IL PECCATO ORIGINALE (3)

C.— LE CONCEZIONI DELL’ANTICO ORIENTE

40. — Una rassegna delle concezioni dell’antico Oriente, portando il lettore a rintracciare eventuali affinità o divergenze di concetto o di linguaggio, lo mette in grado di meglio valutare il testo sacro, inquadrato nell’ambiente in cui vide la luce e di fissarne con maggior esattezza il genere letterario. Dovunque gli uomini hanno portato la loro riflessione sulle tristi condizioni della vita umana, si sono posti due domande: « È sempre stato così? Perché è così? ». Alla prima di queste due domande rispondono le tradizioni di un’era primitiva di felicità, di cui è classico esempio l’età dell’oro descritta da Esiodo ne « Le opere e i giorni » (vv.109-126). Anche alcuni documenti dell’antico Oriente parlano di una età remota in cui la vita era diversa da quella attuale, senza tuttavia presentarla come particolarmente felice e desiderabile:

« In Dilmun il corvo non ancora gracchiava,

il nibbio non emetteva il suo grido.

Il leone non colpiva a morte,

lo sciacallo non rapiva gli agnelli…

L’occhio malato non diceva: io sono un occhio malato,

il capo malato non diceva: io sono un capo malato…

L’ispettore dei canali non ancora comandava di dragare,

il sorvegliante non ancora si aggirava nel suo distretto.

Il potente non imponeva lavori gravosi,

nel distretto della città non risuonavano grida di lamento »

(G. RINALDI, Il mito sumerico di « Enki e Ninhursag in Dilmum », e Gen. 2-3, Scuola Catt. 76 (1948) 36-50. — M. WITZEL, Texte zum Studium Sumerischer Tempel und Kultzentren, Roma, 1932, 9-11).

Precisamente queste espressioni del poema sumerico En-eba-am possono indurre il lettore a credere che vi si tratti di una specie di paradiso terrestre. In realtà il senso di questo e simili testi è ben diverso: è la quiete uniforme e sterile di una vita senza civiltà. È segnalata l’assenza di alcuni inconvenienti della civiltà, per descrivere la non esistenza della civiltà stessa, la quale dal contesto (Cfr. il poema sulla fondazione di Eridu, ibid. p. 38 ss.) è presentata come dono divino e sommamente desiderabile. Dunque nessuna vera età dell’oro è segnalata nei documenti più vicini alla letteratura israelitica. Quanto alla seconda delle domande surriferite « Perché è così?» il pensiero babilonese non ha che una risposta: «Gli dei hanno voluto così: il destino dell’uomo è ineluttabile ». Una nebbia triste di pessimismo avvolge tutta la concezione babilonese sul destino dell’uomo.C’è tutto un poema che sembra destinato principalmente a tradurre in forma plastica l’aspirazione dell’uomo verso una vita che non finisca mai, è il famoso poema di Ghilgamesh. Questo eroe, considerato dalla tradizione sumerica come quinto re di Uruk dopo il diluvio, compie grandi imprese con l’amico Enkidu. Senonchè Enkidu viene a morire. Di fronte al cadavere dell’ amico, Ghilgamesh non sa capacitarsi dell’ ineluttabilità della morte:

« Enkidu, l’amico mio che amavo, è diventato simile al fango

ed io, non mi coricherò come lui? Non mi rialzerò mai più? ».

Ed allora intraprende un lungo viaggio, per dove nessun mortale è mai passato, in cerca del suo antenato Ut-napishtim, il Noè babilonese, che dopo il diluvio era stato divinizzato. La moglie di Ut-napishtim, da lui finalmente trovato, intercede per il povero Ghilgamesh, ma si sente rispondere:

« E’ cattiva l’umanità, ti farà del male! ».

Tuttavia, Ut-napishtim prima di congedare l’eroe gli indica la « pianta della vita » che quello riesce a strappare dal fondo del mare:

« Ghilgamesh disse a Ur-shanabi, il battelliere:

Ur-shanabi, questa pianta è una pianta famosa,

grazie a cui l’uomo riottiene il suo soffio di vita.

L a porterò entro le mura di Uruk e ne farò mangiare,

distribuirò la pianta!

Il suo nome è: il vecchio diventa giovane;

Io ne mangerò e ritornerò allo stato della mia giovinezza… ».

Ma la gioia dell’eroe dura poco: durante il viaggio di ritorno

« Ghilgamesh vide un pozzo la cui acqua era fresca;

vi discese dentro e si lavò con l’acqua.

Un serpente sentì l’odore della pianta,

… salì e portò via la pianta…

Allora Ghilgamesh si siede e piange

sulla sua guancia scorrono le sue lacrime… » .

La conclusione è questa: la vita è irraggiungibile, se neppure Ghilgamesh ha potuto riuscire. E in un frammento del poema scritto al tempo di Hammurapi (sec. XVIII a. C.) troviamo tale conclusione espressa in termini assai espliciti: è il risultato delle indagini filosofiche dell’antico Oriente:

« O Ghilgamesh, perchè corri da ogni parte?

La vita che tu cerchi, non la troverai!

Quando gli Dei crearono l’umanità,

la morte posero per l’umanità,

la vita ritennero nelle loro mani.

Tu, o Ghilgamesh, riempi il tuo ventre,

giorno e notte rallegrati, tu;

ogni giorno organizza una festa.

Considera il piccolo che ti afferra la mano,

la sposa si rallegri sul tuo cuore… »

(Cit. dal P. DHORME, Choix de textes religieux assyro-babyloniens, Paris, 1907, 183-316. Cfr. J . B. PRITCHARD, O.C, p. 96 e p. 90).

Questa specie di epicureismo ha tuttavia un fondo di grande amarezza, che appare anche da un’altra composizione babilonese: il mito di Adapa (P. DHORME, O. C, p. 148-157. J. B. PRITCHARD, O. C, pp. 101-102. Si noti che Adapa non è presentato dal mito come il primo uomo: non ha niente a che fare con Adamo.). Adapa è intimo del dio Ea, il quale:

« A lui la scienza gli diede, la vita eterna non gli diede! ».

Adapa tuttavia, come Ghilgamesh, fu in procinto di avere anche la vita eterna, ma non vi riuscì. Infatti, avendo in un momento di dispetto rotte le ali al vento del sud, fu chiamato dal dio supremo Anu a rendere conto del suo operato. Ea si preoccupa del suo protetto e, temendo qualche sinistro, gli consiglia:

« Un cibo di morte ti presenteranno — non mangiare!

Acqua di morte ti presenteranno — non bere! ».

Senonchè Anu pensò che Adapa sapeva troppe cose per lasciarlo tra gli uomini:

« Perché Ea a un uomo non puro le cose del cielo e della terra ha rivelato?

un cuore ( = mente) grande gli ha posto, un nome gli ha fatto!

Noi che cosa gli faremo?

Il cibo della vita offritegli — e che egli ne mangi!

Il cibo della vita gli offrirono — ed egli non ne mangiò,

l’acqua della vita gli offrirono — ed egli non bevve… ».

Anu si meraviglia molto della cosa, ma la triste conclusione è inesorabile:

« Prendetelo e conducetelo nella sua terra ».

Notiamo che parte di questo mito fu trovato in Egitto, con le famose tavolette di El-‘Amarna (sec. XV-XIV) (Cfr. G. RICCIOTTI, La storia d’Israele, voi. I , paragr. 43-57). Ciò significa che tali concezioni non erano solo il frutto di speculazioni ristrette alla cerchia dei sapienti babilonesi, ma circa il tempo di Mosè si erano già diffuse in tutto l’Oriente, insieme con gli altri elementi culturali della civiltà mesopotamica. Al nostro scopo è interessante rilevare come in questi racconti a sfondo filosofico il pensiero non sia espresso in termini astratti, ma attraverso un linguaggio concreto, che richiama cose notissime nell’ambiente in cui vennero alla luce questi scritti: cioè: — la pianta della vita, simbolo dell’irraggiungibile vita eterna.

— la scienza in senso magico, che pure non giova a colmare l’aspirazione umana.

— il serpente, forse più come genio che presiede alla vita e alla vegetazione, che non come essere malefico.

La pianta della vita, come « simbolo letterario », appare anche al di fuori di un contesto filosofico, come puro modo di dire. Così in una lettera assira leggiamo: « Noi eravamo dei cani morti, ma il re mio signore ci ha reso la vita presentando alle nostre nari la pianta della vita » (Altri esempi nell’artic. di J . PLESSIS, Babylon et la Bible, Suppl. au Dict. de la Bible, t. I, c. 738.). Asarhaddon re dell’Assiria dice: « il mio regno sarà salutifero per la carne degli uomini quanto la pianta di vita » (Cfr. A. DEIMEL, Genesis, cc. 2-3 monumentis assyriis comparata, Verbum Domini 4 (1924) 285). In un inno religioso Marduk è celebrato come « (il donatore) della pianta di vita » (Cfr. A. DEIMEL, ibidem.).P. Deimel enumera almeno dieci raffigurazioni in ceramica o pietra di tale pianta, con accanto una divinità custode (Cfr. A. DEIMEL, O. C, p. 386-387).In conclusione nell’ambiente culturale più vicino al mondo biblico troviamo una filosofia dei destini umani, concretata in esemplificazioni atte ad inculcare l’idea dell’assoluta inanità delle aspirazioni umane ad una sorte migliore. È una visione nettamente pessimistica e sconfortata, dalla quale esula il minimo accenno ad una speranza in un avvenire migliore, quella speranza che forma invece l’epilogo di Genesi III. Così l’umano soffrire, che si condensa nella morte, oltre non avere rimedio, neanche ha una spiegazione plausibile. Non si parla affatto di una colpa dell’uomo e di un meritato castigo, sicché tutta la responsabilità della triste sorte dell’umanità ricade sugli dei. Per questo certi passi del poema di Ghilgamesh costituiscono un atto di accusa contro la divinità, per il suo comportamento nei riguardi dell’uomo.Una filosofia dunque oltreché pessimistica, oltremodo assurda e mostruosa, che il racconto biblico del peccato originale pone proprio (coincidenza casuale?) sulle labbra del « serpente » seduttore, il quale insinua precisamente alla prima donna il sospetto della gelosia e della malevolenza di Dio verso gli uomini.E fu proprio questo dubbio intorno all’amore del Signore, il primo passo verso la caduta che segnò la rovina dell’umanità. La narrazione biblica del peccato originale ci appare ora sotto una nuova luce. Anche qui c’è una filosofia sul destino umano, ma tale da risultare come un’apologia di Dio. È dunque ispirata da una concezione di Dio totalmente nuova: Dio saggio e buono non è la causa della triste sorte dell’umanità. La causa è un fatto colpevole da parte dell’uomo. Anche questa connessione con un fatto, tale da rispondere alla domanda: « Fu sempre così? » — estranea alla problematica babilonese — e all’altra: «Perché è così?», e tale da costituire il presupposto dell’attuale condizione umana, è totalmente nuova e proviene dalla Rivelazione.

D. — IL GENERE LETTERARIO DI GENESI III

40. — Dopo quanto si è detto nei paragrafi precedenti, il genere letterario di Genesi III è ormai, nelle sue linee essenziali, sufficientemente definito. – L’intenzione del narratore biblico e quindi di Dio ispiratore, nello stendere il racconto del primo peccato, è storico-dottrinale. Altrettanti fatti storici sono dunque: lo stato privilegiato dei protoparenti, elevati all’amicizia e all’intimità con Dio, atti all’immortalità corporale, immuni dalla concupiscenza e dal dolore, dotati di scienza sufficiente; la prova della loro sudditanza a Dio; la tentazione di satana; la caduta e la perdita dei privilegi; la promessa della futura redenzione; la trasmissione all’intera umanità della triste eredità.

– Questo patrimonio storico dottrinale è, come si è detto (cfr. paragr. 34), troppo chiaramente disegnato dal testo sacro e ancor più chiaramente illustrato dal Magistero della Chiesa, perché sia possibile avanzare dubbi. Ciò che è consentito porre in prudente discussione ed indagare ulteriormente, non è dunque il genere letterario del nucleo centrale del racconto sacro, ma soltanto il significato preciso dei singoli elementi della presentazione plastica e cioè: l’albero della vita, l’albero della scienza del bene e del male, il serpente tentatore, il giardino-paradiso. – La giustificazione autorevole di questo metodo esegetico e di questa distinzione, la ritroviamo nelle seguenti dichiarazioni del Segretario della P. C. B. nella lettera al Card. Suhard: « … i primi undici capitoli della Genesi … riferiscono in un linguaggio semplice e figurato, adattato alle intelligenze di un’umanità meno progredita, le verità fondamentali presupposte all’economia della salvezza e in pari tempo la descrizione popolare delle origini del genere umano e del popolo eletto » . Lo stesso pensiero è chiarito, con un richiamo alla prudenza nell’applicazione, nell’Enciclica « Humani generis » (cfr. paragr. 49). Si tratta dunque nel nostro caso di precisare la portata « del linguaggio semplice e figurato, adattato alle intelligenze di un’umanità meno progredita », con cui l’autore sacro ha narrato il fatto storico del peccato originale.

Al riguardo osserviamo:

a) Il racconto biblico, interpretato a dovere, nulla contiene di fiabesco o d’infantile e quindi di storicamente inaccettabile. – I dettagli della narrazione vanno intesi cioè, com’è logico, alla luce delle idee dottrinali che effettivamente vogliono esprimere e che formano la trama più profonda del grande dramma. Né l’albero della vita, né quello della scienza, né il serpente tentatore, né il giardino-paradiso risultano per se, come tosto vedremo, elementi inverosimili, tali da esigere che dal senso letterale-proprio si passi a quello metaforico.

b) Le ragioni che potrebbero suggerire questo passaggio sono soltanto di carattere letterario e riguardano soltanto la forma e non il contenuto. Cioè in concreto si tratta di constatare eventuali affinità tra le espressioni (tra i concetti già abbiamo rilevato non ne esistono) usate nel testo sacro e analoghe formule, fatti o idee correnti nell’antico Oriente, capaci di suggerire all’agiografo un racconto e un linguaggio figurato di quel tipo.

c) Al punto attuale delle ricerche non si dispone ancora di dati sufficienti, tali da permettere conclusioni solidamente probabili sul preciso genere letterario dei dettagli di Genesi III, quali ad es. invece risultano per il racconto della creazione di Genesi Passiamo ora in rassegna i singoli particolari.

1. — L’albero della vita

41. — Nulla, ripetiamo, per sé si oppone alla piena storicità di questo dettaglio. Infatti, come Dio ha dato al cibo comune la possibilità di reintegrare nell’uomo le energie, sopperendo alla consunzione quotidiana dell’organismo umano, nulla vieta di pensare che l’onnipotenza divina abbia conferito al frutto di una pianta una virtù preternaturale, sì da renderlo un cibo capace di strappare perennemente l’uomo alla morte. Nessuna assurdità in tutto questo, sicché un atteggiamento negativo sarebbe un preconcetto aprioristico. Non ha Dio, in un altro ordine di realtà, s’intende, affidato ad elementi altrettanto modesti e caduchi (vino, pane, acqua, olio), il potere di conferire nel rito sacramentale, addirittura la vita eterna? Ci sono tuttavia indizi di carattere letterario che suggeriscono una certa cautela nell’interpretazione strettamente letterale del testo sacro. Dai rilievi del paragr. 39 risulta che nell’antico Oriente l’idea di immortalità è spesso, con sfumature diverse, concretamente tradotta coll’espressione: pianta di vita, erba di vita. – Non è impossibile che questa concezione dell’antico Oriente abbia suggerito all’autore ispirato di tradurre in un simbolo letterario strutturato con elementi a tutti noti, un fatto storico ed un concetto a tutti ignoto: poter vivere sempre! Mentre Ghilgamesh insegue inutilmente la pianta di vita (e ciò significa: questa è una speranza chimerica, perché gli dei non vogliono che gli uomini abbiano questo dono) il primo uomo ebbe a sua disposizione il famoso albero della vita; ciò che significa: Dio non fu geloso dell’immortalità, ha dato all’uomo di poter vivere sempre (L’immagine dell’albero della vita ritorna ancora come simbolo letterario nei seguenti passi biblici: Prov. III, 18; XI, 3 0; XIII, 12; XV, 4; Apoc. II, 7 ; XXII, 2 ; XXII, 14).Ma dopo il peccato il grande dono ritorna ancora una volta una chimera : « i Cherubini e la fiamma della spada guizzante » (v. 24) precludono ormai per sempre l’accesso alla pianta della vita. Stando al tenore del testo originale, non sembra si debba pensare a Cherubini armati di spada, ma piuttosto a due soggetti ben distinti e autonomi: i Cherubini da una parte e « la fiamma della spada » dall’altra.L’ambiente mesopotamico offre riscontri assai significativi. I Cherubini richiamano, nel nome e nel compito, i kàribu assirobabilonesi, che, raffigurati come leoni o tori alati con testa umana, venivano posti come custodi all’ingresso dei palazzi, scolpiti su colossali blocchi di pietra (Cfr. DHORME et VINCENT, Lei Cherubins, Revue Bibl. 35 (1936) 328 ss., 481 ss.). Un testo pubblicato da Thureau-Dangin sembra portare un po’ di luce anche per l’identificazione « della fiamma della spada guizzante » , rimasta per lungo tempo un elemento piuttosto enigmatico. Circa il 1100 il re Tiglat-Pileser I dichiara riguardo a una città conquistata: « ho fatto un fulmine di bronzo e ho scritto sopra il bottino conquistato coll’aiuto del mio dio Assur; vi ho pure scritto sopra la proibizione di occupare la città e di ricostruirla. In quel luogo ho edificato una casa e vi ho posto sopra il fulmine di bronzo » (Cfr. F. CEUPPENS, Quæstiones selectæ ex historia primaeva, II ediz. Torino 1948, p. 225.). – Veramente, come nota Heinisch (Das Buch Genesis, Bonn 1930, p. 131), il testo biblico non parla di « fulmine » , ma di « spada »; ci sembra però che tra i due oggetti sussista una notevole affinità. Date queste analogie, il P. Ceuppens (O. c., p. 226) ammette in forma dubitativa che, sia i Cherubini, sia « la fiamma della spada », possano considerarsi dei simboli, introdotti ad indicare in forma plastica la proibizione di accedere al paradiso e all’albero della vita.

6.L’albero della scienza del bene e del male

42. — Nel paragr. 35 abbiamo concluso che « scienza del bene e del male » è sinonimo di « onniscienza » È dunque chiaro l’obiettivo della tentazione e del peccato dei progenitori. Anche in questo caso, di per sé, nessuna ripugnanza che l’oggetto della fede e della soggezione a Dio si potesse concretare nell’astensione da un frutto, il quale è chiamato « della scienza del bene e del male » in quanto il non mangiarne o il mangiarne implica da parte dell’uomo l’accettazione dei propri limiti, o il tentativo di superarli. Anzi, quanto più è arbitrario l’atto di ossequio richiesto da Dio, tanto più è effetto e indizio di fede l’ossequio stesso. Notiamo tuttavia come la relazione così concepita tra la « scienza » e « l’albero » risulti piuttosto indiretta. L’albero si dovrebbe in tal caso denominare più propriamente « dell’ubbidienza », mentre l’autore, con ogni insistenza, lo presenta in rapporto diretto con la «scienza del bene e del male». Trattandosi di due oggetti piuttosto eterogenei: un albero reale e la scienza, non è facile pensarne in concreto la mutua relazione diretta, sicché l’interpretazione metaforica sembra presentarsi come più ovvia: « l’albero della scienza » altro non sarebbe che la scienza stessa sotto figura di un albero. Tanto più che in realtà la manducazione del frutto non diede la scienza ambita. Dio stesso constata amaramente con ironia, che, dato il contesto, è ispirata solo da compassione: « Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto al conoscere il bene e il male » (III, 23) (nota 37). Riconosciamo tuttavia che non sempre l’interpretazione più ovvia e comoda è anche la più vera e plausibile. Le ragioni di carattere letterario, tali da insinuare il senso metaforico, sono nel nostro caso assai scarse. Infatti « l’albero della conoscenza del bene e del male » pare non abbia riscontro nella letteratura mesopotamica. Si nomina tuttavia « l’albero della verità »: una divinità sumerica porta il nome di Ningish-zi-da che significa: « signore dell’albero della verità » (38). Ora non è impossibile che l’autore ispirato, pur non disponendo di alcun prototipo mesopotamico, avendo sfruttato l’immagine di un albero per concretizzare il concetto di vita eterna, per analogia e simmetria, non abbia trovato di meglio che prendere un altro albero per incarnarvi il concetto di una scienza divina. – Ancora una volta il testo sacro, con un linguaggio accessibile ai contemporanei, inculcherebbe un concetto completamente nuovo: che mentre Adapa ebbe dal suo dio protettore la scienza dei segreti del cielo, ma non la vita eterna, il primo uomo, favorito di quest’ultimo privilegio, doveva riconoscere i propri limiti, rendendo a Dio il tributo di un atto di fede.

(37) J. COPPENS, A propos d’une nouvelle version de Gen. III, 22, Ephem. Theol. Lovan. 24 (1948) 413-429; propone una nuova traduzione di questo verso: « Voici qu’Adam, comme chacun à naitre de lui, apprendra à connaitre le bien et le mal ». L’intento di Coppens, come risulta dalla citata monografia: La connaissance du bien e du mal, è di ovviare ad una difficoltà capitale contro la sua interpretazione sessuale del peccato originale; ma la nuova traduzione del v. 22 non sembra filologicamente plausibile (cfr. R . DEVAUX, Revue Bibl. 56 (1949) 303).

(38) Cfr. P. DHORME, L’arbre de la viriti et l’arbre de la vie, Revue Bibl. 7

  1. — Il serpente tentatore
  2. — Il serpente di Genesi III non è, come si è detto, un animale parlante (ciò che sarebbe inverosimile e fiabesco), ma è il Demonio. Che il Demonio, essere spirituale, per mettersi in comunicazione con l’uomo, si serva di elementi sensibili, è più che naturale. Satana poté o invasare un serpente reale e usarne come strumento o maschera, ovvero produrre nella fantasia, o sotto gli occhi della donna, un’immagine fantomatica di serpente. – Qualora rifiutassimo la verosimiglianza di questo procedimento, dovremmo pure rifiutare in blocco tutte le manifestazioni demoniache sensibili, solidamente documentate in molti casi, p. e. nelle vite dei Santi. Si pensi alle infestazioni che afflissero per tanti anni il S. Curato d’Ars. Anche se nell’Antico Oriente il serpente non figura mai come seduttore dell’uomo e istigatore alla colpa, tuttavia frequentemente è messo in relazione con la vita e la fecondità, che è considerata come suo dominio. Anche presso i Cananei, i Fenici, gli Egiziani, gli stessi Greci ha questa funzione specifica (39).

Come si è visto al paragr. 39, è precisamente un serpente a rapire all’incauto Ghilgamesh l’erba della vita. Ora nel racconto biblico ha in parte un compito analogo: il serpente strappa ai progenitori l’immortalità. Non solo in Genesi III s’insiste su questo rapporto serpente-morte, ma nella Sapienza XII,24 si pone in evidenza che « per l’invidia del Diavolo (serpente) la morte è entrata nel mondo ». – Ancora una volta, non sembra impossibile che gli elementi ricordati abbiano suggerito all’autore sacro di servirsi di un simbolo noto per illustrare il concetto nuovo: che l’immortalità è stata sottratta all’uomo da un essere malefico, nemico di Dio e dell’uomo, presentato come « serpente », per rendere più accessibile, con la debita cautela (cfr. paragr. 36), la narrazione ai suoi contemporanei (nota 40).

(39) [Cfr. K. GALLING, Biblisches Reallexikon, p. 458 ss.; J. COPPENS, La connaissance du bien et du mal et le péché du paradis, Louvain 1948, p. 92 – 117 con ampia documentazione letteraria ed archeologica (non sempre però del tutto

pertinente alla tesi dell’autore sul carattere sessuale del primo peccato) e ricca bibliografia; P. HEINISCH, Problemi di storia primordiale biblica, Brescia 1950, 113.]

(40) Per il decreto della P. C. B. sul serpente cfr. paragr. 49 nota 42. pp. 112-

 

  1. — Il giardino-paradiso
  2. — In Genesi II,8-14 si ha la descrizione e l’ubicazione del Paradiso Terrestre. Esso si trova in Eden ed è attraversato da un corso d’acqua, dal quale nascono quattro fiumi, due a noi noti: Tigri ed Eufrate, due ignoti: Phison e Gehon. Troppo lungo, per non dire impossibile, sarebbe passare in rassegna le diverse interpretazioni di questi versi: basti ricordare che il Paradiso Terrestre dall’estremo Oriente (Coppens) lo si è trasferito al polo Nord (!) (Warren-Gruhn) o addirittura fuori della

terra (Ungnad) (Cfr. P. HEINISCH, O. C, p. 76). La questione al momento non è solubile e forse mai lo sarà neanche in avvenire.Che l’uomo in uno stadio assolutamente primitivo di civiltà abbia soggiornato in un giardino delizioso non è affatto inverosimile. Tuttavia si potrebbe rilevare che l’autore sacro, e ancor più la Tradizione Cattolica, considera il giardino come un paradiso. Ora è chiaro che in concreto un giardino come tale è soltanto un coefficiente modesto di felicità e che potrebbe considerarsi più agevolmente con la Tradizione come somma di tutti gli elementi capaci di far l’uomo felice, qualora lo si pensasse anche come un simbolo. Allo stesso modo in cui nella Apocalisse XXI ci si descrive la Gerusalemme celeste con muri delle più svariate pietre preziose, per indicare simbolicamente la felicità degli eletti, la quale attinge indubbiamente a fattori ben più nobili. Nella letteratura mesopotamica, inoltre, anche se non vi è traccia di un Paradiso Terrestre per breve tempo aperto all’uomo, il regno di Siduri è tuttavia pensato precisamente come una regione con piante di pietre preziose che portano frutti « belli a vedersi e magnifici a considerarsi » (cfr. le stesse espressioni in Genesi II).Tutto questo diciamo, non per mettere in dubbio la realtà del giardino-paradiso (dato che i progenitori dovettero ben soggiornare sulla terra e godere com’era naturale della delizia della vegetazione), ma per rilevare che probabilmente nella mente dell’agiografo il giardino è anche sfruttato simbolicamente, per inculcare l’idea della perfetta felicità dei primi uomini.

Conclusione

Come si vede, presentemente l’identificazione del genere letterario dei particolari descrittivi del racconto biblico del peccato originale si basa (già è stato rilevato al paragr. 33), soltanto su congetture. Il complesso narrativo però è congegnato in tal modo che, constatato il valore metaforico di un elemento (p. es. albero della vita) resta in gran parte decisa anche la interpretazione degli altri particolari. Le osservazioni che precedono vogliono soltanto essere indicative del metodo da seguire nella ricerca, qualora un’ulteriore indagine sul testo e contesto sacro e le letterature dell’antico Oriente fornissero più abbondante materiale di studio. La congettura — come ognuno ha potuto constatare — verte sempre e soltanto su elementi di secondaria importanza e non sfiora neanche da lontano il nucleo storico-dottrinale, già sopra illustrato e precisato dal decreto della P.C.B. (cfr. paragr. 49). Avremmo così un genere letterario particolare, nel quale la realtà storica è presentata sotto forma di una narrazione intessuta mediante simboli letterari, secondo quanto esponemmo al par. 16 ed in armonia con i fatti accertati nei paragrafi 13-15. Ci piace ancora una volta richiamare il luminoso contrasto tra la semplicità popolare del racconto, probabilmente influenzato nell’espressione da elementi dell’ambiente orientale, e lo splendido patrimonio di idee religiose che non hanno riscontro in nessuna letteratura e che l’autore biblico non può aver attinto se non dalla divina rivelazione.

