DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (7) modello di mansuetudine.

DEVOZIONE AL CUORE DI GESÙ (7)

[A. Carmignola, IL SACRO CUORE DI GESÙ, S.E.I. Ed. Torino, 1920 – Disc. VII]

Il Sacro Cuore di Gesù modello di mansuetudine.

Il divin Redentore, venuto sulla terra ad operare la nostra salvezza, si fece pure il nostro Maestro. Per quattromila anni il mondo, errando tra le tenebre dell’errore e dell’ignoranza, sospirò che venisse un Dottore celeste, che lo rimettesse sul retto sentiero. Ma giunta quell’epoca, che a Dio parve opportuna, e che S. Paolo chiama « la pienezza dei tempi, » il Maestro sospirato comparve fra gli uomini e levò cattedra di verità. Ma a differenza della sapienza dell’uomo, che non insegna che con le parole, Gesù Cristo, la Sapienza di Dio, ci ha ammaestrati anche con i fatti. No, Egli non si contentò di dare agli uomini delle sublimi lezioni, ma più ancora volle confermarle col suo esempio, cominciando anzitutto a fare, come nota S. Luca, e poi ad insegnare: cœpit Jesus facere ed docere. (Act. I, 1) Cosicché ben a ragione Gesù Cristo dicendo: « Io sono la luce del mondo, » poté soggiungere: « E chi tien dietro a me, seguendo i miei esempi, non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce, che guida alla vita eterna; » qui sequitur me non ambulat in tenebris, sed habebit lumen vitæ. (Io. VIII, 12) Sì, o miei cari, Gesù Cristo, nel tempo stesso che ci apprende tutte le più belle virtù, ne è pure il perfettissimo modello, e lo è nel suo Sacratissimo Cuore. E noi per tal guisa siamo in dovere di imitarlo, che qualora non lo imitassimo, indarno ci vanteremmo cristiani, più indarno ancora di voti del suo Sacro Cuore, e falsamente crederemmo di salvarci. Ma sebbene Gesù Cristo sia il modello perfettissimo di ogni virtù, e in tutte dobbiamo studiarci di invitarlo, è certo che ve ne hanno di quelle, che parvero essere state da Lui predilette, e la cui imitazione esige da noi un maggior impegno. Ed in vero, sebbene additandoci il suo Cuore Sacratissimo avrebbe potuto dirci: Imparate da me, che sono caritatevole, che sono paziente, che sono obbediente, che sono casto, che sono adorno di ogni virtù; disse invece: Discite a me, quia mitis sum et humilis corde. (MATTH. XI, 29) Ora, che vuol dir ciò? Senza dubbio Gesù Cristo, essendo la divina Sapienza incarnata, non ha mai né parlato né operato senza infinita sapienza. Epperò essendosi egli compiaciuto di far spiccare nel suo Sacro Cuore le virtù della mansuetudine e dell’umiltà, e avendoci ordinato particolarmente di imitarlo in esse, è segno evidente, che di esse abbiamo un bisogno tutto speciale. Pertanto a raggiungere il terzo fine della divozione al S. Cuore, cioè la sua imitazione, in quel modo che a Lui piace maggiormente, conviene che noi ci facciamo a riconoscere il pregio di queste due virtù, della mansuetudine e della umiltà, e gli esempi ammirabili che di esse ci ha dato il Sacratissimo Cuore. E cominciando oggi dalla prima, vediamo quanto sia importante la mansuetudine e quale modello ne sia il Sacro Cuore.

I. — Quanto sia importante la virtù della mansuetudine non torna difficile il riconoscerlo. A questa virtù, secondo che insegna S. Tommaso, appartiene il comprimere l’ira, che viene provocata dalle cose contrarie e specialmente dagli affronti, e l’impedirne la vendetta, a cui sempre agogna questa fosca passione. Ora chi non sa come l’ira, che pur troppo predomina nella maggior parte degli uomini, sia un gran male ed anzi causa di molti altri gravissimi mali? Vi ha, è vero, una ira santa, eccitata dal giusto zelo, e che ci fa riprendere con forza chi non poté esser vinto dalla nostra mansuetudine: tale è la collera di un padre alla vista dei disordini commessi da un suo figlio, la collera di un maestro alla vista dell’indisciplinatezza ed infingardaggine di un discepolo, la collera di un padrone alla vista dell’inoperosità ed infedeltà di un suo servo, l a collera di un re alla vista delle offese fatte alla sua maestà da un suo suddito. Ed ecco perché il reale salmista ha detto: Adiratevi, ma senza peccato : irascimini et nolite peccare; (Ps. IV, 5) ecco perchè il divin Redentore istesso nel suo Vangelo ci mette innanzi l’esempio di padri di famiglia, di padroni, di sovrani che vanno in collera e puniscono severamente e senza remissione. Ecco perché lo stesso Gesù Cristo fu acceso da questo santo sdegno, quando cacciò dal tempio i profanatori, che ne violavano la santità, e quando vedendo i Farisei a malignare di continuo contro le sue parole e le sue opere e soprattutto ad ingannare con le loro ipocrite apparenze il povero popolo, inveì contro di essi affine di smascherare i loro iniqui intendimenti. Ma ben diversa è l’ira che nasce in noi da cattivo principio, dal nostro egoismo in qualche modo contrariato e ferito. Ancorché si coprisse col manto dello zelo e dell’amore della verità e della giustizia, non è buona giammai, come dice san Giacomo, a far l’uomo giusto: ira enim viri justitiam Dei non operatur, (IAC. I, 20) anzi lo precipita in molti mali. Di fatti per essa viene anzitutto turbato gravemente lo stesso esteriore dell’uomo, che vi si abbandona. Osservate, dicono S. Gregorio e S. Giovanni Crisostomo, osservate un uomo sorpreso dalla collera: gli palpita il cuore nel petto e gli trema il corpo da capo a piè; gli si gonfiano le gote, agita scompostamente le mani, pesta coi piedi, si dimena nella persona, getta fuoco dal volto e scintille dagli occhi: quasi più non vede, e se guarda, non conosce neppure le persone a lui note, la lingua gli si confonde e manda piuttosto clamori da bestia, che parole da uomo: sicché egli stesso non sa più quel che si dica e quel che si faccia, ed è divenuto simile ad un bruto privo della ragione. Ma il peggio si è che per l’ira, nell’uomo che vi si abbandona vien rovinata l’anima per i tanti peccati che essa produce. Ed invero l’uomo che si lascia dominare dall’ira perde ogni pazienza, ogni prudenza, ogni carità ed ogni giustizia; si abbandona alle ingiurie, alle maldicenze ed alle calunnie, manda imprecazioni e bestemmie, giura odio e vendetta, trascorre agli oltraggi, alle violenze, alle battiture, alle ferite e quasi più non v’ha alcunché di crudele e di inumano, che nell’impeto della sua passione egli non osi intraprendere. Guardate quei due uomini, che si allontanano dalla città, e chieggono alla foresta un misterioso e funesto ritiro. Eccoli in mezzo al bosco, hanno in mano uno strumento di morte, si scagliano l’un contro l’altro con implacabile furore. Uno d’essi vacilla, cade, e forse muore sul colpo, nell’atto medesimo del più barbaro e più inesplicabile delitto. E qual è mai l’origine di così frequenti duelli, di tante risse, di tanti ferimenti, di tanti omicidii, se non una qualche ingiuria pronunziata in un momento di collera o di astio, un risentimento dell’amor proprio ferito, uno sfogo d’ira? Ecco adunque i funesti effetti di sì terribile passione! – Ma anche allora che non conduce a tali eccessi, è tuttavia mai sempre di gravissimo danno ad un’anima cristiana, perché le tornerà di impedimento gravissimo ad unirsi a Dio nella preghiera ed a ricevere da Lui gl’influssi della sua grazia. E questa verità la fece intendere il Signore stesso con bella figura al profeta Elia. Perciocché volendo egli parlare a questo profeta, mentre stava in una spelonca del monte Oreb, chiamatolo fuori, mandò innanzi a sé un vento grande da sciorre i monti e spezzar le pietre, e dopo il vento un terremoto, e un fuoco; ma né gli parlò dopo il vento, né dopo il terremoto, né dopo il fuoco: non in commotione Dominus; gli parlò allora soltanto che a tutti quei grandi commovimenti successe lo spirare di un’aura leggera. Per tal guisa adunque, come notano i sacri Dottori, Iddio fece intendere, che anche con gli uomini di pietà Egli non si mette in comunicazione, vale a dire anche ad essi nega gli aiuti salutari della sua grazia, se sono facili ad inquietarsi e ad incollerire, e ciò anzitutto perché chi è facile all’ira, per quanto sia frequente alle chiese ed agli esercizi di pietà, non potrà mai col cuore agitato e sconvolto compiere tali opere se non esteriormente ed ipocritamente, e poscia perché parlando in cuor suo la passione, non lascerà che vi penetri a parlare e ad operare la grazia del Signore. Ora, o miei cari, se è vero che l’ira giunge talvolta ad impedire ed estinguere il lume della ragione, tramutando, l’uomo in un bruto selvaggio ed irragionevole, e che ad ogni modo ci sottrae agl’influssi benefici della grazia di Dio, chi non vede l’importanza suprema, anzi la necessità che tutti abbiamo di acquistare la mansuetudine, a cui spetta di frenare l’ira, di soggiogare in noi qualsiasi risentimento di odio e di vendetta e di farci usar dolcezza? E poiché si tratta di una virtù così importante e necessaria, poteva essere che Gesù Cristo, venuto in sulla terra a farsi il nostro maestro e modello non ce la predicasse e inculcasse con tutto lo zelo? E primieramente ce la predicò e inculcò come maestro. Ciò fece quando egli proclamò beati i miti, beati i pacifici; quando comandò di perdonare, e non sette volte, ma settanta volte sette, vale a dire un numero indefinito di volte; quando ci invitò a presentare la guancia sinistra a chi ci percuotesse la destra; ciò fece quando ne insegnò ad amare persino i nostri nemici, a rendere loro bene per male, a pregare per essi, e a dire al Padre celeste: Perdona a noi le nostre offese, come noi le perdoniamo ai nostri offensori; quando ci disse di non fare agli altri ciò che non vogliamo dagli altri sia fatto a noi; quando ci esortò a prendere norma nella nostra condotta dal suo stesso divin Padre, che fa levare il sole sopra i buoni e sopra i cattivi, e manda la pioggia per i giusti e per gl’iniqui. Ma non pago di ciò, all’insegnamento volle aggiungere il più ammirabile esempio, e l’esempio del suo Cuore Sacratissimo, affine di poter dire: Imparate ad essere miti non solo dalle mie lezioni, ma più ancora dagli esempi, anzi dal carattere istesso del mio Cuore: Discite a ine quia mitis sum corde.

II. Ed oh, chi potrà degnamente rappresentare la mitezza ammirabile che in tutta la vita dimostrò Gesù Cristo dal suo primo entrare nel mondo sino al suo ultimo uscirne per risalire al cielo? Nell’antica legge, Dio, facendo talora qualche manifestazione di sé, adoperava tale maestà e tale sfoggio di potenza, da incutere negli uomini il più grande terrore, sì che veniva chiamato il Dio degli eserciti, il Dio terribile, il Dio delle vendette! Ma nella legge nuova ben diversamente si manifesta il Dio della bontà, della dolcezza, della mansuetudine. L’apostolo S. Paolo volendo fra le virtù di Gesù Cristo nominarne una, che fosse come il carattere distintivo di Lui, non menzionò né la povertà, né la obbedienza, né l’umiltà, né la carità, né lo zelo, né alcun’altra delle tante eccelse virtù, che lo adornano, ma bensì la mansuetudine, e per essa si diede a pregare i Corinti: Obsecro vos per mansuetudinem… Christi. (II Cor. x, 1) Così pure il principe degli apostoli, S. Pietro, invitando i Cristiani a prendere esempio da Gesù Cristo, mette loro dinnanzi quello della sua mansuetudine, come l’esempio dato da Lui in modo sopra ogni altro eccellente: « Gesù Cristo, egli dice, ha patito per noi lasciandoci il suo esempio, perché lo imitiamo, e l’esempio è questo che essendo Egli maledetto, non malediceva; essendo strapazzato non minacciava, ma si rimetteva nelle mani di chi ingiustamente lo giudicava. » ( I Pet. II, 23) E come re rivestito particolarmente di mansuetudine lo avevano pure annunziato i profeti: « Ecco, essi dissero, che il vostro re sen vien mansueto… egli non contenderà, né leverà la voce; né spezzerà la canna già rotta a mezzo, né spegnerà il lucignolo fumigante. » (MATT. XXII, 5-12, 19- 20) E quando Gesù uscito dal deserto, dava principio alla sua vita pubblica, S. Giovanni, il Precursore, lo additava al mondo siccome agnello per mansuetudine, dicendo: Ecce agnus Dei; (Io. I, 29) ecco l’agnello di Dio! E d oh, quante altissime prove di tale virtù diede il Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo! Egli incomincia a introdursi nel mondo nella forma più mite, più dolce, più soave, più benigna che possa, tanto che l’Apostolo Paolo nel considerare tutto ciò, pieno d’entusiasmo esclama: Apparuit benignitas, et humanitas Salvatoris nostri Dei: è apparsa la benignità e la mitezza del salvatore nostro. (Tit. III, 4) No, non è sotto l’aspetto di un grande conquistatore, di un sovrano potente e fiero, di un duro e terribile dominatore che Ei viene al mondo, ma sotto l’aspetto e nella forma di tenero, di amabile bambino, anzi di bambino sofferente come tutti gli altri bambini, avendo voluto nascere in tutto e per tutto somigliante a noi, fuorché nel peccato; anzi anche più sofferente degli altri, avendo voluto nascere in una stalla, essere involto in poveri panni ed essere posto a giacere su povera paglia. Ma è bensì vero che avendo preso una forma tanto mite ei non lascia di essere Dio, e che però quando il voglia, Egli che ha in suo potere i fulmini del cielo, non possa scagliarli adirato contro chi ardisce insolentire contro di Lui o pensare solo di recargli danno! Or dunque benché ancor tenero bambino, giacente entro la culla di un povero presepio, ai fulmini dia pur mano, perciocché un re geloso e barbaro lo cerca a morte, e scagliandoli terribilmente contro di lui se lo tolga d’impaccio. E non ha Egli come Dio non solo il potere, ma il diritto di farlo? Sì, senza alcun dubbio, ma Gesù Bambino già fin dalla culla vuol darci un grande esempio di mitezza; epperò mentre Erode pieno di collera inferocisce con le daghe dei suoi satelliti sopra i teneri bambini di Betlemme e dei dintorni, spargendo il loro sangue innocente e riempiendo di terrore e di dolore i cuori delle loro desolate madri, Gesù Bambino, mite sino all’estremo, tanto mite da sembrare debole e impotente, fugge in lontano paese e là rimane sempre nell’esercizio della più ammirabile mitezza sino a che il barbaro Erode è morto. Ah! Gesù, Gesù caro, quanto hai ragione dallo stesso primo principio di tua vita di volgerti a noi per dirci: Imparate da me che sono mansueto ed umile di cuore: Discite a me, quia mitis sum corde! Ma se tale è il principio, quale sarà il mezzo e il fine? Eccolo Gesù benedetto, dopo trent’anni passati nella oscurità della bottega di Nazaret, esercitando sempre con Maria e con Giuseppe la massima mitezza che possa avere un figliuolo col suo padre e con la sua madre, esce in pubblico a predicare la sua celeste dottrina; e quale sarà mai la calamita che Egli adopera per guadagnarsi il cuore degli uomini, per trarli a sé, e farsene dei seguaci? La mitezza. Un giorno stando Egli nel tempio ad istruire con tutta bontà i Giudei ed a provare ai medesimi la divinità della sua dottrina, quegli empi ed ingrati interrompendolo gli dissero che era un indemoniato. Ma Gesù a tanto insulto non disse una parola, e quasi gli avessero fatto una lode, seguitò ad istruirli. Un altro giorno due dei suoi discepoli trasportati da zelo indiscreto, perché il paese di Samaria avesse ricusato di riceverlo, lo eccitavano a farvi scendere sopra il fuoco dal cielo. Ed egli allora rimproverandoli rispose: « Voi non sapete a quale spirito apparteniate. Il mio spirito è spirito di mansuetudine, di dolcezza e di amore. Io non sono venuto in terra per perdere gli uomini, ma per salvarli. » Quasi sempre è circondato da gente invidiosa della sua gloria, e chi scredita i suoi miracoli come prestigi infernali, e chi taccia le sue dottrine come arti maliziose per sedurre la plebe incauta, e chi lo calunnia come uomo ambizioso, avido di farsi re, e chi lo perseguita con le pietre alla mano, e chi tenta di precipitarlo dall’erta cima di un monte, e con tutto ciò Gesù Cristo perdona. Quale indulgenza poi ed amorevolezza non usò egli mai con gli Apostoli, così rozzi e difettosi, così materiali e terreni? Più che da maestro egli trattavali da padre, istruendoli con somma pazienza, correggendoli con infinita bontà, sopportandoli con mansuetudine inalterabile. E con gli stessi Farisei, benché sembrasse sdegnarsi contro di loro, tuttavia Egli non fece altro mai che inveire contro i loro vizi, perché il popolo non restasse ingannato dalla loro ipocrisia; ma anche nel fare ciò adoperò sempre una grande mansuetudine e carità, astenendosi dal castigarli come meritavano, e cercando di rialzarli dai loro peccati e trarli a salvamento. Ma dove la mansuetudine del Sacratissimo Onore di Gesù risplende più luminosamente, si è nel tempo della sua passione, tra le contraddizioni, tra le tante accuse e calunnie, tra i tanti improperi e tormenti, di cui fu fatto bersaglio da parte de’ suoi feroci nemici. Un perfido discepolo lo tradisce e lo vende. Gesù sa tutto, il suo Cuore ne geme altamente, tuttavia ammette quell’ingrato alla sua mensa, lo ammonisce con inaudita benignità sino a lavargli i piedi, a ricevere il bacio da traditore e a dargli il dolce nome di amico. Le schiere degli sgherri al segno di Giuda son lì a mettere le mani addosso a Gesù, e Pietro, indignato, trae fuori dal fodero la spada e taglia un orecchio ad un servo del gran sacerdote. Ma il Salvatore riprende Pietro dolcemente, dicendogli : « Riponi la spada al suo luogo, perché chi ferisce di spada, di spada perirà; » e subito guarisce l’orecchio a Malco. Agli insulti di cui lo ricopre la vil plebaglia, non oppone che il silenzio. Quando un servo di Caifa osa dargli uno schiaffò, egli non dice altro: « Se ho parlato male, fammelo conoscere: se ho parlato bene, perché mi percuoti? ». Pietro stesso lo rinnega per ben tre volte, e Gesù lungi dallo sdegnarsene, gli volge uno sguardo di tanta tenerezza, che gli trafigge il cuore, lo fa disciogliere in lagrime e lo converte. Ma eccolo il povero Gesù nelle mani de’ suoi nemici, che acciecati da diabolica rabbia gli si avventano contro a farne il più orrido scempio. Ed Egli, a guisa di innocente agnello, che se ne sta muto e senza aprir bocca sotto il ferro di chi lo tosa, piega le spalle ai flagelli, china la testa alle spine, porge le mani e i piedi ai chiodi, si lascia straziare le carni di dosso senza dare un sospiro di sdegno, senza proferire una parola di lamento, senza rivolgere un rimprovero: Quasi agnus coram tondente se obmutescet, et non aperiet os suum. (Is. LII, 7). Finalmente che cosa fa sulla croce? Oh Cuore pieno di mansuetudine veramente infinita! Quando i protervi suoi nemici, non ancor sazi delle crudeltà usate verso di Lui, si fanno ancora a lanciargli gli ultimi e più velenosi insulti, in quei momenti estremi della sua vita, Egli che pur potrebbe far scendere dal cielo un fulmine ad incenerirli, non fa altro che sollevare lo sguardo al cielo per indirizzare al suo Divin Padre il motto più sublime di mansuetudine, che mai sia stato pronunziato: Padre, perdona a loro, perché non sanno quel che si facciano. Eppure ciò non è ancora tutto, perciocché alle tante freddezze, ai tanti abbandoni, ai tanti insulti, che continua purtroppo a ricevere anche oggidì, massime nel S. S. Sacramento dell’altare, non risponde Egli che con la mansuetudine e con il perdono. Oh si esalti pure fin che si voglia la mansuetudine di uomini illustri sotto le diverse forme, in cui essa si mostra, di clemenza, di compassione e di dolcezza! si ammiri pure la mitezza di Socrate di fronte alle stranezze della sua moglie bisbetica; si lodi la bontà di Filippo il Macedone, che ad un soldato mormorante dietro alla sua tenda non disse altro che di allontanarsi; si celebri la condotta di Alessandro verso il suo medico Filippo, verso la moglie di Dario e verso i mutilati prigionieri di Persepoli; si canti la clemenza di Scipione e di Tito; tutto ciò è meno che nulla appetto alla mansuetudine incomparabile, di cui Gesù Cristo nel suo Sacratissimo Cuore ci ha dato esempio. – Ma questo ammirabile esempio che ci ha dato Gesù Cristo ce lo ha dato propriamente, perché noi lo avessimo ad imitare. Di fatti Egli nel dire: Imparate da me, che sono mite di cuore, non intese soltanto di farci un’esortazione, di darci un consiglio, ma intese di imporcene un assoluto comando. Fu lo stesso che dirci: « Io voglio che anche voi abbiate un cuore di colomba, senza fiele, senza sdegno, senza amarezza, simile al mio; voglio che anche voi contrariati non vi abbiate ad offendere, offesi abbiate tosto a perdonare, e non mai abbiate a nutrire i n cuor vostro sentimenti di odio, pensieri di vendetta; voglio che siate sempre dolci, affabili, amorevoli con tutti, anche con quelli che non vi trattano bene, che vi riescono molesti, che si lasciano andare ad ingiurie, ad insulti, a disprezzi contro di voi, anche con quelli che arrivassero a tale, dopo che voi li avete beneficati in mille guise, da ripagarvi con la più nera ingratitudine, da oltraggiarvi, da vilipendervi, da maltrattarvi. » Or chi sarà che, intendendo di essere vero Cristiano e devoto del S. Cuore di Gesù, non si studi col massimo impegno per adempiere questo suo volere ed imitarlo nella mitezza! Certa gente di questo mondo, ben si capisce, chiama stupidi e buoni a nulla coloro che sono miti e tollerano perciò senza risentimento e vendetta di essere contrariati e offesi; certa gente bolla nientemeno che col titolo di vigliacco chi non si fa a vendicare qualche danno ricevuto; che anzi arriva al punto da credere che sia indispensabile a certe offese rispondere con l’odio feroce e col misfatto! Ma se noi seguissimo le bestemmie e le assurdità del mondo, saremmo ancora di Gesù Cristo? Conviene adunque, o miei cari, per venire alla pratica, che ci andiamo seriamente abituando a dominare i moti dell’ira, a resistere ai suoi primi assalti ed a soffocarli con prontezza. Conviene che, qualora il nostro animo fosse alterato, vegliamo sulle nostre parole, poniamo anzi alla nostra bocca una prudente custodia per impedire, che ne escano fuori espressioni di lamento, di sdegno e di acrimonia. Conviene che ci studiamo di prevedere le occasioni di risentimento, che durante la giornata, ci potrebbero capitare, o per schivarle, se ci è possibile, o per prepararvi l’animo a soffrirle mansuetamente. Conviene infine che, quand’anche ci fossimo risentiti od offesi, non appena ce ne avvediamo, deponiamo tosto ogni astio dal cuore, praticando l’avvertimento di San Paolo: Il sole non tramonti sulla nostra collera : sol non occidat super iracundiam vestram. (Eph. IV, 26). Così appunto si regolò mai sempre quel Santo, che avendo ricopiato in modo singolarissimo la mitezza del Cuore di Gesù, fu chiamato un’immagine viva della bontà di Lui, voglio dire S. Francesco di Sales. Benché da natura egli avesse avuto un carattere focoso, tuttavia divenne il santo della dolcezza, facendo a se stesso una continua violenza. E tale e tanta fu questa violenza, che dopo morte, a cagione di essa gli si trovò il fiele indurito come la pietra. La sua santa vita essendo spina negli ocelli a uomini tristi, vi fu tra di essi, chi sparse contro di lui scritti velenosi per infamarlo, chi entrò nella sua stessa camera a caricarlo di vituperi, chi per molte notti andò a fare strepito sotto alle sue finestre, lanciando sassi contro la sua casa insieme con le più basse ingiurie, chi giunse persino ad insultarlo in chiesa in mezzo alle pompe dei riti solenni, e chi con mano sacrilega sulla pubblica strada gli sparò addosso un’arma da fuoco per dargli la morte. Ma egli, mansueto sempre, non aperse mai la bocca contro i suoi offensori; anzi nel ritrovarli stendeva loro le braccia per stringerli al seno; nel sapere che vi era chi voleva dar querela contro di loro, lo impediva con sollecitudine, e quando ciò non gli era riuscito, intercedeva con tale istanza presso il sovrano in loro pro, che li scampava dal meritato castigo, e finiva per protestare che quand’anche taluno gli avesse cavato un occhio, non avrebbe tralasciato di guardarlo amorosamente con l’altro. Che più? Una scellerata donna con la più nera calunnia lo fece autore di una brutta lettera, la quale, correndo per il pubblico di Annecy, lo fece inorridire. Ma S. Francesco di Sales che fece? Ritraendo sempre in sé la mansuetudine di Gesù che trattato da Erode come pazzo, se ne stette muto, non prese in nessuna guisa a far le sue ragioni per discolparsi, ma per ben tre anni durò sotto il peso di quella terribile imputazione, finché piacque a Dio stesso di far palese la sua innocenza. E a chi gli faceva premura di vendicare il suo onore, perché lo richiedeva il suo grado di Vescovo, rispondeva: « Iddio sa Egli di qual onore abbisogni, ed Egli ne avrà la cura; io dormo sicuro in braccio alla sua Provvidenza. » Ecco sino a qual punto questo gran Santo si fece ad imitare la mansuetudine del Cuore Sacratissimo di Gesù. Ma se noi non ci sentiremo l’animo di arrivare a tanto, dobbiamo nondimeno studiarci ancor noi di imitarla e praticarla quanto più ci è possibile.

III. — E a tal fine, o carissimi, ci gioveranno assai efficacemente questi tre mezzi. Il primo: Combattere la causa principale dei risentimenti della collera, vale a dire l’orgoglio. E non è forse per l’orgoglio, per la falsa stima, che abbiamo di noi, che tanto facilmente alla più piccola contrarietà, alla più leggiera ingiuria altamente ci offendiamo, e montiamo in ira, e fomentiamo odi e rancori? Se adunque vogliamo impedire in noi le vampe della collera, gettiamo acqua sul fuoco della superbia, e quest’acqua salutare sia la considerazione frequente del nostro nulla, anzi il riconoscimento sincero della nostra miseria e della nostra colpevolezza al cospetto di Dio. Così facevano gli stessi Santi, i quali, benché facessero una vita esemplare e così differente dalla nostra, pure si chiamavano e si riconoscevano, non per esagerazione, ma con vero sentimento, miseri peccatori, epperò degni di ogni insulto e cattivo trattamento. E con tali sentimenti nell’animo un S. Francesco di Assisi, un S. Ignazio di Loyola, un S. Francesco Borgia, un S. Pasquale Baylon, un S. Giovanni della Croce, una S. Teresa di Gesù, una S. Maddalena de’ Pazzi, un S. Benedetto Giuseppe Labre, e mille e mille altri, emuli degli Apostoli, che se ne andavano gaudenti dal cospetto del Concilio di Gerusalemme, perché ivi erano stati fatti degni di patire disprezzi per il nome di Gesù, non solo sopportavano in pace gli insulti, che talora venivano fatti loro casualmente, ma con ammirabile eroismo ne andavano ancora essi medesimi in cerca, e secondo l’ammaestramento di Gesù Cristo si stimavano beati, se venivano ad essere maledetti e crudelmente perseguitati. Tant’è: chi si umilia a conoscersi sinceramente misero peccatore non può far a meno di esercitare la mansuetudine. E qua! reo vi è mai, che condannato per i suoi delittti a morire sopra d’un palco infame, non cambierebbe tanta ignominia con l’affronto di una guanciata per mano di un suo nemico! E così qual Cristiano vi sarà mai che considerando di essere per i suoi peccati meritevole di morte eterna, e degno di essere tormentato per sempre dai demoni dell’inferno, non si umili ad accettare una parola offensiva, un fatto oltraggioso, e ben anche una persecuzione maligna? Nessuno, risponde S. Bernardo, perché dalla cognizione delle proprie colpe e dal dispiacere delle medesime ne risulterà una mansuetudine ammirabile, anzi una magnanimità, che non si sbigottirà neppure pel ruggito di fiero leone. – Il secondo mezzo sarà: Ricordare sovente, e quanto più è possibile nel momento stesso, in cui l’animo sta per risentirsi, l’esempio di nostro Signor Gesù Cristo. Diceva S. Giovanni Crisostomo, che per placare un cuore, benché mille volte sdegnato, basterebbe tener innanzi agli occhi gli esempi di mansuetudine, che ci diede il santo re Davide. Ora se, al dire di tanto dottore, l’esempio di mansuetudine di un uomo simile a noi, e che tollerò delle ingiurie, ma non per noi, può bastare a spegnere nel nostro animo la fiamma dello sdegno, quale forza non dovrà avere l’esempio del Re del cielo, che sopportò con indicibile mansuetudine tanti affronti, e li sopportò per nostro amore? E vi sarà un cuore sì aspro e sì crudo che vedendo il Cuore di Gesù Cristo così quieto e sereno tra mille ingiurie, tra mille scherni, tra mille battiture, tra mille vergognosissimi obbrobrii, non si mansuefaccia e non deponga tosto ogni iracondia? Oh! non ha bastato talora il solo suo nome a calmare gli sdegni più accesi, a togliere gli odi più profondi? È il Venerdì Santo, e al di là degli spaldi della vaga Firenze batte la campagna un cavaliere. La fronte corrugata rivela un feroce pensiero, una impresa di sangue. Gli hanno ucciso i l fratello e non gli pare goder pace, fino a che nel sangue dell’uccisore non avrà lavato l’onta patita d alla famiglia. Ma ecco, ad uno svolto di strada, ecco dinanzi il ricercato nemico solo ed inerme. A tale vista la mano del guerriero corre al pomo della spada, gli occhi scintillano come quei della tigre, manda un ruggito di gioia, già levato il ferro deliba tutta la voluttà della vendetta, che farà il misero, che gli sta dinnanzi! È l’ora solenne, che segna la morte di Gesù, di quel Gesù, che moriva perdonando ai suoi nemici. E il misero si butta in ginocchio e a nome di Gesù chiede perdono. Miei cari! Il nome di Gesù Crocifisso opera un magico incanto. La passione dell’odio è cangiata d’un tratto nella passione dell’amore. Il cavaliere con le lagrime agli occhi perdona e stringe al seno il suo nemico: quindi appende all’altare del Crocifisso la spada della vendetta e, vestita la tonaca, Giov. Gualberto si fa santo. Finalmente, o carissimi, perché nel dominare noi stessi si tratta, non lo nego, di cosa assai ardua, a cui non potremmo giungere con le nostre deboli forze, imploriamo sovente con la preghiera l’aiuto dello stesso Sacratissimo Cuore di Gesù. Quando gli Apostoli nel traversare su fragile nave il mare di Galilea, sollevatasi una gran tempesta, correvano pericolo di affogare, ricorsero tosto a Gesù Cristo, gridando: Ah Signore, salvaci, che periamo. E Gesù si levò e comandò al vento di cessare e si fece tranquillità grande. Così farà con noi il Sacratissimo Cuore, se in mezzo alle tempeste della collera, che possono assalire il cuor nostro, ci volgeremo, fidenti a Lui per aiuto. Egli, che altro non desidera se non che il cuor nostro si faccia simile al suo, ci sarà largo della sua grazia, ed a poco a poco riusciremo ancor noi ad avere mai sempre nell’anima nostra una grande tranquillità. – Animo adunque, o miei cari: nella imitazione della mansuetudine del Cuore di Gesù, ricaveremo un triplice vantaggio. Gesù Cristo ha detto: «Beati i mansueti, perché essi possederanno la terra; » (MATT. V, 4) e così sarà realmente. Nella mansuetudine noi possederemo anzi tutto la terra dei nostri cuori, divenendo veri padroni di noi medesimi, della nostra passione, in quelle stesse circostanze, in cui ciò torna più difficile. In secondo luogo possederemo la terra dei cuori altrui, giacché è con la mansuetudine che con tutta facilità indurremo gli altri alla pratica del bene. Voi, io, noi siamo tali che la durezza, il rigore, la forza ci rompe, ma non ci piega. Ma invece ben presto siamo guadagnati dalla bontà e dalla mansuetudine. Ora quello che accade in noi da parte degli altri, sarà quello che avverrà negli altri da parte nostra. Sì, con la dolcezza, più che non con le prediche, e peggio ancora con le invettive, voi, o mogli guadagnerete al bene i vostri mariti, voi, o genitori, i vostri figli, voi, o superiori, i vostri sudditi, voi, o maestri, i vostri discepoli, voi, o amici, i vostri amici. E finalmente nella mansuetudine possederemo la terra che non è terra, vale a dire la terra di suprema conquista, di eterna promissione, la terra del cielo: Beati mites, quondam ipsi possidebunt terram. Prostrati intanto dinanzi al Cuore di Gesù diciamogli con tutto l’affetto: O Cuore mansuetissimo di Gesù, noi riconosciamo di essere privi pur troppo del vero spirito di mansuetudine. Pei difetti nostri abbiam sempre in pronto le scuse e pretendiamo il compatimento, ma per i difetti altrui non abbiamo che insofferenza e sdegno. Epperò di quanti risentimenti, di quante maldicenze, di quante collere, di quante imprudenze, di quanti atti di superbia, di quanti desideri di vendetta ci sentiamo rei! Deh! Fateci parte della vostra mansuetudine inesauribile, o Cuore divino, affinché reprimiamo e vinciamo noi stessi; calmate mai sempre l’anima nostra, quando la vedete ottenebrata e sconvolta dall’ira; dateci forza di sopportar tutti, di tutti compatire, di tutti amare, anche coloro che ci contraddicono e ci disprezzano, onde con la dolcezza del cuor nostro possiamo meritarci, secondo che voi avete promesso, la vostra grande ed eterna mercede.

