfezione, sarà sempre quella di dover cominciare a dire : « Miserere mei, Domine, secundum magnam misericordiam tuam ». – Se voi vi piantate ben saldi davanti a questa considerazione, capirete perché i Santi hanno pianto sempre sui loro peccati, anche quando tutti gli altri dicevano che non ne avevano. Alcuni credono che i Santi facessero una specie di commedia, che questa fosse una certa tale esibizione, non certo gloriosa, che bisogna tollerare in vista del resto che era positivo, perché lo stare continuamente a piangere e a piagnucolare sui propri peccati e sulla propria indegnità pare loro intollerabile e persino fastidioso. Ma non è il caso di usare la parola intollerabile e nemmeno fastidioso. Amarono la verità, e la verità era questa: che la velina della piccola imperfezione quotidiana, che c’è anche nei Santi, anche se non arriva alla colpa veniale, quelli la tenevano sempre sul disegno di fondo, che era il disegno della perfezione, di quello che dovremmo essere. E allora, quando c’è questo accostamento tra il disegno permanente e la velina che passa ogni giorno, anche se non si facesse altro nella vita, per lo meno ogni giorno si piangerebbe, cioè si farebbe qualche cosa. E questo rimanga, da oggi, nella nostra consuetudine. Arrivati a questo punto noi dovremo cominciare a ragionare dei grandi motivi per cui si deve affrontare decisamente, volitivamente, l’argomento della perfezione; perché è falso ritenere che la perfezione sia da lasciarsi ad alcuni. Io devo essere perfetto e voi dovete essere perfetti. Nessuno è fuori! Qui c’è da indovinare o non indovinare la vita. Infilare o non infilare la strada. Qui c’è il sì o il no; il tutto o il niente. Questo non è argomento di elezione, è argomento di necessità. Noi dobbiamo volere essere perfetti. E siccome per essere perfetti non occorre volare, andare in estasi, fare miracoli, avere visioni, raccogliere frutti, non occorre neanche convertire il prossimo, ammetterete che è possibile essere perfetti. La complicazione dell’impossibilità avviene quando si confonde la perfezione con tutte le altre piccole cose. Lasciamo che Iddio registri e non dimentichiamo che se la nostra perfezione desse poca o nessuna luce in questo mondo, ne darà molto di più nell’altro. Passati noi, ne darà più di noi stessi. Non si darà mai il caso che una perfezione non rifletta luce sugli altri; ma potrebbe darsi il caso in cui chi irradia questa luce non veda affatto di irradiare luce sugli altri. Accetti. Sia contento dì passare per la via dell’oscurità, perché è la via più redditizia. È quella in cui darà più gloria a Dio e amerà di più il suo Signore e Padre. Ma nessuno rimanga fuori. Per la perfezione non occorre la clausura — tornerà bene anche quella, naturalmente, a coloro che ci sono — ma per la perfezione non occorre niente di strabiliante, niente che non si trovi sull’ordinario mercato della grazia di Dio. – La perfezione è aperta a tutti, è un dovere per tutti. Che Dio vi conceda di essere invasati da questa verità, santamente invasati, profondamente scossi, potentemente vitalizzati. Le preghiere mie sono per questo, per me anzitutto, e insieme, sullo stesso piano, anche per voi.

2. – La morte

La prima ragione che noi incontriamo per giustificare l’assoluto dovere di tutti noi di tendere decisamente alla perfezione è che dobbiamo morire. Non ho detto che sia la principale ragione e non lo dico; dico che è la prima che noi incontriamo. È la ragione più spettacolare, è certamente quella che incute timore agli uomini. È quella che deve essere giudicata la maggiormente percettibile dalla loro debolezza, perché là dove non regna l’amore, la porta che è sempre aperta è quella del timore; e quando anche quella si chiude, c’è la porta di servizio della paura. E allora bisogna dire: benedetta la porta di servizio; quando non c’è altro, serve bene anche la porta di servizio. Questa è dunque la prima ragione per cui bisogna essere perfetti. Ci sono altre ragioni, che verranno dopo, nelle nostre considerazioni, ma la prima che si presenta, per i motivi riportati, è che noi dobbiamo morire. – Vengo al primo punto. Quanto tempo ci resta ancora da vivere? Lo chiedo a me, e ciascheduno di voi lo chieda a sé stesso. Quanto tempo? Non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che, secondo la legge di natura, c’è una certa parabola, e che l’essere più o meno avanti in questa parabola dà una certa generica indicazione. Ma non è mai una indicazione che abbia un carattere decisivo. Supponiamo di avere da campare molto; e con questo? La morte dà il carattere alla vita. Perché, siccome la morte costituisce essenzialmente una chiusura del tempo della prova, e pertanto del tempo in cui si può meritare, essa riflette una incredibile preziosità su tutti i momenti della nostra vita. Questa è la vera funzione della morte. Non è quella di generare una sorta di orgasmo per la esibizione del macabro. Non è quella neppure di mettere in uno stato di eccitazione che finisca alla emotività. La morte riflette il carattere preziosissimo della vita. Perché essa dice: guarda che tu finisci; dopo di me, tu non meriti più. Quello che sarai a quel momento, rimarrai in eterno. La possibilità di riparare qualche cosa delle tue capacità e del tuo tempo e delle circostanze eterne della tua vita finisce con me. Io sono la chiusura del tuo momento. Io segno il limite della tua ricchezza. Io ti precludo la possibilità di qualsiasi aumento. È così che la morte, anche se dovessimo pensare di vivere ancora qualche centinaio di anni, avrebbe sempre lo stesso effetto, darebbe sempre la chiave vera e interpretativa della vita. Non si deve perdere nulla nella vita, per la ragione semplicissima che noi dobbiamo morire e che la morte è una chiusura di merito e di capacità ontologica di aumento. E se poi dovessimo starci poco, in questo mondo, allora alla ragione generale se ne aggiunge una particolare. Perché nella valutazione viene ad accostarsi quello che potevamo fare, quello che potevamo fare meglio e quello che non abbiamo fatto. Sono le tre articolazioni del nostro giudizio, queste, e il modo con cui emergono o scompaiono e si raffrontano tra di loro costituisce una chiusura del nostro valore; ma sono vive, hanno una eloquenza incisiva, forse terribile davanti a noi. Quello che potevamo fare, che potevamo far meglio e quello che non abbiamo fatto. E allora, siccome non è difficile che dal confronto salti fuori qualche elemento di rampogna per noi, è chiara la conclusione: bisogna aumentare l’accelerazione per guadagnare il tempo perduto. Questo è il franco e semplice linguaggio della morte, è la sincera espressione della morte. E detto questo, vi potrei dire che ho finito. Ma rimane qualcos’altro da dire. Vedete che l’articolazione del ragionamento è secca, è chiara, è cogente. – La morte riflette una luce sulla vita ed è la luce di un giudizio di preziosità senza confine. È per questo che dobbiamo desiderare di vivere. Dobbiamo accettare di morire, ma dobbiamo desiderare di vivere. Dobbiamo accettare di morire, ma dobbiamo desiderare di vivere per sfruttare ancora il talento della vita. Perché cinque minuti di più in questo mondo vogliono dire cinque minuti di possibilità di merito. Vogliono dire allungare la strada per il raggiungimento della migliore perfezione. Vogliono dire una approssimazione sempre maggiore alla completezza nella quale noi dobbiamo presentarci al Signore. Ed è proprio in nome di questa preziosità che noi dobbiamo voler essere perfetti; perché lo sfruttamento di tutto il tempo, di tutte le possibilità interiori ed esteriori della nostra esistenza è la perfezione. È la morte che esige la perfezione. Essa non sarà la voce più alta, ma una voce che bisogna sentire, ed è la voce che più facilmente si sente, perché ci eleva sempre con una singolare e dura eloquenza di convinzione su tutte le distorsioni, le evanescenze e le evasioni della nostra vita. – Vengo al secondo punto. Come saranno le circostanze della nostra morte? Questo è interessante a sapersi. Anche se dovremo rispondere che non sappiamo niente, non è inutile questa domanda. Perché il porsi questa domanda rappresenta la franchezza dell’uomo che guarda in faccia il suo destino e che non si copre la faccia. Quali saranno le circostanze della mia morte e della vostra morte? Io ho assistito in questi 12 anni di governo della mia diocesi quasi tutti i sacerdoti miei che sono morti. Nella morte dei sacerdoti ho osservato riflessa perfettamente la loro vita. Ho visto come muoiono quelli che hanno pregato piuttosto poco nella loro vita. Ho visto come muoiono quelli che nella vita non hanno indovinato tutto. Ho visto come muoiono quelli che hanno fatto il loro dovere; ho visto come muoiono i miti e gli umili di cuore. Ciò che mi ha impressionato è il fatto che nel loro tramonto si sono raccolti, con una fedeltà impressionante, tutti i colori della loro vita, e questo prescindendo dal tipo di malattia che hanno avuto, dai dolori più o meno forti. Ma Dio è incredibilmente misericordioso nella sua giustizia, perché se volesse essere soltanto giusto, non ci tratterebbe mai bene, in quanto noi abbiamo sempre dei debiti con Lui, anche quando siamo buoni. Per il mondo possiamo essere buoni, per i superiori buoni, ma con Dio abbiamo sempre dei debiti, e pertanto non è possibile parlare soltanto della giustizia di Dio, perché c’è una giustizia talmente accompagnata dalla misericordia da essere talvolta supplita da questa, ma non travisata, perché la giustizia rimane. Una volta un Generale dell’esercito nostro, che tra le altre sue avventure aveva avuto quella d’essere stato sepolto sotto una valanga, mi raccontò cosa succede quando si arriva proprio a toccare la porta della morte, senza avere nulla di guasto. – Proprio nel momento in cui si spegneva, l’hanno dissepolto, l’hanno tirato fuori. Allora ha perduto la conoscenza, ma era anche incominciata la cura, e credendo d’aprire gli occhi nell’eternità, si trovò ad aprirli in questo mondo. Di tutti i racconti che io ho sentito dalle persone che sono state in punto di morte, questo è stato il più impressionante. Mi raccontò: ero sotto, sepolto; a un certo momento ho avvertito dei sintomi che indicavano l’avvelenamento dovuto al fatto che si respira soltanto anidride carbonica e manca l’ossigeno. Fra me ho detto: io campo ancora sei o sette minuti. In quel momento, come se una luce infinita si fosse accesa dentro di me, ho visto tutta la mia vita, tutta; i particolari di essa mi si sono messi davanti come una carta geografica che io vedevo tutta insieme e nei suoi particolari; io non ho mai avuto in tutta l’esistenza una lucidità di questo genere. Né prima né dopo. Ho visto. E allora ho sentito e ho capito quello che non avevo mai capito prima. Ho chiesto perdono a Dio, e mi sono sentito bene. A questo punto finisce il racconto. – Vedete, bisogna fare i conti con questa illuminazione, incredibile illuminazione. Io non ho riportato tutto il racconto che ho avuto, l’ho riportato nella sostanza; ma ho capito che quella luce improvvisa e grande era la luce adeguata al concetto di perfezione, cioè essa faceva riemergere dal nulla il concetto di adeguarsi totalmente alla legge di Dio. Forse c’è un altro modo di morire. Ho sentito dire e l’ho letto negli studi di qualche biologo che quando si sta per morire avviene una certa composizione nel volto e tutto si va distendendo. Prima del distacco c’è una forma di pacificazione che sostiene per qualche attimo e si distende sulla faccia anche quando ci sono i dolori più forti: questi non si sentono più e tutto finisce in bellezza. Mi pare strano che la morte sia un giochetto così pacifico, un finale guidato dal flauto o dall’oboe, da un lontano arpeggio di esseri celesti. Ma tutte queste cose le dico perché, anche se possono avere un valore relativo, in realtà ci mettono dinanzi a un problema, il problema delle circostanze della nostra morte. È meglio che noi riteniamo piuttosto comune quella tale illuminazione, tremenda illuminazione; abbiamo bisogno di abituarci per tutta la vita al senso della misericordia di Dio, anziché abituarci a pensare che probabilmente tutto se ne va in arpeggi, sotto la nota febbrile di un dolcissimo choc. Bisogna che noi ci ricordiamo che la grande verità teologica che domina il mistero della morte è una proposizione « de fide », che la grazia della perseveranza finale, la quale consiste nel congiungimento dello stato di grazia col momento della morte, è una grazia particolarissima. – Tale grazia è da chiedersi al Signore per tutta la vita, e non solo da chiedersi, ma da operarsi per tutta la vita. Non bisogna credere che Dio abbia legato le sorti della nostra esistenza all’ultimo quarto d’ora. È vero che un quarto d’ora basta a salvare l’anima, e anche meno di un quarto d’ora; pochi secondi possono essere sufficienti ad articolare un atto d’amor di Dio e un atto di dolore perfetto. – Ma la grazia di farlo ordinariamente il buon Dio la lega a quello che s’è fatto in tutta la vita. C’è un terzo punto e credo che sia su questo che la meditazione della morte debba farsi con particolare insistenza. Noi abbiamo il gusto di confinare la morte all’ultimo momento; S. Francesco la chiamava « sorella morte »; ma guardate che non è sorella soltanto perché arriva all’ultimo momento. È sorella perché nasce con noi e s’accompagna a noi per tutta la vita. Che significa questa metafora? Significa che noi moriamo tutti i giorni, di noi muore qualche cosa tutti i giorni. Non è completo l’argomento quando diciamo: si muore, si morirà il giorno tale; no, perché la morte l’abbiamo noi, ora, dentro di noi; ora in noi qualche cosa muore. Si affacciano al nostro sguardo cose splendide, è vero? Le vediamo, ne sentiamo la luce, la carezza del calore. Queste cose splendide se ne vanno a una a una a morire e lasciano il vuoto; si apre una tomba dentro di noi, una luce si spegne, è la morte. Io penso a coloro, per esempio, che sono pazzi per il gioco del football, che ci riescono meravigliosamente, che non vedono altro; è una cosa splendida il giuoco del football, credo che sia così, perché se no non mi spiegherei il tifo e tant’altra sintomatologia. Supponete che uno in questa situazione un giorno si senta dire dal proprio medico curante: attento, voi siete alla vigilia di un infarto; alt, vi basterebbe fare una sola partita perché probabilmente a metà cadiate lì morto. Ve lo immaginate? Supponete che questo tipo non muoia ma campi ancora 50 anni. Ebbene, il giorno in cui, poveretto, s’è sentito dire: alt, non fate più una partita perché una sola partita per voi potrebbe essere fatale, ve lo immaginate? E ‘ morto già un po’, e quella morte lo seguirà sempre, quella tomba vuota sempre risuonerà, echeggerà, graverà su di lui. Vedrà la domenica macchine che corrono; dove vanno? Non c’è bisogno che lo chieda, vanno alla partita; lui non ci va. – Hanno detto che la cosa più difficile è di portare una grande vecchia cantante a teatro. Vedete, le cose più splendide a una a una se ne vanno. E anche le cose nuove se ne vanno. I bambini, in confronto a noi che non dovremmo essere più bambini, un vantaggio hanno, che tutti i momenti scoprono una cosa nuova. Con quei grandi occhi, con quella profonda meraviglia, con quella intensa attenzione, sono veramente il poema della vita che si schiude. Sembra di vedere gli occhi di Adamo spalancarsi quando Dio lo ha chiamato alla vita, e ha conosciuto il mondo e ha conosciuto, penso, anche intellettualmente, il suo Signore e Creatore. Quale stupore! Michelangelo si è provato a ritrarlo nella Cappella Sistina, in una di quelle pitture che forse non si finirà di considerare, e credo che solo un grande genio della pittura lo possa valutare. – Lo stupore. I bambini, il miracolo dello stupore l’hanno in continuazione. Questo miracolo si afferma sempre più, opera fino a una certa età, finché c’è qualche cosa che si scopre che non si conosceva. Ma a poco a poco questo grande patrimonio della possibilità di scoprire si esaurisce e non si scopre più nulla. Quelli che arrivano prima a non scoprire più nulla a questo mondo sono i peccatori, perché quelli vedono la faccia del mondo subito, non c’è più niente così da scoprire. Le anime sante hanno sempre qualche cosa da scoprire, e forse non sanno che, col loro sacrificio di rinunciare a scoprire qualche cosa, si mantengono sempre un’anima di bambini; esse stanno sempre al di qua della cognizione, non al di là. È importante nella vita rimanere al di qua della cognizione, non andare al di là. Io penso a tutta questa gente che ha esaurito tutto, a questi ragazzi che hanno 16 o 17 anni, e non c’è più niente per loro da scoprire a questo mondo, né il bene né il male; hanno mangiato il frutto dell’albero della vita e dell’albero della morte. – Prima c’è stato un fremito che è proprio di chi scopre qualche cosa di nuovo; poi tutto questo s’attutisce, si riduce, svanisce e lascia un vuoto che nessuna cosa può colmare. Voi capite come è vero che tutti i giorni in qualche modo noi moriamo. La cosa impressionante è che a ogni periodo di tempo che passa s’attutiscono le nostre papille gustative; le cose possono rimanere bellissime, ma s’attutisce il nostro gusto e pertanto la nostra capacità di trarne beneficio, e anche noi siamo talvolta una ruota che gira. – Vi ho detto che la perfezione sta nel voler fare la volontà di Dio con tutte le possibilità nostre. Adesso vedete la conclusione. La morte dell’ultimo giorno ci avverte che, terminato il tempo della prova, essa raccoglie la perfezione della vita, ed è questo il motivo per cui dobbiamo essere perfetti, anche se non è il più alto motivo: sono le circostanze della morte a noi sconosciute e per altro possibili a essere intuite dalla colleganza alla vita che ci avvertono, che reclamano la perfezione della vita. La morte di ogni giorno, che costituisce la incredibile tragedia degli spettatori, la morte disegna una trama, la ferisce, la colpisce, la restituisce alla sua verità, alla sua realtà, macabra, orribile, e dice: questa trama alla quale scivolate non vi piace, penso anch’io che non vi piace. Ma c’è una trama della vita, una trama non tenuta lì in serbo, ma una trama attiva ed è la volontà del Signore. Alla trama ordita dalla morte non c’è che da opporre la trama ordita dalla vita, la trama della perfezione. Il suo linguaggio lo capite e lo lascio a voi perché vi accompagni questa sera, vi lasci dormire questa notte. Quando si è perfetti, oltretutto si dorme anche bene. Ma se anche qualche poco vi rubasse il sonno, non sarà un sonno perduto.

MEDITAZIONI: II settimana dopo l’EPIFANIA

Nella seconda settimana dopo l’Epifania

[A. Carmagnola: “Meditazioni”, vol. I, SEI ed. Torino, 1942]

MEDITAZIONE PER IL LUNEDI.

Sopra la santificazione delle nostre azioni.

Mediteremo sopra la santificazione delle nostre ordinarie occupazioni, e riconosceremo come da essa specialmente dipenda la nostra santificazione, essendo questa la volontà di Dio, avendo a ciò l’esempio di Gesù Cristo e dei Santi, e così insegnandoci la stessa ragione. C’immagineremo il benedetto Gesù, che adempie così perfettamente ognuna delle sue ordinarie azioni da attirare le compiacenze del suo Padre celeste. Lo adoreremo pregandolo di concederci la grazia che possiamo compiere anche noi così perfettamente le nostre consuete occupazioni da meritare la compiacenza sua.

PUNTO 1°.

Volontà di Dio per la nostra santificazione.

Il Signore, chiamandoci a vivere una vita in modo speciale consacrata a Lui e somministrandoci perciò specialissimi aiuti, non l’ha fatto per altro fine se non perché ci facciamo santi. – E per farci santi dobbiamo fare le opere buone. Ma queste buone opere non sono già principalmente le straordinarie e grandi, ma bensì le ordinarie e comuni; poiché, volendo Iddio la santificazione di tutti e non essendo da tutti il compiere opere straordinarie e grandi, nelle buone opere ordinarie e comuni deve star riposta anzitutto la santificazione nostra. È dunque volontà di Dio che noi ci santifichiamo santificando le nostre consuete occupazioni. Potrebbe Egli renderci più facile l’opera della nostra perfezione, dal momento che per essa Egli non vuole altro se non che facciamo bene ciò che abbiamo da fare tutti i giorni? Ricordiamoci bene essere scritto che si chiederà di più da chi ha ricevuto di più. Avendo noi ricevuto la vocazione ed elezione ad una vita perfetta, ed essendo forniti da Dio di tanti aiuti per conseguirla, saremmo ben ingrati se non eseguissimo la volontà di Dio, attendendo seriamente a farci santi col santificare le nostre ordinarie occupazioni.

PUNTO 2°.

Esempio di Gesù Cristo e dei santi.

Gesù Cristo e i santi in generale hanno messo la loro santità nella santificazione delle occupazioni ordinarie convenienti al loro stato e alla loro condizione. Gesù Cristo durante i trent’anni della sua vita privata non fece niente di straordinario agli occhi del mondo; ma dal mattino alla sera attendeva a lavori e ad occupazioni assegnatigli da Maria e da Giuseppe, e il tutto Egli compiva perfettissimamente, mostrando sempre così negli atti esteriori, come nelle disposizioni interiori, quella sublime santità, che era l’oggetto della compiacenza del suo Padre celeste. – Dopo Gesù Cristo non vi furono santi maggiori di Maria e di Giuseppe; ma la loro santità attese massimamente a far bene le azioni comuni e semplici del loro stato. Tutti gli altri santi in generale si sono studiati di santificare le opere consuete della loro vita, facendole in modo che fossero veramente grate a Dio. In ogni occupazione, in ogni atto, in ogni pratica di pietà mettevano la massima cura, come se non avessero mai avuto da compiere e non avessero più da compiere altra azione fuori di quella che compivano. Se adunque Gesù Cristo e i santi col loro esempio c’insegnano a mettere la santità nella perfezione delle nostre consuete azioni, come non ne seguiremo noi l’insegnamento e l’esempio?

PUNTO 3°.

Insegnamento della stessa ragione.

Alla voce della fede, che ci mostra la nostra santità dipendere massimamente dal santificare le ordinarie occupazioni, si aggiunge la voce stessa della ragione. Difatti la ragione ci mostra che a mantenere l’ordine, l’armonia, la pace, in una comunanza di persone è necessario che ciascun membro adempia fedelmente i doveri ordinari del suo stato. Come un orologio non può servire al suo scopo di segnare con precisione il tempo, se ciascuna delle sue ruote non agisce perfettamente, così la vita comune non procede regolata, prospera e soddisfacente se si tralascia anche da pochi di compiere con esattezza i propri ordinari uffici. Il far bene adunque le consuete azioni e i giornalieri esercizi, il compiere nel miglior modo possibile le ordinarie occupazioni e i soliti doveri del proprio stato mantiene l’ordine e la regola, serve efficacemente alla prosperità della vita comune, e giova nel tempo stesso alla propria santificazione, perché chi pratica fedelmente il proprio dovere si fa santo. Persuadiamoci adunque, che la nostra santificazione, come dice S. Bernardo, consiste nel fare le cose comuni, ma non comunemente: communio facere, sed non communiter.

 

MEDITAZIONE PER IL MARTEDÌ.

Sopra le qualità delle nostre azioni.

Mediteremo sopra le qualità, che devono avere le nostre ordinarie e comuni azioni, perchè siano santificate e abbiano merito, e cioè siano tali che piacciano a Dio, rassomiglino a quelle di Gesù Cristo, edifichino il prossimo. C’immagineremo che Gesù c’inviti a farci santi col dirci: Siate santi, perché Io sono santo: Sancti estote, quia ego sanctus sum (Lev., XI, 44). – Prostrandoci in ispirito ai suoi piedi e adorandolo gli prometteremo di seguire il suo invito col cominciare a fare santamente tutte quante le nostre azioni. Preghiamolo di benedire la nostra promessa.

PUNTO 1°.

Le nostre azioni piacciano a Dio.

A santificare le nostre ordinarie occupazioni è necessario anzitutto attendere ad esse per piacere a Dio, non già per piacere a noi o agli uomini, non hominibus placentes, sed in simplicitate cordis… ex animo… sicut Domino (Col., IIII, 22), vale a dire con la massima semplicità e rettitudine d’intenzione. Gesù Cristo dice: Se il tuo occhio è semplice, tutto il tuo corpo sarà lucido; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà tenebroso (MATTH., VI, 22, 23). Quest’occhio è la nostra intenzione nelle occupazioni cui attendiamo. Se essa è semplice, pura, diritta, ha di mira cioè di far piacere a Dio e glorificarlo, tutte le occupazioni nostre saranno lucide, vale a dire, belle e buone e sante; ma se al contrario la intenzione nostra è cattiva, ha di mira cioè o la soddisfazione del nostro amor proprio, o il guadagno della stima altrui, o l’acquisto della riputazione e della lode dei nostri superiori, o qualche altro fine umano, tutte le nostre occupazioni saranno tenebrose, vale a dire prive affatto del carattere della santità e senza alcun merito. E ciò anche allora che le nostre occupazioni fossero le più grandi e le più nobili per sé. Oh quanto importa adunque che nelle nostre occupazioni non abbiamo mai altro di mira che fare il gusto di Dio e ottenere la sua glorificazione, giacche da ciò anzitutto dipende la santificazione delle opere nostre!

PUNTO 2°.

Le nostre azioni siano simili a quelle di Gesù Cristo.

Volendo noi santificare davvero le nostre azioni, oltre al compierle con retta intenzione, dobbiamo modellarle sul nostro divino Maestro Gesù. Egli si pose davanti a noi come l’esemplare da riprodurre. Ha voluto perciò compiere tutte le azioni più ordinarie e comuni per mostrarci come in tutto e per ogni dove si può essere santi. Ha lavorato, ha pregato, ha conversato, ha riposato; si è recato nel tempio, è andato per le strade e per le piazze, è stato nella solitudine e nella società, ha insegnato, ha predicato, si è occupato dei gravi affari che riguardavano il suo Padre celeste, si è assoggettato persino a mangiare, a bere, a dormire, a starsene in famiglia, a obbedire a Maria e a Giuseppe, e di poi a convivere con i suoi discepoli e servirli ben anche. Quindi sembra dirci: Guardate le mie azioni, fatele con quello spirito, con cui le ho fatte io, e le santificherete tutte. E lo spirito era di compiere in tutto e per tutto la volontà del mio Divin Padre. Questo invito di Gesù Cristo come fu bene seguito dai Santi! S. Vincenzo de’ Paoli, fra gli altri, in ogni sua occupazione si domandava: Come si comportava Gesù in quest’opera? Come farebbe in vece mia? Ah! caro Maestro, quanto purtroppo mi sono allontanato finora dai vostri insegnamenti e dai vostri esempi! Quante volte anziché operare per fare la volontà di Dio, ho operato per impulsi istintivi, mosso unicamente dall’utile o dal piacere, intento solo a fare la mia volontà! Fate, o mio amato Gesù, che d’ora innanzi io non abbia più a perdere così malamente il frutto delle mie fatiche.

