I SETTE DOLORI DI MARIA SANTISSIMA

I SETTE DOLORI DI MARIA SANTISSIMA

[Dom Guéranger: L’Anno Liturgico, vol. I, ed. Paoline, Alba, 1957 imprim.]

La compassione della Madonna.

La pietà degli ultimi tempi ha consacrato in una maniera speciale questo giorno alla memoria dei dolori che Maria provò ai piedi della Croce del suo divin Figliolo. La seguente settimana è interamente dedicata alla celebrazione dei Misteri della Passione del Salvatore, e sebbene il ricordo di Maria che soffre insieme a Gesù sia sovente presente al cuore del fedele, il quale segue piamente tutti gli atti di questo dramma, tuttavia i dolori del Redentore e lo spettacolo della giustizia divina che s’unisce a quello della misericordia per operare la nostra salvezza, assillano troppo la mente, perché sia possibile onorare come merita il mistero della compassione di Maria ai patimenti di Gesù. Conveniva perciò che fosse scelto un giorno, nell’anno, per adempiere a questo dovere; e quale giorno meglio si addiceva del Venerdì della presente settimana, ch’è di per se stesso interamente dedicato al culto della Passione del Figlio di Dio?

Storia di questa festa.

Fin dal XV secolo, nel 1423, un arcivescovo di Colonia, Thierry de Meurs, inaugurava tale festa nella sua chiesa con un decreto sinodale (Labbe, Conciles, t. XII p. 365. – Il decreto esponeva la ragione dell’istituzione di tale festa: « Onorare l’angoscia che provò Maria quando il Redentore s’immolò per noi e raccomandò questa Madre benedetta a Giovanni, ma soprattutto affinché sia repressa la perfidia degli empi eretici Ussiti »). Successivamente si propagò, sotto diversi nomi, nelle regioni cattoliche, con tolleranza della Sede Apostolica; fino a che il Papa Benedetto XIII, con decreto del 22 agosto 1727, non l’inserì solennemente nel calendario della Chiesa universale, sotto il nome di Festa dei sette Dolori della Beata Vergine Maria. In tal giorno dunque la Chiesa vuole onorare Maria addolorata ai piedi della Croce. Fino all’epoca in cui il Papa non estese all’intera cristianità la Festa, col titolo suindicato, essa veniva designata con differenti nomi: La Madonna della Pietà, La Madonna Addolorata, La Madonna dello Spasimo; in una parola, questa festa era già sentita dalla pietà del popolo, prima che fosse consacrata dalla Chiesa

Maria Corredentrice.

Per ben comprendere l’oggetto, e meglio compiere in questo giorno, verso la Madre di Dio e degli uomini i doveri che le sono dovuti, dobbiamo ricordare che Dio, nei disegni della sua sovrana Sapienza, ha voluto in tutto e per tutto associare Maria alla restaurazione del genere umano. Tale mistero ci mostra un’applicazione della legge che rivela tutta la grandezza del piano divino; ed ancora una volta ci fa vedere il Signore sconfiggere la superbia di satana col debole braccio di una donna. Nell’opera della salvezza, noi costatiamo tre interventi di Maria, tre circostanze, nelle quali è chiamata ad unire la sua azione a quella stessa di Dio. La prima, nell’Incarnazione del Verbo, il quale non assume carne in Lei se non dopo averne ottenuto il consenso con quel solenne FIAT che salvò il mondo; la seconda, nel Sacrificio di Gesù Cristo sul Calvario, ove ella assiste per partecipare all’offerta espiatrice; la terza, nel giorno della Pentecoste, quando riceve lo Spirito Santo come lo ricevettero gli Apostoli, per potere adoperarsi efficacemente alla fondazione della Chiesa. Nella festa dell’Annunciazione esponemmo la parte ch’ebbe la Vergine di Nazaret al più grande atto che piacque a Dio intraprendere per la sua gloria, e per il riscatto e la santificazione del genere umano. In seguito avremo occasione di mostrare la Chiesa nascente che si sviluppa e s’ingigantisce sotto l’influsso della Madre di Dio. Oggi dobbiamo descrivere la parte che toccò a Maria nel mistero della Passione di Gesù, spiegare i dolori che sopportò presso la Croce, ed i nuovi titoli che ivi acquistò alla nostra filiale riconoscenza.

La predizione di Simeone.

Il quarantesimo giorno dopo la nascita di Gesù, la Beata Vergine venne a presentare il Figlio al Tempio. Questo fanciullo era atteso da un vegliardo, che lo proclamò « luce delle nazioni e gloria d’Israele». Ma, volgendosi poi alla madre, le disse: «(Questo fanciullo) è posto a rovina e risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione; anche a te una spada trapasserà l’anima » (Lc. 2, 34-35). L’annuncio dei dolori alla madre di Gesù ci fa comprendere che le gioie natalizie erano cessate, ed era venuto il tempo delle amarezze per il figlio e per la madre. Infatti, dalla fuga in Egitto fino a questi giorni in cui la malvagità dei Giudei va macchinando il più grave dei delitti, quale fu lo stato del figlio, umiliato, misconosciuto, perseguitato e saziato d’ingratitudini? Quale fu, per ripercussione, il continuo affanno e la costante angoscia del cuore della più tenera delle madri? Noi oggi, prevenendo il corso degli eventi, facciamo un passo avanti ed arriviamo subito al mattino del Venerdì Santo.

Maria, il Venerdì Santo.

Maria sa che questa stessa notte suo figlio è stato tradito da un suo discepolo, da uno che Gesù aveva scelto a suo confidente, ed al quale ella stessa, più d’una volta, aveva dato segni della sua materna bontà. Dopo una crudele agonia, s’è visto legare come un malfattore, e la soldatesca l’ha condotto da Caifa, suo principale nemico. Di là l’hanno portato al governatore romano, la cui complicità era necessaria ai prìncipi dei sacerdoti e ai dottori della legge, perché potessero versare, secondo il loro desiderio, il sangue innocente. Maria si trova allora a Gerusalemme, attorniata dalla Maddalena e da altre seguaci del Figlio; ma esse non possono impedire che le grida di quel popolo giungano fino a lei. Del resto, chi potrebbe far scomparire i presentimenti nel cuore d’una tal madre ? In città non tarda a spargersi la voce che Gesù Nazareno è stato consegnato al governatore per essere crocifisso. Si terrà forse in disparte Maria, in questo momento in cui tutto un popolo s’è mosso per accompagnare coi suoi insulti fino al Calvario, questo Figlio di Dio che ha portato nel suo seno ed ha nutrito del suo latte ? Ben lungi da tale viltà, si leva e si mette in cammino, fino a portarsi al passaggio di Gesù. L’aria risuonava di schiamazzi e di bestemmie. La moltitudine che precedeva e seguiva la vittima era composta da gente feroce od insensibile; solo un gruppetto di donne faceva sentire i suoi dolorosi lamenti, e per questa compassione meritò d’attirare su di sé gli sguardi di Gesù. Poteva Maria, dinanzi alla sorte del suo figlio dimostrarsi meno sensibile di queste donne, che avevano con lui solo legami di ammirazione o di riconoscenza? Insistiamo su questo punto, per dimostrare quanto abbiamo in orrore il razionalismo ipocrita che, calpestando tutti i sentimenti del cuore e le tradizioni della pietà cattolica ha tentato, sia in Oriente che in Occidente, di mettere in dubbio la verità della Stazione della Via dolorosa, che segna il punto d’incontro del figlio e della madre. Questa setta che non osa negare la presenza di Maria ai piedi della Croce, perché il Vangelo è troppo esplicito al riguardo, piuttosto di rendere omaggio all’amore materno più devoto che mai sia esistito, preferisce dare ad intendere che, mentre le figlie di Gerusalemme si mostrarono intrepide al passaggio di Gesù, Maria si recò al Calvario per altra via.

Lo sguardo di Gesù e di Maria.

Il nostro cuore di figli tratterà con più giustizia la donna forte per eccellenza. Chi potrebbe dire il dolore e l’amore che espressero i suoi sguardi, quando s’imbatterono in quelli del figlio carico della Croce? e dire con quale tenerezza e con quale rassegnazione rispose Gesù al saluto della madre? e con quale affetto Maddalena e le altre sante donne sostennero fra le loro braccia colei che doveva ancora salire il Calvario, per ricevere l’ultimo respiro del suo dilettissimo figlio? Il cammino è ancora lungo sulla Via dolorosa, dalla quarta alla decima Stazione, e se fu irrigato dal sangue del Redentore, fu anche bagnato dalle lacrime della madre sua.

La Crocifissione.

Gesù e Maria sono giunti sulla sommità della collina che servirà da altare al più augusto dei sacrifici; ma il divino decreto ancora non permette alla madre d’accostarsi al figlio; solo quando sarà pronta la vittima, s’avanzerà colei che deve offrirla. Mentre aspetta questo solenne momento, quali scosse per la Vergine ad ogni colpo di martello che inchioda sul patibolo le delicate membra del suo Gesù! E quando finalmente le sarà permesso d’avvicinarsi a lui col prediletto Giovanni, la Maddalena e le compagne, quali indicibili tormenti proverà il cuore di questa madre nell’alzare gli occhi e nello scorgere, attraverso il pianto, il corpo lacerato del figlio, stirato violentemente sul patibolo, col viso coperto di sangue e imbrattato di sputi, e col capo coronato da un diadema di spine! Ecco dunque il Re d’Israele, del quale l’Angelo le aveva preannunziato le grandezze; ecco Figlio della sua verginità, Colui che Ella ha amato come suo Dio e insieme come frutto benedetto del suo seno. Per gli uomini, più che per sé, Ella lo concepì, lo generò, lo nutrì; e gli uomini l’hanno ridotta in questo stato! Oh, se, con uno di quei prodigi che sono in potere del Padre celeste, potesse essere reso all’amore di sua Madre, e se la giustizia alla quale s’è degnato di pagare tutti i nostri debiti volesse accontentarsi di ciò che Egli ha sofferto! Ma no, deve morire, ed esalare lo spirito in mezzo alla più crudele agonia.

Il martirio di Maria.

Dunque Maria è ai piedi della Croce per ricevere l’addio del figlio, che sta per separarsi da lei; fra qualche istante, di questo suo amatissimo figlio non le resterà che un corpo inanimato e coperto di piaghe. Ma cediamo qui la parola a S. Bernardo, del cui linguaggio si serve oggi la Chiesa nell’Ufficio del Mattutino: « Oh, Madre, egli esclama, considerando la violenza del dolore che ha trapassata l’anima tua, noi ti proclamiamo più che martire, perché la compassione che hai provato per tuo figlio, sorpassa tutti i patimenti che il corpo può sopportare. Non è forse stata più penetrante d’una spada per la tua anima quella parola: Donna ecco il figlio tuo? Scambio crudele! in luogo di Gesù, ricevi Giovanni; in luogo del Signore, il servo; in luogo del Maestro, il discepolo; in luogo del figlio di Dio, il figlio di Zebedeo: un uomo, insomma, in luogo d’un Dio! Come poté la tua anima sì tenera non essere ferita, quando i cuori nostri, i nostri cuori di ferro e di bronzo, si sentono lacerati al solo ricordo di quello che dovette allora soffrire il tuo ? Perciò non vi meravigliate, fratelli miei, di sentir dire che Maria fu martire nella sua anima. Di nulla dobbiamo stupirci, se non di colui che avrà dimenticato ciò che S. Paolo annovera tra i più gravi delitti dei Gentili, l’essere stati disamorati. Ma un tale difetto è lungi dal cuore di Maria; che sia lungi anche dal cuore di coloro che l’onorano! » (Discorso delle dodici stelle). Nella mischia dei clamori e degl’insulti che salgono fino al figlio elevato sulla Croce, nell’aria. Maria ascolta quella parola che scende dall’alto fino a lei e l’ammonisce che d’ora in poi non avrà altro figlio sulla terra che quello di adozione. Le gioie materne di Betleem e di Nazaret, gioie così pure e sì spesso turbate dalla trepidazione, sono compresse nel suo cuore e si cambiano in amarezza. Era la madre d’un Dio, e suo figlio le è stato tolto dagli uomini! Alza per un’ultima volta i suoi sguardi al caro Figlio, e lo vede in preda ad un’ardentissima sete, e non può ristorarlo; contempla i suoi occhi che si spengono, il capo che si reclina sul petto: tutto è consumato!

La ferita della lancia.

Maria non s’allontana dall’albero del dolore, all’ombra del quale è stata trattenuta fino adesso dal suo amore materno; ma quali crudeli emozioni l’attendono ancora ! Sotto i suoi occhi, s’avvicina un soldato a trapassare con una lanciata il costato del figlio suo appena spirato. « Ah, dice ancora S. Bernardo, il tuo cuore, o madre, è trapassato dal ferro di quella lancia ben più che il cuore del figlio tuo, che ha già reso l’ultimo suo anelito. Non c’è più la sua anima; ma c’è la tua, che non può distaccarsene » (Ivi). L’invitta madre rimane immobile a custodire i sacri resti del figlio; coi suoi occhi lo vede distaccare dalla Croce; e quando alla fine gli amici di Gesù, con tutte le attenzioni dovute al figlio ed alla madre, glielo rendono così come la morte l’ha ridotto, ella lo riceve sulle sue ginocchia, che una volta furono il trono sul quale ricevette gli omaggi dei prìncipi dell’Oriente. Chi potrà contare i sospiri ed i singhiozzi di questa madre, che stringe al cuore la spoglia esamine del più caro dei figli? Chi conterà le ferite, di cui è coperto il corpo della vittima universale?

La sepoltura di Gesù.

Ma l’ora passa; il sole declina sempre più verso il tramonto: bisogna affrettarsi a rinchiudere nel sepolcro il corpo di Colui ch’è l’autore della vita. La madre di Gesù raccoglie in un ultimo bacio tutta la forza del suo amore, ed oppressa da un dolore immenso come il mare, affida l’adorabile corpo a chi, dopo averlo imbalsamato, lo distenderà sulla pietra della tomba. Chiuso il sepolcro, accompagnata da Giovanni suo figlio adottivo, dalla Maddalena, dai due discepoli che hanno assistito ai funerali e dalle altre pie donne,

Maria rientra nella città maledetta. La novella Eva.

Vedremo noi, in tutti questi fatti, solo lo spettacolo delle sofferenze sopportate dalla madre di Gesù, vicino alla Croce del figlio? Non aveva forse Dio una intenzione, nel farla assistere di persona alla morte del Figlio? E perché non la tolse da questo mondo, come Giuseppe, prima del giorno della morte di Gesù, senza causare al suo cuore materno un’afflizione superiore a quella di tutte la madri prese insieme, che si sarebbero succedute da Eva in poi, lungo il corso dei secoli? Dio non l’ha fatto, perché la novella Eva aveva una parte da compiere ai piedi dell’albero della Croce. Come il Padre celeste attese il suo consenso prima d’inviare sulla terra il Verbo eterno, così pure richiese l’obbedienza ed il sacrificio di Maria per l’immolazione del Redentore. Non era il bene più caro di questa incomparabile madre, quel figlio che aveva concepito solo dopo aver accondisceso alla divina proposta ? Ma il cielo non poteva riprenderselo, senza che lei stessa lo donasse. Quale terribile conflitto scoppiò allora in quel cuore sì amante! L’ingiustizia e la crudeltà degli uomini stanno per rapirle il figlio: come può lei, la madre, ratificare, col suo assenso la morte di chi ama d’un duplice amore, come suo figlio e come suo Dio? D’altra parte, se Gesù non viene immolato, il genere umano continua a rimanere preda di Satana, il peccato non è riparato, ed invano lei è divenuta la madre d’un Dio. Per lei sola sarebbero gli onori e le gioie; e noi saremmo abbandonati alla nostra triste sorte. Che farà, allora, la Vergine di Nazaret, dal cuore così grande, la creatura sempre immacolata, i cui affetti non furono mai intaccati dall’egoismo che s’infiltra così facilmente nelle anime nelle quali è regnato il peccato originale? Maria, per la sua dedizione unendosi per gli uomini al desiderio di suo figlio, che non brama che la loro salvezza, trionfa di se stessa: una seconda volta pronuncia il suo FIAT, ed acconsente all’immolazione del figlio. Non è più la giustizia di Dio che glielo rapisce, ma è lei che lo cede: e, quasi a ricompensa, viene innalzata a un piano di grandezza che mai la sua umiltà avrebbe potuto concepire. Un’ineffabile unione si crea fra l’offerta del Verbo incarnato e quella di Maria; scorrono insieme il sangue divino e le lacrime della madre, e si mescolano per la redenzione del genere umano.

La fortezza di Maria.

Comprendete ora la condotta di questa Madre ed il coraggio che la sostiene. Ben differente da quell’altra madre di cui parla la Scrittura, la sventurata Agar, la quale dopo aver cercato invano di spegnere la sete d’Ismaele, ansimante sotto la canicola solare del deserto, fugge per non vedere morire il figlio. Maria inteso che il suo è condannato a morte, si alza, corre sulle sue tracce fin che non lo ritrova e l’accompagna al luogo ove dovrà spirare. Ed in quale atteggiamento rimane ai piedi della Croce di questo figlio? La vediamo forse venir meno e svenire? L’inaudito dolore che l’opprime l’ha forse fatta cascare al suolo, o fra le braccia di quelli che l’attorniano? No; il santo Vangelo risponde con una sola parola a tutte queste domande: « Maria stava (in piedi) accanto alla Croce ». Come il sacrificatore sta eretto dinanzi all’altare, così Maria, per offrire un sacrificio come il suo, conserva il medesimo atteggiamento. S. Ambrogio, che col suo tenero spirito e la profonda intelligenza dei misteri, ci ha tramandato preziosissimi trattati del carattere di Maria, esprime tutto in queste poche parole: « Ella rimase ritta in faccia alla Croce, contemplando coi suoi occhi il Figlio, ed aspettando, non la morte del caro Figlio, ma la salvezza del mondo » (Comment. su S. Luca. c. XXIII).

Maria, madre nostra.

Così la Madre dei dolori lungi dal maledirci, in un simile momento, ci amava e sacrificava a nostra salvezza perfino i ricordi di quelle ore di felicità che aveva gustate nel Figliol suo. Facendo tacere lo strazio del suo cuore materno, Ella lo rendeva al Padre come una sacro deposito che le aveva affidato. La spada penetrava sempre più nell’intimo dell’anima sua; ma noi eravamo salvi: da semplice creatura, essa cooperò insieme col figlio alla nostra salute. Dopo di ciò, ci meraviglieremo se Gesù scelse proprio questo momento per eleggerla Madre degli uomini, nella persona di Giovanni che rappresentava tutti noi? Mai, come allora, il Cuore di Maria era aperto in nostro favore. Sia dunque, ormai, l’Eva novella, la vera « Madre dei viventi ». La spada, trapassando il suo Cuore immacolato, ce ne ha spalancata la porta. Nel tempo e nell’eternità, Maria estenderà anche a noi l’amore che porta a suo Figlio, perché da questo momento ha inteso da Lui che anche noi le apparteniamo. A riscattarci è stato il Signore: a cooperare generosamente al nostro riscatto è stata la Madonna.

Preghiera.

Con tale confidenza, o Madre afflitta, oggi noi veniamo con la santa Chiesa, a renderti il nostro filiale ossequio. Tu partoristi senza dolore Gesù, frutto dal tuo ventre; ma noi, tuoi figli adottivi, siamo penetrati nel tuo Cuore per mezzo della lancia. Con tutto ciò amaci, o Maria, corredentrice degli uomini! E come potremmo noi non cantare all’amore del tuo Cuore sì generoso, quando sappiamo che per la nostra salvezza ti sei unita al sacrificio del tuo Gesù? Quali prove non ci hai costantemente date della tua materna tenerezza, tu che sei la Regina di misericordia, il rifugio dei peccatori, l’avvocata instancabile di tutti noi miseri? Deh! o Madre, veglia su noi; fa’ che sentiamo e gustiamo la dolorosa Passione di tuo Figlio. Non si svolse, essa, sotto i tuoi occhi? non vi prendesti parte? Facci dunque penetrare tutti i misteri, affinché le nostre anime, riscattate dal sangue di Gesù, e lavate dalle tue lacrime, si convertano finalmente al Signore e perseverino d’ora innanzi nel suo santo servizio.

L’AGONIA DI GESU’: SESTO VENERDI’ DI QUARESIMA

SESTO VENERDÌ DI QUARESIMA

[Don U. Banci: L’AGONIA DI GESU’, F. Pustet ed. Roma, 1935 – impr.]

In nomine Patris et Filli et Spiritus Sancti. Amen.

Actiones nostras, quæsumus  Domine, adspirando præveni et adiavando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a Te semper incipiat et per Te cœpta finiatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

[Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. Inspira, o Signore, le nostre azioni ed accompagnale col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera e opera da Te sempre incominci e col tuo aiuto sempre si compia. Per Cristo nostro Signore. Così sia.]

INVITO

Già trafitto in duro legno/Dall’indegno popol rio

La grand’alma un Uomo Dio, / Va sul Golgota a spirar.

Voi, che a Lui fedeli siete, /Non perdete, o Dio, i momenti

Di Gesù gli ultimi accenti /Deh! venite ad ascoltar.

SESTA PAROLA DI GESÙ IN CROCE

Consummatum est.

Tutto è compiuto.

[GIOVANNI, cap. XIX, v. 30]

