LO SCUDO DELLA FEDE (VI): I MIRACOLI

VI.

I MIRACOLI.

La forza dimostrativa «lei miracoli. — Che cosa siano e loro possibilità. Loro natura. — Loro conoscimento. —

 

Dunque altra prova della Divina rivelazioni sono i miracoli.

Precisamente.

— E di qual maniera lo sono?

Il miracolo è cosa, che solo Iddio la può fare, ed è cosa altresì che colpisce gli uomini e li conduce a riconoscere l’intervento di Dio. Se perciò Iddio compie dei miracoli a prò di una dottrina, d’una legge, d’una religione, bisogna riconoscere che quella dottrina, quella legge, quella religione è vera, è santa, è divina, giacché è impossibile che Iddio voglia operare dei miracoli a prò di una dottrina, d’una legge, d’una religione falsa, malvagia, perversa, che così si farebbe ad ingannare gli uomini. Ma siccome Iddio ha realmente operato un’infinità di miracoli a prò della religione, della legge, della fede cristiana, di quelle verità, che la Chiesa Cattolica ci insegna, perciò dobbiamo riconoscere che la dottrina cristiana è vera, ci viene propriamente da Lui, da Lui stesso ci fu rivelata.

Che cosa è adunque propriamente il miracolo

Il miracolo è un fatto sensibile, certo, che sorpassa evidentemente le forze della natura e che non può essere prodotto che da Dio.

Per esempio?

Quando Mosè coN la verga toccò le acque del Mar rosso e queste si divisero in un attimo e si alzarono come due muri a destra ed a sinistra; quando Elia invocato il nome del Signore richiamò in vita il figliuolo della vedova di Sarepta, che era morto; quando S. Pietro ordinò ad uno zoppo dalla nascita di levarsi su e camminare, ed egli si sentì subito guarito e prese a camminar davvero, furono compiuti dei miracoli, perché in tutti questi casi avvennero dei fatti sensibilissimi e più che certi, i quali evidentissimamente erano fuori dell’ordine stabilito e comunemente osservato nelle cose, evidentissimamente sorpassavano le forze della natura.

Dunque dagli esempi, che m’ha addotti, anche gli uomini possono fare dei miracoli?

No, gli uomini per sé, con la loro virtù e forza, non possono assolutamente fare dei miracoli; ma Dio può servirsi benissimo di loro come di mezzo per operarli: quindi quando si dice di un santo che fu un taumaturgo, ossia un operatore di miracoli, s’intende sempre di dire, che lo fu in quanto che Dio si servi di lui per compierli.

Ma a dir il vero io credo poco ai miracoli.

E che vorresti dire con ciò?

Voglio dire che io penso che i miracoli siano impossibili.

Potrei risponderti come rispose un cotale ad un sofista antico, che negava la possibilità del moto e che difendeva questa sua balordaggine con infiniti arzigogoli. Lo prese sotto il braccio, gli fece fare un giro per tutta la sala, ove disputava, e poi l’interrogò: « È egli possibile il moto? » Così io potrei dirti: I miracoli ci sono, e provati a tutto rigore, dunque sono possibili. Ma ti risponda per me il famoso filosofo ginevrino Giangiacomo Rousseau: « Chi sostenesse seriamente che i miracoli non siano possibili, resterebbe troppo onorato se lo si punisse: bisognerebbe senz’altro mandarlo al manicomio ». – Come? impossibile il miracolo? Ma Iddio non è egli forse il padrone dell’universo? Epperò sempre che gli piaccia non potrà egli mutare l’ordine naturale, che egli ha stabilito? Non è Egli, che ha creato il mondo, che cioè l’ha cavato dal nulla? E se Egli ha potuto fare il più, vuoi che non possa fare il meno com’è il miracolo, che non è altro che un movimento di ciò che già esiste?

Eppure tante volte si grida: Miracolo; miracolo! e poi si tratta della cosa più naturale del mondo, oppure di ciarlataneria, di giuochi di magnetismo.

Certamente può accadere talvolta, e realmente qualche volta accade che taluni sbaglino nel credere miracolo ciò che non lo è; ma non per questo si potrà negare la possibilità e la esistenza dei veri miracoli. Coloro che negano la possibilità del miracolo, credilo, non è senza una cattiva ragione. Pascal diceva: « Se la matematica offendesse le nostre passioni, ci sforzeremmo di negare anche la matematica ». Ma fortunatamente la matematica non prova nulla fuori della sua cerchia, e perciò i suoi assiomi son lasciati in pace. Non è così del miracolo. Esso ha il gran fine di mostrare la verità della fede, la Divinità del Vangelo e di soggiogare perciò la mente dinanzi ai misteri e imporre alla volontà di lottare contro i nostri sensuali appetiti, le nostre cattive inclinazioni, le nostre perverse passioni, ed è perciò che da taluni non lo si vuole o si nega la sua possibilità. Del resto tutti gli uomini in generale non hanno essi creduto ai miracoli? Leggi la storia religiosa dei Romani, dei Greci dei Galli, dei Persiani, degli Assiri, degli Egiziani e troverai da per tutto l’idea del miracolo. – È vero che moltissime volte, sopra tutto presso questi popoli pagani, l’immaginazione falsata fece loro credere per miracolo ciò che non era tale, oppure ai veri miracoli, di cui ebbero conoscimento, fece loro congiungere e frammischiare delle stranezze chimeriche e ridicole, ma con tutto ciò resta sempre provato, che la natura umana in generale non rigetta il miracolo, e ne proclama la possibilità e l’esistenza.

Comprendo: la cosa non può essere diversa. Ma intanto nell’operare dei miracoli Iddio muta le leggi di natura, che da principio ha stabilito, e così muterà anche la sua volontà. Il che non sarebbe una stoltezza?

Obbiezione vecchia, caro mio, ma che vale un bel nulla. Certamente se Dio operando dei miracoli mutasse la sua volontà, apparirebbe uno stolto che ora vuole una cosa, ora ne vuole un’altra, uno stolto che non ha saputo disporre le cose con sapienza fin dall’eternità, le quali perciò han da essere mutate. Ma è così? Tutto il contrario. Come Iddio da tutta l’eternità ha voluto le leggi di natura, così da tutta l’eternità ha voluto i miracoli, che sorpassano tali leggi: come ha voluto la regola così ha voluto le eccezioni. « In Dio, dice bellamente S. Agostino, tutto è disposto e fisso, né fa mai alcuna cosa, che Egli non abbia dall’eternità preveduto di fare, ancorché a noi sembri ordinata con una sua nuova disposizione » (Spiegazione dei Salmi, capo V, numero 35).

Insomma, se non erro, sarebbe lo stesso che dire che Iddio, al quale tutto è presente, anche il futuro, vede e vuole sempre al presente e le leggi di natura e i miracoli, loro eccezioni.

Precisamente. E siccome vede e vuole sempre al presente, cioè di volontà eterna, le leggi di natura e i miracoli, loro eccezioni, perciò mai non muta.

Questo l’ho inteso. Tuttavia non si potrà negare che nel miracolo vi sia una violenza alla natura.

No, caro mio, nel miracolo non c’è nessuna violenza alla natura. Quello che c’è, è questo: che Iddio ad ottenere certi effetti non si serve della natura, ma li vuole ed ottiene direttamente Egli stesso.

Questo non lo capisco bene.

Qualche esempio ti gioverà a capirlo benissimo. Iddio ha stabilito come legge di natura che le acque rattenute entro un riparo più non si espandano; ha stabilito come legge di natura che le piante mercé la vita vegetativa che c’è in loro, fioriscano e facciano frutti, ha stabilito come legge di natura che le medicine e le cure mediche guariscano a poco a poco da infermità ed impediscano la morte. Per tal guisa Dio ha voluto ottenere gli effetti di trattenere le acque in un determinato confine, di far fiorire e fruttificare le piante, di guarire da molte infermità ed impedire la morte con le cause seconde del riparo, della vita vegetativa, dei medici e delle medicine. Or non ti pare che Egli, il quale ha comunicato tale efficacia alle cause seconde, non possa produrla Egli direttamente senza servirsi di esse?

Senza dubbio, essendo Egli onnipotente e padrone di fare quel che gli piace.

Dunque Egli può con la sua onnipotenza tener su le acque, e senza alcun riparo non lasciarle espandersi; può in un bastone secco, in cui non ci sia più la vita vegetativa, far venir fuori fiori e frutti; può, senza medici e medicine, guarire repentinamente da una gravissima infermità, e può anche far ritornare la vita in un freddo cadavere. E se Egli fa questo, Lui direttamente, ti pare che faccia qualche violenza alla natura? Niente affatto. Ecco pertanto che cosa fa Iddio, allora che opera il miracolo.

Ora ho inteso benissimo, e la spiegazione datami mi piace assai. Ma come si fa ad essere certi di un miracolo? Son tante le cose meravigliose che anche naturalmente accadono, che mi sembra essere assai facile ingannarsi e prendere per miracolo ciò che non è.

Ascolta. Il  miracolo, come ti dissi, è un fatto esterno, sensibile, che perciò si può prendere ad esame e verificare. Ecco un uomo che da tre o quattro giorni è morto. Esso è già stato chiuso nel sepolcro, ed in preda alla corruzione com’è, dev’essere già fetente. Difatti si apre il suo sepolcro e lo si vede spento, immobile, e se ne sente il fetore. Si tratta, sì o no, di uno che è morto davvero? Questo fatto lo posso constatare con i miei occhi, con le mie mani, co’ miei sensi?

Altro che!

Ma ecco che presso a quest’uomo, che io vedo morto, viene un Personaggio e intima a quel cadavere di risorgere. Ed ecco che quel cadavere ripiglia la vita, si alza, cammina, si avvicina a me, mi piglia per mano, mi parla, insomma egli rivive davvero. E questo altro fatto, che quest’uomo, ch’era morto, adesso vive di bel nuovo, non lo posso parimenti constatare? non lo vado constatando con i miei sensi? E quello che faccio io, non lo possono fare tanti altri, che sono al par di me testimoni dell’accaduto?

Certamente.

Dunque dinanzi a questi due fatti da me constatati, il fatto che quell’uomo era morto, e quest’altro che adesso è risuscitato, non devo forse io riconoscere un miracolo? Non devo dire a me stesso: Un uomo quando è morto, è morto, né per alcuna forza umana può ripigliare la vita. Ma quest’uomo alla voce di quel personaggio l’ha ripigliata. Dunque o quel personaggio era Iddio stesso, oppure un mezzo di cui Dio con la sua onnipotenza si servì per fare ciò che Egli solo può fare, e ad ogni modo la risurrezione di quest’uomo non viene da altri se non da Dio, non è altro che un miracolo?

Sì, ed anche questo è chiaro, più chiaro assai di ciò che mi credeva. Ma ho inteso a dire che vi sono delle forze naturali occulte, dalle quali può succedere benissimo il fatto, che appare come miracolo. Dunque per distinguere il vero miracolo da un fatto naturale non bisognerebbe conoscere altresì queste forze naturali occulte?

Anzi tutto l’esistenza di queste forze naturali occulte precedenti il miracolo, chi mai l’ha dimostrata? In secondo luogo, supponiamo pure per un istante che queste forze naturali occulte esistano. Che bisogno hai tu di conoscerle, quando vedessi un miracolo per accertarti che sia tale? È sufficiente più che mai che tu conosca, come nel compiersi quel miracolo non fu applicata nessuna forza naturale occulta, e che però da nessuna di queste cose è provenuto, ma è provenuto invece da una causa superiore, che non può essere che Iddio.

E come farei io a conoscere ciò?

Vedi: senza punto concederti che vi siano delle forze naturali occulte atte a produrre ciò che noi chiamiamo miracoli, ti concedo tuttavia essere verissimo che noi ignoriamo molte leggi di natura e l’applicazione che se ne può fare. Se si svegliassero dalla tomba i nostri avi di cent’anni fa soltanto, e vedessero i telegrafi, i telefoni, i fonografi, la illuminazione e la trazione elettrica, resterebbero fuori di sé per lo stupore. Eppure quelle leggi, quelle forze, la cui applicazione dà oggi tutti questi ammirabili risultati, forse che allora non esistevano in natura? Esistevano benissimo, ma non si conoscevano; ora invece si conoscono e se ne fa l’applicazione. Ma per farne l’applicazione, come tu sai, ci vogliono degli strumenti, dei fili, delle rotaie e tu puoi vedere tutto ciò, e vedendo tutto ciò capisci ancora che gli effetti che si ottengono per quanto meravigliosi, non sono miracoli, ma effetti naturali, che si ottengono con cause naturali. Invece nel miracolo vedi tu qualche cosa di simile? Vedi tu dei preparati, degli strumenti atti a sviluppare delle forze naturali, magari a te ignote? Niente affatto. Nel miracolo non vedi, non riconosci con gli stessi tuoi sensi che la volontà, il comandò di Chi lo opera; e se talvolta vedi che Chi opera il miracolo si serve di mezzi, devi riconoscere ancora che questi di per sé non sono punto atti ad ottenere ciò che si ottiene, come si può riconoscere in quel miracolo, che Gesù Cristo operò guarendo il cieco nato con della terra bagnata di saliva.

E non potrebb’essere che chi fa il miracolo conosca gli effetti meravigliosi, che certe forze naturali, agli altri ignote, possono produrre e che ordini di compiersi il fatto, che noi chiamiamo miracolo, in quel momento istesso, in cui tali forze si sviluppano?

Caro mio, in questo caso vi sarebbe nel taumaturgo una scienza più miracolosa dei miracolo. Ed allora come spiegheresti il gran miracolo di questa scienza? I miracoli operati sono senza numero e furono compiuti da moltissimi personaggi, e vorresti che tutti quanti questi personaggi sempre abbiano colto il momento preciso in cui si sviluppano le forze naturali da loro soltanto conosciute? E se fosse così non si dovrebbe richiedere in ciò una scienza naturalmente impossibile, una scienza soprannaturale, una scienza divina? non si dovrebbe richiedere insomma un’altra volta l’intervento di Dio?

Sì, è verissimo, comprendo proprio che il miracolo non è altro che l’opera di Dio.

E devi perciò riconoscere che se Iddio compie dei miracoli a prò di una dottrina, ne dimostra in tal guisa infallibilmente la verità.

Lo riconosco.

G. FRASSINETTI: CATECHISMO DOGMATICO (II)

[Giuseppe Frassinetti, priore di S. Sabina di Genova:

Catechismo dogmatico Ed. Quinta, P. Piccadori, Parma, 1860]

CAPITOLO I.

DEI LUOGHI TEOLOGICI.

 I luoghi teologici sono quei fonti dai quali si prendono gli argomenti opportuni tanto per provare e dilucidare le verità della fede e i principii e le regole dei costumi, quanto per difendere questa verità, e queste regole dai sofismi degli eretici, o dei cattivi cattolici.

Questi luoghi ossia fonti sono dieci: 1. La divina Scrittura. 2. le Tradizioni. 3. Il consenso della Chiesa cattolica, 4. i Concili, 5. Il Giudizio del romano Pontefice, 6. l’autorità dei ss. Padri, 7. l’autorità dei Dottori e degli Scolastici, 8. l’autorità della Storia, 9. quella dell’umana Ragione, 10. quella della Filosofia. Così i teologi comunemente.

I

Della Sacra Scrittura.

— Che cosa s’intende sotto il nome di Sacra Scrittura?

S’intende la Sacra Bibbia, che contiene tutti quei libri divini, i quali dal sacrosanto Concilio di Trento (sess. IV) in numero di 72 sono riconosciuti per ispirati da Dio ai loro autori, e scritti con tale assistenza dello Spirito Santo, sicché non vi si potesse inserire dai medesimi il minimo errore né per malizia né per umana debolezza.

— Come si divide la Sacra Scrittura?

Si divide in Vecchio e in Nuovo Testamento. Il Vecchio contiene tutti i santi libri scritti prima dell’Incarnazione del Figlio di Dio cominciando dalla Genesi, e terminando al II dei Maccabei, il Nuovo Testamento contiene quelli che furono scritti dopo, cominciando dal Vangelo di S. Matteo, e terminando all’Apocalisse di S. Giovanni.

In questi libri scritti dagli autori inspirati da Dio non vi potevano essere errori, ma per altro vi potranno essere degli errori nella Bibbia latina di cui ci serviamo, perché questa non ha nulla, o quasi nulla di originale, ma è in tutto, o quasi in tutto, traduzione dei testi Ebraici e Greci.

La Chiesa da più di dodici secoli si serve di questa Bibbia, se fosse guasta, ed alterata in cose d’importanza, Gesù Cristo non avrebbe potuto permettere ch’essa se ne servisse, senza mancarle di quella assistenza che le ha promesso perché sia infallibile. Sarebbe anzi scomunicato dal sacro Concilio di Trento (sess. IV) chi non volesse prestar fede a qualcuno dei santi libri, e a qualche parte dei medesimi quali si contengono nella nostra Bibbia latina, la quale si chiama pure la Volgata di S. Gerolamo, perché questo dottissimo santo Padre é l’autore della massima parte di questa versione. — Non sarà per altro cosa di maggiore sicurezza fidarsi più degli antichi testi originali che della nostra volgata? Qualunque possa essere lo stato odierno dei testi originali, è però certo che non furono fin ora rivisti ed emendati dalla Chiesa come fu la nostra Volgata; e perciò nelle cose riguardanti la fede ed i costumi, attualmente si deve preferire la nostra volgata ai testi originali (Can. de loc. theol., 2, c. 13).

— Le parole della S. Scrittura hanno un solo o più sensi?

Moltissime parole, e sentenze della Sacra Scrittura hanno due sensi letterale e mistico. Il letterale è quello che presentano le parole per se stesse; il mistico quello che presentano le cose significate dalle parole. Per esempio, si narra nella divina Scrittura che Abramo ebbe due figli, uno da Agar schiava di condizione, e l’altro da Sara di condizione libera: il senso letterale è che Abramo ebbe Ismaele da Agar sua serva da lui presa in moglie, e che poi ebbe Isacco da Sara similmente sua moglie, e nata dalla medesima distinta famiglia da cui era nato egli stesso: il senso mistico è che Dio raffigurato in Abramo ebbe due popoli suoi cultori, uno servo sotto la legge Mosaica, che è il popolo Ebreo, l’altro libero nella legge evangelica che siamo noi, cioè il popolo cristiano. Così i ss. Padri dietro S. Paolo (epist. ad Gal. IV).

— Vi é anche un altro senso che si chiama accomodatizio, quale sarebbe?

Si chiama senso accomodatizio l’uso che si fa di una sentenza della divina Scrittura la quale esprime una qualche determinata verità, per esprimerne un’altra a cui si può applicare; così la Chiesa usa in lode di Maria Ss. vari encomi che fa la Scrittura alla divina Sapienza; siano per esempio quelle parole « io sono la madre del bell’amore, del timor di Dio, della scienza e della santa speranza (Ecclesiast. XXIV, v. 34).

— Nell’intelligenza e nell’interpretazione delle divine Scritture ci potremo fidare del solo nostro intendimento?

La depositaria delle divine Scritture è la Chiesa Cattolica Apostolica Romana; essa solo può giudicare definitivamente dei veri sensi dei santi libri, vuole poi che nella loro intelligenza ed interpretazione seguiamo il senso unanime dei SS. Padri (Conc. Trid. Sess. IV) come quelli che sono i depositari della tradizione e che furono specialmente assistiti da Dio nella loro interpretazione ed intelligenza. Si noti che tutte le eresie nacquero dal volere interpretare la divina Scrittura secondo il proprio privato sentimento: «Non enim natæ sunt hæreses nisì dum scripturæ bonæ intelliguntur non bene (S. Agost. cap. 18 in Joannem).

— Non sarebbe bene che si facessero traduzioni volgari della Bibbia da potersi mettere nelle mani di tutti, anche dei secolari?

La Chiesa vieta che la Bibbia tradotta in volgare letteralmente si dia a leggere in differentemente a qualunque persona (vide 4 regulam Indicis lib. prohib.); anzi vieta che si dia l’assoluzione dei peccati a coloro che la volessero leggere, o ritenere appresso di sé senza averne il permesso. Che non possa esser buona cosa il metterla nelle mani di tutti si prova da questo, che essendo piena di misteri, potrebbe riuscire agli idioti più di danno che di profitto, e si conosce pure dallo zelo che hanno i protestanti di spargere ovunque, anche con tanto loro dispendio, un’infinita quantità di Bibbie volgari. Di più la Sacra Congregazione dell’Indice con decreto del 13 giugno 1757 proibì « versiones omnes Bibliorum quamvis vulgari lingua, nisi fuerint ab Apostolica Sede approbatæ, aut editæ cum adnotationibus desumptis ex S. Ecclesiæ Patribus, vel ex doctis catholicisque viris. » Vedi l’indice dei libri proibiti stampato in Roma nel 1819 alla lettera “i”, al titolo Istoria succinta delle operazioni etc. facc. 159.  Vedi pure facc. XIV Observ. Ad Reg. IV Additio. Di più questo decreto fu rinnovato nel Monitum del decreto della Congregazione dell’Indice fer. V die 7 ianuarii 1836. Ciò s’intende delle traduzioni volgari della Bibbia anche fatte da autori cattolici, e fedelmente eseguite sulla Vulgata quale sarebbe quella di monsignor Martini stampata senza note: quindi facilmente si comprende quanto debbano considerarsi più rigorosamente proibite le traduzioni fatte dai protestanti alterate, mutilate, mancanti d’interi libri quale é quella del Diodati che si diffonde tra noi per cura delle società Bibliche, che aspirano, speriamo inutilmente, a protestantizzare l’Italia. Specialmente queste da nessuno si possono comprare, né ricevere in regalo, né leggere, né ritenere presso di sé.

II

Delle Tradizioni.

— Che cosa sono le Tradizioni propriamente prese in quanto formano un luogo teologico?

Secondo il senso dei ss. Padri, e del Santo Concilio di Trento (sess. IV) sono quelle dottrine che non furono scritte da principio dagli autori inspirati, siano, o non siano poi state scritte in appresso.

— Come si distinguono le Tradizioni?

Le Tradizioni della Legge Evangelica, delle quali noi parliamo altre si chiamano:

Divino-Apostoliche, altre Apostoliche soltanto.

Le Divino-Apostoliche si dividono in:

Tradizioni spettanti al Dogma, e in

Tradizioni spettanti al costume.

– Le prime contengono le verità insegnate da Gesù Cristo agli Apostoli, o pure rivelate ai medesimi dopo la di Lui Ascensione al Cielo: si può mettere tra questo numero il dogma che i Sacramenti della nuova legge sono sette, né più, né meno.

– Le spettanti al costume, ossia alla pratica, contengono i precetti e i comandi fatti da Cristo agli Apostoli; e tra queste si possono annoverare i riti essenziali all’amministrazione dei Sacramenti, cangiati i quali nella loro sostanza, i Sacramenti resterebbero invalidi; per esempio, se uno dicesse nella forma del Sacramento della Penitenza: io ti lavo dai tuoi peccati, invece di dire: io ti assolvo.

Queste tradizioni Divino-Apostoliche, tanto riguardanti il dogma, come riguardanti la pratica, sono immutabili, e costituiscono un’irrefragabile luogo teologico. Le tradizioni apostoliche soltanto contengono le costituzioni formate dagli Apostoli come pastori della Chiesa per il suo buon regime disciplinare; si mette tra queste il digiuno quaresimale, e queste sono immutabili; sicché il Sommo Pontefice come Pastore universale può farvi quelle mutazioni che giudica espedienti.

— Le Tradizioni nella Chiesa si devono ammettere necessariamente?

È un dogma definito nel S. Concilio di Trento che esistono le Tradizioni ei (sess. IV et alibi). Si devono poi ammettere necessariamente, perché non si trova nei libri della Bibbia tutto ciò che si deve credere e praticare. Non si trova nella Bibbia che i Sacramenti della nuova legge sono sette; perciò senza le tradizioni non si potrebbe credere questo dogma. – Similmente le forme di vari Sacramenti non si trovano nei libri divini; e perciò senza Tradizioni non si potrebbero amministrare; per questo diceva S. Paolo: «Conserservate le tradizioni » (II ad Tessal. 2). Gli eretici inoltre, come dimostra il Cano (de Tradit. Apost. 1. 3, c. 3), rigettano le tradizioni perché riconoscono esser questa un’arma atta a sconfiggerli più ancora delle Divine Scritture; giacché le scritture interpretandole a loro modo le tirano al loro sentimento, ma le tradizioni non vanno soggette ad interpretazioni.

III

Della Chiesa.

— Come si definisce la Chiesa di Cristo?

La vera Chiesa di Cristo in questa terra, non parlando qui della trionfante, che è l’unione dei Beati in Cielo, nemmeno della purgante (che è l’Unione delle anime giuste detenute nel Purgatorio). La vera Chiesa di Cristo in questa terra; cioè la Chiesa militante, è:

l’Unione di tutti i fedeli i quali communicano insieme per la professione della stessa fede, per la partecipazione degli stessi Sacramenti, stanno soggetti ai propri Vescovi, e particolarmente al Romano Pontefice centro di tutta la Cattolica Unione. Così i teologi comunemente (Antoine, de fide Div. c. 3. art. 2).

— Quali persone non appartengono alla Chiesa di Cristo?

Non vi appartengono quelli, che non hanno ancora ricevuto il Battesimo, e perciò non solo gl’infedeli, ma nemmeno i catecumeni, quantunque credano già le verità rivelate dalla S. Fede. Non vi appartengono gli eretici, quelli cioè che appartengono a qualche setta, la quale non creda tutti i dogmi della Fede (tutti i protestanti sono eretici). Non vi appartengono gli scismatici, quelli cioè che ricusano di sottomettersi ai propri legittimi pastori, e tanti più all’autorità del Romano Pontefice. Non vi appartengono gli scomunicati, quelli però che sono notoriamente e pubblicamente dichiarati (Antoine, de fide div. e. 3, art. 1, § 1 et seq.).