PUNTO 3°.

Le nostre azioni edifichino il prossimo.

Per santificare le nostre ordinarie azioni dobbiamo compierle in modo che riescano di edificazione al prossimo. Gesù Cristo ha detto chiaro che la luce nostra deve risplendere dinanzi agli uomini, affinché vedano esser le nostre opere buone e glorifichino il Padre nostro che sta nei cieli (MATTH., V, 16). Con le quali parole il nostro divino Maestro ci impone l’obbligo di dare in tutto buon esempio, epperò anche nelle nostre ordinarie e consuete occupazioni, affinché anche questo buon esempio stimoli i nostri prossimi a seguirlo e li spinga a onorare anch’essi il Signore. Che se questo buon esempio nelle proprie occupazioni è obbligatorio per tutti i cristiani, quanto più si impone a coloro che si sono consacrati a Dio nella professione religiosa! Essi non solo devono nelle loro ordinarie azioni edificare i loro fratelli, ma altresì gli uomini del mondo, e massimamente i loro discepoli e alunni che tengono continuamente gli occhi aperti sulle loro opere e sul modo con cui le compiono. Consideriamo pertanto se a tutto questo badiamo nelle nostre azioni. Indarno pretenderemmo dai nostri discepoli e dipendenti l’adempimento fedele dei loro doveri, qualora noi non li animassimo con l’esempio, adempiendo bene i doveri nostri. Essi per lo meno in segreto ci direbbero che altro comandiamo ed altro facciamo, e che non è giusto volere dagli altri quello che non facciamo prima noi.

MEDITAZIONE PER IL MERCOLEDÌ.

Sopra il modo delle nostre azioni.

Mediteremo sopra il modo di compiere le nostre ordinarie azioni perché siano santificate, che è di farle con diligenza, con sacrificio, con allegrezza. C’immagineremo che Gesù, ci rivolga questa parola: È mia volontà che vi facciate santi: Hæc est voluntas mea, sanctificatio vestra. Questa parola riconosceremo che non è semplice invito, ma formale comando; epperò prometteremo a Gesù di fare d’ora in avanti tutto il possibile per ottemperarvi col santificare le nostre ordinarie occupazioni.

PUNTO 1°.

Le nostre azioni devono farsi con diligenza.

A santificare le nostre ordinarie e comuni azioni è necessario farle con diligenza. Il Signore dichiara maledetto colui che fa le opere di Lui con fraudolenza: maledictus qui facit opus Domini fraudulenter (Jer., XLVIII, 10), e per opere di Dio non dobbiamo intendere soltanto le opere del culto e gli esercizi di pietà, ma tutte quante le nostre occupazioni, perché tutte devono aver di mira la gloria di Dio. Dunque è benedetto solamente colui, che compie le sue occupazioni senza frodare il Signore, senza omettere cioè alcunché della diligenza necessaria a compierle bene. Infatti non possono essere gradite al Signore, epperò santificate, quelle occupazioni cui si attende con svogliatezza, con pigrizia, con noia, oppure in tutta fretta, con precipitazione, fuori del tempo e del luogo assegnato per esse. Eppure quanto è facile cadere in questo mancamento di compiere con negligenza le ordinarie occupazioni! Si metterà forse tutta la diligenza possibile in un’opera particolare, di nostro gusto, ma le occupazioni ordinarie facilmente o si trascurano, o si compiono comunque. Sì, è vero purtroppo, mio Dio; io talora ometto le mie pratiche di pietà e le opere del mio uffizio, o le compio con tanti difetti perché sono pigro, indolente, privo di buona volontà di farmi santo. Aiutatemi voi a scuotermi da questa accidia.

PUNTO 2°.

Le nostre azioni devono farsi con sacrifizio.

A santificare le nostre ordinarie azioni è necessario alla diligenza aggiungere lo spirito di sacrifizio. Il regno de’ cieli, dice Gesù Cristo, si acquista con la forza: regnum cœlorum vim patitur (MATTH., XI, 12); il che significa che solo con lo spirito di sacrificio nelle occupazioni ordinarie potremo santificarci e meritare il paradiso. Vi sono occupazioni che piacciono e occupazioni che dispiacciono. Il compiere le prime con gusto non toglie loro la bontà e il merito se le indirizziamo alla gloria di Dio, anzi quel gusto può essere un soave eccitamento datoci dal Signore a operare il bene. Se però noi le compiessimo unicamente per nostro gusto senza riferirle a Dio, queste occupazioni ancorché gravi, sarebbero puramente umane, epperò  sprecate in riguardo alla vita eterna. Le altre poi che ci dispiacciono, anziché cercare di esserne esonerati, si devono compiere altresì con animo generoso e con abnegazione, ricordando che si lavora per il Signore, il quale premia la buona volontà quando non può premiare la buona riuscita, e per il quale deve tornar leggiera ogni pena,, avendone Egli sofferte tante per noi. È questo lo spirito con cui operi? Forse a certe occupazioni attendi di buon animo, perché soddisfano il tuo amor proprio, e altre ne tralasci o le fai forzatamente, perché gravose o poco appariscenti. Umiliati davanti a Dio e chiedigli maggior generosità.

PUNTO 3°.

Le nostre azioni devono farsi con allegrezza.

A santificare le nostre occupazioni è pur necessario compierle con allegrezza. S. Paolo dice che Iddio ama l’allegro donatore: Hilarem enim datorem diligit Deus (II Cor., I X , 7): e il santo re David ci raccomanda di servire al Signore lietamente: Servite Domino in lætitia (Ps., 99, 2). E come non servire al Signore lietamente, se servire a lui è regnare: Servire Deo regnare est? Sì, il servizio di Dio è regnare, perché chi serve a Dio si unisce con Lui, identifica la sua volontà con la sua, e regna così sopra le sue passioni, sopra il mondo, sopra il demonio. Or ecco ciò che fa chi compie allegramente le sue occupazioni. In esse vede il volere di Dio e vi si sottomette con amore e con gioia, e non già per forza, per timore di rimproveri o castighi, per paura di danno materiale o morale. O anima mia, con questo spirito di santa allegrezza hai sempre compiuto le occupazioni del tuo stato? o non le hai compiute molte volte per sola necessità, per viste umane, come per non avere osservazioni e biasimi, per conservare posto, onori e comodità, per non scapitare nella stima? Se finora hai avuto tali sentimenti nelle tue occupazioni rigettali tosto e lavora soltanto per Iddio.

MEDITAZIONE PER IL GIOVEDÌ.

Sopra la regola delle nostre azioni.

Mediteremo sopra la regola da seguire nelle nostre ordinarie azioni affine di santificarle, che è compiere ciascuna di esse come se fosse l’unica, l’ultima, la più importante da compiere. C’immagineremo che Gesù, sommamente sollecito della nostra perfezione, ci dica quella parola dell’Imitazione: In ogni tua azione e in ogni tuo pensiero dovresti comportati come se subito fossi per morire: Sic te in omni facto et cogitatu deberes tenere quasi statini esses moriturus (7 Imit., XXIII, 1). Benedicendolo e ringraziandolo della sua immensa bontà per noi studieremo il modo di seguirne costantemente il grande avvertimento.

PUNTO 1°.

Fare ogni azione come se fosse l’unica.

Lo Spirito Santo dice che ogni cosa ha il suo tempo: Omnia tempus habent (Eccle., III, 1), e Gesù Cristo ci raccomanda di non darci pensiero per quello che faremo domani, bastando a ogni giorno il suo affanno: Nolite sollieiti esse in crastinum… sufficit diei malitia sua (MATTH., VI, 14). Ora, ottimo mezzo per santificare le ordinarie azioni è mettere in ciascuna di esse tutta la diligenza e l’attenzione, come se quella fosse l’unica azione da compiere. È tempo di pregare? preghiamo come se non avessimo più altro a fare. Attendiamo alla meditazione? Meditiamo come se a questo solo dovessimo attendere. Si lavora, s’insegna, si assiste, si studia? vi si metta tutta la sollecitudine, come se prima non fossimo stati altrimenti preoccupati e come se dopo ogni nostro compito fosse esaurito. A che serve pensare ad altro nel corso di un’occupazione? Che giova richiamare alla mente le occupazioni passate? O bene o male che siano state compiute, non si possono più cangiare. Che vale darsi affanno per le occupazioni, che avremo da compiere in seguito? Non sappiamo neppure se le potremo ancora compiere. Lo spirito così distratto non si applica abbastanza a quello che ora deve fare, e le nostre azioni, mancando la dovuta diligenza, non restano neppure santificate e grate al Signore. Dio ama l’ordine, e quindi gradisce e benedice soltanto ciò che si fa ordinatamente.

PUNTO 2°.

Fare ogni azione come se fosse l’ultima.

Gesù Cristo dice che la morte verrà a noi come un ladro di nottetempo; nulla perciò di più incerto che il momento della morte: dunque essa ci può cogliere non appena terminata l’azione che stiamo compiendo. La prudenza vuole che ci comportiamo in ogni azione come se fosse l’ultima della nostra vita. Beato quel servo del Signore, che Egli, chiamandolo a sé repentinamente, troverà aver compiuta bene l’opera sua: Beatum ille servus quem, cum venerit Dominus eius, invenerit sic facientem (MATTH., XXVI, 46). S. Francesco Borgia raccomandava a’ suoi religiosi di mettersi ventiquattro volte al giorno nella condizione di un uomo che sta per morire e di fare ogni cosa come se subito dopo si dovesse renderne conto a Dio. Il pensiero che la morte ci può cogliere da un momento all’altro, è mezzo efficacissimo a farci rettamente operare in ogni nostra occupazione. Con quanta divozione pregheremmo, se sapessimo essere questa l’ultima nostra preghiera! Con quale fervore faremmo la Comunione, se dopo di essa dovessimo rendere l’anima a Dio! Con quale diligenza attenderemmo a quell’insegnamento, a quell’assistenza, a quel lavoro, se dopo avessimo a presentarci al divin tribunale! Se al mattino un Angelo ci avvertisse che in sulla sera moriremo, come santificheremmo tutta la giornata! come riuscirebbero sante tutte le nostre azioni! – Ebbene, a questo pensate ogni mattino, dice l’Imitazione, che forse non vedrete la sera, ed ogni sera che non arriverete al mattino, e vi regolerete in tutto da santi.

PUNTO 3°.

Fare ogni azione come se fosse la più importante.

A conseguire il paradiso, a sfuggire o a renderci più breve e meno penoso il purgatorio servono tutte quante le nostre azioni, non solo le più appariscenti e straordinarie, ma anche le più piccole e comuni. Ciascuna di esse sarà vagliata da Dio nel suo giudizio, e vagliata in se stessa, nelle sue intenzioni, nelle sue circostanze, nella sua maniera di adempimento, giacche Gesù Cristo c’insegna che anche solo di una parola oziosa da noi profferita dovremo rendere conto nel dì del giudizio: omne verbum otiosum, quod locuti fuerint homines, reddent rationem de eo in die iudicii (MATTH., XII, 36). È dunque sommamente importante ogni nostra azione; bisogna dunque compierla come se da essa dipendesse la nostra eternità felice o infelice, o per lo meno lo stare maggiore o minor tempo in purgatorio a soffrirvi maggiori o minori pene. È dunque sapiente regola di condotta la seguente: agire in ogni nostra opera come se con questa avessimo a stabilire la nostra eternità felice o infelice; come se con essa avessimo a darci tanti anni più o tanti anni meno di purgatorio. Questi gravi pensieri accompagnino ciascuna delle tue azioni. Ogni tua occupazione sarà compiuta con perfezione, e tutte insieme formeranno la tua santificazione quaggiù, la tua felicità eterna in cielo.

MEDITAZIONE PER IL VENERDÌ.

Sopra la vita di lede nelle nostre azioni.

Mediteremo sopra un gran mezzo per santificare le nostre ordinarie occupazioni sia rispetto a Dio, sia rispetto al prossimo, sia rispetto a noi: la vita, di fede. C’immagineremo che Gesù dica anche a noi: In verità vi dico: Se avrete fede quanto un granello di senapa, potrete dire a questo monte: passa da questo a quel luogo e passerà, e nessuna cosa sarà a voi impossibile (MATTH., XVII, 19); come per dirci: se un po’ di vera fede fa compiere dei miracoli, quanto più il vivere di fede vi aiuterà a santificare le vostre ordinarie occupazioni! Ringrazieremo Gesù della bontà che ci mostra con questo ammaestramento, e gli prometteremo di seguirlo fedelmente.

PUNTO 1°.

La vita di fede ci aiuta rispetto a Dio.

L’apostolo dice che l’uomo giusto vive di fede. Se l’uomo vizioso vive vita brutale, se l’uomo naturalmente onesto vive vita umana, l’uomo giusto vive vita divina, perché in tutto ciò che pensa, dice, opera, egli segue i dettami della fede soprannaturale. Così visse il patriarca Abramo, di cui S. Giacomo dice che la fede serviva mirabilmente alla santificazione delle sue operazioni: fides cooperabatur operibus illius (Jac, II, 22). Giova anzitutto prendere la fede come regola di quelle occupazioni che si compiono rispetto a Dio. Mercé la fede, nel pregare crederemo che Dio è presente, che ascolta con piacere le nostre preghiere, che fedele alle sue promesse certamente le esaudirà nel modo per noi più vantaggioso; nel fare la meditazione saremo persuasi che Dio ci guarda amorosamente, che si degna farci da maestro, che ci parla al cuore; nella lettura spirituale ci parrà che Dio stesso dall’alto de’ cieli ci invii le sue lettere per farci conoscere i suoi voleri. Mediante la fede, nella confessione vedremo il sangue preziosissimo del Redentore, che discende a lavare le anime nostre, e nel confessore chi tiene le veci di Gesù Cristo e ci dirige a suo nome nella via della virtù e della santità; nella Comunione gusteremo l’unione intima di Gesù con noi; nelle visite al SS. Sacramento scorgeremo Dio presente con le mani piene di grazie per distribuircele. Insomma la fede c’infonderà raccoglimento, divozione, fervore, tutto ciò che è necessario per fare santamente ogni pratica di pietà.

PUNTO 2°.

La vita di fede ci aiuta rispetto al prossimo.

La vita di fede serve a farci compiere santamente le azioni, che riguardano il prossimo, siano i nostri superiori, i nostri eguali, i nostri inferiori. Nei rapporti coi superiori, la vita di fede ci farà pensare a quelle parole di Gesù Cristo: Qui vos audit, me audit: chi ascolta i superiori, ascolta me ( Luc., X, 16); e nella volontà dell’uomo ci farà riconoscere il volere espresso di Dio. Nei rapporti con i fratelli, la vita di fede ci metterà innanzi l’esempio di Gesù Cristo, che per tre anni soffre con pazienza i difetti degli apostoli, trattandoli sempre con la massima carità. Nei rapporti con inferiori, la vita di fede ci ridurrà alla mente l’asserzione del divin Redentore: Quod uni ex minimis meis fecistis, mihi fecistis, ciò che avrete fatto ad uno dei miei meschini, lo avrete fatto a me (MATTH, XXV, 40), e ci farà usare dolcezza, carità, compassione vera. Se abbiamo una missione educatrice, la vita di fede ci farà ricordare come Gesù Cristo abbia assicurato che chiunque riceverà un fanciullo in suo nome e ne avrà cura, sarà lo stesso come se avesse ricevuto Lui e di Lui si fosse preso cura, e facendoci vedere in quell’anima lo stesso Gesù ci indurrà a trattarla con tutto l’affetto e con tutto il rispetto che Gesù stesso si merita. Così la vita di fede, nel trattar col prossimo per fargli del bene, sempre c’insegnerà che la carità, ancorché esercitata verso gli uomini, è tuttavia virtù teologale, che riguarda lo stesso Iddio. Come santamente adunque noi adempiremo i nostri uffici vivendo vita di fede!

PUNTO 3°.

La vita di fede ci aiuta rispetto a noi.

La vita di fede giova mirabilmente a rendere sante tutte quante le altre operazioni, fatte per noi stessi, fuori delle pratiche di pietà e delle relazioni coi prossimo. Sia che ci applichiamo agli studi o al lavoro, sia che attendiamo ad una lettura o ad uno svago, sia che stiamo da soli nella nostra stanza o usciamo al passeggio, sia che mangiamo, beviamo, dormiamo o facciamo qualsiasi altra cosa, la vita di fede santificherà sempre queste nostre operazioni, ancorché indifferenti, basse e vili, e le renderà meritorie e degne di premio eterno. Perciocché la vita di fede ci mostrerà sempre Iddio presente al nostro operare e ci farà indirizzare sempre a Lui ogni nostra azione e ci darà animo a compierla nel debito modo. E non sarà mai che le nostre operazioni si compiano solo per umani riguardi, per cattivarci la stima degli uomini, o per sola educazione, e neppure per onestà naturale. La vita di fede ci farà compiere ogni nostra più ordinaria azione con la mente fissa in Dio, per suo amore e per la sua gloria. Risolviamoci adunque per questa vita, che è mezzo così potente a santificarci, sicché ciascuno di noi possa essere davvero il giusto del Signore, che vive di fede: Justus autem meus ex fide vivit (Hebr., XIX, 38).

MEDITAZIONE PER IL SABATO.

Sopra l’eccellenza della vita interiore.

Mediteremo sopra tre grandi vantaggi delle nostre azioni santificate dalla vita di fede e dall’amor di Dio, che sono l’acquisto di grandi meriti, l’unione con Dio, la ricompensa eterna. C’immagineremo che Gesù nel dì della nostra morte venga incontro a noi per dirci quella dolcissima parola: Bene sta, servo buono e fedele! Perché sei stato fedele nel poco, io ti costituirò sopra il molto: entra nel gaudio del tuo Signore: Euge. serve bone et fidelis, quia in pauca fuisti fidelis super multa te constituam: intra in gaudium Domini tui (MATTH., XXV, 21, 23). In questo consolante pensiero adoreremo il nostro Divin Salvatore e Giudice e ci conforteremo nella pratica di santificare tutte quante le nostre azioni.

PUNTO 1°.

Primo vantaggio: acquisto di grandi meriti.

Anche le opere nostre più grandi, quali sarebbero convertire molte anime o sacrificare la vita, di loro propria natura non avrebbero alcun valore, se non fossero fatte con spirito di fede e per amor di Dio; solo in tal modo si arricchiscono dei meriti infiniti di Gesù Cristo e si rendono degne del paradiso. Ma per acquistare tali meriti non è necessario compiere opere straordinarie: basta fare bene le azioni ordinarie e comuni, poiché le nostre azioni diventano meritorie non per la grandezza loro, ma per la grandezza della carità con cui si fanno. La povera vedova mise nel gazofilaccio due piccole monete, mentre molti ricchi vi gettavano denaro in copia; eppure Gesù disse che quella donna aveva dato più di tutti (MARC., XII, 41, 43); e ciò perché la sua piccola offerta era accompagnata dalla carità, il che non era delle offerte vistose degli altri. Gesù ha detto ancora che chiunque avrà dato un bicchier d’acqua fresca ad un poverello per suo amore non resterà senza ricompensa (MATTH., X, 42). Ecco dunque che, pur passando la vita in occupazioni ordinarie e comuni, noi possiamo farci grandi meriti. Se non ti vedi o non sei ritenuto capace di fare cose grandi, tu, compiendo per amor di Dio il tuo umile ufficio, compiendolo anche per anni interi senza crescere di onore e di grado, potrai nella tua ordinaria occupazione farti meriti senza numero per la beata eternità e forse di gran lunga maggiori che se ti fossi applicato a opere più ammirande. Opera per Iddio e conforme al suo volere, e i tuoi giorni saran pieni di tesori celesti.

PUNTO 2°.

Secondo vantaggio: unione con Dio.

L a santificazione delle nostre ordinarie occupazioni ci procaccia la più bella felicità della vita presente, che è di unirci a Dio. L’anima che vuole davvero sante le sue azioni, nutre di Dio la mente, perché offre a Lui tutto quello che fa; ha pieno di Dio il cuore, perché opera per suo amore e per la sua gloria; ha gli stessi suoi sensi compenetrati di Dio, perché li immola nella mortificazione a Lui; vive in Dio e per Iddio e con Dio, perché vive nella sua carità. Oh paradiso anticipato! L’anima intenta a santificare le sue azioni comuni e consuete può dire continuamente a se stessa: Sono in compagnia di Dio, sotto la protezione di Dio, tra le braccia di Dio. Anche nelle occupazioni, che richiedono fatica e sacrificio, il pensiero e l’affetto di questa anima essendo tutto in Dio, da Dio riceve forza, consolazione e gaudio. Ella si ripete allora le parole di Davide: Il Signore è alla mia destra perché io non mi turbi, epperò il mio cuore gode una grande allegrezza: A dextris est mihi, ne commovear, propter hoc lætatum est cor meum, (Ps., XV, 8, 9). O mio caro Gesù, datemi di esperimentare questa felicità coll’aiutarmi a santificare tutte le mie ordinarie occupazioni.

PUNTO 3°.

Terzo guadagno: la ricompensa eterna.

Il Signore promette la ricompensa alle nostre ordinarie occupazioni, che avremo santificate facendole per lui. Nel libro della Sapienza è detto che il Signore rende ai giusti la mercede delle loro fatiche (Sap., X, 17). S. Paolo ci assicura che Iddio renderà a ciascuno secondo le opere sue (Rom., II, 6), e lo stesso Gesù Cristo nel Vangelo ci fa sapere con la parabola dei talenti, dati da un padrone a trafficare a’ suoi servi, che ci ricompenserà di quanto di bene avremo fatto secondo la nostra attitudine, la quale è quella riconosciuta dai nostri superiori nelle occupazioni da loro assegnateci. Chi promette, qui, è Iddio, vale a dire, Colui che non vien meno mai alla sua parola e che premia sempre, non in conformità alla pochezza delle nostre azioni, ma secondo la sua infinità bontà e magnificenza. E la ricompensa che ci darà, sarà la gloria e la beatitudine eterna! Oh mio Dio! per qualche po’ di attenzione nel pregare, nel meditare, nell’udire una lettura, una predica, per un po’ di fervore nel fare la Comunione e la visita al SS. Sacramento, per un po’ di umiltà nel sottomettermi all’ufficio assegnatomi dall’obbedienza e per un po’ di diligenza nel compierlo, per un po’ di fatica, di sacrificio, di abnegazione nel fare lavori difficili e di poca apparenza avrò un onore immortale e un gaudio senza fine! Oh, ripeterò dunque spesso le parole di S. Francesco d’Assisi: Tanto è il bene che m’aspetto, che ogni pena mi è diletto.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIO IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: APOSTOLICÆ NOSTRÆ

Il Santo Padre, Pio IX,  ben conscio degli inganni dei figli delle tenebre, che seminavano discordie e minavano la santa Religione e la stabilità degli Stati, soprattutto con l’indifferentismo religioso e l’incredulità, chiede a tutti uno sforzo supplementare mediante la preghiera alla estirpazione di tali pestiferi mali. A sostegno della sua richiesta generale, fatta a religiosi, prelati, laici fedeli, cita le parole del Crisostomo … “è fonte e radice e madre di innumerevoli beni, la forza della preghiera vinse la furia del fuoco, trattenne il furore dei leoni, compose le guerre, spense le battaglie, quietò le tempeste, mise in fuga i demoni, aprì le porte del cielo, spezzò i vincoli della morte, scacciò le malattie, respinse i danni, consolidò le città scosse; la preghiera ha eliminato le piaghe inflitte dal cielo e le insidie degli uomini: in definitiva tutti i mali“, e concede indulgenza plenaria in forma di giubileo. Si raccomanda in particolare di far ricorso alla Vergine Maria nelle preghiere fatte secondo le intenzioni del Papa, e cioè per l’esaltazione e la prosperità della Santa Madre Chiesa e della Sede Apostolica, per l’estirpazione delle eresie, per la pace e la concordia dei Principi cristiani, per la pace e l’unità di tutto il popolo cristiano e si chiedono, se possibili, digiuni ed elemosine. Queste esortazioni fatte da un Papa “cattolico” sono valide ancor più oggi, almeno per il “pusillus grex”, il residuo gregge Cattolico, Apostolico, Romano, che non deve dimenticare nel corso della giornata di dedicare preghiere ed offrire possibilmente digiuni ed elemosine, con le intenzione del Santo Pontefice, Gregorio XVIII, soprattutto per l’estirpazione delle eresie moderniste e la prosperità e l’esaltazione della santa Chiesa “eclissata”, affinché possa  rapidamente rioccupare i luoghi e gli spazi usurpati. Che dire oggi, quando la Chiesa di Cristo vive tra catacombe, sotterranei ed anfratti, perseguitata dai soliti nemici: marrani, massoni, satanisti di ogni genere, laicisti, radicali, comunisti etc., ai quali si sono aggiunti, con rinnovato ardore ed accanimento estremo, i modernisti del novus ordo con le loro stampelle, cioè i sedevacantisti, i fallibilisti gallicani ed i finti tradizionalisti che reggono “il moccolo” agli antipapi insediati dalle conventicole al guinzaglio del gran kahal? Non ci resta che ricorrere alla preghiera come rimedio efficace secondo le parole del Crisostomo, giustamente ricordate dal Sommo Pontefice. Non c’è tempo da perdere, fratelli del pusillus grex, la situazione umanamene è irrecuperabile, ma proprio questo fa pensare che l’intervento del Signore per raddrizzare una situazione apparentemente compromessa, sarà potente ed impensabile, nella sua semplicità, alla mente umana. Leggiamo l’enciclica e teniamo già pronti Rosario, Salterio, libro delle devozioni e delle preghiere.

