DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
LXIX:2-3
Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.
[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]
Ps LXIX:4
Avertántur retrórsum et erubéscant: qui cógitant mihi mala.
[Vadano delusi e scornati coloro che tramano contro di me.]

Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam. [O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, de cujus múnere venit, ut tibi a fidélibus tuis digne et laudabíliter serviátur: tríbue, quǽsumus, nobis; ut ad promissiónes tuas sine offensióne currámus.
[Onnipotente e misericordioso Iddio, poiché dalla tua grazia proviene che i tuoi fedeli Ti servano degnamente e lodevolmente, concedici, Te ne preghiamo, di correre, senza ostacoli, verso i beni da Te promessi.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 2 Cor III: 4-9.

“Fratres: Fidúciam talem habémus per Christum ad Deum: non quod sufficiéntes simus cogitáre áliquid a nobis, quasi ex nobis: sed sufficiéntia nostra ex Deo est: qui et idóneos nos fecit minístros novi testaménti: non líttera, sed spíritu: líttera enim occídit, spíritus autem vivíficat. Quod si ministrátio mortis, lítteris deformáta in lapídibus, fuit in glória; ita ut non possent inténdere fili Israël in fáciem Moysi, propter glóriam vultus ejus, quæ evacuátur: quómodo non magis ministrátio Spíritus erit in glória? Nam si ministrátio damnátionis glória est multo magis abúndat ministérium justítiæ in glória.

OMELIA I

 [Mons. Bonomelli: Omelie, Vol. III, Torino 1898; Omelia XXV]

“Tal fiducia noi abbiamo per Cristo presso Dio, non mai che noi fossimo atti a pensare alcun che da noi, come da noi; ma l’attitudine nostra è da Dio, il quale ci ha fatti ministri idonei del nuovo Testamento, non della lettera, ma sì dello spirito; perché la lettera uccide e lo spirito vivifica. Che se il ministero della morte, scolpito in lettere sopra le pietre, fu glorioso, a talché i figli d’Israele non potevano fissare il volto di Mosè per lo splendore passeggero del suo volto, quanto non sarà egli più glorioso il ministero dello spirito? E veramente se il ministero della condanna fu glorioso, quanto più sarà ricco di gloria il ministero della giustificazione? „ (II Corinti, III: 4-9). –

Questi sei versetti noi leggiamo nella Epistola della Messa odierna, e sono tolti dal capo terzo della seconda di S. Paolo ai Corinti. Questa seconda lettera di S. Paolo ai fedeli della Chiesa di Corinto si può considerare come una appendice ed una continuazione della prima, ed una parte non piccola di essa va in difesa personale della sua condotta e del suo apostolato, alternando destramente le lodi ed i rimproveri, i consigli ed i comandi. Dopo aver condonata la pena inflitta allo scandaloso da lui scomunicato nella prima lettera ed esortato i fedeli ad accoglierlo benignamente ed accennati gli incrementi della fede, S. Paolo parla di se stesso, afferma la propria fedeltà nel ministero apostolico, protestando di non lodare se stesso, perché i Corinti stessi con la loro fede erano la sua più bella giustificazione, la lettera più eloquente, che tutti potevano leggere a sua difesa. Qui comincia il brano sopra riportato, che dobbiamo meditare insieme e che non è privo di interesse. Vi piaccia seguirmi con la vostra solita attenzione. – Ve lo dissi più volte, commentando le lettere di S, Paolo, ch’egli dal dì della sua conversione fino alla sua morte, fu sempre fatto segno di feroci persecuzioni: queste gli venivano dai pagani e più ancora dagli Ebrei ostinati, che lo consideravano come un apostata e un traditore. E non era tutto: contro di lui erano pieni di diffidenza, di mal animo e peggio, non pochi Cristiani, passati dalla legge di Mosè a quella del Vangelo: essi dubitavano della purezza della sua dottrina, lo mettevano in mala voce, come un nemico di Mosè, un novatore, un falso apostolo, in opposizione con gli altri Apostoli, e ponevano grave inciampo alla sua predicazione. Questi sospetti ingiuriosissimi, queste accuse e calunnie, questa incessante guerra di coloro, ch’egli chiama falsi fratelli, affliggevano profondamente la sua grand’anima, e più volte amaramente se ne lagna, come in questa lettera. È un prezioso ammaestramento e conforto per quegli uomini, e non pochi, che dai tempi dell’Apostolo furono e sono nella Chiesa, hanno la coscienza di essere suoi figli e suoi ministri fedeli, e non possono cessare le male lingue dei malevoli e degli ignoranti, che li designano come erranti, come prevaricatori o di dubbia fede. Non sarebbe facile trovare un santo solo, massime dei più illustri e posti in alto per l’ufficio, o per l’ingegno, o per le opere, che non abbia sofferto contraddizioni ed anche vessazioni da Cristiani cattolici buoni e talvolta santi. Chi ignora ciò che Origene, S. Giovanni Grisostomo, S. Cirillo di Gerusalemme, S. Cesario, S. Ignazio di Lojola, S. Giuseppe di Calasanzio, S. Francesco di Sales, S. Alfonso de’ Liguori, patirono da persone pie e da Uomini santi! È Dio che lo permette per purificare i suoi servi, per tenerli nella umiltà, e certo non vi è dolore più acuto del sentirsi combattuti dai buoni e tenuti in conto di erranti. Quelli che si trovano in questo caso nella vita, dall’Apostolo Paolo, hanno un conforto ed un modello sicuro da imitare. Ora veniamo al commento della nostra Epistola.

“Noi, così S. Paolo, non alteriamo la parola di Dio, come fanno molti, ma con schiettezza parliamo, in Cristo, come mandati da Dio ed alla sua presenza „ (C. II, 17)… ” e tale fiducia abbiamo per Cristo presso Dio, „ cioè abbiamo ferma ed intima convinzione e persuasione, per la grazia di Gesù Cristo, d’essere sinceri e fedeli annunziatori della divina parola, checché altri possa pensare e dire. E questa attitudine e fedeltà nell’esercizio dell’apostolico ministero, della quale la Chiesa fondata in Corinto è una prova, a chi si deve ascrivere? Di chi ne è il merito? È forse opera tua, frutto delle tue forze naturali, o grande Apostolo? No, no, risponde subito il Dottore delle genti, e con una frase ammirabile riconferma la dottrina cattolica intorno alla gratuità della grazia. Uditela: “Non mai che noi fossimo atti a pensare alcun che da noi, ma la nostra attitudine è da Dio. „ È dottrina di fede, o cari, che senza l’aiuto della grazia divina noi non possiamo fare nulla che meriti la vita eterna: svolgiamo alquanto più largamente questa verità. – Dio Creatore ci ha dato il corpo coi suoi sensi e l’anima con la sua intelligenza e volontà libera, e tutte le cose esterne necessarie od utili a conservare la vita e perfezionare l’essere nostra: tutti questi beni si dicono naturali e costituiscono quello che chiamiamo ordine naturale. Ora avevamo noi qualche diritto, qualche merito, perché Iddio ci creasse e ci elargisse i doni della natura? Nessun diritto, nessun merito, benché minimo: basti dire che non esistevamo nemmeno e perciò nulla potevamo fare. É con i doni della natura, con l’uso della nostra intelligenza, volontà e libertà, con le opere proprie delle sole nostre forze possiamo noi, o cari, meritare la grazia divina, anche nella minima misura? No, mai. La natura con le sue opere non può meritare se non ciò che è naturale, non mai ciò che è sovrannaturale. Ditemi: l’albero selvatico potrà esso mai produrre altri frutti che selvatici? No, per fermo. Volete che produca frutti domestici, copiosi, dolci a gustarsi? Innestatelo e li avrete. Il somigliante accade della nostra natura: abbandonata a sé non dà che frutti selvatici, agresti, acerbi: fate che abbia la grazia divina, che la illumina, la eleva, la trasforma: eccovi i frutti di vita eterna. Come senza la natura non potevamo fare cosa alcuna nell’ordine naturale, non pensare, non volere, non operare; cosi senza la grazia non possiamo né pensare, né volere, né operare in ordine alla vita eterna. L’occhio senza la luce può esso vedere cosa alcuna? Il campo senza il seme può produrre una sola spiga? Così noi senza la luce della grazia, senza il germe della grazia, siamo al tutto impotenti a conoscere, amare e possedere Iddio come si deve. Questa è necessaria a principio, è necessaria a mezzo, è necessaria in fine, necessaria sempre. Prima di fare una cosa bisogna conoscerla, bisogna pensarla; senza conoscerla, senza pensarla è impossibile il farla, voi lo comprendete: dunque prima di amare e servire Iddio e praticare la virtù, è necessario conoscere e pensare a Dio, conoscere e pensare la virtù, come è necessario il fondamento per fabbricare. Ebbene S. Paolo ci fa sapere che da noi, con le sole nostre forze non siamo capaci nemmeno d’un primo buon pensiero: Non quod sufficientes simus cogitare aliquid a nobis quasi a nobis; se lo siamo, lo siamo perché Dio con la sua grazia ce lo concede: Sed sufficientia nostra ex Deo est. Questa verità dovrebbe fiaccare il nostro orgoglio, farci sentire il nostro nulla e costringerci a gettarci nelle braccia della divina misericordia, unica nostra speranza. Vedo io in me alcun bene, qualche virtù? Devo dire: Non è cosa mia, è dono, tutto e puro dono di Dio. S’Egli ritira il suo dono, la sua grazia, tutto si dilegua, ed io cado nell’abisso, come il sasso che la mano dell’uomo lascia cadere nel precipizio. – Seguitiamo l’Apostolo. Tutto ciò che ho, la dignità di Apostolo e l’attitudine ad adempirne le parti tutte, non è cosa mia: è dono di Dio. scrive S. Paolo: dono di Dio, “il quale ci ha fatti ministri idonei del nuovo Testamento, non secondo la lettera, ma sì secondo lo spirito. „ Non vi è religione, né vera, né falsa, che non abbia il suo sacerdozio e i suoi ministri, come non vi è Stato, sia monarchico, sia repubblicano, che non abbia i suoi magistrati. Abbiamo il vecchio Testamento o il Mosaismo, e con esso abbiamo il suo sacerdozio e i suoi ministri: abbiamo il nuovo Testamento o il Cristianesimo, e con esso il nuovo sacerdozio e i nuovi ministri. È chiaro che il sacerdozio e i ministri della legge mosaica dovevano informarsi allo spirito di quella legge, come il sacerdozio ed i ministri della legge evangelica devono informarsi allo spirito di questa, precisamente come i magistrati civili si devono informare allo spirito della legge, della quale sono interpreti. S. Paolo dichiara, che Dio ha fatto di lui e dei suoi colleghi altrettanti ministri idonei del nuovo Testamento. – E qual è lo spirito del nuovo Testamento e per conseguenza dei suoi ministri? In che sta la differenza tra l’antico ed il nuovo Testamento, tra i ministri di quello e di questo? Eccovela scolpita in due parole con lo stile sì incisivo dell’Apostolo: “Non secondo la lettera, ma secondo lo spirito: „ Non littera, sed spiritu. L’antica legge mosaica è la lettera, la nuova cristiana è lo spirito. Non era possibile ritrarre più al vivo l’indole dei due Testamenti. – Spieghiamola alquanto. La legge antica o mosaica rimaneva al di fuori dell’uomo, riguardava più il corpo che lo spirito; purificazioni continue del corpo, dei vasi sacri, offerte materiali, continui ed innumerevoli sacrifici, oblazioni, riti senza fine e minutissimi e sotto pene gravissime, e andate dicendo: erano tutti atti esterni, era tutto culto e tutta religione esterna principalmente, che dell’interno quel popolo ben poco si curava, anche perché ben poco ne capiva. La legge, nuova o cristiana, va direttamente all’interno, riguarda principalmente lo spirito, esige la purezza del cuore, e senza rigettare, anzi imponendo anche il culto esterno, lo fa servire all’interno, vuole l’ossequio della mente e del cuore, inculca la rinnovazione dell’uomo interiore; insomma proclama, che Dio è spirito e che perciò Dio vuole adoratori in ispirito e verità. Ecco la differenza essenziale tra la legge mosaica e la cristiana. – Ma l’Apostolo chiarisce ancor meglio il suo pensiero con un’altra sentenza, soggiungendo: “Poiché la lettera uccide e lo spirito per contrario vivifica: „ Littera enim occidit, spiritus autem vivificat. Come mai si può dire che la lettera, cioè l’antica legge uccide, e lo spiritò, cioè la legge evangelica vivifica? Lo spiegano i Padri, e tra questi S. Agostino e S. Ambrogio. La legge antica o mosaica si contiene nei cinque libri di Mosè, e più particolarmente nel libro del Levitico, che determina le leggi e le cerimonie sacre. Pigliatelo in mano, percorretelo, e voi troverete che ogni trasgressione, ha la sua pena e grave, e assai volte la pena di morte. Chi bestemmia, sia messo a morte: a chi lavora in sabato, la morte: a chi dice ingiuria ai genitori, la morte: a chi commette adulterio, la morte: al falso profeta, la morte, e via via di questo tenore: era, possiamo dirlo, una legge scritta col sangue, e necessaria per raffrenare quel popolo riottoso e di dura cervice. – Pigliate in mano il Vangelo: esso intima ai peccatori ostinati le pene della vita futura, anche eterne, ma neppure una sola volta la pena di morte nella vita presente. Il Vangelo vuole la conversione del peccatore e non la morte, si impone con la persuasione, non con la forza, a dir breve, è legge d’amore e non di timore, di figli, non di schiavi. – In queste due sentenze dell’Apostolo, noi abbiamo messa in tutta la loro luce la natura della legge mosaica e della evangelica. Permettetemi una domanda, o dilettissimi. Certo la legge mosaica è cessata, è abrogata, ed a quella Gesù Cristo ha sostituita la sua, la evangelica: ma benché la legge mosaica, la legge della lettera, sia cessata ed abrogata, ditemi, è dessa cessata al tutto nella pratica tra i Cristiani? Duole il dirlo, ma bisogna confessarlo; essa è ancor viva in molti senzaché se ne accorgano. Tali sono coloro, che recitano molte e lunghe orazioni con le labbra, e non si curano di accompagnarle con la mente e col cuore: tali sono coloro che osservano le astinenze dalle carni nei giorni stabiliti, che ascoltano la S. Messa la festa, che digiunano anche, ed hanno il cuore e la mente pieni di immondezze, opprimono i poveri, bestemmiano, rubano a man salva, odiano i fratelli, ne lacerano la fama e si reputano buoni Cristiani: tali sono coloro che vanno ai Sacramenti, anche frequentemente, e non fanno sforzo alcuno per reprimere le passioni e praticare la virtù, e credono d’aver fatto ogni loro dovere: quelli che abbondano in pratiche religiose, tridui, ottave, novene, benedizioni, prediche, pellegrinaggi e andate discorrendo, e si rifiutano al più lieve sacrificio per vincere se stessi, per combattere l’amor proprio, per esercitare la carità, regina di tutte le virtù. La religione di costoro è la religione degli Ebrei, degli scribi, dei farisei, tante volte e con frasi sì roventi folgorata da Cristo: è religione tutta esterna, religione del corpo, non dello spirito, che riempie di superbia chi la pratica, tutte foglie e frasche inutili. Carissimi! guardiamoci da siffatta religione, e studiamoci di unire alle pratiche esterne, che sono la lettera, la fede, la speranza, la carità, che sono lo spirito, e allora vivremo. – Ripigliamo il nostro commento. In questi versetti S. Paolo istituisce un parallelo o confronto tra l’antica legge mosaica e la nuova legge cristiana, fra il sacerdozio di quella e il sacerdozio di questa, affine di mostrare la eccellenza del secondo sul primo, e prosegue: “se il ministero della morte, cioè la legge mosaica, sì terribile contro i suoi trasgressori, che spesso colpiva di morte; legge scritta materialmente sopra tavole di pietra, fu gloriosa, massime nel suo promulgatore Mosè , il quale scendendo dal Sinai ne riportò raggiante il volto, sicché il popolo d’Israele non poteva sostenerne la vista, legge ch’era pure destinata a scomparire: se quella legge, se quel ministero, dico, fu glorioso, quanto più gloriosa sarà la legge nuova, il nuovo ministero, che è tutto spirituale e che deve durare fino al termine dei secoli? E non è ancor pago l’Apostolo d’avere magnificato il ministero evangelico sopra il mosaico con sì gagliarde espressioni: egli, nel versetto che segue ed ultimo della nostra lezione, ritorna sulla stessa verità, e con altre parole la ribadisce, scrivendo: E veramente, se il ministero della condanna, cioè se la legge mosaica sì facile alla condanna, alle pene corporee, alla stessa morte, fu nondimeno grande e glorioso, quanto sarà più glorioso il ministero della nuova legge, che cancella i peccati, che giustifica i peccatori, che rigenera le anime e trasforma i figli degli uomini in figli di Dio ed eredi della sua gloria? In altri termini: il ministero dell’antica legge ebbe gran gloria, specialmente nella persona di Mosè, che vide Dio, udì la sua parola e ne riportò sfolgorante il volto: ebbe gran gloria, benché fosse sì severo contro i trasgressori, dovesse finire ed avesse in mira più che la purificazione delle anime, quella dei corpi: sé tale fu quel ministero, quanto più glorioso deve essere questo della nuova legge, istituito da Gesù Cristo stesso, che non infligge pene materiali ai trasgressori, sì benigno, sì paterno, che durerà fino al termine dei secoli, e che è ordinato a santificare direttamente le anime? Ebbene: questo è il ministero mio, il ministero, che ho ricevuto, non dagli uomini, ma da Gesù Cristo stesso, e che io ho esercitato in mezzo a voi e continuerò ad esercitare finché abbia filo di vita, come implicitamente, ma chiaramente, innanzi S. Paolo protesta. In sostanza, in queste sentenze e nelle seguenti, S. Paolo è tutto inteso a mettere in rilievo la sua dignità e il suo ufficio di apostolo della nuova legge sulla dignità ed ufficio dei ministri della legge antica. – A noi forse può sembrare alquanto strana questa condotta dell’Apostolo, e non ne comprendiamo tutta l’importanza e la necessità. Ma se ci trasportiamo ai suoi tempi; se consideriamo le lotte ch’egli doveva sostenere coi cristiani giudaizzanti, che volevano legare la legge evangelica alla mosaica e restringere il benefìcio della redenzione operata da Cristo ai soli figli d’Israele e chiudere le porte ai Gentili, noi comprenderemo la ragione di queste sì frequenti e sì gagliarde difese, che l’Apostolo fa del suo ministero. Si trattava non della sua persona, ma della verità, dell’avvenire della Chiesa, che si voleva sottomessa alla Sinagoga, e l’Apostolo, che vedeva tutto il pericolo, leva la sua voce, non risparmia questi apostoli, che, ignoranti o perversi, col nome di Mosè in bocca, ponevano inciampo gravissimo alla fede e turbavano e confondevano le menti dei deboli. – Miei cari, una riflessione opportuna ai nostri tempi, ed ho finito. La Chiesa di Gesù Cristo, dai tempi di san Paolo a noi, ebbe sempre le sue prove e le sue lotte, e le avrà finché sarà sulla terra. Queste lotte variano secondo i tempi, i luoghi, le persone e le circostanze: ora sono intense e feroci, ora più lievi e più blande, ma non cessano mai, ed è nella natura delle cose che durano, e Gesù Cristo apertamente le predisse. L’ombra segue sempre il corpo, e le infermità più o meno sono compagne dei sani e robusti; così l’errore cammina sempre a fianco della verità, la insidia e la combatte, e gli apostoli di quello non danno mai tregua agli apostoli di questa. Vogliamo o non vogliamo, noi tutti siamo trascinati in questa lotta, che sì fieramente si combatte tra i seguaci dell’errore e quelli della verità, tra gli apostoli del mondo e quelli di Gesù Cristo. Che fare, o dilettissimi? Noi, per uscirne vincitori, dobbiamo tener sempre fisso l’occhio sulle guide sicure che ci dà la Chiesa, porgere l’orecchio docile alla loro parola e chiuderlo alla parola di quelli che si vantano maestri, sì, ma non ci sono dati dalla Chiesa. – I fedeli, al tempo di S. Paolo, come rimasero fedeli alla verità ed al Vangelo di Gesù Cristo? Ascoltando e seguendo il grande Apostolo, che aveva ricevuto direttamente da Cristo la sua missione, e volgendo le spalle a quelli che pur venivano da Gerusalemme e si gloriavano d’essere maestri di verità. Forse saranno stati dotti e valenti, più dotti e più valenti, se volete, di S. Paolo, nelle lettere e nelle scienze umane, la cui parola, egli stesso lo confessa, era incolta e spregevole; ma non dimentichiamolo mai, o carissimi, perché il bisogno è grande anche al giorno d’oggi, la verità della fede non è congiunta per volere di Cristo alla scienza, all’ingegno, ai doni naturali, ma è affidata a quelli che tengono la missione da Cristo stesso, ai Vescovi in comunione col Vescovo dei vescovi, il Romano Pontefice. Se volete conservare con sicurezza il tesoro della fede in mezzo a questo turbine di opinioni e di dottrine che mutano sì spesso, non ascoltate quelli che dicono: “Noi siamo con Paolo, e noi con Apollo, e noi con Pietro, e noi con Cristo, come si diceva ai tempi di Paolo stesso; ma ascoltate veramente Paolo e Apollo e Pietro, quelli cioè che nella Chiesa hanno l’ufficio di ammaestrarvi e guidarvi, e questi vi condurranno a Cristo, che è la verità stessa. Forse non mai, come al presente, fu sì necessaria l’ubbidienza ai pastori della Chiesa, che stanno uniti col Pastore supremo, perché forse non mai come al presente, si cercò di sostituire alla sacra gerarchia l’opinione pubblica, all’autorità che viene da Dio, l’ingegno e l’autorità umana, all’insegnamento dei pastori legittimi quello dei dottori privati! [Volentieri avrei aggiunto alla parola dei vescovi quella dei giornalisti, divenuti oggimai i maestri e le guide del popolo. Il giornalismo è una necessità nelle condizioni attuali: ma è un pericolo, e parlo del giornalismo che si dice cattolico. Talvolta senza che altri se ne avvedano il giornalismo cattolico (cioè quei preti o laici, che lo dirigono) si sostituisce al Vescovo ed esercita una influenza pericolosa, sconvolgendo il principio gerarchico.]

Graduale
Ps XXXIII:2-3.
Benedícam Dóminum in omni témpore: semper laus ejus in ore meo.
[Benedirò il Signore in ogni tempo: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra.]
V. In Dómino laudábitur ánima mea: áudiant mansuéti, et læténtur.
[La mia ànima sarà esaltata nel Signore: lo ascoltino i mansueti e siano rallegrati.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps LXXXVII:2
Dómine, Deus salútis meæ, in die clamávi et nocte coram te. Allelúja.
[O Signore Iddio, mia salvezza: ho gridato a Te giorno e notte. Allelúia.]

Evangelium

.Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc X:23-37
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Beáti óculi, qui vident quæ vos videtis. Dico enim vobis, quod multi prophétæ et reges voluérunt vidére quæ vos videtis, et non vidérunt: et audire quæ audítis, et non audiérunt. Et ecce, quidam legisperítus surréxit, tentans illum, et dicens: Magister, quid faciéndo vitam ætérnam possidébo?
At ille dixit ad eum: In lege quid scriptum est? quómodo legis? Ille respóndens, dixit: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo, et ex tota ánima tua, et ex ómnibus víribus tuis; et ex omni mente tua: et próximum tuum sicut teípsum. Dixítque illi: Recte respondísti: hoc fac, et vives. Ille autem volens justificáre seípsum, dixit ad Jesum: Et quis est meus próximus? Suscípiens autem Jesus, dixit: Homo quidam descendébat ab Jerúsalem in Jéricho, et íncidit in latrónes, qui étiam despoliavérunt eum: et plagis impósitis abiérunt, semivívo relícto. Accidit autem, ut sacerdos quidam descénderet eádem via: et viso illo præterívit. Simíliter et levíta, cum esset secus locum et vidéret eum, pertránsiit. Samaritánus autem quidam iter fáciens, venit secus eum: et videns eum, misericórdia motus est. Et apprópians, alligávit vulnera ejus, infúndens óleum et vinum: et impónens illum in juméntum suum, duxit in stábulum, et curam ejus egit. Et áltera die prótulit duos denários et dedit stabulário, et ait: Curam illíus habe: et quodcúmque supererogáveris, ego cum redíero, reddam tibi. Quis horum trium vidétur tibi próximus fuísse illi, qui íncidit in latrónes? At ille dixit: Qui fecit misericórdiam in illum. Et ait illi Jesus: Vade, et tu fac simíliter.”

OMELIA II

[Mons. Bonomelli, ut supra, om. XXVI]

“Gesù disse ai suoi Apostoli: Beati, gli occhi, che vedono le cose che voi vedete. Perché vi dico che molti profeti e re desiderarono di vedere le cose che voi vedete, e non le videro, ed udire le cose che voi udite, e non le udirono. Allora sorse un cotal dottore della legge e tentandolo, disse: Maestro, qual cosa farò io per avere la vita eterna? Ed Egli disse: Che sta scritto nella legge? come vi leggi? E quegli rispondendo disse: Amerai il Signore, Iddio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutte le tue forze, con tutta la tua ménte, e il prossimo tuo come te stesso. E Gesù gli disse: “Bene hai risposto; fa questo e vivrai”. Ma quel tale, volendosi giustificare, disse a Gesù: “E chi è mai il mio prossimo?” Allora Gesù, replicando, disse: Un certo uomo discendeva da Gerusalemme in Gerico, diede nei ladri, che lo spogliarono ed anche feritolo, se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Ora avvenne per caso, che un certo sacerdote scendesse per quella via, e vedutolo, passò oltre. Similmente fece un levita; venuto presso a quel luogo, e vedutolo, anch’esso passò oltre. Ma un Samaritano, viaggiando, venne presso di quello, e vedutolo, n’ebbe pietà; ed accostatosi, fasciò le sue ferite, versandovi dell’olio e del vino e messolo sul suo giumento, lo menò all’albergo e si prese cura di lui. E il dì appresso, sborsati due denari, li diede all’oste e gli disse: Abbi cura di lui, e quanto avrai speso di più, ritornando, te lo darò. Di questi tre, chi ti pare essere stato prossimo a colui che cadde nei ladri? E quegli disse: Colui che gli usò misericordia. E Gesù a lui: Va, e tu pure fa allo stesso modo „ (S. Luca, X, 23-37).