CONSIDERAZIONE

Nel decretare la redenzione dell’uomo Iddio fissò e volle, fin dai primi tempi, per mezzo dei Profeti rendere noto al mondo, nei suoi particolari, il programma che il Redentore avrebbe dovuto svolgere durante gli anni della sua vita mortale, subordinando al completo sviluppo di esso la umana rigenerazione. Ed il Figlio, cui è sacra la volontà del Padre e che ardentemente desidera la salvezza nostra, nell’istante stesso in cui incarnandosi nel seno purissimo di Maria fa il suo primo ingresso nel mondo, con la piena consapevolezza che gli viene da quello spirito di intelligenza e di scienza, che illumina l’anima sua e che gli fa presenti alla mente tutte le circostanze più dolorose della sua vita e della sua morte, accetta il divino mandato, dicendo al Padre suo: Ecco che io vengo a fare, o Dio, la tua volontà. E se leggi quanto gli Evangelisti hanno narrato di Gesù, facilmente vedi come Egli abbia tenuto fede alla sua promessa e quanto giustamente avesse scritto di Lui il Salmista: Nel volume della legge sta scritto di me: io mi compiaccio di fare la tua volontà, mio Dio, e la tua legge sta in mezzo al mio cuore -. Tu lo senti infatti continuamente ripetere che unico scopo, per cui è al mondo, è quello di fare la volontà del Padre suo: Sono disceso dal Cielo, così leggiamo in S. Giovanni, non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato [GIOVANNI, cap. VI. v. 38]. E questo il suo cibo quotidiano, come Egli stesso, quando un giorno ai discepoli che con affettuosa premura, essendo l’ora tarda e sapendolo affaticato e stanco, lo invitarono a prendere cibo, disse: Mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato, e così compiere l’opera sua [GIOVANNI, cap. IV, v. 34]. Ed a questa augusta volontà è pronto a sacrificare tutto, anche gli affetti più cari. Era fanciullo di appena dodici anni, quando alla Madre sua, che dopo tre giorni di penose ricerche, ritrovandolo al tempio, gli domanda perché mai l’avesse lasciata in quella profonda amarezza, non dubita di rispondere: Perché mi cercavate? Non sapevate come io debbo essere in quel che spetta al Padre mio? 2 [S. LUCA, cap. II, v. 49]. E dinanzi a coloro che in qualunque modo avessero tentato impedirgli il compimento di tale volontà, si accendeva di un santo sdegno. Predice ai suoi discepoli le persecuzioni ed i dolori che avrebbe sofferto nella sua passione, ed a Pietro, che lasciandosi trascinare dall’affetto per il Maestro esclama scandalizzato: Non sia mai vero o Signore, simil cosa non t’avverrà mai, risponde con quelle energiche parole: Va’ lontano da me, satana; tu mi sei di scandalo, perché non senti quel che è di Dio, ma quel che è degli uomini'[MATTEO, cap. XVI, v. 22, 23]. E quando nel Getsemani Pietro snudò la spada, volendosi opporre all’arresto del Maestro, questi, imponendogli di rimettere la spada nel fodero, disse: Non berrò io il calice che il Padre mi ha dato?[S. GIOVANNI, cap. XVIII, v. 10]. E tu sai, anima cristiana, quanto costasse a Gesù fare la volontà del Padre suo. Gli costò tutta una vita di umiliazioni e di dolori, di fatiche e sudore di sangue. Quando durante l’agonia dell’orto, prostrato a terra, chiede al Padre che gli sia allontanato il calice di amarezza, Egli sperimenta nella sua natura umana tutta la ripugnanza per il sacrificio che gli si domanda; ma fermo è il suo proposito di fare sempre la volontà del Padre suo. Si accende allora in Lui una fiera lotta che lo prostra a terra spaventato e tremante, e per lo sforzo sovrumano che in quel momento deve compiere per sottomettere la sua alla volontà del Padre, affinché volontario e meritorio fosse il suo sacrificio, suda sangue. Quelle gocce di sangue che gli solcano il volto, gli bagnano le vesti e scorrono a terra, mentre ti dicono meglio che ogni parola quanto gli costi fare la volontà del Padre, sono anche il segno glorioso della vittoria della sua ferma volontà sulla natura riluttante. Ed ora che si trova agli estremi, volgendo un rapido sguardo alla sua vita e ripensando ad uno ad uno a tutti gli anni della sua dolce infanzia, della sua laboriosa gioventù, della sua virilità meravigliosa e feconda di bene, il suo Cuore ha un sussulto di gioia. Tutto ciò che di Lui era stato scritto negli eterni decreti, tutto quanto fu raffigurato nei Patriarchi e nei sacrifici e fu predetto dai Profeti, è ormai un fatto compiuto; gli oracoli, che come una minaccia pendevano sulla sua vita, l’uno dopo l’altro si sono tutti compiuti; non rimane altro che si elevi, secondo la predizione del Salmista [Samo XVIII], un inno di trionfo e di lode per aver eseguito tutti i voleri del Padre. E quest’inno erompe dalle sue labbra quando, appena assaporata la disgustosa bevanda offertagli dal soldato, col giusto e santo orgoglio del trionfatore, che sta per riposarsi nella pace del trionfo, esclama: Tutto è compiuto. È questa dunque, anima cristiana, non già un’espressione di rassegnazione all’inevitabile, ma un grido di gioia per aver raggiunto la mèta tanto bramata. E le schiere invisibili degli Angeli, che raccolti attorno alla croce avevano assistito all’agonia del loro Dio, facendo eco alle sue parole, avranno elevato al cielo il canto della loro ammirazione, che dopo di loro ripeterà S. Paolo: Cristo si è fatto obbediente fino alla morte e morte di croce [Epistola ai Filippesi, cap. II, v. 8]. Anche tu, anima cristiana, hai una grande missione da compiere qui sulla terra; e la tua è la stessa missione di Gesù: fare cioè la volontà di Dio. Questo, che è lo scopo vero ed unico della tua vita, ti fu solennemente annunziato dalla Chiesa, quando bambino di pochi giorni fosti condotto al fonte battesimale per essere rigenerato alla vita soprannaturale. Allora il Sacerdote nell’iniziare la santa cerimonia rivolse a te quelle stesse parole, che un giorno Gesù disse ad un giovane, che gli domandò che cosa avrebbe dovuto fare per ottenere la vita eterna: Se vuoi ottenere la vita eterna, osserva i comandamenti [Rituale romano]. Quindi anche tu, e con maggior ragione di Gesù, devi ripetere quello che Egli diceva di sé : Son disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato 3 [S. GIOVANNI, loc. cit.] Sì, anima cristiana, tu sei al mondo non per volontà tua, ma esclusivamente per volontà di Dio, il quale ti ha dato la vita per quest’unico scopo: amare e servire Dio; ed è così, e soltanto così che potrai conseguire il fine e raggiungere la vera grandezza e la vera felicità. Un giorno, narra l’evangelista S . Luca, una donna levando alta la voce di mezzo alla folla, disse a Gesù: Beato il seno che ti ha portato e le poppe che hai succhiate, e Gesù subito le rispose: Beato è piuttosto chi ascolta la parola di Dio e la osserva 11 [S. LUCA, cap. XI, v . 27, 28]. – Con questa risposta Gesù non volle certamente negare che Maria fosse grande e felice per essere la Madre sua, ma volle dire che la vera causa della sua grandezza non consisteva nei privilegi di cui era stata arricchita, ma nell’aver Essa ascoltata la parola di Dio, ed avere uniformata pienamente la sua volontà a questa parola. Che cosa infatti, o anima cristiana, giovò agli Angeli essere stati dotati di una natura eccellente, arricchiti di intelligenza, di bellezza e di grazia, quando non seppero ubbidire al volere del loro Creatore? Da Angeli divennero demoni, ed un inferno orribile fu e sarà la loro infelice ed eterna dimora. E che cosa giovò ai nostri infelici progenitori aver ricevuto da Dio, sempre generoso verso le sue creature, tanti doni di natura e di grazia ed essere in possesso di un giardino di delizie, quando poi osarono disobbedire al comando ricevuto? Spogliati di tutti i doni videro il paradiso terrestre convertito in una valle di lacrime. Maria invece, quando ricevette l’annunzio dell’Angelo, che veniva da parte di Dio a chiedere l’assenso della sua volontà, chinando la testa disse: Si faccia di me secondo la tua parola 1 [S. LUCA, cap. I , v. 38]. E fu proprio per questa obbedienza umile, pronta, generosa che fu elevata alla grandezza sublime di Madre di Dio, che tutte le generazioni avrebbero chiamata beata; poiché fu proprio allora che il Verbo discese nel suo seno e si fece carne. Beata te, le dirà S. Elisabetta, che hai creduto, perché s’adempirono le cose dette a Te dal Signore 2 [S. LUCA, cap. 1, v. 45]. E in tanti modi Gesù cercò di far comprendere ai suoi discepoli questa verità fondamentale. Fu avvertito un giorno che sua Madre e i suoi fratelli volevano parlargli, ed Egli rispose: Chi è mia madre, e chi sono i miei fratelli? e stesa la mano verso i suoi discepoli soggiunse: Ecco mia madre e ì miei fratelli, perché chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, colui mi è fratello e sorella e madre [S. MATTEO, cap. XII, v. 48 e seg.]. E nel discorso che tenne agli Apostoli nell’ultima cena, più volte con dolce insistenza ritornò su questo argomento; se mi amate, osservale i miei comandamenti … chi ha i miei comandamenti e li osserva, quello è che mi ama22 [S. GIOVANNI, cap. XIV, v. 15, 21], assicurandoli che il premio di questa obbedienza sarebbe una gioia senza limiti: v’ho detto questo, affinché sia in voi la mia gioia e la gioia vostra sia completa [S. GIOVANNI, cap. XV, v. 11]. E S. Paolo, dopo aver detto che Cristo fu obbediente fino alla morte di croce, subito soggiunge: Per la qual cosa Dio lo ha esaltato e gli ha dato un nome che è al di sopra di ogni altro nome [S. PAOLO, loc. cit.]. Dunque lo stesso Gesù è stato glorificato non per i suoi sapienti discorsi, né per i suoi strepitosi miracoli, ma per la sua obbedienza; e l’obbedienza a Dio è anche per te la via unica della salvezza. Non ti contentare dunque di pii desideri, di belle parole o di semplici promesse; no, ciò non basta; potresti fare anche miracoli, ma senza la sottomissione completa della tua volontà a quella di Dio, dimostrata con la docile osservanza dei suoi comandamenti, dei precetti della Chiesa, dei doveri del tuo stato, tu non sarai mai trovata degna del regno dei cieli. Anzi incorreresti in quell’amaro rimprovero che Gesù rivolse ai Farisei: Ipocriti, ben profetò di voi Isaia dicendo: questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore e lontano da me [S. MATTEO, cap. XV, v. 7, 8]. D’altronde non tutti quelli che dicono; Signore, Signore, ha detto Gesù, entreranno nel regno dei Cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio, che è nei Cieli, questi entrerà nel regno dei Cieli [S. MATTEO, cap. VII, v. 21]. Verrà anche per te, anima cristiana, il momento di dover dire: «Tutto è finito». Lo dirà il peccatore nel punto della sua morte, e sulle sue labbra questo grido avrà un senso di profonda tristezza: sono finiti i piaceri, sono svanite le speranze; e toccherà con mano come nel mondo « tutto è vanità ed afflizione di spirito » [Ecclesiaste, cap. II, v. 17], e non senza orrore si vedrà alle soglie di una eternità di miserie e di dolori. Lo dirà anche il giusto, ma per lui vorrà significare il termine dei patimenti ed il principio della gloria, poiché sta scritto: L’uomo obbediente canterà vittoria [Proverbi, cap. XXI, v. 28]. Ti sia dunque familiare quella preghiera, che Gesù in uno dei momenti più desolati della sua vita ripeteva: Sia fatta la tua, o Padre, non la mia volontà; e ripetila più col cuore che con le labbra nelle tue pene intime, come nelle pubbliche calamità; ripetila con tutte le forze del tuo spirito, con tutto lo slancio generoso del tuo cuore, rapito d’amore e dominato dall’unico desiderio di essere pronta a tutto, pur di compiere la volontà sempre adorabile di Dio. Così potrai, con la tranquillità del servo buono e fedele, affidarti al giudizio di Dio, ripetendo con fiducia le parole di S. Paolo a Timoteo: Bonum certamen certavi, cursum consummavi, fidem servavi (ho combattuto il buon combattimento, ho terminato la corsa, ho conservata la fede). In reliquo reposita est mihi corona justitiæ, quam reddet mihi Dominus illa die, justus judex (del resto è serbata a me la corona della giustizia, la quale a me in quel giorno renderà il Signore, giusto giudice) [Epistola IIa Timoteo, cap. IV, v. 7, 8].

Breve pausa, quindi si reciti la seguente:

PREGHIERA

O mio buon Gesù, se in questo momento io andassi ripensando alla mia vita passata, che cosa vedrei? Non altro che continue trasgressioni alla vostra santa legge e peccati senza numero. Purtroppo ho vissuto fino ad ora per fare non già la vostra, ma la mia volontà, ripetendo coi fatti, se non con le parole, il grido insano di Lucifero: Non serviam (non ti voglio servire). E se in questo istante mi chiamaste a rendervi conto del mio operato, che cosa potrei aspettarmi da Voi, che pur essendo infinitamente misericordioso, siete anche infinitamente giusto, né potete lasciare la colpa invendicata? Misero me! dinanzi a questa croce, ove vi siete immolato per compiere la volontà del Padre vostro, come diventano inescusabili le mie ribellioni, come ridicoli i miei lamenti! E non meriterei altro che essere gettato via come servo iniquo ed infingardo, lontano da Voi, al buio, ove è pianto e stridore di denti. Abbiate pietà, o Signore, secondo la vostra grande misericordia, di quest’anima, che vi costa tanti dolori e tanto sangue! Voi che avete viscere di bontà per i peccatori, fatemi ben comprendere che non si può servire a due padroni, e che Voi solo siete veramente degno di tutto il mio amore. Insegnatemi vi dirò col Salmista, a fare la vostra volontà.

— Doce me Domine, facere voluntatem tuam — a farla sempre, anche quando essa mi chiede dei sacrifici, perché la grazia vostra non mi mancherà mai e tutto potrò col vostro aiuto. Ravvivate in me il desiderio della mia salvezza, affinché abbandonando tutto vi segua e possa così ricevere un giorno il centuplo e possedere la vita eterna.E Voi, Madre mia Maria, che umile nella vostra eccelsa grandezza, avete saputo essere sempre serva fedele di Dio, ottenetemi la grazia di imitare il vostro esempio; perché anch’io, come il servo buono e fedele, meriti di entrare un giorno nel gaudio del mio Signore.

Pater, Ave e Gloria.

L’alta impresa è già compiuta,

E Gesù con braccio forte

Negli abissi la ria morte

Vincitor precipitò.

Chi alle colpe ornai ritorna

Della morte brama il regno,

E di quella vita è indegno,

Che Gesù ci ridonò.

GRADI DELLA PASSIONE

1. V. Jesu dulcissime, in horto mœstus, Patrem orans,

et in agonia positus, sanguineum sudorem effundens;

miserere nobis.

R). Miserere nostri Domine, miserere nostri.

2. V. Jesu dulcissime, osculo traditoris in manus

impiorum traditus et tamquam latro captus et ligatus

et a discipulis derelictus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

3. V. Jesu dulcissime ab iniquo Iudæorum concilio

reus mortis acclamatus, ad Pilatum tamquam malefactor

ductus, ab iniquo Herode spretus et delusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

4. V . Jesu dulcissime, vestibus denudatus, et in

columna crudelissime flagellatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

5. V. Jesu dulcissime, spinis coronatus, colaphìs

cæsus, arundine percussus, facie velatus, veste purpurea

circumdatus, multipliciter derisus et opprobriis

saturatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

6. V . Jesu dulcissime, latroni Barabbæ postpositus,

a Judæis reprobatus, et ad mortem crucis injuste condemnatus;

miserere nobis.

R). Miserere etc.

7. V . Jesu dulcissime, tigno crucis oneratus,

ad locum supplicii tamquam

ovis ad occisionem ductus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

8. V. Jesu dulcissime, inter latrones deputatus,

blasphematus et derisus, felle et aceto potatus, et

horribilibus tormentis ab hora sexta usque ad horam

nonam in ligno cruciatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

9. V. Jesu dulcissime, in patibulo crucis, mortuiis et

coram tua sancta Matre lancea perforatus simul

sanguinem et aquam emittens; miserere nobis.

R). Miserere etc.

10. V . Jesu dulcissime, de cruce depositus et lacrimis

mœstissimæ Virgiuis Matris tuæ perfusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

11. Jesu dulcissime, plagis circumdatus, quinque

vulneribus signatus, aromatibus conditus et in

sepulcro repositus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V . Adoramus Te Christe, et benedicimus Tìbi.

R). Quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum.

OREMUS

Deus, qui prò redemptione

mundi nasci voluisti,

circumcìdì, a Judæis reprobavi

et Judæ traditore

osculo tradi, vinculis alligavi,

sic ut agnus innocens

ad victimam duci, atque

conspectibus Annæ, Caiphæ,

Pilati et Herodis

indecenter offevri, a falsis

testibus accusari, flagellis

et colaphis cædi, opprobriis

vexari, conspui, spinis

coronari, arundine percuti,

facie velari, vestibus

spoliari, cruci clavis afFigi,

in cruce levari, inter

latrones deputari, felle et

aceto potari et lancea vulnerari;

Tu Domine, per

has sanctissimas pœnas,

quas ego indignus recolo,

et per sanctissimam crucem

et mortem tuam libera

me a pœnis inferni et perducere

digneris quo perduxisti

latronem tecum

crucifixum. Qui cum Patre

et Spiritu Sancto vivis

et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

[1. V . O dolcissimo Gesù, triste nell’orto, al Padre con la preghiera rivolto, agonizzante e grondante sudore di sangue; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi, o Signore, abbi di noi pietà.

2. V . O dolcissimo Gesù, con un bacio tradito e nelle mani degli empi consegnato, e come un ladro preso e legato e dai discepoli abbandonato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

3. V . O Gesù dolcissimo, dall’iniquo Sinedrio giudaico reo di morte proclamato, e come malfattore a Pilato presentato, e dall’iniquo Erode disprezzato e schernito; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

4. V . O dolcissimo Gestì, delle vesti spogliato, e c rudelmente alla colonna flagellato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

5. V. O dolcissimo Gesù, di spine coronato, schiaffeggiato, con la canna percosso, bendato, di rossa veste rivestito, in tanti modi deriso e di obbrobri saziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

6. V. O dolcissimo Gesù, al ladro Barabba posposto, dai Giudei riprovato; ed alla morte di croce ingiustamente condannato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

7. V. O dolcissimo Gesù, del legno della croce gravato, e come agnello al luogo del supplizio condotto, per esservi immolato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

8. V. O dolcissimo Gesù, tra i ladroni annoverato, bestemmiato e deriso, di fiele e di aceto abbeverato, e con orribili tormenti dall’ora sesta fino all’ora nona nel legno straziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

9. V. O dolcissimo Gesù, sul patibolo della croce morto, ed alla presenza della tua santa Madre con la lancia trafitto versando insieme sangue ed acqua; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

10. V. O dolcissimo Gesù, dalla croce deposto, e dalle lacrime dell’afflittissima tua Vergine Madre bagnato; abbi di noi pietà

R). Pietà di noi ecc.

11. V. O dolcissimo Gesù, di piaghe coperto, da cinque ferite trafitto, di aromi cosparso, e nel sepolcro deposto; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

V. Ti adoriamo, o Cristo, e Ti benediciamo.

R). Poiché con la tua santa croce hai redento il mondo.

PREGHIAMO

O Dio, che per la redenzione del mondo volesti nascere, essere circonciso, dai Giudei riprovato, da Giuda traditore con un bacio tradito, da funi avvinto, come agnello innocente al sacrifizio condotto, ed in modo indegno ad Anna, Caifa, Pilato ed Erode presentato, da falsi testimoni accusato, con flagelli e schiaffi percosso, con obbrobri oltraggiato, sputacchiato, di spine coronato, con la canna percosso, bendato, delle vesti spogliato, alla croce con chiodi confitto, sulla croce innalzato, tra i ladroni annoverato, di fiele e di aceto abbeverato, e con la lancia ferito; Tu, o Signore, per queste santissime pene, che io indegno vado considerando, e per la tua croce e morte santissima, liberami dalle pene dell’inferno e, desiati condurmi dove conducesti il ladrone penitente con Te crocifisso. Tu che col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni nei secoli dei secoli. Così sia.]

CANTO DEL TEMPO DI QUARESIMA

Attende, Domine, et miserere, quia peccavìmus Tìbi.

R). Attende, Domine, et miserere, quia peccavimus Tibi.

1. Ad Te, rex summe,

omnium redemptor,

oculos nostros sublevamus

flentes; exaudi Christe,

supplicantium preces.

R). Attende etc.

2. V. Dextera Patris, lapis

angularis, via salutis,

janua cœlestis, ablue nostri

maculas delicti.

R). Attende etc.

3. V . Rogamus, Deus,

tuam majestatem, auribus

sacris gemitus exaudi; crimina

nostra placidus indulge.

R). Attende etc.

4. V. Tibi fatemur crimina

admìssa; contrito corde

pandimus occulta; tua, Redemptor,

pietas ignoscat.

R). Attende etc.

5. V. Innocens captus,

nec repugnans ductus, testibus

falsis prò impiis damnatus,

quos re demisti Tu

conserva, Christe.

R). Attende etc.

OREMUS

Respice, quæsumus Domine, super hanc familiam tuam, prò qua Dominus noster Jesus Christus non dubitavit manibus tradì nocentium, et Crucis subire tormentum.  Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculorum. Amen.

[R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

1. V. A Te, o Sommo Re, redentore universale, eleviamo i nostri occhi piangenti;  esaudisci, o Cristo, la preghiera di chi a Te si raccomanda. R). Ascolta ecc.

2. V. O destra del Padre, o pietra angolare, o via di salvezza, o porta del cielo, tergi le macchie del nostro peccato. R). Ascolta ecc.

3. V. Preghiamo, o Dio, la tua maestà, porgi le sacre orecchie ai gemiti, e perdona benigno i nostri delitti. R). Ascolta ecc.

4. V. A Te confessiamo i peccati commessi; con cuore contrito manifestiamo ciò che è nascosto; la tua pietà, o Redentore, ci perdoni. R). Ascolta ecc.

5. V. Imprigionato innocente, condotto non riluttante, da falsi testimoni per i peccatori condannato, Tu, o Cristo, salva coloro che hai redento. R). Ascolta ecc.

PREGHIAMO

Riguarda benigno, o Signore, a questa tua famiglia, per la quale nostro Signore Gesù Cristo non dubitò di darsi in mano ai nemici e di subire il supplizio di croce. Egli che vive e regna Teco nei secoli dei secoli. Così sia.]

 

 

IL PATIRE

IL PATIRE.

[G, Dalla Vecchia: Albe Primaverili; G. Galla ed. Vicenza. 1911 – impr.]

” Solvite templum hoc, et in tribus diebus excitabo illud. ,,

Disfate questo tempio, e in tre giorni lo rimetterò in piedi.

( Joan. V, 19)

ESORDIO. — Gesù, un dì, entrava nel tempio di Gerusalemme. Ma il luogo santo pareva una piazza di traffico, dove mercanti e banchieri facevano lauti guadagni.

— Acceso di santo zelo, lampeggiando dal volto raggi di maestà divina, con piccole cordicelle di giunco fa una frusta, caccia via i profanatori ed intima di rispettare la casa del Padre suo, casa di orazione. Cessato il primo stupore, i Giudei gli chiedono un segnale, una prova, che Egli aveva il potere di fare cose tanto straordinarie… E Gesù: Voi disfate questo tempio ed Io in tre giorni lo rimetterò in piedi. Solvite templum hoc, et in tribus diebus excitabo illud. I Giudei credono che Ei parli del loro tempio insigne, e ne fanno le meraviglie; ma Gesù alludeva alla sua passione e morte. Allora essi, coi flagelli, la croce, e la morte, avrebbero disfatto il suo corpo, tempio vivo della divinità, ma Egli in tre giorni lo avrebbe rimesso in piedi, risorgendo glorioso dalla tomba. Dunque il caro Salvatore, fino dai primi giorni della sua predicazione, accenna alla sua passione e morte. Questo è il suo tema favorito nei tre anni che lo dividono dal Calvario: sospira la grande ora dei suoi strazi; anela alla sua sposa, la Croce; insegna che il patire sarà l’eredità, il distintivo dei suoi amanti, ai quali però riserva una gloriosa risurrezione ed eterni trionfi. — Incomincio.

Parte prima.

Il programma di Gesù Cristo è ben diverso da quello del mondo. Sentitelo dal labbro del divino Maestro : « In verità vi dico, che piangerete e gemerete voi, il mondo poi godrà: voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cangerà in gaudio. » (Ioan. XVI, 20). È un programma, che spaventa e conforta, affligge ed innalza, nobilita, assicura gioie vere, intime, eterne… — Cerchiamo di penetrarne il segreto…

1° – Tutti i buoni sono provati dalle tribolazioni e dalle sventure: umiliati, derisi, nella povertà, nelle angoscie, esterne ed interne… La vita di Gesù, della Vergine, dei Santi, degli eletti, s’impernia sulla parola « patire » ; si avvinghia, come edera, all’albero sanguinante della Croce

— I cattivi godono, tripudiano negli onori, nell’abbondanza, … nei piaceri… Ma poi ai buoni un premio immortale, … ed anche qui, sulla terra, una felicità, che può comprendersi solo da chi soffre per amore di Dio. Beatus vir qui suffert tentationem, quoniam, cum probatus fuerit, accipiet coronam vitae (Iacob. I).

2° – A che serve il patire?

(a) A fare penitenza delle colpe commesse, e compierne il purgatorio durante la vita… Tutti abbiamo peccato; peccavimus et inique egimus, (Daniele III, 29) dunque col patire dobbiamo espiare i nostri falli… ut destruatur corpus peccati (Rom. VI, 6).

(b) Per esercizio di virtù. Nelle sofferenze il cristiano esercita la fede, la speranza, l’amore, la pazienza, impara a compatire chi soffre… Assomigli a Gesù, che ha patito per noi, qui passus est prò nobis, lasciando a noi l’esempio del modo di seguire i suoi passi; vobis relinquens exemplum, ut sequamini vestigia eius (I Petr. II, 2). — D’altra parte, la vera virtù si consolida e si perfeziona al fuoco lento della tribolazione; virtus in infìrmitate perficitur (II Cor. XII, 9).

(c) Per distaccarti da quell’oggetto, da quelle creature…, che troppo ami, e sono la causa dei tuoi falli. — Dio ti ama; quem enim diligit Deus, castigat (Hebr. XII, 6); si serve, per correggerti, delle stesse creature… e ti salva.

(d) Per distaccarti da te stesso… Nella prosperità si ama la vita… ; nel dì della sventura riesce dolce il morire; si prova il bisogno di avvicinarsi a Dio…, dal quale viene la vera felicità. – La religione t’insegna a trovare, nei dolori, fonti di meriti… Qui vult venire post me, abneget semetipsum, tollat crucem suam quotidie… (Luca IX, 23).

3° – Bisogna però patire per Gesù Cristo; e questo si può avere in quattro modi…

(a) Il primo modo è di essere perseguitati per la Fede.

— I martiri ci fanno coraggio coi loro eroici sacrifici, con la loro generosità nel sopportare i più atroci tormenti, piuttosto che rinnegare la dottrina del divino Maestro. —

Adesso i veri Cattolici sono l’oggetto di una persecuzione lenta, insidiosa, ma incessante e terribile… Non ci perdiamo di animo. Siamo figli di martiri; del loro sangue furono imporporate le belle contrade della nostra italica terra… – Lungi da noi il vile timore e gli umani riguardi; lungi le transazioni ed il venire a patti coi nemici della Chiesa e del Papa… Dobbiamo essere soldati di Gesù Cristo, tutti di un pezzo; forti, intrepidi, sottomessi alle direzioni del Pontefice e dei vescovi… Il trionfo è certo, che il trionfo sta nella lotta. — Nondum usque ad sanguinem restitistis adversus peccatum repugnantes. (Hebr. XII).

(b) Il secondo è patire per Gesù Cristo le angustie e le lotte, che si devono sostenere nel suo servizio. È una battaglia continua contro il demonio, il mondo, e la carne. — Militia est vita hominis super terram. (Iob. 7). — Per innalzare le mura della nostra Gerusalemme interiore, con una mano bisogna lavorare, con l’altra combattere.

— La virtù costa fatica e sacrificio… Ma ogni pena è un merito; ogni sforzo un premio, ogni passo è una vittoria; la ricompensa infinita, eterna…, Dio. — Existimo enim, quod non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam, quæ revelabilur in nobis. (Rom. VIII, 18).

(c) Il terzo modo di patire per Gesù Cristo è sopportare con pazienza le tribolazioni della vita… Tutti devono portare ogni giorno la loro croce… La ricevi: con sommessione; te la manda il buon Dio… ; con pazienza, in espiazione dei tuoi peccati… ; con rassegnazione, uniformandoti alle intenzioni divine… ; con riconoscenza ; la croce è un fuoco lento, che purga lo spirito, e rende bella la virtù… Beati quelli che piangono, perché saranno consolati (Matt. V, 5).

— Se ti sdegni, tu devi pure soffrire; ma il tuo dolore è senza merito, senza conforto, senza premio. Ti torna forse utile, vantaggioso?

— Riposiamo.

(d) Il vero cristiano è generoso col suo Signore, e per questo impone a se stesso delle mortificazioni esterne ed interne. Ecco il quarto modo di patire per Gesù Cristo. — Per seguire questo divino Maestro bisogna rinnegare se stessi, cioè i propri sensi, l’amor proprio, le proprie idee, gli affetti, la natura, il cuore… Gesù ne è l’inarrivabile modello. Egli volle essere sommerso in un oceano di strazi per farci coraggio in questa lotta così difficile. — Sii fedele alle astinenze ed ai digiuni della Chiesa… Non ti risparmiare, non usarti troppe delicatezze…, che i delicati e gl’imbelli non arrivano al regno dei cieli… – Pensiamo, che non siamo più di noi stessi, mentre siamo stati comperati a caro prezzo ; (I Cor. VI) non con l’oro e l’argento, ma col sangue prezioso dell’Agnello immacolato (I Petri 1, 18). Dunque diamo gloria al Signore mortificando il nostro corpo, perchè la vita di Gesù si manifesti anche nel nostro esteriore. Semper mortificationem  Jesu in corpore circumferentes, ut et vita Jesu manifestetur in corporibus vestris. (2. Cor. IV., 10).

4° – Gesù poi ci assicura, che al dolore succederà la gioia, alla tristezza il gaudio… Nel momento del dolore, guarda questo divino Maestro, che sale il Calvario per acquistare a noi gli eterni gaudii; senza tenere conto delle umiliazioni, porta la croce, su cui si lascia crocifiggere. Muore su quel legno ferale… ; ma ora trionfa alla destra del Padre (confronta ad Hebreos XII, 2.).

– Dunque lo segui nella via del patire. Egli ti consolerà!

(a) sulla terra, nell’ orazione…, nella comunione…, con gioie interne… Sicut socii passionum estis, sic eritis et consolationis. (2 Cor. 1., 7). — Ti consolerà (b) nel cielo.

— Là troverai il riposo, la corona, la pace, Dio. — Sì, Dio; e in Lui il premio, la felicità, il trionfo. — Ibi fixa sint corda, ubi vera sunt gaudia (S. Agost.).

— Non vi sgomentate: neppure una delle vostre lacrime andrà perduta; ma tutte, raccolte dalla mano amorosa del Padre che sta. nei cieli, si muteranno in gemme per la vostra eterna corona. Si tamen compatimur, ut et conglorificemur (Rom. V, 17).

Prendiamo dunque la nostra croce, che è la nostra grande e gloriosa eredità. — Scelgano pure i mondani i piaceri e le delizie terrene, che tante volte sono veleno di morte. — Noi invece prendiamo il calice di amarezza, di angoscia, che ogni dì ci porge il buon Dio… È il calice prediletto del nostro divino Maestro… Generosi, con Lui, vi appressiamo le labbra, gustandone con amore fino all’ultima stilla… È calice di salute e di vita; ed in esso troveremo l’amore di Dio, troveremo Dio… Ed in Lui un’ebbrezza di pace e soavità, che mai viene meno… Un altro giorno in quello stesso calice troveremo il liquore prezioso della gioia, dell’ immortalità… Allora il Signore c’inonderà della sua felicità… Ed innanzi a tanto gaudio, che cosa sono mai le piccole e momentanee tribolazioni della vita?