LA GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (28): GNOSI E GIANSENISMO (III)

LA GNOSI, TEOLOGIA DI SATANA (28):

GNOSI E GIANSENISMO … e il funesto PASCAL!

(III)

[Elaborato da E. COUVERT: Lecture e tradition, n. 227-228, Gen.-Feb. 1996]

In Filosofia: Platone, Sant’Agostino e Cartesio.

È a Poitiers che nel 1620 Jansenius ha incontrato Cartesio: egli aveva scritto in quell’anno al suo amico Saint-Cyran, che era deciso a “non fare l’asino per tutta la vita”, cioè a rimuginare i manuali dei maestri universitari nel momento stesso in cui Cartesio, in questa stessa città, aveva risvegliato la rivoluzione intellettuale che doveva segnare una rottura definitiva con il passato. In questa guerra accanita che i giansenisti avevano intrapreso contro gli Scolastici, ricevettero l’appoggio costante dei sacerdoti dell’Oratorio. Il Cardinale De Bérulle era uno spirito falso, impregnato di gnosi che diffondeva sotto l’apparenza di un misticismo che si voleva conformare alla fede cristiana, ma caratterizzata, ci dice L. Cognet, nei suoi “Origini della spiritualità francese del XVII secolo”, essenzialmente “ … dal desiderio di mettere l’anima in rapporto con l’essenza divina direttamente e senza intermediari, con una unione non concettuale ed in particolare oltrepassando l’umanità di Cristo per trovare Dio solo Creatore. Generalmente, essa si traduceva più o meno in una mistica di annientamento.” Bérulle impiega delle espressioni perfettamente gnostiche: “… L’uomo è sempre emanante da Dio, e non ha sostanza che in questa emanazione continua e perpetua, senza avere alcuna consistenza fuori da questa emanazione sempre presente”. “… le creature, aggiunge, possiedono una sorta di essere spirituale e divino in cui Dio le conosce da tutta l’eternità e non le ha create che per richiamarle a questo mondo divino di esistenza che hanno avuto nel proprio pensiero, vale a dire nel suo Verbo. Il mistero della nostra divinizzazione si presenta sotto forma di un ritorno a questo essere ideale e divino.” – “ … La natura divina può essere detta la nostra prima natura e come l’essenza della nostra essenza” (“Opuscoli di pietà”, passim). Si riconoscono in tutte queste espressioni platoniche, le formule classiche degli gnostici sull’emanazione, il ritorno all’unità primordiale; la natura divina della nostra essenza, etc. Bérulle era stato amico di Saint-Cyran, che lo venerava come un maestro e che partecipò alla redazione dei “Discorsi delle grandezze di Gesù”. – Questa collaborazione intellettuale e spirituale tra giansenisti e oratoriani proseguì con tenace continuità per due secoli. Saumur e Angers furono in quest’epoca un vero focolaio di agitazione giansenista. Gli Oratoriani avevano due stabili nella città; il “Collegio reale dei Cattolici”, era vicino a N. D. des Ardilliers, loro casa di teologia ove venivano i confratelli dell’Istituzione di Parigi, di fianco si trovava un’accademia protestante, una specie di facoltà di filosofia e di teologia che attirava gli studenti soprattutto dall’Olanda. La Maison des Ardilliers attirava i protestanti di  questa accademia. Il P. Thomassin vi insegnava con gran magnificenza le fonti cristiane, i Padri (… soprattutto Sant’Agostino) e mostrava un disprezzo  molto pronunciato per la Teologia Scolastica con gli incoraggiamenti del Vescovo di Angers, Henri Arnauld, fratello di Antoine, uno dei quattro Vescovi che sostenevano l’opera di Giansenio. – A Saumur, il successore, a partire dal 1670, del P. Thomassin è il P. André Martin, che sostiene sulla grazia, le tesi gianseniste. Una lettera sigillata del Re, nel 1674, gli ordina di interrompere il suo insegnamento e di lasciare la città. Il P. Lamy, che insegna al collegio cattolico deve promettere di non insegnare più Cartesio dal 1673. Nominato al Collegio di Anjou, il P. Lamy è impegnato in una viva lotta a favore del cartesianesimo. L’ordine del Re del 30 settembre 1675 gli proibisce di insegnare “i sentimenti di Cartesio”. – Il P. Lamy fa sempre riferimento a Sant’Agostino: “.. Gli scritti di Sant’Agostino saranno sempre la consolazione di tutti coloro per i quali, la conoscenza della verità, è una meta deliziosa”, scrive nei suoi “Entretiens sur les Sciences”. Queste vive luci che brillano nelle opere di Sant’Agostino, illumineranno sempre la Chiesa e dissiperanno le tenebre che il padre della menzogna tenterà di diffondere negli spiriti degli uomini. Come fece Dio con la sua Provvidenza, quando Mosè e Daniele destinati a condurre il suo popolo, furono istruiti dai più abili filosofi e dai matematici più sapienti della terra; allo stesso modo Egli conduceva Agostino di maniera che, nel tempo in cui non pensava a Dio, studiò il platonismo che lo resero capace di comprendere e gustare le cose spirituali e gli dettero questa elevazione di spirito che gli è peculiare e che lo fece considerare come l’Aquila dei teologi”. – L’espressione “Aquila dei teologi” viene da Bérulle.  – Questo stesso padre Lamy, in “Discorsi sulla filosofia” del 1694, mette in ordine le sue idee sulla filosofia: 1°) Si è convinti al presente che sia necessario essere un buon matematico per essere un buon filosofo. (… al presente, cioè dopo Cartesio). 2°) … Tra i filosofi pagani Platone deve essere messo a parte. Egli si applica alle scienze astratte, come la geometria, ciò che lo ritirerà dalle cose sensibili e lo rese capace di considerare le cose spirituali”. Ecco perché si vedono in lui “le cose che si avvicinano fortemente alla nostra religione”, che riguardano Dio, l’immortalità dell’anima, la sua spiritualità, la morale. 3° ) “… Questi meriti pertanto non appariranno con un tal rilievo se comparati con i restanti pagani, particolarmente Aristotele. I santi Padri hanno considerato Aristotele come molto dannoso per la Religione Cristiana. … essi lo hanno accusato di credere l’anima mortale. Egli non ha conosciuto la creazione del mondo … – … ignorando i rapporti dell’uomo con il suo Creatore, la sua “morale è pericolosa per non dire empia … è spiacevole che una tal filosofia sia insegnata nelle scuole cristiane”. – Si osservi qui la guerra instancabile condotta congiuntamente dagli Oratoriani ed i giansenisti contro la Scolastica che si basa essenzialmente su Aristotele. – Nel 1721, il rettore dell’Università di Angers, M. C. G. Poquet, in un rapporto sulle tesi presentate dai professori oratoriani di Angers, si stupisce di trovarvi esposte assiduamente “… opinioni di Cartesio, di Baio, e di Giansenio, benché le propongano sotto il nome dei Padri della Chiesa e degli antichi filosofi. Essi credevano di abbagliare il popolo con margini pieni di citazioni di Sant’Agostino, cosa che era l’ultima assurdità”. Il nostro buon rettore, con il suo naturale stupore, intravede bene il processo disonesto di questi professori: far passare l’eresia attraverso il canale dell’insegnamento dei Padri della Chiesa e soprattutto di Sant’Agostino. Questo ci riconduce al progetto di Bourg-Fontaine. – Noi sappiamo da Jurieu, nel 1861, che “i teologi di Port-Royal avevano tanto attaccamento sia al cartesianesimo che al Cristianesimo”. Nel 1690, nel “Viaggio del mondo di M. Descartes”, un gesuita, il p. Daniel affermava: “ … Si vedono pochi giansenisti che non siano nel contempo cartesiani”, e Richard Simon affermava nel 1682: “ … Le persone di Port-Royal che sono in ogni cosa agli antipodi dei Gesuiti, ed hanno preso fortemente le parti di Cartesio”, aggiungendo: “ … e in effetti, questa filosofia si accomoda bene meglio con i buoni sentimenti che con quelli della Scuola”. – Jean Laporte scrive: “ … Noi vediamo Arnauld, istruito o piuttosto orientato da Saint-Cyran, dedicarsi nella lettura di Sant’Agostino per diversi anni (1635-1639) prima dell’apparizione dell’Augustinus, e per la maggior parte sulle opinioni riguardanti la corruzione originale, la grazia efficace la predestinazione gratuita, la morale rilassata, l’amministrazione dei Sacramenti e la costituzione della Chiesa, per i quali lotterà in tutta la sua vita, con i Solitari ed i Religiosi. – I giansenisti diffusero ancora la loro nuova filosofia nei circoli mondani dell’Hotel Liancourt, a Parigi. Il duca di Liancourt provocò la querelle del giansenismo all’apparizione del libro “L’Augustinus”. Nel 1655, il curato di San Sulpizio, gli rifiutò l’assoluzione a causa delle sue relazioni con Port-Royal. Il duca molto adirato, si appellò alla Sorbona. Ma i teologi consultati diedero ragione al curato di San Sulpizio. Il duca di de Liancourt, organizzava, nel suo hotel particolare, delle riunioni in cui si dissertava di letteratura, di scienze, di metafisica, di teologia. Naturalmente ci si appassionava alla nuova filosofia, quella di Cartesio. Nicole ed Arnauld vi partecipavano regolarmente.  Il p. Lamy vi veniva spesso. Là, nell’abbandono di una conversazione familiare, essi si esprimevano più liberamente che nei testi scritti. Là, Antoine Arnauld vantava Cartesio, dicendo che le “… bestie non hanno l’anima”, che “… mai da un piccola risorsa si farà nascere coscienza di sé, etc. – L’alleanza del giansenismo con il cartesianesimo si trova ancora al castello di Commercy, ove il cardinale du Retz è condannato a vivere in esilio dopo le sue dimissioni da Arcivescovo di Parigi. Egli vi aveva costituito un corso per persone istruite, agostiniane e cartesiane, che avevano messo in parallelo e confuso i due sistemi. Essi avevano una predilezione per la filosofia di Platone, una volontà di interiorità che consiste nel ridurre la religione ad un contatto dell’uomo solo davanti al dramma del suo destino ed a sopprimere l’edificio ecclesiastico e gerarchico … ugualmente una concezione identica del libero arbitrio, rigettato dagli uni e dagli altri. Tutto è condizionato, dice Cartesio, dal determinismo della ragione, e tutto è condizionato, secondo i giansenisti, dalla determinazione della Grazia. – Infine, occorre ugualmente segnalare la tradizione benedettina rinnovata dalla riforma di Saint-Vanne, in cui la reazione antiscolastica fu molto violenta. Nei suoi “Pensieri cristiani”, dom Laurent Bénerd, nel 1616, raccomanda già di “non prendere delle astrazioni quintessenziate di una scolastica, delle arguzie e sofismi di una dialettica, se non quanto sia necessario per ben intendere i fondamenti e la sostanza di una teologia in filosofia”. Dom Robert Desgabets scriveva: “La nostra congregazione ha sempre un po’ di inclinazione sulle questioni di pura scolastica …”  Rientrato in Lorena nel 1650, egli proseguì il suo insegnamento sempre più nutrito di Cartesio “… che è, diceva, il dottore infallibile che Dio ha riempito dei suoi lumi, per il gran bene del mondo e della Chiesa.” Così portava il suo giansenismo al “metodo geometrico”, e nello stesso tempo alla vera ed antica teologia che si ricava dalla Scrittura e dalla Tradizione e soprattutto dalle opere di Sant’Agostino” (in “Lettera indirizzata ai religiosi della sua congregazione”). – Dom Thierry de Viaixne, monaco di Saint-Vanne, era fuggito ad Amsterdam, con P. Quesnel, oratoriano, dal 1685 ed Antoine Arnauld. Egli scriveva allora al capitolo generale dei benedettini di Saint-Vanne, riuniti a Saint-Michel, in Lorena: “Io lo dico arditamente, ed oso dirlo anche da parte di Dio che, soprattutto dopo la Bolla “Vineam Domini” e “Unigenitus”, è abiurare la Fede cattolica ed abbracciare il molinismo o piuttosto il Pelagianesimo (Si sa che è un tic comune a tutti i nemici della Scolastica tomistica denunciare quest’ultima come un ritorno al Pelagianesimo), firmare il formulario puramente e semplicemente … Se per la più grande sventura del mondo, egli dice, la bolla Unigenitus ed il formulario di Alessandro VII non fossero mai ricevuti o piuttosto non fossero sempre aborriti nella congregazione, questo corpo gangrenato, sarebbe ben presto abbandonato da Dio … i monasteri ridiverrebbero dei laghi corrotti che non darebbero che fango e putridume …”. – Questo odio della Scolastica che i giansenisti hanno diffuso in Francia è la principale ragion d’essere dei loro attacchi accaniti contri i Gesuiti nel loro insegnamento. Questi, in effetti, hanno conservato fedelmente il pensiero del loro fondatore, Sant’Ignazio, che faceva loro dovere il conformare il loro insegnamento alla filosofia di San Tommaso d’Aquino, perché  … egli aveva rinchiuso gli errori dei novatori in formule sì strette e precise, che non lasciavano spazio a sottigliezze né ad alcun mezzo per sfuggire alla cattiva fede. I novatori preferiscono ricorrere alla sola Scrittura che si presta facilmente ad interpretazioni erronee ed ai Padri della Chiesa, soprattutto a Sant’Agostino, a condizione di spiegarli alla loro maniera ed addomesticarli al loro proprio senso.

Il “FUNESTO” PASCAL

L’Università moderna ha privilegiato, nel suo insegnamento, i “Pensieri” di B. Pascal. Quest’uomo occupa da più di due secoli un posto preponderante e quasi esclusivo negli spiriti moderni, dato che lo si ritiene un “soggetto religioso”. Molti dei suoi “Pensieri” sono diventate massime ed adagi che si citano a proposito, e soprattutto a sproposito. I critici letterari si sono ingegnati a darne dei commentari pieni di ammirazione e rispettosi, ma si sono ben guardati dal rilevarne i terribile equivoci e le ambiguità che celano in seno. Alcuni tra loro hanno tuttavia rilevato certe difficoltà di interpretazione; ma anche in questo caso essi non hanno potuto trovare la chiave di interpretazione che avrebbe permesso facilmente di dimostrarne la malafede. Si può dire che questa moda di Pascal è il frutto di un accecamento colpevole da parte delle autorità morali e religiose che avrebbero dovuto energicamente condannare la loro eterodossia (i cani muti di Isaia?). – Un critico dell’ultimo secolo, M. Havet, nei suoi “Studi sui pensieri di Pascal” aveva notato: “Lo spirito di Pascal ha iniziato a produrre le rovine nello spirito del diciottesimo secolo e del nostro a seguire, rovine per eloquenza all’esterno, rovine per la filosofia all’interno. L’azione distruttiva delle sue idee si continua dopo di lui e va ben al di là delle idee stesse …”. Ora, se prendiamo la briga di osservare per bene le principali affermazioni di Pascal sulla religione, noi ci ritroveremo ancora in un “paese di nostra conoscenza”. In effetti non è possibile rigettare la Filosofia Scolastica e specialmente quella di San Tommaso d’Aquino, senza ricadere necessariamente nelle fogne gnostiche. Lo spirito umano non può sfuggire alle trappole della Gnosi se non si è assimilato il realismo della filosofia tomista. “… Umiliati, ragione impotente, taci, natura imbecille, sappi che l’uomo oltrepassa infinitamente l’uomo, che le sue miserie sono le miserie del re spodestato, che si è perso, è caduto dal suo posto, che egli cerca con inquietudine, che non può più ritrovare…” – “… Se l’uomo non fosse stato mai corrotto, non avrebbe alcuna idea della verità, né della beatitudine. Noi siamo incapaci di non desiderare la verità e la felicità e siamo incapaci di certezze, di felicità … questo desiderio ci è lasciato, tanto per punirci e per farci sentire da dove siamo caduti!” … “La natura è tale che demarca un Dio disperso dappertutto, e nell’uomo e fuori dall’uomo ed una natura corrotta.” – “… La nostra anima è gettata nel corpo, ella vi trova numero, tempo, dimensione …” – “… Far comprendere all’uomo che mostro strano egli sia…”. Sono, tutte queste, un ammasso di affermazioni categoriche, false per mancanza di misura, di precisione, e noi ritroviamo, ohibò, i grandi temi della gnosi: l’uomo era un sacerdote divino, poiché oltrepassava infinitamente l’uomo. Egli si era ridotto a perdere il suo carattere divino in seguito alla caduta e ad una corruzione, ma conserva una oscura reminiscenza di un paradiso perduto. … L’anima, gettata in un corpo è come prigioniera di un carapace materiale di cui deve sbarazzarsi.” – È nella reminiscenza platonica e nella preesistenza delle anime che, senza immagine, si può dire che l’uomo è “un dio caduto che si ricorda dei cieli”, secondo la formula conosciuta di Lamartine. … ma tutto ciò è una cascata di sofismi. Noi non abbiamo il ricordo di una passata grandezza perduta, e dunque tutte queste affermazioni di Pascal non sono che vane illusioni. Dare all’uomo queste illusioni di una caduta fuori dal mondo divino, dirgli che è un incapace sia di bene, che di verità, che di felicità, è votarlo alla disperazione ed al suicidio. Tutte queste formule si pretendono profonde e misteriose: sono al contrario perfettamente erronee ed indegne di un filosofo cristiano mentalmente sano. – Charles Maurras si è levato con forza contro questo rimuginio sprezzante della ragione umana: “ … Per il lettore dei “Pensieri” che si è fidato di Pascal, la ragione non è più una facoltà umana, che il peccato originale ha potuto colpire e ferire. Non è neanche una morte, né una cenere. È più che una morte, è un oggetto di scherno …”. La via pascaliana rappresentava per lui “… una sorta di disperazione e come un rassegnare le dimissioni, che lo spodesta sostanzialmente da ciò che egli sente di meglio nella sua ragion di vivere e di essere: l’amore del vero.” – Dopo aver reso “imbecille” la ragione, Pascal voleva sostituirla con l’autorità della testimonianza e Charles Maurras denunciava questa pessima manovra essenziale di questo spirito più passionale che profondo. E “… siccome egli sa, aggiunge, che la testimonianza non può cavarsela senza l’aiuto della ragione, Pascal l’aggiunge così, per quanto può, in grosso ed al dettaglio, alla nostra povera umanità  sprecata.” Così, quando si fa il punto morto sulla ragione umana, non resta più che un fideismo irrazionale ed assurdo: “Non solo noi non conosciamo Dio se non per mezzo di Gesù-Cristo, ma noi non conosciamo bemmeno noi stessi se non per mezzo di Gesù-Cristo”. E Pascal aggiunge: “… fuori da Gesù-Cristo noi non sappiamo né ciò che è la nostra vita, né la nostra morte, né Dio, né noi stessi. Così senza scrittura, che non ha se non Gesù-Cristo per oggetto, noi non conosciamo nulla se non vedendo oscurità e confusione nella natura di Dio e nella propria natura. Io intendo nella nostra natura propria”. Essendo la ragione annichilita, gli uomini privi della rivelazione sono dunque condannati all’infelicità eterna. E Pascal continua, nella perfetta logica del suo assurdo sistema: “… Tutto volge al bene per gli eletti, finanche le oscurità della Scrittura, perché essi la onorano a causa delle illuminazioni divine. E tutto volge al male per gli altri, finanche l’illuminazione, perché essi le blasfemizzano a causa delle oscurità che essi non intendono. Ci sono dunque delle oscurità nella Scrittura ed allora il povero umano, privo di ogni criterio razionale, è condannato a vivere nell’errore o nell’ignoranza se non ha ricevuto una illuminazione divina, e dunque, non si intende nulla delle opere di Dio, se non si prende per principio che … Egli ha voluto accecare gli uni ed illuminare gli altri.” – Conclusione necessaria;: se la rivelazione divina è proposta ad un uomo privo di intelligenza e di libero arbitrio, questi non può conformarvi la sua ragione e la sua volontà. Ecco l’uomo radicalmente inadatto ad ogni relazione intima con Dio. La fede diventa un atto assurdo, senza ragion d’essere, super imposta ad un essere passivo e diventato “un blocco di legno o di pietra”, secondo la formula di Lutero. – A questa ragione impotente, Pascal sostituisce ciò che egli chiama le ragioni del cuore. “… Alle verità della fede, bisogna aprire, ci dice, le porte della volontà, bisogna che esse entrino dal cuore nello spirito e non dallo spirito al cuore”, “ … perché, ancora dice, tutto ciò che l’uomo ha, viene sempre condotto a credere non con la prova, ma con la gradevolezza!” L’apologista dunque deve mostrarci non che queste verità siano vere, ma che siano amabili e crederemo subito: “… perché le cose sono vere o false, secondo l’angolazione dalla quale le si vedono”. La volontà, che spiace ad uno piuttosto che all’altro, allontana lo spirito dal considerare le qualità di quelle che non ama vedere e, camminando all’unisono lo spirito con la volontà, si arresta a guardare l’aspetto che gli piace e ne giudica per quel che ne vede.” Come ripetono tutti i pascalisti: “Non si crede bene, se non ciò che non si ama credere”. – Ma che cumulo di sofismi! Le cose sono vere in se stesse! Allontanare lo spirito dal considerare le qualità delle cose che non si amano, è manifestare esattamente che le si sono viste, queste qualità, e dunque che necessariamente le si conoscono. Fermarsi a guardare una faccia e non l’altra, è riconoscere che si è vista pure l’altra faccia, è un mettersi volontariamente le mani sulla faccia per far sembrare di non riconoscerle. È mentire a se stesso… ma la verità rigettata, perché importuna e fastidiosa, resta sempre là, presente allo spirito. – Il cuore ha forse le sue ragioni, ma la ragione le conosce molto bene. La prova non è dimostrativa, ci si dice, se non si è disposti a riceverla. Eh! No! La nostra intelligenza è, per natura, disposta a ricevere una prova. Se essa brilla, il nostro spirito ne sarà abbagliato. Quando si sarà deciso di non guardare più dal lato della luce, di pensare ad altra cosa, ciò facendo, resta guidato dalla ragione che ha dapprima mostrato ove conduce questa luce. “Perché, spiega il P. Mersenne, alla fine dei conti, se non seguiamo i nostri sensi e la ragione, noi siamo incapaci di religione. Ed egli insiste: “ … Infatti, perché non seguiamo piuttosto la Religione Cristiana che la maomettana, se non perché la giudichiamo più ragionevole e vera? … Occorre dunque usare la ragione per abbracciare una religione: quando la ragione ci detterà che non è più ragionevole seguire la turca, bisogna che l’abbandoniamo anche se la ragione ci dice che non c’è apparenza che Dio voglia che tutti siano salvi: bisogna che noi non seguiamo questa opinione.” Il P. Marsenne risponde così in anticipo ai sofismi di Pascal. In una lettera del 22 novembre 1642, al suo amico Rivet, egli si dichiara d’accordo con il P. Pétau che, nella sua teologia positiva in cui tratta del libero arbitrio, “rifiuto Giansenio e forse anche Sant’Agostino, perché è difficile rifiutare l’uno senza l’altro.”  – Il nostro spirito non si applica alle cose e si sforza di trovare in esse ciò che contengono di stabile, di universale e di permanente per attaccarvisi e restare fermo nella verità. Ciò che Pascal designa con il nome di “cuore” è certamente ciò che il nostro spirito incontra nelle cose, prima di penetrarne il senso profondo, la loro faccia esteriore, sensibile, cangiante, piacevole o sgradevole, dunque fluente ed incerta. Costruire la fede sul “cuore”, secondo la moda di Pascal, non è altro che costruire sulla sabbia. Esso non resisterà mai per lungo tempo alle fluttuazioni della sensibilità ed alle fantasie stravaganti dell’immaginazione. Di tal sorta che la religiosità sentimentale oscilla costantemente tra la superstizione e l’indifferenza. Sarà necessaria sempre una eccitazione esteriore destinata a rianimarne la fiamma vacillante. – Le sette sono là a proporci questo adiuvante necessario ad una religione così debole. – Effettivamente, i giansenisti si sono costituiti, come tutte le sette, come una vegetazione parassitaria della Religione Cattolica. Essi hanno annunciato: Elia sta per tornare … egli ristabilirà ogni cosa, “restituit omnia”. La loro profetessa, dal cimitero di Saint-Médard aveva designato come reincarnazione di Elia, la persona di un sacerdote, M. Vaillant, figlio di un locandiere di Troyes. Il grande oggetto delle predizioni è il ritorno prossimo dei giudei, la venuta di Elia, preceduto da un’eclisse di sole che durerà due ore e cinque minuti. Ci sarà l’apparizione di un arcobaleno, di una grande stella in pieno giorno e la venuta di Angeli intorno al sole e ala luna. Non vi ricorda nulla tutto ciò? L’ultima di tutte le sette, è la New Age, la setta ignobile dell’arcobaleno. Nella misura in cui il pensiero religioso moderno ha seguito i sofismi di Pascal, essa ha preparato generazioni dallo spirito debole ed aperte senza difesa ai guru delle sette.  – Ma il compendio e la sintesi di tutte le sette, è la setta del Novus Ordo, la “Spelunca latronis” insediata nella Sede Apostolica, evento che aveva fatto inorridire, restare muto perdendo i sensi, Papa Leone XIII, in quale, in visione estatica, poté osservare il demonio ed i suoi adepti impossessarsi della Cattedra di Pietro. Il Novus Ordo non è una semplice setta, o l’ultima setta, no! Essa è la “sintesi di tutte le sette”, direttamente guidata da lucifero tramite il suo vicario ed il sub-vicario. Il giansenismo è stato uno degli ultimi anelli di questa lunga catena di eresie e di scismi, con cui fin dall’eden, attraverso la gnosi in tutti i tempi, su tutta la superficie della terra, lucifero con i suoi adepti, ha cercato di avvolgere le anime sante riscattate da Gesù-Cristo, catturarle e condurle con sé alla eterna perdizione.  – A proposito ancora della setta del Novus Ordo, la sintesi di tutte le sette, notiamo come tutte le aberrazioni concepite ai tempi del Giansenismo, e allora faticosamente bloccate dai Gesuiti, dai Papi custodi del Deposito della Fede, e da chierici fedeli alla Chiesa Cattolica Romana, sono tutte confluite nella sacrilega liturgia modernista, che anzi è andata ben al di là delle già allucinate proposte novatrici dei giansenisti e finanche della liturgia gnostica più becera e blasfema. Basti pensare alle formule travisate della transustansazione, all’introduzione delle lingue profane in luogo del latino, al Canone storpiato e recitato a voce alta insieme agli astanti in coro, alla partecipazione delle donne al servizio liturgico, alle Particole dispensate ed afferrate da mani sacrileghe ed indegne, dalle musiche ritmate, dissonanti e dissacranti, e …  il “non plus ultra”, l’offerta del Sacrificio dell’Agnello fatta al falso “signore dell’universo”, il baphomet-lucifero adorato nelle logge massoniche, abominio della desolazione a perdizione delle anime dei battezzati. Ed a proposito degli “eletti manichei, non possiamo dimenticare l’“asso nella manica” per distruggere la Gerarchia Cattolica: la formula sacrilega e blasfema della non-consacrazione dei Vescovi del 18 giugno del 1968 che, come recita la stessa, crea degli “eletti”, nel senso gnostico, ed invalida ogni consacrazione, prima di falsi vescovi, e di conseguenza, di falsi sacerdoti non consacrati dai non-vescovi. – Anche Giansenio, Calvino, Lutero, Soncino, Weishaut e grembiulinati vari,  sarebbero restati perplessi nel constatare i “brillanti” risultati delle loro ribellioni a Dio ed alla Chiesa di Cristo (… dai frutti li riconoscerete, ci dice il divino Maestro).  Ma i loro sforzi saranno serviti solo a rendere più eclatante la potenza di Dio e la vittoria finale del suo Cristo, che si ride da tempo di loro, perché vede arrivare già il loro giorno … Dominus autem irridebit eum, quoniam prospicit quod veniet dies ejus … Gladius eorum intret in corda ipsorum, et arcus eorum confringatur! E saranno così ricompensati dal loro padrone in eterno.