Tra le parabole, che si leggono nel Vangelo, questa senza fallo è una delle più belle e più care, fu e rimarrà sempre come un modello inarrivabile per la naturalezza ed efficacia e per l’altissima dottrina, che vi si racchiude. Prima di chiosarla è mestieri vedere il nesso cogli antecedenti per comprendere il perché della domanda fatta a Gesù dal dottore della legge; domanda che provocò la parabola del Samaritano. – Gesù aveva mandato i settantadue discepoli a predicare a coppie nelle città e nei villaggi dov’Egli era per andare. Compiuta la loro missione, essi ritornarono esultanti a Gesù, narrando ciò che avevano fatto. Gesù pure ne fece gran festa, ne ringraziò con grande ardore il Padre, e disse ai discepoli, che dovevano godere più assai perché i loro nomi erano scritti in cielo, vale a dire erano sicuri, corrispondendo d’avere la vita eterna. Poi, rivoltosi ancora ad essi, pronunciò le parole, con le quali comincia l’odierna lezione e che sono per ispiegarvi. – Gesù, rivolto ai suoi discepoli, disse: Beati gli occhi, che vedono le cose che voi vedete. Perché vi dico, che molti profeti e re desiderarono di vedere le cose che voi vedete, e non le videro, ed udire le cose che voi udite, e non le udirono. „ – Tutto l’antico Testamento era una preparazione al nuovo; tutti i riti, tutti i sacrifici, tutti i simboli, tutti i vaticini dell’antico Testamento, come raggi nel centro, si appuntavano nel nuovo, e più propriamente in Gesù Cristo, che ne è l’autore e consumatore. Il Messia, cioè Gesù Cristo, è il fine della legge antica, scrive S. Paolo: Finis legis Christus. Egli è il termine fisso dell’eterno consiglio, Egli è il punto, nel quale tutto si incentra, Egli il sospiro, l’aspettazione, il desiderio dei secoli. Chi può dire con quali affocate brame i patriarchi, i profeti, i santi dell’antico Patto sospirarono la sua venuta! Abramo, Giacobbe, Mose, Davide, Elia, Isaia, Geremia, Daniele e tutti i santi e profeti lo invocarono e desiderarono di vederlo, e intravedendolo attraverso i secoli, lo salutarono da lungi, dice S. Paolo: Salutantes a longe. Àbramo, dice Cristo, vide la mia venuta, e ne gioì: Abraham exultavit, ut videret diem meum; vidit, et gavisus est. Ebbene, esclama Cristo, stendendo le braccia ai suoi cari Apostoli e mirandoli con occhi pieni d’amore; ciò che quei grandi desiderarono di vedere e non videro, di udire e non udirono, voi lo vedete, voi l’udite. Qual grazia, qual gloria è la vostra, e perciò come grande è il dovere della vostra gratitudine! Dilettissimi! Se grande, ineffabile fu la grazia concessa agli Apostoli di vedere e di udire il Piglio di Dio nell’assunta natura, non è minore la nostra, che viviamo tanti secoli dopo di loro. Noi pure, come gli Apostoli, udiamo lo stesso Gesù, leggendo nei Vangeli le sue parole e la sua dottrina; noi possediamo lo stesso Gesù, lo tocchiamo, lo riceviamo dentro di noi stessi nel mistero d’amore, la S. Eucaristia. Tra noi e loro non vi è differenza alcuna sostanziale, perché noi pure al pari di essi possediamo Gesù; essi nella sua forma umana visibile, noi sotto le ombre eucaristiche, sotto le specie del Sacramento; se v’è differenza è quella del modo, non della sostanza, ondechè a noi pure sono rivolte quelle parole di Gesù Cristo: “Beati gli occhi che vedono le cose che voi vedete. Perché vi dico che molti profeti e molti re desiderarono di vedere le cose che voi vedete, e non le videro, di udire le cose che voi udite, e non le udirono. „ Queste parole Gesù disse agli Apostoli, ma insieme con essi, v’era molta gente, e in mezzo ad essa, come quasi sempre, scribi e farisei. Costoro lo seguivano, come sappiamo dal Vangelo, non per udire la parola di vita e di verità che usciva dalle sue labbra, ma per coglierlo in fallo, accusarlo e perderlo. Vedete cecità e malignità di quella gente, che istruita nella legge e nei profeti, doveva essere la prima a riconoscere la sua divina missione, e invece non pure non lo seguiva, ma faceva ogni opera affine di allontanare da Lui il povero popolo. A tanta cecità di mente, a tanto pervertimento di volontà può trascinare la superbia! Che avvenne? In mezzo a quella folla era un dottore della legge, o scriba; costui, argomentandosi di poter pure trarre di bocca a Gesù qualche risposta meno misurata e che gli fornisse appiglio a qualche accusa, gli mosse una domanda. Aveva poco prima udito da Cristo, che i suoi discepoli dovevano essere lieti, perché i loro nomi erano scritti in cielo, sui libri della vita eterna; afferrata questa idea della vita eterna, il legista disse a Gesù: “Maestro, che farò io per avere la vita eterna, della quale or ora hai parlato? „ Per fermo il legista lo sapeva bene: Osserva i comandamenti della legge divina; ma nella sua malizia sperava che Gesù avrebbe aggiunta qualche altra cosa ed avrebbe porto occasione ad accuse. Pensate quanto Gesù doveva soffrire, vedendosi costantemente circondato da questa gente che l’odiava, che gli tendeva lacci e ordiva sempre nuove insidie a suo danno! Eppure Egli taceva, lo soffriva e si studiava di far penetrare la luce della verità in quelle menti ed in quei cuori pervertiti. Gesù prontamente rispose: “Tu sei dottore della legge e la devi ben conoscere, dimmi dunque: “Che cosa sta scritto nella legge? Come vi leggi? „ E il legista: ”    Amerai il Signore Iddio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso. La risposta non poteva essere più netta e precisa: essa è il succo di tutto l’insegnamento divino. Gesù rispose al legista: “Bene hai risposto: fa’ questo e vivrai, „ cioè anche il nome tuo sarà scritto nella vita eterna. – Non è d’uopo ripetere qui ciò che dissi più volte altrove, cioè che l’amore di Dio, quando sia vero amore, porta necessariamente al perfetto adempimento di tutta la legge, della volontà divina, ond’è verissimo, che chi ama, ha osservata tutta la legge ed è sicuro della propria salvezza. Questa risposta di Gesù troncava ogni questione e poneva il legista nella impossibilità di proseguire le sue domande suggestive ed insidiose, e lo svergognava dinanzi alle turbe. Ma egli non si diede per vinto, e volendo coprire il suo mal animo e la sua disfatta, s’appigliò a quell’ultima parola: “Ama il tuo prossimo come te stesso; „ atteggiandosi a discepolo, che ha bisogno d’essere chiarito dal maestro sopra qualche punto più difficile, disse: “Chi è poi il mio prossimo?„ Il legista doveva conoscere almeno in confuso l’insegnamento di Cristo per ciò che spettava l’amore del prossimo, e come la sua Dottrina, su questo punto del prossimo, fosse diversa dalle grettezze giudaiche (Si sa che i Giudei insegnavano che il prossimo erano gli stessi Giudei: quanto agli altri popoli, agli stranieri, le loro idee non erano bene determinate; in sostanza essi consideravano tutti gli stranieri come nemici, e pare che reputassero lecito odiarli. ” Odio habebis inimicum tuum. „) ed abbracciasse tutti gli uomini e perciò non gli parve fuori di proposito il tentarlo su questo argomento, dicendogli: ” Chi è poi il prossimo mio? „ Cristo risponde con la parabola,, onde la risposta alla domanda è lasciata al legista stesso ed alla moltitudine, e non poteva essere dubbia, tanta è la evidenza della verità. ” Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e diede nei ladri, i quali lo spogliarono, e per di più, feritolo, se n’andarono, lasciandolo mezzo morto. „ Gerusalemme è posta sopra una catena di colline di più che discreta altezza, a 700 metri circa sul livello del mare. Di là scendeva una gran via verso la valle del Giordano che passava per la città di Gerico e metteva ai paesi oltre il Giordano stesso: il tratto di via fra Gerusalemme e Gerico, di 20 kilometri circa, era infestato da ladroni, e v’era un luogo, tra gli altri famoso per latrocini ed assassinii, chiamato Adommim, che vuol dire: Luogo di sangue, come attesta S. Girolamo. È noto che la Giudea è un paese assai montuoso, quasi tutto a colli, oggidì pressoché nudi e rocciosi. Vi sono frequentissime le spaccature e le caverne, e in esse trovavano facile nascondiglio, i ladroni e gli assassini. Gesù dunque immagina che un uomo parta da Gerusalemme e percorra la via di Gerico. Badate che scopo di Gesù è di mostrare, rispondendo al legista, che qualunque uomo sia Giudeo, sia Gentile, ci è prossimo; e per questo Egli non dice: Un Giudeo, ma un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Che avvenne? Giunto ad un certo luogo, una banda di ladroni sbucò dai suoi nascondigli, si gettò sul mal capitato viandante, lo spogliò d’ogni cosa: non furono paghi quegli scellerati ladroni: lo crivellarono di ferite, e così com’era, coperto di sangue e mezzo morto, lo lasciarono in mezzo alla via e sparvero. Il misero giaceva sulla via, impotente a muoversi, a chiedere soccorso, aspettando la morte inevitabile. Poco appresso si ode un rumore di passi che lentamente si avvicinano. Chi è? È un sacerdote che, avvolto nella sua ampia e maestosa veste, s’avanza. Egli si avvicina, china l’occhio sul misero, disteso sulla via, lo guarda e poi senza fermare il passo, freddo ed imperturbabile, prosegue il suo cammino. Non una parola, non uno sguardo di pietà per quello sventurato. Era da poco passato il sacerdote, ed ecco per la stessa via, giungere un altro viandante: egli è un levita (Il sacerdote compiva i riti sacri per ufficio suo; il levita èra il suo aiutante, presso a poco quello che sono oggidì i diaconi, i suddiaconi e gli altri ordini minori, che servono ai sacerdoti): anch’egli, come il sacerdote a passo grave e lento s’appressa, volge lo sguardo al giacente, ma non si china a sollevarlo, non si ferma, non gli muove una domanda, e con aria non curante, continua il suo viaggio. Chi non sente ribollire il sangue e fremere indignata l’anima al vedere l’indifferenza, dirò meglio, la crudeltà, di questo sacerdote e di questo levita? Evidentemente Gesù volle proporre in questi due, il tipo della indifferenza e della durezza di cuore, per due ragioni principalmente: in primo luogo, il ministero sacro imponeva al sacerdote ed al lievita, un obbligo maggiore di esercitare la carità, e quella indifferenza crudele diventa più detestabile; in secondo luogo, Gesù volle mettere a nudo la falsa religione dei sacerdoti e leviti d’allora: tutti intenti alle pratiche materiali della religione, alle cerimonie, alle abluzioni, ai sacrifici, alle lunghe orazioni, dimenticavano il fondo della religione vera, che è la carità. Gesù qui con la parabola rafferma quella dottrina che tante volte ha inculcato, vale a dire, che bisogna badare all’interno, al cuore, alle opere, e non alle apparenze. La parte che in questa parabola rappresentano il sacerdote ed il levita, fa ribrezzo ed essi non ricevettero mai rampogna più sanguinosa di questa e più meritata, e si comprende come il ceto sacerdotale giudaico e i farisei, ch’erano pressoché tutti dello stesso taglio, dovessero sentirsi trafitti, ne fremessero ed in cuor loro giurassero di farne aspra vendetta. E si comprende anche come gli ebbero a gettare in faccia l’accusa di Samaritano, dicendogli: “Non diciamo noi bene che tu sei Samaritano, cioè scismatico eretico, nemico della legge mosaica? Il povero spogliato e ferito era ancor là sulla strada immerso nel suo sangue e invano chiedente aiuto. Ed ecco sopravvenire un terzo viandante, laico; esso cavalcava un giumento: era un Samaritano. Voi lo sapete, i Samaritani vivevano nell’errore, e lo disse Cristo in termini alla Samaritana (Capo IV di S. Giov.). Per schiatta, per lingua e per religione differenti dai Giudei, erano in odio a questi più che gli stessi Gentili, ed una delle maggiori ingiurie, che i Giudei potessero gettare in faccia ad un uomo, era il dirgli: Tu sei Samaritano. I Samaritani per i Giudei erano eretici, scismatici e tutto quel peggio che si possa immaginare. Il Samaritano, dice Cristo, giunse sul luogo, vide quel meschinello, che ingombrava la via e gemeva pietosamente; fermò tosto il suo giumento e gettategli le briglie sul collo, scese di sella e corse sopra il misero: lo sollevò da terra, scoperse le ferite sanguinolenti, le lavò, vi sparse sopra vino ed olio, le fasciò, e poi, levatolo di peso, lo pose sul proprio giumento, e camminando esso a piedi e conducendo l’umile sua cavalcatura, giunse al primo albergo, prese cura di lui e lo fece adagiare in letto. Il giorno dopo, messi fuori due denari, circa cinque lire delle nostre, le diede all’oste, e gli disse: ” Abbi cura di lui, e quanto di più avrai speso, ritornando, te lo darò. „ Molte cose sono qui da osservarsi, che il Vangelo lascia intendere e che noi dobbiamo accuratamente considerare. Gesù volle raffigurare nel Samaritano la carità per svergognare maggiormente i sacerdoti e leviti ebrei, che non ne avevano; mettendo loro innanzi l’esempio d’un eretico e d’un laico e umiliando così il loro orgoglio. Il Samaritano non guarda, né cerca se il ferito sia Samaritano, o Giudeo, o Gentile, se sia buono o cattivo, ricco o povero, se gli sarà grato o ingrato; vede un uomo che soffre, che muore; non bada ad altro, lo aiuta come meglio può, e per lui non risparmia nulla e mette mano alla borsa. La nostra carità, osservando pur sempre l’ordine voluto dalla natura e dai vincoli del sangue e dell’amicizia, non deve escludere alcuno, ma tutti abbracciare, perché tutti sono creati da Dio ed immagini sue. Il Samaritano era nell’errore, era fuori della vera religione. Gesù Cristo, facendone un modello di carità, volle forse sancire l’errore? Volle forse stabilire l’indifferenza in materia di religione e quasi riconoscere quella massima assurda ed empia, che oggi si professa da taluni, cioè che tutte le religioni son buone: che non importa tener questa più che quella, purché siamo onesti e facciamo carità, amandoci scambievolmente? Sarebbe orribile bestemmia pure il pensarlo! Se tutte le religioni sono egualmente buone, perché mai Gesù Cristo venne sulla terra ad insegnarci la sua? Perché mai mandò gli Apostoli a predicare dovunque il Vangelo? Perché non lasciò ciascun popolo nella sua religione, i Giudei nel giudaismo, i pagani nel paganesimo? Perché mai proclamò altamente che chi non avesse creduto alla sua dottrina, sarebbe condannato? Gesù Cristo dunque con la parabola del Samaritano non intese, né poté intendere di insegnare che tutte le religioni sono eguali e ch’Egli considera come suoi seguaci e suoi figli tutti quelli che esercitano la carità, quale che sia la religione che professano. Lodò la carità del Samaritano, la propose come esempio. in quel senso stesso in cui lodò il fattore ladro ed eccitò ad imitare la prudenza dei figli delle tenebre. Lodò l’opera del Samaritano e volle darcelo come modello da imitare, non nella dottrina che teneva, ma nella carità, che adempiva: di quella tacque, questa encomiò; e di quella tacque, perché i suoi uditori la tenevano per falsa e non v’era bisogno di istruirli, e di questa fece l’elogio, perché o la ignoravano, o, conoscendola, malamente la osservavano. Questa parabola di Gesù non solo ci insegna che la vera carità è quella che si mostra nelle opere, ma stabilisce eziandio ch’essa, pur serbando sempre l’ordine voluto dalla natura e dalla fede, considera come fratelli tutti gli uomini, anche d’altre nazioni e d’altra religione. L’uomo, sia turco, sia tartaro, sia civile, sia barbaro, sia credente, sia miscredente, è sempre uomo, è sempre creatura di Dio e fratello nostro, e per esso ancora è morto nostro Signore. È dunque nostro dovere amarlo ed aiutarlo secondo le nostre forze. –  Un giorno ad un Vescovo si presentava un povero, chiedendogli la elemosina: il Vescovo gli pose in mano cinque lire. Il povero, tenendo sulla palma della mano le cinque lire e fissando gli occhi in volto al Vescovo, gli disse: “Monsignore, sappia ch’io sono israelita. E che perciò, rispose il Vescovo. – Eccovi altre cinque lire, „ e le lasciò cadere sulla palma della mano, che l’israelita teneva aperta —. Ecco un Vescovo che conosceva il Vangelo di Gesù Cristo. – Direte: E pur sempre vero da questa parabola, che le persone che possedevano la vera religione e più degli altri la dovevano osservare, come erano i sacerdoti ed i leviti, non la osservavano; e il Samaritano, che era un eretico e scismatico, notoriamente in una falsa religione, ne osservava e perfettamente il precetto fondamentale, che è la carità. Come dunque si spiega questa contraddizione manifesta di avere da una parte la vera Religione senza le opere della vera Religione, e dall’altra la falsa religione e con essa le opere proprie della vera Religione? A che serve dunque avere una religione, sia vera, sia falsa? Non neghiamo che molti vivono nella vera Religione e la professano con le parole e la rinnegano con le opere, come già diceva san Paolo: Fide fatentur se nosse Deum, factis autem negant. E che perciò? Un architetto conosce benissimo l’architettura, e costruisce assai male una casa: diremo noi che è inutile l’architettura e la rigetteremo ? Un avvocato conosce profondamente la legge, ma ne usa a danno altrui ed a proprio disonore: diremo noi che la scienza della legge è inutile, anzi cattiva? Non mai. Conoscere la verità, conoscere i doveri verso Dio, verso gli altri, verso se stesso è cosa buona e necessaria, giacché se non li conosciamo è impossibile osservarli: la Religione ce li fa conoscere prontamente e con sicurezza; è dunque buona, santa e necessaria cosa. Se molti non osservano la Religione, ciò prova soltanto che l’uomo può abusare della sua libertà, e conoscendo il dovere, lo può calpestare; prova che la volontà può andare a ritroso della intelligenza, che si può vedere la via retta e mettersi per la via che mena al precipizio. Se valesse l’argomento di coloro che dicono: Molti professano la Religione e fanno opere cattive, come se non la professassero, si potrebbe con egual diritto rispondere: Tutti hanno la ragione, che insegna ad adempire i doveri naturali, e molti non si curano di osservarli: molti sono forniti d’alta scienza e sono cattivi, corrotti e corrompitori, mentre altri che ignorano l’alfabeto, sono eccellenti cittadini e uomini virtuosi: dunque, via la ragione, abbasso la scienza! Voi vedete che questo sarebbe un fare oltraggio alla ragione ed allo stesso comune buon senso. Dunque concludiamo: è vero, molti che professano la vera Religione, operano male; e ciò forma la loro condanna: operano male, perché non la osservano: essa è sempre buona e santa, ed essi sono malvagi. Il sole cessa forse d’essere un immenso beneficio per tutti, perché alcuni sotto la piena sua luce si gettano sbadatamente o volontariamente in un precipizio? Ma intanto sta il fatto, che alcuni, i quali vivono nell’eresia, nello scisma e forse anche nella miscredenza, praticano la virtù come e meglio dei Cattolici, come insegna Cristo stesso nella parabola odierna. E noi siamo lungi dal negarlo, anzi lo riconosciamo volentieri. E ciò che prova? Prova ciò che la Chiesa ha sempre insegnato ed insegna, cioè che l’uomo con le sole forze della natura può fare alcune opere buone naturali e meritare una ricompensa naturale. L’uomo, anche senza la fede cristiana e fuori della Religione Cattolica, può conoscere molte verità, che perfettamente si insegnano dalla Chiesa Cattolica: conoscendole, può metterle in pratica, ed eccovi alcune opere buone, eccovi le virtù degli eretici, degli scismatici, degli increduli. Il perché tutte quelle virtù che esercitano coloro che sono fuori della Chiesa Cattolica, intanto le esercitano in quanto che senza volerlo e quasi senza porvi mente, hanno comune con la Chiesa Cattolica il conoscimento di quelle virtù stesse, ossia in quanto che intorno a quelle, senza saperlo, sono Cattolici. Piaccia a Dio, che costoro, amando i frutti, amino altresì la pianta, cioè praticando alcune virtù, entrino in quella Chiesa che ne è la madre. Gesù, recitata la parabola, volto al legista: “Or dimmi: quale di questi tre, il sacerdote, il levita ed il Samaritano, si è mostrato prossimo al capitato tra i ladri? „ La risposta non poteva essere dubbia; ma Gesù la voleva strappare di bocca a quel medesimo che l’aveva tentato. Il legista rispose: “Colui che gli usò misericordia. „ Non pronunciò la parola Samaritano, perché quella parola forse lo confondeva, lo umiliava e quasi gli bruciava la lingua; ma in sostanza lo confessò, e non poteva non confessarlo. Ebbene, soggiunse Gesù: “Va, e fa’ tu pure il somigliante. „ Tu, figlio d’Israele, maestro della legge, imita questo povero Samaritano che, ignorando la legge scritta da Mosè, conobbe ed osservò quella che Dio scrisse nel cuore dell’uomo.

CREDO…

Offertorium
Orémus
Exod XXXII:11;13;14
Precátus est Moyses in conspéctu Dómini, Dei sui, et dixit: Quare, Dómine, irascéris in pópulo tuo? Parce iræ ánimæ tuæ: meménto Abraham, Isaac et Jacob, quibus jurásti dare terram fluéntem lac et mel.
Et placátus factus est Dóminus de malignitáte, quam dixit fácere pópulo suo. [Mosè pregò in presenza del Signore Dio suo, e disse: Perché, o Signore, sei adirato col tuo popolo? Calma la tua ira, ricordati di Abramo, Isacco e Giacobbe, ai quali hai giurato di dare la terra ove scorre latte e miele. E, placato, il Signore si astenne dai castighi che aveva minacciato al popolo suo.]

Secreta
Hóstias, quǽsumus, Dómine, propítius inténde, quas sacris altáribus exhibémus: ut, nobis indulgéntiam largiéndo, tuo nómini dent honórem. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda propizio alle oblazioni che Ti presentiamo sul sacro altare, affinché a noi ottengano il tuo perdono, e al tuo nome diano gloria.]

Communio
Ps CIII:13; CIII:14-15
De fructu óperum tuórum, Dómine, satiábitur terra: ut edúcas panem de terra, et vinum lætíficet cor hóminis: ut exhílaret fáciem in oleo, et panis cor hóminis confírmet.
[Mediante la tua potenza, impingua, o Signore, la terra, affinché produca il pane, e il vino che rallegra il cuore dell’uomo: cosí che abbia olio con che ungersi la faccia e pane che sostenti il suo vigore.]

 Postcommunio

Orémus.
Vivíficet nos, quǽsumus, Dómine, hujus participátio sancta mystérii: et páriter nobis expiatiónem tríbuat et múnimen.
[O Signore, Te ne preghiamo, fa che la santa partecipazione di questo mistero ci vivifichi, e al tempo stesso ci perdoni e protegga.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XXIII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXIII.

L’ANIMA UMANA.

L’anima umana esiste. — Il pensiero non è una funzione del cervello. Ciascun’anima è creata da Dio. — Differenza dell’anima umana da quella delle bestie. — Immortalità dell’anima e vita avvenire. — Morti noi, morto tutto?

— È proprio vero che Iddio abbia dato all’uomo anche l’anima?

Non se ne può dubitare; è verità di fede. L’uomo è composto di un corpo mortale e di un’anima immortale; è così ha voluto Iddio che fosse mettendo l’uomo al mondo. Di modo che come il solo corpo non forma l’uomo, così neppure l’anima separata dal corpo basta a costituire l’uomo perfetto, ma perciò ci vuole l’unione dell’anima col suo corpo.

— Ma se l’anima non si vede!

Tu fai come i materialisti, i quali, perché anatomizzando il corpo non riescono a ferire l’anima coi loro bisturini, negano senza più la sua esistenza. Ma, caro mio, se noi la vedessimo non sarebbe più anima, vale a dire spirito. Del resto se non possiamo vederla cogli occhi materiali, forse che non dobbiamo vederla con quelli della ragione?

— Come dunque la ragione prova l’esistenza dell’anima umana?

Con moltissime prove che potrai apprendere facendo studi filosofici; io mi accontento di recartene due sole. Sta ben attento. – 1a Prova: È dimostrato nella scienza fisiologica che nel corpo umano nello spazio di sette anni incirca tutto si muti e si trasformi. Eppure per quanto si muti la carne, si muti il sangue, si mutino le ossa, ciascuno di noi sa certissimamente di essere sempre lo stesso individuo che sente, che pensa e vuole. Dunque in mezzo al continuo mutamento e rimutamento della materia bisogna ammettere nell’uomo qualche principio, che non si muta mai nella sua sostanza, e che perciò è al tutto differentissimo dal corpo umano; e questo principio è per l’appunto l’anima. – 2a Prova: Noi facciamo dei pensieri. Ma i pensieri nostri non sono materiali, non si possono né vedere, né misurare, né pesare né scomporre, eccetera. Dunque il pensiero essendo immateriale non è prodotto in noi dal corpo materiale. Bisogna perciò che sia prodotto da un’altra sostanza totalmente diversa, la quale è l’anima.

— Anche senza essere filosofo ho inteso queste prove. Ma com’è che in certe scuole si insegna che il pensiero è una funzione del cervello ?

Se così fosse, ne verrebbe che l’uomo con un cervello più o meno grosso farebbe dei pensieri più o meno grossi, che i pensieri avrebbero estensione, forma, peso, eccetera; che perdendo una parte di cervello perderebbe anche in proporzione la facoltà di pensare. E invece, come più volte fu dimostrato dall’esperienza, anche perdendosi una parte notabile di cervello, sono rimaste intatte le facoltà mentali.

— Eppure non si dice che chi non è più capace di pensare bene e ragionare ha perduto il cervello, o ha il cervello ammalato?

Così si dice per modo di dire e perché davvero l’anima si risente di ciò che avviene nel corpo, come l’occhio si risente dello indebolirsi o scomparir della luce; ma di quella guisa istessa che l’occhio non è la luce, così l’anima non è il corpo, e il pensiero non è il cervello o il prodotto di qualsiasi altro elemento del corpo.

— Anche questo l’ho inteso. Ma presentemente in ciascun uomo di qual maniera è prodotta l’anima? Sono forse i genitori, che la generano come il corpo?

No, certamente, il dire ciò, come osserva S. Tommaso, sarebbe un’eresia. La dottrina comune, chiara e più certa, dalla quale non dobbiamo allontanarci è quella, che insegna Dio creare immediatamente ciascun’anima, e in quel modo e tempo, che Egli solo sa, infonderla nel corpo.

— Va benissimo. Mi sembra però che si faccia troppo gran conto dell’anima. Alla fin fine non l’hanno altresì gli animali?

E tu vuoi mettere l’anima degli animali a pari con quella dell’uomo? Non sai che tra l’anima umana e quella degli animali v’è una differenza enorme? L’anima nostra è ragionevole, intelligente, ha coscienza di sé, è capace del bene e del male, è libera, quindi è responsabile dei propri atti e deve riceverne il premio od il castigo; l’anima delle bestie al contrario non è nulla di tutto ciò.

— Ma alle volte certi animali non sembrano dal loro modo di agire che abbiano la ragione?

Potrà sembrare, ma non è. Ohi ha la ragione può passare dal noto all’ignoto e progredire scientificamente e civilmente. M a l’esperienza dimostra chiaro che nessuna bestia può fare ciò, perché nessuna mai l’ha fatto.

— E allora da che cosa procede l’addomesticamento di certi animali e l’imparare che essi fanno certe azioni di saltare, di cantare, di giuocare e simili?

Ciò proviene dall’istinto ossia da una forza interna, per cui l’animale mosso dallo stimolo di una sensazione grata o molesta, sensazione che per la memoria si riproduce, è indotto a fare certe cose senza precedente cognizione di motivo o di fine.

— Questo l’ho inteso; ma ciò che non so e non capisco ancora si è se tanto l’anima dell’uomo come quella della bestia siano immortali.

Senti: riguardo all’anima della bestia pare certo ch’essa non sia immortale. Siccome però di che natura propriamente essa sia non si sa dire con precisione, e vi hanno in proposito varie opinioni, così a seconda di queste opinioni si spiega pure diversamente come essa non sia immortale. Taluno dice che forse Dio stesso la distrugge; altri dicono che non potendo sussistere di per se stessa se non in unione col corpo della bestia, si dilegua da se stessa quando per la morte si discioglie il corpo dell’animale. E non mancano neppure di coloro che pensano che anche l’anima degli animali per la loro morte non cessi neppure essa di vivere, benché riconoscano la impossibilità di stabilire in che modo essa viva. Insomma qui si è di fronte ad uno di quei tanti misteri di natura, per spiegare i quali si fanno supposizioni e supposizioni senza che però si possa su di essi pronunciare una parola definitiva.

— Ed in quanto all’immortalità dell’anima umana si tratterebbe anche solo di supposizioni?

No, affatto. Prima di tutto si tratta qui di una verità di fede, anzi di una verità fondamentale della fede cattolica. Le Sante Scritture ce ne parlano ripetutamente e ci dicono chiaro che « Dio ha creato l’uomo immortale ». Oltre a ciò ragione ci dimostra apertamente che l’anima umana è veramente immortale; e te ne addurrò alcune prove, le quali serviranno nel tempo stesso a dimostrarti l’esistenza di una vita futura.

— Ed io le ascolterò attentamente.

L’anima umana è semplice e spirituale, il che vuol dire che non è composta di parti, perché si sente tutta intera in tutto il corpo e in ciascuna delle sue parti; ma ciò che non è composto di parti non si può sciogliere, cioè non si può distruggere. – L’anima umana sente una tendenza irrefrenabile alla felicità, e questa tendenza è certamente Dio che l’ha posta nell’anima dell’uomo. Ma qui, durante questa mortal vita, la vera e completa felicità non si trova. Bisogna dunque che ci sia un’altra vita dopo questa, dove questa tendenza possa essere pienamente soddisfatta; del resto Iddio sarebbe stato ingiusto e crudele nel mettere in noi una fame ed una sete, che non potessero mai essere soddisfatte. L’anima umana è fatta per l a verità; la verità è il suo cibo; ma la verità è indistruttibile ed immortale, epperciò deve essere anche tale l’anima che se ne ciba. Se l’anima umana non fosse immortale, se non ci fosse per essa un’altra vita dopo questa, in cui la virtù sia premiata ed il vizio sia punito, Iddio apparirebbe Egli ancora giusto com’è, dal momento che vi sono in questa vita certi viziosi che fino all’ultimo trionfano nel loro male, e in quella vece dei buoni che fino all’ultimo giacciono oppressi? Se l’anima umana non fosse immortale, non sarebbe tolto ogni freno al vizio? e la virtù non resterebbe priva di qualsiasi stimolo? Che anzi questi stessi nomi di virtù e di vizio non sarebbero nomi vani? Se l’anima umana non fosse immortale si spiegherebbe ancora quella brama, che vi ha in noi di vivere sempre, e quel rispetto che vi è presso tutti i popoli per i trapassati, precisamente perché tutti i popoli hanno sempre creduto che con la morte nostra non tutto muoia?

— Basta, basta. Da queste belle prove sono più che convinto dell’immortalità dell’anima e di una vita avvenire. Dunque la sbagliano di grosso coloro che van dicendo : « Morti noi, morto tutto? » .

Costoro, parlando così, rigettano la loro natura e la loro dignità, si fanno pari alle bestie, ai cani, ai gatti, agli asini e forse inferiori alle medesime. Costoro contraddicono all’unanime consentimento di tutti gli uomini, agli Egiziani, ai Persiani, ai Siri, ai Caldei, ai Greci, ai Romani, ai Galli, ai Brettoni, agli stessi selvaggi dell’Ottentozia e della Patagonia. Costoro vengono ad assegnare la stessa sorte ad un S. Pietro e ad un Nerone, a una S. Teresa e ad una scellerata Elisabetta regina d’Inghilterra, a un S. Vincenzo de’ Paoli e ad un Voltaire. Costoro insomma rovesciano la ragione, deridono tutto il genere umano, manomettono il buon senso e opprimono la voce della coscienza. — Ed io non li seguirò giammai nei loro traviamenti.

CATECHISMO E CATECHIZZAZIONE

Catechismo e Catechizzazione.

[G. Perardi: Nuovo Manuale del catechista, 9a ed. L.I.C.E. Ed. Torino, 1929]

« Non basta far una cosa; è necessario farla bene »„ – Questa importantissima massima che bisogna applicare in tutte le opere e specialmente nelle religiose, è assai trascurata nell’insegnamento del catechismo. Molti lamentano lo scarso frutto che si ricava dall’insegnamento del catechismo. E veramente chi considera lo stato della nostra società, la quale pur si dice cristiana, mentre si può dire che ne ha quasi solo il nome, chiede a se stesso, se agli uomini che la costituiscono, sia stato impartito un insegnamento religioso. – Non è certamente esagerato dire, che la causa principale per cui si è ricavato così scarso frutto, sta nel fatto che generalmente il catechismo non è stato insegnato bene; e non è stato insegnato bene perché coloro a cui era affidato sì nobile e difficile compito, non erano stati preparati in nessun modo, alla loro nobile e delicata missione. Generalmente agli incaricati dell’insegnamento del catechismo si è consegnato un « testo » del piccolo libro, indi si sono mandati in classe a « fare il catechismo ». Alcuni (ma relativamente pochi), furono provveduti d’un libro di spiegazione. Tutto si limitò qui. Ci sia permessa un’osservazione grave. Al contadino s’insegna il modo d’usare la zappa e gli altri strumenti, pur così semplici, del suo mestiere. E si pretenderà che il Catechista. – un giovanetto, una giovanotta generalmente senza cultura speciale – pel fatto solo che gli si è messo in mano un testo, o al più, » in casi rarissimi, una « spiegazione », sia senz’altro in grado di compiere fruttuosamente l’opera più delicata e difficile, qual è quella di insegnare la scienza più sublime a menti tenere e non ancora aperte, come sono quelle de’ fanciulli? e di insegnarla in modo che sia istruzione alla mente, educazione al cuore, onde li formi buoni Cristiani? – Osserviamo quanto fa lo Stato per la formazione dei maestri elementari, che debbono spezzare agii stessi fanciulli il primo pane dell’umano sapere! Qual lezione per noi!  Che cos’è il catechismo? Che cosa significa insegnare il catechismo?

Il Catechismo.

Diciamo catechismo il libriccino che, in forma semplice, contiene in compendio le verità della Dottrina Cristiana; esso è il compendio di tutte quelle cose che Cristo nostro Signore, ci ha insegnato per mostrarci la via della salute. Il catechismo, di cui ogni espressione, anzi ogni parola è stata rigorosamente ponderata, è il riassunto di tutta la teologia, di tutto il tutte le verità religiose, di tutta la morale cristiana. Esso, con formule brevi, semplici e precise, rende accessibile anche alle menti più tenere, le più gravi verità; esso, secondo un pensiero dell’Apostolo S. Paolo, è ad un tempo latte per i deboli e pane pei forti. È un ristretto semplice e, nel medesimo tempo, dottissimo della più alta filosofia, di tutte le scienze divine e umane – Da ciò appare quanto sia necessario lo studio del catechismo. L’uomo cerca la verità; la sua mente non riposa che nel possesso della verità. Il catechismo risponde a questo primo bisogno dell’uomo, perché non è la teoria di una filosofia o di una scuola, nemmeno il monumento della saggezza di un’epoca o di una società; è la dottrina del Figliuolo di Dio, venuto dal cielo ad evangelizzarci. È perciò che l’uomo, solamente nel catechismo, trova una risposta sicura, chiara e semplice alle più gravi questioni che lo interessano; è perciò che il catechismo si rivela divino a chiunque lo studia con spirito retto e desideroso della verità. – L’uomo vive secondo che crede. L’uomo che conosce e crede fermamente quello che il catechismo insegna, non può vivere che rettamente; al contrario l’uomo che ignora le verità religiose, ignorando la sua origine e il suo destino, la sua nobiltà, i vincoli che lo uniscono a Dio Creatore, non potrà mai praticare nella sua integrità il bene, non avrà mai quello stimolo potente che lo deve incitare e sostenere a superare costantemente le difficoltà che incontra nella pratica del bene. Gesù Cristo ha equiparato alla necessità del Battesimo la necessità dell’insegnamento religioso. Difatti inviando gli Apostoli a predicare il Vangelo disse loro : «Andate dunque a istruir tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservar tutto quanto v’ho comandato».

Insegnare il catechismo …

… vuol dire, in primo luogo, far conoscere, far imparare la dottrina che esso contiene. Abbiamo detto in primo luogo, perché l’insegnamento del catechismo differisce totalmente dagli altri insegnamenti. Ogni insegnamento profano, s’indirizza essenzialmente alla ragione, cioè alla mente dell’uomo, per farle apprendere qualche cosa che prima non conosceva, o per fargliela conoscere meglio. È perfetto quell’insegnamento che fa apprendere alla mente una cognizione, in modo perfetto. Invece non è così nell’insegnamento del catechismo, poiché questo non s’indirizza solo alla mente, ma ugualmente alla volontà e al cuore; poiché fine dell’insegnamento religioso (o del catechismo) non è solo fare apprendere le verità religiose, dogmatiche e morali, ma indirizzare la volontà ad amare il Signore e a praticare, per amor suo, il bene da Lui voluto, ed evitare ogni specie di male. – L’insegnamento del catechismo incominciò con la Chiesa. Coloro che volevano convertirsi al Cristianesimo, prima di venire ammessi al Battesimo, erano istruiti (cioè catechizzati) sulla Dottrina della Chiesa. Questa istruzione non aveva solo per fine d’insegnare la Dottrina Cristiana, ma di formare, d’indirizzare l’anima dei convertiti alla vita cristiana. – Il Catecumeno (così si chiamava colui che era ammesso all’istruzione cristiana in preparazione al Battesimo) dice il Fleury citato dal Mons. Dupanloup, assisteva alle prediche pubbliche, a cui erano ammessi anche gli infedeli; ma di più v’erano Catechisti che vegliavano sulla condotta dei Catecumeni, e li ammaestravano in particolare sugli elementi della fede. Venivano principalmente istruiti intorno alle regole della morale, perché sapessero come dovevano vivere dopo il Battesimo. – « Non si badava soltanto se il Catecumeno” imparava la dottrina, ma se correggeva i suoi costumi, e si lasciava nella condizione di Catecumeno, cioè senza Battesimo, finché non fosse interamente convertito », cioè finché non avesse riformato la sua vita in conformità de’ doveri cristiani. Onde il catechismo, come insegnamento, è stato giustamente definito: « Un’azione ecclesiastica per cui quelli che ignorano la religione cristiana vengono metodicamente istruiti negli elementi di essa, ed educati a vita cristiana ». – In sostanza l’insegnamento del catechismo non è solo istruzione religiosa, ma è educazione cristiana. Opportunamente il Rev.mo D’Isengard, l’instancabile Apostolo del catechismo, osserva (come già Mons. Dupanloup faceva insistentemente notare) che ridurre il catechismo a pura e semplice istruzione, è concetto monco, poiché abbraccia uno degli elementi (ed elemento fondamentale) dell’opera catechistica, ma trascura l’altro, essendo il catechismo, quale fu inteso fino dalla più remota antichità cristiana, ad un tempo istruzione ed educazione, ossia formazione del cristiano. Egli insiste sulle differenze, riconosciute concordemente da tutti i pedagogisti, tra istruzione ed educazione. « L’educazione è il fine che si deve raggiungere; l’istruzione è soltanto uno dei mezzi. L’istruzione arricchisce la mente di cognizioni; l’educazione coltiva tutta l’anima. L’istruzione si rivolge soltanto all’intelligenza; l’educazione lavora ad un tempo a formare intelligenza, cuore, carattere e coscienza. Non può esservi certo educazione religiosa senza istruzione religiosa; ma è essenziale intender bene che una non è l’altra. Dare alla mente l’istruzione religiosa e trascurare di lavorare contemporaneamente all’educazione del cuore, del carattere, della coscienza, sarebbe restar molto indietro dal fine che si vuol raggiungere, molto al di sotto di ciò ch’è veramente l’opera catechistica ». – Questo concetto compiuto del catechismo, l’illustre Vescovo vede espresso nel linguaggio volgare, che dice fare il catechismo, e non soltanto insegnare, accennando così che non si tratta solamente di condurre i catechizzati alla conoscenza, ma insieme all’amore e alla fedele attuazione della dottrina di Gesù Cristo; sicché essa non entri soltanto nella mente, ma più nel cuore e nella pratica della vita. Così pure si dice l’opera del catechismo, per significare ch’esso non è soltanto insegnamento e studio, ma azione su tutta l’anima del fanciullo, efficacemente esercitata e docilmente ricevuta. Ecco il concetto vero e compiuto del catechismo: un’azione esercitata dalla Chiesa, per mezzo dei Catechisti, sulle anime dei fanciulli, per farle cristiane. I risultati meschini di molte scuole di catechismo, furono conseguenza del non avere inteso od attuato questo concetto fondamentale, pieno e totale del Catechismo.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (31) – ERRORI IN ROSMINI (3).

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA:

Errori in ROSMINI (3)

[Dom P. Benoît: Revue du monde catholique, 1° Apr. 1889]

XI

ERRORE SULLA CADUTA ORIGINALE

54. Rosmini professa sulla caduta originale una teoria così bizzarra e lontana dal dogma cattolico. Secondo lui, satana era padrone, per un vero possesso, del frutto proibito; mangiato dall’uomo, questo frutto si cambiò nel suo corpo: da ciò, il demone possessore del frutto, divenne padrone dell’uomo. I demoni, dice Rosmini, essendo in possesso del frutto, pensarono di introdursi nell’uomo se questi ne mangiasse, perché essendo assimilato il nutrimento dal corpo animato dell’uomo, essi potessero entrare liberamente nell’animalità, cioè nella vita soggettiva di quest’essere e così disporre di lui secondo le loro intenzioni [(Cum dæmones fructum possederint, putarunt se ingressuros in hominem si de illo ederet; converso enim cibo in corpus hominis animatum, ipsi poterant libère ingredi animalitatem, id est in vitam subjectivam hujus cutis, atque ita de eo disponere sicut proposuerant, (Prop. XXXIII)]. » Rosmini fa consistere il peccato originale in una sorta di possessione demoniaca. Il primo uomo è caduto perché si è messo sotto la potenza del demonio, perché ha mangiato e convertito nella sua sostanza una mela posseduta dal demonio, di modo che il demonio ha esteso il suo dominio della mela ad Adamo. Poi siccome la semenza di tutti gli uomini è in Adamo, si è costituito padrone di tutti gli uomini: i discendenti del primo uomo nascono così nel peccato originale, perché sono formati da una semenza che il demonio possiede ed essi stessi sono l’oggetto di una possessione diabolica.

