NELLA FESTA DELL’ASCENSIONE [2018]

NELLA FESTA DELL’ASCENSIONE [2018]

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Acta 1:11.
Viri Galilæi, quid admirámini aspiciéntes in cœlum? allelúia: quemádmodum vidístis eum ascendéntem in coelum, ita véniet, allelúia, allelúia, allelúia.
[Uomini di Galilea, perché ve ne state stupiti a mirare il cielo? allelúia: nello stesso modo che lo avete visto ascendere al cielo, così ritornerà, allelúia, allelúia, allelúia].

Ps XLVI:2
Omnes gentes, pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exsultatiónis.
[Applaudite, o genti tutte: acclamate Dio con canti e giubilo.]

Viri Galilæi, quid admirámini aspiciéntes in cœlum? allelúia: quemádmodum vidístis eum ascendéntem in cœlum, ita véniet, allelúia, allelúia, allelúia.

[Uomini di Galilea, perché ve ne state stupiti a mirare il cielo? allelúia: nello stesso modo che lo avete visto ascendere al cielo, così ritornerà, allelúia, allelúia, allelúia].

Oratio
Orémus.
Concéde, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, qui hodiérna die Unigénitum tuum, Redemptórem nostrum, ad coelos ascendísse crédimus; ipsi quoque mente in coeléstibus habitémus. [Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che noi, che crediamo che oggi è salito al cielo il tuo Unigenito, nostro Redentore, abitiamo anche noi col nostro spirito in cielo].

Lectio
Léctio Actuum Apostólorum.
Act 1:1-11
Primum quidem sermónem feci de ómnibus, o Theóphile, quæ coepit Iesus facere et docére usque in diem, qua, præcípiens Apóstolis per Spíritum Sanctum, quos elégit, assúmptus est: quibus et praebuit seípsum vivum post passiónem suam in multas arguméntis, per dies quadragínta appárens eis et loquens de regno Dei. Et convéscens, præcépit eis, ab Ierosólymis ne discéderent, sed exspectárent promissiónem Patris, quam audístis -inquit – per os meum: quia Ioánnes quidem baptizávit aqua, vos autem baptizabímini Spíritu Sancto non post multos hos dies. Igitur qui convénerant, interrogábant eum, dicéntes: Dómine, si in témpore hoc restítues regnum Israël? Dixit autem eis: Non est vestrum nosse témpora vel moménta, quæ Pater pósuit in sua potestáte: sed accipiétis virtútem superveniéntis Spíritus Sancti in vos, et éritis mihi testes in Ierúsalem et in omni Iudaea et Samaría et usque ad últimum terræ. Et cum hæc dixísset, vidéntibus illis, elevátus est, et nubes suscépit eum ab óculis eórum. Cumque intuerétur in coelum eúntem illum, ecce, duo viri astitérunt iuxta illos in véstibus albis, qui et dixérunt: Viri Galilaei, quid statis aspiciéntes in coelum? Hic Iesus, qui assúmptus est a vobis in coelum, sic véniet, quemádmodum vidístis eum eúntem in coelum.

OMELIA I

[Mons. G. Bonomelli: MISTERI CRISTIANI, Queriniana Brescia, 1896 vol. II, impr.]

Io primieramente ho trattato, o Teofìlo, delle cose che Gesù prese a fare e ad insegnare in fino al dì, ch’Egli fu accolto in alto, dopo aver dato i suoi comandi per lo Spirito Santo agli Apostoli ch’Egli aveva eletti. Ai quali ancora, dopo aver sofferto, si presentò vivente, con molte e sicure prove, essendo da loro veduto per lo spazio di quaranta giorni e ragionando con essi delle cose del regno di Dio. E trovandosi con essi, comandò loro che non si partissero da Gerusalemme, ma aspettassero la promessa del Padre, che, diss’Egli, avete da me udita. Perocché Giovanni battezzò con acqua, ma voi sarete battezzati con lo Spirito Santo fra pochi giorni. Essi adunque, stando con Lui, lo domandarono, dicendo: Signore, sarà egli in questo tempo, che tu restituirai il regno ad Israele? Ma Egli disse loro: Non spetta a voi conoscere i tempi e le stagioni, che il Padre serba in poter suo. Ma voi riceverete la virtù dello Spirito Santo, che verrà sopra di voi e mi sarete testimoni e in Gerusalemme e in tutta la Giudea e nella Samaria e fino alle estremità della terra. E dette queste cose, levossi a vista loro: e una nuvola lo ricevette e lo tolse agli occhi loro. E com’essi tenevano ancora fissi gli occhi in cielo, mentre se ne andava, ecco due uomini si presentarono loro in candide vesti e dissero loro: Uomini Galilei, perché state riguardando verso il cielo? Questo Gesù che è stato accolto in cielo d’appresso voi, verrà nella stessa maniera che l’avete veduto andarsene in cielo -. (Atti Apostolici, 1. I, 11). – In questi primi undici versetti, che leggiamo nel principio del libro degli Atti Apostolici, che la Chiesa oggi fa recitare al sacerdote celebrante la Santa Messa e che ora vi ho riportato parola per parola nella nostra favella, S. Luca ci narra l’Ascensione di Gesù Cristo al Cielo. È il fatto strepitoso, è il mistero che la Chiesa festeggia in questo giorno, col quale si chiude la vita di Gesù Cristo quaggiù sulla terra. Mio compito è quello di ragionarvi di questo fatto: e qual miglior modo di sdebitarmene che quello di commentare la lezione sacra, che udiste? Eccovi il soggetto di questa, anziché Ragionamento, modesta Omelia, a cui vi piaccia porgere benigno l’orecchio. – S. Luca, nato nel gentilesimo, fornito di coltura greca più che comune, fu medico di professione. Abbandonò il paganesimo e abbracciò il Vangelo di Gesù Cristo per opera di S. Paolo, che seguì fedelmente ne’ suoi viaggi di terra e di mare fino a Roma, dove si trovava allorché l’Apostolo scrisse la sua seconda lettera a Timoteo, poco prima della morte. (II Tim. V. 11). S, Paolo si loda di lui e lo chiama carissimo. (Ai Coloss. IV, 12). Egli scrisse il suo Vangelo come l’aveva udito da S. Paolo e lo scrisse in lingua greca, allora abbastanza conosciuta in tutto l’Oriente e a Roma e lo scrisse per uso di quei Cristiani, che prima erano stati gentili. Dopo aver scritto il Vangelo pose mano a scrivere il libro, che porta il titolo Atti o Gesta degli Apostoli, particolarmente di S. Paolo, giacché la seconda metà del libro si restringe esclusivamente a narrare le opere di lui: cosa affatto naturale, essendo egli stato suo discepolo e compagno e testimonio di ciò che narra. Cominciando questo libro, lo lega col Vangelo, che prima aveva scritto e che racchiude per sommi capi la storia di circa trent’anni. Questo libro fa seguito al Vangelo e ci descrive l’origine della Chiesa e, come voleva la natura delle cose, si apre col racconto della Ascensione di Gesù Cristo, accennata appena nell’ultimo capo del Vangelo. Uditene il prologo: Primieramente, o Teofilo, ho ragionato di tutte le cose, che Gesù prese a fare e ad insegnare fino al giorno, nel quale, dati per lo Spirito Santo i suoi comandi agli Apostoli, da Lui eletti, levossi al cielo. S. Luca rivolge la parola a Teofilo. Chi è desso codesto Teofilo, al quale S. Luca si indirizza eziandio a principio nel suo Vangelo? Sembra fuori di dubbio che fosse un personaggio distinto, che aveva dato il suo nome a Gesù Cristo e la cui vita doveva rispondere al nome che portava, e che in nostra lingua significa Amatore di Dio. Gli ricorda il libro del Vangelo, che gli aveva mandato e nel quale aveva compendiato le opere e la dottrina di Gesù Cristo. – Quæ cœpit Jesus facere et docere. Ecco che cosa è il Vangelo: il compendio delle cose fatte e insegnate da Gesù Cristo; dal che è facile inferire che nel Vangelo le opere e la dottrina di Gesù Cristo non sono riferite tutte, ma le principali e per sommi capi. A ragione poi gli interpreti fanno osservare che S. Luca, compendiando la vita di Gesù Cristo nel Vangelo, alle parole di Lui manda innanzi le opere: – Cœpit facere et docere -. Prima fece e poi insegnò! E in vero: le opere sono assai più eloquenti delle parole e gli uomini apprendono più assai da quelle, che da queste: le parole non costano gran sacrificio, ma lo impongono spesso assai grave le opere. E poi, a che valgono le parole se non sono accompagnate dalle opere? Ciò che valgono le frondi senza i frutti; ed è per questo che di Gesù si dice che cominciò a fare e dopo ad insegnare. Imitiamolo, affinché gli uomini vedano le opere nostre e vedendole sollevino la mente a Dio e gli rendano lode. – Io, scrive S. Luca, vi ho narrata nel mio Vangelo la vita di Gesù dal suo miracoloso concepimento fino alla sua dipartita dalla terra, fino a quel dì nel quale, andandosene al Cielo, lasciò i suoi comandi agli Apostoli e li costituì esecutori dei suoi voleri. Quali siano questi comandi e quali i voleri di Gesù Cristo si fa manifesto dal Vangelo istesso, dove sono determinati. E badate bene, soggiunge S. Luca, che questi comandi sono dati da Lui, che come fu concepito per virtù dello Spirito Santo, cosi tutto fa e dice per virtù dello stesso Spirito Santo, di cui possiede la pienezza. I quali comandi e voleri manifestò a quegli Apostoli che elesse Egli medesimo e ammaestrò di sua bocca. Non è senza ragione e profonda che S. Luca, nominati gli Apostoli, volle tosto soggiungere quelle due parole: – Quos elegit – I quali egli elesse -. Scopo del libro è di far conoscere le opere compiute dagli Apostoli e singolarmente da San Paolo e quindi di mettere in rilievo l’organismo della Chiesa primitiva. Importava adunque che si facesse conoscere in chi risiedeva il potere di reggere quella Chiesa e da chi era dato; e S. Luca ce lo mostra negli Apostoli e qui ci dice ch’essi l’ebbero da Cristo, che li elesse. È questa, o cari, una verità che vuolsi spesso ricordare e inculcare in questi tempi, nei quali si tende a collocare la radice del potere nella moltitudine. Checché sia del potere civile, di cui non parlo, il potere della Chiesa viene dall’alto, deriva di Cristo e da Lui passa negli Apostoli e dagli Apostoli nei suoi successori fino al termine dei tempi, perché Egli li elesse ed eleggendoli li investì di quel potere, che non riceve da chicchessia,, ma trae da se medesimo. – Fino al giorno nel quale fu assunto in Cielo – E da chi fu assunto Egli, Gesù Cristo? Non da altri fuorché dalla sua stessa onnipotenza, perché Egli era Dio eguale in ogni cosa al Padre; il perché la frase – Egli fu assunto in Cielo – vuolsi riferire alla natura umana, che aveva assunto, non alla sua divina Persona, che essendo immensa e onnipotente non può né salire, né discendere e per agire non ha bisogno di qualsiasi forza a sé estranea. Il sacro scrittore prosegue e in un versetto solo riassume la vita di Gesù Cristo, dalla sua Risurrezione alla sua Ascensione così: – Ai quali Apostoli, dopo la Passione, si era eziandio mostrato redivivo per lo spazio di quaranta giorni in molte maniere, parlando loro del regno di Dio -. Il punto capitale della vita di Gesù Cristo e la prova massima della sua divina missione, era senza dubbio il fatto della sua Risurrezione e questa, dice S. Luca, non poteva essere più certa e più splendida. Per il periodo di quaranta giorni si mostrò redivivo ai suoi Apostoli e nei modi più svariati per dileguare ogni ombra di dubbio. Si mostrò alle donne, a Pietro, a Giacomo separatamente, a due discepoli lungo la via di Emmaus, a sette sulle rive del lago di Tiberiade, a dieci e poi ad undici insieme raccolti nel Cenacolo di Gerusalemme; poi finalmente allorché salì al Cielo fu visto da circa cento e venti persone [S. Luca, narrata la Ascensione di Gesù Cristo, dice che gli Apostoli (e dà il nome di tutti undici) insieme con Maria e le donne si raccolsero nel Cenacolo in Gerusalemme, e tra parentesi aggiunge: – Che erano circa 120 -. Dal contesto sembra chiaro che questi 120 furono sul colle degli Olivi spettatori della Ascensione di Cristo. Si noti poi che gli Ebrei, allorché danno il numero delle persone, non comprendono mai le donne.], ed altra volta, che San Paolo afferma in modo solenne senza specificare il luogo e il modo, mostrossi insieme a cinquecento fratelli (I. Cor. XV. 6). Con loro parlò, con loro mangiò; volle che gli toccassero le mani e il costato perché si accertassero essere ben Egli il loro Maestro risuscitato, non ombra o spirito. La sua Risurrezione, considerata la lunghezza del tempo, la varietà delle apparizioni e delle prove e tenuto conto del numero dei testimoni, poteva ella essere più manifesta e più accertata? Mi appello a voi. – In tutte codeste apparizioni Gesù Cristo più o meno lungamente si trattenne e naturalmente parlò con gli Apostoli e con quanti erano presenti. E di quali cose parlò Egli con essi? Se noi scorriamo i quattro Evangeli e questo primo capo degli Atti Apostolici, troviamo alcuni cenni intorno alle cose che Gesù disse loro; ma ogni ragione vuole ch’Egli parlasse loro e ampiamente di tutto ciò che loro importava conoscere nell’esercizio dell’altissima missione loro affidata. S. Luca, con due sole parole, accenna il soggetto di queste istruzioni, che Gesù dava agli Apostoli e che dovevano essere la regola della loro condotta privata e specialmente pubblica, dicendo: – Loquens de regno Dei – Parlando del regno di Dio -. Qual regno di Dio? Certamente il regno di Dio sulla terra, cioè la Chiesa, che è la preparazione e il mezzo necessario per entrare nel regno di Dio, il Cielo e la vita beata. Ma se lo Scrittor sacro con estremo laconismo indicò l’argomento dei discorsi di Cristo con gli Apostoli in genere, non li significò in particolare, rimettendosi in questo alla tradizione orale. E qui riceve nuova e gagliarda prova la Dottrina Cattolica, che professa la Scrittura santa non contenere tutto l’insegnamento di Gesù Cristo, ma questo aversi pieno e perfetto nella tradizione orale. Dicano i fratelli nostri protestanti quante e quali furono le cose dette da Gesù Cristo agli Apostoli e comprese in quelle tre parole – Loquens de regno Dei? – E dovevano essere cose d’alto momento e perché venivano da tanto Maestro e perché riguardavano l’opera di Lui per eccellenza, la Chiesa, e perché  erano gli ultimi ricordi che loro lasciava. L’insegnamento orale adunque degli Apostoli e della Chiesa devesi considerare come il complemento non solo utile, ma necessario di. quello che abbiamo nei Libri Santi. – S. Luca nel versetto che segue ci fa sapere qual fu uno degli argomenti di queste conversazioni od istruzioni di Gesù Cristo, scrivendo: – Stando insieme a mensa, comandò loro non si dipartissero da Gerusalemme, ma vi aspettassero la promessa del Padre, che voi avete udito (disse) dalla mia bocca -. Dovevano fermarsi in Gerusalemme finché fosse adempiuta la promessa che Egli stesso aveva fatta a nome suo e del Padre – di mandare loro lo Spirito Santo. E perché  fermarsi in Gerusalemme? Perché là e non altrove, Gesù Cristo vuole che ricevano lo Spirito Santo? Perché là dove Gesù Cristo patì e morì, là se ne vedesse il primo frutto: perché là dove sul vertice della sua croce fu posta per ischerno la scritta: – Questi è il Re dei Giudei -, là cominciasse il suo regno, regno di tutti i secoli. Perché là dove Gesù Cristo lasciava i suoi Apostoli, là ricevessero lo Spirito consolatore, che doveva tenerne il luogo e continuarne l’opera. Perché là dove Gesù Cristo con la sua morte aveva posto fine alla legge mosaica, lo Spirito Santo proclamasse la nuova legge e dal centro della Sinagoga uscisse la Chiesa, che ne era la meta ed il termine. Accennata la promessa dello Spirito Santo che sarebbe disceso sugli Apostoli, Gesù ne tocca gli effetti, chiamando quella comunicazione miracolosa: Battesimo e altrove Battesimo di fuoco – Giovanni battezzò con l’acqua, dice Cristo, e voi sarete battezzati con lo Spirito Santo fra pochi giorni -. – Giovanni, così il divin Salvatore, battezzava il popolo sulle rive del Giordano, e voi ed Io con voi vi andammo. Che Battesimo era quello? Battesimo con acqua: esso, per sé, non mondava l’anima, ma solo il corpo. Per esso voi vi riconoscevate peccatori, bisognevoli di purificazione: esso non infondeva grazia alcuna nelle anime vostre; vi eccitava soltanto a desiderarla, destandovi la fede in Lui, che Giovanni annunziava e che ora vi parla. Voi ora siete mondi in virtù della mia parola: nell’anima vostra alberga la mia grazia e con essa il germe della vita divina. Ma la missione, che siete per cominciare domanda una forza più gagliarda, una vita più potente, un novello Battesimo, non di acqua, ma di fuoco e l’avrete tra pochi giorni -. È chiaro che Gesù Cristo in questo luogo col nome di Battesimo nello Spirito Santo designa la venuta dello Spirito Santo e la trasformazione operata negli Apostoli il giorno delle Pentecoste e la designa con questo nome perché vi è una certa somiglianza col Battesimo di acqua. Questo si riceve una sola volta e una sola volta in modo sensibile lo Spirito Santo discese sugli Apostoli: questo depose nell’anima una vita nuova, che si svolse nella vita cristiana, stampando in essi un segno incancellabile: e lo Spiritò Santo depose in essi una nuova energia, che si svolse nelle opere tutte dell’Apostolato. – Ma ritorniamo alla narrazione di S. Luca, il quale riporta una domanda degli Apostoli a Gesù, la quale se da una parte dimostra la semplicità e, diciamolo pure, la ignoranza degli Apostoli, dall’altra mette in piena luce la divinità del divino Maestro verso di loro e prova insieme l’ammirabile sincerità del sacro scrittore. Uditela: – Intanto i convenuti colà lo interrogarono dicendo: Signore, restituirai tu forse in questo tempo il regno ad Israele? – Per comprendere questa domanda, che sembra a noi molto strana, conviene conoscere le idee che allora fermentavano nel popolo giudaico non meno che nei suoi capi, alle quali naturalmente gli Apostoli non potevano essere estranei. E tanto più conviene conoscere queste idee, delle quali gli Apostoli si fanno interpreti presso del Maestro in quanto che esse ci danno la chiave per spiegare la terribile apostasia della nazione e la catastrofe che ne seguì. Scorrete i libri dell’antico Testamento e particolarmente i Salmi ed i Profeti: in moltissimi luoghi si promette il Messia e sotto le più svariate forme lo si presenta e si descrive. Si predicano, è vero, le sue umiliazioni, i suoi dolori, la sua morte in modo che sembrano una storia piuttostoché una profezia; ma lo si dipinge pure come un re potentissimo, un gran duce vincitore, un conquistatore glorioso, che strapperà il suo popolo dalle mani dei nemici, che lo rivendicherà a libertà e stenderà il suo scettro pacifico su tutta la terra. Che ne avvenne? Ciò che doveva avvenire in un popolo sì fiero della propria indipendenza, orgoglioso, tenacissimo e che dopo le terribili prove, da cui era uscito contro i Babilonesi e contro i re Siri, al tempo dei Maccabei, fremevano sotto il giogo romano. Come gli individui e più degli individui i popoli hanno il loro amor proprio, il loro egoismo nazionale, che può toccare i gradi estremi. Gli Ebrei tenevano salda la speranza del futuro Liberatore, del quale parlavano i profeti, i riti ed i simboli in tante forme rappresentavano; l’aspettavano, lo desideravano ardentemente. Ma la loro natura grossolana, il desiderio ardentissimo di scuotersi dal collo l’abbominata signoria straniera e l’orgoglio nazionale fecero sì che nel Messia promesso, nel Liberatore annunziato dai Patriarchi e dai Profeti, più che il Liberatore delle anime vedessero il liberatore dei corpi, più che il Redentore del mondo aspettassero il vindice della nazione, un Davide glorioso, un Maccabeo restauratore di Israele. Foggiatasi questa idea bizzarra e falsissima del Messia, che accarezzava il loro orgoglio e rispondeva alle condizioni politiche sì dolorose ed umilianti della nazione, è facile immaginare come i Giudei dovessero accogliere Gesù Cristo, che annunziava un regno spirituale, che voleva si rendesse a Cesare ciò che era di Cesare e che mandava in fumo le speranze di libertà e grandezza temporale, che si aspettavano. È questa la causa precipua della cecità de’ Giudei e del ripudio di Cristo e che trasse in rovina la nazione intera. Terribile lezione. che troviamo ripetuta sventuratamente anche in alcuni popoli cristiani! Perché l’Oriente ai tempi di Fozio e poi di Michele Cerulario si separò da Roma e cadde nello scisma e nella eresia, in cui giace ancora? La causa principale fu l’orgoglio nazionale dei Greci, ai quali pareva una umiliazione ubbidire al Pontefice di Roma e sottostare ai Latini. Perché la maggior parte della Germania consumò la sua separazione dal centro dell’unità cattolica, che risiede in Roma? Vuolsi ascriverne la causa principale alla gelosia nazionale: ai fieri Germani mal sapeva ricevere la legge da Roma, a loro, figli di Arminio. Perché l’Inghilterra ruppe i vincoli, che da secoli la tenevano unita a Roma? Perché le parve a torto minacciata la sua indipendenza nazionale. Se bene si guarda quasi tutti gli scismi e quasi tutte le grandi eresie, che desolarono la Chiesa, ebbero la loro funesta radice nel sentimento esagerato e male inteso della dignità e grandezza nazionale. È una prova tremenda per un popolo il sospetto, il solo timore, che gli interessi religiosi possano offendere il sentimento patriottico: nella lotta vera o immaginaria che sia v’è un grande pericolo, che il popolo agli interessi del Cielo anteponga i terreni e respinga una Chiesa od una Religione che gli sembra domandare il sacrificio della patria e tanto più grande è il pericolo quanto più ardente è l’amore della patria stessa. Ma guai a quel popolo che si lascia accecare! L’esempio d’Israele è là sotto gli occhi del mondo intero. Torniamo al sacro testo. – Gli Apostoli, benché poveri figli del popolo, rozzi pescatori, nati e cresciuti sugli estremi confini della nazione, ai piedi del Libano e lontani dal centro d’Israele, Gerusalemme, dove batteva il cuore della nazione e ardeva il focolare del patriottismo, non erano estranei alle speranze comuni, né insensibili al fremito del popolo. L’uomo nasce e vive patriota e tutto ciò che suona onore, libertà e grandezza della patria, trova sempre aperta la via del suo cuore e se vi è uomo, in cui l’amore della patria non trova eco, dite pure che è un miserabile, un essere degradato. Era dunque naturale che gli Apostoli, anime rette, forti e generose, ancorché prive d’ogni coltura, sentissero vivo l’amore della patria e partecipassero al sentimento comune, spingendolo fino al pregiudizio fatale di assegnare al Messia, e per conseguenza a Gesù Cristo, la missione di liberatore dal giogo straniero. E che gli Apostoli tutti fossero vittima di questo pregiudizio comune, figlio d’un patriottismo male inteso, e ciò fino alla Ascensione di Gesù Cristo al Cielo, apparisce in modo indubitato dalla domanda che ingenuamente e non senza qualche peritanza, gli mossero: – Signore, restituirai tu forse in questo tempo il regno ad Israele? – La domanda è fatta in modo, che sembra deliberata in comune, riserbata in sull’ultimo come cosa gravissima, nella speranza che il Maestro ne parlasse anche non richiesto e concepita in termini che esprimono l’angustia e l’incertezza dell’animo loro. Qual fu la risposta di Gesù? È semplicissima e l’avete udita. Egli, il divino Maestro, li lascia dire e li ascolta. Non una parola di stupore, non un accento solo di rimprovero per tanta ignoranza, dopo sì lungo tempo di scuola avuta da Lui, e tanta ignoranza sopra un punto capitale, che riguardava il fine della divina sua missione. Quanta benignità! Quanta carità con questi suoi cari Apostoli! Egli, vedendo le loro menti ingombre di sì gravi pregiudizi, tace e dissimula e non si prova nemmeno a dissiparli, perché non l’avrebbero compreso. Aspetta che il tempo e la luce che tra breve getterà nelle loro menti lo Spirito Santo, li rischiarino e mettano fine ai loro dubbi. Grande e sublime lezione per tutti e particolarmente per quanti hanno l’ufficio di ammaestrare il popolo! Quante volte accade di trovare persone piene di errori, che non si arrendono alle dimostrazioni più evidenti, che non sanno spogliarsi di certi pregiudizi succhiati col latte, che chiudono gli occhi della mente a verità chiarissime! Che fare? Talvolta sono vittime della educazione, dell’ambiente, come si dice, delle correnti popolari, di passioni per sé non sempre spregevoli. Combatterle risolutamente a viso aperto sarebbe forse cosa vana e talora anche nociva, perché ecciterebbe più vive le passioni facendosi l’amor proprio offeso loro patrocinatore. In molti casi giova tacere, dissimulare, attendere che le passioni sbolliscano, che il tempo ammaestri, e non è raro il caso che le menti si aprano da se stesse alla luce di quelle verità che prima si erano fieramente rigettate. L’esempio di Cristo lo prova. Egli lasciò cadere la domanda; non negò, né affermò; ma, riconducendo la mente dei suoi diletti Apostoli a ciò che maggiormente importava e dalle cose temporali richiamandoli, come sempre soleva fare, alle celesti, rispose: – Non spetta a voi conoscere i tempi e le congiunture, che il Padre ha serbato in sua balìa. – Che fu un dire: a che fermate il vostro pensiero sulle sorti future del regno d’Israele? Voi non potete mutarle; esse sono nelle mani di Dio, che solo le conosce e le regola nella sua sapienza. Ad altra impresa e troppo più alta e importante voi siete chiamati: di questa vi occupate, che è vostra, e quell’altra rimettete al divino volere. – Del resto qual era la sorte riserbata alla nazione giudaica e nominatamente alla sua capitale, Gerusalemme, cinquanta giorni innanzi l’aveva detto e descritto coi colori più vivi e la memoria doveva essere ancor fresca negli Apostoli. Non aveva lor detto, pochi giorni prima della sua passione, che sarebbe scoppiata una guerra sterminatrice con rivolte e tumulti? Non aveva chiaramente annunziato un assedio terribile, la presa della città, la distruzione del tempio, sì che non ne sarebbe rimasta pietra sopra pietra e ammonitili che fuggissero ai monti per non essere involti nella catastrofe? In quella profezia sì chiara e particolareggiata, che non potevano aver dimenticata, perché recentissima, si conteneva la risposta alla domanda: – È questo il tempo, nel quale restituirai il regno ad Israele? – Ma non è inutile il ripeterlo, quando un pregiudizio è profondamente abbarbicato nell’animo non valgono le ragioni più evidenti a svellerlo, ed è saggezza aspettare il beneficio del tempo e della esperienza, come fece Cristo, il quale, messo da banda questo argomento affatto umano e che allora non interessava, continuò, dicendo: – Piuttosto voi riceverete la potenza dello Spirito Santo, il quale verrà sopra di voi -. Ben altro regno che quello temporale d’Israele, del quale mi fate domanda, si deve fondare e tosto e per opera vostra. E come e quando? Appena avrete ricevuto lo Spirito Santo, che vi riempirà della sua forza divina tra pochi giorni e trasformandovi in altri uomini, vi renderà strumenti atti all’ardua impresa; e allora, da Lui supernamente illustrati, comprenderete qual sia il regno, ch’Io sono venuto a stabilire, regno della verità, regno dell’anime, che comincerà qui in Gerusalemme, si allargherà in tutta la Giudea e nella Samaria, che sono i confini del regno d’Israele, di cui parlate, e poi si distenderà fino agli estremi della terra. In tal modo Gesù Cristo accenna alla differenza immensa, che corre tra l’angusto e temporal regno sognato dagli Apostoli e quello senza confini e spirituale, ch’Egli per opera loro avrebbe fondato e implicitamente risponde alla domanda, che gli avevano fatta: – In questo tempo restituirai tu il regno ad Israele? – E qui cade in acconcio toccare alcune verità, che non sono senza importanza. E primieramente osservate tracciato agli Apostoli l’ordine della loro predicazione: essi dovevano cominciare la loro missione in Gerusalemme, poi spandersi nella Giudea, poi portarla in Samaria, che è quanto dire annunziare prima la buona novella ai figli di Abramo disseminati sul territorio delle dodici tribù, pigliando le mosse dalle due rimaste fedeli. Compiuta questa missione presso i figli d’Israele, il muro, che fino allora aveva separato il popolo eletto da tutti gli altri doveva cadere e aprirsi a tutti indistintamente la porta del novello regno, regno universale e duraturo fino al termine dei tempi. Disegno più audace di questo e umanamente di questo più impossibile non s’era mai visto, né mai era caduto in mente d’uomo e direttamente feriva l’orgoglio del popolo ebraico, sì tenace e sì geloso del suo più assoluto isolamento. Il carattere della più vasta universalità per ragione dello spazio e del tempo, che Cristo in questo luogo imprime al suo regno, siffattamente ripugna alle idee del mondo pagano e più ancora del mondo ebraico, che anche solo basta d’avvantaggio a mostrarli in Chi lo concepì e sì chiaramente l’annunzi la coscienza della propria forza al tutto sovra umana e divina. Osservate in secondo luogo che Cristo costituisce gli Apostoli testimoni – Eritis mihi testes – Testimoni di che? Dei fatti e dei miracoli (e per conseguenza della dottrina dai fatti e dai miracoli provata), che avevano veduto coi loro occhi. Ufficio adunque degli Apostoli e dei loro successori è quello di attestare e affermare costantemente e dovunque l’insegnamento di Cristo, la cui certezza poggia sui miracoli da Lui operati. Essi non sono che testimoni e perciò loro ufficio è quello di conservare pura e intatta la Dottrina di Cristo, quale uscì dalle sue labbra, senza aggiungere o levare ad essa pure un’apice. Perciò il ponetevelo bene nell’animo, o dilettissimi, la Chiesa, continuatrice dell’opera degli Apostoli non crea una sola verità nuova, non altera, né dimentica, né omette una sola delle verità caduta dalle labbra di Cristo e degli Apostoli: tutte le conserva e le trasmette fedelmente, come un cristallo tersissimo trasmette i raggi del sole, benché le svolga più largamente e di nuove e più ampie prove secondo i tempi e i luoghi le avvalori. Finalmente non dimenticate mai, o dilettissimi, che questo doppio ufficio di propagatrice e conservatrice infallibile della Dottrina di Cristo la Chiesa lo adempì e adempirà sempre, non per virtù propria, ma sì unicamente per virtù di quello Spirito Santo, che Cristo promise agli Apostoli e che rimarrà nella Chiesa fino all’ultimo giorno de’ secoli, secondo la sua promessa solenne. È bene a credere che Cristo, trattenendosi con gli Apostoli a lungo e più volte per lo spazio di quaranta giorni, altre cose disse loro, che non sono registrate da S. Luca, ma che si conservarono religiosamente nell’insegnamento orale degli Apostoli stessi e della Chiesa. S. Luca, compendiate queste cose, narra che Gesù condusse gli Apostoli fuori, in Betania, il castello di Marta, Maria e Lazzaro, presso Gerusalemme (S. Luca, XXIV, 51) e benedicendoli amorosamente – sotto i loro occhi levossi in alto – Videntibus illis, elevatus est –  Cristo levossi da terra per virtù della sua divina persona e sembra che ciò facesse a poco a poco, volti sempre gli sguardi sorridenti e stese le braccia verso i suoi cari Apostoli e discepoli e sopra tutto verso la Madre sua, che indubitatamente era colà, come si rileva dal versetto quattordicesimo di questo primo capo degli Atti Apostolici. Levossi in alto – Elevatus est – cioè levossi al Cielo. Che vi sia un luogo dove Iddio si manifesta svelatamente nella sua gloria a quelli, che hanno meritato di vederlo e bearsi in Lui e che si dice cielo, non vi può essere dubbio alcuno e la natura stessa degli Angeli e particolarmente degli uomini, che vi sono chiamati, lo esige. Ma dove sia questo luogo e questo Cielo a noi è perfettamente ignoto. Finché gli uomini, giudicando secondo i sensi e perciò seguendo le idee astronomiche di Tolcredevano la terra immobile, centro universale del creato e gli astri e le stelle poste in alto e d’altra natura incomparabilmente più nobile della terra, si comprende come potessero e dovessero collocare il Cielo, questo luogo di delizie, questa dimora gloriosa lassù in alto, negli astri, nelle stelle, nel Cielo immobile, che a tutte le cose sovrasta. L’idea cristiana del Cielo, elevandosi ai sublimi concetti di Dio, della sua immensità, degli spiriti, delle anime e dei corpi gloriosi, conserva pur sempre l’idea d’un luogo particolare, dove Dio mostra la sua presenza e la sua gloria, ma non determinò mai precisamente in qual regione sia posto questo luogo, se sopra o sotto di noi, se ad Oriente od Occidente, a tramontana o mezzogiorno. I Libri Santi tacciono, la tradizione è muta e la Chiesa, che n’è l’interprete, insegna che il Cielo de’ beati, il paradiso vi è, ma dove sia nol disse mai. E perché non potrebb’essere sulla terra istessa? Là dove è Dio svelato alle anime, là può essere il Cielo; e non potrebbe Iddio mostrarsi loro qual è qui sulla terra, campo dei loro combattimenti e delle loro vittorie e perciò anche luogo del loro trionfo? Che importa che noi non vediamo nulla? Chi può vedere Iddio, i puri spiriti, i corpi gloriosi? Cristo non vive sulla terra nel Sacramento dell’altare invisibile? E certo dove è Cristo ivi è altresì il Cielo, di cui è il Re. Disse profondamente il poeta teologo che ogni dove è paradiso ed è questo il vero concetto del Cielo secondo la ragione e secondo la fede e questo teniamo. Ma voi direte: E pur sempre vero che il testo sacro, narrando l’ascensione di Cristo, ce lo descrisse in atto di salire in alto – Elevatus est -; e noi stessi, allorché accenniamo il Cielo, leviamo in alto le mani quasi fosse lassù sopra dei nostri capi. È vero: Cristo, salendo in Cielo, montò in alto, non perché il Cielo sia piuttosto in alto che in basso ma per mostrare che la sua presenza visibile cessava sulla terra e cominciava un’altra maniera differentissima di vita; e poiché le cose più nobili e più eccellenti per noi si dicono metaforicamente alte e ce le rappresentiamo, non in basso, ma in alto; così Cristo per farci conoscere il suo nuovo modo di esistere in Cielo, salì in alto. Per la stessa ragione, allorché noi parliamo del Cielo, leviamo in alto le mani e gli occhi come se il Cielo fosse sopra de’ nostri capi Poiché Gesù fu levato in alto, una nube, dice il sacro scrittore, lo tolse ai loro occhi. Qual nube? Porse fu vera nube, o come inclino a credere e mi sembra più conforme al fatto e alla maestà di Cristo, quella fu uno splendore di luce meravigliosa, che a guisa di nube lo circonfuse e lo rese invisibile agli occhi degli Apostoli, che lo seguivano con ansia amorosa, con gioia ineffabile e dolore vivissimo, come potete immaginare. – Allorché gli Apostoli stavano pur con gli occhi fissi in alto cercando di vedere il Maestro, che si era dileguato in mezzo a quei fulgori celesti, ecco ad un tratto due personaggi bianco vestiti stettero presso di loro, quasi inosservati, perché gli occhi loro erano fermi lassù in alto. S. Luca non dice che fossero Angeli, ma non è a dubitarne dal contesto. Li chiama personaggi (viri), non Angeli, perché apparvero con forme umane e certo non è questo il primo luogo, in cui gli Angeli si chiamano uomini. Essi, riscossi gli Apostoli da quella loro estasi, volsero loro la parola, dicendo: – 0 Galilei, che state a riguardare in Cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi fu assunto in Cielo, verrà al modo istesso, onde lo vedeste andarsene -. Quegli Angeli rammentarono agli Apostoli una verità, che più volte avevano udita dalla bocca di Cristo, cioè la sua venuta gloriosa al termine dei tempi. Vedete somiglianza tra i due fatti della salita di Cristo al Cielo e della futura sua venuta, toccata dal sacro Autore. E sempre sopra una nube, che Gesù si mostra, sia che parta dalla terra, sia che vi ritorni, per indicare la sua maestà e la piena signoria ch’Egli ha sopra ogni cosa. Nella stessa trasfigurazione la voce celeste si fa udire dal seno d’una nube e attraverso ad una nube Mosè intravvede Dio. Con la mente e col cuore abbiamo seguito Cristo, che sale al Cielo: prepariamoci con la mente e col cuore ad accoglierlo nella finale sua venuta per essergli compagni nel suo rientrare nella gloria celeste e vivere beati con Lui per tutti i secoli dei secoli.