Apostolicæ nostræ

di S. S. pio IX

Contemplando l’intero mondo cattolico con la sollecitudine e l’affetto della Nostra carità Apostolica, possiamo a malapena esprimere con le parole, Venerabili Fratelli, da quale intimo dolore siamo afflitti, quando vediamo lo stato cristiano e civile turbato, oppresso e tormentato da ogni parte, in modo compassionevole, da calamità gravissime di ogni sorta. Infatti sapete benissimo come i popoli cristiani siano afflitti e sconvolti o da cruentissime guerre, o da dissidi intestini; o da morbi pestiferi, o da violenti terremoti o da altri gravissimi mali. Questo soprattutto riempie di dolore: che fra tanti lutti e danni mai abbastanza pianti, i figli delle tenebre, che nella loro generazione sono più cauti dei figli della luce, di giorno in giorno si sforzano sempre più, con ogni inganno, arte e preparazione, di condurre una guerra durissima contro la Chiesa cattolica e la sua dottrina salvifica; di stravolgere e distruggere l’autorità d’ogni potere legittimo; di indurre al male e corrompere le menti e gli animi di tutti; di propagare dovunque il veleno mortale dell’indifferentismo e dell’incredulità; di sconvolgere tutti i diritti divini e umani; di eccitare ed alimentare i dissensi, le discordie e i moti di empie ribellioni; di consentire qualunque malvagia scelleratezza e crudelissima azione; di non lasciare nulla d’intentato affinché – se potesse mai accadere – la nostra santissima religione sia tolta di mezzo e la stessa società umana sconvolta dalle fondamenta. – Pertanto, in una situazione tanto rischiosa, ben sapendo che a Noi, per beneficio singolare di Dio misericordioso, con la preghiera è data facoltà di ottenere tutti i beni dei quali abbiamo bisogno e di allontanare i mali che temiamo, non abbiamo tralasciato di alzare i Nostri occhi al monte eccelso e santo, dal quale confidiamo giungerà per Noi ogni aiuto. Nell’umiltà del Nostro cuore, non smettiamo di pregare e supplicare, con sentite e fervide orazioni, Dio ricco di misericordia, affinché – portando via le guerre fino ai limiti della terra e rimuovendo tutti i dissidi – dia pace, concordia e tranquillità ai Principi cristiani ed ai loro popoli, e conceda soprattutto agli stessi Principi il virtuosissimo impegno di sempre meglio proteggere e propagare la fede e la dottrina cattolica, nelle quali propriamente consiste la felicità dei popoli; affinché allontani gli stessi Principi e le popolazioni da tutti i mali da cui sono afflitti e li rallegri con ogni autentica felicità; affinché elargisca agli erranti i doni della Sua grazia celeste, cosicché dalla via della perdizione tornino sui sentieri della verità e della giustizia e con sincero cuore si rivolgano a Dio stesso. – Anche se in questa Nostra alma città abbiamo già ordinato che si alzino preghiere per implorare la divina misericordia, tuttavia, seguendo le illustri orme dei Nostri Predecessori, abbiamo deciso di ricorrere anche alle preghiere vostre e di tutta la Chiesa. Così, Venerabili Fratelli, vi scriviamo questa lettera, con la quale chiediamo insistentemente alla vostra esimia e sperimentata devozione di spronare con ogni mezzo, per i motivi già ricordati, i fedeli affidati alle vostre cure, affinché – deponendo il peso dei peccati attraverso la vera penitenza – tentino di placare con suppliche, digiuni, elemosine ed altre opere di pietà l’ira provocata in Dio dalla nequizia degli uomini. In modo conforme alla vostra egregia devozione ed alla vostra saggezza spiegate agli stessi fedeli di quanta grande misericordia sia generoso Dio verso tutti coloro che lo invocano e quanto grande sia la forza delle preghiere, se ci rivolgiamo al Signore senza aver consentito alcun accesso al nemico della nostra salvezza. La preghiera infatti – per usare le parole di Crisostomo – “è fonte e radice e madre di innumerevoli beni, la forza della preghiera vinse la furia del fuoco, trattenne il furore dei leoni, compose le guerre, spense le battaglie, quietò le tempeste, mise in fuga i demoni, aprì le porte del cielo, spezzò i vincoli della morte, scacciò le malattie, respinse i danni, consolidò le città scosse; la preghiera ha eliminato le piaghe inflitte dal cielo e le insidie degli uomini: in definitiva tutti i mali” . Desideriamo inoltre con forza, Venerabili Fratelli, che, mentre fervide preghiere vengono rivolte al clementissimo Padre delle misericordie per i citati motivi, Voi non tralasciate – così come dispone la Nostra Lettera Enciclica inviatavi da Gaeta il 2 febbraio 1849 – di pregarlo insieme ai vostri fedeli, con l’animo più che mai ardente e supplice, affinché illumini propizio la Nostra mente con la luce del Suo Santo Spirito, cosicché a proposito della Concezione della Immacolata Vergine Maria, Santissima Madre di Dio, Noi possiamo al più presto stabilire ciò che si attaglia alla maggior gloria di Dio ed a lode della stessa Vergine, Madre amorevolissima di noi tutti. – Inoltre, affinché i fedeli a Voi affidati elevino le loro preghiere con carità più fervente e con più ricchi frutti, abbiamo deciso di mettere a disposizione ed erogare i tesori dei doni celesti, la cui dispensazione Ci è stata affidata dall’Altissimo. Perciò, fiduciosi nella misericordia di Dio onnipotente e nell’autorità dei Suoi Apostoli, beati Pietro e Paolo, sulla base di quella facoltà di sciogliere o legare che – per quanto immeritevoli – Dio Ci ha concesso, con questa Lettera concediamo ed elargiamo l’indulgenza plenaria di tutti i peccati, in forma di Giubileo (che potrà essere applicata anche in suffragio delle anime del Purgatorio) a tutti ed a ciascun fedele delle vostre Diocesi, di entrambi i sessi, che, entro lo spazio di tre mesi – che ciascuno di voi deve stabilire da un giorno che ciascuno di voi avrà individuato – dopo aver confessato umilmente i propri peccati, detestandoli dal profondo, ed averli espiati con l’assoluzione sacramentale, accolga con reverenza il santissimo Sacramento dell’Eucaristia; visiti devotamente o tre Chiese da voi designate o tre volte una di esse, ed ivi rivolga al Signore per un determinato tempo devote preghiere secondo le Nostre intenzioni, per l’esaltazione e la prosperità della Santa Madre Chiesa e della Sede Apostolica, per l’estirpazione delle eresie, per la pace e la concordia dei Principi cristiani, per la pace e l’unità di tutto il popolo cristiano; oltre a tutto ciò, nello stesso lasso di tempo, digiuni una volta ed eroghi elemosina ai poveri proporzionalmente alla propria devozione. – Affinché possano lucrare questa indulgenza anche le Monache, o per meglio dire le altre persone che risiedono perennemente nei chiostri, nonché coloro che sono in carcere o che per un’infermità fisica o per qualunque altro ostacolo sono impediti dal portare a compimento una delle opere indicate, attribuiamo ai Confessori la facoltà di trasformarla in un’altra opera di devozione o di prorogarne il compimento ad un momento successivo, con l’ulteriore facoltà di dispensare dalla Comunione i fanciulli che non siano ancora stati ammessi alla prima Comunione. A questo proposito Vi conferiamo la potestà, limitatamente a questa occasione e soltanto nello spazio predetto di tre mesi, di attribuire ai Confessori delle vostre Diocesi, per Nostra autorità Apostolica, tutte le medesime facoltà che furono da Noi conferite nell’altro Giubileo concesso con la Nostra Lettera Enciclica a Voi mandata il 21 novembre 1851, data alle stampe e che inizia con le parole “Ex aliis Nostris”; restando sempre valide tutte le eccezioni che Noi indicammo nella medesima Lettera. – Inoltre Vi attribuiamo il potere di concedere ai fedeli delle vostre Diocesi, sia laici sia ecclesiastici, secolari e regolari, di qualunque istituto, anche a statuto speciale, la facoltà di scegliersi in questo caso come Confessore qualunque Sacerdote, secolare o regolare, fra quelli approvati, e la stessa facoltà può essere concessa anche alle Monache sottratte alla giurisdizione dell’Ordinario ed alle altre donne che vivono in clausura. – Operate, dunque, Venerabili Fratelli, poiché siete stati chiamati a condividere la Nostra sollecitudine e siete stati collocati come custodi sulle mura di Gerusalemme. Non smettete di invocare umilmente insieme con Noi, giorno e notte, in ogni preghiera e supplica, con l’aiuto della Grazia, il Signore Dio Nostro, e di implorare la Sua misericordia divina, affinché benevolmente allontani i flagelli della Sua ira, che meritiamo per i nostri peccati, e con clemenza distribuisca su tutti le ricchezze della Sua bontà. Non abbiamo alcun dubbio che vi accingerete a soddisfare con la maggior pienezza questi Nostri desideri e richieste, e siamo certi che soprattutto gli Ecclesiastici, i Religiosi, i Consacrati e gli altri Laici fedeli che, vivendo religiosamente in Cristo, degnamente camminano sulla strada della vocazione dalla quale sono stati chiamati, eleveranno senza interruzione le loro supplici preghiere a Dio, con lo zelo più ardente. E affinché Dio, invocato, tanto più facilmente inclini il suo orecchio alle nostre preghiere, non tralasciamo, Venerabili Fratelli, di chiedere il suffragio di coloro che, già coronati, detengono la palma, e per prima invochiamo incessantemente l’Immacolata Deipara Vergine Maria: presso Dio non c’è nessuna mediatrice più adatta e potente di Lei, che è madre di grazia e di misericordia; invochiamo inoltre la protezione dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, di tutto il consesso dei Santi che con Cristo regnano nei cieli. Nulla sia per Voi più fondamentale, più urgente che esortare con raddoppiato impegno i fedeli affidati alle vostre cure, ammonirli, stimolarli affinché si confermino di giorno in giorno più solidi ed incorruttibili nella professione della religione cattolica; evitino con ogni cura le insidie, le fallacie e gl’inganni dei nemici e con piede progressivamente più veloce avanzino per i sentieri dei comandamenti di Dio; si astengano con ogni cura dai peccati dai quali si moltiplicano tutti i mali per il genere umano.- Perciò non smettete mai d’infiammare in ogni momento, soprattutto, lo zelo dei Parroci, affinché – soddisfacendo con impegno e devozione al proprio incarico – non interrompano mai di ammaestrare accuratamente e di istruire il popolo Cristiano loro affidato nei santissimi rudimenti e nei precetti della nostra fede divina; di nutrirli puntualmente con l’amministrazione dei sacramenti e d’incitarli tutti nella sana dottrina. – Da ultimo, come anticipazione di tutti i beni celesti e testimonianza della Nostra ardentissima carità nei vostri confronti, ricevete la Benedizione Apostolica, che con grande amore impartiamo dal profondo del cuore a Voi personalmente, Venerabili Fratelli, a tutti i Chierici ed ai fedeli Laici affidati alla vostra cura.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 1° agosto 1854, anno nono del Nostro Pontificato.

DOMENICA II dopo EPIFANIA

DOMENICA II dopo l’EPIFANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXV:4
Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime. [Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Ps LXV:1-2
Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus.
[Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: canta salmi al suo nome e gloria alla sua lode.]


Omnis terra adóret te, Deus, et psallat tibi: psalmum dicat nómini tuo, Altíssime. [Tutta la terra Ti adori, o Dio, e inneggi a Te: canti salmi al tuo nome, o Altissimo.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui coeléstia simul et terréna moderáris: supplicatiónes pópuli tui cleménter exáudi; et pacem tuam nostris concéde tempóribus.
[O Dio onnipotente ed eterno, che governi cielo e terra, esaudisci clemente le preghiere del tuo popolo e concedi ai nostri giorni la tua pace.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.
Rom XII:6-16
“Fratres: Habéntes donatiónes secúndum grátiam, quæ data est nobis, differéntes: sive prophétiam secúndum ratiónem fídei, sive ministérium in ministrándo, sive qui docet in doctrína, qui exhortátur in exhortándo, qui tríbuit in simplicitáte, qui præest in sollicitúdine, qui miserétur in hilaritáte. Diléctio sine simulatióne. Odiéntes malum, adhæréntes bono: Caritáte fraternitátis ínvicem diligéntes: Honóre ínvicem præveniéntes: Sollicitúdine non pigri: Spíritu fervéntes: Dómino serviéntes: Spe gaudéntes: In tribulatióne patiéntes: Oratióni instántes: Necessitátibus sanctórum communicántes: Hospitalitátem sectántes. Benedícite persequéntibus vos: benedícite, et nolíte maledícere. Gaudére cum gaudéntibus, flere cum fléntibus: Idípsum ínvicem sentiéntes: Non alta sapiéntes, sed humílibus consentiéntes
.”.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli, Omelie, vol. I, Torino – 1899 Omelia XIII]

“Avendo noi doni differenti, secondo la grazia, che ci è stata data, se abbiamo la profezia, adoperiamoci a proporzione della fede; se abbiamo il ministero, attendiamo al ministero; se il magistero, attendiamo ad insegnare. Colui che esorta, attenda ad esortare; chi distribuisce, lo faccia con semplicità; colui che presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere pietose, si presti con ilarità. La carità sia senza simulazione: abborrite il male, attenetevi al bene. Amatevi fraternamente: prevenitevi gli uni gli altri nel rendervi onore. Non siate pigri: siate ferventi nello spirito, dedicati al servizio di Dio, allegri nella speranza, costanti nelle afflizioni, perseveranti nell’orazione, partecipi ai bisogni dei santi, facili alla ospitalità. Benedite quelli che vi perseguitano: benediteli e non vogliate maledirli. “Rallegrate vi con chi è allegro, piangete con chi piange. Abbiate tra voi uno stesso sentimento, non rivolgete l’animo a cose alte, ma acconciatevi alle basse „ (Rom. cap. XII, vers. 6-16).

Questo tratto della epistola ai Romani segue immediatamente a quello che vi spiegai nell’omelia XI e non è che una serie di sentenze morali d’una bellezza veramente stupenda. Esse erompono dall’anima ardente dell’Apostolo con una foga, con una facilità ed efficacia incomparabile. Se queste massime sì sublimi e sì semplici, che rispondono a meraviglia a ciò che vi ha di più intimo e più nobile nella nostra natura, fossero cadute sotto gli occhi di Platone, di Aristotele, di Cicerone e di tanti filosofi pagani, quale stupore ne avrebbero avuto? Con quale entusiasmo le avrebbero abbracciate? Noi le abbiamo sotto gli occhi e negli orecchi ogni giorno e per poco non vi poniamo mente! Nati in mezzo alla luce, non ne comprendiamo il pregio: educati con queste santissime verità, non ne apprezziamo debitamente) l’altezza. Oggi veniamole considerando partitamente e con amore e ne rileveremo la bellezza. – S. Paolo dopo aver fatto osservare, che la Chiesa è somigliante al corpo umano, il quale è uno solo, ma ha molte membra differenti, con differenti uffici, tra loro armonicamente! coordinati, prosegue, e dice: “Avendo noi doni differenti, secondo la grazia, che ci è stata data, se abbiamo la profezia, adoperiamoci a proporzione della fede. „ Il sole è uno solo, eppure crea una varietà sterminata di  colori secondo la natura degli oggetti che illumina: così Dio, che è uno e semplicissimo, produce nelle anime una varietà prodigiosa di doni, che mostrano la grandezza e fecondità inesauribile del donatore. Ciascuno di noi ha i suoi doni particolari? Usiamone. Hai tu il dono della profezia? Qui il dono della profezia non significa propriamente annunziare le cose future, ma la facoltà di parlare delle cose spettanti alla religione. Ebbene: l’adopera nella misura che l’hai ricevuto, secondo le tue forze. “Se abbiamo il ministero, segue l’Apostolo, attendiamo al ministero. „ Abbiamo cioè 1’ufficio di presiedere, di governare? Adempiamolo come si deve. — Se abbiamo il magistero, ossia l’ufficio di ammaestrare, e questo facciamo meglio che per noi si possa. — Colui che esorta, ossia che eccita i fratelli a fuggire il vizio ed a praticare la virtù, vi metta tutto lo zelo. — Chi distribuisce, chi largheggia in elemosine, lo faccia con semplicità, allontanando ogni fine men retto e men nobile, intendendo solo di soccorrere il fratello e far cosa grata a Dio. — Chi presiede e regge altri, faccia il suo dovere con diligenza. — Nella Chiesa vi sono molti ed alti uffici: quelli che li tengono, devono ricordarsi che gli uffici non hanno per scopo di accumulare ricchezze, ricevere omaggi, ritrarne comodi ed onori, ma sì hanno per fine proprio ed immediato il bene delle anime e la salute loro eterna e perciò si vogliono adempire con ogni diligenza. — Chi fa opere pietose, scrive S. Paolo, si presti con ilarità. — Che bella e cara espressione! Soccorri tu il povero? Conforti tu l’afflitto? Ammaestri l’ignorante? Consigli il timido e vacillante? Visiti l’infermo ed eserciti qualunque opera di carità? E a tutto questo col volto ilare e contento, perché così vuole Iddio: Hilarem datorem dilìgit Deus, e perché così l’opera tua sarà più efficace e gradita. Vedi queste Suore di carità che giorno e notte si aggirano per gli ospedali, che vanno da un letto all’altro: che hanno sempre sotto gli occhi lo spettacolo delle miserie umane: esse hanno sempre serena la fronte, il sorriso sulle labbra, la parola soave, l’occhio pieno d’amore: eccovi, o cari, ciò che vuole S. Paolo allorché comanda: “Chi fa opere pietose si presti con ilarità. „ Prosegue l’Apostolo: “La carità sia senza simulazione. Via la finzione, via l’ipocrisia sì nelle parole come negli atti e la nostra carità sia schietta, piena di candore. E qui l’Apostolo, quasi volesse condensare tutto ciò che ha detto e gli resta a dire, esclama: “Abborrite il male, attenetevi al bene. „ Pareva che qui l’Apostolo dovesse por fine alle sue esortazioni ed ai suoi documenti; no. Egli è simile ad un padre amoroso, che non vuole che il bene dei suoi figli ed aggiunge alle esortazioni le preghiere, ai ricordi i comandi e allorché sembra abbia finito, ripiglia da capo: il suo cuore non dice mai: Basta! – E invero qui S. Paolo comincia un’altra esortazione, come se nulla avesse detto. Uditelo: “Amatevi fraternamente. „ È il precetto nuovo, che Gesù Cristo portò sulla terra, Egli, che disse agli apostoli e in loro a tutti gli uomini quella sublime sentenza: ” Vos autem fratres estis — Voi siete fratelli. „ Dunque “come fratelli amatevi. „ Vi furono uomini, che scrissero sulla loro bandiera, come se fosse stata una loro scoperta, questa parola: “Fratellanza,„ imbrattandola tosto di sangue. Ignoravano essi che Gesù Cristo diciotto secoli innanzi l’aveva proclamata: Vos autem fratres, estis, e qui S. Paolo la ripete: Charitate fraternitatis invicem diligentes? Non era possibile. Lo sapevano; ma volevano arrogarsi il vanto d’aver trovata quella sublime dottrina. O cari! più che delle parole e delle vane proteste di fratellanza, siamo solleciti di mostrare le opere della fratellanza, “rispettandoci, amandoci, compatendoci e soccorrendoci a vicenda. „ La carità fraterna è una radice feconda: da essa derivano non solo le opere, ma le parole e perfino quelle convenienze del vivere quieto ed onesto, che alimentano il rispetto reciproco e la mutua benevolenza. Ecco ciò che voleva dire S. Paolo nelle parole sì belle, che seguono: “Prevenitevi gli uni gli altri nel rendervi onore. „ Sì; se la carità regnerà nei nostri cuori ed informerà tutti i nostri atti, ci guarderemo da far cosa che spiaccia ai fratelli e faremo ciò che loro torna gradito e sarà una nobile e santa gara in prevenirci, rendendoci onore gli uni gli altri. E ciò che altrove inculca lo stesso Apostolo scrivendo: “Per umiltà, ciascuno di voi pregiando gli altri più che se stesso — Humilìtate… invicem superiores arbitrantes. „ Dite, o carissimi, il codice di Gesù Cristo, che si compendia nella carità, non è desso anche un perfetto codice di educazione e civiltà sociale? “Non siate pigri, „ soggiunge l’Apostolo; s’intende nei vostri doveri, ma ferventi nello spirito, „ pronti, alacri per il fuoco della carità, acceso in voi dallo Spirito Santo, intesi ad una cosa sola, a servire cioè al Signore, fine ultimo di tutte le opere vostre. – Né qui si ferma S. Paolo, ma, trasportato dall’impeto della sua carità, con una rapidità mirabile accumula verità pratiche sopra verità pratiche, con una concisione ben più grande e sostanziosa di quella di Tacito. “Allegri nella speranza, costanti nelle afflizioni, perseveranti nella preghiera. „ La speranza della mercede rallegra il contadino, che suda sul campo, l’operaio che lavora nell’officina, il mercante che viaggia; e la speranza del premio del cielo fa brillare la gioia sulla fronte del cristiano, che soffre nella lotta della vita, lo tiene saldo in mezzo ai dolori. E quando egli sente venir meno le forze (e ciò non è raro), dia di piglio all’arme sì valida e sì sicura della preghiera e in essa perduri, e la vittoria sarà certa. L’Apostolo non dimentica mai che l’uomo non vive, né può vivere quaggiù isolato: che egli ha dei rapporti e continui ed intimi coi suoi fratelli, ed eccolo di nuovo a ricordarli sotto un’altra forma: “Siate partecipi ai bisogni dei santi, facili alla ospitalità. „ Fate che i bisogni, le necessità di tutti siano comuni a voi, siano come se fossero vostre, e particolarmente quelle dei santi, dei vostri fratelli nella fede, chiamati ad essere santi e, se sono pellegrini, offrite loro l’ospitalità. – La facondia santa dell’Apostolo continua: “Benedite quelli che vi perseguitano, e non vogliate maledirli. „ Quale sentenza! Qual precetto! È qui che la carità di Gesù Cristo tocca il sommo della perfezione. Amare operosamente tutti gli uomini; amare gli stranieri, come fratelli, è già gran cosa, ignota a tutto il mondo pagano; ma amare anche i nemici, benedire perfino quelli che ci perseguitano, beneficarli, se è possibile, è cosa che trascende al tutto l’umano comprendimento, e questo solo precetto (giacche l’amore dei nemici non è consiglio, ma precetto) basta a provare l’origine sovraumana del Vangelo. Qualunque uomo, sia pur buono e virtuoso, deve avere più o meno dei malevoli, degli invidiosi, dei nemici. Li ebbero i santi e gli Apostoli: li ebbe il Santo dei santi, Gesù Cristo; qual meraviglia, che li abbiamo noi, pieni di difetti, sì facili ad offendere il prossimo, talvolta senza volerlo? Ameremo dunque tutti i nostri nemici, o fratelli. Che fare? Ciò che qui comanda l’Apostolo: “Benedite quelli che vi perseguitano: benediteli e non vogliate maledirli. „ Gesù Cristo, dall’alto della croce, rivolto al Padre pregava per i suoi carnefici e li scusava, dicendo: “Padre, perdona loro, perché non sanno quel che si fanno. „ S. Pietro, parlando di Gesù e proponendolo qual modello, scriveva: ” Oltraggiato non oltraggiava, soffrendo non minacciava „ (I. c. II, vers. 23). Perdoniamo le offese, amiamo i nemici, rendiamo bene per male, preghiamo per essi e il buon Dio userà misericordia a tutti. Si sta sì bene, o cari, quando si perdona e si beneficano i nemici! Si gusta tal pace, si sente tal gioia, che la lingua non sa esprimere. È questa tal mercede che anche sola ci compensa ad usura del sacrificio compiuto in far tacere l’amor proprio ferito. – Voi potete scorrere tutti i libri dei sommi filosofi morali del paganesimo, Epitteto, M. Aurelio, Cicerone, Platone, Aristotele: voi potete investigare tutti i codici sacri delle nazioni antiche e moderne fuori del Cristianesimo. Troverete qua e là sentenze belle, ammirabili sull’amore del prossimo, sulla ospitalità, sulla elemosina, sul perdono delle offese: ma non troverete mai queste verità insieme unite, con tanta chiarezza, brevità, sicurezza e perfezione come nel Vangelo e in queste poche sentenze di S. Paolo. E perche? Ah! Perché esse non vengono dagli uomini, ma da Dio. “Rallegratevi con chi è allegro e piangete con chi piange. „ E la conseguenza naturale della carità e delle cose sopra inculcate dall’Apostolo. La carità unisce i cuori per guisa che il bene ed il male è comune, e perciò si gode e si soffre insieme. Se il padre vostro, la vostra madre, i vostri fratelli salgono in onore e abbondano d’ogni cosa, voi che fate? Ne siete lietissimi. Se soffrono infermi, se sono tribolati, perseguitati, che fate voi? Soffrite con essi. Perché? Perché l’amore, che a loro vi lega, fa di voi tutti quasi una sola persona e sentite tutti lo stesso dolore o lo stesso piacere. Se questo amore abbracciasse tutti gli uomini, avremmo lo stesso effetto: ci rallegreremmo con chi è allegro e piangeremmo con chi piange. – “Abbiate, conchiude l’Apostolo, lo stesso sentimento. „ Ripete in altra forma ciò che ha detto nel versetto antecedente. “E non siate con l’animo alle cose alte, ma acconciatevi alle basse. „ Non aspirate a grandezze, ad onori, a ricchezze, a quelle cose, delle quali il mondo è sì ghiotto, e che non possono far pago il nostro cuore: ricevete ciò che Iddio vi dà, e collocati in basso stato, di questo accontentatevi e sarete, per quanto lo possiamo essere quaggiù, tranquilli e felici. – Se noi studiamo la causa vera d’una gran parte dei nostri dolori e delle nostre inquietudini, che troviamo? Troviamo che fonte massima di questi dolori e di queste inquietudini è il desiderio d’aver sempre più di ciò che abbiamo: è questo il pungolo, che ci spinge innanzi e ci tormenta, è questo il nostro implacabile carnefice. I desideri non soddisfatti sono il tormento dei nostri poveri cuori; soffochiamo quei desideri, ed avremo la pace, quella pace che il mondo non conosce.

Graduale

Ps CVI:20-21
Misit Dóminus verbum suum, et sanávit eos: et erípuit eos de intéritu eórum. [Il Signore mandò la sua parola e li risanò: li salvò dalla distruzione.]
V. Confiteántur Dómino misericórdiæ ejus: et mirabília ejus fíliis hóminum.  [V. Diano lode al Signore le sue misericordie e le sue meraviglie in favore degli uomini. ]

Alleluja
Allelúja, allelúja

Ps CXLVIII:2
Laudáte Dóminum, omnes Angeli ejus: laudáte eum, omnes virtútes ejus. Allelúja.
[Lodate il Signore, voi tutti suoi Angeli: lodatelo, voi tutte milizie sue. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.
Joann 2:1-11
In illo témpore: Núptiæ factæ sunt in Cana Galilaeæ: et erat Mater Jesu ibi.
Vocátus est autem et Jesus, et discípuli ejus ad núptias. Et deficiénte vino, dicit Mater Jesu ad eum: Vinum non habent. Et dicit ei Jesus: Quid mihi et tibi est, mulier? nondum venit hora mea. Dicit Mater ejus minístris: Quodcúmque díxerit vobis, fácite. Erant autem ibi lapídeæ hýdriæ sex pósitæ secúndum purificatiónem Judæórum, capiéntes síngulæ metrétas binas vel ternas. Dicit eis Jesus: Implete hýdrias aqua. Et implevérunt eas usque ad summum. Et dicit eis Jesus: Hauríte nunc, et ferte architriclíno. Et tulérunt. Ut autem gustávit architriclínus aquam vinum fáctam, et non sciébat unde esset, minístri autem sciébant, qui háuserant aquam: vocat sponsum architriclínus, et dicit ei: Omnis homo primum bonum vinum ponit: et cum inebriáti fúerint, tunc id, quod detérius est. Tu autem servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc fecit inítium signórum Jesus in Cana Galilaeæ: et manifestávit glóriam suam, et credidérunt in eum discípuli ejus.