55. L’insegnamento della Chiesa è molto differente. I Dottori della Chiesa fanno consistere il peccato originale nella privazione della grazia: l’uomo, dopo la caduta, è peccatore, perché non ha la grazia che dovrebbe avere secondo il disegno di Dio nella sua creazione. Il primo uomo ha perso la grazia perché ha trasgredito il precetto del Signore con una disobbedienza volontaria, perché egli ha commesso un peccato mortale, incompatibile per sua natura con il dono soprannaturale della carità. I suoi discendenti ne sono privati, perché Dio aveva stabilito una unione morale tra padre e figlio, che la fedeltà o l’infedeltà del capo era la fedeltà o l’infedeltà nella perseveranza stessa o la perdita di questa. Tutti gli uomini nascono privi della grazia, perché Adamo l’ha persa non solo per lui, ma pure per loro. Questa privazione originale della grazia, ecco il peccato originale. Senza dubbio l’uomo decaduto è nella potenza del demonio, perché il “vinto, dive S. Paolo, è soggetto al vinvitore”. Ma la dominazione di satana sulla natura umana è l’effetto del peccato, non ne è l’essenza. – in seguito, questo dominio, almeno in generale, non dovrebbe essere chiamatouna “possessione del corpo”. Il demonio ha il potere di agire sull’immaginazione con dei fantasmi; egli possiede certe otenze sull’aria e gli altri elementi di questo mondo, sul corpo stesso dell’uomo; ma questo impero generale e molto imperfetto sull’universo deve essere scrupolosamente distinto da questa dominazione particolare e stretta che si chiama la possessione diabolica.

XII

ERRORE SULL’IMMACOLATA CONCEZIONE DI MARIA

56. Rosmini insegna sull’Immacolata Concezione della Santa Vergine un errore che deriva dalla sua falsa teoria concernente il peccato originale, secondo lui, lo vedremo appunto, il demonio ha esteso il suo dominio dal frutto all’uomo, dal corpo del primo uomo, alla semenza di tutti i suoi discendenti racchiusi nel corpo del padre: come è caduto il primo uomo, così sono caduti in lui tutti gli uomini. « Tuttavia, egli aggiunge, una particella estremamente tenue della semenza racchiusa in Adamo è stata negletta da satana; questa particella è stata trasmessa da generazione in generazione ed è arrivata, libera dal possesso demoniaco, negli ancestri immediati di Maria; lù, Dio ne ha formato il corpo della futura Madre di suo Figlio. Così Maria si è trovata esente dal peccato originale. Per preservare la Beata Vergine Maria dalla macchia del peccato originale, era sufficiente che la minima parte di semenza restasse incorruttibile nell’uomo (il primo uomo), semenza forse negletta dal demonio stesso, affinché, da questa parte intatta, trasmessa da generazione in generazione, nascesse, a suo tempo, la Beata Vergine Maria [(Ad perseservandam Beatam Virginem Mariam a labe originis, satis erat ut incorruptum maneret minimum semen in homine, neglectum forte ab ipso dæmone; e quo incorrupto semine, de generatione in generationem transfuso, suo tempore oriretur Virgo Maria. (Prop. XXXIV)].

57. Non è certamente così che la Chiesa intende l’Immacolata Concezione di Maria. Dionon ha sottratto al possesso del demonio una particella del corpo di Adamo, per formarne più tardi la Madre di suo Figlio; Egi l’ha, in vista dei meriti del Salvatore futuro, riscattata dal peccato con una giustificazione preventiva, che non ha lasciato ai flutti dell’iniquità il tempo di sommergere questa Creatura privilegiata, ma rivestendo la sua anima, nella sua stessa creazione, della pienezza della grazia. Dal lato della sua origine Maria era soggetta al peccato; ma con una operazione straordinaria della misericordia divina, Ella ne è stata liberata prima di esserne coinvolta: Ella aveva il debito del peccato, ma è stata preservata dal peccato stesso: habuit debitum peccati, non actum.

XIII

ERRORE SULLA GIUSTIFICAZIONE

58. Lutero pretendeva che l’uomo caduto in peccato sia incapace di ridiventare giusto per una giustizia propria ed intrinseca. Il peccatore, secondo lui, è sostanzialmente malvagio; il libero arbitrio è distrutto in lui; egli non è capace di un buon desiderio; più si sforza di agire bene, più pecca: perché da un albero cattivo, cosa può uscire se non un frutto cattivo? Ecco perché, secondo Lutero, la giustificazione non consiste in ciò che i peccati siano rimessi o cancellati, ma che siano coperti, e non siano più imputati. Il mantello dei meriti di Gesù-Cristo viene gettato sul peccatore e ricopre le immondizie della sua anima; ma queste immondizie sussistono in lui dopo la giustificazione, come prima.

59. La Chiesa ha condannato questa dottrina al Concilio di Trento. Ora Rosmini la rinnova in parte. A sentirlo ci sono dei peccati che sono solo coperti, mentre altri sono propriamente rimessi; ce ne sono alcuni che cessano dall’essere imputati, senza essere cancellati, altri sono effettivamente cancellati. « Più si esamina l’ordine della giustificazione nell’uomo, egli dice, più ci appare conveniente il modo di parlare delle Scritture, dicendo che Dio nasconde certi peccati o non li imputa più. Il Salmista pone una differenza tra le iniquità che sono rimesse ed i peccati che sono nascosti: i primi, come sembra, sono le colpe attuali e libere; i secondi sono i peccati non liberi di coloro che appartengono al popolo di Dio, e ai quali, solo per questo, non causano alcun danno (Quo magis attenditur ordo justifîcationis in homine, eo apitor apparet modus dicendi peripturalis quod Deus peccata quædam. tegit aut non imputat. — Juxta Psalmistam discrimen est inter iniquitates quæ remittuntur et peccata quæ teguntur: illæ ut videtur, sunt culpæ actuales et libéræ, hæc veto sunt peccata non libéra eorum qui pertinent ad populum Dei, quibus propterea nullum afteruut nocumentum. (Prop. XXXV)]. »

60. Quali sono questi “peccati non liberi”? Innanzitutto e senza dubbio, il peccato originale, poiché questo non è stato commesso dalla volontà personale, ma è stato trasmesso con la natura dlle leggi stesse della generazione. Bisogna dunque ammettere, secondo Rosmini, che il peccato originale non è rimesso, ma solo nascosto; che non è cancellato, ma cessa di nuocere. Ecco qualche conseguenza. La grazia non viene data al Battesimo, perché la grazia è incompatibile con l’esistenza del peccato originale; la giustificazione non apporta alcun cambiamento intrinseco nelle profondità dell’anima, poiché la macchia del peccato non è tolta. Noi non vediamo come Rosmini possa sfuggire a queste consiguenze. Ma ecco degli errori ancor èiù gravi: essi sono il ribaltamento di tutta l’economia soprannaturale.

XIV

ERRORI SULL’ORDINE SOPRANNATURALE

61. « Il consenso unanime della Chiesa Cattolica, dice il Concilio Vaticano, ha sempre ritenuto, e ritiene, che vi sono due ordini di conoscenza, distinte non solo dal loro principio, ma ancora dal loro oggetto; dapprima per il loro principio, perché noi conosciamo nell’uno con la luce naturale della nostra ragione, e nell’altro per la fede divina; per il loro oggetto poi, perché oltre alle cose he la ragione naturale può comprendere, vi sono proposti alla nostra credenza dei misteri nascosti in Dio, che noi non possiamo conoscere se Dio non li rivela. – Ecco perché l’Apostolo, che attesta che Dio è stato conosciuto dai gentili per le sue opere, quando disserta della grazia e della verità che ci ha portato Gesù-Cristo, esclama: « Noi predichiamo la Sapienza di Dio in mistero che è rimasto nascosto, che Dio ha predestinato, preparato prima di tutti i secoli a nostra gloria, che nessuno dei principi di questo mondo ha conosciuto, ma che Dio ci ha rivelato con il suo Spirito-Santo: perché lo Spirito penetra tutto, anche le profondità di Dio. Ed il Figlio unico di Dio rende al Padre suo questa testimonianza, che ha nascosto questi misteri ai saggi ed ai prudenti, e li ha rivelati ai piccoli ( De fide cath., cap. IV), ». Secondo questo insegnamento, l’ordine naturale consiste essenzialmente nela conoscenza mediata ed indiretta di Dio, vale a dire nella conoscena di Dio per mezzo delle sue creature. L’ordine soprannaturale consiste essenzialmente nella conoscenza immediata e diretta di Dio, cioè nella conoscena di Dio in se stesso, ossia quaggiù nella conoscenza oscura ed imperfetta di Dio attraverso le ombre della fede, sia in cielo nela conoscenza chiara ed intuitiva di Dio nello splendore della sua luce. – Rosmini, che confonde l’essere generale con l’essere divino, fa consistere l’ordine soprannaturale nella piena manifestazione dell’essere nella pienezza della sua forma reale [(Ordo supernaturalis constituitur manifestatione esse in plenitudine suæ formæ realis. [Prop. XXXIV)]. »

62. Ma se noi diventiamo soprannaturalmente beati con una piena manifestazione dell’essere, come siamo naturalmente intelligenti con una prima manifestazione di questo stesso essere, bisognerà dire che la conoscenza soprannaturale e la conoscenza naturale non differiscono quanto all’oggetto, come intende il Concilio Vaticano, ma solo per il grado, attraverso il quale l’una e l’altra raggiungono lo stesso obiettivo, ma inegualmente. Che potrebbe rispondere Rosmini?

63. Ma se l’oggetto delle due conoscenze è sostanzialmente lo stesso, può il principio differirne? «L’effetto di queste manifestazioni o comunicazioni » dell’essere nella pienezza della sua forma reale, dice Rosmini, « è un sentimento deiforme che, cominciato in questa vita, costituisce la luce della fede e della grazia e, completata nell’altra vita, costituisce la luce della gloria [(Cujus communicatumis seu manifestationis effectua est sensus (sentimento) deiformis, qui iochoatus in bac vita constituat lumen fidei et gratiæ, complétas in altéra vita construit lumen gloriæ, (Ibid.)].» La luce della fede e della grazia è la virtù naturale con la quale l’anima conosce Dio quaggiù; la luce di gloria è la virtù soprannaturale con la quale conosce Dio nella vita futura: « Ora, dice Rosmini, questo principio della conoscenza naturale o “deiforme” che produce nell’anima la manifestazione dell’essere nella pienezza della sua forma reale. » Ma l’essere, secondo Rosmini, era già conosciuto in se stesso dalla ragione naturale. Siccome la conoscenza soprannaturale non eleva che ad una conoscenza più perfetta di uno stesso oggetto, sarà sufficiente per questa nuova conoscenza di una perfezione nuova, data allo stesso principio, non avrà bisogno di un nuovo principio. In altri termini, la facoltà o il principio è proporzionato all’oggetto; poiché l’oggetto della conoscenza soprannaturale è sostanzialmente lo stesso di quello della conoscenza naturale, cioè l’intuizione dell’essere, perché ci vorrebbero per i due rdini di conoscenza, dei principi differenti? Il principio non dovrebbe essere lo stesso nella dottrina cattolica, poiché l’anima, per conoscenza naturale, conosce Dio solo nello spettacolo delle creature, mentre la conoscenza soprannaturale lo conosce in se stesso. Ma per Rosmini, che considera l’intuizione dell’essere divino come oggetto della conoscenza naturale tanto di quella soprannaturale, è impossibile la differenza tra il principio dell’una e dell’altra. Rosmini può designare con dei nomi nuovi il principio della conoscena naturale; egli può chiamarlo, come in effetti fa, luce di grazie e luce di gloria; ma poiché l’oggetto è sempre l’intuizione dell’essere divino, è sempre, anche se con nomi nuovi, uno stesso principio (L’arte di ogni gnostico di ogni epoca, è stata sempre questa: cambiare il nome alle cose, ai concetti, confondere ed intorbidire le acque del pensiero, per trarre in inganno e spacciare le insanie gnostiche come verità! – N.d.r.].

64. Tuttavia la dottrina della Chiesa sulla differenza tra gli oggetti dei due ordini di conoscenza è troppo manifesta, perché Rosmini non cerchi di distinguere l’uno dall’altro. « La prima luce che rende l’anima intelligente è l’essere ideale; l’altra prima luce è anche l’essere, non più tuttavia puramente ideale, ma sussistente e vivente: questa, velando la sua personalità, non mostra che la sua obiettività; ma chi vede l’altra, che è il Verbo, vede Dio, benché in uno specchio per riflessione ed enigma [(Primum lumen veddens animam intelligentem est esse idéale; alterum primum lumen est etiam esse, non tamen mere idéale sed subsistens ac vivens: illud abscondens suam personalitatem ostendit solum suam objectivitatem: at qui videt alterum (quod est Verbum), etiamsi per spéculum et in enigmate, videt Deum. (Prop. XXXVII)]. » Così, secondo Rosmini, la ragione natural conosce l’essere semplicemente ideale, la luce della fede e della Gloria conoscono l’essere ideale sussistente e vivente: l’essere semplicemente ideale differisce dall’essere ideale sussistente: dunque, l’oggetto della conoscenza soprannaturale differisce dall’oggetto della conoscenza naturale.

65. Ma come l’essere divino potrebbe essere visto nella sua idealità e non essere visto nella sua sussistenza? Appartiene all’essere divino, nota San Tommaso, essere subsistant prima di essere ideale, vale a dire essere una forma assoluta, prima di essere una forma rappresentativa. « Si conosce un oggetto in se stesso, dice il santo Dottore, prima di conoscerlo nelle sue relazioni con ciò che non è Lui; non si può conoscere Dio come idea, senza conoscerlo nella sua essenza assoluta [(Non est antera possibile quod aliquis videat rationes creaturarum in ipsa divina essentia, ita quod eam non videat: tum quia ipsa divina essentia est ratio omnium eorum quæ fiunt; ratio autem realis non addit supra divinam essentiam nisi respectum ad creaturam; tum quia prius est aliquid cognoscere in se, quod est cognoscere Deum ut est objectum beatitudinis, quam cognosepre illud per comparationem ad alierum, quod est cognoscere Deum secundum rationes rerum in ipso existentes. (Sum. Theol. IIa IIæ, q. CLXXIII, a. 1)]. Se dunque Dio è conosciuto dalla ragione natural nella sua oggettività o sua intellegibilità, è necessariamente conosciuto nella sua sussistenza. Ed allora sparisce questa pretesa differenza tra l’oggettività e la sussistenza dell’essere ideale, ogni intuizione dell’essere divino deve essere proclamata soprannaturale. Secondo la dottrina cattolica, in effetti, la conoscenza soprannaturale di Dio, consiste in una conoscenza diretta ed immediata dell’essere divino. Se dunque lo spirito umano percepisce l’essere divino in se stesso, con una intuizione diretta, quand’anche, per assurdo, non ne percepisce la sua sussistenza, ne ha una conoscena soprannaturale. Rosmini dice: « La prima luce che rende l’anima intelligente è l’essere ideale. » Noi gli chiediamo: « Questo essere ideale è realmente l’essere divino? » Si, risponde Rosmini. Dunque, concludiamo noi, questa conoscenza essendo immediata, è soprannaturale. Rosmini attribuisce alla natura ciò che è al di sopra delle forze della natura. Egli dice bene: « Questo essere divino vela la sua sussistenzae non mostra la sua oggettività. » Ma ancora una volta, questo essere, nascondendo la sua personalità, si scopre in se stesso? Sì, poiché mostra la sua oggettività, che è una forma dell’essere divino, che è qualcosa di Dio, che è Dio. Dunque, ancora, voi pretendete, o filosofo, che la ragione conosca immediatamente l’Essere divino: voi attribuite alla natura ciò che è della grazia! – Bisogna forse aggiungere che tutta questa teoria sia stata misconosciuta ai Padri ed ai Teologi? Qual Dottore cattolico ha dato alla ragione naturale, fin dalla vita presente, l’intuizione dell’Essere divino? Qual maestro di dottrina ha posto differenza tra la conoscenza naturale e sonoscenza soprannaturale nella percezione dell’idealità del’Essere divino nell’una e la sussistenza nell’altro? Rosmini si separa da tutti i Padri e da tutti i Teologi; dunque tutti i Padri e tutti i Teologi lo condannano.

66. Ma non abbiamo finito con gli errori di Rosmini sull’ordine naturale. Abbiamo appena visto vederlo dare al filosofo l’intuizione dell’Essere divino in se stesso. D’altro canto egli nega che l’eletto trovi la sua beatitudine nella sola visione di Dio. « Dio, egli dice, è l’oggetto della visione beatifica, come autore delle opere “ad extra” (prodorre all’esterno) [(Deus est objectum visionis beatificæ, in quantum est auctor operum ad extra. (Prop. XXXVIII.) » – « Le vestigie della saggezza e della bontà che brillano nelle creature sono necessarie ai beati, perchè queste vestigie, runite nell’esemplare eterno, ne sono la parte che può essere vista dai beati ed è loro accessibile; essi sono inoltre il motivo delle lodi che i beati cantano eternamente in onore di Dio [(Vestigia sapientiæ ac bonitatis quæ in creaturis relucent, sunt comprehensoribus necessaria; ipsa enim in æterno exemplari collecta sunt ea Ipsius pars quæ ab illis videri possit (che è loro accessibile) ipsaque argumentum eræbent laudibus, quas in æternum Deo Beati concinunt. (Prop. XXXIX.)]. Tutti I Dottori Cattolici insegnano che la beatitudine dell’eletto consiste nella visione di Dio in se stesso; Rosmini dice al contrario, che « le vestigie delle perfezioni divine, tali come brillano nelle creature, sono necessarie ai beati ». Tutti i Dottori professano che gli eletti contemplano e cantano per sempre la bellezza increata vista in se stessa; Rosmini pretende che le influenze degli attributi divini in seno all’universo siano l’oggetto proprio la cui contemplazione li rende felici e che essi celebrano con i loro inni. Tutti i Cattolici credono che la visione di Dio sazi tutti i desideri dell’uomo. Senza dubbio gli eletti vedono in Dio tutto l’insieme dell’universo; ma la loro beatitudine è essenzialmente l’effetto della visione di Dio, talmente che se, per assurdo, essi cessassero dal conoscere tutte le creature, la felicità resterebbe perfetta: « Felice, dice S. Agostino, colui che vi conosce, o Dio mio, quand’anche ignorasse tutto il resto! [(Beatus est qui te scit, etïam si illas, id est creaturas, nesciat. (Conf., lib. V, c. IV) ». – Rosmini al contrario crede che l’eletto non abbia la beatitudine se non per effetto della conoscenza delle creature.

67. Ancor più, egli giunge fino a pensare che Dio non possa farsi vedere all’eletto, faccia a faccia, nella sua essenza, al di fuori delle sue relazioni con le creature. Conoscere Dio nella sua essenza, percepita indipendentemente dai suoi rapporti con gli esseri finiti è, secondo lui, al di sopra delle forze, anche soprannaturali, di una natura creata. L’intelligenza finita, a credergli, non può donoscere Dio che nelle sue manifestazioni esteriori. « Siccome Dio non può, anche con la luce della gloria, comunicarsi totalmente agli esseri finiti, non ha potuto rivelare e comunicare la sua essenza ai beati che secondo un modo adattato alle intelligenze finite, e questo modo è il seguente: Dio si manifesta ad essi intanto che è in relazione con essi, come loro creatore, loro provvidenza, loro redentore e loro santificatore   [(Cum Deus non possit, nec per lumen glorie, totaliter se communicare entibus flnitis, non potuit essentiam suam comprehensoribus revelare et communicare nisi eo modo qui finitîs intelligentes sit accomodatus: scilicut Deus se illis manifestat quatenus cum ipsis revelationem habet ut eorum creator, provisor, redempior, sanctificator. (Prop. XL)] ». Così Rosmini, che attribuisce all’intelligenza naturale il potere di conoscere l’essere stesso del Verbo, nega all’intelligenza elevata dai doni soprannaturali, la facoltà di vedere Dio in se stesso nella sua essenza assoluta. Secondo lui, l’ordine della conoscenza naturale va fino all’Essere divino, racchiuso, è vero, nei limiti delle creature; al contrario, l’ordine della conoscenza soprannaturale non può elevarsi fino all’Essere divino preso assolutamente. Dopo aver esaltato la natura fino ad attribuirle gli effetti della grazia, egli abbassa la grazia fino a rinchiuderla nei confini della natura. Ancora uno stesso principio si nasconde sotto questi errori diversi. Rosmini resta l’entusiasta ammiratore dell’essere, di questo essere in generale che confonde con l’Essere divino. È questo essere, ai suoi occhi così grande e così universale, che è l’oggetto di ogni conoscenza, della conoscenza soprannaturale così come della conoscena naturale: il bambino che si desta alla ragione la conosce già; l’eletto arrivato alla consumazione della gloria, non conosce che se stesso.

XV

ULTIME OSSERVAZIONI

68. Tali sono i principali errori di Rosmini. Altri errori meno importanti sono conseguenza di questi citati. La Santa Sede li menziona e li riprova in generale, senza segnalarli nei particolari; essa vieta ai Cattolici però di interpretare il suo silenzio al riguardo come prova di una qualsivoglia approvazione [(Propositions quæ sequuntur in proprio Auctoris sensu reprobandas, damnandas ac proscribendas esse indicavit, prout hoc generali decreto reprobàt, damnât, proscribit; quin exinde cuiquam deducere liceat ceteras ejusdem Auctoris doctrinas quæ per hoc decretum non damnantur ullo modo adprobari. [Decretum S. Cong. )]. Non vi sono, in effetti, questioni filosofiche, e non poche questioni teologiche che il Rosmini non abbia cercato di risolvere e nelle quali non si sia ingannato in soluzioni contrarie alle dottrine della Scuola.

69. In fondo a tutti gli errori teologici di Rosmini, in fondo a tutti gli errori filosofici, si riconosce sempre uno stesso errore: la confusione tra l’essere generale e l’essere divino. Questa confusione è il fondamento del panteismo di Fichte, di Shelling e soprattutto di Hegel; la stessa confusione è il fondamento del sistema rosminiano. Rosmini, come Hegel, si persuade che le cose siano in se stesse, il modo stesso di essere che nell’intelligenza. Siccome l’essere è conosciuto sotto una forma astratta, questi due dotti realizzano nell’ordine ontologico un essere realmente esistente con i caratteri di astrazione che ha nello spirito. Rosmini, non più di Hegel, non conosce questa verità elementare della filosofia cristiana, e cioè che l’essere non è univoco, che l’Essere divino e l’essere non hanno una medesima ragione, ma sono solamente analoghi l’uno all’altro. Rosmini, come Hegel, ha confuso i trascendentali di cui parlano i filosofi con i generi supremi. Egli ha fatto del primo dei trascendentali, l’essere in generale, un genere supremo di cui la ragione conviene allo stesso modo alla sostanza divina che alla sostanza creata. Se Rosmini non professa apertamente il panteismo, anche se è guidato dagli stessi principi  nel suo sistema, è solo perché ne è allontanato dalla sua fede. Come Cristiano, egli cerca di sfuggire a conseguenze alle quali le conduce la sua filosofia: egli lotta contro di esse, lotta contro i suoi principi. Ma in questa lotta, respinge le affermazioni più grossolane del panteismo, prendendone le formule essenziali. Il suo linguaggio è molte volte smile a quello dei panteisti, e sebbene si protestasse altamente di essere figlio sottomesso della Chiesa Cattolica, poteva essere ben considerato come un filosofo rivoltato contro di essa.

70. E terminiamo con un’ultima riflessione. La diffusione presente degli errori rosminiani come, da qualche anno, quello degli errori di Lamennais, attesta uno strano indebolimento del senso filosofico, un’incredibile diminuzione delle verità filosofiche. Così non è senza una grande intelligenza delle necessità attuali della Chiesa, che il grande Papa Leone XIII, applica tutti i suoi sforzi nel resuscitare nel mondo la filosofia cristiana, ad invitare la generazione presente alle lezioni della Scuola, particolarmente di colui che ne è il Dottore principale. Possano tutti i maestri di Italia, docili alle direttive del Capo della Chiesa, abbandonare Rosmini ed attaccarsi all’Angelo della Scuola!

[Questo augurio purtroppo non si è realizzato, perchè le bislacche tesi rosminiane, … apparentemente bislacche, in realtà guidate da una precisa volontà destabilizzante, di matrice gnostico-cabalistica, sono state riesumate, come cadavere fetido, nella falsa chiesa dell’uomo, dalla setta del “novus ordo” ed addirittura esaltate dagli gnostici marrani usurpanti il Trono di S. Pietro. Per noi Cattolici Romani, è importante aver cognizioni delle tesi gnostiche rosminiane, benchè ripugnanti e fastidiose, per poterle decodificare e “scansare” accuratamente nel modernismo satanico attuale che, come tutti gli inganni gnostici da sempre perpetrati, si presenta con la maschera bonaria del lupo travestito, pronto ad azzannare e condurre al fuoco eterno, chiunque, volutamente o inconsapevolmente, si avvicini ad esso, sia pure solo sfiorandolo. Attenti quindi a questo altro lupo che, sotto l’aspetto di un sacerdote pio ed umile, come angelo vestito di (falsa) luce, spaccia veleno gnostico mortale. Che Dio ce ne guardi, e la Vergine Maria, che da sola distrugge tutte le eresie, ci protegga e ci conduca alla salvezza.

 

A. Rosmini,

… uno gnostico stroncato dalla “vera” Chiesa Cattolica, riabilitato nella chiesa universale dell’uomo, la sinagoga si satana, il satanico Novus Ordo, gestito dai modernisti-marrani infiltrati, usurpanti e sostenuti dalle sette eretiche dei “gallicani fallibilisti”, dei “gallicani tesisti”, e delle molteplici “settuncole” sedevacantiste pseudo-tradizionaliste!

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Decreto del Sant’Uffizio

POST OBITUM

[Testo latino e traduzione italiana

– Progetto Barruel- ](*)

(*) Il sito del progetto Barruel, è un sito a-cattolico paramodernista scismatico, che pubblica documenti della Chiesa Cattolica “ante-golpe” del 1958. La traduzione che riportiamo è però funzionale agli articoli ed utile nella comprensione, in lingua vernacolare, del documento citato.

Feria IV die 14 decembris 1887.

Post obitum Antonii Rosmini Serbati quædam eius nomine in lucem prodierunt scripta, quibus plura doctrinae capita, quorum germina in prioribus huius Auctoris  libris continebantur clarius evolvuntur atque explicantur. Quae res accuratiora studia non hominum tantum in theologicis ac philosophicis disciplinis præstantium, sed etiam Sacrorum in Ecclesia Antistitum excitarunt. Hi non paucas propositiones, quae catholicæ veritati haud consonæ videbantur, ex posthumis præsertim illius libris exscripserunt, et supremo S. Sedis indicio subiecerunt.

Porro SS.mus D. N. Leo divina providentia Papa XIII, cui maxime curæ est ut depositum catholicæ doctrinæ ab erroribus immune purumque servetur, delatas propositiones Sacro consilio E.morum Patrum Cardinalium in universa christiana republica Inquisitorum Generalium examinandas commisit.

Quare, uti mos est Supremæ Congregationis, instituto diligentissimo examine, factaque earum propositionum collatione cum reliquis Auctoris doctrinis prout potissimum ex posthumis libris elucescunt, propositiones quae sequuntur, in proprio Auctoris sensu reprobandas, dainnandas ac proscribendas esse iudicavit, prout hoc generali decreto reprobat, damnat, proscribit; quin exinde cuiquam deducere liceat ceteras eiusdem Auctoris doctrinas quæ per hoc decretum non damnantur ullo modo adprobari.

Facta autem de his omnibus SS. mo D. N. Leoni XIII accurata relatione, Sanctitas Sua decretum E.morum Patrum adprobavit, confirmavit, atque ab omnibus servari mandavit.

Feria 4° il dì 14 Decembre 1887.

[Dopo la morte di Antonio Rosmini Serbati uscirono alla luce, sotto il nome di lui, alcuni scritti, nei quali vengono più chiaramente svolti e spiegati parecchi capi di dottrina, i cui germi erano contenuti nei libri precedenti di questo Autore. Le quali cose mossero a fare studii più accurati non solo uomini prestanti nelle filosofiche e teologiche discipline, ma anche i Sacri Pastori della Chiesa. Questi estrassero dai libri di lui, specialmente postumi, non poche proposizioni, le quali non sembravano conformi alla verità cattolica, e le sottoposero al supremo giudizio della Santa Sede.

Quindi il SS.mo S. N. Leone per divina provvidenza Papa XIII, a cui sopra tutto è a cuore, che il deposito della dottrina cattolica si conservi immune e puro da errori, diè incarico di esaminare le denunziate proposizioni al Sacro consiglio degli E.mi Cardinali, Inquisitori Generali in tutta la Repubblica Cristiana.

Pertanto, come è costume della Suprema Congregazione, impreso un esame diligentissimo, e fatto il confronto di quelle proposizioni con le altre dottrine dell’Autore, massimamente secondo che risultano chiare dai libri postumi; giudicò doversi riprovare, condannare, nel proprio senso dell’Autore, come di fatto con questo generale decreto riprova, condanna e proscrive le seguenti proposizioni: senza che, per questo, sia lecito a chicchessia di inferire, che le altre dottrine del medesimo Autore, che non vengono condannate per questo decreto, sieno per veruna guisa approvate. Fatta dipoi di tutto ciò accurata relazione al SS.mo S. N. Leone XIII, la S. S. approvò, confermò il decreto degli E.mi Padri, ed ingiunse che fosse da tutti osservato.

Ecco le proposizioni condannate:

I. In ordine rerum creatarum immediate manifestatur humano intellectui aliquid divini in se ipso, huiusmodi nempe quod ad divinam naturam pertineat.

1. Nella sfera del creato si manifesta immediatamente allo umano intelletto qualche cosa di divino in se stesso, cioè tale che alla divina natura appartenga — (Teosof. Vol. IV. n. 2, pag. 6).

II.  Cum divinum dicimus in natura, vocabulum istud divinumnon usurpamus ad significandum effectum non divinum causae divinae; neque mens nobis est loqui de divinoquodam quod tale sit per participationem.

2. Dicendo il divino nella natura, non prendo questa parola divinoa significare un effetto non divino di una causa divina. Per la stessa ragione non è mia intenzione di parlare di un divino che sia tale per partecipazione — (Ivi).

III. In natura igitur universi, idest in intelligentiis quæ in ipso sunt, aliquid est, cui convenit denominatio divini non sensu figurato sed proprio. Est actualitas non distincta a reliquo actuelitatis divinæ.

3. Vi è dunque nella natura dell’universo, cioè nelle intelligenze che sono in esso, qualche cosa a cui conviene la denominazione di divino non in senso figurato, ma in un senso proprio — (Teosofia, vol. IV, Del divino nella natura, n. 15, p. 18.) — È una… attualità indistinta dal resto dell’attualità divina, indivisibile in sè, divisibile per astrazione mentale — (Teosofia, Vol. III, n. 1423, p. 344).

IV. Esse indeterminatum, quod procul dubio notum est omnibus intelligentiis, est divinum illud quod homini in natura manifestatur.

4. L’essere indeterminato (essere ideale), il quale è indubitatamente palese a tutte le intelligenze (è quel divino che) si manifesta all’uomo nella natura — (Teosofia, Vol. IV, nn. 5 e 6, p. 8).

V. Esse quod homo intuetur necesse est ut sit aliquid entis necessarii et æterni, causæ creantis, determinantis ac finientis omnium entium contingentium: atque hoc est Deus.

5. L’essere intuito dall’uomo deve necessariamente essere qualche cosa di un ente necessario ed eterno, causa creante, determinante e finiente di tutti gli enti contingenti; e questo è Dio (Teosof. Vol. I, n. 298, p. 241).

VI. In esse quod præscindit a creaturis et a Deo quod est esse indeterminatum, atque in Deo, esse non indeterminato sed absoluto, eadem est essentia.

6. Nell’uno (essere che prescinde dalle creature e da Dio, e che è l’essere indeterminato) e nell’altro essere (che non è più indeterminato, ma Dio stesso, essere assoluto) c’è la stessa essenza — (Teos. Vol. II, n. 848, p. 150).

VII. Esse indeterminatum intuitionis, esse initiale, est aliquid Verbi, quod mens Patris distinguit non realiter sed secundum rationem a Verbo.

7. L’essere indeterminato della intuizione… l’essere iniziale… è qualche cosa del Verbo, che ella (la mente del Padre) distingue non realmente, ma secondo la ragione, dal Verbo (Teosof. Vol. II. n. 848, p. 150; Vol. I. n. 490, p. 445).

VIII. Entia finita quibus componitur mundus resultant ex duobus elementis, idest ex termino reali finito et ex esse initiali quod eidem termino tribuit formam entis.

8. Gli enti finiti che compongono il mondo risultano da due elementi, cioè dal termine reale finito e dall’essere iniziale che dà a questo termine la forma di ente — (Teosof. Vol. I n. 454, p. 396).

IX. Esse, obiectum intuitionis, est actus initialis omnium entium. Esse initiale est initium tam cognoscibilium quam subsistentium: est pariter initium Dei, prout a nobis concipitur, et creaturarum.

9. L’essere, oggetto dell’intuito… è l’atto iniziale di tutti gli enti ( Teosof. Vol. III n.1235, p. 73). — L’essere iniziale dunque è inizio tanto dello scibile quanto del sussistente… è egualmente inizio di Dio, come da noi si concepisce, e delle creature — (Teosof. Vol. I n. 287 p. 229; n. 288, p. 230).

X. Esse virtuale et sine limitibus est prima ac simplicissima omnium entitatum, adeo ut quælibet alia entitas sit composita, et inter ipsius componentia semper et necessario sit esse virtuale. — Est pars essentialis omnium omnino entitatum, utut cogitatione dividantur.

10. L’essere virtuale e senza termini (Divino in sè stesso appartenenza di Dio) è la prima e la più semplice delle entità, per cosi fatto modo che qualunque altra entità è composta, e tra i suoi componenti c’è l’essere virtuale sempre e necessariamente. — L’essere virtuale è parte essenziale di tutte affatto le entità, per quantunque col pensiero si dividano — (Teosof. Vol. I p. 221; n. 281, p. 223).

XI. Quidditas (id quod res est) entis finiti non constituitur eo quod habet positivi, sed suis limitibus. Quidditas entis infiniti constituitur entitate, et est positiva; quidditas vero entis finiti constituitur limitibus entitatis, et est negativa.

11. La quiddità (ciò che una cosa è) dell’ente finito non è costituita da cio che egli ha di positivo, ma dai suoi limiti… La quiddità dell’ente infinito è costituita dall’entità, ed è positiva, e la quiddità dell’ente finito è costituita dal limiti dell’entità, ed è negativa — (Teos. Vol. I n. 726, p. 708-709).

XII. Finita realitas non est, sed Deus facit eam esse addendo infintitæ realitati limitationem. Esse initiale fit essentia omnis entis realis. Esse quod actuat naturas finitas, ipsis coniunctum, est recisum a Deo.

12. La realtà finita non è, ma egli (Dio) la fa essere coll’aggiungere alla realità infinita la limitazione — (Teosof. Vol. I. n. 681, p. 658). — L’essere iniziale… diventa l’essenza di ogni ente reale — (Ivi Vol. I. n. 458, p. 399). — L’essere che attua le nature finite, a questo congiunto, essendo reciso da Dio… (Ivi Vol. III. n. 1425, p. 346).

XIII. Discrimen inter esse absolutum et esse relativum non illud est quod intercedit substantiam inter et substantiam, sed aliud multo maius; unum enim est absolute ens, alterum est absolute non-ens. At hoc alterum est relativum ens. Cum autem ponitur ens relativum, non multiplicatur absolute ens; hinc absolutum et relativum absolute non sunt unica substantia, sed unicum esse; atque hoc sensu nulla est diversitas esse, imo habetur unitas esse.