— Dio, Dio, esclamava il grande Agostino, tu sei la mia eredità, il mio calice: ora con la tua grazia, ed un altro giorno con la tua gloria, mi ripagherai ad esuberanza del poco che io posso soffrire per te. — Bibant alii mortiferas voluptates; pars calicis mei Dominus, et calix meus inebrians quam præclarus est! (In Ps. XV).

PECCATO ORIGINALE

PECCATO ORIGINALE

[G. Bertetti:  “I tesori di S. Tommaso D’Aquino”. S.E.I. Ed. 1918]

1. Il peccato dei nostri primi padri. — 2. Sue conseguenze. — 3. La riparazione (Comp. Theol., 189-200).

1. Il peccato dei nostri primi padri. — Il diavolo, che già aveva peccato, vedendo l’uomo nella condizione di poter giungere a quell’eterna felicità da cui esso era caduto, e in pari tempo nella condizione di poter peccare, cercò di stornarlo dalla rettitudine della giustizia, assalendolo dalla parte più debole, col tentar la donna in cui era men vigoroso il dono e il lume della sapienza. E per inclinarlo più facilmente nella trasgressione del precetto, escluse, con la menzogna il timore della morte e gli promise ciò che l’uomo desidera naturalmente: lo scanso dell’ignoranza (« s’apriranno i vostri occhi »), l’eccellenza della dignità (« sarete come dei »), la perfezione della scienza (« sapendo il bene e il male »). L’uomo infatti da parte dell’intelletto fugge naturalmente l’ignoranza e desidera la scienza; da parte della volontà, che è naturalmente libera, desidera tale altezza e perfezione da essere soggetto a nessuno o almeno a più pochi che può. a donna adunque desiderò nello stesso tempo l’altezza promessale e la perfezione della scienza. Vi s’aggiunse ancora la bellezza e soavità del frutto che attiravala a cibarsene: e così, disprezzando il timore della morte, trasgredì il precetto di Dio col mangiare il frutto proibito. Cinque peccati ella commise pertanto: — 1° di superbia, col desiderio disordinato d’eccellenza; — 2° di curiosità, desiderando la scienza oltre i termini prefissi; — 3° di gola lasciandosi attirare dalla soavità del cibo a mangiarne; — 4° d’infedeltà, con un falso concetto di Dio, mentre credette alle parole del diavolo contro a quelle di Dio; — 5° di disubbidienza, trasgredendo il comando di Dio. Dalla persuasione della donna il peccato giunse fino all’uomo, il quale tuttavia, come dice l’Apostolo, non fu sedotto come la donna, non avendo egli creduto alle parole del diavolo contro quelle di Dio: egli non poteva supporre che Dio avesse fatto una minaccia menzognera o l’avesse inutilmente proibito da una cosa utile. Fu però attirato dalla promessa del diavolo, desiderando indebitamente l’eccellenza e la scienza; quindi la sua volontà s’allontanò dalla rettitudine della giustizia, volle contentar la donna, la seguì nella trasgressione del precetto di Dio e mangiò il frutto proibito.

Conseguenze del peccato originale. — L’integrità così ben ordinata dei nostri primi padri era tutta causata dalla soggezione dell’umana volontà a Dio: perciò, sottratta l’umana volontà alla soggezione divina, ebbe fine necessariamente quella perfetta soggezione delle inferiori forze alla ragione e del corpo all’anima. Per conseguenza l’uomo sentì nell’inferiore appetito sensibile i moti disordinati della concupiscenza e dell’ira e delle altre passioni: non più secondo l’ordine della ragione, ma ad essa ribelli, ma ottenebranti e quasi sconvolgenti nel maggior numero di volte. Quest’è la ripugnanza della carne verso lo spirito, della quale parla la Scrittura. Infatti, poiché l’appetito sensitivo, come anche le altre forze sensitive, opera per mezzo d’organi corporei, mentre la ragione opera senz’alcun organo corporeo, convenientemente s’imputa alla carne ciò che appartiene all’appetito sensitivo: s’attribuisce allo spirito ciò che appartiene alla ragione, come sogliono chiamarsi sostanze spirituali quelle che son separate dai corpi. Ne seguì pure che il corpo sentisse i difetti della corruzione e che perciò l’uomo incorresse nella necessità di morire, non avendo più la forza di mantenere in perpetuo il corpo animato con dargli la vita. L’uomo divenne dunque passibile e mortale: non solo potendo patire e morire come prima, ma avendo quasi una necessità di patire e di morire. Molti altri difetti derivarono per conseguenza all’uomo. Abbondando nell’appetito inferiore i moti disordinati delle passioni, e mancando anche nello stesso tempo alla ragione quel lume di sapienza che divinamente illustrava la volontà mentre era soggetta a Dio, l’uomo sottomise il suo affetto alle cose sensibili, fra le quali, allontanandosi da Dio, peccò in molti modi; inoltre l’uomo si rese schiavo degli spiriti immondi ripromettendosene l’aiuto nelle sue imprese. Di qui nel genere umano l’idolatria e molti altri peccati: e quanto più l’uomo vi rimase corrotto, tanto più s’allontanò dalla conoscenza e dal desiderio dei beni spirituali e divini. – Al genere umano era stato attribuito da Dio nel primo padre il bene della giustizia originale in modo che derivasse ai posteri. Privato di questo bene il primo uomo per propria colpa, dovettero pure esserne privati tutti i discendenti, i quali dopo il peccato del primo padre nacquero tutti senza giustizia originale e coi difetti che ne derivano. Né questo è contro l’ordine della giustizia, quasi che Dio punisca nei figli la colpa del primo padre: perché questa pena non è altro che la sottrazione di quello che sovrannaturalmente f u concesso da Dio al primo uomo e che per mezzo del primo uomo doveva derivare ad altri. Agli altri pertanto ciò non era dovuto, se non come eredità del primo padre. Se un sovrano desse a un suo soldato un feudo da trasmettere poi in eredità agli eredi, e se il soldato mancasse contro il sovrano in modo da perdere il feudo, anche gli eredi ne sarebbero giustamente privati.

Un’altra questione: — Ci è imputato a colpa un male, quando è in nostra potestà il farlo e il non farlo; ora non è in nostra potestà il nascere con la giustizia originale o senza di essa: dunque l’esser nati privi della giustizia originale non dovrebbe aver ragione di colpa. — Questa difficoltà si risolve agevolmente, distinguendo fra persona e natura. Come in una sola persona ci sono molte membra, così in una sola umana natura ci son molte persone, sicché per la partecipazione della specie i molti uomini si comprendono quasi come un sol uomo. Or bene, nel peccato d’un sol uomo si fanno con diverse membra diversi peccati, e affinché ci sia colpa non si richiede che ciascuno di questi peccati siano volontari per la volontà del membro che fa il peccato: basta che siano volontari per la volontà di ciò che nell’uomo è principale, cioè la parte intellettiva, perché al comando della volontà intellettiva non può la mano non percuotere, non può il piede non camminare. Appunto in questo modo il difetto dell’originale giustizia è peccato di natura: perché deriva dalla volontà disordinata del primo principio nella natura umana, ossia il primo padre. Essendo volontario per rispetto alla natura, passa in tutti quelli che dal primo principio ricevono la natura umana, vi passa come in membra del primo principio: e si dice peccato originale, perché è derivato per origine dal primo padre nei posteri. Gli altri peccati, cioè gli attuali, riguardano immediatamente la persona che pecca: il peccato originale riguarda direttamente la natura, che, infestata dal peccato del primo padre, infetta la persona dei figli.

3. La riparazione. — Quantunque il peccato del primo padre abbia infettato tutta la natura umana, questa non poté esser riparata dalla penitenza del primo padre né da qualsiasi altro suo merito. È manifesto che la penitenza d’Adamo o qualsiasi altro suo merito fu un atto individuale, che non poteva redintegrare tutta la natura umana. Adamo con la penitenza riacquistò la grazia, non la pristina innocenza: anche qui è manifesto che lo stato di giustizia originale fu un dono speciale di grazia; ora, la grazia non s’acquista per meriti, ma si dà gratuitamente da Dio. Come dunque il primo uomo ebbe da principio l’originale giustizia non per merito ma per dono di Dio: così, e molto meno, poté dopo il peccato meritarsela con la penitenza o con qualsiasi altra opera. Eppure, bisognava che l’umana natura così infetta fosse riparata dalla divina provvidenza. Se non si fosse tolta questa infezione, l’uomo non avrebbe potuto giungere alla perfetta beatitudine: perché la beatitudine, essendo il bene perfetto, non tollera alcun difetto, e massimamente quello che è peccato, che è contrario alla virtù e alla via della beatitudine. Dunque, se non fosse stata riparata l’umana natura, l’uomo non avrebbe giammai raggiunto il suo ultimo fine, e sarebbe così rimasta frustrata l’opera di Dio in una creatura tanto nobile. — Inoltre l’uomo, fin quando si trova in questa vita mortale, non può esser né confermato irremovibilmente nel bene, né ostinato irremovibilmente nel male. Non conveniva dunque che la divina bontà, tanto superiore alla potenza della creatura nel fare il bene, lasciasse vana del tutto la possibilità che ha l’umana natura d’esser purgata dall’infezione del peccato. – Ma l’umana natura, come s’è dimostrato, non poteva esser riparata né per mezzo d’Adamo né per mezzo di qualsiasi semplice uomo: sia perché nessun uomo da solo sopravanzava tutta la natura, sia perché nessun semplice uomo può esser causa di grazia. E per la medesima ragione l’umana natura non poteva esser riparata da un Angelo: sia perché un Angelo non può esser causa di grazia, sia perché un Angelo non può esser premio dell’uomo quanto all’ultima beatitudine perfetta, a cui doveva l’uomo esser revocato, e in cui l’uomo e l’Angelo son pari. – Dio dunque soltanto poteva riparare l’umana natura. Ma s’Egli l’avesse riparata con la sola sua volontà e virtù, non sarebbe stato conservato l’ordine della giustizia, la quale esige per il peccato una soddisfazione. Ma in Dio non può esserci né soddisfazione né merito: perché la soddisfazione e il merito son cose proprie di chi dipende da un altro. Non competendo a Dio soddisfare per il peccato di tutta la natura umana, e non potendolo un semplice uomo, fu conveniente che Dio si facesse uomo, affinché così fosse un solo e il medesimo chi potesse e riparare e soddisfare. Quest’è la causa che l’Apostolo assegna della divina incarnazione: « Venne Cristo Gesù in questo mondo a salvare i peccatori » (I Tim., I, 15).

LA CARITA’

LA CARITÀ.

[G. Dalla Vecchia: Albe primaverili; G. Galla ed. Vicenza, 1911 -impr.]

“Dicit ei Jesus : Da mihi bibere.”

[Gesù le dice: Dammi da bere.]

(Joan. IV. 7)

ESORDIO. — È sul mezzodì; hora erat quasi sexta; e Gesù, stanco ed affranto, siede sul pozzo di Giacobbe, presso la città di Sichem, nella Samaria. — Una donna del popolo viene al pozzo, attinge dell’acqua, e sta per ritornare. — Ma Gesù gentilmente le chiede da bere. —

Dicit ei Iesus: Da mihi bibere.

Il caro Salvatore era realmente assetato, ma soprattutto aveva sete della fede, della salute, dell’anima di quella Samaritana. — Quella sete era l’effetto dell’amore immenso, che nutriva per le anime; era 1’ardore, che dalla culla alla tomba lo struggeva per la salute di tutti noi, poveri mortali; era quella febbre di carità, che sulla croce gli strappava il grido straziante: Sitio; ho sete. — Il Cuore di Gesù fu un incendio di amore… O Modello perfettissimo di carità, Maestro inarrivabile, che nell’ultima sera della tua vita davi ai tuoi cari il divino comando: Amatevi come io vi ho amato; deh! oggi, ci innamora della bellezza di questa tua lezione favorita, la carità fraterna. Ci dona la grazia di attuarla nella nostra vita pratica, per assicurarci che ti amiamo davvero; e per assicurarci ancora le grazie ed i premi, che tu riservi a chi ama rettamente il suo prossimo.

PARTE PRIMA

La Carità è una regina, che discende da Dio ed a Dio ritorna, conducendo al seno del Padre celeste tutti i cuori che l’hanno amata. — Dio è amore per essenza; ama infinitamente e sostanziarmele se stesso, ed infinitamente ama ancora le sue creature. Questo amore divino le conserva nella loro natura e bellezza. — Noi poi, fatti ad immagine del divino Creatore, abbiamo un’anima, la cui vita è amore. — Non si può vivere senza amare… E chi ameremo?

— La Carità, questa graziosa regina, ha due braccia. — Con l’una accenna a Dio : l’altra si abbassa alla terra.

— Dobbiamo 1.) amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutto noi stessi: amarlo sopra tutte le cose… Dobbiamo 2.) amare il prossimo nostro, come noi stessi, per amore di Dio… L’amore del prossimo si chiama Carità.

1° – Dio comanda di amare il prossimo e lo comanda per mezzo di Gesù… Diliges proximum tuum, sicut te ipsum (Matt. 2XXII, 39). Prossimo sono tutte le creature ragionevoli capaci di amare e di servire il Signore qui sulla terra, e di goderlo poi nel cielo.

— E il comando prediletto di Gesù, quello che Egli ha portato sulla terra; quello, su cui insiste di più, perché venga osservato; ed ha praticato costantemente e con tutta perfezione. Hoc est præceptum meum (Ioan. XVIII, 34).

— Lo chiama: il compimento del grande precetto dell’amore di Dio; il secondo poi è simile al primo… (Marco XII, 31) ; lo dice il distintivo dei suoi veri discepoli ; si vedrà che siete miei, se vi amerete scambievolmente (Ioan. XIII, 35). Afferma che l’amore del prossimo è migliore degli olocausti e dei sacrifici (Marco III, 33)… Promette le sue grazie nella proporzione/ della nostra carità verso i nostri simili (Matt. VII, 2); assicura di ritenere, come fatto a sé stesso, ciò che avremo fatto al più piccolo dei suoi, cioè del prossimo. (Matt. XXV, 40). — Non basta: Ci propone sé stesso come modello della carità; ut diligatis invicem sicut dilexi vos (Ioan. XVIII). — Gesù ci amò tutti, sempre, anche quando eravamo in peccato e quindi suoi nemici. — Ci ha amato: e per noi si è umiliato, fatto simile a noi… Ha sopportato povertà, fatiche, intemperie, ingratitudine, persecuzioni…, la morte. — Ci ha donato il suo onore, la sua libertà…, la sua vita, tutto se stesso…, e per noi si è lasciato nell’Eucaristia; vive ascoso nei nostri tabernacoli…, si fa nostro cibo…, tutto nostro… — E noi dobbiamo imitarlo, seguirlo, coll’amare i nostri fratelli…, anche peccatori…, anche i nemici. — Se non ami il tuo fratello, non sei da Dio (Ioan. IV, 9), cioè figlio di Dio; non adempì la legge del Signore, perché la carità è il compendio di tutta la legge ; e chi ha la carità, osserva tutti gli, altri comandamenti (Rom. XIII, 8) e, se alcuno dice di amare Dio, ed odia il proprio fratello, è bugiardo (I Ioan. IV, 20).

— Se non ami il prossimo, non avrai il perdono dei peccati… Recita pure le più belle preghiere, ma, se non ami, Dio non ti ascolta. — Fa pure anche miracoli…, ma, o sarebbero falsi, oppure «anche con questi prodigi non cesserai di essere un riprovato. — Avessi anche a morire per la fede, ma, senza l’amore, a nulla ti gioverà presso il Signore… Sarai un confessore della fede, ma un apostata della carità…

2° – Il prossimo merita di essere amato.

Lo merita: (a) perché è figlio di Dio, uscito dalle sue mani divine… ; quindi amarlo è procurare a Dio la gioia, che prova un genitore, quando si ama un suo figlio…

(b) Perché è fatto ad immagine di Dio. — Se sei buono, anche attraverso i difetti del tuo fratello, scorgerai questa immagine divina, che ti spingerà a rispettarlo ed essergli utile…

(c) Perché è tuo fratello. — Anch’egli dice: Padre nostro, che sei nei cieli…, invoca la medesima Madre celeste…, il medesimo fratello e redentore, Gesù Cristo… — Rigenerato, egli pure, nel Battesimo…, riscattato egualmente dal sangue di un Dio…, ricolmo di grazie; forse più amato dal Signore, perché più buono e fedele… Esso pure alla confessione, alla comunione, e forse vi reca un cuore più umile ed amante del tuo…

(d) Tutti, al pari di te, sono i servi del grande Padrone degli Angeli e degli uomini; essi pure sono destinati al cielo, dove torse la loro gloria sarà superiore alla tua, perché più di te hanno amato il Signore. — Anche i loro nomi sono scritti nelle mani di Dio, che li ama con tanta tenerezza, che, se violi la carità, l’offendi nella pupilla dei suoi occhi. (Zacc. II, 8).

3° – La Carità è una regina, che entra nei cuori seguita sempre da molte nobili ancelle, cioè altre virtù cristiane.

— Intanto conduce l’amor di Dio, perché devi  amare i tuoi fratelli non per interesse, non per accontentare gl’impulsi del cuore; ma solo per amor di Dio; altrimenti la tua carità non avrebbe Dio, per origine, centro e fine e quindi non sarebbe meritoria di vita eterna.

— Conduce il vero amore verso te stesso, perché devi amare gli altri in quella maniera, che ami te medesimo.

— L’amore verso di te consiste nel procurarti il vero bene dell’anima, e così amerai il prossimo per aiutarlo nell’amore e servizio di Dio.

— Ne consegue, che deve essere un amore ordinato; prima la famiglia, i parenti, i benefattori, gli amici, poi tutti senza distinzione, senza antipatie, senza esagerazioni. Amare il prossimo in Dio, con Dio, per Iddio.

— Compatisci i difetti degli altri, dimentica le offese, prega per essi, ti presta in loro aiuto, parla con affabilità, senza critiche, né mormorazioni, accondiscendi dove puoi, desidera loro ogni bene, soffri delle umiliazioni altrui, godi delle doro gioie, dà buon esempio… In una parola amare è avere sete di fare a tutti tutto il bene possibile; quindi dimenticarsi, sacrificarsi, rinnegare se stessi, i propri comodi, la propria volontà. E’ farsi santi, che la santità è amore. Plenitudo ergo legis est dilectio (Ad Rom. XIII).

PARTE SECONDA

Il comando di amare il prossimo è chiaro, semplice; risponde al bisogno del cuore. — Però Gesù conferma il suo precetto con promesse di grandi premi a chi vi sarà fedele; ed ai trasgressori minaccia gravi castighi.

— Accenno solo.

1° – I premi. La carità copre la moltitudine dei nostri peccati, perché chi usa misericordia, troverà misericordia.

— I tuoi peccati sono forse gravi, senza numero, e tremi dei divini giudizi? — Ricorda dunque le parole di Gesù: Non giudicate, né condannate, e non sarete giudicati, né condannati (Matt. VII, 1). Dimentichi quel torto, tu perdoni quell’offesa? E vedrai dimenticate e perdonate le tue colpe… Se avrai amato il prossimo, la carità ti otterrà il dolore, il proposito, la sincerità dell’accusa… ; quindi al giudizio di Dio non saranno esaminati i tuoi peccati, perché non esisteranno più.

— Ti fa paura il pensiero di non salvarti? — Ma, se ami il prossimo, ami Dio; in questo amore si compendiano tutti i Comandamenti… Per salvarti non occorre di più… Chi ama davvero e rettamente, è un santo… I Santi furono sempre i più grandi benefattori dell’umanità…

2° – I castighi. — Eccoli, desunti dalle Epistole di S. Giovanni, l’apostolo dell’amore. (Epistola I) .

(a) Chi non ama il proprio fratello è nella morte. — Dunque se non ami il prossimo sei nella morte del peccato, nella morte della dannazione; non ti salvi. Qui non diligit (fratrem), manet in morte cap. III. v. 14). — Quindi, se volontariamente desideri espressamente un male grave ad una persona, se il tuo odio si prolunga per un tempo notevole, tu sei in peccato mortale.

(b) Chi odia il proprio fratello (cap. II, v. 11) è nelle tenebre spirituali, che seguono sempre la colpa grave. E nelle tenebre cammina, perché Dio ritira da lui la sua luce superna… Tanto più, che su questo punto è facile ingannarsi, trovare pretesti, scuse, fino a credere cose buone e virtù gli stessi peccati contro la carità… Si dice zelo di retta morale la maldicenza, la calunnia; non se ne ha rimorso; anzi si pretende di averne merito presso Dio e la società. Qui autem odit fratrem suum, in tenebris est, et in tenebris ambulat, (ivi, 11).

(c) Chiunque odia il proprio fratello, è omicida (III, 15). — Omicida, dell’anima sua, mentre l’uccide con una colpa grave… ; omicida della carità, perché da parte sua tende ad estinguere il principio di ogni società umana… ; omicida del prossimo, perché in certo modo, lo fa morire nel proprio cuore, dove dovrebbe vivere con l’amore… Omnis qui odit fratrem suum, homicida est. ( III, 15).

— Esaminiamoci tutti sinceramente intorno a questa virtù; sul come ci diportiamo nelle relazioni di famiglia, di società, cogli amici, con i nostri simili … — E’ tanto facile commettere dei falli contro la Carità… Vigiliamo dunque per non mancarvi coi giudizi male fondati, con le critiche, mormorazioni…, con le antipatie, collere… Reprimiamo gli affetti contrari … ; perché, un giorno, Dio stesso prenderà le difese di questa virtù, e ne rivendicherà i sacri diritti.

NELLA FESTA DI SAN GIUSEPPE [2018]

– 458 –

Fac nos innocuam, Ioseph, decurrere vitam,

Sitque tuo semper tuta patrocinio.

(ex Missali Rom.).

Indulgentia trecentorum (300) dierum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, invocatione quotidie per integrum mensem pie recitata (S. C. Indulg., 18 mart. 1882; S. Pæn. Ap., 13 maii 1933).

HYMNI

– 463-

Te, Ioseph, celebrent agmina Cœlitum

Te cuncti rèsonent Christiadum chori,

Qui, clarus meritis, iunctus es inclytæ

Casto fœdere Virgini.

Almo cum tumidam germine coniugem

Admirans, dubio tangeris anxius,

Afflatu superi Flaminis, Angelus

Conceptum puerum docet.

Tu natum Dominum stringis, ad exteras

Aegypti profugum tu sequeris plagas;

Amissum Solymis quæris et invenis,

Miscens gaudia fletibus.

Post mortem reliquos sors pia consecrat,

Palmamque emeritos gloria suscipit:

Tu vivens, Superis par, frueris Deo,

Mira sorte beatior.

Nobis, summa Trias, parce precantibus,

Da Ioseph meritis sidera scandere:

Ut tandem liceat nos tibi perpetim

Gratum promere canticum. Amen.

(ex Brev. Rom.).

(Indulgentia trium (3) annorum. – Indulgentia plenaria suetis conditionibus, quotidiana hymni recitatione in integrum mensem producta (S. Pæn. Ap., 9 febr. 1922 et 13 iul. 1932). 

– 464 –

Salve, Ioseph, Custos pie

Sponse Virginis Mariae

Educator optime.

Tua prece salus data

Sit et culpa condonata

Peccatricis animae.

Per te cuncti liberemur

Omni poena quam meremur

Nostris prò criminibus.

Per te nobis impertita

Omnis gratia expetita

Sit, et salus animae.

Te precante vita functi

Simus Angelis coniuncti

In cadesti patria.

Sint et omnes tribulati

Te precante liberati

Cunctis ab angustiis.

Omnes populi laetentur,

Aegrotantes et sanentur,

Te rogante Dominum.

Ioseph, Fili David Regis,

Recordare Christi gregis

In die iudicii.

Salvatorem deprecare,

Ut nos velit liberare

Nostræ mortis tempore.

Tu nos vivos hic tuere

Inde mortuos gaudere

Fac cadesti gloria. Amen.

Indulgentia trium (3) annorum (S. Pæn. Ap., 28 apr.1934).

– 473 –  

Virginum custos et Pater, sancte Ioseph, cuius

fideli custodiæ ipsa Innocentia, Christus Iesus,

et Virgo virginum Maria commissa fuit, te per

hoc utrumque carissimum pignus Iesum et Mariam

obsecro et obtestor, ut me ab omni immunditia

præservatum, mente incontaminata, puro

corde et casto corpore Iesu et Mariæ semper

facias castissime famulari. Amen.

(Indulgentia trium (3) annorum. Indulgentia septem (7) annorum singulis mensis marti: diebus necnon qualibet anni feria quarta. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, oratione quotidie per integrum mensem pia mente iterata (S. C. Indulg., 4 febr. 1877; S. Pæn. Ap., 18 maii 1936 et 10 mart. 1941)

-475-

Memento nostri, beate Ioseph, et tuæ orationis

suffragio apud tuum putativum Filium intercede;

sed et beatissimam Virginem Sponsam

tuam nobis propitiam redde, quæ Mater est

Eius, qui cum Patre et Spiritu Sancto vivit et

regnat per infinita sæcula sæculorum. Amen.

(S. Bernardinus Senensis).

(Indulgentia trium annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem oratio devote recitata fuerit (S. C. Indulg., 14 dec. 1889; S. Pæn. Ap., 13 iun.1936).

476

Ad te, beate Ioseph, in tribulatione nostra

confugimus, atque, implorato Sponsæ tuæ

sanctissimae auxilio, patrocinium quoque tuum fidenter

exposcimus. Per eam, quæsumus, quæ

te cum immaculata Virgine Dei Genitrice coniunxit,

caritatem, perque paternum, quo Puerum

Iesum amplexus es, amorem, supplices deprecamur,

ut ad hereditatem, quam Iesus Christus

acquisivit Sanguine suo, benignius respicias,

ac necessitatibus nostris tua virtute et ope

succurras. Tuere, o Custos providentissime divinæ

Familiæ, Iesu Christi sobolem electam;

prohibe a nobis, amantissime Pater, omnem errorum

ac corruptelarum luem; propitius nobis,

sospitator noster fortissime, in hoc cum potestate

tenebrarum certamine e cœlo adesto; et

sicut olim Puerum Iesum e summo eripuisti vitae

discrimine, ita nunc Ecclesiam sanctam Dei

ab hostilibus insidiis atque ab omni adversitate

defende: nosque singulos perpetuo tege patrocinio,

ut ad tui exemplar et ope tua suffulti, sancte

vivere, pie emori, sempìternamque in cœlis

beatitudinem assequi possimus. Amen.