[In quel tempo: Vi furono delle nozze in Cana di Galilea, e li vi era la Madre di Gesù. E alle nozze fu invitato anche Gesù con i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la Madre di Gesù disse a Lui: Non hanno più vino. E Gesù rispose: Che ho a che fare con te, o donna? La mia ora non è ancora venuta. Disse sua Madre ai domestici: Fate tutto quello che vi dirà. Orbene, vi erano lì sei pile di pietra, preparate per la purificazione dei Giudei, ciascuna contenente due o tre metrete. Gesù disse loro: Empite d’acqua le pile. E le empirono fino all’orlo. Gesù disse: Adesso attingete e portate al maestro di tavola. E portarono. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino, non sapeva donde l’avessero attinta, ma i domestici lo sapevano; chiamato lo sposo gli disse: Tutti servono da principio il vino migliore, e danno il meno buono quando sono brilli, ma tu hai conservato il vino migliore fino ad ora. Così Gesù, in Cana di Galilea dette inizio ai miracoli, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui.]

OMELIA II

 [Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

Gesù onorava di sua presenza un convito di nozze in Cana della Galilea, così ci narra l’odierno Vangelo. Dunque il matrimonio, dice S. Agostino, ha Dio per autore. Dunque il matrimonio, soggiunge S. Paolo, è santo, ed è nella Chiesa di Cristo, un gran sacramento. “Sacramentum hoc magnum est… in Christo et in Ecclesia” (ad Ephes.V, 32). Della santità del matrimonio potrei, uditori amatissimi, tenervi ragionamento, se non credessi più profittevole parlarvi di alcuni obblighi annessi allo stato del matrimonio stesso. E per ciò fare il modo facile a intendersi, e ritenersi da tutti, contentatevi ch’io mi serva di cose sensibili, che fissino l’mmaginativa, e possano ritenersi più agevolmente nella memoria de’ meno istruiti. L’arca del Testamento è un simbolo assai espressivo delle obbligazioni del matrimonio. Su quella stavano due Cherubini d’oro, figura dei due sposi, l’amore e le intenzioni de’ quali devono esser pure come puro è l’oro. L’arca era formata di legni incorruttibili, simbolo della reciproca inviolabile fedeltà. Nel seno dell’arca si conservavano le tavole della legge data da Dio a Mosè sul Sinai, la verga d’Aronne, e un vaselletto di manna, piovuta già nel deserto (ad Heb. IX,4). In questi ultimi abbietti io raffiguro tre principali obbligazioni de’genitori verso i propri figliuoli. Istruzione, correzione e custodia. Ripigliamo: tavole della Legge, ecco l’istruzione: verga d’Aronne, ecco la correzione: vaselletto di manna, ecco la custodia della propria prole. Ciò ch’io passo ad esporvi con la maggiore a me possibile chiarezza.

I . Due erano, come voi sapete, le tavole della divina legge. Conteneva la prima i comandamenti che riguardano Dio, la seconda quei che al prossimo si appartengono. Padri e madri, siccome il grande Iddio impose a Mosè di promulgare al suo popolo i precetti scritti dal suo dito in quelle tavole, così lo stesso Dio comanda a voi di intimarli, e d’istruirne la vostra prole. Questo comando del Signore esattamente adempì il buon Tobia (Tob. IV). “Figliuol mio, diceva sovente all’unico suo figlio, abbi sempre il tuo Dio presente allo spirito, guardati dal trasgredire alcuno dei suoi comandamenti, guardati da qualunque peccato: fa’ volentieri limosina a’ poverelli, e noli far volto duro sopra l’altrui miserie: da’ prontamente agli operai la loro mercede, e non fare ad altri quel male che non vorresti fosse fatto a te”. Oh se i padri e le madri con frequenti esortazioni facessero penetrare queste massime sante nell’animo dei teneri figli, quanto si vedrebbe fiorire nelle città cristiane la Religione e il buon costume! Se tratto tratto dicessero come la madre dei Maccabei: “figliuoli chi vi ha data la vita, non siam in noi precisamente: Dio è l’autore del vostro essere. Da esso venite, a Lui dovete ritornare. Questa terra, su cui vi ha posti, è un esilio, un luogo di prova. Chi opera il bene avrà Iddio per premio, chi fa il male avrà Dio per nemico. Un po’ più presto, o un po’ più tardi io e voi dovremo sloggiare di questo mondo, e comparire al suo tremendo giudizio; il peccato è quel solo, che può trarci addosso una sentenza di eterna morte. Odiate adunque il peccato, o figli, fuggite da questo e da’malvagi compagni come dalla faccia del serpente. Queste e simili debbon essere le istruzioni de’genitori, se bramano salvi i propri figli e sé stessi. Ma i miei figliuoli, dirà alcun di voi, non mi danno ascolto, le mie parole se le porta il vento, ed essi son sempre più perversi. Sentite; le tavole del Decalogo erano di pietra, e il dito di Dio vi scrisse i precetti della sua legge. Quand’anche il cuor de’ figli nostri fosse di pietra, non cessate d’istruire, replicate le ammonizioni, gli avvisi, i buoni consigli, e vi assicuro che essi resteranno impressi nella loro mente. “Gutta cavat lapidem”. Verrà un giorno, che memori delle salutari vostre istruzioni e delle buone massime loro inculcate, diranno: benedetto quel mio padre, egli sempre mi raccomandava il timor santo di Dio. Ora mi leggeva e mi faceva leggere un libro spirituale, ora mi narrava i fatti più celebri della sacra Scrittura. Benedetta quella mia madre, essa m’istruiva nella cristiana dottrina, non ammetteva scuse per dispensarmi dalle quotidiane preghiere, mi voleva sempre sotto i suoi occhi; qualche volta mi sembrava troppo precisa, ora conosco il bene che mi fece , e i pericoli da’ quali mi liberò. Così i vostri ammaestramenti, a guisa di buona semente, produrranno a suo tempo il frutto desiderato. Tantopiù che voi padri e madri, avete per natura e per grazia del sacramento le più idonee disposizioni a muovere il cuore de’vostri figli, a formarne lo spirito, a regolarne i costumi, a riformarne i difetti. È necessario però agli insegnamenti congiungere i buoni esempi. Se raccomandate alla vostra famiglia il timor di Dio, e poi vi fate sentire a nominarLo invano, o a bestemmiarLo col proferire il suo santo nome nell’impeto della vostra collera, se ad essi inculcate la frequenza de’ sacramenti, e voi ne state lontani; se li mandate alla Chiesa e voi vi portate all’osteria; Voi distruggete con le opere quel ch’edificaste con le parole. Sostenete per carità con l’esempio cristiano là cristiana istruzione… la via de’ documenti e de’ precetti è troppo lunga, e il più delle volte senza successo, la più corta ed efficace è il buon esempio. L’intendeva anche un Gentile: “Longum iter per præcepta; breve et effìcax per exempla”.

II. L’istruzione però non basterebbe, se ai dati tempi si escludesse l’opportuna correzione. Deve questa esser simile alla verga di Aronne, che non era un ramo d’albero selvaggio, ma di mandorlo, pianta fruttifera, e perciò la correzione riuscirà vantaggiosa, se sarà figlia della ragione, della prudenza e della carità, carità che finga sdegno per apportare rimedio, come fa il chirurgo che ferisce la piaga a fin di sanarla. – Se per l’opposto il vostro correggere sarà effetto di collera, sfogo di rabbia e di furioso trasporto, non n’aspettate buon esito; mancherete all’avviso che vi dà l’Apostolo, di non provocare i vostri figli a concepir ira contro di voi, “Patres, nolite ad indignationem, provocare filios vestros” (ad COL. III, 21) . La verga d’Aronne era flessibile, e in una notte si coprì prodigiosamente di fiori. Alla qualità della colpa, della persona e dell’età va adattata la correzione. Le mancanze de’ figlioletti meritan verga, ma dolce e flessibile, ma fiorita per discreta moderazione: da queste regole quanto si discostano comunemente i genitori! Quel fanciullo rompe un vaso, versa un liquido: e la madre di esso, lo batte senza riguardo, e lo vuol morto; lo stesso poi proferisce una parola scandalosa, e gli ride in faccia. Che razza di procedere è questo? L’interesse nel primo caso è quel che spinge una correzione ingiusta; nel secondo quel che va corretto si approva col riso. Non si approvano è vero certe colpe più notabili degli adulti, ma la troppa indulgenza, ma la trascuratezza in castigarli ridonda poi in danno de’ figli rei e de’ negligenti genitori. Che disgusto non provò Davide pe’ suoi due figliuoli Ammone e Assalonne? Sa che il primo ha fatto violenza a Tamar sua sorella, e non si legge che aprisse bocca ad un rimprovero. Gli arriva notizia, che il secondo ha ucciso Ammone a tradimento, e non si dà premura d’aver in mano il delinquente; e perciò nella più grande amarezza piange inutilmente uno trucidato in un convito, l’altro trafitto in un bosco: un proporzionato castigo avrebbe impedito la morte d’entrambi. Castigate i figli vostri, o padri e madri, se non volete disgusti, castigateli se volete salvarvi. Dio vel comanda; dovete ubbidire. Non vi lasciate sedurre da natural tenerezza, o da un falso amore. Non è amore, ma odio quel che risparmia al figlio reo il meritato castigo. Lo dice lo Spirito Santo: “Qui parcit virgæ odiit fìlium suum” (Prov. XVIII). Ho detto se volete salvarvi, dal Sacerdote Eli apprendete il vostro obbligo e il vostro pericolo. Riprese egli le scandalose azioni de’ figli suoi, pe’ quali il popolo si allontanava dal tempio e da’ sacrifizi; ma siccome invece d’una giusta severità e rigorosa punizione, si contentò di poche parole, Iddio gli fece intimare dal profeta Samuele la perdita dei propri figli in un sol giorno, e quel che più importa, perdette egli non solo la vita temporale, colpito da subitanea morte, ma secondo l’opinione de’ santi Cirillo e Giovanni Damasceno, anche la vita eterna.

III. Devono finalmente i genitori aggiungere all’istruzione, ed alla correzione l’esatta custodia della loro prole. La manna era custodita nell’arca del Testamento. Pareva dovesse bastare l’essere riposta in una delle sue cassette; no, non bastava, dice S. Paolo (ad Ebr.IX, 4) chiusa in un’urna, e da Dio conservata incorrotta. Usate voi somigliante cautela per custodire la vostra figliolanza? Oh Dio! su questo punto così declamava innanzi al suo popolo di Antiochia S. Giovanni Crisostomo, acceso di santo zelo: dovrò dirlo, o dovrò tacerlo? ma che giova il tacere per non contristarvi, se il mio silenzio vi fosse nocevole? Io vedo in questa vostra città che molti di voi hanno più cura degli asini e dei cavalli, che de’propri figliuoli. Maiorem asinorum et equorum, quam filiorum curam habent (Hom. 60). E forse che non può dirsi lo stesso di noi? Si ha più cura della vacca, della capra, della gallina, dell’uccello di gabbia, che della propria famiglia, che del proprio sangue; ond’è che si lasciano i figli tutto giorno in abbandono, come i cani alla strada; e se questo è un gran delitto riguardo ai figli qual sarà in rapporto alle figlie? Oh la mia figlia è innocente. Se la lascerete in libertà perderà la sua innocenza. La manna nel deserto appena vedeva il sole si dileguava. Io la lascio, è vero, andare a quella campagna, a quel passeggio, a quel festino, ma con persone oneste, buoni amici e stretti parenti. Voi vi fidate troppo, io piango la vostra figlia e voi. Ma io l’ho data in custodia a un mio congiunto, uomo di senno e di tutta probità. Sarebbe stato meglio, che si fosse offerto ad accompagnarla uno scapestrato, chè così non vi sareste fidati, e non fidandovi, voi e la figlia vostra eravate sicuri. Vi fidate? dunque arrischiate. Bisogna dire che voi, o padre, conosciate poco il mondo, e che a voi, o madre, non sia mai occorso di trovarvi in qualche cimento. Possibile che la vostra esperienza non vi faccia aprir gli occhi, e non vi renda più cauti! Con questo di più, che forse nella vostra adolescenza e giovinezza non v’erano tanti lacci, tant’inciampi, tanta dissolutezza come nel secolo presente, secolo presso che somigliante a quel di Noè avanti il diluvio, secolo in cui, rotto ogni freno all’impudenza, si aggirano ingordi avvoltoi intorno alle incaute colombe, lupi rapaci in cerca di agnelle non custodite. – Non volete restar persuasi sul pericolo delle vostre figlie se non avrete cent’occhi? Imparatelo da Dina unica figliuola di Giacobbe. Questa savia donzella si presenta un dì al suo buon genitore dicendogli.- siavi qui nelle vicinanze di Sichem, contentatevi ch’io vada a vedere come sono abbigliate le donne Sichimite. Qual più innocente domanda? Ah Giacobbe, chi presago dell’avvenire avesse potuto dire all’orecchio di questo patriarca: Giacobbe, non accordare questa licenza, che troppo ti costerà d’amarezza, di lacrime e di pericoli. Ma Giacobbe che nulla prevede, consente e permette. Va Dina per vedere ed è veduta, e l’esser veduta, rapita, disonorata fu una cosa stessa. Giunge al padre la contristante notizia, e ne piange, arriva ai fratelli, e van sulle furie, dissimulano per poco la vendetta, armati poi assalgono quella città, e mettono a ferro, a fuoco uomini, donne, bambini, case, campagne. I paesi vicini temono una egual sorte; onde tutti gridano all’armi contro i forestieri assassini. Ed ecco il buon Giacobbe e tutta la famiglia in evidente pericolo della vita, costretto a darsi a fuga precipitosa e notturna per selve, per balze e per dirupi. Che dite ora di quella domanda innocente, e di quella incolpabile licenza? Che avverrà delle figlie vostre, alle quali sì facilmente accordate la conversazione, il passeggio il ballo, il festino, il teatro? Ah per carità aprite gli occhi sulle altrui disgrazie. Tante ne vedete, e ne sapete meglio di me. Che aspettate voi dunque? Deh, ve ne prego, ammaestrare i vostri figli, tenete sempre innanzi agli occhi loro le tavole della divina legge, e datene loro l’esempio con l’osservarla; maneggiate la verga per loro correzione; custoditeli in fine come una manna, come un prezioso deposito che Iddio vi ha affidato, e di cui vi domanderà strettissimo conto. E così voi a’ vostri figli, e a voi medesimi procurerete una temporale ed eterna felicità, ch’ io vi desidero.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps 65:1-2; 65:16
Jubiláte Deo, univérsa terra: psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja
. [Alza a Dio voci di giubilo, o terra tutta: cantate un salmo al suo nome: venite, e ascoltate, voi tutti che temete Iddio, e vi racconterò quanto Egli ha fatto per l’anima mia. Allelúia.]

Secreta
Oblata, Dómine, múnera sanctífica: nosque a peccatórum nostrórum máculis emúnda.  [Santifica, o Signore, i doni offerti, e mondaci dalle macchie dei nostri peccati.]

Communio
Joann 2:7; 2:8; 2:9; 2:10-11
Dicit Dóminus: Implete hýdrias aqua et ferte architriclíno. Cum gustásset architriclínus aquam vinum factam, dicit sponso: Servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc signum fecit Jesus primum coram discípulis suis. [Dice il Signore: Empite d’acqua le pile e portate al maestro di tavola. E il maestro di tavola, non appena ebbe assaggiato l’acqua mutata in vino disse allo sposo: Hai conservato il vino migliore fino ad ora. Questo fu il primo miracolo che Gesù fece davanti ai suoi discepoli.]

Postcommunio
Oremus.
Augeátur in nobis, quǽsumus, Dómine, tuæ virtútis operatio: ut divínis vegetáti sacraméntis, ad eórum promíssa capiénda, tuo múnere præparémur.
[Cresca in noi, o Signore, Te ne preghiamo, l’opera della tua potenza: affinché, nutriti dai divini sacramenti, possiamo divenire degni, per tua grazia, di raccoglierne i frutti promessi.]

 

 

BATTESIMO DI GESU’ CRISTO

 

BATTESIMO DI CRISTO (1)

[Dom P. Guéranger: l’ANNO LITURGICO, I vol. Ed. Paoline, Alba, 1957 impr. ]

(1) [Col decreto della Congr. dei Riti del 22 Marzo 1955, abolita l’Ottava dell’Epifania, venne istituita al 13 Gennaio la « Commemorazione del Battesimo di Gesù Cristo » (n. 16 del decreto) con le stesse prerogative e riti dell’abolito giorno ottavo. Tuttavia, nel caso che in questo giorno cadesse la festa della Sacra Famiglia, si celebra questa, senza commemorazione del Battesimo di Cristo].

Il secondo Mistero dell’Epifania, il Mistero del Battesimo di Cristo nel Giordano, attira oggi in modo speciale l’attenzione della Chiesa. L’Emmanuele si è manifestato ai Magi dopo essersi mostrato ai pastori; ma questa manifestazione è avvenuta nel ristretto spazio d’una stalla a Betlemme, e gli uomini di questo mondo non l’hanno conosciuta. Nel mistero del Giordano, Cristo si manifesta con maggior splendore. La sua venuta è annunciata dal Precursore; la folla che accorre al Battesimo del fiume ne fa testimonianza, e Gesù esordisce alla vita pubblica. Ma chi potrebbe descrivere la grandiosità delle cose che accompagnano questa seconda Epifania?

Il mistero dell’acqua.

Essa ha per oggetto, al pari della prima, il bene e la salvezza del genere umano; ma seguiamo il progredire dei Misteri. La stella ha condotto i Magi verso Cristo. Prima essi aspettavano e speravano; ora, credono. La fede nel Messia venuto comincia in seno alla Gentilità. Ma non basta credere per essere salvi; è necessario che la macchia del peccato sia lavata nell’acqua. « Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo» (Mc. XVI, 16): è tempo dunque che avvenga una nuova manifestazione del Figlio di Dio, per inaugurare il grande rimedio che deve dare alla Fede la virtù di produrre la vita eterna. Ora, i decreti della divina Sapienza avevano scelto l’acqua come strumento di questa sublime rigenerazione della razza umana. Già all’origine delle cose lo Spirito di Dio ci è rappresentato mentre sorvola sulle acque, affinché, come canta la Chiesa il Sabato Santo, la loro natura concepisse già un principio di santificazione. – Ma le acque dovevano servire alla giustizia contro il mondo colpevole, prima di essere chiamate a compiere i disegni della misericordia. Ad eccezione d’una sola famiglia, il genere umano per un terribile decreto, scomparve sotto le acque del diluvio. Tuttavia, alla fine di quella terribile scena, si manifestò un nuovo indizio della futura fecondità di questo elemento predestinato. La colomba, uscita per un momento dall’arca della salvezza, vi rientrò con un ramoscello d’ulivo, simbolo della pace ridata alla terra dopo l’effusione dell’acqua. Ma il compimento del mistero annunciato era ancora lontano. Nell’attesa del giorno in cui il mistero sarebbe stato manifestato, Dio moltiplicò le immagini destinate a sostenere l’attesa del suo popolo. Così, fu attraversando le acque del Mar Rosso che il popolo arrivò alla Terra promessa; e durante il misterioso tragitto, una colonna di nube copriva insieme il cammino d’Israele e le acque benedette alle quali questi doveva la sua salvezza. Ma il solo contatto delle membra umane d’un Dio incarnato poteva dare alle acque la virtù purificatrice che ogni uomo colpevole sospirava. Dio aveva dato il Figlio suo non al mondo soltanto come Legislatore, Redentore e Vittima di Salvezza, ma perché fosse anche il Santificatore delle acque; e appunto in seno a questo sacro elemento doveva rendergli una testimonianza divina, manifestarlo una seconda volta.

Il battesimo di Gesù.

Gesù dunque, all’età di trent’anni, va verso il Giordano, fiume già famoso per le meraviglie profetiche operate nelle sue acque. Il popolo ebreo, risvegliato dalla predicazione di Giovanni Battista, accorreva in massa per ricevere il Battesimo che poteva produrre il pentimento del peccato, ma non cancellarlo. Il nostro divino Re va anch’egli al fiume, non per cercarvi la santificazione, poiché Egli è il principio di ogni giustizia, ma per dare finalmente alle acque la virtù di produrre, come canta la Chiesa, una razza nuova e santa. Scende nel letto del Giordano, non più come Giosuè per attraversarlo a piedi asciutti, ma affinché il Giordano lo cinga delle sue acque, e riceva da Lui, per comunicarla a tutto l’elemento, quella virtù santificatrice che esso non perderà mai più. Riscaldate dai divini ardori del Sole di giustizia, le acque divengono feconde, nel momento in cui il sacro capo del Redentore viene immerso nel loro seno dalla mano tremante del Precursore. Ma in questo preludio di una nuova creazione, è necessario che intervenga tutta la Trinità. Si aprono i cieli, e ne scende la Colomba, non più come simbolo e figura, ma per annunciare la presenza dello Spirito d’amore che dà la pace e trasforma i cuori. Essa si ferma e si posa sul capo dell’Emmanuele, scendendo insieme sull’umanità del Verbo e sulle acque che bagnano le sue auguste membra.

La testimonianza del Padre.

Tuttavia il Dio-Uomo non era manifestato ancora con abbastanza splendore; bisognava che la parola del Padre risonasse sulle acque, e le agitasse fin nella profondità dei loro abissi. Allora si fece sentire quella Voce che aveva cantata David: Voce del Signore che risuona sulle acque, tuono del Dio di maestà che spezza i cedri del Libano, l’orgoglio dei demoni, che spegne il fuoco dell’ira celeste, che scuote il deserto, che annuncia un nuovo diluvio (Sal. 28), un diluvio di misericordia; e quella voce che diceva: Questi è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto. – Così fu manifestata la Santità dell’Emmanuele dalla presenza della divina Colomba e dalla voce del Padre, come era stata manifestata la sua Regalità dalla muta testimonianza della Stella. Compiuto il divino mistero e investito della virtù purificatrice l’elemento delle acque, Gesù esce dal Giordano e torna a riva, portando con sé – secondo l’opinione dei Padri – rigenerato e santificato il mondo di cui lasciava sotto le acque i delitti e le immondezze.

Usanze.

Come è grande la festa dell’Epifania, che ha per oggetto di onorare così sublimi misteri! E come non c’è da stupire se la Chiesa Orientale ha fatto di questo giorno una delle date per l’amministrazione solenne del Battesimo. Gli antichi monumenti della Chiesa delle Gallie ci mostrano che l’usanza esisteva anche presso i nostri avi; e più d’una volta – stando a quanto riferisce Giovanni Mosch – si vide il santo battistero riempirsi d’un’acqua miracolosa il giorno di questa grande festa, e asciugarsi da sé dopo l’amministrazione del Battesimo. La Chiesa Romana, fin dal tempo di san Leone, insisté per riservare alle feste di Pasqua e di Pentecoste l’onore di essere gli unici giorni consacrati alla celebrazione solenne del primo fra i Sacramenti; ma in parecchi luoghi dell’Occidente si conservò e dura ancora oggi l’usanza di benedire l’acqua con una solennità del tutto speciale nel giorno dell’Epifania. – La Chiesa d’Oriente ha conservato inviolabilmente tale usanza. La funzione ha luogo, ordinariamente, nella Chiesa, ma talvolta il Pontefice si reca sulle rive di un fiume, accompagnato dai sacerdoti e dai ministri rivestiti dei più ricchi paramenti e seguito da tutto il popolo. Dopo alcune magnifiche preghiere, che ci dispiace di non poter riportare qui, il Pontefice immerge nelle acque una croce rivestita di pietre preziose che significa il Cristo, imitando così l’azione del Precursore. Un tempo, a Pietroburgo, la cerimonia aveva luogo sulla Neva, e attraverso un’apertura praticata nel ghiaccio il Metropolita faceva scendere la croce nelle acque. Questo rito si osserva parimenti nelle Chiese dell’Occidente che hanno conservato l’usanza di benedire l’acqua nella Festa dell’Epifania. – I fedeli si affrettano ad attingere nella corrente del fiume quell’acqua consacrata; e san Giovanni Crisostomo – nella sua ventiquattresima Omelia sul Battesimo di Cristo – attesta, chiamando a testimone il suo uditorio, che quell’acqua non si corrompeva mai. Lo stesso prodigio è stato riconosciuto molte volte in Occidente. – Glorifichiamo dunque Cristo per questa seconda manifestazione del suo divino carattere, e rendiamogli grazie, insieme con la santa Chiesa, per averci dato, dopo la Stella della fede che ci illumina, l’Acqua potente che toglie le nostre immondezze. Nella nostra riconoscenza, ammiriamo l’umiltà del Salvatore che si curva sotto la mano di un uomo mortale al fine di compiere ogni giustizia, come dice egli stesso; poiché, avendo assunto la forma del peccato era necessario che sopportasse l’umiliazione per risollevarci dal nostro abbassamento. Ringraziamolo per questa grazia del Battesimo che ci ha aperto le porte della Chiesa terrena e della Chiesa celeste. Infine, rinnoviamo gli impegni che abbiamo contratti sul sacro fonte, e che sono stati la condizione di questa nuova nascita.