13. La differenza che passa tra l’essere assoluto e il relativo non è quella di sostanza a sostanza, ma una molto maggiore…; perocchè s’ha differenza di essere in questo senso che l’uno è assolutamente ente, l’altro è assolutamente non-ente. Ma questo secondo è relativamente ente. Ora col porre un ente relativo non si moltipica assolutamente l’ente; sicchè rimane, che assolutamente l’assoluto e il relativo sia non già una sostanza sola, ma bensì un essere solo, e in questo senso non v’abbia diversità di essere anzi unità di essere — (Teosof. Vol. V. cap. IV, pag. 9).

XIV. Divina abstractione producitur esse initiale, primum finitorum entium elementum; divina vero imaginatione producitur reale finitum, seu realitates omnes quibus mundus constat.

14. Coll’astrazione divina abbiamo veduto come sia stato prodotto l’essere iniziale, primo elemento degli enti finiti; coll’imaginazione divina, abbiamo pure veduto come sia stato prodotto il reale finito — tutte le realità di cui consta l’universo — (Teosof. Vol. I. n. 463, p. 408).

XV. Tertia operatio esse absoluti mundum creantis est divina synthesis, idest unio duorum elementorum: quæ sunt esse initiale, commune omnium finitorum entium initium, atque realefinitum, seu potius diversa realia finita, termini diversi eiusdem esse initialis. Qua unione creantur entia finita.

15. La terza operazione dell’essere assoluto creante il Mondo è la sintesi divina, cioè l’unione dei due elementi, l’essere inizialeinizio comune di tutti gli enti finiti, e il realefinito, o per dir meglio i diversi reali finiti, termini diversi dello stesso essere iniziale. Colla quale unione sono creati gli enti finiti — (Ivi).

XVI. Esse initiale per divinam sythesim ab intelligentia relatum, non ut intelligibile sed mere ut essentia, ad terminos finitos reales, efficit ut existant entia finita subiective et realiter.

16. Riferito dall’intelligenza per mezzo della sintesi divina, l’essere iniziale, non come intelligibile, ma puramente come essenza, ai termini reali finiti, fa che esistano gli enti finiti subiettivamente e realmente — (Teosof. Vol. I. n. 464, p. 410).

XVII. Id unum efficit Deus creando, quod totum actum esse creaturarum integre ponit: hic igitur actus proprie non est factus, sed positus.

17. Quello che fa Iddio (creando) è unicamente di porre tutto intero l’atto dell’essere nelle creature: dunque quest’atto non è propriamente fatto, ma è posto(Teos. Vol. I. n. 412, p. 350).

XVIII. Amor quo Deus se diligit etiam in creaturis, et qui est ratio qua se determinat ad creandum, moralem necessitatem constituit, quæ in ente perfectissimo semper inducit effectum: huiusmodi enim necessitas tantummodo in pluribus entibus imperfectis integram relinquit libertatem bilateralem.

18. Vi ha una ragione in Dio stesso per la quale ei si determina a creare; e questa ragione è di novo l’amore di se stesso, il quale si ama anche nelle creature. Quindi la divina sapienza, come meglio altrove esporremo, trova esser cosa conveniente la creazione, e questa semplice convenienza basta a far sì che l’Essere perfettissimo vi si determini. Ma non si deve confondere questa necessita di convenienza con quella necessità che nasce della forma reale dell’essere, e che necessita fisica si suol chiamare. La necessità di convenienza è una necessità morale, cioè veniente dall’Essere sotto la sua forma morale; e la necessità morale non sempre induce l’effetto che ella prescrive; ma lo induce solo nell’essere perfettissimo, e non negli esseri imperfetti (a molti de’ quali rimane perciò la libertà bilaterale), perchè l’Essere perfettissimo è insieme moralissimo, cioè ha compiuta in sè ogni esigenza morale (Teosof. Vol. I n. 51, p. 49-50).

XIX. Verbum est materia illa invisa ex qua, ut dicitur Sap. XI 18, creatæ fuerunt res omnes universi.

19. Il Verbo è quella materia invisada cui dice il libro della Sapienza (XI. 18) che furono create le cose tutte dell’universo (Introd. del Vangelo seconde Giov. lez. 37, pagina 109).

XX. Non repugnat ut anima humana generatione multiplicetur, ita ut concipiatur eam ab imperfecto, nempe a gradu sensitivo, ad perfectum, nempe ad gradum intellectivum, procedere.

20. Niente ripugna che il soggetto, di cui si parla si moltiplichi per via di generazione — (Psicolog. I. 4, n. 656). — Noi abbiamo già detto che la generazione dell’anima umana si può concepire per gradi progressivi dall’imperfetto al perfetto, e pero che prima ci sia il principio sensitivo, il quale, giunto alla sua perfezione colla perfezione dell’organismo, riceva l’intuizione dell’essere, e cosi si renda intellettivo e razionale — (Teosof. Vol. I. n. 646, pag. 619).

XXI. Cum sensitivo principio intuibile fit esse, hoc solo tactu, hac sui unione, principium illud antea solum sentiens, nunc simul intelligens, ad nobiliorem statum evehitur, naturam mutat, ac fit intelligens, subsistens atque immortale.

21. Rendendosi l’essere intuibile al detto principio (sensitivo), con questo solo toccamento, con questa unione di sè, il principio prima solo senziente, ora anco intelligente, si solleva a più alto stato, cangia natura, rendesi intellettivo, sussistente, immortale — (Antropol. I. 4. c. 5, n. 819). — Quindi si offre alla mente l’espressione che il principio sensitivo sia divenuto principio razionale, che si sia convertito in un altro, avendo subito veramente una tale permutazione — (Teosof. Vol. I. n. 646, p. 619).

XXII. Non est cogitatu impossibile divina potentia fieri posse ut a corpore animato dividatur anima intellectiva, et ipsum adhuc maneat animale: maneret nempe in ipso, tanquam basis puri animalis, principium animale, quod antea in eo erat veluti appendix.

22. Quanto poi alle appendici di cui parliamo, cioè al corpo animato, non è certo impossibile il pensare, che dalla potenza divina possa esser da lui divisa l’anima intellettiva, ed egli tuttavia rimanersi nella qualità di animale, rimanendo il principio animale, che prima esisteva come appendice, siccome base del novo ente, cioè del puro animale che rimarrebbe — (Teosof. Vol. I. n. 621, pag. 591).

XXIII. In statu naturali, anima defuncti existit perinde ac non existeret: cum non possit ullam super seipsam reflexionem exercere, aut ullam habere sui conscientiam, ipsius conditio similis dici potest statui tenebrarum perpetuarum et somni sempiterni.

23. Questa (l’anima del defunto) esiste certamente, ma e come se non esistesse — (Teodicea, Appendice, art. 10, p.638). — Nel quale stato (di natura) non essendo a lei (all’anima separata) possibile alcuna riflessione su di se stessa, nè alcuna coscienza, la sua condizione si potrebbe rassomigliare ad uno stato di perpetue tenebre, e di sempiterno sonno — (Introduz. del Vangelo secondo Giov. lez. 69, p. 217).

XXIV. Forma substantialis corporis est potius effectus animæ, atque interior terminus operationis ipsius: propterea forma substantialis corporis non est ipsa anima. Unio animæ et corporis proprie consistit in immanenti perceptione, qua subiectum intuens ideam affirmat sensibile, postquam in hac eius essentiam intuitum fuerit.

24. La forma sostanziale del corpo è piuttosto un effetto dell’anima e il termine interno delle sue operazioni; e però non è l’anima stessa che sia la forma sostanziale del corpo (Psicol. Par. II, 1. I, c. II, n. 849). — L’unione dell’anima col corpo consiste propriamente in una percezione immanente, per la quale il soggetto intuente l’idea afferma il sensibile dopo averne in questa intuita l’essenza — (Teosof. Vol. V. c. LIII, art. II, § 5, V. 4°, p. 377)

XXV. Revelato mysterio SS. Trinitatis, potest ipsius existentia demonstrari argumentis mere speculativis, negativis quidem et indirectis, huiusmodi tamen ut per ipsa veritas illa ad philosophicas disciplinas revocetur, atque fiat propositio scientifica sicut ceteræ: si enim ipsa negaretur, doctrina theosophica puræ rationis non modo incompleta maneret, sed etiam omni ex parte absurditatibus scatens annihilaretur.

25. Il mistero della Triade… dopo che fu rivelato, esso rimane bensì incomprensibile nella sua propria natura… ma ben… si può conoscere quella (l’esistenza) d’una Trinità in Dio in un modo almeno congetturale con ragioni positive e dirette, e dimostrativamente con ragioni negative ed indirette; e che, mediante queste prove puramente speculative dell’esistenza di un’augustissima Triade, questa misteriosa dottrina rientra nel campo della filosofia. — Questa esistenza (della SS.ma Trinità) diventa una proposizione scientifica come le altre. — Qualora si negasse quella Trinità, ne verrebbero da tutte le parti conseguenze assurde apertamente… O conviene ammettere la divina Triade, o lasciare la dottrina teosofica di pura ragione incompleta non solo, ma pugnante d’ogni parte seco medesima, e dagli assurdi inevitabili straziata a del tutto annullata — (Teos. Vol. I, nn. 191, 193, 194, pp.155—158.)

XXVI. Tres supremæ formæ esse nempe subiectivitas, obiectivitas, sanctitas, seu realitas, idealitas, moralitas, si transferantur ad esse absolutum, non possunt aliter concipi nisi ut personæ subsistentes et viventes. Verbum, quatenus obiectum amatum, et non quatenus Verbum idest obiectum in se subsistens per se cognitum, est persona Spiritus Sancti.

26. L’essere nelle tre forme (subbiettività, obbiettività, santità,o per dirlo altramente: realità, idealità, moralità) è identico. — Le tre forme poi dell’essere, ove si trasportino nell’Essere assoluto, non si possono più concepire in altro modo, che come persone sussistenti e viventi (Vol. I, numeri 190, 196, pp. 154, 159). — Il Verbo in quantoè oggetto amato, e non in quanto è Verbo, cioè oggetto sussistente per sè cognito, è la persona dello Spirito Santo (Introduzione del Vangelo secondo Giov. Lez. 65, p. 200).

XXVII. In humanitate Christi humana voluntas fuit ita rapta a Sp. Sancto ad adhærendum Esse objectivo, idest Verbo, ut illa Ipsi integre tradiderit regimen hominis, et Verbum illud personaliter assumpserit, ita sibi uniens naturam humanam. Hinc voluntas humana desiit esse personalis in homine, et, cum sit persona in aliis hominibus, in Christo remansit natura.

27. Nella umanità di Cristo la volontà umana fu talmente rapita dallo Spirito Santo ad aderire all’essere oggettivo, cioè al Verbo, che ella cedette intieramente a lui il governo dell’uomo, e il Verbo personalmente ne prese il regime, cosi incarnandosi, rimanendo la volontà e le altre potenze subordinate alla volontà in potere del Verbo, che, come primo principio di quest’essere Teandrico, ogni cosa faceva, o si faceva dalle altre potenze col suo consenso. Onde la volontà umana cesso di essere personale nell’uomo, e da persona che è negli altri uomini rimase in Cristo natura… Il Verbo poi, incarnato cosi per opera dello Spirito Santo, estese la sua unione a tutte le potenze ed alla carne stessa — (Introduz. del Vangelo secondo Giov. lez. 85, pag. 281).

XXVIII. In christiana doctrina, Verbum, character et facies Dei, imprimitur in animo eorum qui cum fide suscipiunt baptismum Christi. – Verbum, idest character in anima impressum, in doctrina christiana est Esse reale (in finitum) per se manifestum, quod deinde novimus esse secundam personam SSmæ Trinitatis.

28. Insegno dunque il Cristianesimo che il Verbo, carattere e faccia di Dio, come viene anche sovente chiamato nelle Scritture, s’imprime nelle anime di quelli che colla fede ricevono il battesimo di Cristo (Introduz. alla Filosofia, n. 92). — Il Verbo dunque, ossia il carattere impresso nell’anima, secondo il cristiano insegnamento è l’essere reale (infinito) per sè manifesto, il quale dipoi sappiamo essere una persona, la seconda della divina Trinità. (Ivi nota).

XXIX. A catholica doctrina, quæ sola est veritas, minime alienam putamus hanc coniectu ram: In eucharistico Sacramento substantia panis et vini fit vera caro et verus sanguis Christi, quando Christus eam facit terminum sui principii sentientis, ipsamque sua vita vivificat: eo ferme modo quo panis et vinum vere transubstantiantur in nostram carnem et senguinem, quia fiunt terminus nostri principii sentientis.

29. Non crediamo aliena dalla dottrina cattolica, che solo è verità, la seguente conghiettura (cioè che nell’Eucaristico Sacramento) la sostanza del pane e del vino ha cessato intieramente d’essere sostanza del pane e del vino, ed è divenuta vera carne e vero sangue di Cristo, quando Cristo la rese termine del suo principio senziente, e così l’avvivo della sua vita, a quel modo come accade nella nutrizione, che il pane che si mangia e il vino che si beve, quando è, nella sua parte nutritiva, assimilato alla nostra carne e al nostro sangue, egli è veramente transustanziato, e non è più come prima pane o vino, ma è veramente nostra carne e nostro sangue, perché è divenuto termine del nostro principio sensitivo. — (Introduzione del Vang. secondo Giov. lez. 87, pp. 285-286).

XXX. Peracta transubstantiatione, intelligi potest, corpori Christi glorioso partem aliquam adiungi in ipso incorporatam, indivisam pariterque gloriosam.

30. Avvenuta la transustanziazione, si può intendere che al corpo glorioso (di G. Cristo) si sia aggiunta qualche parte in esso incorporata ed indivisa e del pari gloriosa. — (Ivi).

XXXI. In Sacramento eucharistiæ, vi verborum corpus et sanguis Christi est tantum ea mensura quæ respondet quantitati (a quel tanto ) substantiæ panis et vini quæ transubstantiantur: reliquum corporis Christi ibi est per concomitantiam.

31. Appunto perché il corpo di Cristo è unico ed indiviso, egli è necessario che dove si trovi una parte si trovi tutto…; ma non tutto quel corpo diviene termine del suo principio senziente, ma unicamente quella parte che corrisponde a quel tanto che v’aveva di sostanza di pane e di sostanza di vino nella transustanziazione. Ancora ne verrebbe che in virtù delle parole divine questa sostanza del pane e del vino si transustanziasse in carne e sangue del Salvatore ; ma il rimanente del corpo e del sangue vi rimanesse unito per concomitanza; il che non par contrario alla dottrina cattolica — (Ivi, p. 286, seg.).

XXXII. Quoniam qui non manducat carnem Filii hominis et bibit eius senguinem, non habet vitam in se; et nihilominus qui moriuntur cum baptismate aquæ, sanguinis aut desiderii certo consequuntur vitam æternam: dicendum est, his, qui in hac vita non comederunt corpus et sanguinem Christi subministrari hunc coelestem cibum in futura vita, ipso mortis instanti. – Hinc etiam Sanctis V. T. potuit Christus descendens ad inferos seipsum communicare sub speciebus panis et vini, ut aptos eos redderet ad visionem Dei.

32. Se dunque chi non mangia la carne del Figliolo dell’uomo, e bee il suo sangue, non ha la vita in se stesso, e tuttavia chi muore col battesimo d’acqua, o di sangue o di desiderio, è certo che acquista la vita eterna; convien dire che quella comestione della carne e del sangue di Cristo, che non fece nella vita presente, gli verrà somministrata nella futura al punto della sua morte e cosi avra la vita in sè stesso… Anche a’ Santi dell’antico Testamento, quando Cristo discese ai Limbo, potè Cristo communicare se stesso sotto la forma di pane e di vino, e così… renderli atti alla visione di Dio. — (Introd. del Vang. secondo Giovanni, lez. 74, p. 238).

XXXIII. Cum dæmones fructum possederint, putarunt se ingressuros in hominem si de illo ederet; converso enim cibo in corpus hominis animatum, ipsi poterant libere ingredi animalitatem, idest in vitam subiectivam huius entis, atque ita de eo disponere sicut proposuerant.

33. (I demonii) impossessatisi di un frutto pensarono che entrerebbero nell’uomo, quando egli, spiccatolo dall’albero, ne mangiasse; giacchè, il cibo convertendosi nel corpo animato dell’uomo, essi potevano entrare a man salva nell’animalità, ossia nella vita soggettiva di questo essere, e farne quel governo che si proponevano. — (Introduz. del Vang. secondo Giov. lez. 63, p. 191).

XXXIV. Ad præservandam B. V. Mariam a labe originis, satis erat ut incorruptum maneret minimum semen in homine, neglectum forte ab ipso dæmone; e quo incorrupto semine, de generatione in generationem transfuso, suo tempore oriretur Virgo Maria.

34. Preservò (Iddio) dal peccato originale una donzella…; alla quale preservazione dall’infezione originale bastava che rimanesse incorrotto un menomo seme nell’uomo, trascurato forse dal demonio stesso, dal quale seme incorrotto passato di generazione in generazione uscisse a suo tempo la Vergine — (Ivi, lez. 64, p. 193).

XXXV. Quo magis attenditur ordo iustifcationis in homine, eo aptior apparet modus dicendi scripturalis quod Deus peccata quædam tegit aut non imputat. — Juxta Psalmistam discrimen est inter iniquitates quæ remittuntur et peccata quæ teguntur: illæ, ut videtur, sunt culpæ actuales et liberæ, hæc vero sunt peccata non libera eorum qui pertinent ad populum Dei, quibus propterea nullum afferunt nocumentum.

35. Più che altri considera questo ordine della giustificazione dell’uomo, più troverà acconcia la maniera scritturale di dire che Dio cuopre certi peccati o non gl’imputa. Infatti col battesimo non si distrugge la mala volontà naturale, ma le se n’aggiunge una soprannaturale, che cuopre, per così dire, la naturale, e impedisce che quella perda l’uomo. Onde il Salmista dice: Beati, quelli le iniquità dei quali furono rimesse, e i peccati de’ quali furono coperti; dove si fa la differenza fra le iniquità che si rimettono, e i peccati che si cuoprono, e sembra che per quelle si vogliano intendere le colpe attuali e libere, e per questi i peccati non liberi di quelli che appartengono al popolo di Dio, e che pero non ne ricevono più danno alcuno — (Trattato della coscienza morale, l. I, c. 6. a. 2).

XXXVI. Ordo supernaturalis constituitur manifestatione esse in plenitudine suæ formæ realis; cuius communicationis seu manifestationis effectus est sensus (sentimento) deiformis qui inchoatus in hac vita constituit lumen fidei et gratiæ, completus in altera vita constituit lumen gioriæ.

36. L’essere (essenziale) si comunica a noi nella sola forma ideale per natura, e questo costituiscel’ordine naturale; l’essere stesso si manifesta a noi altresì nella pienezza della sua forma realeper grazia, e questa è comunicazione e percezione vera di Dio, e costituisce l’ordine soprannaturale…. l’effetto della comunicazione soprannaturale è un sentimento deiforme, di cui non abbiamo a principio coscienza, come non l’abbiamo di ogni sentimento nostro sostanziale e fondamentale. Or poi il sentimento deiforme, di cui parliamo, è incipiente in questa vita, nella quale costituisce il lume della fedee della grazia; compiuto nell’altra, nella quale costituisce il lume della gloria — (Filosof. del Diritto, Part. II. nn. 674, 676, 677).

XXXVII. Primum lumen reddens animam intelligentem est esse ideale; alterum primum lumen est etiam esse, non tamen mere ideale sed subsistens ac vivens: illud abscondens suam personalitatem ostendit solum suam obiectivitatem; at qui videt alterum (quod est Verbum) etiamsi per speculum et in ænigmate, videt Deum.

37. Il primo lume che rende l’anima intelligente è l’essere ideale ed indeterminato ; l’altro primo lume è ancora l’essere, ma non puramente ideale, ma ben anche sussistenze e vivente…. L’idea adunque è l’essere intuìto dall’uomo, ma non è il Verbo; chè non quella ma questo è sussistenza: quello è l’essere che occulta la sua sussistenza e lascia solo trasparire la sua oggettività indeterminata ed impersonale: nella mente che intuisce l’idea non cade la personalità dell’essere… ma chi vede il Verbo ancorchè per ispecchio ed in enimma, vede Iddio — (Introd. alla Filosofia, n. 85).

XXXVIII. Deus est obiectum visionis beatificæ, in quantum est auctor operum ad extra.

38. Sebbene Iddio senza mezzo alcuno sia oggetto della visione beatificatrice, e forma dell’intelletto dei Beati; tuttavia egli è tale in quanto è autore delle opere ad extra, le quali in un modo ineffabile sono in lui — (Teodicea, num. 672).

XXXIX. Vestigia sapientiæ ac bonitatis quæ in creaturis relucent, sunt comprehensoribus necessaria; ipsa enim in æterno exemplari collecta sunt ea Ipsius pars quæ ab illis videri possit (che è loro accessibile), ipsaque argumentum præbent laudibus, quas in æternum Deo beati concinunt.

39. I vestigii della sapienza e della bontà del creato, lungi dal divenire loro (ai comprensori) inutili, anzi riescono necessarii; perocchè questi vestigii tutti raccolti nell’esemplare eterno sono appunto quella parte di esso che è loro accessibile, onde sono tuttavia quelli che danno argomento alle lodi che a Dio eternamente tributano — (Ivi, n. 674).

XL. Cum Deus non possit, nec per lumen gloriæ, totaliter se communicare entibus finitis, non potuit essentiam suam comprehensoribus revelare et communicare nisi eo modo qui finitis intelligentiis sit accommodatus: scilicet Deus se illis manifestat quatenus cum ipsis relationem habet ut eorum creator, provisor, redemptor, sanctificator.

40. Se dunque non potea (Dio) comunicare se stesso totalmente ad esseri finiti, neppure mediante il lume di gloria, rimane a cercare in che modo Egli poteva rivelare loro e comunicare la propria essenza. Certo in quel modo che alla natura delle intelligenze create è conforme; e questo modo è quello pel quale Iddio ha con esso loro relazione, cioè come creatore loro, come provisore, come redentore, come santificatore — (Ivi, n. 677).

Ioseph Mancini S. Rom. et Univ. Inquisitionis Notarius.

Lettera con la quale l’E.mo Cardinale Segretario del S. Uffizio comunica il Decreto della. S. R. ed Universale Inquisizione e le quaranta proposizioni condannate, a ciascun membro dell’Episcopato cattolico.

Ill.me ac Rm.e Domine,

Hisce adiunctum litteris transmittitur ad Amplitudinem Tuam decretum generale quo Suprema Congregatio Em.orum Patrum una mecum Inquisitorum Generalium, adprobante et confirmante SS.mo Domino Nostro Leone XIII, plures propositiones ex operibus, quae sub nomine Antonii Rosmini Serbati edita sunt, damnantur et proscribuntur. Quapropter excitatur pastoralis cura et vigilantia Amplitudinis Tuae ut a damnatis huiusmodi doctrinis oves fidei tuae concreditas quam diligentissime custodias; ac si qui forte sint in ista dioecesi qui illis adhuc faveant, eos ad S. Sedis iudicium docili animo recipiendum inducere studeas. Præcipue vero eniteris ut mentes adolescentium, eorum praesertim qui in spem Ecclesiæ in Seminario aluntur, germana catholicae Ecclesiæ doctrina e puris fontibus Sanctorum Patrum, Ecclesiae Doctorum, probatorum auctorum, ac praecipue Angelici Doctoris S. Thomae Aquinatis, hausta imbuantur.

Tibi interim fausta omnia ac felicia precor a Domino.

Datum Romæ, die 7 Martii 1888.

Addictissimus in Domino

Card. Monaco.

 

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (30): ERRORI IN ROSMINI (2)

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (30):

Errori in ROSMINI (2)

VI

ERRORI SULLA NATURA DELL’UOMO

24. L’uomo è composto da un corpo e da un’anima. L’anima è una sostanza spirituale, cioè indipendente dal corpo nella esistenza. Essa ha diverse facoltà, le une intrinsecamente indipendenti dal corpo, come la facoltà di comprendere, quella di volere, le altre intrinsecamente dipendenti, come quella di immaginare, quella di vedere. Il corpo riceve dall’anima la vita, il movimento ed anche le attività fisiche e chimiche. L’anima ha un grado di vita che tiene in proprio; è la vista intellettuale, consistente nelle operazioni dell’intelligenza e della volontà. Essa ha due gradi di vita che comunica al corpo, è: 1° la vita vegetativa, che consiste nella nutrizione, l’accrescimento e la riproduzione; 2° la vita sensitiva, che si esercita mediante i sensi esteriori, come la vista, l’udito, etc., ed i sensi interiori, l’immaginaione, l’estimativo, etc. – E non soltanto l’anima comunica al corpo la vita, ma gli comunica anche l’essere sostanziale, di modo tale che il corpo riceve dall’anima sia la proprietà di essere una sostanza vivente, sia quella di essere semplicemente una sostanza. Ecco perché l’anima è chiamata la forma del corpo, perché essa è il principio di tutti gli atti che sono in lui, dell’atto primo, che lo rende sostanza, degli atti secondi, che sono tutte le attività e le proprietà che derivano dalla sostanza. – L’anima è una sostanza, non è un’operazione: essa è prima dell’operazione, essa può essere dopo l’operazione: l’operazione deriva dall’anima, non la costituisce. L’anima non è anche una facoltà, ma il principio dal quale le facoltà emanano, la fonte che si distribuisce in esse. Tali sono le verità che la ragione umana e la fede ci fanno conoscere sulla natura dell’uomo.

25. Rosmini contraddice quasi tutti i punti di questa dottrina. L’anima, egli presume, è costituita sensitiva dal sentimento che essa ha del corpo; essa è costituita intellettuale dall’intuizione che acquisisce dell’essere; essa è unita al corpo dal sentimento del corpo e dalla percezione dell’essere nell’essenza del corpo. Ecco i punti principali del suo sistema.

26. In primo luogo, l’anima, secondo lui, ha originariamente il sentimento del corpo. È questo sentimento che la costituisce nella sua essenza. L’anima sensitiva, egli dice, è essenzialmente un’operazione, un atto sensitivo, il primo atto sensitivo, avendo come termine il corpo; essa è nella sua essenza, il sentimento stesso del corpo. Questo sentimento primo è veramente essenziale all’anima, questo sentimento costitutivo dell’anima sensitiva, è conosciuto nella scuola rosminiana sotto il nome di senso fondamentale. Esso ben merita, nella teoria rosminiana, il qualitativo di fondamentale, poiché è il fondamento di tutta la vita dell’anima e del suo essere in se stesso.

27. In secondo luogo, come l’anima è costituita sensitiva dal sentimento del corpo, così essa è costituita intellettiva dall’intuizione dell’idea. « Quando il principio sensitivo riceve l’intuizione dell’essere, egli dice, il principio, che in precedenza non aveva che il sentire, diviene nello stesso tempo intelligente: con questo solo contatto, con questa unione, esso è elevato ad uno stato più nobile, cambia natura, diviene intelligente, sussistente, immortale [Cum sensitivo principio intuibile fit esse, hoc solo tacta, hac sui unione principium illud antea solum sentiens, nunc simul intelligens, ad nobiliorem statum evehitur, naturam mutat, ac fit intelligens, subsistens atque immortale. (Prop. XXI)]. » Prima della percezione dell’essere, l’anima è solo sensitiva, e come tale, si trova sprovvista di intelligenza, di sussistenza e di immortalità; con l’intuizione dell’idea, del principio puramente sensitivo, essa diviene principio sia sensitivo che intellettuale: principium illud antea solum sentiens, nec simul intelligens. Essa si trova elevata ad uno stato più nobile, perché risale da una vita organica alla vita spirituale: ad nobiliorem statum evehitur. Essa cambia natura: naturam mutat. Diviene ragionevole, sussistente, immortale: fit intelligens, subsistens atque immortale. Rosmini non retrocede davanti ad alcuna di queste espressioni. Così l’anima umana non è ragionevole in virtù della sua natura, ma per effetto di una illustrazione esteriore, per la manifestazione esteriore dell’essere, per manifestationem entis aforis illustrantis. Rosmini insegna espressamente questa dottrina!

28. Ma se l’anima umana non è originariamente ed essenzialmente spirituale o intellettuale, se essa ha cominciato con l’essere solamente sensitiva, essa ha potuto essere il prodotto della generazione come le anime degli animali e delle piante- Rosmini ammette questa conseguenza. « Non ripugna, egli dice, che l’anima umana si moltiplichi per generazione, in modo da poterla concepire come elevarsi gradualmente dall’imperfetto, cioè dal grado dell’essere sensitivo, al perfetto, cioè al grado dell’essere intelligente [Non répugnât ut anima humana generatione multiplicetur, ita ut concipiaiur eam ab imperfecto, nempe a gradu sensitivo, ad perfectum, nempe ad gradum intellectivum procedere. (Prop. XX). »

29. Altra conseguenza. Se l’anima umana è diventata intellettuale e spirituale con una manifestaione esteriore dell’essere, non può cessare di essere ragionevole e ridiventare puramente sensitiva, con la soppressione di questa illuminazione esteriore? Rosmini non respinge questa conclusione. « Non è impossibile pensare, egli dice, che la potenza divina potrebbe separare l’anima intellettiva dal corpo animato e questo assumerebbe il suo carattere animale; essa resterebbe nel corpo in effetti, come base di una pura animalità, un principio animale che, precedentemente, era in lui come appendice [Non est cogitatu impossible divina potentia fieri posse ut a corpore anima intellectiva separetur et ipsum adhuc maneat animale: maneret nempe in ipso, tamquam basis puri animalis, principium animale, quod antea in eo erat veluti appendix. (Prop. XXII) »

30. Altra conseguenza ancora.

Nel sistema rosminiano, l’intuizione dell’essere suppone il sentimento del corpo o il senso fondamentale, perché il principio intellettivo è il coronamento de del principio sensitivo. Così senza il senso fondamentale, ogni esercizio della vita intellettuale è impossibile. Rosmini conclude da questo principio che il defunto non ha più conoscenza attuale: « Nello stato naturale, egli dice, l’anima del defunto esiste come se non esistesse; poiché non può fare riflessione su se stessa, né aver alcuna coscienza di se stessa, si può dire che la sua condizione è simile ad uno stato di tenebre perpetue e di sonno eterno [In statu naturali, anima defuncti existit perinde ac non existeret: cum non possit ullam super seipsam reflexionem exercere, aut ullam habere sui conscientiam, ipsius conditio similis dici potest statui tenebrarum perpetuarum et somni sempiterni. (Prop. XXII)].

31. In terzo luogo Rosmini fa dipendere l’unione dell’anima e del corpo dal senso fondamentale e dalla percezione dell’essere. « L’unione dell’anima e del corpo consiste propriamente nella percezione immanente per la quale, il soggetto, contemplando l’idea, afferma il sensibile di cui ha contemplato l’essenza in questa idea [Unio animæ et corporis proprie consistit in immanenti perceptione, qua subjectum intuens ideam affirmat sensibile, postquam in hac ejus essentiam intuitum fuerit. (Prop. XXIV)]. Vale a dire, se noi comprendiamo bene il pensiero del filosofo, l’anima si unisce al corpo percependone il corpo sensitivamente, ed avendo il sentimento del corpo, ciò che Rosmini chiama il senso fondamentale, intellettivamente vedendone l’essere generale nel sensibile. L’unione dell’anima al corpo ha dunque luogo, secondo Rosmini, non per unione di sostanze, come insegna tutta la Scuola, non pure per la compenetrazione delle virtù, come hanno detto alcuni filosofi, ma per semplice percezione. L’anima sensitiva ed intellettiva si trova unita al corpo, avendo del corpo una percezione sensitiva ed intellettuale. Essa gli è unita perché la conosce! Questa dottrina scuote il buon senso. La conoscenza suppone l’oggetto, non lo fa: la percezione sensitiva o intellettuale del corpo unito, suppone l’unione del corpo, non la costituisce. Ed in effetti, o il corpo che sente l’anima e nel quale raggiunge l’essere, gli è unito, o non gli è unito affatto, l’unione non è l’effetto della percezione; se non gli è unito, l’anima si inganna percependolo come se fosse unito. Non si può uscire da questo dilemma.

32. L’errore di Rosmini sull’unione dell’anima al corpo, lo conduce ad un altro errore sulla forma del corpo. Noi abbiamo visto che l’anima si unisce al corpo percependolo con un atto sensitivo ed un atto intellettivo. Ma, se è così, il corpo ha la sua sostanza ed anche la sua vita indipendentemente dal corpo; esso ha dunque di se stesso una forma sostanziale. Di conseguenza, non è l’anima che è, secondo quanto insegna la Chiesa, la sua forma sostanziale. Chi potrebbe dire in effetti che una percezione è una forma sostanziale, un atto primo, un principio di sostanza? Il corpo ha dunque, fuori dall’anima, la sua forma sostanziale; la forma sostanziale del corpo è il termine dell’azione dell’anima, non è l’anima: « La forma sostanziale, dice Rosmini, è piuttosto un effetto dell’anima ed il termine interiore della sua operazione, ecco perché la forma sostanziale del corpo non è l’anima stessa [(Forma substantialis corporis est potius effectus animæ, atque interior terminus operationis ipsius: propterea forma substantialis corporis non est ipsa anima. (Prop. XXIV)] ».