SAN PIETRO IN VINCOLI

1 Agosto.

S. PIETRO AI VINCOLI

[RACCOLTA di vita dei SANTI, I ed. veneta vol. 7-8; D. Ferrarin ed. 1778]

Nel cap. 12. degli Atti Apostolici è descritta la prigionia, e la liberazione prodigiosa di S. Pietro. S. Gregorio Magno nell’Epistola a Costanza Augusta, ch’è la 30. del lib. 3 . , parla dè miracoli, che si operavano per mezzo delle catene dei Ss. Apostoli Pietro e Paolo. Parimenti il medesimo S. Pontefice in più Epistole, e speciamente  nell’Epistola 6. del lib. 5, nell’Epistola 23. del lib. 6. favella delle chiavi, nelle quali si rinchiudeva della limatura delle catene di S. Pietro, e dei miracoli operati per mezzo di esse.

1. Celebra in questo giorno Santa Chiesa la festa delle catene, con le quali fu avvinto il Principe degli Apostoli San Pietro, tanto in Gerusalemme sotto il Re Erode Agrippa, quanto in Roma sotto l’Imperator Nerone: e intende ancora di rendere al Signore le debite grazie, per essersi degnato di liberare il Capo della sua Chiesa dalle mani del sopraddetto Erode, e de’ Giudei nella maniera prodigiosa che narra S. Luca negli Atti Apostolici.

2. Dice adunque S. Luca, che Erode Agrippa circa l’anno 44 della nostra salute, dopo aver fatto decapitare S. Giacomo Apostolo, come si è detto nel giorno 25 dello scorso mese di Luglio, vedendo recava piacere ai Giudei, nemici capitali di Gesù Cristo, e de’ suoi discepoli, fece arrecare e mettere in prigione anche l’Apostolo S. Pietro, con idea di farlo morire dopo la festa di Pasqua, e lo diede in custodia a più soldati, i quali lo tenevano legato con due catene. I Fedeli intanto porgevano ferventi preghiere al Signore, acciocché soccorresse la sua Chiesa, e liberasse il Santo Apostolo dall’imminente pericolo di perdere la vita. Esaudì il Signore le orazioni dei servi suoi; e la notte precedente al giorno in cui doveva S. Pietro essere giustiziato per ordine di Erode, apparve un Angelo nella prigione, la quale fu riempiuta d’un celeste splendore, e svegliando l’Apostolo, che dormiva legato con due catene fra due soldati, gli disse, che si vestisse, si calzasse, e lo seguisse. Si sciolsero immediatamente le sue catene; onde egli così libero e sciolto seguitò l’Angelo, e passata la prima, e la seconda guardia de’ soldati, giunse alla porta di ferro, la quale si aprì da se medesima; ed essendo così S. Pietro in sicuro, l’Angelo sparve. Allora S. Pietro, il quale credeva, che tutto ciò non fosse se non un fogno ed una visione, conobbe che il Signore Io aveva liberato dalle mani di Erode, e dal furore de’ Giudei. Se ne andò alla cala della madre di Giovanni Marco, dove i Fedeli stavano radunati pregando Iddio per lui; e recò loro la lieta novella della sua miracolosa liberazione; per cui ognuno si può immaginare, quali azioni di grazie essi rendessero al Signore, che aveva esaudite le loro orazioni.

3. Ora queste catene, che avvinsero il beato corpo di S. Pietro in Gerusalemme, insieme con quelle, con cui fu legato in Roma sotto Nerone prima del suo martirio, si conservano nella Chiesa, che fino dal quinto secolo fu per ordine dell’Imperatrice Eudossia fabbricata in Roma sul monte Esquilino, e dedicata in onore di S. Pietro, e delle sue catene, e perciò chiamata S. Pietro né Vincoli. Queste catene, assai più preziose dell’oro, e delle gemme, sono sempre state venerate in modo particolare dalla pietà de’ fedeli; e per mezzo di esse ha il Signore operato isigni miracoli, come riferisce S. Gregorio Magno, che governò la Chiesa sul fine del sesto secolo, e nel principio del settimo. Solevano i Pontefici mandare in dono ai Re e ai Principi della limatura di queste catene, rinchiusa dentro piccole chiavi d’oro e d’ argento, che si portavano al collo, come un pegno della protezione del Principe degli Apostoli; ed il medesimo S. Gregorio mandò una di queste chiavi a Childeberto Re di Francia, e gli scrisse queste parole: Vi mandiamo le chiavi dì S. Pietro, ed in esse la limatura delle sue catene, acciocché portandole al collo, vi difendano da tutti i mali. – Veneriamo noi pure le catene del Santo Apostolo, delle quali, come dice S. Giovanni Grisostomo, egli assai più godeva, e si gloriava, che de’ prodigi, e de’ miracoli, che Iddio operava fino con l’ombra sua; perocché per mezzo di esse dimostrava l’amore sincero e ardente, che portava a Gesù Cristo, e rendeva testimonianza alla verità del Vangelo, che predicava. Quella è la nostra gloria , dice egli stesso nella prima sua Epistola (1 Piet. II; 19-21), questa è la vocazione dei veri seguaci del Salvatore, di essere maltrattati, vilipesi, ed oltraggiati, ed anche privati di vita per la verità e per la giustizia. A questo fine, soggiunge, Cristo ha patito per lasciare a noi l’esempio, acciocché seguitiamo le sue vestigie, e dopo brevi patimenti conseguiamo l’eterna felicità, ch’Egli ci ha meritata e promessa. – Alle volte il Signore , anche in questa vita libera i suoi fervi dalle tribolazioni e persecuzioni, come liberò S. Pietro dalle mani di Erode, e dalla prigione di Gerusalemme; e con ciò dimostra la sua potenza, alla quale tutte le cose sono soggette, e dà a conoscere, che niun male può loro accadere senza la sua volontà. – Altre volte permette, che i suoi servi siano oppressi dalle violenze, ed ingiustizie degli uomini perversi, come avvenne allo steso S. Pietro dopo venti anni in Roma sotto Nerone; e allora glorifica il suo nome, concedendo loro la pazienza, per mezzo della quale conseguiscono l’unico e sommo bene di unirli a Lui in eterno nel Cielo. Qualunque sia la condotta, che a Dio piaccia di tenere verso di noi, siamo sempre rassegnati alla sua volontà, con sicurezza, che tutto ridonderà in vantaggio e profitto delle anime nostre, come ce ne assicura Egli medesimo per bocca del suo Apostolo delle Genti (Rom. VIII, 28).

PETRE, Surge velociter. Et ceciderunt catenæ de manibus ejus …  Con questo augurio al nostro Santo Padre in Vincoli, Gregorio XVIII, preghiamo per lui, senza dimenticare la preghiera per i nostri nemici, i cabalisti-talmudisti, nemici di Dio e di tutti gli uomini. Raccomandiamo per questo la recita del Salmo LXXX:

SALMO LXXX (80)

[1] In finem. Pro torcularibus. Psalmus ipsi Asaph.

[2] Exsultate Deo adjutori nostro, jubilate Deo Jacob.

[3] Sumite psalmum, et date tympanum; psalterium jucundum, cum cithara.

[4] Buccinate in neomenia tuba, in insigni die solemnitatis vestrae;

[5] quia præceptum in Israel est, et judicium Deo Jacob.

[6] Testimonium in Joseph posuit illud, cum exiret de terra Aegypti; linguam quam non noverat audivit.

[7] Divertit ab oneribus dorsum ejus; manus ejus in cophino servierunt.

[8] In tribulatione invocasti me, et liberavi te. Exaudivi te in abscondito tempestatis; probavi te apud aquam contradictionis.

[9] Audi, populus meus, et contestabor te. Israel, si audieris me,

[10] non erit in te deus recens, neque adorabis deum alienum.

[11] Ego enim sum Dominus Deus tuus, qui eduxi te de terra Aegypti. Dilata os tuum, et implebo illud.

[12] Et non audivit populus meus vocem meam, et Israel non intendit mihi.

[13] Et dimisi eos secundum desideria cordis eorum; ibunt in adinventionibus suis.

[14] Si populus meus audisset me, Israel si in viis meis ambulasset,

[15] pro nihilo forsitan inimicos eorum humiliassem, et super tribulantes eos misissem manum meam.

[16] Inimici Domini mentiti sunt ei, et erit tempus eorum in sæcula.

[17] Et cibavit eos ex adipe frumenti, et de petra melle saturavit eos.

CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA CATTOLICA: AGOSTO (2018)

AGOSTO  (2018)

è il mese che la CHIESA dedica al

CUORE IMMACOLATO DELLA B. VERGINE MARIA e all’ASSUNZIONE DELLA B. V. M.

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Fidelibus, quolibet mensis augusti die, si ad honorem immaculati Cordis B . M. V. aliquas preces vel alia pietatis exercitia devote præstiterint, conceditur: Indulgentia quinque annorum semel., – His vero, qui per integrum præfatum mensem eidem exercitio quotidie vacaverint, conceditur [A coloro che nel mese di agosto avranno recitato preghiere o esercitato altro pio esercizio in onore del Cuore Immacolato della B. V. Maria, si concede… ]: Indulgentia plenaria suetis conditionibus (S. C. S. Officii, 13 mart. 1913; S. Pæn. Ap., 2 iun. 1935).

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ATTO DI CONSACRAZIONE

Regina del santissimo Rosario, Ausilio dei Cristiani, rifugio del genere umano, vincitrice di tutte le battaglie di Dio, supplici ci prostriamo al vostro trono, sicuri di impetrare misericordia e di ricevere grazie e opportuno aiuto nelle presenti calamità, non per i nostri meriti, dei quali non presumiamo, ma unicamente per l’immensa bontà del vostro materno Cuore. A Voi, al vostro Cuore Immacolato, in questa ora grave della storia umana, ci affidiamo e ci consacriamo, non solo con tutta la santa Chiesa, corpo mistico del vostro Gesù, che soffre in tante parti e in tanti modi è tribolata e perseguitata, ma anche con tutto il mondo straziato da discordie, agitato dall’odio, vittima della propria iniquità. – Vi commuovano tante rovine materiali e morali, tanti dolori, tante angosce, tante anime torturate, tante in pericolo di perdersi eternamente! – Voi, o Madre di misericordia, impetrateci da Dio la riconciliazione cristiana dei popoli, ed anzitutto otteneteci quelle grazie, che possono in un istante convertire i cuori umani, quelle grazie che preparano e assicurano questa sospirata pacificazione. Regina della pace, pregate per noi e date al mondo la pace nella verità, nella giustizia, nella carità di Cristo. Dategli soprattutto la pace delle anime, affinché nella tranquillità dell’ordine si dilati il regno di Dio. Accordate la vostra protezione agli infedeli e a quanti giacciono nelle ombre della morte; fate che sorga per loro il Sole della verità e possano, insieme con noi, innanzi all’unico Salvatore del mondo ripetere: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà! Ai popoli separati per l’errore o per la discordia, e segnatamente a coloro che professano per Voi singolare devozione, date la pace e riconduceteli all’unico ovile di Cristo, sotto l’unico e vero Pastore [Papa Gregorio XVIII]. Ottenete libertà completa alla Chiesa santa di Dio; difendetela dai suoi nemici; arrestate il diluvio dilagante della immoralità; suscitate nei fedeli l’amore alla purezza, la pratica della vita cristiana e lo zelo apostolico, affinché il popolo di quelli che servono Dio aumenti in meriti e in numero. Finalmente, come al Cuore del vostro Gesù furono consacrati la Chiesa e tutto il genere umano, perché, riponendo in Lui ogni speranza, Egli fosse per loro fonte inesauribile di vittoria e di salvezza; così parimente noi in perpetuo ci consacriamo anche a Voi, al vostro Cuore Immacolato, o Madre nostra e Regina del mondo; affinché il vostro amore e patrocinio affrettino il trionfo del regno di Dio e tutte le genti, pacificate con Dio e tra loro, vi proclamino beata, e con Voi intuonino, da una estremità all’altra della terra, l’eterno «Magnificat» di gloria, amore, riconoscenza al Cuore di Gesù, nel quale solo possono trovare la verità, la vita e la pace (Pio Pp. XII). Indulgentia trium annorum.

Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si consecrationis actus quotidie in integrum mensem devote repetitus fuerit (Pio XII, Rescr. Secret. Status, 17 nov. 1942; exhib. docum., 19 nov. 1942).

QUESTE SONO LE FESTE DEL MESE DI AGOSTO:

1 Agosto S. Petri ad Vincula    Duplex majus *L1*

2 Agosto S. Alfonsi Mariæ de Ligorio Episc. Conf. et Eccles. Doct.    Duplex

3 Agosto De Inventione S. Stephani Protomartyris     Semiduplex *L1* Primo venerdì

4 Agosto S. Dominici Confessóris    Duplex majus Primo sabato

5 Agosto Dominica XI Post Pentecosten II. Augusti    Semiduplex Dominica minor *I* – Mariæ Virginis ad Nives Duplex

6 Agosto In Transfiguratione Domini Nostri Jesu Christi    Duplex II. classis *L1*

7 Agosto S. Cajetani Confessóris    Duplex

8 Agosto Ss. Cyriaci, Largi et Smaragdi Mártyrum    Semiduplex

9 Agosto S. Joannis Mariæ Vianney Confessóris    Duplex

10 Agosto S. Laurentii Martyris    Duplex II. classis *L1*

11 Agosto Ss. Tiburtii et Susannæ Virgin. Mártyrum    Feria

12 Agosto Dominica XII Post Pentecosten III. Augusti    Semiduplex Dominica minor *I*

  1. Claræ Virginis Duplex

13 Agosto Ss. Hippolyti et Cassiani Mártyrum    Feria

14 Agosto In Vigilia Assumptionis B.M.V.    Duplex II. classis *L1*

15 Agosto In Assumptione Beatæ Mariæ Virginis    Duplex I. classis *L1*

16 Agosto S. Joachim Confessóris, Patris B. M. V.    Duplex II. classis.

17 Agosto S. Hyacinthi Confessóris    Duplex

18 Agosto Sanctae Mariae Sabbato    Semiduplex

19 Agosto Dominica XIII Post Pentecosten IV. Augusti    Semiduplex Dominica minor *I* – Joannis Eudes Confessóris Duplex

20 Agosto S. Bernardi Abbatis et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

21 Agosto S. Joannæ Franciscæ Frémiot de Chantal Víduæ    Duplex

22 Agosto Immaculati Cordis Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis

23 Agosto S. Philippi Benitii Confessóris    Duplex

24 Agosto S. Bartholomǽi Apostoli    Duplex II. classis

25 Agosto S. Ludovici Confessóris    Duplex

26 Agosto Dominica XIV Post Pentecosten V. Augusti    Semiduplex Dominica minor

  1. Zephyrini Papæ et Martyris Simplex

27 Agosto S. Josephi Calasanctii Confessóris    Duplex

28 Agosto S. Augustíni Epíscopi et Confessóris et Ecclesiæ Doctoris    Duplex

29 Agosto In Decollatione S. Joannis Baptistæ    Duplex *L1*

30 Agosto S. Rosæ a Sancta Maria Limanæ Virginis    Duplex

31 Agosto S. Raymundi Nonnati Confessóris    Duplex

LA GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (27): GNOSI E GIANSENISMO (II)

LA GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (27):

GNOSI E GIANSENISMO (II)

[Elaborato da È. COUVERT: Lecture e tradition, n. 227-228, Gen.-Feb. 1996]

La dottrina dei Giansenisti.

Rileggiamo la formula di Bourg-Fontaine: “E poiché tra tutti i dottori della Chiesa non ve n’è alcuno che non abbia uno slancio verso S. Agostino, del quale si può meglio abusare di passaggi mal spiegati e di cui neanche i calvinisti si sono serviti… si risolse così di farsi passare come difensori della dottrina di S. Agostino, la cui autorità servisse così da velo alla novità della loro dottrina e all’inganno per sorprendere i deboli di spirito.” – Ecco l’intenzione chiaramente dichiarata dei complici nel progetto di Bourg-Fontaine. Jansen (ius) era morto quando apparve il suo libro “L’AUGUSTINUS” nel 1640; si intendeva allora, con la pubblicazione di questo libro, deviare il pensiero di S. Agostino in direzione di una GNOSI riservata agli ELETTI. – Jansen aveva pure descritto, in una lettera del 5 marzo 1621, il suo progetto all’amico Sain-Cyran: “C’era, egli sosteneva, nel settimo volume dell’opera di S. Agostino; egli era perplesso circa il suo progetto e voleva conferire con il suo amico, non osando farlo con nessun altro: “Io non oso dire a nessuno al mondo ciò che penso, secondo i principi di S. Agostino, di una gran parte delle opinioni di questo tempo e particolarmente di quelle che riguardano la grazia e la predestinazione, per timore di non fare presso Roma, la fine che hanno fatto altri (… si riferiva alla condanna di Bajo), prima che ogni cosa maturi a suo tempo. Io sono disgustato da San Tommaso, dopo aver “succhiato” S. Agostino. Ve ne dirò di più se Dio farà il favore di rivederci un giorno. ..” – Problema evidentemente molto delicato. Come fare ad insegnare, a partire da S. Agostino, una dottrina che egli avrebbe certamente rigettato, se avesse letto l’“Augustinus” di Jansenius? La difficoltà viene dal fatto che S. Agostino stesso, nel suo insegnamento sulla predestinazione, ha variato il suo pensiero tentando poi, poco a poco, di ristabilire la verità cristiana in una questione fortemente spinosa. Se ne è reso conto egli stesso verso la fine della sua vita, quando ha riconosciuto gli errori passati nelle sue “Ritrattazioni”: “… Io non voglio, egli scrive, fare eccezione per le mie ritrattazioni, anche per quelle mie opere che ho scritto quando ancora ero un catecumeno. È vero che avevo già rigettato ogni speranza della terra, ma è vero anche che ero gonfio ancora dell’orgoglio che la letteratura del secolo ispira (sed adhuc sæcularium litterarum inflatus consuetudine scripsi). … Bisogna che io censuri questi libri, perché essi sono ricopiati e letti da molte persone che non ne traggono vantaggio che a condizione che si perdonino le loro colpe o, se non si vuole loro perdonare, a condizione di non attardarsi negli errori che vi si trovano (non tamen inhærætur erratis). … Io prego pertanto coloro che leggono questi libri di non imitarmi nei miei errori, ma nel progresso successivo che, si accorgeranno, facevo allora nella verità, man mano che moltiplicavo i miei scritti”. (non me imitentur erratem, sed in melius proficientem). Ecco una umiltà degna di lode, ma che rende molto difficile la conoscenza del vero pensiero definitivo di un autore. Ecco ciò che ha permesso ugualmente tutte le fantasie interpretative degli eresiarchi nel corso dei secoli. – Il pensiero di S, Agostino sulla predestinazione è stato, già al suo tempo, segno di contraddizione. Dogma fatalista, si accusava, scandaloso, che conduce alla inerzia, alla disperazione. S. Agostino ne aveva ben il sentore. Così nel suo “De corruptione Gratia”, egli tenta di giustificarsi: “… Siccome noi non sappiamo chi siano coloro che non vi appartengono, noi dobbiamo avere nel cuore molta carità nel volere che si salvino tutti”. (Sic offici debemus caritatis affectu, ut omnes velimus salvos fieri). Ecco! La salvezza dei riprovati non dipende dal nostro ben volere !!! .. – Secondo Dom Rottmaner, “… agli occhi di Agostino, in teoria pochi uomini erano predestinati, ma in pratica lo sono tutti … egli sapeva unire la teoria più severa della predestinazione, alla pratica più largamente affettuosa del ministero delle anime” (Der Augustinismus” (1949). Nel “De dono perseverantiæ”, il suo ultimo opuscolo sulla grazia, il Vescovo di Ippona si sforzava ancora di dissipare certi equivoci. Resta il fatto che la sua dottrina sulla predestinazione, è deplorevole, e come dice M. Chêne, “urta violentemente il senso umano”. Ora, attenendosi alle formule, Lutero, Calvino, Giansenio, non fanno che ripetere Sant’Agostino, ma solo a parole. Egli infatti, prima di loro aveva detto che “le virtù dei pagani non son che vizi travestiti”. Egli aveva detto che “… l’uomo usando del libero arbitrio si era perso e aveva d’un colpo perso il libero arbitrio, che “… dopo la caduta, la natura, lasciata a se stessa, era incapace di ogni bene”, tutto questo sviluppato evidentemente in formule ardenti ed appassionate, diffuse e rese classiche dall’autorità eccezionale del Santo. Si può essere sicuri che tutti i grandi eresiarchi nella Chiesa si siano sempre richiamati a S. Agostino, e Giansenio non ha fatto dunque che seguire i suoi predecessori. – Quando con la bolla “Cum occasione”, pubblicata nel 1635, Innocenzo X, condannò il libro l’Augustinus”, estraendone cinque proposizioni eretiche, Antoine Arnauld dichiarò che queste proposizioni erano sì, effettivamente eretiche, ma che esse non si trovavano nel libro incriminato, perché l’autore era stato fedele al pensiero di Sant’Agostino e precisò, “… Non si può credere, senza profferire eresia, che nei libri di Sant’Agostino vi siano errori e proposizioni che meritino di essere censurate: questo è condannare non Sant’Agostino, bensì la Sede Apostolica e tutta la Chiesa che lo ha dichiarato esente dal sospetto di aver errato”. Attaccare l’insegnamento di Giansenio, è dunque fare opera di leso-agostinismo. Sarebbe strano vedere un Papa che osasse attaccare il più grande dottore della Chiesa!” – Così, fortemente appoggiato sulla dottrina di Sant’Agostino, i Giansenisti ne sviluppano tutte le conseguenze con l’arte diabolica dell’equivoco e della messa davanti al fatto compiuto. Essi vanno ad accentuare questa predestinazione nel senso del massimo rigore: Gesù-Cristo non è morto per tutti gli uomini, ma per i soli “eletti”. Al seguito di Calvino, Saint-Cyran ci insegna che la grazia santificante, una volta ricevuta, nnon è più accettabile. “… La vita della grazia è la stessa di quella della gloria, non c’è che il solo peso ed il velo del corpo che portiamo, nonché la dimora terrestre che abitiamo che le rendono differenti … “… Una volta giustificati dal Battesimo, gli Eletti non peccano più e non hanno di conseguenza più bisogno del Sacramento della Penitenza per ricevere la grazie di Dio che non possono più perdere. Quando si è “eletto” e di conseguenza impeccabile e “Perfetto per sempre” non si ha più bisogno della Confessione e della Comunione. Ed il padre Quesnel ci precisa: “Marchio e proprietà della Chiesa cristiana, essa è cattolica poiché comprende tutti gli Angeli del cielo e tutti gli Eletti ed i giusti della terra di tutti i secoli.” – Principio mirabile di pace interiore: “… se io sono Eletto, alcun crimine può più impedirmi di essere salvo. … Se io non sono eletto, anche quando lascerò i miei disordini, non sarò avanzato di più. … Io posso, dunque, eletto o non eletto, vivere nei miei crimini con la più grande sicurezza!”. Quanto è comoda la santità giansenista! [Solo quella modernista la eguaglia, con la misericordia a buon mercato, senza pentimento e propositi … l’inganno satanico del postmodernismo del Novus ordo = spelunca latronis] –  Perseguendo la logica del sistema, un ecclesiastico della Lorena, che morì curato a Metz nel 1776, Louis Jobal, stimava che bisognasse riservare le cure pastorali al solo piccolo gruppo degli “eletti” e che fosse veramente “… inutile sforzarsi di voler convertire le anime che portavano i caratteri della riprovazione”, anime alle quali egli rifiutava i Sacramenti dell’estrema unzione e della assoluzione, “… perché, diceva, saranno salvati solo “coloro che Dio vorrà efficacemente salvare ed il nostro dovere è concorrere con Lui alla salvezza degli Eletti”. Questi ultimi si distinguono per un “fondo di religione”, segno infallibile della grazia (?), i riprovati non sono degni di interesse che nella misura in cui essi servono agli Eletti. Essi sono la paglia che porta il buon grano e che lo nutre e lo conserva. … in seguito, quando ha completato un certo ufficio, è gettata al fuoco” [… sembra quasi di rileggere passi del talmud, ove si parla dei goym paragonati a bestie da soma, ad animali al servizio dei “veri uomini”.. il solito linguaggio satanico!].. – Noi arriviamo così all’estrema conseguenza già contenuta nelle premesse; ma con tutta evidenza, siamo in piena GNOSI. Si vedono infatti qui gli estremi sviluppi del manicheismo. Tutto è puro per i puri (Omnia munda mundis), ecco il principio fondamentale degli gnostici. Il mondo è diviso in “pneumatici”, i perfetti, gli eletti, già rivestiti ed installati nella gloria e nella luce, ed in “helici”, i riprovati, spinti nella materia e votati alla dannazione, ma conservati per il servizio ai Perfetti (simile è il manicheismo gnostico-talmudico). È quanto abbiamo visto nella pratica dei monasteri manichei e buddisti dell’Asia centrale. (Vedi “Gnosi e Buddhismo” in questa stessa serie …)– Si è notata ugualmente un’altra grave conseguenza del sistema giansenista: il disprezzo del corpo e della materia, tema gnostico ben conosciuto. “Il corpo, ci dice Saint-Cyran è un peso ed un velo che ci separa ancora dalla gloria”. Bisogna dunque sbarazzarsene al più presto. Il Giusto, il “perfetto” deve gemere, sospirare, sciogliersi in lacrime, in pianti, in singhiozzi nell’attesa della morte felice e desiderata. Noi abbiamo dimostrato già precedentemente che si potevano mettere in parallelo gli scritti di Poto-Royal con gli inni manichei. (ibidem in: Gnosi e Buddhismo…). – Il mondo appare come il luogo della concupiscenza, il teatro dell’incarnazione del male e specialmente del peccato della carne. Poiché questa è cattiva, legata al nostro involucro corporeo, bisogna distaccarsene! I giansenisti si scagliano violentemente contro il matrimonio, giudicato volgare e pericoloso. Essi rifiutano ogni commercio carnale. Tutto l’ascetismo di Port-Royal esprime in realtà questa diffidenza fondamentale nei riguardi dell’atto carnale, l’atto della procreazione; questo stato spirituale ha finito per impregnare per più secoli le opere di teologia morale e di morale pratica. – Un discepolo di Antoine Arnauld, Ambroise Paccori (1649-1730) fu un autore molto fecondo di trattati di educazione morale del XVII secolo. Egli ricorda che la corruzione della carne è la fonte essenziale di ogni peccato: “Il Cristiano deve concepire un santo odio della propria carne e di quella degli altri”. Si devono usare i vestiti per la copertura della corruzione del nostro corpo, ma non per esaltarne la bellezza! Glorificarsi dei propri abiti: “… è comportarsi come un rognoso che cerca la vanità nel cappellino che nasconde la sua rogna”. Non è inutile precisare che questa attitudine morale è la fonte del malthusianesimo che avvelena la nostra società dopo di essi, teoria manichea associata ad un rifiuto della procreazione ed un ricorso alle sterili pratiche abortive, omosessuali, della prostituzione e degli ipocriti rapporti “protetti”, pratiche tutte divenute la piaga del mondo di oggi, mondo gnosticheggiante, massonizzato fino al midollo.