IL PECCATO ORIGINALE (2)

2. — Motivo e modalità della prova e della caduta

35. — È Dio che ha posto i progenitori in uno stato privilegiato. Tuttavia è consentaneo alla natura intelligente e libera che essa sia messa a parte dei disegni di Dio a suo riguardo e sia chiamata a sottoscriverli. I progenitori furono così chiamati a prestare il loro contributo alla propria felicità, mediante una decisione libera. Perché un atto sia meritorio e veramente libero si richiede che non sia necessitato dalla conoscenza diretta del sommo bene che è Dio. Se i progenitori avessero conosciuto direttamente l’essenza divina, la loro volontà avrebbe aderito a Dio necessariamente e quindi senza esercizio della libertà e senza alcun merito personale. Dobbiamo perciò ritenere che essi conoscessero Dio indirettamente, com’è proprio dell’uomo, finché resta sulla terra (in statu viæ). – Certo non conoscevano tutto né su Dio, né sul proprio destino, del quale, in particolare come sopra si è detto, erano informati solo tramite la rivelazione divina trattandosi di una verità assolutamente super razionale. I progenitori cioè dovevano credere. – Ora, precisamente nell’atto di fede sussiste più che mai per l’essere intelligente l’esercizio della libertà e quindi il merito, dato che egli resta nella condizione di poter accettare o rifiutare una verità in sè oscura, ma chiaramente insegnata da Dio, da credersi cioè solo sull’autorità di Dio rivelante. Così appunto ci appare la prova dei progenitori nel racconto biblico. Essi devono credere ad una cosa per nulla evidente, che cioè la loro immortalità dipende dall’astensione da un qualche cosa che Dio ha loro vietato. Ed appunto questo qualche cosa si chiama « albero della conoscenza del bene e del male ». Dio, mentre non è stato geloso del dono dell’immortalità, ha invece interdetto all’uomo la conoscenza « del bene e del male ». Pare fuori dubbio che in questo contesto « bene e male » significhi « tutto », « qualunque cosa », « cose di ogni genere ». Conoscenza del bene e del male è la conoscenza universale. – Infatti « bene e male » significa una totalità con l’idea di indeterminatezza e di varietà. « Bene e male » sono due termini estremi, come « grande e piccolo », « trattenuto e lasciato » (Deuteron. XXXII,36; III Re XIV,10; XXI,21), che, usati l’uno accanto all’altro, indicano tutta la gamma di cose possibili tra l’uno e l’altro estremo. Così si spiega la locuzione « dal bene fino al male » (G. LAMBERT, Lier-delier: l’expression de la totalité par l’oppositwn de deux contraires, Vivre et penser 3.e Serie, Paris 1945, p. 91-103, documenta quest’uso letterario, oltre che nella Bibbia, anche presso i tragici greci). Ecco alcuni esempi: « Risposero Labano e Batuele e dissero: Da Jahvè è uscita la cosa, non possiamo parlare a te male o bene » (Genesi XXIV, 50). «Guardati dal parlare a Giacobbe dal bene fino al male» (Gen. XXXI, 24. 29). – « E non parlò Assalonne con Amnon dal bene fino al male, poiché Assalonne odiava Amnon » (2 Samuele XIII,22). Queste espressioni sono tutte negative e le parole « bene e male » si devono tradurre di conseguenza con « nulla » o qualche cosa di simile. – Un esempio dell’uso di « bene e male » in frase affermativa e per di più con un riferimento ad esseri superiori come in Genesi III, si trova in 2 Samuele XIV,17. La donna di Teqoa parla a Davide in questi termini (testo ebraico): « Come un Angelo di Dio così è il mio signore il re, per intendere il bene e il male ». Con questo complimento — a quanto pare dal contesto — la donna voleva esprimere la sua convinzione che il re, data la sua intelligenza superiore, avrebbe compreso che la sua sentenza data in favore del figlio della vedova, si doveva applicare anche al figlio del re. Assalonne. Infatti subito dopo, quando il re dimostra di aver capito che la donna aveva agito per istigazione di Joab, essa ripete il complimento in forma diversa: « ma il mio signore è sapiente come la sapienza di un Angelo di Dio, per conoscere tutto quello che vi è sulla terra » (ibid. v. 20). Ognuno vede che ciò che prima era chiamato « bene e male », ora è reso con un’espressione di totalità: « tutto quello che vi è sulla terra » (Questo senso della coppia « bene e male » si adatta bene a tutti gli altri passi dove occorre (Numeri XXIV, 13; Deuter. I, 3 9 ; 2 Samuele XIX, 35; Ecclesiaste XII,14) sebbene non siano impossibili altre interpretazioni. Citiamo come degna di nota e di meditazione l’interpretazione di R. DEVAUX in Revue Bibl. 56 (1949) 300 – 308, nella recensione dell’opera di J . Coppens da noi citata più avanti. Egli critica l’interpretazione sessuale della frase « conoscere il bene e il male » (solo Deuter. I, 39 e 2 Sam. XIX, 35 potrebbero avere, ma non necessariamente, questo senso) e dà la propria spiegazione: « La conoscenza del bene e del male mi sembra essere la facoltà di decidere personalmente ciò che è bene e ciò che è male e di agire secondo questa decisione. Questo potere è riservato a Dio; l’uomo non l’esercitava prima del peccato e lo esercita mediante il peccato, essendo essenziale ad ogni peccato una inversione del bene e del male ». Spiegazione, come si vede, profonda e seducente. Se non che l’espressione biblica « si aprirebbero i vostri occhi » (Genesi III,5) ci invita a cercare nel campo conoscitivo più che in quello volitivo (decidere e agire) l’esercizio di questa conoscenza del bene e del male. Anche il confronto con le concezioni soggiacenti al racconto di Adapa (scienza divina, vita eterna) favorisce la nostra interpretazione). – Anche in Genesi 3 si tratta dunque di una conoscenza universale, prerogativa divina, e questo concetto è contenuto esplicitamente nella tentazione: «…si aprirebbero i vostri occhi, e diventereste come Dio, conoscitori del bene e del male ». La limitazione imposta da Dio è nel campo della conoscenza. E la tentazione si dirige primariamente contro la fede. Alla dichiarazione della donna: «Dio ha detto: non mangiatene e non toccatelo, per non doverne morire » (v. 3), il tentatore controbatte: « No, che non dovete morire ». Alla fede è strettamente legato l’amore. Noi crediamo a coloro di cui conosciamo l’amore e di cui ci fidiamo. Ed ecco la mancanza di fede generare l’orribile ipotesi: « Dio è geloso delia Sua scienza, è nemico della mia grandezza » (cfr. v. 5). Di qui la decisione: « Voglio arrivare a dispetto di Dio; sfonderò questi limiti del mio sapere, sarò simile a Dio! ». È questo il peccato dei progenitori, non di debolezza, né di sensualità. Ha in sé il carattere diabolico di colui che lo ha suggerito (S. TOMMASO, IIa IIae, q. 163 a. 1, resp. pone il peccato dei progenitori principalmente nel fatto che appetirono disordinatamente un bene spirituale). – Con pochi tratti concreti nella loro primitività e d’una profondità che tanto più stupisce quanto più ne è semplice l’espressione, l’autore ispirato ci pone dinanzi la psicologia del libero arbitrio, della tentazione e del peccato, segnando un immenso progresso della coscienza morale dell’umanità con la conquista delle idee basilari dell’etica umana. L’uomo è posto di fronte ad un bivio: o credere a Dio, fidandosi della Sua parola ed accettando da Lui la felicità, o non credere a Dio ed illudersi di raggiungere la felicità a dispetto di Dio, rivendicandosi una eccellenza indipendente da Lui. È questa seconda alternativa che l’uomo primitivo ha scelto, perdendo così la possibilità di quella effettiva somiglianza con Dio, che la Redenzione di Cristo avrebbe assicurato ancora una volta al fedele, come caratteristica del premio nel paradiso celeste. « Carissimi, siamo figli di Dio… e a lui saremo simili, perché lo vedremo com’è » (1 Giovanni III,2). Dopo questo rilievo, ci domandiamo se il peccato fu soltanto in questo atteggiamento della volontà, o se non ci fu anche qualche elemento esterno in cui si concretò la ribellione. Rinviando ai paragr. 40-44 l’analisi dei particolari descrittivi del racconto biblico, vogliamo qui sottolineare come questo eventuale fattore esterno non sembra si possa identificare con un disordine sessuale. Non vediamo cioè come sia possibile esegeticamente sostenere quell’opinione (nota 1) largamente diffusa nel popolo, indipendentemente dall’insegnamento della Chiesa, che il peccato dei progenitori sia stato l’uso del matrimonio. (nota 2)

(nota 1) (P. MARHOFER, in « Theologie und Glaube » 28 (1936) 133-162, diede una sistemazione teologica a questa opinione, supponendo che Dio, per fare notare l’importanza della generazione come strumento di trasmissione della Grazia, abbia comandato un’astensione temporanea. L’umanità sarebbe così generata in modo soprannaturalmente illegittimo, senza la grazia santificante, che avrebbe dovuto ricevere per generazione da Adamo, se questi non avesse anticipato l’uso del matrimonio. – J . COPPENS, La connaissance du Bien et du Mal et le Péché du Paradis, Bruges-Paris 1948, basandosi sulle rappresentazioni antico-orientali del serpente, suppone un peccato contro la santità del matrimonio per l’appello alle divinità della vegetazione e della fecondità, presentate dal racconto biblico mediante il loro simbolo, il serpente. Si tratta tuttavia più del modo con cui l’autore sacro ha pensato il peccato, che non della modalità del peccato dei progenitori – J. GUITTON, Le developpement des idées dans l’Ancien Testament, Aix-en-Provence, 1947, pag. 102: nel pensiero dell’autore biblico la natura della colpa aveva una relazione oscura col corpo; i progenitori dovevano essere in età adolescente e saggiamente Dio aveva comandato una riserva totale per un certo tempo. Per la confutazione della tesi di Mayrhofer cfr. J . MIKLIK, Der Fall des Menschen, Biblica 18 (1939) 387-396.)

(nota 2) (Cfr. F. ASSENSIO, Tradicion sobre un pecado sexual en el Paraiso?, Gregorianum 31 (1950) contesta precisamente l’affermazione del Coppens sull’esistenza di una Tradizione, documentata negli scritti dei Padri, sull’interpretazione sessuale del peccato originale)

Una simile interpretazione nasce da una valutazione erronea dell’attività genetica, e non concorda con quanto di essa è detto proprio in questo contesto biblico. Essa è voluta da Dio e consacrata fin dal primo istante dalla benedizione divina: « Crescete e moltiplicatevi;… per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla sua donna e i due diventeranno una sola carne » (Genesi I,28; II,25). L’abuso dell’attività sessuale, non deve gettare una luce sinistra sull’uso legittimo. Anzi è la dignità particolare dell’uso legittimo che rende tanto più ripugnante ogni abuso. D’altra parte nessun indizio vi è nel testo biblico che faccia sospettare qualche abuso dei progenitori degno di castigo. Inoltre, in nessun testo biblico l’espressione « conoscere il bene e il male » è sicuramente sinonimo di scienza sessuale. Né vediamo come satana possa presentare e i progenitori riconoscere quale caratteristica divina (« diventereste come Dio conoscitori del bene e del male ») una scienza di questo genere, dato il contesto prossimo e remoto, in cui Dio figura nettamente come unico, spirituale, trascendente. La tentazione, pur essendo menzogna, per costituire una sollecitazione al male, deve rispettare i limiti di un’aliquale verosimiglianza. –  Gli autori che recentemente hanno sostenuto trattarsi di una colpa nella sfera sessuale fanno notare l’insistenza con cui il racconto biblico accenna a fattori di quest’ordine tra le conseguenze della colpa. L’autore sacro come aveva sottolineato che prima del peccato la nudità non creava imbarazzo per i progenitori, così avverte che immediatamente dopo la colpa essi sentirono la necessità del vestito. E’ stato pure rilevato che il castigo riservato alla donna è precisamente nell’ambito della vita generativa. – Tutto questo è innegabile, ma non ci sembra legittimo dalla natura delle conseguenze, senz’altro inferire sulla natura del peccato. La ribellione degli istinti è sufficientemente spiegata dallo stato di disordine interiore indotto dall’uomo con la sua ribellione a Dio. Non è tutto questo perfettamente consentaneo alla natura umana, che cioè la carne si ribelli allo spirito, quando lo spirito si è ribellato a Dio? Del resto non mette in risalto l’autore sacro, tra le conseguenze del peccato, la morte ancor più della concupiscenza? Eppure, dalla natura di questo castigo, nulla si può ricavare per fissare i contorni dell’azione esterna, in cui si sarebbe concretata la colpa dei progenitori. Riteniamo invece più oggettiva la constatazione di un altro accostamento sintomatico: quello tra la morte e l’attività genetica. Ci sembra che l’agiografo abbia intuito e insinui nel suo racconto che la trama dolorosa ed espiatoria della storia dell’umanità decaduta sia in parte costituita dal rapporto profondo che intercorre tra morte e attività genetica, le quali sono in natura due entità biologiche complementari (nota 3). –

(nota 3) (Tra gli animali bruti l’individuo è in funzione della specie e conta in quanto veicolo per la trasmissione dei germi vitali. C’è infatti una provvidenza ferrea che regge la vita di ogni specie animale e che sembra riassumersi nella preoccupazione che i germi viventi si comunichino via via a nuovi individui e vengano così continuamente rinnovati e ringiovaniti, senza che mai venga a morire il plasma vivente formato dal loro complesso. L’animale quando ha reso alla specie il suo servizio e, in particolare, quando ha adempito al suo compito di generatore, è logico che muoia, per lasciare il posto ad altri individui. Anche nell’uomo c’è prepotente l’istinto della generazione, come c’è pure l’infierire della morte. Ma l’uomo, essendo persona, e cioè un essere irripetibile, non è esclusivamente in funzione della specie e per questo, anche quando ha dato alla specie quanto era in grado di offrire, non è legittimo sopprimerlo e la sua morte si sente come qualche cosa di stridente colle aspirazioni più profonde. Infatti, pur sussistendo dell’uomo la parte migliore, lo spirito, che attraverso la morte anzi raggiunge il suo destino definitivo, resta per la speculazione puramente razionale, l’enigma di questa scissione violenta tra anima e corpo, violenta i n quanto l’uomo è per natura sua un composto di ambedue gli elementi. A questo enigma risponde il dogma della risurrezione della carne, che c i assicura della ricomposizione a perfetta unità e della glorificazione di tutto l’uomo (cfr. S. THOMAS, Summa contra Gentes 1. 4, c. 79-81). – Notiamo inoltre come l’istinto della generazione crei nell’uomo un duplice conflitto particolarmente acuto. Se infatti l’uomo si abbandona irrazionalmente all’istinto della generazione, procreando al di fuori del retto ordine, pecca contro la dignità della propria persona: se invece al contrario sfrutta l’istinto della generazione solo per la propria soddisfazione personale, pecca contro la natura. La soluzione di questo conflitto si ha o nel celibato casto, che rappresenta la sublimazione e una affermazione eroica della personalità, ovvero nella castità coniugale, in cui la finalità dell’istinto diventa una funzione ragionevole e nobile della persona. Ma l’una e l’altra soluzione costituiscono una conquista difficile, uno stato di equilibrio perennemente instabile, impossibile senza l’aiuto della Grazia Divina).

3. — Il tentatore

36. — Un elemento dottrinale fuori discussione di Genesi 3 è pure la presenza e l’opera di Satana. In qualunque modo si voglia intendere il « serpente » (cfr. paragr. 43), esso indubbiamente va identificato con satana. Già il contesto esclude che si tratti della personificazione di una tentazione nata spontaneamente nell’uomo. Infatti Dio, mentre non maledice direttamente l’uomo (cfr. v. 17), lancia una maledizione senza riserva né rimedio contro il « serpente », appunto perché seduttore (cfr. v. 14). Dio cioè si schiera in certo modo dalla parte dell’uomo contro il « serpente », riconoscendo nella scusa addotta dalla donna: « il serpente mi ha ingannata » (v. 13), un’attenuante e supponendo perciò un responsabile distinto dai progenitori. – La tentazione è dunque qualche cosa che proviene dall’esterno, da un essere intelligente e maligno, tanto più intelligente dell’uomo da essere in grado di sedurlo, tanto più maligno, in quanto dimostra di avere un interesse particolare a suscitare nell’uomo la ribellione contro Dio e la conseguente catastrofe. Iddio inoltre dichiara aperto un lunghissimo periodo di ostilità tra il genere umano e quello stesso « serpente » che viene dunque pensato sussistere per tutto il corso della storia umana, fino ad essere totalmente sconfitto. Naturalmente si tratta di una lotta e di una vittoria morale, come di ordine morale è stato il primo intervento del «serpente» e la ribellione dell’uomo a Dio. I libri più recenti della Bibbia non esitano a identificare esplicitamente il « serpente » con Satana: « Per invidia del Diavolo la morte è entrata nel mondo » (Sapienza II,24); « Voi avete per padre il Diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Fin dal principio egli è stato omicida e non restò fermo nella verità, perché in lui non è verità » (Giovanni VIII,44) ; « il Dragone, il Serpente antico, che è il Diavolo e Satana » (Apocalisse XII, 9,20,2). – Se l’antichissimo racconto della Genesi si esprime su questa identificazione in modo piuttosto velato, è soltanto per evitare uno scoglio pericolosissimo per la primitiva mentalità ebraica, l’introduzione cioè di un essere superiore, intelligente, capace di rovinare i disegni di Jahvè. Era troppo facile che fosse considerato un’altra divinità, capace di far concorrenza a Jahvè. Per la stessa ragione nel racconto della creazione non si parla di esseri angelici. Essi sono introdotti poi alla chetichella, senza presentazione, né spiegazione, in circostanze tali da evitare ogni equivoco. Il monoteismo è così salvaguardato. Il richiamo all’esistenza e all’azione di satana, presentato come causa prima della rovina dell’umanità, costituisce inoltre uno dei principali elementi risolutori del problema dell’origine del male, sul quale s’innesta spontaneamente una delle più ardue difficoltà contro il monoteismo stesso. Come mai da un unico Principio, buono per essenza e quindi fonte di ogni bene, può derivare il male, il cui dominio nel mondo è pure tanto vasto? Se il male non è e non può essere da Dio, come spiegarne l’esistenza? Il dualismo rappresentò sempre una delle più seducenti tentazioni metafisico-religiose, appunto come risposta ovvia e, a prima vista, soddisfacente a sì grave interrogativo. – Il racconto biblico, con profondità e originalità senza precedenti, non soltanto esclude da Dio una qualsiasi responsabilità per l’origine del male, ma ci presenta, oltre l’uomo, un altro essere libero e per natura sua peccabile, che, levatosi contro Dio, rende comprensibile non solo l’origine del male, ma anche le gigantesche sue proporzioni. Non ha forse il male proporzioni sovrumane? – Unico, dunque, Dio e infinitamente buono; colpevole, ma in parte scusabile, l’uomo come qualsiasi vittima; perverso satana, nemico di Dio e dell’uomo, ma soggetto ad ambedue nella lotta e soprattutto nella sconfitta finale (cfr. v. 15). Il male cessa così di essere una difficoltà metafisica nell’ambito degli attributi divini, e si riduce ad un mistero di ordine psicologico: coma mai l’essere libero, pur essendo peccabile, diventa di fatto peccatore, operando così coscientemente la propria rovina? In altri termini è il mistero del peccato, il quale però s’illumina sufficientemente tenuto conto della natura stessa del libero arbitrio dell’uomo, e soprattutto di satana.

4. — Propagazione della colpa originale

37. — L’antico autore ispirato presenta l’intero genere umano soggetto alla morte, al dissidio interiore e al dolore, per il fatto di essere discendente da un capostipite ribelle al suo Creatore. S. Paolo (Romani V,12) e la definizione del Conc. Tridentino (v. nota 12) parlano non solo di trasmissione delle conseguenze del peccato, ma del peccato stesso che, come precisa l’Humani generis: « commesso da Adamo individualmente e personalmente… trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio » (Acta Apost. Sedis 42 (1950) 576; Civiltà Catt. 101 (1950) 471).

(nota 12) Sessione V, Can. I e II, DENZINGER, 788-789: Can. I. « Se alcuno non professa che il primo uomo Adamo, avendo trasgredito il comandamento di Dio nel paradiso, subito perdette la santità e la giustizia nella quale era stato costituito, e per l’offesa di tale prevaricazione incorse l’ira e l’indignazione di Dio e perciò la morte, che Dio gli aveva prima minacciata, e con la morte la prigionia sotto il potere di colui che poi ebbe l’impero della morte, cioè del diavolo, e che tutto Adamo per l’offesa di quella prevaricazione fu mutato in peggio quanto al corpo e quanto all’anima, sia anatema ». – Can. II. « Se qualcuno asserisce che la prevaricazione di Adamo abbia nociuto solo a lui e non alla sua progenie, e che la santità e la giustizia ricevuta da Dio e poi perduta, la perdette solo per sé e non anche per noi; o che Adamo inquinato per il peccato di disobbedienza, abbia trasfuso in tutto il genere umano solo la morte e le penalità del corpo, e non anche il peccato che è morte dell’anima, sia anatema, poiché contraddice all’Apostolo che dice: Per un sol uomo entrò il peccato nel mondo, ecc. » (Rom. V, 12)).

Ma perché la colpa dei protoparenti diventa la colpa di tutti? L’antico israelita il quale sentiva fortemente la solidarietà anche morale tra i congiunti per vincolo di sangue, non era assillato da questo problema, dimostrando così d’intuire una realtà che il nostro individualismo può discutere, ma non distruggere: l’interdipendenza strettissima cioè degli individui nel loro essere fisico e psichico. La nostra personalità è il punto di incontro d’infiniti raggi di influenza, che vanno dalla volontà dei nostri genitori, fino alle radiazioni cosmiche; sicché, è per l’incalcolabile risultanza di innumerevoli cause, che noi siamo quel che siamo, pure nell’inconfondibile ed irripetibile unità della persona umana. – Tra queste cause, ci dice la Bibbia, c’è anche il peccato del nostro più antico antenato. – Dio avrebbe potuto farci come monadi assolutamente chiuse ad ogni influsso estraneo. Ma allora non saremmo uomini, saremmo esseri d’altra struttura. La nostra struttura è invece di essere centri d’interferenza personalizzati da un’anima immortale. – Il concetto cattolico di Chiesa potrà meglio farci comprendere i disegni di Dio riguardo ai singoli uomini. Dio ha messo a disposizione dell’uomo l’elevazione allo stato soprannaturale, il dono cioè della grazia santificante che maturerà nella gloria. Ora, sono i singoli uomini che raggiungono questo stato e tuttavia il dono appare fatto in modo collettivo. I singoli cioè arrivano alla Grazia solo per il fatto di essere inseriti, almeno virtualmente, in un organismo sovrapersonale, la Chiesa, a cui la Grazia appartiene in proprio. I cristiani non formano una Chiesa per il fatto di essere uniti a Cristo, ma sono uniti a Cristo per il fatto di formare la Chiesa. I Sacramenti e la Liturgia, in quanto vincoli sociali, in quanto azioni esteriori che costruiscono la compagine della Chiesa, sono per ciò stesso i veicoli della Grazia. L’apporto della volontà personale è senza dubbio indispensabile dal momento in cui diventa possibile (età della ragione), ma non è essenziale, come risulta dal Battesimo dei bambini. L’entrare a far parte della Chiesa, come il sussistere stesso della Chiesa, è la risultante di un complesso di azioni interiori ed esteriori da cui il Cristo fa dipendere il suo influsso redentore e vivificante sulle singole anime. Se Cristo è al primo posto nell’ordine delle cause, tutti gli altri, dalla Gerarchia ai semplici fedeli, hanno la loro responsabilità, e mancando la loro cooperazione, la Chiesa non sarebbe come dev’essere, e molte anime ne resterebbero escluse. Questo conferimento della Grazia come dono collettivo nella umanità redenta da Cristo è del tutto analogo al conferimento della Grazia (e dei privilegi) come dono collettivo a tutta l’umanità, nei suoi primi inizi, nella persona dei progenitori. Essi ricevettero questi doni non a titolo di gratificazione personale, ma a titolo di bene collettivo di tutta la natura. Sarebbe bastato nascere da Adamo per avere per ciò stesso il dono della Grazia, come ora basta essere inserito nella Chiesa mediante il Battesimo per avere la Grazia di Cristo. Il vincolo che avrebbe legato l’umanità intera, la generazione, sarebbe stato nel contempo il canale, la causa della Grazia, il vincolo che avrebbe stretto ogni individuo, non solo coi suoi simili, ma anche con Dio come fine soprannaturale. Ma perché tutto ciò non avvenisse come qualche cosa di fatale, di meccanico, era opportuno che i primi depositari di questo dono liberamente cooperassero alla sua trasmissione, così come a suo tempo i singoli eredi di questo dono liberamente avrebbero ratificato — con la fede e le opere — la fortuna da loro ereditata. La colpa personale dei progenitori implica la distruzione del dono da Dio assegnato come bene collettivo dell’umanità, distruzione fatta liberamente dagli uomini, che avevano la responsabilità di trasmettere tale dono. Così i vincoli della generazione non sono più canali della Grazia, e l’umanità non è più, come doveva essere, una grande unica Chiesa. – In questo modo si comprende perché lo stato di decadenza dell’umanità sia insito nei singoli come « peccato ». Stato di peccato (peccato abituale) è l’essere una creatura estranea alla intimità con Dio (privazione della Grazia) in forza di una colpa commessa con un atto libero di volontà (atto di peccato). La grande famiglia umana nel suo complesso va generandosi in stato di peccato (« peccatum naturæ »), nel senso che nasce priva della Grazia, e questa privazione non è un semplice difetto morale, ma sussiste in forza del peccato personale del progenitore. – La mia anima singola, scevra da qualunque responsabilità individuale, incominciò ad esistere solo (e non prima) come parte di un complesso somatico e psichico unito a sua volta, senza soluzione di continuità, al resto della famiglia umana. Ben lungi dal rompere questa continuità biologica ed etnica, l’anima ne assunse la fisionomia concreta, e con essa la privazione della Grazia e dei privilegi, ed una tale privazione quale è nella collettività dei figli di Adamo, effetto cioè di una colpa, e dunque colpevole. Essa venne così in comunicazione con uno stato di colpevolezza preesistente, così come più tardi venendo inserita nella Chiesa, venne in comunicazione con uno stato di Grazia preesistente nella Chiesa stessa in forza di Cristo Redentore. Così per il peccato di origine passa nel singolo non solo una conseguenza, o una pena della colpa, ma la colpevolezza stessa che pesa sulla natura in blocco. E tuttavia il singolo non contrae una responsabilità individuale, il che sarebbe un controsenso. « Peccato » è il termine che più si adatta ad esprimere questa realtà inerente ad ogni uomo per il fatto stesso della sua origine dal primo uomo, e tuttavia è un termine analogico, che non coincide perfettamente con il senso di questo termine quando è applicato ad un atto personale di colpa. – Rimane ancora una domanda: perché Dio, per conferire agli uomini questi doni di santificazione ha scelto un mezzo collettivo, sia nel caso dell’elevazione della natura in Adamo, come nel caso della santificazione della Chiesa in Cristo? Non avrebbe per ciò stesso scelto un mezzo meno favorevole all’individuo, il quale viene così a dipendere dalla responsabilità degli altri? Rispondiamo che, senza negare la possibilità di altri ordini di provvidenza, quello scelto da Dio sembra più conforme alla natura degli uomini. Una personalità anche eccezionale non può esaurire tutte le possibilità di perfezionamento della natura umana. Ciò che non è realizzato da uno è realizzato da un altro; ed il bene dell’uno diventa anche il bene dell’altro, se due persone sono unite in una comunione d’amore. L’individualismo, come contrapposizione dell’individuo al resto dell’umanità, è anche un impoverimento: l’individuo escluderebbe da sé tutta quella ricchezza di natura che egli non può possedere per intero. Come l’individuo non può venire all’esistenza senza il concorso di altri, così neppure può perfezionarsi da solo. Questa concezione, lungi dal diminuire la responsabilità individuale diluendola nel complesso sociale, l’aumenta grandiosamente, rendendo ciascuno responsabile anche per gli altri. – Se questo piano scelto da Dio ha avuto una conseguenza dolorosa nel peccato d’origine, non è stata tuttavia preclusa l’ascesa dell’umanità verso il suo fine ultimo. Essa si realizza per una via meno gioconda, ma non meno gloriosa. La narrazione biblica lascia uno spiraglio di speranza: il trionfo del serpente seduttore non è definitivo: « Esso (seme della donna) ti schiaccerà il capo » (Genesi III, 15). E questo spiraglio andrà sempre più allargandosi e chiarendosi in successive rivelazioni (« messianismo »), finché verrà Colui che dirà: « Io sono la resurrezione e la vita » (Giovanni XI, 25) e provocherà il grido della gioia cristiana: «Dov’è o morte la tua vittoria?» (1 Corinti XV, 35).