 (Indulgentia trium (3) annorum. Indulgentia septem (7) annorum per mensem octobrem, post recitationem sacratissimi Rosarii, necnon qualibet anni feria quarta. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidiana orationis recitatio in integrum mensem producta fueri: (Leo XIII Epist. Encycl. 15 aug. 1889; S. C. Indulg., 21 sept. 1889; S. Paen. Ap., 17 maii 1927, 13 dee. 1935 et 10 mart. 1941).

477

O Ioseph, virgo Pater Iesu, purissime Sponse

Virginis Mariæ, quotidie deprecare prò nobis

ipsum Iesum Filium Dei, ut, armis suae gratiæ

muniti, legitime certantes in vita, ab eodem coronemur

in morte.

(Indulgentia quingentorum (500) dierum (Pius X, Rescr. Manu Propr., 11 oct. 1906, exhib. 26 nov. 1906; S. Paen. Ap. 23 maii 1931).

#     #     #

Nella festa di S. Giuseppe.

[G. Lardone: “Fra gli Astri della Santità Cattolica”, S.E.I. ed. Torino, 1928 – impr.]

Nei tramonti luminosi del nostro bel cielo italico si contempla a volte un fenomeno interessante. Mentre il sole declina lentamente a l’occaso e presenta in tutto il fulgore che le è proprio la sua enorme massa incandescente, è circondato attorno attorno da nuvole gigantesche, come disposte in un trionfo di gloria, le quali, dando riflessi di porpora e d’oro, sembrano risplendere di luce propria, per quanto non riflettano che la luce ricevuta dall’astro maggior dell’universo. Tale fenomeno singolare si ripete sempre nel cielo fulgido della cristiana santità. Stelle splendenti nel divin firmamento della Chiesa trionfante e della Chiesa militante i Santi danno una luce che non è terrena: a primo aspetto sembra una luce loro personale: in realtà non è che la luce loro inviata dal Santo dei Santi che è nostro Signor Gesù Cristo. E più essi si avvicinano all’Autore ed al centro della santità o per l’altezza della loro missione o per l’eroismo delle loro virtù, tanto più essi sono irradiati ed irradiano della luce che viene da Lui. – Orbene quale dei Santi, dopo la Vergine, e per l’altezza del ministero e per l’eccellenza della perfezione si è avvicinato di più al Sole divino di giustizia del glorioso San Giuseppe? Ecco perché noi lo contempliamo come un astro di prima grandezza nel cielo dell’eternità. Perché nessuno più di lui si tuffò nell’oceano di luce di Cristo, nessuno più di lui fu scelto all’onore di rifletterne, come in un’aureola incomparabile, i raggi sempiterni. Eleviamo lo sguardo a lui che la Provvidenza ha eletto a destini ineffabili e, rapiti alla contemplazione delle sue virtù perfette, delle sue grandezze ammirabili, dei suoi poteri trascendenti, lo troveremo perfettamente degno di riflettere la luce che gli viene da Gesù.

— « IPSI VIRTUS ».

Al glorioso S. Giuseppe, che gli Evangeli hanno lasciato in una discreta penombra fra tutti i personaggi della Redenzione, non può ascriversi alcuna di quelle qualità esteriori che gli uomini ammirano e che strappano gli applausi del mondo. La sua vita ordinaria, semplice, comune, intessuta di doveri e di opere in apparenza volgari, non ebbe per teatro che una povera officina di villaggio e per testimoni che gli occhi di una donna e di un fanciullo. Tuttavia le sacre carte hanno sintetizzato, con un motto unico, ma tanto comprensivo, la virtù eccelsa dell’umile fabbro di Nazareth: Joseph autem cum esset iustus (MATT., I, 19). È qui il titolo di sua nobiltà. La giustizia non ha altro principio né altra regola che la volontà divina: questa volontà che fissa i nostri doveri e determina tanto gli omaggi che dobbiamo al nostro Creatore, quanto l’amore ed i servizi che dobbiamo al nostro prossimo. D’onde segue che il fondamento ed il carattere essenziale della giustizia sono rappresentati dalla sottomissione alla volontà divina. Ora la santità di S. Giuseppe non ha altra origine che questa. La sudditanza a Dio non solamente egli la prova con la fedele osservanza delle leggi promulgate ai suoi padri per il magistero di Mose, ma ancora corrispondendo alla ispirazione celeste, abbracciando con amore il proprio stato, sottomettendosi agli avvenimenti più misteriosi e disparati ed assoggettandosi ai travagli più gravosi che Dio suscita sui suoi passi. È veramente il giusto per eccellenza. Tale è sempre il primo effetto della sottomissione alla volontà di Dio: il mantenersi nello stato in cui la Provvidenza ci ha posto. Come il Signore, sovrano ed arbitro dei nostri destini, istituendo la società ne ha fissato l’ordine e la pace sulla diversità delle condizioni e proporziona le sue grazie ai diversi uffici ai quali ci ha eletto, così è giusto, è necessario che l’uomo accetti volonterosamente la posizione voluta da Dio e cerchi di adempierne con fedeltà i doveri. – Tale fu San Giuseppe, il quale, oltre ad amare la propria oscurità, adempì con trasporto i doveri che la sua modesta condizione gli imponeva. E se ogni stato ha le sue responsabilità specifiche e le sue speciali difficoltà, tutti gli stati convengono sostanzialmente in un dovere comune, il lavoro: il lavoro imposto a tutti i figli di Adamo come retaggio della prima colpa, come mezzo di sostentamento, come strumento di elevazione. Ebbene lo stesso Evangelo ci ricorda che il buon Giuseppe traeva dal lavoro delle sue mani il cibo quotidiano e la tradizione ce lo richiama intento a formare gioghi per bovi e carri per agricoltori. Il suo mestiere oscuro lo metteva a contatto con i ceti più umili dei suoi conterranei e lo esponeva sovente al loro gratuito disprezzo. Difatti, allorché Gesù parlava alla Sinagoga di Nazareth, il popolo ascoltandone le parole nuove diceva: « Non è costui il figliuolo del fabbro? Non è fabbro egli stesso? Nonne Me est fabri filius? (MATT. XIII, 55). Nonne Me est faber filius Mariæ? (MARC, VI, 3). Oh! Perché tante volte pesano i doveri umili e rudi a quanti sono condannati a professioni che il mondo non stima? Perché molti sentono in fondo all’anima l’onta ed il peso del loro mestiere? Guardino costoro a S. Giuseppe, il Padre custode di Gesù, lo sposo eletto della Regina del Cielo. Guardino costoro a Gesù medesimo, il Re del cielo e della terra. Dal momento che l’uno e l’altro hanno maneggiato gli strumenti dell’artigiano il lavoro non dev’essere per nessuno un’umiliazione, ma un onore ed una gloria ambita. È naturale poi che la figura del buon Giuseppe si mantenga storicamente circoscritta alla povera casa di Nazareth e non partecipi punto a nessun episodio glorioso della vita terrena del Salvatore: la storia si direbbe che ricordi soltanto gli avvenimenti tristi perché meglio sia provata e più evidentemente rifulga la sua virtù. Il Salvatore era già nato a Betlemme; gli Angeli ne avevano cantato l’avvento nei cieli; i pastori, dopo averlo adorato alla grotta, avevano divulgato fra i vicini centri la venuta del Liberatore d’Israele; i Magi, guidati dall’astro misterioso, erano venuti d’oriente per offrire i loro omaggi al Figlio di Dio e deporre attorno alla sua culla i loro doni simbolici. Gerusalemme stessa sapeva oramai che il Messia annunciato dai profeti era nato. Ma Erode sospettoso e crudele, paventava che la nascita di quel fanciullo, accompagnata da tante meraviglie, rappresentasse un pericolo per il proprio potere: quindi non ascoltando che la propria gelosia, meditò il delitto di perderlo con la progettata strage degli innocenti. Fu allora che Dio parlò a S. Giuseppe per mezzo del suo Angelo: e il Padre custode di Gesù, ubbidiente alla voce del cielo, partì immediatamente con quel fanciullo la cui presenza sulla terra non causava a lui che avversità e dolori. Ma per seguire la voce dell’alto dovette tutto abbandonare, la patria, la famiglia, la stessa sua officina per avviarsi in esilio e rimanervi fino a che un nuovo ordine di Dio lo riportasse a Nazareth. In chi troveremo una sottomissione più pronta, una carità più viva, una più umile docilità alla voce della Provvidenza? E tutte queste virtù che brillano in lui con tanto splendore a che si devono attribuire se non alla unione assoluta con la volontà divina, e quindi a quella giustizia fondamentale che forma l’ornamento più prezioso del suo carattere? A buona ragione dunque noi lo chiamiamo il giusto per eccellenza, perché ci dice S. Pier Grisologo, possiede la perfezione di tutte quante le virtù: Joseph vocari iustum attendite, propter omnium virtutum perfectam possessionem (SAN PIER. GRIS. , serm. 50).

— « IPSI GLORIA ».

Quale fu la gloria con cui fu premiata l’eccellenza della virtù di S. Giuseppe? Lo possiamo dedurre dalle prerogative che la liberalità divina concentrò in lui e dalla missione cui venne dalla Provvidenza eletto, Iddio anzitutto concesse a lui la rivelazione dei suoi misteri. Il mistero dell’Incarnazione, nascosto nella mente dell’Altissimo, non era ancora uscito dal silenzio eterno. Maria SS., senza cessare di essere vergine, concepiva per opera dello Spirito Santo, il Figlio di Dio fatto Uomo. Ma questo avvenimento che doveva riempire il cuore della Vergine di una dolce emozione, fu per il cuore di Giuseppe il soggetto di una crudele perplessità. – La sua giustizia, la sua sottomissione ai divini voleri, gli faceva senza dubbio intravedere un miracolo: ma non poteva mettere fine totalmente alle sue apprensioni. Allora Iddio, per bandire le sue inquietudini gli inviò un Angelo che gli disse: « Non paventare di ritenere presso di te, Maria tua sposa: il frutto che Ella porta nelle viscere verginali è opera dell’Onnipotente ». Così per lui si compie il giorno che Abramo ha sospirato di vedere: le profezie si avverano ed il più grande mistero è svelato all’umile operaio nazareno. Perché quel Dio che nasconde i suoi segreti alle anime orgogliose, li rivela alle anime sottomesse: e rivelandoli a S. Giuseppe ricompensa con una gloria incomparabile la sua giustizia eccelsa. – Ma vi è di più: Iddio lo elevò ad un’altra grandezza associandolo, quale cooperatore, ai suoi disegni. Avendo decretato di salvare il mondo per mezzo dell’Incarnazione ha voluto celare questo mistero altissimo sotto il velo di un coniugio per nascondere il Figlio suo agli occhi del demonio, per confonderlo tra i figli di Adamo e sottometterlo a tutte le miserie della vita terrena. Però il disegno di dissimulare l’avvento del Verbo Incarnato nell’oscurità di una vita comune esigeva che si trovasse un uomo eccezionale a cui si potesse affidare; l’amministrazione degli interessi visibili del Figlio di Dio fatto uomo. Se Iddio voleva che Gesù nascesse da Maria, occorreva pure a questa Vergine benedetta uno sposo elettissimo che potesse essere il testimone della di Lei verginità, il protettore della di Lei innocenza, il garante del di Lei onore. Se Iddio voleva assoggettare Gesù a tutte le vicissitudini della nostra vita era necessario un uomo che al Verbo incarnato potesse tener le veci di padre e sapesse vegliare alla di Lui conservazione. Giuseppe fu appunto colui che Iddio giudicò degno di questi eminenti ministeri. Egli fu prescelto ad essere lo Sposo della Vergine. – Come potremo noi divinare la gloria di questa sublime prerogativa? Occorrerebbe penetrare in tutta la misteriosa profondità della maternità divina: comprendere gli eccezionali avvenimenti che, per opera dello Spirito Santo si compirono in Lei: sapere le vie ineffabili per cui il Verbo si è fatto carne per la redenzione degli uomini. Essere lo sposo di Maria, esclama San Giovanni Damasceno, vuol dire avere una dignità così eminente che la lingua umana non può assolutamente esprimere. Quando si è detto: San Giuseppe è lo sposo di Maria; non si può far altro che tacere ed adorare. Virum Mariæ: hoc est prorsus ineffabile et nihil præterea dici potest. – Eppure non è qui ancora la gloria più fulgida del nostro Santo. Egli fu altresì il Padre custode di Gesù: l’Eterno gli comunicò una partecipazione della paternità divina. Questo titolo che è proprio dell’Onnipotente, questo titolo che nessun Santo, nessun Angelo ha mai potuto possedere neppure per un istante, San Giuseppe l’ha portato. Nomine Patris neque Angelus neque Sanctus in cœlo, brevi licei spatio meruit appellari; hoc unus Joseph meruit nuncupari (S. BASILIO, Orat. 20). Quale dignità! Egli fu il padre del Figlio di Dio, non solamente per riputazione ma per l’autorità, per il potere di rappresentanza che Iddio gli elargì sul Verbo Incarnato, confidandogli realmente tutti i diritti che un padre ha per natura sulla propria prole. Quindi egli, padre vergine del Figlio di una Madre vergine, padre adottivo prescelto volontariamente con abbondanza di grazio provenienti dallo stesso suo Figlio, padre infine per la feconda verginità della sua sposa, si presenta, tra i protagonisti stessi dell’Incarnazione, come un agente necessario per lo svolgimento dei disegni divini accanto a Gesù ed a Maria, e brilla nell’empireo della santità di una gloria talmente eccelsa .che non ha sopra di sè che la gloria di Gesù e di Maria.

— « IPSI IMPERIUM ».

Non possiamo quindi dubitare che, eletto, per la sua virtù, a tanta gloria, S. Giuseppe eserciti un potere od un’autorità senza esempio: potere ed autorità che hanno avuto in lui il loro inizio primo durante la stessa sua vita terrena, e che egli ha esercitato sulla più straordinaria delle Vergini, Maria SS. e sul più eccezionale dei Figli, Gesù Cristo. Dal momento che il matrimonio suo con la Vergine fu vero e perfetto ne venne di conseguenza che esso conferì al giusto Giuseppe tutti i diritti che per legge di natura e per legge positiva-divina allo sposo si attribuiscono, ed impose alla Vergine tutti i doveri che una donna ha verso il compagno dei suoi giorni. Di qui in Giuseppe il potere di comandare e nella Vergine il dovere di ubbidire. Comando certo fatto di bontà riguardosa e di premurosa dolcezza quello del santo sposo di Nazareth: ciò non toglie che si esercitasse in forza di un vero potere e di una indiscutibile autorità, a cui la Vergine « alta più che creatura » sottostava con docilità pronta e con divozione perenne. 0 sublimitas ineffabilis, esclama qui Gersone, ut Mater Dei, Regina Cœli, domina mundi, appellare te dominum, non indignum putaverit. – Tale sublimità di potere si accresce ancora se noi la consideriamo in esercizio verso il Verbo Incarnato. Nell’Evangelo di San Luca che più di tutti illustrò i quadri dell’infanzia del Salvatore, noi troviamo una frase che involge un mistero per una parte di autorità e per l’altra di umiliazione profonda. Ritornata la Sacra Famiglia, dopo le cerimonie della prima Pasqua e lo smarrimento del dodicenne Infante nel Tempio, alla povera dimora nazaretana, Gesù se ne andò con loro et erat subditus illis (LUCA, II, 51). Il Re del Cielo e della terra, Colui il quale ventis et mari imperai et obœdiunt ei (LUCA, VIII, 25) si inchina docilmente all’operaio a cui ha conferito in antecedenza affectum, sollicitudinem ei auctoritatem patris (S. GIOVANNI DAMASCENO). Mai alcun re ottenne simile potere; mai alcuna creatura ha esercitato una sì eccezionale autorità: lo stesso S. Giuseppe anzi non si sarebbe adattato a tale altissimo ministero, se Iddio Padre di cui egli era il vero e legittimo rappresentante, non gliene avesse fatto un preciso dovere. – Forse che in cielo è venuta meno la sua autorità maritale e sono cessati i suoi diritti paterni? Tutt’altro: è in mezzo allo splendore dei Santi che egli svolge ancora il suo impero: il suo trono si eleva presso quello della Sposa Immacolata che Iddio gli ha prescelta, e la sua potenza di intercessione presso il cuore dell’Altissimo conserva sempre dell’autorità paterna. È principio teologico indiscusso, illustrato sapientemente dall’angelico, che quanto più i Santi nel cielo sono vicini a Dio, tanto più le loro orazioni sono efficaci: Quanto Sancii qui sunt in patria sunt Deo coniunctiores, tanto eorum orations sunt magis efficaces (2a , 2æ, quæst. 83, art. 11). – Ora chi più unito a Dio da vincoli di intimità, di familiarità del nostro San Giuseppe che anche in Cielo può chiamare suo Figlio lo stesso nostro Signor Gesù Cristo? All’infuori di lui e della Vergine, dice San Cipriano, non est in cælestibus agminibus qui Dominum Jesum audeat filium nominare (De Bapt. Ghrist.). Se chiama Gesù suo Figlio, non è più a stupire che la sua intercessione acquisti l’efficacia di un vero comando. Tale il pensiero di un pio dottore: Quanta vis in eo impetranti quia dum pater filium orai, imperium reputatur. Ha qui il suo naturale fondamento la fiducia che la Chiesa santa e tutti i fedeli cristiani hanno sempre riposto nel suo potente patrocinio: ma è qui ancora il premio più ambito per la santità perfettissima di cui fu adorno, il fastigio supremo ed il coronamento più bello di quella gloria che a lui si proietta da Gesù e che egli riflette in tanta copia e con tanta fulgida paradisiaca luminosità. – L’antico patriarca Giuseppe, figliuolo di Giacobbe, che del nostro era figura e promessa, essendo in tutto lo splendore della sua potenza faraonica, fece un sogno impressionante che le sacre carte ci hanno tramandato: vide mentalmente che il sole, la luna e le stelle erano intenti ad adorarlo. Quello che nella visione antica non era che il simbolo di un potere politico e la prova di una gloria transeunte, nel nostro San Giuseppe è invece una perfetta ed indubitata realtà. Attorno a lui noi troviamo il Sole di giustizia che è Gesù, la Luna candida ed Immacolata che è Maria, le stelle fulgidissime che rappresentano i Santi del Cielo, da S. Bernardo a San Francesco di Sales, da Santa Teresa alla Chantal. A ragione quindi la Chiesa ci invita considerare la di lui esaltazione e ci sprona ad onorarlo quale patrono universale, con un culto speciale di suprema dulia. Vi è un sapiente, vi è un re, un conquistatore che ottenga oggi omaggi così universali e lodi così entusiastiche? Dappertutto si elevano templi ed altari in suo onore: le arti vanno a gara nel fissare il suo nome e la sua immagine nella memoria degli uomini, e l’eloquenza deputa i suoi geni più celebrati per esaltarne la giustizia e le alte prerogative. Uniamoci dunque a questo coro di esaltazioni ed invochiamo dalla intercessione quasi onnipotente di San Giuseppe la grazia di avvicinarci in qualche modo alle sue virtù, affinché, ottenendo poi un qualche grado della sua gloria eccelsa, possiamo nel cielo testimoniare gli effetti del suo illimitato potere.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: RERUM NOVARUM -2-

Leggendo questa seconda parte dell’enciclica Rerum Novarum, si nota ancor più la divergenza tra la dottrina Cattolica, e quella “falsa” dell’attuale setta del novus ordo vaticano, “setta ecumenico-massonica” insediata nell’ottobre del 1958, nella quale operano, in sintonia con comunisti, socialisti [tutti aborriti e scomunicati da “veri” Papi in varia successione], ed ogni altro tipo di associazione politica, chiaramente e scopertamente anticristiana, loschi figuri ad ogni livello, intruppati nelle logge delle conventicole in cui si adora il cornuto baphomet bisessuato, il lucifero maledetto che le domina e le dirige occultamente. La questione sociale e politica è gestita, nel mondo intero, a braccetto con radicali, atei dichiarati, noti personaggi massonici, ad esempio in Italia, i piduisti dei vari schieramenti [P 2 sta per: Palladio 2], socialisti e comunisti propugnatori delle tesi gnostiche più abiette, nonché aderenti ai noti club mondialisti, incaricati di spianare la strada all’anticristo … compito che stanno assolvendo con il massimo impegno ed efficacia. Quindi come meravigliarci delle lotte sociali, delle politiche scellerate devastanti redditi e proprietà, singoli e nazioni, delle finte e famigerate “crisi” dei capitali, volute e fomentate da chi stampa moneta senza averne diritto e senza controllo, e di tantissimi altri abomini perpetrati a carico dei lavoratori sfruttati, delle masse e delle famiglie ridotte all’inedia, cui viene elargita però la consolazione di assistere a spettacoli televisivi ingannevoli, sconci, blasfemi, e la possibilità di abortire ed essere adulteri! Tutto questo approvato senza battere ciglio dai loschi figuri di cui sopra, lupi con talari bianche, rosse, nere … lupi che, usciti dalle chiese, banchettano insieme ai “33°” ed agli alti gradi degli “illuminati”, nelle agapi rosacrociane e brindano con i cavalieri kadosch al grido di “nokem adonai”. Se fossero vere autorità spirituali al servizio di Dio, Uno e Trino, incarnato in Cristo, osserverebbero ed attuerebbero quanto il Santo Padre Leone XIII raccomandava con sconfinata saggezza, attinta alle fonti d’Acqua viva della Chiesa Cattolica, voce Una, Santa ed infallibile! Ma “fortes in fide”, irriducibilmente certi della vittoria finale del Figlio di Dio-Uomo e della Santa Chiesa Cattolica, suo Corpo mistico, leggiamo le parti finale di questa memorabile enciclica.

“RERUM NOVARUM”

-2-

1 – Il diritto d’intervento dello Stato

26. I governanti dunque debbono in primo luogo concorrervi in maniera generale con tutto il complesso delle leggi e delle istituzioni politiche, ordinando e amministrando lo Stato in modo che ne risulti naturalmente la pubblica e privata prosperità. Questo infatti è l’ufficio della civile prudenza e il dovere dei reggitori dei popoli. Ora, la prosperità delle nazioni deriva specialmente dai buoni costumi, dal buon assetto della famiglia, dall’osservanza della religione e della giustizia, dall’imposizione moderata e dall’equa distribuzione dei pubblici oneri, dal progresso delle industrie e del commercio, dal fiorire dell’agricoltura e da altre simili cose, le quali, quanto maggiormente promosse, tanto più felici rendono i popoli. Anche solo per questa via, può dunque lo Stato grandemente concorrere, come al benessere delle altre classi, così a quello dei proletari; e ciò di suo pieno diritto e senza dar sospetto d’indebite ingerenze; giacché provvedere al bene comune è ufficio e competenza dello Stato. E quanto maggiore sarà la somma dei vantaggi procurati per questa generale provvidenza, tanto minore bisogno vi sarà di tentare altre vie a salvezza degli operai.

a) per il bene comune

27. Ma bisogna inoltre considerare una cosa che tocca più da vicino la questione: che cioè lo Stato è una armoniosa unità che abbraccia del pari le infime e le alte classi. I proletari né di più né di meno dei ricchi sono cittadini per diritto naturale, membri veri e viventi onde si compone, mediante le famiglie, il corpo sociale: per non dire che ne sono il maggior numero. Ora, essendo assurdo provvedere ad una parte di cittadini e trascurare l’altra, è stretto dovere dello Stato prendersi la dovuta cura del benessere degli operai; non facendolo, si offende la giustizia che vuole si renda a ciascuno il suo, Onde saggiamente avverte san Tommaso: Siccome la parte e il tutto fanno in certo modo una sola cosa, così ciò che è del tutto è in qualche maniera della parte (S. Th. II-II, q. 61, a. 1 ad 2). Perciò tra i molti e gravi doveri dei governanti solleciti del bene pubblico, primeggia quello di provvedere ugualmente ad ogni ordine di cittadini, osservando con inviolabile imparzialità la giustizia cosiddetta distributiva.

b) per il bene degli operai

Sebbene tutti i cittadini senza eccezione alcuna, debbano cooperare al benessere comune che poi, naturalmente, ridonda a beneficio dei singoli, tuttavia la cooperazione non può essere in tutti né uguale né la stessa. Per quanto si mutino e rimutino le forme di governo, vi sarà sempre quella varietà e disparità di condizione senza la quale non può darsi e neanche concepirsi il consorzio umano. Vi saranno sempre pubblici ministri, legislatori, giudici, insomma uomini tali che governano la nazione in pace, e la difendono in guerra; ed è facile capire che, essendo costoro la causa più prossima ed efficace del bene comune, formano la parte principale della nazione. Non possono allo stesso modo e con gli stessi uffici cooperare al bene comune gli artigiani; tuttavia vi concorrono anch’essi potentemente con i loro servizi, benché in modo indiretto. Certo, il bene sociale, dovendo essere nel suo conseguimento un bene perfezionativo dei cittadini in quanto sono uomini, va principalmente riposto nella virtù. Nondimeno, in ogni società ben ordinata deve trovarsi una sufficiente abbondanza dei beni corporali, l’uso dei quali è necessario all’esercizio della virtù (S. Th., De reg, princ. I,17). Ora, a darci questi beni è di necessità ed efficacia somma l’opera e l’arte dei proletari, o si applichi all’agricoltura, o si eserciti nelle officine. Somma, diciamo, poiché si può affermare con verità che il lavoro degli operai è quello che forma la ricchezza nazionale. È quindi giusto che il governo s’interessi dell’operaio, facendo si che egli partecipi ín qualche misura di quella ricchezza che esso medesimo produce, cosicché abbia vitto, vestito e un genere di vita meno disagiato. Si favorisca dunque al massimo ciò che può in qualche modo migliorare la condizione di lui, sicuri che questa provvidenza, anziché nuocere a qualcuno, gioverà a tutti, essendo interesse universale che non rimangano nella miseria coloro da cui provengono vantaggi di tanto rilievo.

2 – Norme e limiti del diritto d’intervento

28. Non è giusto, come abbiamo detto, che il cittadino e la famiglia siano assorbiti dallo Stato: è giusto invece che si lasci all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altrui diritti. Tuttavia, i governanti debbono tutelare la società e le sue parti. La società, perché la tutela di questa fu da natura commessa al sommo potere, tanto che la salute pubblica non è solo legge suprema, ma unica e totale ragione della pubblica autorità; le parti, poi, perché filosofia e Vangelo si accordano a insegnare che il governo è istituito da natura non a beneficio dei governanti, bensì dei governati. E perché il potere politico viene da Dio ed è una certa quale partecipazione della divina sovranità, deve amministrarsi sull’esempio di questa, che con paterna cura provvede non meno alle particolari creature che a tutto l’universo. Se dunque alla società o a qualche sua parte è stato recato o sovrasta un danno che non si possa in altro modo riparare o impedire, si rende necessario l’intervento dello Stato.