VII

ERRORI SULLA SANTISSIMA TRINITA’

 33. Gli errori che abbiamo finora esaminati, possono essere tutti chiamati degli errori filosofici; perché essi sono opposti a delle verità che la ragione naturale può dimostrare. Quelli che, al contrario ci restano da esaminare, sono propriamente degli errori teologici: Questi sono degli errori concernenti i dogmi della fede, vale a dire quelle verità soprannaturale di cui la ragione può ammirare l’armonia con le verità naturali, ma che essa non può stabilire con i principi propri. E innanzitutto Rosmini ha insegnato due errori fondamentali sul mistero della Santissima Trinità. In primo luogo, egli ha preteso, come Hermès in Germania, che la ragione umana, con le sue forze naturali, potesse dimostrarne l’esistenza con certezza. Egli confessa che la ragione non può scoprire questo mistero, ma sostiene che essa può provarlo dopo essere stato rivelato. Egli confessa anche che non può provarlo con argomenti diretti e positivi, cioè che non può partire da un principio razionale e dedurne il dogma come una conseguenza che vi sarebbe racchiusa; ma egli pretende di poterlo dimostrare con degli argomenti negativi ed indiretti, cioè con argomenti che stabiliscono che bisogna ammettere il dogma, sotto pena di cadere nell’assurdo. Rosmini sostiene per conseguenza, che il dogma della Santissima Trinità è, propriamente parlando, una verità scientifica. « Posta la rivelazione del mistero della Santissima Trinità, egli dice, la sua esistenza può dimostrarsi con argomenti puramente speculativi, negativi, è vero, ed indiretti, ma di natura tale che per essi, questa verità è ricondotta sul terreno dell’insegnamento filosofico e diventa una verità scientifica come le altre; perché se questa verità fosse negata, la dottrina teosofica di pura ragione, non solo resterebbe incompleta, ma anche si riempirebbe di assurdità su tutti i punti: essa sarebbe annichilita [(Revelato mysterio Sanctissimæ Trinitatis, potest ipsius existentia demonstrari arguments mere speculativis, negativis quidem et indirectis, hujusmodi tamen ut per ipsa veritas illa ad philosophicas disciplinas revocetur, atque fiat propositio scientifica sicut ceteræ; si enim ipsa negaretur, doctrina theosophica puræ rationis non modo incompleta maneret, sed etiam omni ex parte absurditatibus scateus annihilaretur. (Prop. XXV)]. »

35. Questa dottrina è in contraddizione con tutta la tradizione cattolica. Pio IX ha più volte insegnato, contro gli hermèsiani germanici, che, secondo l’unanimità dei Padri e dei teologi cattolici, i dogmi dela fede sono dei misteri per la ragione umana, e che il mistero della Santissima Trinità , il più profondo di tutti, è talmente al di sopra dei lumi della ragione umana, che essa non può né scoprirlo né provarlo. Il Concilio Vaticano ha solennemente definito questo insegnamento. « I misteri divini, dice, oltrepassano talmente per loro natura l’intelligenza creata, che anche dopo essere stati trasmessi dalla rivelazione, e noi li abbiamo ricevuti per fede, essi restano tuttavia coperti dal velo della fede e come avvolti da una certa nebulosità, intanto che viaggiamo in questa vita mortale, lontano dal Signore, perché noi camminiamo verso di Lui con la fede e non con la visione chiara divina [(enim mysteria suapte natura intellectum creatum sic excedunt, nt etiam revelatione tradita et fide suscepta ipsius tamen fidei velamine contecta et quadam quasi caligine obvoluta maneant, quamdiu in hac mortali vita peregrinamur a Domino: Per fidem enim ambulamus et non per speciem. (Constit. De fide cath., cap. IV.)]. »

36. Rosmini non attribuisce alla ragione la forza di provare il mistero della Trinità, se non perché altera la nozione del dogma. La fede ci insegna che Dio sussiste in tre Persone. La sostanza divina ha tre sussistenze, in cui Dio è tre Persone, il Padre, che ha tutta la sostanza divina, ma come principio primo; il Figlio, che ha tutta la sostanza divina ancora, ma ricevuta dal Padre per generazione; lo Spirito-Santo, che ha pure tutta la sostanza divina, ma ricevuta dal Padre e dal Figlio come da un unico principio, con un processo distinto di generazione. Tutto è comune alle tre Persone, eccetto la loro opposizione di origine: Non est distinctio in divinis nisi ubi adsit relationis oppositio. Il Padre ed il Figlio hanno una medesima intelligenza, una stessa volontà, una stessa potenza, una stessa divinità; ma il Padre possiede l’Essere divino come principio; il Figlio per generazione. Lo Spirito Santo ha la stessa intelligenza, la stessa volontà, la stessa potenza, la stessa divinità del Padre e del Figlio; ma Egli possiede l’Essere divino per processione dal Padre e dal Figlio, mentre il Padre ed il Figlio lo posiedono come autori dello Spirito-Santo. Tutto ciò che è assoluto in Dio è unico, il relativo solo è moltiplicato: l’essere e le sue proprietà sono uniche in Dio; le processioni e le proprietà fondate sulle processioni possono solo dirsi al plurale. Tale è l’insegnamento della Chiesa, insegnamento unanime, eclatante, tipetuto mille e mille volte dai Padri, definito dai Concili, prodotto nelle liturgie, spiegato nei catechismi.

37. Rosmini riporta una nuova dottrina. Egli non si accontenta di moltiplicare in Dio il relativo, egli moltiplica l’assoluto. Secondo lui il Padre, il Figlio e lo Spirito-Santo sono le tre forme supreme dell’Essere, vale a dire, come si esprime: la soggettività, l’oggettività e la santità o la realtà, la idealità e la moralità. « Le tre forme suprene dell’essere, egli dice, cioè la soggettività, l’oggettività, la santità, in altri termini la realtà, l’idealità, la moralità, essendo trasferite all’essere assoluto, non possono concepirsi altrimenti che come Persone sussistenti e viventi [(Tres suprEmæ formæ esse, nempe subjectivitas, objectivitas, sanctitas, seu realitas, idealitas moralitas, si transferantur ad esse absolutum, non possunt aliter concipi nisi ut personne subsistentes et viventes. (Prop. XXVI.)] » Il Padre è Dio che è, il Figlio è Dio conosciuto; il Santo-Spirito è Dio amato. « Il Verbo, come oggetto amato, e non in tanto che Verbo, cioè oggetto sussistente in sé e per sé conosciuto, è la Persona dello Spirito-Santo. [(Verbum, quatenus objectum amatum et non quatenus Verbum id est obiectum in se subsistens per se cognitum, est persona Spiritus Sancti. (ibid.)]. »

37 bis. Spieghiamo un po’ il pensiero del filosofo. Tutto l’Essere è. Questa proprietà prima dell’essere, che fa dire di lui che è: ecco ciò che Rosmini chiama la realtà o la soggettività. In secondo luogo, l’essere è intellegibile, cioè può essere conosciuto. Questa proprietà che ha l’essere di poter essere conosciuto, è ciò che la Scuola chiama “la verità dell’essere”, ciò che Rosmini chiama l’oggettività o idealità. In terzo luogo, l’essere è buono: così come è l’oggetto dell’intelligenza, così esso è l’oggetto della volontà; ed anche oggetto dell’intelligenza, esso è intellegibile, così intanto che oggetto della volontà, eso è capace di provocare l’amore. Questa terza proprietà dell’essere è ciò che la Scuola chiama la bontà, e che Rosmini chiama meno giustamente la santità o la moralità. È manifesto che queste tre proprietà convengono essenzialmente all’essere in generale, di conseguenza a tutto l’essere. Ma, in Dio, l’essere appartiene alla natura e non alle relazioni. Le tre proprietà dell’essere non possono dunque essere in Dio qualcosa di relativo, ma solamente di assoluto. Pertanto, esse devono dirsi egualmente del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo: il Padre è, il Figlio è, lo Spirito Santo è; il Padre è intellegiile, il Figlio è intellegibile, lo Spirito Santo è intellegibile; il Padre è buono e santo, il Figlio è buono e santo, lo Spirito Santo è buono e santo. Rosmini al contrario, pretende di stabilire, su queste tre proprietà dell’essere, la distinzione delle tre Persone. « Le tre forme supreme dell’essere, dice, e cioè: la soggettività, l’oggettività, la santità; in altri termini la realtà, l’idealità, la moralità, essendo trasferite all’essere assoluto, non possono concepirsi altrimenti che come Persone sussistenti e viventi (Prop. XXVI). » Vale a dire la realtà vivente, è il Padre; l’idealità sussistente, è il Figlio; la santità assoluta, è lo Spirito Santo. Che inversione del mistero!

38. Qui ancora, Rosmini è giunto a causa della sua infatuazione per l’essere in generale. Questo essere è così grande ai suoi occhi, che in precedenza lo ha identificato con l’essere divino; esso è così perfetto che vede ora nelle sue forme le sussistenze o le tre Persone divine.

39. Rosmini non ha visto che la sua teoria della Trinità lo conduce necessaramente al triteismo o al sabellianesimo? In effetti egli ben ammette una distinzione reale tra le tre forme dell’essere; in questo caso, come queste forme non esprimono un rapporto d’origine, ma qualcosa di assoluto, è nella necessità di mettere in Dio tre realtà assolute e, di conseguenza, tre sostanze. – Eppure egli confessa che queste tre forme non hanno tra loro che una differenza di ragione; in questo caso, le tre Persone sono tre concetti dell’assoluto, cioè che non c’è più in Dio che una sola Persona reale, come non c’è in Lui che una sola sostanza divina. Rosmini non è potuto sfuggire a questo dilemma. Dal momento che egli cessa di cercare la distinzione di Persone divine, nell’opposizione di relazione per metterla in una forma assoluta, occorre dunque che egli rigetti le tre Persone e che ammetta tre sostanze.

VIII

ERRORI SULL’INCARNAZIONE

40. Rosmini altera la nozione del mistero dell’Incarnazione, così come quella del dogma della Santissima Trinità. Egli pone l’unione della natura umana alla natura divina nella sottomissione della volontà umana alla volontà divina: « Nella volontà del Cristo, egli dice, la volontà umana fu talmente rapita dallo Spirito-Santo ad aderire all’essere oggettivo, cioè al Verbo, che gli abbandonò integralmente il governo dell’uomo, e che il Verbo assunse, nella sua Persona, questo governo e si unì così la natura umana. [(In humanitate Christi bumana voluntas fuit ita rapta a Spiritu Sancto ad adhærendum Esse objectivo, id est Verbo, ut illa Ipsi intègre tradiderit regimen hominis et verbum illud personaliter assumpserit, ita sibi uniens naturam humanam. (Prop. XXVII)]. Per effetto della grazia dello Spirito-Santo, la volontà umana è tutta catturata dalle attrattive del Verbo: rapta a Spiritu Sancto; Essa si attacca a Lui indissolubilmente: ad adhærendum Esse objectivo, id est Verbo; essa ne dirige la sua condotta e la condotta di tutte le facoltà che dipendono da essa: illa ipsi intègre. La natura umana si trova unita ipostaticamente al Verbo, che essa ha abbandonato alla sua direzione: Verbum illud personaliter assumpserit, ita sibi uniens naturam humanam. La volontà cessa di essere personale per l’effetto della sua unione affettiva al Verbo. « È in questa maniera, dice Rosmini, che la volontà umana, nel Cristo uomo, cessa di essere personale, come lo è negli altri uomini, e resta semplice natura [(Hinc voluntas humaria desiit esse personalis in homine, et, cum sit persona in aliis bominibus, in Christo remansit natura. (Ibid.)] » Concludiamo: l’unione della natura umana alla natura divina è puramente morale. Ne deriva la finale deduzione: Rosmini professa il Nestorianesimo.

41. Senza dubbio, l’unione della natura umana alla natura divina è morale, perché la volonà umana è pienamente sottomessa alla volontà divina. Ma essa non è semplicemente morale, essa è naturale, fisica, personale, ipostatica; i Padri hanno impiegato tutte le espressioni. Vale a dire che la natura umana diviene qualcosa del Verbo, essa è presa dalla Persona del Verbo, che la fa sua, comunicandogli la propria sussistenza. Ecco perché la natura umana non ha sussistenza propria. Ecco perché il Verbo che sussiste eternamente nella natura divina, sussiste dall’Incarnazione nella natura umana. Ecco perché la Persona stessa del Verbo « opera nella natura divina, le cose che sono di Dio ed esegue, nella natura umana, le cose che sono dell’uomo ». ecco perché Egli è uomo, così come è Dio.

IX

ERRORI SUL CARATTERE DEL CRISTIANO

42. Rosmini professa un grave errore sul carattere del Cristiano: « Secondo la dottrina cristiana, egli dice, il Verbo, carattere e faccia di Dio, è impresso nell’anima di coloro che ricevono con fede il Battesimo del Cristo [(In christiana doctrina, Verbum character et faciès Dei, imprimitur in animo eorum qui cum fide suscipiunt baptismum Christi. (Prop. XXVIII.) ». – Il carattere del Cristiano non è, secondo Rosmini, una rassomiglianza al Verbo, bensì è la sostanza stessa del Verbo impressa nell’anima; questa non è una qualità che rende l’uomo conforme a Dio, ma è il Verbo di Dio: Verbum, character et faciès Dei, imprimitur. Ma, noi lo abbiamo già visto, il Verbo è l’essere ideale in cui « l’essere infinito è per se stesso manifesto », ecc. perché, aggiunge Rosmini, « il Verbo, cioè il carattere impresso nell’anima, è, secondo la dottrina cattolica, l’essere reale o infinito, per sé manifesto, che abbiamo in seguito appreso essere la seconda Persona della Santissima Trinità [(Verbum, id est, character in anima impressum, in doctrina christiana est Esse reale (infinitum) per se manifestum, quod deinde novimus esse secundam personam Sanctissimæ Trinhatis. (Ibid.)]». – E, siccome il carattere è un proprio dell’animo, si vede costretto a sostenere che l’anima diventi il Verbo, o che il Verbo diventi l’anima. Si ricade di nuovo nel Panteismo!

43. Secondo la dottrina cattolica, l’essere soprannaturale produce in noi, con la giustificazione, la nuova creatura. Come si esprime la sacra Scrittura, è un accidente depositato nella mera sostanza, una forma che eleva la nostra anima al di sopra del suo stato naturale, una abitudine, una qualità che orna ed eleva il nostro essere e le sue potenze, le rende sì amorevolmente belle che Dio stesso trova le sue compiacenze in esso. – In questo essere soprannaturale, in questa nuova creatura, bisogna distinguere la grazia, abitudine o qualità ricevuta, secondo San Tommaso d’Aquino, nella sostanza stessa dell’anima, e che eleva questa sostanza ad una dignità simile a quella di Dio stesso; la fede, la speranza, la carità, le altre virtù soprannaturali, i doni dello Spirito-Santo, che rendono le nostre facoltà capaci di operazioni divine. – Con questa elevazione della nostra natura e delle nostre potenze, noi diventiamo « partecipi della natura divina », come dice S. Pietro. Questa partecipazione non è soltanto morale, essa è fisica; vale a dire che essa non ci dà semplicemente una disposizione ad imitare Dio, nel voler l’onestà, la giustizia come Dio, ma ci dà la potenza di produrre lo stesso oggetto di quello di Dio, un atto di conoscenza che immediatamente Dio per oggetto, come atto per il quale Dio si vede, un atto di amore che abbia immediatamente per oggetto il Bene sovrano, come l’atto con cui si ama Dio. – Ma siamo noi che vediamo Dio, non è Dio che si mette in noi per produrre l’atto della visione. Questo nome che amiamo, Dio, non è Dio che ama se stesso in noi. La nostra intelligenza, non è l’intelligenza divina, è il soggetto della conoscenza soprannaturale; la nostra volontà, non la volontà divina, diviene il soggetto ed il principio di operazioni divine, di operazioni che non appartengono naturalmente che a Dio, che ci sono misericordiosamente comunicate. Ecco perché la grazia e tutti i doni soprannaturali non sono la sostanza stessa di Dio messa in noi, diffusa in noi, agente in noi; sono degli accidenti, delle forme seconde, qualità della nostra natura e delle nostre facoltà, qualità che non possono essere naturali in nessun essere, creato e creabile, e che non possono trovarsi nella creatura che per una comunicazione tutta gratuita, essenzialmente soprannaturale, fatta alla natura. – Ora, il carattere del Cristiano è una prima qualità prodotta dal Battesimo e che è come il fondo di tutto l’essere soprannaturale formato in questo Sacramento; è una potenza data all’anima e che la rende capace di ricevere i doni divini; è una partecipazione al sacerdozio di Gesù-Cristo ed a Gesù-Cristo stesso, dando all’anima il potere di fare le azioni di questo sacerdozio nel servizio generale della Maestà divina, ma una partecipazione primordiale ed imperfetta che dà la nuda potenza e che per questo può sussistere nel dannato. – Di conseguenza, questa partecipazione, questa prima qualità, questa nuda potenza, o qualunque altro nome gli si voglia dare, non sarebbe mai il Verbo stesso, ma qualcosa di creato. – È il caso di sottolineare ancora una volta che Rosmini poggia tutta la sua tesi del carattere battesimale nella sua infatuazione per l’essere in generale? Più in alto, l’essere in generale era il Verbo stesso. Ora, questo essere diviene il “carattere del Cristiano”. Qual nuova confusione tra l’ordine naturale e l’ordine soprannaturale.

X

ERRORI SULL’EUCARISTIA

44. Gli errori filosofici conducono Rosmini ai sistemi più strano sulla Santa Eucaristia. Secondo la dottrina cattolica, la transustanziazione ha luogo « per la conversione di tutta la sostanza del pane nel Corpo di Gesù-Cristo, e di tutta la sostanza del vino, nel suo sangue. » Secondo Rosmini, la transustanziazione si fa con l’estensione del sentimento fondamentale dell’anima di Gesù-Cristo alla sostanza del pane e del vino: « Noi non crediamo, opponendoci alla dottrina cattolica, che è la sola verità, egli dice, la seguente congettura: nel Sacramento dell’Eucaristia, la sostanza del pane e del vino ritorna la vera carne ed il vero sangue del Cristo, quando il Cristo fa questa sostanza termine del suo principio sensitivo e la vivifica della sua vita propria. [(A catholica doctrina, quæ sola est veritas, minime alienam putamus hanc conjecturam: In eucharistico Sacramento substantia panis et vini fit vera caro et verus sanguis Christi, quando Christus eam facit terminum sui principii sentientis, ipsamque sua vita vivificat… (Prop. XXIX)] » La sostanza del pane e del vino resta, ma essa diventa il termine di un principio sensitivo estraneo, che sentendoli, lo incorpora e l’associa alla sua vita. Noi lo abbiamo già sottolineato, il senso fondamentale lascia sussistere la natura nel suo proprio essere: perché sentire, come ogni atto di conoscenza, non cambia la sostanza, ma la percepisce così com’è. Rosmini distrugge quindi il concetto della transustanziazione.

46. Egli usa una comparazione che conferma l’errore precedente, affermandone un altro. « Questo », cioè il cambiamento del pane e del vino, nel corpo e nel sangue di Cristo, « … accade quasi alla stessa maniera, egli dice, che nell’assimilazione per la quale il pane ed il vino, divengono termini del nostro principio sensitivo, per cui sono veramente transustanziati nella nostra carne e nel nostro sangue [(Eo ferme modo quo panis et vinum vere trausubstantiantur in nostram carnem et sanguinem, quia fiunt terminus nostri principii sentientis (Ibid.)]. » Secondo la credenza di Rosmini, la nutrizione ha luogo per estensione del sentimento fondamentale del pane mangiato: questo pane diviene la mia carne, perché il mio senso fondamentale, che non lo intendeva in precedenza, comincia ad intenderlo; l’unione del pane alla mia anima, come quella del corpo intero, è l’effetto del senso fondamentale; essa si produce in me quando il mio senso lo raggiunge come mio. Ora, per Rosmini, la nutrizione ha luogo per estensione del sentimento fondamentale del pane mangiato: questo pane diviene la mia carne, perché il mio senso fondamentale, che non lo comprendeva in precedenza, comincia ad intenderlo; l’unione del pane alla mia anima, come quella del corpo intero, è l’effetto del senso fondamentale; essa si produce in me quando il mio senso lo raggiunge come mio. Ora, per Rosmini, tutto avviene nella transustanziazione come nella nutrizione. Questa ha luogo senza cambiamento intrinseco della sostanza, per un atto estrinseco del senso fondamentale; questo è il risultato della stessa estensione estrinseca del senso fondamentale, senza che sia necessario un cambiamento intrinseco.

47. Quanto esposto contiene due errori: un errore filosofico ed un errore teologico. Dapprima Rosmini si inganna sulla natura della nutrizione: essa non ha luogo per semplice cambiamento estrinseco, ma per una mutazione intrinseca. Questo pane diviene il mio corpo, non perché io lo sento, ma perché ne è traformato; esso non era la mia sotanza (ibid.), ma diviene la mia sostanza non durante il suo atto primo, sua forma sostanziale, per prendere l’atto primo del mio corpo, la forma sostanziale, che gli dà l’essere; esso diviene il mio corpo fornendo al mio corpo una materia prima che, informata dall’anima, fa oramai parte della mia sostanza. Ma soprattutto Rosmini si sbaglia confondendo la transustanziazione con la nutrizione. Se anche avesse della nutrizione un concetto veritiero, quand’anche vi vedrebbe un cambiamento sostanziale, egli dovrebbe accuratamente, con tutta la Chiesa Cattolica, distinguerla dalla transustanziazione. Qando Gesù-Cristo, nella sua vita mortale, si nutriva di pane, il pane era cambiato nel suo Corpo divino, la forma del pane spariva per far posto ad una forma nuova, l’anima stessa del Salvatore, ma la materia del pane restava. Non si può dunque dire se non allora che la sostanza del pane fosse cambiata in Corpo di Gesù-Cristo. Ora, nella transustanziazione, così come la definisce la Chiesa, tutta la sostanza del pane, non solamente la forma, ma la materia stessa, è cambiata nel Corpo di Gesù-Cristo. la transustanziazione non ha luogo semplicemente, come la nutrizione, con la sostituzione di una forma nuova ad una forma antica nella stessa materia; ma i due elementi della sostanza, la materia come la forma, spariscono essendo cambiati in Corpo. Ecco perché la transustanziazione è un cambiamento essenzialmente distinto da ogni altro, « una conversione affatto singolare e meravigliosa », come dice il Concilio di Trento, che non si può comparare alla nutrizione. Senza pericolo di errore.

48. L’errore di Rosmini sulla transustanziazione lo conduce ad una conseguenza che è pur essa stessa un grave errore. Se la transustanziazione si fa per l’estensione del senso fondamentale alla sostanza del pane, bisogna concludere che una nuova sostanza è aggiunta al Corpo di Gesù-Cristo. È ciò che in effetti insegna Rosmini. « Avvenuta la transustanziazione, egli dice, si può concepire che con essa si sia aggiunta al corpo glorioso di Cristo una certa parte, incorporata in Lui, indivisa e parimenti gloriosa [(Peracta transubstantiatione, intelligi potest corpori Christi glorioso partem aliquam adjungi in ipso incorporatam, indivisam, pariterque gtoriosam. (Prop. XXIX) ». Ma non è questo un contraddire l’insegnamento della Chiesa sulla condizione dei corpi gloriosi, il mettere nel corpo resuscitato di Gesù-Cristo un’aggiunta qualunque?. La gloria non comporta l’immutabilità? Non esclude ogni addizione così come ogni sottrazione fatta alla sostanza?

49. Ma non siamo giunti alla fine degli errori di Rosmini sull’adorabile Sacramento. Secondo la dottrina cattolica, la sostanza del pane è cambiata per la forza stessa delle parola, nella sostanza di Gesù-Cristo; la sostanza del vino è cambiata, per la virtù stessa delle parole, nella sostanza del sangue. Il sangue, l’anima, la divinità, sono nell’ostia, perché esse accompagnano il corpo, a modo di concomitanza, così come parlano i teologi, non in virtù delle parole; ma tutto il Corpo è in virtù delle parole nell’ostia. Il corpo, l’anima, la divinità sono nel calice, perché esse accompagnano il Sangue glorioso, o in modo di concomitanza, non in virtù delle parole. Di conseguenza, tutto il Corpo di Gesù-Cristo è, in virtù delle parole, nel calice. Perché il Corpo ed il Sangue di Gesù-Cristo non sono rapportate al luogo per la loro quantità: essi sono nel luogo « per modo di sostanza », come parla la Scuola, tutti interi in ogni specie consacrata, e tutti interi in ogni parte, come la sostanza, presa fuori dalla sua quantità e nel luogo, come l’anima è nel corpo. Ecco perché le parole della consacrazione non possono transustanziare il pane in una porzione solo del corpo; esse lo transustanziano indivisibilmente in tutto il Corpo. Secondo Rosmini, al contrario, la sostanza del pane non è cambiata in virtù delle parole della consacrazione, in tutto il corpo, ma solo in una parte del corpo; la sostanza del vino non è cambiata, in virtù delle parole, in tutto il Sangue, ma solo in una parte del sangue. Il resto del Corpo è nell’ostia, come il Sangue, solo per modo di concomitanza; il resto del sangue è nel calice, come il corpo stesso, solo per modo di concomitanza. « Nel Sacramento dell’Eucaristia, dice Rosmini, per la forza stessa delle parole sacramentali, vi verborum, il Corpo ed il Sangue di Cristo non esistono che secondo la misura che corrisponde alla quantità del pane e del vino che sono transustanziati, il resto del corpo non è là se non per concomitanza [(In sacramento Eucharistiæ, vi verborum corpus et sanguis Christi est tantum ea mensura quæ respondet quantitati (a quel tanto) substantiæ panis et vini quæ transubstantiatur: reliquum corporis Christi ibi est per concomitantiam. (Prop. XXXI)].»

50. A questi errori sulla transustanziazione, Rosmini aggiunge degli errori sulla necessità del Sacramento; egli pretende, in effetti, che la ricezione del Sacramento dell’Eucaristia sia assolutamente necessarioalla salvezza, a tal punto che alcun eletto entra in cielo senza aver comunicato sacramentalmente al Corpo ed al Sangue di Gesù-Cristo. il Salvatore ha detto: « Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e se non bevete il suo sangue, non avrete la vita in voi. » Bisogna distinguere nel Sacramento dell’Eucaristia ciò che la Scuola chiama la cosa del Sacramento, res sacramenti, il Sacramento stesso, sacramentum, ed ciò che è nello stesso tempo Sacramento e cosa, res et sacramentum; il sacramentum è la specie consacrata, significante il Corpo ed il Sangue di Gesù-Cristo; res et sacramentum, la cosa ed il sacramento, è il Corpo ed il Sangue di Gesù-Cristo, significati dalle specie e producenti la grazia; la cosa, res, è la grazia, in altri termini, l’unione a Gesù-Cristo, l’incorporazione stessa al Salvatore, prodotta nell’anima dalla degna Comunione. Si può designare, sotto il nome di Sacramento, ciò che veniamo dal chiamare la “cosa” del Sacramento. In questo caso bisogna dire che la ricezione del Sacramento è assolutamente necessaria alla salvezza, necessaria come necessità di mezzo, così come parlano i teologi; perché nessuno può ottenere la gloria nella vita futura se non riceve la grazia nella vita presente, se non è unito ed incorporato a Gesù-Cristo. È in tal senso che molti Padri hanno inteso in tutto il loro rigore le parole di Nostro-Signore: « Se non mangiare la mia carne e non berrete il mio sangue, non avrete la vita in voi. » Ma se si intende per Sacramento ciò che intende ordinariamente con questa parola, le specie sacramentali con il Corpo ed il Sangue di Gesù-Cristo, che esse contengono, bisogna dire, secondo l’insegnamento della Chiesa, che la ricezione del Sacramento è necessaria solamente come necessità di precetto, talmente che nessun adulto può salvarsi in generale se non comunica, perché Nostro Signore ne ha fatto un comandamento. In questo senso le parole di Nostro Sigore: « se non mangiate la mia carne … » si intendono di coloro che potendo, e davanti al comunicare, hanno dimenticato di compiere questo precetto. Rosmini pretende, egli, che la Comunione sacramentale sia assolutamente necessaria, non solo di necessità di precetto, ma di necessità di mezzo; Essa è necessaria ai suoi occhi come è necessaria agli occhi della Chiesa l’effetto proprio del Sacramento: egli intende della Comunione sacramentale ciò che i Padri hanno inteso dell’incorporazione a Gesù-Cristo.

51. Rosmini nega pertanto che un bambino che muore subito dopo il suo Battesimo e non essendosi comunicato, sia salvo? No, ma egli pretende che questo bambino riceva la Comunione uscendo da questo mondo: senza questa comunione ricevuta anche dopo la morte, egli scenderebbe all’inferno. « Poiché, egli dice, colui che non mangia la carne del Figlio dell’uomo e non beve il suo sangue, non ha la vita eterna in Lui; poiché nondimeno coloro che muoiono con il Battesimo di acqua, di sangue o di desiderio ottengono certamente la vita eterna, bisogna concludere che coloro che durante questa vita non hanno mangiato la carne, e bevuto il sangue di Gesù-Cristo, ricevano questo nutrimento celeste nella vita futura, nell’istante della morte stessa. [(Quoniam qui non manducat carnem Filii hominis et bibit ejus sanguinem non habet vitam in se; et nihilominus qui moriuntur cum baptismate aquæ, sanguinis aut desiderii certo consequuntur vitam æternam, dicendum est his qui hac vita non comederunt corpus et sanguinem Christi subministrari hunc Cælestem cibum in futura vita, ipso mortis instanti. (Prop. XXXII)

52. Ma i giusti morti prima dell’istituzione della santa Eucaristia, hano potuto ricevere un Sacramento che non era stato ancora istituito? I giusti morti prima dell’Incarnazione, hanno potuto ricevere il Corpo ed il Sangue del Salvatore che non esisteva ancora? Rosmini non desiste dal suo sistema: « il Cristo scendendo nel Limbo, egli dice, ha potuto darsi in Comunione sotto le specie del pane e del vino ai santi dell’Antico Testamento, alfine di renderli capaci di gioire della visione di Dio. [(Sanctis V. T. potuit Christus descendens ad inferos seipsum communicare sub specie panis et vini, ut aptos eos redderet ad visionem Dei. (Ibid.)] ».

53. Noi ci asterremo dal considerare questi sogni. È sufficiente dire che prima di Rosmini essi sono stati sconosciuti nella Chiesa. Qual Padre, qual teologo, ha parlato mai di questa comunione amministrata da Gesù-Cristo stesso nel Limbo? Come delle anime svincolate dal corpo potevano ricevere i doni celesti sotto le specie visibili e sensibili? Spiritualia spiritualibus nude traduntur. Non si metterà in dubbio giammai la potenza dell’ammirabile Sacramento dell’altare, … ma non trasportiamo fuori dalla vita presente le istituzioni del tempo. I santi dell’antica Legge hnno vissuto tra le ombre delle realtà spirituali: Umbram enim habens lex futurorum bonorum (Hebr., X, t. 1); i santi della Legge nuova, vivendo tra queste realtà velate sotto dei simboli: ipsam imaginem rerum (Ibid.); i santi della vita futura vivono tra queste stesse realtà manifestate a nudo: facie ad faciem. Al momento della morte, non c’è più tempo per comunicarsi, con la ricezione di simboli, alla carne ed al sangue del Salvatore; è il momento di comunicare con la chiara veduta a Colui che è eternamente pane e frumento degli eletti (Una persona pia ma con uno spirito ristretto, ha preteso che l’ultima ostia consacrata sarà trasportata nel cuore della Santa Vergine per esservi eternamente adorata, come in un ostensorio celeste, dagli Angeli e dagli uomini. Noi abbiamo incontrato nelle comunità religiose, delle immagini in cui questa adorazione supposta era rappresentata da una lunga leggenda che spiegava le incisioni. Questo errore ha molta rassomiglianza con quello di Rosmini).

A. Rosmini:

prossimo gnostico “canonizzato” (per finta) dalla sinagoga di satana, la setta del “novus ordo”!

(2. Continua …)

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (29): ERRORI in ROSMINI

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (29):

Errori in ROSMINI (1)

[Dom P. Benoît: Revue du Monde Catholique, 1° Apr. 1889]

 

1. Rosmini è un sacerdote la cui grande pietà e le sante imprese sono state una delle glorie dell’Italia. Egli ha pure avuto l’onore di lasciare dietro di sé una congregazione religiosa, che si è resa raccomandabile per la devozione alla Chiesa e le opere di carità. Tuttavia, questo dimostra una volta di più come lo spirito dell’uomo abbia bisogno costantemente di essere preservato dall’errore per mezzo del Magistero della Chiesa. Infatti la Santa Sede, che già altra volta, al quarto Concilio Laterano IV non ha esitato a condannare il beato Joachim de Flore, anch’egli pio sacerdote e capo di una abbazia illustre, giunge a segnalare ai pastori del mondo intero gli errori di Rosmini, affinché mettano in guardia contro di essi i maestri della gioventù, soprattutto i professori dei seminari. Noi dobbiamo porre molta attenzione a questa condanna, perché un certo numero di questi errori si ritrovano in tutte le contrade della terra, particolarmente in Francia, se non sempre nella forma che dava loro Rosmini, ma almeno per quanto riguarda la sostanza [si ritrovano infatti tutti gli errori-orrori della solita, vecchia e stantia solfa gnostica … panteismo, emanatismo, deismo, essere infinito, e così via …:  v. in È. Couvert: “La gnosi, tumore in seno alla Chiesa” in “dalla gnosi all’Ecumenismo”, riportato negli articoli del blog exsurgatdeus.org: La gnosi, teologia di satana …-ndr-]

I

L’ERRORE FONDAMENTALE:

CONFUSIONE TRA L’ESSERE INDEFINITO E L’ESSERE INFINITO

2. L’errore fondamentale di Rosmini ci sembra essere la confusione tra l’essere in generale e l’Essere divino, in altri termini tra l’indefinito e l’infinito: «Nell’essere che fa astrazione dalle creature e da Dio, vale a dire nell’essere indeterminato, c’è la stessa essenza che in Dio, essere non indeterminato, ma assoluto. (1)»

(1) [« In esse quod præscindit a creaturis et a Deo, quod est esse indétermination, atque in Deo, esse non indeterminato sed absoluto, eadem est essentia ». -Prop. VI].

 3. L’essere in generale è l’essere considerato dall’astrazione dello spirito come se non avesse alcuna determinazione; è l’essere possibile così come l’essere reale, l’essere partecipato e ricevuto come l’essere esistente essenzialmente, l’essere che non esiste che nello spirito così come l’essere che esiste nella natura. L’Essere divino, che lo si chiama anche l’Essere semplicemente, o l’Essere infinito, è l’Essere unico, reale e sussistente, che richiude in sé tutta la pienezza dell’essere. L’essere, in generale, è qualcosa di sì vago, che lo si ritrova in tutto ciò che è inteso dallo spirito; l’Essere infinito è così preciso che non esiste che in una sola realtà, distinta non solo dall’essere generale, ma ogni altro essere reale. L’essere in generale di dice di tutto, si ritrova in tutto, perché, non avendo in sé nulla di determinato, conviene ad ogni oggetto; l’Essere divino è separato da tutto il resto da un’eccellenza che non soffre, tra esso e le altre realtà, che una lontana analogia, e di conseguenza, in luogo di dirsi di tutto ciò che è, esso non può pure dirsi di soggetti plurimi, e non si dice che di uno solo [« infinitum absolutum est ens comprehendens omnes perfectiones eujusque limitis expertes; proinde non concipitur ut in potentia ad hajusmodi perfectiones, sed ut eas actualiter nabens; et consequenter non est quid indeterminatum et determinabile, sed ens habens proprïam naturam nullis limitibus specificis aut genericis circumscriptam aut circumscribendam. At ens in génère oppositas omnino proprietates exhibet. Non enim est quid infinitum comprehensive, seu actu, sed solummodo extensive seu in potentia; est quid maxime indeterminatum ac determinabile, et reapse determinatur in generibus, speciebus et individuis. Quocirca ens in génère inspecium dici infinitum privative, vel in potentia; quod quantum différat a vero infinito nemo, nisi mente prorsus cæcus, non videt. » (Card. Zigliara, Summaphil. Ontol., lib. II, cap. m, art. 4, n. 5.)]. In una parola, l’essere in generale è un concetto astratto e vago che si dice di tutto: l’Essere divino è una realtà concreta e determinata che si dice di uno solo: « Questo Dio, dice il Concilio del Vaticano, essendo una sostanza spirituale, una, singola, interamente semplice ed incommutabile, deve essere proclamata distinta dal mondo in realtà e per essenza, ineffabilmente elevata al di sopra di tutto ciò che non è Esso, che esiste o può concepirsi. » [Qui cum sit una et singularis simplex omnino et incommutabilis substantia spiritualis, prædicandus est re et essentia a mundo distinctus in se et ex se beatissimus, et super omnia, quæ præter ipsum sunt et concipi possunt, ineffabiliter excelsus. » (Conc. Vat., de Fide catholica, I.)]