— Vi sono dunque degli scomunicati che appartengono alla Chiesa?

Di diritto nessuno scomunicato appartiene alla Chiesa; ma per indulgenza, ossia permissione della stessa Chiesa, vi appartengono gli scomunicati detti tollerati, quelli cioè che non sono dichiarati tali notoriamente. Similmente vi appartengono gli eretici occulti, cioè quelli che senza dichiararsi per qualche setta particolare, contraddicono occultamente a qualche dogma cattolico, affettando frattanto dì essere uniti alla Chiesa, e sottomessi ai legittimi Pastori (Antoine, de fide Div. c. 3 de Eccl.). Questi però appartengono non all’anima ma al corpo della Chiesa, come un membro arido resta talvolta unito al suo corpo da cui non riceve né vigore, né vita.

— Alcuni dubitarono che non appartenessero alla Chiesa i cristiani imperfetti?

Vi furono alcuni eretici i quali pretesero che i soli cristiani perfetti formassero la Chiesa; ma questo era un distrurre la Chiesa, e annichilarla, giacché in questa terra non vi furono mai perfetti propriamente tali, tolta la Beatissima Vergine, che preservata dal peccato originale andò immune da ogni difetto; gli altri Santi si chiamano perfetti, non perché siano veramente tali, ma perché aspirano continuamente alla perfezione, e con tutto l’impegno procurano di spogliarsi dai loro difetti (Canuti, de Eccles. Cath. auct. lib. 4, C. 3).

— Si devono considerare come appartenenti alla Chiesa quelli che si trovano in istato di peccato mortale?

Senza dubbio, anche questo è un articolo di Fede, e l’errore contrario fu condannato in varie proposizioni di Quesnel dalla Bolla Unigenitus [Clemente XI – 1713] (Antoine, de fide Div. c. 3, art. 2, § 3).

— I reprobi cattolici, quelli cioè che Iddio prevede che per le loro iniquità si danneranno, appartengono alla Chiesa?

È articolo di Fede che vi appartengono; e l’errore contrario fu pure condannato dalla Stessa Bolla Unigenitus (Antoine, ut supra § 1).

— Quali sono i caratteri della vera Chiesa di Cristo?

Sono quattro annoverati dal Simbolo Niceno-Costantinopolitano: è Una, è Santa, è Cattolica ed Apostolica.

– Mi spieghi il primo.

La vera Chiesa è Una particolarmente per l’unità del suo capo che è Cristo, per per l’unità degli stessi mezzi che la conducono al suo fine dell’eterna salvezza, per l’unità di uno stesso suo cibo spirituale che è il corpo ed il sangue di Gesù Cristo, per l’unità di una stessa fede, di una stessa speranza, di uno stesso Spirito che la dirige e la governa.

— Chi è l’origine e il centro di questa unità che la Chiesa ha in terra?

Dietro l’autorità di tutti i ss. Padri convengono tutti i cattolici, che l’origine e il centro di tale unità è il Romano Pontefice, il quale ha il primato di onore, di giurisdizione e di autorità sopra tutte le varie chiese della terra, le quali tutte unite sotto questo capo costituito da Gesù Cristo formano una sola Chiesa. Tolto questo centro di unità sarebbero tante chiese disciolte, e non più una.

— Mi spieghi il secondo.

La vera Chiesa è Santa, particolarmente  per la santità del suo capo che è Cristo, per la santità dei suoi Sacramenti, della sua Fede, della sua morale, per la santità delle sue più nobili membra che sono i giusti, e per la santità dei suoi riti.

— Mi spieghi il terzo.

L a vera Chiesa è Cattolica, cioè universale perché si estende a tutti i tempi, dovendo durare fino alla fine del mondo; perché si estende a tutti i luoghi, essendo diffusa in tutta la terra, e perché accoglie ogni sorta di genti.

— Mi spieghi il quarto.

La vera Chiesa è Apostolica, perché fu fondata dagli Apostoli, perché conserva la loro dottrina, e perché ha per Pastori legittimi i loro successori.

— Quali sono poi le proprietà di questa Chiesa?

Sono queste tre: che sia visibile, indefettibile e infallibile.

— Le sono necessarie queste proprietà?

La loro necessità è manifesta. La Chiesa di Cristo è l’unica vera Religione del mondo, e soltanto quelli che a lei appartengono possono ottenere la vita eterna; perciò è necessario che sia visibile, affinché quelli che non sono in questa Chiesa la possano conoscere, e possano procurare d’entrarvi. È necessario che sia indefettibile, perché se la Chiesa potesse mancare anche solo per qualche tempo, per quel tratto resterebbero gli uomini impossibilitati a salvarsi. È necessario che sia infallibile, perché se essa potesse errare non potrebbe condurre sicuramente i propri figli al conseguimento del fine dell’eterna salvezza (Antoine, de fide Div. c. 3, art. 4 et seq.).

— In quali cose è infallibile la Chiesa?

È infallibile in materia di Fede, e di costumi. Cosicché quando dichiara che una verità appartiene alla Fede e quando approva o disapprova una pratica appartenente al costume, è impossibile ch’Ella erri.

— Chi la rende infalibile?

L’assistenza della Spirito Santo, che con specialissima provvidenza la governa, anzi parla agli uomini per mezzo di lei.

A quale Chiesa appartengono i sopradetti caratteri e proprietà?

Alla Chiesa Romana, non in quanto puramente Romana, cioè ristretta nei limiti del territorio della diocesi di Roma, ma in quanto è la Chiesa universale che ha per suo Capo e Pastore supremo il Romano Pontefice; per questo non solo adesso, ma anche nei secoli del Cristianesimo, dire Cristiani romani, e dire Cattolici era l’istessa cosa

(Baron. ad ann. 45).

— Che diremo dunque delle Chiese dei protestanti che vogliono essere chiamate Sante, Cattoliche, Apostoliche?

Si chiamerebbero tali con quel diritto col quale noi italiani ci potremmo chiamare francesi. Quando erano unite alla Chiesa Romana facevano realmente parte della Chiesa Santa Cattolica Apostolica, ma adesso non sono né Sante, né Cattoliche, né Apostoliche. Non Sono Sante perché non hanno più per capo la fonte d’ogni santità Gesù Cristo, e i dogmi e la morale che alle volte autorizzano non è santa. Non sono Cattoliche perché non estese a tutti i tempi, e ristrette a qualche provincia, a qualche regno. Non sono Apostoliche perché i loro fondatori non furono i successori degli Apostoli, ma i desertori della Chiesa fondata dagli Apostoli, i nemici della loro dottrina; e in quel modo che noi italiani se volessimo chiamarci francesi non troveremmo nessuno né amico, né nemico che ci volesse dare tal nome; egualmente i protestanti non trovarono mai chi volesse dare alle loro chiese i nomi di Sante, Cattoliche, Apostoliche; ma bisognò che si contentassero dei loro propri nomi, cioè di chiese Luterane, Calvinistiche, Zuingliane, Anglicane ecc.

— Che dovremo dire delle Chiese Greche scismatiche?

Per questo che sono scismatiche, cioè separate e divise dalla Santa Chiesa Cattolica Apostolica, a Lei non appartengono; sono per altro anche eretiche, perché negano vari dogmi della Fede, fra gli altri che lo Spirito Santo proceda non solo dal Padre, ma anche dal Figliuolo. Si osservi che quantunque tali chiese separate dall’unione cattolica, da alcuni si chiamino soltanto col nome di Chiese Greche, od orientali, si devono chiamare esse pure Protestanti, perché contraddicendo ai dogmi definiti dalla Chiesa protestano contro la Chiesa, come dimostra evidentemente il conte De Maistre (Del Papa, lib. 4, c. 4).

– Ho veduto che la, Chiesa è infallibile nelle sue decisioni riguardanti la Fede, e costumi,  or nascendo qualche controversia a chi ne spetterà la definizione?

Bisogna riflettere che nella Chiesa si devono distinguere due parti. La Chiesa insegnante, e la Chiesa ascoltante. Il Sommo Pontefice con gli altri Vescovi forma la Chiesa insegnante, tutto il rimanente del popolo cristiano, compreso i Sacerdoti, forma la Chiesa ascoltante. Perciò al Sommo Pontefice ed ai Vescovi spetta definire le questioni che potessero insorgere circa la Fede o la morale (Canus, de Eccl. Cath., lib. 4, c. 4).

— Può definire le questioni suddette ogni vescovo anche in particolare?

Non già; ma il corpo dei Vescovi uniti al Romano Pontefice può definitamente giudicare di tali questioni, e questa unione si fa mediante un Concilio generale, o mediante una Bolla Pontificia accettata dalla universalità dei Vescovi. Non sarebbe perciò necessario che l’accettassero tutti i Vescovi; basta che sia accolta, o non contrariata dalla maggior parte, e in tale caso i Vescovi che fossero dissenzienti non sottomettendosi diverrebbero scismatici ed eretici. Si noti bene, che tutto questo è di Fede, come convengono tutti i teologi Cattolici.

— Come si risponderebbe agli Eretici, i quali sostengono che il giudice di tutte le controversie circa la Fede e i costumi è la S. Scrittura?

Si risponderebbe che la divina Scrittura serve di regola per condannare gli errori, e definire le verità; ma che essa non condanna, né definisce. Tutti gli stati hanno un corpo di leggi, non sarebbe cosa ridicola il sopprimere i Tribunali, e aspettare che le leggi condannassero i rei, ed assolvessero gli innocenti? La divina Scrittura è il codice della Chiesa; ma la Chiesa è il tribunale cui spetta definire del senso del suo codice. Piace agli eretici lo stabilire che la S. Scrittura sia il giudice di ogni controversia, perché essi spiegandola a loro capriccio dicono che il giudice è in loro favore, e non temono che la divina Scrittura faccia mai più un Concilio, o una Bolla che li condanni.

— Dicono però che ciascuno può giudicare di tutte le controversie col proprio spirito privato, illuminato nell’intelligenza delle divine Scritture dallo Spirito Santo?

Se fosse vero che lo Spirito Santo illuminasse tutti gli spiriti dei cristiani, sicché nessuno potesse errare nell’intelligenza delle divine Scritture, non vi sarebbero mai state controversie in tale materia: perciò si deve dire che tutti non li illumina, e tutti non li rende infallibili; frattanto quali saranno quegli spiriti privati illuminati dallo Spirito Santo? Come li discerneremo da quelli che non sono illuminati? E poi se gli eretici sono illuminati dallo Spirito Santo per decidere col loro spirito privato le controversie, bisognerà che autore dello Spirito Santo di quelle innumerabili contraddizioni che li dividono in mille sette, e della loro Religione e Fede formano un caos.

— Che diremo di quelli i quali danno l’autorità definire le controversie suddette alla moltitudine del popolo cristiano?

Questo è un delirio in Fede. Lo ammetteremo quando le pecore dovranno condurre i loro pastori: Gesù Cristo disse agli Apostoli: Insegnate a tutte le genti, non lo disse a tutte le turbe (Canus, de auctor. conc. lib. 5, c. 2).

— Non si potrebbe assegnare per giudice di controversie di Religione il Sovrano temporale?

Per questo che l’autorità dei Sovrani è temporale, non si estende alle controversie di Religione che sono spirituali. Gesù Cristo diede le chiavi a S. Pietro, e non al Re, o all’Imperatore. In fine si noti bene che il dare l’autorità di definire le controversie di Religione al altri fuorché alla Chiesa, e a chi la rappresenta, è un errore contro la Fede di cui nessun cattolico si fece mai patrocinatore.

IV.

Dei Concilii.

— Come si definisce il Concilio Ecclesiastico?

Una congregazione dei Prelati della Chiesa convocata da un legittimo Capo per definire le questioni, che possono nascere circa le verità della Religione, per riformare i costumi del popolo cristiano, e la disciplina Ecclesiastica. Non sempre si raduna il Concilio per tutti questi motivi insieme, potendosi radunare, o per 1’uno o per 1’altro dei medesimi.

— Quante sorta di Concili si hanno?

Quattro sorte, cioè Concilio Generale, a cui si chiamano dal Sommo Pontefice tutti i Vescovi del mondo Cattolico; non è però necessario che tutti v’intervengano. Concilio Nazionale, a cui dal Primate si chiamano tutti i Vescovi della nazione, o del regno. Concilio Provinciale, a cui dal metropolitano si chiamano tutti i Vescovi della provincia suoi suffraganei, ed anche gli esenti a termini del Trid. Conc. sess. XXIV, c. 2. Concilio Diocesano, a cui dal Vescovo si chiamano i Preti della diocesi che hanno cura d’anime, od altro benefizio ecclesiastico.

— Appartiene soltanto al Romano Pontefice il diritto di convocare il Concilio Generale?

Tutti i cattolici convengono che questo diritto appartiene soltanto al Romano Pontefice. – Gli eretici pretendono che questo diritto spetti all’Imperatore; stoltamente però, poiché bisognerebbe che l’Imperatore avesse sotto di sé tutti i regni del mondo, onde esercitarvi l’atto di giurisdizione della convocazione dei Véscovi, e bisognerebbe pure che avesse il Primato nella Chiesa perché i Vescovi fossero obbligati a radunarsi dietro il suo ordine. Il Romano Pontefice soltanto la suprema podestà e giurisdizione sopra tutti i cristiani del mondo, e perciò sopra tutti i Vescovi. Si noti se qualche Imperatore romano ha già convocato qualche Concilio, questo avvenne dietro il consenso, e 1’ordine del Romano Pontefice. Cosi tutti i teologi e storici sani.

— A chi spetta di presiedere al Concilio Generale?

Spetta al Romano Pontefice, come spetta al capo di presiedere ai membri. Vi può presiedere però o per se stesso, o per mezzo dei suoi legati. Così tutti i teologi cattolici.

— Quali Prelati possono intervenire al Concilio generale?

Come giudici delle controversie religiose di diritto ordinario vi possono intervenire i soli Vescovi, e dare suffragio decisivo. I Cardinali non Vescovi v’intervengono come consultori del Sommo Pontefice, e danno suffragio eglino pure, come anche per privilegio gli Abati, e Generali degli Ordini Religiosi. Come protettori poi v’intervengono anche i Sovrani temporali, o i loro legati (Antoine, tract. De fide div. sect. 4, C. 4, art. 2. — Devoti, ìnsitit. can. Prolegom. c. III, XL).

— Il Concilio generale è di autorità infallibile?

Nessuno tra i Cattolici ha mai dubitato che esso sia d’infallibile autorità; però egli non ha una tale autorità se non dopo l’approvazione, o confermazione del Romano Pontefice.

— Gli altri Concili non generali sono infallibili?

Sono soltanto autorevoli per sé stessi, ma non infallibili, perché l’infallibilità è solo promessa alla Chiesa universale, e a chi la rappresenta. Si dice per se stessi, perché qualora le loro decisioni fossero approvate dalla Chiesa Romana sarebbero infallibili. Di più si osservi che nelle cose riguardanti la disciplina obbligano solo per i luoghi nei quali sono fatti; se sono Nazionali per la nazione, se Provinciali per la provincia, se Diocesani per la diocesi.

V .

Del Romano Pontefice.

— Chi è il Romano Pontefice?

Il Romano Pontefice è il Vescovo successore di S. Pietro nella Sede Romana.

— Il Romano Pontefice ha tutti i privilegi di S. Pietro, e tutta l’autorità che egli ebbe sopra la Chiesa?

Ha tutti i privilegi, e tutta l’autorità che ebbe S. Pietro da Cristo in quanto lo costituì Capo del Collegio Apostolico, e della sua Chiesa, cioè ha la stessa giurisdizione, e autorità sopra tutti i Vescovi, e sopra tutti i fedeli, e questo è di fede (Antoine, tract. ut supra de Rom. pontif.).

— È dunque un articolo di Fede che il Romano Pontefice abbia il primato sopra tutte le Chiese?

È articolo di Fede principalmente definito nel Concilio Fiorentino con pieno consenso dei Greci e dei Latini (in Defin. fidei).

— È necessario questo primato del Romano Pontefice nella Chiesa?

Una società che ha molti capi indipendenti, quali sarebbero i Vescovi senza il Romano Pontefice non può essere che un’anarchia, ed una confusione. Questa verità la confessano gli stessi eretici quando danno giurisdizione all’Imperatore, o ai Re sopra i Vescovi.

— Qualora pel suo sregolato, o reo procedere si dovesse chiamare in giudizio il Romano Pontefice, a chi spetterebbe il diritto di giudicare la sua causa?

Questo diritto se lo ha riserbato Iddio, nessuno in terra può giudicare il Romano Pontefice. Oltre le autorità che si potrebbero addurre, questa ragione è palpabile. Non si è mai potuto chiamare in giudizio il capo di un Governo se non da una rivolta; ma la Chiesa non ammette rivolta nel suo seno. Se succede una rivolta nella Chiesa, per questo solo che è rivolta, chi la promuove e chi ne fa parte, resta separato e diviso dalla Chiesa, almeno come scismatico; e perciò come diviso da lei non ha più in lei alcuna autorità. Potrà dunque essere fraternamente ammonito ma non giudicato.

— Il Romano Pontefice quando definisce una controversia in materia di Fede e di costumi, come capo e maestro di tutta la Chiesa, cioè per parlare con termine teologico, quando la definisce ex cathedra, è infallibile nel suo giudizio?

È infallibile, come si potrebbe provare con ogni sorta di autorità, e di ragioni, e il fatto sta che i Romani Pontefici quando definirono qualche questione in qualità di capi e maestri della Chiesa non hanno mai errato. Si trovarono sempre dei contumaci che reclamarono contro la verità delle pontificie decisioni; ma sempre finì il negozio con l’accettazione di tutta la Chiesa della decisione pontificia, e con la dichiarazione di eresia a carico dei reclamanti [I Nestoriani, gli Eutichiani si opposero alle decisioni di S. Leone Magno. I Monoteliti a quelle di S. Martino I. I Luterani a quelle di Leone X. I Giansenisti a quelle d’Innocenzo X, di Alessandro VII, ecc. Ma questi, e tutti gli altri antichi e moderni che l’imitarono nell’opposizione alle decisioni dei Romani Pontefici appresso i Cattolici, son tutti eretici. Le condanne dei Romani Pontefici si appellano, e sono fulmini che partono dal trono di Dio, e non v’ha scudo che non spezzino; non v’ha scampo per chi li provoca, se pure non si sottomette, e umilmente da lui stesso non si condanna. È impossibile che si respingano indietro; sono come la freccia di Gionata, di cui dice la Scrittura: — Sagitta Jonathæ nunquam rediit retrorsum. 2 Reg. c. 1, v. 22]. –

— L’autorità del Romano Pontefice è inferiore all’autorità del Concilio Generale?

Il Romano Pontefice con la sua autorità dà forza al Concilio Generale, e perciò è superiore allo stesso, e non inferiore. Il sommo Pontefice non cessa di essere capo della Chiesa quando è radunata in Concilio. Si rifletta che nessun Concilio generale è mai stato riconosciuto per infallibile nella Chiesa senza la conferma, o approvazione del Papa. Si rifletta di più che non si può concepire l’idea di Concilio generale senza Papa. Bisogna che il Papa lo raduni, che vi assista o per se stesso, o per mezzo dei suoi legati, che infine lo confermi come finiamo di dire. Ora per concepire un Concilio generale senza Papa, bisognerebbe concepire un Concilio generale in contraddizione col Papa, e in tal caso sarebbe una illegittima materiale radunanza di Vescovi tutti realmente disciolti, perché senza un centro di unione.

— Questo sarebbe nel caso che si trovasse in questione il Papa vivente con un Concilio generale che si andasse facendo, tuttavia il Papa sarà soggetto ai Concili generali già fatti debitamente, e confermati dall’autorità dei Papi suoi predecessori?

Nelle decisioni dogmatiche non ve ne ha dubbio, perché ciò che era vero, e infallibilmente vero una volta, sarà sempre vero per tutta l’eternità: per altro il dire che il Papa deve essere soggetto in tal modo ai Concili, è lo stesso che dire, che il Papa deve essere cattolico: nelle determinazioni poi che riguardano la disciplina, la quale nella Chiesa è mutabile, il Papa è superiore ai Concili potendo derogare alle loro leggi quando ne conosce il bisogno, e questa autorità gli è necessaria perché altrimenti sarebbe mal provveduto al ben essere della Chiesa.

— Per qual ragione sarebbe mal provveduto al ben essere della Chiesa?

Per la ragione che il Papa non potrebbe dispensare, o derogare in nessun caso ai canoni dei concili, come l’inferiore in nessun caso può derogare alla legge del superiore; e perciò per ogni deroga, per ogni dispensa cui il Concilio non avesse già autorizzato a farla il Sommo Pontefice od altri, sarebbe necessario convocare Concilio generale, e da tutti si conosce quanto sia cosa difficile il radunarlo, molte volte sarebbe anzi impossibile, e perciò in più occasioni mancherebbe alla Chiesa il mezzo di provvedere ai propri bisogni.

— Per altro non è verità definita di Fede che il Papa sia infallibile nelle sue decisioni dogmatiche, e che abbia autorità sopra i Concili generali?

È vero, che questa non è tra il numero di quelle verità che si devono credere fermamente sotto colpa di eresia non credendole. Per altro è una verità tra le più certe che si abbiano in teologia dopo i dogmi di Fede. Si noti che fu condannata da Alessandro VIII nel 1690, il 7 dicembre questa proposizione: « Futilis et toties convulsa est assertio de Pontificis Romani super Concilium Oecumenicum auctoritate, atque in Fidei quæstionibus decernendis infallibilitate »; ed incorrerebbe scomunica riservata al Papa chi volesse difendere tale proposizione.

— Il Papa ha l’autorità di dichiarare eretici o scandalosi i libri, e di proibirli quando siano tali?

Senza dubbio, perché come Pastore universale deve discernere i cattivi pascoli, e impedire che vi si accosti il suo gregge.

— Dichiarando il Papa che un libro contiene qualche eresia, bisogna sottomettere ciecamente il proprio giudizio alla sua dichiarazione?

Non vi ha luogo a dubitarne, perché nelle cose di fede non basta l’omaggio della lingua che si sottometta a stare in silenzio; ma si richiede l’omaggio del cuore, cioè della volontà prodotto dalla sottomissione dell’intelletto. – Questa verità sempre riconosciuta nella Chiesa fu maggiormente illustrata negli ultimi tempi dal fatto della condanna dell’eretiche proposizioni di Giansenio (Antoine: de fide divina c. 3 de Eccl., art. 8.)

VI.

Dei ss. Padri, dei Dottori e degli Scolastici.

— Quali sono i Santi Padri?

I Santi Padri sono quei grandi uomini, i quali per gran dottrina, gran santità e antichità furono dichiarati tali dalla Chiesa, o espressamente, o tacitamente. L’ultimo dei Santi Padri è S. Bernardo.

— Quali sono i Dottori?

Gli uomini insigni per dottrina e santità dichiarati tali dalla Chiesa, come S. Tommaso, S. Bonaventura ecc.

— Quando i Santi Padri, e i Dottori della Chiesa sono concordi in asserire qualche cosa spettante alla Fede o ai costumi si può dubitare della verità della stessa?

Non se ne può dubitare, perché essi sono i depositari della tradizione della Chiesa, e quando sono concordi nell’asserire qualche verità in tali materie, vuol dire che ella viene direttamente dagli Apostoli.

— Bisognerà che tutti siano concordi niuno eccettuato?

Questo poi no; perché nessuno tra i Santi Padri da sé solo è infallibile; perciò qualcuno poteva sbagliare, e non trovarsi concorde a tutti gli altri: in tal caso l’errore di uno non dovrebbe togliere la forza alla verità insegnata da tutti, o quasi da tutti.

— Dunque il sentimento di un Santo Padre si deve calcolare come di nessun peso?

Non già, si deve anzi calcolare moltissimo quando non sia contrario alla comune sentenza degli altri Padri; quando però vi fosse contrario, non si dovrebbe calcolare certamente.

— Quali sono gli Scolastici?

Quelli che scrissero dopo i Dottori della Chiesa in difesa delle verità contrariate dagli eretici: questi crebbero in gran numero dopo gli eretici del secolo XVI, che dovettero combattere; perciò gli Scolastici sono molto odiati e malmenati dai protestanti anche di questi tempi, e anche dalle persone di fede o dubbia o poco sincera, quantunque affettino cattolicesimo ed unione con la S. Chiesa.

— Quale autorità hanno gli Scolastici?

Se comunemente tutti concordano in asserire una cosa spettante alla fede, o ai costumi, hanno un’autorità irrefragabile, anche prima che sia definita espressamente dalla Chiesa, perché non si può supporre che tutti sbaglino, gli uomini dotti che nella Chiesa fioriscono, almeno la Chiesa dovrebbe condannare il loro errore non potendo permettere che fosse così autorizzato, e insegnato da tutti. Se poi comunemente non concordano, ma sono divisi nel loro parere, ciascuno non ha altra autorità, che il peso della ragione che apporta; questo s’intende però in generale parlando; poiché gli Scolastici i quali più si segnalarono per retto giudizio, e profonda cognizione dei Santi Padri hanno un’autorità personale di peso ben calcolabile. Chi direbbe per esempio che il sentimento del Bellarmino non sia considerabile anche soltanto per essere di uomo così giudizioso, ed erudito nelle scienze ecclesiastiche?(S. S. Clemente VIII eleggendolo a Cardinale diceva di lui al sacro Collegio: Hunc elegimus quia non habet parem Ecclesia Dei quoad doctrinam). La loro autorità però non si può mai mettere al pari di quella dei Santi Padri, o dei Dottori.

VII.

Della storia dell’ umana ragione e della Filosofia.

— Quale autorità ha la Storia?