IL MATRIMONIO CATTOLICO – 5 –

IL MATRIMONIO (5)

[ENCICLOPEDIA CATTOLICA, vol. VIII, Coll. 407 e segg.  – Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico – Città del VATICANO – impr. 1952]

VIII. USO DEL M.

1. Principi. – L’uso del M., anche dopo il peccato originale, nonostante il fervore della concupiscenza che ad esso si accompagna, è del tutto onesto (cf. Gen. 1, 28; cann. 1111, 1081 § 2, 1015 § 1). La rettitudine obiettiva di tale uso è necessariamente subordinata alle finalità intrinseche del M. e alla gerarchia degli stessi fini. Pertanto, essendo la procreazione e l’educazione della prole alla base dell’ordine da Dio stabilito per l’incontro dei due sessi, tutto ciò che si dimostra a quest’ordine direttamente contrario, privando l’atto coniugale della sua naturale tendenza alla generazione, è intrinsecamente illecito, e quindi per nessun motivo giustificabile. Al contrario, ove quest’ordine sia rispettato, l’atto non è illecito, anche se infecondo, potendo egualmente raggiungere le altre finalità che lo giustificano. È infatti da tener presente, a tale riguardo, che all’uomo è imposta l’osservanza dell’ordine, non già il raggiungimento del fine cui esso tende: ciò infatti non dipende solo dall’azione dell’uomo, ma anche da quella della natura, la quale non solo non è sottoposta all’arbitrio dell’individuo, ma sfugge molte volte alla sua stessa conoscenza. – La considerazione obiettiva non è la sola sulla valutazione etica concreta dell’uso del M. nei casisingoli: come in tutte le altre attività dell’uomo, è necessario tener presenti le circostanze dell’atto; sotto l’aspetto soggettivo è preminente la considerazione del fine.

2. Alcune applicazioni. – A richiesta dell’altro coniuge si è obbligati alla prestazione del debito coniugale sotto pena di peccato grave (1 Cor. 7, 3); il rifiuto è si tanto peccato veniale (a meno che l’altro coniuge venga esposto al pericolo di incontinenza), quando la parte richiedente rinuncia facilmente alla sua domanda o la prestazione è soltanto differita per breve tempo, oppure il rifiuto avviene di rado. Di più, a volte, il rifiuto può essere legittimo, data l’esistenza di determinate cause scusanti, quali l’adulterio volontario e non condonato dal richiedente, la grave trascuratezza negli obblighi di mantenimento della famiglia, la mancanza anche temporanea dell’uso di ragione, l’esagerazione nelle richieste. – Nell’uso del M. non si può non tener conto, anche in ragione della sua finalità primaria, della sanità fisica della prole futura e dei diritti della prole concepita. Il giudizio nei singoli casi va fatto tenuto conto di tutte le circostanze. – Si può, in genere, dire che quanto più grave è il pericolo ed il danno che si teme, tanto più grave deve essere la causa che ne giustifichi la permissione. Così a parità di condizioni, il probabile danno della prole già concepita pesa di più sulla valutazione etica dell’atto che non il probabile danno del futuro prodotto del concepimento; e ciò sia per la stessa incertezza di questo, sia perché non si può parlare di lesioni di diritti di chi ancora non esiste; che anzi, se si dovesse tener conto unicamente di un tale futuro soggetto, si potrebbe, nei suoi confronti applicare il principio melius est esse quam non esse. Senonché c’è anche da tener conto della sanità della stirpe, ossia del bene comune; e qualora alla prole futura si possa provvedere in maniera migliore, la stessa primaria finalità del M. impone che a ciò si badi. – Altra circostanza da valutare per il retto uso del M. è il pericolo di danno per la salute di uno dei due coniugi. Anche in questo caso, in cui non urge il diritto derivante dalla mutua traditio propria del M., la soluzione concreta delle innumerevoli situazioni che possono crearsi va ricercata nella prudente applicazione dei principi, che disciplinano l’attività umana e ne definiscono la responsabilità. Soprattutto è necessario non perder mai di vista la gerarchia dei valori e l’ordine della carità. – Una questione assai dibattuta in questi ultimi tempi è quella relativa alla liceità della cosiddetta continenza periodica, ossia all’uso del M. riservato ai periodi o cicli che, secondo alcuni calcoli e particolari teorie, si prevedono infecondi (tempo agenesiaco). Di natura assai diversa è la continenza temporanea suggerita dal concorde desiderio degli sposi di dedicarsi più liberamente alla preghiera, cui si riferisce il discreto consiglio dell’Apostolo, seguito, però, immediatamente dal prudente richiamo alla concreta ed ordinata realtà della vita (« ma poi di nuovo siate come prima »), affinché non si muti in tentazione ciò che era ordinato al perfezionamento dello spirito (I Cor. 3-6).

3. Peccati dei coniugi. – Tutto ciò che non è effettivamente ordinato o non è obiettivamente ordinabile al fine primario stabilito da Dio per l’unione dei due sessi, costituisce una violazione sostanziale dell’ordine ed è quindi peccato. Trattandosi, d’altra parte, di ordine essenziale per l’uomo, dato che dipende dal medesimo la coservazione e propagazione del genere umano, il peccato è grave, perché direttamente ed essenzialmente opposto alla carità. – L’ordine può essere violato sia nell’ambito della vita coniugale ed in contrasto con i suoi diritti e le sue leggi, o al di fuori di essa. Nell’ambito della vita coniugale costituiscono colpa grave tutte le pratiche anticoncezionali, malthusiane, qualunque sia il mezzo o il modo usato per rendere sterile l’unione. La loro diretta opposizione al fine primario del M., le rende intrinsecamente illecite, e quindi ingiustificabili, qualunque sia il motivo che le suggerisca. – Quanto poi al coniuge innocente, il quale non di rado soffre il peccato piuttosto che esserne causa, egli non commette colpa, se, per ragione veramente grave, permetta la perversione dell’ordine dovuto, purché l’atto non sia fin dal principio intrinsecamente corrotto, ma ripeta la sua malizia dalla successiva frode dell’altro coniuge, e purché, memore anche in tal caso delle leggi della carità, non trascuri di dissuadere il coniuge dal peccato. Che se, invece, l’atto fosse fin dal principio intrinsecamente viziato, è dovere opporvisi positivamente e respingere l’inedia non altrimenti che qualsiasi altro attentato alla virtù. – Qualunque esperienza extra-coniugale da parte di uno dei due coniugi, anche se incompleta, è colpa grave e costituisce il peccato specifico di adulterio. E siccome non può considerarsi estraneo al M., ossia alla mutua traditio, l’affetto, che anzi esso ne è l’elemento spirituale ed in un certo senso principe, la fedeltà coniugale può essere tradita anche solo spiritualmente, mediante relazioni affettive di ordine non sessuale con altre persone (adulterio spirituale). [BIBL.] – Pietro Palazzini.

V. LITURGIA DEL M.

Nella Chiesa cristiana antica non esisteva un rito speciale per la celebrazione del M. Gli sponsali e le cerimonie nuziali si svolgevano senza l’intervento attivo di un sacerdote, in famiglia, con il rito usato nella vita civile. Soltanto, in sostituzione del sacrificio pagano, si aggiunsero in presenza dei fedeli la Messa e la benedizione solenne nuziale. Più tardi, il contratto matrimoniale si fece con l’intervento del sacerdote, prima fuori, poi dentro la chiesa, la quale innovazione si traeva dietro gli antichi riti nuziali. Nel rito attuale dunque si distinguono due parti: la prima è costituita dai riti che accompagnano e solennizzano la manifestazione del consenso, la seconda, complementare, si compone della Messa e della benedizione. Già s. Ignazio martire desidera che il M. dei cristiani si faccia con il consiglio del vescovo (secondo H. Lietzmann, anche con l’intervento attivo di lui). Tertulliano (Ad uxor., 11, 8) distingue bene l’approvazione del M. da parte della Chiesa (« Ecclesia conciliat »), l’offerta degli sposi (« confirmat oblatio ») e la loro benedizione (« obsignat benedictio »), cioè gli sponsali familiari approvati dalla Chiesa, e la Messa con la speciale benedizione nuziale; accenna all’anello pronubo, al bacio degli sposi, alla coronazione e all’accompagnamento nella casa dello sposo. S. Ambrogio parla del velo (flammeum) che si impone alla sposa. Da questo velo, l’azione vien denominata « velario nuptialis », ed anche la voce « nuptialis » sembra derivarsi da questa azione « nubere » (« obnubilatio »). I Sacramentari offrono non i riti, ma le preghiere della Messa nuziale e della benedizione; ad es., il cosiddetto Sacramentario Leoniano, il Gelasiano antico, contenuto nel cod. Reginensis 316 della Biblioteca Vaticana. La prima descrizione dei riti si trova nella risposta del papa Niccolò I (m. nel 867) ai Bulgari (Responsa ad consulta Bulgarorum, 3). Si distinguono gli atti preliminari e gli atti complementari. Gli atti preliminari che si facevano a casa contengono tre cose: a) gli sponsali, cioè la promessa mutua del futuro M., la manifestazione del consenso dei fidanzati e dei genitori, b) la consegna delle arre, ossia dell’anello dello sposo alla sposa, c) la sottoscrizione dei patti in presenza dei testi, la consegna delle tavole nuziali o assegnazione della dote. Gli atti complementari o le parti propriamente nuziali sono: a) la celebrazione della Messa davanti ai fidanzati che prendono parte alla offerta ed alla Comunione, b) la benedizione congiunta con la velazione, c) all’uscita di chiesa, la coronazione. – Tutti questi riti corrispondono bene ai riti degli antichi Romani, cioè ai riti degli sponsali, della preparazione al M. ed ai riti del M. stesso. La Chiesa ha accettato i costumi già in uso, purificandoli da ciò che era sconveniente e rendendoli più augusti. Ma questi riti erano soltanto la solennità del M., la solennizzazione del M. contratto fuori della chiesa per « il solo consenso reciproco » (Niccolò I). – Questi riti si osservano anche oggi nella celebrazione del M., con questa differenza che il rito del M. oggi comprende tanto i riti degli sponsali quanto quelli nuziali. Particolare rilievo ha la manifestazione del consenso, l’unico elemento sostanziale del M. Nei tempi antichi, sia precristiani che cristiani (ad es., da Papa Niccolò I), il consenso si dava tra le cerimonie degli sponsali, non tra quelle delle nozze. Ma dopo il 1000 (non si sa precisare quando), si incominciò ad introdurre la manifestazione esplicita del consenso nell’atto del M. stesso, con una certa varietà: o i contraenti pronunciavano (o da soli o insieme con il sacerdote benedicente) il consenso, o il sacerdote interrogava (una o tre volte) i contraenti ed essi rispondevano. All’interrogazione e risposta dei contraenti il sacerdote aggiungeva una formola solenne di ratifica in nome di Dio: « Ego coniungo vos in matrimonium in nomine… » ( E . Martène, Ordo Rotomag. sec. XIII, in Antiquæ Ecclesiæ ritus, II, p. 367). – Un rito usato già dagli antichi, non ricordato da papa Niccolò I, era la congiunzione delle destre. In Tob. 7, 15 Raguel congiunge le mani di Tobia e Sara; presso i Romani nel giorno della solennità del m., la « pronuba » diceva agli sposi di darsi le mani. Anche oggi, nella Chiesa, alla manifestazione del consenso, il sacerdote dice agli sposi di darsi la destra; poi, secondo alcuni riti, egli li avvolge con la stola, pronuncia le solenni parole della ratifica ed asperge con l’acqua benedetta. La consegna dell’anello, presso i Romani ed anche sotto papa Niccolò I, facendo parte degli sponsali, passò tra le cerimonie del M., prima o dopo il consenso; il sacerdote benediceva l’anello, lo consegnava allo sposo per infilarlo al dito della sposa e poi ratificava il consenso. In alcune regioni non solo lo sposo mette l’anello alla sposa, ma anche la sposa allo sposo. – L’intervento della Chiesa alla celebrazione del M. cominciò quando cessò il M. tutorio, ossia quando la sposa stessa poteva darsi in M. senza l’intervento del tutore nato, cioè del padre. Una triplice fase si deve rilevare: il M. davanti o fuori della chiesa in presenza di un sacerdote che recitava un’orazione, poi con l’intervento del sacerdote come tutore eletto invece del tutore nato, e finalmente con l’intervento del sacerdote per constatare e domandare la manifestazione del consenso. Dal sec. XII sinodi o concili locali (Treviri 1227, Praga 1350, Magdeburgo 1370) proibiscono i M. laicali senza l’intervento della Chiesa. Finalmente il Concilio Tridentino prescrive l’assistenza del parroco; il nuovo CIC (can. 1095 § 1 ad 3) ordina che il parroco domandi e riceva il consenso (« requirant excipiantque contrahentium consensum »). L’atto di M. si compone di due parti : a) dell’interrogazione del sacerdote in ordine alla manifestazione del consenso, b) del consenso stesso degli sposi. L’anello sponsalizio è divenuto anello nuziale o coniugale. Seguono le parti religiose e complementari, la Messa e la benedizione solenne nuziale. Prima si diceva la Messa votiva, ad es., della S.ma Trinità, aggiungendovi le orazioni proprie per gli sposi, poi la Messa votiva prò sponsis. La benedizione nuziale, prerogativa delle prime nozze della sposa, si trova già negli antichissimi Sacramentari; si faceva dopo il Pater noster. Durante la benedizione s’imponeva alla sposa il velo, la cerimonia più appariscente del M. presso gli antichi Romani, ritenuta anche dagli sposi cristiani, mentre poi andò cedendo il primo posto alla consegna dell’anello. Ed anche la cerimonia, assai antica, dell’incoronazione degli sposi con fiori scomparve; si compiva dopo la Messa, quando gli sposi uscivano di chiesa. Oggi vive nei fiori, con cui si suole adornare la sposa nel presentarsi alla chiesa. Dopo il Benedicamus Domino, il sacerdote pronuncia di nuovo una benedizione speciale agli sposi per la loro felicità terrena ed eterna. Dove si sono conservati riti speciali o locali nel contrarre il M., si possono adoperare. – Un rito antico è la benedizione e l’uso della bevanda nuziale, presentata agli sposi come simbolo della carità cristiana. Alla sera del giorno nuziale vien poi benedetto il loro talamo, usando fin dal sec. X una formola che si trova già nel Messale di Bobbio (sec. VIII). [BIBL.] Pietro Siffrin.

M. NELLE LITURGIE ORIENTALI. –

Nei riti matrimoniali odierni si vedono ancora chiaramente distinte, sebbene congiunte, le due antiche parti che li compongono: la prima può chiamarsi fidanzamento, sposalizio ed è caratterizzata dalla tradizione dell’anello; la seconda sono le nozze con il rito particolare dell’incoronamento. Anticamente, e ancora recentemente nel mondo semitico, queste due parti erano celebrate separatamente e poteva intercorrere fra le due cerimonie un tempo assai lungo, anche di molti anni. E quel fidanzamento non era una promessa rescindibile di un futuro M., ma con quel rito si aveva l’inizio del M. già con la sua proprietà di indissolubilità, mentre il diritto di coabitazione si otteneva soltanto con il rito dell’incoronamento. Prima ancora di procedere al rito dell’anello, il sacerdote si assicurava del consenso degli sposi; in Occidente questa espressione del consenso seguito dal rito dell’anello diventò il rito sacramentale, perché il consenso di due cristiani costituisce il contratto elevato alla dignità di Sacramento, e la benedizione nuziale data durante la S. Messa fu considerata come un sacramentale non obbligatorio. – Al contrario in Oriente anche l’incoronamento è stato riguardato sempre almeno come una conditio sine qua non del Sacramento, e il nuovo Codice orientale (can. 85 § 2) tiene conto di questo concetto dove esige per la validità del M. l’intervento del sacerdote adsistentis ac benedicentis (cf. AAS, 41 [1949], p. 107). – Nel rito bizantino, secondo l’Eucologio dei Greci, la prima parte è composta dalla grande colletta con domande speciali seguita da due preghiere, poi dalla tradizione degli anelli con una formola, e da una preghiera finale. La seconda parte comincia anche con la grande colletta, con altre domande speciali, seguita da tre preghiere nuziali; allora il sacerdote impone le corone con una formola e dà una triplice benedizione; dopo questo si ha una specie di Messa dei presantificati, cioè: Epistola, Vangelo, Litanie, Pater Noster con preghiera d’inclinazione, anticamente l’ammonizione: « Præsantificata sanctis » con la S. Comunione, oggi la sunzione di una coppa di vino; segue la processione intorno alla tavola davanti alla quale si fa la cerimonia, poi la deposizione delle corone, ciò che anticamente si faceva l’ottavo giorno dopo il M ; ancora due preghiere, il bacio dei novelli sposi e il congedo. – L’Eucologio di Benedetto XIV (Roma 1754), nella rubrica iniziale, prescrive al Sacerdote di interrogare gli sposi sul loro libero consenso. Il Trebnik dei Russi e dei Serbi dà la formola di tale domanda ma la pone all’inizio della seconda parte (la prima volta nel Trebnik di Moghila, Kiev 1646). Nel Trebnik dei Ruteni (dall’edizione riformata di Leopoli 1720 in poi) la struttura del rito fu sconvolta (soppressione della prima parte; ma un rito abbreviato dell’anello è intercalato fra le preghiere nuziali e si aggiunge un giuramento sul libro del Vangelo prima dell’incoronamento); il Malii Trebnik di Roma (1946) ristabilì la netta divisione fra le due antiche parti. Negli altri riti orientali, sebbene molto diversi fra loro, si può osservare uno sviluppo, che sembra oggi esagerato, di preghiere e di inni nella cerimonia dell’incoronamento, ma che mette bene in rilievo la solennità di questo atto costitutivo della famiglia cristiana. [BIBL.] Alfonso Raes. –

 

Diamo ora un cenno al c. d. Privilegio Paolino, riservandoci una trattazione più particolareggiata in seguito. [ndr.]

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PRIVILEGIO PAOLINO

[Enc. Catt. vol IX COLL. 49-50]

 – Il p. p. è il caso di scioglimento di matrimonio legittimo, concesso a favore della fede dal diritto positivo divino; privilegio proclamato da s. Paolo (1 Cor. 7, 1 2 – 1 5 ) da cui perciò ha preso l’appellativo. È detto anche casus Apostoli, privilegium Christi, privilegium fidei. Il matrimonio degli infedeli (matrimonio legittimo, cui non si opponga nessun impedimento di diritto divino o naturale è valido e indissolubile e non si può sciogliere per l’arbitrario abbandono di una delle parti o per mutuo consenso e volontà dei coniugi ( S . Uffìzio, 18 sett. 1824 ad 3; S. Uffizio, 18 giugno 1866 ad 8). – Dai matrimoni misti, però, in nessuna maniera cautelati da previ accordi, possono derivare dei gravissimi inconvenienti, poiché spesso per la cattiva volontà di colui che rimane infedele non è più possibile la convivenza pacifica, la fede del neofita si trova in pericolo e i figli divengono oggetto di conquista dell’uno o dell’altro dei coniugi per essere attratti a diverse e opposte forme di educazione morale e religiosa. Allora, nel concorso di un bene di ordine superiore, il mantenimento dell’indissolubilità non rimane più obbiettivo principale, ma passa automaticamente in second’ordine; e lo stesso diritto naturale dà al neofita il diritto e il dovere di andarsene, piuttosto che perdere il dono della fede. Questa legge ha interpretato s. Paolo per far sì che l’uomo non fosse allontanato dalla fede o dal perseverare in essa dalla prospettiva di dover osservare la castità perfetta e per questo promulgò l’eccezione, in base alla quale il matrimonio degli infedeli, quando l’uno dei coniugi solamente si converta alla fede e non sia più possibile la pacifica convivenza, è solubile dall’esterno.

I. NOZIONE. – In vista di questo p., dunque, il matrimonio dei non battezzati o infedeli, sebbene consumato, si può sciogliere nel caso in cui una parte, non battezzata, o non voglia coabitare con la parte convertita o non voglia coabitare pacificamente, cioè senza offesa al nome di Dio o disprezzo del Creatore. Il disprezzo del Creatore si può avere in vari modi, o trascinando la parte convertita al peccato mortale o impedendo l’educazione cattolica della prole (S. Uffizio, 14 diC. 1848) o perseverando nel concubinato (S. Uffizio, 4 luglio 1853 ed 11 luglio 1866), ecc. Né cessa il p., se i coniugi, dopo il Battesimo di uno di essi, coabitarono ancora ed in seguito la parte infedele (senza che il convertito però abbia dato ragionevole motivo di andarsene) non solo ricusi di convertirsi, ma inoltre, mancando alla parola data di coabitare pacificamente, si allontani o per odio alla religione o per altri motivi, o non voglia più stare insieme senza il disprezzo del Creatore, o abbia tentato di trascinare la parte fedele al peccato mortale o all’infedeltà. Ma questo p. non ha più ragione di essere, se tutti e due i coniugi convertiti e battezzati abbiano poi usato del matrimonio. Il p. vale per il matrimonio valido di due infedeli, uno dei quali si converta alla fede; non comprende però il matrimonio di due eretici, di cui uno abbracci la fede cattolica, perché il matrimonio di questi ultimi è rato (Sacramento), e perciò, una volta consumato, per nessun motivo si può più sciogliere. Il p. non si applica al matrimonio che un fedele, ottenuta regolare dispensa, contrae con un infedele, sebbene poi la parte infedele non voglia più coabitare pacificamente (can. 1120 § 2). Così pure non ha luogo il p. nel matrimonio contratto fra due parti battezzate, di cui una sia passata all’apostasia o all’infedeltà. Neppure si applica, se si tratta di un matrimonio invalido tra due infedeli. Quando si applica il p. p., il vincolo matrimoniale si scioglie, appena il convertito contragga un altro matrimonio valido (can. 1126)..

IL FONDAMENTO DEL P. – Il fondamento è nel testo scritturistico della 1 Cor., 7, 12 : «Agli altri poi dico io, non il Signore. Se un fratello ( = un cristiano cioè) ha una moglie infedele e questa è disposta a coabitare con lui, non la ripudi. E se una moglie fedele ha un marito infedele, che è contento di abitare con essa, non lo abbandoni. Che se l’infedele si separa (discedit), si separi (discedat): poiché non soggiace a servitù il fratello o la sorella in tal caso: ma Iddio ci ha chiamati alla pace ». Che con quest’ultimo versetto l’Apostolo permetta l’allontanamento della parte fedele o lo scioglimento del vincolo stesso, lo si prova: dal contesto della lettera ai Corinti, dalla comune interpretazione di Padri e teologi, dai decreti dei Romani Pontefici e dalla prassi della Chiesa.

1. Il contesto della lettera ai Corinti. – Mentre l’Apostolo nei versetti precedenti, parlando della separazione di coniugi cristiani, comanda che la moglie non sposi più, rimanga cioè senza sposare: in questi versetti invece permette che si allontani, senza più porre alcuna restrizione; e quindi senza neppur più porre la condizione che rimanga non sposata, altrimenti non ci sarebbe più nessuna differenza dal caso precedente. Questa interpretazione è confermata anche dalle parole che seguono, « perché in tal caso il fratello o la sorella non soggiace alla servitù ». La servitù in questione non è che il vincolo coniugale che legava i due coniugi. Se ora il coniuge fedele non soggiace più a servitù, vuol dire che non soggiace più al vincolo matrimoniale verso l’infedele che non voglia pacificamente coabitare. In altre parole il vincolo, in caso, è solubile. […] Pietro Palazzini.

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Chi ha avuto la pazienza di consultare la voce MATRIMONIO dell’Enciclopedia Cattolica pubblicata sul blog, si è sicuramente reso conto della complessità della materia. Ma le domande più ovvie e frequenti che si pongono i residui Cattolici della Chiesa “eclissata”, che hanno a cuore la salvezza della propria anima innanzitutto, e dei loro cari familiari, e che in buona fede hanno aderito alla setta modernista del novus ordo, setta vaticana che si spaccia per Chiesa Cattolica [e sono la maggior parte], o alle sette scismatiche degli eretici fallibilisti-gallicani, sedevacantisti, sedeprivazionisti della tesi manichea, degli eretici Feyneisti, dei monasteri virtuali e via discorrendo, riguardano la validità e liceità del loro matrimonio. È evidente che, essendo il matrimonio contratto da due fedeli o infedeli, o addirittura pagani, che hanno avuto intenzione di sposarsi, con qualunque rito, pure laico, è sempre e comunque valido e quindi indissolubile, fatti salve le eccezioni già considerate. Il problema grave si pone per la sacralità e sacramentalità del matrimonio, che praticamente è, da 1958, sempre illecito e quindi senza che apporti la grazia santificante che ogni Sacramento valido e lecito comporta, in vista della eterna salvezza. Per rendere il Sacramento lecito ed operante, è sufficiente rientrare nella Chiesa Cattolica, quella “vera” guidata da Gregorio XVIII, legittimo successore di Gregorio XVII, canonicamente eletto il 26 ottobre del 1958. Importante è la distinzione tra i battezzati validamente da un prete cattolico, o illecitamente o invalidamente da un prete cattolico apostata delle setta scismatica roncallo-montiniana, o addirittura da un mai-prete, mai-ordinato da un mai-vescovo a sua volta mai-consacrato prima del 18 giugno del 1968, non tonsurato e senza che sia passato per gli ordini minori, come stabilito nel Sacrosanto Concilio tridentino. Ogni caso va quindi innanzitutto valutato su questo presupposto: una volta ricevuto validamente il Battesimo, in forma ordinaria o condizionale e rimosse le censure contratte per aver partecipato ad un culto acattolico, gli sposi automaticamente recuperano anche la grazia sacramentale del loro matrimonio, senza dover rinnovare il rito o le cerimonie prescritte. Del fatto che il matrimonio non conferisca alcuna grazia santificante, se contratto nella falsa chiesa dell’uomo, ne è prova il fallimento pressoché sistematico di tali unioni, la cui percentuale è anche superiore alle unioni laiche o di fatto, o ai pseudo-matrimoni contratti nelle sedi municipali. Il “recupero” del Sacramento, incide naturalmente su tutti i componenti del nucleo familiare e soprattutto sulla prole, che passa finalmente nello stato di legittimità canonica davanti a Dio. Sono infatti i giovani a pagare maggiormente questa situazione di illegittimità, oltre ad essere per la maggior parte non validamente battezzati, confessati, comunicati e cresimati. Si spiega così il deplorevole stato spirituale della gioventù dei Paesi un tempo cattolici oggi invasi da modernisti e scismatici! Tutte le altre questioni, soprattutto quelli inerenti alla solvibilità matrimoniale, restano immutate, non c’è spazio per “divorzi” o separazioni fuori dal “rato non consumato” o dal privilegio paolino, ed eventuali casi controversi devono essere sottoposti alla valutazione della Gerarchia Cattolica in esilio ed al Santo Padre a cui spetta unicamente la decisione finale..  –  [Nota redazionale].