4. Ora, Rosmini confonde l’essere in generale, frutto dell’astrazione dello spirito, con l’ “Esse” divino, realtà infinita e sussistente: « L’essere indeterminato che, senza alcun dubbio è conosciuta da ogni intelligenza, e questo divino che è manifestato all’uomo nella natura [« Esse indeterminatum, quod procul dubio notum est, omnibus intelligentes, est divinum illud quod homini in natura manifestatur. » (Prop. IV) » – Dio, senza dubbio, come dice S. Paolo [Quia quod notum est Dei, manifestum est in illis; Deus enim illis manifesiavit. Invisibilia enim ipsius, a creatura mundi, per ea quæ facta sunt, iutellecta, conspiciuntur; sempiterna quoque ejus virtus, et divinitas, » (Rom., I, 19-20.)] e come ripete il Concilio Vaticano [« Apostolus qui a gentibus Deum per ea, quæ facta sunt, cognitum esse testatur. » De fide cath. (cap. IV.) può essere conosciuto dalla ragione naturale, perchè la ragione dell’uomo può, con le sue forze naturali, conoscere l’esistenza di Dio, la sua potenza, la sua saggezza, la sua bontà. Così lo hanno conosciuto i filosofi pagani, dice San Paolo, ed è per questo, aggiunge, che essi sono colpevoli per non avergli reso il culto che gli era dovuto [Ita ut sint inexcusabiles: quia cum cognovissent Deum, non sicut Deum glorificaverunt, aut gratias egerunt; sed evanueruut in cogitationibus suis et obteuratum est insipiens cor eorum. (Rom., I, 20-21.)]. – Per Rosmini, al contrario, i filosofi antichi hanno conosciuto Dio perché hanno conosciuto l’essere in generale; la ragione naturale può conoscere Dio perché essa può conoscere l’essere indeterminato. L’essere indeterminato, dice commentando, o piuttosto falsificando il testo di San Paolo, è questo essere divino che tutte le intelligenze possono conoscere, che è manifestato all’uomo nella natura (Prop. IV). – Secondo Rosmini, l’essere indeterminato o l’essere in generale è l’Essere stesso di Dio, e spirito, intentendo l’essere in generale, possiede in lui l’Essere divino: « In seno all’universo, cioè nelle ntelligenze che si incontrano, c’è qualcosa al quale conviene il nome di divino, non in senso figurato, ma nel senso proprio[« In natura igitur universi, id est in intelligentes quæ in ipso sunt, aliquid est cui convenit denominatio divini non sensu fîgurato, sed proprio. » (Prop. III)]

5. Per Rosmini, in effetti, lo spirito, dal momento che egli lo intende come essere generale, è unito a Dio perché l’essere al quale è unito dall’atto di comprensione è l’Essere stesso di Dio; e l’essere in generale, l’essere di ogni cosa, dice Rosmini, « è un’attualità che non si distingue dall’attualità divina [« Est actualitas non distincta a reliquo actualitatis dîvinæ. » (Prop. III)]; è un atto che è identico all’Atto primario; all’« atto puro ». E non è dunque, notiamolo bene, per una semplice metafora che Rosmini dà all’essere in generale il nome di Essere divino, bensì nel linguaggio più stretto. Per lui, ciò che prende il nome di essere, non può mai essere preso come un effetto di Dio, una immagine di Dio: ma è Dio stesso!!! « Affermando il divino nella natura, egli dice, noi non impieghiamo questo vocabolo, “il divino”, per sigificare un effetto non divino della causa divina, e la nostra intenzione non è quella di parlare di un certo divino che sarebbe tale per partecipazione [« Cum divinum dicimus in natura, vocabulum istud divinum non usurpamus ad significandum effectuai non dïvinum causæ divinæ; neque mens nobis est loqui de divino quodam quod tale sit per participationem. » (Prop. II)], che sarebbe divino solo per partecipazione o impropriamente; il divino che è nella natura, è l’essere stesso di Dio!

6. Rosmini si compiace specialmente di identificare l’essere in generale con il Verbo. Secondo lui, il Verbo di Dio è questo essere primitivo che è alla base di ogni conoscenza intellettuale, questo essere che intende l’intelligenza nel momento in cui intende qualcosa, in una parola, l’essere in generale. L’essere in generale è così completamente identico al Verbo che Dio, il Padre stesso non può percepire che una distinzione di ragione tra l’uno e l’altro. « L’essere indeterminato, oggetto di intuizione, dice Rosmini, è qualcosa del Vero che la comprensione del Padre distingue dal Verbo non realmente, ma logicamente [« Esse indeterminatmn intuitionis, esse initiale, est aliquid Verbi, quod mens Patris distinguit non realiter sed secundum rationem a Verbo. » (Prop, VII).]

7. Conclusioni

Rosmini pone una semplice differenza di ragione tra l’essere in generale e l’Essere divino. Questi è l’essere preso nel suo soggetto infinito; l’altro è l’essere considerato come astratto da ogni soggetto: esse quod præscindit a Deo et a creaturis (Prop. VI.). Rosmini chiama il primo l’essere indeterminato, “esse indeterminatum”, ed in secondo l’essere assoluto,esse absolutum”. Ma l’uno non differisce dall’altro che per pura astrazione di spirito; in realtà l’uno è identico all’altro: l’essere in generale è realmente l’essere stesso di Dio o del Verbo. Tale è, a nostro avviso, l’errore fondamentale del sistema rosminiano. A questo proposito, il sistema di Rosmini, non differisce per nulla dal sistema di Hegel.

II

PRIMA CONSEGUENZA: PANTEISMO

8. Ma Hegel è un incredulo di professione, e non teme di gettarsi apertamente nel panteismo. Rosmini è un pio sacerdote, e retrocede davanti all’abisso che gli si apre davanti. Ma inutile cercar di scappare; di buono o cattivo grado, egli cade nel panteismo. Egli ha posto il principio, la conclusione si impone. Le formule pantesiste compaiono in ogni istante sotto la sua penna: egli cerca bene di dissimularne il carattere, tenta anche di corregerle, ma non riesce che a mostrare imbarazzo, e non riesce a sottrarsi all’impero di questo mostruoso errore. E in effetti Rosmini mette l’essere in generale, all’origine dell’ordine ontologico così come dell’ordine logico; poiché ogni essenza, egli dice, è dell’essere, così come ogni idea è una visione dell’essere. Ecco perché gli da il nome di “essere iniziale”. « L’essere, oggetto di intuizione, dice Rosmini, è l’atto iniziale di tutti gli esseri [« Esse, objectum intuitionis, est actus initialis omnium entium. » (Prop. IX.)]. Ecco pèrchè gli dà il nome di “essere iniziale”, vale a dire che l’essere indeterminato è il fondo di ogni realtà, così come di ogni pensiero, è l’essere nel quale e per il quale comincia tutto ciò che è, in qualunque modo esso sia: « L’essere iniziale è l’inizio sia delle cose ideali che delle cose reali [« . . . Esse initiale est initium, tam cognoscibilium quam subsistentium. » (Prop. IX.)]. Questo essere, di cui lo spirito ha naturalmente l’intuizione, è dunque il fondo di tutti gli esseri finiti, che non meritano il nome di esseri se non perché possiedono questo essere primitivo ed universale: «Gli esseri finiti, dei quali si compone il mondo, sono il risultato di due elementi, cioè del termine reale finito e dell’essere iniziale che dà a questo stesso termine la forma dell’essere  [« Entia finita quibus componitur mundus résultant ex duobus elementis, id est ex termino reali finito et ex esse initiali quod eidem termino tribuit formam entis. » (Prop. V.)]. Ma questo essere è anche il fondo della natura divina; perché Dio, come la creatura, non è un essere che perché Egli è l’essere: l’essere iniziale, dice Rosmini, è parimenti l’inizio di Dio, come noi lo concepiamo, e delle creature [« Est pariter initium Dei, prout a nobis concipitur, et creaturarum. » (Prop. IX)]

9. Questo essere si estente dunque a tutto, si trova in fondo a tutto, a Dio, come al mondo, all’essere infinito come all’essere finito. In questo senso, è virtuale “virtuale”, perché ha una estensione infinita, perché non è ristretto ad una realtà, ma si trova in tutto ciò che esiste come il fondo comune di ogni sostanza: esse virtuale et sine limitibus ( Prop. X). ma benché estesa a tutto, essa resta semplice. Perché l’essere in generale esclude ogni composizione: non si possono trovare più elementi, è un elemento semplice: esso rientra nella composizione di ogni essere reale, ma egli stesso è senza componenti: « L’essere virtuale è senza limiti, dice Rosmini, è la prima e più semplice di tutte le entità; così, ogni altra entità è composta, e negli elementi che la compongono, entra sempre e necessariamente l’essere virtuale. Esso è la parte essenziale di tutte le entità, benché divise dal pensiero (3). [« Esse virtuale et sine limitibus est prima ac simplicissima omnium entitatum, àdeo ut quælibet alia entitas sit composita, et inter ipsius componentia semper et necessario sit esse virtuale.Est pars essentialis omnium omnino entitatum, utut cogitatione dividantur. » (Prop. X)]:

10. Ma se l’essere in generale è l’essere divino in se stesso, se l’essere in generale o l’essere divino, entra entra nella composizione di ogni essere reale, tutto ciò che è, si trova, come fondo stesso del suo essere, come elemento essenziale della sua sostanza, essere Dio egli stesso. È la tesi panteista. – il Concilio Vaticano pronunzia questo anatema: « Se qualcuno dice che non c’è che una sola ed unica sostanza in Dio e in tutte le cose, che sia scomunicato » [« Si quis dixerit, unam eamdemque esse Dei et rerum omnium substantiam vel essentiam, anathema sit. » (Const. DE FIDE CATH., cap. I, can. 2.). – Rosmini dice: « Nell’essere indeterminato, c’è la stessa sostanza che in Dio » [In esse quod… est esse indeterminatum, atque in Deo… eadem est essentia. » (Prop. VI)] – Egli aggiunge: « L’essere indeterminato è il fondo iniziale di Dio e delle creature » [Est pariter initium Dei… et creaturarum. » (Prop. IX.)]. Come potrebbe allora sfuggire alla conclusione: « In Dio e nelle creature, c’è lo stesso fondo iniziale, c’è la stessa essenza? » Eccolo dunque con i panteisti: la sua dottrina, come la loro, merita certamente gli anatemi della Chiesa.

III

SECONDA CONSEGUENZA: L’ONTOLOGISMO

11. Ma non siamo che all’inizio degli errori che scaturiscono dal principio fondamentale di Rosmini. Se l’essere in generale si confonde con l’essere divino, siccome l’intelligenza ha naturalmente una percezione immediata dell’essere generale, bisogna concludere che essa percepisce immediatamente l’essere divino. È ciò che professa Rosmini: « Nell’ordine delle cose create, egli dice, qualcosa di divino in sé, che sostiene l’effetto della natra ivina, è immediatamente manifestata all’intendimento umano.[« In ordine rerum creatarum immédiate manifestatur humano intellectui aliquid divini in seipso, hujusmodi nempe quod ad divinam naturam pertineat » (Prop. I.)]. »

12. Secondo la teologia cattolica, la visione immediata di Dio è essenzialmente soprannaturale; secondo Rosmini c’è una conoscenza immediata di Dio, anche nell’ordine della conoscenza naturale: in ordine rerum creatarum (Prop. I): secondo i Dottori cattolici, Dio non può essere naturalmente conosciuto se non in modo indiretto, nello specchio delle creature, attraverso i segni e gli enigmi della creazione; secondo Rosmini, invece, l’essere divino può essere compreso in se stesso: aliquid divini (Prop. I); non effectum non divinum causæ divinæ (Prop. II). – Tutta la Scuola insegna che l’uomo, con la ragione naturale, conosce immediatamente la creatura e si eleva da ella al Creatore come dall’effetto alla causa necessaria e sovraeminente, mettendo in essa tutte le perfezioni osservate negli esseri creati, per viam indentitatis, scartando da essa tutte le imperfezioni che presentano, per viam remotionis, e portando fino all’infinito ogni perfezione notata in esse per viam excellentiæ ( Theol. P. I, q. XII, a. 12.). Rosmini, al contrario, pretende che noi attingiamo immediatamente non solo « l’effetto non divino della causa divina », ma « la causa divina dall’effetto non divino ». Tutti i Padri e tutti i Dottori della Chiesa dichiarano che l’uomo non può naturalmente conoscere Dio se non elevandosi dall’essere partecipato, e conosce immediatamente l’essere divino inteso nella sua immagine; Rosmini sosiene che l’uomo può, anche naturalmente conoscere non solo l’essere partecipato, ma pure l’essere principio (Prop. II), non solo gli effetti contingenti, ma le cause necessarie ed eterne, non soltanto la creatura, ma pure il Creatore, origine e fine di tutto ciò che esiste. (Prop. I).

13. Questo errore è ciò che si è convenuto chiamare, nei tempi moderni, l’ontologismo. Esso è per Rosmini, così come detto più in alto, una conseguenza necessaria della sua confusione tra l’essere indeterminato e l’essere divino, o piuttosto esso è identico a questo primo errore. Se, in effetti, l’essere in generale è l’essere stesso di Dio, la nostra intelligenza, che naturalmente ha la chiara percezione dell’essere in generale, avrà naturalmente la visione immediata di Dio: il nostro spirito, intentendo l’essere in generale, non comprenderà solamente un effetto divino, una lontana vestigia di Dio, ma la causa suprema stessa, comprenderà questo qualcosa dell’essere necessario ed eterno se stesso, la causa che creata, determina e finisce tutti gli esseri contingenti (Prop. III).

IV

IDEALISMO

14. Rosmini, che ha identificato più in alto l’essere del finito, con l’essere stesso di Dio, identifica di contro, l’essenza del finito con il niente. Secondo la dottrina della ragione e della fede, l’essenza del finito consiste in qualche cosa di positivo e di reale. Secondo Rosmini, « la “quiddità” (Ciò che una cosa è) dell’essere finito non è costituito da ciò che essa ha di positivo, ma dai suoi limiti » [Quidditas (id quod est) entis liniti non constituitur eo quod habet positivi sed suis limitibus. (Prop,XI)]. La ragione, come la fede insegnano come nn solo l’essenza di Dio, ma anche l’essenza della creatura è una realtà positiva. Per Rosmini, « la quiddità » sola dell’essere infinito è costituita dall’entità ed è positiva, ma la quiddità dell’essere finito, essendo costituita dai limiti dell’entità, è negativa » [Quidditas entis infiniti constituitur entitate et est positiva; quidditas vero entis finiti constituitur limitibus entitatis et est negativa. (Prop. XI)]. Ed ancora: « La realtà finita non è, ma Dio la fa essere, aggiungendo un limite alla realtà infinita » [Finita realitas non est, sed Deus facit eam esse addendo infinitæ realitati limitationem. (Prop. XII)]. Ancora: La differenza che esiste tra l’essere assoluto e l’essere relativo non è quella che esiste tra una sostanza e sostanza; essa è altro e molto più grande, perché il primo è l’essere assolutamente, il secondo è il non essere assolutamente. [Discrimen înter esse absolutum et esse relativum non illud est quod intercedit substantiam inter et substantiam sed aliad multo maius; unum enim est absolute ens, alterum est relative ens. (Prop. XIII)]. Ma se l’essenza della creatura consiste in una negazione, siccome la negazione è un essere di ragione, bisognerà concludere che l’essenza della creatura non ha realtà che nello spirito di colui che la concepisce. Eccoci dunque in pieno idealismo.

15. Ci si potrebbe stupire nel vedere Rosmini passare dal panteismo all’idealismo. Egli vi passa così disinvoltamente che dopo aver detto che « La realtà finita non è: finita realitas non est (Prop. IV) », dice subito dopo che « l’essere iniziale diviene l’essenza di ogni essere reale, esse initiale fit essentia omnis entis realis (ibid.) », in modo tale da unire in una stessa proposizione queste due asserzioni contrarie, che la realtà finita non è, e che la realtà finita è l’essere stesso di Dio. In effetti, l’essere della creatura è ai suoi occhi l’essere stesso di Dio, talmente che non si può trovare nella creatura un essere proprio, ma soltanto l’essere di Dio. Di conseguenza, se guardate la creatura in ciò che ha di proprio, dovete dire che « la realtà finita non è »; e se guardate in essa l’essere divino divenuto il suo essere, bisogna dire al contrario che essa non è solamente « un effetto non divino di una causa divina (Prop. II) » ma « che essa è qualcosa del Verbo, che il Padre stesso distingue dal Verbo solamente per la ragione (Prop. VII) ».

16. Aggiungiamo altre riflessioni. Rosmini pone un limite nell’essere assoluto, vale a dire nell’essere divino stesso: è così, secondo lui, che è prodotto l’essere limitato della creatura. Ma l’essere divino non respinge, con la sua essenza stessa, ogni limite? L’essere divino è essenzialmente perfetto; dunque essenzialmente esclude ogni imperfezione e per questo un qualunque limite. Se l’Essere divino diviene limitato, non è più l’Essere divino, è distrutto. Ed è assurdo dire che l’Essere divino riceva un limite, che è come pretendere che il cerchio diventi un quadrato senza cessare di essere cerchio. – Poi Rosmini distingue tra l’essenza del finito ed il suo essere. La Scuola ha ben distinto tra l’essenza delle cose e la loro esistenza o il loro essere; essa insegna che l’essenza in Dio è il suo essere o la sua esistenza; ma che nelle creature, l’essenza è una potenza, di cui l’essere o l’esistenza, è l’atto. Ora Rosmini intende l’essenza e l’essere come la Scuola? No affatto, « l’essere è, secondo lui, una realtà che non si distingue dal resto dell’attualità divina, actualitas non distincta a reliquo actualitatis divinæ (Prop. III) »; esso è « quel qualcosa di divino che è manifestato all’uomo nella natura: divinum illud quod homini in natura manifestatur (Prop. IV) »; esso è « qualcosa dell’essere necessario ed eterno: aliquid entis necessarii et æterni (Prop. V) ». Quanto all’essenza, essa è il limite dell’essere. Rosmini dunque impiega le espressioni della Scuola per travestirne il senso.

V

ERRORI SULLA CREAZIONE

17. Creare è produrre tutta la sostanza: “creatio est eductio totius substantiæ”. In altri termini, è produrre una sostanza dal nulla “creatio est productio ex nihilo, o se si vuole ancora, è produrre una sostanza senza materia o soggetto preesistente: “creatio est productio entis ex nihilo sui et subjecti”. Dio dice: « Che luce sia », e subito la luce è. La luce non esisteva prima né in se stessa, né negli elementi; essa è fatta, non da una materia anteriore, ma dal niente. Ecco la creazione. Rosmini intende la creazione altrimenti. Secondo lui, Dio crea mettendo un limite al suo essere. Spieghiamo il suo pensiero con i termini suoi propri. « Per un’astrazione divina, egli dice, è prodotto l’essere iniziale, primo elemento degli esseri finiti; con un secondo atto, con una immaginazione divina, è prodotto il reale finito, ossia tutte le realtà che costituiscono il mondo [Divina abstractione producitur esse initiale, primum finitorum entium elementum; divina vero imaginatione producitur reale finitum, seu realitates omnes quibus mundus constat. (Prop. XIV)]. Segue una terza operazione dell’essere assoluto creante il mondo, un atto di sintesi divina, cioè di unione dei due elementi che sono: l’essere iniziale o fondamento comune di tutti gli esseri finiti [Tertia operatio esse absoluti mundum creantis est divina synthesis, idest unio duorum elementorum; quæ sunt esse initiale, commune omnium finitorum entium initium, atque reale finitum, seu potius diversa realia finita, termini diversi ejusdem esse initialis. Qua uniorie creautur entia finita (Prop. XV)] ».

18. Così tre atti divini concorrono alla creazione: una astrazione divina, una immaginazione divina ed una sintesi divina. Per astrazione, Dio concepisce l’essere iniziale; con l’immaginazione egli si rappresenta la realtà finita; con la sintesi, unisce i due elementi, cioè l’essere iniziale concepito con astrazione ed il « finito reale, o piuttosto i diversi finiti reali, limiti diversi dello stesso essere iniziale »; in altri termini, esso produce l’essere finito applicando il limite all’essere iniziale, che è secondo la verità l’essere divino stesso: la creazione consiste propriamente nell’applicazione di un limite all’essere iniziale o all’essere divino che è in Dio senza limiti. « Nell’operazione della sintesi divina, l’essere iniziale è messo in relazione con l’intelligenza, non come intelleginile, ma puramente come essenza, con dei limiti reali finiti: per questo gli esseri finiti esistono soggettivamente e realmente [Esse initiale per divinam synthesim ab intelligentia relatum non ut intelligibile sed mere ut essentia, ad terminos finitos reales, efficit ut existant entia finita subjective et realiter. (Prop. XVI.)].

19. l’Autore della Sapienza ci insegna che Dio ha creato tutte le cose « di una materia invisibile, ex materia invisa [Creavit orbem terrarum ex materia invisa. (Sap. XI, 18.)] ». I Padri ed i teologi cattolici intendono unanimamente con “questa materia invisibile” gli elementi uniformi che Dio creò all’origine e con cui formò in seguito i veri esseri. Rosmini intende con questa “materia invisibile”, l’essere iniziale, l’Essere divino, il Verbo stesso, che è il fondo comune, initium, initiale principium, di ogni essere finito: « Il Vergo, egli dice, è questa materia invisibile della quale, come è detto nella Sapienza (XI, 18), furono create tutte le cose dell’universo. [Verbum est materia illa invisa ex qua, ut dicitur (Sap. XI, 18), creatæ fuerunt res omnes universi. (Prop. XIX) ».

20. Ma, se l’essere finito risulta da un’applicazione di un limite all’Essere divino, al Verbo stesso, si può ancora dire che è propriamente prodotto? Rosmini vorrebbe conservare questa espressione; perché si può essa rigettare senza contraddire l’insegnamento manifesto della Chiesa? Tuttavia il suo sistema lo produce, malgrado lui, fino a sopprimere il termine di productione. « La sola cosa che Dio fa creando, egli dice, è che Egli pone integralmente l’atto totale dell’essere delle creature; dunque, propriamente parlando, questo atto non è fatto, ma è posto [Id unum efficit Deus creando, quod totum actum esse creaturarum intègre ponit: hic igitur actus proprie non est factus, sed positus. (Prop. VII.) »; in altri termini, non c’è nella creazione, produzione di un atto sostanziale che comincia allora, ma soltanto emission di un atto preesistente: hic igitur actus proprie non est factus, sed positus. Ma che creazione è, se il suo termine presiste, se non è prodotto?

21. Sembrava sentire Hegel o gli altri panteisti. Tuttavia questi è Rosmini, uno scrittore attaccato dal fondo delle sue viscere alla Chiesa. Ma egli è vittima di un falso principio al quale si è interamente dato. Egli ha scambiato l’essere in generale per l’essere stesso di Dio: dunque, conclude qui, l’Essere divino stesso è posto con la creazione negli esseri finiti; la creazione non è la produzione di un essere che precedentemente non c’era, ma la delimitazione di un essere preesistente, è la circoscrizione dell’Essere eterno in un limite particolare.

22. L’obiezione principale che opponiamo a questa teoria rosminiana della creazione, è quella supposta e conferma il panteismo del sistema generale. L’orrore di una conseguenza così mostruosa ci lascia appena la libertà di segnalare altri errori minori, ma tuttavia molto gravi. Rosmini mette l’immaginazione in Dio, ma l’immaginazione è una facoltà sensitiva, legata di conseguenza ad un organo e dipendente dal corpo nella sua esistenza e nel suo esercizio. Dio ha un corpo? Non è Dio puro Spirito? Come si può allora attribuire l’immaginazione a Dio? Poi Rosmini ci rappresenta Dio come concepente per astrazione l’essere iniziale, e per immaginazione il fine reale o il limite, applicando con una sintesi il limite all’essere iniziale, per farne un essere finito. Che teoria grossolana! Malgrado la questione seria, non ci si può dispensare dal pensare al fonditore leggendario che, per fare un cannone, prende del vuoto e vi mette del bronzo intorno.

23. Il Concilio Vaticano, seguendo il Concilio Laterano IV e, secondo l’insegnamento unanime dei Dottori cattolici, definisce che Dio ha creato « con un volere liberissimo “liberrimo consilio” (de fide cathol., cap. I) ». Dio, in effetti, poteva benissimo non creare ciò che ha potuto creare; perché, possedendo in se stesso un bene infinito di cui il godimento vince il suo amore, gli è impossibile trovare un accrescimento di perfezione o di felicità nelle creature (Ibid.); l’essere creato non apporta all’Essere infinito alcun profitto necessario; senza dubbio, se lo ha creato, lo ordina alla sua gloria; ma se non lo ha creato, non è meno sovranamente beato ed assolutamente perfetto: la creazione è dunque un atto interamente libero. [« Questo solo vero Dio, per la Sua bontà e per la Sua onnipotente virtù, non già per accrescere od acquistare la Sua beatitudine, ma per manifestare la Sua perfezione attraverso i beni che dona alle Sue creature, con liberissima decisione fin dal principio del tempo produsse dal nulla l’una e l’altra creatura contemporaneamente, la spirituale e la corporale, cioè l’angelica e la terrena, e quindi l’umana, costituita in comune di spirito e di corpo (CONC. LATER. IV, c. 1, Firmiter) » – Conc. Vaticano: Cost. “Dei Filius” cap. I]. Ma Rosmini professa un’altra dottrina. Per lui, l’essere della creatura è l’essere stesso di Dio: dunque, secondo lui, l’essere della creatura, come l’essere divino, è il termine necessario dell’amore che è in Dio. Dio si determina a creare solo perché egli ama nella creatura il suo proprio essere . Ma siccome ama necessariamente il suo proprio essere , non può impedirsi di amarlo nella creatura, e di conseguenza di mettervelo, e così di creare: « L’amore di cui Dio si ama anche nelle creature, ed è questa la ragione che lo determina a creare, essa costituisce una necessità morale, che nell’essere perfettissimo, produce sempre il suo effetto [Amor quo Deus se diligit etiam in creaturis, et qui est ratio qua se déterminat ad creandum, moralem necessitatem coastituit, quæ in ente perfectissimo semper inducit effectum. (Prop. XVIII)] » L’uomo, secondo Rosmini, è libero di camminare o non, di parlare o tacere; ma Dio non è libero, almeno nello stesso grado, di creare o di non creare: « Questa sorta di necessità », una necessità morale che mette in Dio, « lascia intera la libertà bilaterale ai numerosi esseri imperfetti [Hujusmodi enim nécessitas tantum modo in pluribus entibus imperfectis integram relinquit libertatem bilateralem. (Prop. XVIII)] ». (1. Continua …)

PREGHIERE ED INDULGENZE APOCRIFE

PREGHIERE ED INDULGENZE APOCRIFE

I nemici della Chiesa di Cristo, di Dio e di tutti gli uomini, hanno da sempre tentato con tutti i mezzi di nuocere alla Sposa di Cristo ed ai suoi fedeli, cercando di corromperne l’anima e condurla là … ove è pianto e stridor di denti. Una delle armi più insidiose ed occulte, è quella di usare false preghiere ed indulgenze apocrife ed indurre i Cristiani alla superstizione, al sacrilegio,  al peccato contro la fede, la carità, ed ovviamente alla presunzione di salvarsi senza meriti [peccato contro lo Spirito Santo!]. La Chiesa Cattolica ovviamente ha cercato di allertare i fedeli già in varie occasioni, nel passato. Qui di seguito, a mo’ di esempio, riportiamo alcuni decreti contenuti in Atti Apostolici, ove vengono condannate come apocrife una serie di preghiere anche abbastanza note e “praticate”. Ne diamo qualche esempio:

In Acta Sanctæ Sedis n. 31 (1898-1899) a pagina 127 leggiamo:

DECRETUM URBIS ET ORBIS, quo revocantur indulgentiæ omnes mille vel plurium millium annorum. [decreto che revoca le indulgenze di mille e più anni]

“Quum huic S. Congregationi Indulgentiis Sacrisque Reliquiis præpositae ex ipsa sui institutione munus demandatum sit vigilandi, ne in christiano populo falsae et apocryphæ, veliam revocatae a RR. PP. Indulgentiæ temere evulgentur, pluries ab ea quæsitum est, num Indulgentiæ mille sive etiam plurium millium annorum, quae in nonnullis Summariis et etiam in Pontificiis Constitutionibus leguntur, sint retinendæ uti veræ, an potius inter apocryphas amandandæ, ea potissimum de causa quod immoderatæ viderentur. Porro quum hæc S. C. generatim animadverterit prædictarum Indulgentiarum concessionem, ut plurimum, nulli aut suppositivo niti fundamento, prætereaque perpenderit id quod Sacrosancta Tridentina Synodus Sess. 25, cap. XXI Decret, de Indulg. docuit, in concedendis nimirum Indulgentiis moderationem esse adhibendam, ne nimia facilitate ecclesiastica disciplina enervetur; opportunum esse censuit, sicut alias peragere consuevit, ut Indulgentiae omnes, quæ mille vel plurium millium annorum numerum attingunt, prætermisso an veris sint accensendæ vel apocryphis, revocarentur et abrogarentur: id enim postulare videbantur et mutata temporum adiuncta, et modo vigens in Ecclesia disciplina. Emi itaque Patres huic S. Congregationi praepositi, in generalibus Comitiis ad Vaticanum habitis die 5 Maii 1898, omnibus mature perpensis, unanimi suffragio rescripserunt: Indulgentias omnes mille vel plurium millium annorum omnino esse revocandas si SS.mo placuerit. [Sono assolutamente da revocare le indulgenze di mille o più anni].

Facta autem de his omnibus relatione SS.mo D.no Nostro Leoni Papæ XIII in Audientia habita die 26 Maii 1898 ab infrascripto Card. Præfecto, Sanctitas Sua Eminentissimorum Patrum sententiam ratam habuit et confirmavit, mandavitque per generale Decretum declarari omnes Indulgentias mille vel plurium millium annorum, quae hucusque concessae dicuntur aut sunt, revocatas esse, et uti revocatas ab omnibus habendas.

Contrariis quibuscumque non obstantibus.

L’anno successivo segue questo decreto:

In Acta Sanctae Sedis n. 31 (1898-1899) a pagina 727, si legge in questo Decreto:

A questa Sacra Congregazione, preposta alle Sacre Indulgenze e alle reliquie, sono pervenuti dei fogli che riportano preghiere con annesse indulgenze alle medesime attribuite, e sulla cui autenticità sono portati gravi dubbi. Pertanto questa Sacra Congregazione, affinché i fedeli non vengano tratti in errore, specialmente in questi tempi in cui tutti i nemici della Chiesa cercano ogni pretesto per irridere il tesoro inestimabile delle Indulgenze, che piamente, santamente, e incorrottamente si amministra, come da suo dovere ha avocato a se l’esame di questi fogli, e verificare e dichiarare qualora si trovi in essi promulgazione di indulgenze false, apocrife, e del tutto confuse, la diffusione di questi fogli sia del tutto proibita e le asserite indulgenze dichiarate apocrife e false. – Per qual motivo gli Em.mi Padri, riuniti in Vaticano il 5 maggio 1898 in Congregazione Generale, dopo matura riflessione, con unanime votazione hanno sottoscritto: i predetti fogli presentati a questa Sacra Congregazione sono da vietare e, come detto, le annesse indulgenze essere dichiarate apocrife e false.
Fatta di questo relazione presso il S. Padre Leone XIII nell’udienza del 26 maggio 1898, dal sottoscritto Cardinale Prefetto, sua Santità ha approvato e confermato e dato il mandato di preparare un decreto generale, nel quale venga stabilito che il contenuto dei fogli annessi, o che si trovi espresso in edizioni diverse sia proscritto e che le indulgenze riportate in essi siano condannate come false e apocrife. Seguono i “foglietti” con le preghiere ed indulgenze apocrife riportare:

Foliolum I

– Litanie della Beata Vergine Addolorata

composte dal Sommo Ponteficp Pio VII il quale accordò indulgenza plenaria nei venerdì dell’ anno a chi contrito le reciterà col Credo, colla Salve Regina e con tre Ave al Cuore addolorato di Maria SS.ma.

Kyrie, eleison. Christe, eleison. Kyrie, eleison.

Christe, audi nos. Christe, exaudi nos.

Pater de Coelis Deus, miserere nobis.

Fili Redemptor mundi Deus, miserere nobis.

Spiritus Sancte Deus, miserere nobis.

Sancta Trinitas unus Deus, miserere nobis.

Sancta Maria, … ora pro nobis,

Sancta Dei Genitrix, …

Sancta Virgo Virginum, …

Mater crucifixa,

Mater dolorosa,

Mater lacrymosa,

Mater afflicta,

Mater derelicta,

Mater desolata,

Mater filio orbata,

Mater gladio trans verberata,

Mater aerumnis confecta,

Mater angustiis repleta,

Mater cruci corde affixa,

Mater mœstissima,

Fons lacrymarum,

Cumulus passionum,

Speculum patientiæ,

Rupes constantiæ,

Anchora confidentiae, ora pro nobis.

Refugium derelictorum, ora

Clypeus oppressorum, ora

Debellatrix incredulorum, ora …

Solatium miserorum, ora

Medicina languentium, ora …

Fortitudo debilium, ora …

Portus naufragantium, ora

Sedatio procellarum, ora

Recursus moerentium, ora …

Terror insidiantium, ora …

Thesaurus fidelium, ora …

Oculus Prophetarum, ora …

Baculus Apostolorum, ora …

Corona Martyrum, ora …

Lumen Confessorum, ora …

Margarita Virginum, ora …

Consolatio Viduarum, ora …

Laetitia Sanctorum omnium, ora …

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, parce nobis Domine.

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, exaudi nos Domine.

Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis.

Respice super nos, libera nos, salva nos ab omnibus angustiis in virtute Iesu Christi. Amen.

Scribe, Domina, vulnera tua in corde meo, ut in eis legam dolorem et amorem: dolorem ad sustinendum pro Te omnem dolorem; amorem ad contemnendum pro Te omnem amorem. Laus Deo ac Deiparæ.

Ora pro nobis Virgo dolorosissima!

R). Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Oremus.

Interveniat pro nobis, quæsumus, Domine Iesu Christe, nunc et in hora mortis nostrae apud tuam clementiam Beata Virgo Maria Mater tua, cuius sacratissimam animam in hora tuae passionis, doloris gladius pertransivit. Per te, Iesu Christe Salvator mundi, qui cum Patre et Spiritu Sancto vivis et regnas in sæcula sæculorum. Amen.

– Salutazione a Maria SS. Addolorata

Dai Sommi Pontefici arricchita dell’ indulgenza plenaria lucrabile in ogni venerdì dell’anno da quei fedeli che confessati e comunicati la reciteranno divotamente.