Alleluia
Allelúia, allelúia.
Ps XLVI:6.
Ascéndit Deus in iubilatióne, et Dóminus in voce tubæ. Allelúia.
[Iddio è asceso nel giubilo e il Signore al suono delle trombe. Allelúia.]

Ps LXVII:18-19.
V. Dóminus in Sina in sancto, ascéndens in altum, captívam duxit captivitátem. Allelúia.  [Il Signore dal Sinai viene nel santuario, salendo in alto, trascina schiava la schiavitú. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Marcum.
Marc XVI:14-20
In illo témpore: Recumbéntibus úndecim discípulis, appáruit illis Iesus: et exprobrávit incredulitátem eórum et durítiam cordis: quia iis, qui víderant eum resurrexísse, non credidérunt. Et dixit eis: Eúntes in mundum univérsum, prædicáte Evangélium omni creatúræ.
Qui credíderit et baptizátus fúerit, salvus erit: qui vero non credíderit, condemnábitur. Signa autem eos, qui credíderint, hæc sequéntur: In nómine meo dæmónia eiícient: linguis loquantur novis: serpentes tollent: et si mortíferum quid bíberint, non eis nocébit: super ægros manus impónent, et bene habébunt. Et Dóminus quidem Iesus, postquam locútus est eis, assúmptus est in cœlum, et sedet a dextris Dei. Illi autem profécti, prædicavérunt ubíque, Dómino cooperánte et sermónem confirmánte, sequéntibus signis.

OMELIA II

[Ut supra, Commento del Vangelo]

– Mentre (gli undici Apostoli) stavano a mensa, Gesù apparve loro e rampognò la loro incredulità e durezza di cuore, perché a quelli, lo avevano veduto risorto, non avevano creduto, e disse loro: Andando per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura; chi avrà creduto e sarà stato battezzato sarà salvo; ma chi non avrà creduto, sarà condannato. I segni poi che accompagneranno quelli, che avranno creduto, sono questi: Nel mio nome scacceranno demoni, parleranno nuovi linguaggi, torranno via serpenti e se alcun che di mortifero avranno bevuto, non ne avranno nocumento: porranno le mani sopra gli infermi e guariranno. E poiché il Signore ebbe parlato loro, fu accolto in Cielo e siede alla destra di Dio. Gli Apostoli intanto usciti, predicarono per tutto, cooperando il Signore e confermando la parola coi segni che seguitavano (S. Marco, XVI, 14, 20) -.

Ogni mistero, che la Chiesa ricorda e festeggia, si rispecchia naturalmente nella sua liturgia e segnatamente nella epistola e nel tratto evangelico, che fa leggere ai suoi sacerdoti nella Santa Messa. Così è del mistero o fatto della Ascensione di nostro Signore, che celebriamo in quest’oggi. Esso è narrato nella Epistola, che è tolta dal capo primo degli Atti Apostolici, che abbiamo spiegato nel Ragionamento antecedente e si narra pure in modo meno particolareggiato negli ultimi versetti di S. Marco, che testé si cantavano. Mi parrebbe cosa meno conveniente se dopo avervi commentato il fatto registrato negli Atti Apostolici, non lo commentassi eziandio quale è riferito succintamente da S. Marco. E tanto più mi induco a farlo in quantoché nei due testi vi sono parecchie differenze e si toccano cose e verità distinte tanto che non sarò costretto a ripetizioni, che riescono di peso anche quando sono utili. Non occorre il dirlo: il mio non è propriamente un Ragionamento, come vuole il titolo, ma un’Omelia, giacché è una chiosa del testo evangelico. Ma, Ragionamento od Omelia che sia, ciò che sono per dirvi merita tutta la vostra benevola attenzione. Le manifestazioni di Cristo alle pie donne e agli Apostoli dopo la sua Risurrezione, in Gerusalemme e poi nella Galilea e poi di nuovo in Gerusalemme, sono parecchie (se ne contano nove nei Vangeli): ma si narrano in modo sì succinto e con particolari sì scarsi e talora diversi, che non è agevol cosa ordinarle tutte e collocarle ciascuna al suo posto. Onde non è meraviglia che dopo tanti e sì pazienti studi degli interpreti si trovino ancora alcuni punti oscuri quanto al modo, al luogo, al tempo ed alle circostanze, in cui queste apparizioni avvennero; la qual cosa lungi dal gettar ombra di dubbio sulla certezza del fatto della Risurrezione lo conferma maggiormente, perché le differenze della narrazione sono affatto accidentali e mostrano che tra gli Evangelisti non v’ebbe accordo precedente, ma ciascuno narrò i fatti come li vide od udì, non curandosi d’altro!). S. Marco in special maniera è brevissimo e, accennate appena le due apparizioni di Gesù a Maria Maddalena e ai due discepoli nel castello di Emmaus, chiude con la terza ed ultima apparizione fatta agli undici Apostoli nel Cenacolo di Gerusalemme. E qui comincia il Vangelo di questo giorno: – Da ultimo Gesù, stando gli undici (Apostoli) a mensa, apparve loro -. S. Giovanni, testimonio di veduta, quanto alle apparizioni di Cristo è senza dubbio il più copioso. Egli, descritta la apparizione a Maria Maddalena, avvenuta al mattino della Domenica di Pasqua, narra subito quella avvenuta la sera stessa, a porte chiuse, in Gerusalemme, a dieci Apostoli, non trovandosi con loro Tommaso, come nota accuratamente (Cap. XX, 24). – Tommaso rifiutò ostinatamente di credere ciò che gli narrarono i dieci compagni. Otto giorni appresso, scrive Giovanni, gli Apostoli erano ancora raccolti insieme, a porte chiuse, nello stesso luogo secondo ogni verosimiglianza, e Tommaso era con essi (v. 26). Allorché adunque il nostro Evangelista S. Marco ci dice che: – Da ultimo Gesù apparve agli undici (Apostoli) mentre stavano a mensa -, chiaramente si riferisce alla seconda apparizione descritta da Giovanni, quando gli Apostoli erano, non dieci, ma undici. Così armonizzano i due Evangelisti. Nota in questo luogo il Vangelista che Gesù apparve agli undici mentre erano a mensa; e questa sembra l’apparizione descritta da S. Luca (XXIV, 41, 42), nella quale Gesù per mostrare la verità della Risurrezione, disse agli Apostoli: Avete qui alcun che da mangiare? E mangiò un po’ di pesce e di miele. Ma, lasciando da parte tutte queste cose, che interessano l’ordine dei fatti evangelici più che le verità insegnate da Cristo, poniamo mente a queste parole: – Gesù, dice S. Marco, rampognò la loro incredulità e durezza di cuore -. Nel periodo dei quaranta giorni che Cristo visse sulla terra tra la Risurrezione e la Ascensione, si devono distinguere due parti: la prima parte abbraccia i primi dieci o dodici giorni e nominatamente la prima settimana. In questo periodo di tempo i dubbi, i timori, le incertezze degli Apostoli furono molte; anzi in alcuni, come in Tommaso, apparve una ostinazione inescusabile in rifiutare la verità della Risurrezione: nel secondo periodo fino alla Ascensione cessarono dubbi e le incertezze e gli Apostoli credettero fermamente. – I rimproveri pertanto riguardano la incredulità e la durezza degli Apostoli nel primo periodo, non nel secondo, e più particolarmente riguardano Tommaso. S. Marco determina il perché di questi rimproveri, soggiungendo: – Perché a quelli, che l’avevano veduto risorto, non avevano creduto -. Questa osservazione ci fa comprendere come il rimprovero della incredulità e durezza di cuore era rivolto, non a tatti, ma soltanto ad alcuni, a quelli cioè che avevano appreso la sua Risurrezione per mezzo d’altri. E non erano essi colpevoli? Gesù Cristo tante volte e con tanta chiarezza aveva annunziata la sua morte e promessa la sua Risurrezione, determinandone anche il tempo. Allorché dunque quelli che l’avevano veduto redivivo lo annunziavano ai compagni avevano diritto d’essere creduti e il non credere a loro era un’ingiuria, che loro si faceva, reputandoli o ingannati od ingannatori, ed era una ingiuria a Cristo stesso quasi ché fosse stato un profeta bugiardo, impotente a mantenere la promessa fatta di risorgere. Gesù Cristo adunque voleva che si prestasse fede e fede pienissima a quelli che affermavano d’averlo veduto e ch’Egli mandava ad annunziare la sua Risurrezione. È dunque dovere, o carissimi, di aggiustar fede a quelli che sono mandati da Lui e tengono l’ufficio di suoi ministri. Ora chi sono dessi i ministri della Chiesa, i Sacerdoti, se non mandati di Cristo, aventi l’ufficio di ripetere fedelmente il suo insegnamento? Credete adunque alla loro parola se non volete incorrere il biasimo di quelli che allora non credettero alle affermazioni di coloro che l’avevano veduto. – Qui S. Marco, omessa ogni altra cosa, riporta il comando di Cristo fatto agli Apostoli di annunziare il suo Vangelo: – Andando per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura -. Non occorre avvertire che quella parola – Ogni creatura – vuolsi riferire ad ogni creatura ragionevole, ossia a tutto l’uman genere. È un fatto sul quale giova sempre fermare la nostra attenzione, perché unico nei fasti della storia umana e perché mette in rilievo il carattere di Cristo e della sua dottrina. Cristo, nato nell’ebraismo e per conseguenza nell’ambiente religioso più esclusivo che si possa immaginare; cresciuto in mezzo ad un popolo per il quale era un delitto, un sacrilegio allargare le promesse fatte ad Abramo ai gentili e comunicare con essi; Cristo impone a’ suoi discepoli (e quali discepoli!) di predicare la sua dottrina a tutti gli uomini, senza eccezione di sorta,  senza limite di tempo e di spazio e lo impone allorché Egli stesso sta per cessare la sua missione e separarsi da loro; e l’impone in modo che non lascia ombra di dubbio sull’esito finale dell’impresa; e l’unico mezzo, che mette nelle loro mani per un’impresa sì audace, anzi impossibile, è la parola: – Predicate -. Chiunque consideri con animo posato e scevro di pregiudizi il disegno di Cristo, il suo comando e il linguaggio che tiene, deve conchiudere: O Cristo è pazzo, o è l’arbitro assoluto delle menti e dei cuori, è Dio. L’esito, che ci sta sotto degli occhi e che ogni dì più grandeggia, ha confermato la sua parola: Egli è Dio, quel Dio stesso, che da un solo trasse l’uman genere (Atti Apost. XVII. 26) e lo riduce ancora all’unità massima, l’unità della verità, fatta comune a tutti. – Qual fatto, o carissimi, che dopo diciannove secoli va compiendosi sotto de’ nostri occhi con una forza tranquilla e irresistibile! Voi, dice Cristo agli Apostoli, voi predicherete la mia dottrina a tutti così com’Io l’ho predicata: nessuna forza materiale: la sola parola, la sola persuasione vi deve dare la vittoria. – Chi avrà creduto e sarà stato battezzato, sarà salvo: ma chi non avrà creduto, sarà condannato -. Voi, o Apostoli, con la parola portate la verità nella mente degli uomini: è questo il vostro ufficio; a loro accoglierla mercé della grazia, che in modo invisibile Io infonderò nei loro cuori. Se docili presteranno l’orecchio alla vostra parola e riceveranno con essa la verità che annunziate; se faranno anche ciò che la verità impone e riceveranno il Battesimo, il suggello della fede, con questo rito santifìcatore essi diventeranno figli della nuova famiglia, membri del nuovo regno e saranno salvi. Ma come, o Signore? Per essere salvi basta dunque credere ed essere battezzati? E le opere non sono esse necessarie come la fede e il Battesimo? – Carissimi! È d’uopo mettere insieme tutte le parole di Cristo; guai a chi fissa l’occhio sopra alcune soltanto e dimentica le altre! Tiene una parte, non tutta la dottrina di Cristo. Qui Cristo afferma necessaria la fede e necessario il Battesimo a salute: altrove dice che se vogliamo salvarci bisogna osservare la legge, mettere in pratica la fede, adempiere le opere della carità verso del prossimo; che colui il quale non nutre l’affamato, non disseta l’assetato, non veste l’ignudo, e non esercita le opere della carità, sarà da Lui condannato inesorabilmente nel dì del giudizio. Mettete insieme tutte queste parole di Cristo e troverete che se la fede e il Battesimo sono necessari a salvezza, non lo sono meno le opere, che sono il frutto della fede e del Battesimo. Che se in questo luogo Cristo non parlò delle opere, ma solo della fede e del Battesimo, egli è perché, affermando la necessità della fede, implicitamente affermava altresì la necessità delle opere, perché è la fede stessa che proclama la necessità delle opere. Allorché noi diciamo che chi respira l’aria vive, intendiamo forse di dire che l’aria sola sia bastevole per vivere? Neghiamo noi forse allora che sia necessario il cibo? Certo che no. Né meglio ragionano altri, che, appoggiati ai queste parole di Cristo, pensano non potersi dare il Battesimo ai bambini e a tutti quelli che non hanno l’uso della ragione, perché Cristo esige la fede prima del Battesimo – Chi avrà creduto sarà battezzato – e certamente i bambini e quelli privi di ragione non sono capaci della fede. È manifesto che Cristo in questo luogo parlava degli adulti, che non possono ricevere il Battesimo se prima non professano di credere. Del resto anche i bambini e quelli privi di ragione in qualche modo credono, non per sé, ma per mezzo dei genitori o di quelli che li rappresentano, per mezzo della Chiesa e, come senza loro volontà contrassero la colpa di origine, così senza loro volontà pel Battesimo la cancellano.E quelli, o Signore, ai quali non giungerà la parola dei vostri Apostoli e perciò non potranno nè credere, ne ricevere il Battesimo, li condannerete Voi? Condannare all’eterna perdizione quelli che non hanno la vostra fede e non ricevono il vostro Battesimo solo perché ignorano quella e questo senza colpa, sarebbe somma e orribile ingiustizia e Voi, o Signore, non la potrete mai fare. E Dio non la fa, né la farà mai, o cari. Tutti quelli che non credono al Vangelo, né ricevono il Battesimo senza loro colpa, non commettono peccato qualsiasi e non subiranno condanna alcuna, che non è giusto punire chi ha violata una legge che ignorava senza sua colpa [Convien distinguere tra la condanna positiva all’inferno, e la semplice esclusione dalla soprannaturale visione beatifica di Dio, ossia dal paradiso. Questa si può incorrere anche senza colpa, almeno propria e personale, non così quella. Chiunque, sia pure incolpevolmente, non ha fede soprannaturale e Battesimo (almeno in voto), è escluso dal paradiso; ma all’inferno non va, che chi si è fatto reo di peccato mortale. Quale sarà adunque lo stato di chi muore senza fede e senza Battesimo, ma incolpevolmente? S. Tommaso parlando dei bambini (ai quali si possono equiparare quegli adulti che si trovassero nello stesso caso, se pure è possibile) dice, che avranno una felicità naturale]. Dopo avere imposto la predicazione del Vangelo per tutto il mondo e annunziata chiaramente la mercede dovuta ai credenti e la pena riserbata agli ostinati non credenti, sorgeva naturale la domanda negli Apostoli: Ma come otterremo noi fede alla nostra predicazione? Se ci chiederanno le prove della dottrina, che annunziamo, che risponderemo noi, o Maestro? Dovranno essi gli uomini credere ciecamente, sulla nostra parola, a verità che superano la ragione, che impongono ardui sacrifici? Quali prove daremo noi della nostra missione? A questa domanda, che gli Apostoli tacitamente dovevano fare, Gesù risponde nei due versetti che seguono. Eccoli: – Torranno via serpenti e se alcun che di mortifero berranno, non ne riceveranno nocumento alcuno; porranno le mani sopra gli infermi e guariranno -. Con queste parole Gesù Cristo diede ai suoi Apostoli il potere di far miracoli e ciascuno comprende, che il potere è amplissimo e che il testo evangelico ne accenna alcuni soltanto per brevità. Non farò osservare che il potere di operare miracoli dato agli Apostoli non si vuole intendere dato per modo che essi li potessero fare a talento, come e quanto e quando loro piacesse come il potere di annunziare la Dottrina di Cristo e amministrare i Sacramenti e via dicendo. Era un potere affatto straordinario e ne usavano solo dove, quando, come e quanto piaceva a Dio e il più delle volte, credo io, senza che lo sapessero o volessero, secondoché Dio li ispirava e muoveva. – La storia della Chiesa dai tempi degli Apostoli fino a noi è piena, possiamo dire, di miracoli e il negarli, più che una empietà, sarebbe una stoltezza. Non io dirò che tutti e ciascuno (eccettuati, s’intende, quelli narrati nei Libri Santi) siano egualmente accertati; ma il negarli tutti od anche solo metterli in dubbio, sarebbe un vero oltraggio alla ragione e al senso comune. Certo nei primi tempi della Chiesa furono più frequenti, perché maggiore ne era il bisogno e S. Agostino ne dà la ragione (De vera religione, cap. 25); ma essi in varia misura si ebbero in tutti i secoli e non mancano eziandio ai nostri tempi. So bene che la parola miracolo fa spuntare sulle labbra di certi dotti il sorriso di compatimento: so bene ch’essi, stringendosi nelle spalle, vanno dicendo: – Sono leggende! Pie frodi! Superstizioni! Ignoranza delle leggi della natura! Creazioni della fantasia popolare, che ha bisogno del meraviglioso! Il miracolo, dicono essi in aria di trionfo, è impossibile: la scienza non lo ammette e fosse anche possibile, non fu, né sarà mai accertato -. È il linguaggio del razionalismo, e poiché qui cade in acconcio parlarne, dacché Cristo in forma solenne ne conferì il potere agli Apostoli, non vi sia grave, che ne dica quel tanto, che è necessario per mettere in sodo la verità cattolica e fornirvi l’armi per ribattere le accuse e le difficoltà. – Che è desso il miracolo, o carissimi ? È un fatto che cade sotto dei sensi, indubitato, che è impossibile attribuire alle forze della natura, perché ad esse superiore o contrario e che per conseguenza si deve attribuire alla causa delle cause: Dio. Il miracolo è possibile? E perché sarebbe impossibile? Chi ha create tutte le cose e fissate le loro leggi non potrebbe mutar quelle e sospendere queste ? Il legislatore è forse soggetto alle leggi per lui stabilite? – Ma se le sospende e le muta, muta la sua volontà, muta se stesso? — No, per fermo. Se così fosse non avrebbe potuto creare, né potrebbe provvedere al governo dell’universo. E poi quel mutamento che il miracolo introduce nelle leggi di natura fu previsto e voluto da Dio ab æterno e il miracolo non è che la attuazione del suo volere eterno: si muta dunque la legge, ma non si muta il legislatore. E voi, uomini, non sospendete e non mutate tante volte le leggi naturali coi mezzi naturali? Voi deviate il corso dei fiumi e delle folgori: voi vi sollevate in alto cogli areostati; voi dominate la forza stessa di attrazione, usando delle forze naturali, che sono in vostra mano. Perché non lo potrebbe far Dio? Ciò che possono fare le creature può farlo senza dubbio il Creatore, che precontiene in sé tutte le forze della natura. Chi oserebbe negarlo? Un miracolo inteso in questo modo non importa che si mutino o si sospendano le leggi di natura: esse stanno, ed è Dio stesso che fa ogni cosa. Curiosi questi dotti, che vorrebbero sottoporre Dio alle sue leggi e negare a Lui di mondare in un istante un lebbroso, di raddrizzare uno zoppo, di ridonare la vista ad un cieco, la favella a un sordo-muto e di ricongiungere al suo corpo l’anima che se n’è partita, a Dio che ha create tutte le forze, che ha creato l’uomo e tutto ciò che l’uomo possiede! Un medico con la sua scienza e co’ suoi farmaci, nel tempo conveniente, può guarire un infermo; e Dio non lo potrà in un istante con la sua sola volontà onnipotente? – Ma come potremo noi distinguere il miracolo dal fenomeno naturale, noi che non conosciamo che imperfettissimamente le leggi e le forze della natura? È troppo facile che la nostra ignoranza veda l’opera di Dio, il miracolo là dove non è che un fenomeno d’una forza occulta di natura? -. Se il vostro sospetto, che sia l’opera della natura quello che sembra miracolo, è ragionevole, tenete pur dubbio il miracolo. Quel fenomeno che si può spiegare naturalmente non è miracolo. È vero: noi non conosciamo tutte le forze della natura, ma non ne segue che possiamo dubitare del miracolo: basta osservare il fatto come avviene ed è facile distinguere ciò che è effetto di leggi naturali da ciò che è opera di Dio. Le leggi e le forze naturali operano in modi determinati, gradatamente, con l’applicazione di mezzi necessari: Dio opera senza questi mezzi, o con mezzi affatto impari e istantaneamente. Posso trasmettervi i miei pensieri col telegrafo o col telefono; ma sono obbligato a servirmi costantemente di quei mezzi che sono necessari: il medico può guarire un infermo che lotta con la morte, ma deve usare dei rimedi e domanda il tempo conveniente: nulla di simile nel miracolo. Non vi sono o se vi sono, tra loro e l’effetto non esiste proporzione alcuna. Chi giudica che l’effetto sia naturale o sopranaturale è e deve essere sempre la vostra ragione, la vostra scienza: il miracolo non si crede, ma si dimostra e il giudizio supremo e decisivo della sua esistenza spetta a voi, o dotti: a voi, rappresentanti della scienza [Parlo, com’è naturale, del miracolo in quanto è argomento di credibilità, e dei dotti in quanto non rinnegano il buon senso]. Un corpo da quattro dì giace nel sepolcro; il fetore che mena vi dice che la putrefazione è cominciata. Un uomo alla presenza d’una turba, in cui con gli amici sono confusi i nemici, lo chiama fuori della tomba: a quella voce il cadavere infradiciato si scuote, si leva e pieno di vita balza dal sepolcro. Un uomo risorge dopo tre dì dalla morte: dopo aver conversato per quaranta giorni co’ suoi discepoli, alla presenza di centinaia di persone, in pieno giorno, lascia la terra e si innalza al Cielo con un solo atto della sua volontà: Uomini della scienza, rispondete: questi fatti certissimi, innegabili, avvenuti sugli occhi di tanti testimoni, che non potevano ingannarsi, che non avevano interesse ad ingannare, che anzi avevano interesse a negarli o tacerli, potete voi attribuirli a forze occulte della natura operanti in quell’istante, proprio in quell’istante? Se è così, mostratelo; come uomini della scienza avete obbligo di mettere in luce queste nuove e misteriose forze; non vi è concesso di ripararvi dietro all’ignoto, all’ombra del mistero e dire: Possono essere forze ignote della natura quelle che operano -. Un “può essere”, a voi, che proclamate altamente i diritti sovrani della ragione, che questa sola riconoscete giudice inappellabile, disdice. I fatti son lì indubitati: nessuna forza naturale li può produrre; dunque vi è un’altra forza sovrannaturale, che li produce, la sola che li può produrre, è Dio -. Questo ci sembra buon senso, questo è il giudizio della ragione, che erompe spontaneo da ogni uomo, scevro da pregiudizi. I vostri dubbi , i vostri forse non fanno onore alla vostra ragione, che sembra cercare le tenebre là dove tutto è luce. – Ma quanti miracoli furono creati dalla superstizione, dall’inganno, dall’interesse, dall’ignoranza e dalla febbre del meraviglioso, onde le moltitudini troppo spesso sono invase! Tutte le Religioni della terra ne sono piene! Tutti i popoli narrano e magnificano i propri miracoli, che crescono in ragione della loro ignoranza e scemano in ragione della loro coltura e del loro progresso intellettuale. Ond’è ragionevole il credere che allorquando la ragione umana avrà compiute tutte le sue conquiste e sarà pervenuta al termine del suo cammino, del suo progresso, allora scomparirà dalla terra il miracolo, come le tenebre si dileguano dinnanzi al sole -. Molti miracoli furono creati dalla superstizione, dall’inganno, dall’interesse, dalla ignoranza, e dalla febbre del meraviglioso, onde le moltitudini sono invase: lo confessiamo. Ma tutti i miracoli hanno questa origine, anche quelli della Religione cristiana? Potete voi in buona fede mettere in un fascio i miracoli del paganesimo e del maomettismo con quelli di Mosè, di Cristo e degli Apostoli? Hanno tutti lo stesso carattere storico e morale? Perché con le monete vere si spacciano le false, direte voi che tutte son false? Perché coi rimedi efficaci della scienza medica han voga quelli dei ciarlatani, li proscriverete tutti insieme? Perché nei libri e nei monumenti della storia, le leggende e le menzogne più o meno intrecciate vanno talora mescolate coi fatti più certi e sicuri, avrete voi i diritto di rigettare ogni cosa? Avete solo il diritto e il dovere di sceverare il vero dal falso, il buono dal reo, questo serbando, quello rigettando. Il somigliante fate quanto ai miracoli: esaminateli, scrutateli senza prevenzioni, senza sistematici concetti, mossi dal solo amore del vero e troverete che i miracoli del Vangelo reggono alla critica più severa e che il negarli o anche solo il dubitarne è un fare violenza e oltraggio a quella ragione, di cui siete sì alteri. Troverete che se il progredire delle scienze e della ragione umana fa sparire i falsi miracoli e rende difficile e impossibile l’inventarne e spacciarne di nuovi, conferma e mette in maggior luce i veri, quelli su cui poggia la missione di Cristo e l’origine della Chiesa. La ragione umana e la scienza progredita faranno dileguare dalla terra il miracolo, si dice. Sì? Lo faranno dileguare quando avranno scacciato dalla terra e dal cielo, dalla mente e dal cuore degli uomini l’idea di Dio. Finche l’idea di Dio rimarrà nella mente e nel cuore degli uomini rimarrà pure l’idea del miracolo, che ne è inseparabile, come la luce e il calore è inseparabile dal sole. Perdonate questa digressione troppo lunga, ma non inutile e chiudiamo il commento del nostro Vangelo . E poiché il Signore Gesù ebbe parlato loro, fu accolto nel Cielo e siede alla destra di Dio -. L’Evangelista con questo versetto ricorda il fatto della Ascensione, su cui non richiamo la vostra attenzione, perché nel Ragionamento antecedente! fu più ampiamente esposto e me ne passo. – Chiude S. Marco il suo Vangelo con queste parole: – Quelli (cioè gli Apostoli) intanto, predicarono per tutto, cooperando il Signore e confermando la parola coi miracoli, che seguitavano -. È questo un richiamo alla promessa fatta da Cristo agli Apostoli, or ora accennata, con cui die’ loro il potere dei miracoli. La promessa, dice S. Marco, fu adempiuta e noi vedemmo Dio confermare coi miracoli l’insegnamento degli Apostoli e per tal guisa farsi loro cooperatore. I miracoli adunque sono la conferma della Dottrina, il suggello di Dio stesso. La Dottrina di Cristo per la massima parte trascende le forze della ragione umana: come potremmo noi dunque coglierla e tenerla con la maggiore fermezza, ci sia possibile? Sono due le vie, per le quali noi perveniamo al possesso d’una Dottrina qualunque: l’una è la ragione, il conoscimento della Dottrina stessa in sé; così conosciamo la matematica e tante altre cose naturali; l’altra è l’autorità e questa è umana, se è appoggiata a motivi umani; per essa conosciamo innumerevoli cose, per esempio tutti i fatti della storia. Può  essere divina, se è appoggiata a fatti divini, quali sono i miracoli operati in conferma d’una Dottrina e tale è appunto l’autorità degli Apostoli e della Chiesa. Uomini ragionevoli non siamo accogliere e tenere una dottrina qualunque senza prove ragionevoli proporzionate. Prove umane e naturali, dirette e decisive delle della fede non le abbiamo, né possiamo averle, perché a tanta altezza la ragion nostra non può assorgere. Come dunque potremo accoglierle e tenerle con ogni fermezza? Agli Apostoli e alla Chiesa che le annunziano noi diciamo: perché dobbiamo credere ciò che non intendiamo, né possiamo intendere? – Perché noi veniamo a nome di Dio -. Sta bene: e come ci provate ci venite a nome di Dio? – Ecco le nostre prove: i miracoli; esaminateli: sono la lettera credenziale dataci da Lui stesso -. I miracoli sono l’opera esclusiva di Dio, sono la sua parola e alla parola di Dio chi oserebbe rifiutar fede? E così, o cari, che la nostra fede a verità incomprensibili è ragionevole. Gli nomini della terra ricevono ed eseguiscono gli ordini del loro re quando ne vedono la firma e il suggello, benché non li comprendano; noi riceviamo ed eseguiamo gli ordini, le leggi, la dottrina di Cristo, ancorché non le comprendiamo, allorché la Chiesa, la sua ambasciatrice fedele, ci mostra la firma e il suggello di Lui: e la sua firma e il suo suggello sono i miracoli operati in suo nome.