Una liturgia gnostica

Quella che Dom Guéranger chiama, nelle sue “Istituzioni liturgiche”, l’eresia antiliturgica, non è nient’altro che la nuova liturgia introdotta dai giansenisti nelle chiese e nelle diocesi ove essi si sono insediati per detenere il potere ecclesiastico. – Essi hanno cominciato con il tradurre il Messale in lingua volgare. Ambroise Peccori, già citato, nel 1706 aveva proposto l’uso di recitare le preghiere della Messa con il Sacerdote. L’Assemblea del clero di Francia, nel 1660, aveva vietato la traduzione del Messale sotto pena di scomunica. Il Papa Alessandro VII, l’anno seguente aveva condannato questa pratica facendo riferimento al Concilio di Trento (Sess. XXII, can. 8). Già all’epoca era un uso protestante. Tuttavia la traduzione completa di tutta la liturgia è stata perseguita dai giansenisti negli undici volumi di “L’Anno cristiano” di Letourneux. – Poi apparve l’insinuazione che la recitazione a voce bassa, del solo Sacerdote, delle preghiere della Messa e specialmente del Canone, faceva in modo da tener all’oscuro gli assistenti ed i fedeli da una partecipazione personale al Sacrificio. Alcuni curati presero l’iniziativa di proclamare ad alta voce le preghiere del Canone, Questa pratica cominciò a generalizzarsi e l’autorità ecclesiastica dovette intervenire: il capitolo di Bayeux, nel 1729, pubblicò un regolamento che vietava di recitare il Canone della Messa a voce distinta per essere percepita dagli assistenti, sotto pena di sospensione. Nel 1737 è il Vescovo di Laon, Etienne de la Fare, che promulgò un ordine simile, poi i Vescovi di Auxerre, di Sens, di Amiens, de Bayonne, etc.  – La ragione invocata dai giansenisti, è che “noi non possiamo, per implorare Dio, impiegare delle parole che gli sarebbero poco gradevoli, come quelle della Messa”. Ma la vera ragione è molto più importante. Nella “Morale cristiana sull’orazione domenicale” (Libro 3; sez. 3, art. 1), l’autore insiste sulla necessità di pronunciare ad alta voce, con il Sacerdote, tutto il Canone della Messa e specialmente le parole della Consacrazione perché “assistendo al santo Sacrificio della Messa, noi offriamo e consacriamo tutti insieme il corpo di N. S. G. C.”. Un buon gesuita del XVIII secolo, Padre Sauvage, ne da questa spiegazione: “Bisogna che il Sacerdote pronunzi le parole della Consacrazione ad alta voce ed in modo distinto, affinché se, per sfortuna colui che appare all’altare fosse spogliato dal sacerdozio per uno di questi peccati che, secondo Saint-Cyran lo annientano, qualcuno degli assistenti, più innocente del Sacerdote, possa consacrare al suo posto. È così, continua il nostro buon padre, che facendo di tutti i Cristiani tanti sacerdoti, i giansenisti lavoravano silenziosamente e senza che si percepisse, all’abolizione del Sacerdozio”. – La liturgia di Asnières, vicino a Parigi, ci dà il vero senso di questa novità. M. Petitpied, curato di questa parrocchia verso il 1730, comincia a costruire un altare a forma di tomba, chiamato altare domenicale, spogliato dei candelabri e della croce. Solo al momento di celebrare la Messa, lo si ricopriva con un semplice telo. Nello svolgimento del cerimoniale, egli si sforzò di assimilare i laici ai Sacerdoti ed il Sacerdote al Vescovo. Ogni assistente risponde ad alta voce all’Introito, poi, dopo il Confiteor, si andava a sedere sul suo trono posto di lato all’Epistola, a destra dell’altare. Restava così per tutta la prima parte della Messa, senza salire all’altare. Dal suo posto intonava il Gloria ed il Credo, senza proseguirli, perché non recitava mai per conto suo le preghiere cantate dal coro. Non leggeva né l’Epistola, né il Vangelo. Saliva all’altare per l’offertorio dopo che i fedeli vi avevano portato e disposto il pane ed il vino: vi mescolava dei frutti. Il calice era portato senza velo, dalla sacrestia. Gli assistenti recitavano ad alta voce il canone con il celebrante, le benedizioni erano fatte sulle sante Specie e sui frutti ed i legumi posti vicino al calice. Il curato di Asnières voleva che i laici si “conformassero agli ecclesiastici quanto potevano, cioè al cerimoniale che ordina agli ecclesiastici le cose tali come devono essere, secondo lo Spirito della Chiesa.” In altri termini i fedeli dovevano, secondo lo spirito della Chiesa, adottare le stesse attitudini e gli stessi gesti del celebrante. – Il p. Quesnel affermava che non si doveva mai dir Messa se non in presenza dei fedeli; egli rigettava tutte le Messe private, tutte le Messe basse, in cui i fedeli non si comunicano. Egli reclamava la soppressione delle cappelle nelle comunità religiose. Abbiamo già visto come questo fosse nei progetti di Bourg-Fontaine. È dunque la presenza del popolo fedele che dà la validità alla cerimonia. – Molto spesso si sostituiva il francese al latino. Così agiva Pierre Brayer, gran vicario del Vescovo di Metz, che usava la lingua volgare nella celebrazione del viatico, “…sebbene, dice un testimonio, si temesse che il malato  facesse venire un ministro di Ginevra o da Amsterdam”. L’Abbazia di Orval, nei Paese Bassi, aveva ugualmente praticato degli adattamenti liturgici, soppresse delle rubriche, inserite delle nuove messe manoscritte che non sono dell’ordine romano né del Cistercense, etc. etc. – Come se non bastasse: “Le donne gianseniste volevano dir Messa”; … e perché no, se esse sono le “perfette” del popolo divino? Una di esse, in Provenza, diceva pubblicamente le parole della liturgia in lingua provenzale, anche quelle della Consacrazione, mentre il curato le diceva in latino. Una certa signora Mol, nel suo “Journal historique des convulsions”, dava questa giustificazione adducendo questo strano paradosso che un semplice fedele, non solo sacrifica con il Sacerdote, ma che è sacerdote egli stesso. Non ci si può esimere dall’ammirare, aggiungeva, la maestà e la dignità con la quale Melle d’Anconi celebra i santi Misteri. I sacerdoti più autorizzati, assistono alla sua messa e rispondono come suoi ministri e, al memento gli raccomandano coloro che giudicano idonei.” –  E René Taveneaux conclude. “… è superfluo sottolineare la parentela di queste innovazioni dei giansenisti con la riforma liturgica operata in seguito al Vaticano II”. Tuttavia noi abbiamo aggiunto a tutto questo scempio, la soppressione dell’abito ecclesiastico e l’inversione degli altari, rivolti al popolo cristiano, popolo di “perfetti”, già divinizzato, illuminato, nella gloria del cielo che officiano contentandosi di adorare. Nel XVIII secolo, il Giansenismo trovò un appoggio nei discepoli di Edmond Richer, che pretendevano di mettere in luce il principio del “sacerdozio universale dei fedeli”.

[2. Continua …]

LA GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (26): GNOSI E GIANSENISMO (I)

LA GNOSI, TEOLOGIA DI SATANA (26):

GNOSI E GIANSENISMO (I)

[Elaborato da É. COUVERT: Lecture e tradition, n. 227-228, Gen.-Feb. 1996]

Il Giansenismo, al pari delle società massoniche, si presenta alla storia con un doppio volto. Esso si dà le belle apparenze di una società ideale di persone pie, austere, dedite alla devozione, in un monastero dalle rigide apparenze, ma sufficientemente aperto al bel mondo per attirarsi le lodi e la gloria del Gran Secolo. – Queste signore di Port-Royal seppero abilmente dissimulare una ostentata umiltà e pubblicizzare, attraverso la Francia tutta, le loro presunte opere di pietà. Questi “piccoli signori”, le “belle anime” di Port Royal des Champs, seppero risvegliare l’ammirazione del loro secolo mascherandosi da vignaiuoli, lavoratori, calzolai … tutto questo a maggior gloria della setta. – La famiglia Arnauld avendo ben compreso il gioco di ciò che noi oggi chiameremmo i “media”: lanciarono grandi polemiche su soggetti religiosi spinosi, infiammandoli con un linguaggio appassionato, facendosi quindi ammirare per la propria supposta ed indimostrata sincerità declamata ai quattro venti, rilanciando poi queste stesse polemiche, quando cominciavano ad affievolirsi presso il pubblico, con il ricoprirsi di una finta indignazione ogni qualvolta si subiva una condanna più che legittima dall’autorità religiosa, e protestandosi vittima innocente. È un gioco del quale i moderni settari sono divenuti maestri e che riesce sempre a meraviglia. – La storia letteraria, dopo due secoli, e soprattutto dopo il “Port Royal” di Sainte Beuve, non ha fatto che sviluppare questo schema sì bene orchestrato. I nostri critici moderni, ci hanno presentato fino alla nausea la santità e la purezza di queste dame e di questi signori, le grandi qualità letterarie degli autori della setta e soprattutto la profondità [ … nebulosa] dei “Pensieri” del loro più celebre interprete: il cripto-gnostico Pascal. – In questo studio non abbiamo l’intenzione di presentare questo volto pasticciato del Giansenismo, ma al contrario, cercheremo di penetrare all’interno della setta, cercheremo di svelare i veri pensieri sottotraccia di questi signori ed andremo a ritrovarci, stupefatti, in un paese molto ben conosciuto e che stiamo ritrovando ove mai ci saremmo aspettati. I Giansenisti non hanno inventato un bel nulla, essi hanno rispolverato e riattualizzato per il Gran Secolo le formule classiche della Gnosi manichea. – In un’opera, molto antica; “I pregiudizi, nemici della storia di Francia”, Louis Dimier si è sforzato di dimostrare come gli storici moderni hanno tentato di aizzare i loro contemporanei contro l’Antica Francia, dando di quest’ultima un volto quanto più possibile sgradevole. Nei tre capitoli intitolati “Le rivendicazioni delle sette”, egli mostra come questi storici, eredi degli albigesi, dei protestanti e dei giansenisti, si sforzino di “riabilitare i loro ancestri ergendosi in requisitorie violentissime contro l’autorità dei nostri Re e dei Papi di questa epoca”. Di passaggio hanno pure stigmatizzato naturalmente, l’Inquisizione, la Lega, San Bartolomeo, la distruzione di Port-Royal da parte di Luigi XIV, e la revoca dell’editto di Nantes. … ovviamente! Ma essi, naturalmente, si sono ben guardati dal raccontarci le rovine ed i crimini accumulati dai loro ancestri settari contro la Società Cristiana del passato. – Per tornare al Giansenismo, ci proponiamo di evidenziare il volto nascosto della setta; e cominciamo dal “complotto”.

IL COMPLOTTO

Nel 1654, apparve a Poitiers un’opera intitolata: Relazione giuridica di ciò che è successo a Port-Royal concernente la nuova dottrina dei Giansenisti”, scritta dal signor Filleau, primo avvocato del Re al presidio di Poitiers. L’opera venne stampata per ordine della Regina Madre, la madre di Luigi XIV e conteneva una lettera di felicitazione di quest’ultima datata: 19 maggio 1654. – Cosa raccontava quest’opera esser successo verso l’anno 1621, quando i primi capi del Giansenismo si erano riuniti in una certosa situata nella foresta di Villers-Cotterêts, la certosa di Bourg-Fontaine. Si trattavava di Jean du Virgier de Hauranne, già abate di Saint-Cyran, di Cornelio Jansen (o Giansenio), poi vescovo di Ypres, di Filippo Cospéan, Vescovo di Nantes, poi di Lisieux, di Pierre Camus, Vescovo di Baley ed amico di San Francesco di Sales, d’Arnauld d’Adilly, grande amico del giovane “de Saint-Cyran”, di un consigliere del Re, Simon Victor e della persona rimasta anonima e che ha stilato il resoconto seguente: “Il primo designato, dopo avere fatto intendere all’assemblea che era giunto il tempo in cui i sapienti PIENAMENTE ILLUMINATI, disingannassero i popoli e li ritraessero dalle tenebre nelle quali erano come quasi seppelliti, e che a causa di ciò, essi, che avevano le CONOSCENZE (le GNOSI!!!) necessarie ed i talenti proporzionati a questa GRANDE OPERA (la Grande Opera !!!), dovevano porre mano all’opera capace di fare apparire la potenza di Dio che non brillava nei loro giorni. E per giungere a questa grand’opera, poiché sapevano che c’era un Dio come oggetto della vera credenza, un Dio che faceva delle creature ciò che a Lui piaceva, che conosceva coloro che voleva salvare mentre dannava gli altri che non potevano lamentarsene, avendo meritato la morte eterna a causa della prevaricazione del primo uomo, giacché si trovano ingabbiati in questa MASSA CORRUTTRICE, era necessario aprir loro gli occhi ed iniziare la loro istruzione con la distruzione ed eliminazione dei misteri, la cui credenza è illusoria ed inutile e particolarmente quello dell’Incarnazione, che era come la base ed il fondamento di tutti gli altri. Perché a che serve, egli argomentava, proporre un Gesù-Cristo nato e morto per gli uomini, la cui salvezza dipende dalla sola grazia che Dio dà loro, che “sola” è efficace ed opera la loro buona o cattiva fortuna per l’eternità.” [concetto raffazzonato dai protestanti, specie i calvinisti!] – Colui che disquisì per secondo fu dello stesso avviso ed esagerò questa proposizione per le conseguenze che traeva dai fondamenti e dai principi della loro dottrina. Il terzo, che volevasi aggregare in questa “conventicola”, e che era molto versato nella lettura di S. Agostino, non disse altro, se non che era da folli fare tale proposizione e volerla proporre in un Regno che era tanto lontano da tale novità e che, quanto a lui, non voleva impegnarsi su questo piano. “I tre altri testimoniarono che la via che si voleva battere, cioè abolire dapprima il Vangelo, e combattere poi la credenza dei Misteri e tra essi la Incarnazione, era assai pericolosa e che sarebbe stata poco fruttuosa, argomentando che un albero non può essere abbattuto senza aver prima tagliato le diverse radici che lo fissano al suolo e gli danno forza e stabilità, per cui nella attuazione del disegno progettato, non era il caso di scoprirsi più di tanto, ma che occorreva usare altri mezzi più speciali e sottili, per insinuarsi negli spiriti e tentare così di aprirsi vie più plausibili, per giungere a compiere poi la GRANDE OPERA, con la quale annunciare questa grande verità, della quale tutti i popoli non erano ancora capaci, tanto che dotti ed indotti si sarebbero opposti ai primi passi ed avrebbero reputato questa dottrina come empia, denunciandola ai Magistrati, che sarebbero insorti mettendola alla berlina con pene e prigione. – “Queste ragioni politiche erano state avanzate da costoro contro gli stessi che le avevano proposte, pertanto si rimase tutti d’accordo nel tentare delle vie più morbide, attraverso le quali giungere alla rovina del Vangelo senza che ce se ne potesse accorgere, ed in luogo di attentare ai misteri, si deliberò di minare artificiosamente lr credenze che erano tenute negli spiriti dei Cattolici. – “ … Si decide di attaccare i due Sacramenti più frequenti per gli adulti, che sono quello della Penitenza e dell’Eucaristia. Il mezzo per raggiungere l’obiettivo, fu stabilito essere l’allontanamento che si procurava non attuando alcun mezzo particolare perché fossero meno frequentati, ma rendendone la pratica così difficile ed accompagnata da circostanze sì poco compatibili con la condizione degli uomini di questo tempo, in modo che diventassero inaccessibili, e che il disuso, fondato su delle belle apparenze, ne facesse perdere la fede. – “… Si propose così di elevare la grazia a tal punto da far credere che operasse tutto da sola, da negare che essa fosse sufficiente agli uomini, invertendo la libertà del libero-arbitrio, ed imponendo la necessità di piegarsi sotto la grazia vittoriosa, rendendo pubblico che Gesù-Cristo non era morto per tutti gli uomini: e tutto questo con il proposito di prevenire gli spiriti, ed avendoli così persuasi di queste falsità, trarre le conseguenze che rovinerebbero facilmente il Vangelo, i Misteri ed i Sacramenti. –  “ .. Perché, essi dicevano, se possiamo una volta imprimere questo negli spiriti di coloro che ci ascolteranno o che leggeranno le opere che produrremo su tali materie, essi non potranno più restare fermi nella loro primitiva credenza e ci sarà facile persuaderli che l’opera della Redenzione degli uomini è solo supposta, poiché il tutto non dipende che dalla sola grazia efficace, ed alla quale non si può resistere  e che, pertanto, qualunque sforzo si faccia per compiere i Comandamenti di Dio, ce ne sono alcuni che sono impossibili da osservare mancando la grazia per renderli possibili. A cosa serve dunque un Redentore, dei Sacramenti, a che pro tutti questi consigli evangelici? Si sarà salvi o dannati qualunque cosa si faccia, così come piacerà a Dio. – “… Ma intanto che non sarà facile sorprendere gli spiriti dei direttori e dei conduttori delle coscienze, così come sarà agevole agire sugli spiriti deboli e semplici di qualche Cattolico che nelle preposizioni fatte, faranno probabilmente ricorso agli stessi direttori che risolverebbero queste difficoltà, è necessario prevedere questo inconveniente, al quale uno della compagnia cercherà di portare il rimedio necessario che consiste nel discreditare o diminuire l’autorità e la chiarezza della direzione, che apparrebbe totalmente interessata.  – “ … Si prevede pure che non bisogna lasciare il Capo della Chiesa senza attaccarlo; perché siccome è a lui che si fa ricorso per i punti controversi della fede, per pronunciarsi in qualità di sovrano e fondato sull’infallibilità dall’azione e dall’assistenza dello Spirito Santo, si è risoluti in questa assemblea che si lavori contro lo stato monarchico della Chiesa per distruggerla, sforzandosi di stabilire un’aristocrazia, affinché sia più facile abbattere in seguito tutta la potenza della Chiesa. E quanto all’infallibilità del Papa, basta che si protesti contro di essa e non potendolo fare assolutamente, la si restringerebbe alle sole assemblee dei concili; e seppure, nello stato di fatto, quando il nostro Santo Padre, il Papa, avesse pronunciato qualche anatema contro le loro novità, protestando e parlando in un concilio, non si crederebbe più né al Papa né al Vangelo. – “Tutti coloro che in questa assemblea (a parte di colui che non aveva voluto scoprire i propri sentimenti e che li aveva accusati di follia, senza tuttavia impegnarsi in alcuna azione contraria alla loro e senza deferirli, come poteva, al fine di soffocare questo mostro nella sua culla) restavano d’accordo che bisognava scrivere e dare al pubblico dei libri con i quali potessero stabilire queste prime massime che non erano dei passi per giungere al loro ultimo disegno di deisti, che non osavano mostrare subito. – “E poiché tra tutti i dottori della Chiesa non ve n’è alcuno che non abbia uno slancio verso S. Agostino, del quale si può meglio abusare dei passaggi male spiegati e di cui neanche i calvinisti si sono serviti.. si risolse così di dirsi difensori della dottrina di S. Agostino, la cui autorità servisse da velo alla novità della loro dottrina e all’inganno per sorprendere i deboli di spirito. E al fine di non entrare in competizione tra di loro, distribuirono tra loro i punti e le massime che si impegnarono a stabilire con i loro scritti. Questo ha dato luogo non soltanto al libro del Jansenius, ma anche agli altri che sono stati messi in luce in questa occasione., trattando dei punti di cui si era fatta menzione più in alto. , che i dotti potevano facilmente rimarcare sena che ne faccia qui una enumerazione più particolare. L’ultimo comparso a Parigi come conseguenza della risoluzione di questa assemblea è quella dei due capi, con i quali pretendevano di rovinare lo stato monarchico della Chiesa e stabilirne uno tutto differente, che fosse poi distrutto da un’altra penna se non avessero incontrato questa stessa potenza vigorosa che ha fulminato questa opera di iniquità che voleva abolire la monarchia della Chiesa con questa molteplicità di capi. – “Ecco come è stata progettata questa cabala, poursuivit questa ecclesiastica, e che in verità questa assemblea che l’ha formata ed alla quale ho avuto la sventura di assistere e di partecipare, ma anche la fortuna di rinunciarvi quasi subito, era una conventicola contro la Persona sacra di Gesù Cristo, simile a quella che aveva predetto il Profeta: “Convenerunt in unum adversus Dominum et adversus Christum ejus” (Ps. II) e che da questa nuova dottrina ha preso il nome di Giansenismo; questo è un nome da “corteccia” e tutto esteriore, ma la vera denominazione che le appartiene  è quella di deista, la loro segreta intenzione e la finale, essendo l’introdurre la sola credenza di un Dio, senza Vangelo  e senza Redentore e di abolire la fede del Sacramento del Battesimo che è reso inutile dalla riprovazione che stabiliscono su di una massa corrotta dal peccato originale, in conseguenza della quale corruzione Dio ha diritto di condannare coloro che ha predestinati alla morte eterna”. – Fine della citazione.

Esiste una seconda versione di questo incontro della certosa di Bourg-Fontaine. Essa è attestata dal priore dei Carmelitani nella citta di Tours, nel 1652 e 1654. Essa ci fa conoscere che l’autore della rivelazione è il signor de Rasilly, di questa stessa città, che nel corso dello scambio di vista Jansenio aveva insistito che si attaccasse dapprima e di preferenza l’ordine dei Gesuiti. Eccone il testo latino:

 

Nos Marcus a Nativite Virginis, provincialis Carmelitarum provinciæ Turonensis, hoc scripto declaramus, quod ann. 1652 et 1654, D. de Rasilly, vir nobilis Turonensis, testatus nobis sit, interfuisse se circa ann. 1620 colloquio cuidam virorum in ecclesia spectabilium, inter quos erant Dominus Duvergier, cui nomen deinde fuit abbati Sancyrano et Dominus Jansénius, dein Yprensium in Flandria episcopus, proponebat in eo colloquio D. Duvergier ut ne fideles regularium tempio adirent tam frequenter, optimum factu fore si ecclesiastici, qui administrandis sacramentis dabant operam, praxi uterentur ei opposita, quæ id temporis usurpabatur a regularibus, pænitentiæ vero sacramentum difficile redderent, eucharistiæ autem ut usus rarior esset, efficerent. Jansenio consultum non videbatur in religiosos omnes simul insurgere, sed initium, aiebat, sumendum esse a Jesuitis, neque enim difficile futurum demonstrare perversam esse eorum de grafia doctrinam et sopitas de ea re sub Clement VIII concertationes restituer. In eum finem librum se conscripturum addicebat, quo Jesuitarum doctrinam impeteret, quem suspicio est eum esse qui deinde prodiit in publicum hoc insignatus titulo: AUGUSTINUS, etc. “Priorem agebam in conventu nostro Turonensi eum Dominus de Rasilly priusquam obiret, sui etiamnum apprime compos et conscius, quæ de ilio colloquio ante commemoraverat, iterato testatus est esse vera. Sed hæc eadem narrarat patri Nicolao a Visitatione praedecessori meo eadem in munere Prioris, subjeceratque edixisse se viris estis, non placuisse sibi ea Consilia aut colloquia, quippe in quibus nihil agebatur aliud quam ut passioni suæ atque utilitati inservirent. In quorum fidem has propria manu scriptas signavi et signari curavi par assistentem nostrum, atque insuper sigillo officii nostri munivi. Actum Turonibus; 29 julii 1687. (Citato dal Padre J . M. Prat, nel suo “Essai sur la destruction des ordres religieux au dix-huitième siecle…” )

Traduzione

Noi, Marco della Natività della Vergine, provinciale dei Carmelitani della provincia di Tours, dichiariamo con questo scritto che nell’anno 1652 e 1654, il signor Rasilly, nobiluomo di Tours, ci ha attestato che circa l’anno1620 egli aveva partecipato ad un colloquio di uomini rispettabili nella Chiesa, tra i quali c’era il signor Duvergier, che fu in seguito abate di Saint-Cyran, ed il signor Jansenius, poi vescovo di Ypres nelle Fiandre. In questo colloquio il signor Duvergier sosteneva questa proposizione: che i fedeli non dovessero più frequentare le chiese dei religiosi. Bisognava fare in modo che gli ecclesiastici che avevano la carica di amministrare i Sacramenti, si opponessero all’uso che dai religiosi era stato usurpato in quest’epoca. Bisognava rendere difficile l’uso del Sacramento della Penitenza e fare in modo che il Sacramento dell’Eucarestia diventasse più raro. Jansenius non pensava che bisognasse interessarsi a tutti i religiosi del nostro tempo, ma precisava che era opportuno cominciare prima dai Gesuiti, perché non sarebbe difficile dimostrare che la loro dottrina sulla grazia fosse perniciosa e riprendere le controversie su questo soggetto, sopito sotto Clemente VIII. Egli aggiungeva che avrebbe scritto, all’uopo, un libro per attaccare la dottrina dei Gesuiti, libro che si è sospettato essere quello che è stato pubblicato sotto il titolo di: AUGUSTINUS, etc. – Io ero priore del nostro Convento di Tours, quando il signor Rasilly, prima di morire, ma ancora padrone di sé e cosciente, ci attestò di nuovo che ciò che mi aveva ricordato in precedenza su questo colloquio fosse vero. Ma egli aveva raccontato la stessa cosa al padre Nicolas della Visitazione, mio predecessore in questa funzione, ed aveva aggiunti di aver spiegato a questi uomini che egli non avrebbe più partecipato al loro progetto perché aveva compreso che volevano asservirlo alla loro passione ed alla loro utilità. – in fede, io ho firmato questo scritto di mio pugno e l’ho fatto firmare dal mio assistente e munito del sigillo della nostra carica. Fatto a Tours, il 29 luglio 1687.

UNA SETTA DI INIZIATI, GLI “ELETTI”

Intorno all’anno 1600, Duvergier de Hauranne era studente all’università di Lovanio e si legò ad un maestro illustre, Juste Lipe, filosofo ed umanista. Egli era di un Cattolicesimo incerto, molto influenzato dall’Olanda e dalla Germania protestante. È là che fece conoscenza con il giovane studente Jansen. I due giovani di legarono con un’amicizia stretta, tenace, malgrado le distanze che rendevano le relazioni rare e difficili. Nel 1620, egli si trovava a Poitiers ove fece venire il suo amico Jansen. È circa a questa data che si colloca l’incontro di Bourg-Fontaine. Jansen era tornato nei Paesi Bassi, e la loro corrispondenza si fece fitta. Bisognava mettere in opera il progetto iniziale. In una lettera datata 1620, Jansen gli precisa che non bisogna mettere a corrente del segreto un gran numero di persone amiche, perché non ci si può aggregare in Italia (cioè a Roma): Tandem aliquando desperat a via transalpina (la via transalpina, è l’ostacolo di Roma infrangibile), concessus est Solion (è lo pseudonimo di guerra di Saint Cyran) esse virum prodentem, eo quod credere incipiat negotium istud (è il progetto di Bourg-Fontain) finiri non posse nisi cospiratione multorum”. Nelle loro corrispondenze segrete il progetto di Bourg-Fontaine è chiamato Pilmot. Jansen promette a Saint-Cyran di non divulgare il piano: “Io seguirò il vostro avviso esattamente in ciò che riguarda l’affare Pilmot, cioè lo spirituale dell’affare, non dicendo nulla di questa lettera a M. l’Illustrissimo e sono contento che lo prendiate a cuore e che non ne facciate parola che in generale, perché l’affare è ancora attualmente nel suo montare”. In questo stesso anno 1620, Saint-Cyran scrive ad Arnauld d’Andilly, sua fedele amico: “Tutti gli spiriti della terra, per quanto acuti e sapienti siano, non capiscono nulla della nostra cabala, se non si fanno iniziare a questi misteri che rendono, come orge sante, gli spiriti più trasportati gli uni verso gli altri. ..” – I membri del complotto si chiamano tra loro “fratelli” e gli “amici della verità”. Essi sono gli “eletti”, i “perfetti”. Essi sono i “Santi”, già pervenuti alla perfezione celeste. Per essi, come per gli gnostici, “Omnia sunt munda mundis”. Tutte le cose sono pure per i puri. Noi ritroveremo infatti questi principi manichei nei loro insegnamenti. – In tutta la sua corrispondenza con Saint-Cyran. Jansen, fino alla sua morte, gli rende un racconto fedele del suo “Processo”, dell’ “affare spirituale”, del suo “Pilmot, tutte espressioni che ricordano il piano di Bourg-Fontaine. – Ma questa corrispondenza non è sfuggita alla vigilanza della polizia reale agli ordini del Cardinale Richelieu. Quest’ultimo comincia ad inquietarsi per una cabala di cui comprenderà subito il danno. Il 15 maggio 1638, egli fa arrestare Saint-Cyran e lo rinchiude nel castello di Vincennes. Fa portare tutte le sue carte e la corrispondenza con M. Arnauld d’Andilly, a Poitiers. Prepara poi un’informazione giudiziaria affidata ad uomo sicuro, Laubardemont. Nei confronti di questioni indiscrete del suo entourage, egli si spiega subito. Egli dice a Hardouin de Perefixe “ … che egli stava per arrestare, per ordine del Re, un uomo che cominciava a rendersi celebre, per l’opinione della sua virtù e della sua capacità, della professione che faceva di una severità di sentimento e di una austerità di costumi divenuti raccomandabili presso la maggior parte delle persone che ne faranno forse un mormorare. Ma il Cardinale aggiunse che l’aveva arrestato per il suo amore di novità e per la libertà che si dava di dogmatizzare in modo da imporre al pubblico e scandalizzare la virtù, assicurando che si sarebbe rimediato a tutti i disordini in tutta l’Europa nel secolo passato, se si fosse imprigionato Lutero e Calvino fin dal momento della loro comparsa, come aveva egli fatto con l’abate di Saint-Cyran, che il Re stava per mettere in prigione nel castello di Vincennes. Ed il Cardinale aggiungeva al Principe de Condé che si inquietava dell’arresto: “Sappiate di qual uomo mi parlate, egli è più pericoloso di sei armate …”. – Saint Cyran non è stato liberato se non dopo la morte del Cardinale, nel 1643, e rese l’anima qualche giorno dopo. È la famiglia Arnaud che riprende la fiaccola della nuova dottrina e col seminare l’agitazione religiosa ed il fuoco dell’eresia in tutta l’Europa Cattolica per due secoli.

[1. continua ...]