Ave Maria doloribus plena, Crucifixus tecum, lacrimabilis tu in mulieribus et lacrimabilis fructus ventris tui Iesus. — Sancta Maria, mater Crucifixi lacrimas impertire nobis crucifixoribus Filii tui, nunc et in hora mortis nostrae. Amen.

Con approvazione ecclesiastica.

Torino, 1865 — Tip. dell’Oratorio di S. Francesco di Sales.

Foliolum II
La “Corona di Spine”

LA CORONA DI SPINE.

La corona di spine spiega la vita, passione e morte di N. S. Gesù Cristo, cioè dalla sua nascita fino alla morte.

1. Ogni grano di questa corona ha la somiglianza di una testa di bestia, e rappresenta come Gesù nacque tra il bue e l’asinello.

2. Questa corona somiglia alla corona di spine con cui fu incoronato Gesù Cristo.

3. Coloro che avranno questa corona in casa sopra un Crocifisso od un quadro e reciteranno per 33 giorni cinque Pater, Ave e Gloria all’incarnazione, passione e morte di N. S. Gesù Cristo, verrà deliberata un’anima dalle pene del purgatorio della propria famiglia e questa prega per il divoto che recita questa orazione.

Queste corone sono spedite e benedette dai PP. Crociferi del Belgio e autorizzati dal S. P. Leone XIII.

Chi reciterà divotamente questa orazione acquisterà 500 giorni d’Indulgenza oltre aver liberato un’ anima dal purgatorio.

Roma — Tipografia Pontificia, 1894.

 

Foliolum III
L’Orazione alla Piaga della Spalla

RIVELAZIONE

Fatta a S. Bernardo Abbate di Chiaravalle dell’incognita e dolorosa piaga della spalla di Nostro Signore Gesù Cristo da lui sofferta nel portar la pesante Croce.

Domandando una volta S. Bernardo a Nostro Signore nell’orazione, qual sia stata la sua maggior doglia occulta, sentita nel corso della sua Santissima Passione, rispose il Signore: Io ebbi una piaga sulla spalla profonda tre dita, fattami nel portare la Croce; questa mi è stata di maggior pena e dolore di tutte le altre, quale dagli uomini è poco considerata perchè è incognita. Ma tu abbila in venerazione, e sappi che qualunque grazia mi chiederai in virtù di detta Piaga mi onoreranno, gli perdonerò i loro peccati quotidiani, de’ mortali non mi ricorderò più e conseguiranno la vita eterna, cioè la mia grazia e misericordia.

Eugenio III ad istanza di S. Bernardo ha concesso, a chiunque dirà tre Pater noster, e tre Ave Maria, in onore della suddetta Piaga come è stato a S. Bernardo rivelato, tre mila anni d’Indulgenza.

ORAZIONE DA DIRSI ALLA PIAGA DELLA SPALLA DI NOSTRO SIGNORE.

Dilettissimo Signore Gesù Cristo, mansuetissimo Agnello di Dio, io povero peccatore, adoro e venero la Santissima vostra Piaga che riceveste sulla spalla nel portare la pesante Croce al Calvario, nella quale restarono scoperte tre Sagratissime Ossa, tollerando in essa un immenso dolore ; Vi supplico pertanto per virtù e meriti di detta Piaga ad aver di me misericordia col perdonarmi tutti i miei peccati sì mortali che veniali, e ad assistermi nell’ora della mia morte, e di condurmi nel vostro Regno beato. Amen.

Sia sempre benedetto, e ringraziato Gesù Cristo che col suo preziosissimo Sangue ci ha salvato.

Oremus.

Deus, omnium fidelium pastor et rector, famulum tuum Leonem quem pastorem Ecclesiae tuae præesse voluisti, propitius respice: da ei quæsumus, verbo et exemplo, quibus præest proficere: ut ad vitam una cum grege sibi credito, perveniat sempiternam. Per Dominum.

Sono pregati di un’Ave Maria per chi dispensa gratis il presente foglio.

Roma — Tipografia della Pace di F. Cuggiani.

(Vide Decr. Auth. n. 18).

Foliolum IV
La Corona “dei Meriti e della Passione di N.S. Gesù Cristo” (Spagnolo)

Imprenta de la Viuda é Hijo de Muñoz Plaza de la Merced.

CORONA DE LOS MERECIMIENTOS DE LA PASIÓN Y MUERTE DE NUESTRO SEÑOR JESU CRISTO.

(con licencia)

Ciudad-Real—1868

Imprenta de la Viuda é Hijo de Muñoz Plaza de la Merced.

 

CORONA DE LOS MERECIMIENTOS DE LA PASIÓN Y MUERTE DE NUESTRO SEÑOR JESU CRISTO.

Memoria de los merecimientos de la pasión de Nuestro Señor Jesucristo concedida por Nuestro SSmo Padre Pio V al Duque de Herencia y á su hijo el Principe de Sirena, el cual, yendo á visitar á nuestra Señora de Loreto, fué á besar los pies á su Santidad, y le dijo que le pidiese lo que quisiera, y el dicho Principe le suplicó que para salud de las almas concediese algunas indulgencias, para lo cual mandó su Santidad viniesen todos los Cardenales al Consistorio y Congregación y que rogasen á nuestro Señor fuese servido illuminar su intendimiento y les inspirase las gracias que su Santidad iba á conceder al Principe para que fuere en provecho de las almas: y estando todos juntos dijeron que concediese un Paternoster y diez Ave Marias que se llamará corona de los merecimientos de la pasión y muerte de nuestro Señor Jesucristo y que tuviese las gracias é indulgencias siguientes.

1a. Concede su Santidad à las personas que tubieren esta corona y la rezaren con devoción, rogando á Dios que conceda estas gracias, indulgencia plenaria y remisión de sus pecados.

2a. Todas las personas que rezaren la corona con contrición de sus culpas y pecados ganan indulgencias plenaria y remission de sus pecados culpa y pena, aunque la recen mil veces al dia.

3a. Que á totas las personas y en todas las veces que tuviesen la Corona en la manos diciendo : Dios y Señor mio Jesucristo, por los merecimientos de vuestra pasión santísima tened piedad y misericordia de mi : le serán perdonados sus pecados.

4a. Que todas las veces, que rezaren por modo de sufragio por las ánimas del Purgatorio, se sacan tantas almas como veces les rezaren y también indulgencia plenaria.

5a. Concede su Santidad á las personas que oyeren misa y rezaren dicha corona por cada vez cuatro mil años de perdón.

6a. También las veces que la rezaren por el Pontífice que las concedió, le serán perdonados sus pecados.

7a. Que el que tuviere esta corona en sus manos en el articulo de la muerte vaya absuelto de culpa y pena como el dia que fué bautizado.

8a . Concede su Santidad al dicho principe que pueda dar la corona á veinte personas : las veinte cada una á siete y cada una de estas siete á otras siete y así de mano en mano para que se comunique á todos los fieles.

9a. Que si perdiese la dicha corona, puede elegirse otra en su lugar que tenga las mismas gracias é indulgencias y esto sea una vez tan sola.

10a. Que para ganar estas indulgencias y gracias han de tener la bula de la Santa Cruzada y un tratado de estas indulgencias.

11a . Asi mismo, su Santidad de su propria voluntad y en presencia de sus hermanos los Cardenales dio la Corona al Duque diciéndole: La daréis á los que os la pidan y unos á otros poseídos del amor de Dios delante de un Crucifijo é incados de rodillas.

12a. El orden que se ha da tener para dar dicha corona ha ser, el que la pida esté incado de rodillas, como se dijo en el articulo anterior, y ha de decir : u Hermano, yo os ruego por amor de Dios que me deis la corona de los merecimientos de nuestro Señor Jesucristo, para que yo gane las gracias á indulgencias que su Santidad me concede por ella „. El que la dá poniéndola en las manos dirá : “Hermano yo os la entrego en memoria de la pasión y muerte de nuestro Señor Jesucristo con la gracias á mi concedidas: la podréis dar á siete personas y encargo la deis de limosna en reverencia de la pasión de nuestro Señor Jesucristo y rogueis por las almas del Purgatorio Amen „.

Foliolum V

Le parole dette da Maria SS. Addolorata, quando ricevette il Corpo esamine nelle braccia (oggi conosciuta come “Sentimenti di Maria SS. Addolorata …”)

O fonte inesausto di verità come ti sei disseccato! O saggio Dottor degli uomini, come te ne stai taciturno! O splendore di eterna luce, come mai la tua bella faccia è divenuta deforme! O altissima divinità come ti fai vedere a me in tanta povertà! O amor del cuore, quanto grande è la tua bontà! O delizia eterna del mio cuore quanto eccessivi e molteplici sono stati i tuoi dolori! Signor mio Gesù Cristo che hai comune col Padre, e collo Spirito Santo, una sola e medesima natura, abbi pietà di ogni creatura e principalmente delle anime Sante del Purgatorio. Così sia. Cinque Credi, una Salve Regina, un Pater Ave e Gloria, secondo l’Intenzione del Sommo Pontefice ed un Requiem.

Questa divozione, che si trovò in una Cappella di Polonia sopra una tabella, è stata approvata da Innocenzo XI, il quale concesse la liberazione di 15 anime dal Purgatorio, ogni volta che si reciterà. Lo stesso fu confermato da Clemente III.

La stessa liberazione di 15 anime del Purgatorio, ogni volta che si reciterà questa orazione, fu confermata da Benedetto XIV con Indulgenza Plenaria. La stessa concessione fu confermata da Pio IX con l’aggiunta di Cento altri giorni d’indulgenza.

S’implori una prece per chi dispensa l’orazione.

Montefortino 1893 — Tip. Marinozzi.

Foliolum VI

Gesù di Nazaret Re dei Giudei (Francese)

JÉSUS DE NAZARETH, ROI DES JUIFS, RÉDEMPTEUR

SOUFFRANT, AYEZ PITIÉ DE NOUS.

Extrait de la vie du bienheureux frère Innocent à Clusa frère Minime Recollet, singulier en vertus et en miracles, décédé à Rome le 15 décembre 1631.

Dans sa vie (premièrement imprimé en italien) dédiée an pape Innocent XI, trouvons-nous cette histoire singulière: Le saint homme parlant un jour avec certain prince et quelques théologiens, disait qu’à notre Sauveur Jésus Christ, allant au mont Calvaire chargé de sa Croix, étaient sortis de l’épine du dos trois Os ou Côtes qui avaient percé les articulations de sa chair. Le prince ainsi que tous les autres ne voulaient y ajouter foi, parce que, d’après eux, ni l’Ecriture sainte ni aucune Révélation n’en faisaient mention, et que cette opinion n’était pas admise par notre Mère la Sainte Eglise; mais frère Innocent leur observait : que le pape Eugène III, d’après les instances de saint Bernard avait accordé cent mille ans d’indulgences à tous ceux qui en l’honneur et commemoration de ces trois Os ou Côtes réciteraient trois fois le Pater et Ave Maria. Nonobstant cela aucun ne voulut y croire. Mais voyez quelle chose extraordinaire en est suivie: le saint homme, en leur présence élevant son coeur à Dieu, est devenu en extase, et dans le peu de temps, qu’il y restait, un papier sur lequel était écrit et très bien détaillé toute l’histoire des trois Os, comme le frère l’avait racontée, et l’indulgence du pape Eugène III accordée à cet égard, lui a été mise miraculeusement dans la main ; et ce qui est le plus frappant, est que cet écrit était soussigné par la main propre de Clement VII, pour lors pontife régnant à Rome.

Le frère Innocent revenant de son extase, remit au prince et aux théologiens l’écrit miraculeux : mais ceux-ci troublés et interdits, ne savaient s’ils voulaient croire ce qu’il venaient de voir devant leurs propres yeux, ne sachant comment ce papier pouvait être parvenu au saint homme, ainsi signé de la main du Saint Père.

Il leur semblait qu’il ne fallait rien de plus pour ajouter foi aux grands mérites du serviteur de Dieu, par qui le Seigneur voulut faire renaître la dévotion aux trois Os, qui avait restée si longtemps en oubli dans le coeur des fidèles.

Cette histoire miraculeuse, très propre pour exciter les catholiques à la compassion et à l’amour réciproque en considération de la douloureuse passion du Fils de Dieu, ainsi que pour mériter en si peu de temps autant d’indulgences, a été imprimée d’après le désir de personnes pieuses. Plut à Dieu que chacun voulut méditer non seulement sur la pesanteur de la croix, mais beaucoup plus sur l’énormité des péchés du monde, lesquels le Père céleste a voulu faire expier par son Fils unique, notre caution, ce pourquoi les épaules innocentes et toute puissantes et ses saintes Côtes et Os ont été si péniblement démembrés.

Ex Fremac. Ord. F. M. R.

Imprimi poterit F. BONAVENT. VAN Den Dycke,

Minister provinciæ.

Imprimi poterit. Actum Antuerp. 22 Nov. 1714.

L. De CARVAIAL L. C.

Nous trouvons dans des anciens ouvrages romains, que le pape Georges III, a accordé d’après les instances de la Reine d’Angleterre, et à tous ceux qui réciteront la prière suivante après V élévation du Corps de Notre Seigneur pendant la Messe, devant le très saint Sacrement de l’Autel, ou bien devant un Crucifix, autant d’années d’indulgence que notre Seigneur Jésus Christ avait de plaies à son corps, qui étaient au nombre de 5676: ainsi trouvons-nous dans les Révélations.

PRIÈRE.

O très aimable Seigneur Jésus Christ, Fils du Dieu vivant, je vous prie par l’ardent amour avec lequel vous avez aimé le genre humain, quand, ô Roi céleste vous étiez pendant à la croix avec un visage divin triste, des sensés inquiets, un coeur percé, d’un côté ouvert, des reints tremblants, d’un corps disloqué, des plaies sanglantes avec des flux et reflux, des veines forcées, d’une bouche criante, d’une voix enrouée, d’un visage pâle, une couleur mourante, des yeux pleurants, un ardent amour, un gosier soupirant, une soif ardent, un goût amer de fiel et de vinaigre, avec la tête penchée, couronnée d’épines, rencontrant la mort lors de la separation de son âme divine avec son très saint corps, avec l’origine de la fontaine vivant d’amour. Par le même amour, je vous prie, ô très doux et très aimable Seigneur Jésus Christ, par lequel votre aimable coeur fut pressé et entrecoupé, que vous voudriez vous réconcilier sur le grand nombre de mes péchés, et accorder ainsi qu’à ceux pour lesquels je suis obligé de prier, ,une fin bienheureuse et une résurrection glorieuse, par votre miséricorde infinie qui vivez et régnez avec le Père et le saint Esprit dans les siècles des siècles. Ainsi soit-il.

O êtres aimables ! soyez assidus et pensez à votre âme altérée, et nourrissez-la des mérites des très saintes Indulgences, pour obtenir par le très saint Sang de notre Sauveur Jésus Christ la remission de vos péchés et ensuite l’éternité bienheureuse. Excitez-vous donc pour l’amour des grandes souffrances de Jésus, à la récitation de cette prière divine et de trois Pater et Ave Maria, et priant ici sur la terre dans l’esprit et la personne de Jésus Christ, à savoir dans l’esprit de pénitence et de repentir, pour satisfaire ainsi conjointement avec lui pour vos péchés à la justice de sa Majesté blessée. PENSEZ-Y DONC BIEN.

Avec crainte et espoir travaillez à votre salut, dit saint Paul, Phil. 2. e. Laissons-nous faire le bien, dit-il, quand nous en avons le temps. Gai. 6. c. dit l’Eccl. 7. c. Celui qui craint le Seigneur n’omet rien ; à savoir de faire le bien là où il peut. Pour cette raison Jésus Christ, la vérité éternelle, nous exhorte. Luc. 9. Paites commerce jusqu’à ce que je viens savoir en bonnes oeuvres. Matth. 6. Amassez-vous des trésors pour le Ciel. Et après avoir fait assiduité dites avec Luc, c. 10, nous sommes des serviteurs inutiles, sur quoi S. Bernard dans le Psal. Qui habitas sermo 4, en nous menaçant dit: malheur à nous, si nous n’avons fait ce que nous devions faire. Jésus soyez loué! et prions-le mutuellement jour et nuit sans discontinuer comme dit S. Paul: car à toutes heures nous sommes à la porte de l’éternité, où nous suivra et le bien et le mal que nous aurons commis et cela pour l’éternité. Mâchez bien la nourriture Cela empêche la pourriture. Que le Saint Esprit soulage et remplisse les âmes des fidèles. Ainsi soit-il.

Bruxelles. Typ. J. Crols-Pirmez, rue de Flandre 106.

(Vide Decr. Auth. n. 18).

Foliolum VII

1 Orazione al Salvatore del mondo

 ORAZIONE AL SALVATORE DEL MONDO.

Signor mio Gesù Cristo Padre dolcissimo per amor di quel gaudio, che ebbe la vostra diletta Madre quando le appariste in quella sacratissima notte di Pasqua, e per quel gaudio quando vi vide glorificato con la chiarezza della divinità, vi prego ad illuminarmi con i doni dello Spirito Santo acciocché in tutti i giorni di mia vita possa adempiere la volontà di voi, che vivete e regnate con Dio padre nella vita dello Spirito Santo per tutti i secoli de’ secoli. Amen.

I Sommi Pontefici Bonifazio VIII e Benedetto IX concedono ottantamila anni di indulgenze a ehi reciterà la suddetta Orazione, come si vede in S. Giovanni Laterano di Roma in un marmo.

2. ORAZIONE DI S. GREGORIO PAPA, CHE SI TROVA A LETTERE D’ORO SCRITTA IN S. GIOVANNI IN ROMA.

Bonifazio Papa concede a chi confessato e comunicato la dirà, la remissione di tutti i peccati, e ogni volta che la dirà ottanta mila anni, e 40 quarantene, e chi la dirà 30 giorni continui avanti l’Immagine di M. V., otterrà qualunque grazia, e chi la dirà vita durante ogni giorno otterrà la grazia di morire fedelmente.

ORAZIONE

Stabat Virgo iuxta Crucem

Videns pati veram lucem

Mater Regis omnium

Vidit Caput coronatum

Spinis latum perforatum

Vidit mori filium. Vidit Caput inclinatum

Totum Corpus cruentatum. Pastor pro Ovibus

Vidit potum felle mixtum. Natum suum Crucifixum

Gubernantem omnium Christum pati flagello

Virgo mater et ancella. Vidit et obbrobria

Amen.

3. Orazione alla santa Croce da dirsi anche in sollievo delle anime sante del Purgatorio

Io vi adoro Croce Preziosa che con le delicate membra del mio Signore Gesù Cristo foste adorata, ed aspersa del suo Preziosissimo Sangue. Adoro te Dio mio posto in lei, e te Croce Santissima per amor suo e così sia. Questa orazione a dirla ogni Venerdì 5 volte si cavano 5 anime dal Purgatorio, ed il Venerdì santo se ne cavano 33. Divozione dell’incognita e dolorosa Piaga della Sacra Spalla di N. S. G. C. da lui patita nel portare la pesante Croce.

Dimandando una volta S. Bernardo Abate al nostro Signore nell’orazione qual sia stata la sua maggior doglia occulta sentita nel corso della sua passione; rispose il Signore: Io ebbi una piaga sulla spalla, profonda tre dita, fattami nel portare la Croce: questa mi è stata di maggior pena e dolore di tutte le altre, quale dagli uomini è poco considerata, perchè è incognita; ma tu abbila in venerazione: e sappi che qualunque grazia mi chiederai per tal Piaga te la concederò, e tutti quelli che per amor di essa mi onoreranno io loro perdonerò i quotidiani peccati, rimetterò loro i mortali, e conseguiranno la mia grazia e misericordia.

Eugenio III, ad istanza di S. Bernardo, ha concesso 3000 anni d’Indulgenza a chiunque dirà tre Pater e Ave ad onore della Piaga della Spalla di Gesù Cristo, e delle tre ossa prominenti, come si dice che sia stato rivelato a detto Santo.

ORAZIONE A DETTA PIAGA

Dilettissimo Signor Gesù Cristo, mansuetissimo Agnello di Dio, io povero peccatore saluto, e riverisco la vostra Santissima piaga, che patiste sulla spalla dal portar la pesante Croce, laonde per causa delle tre ossa prominenti, che quivi sporgevano in fuori vi si cagionava intensissimo dolore sopra tutti gli altri del vostro SS. Corpo. Vi adoro mio appassionato Signore, vi lodo, vi onoro, e vi glorifico con l’intimo del mio cuore e vi ringrazio per quella SS. profondissima e dolorosissima Piaga della vostra spalla, supplicandovi umilmente per quel gran dolore che in essa sentiste, e per quel grave peso della Croce, ad aver misericordia di me peccatore, a perdonarmi tutti i miei peccati, sì veniali che mortali, e di ac compagnarmi sul sentiero della Croce per i vostri Sanguinosi Vestigi alla eterna Beatitudine.

Tre Pater, Ave e Gloria.

ORAZIONE

Sacro Cuore di Maria

Voi siete gran Regina

Tutto il mondo a voi s’inchina

Voi salvate l’anima mia. — Un Pater ed Ave.

Pio VI concesse Indulgenza plenaria nell’anno 1787 a chiunque reciterà la detta orazione.

Siena 1888 — Tip. S. Bernardino.

Foliolum VIII

LETTERA DI GESÙ CRISTO.

DELLE GOCCIE DI SANGUE CHE SPARSE N. S. G. C MENTRE ANDAVA AL CALVARIO.

Copia di una lettera di Orazione ritrovata nel Santo Sepolcro di N. S. G. C. in Gerusalemme, conservata in una cassa d’argento da S. Santità, e dagli Imperatori ed Imperatrici cristiani. Desiderando S. Elisabetta Regina d’Ungheria, Santa Matilde e Santa Brigida sapere alcune cose della Passione di Gesù Cristo, facendo fervorose e particolari Orazioni, mercè le quali gli apparve Gesù Cristo favellando con esse e cosi dicendo: Sappiate che i soldati armati furono 150, quelli che mi condussero legato furono 23, gli esecutori di giustizia 83, i pugni che ricevei alla testa furono 150 e nel petto 108, i calci nelle spalle 80, e fui trascinato con corde e per i capelli 23 volte, natte e sputi nella faccia furono 180, battiture nel corpo 6666, battiture nel capo 110, mi diedero un urtone, notate nel cuore, fui alzato in aria per i capelli ad ore 21, ad un tempo mandai 120 sospiri, fui trascinato e tirato per la barba 23 volte, piaghe nella testa 20, spini di giunchi marini 72, punture di spine nella testa 100, spine mortali nella fronte 3, dopo flagellato e vestito da re di burla, piaghe nel corpo 1000. I soldati che mi condussero al Calvario furono 908, quelli che mi guardavano 3, goccie di sangue che sparsi furono 28430 e chi ogni giorno recita 7 Pater, Ave e Gloria per lo spazio di 15 anni per compiere il numero delle goccie di sangue che ho sparso, gli concedo 5 grazie:

1° . L’indulgenza plenaria e remissione di tutti i peccati;

2°. Sarà liberato dalle pene del purgatorio;

3°. Se morrà prima di compire detti 15 anni, per esso sarà come li avesse compiti;

4°. Sarà come fosse morto ed avesse sparso il sangue per la Santa Fede ;

5°. Scenderò io dal cielo a prendere l’anima sua e quella dei suoi parenti fino al quarto grado.

Quegli che porterà questa Orazione non morirà annegato, né di mala morte, né di morte improvvisa, sarà liberato dal contagio e dalla peste, dalle saette, e non morirà senza confessione, sarà liberato dai suoi nemici, e dal potere della Giustizia, e da tutti i suoi malevoli e da falsi testimoni. Le donne che non possono partorire, tenendola addosso, partoriranno subito e usciranno di pericolo. Nella casa ove sarà questa Orazione non vi saranno tradimenti nè di cose cattive, e 40 giorni prima della sua morte quello che l’avrà sopra di sè vedrà la Beata Vergine Maria, come dice S. Gregorio Papa.

Un certo Capitano spagnolo viaggiando per terra vide vicino Barcellona una testa recisa dal busto che gli parlò cosi: Giacché vi portate a Barcellona, o passeggiero, conducetemi un confessore acciò possa confessarmi essendo già da tre giorni che sono stata recisa dai ladri, e non posso morire se non mi confesso. Condotto al luogo il Confessore dal Capitano suddetto, la testa vivente si confessò ed indi spirò, trovando addosso al busto da cui era stata recisa, la seguente orazione la quale in quella occasione fu approvata da vari Tribunali della S. Inquisizione di Spagna. I suddetti 7 Pater, Ave e Gloria si potranno recitare e applicare anche per qualsivoglia anima. Altra simile copia della suddetta lettera è stata miracolosamente ritrovata nel luogo chiamato Porsit, tre leghe lontano da Marsiglia, scritta a lettere d’oro e per opera divina portata da un fanciullo di 7 anni del medesimo luogo di Porsit. Con un’aggiunta e dichiarazione il 2 Gennaio 1750 che dice : Tutti coloro che travaglieranno nei giorni di Domenica saranno maledetti da me, perchè nelle Domeniche dovete andare alla Chiesa

POLIOLUM IX.

Proscribitur etiam foliolum quoddam ex charta vel etiam ex lino confectum et diversis linguis exaratum, quod “Breve S. Antonii Patavini„ appellatur, hisce ultimis temporibus late diffusum, in quo, post relatam oratiunculam ex Breviario Romano desumptam:   “Ecce Crucem Domini, fugite partes adversae. Vicit Leo de tribu Juda, Radix David. Alleluja! Alleluja! „, hæc leguntur:

Sancte Antoni magne Taumaturge (alibi: Dæmonum effugator, ora pro nobis.

R). Ut digni efficiamur promissionibus Christi.

Oremus.

Ecclesiam tuam, Deus, Beati Antonii confessoris tui commemoratio votiva lætificet ut spiritualibus semper muniatur auxiliis et gaudiis perfrui mereatur æternis. Per Christum Dominum nostrum. Amen.

[Proscritto pure il cosiddetto “breve” di S. Antonio.]

Foliolum X

Demum proscribitur libellus cui titulus « Corona del Signore, sua origine, significazione ed indulgenze, ed alcuni metodi di recitarla con divozione e spirituale profìtto. » — Faenza 1871, Ditta tipografica Pietro Conti „ eo quod contineat plures apocryphas Indulgentias, nimirum pro Oratione  “Deus qui nobis in Sancta Sindone etc. „ et pro alia: “Dio ti salvi, Santissima Maria, Madre di Dio, Regina del Cielo ecc. „ iam damnatas per Decretum u Delatæ sæpius „ anni 1678 (n. 18); nec non pro sequentibus qæe nunc reprobantur;

Innocenzo VIII concesse indulgenza Plenaria a chi recita la seguente.

« Il Cielo ti Salvi, o Vergine Sovrana,

Stella del Sol più chiara,

Di Dio Madre pietosa,

Del mel più dolce, e rara;

Rubiconda più che Rosa,

Candida più che Giglio,

Ogni virtù t’infiora

Ogni santo ti onora,

Nel Ciel la più sublime. Così sia»

Clemente XIV concede l’Indulgenza plenaria a chi reciterà  l’orazione seguente al glorioso Patriarca S. Benedetto che ha rivelato alla Magna Badessa S. Geltrude di assistere nell’ora della morte, per opporsi potentemente agli assalti del nemico infernale, chi divotamente l’avrà agni giorno ossequiato colla seguente:

PREGHIERA.

Benedetto, mio caro Padre, vi prego per quella dignità, con la quale il Signore si degnò di cosi glorioso fine onorarvi e beatifìcarvi, che vogliate trovarvi presente alla mia morte, eseguendo in me tutte quelle promesse fatte alla Vergine S. Geltrude.

MEMORIA DEL GLORIOSO TRANSITO DI S. BENEDETTO.

Ant. Stans in oratorio dilectus Domini Benedictus Corpore et Sanguine Dominico munitus, inter Discipulorum manus imbecillia membra sustentans, erectis in coelum manibus inter verba orationis spiritum efflavit. Qui per viam stratam palliis et innumeris coruscam lampadibus coelum ascendere visus est.

  1. Gloriosus apparuisti in conspectu Domini.

R). Propterea decorem induit te Dominus.

Deus, qui pretiosissimam mortem SSilii Patris Benedicti tot tantisque privilegiis decorasti : concede quaesumus nobis, ut cuius memoriam recolimus, eius in obitu nostro beata praesentia ab hostium muniamur insidiis. Per Christum etc.

Chi non sa leggere, potrà dire tre Pater ed Ave con l’intenzione predetta.

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Contrariis quibuscumque non obstantibus.

Datum Romæ ex Secretaria eiusdem S. Congregationis die 26 Maii 1898.

HIERONYMUS CARD. GOTTI Præfectus.

f. ANTONIUS Archiep. Antinoen. Secretarius.

A firma del Prefetto

Fr. Girolamo Card. Gotti.

In data 26 maggio 1898

Il decreto seguente ha una straordinaria importanza per chi volesse esser sicuro che le preghiere che recita non siano false, sacrileghe, superstiziose e peccaminose.

Acta Sanctæ Sedis n. 32 (1899-1900) a pagina 243:  decreto“Inter cetera” [3 agt. 1899] qui leggiamo le norme suggerite per discernere le vere indulgenze dalle false ed apocrife:, onde prevenire le calunnie verso l’istituzione delle indulgenze, e così impedire la dispersione del celeste tesoro.

URBIS et ORBIS. Decretum de regulis seu normis ad dignoscendas veras Indulgentias ab apocryphis.

Inter cetera quæ huic S. Congregationi Indulgentiis Sacrisque Reliquiis praepositæ munera sunt tributa, illud supereminet secernendi nimirum veras Indulgentias ab apocryphis easque proscribendi. Cui quidem muneri satis ipsa fecit plurimis editis ad haec usque tempora decretis de apocryphis Indulgentiis in authentica Decretorum collectione contentis. Verum etsi haec S. Congregatio vigilans ab ipso suæ institutionis exordio semper exstiterit quoad Indulgentiarum publicationem, ne falsæ in Christianum populum irreperent, nihilominus, quum hac etiam nostra aetate non desint, qui, vel mala voluntate, aut etiam irrationabili zelo perculsi, falsas, vel ut minimum valde suspectas, Indulgentias sive orationibus, sive piis exercitiis adnexas propalare inter fideles non vereantur, hinc factum est ut plures Antistites hanc S. Congregationem adfuerint, ut de aliquibus Indulgentiis suum iudicium ederet. Id potissimum praestiterunt ea causa permoti ut non solum verae a falsis Indulgentiis discernerentur, sed praesertim ut Ecclesiæ hostibus via praecluderetur eam calumniandi, et aspernendi coelestem Indulgentiarum thesaurum. Porro S. Congregatio ut huic malo, quoad fieri posset, præsens remedium adhiberet, regulas seu normas quasdam statuere excogitavit, quibus prae oculis habitis nedum locorum Ordinariis, sed et ipsis Christifidelibus facilis aperiretur via ad dignoscendum quodnam sit ferendum iudicium de aliquibus Indulgentiis, quae passim in vulgus eduntur, dubiamquè praeseferunt authenticitatis notam.

Hoc vero S. Congregationis propositum SS.mo D.no Nostro Leoni XIII delatum, eadem Sanctitas Sua illud approbavit iussitque quam primum executioni mandari.

Quare S. Congregatio, adhibito studio Rmorum Consultorum, Indicem prædictarum regularum elucubrandum curavit; quem deinde in generali Congregatione ad Vaticanum coadunata die 5 Maii 1898 examini Eiîiorum PP. Cardinalium subiecit. Hi vero postquam praefatum Indicem mature perpenderint, eumdem, in aliquibus immutatum, in altera Congregatione denuo expendendum sibi reservarunt.

Quod quidem actum est in generalibus Comitiis ad Vaticanum habitis die 3 Augusti 1899, in quibus Emi et Rmi Patres Indicem uti infra proponendum censuerunt:

REGOLA I.

Authenticæ sunt omnes indulgentiæe, quæ in novissima Collectione a S. Indulgentiarum Congregatione edita continentur.

[Sono autentiche tutte le indulgenze contenute nell’ultima collezione edita dalla Congregazione delle Indulgenze.]

REGOLA II.

Indulgentiæ generales, quae in supradicta Collectione non exhibentur, vel quae concessae feruntur post editam Collectionem, tunc solummodo habendae erunt ut authenticae, cum earumdem concessionis authographum monumentum recognitum fuerit a S. Indulgentiarum Congregatione, cui, sub nullitatis poena, exhibendum erit antequam publicentur.

[Le indulgenze generali che non si trovano nella succitata collezione edita, o che saranno concesse dopo l’edizione della collezione, sono da ritenersi autentiche solo se munite di concessioni autografate dalla Congregazione delle S. Indulgenze, che dovranno essere esibite, pena nullità, prima della pubblicazione]

REGOLA III.

Authenticæ habeantur Indulgentiæ concessæ Ordinibus et Congregationibus religiosisj Archiconfraternitatibus, Confraternitatibus, Archisodalitas, Sodalitiis, piis Unionibus, piis Societatibus, nonnullis Ecclesiis celebrioribus, Loeis piis et Obiectis devotionis, quae continentur in Summariis recognitis et approbatis a S. Congregatione Indulgentiarum, eiusque auctoritate vel venia typis editis.

[Sono da ritenersi autentiche tutte le indulgenze concesse agli Ordini ed alle Congregazioni religiose, alla Arciconfraternite, alle Confraternite, agli Archisodalizi, ai Sodalizi, alle pie unioni, alle pie società, ad alcune delle chiese più popolose, ad oggetti di devozione che sono contenute nei sommari recogniti e approvati dalla S. Congregazione ed edite con la loro autorità]

REGOLA IV.

Non habeantur ut authenticae Indulgentiae sive generales, sive particulares, quae continentur in libris, in libellis, in summartis, in foliis,  in chartulis, sive etiam in imaginibus, impressis sine approbatione auctoritatis competentis; quae approbation concedenda erit post diligentem recognitionem et distincte exprimenda.

[Non si considerino autentiche le indulgenze, generali o particolari, contenute in fogli, libelli, libri, o anche in immagini, senza approvazione delle autorità competenti, da concedere solo dopo una diligente ricognizione chiaramente espressa.]

REGOLA V.

Apocryphæ, vel nunc prorsus revocatæ, sunt omnes Indulgentiæ mille vel plurium millium annorum quocumque tempore concessæ dicantur.

[Apocrife o revocate ora sono tutte le indulgenze ove si  dicano concessi svariati millenni ovunque esse siano state concesse.]

REGOLA VI.

Suspectæ habeantur Indulgentiæ plenariæ quæ asseruntur concessæ recitantibus pauca dumtaxat verba: exceptis Indulgentiis in articulo mortis.

[Sono sospette tutte le indulgenze plenarie che si asserisce  esser concesse recitando solo poche parole, tranne che in “articulo mortis”.]

Regola VII

Reiiciendæ sunt ut apocryphæ Indulgentiæ, quae circumferatur in libellis, foliis seu ehartulis impressis vel manuscriptis, in quibus ex levibus aut etiam superstitiosis causis et incertis revelationibus, vel sub illusoriis conditionibus promittuntur Indulgentiæ et gratiæ usum et modum excedentes.