 

 

 

IL MATRIMONIO CATTOLICO – 4 –

IL MATRIMONIO (4)

[ENCICLOPEDIA CATTOLICA, vol. VIII, Coll. 407 e segg.  – Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico – Città del VATICANO – impr. 1952]

M. PUTATIVO.

L’istituto del M. putativo che si può definire genericamente come un M. invalido contratto in buona fede – venne creato dal diritto canonico allo scopo di mitigare, soprattutto nei confronti della prole, le rigorose conseguenze della nullità del M. –

1. Presupposto logico generale perché il M. produca gli effetti giuridici che gli sono inerenti, sia nei confronti delle parti che in quelli dei figli nati dalla loro unione, è che il M. stesso sia valido, cioè posto in essere con l’osservanza di tutti i requisiti di capacità, consenso e forma richiesti dalla legge per dare vita legittimamente al negozio matrimoniale, e – se tra battezzati – al relativo Sacramento. Perciò, se il M. è invalido per la presenza di qualche impedimento o comunque illegittimamente contratto, né i coniugi possono dirsi tali, né i figli considerarsi legittimi. A questo rigoroso principio, formulato come regola assoluta nel diritto romano (C. V, 5, 6), la dottrina canonistica ritenne doversi fare eccezione nel caso di buona fede da parte degli sposi, quando questi avessero contratto il M. ignorandone il vizio, e perciò fossero nella persuasione di essere legittimamente congiunti. Già Pietro Lombardo riferisce chiaramente (Sentent., 1. IV, D. 41, C), l’opinione di dottori che, pur divergendo nella valutazione giuridica del rapporto creatosi col coniugio invalido contratto ignoranter, sono concordi nella conclusione che riconosce la legittimità dei figli. Questa massima viene infine sanzionata nel diritto delle decretali (cc. 2, 8, 10, 14, X , qui filii sint legitimi, IV, 17). – Rimase così stabilito che, se uno dei due coniugi era stato in buona fede al momento del contratto, il M., benché nullo, produce tutti gli effetti di un M. legittimo o valido per tutto il tempo precedente la dichiarazione di nullità e per i figli nati o concepiti in tale periodo. Condizione normalmente richiesta però, oltre la buona fede, era che il M. fosse contratto in facie o in conspectu Ecclesiæ; il M. clandestino (v. sopra) non poteva di regola dar vita ad un M. putativo (c. 3, X , decland. despons., IV, 3). S u queste basi venne così a delinearsi la dottrina dell’istituto, ma non mancarono le questioni intorno all’esatta determinazione dei due requisiti richiesti ad integrarlo: buona fede, e celebrazione in facie Ecclesiæ. Circa la buona fede, consolidatasi l’opinione che bastasse quella di uno solo dei coniugi, onde si respinse la teoria che dovesse considerarsi indipendentemente per i due sposi, per cui il figlio avrebbe dovuto essere dichiarato legittimo solo nei confronti del coniuge ignorans – (monstruosum esset aliquem pro parte fore legitimum pro parte illegitimum) – la regola si fissò nel senso che fosse sufficiente a costituirla non soltanto l’ignoranza o l’errore di ratto, ma anche l’errore di diritto, purché valde probabilis et iustus. Si accolse inoltre la massima che, nel dubbio se le parti avessero ignorato o no l’impedimento, la buona fede si presumesse; però, secondo alcuni, solamente nel caso di errore di fatto e non anche in quello dell’errore di diritto. Infine, sempre coerentemente con lo scopo fondamentale determinante la formazione dell’istituto, cioè il favore dei figli innocenti, si allargò il concetto di buona fede sino a ritenerla compatibile con il dubbio iniziale circa la validità del M. (nam qui dubitat est in bona fide) ed a mantenerne gli effetti, quando sussistesse inizialmente, anche dopo la contestazione della lite sull’esistenza di un impedimento, così da dirsi legittimi i figli nati successivamente, purché concepiti prima della sentenza di nullità. – Quanto all’altro requisito della celebrazione in facie Ecclesiæ, che avrebbe escluso la possibilità di considerare putativo il M. viziato da clandestinità, esso segue naturalmente le variazioni che la nozione di quest’ultima subì fino al Concilio Tridentino. Perciò, mentre nel diritto anteriore bastava a costituire la celebrazione in facie Ecclesiæ che essa avvenisse pubblicamente, in conspectu fidelium o cohadunatis amicis, e, dopo il quarto Concilio Lateranense (1215), osservata la formalità delle pubblicazioni o bandi prescritti da esso, dopo il Tridentino si richiede la forma da questo stabilita, e cioè la presenza nel parroco e dei testi. Tuttavia gli autori non sono concordi nel ritenere che nel diritto anteriore al CIC la celebrazione coram Ecclesia fosse un requisito tassativo per dare vita a un M. putativo; e comunque sembra più plausibile l’opinione per cui la condizione in parola andasse sempre esplicata in relazione al requisito della buona fede; nel senso cioè che per effetto della clandestinità della celebrazione, non si presumeva più la buona, ma la mala fede. – Gli effetti del M. putativo, da principio limitati ala legittimità della prole, andarono man mano estendendosi anche ai rapporti patrimoniali tra i coniugi, garantendo alla parte in buona fede i vantaggi che avrebbero dovuto derivarle da un M. valido.

2. Il CIC ha mantenuto la figura del M. putativo nei suoi tratti essenziali. Esso qualifica formalmente come tale ogni M. invalido, celebrato in buona fede da una almeno delle parti, e fino a quando entrambe non abbiano acquistato la certezza della nullità (can. 1015 §4). In questa definizione non è menzione, come si vede, della necessità della celebrazione coram Ecclesia, per cui la dottrina prevalente interpretò questa norma nel senso più lato – conforme anche alle regole della più corretta ermeneutica giuridica -, riferendola quindi ad ogni M. contratto in buona fede, indipendentemente dalla celebrazione o meno nella forma canonica. Senonché un responso della Commissione per l’interpretazione autentica del CIC in data 26 genn. 1949, dichiarava che la parola celebratum usata dal can. 1015 § 4 doveva intendersi riferita solamente ai M. celebrati coram Ecclesìa. In tal modo la disposizione del CIC è venuta ad avere una interpretazione fortemente restrittiva, che parrebbe escludere fra l’altro la possibilità di configurare il M. putativo nel caso di M. tra acattolici; ma benché si sia voluto giustificare tale responso come un ritorno al genuino e originario concetto del M. putativo nel diritto ante Codicem, autorevole parte della dottrina non ha mancato di osservare che, non solo, – come si è visto — è lungi dall’essere pacifico che il principio affermato dal responso corrisponda realmente alla dottrina ante Codicem, ma che inoltre il responso stesso sembra in contrasto con la secolare tendenza della Chiesa di eliminare la clandestinità quale motivo di nullità dei M. fra acattolici e misti, considerando M. legittimi tutti quelli che hanno formam et figuram matrimonìì secondo le usanze locali, ed inoltre con lo spirito di larghezza in favore della prole che ha ispirato il sorgere e l’evolversi dell’istituto nel diritto canonico. – Gli effetti del M. putativo preveduti dal CIC sono quelli di far considerare legittimi i figli concepiti o nati dal medesimo alla stessa stregua che i figli concepiti o nati da M. valido, e cioè purché ai genitori non fosse vietato l’uso del M. al tempo del concepimento per effetto di solenne professione religiosa o di Ordine sacro (can. 1114). Parimenti il M. putativo, anche se non consumato, ha per effetto di legittimare la prole nata anteriormente, nella stessa maniera che il M. valido, e cioè purché i genitori fossero capaci di contrarre M. fra di loro al tempo della concezione, della gravidanza o della nascita (can. 1116). Il M. putativo cessa di essere tale allorché entrambe le parti acquistino la certezza della nullità (can. 1015 § 4); con l’effetto che la prole concepita successivamente non viene più considerata legittima, a tenore del can. 1114, come quella nata o concepita anteriormente.

3. L’istituto del M. putativo, elaborato dal diritto canonico, e da questo passato nel diritto comune e penetrato profondamente nella pratica dei vari paesi, veniva accolto nei suoi principi costitutivi anche nelle moderne legislazioni, particolarmente nel Codice civile francese e nei codici che da esso derivarono più o meno direttamente. Mentre alcuni ordinamenti, come quello svizzero, assicurano favorevole trattamento ai figli nati da M. nullo senza riguardo alla buona fede dei genitori, la considerazione di questo elemento è rimasta essenziale nelle legislazioni che, come quelle più sopra ricordate, hanno accolto la figura del M. putativo. – Il vigente Codice civile italiano dispone in proposito che il M. dichiarato nullo, quando è stato contratto in buona fede, ha, rispetto ai coniugi, fino alla sentenza che pronunzia la nullità, gli effetti del M. valido. Tali effetti si producono anche rispetto ai figli nati o concepiti durante il M. dichiarato nullo nonché rispetto ai figli nati prima del M. che siano stati riconosciuti anteriormente alla sentenza che dichiara la nullità. Se uno solo dei coniugi è stato in buona fede, gli effetti valgono soltanto in favore di lui e dei figli. Se entrambi i genitori sono stati in mala fede, i figli nati o concepiti durante il M. hanno lo stato di figli naturali riconosciuti, nei casi in cui il riconoscimento è consentito (art. 128). I medesimi effetti si hanno nel caso in cui il consenso del coniuge sia stato estorto con violenza, e si producono rispetto al coniuge che ha subito la violenza e ai figli; quanto all’altro coniuge essi valgono solo nel caso che questi fosse in buona fede (art. 129). Con queste disposizioni, le quali vengono a togliere alla pronuncia del giudice, che dichiara nullo il M., l’effetto retroattivo che logicamente dovrebbe discenderne, vengono sostanzialmente ad equipararsi la dichiarazione di nullità o l’annullamento (è noto che per il M. civile, a differenza che per il M. canonico, i due concetti vanno distinti) ad uno scioglimento che impedisce il prodursi di effetti nuovi, ma conserva quelli già prodotti. – Per aversi il M. putativo secondo il Codice Civile sembra indubbio che si richieda anzitutto l’esistenza di qualche elemento essenziale che escluda la fattispecie del M. inesistente e in ogni caso che non sia mancata una forma qualsiasi di celebrazione, ossia, come anche si è detto, che si sia avuta l’investitura formale nel rapporto giuridico di M. Si discute se possa parlarsi di M. putativo agli effetti civili nel caso di un M. religioso non trascritto: la dottrina italiana è su questo punto discorde. La giurisprudenza francese ha invece riconosciuto come M. putativo anche quello contratto in buona fede davanti a un sacerdote. – Quanto al requisito della buona fede, anche qui, riecheggiando le vecchie dispute in materia, non mancano punti di contrasto. L’opinione prevalente sembra oggi nel senso che la buona fede (che si ha quante volte i coniugi, o almeno uno di essi, contraendo il M. ignorarono – e sia per effetto di un errore di fatto, che di un errore di diritto – l’esistenza della causa di nullità) si presume, e perciò non deve essere dimostrata, per il principio generale di presunzione della buona fede. Ma vi è chi dubita che in questo caso tale principio possa essere applicato, poiché qui la buona fede viene appunto in considerazione nella legge per la concessione di eccezionali diritti. Altri ancora fanno la distinzione fra l’errore di fatto e quello di diritto ammettendo la presunzione della buona fede solo per il primo e non per il secondo, in omaggio al principio nemo censetur ignorare ius, che darebbe vita a sua volta ad una presunzione contraria. Controversa è pure la valutazione da farsi del dubbio circa l’esistenza nella causa di nullità, ecc. Comunque, a differenza che nel diritto canonico vigente, ove, come si è visto, il M. putativo rimane tale solo finché entrambi i coniugi non raggiungano la certezza della nullità (cann. 1015 § 4, 1114), nel diritto civile vale la regola mala fides superveniens non nocet, per cui è sufficiente che vi sia la buona fede al momento della celebrazione perché si producano e permangano gli effetti del M . putativo fino alla sentenza che pronunzia la nullità (art. 128). Tali effetti si producono anche se la nullità del M. è stata dichiarata dopo la morte di uno dei coniugi, nel qual caso al coniuge superstite di buona fede spettano gli stessi diritti ereditari attribuiti al coniuge nel caso di valido M. (art. 528). Però qualora il coniuge defunto fosse stato legato al momento della morte da un M. valido (ossia nell’ipotesi di bigamia), il coniuge putativo è escluso dai diritti ereditari, e ciò allo scopo ovvio di eliminare la possibilità del concorso alla successione da parte di due coniugi, uno vero e uno putativo. [Arnaldo Bertola]

VII. M. RATO E NON CONSUMATO

Il M. rato, secondo il can. 1015 § 1, è il M. valido dei battezzati, se non ancora è integrato con la consumazione. Si dice rato non solo per opposizione al M. consumato, ma più propriamente perché, essendo dotato della sacramentalità, la Chiesa lo sanziona: « eum ratum habet » (cf. P. Gasparri, De Matrimonio, I, Città del Vaticano 1932, n. 41). Il M. rato e consumato si ha quando tra i coniugi vi è stato l’atto coniugale, a cui per natura sua è ordinato il M. (can. 1015 § 1). Il M. validamente contratto tra i non battezzati, si chiama « legittimo »: se è avvenuta la copula « legittimo e consumato». Se la copula sussegue al M. legittimo, il quale sia diventato rato per la recezione del Battesimo da parte di ambedue i coniugi, allora questo M. si chiama « consumato e rato ». – Queste sono le formole usate dal CIC e dai canonisti moderni, che nei testi di diritto antico hanno invece un senso vario e fluttuante. M. rato è preso a significare ora il M . valido e lecito dei fedeli, ora il M. valido, ora quello invalido, sebbene celebrato secondo la forma tridentina, ed a volte il M. né valido né lecito. Più comunemente veniva chiamato M. « semplicemente rato »  il M. valido, ma non lecito, e M. « legittimo e rato » il M. dei fedeli valido e lecito per la osservanza del rito della Chiesa : così in Graziano (17, C. 28, q. 1). Il Concilio di Trento chiamò M. « veri e rati » i M. clandestini, celebrati dai fedeli prima della loro proibizione (Sess. 24, cap. 1, de ref.). Vari autori anteriori al CIC chiamano rati i M. non consumati non solo dei fedeli, ma anche dei non battezzati. A norma del can. 1118, che riassume l’insegnamento delle fonti della tradizione, affinché il M. sia assolutamente indissolubile si richiedono due condizioni, cioè il carattere sacramentale e la consumazione: mancando l’una o l’altra, l’assoluta indissolubilità non si avvera più. Non ripugna quindi che il romano Pontefice abbia la potestà di sciogliere il vincolo di un M. che non sia consumato, purché una parte, per la recezione del Battesimo, sia soggetta alla giurisdizione della Chiesa; e che il vincolo sia ugualmente sciolto dalla professione religiosa solenne, per costituzione del diritto stesso (can. 1119).

1. – Lo scioglimento del rato per professione religiosa solenne. – a) Note storiche. – Nella storia della Chiesa esistono esempi di sante e pie persone, che, dopo aver celebrato le nozze e prima di consumarle, lasciarono nel mondo la comparte per consacrarsi a Dio. Tali gesti hanno suscitato la lode degli scrittori sacri e della Chiesa. Lasciando da parte l’esempio di s. Tecla, riferito da scrittori tardivi (s. Ambrogio: De virginibus, 2, 3, 19: P L 16, 223; s. Epifanio: Adversus hæreses, 3, 2, hær. 78, n. 16: PG 42, 726), e di s. Cecilia, si ha l’esempio, narrato da s. Agostino (Confessioni, 8, 6 : P L 32, 755-56), dei due cortigiani, che alla lettura della vita di s. Antonio abbandonarono il mondo, mentre anche le spose offrivano a Dio la loro verginità. Notissima è la leggenda di s. Alessio, nobile romano, che, fuggito la sera delle nozze, condusse vita di asceta in Edessa. Simile è la leggenda dell’eremita Macario (26, C . 27, q. 2), di s. Leonardo, di s. Oditta, regina di Inghilterra (J. Clericatus, Decisiones sacramentales, II. De Matrimonii Sacramento, decis. XIV, Ancona 1757, p. 53 sg.) e dell’altra regina inglese Edildrida (Beda, Hist. eccl., 4, 19: PL 95, 201), con la variante che in questi ultimi due casi è la donna che abbandona il mondo. Ma in tutti questi esempi o non è accertato il valore storico dei fatti narrati, o si dubita se si tratti di rottura di fidanzamenti, piuttosto che di veri e propri M. rati, o non si ha la certezza del passaggio della comparte, rimasta nel mondo, a seconde nozze. Fuori della vera e propria tradizione ecclesiastica, nella legislazione romana giustinianea la professione monastica (d’accordo con Padri e concili) è annoverata fra gli impedimenti matrimoniali (Nov. 5, 8; 123, 1): la semplice entrata nel monastero è ritenuta come giusta causa per la soluzione degli sponsali (ibid., 123, 34. 40); anzi (e ciò in disaccordo con l’autorità ecclesiastica) la professione monastica viene considerata come giusta causa di scioglimento del M . (cf. C. I , 3, 52 [53] § 15; C. I, 3, 54 [56] § 4; Novv. 5, 5; 22, 5; 117, 12; 123, 40). Ritornando alla tradizione strettamente ecclesiastica, e lasciando da parte altri cenni di non molta perspicuità che si incontrano nella tradizione sulla soluzione del M. rato (cf. 27, 28, C. 27, q. 2; Bernardo di Pavia, Summa de Matrim., ed. Laspeyres 1860, p. 299), il primo che ne abbia parlato esplicitamente è Alessandro III, già Magister Rolandus a Bologna, in due decretali dirette all’arcivescovo di Salerno (a. 1180) ed al vescovo di Brescia (2, 7, X , 3, 32). Egli ammette espressamente che la comparte, rimasta nel mondo, possa passare a nuove nozze ad secunda vota transire »), e non fa difficoltà alla terza decretale, del resto non raccolta nelle Decretali gregoriane, ma solo nella prima compilazione antica (c. 5, de sponsa duorum, IV,4), in cui parrebbe che si asserisca contrario, perché la negazione non è qui assoluta, ma condizionata (sine iudicio Ecclesiæ). La dottrina di Alessandro III è poi confermata da Innocenzo III (14, X, 3, 32) e diviene definizione dogmatica nel Concilio di Trento (sess. XXIV, de Sacr. Matr., can. 6 ), che volle infrangere l’audacia dei falsi riformatori, i quali svalorizzavano l’efficacia della professione religiosa. Oggi è accolta, come si è accennato, nel can. 1119, il quale sancisce che il M. non consumato tra i battezzati, seppure fra una parte battezzata ed un’altra non battezzata, si scioglie ipso iure per la solenne professione religiosa. –

b) Condizioni richieste. — α) La non consumazione del M. — In che consiste la consumazione sarà detto più È opportuno ora osservare che il M. su cui la prefessione solenne esercita la sua efficacia, può essere: o rato e non consumato, se i coniugi sono ambedue battezzati e cattolici o uno cattolico e l’altro acattolico; oppure indubbiamente rato e non consumato (stante la controversia circa il carattere sacramentale di questi M.), se i coniugi sono l’uno battezzato e l’altro non battezzato, ed hanno contratto o con la dispensa dalla disparità di culto oppure, essendo il battezzato acattolico, hanno potuto contrarre senza bisogno di dispensa (can. 1070 § 1), prima che il battezzato si convertisse e passasse ai voti religiosi solenni. – È ancora M. rato il M. già legittimo non consumato né prima né dopo la conversione ed il Battesimo di ambedue i coniugi: è dubbiamente rato lo stesso M., alle stesse condizioni, dopo la conversione ed il Battesimo di uno dei coniugi. Su di essi può esercitare senza dubbio la sua efficacia la professione religiosa solenne. È controverso invece se possa essere sciolto per professione solenne un M. contratto validamente e consumato nell’infedeltà, ma non più consumato dopo la conversione ed il Battesimo delle due parti. In teoria le due opinioni, negativa ed affermativa, restano anche oggi contrastanti e si bilanciano: in pratica però ambedue concordano nell’esigere il ricorso alla S. Sede.

β) Emissione della professione solenne. – Poiché si parla espressamente di professione solenne, non sortisce alcun effetto né il voto di entrare in religione, né l’entrata in religione, né l’assunzione dell’abito religioso, né la professione dei voti semplici, né il conferimento dell’Ordine sacro del suddiaconato, ed il voto di castità emesso in questa circostanza o indipendentemente nel secolo. Si parla inoltre di professione vera e quindi valida, per cui cioè si siano osservate tutte le formalità richieste ad validitatem (can. 572 §§ 1-2). – Tra le altre formalità per la validità della professione è richiesto che preceda un noviziato valido a norma dei cann.  555 e 542 – ln forza di quest’ultimo can. 542, n. 1, non è valida, senza dispensa pontificia, l’ammissione al noviziato di persone legate da M.; occorre quindi che preceda questa dispensa. Ancora per la validità della professione solenne occorre che preceda la professione semplice per almeno un triennio (can. 574). Per evitare tutta questa attesa al coniuge che rimane nel mondo, la S. Sede può concedere o la dispensa dal triennio di professione semplice (Dichiarazione della S. Congregazione superstatu Regularium, 25 genn. 1861) o la dispensa dal M. rato non consumato. – Per tutte queste ragioni, sono rarissimi i casi in cui M. non consumati vengano disciolti per effetto della professione solenne. La quale, per essere tale, deve essere emessa in un Ordine regolare, preso nel senso stretto, ed includere il voto di castità perfetta. Restano così esclusi alcuni Ordini militari con voto di castità coniugale e di astinenza dalle seconde nozze. – Resta pure esclusa (nonostante qualche parere in contrario di molti autori) la professione semplice emessa dalla Compagnia di Gesù, nonostante che questa abbia effetto irritante per un M. futuro (cf. A. Ballerini- D. Palmieri, Opus theol. morale, VI, 3a ed., Prato 1900, n. 479 sg.). Resta infine esclusa la professione semplice, emessa in istituti di monache nella Francia e nel Belgio, le quali, pur avendo voti per istituto solenni, emettono solo voti semplici, eccetto il caso in cui, a norma del Decr. della S. Congregazione dei Religiosi 23 giugno 1923, abbiano ottenuta la facoltà di emettere voti solenni (AAS, 15 [1923], p. 357. Oggi è desiderio della S. Sede che ovunque siano ripristinati i voti solenni: Sponsa Christi, AAS, 4 3 [1951], p. 5 sgg.). La risoluzione del vincolo matrimoniale si verifica nel momento stesso in cui viene emessa la professione solenne. È naturale che per lo stato libero dell’altro coniuge debbano risultare da autentico documento e l’inconsumazione e la professione solenne.

γ) Diritto sul quale si fonda la risoluzione del M. rato per professione solenne. — Alcuni tra i più antichi autori (Durando, Gaetano, Salmanticenses, ecc.) asseriscono che ciò avviene per diritto naturale, essendovi opposizione tra i due stati; altri (Benedetto XIV, Sànchez, Perrone, Palmieri) per diritto positivo-divino od immediato, trattandosi di un privilegio concesso da Cristo; altri infine (Suàrez, Schmalzgrueber, Wernz, Gasparri, Oietti, ecc., ed è l’opinione comune) per diritto ecclesiastico. Questa potestà della Chiesa però è vicaria o ministeriale e non propria. In altre parole la Chiesa, da cui dipende unicamente la solennità dei voti, in forza della potestà ministeriale, concessale da Cristo, per propria costituzione ha stabilito di ritenere la solenne professione religiosa sempre come una giusta causa di soluzione del vincolo di un M. non consumato. Il canone dogmatico del Concilio Tridentino non osta insormontabilmente a questa opinione, in quanto è possibile che una verità non sia rivelata e che tuttavia sia insegnata con infallibilità dalla Chiesa. Conseguentemente niente vieta che la Chiesa possa stabilire che il M. non consumato venga sciolto ipso iure per altre cause generali che non siano la professione solenne.