Credo

Offertorium
Orémus
Ps XLVI:6.
Ascéndit Deus in iubilatióne, et Dóminus in voce tubæ, allelúia.
[Iddio è asceso nel giubilo e il Signore al suono delle trombe. Allelúia.]

Secreta
Súscipe, Dómine, múnera, quæ pro Fílii tui gloriósa censióne deférimus: et concéde propítius; ut a præséntibus perículis liberémur, et ad vitam per veniámus ætérnam. [Accetta, o Signore, i doni che Ti offriamo in onore della gloriosa Ascensione del tuo Figlio: e concedi propizio che, liberi dai pericoli presenti, giungiamo alla vita eterna.]

Communio
Ps 67:33-34
Psállite Dómino, qui ascéndit super coelos coelórum ad Oriéntem, allelúia.

[Salmodiate al Signore che ascende al di sopra di tutti i cieli a Oriente, allelúia.]

Postcommunio
Orémus.
Præsta nobis, quǽsumus, omnípotens et miséricors Deus: ut, quæ visibílibus mystériis suménda percépimus, invisíbili consequámur efféctu.
[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente e misericordioso, che di quanto abbiamo ricevuto mediante i visibili misteri, ne conseguiamo l’invisibile effetto].

I PAPI DELLE CATACOMBE (2) J. Chantrel

I Papi delle Catacombe [2]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

II.

Le Catacombe.

Prima di assistere a queste lotte e a questi trionfi, bisogna penetrare un momento in queste dimore sotterranee ove i primi Cristiani di Roma pregavano Dio e traevano la forza per combattere fino alla morte; ove i loro fratelli raccoglievano piamente i loro resti mutilati, divenuti il Tesoro più prezioso della città dei Cesari, miniere inesauribili da cui la Cristianità intera trae ogni giorno i ricchi gioielli dei suoi templi, vaste cave le cui pietre sono le ossa dei martiri, di cui gli echi rievocano i combattimenti più gloriosi che si siano mai svolti sulla terra. Tali sono le catacombe di Roma, dei veri palazzi di martiri, ove questi eroi della fede pregarono durante la loro vita e riposarono dopo la loro morte. Ci si figuri allora un labirinto di gallerie sotterranee, di piccoli corridoi oscuri, alcuni dritti, altri tortuosi che si tagliano e si intrecciano, per così dire, gli uni con gli altri, vari aperti e praticabili, ma un gran numero così stretti da non poter passare, o perché ricolmati da frane; altri lasciano scorgere a destra e a sinistra degli anfratti inaccessibili, ove il visitatore non ha coraggio di avventurarsi; ci si figuri questo labirinto, queste gallerie, questi corridoi, con migliaia e migliaia di sepolture, come un grande ossario, vero palazzo della morte, e si avrà una idea generale delle catacombe. – Nelle pareti dei corridoi sono state praticate, per deporvi i cadaveri, delle specie di nicchie oblunghe, poste orizzontalmente le une sulle altre, come i raggi di una biblioteca ove la morte avrà deposto le sue opere. [Mgr Gerbet, Esquisse de Rome chrétienne. — Tullio Dandolo, Roma ed i Papi] Quando un corpo era stato deposto nella nicchia, se ne chiudeva l’apertura con delle pietre e della calce; i becchini poi chiudevano abitualmente l’accesso di un corridoio quando ne aprivano un altro; è così che intere gallerie furono intasate, altre non lo furono che più tardi, quando se ne asportarono le sacre reliquie. Il visitatore che accompagna nel loro lavoro gli esploratori delle catacombe, non può non provare un sentimento di venerazione passando su quel suolo che i martiri hanno calpestato, penetrando in queste grotte nuovamente aperte, ove nessun piede umano era penetrato dal tempo in cui i Cristiani erano stati li per seppellire qualcuno dei loro fratelli caduti sotto i colpi di Diocleziano. Là si contemplano tutte le devastazioni che la morte abbia potuto operare in diciassette secoli, ma queste devastazioni non inspirano spavento, perché si è certi che un giorno questi resti di ossa, questa polvere umana brillerà in tutto lo splendore di una gloriosa resurrezione. I Cristiani dei tempi apostolici erano già ricorsi alle vaste cripte del Vaticano e dei giardini di Lucino, sulla strada di Ostia, per nascondervi i preziosi resti di San Pietro e di San Paolo. Ma ben presto fu necessario ricorrere a spazi più vasti per i morti e, soprattutto, per i vivi; li si trovarono nelle Arenaria o cave di sabbia di Roma. Queste cave erano le antiche carriere dalle quali veniva estratta la pozzolana, roccia sabbiosa che Roma aveva adoperato come cemento dei suoi edifici. Lo spazio non mancava ma, essendo queste arene ancora impiegate, esse non davano molta sicurezza ai Cristiani. È allora che questi scavarono dei pozzi e si misero ad aprire segretamente, anche sotto le stesse arene, nuovi più sicuri rifugi. La natura del terreno si prestava perfettamente a questo lavoro. Gallerie che permettevano a mala pena il passaggio di una persona, furono aperte in tutte le direzioni, e questo lavoro, continuato per quasi due secoli, rese le catacombe un labirinto che ai nostri giorni si esplora con più cura che mai. I lavoratori osservavano comunque una strabiliante regolarità nei loro lavori: quattro o cinque vie principali incrociate a forma di croce greca formano il piano generale di questa città sotterranea; e su queste quattro o cinque grandi linee, si incrociano e si collegano, l’una all’altra, dalle cinquanta alle sessanta vie secondarie che comunicano tutte insieme, e che occupano la superficie di diverse miglia. La parte più considerevole delle catacombe si trova fuori dalle mura, sulla riva sinistra del Tevere, e si estende fino ai piedi delle colline di Albano e di Tivoli; era come una grande linea di circonvallazione sotterranea, in mezzo alla quale il Cristianesimo teneva in assedio la capitale dell’idolatria [Dandolo]; era nel contempo il cimitero ed il campo zeppo di guerrieri pronti a rovesciare la fortezza del paganesimo. Così, la tomba di San Pietro fronteggiava il circo di Nerone; il cimitero di San Pancrazio minacciava il campo dei Marzi; la cripta di San Paolo corrispondeva alla colonna di Cestius; la tomba di Santa Priscilla al tempio dell’Onore; le grandi catacombe si dirigevano verso il palazzo degli imperatori e verso il Campidoglio: gli assedianti e gli assediati erano in lotta continua: quanto più gli assediati facevano irruzione nelle catacombe per devastarle, tanto più gli assedianti si lanciavano sulle piazze pubbliche di Roma per morirvi, cioè per guadagnare le vittorie, perché più il numero dei martiri aumentava, più il paganesimo si sentiva distruggere. Ed è infatti dopo la più violenta delle persecuzioni, che esso cadde spirando, nel momento in cui si credeva aver distrutto la Religione di Gesù-Cristo. Due grandi linee di catacombe partono dal Vaticano e girano intorno alla città per riunirsi sotto la via Appia. Su questa via, la più magnifica dell’impero, si ergeva il mausoleo di Metello, di Marcello, degli Scipioni, gli uomini più grandi della repubblica romana; è li infatti che il Cristianesimo stabilisce come il quartiere generale delle sue tombe con il cimitero di San Callisto. Questo cimitero ha ricevuto il nome dal Papa che lo ha sensibilmente ingrandito all’inizio del III secolo. Si pensa che questo cimitero sotterraneo non abbia ricevuto meno di settantaquattromila corpi di martiri. Vi si contano trecento corridoi esplorati, ai quali corrispondono e si collegano altri innumerevoli corridoi non ancora scavati e che saranno per lungo tempo inaccessibili. Si trattava veramente di un Vaticano sotterraneo; là regnavano i Papi, là si preparava, a forza di santità, di virtù e di coraggio, il trionfo pubblico della loro sovranità spirituale. – La situazione del cimitero di San Callisto [questo cimitero si chiama anche: catacomba di San Sebastiano], presso la via Appia, permetteva ai fedeli che lo frequentavano di sfuggire più facilmente alle ricerche delle spie. Essi facevano ogni loro sforzo per impedire la scoperta del luogo in cui si rifugiavano i Sovrani Pontefici: delle sentinelle vegliavano all’intorno, vestiti con abiti da mendicanti, muniti di una parola d’ordine per riconoscersi tra di loro e per riconoscere i fratelli; era ad essi che bisognava rivolgersi per essere condotti davanti al Papa. Così quando santa Cecilia inviò il neofita Valeriano, suo sposo, al Papa Urbano che era nascosto nelle catacombe, gli disse: « quando sarete giunto all’ottava pietra miliare, vi troverete qualche mendicante; essi mi conoscono; avvicinateli con affabilità e dite loro che è Cecilia che vi manda per essere condotto dal santo vegliardo Urbano, per il quale vi è stato affidato un messaggio. » Santa Cecilia fu più tardi seppellita in questa stessa catacomba. Si vede tuttora la camera che si considera essere stata abitata dai Papi. Nella chiesa situata all’entrata della catacomba, si legge questa iscrizione: « È qui il cimitero del celebre Papa Callisto, martire. Chiunque lo visiterà con contrizione e dopo essersi confessato, otterrà la remissione totale dei suoi peccati, per i gloriosi meriti di centosettantaquattromila Santi Martiri che sono stati sepolti là: quarantasei Vescovi illustri, passati tutti attraverso grandi tribolazioni, e che per diventare eredi del regno del Signore, hanno sofferto il supplizio e la morte per il Nome di Gesù-Cristo. » Qualche autore presume che quarantasei Papi siano stati sotterrati in questa catacomba; si può essere certi per San Antero, San Fabiano, San Lucio, Santo Stefano, San Sisto II, San Dionisio, San Eutichiano, San Caio, San Marcello, San Eusebio e San Melchiade, tutti morti martiri, e di San Silvestro, che morì sotto il regno di Costantino. Gli altri Papi dei tre primi secoli, furono sotterrati nelle catacombe del Vaticano, della via Appia e della via Aurelia. Sono tutti i Papi delle catacombe, perché è là che essi vivevano, là che le loro ossa sacre furono deposte. Tutti i corpi deposti nelle catacombe non erano tutti corpi di martiri: i Cristiani desideravano infatti essere sotterrati vicino alle tombe di coloro che avevano dato la loro vita per Gesù-Cristo, ed è così che le catacombe si riempivano. Ma è facile distinguere le loro, dalle altre le tombe che racchiudono le reliquie dei martiri. Spesso lo indica un’iscrizione, che dà nel tempo stesso il nome del glorioso confessore della fede; sempre una fiala contenente sangue coagulato o disseccato testimonia che il defunto ha conquistato la corona celeste con l’effusione del suo sangue. I Cristiani raccoglievano con la maggior cura possibile il sangue dei martiri, malgrado i pericoli ai quali si esponevano facendolo; a volte lo raccoglievano con una spugna o un pezzo di tessuto, ed è per questo che delle fiale contengono delle spugne o dei pezzi di tessuti imbevuti di sangue. Anche la congregazione delle indulgenze e delle reliquie ha dichiarato nel 1668, che le fiale piene di sangue, accompagnate da un ramo di palma, simbolo del trionfo, devono essere considerate come un segno certo della presenza delle reliquie di un martire. – Gli scavi praticati nelle catacombe hanno portato alla luce preziose testimonianze dell’arte cristiana, del simbolismo, della dottrina e della disciplina di questa prima era della Chiesa; esse sono le prove che ogni giorno confermano la tradizione che dimostra come la Chiesa Romana abbia conservato la fede nella sua integrità ed in tutta la sua purezza. Il monogramma del Nome di Gesù-Cristo con una croce che Costantino incise sul labarum, nuovo stendardo dell’impero romano, e che aveva preceduto questo principe; lo si ritrova sulle tombe di San Mario e San Alessandro, di San Lorenzo, di San Caio Papa, e di molti altri. Gesù-Cristo stesso veniva rappresentato sotto la figura di un agnello con una croce o senza croce sulla testa, o più spesso ancora sotto quella di un pastore che porta l’agnello smarrito sulle spalle. La colomba, semplice e dolce, il cervo, che sospira presso le fontane d’acqua viva, i pesci, l’ancora, i candelabri, l’ulivo, la palma, la vite, il pavone il cui ricco piumaggio rimanda alla gloriosa trasfigurazione degli eletti, una moltitudine di altre immagini prese dall’Antico e dal Nuovo Testamento, erano tanti simboli compresi da tutti e che ricordavano ai Cristiani tutta la sequenza della religione. – Quanto alle iscrizioni poste sulle tombe, esso sono molto semplici. Il nome, l’età, il giorno ed il genere di morte, era il più spesso tutto, a cui si aggiungeva qualche parola di elogio o di speranza, più toccanti nella loro semplicità che tutti gli epitaffi più ambiziosi: « Perpetuus, che ha ben meritato Cristo, il suo Dio, vissuto 25 anni; Leonzia sua madre, l’ha posto in questo luogo, nella pace. – Giulia in pace, in mezzo ai Santi. – Qui dorme Proto nello Spirito-Santo. – Pietro, che visse XC anni in Gesù-Cristo, deposto qui in pace sotto il consolato di Filippo. – Laurinio, più dolce del miele, riposa in pace. » Gli epitaffi dei Martiri non erano più lunghi: « Primitius, che visse XXXIII anni, dopo aver, martire irriducibile, sofferto diverse prove, riposa in pace. – Tu sei caduta troppo presto, Constantia, mirabile per bellezza e grazia, sii in pace! – I Martiri Simplicio e Faustino, la cui passione si è conclusa nelle acque del Tevere, sono stati deposti in questo cimitero. – Io, Seconda, ho eretto questa cappella in memoria di mia figlia Secondina, che lasciò questo mondo per la fede con suo fratello Laurentinus; essi partirono in pace. » La Chiesa intera era nelle catacombe. Si ritrovano in queste dimore sotterranee tutto quanto ne costituiva la disciplina ed il culto: i cubicula contenevano circa una dozzina di cori; essi erano arcuati nella parte superiore, a volte quadrate, a volte ovali, sia ottagonali che esagonali, presentanti internamente tre arcate: una di faccia all’entrata, le altre due a destra e a sinistra. Il nome di cripta si applicava più particolarmente a delle piccole cappelle, più grandi dei cubicula, e costruite sullo stesso piano; la nicchia circolare del fondo, che serviva da altare, si elevava un poco sopra il suolo, e a destra e a sinistra vi si trovavano spesso due sedie per i diaconi. I battisteri erano dei grandi bacini, o fontane naturali nelle quali si immergevano i neofiti per battezzarli. Quante allora, chiese o luoghi di riunione generale, avevano una forme allungata e non potevano contenere che un centinaio di Cristiani per volta: le si riconoscevano per le loro sedie, dall’altezza della volta, dai tavoli tagliati nelle pareti e che portavano delle lampade, infine da un debole lucernario aperto a piombo sopra la porta, per dare passaggio all’aria esterna. – Ma bisogna ora staccarsi da questi sotterranei così pieni di tanti gloriosi ricordi, e raccontare i combattimenti degli eroi che dormono in pace in questa immensa città della morte. Coloro che volessero conoscere nei dettali la Roma dei martiri e dei Santi, non avrano che da leggere l’ “Esquisse de Rome Chrétienne” del monsignor Gerbert; vi troveranno ampia materia per nutrire la loro pietà e la loro curiosità in questo bel libro; noi ci compiacciamo maggiormente di segnalarlo qui avendoci consolato dalla lettura di tristi opere pubblicate in questi ultimi tempi per sminuire la Chiesa ed il Papato, lettura che bisogna ben intraprendere per rispondere agli attacchi di cui è  oggetto la Madre nostra, ed agli oltraggi da cui è attaccato il Vicario di Cristo. [Consultare anche Raoul-Rochette, Tableau des Catacombes; Mgr Gaume, les Trois Rome: Bosio, Roma sotterranea, etc.].

I PAPI DELLE CATACOMBE (1) J. Chantrel

I PAPI

DELLE CATACOMBE

(II E III  SECOLO) di

J. CHANTREL. 2a edizione.

PARIGI

DILLET, LIBRAIO, Éditore del Messager de la Semaine,

15 RUE DE SÈVRES, 15 – 1862

PREFAZIONE.

La storia della Chiesa presenta un fenomeno unico negli annali dell’umanità: il trionfo di una dottrina che presenta dei misteri incomprensibili alla ragione, che impone dei doveri in contrasto con la natura nonché delle pratiche fastidiose e penose. Questo trionfo è stato ottenuto per vie del tutto contrarie a ciò che consiglierebbe la prudenza umana; nessuna adulazione, nessuna concessione, nessun compromesso; esso è stato ottenuto malgradi gli ostacoli più formidabili: una persecuzione sanguinosa per più di tre secoli, un lavoro incessante di dissoluzione operato da false dottrine e dalle più stravaganti immaginazioni. Tuttavia, nonostante questi ostacoli, nonostante questi errori, nonostante questi roghi e tutti gli strumenti di tortura, la dottrina di cui parliamo non ha cessato di accrescersi e diffondersi; il sangue dei suoi martiri si è trasformato in una semenza feconda, e la vittoria alfine è stata completa: la croce sulla quale era stato sospeso un Giudeo sconosciuto e disprezzato, è divenuta il simbolo d’onore più invidiato, gli imperatori romani hanno adorato questo Giudeo che un governatore inviato da essi, aveva giudicato e lasciato crocifiggere a Gerusalemme. Ecco un fatto che non si presenta due volte nella storia: inspiegabile alla ragione, contrario a tutte le leggi naturali, è prova nel modo più perentorio della divinità del Cristianesimo. È questa meravigliosa lotta di quasi tre secoli contro la ricchezza, la potenza, l’errore e la tirannia congiurata che noi vogliamo qui descrivere; perché è sugli intrepidi capi che condussero i Cristiani alla vittoria immolando se stessi, che noi vogliamo attirare specialmente l’attenzione dei nostri lettori. Ma come raccontare tanti fatti in sì poche pagine? Come rendere a questi eroi del Cristianesimo gli onori che sono loro dovuti, quando si dispone di uno spazio ristretto? Noi saremo obbligati a lasciare da parte tanti dettagli, e non potremo dare tutti i nomi dei gloriosi atleti che hanno combattuto per Gesù-Cristo. È con vero dolore che ci rassegnamo a riassumere una storia così interessante e magnifica. Il primo secolo è l’età divina del Cristianesimo; il secondo secolo ed il terzo ne sono l’età eroica: qui c’è una miniera inesauribile di fatti attraenti, di sublimi epopee, di riflessioni veramente filosofiche. Ancora una volta bisognerà limitarsi. Del resto, i nostri rimpianti saranno un po’ diminuiti dalle considerazioni che, avendo intrapreso noi principalmente lo scopo di vendicare il Papato dalle calunnie e dalle ingiurie con cui lo si attacca, non avremo ancora qui occasione di occuparci di tali calunnie e di queste ingiurie; anche se ci sono già delle difficoltà sulle quali dobbiamo arrestarci, né l’empietà, né l’eresia hanno osato per  il momento attaccare direttamente questi venerabili vegliardi, che non usciranno affatto dalle catacombe di Roma se non per andare al supplizio; l’empietà non ha osato oltraggiare la memoria di questi Pontefici la cui dignità non era che un titolo al martirio, e che non successero a Gesù-Cristo, se non per salire con Lui sul Calvario. – Ma la vita e la morte di questi Pontefici spiegherà l’incredibile fenomeno della potenza morale dei loro successori, come la vita e la morte dei Santi dei primi secoli fanno comprendere la vitalità di cui è dotata la Chiesa di Gesù-Cristo. Ecco dunque in pratica un edificio che non è costruito sulla sabbia: esso è posto sulla roccia dalla stessa mano di Dio, e su tali solidi fondamenti si appoggia! Per tre secoli le ossa dei martiri si accumulano; ed è appunto su tre secoli di santità, di eroismo e di trionfi che si elevano le muraglie della nuova Gerusalemme, e ciascuno dei secoli seguenti vi aggiunge delle nuove pietre non meno belle, non meno ben tagliate e lucidate di quelle poste a fondamenta: e chi potrebbe rovesciarle? Ecco la Chiesa Cattolica con i suoi Pastori supremi, i suoi Vescovi, i suoi Preti, le sue Vergini, i suoi Martiri, i suoi Santi; eccoli tali come li ha fatti Dio, tali come i secoli li hanno visti e li vedranno fino alla fine del mondo, degni sempre di sentir cantare in suo onore questo inno che ripetono i fedeli il giorno della Dedicazione: « O felice Gerusalemme, dolce visione di pace, costruita fino al cielo con pietre viventi, e circondata da cori di Angeli, come una sposa accompagnati dagli amici dello Sposo! « Ecco la città nuova che esce dal cielo come dalla sua casa nunziale, ornata come una sposa per le sue nozze con il Signore, l’oro più puro brilla sulle sue piazze e nelle sue mura. « Le ricche pietre abbelliscono le sue porte; il suo santuario è aperto; là possono entrare tutti coloro che soffrono in questo mondo per il nome di Gesù-Cristo, « è con i colpi, con le prove che le sue pietre sono state ripulite, ed è con la mano del supremo Costruttore che sono fissate al loro posto: Dio le ha fissate per sempre per formare l’edificio sacro. « Onore dunque, lode, gloria e potenza al Padre che ci ha creati, al Figlio che ci ha riscattati! Lode allo Spirito Santo di cui i fedeli sono il tempio!» [In questa seconda edizione abbiamo rivisto con cura, corretto qualche passaggio, aggiunto al pontificato di San Callisto I dei dettagli resi necessari dalle recenti scoperte].

I

Costituzione della Chiesa.