5. — L’ipotesi poligenista

38. — Il Poligenismo è quell’ipotesi scientifica la quale ritiene che i gruppi umani sia fossili che viventi derivino non solo da più coppie, ma addirittura da più specie primordiali. Di conseguenza ad Adamo ed Eva non competerebbe il titolo di progenitori del genere umano. Isacco de la Peyrère (1594-1676) formulò per primo quest’ipotesi nel tentativo di conciliare con la Bibbia i dati cronologici indicati negli antichi documenti caldei ed egiziani, ed in particolare nell’intento di spiegare le differenze tra le razze umane. – Estendendo il campo di osservazione, l’antropologia e in particolare la paleontropologia constatano nelle razze viventi e ancor più in quelle estinte marcate differenze morfologiche, nella forma del cranio, degli occhi, nella dimensione del tronco e degli arti, nel colore della pelle ecc. Si notano pure spiccate diversità fisiologiche (composizione del sangue, età puberale ecc.) e psichiche (diverso tipo e grado d’intelligenza, di emotività ecc.). Si conclude all’impossibilità di ricondurre ad una origine comune gruppi tanto differenziati, le cui caratteristiche sarebbero spiegabili soltanto ricorrendo ad una origine multipla. – Il poligenismo inoltre renderebbe più facilmente ragione dell’incremento poderoso della collettività umana e della sopravvivenza delle razze nella lotta per la vita. Non è nostro compito né esporre, né valutare dal punto di vista scientifico quest’ipotesi. Riferiamo soltanto alcuni giudizi di competenti. Intorno all’argomento principale che è quello tratto dalle differenze morfologiche il Marcozzi (Cfr. V. MARCOZZI, La vita e l’uomo, Milano 1946. p. 362) osserva: « Tali differenze (tra i fossili umani) non sono tali, studiate oggettivamente, da autorizzare uno smembramento della famiglia umana in più specie naturali distinte. Infatti differenze morfologiche anche maggiori si osservano fra le varie razze d’animali tuttora esistenti, che pur discendono certamente da un unico ceppo. Si pensi, per esempio alle enormi differenze morfologiche che passano fra le diverse razze di cani… Eppure appartengono alla medesima specie, ed hanno avuto le medesime origini. Dunque le sole differenze morfologiche non sono sufficienti ad autorizzare lo smembramento d’un gruppo di organismi in tante specie naturali distinte e dalle origini indipendenti. Tanto più che nel caso degli Uomini, si trovano tutte le forme intermedie fra i tipi più differenziati sia viventi sia fossili ».Tutto questo spiega come quasi tutti i naturalisti presentemente siano monogenisti. « Fra gli altri ricordiamo Dubois, Ellioth, Smith, Giuffrida-Ruggeri, il Keith, il Pilgrim, lo Schwalbe, tutti gi autori italiani che hanno cooperato all’opera: « Razze e popoli della terra » curata dal Biasutti nel 1941 (Cfr. MARCOZZI, O. C, p. 358). –  Similmente il Leonardi: « Al momento attuale il poligenismo è assai in ribasso e, almeno nei riguardi dell’Umanità attuale, la quasi totalità degli Autori, per quanto mi consta, tende ad ammettere l’origine unitaria e l’unità specifica, trovandosi così pienamente d’accordo con la Teologia cattolica » (P. LEONARDI, L’evoluzione biologica e l’origine dell’uomo, II ed., Brescia. 1949). Notiamo però che « Monogenismo » per la teologia cattolica non significa soltanto derivazione dell’umanità attuale da una stessa specie naturale, ma da un’unica coppia, fatto questo che la scienza non può confermare, ma neanche contestare, qualora accetti, come si è detto, l’unità specifica. Quale rapporto intercorre tra evoluzionismo e poligenismo? È la seconda ipotesi inseparabile dalla prima come inevitabile conseguenza? È utile sottolineare al riguardo, dal punto di vista scientifico, che la derivazione dell’umanità attuale da più coppie di progenitori è collegata non tanto coll’ipotesi evoluzionista, quanto col modo di concepire e rappresentarsi l’evoluzione. Se infatti si pensa che le stesse cause hanno influito sulle stesse razze di antropoidi per trasformarle gradualmente in razze umane, diventerebbe probabile che tale processo evolutivo sia avvenuto contemporaneamente in luoghi e soggetti diversi. Non appare infatti una ragione speciale che inviti a limitare un processo evolutivo che investe tutta la sfera animale, restringendolo nel caso degli antropoidi soltanto a due individui, che sarebbero così gli unici progenitori dell’umanità attuale. Se invece l’evoluzione è avvenuta per una catena di mutazioni casuali scarsamente probabili, come sembrano ritenere oggi i più, è assai improbabile che tale serie di coincidenze si sia verificata in più casi. L’evoluzionismo mutazionista sarebbe cioè più facilmente conciliabile col monogenismo che col poligenismo. Ma qualunque sia il valore scientifico dell’ipotesi poligenista, ci chiediamo: qual è il pensiero della Bibbia in proposito?Il racconto del Genesi mentre suppone il poligenismo nella creazione degli animali, presenta i soli Adamo ed Eva quale unica coppia progenitrice dell’intera umanità. Infatti a questa unica coppia primordiale si ricollegano i vari popoli, tramite le genealogie dei Patriarchi antidiluviani e postdiluviani.Anche il resto della Bibbia non conosce uomini che non discendano da Adamo ed Eva: l’Ecclesiastico (XXV, 24) dichiara: Dalla donna ebbe principio il peccato e per sua cagione si muore tutti.La Sapienza (X, 1) chiama Adamo: «il primo uomo da Dio formato, il padre del mondo » (cfr. anche VII, 1).Ma soprattutto il Nuovo Testamento e il Magistero della Chiesa forniscono gli elementi per una decisione in merito. In Romani V, 12, 19 e in 1 Corinti XV, 21-22. 45-49 S. Paolo rende ragione dell’universalità del peccato originale e della morte, ricollegando tutti gli uomini ad Adamo peccatore e supponendo perciò il monogenismo (Cfr. B . MARIANI, Il Poligenismo e S. Paolo, Euntes docete, 4 (1951) 126-145). Il Magistero Ecclesiastico, secondo la stragrande maggioranza dei teologi, si sarebbe già pronunciato in modo definitivo, nel decreto del Concilio di Trento sul peccato originale (Cfr. i canoni del Concilio Tridentino citati alla nota 12). Qualche raro teologo ha pensato invece che il decreto stesso, non avendo di mira una presa di posizione nei riguardi del poligenismo ma solo nei riguardi del peccato originale, parli presupponendo il monogenismo, come cosa comunemente ammessa, ma non intendendo includerlo nella definizione (Su tale questione si vedano: F. CEUPFENS, Le polygénisme et la Bible, Angelicum, 24 (1947) 20-32. M . FLICK, Il poligenismo e il dogma del Peccato originale, Gregorianum, 27 (1947) 558. R. GARRIGOU-LAGRANGE, Le monogénisme n’est il nullement révélé? Doctor Communis, 1 (1948) pag. 198. H. LENNERZ, Quid theologo dicendum de polygenismo? in De hominis creatione atque elevatione et de peccato originali, Roma 1948, p. 81-98. J . B A T A I N L , Monogénisme et polygénisme. Divus Thomas Plac. 52 (1949) 187-201. B. MARIANI, Poligenismo, in Enciclopedia Catt., vol. IX, Città del Vaticano 1952, pag. 1676-1680. Prima dell’Humani generis non escludevano la possibilità di conciliare con la dottrina cattolica il poligenismo i seguenti studiosi cattolici: A. J. BOUYSSONIE, Polygénisme, in Dict. de Theol. Cathol. t. 12, p. I I , col. 2532. J . GUITTON, La pensée moderne et le catholicisme, Aix en Provence, 1936, p. 39; R. BOIGELOT, L’origine de l’homme, Etudes Religieuses, n. 449-450, Liége, 1938, p. 35-38; HRONDET, Les origines humaines et la theologie, in Cité Nouvelle, 1943, p. 961-987).

L’Enciclica « Humani generis » dopo aver parlato dell’evoluzionismo (cfr. paragr. 31, nota 17) a proposito del poligenismo precisa: « Però quando si tratta dell’altra ipotesi cioè del poligenismo, allora i figli della Chiesa non godono affatto della medesima libertà. Poiché i fedeli non possono abbracciare quella opinione i cui assertori insegnano che dopo Adamo sono esistiti qui sulla terra dei veri uomini che non hanno avuto origine, per generazione naturale, dal medesimo come da progenitore di tutti gli uomini, oppure che Adamo rappresenta l’insieme di molti progenitori; ora, non appare in nessun modo come queste affermazioni si possano accordare con quanto le fonti della Rivelazione e gli atti del Magistero della Chiesa ci insegnano circa il peccato originale, che proviene da un peccato commesso da Adamo individualmente e personalmente, e che, trasmesso a tutti per generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio » (Cfr. nota 13). Notiamo che il documento pontificio, inserendo l’espressione « dopo Adamo », si disinteressa dell’ipotesi che prima di Adamo si siano estinte razze più o meno simili all’umanità proveniente da Adamo. Quello che « non appare in nessun modo conciliabile » con il dogma della trasmissione universale del peccato dei protoparenti è il poligenismo applicato all’umanità attuale.L’Enciclica dunque mentre lascia la porta aperta all’evoluzionismo, sembra definitivamente chiuderla al poligenismo, pure usando, come qualcuno ha sottolineato con notevole rilievo (Cfr. J. LEVIE, L’Enciclique ” Humani Generis “, in « Nouvelle Rev. 82 (1950), 789), un linguaggio piuttosto misurato e con formulazione negativa (« in nessun modo appare come queste affermazioni si possano accordare »).

[2- Continua ...]

 

IL PECCATO ORIGINALE (1)

Siamo in un tempo in cui tutti si sentono teologi, esegeti, canonisti, ma in modo tutto particolare, cioè senza averne titolo alcuno, in violazione del decreto Officiorum ac munerum di Leone XIII che fulmina con una pesante scomunica latæ sententiæ specialmente riservata, chiunque discuta in pubblicazioni varie di temi religiosi, biblici, o renda pubbliche rivelazioni private non approvate, senza permesso dell’Ordinario, cioè senza nihil obstat ed imprimatur. E questo per ovviare a ciò che San Paolo già diceva a Timoteo:  “… lo Spirito dichiara apertamente che negli ultimi tempi alcuni si allontaneranno dalla fede, dando retta a spiriti menzogneri e a dottrine diaboliche, [I Tim. IV, 1] … Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina secondo la pietà, costui è accecato dall’orgoglio, non comprende nulla ed è preso dalla febbre di cavilli e di questioni oziose. [I Tim. VI, 3-4], …Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole [II Tim. IV, 3-4].” Ultimamente si stanno diffondendo delle “favole” nei riguardo del peccato originale, favole scaturite da presunte rivelazioni, sogni annebbiati, di un sacerdote apostata della setta modernista del “novus ordo”. Queste fantasie si sono caricate poi ancor più delle allucinazioni e dei deliri che alcuni allegri “esegeti” fai da te, che per il prurito di dir qualcosa di nuovo, e per una mal celata smania di protagonismo, sono disposti a dar credito ad innovazioni che la Chiesa non ha mai fatto proprie, possedendo Essa una chiarezza dottrinale robusta e ben strutturata. A tal fine portiamo alla conoscenza dei Cattolici veri, da non confondere con i pseudo-tradizionalisti eretici o scismatici (i lefebvriani, i sedevacantisti diversamente deliranti, esagitati ed isterici), o i modernisti del novus ordo, la posizione più corretta propria della Chiesa Cattolica, mediante un capitolo tratto dal libro di E. Galbiati e A. Piazza: “Pagine difficili della Bibbia”, pubblicato a Milano nel 1954, con nihil obstat ed imprimatur, rispettando quindi tutti i canoni delle pubblicazioni cattoliche.

 [E. Galbiati-A. Piazza:

Pagine difficili della Bibbia” –

[Bevilacqua & Solari Genova – Ed. MASSIMO, Milano, 1954 – impr. ]

Cap. IV.

IL PECCATO ORIGINALE

Analogamente a quanto abbiamo fatto per le narrazioni bibliche della creazione distinguiamo anche nel capo III della Genesi:

– una dottrina sull’origine dell’attuale situazione penosa dell’umanità;

– un fatto storico incluso nella dottrina stessa;

– un racconto che plasticamente presenta il fatto e concretamente traduce la dottrina. Sarà un compito quanto mai delicato, in questo terzo punto, tracciare la linea di demarcazione tra il contenuto storico-dottrinale e l’eventuale involucro letterario.

LA NARRAZIONE BIBLICA (Genesi III)

— Prima di passare ad un esame più dettagliato del pensiero biblico in materia, è indispensabile rileggere nel suo tenore più primitivo il testo di Genesi III.

« 1. E il serpente era il più astuto di tutti gli animali della campagna, che aveva fatto Jahvè Dio. E disse alla donna: « Ha proprio detto Dio: non mangiate di nessun albero dell’orto? ».

2. E disse la donna al serpente: « Del frutto degli alberi dell’orto noi

3. possiamo mangiare; ma del frutto dell’albero che è in mezzo all’orto disse Dio: non mangiatene e non toccatelo, per non doverne morire ».

4. E disse il serpente alla donna: « No, che non dovrete morire! ma sa

5. bene Dio che quando ne mangiaste, si aprirebbero allora i vostri occhi, e diventereste come Dio, conoscitori del bene e del male ».

6. Allora la donna considerò che l’albero era buono come cibo e che era bello agli occhi e appetibile era quell’albero per avere conoscenza; così prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al suo marito insieme con lei, ed egli mangiò.

7. Allora si aprirono gli occhi di ambedue e si accorsero di essere nudi; e intrecciarono il fogliame di un fico e se ne fecero delle cinture.

8. Poi sentirono il rumore di Jahvè Dio che passava per l’orto alla brezza del giorno, e si nascosero l’uomo e la sua donna dalla faccia di Jahvè Dio in mezzo all’orto.

9. Allora Jahvè Dio chiamò l’uomo e gli disse: «Dove sei? ».

10. E disse (quello): « Ho sentito il tuo rumore nell’orto, ed ho avuto paura, perché sono nudo, così mi sono nascosto ».

11. E disse (Dio): « Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Dell’albero di cui ti ho comandato di non mangiare hai dunque mangiato? ».

12. E disse l’uomo: « La donna che tu hai messo con me, lei mi ha dato dell’albero, ed io ho mangiato ».

13. E disse Jahvè Dio alla donna: «Che è ciò che hai fatto?». E disse la donna : « Il serpente mi ha ingannato, e così ho mangiato ».

14. Allora Jahvè Dio disse al serpente: « Perché hai fatto questo tu sii maledetto tra ogni animale e tra ogni bestia della campagna: sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai tutti i giorni della tua vita.

15. E inimicizia metterò tra te e la donna e fra il seme tuo e il seme di lei: esso ti schiaccerà al capo e tu lo stringerai al calcagno ».

16. Alla donna disse: « Farò assai grave il tuo travaglio e la tua gravidanza: con doglia partorirai figli, e verso il tuo marito sarà la tua passione ma egli ti dominerà ».

17. E all’uomo disse: « Poiché hai ascoltato la voce della tua donna e hai mangiato dell’albero su cui t’avevo comandato dicendo: non ne mangiare, maledetto il terreno per causa tua, con travaglio ne mangerai tutti i giorni della tua vita;

18. e triboli e spine ti produrrà; e mangerai l’erba della campagna,

19. e col sudore del tuo volto mangerai pane; finché tornerai al terreno — perché da esso sei stato tratto, perché tu sei polvere — e alla polvere tornerai ».

20. Poi l’uomo chiamò il nome della sua donna Havvà (vita) perché essa fu la madre di tutti i viventi.

21. E Jahvè Dio fece all’uomo e alla sua donna delle tuniche di pelle, e li vestì.

22. Poi disse Jahvè Dio: « Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto al conoscere il bene e il male; ed ora ch’egli non stenda la sua mano e prenda anche dell’albero della vita e ne mangi e viva in eterno!… ».

23. E Jahvè Dio lo mandò via dall’orto di Eden per lavorare il terreno da cui era stato tratto.

.24. E scacciò l’uomo, e collocò ad oriente dell’orto di Eden i Cherubini e la fiamma della spada guizzante per custodire la via all’albero della vita. »

È in questa forma semplice e popolare, che l’insegnamento divino s’incise nella mente di un popolo amante della concretezza, e che, attraverso i secoli, arrivò fino a noi, a presentarci la chiave del mistero del nostro destino. Abbiamo detto forma popolare, ma non vorremmo per questo fosse sottovalutata, oltre la profondità e originalità del pensiero, la bellezza artistica e letteraria, con la quale, nella semplicità delle pagine veramente grandi, è resa impareggiabilmente soprattutto la psicologia della tentazione e della prima colpa. Passiamo ora a considerare il contenuto teologico del racconto, affinché sia tosto messo in evidenza il complesso di quegli elementi assolutamente sottratti a discussione, perché parte integrante del deposito della fede, e suggeriti dall’intenzione storico-dottrinale dell’autore sacro. Notiamo tuttavia che per cogliere con esattezza l’intenzione dell’autore sacro e raggiungere così adeguatamente il senso del racconto biblico, non solo è legittimo, ma doveroso profittare della luce che su queste pagine antichissime proietta lo sviluppo della Rivelazione successiva. Infatti i diversi libri biblici anche i più distanziati nel tempo, come la Tradizione e il magistero vivo della Chiesa rispecchiano il pensiero dell’unico Dio rivelatore.

B . — DOTTRINA TEOLOGICA E CONTENUTO STORICO DI GENESI III

34 — Il racconto della caduta originale appare come una apologia di Dio, e in questo senso è il seguito naturale della narrazione della creazione. Dio ha creato ogni cosa bella e buona. Il dolore che ci rattrista, la morte che ci spaventa, non entrarono nel suo disegno primitivo, ma furono conseguenza di una infedeltà dei primi uomini: infedeltà liberamente voluta e tanto grave da esigere l’applicazione di un castigo sanzionato in antecedenza. Questa soluzione al problema del male suscita ulteriori problemi, che approfondiremo basandoci su di un esame più minuzioso del testo biblico e sugli apporti della Rivelazione del Nuovo Testamento. [Per uno studio più approfondito della teologia dell’elevazione dell’uomo allo stato soprannaturale e del peccato originale cfr. oltre ai noti manuali: A. VERRIELE. Il soprannaturale in noi e il peccato originale, Milano 1936; M. J. SCHEEBEN, I Misteri del Cristianesimo, Brescia 1949, capitolo III-IV.]

1. — Lo stato dei progenitori

a) L’immortalità corporale. L’uomo, in forza della sua costituzione naturale è mortale : « tornerai al terreno, perché da esso sei stato tratto; perché tu sei polvere e alla polvere tornerai » (v. 19). Poiché l’applicazione del castigo è presentata precisamente come un lasciare libero corso alle forze naturali, tendenti a disintegrare ogni organismo vivente, l’immortalità corporale dei progenitori risulta evidentemente un privilegio, un dono preternaturale, chiaramente indicato nell’albero della vita. – I progenitori erano sottratti all’impero della morte, non nel senso che già possedessero l’immortalità per costituzione naturale, com’è proprio dei puri spiriti, ma nel senso che avevano la possibilità di non morire. – E quale sarebbe stata la sorte finale loro e dei discendenti, in caso che la fedeltà a Dio li avesse preservati dal tremendo castigo? Possiamo pensare, per analogia con la dottrina della risurrezione (1 Corinti XV, 35-58), che, dopo un certo numero di anni, il corpo di ogni singolo uomo sarebbe stato sottratto alle leggi biologiche mediante un’intima trasformazione, e trasferito in un mondo migliore. Dopo la colpa è preclusa all’uomo la via all’albero della vita e ciò coerentemente significa che l’uomo non ha più la possibilità di vivere sempre e, ad inculcare più efficacemente il carattere di assoluta irrevocabilità della sentenza divina, è segnalata la presenza dei « Cherubini e della fiamma della spada guizzante » (v. 24) incaricati di vegliare contro qualsiasi tentativo di rivalsa da parte dell’uomo. – I Cherubini nell’Antico Testamento (qualunque sia il rapporto etimologico e raffigurativo coi Kàribu mesopotamici) sono esseri sovrumani (Angeli) ministri di Jahvè (cfr. III Re VI,23-27; Ezechiele 1,5-14 e soprattutto 28,14, che richiama chiaramente il nostro testo) e la fiamma della spada guizzante ha certo un significato, almeno generico, di minaccia o di punizione (cfr. Isaia XXXIV,5; Geremia XLVI,10; Ezechiele XXI, 13). È facile riscontrare come il privilegio dell’immortalità e il castigo della morte abbiano nel racconto sacro un risalto eccezionale rispetto al resto: se ne parla, direttamente o indirettamente, sette volte nel corso di due capitoli: II,9.17; III,3.4.19.22.24. È la spiegazione della tristissima e ineluttabile sorte che attende ormai ogni uomo, sintesi e confluenza di tutte le pene: la disintegrazione del proprio essere con la morte, che dissolve il corpo e, solo così, come precisa la Rivelazione successiva, dischiude allo spirito la porta della vita eterna.

b) L’integrità. Naturalmente il genere umano si sarebbe propagato per generazione (L’opinione contraria di alcuni padri orientali (S. ATANASIO, PG. 27, 240; S. GREG. NISSENO, PG44, 185-189; S. Giov. DAMASCENO, PG 94, 976; MOSE’ BAR KEPHA, PG 111, 515) che escludono l’attività generativa dell’umanità, se non fosse intervenuto il peccato originale, non fu mai generale nella Chiesa ed è pressoché sconosciuta presso i Latini). Tuttavia, in questo àmbito appare il secondo privilegio: la sottomissione alle leggi biologiche è tale da non creare un conflitto con l’attività spirituale, perché il meccanismo degli istinti non si scatena, non entra in azione, né prima, né eventualmente contro la decisione della volontà illuminata dalla ragione. L’antico autore biblico aveva intuito questo dissidio, almeno nella sfera sessuale, e a modo suo insiste nell’escluderlo dallo stato primitivo. I progenitori non sono affatto imbarazzati dalla nudità (II,25), ma soltanto dopo il peccato si accorgono di essa come di qualche cosa di nuovo e di pericoloso, e due volte si parla della necessità di coprirsi (III,7; III,21). – Inoltre, sono messi in rilievo, tra le conseguenze del peccato, non solo i pericoli della gravidanza e i dolori del parto, ma anche la passione della donna ad abbandonarsi all’uomo e l’istinto di conquista dell’uomo sulla donna (III,16), il che crea una visione pessimistica dell’amore, in contrasto con la presentazione idilliaca del matrimonio come istituzione divina prima del peccato (II,23-24). – Questo privilegio viene comunemente denominato « integrità » e « immunità della concupiscenza » per indicare positivamente e negativamente lo stato di perfetto equilibrio interiore, per cui l’uomo sentiva nel suo intimo solo la spinta verso il bene ed era sottratto allo spasimo lancinante di quel perenne urto interiore tra bene e male, vita e morte, messo a fuoco con arte inarrivabile da S. Paolo al capo VII dell’epistola ai Romani.

c) L’immunità dal dolore. I protoparenti vengono collocati in un giardino-paradiso, quasi teatro e coefficiente di una felicità, che, nell’incontro e utilizzazione delle cose da parte dell’uomo, bandiva ogni sforzo ed ogni pena. L’uomo per natura sua è un lavoratore (cfr. II,15), cioè un creatore di nuovi rapporti tra le cose, capace d’indurre perciò e inserire nell’universo un nuovo ordine, che potenzia all’indefinito le incommensurabili attitudini insite nelle creature. Ora, solo dopo il peccato, il lavoro per la vita viene esplicitamente presentato come fatica: « col sudore del tuo volto mangerai il pane » (III,17-19). – Così pure solo dopo il peccato vengono assegnate ad Eva, come castigo, le pene inerenti alla convivenza coniugale e alla maternità:

« Farò assai grave il travaglio e la tua gravidanza:

con doglia partorirai figli,

e verso il tuo marito sarà la tua passione

ma egli ti dominerà» (III,16).

I teologi denominano lo stato di felicità dei progenitori prima della colpa: immunità dal dolore, estendendola a tutte le manifestazioni della vita umana. Notiamo come questo privilegio sia in parte frutto e complemento dei precedenti, in quanto l’immortalità è per l’uomo la liberazione dalla prova esteriore più dura e l’immunità dalla concupiscenza la preservazione dalla lotta interiore, spesso più penosa della stessa morte.

d) La scienza. I progenitori risultano dal testo sacro in possesso di un patrimonio di nozioni riguardanti la loro posizione rispetto a Dio, l’umanità futura e, in generale, ciò che era necessario al retto governo della loro vita, sia materiale che morale. Si tratta, come si vede, di un corredo di concetti in gran parte caratteristici dell’età matura o addirittura di misteri. Dal testo non risulta che i protoparenti abbiano compiuto il penoso e lungo tirocinio dello studio e della riflessione, sicché si può concludere che Dio stesso abbia infuso anche nozioni di ordine naturale oltre alla rivelazione di quelle verità superiori alla ragione (entità della prova castigo, ecc.), indispensabili ad una partecipazione cosciente allo stato soprannaturale, cui l’uomo era elevato. Questo privilegio si denomina comunemente: « dono della scienza » .

e) L’elevazione allo stato soprannaturale. Si comprende come in uno stadio così primitivo della Rivelazione l’autore si limiti a mettere in evidenza ciò che vi è di più concreto e sperimentabile nello stato dei progenitori e nelle conseguenze del peccato; solo oscuratamente lascia intendere (È sintomatico in questo senso p. es. il risalto in cui è posta la fuga dal cospetto di Dio, dopo la colpa (III, 8-11). Evidentemente si suppone prima del peccato una familiarità con Dio, di per sé non dovuta alla natura umana) che vi era, oltre quei privilegi, una particolare relazione di amicizia tra Dio e l’uomo, la quale è invece l’elemento principale per la teologia cattolica, anzi per il dogma stesso. Questo dogma, secondo cui i progenitori erano costituiti in stato di giustizia e santità, si deduce dal Nuovo Testamento (specialmente Colossesi III,9-10; Romani V,10-19) ed è la chiave di volta per intendere l’essenza del peccato originale e la perdita degli altri privilegi. Questi si comprendono bene come una base di perfezionamento dello stato naturale reso in tal modo più adeguato al destino sovrumano, alla dignità soprannaturale di figlio di Dio, conferita all’uomo. Avendo il peccato distrutto questa amicizia con Dio, si capisce come sia crollato tutto ciò che ne era come un abbellimento complementare: l’esenzione dalla morte e dalla tirannia degli istinti. Per questo, nella visione simbolica dell’umanità rinnovata (Apocalisse 22,2), ricompare « l’albero della vita », in relazione con la santità riconquistata: « Beati quelli che lavano le loro vesti nel sangue dell’Agnello, essi avranno potere sull’albero della vita » (ibid. 22,14).

[1- Continua …]

About Article VI of Papal Bull “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO”

About Article VI of Papal Bull “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO” *

An answer to a question of a reader:

 Question:

“I think I have a bad understanding of the “Cum Ex Apostolatus Officio” Bull by Paul IV and I just like to get a correct interpretation, so maybe can you explain in details this to me?

“At the beginning it seemed to be clear to me, but now I can’t find anything about the nullity of orders received by an heretic, unless he is publicly under censorship or hit of irregularity”.

Answer:

Well, let’s look at Article VI of the mentioned Papal Bull.

By Article 6 of “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO”

Pope Paul IV teaches about the invalidity of the heretical “sacrament of consecration”.

“6. Adding that if at any time it will be found that some bishop, even conducting himself as an archbishop or patriarch or already mentioned cardinal of the Roman Church, even, as shown, a legate, or even a Roman Pontiff, before his promotion or assumption as cardinal or as Roman Pontiff had deviated from the Catholic Faith or fallen into some heresy, before his promotion or assumption as Cardinal or as Roman Pontiff, that promotion or assumption concerning him, even if made in concord and from the unanimous assent of all the cardinals, is null, void and worthless; not by the reception of consecration, not by the ensuing possession of the office and administration, or as if, either the enthronement or homage of the Roman Pontiff, or the obedience given to him by all, and the length of whatever time in the future, can be said to have recovered power or to be able to recover power, nor can (the assumption or promotion) be considered as legitimate in any part of it, and for those who are promoted as bishops or archbishops or patriarchs or assumed as primates, or as cardinals or even as Roman Pontiff, no faculty of administration in spiritual or temporal matters may be thought to have been attributed or to attribute, but may all things and each thing in any way said, done, effected and administered and then followed up in any way through them lack power and they are not able to attribute any further power nor right to anyone; and they themselves who are thus promoted and assumed by that very fact, without any further declaration to be made, are deprived of every dignity, place, honor, title, authority, function and power; and yet it is permitted to all and each so promoted and assumed, if they have not deviated from the Faith before nor have been heretics, nor have incurred or excited or committed schism”. (Papal Bull CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO Promulgated February 15, 1559 by POPE PAUL IV, 23 May 1555 – 18 August 59)

The Bull, promulgated by Pope Paul IV, followed Pope Leo X’s Bull of Excommunication of Martin Luther and his followers (DECET ROMANUM PONTIFICEM, January 3, 1521), when Luther’s heresy caused the incredibly, terrible disaster in the Catholic Church in Germany and throughout Europe. Furious followers of the fallen Luther seized and occupied thousands of churches and monasteries. More than ten million souls fell into Lutheran heresy and nearly 50,000 people were killed, during the so-called Peasant war in Germany that was provoked by Luther.

Through Luther’s preaching, divorces and impure cohabitation began to be a “norm” for Germans. This destructive process increased and many former Catholic clergy became secret heretics. They appeared to be outwardly Catholic and continued to occupy Cathedrals and village parishes, however, they used their church pulpits for spreading Lutheran heresy in such a way that they continued to destroy and to devastate the Catholic Church.

So, in order to stop this catastrophic process of the destruction caused by the invasion of Lutheran heretics, and thus to save millions of souls, Pope Paul IV issued the Bull “Cum Ex Apostolatus Officio”.

Catholic teaching on the validity of Sacraments is that each Sacrament that is doubtful cannot be taken as valid, and thus it should to be repeated conditionally or absolutely. Sometimes the Sacrament of Matrimony and Orders cannot be repeated in cases where there are specific prohibitive and diriment impediments that exist, which cannot be dispensed.

Every “sacrament”, administered by a heretic can be doubtful. This can take place by any or all of the following ways 1) Intention, 2) Form, 3) Matter, and can be doubtful from the side of a minister and/or to the side of a recipient.

It is commonly known that Luther essentially changed teaching about Sacraments and particularly his heretical conception of “priesthood” was that every man is a “priest”. Such “common priesthood” nullified the sacrament for him and his followers, therefore, the Catholic Church recognizes Lutheran “orders” to be totally invalid.

Of course the Pope did what was right, when he issued the Bull “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO”.

There are two essential details in it:

“is null, void and worthless; not by the reception of consecration”

“without any further declaration to be made”

The same principle, which the Catholic Church applied to Lutheran “priesthood”, is still working towards the “priesthood” of Vatican II today “without any further declaration to be made”, because Vatican II has the conception of “priesthood” that is an exact copy of Luther’s conception of it.

One more word can be said about the Papal Bull “CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO”; it is infallible teaching that does not need any further approval. Everyone can see it in Article IX and Article X:

“9. Moreover, in order that the present letter be read to the knowledge of all those whom it concerns, We desire that it or a copy (to which, written underneath with the hand of the public notary and furnished with the seal of some person constituted in ecclesiastical dignity, We determine that full faith is to be shown thereto) be published and posted on the doors of the basilica of the Prince of the Apostles and of the Apostolic Chancery and on the edge of the Campo Flora by some of our runners and that a posted copy of it be left, and that the publication, posting and the notification of the posted copy in this manner suffice and be held as solemn and lawful, nor that another publication be obliged to be required or respected.

10. Therefore, it is permitted to no one to impair this page of Our approval, renewal, sanction, statute, wills of repeal, of decrees, or to go contrary to it by a rash daring deed. If anyone moreover will have presumed to attempt this, he will incur the wrath of almighty God and of the blessed Apostles Peter and Paul.”