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI APOSTATI (novusordisti e finto-tradizionalisi) DI TORNO: FIRMISSIMAN CONSTANTIAM DI PIO XI

Firmissimam Constantiam è la terza Enciclica che il Santo Padre Pio XI indirizza alla Chiesa messicana vittima di violenze, persecuzioni ed ogni genere di nefandezze. In questa lettera, il Sommo Pontefice, oltre alle esortazioni, agli apprezzamenti per l’opera del clero e dei fedeli laici, nonché agli incoraggiamenti opportuni, si sofferma sul ruolo dei Chierici coadiuvati da laici ben istruiti nella ricostruzione del tessuto sociale e religioso del Paese sconvolto da lunghi anni di vessazioni masso-comuniste. Egli inizia dalla formazione dei Sacerdoti:  “… noi vi indirizziamo questa lettera, e ne prendiamo occasione per ricordarvi come, nelle presenti circostanze e difficoltà, i mezzi più efficaci per una restaurazione cristiana sono anche tra voi anzitutto la santità dei Sacerdoti e in secondo luogo l’accurata formazione dei laici ….”  perché, nota più avanti “… la formazione spirituale e la vita interiore, che fomentate in questi vostri collaboratori, li metteranno in guardia dai pericoli e dalle possibili deviazioni.” Quindi si raccomanda innanzitutto la formazione del clero e del laicato impegnato [si ricorda il ruolo fondamentale dell’Azione Cattolica], che sono la chiave di volta per fuggire gli inganni del “lupo travestito”, resistere alle bestie intrufolati nell’ovile, e portare a buon fine l’opera di Redenzione del Salvatore per la salvezza delle anime. Le raccomandazioni ovviamente riguardano anche la vita sociale del Paese martoriato, e qui il pensiero del Pontefice è quanto mai chiaro, conciso ed efficace: “… non si cessi dal proclamare che soltanto la dottrina e l’opera della Chiesa, assistita com’è dal divino suo Fondatore, può portare rimedio ai gravissimi mali che travagliano l’umanità …”. Ecco il rimedio sovrano a tutti i problemi ed ai guai di ogni società comunque impostata; rimedio che va somministrato innanzitutto alle giovani generazioni “… le speciali condizioni della vostra Patria ci obbligano a richiamarvi la necessaria, doverosa, imprescindibile cura dei fanciulli, la cui innocenza è insidiata, la cui educazione e formazione cristiana sono messe a così dura prova …” e poi deve camminare con ordine, secondo gli insegnamenti del Divino Maestro e del suo Corpo Mistico, la Chiesa Cattolica Romana, unica arca di salvezza guidata dall’eterno Nocchiero. Ed i due capisaldi di questa ricostruzione ordinata ai fini materiali e spirituali, ad ogni livello, devono essere: “… la retta intenzione e l’obbedienza, sempre e dappertutto,” esse infatti  “… sono le condizioni indispensabili per attirare le benedizioni divine sul ministero pastorale e sull’Azione Cattolica e a determinare quell’unità d’indirizzo e quella fusione di energie che sono un presupposto indispensabile alla fecondità dell’apostolato.” Questa ricetta andava bene per i mali del Paese latino-americano, ma sarebbe oggi ancor più efficace per noi sparuti Cristiani Cattolici del “pusillus grex”, ricetta da diffondere con ogni mezzo, iniziando da se stessi praticandolla con la maggiore esattezza possibile. È questo che dovrebbero capire soprattutto i tanti analisti sociali, definiti “complottisti” da coloro che si sentono attaccati e smascherati: essi infatti, oltre all’analisi dei fatti più o meno esaurienti, non offrono alcuna soluzione pratica ai problemi così bene evidenziati, e alla fine sono solo Cassandre non risolutive, anzi inducenti ancor più scoraggiamento e debilitazione morale. Ed allora, noi che crediamo nell’azione regale pratica e spirituale del Cristo-Dio Redentore, abbiamo l’unica vera possibilità di far comprendere e di poter indicare la via ed il modo per superare ostacoli e difficoltà di ogni genere, perché là dove noi siamo oggettivamente impotenti, come piccoli “Davide” che affrontano il mastodontico Golia “atomico”, possiamo avere forza e coraggio da Colui che ci sostiene e ci illumina, dandoci la possibilità di sconfiggere qualunque “mostro” di tutto punto armato, mostro … economico, finanziario, pseudo-scientifico, filosofico, teologico proposto dalle false religioni degli apostati e marrani, con una semplice fionda e due sassolini levigati di fiume. Se torniamo al Signore Gesù-Cristo, già il Re-Profeta ci garantiva, con l’Autorità dello Spirito Santo:  “ … si populus meus audisset me, Israel si in viis meis ambulasset, pro nihilo forsitan inimicos eorum humiliassem, et super tribulantes eos misissem manum meam. pro nihilo forsitan inimicos eorum humiliassem, et super tribulantes eos misissem manum meam. Inimici Domini mentiti sunt ei, et erit tempus eorum in sæcula. [… se il mio popolo mi ascoltasse, se Israele camminasse per le mie vie! Subito piegherei i suoi nemici e contro i suoi avversari porterei la mia mano. I nemici del Signore gli sarebbero sottomessi e la loro sorte sarebbe segnata per sempre] (Ps. LXXX) – Animati da questa fiducia irriducibile nell’azione del Capo Celeste della Chiesa e del suo Vicario in terra, benché esiliato e prigionero, godiamoci questa fruttuosa lettura dell’Enciclica.

LETTERA ENCICLICA
FIRMISSIMAM CONSTANTIAM
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
AI VENERABILI FRATELLI ARCIVESCOVI,
VESCOVI E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
DEL MESSICO
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA,

 

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

È a Noi ben nota, Venerabili Fratelli, e per il Nostro cuore paterno gran motivo di consolazione, la costanza vostra, dei vostri sacerdoti, della maggior parte dei fedeli messicani, nel professare ardentemente la Fede Cattolica e nel resistere alle imposizioni di coloro che, ignorando la divina eccellenza della religione di Gesù Cristo e conoscendola solo attraverso le calunnie dei suoi nemici, si illudono di non poter compiere riforme a bene del popolo se non combattendo la Religione della grande maggioranza.  – Senonché i nemici di Dio e del suo Cristo sono purtroppo riusciti anche ad avvincere molti tiepidi o pavidi; i quali, pur adorando Iddio nell’intimo della loro coscienza, tuttavia, sia per rispetto umano, sia per timore di mali terreni, si rendono, almeno materialmente, partecipi della scristianizzazione di un popolo che alla Religione deve le sue più belle glorie.  – Di fronte a tali apostasie o debolezze, che profondamente Ci affliggono, anche più lodevole e meritoria Ci appare la resistenza al male, la pratica della vita cristiana e la franca professione di Fede di quei numerosissimi fedeli che voi, Venerabili Fratelli, e con voi il vostro Clero, illuminate e guidate con la sollecitudine pastorale non meno che con lo splendido esempio della vita. Questo Ci conforta nelle nostre amarezze e Ci dà affidamento a bene sperare per l’avvenire della Chiesa messicana; la quale, rinvigorita da tanto eroismo e sostenuta dalle preghiere e dalle sofferenze di tante anime elette, non può perire; dovrà anzi rifiorire più vegeta e più rigogliosa.  – Ora, appunto per ravvivare la vostra fiducia nell’aiuto divino e per incoraggiarvi a continuare nella pratica di una vita cristiana e fervorosa, Noi vi indirizziamo questa lettera, e ne prendiamo occasione per ricordarvi come, nelle presenti circostanze e difficoltà, i mezzi più efficaci per una restaurazione cristiana sono anche tra voi anzitutto la santità dei sacerdoti e in secondo luogo l’accurata formazione dei laici, tale da poterli associare nella valida cooperazione all’apostolato gerarchico, tanto più necessaria nel Messico e per la vastità del territorio e per le altre condizioni a tutti note.  – Il Nostro pensiero pertanto corre in primo luogo a quelli che devono essere la luce che illumina, il sale che conserva, il buon fermento che penetra tutta la massa dei fedeli, cioè ai vostri sacerdoti. Veramente Noi sappiamo già con quanta tenacia ed a costo di quali sacrifici voi curate, Venerabili Fratelli, la cernita e l’incremento delle vocazioni sacerdotali, in mezzo a difficoltà di ogni sorta, ben persuasi, come siete, di provvedere così ad un problema vitale, anzi al più vitale problema per l’avvenire di codesta Chiesa. Così, di fronte alla impossibilità quasi assoluta di avere oggi nella vostra patria Seminari ben ordinati e tranquilli, voi avete trovato in quest’Alma Città, per i vostri chierici, un rifugio largo e affettuoso nel Collegio Pio Latino Americano, il quale ha formato già e va formando alla scienza e alla virtù tanti benemeriti sacerdoti e che per la sua opera preziosa è a Noi particolarmente caro. Ma non essendo in moltissimi casi possibile inviare i vostri alunni fino a Roma, vi siete opportunamente adoperati per trovare un asilo nella ospitalità di una grande nazione vicina. – Nel congratularCi con voi per la lodevole impresa, che sta diventando una consolante realtà, esprimiamo di nuovo la Nostra riconoscenza a tutti coloro che sono stati larghi con voi di ospitalità e di aiuto.  – E con paterna insistenza ricordiamo ancora in quest’occasione il Nostro preciso volere che sia illustrata e spiegata convenientemente, non solo ai chierici ma a tutti i sacerdoti, la Nostra Enciclica “Ad Catholici Sacerdotii”, la quale espone il Nostro pensiero su questo, che è il più grave e il più importante fra i gravi ed importanti argomenti da Noi trattati.  – Formati così i Sacerdoti messicani, secondo il cuore di Cristo, essi sentiranno che nelle attuali condizioni della loro Patria — già ricordate nella Lettera Apostolica Paterna sane sollicitudo del 2 febbraio 1926 e che sono così simili a quelle dei primi tempi della Chiesa, quando gli Apostoli facevano appello alla collaborazione dei laici — ben ardua cosa sarebbe guadagnare a Dio tante anime senza l’ausilio provvidenziale che prestano i laici mediante l’Azione Cattolica. Tanto più che in essa la Grazia prepara non di rado anime generose, pronte alla più preziosa attività, quando trovino in un clero dotto e santo una conveniente comprensione e guida.  – Pertanto ai Sacerdoti messicani, che hanno dedicato tutta la loro vita a servizio di Gesù Cristo, della sua Chiesa e delle anime, rivolgiamo il primo e più caldo appello, affinché vogliano generosamente assecondare le Nostre e vostre sollecitudini per il progresso dell’Azione Cattolica, dedicando ad essa le migliori loro forze e le diligenze più opportune.  – I metodi di una efficace collaborazione dei laici all’azione vostra ed all’apostolato non verranno mai a scarseggiare, se i Sacerdoti si daranno premura di coltivare il popolo cristiano con una saggia direzione spirituale e con una accurata istruzione religiosa, non diluita in vani discorsi, ma nutrita di sana dottrina attinta alle Sacre Scritture e piena di forza e di pietà.  – È vero che non tutti comprendono appieno la necessità di questo santo apostolato del laicato cattolico, sebbene fin dalla prima Nostra Enciclica “Ubi arcano Dei” Noi abbiamo dichiarato che essa appartiene innegabilmente al ministero pastorale ed alla vita cristiana.  – Ma poiché, come già accennammo, Ci dirigiamo a Pastori che debbono riconquistare un gregge così provato e talvolta disperso, più che mai vi raccomandiamo di servirvi di quei laici ai quali, come a pietra viva della santa Casa di Dio, San Pietro attribuiva una arcana dignità, che li fa in qualche modo partecipi di un sacerdozio santo e regale [1]. – Ogni Cristiano, infatti, che comprende la sua dignità e sente la sua responsabilità di figlio della Chiesa e di membro del Corpo mistico di Gesù Cristo — « pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri » [2] — non può non riconoscere che fra tutte le membra di questo Corpo deve esistere una comunicazione reciproca di vita e solidarietà di interessi.  – Di qui il dovere di ciascuno in ordine alla vita ed all’incremento di tutto l’organismo, « al fine di edificare il Corpo di Cristo »; di qui ancora l’efficace contributo di ciascun membro alla glorificazione del Capo e del suo Corpo mistico [3].  – Da questi chiari e semplici princìpi, quali consolanti deduzioni, quali luminose direttive non scaturiscono per molte anime, ancora incerte e diffidenti, ma desiderose di orientare il loro ardore! quali incitamenti a contribuire alla diffusione del Regno di Cristo e alla salvezza delle anime!  – È evidente per altro che l’apostolato così compreso non proviene da un impulso puramente naturale all’azione, ma è frutto di una solida formazione interiore: è la necessaria espansione di un amore intenso a Gesù Cristo e alle anime, redente dal suo Sangue prezioso, che si attua nello studio di imitarne la vita di preghiere, di sacrificio, di zelo inestinguibile.  – Questa imitazione di Cristo susciterà molteplici forme di apostolato in tutti i campi, dovunque le anime sono in pericolo o sono compromessi i diritti del Re divino. Si estenderà pertanto questa Azione Cattolica a tutte le opere di apostolato che in qualsiasi modo rientrino nella divina missione della Chiesa, e quindi penetrerà, come nell’animo degli individui, così nel santuario della famiglia, nella scuola e nella stessa vita pubblica.  – Né la vastità del compito dovrà farvi ricercare maggiormente il numero che non la qualità dei collaboratori. Secondo l’esempio del Divin Maestro, che volle premettere a pochi suoi anni di lavoro apostolico una lunga preparazione, e si limitò a formare nel Collegio Apostolico non molti ma scelti strumenti per la successiva conquista del mondo, così anche voi, Venerabili Fratelli, curerete in primo luogo la formazione soprannaturale dei vostri dirigenti e propagandisti, senza troppo impensierirvi né affliggervi se saranno da principio un « piccolo gregge » [4].  – E poiché sappiamo che voi già state lavorando in questo senso, vi esprimiamo il Nostro compiacimento per avere già scrupolosamente scelto e premurosamente formato buoni collaboratori, che porteranno con la parola e con l’esempio il fervore della vita e dell’apostolato cristiano nelle diocesi e nelle parrocchie.  – Codesto vostro lavoro riuscirà certo solido e profondo, alieno dalla pubblicità, dal rumore, da forme clamorose, operante nel silenzio, anche senza frutti molto appariscenti od immediati: a guisa del seme, che nell’apparente riposo sotterra prepara la nuova pianta rigogliosa.  D’altra parte la formazione spirituale e la vita interiore, che fomentate in questi vostri collaboratori, li metteranno in guardia dai pericoli e dalle possibili deviazioni. Tenendo presente il fine ultimo dell’Azione Cattolica, che è la santificazione delle anime, secondo il precetto evangelico: «Cercate anzitutto il regno di Dio » [5] non si correrà il rischio di sacrificare i princìpi a fini immediati e secondari e non si dimenticherà mai che a quel fine supremo si debbono subordinare anche le opere sociali ed economiche e le iniziative caritatevoli.  – Il Signor Nostro Gesù Cristo ce lo insegnò con l’esempio: perché anche quando, nella ineffabile tenerezza del suo Cuore divino che gli faceva esclamare: « Sento compassione di questa folla … Se li rimando digiuni alle proprie case, verranno meno per via » [6], guariva le infermità del corpo e sovveniva ai bisogni temporali, aveva sempre di mira il fine supremo della sua missione, cioè la gloria del Padre suo, e la salute eterna delle anime.  – Non sfuggono pertanto all’attività dell’Azione Cattolica le cosiddette opere sociali, in quanto mirano ad attuare i princìpi della giustizia e della carità e in quanto sono mezzi per avvicinare le moltitudini; giacché spesso non si giunge alle anime se non mediante il sollievo delle miserie corporali e delle necessità economiche. Il che Noi stessi, come già il Nostro Predecessore di s. m. Leone XIII, raccomandammo più volte. Ma è pur vero che, se l’Azione Cattolica ha il dovere di preparare uomini adatti per dirigere tali opere e di segnarne i princìpi che devono guidare con le norme e le direttive attinte alle genuine fonti delle Encicliche, non deve tuttavia assumerne la responsabilità in quella parte puramente tecnica, finanziaria, economica, che sta fuori dalle sue competenze e dalle sue finalità.  – Di fronte alle frequenti accuse fatte alla Chiesa di essere indifferente ai problemi sociali, o inetta a risolverli, non si cessi dal proclamare che soltanto la dottrina e l’opera della Chiesa, assistita com’è dal divino suo Fondatore, può portare rimedio ai gravissimi mali che travagliano l’umanità.  – A voi dunque (come già avete dimostrato di volere fare) spetta attingere a questi princìpi fecondi le norme sicure, per risolvere le gravi questioni sociali nelle quali oggi si dibatte la vostra Patria, quali sono ad esempio il problema agrario, la riduzione dei latifondi, il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e delle loro famiglie.  – Così, pur mettendo sempre in salvo l’essenza dei diritti primari e fondamentali, quali, ad esempio, il diritto di proprietà, ricorderete come talvolta il bene comune imponga restrizioni a tali diritti e un ricorso, più frequente che in passato, alle applicazioni della giustizia sociale.  – A tutela della dignità della persona umana può occorrere talvolta denunciare e biasimare arditamente condizioni di vita ingiuste e indegne; nello stesso tempo però bisognerà guardarsi, sia dal legittimare la violenza col pretesto di portare rimedio ai mali del popolo, sia dall’ammettere e favorire quelle rapide e violente mutazioni di condizioni secolari della società, che possono portare a effetti più funesti del male stesso al quale si voleva porre riparo.  – Questo intervento nella questione sociale vi porterà altresì ad occuparvi con zelo particolare della sorte di tanti poveri operai, che troppo facilmente divengono preda di una propaganda scristianizzatrice, col miraggio di vantaggi economici presentati alle loro menti quasi mercede della loro apostasia da Dio e dalla sua Chiesa.  – Se amate veramente l’operaio (e dovete amarlo perché le sue condizioni di vita maggiormente si avvicinano a quelle del divino Maestro) dovete assisterlo materialmente e religiosamente. Materialmente, procurando che sia a suo favore praticata non solo la giustizia commutativa ma anche la giustizia sociale, cioè tutte quelle provvidenze che mirano a sollevarne la condizione di proletario; religiosamente poi, ridandogli i conforti religiosi, senza i quali egli si dibatterà in un materialismo che lo abbrutisce e lo degrada.  – Non meno grave né meno urgente è un altro dovere; quello della assistenza religiosa ed economica dei « campesinos » ed in genere di quella parte non piccola di vostri figli che formano la popolazione, per lo più agricola, degli Indii. Sono milioni di anime, pur esse redente da Cristo, da Lui affidate alle vostre cure e di cui vi chiederà conto un giorno: sono milioni di individui spesso in così tristi e miserevoli condizioni di vita, da non avere nemmeno quel minimo di benessere indispensabile per tutelare la stessa dignità umana. Vi scongiuriamo, Venerabili Fratelli, nelle viscere della carità di Cristo, ad aver cura particolare di cotesti figli, ad incoraggiare il vostro clero a dedicarsi con sempre crescente zelo alla loro assistenza, e ad interessare tutta l’Azione Cattolica Messicana a quest’opera di redenzione morale e materiale.  – Né possiamo qui omettere un cenno a un dovere che in questi ultimi anni va sempre crescendo d’importanza: l’assistenza ai Messicani emigrati all’estero, i quali, sradicati dalla loro terra e dalle loro tradizioni, più facilmente divengono preda della insidiosa propaganda di emissari, che cercano di indurli ad apostatare dalla loro Fede. Un accordo con i vostri zelanti confratelli degli Stati Uniti d’America procurerà una cura più diligente ed organizzata da parte del clero locale, ed assicurerà agli emigrati messicani quelle provvidenze economiche e sociali che sono così sviluppate nella Chiesa Nord americana.  – Se l’Azione Cattolica non può trascurare le classi più umili e più bisognose degli operai, dei contadini, degli emigrati, ha in altri campi non meno gravi ed imprescindibili doveri. Fra l’altro essa deve con sollecitudine tutta particolare occuparsi degli studenti, che un giorno avranno, come professionisti, una grande influenza nella società e forse anche copriranno cariche pubbliche. Alla pratica della religione cristiana, alla formazione dell’indole e della coscienza cattolica, che sono elementi fondamentali per tutti i fedeli, dovete associare una speciale ed accurata educazione e preparazione intellettuale, appoggiata alla filosofia cristiana, quella cioè che con tanta verità fu detta filosofia perenne. Oggi, infatti, una solida ed adeguata istruzione religiosa sembra ancora più necessaria che in altri tempi, data la contraria tendenza sempre più generale della vita moderna alle esteriorità, la riluttanza e difficoltà alla riflessione e al raccoglimento, anzi la propensione, anche nella vita religiosa, a lasciarsi guidare più dal sentimento che dalla ragione.  – Quello che lodevolmente fa l’Azione Cattolica in altri paesi per la formazione culturale e per ottenere che l’istruzione religiosa abbia il primato intellettuale fra gli studenti e laureati cattolici, desideriamo ardentemente che si faccia, nella misura del possibile, anche tra di voi, adattando l’istruzione alle particolari condizioni, necessità e possibilità della vostra Patria.  – Ci dànno molta fiducia per un migliore avvenire del Messico gli universitari che militano nell’Azione Cattolica, e non dubitiamo che essi corrisponderanno alle Nostre speranze. È evidente che essi sono parte, e parte importante, di questa Azione Cattolica che Ci sta così a cuore, quali siano le sue forme organizzative, che dipendono in gran parte da condizioni e circostanze locali, varianti da paese a paese. Questi universitari, anzi, non solo ci assicurano, come dicemmo, le più valide speranze di un domani migliore, ma oggi stesso possono rendere effettivi servizi alla Chiesa e alla Patria, sia con l’apostolato che compiono tra i loro compagni, sia dando ai vari rami e alle varie organizzazioni dell’Azione Cattolica capaci e illuminati dirigenti.  – Le speciali condizioni della vostra Patria ci obbligano a richiamarvi la necessaria, doverosa, imprescindibile cura dei fanciulli, la cui innocenza è insidiata, la cui educazione e formazione cristiana sono messe a così dura prova.  – A tutti i Cattolici messicani si impongono due gravi precetti: l’uno negativo, che è di tenere quanto è possibile lontani i fanciulli dalla scuola empia e corruttrice; l’altro positivo, che è di procurare ad essi una conveniente, accurata assistenza ed istruzione religiosa. Sul primo punto, così grave e delicato, abbiamo già avuto, anche recentemente, occasione di farvi conoscere il Nostro pensiero. Per quanto poi riguarda l’istruzione religiosa, sebbene conosciamo con quanta insistenza voi stessi l’abbiate raccomandata ai vostri sacerdoti e ai vostri fedeli, pur vi ripetiamo che, essendo questo uno fra i più importanti e capitali problemi di oggi per la Chiesa messicana, è necessario che quanto si fa già lodevolmente in alcune diocesi si estenda a tutte le altre, in modo che i sacerdoti e i militi dell’Azione Cattolica si applichino con ogni ardore e senza badare ad alcun sacrificio a conservare a Dio e alla Chiesa questi piccoli, per i quali il divino Salvatore ha mostrato tanta predilezione. – L’avvenire di queste giovani generazioni — ve lo ripetiamo con tutta l’angoscia del Nostro cuore paterno — desta in Noi le più vive sollecitudini e le più gravi ansietà. Sappiamo a quali pericoli sono esposte oggi più che mai la fanciullezza e la gioventù, dappertutto, ma in particolar modo nel Messico, dove una stampa immorale e antireligiosa pone nei loro cuori i germi della loro apostasia da Gesù Cristo. Per rimediare a tanta iattura e premunire i vostri giovani da siffatti pericoli, occorre che tutti gli espedienti legali e tutte le forme organizzative siano posti in atto, come, per esempio, le Leghe di Padri di famiglia, i Comitati di moralità e di vigilanza sulle pubblicazioni e di censura dei cinematografi.  – Per quello che riguarda la difesa individuale dei singoli, Noi ben sappiamo, per testimonianza che Ci perviene da tutto il mondo, che il militare nelle file dell’Azione Cattolica costituisce il presidio migliore contro le insidie del male, la più bella scuola di virtù e di purezza, la più efficace palestra di fortezza cristiana. Proprio questi giovani, rapiti dalla bellezza dell’ideale cristiano, sostenuti dall’aiuto divino che si assicurano con la preghiera e con i sacramenti, si dedicheranno con ardore e con gioia alla conquista delle anime dei loro compagni, raccogliendo consolante messe di bene. – In ciò abbiamo un’altra prova che, di fronte ai bisogni così grandi del Messico, l’Azione Cattolica non si può dire opera di secondaria importanza. Qualora dunque essa, che è educatrice delle coscienze e formatrice delle doti morali, venisse comunque posposta ad altra opera estrinseca di qualsiasi specie, anche se si trattasse di sorgere a difesa delle necessarie libertà religiose e civili, si commetterebbe un ben doloroso abbaglio; perché la salute del Messico, come di ogni altra società umana, è posta anzitutto nella eterna, immutabile dottrina evangelica e nella pratica sincera della morale cristiana.  – Stabilita questa graduazione di valori e di attività, deve peraltro ammettersi che la vita cristiana, per svolgersi, ha bisogno pure di ricorrere a mezzi esterni e sensibili; che la Chiesa, essendo una società di uomini, richiede, rispetto alla naturale esigenza della vita e del suo necessario incremento, una legittima libertà d’azione, e che i suoi fedeli hanno diritto di trovare nella società civile possibilità di vivere in conformità ai dettami della loro coscienza.  – È quindi naturale che, quando le più elementari libertà religiose e civili vengono impugnate, i cittadini Cattolici non si rassegnino senz’altro a rinunziarvi. Tuttavia la rivendicazione anche di questi diritti e di queste libertà potrà essere più o meno opportuna, più o meno energica, a seconda delle circostanze.  – Voi avete più di una volta ricordato ai vostri fedeli che la Chiesa è fautrice di ordine e di pace, anche a costo di gravi sacrifici, e che condanna ogni ingiusta insurrezione e violenza contro i poteri costituiti. D’altra parte fra di voi si è pure detto che, qualora questi poteri insorgessero contro la giustizia e la verità al punto di distruggere le fondamenta stesse dell’autorità, non si vedrebbe come dover condannare quei cittadini che si unissero per difendere con mezzi leciti ed idonei se stessi e la Nazione, contro chi si vale del potere per trarne a rovina la cosa pubblica.  – Se la soluzione pratica dipende dalle circostanze concrete, dobbiamo tuttavia da parte Nostra ricordarvi alcuni princìpi generali, da tener sempre presenti, e cioè:

1) che queste rivendicazioni hanno ragione di mezzo, o di fine relativo, non di fine ultimo ed assoluto;

2) che, in ragione di mezzo, devono essere azioni lecite e non intrinsecamente cattive;

3) che, se vogliono essere mezzi proporzionati al fine, devono usarsi solo nella misura in cui servono ad ottenere o rendere possibile, in tutto o in parte, il fine, ed in modo da non recare alla comunità danni maggiori di quelli che si vorrebbero riparare;

4) che l’uso di tali mezzi e l’esercizio dei diritti civici e politici nella loro pienezza, abbracciando anche problemi di ordine puramente materiale e tecnico, o di difesa violenta, non entrano in alcun modo nei compiti del clero e dell’Azione Cattolica come tali, benché ad essi appartenga preparare i cattolici a far retto uso dei loro diritti ed a propugnarli per tutte le vie legittime, secondo l’esigenza del bene comune;

5) Il clero e l’Azione Cattolica — essendo per la loro missione di pace e di amore consacrati ad unire tutti gli uomini « nel vincolo della pace » [7] — devono contribuire alla prosperità della Nazione, specialmente fomentando l’unione dei cittadini e delle classi e collaborando a tutte le iniziative sociali, che non siano in contrasto con il dogma o la legge morale cristiana.  – Del resto, questa stessa attività civile dei cattolici messicani, svolta con uno spirito così nobile ed elevato, otterrà risultati tanto più efficaci quanto più i cattolici stessi avranno quella visione soprannaturale della vita, quella educazione religiosa e morale e quello zelo ardente per la dilatazione del Regno di Cristo che l’Azione Cattolica si propone di dare.  – Di fronte a una felice coalizione di coscienze che non intendono rinunziare alla libertà rivendicata loro da Cristo [8], quale potere o forza umana potrebbe aggiogarle al peccato? Quali pericoli, quali persecuzioni, quali prove potrebbero separare anime così temprate dalla carità di Cristo? [9].  – Questa retta formazione del perfetto cristiano e cittadino, in cui il soprannaturale nobilita tutte le doti e le azioni e le esalta, contiene anche, come è naturale, il compimento dei doveri civili e sociali. Di fronte agli avversari della Chiesa, Sant’Agostino proclamava a lode dei suoi fedeli: «Datemi tali padri di famiglia, tali figli, tali padroni, tali sudditi, tali mariti, tali spose, tali uomini di governo, tali cittadini, come quelli che forma la dottrina cristiana, e se non potete darli, confessate che questa dottrina cristiana, se si pratica, è la salvezza dello Stato » [10].  – Così, un Cattolico si guarderà, ad esempio, di trascurare il suo diritto di voto quando viene a repentaglio il bene della Chiesa o della Patria. Né potrà darsi il pericolo di vedere Cattolici che per l’esercizio delle attività civiche e politiche si organizzano in gruppi particolari, talvolta contrastanti tra di loro od anche contrari alle direttive dell’autorità ecclesiastica. Ciò sarebbe un accrescere la confusione e un disperdere le forze, a tutto detrimento sia dello sviluppo dell’Azione Cattolica sia della causa stessa che si vorrebbe difendere.  – Già abbiamo accennato ad attività che, sebbene non contrastanti, sono certo al di fuori dell’Azione Cattolica, come sarebbero quelle di partito politico o quelle prettamente economico-sociali. Ma esistono molte altre benefiche attività — come le Leghe di Padri di Famiglia, per la difesa delle libertà scolastiche e dell’insegnamento religioso, l’Unione di cittadini per la difesa della famiglia e della santità del matrimonio, e della pubblica moralità — che si possono riordinare attorno al nucleo centrale della Azione Cattolica. Essa infatti non si irrigidisce in schemi fissi; coordina anzi, come attorno ad un centro irradiatore di luce e di calore, altre iniziative ed istituzioni ausiliarie che pur godendo di una giusta autonomia e di una opportuna libertà di azione, necessarie per il raggiungimento dei loro fini specifici, sentono però il bisogno di seguirne le direttive programmatiche.  – Ciò vale soprattutto per la vostra così estesa Nazione ove la varietà dei bisogni e delle condizioni locali può richiedere che, pur sulla base di princìpi comuni, si usino diversi metodi di organizzazione e si abbiano anche diverse soluzioni pratiche, ma egualmente giuste, di uno stesso problema. – Spetterà a voi, Venerabili Fratelli, collocati dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio, dare l’ultima decisione pratica in questi casi, alla quale i fedeli presteranno docilità e fedeltà secondo le vostre direttive. Il che Ci sta sommamente a cuore, perché la retta intenzione e l’obbedienza, sempre e dappertutto, sono le condizioni indispensabili per attirare le benedizioni divine sul ministero pastorale e sull’Azione Cattolica e a determinare quell’unità d’indirizzo e quella fusione di energie che sono un presupposto indispensabile alla fecondità dell’apostolato. Scongiuriamo pertanto con tutto l’animo Nostro i buoni Cattolici Messicani ad aver cara l’obbedienza e la disciplina. «Obbedite ai vostri capi e state loro sottomessi. Essi vegliano su di voi, come chi ha da renderne conto ». E sia l’obbedienza piena di gioia e stimolatrice delle migliori energie, « affinché facciano questo con gioia e non gemendo » [11]. Chi obbedisce solo a malincuore e come per forza, sfogando l’interno risentimento in amare critiche contro i superiori ed i compagni di lavoro, contro tutto ciò che non è secondo il proprio modo di vedere, allontana le benedizioni divine, infrange il nerbo della disciplina e distrugge là dove si dovrebbe costruire.  – Insieme con l’obbedienza e la disciplina Ci piace ricordare quegli altri doveri di carità universale che Ci vengono suggeriti da San Paolo in quello stesso cap. IV della Lettera agli Efesini, che abbiamo già citato e che dovrebbe essere la norma fondamentale di tutti quelli che lavorano nella Azione Cattolica: «Vi esorto dunque, io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna… con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito » [12].  – Ai Nostri carissimi figli messicani, che sono tanta parte delle cure e delle sollecitudini affettuose del Nostro Pontificato, rinnoviamo l’appello alla unità, alla carità, alla pace, nel lavoro apostolico dell’Azione Cattolica, che dovrà ridonare Cristo al Messico e restituirvi la pace e la prosperità anche temporale.  – I Nostri voti e le Nostre preghiere deponiamo ai piedi della vostra celeste Patrona invocata sotto il titolo di Nostra Signora di Guadalupe, che nel suo Santuario suscita tuttora l’amore e la venerazione di ogni Messicano. A Lei, che sotto questo titolo è venerata e benedetta anche in quest’Alma Città, dove anzi Noi stessi erigemmo una Parrocchia dedicata in suo onore, chiediamo ardentemente che esaudisca i Nostri e vostri voti, per il prospero avvenire del Messico, della pace di Cristo nel Regno di Cristo. Con questi voti e con questi sentimenti impartiamo di tutto cuore a voi, ai vostri sacerdoti, all’Azione Cattolica Messicana, a tutti i diletti figli del Messico, a tutta la nobile Nazione messicana una specialissima Apostolica Benedizione. – Sia questa Nostra Lettera un pegno di risurrezione spirituale pel vostro paese: abbiamo voluto datarla per la Pasqua di Risurrezione, quale paterno auspicio che, come siete stati così vivamente partecipi dei patimenti di Cristo, così sarete del pari partecipi della sua risurrezione.