La Storia ha molta autorità nelle controversie di Religione, perché ella somministra molti lumi e molti fatti in rischiaramento, e prova della verità, e in confutazione dell’errore. Per altro chi vuole adoprare sicuramente l’autorità della Storia in materia di Religione, non basta che ne abbia una qualche tintura soltanto; che sappia dei fatti sconnessi e isolati, tutte le scienze è meglio ignorarle, che saperle male, ma forse particolarmente la Storia; parlo dell’Ecclesiastica più necessaria alle teologiche controversie; la profana generalmente non può essere che utile.

— Quale autorità ha l’Umana Ragione, e la Filosofia?

Hanno molta autorità, qualora si tengano sottomesse alla Fede, e si adoprino in quelle controversie teologiche che ammettano gli argomenti che esse somministrano. È facile intendere che se la Fede si sottomette alla Ragione e alla Filosofia, la Fede è distrutta, e che non possono decidere in quelle materie che in nessun modo appartengono alla loro sfera; per esempio come si proverebbe in Filosofia l’esistenza del mistero della Ss. Trinità?

 

SAN LEONE PAPA

11 APRILE

SAN LEONE, PAPA E DOTTORE DELLA CHIESA

Il difensore del dogma dell’Incarnazione.

Oggi, nel Calendario liturgico, troviamo uno dei nomi più gloriosi della Chiesa: san Leone Magno. Meritò questo titolo, avendo nobilmente lavorato per illuminare la fede dei popoli sul mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. La Santa Chiesa aveva trionfato delle eresie che attaccavano il dogma della Trinità; allora ogni sforzo infernale fu portato contro quello del Dio fatto uomo. Un vescovo di Costantinopoli, Nestorio, osò negare l’unità di persona in Gesù Cristo, separando in lui il Dio dall’uomo. Il concilio di Efeso condannò quest’errore, che annullava la Redenzione. Ma non tardò a sollevarsi una nuova eresia, opposta alla prima, ma non meno nociva per il cristianesimo. Il monaco Eutiche sosteneva che, nell’Incarnazione, la natura umana era stata assorbita da quella divina, e quest’errore dilagava con una rapidità paurosa. La Chiesa sentì il bisogno dell’opera di un dottore che riassumesse con precisione e autorità il dogma, che è la base delle nostre speranze. – Apparve allora Leone, che dall’alto della cattedra apostolica, ove lo Spirito Santo l’aveva fatto assidere, proclamò con una eloquenza ed una chiarezza senza uguali, la formula della fede primitiva, sempre la stessa, ma risplendente di una luce nuova. Un grido di ammirazione partì dal seno stesso del Concilio ecumenico di Calcedonia, riunitosi per condannare l’empia tesi di Eutiche. I Padri esclamarono: « Pietro ha parlato per mezzo della bocca di Leone »! e quattordici secoli non hanno ancora cancellato, nella Chiesa d’Oriente, l’entusiasmo suscitato dall’insegnamento che san Leone dette a tutta la Chiesa.

Il difensore di Roma.

L’occidente, in preda a tutte le calamità dell’invasione dei barbari, vedeva crollare gli ultimi avanzi dell’impero, e Attila, Flagello di Dio, era già alle porte di Roma. I barbari indietreggiarono di fronte alla maestà del contegno di Leone, come l’eresia si dissipava davanti all’autorità della sua parola. Il capo degli Unni, al quale avevano ceduto i più formidabili bastioni, conferì col Pontefice presso le sponde del Mincio, e s’impegnò di non entrare a Roma. La calma e la dignità di Leone, che affrontava, senza difesa, il più temibile dei vincitori dell’Impero, esponendo la vita per il suo gregge, aveva scosso quel barbaro. I suoi occhi avevano scorto nell’aere l’Apostolo Pietro, sotto l’aspetto d’un augusto personaggio che proteggeva l’intercessore di Roma. Nel cuore di Attila, il terrore si unì all’ammirazione. Momento sublime, in cui si rivela tutto un mondo nuovo! Il Pontefice disarmato, che affronta la violenza del barbaro; questi, commosso alla presenza di una dedizione che non comprende ancora; il cielo che interviene per aiutare l’uomo dalla natura feroce ad inchinarsi dinanzi alla forza morale. – L’atto generoso compiuto da Leone esprime, in un solo tratto, ciò che diversi secoli videro operarsi nell’Europa intera; ma l’aureola del Pontefice ne risulta più risplendente.

L’oratore.

Affinché Leone non mancasse di nessun genere di gloria, lo Spirito Santo l’aveva dotato di una eloquenza che si poteva chiamare « papale », tanto completa e imponente era la sua impronta. La lingua latina, che declinava, vi ritrovò quegli accenti, e una forma che, a volte, ricordavano l’epoca del suo vigore; e il dogma cristiano, formulato in uno stile nobile e nutrito dal più puro succo apostolico, vi risplendette di meravigliosa luce. Leone, nei suoi memorabili discorsi, celebrò Cristo, uscente dalla tomba, invitando i suoi fedeli a risuscitare con lui. Egli caratterizzò, tra gli altri, il periodo dell’Anno liturgico che stiamo percorrendo in questo momento, quando disse: « I giorni che trascorsero tra la Risurrezione del Signore e la sua Ascensione, non furono oziosi: poiché fu allora che vennero confermati i Sacramenti e rivelatii grandi misteri » (Discorso LXXIII).

Vita. – San Leone nacque a Roma tra il 390 e il 400. Fu prima diacono sotto il Pontefice Celestino; divenne poi arcidiacono di Roma e, alla morte di Sisto III, fu eletto Papa. La sua consacrazione ebbe luogo il 29 settembre 440. Durante tutto il Pontificato, rivolse le sue cure all’istruzione del popolo, con i suoi sermoni così dogmatici e semplici, con zelo nel preservarlo dagli errori dei manichei e dei pelagiani, e facendo condannare, nel Concilio Ecumenico di Calcedonia, nel 451, Eutiche ed il Monofisismo. Nel 452, andò incontro ad Attila che minacciava Roma, e lo indusse a la sciare l’Italia. Nel 455 non poté però impedire a Genserico ed ai suoi Vandali di prendere e saccheggiare la capitale: nondimeno, accogliendo le sue preghiere, i barbari risparmiarono la vita degli abitanti, rispettando anche i principali monumenti della città. San Leone morì nel 461 e fu inumato a San Pietro in Vaticano. Nel 1751 Benedetto XIV lo proclamò dottore della Chiesa.

Preghiera a Cristo.

Gloria a te, o Cristo, Leone della tribù di Giuda, che hai suscitato nella tua Chiesa un altro Leone per difenderla nei giorni in cui la fede correva grandi rischi. Tu avevi incaricato Pietro di confermare i suoi fratelli; e noi vedemmo Leone, nel quale Pietro era vivente, compiere questa missione con autorità sovrana. Abbiamo inteso risuonare le acclamazioni del Concilio, che inchinandosi di fronte alla sua dottrina, proclamava il beneficio insigne che, in questi giorni, hai conferito al tuo gregge, quando donasti a Pietro la cura di pascere, tanto le pecore come gli agnelli.

Preghiera a san Leone.

O Leone, tu hai degnamente rappresentato Pietro sulla sua cattedra! La tua parola apostolica non cessò di discenderne sempre veritiera, eloquente e maestosa. La Chiesa del tuo tempo ti onorò come maestro di dottrina; e la Chiesa di tutti i secoli ti riconosce per uno dei dottori più sapienti che abbiano insegnato la divina Parola. Dall’alto del cielo, ove ora siedi, riversa su di noi la grazia dell’intelligenza del mistero che fosti incaricato di esporre. Sotto la tua penna ispirata, esso diventa evidente; la sua armonia si rivela; e la fede si rallegra di percepire, così distintamente, l’oggetto al quale aderisce. Fortifica in noi questa fede, o Leone! Anche nei nostri giorni si bestemmia il Verbo incarnato; rivendica la sua gloria, mandandoci nuovi dottori. Tu hai trionfato della barbarie, o nobile Pontefice! Attila depose le armi di fronte a te. Ai nostri giorni, altri barbari si sono levati: barbari civilizzati, che vantano, quale ideale della società, quella che non è più cristiana, quella che nelle sue leggi e nelle sue istituzioni non confessa più re dell’umanità Gesù Cristo, al quale è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Vieni in nostro soccorso, poiché il male è arrivato al suo culmine. Molti sono i sedotti che vanno verso l’apostasia, senza rendersene conto. Ottieni che la luce da noi non si spenga totalmente, che lo scandalo finalmente si arresti. Attila non era che un pagano; gli utopisti moderni sono cristiani, o almeno, qualcuno vorrebbe esserlo [per non parlare dei modernisti – ndr.-]; abbi pietà di loro, e non permettere che restino più a lungo vittime delle loro illusioni. – In questi giorni di Pasqua, che ti ricordano l’opera del tuo ministero pastorale, quando, circondato dai neofiti, ne alimentavi la fede con discorsi immortali, prega per i fedeli che, in questa medesima solennità, sono risuscitati con Gesù Cristo. Essi hanno bisogno di conoscere sempre più il Salvatore delle anime, affinché possano seguirlo, per non più separarsene. Rivela loro tutto ciò che egli è, nella sua natura divina e nell’umana: come Dio, loro ultimo fine e giudice dopo questa vita; come uomo, loro fratello. Redentore e modello. O Leone! benedici, sostieni il tuo successore sulla cattedra di Pietro, e, in questi giorni, mostrati protettore della nostra Roma, di cui hai sostenuto, con tanta eloquenza, i santi eterni destini.

Preghiere per il Santo Padre [Gregorio XVIII]

-652-

Oremus prò Pontifice nostro (Gregorio).

R.. Dominus conservet eum, et vivificet eum, et beatum faciat eum in terra, et non tradat eum in animam inimicorum eius  [Ps. XL] (ex Brev. Rom.).

Pater, Ave…

Indulgentia trium annorum [tre anni]. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, precibus quotidie per integrum mensem devote recitatis (S. C. Indulg., 26 nov. 1876; S. Pæn. Ap., 12 oct. 1931).

-653-

Oratio

O Signore, noi siamo milioni di credenti, che ci prostriamo ai tuoi piedi e ti preghiamo che Tu salvi, protegga e conservi lungamente il Sommo Pontefice, padre della grande società delle anime e pure padre nostro. In questo giorno, come in tutti gli altri, anche per noi egli prega, offrendo a te con fervore santo l’Ostia d’amore e di pace. Ebbene, volgiti, o Signore, con occhio pietoso anche a noi, che quasi dimentichi di noi stessi preghiamo ora soprattutto per lui. Unisci le nostre orazioni con le sue e ricevile nel seno della tua infinita misericordia, come profumo soavissimo della carità viva ed efficace, onde i figliuoli sono nella Chiesa uniti al padre. Tutto ciò ch’egli ti chiede oggi, anche noi te lo chiediamo con lui. – Se egli piange o si rallegra o spera o si offre vittima di carità per il suo popolo, noi vogliamo essere con lui; desideriamo anzi che la voce delle anime nostre si confonda con la sua. Deh! per pietà fa’ Tu, o Signore, che neppure uno solo di noi sia lontano dalla sua mente e dal suo cuore nell’ora in cui egli prega e offre a te il Sacrificio del tuo benedetto Figliuolo. E nel momento in cui il nostro veneratissimo Pontefice, tenendo tra le sue mani il Corpo stesso di Gesù Cristo, dirà al popolo sul Calice di benedizioni queste parole: « La pace del Signore sia sempre con voi», Tu fa’, o Signore, che la pace tua dolcissima discenda con una efficacia nuova e visibile nel cuore nostro ed in tutte le nazioni. Amen.

Indulgentia quingentorum dierum semel in die (Leo XIII, Audientia 8 maii 1896; S. Pæn. Ap., 18 ian. 1934).

654

Oratio

Deus omnium fidelium pastor et rector, famulum tuum (Gregorium)., quem pastorem Ecclesiæ tuæ praeesse voluisti, propitius respice; da ei, quæsumus, verbo et exemplo, quibus præest, proficere; ut ad vitam, una cum grege sibi credito, perveniat sempiternam. Per Christum Dominum nostrum. Amen (ex Mìssali Rom.):

Indulgentia trìum annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo devota orationis recitatio, quotidie peracta, in integrum mensem producta fuerit (S. Pæn. Ap., 22 nov. 1934).

655

Oratio

Omnipotens sempiterne Deus, miserere famulo tuo Pontifici nostro (Gregorio)., et dirige eum secundum tuam clementiam in viam salutis aeternæ: ut, te donante, tibi placita cupiat et tota virtute perficiat. Per Christum Dominum nostrum. Amen. (ex Rit. Rom.).

Indulgentia trium annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem oratio pia mente recitata fuerit (S. Pæn. Ap., 10 mart. 1935).

Tu sei Pietro e su questa roccia costruirò la mia Chiesa

(San Matteo XVI 18).

La Chiesa di Gesù Cristo, nella misura in cui è una società, un regno divinamente stabilito, deve avere un capo. Il suo Capo invisibile è Gesù Cristo stesso; il capo visibile è il nostro Santo Padre, il Papa.

Chi è il Papa? Il Papa è il successore di S. Pietro, il vicario di Gesù Cristo e il suo rappresentante sulla terra, il pilota della “barca” di San Pietro, il Capo visibile della Chiesa e padre comune di tutto i fedeli.

Diciamo che il Papa è il successore di San Pietro. Facendo dell’Apostolo San Pietro la roccia fondante, la pietra angolare della sua Chiesa, Gesù Cristo gli ha promesso successori fino alla fine dei tempi. Questa roccia inamovibile implica che Pietro sarà il capo perpetuo della Chiesa, che sarà sempre necessario sostenere e governare. Ma come potrà governare sempre la Chiesa, essendo mortale come il resto degli uomini? Come farà a governare ancora la dopo la sua morte? Mediante i suoi successori, chi saranno gli eredi del suo potere, dei suoi privilegi e anche del suo spirito apostolico. Pietro, come dicono i Padri, è sempre vivente, e vivrà sempre nella persona dei successori che Cristo gli ha promesso con queste parole: “Tu sei Pietro, e su questa roccia costruirò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”. La promessa del Salvatore è stata soddisfatta: Pietro, dopo aver riparato la sua sede pontificia a Roma, ha avuto Come successori tutti i vescovi o i Pontefici Romani che hanno occupato la sua sede nel corso dei secoli fino ai nostri giorni. – La storia ci svela questa successione incomparabile. È una catena d’oro tenuta per mano di Gesù Cristo. Il suo primo collegamento è Pietro, e ne vediamo gloriosamente regnante oggi il duecentocinquantanovesimo nella persona dell’augusto Leone XIII. Dopo di lui la catena continuerà ad allungarsi fino al raggiungimento del collegamento finale: vale a dire fino all’ultimo Papa, che concluderà il suo regno con la fine dei secoli. – Questa serie ininterrotta di successori di San Pietro ci presenta uomini che differivano nel nome, nel tempo, nel carattere; ma tutti hanno occupato la medesima Sede ed hanno tenuto nelle loro mani le stesse chiavi che sono state consegnate da Gesù Cristo all’Apostolo San Pietro. In altre parole, insegnando essi la stessa dottrina, ne hanno posseduto lo stesso potere e gli stessi privilegi; tanto che se il Principe degli Apostoli dovesse tornare di persona ad esercitare l’autorità pontificia, i suoi poteri e privilegi non differirebbero da quelli dell’augusto Leone XIII., il vero detentore della sua immortale eredità [oggi il Santo Padre Gregorio XVIII –ndr.-].

I Papi possono morire; il Papato non muore mai. né subisce cambiamenti.

 Ringraziamo Dio, fratelli miei, per aver fondato la sua Chiesa sulla roccia indistruttibile del Papato, e abbiamo sempre la più grande riverenza ed amore per il nostro Santo Padre, il Papa, il successore di San Pietro.

Fonte: “SHORT SERMONS FOR THE  Low Masses of Sunday.
COMPRISING IN FOUR SERIES.  “A Methodical Exposition of Christian Doctrine”, BY THE Rev. F. X. SCHOUPPE, S. J. Imprimatur 1884

SANTA GEMMA GALGANI

Santa GEMMA GALGANI

Triduo in onore di Santa Gemma per ottenere un favore speciale

Giorno 1

O Vergine compassionevole, Santa Gemma, durante la tua breve vita sulla terra, hai dato un bellissimo esempio di innocenza angelica e di amore serafico e sei stata ritenuta degna di portare nella tua carne i segni della Passione di Nostro Signore, abbi pietà di noi che siamo così tanto bisognosi della misericordia di Dio e ottienici per i tuoi meriti e la tua intercessione, il favore speciale che imploriamo con fervore.
Pater, Ave, Gloria …

V. Prega per noi, Santa Gemma.

R. Affinché siamo resi degni delle promesse di Cristo.

Preghiamo
O Dio, che hai modellato la santa vergine Gemma, a somiglianza del tuo Figlio Crocifisso, concedici per sua intercessione, che come partecipi delle sofferenze di Cristo, possiamo meritare di diventare pure partecipi della Sua Gloria, Che con te vive e regna nell’unità dello Spirito Santo, senza fine. Amen.

Giorno 2

O degna Sposa dell’Agnello di Dio, che si ciba tra i gigli, tu hai conservato l’innocenza e lo splendore della verginità, dando al mondo un luminoso esempio delle più esaltate virtù, abbi pietà dal tuo alto luogo nel cielo di noi chi confidiamo in te, ed implora per noi il favore che desideriamo tanto ardentemente.

Pater, Ave, Gloria …

V. Prega per noi, Santa Gemma.

R. Affinché Che possiamo essere resi degni delle promesse di Cristo.

Preghiamo
O Dio, che hai modellato … (come sopra)

3 ° giorno

O amabile vergine, Santa Gemma, degna di ogni ammirazione, che durante la tua vita in questo mondo sei diventata agli occhi di Dio un gioiello prezioso, risplendente di ogni virtù, abbassati pietosamente su di noi chi ti invochiamo nella confidente speranza di ricevere questo favore attraverso la tua amorevole intercessione.
Pater, Ave, Gloria …

V. Prega per noi, Santa Gemma.

R. Affinché siamo resi degni delle promesse di Cristo.

Preghiamo
O Dio, che hai modellato … (come sopra)

Canonizzazione di S. Gemma  dal S. P.  PIO XII

Triduo in onore di Santa Gemma: per i malati e gli infermi

Giorno 1

O vergine-vittima, Santa Gemma, la tua vita fu consumata nella dolce fiamma dell’amore per Dio e per il tuo prossimo, hai sofferto nel tuo fragile corpo e nel tuo cuore sensibile, pene e amari dolori. Abbi pietà di tutti coloro che si trovano nella croce della sofferenza corporale, di tutti quelli che si soffrono per i loro cari, nella malattia. Ottieni la grazia della guarigione per i nostri malati e trasforma il nostro dolore in gratitudine gioiosa verso te in cui riponiamo la nostra fiducia.
Pater, Ave, Gloria …

Giorno 2

O Santa Gemma tenera e generosa, il tuo cuore fu così profondamente commosso dalle miserie di questa vita mortale che il povero, l’ammalato ed il peccatore trovarono in te simpatia e generosità e confidarono nell’efficacia delle tue preghiere. Eleviamo gli occhi fiduciosi anche in mezzo alle prove, alle malattie, alle tentazioni della vita. Pregate per noi davanti al trono di Dio per tutti i nostri bisogni spirituali e temporali, specialmente per il ritorno alla salute di coloro che ci sono vicini e cari.
Pater, Ave, Gloria …

3 ° giorno

O eroica amante di Gesù Crocifisso, la tua vita è stata una prolungata penitenza, una preghiera perpetua e ardente, trascorsa ai piedi della Croce con la nostra Madre Addolorata. Ora in cielo, godendo del frutto della tua santa vita, ottieni misericordia e consolazione per l’umanità peccatrice e sofferente. Offri le tue penitenze e preghiere a Gesù e Maria affinché mandi conforto nel dolore, speranza nella disperazione, salute agli ammalati. Ricorda i nostri cari sui letti del dolore; intercedi per loro perché, riguadagnando la salute, possano servire il nostro amorevole Salvatore con rinnovato fervore e fedeltà.
Pater, Ave, Gloria …

Preghiera in ringraziamento per il favore ricevuto

O umile vergine, Santa Gemma, a quale potenza Dio ti ha esaltato! Tu sei invocata da coloro che soffrono dolori e pene in questa valle di lacrime. Miracoli e grazie si ottengono ogni giorno implorando il tuo nome, come abbiamo sperimentato. Sia benedetto il nostro Dio misericordioso per averti concesso un tale potere in nostro favore! Grati per la tua amorevole benignità, ci decidiamo ad imitare le tue virtù affinché, un giorno, ci uniamo a te in Paradiso e nell’inno eterno di ringraziamento.
Pater, Ave, Gloria …

G. FRASSINETTI: CATECHISMO DOGMATICO (I)

Catechismo dogmatico

[Giuseppe Frassinetti, priore di S. Sabina di Genova; Ed. Quinta, P. Piccadori, Parma, 1860]

Avendo avuto benigna accoglienza questa mio piccolo lavoro non solo tra noi dove già da molti anni ne fu esaurita la prima edizione, ma anche in Napoli ed in Firenze dove fu ristampato, credo bene riprodurlo con alcune correzioni ed aggiunte; altre necessarie quale é quella che riguarda il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria Ss. ed altre più utili ai tempi. Io pubblicavo questo compendio specialmente in servizio dei chierici che istruiscono i fanciulli nella dottrina cristiana senza avere ancora percorso tutti i trattati della Teologia Dogmatica; aveva tuttavia anche in mira il vantaggio delle persone secolari cui mancano alle volte certe cognizioni perché non si trovano così facilmente nei libri che hanno alle mani; per es. quelle riguardanti la S. Bibbia, le tradizioni, la Chiesa, i Concili, il Papa, la Grazia, la Giustificazione ecc., cognizioni singolarmente importanti oggigiorno per gli errori che si vanno spargendo nel popolo con tanta temerità. Ed è appunto per questo che anche più volenteroso ne intraprendo la ristampa, sperando che possa riuscire sempre più opportuna. – Si dirà che avevamo già all’uopo molti compendi della Dottrina cristiana, certo più pregevoli che questo mio, di che non si può dubitare; ciò non ostante non saprei se essi uniscano le due qualità che mi parevano specialmente al mio scopo desiderabili: cioè somma brevità, e universalità di tutte le materie teologiche dogmatiche più necessarie e più utili. Io d’altra parte era fin dal principio, e lo sono tuttavia, molto lontano dal credere in qualche modo necessario il mio esiguo lavoro; mi basterebbe che fosse qualche poco vantaggioso. – Non tocco quelle controversie le quali richiedono nel lettore fondo d’istruzione o lunghi trattati; ma le sole verità dogmatiche, e quelle che quantunque non siano definite di fede, sono però maggiormente conformi al comune insegnamento dei teologi. – Mi protesto di sottomettere ogni mia proposizione e parola al giudizio della S. Romana Chiesa di cui mi glorio di essere ubbidientissimo figlio, e i di cui interessi nella mia tenuità vorrei promuovere finché io viva.

PROLOGO:

DELLA RELIGIONE

 I

Necessità della Religione.

È necessario che gli uomini abbiano una Religione?

Presupposta la certezza dell’ esistenza di Dio, della quale non può dubitare nessun uomo che ragioni, è necessario che gli uomini abbiano una Religione, che cioè prestino il loro culto all’Essere Supremo, per cui hanno l’esistenza e tutti i beni, che è Dio.

Perché si dice che dell’esistenza di Dio non può dubitare uomo che ragioni, mentre dubitarono, anzi negarono l’esistenza di Dio vari filosofi che oltre all’essere molto dotti avevano finissimo criterio, e profondamente ragionavano?

Nessuno dei veri filosofi, cioè dei buoni ragionatori, anche pagani, ha mai dubitato dell’esistenza di Dio. Solo alcuni i quali non ostante la finezza del loro ingegno si abbandonarono ad ogni infamia e delitto, temendo il castigo di Dio, e non volendo migliorare la loro vita, cercarono di persuadersi che Dio non vi fosse, onde arrivare, se fosse stato possibile, ad essere empii senza timore e rimorso; e perciò bestemmiarono che Dio non v’è: ma nemmeno essi n’erano persuasi. Infatti dopo di avere bestemmiato in vita che Dio non vi era, o pentiti, o disperati confessavano in morte che vi era Dio. Come un malato cui molto rincresce il morire cerca di persuadersi che risanerà dalla sua malattia, quantunque abbia ragioni evidenti che lo convincano in contrario; così questi filosofi scellerati, cui l’esistenza di un Dio rincresceva sommamente, cercavano di persuadersi che Dio non vi fosse, quantunque della sua esistenza avessero ragioni evidentissime.

Per qual ragione presupposta l’esistenza di Dio è necessario che gli uomini prestino il loro culto a questo Essere Supremo?

Per quella ragione che un figlio deve amare il suo padre, un suddito deve stare soggetto al suo re, il beneficato deve essere grato al benefattore ecc. Questo Essere Supremo è nostro Padre, nostro Re, e nostro Benefattore Sovrano.

II

Necessità della Religione rivelata.

È sufficiente una religione naturale, cioè un culto dato a Dio secondo i dettami della sola umana ragione, o pure si richiede un culto determinato positivamente da Dio manifestatoci per mezzo di una rivelazione soprannaturale?