Therefore, This Papal infallible declaration is very simple and clear and does not need any further, “more clear” declaration. Any “consecration” administered by heretics of Vatican II “is null, void”, “without any further declaration to be made”.

Fr. UK

The CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO is still the Pontifical Document of binding force for all baptized persons. Its Legislator, Pope Paul IV and his successors never revoked this Bull. The Code of Canon Law of 1917 did not terminate CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO. Although this Papal Document is the Ecclesiastical Law **, it touches Faith. Particularly the Pope stated that it applies to the putative acceptation by heretics of the Sacrament of Holy Orders, after they have been promoted to be bishops and even after their putative enthronement as Roman Pontiff. Article VI specifically speaks about that. The promotion or elevation of the heretical bishops even if it has been uncontested and promoted by the unanimous assent of all the Cardinals, shall be null, void and worthless, It shall not be possible for them to acquire validity through the acceptance of the office, or through consecration etc. – the Pope states.

That means that the Pope did not recognize consecrations of the heretical bishops, who have fallen into heresy before their elevation to any bishopric dignity. If the Pope said that the heretical bishops would try to validate themselves through consecration, it is evident that he did not recognize the previous consecrations of these heretics, who clandestinely supported Luther’s false teaching about “common priesthood”, or at least, the Pope viewed those “consecrations” as very doubtful.

A couple of words about Luther’s false conception of the “universal priesthood of all believers”. In his address to the Nobility of the German Nation (1520), Luther taught: “For whoever comes out of the water of baptism can boast that he is already a consecrated priest, bishop, and pope”. Also in another place he said, “That the pope or bishop anoints, makes tonsures, ordains, consecrates, or dresses differently from the laity, may make a hypocrite or an idolatrous oil-painted icon, but it in no way makes a Christian or spiritual human being. In fact, we are all consecrated priests through Baptism”.

The Church condemned this obviously wrong and heretical teaching. This condemnation was made because throughout the whole history of the Church, the Priesthood as a Sacrament of the New Testament was administered only for men. Only men were ordained priests and consecrated bishops; that is a permanent and unquestionable practice of Catholic Tradition, which Luther attempted to destroy.

By Bull EXSURGE DOMINE, of June 15, 1520, Pope Leo X condemned all the false teachings of Luther and specifically the heretical error by which Luther insisted that even women and children could forgive sins in confession. By Bull DECET ROMANUM PONTIFICEM, of January 3, 1521, Pope Leo X excommunicated Martin Luther and all of his followers.

When many clergy, especially those of highest ranks, as bishops, appeared as crypto-Lutherans, the Church in the person of Pope Paul IV, promulgated the Pontifical Document CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO, condemning those clerics, who were secret followers of Luther’s heresy. These heretical clerics not only believed in Luther’s false teaching, they also intended to usurp the office of the Holy See.

Particularly by Article VI the Pope spoke not only about the nullity of the promotion and elevation of heretical bishops, but also about the nullity of their consecrations as priests to begin with. Crypto-Lutherans kept the false heretical Luther’s idea of the “universal priesthood of all believers”, and by that very fact, their previous and eventual consecrations would be considered invalid.

The Church had to react to this new dangerous threat, which was no less of a danger than Luther’s heretical revolt itself. While Luther was a heretic outwardly and acted openly, the crypto-Lutheran clergy were clandestine heretics, and thus they were even more dangerous. The Church has reacted to this threat in the person of Pope Paul IV.

Pope Paul IV promulgated the Document concerning Faith and Discipline against the heretical party of “Spirituali” who were in reality, crypto-Lutherans. Some of these crypto-Lutherans even attempted to be elected to the Roman Pontificate. Between the 30s and 50s of the 16th century, (these were the years of the spreading of the “fruits” of Luther’s revolution), heretical tendencies were being spread in the Roman ecclesiastical world.

The party of “Spirituali” had come into existence, represented by crypto-Lutherans, such as Cardinals Reginald Pole, Gasparo Contarini and Giovanni Morone. The “Spirituali” intended to propose the reconciliation of Lutheranism with the Roman Church. They intended to promulgate the crypto-Lutheran “double justification”, rejected by the Council of Trent in 1547. Step by step they moved closer to the moment when they would be able to preach Lutheran heresy openly, and try to destroy the Catholic Church, specifically by means of the annihilation of the Christian Priesthood.

Why did the Pope avoid mentioning heretics by name and why did he use temperate and cautious sentences in his Bull?

Because the heretics were quite powerful and of high rank, and thus they could provoke chaos and anarchy in the whole Roman Church. So the Pope acted very wisely and prudently both spiritually and intellectually. The Bull CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO can be a perfect example of the fulfillment of Our Lord Jesus Christ’s commandment: “Behold, I send you as sheep in the midst of wolves. Be ye therefore wise as serpents and simple as doves” (St. Matthew 10:16).

What could have happened if Pope Paul IV was not able to promulgate CUM EX APOSTOLATUS OFFICIO?

In a word, the destructive “Vatican II” could have started 400 years earlier.

** “Ecclesiastical Law obliges all baptized persons who have attained the use of reason and are seven years of age, and also children under seven years of age when the Church explicitly so rules. Therefore, even the excommunicated as well as heretics and schismatic’s are obliged by the laws of the Church” (Moral Theology).

Fr. UK
[Questo articolo è stato pubblicato in italiano: https://www.exsurgatdeus.org/2018/02/15/cum-ex-apostolatus-officio-una-breve-precisazione/ ]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: DE-DOGMATIZZAZIONE NELLA CHIESA

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO:

DE-DOGMATIZZAZIONE NELLA CHIESA

[«Renovatio», VIII (1973), fasc. 4, pp. 531-533]

Esiste il tentativo di abolire gradualmente i dogmi, ossia le verità definite che fissano la rivelazione divina, e quanto ne consegue? Dobbiamo rispondere affermativamente. Il pericolo verrà certamente superato, perché il divin Fondatore ha garantito l’indefettibilità alla sua Chiesa. Ma tentativo e pericolo esistono in forma preoccupante. Nel numero di «Le Monde» del 29 dicembre 1973, Henry Fesquet, un commentatore religioso ascoltato nel mondo cattolico francese, scrive: «Pio XII aveva ragione. L’ondata di protestantesimo, di cui egli aveva avvertito i primi effetti, ha invaso la Chiesa Cattolica nel suo complesso quattro secoli dopo la Riforma … Difendere la purezza della dottrina è un compito sempre più ingrato, persino impossibile». – Difendere la verità è un compito sempre grato e sempre possibile. Tuttavia riportiamo i giudizi del Fesquet perché sono una palinodia di quegli ambienti, ecclesiastici e laici, i quali non scorgevano nel corso degli anni sessanta altro che luce in tutto ciò che nella Chiesa si poneva sotto l’insegna del mutamento. Ora Fesquet ci dice che invece di mutamento spesso si è trattato di rottura e, anzi, di negazione. – I fatti parlano: eccone alcuni. Sono comparsi dei catechismi, in taluni dei quali qualche verità è svanita (e si tratta di verità fondamentali), come quella del peccato originale, senza cui si cancella la logica di tutta la Redenzione. Le titubanze, i rallentamenti nella redazione di taluni catechismi sono significativi. I discorsi teologici (e nulla si fa oggi, anche di banale, senza preporre delle «ragioni teologiche») diventano sempre più vaghi e sfuggenti dalle verità concrete, chiare, rese in semplicità di termini, accettati e capiti. Si è adottato un vocabolario diffuso, ma per il quale nessuno ha inequivocamente fissato il valore dei singoli termini. Questi termini hanno viceversa il risultato di permettere vari inconvenienti: quello di capire ciò che si vuole o, meglio, ciò che piace, quello di introdurre postulati di vario genere, hegeliano, freudiano, sociologistico, che apertamente non si enuncerebbero. Evanescenze, sfumature, lungaggini inconcludenti spingono i termini chiari della verità nel porto delle nebbie. Ciò appare a chi anche soltanto sfogli l’enormità di scritti poligrafati che siamo condannati a ricevere e, spesso, per dovere, a leggere. – L’acrimonia verso la teologia speculativa è ormai endemica. Appare non solo dal disprezzo che presso non pochi essa raccoglie, ma dalla sostituzione, anche in recenti opere notevoli, di un puro metodo storico (meglio sarebbe dire storicistico), al metodo teologico (pur se la teologia ricostruisce l’interpretazione della Bibbia e della Tradizione servendosi di elementi storici od aventi un carattere anche storico). – C’è di più. In molta predicazione ed in molta saggistica è rimasto un Cristo che si rassomiglia assai a quello del «Jesus festival» o al «Christ superstar», mentre se ne diluisce o se ne nasconde la divinità. Il tentativo di «de-dogmatizzazione» tenta di assumere un volto scientifico, alterando il metodo teologico, che è indicato dalla stessa rivelazione divina. Si tacciono gli interventi del Magistero, dimenticando magari quelli solenni (il Concilio di Trento è particolarmente colpito); si elencano i placita dei «teologi» moderni che divengono criteri di verità. – Ma i teologi non possono cambiare la teologia: al contrario, se si pongono sulla strada di un metodo sbagliato, non possono non uscire dalla comunione della verità. L’amore per il prossimo diviene la lotta di classe. E l’amore stesso, del resto, cessa di essere spirito per ridursi a eros. Riecheggia, ininterrotta, la dossologia alla fraternità, all’eguaglianza e, soprattutto, alla libertà (di fare quel che piace). Non pochi, anche tenendo conto degli atteggiamenti concreti e personali, stanno facendo la sostituzione del Cristianesimo col sociologismo. La gravissima ignoranza teologica fa sì che molti applaudono ad esibizioni apostoliche, solo per non sembrar da meno degli altri. – Si parla di fede: certo, ma senza dottrina. Ossia senza verità precise, senza proposizioni, senza formule. Abbiamo letto sulla rivista «Concilium» questa citazione di E. Durkheim: «C’è qualcosa di eterno nella religione che è destinato a sopravvivere a tutti i simboli particolari nei quali il pensiero religioso si è progressivamente sviluppato». Così, con un pizzico di simbolismo e di evoluzionismo, si arriva ad una religione senza attributi e senza manifestazioni. Le spogliazioni delle chiese ne sono il segno precorritore. Sparito il sole, restano le nebbie. Il tentativo di «de-dogmatizzare» la Chiesa comincia dall’odio alle formule ed alle proposizioni precise. Quando si delinea questo andazzo, le conclusioni sono scontate sin dai primi segni, quali l’apatia per le definizioni dei concetti, dei termini e delle cose. – La Chiesa ha sempre difeso la Rivelazione con proposizioni precise. Non che queste abbiano creato la verità, l’hanno solo posta  in risalto per renderla inequivocamente chiara. La fede nell’Assunzione esisteva prima della definizione del 1950. L’Immacolata era nella fede della Chiesa prima del 1854, così come la divinità di Cristo era tenuta con una certezza tenacissima, fino al martirio, prima del Concilio di Nicea. – “Generalmente le definizioni sono venute dopo le eresie, ossia dopo gli attacchi, ed hanno costituito la linea di sbarramento. In tal modo si è salvata la Chiesa delle verità certe dal mercato delle opinioni. Le proposizioni sono state redatte talvolta in forma positiva, talvolta in forma negativa, ossia di condanna. Le due forme hanno avuto lo stesso risultato. La stima e la gratitudine degli uomini va alla Chiesa di Dio, perché è attrice di certezze, non propalatrice di dubbi eterni.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: RERUM NOVARUM (1).

La “Rerum Novarum” è una pietra miliare del sacro Magistero della Chiesa che affronta la questione sociale in modo mirabile e che suscita uno stupore mozzafiato per la profondità di dottrina e la lucidità dell’analisi sociale a tutto campo operata da S. S. Leone XIII. La sostanza dell’enciclica è con il tempo ancor più valida alla luce degli avvenimenti storici del secolo passato, e maggiormente attuale oggi che si vive in tempi di marasma dottrinale teologico, filosofico, sociologico, economico, nonché di confusione politica che ha superato il limite dell’assurdo. S. S. Pecci aveva già delineato alcuni pilastri essenziali di questa questione, nelle encicliche che abbiamo letto nelle due scorse domeniche. Essa costituisce inoltre il documento base, come per altre problematiche vitali, (ad esempio il matrimonio, la lettura e la pubblicazione di libri e giornali corrotti e corruttori, il pericolo del massonismo, l’interpretazione “novatrice” della sacra Scrittura, la necessità di riscoprire ed approfondire la teologia speculativa onde arginare il modernismo già in agguato in quei tempi, solo per citarne alcune tra le tante), per ulteriori encicliche e documenti dei Papi successivi. Il testo della lettera merita tutta la nostra attenzione e va meditato senza distrazioni. Per semplicità di lettura lo abbiamo pertanto suddiviso in due parti. I commenti hanno fatto versare nei decenni passati una marea di inchiostro da parte di autori tra i più qualificati. Noi, nella nostra pochezza, ce ne asteniamo assolutamente anche perché l’Enciclica è talmente chiara e luminosa che deve essere semplicemente letta ed impressa nella propria mente, sperando che un giorno, quando piacerà a Dio, e quando ai suoi occhi noi lo avremo meritato, possa trovare finalmente applicazione pratica nell’interesse dei singoli e dei popoli tutti.

RERUM NOVARUM
LETTERA ENCICLICA DI


S.S. LEONE XIII  

-I-

INTRODUZIONE

Motivo dell’enciclica: la questione operaia

1. L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità che tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica l’ingegno dei dotti, i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, i consigli dei principi, tanto che oggi non vi è questione che maggiormente interessi il mondo. Pertanto, venerabili fratelli, ciò che altre volte facemmo a bene della Chiesa e a comune salvezza con le nostre lettere encicliche sui Poteri pubblici, la Libertà umana, la Costituzione cristiana degli Stati, ed altri simili argomenti che ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, la medesima cosa crediamo di dover fare adesso per gli stessi motivi sulla questione operaia. Trattammo già questa materia, come ce ne venne l’occasione più di una volta: ma la coscienza dell’apostolico nostro ministero ci muove a trattarla ora, di proposito e in pieno, al fine di mettere in rilievo i principi con cui, secondo giustizia ed equità, si deve risolvere la questione. Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è segnare i precisi confini nelle relazioni tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini turbolenti ed astuti, si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione stessa a perturbamento dei popoli.

.2. Comunque sia, è chiaro, ed in ciò si accordano tutti, come sia di estrema necessità venir in aiuto senza indugio e con opportuni provvedimenti ai proletari, che per la maggior parte si trovano in assai misere condizioni, indegne dell’uomo. Poiché, soppresse nel secolo passato le corporazioni di arti e mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne che poco a poco gli operai rimanessero soli e indifesi in balda della cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male un’usura divoratrice che, sebbene condannata tante volte dalla Chiesa., continua lo stesso, sotto altro colore, a causa di ingordi speculatori. Si aggiunga il monopolio della produzione e del commercio, tanto che un piccolissimo numero di straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un gioco poco meno che servile.

PARTE PRIMA

IL SOCIALISMO, FALSO RIMEDIO

La soluzione socialista inaccettabile dagli operai

3. A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale.

4. E infatti non è difficile capire che lo scopo del lavoro, il fine prossimo che si propone l’artigiano, è la proprietà privata. Poiché se egli impiega le sue forze e la sua industria a vantaggio altrui, lo fa per procurarsi il necessario alla vita: e però con il suo lavoro acquista un vero e perfetto diritto, non solo di esigere, ma d’investire come vuole, la dovuta mercede. Se dunque con le sue economie è riuscito a far dei risparmi e, per meglio assicurarli, li ha investiti in un terreno, questo terreno non è infine altra cosa che la mercede medesima travestita di forma, e conseguente proprietà sua, né più né meno che la stessa mercede. Ora in questo appunto, come ognuno sa, consiste la proprietà, sia mobile che stabile. Con l’accumulare pertanto ogni proprietà particolare, i socialisti, togliendo all’operaio la libertà di investire le proprie mercedi, gli rapiscono il diritto e la speranza di trarre vantaggio dal patrimonio domestico e di migliorare il proprio stato, e ne rendono perciò più infelice la condizione.

5. Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una aperta ingiustizia, giacché la proprietà prenata è diritto di natura. Poiché anche in questo passa gran differenza tra l’uomo e il bruto. Il bruto non governa sé stesso; ma due istinti lo reggono e governano, i quali da una parte ne tengono desta l’attività e ne svolgono le forze, dall’altra terminano e circoscrivono ogni suo movimento; cioè l’istinto della conservazione propria, e l’istinto della conservazione della propria specie. A conseguire questi due fini, basta al bruto l’uso di quei determinati mezzi che trova intorno a sé; né potrebbe mirare più lontano, perché mosso unicamente dal senso e dal particolare sensibile. Ben diversa è la natura dell’uomo. Possedendo egli la vita sensitiva nella sua pienezza, da questo lato anche a lui è dato, almeno quanto agli altri animali, di usufruire dei beni della natura materiale. Ma l’animalità in tutta la sua estensione, lungi dal circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga inferiore, e fatta per esserle soggetta. Il gran privilegio dell’uomo, ciò che lo costituisce tale o lo distingue essenzialmente dal bruto, è l’intelligenza, ossia la ragione. E appunto perché ragionevole, si deve concedere all’uomo qualche cosa di più che il semplice uso dei beni della terra, comune anche agli altri animali: e questo non può essere altro che il diritto di proprietà stabile; né proprietà soltanto di quelle cose che si consumano usandole, ma anche di quelle che l’uso non consuma.

La proprietà privata è di diritto naturale

6. Ciò riesce più evidente se si penetra maggiormente nell’umana natura. Per la sterminata ampiezza del suo conoscimento, che abbraccia, oltre il presente, anche l’avvenire, e per la sua libertà, l’uomo sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a sé stesso. Egli deve dunque poter scegliere i mezzi che giudica più propri al mantenimento della sua vita, non solo per il momento che passa, ma per il tempo futuro. Ciò vale quanto dire che, oltre il dominio dei frutti che dà la terra, spetta all’uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno fecondo deve essergli somministrato il necessario ai suoi bisogni futuri. Giacché i bisogni dell’uomo hanno, per così dire, una vicenda di perpetui ritorni e, soddisfatti oggi, rinascono domani. Pertanto la natura deve aver dato all’uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati alla perennità del soccorso di cui egli abbisogna, beni che può somministrargli solamente la terra, con la sua inesauribile fecondità. Non v’è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato perché l’uomo è anteriore alto Stato: quindi prima che si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il diritto di provvedere a sé stesso.

7. L’aver poi Iddio dato la terra a uso e godimento di tutto il genere umano, non si oppone per nulla al diritto della privata proprietà; poiché quel dono egli lo fece a tutti, non perché ognuno ne avesse un comune e promiscuo dominio, bensì in quanto non assegnò nessuna parte del suolo determinatamente ad alcuno, lasciando ciò all’industria degli uomini e al diritto speciale dei popoli. La terra, per altro, sebbene divisa tra i privati, resta nondimeno a servizio e beneficio di tutti, non essendovi uomo al mondo che non riceva alimento da essi. Chi non ha beni propri vi supplisce con il lavoro; tanto che si può affermare con verità che il mezzo universale per provvedere alla vita è il lavoro, impiegato o nel coltivare un terreno proprio, o nell’esercitare un’arte, la cui mercede in ultimo si ricava dai molteplici frutti della terra e in essi viene commutata. Ed è questa un’altra prova che la proprietà privata è conforme alla natura. Il necessario al mantenimento e al perfezionamento della vita umana la terra ce lo somministra largamente, ma ce lo somministra a questa condizione, che l’uomo la coltivi e le sia largo di provvide cure. Ora, posto che a conseguire i beni della natura l’uomo impieghi l’industria della mente e le forze del corpo, con ciò stesso egli riunisce in sé quella parte della natura corporea che ridusse a cultura, e in cui lasciò come impressa una impronta della sua personalità, sicché giustamente può tenerla per sua ed imporre agli altri l’obbligo di rispettarla.

La proprietà privata sancita dalle leggi umane e divine

8. Così evidenti sono tali ragioni, che non si sa capire come abbiano potuto trovar contraddizioni presso alcuni, i quali, rinfrescando vecchie utopie, concedono bensì all’uomo l’uso del suolo e dei vari frutti dei campi, ma del suolo ove egli ha fabbricato e del campo che ha coltivato gli negano la proprietà. Non si accorgono costoro che in questa maniera vengono a defraudare l’uomo degli effetti del suo lavoro. Giacché il campo dissodato dalla mano e dall’arte del coltivato non è più quello di prima, da silvestre è divenuto fruttifero, da sterile ferace. Questi miglioramenti prendono talmente corpo in quel terreno che la maggior parte di essi ne sono inseparabili. Ora, che giustizia sarebbe questa, che un altro il quale non ha lavorato subentrasse a goderne i frutti? Come l’effetto appartiene alla sua causa, così il frutto del lavoro deve appartenere a chi lavora. A ragione pertanto il genere umano, senza affatto curarsi dei pochi contraddittori e con l’occhio fisso alla legge di natura, trova in questa legge medesima il fondamento della divisione dei beni; e riconoscendo che la proprietà privata è sommamente consona alla natura dell’uomo e alla pacifica convivenza sociale, l’ha solennemente sancita mediante la pratica di tutti i secoli. E le leggi civili che, quando sono giuste, derivano la propria autorità ed efficacia dalla stessa legge naturale (Cfr. S. Th. I-I, q. 95, a. 4), confermano tale diritto e lo assicurano con la pubblica forza. Né manca il suggello della legge divina, la quale vieta strettissimamente perfino il desiderio della roba altrui: Non desiderare la moglie del prossimo tuo: non la casa, non il podere, non la serva, non il bue, non l’asino, non alcuna cosa di tutte quelle che a lui appartengono(Deut 5,21).

La libertà dell’uomo

9. Questo diritto individuale cresce di valore se lo consideriamo nei riguardi del consorzio domestico. Libera all’uomo è l’elezione del proprio stato: Egli può a suo piacere seguire il consiglio evangelico della verginità o legarsi in matrimonio. Naturale e primitivo è il diritto al coniugio e nessuna legge umana può abolirlo, né può limitarne, comunque sia, lo scopo a cui Iddio l’ha ordinato quando disse: Crescete e moltiplicatevi (Gen 1,28). Ecco pertanto la famiglia, ossia la società domestica, società piccola ma vera, e anteriore a ogni civile società; perciò con diritti e obbligazioni indipendenti dallo Stato. Ora, quello che dicemmo in ordine al diritto di proprietà inerente all’individuo va applicato all’uomo come capo di famiglia: anzi tale diritto in lui è tanto più forte quanto più estesa e completa è nel consorzio domestico la sua personalità.

Famiglia e Stato

10. Per legge inviolabile di natura incombe al padre il mantenimento della prole: e per impulso della natura medesima, che gli fa scorgere nei figli una immagine di sé e quasi una espansione e continuazione della sua persona, egli è spinto a provvederli in modo che nel difficile corso della vita possano onestamente far fronte ai propri bisogni: cosa impossibile a ottenersi se non mediante l’acquisto dei beni fruttiferi, ch’egli poi trasmette loro in eredità. Come la convivenza civile così la famiglia, secondo quello che abbiamo detto, è una società retta da potere proprio, che è quello paterno. Entro i limiti determinati dal fine suo, la famiglia ha dunque, per la scelta e l’uso dei mezzi necessari alla sua conservazione e alla sua legittima indipendenza, diritti almeno eguali a quelli della società civile. Diciamo almeno eguali, perché essendo il consorzio domestico logicamente e storicamente anteriore al civile, anteriori altresì e più naturali ne debbono essere i diritti e i doveri. Che se l’uomo, se la famiglia, entrando a far parte della società civile, trovassero nello Stato non aiuto, ma offesa, non tutela, ma diminuzione dei propri diritti, la civile convivenza sarebbe piuttosto da fuggire che da desiderare.

Lo Stato e il suo intervento nella famiglia

11. È dunque un errore grande e dannoso volere che lo Stato possa intervenire a suo talento nel santuario della famiglia. Certo, se qualche famiglia si trova per avventura in si gravi strettezze che da sé stessa non le è affatto possibile uscirne, è giusto in tali frangenti l’intervento dei pubblici poteri, giacché ciascuna famiglia è parte del corpo sociale. Similmente in caso di gravi discordie nelle relazioni scambievoli tra i membri di una famiglia intervenga lo Stato e renda a ciascuno il suo, poiché questo non è usurpare i diritti dei cittadini, ma assicurarli e tutelarli secondo la retta giustizia. Qui però deve arrestarsi lo Stato; la natura non gli consente di andare oltre. La patria potestà non può lo Stato né annientarla né assorbirla, poiché nasce dalla sorgente stessa della vita umana. I figli sono qualche cosa del padre, una espansione, per così dire, della sua personalità e, a parlare propriamente, essi entrano a far parte del civile consorzio non da sé medesimi, bensì mediante la famiglia in cui sono nati. È appunto per questa ragione che, essendo i figli naturalmente qualcosa del padre… prima dell’uso della ragione stanno sotto la cura dei genitori. (S. Th. II-II, q. 10, a. 12) Ora, i socialisti, sostituendo alla provvidenza dei genitori quella dello Stato, vanno contro la giustizia naturale e disciolgono la compagine delle famiglie.

La soluzione socialista è nociva alla stessa società

12. Ed oltre l’ingiustizia, troppo chiaro appare quale confusione e scompiglio ne seguirebbe in tutti gli ordini della cittadinanza, e quale dura e odiosa schiavitù nei cittadini. Si aprirebbe la via agli asti, alle recriminazioni, alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero, tolto ogni stimolo all’ingegno e all’industria individuale: e la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria. Tutte queste ragioni danno diritto a concludere che la comunanza dei beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si deve recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno, altera gli uffici dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo adunque, che nell’opera di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata. Presupposto ciò, esporremo donde si abbia a trarre il rimedio.

PARTE SECONDA

IL VERO RIMEDIO: L’UNIONE DELLE ASSOCIAZIONI

A) L’opera della Chiesa

13. Entriamo fiduciosi in questo argomento, e di nostro pieno diritto; giacché si tratta di questione di cui non è possibile trovare una risoluzione che valga senza ricorrere alla religione e alla Chiesa. E poiché la cura della religione e la dispensazione dei mezzi che sono in potere della Chiesa è affidata principalmente a noi, ci parrebbe di mancare al nostro ufficio, tacendo. Certamente la soluzione di si arduo problema richiede il concorso e l’efficace cooperazione anche degli altri: vogliamo dire dei governanti, dei padroni e dei ricchi, come pure degli stessi proletari che vi sono direttamente interessati: ma senza esitazione alcuna affermiamo che, se si prescinde dall’azione della Chiesa, tutti gli sforzi riusciranno vani. Difatti la Chiesa è quella che trae dal Vangelo dottrine atte a comporre, o certamente a rendere assai meno aspro il conflitto: essa procura con gli insegnamenti suoi, non solo d’illuminare la mente, ma d’informare la vita e i costumi di ognuno: con un gran numero di benefiche istituzioni migliora le condizioni medesime del proletario; vuole e brama che i consigli e le forze di tutte le classi sociali si colleghino e vengano convogliate insieme al fine di provvedere meglio che sia possibile agli interessi degli operai; e crede che, entro i debiti termini, debbano volgersi a questo scopo le stesse leggi e l’autorità dello Stato.

1 – Necessità delle ineguaglianze sociali e del lavoro faticoso

14. Si stabilisca dunque in primo luogo questo principio, che si deve sopportare la condizione propria dell’umanità: togliere dal mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, i socialisti, ma ogni tentativo contro la natura delle cose riesce inutile. Poiché la più grande varietà esiste per natura tra gli uomini: non tutti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia, non la sanità, non le forze in pari grado: e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza delle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia dei privati che del civile consorzio, perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità dello stato. Quanto al lavoro, l’uomo nello stato medesimo d’innocenza non sarebbe rimasto inoperoso: se non che, quello che allora avrebbe liberamente fatto la volontà a ricreazione dell’animo, lo impose poi, ad espiazione del peccato, non senza fatica e molestia, la necessità, secondo quell’oracolo divino: Sia maledetta la terra nel tuo lavoro; mangerai di essa in fatica tutti i giorni della tua vita (Gen III,17). Similmente il dolore non mancherà mai sulla terra; perché aspre, dure, difficili a sopportarsi sono le ree conseguenze del peccato, le quali, si voglia o no, accompagnano l’uomo fino alla tomba. Patire e sopportare è dunque il retaggio dell’uomo; e qualunque cosa si faccia e si tenti, non v’è forza né arte che possa togliere del tutto le sofferenze del mondo. Coloro che dicono di poterlo fare e promettono alle misere genti una vita scevra di dolore e di pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo e lo trascinano per una via che conduce a dolori più grandi di quelli attuali. La cosa migliore è guardare le cose umane quali sono e nel medesimo tempo cercare altrove, come dicemmo, il rimedio ai mali.

2 – Necessità della concordia

15. Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile; cosa tanto contraria alla ragione e alla verità. In vece è verissimo che, come nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Ora, a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.

3 – Relazioni tra le classi sociali

a) giustizia

16. Innanzi tutto, l’insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi, senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite rovinose. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e della fede il lavoro non degrada l’uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere onestamente con l’opera propria. Quello che veramente è indegno dell’uomo è di abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze. Viene similmente comandato che nei proletari si deve aver riguardo alla religione e ai beni dell’anima. È obbligo perciò dei padroni lasciare all’operaio comodità e tempo che bastino a compiere i doveri religiosi; non esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo; non alienarlo dallo spirito di famiglia e dall’amore del risparmio; non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti con l’età e con il sesso.