Quando i tempi apostolici arrivarono al compimento con San Giovanni Evangelista, la Chiesa era perfettamente costituita in ogni sua parte, ed i secoli successivi non avevano quasi nulla da sviluppare, non avevano niente di nuovo da apportare, il tempo non doveva perfezionare ciò che era già perfetto fin dall’inizio, non doveva che mostrare lo sviluppo dell’azione della Chiesa sul mondo. Il dogma, il culto, la disciplina erano stabiliti: l’eresia servirà più tardi a definire sempre più chiaramente l’immutabile credo della Chiesa; il culto, costituito nelle sue parti fondamentali, non riceveva più se non delle aggiunte secondarie, richieste dai bisogni del cuore umano e resi possibili dalla libertà data alla Chiesa; la disciplina non avrebbe potuto modificarsi esteriormente che nelle parti accessorie, secondo le circostanze dei tempi, dei luoghi, delle persone, senza cambiare nelle sue caratteristiche essenziali. La sacra Scrittura e la tradizione formano fin da allora i due depositi della dottrina, ma era la Chiesa che interpretava la Scrittura, era Essa che controllava la tradizione. In una parola, l’Autorità era da allora, come è sempre stato, il carattere proprio del suo insegnamento. Gli apostoli non ragionavano, essi esponevano: non si ragiona in effetti sulla parola di Dio, la si deve accettare, dal momento che essa è riconosciuta come essere parola di Dio. Di modo che tutto si reduce alla testimonianza: gli Apostoli erano i testimoni di Gesù-Cristo, ne attestavano con i miracoli, con la loro morte, la verità di ciò che essi dicevano; dopo di essi la testimonianza continuò egualmente con dei miracoli, alla quale si aggiunse la testimonianza suprema della morte volontaria, di ciò che si chiama “martirio”; “si crede volentieri, si è detto, a dei testimoni che si fanno sgozzare per attestare la verità delle loro parole”. È su queste testimonianze che è stata fondata la Chiesa. Ogni religione che pretende di appoggiarsi esclusivamente sulla ragione umana, che fa della ragione il giudice ultimo della fede, è ugualmente convinta di falsità. Non c’è che una cosa da ricercare: “Dio ha parlato? Che ha detto?”. Una volta constatato questo punto, non c’è più nulla che da ascoltare e sottomettersi. Ed è per questo che la vera Chiesa procede con autorità: essa insegna, definisce, non discute, non dialoga: tutto ciò che resta da fare alla ragione, è assicurarsi della veracità del testimone, cosa sempre facile quando si tratta della Chiesa Cattolica, le cui caratteristiche di veracità sono brillanti come luminoso è il sole. Per mantenere l’integrità della dottrina e del deposito della tradizione, c’è bisogno di una forma di governo regolare: questa forma esisteva fin dai primi secoli. Pietro è il capo del collegio apostolico; lui ed i suoi successori legittimi sono I veri Capi della Chiesa, la Chiesa non può essere ove non essi non sono. Ecco il punto culminante della Gerarchia. Al secondo posto si pongono i vescovi, il cui nome significa in Greco “sorvegliante”. Essi erano eletti dall’assemblea del clero e dei fedeli, e consacrati da altri Vescovi. Il Vescovo si prendeva cura dei poveri, delle vedove, degli orfani; egli presiedeva all’amministrazione delle elemosine e alle collette ed aveva il privilegio quasi esclusivo della predicazione. La consacrazione si faceva con l’imposizione delle mani, come dei nostri giorni. Appena eletto, egli faceva parte della sua elezione al Vescovo di Roma, Vescovo dei Vescovi, al quale Gesù-Cristo ha affidato la missione di confermare i suoi fratelli; in tal modo, fin da questi primi tempi, l’unità era perfettamente stabilita; la comunione con la sede di San Pietro è un carattere essenziale della cattolicità. Dopo i vescovi vengono i preti, seniori o presbiteri, parole che significano gli “anziani”, perché venivano presi tra le persone di età matura e di santità di vita provata. Era il Vescovo che li sceglieva, spesso con la designazione dello stesso popolo. Dopo la loro ordinazione, essi erano obbligati alla residenza, a meno che il Vescovo non permetteva loro di passare in un’altra provincia. I preti ricevevano una retribuzione speciale in ragione del loro ministero, e vivevano dell’altare, secondo l’espressione stessa impiegata da san Paolo nelle sue epistole. Al di sotto dei preti c’erano i diaconi, la cui istituzione risale, come le precedenti, agli Apostoli. I diaconi furono dapprima incaricati della ripartizione delle elemosine; essi aggiungevano a questa funzione, quelle di distribuire, accanto ai preti, l’Eucarestia ai fedeli ed anche di predicare il Vangelo, come si vede ad esempio di Santo Stefano, il primo dei diaconi ed il primo dei martiri. I Vescovi, i Preti ed i diaconi erano tenuti ad osservare la continenza: nel caso in cui essi fossero maritati prima della loro ordinazione, cessavano di vivere in comune con le loro mogli. Il celibato ecclesiastico risale dunque al primo secolo della Chiesa. – Il diaconato ed il sacerdozio formano quelli che si chiamano gli “ordini maggiori”; ma è fuor di dubbio che gli altri ordini, detti minori, esistessero già dai tempi degli Apostoli, come gradi diversi di preparazione agli ordini maggiori. Così esisteva il sottodiaconato, elevato alla dignità di ordine sacro maggiore già intorno al tempo del Papa Innocenzo III; a partire da questo tempo, i sottodiaconi fecero il voto che li incatenava per il resto della loro vita, e tra essi si sceglievano i diaconi; c’erano poi gli accoliti, incaricati della cura dei ceri, gli esorcisti, incaricati di pregare per l’espulsione dei demoni, i lettori, che leggevano le Scritture tra i fedeli, gli ostiari, ai quali veniva affidato la cura dei luoghi dell’assemblea e la convocazione dei fedeli. Si trovano anche, fin dal primo secolo i germi degli ordini religiosi. Vi erano dei Cristiani chiamati ad una vita più perfetta, e che si dedicavano a mettere in pratica tutti i consigli del Vangelo. Li si chiamava ascetici, da una parola greca che indicava che essi si esercitavano più particolarmente alla santità; alcuni credono che i “terapeuti” d’Egitto fossero in realtà degli asceti cristiani. Essi vivevano nel ritiro, osservavano la continenza e praticavano dei digiuni straordinari; non mangiavano che cibi secchi, dormivano sulla nuda terra, e dividevano il loro tempo tra la preghiera, lo studio della Scrittura ed il lavoro manuale. Le Vergini cristiane, questi fiori della Chiesa, pressoché sconosciute nelle altre religioni, si erano già moltiplicate, e opponevano la loro vita ai disordini ed alle infamie del mondo pagano. Era proprio del Cristianesimo mettere in onore la verginità, che i giudei consideravano un obbrobrio, e che il paganesimo non riusciva nemmeno a comprendere. Roma aveva sei vestali, obbligate a mantenere la verginità fino ad una certa età, e queste vestali erano ricolme di onori, avendo persino il privilegio di salvare la vita al condannato che si trovava sul loro passaggio: l’orgoglio però era la salvaguardia della loro verginità limitata a qualche anno; un castigo terribile, la morte per inedia in un sepolcro ove venivano rinchiuse vive se avessero violato il loro voto, veniva a sostenere la loro virtù, eppure più di una vestale cedette. Le Vergini cristiane, al contrario, rinunciavano a tutte le dolcezze della vita, vivevano nel ritiro e nell’umiltà, si contavano, ed ancora si contano, a migliaia. È così che il Cristianesimo mostra la virtù che possiede di elevare l’umanità al di sopra di se stessa, di dare allo spirito un trionfo completo sulla carne: questo non è più un trionfo naturale. Esisteva un’altra istituzione che non durò che durante i primi secoli della Chiesa, quella delle “diaconesse”, che erano delle vedove di provata virtù, incaricate di visitare persone del proprio sesso, che la povertà, la malattia o qualche altra miseria, rendevano degne della sollecitudine della Chiesa. Esse istruivano i catecumeni, sotto la direzione dei sacerdoti, li presentavano al Battesimo, e dirigevano i nuovi battezzati nella pratica della virtù cristiane. Esse davano rendiconto della loro funzione al Vescovo oppure ai diaconi e Preti che il Vescovo aveva designato. Niente di più toccante che il quadro presentato dai primi Cristiani: « Tra di noi, diceva Atenagora ai pagani (Atenagora visse sotto l’imperatore Marco-Aurelio, che regnò dal 161 al 180), voi trovate degli ignoranti, dei poveri, degli operai, delle donne anziane che non potranno forse mostrare con dei ragionamenti la divinità della nostra dottrina; essi non fanno discorsi, ma fanno delle buone opere. Amano il prossimo come se stessi, abbiamo imparato a non colpire coloro che ci colpiscono, a non fare processi a coloro che ci spogliano. A chi ci da uno schiaffo, noi volgiamo l’altra guancia; se ci viene richiesta la tunica, noi offriamo anche il mantello. Secondo la differenza degli anni, noi consideriamo gli uni come nostri figli, gli altri come nostri fratelli e sorelle. Noi onoriamo le persone più anziane come nostri padri e come nostre madri; la speranza di un’altra vita, ci fa disprezzare la presente, finanche nei piaceri spirituali. Il matrimonio per noi è una vocazione santa, che dà la grazia necessaria per allevare i figli nel timore del Signore. Noi abbiamo rinunciato ai vostri spettacoli cruenti, persuasi che c’è molta poca differenza tra il guardare l’omicidio ed il commetterlo. I pagani espongono i loro figli per sbarazzarsene, noi consideriamo questa azione come un omicidio ». – Qualche anno più tardi, Tertulliano completava così questo quadro: « ci si accusa di essere faziosi. Lo spirito fazioso dei Cristiani consiste nell’essere riuniti nella stessa religione, nella stessa morale, nella stessa speranza. Noi formiamo una cospirazione, è vero, ma solo per pregare Dio in comune e leggere le Scritture divine. Se qualcuno di noi ha peccato, è privato della comunione, delle preghiere e delle nostre assemblee, finché non faccia penitenza. Queste assemblee sono presiedute da anziani, la cui saggezza ha meritato loro questo onore. Qualcuno porta denaro ogni mese, se vuole e se può. Questo tesoro serve a nutrire e seppellire i poveri, a sostenere gli orfani, i naufragati, gli esiliati, i condannati alle miniere o alla prigione per la causa di Dio. Tutto è in comune tra noi, tranne le donne. Il nostro pasto in comune si spiega con il suo nome di “agape”, che significa carità. » Ecco cosa erano i Cristiani dei primi secoli, essi davano l’esempio di tutte le virtù, confondevano la corruzione pagana con la purezza della loro vita, e ponevano la loro forza nella preghiera, nei sacramenti, nelle opera di carità, nelle mortificazioni, nel digiuno e nell’astinenza. La preghiera pubblica era l’azione principale delle loro giornate, soprattutto del giorno del Signore, della Domenica, con la quale gli Apostoli avevano rimpiazzato il sabbat dei giudei, in commemorazione del giorno della Resurrezione del Salvatore e della discesa dello Spirito Santo. I luoghi della riunione furono dapprima delle sale da pranzo che i latini chiamavano cenacoli, e che erano situati nella parte superiore delle case. Più tardi, quando seguirono le persecuzioni, ci si riunì dove si poteva, ed i Cristiani delle città scelsero, per essere in sicurezza, le cripte o le cave sotterranee che si trovavano nei paraggi; a Roma ci si riuniva nelle catacombe, vaste cavità sulle quali daremo più avanti alcuni dettagli. La preghiera per eccellenza era il sacrificio, al quale si davano nomi diversi, come cena, frazione del pane, oblazione od offerta, colletta o assemblea (Chiesa), eucarestia o azione di grazia, di liturgia o ufficio pubblico, tutti nomi che designano il sacrificio della Messa, costituito nei tempi degli Apostoli, nelle sue parti essenziali. Era il Vescovo che la celebrava, i Preti non lo facevano che in assenza dei Vescovi. Si cominciava con delle preghiere; poi si leggeva qualche passaggio scritturale, prima dell’antico Testamento, poi del nuovo, etc., quelle che oggi si chiamano l’Epistola e il Vangelo. La lettura del Vangelo era seguita da una spiegazione fatta dal Vescovo. Dopo di che i catecumeni, cioè coloro che si istruivano ancora nella fede e che non erano battezzati, dovevano ritirarsi. Allora cominciava l’offerta (offertorio) dei doni che dovevano costituire materia del sacrificio: erano il pane ed il vino mescolato ad acqua. Il popolo si dava il bacio di pace, gli uomini con gli uomini, le donne con le donne, in segno di perfetta unione. Venivano in seguito pronunciate le parole della consacrazione, si recitava in comune l’orazione domenicale, il celebrante si comunicava ed i suoi assistenti con lui, sotto le due specie del pane e del vino. Un’agape, o pasto comune di carità, seguiva la celebrazione dei santi misteri; il pane benedetto dei nostri giorni richiama questo antico e toccante uso. I Cristiani si riuniscono ancora per altre preghiere pubbliche in ore diverse del mattino e della sera; il canto dei salmi costituiva il fondamento di queste preghiere. Il sacrificio del mattino dell’antica legge era rimpiazzato dal mattutino, quello della sera dai vespri; la terza, la sesta e la nona ora del giorno, erano santificate con la recita dei salmi. Fin da allora furono in uso le cerimonie che si sono perpetuate fino ai nostri giorni, le genuflessioni, le prostrazioni, gli incensamenti, la distribuzione dell’acqua benedetta e le fiaccolate luminose. Ma tutte queste cerimonie erano circondate da un profondo mistero, a causa delle persecuzioni e nel timore delle profanazioni, ed è per questo che i pagani, incapaci di credere a delle riunioni innocenti, imputavano ai cristiani tutte le abominazioni dei loro misteri. Si è visto quale fosse la vita pura e santa dei primi Cristiani, sia quali fossero i loro misteri, quale ordine e quale decenza regnasse nelle loro assemblee, quanto sublime fosse la loro dottrina, celeste la loro morale. Ecco come i pagani distorcevano la verità: « … c’è una nuova seta, essi dicevano, che predica apertamente il disprezzo degli dei e che cerca di abbatterne gli altari. Questi sono degli atei che parlano di un re chiamato Cristo, che darà loro un giorno l’impero, e che rifiutano di pregare per Cesare. È una razza di impostori, di sofisti, e di uomini dediti ai malefici, capaci di ogni crimine, nemici della intera natura, che si dedicano ad orribili dissolutezze, e vivono di carne umana. Malgrado le accuse portate contro di loro, essi si riuniscono nel giorno del sole (la Domenica) per iniziare i loro proseliti. Un bambino coperto di pasta fatta per ingannare gli occhi di coloro che non conoscono questi misteri, è posto davanti all’iniziatore: il proselito batte ed uccide il bambino senza saperlo, e queste tigri bevono il suo sangue, si dividono le sue membra, e si garantiscono il silenzio con la complicità del crimine. » È così che veniva sfigurato il divino banchetto dell’Eucaristia; si sfiguravano le agapi e le trasformavano in scene mostruose che la penna si rifiuta di descrivere. « Questo non è soltanto un idolo assurdo che essi onorano, dicono ancora, è un morto, Cristo che si è fatto Dio dopo una fine ignominiosa, e la croce è per essi un oggetto sacro. Essi aggiungono a queste loro chimere le visioni più insensate; essi dicono che resusciteranno dopo la morte; essi non vogliono mettere corone sulle tombe; rifuggono gli spettacoli ed i pubblici festini; hanno orrore dei cibi consacrati agli dei e delle libazioni. Sprezzanti di Giove, maledicono il suo culto e pregano sulle tombe di coloro che sono stati suppliziate. Essi accolgono tra loro gli omini più perversi; è sufficiente che questi vengano da loro e si confessino; questi maghi aspergono su di loro un poco d’acqua ed i criminali sono assolti. Vile ammasso di finitori di lana, di tessitori, di calzolai, di miserabili usciti dalla plebe, i Cristiani si dichiarano audacemente nemici degli dei, di Cesare, del senato, delle leggi, del genere umano. » Queste favole eccitavano il popolo contro i discepoli di Gesù-Cristo; i filosofi li detestavano perché essi distruggevano i loro antichi sistemi; gli imperatori ed i potenti, perché essi condannavano la loro tirannia, i loro crimini, le loro dissolutezze; i Cristiani erano in effetti esposti all’odio del genere umano; ma è perché tutte le passioni vedevano in loro dei nemici, e soprattutto perché il mondo non li conosceva. Ci volevano ancora due secoli di combattimenti per vincere l’inferno congiurato, per aprire gli occhi accecati, e per far trionfare il Crocifisso divino.

LO SCUDO DELLA FEDE [X]

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

LA BIBBIA.

– La Bibbia e la predicazione. — La Tradizione e l’insegnamento della Chiesa. — La interpretazione della Bibbia spetta alla Chiesa. — Essa tutt’altro che proibirne la lettura, la raccomanda. — Vantaggio che si ricava da tale lettura. — Con quale spirito si debba fare. — La Bibbia di un falsario.

— Sono ora ben convinto che si debba credere alle verità rivelate da Dio. La ragione stessa mi dice di credere, perché vi sono dei motivi assoluti di credibilità, quali sono le profezie ed i miracoli, e perché del fatto della divina rivelazione comprovato dalle profezie e dei miracoli vi sono delle inoppugnabili testimonianze datemi specialmente dai Martiri. Dunque ora basterà che io prenda in mano la Bibbia e leggendo quel libro creda a ciò che in esso si insegna. Ho appunto inteso a dire che chi legge la Bibbia, il puro Vangelo, e su di tali libri si forma gli articoli di fede e di morale cristiana è nella verità e si salva.

Così avrai inteso dire da qualche protestante, e così avrai letto su qualche loro libercolo. Ma dimmi, se fosse così, non ti pare che Iddio l’avrebbe certamente rivelato? Invece io ti sfido a trovarmi fra tutti quanti i divini insegnamenti, siano scritti nei sacri libri dell’antico testamento o nel Vangelo, oppure siano venuti a noi per tradizione orale, quello che dica che per salvarsi basta leggere la Bibbia, il puro Vangelo, e su tali libri formarsi da per se stesso gli articoli di fede e di morale. Ti sfido a trovarmi che Gesù Cristo, affine di salvare i popoli, abbia detto agli Apostoli di portare e consegnare ai medesimi la Bibbia da leggere e da interpretare a loro piacimento. Al contrario nello stesso Vangelo troverai che Gesù Cristo per operare la salute delle anime disse agli Apostoli che andassero ed insegnassero alle nazioni tutte le cose, che aveva loro comandate, soggiungendo che chi avesse creduto a tali insegnamenti (e li avesse praticati) sarebbe andato salvo (V. Vangelo di San Marco, Capo XVI, Versetto 16). E S. Marco attesta che gli Apostoli andarono e predicarono dovunque (Versetto 20). Troverai che Gesù Cristo ha pur detto degli Apostoli e naturalmente dei loro successori: « Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi disprezza me; » troverai che della Chiesa, ha detto: « Se alcuno non ascolterà la Chiesa, abbilo per un infedele ed un pubblicano » (V. Vangelo di San Matteo, Capo XVIII, Versetto 17). Donde appare ben manifesto, e per insegnamento stesso della Bibbia, del Santo Vangelo, che ad ottenere la salvezza non è già da leggersi e interpretarci la Bibbia, il puro Vangelo, ma fa d’uopo ascoltare e praticare la predicazione e l’insegnamento degli Apostoli, dei loro successori ossia del Papa e dei Vescovi, l’insegnamento della Chiesa. – Se la cosa fosse come dicono i protestanti, che cioè unica regola di fede si è la Bibbia e il puro Vangelo, come avrebbero potuto regolarsi intorno alla fede coloro che vissero anticipatamente alla Bibbia ed al Vangelo?

— Veramente non saprei. Avranno avuto qualche altra regola.

Va benissimo. E questa regola per quelli che vissero prima di Gesù Cristo fu la tradizione orale, per gli altri che vissero immediatamente dopo Gesù Cristo fu la Chiesa mediante la tradizione.

— Amerei che mi spiegasse bene questo.

Volentieri, ma tu sta bene attento.

— Non ne dubiti.

Le sacre scritture dell’antico testamento furono cominciate da Mosè tremila anni circa dacché il mondo esisteva, e proseguite poscia da altri scrittori; e il primo dei Vangeli secondo calcoli più favorevoli alla sua antichità, e criticamente non molto sicuri, si scrisse tutto al più nel 42 dell’era volgare, cioè dieci anni almeno dopo la morte, risurrezione ed ascensione al cielo di Gesù Cristo. Ora in quei tre mila anni, che precedettero il cominciamento delle sacre scritture dell’antico testamento, sempre esistette su questa terra la vera religione, che era allora la religione ebraica, e così in quel periodo di anni, che precede le sacre scritture del nuovo testamento, sempre esistette la vera religione, con la quale Gesù Cristo sostituì l’antica, vale a dire la religione cristiana. – In tutto quel tempo pertanto che, sia nell’una come nell’altra epoca precedette le sacre scritture, forse che non si credeva e non si doveva credere alle verità rivelate in principio da Dio e poi da Gesù Cristo, vero uomo e vero Dio, venuto per noi su questa terra? Tutt’altro! Si credeva talmente a quelle verità, che è precisamente sulla fede che si aveva a quelle verità, che si composero come sopra la loro naturale base le sante scritture.

— E su che cosa si stava appoggiati allora per credere a quelle verità rivelate?

Si stava appoggiati alla tradizione, vale a dire al tramandare, che si fece dall’una all’altra generazione le verità, che furono rivelate da Dio. Da principio Iddio, dopo che ebbe creato Adamo, gli rivelò le verità, che doveva credere per raggiungere il fine nobilissimo, a cui lo aveva destinato.. Adamo manifestò poscia ai suoi figli quelle verità istesse; i figli di Adamo ai loro discendenti e così di seguito per tre mila anni sino a che Mosè, divinamente inspirato, cominciò a scrivere tutto ciò, che di generazione in generazione era stato tramandato sino a lui. Così devi dire di quel periodo di anni trascorso da Gesù Cristo alla composizione dei Vangeli, degli Atti degli Apostoli, e delle loro Lettere. Durante quel tempo gli Apostoli, che avevano intese le dottrine di Gesù Cristo, ossequenti all’ordine ricevuto, andati nelle diverse parti del mondo, si diedero tosto ad insegnarle agli uomini e massimamente a coloro che elessero ad aiutarli in quest’opera di predicare il Vangelo e a succedere a loro nell’apostolato, cioè ai Vescovi. Questi alla loro volta tramandavano ad altri gli stessi insegnamenti, e così si fece sino a che gli Apostoli ancor viventi credettero bene, ispirati pur essi e sostenuti da Dio, di metter mano a comporre le sacre scritture del nuovo Testamento.

  • Che anzi, anche dopo aver composto le sacre scritture del nuovo Testamento, si continuò e si continuerà mai sempre nel seno della Chiesa ad insegnare per tradizione molte verità.

— E perché mai?

Dimmi: credi tu che nella Bibbia si contengano dichiarate assolutamente tutte le verità, che dobbiamo credere?

— Io crederei che sì.

E tu credendo così saresti in errore. San Giovanni nell’ultimo versetto del suo Vangelo dice chiaro: « Ci sono poi molte altre cose, che ha fatto Gesù, le quali, se si scrivessero ad una ad una, credo che il mondo non potrebbe contenere i libri da scrivere».

— Ma questa è una esagerazione, una vera iperbole.

E sia pure che l’espressione di S. Giovanni sia qualche po’ iperbolica; tuttavia non lascia nel suo fondo di essere vera e di renderci manifesto che nei Vangeli non fu scritto tutto quello che fece e disse Gesù. No, il Vangelo puro, inteso come una riproduzione stereotipa, diremmo quasi fonografata, integrale del pensiero di Gesù Cristo, materialmente fatta, non è mai esistito.

— Vuol dire adunque che il Vangelo non lo riproduce fedelmente il pensiero di Gesù.

Adagio a cavare tale conseguenza da ciò che ti ho detto. Se il Vangelo non riproduce integralmente il pensiero di Gesù, ciò non vuol dire che non lo riproduca fedelmente. Anzi non possiamo dubitare che lo riproduca nel modo più fedele; ma non lo riproduce con una fedeltà materiale, per esempio, con la fedeltà degli atti stenografici rispetto ai discorsi ufficiali.

— Ho inteso. Nel Vangelo adunque vi saranno la più parte della verità che dobbiamo credere e delle massime che dobbiamo seguire per salvarci, ma non ci sono assolutamente tutte.

Benissimo. Lo stesso è da dire dei libri sacri dell’antico Testamento. Talune delle verità che si hanno a credere sono ivi appena indicate in modo indiretto ed allusivo.

— E come mai, se Dio ha rivelato tutte le verità che dobbiamo credere, gli scrittori sacri non le hanno scritte e dichiarate tutte?

Essi generalmente tennero questa regola: quando si trattava di verità, che erano la ristaurazione di verità antiche quasi scadute dalla mente degli uomini, o di verità di fresco rivelate, allora le scrissero e ne trattarono nei santi libri nel modo più chiaro e più esplicito; quando invece si trattava di verità che sebbene primitivamente rivelate si erano conservate mai sempre, almeno per riguardo alla sostanza, nella loro integrità presso tutti i popoli, allora nei santi libri le accennarono appena, e appena ne fecero qualche allusione.

— Dunque la pura Bibbia non può servire come unica regola di Fede.

No, ma insieme colla Bibbia ci vuole la Tradizione, e neppure tutte due ci bastano, ma ci vuole prima di tutto la Chiesa col suo insegnamento, perché la Bibbia e la Tradizione non è che dalla Chiesa che ci sono sicuramente conservate e dichiarate. È celebre la vecchia frase di S. Agostino, che noi non potremmo neppure credere al Vangelo senza la testimonianza della Chiesa. Siccome soltanto la Chiesa porta in sé visibili i segni della sua divinità, così la Chiesa, essa, ed essa sola, con parola infallibile può assicurare l’origine e il carattere divino della Bibbia e della Tradizione, essa, ed essa sola, ce ne può fare la sicura interpretazione.

— Ma perché solamente la Chiesa può interpretare la Bibbia! Non possiamo avere anche noi la sufficiente intelligenza per fare ciò?

Ascolta: in ogni società ben costituita vi sono dei codici civili, penali e commerciali. Ma forse che, in ogni società, qualunque individuo per quanto dotato di intelligenza possa interpretarli e interpretarli esattamente? Non ti pare piuttosto che lasciandone a ciascuno la interpretazione si andrebbe a rischio che ogni individuo li avesse a interpretare a sua voglia?

— Se fosse così guai! Credo che i più degli uomini vi troverebbero tutte le ragioni per contentare le loro più disordinate voglie: i ladri a rubare, i debitori a non pagare i debiti, gli scellerati ad insultare la gente, gli assassini a pugnalare gli uomini.

Certamente! Dunque?

— Dunque i codici devono essere interpretati da coloro che hanno in società tale ufficio, dai magistrati, dai pretori, dai giudici, dai tribunali, dalle Corti di Assise, dalle Cassazioni, dagli insegnanti di diritto, dalle pubbliche autorità.

Benissimo. Lo stesso è da dire del Vangelo, della Bibbia: esso è il libro di Dio, il codice delle sue sante leggi, ma non è certamente a qualsiasi individuo che si convenga di interpretarlo per leggervi ciò che gli pare e piace, ma a chi da Dio stesso ne ha ricevuto l’ufficio e l’autorità, vale a dire alla Chiesa, al Papa, ai Vescovi, ai Concili.

— Ma lo Spirito Santo non illumina forse ogni uomo nell’atto che legge la Bibbia? Come dunque si potrà sbagliare nell’interpretarla?

Per leggere e interpretare la Bibbia come si conviene lo Spirito Santo fu promesso ed è realmente disceso sugli Apostoli, che furono gli antecessori del Papa e dei Vescovi. Tutti gli altri poi lo Spirito Santo li illumina a conoscere e seguire la volontà di Dio in conformità al modo che Dio ha voluto tenere per manifestarci la sua volontà; e la sua volontà, Dio ha stabilito di manifestarcela per mezzo dell’insegnamento della sua Chiesa e non già nella lettura e interpretazione privata della Bibbia. Ed in vero, dimmi, se lo Spirito Santo illuminasse direttamente ogni uomo nella lettura ed interpretazione della Bibbia, non dovrebbero tutti gli uomini leggendo la Bibbia riuscire tutti alla stessa interpretazione?

— Sì, certo, perché se lo Spirito Santo è spirito di verità non deve rivelare che la verità, e la verità è sempre quella.

Com’è adunque che di cento protestanti, che leggono la Bibbia e la interpretano, non due vanno d’accordo fra di loro, ma chi la vuol nera, chi la vuol bianca, chi fredda chi calda, chi la intende a un modo e chi ad un altro?

— Ma è propriamente così!

Potrei recartene cento prove. Ti basti quella che riguarda l’Eucaristia. Sopra queste parole dette da Nostro Signore nell’ultima Cena: « Prendete e mangiate: questo è il mio Corpo: » dice lo stesso protestante Dottor Gibbons che ci sono nel protestantesimo nientemeno che cento differenti interpretazioni.

— Dunque stando così le cose, è vero quel che ho inteso a dire che la Chiesa proibisce ai cattolici di leggere la Bibbia, il Vangelo!

No, ciò è una falsità. La Chiesa proibisce ogni traduzione ed edizione della Bibbia, che non sia da essa approvata. E ciò ella fa precisamente perché vuole che la Bibbia sia conservata nella sua integrità e non vi si introducano alterazioni di sorta. Del resto la Chiesa, tutt’altro che proibirne la lettura, ha sempre esortato i fedeli a leggere la Bibbia, come si vede chiaramente dal Breve di Pio VI a Mons. A. Martini, Arcivescovo di Firenze, celebre traduttore e commentatore della Bibbia in lingua italiana; come risulta dalla Lettera dei Vescovi degli Stati Uniti riguardo alla magnifica edizione della Bibbia di Haydock e come appare chiarissimo dalla speciale pubblicazione che si fece ultimamente del Vangelo di Gesù Cristo e degli Atti degli Apostoli in italiano per opera della Pia società di S. Girolamo per la diffusione dei Santi Vangeli sotto l’impulso e la benedizione del Papa Leone XIII. – Solamente la Chiesa desidera che, sorgendo dubbi o difficoltà nel leggere la Bibbia, i buoni fedeli interroghino modestamente i sacerdoti, le labbra dei quali devono custodire la scienza (V. Malachia, Capo II, Versetto 7), senza pretendere tuttavia di scrutare indiscretamente e comprendere i misteri divini, ricordando ognora gli avvertimenti di Dio medesimo nell’Ecclesiastico (Capo III, Versetto 22): « Non cercare quello che è sopra di te, e non voler indagare quelle cose, che sorpassano le tue forze; ma pensa mai sempre a quello che ti ha comandato Iddio; e non essere curioso scrutatore delle molte opere di Lui » e nei Proverbi (Capo XXV, Versetto 27): « Colui che si fa scrutatore della maestà di Dio rimarrà sotto il peso della sua gloria ».

— E quale vantaggio si potrà ricavare dalla lettura della Bibbia e del Vangelo, se basta l’insegnamento della Chiesa?

Se ne potrà ricavare un vantaggio grandissimo. Anzi tutto coloro stessi, che non credono alla fede cattolica, possono giovarsi della Bibbia e del Vangelo come di libri storici di valore indiscutibile per apprendervi molte delle verità, che Dio ha rivelate agli uomini e per conoscere più da vicino quel Gesù Cristo, che è venuto quale nostro divino maestro. Tutti poi da tale lettura potranno rilevare che la Chiesa alla fin fine non fa altro che sviluppare in modo chiaro ed esatto le verità, che nelle sacre scritture si contengono, e così raffermarsi ognor più nella fede a tali verità. Per di più tutti da tale lettura potranno essere salutarmente edificati ed efficacemente animati a seguire le massime e gli esempi santissimi che in essa si offrono, e quelli massimamente del divino maestro e modello, Gesù Cristo. E quando non fosse altro, in tale lettura da un’anima intelligente si gusterà quell’impagabile diletto spirituale, che quasi porta la mente fuori di sé e le fa sentire ciò che è impossibile ridire. – Si narra che un giorno Giovanni Racine condusse l’amico suo, La Fontaine, all’ufficio dei Mattutini. Era la settimana santa; i padri nostri usavano in quei giorni solenni unirsi alle preghiere della Chiesa. Racine non durò fatica a raccogliersi, perché egli era pio; ma lo scrittore di favole, la cui mente conversava abitualmente coi buoni amici della natura, gli animali e le piante, cercava da ogni parte uno sfogo alle sue distrazioni. Racine vedendo il suo impaccio, gli diede una piccola Bibbia, che portava seco, e il caso volle che si aprisse là dove si legge la profezia di Baruch. La Fontaine dapprima si mise a leggere distrattamente, poi con attenzione, poi con entusiasmo, finché rapito dalle belle cose, che fin allora aveva ignorato, esclamò ad alta voce, con iscandalo di chi assisteva: Che genio è Baruch! Dopo d’allora non cessava dal dire a tutti quelli che vedeva: Avete letto Baruch? Era un gran genio!

— Con quale spirito adunque devesi leggere la sacra scrittura?

Eccotelo indicato dall’autore dell’Imitazione di Cristo: « Nelle sante scritture bisogna cercare la verità e non l’eloquenza. Ogni scrittura santa va letta con quello spirito medesimo ond’è stato composta. Devesi badare nelle scritture all’utilità, più che alla finezza nel dire. E son da leggere volentieri i libri devoti e semplici, come i sublimi e profondi. Non ti far caso dell’autorità dello scrittore, se fosse poco o molto letterato; ma il solo amore della verità t’inviti a leggere. Non voler sapere chi ha detto questo, ma bensì poni mente a ciò che è detto. Gli uomini passano, ma la verità del Signore sta in eterno (Salmo CXVI, versetto 2). Dio ci parla in vari modi, senza accettazione di persone (S. Pietro, la Epistola I, versetto 17). La curiosità ci è sovente di ostacolo nel leggere le scritture, perché vogliamo capire ed esaminare, dove sarebbe da passarcela alla semplice. – Se vuoi cavarne profitto, leggi umilmente, semplicemente e fedelmente ; né t’importi fama di scienza. Interroga volentieri, e ascolta in silenzio le parole dei Santi; né ti dispiacciano i dettati dei vecchi, che non son detti senza perché (V. libro I , capo v) ».

— Si può leggere la Bibbia del Diodati?