L’umana ragione da sé sola non basta a farci conoscere tutte le verità che ci sono necessarie alla giusta cognizione di Dio; per sé sola, non può determinare con quali sacrifici, e con quali riti debba l’uomo riconoscere il suo supremo dominio, e debba onorarlo inoltre da per sé sola non è valevole a determinare tutte le leggi della retta morale. Omettendo tutti gli altri argomenti che si potrebbero addurre, basta osservare, che questa proposizione non è che un fatto innegabile. Nessuno dei filosofi che parlarono di Dio e dei suoi attributi, col solo lume della ragione naturale arrivò a dare una giusta idea di questo Essere Supremo; e mentre tutti convennero che si dovesse onorare ed adorare, non seppero mai convenire nella qualità dei sacrifici, e dei riti che si dovessero adoprare (Vien qui in proposito ciò che dei filosofi Deisti scriveva lo stesso Rousseau (Emil., t. 3, p. 21): « Se consideri le loro ragioni non ne troverai quasi nessuna che non sia in distruzione…. in null’altro sono d’accordo che nel contraddirsi vicendevolmente.). Le leggi della morale quando furono lasciate in mano dei soli filosofi, piegarono sempre o per un verso o per l’altro all’ingiustizia, e alla turpitudine. I filosofi greci pagani riconobbero la necessità di una rivelazione, e stavano aspettandola e desiderandola (Ecco i sentimenti di Platone nell’Alcib., dial. 2: Socrate: — La cosa più sicura è che noi aspettiamo pazientemente, e certo bisogna aspettare, finché venga chi ci ammaestri circa i nostri doveri verso Dio, e verso gli uomini. D — Alcib. — Quando sarà quell’ora, e chi ci ammaestrerà in queste cose? fortemente desidero di veder questo maestro! — Socrate: — Quegli, di cui parliamo ha cura delle cose tue; ma deve fare, secondo io la penso, come narra Omero aver fatto Minerva con Diomede. Minerva dissipò le nebbie che offuscavano gli occhi di Diomede, ed egli vide gli oggetti che gli stavano avanti. Così è necessario che una densa caligine sia tolta dagli occhi del tuo intelletto, affinché meglio tu discerna il ben dal male, il che per ora non puoi. — Alcib. — Oh venisse! Oh dissipasse queste tenebre! Io per quanto è in me, purché migliore addivenga di quel che sono, sarei dispostissimo ad ogni cosa ch’ei comandasse. — Socrate: — Così deve farsi finché nella nostra ignoranza non conosciamo quali sacrifici piacciano a Dio, e quali lo disgustino. — Alcib. — Quando quel dì sarà venuto, con buon successo placheranno Dio i nostri sacrifici, e confido nella sua bontà che questo di non sia per essere molto lontano. – Ecco come anche i filosofi gentili desiderassero una Religione rivelata, e come ne riconoscessero la necessità).

Perfezionandosi l’umana ragione pare che potrà essa arrivare a quel punto cui finora non è pervenuta, di conoscere bene gli attributi di Dio, i modi di onorarla a Lui accetti, e tutte le regole della retta morale; e or pare che stante il gran progresso dei lumi siam già presso alla meta, sicché da qui avanti non sarà necessaria una rivelazione soprannaturale?

Da tanti secoli nei quali stanno i filosofi studiando come perfezionare le facoltà dello spirito umano, se la nostra ragione fosse capace di una perfezione assoluta, sarebbe ormai perfettissima, e conosceremmo le cose tutte, a così dire, meglio degli Angeli; ma invece la repubblica dei filosofi (parlando di quegli che sdegnano i lumi della rivelazione) si trova sempre in maggior confusione, e in maggiori tenebre; cosicché senza dubbio venti secoli innanzi, Platone, Aristotile ed altri pagani dettavano una filosofia molto più ragionevole, retta e costumata, che i nostri filosofi irreligiosi. L’uomo ha un fondo d’ignoranza e malizia in natura che non si potrà scandagliare giammai e, se vuole perfezionare veramente le facoltà del suo spirito, bisogna che al lume della ragione unisca i lumi della rivelazione. Del progresso poi dei lumi del nostro secolo non spetta a noi giudicare, ne giudicheranno i secoli futuri senza passione, e senza amor proprio. Si deve credere che non vorranno negargli lode di buon progresso nelle scienze industriali; se uguale vorranno dargliela nelle scienze metafisiche e morali si può  finor dubitare. Noi frattanto sfidiamo i nostri filosofi irreligiosi a mettersi tra loro d’accordo, mentre finché non fanno che intronarci le orecchie con un confuso battagliar di sistemi tutti fra loro irreconciliabili, non possiamo nemmeno intendere quel che ci dicano. – Si mettano d’accordo, e potremo cominciare a supporre che vogliano perfezionare l’umana ragione. Finché sempre più si sprofonda il vorticoso caos delle loro opinioni, che possiam credere o dire? Perciò la ridicola speranza del pieno perfezionamento dell’umana ragione, non può esentarci dal riconoscere la necessità di una Religione rivelata, la quale ci ammaestri nella cognizione di Dio, nei modi di adorarlo, e nelle regole dei retti costumi.

III

Caratteri della Religione rivelata.

Varie sono le religioni al mondo le quali si dicono rivelate da Dio; ma essendo queste tra loro contrarie non possono essere rivelate tutte, una sola sarà quella che Dio avrà rivelato; frattanto come noi la discerneremo. dalle altre?

Certamente Dio che è verità, non può rivelare, come vere, cose tra loro contrarie, ciascuna delle quali suppone la falsità delle altre; perciò fra tutte le religioni che si dicono rivelate, una sola deve essere figlia della vera rivelazione. Per discernere questa da tutte le altre non fa bisogno di astruse ricerche e prolisse dimostrazioni. Come si distingue un diamante prezioso tra i frantumi del fragile vetro, così si distingue la vera Religione rivelata da quelle che sono false. Le Religioni che si dicono rivelate sono il Paganesimo, il Maomettismo, il Giudaismo, e il Cristianesimo.

1° – Il Paganesimo che è un grande aggregato, o per meglio dire, un gran caos d’innumerevoli culti, ripugna alla ragione, mentre si può dire che di ogni cosa fa un Dio. E anzi, secondo i suoi dettami, ciò che in un luogo è Dio cui si devono immolare le vittime, è vittima in un altro che si deve immolare ad un Dio. In Egitto si sacrificava al Bue, in Grecia il Bue era sacrificato. E, come riporta un antico, gli stessi sacerdoti di un luogo disputavano tra loro quale tra due animali fosse la vittima da sacrificarsi, e quale il Dio a cui si dovesse fare il sacrificio. Questa religione ha tutti i caratteri della follìa, e niuno della divinità.

2° –  Il Maomettismo parimente nulla ha di Divino. Non profezie avverate, non miracoli operati; nato nell’ignoranza, nell’ignoranza nutrito, fu stabilito e propagato con la sola forza delle armi. La barbarie è il suo sostegno, il mal costume è il suo pascolo, e tutt’insieme la sua speranza per la vita avvenire; non vi fu Saggio giammai che non lo abbia abborrito e deriso.

3° – Diversamente bisogna parlare del Giudaismo. Esso ha profezie avverate, miracoli operati; i suoi libri sono santi, e portano impresso il carattere della Divinità; perciò la Religione Giudaica fu Religione rivelata da Dio. Ma non doveva essere questa religione perpetua, doveva dar luogo a quella di cui non era che la figura. I suoi libri lo dicono chiaro che si sarebbe formato un nuovo popolo, che questo avrebbe avuto una nuova legge e un nuovo sacrificio; perciò la religione Giudaica fu già quel culto col quale voleva Iddio essere onorato dagli uomini; adesso non più. E mirabilmente apparisce l’abbandono in cui Dio la lasciò: senza tempio, senza sacerdozio e senza sacrifici, per giunta senza terra, sicché gli Ebrei sparsi per tutto il mondo, dappertutto sono stranieri. Pertanto la religione Giudaica dice da sé, che essa non è più quella che piaccia a Dio, che in suo luogo è sottentrato il Cristianesimo. Questa adesso è l’unica Religione che abbia i caratteri della Divinità, e unicamente gli avrà fino alla fine del mondo.Tutte le profezie dei libri santi confermano la sua veracità. Infiniti miracoli attestano ch’essa è opera di Dio. La religione Cristiana è quella che dà agli uomini la più grande e perfetta idea dell’Essere Supremo che possa aversi, insegna il modo il più sublime in cui si deve adorare, e prescrive regole di costumi tutte appoggiate sulla giustizia e sulla santità; sicché il più rozzo Cristiano purché sia istruito nei primi rudimenti della sua fede, è più dotto in divinità, in culto e in moralità di qualunque filosofo non cristiano. Basta conoscere la Religione Cristiana per sentirsi come sforzati a proclamarla la vera, quella che gode di tutti i caratteri della Divina Rivelazione.

Come può avvenire che mentre Essa ha tutti i caratteri della Rivelazione, sia frattanto la più combattuta?

Bisogna osservare da chi venga la guerra, perché dal genere del nemico si conosce la qualità della cosa combattuta. La Religione Cristiana fu sempre combattuta più di tutte le altre religioni che sono al mondo; ma fu sempre combattuta dagli empii e dagli scostumati. I persecutori della Religione Cristiana, come ci mostra la storia, furono sempre i più famosi nei vizi, e i più fieri tra questi furono sempre mostri di delitto e d’infamia. Qual meraviglia, che i cattivi odiino il bene, e tanto più lo odiino quanto è più grande? Frattanto questo continuo combattimento, mentre forma il suo onore, ci fa conoscere un altro carattere della sua Divinità. Fu sempre la più combattuta, e sempre la più grande e inalterabile; dopo venti secoli di combattimenti, è sempre la stessa, piena di forza e vigore, e si stende trionfalmente per tutta la terra, mutando i suoi oppositori in suoi figli allorquando la conoscono. Il fatto ci assicura della sua indefettibilità oltre la promessa che n’ebbe da Dio.

Nella Religione Cristiana però vi sono tante sètte tra loro nemiche: quale sarà la vera?

Nessuna delle sètte; queste sono tutte false. È vera quella che non è setta, quella ch’è fondata dagli Apostoli, che ha la loro fede, e le loro costumanze; quella che tutte le sètte combattono, come tutti gli errori combattono la verità. Quella che per tutto il mondo si estende, abbraccia tutti i tempi, e perciò si appella, ed è veramente la Religione Cattolica. Tutte le sètte hanno per capi uomini disertori dalla Religione di Cristo e degli Apostoli: perciò non si possono chiamare cristiane se non in quanto riconoscono Cristo, e pretendono onorarlo al loro modo. Non si possono poi chiamar cristiane in quanto facciano parte di quella Religione che veramente Cristo formò. Il fatto dimostra che sono separate da questa, perché combattono contro di lei. Di questo parleremo al Cap. I, § 3  (1).

(1) Considerando tali cose qui brevissimamente accennate si vede chiara e manifesta l’irrazionalità dell’indifferenza in materia di Religione. Se Dio si deve onorare con un culto, se Egli ha rivelato quale sia quello che da noi vuole, se nel manifestarcelo ci avverte che ogni altro culto d’innanzi a Lui è abbominazione (essendo questa una delle fondamentali verità della Religione Cattolica) com’è possibile che noi vogliamo credere essere Iddio indifferente per qualunque sorta di culto che si trovi in questa terra? E poi sarà cosa ragionevole il supporre che Dio si stimi onorato ugualmente dal casto e puro culto cristiano, come dall’impuro ed infame del paganesimo? Gli sarà grata la strage delle ventimila vittime umane che annualmente si sacrificavano nel Messico idolatra quando si squarciava il petto a quelle infelici per strapparne il cuore ancor vivo e palpitante, parimente che l’innocente e pio sacrificio dei nostri altari? Potevano piacergli le strida e gli urli della più orribile disperazione che intronavano quelle sale di spavento e di morte, come gli inni pacifici pieni di riconoscenza e di amore, che rallegrano i nostri templi? Mi parrebbe meno mali il supporre che Dio non esista, che il supporre l’esistenza di un Dio così stupido ed insensato quale sarebbe quello che si reputasse onorato ugualmente da tutte le sorta di culto che furono e sono al mondo.

 

DIFESA DELLA FEDE

DIFESA DELLA FEDE

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol. I, Paoline ed. – 1957, impr.]

… abile a trasformarsi in angelo di luce (II Cor. 11, 14), l’eterno nemico rivestì il suo apostolo [Nestorio] d’una duplice bugiarda aureola di santità e di scienza; l’uomo che più d’ogni altro doveva manifestare l’odio del serpente contro la donna ed il suo seme, si assise sulla cattedra episcopale di Costantinopoli col plauso di tutto l’Oriente, che si riprometteva di veder rivivere in lui l’eloquenza e le virtù d’un nuovo Crisostomo. Ma l’esultanza dei buoni fu di breve durata perché nello stesso anno dell’esaltazione dell’ipocrita pastore, il giorno di Natale del 428, Nestorio, approfittando dell’immenso concorso di fedeli venuti a festeggiare il parto della Vergine-Madre, dall’alto del soglio episcopale lanciò quella blasfema parola: «Maria non ha generato Dio: il Figlio suo non è che un uomo, strumento della divinità ». – A queste parole la moltitudine fremette inorridita; interprete della generale indignazione. Eusebio di Doriles, un semplice laico, si levò in mezzo alla folla a protestare contro l’empietà. In seguito, a nome dei membri di questa desolata Chiesa fu redatta una più esplicita protesta, diffusa in numerosi esemplari, anatemizzando chiunque avesse osato dire: « Altro è il Figlio unico del Padre, altro quello nato dalla Vergine Maria ». Generoso atteggiamento che fu allora la salvaguardia di Bisanzio e gli valse l’elogio dei Concili e dei Papi!

Quando il pastore si cambia in lupo, tocca soprattutto al gregge difendersi.

Di regola, senza dubbio, la dottrina discende dai Vescovi ai fedeli; e non devono i sudditi giudicare nel campo della fede, i capi. Ma nel tesoro della rivelazione vi sono dei punti essenziali, dei quali ogni cristiano, perciò stesso ch’è cristiano, deve avere la necessaria CONOSCENZA e la dovuta CUSTODIA. Il principio non muta, sia che si tratti di verità da credere che di norme morali da seguire, sia di morale che di dogma. I tradimenti simili a quelli di Nestorio non sono frequenti nella Chiesa; tuttavia può darsi che alcuni pastori tacciano, per un motivo o per l’altro, in talune circostanze in cui la stessa religione verrebbe ad essere coinvolta.

In tali congiunture, i VERI FEDELI sono quelli che attingono solo nel loro Battesimo l’ispirazione della loro linea di condotta; non i pusillanimi …

… che, sotto lo specioso pretesto della sottomissione ai poteri costituiti, attendono, per aderire al nemico o per opporsi alle sue imprese un programma che non è affatto necessario e che non si deve dare loro …

FESTA DELL’ANNUNCIAZIONE [2018]

L’ ANNUNCIATA

[G. Dalla Vecchia: “Albe primaverili”; G. Galla ed. Vicenza, 1911]

(PANEGIRICO)

“Et virtus Altissimi obumbrabit tibi. „

E la virtù (potenza) dell’Altissimo ti adombrerà.

(Luc. I, 35)

ESORDIO. — Rutilante celesti fulgori, l’arcangelo Gabriele scende dalle celesti sfere; drizza il volo alla piccola Nazaret; penetra nella stanza solitaria della vergine Sposa di S. Giuseppe … ; e il nome della vergine avventurata, Maria … — La saluta riverente, la conforta turbata agli angelici accenti, le propone la sublime dignità di Madre di Dio.

— Sono vergine, proclama la pia, e come avverrà questo? E l’Angelo: Lo Spirito Santo scenderà su te; e la potenza dell’Altissimo ti adombrerà di nube divina, come un dì la vetta del Sinai. — Tutto santo sarà il tuo figlio, vero Figliuolo di Dio… Et virtus Altissimi obumbrabit tibi… — E l’umile verginella: Ecco l’ancella del Signore, si faccia in me secondo il tuo accento. — Et Verbum caro factum est. Maria è Madre di Dio! — Chi può scandagliare questo abisso di dignità, di grandezza, a cui viene, innalzata Maria? — Ella stessa non poteva spiegare così arcano Mistero. Nec ipsa explicare potest quod capere potuit (S. Agost.).

— Vediamo dunque: 1. come si preparò Maria a tanta grandezza … 2. la sublime elevazione di Maria, perché Madre di Dio.

PARTE PRIMA

I . – Come si preparò Maria alla divina Maternità. —

Dal momento, che neh’ amoroso decreto dell’Incarnazione era prefisso, che il Verbo incarnato avesse una madre, Ella certo doveva possedere una eccezionale ricchezza di doni ricevuti, di meriti acquistati … E così avvenne appunto in Maria. Meritorum verticem usque ad solium divinitatis erexit (S. Agost.).

(a) Concepita senza ombra di peccato originale, si conserva libera da ogni colpa attuale … Fino dal primo istante gode il libero uso della ragione; e tosto si dona, e consacra al Signore; lo contempla, lo ama …

— I suoi meriti già, si elevano sopra le vette più sublimi dai monti di Sion; è già superiore agli Angeli ed ai santi. Quolibet tempore meruit. (B. Alb. Magno).

— Scrive S. Pietro Damiani: La prima grazia, che il Signore conferì a Maria, sormontò la grazia ultima del più eccelso Serafino; viene superata solo da quel Dio che l’ha creata. Solumque Opificem opus istud supergredi.

— Maria, poi, moltiplica ininterrottamente gli atti di amore, di unione, di conformità; quindi moltiplica del continuo i meriti ed anche l’effusione di nuove grazie su lei … Per singulos actus huiusmodi ita crescebat Ma gratia, ut fleret duplo maior, quam in principio erat (Suarez.)

— Meritava di giorno e di notte; ego dormio, sed cor meum vigilat; (Cantico) mentre l’anima sua liberamente tendeva senza interruzione al suo Dio. (S. Bernardino da Siena).

(b) Il profeta Isaia vaticinava: Ecce virgo concipiet et pariet filium (VII, 14); ecco che una Vergine concepirà e partorirà un figliuolo. — Dunque vergine, nel più stretto senso della parola, doveva essere la Madre del Salvatore del mondo. — E Maria?

— A soli tre anni si presenta al tempio del Signore, dove passerà la fanciullezza accanto all’Arca santa. La santa Bambina pronta risponde alle intime voci dello Sposo divino e, perfettamente conscia del suo sacrificio, consacra al Signore la sua anima, il suo corpo, col voto di verginità (S. Anselmo). Così questa vezzosa bambina innalza, la prima, il prezioso stendardo della sacra verginità (S. Ambrogio); e coi vincoli più ardenti, più intimi e santi, si stringe a Dio, purità per essenza.

(e) E la sua vita nel tempio, in mezzo alle nobili fanciulle, che venivano educate in quel luogo santo? — Mente umana non può certo scoprirne gl’ignoti orizzonti. Secondo S. Anselmo, la purità di Maria (e colla purità procede parallela la santità) deve dedursi, in qualche modo, dalla stessa purità e santità di Dio, dall’amore reciproco delle persone della SS. Trinità, dalla divina potenza che vuole rendere Maria degna di diventare Madre del Figlio di Dio. Chi può narrare il fervore della sua prece, la pronta sommessione della sua obbedienza, la profondità della sua adorazione, l’attività assidua del suo lavoro, la soavità del suo silenzio, la dolcezza della sua parola, l’attrattiva del suo esempio, le fiamme del suo amore, la generosità dei suoi sacrifici? — Nulla in lei di leggero, o puerile. — Assidua allo studio dei sacri Libri, si cibava della parola di Dio, vero pane angelico, ed a stento prendeva il cibo necessario alla vita. Contemplava ogni dì il gaudio degli Angeli, e sprezzava le vane cose del mondo. Vergine colomba, fissava l’innamorata pupilla nello Sposo divino, e con inni di grazie, con tutta 1’effusione dell’anima, supplicava l’eterno Creatore della terra e dei cieli (S. Tarasio). – Era in lei tale sublimità di virtù e di meriti, da essere pronta ad accogliere nel suo seno il Figlio di Dio. Talis eligitur Virgo, quæ tantum haberet meritum, ut Dei Filium in se susciperet (S. Agost.).

— L’Angelo stesso, a nome di Dio, proclama la santità di Maria; ave, gratia piena; ave, la piena di grazia; così conveniva alla dignità di Madre di Dio. In Matre Dei fuit gratia tali dignitati proportionata (S. Tom.).

— E poi quel: Come avverrà questo, se sono vergine; quomodo fiet istud, quoniam virum non cognosco ? Questi accenti non sono forse 1’ultimo rito, con cui Maria consacra tutta se stessa, quale tempio vivente, a quel Dio, che doveva fra poco prendervi possesso; proprio come si dedicano le nostre chiese prima che vi entri Gesù sacramentato? Deo dicata et consacrata caro! (S. Greg. Nisseno).

— Oh ! sì, Vergine immacolata e santa, acconsenti all’angelica parola; accetta di essere la Madre del promesso Salvatore e nostra Madre ancora, Madre di amore. Acconsenti! lo attende la terra … , il cielo…, Dio… Momento unico al mondo! L’umile Verginella china la fronte, giunge le mani, pronuncia: Ecco 1’ancella del Signore, fiat mihi secundum verbum tuum… Maria è già Madre di Dio.

Maria Madre di Dio. — Accettando la divina maternità, scrive S. Tomaso, Maria meritò più di tutti gli Angeli ed i santi, in tutti i loro atti, affetti, e pensieri . ..

(a) Maria infatti è perfettamente libera; non le viene imposto di accettare un ministero così sublime; che 1’Angelo glielo propone, le chiede, se acconsenta di prendere una parte così intima all’Incarnazione, e quindi alla Redenzione… Maria crede, accetta… Ecce ancilla…, fiat mihi.

— Non basta. Maria con umiltà, ma fermezza, dichiara all’Angelo, che vuole salva la propria verginità; e l’Angelo l’assicura: Spiritus Sanctus superveniet in te, anzi le aggiunge, che diverrà Madre per 1’opera onnipotente dell’Altissimo, al quale niente è impossibile. Quia non erit impossibile apud Deum omne verbum (‘Luca I, 37).

— Vi è di più. — Per dare liberamente e consciamente il consenso, Maria doveva conoscere e la grave responsabilità che si assumeva e, almeno nelle linee generali, le pene, le angosce, il martirio riservato alla Madre del Redentore del mondo. — E dinfatti ( Faber) dietro i raggi fulgenti della futura grandezza, a cui era prescelta, Maria vede designarsi l’ombra sanguinante del Golgota, che pareva giungere fino a Lei … Eppure: Fiat mihi! Quanto sei grande, o Maria! — Al Fiat dell’ Onnipotente, il mondo usciva dal nulla; al Fiat umile e generoso di Maria, il Verbo si fa carne nel suo seno verginale. – Colui, che non possono contenere la terra ed i cieli, si asconde in questa vergine sposa, ed ora, per privilegio unico al mondo, Madre e Vergine… Dio è figlio della sua creatura!…

(b) Lo Spirito Santo col vergine sangue di Maria forma un corpo bellissimo, vi crea un’anima perfettissima; a questo corpo ed a quest’anima si aggiunge la Persona del Verbo… Eccovi Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, vero Figlio di Dio, e vero figlio di Maria. – Dunque Maria è il tempio vivente, dove il Pontefice divino offre il grande sacrificio delle sue umiliazioni, sacrificio, che si compirà più tardi con la morte di croce.

— Maria è il talamo nuziale, dove il Verbo celebra le sue mistiche nozze coll’umana natura, che egli associa e disposa alla sua natura divina, in una sola persona … . Dum esset rex in accubitu suo, nardus mea dedit odorem suavitatis (Cantic.). Ed intanto i gigli della purezza, della verginità, delle virtù, dei meriti di Maria profumano olezzanti questo arcano Banchetto di amore; nardus mea dedit odorem suavitatis.

— Maria è Madre di Dio! dunque la Regina degli Angeli i quali, nel dì della prova, avendo adorato riverenti il Mistero dell’incarnazione del Verbo, implicitamente ne hanno ancora venerata la Madre, loro futura regina.

— Madre di Dio! Dunque Maria entra nelle più intime relazioni colla SS. Trinità. — È la mistica sposa dello Spirito Santo, che in lei operò tale stupendo prodigio, quod soli datum est nosci, cui soli datura est experiri (S. Bernardo). — E’ la Madre del Figlio di Dio, che si lascerà portare dalle sue braccia, nutrire del suo latte, e la chiamerà col nome ineffabile di! Madre. —. E con l’eterno Padre? — O abisso di grandezza, di elevazione! Maria, sulla terra, per effetto di grazia genera quel medesimo Figlio, che il Padre genera in cielo per perfezione di natura. — Il Padre lo genera con un atto del suo intelletto, Maria col fìat, cioè con un atto della sua volontà. Il Padre senza concorso di madre, Maria senza concorso di padre. — L’eterno Genitore trova le sue compiacenze nel suo Figlio unigenito; e Maria? — Chi può dirmi l’ebbrezza di gaudio nel dire a Gesù: Tu sei mio figlio; nel tempo io ti ho dato là vita? —. Ah! che i riverberi (Ugo di S. Vittore) della divinità fatti balenare sullo spirito di Maria, i lumi, le tenerezze, i doni dal divin Verbo a lei comunicati, poteva bene goderli, ma neppure Ella poté spiegarli.Più ancora. Maria ha non solo le grandezze ed i gaudi, ma ancora tutti i diritti di Madre. — Gesù, che ha dato e conserva la vita a Maria, Gesù il re dei secoli, che tutto ha creato e per cui furono fatte tutte le cose; Gesù, a cui obbediscono tremebondi gli alati serafini, sì Gesù, obbedisce alla sua creatura, alla Vergine sposa di Giuseppe; obbedisce a Maria, povera, ignorata, dimenticata; et erat subditus illis (Luca). Obbedisce a Maria, perché Maria è sua Madre. Maria Madre di Dio! È una dignità, che tocca l’infinito; così il beato Alberto Magno. — Dio può fare dei mondi più belli, ma non può fare una Madre più bella e grande di Maria; così S. Bonaventura.

— Maria stessa nell’estasi dell’amore, che ammira ed esulta, esclama rapita: Cose meravigliose ha operato in me 1’Onnipotente. Fecit mihi magna qui potens est. Maria Madre di Dio è un prodigio unico dell’amore onnipotente di Dio. Et virtus Altissimi obumbrabit tibi.