17. Principalissimo poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio. Ecco, la mercede degli operai… che fu defraudata da voi, grida; e questo grido ha ferito le orecchie del Signore degli eserciti (Giac 5,4). Da ultimo è dovere dei ricchi non danneggiare i piccoli risparmi dell’operaio né con violenza né con frodi né con usure manifeste o nascoste; questo dovere è tanto più rigoroso, quanto più debole e mal difeso è l’operaio e più sacrosanta la sua piccola sostanza. L’osservanza di questi precetti non basterà essa sola a mitigare l’asprezza e a far cessare le cagioni del dissidio ?

b) carità

18. Ma la Chiesa, guidata dagli insegnamenti e dall’esempio di Cristo, mira più in alto, cioè a riavvicinare il più possibile le due classi, e a renderle amiche. Le cose del tempo non è possibile intenderle e valutarle a dovere, se l’animo non si eleva ad un’altra vita, ossia a quella eterna, senza la quale la vera nozione del bene morale necessariamente si dilegua, anzi l’intera creazione diventa un mistero inspiegabile. Quello pertanto che la natura stessa ci detta, nel cristianesimo è un dogma su cui come principale fondamento poggia tutto l’edificio della religione: cioè che la vera vita dell’uomo è quella del mondo avvenire. Poiché Iddio non ci ha creati per questi beni fragili e caduchi, ma per quelli celesti ed eterni; e la terra ci fu data da Lui come luogo di esilio, non come patria. Che tu abbia in abbondanza ricchezze ed altri beni terreni o che ne sia privo, ciò all’eterna felicità non importa nulla; ma il buono o cattivo uso di quei beni, questo è ciò che sommamente importa. Le varie tribolazioni di cui è intessuta la vita di quaggiù, Gesù Cristo, che pur ci ha redenti con redenzione copiosa, non le ha tolte; le ha convertite in stimolo di virtù e in maniera di merito, tanto che nessun figlio di Adamo può giungere al cielo se non segue le orme sanguinose di Lui. Se persevereremo, regneremo insieme (2 Tim 2,12). Accettando volontariamente sopra di sé travagli e dolori, egli ne ha mitigato l’acerbità in modo meraviglioso, e non solo con l’esempio ma con la sua grazia e con la speranza del premio proposto, ci ha reso più facile il patire. Poiché quella che attualmente è una momentanea e leggera tribolazione nostra, opera in noi un eterno e sopra ogni misura smisurato peso di gloria (2Cor 4,17). I fortunati del secolo sono dunque avvertiti che le ricchezze non li liberano dal dolore e che esse per la felicità avvenire, non che giovare, nuocciono (Cfr. Mat 19,23-24); che i ricchi debbono tremare, pensando alle minacce straordinariamente severe di Gesù Cristo (Cfr. Luc 6,24-25); che dell’uso dei loro beni avranno un giorno da rendere rigorosissimo conto al Dio giudice.

c) la vera utilità delle ricchezze

19. In ordine all’uso delle ricchezze, eccellente e importantissima è la dottrina che, se pure fu intravveduta dalla filosofia, venne però insegnata a perfezione dalla Chiesa; la quale inoltre procura che non rimanga pura speculazione, ma discenda nella pratica e informi la vita. Il fondamento di tale dottrina sta in ciò: che nella ricchezza si suole distinguere il possesso legittimo dal legittimo uso. Naturale diritto dell’uomo è, come vedemmo, la privata proprietà dei beni e l’esercitare questo diritto é, specialmente nella vita socievole, non pur lecito, ma assolutamente necessario. E’ lecito, dice san Tommaso, anzi necessario all’umana vita che l’uomo abbia la proprietà dei beni (S. Th. III-II, q. 66, a. 2). Ma se inoltre si domandi quale debba essere l’uso di tali beni, la Chiesa per bocca del santo Dottore non esita a rispondere che, per questo rispetto, l’uomo non deve possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo che facilmente li comunichi all’altrui necessità. Onde l’Apostolo dice: Comanda ai ricchi di questo secolo di dare e comunicare facilmente il proprio (Ivi). Nessuno, Certo, é tenuto a soccorrere gli altri con le cose necessarie a sé e ai suoi, anzi neppure con ciò che è necessario alla convivenza e al decoro del proprio  stato, perché nessuno deve vivere in modo non conveniente (S. Th. II-II, q. 32, a. 6). Ma soddisfatte le necessità e la convenienza è dovere soccorrere col superfluo i bisognosi. Quello che sopravanza date in elemosina (Luc 11,41). Eccetto il caso di estrema necessità, questi, è vero, non sono obblighi di giustizia, ma di carità cristiana il cui adempimento non si può certamente esigere per via giuridica, ma sopra le leggi e i giudizi degli uomini sta la legge e il giudizio di Cristo, il quale inculca in molti modi la pratica del dono generoso e insegna: E’ più bello dare che ricevere (At 20,35), e terrà per fatta o negata a sé la carità fatta o negata ai bisognosi: Quanto faceste ad uno dei minimi di questi miei fratelli, a me lo faceste (Mat 25,40). In conclusione, chiunque ha ricevuto dalla munificenza di Dio copia maggiore di beni, sia esteriori e corporali sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti, di servirsene al perfezionamento proprio, e nel medesimo tempo come ministro della divina provvidenza a vantaggio altrui: Chi ha dunque ingegno, badi di non tacere; chi ha abbondanza di roba, si guardi dall’essere troppo duro di mano nell’esercizio della misericordia; chi ha un’arte per vivere, ne partecipi al prossimo l’uso e l’utilità (S. Greg. M., In Evang. hom 9, n. 7).

d) vantaggi della povertà

20. Ai poveri poi, la Chiesa insegna che innanzi a Dio non è cosa che rechi vergogna né la povertà né il dover vivere di lavoro. Gesù Cristo confermò questa verità con 1’esempio suo mentre, a salute degli uomini, essendo ricco, si fece povero (2Cor 8,9) ed essendo Figlio di Dio, e Dio egli stesso, volle comparire ed essere creduto figlio di un falegname, anzi non ricusò di passare lavorando la maggior parte della sua vita: Non è costui il fabbro, il figlio di Maria? (Mar 6,3) Mirando la divinità di questo esempio, si comprende più facilmente che la vera dignità e grandezza dell’uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù; che la virtù è patrimonio comune, conseguibile ugualmente dai grandi e dai piccoli, dai ricchi e dai proletari; che solo alle opere virtuose, in chiunque si trovino, è serbato il premio dell’eterna beatitudine. Diciamo di più per gli infelici pare che Iddio abbia una particolare predilezione poiché Gesù Cristo chiama beati i poveri (Cfr. Mat 5,3); in. vita amorosamente a venire da lui per conforto, quanti sono stretti dal peso degli affanni (Mat 11,28); i deboli e i perseguitati abbraccia con atto di carità specialissima. Queste verità sono molto efficaci ad abbassar l’orgoglio dei fortunati e togliere all’avvilimento i miseri, ad ispirare indulgenza negli uni e modestia negli altri. Così le distanze, tanto care all’orgoglio, si accorciano; né riesce difficile ottenere che le due classi, stringendosi la mano, scendano ad amichevole accordo.

e) fraternità cristiana

21. Ma esse, obbedendo alla legge evangelica, non saranno paghe di una semplice amicizia, ma vorranno darsi l’amplesso dell’amore fraterno. Poiché conosceranno e sentiranno che tutti gli uomini hanno origine da Dio, Padre comune; che tutti tendono a Dio, fine supremo, che solo può rendere perfettamente felici gli uomini e gli angeli; che tutti sono stati ugualmente redenti da Gesù Cristo e chiamati alla dignità della figliolanza divina, in modo che non solo tra loro, ma con Cristo Signore, primogenito fra molti fratelli, sono congiunti col vincolo di una santa fraternità. Conosceranno e sentiranno che i beni di natura e di grazia sono patrimonio comune del genere umano e che nessuno, senza proprio merito, verrà diseredato dal retaggio dei beni celesti: perché se tutti figli, dunque tutti eredi; eredi di Dio, e coeredi di Gesù Cristo (Rom 8,17). Ecco 1’ideale dei diritti e dei doveri contenuto nel Vangelo. Se esso prevalesse nel mondo, non cesserebbe subito ogni dissidio e non tornerebbe forse la pace?

4 – Mezzi positivi

a) la diffusione della dottrina cristiana

22. Se non che la Chiesa, non contenta di additare il rimedio, l’applica ella stessa con la materna sua mano. Poiché ella é tutta intenta a educare e formare gli uomini a queste massime, procurando che le acque salutari della sua dottrina scorrano largamente e vadano per mezzo dei Vescovi e del Clero ad irrigare tutta quanta la terra. Nel tempo stesso si studia di penetrare negli animi e di piegare le volontà, perché si lascino governare dai divini precetti. E in quest’arte, che é di capitale importanza,  poiché ne dipende ogni vantaggio, la Chiesa sola ha vera efficacia. Infatti, gli strumenti che adopera a muovere gli animi le furono dati a questo fine da Gesù Cristo, ed hanno in sé virtù divina; si che essi soli possono penetrare nelle intime fibre dei cuori, e far si che gli uomini obbediscano alla voce del dovere, tengano a freno le passioni, amino con supremo e singolare amore Iddio e il prossimo, e abbattano coraggiosamente tutti gli ostacoli che attraversano il cammino della virtù.

b) il rinnovamento della società

Basta su ciò accennar di passaggio agli esempi antichi. Ricordiamo fatti e cose poste fuori di ogni dubbio: cioè che per opera del cristianesimo fu trasformata da capo a fondo la società; che questa trasformazione fu un vero progresso del genere umano, anzi una risurrezione dalla morte alla vita morale, e un perfezionamento non mai visto per l’innanzi né sperabile maggiore per l’avvenire; e finalmente che Gesù Cristo è il principio e il termine di questi benefizi, i quali, scaturiti da lui, a lui vanno riferiti. Avendo il mondo mediante la luce evangelica appreso il gran mistero dell’incarnazione del Verbo e dell’umana redenzione, la vita di Gesù Cristo Dio e uomo si trasfuse nella civile società che ne fu permeata con la fede, i precetti, le leggi di lui. Perciò, se ai mali del mondo v’è un rimedio, questi non può essere altro che il ritorno alla vita e ai costumi cristiani. È un solenne principio questo, che per riformare una società in decadenza, è necessario riportarla ai principi che le hanno dato l’essere, la perfezione di ogni società è riposta nello sforzo di arrivare al suo scopo: in modo che il principio generatore dei moti e delle azioni sociali sia il medesimo che ha generato l’associazione. Quindi deviare dallo scopo primitivo è corruzione; tornare ad esso è salvezza. E questo è vero, come di tutto il consorzio civile, così della classe lavoratrice, che ne è la parte più numerosa.

c) la beneficenza della Chiesa

23. Né si creda che le premure della Chiesa siano così interamente e unicamente rivolte alla salvezza delle anime, da trascurare ciò che appartiene alla vita morale e terrena. Ella vuole e procura che soprattutto i proletari emergano dal loro infelice stato, e migliorino la condizione di vita. E questo essa fa innanzi tutto indirettamente, chiamando e insegnando a tutti gli uomini la virtù. I costumi cristiani, quando siano tali davvero, contribuiscono anch’essi di per sé alla prosperità terrena, perché attirano le benedizioni di Dio, principio e fonte di ogni bene; infrenano la cupidigia della roba e la sete dei piaceri (Cfr. 1Tim 6,10), veri flagelli che rendono misero l’uomo nella abbondanza stessa di ogni cosa; contenti di una vita frugale, suppliscono alla scarsezza del censo col risparmio, lontani dai vizi, che non solo consumano le piccole, ma anche le grandi sostanze, e mandano in rovina i più lauti patrimoni.

24. Ma vi è di più: la Chiesa concorre direttamente al bene dei proletari col creare e promuovere quanto può conferire al loro sollievo, e in questo tanto si è segnalata, da riscuoter l’ammirazione e gli encomi degli stessi nemici. Nel cuore dei primi cristiani la carità fraterna era così potente che i più facoltosi si privavano spessissimo del proprio per soccorrere gli altri; tanto che non vi era tra loro nessun bisognoso (At 4,34). Ai diaconi, ordine istituito appositamente per questo, era affidato dagli apostoli l’ufficio di esercitare la quotidiana beneficenza e l’apostolo Paolo, benché gravato dalla cura di tutte le Chiese, non dubitava di intraprendere faticosi viaggi, per recare di sua mano ai cristiani poveri le elemosine da lui raccolte. Tertulliano chiama depositi della pietà le offerte che si facevano spontaneamente dai fedeli di ciascuna adunanza, perché destinate a soccorrere e dar sepoltura agli indigenti, sovvenire i poveri orfani d’ambo i sessi, i vecchi e i naufraghi (Apolog, 2.39). Da lì poco a poco si formò il patrimonio, che la Chiesa guardò sempre con religiosa cura come patrimonio della povera gente. La quale anzi, con nuovi e determinati soccorsi, venne perfino liberata dalla vergogna di chiedere. Giacché, madre comune dei poveri e dei ricchi, ispirando e suscitando dappertutto l’eroismo della carità, la Chiesa creò sodalizi religiosi ed altri benefici istituti, che non lasciarono quasi alcuna specie di miseria senza aiuto e conforto. Molti oggi, come già fecero i gentili, biasimano la Chiesa perfino di questa carità squisita, e si è creduto bene di sostituire a questa la beneficenza legale. Ma non è umana industria che possa supplire la carità cristiana, tutta consacrata al bene altrui. Ed essa non può essere se non virtù della Chiesa, perché è virtù che sgorga solamente dal cuore santissimo di Gesù Cristo: e si allontana da Gesù Cristo chi si allontana dalla Chiesa.

B) L’opera dello Stato

25. A risolvere peraltro la questione operaia, non vi è dubbio che si richiedano altresì i mezzi umani. Tutti quelli che vi sono interessati debbono concorrervi ciascuno per la sua parte: e ciò ad esempio di quell’ordine provvidenziale che governa il mondo; poiché d’ordinario si vede che ogni buon effetto è prodotto dall’armoniosa cooperazione di tutte le cause da cui esso dipende. Vediamo dunque quale debba essere il concorso dello Stato. Noi parliamo dello Stato non come è sostituito o come funziona in questa o in quella nazione, ma dello Stato nel suo vero concetto, quale si desume dai principi della retta ragione, in perfetta armonia con le dottrine cattoliche, come noi medesimi esponemmo nella enciclica sulla Costituzione cristiana degli Stati (enc. Immortale Dei).

[1 – Continua … ]

 

 

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2018)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2018)

Introitus Is LXVI:10 et 11.

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI:1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Amen Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV:22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

Omelia I

[Mons. G. Bonomelli, “Nuovo saggio di Omelie” vol. II, omel. VII, Marietti ed. Torino, 1898]

“Sta scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava, l’altro dalla libera. Ma il figlio della schiava nacque secondo la carne; il figlio poi della libera nacque in virtù della promessa. Le quali cose contengono una figura; perché quelle due donne figurano due Testamenti: l’uno sul monte Sinai, che genera a servitù, e questo è Agar. Perché Sina è un monte in Arabia, che risponde all’odierna Gerusalemme, e serve coi suoi figli. Ma la Gerusalemme in alto è libera, ed essa è la madre nostra. Perciocché sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorivi: tripudia ed esclama tu, che non sentivi doglie di parto: perché sono più assai i figli della deserta, che non di colei che ha marito. Ora noi, fratelli, alla maniera d’Isacco, siamo figli della promessa. Ma siccome allora, quello che era generato secondo la carne, perseguitava il generato secondo lo spirito, così anche avviene al presente. Ma che cosa dice la Scrittura?  Caccia via la schiava e il suo figlio; perché il figliuolo della serva non sarà erede col figliuolo della libera. Il perché, o fratelli, noi siamo figli, non della schiava, ma della libera, della libertà, onde Cristo ci ha affrancati „ (Gal. IV, 22-31).

L’apostolo S. Paolo aveva annunziato il Vangelo e stabilita la Chiesa nella Galazia, provincia romana, posta quasi nel centro dell’Asia Minore, come sappiamo dagli Atti apostolici (XVI, 6). Quella Chiesa era composta per la maggior parte di pagani, ma non vi doveva mancare un gruppo di Ebrei, i quali a quell’epoca erano sparsi in tutte le città principali d’Oriente per ragione dei loro traffici, come appare dagli stessi Atti apostolici, scritti da S. Luca. Questo gruppo di Giudei disseminati per la Galazia turbarono fortemente la pace di quella Chiesa: essi volevano che i nuovi convertiti al Vangelo osservassero tutta la legge mosaica, considerando il Cristianesimo come una giunta fatta al mosaismo; e poiché S. Paolo riprovava altamente questo errore, che restringeva la Chiesa di Cristo nelle fasce del mosaismo, presero a combattere lo stesso Apostolo, negando o mettendo in dubbio la sua missione divina. Per ribattere questa calunnia, stabilire la propria autorità e mostrare che la sinagoga era cessata per dar luogo alla Chiesa di Cristo, l’Apostolo, l’anno 52 o 53 dell’era nostra, scrive la sua lettera, della quale avete udita or ora una piccola parte, che si legge nella S. Messa. Nelle poche righe riportate S. Paolo sotto la figura di Agar e di Sara, d’Ismaele e d’Isacco, ci mostra adombrata la sinagoga e la Chiesa, il carattere passeggero e ristretto di quella e il carattere stabile e universale di questa. L’argomento è profondo ed elevato, ed è degno di tutta la vostra attenzione. – “Sta scritto, che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava, l’altro dalla libera. „ È  questo un richiamo alla storia e all’origine del popolo ebreo. Abramo ebbe due mogli, Agar, la schiava, e Sara, la libera. Non occorre farvi osservare che allora era permessa, per ragioni specialissime, la pluralità delle donne, come era tollerata la schiavitù e tollerato il divorzio. Era una società in sul suo formarsi, si mettevano le basi del mosaismo, preparazione lontana del Cristianesimo, e nessuna meraviglia che in quello vi fossero gravi imperfezioni, che dovevano cessare in questo. La casa nel suo primo sorgere presenta appena le linee principali, rozza, non è abitabile o assai difficilmente; solo in seguito si compie la fabbrica, si abita, si pulisce, si adorna; cosi avvenne del mosaismo: le sue istituzioni imperfette rispondevano alla natura di quel popolo, ma dovevano finire alla venuta di Cristo, che protestò d’essere venuto a compire la legge mosaica: Non veni solvere legem, sed adimplere. – Abramo dalla schiava Agar ebbe Ismaele, che fu il padre delle genti idumee. Egli dicesi nato secondo la carne, che è quanto dire, secondo il corso naturale delle cose; da Sara ebbe Isacco, e dicesi nato secondo la promessa, cioè fuori del corso della natura, per effetto della divina promessa, in altri termini, per miracolo o virtù sovraumana. Da Isacco trae origine il popolo ebraico, eletto da Dio ad essere il depositario delle promesse divine, e da lui doveva venire l’aspettato Salvatore. Tutto questo sappiamo dalla storia, narrata nel libro sacro della Genesi. Accennando questo fatto di Abramo e delle due mogli, Agar, la schiava, e Sara, la libera, e dei due figli da loro avuti, l’uno in modo naturale, l’altro per divina promessa, S. Paolo, con quella sicurezza che gli veniva dalla sua missione, annunzia questa sentenza: “Queste cose contengono una figura — Qua sunt per allegoriam dicta. „ Che cosa è la figura, della quale qui parla l’Apostolo e che suppone conosciuta dai fedeli? Sarebbe disonore e colpa che i Cristiani d’oggi non conoscessero ciò che conoscevano i primi Cristiani, “ai quali era indirizzata la lettera dell’Apostolo. Eppure non credo di offendervi, o dilettissimi, dicendo che molti tra voi non sanno che cosa sia la figura od allegoria, sì frequente nei Libri sacri, di cui in questo luogo favella S. Paolo. Non vi sia grave pertanto ascoltarmi con tutta l’attenzione. – Allorché nei Libri santi noi leggiamo i fatti che avvennero, dobbiamo tenere che avvennero veramente come sono narrati. Leggiamo per modo d’esempio che Noè fabbricò l’arca e che in essa egli e i suoi figli furono salvi dalle acque dell’universale diluvio? Noi dobbiamo tenere per indubitato questo fatto, che Noè costruì veramente l’arca, che veramente venne il diluvio, e che Noè con i suoi figli trovò in quella la sua salvezza. Leggiamo che Abramo condusse sul monte il figlio Isacco, che portava le legna per il sacrificio? Leggiamo che nel deserto cadde la manna e che di essa si nutrì per tanti anni il popolo ebreo? Leggiamo che Mosè nel deserto levò in alto un serpente di bronzo e che quelli che erano morsicati dai serpenti, riguardandolo, guarivano? Leggiamo ancora che prima della Pasqua il popolo doveva mangiare l’agnello sacrificato? Ebbene: noi dobbiamo tenere che tutte queste cose si fecero precisamente come sono descritte. Ma, seguendo l’insegnamento dei Libri santi e dei Padri, dobbiamo anche tenere, che quei fatti sono simboli o figure di altri fatti, che dovevano più tardi avvenire nella nuova legge. Così l’arca, in cui Noè con la sua famiglia si salva dal diluvio, è figura del Battesimo, che ci salva dalle acque del peccato originale; Isacco, che carico delle legna, sale sul monte, il serpente innalzato nel deserto, adombrano Cristo, che sale il Calvario, che pende dalla croce; la manna del deserto è simbolo della santa Eucaristia e l’agnello pasquale rappresenta Cristo. Se non tutti, molti fatti dell’antico Testamento, non vi è dubbio, raffigurano altri fatti del Nuovo, e per noi essi sono come altrettante parole, altrettante pagine dei Libri divini, che ci ammaestrano. – Ora tale appunto, per testimonianza di san Paolo, è il fatto di Abramo, di Agar e di Sara, di Ismaele e d’Isacco, ricordato nella lettera che commentiamo. Agar, col figlio Ismaele, rappresenta l’antico Patto e il popolo ebraico; Sara, col figlio Isacco, simboleggia il nuovo Patto e la Chiesa di Gesù Cristo. Hæc sunt duo Testamento. Il primo Testamento, o Patto, Dio lo strinse con Mosè, sul monte Sinai, allorché diede la legge e promise al popolo ebreo la terra di Canaan e la sua protezione, e il popolo accettò la legge e si obbligò ad osservarla. Il secondo Testamento, o Patto, lo fece tacitamente Cristo con gli Apostoli e con tutti i credenti, ai quali diede la nuova legge e promise tutti i beni spirituali e la vita eterna, ed essi accettarono e si obbligarono all’osservanza di tutti i suoi precetti: Testamento o Patto suggellato nella santa Eucaristia e col sacrificio della croce. Il primo Testamento, raffigurato in Agar e dato sul Sinai, “genera a servitù, „ dice san Paolo. Che vuol dire “genera a servitù? „ Agar era schiava e il figlio, perché figlio di schiava, seguiva la condizione della madre e come schiavo dovevasi considerare. La madre e il figlio, schiavi, raffigurano il  primo Testamento, o il popolo ebreo: esso, rispetto alla Chiesa, al popolo del quale Cristo sarà capo, è schiavo: esso è soggetto ad una legge piena di cerimonie e di prescrizioni gravose, come la circoncisione: ad una legge, che per molte trasgressioni infligge pene gravi e per alcune infligge persino la pena di morte. Quella legge, considerata nel suo insieme e specialmente nelle sue pene, è una legge da schiavi, perché è legge non d’amore, come si conviene ai figli, ma di timore e terrore, come è proprio di schiavi. Le sue ricompense, direttamente, riguardano i beni passeggeri e materiali della terra. Ecco perché l’antico Testamento si dice che genera alla schiavitù, ossia forma dei servi, perché s’impone col timore. – L’Apostolo illustra i rapporti tra l’antico e il nuovo Testamento con una osservazione semplicissima, dicendo: “Il monte Sinai, che è in Arabia e su cui fu data la legge, risponde alla odierna Gerusalemme:„ in altre parole, il Sinai e l’odierna Gerusalemme sono congiunti per modo che formano una cosa sola, si trovano nella stessa condizione: la Gerusalemme, o sinagoga odierna, raffigurata da Agar, forma i suoi figli sotto la legge del timore, essa non è che il tipo e la figura della Chiesa e deve cessare, come cessano le ombre al sopravenire della luce. Questa sinagoga, «questa Gerusalemme, madre di schiavi, deve cedere il luogo alla vera Gerusalemme, che è in alto, che è libera, ed essa è madre nostra — Illa autem, quæ sursum est Jerusalem, libera est, quæ est mater nostra. „ Chi è dessa questa madre nostra, che è, o viene dall’alto? che è simboleggiata da Sara? Essa è la Chiesa, fondata da Gesù Cristo e sua sposa fedele, che da Lui non sarà mai reietta, come da Abramo fu reietta Agar. Essa viene dall’alto: Quæ sursum est, perché il suo capo e fondatore è Gesù Cristo  stesso, che viene dal cielo, ed Egli la regge e governa fino alla fine dei tempi; perché riceve dall’alto la verità e la grazia, e perché le sue speranze ed il suo amore sono sempre lassù in cielo, termine fisso del suo pellegrinaggio sulla terra. E perché la Chiesa si chiama Gerusalemme? Perché la parola Gerusalemme significa Visione della pace, e per la Chiesa l’uomo ottiene la pace vera con Dio, e perché il Vangelo, il codice della pace, fu promulgato per la prima volta in Gerusalemme, dove nacque la Chiesa il dì della Pentecoste. – E perché la Chiesa si chiama libera? Perché volge tutte le sue cure e tutti i suoi sforzi a liberarci dal peccato, dalle passioni, dall’errore e dal supremo di tutti i mali, l’eterna perdizione. Essa dicesi libera, perché è sciolta da tutti gl’impacci della sinagoga e conduce alla virtù con la persuasione e con l’amore più che col timore, e perciò essa è raffigurata in Sara, ch’era moglie di Abramo, non schiava, ma libera. E finalmente perché la Chiesa si chiama madre e madre feconda e più feconda della sinagoga? Perché essa col Battesimo genera i figli a Dio, e con gli altri Sacramenti, con la parola e con tant’altri mezzi li nutre e li cresce. La sinagoga fu e doveva sempre rimanere ristretta al solo popolo d’Israele: la Chiesa per contrario doveva raccogliere nel suo seno non solo i figli d’Israele, ma i Gentili, e crebbe rapidamente, allargò dovunque le sue tende, e mentre pareva condannata alla sterilità, condannata a perire in mezzo ai nemici, Ebrei e Gentili, soverchiò la sinagoga, ed i figli di quella sono di questa senza confronto più numerosi. – L’Apostolo viene alla conclusione e pratica applicazione del simbolo o figura, che sopra ha esposto, e dice: “Ora noi, fratelli, siamo figli alla maniera di Isacco, figli della promessa.„ Voi, o Galati, non appartenevate alla sinagoga: voi eravate Gentili; ma, avendo creduto in Cristo e ricevuto il suo Battesimo, diventaste figli di Abramo, non secondo la carne, ma secondo lo spirito, a somiglianza di Isacco, che nacque ad Abramo, non per legge naturale, ma solo in virtù della promessa divina. Voi, o Galati, un tempo Gentili, ora siete i veri figli di Abramo, come lo fu Isacco meglio di Ismaele. Qui naturalmente all’Apostolo doveva affacciarsi il fatto, allora quotidiano, dell’odio e della feroce persecuzione, che gli Ebrei movevano dovunque ai Cristiani, e Paolo stesso più che tutti n’era la vittima. Questo fatto gli porge il destro di completare la spiegazione della figura biblica di Agar e di Sara, di Ismaele e d’Isacco: Osservate, così in sentenza l’Apostolo, osservate ciò che narra Mosè nella Genesi. Ismaele nacque da Agar prima di Isacco: Ismaele, il figlio della schiava, maltrattava, perseguitava Isacco, il figlio di Sara, la libera, e avuto per promessa divina. E ciò che avviene al presente. Vedete questa sinagoga, questi Ebrei, veri figli di Agar, perseguitano dovunque i credenti in Cristo, i figli della Chiesa, i figli della promessa divina, adombrati in Isacco. Quale sarà l’esito di questa persecuzione della sinagoga contro la Chiesa? Voi lo potete vedere anticipatamente in Agar ed Ismaele, in Sara ed Isacco. Sara un giorno, visto Ismaele offendere e perseguitare il suo Isacco, indignata disse ad Abramo: “Manda via la schiava ed il figlio suo, perché il figlio della schiava non sarà l’erede col figlio della libera. „ Ed Abramo, benché a malincuore, scacciò Agar ed Ismaele e costituì Isacco suo erede. La sinagoga perseguitò, pose a morte Gesù Cristo, fondatore della Chiesa; perseguitò, flagellò, sbandeggiò ed uccise quanti poté degli Apostoli e dei discepoli di Gesù Cristo. Iddio, benché a malincuore, ripudiò questa sinagoga persecutrice della sua Chiesa. Dissi, a malincuore, perché essa pure, la sinagoga, era opera delle sue mani, sua figlia, come Ismaele era figlio di Abramo: in essa fiorirono i patriarchi ed i profeti: ad essa furono dati i Libri santi e la legge: per essa conservò il culto del vero Dio sulla terra e tenne viva la face della fede e della speranza nel futuro Messia: da essa venne secondo la carne il Figliuolo stesso di Dio, il Salvatore del mondo: ma la sua ostinazione in respingere la verità, in perseguitare Cristo ed i suoi discepoli le trasse in capo la riprovazione e fu reietta co’ suoi figli. – Il ripudio della sinagoga è una terribile lezione per noi, o dilettissimi. È verità certissima di fede, che la Chiesa cattolica-romana, della quale noi siamo figli, sarà sempre la sposa di Gesù Cristo; essa non sarà mai reietta, quasi infedele, come fu reietta la sinagoga; ma se la Chiesa, madre nostra, non sarà mai ripudiata da Gesù Cristo, perché sarà sempre la fedele depositaria delle verità per Lui insegnate, ne segue forse che noi non possiamo essere scacciati dal suo seno? Ohimè! carissimi: ciò pur troppo può avvenire, ed avviene sotto i nostri occhi. Quanti dei nostri poveri fratelli, generati dalla Chiesa a Gesù Cristo, nutriti col cibo della grazia e della parola di Dio per tanti anni, rigettarono la verità, si separarono dalla Chiesa, anzi, volsero contro di lei le mani spietate e la perseguitarono? Ah! costoro imitano pur troppo Ismaele, che molesta e vuol opprimere Isacco, e da Gesù Cristo saranno ripudiati. Non sia mai, che alcuno di noi si tragga sul capo tanta sventura! Siamo all’ultima sentenza dell’Apostolo, che è come l’epilogo dei versetti che avete uditi: “Il perché, o fratelli, noi siamo figli non della schiava, ma della libera, della libertà, onde Cristo ci ha affrancati. „ Noi tutti siamo Ebrei, siamo Gentili, noi tutti che abbiamo creduto in Cristo, non apparteniamo alla sinagoga, ma alla Chiesa, siamo figli di essa, che sola rimane sempre con Cristo, e con essa abbiamo la libertà dei figli di Dio. La libertà, portataci da Cristo e della quale qui parla S. Paolo, è quella stessa di cui dicesi sopra fornita la Chiesa, “La Gerusalemme in alto è libera — Quæ sursum est Jerusalem, libera est, quæ est mater nostra. „ Per una confusione funesta di cose e di parole, quando si pronuncia questa santa e cara parola libertà, comunemente si intende la libertà di fare il bene ed il male, di fare come piace, seguendo la verità o l’errore. Se questa, o dilettissimi, fosse la vera e propria nozione di libertà, i santi e gli Angeli, la Vergine, che sono in cielo, non sarebbero liberi; Cristo, Dio-Uomo, e Dio stesso non sarebbero liberi, perché non possono fare il male, non possono seguire l’errore, e voi sapete che lassù in cielo la libertà è perfetta e che Dio è la fonte della libertà vera. La libertà,, o cari, è la facoltà di scegliere ciò che vogliamo, e dove non c’è scelta, ivi non è libertà: la scelta poi si può fare tra bene e male, oppure tra varie cose tutte buone. La libertà di scegliere tra bene e male, come nell’ordine presente di cose abbiamo noi, è libertà, ma libertà debole, inferma, imperfetta, mentrechè la libertà di poter scegliere solamente tra le cose buone, è libertà perfetta, come quella dei beati e di Dio stesso. La libertà di poter scegliere anche l’errore ed il male, qual è la nostra quaggiù sulla terra, è una vera imperfezione, che un giorno sarà tolta. Ditemi, o cari figliuoli: se voi poteste avere la sanità del corpo in modo da non potervi mai ammalare, vi parrebbe di trovarvi in istato migliore o peggiore di chi può ammalarsi? Senza dubbio preferireste di avere la sanità in guisa da non poterla mai perdere: e chi non la vorrebbe possedere a questo modo? Sarebbe una sanità perfettissima. Or bene: dite lo stesso della libertà di fare il bene e il male. Il poter fare il male è come il potersi ammalare: è una libertà imperfetta; il non poter fare il male, e poter fare soltanto il bene, è come il non potersi ammalare; è la libertà nella sua massima perfezione, è la libertà dei santi e di Dio, i quali possono scegliere ciò che loro piace, ma unicamente tra le cose buone. È questa la libertà che Cristo ha portato sulla terra; la libertà di fuggire l’errore per seguire la sola verità, di combattere e vincere il male per fare unicamente il bene, di respingere il vizio, per esercitare unicamente la virtù. E quanto più noi ci scioglieremo dalle tenebre dell’errore per camminare nelle vie della verità, combatteremo il male ed il vizio e faremo il bene e praticheremo la virtù, tanto più sarà perfetta la nostra libertà e simile a quella di Gesù Cristo: Qua libertate Christus nos liberavìt! O bella e santa libertà dei figli di Dio, che sulla terra ci presentano anticipato lo spettacolo del cielo! Non dimenticatelo mai, o dilettissimi; noi saremo tanto più liberi quanto saremo più lontani dal peccato, più liberi e padroni delle nostre passioni e più fedeli osservatori dei nostri doveri. Ecco la libertà, la vera libertà onde Gesù Cristo ci ha affrancati.