2. – Lo scioglimento del M. rato e non consumato per dispensa pontificia. – a) Note storiche. — Già da Alessandro III (1159-81) prese inizio la rivendicazione esplicita alla potestà pontificia di poter sciogliere il M. non consumato (la risposta di s. Gregorio II, a. 726, al vescovo Bonifacio: 18, C. 37, q. 7, pare piuttosto un caso di impotenza). Alessandro III, infatti, prendendo una via di mezzo tra la teoria della copula (Scuola bolognese, a cui aveva aderito da docente) e la teoria del consenso (Scuola di Parigi), insegnò da Pontefice che il M. rato, sebbene abbia ragione di vero M. e Sacramento, si può sciogliere solo per voto di castità (2, 7, X, III, 32) e per affinità sopravveniente, almeno pubblica: nel qual secondo caso egli permise di contrarre nuove nozze (2, X, III, 32). Egli con ciò mostrò di considerare il M. non consumato, rispetto alla soluzione del vincolo, come soggetto alla potestà e giurisdizione della Chiesa. Lo stesso fecero due pontefici posteriori, Urbano III (1185-87) ed Innocenzo III (1198-1218) nelle loro decretali (14, X, II, 32; c. 3 Comp. I, 4, 8; 3, X, IV, 8). Tuttavia nessuno di questi Pontefici afferma la potestà pontificia di sciogliere il M. non consumato per via di dispensa in caso particolare. – Le prime tracce di questa dottrina si possono trovare nei canonisti, da Paucapalea (Summa iiber das Decretum… ed. Schulte, Giessen 1890, p. 114), all’Alanus, a Vincentius Hispanus ( Glossa ad c. 7, X, III, 32, in Corpus iuris canonici, I, Lione 1517, p. 271), all’Hostiensis, al Panormitanus ecc. Non si può tuttavia provare con argomenti storici che siano state concesse dispense dal rato in casi particolari (si prescinde dalla soluzione per professione solenne religiosa) prima di Martino V (1417-31) ed Eugenio IV, i quali diedero alcune di queste dispense, come attesta s. Antonino di Firenze (Summa theologica, Verona 1740, parte 3a, tit. 1, cap. 21, 3) che vide le relative bolle. Nel sec. XVI la Chiesa si servì spesso di questa potestà, mentre teologi e canonisti si schieravano pro e contro. L’opinione negativa, che argomenta va soprattutto dal non uso prima di Martino V e dall’impossibilità per il romano Pontefice di dispensare nel diritto naturale e divino, sebbene difesa da grandi teologi (s. Bonaventura, Scoto, D. Soto, Pontius, Reiffenstuel, Billuart ecc.), cedevaman mano il passo al prevalere dell’opinione affermativa, che, oltre ai predetti canonisti, veniva difesa da s. Antonino, Gaetano, Azpilcueta, Sànchez, Suàrez, Schmalzgrueber, Benedetto XIV, Perrone, Ballerini, ecc., ed aveva soprattutto l’appoggio dell’uso costante e continuo dei romani Pontefici. Una volta messo fuori dubbio il fatto, molte volte ripetuto, della dispensa concessa dai Papi, è facile passare al diritto, data l’assistenza divina di Cristo alla sua Chiesa. – Ora esempi del genere si ebbero sotto Alessandro VI (Pastor, III, p. 506 nel caso di s. Giovanna regina di Francia, oltre l’altro caso, per più motivi però oscuro, di Lucrezia Borgia, ibid., p. 376), sotto Paolo III e Pio IV (M. da Azpilcueta, Manuale confessariorum et poenitentium, 22, zi, Roma 1573, p. 319), sotto Gregorio XIII (H. Henriquez, Theologiæ moralis summa, I, 11, 8, 11, Venezia 1600, p. 663 nota). Clemente VIII fece esaminare la questione del potere del Papa in merito da una commissione di canonisti e teologi, che il 16 luglio 1599 si espresse favorevolmente (D. Ursaia, Disceptationes ecclesiasticæ, II, ivi 1724, p. 1, disc. 3, nn. 10-11). Sotto Paolo V si ebbero nuovi esempi di dispensa (P. Fagnanus, Commentaria in I lib. Decretalium, de off. iud., I, 61, ivi 1942, p. 552). Così sotto Urbano VIII (V. De Iustis, De disp. Matrim., II, 10, 17, Lucca 1726, p. 292). Sotto i Papi successivi crebbero sempre più (cf. C. Cosci, De separat. tori con., I, 1, 16, 4-8, Roma 1773, p. 149; S . Pallottini, Collectio conclusionum… S. Congr. Concilii…, VII, ivi 1893, p. 542 sg.; J. Perrone, De Matrimonio christ., III, ivi 1858, p. 509). – Oggi l’esistenza della potestà del Romano Pontefice sullo scioglimento del M . rato e non consumato, benché non sia di fede, appartiene alla dottrina cattolica, per l’espresso insegnamento del CIC (cf. can. 249 § 3, 1119) ed il susseguente decreto della S. Congregazione dei Sacramenti del 7 maggio 1923.

b) Natura della dispensa e potestà pontificia sul rato. – Non si tratta di una dispensa in senso stretto a norma del can. 80, ma in senso largo. Il Romano Pontefice infatti non agisce in nome proprio, ma in forza della potestà vicaria o ministeriale, cioè in nome di Cristo stesso, di cui fa le veci. La dispensa non avviene direttamente, rimovendo l’obbligo della legge naturale e positivo – divina, ma agendo sull’atto umano proveniente dalle libere volontà, da cui è stato causato il vincolo, con una certa remissione ex parte materiæ. L’effetto è uno scioglimento dal vincolo: del tutto diversa è una sentenza di nullità. – La soluzione del M. rato è nel diritto attuale riservata al Romano Pontefice, che per se stesso immediatamente concede la grazia della dispensa. A lui è riservato anche il processo necessario per ottenerla, processo che egli ordinariamente commette ai vescovi residenziali per mezzo della S. Congregazione dei Sacramenti. Si ebbero esempi in passato di delega ai vescovi della facoltà di concedere la soluzione del M. rato ed anche teoricamente niente vieta che il Pontefice eserciti la sua potestà vicaria a mezzo di altri; tuttavia, secondo l’opinione più comune, non compete ai vescovi una potestà ordinaria su tale soggetto. – Circa l’ambito della potestà pontificia nella soluzione del rato, il can. 1119 determina: « il M. non consumato tra i battezzati oppure tra una parte battezzata ed un’altra non battezzata, si scioglie … ». Di conseguenza si può sciogliere: il M. rato tra battezzati cattolici; il M. misto non consumato; il M. legittimo consumato e poi divenuto rato per il Battesimo di ambe due i coniugi; il M. contratto con dispensa da disparità di culto; il M. di due acattolici, di cui uno battezzato fuori della Chiesa cattolica (cf. can. 1070 § 1); i l M. di due coniugi, di cui uno si converta, ma non voglia usufruire del privilegio Paolino, né coabitare pacificamente, in favore del coniuge infedele (almeno secondo l’opinione più comune). Questa dispensa viene data dietro domanda di ambedue le parti o di una parte sola, anche se l’altra sia contraria (can. 1119). Ad essi soli spetta domandarla (can. 1973), ma secondo un’opinione non improbabile si ammette che, in casi speciali, vi possa essere una giusta e proporzionata causa di dispensa anche quando ambedue i coniugi siano ignari della dispensa o vi si dichiarino contrari.

3. – Condizioni richieste per addivenire alla dispensa.

Modo di concederla. — a) Giusta e proporzionata causa. –Trattandosi di un vincolo indissolubile per diritto naturale e divino, da cui il Romano Pontefice può solo dispensare per potestà vicaria, è necessario il concorso di una giusta e proporzionata causa, affinché l’esercizio della potestà avuta sia in edificazione e non in distruzione della Chiesa. La causa deve essere ragionevole e grave: non è però richiesto che sia di pubblica utilità. Tra le giuste cause, ammesse come legittime dalla prassi, vi sono il contrasto insanabile degli animi, il timore di scandalo, di risse, il divorzio civile o la separazione legale, la prova semipiena del timore, dell’impotenza, ecc.

b) L’inconsumazione. — Il M. si dice non consumato, se tra i coniugi non è intervenuto l’atto coniugale. Quet’atto è la copula coniugale, mediante la quale si verifica fra i coniugi l’unità della carne (Gen. 2, 24; I Cor. 6, 16): tale unità non è ottenuta con gli atti incompleti, intervenuti tra i coniugi. È consumativa del M. solo quella copula che considera l’azione umana fatta secondo le leggi fisiche della natura (non quindi la copula onanistica, né la fecondazione artificiale propriamente detta), anche se non ha attuale riguardo alla generazione della Da ciò ne segue che neppure per il fòro esterno e giudiziale il concepimento della prole è in ogni caso un argomento perentorio e decisivo della consumazione. Per avere la consumazione del M. l’atto deve aver luogo dopo la celebrazione del medesimo. Non è quindi consumazione il rapporto fornicario od adulterino prima del M. Una presunzione che si fonda su quanto comunemente avviene, attese le ordinarie circostanze, stabilisce che, avvenuta la celebrazione del M., se i coniugi hanno coabitato, la consumazione si presume sempre, finché non sia provato il contrario (can. 1015 § 2). – La Chiesa, annuendo benignamente alla domanda dei coniugi (chi chiede è detto oratore, l’altra parte convenuta), prende in esame il loro caso in fòro esterno, per vedere se esiste la prova della non consumazione del M., che si basa su un duplice argomento: l’argomento morale e quello fisico. – L’accertamento è fatto per mezzo di uno speciale processo amministrativo che si svolge specialmente secondo i cann. 1976-82 ed il decr. Catholica doctrina della S. Congregazione dei Sacramenti, 7 maggio 1923 (AAS, 15 [1929], p. 389 sg .), integrato dall’Istr. 27 marzo 1929 (ibid., 21 [1929], p. 490 sg.) della stessa S. Congregazione e dal decreto del S. Uffizio 12 giugno 1942 (ibid., 34 [1942], pp. 200-202). Nel diritto anteriore norme specifiche per lo scioglimento del rato erano contenute nelle Istruzioni della S. Congregazione del Concilio, 22 ag. 1840 e del S. Uffizio nel 1858 (P. Gasparri, CIC Fontes, IV, Roma 1926, nn. 846, 1076); oltre ad altre prescrizioni generiche, reperibili nei documenti riguardanti i processi matrimoniali in genere. – Gli argomenti che servono per scoprire la verità in queste cause sono principalmente: 1) la confessione giurata dei due coniugi, che forma solo l’inizio e la base in favore dell’inconsumazione del M. (can. 1975 § 2; reg. 50-57); 2) la deposizione dei cosiddetti testimoni septimæ manus (normalmente 7 da una parte e 7 dall’altra, scelti di preferenza tra consanguinei ed affini), e quella di testi indotti d’ufficio (prevalentemente testi de scientia) oppure dietro istanza delle parti: deposizione costituente un argomento di credibilità che aggiunge valore alle deposizioni dei coniugi (cann. 1975 § § § 1-2: reg. 58-63, 66-74); 3) l’esame corporale fatto dai periti nel modo determinato dal CIC (cann. 1976-81) e dall’Istruzione (regg. 84-95), a meno che dalle circostanze non risulti inutile. Questo esame deve rilevare quello stato anatomico del corpo in generale e degli organi genitali in specie che è proprio di una donna che non abbia ancora avuto completa congiunzione carnale. Può essere esteso anche all’uomo nei casi di sospetta impotenza (reg. 84 § a); 4.) I documenti autentici, pubblici o privati, anche extra-giudiziali, di qualsiasi genere, che spieghino e corroborino le deposizioni fatte (reg. 75-78); 5) indizi e presunzioni (can. 1825; reg. 65, 79-83), che possono essere lievi, gravi e gravissime. – La S. Sede, pur riservando a sé la concessione della dispensa, ordinariamente affida l’istruttoria del processo ai vescovi competenti per territorio (l’istruttoria è condotta da un unico giudice con intervento del difensore del vincolo e di un attuario [cann. 1966-67, reg. 21-30] e si conclude con il voto del vescovo) e l’esame, a seconda dei casi, alla S. Congregazione dei Sacramenti, in via normale (can. 249 § 3), alla S. Congregazione per l a Chiesa orientale (che ha dato in merito una propria istruzione, in data 10 giugno 1935: AAS, 32 [1935LP- 333 sgg.), se una od ambe due le parti appartengono al rito orientale (can. 257 § 2), alla S. Congregazione del S. Uffizio, nel caso che almeno una parte sia acattolica (can. 247 § 3: risposta del 18-27 genn. 1928, AAS, 20 genn.1928], p. 75), ad una commissione speciale, costituibile a norma del can. 1962, al Tribunale della S. R. Rota, can. 249 § 3) sempre per delegazione, almeno ex iure, a norma del can. 1963 § 2 (qualche autore non esclude anche il ricorso alla S . Penitenzieria, tramite l’autorità che avesse già istruito il processo, nel caso di fatto veramente occulto, di cui non si possa trattare in fòro esterno: cf. can. 285 § 1). – Se durante un processo di nullità, per impotenza o per altro titolo, incidentalmente sorgesse il dubbio molto probabile della inconsumazione, è data facoltà ai coniugi di domandare la dispensa dal rato ed il giudice, in caso, beneficia di una delegazione a iure per l’istruttoria (can. 1963 § 2: reg. 3 – 4). – Il rescritto viene spedito in forma graziosa (divenendo quindi esecutivo per se stesso) dal prefetto della S. Congregazione dei Sacramenti o da altro cardinale che lo sostituisca, e dal segretario o sottosegretario della stessa S. Congregazione (reg. 102). Se le circostanze esposte non rispondono alla realtà, la dispensa pontificia è nulla, il M. non è sciolto, e tutti i M. eventualmente contratti in seguito non hanno nessun valore (reg. 103, can. 41). – Il rescritto di dispensa dal rato porta con sé una particolare concessione: la dispensa dall’impedimento del crimine nella forma proveniente dall’adulterio con promessa o con attentato di M. (can. 1053: reg. 104, decr. S. Congregazione dei Sacramenti, 3 giugno 1912). Effetto della dispensa è la soluzione del vincolo e la libertà di nuovamente contrarre, salvo il caso di aggiunta di clausola impediente nei confronti del coniuge dubbiamente impotente (vetito viro – vel mulieri – transitu ad alias nuptias). Seguono tutti gli altri effetti giuridici, ma ex nunc (dal momento della soluzione da parte del Romano Pontefice), non ex fune.

e) La dispensa dal M. non consumato nel diritto concordatario italiano. – Lo Stato italiano riconosce la competenza dei tribunali e dicasteri ecclesiastici in materia di dispensa dal rato. Per l’esecuzione, i provvedimenti, con i relativi decreti del S. Tribunale della Segnatura, devono essere trasmessi alla Corte d’appello, competente per territorio, la quale con ordinanza li renderà esecutivi agli effetti civili, disponendo che siano annotati nei registri dello Stato civile, a margine dell’atto di M. (Concordato con l’Italia, 11 febbr. 1929, art. 34: legge 27 maggio 1929, n. 847 all’art. 17). – Il riconoscimento è esteso anche ai M. civili, contratti prima dell’entrata in vigore della predetta legge (ibid., art. 22), esigendosi però in questi casi (e qui è il contrasto con le norme canoniche) la domanda di ambedue i coniugi. Si deve inoltre notare che l’art. 34, come la legge italiana di applicazione, parlano solo di dispensa « dal M. rato e non consumato ». Tuttavia la dottrina, dissipata ormai qualche voce contraria, è concorde nell’includere nella dizione anche la dispensa del M. solo non consumato, senza essere rato, e lo scioglimento per effetto di professione religiosa solenne (cf. A . Piola, Lo scioglimento del M. per inconsumazione, in Diritto ecclesiastico, 14 [1934], pp. 272-73, 274 nota 9, ove sono citati anche gli autori contrari). Inoltre, sebbene la legge civile non precisi espressamente il tempo in cui bisogna considerare sciolto a che il M. civile, si dovrà considerare lo scioglimento di questo come avvenuto contemporaneamente a quello canonico e non dalla data del provvedimento della Corte d’appello, perché la legge italiana non può limitare l’efficacia del provvedimento della S. Sede (cf. C. Rebuttati, L’ordinamento matrimoniale concordatario, in Diritto ecclesiastico, 50 [1939], p. 539; cantra: M. Falco, Corso di diritto ecclesiastico, II, Padova 1938, pp. 219-20). – Altre controversie sono sorte nella giurisprudenza italiana in materia. Una prima in merito alla possibilità del tutore dell’interdetto per infermità di mente o del curatore dell’assente di presentare la domanda richiesta per la esecutorietà della dispensa pontificia agli effetti civili. Gran parte della dottrina è contraria, dato il carattere personalissimo della facoltà che hanno i coniugi di inoltrare domanda di scioglimento (art. 22 legge cit.), ma si ha qualche sentenza in contrario (Corte d’appello di Bologna, dic. 1934, in Diritto eccles., 46 [1935], p. 22). – Un’altra controversia si ha in merito alla possibilità dei coniugi di revocare il consenso, precedentemente espresso nella domanda alla S. Sede, al momento della proposizione della formale domanda alla Corte d’appello, arrestando così l’esecutorietà della sentenza (cf. C. Rebuttati, op. cit., p. 541 sg .). – Si è anche chiesto se la domanda di ambedue i coniugi sia richiesta soltanto per ottenere l’esecutorietà in sede di volontaria giurisdizione, rimanendo la possibilità per la parte sola richiedente di esigerla in contraddittorio con l’altra in via contenziosa. La distinzione, negata da alcuni, è ragionevolmente accolta da altri (cf., ad es., L. Capalti, La funzione giudiziaria negli effetti civili dei M. pre-concordatarii, in Fòro italiano, 55 [1930, 1], P- 579 sg.; contro: F. Vassalli, Il fòro civile e il fóro eccles. nelle questioni di nullità… in Riv. di dir. proc. civ., 7 [1930, 11], p. 310 sg.). Si è poi chiesto se la domanda dei coniugi debba essere rivolta direttamente alla Corte d’appello o possa anche venir trasmessa a questa dall’autorità ecclesiastica (in questo  secondo senso: L. Capalti, Istanza di parte e tratrasmissione d’ufficio negli effetti civili dei M. prec, in Diritto eccles., 41 [1930], p. 453 sg.; contra: A. C. Jemolo, Tribunali della Chiesa e tribunale dello Stato nel regime degli Accordi Lateranensi, in Archivio giuridico, 102 [1929], p. 138 sg.). – La giurisprudenza italiana non si sa dare ancora esatto conto della natura dello scioglimento del M. non consumato, che, essendo nuovo per essa, non può essere ridotto ad istituti consimili del diritto civile. Certo tale dispensa non può essere considerata come una causa dichiarativa di nullità, né ridotta allo scioglimento per morte, né venir assimilata a sentenza di divorzio; ma è da considerarsi come un istituto a sé, quale viene considerato dalla Chiesa nel suo CIC. Ne viene di conseguenza che ad essa bisogna attribuire quella natura ed efficacia propria del diritto canonico, senza ricorrere all’analogia con altri istituti consimili. – Anche le questioni sugli effetti, su cui sono sorti diversi orientamenti sia in giurisprudenza che in dottrina, vanno risolte alla luce di questi principi, per non cadere in illogicità ed incongruenze. Così occorrerà concludere che la prole nata extra torum, prima della dispensa dal rato, conserva il carattere di adulterina e quindi non è riconoscibile per susseguente M., mentre è senz’altro riconoscibile quella nata da rapporti extra coniugali dopo la concessione della dispensa (cf. cann. 1116, 7053); che le donazioni propter nuptias di un M. sciolto per dispensa, sono ripetibili a norma dell’art. 785 Cod. civ. ital. perché fatte in previsione di un M. duraturo ed indissolubile, che viene a mancare. Lo stesso si dirà delle donazioni tra coniugi prima della dispensa, a tenore dell’art. 781 Cod. civ. ital.. Repetibili sembrano essere fin dall’inizio anche i frutti della dote, mentre non lo sembra la tassa di registro corrisposta per assegni fatti in considerazione del M. – In altro campo, in sede penale, si dovrà dire che costituisce reato di adulterio o di concubinato (artt. 559-560 Cod. pen. ital.) la congiunzione carnale con altra persona, vincolata da valido M., di poi dispensato: lo stesso si dirà per il reato di bigamia (art. 556). Si dirà che il reato di violazione degli obblighi di assistenza famigliare (art. 570 Cod. pen. ital.) sussiste, se compiuto nel tempo tra la celebrazione del M. e la dispensa. [segue BIBL.]. [Pietro Palazzini].

IL MATRIMONIO CATTOLICO -3 –

IL MATRIMONIO (3)

[ENCICLOPEDIA CATTOLICA, vol. VIII, Coll. 407 e segg.  – Ente per l’Enciclopedia Cattolica e per il libro cattolico – Città del VATICANO – impr. 1952]

II. DIRITTO CONCORDATARIO ITALIANO.

1. Il riconoscimento concordatario del M. canonico. — La rilevanza giuridica del M. canonico nell’ordine statuale — già venuta meno con l’istituzione del M. civile, che aveva ridotto il primo ad un puro atto religioso destituito di efficacia giuridica — ha ritrovato ampio riconoscimento attraverso l’art. 34 del Concordato Lateranense. Con questa disposizione (integrata poi, rispettivamente, per parte dello Stato italiano da una legge applicativa in data 27 maggio 1929, n. 847, e da parte della S. Sede da una istruzione della S. Congregazione della Disciplina dei Sacramenti agli Ordinari in data 1° luglio 1929), si è dato vita a un complesso sistema giuridico che, riconoscendo in linea di massima efficacia civile al regolamento matrimoniale canonico per coloro che volontariamente vi si assoggettino con la celebrazione religiosa cattolica, detta particolari norme affinché tale efficacia giuridica possa essere conseguita, sia in ordine alle condizioni per la costituzione e la validità del vincolo, sia in ordine alle pronunzie di nullità o di scioglimento del vincolo stesso. La dichiarazione fondamentale espressa nell’art. 34, che lo Stato italiano « riconosce al sacramento del M., disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili » (sostituita poi nella legge applicativa dalla più restrittiva menzione di M. « celebrato davanti un ministro del culto cattolico » producente, « dal giorno della trascrizione, gli stessi effetti del M. civile »), ha importato intanto la conseguenza che il M. civile cessasse di essere l’unica forma di M. avente efficacia giuridica di fronte allo Stato, come era nel sistema del Codice del 1865, continuando peraltro a sussistere come forma ordinaria di celebrazione aconfessionale. Forma che resta pertanto ancora aperta, sotto l’aspetto meramente legale, a chiunque voglia adottarla, ma che per i cattolici è severamente proibita, essendo essi gravemente obbligati a celebrare il M. religioso, ed esclusivamente questo, sì che « qualora osassero contrarre civilmente saranno trattati come pubblici peccatori » (art. 1, istruzione 1° luglio 1929 della S. Congregazione Disciplina dei Sacramenti). – Altra conseguenza fondamentale è che, pur dichiarandosi equiparati agli effetti civili il M. religioso cattolico e il M. civile vi è tuttavia grande differenza fra i due, poiché il primo è regolato dal diritto canonico e il secondo dal solo Codice civile, sia in quello che concerne i requisiti per la formazione e validità del vincolo, sia in quello che concerne la competenza a trattare le controversie relative alla nullità o allo scioglimento di esso, e che è devoluta agli organi della Chiesa per i M. canonici, restando ferma quella degli organi statuali per quelli civili. Poiché poi lo Stato, disinteressandosi della eventuale celebrazione di M. semplicemente religiosi, non ammette in alcun caso l’esistenza di più di un M. avente effetti civili fra i medesimi soggetti, o fra uno di essi e una terza persona, chi sia già unito da M. civile non potrà contrarre M. religioso con effetti civili con la medesima o altra persona. La Chiesa poi, a ovviare la possibilità che chi abbia contratto solo religiosamente possa poi contrarre altro M. civile, non consente di regola che sa celebrato M. religioso senza effetti civili.

2. La trascrizione: natura giuridica, requisiti, forme. – Affinché il M. religioso cattolico abbia effetti civili, è necessario che sia trascritto nei registri dello stato civile. Questa trascrizione, dice la relazione ministeriale per la legge applicativa, « non è una semplice registrazione probatoria, ma costituisce l’atto essenziale per l’attribuzione degli effetti civili, giacché in mancanza di trascrizione di M. canonico rimarrebbe puramente un atto religioso e a nulla varrebbe provarne la celebrazione »: però, una volta effettuata, la trascrizione retroagisce al momento della celebrazione. Essa deve pertanto considerarsi come la formalità al cui adempimento la legge subordina la produzione degli effetti giuridici civili del M. canonico; essa funziona non come atto autonomo ma ma come condicio iuris, al cui verificarsi il M. canonico produce, fin dalla sua celebrazione, gli effetti medesimi del M. civile.La legge, pur lasciando, in coformità all’art. 34 del Concordato, che i requisiti per l’esistenza e la validità di questo M. religioso siano regolati dal diritto canonico e sottoposti all’esclusivo apprezzamento dell’autorità ecclesiastica, stabilisce però delle norme, la cui osservanza è indispensabile affinché possa addivenire alla trascrizione. Perché dunque un M. canonico possa essere validamente trascritto, o possa, se comunque trascritto, conseguire e mantenere gli effetti civili della trascrizione, si richiede: a) che sia stato celebrato alla presenza di un ministro del culto cattolico (ma sulla assoluta necessità di questo requisito e pertanto sulla non trascriivibilità del M. contratto coram solis testibus, si discute); b) che non ricorra uno dei tre casi seguenti: 1) che anche una sola delle persone unite in M. risulti legata da altro M. valido agli effetti civili; 2) che le persone unite in M. risultino già legate tra loro da M. valido agli effetti civili; 3) che il M. sia stato contratto da un interdetto per infermità di mente. Soddisfatte tali condizioni il M. religioso deve essere trascritto, indipendentemente dalla sussistenza o meno delle altre condizioni di esistenza o validità prevista dalla legge per i M. civili, su cui quindi ogni indagine resta preclusa. Naturalmente viene anche esclusa, in sede di trascrizione, ogni indagine sulla sussistenza o meno do impedimenti o di altre cause di nullità canoniche. Questo ultimo accertamento spetta invero all’autorità religiosa competente, che deve procedervi di regola prima della celebrazione. Poiché l’art. 34 richiede che subito dopo la celebrazione il parroco illustri ai coniugi gli effetti civili del M. dando lettura degli articoli del Codice civile relativi ai doveri dei coniugi, si è chiesto se anche qui si tratti di condizione sine qua non per la trascrizione; ma non sembra debba rispondersi affermativamente, a meno che in qualche caso particolare, la mancanza di tale lettura risulti determinata dalla espressa intenzione di escludere gli effetti civili del M.In relazione all’art. 34 del Concordato, il quale dispone che le pubblicazioni del M. siano effettuate oltre che nella chiesa parrocchiale anche nella casa comunale, la legge applicativa (artt. 6-7) ha dettato in proposito varie norme per la richiesta e l’esecuzione di tali pubblicazioni, l’osservanza delle quali, e conseguente rilascio da parte dell’ufficiale dello stato civile di un certificato attestante che nulla gli risulti ostare alla celebrazione, costituisce il curriculum preliminare normale da seguire per la celebrazione di un M. religioso destinato ad essere scritto, e che ne assicura a priori la trascrizione entro ventiquattro ore dalla comunicazione dell’atto di M. all’ufficiale di stato civile.

3. Trascrizione tardiva. – Se peraltro questa procedura normale non sia stata seguita, la trascrizione può ottenersi ugualmente, ma previo accertamento (per cui la legge detta norme apposite) che non esista una delle tre circostanze sopra ricordate, la cui assenza costituisce condizione indispensabile per una valida trascrizione (art. 12). – La trasmissione dell’atto di M. religioso all’ufficiale dello stato civile per la trascrizione, è, a tenore dell’Istruzione della S. Congregazione dei Sacramenti, di regola obbligatoria, e il parroco deve procedervi d’ufficio entro cinque giorni, anche indipendentemente dalla volontà dei contraenti, salve determinate eccezioni consentite dalla Chiesa. – Qualora però, anche all’infuori di tali eccezioni consentite, la trascrizione sia stata omessa per un’altra qualunque ragione, la legge ammette che possa venire effettuata successivamente in ogni tempo, e non soltanto a richiesta delle parti, ma di chiunque vi abbia interesse. Questo sempre che le condizioni stabilite dalla legge sussistessero al momento della celebrazione del M., e non siano venute meno successivamente. Peraltro, qualora la trascrizione richiesta trascorsi i cinque giorni dalla celebrazione, essa non pregiudica i diritti legittimamente acquisiti dai terzi (art. 14). Questa tardiva trascrizione può essere richiesta anche nel caso in cui il M. religioso non fosse stato trascritto perché contratto da un interdetto per infermità di mente, se vi sia stata coabitazione per un mese dopo revocata l’interdizione (art. 14, cap. 1; cf. art. 119 cod. civ.).