29. Ora, interessa il privato come il pubblico bene che sia mantenuto l’ordine e la tranquillità pubblica; che la famiglia sia ordinata conforme alla legge di Dio e ai principi di natura; che sia rispettata e praticata la religione; che fioriscano i costumi pubblici e privati; che sia inviolabilmente osservata la giustizia; che una classe di cittadini non opprima l’altra; che crescano sani e robusti i cittadini, atti a onorare e a difendere, se occorre, la patria. Perciò, se a causa di ammutinamenti o di scioperi si temono disordini pubblici; se tra i proletari sono sostanzialmente turbate le naturali relazioni della famiglia; se la religione non é rispettata nell’operaio, negandogli agio e tempo sufficiente a compierne i doveri; se per la promiscuità del sesso ed altri incentivi al male l’integrità dei costumi corre pericolo nelle officine; se la classe lavoratrice viene oppressa con ingiusti pesi dai padroni o avvilita da fatti contrari alla personalità e dignità umana; se con il lavoro eccessivi o non conveniente al sesso e all’età, si reca danno alla sanità dei lavoratori; in questi casi si deve adoperare, entro i debiti confini, la forza e l’autorità delle leggi. I quali fini sono determinati dalla causa medesima che esige l’intervento dello Stato; e ciò significa che le leggi non devono andare al di là di ciò che richiede il riparo dei mali o la rimozione del pericolo. I diritti vanno debitamente protetti in chiunque li possieda e il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo, con impedirne o punirne le violazioni. Se non che, nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per sé stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue.

3 – Casi particolari d’intervento

a) difesa della proprietà privata

30. Ma giova discendere espressamente ad alcuni particolari di maggiore importanza. Principalissimo è questo: i governi devono per mezzo di sagge leggi assicurare la proprietà privata. Oggi specialmente, in tanto ardore di sfrenate cupidigie, bisogna che le popolazioni siano tenute a freno; perché, se la giustizia consente a loro di adoperarsi a migliorare le loro sorti, né la giustizia né il pubblico bene consentono che si rechi danno ad altri nella roba, e sotto colore di non so quale eguaglianza si invada l’altrui. Certo, la massima parte degli operai vorrebbe migliorare la propria condizione onestamente, senza far torto ad alcuni; tuttavia non sono pochi coloro i quali, imbevuti di massime false e smaniosi di novità, cercano ad ogni costo di eccitare tumulti e sospingere gli altri alla violenza. Intervenga dunque l’autorità dello Stato e, posto freno ai sobillatori, preservi i buoni operai dal pericolo della seduzione e i legittimi padroni da quello dello spogliamento.

b) difesa del lavoro

1) contro lo sciopero

31. Il troppo lungo e gravoso lavoro e la mercede giudicata scarsa porgono non di rado agli operai motivo di sciopero. A questo disordine grave e frequente occorre che ripari lo Stato, perché tali scioperi non recano danno solamente ai padroni e agli operai medesimi, ma al commercio e ai comuni interessi e, per le violenze e i tumulti a cui d’ordinario danno occasione, mettono spesso a rischio la pubblica tranquillità. Il rimedio, poi, in questa parte, più efficace e salutare, si é prevenire il male con l’autorità delle leggi e impedire lo scoppio, rimovendo a tempo le cause da cui si prevede che possa nascere il conflitto tra operai e padroni.

2) condizioni di lavoro

32. Molte cose parimenti lo Stato deve proteggere nell’operaio, e prima di tutto i beni dell’anima. La vita di quaggiù, benché buona e desiderabile, non è il fine per cui noi siamo stati creati, ma via e mezzo a perfezionare la vita dello spirito con la cognizione del vero e con la pratica del bene. Lo spirito è quello che porta scolpita in sé l’immagine e la somiglianza divina, ed in cui risiede quella superiorità in virtù della quale fu imposto all’uomo di signoreggiare le creature inferiori, e di far servire all’utilità sua le terre tutte ed i mari. Riempite la terra e rendetela a voi soggetta: signoreggiate i pesci del mare e gli uccelli dell’aria e tutti gli animali che si muovono sopra la terra (Gen 1,28). In questo tutti gli uomini sono uguali, né esistono differenze tra ricchi e poveri, padroni e servi, monarchi e sudditi, perché lo stesso è il Signore di tutti (Rom 10,12). A nessuno è lecito violare impunemente la dignità dell’uomo, di cui Dio stesso dispone con grande riverenza, né attraversargli la via a quel perfezionamento che è ordinato all’acquisto della vita eterna. Che anzi, neanche di sua libera elezione potrebbe l’uomo rinunziare ad esser trattato secondo la sua natura, ed accettare la schiavitù dello spirito, perché non si tratta di diritti dei quali sia libero l’esercizio, bensì di doveri verso Dio assolutamente inviolabili. Di qui segue la necessità del riposo festivo. Sotto questo nome non s’intenda uno stare in ozio più a lungo, e molto meno una totale inazione quale si desidera da molti, fomite di vizi e occasione di spreco, ma un riposo consacrato dalla religione. Unito alla religione, il riposo toglie l’uomo ai lavori e alle faccende della vita ordinaria per richiamarlo al pensiero dei beni celesti e al culto dovuto alla Maestà divina. Questa è principalmente la natura, questo il fine del riposo festivo, che Iddio con legge speciale, prescrisse all’uomo nel Vecchio Testamento, dicendogli: Ricordati di santificare il giorno di sabato (Es 20,8) e che egli stesso insegnò di fatto, quando nel settimo giorno, creato l’uomo, si riposò dalle opere della creazione: Riposò nel giorno settimo da tutte le opere che aveva fatte (Gen II,2).

33. Quanto alla tutela dei beni temporali ed esteriori prima di tutto è dovere sottrarre il povero operaio all’inumanità di avidi speculatori, che per guadagno abusano senza alcuna discrezione delle persone come fossero cose. Non è giusto né umano esigere dall’uomo tanto lavoro da farne inebetire la mente per troppa fatica e da fiaccarne il corpo. Come la sua natura, così l’attività dell’uomo è limitata e circoscritta entro confini ben stabiliti, oltre i quali non può andare. L’esercizio e l’uso l’affina, a condizione però che di quando in quando venga sospeso, per dar luogo al riposo. Non deve dunque il lavoro prolungarsi più di quanto lo comportino le forze. Il determinare la quantità del riposo dipende dalla qualità del lavoro, dalle circostanze di tempo e di luogo, dalla stessa complessione e sanità degli operai. Ad esempio, il lavoro dei minatori che estraggono dalla terra pietra, ferro, rame e altre materie nascoste nel sottosuolo, essendo più grave e nocivo alla salute, va compensato con una durata più breve. Si deve avere ancor riguardo alle stagioni, perché non di rado un lavoro, facilmente sopportabile in una stagione, è in un’altra o del tutto insopportabile o tale che si sopporta con difficoltà. Infine, un lavoro proporzionato all’uomo alto e robusto, non è ragionevole che s’imponga a una donna o a un fanciullo. Anzi, quanto ai fanciulli, si badi a non ammetterli nelle officine prima che l’età ne abbia sufficientemente sviluppate le forze fisiche, intellettuali e morali. Le forze, che nella puerizia sbocciano simili all’erba in fiore, un movimento precoce le sciupa, e allora si rende impossibile la stessa educazione dei fanciulli. Così, certe specie di lavoro non si addicono alle donne, fatte da natura per í lavori domestici, í quali grandemente proteggono l’onestà del sesso debole, e hanno naturale corrispondenza con l’educazione dei figli e il benessere della casa. In generale si tenga questa regola, che la quantità del riposo necessario all’operaio deve essere proporzionata alla quantità delle forze consumate nel lavoro, perché le forze consumate con l’uso debbono venire riparate col riposo. In ogni convenzione stipulata tra padroni e operai vi è sempre la condizione o espressa o sottintesa dell’uno e dell’altro riposo; un patto contrario sarebbe immorale, non essendo lecito a nessuno chiedere o permettere la violazione dei doveri che lo stringono a Dio e a sé stesso.

3) la questione del salario

34. Tocchiamo ora un punto di grande importanza, e che va inteso bene per non cadere in uno dei due estremi opposti. La quantità del salario, si dice, la determina il libero consenso delle parti: sicché  il padrone, pagata la mercede, ha fatto la sua parte, né sembra sia debitore di altro. Si commette ingiustizia solo quando o il padrone non paga l’intera mercede o l’operaio non presta tutta l’opera pattuita; e solo a tutela di questi diritti, e non per altre ragioni, è lecito l’intervento dello Stato. A questo ragionamento, un giusto estimatore delle cose non può consentire né facilmente né in tutto; perché esso non guarda la cosa sotto ogni aspetto; vi mancano alcune considerazioni di grande importanza. Il lavoro è l’attività umana ordinata a provvedere ai bisogni della vita, e specialmente alla conservazione: Tu mangerai pane nel sudore della tua fronte (Gen III,19). Ha dunque il lavoro dell’uomo come due caratteri impressigli da natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del tutto proprio di chi la esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita, mantenimento che è un dovere imprescindibile imposto dalla natura. Ora, se si guarda solo l’aspetto della personalità, non v’è dubbio che può l’operaio pattuire una mercede inferiore al giusto, poiché siccome egli offre volontariamente l’opera, così può, volendo, contentarsi di un tenue salario o rinunziarvi del tutto. Ben diversa è la cosa se con la personalità si considera la necessità: due cose logicamente distinte, ma realmente inseparabili. Infatti, conservarsi in vita è dovere, a cui nessuno può mancare senza colpa. Di qui nasce, come necessaria conseguenza, il diritto di procurarsi i mezzi di sostentamento, che nella povera gente si riducono al salario del proprio lavoro. L’operaio e il padrone allora formino pure di comune consenso il patto e nominatamente la quantità della mercede; vi entra però sempre un elemento di giustizia naturale, anteriore e superiore alla libera volontà dei contraenti, ed è che il quantitativo della mercede non deve essere inferiore al sostentamento dell’operaio, frugale si intende, e di retti costumi. Se costui, costretto dalla necessità o per timore di peggio, accetta patti più duri i quali, perché imposti dal proprietario o dall’imprenditore, volenti o nolenti debbono essere accettati, è chiaro che subisce una violenza, contro la quale la giustizia protesta. Del resto, in queste ed altre simili cose, quali sono l’orario di lavoro, le cautele da prendere, per garantire nelle officine la vita dell’operaio, affinché l’autorità non s’ingerisca indebitamente, specie in tanta varietà di cose, di tempi e di luoghi, sarà più opportuno riservare la decisione ai collegi di cui parleremo più avanti, o usare altri mezzi che salvino, secondo giustizia, le ragioni degli operai, limitandosi lo Stato ad aggiungervi, quando il caso lo richiede, tutela ed appoggio.

c) educazione al risparmio

35. Quando l’operaio riceve un salario sufficiente a mantenere sé stesso e la sua famiglia in una certa quale agiatezza, se egli è saggio, penserà naturalmente a risparmiare e, assecondando l’impulso della stessa natura, farà in modo che sopravanzi alle spese una parte da impiegare nell’acquisto di qualche piccola proprietà. Poiché abbiamo dimostrato che l’inviolabilità del diritto di proprietà è indispensabile per la soluzione pratica ed efficace della questione operaia. Pertanto le leggi devono favorire questo diritto, e fare in modo che cresca il più possibile il numero dei proprietari. Da qui risulterebbero grandi vantaggi, e in primo luogo una più equa ripartizione della ricchezza nazionale. La rivoluzione ha prodotto la divisione della società come in due caste, tra le quali ha scavato un abisso. Da una parte una fazione strapotente perché straricca, la quale, avendo in mano ogni sorta di produzione e commercio, sfrutta per sé tutte le sorgenti della ricchezza, ed esercita pure nell’andamento dello Stato una grande influenza. Dall’altra una moltitudine misera e debole, dall’animo esacerbato e pronto sempre a tumulti. Ora, se in questa moltitudine s’incoraggia l’industria con la speranza di poter acquistare stabili proprietà, una classe verrà avvicinandosi poco a poco all’altra, togliendo l’immensa distanza tra la somma povertà e la somma ricchezza. Oltre a ciò, dalla terra si ricaverà abbondanza di prodotti molto maggiore. Quando gli uomini sanno di lavorare in proprio, faticano con più alacrità e ardore, anzi si affezionano al campo coltivato di propria mano, da cui attendono, per sé e per la famiglia, non solo gli alimenti ma una certa agiatezza. Ed è facile capire come questa alacrità giovi moltissimo ad accrescere la produzione del suolo e la ricchezza della nazione. Ne seguirà un terzo vantaggio, cioè l’attaccamento al luogo natio; infatti non si cambierebbe la patria con un paese straniero, se quella desse di che vivere agiatamente ai suoi figli. Si avverta peraltro che tali vantaggi dipendono da questa condizione, che la privata proprietà non venga oppressa da imposte eccessive. Siccome il diritto della proprietà privata deriva non da una legge umana ma da quella naturale, lo Stato non può annientarlo, ma solamente temperarne l’uso e armonizzarlo col bene comune. È ingiustizia ed inumanità esigere dai privati più del dovere sotto pretesto di imposte.

C) L’opera delle associazioni

1 – Necessità della collaborazione di tutti

36. Finalmente, a dirimere la questione operaia possono contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare e udire le due classi tra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private destinate a prendersi cura dell’operaio, della vedova, dei figli orfani, nei casi d’improvvisi infortuni, d’infermità, o di altro umano accidente; i patronati per i fanciulli d’ambo i sessi, per la gioventù e per gli adulti. Tengono però il primo posto le corporazioni di arti e mestieri che nel loro complesso contengono quasi tutte le altre istituzioni. Evidentissimi furono presso i nostri antenati i vantaggi di tali corporazioni, e non solo a pro degli artieri, ma come attestano documenti in gran numero, ad onore e perfezionamento delle arti medesime. I progressi della cultura, le nuove abitudini e i cresciuti bisogni della vita esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni attuali. Vediamo con piacere formarsi ovunque associazioni di questo genere, sia di soli operai sia miste di operai e padroni, ed è desiderabile che crescano di numero e di operosità. Sebbene ne abbiamo parlato più volte, ci piace ritornarvi sopra per mostrarne l’opportunità, la legittimità, la forma del loro ordinamento e la loro azione.

2 – Il diritto all’associazione è naturale

37. Il sentimento della propria debolezza spinge l’uomo a voler unire la sua opera all’altrui. La Scrittura dice: E’ meglio essere in due che uno solo; perché due hanno maggior vantaggio nel loro lavoro. Se uno cade, è sostenuto dall’altro. Guai a chi è solo; se cade non ha una mano che lo sollevi (Eccl IV, 9-10). E altrove: il fratello aiutato dal fratello è simile a una città fortificata (Prov XVIII,19). L’istinto di questa naturale inclinazione lo muove, come alla società civile, così ad altre particolari società, piccole certamente e non perfette, ma pur società vere. Fra queste e quella corre grandissima differenza per la diversità dei loro fini prossimi. Il fine della società civile è universale, perché è quello che riguarda il bene comune, a cui tutti e singoli i cittadini hanno diritto nella debita proporzione. Perciò è chiamata pubblica; per essa gli uomini si mettono in mutua comunicazione al fine di formare uno Stato (S, Th., Contra impugn. Dei cultum et religionem, c. II). Al contrario le altre società che sorgono in seno a quella si dicono e sono private, perché hanno per scopo l’utile privato dei loro soci. Società privata è quella che si forma per concludere affari privati, come quando due o tre si uniscono a scopo di commercio (Ivi).

38. Ora, sebbene queste private associazioni esistano dentro la Stato e ne siano come tante parti, tuttavia in generale, e assolutamente parlando, non può lo Stato proibirne la formazione. Poiché il diritto di unirsi in società l’uomo l’ha da natura, e i diritti naturali lo Stato deve tutelarli, non distruggerli. Vietando tali associazioni, egli contraddirebbe sé stesso, perché l’origine del consorzio civile, come degli altri consorzi, sta appunto nella naturale socialità dell’uomo. Si danno però casi che rendono legittimo e doveroso il divieto. Quando società particolari si prefiggono un fine apertamente contrario all’onestà, alla giustizia, alla sicurezza del consorzio civile, legittimamente vi si oppone lo Stato, o vietando che si formino o sciogliendole se sono formate; è necessario però procedere in ciò con somma cautela per non invadere i diritti dei cittadini, e non fare il male sotto pretesto del pubblico bene. Poiché le leggi non obbligano se non in quanto sono conformi alla retta ragione, e perciò stesso alla legge eterna di Dio (Cfr. S. Th. I-II, q. 13, a. 3).

39. E qui il nostro pensiero va ai sodalizi, collegi e ordini religiosi di tante specie a cui dà vita l’autorità della Chiesa e la pietà dei fedeli; e con quanto vantaggio del genere umano, lo attesta la storia anche ai nostri giorni. Tali società, considerate al solo lume della ragione, avendo un fine onesto, sono per diritto di natura evidentemente legittime. In quanto poi riguardano la religione, non sottostanno che all’autorità della Chiesa. Non può dunque lo Stato arrogarsi più quelle competenza alcuna, né rivendicarne a sé l’amministrazione; ha però il dovere di rispettarle, conservarle e, se occorre, difenderle. Ma quanto diversamente si agisce, soprattutto ai nostri tempi! In molti luoghi e in molti modi lo Stato ha leso i diritti di tali comunità, avendole sottoposte alle leggi civili a private di giuridica personalità, o spogliate dei loro beni. Nei quali beni la Chiesa aveva il diritto suo, come ognuno dei soci, e similmente quelli che li avevano destinati per un dato fine, e quelli al cui vantaggio e sollievo erano destinati. Non possiamo dunque astenerci dal deplorare spogliazioni sì ingiuste e dannose, tanto più che vediamo proibite società cattoliche, tranquille e utilissime, nel tempo stesso che si proclama altamente il diritto di associazione; mentre in realtà tale diritto vieni largamente concesso a uomini apertamente congiurati ai danni della religione e dello Stato.

40. Certe società diversissime, costituite specialmente di operai, vanno oggi moltiplicandosi sempre più. Di molte, tra queste, non è qui luogo di indagar l’origine, lo scopo, i procedimenti. È opinione comune però, confermata da molti indizi, che il più delle volte sono rette da capi occulti, con organizzazione contraria allo spirito cristiano e al bene pubblico; costoro con il monopolio delle industrie costringono chi rifiuta di accomunarsi a loro, a pagar caro il rifiuto. In tale stato di cose gli operai cristiani non hanno che due vie: o iscriversi a società pericolose alla religione o formarne di proprie e unire così le loro forze per sottrarsi coraggiosamente a sì ingiusta e intollerabile oppressione. Ora, potrà mai esitare sulla scelta di questo secondo partito, chi non vuole mettere a repentaglio il massimo bene dell’uomo?

3 – Favorire i congressi cattolici

41. Degnissimi d’encomio sono molti tra i cattolici che, conosciute le esigenze dei tempi, fanno ogni sforzo per migliorare onestamente le condizioni degli operai. E presane in mano la causa, si studiano di accrescerne il benessere individuale e domestico; di regolare, secondo equità, le relazioni tra lavoratori e padroni; di tener viva e profondamente radicata negli uni e negli altri il senso del dovere e l’osservanza dei precetti evangelici; precetti che, allontanando l’animo da ogni sorta di eccessi, lo inducono alla moderazione e, tra la più grande diversità di persone e di cose, mantengono l’armonia nella vita civile. A tal fine vediamo che spesso si radunano dei congressi, ove uomini saggi si comunicano le idee, uniscono le forze, si consultano intorno agli espedienti migliori, Altri s’ingegnano di stringere opportunamente in società le varie classi operaie; le aiutano col consiglio e i mezzi e procurano loro un lavoro onesto e redditizio. Coraggio e protezione vi aggiungono i vescovi, e sotto la loro dipendenza molti dell’uno e dell’altro clero attendono con zelo al bene spirituale degli associati. Non mancano finalmente i cattolici benestanti che, fatta causa comune coi lavoratori, non risparmiano spese per fondare e largamente diffondere associazioni che aiutino l’operaio non solo a provvedere col suo lavoro ai bisogni presenti, ma ad assicurarsi ancora per l’avvenire un riposo onorato e tranquillo. I vantaggi che tanti e sì volenterosi sforzi hanno recato al pubblico bene, sono così noti che non occorre parlarne. Di qui attingiamo motivi a bene sperare dell’avvenire, purché tali società fioriscano sempre più, e siano saggiamente ordinate. Lo Stato difenda queste associazioni legittime dei cittadini; non si intrometta però nell’intimo della loro organizzazione e disciplina, perché il movimento vitale nasce da un principio intrinseco, e gli impulsi esterni facilmente lo soffocano.

4 – Autonomia e disciplina delle associazioni

42. Questa sapiente organizzazione e disciplina è assolutamente necessaria perché vi sia unità di azione e d’indirizzo. Se hanno pertanto i cittadini, come l’hanno di fatto, libero diritto di legarsi in società, debbono avere altresì uguale diritto di scegliere per i loro consorzi quell’ordinamento che giudicano più confacente al loro fine. Quale esso debba essere nelle singole sue parti, non crediamo si possa definire con regole certe e precise, dovendosi determinare piuttosto dall’indole di ciascun popolo, dall’esperienza e abitudine, dalla quantità e produttività dei lavori, dallo sviluppo commerciale, nonché da altre circostanze, delle quali la prudenza deve tener conto. In sostanza, si può stabilire come regola generale e costante che le associazioni degli operai si devono ordinare e governare in modo da somministrare i mezzi più adatti ed efficaci al conseguimento del fine, il quale consiste in questo, che ciascuno degli associati ne tragga il maggior aumento possibile di benessere fisico, economico, morale. È evidente poi, che conviene aver di mira, come scopo speciale, il perfezionamento religioso e morale, e che a questo perfezionamento si deve indirizzare tutta la disciplina sociale. Altrimenti tali associazioni degenerano facilmente in altra natura, né si mantengono superiori a quelle in cui della religione non si tiene conto alcuno. Del resto, che gioverebbe all’operaio l’aver trovato nella società di che vivere bene, se l’anima sua, per mancanza di alimento adatto, corresse pericolo di morire? Che giova all’uomo l’acquisto di tutto il mondo con pregiudizio dell’anima sua? (Mat XVI, 26). Questo, secondo l’insegnamento di Gesù Cristo, è il carattere che distingue il cristiano dal pagano: I pagani cercano tutte queste cose… voi cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia, e gli altri beni vi saranno dati per giunta (Mat VI,32-33). Prendendo adunque da Dio il principio, si dia una larga parte all’istruzione religiosa, affinché ciascuno conosca i propri doveri verso Dio; sappia bene ciò che deve credere, sperare e fare per salvarsi; e sia ben premunito contro gli errori correnti e le seduzioni corruttrici. L’operaio venga animato al culto di Dio e all’amore della pietà, e specialmente all’osservanza dei giorni festivi. Impari a venerare e amare la Chiesa, madre comune di tutti, come pure a obbedire ai precetti di lei, e a frequentare i sacramenti, mezzi divini di giustificazione e di santità.

5 – Diritti e doveri degli associati

43. Posto il fondamento degli statuti sociali nella religione, è aperta la strada a regolare le mutue relazioni dei soci per la tranquillità della loro convivenza e del loro benessere economico. Gli incarichi si distribuiscano in modo conveniente agli interessi comuni, e con tale armonia che la diversità non pregiudichi l’unità. E’ sommamente importante che codesti incarichi vengano distribuiti con intelligenza e chiaramente determinati, perché nessuno dei soci rimanga offeso. I beni comuni della società siano amministrati con integrità, così che i soccorsi vengano distribuiti a ciascuno secondo i bisogni; e i diritti e i doveri dei padroni armonizzino con i diritti e i doveri degli operai. Quando poi gli uni o gli altri si credono lesi, è desiderabile che trovino nella stessa associazione uomini retti e competenti, al cui giudizio, in forza degli statuti, si debbano sottomettere. Si dovrà ancora provvedere che all’operaio non manchi mai il lavoro, e vi siano fondi disponibili per venire in aiuto di ciascuno, non solamente nelle improvvise e inattese crisi dell’industria, ma altresì nei casi di infermità, di vecchiaia, di infortunio. Quando tali statuti sono volontariamente abbracciati, si é già sufficientemente provveduto al benessere materiale e morale delle classi inferiori; e le società cattoliche potranno esercitare non piccola influenza sulla prosperità della stessa società civile. Dal passato possiamo prudentemente prevedere l’avvenire. Le umane generazioni si succedono, ma le pagine della loro storia si rassomigliano grandemente, perché gli avvenimenti sono governati da quella Provvidenza suprema la quale volge e indirizza tutte le umane vicende a quel fine che ella si prefisse nella creazione della umana famiglia. Agli inizi della Chiesa i pagani stimavano disonore il vivere di elemosine o di lavoro, come tacevano la maggior parte dei cristiani. Se non che, poveri e deboli, riuscirono a conciliarsi le simpatie dei ricchi e il patrocinio dei potenti. Era bello vederli attivi, laboriosi, pacifici, giusti, portati come esempio, e singolarmente pieni di carità. A tale spettacolo di vita e di condotta si dileguò ogni pregiudizio, ammutolì la maldicenza dei malevoli, e le menzogne di una inveterata superstizione cedettero il posto alla verità cristiana.

6 – Le questioni operaie risolte dalle loro associazioni

44. Si agita ai nostri giorni la questione operaia, la cui buona o cattiva soluzione interessa sommamente lo Stato. Gli operai cristiani la sceglieranno bene, se uniti in associazione, e saggiamente diretti, seguiranno quella medesima strada che con tanto vantaggio di loro stessi e della società, tennero i loro antenati. Poiché, sebbene così prepotente sia negli uomini la forza dei pregiudizi e delle passioni, nondimeno, se la pravità del volere non ha spento in essi il senso dell’onesto, non potranno non provare un sentimento benevolo verso gli operai quando li scorgono laboriosi, moderati, pronti a mettere l’onestà al di sopra del lucro e la coscienza del dovere innanzi a ogni altra cosa. Ne seguirà poi un altro vantaggio, quello cioè di infondere speranza e facilità di ravvedimento a quegli operai ai quali manca o la fede o la buona condotta secondo la fede. Il più delle volte questi poveretti capiscono bene di essere stati ingannati da false speranze e da vane illusioni. Sentono che da cupidi padroni vengono trattati in modo molto inumano e quasi non sono valutati più di quello che producono lavorando; nella società, in cui si trovano irretiti, invece di carità e di affetto fraterno, regnano le discordie intestine, compagne indivisibili della povertà orgogliosa e incredula. Affranti nel corpo e nello spirito, molti di loro vorrebbero scuotere il giogo di si abietta servitù; ma non osano per rispetto umano o per timore della miseria. Ora a tutti costoro potrebbero recare grande giovamento le associazioni cattoliche, se agevolando ad essi il cammino, li inviteranno, esitanti, al loro seno, e rinsaviti, porgeranno loro patrocinio e soccorso.