Graduale Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. [V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus Ps. CXXIV:1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem. [Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum. [V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI:1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilaeæ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

OMELIA II

[Idem, omel. VIII]

“Gesù se n’andò all’altra riva del mare di Galilea, che è di Tiberiade. E gran moltitudine lo seguitava, perché vedevano i miracoli ch’Egli faceva sopra gl’ infermi. Ma Gesù salì sul monte e quivi rimaneva coi suoi discepoli. Era poi vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Ora Gesù, levati gli occhi e vedendo la grande moltitudine venuta a lui, disse a Filippo: Onde compreremo noi del pane per dar da mangiare a costoro? “Ma lo diceva, tentandolo, perché Egli sapeva ciò che era per fare. Filippo gli rispose: Duecento danari di pane non basterebbe loro, perché ciascun d’essi ne pigliasse un boccone. Uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro, gli disse: ” Vi è qui un fanciullo, che ha cinque pani d’orzo e due pesci: ma questo che è tra tanta, gente? Gesù intanto disse: Fate che la gente si adagi; in quel luogo vi era erba assai. La gente vi si adagiò in numero di cinquemila adulti. E Gesù prese i pani, e rese le grazie li distribuì alla gente, e similmente dei pesci, quanti ne vollero. E poiché furono saziati, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. E raccolsero ed empirono dodici corbelli di avanzi, rimasti a quelli che ne avevano mangiato, dai cinque pani d’orzo. Intanto coloro, veduto il miracolo operato da Gesù dicevano: Questi è veramente il profeta, che deve venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che verrebbero e lo rapirebbero per farlo loro re, si ritrasse di nuovo tutto solo sul monte„ (Giov. VI, 1-15). Voi ora avete udita la narrazione d’uno dei maggiori miracoli operati da Gesù, fattaci dall’evangelista Giovanni, che ne fu testimonio. Esso è riferito anche dagli altri tre Evangelisti, quasi con le stesse parole. Ora tutti sanno che S. Giovanni, il quale fu l’ultimo a scrivere il suo Vangelo, studiosamente omette le cose narrate dagli altri e quelle ricorda che da loro furono omesse: come avvenne dunque che, quasi contro il suo costume, riferisce questo miracolo ch’era già registrato dai tre Evangelisti che lo precedettero? Forse l’indusse a narrarlo la grandezza del miracolo istesso; ma è ragionevole il credere che Giovanni riportasse questo miracolo per aprirsi la via a narrare la promessa della S. Eucaristia che tenne dietro al miracolo, promessa che non si trova nei tre altri Vangeli. Quale che ne fosse la causa, che Dio solo conosce con certezza, mio dovere è quello di darvi la spiegazione del Vangelo recitatovi, e dover vostro è quello di udirla con devota attenzione. – La testa del Precursore era caduta poco prima sotto il ferro del carnefice, per opera del tristo Erode, tenuto nei lacci di rea passione dalla scaltra e scellerata Erodiade. I dodici Apostoli tornavano lieti dalla missione alla quale, quasi a prova, Gesù li aveva mandati, e narravano ciò che avevano fatto ed insegnato. – Gesù era in Cafarnao e la folla senza tregua lo assediava a tal che non aveva pur tempo di prendere il cibo. La morte del Precursore lo avvertiva della sua sì dolorosa e sì prossima: sentì il bisogno di ridursi in luogo più tranquillo con i suoi cari, e disse loro: “Venite in disparte, in luogo solitario, e riposatevi alquanto „ (Marco, VI, 30 seg.). Montò sulla nave con i suoi discepoli e comandò di condurlo sulla riva orientale del lago, e quivi approdato, volse il passo verso il monte che vi sovrasta. Il lago di Tiberiade o mare di Galilea, come lo chiamavano gli Ebrei! Ogni qualvolta leggo questo nome o l’odo pronunciare, ricordo l’impressione inesprimibile, che sentii allorché il 20 di Ottobre del 1894, dalla costa occidentale che sopra di esso si erge alta ed erta, lo vidi per la prima volta. Esso è come incassato tra monti e colli che lo circondano; monti e colli deserti, quasi brulli, desolati. Il lago è senza dubbio il fondo d’un cratere di vulcano spento: le sue rive solitarie, senza alberi che lo rallegrino, senza vie, vi riempiono l’anima d’una tristezza indefinibile. Quel lago liscio, lucido come un cristallo, ma senza una barchetta che lo solchi: quella muraglia di color ferrigno, che dal lato orientale lo serra e gli sta a sopracapo: quel silenzio di morte, che regna su quell’ampia stesa, un dì sì lieta e ridente e coronata da popolosi villaggi, vi pesano sul cuore, vi riempiono di malinconia indicibile, vi invitano a meditare ed a piangere. Evidentemente su quella regione, che dovrebb’essere incantevole, è passata l’ira del cielo e grava la mano punitrice di Dio. O lago di Tiberiade, quante volte io ripenso a te e ti vedo dipinto nella mia mente!… Un anno prima che Gesù consumasse il suo sacrificio sul Calvario, sull’umile barchetta dei suoi apostoli attraversava quel lago e domandava ai luoghi ermi e solitari della sponda orientale un po’ di riposo. Tosto si sparse d’ogni intorno la fama della sua venuta e fu un correre a Lui da tutti i villaggi vicini. Gesù si era ritratto in quei luoghi solitari per avere un po’ di pace, e le turbe gli si affollavano intorno, bramose di udirlo, ed Egli, il pietoso Maestro, le accoglieva con ogni bontà. Il favore popolare che lo seguiva dovunque e che sì facilmente inebria chi lo cerca, lasciava tranquillo Gesù, che né lo coltivava, né lo respingeva. I suoi occhi pieni d’amore e di compatimento si fermavano su questa moltitudine, che lo seguiva e di cui vedeva le miserie morali: era come un gregge senza pastore. Gesù li ammaestrava, risanava gli infermi e con i miracoli confermava le sue parole di vita, e poi “saliva un colle e quivi si fermava con i suoi discepoli. „ Il sole calava dietro i monti della Galilea e dei suoi ultimi raggi vestiva le loro spalle. Qui S. Giovanni avverte che era vicina la Pasqua, la gran festa degli Ebrei: Erat autem proximum Paschat dies festus Judæorum. Gli Apostoli, inquieti per l’ora tarda e perché in quel luogo era impossibile procurarsi il cibo, come sappiamo dagli altri tre Evangelisti, dissero al Maestro: “Il luogo è deserto, l’ora è tarda: rimanda tutta questa gente, affinché se ne vadano nei villaggi e nelle capanne vicine e vi trovino viveri e tetto. „ Gesù rispose loro: “Tutta questa gente mi fa compassione: essa mi segue da tre giorni e non ha di che mangiare se io la mando via digiuna, verrà meno per strada, perché molti di loro son venuti da lontano.„ Fermiamoci qui un istante, o dilettissimi. Vi piaccia considerare la bontà e la tenerezza di cuore che apparisce in quelle parole uscite dalle labbra di Gesù Cristo: “Tutta questa gente mi fa compassione: essa mi segue da tre giorni e non ha di che mangiare, se Io la mando via digiuna, verrà meno per la strada, perché molti son venuti da lontano. „ – In questi accenti sì semplici, sì naturali, sì pieni d’affetto, si sente oscillare tutta l’anima di Gesù Cristo: essi sono come un gemito strappatogli dal cuore alla vista di tanti poverelli che soffrono: l’altrui patire è suo patire. Ora Gesù, salendo al cielo, non ha mutato natura: è sempre quel desso, tutto amore e pietà per chi soffre nel corpo e più assai per chi soffre nello spirito. In Lui dunque collochiamo ogni speranza, a Lui ricorriamo in ogni bisogno e se le turbe, anche senza pregare, furono nutrite da Lui nel corpo, come, pregando, non lo saremo noi, nel corpo e nello spirito? Gesù, voltosi a Filippo, con amabile sorriso, quasi per chiedergli consiglio, gli disse: “E donde compreremo noi pane da dar da mangiare a costoro? „ Egli si volse a Filippo, forse perché gli era più presso, o fors’anche perché, come pensa il Crisostomo, era d’una ingenuità e d’un candore meraviglioso, e ne diede un saggio non dubbio più tardi, allorché nell’ultima Cena disse a Gesù: “Facci vedere il Padre, e questo ci basta. „ – L’Evangelista, riferita la domanda di Gesù a Filippo, s’affretta a soggiungere che lo scopo di essa era di mettere alla prova l’Apostolo e udire che ne pensasse. Nessuno degli Apostoli rispose, com’era sì facile, dopo i tanti miracoli veduti: “Tu solo, o Maestro, puoi dare da mangiare a sì grande moltitudine: tutto è a te possibile. „ Il buon Filippo, sorpreso da quella domanda sì semplice del Maestro, non seppe dare altra risposta di questa infuori: “Duecento danari di pane non sarebbe bastevole loro perché ciascuno ne pigliasse un boccone.„ Il danaro, di cui parla Filippo, rispondeva ad 80 dei nostri centesimi, ond’era come dire: ” Cento sessanta lire non sarebbero sufficienti per comperare tanto pane da darne un frusto solo a tanta gente. „ E non pensava l’ingenuo apostolo che si trovavano in luogo deserto, dove quando pure avessero avuto tesori da profondere, non era possibile avere un po’ di pane. In quella “Andrea, fratello di Simon Pietro, uno dei discepoli, „ si fece innanzi, e udito di che si trattava, quasi a confermare ciò che aveva detto Filippo, disse: “Vi è qui un fanciullo, che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma questo che è tra tanta gente? „ Non è superfluo il far notare la confidenza tutta paterna, con la quale Gesù trattava coi suoi discepoli e la confidenza tutta filiale, con cui essi usavano col divino Maestro. Chiunque tiene autorità sopra gli altri, si specchi in questo sovrano modello e chi è soggetto, veda come gli Apostoli trattavano con Gesù Cristo! L’autorità sia sempre paterna e la dipendenza sia filiale, affinché quella non traligni in dominio e questa non degeneri in servitù. – Il pane d’orzo, che si trovava avere presso di sé quel fanciullo, che il Vangelo non dice chi fosse, era alimento del povero popolo. Parmi evidente che sia la domanda di Gesù e la risposta di Filippo e quella d’Andrea e l’accertamento che erano cinque i pani e due i pesci fossero tutte cose disposte a studio affinché il miracolo della moltiplicazione risplendesse in tutta la sua luce agli occhi degli Apostoli e delle turbe. – S. Giovanni continua il suo racconto: “Gesù intanto disse: “Fate che la gente si adagi; in quel luogo vi era erba assai. „ Queste parole:  “Fate che la gente si adagi, „ sono rivolte da Cristo ai suoi Apostoli, ed essi tosto si sparsero in mezzo a quella moltitudine, disponendo le persone a brigate di cento e cinquanta in cerchio e facendole sedere sull’erba, che abbondava in quel luogo e in quella stagione (doveva essere sui primi del mese di marzo), già calda in quei paesi. Il Vangelo ci fa sapere che il numero approssimativo di quelle turbe poteva salire a circa cinque mila adulti, senza tener conto dei fanciulli e delle donne, come avverte S. Matteo, onde non è esagerazione il dire, che quella moltitudine, compresi tutti, poteva essere di oltre dieci mila persone. “Allora Gesù prese i pani, e rese le grazie, li distribuì alla gente che si era adagiata, e similmente dei pesci, quanto ne vollero.„ – Qui, come altre volte, Gesù Cristo prima di operare il miracolo, ringrazia il Padre suo, e S. Matteo nota che volse gli occhi al cielo: Aspiciens in cœlum, e pregò, benedixit, per far conoscere che l’opera ch’era per fare, veniva dall’alto e dovevasi ascrivere alla virtù divina. Poi prese a distribuire i pani e i pesci agli Apostoli, e questi, a mano a mano li distribuivano alle turbe; particolare questo registrato in Matteo, in Marco e Luca e che non deve passare inosservato. Così il Salvatore, che nel deserto aveva rifiutato di mutare in pani le pietre per soddisfare il suo bisogno personale, come suggeriva il demonio, ancora nel deserto moltiplica il pane per sfamare il povero popolo. Certamente Gesù Cristo poteva far sì che il pane e i pesci moltiplicati nelle sue mani passassero nelle mani di ciascuno di quella moltitudine senza l’opera degli Apostoli; chi ne può dubitare? Ma Gesù volle che quel pane e quei pesci, prodigiosamente moltiplicati, pervenissero a ciascuno in particolare, mercé il ministero degli Apostoli. Perché ciò, o dilettissimi? Primieramente, perché Dio suole usare della sua onnipotenza là dove è impotente l’uomo; ma là dove giunge la forza dell’uomo, all’uomo stesso ne lascia tutta la cura, perché Iddio non vuole sostituirsi all’uomo, né favorire l’inerzia o la pigrizia. Oltreché è da credere che Gesù Cristo volle servirsi dell’opera degli Apostoli nel distribuire il pane e i pesci moltiplicati nelle sue mani benedette, per farci conoscere che i doni celesti della verità e della grazia vengono da Lui, come da fonte prima, ma sono comunicati agli uomini mediante lo strumento dei suoi ministri. Il miracolo operato da Gesù Cristo non poteva essere più solenne ed evidente. Erano nel deserto; tanta provvisione di pane e pesce, quanta se ne richiedeva a saziare dieci mila bocche, dove si poteva avere? E avutala pure in qualsiasi modo, come occultarla a tanti testimoni? La moltiplicazione avveniva nelle mani di Gesù Cristo, sotto gli occhi, non solo degli Apostoli, ma delle turbe, non in un istante, ma continuamente, finché ve ne fu bisogno. E cosa affatto naturale, che a mano a mano si succedevano le distribuzioni di pane e pesce, gli Apostoli e le turbe meravigliassero e aguzzassero gli occhi per vedere donde e come proveniva tanto pane e tanto pesce e quindi rendessero impossibile ogni illusione. Il luogo, la moltitudine dei testimoni, la loro qualità, la natura del miracolo stesso, il modo, con cui fu operato e gli effetti che ne seguirono, mettono il fatto al di sopra d’ogni ombra di dubbio e ne pongono in tutta la luce la certezza assoluta. – So, o cari, che certi uomini, i quali professano di non seguire che la ragione e la sola ragione, tentarono di spiegare naturalmente il fatto. Sapete in qual modo? Udite: Le turbe rapite dalla parola affascinante di Gesù, dimenticarono il bisogno del cibo; saziate nello spirito, non sentirono le necessità del corpo: fu un miracolo di frugalità! O fors’anche ciascuno, quasi senza accorgersene, pose mano alle provvisioni portate seco e se ne nutrì, e reputò miracolo ciò che non era se non l’effetto naturale della gioia e dell’entusiasmo di udire il Profeta e d’una frugalità singolare. Figliuoli miei, se questo è seguire la ragione, la sola ragione, giudicatene voi (Renan). – Quel pane e quel pesce, che a vista d’occhio si moltiplicava nelle mani feconde del Salvatore, donde veniva? Era forse una nuova creazione dal nulla? Anche questo (e chi non lo sa?) il Verbo umanato poteva fare, ma è più comune sentenza che con la sua onnipotente virtù lo traesse dalla natura. – Vi piaccia, o carissimi, por mente a ciò che avviene continuamente sotto i nostri occhi. Voi seminate il grano, e questo per lavoro occulto di natura si scioglie, mette le radici, cresce in stelo, forma la spiga e ve lo dà moltiplicato. Voi pigliate del grano, lo macinate, ne formate la pasta, e cotto, eccovi sul desco il pane. E un lavoro lento di moltiplicazione e di trasformazione, effetto l’una e l’altra delle forze di natura, sparse nella terra, nell’aria, nell’acqua, nella luce, applicate e modificate opportunamente dall’uomo. Ora queste forze, che moltiplicano il grano, e ci danno secondo le leggi di natura il pane, onde ci nutriamo, vengono da Dio e sono totalmente a Lui soggette. Che fece Egli Gesù Cristo nel deserto, allorché moltiplicò il pane ed i pesci? Egli, Dio-Uomo, Causa suprema, in cui si contengono eminentemente tutte le cause ed i loro effetti, abbreviò ogni cosa e produsse in pochi istanti quel pane, che secondo il corso ordinario delle leggi di natura non si sarebbe potuto ottenere che nel volgere di alcuni mesi. Quel Dio che nei campi moltiplica il frumento con pochi granelli, scrive S. Agostino, moltiplicò i cinque pani nelle mani del Figliuol suo fatto uomo (In Jaonn. Tract. 24). E noi, continua il Santo, ammiriamo quel miracolo dei cinque pani moltiplicati una volta, e non badiamo all’incessante opera della Provvidenza, che con pochi grani moltiplica il frumento e nutre l’intera umana famiglia! E perché? Perché quello avvenne una sola volta e questa avviene continuamente sotto i nostri occhi, e per essere comune sembra quasi da meno: Assiduitate viluerunt. Figliuoli carissimi! Avvezziamoci a vedere in tutte le opere, in tutte le leggi della natura, che ci danno e conservano la vita, che rallegrano l’occhio o l’orecchio, la mano di Dio, che tutto prepara e dispone a servizio e diletto nostro, e a Lui rendiamone le dovute grazie. – E poiché furono saziati, prosegue il sacro testo, Gesù disse ai discepoli: “Raccogliete i resti, che non vadano a male.,, E raccolsero ed empirono dodici corbelli di avanzi rimasti a quelli che ne avevano mangiato, dai cinque pani d’orzo. „ Questo comando di Cristo di raccogliere i resti del pane non è senza ragione. Anzitutto quegli avanzi raccolti da quei medesimi che distribuivano il pane, mostravano meglio e facevano toccare con mano la certezza e la grandezza del miracolo: poi insegnava a tutti che non conviene, non è lecito disperdere nulla di quello che, se non è necessario, né utile a noi, lo può essere ad altri. Gli avanzi del ricco possono e debbono essere il nutrimento del povero: se così fosse, che ne sarebbe largamente sfamata tutta la turba dei poverelli! O Epuloni, dalla vostra mensa lasciate cadere almeno le briciole ai Lazzari che languiscono! – Manifestamente poi i dodici corbelli di avanzi raccolti ci indicano i dodici Apostoli, che distribuivano il pane, ond’è a dire che ciascun Apostolo, adempiendo l’ufficio di distributore, si serviva d’un corbello. “Intanto coloro, veduto il miracolo operato da Gesù, dicevano: “Questi è veramente il profeta, che deve venire al mondo.„ Alla vista di quel miracolo, che per molti aspetti fu uno dei maggiori operati da Gesù Cristo, l’ammirazione, l’entusiasmo del popolo non ebbe più freno ed eruppe spontaneo da tutti i cuori il grido: “Questi è il profeta, il Messia promesso, che deve venire.,, E lo era veramente, ma non quale per mala ventura gli Ebrei lo aspettavano, vincitore dei nemici temporali e liberatore dal giogo degli stranieri sotto il quale fremevano, e creatore della grandezza terrena della nazione. I Galilei ardenti e bellicosi erano ancor pieni delle memorie e dei sogni di Giuda Gaulonita. Costui, messosi a capo del popolo, spacciatosi come uomo mandato da Dio a liberare la nazione, aveva eccitata una rivolta assai grave e diede non poco da fare alle soldatesche romane, come attesta Giuseppe Flavio. La passione politica (e gli stessi Apostoli non ne erano affatto immuni, come apparisce dal capo 1° degli Atti Apostolici) infiamma quelle turbe, sì facili per se stesse all’entusiasmo, volete religioso, volete politico. Si eccitano gli uni gli altri! “Questi è il profeta, il Messia, che aspettiamo! egli deve liberare la nazione dal giogo straniero: facciamolo nostro re, mettiamolo alla nostra testa e corriamo sopra Gerusalemme e proclamiamoci il nuovo regno d’Israele.,, Erano questi i discorsi, i propositi di quella folla, agitata dai due sentimenti più gagliardi sul cuore umano, quello della religione e quello della patria, che per essa si confondevano in un solo. Le agitazioni popolari sono terribili: si propagano come un incendio in una foresta e i caratteri più tranquilli, le anime più nobili, sono trascinate in modo pressoché irresistibile! Che fece Gesù in mezzo a quel bollimento della moltitudine? “Conoscendo, dice S. Giovanni! che verrebbero a rapirlo, per farlo loro re, Gesù si ritrasse di nuovo tutto solo sul monte e fece partire gli Apostoli sopra una nave, comandando loro di approdare all’opposta riva del lago (S. Marco, VI, 45; Matt. XIV, 22). Così per sventare gli stolti disegni di quella turba, Gesù si appigliò a tre mezzi, separare i discepoli da quelle turbe fanatiche, affinché loro non si comunicasse il contagio di quel fanatismo, accomiatarsi per bel modo dal popolo, invitandolo a sciogliersi e a ridursi ciascuno alle proprie case, e finalmente col ritrarsi destramente sul monte, sottraendosi agli occhi ed alle ricerche di tutti. – Prima di chiudere questa Omelia permettete un’ultima osservazione della più alta importanza. Gesù Cristo visse sotto gli Erodi usurpatori e sotto la dominazione straniera dei Romani. Questa particolarmente era odiatissima, e perciò frequenti furono le sommosse al tempo di Cristo e più dopo di lui fino all’ultima più tremenda, che trasse in capo ai Giudei lo sterminio della nazione, per opera di Vespasiano e di Tito suo figliuolo. Ebbene: leggete tutti quattro gli Evangeli: molte volte si porse occasione a Gesù Cristo di aprire l’animo suo intorno alle condizioni politiche del paese e a coloro che ne reggevano le sorti: molte volte gli scribi e i farisei, suoi implacabili nemici, e i partigiani di Erode si studiarono di cavargli di bocca qualche dichiarazione che fosse argomento di accusa presso le autorità o valesse a metterlo in mala voce presso il popolo e togliergli o scemargli il suo favore; ma non fu mai possibile strappargli una sola parola che lo mostrasse o nemico delle autorità, o avverso alle legittime aspirazioni del popolo. Con le parole e con le opere si mostrò rispettosissimo a tutte le autorità costituite, Egli che era sopra ogni autorità, e schivando con ogni cura d’immischiarsi nelle questioni politiche, che fervevano ardenti e minacciose intorno a Lui, attese unicamente a predicare le eterne verità, a mostrare la via del cielo, a salvare le anime. E una lezione dataci da Cristo, utile in ogni tempo, utile e necessaria particolarmente nel nostro e più particolarmente a noi Sacerdoti.

CREDO …

 Offertorium

Orémus Ps CXXXIV:3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra. [Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quaesumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.

Communio Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine. [Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quaesumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

 

 

LETTURE CATTIVE

LETTURE CATTIVE.

[G. Dalla Vecchia: “Albe primaverili”, G. Galla ed. Vicenza, 1911]

 Ne comedas…. morte morieris.

Non mangiarne, altrimenti morrai.

(Gen. II, 17).

ESORDIO. — Nel Paradiso terrestre sorgeva una pianta dai frutti bellissimi… Ma ai suoi piedi si aggirava insidioso il serpente…, mentre nel leggero fruscio delle sue foglie risuonava l’eco del divino comando, che ingiungeva ad Adamo di non gustare di quei frutti, sotto pena di morte… Ne comedas…; morte morieris… — E non aveva forse l’uomo l’albero della vita, che gli avrebbe assicurata L’immortalità? Ma, un dì, la mano della donna si stese ai rami vietati… Adamo ed Eva gustarono…, commisero la colpa…; la sentenza piombò tosto…: morte morieris… Oggi pure, sorge in mezzo all’umanità una pianta, che si può chiamare l’albero della scienza del bene e del male… I suoi frutti hanno un fascino alla nostra mente…, attirano a stendervi la mano… Ma su di essi vi è un divieto divino… Non li toccare; ne comedas… Guai all’incauto, specialmente se in giovane età, che avesse a gustarne il nettare avvelenato! Quel giorno sarebbe funesto all’innocenza, al candore, alla vita dell’anima sua: Morte morieris. – Già mi avete compreso. Io voglio parlarvi dei libri e dei giornali cattivi, che sono la causa principale della rovina di tante anime, di tanta gioventù. Seguitemi con riflessione, con buona volontà, e sarà tutto vantaggio per voi, per le vostre famiglie, per la società intera.