PARTE SECONDA

III. La divina maternità della Vergine è il fondamento inconcusso della nostra confidenza in Maria. —

Il Padre, come l’ha associata alla sua paternità di natura riguardo al Verbo incarnato, così 1’ha associata alla sua paternità di adozione verso di noi suoi figli adottivi.

— Quindi ne viene, che Maria è potente…, ed ancora che Maria ci ama, ed ha pietà di noi.

(a) È la figlia primogenita dell’Altissimo, e non può certo avere un rifiuto dal Padre, che la vide così generosa ed intrepida nel sacrificare tutta se stessa per entrare nelle sue amorose e divine intenzioni. — Gesù Cristo nulla negava sulla terra alla Madre sua; per lei, alle nozze di Cana, anticipava 1’ora dei miracoli; la coronava regina degli angeli e dei santi, del cielo e della terra; oh! Gesù Cristo nulla può negare ai desideri, alle suppliche della sua Genitrice. – In cielo Maria è l’arbitra, la regina, la tesoriera del Cuore di Gesù, che sulla croce affidava all’amore della Madre sua la causa della Chiesa, di tutti i credenti. Quindi (il Damiani) la preghiera di Maria, i n cielo, non è una supplica, ma un comando; e, se Dio è onnipotente per natura, Maria è onnipotente per grazia. Omnapotentia supplex. Infatti la potenza di Maria deve corrispondere ai privilegi ricevuti, alla santità da lei acquistata, al ministero sublimissimo esercitato lungo la vita, alla sua cooperazione nell’Incarnazione e nella Redenzione. — Ora, tutto questo, solo Iddio lo può comprendere nella sua totalità; e così pure Dio solo conosce i limiti della potenza di Maria.

(b) Madre di Gesù: ma lo divenne solo per noi, che siamo i fratelli minori di Gesù, nostro fratello primogenito: quindi siamo suoi figli adottivi, figli di amore. — Come, per farla Madre del suo Figlio divino, il Padre la ricoprì della sua ombra onnipotente, così per far la nostra madre di adozione le trasfuse nel cuore le tenerezze della sua misericordia e bontà. — Ella, dice S. Agostino, è veramente nostra madre secondo lo spirito, perché colla sua carità ha cooperato alla nascita dei fedeli nella Chiesa. – Di più, Maria è entrata nelle intenzioni, nei desideri, negli affetti del Cuore amoroso di Gesù, che per noi patì e morì sulla croce; e, dopo Gesù, non vi è chi ci ami, quanto la Vergine Madre di Dio. Per noi accettò di diventare Madre del nostro Redentore; per noi l’offerse sull’altare del tempio; per noi lo nutrì, lo vegliò, lo riservò ai flagelli, alla croce, alla morte; per noi volle essere presente agli estremi aneliti del suo Diletto crocefisso; per noi, se fossero mancati i carnefici, lo avrebbe confitto sul legno ferale. — E per questo suo amore meritò, che 1’agonizzante Signore la proclamasse ufficialmente Madre nostra; Donna, ecco il tuo figlio. In Ioanne intelligimus omnes, quorum beata Virgo per charitatem effecta est mater (S. Bernardino da Siena).

E Maria ci ama. — Lo dicono i templi, gli altari a lei dedicati, le lampade votive, i cuori d’argento sospesi alle pareti dei suoi santuari; i ceri scintillanti, i fiori olezzanti innanzi alle sue immagini. — Lo dice la storia della Chiesa e del mondo; gl’immensi pellegrinaggi alle cappelle a lei sacre: soprattutto lo dice il nostro cuore sussultante di amore per la nostra tenerissima Madre celeste. Col cuore gonfio di gioia, di confidenza e di amore, andiamo a questo mistico Trono di misericordia, andiamo a Maria. A lei ergiamo suppliche ardenti per noi, per la Chiesa, per la società, per i derelitti, per i peccatori. – Alle sue mani materne affidiamo 1’anima nostra, il nostro corpo, la nostra famiglia, i nostri interessi, e con tutta confidenza la preghiamo di farci sentire gli effetti del suo amore.

— Monstra te esse matrem. Sì, o Maria, tu sei la Madre nostra. Con la tua potenza abbatti le infernali squadre, congiurate alla nostra eterna rovina. — In gemito e pianto a te innalziamo la prece, la pupilla, il cuore. — Tergi le nostre lagrime, ci sostieni se deboli, ci illumina se dubbiosi; ne allontana i perigli, ci afforza nella lotta, ci dona la vittoria, ne ottieni il trionfo. — Ci accogli peccatori, ne scuoti se tiepidi, ed ai giusti dona la perseveranza nel bene. – O clemente, o pia, o dolce Vergine Maria, la tua parola tutto può, tutto ottiene, tutto strappa al Cuore di Dio … Dilla dunque anche per noi peccatori, questa parola di amore… E nel cielo canteremo in eterno le lodi della tua materna potenza e bontà. Et virtus Altissimi obumbrabit tibi.

L’Angelus.

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, vol. I, Ed. Paoline, Alba 1957- impr.]

Non chiuderemo questa giornata senza ricordare e raccomandare la pia e salutare istituzione che la cristianità solennizza giornalmente in ogni paese cattolico, in onore del mistero dell’Incarnazione e della divina maternità di Maria. Tre volte al giorno, al mattino, a mezzogiorno e alla sera, si ode la campana e i fedeli, all’invito di quel suono si uniscono all’Angelo Gabriele per salutare la Vergine Maria e glorificare il momento in cui lo stesso Figlio di Dio si compiacque assumere umana carne in Lei. – Dall’Incarnazione del Verbo il nome suo è echeggiato nel mondo intero. Dall’Oriente all’Occidente è grande il nome del Signore; ma è pur grande il nome di Maria sua Madre. Da qui il bisogno del ringraziamento quotidiano per il mistero dell’Annunciazione, in cui agli uomini fu dato il Figlio di Dio. Troviamo traccia di questa pratica nel xiv secolo, quando Giovanni XXII apre il tesoro delle indulgenze a favore dei fedeli che reciteranno l’Ave Maria, la sera, al suono della campana che ricorda loro la Madre di Dio. – Nel XV secolo S. Antonino c’informa nella sua Somma che il suono delle campane si faceva, allora, mattina e sera nella Toscana. Solo nel XVI secolo troviamo in un documento francese citato da Mabillon il suono delle campane a mezzogiorno, che si aggiunge a quello dell’aurora e del tramonto. Fu così che Leone X approvò tale devozione, nel 1513, per l’abbazia di Saint-Germain des Près, a Parigi. D’allora in poi l’intera cristianità la tenne in onore con tutte le sue modifiche; i Papi moltiplicarono le indulgenze; dopo quelle di Giovanni XXII e di Leone X, nel XVIII secolo furono emanate quelle di Benedetto XIII; ed ebbe tale importanza la pratica, che a Roma, durante l’anno giubilare, in cui tutte le indulgenze eccetto quelle del pellegrinaggio a Roma, rimangono sospese, stabilì che le tre salutazioni che si suonano in onore di Maria, avrebbero dovuto continuare ad invitare i fedeli a glorificare insieme il Verbo fatto carne. Quanto a Maria, lo Spirito Santo aveva già preannunciati i tre termini della pia pratica, esortandoci a celebrarla soave « come l’aurora » al suo sorgere, splendente « come il sole » nel suo meriggio e bella « come la luna » nel suo riflesso argenteo.

331

a)

– Angelus Domini nuntiavit Mariæ,

Et concepit de Spiritu Sancto.

Ave Maria.

– Ecce ancilla Domini,

Fiat mihi secundum verbum tuum.

Ave Maria.

– Et Verbum caro factum est,

Et habitavit in nobis.

Ave Maria.

Ora prò nobis, sancta Dei Genitrix,

Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Oremus.

Gratiam tuam, quæsumus Domine, mentibus nostris infunde: ut qui, Angelo nuntiante, Christi Filii tui incarnationem cognovimus, per passionem eius et crucem ad resurrectionis gloriam perducamur. Per eumdem Christum Dominum nostrum. Amen.

b)

Regina cœli lætare, alleluia:

Quia quem meruisti portare, alleluia,

Resurrexit, sicut dixit, alleluia.

Ora prò nobis Deum, alleluia,

Gaude et lætare, Virgo Maria, alleluia,

Quia surrexit Dominus vere, alleluia.

Oremus.

Deus, qui per resurrectionem Filii tui Domini nostri Iesu Christi mundum lætificare dignatus es: præsta quœsumus, ut per eius Genitricem Virginem Mariam perpetuæ capiamus gaudia vitae. Per eumdem Christum Dominum nostrum. Amen (ex Brev. Rom.). [Nel periodo pasquale]

[Fidelibus, qui cum primo diluculo, tum meridiano tempore, tum sub vesperam vel cum primum postea potuerint,  precationem Angelus Domini cum statutis versiculis et oratione, aut tempore paschali antiphonam Regina cœli item cum usìtata oratione, aut demum quinquies salutationem angelicam Ave Maria devote recitaverint, conceditur [ai fedeli che avranno recitato al mattino, mezzogiorno e sera le preghiere suddette con versicolo e orazione, si concede …]:

Indulgentia decem annorum [dieci anni] quoties id egerint [ogni volta]; Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem eamdem recitationem persolverint (S. Pæn. Ap., 20 febr. 1933). [ENCHIRIDION INDULGENTIARUM, Tip. Pol. Vatic. – 1952]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: IL FERMO PROPOSITO

Questa stupenda enciclica di Papa Sarto, scritta in italiano, si collega al Magistero del suo “immenso” predecessore, Papa Leone XIII, ed in particolare alla lettera cardine delle Encicliche sociali, la “Rerum Novarum”, della quale si ricordano i principi ivi enunciati. Qui poi il Santo Padre ancora annuncia e ribadisce che, nella soluzione dei problemi sociali, oltre che spirituali, occorre “restaurare tutto in Cristo”, motto del suo Pontificato ed ineludibile principio di vita, fondamento imprescindibile di ogni azione sociale e politica, oltre che naturalmente spirituale. A questo principio deve conformarsi, secondo il Sommo Pontefice, ogni azione o attività del Cattolico, religioso o laico; nell’ambito sociale e politico si ribadisce, una volta di più, la necessità dell’osservanza della dottrina cattolica e la sottomissione umile e piena alla Santa Chiesa di Cristo, la Chiesa Cattolica ed alla sua Gerarchia. Sono i princîpi di sempre della dottrina cristiana, che hanno portato in altri tempi uomini bruti, pagani, incivili, barbari, alla sommità della civiltà umana in ogni campo ed in ogni luogo. Questi sono i princîpi che purtroppo coloro che reggono oggi i destini dei popoli, i politici di ogni schieramento e fazione, hanno abiurato, apostatato e contraddetto ostinatamente, cercando inutilmente “ricette” e filosofie alternative che si dimostrano nel tempo pure disastrose, foriere di indigenza e distruzione materiale, di instabilità sociale, disperazione personale e di gruppo, di tracolli e crisi economiche di ogni tipo, senza trovare soluzione alcuna capace di incidere sui reali bisogni delle popolazioni, ormai asservite a sistemi falsamente democratici, ove regna l’interesse di pochi, oppressori di deboli e di [resi] miseri. Riprendano le guide dei popoli, i concetti che la Chiesa Cattolica ha espresso infallibilmente nel tempo, se si vuole veramente riportare l’umana società alla concordia sociale ed al benessere sia materiale che soprattutto spirituale, veicolo per raggiungere l’unico obiettivo dell’essere umano: la salvezza eterna.