Dato a Roma, presso San Pietro, nella festa della Pasqua di Risurrezione, il 28 marzo 1937, anno XVI del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

[1] I Petr., II, 9.

[2] Rom., XII, 5.

[3] Ephes., IV, 12-16.

[4] Luc., XII, 32.

[5] Luc., XII, 31.

[6] Marc., VIII, 2-3.

[7] Ephes., IV, 3.

[8] Gal., IV, 31.

[9] Rom., VIII, 35.

[10] Epist. 138 ad Marcellinum, c. 2, n. 15.

[11] Hebr., XIII, 17.

[12] Ephes., IV, 1-4.

DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA X dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LIV:17; 18; 20; 23
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante saecula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet. [Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Ps LIV:2
Exáudi, Deus, oratiónem meam, et ne despéxeris deprecatiónem meam: inténde mihi et exáudi me.
[O Signore, esaudisci la mia preghiera e non disprezzare la mia supplica: ascoltami ed esaudiscimi.]
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.
[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui omnipoténtiam tuam parcéndo máxime et miserándo maniféstas: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, ad tua promíssa curréntes, cœléstium bonórum fácias esse consórtes.
[O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto perdonando e compatendo, moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché quanti anelano alle tue promesse, Tu li renda partecipi dei beni celesti.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XII: 2-11
Fratres: Scitis, quóniam, cum gentes essétis, ad simulácra muta prout ducebámini eúntes. Ideo notum vobisfacio, quod nemo in Spíritu Dei loquens, dicit anáthema Jesu. Et nemo potest dícere, Dóminus Jesus, nisi in Spíritu Sancto. Divisiónes vero gratiárum sunt, idem autem Spíritus. Et divisiónes ministratiónum sunt, idem autem Dóminus. Et divisiónes operatiónum sunt, idem vero Deus, qui operátur ómnia in ómnibus. Unicuíque autem datur manifestátio Spíritus ad utilitátem. Alii quidem per Spíritum datur sermo sapiéntiæ álii autem sermo sciéntiæ secúndum eúndem Spíritum: álteri fides in eódem Spíritu: álii grátia sanitátum in uno Spíritu: álii operátio virtútum, álii prophétia, álii discrétio spirítuum, álii génera linguárum, álii interpretátio sermónum. Hæc autem ómnia operátur unus atque idem Spíritus, dívidens síngulis, prout vult.

Omelia I

[Mons. G. Bonomelli, Omelie, vol. III – Torino, 1899. Omelia XXI]

« Voi sapete, che, essendo Gentili, andavate agli idoli muti, come vi menavano. Perciò vi dico che nessuno, parlando nello Spirito di Dio, può dire anatema a Gesù; e che nessuno può dire Signore Gesù, se non per lo Spirito Santo. Vi sono poi diversi doni, ma lo Spirito è medesimo: e sono diversi ministeri, ma è lo stesso Signore; e sono diverse operazioni, ma è lo stesso Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito ad utilità. Perciocché ad uno è data per lo Spirito parola di sapienza, ad altro di scienza, secondo lo Spirito stesso. Ad altro la fede per il medesimo Spirito, ad altri doni di guarigioni nello stesso Spirito. Ad altro l’operare portenti, ad altro profezia, ad altro il discernere gli spiriti, ad altro generi di lingue, ad altro interpretazioni di lingue. Ora tutte queste cose le opera quell’uno e medesimo Spirito, dividendole a ciascuno come vuole „ (I. Cor. XII, 2-11).

Lo scopo della prima lettera di S. Paolo ai Corinti (le sentenze che or ora avete udite spettano a quella lettera) è vario, come apparisce a chi la legge anche solo superficialmente. Si studia di togliere i dissidi che turbavano la pace di quella Chiesa e vuole che, smesse le pretensioni a sapienza, riconosca nei sacri ministri Colui che li manda. Usando della sua autorità, separa dalla Chiesa l’incestuoso: stabilisce come devono regolarsi, quanto al mangiar le carni offerte agli idoli e dichiara la dottrina di Cristo intorno al matrimonio ed alla verginità, e dà le norme intorno al modo di celebrare la cena e di ricevere la S. Eucaristia. Nella primitiva Chiesa erano assai frequenti i doni straordinari, secondo la promessa di Cristo. L’Apostolo per cessare i pericoli e la confusione che ne potevano derivare nella Chiesa, ricorda ai fedeli la dottrina cattolica intorno a questi doni e poi traccia le regole pratiche, alle quali si devono attenere nell’uso dei medesimi. Nella lezione che debbo spiegare, si espone la dottrina cattolica rispetto a tutti i doni celesti, ed essa è ben meritevole di tutta la vostra attenzione. Dio è il Padre dei lumi, dice S. Giacomo, è la fonte inesauribile di tutti i doni, siano naturali, siano sovrannaturali. I doni di Dio, che appartengono all’ordine sovrannaturale, si sogliono partire in due grandi classi: alla prima classe spettano i doni più eccellenti, quelli che per se stessi ci fanno grati a Dio, ci costituiscono suoi amici, anzi suoi figliuoli e partecipi della sua stessa natura; tal è la grazia di Dio santificante. Alla seconda classe di doni sovrannaturali appartengono quelli che propriamente non ci fanno amici di Dio, ma che ci possono condurre a Lui e che si possono trovare e si trovano di fatti anche in uomini peccatori. Così taluno può avere il dono della profezia, di far miracoli e andate dicendo, e vivere in peccato ed anche perdersi. Questi doni sovrannaturali nessuno può meritarli; Iddio li concede a chi vuole secondo i consigli della sua sapienza, e direttamente hanno per fine, non il bene di chi li riceve, ma sì il bene altrui. Così il potere sacerdotale è volto principalmente alla salvezza delle anime e può trovarsi e validamente si esercita anche da chi ne è indegno e vive nel peccato e nello scandalo. S. Paolo nel luogo che siamo per ispiegare, ragiona dei doni sovrannaturali della seconda classe, a quei tempi molto comuni, perché erano ordinati a diffondere e stabilire la fede e la Religione ch’era in sul suo nascere. – L’Apostolo scrive ai Corinti, molti dei quali erano stati Gentili, e dopo aver detto loro: “Quanto ai doni spirituali non voglio che ne siate ignari, ,, prosegue e scrive: “Voi sapete, che, essendo Gentili, andavate agli idoli mutoli, come vi menavano. „ Con destrezza affatto naturale, S. Paolo contrappone lo stato presente a quello in cui, poco prima, si trovavano quei suoi neofiti allo scopo manifesto di far loro conoscere l’immenso beneficio ricevuto. Non potete dimenticarlo, par che dica l’Apostolo: pochi anni or sono voi eravate idolatri e adoravate statue mute e come pecore vi lasciavate condurre a’ loro piedi. Voi, esseri dotati di ragione e di libera volontà, prestavate il vostro culto ad idoli muti, sordi, senza vita. Quale vergogna per voi caduti sì basso! Ora avete conosciuto Dio, il vero Dio, puro spirito e Lui solo adorate, Lui, sorgente d’ogni bene e perciò siete capaci di conoscere il pregio eccelso de’ suoi doni e il modo di usarne a vostra santificazione. “Il perché vi significo, continua S. Paolo, che nessuno, parlando nello Spirito di Dio, può dire anatema a Gesù. „ Dire anatema significa maledire, bestemmiare, esecrare, ed è forma di parlare ebraica. Volete conoscere chi ha lo Spirito di Dio e possiede la verità? – Volete conoscere i veri dottori e distinguerli dai falsi, dagli impostori? Tenete questa regola: Chi sente bene di Gesù Cristo, lo riconosce, lo confessa qual è, nostro Salvatore, chi l’onora e l’ama, costui ha lo Spirito di Dio, è nella verità, e potete sicuramente ascoltarlo e seguirlo. In quei primi principi, erano già sorti non pochi maestri, che insegnavano perverse dottrine: chi diceva ch’era uomo soltanto e non Dio: chi affermava che non aveva corpo vero, ma solo apparente, e perciò solo apparentemente aveva patito ed era morto, e chi altri errori spacciava intorno a Gesù Cristo. Ebbene: chiunque erra intorno a Gesù Cristo e lo bestemmia, sappiatelo bene, non parla nel suo spirito, e fuggitelo. Questo stesso criterio è ripetutamente stabilito quarant’anni dopo da S. Ignazio M. nelle sue magnifiche lettere, che sembrano l’eco di quelle di san Paolo, del quale dovette essere discepolo. Per contrario, “Nessuno può pronunziare Signore Gesù, se non per lo Spirito santo. „ In altri termini: Chi riconosce Gesù per Signore, lo confessa, lo benedice, questi ha lo spirito di Lui, e in Lui dovete riconoscere un suo sincero discepolo. Una grande verità è qui affermata dall’Apostolo, ed è questa: “Nessuno, sia quanto si voglia pieno d’ingegno e di dottrina, senza la grazia divina, senza l’aiuto dello Spirito Santo, può credere e sperare, come si deve, in Gesù Cristo, e nemmeno invocarlo a salute”. Senza gli occhi potreste voi vedere le cose? Senza gli orecchi potreste voi udire? Senza la ragione potreste voi ragionare e senza volontà potreste voi volere? Certo che no, e non occorre dimostrarlo. Similmente senza la grazia di Dio, che illumina la nostra mente ed eccita ed avvalora la nostra volontà, noi non solo non possiamo credere, né sperare, né amare Iddio, ma nemmeno fare il minimo atto od avere il minimo pensiero, che a Lui ci guidi e ci renda accettevoli. In una parola: senza l’aiuto della grazia divina non possiamo fare né poco, né molto, in ordine alla nostra salvezza, ma nulla, perfettamente nulla: non possiamo nemmeno pronunciare o invocare, come si deve, il nome di Gesù! “Nemo potest dicere Dominus Jesus nisi in Spiritu sancto”. Quale argomento di umiliarci dinanzi a Dio e di riconoscere la necessità assoluta della sua grazia e di chiederla con ogni istanza! Tutti i beni, tutte le grazie vengono da Dio, e senza di Lui non abbiamo, né possiamo fare cosa alcuna: è verità di fede. “Sono poi diversi i doni, ma lo Spirito è il medesimo. „ I doni, dei quali qui si discorre, sono quelli, che si chiamano gratis dati, per es. i miracoli, le profezie, i doni del sacro ministero e via via: essi sono vari e più innanzi li nomina distintamente, ma la causa o il principio che li produce è un solo, lo Spirito Santo. Quantunque tutti questi doni vengano tutti egualmente dalle tre divine Persone, nondimeno si attribuiscono specialmente allo Spirito Santo, perché esso è l’Amore sostanziale del Padre e del Figlio, e questi doni sono un frutto od una conseguenza dell’amore di Dio verso di noi. – “E diversi sono i ministeri, ma è lo stesso Signore. „ La parola ministeri, qui usata, significa i diversi uffici o servigi che sono nella Chiesa, per es. l’ufficio di diacono, di prete, di vescovo; sono diversi, è vero, ma è un solo e medesimo che li ha istituiti, che è Gesù Cristo, fondatore della Chiesa. – “E diverse sono le operazioni, ma è lo stesso Dio che opera tutto in tutti. „ Con la parola operazioni, S. Paolo indica la potenza, la forza od efficacia, per cui le grazie e i ministeri sacri producono i loro effetti variamente; ma il  principio da cui derivano, è sempre Dio e più propriamente il Padre, che è il principio senza principio del Figlio e dello Spirito Santo. E Dio opera tutto in tutte le cose: “Operatur omnia in omnibus”. Questa espressione o sentenza, perché non sia torta a cattivo senso, richiede un po’ di spiegazione. – Senza fallo tutte le cose che esistono, tanto nell’ordine naturale, che nel sovrannaturale, tutte muovono da Dio, sono effetto dell’azione divina: Qui operatur omnia. Ma Dio opera o produce anche gli effetti che derivano dalle cause seconde? Il fuoco brucia, la luce illumina, l’acqua bagna, l’albero germoglia il suo frutto: questi effetti sono essi prodotti da Dio stesso? Certamente il fuoco brucia per sé, e la luce lumina per sé, e l’acqua per sé bagna, e l’albero per sé fruttifica; ma perché poi tutte queste cose producono questi effetti? Donde traggono le forze per produrli? Essi fanno ciò che fanno, perché tale è la loro natura, né potrebbero fare diversamente da quello che fanno; ma la forza per cui producono gli effetti, che noi vediamo, fondamentalmente la ricevono da Dio solo, che le ha create, tantoché possiamo dire che è Dio che opera per loro, e tutto opera in ciascuna di loro. Onde è verità certissima il dire che Dio brucia col fuoco, ci illumina con la luce, ci disseta con l’acqua, ci nutre coi frutti degli alberi e ci veste con le lane delle pecore: Deus operatur omnia in omnibus. Tutti i servigi che noi riceviamo ad ogni istante, dalle creature che ne circondano, li riceviamo veramente da Dio, poiché esse non fanno che ciò che Dio Creatore vuole facciano: sono esecutrici fedeli e infallibili delle sue leggi e de’ suoi voleri. – È dunque un linguaggio pieno di verità quello che si ode sì spesso sulle labbra del popolo credente: Dio ci ha dato la pioggia! Dio ci dà il calore del sole! Dio ne ha concesso un raccolto abbondante! Dio ci ha mandata questa siccità! e via dicendo. È dunque un linguaggio pieno di verità e a torto gli uomini della scienza lo biasimano quasi erroneo e contrario alla scienza. Il popolo in tutti i fenomeni naturali vede e riconosce la Causa prima senza negare le cause seconde, e a quella li ascrive: gli uomini della scienza non badano alla Causa prima e si fermano alle cause seconde. Questi ragionano bene, e ragionerebbero meglio se quando è necessario e conveniente, dalle cause seconde risalissero alla Causa prima, e quelli riconoscendo la prima debbono riconoscere anche le cause seconde o immediate: ma questi meritano compatimento se non le ricordano, perché spesso le ignorano: ma il loro linguaggio è sempre vero e sapiente. Ma vi sono creature, fornite di ragione e libertà, come gli Angeli e gli uomini; anch’esse operano secondo la loro natura. Ma come? Sicuramente in modo ben diverso da quello che tengono le creature irragionevoli. Le creature ragionevoli operano liberamente, possono fare e non fare, a questo e a quel modo, e Iddio non le sforza, ma rispetta Egli stesso quella libertà che loro ha data. Ma la forza di fare ciò che fanno, sia bene, sia male, da chi la ricevono? Anch’esse tutte e sempre la ricevono da Dio solo, e perciò è giusto il dire che anche in esse Dio opera tutto in ciascuna: Operatur omnia in omnibus. Non opera, né può operare il male, ch’Egli non vuole, né può volere, ma la forza con cui l’uomo fa il male, anche questa viene da Dio. È vero pertanto che tutto è dono di Dio, in qualunque ordine di cose, e ch’Egli opera tutto in ogni cosa. Dio è un solo e nella semplicissima sua unità, produce la più sterminata varietà di effetti: diversissimi sono i doni, eppure un solo è lo Spirito da cui scaturiscono. – S. Cirillo di Gerusalemme spiega la cosa con una similitudine, che non è senza grazia. Uditelo: “Vedete, così il santo in una delle sue mirabili catechesi, vedete l’acqua; essa è una sola e da per tutto la stessa, senza colore proprio; fate che si spanda sopra un prato e lo irrighi; dovunque spuntano fiori per colore e fragranza differentissimi tra loro. Similmente la grazia dello Spirito Santo: essa è una sola in se stessa, eppure variamente partecipata produce vari effetti, ond’è verissima la sentenza dell’Apostolo: Diverse sono le operazioni, ma è lo stesso Iddio, che opera tutto in tutti. „ S. Paolo ora discende ai doni particolari, che Dio concede a vantaggio della Chiesa: “A ciascuno è data la manifestazione dello Spirito a fine di utilità; „ il che vuol dire che il dono dello Spirito santo, nel quale lo stesso Spirito Santo si fa conoscere, come il sole si manifesta nei suoi raggi, ha per fine proprio il bene della Chiesa. E in vero; ad uno è data la parola di sapienza per lo Spirito Santo: “Alii quidem datur sermo sapientìæ”. Che è quanto dire, lo Spirito Santo ad uno elargisce il dono di spiegare i misteri più alti della dottrina evangelica, di gustare e far gustare con la parola le verità più sublimi e farne sentire tutta l’altezza e la profondità, la lunghezza e la larghezza, come altrove scrive lo stesso Apostolo:  “Ad un altro è data la parola della scienza, secondo lo stesso Spirito. „ Noi possiamo conoscere semplicemente le verità, averne la nozione precisa, e possiamo conoscerle, assaporarne la bellezza e la dolcezza e praticarle: questo secondo dicesi dono della sapienza, quel primo, dono della scienza. Non occorre il dire che la sapienza sovrasta alla scienza e ne è, a così dire, il fine. Un teologo o filosofo può conoscere nettamente le verità della fede, spiegarvele e mostrarvele ad evidenza senza praticarle: S. Francesco d’Assisi, che passa le notti intere, meditando quelle parole; ” Mio Dio, voi siete tutto per me, „ si delizia nella contemplazione della verità: egli possiede il dono della sapienza. La scienza è luce, sì, ma luce fredda: la sapienza è luce che spande per tutte le fibre dell’anima il tepore ed il calore della vita, che ci fa amare e praticare la verità. – Seguitiamo l’Apostolo nella sua lunga enumerazione dei doni celesti: ” Ad un altro è data la fede nello stesso Spirito: “Alteri fides in eodem Spiritu”. Gesù Cristo un giorno disse agli Apostoli: “Se voi avete fede, direte a questo monte: Tirati in là e gettati in mare, e il monte ubbidirà. „ E di questa fede, operatrice di miracoli, non della fede ordinaria e comune, teologica, che Gesù Cristo ragiona. Questa è un dono singolare, punto necessaria per salvarsi, ma solo per operare miracoli. – “Ad altri sono dati doni di guarigioni nello stesso Spirito. „ Gesù Cristo e gli Apostoli assai volte con una parola, con un cenno, con una preghiera, con l’ombra della loro persona scacciavano le infermità più ostinate e restituivano ai miseri che n’erano travagliati, la perfetta guarigione. Questo dono speciale di guarire gli infermi era assai comune nella Chiesa dei primi secoli, e qui è ricordato da S. Paolo: ” Ad altro è dato operare prodigi: „ Alii operatio virtutum. Nella sentenza precedente S. Paolo accenna in particolare il dono di risanare gli infermi, qui designa più largamente il dono di far miracoli: Alii operatio virtutum, che è molto più ampio del far guarigioni, giacché comprende qualunque miracolo. “Ad altri è data la profezia. „ Ve lo dissi altra volta: la parola profezia ha parecchi significati distinti nei Libri santi, e due sono i principali: talora la parola profezia importa conoscimento e annunzio di cose future affatto superiori alle forze umane, e questo è il significato più comune e più proprio: tal altra si usa per significare semplicemente l’annunzio di verità divine, onde profeta e predicatore o apostolo equivalgono. In questo luogo la parola profezia suona precisamente il dono di dichiarare in pubblico le verità della fede, e i sensi della Scrittura santa, in modo piano ed intelligibile. – “Ad altro, continua S. Paolo, è dato il discernere gli spiriti: „ Alii discretio spirituum. Che dono è questo, dilettissimi? Ciò che avviene in fondo al nostro spirito, i pensieri, che si affacciano alla nostra mente, gli affetti e desideri, che spuntano nel nostro cuore, non sono manifesti che a Dio solo: i demoni, anzi gli stessi Angeli, senza una illustrazione particolare di Dio, non possono spingere lo sguardo nei penetrali del nostro spirito e leggervi ciò che vi passa. Possono, come noi uomini e più di noi uomini, perché dotati di acume assai maggiore, possono argomentare i pensieri e gli affetti interni dagli atti esterni ed averne una cognizione congetturale, ma non certa ed assoluta. Conoscere pertanto con sicurezza gli occulti pensieri e leggere nel libro delle coscienze, a Dio solo è riservato e a quegli uomini che Iddio rischiara della sua luce: esso è un dono affatto sovraumano, ed era frequente in quei primordi della Chiesa. “Ad altro, prosegue ancora S. Paolo, è dato di avere generi di lingue: „ Alii genera linguarum. Nessun uomo può parlare una lingua ignota: la è cosa evidente: il perché se una persona favella in una lingua ad essa ignota, è forza arguire che lo fa per virtù divina, che è un dono dall’alto. Ebbene: il dì della Pentecoste avvenne questo miracolo e avvenne pubblicamente per le vie di Gerusalemme, come si narra nel libro degli Atti apostolici. Gli Apostoli annunziavano il Vangelo nella loro lingua nativa e le turbe che li ascoltavano, benché ignare di quella, li intendevano, onde attonite esclamavano: Come avviene, che noi li intendiamo ciascuno nel nostro linguaggio? Quel fatto ebbe a ripetersi più volte e se n’ebbero prove indubitate nelle predicazioni di S. Francesco Xaverio. Ai tempi apostolici questo miracolo del favellare in una lingua ignota non doveva essere infrequente, perché S. Paolo ne parla qui e in altro luogo più innanzi. Ma se alcuni  parlavano linguaggi stranieri e mostravano in sé la virtù divina, vi erano altri che li spiegavano, illustrati sempre dallo stesso Spirito, onde S. Paolo soggiunge: “Ad un altro è data l’interpretazione delle lingue: „ Alii interpretatio sermonum. Il parlare improvvisamente una lingua affatto ignota in mezzo all’adunanza dei fedeli mostrava l’azione divina ed era una prova della verità della fede, ma non illuminava le menti, che udivano accenti strani senza afferrarne il senso: stupivano gli uditori, ma nulla apprendevano, e ciò che più importa è che  le menti siano illustrate dalla luce del vero. Ed  ecco che Iddio, aggiungendo miracolo a miracolo, in mezzo all’assemblea dei fedeli, ad un tratto dava a qualcuno il dono di interpretare quelle lingue straniere e ne spiegava i sensi, tantoché i presenti ne ritraevano edificazione. – “Tutte queste cose, conchiude il nostro Apostolo, opera un solo e medesimo Spirito, spartendole a ciascuno come vuole. „ Sono dodici doni diversi, che in questo luogo sono partitamente numerati da S. Paolo: doni che avevano per iscopo diretto di mostrare la divinità della fede, di rassodarla negli animi e propagarla rapidamente, e che per se stessi non erano tali da santificare né quelli che li possedevano, né quelli che n’erano testimoni. Questi doni se nella Chiesa non vennero, né  verranno meno giammai, sono senza fallo assai più rari, perché minore è il bisogno, e a quella prova della divina origine della cristiana Religione altre splendidissime sono sottentrate [Quando gli Apostoli cominciarono la predicazione evangelica, i miracoli erano una necessità, e perciò erano frequentissimi: più tardi la stessa propagazione e conservazione della Chiesa divennero un miracolo permanente, e l’adempimento delle profezie a tutti manifesto, può tenere il luogo di tutti i miracoli.]. – Tutti quei doni sì magnifici e sì vari sgorgavano dalla stessa fonte, da Dio, causa suprema d’ogni cosa, da Dio, che li dà a chi vuole, come vuole, quanto vuole e quando vuole perché nessuno può dirgli: Io ho il diritto di averli. L’unica ragione della partecipazione di questi doni è la volontà sovrana del donatore. – Carissimi figliuoli! Iddio dispone ogni cosa in numero, peso e misura, e come non abbonda nelle cose superflue, così non manca nelle necessarie. Gli Apostoli, annunziando il Vangelo, dovevano provarne la verità e la divina origine ai Giudei ed ai Gentili: come potevano ciò fare senza miracoli che scuotessero quei popoli rozzi, ignoranti, schiavi di superstizioni antichissime? Si trattava di insegnare e far abbracciare una Dottrina che aveva per Autore un uomo vissuto poverissimo, morto sulla croce; una dottrina, che imponeva misteri inscrutabili, che muoveva guerra asprissima a tutte le passioni: una dottrina, che veniva proposta da pescatori, da uomini sprezzati, senza cultura, senza autorità. Come far credere e tenere fermissimamente questa dottrina senza l’intervento immediato di Dio, senza la prova irrecusabile dei miracoli? E i miracoli furono fatti, si moltiplicarono sui passi degli Apostoli e dei loro discepoli, miracoli solenni, indubitati, quasi continui, come ne fanno fede gli Atti apostolici e S. Paolo in questa lettera, e la Chiesa fu stabilita. Poiché la Chiesa fu stabilita, la necessità dei miracoli se non cessò al tutto, certamente scemò di molto, ed ecco perché i miracoli nel corso dei secoli furono meno frequenti. A noi per credere la divinità della nostra Religione non occorrono nuovi miracoli; basta la cognizione certa di quelli, che accompagnarono la sua comparsa sulla terra: basta il compimento delle profezie, che si avverano sotto i nostri occhi, e la forza delle quali cresce di giorno in giorno; a noi basta la sola vista di questa Chiesa che, inerme e sempre combattuta attraverso i secoli, e sulla via da lei percorsa spande tanta luce di verità, tal serie e tal cumulo di benefici d’ogni maniera da mostrare ad evidenza, essere ella opera non degli uomini, ma di Dio. – Un’altra osservazione ed ho finito. I miracoli sono fatti visibili, certi, che ci attestano la presenza di Dio: sono la sua voce, che risuona sulla terra, l’opera immediata della sua mano, e perciò grandissimo è in tutti il desiderio di vederli, di toccarli. Per vedere un miracolo che non farebbero i popoli? Basta la sola fama, la sola voce d’un miracolo per agitarli, per far loro intraprendere lunghi viaggi,  per riempirli di gioia o di timore, per imporre loro i maggiori sacrifici. Sì, i miracoli son cose grandi e per esserne testimoni è  bene spesa qualunque fatica; ma io, grida S. Paolo, vi addito cose ancor più grandi, doni senza confronto più eccelsi, che voi potete acquistare: “Æmulaminì charismata melìora et adhuc excellentìorern viam vobis demonstro”. Io suppongo che ciascuno di voi parli per divina virtù tutte le lingue della terra e le intenda: che conosca tutti i segreti dei cuori, che con una parola risani tutte le infermità, che comandi a tutta la natura, che sappia tutti gli avvenimenti dell’avvenire, che richiami a vita novella i morti. Qual potenza! Qual gloria! Qual felicità! Ebbene: io vi dico, che chiunque di voi ha viva la fede in cuore, chiunque possiede la carità, pratica l’umiltà, la mortificazione, l’obbedienza; chiunque in breve è adorno delle virtù proprie del Cristiano, è di gran lunga superiore a chi avesse il potere di operare tutti i miracoli più strepitosi. Perché? Perché con questo potere sì glorioso potrebbe miseramente perdere l’anima sua, doveché col possesso della virtù egli è caro a Dio e assicura l’eterna sua salvezza. Una vecchierella pia e virtuosa dinanzi a Dio è più grande del massimo operatore di miracoli, a talché di Giovanni Battista sta scritto, che non fece alcun miracolo, eppure tra i figli di donna non sorse chi fosse maggiore di lui [Questa sentenza evangelica non vuol dire, come taluno parve credere, che il Precursore fosse veramente il più gran santo che sia stato sulla terra: essa significa soltanto che Giovanni Battista fu il maggiore dei profeti per ragione del suo ufficio.]

Graduale
Ps XVI:8; LXVIII:2
Custódi me, Dómine, ut pupíllam óculi: sub umbra alárum tuárum prótege me.
[Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio: proteggimi sotto l’ombra delle tue ali.]
V. De vultu tuo judícium meum pródeat: óculi tui vídeant æquitátem.
[Venga da Te proclamato il mio diritto: poiché i tuoi occhi vedono l’equità.]

Alleluja
Allelúja, allelúja

 Ps LXIV:2
Te decet hymnus, Deus, in Sion: et tibi redde tu votum in Jerúsalem. Allelúja.
[A Te, o Dio, si addice l’inno in Sion: a Te si sciolga il voto in Gerusalemme. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc XVIII:9-14.
In illo témpore: Dixit Jesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisæus, et alter publicánus. Pharisaeus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, injústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Jejúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri.Dico vobis: descéndit hic justificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.” 

Omelia II

[Mons. Bonomelli, ut supra, Om. n. XXII]

“A certi tali, che confidavano in se stessi d’essere giusti e sprezzavano gli altri, Gesù propose questa parabola: Due uomini salirono al tempio per pregare: l’uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo stava a pregare da sé in questo modo:  “O Dio, io ti ringrazio che non sono come il resto degli uomini, rapaci, ingiusti, adulteri e né anche come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana: pago le decime di ciò che posseggo”. Intanto il pubblicano, stando da lungi, non osava pure levare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto, dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore. Vi so dire che questo, a differenza di quello, se ne tornò a casa giustificato: perché chiunque si innalza sarà abbassato, e chi si abbassa, sarà innalzato „ (S. Luca, XVIII, 9-14).