PARTE PRIMA

1° — Ai nostri giorni si sente un prepotente bisogno dell’istruzione; si moltiplicano le scuole, si aprono biblioteche, per soddisfare 1’ansia sempre crescente del sapere… — L’ istruzione, se diretta e condotta con sani criteri, è ottima cosa; è anche un dovere, perché tutti siamo tenuti a sviluppare i doni ricevuti da Dio, fra i quali bellissimo è quello dell’ intelligenza. — Ma pur troppo questa istruzione moderna, tanto decantata, è leggera, e superficiale… ; rifugge dalle cose serie… ; anzi in molti casi riesce un veleno all’innocenza, alla moralità, alla fede…

2° — Se volete istruirvi, si va dicendo, leggete, leggete molto… — È vero, che il leggere giova tanto, anzi è un fattore importante dell’educazione… ; ma può riuscire, e riesce di fatto, una sorgente funesta di dissolutezza e di miscredenza. Infatti: Ben pochi leggono libri veramente seri ed istruttivi; i più si danno a letture frivole, leggere, che danno alla mente un belletto di idee fantastiche e vane; e vi lasciano un vuoto…, un’ignoranza fenomenale delle cose più necessarie a sapersi da un uomo, e molto più da un cristiano… Il peggio si è, che questi poveri ignoranti si spacciano per dotti…, per sapienti… ; pretendono di criticare tutti, e tutto… anche i misteri e le verità della fede… — Questa loro ignorante superbia dà ad essi un’impronta di leggerezza, di nullità, che si trasfonde nei loro atti e discorsi…, nella loro condotta… —- I cattivi si gonfiano con le loro adulazioni, trascinandoli in un abisso di contradizioni e di errori… ; i buoni li compatiscono…, ma ne stanno lontani…

3° — Vi è di più. — I libri, che oggi si danno in mano anche a giovanetti di tenera età, i giornali che si vedono nelle case di certe famiglie anche cristiane, non solo sono frivoli e leggeri, ma di più sono cattivi, atei, osceni… – Chi può misurarne le funeste conseguenze? — Scritti con incredibile svenevolezza, con uno stile piccante, seminati di immagini seducenti, accendono le passioni, svelano orridi abissi, spingono agli eccessi più fatali. Quando un giovane ha letto uno di questi libri e giornali, quasi sempre perde l’innocenza, l’amore al lavoro, l’energia necessaria per diventare virtuoso cristiano e cittadino utile a sé ed alla patria. Talora sarà un sepolcro imbiancato…, ma sempre un sepolcro, in cui regnerà una tenebrosa corruzione… — Non esagero; i fatti parlano chiaro. — Ai nostri giorni una colluvie di libri e giornali cattivi inonda la nostra patria, e che cosa vedete? Pochissimi conservano la fede dei nostri avi, quella fede generosa ed ardente, capace di vere e sode virtù domestiche e sociali… I più hanno una fede all’acqua di rose, per certe circostanze, quando la esige 1’etichetta, l’opportunismo… Molti la sconfessano apertamente, e stupidamente si vantano di non credere affatto. — La corruzione dei costumi giunge ad un eccesso sì pauroso, da scusare, e talora elogiare i delitti più enormi e ripugnanti… — Lo spirito di orgoglio e di ribellione nelle famiglie, nelle nazioni… ; i suicidi così frequenti, vera viltà del nostro secolo… ; la cancrena di marciume che rode la vita dell’odierna società… Cercatene pure, dove volete, le cause… ; ma, se siete sinceri, dovete convenire con me… ; lo si deve in massima parte ai romanzi, ai libri, ai giornali irreligiosi, empi, osceni…

4° — La Chiesa di Gesù Cristo alza la voce per ritrarre i suoi figli da questi frutti avvelenati. Ella ripete ed intima: Ne comedas; non gustarne, morrai! morte morieris…

Ma chi l’ascolta?

— Si grida superbi: Con che diritto la Chiesa proibisce di leggere certi libri e giornali?

— Col diritto, che ha la madre di proibire ai propri figli di mangiare cibi avvelenati. — Col diritto, che hanno le autorità civili di sequestrare e condannare gli scritti pericolosi all’ordine pubblico… Ogni società bene ordinata deve farlo; quindi molto più la Chiesa…

— In tutti i secoli la Chiesa vigila su questo punto così delicato; condanna i libri empi ed immorali; costituisce la Congregazione dell’Indice per esaminare e proibire le pubblicazioni contrarie alla fede… Quindi ogni vero figlio della Chiesa deve obbedire ed astenersi da quello, che Ella ha proibito…

5° — Ma dirà qualcuno: Ma leggere i giornali ed i romanzi, anche cattivi, a me non reca alcun danno… Ti rispondo: O non capisci quello che leggi, ed allora obbedisci, perché sei cristiano e suddito della Chiesa… Oppure comprendi, ed allora vuol dire che sei già bello e rovinato, fino a non distinguere più il male dal bene. — Ed anche, se fossi ancora innocente, però non lo credo, temi, perché il veleno, sebbene lentamente, apporta sempre la morte. – La Harpe legge un libro di Voltaire… ; eccolo schierarsi fra i nemici della Chiesa… e finisce in prigione, dove però si converte…

— Napoleone il grande, diceva: « Io non mi sento abbastanza forte per reggere un popolo che legge libri osceni… »; ed aveva a sua disposizione circa un milione di soldati.

— Ippolito Pindemonte scrive: “l’assassino di strada mi sembra innocente al confronto di chi detta un libro cattivo…”

Dunque; ne comedas; non gustare di questi frutti vietati; altrimenti morte morieris.

PARTE SECONDA

Chi si espone volontariamente e senza giusto motivo al pericolo prossimo di peccare, pecca; e non vi è pericolo maggiore dei libri e giornali cattivi… Allettano, lusingano…, ma poi danno la morte.

6° — Genitori, attenti: non lasciate entrare in casa vostra libri, romanzi, giornali, che possano, anche pur di lontano, costituire un pericolo o per la fede, o per la moralità dei vostri figli… — Non temete di vigilare troppo… ; la severità su questo punto non sarà mai eccessiva… Basta una riga per offuscare l’innocenza di un fanciullo, di una giovanetta… — Non dimenticate mai del conto strettissimo che dovrete dare al Signore per le anime dei vostri figliuoli… Quel foglio, quel romanzo, potrebbe essere un assassino per queste anime candide a voi affidate… E lo ammetterete in vostra casa?… E con il vostro denaro vorrete farvi suoi complici?

7° — Voi, o giovani, se volete vivere onesti e felici, non leggete né libri, né giornali pericolosi… Prima di leggere un libro, domandate il parere del confessore, o del parroco… — Quella lettura può compromettere l’educazione e la vostra fede; può sviarvi dall’amore allo studio; può inaridire in voi 1’affetto alla famiglia, può condurre nella vostra anima il peccato, il rimorso, la disperazione. Lungi i sotterfugi; quel libro, che ascondete alla pupilla materna, è un serpente velenoso… Gettatelo lungi da voi.

8° — Tutti poi ricordatevi, che chi compera, o si associa ad un foglio cattivo, licenzioso, liberale, concorre all’opera nefasta della Massoneria e del demonio… Fogli di questo genere, in casa vostra, mai. Invece, associatevi ad un giornale seriamente cattolico; datelo tranquilli ai vostri figli; fatelo penetrare nelle famiglie, nelle officine, nei ritrovi, nelle osterie, nei caffè… Favorite sempre, con le parole e con l’opera, la stampa cattolica, la quale, al giorno d’oggi, è il mezzo potente per combattere i nemici di Dio e della Chiesa.

— Così avrete concorso all’esecuzione di un’opera veramente utile, cristiana, tanto necessaria al bene della società… Avrete compiuto un’azione eminentemente virtuosa, e Dio certo non vi lascerà senza una grande ricompensa.

L’AGONIA DI GESU’: QUARTO VENERDI’ DI QUARESIMA

QUARTO VENERDÌ DI QUARESIMA

[Don U. Banci: L’AGONIA DI GESU’, F. Pustet ed. Roma, 1935 – impr.]

In nomine Patris et Filli et Spiritus Sancti. Amen.

Actiones nostras, quæsumus  Domine, adspirando præveni et adiavando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a Te semper incipiat et per Te cœpta finiatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

[Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. Inspira, o Signore, le nostre azioni ed accompagnale col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera e opera da Te sempre incominci e col tuo aiuto sempre si compia. Per Cristo nostro Signore. Così sia.]

INVITO

Già trafitto in duro legno/Dall’indegno popol rio

La grand’alma un Uomo Dio, / Va sul Golgota a spirar.

Voi, che a Lui fedeli siete, /Non perdete, o Dio, i momenti

Di Gesù gli ultimi accenti /Deh! venite ad ascoltar.

QUARTA PAROLA DI GESÙ IN CROCE

Deus meus, Deuis meus, ut quid dereliquisti me? (MATTEO, cap. XXVII, v. 46) .

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?

CONSIDERAZIONE

Uno strano fenomeno ricordato dagli Evangelisti, accompagna l’agonia del Salvatore. Una densa caligine avvolge il sole ed un’ombra triste e paurosa si stende su tutta la terra. Oh! Tenebre misteriose, che gettando lo sgomento negli uomini, contribuiste a rendere più desolata la pietosa scena del Calvario, voi siete immagine di quella spaventosa solitudine, che lacera l’anima del mio Signore quando volgendo lo sguardo al cielo esclama: Eli, Eli, lamma sabactani? Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?  Questo grido che fu l’espressione di uno strazio che non ha nome, fu occasione per i suoi nemici di nuovi scherni. Mal comprendendo le sue parole, alcuni presenti dissero: Costui chiama Elia, ed altri, quelli forse che poco prima lo avevano sfidato a scendere dalla croce soggiunsero con sarcasmo: Lascia, vediamo se viene Elia a liberarlo! [MATTEO, cap. XXVII, v. 47, 4 8]. Ma quelli che parlano così sono coloro che non sanno quello che fanno. Tu però, anima cristiana, cerca di ben comprendere ciò che Gesù ti ha voluto dire con queste parole, affinché quella desolazione, che Egli volle soffrire per te, arrechi conforto all’anima tua, travagliata dal dolore.

#    #    #

La sera innanzi, entrando nel Getsemani per pregare, come era suo costume, aveva confidato ai suoi amici che l’anima sua era triste di una tristezza mortale: L’anima mia è addolorata a morte [MARCO, cap. XIV, v. 34]. E l’agonia che incomincia. E tu sai, anima cristiana, a quale angoscia mortale fu in preda in quella sera il tuo Salvatore. Nella solitudine di quella grotta, nella quale era entrato per raccogliersi in preghiera, con la sua penetrazione divina vide ed ebbe la sensazione fisica di presentire simultaneamente nelle sue delicate carni tutti i dolori della sua passione; vide l’ingratitudine del suo popolo, che lo aveva fatto piangere sulla strada di Gerusalemme; vide la moltitudine immensa dei peccati di tutti i popoli, che come torrente impetuoso si rovesciava nell’anima sua desolata; vide l’inutilità del suo sacrificio per tante anime, che con la loro incomprensione ed ostinata ingratitudine frustravano l’aspirazione ardente di tutta la sua vita. Questa visione orrenda, che nel Getsemani lo aveva spaventato fino al punto da farlo sudar sangue, si ripete ora sulla croce, aggravata da una circostanza ben dolorosa, l’abbandono del Padre. E un momento questo, in cui il dramma della passione di Gesù si rivela in tutto il suo orrore. Era scritto: È maledetto da Dio chi pende dalla croce Deuteronomio, [cap. XXI, v. 23], e la maledizione di Dio si fa sentire in tutto il suo rigore su di Lui, mallevadore dei nostri peccati; e la misura è ormai colma, la sua desolazione è al completo, il Martire si rivela il vir dolorum, l’uomo del dolore, [ISAIA, cap. LIII, v. 3] e si sarebbe anche qui sulla croce rinnovato il sudore di sangue, se ormai le sue vene non fossero esauste. Anima cristiana, quando senti il peso delle tue tribolazioni, volgi il tuo pensiero a Gesù, che agonizza sulla croce, e pensa che per quanto grandi possano essere i tuoi dolori, senza paragone più grandi furono quelli di Gesù, poiché anche Gesù aveva un corpo in tutto simile al tuo, e come il tuo soggetto al dolore. Anzi, dice il grande S. Tommaso d’Aquino: « Non vi fu nulla più perfettamente ordinato e completo del corpo di Gesù, tanto che nessun altro poteva sentire, come il suo, tutta l’intensità del dolore » [Somma teologica, parte III, q. 46, art. 6].

2 . E la sua divinità, lungi dall’attenuargli il dolore, contribuì, ed in modo efficace, a renderglielo più forte; poiché, appunto perché Dio, Gesù poté avere la previsione certa, esatta, circonstanziata di tutta la sua passione e della sua morte; appunto perché Dio poté misurare tutta la gravità del peccato e prevedere tutte le ingratitudini umane, che tanto cordoglio procurarono al suo cuore. D’altra parte Egli stesso volle che fosse sospesa quell’impressione di felicità, che gli arrecava la visione beatifica, conseguenza dell’unione ipostatica della natura umana con la natura divina, in modo che nulla potesse impedire alla sua benedetta umanità di sentire il dolore in tutto il suo rigore. Già il Profeta lo aveva predetto, che sarebbe stato solo a sostenere tutto il peso del suo formidabile dolore. E a questa che fu la passione del suo cuore, divenuto il ricettacolo di ogni amarezza, si aggiunse la passione del corpo. Guarda infatti, ancora una volta, come sul corpo di Gesù si siano accumulati i tormenti di ogni martirio. Non c’è senso che non abbia il suo dolore; non c’è parte del corpo che non sia ferita, piagata, insanguinata. Si verifica alla lettera la parola del Profeta Isaia: Dalla pianta dei piedi, fino alla sommità del capo, non v’è in Dio sanità, ma ferite, lividure, piaghe sanguinanti [ISAIA, loc. cit. ]. Dunque ripeti con lo stesso Profeta: Veramente i nostri languori Egli ha preso sopra di sé; ed ha portato i nostri dolori, [Isa. Cap. LIII, 4] e quindi devi concludere con S. Tommaso d’Aquino che « i dolori sopportati da Gesù nel corpo e nell’anima furono i più grandi che mai siano stati in questa vita » [Somma teologica, loc. cit.]. Che se la sua benedetta umanità poté resistere al cumulo di tanti dolori, ciò fu perché sostenuta da una virtù soprannaturale. Te lo dice Gesù con quelle parole: L’anima mia è triste fino a morirne, cioè, commenta S. Ilario, «nell’intimo di me stesso l’abbattimento e lo spavento sono così grandi che ne morrei, se non avessi i soccorsi della mia forza divina » [S . ILARIO, Intorno al cap. XXVI di S. Matteo]. Egli dunque può ben dire a te, tormentato da lunga malattia: Conosco, o povero e caro infermo, le tue ore di abbandono nella tua cameretta solitaria; anch’io le ho provate. Può ben dire a te, povera sposa, caduta ad un tratto nella più dolorosa solitudine; a te, povera madre, che invano vai cercando quel figlio che più non è; può ben dire a voi, cuori incompresi e contraddetti, a voi diseredati del mondo, i cui giorni passano senza consolazioni; a voi tutti perseguitati dalla sventura, a cui la vita sembra non abbia riserbato altro che il pianto: Conosco le vostre sventure; non mi è nuovo l’angoscioso vostro isolamento; esso fu anche il mio! Crudeli isolamenti, solitudini amare, spietate separazioni, abbandoni di ogni specie, Dio Salvatore vi volle soffrire tutti per mettere su ciascuno di voi un raggio del suo amore; un’impronta della sua grazia; il merito della sua accettazione » [LANFANT, Il cuore al Getsemani, serm, IV]. Non dire più nei momenti di sconforto: perché, o Signore, debbo essere così infelice! Perché mi avete abbandonata? No, anima cristiana, non sei abbandonata, come non lo era Gesù sulla croce. Talvolta, è vero, Iddio punisce coi suoi abbandoni l’orgoglio, la sensualità, la presunzione, il peccato; ma è anche vero che il più delle volte la desolazione con cui ti affligge è una prova del suo amore. È per distaccarti dal mondo e da te stessa; è per renderti più pura e più bella agli occhi suoi, che ti fa passare per il crogiuolo della tribolazione. Tre volte, diceva S. Paolo, ho domandato di essere liberato dallo schiaffo di Satana, e Dio mi rispose: ti basti la mia grazia. La sublimità delle celesti rivelazioni avrebbe potuto inorgoglirmi”  [Epistola ai Corinti, cap. XII, v. 7]. Anzi non sei forse mai tanto vicina al tuo Dio, come allora quando la tua vita è un Calvario. Nelle tue solitudini, dunque, in tutte le tue pene solleva, come Gesù, il tuo sguardo al cielo, e come le pie sorelle di Betania, desolate per la morte del fratello, chiamalo Gesù; Egli verrà e non sarai più sola. « E se tu piangerai, Egli piangerà con te; se pregherai, pregherà con te; se sarai oppressa dai patimenti, dall’agonia, dalla morte, Egli sarà là vicino a te per consolarti e per aprirti il Paradiso » Poiché Gesù non ti chiede, o anima cristiana, di soffocare le improvvise esplosioni della natura trambasciata, spesso più forti di qualunque coraggio. Se il tuo cuore è ferito nei suoi affetti dall’onta, dall’ingratitudine, da separazioni crudeli, tu puoi piangere, perché anche Gesù ha pianto sulla sventurata Gerusalemme e sulla tomba del suo amico Lazzaro. – Se temi i mali che sono per incoglierti, puoi domandare a Dio che li rimuova, perché anche Lui ha temuto per se stesso ed ha detto al Padre: Padre, fate che questo calice passi lontano da me. – Se il tuo povero corpo è straziato dal dolore, tu puoi implorare sollievo, poiché anche Lui ha gridato dall’alto della croce: Ho sete. Se la tua anima è sopraffatta dall’angoscia, se ti senti abbandonata, puoi gemere, lagnarti, perché anche Lui ha lasciato cadere dalle sue labbra queste dolorose parole: La mia anima è triste fino alla morte. Mio Dio, mio Dio perché mi avete abbandonato? [MONSABRÈ, Ritiri pasquali, 1S83]. E non è Gesù stesso che ti rivolge quel caro invito: Venite a me voi tutti che siete affaticati e stanchi ed io vi ristorerò? [MATTEO, cap. XI, v. 28]. – Ascoltala, anima cristiana, questa voce; è la voce di quel cuore che arde di amore per gli uomini. Ma un’altra cosa ti vuol dire Gesù. Se il Divin Padre non risparmia lo stesso suo Unigenito, se gli impone di bere fino alla feccia il calice di ogni amarezza, se Gesù ha l’impressione di provare in sé un abbandono simile a quello che forma la disperazione del dannato, è perché Iddio vede in Lui l’immagine del peccato. Ora, se questo si fa nel legno verde, che sarà nel secco? [LUCA, cap. X XIII, v. 31]. – Se la giustizia divina punisce con tanto rigore in Colui che è la stessa santità, solo l’apparenza del peccato, che cosa non farà in chi del peccato si rende realmente reo! Non è dunque il dolore che ti deve affliggere e che devi temere; ma più di ogni altra cosa devi temere il peccato, perché è questo l’unico vero male, la causa unica di ogni dolore. Pensa, anima cristiana, a quando nel dì finale dovrai presentarti dinanzi a Cristo per sostenere il suo gran giudizio. Tu allora vorrai associarti alla moltitudine potente degli Angeli e degli eletti, la quale canterà la fine dell’esilio e le delizie della patria conquistata [MONSABRÉ, Ritiri pasquali, 1875]; ma se ostinata nel peccato, nel peccato morrai, sentirai gridarti in faccia da Gesù stesso quella terribile invettiva: Via da me, maledetto, al fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli”. [MATTEO, cap. XXV, v. 41]. E mentre mille voci ti grideranno « vattene maledetto », tu confuso e tremante esclamerai come il Salvatore: « Dio, Dio mio perché mi abbandonate?», ma il tuo grido non avrà conforto; « e sarà questa l’elegia del tuo cuore, che affranto da una maledizione irrimediabile, riempirà l’eco della tua eternità. Ascolta dunque, anima cristiana, il grido di angoscia di Gesù, abbi pietà di te stessa, e trattieni con un pronto pentimento Iddio, che forse già si allontana da te » [MONSABRÉ, Ritiri pasquali, 1880].

Breve pausa, poi si reciti la seguente …

PREGHIERA

O addolorato Salvatore, il grido di angoscia uscito dalle vostre labbra, mi dice tutta la desolazione del vostro cuore. Non meritavate certamente Voi di essere abbandonato dal Padre; sono io che per la moltitudine dei miei peccati, essendomi da Voi allontanato, ho tante volte meritato di essere da Voi abbandonato. Ma Voi, generosissimo mio Salvatore, avete voluto soffrirlo questo abbandono appunto perché non fossi io abbandonato ai rigori della divina giustizia. E che cosa, vi dirò col Salmista, che cosa vi renderò per tanto benefizio? Vi prometterò di non volere più, ad ogni costo allontanarmi da Voi? Sì, o mio addolorato Salvatore, ve lo prometto, ma conosco troppo bene la mia debolezza; stanno dinanzi al mio sguardo le mie numerose ingratitudini, che depongono contro di me e mettono in dubbio la mia perseveranza. Lo so per esperienza, o mio Gesù, che lontano da Voi non c’è pace, non c’è felicità. Io so che Voi solo avete parole di vita eterna, perché Voi solo siete la via, la verità, la vita; e che quindi coloro che si allontanano da Voi periranno; so tutto, lo so come lo sapeva il vostro Apostolo Pietro, ma purtroppo anch’io come lui, nonostante le mie più calde e ripetute promesse, ho più volte ceduto di fronte alla tentazione. Continuando così, nonostante il vostro grande amore per me, nonostante quello che per me avete sofferto, vi costringerò ad abbandonarmi in vita, in morte, per tutta l’eternità. No, o mio Salvatore, per quel dolore che provaste sulla croce quando in Voi stesso sentiste l’abbandono del Padre, vi scongiuro a non abbandonarmi. Voi ben lo sapete perché ce lo avete detto, che senza di Voi a nulla noi siamo capaci; dunque aiutate la mia debolezza; sostenetemi con la vostra grazia, affinché mai più mi allontani da Voi. No, o Signore, non sia per me quella terribile sentenza, che segnerà un’eterna separazione tra Voi e il peccatore. Io voglio, sia pure per la via del Calvario, giungere alla vostra gloria per cantarvi il cantico perenne della mia gratitudine. O Maria, madre dei viventi, come Eva fu madre dei peccatori, aiuto potente dei cristiani, vegliate su di me con la vostra materna sollecitudine, e per quel dolore che provò il vostro cuore nell’udire il pietoso lamento di Gesù, ottenetemi la grazia della finale perseveranza. Auxilium christianorum, ora prò nobis ( Aiuto dei cristiani prega per noi).

Pater, Ave e Gloria.

Dunque dal Padre ancora

Abbandonato sei?

Ridotto ti ha l’amore

A questo, o buon Gesù?

Ed io, coi falli miei,

Per misero gioir,

Potrotti abbandonar?

Piuttosto, o Dio, morir!

Non più, non più peccar,

Non più peccar, non più.

GRADI DELLA PASSIONE

1. V. Jesu dulcissime, in horto mœstus, Patrem orans,

et in agonia positus, sanguineum sudorem effundens;

miserere nobis.

R). Miserere nostri Domine, miserere nostri.

2. V. Jesu dulcissime, osculo traditoris in manus

impiorum traditus et tamquam latro captus et ligatus

et a discipulis derelictus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

3. V. Jesu dulcissime ab iniquo Iudæorum concilio

reus mortis acclamatus, ad Pilatum tamquam malefactor

ductus, ab iniquo Herode spretus et delusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

4. V . Jesu dulcissime, vestibus denudatus, et in

columna crudelissime flagellatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

5. V. Jesu dulcissime, spinis coronatus, colaphìs

cæsus, arundine percussus, facie velatus, veste purpurea

circumdatus, multipliciter derisus et opprobriis

saturatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

6. V . Jesu dulcissime, latroni Barabbæ postpositus,

a Judæis reprobatus, et ad mortem crucis injuste condemnatus;

miserere nobis.

R). Miserere etc.

7. V . Jesu dulcissime, tigno crucis oneratus,

ad locum supplicii tamquam

ovis ad occisionem ductus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

8. V. Jesu dulcissime, inter latrones deputatus,

blasphematus et derisus, felle et aceto potatus, et

horribilibus tormentis ab hora sexta usque ad horam

nonam in ligno cruciatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

9. V. Jesu dulcissime, in patibulo crucis, mortuiis et

coram tua sancta Matre lancea perforatus simul

sanguinem et aquam emittens; miserere nobis.

R). Miserere etc.

10. V . Jesu dulcissime, de cruce depositus et lacrimis

mœstissimæ Virgiuis Matris tuæ perfusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

11. Jesu dulcissime, plagis circumdatus, quinque

vulneribus signatus, aromatibus conditus et in

sepulcro repositus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V . Adoramus Te Christe, et benedicimus Tìbi.

R). Quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum.

OREMUS

Deus, qui prò redemptione

mundi nasci voluisti,

circumcìdì, a Judæis reprobavi

et Judæ traditore

osculo tradi, vinculis alligavi,

sic ut agnus innocens

ad victimam duci, atque

conspectibus Annæ, Caiphæ,

Pilati et Herodis

indecenter offevri, a falsis

testibus accusari, flagellis

et colaphis cædi, opprobriis

vexari, conspui, spinis

coronari, arundine percuti,

facie velari, vestibus

spoliari, cruci clavis afFigi,

in cruce levari, inter

latrones deputari, felle et

aceto potari et lancea vulnerari;

Tu Domine, per

has sanctissimas pœnas,

quas ego indignus recolo,

et per sanctissimam crucem

et mortem tuam libera

me a pœnis inferni et perducere

digneris quo perduxisti

latronem tecum

crucifixum. Qui cum Patre

et Spiritu Sancto vivis

et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

[1. V . O dolcissimo Gesù, triste nell’orto, al Padre con la preghiera rivolto, agonizzante e grondante sudore di sangue; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi, o Signore, abbi di noi pietà.

.2. V . O dolcissimo Gesù, con un bacio tradito e nelle mani degli empi consegnato, e come un ladro preso e legato e dai discepoli abbandonato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

3. V . O Gesù dolcissimo, dall’iniquo Sinedrio giudaico reo di morte proclamato, e come malfattore a Pilato presentato, e dall’iniquo Erode disprezzato e schernito; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

4. V . O dolcissimo Gestì, delle vesti spogliato, e c rudelmente alla colonna flagellato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

5. V. O dolcissimo Gesù, di spine coronato, schiaffeggiato, con la canna percosso, bendato, di rossa veste rivestito, in tanti modi deriso e di obbrobri saziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

6. V. O dolcissimo Gesù, al ladro Barabba posposto, dai Giudei riprovato; ed alla morte di croce ingiustamente condannato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

7. V. O dolcissimo Gesù, del legno della croce gravato, e come agnello al luogo del supplizio condotto, per esservi immolato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

8. V. O dolcissimo Gesù, tra i ladroni annoverato, bestemmiato e deriso, di fiele e di aceto abbeverato, e con orribili tormenti dall’ora sesta fino all’ora nona nel legno straziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

9. V. O dolcissimo Gesù, sul patibolo della croce morto, ed alla presenza della tua santa Madre con la lancia trafitto versando insieme sangue ed acqua; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

10. V. O dolcissimo Gesù, dalla croce deposto, e dalle lacrime dell’afflittissima tua Vergine Madre bagnato;abbi di noi pietà

R). Pietà di noi ecc.

11. V. O dolcissimo Gesù, di piaghe coperto, da cinque ferite trafitto, di aromi cosparso, e nel sepolcro deposto; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

V. Ti adoriamo, o Cristo, e Ti benediciamo.

R). Poiché con la tua santa croce hai redento il mondo.

PREGHIAMO

O Dio, che per la redenzione del mondo volesti nascere, essere circonciso, dai Giudei riprovato, da Giuda traditore con un bacio tradito, da funi avvinto, come agnello innocente al sacrifizio condotto, ed in modo indegno ad Anna, Caifa, Pilato ed Erode presentato, da falsi testimoni accusato, con flagelli e schiaffi percosso, con obbrobri oltraggiato, sputacchiato, di spine coronato, con la canna percosso, bendato, delle vesti spogliato, alla croce con chiodi confitto, sulla croce innalzato, tra i ladroni annoverato, di fiele e di aceto abbeverato, e con la lancia ferito; Tu, o Signore, per queste santissime pene, che io indegno vado considerando, e per la tua croce e morte santissima, liberami dalle pene dell’inferno e, desiati condurmi dove conducesti il ladrone penitente con Te crocifisso. Tu che col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni nei secoli dei secoli. Così sia.]

CANTO DEL TEMPO DI QUARESIMA

Attende, Domine, et miserere, quia peccavìmus Tìbi.

R). Attende, Domine, et miserere, quia peccavimus Tibi.

1. Ad Te, rex summe,

omnium redemptor,

oculos nostros sublevamus

flentes; exaudi Christe,

supplicantium preces.

R). Attende etc.

2. V. Dextera Patris, lapis

angularis, via salutis,

janua cœlestis, ablue nostri

maculas delicti.

R). Attende etc.

3. V . Rogamus, Deus,

tuam majestatem, auribus

sacris gemitus exaudi; crimina

nostra placidus indulge.

R). Attende etc.

4. V. Tibi fatemur crimina

admìssa; contrito corde

pandimus occulta; tua, Redemptor,

pietas ignoscat.

R). Attende etc.

5. V. Innocens captus,

nec repugnans ductus, testibus

falsis prò impiis damnatus,

quos re demisti Tu

conserva, Christe.

R). Attende etc.

OREMUS

Respice, quæsumus Domine, super hanc familiam

tuam, prò qua Dominus noster Jesus Christus non dubitavit

manibus tradì nocentium, et Crucis subire tormentum.

Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculorum. Amen.

[R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

1. V. A Te, o Sommo Re, redentore universale, eleviamo i nostri occhi piangenti;  esaudisci, o Cristo, la preghiera di chi a Te si raccomanda. R). Ascolta ecc.

2. V. O destra del Padre, o pietra angolare, o via di salvezza, o porta del cielo, tergi le macchie del nostro peccato. R). Ascolta ecc.

3. V. Preghiamo, o Dio, la tua maestà, porgi le sacre orecchie ai gemiti, e perdona benigno i nostri delitti. R). Ascolta ecc.