san Pio X

Il fermo proposito

Lettera Enciclica

Il fermo proposito, che fin dai primordi del Nostro Pontificato abbiamo concepito, di voler consacrare tutte le forze che la benignità del Signore si degna concederCi alla restaurazione di ogni cosa in Cristo, Ci risveglia nel cuore una grande fiducia nella potente grazia di Dio, senza la quale nulla di grande e di fecondo per la salute delle anime possiamo pensare od imprendere quaggiù. Nello stesso tempo però sentiamo più che mai vivo il bisogno di essere secondati unanimemente e costantemente nella nobile impresa da voi, Venerabili Fratelli, chiamati a parte dell’ufficio Nostro pastorale, da ognuno del Clero e dei singoli fedeli alle vostre cure commessi. Tutti in vero nella Chiesa di Dio siamo chiamati a formare quell’unico corpo, il cui capo è Cristo: corpo strettamente compaginato, come insegna l’Apostolo Paolo (Eph. IV, 16), e ben commesso in tutte le sue giunture comunicanti, e questo in virtù dell’operazione proporzionata di ogni singolo membro, onde il corpo stesso prende l’aumento suo proprio e di mano in mano si perfeziona nel vincolo della carità. E se in quest’opera di “edificazione Corpo di Cristo” (Eph. IV, 12) è Nostro primo ufficio d’insegnare, additare il retto modo da seguire e proporne i mezzi, di ammonire ed esortare paternamente, è altresì dovere di tutti i Nostri figliuoli dilettissimi, sparsi pel mondo, di accogliere le parole Nostre, di attuarle dapprima in se stessi e di concorrere efficacemente ad attuarle eziandio negli altri, ciascuno secondo la grazia da Dio ricevuta, secondo il suo stato ed ufficio, secondo lo zelo che ne infiamma il cuore. – Qui vogliamo soltanto ricordare quelle molteplici opere di zelo in bene della Chiesa, della società e degli individui particolari, comunemente designati col nome di azione cattolica, che fioriscono per grazia di Dio in ogni luogo e che abbondano altresì nella nostra Italia. Voi ben intendete, Venerabili Fratelli, quanto esse Ci debbano tornar care e quanto intimamente bramiamo di vederle rassodate e promosse. Non solo a più riprese ne abbiamo trattato a voce con parecchi almeno di voi, e col principali loro rappresentanti in Italia nell’occasione che essi Ci recavano in persona l’omaggio della loro devozione e del loro affetto filiale, ma altresì pubblicando Noi su questo argomento o facendo pubblicare con la Nostra Autorità vari Atti, che tutti già conoscete. Vero è che alcuni di questi, come richiedevano le circostanze per Noi dolorose, erano piuttosto diretti a rimuovere gli ostacoli al più spedito procedere dell’azione cattolica e a condannare certe tendenze indisciplinate, che con grave danno della causa comune si andavano insinuando. Però Ci tardava il cuore di rivolgere a tutti eziandio una parola di paterno conforto e di eccitamento acciocché sul terreno, per quanto è da Noi, sgombro dagli impedimenti, si continui ad edificare il bene e ad accrescerlo largamente. Ci è dunque ben grato di farlo ora con le presenti Nostre Lettere a comune consolazione, nella certezza che le parole Nostre saranno da tutti dolcemente ascoltate e seguite. – Vastissimo è il campo dell’azione cattolica, la quale per sé medesima non esclude assolutamente nulla di quanto, in qualsiasi modo, diretto od indiretto, appartiene alla divina missione della Chiesa. Di leggieri si riconosce la necessità del concorso individuale a tant’opera, non solo per la santificazione delle anime nostre, ma anche per diffondere e sempre meglio dilatare il Regno di Dio negli individui, nelle famiglie e nella società, procurando ciascuno, secondo le proprie forze, il bene del prossimo con la diffusione della verità rivelata, con l’esercizio delle virtù cristiane e con le opere di carità o di misericordia spirituale e corporale. Questo è il camminare degno di Dio, a che ci esorta San Paolo, così da piacergli in ogni cosa, producendo frutti di ogni opera buona e crescendo nella scienza di Dio: “Ut ambuletis digne Deo per omnia placentes: in omni opere bono fructificantes et crescentes in scentia Dei” (Coloss. I, 10). – Oltre a questi però v’è un gran numero di beni appartenenti all’ordine naturale a cui la missione della Chiesa non è direttamente ordinata, ma che pure sgorgano dalla medesima, quasi naturale sua conseguenza. Tanta è la luce della Rivelazione cattolica, che si diffonde vivissima su ogni scienza; tanta la forza delle massime evangeliche, che i precetti della legge naturale si radicano più sicuri ed ingagliardiscono; tanta infine l’efficacia della verità e della morale insegnate da Gesù Cristo, che lo stesso benessere materiale degli individui, della famiglia e della società umana si trova provvidenzialmente sostenuto e promosso. La Chiesa, pure predicando Gesù Cristo crocifisso, scandalo e stoltezza innanzi al mondo (I Cor. I, 23), è divenuta ispiratrice e fautrice primissima di civiltà; e la diffusione per tutto dove predicavano i suoi Apostoli, conservando e perfezionando gli elementi buoni delle antiche civiltà pagane, strappando dalla barbarie ed educando a civile consorzio i nuovi popoli che al suo seno materno si rifugiavano, diede all’intera società, bensì a poco a poco, ma con tratto sicuro e sempre più progressivo, quell’impronta tanto spiccata, che ancora oggi universalmente conserva. La civiltà del mondo è civiltà cristiana; tanto è più vera, più durevole, più feconda di frutti preziosi, quanto è più nettamente cristiana; tanto declina, con immenso danno del bene sociale, quanto all’idea cristiana si sottrae. Onde, per la forza intrinseca delle cose, la Chiesa divenne anche di fatto custode e vindice della civiltà cristiana. E tale fatto in altri secoli della storia fu riconosciuto e ammesso; formò anzi il fondamento inconcusso delle legislazioni civili. Su quel fatto poggiarono le relazioni tra la Chiesa e gli Stati, il pubblico riconoscimento dell’autorità della Chiesa nelle materie tutte che toccano in qualsivoglia modo la coscienza, la subordinazione di tutte le leggi dello Stato alle divine leggi del Vangelo, la concordia dei due poteri dello Stato e della Chiesa, nel procurare in tal modo il bene temporale dei popoli, che non ne abbia a soffrire l’eterno. – Non abbiamo bisogno di dirvi, o Venerabili Fratelli, quale prosperità e benessere, quale pace e concordia, quale rispettosa soggezione all’autorità e quale eccellente governo si otterrebbero e si manterrebbero nel mondo, se si potesse attuare ovunque il perfetto ideale della civiltà cristiana. Ma posta la lotta continua della carne contro lo spirito, delle tenebre contro la luce, di satana contro Dio, tanto non è da sperare, almeno nella sua piena misura. Onde continui strappi si vanno facendo alle pacifiche conquiste della Chiesa, tanto più dolorosi e funesti, quanto più la società umana tende a reggersi con principi avversi al concetto cristiano, anzi ad apostatare interamente da Dio. – Non per questo è da perdere punto il coraggio. La Chiesa sa che le porte dell’inferno non prevarranno contro di lei; ma sa ancora che avrà nel mondo premura, che i suoi Apostoli sono inviati come agnelli tra lupi, che i suoi seguaci saranno sempre coperti d’odio e di disprezzo, come d’odio e di disprezzo fu saturato il divino suo Fondatore. La Chiesa va quindi innanzi imperterrita, e mentre diffonde il Regno di Dio là dove non fu peranco pregiudicato, si studia per ogni maniera di riparare alle perdite nel Regno già conquistato. “Restaurare tutto in Cristo” è stata sempre la divisa della Chiesa, ed è particolarmente la Nostra nei trepidi momenti che traversiamo. Ristorare ogni cosa, non in qualsivoglia modo, ma in Cristo: “in Lui, tutte le cose che sono in Cielo ed in terra, soggiunse l’Apostolo (Eph. I, 10): ristorare in Cristo non solo ciò che appartiene propriamente alla divina missione della Chiesa di condurre le anime a Dio, ma anche ciò che, come abbiamo spiegato, da quella divina missione spontaneamente deriva, la civiltà cristiana nel complesso di tutti e singoli gli elementi che la costituiscono. – E poiché Ci fermiamo a quest’ultima sola parte della restaurazione desiderata, voi vedete, o Venerabili Fratelli, di quanto aiuto tornano alla Chiesa quelle schiere elette di Cattolici che si propongono appunto di riunire insieme tutte le forze vive, a fine di combattere con ogni mezzo giusto e legale la civiltà anticristiana, riparare per ogni modo i disordini gravissimi che da quella derivano; ricondurre Gesù Cristo nella famiglia, nella scuola, nella società; ristabilire il principio dell’autorità umana come rappresentante di quella di Dio; prendere sommamente a cuore gli interessi del popolo e particolarmente del ceto operaio ed agricolo, non solo istillando nel cuore di tutti il principio religioso, unico vero fonte di consolazione nelle angustie della vita, ma studiandosi di rasciugarne le lacrime, di raddolcirne le pene, di migliorare la condizione economica con ben condotti provvedimenti; adoperarsi quindi perché le pubbliche leggi siano informate a giustizia, e si correggano o vadano soppresse quelle che alla giustizia si oppongono: difendere infine e sostenere con animo veramente cattolico i diritti di Dio in ogni cosa e quelli non meno sacri della Chiesa. – Il complesso di tutte queste opere sostenute e promosse in gran parte dal laicato cattolico e variamente ideate a seconda dei bisogni propri di ogni nazione e delle circostanze particolari in cui versa ogni paese, è appunto quello che con termine più particolare e certo nobile assai suoi essere chiamato azione cattolica, ovvero azione dei cattolici. Essa in tutti i tempi venne sempre in aiuto della Chiesa, e la Chiesa tale aiuto ha sempre accolto favorevolmente e benedetto, sebbene a seconda dei tempi si sia variamente esplicato. – Ed è infatti da notare qui subito, che non tutto ciò che potrà essere stato utile, anzi unicamente efficace nei secoli andati, torna oggi possibile restituire allo stesso modo: tanti sono i cangiamenti radicali che col correre dei tempi s’insinuano nella società o nella vita pubblica, e tanti i nuovi bisogni che le circostanze cambiate vanno di continuo suscitando. Ma la Chiesa nel lungo corso della sua storia ha sempre ed in ogni caso dimostrato luminosamente di possedere una meravigliosa virtù di adattamento alle variabili condizioni del consorzio civile, talché, salva sempre l’integrità e l’immutabilità della fede e della morale, e salvi egualmente i sacrosanti suoi diritti, facilmente si piega e si accomoda in tutto ciò che è contingente ed accidentale alle vicende dei tempi ed alle nuove esigenze della società. La pietà, dice San Paolo, a tutto si acconcia possedendo le promesse divine, così per i beni della vita presente, come per quelli della vita futura. “Pietas autem ad omnia utilis est, promissionem habens vitæ, quæ nunc est, et futuræ” (I Tim. IV, 8). E però anche l’azione cattolica, se opportunamente cambia nelle sue forme esterne e nei mezzi che adopera, rimane sempre la stessa nei principi che la dirigono e nel fine nobilissimo che si propone. Perché poi nello stesso tempo torni veramente efficace, converrà diligentemente avvertire le condizioni che essa medesima impone, se ben si considerino la sua natura ed il suo fine. – Anzitutto dov’essere altamente radicato nel cuore che lo strumento vien meno, se non è acconcio all’opera che si vuol eseguire. L’azione cattolica (come si ritrae ad evidenza dalle cose anzidette) poiché si propone di ristorare ogni cosa in Cristo, costituisce un vero apostolato ad onore e gloria di Cristo stesso. Per bene compierlo ci vuole la grazia divina, e questa non si dà all’apostolo che non sia unito a Cristo. Solo quando avremo formato Gesù Cristo in noi, potremo più facilmente ridonarlo alle famiglie, alla società. E però quanti sono chiamati a dirigere o si dedicano a promuovere il movimento cattolico devono essere cattolici a tutta prova, convinti della loro fede, sodamente istruiti nelle cose della Religione, sinceramente ossequienti alla Chiesa ed in particolare a questa suprema Cattedra Apostolica ed al Vicario di Gesù Cristo in terra; di pietà vera, di maschie virtù, di puri costumi e di vita così intemerata che tornino a tutti di esempio efficace. Se l’animo non è così temprato, non solo sarà difficile promuovere negli altri il bene, ma sarà quasi impossibile procedere con rettitudine d’intenzione e mancheranno le forze per sostenere con perseveranza le noie che reca seco ogni apostolato, le calunnie degli avversari, le freddezze e la poca corrispondenza degli uomini anche dabbene, talvolta perfino le gelosie degli amici e degli stessi compagni di azione, scusabili senza dubbio, posta la debolezza dell’umana natura, ma pure grandemente pregiudizievoli e causa di discordie, di attriti, di domestiche guerricciuole. Solo una virtù paziente e ferma nel bene, e nello stesso tempo soave e delicata, è capace di rimuovere o diminuire questa difficoltà, così che l’opera a cui sono dedicate le forze cattoliche non ne vada compromessa. Tale è la volontà di Dio, diceva San Pietro ai primitivi fedeli, che col ben fare chiudiate la bocca agli uomini stolti. “Sic est voluntas Dei, ut bene facientes obmutescere faciatis imprudentium hominum ignorantiam” (I Petr. II, 15). – Importa inoltre ben definire le opere intorno alle quali si devono spendere con ogni energia e costanza le forze cattoliche. Quelle opere devono essere di così evidente importanza, così rispondenti ai bisogni della società odierna, così acconce agli interessi morali e materiali, soprattutto del popolo e delle classi diseredate, che mentre infondono ogni migliore alacrità dei promotori dell’azione cattolica pel grande e sicuro frutto che da sé medesime promettono, siano insieme da tutti e facilmente comprese ed accolte volonterosamente. Appunto perché i gravi problemi della vita odierna sociale esigono una soluzione pronta e sicura, si desta in tutti il più vivo interesse di sapere e conoscere i vari modi onde quelle soluzioni si propongono in pratica. Le discussioni in un senso o nell’altro si moltiplicano ogni dì più e si propagano facilmente per mezzo della stampa. È quindi supremamente necessario che l’azione cattolica colga il momento opportuno, si faccia innanzi coraggiosa e proponga anch’essa la soluzione sua e la faccia valere con propaganda ferma, attiva, intelligente, disciplinata, tale che direttamente si opponga alla propaganda avversaria. La bontà e giustizia dei principi cristiani, la retta morale che professano i cattolici, il pieno disinteresse delle cose proprie non altro apertamente e sinceramente bramando che il vero, il solo, il supremo bene altrui, infine l’evidente loro capacità di promuovere meglio degli altri anche i veri interessi economici del popolo, è impossibile non facciano breccia sulla mente e sul cuore di quanti ascoltano e non ne aumentino le file, fino a renderli un corpo forte e compatto, capace di resistere gagliardamente alla contraria corrente e di tenere in rispetto gli avversari. – Tale supremo bisogno avvertì pienamente il Nostro Antecessore di b. m. Leone XIII, additando soprattutto nella memoranda Enciclica “Rerum Novarum” ed in altri documenti posteriori, l’oggetto intorno al quale precipuamente doveva svolgersi l’azione cattolica, cioè “la pratica soluzione a seconda dei principi cristiani della questione sociale“. Noi pure, seguendo così sapienti norme, col Nostro Motu proprio del 18 Dicembre 1903 abbiamo dato all’azione popolare cristiana, che in sé comprende tutto il movimento cattolico sociale, un ordinamento fondamentale che fosse quasi la regola pratica del lavoro comune ed il vincolo della concordia e della carità. Qui dunque ed a questo scopo santissimo e necessarissimo devono anzitutto aggrupparsi e solidarsi le opere cattoliche, varie e molteplici nella forma, ma tutte egualmente intese a promuovere con efficacia il medesimo bene sociale. – Ma perché quest’azione sociale si mantenga e prosperi con la necessaria coesione delle varie opere che la compongono è soprammodo importante che i cattolici procedano con esemplare concordia tra loro; la quale per altro non si otterrà mai, se non vi ha in tutti unità di intendimenti. Su tale necessità non può cadere dubbio di sorta alcuna; tanto chiari ed aperti sono gli insegnamenti dati da questa Cattedra Apostolica, tanta la viva luce che vi hanno sparso intorno coi loro scritti i più insigni tra Cattolici d’ogni paese, tanto lodevole esempio che più volte, anche da Noi medesimi, si è proposto ai Cattolici di altre nazioni, i quali appunto per questa concordia ed unità di intendimenti, in breve tempo hanno ottenuto frutti fecondi e assai consolanti. – Ad assicurarne poi il conseguimento, tra le varie opere degne egualmente di lode, si è dimostrata altrove singolarmente efficace un’istituzione di carattere generale, che col nome di Unione popolare è destinata ad accogliere i Cattolici di tutte le classi sociali, ma specialmente le grandi moltitudini del popolo intorno ad un solo centro comune di dottrina, di propaganda e di organizzazione sociale. Essa infatti, poiché risponde ad un bisogno egualmente sentito quasi in ogni paese, e poiché la sua semplice costituzione risulta dalla natura stessa delle cose quali egualmente per tutto s’incontrano, non può dirsi che sia propria più di una nazione che di un’altra, ma di tutte, dove si manifestano gli stessi bisogni e sorgono i medesimi pericoli. La sua grande popolarità la rende facilmente cara ed accettevole e non disturba né impedisce alcun’altra istituzione ma piuttosto a tutte le istituzioni dà forza e compattezza poiché con la sua organizzazione strettamente personale sprona gli individui a entrare nelle istituzioni particolari, li addestra al lavoro pratico e veramente proficuo, ed unisce gli animi di tutti in un unico sentire e volere. – Stabilito così codesto centro sociale, tutte le altre istituzioni d’indole economica, destinate a risolvere praticamente e sotto i vari suoi aspetti il problema sociale, si trovano come spontaneamente raggruppate insieme nel fine generale che le unisce, mentre pure, a seconda dei vari bisogni a cui si applicano, prendono forme diverse e diversi mezzi adoperano, come richiede lo scopo particolare proprio di ciascuna. E qui Ci torna ben caro di esprimere la Nostra soddisfazione pel molto che in questa parte si è già fatto in Italia, con certa speranza che, posto l’aiuto divino, si faccia ancora assai più nell’avvenire, rassodando il bene ottenuto e dilatandolo con zelo sempre più crescente. Nel che si rese grandemente benemerita l’Opera dei Congressi e Comitati Cattolici, grazie all’attività intelligente degli uomini esimi che la dirigevano, e che a quelle particolari istituzioni furono preposti o le dirigono tuttora. E però tale centro od unione di opere d’indole economica, come fu da Noi espressamente conservata al cessare dell’anzidetta Opera dei Congressi, così dovrà continuare anche in seguito sotto la solerte direzione di coloro che le sono preposti. – Contuttociò, perché l’azione cattolica sia efficace sotto ogni rispetto, non basta che essa sia proporzionata ai bisogni sociali odierni; conviene ancora che si faccia valere con tutti quei mezzi pratici, che le mettono oggi in mano il progresso degli studi sociali ed economici, l’esperienza già fatta altrove, le condizioni del civile consorzio, la stessa vita pubblica degli Stati. Altrimenti si corre rischio di andare tentoni lungo tempo in cerca di cose nuove e mal sicure, mentre le buone e certe si hanno in mano ed hanno fatto già ottima prova; ovvero di proporre istituzioni e metodi propri forse di altri tempi, ma oggi non intesi dal popolo, ovvero infine di arrestarsi a mezza via non servendosi, nella misura pur concessa, di quei diritti cittadini che le odierne costituzioni civili offrono a tutti e quindi anche ai Cattolici. E per fermarsi a quest’ultimo punto, certo è che l’odierno ordinamento degli Stati offre indistintamente a tutti la facoltà di influire sulla pubblica cosa, ed i Cattolici, salvo gli obblighi imposti dalla legge di Dio e dalle prescrizioni della Chiesa, possono con sicura coscienza giovarsene, per mostrarsi idonei al pari, anzi meglio degli altri, di cooperare al benessere materiale civile del popolo ed acquistarsi così quell’autorità e quel rispetto che rendano loro possibile eziandio di difendere e promuovere i beni più alti, che sono quelli dell’anima. – Quei diritti civili sono parecchi e di vario genere, fino a quello di partecipare direttamente alla vita politica del paese rappresentando il popolo nelle aule legislative. Ragioni gravissime Ci dissuadono, Venerabili Fratelli, dallo scostarsi da quella norma già decretata dal Nostro Antecessore di s. m. Pio IX e seguita poi dall’altro Nostro Antecessore di s. m. Leone XIII durante il diuturno suo Pontificato, secondo la quale rimane in genere vietata in Italia la partecipazione dei Cattolici al potere legislativo. Sennonché altre ragioni parimenti gravissime, tratte dal supremo bene della società, che ad ogni costo deve salvarsi, possono richiedere che nei casi particolari si dispensi dalla legge, specialmente quando voi, Venerabili Fratelli, ne riconosciate la stretta necessità pel bene delle anime e dei supremi interessi delle vostre Chiese e ne facciate domanda. – Ora la possibilità di questa benigna concessione Nostra induce il dovere nei Cattolici tutti di prepararsi prudentemente e seriamente alla vita politica, quando vi fossero chiamati. Onde importa assai, che quella stessa attività, già lodevolmente spiegata dai Cattolici per prepararsi con una buona organizzazione elettorale alla vita amministrativa dei Comuni e dei Consigli provinciali, si estenda altresì a prepararsi convenientemente e ad organizzarsi per la vita politica, come fu opportunamente raccomandato con la circolare del 3 dicembre 1904 alla Presidenza generale delle Opere economiche in Italia. Nello stesso tempo dovranno inculcarsi e seguirsi in pratica gli altri principi che regolano la coscienza di ogni vero cattolico. Deve egli ricordarsi sopra ogni cosa di essere in ogni circostanza e di apparire veramente cattolico, accedendo agli offici pubblici ed esercitandoli col fermo e costante proposito di promuovere a tutto potere il bene sociale ed economico della Patria e particolarmente del popolo, secondo le massime della civiltà spiccatamente cristiana e di difendere insieme gli interessi della Chiesa, che sono quelli della Religione e della giustizia. – Tali sono, Venerabili Fratelli, i caratteri, l’oggetto e le condizioni dell’azione cattolica, considerata nella parte sua più importante, che è la soluzione della questione sociale, degna quindi che vi si applichino con la massima energia e costanza tutte le forze cattoliche. Il che però non esclude che si favoriscano e si promuovano anche altre opere di vario genere, di diversa organizzazione, ma tutte egualmente destinate a questo o quel bene particolare della società e del popolo ed a rifiorimento della civiltà cristiana sotto vari determinati aspetti. Sorgono esse per lo più grazie allo zelo di particolari persone e si diffondono nelle singole diocesi e talvolta si aggruppano in federazioni più estese. Ora, sempreché sia lodevole il fine che si propongono, siano fermi i principi cristiani che seguono e giusti i mezzi che adoperano, sono anch’esse da lodare e incoraggiare per ogni modo. E si dovrà lasciare loro una certa libertà di organizzazione, non essendo possibile, che dove più persone convengono insieme, si modellino tutte in medesimo stampo e si accentrino sotto un’unica direzione. L’organizzazione poi deve sorgere spontanea dalle opere stesse, altrimenti si avranno edifici bene architettati, ma privi di fondamento reale e perciò al tutto effimeri. Conviene pure tener conto dell’indole delle singole popolazioni. Altri usi, altre tendenze si manifestano in luoghi diversi. Quel che importa è che si lavori su buon fondamento, con sodezza di principi, con fervore e costanza, e se questo si ottiene, il modo e la forma che prendono le varie opere, sono e rimangono accidentali. – Per rinnovare ed infine accrescere in tutte indistintamente le opere cattoliche l’alacrità necessaria, e per offrire occasione ai promotori e ai membri delle medesime di vedersi e conoscersi scambievolmente, di stringere sempre meglio i vincoli della carità fraterna fra loro, d’animarsi l’un l’altro con zelo sempre più ardente all’azione efficace e di provvedere alla migliore solidità e diffusione delle opere stesse, gioverà mirabilmente il celebrare di tempo in tempo, secondo le norme già date da questa Santa Sede, i Congressi generali e parziali dei Cattolici italiani, che devono essere la solenne manifestazione della fede cattolica e la festa comune della concordia e della pace. – Ci resta a toccare, Venerabili Fratelli, di un altro punto di somma importanza, ed è la relazione che tutte le opere dell’azione cattolica devono avere rispetto all’Autorità ecclesiastica. Se bene si considerano le dottrine che siamo andati svolgendo nella prima parte di queste Nostre Lettere, si conchiuderà di leggieri, che tutte quelle opere che direttamente vengono in sussidio del ministero spirituale pastorale della Chiesa e che si propongono un fine religioso in bene diretto delle anime, devono in ogni menoma cosa essere subordinate all’autorità dei Vescovi, posti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio nelle diocesi loro assegnate. Ma anche le altre opere, che, come abbiamo detto, sono precipuamente istituite a ristorare e promuovere in Cristo la vera civiltà cristiana e che costituiscono nel senso spiegato l’azione cattolica, non si possono per niun modo concepire indipendenti dal consiglio e dall’alta direzione dell’Autorità ecclesiastica, specialmente poi in quanto devono tutte informarsi ai principi della dottrina e della morale cristiana; molto meno è possibile concepirle in opposizione più o meno aperta con la medesima Autorità. Certo è che tali opere, posta la natura loro, si debbono muovere con la conveniente ragionevole libertà, ricadendo sopra di loro la responsabilità dell’azione, soprattutto poi negli affari temporali ed economici ed in quelli della vita pubblica amministrativa o politica, alieni dal ministero puramente spirituale. Ma poiché i Cattolici alzano sempre la bandiera di Cristo, per ciò stesso alzano la bandiera della Chiesa, ed è quindi conveniente che la ricevano dalle mani della Chiesa, che la Chiesa ne vigili l’onore immacolato e che a questa materna vigilanza i Cattolici si sottomettano, docili ed amorevoli figliuoli. – Per la qual cosa appare manifesto quanto fossero sconsigliati coloro, pochi invero, che qui in Italia e sotto i Nostri occhi vollero accingersi a una missione che non ebbero da Noi, né da alcun altro dei Nostri Fratelli nell’episcopato, e si fecero a promuoverla, non solo senza il debito ossequio all’Autorità, ma perfino apertamente contro il volere di lei, cercando di legittimare la loro disobbedienza con frivole distinzioni. Dicevano anch’essi di alzare in nome di Cristo un vessillo; ma tal vessillo non poteva essere di Cristo, perché non recava tra le sue pieghe la dottrina del divin Redentore, che anche qui ha la sua applicazione: “Chi ascolta voi, ascolta me; e chi disprezza voi, disprezza me” (Luc. X, 16); “Chi non è meco è contro di me; e chi meco non raccoglie, disperde” (Ib. XI, 23), dottrina dunque di umiltà, di sommissione, di filiale rispetto. Con estremo rammarico del Nostro cuore abbiamo dovuto condannare una simile tendenza ed arrestare autorevolmente il moto pernicioso che già si andava formando. E tanto maggiore era il dolor Nostro, perché vedevamo incautamente trascinati per così falsa via buon numero di giovani a Noi carissimi, molti dei quali di eletto ingegno, di fervido zelo, capaci di operare efficacemente il bene, ove siano rettamente guidati. – Mentre però additiamo a tutti la retta norma dell’azione cattolica, non possiamo dissimulare, Venerabili Fratelli, il pericolo non lieve al quale, per la condizione dei tempi, si trova oggi esposto il Clero; ed è di dare soverchia importanza agli interessi materiali del popolo, trascurando quelli ben più gravi del sacro suo ministero. – Il sacerdote, elevato sopra gli altri uomini per compiere la missione che tiene da Dio, deve mantenersi egualmente al disopra di tutti gli umani interessi, di tutti i conflitti, di tutte le classi della società. Il suo proprio campo è la Chiesa, dove ambasciatore di Dio predica la verità ed inculca col rispetto dei diritti di Dio il rispetto ai diritti di tutte le creature. Così operando, egli non va soggetto ad alcuna opposizione, non apparisce un uomo di parte, fautore degli uni, avversario degli altri, né per evitare l’urto di certe tendenze o per non irritare in molti argomenti gli animi inaspriti si mette nel pericolo di dissimulare la verità o di tacerla, mancando nell’uno o nell’altro caso ai suoi doveri; senza dire che dovendo trattare ben spesso di cose materiali, potrebbe trovarsi solidale in obbligazioni dannose alla sua persona, e alla dignità del suo ministero. Non dovrà dunque prender parte ad associazioni di questo genere, se non dopo matura considerazione, d’accordo col suo Vescovo, ed in quei casi soltanto, ne’ quali l’aiuto suo è immune da ogni pericolo e torna di evidente profitto. – Né in tal maniera si raffrena punto il suo zelo. Il vero apostolo deve “farsi tutto a tutti, per tutti salvare” (I Cor. IX, 22); come già il divin Redentore, deve sentirsi muovere a pietà le viscere, “mirando le turbe così vessate, giacenti quasi pecore senza pastore” (Matth. IX, 36). Con la propaganda efficace degli scritti, con l’esortazione viva della parola, col concorso diretto nei casi anzidetti s’adoperi adunque a fine di migliorare eziandio, entro i limiti della giustizia e della carità, la condizione economica del popolo, favorendo e promovendo quelle istituzioni che a ciò conducono, quelle soprattutto che si propongono di ben disciplinare le moltitudini contro l’invadente predominio del socialismo e che ad un tempo le salvano e dalla rovina economica e dallo sfacelo morale e religioso. In questo modo l’assistenza del clero alle opere dell’azione cattolica mira ad un fine altamente religioso, né tornerà mai d’impedimento, sarà anzi di aiuto al suo ministero spirituale, allargandone il campo e moltiplicandone il frutto. – Ecco, o Venerabili Fratelli, quanto Ci premeva esporre ed inculcare intorno all’azione cattolica da sostenere e promuovere nella nostra Italia. —Additare il bene non basta; è necessario eseguirlo in pratica. Nel che tornerà di grandissimo aiuto l’esortazione vostra altresì ed il paterno vostro immediato eccitamento al ben fare. Siano pure umili i principi, purché veramente si cominci, la grazia divina li farà crescere in breve tempo e prosperare. E tutti i Nostri diletti figliuoli, che si dedicano all’azione cattolica, ascoltino di nuovo la parola che Ci sgorga tanto spontanea dal cuore. Nelle amarezze onde siamo tuttodì circondati, se vi ha alcuna consolazione in Cristo, se alcun conforto Ci vien dalla carità vostra, se vi ha comunione di spirito e viscere di compassione, diremo Noi pure con l’Apostolo Paolo (Phil. II, 1-5), rendete compiuto il Nostro gaudio con la concordia, con l’identica carità, col sentimento unanime, con l’umiltà e debita soggezione, cercando non il proprio comodo, ma il bene comune, e trasfondendo nei vostri cuori quei medesimi sentimenti, che in sé nutriva Gesù Cristo, Salvatore nostro. Sia Egli il principio di ogni vostra impresa: “Quanto voi dite o fate, sia tutto nel nome del Signore Gesù Cristo” (Coloss. III, 17); sia Egli il termine d’ogni vostra operazione: “Conciossiaché da Lui, e per Lui, ed a Lui sono tutte le cose; a Lui gloria nei secoli” (Rom. XI, 36). Ed in questo giorno faustissimo, che ricorda gli Apostoli, quando, ripieni di Spirito Santo, uscirono dal Cenacolo a predicare al mondo il Regno di Cristo, discenda eziandio su tutti voi la virtù del medesimo Spirito e pieghi ogni durezza, ritempri gli animi freddi, e quanto è sviato rimetta sul retto sentiero: “Flecte quod est rigidum, fove quod est frigidum, rege quod est devium“. – Auspice intanto del divino favore e pegno del Nostro specialissimo affetto sia l’Apostolica Benedizione, che dall’intimo del cuore impartiamo a voi, Venerabili Fratelli, al vostro Clero e al popolo italiano.

Dato a Roma, presso San Pietro, nella Festa della Pentecoste, 11 Giugno 1905, del Nostro Pontificato anno II.

DOMENICA IN ALBIS [2018]

DOMENICA I DOPO PASQUA

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus 1 Pet II, 2.

Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja. [Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia,]

Ps LXXX:2. Exsultáte Deo, adjutóri nostro: jubiláte Deo Jacob. [Inneggiate a Dio nostro aiuto; acclamate il Dio di Giacobbe.]

Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja. [Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia.]

Oratio

Orémus.

Præsta, quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui paschália festa perégimus, hæc, te largiénte, móribus et vita teneámus. [Concedi, Dio onnipotente, che, terminate le feste pasquali, noi, con la tua grazia, ne conserviamo il frutto nella vita e nella condotta.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joannis Apóstoli. – 1 Giov. V: 4-10.

“Caríssimi: Omne, quod natum est ex Deo, vincit mundum: et hæc est victoria, quæ vincit mundum, fides nostra. Quis est, qui vincit mundum, nisi qui credit, quóniam Jesus est Fílius Dei? Hic est, qui venit per aquam et sánguinem, Jesus Christus: non in aqua solum, sed in aqua et sánguine. Et Spíritus est, qui testificátur, quóniam Christus est véritas. Quóniam tres sunt, qui testimónium dant in coelo: Pater, Verbum, et Spíritus Sanctus: et hi tres unum sunt. Et tres sunt, qui testimónium dant in terra: Spíritus, et aqua, et sanguis: et hi tres unum sunt. Si testimónium hóminum accípimus, testimónium Dei majus est: quóniam hoc est testimónium Dei, quod majus est: quóniam testificátus est de Fílio suo. Qui credit in Fílium Dei, habet testimónium Dei in se”.  [Carissimi: chiunque è nato da Dio trionfa del mondo; e ciò che ha trionfato del mondo è la nostra fede. Chi è che vince il mondo, se non chi crede che Gesù è figliolo di Dio? È Lui che è venuto per mezzo dell’acqua e del sangue, Gesù Cristo: non nell’acqua solo, ma nell’acqua e nel sangue. Ed è lo Spirito che attesta, perché lo Spirito è verità. Poiché sono tre che rendono testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo: e questi tre sono una sola cosa. E sono tre che rendono testimonianza in terra: lo Spirito, l’acqua e il sangue: e questi tre sono concordi. Se ammettiamo la testimonianza degli uomini, dobbiamo tanto più ammettere la testimonianza di Dio, che è superiore. Ora è Dio stesso che ha reso testimonianza al suo Figlio. Chi crede nel figliolo di Dio ha in sé la testimonianza di Dio.]

Omelia I

[Mons. Bonomelli: “Nuovo saggio di Omelie”, Marietti ed. Torino, vol. I; 1899 – Omel. XV]