È questo il Vangelo della corrente Domenica, decima dopo la Pentecoste. L’argomento è la notissima parabola del fariseo e del gabelliere, che Gesù disse verso la fine della sua missione, e forse in uno dei quattro ultimi giorni di sua vita, in Gerusalemme. Troppe volte nel Vangelo si parla di farisei e di pubblicani o gabellieri, perché non torni utile dirne quel tanto che occorre a conoscimento delle cose che li riguardaino – La parola fariseo in nostra lingua significa Separato o partigiano. I farisei formavano una setta potente, composta la maggior parte di laici. Essa ebbe origine cento settantanni prima di Cristo, allorché il popolo giudaico levossi contro i re di Siria, che lo tiranneggiavano e sotto la condotta dei Maccabei, parola che vuol dire martelli, si riscosse a libertà. I farisei si atteggiavano a rigidi osservatori della legge, nella parte materiale, attribuendo al manco di esattezza della medesima, le sventure della nazione. Alla legge poi avevano aggiunte molte tradizioni od usanze, alle quali davano forza di legge e rendevano questa non solo grave e molesta, ma perfino ridicola. – I farisei costituivano il partito nazionale per eccellenza; avversavano la signoria straniera, tenevano illecita cosa pagarle il tributo ed aspettavano e caldeggiavano la riscossa e la libertà della patria. Era naturale che l’austerità, almeno apparente della dottrina e della condotta, ed il sentimento patriottico conciliassero stima e procacciassero credito grande ai farisei presso un popolo sì ligio alla legge e sì fiero della sua indipendenza. I pubblicani o gabellieri riscuotevano le pubbliche imposte, e sia per l’ufficio, odioso per se stesso, sia per l’abuso che ne facevano e le vessazioni che cagionavano, erano in mala voce presso il popolo, a talché pubblicano e peccatore e ladro erano pressoché la stessa cosa. Questi pubblicani, per la maggior parte, dovevano essere stranieri. – Gesù, in questa parabola, ci rappresenta al vivo l’orgoglio e la burbanza nel fariseo e l’umile conoscimento di se stesso nel pubblicano. Poche parabole esprimono meglio di questa la natura e l’indole della dottrina evangelica. Uditela, e voi stessi siatene giudici.

“A certi tali, che confidavano in se stessi d’essere giusti e sprezzavano gli altri, Gesù propose questa parabola. „ Chi sono costoro, che confidano in se stessi d’essere giusti e per giunta disprezzano gli altri? L’Evangelista non li nomina, ma è facil cosa il rilevare dal tutto insieme, che erano i farisei, setta, come dicevamo, piena d’orgoglio, e per conseguenza, sprezzatrice degli altri, giacché l’orgoglio è naturalmente congiunto col disprezzo altrui. – Se bene si considera la natura della superbia e dell’orgoglio, si scorge che questa, fra tutte le passioni, è la più rea e maligna e che fra tutti i peccatori, i superbi e gli orgogliosi sono i più spiacenti a Dio. Fine supremo della creazione e di tutte le opere esterne di Dio è la sua gloria; ora la superbia, di sua natura, porta l’uomo ad attribuire a sé quella gloria, che è dovuta a Dio, lo spinge a mettersi al suo luogo, a riscuotere per proprio conto quell’onore e quegli omaggi che spettano a Dio. È dunque cosa affatto naturale che Gesù Cristo, tutto bontà e carità verso dei peccatori e delle peccatrici, che riconoscevano le proprie colpe, sia fieramente inesorabile coi farisei superbi e li flagelli senza pietà. La gola, l’avarizia, l’ira, l’invidia, la lussuria sono brutte passioni, sono peccati che disonorano la nostra natura e offendono Dio senza dubbio; ma la superbia è ben peggiore, o cari. Se la sensualità e l’incontinenza è la lussuria del corpo, la superbia è la lussuria dello spirito, è il peccato degli angeli ribelli, il primo peccato, che cominciò su in cielo, il più difficile a conoscersi, che più strettamente si abbarbica al nostro cuore, che più scaltramente si maschera e l’ultimo che si snida dal nostro spirito. Per guarire gli uomini da questo, Gesù recitò la sua parabola. “Due uomini salirono al tempio per l’orazione: l’uno era fariseo e l’altro pubblicano. „ Ho detto quanto basta intorno alle qualità di questi due uomini. Seguiamoli nel tempio e vediamo come si presentano a Dio e pregano. – Il fariseo entra con la testa alta, non degna d’uno sguardo i suoi fratelli, si apre il passo in mezzo a loro, si mette in luogo alto e in vista di tutti, presso l’altare, e ritto in piedi, così comincia la sua preghiera: “O Dio, io ti ringrazio. „ Bello ed eccellente è il principio di questa orazione! come osserva S. Agostino: il fariseo ringrazia Dio. La vita dell’uomo è un continuo beneficio di Dio, e per ciò dovrebbe essere un continuo ringraziamento, un incessante inno di lode a tanto benefattore, e le parole: “O Dio, io ti ringrazio, „  dovrebbero essere famigliarissime alla nostra lingua. Che almeno alcuna volta fra il giorno risuonino sulla nostra lingua, ricordevoli di quella sentenza, che il mezzo più efficace per ottenere da Dio benefici è quello di mostrarci grati di quelli già ricevuti. Il fariseo ha cominciato bene la sua orazione; ma ecco che subito la guasta, e l’orazione si trasforma in compiacenza presuntuosa, in millanteria ridicola. Uditelo: “O Dio, io ti ringrazio, „ di che cosa? : che non sono come il resto degli uomini, rapaci, ingiusti, adulteri. „ Egli non tanto ringrazia Dio quanto loda se stesso; non domanda nulla, come se di nulla abbisognasse e avesse raggiunto l’ultimo grado d’ogni perfezione. Peggio ancora: egli si confronta agli altri uomini, e nel suo orgoglio li trova tutti, senza eccezione, rapaci, ingiusti, adulteri. Quanta superbia in queste parole! Quanto e quale disprezzo dei fratelli suoi che mette in fascio e atrocemente insulta, chiamandoli ladri ed adulteri: Non sum sicut cœteri homìnes, raptores, injusti, adulteri! Egli solo, questo tronfio fariseo, è giusto e virtuoso, e lo è per virtù propria: vede il fuscello negli occhi altrui, e non vede la trave, se non altro, la grossa trave della superbia nel proprio. Mentre il fariseo vedeva in sé ogni virtù, e tutti gli altri trattava da ladri ed adulteri, l’occhio suo cadde sopra il pubblicano, che in fondo al tempio pregava anch’egli. Quella vista gli risvegliò più viva l’idea delle altrui malvagità: in un baleno gli si affacciarono al pensiero le ingiustizie, le rapacità, le concussioni dei pubblicani: raffrontandosi a lui, sentì crescere il suo orgoglio a dismisura, ed aggiunse queste altre parole: “Io non sono come gli altri uomini… e né anche come questo pubblicano: „ Velut etiam hìc publicanus. Lo sprezzo di questo povero gabelliere non poteva essere maggiore. Lo giudica temerariamente gran peccatore, mentre poteva non esserlo e non l’era, e lo ingiuria atrocemente qualificandolo come rapace, ingiusto ed adultero: Velut etiam hic publicanus. Ecco i frutti naturali della superbia, la presunzione, il giudizio temerario, il disprezzo altrui, l’insolenza e l’ingiuria. – Guardiamoci, o cari, da questo malnato germe della superbia, che tutti più o meno portiamo dentro noi stessi, e che è facile riconoscere dai frutti. Vogliamo noi conoscere e toccare con mano questo funestissimo germoglio, che abbiamo ereditato dal padre nostro, e che è la radice di tanti mali? Entriamo in noi: scrutiamo il nostro cuore, mettiamoci a tu per tu con la nostra coscienza, interroghiamola dinanzi a Dio, e facilmente troveremo che talora ci attribuiamo doti e beni e virtù che non abbiamo, o quelle che abbiamo, siamo inchinevoli ad ingrandirle; troveremo che abbiamo piacere che altri le conosca e ce ne dia lode: troveremo che ci turba il pensiero d’essere dimenticati, che ci sa male che altri salga in fama e che la nostra lingua è pronta a deprimere chi ci dà ombra, e ci adoperiamo a tenerli in basso, e che amiamo tener sempre il primo posto. Che è mai questo, o cari, se non il frutto del mal seme della superbia, che ha sempre profonde le radici nel nostro cuore? Studiamoci, se non di svellerle e sterparle al tutto, che è impossibile, almeno di tagliarle, per guisa che non crescano, né producano i loro frutti sì funesti. Non bastò al superbo fariseo l’affermare pubblicamente, ch’egli non era né rapace, né ingiusto, né adultero, come tutti gli altri e come il povero pubblicano; spiegate le vele all’aura sì carezzevole della vanità e della superbia, narra le sue virtù e ne fa pompa, dicendo: “Io digiuno due volte la settimana: pago le decime di quanto posseggo. „ Gli altri uomini rubano, io pago i miei debiti e do a ciascuno ciò che gli si deve, e adempio la legge in tutte le sue prescrizioni; gli altri uomini seguono le malvagie voglie della carne, io la castigo digiunando due volte la settimana, e perciò io sono giusto, o Signore. — Che dici, o fariseo arrogante? Il digiunare e adempire le prescrizioni della legge, è buona e santa cosa; ma forsechè tutta la virtù e la santità si riduce a queste due pratiche? Dove lasci la carità verso dei poveri, la pazienza, il compatimento per le altrui debolezze e sopra tutto l’umiltà del cuore? — Voi lo vedete, il fariseo ripone la sua giustizia negli atti esterni, pagare le decime e digiunare, e il resto dov’è? La virtù, la santità anzitutto sta riposta nella mente e nel cuore: Dio vuole il culto del corpo sicuramente, ma prima quello dello spirito, ed in tanto gli è accettevole il primo in quantochè proviene dal secondo. – “Signore, diceva Davide, se tu avessi voluto dei sacrifici, io per fermo te li avrei offerti; ma tu non trovi le tue compiacenze negli olocausti: il sacrificio, che tu accetti è quello d’uno spirito dolente dei suoi falli; un cuore contrito ed umiliato tu non lo respingi giammai. „ Ci stia sempre fitta nell’anima questa grande verità, o dilettissimi: Dio vuole noi più che le cose nostre: vuole prima l’ossequio della mente ed il tributo del cuore, vuole il nostro interno, e dopo, quasi segno dell’interno, gradisce gli atti esterni. Ma poniamo che il fariseo con la giustizia esterna della legge e con la mortificazione del corpo per il digiuno, avesse possedute tutte le altre virtù, se volete, anche in grado sommo; sarebbe egli stato giusto dinanzi a Dio? Avrebbe egli avuto diritto alla mercede eterna? No; con quella sua superbia egli guastava qualunque virtù, perdeva ogni ragione di merito e Dio gli avrebbe detto, come sta scritto altrove nel Vangelo: “Hai voluto menar vanto delle tue opere ed insuperbirtene? Hai ricevuta ogni mercede, e vattene. „ Voi sapete che il pregio ed il merito delle opere si misura principalmente dal fine che le informa: se questo è cattivo, l’opera stessa, ancorché buona in se medesima, diventa cattiva agli occhi di Dio ed anche degli uomini, se lo conoscono. Un vostro amico, o cari, vi circonda di cure amorevoli, vi onora, vi rende i migliori servigi, si professa tutto pronto ai vostri cenni; ma un bel giorno voi apprendete che tutto questo egli fa per il suo interesse, per servirsi del vostro nome e della vostra influenza al conseguimento d’un certo fine per giunta biasimevole; che se ciò non fosse, egli non si curerebbe punto di voi; ditemi, qual giudizio fareste voi dell’amico? In qual conto terreste voi i suoi servigi, e l’amore che vi dimostra? Io penso che ne sareste sdegnati e cancellereste dal numero dei vostri amici il suo nome e lo caccereste di casa come un ingannatore, un ipocrita, e a ragione. Or bene: è questo il caso di chi pratica la virtù, adempie i suoi doveri, e se vi piace, fa anche opere grandi ed eroiche all’intento, non di onorar Dio, di piacere a Lui e fare il voler suo, ma di pascere la propria vanità, di correre per le bocche altrui, di trarne lucro e di fare il piacere proprio. Dio, il quale vede questo fine, che è quasi l’anima delle opere, vede anche che le opere non sono fatte per Lui, ma per altri, le respinge e giustamente offeso, gli dirà: Queste opere, tu non le hai fatte per me, ma per te, per altri; a che aspetti la mercede da me, per il quale nulla hai fatto? Chiedila a te stesso, a quelli per i quali le facesti: Recepisti mercedem tuam. – Così le opere più sante e più sublimi che non sono fatte per Iddio, non sono che borra ed immondezza dinanzi a Lui. Ah! dunque, cari, non sia mai che il tarlo della superbia guasti le opere nostre, come guastò i digiuni e le altre opere del fariseo. Dopo che avremo fatto il nostro dovere e praticate tutte le virtù proprie del nostro stato per piacere a Dio, diciamo: Siamo servi inutili: quel poco che abbiamo fatto, l’abbiamo fatto mercé il vostro aiuto, o Signore; giacche senza di questo noi non avremmo potuto far nulla, e per ciò a voi solo se ne renda la gloria. – Abbiamo visto ed udito il fariseo; ora vediamo ed udiamo il suo contrapposto, il pubblicano. “Questi, stando da lungi, non osava nemmeno di levare gli occhi al cielo. „ Egli era peccatore, invischiato in ogni mala pratica: lo sapeva, lo sentiva in cuore: appena entrato nel tempio, si arresta: non osa avvicinarsi all’altare, si reputa indegno di stare nel luogo santo e considera come una somma grazia che Iddio lo tolleri alla sua presenza. Conscio delle proprie colpe, sente una fiamma salire sul volto; si vergogna, non che d’altri, di se stesso: non vede in sé bene alcuno e solo i suoi peccati gli stanno innanzi. China la fronte, la nasconde tra le palme, ripassa con la memoria ad una ad una le sue iniquità, ne misura la gravezza, ne sente tutto il peso, la coscienza si desta e geme, e nell’amarezza dell’anima sua non trova rifugio, che nella misericordia di Dio e nel suo perdono, e cadendo ginocchione, si batte il petto: Percutiebat pectus suum, e prorompe in questo grido, sì bello, sì eloquente: “O Dio, abbi pietà dì me peccatore: „ Propitius esto mihi peccatori. Egli si batteva il petto! Che voleva egli dire con quel battere il petto? Risponde S. Agostino: “Egli rimproverava a se stesso ed in qualche modo puniva il peccato, che sta nella volontà, che si annida nel cuore. „ Il povero pubblicano in quell’atteggiamento, con quel battersi il petto, con quegli occhi lacrimosi, e fissi al suolo, e con quel grido: ” O Dio, abbi pietà di me peccatore, „ voleva dire: Signore lo so, lo confesso innanzi agli uomini e a te, io sono un peccatore, grande peccatore: me ne pento nell’intimo dell’anima, perché ho offeso te, mio Creatore e Signore, te, che dovevo amare sopra ogni cosa. Il mio cuore è spezzato, l’anima mia afflitta e desolata. – Non mi resta altra speranza che la tua misericordia infinita: in essa mi getto e mi abbandono. O mio Dio e mio Signore! pietà, perdono! In questi atti e in queste parole del pubblicano la fede è viva, salda la speranza, ardente la carità, profonda l’umiltà, la preghiera schietta ed affocata; non si scusa, non incolpa altri dei suoi falli, non esita un istante a riconoscerli e confessarli e a confessarli ad alta voce, nel luogo più pubblico e venerando, alla presenza di tutti e del fariseo, che fissava sopra di lui lo sguardo sprezzatore e beffardo. Tanto dolore e tanta umiltà non potevano non ottenere il perdono dei peccati, fossero stati per numero e gravezza mille volte maggiori. Gesù Cristo afferma che “questi (cioè il publicano), a preferenza di quello (cioè del fariseo), se ne tornò a casa giustificato: „ . “Così, scrive un celebre interprete, chi si reputava santo, fu condannato da Dio, e chi si confessava peccatore, era da Dio giustificato: „ Qui sese adeo justificaverat, a Deo condemnatus est, et qui adeo se condemnaverat, justificatus est (Euthymius): chi si presentò a Dio pieno di sé ne partì vuoto, dice S. Bernardo; e chi si presentò vuoto di sè, cioè umile, ne partì ripieno di grazia. “È meglio, esclama S. Ottato di Milevi, essere peccatore ma umile, che innocente ma superbo: „ Meliora sunt peccata cum humilitate, quam innocentìa cum superbia (Lib. 2 Cont. Donat.). Il peccatore, ma umile, confessa i suoi peccati e si giustifica; il giusto che è pieno di sè, non è più giusto, ma peccatore, e quel che è peggio, non sa di essere peccatore. Scorrete il Vangelo; voi troverete Zaccheo pubblicano, Maria Maddalena peccatrice, la Samaritana, donna di perdutissima vita, l’adultera colta in fallo, Pietro spergiuro, il ladrone in croce e Paolo persecutore, che ad una parola di Gesù Cristo, alla chiamata della grazia, si scuotono, si ravvedono, si convertono, fanno pubblica penitenza e diventano gran santi e apostoli; ma non troverete un solo fariseo, che chiamato ed ammaestrato da Cristo e da lui con le più gagliarde espressioni, promesse e minacce, eccitato alla penitenza, abbia mutato vita e lo abbia seguitato. Anzi ai suoi ammonimenti rispondevano con ingiurie, appuntavano le sue parole, malignavano sui suoi miracoli, e non potendo negar questi, conchiudevano dicendo: “Questo uomo fa molti miracoli, e non possiamo negarlo: è dunque necessario toglierlo di mezzo. „ Mistero di iniquità e di perfidia, che non crederemmo possibile se non fosse registrato nel Vangelo. –  E questo fatto strano non lo vediamo ripetersi spesso sotto de’ nostri occhi? Vi sono uomini immersi in ogni sorta di vizi, dediti ai bagordi, dissoluti, iracondi, tutti intesi ad accumulare ricchezze, non badando per il sottile ai mezzi, dimentichi dell’anima e persino praticamente miscredenti, ma non superbi. Fate che venga una missione, che una sventura li colpisca, che una malattia li getti sul letto della morte, che un accidente qualunque, strumento della divina misericordia, li richiami a sé: voi li vedete cadere ai piedi del sacerdote per confessarsi, chiamarlo al loro capezzale, convertirsi, vivere e morire santamente. Per contrario vi sono altri uomini, se volete, che menano vita mediocremente corretta, lontana da certi disordini e scandali pubblici, ma che si tengono dotti, pieni di sé, orgogliosi, sprezzanti del povero popolo, che guardano tutti d’alto in basso: essi offriranno lo spettacolo doloroso di non valicare giammai le soglie del tempio e di respingere il prete ed il crocifisso in punto di morte, ed essere insensibili alle lacrime della madre, della sposa, dei figli, delle figlie, che li scongiurano a riconciliarsi con Dio. D’onde, d’onde, o cari, la conversione sì pronta, sì franca degli uni, l’ostinazione fredda ed invincibile degli altri? Ah! Io non la so trovare che nella umiltà di quelli, e nella superbia di questi, e nella sentenza di S. Giacomo: “Dio dà le sue grazia agli umili e resiste ai superbi. „ Ohimè, fratelli! Questo spirito di superbia, questo orgoglio del cuore, questo disprezzo altezzoso dei poveri peccatori, lo vedo largamente propagato in mezzo a noi, anche in quelli i quali dovrebbero essere modelli di umiltà, di compatimento, di carità verso gli erranti! Il loro linguaggio è duro, altero, sdegnoso, ricorda quello del fariseo ed anziché attirare a Dio i peccatori, li allontana. Non imitiamoli. Mille volte meglio il pubblicano, il peccatore umile e sincero che il fariseo superbo ed arrogante. – Gesù Cristo raccoglie in una breve e bella sentenza il frutto di questa parabola. Eccovela: ” Chiunque si innalza, sarà abbassato; chi si abbassa, sarà esaltato. „ Vale a dire: chi è superbo come il fariseo, sarà cacciato da Dio e coperto d’ignominia: chi si abbassa, chi si umilia, chi confessa d’essere quel che è, peccatore, sarà accolto da Dio, otterrà il perdono e sarà esaltato nel giorno in cui Egli renderà a ciascuno secondo le opere sue. Vogliamo salire alto nella gloria? Abbassiamoci qui con l’umiltà: gli alberi tanto più alta sollevano la cima quanto più profonde sono le radici: tanto più eccelso e saldo sorge l’edificio quanto il fondamento è più profondo: la misura della gloria è l’umiltà [“Sicut superbia omnium malorum fons est, ita humilitas cunctarum virtutum origo est. „ (S. Joan. Chrysost. in Matth. Homil. 45.)]

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps XXIV:1-3
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.
[A Te, o Signore, ho innalzata l’ànima mia: o Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire: che non mi irridano i miei nemici: poiché quanti a Te si affidano non saranno confusi.]

Secreta
Tibi, Dómine, sacrifícia dicáta reddántur: quæ sic ad honórem nóminis tui deferénda tribuísti, ut eadem remédia fíeri nostra præstáres. [A Te, o Signore, siano consacrate queste oblazioni, che in questo modo volesti offerte ad onore del tuo nome, da giovare pure a nostro rimedio.]

Communio
Ps L:21.
Acceptábis sacrificium justítiæ, oblatiónes et holocáusta, super altáre tuum, Dómine. [Gradirai, o Signore, il sacrificio di giustizia, le oblazioni e gli olocausti sopra il tuo altare.]

Postcommunio
Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quos divínis reparáre non désinis sacraméntis, tuis non destítuas benígnus auxíliis.
[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché benigno non privi dei tuoi aiuti coloro che non tralasci di rinnovare con divini sacramenti.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XXI)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXI.

I DEMONI.

Prova a cui furono sottoposti gli Angeli. — La gran battaglia in cielo. — Castigo degli angeli ribelli. — Loro denominazione ed esistenza. — Loro azione e potenza. — Come e perché  Dio la permetta.

— Ho inteso dire che i demoni dell’inferno erano angeli anch’essi. Come mai sono divenuti demoni!

Ecco. Gli Angeli come furono creati grandi e belli, così furono creati felici, e, secondo la dottrina comunissima, arricchiti eziandio, senza alcun loro merito, dei doni soprannaturali della grazia. Tuttavia essi non ebbero allora la felicità perfetta e soprannaturale della visione beatifica, alla quale Iddio li aveva destinati, né ebbero la impeccabilità col rassodamento della loro volontà nel bene. Essendo essi stati chiamati ad esistere propriamente per questo fine, per contemplare cioè l’essenza divina e per lodarla e benedirla in eterno, era necessario che ancor essi si rendessero meritevoli di sì eccelso onore col sottostare ad una prova.

— E non poteva Iddio ammetterli alla felicità perfetta ed eterna senza prova alcuna?

Senza alcun dubbio; nella sua potenza Dio assolutamente avrebbe potuto ammetterli senza più, fin dal primo istante della loro creazione a vederlo beatificamente; ma nella sua sapienza stimò assai più conveniente e più degno, che anche l’Angelo, essere intelligente, e mille volte più intelligente dell’uomo, avesse, mercé l’uso del libero arbitrio, a cooperare di sua deliberata volontà alla propria grandezza e felicità eterna.

— A che prova dunque furono sottomessi!

Questo non si può ben dire. Molti sacri dottori opinano, che Iddio abbia rivelato agli Angeli che un dì creerebbe una natura inferiore alla loro, la natura umana, e che questa natura di preferenza che quella angelica avrebbe assunto il Figliuolo di Dio, pel quale, come a Verbo incarnato, chiedeva loro l’omaggio dell’adorazione. Moltissimi degli Angeli obbedirono senz’altro al volere di Dio. Un’altra gran parte per superbia non ne volle sapere.

— E quanto tempo durò questa prova?

Un attimo, perché come ti dissi la intelligenza degli Angeli conosce subito e la volontà tiene dietro in un lampo alla conoscenza.

— E dopo tale prova che avvenne?

Gli angeli rimasti fedeli furono subito confermati in grazia, dimodoché d’allora in poi non poterono più peccare, e furono ammessi altresì al godimento eterno di Dio. E gli altri furono precipitati nell’inferno.

— Ma ho inteso a dire nelle prediche che allora avvenne in cielo una battaglia, e che S. Michele cacciò dal paradiso Lucifero o Satana, il capo degli angeli ribelli, e tutti gli altri.

E così si racconta nelle Sacre Scritture. Ma non perciò devi credere che in questa lotta gigantesca di milioni e milioni di spiriti contro altri milioni avvenisse alcunché di somigliante alle nostre battaglie, no; come tutto ciò accadde in un lampo, in un attimo solo, così tutto ciò accadde senz’armi, senza strepiti, senza azzuffamento, senza versamento di sangue. Una parola bastò a decidere la sorte della battaglia: la parola Michele che vuol dire Chi come Dio! A questa sola parola l’esercito dei ribelli fu precipitato dal cielo negli abissi eterni.

— Ma questo castigo non è stato troppo terribile?

Terribile sì, ma non ingiusto. Rifletti bene che Dio oltre alla più eletta intelligenza per poter ben conoscere la verità, aveva dato altresì agli Angeli suoi quella grazia, con la quale potevano star nel bene, come fecero moltissimi, e l’aveva data loro proporzionatamente alla loro natura e al loro fine; di modo che nessuno tra gli angeli decaduti per non aver resistito alla prova può ora incolpare menomamente Iddio. Credilo, il loro peccato fu veramente enorme. Non c’è confronto alcuno tra la gravezza del peccato angelico e del peccato umano; quello supera questo smisuratamente; ed è una delle ragioni per cui Dio pur perdonando all’uomo, non volle perdonare agli angeli.

— Gli angeli decaduti hanno essi perduta la loro natura angelica!

No, perché il peccato non toglie mai nulla alla natura, sia nell’Angelo, sia nell’uomo. Quindi i doni naturali propri dell’Angelo rimasero in essi integri.

— Perché questi angeli decaduti si chiamano demoni, o diavoli?

Demonii è lo stesso che spiriti maligni, e diavoli vuol dire precipitati.

— E le parole Lucifero o satana, con cui si denomina il capo dei demoni, che significano?

Lucifero equivale a portatore di luce, e così si chiama il primo demonio, perché avanti la caduta era forse il più splendido degli Angeli; satana vuol dire il nemico.

— Sarebbe vero che de’ demonii ve ne siano anche per l’aria?

Senza dubbio. S. Paolo dice per l’appunto che noi « dobbiamo lottare contro gli spiriti di malizia sparsi nella nostra atmosfera ». (Vedi Lettera agli Efesi, capo VI, versetto 12). Con tutto ciò non devi credere che vadano esenti dalle pene infernali. Iddio le fa loro soffrire in qualunque punto dello spazio essi si trovino.

— E tuttavia vi sono molti, i quali dicono che i diavoli non ci sono.

Gesù Cristo, gli Apostoli, tutti i libri sacri ne parlano, e noi non possiamo dubitare della loro esistenza senza rinunziare alla Fede Cattolica. Coloro, i quali vanno dicendo che il diavolo non c’è, sono quelli che vorrebbero che non ci fòsse, e sono non di meno le sue miserabili vittime. In altri tempi satanasso fece di tutto per comparire e farsi credere Dio; ora fa di tutto per eclissarsi e dar ad intendere ch’egli è un bel nulla: perché capisce bene che se si crede al diavolo, bisogna pur credere a Dio.

— E che cosa fanno ora i diavoli?

Oltre a l soffrire il castigo loro inflitto, quasi per rifarsi della sventura a loro toccata si servono dei doni che nella loro natura hanno ricevuto da Dio, dei loro lumi, della loro forza, del loro meraviglioso potere per pascersi nella falsa gioia della vendetta.

— E di qual maniera compiono la loro vendetta?

La loro vendetta la compiono contro di Dio, del quale prendono a contraffare la onnipotenza, contro degli Angeli Santi, dei quali combattono il governo e la protezione, e soprattutto contro gli uomini, chiamati a possedere un dì il bene che essi hanno perduto, e contro la Chiesa, che Gesù Cristo ha fondato propriamente per sottrarre gli uomini alla loro potenza e salvarli.

— È dunque vero che ci sia un demonio apposito per tentare ciascuno di noi?

Non è improbabile che colui, il quale si è fatto capo dei demoni, scimmiottando Iddio e intralciando l’opera del nostro Angelo custode, ne deputi uno a ciascuno di noi per seguirci in tutti i passi della nostra vita, dalla culla alla tomba. Ma da ciò non si ha da conchiudere che sia sempre un solo a tentarci: molte volte sono in più e numerosissimi: del che ci fa fede il Vangelo.

— E i demoni possono conoscere il nostro interno e le cose future?

Già te lo dissi parlando dello spiritismo. L’interno i demoni non lo possono conoscere; possono far delle congetture, delle supposizioni guardando ai nostri atti esterni, epperò ben si comprende che possono prendere dei grossi granchi; e in quanto al futuro possono fare delle induzioni e nulla più. Se però si tratta ci cose dipendenti da cause naturali, come l’eruzione d’un vulcano, un terremoto e simili, può essere che conoscendo le dette cause, conoscano altresì gli effetti, che al tal tempo ne possono seguire.

— Bicordo d’aver letto in qualche libro che i demoni hanno una grande potenza.

Sì, come è grandissimo il loro ingegno naturale, così non è minore la loro potenza. Conoscendo mille segreti, che noi ignoriamo, possono influire senza difficoltà in tutti gli elementi. Possono perciò scatenare i venti, ammontare le nubi tempestose, far brontolare i tuoni e scoppiare le folgori. Hanno potere di operare mille prestigi, quali seducenti, quali spaventevoli, come ne fa fede la storia di Mosè. Possono rendersi visibili e camuffarsi in cento guise, come hanno fatto per tentare S. Antonio, ed anche trasfigurarsi, al dire di S. Paolo, in angeli di luce ».

— E fra questi poteri i demoni hanno anche quello di sforzarci a commettere il male!

No, questo potere non l’hanno. Essi possono tentarci, possono tribolarci, tormentare i nostri corpi, cagionarci delle vere malattie, influire sul nostro sistema nervoso, sfruttare la nostra immaginazione, ma sulla nostra volontà direttamente non possono nulla. E se talora riescono a vincerci, non è per ragione del loro potere, ma per causa della nostra viltà, con la quale ad essi ci arrendiamo di nostra deliberata volontà.

— È certo che talora i demoni pigliano anche possesso del corpo umano?

Certissimo. Il Vangelo ci parla assai spesso di indemoniati, ed anche oggidì ve ne sono. Tuttavia bisogna andare adagio a credere taluno ossesso, a meno che lo si vedesse a compiere cose affatto impossibili, come parlare lingue a lui ignote, rivelare l’altrui stato interno, e cose simili.

— E tutte queste cose che mi ha indicato poter i demoni, sia sulla natura, sia sopra di noi, le possono compiere sempre?

Oh no! Ma solo se e quando Dio loro le permette. I demoni sono come cani legati alla catena, che possono agire solo allorché e fin dove Dio loro l’allenta.