4. V. A Te confessiamo i peccati commessi; con cuore contrito manifestiamo ciò che è nascosto; la tua pietà, o Redentore, ci perdoni. R). Ascolta ecc.

5. V. Imprigionato innocente, condotto non riluttante, da falsi testimoni per i peccatori condannato, Tu, o Cristo, salva coloro che hai redento. R). Ascolta ecc.

PREGHIAMO

Riguarda benigno, o Signore, a questa tua famiglia, per la quale nostro Signore Gesù Cristo non dubitò di darsi in mano ai nemici e di subire il supplizio di croce. Egli che vive e regna Teco nei secoli dei secoli. Così sia.]

NECESSITA’ DI SERVIRE DIO DA GIOVANI

Necessità di servire Dio da giovani.

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, vol. II, S.E.I. ed. Torino, 1930- impr.]

– 1. Quanto è stimabile chi serve Dio da giovane. — 2. È facile servire Dio dalla giovinezza. — 3. Vantaggi del servire a Dio dalla giovinezza. — 4. Motivi di servire Dio nella gioventù: 1° perché questa età passa presto; 2° Perché quale è la gioventù, tali sono le altre età; 3° Perché questa età è la più esposta al male; 4° Perché questa età appartiene in modo speciale a Dio. — 5. È cosa vergognosa sciupare la giovinezza. — 6. Castighi minacciati a quelli che non servono il Signore da giovani. — 7. Mezzi per servire Dio dalla giovinezza.

1 . QUANTO È STIMABILE CHI SERVE DIO DA GIOVANE . — « Chi piace a Dio (dalla giovinezza) diventa il suo prediletto », dice il Savio: — Placens Deo factus est dilectus (Sap. IV, 10). A somma lode di Tobia la Sacra Scrittura dice che egli non fece mai nessuna azione da ragazzo, mentre pure era il più giovane di tutta la sua tribù: — Cumque esset iunior omnibus, nihil tamen puerile gessit in opere (TOB. I, 4). E perché aveva temuto e obbedito Dio fino dai più teneri anni, la Scrittura dice che egli non mormorò contro Dio perché lo avesse colpito di cecità; ma stette saldo nel timore del Signore che egli ringraziava ogni giorno: — Cum ab infantia sua semper Deum timuerit, et mandata eius custodierit, non est contristatus contra Deum, quod plaga cœcitatis evenerit ei; sed immobilis in Dei timore permansit, agens gratias, Deo omnibus diebus vitæ suæ (TOB. II, 13-14). – Leggiamo nel 2° libro dei Maccabei, al capo VII, l’esempio di coraggio e di fermezza nel proprio culto, che fra acerbe torture diedero i sette fratelli, perché avvezzi dalla prima età ad obbedire e servire Dio … E quanti altri batterono la medesima via! … Che spettacolo più dolce e più bello può offrirsi agli occhi di Dio, degli Angeli e degli uomini, che quello di un giovinetto o di una fanciulla i quali passano la giovinezza nella modestia, nella purità, nella saviezza, nella prudenza, nell’umiltà, nella pietà, nella preghiera! – O spettacolo che tanto più innamora, quanto più è raro! Volesse il cielo, che di molti dei nostri giovani si potesse fare l’elogio che di S. Malachia fece l’abate di Chiaravalle: « Benché tenerissimo di anni, non mostrava nulla della petulanza giovanile, ma si diportava in tutto con costumi degni della gravità di un vecchio (In morte B. Malach.) ». Volesse il cielo che della nostra società si potesse ripetere col medesimo dottore: « Noi vediamo tuttodì molti giovani più assennati che i vecchi, mostrare provetta età nei loro costumi; anticipano il tempo coi loro meriti e compensano con le virtù quello che manca ai loro anni (Serm. in Ps.) ». Ecco a questo proposito una sentenza di S. Agostino, degna di essere scritta a lettere d’oro: « La vostra vecchiezza tenga della puerizia, e nella puerizia traspiri la vecchiaia: cioè la vostra saggezza senile sia senza alterigia e la giovanile timidità sia accompagnata dalla saviezza, affinché lodiate Dio ora e nell’eternità (Sent.) » .

2. È FACILE SERVIRE DIO DALLA GIOVINEZZA. — Il tempo e le circostanze più adatte all’innesto sono la primavera e il vento caldo del mezzogiorno. L’innesto spirituale riesce mirabilmente nella primavera della vita, nell’età in cui i sentimenti sono sul fiorire e lo Spirito Santo spira su l’anima ancora tenera il sacro e ardente soffio del suo amore. Infatti la gioventù somiglia a un ramo novello, per la sua flessibilità e la facilità con cui riceve l’innesto divino il quale, nutrito del succo della grazia, forma un albero fruttifero, l’albero della vita. Udite, o giovani, che cosa vi dice il Signore: « Ascoltatemi, o frutti divini, e fruttificate come il rosaio piantato lungo le sponde di fresco ruscello; spandete un odore balsamico come il Libano; portate i fiori che siano, nel candore e nel profumo, come i gigli, adornatevi di verde fogliame, cantate inni di lode e benedite il Signore nelle sue opere. Magnificate il suo nome e rendetegli testimonianza con le parole della vostra bocca » — Obaudite me, divini fiuctus, et quasi rosa piantata super rivos aquarum fructifìcate; quasi Libanus odorem suavitatis habete; florete flores quasi lilium, et date odorem, et frondete ingratiam, et collaudate canticum et benedicite Dominum in operibus suis. Date nomini eius magnifìcentiam, et confitemini illi in voce labiorum (Eccli. XXXIX, 17 -20). « Mentre ero ancora giovinetto, narra di sé l’autore dell’Ecclesiastico, ho cercato la sapienza con le mie preghiere; la domandava a Dio nel tempio e diceva: io le terrò dietro fino alla fine di mia vita; ed essa fiorì in me, come vite che dà frutto precoce, e il mio cuore trovò in lei la sua letizia. I miei piedi camminarono per la strada retta; dai primi anni io mi misi in traccia di lei: ho abbassato l’orecchio, e l’ho ricevuta » (Eccli. LI, 18 – 21), Ecco l’esempio da imitarsi dai giovani i quali sono disposti più che ogni altra età, ad accogliere prontamente e praticare facilmente i dettami della divina sapienza, perché la giovinezza è l’età più prossima all’innocenza, la più atta a ricevere le buone impressioni e la più pronta a fare una buona azione; è l’età più cara a Dio. « Lasciate che i fanciulli vengano a me », diceva il Maestro divino: — Sinite parvulos ad me venire (MATTH. XIX, 14). S. Benedetto ammetteva nel suo ordine specialmente i giovani, affinché si avvezzassero presto alla disciplina monastica. Anzi la storia ci dice che nei primi tempi del Cristianesimo vi era l’uso di disporre i ragazzi, i giovani e le fanciulle ai tormenti e al martirio. Cari modelli ce ne forniscono la madre dei Maccabei e Santa Felicita le quali, nell’educazione dei loro figli, non tralasciarono d’insinuarvi l’amore al martirio e, giunto il tempo, ve li condussero. Così leggiamo che fece, sotto il tiranno Dunaano, re di Arabia, una pia madre la quale aveva istruito e preparato al martirio un suo bimbo. Ora avvenne che il fanciullo, all’età di cinque anni, vide un giorno strapparsegli la madre, per ordine del tiranno, ed essere condannata ad ardere viva. A quella vista, mosso dal desiderio del martirio, il ragazzino cominciò a piangere e sospirare dietro la madre: avendogli Dunaano domandato se amasse meglio essere con lui in un bel palazzo, ovvero con la madre in una caldaia infocata: Preferisco, rispose, starmene con la mamma, affinché ella mi prenda e conduca con sé al martirio. — E sai tu che cosa è il martirio? riprese Dunaano. — E il bambino a lui: — Il martirio è morire per Gesù Cristo per vivere di nuovo. — Chi è Gesù Cristo? replicò il tiranno. — Venite alla chiesa, soggiunse il bambino, e ve lo farò vedere. Ma non cessando il tiranno di sollecitarlo con lusinghe e promesse, quel mirabile fanciullo finì col dirgli: — Taci, o mostro; non cerco né voglio te, ma la madre mia. — Riunito a lei, si strinse al suo petto e ricevé con essa la corona del martirio (Stor. Eccl.).

3. VANTAGGI DEL SERVIRE A DIO DALLA GIOVINEZZA. — « Coloro che mi cercano di buon mattino, mi troveranno », dice il Signore: — Qui mane vigilant ad me, invenient me (Prov. VIII, 17). Chi giunge a buona vecchiaia, gode i frutti raccolti nel tempo della giovinezza, che sono la saggezza, l’autorità, il diritto di dare consigli, l’onoratezza, la speranza dell’eternità beata. Ha dei figli e dei nipoti saggi, prudenti, gravi e onorati… Chi al contrario ha fatto cattivo uso degli anni giovanili, raccoglie nella tarda età dispiaceri, malinconia, disonore, disperazione, sia per conseguenza della vita malvagia che ha menato, sia per la mala condotta dei figli e dei nipoti. « Figlio mio, dice il Signore, se avrai l’animo saggio, il mio cuore ne gioirà con te » •— Fili mi, si sapiens fuerit animus tuus, gaudebit tecum cor meum (Prov. XX II, 15). « Ricevi, figlio mio, l’istruzione nei tuoi primi anni, e otterrai la sapienza fino alla vecchiaia. Avvicinati a lei e aspettane i buoni frutti in pazienza, come colui che ara e semina il terreno, aspettando la messe; in questo lavoro poco avrai da faticare e ti nutrirai ben presto de’ suoi prodotti » — Fili, a iuventute tua excipe doctrinam, et usque ad canos invenies sapientiam. Quasi is qui arat et seminat, accede ad eam, et sustine bonos fructus illius; in opere enim ipsius exiguum laborabis, et cito edes de generationibus illius (Eccle. VI, 18-20). Cercate la virtù nel tempo della vostra giovinezza, e la troverete come un frutto precoce; sarete colmi di felicità (Eccli. LI, 18 – 20). « Io mi sono ricordato di voi, dice il Signore; ebbi pietà della vostra giovinezza e del mio amore per l’anima vostra, sposa mia » — Recordatus sum tui, miserans adolescentiam tuam, et caritatem desponsationis tuæ (IEREM. II, 2). Io mi sono ricordato, anima infedele, ed ho richiamato alla tua memoria la tua prima età, durante la quale io, tuo Dio, non già per riguardo alla bellezza, o alla sapienza, o alla ricchezza, o ad altro tuo merito, ma per pura mia misericordia ho preso te in mia sposa, te debole, povera, inferma; ti ho tratta a me e protetta e dotata del battesimo, della scienza cristiana, della grazia, ecc.; ti ho vestita di abiti preziosissimi e ornata di splendentissimi brillanti, affinché tu mi serbassi la fedeltà che le spose devono ai loro sposi… « È vantaggioso per l’uomo, dice Geremia, ch’egli porti il giogo del Signore fino dall’adolescenza » — Bonum est viro cum portaverit iugum ab adolescentia sua (Lament. III, 27). Portare il giogo del Signore, vuol dire obbedire alle sue leggi e ai suoi precetti, accettare gli obblighi che importa il servizio di Dio; essere umile, dolce, paziente nelle contrarietà. Colui che si è sottoposto al giogo del Signore fino dai primi anni, e che ha diretto, col freno di una savia moderazione, la sua giovinezza, riuscirà, dice S. Ambrogio, a vincere le proprie passioni: dominerà i suoi sensi, e terrà in freno le concupiscenze della carne; saprà discernere e sradicare le cattive inclinazioni del proprio cuore, godrà tranquillità e pace. Il giogo potente e amabile del Signore porta a desiderare Dio e cercarlo; se la gioventù, quasi indomabile, si mette sotto questo giogo, tutto le diventa facile, dolce e piacevole (In Psulm. CXVIII, serm. IX). Per mezzo del giogo del suo servizio, Dio doma la gioventù, la mantiene in piedi, la preserva dalle cadute pericolose, la rende dolce, l’informa al bene e finalmente la perfeziona. Egli suole alleggerire il suo giogo e far sì che vi si gusti la vera felicità, colmando di grazie e di consolazioni quelli che lo portano, secondo la parola di Gesù Cristo medesimo: « Dolce è il mio giogo, soave il mio peso — Iugum meum suave est et onus meum leve (MATTH. XI, 30).  Quanto saggia e generosa è l’anima la quale fu educata di buon’ora alla scuola di Gesù Cristo, e volle conservarsi veramente libera, sottoponendosi al giogo divino, oppure geme di aver passato alcuni giorni fuori di questa disciplina, che è principio di vita e di forza! Quest’anima eroica è ferma nel proposito di sottoporsi e consacrarsi fino alla morte al servizio del Signore nel silenzio, nella pazienza, nella rassegnazione; senza mai scuotere il suo giogo e astenendosi da ogni mormorazione; poiché l’anima la quale cerca di liberarsi di questo giogo, lo porta a malincuore, lo trascina e lo abborre; e allora essa ne è schiacciata, e perde ogni merito… Buona cosa è avvezzarsi da giovani alla disciplina, alla mortificazione, all’austerità, alla pazienza, alla pratica della virtù, in una parola al servizio di DIO. È questa la via che conduce alla salute eterna e a grande perfezione. Dalla loro infanzia Sansone e Samuele si astennero dal vino e da ogni bevanda fermentata e furono consacrati Nazarei. In età tenerissima, S. Giovanni Battista si ritirò nel deserto, vestì il cilizio, si cibò di locuste, e meritò di essere il precursore e il martire di Gesù Cristo. Il Salvatore divino cominciò dal presepio a praticare la povertà e l’obbedienza, a menare una vita di stenti e a prepararsi alla croce. Egli di se stesso diceva, per mezzo del profeta: « Menai vita travagliata e povera fin dai giorni della mia giovinezza » — Pauper sum ego et in laboribus a iuventute mea (Psalm. LXXXVII, 16). Gesù ama l’infanzia che lo serve, dice S. Leone, quell’infanzia ch’egli assunse nell’anima e nel corpo suo. Gesù ama l’infanzia che è un modello di umiltà, d’innocenza, di dolcezza. Gesù ama l’infanzia, secondo la quale informa i costumi ed a cui riconduce la vecchiaia, e che propone per esempio a quelli che chiama a entrare nel regno dei cieli (Serm. in Ephiph. n. 7). Dove trovare utilità eguali a quelle che s’incontrano nel servizio di Dio accettato fin dalla giovinezza? Sapete che cosa vuol dire servire Dio dalla gioventù? Vuol dire conservare la propria innocenza e purità; essere nelle grazie di Dio, avere Dio in noi stessi, i suoi favori, le sue benedizioni; vuol dire non perdere mai il prezioso tesoro del battesimo e rimanere fedeli ai sacri impegni quivi contratti; vuol dire avanzare di virtù in virtù e aumentare ogni anno, ogni giorno, ogni ora, i propri meriti e la propria corona; vuol dire conservare la pace del cuore e prepararsi ineffabili conforti, assicurare la propria salvezza, restare tempio dello Spirito Santo, ornato di tutti i suoi doni; mostrarsi degno membro di Gesù Cristo, riuscire vincitore dell’inferno, del mondo, di noi medesimi; vuol dire cominciare su la terra la vita degli Angeli, e gustare un saggio anticipato delle ineffabili delizie della città celeste; vuol dire essere la consolazione del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo, di Maria, degli Angeli, dei santi, della Chiesa, della società, della famiglia; spargere dappertutto il buon odore di Gesù Cristo e invitare col proprio esempio, gli altri a fare lo stesso, a schivare il peccato,, a praticare la virtù e a santificarsi. Felice nel tempo e nell’eternità quel giovane che serve al Signore con tutto il cuore e con tutta l’anima e con tutte le forze e che persevera in questo dolce e salutare servizio!

4. MOTIVI DI SERVIRE DIO NELLA GIOVENTÙ: perché questa età passa presto. — Che cosa è la gioventù? un’età che passa come il fiore sbocciato la mattina, appassito la sera; come leggero vapore, o goccia di rugiada al comparire del sole; come sogno, o baleno, o volò di uccello… Che cosa sono tutte le età, prese ad una ad una? Che cosa è la vita intera, paragonata all’eternità? Per quanti poi la giovinezza è l’ultima età della vita? Quanti devono dire con Ezechia, re di Giuda: Sul fine dei miei anni discendo nel sepolcro… La mia vita fu tolta e piegata ad un tratto, come la tenda di un pastore: fu troncata come la tela del tessitore. Mentre io era tuttavia sul crescere, la mano del Signore mi ha reciso; dal mattino alla sera i miei giorni ebbero fine. Speravo di vedere ancora l’aurora del giorno seguente, ma il male stritolò come leone le mie ossa (ISAI. XXXVIII, 10, 12 – 13)? Oh, di quante persone si può dire quello che Geremia diceva del popolo di Gerusalemme: « Il sole tramontò per lui, mentr’era ancora giorno alto » — Occidit ei sol, eum adhuc esset dies (XV, 9)! – Se volete sapere perché mai una morte prematura abbia colpito quel giovane virtuoso, aprite la Sapienza al capo IV, e vedrete che siccome egli piaceva a Dio, perciò Dio lo amò più degli altri e lo tolse di mezzo ai peccatori fra cui viveva, affinché la malizia non gli traviasse l’intelletto e l’illusione non gli guastasse il cuore. Poiché molto facilmente avviene che l’uomo semplice e aperto sia colto al laccio della frivolezza dei beni e dell’incostanza dei desideri terreni. Consumato in pochi giorni, tuttavia visse molto e perché la sua anima piaceva a Dio, egli si affrettò a toglierlo dalle iniquità del secolo. Ma la gente vede e non comprende; non pensa che la grazia e la misericordia del Signore piovono sopra i suoi santi, e il suo sguardo si posa su di loro. Il giusto morto condanna gli empi vivi; ed una santa gioventù rapidamente trascorsa è rimprovero alla vecchiezza del malvagio (Sap. IV, 10-16). Perché poi altre volte la morte abbatte, non meno prematuramente, quel giovane corrotto ed empio? Sebbene siano impenetrabili i segreti di Dio, che noi dobbiamo adorare e non scrutare, ci è però lecito asserire che questo avviene: 1 ° in punizione della sua rea condotta…; 2 ° perché non prolunghi di più la catena delle iniquità e non accresca di più il già troppo terribile conto che ha da rendere a Dio … ; 3 ° per mettere un fine agli scandali che semina …; 4° perché serva d’esempio ai suoi coetanei; ai savi affinché perseverino, ai dissipati perché si convertano…; 5 ° perché era maturo per l’inferno. Ah! la brevità della giovinezza grida ad alta voce ai giovani la necessità di consacrare quest’età al servizio del Signore.

Perché quale è la gioventù, tali sono le altre età. — « La vostra vecchiezza ricopierà gli anni della vostra gioventù », dice i l Signore: — Sicut dies iuventutis tuæ, ita et senectus tua (Deuter. XXXIII, 25). «L’adolescente, dice il Savio, continuerà la strada per la quale si è messo e non ne uscirà nemmeno da vecchio » — Adolescens iuxta viam suam, etiam cum senuerit non recedet ab ea (Prov. XXII, 6). « Le ossa dell’empio, scrive Giobbe, saranno penetrate dei vizi della sua giovinezza, e se li porterà con sé nella polvere della tomba » — Ossa eius implebuntur vitiis adolescentiae eius, et cum in pulvere dormient (XX, 11). Un vaso di terra, come nota S. Gerolamo, mantiene a lungo, ed alcune volte anche per sempre, dice il poeta, l’odore del liquore di cui fu riempito l a prima volta.

Perché questa età è la più esposta al male. — Chi negherà che la gioventù sia un’età piena d’ignoranza, d’inesperienza, di debolezza, di presunzione? Quattro motivi spingono il demonio a muovere più accanita guerra alla gioventù, che non alle altre età, e sono: 1) perché sa che Dio ama di speciale amore la gioventù pia e costumata; perciò egli si adopera mani e piedi per rubare al Signore l’incantevole fiore dell’età e della virtù; 2) perché con questo mezzo egli trascina incatenate per la strada del peccato, tutte le età seguenti…; 3) perché è più facile adescare i giovani … 4) perché quando sono caduti nel vizio, i giovani vi si immergono perdutamente… Anche il mondo e la carne fanno ai giovani guerra più crudele che non agli altri, come l’esperienza c’insegna. « La gioventù, scrive S. Basilio, è molto leggera e assai proclive al male; ora sono concupiscenze indomite e sfrenate, ora collere bestiali e crudeli. Maldicenza di parole, petulanza di tratto, arroganza di risposte, boria e fasto figlio dell’orgoglio, uno sciame insomma di vizi ronza continuamente attorno, e assale e morde l’età giovanile (Homil. in Psalm.) ». Ora se i giovani sono esposti a tanti pericoli e scogli, a tante tentazioni e passioni, ed hanno poco o nulla di esperienza, non è forse cosa estremamente utile e necessaria che si consacrino al servizio di Dio, se vogliono scampare a certo naufragio?

Perché questa età appartiene in modo speciale a Dio. — Certamente tutte le età appartengono al supremo padrone di tutte le cose, ma per titolo specialissimo a Lui appartiene la giovinezza che rappresenta le primizie della vita dell’uomo e ognuno sa che le primizie furono in ogni tempo e luogo offerte al Signore… I bei fiori di primavera e principalmente i primaticci, sono sempre i più belli, i più graditi, i più preziosi, i più ricercati, e noi preferiamo questi quando vogliamo fare un regalo a persona cara. Ora l’età giovanile è il più eletto fiore del giardino del Signore; a Lui dunque bisogna consacrarla… Sul fiore dell’età, Gesù Cristo diede la sua vita per la salute del mondo; a questo pensiero, chi non consacrerà al divin Redentore questa parte della sua vita? … La gioventù non ci appartiene; toglierla o negarla a Gesù Cristo, è un furto che noi gli facciamo.

5. È COSA VERGOGNOSA LO SCIUPARE LA GIOVINEZZA. – La maggior parte dei giovani si avviano per una cattiva strada e vanno dicendo: Darò la mia gioventù al piacere e la vecchiaia alla penitenza; la gioventù concederò all’ozio ed alle passioni, la vecchiezza al lavoro e alla virtù; sacrificherò la giovinezza alla carne, al mondo, al demonio, la vecchiaia consacrerò all’anima e a Dio … Che insulto a Dio, che vergogna per l’uomo è mai questa, di dare al diavolo il fiore e il frutto della vita, serbando a Dio il gambo fatto strame! Dove trovare insensatezza più stupida che questa, di sciupare nell’ozio e nella mollezza un’età atta al lavoro, e costringere ad una fatica troppo pesante, l’età fatta per il riposo! Come si regola l’uomo prudente, negli affari del secolo? Egli dice: bisogna che cerchi, nel vigore dell’età, a procacciarmi dei mezzi per passare tranquillo i miei ultimi giorni. Ora perché non si fa altrettanto, trattandosi dell’affare dell’anima?… Che spaventoso pericolo non è quello di chi si abbandona al disordine, nella vana e incerta speranza, prima di una lunga vita, poi di avere il tempo necessario alla penitenza!… Alla gioventù tocca preparare, dice Seneca, alla vecchiaia godere: — Iuveni parandum, seni utendum (Prov.). – Grave imprudenza e mostruosa ingratitudine è abbandonare e offendere Dio nella giovinezza. A chi si diporta in tale maniera, sono diretti quei rimproveri di Geremia: « Tu hai dunque abbandonato il Signore Dio tuo nel tempo in cui ti guidava per la strada. Ed ora che cosa ti giova l’aver lasciato la sorgente di acqua viva, per bere il fango delle passioni e del mondo? La tua malizia insorgerà ad accusarti e la tua avversione si leverà a rimproverarti. Vedi una volta e comprendi quanto sia per te funesta e amara cosa l’esserti allontanato dal Signore Dio tuo e non avere più il suo timore. Tu hai rotto le mie catene, hai spezzato il mio giogo, gridando: Non servirò! » (IEREM. II, 17-20). – E non sono pochi, purtroppo, questi giovani che furono divorati dal fuoco delle passioni, che deviarono dal retto cammino fin dalla prima età e s’impigliarono nell’errore fino dall’infanzia: — Iuvenes comedit ignis (Psalm. LXXVII, 63). — Alienati sunt peccatores a vulva, erraverunt ab utero (Id. LVII, 3). Della maggior parte dei giovani si può dire con Baruch, che videro il lume, eppure vissero di vita carnale; ignorarono la strada della sapienza, non ne conobbero il sentiero: la rigettarono, ed essa si allontanò da loro (III, 20-21). – « O giovani, dice il Signore, e fino a quando amerete voi le fanciullaggini? fino a quando gli insensati brameranno quello che loro è nocevole, e gli imprudenti volgeranno il tergo alla scienza? » — Usquequo, parvuli, diligitis infantiam? et stulti ea, quæ sibi sunt noxia, cupient, et imprudentes odibunt scientiam? (Prov. I , 22). Fino a quando avrete voi in uggia la scienza della virtù e della salute, e farete buon viso alle frivolezze, ai giuochi, all’ozio, all’infingardaggine, al peccato, alla morte?… « Credete voi di trovare, domanda. VEcclesiastico, nella vostra vecchiaia, quello che non avrete raccolto nella giovinezza? » — Quæ in iuventute tua non congregasti, quomodo in senectute tua invenies? (XXV, 5). Dove sono, ahimè! i giovani che abbiano conservato la loro innocenza? dove trovare giovani umili, modesti, casti, docili, saggi, edificanti? Come ne è piccolo il numero! come grande, al contrario, è la folla di quelli che perdettero così bella virtù!…

6. CASTIGHI MINACCIATI A QUELLI CHE NON SERVONO IL SIGNORE DA GIOVANI. — « Godi pure, o giovane, nei giorni della tua adolescenza, sfoga ogni tuo capriccio, ma sappi che di tutte queste cose Dio ti chiederà conto » — Lætare, iuvenis, in adolescentia tua, ambula in viis cordis tui, et in intuitu oculorum tuorum; et scito quod prò omnibus his adducet te Deus in iudicium (Eccle. X I , 9). « I ragazzi, lamenta Geremia, furono trascinati in schiavitù dinanzi alla faccia del dominatore » — Parvuli ducti sunt in captivitatem, ante faciem tribulantis (Lament. I, 5), cioè innanzi al demonio, come spiegano gli interpreti. E il profeta Baruch: «Non presero la via della sapienza, perciò perirono » — Neque viam disciplinæ invenerunt, propterea perierunt (III, 27). Ecco finalmente come lo Spirito Santo descrive, per bocca di Giobbe, i castighi che seguono una giovinezza colpevole: « Signore, voi mi avete amareggiato sino al fondo dell’anima, e mi avete fatto vittima dei trascorsi della mia adolescenza. Voi avete posto ai miei piedi degli intoppi, e avete notato tutti i mei procedimenti; io sarò divorato come corpo roso da cancro, come veste consumata dalla tignuola » (IOB. XIII, 26-28). – Da queste parole della Scrittura si deduce che Dio minaccia alla gioventù viziosa i seguenti castighi: 1° l a peggiore fra le schiavitù, quella del diavolo; 2° l’amarezza del rimorso; 3° una rovina totale; 4° una morte spaventosa; 5° un giudizio terribile … Che disgrazia perdere l’innocenza, la bella età, la virtù, l’anima e Dio! … Che tremendo castigo essere venduto al vizio e al demonio!…

7. MEZZI PER SERVIRE DIO DALLA GIOVINEZZA. — Sono molti i mezzi che ci conducono a servire Dio e a correggerci dei nostri difetti dalla giovinezza.

L’osservanza della legge divina. « In qual modo può mai la gioventù emendare i suoi costumi? », domanda il Salmista, e risponde: « Con l’osservare i precetti del Signore » — In quo corrigit adolescentior viam suam? in custodiendo sermones tuos (Psalm. CXVIII, 9).

Il ricordo di Dio. « Ricordati del tuo Creatore nei giorni della tua giovinezza », leggiamo nell’Ecclesiaste: — Memento Creatoris tui in diebus iuventutis tuæ (XII, 1).

Il timore di Dio. Tobia insegnò al suo figliuolo a temere Dio dall’infanzia e ad astenersi da ogni peccato: — Filium ab infantia timere Deum docuit, et abstinere ab omni peccato (TOB. I, 10).

La prudenza. « Uscite dall’infanzia e vivete e camminate per le vie della prudenza », si legge nei Proverbi: — Relinquite infantiam, et vivite; et ambulate per vias prudentiae (IX, 6).

L’istruzione cristiana. « Figlio mio, dice il Savio, ricevi l’istruzione dai tuoi primi anni, e troverai la sapienza fino agli ultimi » — Fili, a iuventute tua excipe doctrinam, et usque ad canos invenies sapientiam (Eccli. VI, 18).

Preporre Dio ad ogni cosa, e ricordarsi che l’anima è il più prezioso tesoro affidato alla custodia dell’uomo…

Amare di cordiale e tenero affetto la Beata Vergine Maria, raccomandarsi a lei tutti i giorni e non lasciarne passare un solo, senza prestarle qualche particolare omaggio.

Non tenere mai sulla coscienza un peccato mortale; ma pentirsi ogni giorno delle colpe commesse e confessarsene al più presto.

Pensare sovente alla morte e considerare che, dopo morte, chi fu morigerato da giovane sarà eternamente felice con Dio e con i santi; che al contrario chi dimentica Dio nell’aurora della sua vita, ha tutta la ragione di temere di perdersi eternamente…

10° Rispettare se medesimo e in pubblico e in privato.

11° Fare tutte le azioni come se fossimo sotto gli occhi di rispettabili persone.