Di S. Giovanni, oltre il Vangelo, che porta il suo nome, abbiamo tre lettere: le due ultime piuttosto che lettere, si potrebbero dire biglietti, perché brevissime, affatto confidenziali e prive d’importanza sia dogmatica, sia morale, sia polemica, e indirizzate a persone private. – La prima lettera, da cui è tolto il brano recitatovi, è di grandissima rilevanza sotto ogni rispetto, e si direbbe un’eco del Vangelo, tanto a quello è somigliante. Quando fu scritta? Prima o dopo il Vangelo? Lo ignoriamo. A chi fu scritta? Questo pure ignoriamo, né di ciò vi è traccia in tutta la lettera: essa non porta indirizzo né a principio, né infine, non saluti, a differenza di tutte le altre lettere, e perciò sembra uno scritto esortativo indirizzato in generale alle Chiese da lui fondate. L’argomento della lettera è stabilire la divinità di Gesù Cristo e la verità della umana natura assunta, contro alcuni eretici gnostici, che cominciavano a negarla, e inculcare la necessità della fede in Lui e la carità scambievole fra i credenti. – Mandati innanzi questi pochi schiarimenti generali sulla lettera di S. Giovanni, poniamo mano alla spiegazione dei versetti, che avete udito. “Quanto è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria, che ha vinto il mondo, la nostra fede!” Che cosa è la terra, o dilettissimi? È un campo di battaglia. Chi sono i combattenti? Da una parte Cristo, coi suoi seguaci, che Lo precedettero, che vissero con Lui e che dopo di Lui vivranno fino al termine dei secoli, continuando l’opera di Lui; dall’altra il demonio, coi suoi seguaci, da Adamo ed Eva fino all’ultimo uomo che vivrà sulla terra. Quali sono le armi, che si adoperano? Dalla parte di Cristo e suoi seguaci: la verità, la fede, la speranza, la carità, l’umiltà, la purezza, la mortificazione e andate dicendo: dalla parte del demonio e suoi seguaci: la menzogna, l’empietà, l’odio, l’orgoglio, la sensualità, le passioni tutte sfrenate. Tutti gli uomini pigliano posto più o meno in questi due gran campi di battaglia. S. Giovanni, che tratteggia più volte questa gran lotta in tutti i suoi scritti, qui ci fa sapere che tutti quelli che sono nati da Dio [Il testo dice: Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; perché non dice: Chiunque è nato da Dio, ecc.? Credo che quel neutro equivalga propriamente al chiunque, che indica persona; ma forse Giovanni usò il: Tutto ciò ecc. in forma neutra, perché con la persona volle significare tutti i doni della fede, della grazia ecc. che vengono da Dio.), ossia tutti quelli che per il Battesimo sono rigenerati e divenuti figliuoli di Dio ed esercitano le virtù proprie dei figliuoli di Dio, che hanno il loro compimento nella carità, come sopra ha detto, vincono il mondo]. – Con questa parola, “mondo”, san Giovanni non intende certo di significare la terra che calpestiamo, ma gli uomini che vivono secondo le massime del mondo, gli schiavi delle sue cupidigie e, in una parola, i seguaci di colui che Gesù Cristo stesso chiamò “principe di questo mondo”, gli uomini malvagi colle loro passioni! – Sì, ripiglia S. Giovanni, spiegando meglio il suo concetto e ripetendo la stessa verità in altra forma: Questa è la vittoria, cioè quelli riportano la vittoria, quelli hanno in mano l’arma sicura della vittoria sul mondo, che hanno la fede: la fede li farà vincitori del mondo. Che fede è questa che ci farà vincere il mondo e le sue passioni? Non certo la sola fede, nuda delle opere, che è morta per se stessa: ma la fede viva, che dalla mente discende al cuore, che dal pensiero si travasa nelle opere, che, secondo l’espressione di san Paolo, opera per la carità. Datemi un uomo che creda fermamente ciò che la fede insegna e ciò che crede per fede pratica con le opere, che al Simbolo congiunga il Decalogo: quest’uomo naturalmente disprezzerà il mondo, respingerà le sue lusinghe e calpesterà i suoi piaceri colpevoli: quest’uomo, ossia la fede di quest’uomo vincerà il mondo: “Hæc est Victoria, quæ vincit mundum, fides nostra”. – Né di questa sentenza si appaga S. Giovanni, ma la ribadisce nel versetto seguente in forma d’interrogazione e piena di energia: ” Chi è mai colui che vince il mondo, se non chi crede che Gesù è il Figliuolo di Dio? Come se dicesse: Nuovamente e più fortemente l’affermo: solo colui che crede ed opera conformemente alla fede, vince il mondo: a chi non crede è impossibile vincere il mondo. E questa fede, o Giovanni, in chi si appunta? In Chi si compendia? Da chi trae origine e forza? In Gesù Cristo, autore e consumatore della fede, come scrive S. Paolo, “autore”, perché viene da Lui, “consumatore”, perché Egli solo ci dà la forza di attuarla nelle opere, Gesù Cristo, che è il Figliuolo di Dio! Accenna con questa espressione al fondamento di tutta la nostra fede, che è la divinità di Gesù Cristo. Perciò badate che S. Giovanni non dice già che — Gesù è Figliuolo di Dio — ma sì “che è “il” Figliuolo di Dio”, cioè Figliuolo per eccellenza, Figliuolo unico, Figliuolo proprio di Dio, a Dio Padre consustanziale. Scolpitevela bene addentro nel cuore questa verità, o cari: Gesù Cristo è Dio ed Uomo, vero Dio e vero Uomo: se voi togliete in Lui la divinità, non vi resta che l’uomo, è distrutta la redenzione, perché un uomo non poteva riscattarci dal peccato, non poteva soddisfare la divina giustizia, cade tutta la sua autorità, e noi ci troviamo ai piedi d’un uomo, siamo adoratori di un uomo, il massimo dei delitti. Crediamo dunque che Gesù è il Figlio di Dio, Dio come il Padre, ed uniti a Lui saremo forti della sua forza, e come Egli ha vinto il mondo, così lo vinceremo noi pure. – Gesù Cristo è il Figlio di Dio, vero Dio! Ma come lo sappiamo noi? Come si è provato tale? Ascoltate S. Giovanni: “Gesù è il venuto per acqua e sangue”. Come per acqua? Lascio alcune interpretazioni date e mi attengo a quella che mi sembra più chiara, più naturale e meglio fondata. Gesù, allorché ricevette il battesimo al Giordano, ricevette la solenne testimonianza dal Padre, che disse: ” Questi è il Figliuolo mio diletto, in cui trovo tutte le mie compiacenze: Lui ascoltate” [Alcuni vogliono intendere quelle parole ” E venuto nell’acqua, pel battesimo, cioè viene in noi col battesimo. Ma le parole del versetto 9° non lo permettono, perché là si parla di testimonianza resa a Gesù, la massima, quella del Padre]. – Testimonianza splendidissima ripetuta colle stesse parole nella Trasfigurazione. Ma Gesù è anche il venuto nel sangue, cioè nella passione e morte, che non si può disgiungere dalla risurrezione, nella quale provò luminosamente ch’Egli era Dio, Signore della morte e della vita. E qui S. Giovanni, quasi per ribadire la cosa, ripete: Gesù è il venuto [È da osservare quel modo di dire assai efficace : “Il Venuto”, come si ha nel greco, che designa Gesù Cristo come il Messia, “Il Venuto” per antonomasia], non nell’acqua soltanto, ma nell’acqua e nel sangue: ha provato ch’Egli era Dio nel suo battesimo di acqua e nel battesimo del suo sangue, coronato dalla sua gloriosa Risurrezione. Alle prime due prove tiene dietro la terza, dicendo: “E lo Spirito attesta, che Cristo è la verità”, cioè è veramente il Figlio di Dio! E che vuol dire in questo luogo S. Giovanni? Nel Vangelo (Cap. XV, vers. 26) S. Giovanni riferisce queste parole dette da Gesù nell’ultima Cena: “e quando verrà il Paraclito, che vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità, che procede dal Padre, Egli farà testimonianza di me”, vale a dire, “vi farà conoscere che Io sono il Figlio di Dio”, Gesù Cristo dunque afferma che la venuta dello Spirito Santo sarebbe stata una prova, una solenne testimonianza della sua divinità, ed è quella notata dallo stesso S. Giovanni nella sua lettera. Onde per conchiudere in poche parole le sentenze di S. Giovanni, noi dobbiamo tenere che Gesù Cristo ci mostrò la sua divinità nel suo Battesimo al Giordano, nella sua Passione, morte e risurrezione, e finalmente nella venuta dello Spirito Santo, nella trasformazione degli Apostoli e nella fondazione della Chiesa. E non erano quelli miracoli solenni, strepitosissimi, che mostravano la sua divina potenza? Non cadevano sotto gli occhi di tutti? Non si potevano verificare da tutti con la massima facilità? – S. Giovanni, proseguendo, fa cenno d’una analogia e mette innanzi un paragone per confermare la sua sentenza, e il paragone è questo: “Poiché son tre, che attestano in cielo: Padre, Verbo e Spirito Santo, e questi tre sono una cosa sola; e tre sono quelli che attestano in terra, lo Spirito, l’acqua ed il sangue, e questi tre riescono ad una sola cosa”, E volle dire: Il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo con le loro manifestazioni esterne dal cielo hanno attestata e comprovata la missione divina di Gesù Cristo, e come le tre divine Persone sono una sola cosa, una sola essenza o sostanza, così la loro testimonianza esterna si unisce e si concentra in una sola, attestando la stessa verità, così le tre grandi manifestazioni esterne, ad intervalli succedute sulla terra e accertate dagli uomini, al Giordano, nella passione, morte e Risurrezione di Gesù Cristo, e nella venuta dello Spirito Santo, tornano allo stesso, raffermano la medesima verità, e mettono in luce la divina origine e missione di Gesù Cristo. – Allora si comprende ciò che S. Giovanni soggiunge nel seguente versetto: “Se noi accettiamo la testimonianza degli uomini, maggiore è la testimonianza di Dio: e la testimonianza di Dio è quella con cui ha attestato intorno al Figliuol suo”. Se noi accettiamo, e dobbiamo accettare, la testimonianza degli uomini degni di fede, e credere quello ch’essi affermano, a maggior ragione dobbiamo accettare la testimonianza stessa di Dio che dal cielo ripetutamente attesta intorno a Gesù Cristo, e ci assicura ch’Egli è il Figlio dell’Eterno. Insomma il sacro Scrittore ci mette innanzi tre Testimoni in cielo e tre sulla terra: i tre Testimoni in cielo sono le tre divine Persone distintamente nominate e che sono una sola cosa o natura; e i tre testimoni sulla terra, pure nominati, spirito, acqua e sangue, siano fatti, siano persone, cospiranti nella stessa cosa e affermanti anch’essi sulla terra ciò che le tre Persone attestano dal cielo. Voi vedete, o cari, che non si poteva esprimere in forma più precisa e più netta il grande mistero della augusta Trinità. S. Giovanni proclama che sono tre le Persone divine, Padre, Figlio, o Verbo, e Spirito Santo, e che queste tre Persone sono una cosa sola od unica essenza. È quel mistero, che abbiamo imparato bambini sulle ginocchia della madre e al catechismo in chiesa; che abbiamo professato la prima volta che facemmo il segno di croce, e nel quale e pel quale fummo rigenerati nel Battesimo e accolti nel grembo della Chiesa. Questo mistero trascende le forze della nostra povera ragione, è vero; ma Dio lo ha rivelato chiarissimamente, la Chiesa lo professa come una delle verità fondamentali della fede, e noi lo dobbiamo tenere con tutta fermezza. Sappiate poi anche, o dilettissimi, che se la sola ragione non può dimostrare e conoscere questa verità con le sole sue forze, nondimeno essa, studiandolo, vi trova tanta convenienza, tanta luce, tante armonie, che per poco ne è rapita ed è costretta ad esclamare: “la santa Trinità delle Persone nella unità della essenza, è mistero, mistero altissimo, ineffabile, ma non solo non offende la ragione, la illumina, armonizza con essa, getta un riverbero di luce su tutto il creato, specialmente sulla natura dell’uomo: la S. Trinità è un mistero per la ragione umana, ma sarebbe più grande mistero il non ammetterlo”. Crediamo adunque, o cari, sì alto mistero, crediamolo con la semplicità con cui lo credevamo fanciulli, persuasi che, se supera le forze della ragione, ad essa non si oppone, anzi ad essa mirabilmente consuona. – Siamo all’ultima sentenza del nostro commento: “Chi crede nel Figlio di Dio, ha in se stesso la testimonianza di Dio”. Chi legge e medita alcun poco le sante Scritture e particolarmente gli scritti di S. Giovanni, sa bene che la stessa verità si ripete spesse volte, o, dirò meglio, la si presenta sotto varie forme, sia per inculcarla meglio, sia per farcene vedere tutti i lati, che non sempre si affacciano subito sotto una sola forma. E ciò, se non erro, accade in questo versetto, nel quale conferma e si svolge meglio ciò che sopra è detto. Chi crede nel Figlio di Dio, chi per fede viva, salda ed operosa unisce la sua mente e il suo cuore a Gesù Cristo, Figlio di Dio, forma quasi una cosa sola con Lui, ed ha in sé, come un germe, la verità e la vita eterna, che poi a suo tempo si manifesterà in tutta la sua pienezza; possiede con la grazia e con la fede viva Gesù Cristo stesso, del quale San Paolo ebbe a dire che, “Cristo abita in noi per la fede”. – Osservate di grazia, o dilettissimi: se voi tenete stretto alla vostra persona, p. es. un corpo qualunque odoroso, un mazzo di fiori, non è egli vero, che voi partecipate della loro fragranza finché ad essi vi tenete uniti? Ciò che avviene del nostro corpo avviene altresì della nostra mente e del nostro cuore. Se noi con la mente ci teniamo fermi alle verità della fede, e con la nostra volontà le veniamo attuando nelle opere, la nostra mente e la nostra volontà si abbelliscono della bellezza di quelle verità, e quasi direi rimangono imbalsamate della fragranza della grazia, e si trovano necessariamente unite a Lui, dal quale vengono la verità e la grazia, che è Gesù Cristo stesso. Allorché voi pensate al padre, alla madre, all’amico lontani e li amate, non è egli vero che in qualche modo il padre, la madre, l’amico sono nella vostra mente e nel vostro cuore? Lo dite voi stessi: “Noi li abbiamo in mente, li teniamo sempre nel nostro cuore”. — È ciò che insegna S. Tommaso. E in questo senso che si dice Gesù Cristo abitare in noi, Dio dimorare in noi e spandersi in noi lo Spirito di Lui, e noi diventare suoi templi, sue membra, e partecipi della divina natura. – Vedete, o cari, un granello, che è affidato alla terra: sembra che voi, possedendo quel piccolo granello, non possediate che quel piccolo corpicciuolo, cosa da nulla per se stesso; ma aspettate alcuni mesi, lasciate compiere alla natura il suo occulto lavorìo. Che è avvenuto? Il granello è cresciuto e, fatto pianta, ha prodotto i suoi fiori e finalmente i suoi frutti che cortesemente ci porge, curvando sotto essi i suoi rami. Eravate possessori d’un solo granello, e più tardi siete possessori d’una pianta e di molti saporosi frutti. Così noi, o dilettissimi: ora, qui in terra possediamo il granello della fede, la radice della carità; un giorno troveremo che il granello è diventato albero carico di frutti di vita eterna. E quando verrà questo giorno? Quando, chiudendo gli occhi a questa luce del tempo, li apriremo alla luce della eternità; quando, addormentandoci la sera qui sulla terra, ci sveglieremo al mattino in cielo!

Alleluja

Alleluia, alleluia –

Matt XXVIII:7. In die resurrectiónis meæ, dicit Dóminus, præcédam vos in Galilæam. [Il giorno della mia risurrezione, dice il Signore, mi seguirete in Galilea.]

Joannes XX:26. Post dies octo, jánuis clausis, stetit Jesus in médio discipulórum suórum, et dixit: Pax vobis. Allelúja. [Otto giorni dopo, a porte chiuse, Gesù si fece vedere in mezzo ai suoi discepoli, e disse: pace a voi.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Joánnem.

 Joannes XX: 19-31.

“In illo témpore: Cum sero esset die illo, una sabbatórum, et fores essent clausæ, ubi erant discípuli congregáti propter metum Judæórum: venit Jesus, et stetit in médio, et dixit eis: Pax vobis. Et cum hoc dixísset, osténdit eis manus et latus. Gavísi sunt ergo discípuli, viso Dómino. Dixit ergo eis íterum: Pax vobis. Sicut misit me Pater, et ego mitto vos. Hæc cum dixísset, insufflávit, et dixit eis: Accípite Spíritum Sanctum: quorum remiseritis peccáta, remittúntur eis; et quorum retinuéritis, reténta sunt. Thomas autem unus ex duódecim, qui dícitur Dídymus, non erat cum eis, quando venit Jesus. Dixérunt ergo ei alii discípuli: Vídimus Dóminum. Ille autem dixit eis: Nisi vídero in mánibus ejus fixúram clavórum, et mittam dígitum meum in locum clavórum, et mittam manum meam in latus ejus, non credam. Et post dies octo, íterum erant discípuli ejus intus, et Thomas cum eis. Venit Jesus, jánuis clausis, et stetit in médio, et dixit: Pax vobis. Deinde dicit Thomæ: Infer dígitum tuum huc et vide manus meas, et affer manum tuam et mitte in latus meum: et noli esse incrédulus, sed fidélis. Respóndit Thomas et dixit ei: Dóminus meus et Deus meus. Dixit ei Jesus: Quia vidísti me, Thoma, credidísti: beáti, qui non vidérunt, et credidérunt. Multa quidem et alia signa fecit Jesus in conspéctu discipulórum suórum, quæ non sunt scripta in libro hoc. Hæc autem scripta sunt, ut credátis, quia Jesus est Christus, Fílius Dei: et ut credéntes vitam habeátis in nómine ejus.” – [In quel tempo, la sera di quel giorno, il primo della settimana, essendo, per paura dei Giudei, chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli, venne Gesù, si presentò in mezzo a loro e disse: Pace a voi! E detto ciò mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono nel vedere il Signore. Ed egli disse loro di nuovo: Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, così anch’io mando voi. E detto questo, soffiò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo. A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi; a chi li riterrete, essi saranno ritenuti. E uno dei dodici, Tommaso, detto Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Ora gli altri discepoli gli dissero: Abbiamo visto il Signore. Ma egli rispose loro: Non crederò se non dopo aver visto nelle sue mani la piaga fatta dai chiodi e aver messo il mio dito dove erano i chiodi e la mia mano nella ferita del costato. Otto giorni dopo i discepoli si trovavano di nuovo in casa e Tommaso era con loro. Venne Gesù a porte chiuse e stando in mezzo a loro disse: Pace a voi! Poi disse a Tommaso: Metti qua il tuo dito, e guarda le mie mani; accosta anche la tua mano e mettila nel mio costato; e non voler essere incredulo, ma fedele. Tommaso gli rispose: Signore mio e Dio mio! E Gesù: Tommaso, tu hai creduto perché mi hai visto con i tuoi occhi; beati coloro che non vedono eppure credono. Gesù fece ancora, in presenza dei suoi discepoli, molti altri miracoli, che non sono stati scritti in questo libro. Queste cose sono state scritte, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo, abbiate vita nel nome di lui.] – R. Laus tibi, Christe!

OMELIA II

 [Bonomelli: Omelie, vol. II, om. XVI]