 CONCLUSIONE

La carità, regina delle virtù sociali

45. Ecco, venerabili fratelli, da chi e in che modo si debba concorrere alla soluzione di sì arduo problema. Ciascuno faccia la parte che gli spetta e non indugi, perché il ritardo potrebbe rendere più difficile la cura di un male già tanto grave. I governi vi si adoperino con buone leggi e saggi provvedimenti; i capitalisti e padroni abbiano sempre presenti i loro doveri; i proletari, che vi sono direttamente interessati, facciano, nei limiti del giusto, quanto possono; e poiché, come abbiamo detto da principio, il vero e radicale rimedio non può venire che dalla religione, si persuadano tutti quanti della necessità di tornare alla vita cristiana, senza la quale gli stessi argomenti stimati più efficaci, si dimostreranno scarsi al bisogno. Quanto alla Chiesa, essa non lascerà mancare mai e in nessun modo l’opera sua, la quale tornerà tanto più efficace quanto più sarà libera, e di questo devono persuadersi specialmente coloro che hanno il dovere di provvedere al bene dei popoli. Vi pongano tutta la forza dell’animo e la generosità dello zelo i ministri del santuario; e guidati dall’autorità e dall’esempio vostro, venerabili fratelli, non si stanchino di inculcare a tutte le classi della società le massime del Vangelo; impegnino le loro energie a salvezza dei popoli, e soprattutto alimentino in sé e accendano negli altri, nei grandi e nei piccoli, la carità, signora e regina di tutte le virtù. La salvezza desiderata dev’essere principalmente frutto di una effusione di carità; intendiamo dire quella carità cristiana che compendia in sé tutto il Vangelo e che, pronta sempre a sacrificarsi per il prossimo, è il più sicuro antidoto contro l’orgoglio e l’egoismo del secolo. Già san Paolo ne tratteggiò i lineamenti con quelle parole: La carità è longanime, è benigna; non cerca il suo tornaconto: tutto soffre, tutto sostiene (1 Cor 13,4-7). Auspice dei celesti favori e pegno della nostra benevolenza, a ciascuno di voi, venerabili fratelli, al vostro clero e al vostro popolo, con grande affetto nel Signore impartiamo l’apostolica benedizione.

Dato a Roma presso san Pietro, il giorno 15 maggio 1891, anno decimoquarto del nostro pontificato.

 

 

 

 

DOMENICA I DI PASSIONE [2018]

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps XLII:1-2.

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Ps XLII:3

Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me de duxérunt et adduxérunt in montem sanctum tuum et in tabernácula tua. [Manda la tua luce e la tua verità: esse mi guídino al tuo santo monte e ai tuoi tabernàcoli.]

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Oratio

Orémus. Quæsumus, omnípotens Deus, familiam tuam propítius réspice: ut, te largiénte, regátur in córpore; et, te servánte, custodiátur in mente. [Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, guarda propízio alla tua famiglia, affinché per bontà tua sia ben guidata quanto al corpo, e per grazia tua sia ben custodita quanto all’ànima.]

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebræos.

Hebr IX:11-15

Fatres: Christus assístens Pontifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum, et cinis vítulæ aspérsus, inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ideo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

OMELIA I

[da Nuovo Saggio di OMELIE di mons. Bonomelli – 3^ ed. VOL. II, Omelia IX– Marietti ed. Torino 1898- impr.]

“Venuto Cristo, pontefice dei beni futuri, per un maggiore e più perfetto tabernacolo, non fatto a mano, cioè non di questa creazione, né per il sangue di capri o di vitelli, ma per il proprio sangue è entrato una volta per tutte nel Santuario, avendo compiuta una redenzione eterna. Che se il sangue dei “capri e dei tori ed il cenere di giovenca,, sparso sopra i contaminati, santifica a purità della carne; quanto più il sangue di Cristo, il quale, per lo Spirito Santo, offerse se stesso immacolato a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire al Dio vivente? E per questo egli è mediatore del nuovo Testamento, acciocché, intervenutavi la morte, a pagamento delle trasgressioni avvenute sotto l’Alleanza prima, i chiamati ricevano la promessa della eredità eterna „ (Agli Ebrei, IX, 11-15).

Sono cinque versetti, tolti dal capo IX della lettera di S. Paolo agli Ebrei, che la Chiesa ci fa leggere nella Messa di questa Domenica, che dicesi di Passione, perché oggi cominciano i grandi misteri della passione di nostro Signore. È la prima volta, che devo spiegarvi alcune sentenze di questa lettera agli Ebrei, e trovo conveniente premettere alcune avvertenze, che chiariranno alquanto il senso dei versetti che avete uditi. – Questa lettera fu scritta dall’Italia, come si fa manifesto dal penultimo versetto dell’ultimo capo, forse da Roma, dove l’Apostolo era stato in carcere, di recente uscitone tra la prima e la seconda sua prigionia, circa sei anni prima della distruzione di Gerusalemme e quattro circa prima della sua morte. La lettera è scritta ai Cristiani di Palestina, che prima erano stati Giudei. Questi credevano che Gesù Cristo era il Messia, il Figliuol di Dio e tutto ciò ch’Egli aveva insegnato e comandato; ma, nati e cresciuti nel giudaismo, non sapevano staccarsi dalle sue leggi, dai suoi riti, dai suoi sacrifici, dalle sue grandezze, e male sapevano entrare nello spirito del Cristianesimo, tutto fede, vita interna, speranze future, rinnegamento di se stessi, insegnamento della croce. L’antico Patto, iniziato dagli Angeli, proclamato da Mosè, imperniato nel sacerdozio di Aronne, la magnificenza del tempio, le memorie del tabernacolo, dell’arca, delle tavole della legge e via dicendo, esercitavano un fascino incredibile sui loro animi, che noi oggi non possiamo abbastanza comprendere; non sapevano rinunciarvi e alla men peggio essi volevano che il mosaismo dovesse mantenersi per sempre anche nel Cristianesimo. S. Paolo nella sua lettera, si propone di dissipare questi pregiudizi dei Giudei convertiti, che di mente e di cuore erano in gran parte ancora Giudei. Perciò nella lettera toglie a dimostrare la sovrana eccellenza del nuovo sull’antico Patto, del Cristianesimo sul mosaismo, della Chiesa sulla sinagoga, specialmente per tre capi, cioè in quantoché Cristo, Figlio di Dio, di infinito intervallo sovrasta agli Angeli, a Mosè, ad Aronne, ed è il mediatore per eccellenza e l’eterno Pontefice. È questo lo scopo di tutta la lettera, per chi bene la considera. Nel breve tratto recitato e che ora devo spiegare, l’Apostolo dimostra che Cristo, per ragione del suo sacerdozio, sta sopra l’antico, perché Egli è entrato nel santuario vero, cioè il cielo, non nel sangue altrui, nel sangue delle vittime immolate, ma nel proprio sangue, avente efficacia per se stesso. Ora svolgiamo l’alto insegnamento dell’Apostolo e voi, o cari, raddoppiate l’attenzione, perché il soggetto ne è ben degno. “Venuto Cristo, pontefice dei beni futuri, per un maggiore e più perfetto tabernacolo, non fatto a mano, cioè non di questa creazione, né per il sangue di capri o di vitelli, ma per il proprio sangue, è entrato una volta per tutte nel Santuario, avendo compiuta una redenzione eterna. „ Affinché possiamo capire ciò che S. Paolo insegna in questo luogo, occorre accennare brevemente a ciò che dice nei versetti precedenti, e che riguarda le cose principali spettanti al culto dell’antica legge. Le cose del culto nella legge mosaica erano minutamente determinate e tutte e ciascuna avevano un significato proprio. Il popolo ebraico aveva un sol tempio in Gerusalemme, al quale tre volte all’anno si recavano tutti i figli d’Israele giunti all’età di dodici anni. In quel tempio vastissimo tutto era ordinato: nel centro era il luogo destinato ai sacerdoti: nel mezzo il grande altare destinato agli olocausti, ossia al bruciamento delle vittime: oltre l’altare degli olocausti era il vestibolo od atrio: dopo l’atrio c’era il tabernacolo anteriore, o primo tabernacolo, o luogo santo, e finalmente il Santo dei santi, o Santissimo, o secondo tabernacolo, separato dal Santo dei santi, o Santissimo, mediante un velo. Nel primo tabernacolo, o luogo santo, erano il candelabro con le sette lucerne sempre accese, la mensa coi dodici pani, uno per ciascuna tribù d’Israele, e che si rinnovavano ogni sette giorni. Nel Santo de’ santi, o Santissimo, si conservavano il turibolo d’oro, l’arca del Testamento, ed in essa, rivestita d’oro, l’urna d’oro racchiudente la manna, la verga d’Aronne e le tavole della legge. Nel luogo santo, o primo tabernacolo, i sacerdoti entravano due volte al giorno per gli uffici sacri; ma nel secondo tabernacolo, o Santo dei santi, entrava il solo sommo pontefice ed una volta all’anno per offrirvi il sangue della vittima in espiazione dei peccati suoi e del popolo. – Tutto questo significava, dice S. Paolo, che non era ancora venuto il tempo nel quale tutti potessero entrare nel Santo de1 santi, e che dovevano limitarsi a sacrifici, abluzioni e riti materiali, che non avevano forza di santificare la coscienza, e che tutto quel culto doveva durare finché venisse il raddrizzamento (usque ad tempus correctionis), cioè finché venisse Colui che compisse la legge e schiudesse il Santo de’ santi e vi introducesse tutti i redenti. Ora, continua S. Paolo: “È venuto Cristo,, pontefice dei beni futuri; „ al pontefice dell’ordine di Aronne è sottentrato Cristo, il sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec, alla figura è sottentrata la realtà. A quelli che vivevano sotto il sacerdozio mosaico, cioè ai figli d’Israele, se osservavano la legge, era promessa principalmente una mercede temporale: ma Cristo, Pontefice della nuova legge, promette e a suo tempo darà beni celesti, ricompense incomparabilmente più nobili: Christus… Pontifex futurorum honorum. Voi, carissimi, non ignorate l’economia e il carattere dell’antica legge: a chi la trasgrediva erano minacciate pene temporali, e non rare volte inflitta perfino la morte: a chi la osservava erano promessi beni temporali, vittorie sui nemici, abbondanza dei frutti della terra, pace ed ogni prosperità. Ben è vero, che, oltre i castighi e le ricompense terrene, ai trasgressori ed agli osservatori della legge, erano riserbati altresì castighi e premi nella vita futura; ma in generale nei Libri santi si parla più assai di castighi e premi temporali che degli eterni, attesa la natura grossolana del popolo ebraico. La legge nuova, per contrario, ai suoi seguaci non parla che dei premi e dei castighi della vita futura: ai credenti, ai virtuosi quaggiù sulla terra non promette mai la mercede dovuta, ma la mostra aldilà della tomba; anzi va più oltre: ai credenti, ai virtuosi, qui sulla terra annunzia persecuzioni, dolori, travagli, e l’apostolo S. Paolo non teme di proclamare altamente “… che tutti quelli che vogliono vivere piamente secondo Cristo, soffriranno persecuzione — Omnes qui pie volunt vivere in Christo Jesu persecutionem patientur. „ È questo il carattere proprio della dottrina di Cristo, che in ciò si differenzia dal mosaismo e di gran lunga si innalza sopra di esso. Nondimeno, bisogna confessarlo, non mancano anche tra i Cristiani alcuni, che, malamente applicando alla nuova legge le parole dei Libri santi, che si riferiscono soltanto alla mosaica, e seguendo un cotale spirito giudaico, promettono alla virtù ricompense terrene e al vizio denunziano terrene vendette (Talvolta Iddio può ricompensare la virtù e punire il vizio anche sulla terra ; ma non è economia regolare come nel mosaismo, e noi non possiamo dire ciò in particolare se non quando vi sono argomenti chiari ed evidenti.), e  tutto questo in modo ordinario ed a nome di Dio. Ah! no, carissimi. Noi dobbiamo vivere di fede, come vuole l’Apostolo: la nostra vita deve essere la copia della vita di Cristo, che in terra patì ogni maniera di umiliazioni e dolori: la nostra speranza, la nostra mercede non è quaggiù, ma lassù in cielo: noi siamo discepoli di un Pontefice che promette beni futuri: Poritifex futurorum honorum. Il pontefice ebraico, una sola volta all’anno entrava nel Santo dei santi, ch’era opera degli uomini: Gesù Cristo, scrive l’Apostolo, il Pontefice nostro, è entrato in un tabernacolo, nel vero Santo dei santi, raffigurato dal primo, che è il cielo dei cieli, non opera degli uomini, ma di Dio stesso. Il pontefice ebraico entrava nel Santo dei santi, offrendo il sangue di due vittime per i peccati propri e del popolo; Gesù Cristo è entrato in cielo, non col sangue delle vittime, ma per il sangue proprio, e offerto non per i peccati suoi, che non poteva averne, Lui sacerdote santo, innocente, immacolato, non avente parte alcuna con i peccatori (Capo VII, 26). Il pontefice ebraico entrava nel Santo dei santi una volta sola all’anno, ma tutti gli anni, ripetendo gli stessi sacrifici. Pensano alcuni interpreti, anche assai autorevoli, che in quel tabernacolo, maggiore e più perfetto, nel quale dicesi entrato Cristo, sia rappresentata la Chiesa militante, o l’Umanità santa di Cristo. Ma non so come Cristo debba passare per la Chiesa militante e molto meno possa passare per la sua Umanità. — L’una e l’altra sentenza parmi strana, è entrato in cielo una volta sola, e questa non si ripete, perché vale per tutte; e vale per tutte, perché la espiazione da Lui compiuta con il suo sangue è eterna, cioè bastevole per tutti e per tutti i secoli. Gli antichi sacrifici, quelli stessi offerti solennemente una volta all’anno dal sommo pontefice, si dovevano ripetere: ora la stessa necessità del dover ripetere quei sacrifici, grida in altro luogo l’Apostolo, vi dimostra la loro poca efficacia, la loro impotenza di santificare gli uomini (Capo X, 2). Penso che, udendo questa dottrina dell’Apostolo, si affacci alla vostra mente una difficoltà, che è bene sciogliere. Se dal ripetersi i sacrifici nell’antica legge, S. Paolo arguisce la loro poca efficacia e la loro impotenza di santificare le anime, altri potrebbe alla stessa maniera argomentare contro il Sacrificio stesso di Cristo sulla croce, che ogni giorno si ripete senza numero sulla faccia della terra nel sacrificio dell’altare. Ma la risposta è facile e perentoria, o carissimi figliuoli. I sacrifici dell’antica legge erano diversi e distinti tra loro, in guisa che ciascuno era vero sacrificio da se stesso. La cosa va ben altrimenti quanto al Sacrificio di Cristo consumato sulla croce e rinnovato sui nostri altari in ogni Messa che si celebra. Noi teniamo per fede, che il Sacrificio della nuova legge è un solo, quello della croce, al quale nulla si può aggiungere, nulla levare, e sovrabbonda a tutti i bisogni nostri. Nella Messa abbiamo un vero e proprio Sacrificio, ma non è altro che quello stesso della croce: l’unica differenza che corre tra l’uno e l’altro è accidentale, ossia di modo: quello della croce fu sanguinoso, questo della Messa è incruento e si compie sotto le specie del pane e del vino. La vittima che si offre, è la stessa, l’Uomo-Dio, Gesù Cristo; sul Calvario sparse visibilmente il suo sangue e morì: sull’altare sparge il sangue e muore misticamente in quantoché sotto le specie eucaristiche rappresenta veramente ciò che fece sulla croce. Sulla croce offerse e compì il suo Sacrificio, sull’altare lo ripete, e quasi direi, lo prolunga e lo applica agli uomini attraverso lo spazio e il tempo. Un fiume sgorga dai fianchi delle Alpi, e scorrendo per valli e per pianure volge al mare l’ampio volume delle sue acque: esso è un solo fiume, sempre quel solo e medesimo fiume, che scaturisce dalle Alpi, che bagna le valli, che tocca le borgate e le città che trova sulle sue sponde, che irriga le pianure, che sbocca nel mare. Così è il sacrificio del Calvario, un solo, sempre lo stesso, che sotto altra forma continua in tutti i punti dello spazio e del tempo fino all’ultimo giorno dei secoli. Ecco perché san Paolo più innanzi (X, 14) pronuncerà questa sublime sentenza: “Cristo con un solo Sacrificio in perpetuo fece perfetti i santificati — Una oblatione consummavit in sempiternum sanctificatos. „ Ora torniamo al nostro commento là dove  l’abbiamo lasciato. Dopo aver detto che Cristo, eterno Pontefice, entrò nel vero Santuario, che è il cielo, una sola volta per tutte, e vi entrò con il proprio sangue, offrendo a tutti per tutti i secoli una compiuta espiazione, prosegue e così ragiona: “Che se il sangue di capri e di tori ed il cenere di giovenca sparso sopra i contaminati (Nel Levitico e nei Numeri, particolarmente al c. XIX, Mosè parla a lungo di quelle che si dicono immondezze della carne od esterne. Era immondo il lebbroso e chi lo toccava: immonda la puerpera, chi toccava un cadavere, ecc. ecc. Erano immondezze materiali, non morali, ma che non permettevano a chi n’era macchiato, il consorzio civile e religioso, se non si purificava con le abluzioni o con i sacrifici prescritti, che erano molti e gravosi), santifica a purità della carne, quanto più il sangue di Cristo, il quale, per lo Spirito Santo, offerse se stesso immacolato a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire al Dio vivente! „ È un argomento semplicissimo e calzante usato con gli Ebrei divenuti Cristiani. Voi tenete che il sangue delle vittime e le purificazioni stabilite da Mosè vi nettino dalle immondezze legali e vi rendano possibile il consorzio civile e la partecipazione delle cose sacre, e sta bene: ora come potrete voi, dice S. Paolo, dubitare che il sangue della Vittima divina, pura ed immacolata, che è Gesù Cristo, che si offerse a Dio con atto d’amore ardentissimo, prosciolga le coscienze, le anime vostre da ogni sozzura di peccato e vi renda atti a servire debitamente a Dio? Qui l’Apostolo mette in rilievo la profonda differenza che passa tra l’efficacia dei sacrifici antichi e il Sacrificio di Cristo. Quelli, per se stessi, non producevano che una purificazione esterna, legale, materiale, e se producevano anche la interna, spirituale, dinanzi a Dio, era unicamente in quanto risvegliava la fede nel futuro Messia e nel suo Sacrificio, doveché questo monda l’anima per virtù propria, la rende bella agli occhi di Dio, liberandola dalle opere morte, cioè dai peccati. E perché i peccati si dicono opere morte? Perché come le cose morte, i cadaveri, sono brutti a vedersi, fanno ribrezzo, gettano lezzo, e nell’antica legge rendevano immondo chi li toccava; così i peccati fanno l’anima brutta e schifosa a Dio, e a così dire lo costringono a torcere altrove gli sguardi. Purificata dai peccati, l’anima è atta a servire al Dio vivente, dice l’Apostolo, mettendo in rilievo il passaggio di stato, d’essere prima soggetta alle opere morte, e poi di poter servire a Dio vivente. “E per questo, conchiude S. Paolo il suo ragionamento, e per questo è mediatore del Testamento nuovo, acciocché, intervenutavi la morte a pagamento delle trasgressioni avvenute sotto l’Alleanza prima, i chiamati ricevano la promessa della eredità eterna. „ – L’Apostolo spiega perché Cristo è l’autore e mediatore del nuovo Testamento, e qui lasciate, o cari, che spieghi un po’ diffusamente il valore di queste parole “testamento” e “mediatore”. Si parla assai spesso di patto, di alleanza, di testamento antico, e di patto, di alleanza e testamento nuovo. Che vogliono dire queste parole? Qual è la ragione del loro uso nel linguaggio sacro? Dio fece promesse solenni a Noè, ad Abramo, ad Isacco, a Mosè: promesse di protezione, di beni temporali e spirituali, e soprattutto fece la gran promessa del futuro Salvatore, che sarebbe venuto dalla progenie di Abramo e dalla famiglia di Davide. Le promesse dei beni temporali, come sapete, erano legate alla condizione che i figli di Abramo e di Giacobbe sarebbero stati fedeli alla osservanza della legge. Le promesse divine furono accettate dai patriarchi e dal popolo registrate nei Libri santi. Era un patto, un’alleanza stretta tra Dio ed il suo popolo, una specie di contratto giurato e consacrato con il sangue delle vittime immolate. L’osservanza del patto con Dio da parte del popolo portava naturalmente il diritto di avere i beni da Dio promessi, e da parte di Dio l’obbligo di darli: ecco perché; i chiamò alleanza o patto, si disse poi anche testamento, perché al possesso dei beni spirituali e della vita eterna che ne è il termine ultimo, non sarebbero giunti che per la morte di Cristo. Ben è vero che gli Ebrei ebbero i beni temporali prima della morte di Cristo: ma quei beni temporali erano figura degli spirituali, e poiché questi non si potevano ottenere che per la morte di Cristo, così anche per ragione dei primi l’economia mosaica meritamente fu detta testamento. In una parola: la disposizione che dicesi testamento, ha vigore dopo la morte del testatore, e solo dopo questa l’erede riceve il possesso della eredità: ora tutte le promesse fatte da Dio agli uomini, quanto ai beni spirituali, erano tutte necessariamente legate alla morte di Cristo, come causa meritoria, e solo alla sua morte si sarebbero dischiuse le porte dei cieli ed avuto il possesso della vita eterna, ed è perciò che Cristo si chiama mediatore del Testamento nuovo, che completa il vecchio imperfetto. S. Paolo in questo luogo e in altri chiama Cristo mediatore in termini, implicitamente poi, dovunque nei Libri santi, è rappresentato come mediatore. La parola mediatore per se stessa importa l’idea d’uno che sta tra due e si adopera a conciliarli tra loro. A chi meglio che a Cristo si addice la dignità di mediatore? Egli primieramente è mediatore tra Dio e l’umano genere per natura, come avvertono i Padri. Gesù Cristo è vero Dio e vero Uomo: in Lui è perfetta la natura umana non meno della divina e unica la persona, e questa è divina. In Lui pertanto si congiungono la natura umana e la divina per guisa ch’Egli è veramente infinito e finito, eterno e temporario, immutabile e mutabile, in una parola Dio e uomo: Egli è, come scrisse S. Gregorio Nisseno, il punto che congiunge le due sponde del finito e dell’infinito, pel quale passano tutti i doni di Dio agli uomini, e per il quale gli uomini e gli Angeli stessi, dei quali ancora è capo, vanno a Dio. In questo senso Gesù Cristo è mediatore naturale. Egli poi adempie con sovrana perfezione gli uffici tutti di mediatore. Egli, in quanto uomo, paga per noi non solo, ma alla giustizia divina offre se stesso qual vittima espiatrice e propiziatrice in modo perenne, e salva da una parte tutti i diritti della giustizia eterna, pagando della sua stessa Persona in misura infinita, e dall’altra spiegando le magnificenze della sua carità, col patire e morire per gli uomini colpevoli, ond’Egli è la nostra conciliazione e la nostra pace, come insegna l’Apostolo. Carissimi! Gesù Cristo è il Figlio di Dio e di Maria: in Lui il Padre trova tutte le sue compiacenze: in Lui ama ed abbraccia tutti quelli che per fede ed amore a Lui sono uniti e somiglianti: a Gesù Cristo adunque, fratel nostro secondo la carne, stringiamoci per fede viva, per salda speranza, per ardente carità: a Lui facciamoci simili nelle parole e nelle opere, e dov’Egli è, noi pure saremo.

Graduale Ps CXLII:9, 10

Eripe me, Dómine, de inimícis meis: doce me fácere voluntátem tuam

Ps XVII:48-49

Liberátor meus, Dómine, de géntibus iracúndis: ab insurgéntibus in me exaltábis me: a viro iníquo erípies me.

Tractus Ps CXXVIII:1-4

Sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

[Mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Dicat nunc Israël: sæpe expugnavérunt me a juventúte mea. [Lo dica Israele: mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Etenim non potuérunt mihi: supra dorsum meum fabricavérunt peccatóres. V. [Ma non mi hanno vinto: i peccatori hanno fabbricato sopra le mie spalle.]

Prolongavérunt iniquitátes suas: Dóminus justus cóncidit cervíces peccatórum. [Per lungo tempo mi hanno angariato: ma il Signore giusto schiaccerà i peccatori.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VIII: 46-59

“In illo témpore: Dicébat Jesus turbis Judæórum: Quis ex vobis árguet me de peccáto? Si veritátem dico vobis, quare non créditis mihi? Qui ex Deo est, verba Dei audit. Proptérea vos non audítis, quia ex Deo non estis. Respondérunt ergo Judæi et dixérunt ei: Nonne bene dícimus nos, quia Samaritánus es tu, et dæmónium habes? Respóndit Jesus: Ego dæmónium non hábeo, sed honorífico Patrem meum, et vos inhonorástis me. Ego autem non quæro glóriam meam: est, qui quærat et júdicet. Amen, amen, dico vobis: si quis sermónem meum serváverit, mortem non vidébit in ætérnum. Dixérunt ergo Judaei: Nunc cognóvimus, quia dæmónium habes. Abraham mórtuus est et Prophétæ; et tu dicis: Si quis sermónem meum serváverit, non gustábit mortem in ætérnum. Numquid tu major es patre nostro Abraham, qui mórtuus est? et Prophétæ mórtui sunt. Quem teípsum facis? Respóndit Jesus: Si ego glorífico meípsum, glória mea nihil est: est Pater meus, qui gloríficat me, quem vos dícitis, quia Deus vester est, et non cognovístis eum: ego autem novi eum: et si díxero, quia non scio eum, ero símilis vobis, mendax. Sed scio eum et sermónem ejus servo. Abraham pater vester exsultávit, ut vidéret diem meum: vidit, et gavísus est. Dixérunt ergo Judaei ad eum: Quinquagínta annos nondum habes, et Abraham vidísti? Dixit eis Jesus: Amen, amen, dico vobis, antequam Abraham fíeret, ego sum. Tulérunt ergo lápides, ut jácerent in eum: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo.” Laus tibi, Christe!