No, assolutamente. Essa è proibita dalla Chiesa, perché è una Bibbia falsificata. Il Diodati traducendo la Bibbia salta le parole, le muta, ne aggiunge, e tutto ciò fa proprio, in quei testi, che citati a dovere sarebbero la condanna delle sue false dottrine. Il Diodati taglia dalla Bibbia sette interi volumi già mille e più anni prima avuti dalla Chiesa per ispirati e canonici, cioè il libro di Giuditta, di Tobia, i due libri dei Maccabei, la profezia di Baruch ed i libri della Sapienza e dell’Ecclesiastico. E ciò egli ha fatto perché in quei libri vi sono insegnate verità, che i protestanti assolutamente rifiutano di credere. Per esempio, nel libro dei Maccabei si legge la preghiera e il sacrifizio di Giuda offerto per il suffragio delle anime dei suoi soldati morti, ciò che fa balzar fuori chiaro come la luce, il dogma del Purgatorio e dei suffragi per i defunti. Ma appunto perché i protestanti non vogliono saperne di purgatorio, perciò il Diodati taglia via dalla Bibbia il libro dei Maccabei. – Dopo tutto ciò, nessuna meraviglia che la Chiesa abbia proibito la lettura di questa falsa Bibbia. Se tu avessi un servo infedele che rubasse e ti facesse dire presso la gente cose che non hai dette mai o che hai dette in modo ben diverso, non lo metteresti alla porta e non gli proibiresti di entrare ancora in casa tua? Così fece la Chiesa col Diodati. Esso ha rubato nella Bibbia, vi ha introdotte delle falsità e delle bugie: ha fatto dire a S. Paolo e a S. Pietro molte cose che essi non hanno dette; e perciò il Diodati è un ladro, un falsario; e la Chiesa doveva respingerlo da sé, doveva proibirne la lettura. Chi pertanto comperasse o anche solo ricevessi in dono e tenesse presso di sé, o leggesse una tal Bibbia, mancherebbe gravissimamente. Che se per avventura qualcheduno ti si presentasse per regalarti qualche Bibbia oppure per vendertela a pochi soldi, allontanati tosto da costui come da un velenoso serpente. Quelle bibbie, che si vanno regalando o vendendo a pochi soldi per le pubbliche vie, sono appunto quelle del Diodati, e gli spacciatori delle medesime sono gli emissari delle famose società bibliche del protestantesimo.

— La ringrazio dell’avviso, e al caso lo praticherò esattamente.

 

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: AD BEATISSIMI APOSTOLORUM PRINCIPIS

In questa lettera enciclica di Benedetto XV del 1914, viene delineato il programma del Pontificato del Papa appena eletto; forti erano al momento i timori per le tensioni fra gli stati europei pronti alla guerra. Ricercate le cause religiose e morali, oltre che sociali ed economiche, da cui il conflitto è scatenato, il Papa riassume i principi costitutivi predicati dalla Chiesa, per l’ordine e la pace nella vita delle classi sociali e delle nazioni. – Ai nostri giorni, la situazione sociale è di gran lunga più grave, mentre gravissimo è il precipitare della vita spirituale soffocata, nei paesi un tempo Cristiani, dalla dispnea mortale di un modernismo ultra-liberale satanico, dall’ecumenismo indifferentista, parto distocico delle conventicole massoniche, ovunque infiltrate, anche là dove un tempo c’erano i palazzi sacri, e fin’anche nelle antiche Sedi Apostoliche, tutte al servizio del potere occulto della finanza kazara, longa manus di lucifero, l’angelo decaduto, sprofondato negli inferi, che pretende oggi di essere adorato nientemeno che come “architetto del mondo” e come “signore dell’universo”. I princîpi della lettera,   sono oggi ovviamente ancor più necessari affinché, nel conformarci ad essi, tutti: governanti, prelati, veri (una manciata) o falsi (una baraonda di viziosi corrotti … et abominabiles facti sunt in studiis suis; non est qui faciat bonum, non est usque ad unumPs. XIII) che siano, “duci” della finanza, uomini comuni, possiamo evitare un disastro ben più grave di quello paventato dal Santo Padre nell’Enciclica e che coinvolgerà tutti. Ormai molti hanno compreso di essere ad un bivio cruciale nella vita del nostro mondo, e la fede in Gesù-Cristo, con il Magistero della Chiesa Cattolica, è l’unico mezzo per comprendere quale strada intraprendere per salvare non solo la nostra anima, ma pure tutto il creato visibile … “Ad Beatissimi Apostolorum Principis cathedram arcano Dei providentis consilio, …”

Benedetto XV
Ad Beatissimi Apostolorum Principis”

– Lettera Enciclica –

Venerabili fratelli

Salute e apostolica benedizione.

Non appena per gli inscrutabili consigli della Provvidenza divina, senza alcun Nostro merito, fummo chiamati ad assiderCi sulla Cattedra del Beatissimo Principe degli Apostoli, Noi, ascoltando come diretta alla Nostra Persona quell’istessa voce che il Nostro Signor Gesù Cristo rivolgeva a Pietro: “Pascola i miei agnelli, pascola le mie pecore” (Joan. XXI, 15-17), immediatamente rivolgemmo uno sguardo di inesprimibile affetto al gregge che veniva affidato alla Nostra cura: gregge veramente immenso, perché abbraccia, quali per un aspetto, quali per un altro, tutti gli uomini. Tutti, infatti, quanti essi sono, furono liberati dalla servitù del peccato da Gesù Cristo, che per loro offrì il prezzo del Suo Sangue; né v’ha alcuno che sia escluso dai vantaggi di questa redenzione. Onde può ben dire il Divino Pastore che, mentre una parte dell’uman genere la tiene di già avventuratamente accolta nell’ovile della Chiesa, l’altra Egli ve la sospingerà dolcemente: “Ho anche altre pecore che non sono di questo ovile; ed occorre che io le porti qui ed ascolteranno la mia voce” (Joan. X, 16). – Lo confessiamo, Venerabili Fratelli: il primo sentimento che abbiamo provato nell’animo, e che vi fu acceso di sicuro dalla divina bontà, è stato un incredibile palpito di affetto e di desiderio per la salvezza di tutti gli uomini; e nell’assumere il Pontificato Noi concepimmo quel medesimo voto che Gesù Cristo espresse già presso a morire sulla Croce: “O padre santo, conservali nel tuo nome, che Tu hai dato a me” (Joan. XVII, 11). Quindi è che allorquando da questa altezza dell’apostolica dignità potemmo contemplare con un solo sguardo il corso degli umani avvenimenti, e Ci vedemmo dinanzi la miseranda condizione della civile società, Noi ne provammo davvero un acuto dolore. E come sarebbe potuto accadere, che divenuti Noi Padre di tutti gli uomini, non Ci sentissimo straziare il cuore allo spettacolo che presenta l’Europa e con essa tutto il mondo, spettacolo il più tetro forse ed il più luttuoso nella storia dei tempi? Sembrano davvero giunti quei giorni, dei quali Gesù Cristo predisse: “Udirete le battaglie e le opinioni delle battaglie […] Nascerà infatti gente da gente e regno da regno” (Matth. XXIV, 6,7). Il tremendo fantasma della guerra domina dappertutto, e non v’è quasi altro pensiero che occupi ora le menti. Nazioni grandi e fiorentissime sono là sui campi di battaglia. Qual meraviglia per ciò, se ben fornite, come uomo, di quegli orribili mezzi che il progresso dell’arte militare ha inventati, si azzuffano in gigantesche carneficine? Nessun limite alle rovine, nessuno alle stragi: ogni giorno la terra ridonda di nuovo sangue e si ricopre di morti e feriti. E chi direbbe che tali genti, l’una contro l’altra armate, discendano da uno stesso progenitore, che sian tutte dell’istessa natura, e parti tutte d’una medesima società umana? Chi li ravviserebbe fratelli, figli di un unico Padre, che è nei Cieli? E intanto, mentre da una parte e dall’altra si combatte con eserciti sterminati, le nazioni, le famiglie, gli individui gemono nei dolori e nelle miserie, tristi seguaci della guerra: si moltiplica a dismisura, di giorno in giorno, la schiera delle vedove e degli orfani: languiscono, per le interrotte comunicazioni, i commerci, i campi sono abbandonati, sospese le arti, i ricchi nelle angustie, i poveri nello squallore, tutti nel lutto. – Commossi da mali così gravi Noi, fin dalla soglia del Sommo Pontificato, ritenemmo Nostro dovere di raccogliere le ultime parole uscite dal labbro del Nostro Predecessore, Pontefice di illustre e così santa memoria, e di dar principio al Nostro Apostolico Ministero col tornare a pronunziarle: e così caldamente scongiurammo e Principi e Governanti affinché, considerando quante mai lagrime e quanto sangue sono stati già versati, s’affrettassero a ridare ai loro popoli i vitali benefizi della pace. Deh! Ci conceda Iddio misericordioso che, come all’apparire del Redentore divino sulla terra, così all’iniziarsi del Nostro ufficio di Vicario di Lui, risuoni l’angelica voce annunziatrice di pace: “Pace in terra agli uomini di buona volontà” (Luc. II, 14). E l’ascoltino, li preghiamo, l’ascoltino questa voce coloro che hanno nelle loro mani i destini dei popoli. Altre vie certamente vi sono, vi sono altre maniere, onde i lesi diritti possano avere ragione: a queste, deposte intanto le armi, essi ricorrano, sinceramente animati da retta coscienza e da animi volonterosi. È la carità verso di loro e verso tutte le nazioni che così Ci fa parlare, non già il Nostro interesse. Non permettano dunque che cada nel vuoto la Nostra voce di padre e di amico.  – Ma non è soltanto l’attuale sanguinosa guerra che funesti le nazioni e a Noi amareggi e travagli lo spirito. Vi è un’altra furibonda guerra, che rode le viscere dell’odierna società: guerra che spaventa ogni persona di buon senso, perché mentre ha accumulato ed accumulerà anche per l’avvenire tante rovine sulle nazioni, deve anche ritenersi essa medesima la vera origine della presente luttuosissima lotta. Invero, da quando si è lasciato di osservare nell’ordinamento statale le norme e le pratiche della cristiana saggezza, le quali garantivano esse sole la stabilità e la quiete delle istituzioni, gli Stati hanno cominciato necessariamente a vacillare nelle loro basi, e ne è seguito nelle idee e nei costumi tale un cambiamento che, se Iddio presto non provvede, sembra già imminente lo sfacelo dell’umano consorzio. I disordini che scorgiamo, sono questi: la mancanza di mutuo amore fra gli uomini, il disprezzo dell’autorità, l’ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali, il bene materiale fatto unico obbiettivo dell’attività dell’uomo, come se non vi fossero altri beni, e molto migliori, da raggiungere. Son questi a Nostro parere i quattro fattori della lotta, che mette così gravemente a soqquadro il mondo. Bisogna dunque diligentemente adoperarsi a torre di mezzo tali disordini, richiamando in vigore i principi del Cristianesimo, se si ha veramente intenzione di sedare ogni conflitto e di mettere in assetto la società.  – Gesù Cristo disceso dal Cielo appunto per questo fine di ripristinare fra gli uomini il regno della pace, rovesciato dall’odio d Satana, non altro fondamento volle porvi che quello dell’amore fraterno. Quindi quelle Sue parole tanto spesso ripetute: “Io vi dò un nuovo incarico: di amarvi a vicenda (Joan. XIII, 34); questo è il mio precetto, che vi amiate a vicenda (Joan. XV, 12); questo vi ordino, di amarvi a vicenda” (Joan. XV, 17); quasi che tutta la Sua missione ed il Suo compito si restringessero a far sì che gli uomini si amassero scambievolmente. E quale forza di argomenti non adoperò per condurci a questo amore? Guardate in alto, ci disse: “Uno solo è infatti il Padre vostro, che è nei Cieli” (Matth. XXIII, 9). A tutti, senza che per Lui possa per nulla contare la diversità di nazioni, la differenza di lingue, la contrarietà di interessi, a tutti pone sul labbro la stessa preghiera: “Padre nostro, che sei nei Cieli” (Matth. VI, 9); ci assicura anzi che questo Padre Celeste, nell’effondere i suoi benefizi, non fa distinzione neppure di meriti: “Egli fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti” (Matth. V, 45). Dichiara inoltre che noi siamo tutti fratelli: “Voi tutti poi siete fratelli” (Matth. XXIII, 8); e fratelli a Lui stesso: “Perché, tra i molti fratelli, Egli sia il primogenito” (Rom. VIII, 29). Poi, cosa che vale assaissimo a stimolarci all’amore fraterno anche verso di quelli che la nativa nostra superbia disprezza, giunse sino ad identificarsi col più meschino degli uomini, nel quale vuole si ravvisi la dignità della sua stessa persona: “Quanto avete fatto ad uno solo di questi miei umilissimi fratelli, lo avete fatto a me” (Matth. XXV, 40). Che più? Sul punto di lasciare la vita, pregò intensamente il Padre, affinché tutti coloro che avessero creduto in Lui, fossero per il vincolo della carità una cosa sola fra loro: “Come tu Padre sei in me, io sono in te” (Joan. XVII, 21). E finalmente, confitto sulla Croce, tutto il Suo Sangue riversò su di noi, onde plasmati quasi e formati in un corpo solo, ci amassimo scambievolmente con la forza di quel medesimo amore che l’un membro porta all’altro in uno stesso corpo. – Ma, purtroppo, oggigiorno diversamente si comportano gli uomini. Mai forse più di oggi si parlò di umana fratellanza: si pretende anzi, dimenticando le parole del Vangelo e l’opera di Cristo e della sua Chiesa, che questo zelo di fraternità sia uno dei parti più preziosi della moderna civiltà. La verità però è questa, che mai tanto si disconobbe l’umana fratellanza quanto ai giorni che corrono. Gli odi di razza sono portati al parossismo; più che da confini, i popoli sono divisi da rancori: in seno ad una stessa nazione e fra le mura d’una città medesima ardono di mutuo livore le classi dei cittadini; e fra gli individui tutto si regola con l’egoismo, fatto legge suprema.  – Vedete, Venerabili Fratelli, quanto sia necessario fare ogni sforzo perché la carità di Cristo torni a dominare fra gli uomini. Questo sarà sempre il Nostro obbiettivo e questa l’impresa speciale del Nostro Pontificato. Questo sia pure, ve ne esortiamo, il vostro studio. Non ci stanchiamo di inculcare negli animi di attuare il detto dell’Apostolo San Giovanni: “Perché noi ci amiamo l’un l’altro” (Joan. III, 23). Sono belle, per fermo, sono commendevoli le pie istituzioni, di cui abbondano i nostri tempi; ma allora solo tradurranno un reale vantaggio, quando contribuiranno in qualche modo a fomentare nei cuori l’amore di Dio e del prossimo; diversamente non hanno valore, perché “chi non ama rimane nella morte” (Ibid. 14).  – Abbiamo detto che un’altra cagione dello scompiglio sociale consiste in questo, che generalmente non è più rispettata l’autorità di chi comanda. Imperocché dal giorno che ogni potere umano si volle emancipato da Dio, Creatore e Padrone dell’universo, e lo si volle originato dalla libera volontà degli uomini, i vincoli intercedenti fra superiori e sudditi si andarono rallentando talmente da sembrare ormai che siano quasi spariti. Uno sfrenato spirito di indipendenza unito ad orgoglio si è a mano a mano infiltrato per ogni dove, non risparmiando neppure la famiglia ove il potere chiarissimamente germina dalla natura; ed anzi, ciò che è più deplorevole, non sempre si è arrestato alle soglie del Santuario. Di qui il disprezzo delle leggi; di qui l’insubordinazione delle masse; di qui la petulante critica di quanto l’autorità disponga; di qui i mille modi escogitati a fin di rendere inefficace la forza del potere; di qui gli spaventevoli delitti di coloro che, facendo professione di anarchia, non si peritano di attentare così agli averi come alla vita altrui.  – Di fronte a questa mostruosità del pensare e dell’agire, deleteria di ogni esistenza sociale, Noi costituiti da Dio custodi della verità, non possiamo non alzare la voce; e ricordiamo ai popoli quella dottrina che nessun placito umano può mutare: “Non vi è potere se non da Dio: e le cose che sono, sono ordinate da Dio” (Rom. XIII, 1). Ogni potere adunque che si esercita sulla terra, sia esso di sovrano, sia di autorità subalterne, ha Dio per origine. Dal che San Paolo deduce il dovere di ottemperare, non già in qualsivoglia maniera, ma per coscienza, ai comandi di chi è investito del potere, salvo il caso in cui si oppongano alle leggi divine:”Laonde siate costretti della necessità, non solo per ira, ma anche per coscienza” (Ibid. 5). E conformemente a questi precetti di San Paolo, insegna pure lo stesso Principe degli Apostoli: “Siate soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio: sia al re perché capo, sia ai comandanti come quelli che sono da lui inviati” (I Petr. II, 13-14). Dalla qual premessa il medesimo Apostolo delle genti inferisce che chi si ribella alle legittime potestà umane, si ribella a Dio ed incorre nell’eterna dannazione: “Perciò chi resiste al potere, resiste all’ordine di Dio. E quelli che resistono, vanno in dannazione” (Rom. XIII, 2).  – Rammentino questo i Principi e i Reggitori dei popoli, e vedano se sa sapiente e salutevole consiglio, per i pubblici poteri e per gli Stati, il far divorzio dalla Religione santa di Cristo, che è sostegno così potente delle autorità. Riflettano bene se sia misura di saggia politica il voler sbandita dal pubblico insegnamento la dottrina del Vangelo e della Chiesa. Una funesta esperienza dimostra che ivi l’autorità umana è disprezzata, donde esula la religione. Succede infatti alle società, quello stesso che accadde al nostro primo padre, dopo aver mancato. Come in lui appena la volontà si fu ribellata a Dio, le passioni si sfrenarono e disconobbero l’impero della volontà; cosi, allorquando chi regge i popoli disprezza l’autorità divina, i popoli a loro volta scherniscono l’autorità umana. Rimane certo il solito espediente di ricorrere alla violenza per soffocare le ribellioni: ma a che pro? La violenza opprime i corpi, non trionfa della volontà.  – Tolto dunque o indebolito il doppio elemento di coesione di ogni corpo sociale, l’unione cioè dei membri fra loro per la carità vicendevole e l’unione dei membri stessi col capo per la soggezione all’autorità, qual meraviglia, o Venerabili Fratelli, che la società odierna ci si presenti divisa come in due grandi armate che fra loro lottano ferocemente e senza posa? Di fronte a coloro ai quali o concesse fortune o l’attività propria apportò una qualche abbondanza di beni, stanno i proletari e i lavoratori, accesi d’odio e d’invidia, perché mentre partecipano agli stessi costitutivi essenziali, pur non si trovano nella medesima condizione di quelli. Naturalmente, infatuati come sono dagli inganni dei sobillatori, ai cui cenni si mostrano d’ordinario docilissimi, chi potrebbe loro persuadere come dall’essere gli uomini uguali per natura, non segua che tutti debbano occupare lo stesso grado nel consorzio sociale, ma che ognuno ha quella posizione che con le sue doti, non contrariate dalle circostanze, si sia procacciata? Per il che, quando i poveri lottano coi facoltosi, quasi che questi si siano impadroniti d’una porzione di beni altrui, non soltanto offendono la giustizia e la carità, ma anche la ragione, specialmente perché anch’essi, se volessero, potrebbero collo sforzo di onorato lavoro riuscire a migliorare la propria condizione.  – A quali conseguenze, non meno disastrose per gli individui che per la società, meni quest’odio di classe, è superfluo il dirlo. Tutti vediamo e lamentiamo la frequenza degli scioperi per i quali di subito si produce l’arresto della vita cittadina e nazionale nelle operazioni più necessarie: parimenti le minacciose sommosse e i tumulti, in cui spesso avviene che si dà mano alle armi e si fa scorrere il sangue.  – Non vogliamo stare qui a ripetere le ragioni che provano a evidenza l’assurdità del socialismo e di altri simili errori. Leone XIII, Nostro Predecessore, ne trattò con grande maestria in memorabili Encicliche: e voi, o Venerabili Fratelli, cercate, col vostro abituale interessamento, che quegli autorevoli insegnamenti non cadano mai in dimenticanza, e che anzi nelle associazioni cattoliche, nei congressi, nei discorsi sacri, nella stampa cattolica si insista sempre nell’illustrarli saggiamente e nell’inculcarli secondo i bisogni. Ma in particolar modo – non dubitiamo di ripeterlo – con tutti gli argomenti che ci dà il Vangelo e che ci porgono la stessa umana natura e gl’interessi sì pubblici che privati, studiamoci di esortare tutti gli uomini ad amarsi tra loro fraternamente in virtù del divino precetto sulla carità. L’amore fraterno non varrà certo a togliere di mezzo la diversità delle condizioni e perciò delle classi. Questo non è possibile, come non è possibile che in un corpo organico tutte le membra abbiano una stessa funzione ed una stessa dignità. Farà non di meno che i più alti si inchinino verso i più umili e li trattino non solo secondo giustizia, come è d’uopo, ma con benevolenza, con affabilità, con tolleranza: i più umili poi riguardino i più elevati con compiacimento del loro bene e con fiducia nel loro appoggio: a quella maniera appunto che in una stessa famiglia i fratelli più piccoli confidano nell’aiuto e nella difesa dei più grandi. – Se non che, Venerabili Fratelli, quei mali che finora siamo venuti lamentando, hanno ora radice più profonda, a sterpar la quale, se non concorrono gli sforzi di tutti gli onesti, è vano sperare di conseguire l’oggetto dei nostri voti, vale a dire la tranquillità stabile e durevole negli umani rapporti. Quale sia questa radice l’insegna l’Apostolo: “Radice.. di tutti i mali è la cupidigia” (I Tim. VI, 10). E infatti, se ben si consideri, da questa radice si originano tutti i mali onde al presente è inferma la società. Quando invero con le scuole perverse, ove si plasma il cuore della tenera età malleabile come cera, colla stampa cattiva, che informa le menti delle masse inesperte, e cogli altri mezzi con cui si dirige l’opinione pubblica, quando, diciamo, si è fatto penetrare negli animi l’esiziale errore che l’uomo non deve sperare in uno stato di felicità eterna; che quaggiù; proprio quaggiù, può essere felice col godimento delle ricchezze, degli onori, dei piaceri di questa vita, non v’è da meravigliarsi che tali esseri umani, naturalmente fatti per la felicità, colla stessa violenza onde sono trascinati all’acquisto di detti beni, respingano da sé qualunque ostacolo che ne li trattenga od impedisca. Giacché poi questi beni non sono divisi ugualmente fra tutti, ed e dovere dell’autorità sociale d’impedire che la libertà individuale trasmodi e s’impadronisca dell’altrui, di qui nasce l’odio contro i pubblici poteri, di qui l’invidia dei diseredati dalla fortuna contro quelli che ne sono favoriti, di qui infine la lotta fra le varie classi cittadine, gli uni per conseguire ad ogni costo e strappare il bene di cui mancano, gli altri per conservare ed accrescere quello che possiedono.  – Fu in previsione di questo stato di cose che Gesù Cristo Signor Nostro col sublime Sermone della Montagna spiegò a bello studio quali fossero le vere beatitudini dell’uomo sulla terra, e pose, per così dire, i fondamenti della cristiana filosofia. Quelle massime anche agli avversari della fede apparvero come tesoro incomparabile di sapienza e come la più perfetta teoria della morale religiosa; e certo tutti convengono nel riconoscere che prima di Cristo, verità assoluta, nulla di pari gravità ed autorità e di tanto alto sentimento fu mai da alcuno inculcato.  – Or tutto il segreto di questa filosofia sta in ciò che i così detti beni della vita mortale sono semplici parvenze di bene, e che perciò non è col loro godimento che si possa formare la felicità dell’uomo. Sulla fede dell’autorità divina, tanto è lungi che le ricchezze, la gloria, il piacere ci arrechino la felicità che, anzi, se vogliamo davvero essere felici, dobbiamo piuttosto, per amore di Dio, rinunziarvi: “Beati i poveri….Beati voi, che ora piangete… Beati quando gli uomini vi odieranno e vi separeranno e scacceranno il vostro nome come un male” (Luc. VI, 20-22). Vale a dire, attraverso i dolori, le sventure, le miserie di questa vita, se com’è dover nostro, le sopportiamo pazientemente, ci apriamo da noi stessi l’adito al possesso di quei veri ed imperituri beni “che Dio ha preparato a quelli che lo amano” (I Cor. II, 9). Ma un così importante insegnamento della fede da molti purtroppo è negletto, e da non pochi è dimenticato del tutto. Tocca a voi, Venerabili Fratelli, di farlo rivivere negli uomini: senza cui l’uomo, e l’umana società, non avranno mai pace. Diciamo dunque a quanti sono afflitti o sventurati, di non fermare l’occhio alla terra, che è luogo di esilio, ma di levarlo al Cielo, al quale siamo diretti: perché “non abbiamo qui una città stabile, ma ne cerchiamo una futura.” (Hebr. XIII, 13). Ed in mezzo alle avversità colle quali Iddio mette alla prova la loro perseveranza nel servirlo, riflettano sovente quale premio è loro riservato, se da tale cimento usciranno vittoriosi: “Poiché quella che oggi è per noi una momentanea e leggiera tribolazione, forma in noi il peso oltremodo sublime ed eterno della gloria” (II Cor. IV, 17). Da ultimo l’adoprarsi con ogni potere e con ogni attività per farli fiorire fra gli uomini la fede nella verità soprannaturale, e contemporaneamente la stima, il desiderio, la speranza dei beni eterni, sia la prima delle vostre missioni, o Venerabili Fratelli, e il principale intento del clero ed anche di tutti quei Nostri figli che, stretti in vari sodalizi, zelano la gloria di Dio e il bene vero della società. Perocché a misura che crescerà negli uomini il sentimento di questa fede, andrà scemando la smania febbrile onde si ricercano i vani beni della terra, e gradatamente andranno sedandosi i moti e le contese sociali.  – E ora se lasciando da parte la società civile, rivolgiamo il pensiero alla considerazione di ciò che è proprio della Chiesa, vi è, senza dubbio, ragione perché l’animo Nostro, trafitto da tanta calamità dei tempi, almeno in parte si allieti. Infatti oltre agli argomenti, che si offrono da sé luminosissimi, di quella divina virtù ed indefettibilità di cui gode la Chiesa, non piccola consolazione Ci offrono quei preclari frutti che del suo operoso Pontificato Ci lasciò il Nostro Predecessore, Pio X, dopo aver illustrato l’Apostolica Sede con gli esempi di una vita tutta santa. Vediamo, infatti, per l’opera sua, acceso universalmente negli Ecclesiastici lo spirito religioso; ravvivata la pietà del popolo cristiano; promosse nelle società cattoliche l’azione e la disciplina; dove costituita la sacra gerarchia, dove ampliata; provveduto per l’educazione del giovane clero, conforme alla severità dei canoni, e, nella misura del necessario, a seconda della natura dei tempi; rimosso dall’insegnamento delle scienze sacre ogni pericolo di temerarie innovazioni; l’arte musicale ricondotta a servire degnamente la maestà delle sacre funzioni ed accresciuto il decoro del culto; il cristianesimo largamente propagato con nuove missioni di banditori del Vangelo.  – Sono questi, in verità, grandi meriti del Nostro Antecessore verso la Chiesa, meriti dei quali conserveranno i posteri grata memoria. Tuttavia, poiché il campo del padre di famiglia è sempre esposto, così permettendo Iddio, alle male arti del nemico, non avverrà mai che non debbasi esso lavorare perché il fiorire della zizzania non danneggi la buona messe. Pertanto, ritenendo come detto anche a Noi ciò che Dio disse al profeta: “Ecco, e io ti ho posto oggi sulle genti e sui regni, perché tu tolga e distrugga… perché edifichi e pianti” (Jer. I, 10), per quanto starà in Noi avremo sempre la massima cura di rimuovere il male e promuovere il bene, fintantoché non piacerà al Pastore dei Pastori di domandarCi conto dell’esercizio del Nostro mandato.  – Or dunque, o Venerabili Fratelli, mentre vi rivolgiamo questa prima Lettera Enciclica, ravvisiamo opportuno accennare alcuni dei punti principali a cui abbiamo in animo di dedicare le Nostre speciali cure; così studiandovi voi di secondare col vostro zelo l’opera Nostra, anche più sollecitamente si otterranno i desiderati frutti.  – E innanzi tutto poiché in ogni umana società, qualunque sia stato il motivo della sua formazione, primo coefficiente di ogni operosità collettiva è l’unione e la concordia degli animi, Noi dovremo rivolgere un’attenzione specialissima a sopire i dissensi e le discordie tra i cattolici, quali esse si siano, e ad impedire che ne organo altre in avvenire, talché tra i cattolici, uno sia il pensare e uno l’operare. Ben comprendono i nemici di Dio e della Chiesa che qualsiasi dissidio dei nostri nella propria difesa, segna per essi una vittoria; laonde usano assai di frequente questo sistema che, allorquando più vedono compatti i cattolici, proprio allora, astutamente gettando tra di loro i semi della discordia, maggiormente si sforzano di romperne la compattezza. Piacesse al Cielo che tale sistema non così spesso avesse avuto l’esito desiderato, condanno tanto grave per la religione! Quindi, qualora la legittima autorità imparta qualche comando, a nessuno sia lecito di trasgredirlo, per la ragione che non gli piace; ma ciascuno sottometta la propria opinione all’autorità di colui al quale è soggetto, ed a lui obbedisca per debito di coscienza. Parimenti nessun privato, o col pubblicare libri o giornali, ovvero con tenere Pubblici discorsi, si comporti nella Chiesa da maestro. Sanno tutti a chi sia stato affidato da Dio il magistero della Chiesa; a Lui dunque si lasci libero il campo, affinché parli quando e come crederà opportuno. È dovere degli altri prestare a Lui, quando parla, ossequio devoto, ed ubbidire alla Sua parola.  – Riguardo poi a quelle cose delle quali – non avendo la Santa Sede pronunziato il proprio giudizio – si possa, salva la Fede e la disciplina, discutere pro e contro, è certamente lecito ad ognuno di dire la propria opinione e di sostenerla. Ma in simili discussioni rifuggasi da ogni eccesso di parole, potendone derivare gravi offese alla carità; ognuno liberamente difenda la sua opinione, ma lo faccia con garbo, né creda di poter accusare altri di sospetta fede o di mancata disciplina per la semplice ragione che la pensa diversamente da lui. Vogliamo pure che i nostri si guardino da quegli appellativi, di cui si è cominciato a fare uso recentemente per distinguere cattolici da cattolici; e procurino di evitarli non solo come profane novità di parole, che non corrispondono né alla verità, né alla giustizia, ma anche perché né è ammissibile il più, né il meno: “Questa è la fede cattolica, alla quale chi non crede fedelmente e fermamente non potrà essere salvo” (Symb. Athanas.); o si professa intero, o punto non si professa. Non vi ha dunque necessità di aggiungere epiteti alla professione del cattolicismo; basti a ciascuno di dire così: “Cristiano il mio nome, e cattolico il mio cognome“; soltanto, si studi di essere veramente tale, quale si denomina.  – Del resto, dai nostri che si sono dedicati al comune vantaggio della causa cattolica, ben altro richiede oggidì la Chiesa che il persistere troppo a lungo in questioni da cui non si trae nessun utile: richiede invece che si sforzino a tutto potere di conservare integra la Fede ed incolume da ogni alito d’errore, seguendo specialmente le orme di colui che Cristo costituì custode ed interprete della verità. Vi sono oggi pure, e non sono scarsi, coloro i quali, come dice l’Apostolo: “Stimolati nell’orecchio, e non. sostenuti da una sana dottrina, ammucchiano le parole dei maestri secondo i propri desideri e dalle verità si sviano e si lasciano convertire dalle parole” (II Tim. IV, 3, 4). Infatti tronfi ed imbaldanziti per il grande concetto che hanno dell’umano pensiero, il quale in verità ha raggiunto, la Dio mercé, incredibili progressi nello studio della natura, alcuni, confidando nel proprio giudizio in ispregio dell’autorità della Chiesa, giunsero a tal punto di temerità che non esitarono a voler misurare con la loro intelligenza perfino le profondità dei divini misteri e tutte le verità rivelate, e a volerle adattare al gusto dei nostri tempi. Sorsero di conseguenza i mostruosi errori del Modernismo, che il Nostro Predecessore giustamente dichiarò “sintesi di tutte le eresie” condannandolo solennemente. Tale condanna, o Venerabili Fratelli, noi qui rinnoviamo in tutta la sua estensione; e poiché un così pestifero contagio non e stato ancora del tutto sradicato, ma, sebbene latente, serpeggia tuttora qua e là, Noi esortiamo che guardisi ognuno con cura dal pericolo di contagio; che ben potrebbe ripetersi di tale peste ciò che di altra cosa disse Giobbe: “È fuoco che divora. fino alla perdizione e che sradica tutti i germi” (Job. XXXI, 12). Né soltanto desideriamo che i cattolici rifuggano dagli errori dei Modernisti, ma anche dalle tendenze dei medesimi, e dal cosiddetto spirito modernistico; dal quale chi rimane infetto, subito respinge con nausea tutto ciò che sappia di antico, e si fa avido e cercatore di novità in ogni singola cosa, nel modo di parlare delle cose divine, nella celebrazione del sacro culto, nelle istituzioni cattoliche e perfino nell’esercizio privato della pietà. Vogliamo dunque che rimanga intatta la nota antica legge: “Nulla si rinnova, se non ciò che è stato, tramandato“; la quale legge, mentre da una parte deve inviolabilmente osservarsi nelle cose di Fede, deve dall’altra servire di norma anche in tutto ciò che va soggetto a mutamento; benché anche in questo valga generalmente la regola: “Non nova, sed noviter“. – Ma poiché, o Venerabili Fratelli, ad una aperta professione di fede cattolica e ad una vita ad essa consentanea sogliono gli uomini essere stimolati, più che da altro, dalle fraterne esortazioni e dal mutuo buon esempio, perciò Noi Ci compiacciamo vivamente che sorgano di continuo nuove associazioni cattoliche. E non solo desideriamo che queste fioriscano, ma vogliamo che il loro incremento si giovi della Nostra protezione e del Nostro favore; e tale incremento non sarà per mancare, purché obbediscano costantemente e fedelmente a quelle prescrizioni che furono o saranno date dalla Sede Apostolica.  – Tutti coloro pertanto che, iscritti in tali associazioni, tendono le loro forze per Iddio e per la Chiesa, non dimentichino mai il detto della divina Sapienza: “L’uomo obbediente parlerà di vittoria” (Prov. XXI, 28); perché se non obbediranno a Dio con ossequio verso il Capo della Chiesa, essi invano attenderanno l’aiuto del Cielo e invano altresì lavoreranno.  – Ma affinché tutte queste cose siano mandate a effetto con quell’esito che Ci ripromettiamo, voi ben sapete, o Venerabili Fratelli, esser necessaria l’opera prudente ed assidua di coloro che Cristo Signore ha mandato “operai della sua messe“, cioè del Clero. Perciò comprendete che la vostra cura principale deve essere di applicarvi a santificare sempre più, come esige il sacro stato, il Clero che già avete, ed a formare degnamente per l’ufficio così venerabile, con la più disciplinata educazione, gli alunni del Santuario. E benché la vostra diligenza non abbia bisogno di stimolo, pure Noi vi esortiamo e vi scongiuriamo a voler adempiere questo dovere colla massima solerzia. – Si tratta di cosa che per il bene della Chiesa ha importanza capitale; ma avendone i Nostri Predecessori di s. m. Leone XIII e Pio X trattato in proposito, non è il caso di aggiungere altri consigli. Solamente bramiamo che quei documenti di così saggi Pontefici, e più specialmente la “Exhortatio ad Clerum” della s. m. di Pio X, mercè le vostre insistenti premure giammai cadano in oblio, ma siamo sempre scrupolosamente osservati. Di una cosa peraltro non vogliamo tacere, ed è il ricordare ai sacerdoti di tutto il mondo, Nostri figli carissimi, l’assoluta necessità tanto per il vantaggio loro personale, quanto per l’efficacia del loro ministero, di stare strettamente uniti e pienamente ai propri Vescovi. Purtroppo dallo spirito di insubordinazione e d’indipendenza che ora regna nel mondo, non tutti, come con dolore accennammo più sopra, sono scevri i ministri del Santuario: né sono rari i Sacri Pastori che trovano angustie e contraddizioni proprio là, donde dovrebbero aspettarsi conforto ed aiuto. Orbene, se alcuno tanto miseramente vien meno ai dovere, rifletta e mediti bene che divina è L’autorità dei Vescovi, cui lo Spirito Santo ha destinati a reggere la Chiesa di Dio (Act. XX, 28). Rifletta inoltre che se, come abbiamo visto, resiste a Dio chi resiste a qualsiasi legittima potestà, è assai più irriverente la condotta di coloro che ricusano di ubbidire ai Vescovi, cui Dio ha consacrati con carattere speciale per esercitare il suo divino potere. “Poiché l’amore – così scriveva il santo martire Ignazio – non permette di tacere di voi, perciò ho pensato ammonirvi di essere unanimi nella sentenza di Dio. Infatti Gesù Cristo, inseparabile dalla nostra vita, lo è per sentenza del Padre, come pure i Vescovi, stabiliti nelle plaghe del mondo, lo sono per sentenza del Padre. Onde a voi occorre convenire nella sentenza del Vescovo” (In Epist. ad Ephes., III). E la parola di quel martire insigne è stata, a traverso ogni età, la parola di tutti i Padri e Dottori della Chiesa. – Si aggiunga che già troppo grave, anche per le difficoltà dei tempi, e il peso che portano i Vescovi, e che più grave è ancora l’ansietà in che vivono per la responsabilità di custodire il gregge loro affidato: “Essi infatti vigilano come dovessero render conto delle vostre anime” (Hebr. XIII, 17). Non si deve dunque chiamare crudele chi, con la propria insubordinazione, ne accresce l’onere e l’amarezza? “Perché questo non vi giova” (Ibid. 17), direbbe a costoro l’Apostolo, e ciò perché: “La Chiesa è la plebe adunata intorno al sacerdote e il gregge raccolto intorno al pastore” (S.Cypr. Flor. et Pupp., ep. 66, al. 69); donde segue, che non è con la Chiesa chi non è col Vescovo. – Ed ora, Venerabili Fratelli, al termine di questa lettera, il Nostro cuore torna colà, donde volemmo prendere le mosse.  – È la parola di pace che Ci torna sul labbro, per il che, con voti fervidi ed insistenti invochiamo di nuovo, per il bene tanto della società che della Chiesa, la fine dell’attuale disastrosissima guerra. Per il bene della società affinché, ottenuta che sia la pace, progredisca veramente in ogni ramo del progresso; per il bene della Chiesa di Gesù Cristo, affinché, non rattenuta da ulteriori impedimenti, continui fin nelle più remote contrade della terra ad apportare agli uomini conforto e salute. Purtroppo da lungo tempo la Chiesa non gode di quella libertà di cui avrebbe bisogno; e cioè da quando il Suo Capo, il Sommo Pontefice, incominciò a mancare di quel presidio che, per disposizione della divina Provvidenza, aveva ottenuto nel volgere dei secoli per tutela della Sua libertà. La mancanza di tale presidio è venuta a cagionare, cosa d’altronde inevitabile, un non lieve turbamento in mezzo ai cattolici: coloro difatti che si professano figli del Romano Pontefice, tutti, così i vicini come i lontani, hanno diritto d’essere assicurati che il loro Padre comune sia veramente libero da ogni umano potere, e libero assolutamente risulti.  – Al voto pertanto d’una pronta pace fra le Nazioni Noi congiungiamo anche il desiderio della cessazione dello stato anormale, in cui si trova il Capo della Chiesa, e che nuoce grandemente, per molti rispetti, alla stessa tranquillità del popolo. Contro un tale stato Noi rinnoviamo le proteste che i Nostri Predecessori, indottivi non già da umani interessi, ma dalla santità del dovere, emisero più di una volta; e le rinnoviamo per le stesse cause, per tutelare cioè i diritti e la dignità della Sede Apostolica.  – Rimane, o Venerabili Fratelli, che, siccome il cuore dei Principi e di tutti coloro ai quali spetta mettere fine alle atrocità e ai danni che abbiamo ricordati, sta nelle mani di Dio, a Dio supplici leviamo la voce, e, a nome dell’intera umanità, gridiamo: “Dacci la pace, Signore, nei nostri giorni“. E chi disse di sé: “Io, Signore… faccio la pace” (Is. XLV, 6-7), Egli, placato dalle nostre preghiere, voglia quanto prima sedare i flutti tempestosi, dai quali sono agitate la Società civile e la Società religiosa. Ci assista propizia la Beatissima Vergine, Ella che ha generato lo stesso Principe della Pace; e l’umile Nostra Persona, il Nostro Pontificale Ministero, la Chiesa, e con essa le anime di tutti gli uomini, redente tutte dal Sangue divino del Suo Figlio, accolga sotto la Sua materna protezione.  – Auspice dei Celesti doni e pegno della Nostra benevolenza, impartiamo di gran cuore, o Venerabili Fratelli, l’Apostolica Benedizione a voi, al vostro clero ed al vostro popolo.