È sì bello, sì caro questo racconto, tutto spirante un’aria di semplicità e di candore senza esempio, che mi tarda di venire, non ad una spiegazione, della quale non v’è bisogno, ma alla pratica considerazione delle singole parti, che riusciranno dolci e fruttuose, se vi compiacerete porgere, come siete soliti, tutta la vostra attenzione. – “Allorché fu sera, in quello stesso primo giorno della settimana, cioè la nostra Domenica, ed essendo chiuse le porte del luogo dov’erano radunati i discepoli per timore dei Giudei, Gesù venne e stette in mezzo a loro, e disse: Pace a voi ! „ – Era la sera del giorno della risurrezione, cioè la domenica stessa della Pasqua, dopo le nove circa; perché sappiamo da S. Luca (C. XXIV, 33 seg.) che erano presenti i due ritornati quella sera stessa da Emmaus, e non potevano aver compiuto il loro cammino in meno di tre ore, come dicemmo. I due discepoli avevano appena narrata l’apparizione di Gesù ai dieci Apostoli e agli altri ivi raccolti, e udito dell’apparizione fatta a Pietro: eran ancora tutti in preda ad una grande agitazione conseguenza naturale dei fatti di quella giornata, della speranza, del dubbio ed anche del timore e, come suole avvenire, dovevano vivamente discutere tra loro, ed ecco Gesù, nella sua forma naturale, senza rumore alcuno, apparire in mezzo a loro, pronunciando il saluto solito, degli Ebrei: Schalom, “la pace a voi. „ – Come rimanessero tutti quei discepoli è facile immaginarlo. Parmi vederli immoti, quasi estatici, fermi gli occhi sul volto di Gesù, impotenti a pronunciare una parola, per poco senza respiro, come inconsci di se stessi, ondeggianti tra la gioia di vedere il Maestro, e il timore d’avere innanzi a sé un’ombra, uno spirito, Per incorarli e accertarli della verità, Gesù mostrò loro le cicatrici delle mani e del fianco, e ripeté il saluto: “Pace a voi” e, come narra S. Luca, completando il racconto, disse loro: Palpatemi e vedete: perché uno spirito non ha né ossa, né carne come mi vedete avere. – Poi domandò da mangiare, e mangiò un po’ di pesce e di miele. — Allora finalmente gli Apostoli e i discepoli smisero ogni timore ed ogni dubbio, e dovettero prorompere in grida di gioia e cadere ai suoi piedi e baciarglieli e sciogliersi in lacrime, come ciascuno può immaginare. Tutto ciò il Vangelista, ch’era presente, espresse con la solita sua parsimonia di linguaggio in queste cinque parole : “Gavisi sunt discipuli, viso Domino”! — I discepoli, visto il Signore, ne gioirono. Dopo la tempesta la calma, dopo il dolore la gioia, dopo gli strazi e le agonie il tripudio e la letizia più pura: la vista di Gesù tutto fa dimenticare a questi poveri discepoli, e certo non v’ebbe mai sulla terra gioia eguale alla loro. Miei cari, non dimentichiamo mai che la nostra vita quaggiù è una serie continua di pene e di gioie, di amarezze e di dolcezze, di giorni sereni e di giorni procellosi, e allorché questi imperversano, attendiamo quelli fidenti e tranquilli, e allorché questi brillano sopra di noi, prepariamoci alle ore della prova. – Gesù, dice il Vangelo, entrò, essendo chiuse le porte per timore dei Giudei. E come il corpo, il vero corpo di Gesù Cristo passò attraverso le porte o alle pareti? Se la voce nostra passa attraverso le porte e le pareti: se il raggio del sole passa attraverso l’acqua ed il cristallo: se ora la scienza ha scoperto raggi di luce che attraversano anche corpi solidi ed opachi, perché altrettanto non potrebbe fare un corpo glorioso e fatto spirituale, come dice S. Paolo? Tal era il corpo di Cristo. Egli, dice il Crisostomo, non bussò alla porta, non l’aperse, né sfondò per non atterrire gli Apostoli: “Januas non pulsavìt, ne turbarentur”. Quanta delicatezza! quanto amore per i suoi cari! Noi non sappiamo ciò comprendere, è vero, ma confessiamo, soggiunge S. Agostino, che Dio può fare cose che noi non intendiamo: ci basti il sapere che Dio può tutto, e non cerchiamo più oltre! – Ora sappiate, o cari, che vi furono e vivono tuttora, uomini ai quali non fanno difetto né ingegno, né dottrina, i quali osarono affermare, che i buoni Apostoli, in quella sera, furono vittima d’una illusione, credettero vedere e udire Gesù risorto, e non videro, né udirono che un fantasma, un’ombra creata dalla loro fantasia e dall’ardente loro brama di vedere ed udire redivivo il Maestro. Ma ci dicano questi dotti, ci dicano in nome del cielo: gli Apostoli e i discepoli, colà raccolti, che dovevano essere più di dodici persone, erano tutti vittima della propria fantasia? E tutti insieme, proprio nello stesso momento? Credere di vedere tutti, nello stesso momento, una persona, di udire tutti la stessa parola, e non vedere, non udire che un’ombra? E vederla sì da vicino e nella stessa figura e ingannarsi? Non solo vederla e udirla per pochi istanti, ma per qualche tempo, vedere le cicatrici delle mani e dei piedi e del costato e toccarle, e vederlo mangiare ed essere sempre e tutto giuoco della fantasia? Ed aver tale persuasione d’aver veduto Cristo risorto da non dubitarne mai, da patire e morire per Lui? E notate che gli Apostoli erano sì poco disposti a credere che fosse veramente risorto che, vedendolo, dubitavano e sospettavano che fosse un fantasma. E poi questa apparizione fatta la sera della Pasqua non bisogna separarla dalle tante altre che avvennero dopo, fino all’ultima solenne, allorché salì al cielo. San Paolo attesta che Gesù Cristo si mostrò risuscitato a circa 500 persone, nel periodo di quaranta giorni, in diversi luoghi e in diverse maniere: il dire od anche solo il sospettare che tutte queste apparizioni fossero effetto d’una allucinazione, è cosa sì strana, sì enorme, sì incredibile da mettere in dubbio tutti i fatti della storia più certi, da gettarci in uno scetticismo universale, e da urtare contro le leggi del senso comune in guisa da credere ragionevolmente essere allucinati davvero gli spacciatori di siffatte ipotesi e favole. – Ma è da ritornare al nostro racconto evangelico. Poiché Gesù ebbe ripetuto la cara parola “Pace a voi, „ soggiunge: “Siccome il Padre mandò me, così Io mando voi. „ Questa forma di parlare sì alta e sublime vuole essere spiegata: essa importa che la missione degli Apostoli e dei discepoli è, non solo simile, ma eguale, per quanto lo può essere, a quella che ebbe Cristo dal Padre: essa afferma l’identità della missione, ossia dell’ufficio di Cristo e dei suoi Apostoli, l’identità del fine, dei mezzi e del modo. Il Padre, così si ha da intendere la espressione di Cristo, il Padre ha mandato me con piena autorità di ammaestrare, di sciogliere i peccati, di dare la grazia di offrire il divin Sacrificio, ed Io do a voi la stessa autorità, sotto di me: “siete vicari miei [gli Apostoli ed i loro successori nella Sede Apostolica e nell’episcopato sono vicari di Cristo e non successori, perché il vicario ha il potere istesso di colui del quale è vicario, ma ne deve usare nel modo e nella misura che gli è determinata; mentreché il successore può anche modificare le cose stabilite da colui del quale è successore. Il Papa è vicario di Gesù Cristo, non successore, perché la sua potestà è delegata e circoscritta dai limiti posti da Cristo stesso.]: il Padre ha mandato me per santificare e salvare le anime, e voi pure santificate e salvate le anime: il Padre ha mandato me per vincere e guadagnare i cuori non con la forza, ma con la carità, con la persuasione, e così fate voi pure: il Padre mi ha mandato perché dia la mia vita per la salute del mondo: altrettanto fate voi: il Padre ha mandato me come un agnello in mezzo ai lupi, e così Io mando voi come agnelli in mezzo ai lupi: in una parola, voi avete lo stesso potere, che tengo Io dal Padre, e voi lo eserciterete nel modo stesso che l’ho esercitato io. Carissimi! comprendete la grandezza e l’eccellenza veramente divina della potestà della Chiesa, che risiede nel Capo in tutta la sua pienezza, e si spande da Lui in tutti i gradi della gerarchia in diversa misura! Nella Chiesa riguardiamo sempre Cristo vivente, operante, ammaestrante e santificante: si mutano gli uomini, che esercitano il potere, ma il potere è sempre quello: è come l’acqua d’un fiume, che muta il letto e le rive entro le quali scorre; ma è sempre la stessa: è come una gemma, che muta le persone che se ne adornano, ma essa non muta mai. “Come Gesù ebbe ciò detto, alitò sopra di loro, e disse: Ricevete lo Spirito santo. „ – E perché Gesù Cristo alitò loro in volto? Poiché Iddio a principio ebbe formato di poca argilla il corpo del primo uomo, gli alitò in volto, infuse in esso la vita del corpo, e quella troppo più preziosa dell’anima: doppia vita dell’anima e del corpo che doveva propagarsi nella futura generazione: qui, l’Uomo-Dio, il secondo Adamo, alita in volto ai suoi Apostoli e discepoli, rappresentanti la sua Chiesa, e infonde in essi quel soffio di vita divina, che essi dovranno propagare nella nuova generazione fino al termine dei secoli. Mirabile riscontro fra quel primo soffio di vita, che viene da Dio, e questo secondo, che viene dall’Uomo-Dio [“Qui initio naturam nostram, creavit et Spiritu sancto signavit, rursus in initio renovandæ natura sufflatione Spiritum discipulis largitur ut sicut creati ab initio fuimus, sic etìam renovaremur (S. Cyrill. Alex, in Joan.)! E perché Gesù alitò in volto ai suoi discepoli? L’alito è una cotale emanazione che esce da noi, una cotale effusione del nostro essere, che si comunica ad altri. Ora la fede ci insegna che lo Spirito santo è lo Spirito, ossia l’Emanazione amorosa del Padre nel Figlio e del Figlio nel Padre, consustanziale ad entrambi, e perciò assai opportunamente con quell’alito Gesù Cristo adombrò lo Spirito Santo, non già che quell’alito materiale fosse lo stesso Spirito Santo (cosa, più che assurda, ridicola), ma molto bene lo raffigurava. Certamente con quell’alito Gesù Cristo diede agli Apostoli e ai loro successori il potere divino, di cui tosto si parla. L’uomo, perché composto di spirito e di corpo, ha sempre bisogno di alcun che di sensibile per conoscere ciò che è spirituale, e non riceve questo che per mezzo di quello. Voi ora ricevete la verità, che è invisibile, ma la ricevete per mezzo della mia parola, che è sensibile: voi ricevete la grazia invisibile, ma sempre per mezzo dei Sacramenti, che sono mezzi visibili, noi ci uniamo a Dio per mezzo di Gesù Cristo, che è Dio, ma anche Uomo. Che più? Noi vediamo che l’autorità stessa umana si dà agli uomini con segni visibili, che saranno una divisa militare, un diploma, una corona, uno scettro. Era dunque ben naturale che Gesù Cristo, volendo dare agli Apostoli il suo potere, alitasse sopra di loro, quasi per significare, che come il suo soffio passava da Lui in loro, così con esso e per esso passava in loro il suo potere. – Ora vediamo, o dilettissimi, qual sia il potere che Gesù col misterioso suo soffio volle dare agli apostoli. Udite: “Quelli ai quali rimetterete i peccati, saranno rimessi: quelli ai quali li riterrete, saranno ritenuti. „ Se dovessi spiegarvi ampiamente questa sentenza di nostro Signore si richiederebbe un lungo discorso: mi restringerò a ciò che è necessario e voi raddoppiate la vostra attenzione, che l’argomento lo esige. Gesù Cristo non dà qui il potere di predicare la verità, di consacrare il suo corpo adorabile, di reggere la Chiesa od altro: dà il potere di rimettere o perdonare i peccati, di ritenerli ossia di rifiutare di perdonarli. L’oggetto dunque di questo potere divino sono i peccati, tutti i peccati, sempre e senza eccezione. Ma come si deve esercitare questo potere di perdonare o non perdonare i peccati? Forse col predicare la divina verità e con essa eccitare la fede e quindi ottenere la remissione dei peccati, come già dissero i fratelli nostri protestanti ? No, per fermo: se così fosse, il potere dato da Cristo di ritenere i peccati avrebbe significato il potere di non predicare, mentre Cristo comandò espressamente di predicare a tutte le genti. Più: se il potere di annunziare la verità è il potere stesso di perdonare i peccati, chiunque ammaestra nelle cose della fede, sia uomo, sia donna, sia cristiano, sia pagano, sia laico, sia prete, può rimettere i peccati; anzi potrebbero perdonare i peccati anche i libri, perché anche i libri, come gli uomini, e talora meglio degli uomini, ci insegnano le eterne verità. È dunque cosa manifesta che qui Gesù Cristo non diede il potere di predicare, ma un altro potere ben diverso. E quale? Considerate che Gesù Cristo conferisce agli Apostoli un doppio potere, quello di rimettere e quello di non rimettere i peccati. In qual maniera si deve esercitare questo potere? A caso? a capriccio? Andando per le vie gli Apostoli potranno dire agli uni, come loro talenta: “A voi sono rimessi i peccati”; e agli altri: “A voi non sono rimessi”? Certamente no; sarebbe cosa stolta, indegna di uomini che si rispettano, quanto più di Dio, che è la stessa sapienza! È dunque chiaro che gli Apostoli debbono perdonare i peccati o ritenerli secondo ragione, ossia debbono perdonarli a quelli ai quali è giusto perdonarli, e ritenerli a quelli ai quali è giusto ritenerli, e perciò devono avere una norma, una regola sicura, secondo la quale rimetterli o non rimetterli. Ora perché gli Apostoli e loro successori potessero sapere se si doveva dare il perdono o no secondo la regola evangelica, era assolutamente necessario che conoscessero le colpe di ciascuno e le disposizioni dell’animo, in una parola, era necessario che potessero entrare nei segreti della coscienza: solo allora avrebbero potuto sapere con sicurezza se dovessero assolvere o non assolvere. – Ma come entrare nei penetrali della coscienza senza la confessione volontaria dei propri peccati? Gesù Cristo dunque col dare quel doppio potere di rimettere o non rimettere i peccati, istituì necessariamente la Confessione, come mezzo indispensabile per esercitare ragionevolmente o l’uno o l’altro dei due poteri. Una similitudine chiarirà la cosa. – Il capo supremo di giustizia costituisce un giudice, gli assegna il campo della sua giurisdizione, egli dice: Giudicate, assolvete o condannate quanti saranno condotti innanzi al vostro tribunale. — Ditemi, o cari: potrà egli il giudice assolvere o condannare gli accusati come meglio gli piace, senza conoscere lo stato delle cose, udire l’accusato, esaminare le prove? No, sicuramente: sarebbe un insulto alla giustizia e al buon senso. Quelle parole del capo supremo della giustizia: “Assolvete o condannate gli accusati, „ vanno intese così: Udite, esaminate, conoscete debitamente lo stato degli accusati, accertatevi della loro innocenza o della loro reità, e allora usate del vostro potere di assolvere o di condannare, a norma di giustizia. Ecco come si debbono intendere le parole di Gesù Cristo, il sommo ed eterno Giudice: Quelli, ai quali, rimetterete i peccati, saranno rimessi; quelli, ai quali li riterrete saranno ritenuti. — Esse domandano da parte degli Apostoli e di quanti eserciteranno il loro ufficio la cognizione della causa, ossia la manifestazione della coscienza, ossia la Confessione, affinché si possa pronunciare sentenza secondo ragione e giustizia, e dire: “Ti assolvo, … non ti assolvo”. — Cristo dunque, dando il potere di assolvere o non assolvere i peccati, impose manifestamente ai peccatori l’obbligo di manifestare la loro coscienza, come condizione necessaria per l’esercizio del potere stesso. La cosa è sì chiara che non vi spendo intorno altre parole. – S. Giovanni continua il suo racconto, e dice: “Ma Tommaso, uno dei dodici, chiamato Didimo, non era con loro, quando venne Gesù; il Vangelo non dice per qual ragione Tommaso, che si chiamava anche Didimo, cioè gemello (forse perché gemello), era assente, né importa cercarla. Appena i discepoli l’ebbero visto, il primo loro saluto, come è facile immaginare, fu il grido che eruppe spontaneo dal loro cuore: “Abbiamo veduto il Signore. „ Sì lieto annunzio, sembra a noi, doveva ricolmare di gioia l’afflitto Tommaso: eppure non ne fu nulla. Misteri del cuore umano! Gli si assicurava dai compagni, che i desideri sì ardenti del suo cuore erano adempiuti, che Gesù era risorto, ed egli rifiuta ogni loro fede, si ostina a consumarsi nel dubbio e nel dolore, e pronuncia queste parole:” S’io non vedo nelle mani di Gesù la squarciatura dei chiodi e non vi metto il mio dito e non pongo la mia mano sul suo costato, non crederò. „ Era un linguaggio pieno di presunzione, di superbia, di caparbietà e oltraggioso verso i suoi fratelli. Era un dir loro sul viso, che li riputava tutti allucinati, visionari, fanatici, o bugiardi: era un dubitare delle promesse del divino Maestro e un pretendere che si mostrasse direttamente anche a lui; e notate che questa ostinazione dell’Apostolo durò per otto giorni. Egli voleva vedere e toccare le ferite delle mani e del costato del Maestro prima di credere: ma non le avevano vedute e toccate i suoi compagni? I loro occhi e le loro mani non valevano bene i suoi occhi e le sue mani? Perché quell’orgoglioso e ostinato: “Non credo? „ Io sono d’avviso che il buon Tommaso non si rendesse ragione del fallo, di cui si rendeva colpevole, e che dinanzi alla sua coscienza fosse immune da peccato grave: penso anche che, sopraffatto dal dolore per la morte del Maestro, non sapesse riaversi dal profondo scoramento in cui era caduto, né aprire il cuore alla speranza; ma, se mi è lecito dire un mio pensiero, in fondo a quell’anima afflitta e un po’ caparbia v’era un’altra causa, che lo teneva fermo nella sua ostinazione e che aveva la radice in una delle tante debolezze del cuore umano. Il povero Tommaso udiva che Gesù era apparso alle donne, a Pietro, a Giacomo, ai due che se ne andavano ad Emmaus, ai dieci suoi compagni nell’onore dell’apostolato: vedeva d’essere ormai il solo quasi dimenticato da Gesù: si sentiva umiliato e il suo cuore n’era punto sul vivo. Era naturale un risentimento, un certo dispetto di gelosia, d’amor proprio offeso, che cercava dissimulare e coprire dicendo: “Se non lo vedo, se non lo tocco anch’io, non crederò. „ Ma l’amoroso Gesù, pieno di compatimento pel suo caro Apostolo, permise la sua ostinazione per dare a lui una prova del suo affetto, e raffermare lui e gli altri tutti nella certezza della propria risurrezione. – “Otto giorni appresso (precisamente come oggi, ottava della Pasqua), i suoi discepoli erano ancora dentro quella casa e Tommaso con loro. Venne Gesù a porte chiuse, e stette in mezzo, e disse: Pace a voi! „ Ciascuno di noi comprende come a quella apparizione improvvisa il buon Tommaso, più che gli altri, dovesse sentirsi rimescolare il sangue, martellare il cuore e confondere tutte le idee: gioia e timore, rimorsi e giubilo, come le onde sopra uno scoglio, si avvicendavano nell’anima sua. Quel Gesù, che si era ostinato a negare risorto, ricusando fede alle sue promesse e alle affermazioni dei fratelli, era lì, a due passi; i suoi occhi, in un primo istante, incontratisi con quelli del Maestro, confusi, umiliati, si erano chinati a terra. I pensieri dei suoi compagni si riflettevano nell’anima sua, sentiva di meritare i loro rimproveri e più ancora quelli del Maestro, e li aspettava ed aspri…. Che cuore fu il tuo, o Tommaso, allorché in mezzo a quel solenne silenzio aspettavi di udire la parola di Gesù, parola severa, parola di duro e meritato rimprovero? Ma conosceva il Maestro, il suo cuore, la sua bontà, e temendo pure sperava. Quella voce, dolce e sì cara, in fondo alla quale si sentiva un lamento, un rimprovero, ma paterno, si fe’ udire: “Tommaso: qua il tuo dito (era un richiamo delicato alle sue proteste); qua il tuo dito e vedi le mie mani: stendi la tua mano e mettila sul mio costato [Bisogna dire che quel colpo di lancia, che trapassò il petto di Gesù già morto in croce, fosse rimasto profondamente fitto nella fantasia e nella memoria di Tommaso e di tutti gli Apostoli, perché lo notano in modo speciale] e fa di essere non incredulo, ma credente. „ Oh bontà, oh benignità, oh tenerezza del divino Maestro! Non un rimprovero, non un accento di sdegno contro l’Apostolo sì ostinato. Anzi Gesù lo invita a fare ciò che desiderava e a pigliarsi quella prova che esigeva qual condizione della sua fede e a smettere così la sua pervicacia. Poteva essere più benigno e più indulgente? Quelle parole, come una punta acuta penetrarono nel cuore di Tommaso, lo riempirono di dolore, di gioia e di gratitudine, e fuor di sé, nell’impeto dell’amore onde riboccava, con gli occhi gonfi di lacrime, e con voce rotta dai singulti, cadde ai piedi di Gesù, esclamando: “Signor mio e mio Dio! „ In queste parole non c’è neppure un verbo, ma esse dicono tutto. Esse volevano dire: O Signore, o Dio mio! vi credo, vi amo, mi pento, vi ringrazio, vi benedico, vi adoro, sono vostro, tutto vostro, perdonatemi, fate di me ciò che volete. Notate quella professione sì chiara di Tommaso: Dio mio! Vede un uomo, e protesta che quest’uomo è suo Dio! Il miracolo della risurrezione, congiunto a tutti gli altri miracoli, dei quali egli stesso era stato testimonio, alla dottrina, che aveva udita da Gesù Cristo, gli fece sentire e vedere in Gesù Cristo, in quell’uomo, che gli stava innanzi, il Figlio di Dio, e gli strappò quelle parole eloquentissime : “Signor mio e Dio mio [“Videbat tangebatque hominem et confitebatur Deum, quem non videbat neque tangebat? Sed per hoc quod videbat atque tangebat, illud, jam remota dubitatione, credebant” – S. August., Tract. 121]! „ Quanta carità e soavità in quella esortazione di Gesù Cristo: “Fa di essere non incredulo, ma credente” e poco dopo in quelle altre: “Perché hai veduto, o Tommaso, hai creduto: beati coloro, che non hanno veduto ed hanno creduto.” Questa sentenza deve tornare carissima a noi, o figliuoli dilettissimi. Noi non abbiamo veduto, non abbiamo udito, non abbiamo toccato Gesù Cristo nella sua umanità risorta, eppure abbiamo creduto e crediamo fermamente alla sua risurrezione e alla sua divinità, che ci fu annunziata dagli Apostoli e ci si ripete dalla Chiesa, e più felici di Tommaso, noi siamo da Cristo stesso dichiarati beati. – Siamo alla chiusa del nostro Evangelo. “Molti altri miracoli fece Gesù alla presenza dei suoi discepoli, che non sono scritti in questo libro, ma questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, Figlio di Dio, e affinché credendo, abbiate, nel nome di Lui, la vita eterna. „ – Da queste parole di S. Giovanni apprendiamo, che Gesù operò molti altri miracoli, oltre a quelli da Lui e negli altri tre Evangeli registrati, che Giovanni senza dubbio conosceva; perché voi, o cari, non potete ignorare che non tutto ciò che Gesù disse e fece fu scritto negli Evangeli, ma solo ciò che allo Spirito Santo parve necessario ed utile a nostro ammaestramento; il resto, in parte almeno, giunse a noi per la viva tradizione che si conserva nella Chiesa. S. Giovanni poi, in quest’ultimo versetto ci dice il fine o la ragione che lo mosse a scrivere il Vangelo, che fu quello che i lettori credessero Gesù essere il Cristo, cioè il Messia aspettato, il Figlio di Dio, eguale al Padre, e credendo questo, che è il fondamento della fede e vivendo conformemente a questa fede, potessero ottenere la vita eterna, meta ultima della fede e speranza nostra, vita eterna, che Iddio misericordioso conceda a me, a voi, a tutti gli uomini. [Qui è necessaria una avvertenza. È cosa evidente che qui si chiudeva il Vangelo di S. Giovanni. Come sta che segue dopo un altro capo, che è l’ultimo? In esso si narra distesamente un’altra apparizione avvenuta sul lago di Genesaret. Questo capo XXI, ora ultimo, certamente fu scritto da S. Giovanni dopo qualche tempo, quasi appendice. Per qual motivo? Per distruggere l’opinione, divenuta quasi generale, ch’egli, Giovanni, non avesse a morire fino alla seconda venuta di Cristo. In questo capo egli spiega le parole di Cristo, che, malintese, diedero occasione all’errore].

Credo …

Offertorium

 Orémus

Matt XXVIII:2; XXVIII:5-6. Angelus Dómini descéndit de cœlo, et dixit muliéribus: Quem quaeritis, surréxit, sicut dixit, allelúja. [Un Angelo del Signore discese dal cielo e disse alle donne: Quegli che voi cercate è risuscitato come aveva detto, alleluia.]

Secreta

Suscipe múnera, Dómine, quaesumus, exsultántis Ecclésiæ: et, cui causam tanti gáudii præstitísti, perpétuæ fructum concéde lætítiæ. [Signore, ricevi i doni della Chiesa esultante; e, a chi hai dato causa di tanta gioia, concedi il frutto di eterna letizia.]

Communio

[Joannes XX:27] Mitte manum tuam, et cognósce loca clavórum, allelúja: et noli esse incrédulus, sed fidélis, allelúja, allelúja. [Metti la tua mano, e riconosci il posto dei chiodi, alleluia; e non essere incredulo, ma fedele, alleluia, alleluia.]

Postcommunio

Orémus.

Quæsumus, Dómine, Deus noster: ut sacrosáncta mystéria, quæ pro reparatiónis nostræ munímine contulísti; et præsens nobis remédium esse fácias et futúrum.

I MEZZI NECESSARI ALLA SALVEZZA

  1. “I mezzi necessari alla salvezza” di S. Alfonso

Sant’Alfonso Liguori (morto nel 1787), vescovo e dottore della Chiesa

Sui mezzi necessari per la salvezza. 
di S. Alfonso M. de’ Liguori

Io sono voce di uno che grida nel deserto: raddrizzate la via del Signore” – Giovanni 1:23

Tutti vorrebbero essere salvati e godere della gloria del Paradiso; ma per conquistare il Paradiso, è necessario camminare sulla giusta via che conduce alla beatitudine eterna. Questa strada è l’osservanza dei comandamenti divini. Per questo, nella sua predicazione, il Battista esclamò: “Rendi dritta la via del Signore”. Per poter camminare sempre sulla via del Signore, senza deviare a destra o a sinistra, è necessario adottare i mezzi adeguati. Questi mezzi sono, innanzitutto, la diffidenza di noi stessi; in secondo luogo, la fiducia in Dio; in terzo luogo, la resistenza alle tentazioni.

Primo mezzo. Diffidenza di noi stessi

1. “Con timore e tremore”, dice l’Apostolo, “sviluppa la tua salvezza” – [Fil. II:12]. Per assicurarci la vita eterna, dobbiamo essere sempre penetrati dal timore; dobbiamo avere sempre timore di noi stessi (con paura e tremore) e diffidare del tutto delle nostre forze, perché, senza la grazia divina, non possiamo fare nulla.”Senza di me“, dice Gesù Cristo, “non puoi fare nulla“.: “Non possiamo fare nulla per la salvezza delle nostre anime”. San Paolo ci dice che noi non siamo capaci nemmeno di un buon pensiero. “Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio”[II Cor. III: 5]. Senza l’aiuto dello Spirito Santo, non possiamo nemmeno pronunciare il nome di Gesù per meritare una ricompensa. “E nessuno può dire: “Signore Gesù”, se non per mezzo dello Spirito Santo” – I Cor.XII: 3

2. “Miserabile l’uomo che si affida a se stesso sulla via di Dio”. San Pietro ha sperimentato il triste effetto della fiducia in se stessi. Gesù Cristo gli disse: “In questa notte, prima del canto del gallo, mi rinnegherai tre volte” – [Matt. XXVI: 34]. Confidando nelle proprie forze e nella sua buona volontà, l’Apostolo rispose: “Sì, anche se dovessi morire con Te, non ti rinnegherò” – [v.35]. Quale fu il risultato? Nella notte in cui Gesù Cristo venne preso, Pietro fu rimproverato nella corte di Caifa di l’essere uno dei discepoli del Salvatore. Il rimprovero lo riempì di paura: tre volte negò il suo Maestro e giurò di non averlo mai conosciuto. L’umiltà e la diffidenza in noi stessi ci sono così necessarie, che Dio ci permette talvolta di cadere nel peccato, affinché, con la nostra caduta, possiamo acquisire l’umiltà e la conoscenza della nostra stessa debolezza. Per mancanza di umiltà anche Davide cadde: quindi, dopo il suo peccato, disse: “Prima di essere umiliato, andavo errando” – Sal. CXVIII:67.

3. Quindi lo Spirito Santo pronuncia: benedetto l’uomo che ha sempre paura: “Beato l’uomo che ha sempre paura” – Prov. XXVIII:14. Chi ha paura di cadere, diffida delle proprie forze, evita il più possibile tutte le occasioni pericolose e si raccomanda spesso a Dio, preservando così la sua anima dal peccato. Ma l’uomo che non ha paura, e che è pieno di fiducia in se stesso, si espone facilmente al pericolo del peccato, raramente si raccomanda a Dio e così cade. Immaginiamo una persona sospesa su di un grande precipizio sopra una corda tenuta da un’altra persona. Sicuramente griderebbe costantemente alla persona che lo sostiene: tieni duro, tieni duro; per l’amor di Dio, non lasciarti andare. Siamo tutti in pericolo di cadere nell’abisso di ogni crimine, se Dio non ci sostiene. Quindi dovremmo costantemente implorarlo di tenere le sue mani su di noi e aiutarci in tutti i pericoli.

4. Alzandosi dal letto, san Filippo Neri soleva dire ogni mattina: “O Signore, tieni la tua mano oggi su Filippo; se non lo fai, Filippo ti tradirà”. E un giorno, mentre camminava per la città, riflettendo sulla propria infelicità, spesso diceva: “Io dispero, mi dispero”. Un certo religioso che lo ascoltò, credendo che il santo fosse davvero tentato dalla disperazione, lo corresse e lo incoraggiò a sperare nella divina misericordia. Ma il santo rispose: “Io dispero di me stesso, ma confido in Dio”; quindi, durante questa vita in cui siamo esposti a tanti pericoli di perdere Dio, è necessario per noi non vivere sempre con grande sfiducia in noi stessi, ma pieni di fiducia in Dio.

Secondo mezzo: fiducia in Dio.

5. San Francesco di Sales afferma che la sola attenzione all’autodifesa, a causa della nostra debolezza, ci renderebbe solo pusillanimi e ci esporrebbe al grande pericolo di abbandonarci ad una vita tiepida o addirittura alla disperazione. Più diffidiamo delle nostre forze, più dovremmo confidare nella misericordia divina.Questo è un equilibrio, dice lo stesso Santo, in cui più si alza il livello di fiducia in Dio, più scende il livello di diffidenza in noi stessi.

6. Ascoltatemi, o peccatori che avete avuto la disgrazia di aver offeso finora Dio, e di essere condannati all’inferno: se il diavolo vi dice che rimane poca speranza per la vostra salvezza eterna, rispondete con le parole della Scrittura: “Nessuno che ha sperato nel Signore, è stato confuso” – Eccl.II:11.Nessun peccatore che ha sempre creduto in Dio è mai andato perso.Fate, quindi, un fermo proposito di non peccare più; abbandonatevi nelle braccia della divina bontà; e state certi che Dio avrà pietà di voi e vi salverà dall’inferno. “Getta le tue cure sul Signore, ed Egli ti sosterrà” – Sal.XLIV:23.Il Signore, come leggiamo in Blosius, un giorno disse a santa Gertrude: “Chi confida in me, mi fa talmente violenza che non posso che ascoltare tutte le sue suppliche”.

7. “Ma”, dice il profeta Isaia, “ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi” – XL: 31. Coloro che ripongono la loro fiducia in Dio rinnoveranno la loro forza; essi metteranno da parte la propria debolezza e acquisiranno la forza di Dio; voleranno come aquile sulla via del Signore, senza fatiche e senza mai mancare. Davide dice che “la misericordia comprenderà colui che spera nel Signore” – Sal.XXI: 10. Colui che spera nel Signore sarà circondato dalla sua misericordia, così che non sarà mai abbandonato da essa.

8. San Cipriano dice che la divina misericordia è una fonte inesauribile. Coloro che ne portano la fiducia più grande, ne traggono le più grandi grazie. Quindi, il Profeta Reale ha detto: “La tua grazia, Signore, sia sopra di noi, ché abbiamo sperato in Te” – Sal.XXXII: 22. Ogni volta che il Diavolo ci terrorizza ponendo sotto i nostri occhi la grande difficoltà di perseverare nella grazia di Dio, nonostante tutti i pericoli e le occasioni peccaminose di questa vita, lasciate che, senza rispondergli, eleviamo gli occhi a Dio, e sperando che bella sua bontà ci invierà certamente un aiuto per resistere ad ogni attacco. “Ho alzato gli occhi verso le montagne, da dove mi verrà l’aiuto? ” – Sal.CXX: 1. E quando il nemico ci rappresenta la nostra debolezza, diciamo con l’Apostolo: “Posso fare tutto in Colui che mi da forza” – Fil.IV:13. Da me stesso non posso fare nulla; ma confido in Dio così che, per sua grazia, sarò in grado di fare tutte le cose.

9. Quindi, nel mezzo dei più grandi pericoli di perdizione ai quali siamo esposti, dovremmo continuamente rivolgerci a Gesù Cristo e gettarci nelle mani di Colui che ci ha redenti con la sua morte, e dovremmo dire: “Nelle tue mani io raccomando il mio spirito: Tu mi riscatti, o Signore, Dio verace “- Sal.XXX: 6. Questa preghiera dovrebbe essere detta con la grande sicurezza di ottenere la vita eterna, e ad essa dovremmo aggiungere: “In te, o Signore, ho sperato, non lasciarmi confuso per sempre” – Sal.XXX: 1

Terzo mezzo: resistenza alle tentazioni.

10. È vero che quando ricorriamo a Dio con fiducia, in pericolose tentazioni, Egli ci assiste; ma, in certe occasioni molto urgenti, il Signore a volte desidera che cooperiamo e facciamo violenza a noi stessi onde resistere alle tentazioni. In tali occasioni, non sarà sufficiente ricorrere a Dio una o due volte; sarà necessario moltiplicare le preghiere e spesso prostrarsi e sospirare davanti all’immagine della Beata Vergine e del Crocifisso, gridando nelle lacrime: Maria, Madre mia, aiutatemi; Gesù, mio ​​Salvatore, salvami, per la tua misericordia, non abbandonarmi, non permettere che io mi perda.

11. Teniamo presente le parole del Vangelo: “Quanto è stretta la porta e dritta è la via che conduce alla vita: e pochi sono quelli che la trovano” – Mat.VII:14. La via per il Cielo è diritta e stretta: coloro che desiderano arrivare in quel luogo di beatitudine camminando per le vie del piacere, saranno delusi; e quindi pochi lo raggiungono, perché pochi sono disposti ad usare la violenza per resistere alle tentazioni. “Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono” – Matt.XI: 12. Nello spiegare questo passaggio, uno scrittore dice: “Vi quæritur, invaditur, occupatur”. Deve essere ricercato e ottenuto con la violenza: chi vuole ottenerlo senza inconvenienti, o conducendo una vita dolce e regolare, non lo acquisisce e ne sarà escluso.

12. Per salvare le loro anime, alcuni Santi si sono ritirati nel chiostro;alcuni si sono rinchiusi in una grotta; altri hanno abbracciato tormenti e morte. “I violenti se ne impadroniscono”. Alcuni lamentano la loro mancanza di fiducia in Dio; ma non percepiscono che la loro diffidenza deriva dalla debolezza della loro risoluzione di servire Dio. Santa Teresa soleva dire: “Di anime irresolute il Diavolo non ha paura”. E l’uomo saggio ha dichiarato che “i desideri uccidono i pigri” – Prov.XXI:25. Alcuni vorrebbero essere salvati e diventare santi, ma non risolveranno mai di adottare i mezzi della salvezza, come la meditazione, la frequentazione dei Sacramenti, il distacco dalle creature; oppure, se adottano questi mezzi, presto li abbandonano. In una parola, sono soddisfatti dei loro desideri infruttuosi, e così continuano a vivere nell’inimicizia con Dio, o almeno nella tiepidezza, che, alla fine, li conduce alla perdita di Dio. Così in loro sono verificate le parole dello Spirito Santo, “i desideri uccidono il pigro“.

13. Se, quindi, desideriamo salvare le nostre anime e diventare santi, dobbiamo prendere la decisione forte, non solo in generale di donarci a Dio, ma anche in particolare di adottare i mezzi adeguati, senza mai abbandonarli mai dopo averli presi una volta. Quindi non dobbiamo mai smettere di pregare Gesù Cristo e la sua Santissima Madre, per ottenere la santa perseveranza.