— E perché mai Iddio permette talora ai demoni di fare dei prestigi, di impossessarsi del corpo di taluno e di stare attorno a noi a tentarci?

Questo perché non lo possiamo pienamente comprendere. Certo Iddio sa quel che si fa, e siccome la sua volontà è buona sempre, in tutto e per tutto, così anche in questa permissione non ha di mira che il bene nostro e la gloria sua. Del resto possiamo riconoscere che Dio permette le azioni diaboliche contro gli uomini per metterci alla prova, per concederci il pieno esercizio della nostra libertà, nel combatterle e vincerle, per esercitare la nostra umiltà e pazienza, e talora anche per castigarci dei nostri peccati passati. A d ogni modo l’essere tribolati, tentati e persino ossessi dal demonio non costituisce peccato. E quando Dio lo vuole, il demonio deve subito ritirarsi dall’uomo, e lasciarlo in pace. Tutto sta che noi con la grazia di Dio, che non mai ci manca, facciamo la parte nostra per rigettare e vincere questo nostro avversario.

— Intanto però taluni ne restano vinti.

Che cosa vuoi mai? La libertà, che noi abbiamo, è un bene sì grande, che Iddio preferisce piuttosto che taluni ne abusino arrendendosi al demonio, e restando da lui vinti, anzi che toglierci sì gran bene. Ma di questo abbiamo già discorso più di proposito altra volta, quando abbiamo parlato della permissione del male morale.

— Ed anche a me sembra ora di aver appagato ogni curiosità intorno ai demoni: e sono contento di quanto ho appreso a loro riguardo, specialmente che essi non possono far nulla di male alla nostr’anima, se noi non lo vogliamo.

SAN PANTALEONE MARTIRE

[Ampolla con il sangue di S. Pantaleone a Ravello (Sa)]

S. PANTALEONE MARTIRE

[p. V. STOCCHI: Discorsi Sacri, disc. n. XLVII – Befani ed.; ROMA, 1884]

Un celebre storico delle cose romane indagando la cagione perché tanto scarse e malsicure contezze rimanessero ai suoi tempi delle origini di Roma e degli uomini che illustrarono gli esordi di quella città, dice che tanta penuria provenne principalmente a ciò, che quegli uomini veramente egregi tutti intesi ad operare, poco si brigarono di scrivere, e più che di raccontare le imprese altrui, furono vaghi di esercitarsi in cose che da altri potessero essere raccontate. Questa sapiente speculazione mi si offerse da se medesima al pensiero allora che applicai l’animo a tessere il panegirico di questo gran martire, al quale è sacra la odierna solennità. Celebre è il nome di Pantaleone nei sacri fasti, e i monumenti liturgici della Chiesa greca e della latina ci attestano che nel culto e nella venerazione del mondo cristiano vendicò sempre a se medesimo un luogo insigne fra i più nobili martiri, ma chi ricerchi con occhio sagace i documenti sinceri della storia trova che in gran maniera vacilla quello che di lui contano le leggende orientali, e deplora per conto di lui quel medesimo che Sallustio deplorava in servigio degli eroi pagani della sua Roma, che da un nome celebre infuora a poche gesta precipue nulla ci resta. Il qual difetto non è così proprio di Pantaleone, che non sia comune a un numero senza numero di martiri insigni, a una Cecilia per esempio, a un Sebastiano, a un’Agnese, a un Lorenzo, e la cagione non è per mio credere altro che questa; che mentre la persecuzione dibatteva la Chiesa coi suoi furori, i campioni di Gesù-Cristo più che a scrivere i combattimenti altrui intendevano a mietere gloriose palme per sé. Le quali cose essendo così, non è buon consiglio ragionando di Pantaleone, procedere storicamente, dando per cose certe le dubbie, e per genuina istoria le poche e mal sicure contezze che di lui ci rimangono: ma dai pochissimi accenni sicuri che ci porge la storia e dai monumenti liturgici inferire argomentando la sua grandezza. E questa signori è la via che terró in questa invitando a seguirmi la vostra pietà mi argomenterò di mostrarvi come fu veramente Pantaleone un testimonio insigne di Gesù Cristo. Forse chi sa, aiutandomi il santo martire, dirò cose non affatto indegne di lui: ma ad ogni modo se quel che dirò non sarà degno né del martire che celebro né dell’udienza che mi circonda; questo certamente vi prometto che darò un non inutile pascolo alla vostra pietà.

1. E ho già accennato o signori come nella Chiesa cattolica il santo martire Pantaleone nella fama medesima del suo nome porta il suo panegirico. Conta infatti la Chiesa un numero infinito di martiri, splendide gemme della corona nuziale che alle tempie, sposandola, le intrecciò Gesù Cristo. Ma a quel modo che nel diadema di una regina le gemme sono un gran numero, ma tra le molte alcune soltanto eccedono insigni per vistosità di mole e chiarità di fulgori; così nel coro innumerabile dei santi martiri alcuni soltanto rifulgono di chiarezza particolare, insigni nel gran popolo dei rimanenti; e di questi è celebre il nome, popolare la ricordanza, vetusto il culto, solenne la liturgia. E per verità un Ignazio, un Policarpo, un Apollinare, un’Agata, una Lucia sono tali martiri che non è vanto il conoscere, ma sarebbe in un cristiano negligenza turpissima l’ignorare. Ora che in questa inclita schiera di martiri insigni vendichi a se medesimo un luogo insigne Pantaleone, appena ha mestiere di essere dimostrato. Piene sono le concioni dei santi Padri massime greci delle lodi di questo gran martire, pieno il mondo cristiano di altari e di templi dedicati al culto di lui, pieni gli ecclesiastici dottori dei monumenti delle sue glorie. Ma io passandomi di ogni altro argomento, dirò tal cosa che sola vale un gran panegirico. Il gran Costantino poiché col segno trionfale della croce ebbe sconfitto i nemici non tanto suoi quanto di Gesù Cristo, dette siccome è noto, la pace alla Chiesa, e tribolata e lacera da trecento anni di proscrizione e di sangue, la trasse colla regia mano dalle catacombe, la pose in trono, e le die sul mondo l’imperio che sulla croce le conquistò Gesù Cristo. Si diede allora ad edificare templi e basiliche ai Santi di Gesù Cristo, e colle regie mani trattò il tridente, e sulle regie spalle portò la terra cavata dove ora sorgono le basiliche di Pietro e di Paolo, e nel Laterano aperse al popolo romano la prima chiesa del mondo. Ora questo gran principe empiendo di basiliche dedicate ai più gloriosi martiri di Gesù Cristo l’Occidente e l’Oriente, non lasciò dimenticato indietro Pantaleone, ma una basilica gli dedicò in Nicomedia sopra la tomba che ne accoglieva le ossa e le ceneri, e una seconda sul Bosforo celebri entrambe per sontuosità di edifizio, più celebri pei prodigi coi quali Dio onnipotente glorificava il suo martire. D’allora in poi fu una gara per tutto l’Oriente di fare onore al martire Pantaleone, e io percorrendo il dotto volume dove un savio continuatore del Bollando ha raccolto i monumenti che di lui ci ha tramandato l’antichità, sono stato preso di altissima meraviglia, e vi confesso che io non credeva che di questo gran martire tanto fosse stato il culto, tanto l’onore. I quali monumenti non è qui luogo di riferire perché non sono erudizione da panegirico, ma questo ad ogni modo non tacerò. Teodosio il grande dapprima e poi Giustiniano sulla spiaggia del Bosforo in luogo di lontano e largo prospetto edificarono al nostro martire un tempio: tempio nobile e insigne così, che e degnamente testificava la pietà dei due Cesari, ed era ornamento e presidio della imperiale Bisanzio, e il navigante che tragittava lo stretto vedeva dall’alto della poppa la sacra mole, e leggendo nella marmorea fronte il nome di Pantaleone lodava Gesù Cristo nel suo martire, e il martire supplicava che al suo corso porgesse sereno il cielo, il mare tranquillo, propizi i venti, e frastornasse ogni incorso di nemico e di traversia. Le quali contezze piene di irrefragabile certezza sono di avanzo perché si conchiuda che Gesù Cristo pose in Pantaleone una compiacenza particolare, e che nella Chiesa è stato sempre riputato martire insigne, essendo chiaro che un culto insigne argomenta stima anche insigne, e stima insigne non fa la Chiesa se non di quelli che nella testimonianza che a Gesù Cristo rendettero furono insigni.

2. E insigne fu veramente la testimonianza che Pantaleone a Gesù Cristo rendette, e la storia ci è avara sì, ma non tanto che non ci porga quanto è mestiere ad asserire e confermare a lui questo vanto. Al quale effetto considerate, che l’avere data per Gesù Cristo la vita e il sangue, basta per essere martire, ma non basta per essere martire insigne. La vita e il sangue profuso per Gesù Cristo è gloria comune a tutti quei che sono martiri, e chi non toccò questo termine non ha né il nome, né la corona né il culto di martire. Ma perché altri sia e si dica martire insigne, è richiesto che sia stato insigne in quelle cose per le quali il martire è martire. Le quali chi bene osservi si riducono a tre. La prima è il numero e l’atrocità dei tormenti, la seconda la costanza nel sostenerli, la terza il fervore della carità nel confessare Gesù Cristo. Ora io dico che bastano le poche contezze che del martirio di Pantaleone ci ha tramandato la storia per fare aperto che furono insigni i tormenti che egli sostenne per Gesù Cristo, e nei tormenti insigne la costanza, insigne la carità. Vediamolo brevemente, e cominciamo dai tormenti. I quali e per atrocità furono crudelissimi, e per prolungamento diuturni, e per numero molteplici e per efferatezza immani. Apriamo la storia. – La persecuzione nella quale Pantaleone mieté la palma fu la decima ed ultima, e la mossero quelle due tigri coronate, che furono Diocleziano e Massimiano Galeno. Questa persecuzione fra quante percossero la Chiesa di Gesù Cristo fu spietatissima, a segno tale che neppure quella di Nerone poté essere con questa paragonata, e i santi Padri e le storie ecclesiastiche e i libri liturgici la distinguono sempre col nome di persecuzione immane. In un mese solo, scrive S. Damaso, diciassette mila cristiani furono trucidati con crudelissime morti; ora la persecuzione durò venti anni; e l’Italia e l’Africa e l’Asia proconsolare, e l’Egitto e la Siria e la Palestina ridondarono del sangue di vecchi e di giovani, di vergini e di matrone non d’altro ree che di credere e di amare Gesù Cristo. Si invadevano le case, s’imprigionavano le famiglie, si bruciavano gli oratori, le chiese, gli archivi, agli imprigionati cristiani s’intimava di rinnegare Gesù Cristo. Resistevano? Confessavano la fede? Bastava. Si inserivano ai magnanimi e alle magnanime tra le unghie e le carni canne acutissime, si applicavano all’ignudo corpo fiaccole ardenti e lastre infuocate, alle fanciulle e alle spose si traforava 1’utero con ispiedi candenti, quali scannava il ferro, quali bruciava vivi il fuoco, quali tagliava a membro a membro il coltello con lenta carneficina, quali scerpavano i pettini, i graffi, le unghie di ferro, quali dilaniavano gli artigli e le zanne di crudelissime fiere, quelli che alla strage avanzavano, uccidevano meno violenti, ma non meno efficaci carnefici, le prigioni, gli ergastoli, le miniere, gli esili. A noi pare moltissimo quello che ci costringe a patire la nequizia dei nostri tiranni e ci quereliamo con Gesù Cristo quasi non curi più la sua Chiesa: ma siamo ancora lontani da quello che patirono quegli eroi che pure chiamiamo trionfatori e felici. Ora questa persecuzione che infuriò terribile per tutto il mondo romano, in nessun luogo imperversò più spietata che in Nicomedia. In Nicomedia infatti capitale celebratissima della Bitinia facevano di quei giorni residenza gli imperatori. Quivi si meditarono per conseguenza i feroci consigli, si scrissero i sanguinolenti editti, quivi si promulgarono, quivi sotto gli occhi dei Cesari dettero prova e di sagacità più operosa i delatori, e di severità più inesorabile i giudei, e di crudeltà più efferata i carnefici. Fiorenti erano di quei giorni le chiese della Bitinia, fiorente soprattutto quella di Nicomedia. L’avea fondata Pietro medesimo principe degli Apostoli, e con la parola prima, poi con le lettere vi aveva infuso la fede di Gesù Cristo e l’amore. E in Nicomedia il nome di Pantaleone era celebre, fino dal primo rompere della persecuzione chiamò sopra di sé gli occhi dei delatori e le mani dei sgherri imperiali e fu tratto al tribunale stesso e al cospetto di Massimiano Galerio. Ora i tormenti che Pantaleone sostenne furono l’eculeo, le lastre infuocate, e da ultimo ebbe recisa la testa. Era l’eculeo un’orribile macchina da tormentare, quadrata a modo di letto e congegnata così, che posto a giacere in essa il misero condannato, e inserite in due cappi le mani e i piedi veniva per viva forza di ruota e di argani stirato cosi, che se gli sconnettevano le giunture, e con orribile cigolio si scollegavano le ossa. A questo martirio fu posto Pantaleone, provò le stirature orribili di quella macchina, durò più ore a un supplizio più tormentoso che morte, ebbe scompaginate le giunture, scollegate le ossa, ma il dolore del corpo non vinse la costanza dell’ animo, Gesù Cristo vivo nel suo cuore domò i carnefici, fu tratto dal martirio con le membra infrante e disfatte, ma nelle infrante e disfatte membra vigeva lo spirito indomito, e la lingua cui lo Spirito Santo dava la fiamma, confessava la fede. Tu avevi vinto o Pantaleone, i tuoi carnefici erano vinti, ma la infermità aveva vinto la forza, e la forza efferata dalla sconfitta si armò alla riscossa. Ecco enormi lastre di acciaio si gettano ad infuocare nella fornace, ventano i mantici nella preparata materia, affaticato dalla commossa aria scintilla il fuoco, in fuoco, concepito l’ardore, si convertono le fiere lamine e vengono tratte all’aperto luminose e candenti. Pantaleone queste lastre sono per te: vedi come ardono, come splendono, come scintillano, rinnega Gesù Cristo, o applicate all’ignudo corpo puniranno l’empietà e la follia che ti accecano. Giaceva Pantaleone per terra dissoluto e disfatto dall’atroce eculeo; guardò le candenti lamine, non mutò sembiante, non batté ciglio, invocò con ferma voce Gesù Cristo, e porse l’innocente corpo al martirio. Ed ecco si mette mano: si applicano le rosseggianti lamine al petto ignudo del martire, si applicano all’ignudo ventre alle cosce, al dorso, alle spalle, cigolano le arsicciate carni, esala dalle piaghe che bruciano fumo e puzzo, il martirio eccede ogni comprensione, i cuori più efferati si commuovono, gli occhi più crudeli si torcono da tanta atrocità di carneficina, un grido di orrore si solleva tra la turba spettatrice, Pantaleone solo sorride, nello strazio del corpo che brucia esulta l’anima invitta, e al crepitare delle cotte carni mescendo il nome e la lode di Gesù Cristo, lo ringrazia che lo fa degno di congiungere il suo olocausto con l’olocausto del Golgota. Bastava una sua parola e il tormento cessava, rinnegasse Gesù Cristo, e al fuoco succedeva il refrigerio, alla ignominia l’applauso, ma Pantaleone non volle altro refrigerio che l’eterno, né altro onore fuorché la palma di martire. Perché altri sia martire insigne, deve avere sostenuto insigni tormenti; ma quali tormenti saranno insigni se questi non sono? Deve in insigni tormenti avere dimostrato insigne costanza; ma qual costanza di martire vinse la costanza di Pantaleone? Nei tormenti e nella costanza deve avere dimostrato insigne l’amore di Gesù Cristo e la fede; ma donde o Pantaleone attingesti l’animo che ti indurò e mantenne al Aero conflitto, se non alla fede e alla carità di Gesù Cristo, che signora onnipotente ti faceva di smalto il corpo e di ferro il cuore?

3. Le quali cose vie meglio si schiariranno, e voi conferirete con cognizione maggiore a Pantaleone il vanto di martire insigne se porrete mente alle condizioni particolari e agli aggiunti che rendono e Pantaleone più glorioso nella confessione di Gesù Cristo, e Gesù Cristo più glorioso nella confessione di Pantaleone. Cominciamo da Gesù Cristo; il quale in ogni confessione di martire viene senza dubbio glorificato, ma se il martire che gli rende testimonianza sia stato innanzi la confessione o indifferente, o nemico, od incredulo, è manifesto che la confessione di tal testimonio torna a Lui più gloriosa, onde Gesù Cristo trionfa in esso in due modi: il primo facendolo suo per fede ed amore, il secondo riscuotendone la testimonianza più ardua che dare si possa, la testimonianza del sangue. Ora o signori Pantaleone era nato di padre idolatra, ma idolatra non aveva già avuto la madre. Cristiana era Eubula madre del martire e cristiana degna di questo nome, e aver generato il suo figlio a questa vita caduca le pareva sventura se non lo rigenerava alla eterna. E per la possanza che nella istituzione della prole Dio onnipotente ha dato alle madri riuscì nell’intento, e Pantaleone giovinetto fu col battesimo in Gesù Cristo rigenerato. Ma il mondo nemico di Gesù Cristo lo avvinse di buon’ ora tra le sue spire, avvinto lo rapì a Gesù Cristo, rapito a Gesù Cristo lo pose nella potestà del demonio, che con le ritorte dei piaceri e delle ricchezze a se lo teneva strettissimo. Nobile aveva Pantaleone l’ingegno, con nobile ingegno nella palestra degli studi fece nobili voli, professò l’arte salutare e levò tal grido che Massimiano Galerio lo volle in corte e fu medico carissimo della casa imperiale. Vuole Gesù Cristo ricevere da Pantaleone testimonianza? Si conviene che lo raggiunga tra le corruttele e le superbie di una corte immondissima, raggiuntolo se ne impossessi, impossessandosene lo illumini, illuminandolo lo sani, sanandolo lo innamori di sé, e tale fiamma gli accenda in petto di carità, che ne estorca quella dimostrazione della quale non si può dare la maggiore, la dimostrazione di porre per esso l’anima sua. E Gesù Cristo lo fece, e si valse dell’opera del santo vecchio Ermolao prima maestro di martiri nella chiesa di Nicomedia poi martire incoronato per sé. Teneva egli d’occhio Pantaleone, lo sapeva cristiano, lo vedeva degenerare dai costumi e dagli istituti cristiani, e il veleno di corte insinuatosi nell’animo suo, e Gesù Cristo nella viltà della sua vita disonorato, e la confessione del suo nome lungi dal suo labbro e più dal suo cuore, Lo trasse a se con le arti della carità, si fece a lui ogni cosa per guadagnarlo a Gesù Cristo, e come si avvide di avere in pugno il cuore del giovane gli parlò amorosamente così. Voi siete cristiano Pantaleone, il segnacolo di Gesù Cristo suggella l’anima vostra: ma la vita e le opere di cristiano dove son esse? Io vedo in voi il cortigiano, vedo il medico, vedo l’uomo di lettere, ma il cristiano non vedo. O se la benedetta Eubula madre vostra tornasse in vita! Che cuore sarebbe il suo vedendovi così mutato da quel che foste! E voi come sosterreste la rampogna di lei rimproverante i giuramenti conculcati e il sangue di Gesù Cristo tradito? Deh! Pantaleone tornate al cuore, retrocedete, e rifacendovi quello che foste, glorificate Gesù Cristo e consolate con la conversione questa Chiesa che avete con la apostasia contristato. Così parlava Ermolao, Pantaleone arrossiva, pentimento e vergogna davano insieme al cuore fiera battaglia, calde e inesauste gli piovevano dagli occhi le lacrime, tornerò Cristiano o Ermolao, tornerò siate certo, glorificherò Gesù Cristo, consolerò la Chiesa e le opere del convertito faranno ammenda delle ignominie e degli scandali del disertore. Così disse, e come disse fece, e partire convertito glorificò Gesù Cristo più che non avrebbe fatto innocente. Imperocché rivocare il piede dalla strada di perdizione è difficile a tutti, ma a Pantaleone era cimento di lotta e di travaglio incredibile. Conveniva mutare procedimenti e costumi, e alle corruttele pagane sostituire la verità della disciplina cristiana. Tal mutamento sì repentino in corte corrottissima non poteva farsi senza tirare sopra di sé gli occhi e gli stupori dei cortigiani. Gli occhi dei cortigiani esercitati e sagaci avrebbero subito inteso il mistero, e una sarebbe stata la voce di tutti, Pantaleone è cristiano. Questa o diceria o supposizione o sospetto imponeva a Pantaleone la necessità di confessare la fede quando o i cortigiani o l’imperatore o gli amici interrogato lo avessero: dì, sei cristiano? La confessione della fede lo faceva ignominioso, lo bollava col marchio d’ingrato, lo spogliava di tutto, lo cacciava di corte, lo designava all’ira dei Cesari, lo dava in mano al carnefice. Ed ecco come le più veementi passioni e gli affetti più vivaci e congeniti al cuore umano entravano in isteccato per labefattare il consiglio e debilitare il proposito e la lena del martire. Il quale tutto vinse e combattendo in lui, Gesù Cristo prima manifestò la fede con l’opere, poi la confessò con la costanza, poi la confermò con la vita. Non curò la malignità curiosa dei cortigiani, spregiò le rampogne e le derisioni degli emoli, indurò l’animo alle lusinghe, non temé le minacce, sfidò le ire dei Cesari furibondi, sostenne il cospetto di Massimiano Galerio che lo chiamò ingrato e fellone, dalla corte privo di tutto passò ai tribunali, dai dai tribunali all’eculeo, dall’eculeo alle lastre. Pantaleone vinceva sempre, e con le sue vittorie svergognava i nemici di Gesù Cristo. Che farem noi, disse fremendo Massimiano Galerio? Quello che né l’eculeo né le lastre ottennero espugni la spada, e la testa del fellone cadendo in terra ne risarcisca le offese, ne espugni la pertinacia e plachi l’ira dei numi. Così sentenziò il tiranno: Pantaleone tratto al supplizio porse con gran costanza il capo al carnefice. Lampeggiò brandita in alto l’atroce mannaia, un silenzio profondo compresse la voce e lo spirito della attonita moltitudine, scese il fendente sul collo, del martire, scoppiò un urlo dalla plebe spettatrice e, il capo santo del martire rotolando per terra, il nome di Gesù Cristo usciva dalla recisa gola col sangue. – Grande è nella santa Chiesa o Pantaleone il tuo nome, ma anche tu fosti grande nella testimonianza a Gesù Cristo renduta, e noi a ragione ti salutiamo esultando martire insigne.

4. E qui o signori metterei volentieri il suggello al mio dire dimostrando che, come Pantaleone rese un’insigne testimonianza a Gesù Cristo col sangue, così Gesù Cristo ha renduto e rende a Pantaleone testimonianza insigne anche in terra conferendogli a pro di coloro che fedelmente lo invocano virtù e possanza. E questo è ordinario costume di Gesù Cristo glorificare dopo la morte chi glorificò Lui con la vita, e niuno è che non sappia quanti miracoli opera Dio tutto dì facendone strumento le ossa, le ceneri, le tombe, gli altari, il nome, la invocazione dei martiri. E fra i martiri taumaturghi in Occidente non meno che nel suo Oriente Pantaleone fu insigne. Fu io dico? E doveva dire, è tuttavia dopo tanto corso di secoli, e mentre altri martiri simili a fonti temporanee e caduche ebbero alla gloria e ai prodigi un corso di anni e di secoli misurato, Pantaleone simile a fontana viva in deficiente e perpetua dura tuttavia profondendo con inesausta vena grazie e favori, e miracoli recenti aggiunti agli antichi provano al mondo quanto in lui si compiaccia il Signore. Ma è tempo ormai che io raccolga le vele alla troppo vaga orazione, e però contento di questo cenno sulla postuma gloria di sì gran martire, mi sollevo su quest’ultimo dalla terra al cielo e con l’estatico Evangelista di Patmos, mi inoltro animoso fino al trono ed all’altare di Dio. Vidi, son parole di Giovanni che narra una stupenda visione, vidi sub altare animas interfectorum propter verbum Dei et propter testimonium quod habebant. (Apoc. VI, 9.) Vidi sotto l’altare le anime degli uccisi per lo Verbo di Dio e per la testimonianza che gli avevano renduta. Queste anime di uccisi che riposano in paradiso sotto l’altare di Dio sono senza dubbio le anime dei Santi martiri uccisi per aver reso a Gesù Cristo testimonianza. Udiamo ora quello che fanno queste anime benedette. Et clamabant voce magna dicentes, usquequo domine sanctus et verus non iudicas et vindicas sanguinem nostrum de his qui sunt in terra? (Apoc. VI, 10.) E gridavano a gran voce, e dicevano: che fai o Signore? Che indugi? Perché non bandisci il giudizio e non vendichi il nostro sangue sopra coloro che sono in terra? Et datæ sunt illis singulæ stolæ albæ, et dictum est illis ut requiescerent adhuc modicum, tempus, donec compleantur conservi eorum et fratres eorum qui interficiendi sunt sicut et illi. (Apoc. VI, 11.) E fu data a ciascuna di esse una stola bianca, e fu detto loro che quietassero alcun poco tempo, finché non sia compiuto il numero dei conservi e fratelli loro, che come essi debbono essere uccisi. Ora mentre io favello e voi mi ascoltate l’anima gloriosa di Pantaleone vestita della candida stola riposa sotto l’altare di Dio ed aspetta che il momento dei martiri che debbono essere uccisi per Gesù Cristo si compia, e il Figlio dell’ uomo venga come ha promesso in terra, e giudice dei vivi e dei morti faccia la tremenda vendetta del versato sangue dei santi. Quando questo numero dei Martiri che cresce ogni giorno sia per compiersi, non si sa: ma se giriamo gli occhi per l’ambito di questa terra ubriaca di empietà e di delitto e dementata dalla maledizione di Dio, ci persuaderemo di leggieri che anche il nostro secolo, durante questa seconda metà che noi percorriamo, dava a questo numero di martiri che deve compiersi il suo contingente. Lasciate o signori, che io liberamente favelli. – Allora che negli anni più verdi della nostra vita andavamo svolgendo le memorie e leggendo gli atti dei martiri, ci pareva impossibile che in questo secolo in questa Italia, in tanto tranquillo di pace, splendore di fede, e gloria della Religione Cattolica, si avesse a parlare di martiri e di martirio, e credevamo che i persecutori e i tiranni convenisse andare a cercarli nelle spiagge inospite del Giappone o nelle coste della Cocincina e del Tonchino. Ma piena il petto del veleno e della rabbia che satana generandola le travasò nel cuore, si annidava nel mezzo a noi la rivoluzione, e negli antri tenebrosi fra i sacrilegi, le bestemmie e i pugnali o le libidini, apparecchiava le macchine ed ordinava le squadre. L’ira di Dio per flagello del mondo le ha rotto la catena e la sbarra e l’ha licenziata ad un infelice trionfo, ed ella non ha mancato a se stessa. È mestiere che io vi contristi dipingendone i delitti e le opere infami, mentre ogni ordine domestico, religioso e sociale volto sossopra tutto è pieno di soqquadro, di bestemmia, di rapina, di meretricio, di sacrilegio? Non ha ancora fra noi dato di piglio al ferro ed al fuoco, né tuffato le truculenti mani nel sangue e l’avida bocca. Con freddo consiglio di gelida ipocrisia si contenta di straziare gli animi con angherie e fierezze poco meno dolorose che morte. Ma quali siano le opere finali che medita lo ha mostrato. E tu lo sai per esperienza terribile o Francia infelice. Tu consegnata dall’ira vendicatrice di Dio alle mani di quei mostri che tu medesima t’eri allevata in seno e nutricato col latte dei tuoi principi e della tua civiltà, tu allagata di sangue e di fuoco, di rapina, di stupro, di vitupero, tu hai provato al mondo esterrefatto, che i mostri, le fiere, le furie, i demoni sotto umana sembianza non si convengono cercare fra i barbari nelle nazioni selvagge, ma nelle terre europee e fra i popoli educati coi famosi principi e fazionati con le dottrine e con le opere della civiltà e del progresso. Ahimè signori che vi dirò? Che una sorte eguale aspetta anche noi? Ahimè la natura delle cose porta che le cause medesime partoriscano i medesimi effetti. Veggo o sì,  veggo con l’occhio atterrito dell’animo veggo come in Patmos vide già S. Giovanni. Veggo la bestia venir su dalla terra. Vidi bestiam ascendentem de terra. Questa bestia rassomiglia a un leopardo, ha piedi come piedi di orso, ha bocca quasi di leone, e il dragone le ha dato la sua virtù e potestà grande. Bestia quam vidi similis erat pardo, et pedes eius sicut pedes ursi et os eius sicut os leonis, et dedit itti draco virtutem, suam et potestatem magnam. (Apoc. XIII, 2.) Ha questa bestia denti di ferro grandi e divora e stritola ogni cosa e quello che avanza ai suoi denti schiaccia coi piedi. Dentes ferreos habebat magnos, comedens atque comminuens, et reliqua pedibus suis conculcans. (Dan. VII, 7.) Questa bestia deve fare le vendette di Dio. Sotto l’incesso di questa bestia veggo sì desolata la Chiesa, rapinato il santuario, disperse le cose sante, versato il sangue dei sacerdoti e delle vergini di Gesù Cristo, vidi ebriam sanguine sanctorum. (Apoc. XVII, 6.) Ma vedo ancora abbattute per terra le potestà, diroccati i troni, disfatte le dinastie, annichilati i consigli delle volpi politiche, e nella rapina delle cose sacre involta la rapina delle sostanze private, e al fumo delle chiese ardenti mescolata la fiamma dei palagi incendiati, e il sangue dei mercanti dei popoli mischiato col sangue dei servi di Gesù Cristo, e la strage confusa degli idolatri di questa civiltà corrotta e corrompitrice mostrare alle future generazioni, che l’apostasia da Gesù Cristo non è progresso, non è civiltà, ma sterminio. Io tremo e gelo dicendo queste cose, e Dio placato disperda l’orribile vaticinio ed abbia misericordia del mondo. – Ma se questi tempi ci soprastessero e questa Italia dovesse con questi scempi scontare i suoi sacrilegi e col sangue dei suoi martiri placare l’ira del Dio degli eserciti, allora tu o Pantaleone martire di Gesù Cristo, a noi servi di Gesù Cristo impetra e prima del cimento una vita santa, e nel cimento una pazienza, una costanza, una fede che somigli alla tua.