4. Annullamento della trascrizione e nullità del M.La trascrizione del M., quando sia avvenuta, può essere impugnata per una delle cause menzionate nell’art. 12 della legge, e cioè le note tre circostanze che ostano in modo perentorio alla sua validità: precedente M. civilmente valido con una terza persona; M. civile fra le stesse parti; interdizione per infermità di mente (salvo il caso di coabitazione per un mese dopo la revoca dell’interdizione. A tali impugnazioni si applicano (art. 16) le disposizioni del Codice civile, ove si determina quali siano le persone legittimate ad agire per l’impugnativa del M. civile, e che potranno dunque anche promuovere l’azione per impugnare la trascrizione del M. religioso, onde ottenerne l’annullamento.Una viva questione si è dibattuta circa la possibilità di ottenere l’annullamento della trascrizione anche per cause diverse dalle tre menzionate, ed in particolare per interdizione dichiarata posteriormente alla celebrazione e trascrizione del M., o per la cosiddetta incapacità naturale prevista dall’art. 120 Cod. civ., ossia l’incapacità di intendere o di volere da parte di uno degli sposi, quantunque non interdetto all’atto del M. La tesi affermativa (a cui di fatto poteva farsi carico, tra l’altro, di aprire la via a facili frodi contro il principio della indissolubilità coniugale, specialmente se a mezzo di pronunciati di tribunali esteri), veniva giustamente respinta dalla Corte di Cassazione a sezioni unite. Effettivamente i divieti di procedere alla trascrizione e corrispondenti cause di annullamento ammessi dalla legge matrimoniale all’art. 12, costituiscono deroghe al principio generale fissato dall’art. 34 del Concordato che riconosce al M. gli effetti civili; deroghe che non possono estendersi ad altre ipotesi oltre quelle prevedute espressamente dalla legge, e per se stesse caratterizzate dal fatto che ognuna di esse prevede essenzialmente la preesistenza già accertata di un determinato stato giuridico (M. civile o dichiarazione di interdizione) ritenuto incompatibile con una trascrizione destinata a dare effetti civili a un vincolo che la legge non potrebbe ammettere. D’altra parte l’infermità mentale costituisce per sé vizio di consenso che rientra fra le cause di nullità del M. canonico, su cui sono esclusivamente competenti i tribunali ecclesiastici. –  Indipendentemente dalla esistenza o meno di motivi che rendano invalida la trascrizione perché fatta contro le norme della legge civile che regolano l’istituto, può accadere che il M. religioso dopo la sua trascrizione venga dichiarato nullo dai competenti organi di giurisdizione ecclesiastica, o sia sciolto per inconsumazione, in conformità delle norme canoniche. Per questi casi il Concordato e la legge dettano le norme da seguire perché i relativi provvedimenti e sentenze ecclesiastiche divengano esecutivi agli effetti civili. Tali provvedimenti o sentenze, resi esecutivi, vanno annotati in margine all’atto di M. (art. 17 u. p.), del quale ultimo cessano pertanto tutti gli effetti civili; retroattivamente, cioè dal momento della celebrazione, nel caso di dichiarazione di nullità, e dalla data dello scioglimento, nel caso di dispensa del M. rato e non consumato. In entrambe le ipotesi, e cioè quella in cui sia annullata la trascrizione per inosservanza delle norme della legge civile, e quella in cui sia resa esecutiva una sentenza ecclesiastica dichiarativa di nullità del M. religioso, quando il M. sia stato contratto in buona fede, esso produce nei riguardi dei coniugi e dei figli gli effetti del M. putativo (v. oltre).

5. M. preconcordatari. – Il principio concordatario che riconosce efficacia civile al M. canonico ed alla relativa giurisdizione ecclesiastica, fu dalla legge matrimoniale esteso in parte anche ai M. anteriori. Così fu consentito che in date condizioni vengano trascritti M. celebrati con il solo rito religioso anche prima della legge 27 maggio 1929, per quanto con decorrenza degli effetti civili dal giorno della trascrizione e non da quello della celebrazione (art. 21). D’altra parte fu ammesso per i M. contratti con il doppio rito, civile e religioso, prima del Concordato, che la pronunzia di nullità o il provvedimento di dispensa per inconsumazione del M. religioso producano, in determinate circostanze, il loro effetto anche riguardo al M. civile contratto fra le stesse persone (art. 22).

6. Natura del riconoscimento statuale del M. canonico. — Il riconoscimento degli effetti civili al M. canonico e la relativa devoluzione alla giurisdizione ecclesiastica delle cause di nullità e di dispensa hanno dato origine a una grossa questione intorno alla figura di tale riconoscimento, ossia al titolo in base al quale le norme del diritto matrimoniale canonico spiegano la loro efficacia nell’ordinamento dello Stato. Si è domandato in particolare se per effetto della norma concordataria si sia avuta o no recezione (rinvio recettizio o materiale) del diritto matrimoniale canonico, nel diritto italiano, affermandolo alcuni e negandolo altri, che sostennero trattarsi invece di semplice rinvio formale o non recettizio. Altri poi opinano non potersi parlare neppure di rinvio formale, ma di un riconoscimento civile di leggi canoniche emesse dalla Chiesa nella sfera della propria autonomia, mentre altri ancora tentano diverse spiegazioni. Senza addentrarsi qui in tale questione, in gran parte accademica e resa particolarmente ardua dalla incertezza concettuale e terminologica delle nozioni di partenza, importa però rilevare che il riconoscimento dell’efficacia giuridica nell’ordinamento italiano all’ordinamento matrimoniale canonico, comunque lo si voglia qualificare o classificare, non può, per la lettera e lo spirito chiarissimi della disposizione concordataria, intendersi limitato alle norme canoniche vigenti al momento in cui fu attuato quel riconoscimento, ma si riferisce al diritto canonico come sistema autonomo, nella realtà del momento storico e nelle possibilità di sviluppo futuro, cioè quale è e quale potrebbe essere modificato in seguito dal legislatore ecclesiastico.

III. SECONDE NOZZE

Sono quelle contratte dopo che sia stato sciolto il vincolo del M. precedente, anche, se in ordine di tempo, sono le terze, le quarte od ulteriori. A tale proposito si parla ancora di poliandria o poligamia successiva e, secondo il numero delle mogli precedenti, di bigamia, trigamia ecc. Il diritto divino ed ecclesiastico danno come valide e lecite le seconde nozze, purché il vincolo del primo M. sia stato sciolto con certezza. Sorsero tuttavia discussioni e si ebbero contrasti tra la disciplina della Chiesa latina ed orientale.

Note storiche. – L’insegnamento di Gesù tace su questo punto, ma l’apostolo Paolo è esplicito sulla liceità delle seconde nozze, poiché il vincolo matrimoniale si scioglie con la morte del coniuge (Rom. VII,3; 1 Cor. VII, 39). Pur lodando quindi, come stato di vita più perfetto, una casta vedovanza, non la impone (1 Cor.VII, 8); anzi alle vedove giovani consiglia di nuovo il M. (1 Tim. 5, 14). E solo nel candidato all’episcopato esige, per ragioni diverse, che sia « unius uxoris vir » (Tit. I . 5-7; l Tim. 3,3). Perfettamente aderente all’insegnamento dell’Apostolo è Il pastore di Erma, che scrive a Roma circa un secolo dopo (Mand. 4, 4, 1a ed. F. X . Funck, Patres Apostolici, I, Tubinga 1901, p. 480). Ma già pochi anni appresso (ca. 177), in Oriente, Atenagora chiama le seconde nozze «un decoroso adulterio « (Legatio, 33: PG 6, 967). Seno evidenti due tendenze, una più benigna, l’altra più rigida”. Questa ultima si formò nel seno della tradizione cattolica, fuori dei movimenti ereticali, per una esagerata interpretazione dell’unitas carnis e del simbolismo del M., come figura dell’unione di Cristo con la Chiesa, predicato da S. Paolo {Eph., 5, 23-32). – Nella tradizione occorre distinguere tra Oriente ed Occidente e nell’Oriente stesso tra l’atteggiamento dottrinale dei Padri e la legislazione ecclesiastica in materia. I concili greci della prima antichità non vietano le seconde nozze, pur sottomettendo i bigami ad una penitenza di una certa durata, forse per conservare una qualche convenienza esteriore e per dare soddisfazione alla corrente più rigida. Questa è formata da alcuni Padri che per le ragioni predette, e nello sforzo di tendere ad una più alta perfezione morale, considerano le seconde nozze come poco decorose, spingendosi, i più estremisti, fino a condannarle. Ciò in Occidente non avviene, finché si rimane nel nell’ortodossia: la condanna delle seconde nozze propria degli eretici (montanisti, novaziani etc vj. pur venendo accolti nelle collezioni canoniche e nei libri penitenziali alcuni canoni che assoggettano i bigami ecc. a penitenza. A questo proposito è significativo l’atteggiamento di Tertulliano. Nella sua opera Ad uxorem (1. I: PL 1, 1386-1400) ammette (a. 190-206) le seconde nozze, pur con delle riserve e pur esortando sua moglie a non contrarle in caso di sua morte. Nella seconda opera Exortatio castitatis (cap. 7-8 : PL 2, 970-73) la disapprovazione delle seconde nozze si accentua (a. 208-11) ma già, pure appoggiandosi su futili motivi, getta un certo discredito anche sulle prime nozze. Nel De monogamia (cap. 14: PL 2, 1000), ormai montanista [dopo il 213] condanna formalmente ogni nuovo M., ma con ragioni puerili (tutti i cristiani sono fratelli) ed anche pericolose (il M. è un minor male, da Dio tollerato soltanto). La voce di Tertulliano non è più però quella della tradizione, che in Occidente si farà più tardi sentire con S. Ambrogio (De viduis, n , 68 ; PL 16, 267-68), con S. Girolamo (Ep. 48, 9: PL 22, 499-500), con s. Agostino specialmente (De hono viduitatis, 12, 15: PL 50, 439), con Papa Gelasio (Ep. 14, cap. 22: PL 69, 49), tutti favorevoli alle seconde nozze, anche se queste sono dette: Solatio  miseriæ… non laudes continentiæ (s. Girolamo, Ep. 48, 18 PL 22, 508). – I Concili d’Occidente, tenuti ad Elvira (ca. I ad Arles (a. 314) ed a Vaison (a. 442) non parlano di seconde nozze. Solo il Concilio di Orange (a. 441), ha un accenno che non è di riprovazione (can. 25). In Oriente pure non mancano dei Padri che ritengono del tutto lecite le seconde nozze. Così Clemente Alessandrino (Stromata, 3, 12: PG 8, 1186 sgg.), così Epifanio (Adversus hæreses, 59, 4: PG. 41, 1024-25). Ma la corrente rigorista trova eco specialmente tra i Cappadoci e si fa  forte della loro autorità. S. Basilio, che chiama la trigamia col nome di fornicazione, sottopone a vari gradi di penitenza i bigami ed i trigami (Ep. can. 1°, can.4: PG 32, 673). S. Gregorio di Nazianzo si spinge a dire che le seconde nozze dopo la morte del coniuge sono semplicemente tollerate e che le terze nozze, nel medesimo caso, sono una iniquitas, o colpa (Orat., XXXVII, 7, 8: PG 36, 292). – Questa contrarietà per le seconde nozze propriamente dette, non si protrarrà oltre il sec. IV. Già s. Giovanni Crisostomo si limita a sconsigliare solo le seconde nozze (In Mt., Hom. XVII, 4: P G 57, 259-60), ma si continuerà a considerare illecite la trigamia e la tetragamia. Nella legislazione canonica orientale il Concilio di Ancira (a. 314) ha solo un accenno all’anno di penitenza prescritto ai bigami (can. 19). Simili accenni si hanno ancora nel Concilio di Neocesarea (aa. 214-25), cann. 3,7; nel Concilio di Laodicea (aa. 343-81), can. 1. Ma la penitenza è ristretta ad un periodo breve e non è condanna assoluta. Tanto è vero che già il Concilio Niceno (a. 325) esige nella ritrattazione dei catari (novaziani) 1’ammissione della liceità delle seconde nozze (can. 18 : Denz-U, 55). |Questa tendenza a considerare i bigami, trigarmi, etc.  come penitenti passò nei Penitenziali, in uso anche nell’Occidente, tanto che se ne ha traccia anche nel Decretum di Burcardo (tit. 23, cap. 2). – Ma già in questo stesso periodo i Romani Pontefici nella causa (aa. 907-20) dell’imperatore d’Oriente Leone VI, rimproverato dai Greci per le sue quarte nozze, prendono parte per lui. E non si lasciano indurre a porre un limite al diritto di contrarre successivamente nozze, mentre in Oriente vengono condannate formalmente le quarte nozze e guardate con disfavore anche le terze nozze (A. Fliche-V. Martin, Hist. de l’Eglise, VII, s. 1. 1948, p. 119 sgg.). Controversie del genere si ebbero successivamente nella Chiesa russa e serba, ormai fuori dell’unità, ma la questione della tetragamia non fu mai presa in| considerazione a Roma, se non nei momenti di riunione con i dissidenti ( M . Jugie, Theologia dogmatica Christianorum  orientalium, II, Parigi 1930, p. 468 sgg.). – Fin dal tempo di Graziano in Occidente, pur non ignorandosi gli antichi canoni (c. 7, 10, C. 31), nessuno pensava più ad applicare i canoni penitenziali relativi ai poligami successivi, e !a Glossa interpretava il can. 3 del Concilio di Neocesarea, che imponeva la penitenza ai bigami, come se si trattasse di bigamia contemporanea (Glossa ad 7, C31). – Quasi contemporaneamente nella professione di fede, imposta da Innocenzo III ai Valdesi (ep. Eius exemplis, 18 dic. 1208) è comandato di asserire « nec etiam secunda et ulteriora matrimonia condemnamus » (Denz-U, 424). La stessa professione è sottoposta ai Greci da Innocenzo IV (Cap. sub catholicæ del 6 marzo 1254, § 3, n. 20: Denz-U, 455), a Michele Paleologo nel II Concilio di Lione (Ecumenico XIV) del 1274 (Denz-U, 465, la versione greca però ricorda solo le seconde e le terze nozze: M. Jugie, op. cit. II, p. 469), nel libello Iam dudum (n. 49) trasmesso agli Armeni nell’anno 1341 da Benedetto XII (Denz. – U, 541) e di nuovo a questi nel Decretum prò Armenis (Mansi 31, 1054). Però come la Chiesa orientale a coloro che contrevano le seconde nozze negava la « coronazione » (cf. Jugie, op. cit., II, p. 467), così la Chiesa occidentale negò agli stessi la solenne benedizione (Nicolò I, Resp. Ad cons. Bulg., a. 866, n. 3: PL 119, 979). Questa prassi fu però modificata nel senso che, se la donna era al suo primo matrimonio, anche se il marito era vedovo, non si negava la benedizione. Ciò viene attestato già da Bernardo di Pavia (Stimma decretalìum, ed. E. A. T. Laspeyres, Ratisbona 1861, p. 194) e dalla Glossa alle Decretali Gregoriane (ad c. 3, X , 4, 21) ed è ancora oggi da osservarsi, se in uso nella regione (Rituale Romanum, VII, c. 1, n. 18). – La Chiesa stessa non acettò nel diritto comune (per il diritto particolare, cf., ad es., il Pœnitentiale Theodori [Pseudo-Teodoro], 1. II, cap. 12, § 9) l’impedimento del tempus lugendi, introdotto dalle leggi romane, ed accettato con modifiche in molte legislazioni odierne.

Disciplina attuale. – È la stessa enunciata da S. Paolo e riaffermata ancora nel Concilio Tridentino ( Sess. XXVI, can. 10): è preferibile una casta vedovanza, sono lecite però le seconde nozze (can. 1142); prima di contrarle è da rimuovere ogni possibile dubbio sulla cessazione del primo vincolo (cann. 1142, 1069 § 2). – La Chiesa non prescrive nessun intervallo di tempo tra la cessazione del M. precedente e la celebrazione del susseguente; raccomanda però di osservare le consuetudini ed i costumi del luogo. In Italia per il Concordato non è lecito senza la licenza dell’ordinario ammettere la vedova al M. prima dei dieci mesi o del parto (istr. della S. Congr. dei S acramenti, 1 luglio 1929). Come si è detto, è proibito dare la benedizione alla vedova che contrae nuove nozze (can. 1143, Rituale Romanum, tit. VII, c.1, n. 18).

M . DI COSCIENZA.

Il M. di coscienza od occulto, detto alle volte anche meno perfetto (in rapporto alle formalità esterne), è quello che si contrae con l’omissione delle pubblicazioni, dinanzi a testimoni ed al proprio parroco o ad un sacerdote delegato dall’ordinario, i quali tutti sono tenuti all’obbligo del segreto, finché non cesserà il motivo di questo stesso segreto. Non è quindi da confondersi con il M. clandestino (v. sopra), contratto senza la presenza de1 parroco e dei due testi, oggi possibile solo per gli acattolici. – La nozione esatta circa tali M. si deve ricercare nelle opere di Benedetto XIV, al tempo del quale erano venuti molto in uso, mentre prima vi era stato appena qualche indizio, come lo stesso affermò in un suo voto, scritto quando per la prima volta la cosa fu proposta alla S. Congregazione del Concilio. Le discussioni che allora si tennero sull’argomento persuasero a differire il giudizio circa i requisiti per compiere lecitamente tali M. (cf. Benedetto XIV, De Synodo dioecesana, 13, 23, n. 2, in Opera omnia, XI, Prato 1844, p. 654). Elevato al soglio pontificio, Benedetto XIV, con la sua cost. Satis vobis del 27 nov. 1751 (ibid., XV, ivi 1845, pp. 113-16), espose chiaramente lo stato della questione e prescrisse con la consueta precisione le norme da osservare in pratica. – Anche oggi vige la stessa legislazione, perché i principi sono passati dalla costituzione al CIC (cann. 1004-1007). Prima di tutto non è consentito ad alcuno di celebrare il M. in questo modo, senza il permesso dell’Ordinario del luogo, escluso anche il vicario generale senza mandato speciale (can. 1104) . L’Ordinario deve usare di questa facoltà soltanto quando vi sono motivi gravissimi ed  urgentissimi. La ragione di questa disposizione è ben chiara, se si rifletta che con questa specie di M. possono riaffiorare i pericoli che portarono i l Tridentino a dichiarare nulle le nozze clandestine. – A questi inconvenienti oggi se ne aggiungono altri per opera delle leggi civili circa la validità delle nozze e la legittimità della prole. Ma insieme l’età presente, pur rendendo soggetto il M. di coscienza a nuovi pericoli, ha anche causato nuove situazioni, in cui questo appare necessario. Perciò i l CIC non ha voluto né l’abolizione del M. di coscienza né la sua eccessiva facilitazione, ma concessioni rare e motivate; esige cioè che vi siano motivi tali per cui il M. non può essere omesso o ritardato, né si può celebrare pubblicamente. – Quali siano poi in concreto i motivi sufficienti, è proprio il nocciolo della questione e fonte di tante difficoltà. Il nuovo legislatore tace in proposito. Secondo la dottrina di Benedetto XIV un motivo si ha nel caso in cui l’uomo e la donna vivano pubblicamente in veste di vero M., senza che vi sia alcun sospetto di delitto, mentre in realtà vivono in occulto concubinato (cost. Satis vobis, n. 6). L a maggior parte dei moderni contesta però che in questo caso si tratti di un vero M. di coscienza; infatti lo stato matrimoniale (matrimonium in facto esse) di questi coniugi non è affatto occulto. L’atto però (matrimonium in fieri) con cui questo M. viene celebrato, rimane segreto e tale deve rimanere, per non ledere la fama dei coniugi, e per evitare lo scandalo del popolo. E sotto questo aspetto tale M. si dice di coscienza. – I moderni canonisti elencano altri motivi che si possono stimare sufficienti per un M. di coscienza. Così, ad es., il caso del militare impedito di sposare la donna, con cui già è legato da affetto maritale e con cui intende continuare a convivere e dalla quale ha avuto figli, perché essa è priva di dote. Così si deve dire del figlio di famiglia, che si trova nella stessa situazione, mentre i parenti, senza ragione, ostacolano i suoi desideri. Ma molto in ciò dipende dai costumi dei diversi luoghi e dalle opinioni vigenti. Perciò la necessità di una valutazione esatta della condizione dei pretendenti sposi, del loro carattere, della disposizione degli animi, dei costumi del luogo e dell’intera situazione; occorre soprattutto tener presente se tra di loro vi sia già stata una comunione di vita, da cui solo con grave scapito si possa recedere. – In genere occorre che i motivi, che richiedono il M. di coscienza, siano transitori, specialmente quando già vi è la prole o vi sarà probabilmente; altrimenti si aumentano le difficoltà. Il permesso del M. di coscienza importa per se stesso l’obbligo del segreto in tutti i partecipanti e nei successori stessi del sacerdote assistente e dell’Ordinario (can. 1105). L’obbligo del segreto cessa da parte di questo ultimo, quando si delineasse un grave scandalo, in mezzo ai fedeli, che, non conoscendo la celebrazione del M., vedessero i due trattarsi ed agire come veri coniugi. Cessa pure con il verificarsi di una grave ingiuria contro la santità del M., con l’attentato, p. es., da parte di uno dei due coniugi, o di ambedue, di un nuovo M.; oppure se i genitori non si curassero di far battezzare i figli o li facessero battezzare sotto falsi nomi, senza che l’Ordinario entro trenta giorni abbia notizia della prole avutae battezzata con il vero nome dei genitori, o trascurassero la cristiana educazione dei figliuoli (can. 1106). Veramente il CIC non parla di una speciale promessa da emettersi dai contraenti in questo senso; ma oltre ad essere ciò espresso chiaramente da Benedetto XIV, che è la fonte del CIC, la natura stessa della cosa esige che conoscano ed accettino tutti gli oneri annessi e connessi con la grazia loro concessa. I coniugi poi possono in qualsiasi tempo, ma sempre di comune accordo, render noto il loro M., poiché il segreto si conserva unicamente in loro favore. Infine il M. di coscienza non si deve annotare nel solito libro dei M. e dei battezzati, ma in un libro speciale da conservarsi nell’Archivio segreto della Curia (cann. 1107, 379). [Pietro Palazzini]

M. MORGANATICO

Il nome di M. morganatico deriva probabilmente dalla parola morgengabe oppure da morgangeba, che era il dono dato dal marito alla moglie dopo la prima notte di nozze, quasi pretìum pudicitiæ, o, secondo altri, come segno della consumazione del M.: nel M. morganatico, infatti, la moglie e la prole non venivano a partecipare dei beni e della dignità rispettivamente del marito o del padre, se non in piccola parte, a modo del cosiddetto dono mattutino, ad instar solius doni mattutini. Altri derivano la voce dal gotico morgjan (=restringere), o dal tedesco morgen (nel qual caso il M. del mattino sarebbe contrapposto a quello solenne del pieno giorno); o dalla dizione à la fée morgane, etimologia quest’ultima molto discutibile e non controllata. – Si dice morganatico il M. contratto tra un uomo di stirpe nobilissima o regia ed una donna di umili origini, con la condizione che, mentre il M. è di pieno diritto davanti alla Chiesa, nel campo civile la moglie viene esclusa dal partecipare alla dignità del marito, ed i figli da tutte le onorificenze e titoli, nonché, almeno in parte, dalla successione dei beni paterni. È detto anche disparagio (M. tra non uguali), in opposizione a M . aparagio (cioè tra pari); M. ad sinistrarli manum o ad legem salicam. Da quanto si è detto, è chiaro che l’esistenza del M. morganatico dipende completamente dalla legge, secondo cioè che, nei vari paesi, sia conosciuta o meno la distinzione, con differenti effetti, tra i M. comuni e quelli contratti dai vari nobili con donne di inferiore origine. – Il M. morganatico è d’origine barbarica; tracce infatti se ne trovano nella legislazione longobarda sotto Liutprando (Leges Langobardorum, tit. V , cap. 1) e nelle usanze feudali (Liber de usibus feudorum, 1. II, tit. 29). La legge salica ribadisce le usanze feudali (tit. XLVI, sect. IV) e così il Codex Friderici (parte Ia, lib. II, tit. III, art. 3). L’Austria e la Germania sono state, si può dire, le terre classiche di simili M.: di là consuetudini e leggi si irradiarono nel resto d’Europa (cf. la legislazione sabauda del sec. XVIII: A. Pertile, Storia del diritto italiano, III, Torino 1894, p. 290, nota 27). Dell’ultimo secolo si ricordano in Austria i M. di Maria Luisa, figlia di Francesco I e vedova di Napoleone I, che sposò il conte di Neipperg; quello dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria, figlio di Ferdinando, fratello dell’imperatore Francesco Giuseppe con la contessa Sofia Chotek di Chotkiowa. In Germania si ricorda il M. del principe Alberto, fratello dell’imperatore Guglielmo, con la contessa Rosalia Hohenau de Ranche; nella Russia zarista quello del granduca Michele Michailovitch, cugino dello zar Nicola II, con la contessa Sofia Marenberg-Torby. In Francia si ha il caso celebre del M. di Luigi XIV con Madame de Maintenon; ma la legislazione francese fu sempre ostile al M. morganatico. Anche nella casa di Savoia si ricordano M. morganatici, come quello di Vittorio Emanuele II con la contessa di Mirafiori Rosa Vercellana e del principe Eugenio di Carignano-Savoia con la contessa di Villafranca-Soissons, Felicita Crosio. – Al M. morganatico si attengono ormai solo le case sovrane o le famiglie dell’alta nobiltà ad esse uguagliate con l’atto imperiale dell’8 giugno 1818, la decisione federale del 19 giugno 1825 e gli atti del Congresso di Aixla-Chapelle. Gli attuali ordinamenti (cf. Codice civile italiano, francese ecc.) sono contrari al M. morganatico, che va scomparendo. Il Codice germanico lo ammette per alcune famiglie. Nel fòro ecclesiastico il M. morganatico è considerato come un qualsiasi altro M. e produce tutti gli effetti canonici: le restrizioni riguardano solo gli effetti civili. Per quanto riguarda il diritto canonico bisogna ben guardarsi dal confondere il M. morganatico con il M. di coscienza (v. sopra), sebbene alle volte convengano assieme. La distinzione infatti da una parte appare dal fatto che il M. morganatico può essere celebrato apertamente e pubblicamente, con la consueta solennità e concorso di popolo; e questo fa sì che il M. di coscienza non è morganatico, se l’uomo non appartiene, p. es., alla nobiltà di un certo determinato grado, al quale la legge civile applica la speciale disposizione circa i M. morganatici, oppure se nel codice civile da cui dipende non è ammessa la distinzione tra M. morganatico e gli altri, e perciò non vengono stabiliti diversi effetti civili. D’altra parte nei luoghi, dove il M. morganatico è riconosciuto dalla legge civile, alle volte esso coincide con il M. di coscienza. Infatti spesso avviene che il M. morganatico sia celebrato come quello di coscienza, poiché le ragioni per occultare le nozze intervengono più facilmente nelle famiglie dei grandi e dei prìncipi. [Pietro Palazzini]