Dato in Roma, presso San Pietro, il 1° Novembre 1914, nella festa di Ognissanti, del Nostro Pontificato anno I.

DOMENICA QUINTA DOPO PASQUA [2018]

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Isa. XLVIII:20

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiate usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja [Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

Ps LXV:1-2 Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus. [Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: dà a Lui lode di gloria].

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja [Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

 Orémus.

Deus, a quo bona cuncta procédunt, largíre supplícibus tuis: ut cogitémus, te inspiránte, quæ recta sunt; et, te gubernánte, éadem faciámus. [O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi súpplici di pensare, per tua ispirazione, le cose che son giuste; e, sotto la tua direzione, di compierle.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli.

Jac. I:22-27

Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit. Qui autem perspéxerit in legem perfectam libertátis et permánserit in ea, non audítor obliviósus factus, sed factor óperis: hic beátus in facto suo erit. Si quis autem putat se religiósum esse, non refrénans linguam suam, sed sedúcens cor suum, hujus vana est relígio. Relígio munda et immaculáta apud Deum et Patrem hæc est: Visitáre pupíllos et viduas in tribulatióne eórum, et immaculátum se custodíre ab hoc sæculo

Omelia I

[Mons. G. Bonomelli: Nuovo saggio di omelie, vol. II, Marietti ed. Torino, 1898, Omelia XXIII]

“Carissimi! siate operatori della parola e non soltanto ascoltatori, ingannando voi stessi. Poiché se altri è ascoltatore e non operatore della parola, costui sarà simile ad un uomo che, avendo rimirato in uno specchio il suo volto al naturale e consideratolo, se ne ritrae tosto, dimentico di quello ch’esso è. Ma chi si è specchiato nella legge perfetta della libertà e vi perdura, non da smemorato ascoltatore, sebbene da ascoltatore operoso, questi sarà felice dell’opera sua. Che se qualcuno si pensa d’essere religioso, non imbrigliando la sua lingua, ma ingannando se stesso, la pietà di costui è vana. La religione pura e intemerata, presso Dio e Padre, è questa: Visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e serbarsi “netto di questo mondo „ (S. Giacomo, c. I, vers. 22-27). – Forse voi non avete dimenticato l’omelia dell’ultima Domenica, nella quale presi a commentare alcune sentenze della lettera di san Giacomo, che si leggono nella santa Messa. Or bene; sappiate, o cari, che queste che adesso avete udito, sono la continuazione di quelle ch’ebbi a spiegarvi. Non vi è nulla di difficile, ma molto da apprendere, e ciò che importa anche maggiormente, le cose che vi dirò, rispondono ai bisogni d’ogni classe di persone, e ciò deve accrescere, se è possibile, la vostra attenzione. – S. Giacomo nel versetto che sta immediatamente prima di quello che siamo per commentare e che fu l’ultimo spiegato nell’altra omelia, aveva detto: “Accogliete docilmente la parola in voi seminata, che può salvare le anime vostre; „ a questa esortazione di ricevere la parola od insegnamento evangelico con docilità, che ha virtù di salvare le anime, con passaggio naturalissimo il nostro Apostolo fa seguire quest’altra sentenza, che la completa: “Siate poi operatori della parola e non soltanto ascoltatori.„ Buona e santa cosa è udire la parola del Vangelo e con essa accogliere la verità: ma non basta, come non basta al campo ricevere il seme; è mestieri, che lo faccia germogliare e renda moltiplicato il frutto. Miei cari! la Religione nostra santissima consta di due parti, del Simbolo e del Decalogo: quello è la regola del credere, questo è la norma dell’operare; quello guida la mente e deve precedere, questo guida la mano e deve seguire. Vi sono alcuni, i quali gridano sempre: La fede! i principi! ma poco si curano delle opere: vi sono altri che dicono: Le opere! i fatti! basta essere onesti, giusti e non parlano del Simbolo; errano questi e quelli: si esige la fede e si esigono le opere, è necessario il Simbolo ed è necessario il Decalogo. L’uomo non è soltanto anima e mente, ma è anche volontà, ed ha il corpo, e deve servire a Dio con l’anima e con la mente ed anche con la volontà e col corpo, cioè con le opere. Direste, voi che è perfetto pittore colui, che ne conosce tutte le regole, che si contenta di contemplare con la mente i suoi ideali, siano pur bellissimi, e che non ci mostra mai sulla tela una figura? Direste voi che è buono quel figliuolo, il quale conosce benissimo i suoi doveri verso di voi, o genitori, e li confessa e protesta di volervi amare e ubbidire, e poi non vi dà mai una prova di amore e di ubbidienza coi fatti? Certo la fede è necessaria, è la radice della vita cristiana, è il seme che ci deve dare l’albero e il frutto; ma la fede, o cari, può vivere a lungo se non è nutrita dalle buone opere? È ben difficile. Essa è come un albero, su cui per lunghi mesi non discende la pioggia, o che la mano industre del contadino non irriga opportunamente: a poco a poco le sue foglie ingialliscono, cadono, e l’albero finalmente muore. Non dimenticatelo mai, o dilettissimi; generalmente la fede muore perché non accompagnata o avvivata dalle opere: sono le passioni appagate, sono cioè le opere che mancano, quelle che fanno inaridire l’albero della fede. Il credere non costa molto, o cari, massime al popolo: ciò che costa è l’operare, e la maggior parte di quelli che tra i cristiani si perdono, si perdono non per essere trovati manchevoli del Simbolo, ma per aver fallito nel Decalogo. Siamo dunque non semplici ascoltatori, ma operatori della parola, e la nostra fede mostriamola con le opere; se questo non faremo, inganneremo noi stessi, perché è chiara la sentenza di Gesù Cristo che protesta: “Non chi avrà detto: Signore, Signore, ma chi avrà fatto la volontà del Padre mio (osservando la legge) sarà salvo [“Vera fides est, quæ in hoc quod dicit, moribus non contradicit” – S. Greg. M., Homil. 29. – “Monstruosa res gradus summus et animus infimus: sedes prima et vita ima; lingua magniloqua et manus otiosa: sermo multus et fructus nullus” (S. Bernard., De Consid., lib. 2, c. 7). – “Opus sermone fortius” ; Nazianz., Orat. 27]. – Per chiarire ed avvalorare la verità stabilita, il santo Apostolo adopera una graziosa similitudine, e dice: ” Se altri è ascoltatore e non operatore della parola (cioè crede e non ha le opere, frutto della fede), è somigliante ad un uomo, il quale avendo rimirato il suo volto al naturale in uno specchio, consideratolo, se ne ritrae tosto, dimentico di quello ch’esso è.„ Lo specchio di sua natura riflette l’immagine di tutto ciò che gli sta dinanzi, e la riflette sempre e fedelmente: esso non inganna, non mentisce mai. Perché l’uomo si affacciai allo specchio? Per vedere il volto suo e tutta la persona. Se nello specchio vede che il volto non è netto, non acconciati i capelli, scomposto l’abito e non abbastanza pulito, che fa tosto? Tenendo sempre l’occhio sullo specchio, lava e netta il volto, racconcia i capelli e compone debitamente il vestito. Similmente deve fare il cristiano: spesso deve farsi allo specchio dell’anima per vedere se in essa tutto è netto ed ordinato. E qual è lo specchio dell’anima? E la parola di Dio, è la fede, è l’insegnamento del Vangelo, che non erra e non inganna mai: specchiamoci in esso e vedremo tosto e con sicurezza se nella nostra condotta è tutto ordinato e conforme al volere di Dio. Fratello, accostati a questo specchio fedele della fede e della legge divina; esso ti farà conoscere qual sei. Esso ti mostrerà assai spesso il volto dell’anima tua bruttato da pensieri ed affetti indegni di cristiano: ti farà vedere le macchie della vanità, della superbia, del disordinato amore ai beni di quaggiù, dello stravizio e della intemperanza, della maldicenza, della discordia, della disubbidienza, dell’invidia, della pigrizia, della trascuratezza dei tuoi doveri cristiani e va dicendo. Oh! quante macchie scorgerai nell’anima tua dinanzi a quello specchio infallibile, se ben addentro vi spingerai lo sguardo. E allora che dovrai fare? Precisamente quello che fanno tutti coloro, uomini e donne, che si riguardano nello specchio. Devi lavare quelle macchie, mondarti di quelle sozzure, emendarti di tutte le tue mancanze, affinché il volto dell’anima tua apparisca bello, nitido, simile al gran modello, che è Gesù Cristo [“Splendidissimum in mandatis suis (Deus) condidit speculum, in quo homo suæ mentis faciem inspiceret et quam conformis imagini Dei, aut quam dissimila esset agnosceret”; S. Leonis, Serm. 11]. – Che diresti tu di quell’uomo, di quella donna, i quali dopo essersi lungamente riguardati nello specchio e viste tutte le macchie, ond’è brutto il volto e l’abito, se ne andasse e non si curasse punto di nettarsene? Diresti che è uno stolto, uno smemorato, e che se non voleva far nulla per nettarsi, non valeva la pena che ricorresse allo specchio e vi si rimirasse! e bene a ragione. Il somigliante è da dire di quel cristiano e di quella cristiana, che ascoltano la parola di Dio, conoscono la sua legge, e in essa, quasi in ispecchio tersissimo, vedono la propria anima tutta lorda e sozza per tante colpe e male abitudini, e, come non si trattasse di loro, tranquillamente se ne vanno e non si emendano. Carissimi! no, no, non imitiamo questi spensierati, che dimenticano sì facilmente qual è il volto loro al naturale, che sono ascoltatori, e non operatori della parola divina; ma per contrario, siamo imitatori, come vuole S. Giacorno, di colui “che si è specchiato nella legge della libertà (cioè nella legge evangelica, che ci ha affrancati dal male e ci dà la libertà del bene) e vi perdura, non da ascoltatore dimentico, ma da operatore col fatto; questi, questi! esclama S. Giacomo, sarà felice e beato dell’opera sua, „ e raccoglierà il frutto della redenzione. – Alla trascuratezza e spensieratezza dell’uomo che ascolta la parola di Dio e in essa si specchia senza cavarne vantaggio, toccata nel versetto superiore, S. Giacomo oppone in questo versetto l’avvedutezza e la prontezza dell’uomo che ascolta, conosce e, conformemente al conoscimento, regola la sua condotta colle opere. – Passiamo al versetto seguente: “Che se qualcuno crede di essere religioso, non raffrenando la sua lingua, ma ingannando se stesso, la sua religione è vana.„ Veramente, trattandosi d’una lettera come questa di S. Giacomo, che va tutta in sentenze morali pratiche, non si richiede che queste siano tutte legate tra loro, come in una trattazione scientifica. Esse possono stare benissimo anche separate, senza nesso di discorso, e alcuna volta ciò apparisce manifestamente, e potrebbe essere questo il caso della sentenza che vi ho riportata. Ma, considerando meglio la cosa, mi pare che il nesso tra il nostro versetto e gli antecedenti esista, comecché alquanto remoto. Sopra, S. Giacomo esorta i fedeli ad essere pronti ad udire e tardi a parlare; qui, ritornando su quella massima, la riconferma, dicendo, che se alcuno crede d’essere religioso o pio, che è tutt’uno, e non raffrena la sua lingua, costui si illude e mostra a fatti che la sua religione è vana. La lingua è lo strumento ordinario, mercé del quale comunichiamo altrui i nostri pensieri ed i nostri affetti, e non sarà facile frenare questi se non freniamo quella. La nostra mente e il nostro cuore sono come due sorgenti, dalle quali senza posa scaturiscono i nostri pensieri e i nostri affetti, buoni o rei ch’essi siano. Cessare di pensare o di amare è impossibile cosa; sarebbe come cessare di respirare: si muore. Nostra cura continua deve essere quella di vegliare sui pensieri della nostra mente e sugli affetti del nostro cuore, per reprimere i cattivi e lasciar libero il corso ai buoni; lavoro necessario e difficilissimo, perché esige un’incessante sorveglianza sopra di noi medesimi. Mezzo molto utile ed efficace a vegliare sopra i pensieri e gli affetti del nostro spirito sarà quello di vegliare sulla loro manifestazione mediante la lingua. Vegliare su questa importa vegliare sull’interno, giacché non si possono ponderare le parole senza ponderare i pensieri e gli affetti, che sono alle parole necessariamente congiunti, come il macchinista, se è prudente, non può regolare le valvole della locomotiva senza tener d’occhio in pari tempo la misura del vapore, ch’essa rinserra ne’ suoi fianchi. Vogliamo noi, o dilettissimi, regolare il nostro interno? Regoliamo l’esterno. Vogliamo stringere nelle nostre mani il freno della mente e del cuore? Custodiamo la porta per cui escono, stringiamo il freno della lingua. Ciò facendo, noi avremo un altro vantaggio e non lieve, o cari. Un uomo che continuamente versa tutti i suoi pensieri ed affetti per la via della lingua, è simile a colui che tiene sempre aperta la valvola della sua macchina: la forza del vapore se ne fugge tutta per essa e la macchina ben presto non può agire e cessa il lavoro. Perché la mente sia raccolta, i pensieri elevati eretti, gli affetti puri e nobili, è mestieri ponderarli; fa d’uopo concentrarci in noi stessi e riunire le forze tutte del nostro spirito per rivolgerle tutte insieme sopra un oggetto solo: se noi senza posa le disperdiamo fuori di noi con la parola, rimarremo vuoti, deboli, impotenti. Vedete l’acqua che discende dal monte: se la imprigionate opportunamente in vasi o tubi, si solleva, se volete, fino all’altezza dalla quale discende; se voi la lasciate scorrere liberamente sul suolo, si spande e sparisce: così avviene, dice S. Gregorio M., dell’anima nostra: tenetela raccolta in se stessa: si innalza con i suoi pensieri fino a Dio: lasciate che con le parole si effonda d’ogni parte, come per altrettanti rivi, si distrarrà, e sperderà miseramente le sue forze [S. Gregor. M., Moral., lib. 7. cap. 7). Se noi non custodiremo debitamente la nostra lingua, sappiatelo bene, la nostra religione e pietà sarà vana, e non avrà che l’apparenza: Hujus vana est religio. Ma qual è dunque, o beato Apostolo, la vera, la solida religione e pietà? Ascoltate: “La religione, o pietà pura e intemerata presso Dio e il Padre, è questa: Visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni, e serbarsi mondi da questo secolo. „ Quale risposta! Quale verità, o carissimi! Voi lo sapete; la religione è l’insieme, il complesso dei rapporti tra Dio e l’uomo, quali scaturiscono dalla natura delle cose e quali sono voluti e stabiliti da Dio: Dio è nostro Creatore e conservatore e perciò nostro padrone assoluto: il Figliuol di Dio si è fatto uomo e ci ha ricomperati col suo sangue: ha diritto perciò alla nostra gratitudine, alla nostra obbedienza, al nostro amore: questi doveri di gratitudine, di obbedienza, di amore verso Dio si manifestano in modi svariatissimi, in atti interni ed esterni di fede, di adorazione, di ringraziamento, di speranza, di amore verso di Lui e verso il prossimo, in breve, nell’osservanza della legge divina in tutte le sue parti. Or come sta che S. Giacomo riduce la religione pura e intemerata a visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e serbarsi netti da questo secolo? Forse ché intese dire che questo fosse bastevole e tutto il resto, che riguarda la fede, i Sacramenti e le altre opere, fosse inutile? Sarebbe un negare il Vangelo, un contraddire lo stesso Apostolo, che in questa lettera tante altre cose inculca e comanda, e sarebbe un offendere lo stesso buon senso. L’Apostolo, ricordando e proclamando la necessità di queste opere di misericordia, non negò la necessità delle altre già note ai fedeli: volle soltanto ricordare queste, perché allora più necessarie e più utili. La maggior parte dei fedeli, ai quali scriveva, erano nati e cresciuti nell’ebraismo, e forse molti di loro tenevano necessaria l’osservanza delle cerimonie mosaiche, tante di numero e sì gravose, e dalle quali non sapevano divezzarsi. S. Giacomo loro rammenta che la religione di Gesù Cristo non ha che far nulla con quelle cerimonie, ch’essa domanda le opere e sopra tutto le opere della carità verso del prossimo, come quelle che rendono cara ed amabile la religione e ne mostrano la efficacia, e di queste opere, a modo d’esempio, ricorda quella di visitare e consolare i più poveri e più abbandonati, che sono gli orfanelli e le vedove.Quando si medita questa sentenza di san Giacomo — la religione pura ed intemerata presso Dio e il Padre, è questa: “Visita orfani e le vedove” — non si può non sentire la grandezza e la santità della nostra religione. Essa ce ne rivela tutta la natura, che in fondo è la carità operosa verso tutti, ma specialmente per i più bisognosi, per i più derelitti de’ fratelli nostri, che sono gli orfani e le vedove! Ah! una religione che si compendia in una sentenza come questa, non può essere che una religione divina. Gli uomini non avrebbero mai trovata una definizione sì sublime!Aggiunge poi in fine, che la religione comanda di serbarsi mondo da questo secolo, il che importa di non seguire il mondo, le sue massime, di non abbandonarsi ai suoi colpevoli piaceri. In questa sentenza dell’Apostolo è scolpita a meraviglia l’indole della nostra religione, che ci vuole, sciolti dall’amore disordinato della terra, intesi ai veraci beni del cielo e pieni di carità verso i fratelli nostri sofferenti. Mettiamola in pratica onde non siamo uditori, ma fattori della parola divina, secondo la espressione di S. Giacomo.

 Alleluja

Allelúja, allelúja.

Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúja, [Il Cristo è risuscitato e ha fatto sorgere la sua luce su di noi, che siamo redenti dal suo sangue. Allelúia.]

Joannes XVI:28 Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúja. [Uscii dal Padre e venni nel mondo: ora lascio il mondo e ritorno al Padre. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. 

Joann XVI:23-30

In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Amen, amen, dico vobis: si quid petiéritis Patrem in nómine meo, dabit vobis. Usque modo non petístis quidquam in nómine meo: Pétite, et accipiétis, ut gáudium vestrum sit plenum. Hæc in provérbiis locútus sum vobis. Venit hora, cum jam non in provérbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiábo vobis. In illo die in nómine meo petétis: et non dico vobis, quia ego rogábo Patrem de vobis: ipse enim Pater amat vos, quia vos me amástis, et credidístis quia ego a Deo exívi. Exívi a Patre et veni in mundum: íterum relínquo mundum et vado ad Patrem. Dicunt ei discípuli ejus: Ecce, nunc palam loquéris et provérbium nullum dicis. Nunc scimus, quia scis ómnia et non opus est tibi, ut quis te intérroget: in hoc crédimus, quia a Deo exísti.

Omelia II

[Ut supra, om. XXIV]

Gesù disse a’ suoi discepoli: In verità, in verità vi dico: se alcuna cosa domanderete al Padre nel nome mio, ve la darà: fino ad ora non avete domandato nulla nel nome mio: domandate e riceverete, affinché il vostro gaudio sia compiuto. Queste cose vi ho dette con similitudini. Viene l’ora che non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente vi parlerò del Padre. In quel giorno domanderete nel nome mio; e non vi dic che pregherò il Padre per voi. Perché lo stesso Padre vi ama, perché voi avete amato me ed avete creduto, ch’io sono proceduto dal Padre. Sono proceduto dal Padre e venni nel mondo: di nuovo lascio il mondo e vado al Padre. I suoi discepoli gli dissero: Ecco, ora parli chiaramente e non adoperi alcuna similitudine. Ora sappiamo che tutto conosci, né hai bisogno che alcuno ti Interroghi: per ciò crediamo, che sei proceduto da Dio „ (Giov. XVI, 23-29).