Omelia II

 [Idem om. X]

“Chi di voi mi convince di peccato? S’io dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non ascoltate, perché non siete da Dio. Allora i Giudei risposero e gli dissero: Ora non diciamo noi bene, che tu sei un Samaritano, e che hai addosso il demonio? Gesù rispose: Io non ho addosso il demonio, ma onoro il Padre mio e voi mi disonorate. Ma io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca e ne giudica. In verità, in verità vi dico: Se alcuno osserva la mia parola, non vedrà morte in eterno. Laonde i Giudei gli dissero: Ora conosciamo che hai addosso il demonio. Abramo e i profeti son morti: e tu dici: Chi osserva la mia parola non vedrà morte in eterno! Sei forse da più di Abramo, padre nostro, che morì? E dei profeti, che morirono? Che pretendi di essere? Gesù rispose: Se io glorifico me stesso, la mia gloria è nulla; quegli che mi glorifica è il Padre mio, il quale voi dite essere vostro Dio. Eppure non l’avete conosciuto; ma Io lo conosco: e se dicessi di non lo conoscere, sarei bugiardo simile a voi; ma lo conosco e osservo la sua parola. Abramo, il padre vostro, giubilando, desiderò vedere il mio giorno: lo vide, e se ne rallegrò. A1lora i Giudei gli dissero: Non hai ancor cinquant’anni e hai veduto Abramo? Gesù disse loro: I n verità, in verità vi dico: Prima che nascesse Abramo, io sono. Essi allora diedero di piglio alle pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose, e uscì dal tempio „ (S. Giov. VIII, 46-59).

Era il mese di settembre dell’anno precedente la morte di Gesù Cristo, e in Gerusalemme si celebrava la festa solenne della Seenopegia, ossia dei Tabernacoli, che ricordava i quarant’anni vissuti dal popolo sotto le tende nel deserto. Quella festa durava otto giorni e chiamava al tempio tutti i Giudei che non erano dispensati. Gesù vi andò con i suoi discepoli, e nel tempio stesso, o forse nell’atrio. ebbe molte e lunghe discussioni con i dottori o maestri della legge, presenti, com’era naturale, molti del popolo. Queste discussioni tra Gesù e i principi del popolo e i maestri della legge, versavano quasi interamente sulla sua missione divina, e si trovano compendiate nei capi settimo e ottavo di S. Giovanni, e i quattordici versi sopra riportati ne sono una piccola parte. La spiegazione è piana e facile ma, non posso dissimularlo, mi torna grave e molesto il darvela, perché vi si incontrano le più atroci ingiurie e le più orribili bestemmie lanciate in faccia a Gesù Cristo stesso. Ma se i nostri cuori proveranno una stretta dolorosa, udendo quei vituperi e quelle bestemmie esecrabili scagliate contro il Figlio  di Dio fatto uomo, ne riceveranno anche lume e conforto, ammirando la bontà di Chi le sofferse con tanta mansuetudine, e meditando l’alta lezione, che ci è data.“Chi di voi mi convince di peccato? „ Nei versetti che precedono Cristo aveva rimproverato ai Giudei il disegno già da loro concepito di ucciderlo, nel che mostravano di seguire il demonio, che fin da principio fu omicida, trascinando i progenitori nel peccato e sottoponendoli alla morte, e bugiardo e padre di bugia, ingannandoli. Per mostrare che dovevano credere alle sue parole, soggiunge: “Chi di voi mi convince di peccato ? „ S’Io violassi la legge, se fossi in qualche cosa colpevole, avreste ragione di rifiutarmi fede: ma voi non trovate, né potrete mai trovare colpa alcuna in me: perché dunque resistete alla mia dottrina? Perché non mi credete? Questa solenne sfida di Gesù Cristo fatta ai suoi nemici “Chi di voi mi convince di peccato, „ non poteva uscire che dalle sue labbra. Egli francamente afferma d’essere immune d’ogni colpa: e come poteva essere altrimenti? Egli era Uomo-Dio; l’umana natura sussisteva nella Persona del Verbo, e se l’umana sua natura avesse potuto peccare, Dio stesso avrebbe peccato, che è assurdo e bestemmia orrenda. Ma Io so, continua Cristo, Io so perché voi non credete alle mie parole: “Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; „ cioè chi ha lo spirito di Dio, chi ama Dio, chi è inchinevole ad ubbidire a Dio, ascolta volentieri le sue parole e crede ad esse: voi non avete lo spirito di Dio, voi non lo amate, perciò non ascoltate le parole mie, che sono quelle di Dio stesso. È ciò che avviene anche tra gli uomini. Se noi abbiamo stima d’una persona, se l’amiamo, se abbiamo comunanza di idee, ci sentiamo inchinevoli a porgere orecchio benevolo alle sue parole, le accogliamo facilmente e non ci permettiamo nemmeno di esaminarle o discuterle. Il figlio ascolta volentieri le parole del padre, la sposa quelle dello sposo, l’amico quelle dell’amico, perché hanno comune lo spirito, e l’amore unisce misteriosamente i loro cuori e le loro menti. Ecco perché le anime pie ascoltano docilmente la parola di Dio, e le anime tristi e malvagie ne provano noia e dispetto. Ciascuno ne può fare in se stesso la prova: si ascolta con piacere ciò che si ama, ciò che risponde ai bisogni del nostro cuore: amiamo Dio ed ascolteremo volentieri le sue parole. I Giudei compresero il rimprovero di Cristo, che in sostanza diceva loro che non avevano lo spirito di Dio, e pieni d’ira, con mal piglio gli dissero: “E non diciamo bene noi che tu sei un Samaritano ed hai addosso il diavolo? „ Insulto più bestiale e più empia e scellerata ingiuria non si poteva gettare in viso al Figliuol di Dio, al Santo dei santi! E ponete mente che l’orrida ingiuria era fatta a Gesù nel tempio, alla presenza dei suoi discepoli e d’una gran folla, e fatta con un’aria di cinica beffa, che la rende ancor più cocente. “E non diciamo noi bene che tu sei un Samaritano ed hai il demonio addosso? „ Qui si fa chiaro che altra volta, anzi poco prima gli avevano scagliato contro l’orrendo insulto, ancorché il Vangelo non lo riporti, ed ora freddamente lo riconfermano, e per giunta dicono: “Sì, noi diciamo bene, né punto ci inganniamo,, . – Due titoli, l’uno più ingiurioso dell’altro, appongono a Cristo: lo chiamano Samaritano e posseduto dal demonio. Per i Giudei i Samaritani erano doppiamente nemici, degni di disprezzo e d’odio: essi erano nemici nel senso nazionale e patriottico e più ancora nel senso religioso, come disertori dell’antica fede. L’astio tra i due popoli era profondo e comune in tutte le classi sociali, a talché la donna samaritana rifiutò a Cristo un po’ d’acqua, che le aveva chiesto, unicamente perché era giudeo, e altra volta gli abitanti d’un castello gli chiusero in faccia le porte, perché se ne andava a Gerusalemme. I Giudei forse avevano saputo delle escursioni di Cristo nella Samaria, della conversione di molti tra di loro, e nominatamente della donna al pozzo di Sichem; fors’anche avevano udito della parabola da Lui recitata, in cui il Samaritano dava una terribile lezione al sacerdote ed al levita, e si proponeva quale modello di carità: perciò era venuto in voce di amico dei Samaritani, di questi nemici della patria, del culto e della fede pura dei Giudei, e per dirgli una villania gravissima, rispondono a Gesù: “E non diciamo noi bene che tu sei un Samaritano,„ cioè amico dei nemici della patria nostra e disertore della nostra religione? – E non basta, aggiungono ancora: “Ed hai addosso il demonio. „ Un uomo posseduto dal demonio, che agisce sotto l’impulso del demonio, che è schiavo del demonio, valeva dire del padre della bugia e autore del male, è l’uomo peggiore che si possa immaginare, il più sciagurato di tutti gli esseri. Ebbene: questo atrocissimo insulto fu detto a Gesù Cristo: “Tu hai addosso il demonio! „ Oh scelleraggine che non ha nome! Oh orrore! E Gesù che disse? che fece? Ah! noi avremmo voluto che in quell’istante avesse lasciato trasparire la luce, che lo avvolgeva sul Tabor, che avesse armata la destra di fulmini, che sotto il peso della sua gloria avesse schiacciati quei miserabili e copertili di vituperio: ma queste sono le idee nostre, affatto umane, ben diverse dai consigli della sapienza e della misericordia di Dio. Gesù, udita quella orribile contumelia, con tutta calma e con sovrana dignità, rispose: “Io non ho addosso il demonio. „ Egli lascia cadere la prima ingiuria, “Tu sei un Samaritano, „ perché trattavasi di uomini erranti, sì, ma che potevansi ravvedere, e tra i quali molti erano pur retti e buoni. Quanto alla seconda e più sanguinosa ingiuria, risponde semplicemente: “Io non ho addosso il demonio. „ Quanta dignità! qual piena signoria di se stesso! quanta grandezza d’animo! Figliuoli carissimi! Allorché altri vi offende, vi ingiuria, vi vitupera, fosse anche brutalmente, vi stia dinanzi agli occhi l’esempio di mansuetudine, di dolcezza, di pazienza inalterabile di Gesù Cristo. Le ingiurie, che voi riceverete, non potranno mai pareggiare quelle ricevute da Gesù Cristo, e pensate, ch’Egli è Dio e voi povere creature! Dopo aver respinta dignitosamente la brutale ingiuria, Gesù aggiunse: “Io onoro il Padre mio e voi mi disonorate. „ Io l’onoro, annunziando la verità, adempiendo in mezzo a voi la missione che tengo, e facendo in ogni cosa il voler suo, “e voi mi disonorate. „ In questa espressione si semplice e sì piena di dignità si sente il dolore, quasi il gemito d’un’anima crudelmente ferita. “Io non cerco, continua Cristo, la mia gloria, „ come non cerco di fare la mia volontà, come uomo; ma cerco solo la gloria del Padre mio e di fare la sua volontà. Tutto Io son pronto a sacrificare, anche la mia vita ed il mio stesso onore, purché ne venga gloria a Colui che mi ha mandato. Io non penso a me ed all’onor mio: a questo penserà il Padre mio e a Lui totalmente me ne rimetto. E ciò che dovremmo far tutti noi Cristiani, adempire i nostri doveri e cercare e procurare, nella loro osservanza, la gloria di Dio, sicuri che Iddio penserà a noi, e a suo tempo ci renderà la promessa mercede. “Tu pensa a me, diceva Cristo a S. Caterina da Siena, ed io penserò a te. „ E qui Cristo, quasi in atto di rivolgersi a quelli tra i suoi uditori che credevano alle sue parole e confortarli a star saldi nella fede in onta alla incredulità, agli insulti ed all’odio dei Giudei, assumendo quell’accento pieno di autorità e maestà, che gli si addiceva, disse: “In verità, in verità vi dico: Se alcuno osserva la mia parola, non vedrà morte in eterno. „ Che fu un dire: Chiunque crederà alle mie parole, non basta, e le metterà in pratica, non soggiacerà a quella morte che sola è vera morte, la morte eterna. Una sentenza sì solenne, sì perentoria e sì inaudita in bocca d’un uomo, contro del quale erano pieni di mal animo e di disprezzo, doveva naturalmente irritare i Giudei e provocarli a nuove ingiurie. E in vero, guardandosi forse gli uni gli altri in aria di scherno e scrollando dispettosamente il capo, gli risposero: “Ora conosciamo che hai addosso il demonio. „ Sì, non ci siamo ingannati quando poco fa te l’abbiamo detto; se avevamo ancora qualche dubbio, tu ce lo togli con le tue parole. Come osi tu dire che chi osserva le tue parole non vedrà la morte in eterno? Abramo e i profeti sono morti. Sei tu forse da più di Abramo nostro padre, che morì? E dei profeti, che morirono anch’essi? Chi pretendi di essere? Evidentemente i Giudei fraintesero le parole di Cristo e, secondo l’uso loro, le pigliarono nel senso materiale e non nello spirituale. Cristo aveva detto: “Chi osserva le mie parole non sarà soggetto alla morte eterna dell’anima”, e i Giudei le intesero della morte del corpo, quasiché avesse voluto dire che chi osservava le sue parole sarebbe stato affrancato, come già fu promesso ad Adamo, dalla morte naturale del corpo. Ecco il perché della loro risposta, della rinnovata ingiuria, “tu hai addosso il demonio, „ e della difficoltà che muovono e che si chiude con quell’insolentissima domanda: “Chi pretendi di essere?„ Gesù, sempre inteso ad illuminare quelle menti ostinate, dissimulando le nuove e più gravi ingiurie, con imperturbabile mansuetudine risponde: “Se io glorifico me stesso, la gloria mia è nulla; quegli che mi glorifica, è il Padre mio, il quale voi dite essere vostro Dio. „ – “Vi ho detto – tale è il significato della risposta di Cristo – vi ho detto che chiunque osserva la mia parola, non vedrà mai la morte eterna dell’anima; voi ne argomentate ch’Io mi levo sopra tutti, anche sopra i profeti ed Abramo stesso; voi mi accusate di cercare la mia gloria, mi accusate di orgoglio intollerabile. No, Io non cerco la mia gloria, Io non sono un orgoglioso: se cercassi, Io, la mia gloria, sarebbe una follia con voi e dinanzi a tutti gli uomini. La gloria non la dà l’uomo a se stesso, ma la riceve dagli altri, gli deve esser resa da testimoni degni di fede, da giudici competenti. S’Io parlassi per conto mio e non avessi una testimonianza pubblica, irrecusabile, che conferma la mia parola, voi avreste ragione di respingere la mia parola; ma vi è chi mi glorifica, chi conferma la mia parola, è il Padre mio. Egli ha confermato la mia parola, mi ha glorificato sulle rive del Giordano, in modo strepitoso, mi ha glorificato con la testimonianza del Battista e con la prova dei miracoli: sono le opere, ch’Io faccio, opere divine, che voi non potete negare, quelle che mi danno gloria e mostrano la verità della mia missione. Queste opere non sono opere di me, uomo povero e debole, ma opere del Padre mio. — E chi è, o Figlio di Maria, questo Padre, di cui sì spesso parlate, che vi glorifica e che Voi glorificate? Egli certamente non può essere Giuseppe, povero operaio e già disceso nel sepolcro. Chi è dunque questo Padre vostro, o Gesù benedetto? Gesù non esita a dirlo nettamente : “Il Padre mio è Colui, che voi dite essere vostro Dio: il Padre mio è Dio. „ Osservate che Gesù non dice: Dio è padre nostro, accomunando la propria dignità a quella di tutti gli uomini, figli di Dio per adozione; ma dice: Dio è Padre mio, chiaramente indicando che Egli non è figlio di Dio come gli altri uomini, figlio per grazia, per benigna adozione; ma è Figlio di Dio in altro modo ben più alto e perfetto, che non può essere che Figlio di Dio per generazione naturale. Gesù Cristo pertanto si dice solennemente, in faccia alle turbe ed ai suoi stessi nemici, Figlio vero e naturale di Dio, eguale al Padre. “Voi, prosegue Gesù Cristo, non conoscete Dio, il Padre mio: non ponete mente alla sua testimonianza, alle opere ch’Io fo nel suo nome e mostrano, ch’Io sono suo Figlio; ma se non lo conoscete voi, lo conosco Io e lo proclamo; se non lo dicessi, mentirei e sarei menzognero come siete menzogneri voi, i quali dite ch’Io sono un Samaritano ed un posseduto dal demonio, ed affermate di conoscere Dio e ricusate fede al Figliuolo suo, che vi parla. Ma Io non verrò meno alla mia missione, e l’adempirò fedelmente. Voi dite d’essere figli di Abramo, e ve ne gloriate: Abramo è morto da duemila anni: ebbene, sappiatelo, “Abramo, il padre vostro, giubilò, pensando di vedere il mio giorno: lo vide, e ne gioì. „ Gesù Cristo in queste parole manifestamente insinua la sua preesistenza ad Abramo e fa meglio conoscere che cosa intenda significare, affermando d’essere Figlio di Dio. Abramo, a cui fu fatta ripetutamente la promessa, che dalla sua progenie sarebbe venuto il Salvatore del mondo, si rallegrò, esultò in questa speranza: vivendo con gli altri patriarchi e profeti e santi nella serena aspettativa della futura redenzione, Abramo dalla bocca di Simeone, di Zaccaria, di Elisabetta, di Giuseppe, di Giovanni e d’altri poté udire che il Figlio di Dio fatto uomo era nato, che il giorno del riscatto era vicino: Abramo, attraverso alle ombre del Limbo poté vedere il giorno, ossia la venuta di Cristo, e ne fu ricolmo di gioia. I Giudei, intendendo sempre le parole di Cristo alla maniera umana e non ravvisando in Lui, che un semplice uomo, credettero di coglierlo in fallo, e in aria di compatimento e di beffa gli dissero: “Non hai ancora cinquant’anni e tu vedesti Abramo? „ Veramente Cristo non aveva detto d’aver veduto Abramo, ma che Abramo aveva veduto la sua venuta e ne aveva gioito, ma la sostanza era la stessa. Allorché Gesù Cristo tenne questo discorso nel settembre o nell’ottobre precedente la Pasqua, in cui morì, era presso ai 34 anni; ma i Giudei, per modo di dire e per scherno, dissero : “Non hai ancor cinquant’anni ed hai veduto Abramo? Tu parli da scherzo o sei un dissennato. „ Gesù li colse in parola, e senza velo affermò chi Egli era, e dicendo con la sua forma solita della massima osservanza: “In verità, in verità vi dico: Prima che nascesse Abramo, Io sono. „ Ponete mente alla forma di dire di assoluta autorità e della massima chiarezza usata da Cristo: Abramo visse ventitré secoli or sono, così il divino Maestro: voi vedete in me un uomo, che non tocca i cinquant’anni; eppure vi dico, ch’Io sono prima che Abramo nascesse: non sono fatto, non creato, ma sono prima di Abramo. L’affermazione della propria esistenza prima di Abramo e con quella parola sono, che s’addice solo a Dio e richiama l’oracolo mosaico, io “sono quel che sono”, metteva in tutta luce il pensiero di Cristo: Io sono il Figlio di Dio naturale, Io sono eterno. E i Giudei pigliarono veramente in questo senso le parole di Gesù Cristo, vi ravvisarono l’affermazione precisa della propria divinità e tosto diedero di piglio alle pietre per scagliargliele ed ucciderlo. Mosè nel Levitico (Capo XXIV, 16) aveva comandato, che il bestemmiatore fosse tosto lapidato dalla moltitudine; ora la dichiarazione esplicita e formale di Cristo, ch’Egli era il Figlio di Dio e Dio, per loro era la più enorme bestemmia, e sarebbe stata tale quando realmente non lo fosse stato. E fu, pochi mesi dopo, precisamente questa stessa dichiarazione di Gesù Cristo, che provocò il grido di Caifa e del gran Consiglio: “Egli ha bestemmiato, è reo di morte. „ E non vi è dubbio, quei furibondi, afferrate le pietre, che erano loro alle mani, perché il tempio era allora in fabbrica, l’avrebbero ucciso sullo stesso luogo, come più tardi uccisero Stefano; ma Gesù si nascose, probabilmente mescolandosi nella folla, protetto altresì dai discepoli e da parecchi della folla stessa, che credevano in Lui, e così usci dal tempio, perché l’ora da Lui stabilita non era venuta, né quello era il modo con cui voleva consumare il suo sacrificio. Con ciò volle anche insegnarci, che se dobbiamo animosamente affrontare qualunque più grave pericolo, anche della vita, per la difesa della verità, dobbiamo prudentemente scansarlo, allorché la manifesta necessità del dovere non lo esige. Due grandi verità Gesù Cristo ci insegna nel Vangelo, che vi ho spiegato: la prima è l’esempio di pazienza e mansuetudine meravigliosa in soffrire le orribili ingiurie, delle quali fu fatto segno pubblicamente dai Giudei; la seconda è la divinità della sua Persona, la sua origine per generazione eterna dal Padre, proclamata apertamente in faccia ai suoi stessi nemici; verità, che è il fondamento principale della nostra fede.

Credo …

 Offertorium

Orémus Ps CXVIII:17, 107

Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: retríbue servo tuo: vivam, et custódiam sermónes tuos: vivífica me secúndum verbum tuum, Dómine. [Ti glorífico, o Signore, con tutto il mio cuore: concedi al tuo servo: che io viva e metta in pràtica la tua parola: dònami la vita secondo la tua parola.]

Secreta

Hæc múnera, quaesumus Dómine, ei víncula nostræ pravitátis absólvant, et tuæ nobis misericórdiæ dona concílient. [Ti preghiamo, o Signore, perché questi doni ci líberino dalle catene della nostra perversità e ci otténgano i frutti della tua misericórdia.]

 Communio 1 Cor XI:24, 25

Hoc corpus, quod pro vobis tradétur: hic calix novi Testaménti est in meo sánguine, dicit Dóminus: hoc fácite, quotiescúmque súmitis, in meam commemoratiónem. [Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi: questo càlice è il nuovo patto nel mio sangue, dice il Signore: tutte le volte che ne berrete, fàtelo in mia memoria.]

Postcommunio

Orémus.

Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos tuis mystériis recreásti, perpétuis defénde subsidiis. [Assístici, o Signore Dio nostro: e difendi incessantemente col tuo aiuto coloro che hai ravvivato per mezzo dei tuoi misteri.]

LA FESTA

LA FESTA

Videte, ut Sabbatum meum custodiatis”; ,

Badate di custodire il mio sabato.

(Exodo XXXI, 13)

ESORDIO. — Sul Sinai la voce di Dio, echeggiante nell’ etra scossa da folgori e tuoni, intimava al popolo eletto, a tutta l’umanità: Memento, ut diem sabbati sanctifices (Esodo XX., 8), Ricordati di santificare il giorno di sabato, giorno di festa. — Quel Ricordati attestava quanto premeva all’Altissimo, che gli uomini non avessero a violare il suo comando. — Più tardi il Signore ordina a Mosè, il fedele suo servo, d’ insistere su questo punto: « Dirai ai figliuoli d’ Israele (Esodo XXXI, 13) : Badate di custodire il mio sabato, cioè il giorno a me consacrato. Videte, ut sabbatum meum custodiatis. » — Per i trasgressori la pena di morte. — Morte morietur (XXXI, 14). Come si osserva adesso questo comando? Lo vedete: i negozi aperti, i mercati clamorosi, il rullo delle macchine là nelle officine, i colpi dei pesanti martelli, con immane frastuono sembrano gettare un grido di sfida all’Eterno: Spazziamo via dalla terra tutti i giorni del Signore; quiescere faciamus omnes dies festos Dei a terra. (Salmo LXXIII). — E questo; per sostituirvi il lunedì. Eppure la festa è il giorno del Signore, il giorno del cristiano, il giorno dell’ uomo… ; deve essere santificata… – Ecco l’argomento di questo giorno, che deve interessarvi per il vostro bene individuale e sociale.

PARTE PRIMA

Gli Ebrei furono scrupolosi nell’ osservare il giorno del Signore; i pochi, che osarono trasgredire il divino comando, furono lapidati. — La Chiesa al sabato sostituì la domenica in memoria dei grandi misteri della nostra Redenzione, avvenuti in questo giorno… Che cosa è la domenica? — L’empio sorride a questa domanda; sprezziamo il beffardo soghigno, e veniamo a noi.

1° – E’ il giorno del Signore. — Dio è padrone di tutti i nostri giorni…, come di tutte le cose… Se ha il diritto, che gli doni i fiori…, il denaro con l’elemosina, le primizie…, ha tutto il diritto che tu consacri al suo servizio almeno un giorno per settimana…

(a) Dio impiegava sei giorni nel creare l’universo…» ma, il settimo giorno, riposò dalle opere delle sue mani; lo benedisse, e lo santificò. (Esodo XX, 11). — Dunque su tutto il creato leggi l’invito di riposare nel dì del Signore; e la festa ti ricorda l’immenso beneficio della creazione…

(b) In giorno di sabato il Signore aveva liberato gl’Israeliti dalla tirannia di Faraone; per questo lo impose loro come giorno santo. — Gesù ci liberava tutti dal giogo ben più crudele del demonio, in cui da quaranta secoli gemeva 1’umanità… All’alba della domenica Egli risorgeva dal sepolcro, glorioso trionfatore della morte e dell’inferno, iniziando così un’era muova di grazia, di celesti benedizioni. Hæc est dies, quam fecit Dominus. — (Salmo CXVII, 23).

(c) In questo giorno benedetto lo Spirito Santo scendeva nel Cenacolo, dove si trovava allora riunita la Chiesa bambina…, e rinnovellava gli animi dei primi seguaci del Nazareno.

— In una parola, la domenica ricorda il Padre che ci ha creati ; il Figlio che ci ha redenti; lo Spirito Santo che ci ha santificati. E’ il giorno della SS. Trinità; il segno che Dio ha posto in mezzo alle umane generazioni, perché tutti sappiano, che egli solo è il Signore che ci santifica. — Signum est inter me et vos in generationibus vestris, ut sciatis, quia ego Dominus, qui sanctifico vos (Esodo XXXI, 13).

2° — E’ il giorno del cristiano. — Il cristiano ha i suoi doveri di religione … ; deve adempierli … Ma quando ? — Lungo la settimana, deve lavorare … , non ha un momento… La sera, ritorna a casa affranto … ; il mattino, deve sollecitare … — Solo di festa può esercitare i suoi atti di culto, ed adorare con maggiore tranquillità il suo Dio… Adorabis Dominus Deum tuum, et Illi soli servies (Matteo IV). Il Cristiano ha un’anima da salvare. — Negli altri giorni l’operaio, il contadino suda nell’officina e sulle zolle del campo…, per procurarsi un pane… Ma nel giorno di festa smette il duro lavoro, può pregare … , andare alla chiesa … , accostarsi ai sacramenti, ascoltare la divina parola … , saziare l’anima della manna celeste, irrorarla dì benefica rugiada … Così fortificato sarà più pronto al lavoro, al patire, alla virtù. Chi non rispetta la festa, perde l’innocenza; la sua fede vacilla … ; e fra breve sarà cristiano solo di nome. —

Nomen inane, crimen immane. (S. Ambrogio).

3° — E’ il giorno dell’uomo. — Il Signore, dandoti la ragione, ti ha fatto il re del creato. Omnia subiecisti sub pedibus eius. (Salmo CXV). Ma quando mostri la tua reale dignità? Forse in quell’opificio, in quel negozio, su quel campo? — Ma allora tu sei soggetto al padrone; le tue mani annerite, la faccia aspersa di sudore, la bella tua fronte curva su quel legno …, sull’incudine … Forse invidi al fiore che innalza la corolla ai baci del sole… ; all’augelletto che si bea nei campi immensi dell’aria . .. Giunge la festa: ritta la fronte, col sorriso sul labbro, le mani candide, coi vestiti più belli ti avvii alla chiesa. Ti accoglie il suono gaio dei sacri bronzi:.. Entri nella casa del Signore… Le melodie dell’organo, i canti lenti e soavi…; la voce del tuo parroco…; l’incenso, le faci risplendenti, le solermi cerimonie. — Qui ti senti grande…, qui sei Re.

— Si predica tanto l’eguaglianza sociale; ma ricchi e poveri, padroni e servi, principi e sudditi ve ne saranno sempre… — Vuoi trovare davvero questa eguaglianza?

— Vieni, la domenica, alla chiesa: Uno è l’altare, uno per tutti il Sacrificio… ; ricchi e poveri genuflessi innanzi al Crocefisso, che a tutti senza distinzione stende le braccia… Tutti piegano la testa alla mano del sacerdote, che con lo stesso segno benedice la fronte cinta di diadema, e quella che s’incurva oppressa dagli stenti… Qui siamo tutti eguali; qui si sente, che uno solo è il Padrone dei meschini e dei possenti.

4° — È il giorno del riposo. — I1 tuo corpo non può lavorare sempre; il riposo del settimo giorno ti è necessario…; lo esigono anche le bestie… È indispensabile alla tua salute… ; nei luoghi dove si lavora anche di festa gli organismi accennano ad un progressivo deperimento…

— Lavori di festa? — A breve andare la debolezza, l’anemia…; steso sul letto del dolore…, nella sala di un ospitale e, prima del tempo, nel sepolcro… Riposa la festa; ti sentirai più allegro, più pronto, più energico alla fatica… Memento, dunque, ut diem sabbati sanctifices.

5° — Ma, dirai, il riposo della domenica è un danno alla società; ed un danno specialmente per chi, con ll’industria ed il lavoro, deve procurarsi un pane… — Un danno alla società? Le grandi repubbliche di Venezia, Genova, Firenze, rispettavano il giorno del Signore; in forma ufficiale accorrevano agli Uffici divini…, ed erano floride, potenti, ricchissime… — Londra protestante, nella domenica, tace in assoluto riposo…, eppure fa invidia per il suo commercio a tutto il mondo… — Inoltre il bene della società sta anche nell’obbedienza alle legittime autorità costituite… Quando il popolo, nel giorno festivo, invece di andare alla chiesa, rimane nelle botteghe, nelle officine, questo popolo che non rispetta il comando di Dio, non obbedirà neppure le leggi dei governi; non rispetterà più l’autorità umana. Eccovi i furti, le rapine, le violenze, le ribellioni, l’anarchia …, lo sfacelo della società…

— Un danno all’individuo? — Se il Signore non benedice la tua famiglia, indarno ti adoperi per il suo benessere… Nisi Dominus ædificaverit domum, in vanum laboraverunt qui ædificant earnSe il buon Dio non ti protegge nel lavoro, nell’industria, a nulla ti giova sorgere vigilante di buon mattino per faticare fino a sera. (Salmo CXXVI). E Dio ti benedirà, se non rispetti il giorno a Lui sacro? — Oggi si lavora dovunque nel dì del Signore, ed oggi la miseria più accasciante dilaga per le nostre contrade … ; i fallimenti si moltiplicano con un crescendo vertiginoso… Che non sia forse un castigo per la profanazione delle feste?

6° — Ma io non so che fare tutta la festa… Non sai che fare? — Assisti alla santa Messa…, accostati ai sacramenti; ascolta la parola di Dio; va alle sante funzioni … ; esercita le opere di carità…, leggi qualche libro che t’istruisca sui tuoi doveri… — Poi godi degli affetti santi della tua famiglia, cerca di conoscerne i bisogni, renditi conto del suo vero stato… ; consiglia, correggi, provvedi… Insieme ai tuoi cari prendi un onesto sollievo… E la festa sfuggirà senza che te ne avveda; ricca però di opere buone e quindi di meriti…

— Dunque riposa, santifica la festa: è il giorno del Signore. Egli ti dice: o uomo, dopo sei giorni di fatica, cessa dal lavoro nel dì consacrato al tuo Dio… Verrà il momento in cui, dopo avere faticato quaggiù per vivere da buon cristiano, lo Spirito divino ti dirà: Dopo i lavori e le pene dell’esilio è giunto anche per te il giorno del riposo, e del premio… Seguito allora dalle tue opere buone, entrerai nella pace e nella beatitudine del Signore…

Amodo iam dicit Spiritus, ut requìescant a laboribus suis; opera enim illorum sequuntur illos (Apocalisse XIV, 15). — Le feste del cristiano sono un’immagine, un preludio dell’eterna domenica del cielo… Videte, sì,

videte, ut sabbatum meum custodiatis.

L’AGONIA DI GESU’: QUINTO VENERDI’ DI QUARESIMA

QUINTO VENERDÌ DI QUARESIMA

[Don U. Banci: L’AGONIA DI GESU’, F. Pustet ed. Roma, 1935 – impr.]

In nomine Patris et Filli et Spiritus Sancti. Amen.

Actiones nostras, quæsumus  Domine, adspirando præveni et adiavando prosequere, ut cuncta nostra oratio et operatio a Te semper incipiat et per Te cœpta finiatur. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

[Nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo. Così sia. Inspira, o Signore, le nostre azioni ed accompagnale col tuo aiuto, affinché ogni nostra preghiera e opera da Te sempre incominci e col tuo aiuto sempre si compia. Per Cristo nostro Signore. Così sia.]

INVITO

Già trafitto in duro legno/Dall’indegno popol rio

La grand’alma un Uomo Dio, / Va sul Golgota a spirar.

Voi, che a Lui fedeli siete, /Non perdete, o Dio, i momenti

Di Gesù gli ultimi accenti /Deh! venite ad ascoltar.

QUINTA PAROLA DI GESÙ IN CROCE

Sitio. Ho sete. (GIOVANNI, cap. XIX. v. 28) .

CONSIDERAZIONE

Avevano predetto i Profeti che Gesù sarebbe stato, per mano dei suoi nemici, abbeverato di aceto [Salmo LXVIII, v. 22] – La divina tragedia sta ormai per volgere al suo termine, e Gesù che fino allora non aveva mai domandato sollievo alcuno ai suoi lunghi ed acerbi dolori, ora, negli ultimi momenti della sua agonia, abbassa lo sguardo su quanti stanno presso la croce e dalle sue labbra riarse erompe un gemito: Ho sete! E quanto intensa non doveva essere la sua sete! Nel Getsemani aveva sudato sangue; di sangue aveva bagnato le aule di Caifas e del pretorio, di sangue erano segnate le vie di Gerusalemme e la strada del Calvario, e dopo tante effusioni, causate dai flagelli e dalle spine, ecco che i chiodi, squarciando le sue mani ed i suoi piedi, aprono l’uscita a quel poco sangue, che ancora era rimasto nelle vene. Aggiungi tutti gli strapazzi sofferti, il sudore versato lungo il penoso e faticoso viaggio al Calvario, la febbre ardente che lo tormenta, e poi dimmi, o anima cristiana, se la sete, che è stata sempre uno dei più grandi tormenti dei crocifissi, non abbia dovuto Gesù soffrirla nella sua massima intensità! Ma Colui che riempie di acqua i mari, che fa scaturire le sorgenti dai monti, che fa scorrere fiumi e torrenti e fa dal cielo scendere piogge benefiche, non avrà il refrigerio di una sola goccia d’acqua! Uno di quei soldati, che lo aveva accompagnato al Calvario e che era rimasto di scorta, a quel grido corre ad inzuppare una spugna nell’aceto, e postala in cima ad una canna, l’appressa alla sua bocca [GIOVANNI, cap. XIX, v. 29]. – O avventurato soldato, che nel compiere questo pietoso ufficio verso Gesù che muore, senza saperlo ti facesti istrumento di Dio per il compimento della profezia, non avrà certo lasciato di compensarti del tuo atto generoso Colui, che aveva detto che nemmeno un bicchiere di acqua fresca dato ad un sofferente sarebbe lasciato senza ricompensa. Sì, ti avrà Egli ricompensato della tua pietà dischiudendoti la fonte dell’acqua che infonde la vita; e i credenti di tutti i secoli ti saranno grati di quest’atto con cui soccorresti, anche solo per un istinto di pietà naturale, il tuo Signore, senza forse conoscerlo. Pensi tu, anima cristiana, che se Gesù solo ora, pochi istanti cioè prima di morire, si decise a palesare la sua sete ardente, che pure da lunghe ore lo bruciava, lo facesse per chiedere sollievo al suo tormento? No. Quando appena giunto al Calvario sudato e sfinito stava per essere crocifisso, gli fu offerta quella bevanda gustosa e profumata fatta di vino generoso, misto a mirra ed incenso, che per un senso di umanità si soleva dare ai condannati a morte, affinché come inebriati sentissero meno i dolori del supplizio, Gesù, appena l’ebbe gustata, non la volle bere [MATTEO, cap. XXVII, v. 34]. E ricusò questo ristoro, che gli era stato preparato dalle mani pietose di quel gruppo di donne, che addolorate e piangenti incontrò sulla via del Calvario, appunto perché nella pienezza delle sue facoltà mentali, e nella sua completa sensibilità volle sostenere i tormenti della crocifissione. No, anima cristiana, se ora Gesù esce in quelle parole ho sete non è per invocare un qualunque sollievo; il desiderio di soffrire, non venuto meno in Lui nemmeno sotto l’eccesso dei suoi dolori, glielo avrebbe vietato; ma è solo per farti sempre meglio conoscere i sentimenti ed i desideri del suo amabilissimo cuore. La febbre che lo tormenta è febbre di amore; la sete ardente che lo divora non è tanto sete di acqua, quanto sete di anime. È quella sete, che aveva esperimentato sempre durante tutta la sua vita e che già aveva manifestato alla Samaritana, quando presso il pozzo di Giacobbe le aveva chiesto: Dammi da bere [GIOVANNI, cap. IV, v. 8]. –  « Sitis mea salus vestra » dice S. Agostino. La mia sete è la vostra salvezza, è la sete della gloria del Padre suo che lo consuma, è la sete di te, anima cristiana, della tua felicità che lo tormenta. Come il fiore ha bisogno di umore, e languisce quando gli viene a mancare, così Gesù sembra non possa vivere senza il tuo amore, Egli che pur essendo Dio ha riposto la sua delizia nello stare tra i figli degli uomini; e quando l’umana ingratitudine lo ferisce, esce nei più commoventi lamenti. Ascolta quello che disse un giorno alla sua diletta discepola S. Margherita Alacocque, tenendo in mano il suo Cuore circondato di fiamme e trafitto dalla lancia: « Ecco, disse, quel Cuore che ha tanto amato gli uomini, che non potendo più contenere in sé le fiamme della sua ardente carità, per tuo mezzo è costretto a diffonderle ». Ed in un altro dei suoi intimi colloqui aggiunse: « Se gli uomini rendessero qualche compenso al mio Cuore, stimerei nulla quanto per essi ho sofferto nella mia passione, e sarei pronto a soffrire anche di più; ma ciò che mi strazia è vedere che pochi sono coloro che mi compatiscano e mi consolino». – Quella sete dunque, che lo tormentò sulla croce, è tuttora così ardente in Lui che lo spinge a ripetere continuamente il grido sitio (ho sete); ma questa sete non è soddisfatta; Egli è ancora abbeverato di fiele Ah! sì, anima cristiana, se la passione del suo corpo ebbe termine con la sua morte, non così la passione del suo Cuore; S. Caterina da Genova vide questo Cuore divino tuttora grondante di sangue per i peccatori. E tu, anima cristiana, rimarrai fredda, insensibile a questo grido appassionato del tuo Gesù? Ah! no; non voler essere da meno di quel soldato, che nel rude suo cuore provò un senso di compassione per il povero Crocifisso, e non avendo altro da dargli, inumidì le sue aride labbra con un po’ di aceto. – Rientra per un momento in te stessa e guarda come anche tu bruci di sete. Ma la tua è sete di ricchezze, di onori, di soddisfazioni del senso; ed è questa una sete che soddisfatta produce la morte. Gesù dalla sua croce vide la povera umanità tormentata sempre da questa sete per lei fatale, e perciò con quel grido volle ancora una volta ripetere quell’invito già rivolto al suo popolo per bocca del Profeta Isaia: O voi che siete assetati, venite tutti alle acque [ISAIA, cap. IV, v. 1]; da Lui stesso rinnovato a Gerusalemme, quando in una grande festa, levandosi in piedi e con voce alta, nella quale vibrava tutta la forza del suo ardente amore, esclamò: Chi ha sete venga a me e beva [GIOVANNI, cap. VII, v. 37]. E sai quale è la virtù prodigiosa di quest’acqua che Gesù ti offre ? Chi beve dell’acqua che gli darò io, ha detto Gesù, non avrà più sete in eterno; anzi l’acqua che gli darò diventerà in lui fontana d’acqua zampillante in vita eterna [GIOVANNI, cap. IV, v. 13, 14]-. E quest’acqua così preziosa, scaturita dal cuore di Gesù, è la grazia divina, quella grazia che non si compera con oro o con argento, ma si acquista solo seguendo Gesù per la via dei suoi precetti. Se dunque, anima cristiana, non vuoi rimanere bruciata dalle fiamme della tua concupiscenza, di’ a Gesù con la Samaritana: Signore, dammi di quest’acqua affinché non abbia più sete [GIOVANNI, cap. IV, v. 15]. E avvicinati a Lui, fonte di acqua viva e bevi di quest’acqua discesa dal cielo; essa darà refrigerio alle tue ardenti passioni, ed inebrierà il tuo cuore e la tua mente di santi ardori; così, calmando la tua sete, darai refrigerio a Gesù. E nel dì finale, accogliendoti tra i suoi eletti, ti dirà: «Vieni, poiché ebbi sete e sete di anime, e tu mi hai dato da bere».

* * *

Ma un’altra cosa ancora devi leggere in quel grido di Gesù. Se in questo momento, da quella croce, Gesù ti rivolgesse quella domanda che un giorno rivolse a S. Pietro Mi ami tu? tu certamente gli risponderesti con l’Apostolo: Sì, o Signore, io ti amo; ma Egli, che tuttora si sente consumare dalla gloria di Dio e dal desiderio della salvezza delle anime, soggiungerebbe: Se mi ami, pasci le mie pecorelle [GIOVANNI, cap. XXI, v. 15 e segg.]. Chiede a te insomma quello che chiese alla sua discepola di Paraj-le-Monial, quando le disse che la forza del suo amore lo costringeva a scegliere lei come mezzo per diffondere la sua carità fra gli uomini. Anche tu ti devi fare apostolo per versare sull’umanità assetata quest’acqua di vita; «chi non ha zelo non ha amore » dice S. Agostino. Non vedi quanto male vi è nel mondo; non vedi come Gesù è sconosciuto e bestemmiato; come il vizio è portato in trionfo, la virtù perseguitata, l’innocenza calpestata? Guarda intorno a te quante anime vittime dei pregiudizi e dell’ignoranza; quanti bambini, tanto prediletti da Gesù, che chiedono il pane della verità, ma non v’è chi loro lo spezzi; quanti peccatori, che sentono il bisogno di uscire dall’abisso nel quale sono caduti, ma non v’è chi loro indichi la via della salvezza! Nella tua stessa famiglia non v’è qualche cieco che brancola nell’errore? Felice te, anima cristiana, se spinta dal tuo amore per Gesù, vorrai accendere intorno a te quel sacro fuoco che Egli ha portato in terra. – Lo so, talvolta il lavoro sarà faticoso, perché il terreno è ingrato; troverai forse le difficoltà proprio là dove meno te lo saresti aspettato; ma non perderti di coraggio; al di sopra di tutto e di tutti sta il grido di Gesù: Ho sete. Prendilo questo grido, come un comando. Charitas Christi urget nos [Epistola II ai Corinti, cap. V , v. 14], ha detto S. Paolo, l’amore di Cristo ci sprona. Come dunque nulla arrestò Gesù nella sua missione di amore, né l’ostinatezza, né l’ingratitudine del suo popolo, ma sfidando le potenze dell’inferno, congiurate tutte contro di Lui, corse a passi di gigante per la via del sacrificio e con la sua divina costanza giunse alla vittoria, così tu, anima cristiana, sii forte nella fede, costante nell’operare il bene. Ricordati che il premio sarà proporzionato non al frutto, ma alla fatica, e solo i volenti potranno raggiungere la meta; lavora dunque, anima cristiana, e grande sarà la tua mercede.

Breve pausa, poi si reciti la seguente

PREGHIERA

O mio amabilissimo Redentore, comprendo come la sete, che vi tormentava sulla croce, non era tanto quella causata dalla febbre, dal sudore e dal sangue versato, quanto quella accesa nel vostro cuore dal vostro ardente ed inesauribile amore. Voi avevate sete di anime; avevate sete dell’anima mia. O mio Gesù, sento che se mi fossi trovato sul Calvario, ai piedi della croce, avrei fatto di tutto per darvi un refrigerio. E perché dunque dovrò rimanere indifferente ora a quel grido che Voi vivente nella SS. Eucarestia, con amorevole insistenza andate ripetendo? Che io l’ascolti, o Signore, la vostra voce! Purtroppo fino ad ora il mio cuore ha cercato di calmare la sua sete nelle acque limacciose del peccato, senza però trovar mai quel refrigerio a cui anelava, e che solo Voi potete dare. Per i meriti di quella sete che Voi, o mio Salvatore, avete sofferto sulla croce, spegnetela nel mio cuore questa sete terrena con le acque della vostra grazia, ed accendetevi la sete di Voi, del vostro amore; poiché questo mio cuore è fatto per Voi e solo in Voi troverà riposo. Voi stesso l’avete detto: Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati [MATTEO, cap. V, v. 6]. – Il profeta Zaccaria aveva predetto che nella nuova Gerusalemme, nella vostra Chiesa, sarebbe scaturita una fontana mistica aperta a tutti, ogni ora per ristoro e delizia del popolo eletto. Concedetemi che come cervo assetato mi appressi a questa sorgente di acqua viva e non aneli ad altro che a Voi, o mio Dio, fonte di vita. E poiché Voi lo volete, cercherò di farmi in mezzo ai miei fratelli, apostolo della vostra gloria; insegnerò ai peccatori le vie che conducono alla sorgente di ogni consolazione e della vera felicità, in modo che la vita mia si consumi tutta nell’ardore del vostro amore. Sì, o mio Redentore, voglio essere vostro, tutto vostro, soltanto vostro. O Madre addolorata Maria, quanto non dovette soffrire il vostro cuore, non potendo dare sul Calvario il refrigerio di un sorso di acqua a Gesù assetato. Potete però ben ora appagare il suo che è anche il desiderio vostro; con la vostra materna intercessione ottenetemi la grazia che io possa alleviare a Gesù la sua sete con le lacrime del mio pentimento e che in questa terra arida non brami altro che dissetarmi alle acque purissime, scaturite dal cuore del vostro e mio Dio. Così sia.

Pater, Ave e Gloria.

Qual giglio candido

Allor che il Cielo

Nemico negagli

Il fresco umor,

Il capo languido

Sul verde stelo

Nel raggio fervido

Posa talor;

Fra mille spasimi

Tal pure esangue

Di sete lagnasi

Il mio Signor.

Ov’è quel barbaro,

Che mentre Ei langue,

Il refrigerio

Di poche lacrime

Gli neghi ancor?

 

GRADI DELLA PASSIONE

1. V. Jesu dulcissime, in horto mœstus, Patrem orans,

et in agonia positus, sanguineum sudorem effundens;

miserere nobis.

R). Miserere nostri Domine, miserere nostri.

2. V. Jesu dulcissime, osculo traditoris in manus

impiorum traditus et tamquam latro captus et ligatus

et a discipulis derelictus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

3. V. Jesu dulcissime ab iniquo Iudæorum concilio

reus mortis acclamatus, ad Pilatum tamquam malefactor

ductus, ab iniquo Herode spretus et delusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

4. V . Jesu dulcissime, vestibus denudatus, et in

columna crudelissime flagellatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

5. V. Jesu dulcissime, spinis coronatus, colaphìs

cæsus, arundine percussus, facie velatus, veste purpurea

circumdatus, multipliciter derisus et opprobriis

saturatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

6. V . Jesu dulcissime, latroni Barabbæ postpositus,

a Judæis reprobatus, et ad mortem crucis injuste condemnatus;

miserere nobis.

R). Miserere etc.

7. V . Jesu dulcissime, tigno crucis oneratus,

ad locum supplicii tamquam

ovis ad occisionem ductus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

8. V. Jesu dulcissime, inter latrones deputatus,

blasphematus et derisus, felle et aceto potatus, et

horribilibus tormentis ab hora sexta usque ad horam

nonam in ligno cruciatus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

9. V. Jesu dulcissime, in patibulo crucis, mortuiis et

coram tua sancta Matre lancea perforatus simul

sanguinem et aquam emittens; miserere nobis.

R). Miserere etc.

10. V . Jesu dulcissime, de cruce depositus et lacrimis

mœstissimæ Virgiuis Matris tuæ perfusus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

11. Jesu dulcissime, plagis circumdatus, quinque

vulneribus signatus, aromatibus conditus et in

sepulcro repositus; miserere nobis.

R). Miserere etc.

V . Adoramus Te Christe, et benedicimus Tìbi.

R). Quia per sanctam crucem tuam redemisti mundum.

OREMUS

Deus, qui prò redemptione

mundi nasci voluisti,

circumcìdì, a Judæis reprobavi

et Judæ traditore

osculo tradi, vinculis alligavi,

sic ut agnus innocens

ad victimam duci, atque

conspectibus Annæ, Caiphæ,

Pilati et Herodis

indecenter offevri, a falsis

testibus accusari, flagellis

et colaphis cædi, opprobriis

vexari, conspui, spinis

coronari, arundine percuti,

facie velari, vestibus

spoliari, cruci clavis afFigi,

in cruce levari, inter

latrones deputari, felle et

aceto potari et lancea vulnerari;

Tu Domine, per

has sanctissimas pœnas,

quas ego indignus recolo,

et per sanctissimam crucem

et mortem tuam libera

me a pœnis inferni et perducere

digneris quo perduxisti

latronem tecum

crucifixum. Qui cum Patre

et Spiritu Sancto vivis

et regnas in sæcula sæculorum.

Amen.

[1. V . O dolcissimo Gesù, triste nell’orto, al Padre con la preghiera rivolto, agonizzante e grondante sudore di sangue; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi, o Signore, abbi di noi pietà.

2. V . O dolcissimo Gesù, con un bacio tradito e nelle mani degli empi consegnato, e come un ladro preso e legato e dai discepoli abbandonato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

3. V . O Gesù dolcissimo, dall’iniquo Sinedrio giudaico reo di morte proclamato, e come malfattore a Pilato presentato, e dall’iniquo Erode disprezzato e schernito; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

4. V . O dolcissimo Gestì, delle vesti spogliato, e c rudelmente alla colonna flagellato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

5. V. O dolcissimo Gesù, di spine coronato, schiaffeggiato, con la canna percosso, bendato, di rossa veste rivestito, in tanti modi deriso e di obbrobri saziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

6. V. O dolcissimo Gesù, al ladro Barabba posposto, dai Giudei riprovato; ed alla morte di croce ingiustamente condannato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

7. V. O dolcissimo Gesù, del legno della croce gravato, e come agnello al luogo del supplizio condotto, per esservi immolato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

8. V. O dolcissimo Gesù, tra i ladroni annoverato, bestemmiato e deriso, di fiele e di aceto abbeverato, e con orribili tormenti dall’ora sesta fino all’ora nona nel legno straziato; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

9. V. O dolcissimo Gesù, sul patibolo della croce morto, ed alla presenza della tua santa Madre con la lancia trafitto versando insieme sangue ed acqua; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

10. V. O dolcissimo Gesù, dalla croce deposto, e dalle lacrime dell’afflittissima tua Vergine Madre bagnato;abbi di noi pietà

R). Pietà di noi ecc.

11. V. O dolcissimo Gesù, di piaghe coperto, da cinque ferite trafitto, di aromi cosparso, e nel sepolcro deposto; abbi di noi pietà.

R). Pietà di noi ecc.

V. Ti adoriamo, o Cristo, e Ti benediciamo.

R). Poiché con la tua santa croce hai redento il mondo.

PREGHIAMO

O Dio, che per la redenzione del mondo volesti nascere, essere circonciso, dai Giudei riprovato, da Giuda traditore con un bacio tradito, da funi avvinto, come agnello innocente al sacrifizio condotto, ed in modo indegno ad Anna, Caifa, Pilato ed Erode presentato, da falsi testimoni accusato, con flagelli e schiaffi percosso, con obbrobri oltraggiato, sputacchiato, di spine coronato, con la canna percosso, bendato, delle vesti spogliato, alla croce con chiodi confitto, sulla croce innalzato, tra i ladroni annoverato, di fiele e di aceto abbeverato, e con la lancia ferito; Tu, o Signore, per queste santissime pene, che io indegno vado considerando, e per la tua croce e morte santissima, liberami dalle pene dell’inferno e, desiati condurmi dove conducesti il ladrone penitente con Te crocifisso. Tu che col Padre e con lo Spirito Santo vivi e regni nei secoli dei secoli. Così sia.]

CANTO DEL TEMPO DI QUARESIMA

Attende, Domine, et miserere, quia peccavìmus Tìbi.

R). Attende, Domine, et miserere, quia peccavimus Tibi.

1. Ad Te, rex summe,

omnium redemptor,

oculos nostros sublevamus

flentes; exaudi Christe,

supplicantium preces.

R). Attende etc.

2. V. Dextera Patris, lapis

angularis, via salutis,

janua cœlestis, ablue nostri

maculas delicti.

R). Attende etc.

3. V . Rogamus, Deus,

tuam majestatem, auribus

sacris gemitus exaudi; crimina

nostra placidus indulge.

R). Attende etc.

4. V. Tibi fatemur crimina

admìssa; contrito corde

pandimus occulta; tua, Redemptor,

pietas ignoscat.

R). Attende etc.

5. V. Innocens captus,

nec repugnans ductus, testibus

falsis prò impiis damnatus,

quos re demisti Tu

conserva, Christe.

R). Attende etc.

OREMUS

Respice, quæsumus Domine, super hanc familiam tuam, prò qua Dominus noster Jesus Christus non dubitavit manibus tradì nocentium, et Crucis subire tormentum.  Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculorum. Amen.

[R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

R). Ascolta, o Signore, ed abbi misericordia, perché abbiamo peccato contro di Te.

1. V. A Te, o Sommo Re, redentore universale, eleviamo i nostri occhi piangenti;  esaudisci, o Cristo, la preghiera di chi a Te si raccomanda. R). Ascolta ecc.

2. V. O destra del Padre, o pietra angolare, o via di salvezza, o porta del cielo, tergi le macchie del nostro peccato. R). Ascolta ecc.

3. V. Preghiamo, o Dio, la tua maestà, porgi le sacre orecchie ai gemiti, e perdona benigno i nostri delitti. R). Ascolta ecc.

4. V. A Te confessiamo i peccati commessi; con cuore contrito manifestiamo ciò che è nascosto; la tua pietà, o Redentore, ci perdoni. R). Ascolta ecc.

5. V. Imprigionato innocente, condotto non riluttante, da falsi testimoni per i peccatori condannato, Tu, o Cristo, salva coloro che hai redento. R). Ascolta ecc.

PREGHIAMO

Riguarda benigno, o Signore, a questa tua famiglia, per la quale nostro Signore Gesù Cristo non dubitò di darsi in mano ai nemici e di subire il supplizio di croce. Egli che vive e regna Teco nei secoli dei secoli. Così sia.]