Anche questo tratto di Vangelo, come quelli delle tre ultime Domeniche, si legge nel cap. XVI di S. Giovanni, e Gesù lo disse lungo la via dal cenacolo, dove aveva fatta la cena, all’orto del Getsemani. Il cenacolo (se la tradizione conservata fino ad oggi è esatta) era sulla parte alta di Gerusalemme, poco lungi dalla torre di Davide: il Getsemani è giù basso, dalla parte diametralmente opposta e per giungervi bisogna attraversare quasi tutta la città ed uscire dalle sue mura. La distanza potrà essere, in linea retta, d’un chilometro e mezzo. Fu durante questo tragitto che Gesù tenne la massima parte del discorso dopo l’ultima cena. Le parole, che testé vi ho riportate, sono parole di conforto ai suoi cari Apostoli, ai quali raccomanda la preghiera, e li assicura che sarà esaudita dal Padre. Veniamo alla spiegazione. “In verità, in verità vi dico: se alcuna cosa domanderete al Padre nel nome mio, ve la darà. „ Gesù aveva poco prima annunziata agli apostoli la vicina sua dipartita e la sua risurrezione, con quelle parole: ” Ancora un poco, e non mi vedrete più: di nuovo, ancora un poco, e mi vedrete: „ gli Apostoli ne erano desolati. Il pensiero della separazione dal loro Maestro li riempiva di tristezza. Lui lontano, chi li avrebbe consolati? Chi ammaestrati? A chi avrebbero essi avuto ricorso? Gesù, dopo aver promesso loro un altro Consolatore in suo luogo, lo Spirito Santo, offre ad essi un altro mezzo facile e sicuro, in cui avrebbero trovato conforto ed aiuto efficacissimo. E per rincorarli in tanta afflizione, manda innanzi quelle parole a lui famigliari nelle occasioni solenni. ” In verità, in verità vi dico; „ e, come avverte S. Agostino, una specie di giuramento. — Voi, o cari, così il divin Salvatore, siete afflitti ed atterriti, perché Io vi lascio: voi non mi avrete più in mezzo a voi e non potrete ricorrere a me, come eravate soliti fare. Ma Dio è sempre con voi: non vi perde di vista un solo istante, e invece di ricorrere a me, che vedete, ricorrete al Padre mio, a Dio [Qui Gesù Cristo nomina il Padre divino, come principio delle altre due Persone, e intende significare la divinità; nomina il solo Padre, credo, per ispirare, con questo nome sì dolce, maggior fiducia negli Apostoli], che è dovunque e dovunque può esaudirvi e consolarvi. Io vi assicuro, che qualunque cosa gli chiederete, ve la darà. Questa espressione ” qualunque cosa, „ vuol essere dichiarata perché non sia male intesa. Gesù Cristo promette che quello che gli Apostoli domanderanno al Padre, l’avranno; cioè quello che loro non nuoce, ma giova; quello che conduce alla salvezza delle anime e alla gloria di Dio, non ciò che può desiderare il mondo, onde quella espressione sì ampia — qualunque cosa domanderete — per la natura stessa delle cose, di cui parla Gesù Cristo, la si deve restringere a quelle che sono ordinate al bene dell’anima, e intenderle di tutte in modo assoluto sarebbe contro il senso cristiano e il modo di parlare costantemente tenuto dal Salvatore. E notate anche le condizioni esplicite, che Gesù appone alla sua promessa. Vuole che domandino, e domandino in suo nome. Indubbiamente Dio può concedere le sue grazie senza aspettare che noi le domandiamo, perché vede i nostri bisogni, può tutto ed è bontà infinita: ma ordinariamente esige che preceda la nostra preghiera, sia perché con essa confessiamo la nostra miseria e riconosciamo la sua onnipotenza, sia perché con essa esercitiamo la fede e la speranza, sia perché con essa cooperiamo con Dio all’acquisto di ciò che vogliamo e ci abbisogna, giacché Dio non vuol premiare la pigrizia e l’inerzia, e vuole che dal canto nostro facciamo ciò che possiamo. E non basta: vuole Gesù Cristo, che quello che domandiamo a Dio, lo domandiamo nel nome suo, vale a dire per i meriti suoi, per Lui, che è il mediatore nostro, per Lui, che è Dio come il Padre, per Lui, al quale, come a Redentore, in ispecial modo apparteniamo . Egli è per questo, o carissimi, che la Chiesa, madre nostra, chiude tutte le sue preghiere, pubbliche e private con quelle parole, che dirò quasi sacramentali: ” Per Dominum nostrum Jesum Christum — Per il Signor nostro Gesù Cristo. „ Fino ad ora, continua Gesù Cristo, voi non avete domandato nulla nel mio nome. „ Come ciò, o dilettissimi? Finché gli Apostoli vivevano con Gesù Cristo, fidenti in Lui, a Lui potevano chiedere e chiedevano ciò che volevano; ma quando Gesù non sarebbe più stato visibilmente con loro, allora essi dovevano rivolgersi a Dio, ma sempre nel nome e per i meriti di Gesù, di quel Gesù che nell’umana natura sederebbe alla destra del Padre, e in essa intercederebbe per essi. — In altri termini, Gesù volle dire: Ora io me ne vo al Padre: in avvenire non ricorrerete più a me, come mi vedete, ma a Dio, che sarà sempre vostro Padre, non dimenticando ch’Io sarò presso di Lui vostro mediatore. ” Su, dunque: domandate e riceverete. È una conferma della promessa fatta ed un eccitamento a pregare, con la certezza che otterranno e che in tal guisa la loro gioia sarà compiuta: Ut gaudium vestrum sit plenum. ” Queste cose vi ho detto con similitudini: viene l’ora che non vi parlerò più con similitudini, „ così il divin Maestro. Come apprendiamo dal Vangelo, Gesù Cristo ammaestrò gli Apostoli con parabole e similitudini; usò con essi il linguaggio della semplicità, anche ragionando delle cose più alte: Egli li condusse gradatamente dalle cose piane alle alte e difficili, ma sempre con un linguaggio figurato e quale poteva essere inteso da loro: ma, viene l’ora, dice Gesù Cristo, che non vi parlerò più in similitudini, ma apertamente vi parlerò del Padre. Quest’ora, non ne dubito si riferisce alla venuta dello Spirito Santo. – Allora Egli, avendo cessato di ammaestrare gli Apostoli col senso esterno della parola, cominciò ad ammaestrarli in modo più elevato, senza bisogno di parola esterna, rischiarando direttamente le loro menti intorno alle verità più sublimi che riguardano Dio: Palam de Patre annuntiabo vobis. Allora, dice Cristo, vi parlerò apertamente del Padre. Come? forseché Gesù Cristo dopo la sua risurrezione e dopo la venuta dello Spirito Santo parlò agli Apostoli e li istruì soltanto intorno alla Persona del Padre? Ciò sarebbe contrario anche a ciò che apparisce dai libri sacri e dal fatto, perché gli Apostoli furono istruiti da Cristo e dal suo Spirito in tutte le verità e possiamo anche aggiungere che pochissime sono le cose che si riferiscono al solo Padre. Qual è dunque il senso di quella sentenza? Evidentemente Gesù Cristo nomina il Padre come principio delle altre due Persone, e in Lui e per Lui intende tutto ciò che si riferisce a Dio e alle cose da Lui fatte. “In quel giorno voi domanderete nel nome mio, ed Io non vi dico che pregherò il Padre per voi, perché lo stesso Padre vi ama. ., In quel giorno, cioè quando sarà venuto lo Spirito Santo che vi ho promesso, non avrete bisogno ch’Io vi insegni a pregare, o preghi Io stesso per voi, perché, illuminati da Lui, voi pregherete come si conviene. No, non dovete temere di pregare direttamente il Padre, perché Egli vi ama teneramente come figli, e perciò con ogni fiducia potete presentarvi a Lui. Come è delicata e per noi consolantissima questa espressione di Gesù Cristo! Avvicinatevi al Padre, pregatelo con filiale confidenza, perché Egli vi ama e amandovi non può non aver cara la vostra preghiera. Dio, non dimenticate mai questa verità di fede, o dilettissimi: Dio ci previene sempre con la sua grazia, tantoché qualunque opera buona che noi facciamo, ha sempre il primo impulso da Dio; e questo primo impulso della sua grazia è una conseguenza, una prova dell’amor suo verso di noi. È Dio stesso che ci muove a pregare e come volete che non ci esaudisca? E perché il Padre vi ama?  “Perché voi, risponde Cristo, avete amato me e avete creduto ch’Io sono proceduto da Dio. „ Il Padre ama me come Figliuol suo naturale e, amando me, deve amare quelli che amano me, come Lui, e voi con le opere avete mostrato di amar me, credendo alle mie parole, credendomi suo Figlio fatto uomo. — Ora chi ama ardentemente una persona, deve esaudire le sue preghiere: fate dunque ragione, conchiude Gesù Cristo, se il Padre mio non deve esaudirvi. È per questo che Io non vi dico che pregherò il Padre per voi: non vi è bisogno, perché Egli vi ama. – Questa espressione di Gesù Cristo non si ha da intendere in modo da credere ch’Egli come uomo non preghi il Padre, che sarebbe contrario a ciò che S. Paolo scrive: ” Cristo vive sempre intercedendo per noi, „ e al suo ufficio di Mediatore e Sacerdote in eterno. Ma la risposta è facile: Cristo non disse: Io non pregherò, ma ” non vi dico, che Io pregherò per voi, perché il Padre stesso vi ama. „ D’altra parte sappiamo che Gesù Cristo, diffondendo il suo Spirito in noi, prega in noi e con noi, tantoché solo per Lui e con Lui noi possiamo dire a Dio: Padre! Clamamus: Abba, Pater. Gli Apostoli non potevano comprendere come Gesù Cristo, essendo venuto al mondo per stabilirvi il suo regno, si partisse dal mondo senza avervelo stabilito, e ciò che era peggio, nel modo ch’essi immaginavano. Più: essi non sapevano nemmeno concepire dove, partendo dal mondo, se ne dovesse andare. Quali fossero le idee di quei poveri discepoli, è difficile il dirlo, e probabilmente essi stessi non sapevano rendersene conto. Il perché Gesù, a chiarirli, disse: “Io sono proceduto dal Padre e son venuto nel mondo: di nuovo lascio il mondo e vado al Padre: ., in altre parole: Io sono Figlio dell’eterno Genitore; per l’incarnazione sono venuto in mezzo a voi, ed ora lascio voi e questo mondo e me ne ritorno al Padre. Gli Apostoli all’udire quelle parole furono scossi: i loro dubbi, le loro incertezze svanirono; compresero la verità, e nella loro gioia, con un senso di stupore e di gratitudine di averli sì chiaramente illuminati, esclamarono: “Ecco che ora parli apertamente e non adoperi alcuna similitudine. Ora sappiamo che tutto conosci, né hai bisogno che alcuno ti interroghi: perciò crediamo che procedesti da Dio. „ Il conoscere chiaramente ciò che Gesù Cristo era per fare, com’era naturale in quelle distrette dolorose, stava sommamente a cuore a quei poveri Apostoli, sì per l’amore, che sentivano vivissimo pel Maestro, e sì ancora perché toccava troppo da vicino la loro sorte: desideravano ardentemente saperlo, ma per una cotal riverenza e timore figliale non osavano dir tutto: era un pensiero comune in tutti, ma nessuno lo manifestava nettamente: l’aver Cristo indovinato, a così dire, quel loro bisogno e desiderio cocente, parve loro una prova, che leggeva nei cuori, e uscirono in quelle parole: Or sappiamo che tutto conosci, e non hai bisogno che altri ti interroghi, e questo solo, se fosse necessario, ci mostrerebbe che sei il Figlio di Dio. Quella confessione sì spontanea degli Apostoli, in quei momenti sì dolorosi, dovette far balenare un lampo di gioia sulla mesta fronte di Gesù Cristo e spargere una stilla di gioia sul suo cuore trambasciato. – Gli Apostoli furono ammaestrati da Cristo e si rallegravano di aver conosciuto la verità: ma come la conobbero? Perché ne fecero domanda a Gesù Cristo. Noi pure domandiamogli lume ed Egli non ce lo rifiuterà mai.

Credo …

Offertorium

Orémus Ps LXV:8-9; LXV:20

Benedícite, gentes, Dóminum, Deum nostrum, et obœdíte vocem laudis ejus: qui pósuit ánimam meam ad vitam, et non dedit commovéri pedes meos: benedíctus Dóminus, qui non amóvit deprecatiónem meam et misericórdiam suam a me, allelúja. [Popoli, benedite il Signore Dio nostro, e fate risuonare le sue lodi: Egli che pose in salvo la mia vita e non ha permesso che il mio piede vacillasse. Benedetto sia il Signore che non ha respinto la mia preghiera, né ritirato da me la sua misericordia, allelúia].

Secreta

Súscipe, Dómine, fidélium preces cum oblatiónibus hostiárum: ut, per hæc piæ devotiónis offícia, ad coeléstem glóriam transeámus. [Accogli, o Signore, le preghiere dei fedeli, in uno con l’offerta delle ostie, affinché, mediante la pratica della nostra pia devozione, perveniamo alla gloria celeste].

Communio

Ps XCV:2

Cantáte Dómino, allelúja: cantáte Dómino et benedícite nomen ejus: bene nuntiáte de die in diem salutáre ejus, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore, allelúia: cantate al Signore e benedite il suo nome: di giorno in giorno proclamate la salvezza da Lui operata, allelúia, allelúia].

Postcommunio

Orémus.

Tríbue nobis, Dómine, cæléstis mensæ virtúte satiátis: et desideráre, quæ recta sunt, et desideráta percípere. [Concedici, o Signore, che, saziati dalla forza di questa mensa celeste, desideriamo le cose giuste e conseguiamo le desiderate.]

 

Nella festa di SAN PIO V

Nella festa di San PIO V

Bolla “Quo primum tempore” 19 luglio 1570 [che accompagnava il Messale Romano di S Pio V, nel quale veniva “pietrificato” il Rito Romano della Santa Messa]: “… Nessuno dunque, e in nessun modo, si permetta con temerario ardimento di violare e trasgredire questo Nostro documento: facoltà, statuto, ordinamento, mandato, precetto, concessione, indulto, dichiarazione, volontà, decreto e inibizione. Che se qualcuno avrà l’audacia di attentarvi, sappia che incorrerà nell’indignazione di Dio Onnipotente e dei suoi beati Apostoli Pietro e Paolo. [Ricordiamo solo per inciso che il tutto venne ribadito con pari autorità dai Sommi Pontefici: Clemente VIII e Urbano VIII _ ndr.] .

I modernisti, cioè i falsi prelati della setta del Novus Ordo, quelli che “si dicono cattolici ma non lo sono”, osano affermare che un Papa possa modificare “allegramente”, anche in senso rosa+croce [offrendo cioè un Sacrificio incruento al signore dell’universo, cioè al baphomret-lucifero!], quello che un Papa precedente ha definito in modo irreformabile e perenne, come appunto è la bolla “Quo Primum” citata. Vogliamo ricordare a questi falsi prelati, mai ordinati validamente, seppure in carnevalesche talari nera, rossa, bianca, o clergyman, etc., a questi mercenari lupi ingannatori, che fingono di obliare il Sacro Magistero della Chiesa Cattolica per giustificare le “porcate sataniche” della loro setta, che per sbugiardarli basta semplicemente il cap. III della Costituzione Apostolica “Pastor Æternus” definita nel Concilio Vaticano presieduto da S. S. Pio IX: “ … è evidente che il giudizio della Sede Apostolica, che detiene la più alta autorità, non può essere rimesso in questione da alcunosottoposto ad esame da parte di chicchessia”. Questo passaggio non ha bisogno, con tutta evidenza, di alcun commento o “ermeneutica”. Quindi colui che si permette di modificare, ribaltare, riscrivere sentenze pregresse, specie con annesso e connesso anatema o maledizione di Dio Onnipotente e degli Apostoli SS. Pietro e Paolo, dimostra semplicemente di essere un impostore, al massimo un antipapa servo di lucifero, un patriarca universale kazaro della sinagoga di satana, non essendo possibile che un Papa “vero”, un successore di S. Pietro, il Vicario di Cristo, possa contraddire anche per un attimo, un successore di Pietro, il Vicario di Cristo. Chi ammettesse questo, sarebbe non solo un blasfemo eretico manifesto, ma anche uno psicopatico demente ed allucinato da immediato T.S.O. … ma si capisce che questo non potrà mai succedere, sarebbe solo una ipotesi fantasmagorica, indegna anche di fumetti disneyani.

[grassetto e colore sono redazionali]

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: DIO e MAMMONA

 

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO

DIO E MAMMONA

«Renovatio», VI (1971), fasc. 1, pp. 3-4.

Molti teologi hanno la grave tentazione di ridurre la teologia all’«antropologia». Si tratta di vera tentazione, perché se una teologia antropologica vuol mettere l’uomo al centro, cioè al posto di Dio, rischia di diventare addirittura blasfema; se intende sostituire le istanze umane a quelle divine, dando importanza preminente al benessere di questo mondo sulla vita eterna, diventa degenerata rispetto al suo compito. Può semplicemente occuparsi della parte che riguarda l’uomo – e questa esiste realmente ed obiettivamente in teologia – ma, il farlo in modo unilaterale, implica il pericolo di cadere nei due casi sopra esposti. – Conseguenza grave di una teologia ridotta ad antropologia è il costringere il Cristianesimo ad una mera istanza sociale. Il sociologismo, infatti, ha molte sfumature e varianti; però sposta sempre più o meno l’ago della verità e della realtà da come sono nella divina rivelazione. È per questo motivo che la nostra rivista non esce dalla sua programmatica funzione, se deve toccare qualche argomento in qualche modo sociologico. Per i veri cristiani l’argomento sociale ha sempre avuto come perno la persona umana, tanto degnata da Dio; per gli altri in modo più generale il perno è sempre stato non la persona, anche se si usa ed abusa del termine «libertà», ma il benessere e la sua spartizione. Perché esista una società, e non un mero aggregato, una folla, occorre un’autorità, comunque venga designata. I più accesi sostenitori di rivoluzioni sociali, da essi presentate come redentrici dei lavoratori, hanno terribilmente dilatato i compiti dell’autorità. Non solo non ne hanno potuto fare a meno – il che è eloquente — ma hanno dovuto esasperarli. Ma c’è un altro fatto interessante. Si è allargato lo spazio dell’autorità: costruendola come un potere delegato dal basso. Questo è il potere quale oggi lo abbiamo di fronte: in diverse forme di esercizio, dalla legittima spregiudicatezza alla disonestà. Naturalmente bisogna tenere conto del potere che taluni, senza alcuna delega, si sono costruiti per conto proprio. Il potere non è il denaro, ma, ordinariamente, al punto a cui siamo arrivati oggi, esso dispone a suo piacimento del denaro. La corsa al potere, che è lo spettacolo più impressionante del nostro piccolo mondo, è spesso giustificata dalla sete del denaro. Tra i «poteri» ci sono quelli sull’opinione pubblica, oggi i più tracotanti ed i meno controllati. Ma si tratta sempre di denaro. – Il denaro è lo strumento fungibile dello scambio, il sangue della economia. In sé non è pertanto cattivo; ma, per la capacità che ha di aprire tutte le porte, condiziona ogni potere prettamente terrestre, tanto quanto ne è condizionato. La sua mobilità e il suo impiego ne fanno il centro di tutti gli appetiti. E tuttavia molte strutture stanno spingendo le cose in modo da assoggettare il denaro al potere. Questa è la verità brutale della lotta per la quale una parte degli uomini combatte, mentre gli altri credono sia questione di ideali. – Il Vangelo ha opposto «mammona» a Dio. Nella sua corsa più generosa, quella verso la parità dei diritti, l’equa distribuzione dei beni, la serena convivenza dei popoli, il genere umano si trova impegolato di fatto nel gioco a spirale tra il potere e il denaro. Per i più il soggetto della economia non è, come dovrebbe essere, l’uomo: sono le «cose». E su questo sfondo realistico e brutale che si colora il tentativo di far diventare la teologia un’antropologia. E ripiglieremo il discorso perché ha aspetti anche più gravi. L’uomo si salva solo quando è umile e diventa grande quando adora Dio.

G. FRASSINETTI: CATECHISMO DOGMATICO (VII)

[Giuseppe Frassinetti, priore di S. Sabina di Genova:

Catechismo dogmatico

[Ed. Quinta, P. Piccadori, Parma, 1860]

CAP. VI

DELLE VIRTÙ’ TEOLOGALI.

§ I.

Nozione di queste Virtù in genere.

— Quante sono le Virtù Teologali?

Sono tre: Fede, Speranza e Carità.

— Perché si chiamano Teologali?

Perché Dio è l’oggetto di queste virtù. Con la Fede si crede Dio, e si crede a Dio. Con la Speranza, si spera Dio, cioè il suo possedimento in Paradiso, e si spera in Dio cioè nel suo aiuto. Con la Carità si ama Dio, e si ama anche il prossimo per Iddio, cioè per amor suo.

— Queste Virtù sono soprannaturali?

Sono soprannaturali, e vuol dire che, con lo nostre forze naturali, non le possiamo acquisire, ma Dio ce le infonde ricevendo noi l’acqua del Santo Battesimo.

— Vuol dire adunque che i fanciulli appena battezzati hanno queste Virtù? E dovremo anche asserire che tali fanciulli prima dell’uso della ragione credano, sperino ed amino?

È certo che i fanciulli appena battezzati hanno queste Virtù; però ne hanno gli abiti, e non le esercitano attualmente credendo, sperando, amando, perché ne sono impediti per mancanza dell’uso della ragione. Si dice che ne hanno gli abiti, i quali importano la pronta disposizione a credere, a sperare, ad amare attualmente per quel tempo in cui arriva il fanciullo all’uso della ragione. Vi delucido la cosa con un paragone. Un fanciullo cui sia morto il padre ricchissimo, mentre è sotto tutore, è ricchissimo veramente, per altro non può spendere, non può disporre delle proprie ricchezze fino al tempo opportuno. Similmente i fanciulli prima dell’uso della ragione hanno gli abiti delle Virtù Teologali, ma non possono per allora esercitarle.

— Con fare degli Atti di Fede, Speranza e Carità, queste Virtù crescono in noi?

Esercitando gli atti di qualunque virtù, crescono le virtù in noi e sempre maggiormente si perfezionano; perciò quanto più spesso faremo Atti di Fede, la nostra Fede diverrà sempre più viva; quanto più frequentemente ne faremo di Speranza, la nostra speranza si farà sempre più ferma, e quanto più moltiplicheremo Atti di Carità, ella si farà in noi sempre più ardente.

— Queste Virtù si possono perdere?

La Fede si perde col peccato dell’infedeltà, il quale si commette quando non si vuole credere, o avvertitamente si dubita di qualche verità che insegna la S. Chiesa; per esempio la perderebbe chi non volesse credere o volesse dubitare, che i Sacramenti siano sette. La Speranza si perde quando si dispera della divina Misericordia, come se alcuno credesse che Dio non gli voglia più perdonare i propri peccati. La Carità poi si perde per qualunque peccato mortale, e perciò perdendo la Fede o la Speranza, si perde sempre anche la Carità.

— Si possono riacquistare se perdute?

Si possono riacquistare pentendosi a dovere del peccato che le fece perdere.

— I Santi in Cielo hanno le Virtù Teologali?

Non resta ai Santi che la sola Carità; perché, come è cosa chiara, tutto ciò che credevano lo vedono in Dio; e le cose che sono oggetto di vista, non sono più oggetto di Fede. Ciò che speravano già possiedono, godendo Dio, e le cose già ottenute non sono più oggetto di speranza. La Fede adunque e la Speranza devono accompagnarci fino al Paradiso; ma non entrarvi con noi.

— Vi è obbligo di fare Atti di Fede, dì Speranza e di Carità?

Vi è obbligo espresso, e sì potrebbe provare con moltissimi argomenti delle divine Scritture e dei Santi Padri. L’errore contrario fu condannato da S. S. Alessandro VII: perciò questi Atti si facciano frequentemente e con distinta frequenza l’Atto di Carità.

§ II.

Della Virtù della Fede.

— Che cosa è la Virtù della Fede?

È una Virtù Teologale infusa da Dio nell’anima nostra con la quale crediamo fermamente, a motivo della Divina veracità, tutte le cose che Dio ha rivelato e, come tali, ce le propone la Chiesa da credere, (Habert de Fide).

— Perché si dice a motivo della Divina veracità?

Perché noi crediamo fermamente tutte le cose che ci sono proposte a credere dalla Santa Chiesa, per il motivo che Dio è infallibile verità e non può né ingannarsi, né ingannare; la certezza adunque della nostra Fede, si appoggia alla Divina Veracità.

— Perché si dice: tutte le cose che Dio ha rivelate?

Perché chi lasciasse di crederne una sola, sarebbe un infedele, e si fa uguale torto ad una infinita Verità dubitando della sua Veracità tanto in un punto, come in molti.

— Perchè si dice che: la Chiesa ce le propone da credere?

Perché Dio rivelò le verità immediatamente agli Scrittori inspirati come a Mosè, a Davide ecc. Similmente furono rivelate da Cristo agli Apostoli; ma ora non si devono pretendere rivelazioni particolari come le pretendono i Protestanti, volendo che lo Spirito Santo manifesti immediatamente al loro spirito privato, le verità che hanno da credere. Invece vi è la Chiesa Cattolica, la quale è la suprema maestra della verità e insegna infallibilmente ai suoi figli, tutte le verità che devono credere. Ella poi parla per mezzo dei Concili Universali e per mezzo delle definizioni dei Sommi Pontefici. A cagione di esempio insegnò per mezzo del Sacro Concìlio di Trento, che i Sacramenti sono sette, contro gli errori dei Protestanti. Insegnò che Cristo non è morto per i soli Eletti, per mezzo .delle definizioni dei Sommi Pontefici contro gli errori dei Giansenisti; e sarebbe ugualmente eretico chi dicesse i Sacramenti non essere sette; come chi dicesse che Gesù Cristo è morto in Croce per i soli predestinati (Vedi il Capit. dei Luoghi Teologici § 3).

— Quando è che ad alcuno si può dare il nome di eretico?

Quando pertinacemente asserisce qualche errore contrario a qualcuna verità della Fede. Si dice pertinacemente, perché quando alcuno asserisce un errore per ignoranza, anche colpevole, non si potrebbe chiamare eretico: p. es., trascurando alcuno d’istruirsi non sa che la Chiesa ha definito essere sette i Sacramenti; se dice che sono soltanto tre dice un’eresia; ma egli non è eretico, perché proferisce quell’eresia per ignoranza (Vedi Hubert ubi sup.).

— In che cosa differisce l’eresia dalla infedeltà?

L’infedeltà è la privazione, ossia mancanza della Fede, in chi non l’aveva ancora abbracciata; in tal modo gli idolatri, i Turchi, gli Ebrei sono infedeli; l’eresia, invece, è una mancanza dì Fede in chi l’aveva già abbracciata e fu battezzato, o almeno Catecumeno; inoltre è una mancanza di Fede parziale, cioè quando si lascia di credere uno o più dogmi, non tutti; perché se alcuno negasse tutti i dogmi della Fede, e rinunziasse perciò assolutamente alla Religione Cristiana, sarebbe il suo, peccato di apostasia; perciò un Cristiano che, lasciando di credere a Cristo e alla sua Chiesa, si fa Turco, non si dice eretico ma apostata. Questo s’intenda detto parlando con tutta la precisione delle Scuole; perché il nome d’infedeli si può dare anche agli eretici, in quanto che peccando contro la Fede, perdono questa virtù; e perciò il peccato di non credere o dubitare di qualche articolo di Fede, si chiama peccato d’infedeltà.

— Quante sorta si danno d’infedeltà propriamente presa?

Due sorte: negativa, e positiva. La negativa si trova in quelli i quali non credono, perché non hanno mai sentito e non poterono mai sentirsi annunziare le verità della Fede: e questa non è peccato. La positiva si trova in quelli che hanno sentito predicarsi le verità della Fede e non vogliono credere, o pure potevano sentirsele annunziare e hanno ricusato di darvi orecchio, e questo è peccato (Habert ut sup.).

— Gl’infedeli che non hanno mai sentito annunziarsi le verità della Fede e nemmeno si trovarono mai in opportunità di poterle ascoltare, si salveranno?

Senza Fede è impossibile che alcuno si salvi, dicendo S. Paolo che senza Fede è impossibile piacere a Dio (Hebr. XI). Per altro se questi infedeli osservassero la legge naturale, il Signore o per mezzi ordinari o straordinari, provvederebbe alla loro necessità facendoli anche istruire da un Angelo, quando altri non vi fosse, come dice San Tommaso, e abbiamo già notato. Peccando, questi infedeli, contro la legge naturale, si dannano per tali peccati, e non per il peccato d’infedeltà che in essi non è volontaria.

— Quante sorte si danno di Atti di Fede?

Due sorta: Interno ed Esterno.

— Come si definisce l’Atto di Fede interno?

Un fermo consenso che presta la nostra mente a credere le verità rivelate.

— Come si suddivide l’Atto interno di Fede?

In: implicito, ed esplicito. L’implicito si ha quando confusamente senza riguardare più a un dogma che a un altro, si crede tutto ciò che insegna la Santa Chiesa Cattolica: l’esplicito si ha quando espressamente si crede uno, o più determinati articoli di Fede. Se per esempio io dico: credo fermamente tutte le verità che insegna la Chiesa; oppure, non sapendo io ciò che il Sacrosanto Concilio di Trento ha definito circa la dottrina della giustificazione, io dico: In materia di giustificazione credo ciò che insegna la Chiesa, questi sono Atti di Fede impliciti. Se invece dico: credo che i Sacramenti sono sette; credo che senza la grazia di Dio, non si possano fare opere utili per la Vita Eterna, questi sono Atti di Fede espliciti.

— Basta per salvarsi la Fede implicita, il credere cioè tutto quello che insegna la Chiesa, senza sapere che cosa insegni?

Questa Fede non basterebbe; perché le principali verità della nostra Santa Religione bisogna crederle esplicitamente; cioè sapendole. Queste principali verità sono: che Dio è giusto, e perciò premia i buoni e castiga i cattivi; che Dio è uno e Trino, bisogna cioè sapere il mistero della Ss. Trinità: che la seconda Persona della Ss. Trinità, cioè il Figliuolo, si è fatta Uomo, ha patito ed è morta come Uomo per la nostra salute. Chi non crede espressamente queste verità non è capace di ricevere i Ss. Sacramenti, e non si può salvare. Bisogna pure credere espressamente tutte le altre verità che sono nel Simbolo Apostolico; per altro chi non le sapesse senza avervi colpa, cioè non avendole potute imparare, potrebbe salvarsi. Le prime dunque bisogna saperle di necessità di mezzo, le seconde di necessità di precetto. Tante altre verità definite dalla Santa Chiesa non è necessario che le sappiano tutti i Cristiani: ciascuno è obbligato ad istruirsi secondo il proprio stato e la propria capacità: pertanto essi frequentino le istruzioni; quindi sebbene non giungessero a sapere alcuni articoli di Fede distintamente, basterà che li credano implicitamente intendendo di credere tutto ciò che la S. Chiesa insegna. Si noti qui per incidenza, che oltre il Simbolo bisogna sapere il Pater noster, l’Ave Maria, i Comandamenti della Legge di Dio e della Chiesa, le cose necessarie per ricevere degnamente i Sacramenti, ai quali ci dobbiamo accostare, e i doveri del proprio stato particolare.

— Nel tempo della legge di natura; cioè, prima che Dio desse la legge scritta a Mosè e nel tempo di questa legge scritta fino alla venuta del Salvatore, quale Fede era necessaria agli uomini affinché potessero ottenere la vita eterna?

Oltre il credere che Dio castiga i cattivi e premia i buoni, era necessario che avessero una Fede implicita nel Salvatore del Mondo; che avessero cioè una qualche cognizione del Salvatore promesso (S. Tom. 2,2, q. 2 e 1, 2, q. 106). Perciò tutti i giusti dell’antico Testamento non solo si salvarono per i meriti di Gesù Cristo; ma si salvarono anche mediante la Fede in Cristo.

— Quando siamo obbligati a fare Atti di Fede interni?

Abbiamo già notato che li dobbiamo fare frequentemente e in modo particolare al principio dell’uso di ragione e nell’ora della morte. Vi fu chi disse che bastava fare un Atto di Fede solo in tutta la vita; ma questo sproposito fu condannato dal S. Pont. Innocenzo XI.

— Vorrei sapere se l’atto interno di Fede può stare col dubbio della verità delle cose credute?

Abbiamo detto nella definizione che la fede è una virtù con la quale crediamo fermamente; perciò essa non può stare col dubbio della verità delle cose credute. La fede esclude ogni dubbio, e inchiude la certezza che la cosa non possa essere diversamente (Bouvier de Fide, eap. 5, art. 2).

— Che cosa dunque si dovrà dire di quei Cattolici i quali ascoltando degli errori contro la fede, per. es., contro l’eternità delle pene dell’Inferno, contro il Purgatorio, contro la verginità di Maria Ss., contro il primato del Papa ecc.: essi non lasciano di protestarsi cattolici, ma frattanto pensano che i protestanti, i quali insegnano cotali errori probabilmente, o almeno possibilmente possano aver ragione?

Essi ammettendo questo dubbio, cioè la probabilità o anche la possibilità che la Chiesa erri insegnando le verità contrarie, perdono la fede, e protestandosi ancora di essere Cattolici si protestano di essere ciò che più non sono. Chi non crede fermamente, assolutamente, non crede con quella fede divina che è necessaria a salvarsi.

— Tuttavia il Cristiano Cattolico, potrà esaminare se sono realmente vere le cose che a lui insegna la Chiesa?

Se il Cristiano Cattolico esamina le verità insegnate dalla Chiesa per conoscere se sono realmente vere, e perciò dubitando che possano essere false, per ciò stesso dimostra che ha già perduto la fede; la quale in qualunque caso, da qualunque dubbio (avvertito e acconsentito) resta distrutta (Perrone de loc. theol. parte 3, sect. 1, cap. 3, prop. 1).

— Ma dunque si dovrà credere senza ragione e anche contro ragione, qualora si abbiano argomenti insolubili contro le cose che insegna la Chiesa?

Non v’ha dubbio che bisogna credere ad ogni modo; perché la fede divina, se cessa per qualunque motivo di essere ferma e inconcussa, resta distrutta. Per altro la fede divina non può mai essere né senza, né contro ragione; mentre che si appoggia all’autorità infallibile di Dio rivelante; e quando pare a noi che le cose insegnate dalla Santa Chiesa siano senza o contro ragione, ciò addiviene dalla nostra ignoranza e corto intendimento che non arriva a comprendere la verità del misteri divini: cosi all’uomo idiota appariscono senza e contro ragione molte verità fisiche e matematiche che sono evidenti al filosofo. Dobbiamo persuaderci che qualsivoglia argomento che noi troviamo contro le verità rivelate da Dio, per quanto ci sembri forte ed insolubile, non può essere che una falsa ragione ed un sofisma.

— E pure si esortano i protestanti e gli altri infedeli ad esaminare le verità che insegna la fede, perché si convincano delle medesime; se essi le possono esaminare, perché non le potremo esaminare anche noi?

Notate la diversità che passa tra costoro e noi Cattolici: essi non hanno ancora la fede divina, perciò col dubbio non la possono perdere: è necessario che studiando si convincano della verità, e si dispongano ad ottenere questo dono da Dio; noi per lo contrario l’abbiamo già; quindi mentre non la possiamo più acquistare, la perderemmo ammettendo il dubbio. Possiamo tuttavia esaminare la verità della fede per conoscere sempre meglio la loro ragionevolezza, e metterci al caso di persuaderne anche gli altri: questo esame però si deve fare credendo sempre fermamente senza ammettere mai ombra di dubbio (Perrone ubi supra).

— Perché dite che i protestanti non hanno fede divina? molte verità rivelate le credono quanto noi; perciò a riguardo di queste non hanno la fede che abbiamo noi?

La fede divina è un dono soprannaturale che non si può avere se non da quelli che sono membri della S. Chiesa; perciò i protestanti, che ne sono fuori sono privi di questo dono, e se credono alcune verità della fede, le credono con fede umana, cioè con quella convinzione che producono nel loro spirito le ragioni che militano in favore di quelle verità: noi per es. crediamo che Cristo sia il Salvatore, e che Platone fosse un filosofo: crediamo la prima di queste verità per una virtù, ossia forza soprannaturale che opera sul nostro spirito e c’inclina a crederla; crediamo la seconda per la forza degli argomenti che ci presenta la storia; quella perciò crediamo con fede divina, e questa crediamo con fede umana. I protestanti, che credono con noi ambedue queste verità, le credono ambedue per la forza che esercitano sul loro spirito le ragioni che militano per l’una e per l’altra, senza avere quell’aiuto soprannaturale che inclina noi Cattolici a credere la prima; perciò quando credono che Cristo è il Salvatore non lo credono con fede divina; ma con semplice fede umana.

— Quando si fa l’Atto di fede esterno?

Quando visibilmente, ossia sensibilmente, si manifesta la Fede interna. Se io dico che sono Cristiano, se mi prostro innanzi al Ss. Sacramento etc. , questi sono Atti di Fede esterni.

— È necessario fare Atti di Fede esterni?

Necessarissimo, e lo dice espressamente S. Paolo (ad Rom. X); perciò non basta aver la Fede nel cuore, ma bisogna manifestarla con le parole e con le opere.

— Ma qualora manifestando la nostra Fede, fossimo minacciati di qualche grave danno, non si potrebbe fingere di non essere Cristiani, oppure di rinunziare alla Fede ritenendola però nel cuore?

Questo sarebbe un gravissimo peccato e, piuttosto che fingere di non essere Cristiani o di rinunziare alla S. Fede, bisognerebbe soffrire qualunque morte come hanno fatto i Santi Martiri.

— Ma Dio, che vede il cuore, non si contenterà dell’ossequio del cuore, particolarmente quando non potessimo esternare la Fede senza gravissimo danno?

Dio padrone di tutto l’uomo, il quale consta di anima e di corpo, vuole a tutta ragione l’ossequio di tutto l’uomo, cioè interno e spirituale, od esterno e materiale. Il paliare poi e nascondere la nostra Fede per fare credere di esserne privi, o fingere di rinunziarvi è una somma viltà ed ingratitudine contro Dio che ci ha fatto questo dono. Egli fattosi Uomo sacrificò per noi la sua vita infinitamente preziosa, non sarà dovere che noi ci mostriamo pronti a sacrificar per l’onore suo anche la nostra vita che val sì poco? D’altronde se Egli permette che sia tentata la nostra fede, ci dà vigorosi aiuti affinché possiamo resistere ad ogni prova. Perciò con qualunque nostro più grave danno dovremmo, come fecero i ss. Martiri, esternare all’uopo la nostra fede.

— In teologia sono certe soltanto quelle cose che la Chiesa ha già definito e dichiarato di fede?

Il dire che siano soltanto certe quelle cose che la Chiesa ha già definito e dichiarato di fede sarebbe un gravissimo errore: il che facilmente si prova solo che si attenda alla definizione del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria Ss. Infatti prima dell’8 Dicembre dell’anno 1854 questa verità non era un dogma definito e dichiarato di fede; tuttavia era una verità certissima, e tale che la Chiesa aveva fulminato la scomunica contro chiunque avesse ardito, non solo di negarla espressamente, ma anche contro chiunque avesse ardito addurre qualche obbiezione contraria a tale verità, senza confutarla con le opportune ragioni. – Dal non essere definita e dichiarata di fede una verità, non segue che essa si possa impunemente negare, o che almeno si debba riguardare come dubbia; ne segue soltanto, che chi non la crede o ne dubita, non è reo del peccato di eresia; per altro può essere reo di gravissima temerità: ciò poi avviene tutte le volte che la verità non ancora definita di fede, è creduta comunemente, e riconosciuta come certa dalla S. Chiesa. – Prima del Concilio di Trento non erano definite e dichiarate di fede certe verità che esso ha definito e dichiarato contro la novità dei protestanti; e pure quelle verità erano comunemente credute e riconosciute come certe dalla S. Chiesa; e sarebbe stata gravissima temerità il negarle o metterle in dubbio come fecero Lutero, Calvino ecc. Se per essere certa, una verità dovesse essere definita e dichiarata di fede, non sarebbe nemmeno certo che Cristo in terra camminasse coi piedi, non essendo mai stata questa cosa definita e dichiarata di fede. – Laonde chiaro apparisce quanto per un teologo sarebbe storto ed indegno modo di ragionare se argomentasse così: non è definito e dichiarato di fede che nell’inferno vi sia fuoco materiale, che il Diaconato sia Sacramento, che i contraenti siano ministri del matrimonio, che il Papa sia infallibile quando parla ex cathedra, e superiore al Concilio Generale; dunque tutte queste cose si possono negare, o sono dubbie: un teologo che ragionasse di questo modo, si farebbe troppo torto: mentre che, sebbene queste verità non siano dichiarate e definite di fede, sono comunemente credute e riconosciute come certe dalla S. Chiesa (Vedi i teologi, dove parlano di queste verità e dimostrano che sono proxime fidei).

§ III.

Della Virtù della Speranza.

— Che cosa è la Virtù della Speranza.

⁕ « È una Virtù Teologale per la quale con certa fiducia aspettiamo l’Eterna Beatitudine e i mezzi per conseguirla mediante il Divino aiuto, e dietro la promessa che Dio ce ne ha fatto a riguardo dei meriti di Gesù Cristo. »

— Perché si dice: con certa fiducia?

Perché la nostra speranza, essendo appoggiata agli infiniti meriti di Gesù Cristo e alla promessa che Egli ha fatto di darci il Paradiso in premio delle buone opere, e di darci gli aiuti opportuni per conseguirlo, é certa e sicura: quindi S. Paolo (Ad Hebr. VI) la appella un’àncora sicura e ferma.

— Vuol dire dunque che non possiamo temere di perderci?

Notate che si dice: certa fiducia e non sicura certezza: la fiducia di conseguire un bene suppone sempre il pericolo di perderlo; dalla parte di Dio la nostra speranza è certissima, perché da parte sua nulla ci può mancare di necessario alla salute, ma da parte nostra può mancare la necessaria corrispondenza alle sue grazie, e perciò non possiamo dire di essere certi che ci salveremo infallibilmente. Riguardando dunque la certezza della divina promessa da una parte, e la debolezza nostra dall’altra, la nostra speranza non può essere una certezza assoluta, ma solo una certa fiducia.

— In complesso ci dovremo più assicurare sulla certezza che vi ha dalla parte di Dio, o più temere del pericolo che porta la debolezza nostra?

Ci dobbiamo più assicurare sulla certezza che vi ha dalla parte di Dio, essendo che Dio è più buono di quello che noi possiamo essere cattivi; perciò dobbiamo più assicurarsi in Dio di quel che dobbiamo temere di noi.

— Può dunque stare insieme alla speranza del Paradiso il timore dell’Inferno? Bisogna distinguere varie specie di timore.

Altro è il timore detto figliale, col quale si teme l’inferno in quanto che si teme l’offesa di Dio, che sola può confinare le anime all’inferno, e si teme come cosa ingiuriosa ad una infinita Bontà; allora il timore non è il timore del proprio male in quanto è male proprio, ma è il timore dell’ingiuria dell’oggetto amato, cioè di Dio. Altro è il timore detto servile, col quale si teme l’inferno come male proprio, ma però senza avere affezione al peccato che fa meritare l’inferno. Altro è il timore detto servilmente servile col quale si teme l’inferno come male proprio avendo affezione al peccato, sicché non dispiace il peccato, ma dispiace l’inferno, e in certo modo si vorrebbe che non vi fosse inferno per poter peccare senza timore. Il primo timore è santissimo come chiaramente si vede; il secondo anche è buono, come definì il Sacrosanto Concilio di Trento contro gli eretici (sess. VI, c. 8). Perciò tanto il primo quanto il secondo sta benissimo con la speranza Cristiana: il terzo poi è il timore degli empi, indegnissimo del Cristiano.

— Il servire a Dio con la speranza del premio non è un servizio interessato e difettoso?

Così la pensarono alcuni falsi mistici moderni, gli errori dei quali furono condannati dai Sommi Pontefici. Lo Spirito Santo, nelle Divine Scritture, vuole che speriamo il Paradiso: e questa speranza animava i più grandi Santi a far gran cose per Iddio; e perciò quando serviamo il Signore, sperando che ricompenserà il nostro servizio col premio eterno, non commettiamo già alcun difetto, ma esercitiamo la necessarissima virtù della Speranza. Si noti che il Concilio di Trento scomunicò chi dicesse, peccare i giusti quando fanno opere buone per guadagnare l’eterna mercede (Sess. VI, c. 31).

— Dunque si potrà dire che pecchino i peccatori quando fanno opere buone per guadagnarsi questa mercede?

Se i peccatori facessero opere buone per guadagnarsi il Paradiso, avendo intenzione di non convertirsi a Dio, peccherebbero certamente; perché non volendo lasciare il peccato, è pessima presunzione fare conto di salvarsi; ma se i peccatori fanno opere buone per ottenere misericordia da Dio, riconciliarsi con Lui e quindi salvarsi, operano santamente: anzi è questo che Dio loro comanda e che essi devono fare.

— Il Paradiso lo dobbiamo sperare soltanto come nostro bene?

Tutto il nostro bene lo dobbiamo riferire a Dio, e perciò la nostra beatitudine in Paradiso la dobbiamo sperare e procurare, perché ridondi all’eterna gloria di Dio. In una parola dobbiamo cercare di farci Santi perché Dio sia glorificato dalla nostra santità. Ciò si ricava dal sacrosanto Concilio di Trento (Sess. VI, cap. III).

— Disse poco avanti che la nostra speranza è appoggiata agl’infiniti meriti di Gesù Cristo, come s’intende tal cosa?

Gesù Cristo è il nostro Salvatore, Egli ha offerto per noi i meriti infiniti della sua Incarnazione, Passione e Morte, e pel valore di tali meriti siamo stati resi capaci di meritarci il Paradiso.

— Aggiunse che si appoggia alla promessa che ha fatto Dio di dare il Paradiso per premio alle nostre buone opere: come s’intende?

Abbiamo veduto nel § 3 del Cap. 5 che noi non potremmo meritare il Paradiso senza di questa promessa; per ciò a lei ogni nostra speranza si appoggia: questa divina promessa è il motivo per cui speriamo il Paradiso.

— Esercitandoci in Atti di Speranza, dovremo avere intenzione di fare buone opere?

Senza questa intenzione, la nostra speranza si cambierebbe in presunzione; perché al merito delle buone opere è promesso il Paradiso, e solo possiamo sperare con fondamento di salvarci, avendo intenzione di far quel bene che si richiede per ottenere l’eterna salute.

§ IV.

Della Virtù della Carità.

— Che cosa è la Virtù della Carità?

⁕ « È una Virtù Teologale infusa da Dio nell’anima nostra, con la quale amiamo Dio sopra tutte le cose, perché è un bene infinito, e amiamo il prossimo per amore di Dio ».

— Come s’intende: che lo amiamo perchè è un bene Infinito?

Dio si deve amare per la sua infinita Bontà. Ciascuna cosa si ama in ragione della bontà che contiene, perciò si ama perché è buona, e tanto più si ama quanto è più buona. Similmente amiamo Dio perché è buono, e lo amiamo sopra tutte le cose, perché non vi è bontà alcuna da potersi paragonare con la sua.

— In quanti modi si può amare Iddio sopra tutte le cose?

In due modi, appreziativamente e intensamente. Dio si ama sopra tutte le cose appreziativamente quando la volontà è così stretta a Dio, che è pronta a soffrire qualunque cosa, piuttosto che offenderlo con qualche peccato mortale; si ama intensamente sopra tutte le cose quando alla fermezza e attaccamento della volontà, si unisce un vivo trasporto e un ardentissimo affetto, sicché nessuna cosa fa tale impressione ai sentimenti del nostro cuore quanto il piacere o il dispiacere di Dio.

— In quali di questi due modi siamo obbligati ad amar Dio?

Nel primo modo, cioè appreziativamento; e chi fosse privo di questo amore non si potrebbe salvare.

— Questo amore appreziativo ci obbliga solo ad astenerci dal peccato mortale?

L’amore appreziativo ci obbliga a preferire Dio e il suo gusto ad ogni cosa, e perciò ad astenerci anche dal peccato veniale; per altro, giacché il peccato veniale non estingue in noi la carità, qualora l’amore appreziativo non arrivasse a farci evitare il peccato veniale, basterebbe perché fossimo salvi.

— Per qual motivo non siamo obbligati ad amare Iddio intensamente sopra tutte le cose?

Perché questo amore intenso non è in nostro potere, esso è un dono straordinario di Dio, prezioso e desiderabile sommamente. Le anime più pure, ordinariamente parlando, lo possiedono anche in questa vita; però nemmeno esse hanno la pienezza dell’intensità dell’amore Divino, essendo questa pienezza, riserbata ai Santi in Cielo.

— Come può essere che un’anima preferisca Dio e il suo gusto ad ogni cosa, e frattanto qualche altra cosa faccia maggiore impressione nei sentimenti del suo cuore?

L’atto di dare la preferenza ad una cosa sopra tutte le altre è un atto della volontà la quale è libera, il sentire più l’impressione di una cosa che di un’altra appartiene alla sensibilità la quale in noi non è libera, ma necessaria: posso a cagione di esempio determinarmi a preferire il cibo amaro al dolce, ma non posso impedire di sentir l’amarezza mangiandolo. Proviene da questa sensibilità che le madri anche pie sentono un’allegrezza più viva nel vedere ristabiliti in salute i propri figli dopo una pericolosa malattia, che dal vederli pentiti di qualche loro peccato, e pure la loro volontà preferisce di vederli infermi piuttosto che peccatori.

— Quando si preferisce Dio ad ogni cosa perché è un bene infinito, e si vorrebbe perdere qualunque cosa piuttosto che offenderlo gravemente, si ha allora il perfetto amore di Dio?

É certo che allora si possiede il perfetto amore di Dio, perfetto nella sua natura, il quale però si potrebbe sempre più perfezionare, come chiaramente si vede, in chi fosse pronto a perdere qualunque cosa, piuttosto che offenderlo anche con un peccato veniale.

— L’amore, ossia la Carità perfetta, può stare in un’anima insieme col peccato mortale?

Baio insegnava che la carità perfetta poteva trovarsi insieme in un’anima col peccato mortale: ma la Chiesa condannò tale dottrina; perciò è certissimo che non si può trovare in alcun’anima il perfetto amor di Dio insieme col peccato mortale, come non si può trovar in una stanza la luce, con le tenebre (Propos. di Baio 32 e 70).

— Ma dandosi il caso che una persona rea di qualche peccato mortale facesse un atto di perfetto amor di Dio, non si avvererebbe il caso di trovare in un’anima il peccato mortale, e il perfetto amor di Dio?

Non si avvererebbe giammai; perché quell’atto dì perfetto amor di Dio, scaccerebbe subito il peccato mortale, come portata la fiaccola in una camera oscura ne scaccia subito le tenebre.

— Ma per levare il peccato dall’anima, non si richiede la Confessione Sacramentale?

Si richiede la Confessione Sacramentale, o in effetto o in proponimento. Si richiede in effetto quando vi è la sola attrizione, e in tal caso, per scacciare il peccato mortale dall’anima, bisogna che il Cristiano si confessi, e prenda la Sacramentale Assoluzione. Quando poi vi è la carità perfetta basta il proponimento di confessarsi a tempo debito. Chi ha la Carità, ossia il perfetto amor di Dio, ha pure implicitamente la contrizione, cioè il dolore di avere offeso Dio, essendo impossibile che alcuno ami Iddio sopra ogni cosa e non abborrisca sopra ogni cosa il peccato: ha insieme l’intenzione di confessarsi a tempo debito; perché è parimente cosa impossibile che alcuno ami Iddio sopra ogni cosa, e non abbia intenzione di ubbidire ai suoi comandi; perciò se un peccatore fa un atto di perfetto amor di Dio, resta subito giustificato. È per altro obbligato a confessare i peccati mortali a tempo debito; cioè quando dovrà adempire al precetto della Confessione, oppure quando si confesserà anche fuori del tempo del precetto, come chiaramente s’intende.

— Non si potrebbe dire che il perfetto amore di Dio giustifichi l’anima soltanto nel caso di necessità, come sarebbe in punto di morte, quando non si potesse avere Confessore?

⁕ Chi dicesse questo, verrebbe a dire che molte volte potrebbe stare insieme la carità perfetta col peccato mortale, e asserirebbe precisamente la condannata proposizione di Baio (La proposizione condannata in Bajo [70] è la seguente: L’uomo che si trova a vivere in peccato mortale o in un reato degno di eterna dannazione, può avere la vera carità; ed anche la carità perfetta può sussistere con il reato di eterna dannazione – Bolla: “Ex omnibus affliclionibus”, S. Pio V, 1568). Se la Carità è perfetta, quando cioè si ama Dio sopra ogni cosa perché è un bene infinito, toglie tosto dall’anima il peccato mortale.

— Chi fosse restato giustificato da qualche atto di perfetto amor di Dio, e perciò avesse allora intenzione di confessarsi a tempo debito, se poi mutasse intenzione e risolvesse di non confessarsi più; i peccati mortali cancellati dall’atto di amor di Dio ritornerebbero a macchiare l’anima sua?

Ella è verità certissima, che i peccati una volta cancellati non possono più ritornare a macchiare l’anima: se ne possono commettere degli altri simili, ma quelli non tornano più. Prendete questa parità: vi cade il fazzoletto nel fango, ed eccolo macchiato e lordo, voi lo diguazzate in un torrente, e l’acqua porta via quelle macchie e lordura; quelle macchie, quella lordura è dissipata, va giù col torrente, è impossibile che torni a macchiare il fazzoletto; lo potrete macchiar di nuovo lasciandolo cadere di nuovo nel fango. Notate però che con quella cattiva intenzione di non confessarsi più, commetterebbe un nuovo peccato mortale, e perderebbe subito l’amor di Dio, e la sua grazia.

— Se il perfetto amor di Dio ha tanta efficacia di rimettere l’anima in istato di grazia anche fuori del caso di necessità, chi è in peccato mortale non dovrà prendersi gran premura di confessare presto il peccato; ma basterà che faccia qualche atto di amor di Dio, e di contrizione.

Guardatevi dal tirare una simile conseguenza ché essa è falsissima. Non tutti quelli che fanno atti di amor di Dio e di contrizione, li fanno con quella perfezione che si richiede, affinché tolgano il peccato dall’anima; perciò molti potrebbero credere di restare giustificati e frattanto resterebbero in peccato mortale; inoltre, ancorché l’atto di amor di Dio e di contrizione fosse perfetto, questo non conferirebbe la grazia Sacramentale, la quale si dà solo nel Sacramento della Penitenza quando si prende l’assoluzione dei peccati; e quindi l’anima resterebbe priva del grande aiuto di questa grazia, di cui si parlerà nel cap. 7, § 1, D. 15. Perciò chi è caduto in peccato mortale, faccia subito degli atti di contrizione, giacché facendone uno perfettamente si rimette subito in grazia di Dio; ma poi senza aspettare l’obbligo dell’annua Confessione, e nemmeno il suo comodo, quanto più presto può, vada a confessarsi per provvedere nel miglior modo all’anima sua in cosa di tanta importanza. Questa dottrina dell’efficacia e valore della contrizione si deve insegnare perché è la dottrina della Chiesa, e perché ciascuno deve conoscere il valore della virtù della Carità e dei suoi atti; ma da questa dottrina nessuno deve prendere motivo di differire la Confessione dopo commesso il peccato mortale. Per gran contrizione che senta nel suo cuore il peccatore, subito che può, anche con suo incomodo, non differisca un momento di confessarsi.

— Come si deve amare il prossimo?

Si deve amare come noi stessi ci amiamo, e per amore di Dio; in tal modo l’amore del prossimo si rifonde nell’amore di Dio, in quanto che il prossimo si ama a riguardo di Dio, e per l’amore che si porta a Dio.

— Chi ama il suo prossimo perché o di buona indole, perché è dotto, ricco, suo benefattore, suo amico, suo parente, lo ama con amore di carità?

Chi lo ama solo per questi titoli e ragioni, lo ama con un amore naturale, il quale si trova anche negl’infedeli, e perciò non lo ama con amore soprannaturale come è l’amore di carità; bisogna adunque a tutti questi motivi aggiungere il motivo dell’amore di Dio, e perché Iddio lo vuole.

— Tutti assolutamente dobbiamo amare i nostri prossimi, e senza distinzione?

Tutti assolutamente dobbiamo amare i nostri prossimi, amici o nemici, buoni o cattivi, fedeli o infedeli; però vi deve essere distinzione nel nostro amore, dovendosi preferire gli amici, i parenti, i benefattori, i fedeli ecc., a quelli che non sono tali: cosicché p. es., se si dovessero vestire due poveri, uno parente e l’altro no, e vi fosse una veste sola, si dovrebbe dare al parente.

— Non basta per amare il prossimo, fargli del bene senza amarlo frattanto di cuore?

Non basta, e il Papa Innocenzo XI proibì due proposizioni le quali dicevano che non siamo tenuti ad amare il prossimo con atto interno e formale, e che possiamo soddisfare al precetto con soli atti esterni. Perciò è necessario amare il prossimo con affetto di cuore, e quindi fargli ciò che ragionevolmente vorremmo per noi, e non fargli ciò che ragionevolmente non vorremmo per noi.

— Siamo obbligati a fare Atti di Carità come di Fede, e di Speranza?

Vi siamo obbligati, e concordano i Teologi che vi siamo obbligati anche con maggiore frequenza.

— Il precetto della Carità ci obbliga a riferire alla gloria, al servizio di Dio tutte lo nostre azioni?

Certamente ci obbliga a riferire alla gloria di Dio, al suo servizio tutte le nostre azioni anche indifferenti, come sarebbe il mangiare, il dormire, opportuni passatempi e ricreazioni ecc.

— Sarà dunque necessario in ogni azione che si fa il dire espressamente, intendo farla per la gloria di Dio?

Questo poi no: basta il rinnovare di tempo in tempo questa intenzione di fare tutte le nostre azioni a gloria di Dio.

 

INVENZIONE DELLA CROCE

3 MAGGIO: INVENZIONE DELLA CROCE

AD IESUM CRUCIFIXUM

PRECES IACULATORIÆ, INVOCATIONES

186

Crux mihi certa salus.

Crux est quam semper adoro.

Crux Domini mecum.

Crux mihi refugium.

(S. Thomas Aq.).

Indulgentia trecentorum dierum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem invocationes devote recitatæ fuerint (Pius IX, Rescr. Manu Propr., 21 ian. 1874; S. Pæn. Ap., 10 mart. 1933).

187

O Crux, ave, spes unica.

Indulgentia quingentorum dierum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, prece iaculatoria quotidie in integrum mensem pie iterata (S. Pæn. Ap., 20 mart. 1934).

188

Per signum Crucis de inimicis nostris libera nos, Deus noster (ex Brev. Rom.).

Indulgentia trium annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidiana invocationis recitatio in integrum mensa producta fuerit (S. Pæn. Ap., 1 aug. 1934).

III

ACTUS ADORATIONIS ET GRATIARUM ACTIO

191

Adoramus te, Christe,

et benedicimus tibi;

quia per sanctam Crucem

tuam redemisti mundum. 

Indulgentia trium annorum (S. Pæn. Ap., 2 febr. 1934). Fidelibus vero, qui pio animi affectu in Passionem ac Mortem D. N. I. C. Credo una cum supra relata precatiuncula recitaverint, [Ai fedeli che con animo afflitto, nella Passione di N.S.J.C., con una delle precedenti giaculatorie, recitano il Credo … – ndr.-] … conceditur:

Indulgentia decem annorum; Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem eamdem recitationem pia mente persolverint (S. Pæn. Ap., 20 febr. 1934).

192

Signore, vi ringrazio che siete morto in Croce per i miei peccati (S. Paolo della Croce).

Indulgentia trecentorum dierum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, invocatione quotidie per integrum mensem devote iterata (S. Pæn. Ap. 18 ian. 1918 et 10 mart. 1933)

HYMNUS

193

Vexilla Regis prodeunt,

Fulget Crucis mysterium,

Qua vita mortem pertulit,

Et morte vitam protulit.

Quæ vulnerata lanceæ

Mucrone diro, criminum

Ut nos lavaret sordibus,

Manavit unda et sanguine.

Impleta sunt quæ concinit

David fideli carmine,

Dicendo nationibus:

Regnavit a ligno Deus.

Arbor decora et fulgida,

Ornata regis purpura,

Electa digno stipite

Tam sancta membra tangere.

Beata, cuius brachiis

Pretium pependit sæculi,

Staterà facta corporis,

Tulitque prædam tartari.

O Crux, ave, spes unica,

Gentis redemptae gloria! [1]

Piis adauge gratiam,

Reisque dele crimina.

Te, fons salutis, Trinitas,

Collaudet omnis spiritus:

Quibus Crucis victoriam

Largiris, adde præmium. Amen.

(ex Brev. Rom.).

Indulgentia quinque annorum. Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotidie per integrum mensem hymnus pie recitatus fuerit (S. C. Indulg., 16 ian. 1886; S. Pæn. Ap., 29 apr. 1934). 

 [1] Loco: Gentis redemptæ gloria, dicatur: Tempore Passionis: Hoc Passionis tempore! — Tempore Paschali: Paschale quæ fers gaudium! — In festo Exaltationis Crucis: In hac triumphi gloria! 

Notizie sulla festa odierna in:

LA PASSIONE DI GESU’ CRISTO