[Sono da considerarsi apocrife quelle indulgenze che circolano in volantini ed opuscoletti (… oggi anche libri, internet, you-tube etc. … visto la grande diffusione che ne fanno –ndr.-) contenenti dubbie rivelazioni che quasi sfociano nella superstizione, che, con illusorie condizioni, promettono indulgenze e grazie spropositate.]

 Regola VIII

Ut commentata reiicienda sunt folia et libelli, in quibus promittitur fidelibus unam alteramve precem recitantibus liberatio unius vel plurium animarum a Purgatorio: et Indulgentiae quae dictae promissioni adiici solent ut apocryphæ habendæ sunt.

[Sono da rigettare tutti i fogli o libelli in cui si promette ai fedeli, con le recitazione di una o d’altra preghiera, la liberazione di una o più anime del purgatorio: e le indulgenze collegate a dette “ promesse” sono da rigettarsi e ritenersi apocrife.]

REGOLA IX.

Apocryphæ, vel saltem ut graviter suspectæ, habeantur, Indulgentiærecentioris assertæ concessionis,  si ad inusitatum numerum annorum vel dierum producuntur.

[Apocrife, o almeno gravemente sospette, sono tutte le indulgenze presunte di più recente concessione, che promettono un numero inusitato di anni o di giorni di indulgenza]

Datum Romæ ex Secretaria eiusdem S. Congregationis die 10 Augusti 1899.

Fr. HIERONYMUS M. CARD. GOTTI, Praefectus.

f A. SABATUCCI ARCHIEP. ANTINOEN. Secr.

Congr. Indice

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A  PROPOSITO DELLE “promesse” annesse alle ORAZIONI S. BRIGIDA

Abbiamo un monito del Santo Officio, del  gennaio 1954, che si occupa di esse espressamente:

III

MONITUM

In aliquibus locis divulgatum est opusculum quoddam, cui titulus « SECRETUM FELICITATIS »- Quindecim orationes a Domino S. Birgittæ in ecclesia S. Pauli, Romae, revelatae », Mceae ad Varium (et alibi), variis linguis editum.

Cum vero in eodem libello asseratur S. Birgittæ quasdam promissiones a Deo fuisse factas, de quarum origine supernaturali nullo modo constat, caveant Ordinarii locorum ne licentiam concedant edendi vel denuo imprimendi opuscula vel scripta quae prædictas promissiones continent.

[In alcuni diversi luoghi viene divulgato un opuscolo con il titolo “Secretum felicitatis” con le quindici orazioni date dal Signore a Santa Brigida nella chiesa di S. Paolo in Roma, edito in varie lingue.  Poiché in questo libricino si asserisce per vero che a Santa Brigida siano fatte da Dio delle promesse delle quali non risulta in alcun modo l’origine soprannaturale; si diffidano gli Ordinari dal concedere licenza di edizione o stampa ad opuscoli che contengano le predette promesse.]

Datum Romæ, ex Ædibus S. Officii, die 28 Ianuarii 1954.

Marius Orovini, Supremæ S. Congr. S. Officii Notarius

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Attualmente, rimosso il freno del Santo Uffizio, preghiere ed indulgenze apocrife circolano innumerevoli, ispirate anche dalle eresie della setta del “novus Ordo”, che si spaccia per Chiesa Cattolica, da falsi sacrileghi prelati, da falsi religiosi e religiose, o addirittura da laici fanta-teologi “fai-da-te”, incontrollate, di carattere sentimental-sdolcinato, suggerite dal poetico-liberal-pensiero, con libertà dottrinale e teologica “neomontanista”, come ad esempio l’empio movimento satanico del c. d. “rinnovamento dello spirito” (in realtà si elimina lo Spirito Santo, e si dà spazio agli spiriti demoniaci … ). Per i pochi Cattolici in comunione con il Santo Padre Gregorio XVIII, il “pusillus grex”, valgono le regole, da osservarsi con somma attenzione e maniacale prudenza, del decreto del Santo Uffizio 3 agosto del 1899 “Inter cætera”. Si recitino solo le preghiere approvate dalla Chiesa Cattolica, antecedenti al novembre 1958, ed indulgenziate come da Raccolte Ufficiali  della S. Congregazione delle Indulgenze. Nel caso opposto, si commette come minimo sacrilegio, e le preghiere rigettate ancor prima di essere concluse. Attenti fedeli, il lupo maledetto si è travestito da Angelo di luce ed inganna oggi soprattutto con la falsa spiritualità, le false devozioni, i falsi riti ed i sacrileghi pseudo-sacramenti. A noi Cattolici, non è permesso cedere al nemico travestito, anche se il suo travestimento è una talate nera, rossa o bianca, … dai frutti li riconoscerete …

UN’ENCICLICA AL GIONO TOGLIE GLI APOSTATI DI TORNO: DILECTISSIMA NOBIS di SS. PIO XI

La strategia del Kazaro-massonismo nel tempo, è stata sempre la medesima, anche se trasfigurata ed occultata da maschere diverse, in certi casi apparentemente contrastanti: manifestare l’odio verso Dio, il suo Cristo, la sua Santa Chiesa Cattolica Romana, e soprattutto verso il Vicario dell’Uomo-Dio. Oggi “impero”, domani “regno dispotico”, indi “repubblica del terrore”, poi “nazi-fascismo”, o ancora “socialcomunismo”; attualmente: “mondialismo globalizzante pseudo-democratico”, [… i simboli, a ben guardare però, sono comuni], l’elemento chiave è sempre la libertà apparente, la fratellanza, la tolleranza verso tutti tranne che … verso i Cristiani, i Cattolici Romani, sempre oppressi e bersaglio di ogni tipo di vessazioni e persecuzioni, senza giustificazioni apparenti, prive di qualsiasi logica giuridica, anzi, proprio di principio, ingiuste e repressive. Questa volta, siamo nel 1933, la barbarie massonica, la violenza anticlericale, o meglio quella dell’anti-Cristo, coinvolge una delle Nazioni difesa e colonna stabile della Chiesa, la Spagna, patria di Santi di prim’ordine, di Ordini Religiosi che hanno fatto la storia del Culto divino e della stessa intera umanità [pensiamo ad esempio, solo ai Domenicani ed ai Gesuiti]. Il Santo Padre S. S. Pio XI, che già aveva alzato la sua voce in difesa della Chiesa di Cristo per le atrocità messicane, deve ora intervenire con durezza verso le deliranti decisioni dei governanti spagnoli tutti di estrazione massonica, tutti impegnati nella demolizione della colonna spagnola della Cattedrale Cattolica, quella stessa che aveva resistito con successo e piena di trionfi, alla barbarie islamica prima e dei marrani giudeo-kazari dopo. Veementi sono le proteste del Sommo Pontefice, il quale coglie anche con precisione il vero intento dei “mostri” adoratori del lucifero-baphomet, il demone precipitato che pretende di porsi al posto di Dio. In particolare egli denuncia l’attacco all’Autorità Pontificia [chiodo fisso dei templari, dei rosa-croce, dei massoni di ogni obbedienza, degli astrologi maghi alchimisti eliocentristi, autoproclamati scienziati, ma senza mai provare nulla di vero, etc.], « … quasi che l’autorità del Pontefice, conferitagli dal Divino Redentore, possa dirsi estranea a qualsivoglia parte del mondo; quasi che il riconoscimento dell’autorità divina di Gesù Cristo possa impedire o menomare il riconoscimento delle legittime autorità umane, oppure il potere spirituale e soprannaturale sia in contrasto con quello dello Stato. … Nessun contrasto può sussistere, se non per la malizia di coloro, i quali lo desiderano e lo vogliono, perché sanno che senza il Pastore le pecorelle andrebbero smarrite e più facilmente diverrebbero preda dei falsi pastori. » La storia si ripete sempre con dinamiche simili, anche se adattate ai tempi ed ai luoghi (“si colpisce il Pastore per disperdere le pecore” …), ma la parola del Cristo … “non prævalebunt”, in ogni caso trionfa alla fine di ogni attacco: solo gli adoratori del sole-lucifero, gli gnostici, i manichei, i templari, i rosacroce, i massoni, i comunisti, i banchieri usurai globalisti, i liberisti pseudo-democratici, i settari chierico-modernisti, non riescono a convincersene e regolarmente da sempre, finiscono [ … e finiranno] inghiottiti nel baratro dell’eterno lago di fuoco. Fermiamoci però a leggere questa lettera e cerchiamo di trarne gli insegnamenti a noi più utili per affrontare i nostri tempi, tempi in cui il Cattolicesimo subisce attacchi ben più aggressivi di quelli della Spagna, soprattutto spirituali, con danno immenso per la salvezza delle anime, anche perché oggi c’è un Santo Padre in esilio imbavagliato ed impedito, che non può protestare, ed al suo posto c’è il Patriarca degli Illuminati con il suo ridicolo eretico Giullare-clown, due kazaro-marrani che non hanno ancora imparato la lezione: “Non prævalebunt” … ma oramai un’età ce l’hanno e la verità non tarderà molto a manifestarsi … almeno a loro!

LETTERA ENCICLICA

DILECTISSIMA NOBIS

AGLI EMINENTISSIMI PADRI
CARDINALE FRANCESCO VIDAL E BARRAQUER,
ARCIVESCOVO DI TARRAGONA,
CARDINALE EUSTACHIO ILUNDAIN E ESTEBAN,
ARCIVESCOVO DI HISPALIS,
ED AGLI ALTRI REVERENDI PADRI
ARCIVESCOVI E VESCOVI,
E A TUTTO IL CLERO E AL POPOLO DI SPAGNA:
SULL’OPPRESSIONE DELLA CHIESA IN SPAGNA.
PIO PP. XI
VENERABILI FRATELLI
SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE

La nobile Nazione Spagnola Ci fu sempre sommamente cara per le sue insigni benemerenze verso la fede cattolica e la civiltà cristiana, per la tradizionale ardentissima devozione a questa Sede Apostolica e per le sue grandi istituzioni ed opere di apostolato, essendo madre feconda di Santi, di Missionari e di Fondatori d’incliti Ordini religiosi, vanto e sostegno della Chiesa di Dio.  – E appunto perché la gloria della Spagna è così intimamente connessa con la Religione Cattolica, Noi ci sentiamo doppiamente afflitti nell’assistere ai deplorevoli tentativi che da tempo si vanno ripetendo per togliere alla diletta Nazione, con la fede tradizionale, i più bei titoli di civile grandezza. Non mancammo — come il Nostro cuore paterno Ci dettava — di far spesse volte presente agli attuali governanti di Spagna quanto era falsa la via che essi seguivano e di ricordar loro come non è col ferire l’anima del popolo nei suoi più profondi e cari sentimenti che si può raggiungere quella concordia di spiriti la quale è indispensabile per la prosperità di una Nazione.  – Ciò facemmo per mezzo del Nostro Rappresentante tutte le volte che si affacciava il pericolo di qualche nuova legge lesiva dei sacrosanti diritti di Dio e delle anime. Né mancammo di far giungere anche pubblicamente la Nostra paterna parola ai diletti figli del clero e del laicato di Spagna perché sapessero che il Nostro cuore era a loro più vicino nei momenti del dolore. Ma ora non possiamo non levare nuovamente la voce contro la legge, testé approvata, « intorno alle confessioni e Congregazioni religiose », costituendo essa una nuova e più grave offesa non solo alla religione e alla Chiesa, ma anche a quegli asseriti princìpi di libertà civile sui quali dichiara basarsi il nuovo Regime Spagnolo. Né si creda che la Nostra parola sia ispirata da sentimenti di avversione alla nuova forma di governo o agli altri cambiamenti prettamente politici avvenuti recentemente in Spagna. È a tutti noto, infatti, che la Chiesa Cattolica, per nulla legata ad una forma di governo piuttosto che ad un’altra, purché restino salvi i diritti di Dio e della coscienza cristiana, non trova difficoltà ad accordarsi con le varie civili istituzioni, siano esse monarchiche o repubblicane, aristocratiche o democratiche. – Ne sono prova manifesta, per non parlare che di fatti recenti, i numerosi « Concordati » e accordi stipulati in questi ultimi anni e le relazioni diplomatiche annodate dalla Sede Apostolica con diversi Stati, nei quali, dopo l’ultima grande guerra, a governi monarchici sono subentrati governi repubblicani.  – Né queste nuove Repubbliche hanno mai avuto a soffrire nelle loro istituzioni e nelle loro giuste aspirazioni verso la grandezza ed il benessere nazionale per effetto dei loro amichevoli rapporti con questa Sede Apostolica od a causa della loro disposizione a concludere, con spirito di reciproca fiducia, sulle materie che interessano la Chiesa e lo Stato, convenzioni corrispondenti alle mutate condizioni dei tempi.  – Anzi, possiamo con sicurezza affermare che da queste fiduciose intese con la Chiesa gli Stati stessi hanno tratto notevoli vantaggi. Infatti, è comunemente risaputo come al dilagare del disordine sociale non si opponga diga più valida della Chiesa, la quale, educatrice massima dei popoli, ha sempre saputo unire in accordo fecondo il principio della legittima libertà con quello dell’autorità, le esigenze della giustizia col bene della pace.  – Tutto ciò non ignorava il Governo della nuova Repubblica di Spagna, il quale, anzi, era a conoscenza delle buone disposizioni Nostre e dell’Episcopato Spagnolo di concorrere a mantenere l’ordine e la tranquillità sociale. – E con Noi e con l’Episcopato fu concorde l’immensa moltitudine, non solamente del clero secolare e regolare, ma altresì del laicato cattolico, ossia della grande maggioranza del popolo spagnolo; il quale, nonostante le personali opinioni, nonostante le provocazioni e le vessazioni degli avversari della Chiesa, si tenne lontano dalle violenze e dalle rappresaglie, nella tranquilla soggezione al potere costituito, senza dar luogo a disordini e molto meno a guerre civili. Né ad altra causa certamente, che a questa disciplina e soggezione, ispirata dall’insegnamento e dallo spirito cattolico, si potrebbe attribuire con maggiore diritto quanto si è potuto mantenere di quella pace e tranquillità pubblica che le turbolenze dei partiti e le passioni dei rivoluzionari lavoravano a sovvertire, sospingendo la Nazione verso l’abisso dell’anarchia. – Ci ha quindi recato somma meraviglia e vivo cordoglio l’apprendere che da taluni, quasi per giustificare gli iniqui procedimenti contro la Chiesa, se ne adducesse pubblicamente la necessità di difendere la nuova Repubblica. Da quanto abbiamo esposto appare così evidente l’insussistenza del motivo addotto, da poterne concludere che la lotta mossa alla Chiesa nella Spagna, più che a incomprensione della Fede Cattolica e delle sue benefiche istituzioni, si debba imputare all’odio che « contro il Signore e il suo Cristo » nutrono sette sovvertitrici di ogni ordine religioso e sociale, come purtroppo vediamo avvenire nel Messico e nella Russia. – Ma, tornando alla deplorevole « legge intorno alle confessioni e congregazioni religiose », abbiamo constatato con vivo rammarico che in essa fin dal principio viene apertamente dichiarato che lo Stato non ha religione ufficiale, riaffermando così quella separazione dello Stato dalla Chiesa che fu purtroppo sancita nella nuova Costituzione Spagnola.  – Non ci indugiamo qui a ripetere quale gravissimo errore sia l’affermare lecita e buona la separazione in se stessa, specialmente in una Nazione che nella quasi totalità è cattolica. La separazione, chi bene addentro la consideri, non è che una funesta conseguenza (come tante volte dichiarammo, specialmente nell’Enciclica Quas primas) del laicismo, ossia dell’apostasia dell’odierna società che pretende estraniarsi da Dio e quindi dalla Chiesa. Ma se per qualsiasi popolo, oltre che empia, è assurda la pretesa di voler escluso dalla vita pubblica Iddio Creatore e provvido Reggitore della stessa società, in modo particolare ripugna una tale esclusione di Dio e della Chiesa dalla vita della Nazione Spagnola, nella quale la Chiesa ebbe sempre e meritamente la parte più importante e più beneficamente attiva nelle leggi, nelle scuole e in tutte le altre private e pubbliche istituzioni.  – Se un tale attentato torna a danno irreparabile della coscienza cristiana del paese (della gioventù specialmente, che si vuole educare senza Religione, e della famiglia profanata nei suoi più sacri princìpi) non minore è il danno che ricade sulla stessa autorità civile, la quale, perduto l’appoggio che la raccomanda e la sostiene presso le coscienze dei popoli, vale a dire, venuta meno la persuasione della sua origine, dipendenza e sanzione divina, viene a perdere insieme la sua più grande forza di obbligazione e il più alto titolo di osservanza e di rispetto.  – Che questi danni conseguano inevitabilmente dal regime di separazione, viene attestato dalle non poche Nazioni che, dopo averlo introdotto nei loro ordinamenti, ben presto compresero la necessità di rimediare all’errore, sia modificando, almeno nella loro interpretazione ed applicazione, le leggi persecutrici della Chiesa, sia procurando, malgrado la separazione, di venire ad una pacifica coesistenza e cooperazione con la Chiesa. – I nuovi legislatori Spagnoli, invece, noncuranti di queste lezioni della storia, vollero una forma di separazione ostile alla fede professata dalla stragrande maggioranza dei cittadini, una separazione tanto più penosa ed ingiusta, in quanto viene deliberata in nome della libertà stessa che si promette e si assicura a tutti indistintamente. Si è voluto così assoggettare la Chiesa e i suoi ministri a misure di eccezione, che tentano di metterla alla mercé del potere civile. -Infatti, in forza della « Costituzione » e delle successive leggi emanate, mentre tutte le opinioni, anche le più erronee, hanno largo campo di manifestarsi, la sola Religione Cattolica, che è quella della quasi totalità dei cittadini, vede odiosamente vigilato l’insegnamento, inceppate le scuole e le altre sue istituzioni tanto benemerite della scienza e della cultura spagnola. Lo stesso esercizio del culto cattolico, anche nelle sue più essenziali e più tradizionali manifestazioni, non va esente da limitazioni, come l’assistenza religiosa negli istituti dipendenti dallo Stato; le stesse processioni religiose, le quali vengono sottoposte a speciali facoltà da concedersi dal Governo e a clausole e restrizioni, e perfino l’amministrazione dei Sacramenti ai moribondi e le esequie ai defunti. – Più manifesta ancora è la contraddizione per quanto riguarda la proprietà. La « Costituzione » riconosce a tutti i cittadini la legittima facoltà di possedere, e, come è proprio di tutte le legislazioni nei paesi civili, garantisce e tutela l’esercizio di così importante diritto derivante dalla stessa natura. Eppure anche su questo punto si è voluta creare una eccezione ai danni della Chiesa Cattolica, spogliandola con palese ingiustizia di tutti i suoi beni. Non si è avuto riguardo alla volontà degli oblatori; non si è tenuto conto del fine spirituale e santo, cui quei beni erano destinati; non si sono voluti in alcun modo rispettare diritti da lungo tempo acquisiti e fondati su indiscutibili titoli giuridici. Tutti gli edifici, vescovadi, case canoniche, seminari, monasteri, non sono più riconosciuti come libera proprietà della Chiesa Cattolica, ma sono dichiarati — con parole che malamente celano la natura dell’usurpazione — proprietà pubblica e nazionale. Anzi, mentre tali edifici — legittima proprietà dei vari enti ecclesiastici — vengono dalla legge lasciati in solo uso alla Chiesa Cattolica ed ai suoi ministri perché siano adibiti secondo il loro fine di culto, si giunge però a stabilire che gli edifici medesimi debbono essere sottomessi ai tributi inerenti all’uso degli immobili, costringendo così la Chiesa Cattolica a pagare tributi su ciò che violentemente le è stato tolto. In tal modo il potere civile ha preparato la via per rendere impossibile alla Chiesa Cattolica anche l’uso precario dei suoi beni; infatti, essa, spogliata di tutto, privata di ogni sussidio, inceppata in tutte le sue attività, come potrà pagare i tributi imposti? – Né si dica che per il futuro la legge lascia alla Chiesa Cattolica una certa facoltà di possedere, almeno a titolo di proprietà privata, perché anche un così ridotto riconoscimento è reso poi quasi nullo dal principio, subito dopo enunziato, che tali beni « potranno soltanto essere conservati nella quantità necessaria per il servizio religioso ». – In tal modo si costringe la Chiesa a sottoporre all’esame del potere civile le sue necessità per il compimento della sua divina missione, e si erige lo Stato a giudice assoluto di quanto occorre per funzioni meramente spirituali. È quindi da temersi che un tal giudizio sarà consono agli intenti laicizzatori della legge e dei suoi autori. – E l’usurpazione non si è arrestata agli immobili. Anche i beni mobili — con particolarissima enumerazione elencati, perché nulla sfuggisse — ossia anche i paramenti, le immagini, i quadri, i vasi, le gioie e simili oggetti destinati espressamente e permanentemente al culto cattolico, al suo splendore e alle necessità che hanno diretta relazione con esso, sono stati dichiarati pubblica proprietà. – E mentre si nega alla Chiesa il diritto di liberamente disporre di ciò che è suo, perché legittimamente acquistato o da pii fedeli ad essa donato, allo Stato e solamente ad esso si attribuisce il potere di disporre per un altro fine, e senza limitazione alcuna, di oggetti sacri, anche di quelli con speciale consacrazione sottratti ad ogni uso profano, escludendo perfino ogni dovere dello Stato di corrispondere, in tale deprecato caso, qualsiasi compenso alla Chiesa. – Né tutto ciò è stato sufficiente ad appagare le mire antireligiose degli attuali legislatori. Neppure i templi sono stati risparmiati; i templi, splendore di arte, monumenti esimi di una storia gloriosa, decoro e vanto della Nazione Spagnola; i templi, casa di Dio e di orazione, su cui sempre aveva goduto il pieno diritto di proprietà la Chiesa Cattolica, la quale — magnifico titolo di particolare benemerenza — li aveva sempre conservati, abbelliti, adornati con cura amorosa. Anche i templi — non pochi dei quali distrusse (e nuovamente lo deploriamo) l’empia mania incendiaria — sono stati dichiarati proprietà della Nazione e sottoposti al controllo delle autorità civili, che oggi guidano, senza alcun rispetto verso il sentimento religioso del popolo di Spagna, le pubbliche sorti. – È dunque ben triste, Venerabili Fratelli e diletti Figli, la condizione creata alla Chiesa Cattolica presso di voi. Il Clero già è stato privato, con gesto totalmente contrario all’indole generosa del cavalleresco popolo spagnolo, dei suoi assegni, violando un impegno preso con un patto concordatario e ledendo la più stretta giustizia, perché lo Stato, che aveva fissato gli assegni, non l’aveva fatto per concessione gratuita ma a titolo di indennità per i beni già sottratti alla Chiesa.- Anche le Congregazioni Religiose sono ora in modo inumano colpite dalla infausta legge. Si è gettato su di esse l’ingiurioso sospetto che possano esercitare un’attività politica pericolosa per la sicurezza dello Stato, stimolando così le passioni ad esse ostili con ogni sorta di denunce e di persecuzioni: aperta e facile via per giungere a più gravi provvedimenti. – Esse sono sottoposte a tali e tante relazioni, registrazioni ed ispezioni, che costituiscono moleste forme di fiscale oppressione. Infine, dopo averle private del diritto di insegnare e di esercitare qualsiasi altra attività da cui trarre onesto sostentamento, sono state sottomesse alle leggi tributarie, pur sapendo che, private di tutto, non potranno soddisfare al pagamento delle imposte: altra coperta maniera di rendere loro impossibile l’esistenza. – Ma con simili disposizioni si viene a colpire, in verità, non i religiosi soltanto, bensì il popolo Spagnolo, rendendo impossibili quelle grandi opere di carità e beneficenza a favore dei poveri, che hanno sempre formato una gloria magnifica delle Congregazioni Religiose e della Spagna Cattolica.- Tuttavia, nelle penose strettezze a cui si trova ridotto nella Spagna il Clero secolare e regolare, Ci conforta il pensiero che il generoso popolo Spagnolo, anche nella presente crisi economica, saprà degnamente riparare a così dolorosa situazione, rendendo meno disagevole ai sacerdoti la povertà vera che li colpisce, affinché possano con rinnovate energie provvedere al culto divino e al ministero pastorale. – Ma se ci addolora questa grave ingiustizia, Noi, e con Noi Voi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, sentiamo anche più vivamente l’offesa recata alla Divina Maestà. Non fu forse espressione di animo profondamente ostile a Dio e alla Religione Cattolica l’aver sciolto quegli Ordini Religiosi che fanno voto di ubbidienza ad autorità differente da quella legittima dello Stato? – In questo modo si volle togliere di mezzo la Compagnia di Gesù, che può ben gloriarsi di essere uno dei più saldi sostegni della Cattedra di Pietro, con la speranza forse di potere poi, con minore difficoltà, abbattere in un prossimo avvenire la fede e la morale cattolica nel cuore della Nazione Spagnola, che diede alla Chiesa la grande e gloriosa figura di Ignazio di Loyola. Ma con ciò si volle colpire in pieno — come già altra volta pubblicamente dichiarammo — la stessa Autorità Suprema della Chiesa Cattolica. Non si osò, è vero, nominare esplicitamente la persona del Romano Pontefice; di fatto però si definì autorità estranea alla Nazione Spagnola quella del Vicario di Gesù Cristo: quasi che l’autorità del Pontefice, conferitagli dal Divino Redentore, possa dirsi estranea a qualsivoglia parte del mondo; quasi che il riconoscimento dell’autorità divina di Gesù Cristo possa impedire o menomare il riconoscimento delle legittime autorità umane, oppure il potere spirituale e soprannaturale sia in contrasto con quello dello Stato. Nessun contrasto può sussistere, se non per la malizia di coloro, i quali lo desiderano e lo vogliono, perché sanno che senza il Pastore le pecorelle andrebbero smarrite e più facilmente diverrebbero preda dei falsi pastori. – Se l’offesa voluta infliggere all’autorità del Romano Pontefice ferì profondamente il Nostro cuore paterno, nemmeno un istante dubitammo che essa potesse, anche minimamente, scuotere la tradizionale devozione del popolo Spagnolo alla Cattedra di Pietro. Anzi, come hanno sempre insegnato l’esperienza e la storia fino a questi ultimi anni, quanto maggiormente i nemici della Chiesa cercano di allontanare i popoli dal Vicario di Cristo, tanto più affettuosamente questi — per provvidenziale disposizione di Dio, che dal male sa trarre il bene — a lui si stringono, proclamando che da lui solo s’irradia quella luce che illumina la via ottenebrata da tanti perturbamenti, da lui solo, come da Cristo, risuonano le « parole di vita eterna » [1]. – Né si appagarono di aver tanto infierito contro la grande e benemerita Compagnia di Gesù, ma hanno voluto con una recente legge dare un altro gravissimo colpo a tutti gli Ordini e Congregazioni Religiose proibendo ad essi l’insegnamento. Si è compiuta così un’opera di deplorevole ingratitudine e di palese ingiustizia. Perché, infatti, la libertà — che a tutti è accordata — di poter esercitare l’insegnamento vien tolta ad una classe di cittadini, rei soltanto di avere abbracciato una vita di rinuncia e di perfezione? Si vorrà forse dire che l’essere religiosi, cioè l’aver tutto lasciato e sacrificato per dedicarsi proprio all’insegnamento e all’educazione della gioventù come ad una missione di apostolato, costituisca un titolo di incapacità o di inferiorità all’insegnamento medesimo? Eppure l’esperienza sta a dimostrare con quanta cura e con quanta competenza i Religiosi abbiano sempre compiuto il loro dovere, quali magnifici risultati per l’istruzione dell’intelletto, nonché per l’educazione del cuore, abbiano coronato il loro paziente lavoro. Lo comprova luminosamente il numero di persone veramente insigni in tutti i campi delle umane scienze ed insieme esemplarmente cattoliche uscite dalle scuole dei Religiosi; lo dimostra il grande incremento che nella Spagna tali scuole hanno fortunatamente raggiunto, nonché la consolante affluenza degli studenti. Lo conferma infine la fiducia di cui godevano presso i genitori, i quali, avendo da Dio ricevuto il diritto ed il dovere di educare i propri figliuoli, hanno pure la sacrosanta libertà di scegliere coloro che nell’opera educativa debbono efficacemente coadiuvarli.- Ma neppure nei riguardi degli Ordini e delle Congregazioni Religiose è bastato loro questo gravissimo atto. Si sono altresì conculcati indiscutibili diritti di proprietà, si è violata apertamente la libera volontà dei fondatori e dei benefattori per impossessarsi degli edifici al fine di creare scuole laiche, cioè senza Dio, proprio dove i generosi oblatori avevano disposto che fosse impartita una educazione schiettamente cattolica. – Da tutto ciò appare purtroppo chiaro lo scopo che si intende raggiungere con simili disposizioni, quello cioè di educare le nuove generazioni ad uno spirito di indifferenza religiosa, se non di anticlericalismo, strappare dalle anime dei giovani i tradizionali sentimenti cattolici così profondamente radicati nel popolo di Spagna. Si vuol così laicizzare tutto l’insegnamento finora ispirato alla religione ed alla morale cristiana. – Di fronte a una legge tanto lesiva dei diritti e delle libertà ecclesiastiche, diritti che dobbiamo difendere e conservare integri, crediamo preciso dovere del Nostro Apostolico ministero di riprovarla e condannarla. Noi quindi protestiamo solennemente e con tutte le nostre forze contro la legge stessa, dichiarando che essa non potrà essere mai invocata contro i diritti imprescrittibili della Chiesa. – E vogliamo qui riaffermare la Nostra viva fiducia che i Nostri diletti figli della Spagna, compresi della ingiustizia e del danno di tali provvedimenti, si varranno di tutti i mezzi legittimi che per diritto di natura e per disposizione di legge restano in loro potere, in modo da indurre gli stessi legislatori a riformare disposizioni così contrarie ai diritti di ogni cittadino e così ostili alla Chiesa, sostituendole con altre conciliabili con la coscienza cattolica. Intanto però Noi, con tutto l’animo e il cuore di Padre e di Pastore, esortiamo vivamente i Vescovi, i Sacerdoti e tutti coloro che in qualche modo intendono dedicarsi all’educazione della gioventù, a promuovere più intensamente con tutte le forze e con ogni mezzo l’insegnamento religioso e la pratica della vita cristiana. E ciò è tanto più necessario in quanto la nuova legislazione spagnola, con la deleteria introduzione del divorzio, osa profanare il santuario della famiglia, ponendo così — con la tentata dissoluzione della società domestica — i germi delle più dolorose rovine per il civile consorzio. – Dinanzi alla minaccia di così enormi danni raccomandiamo nuovamente e vivamente ai cattolici tutti di Spagna che, messi da parte lamenti e recriminazioni, subordinando anzi al bene comune della patria e della Religione ogni altro ideale, tutti si uniscano disciplinati per la difesa della fede e per allontanare i pericoli che minacciano lo stesso civile consorzio. – In modo speciale invitiamo tutti i fedeli ad unirsi nell’Azione Cattolica tante volte da Noi raccomandata; essa, pur non costituendo un partito, anzi dovendo porsi al di fuori e al di sopra di tutti i partiti politici, servirà a formare la coscienza dei cattolici, illuminandola e corroborandola nella difesa della fede contro ogni insidia. – Ed ora, Venerabili Fratelli e Figli dilettissimi, non sapremmo come meglio concludere questa Nostra lettera, se non ripetendovi che, più che negli aiuti degli uomini, dobbiamo aver fiducia nell’indefettibile assistenza promessa da Dio alla sua Chiesa e nell’immensa bontà del Signore verso coloro che lo amano. Perciò, considerando quanto è avvenuto presso di voi, e addolorati sopra ogni altra cosa per le gravi offese che sono state fatte alla Divina Maestà, con le numerose violazioni dei suoi sacrosanti diritti e con tante trasgressioni delle sue leggi, Noi rivolgiamo al cielo fervide preghiere, domandando a Dio il perdono per le offese a Lui recate. Egli, che tutto può, illumini le menti, raddrizzi le volontà, volga i cuori dei governanti a migliori consigli. A noi arride serena fiducia che la voce supplichevole di tanti buoni figli uniti a Noi nelle preghiera, soprattutto in questo Anno Santo della Redenzione, sarà benignamente accolta dalla clemenza del Padre celeste. – In tale fiducia, anche per propiziare su voi, Venerabili Fratelli e Diletti Figli, e su tutta la Nazione Spagnola, a Noi tanta cara, l’abbondanza dei celesti favori, vi impartiamo con tutta l’effusione dell’animo l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 3 giugno 1933, duodecimo del Nostro Pontificato.

PIUS PP.XI

DOMENICA XI, dopo PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XI dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXVII:6-7; 36
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.
[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]
Ps LXVII:2
Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus.
[Sorga Iddio, e siano dispersi i suoi nemici: fuggano dal suo cospetto quanti lo odiano.]
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ. [Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui, abundántia pietátis tuæ, et merita súpplicum excédis et vota: effúnde super nos misericórdiam tuam; ut dimíttas quæ consciéntia metuit, et adjícias quod orátio non præsúmit.
[O Dio onnipotente ed eterno che, per l’abbondanza della tua pietà, sopravanzi i meriti e i desideri di coloro che Ti invocano, effondi su di noi la tua misericordia, perdonando ciò che la coscienza teme e concedendo quanto la preghiera non osa sperare.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV:1-10
“Fratres: Notum vobis fácio Evangélium, quod prædicávi vobis, quod et accepístis, in quo et statis, per quod et salvámini: qua ratione prædicáverim vobis, si tenétis, nisi frustra credidístis. Trádidi enim vobis in primis, quod et accépi: quóniam Christus mortuus est pro peccátis nostris secúndum Scriptúras: et quia sepúltus est, et quia resurréxit tértia die secúndum Scriptúras: et quia visus est Cephæ, et post hoc úndecim. Deinde visus est plus quam quingéntis frátribus simul, ex quibus multi manent usque adhuc, quidam autem dormiérunt. Deinde visus est Jacóbo, deinde Apóstolis ómnibus: novíssime autem ómnium tamquam abortívo, visus est et mihi. Ego enim sum mínimus Apostolórum, qui non sum dignus vocári Apóstolus, quóniam persecútus sum Ecclésiam Dei. Grátia autem Dei sum id quod sum, et grátia ejus in me vácua non fuit.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, om. XXIII. – Torino 1899 –imprim.]

“Ora vi rammento, o fratelli, il Vangelo che vi ho predicato e che voi avete anche accettato, e nel quale state saldi e per il quale anche vi salverete, se lo ritenete nel modo che vi ho predicato, purché non abbiate creduto indarno. Perché prima di tutto vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto; come cioè Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture, e come fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture: e come apparve a Cefa e poscia agli undici: quindi apparve a più di cinquecento fratelli, dei quali molti vivono tuttora e gli altri morirono. Poi apparve a Giacomo, poi agli Apostoli; finalmente all’ultimo di tutti, quasi ad aborto, apparve anche a me, che sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato Apostolo perché ho perseguitata la Chiesa di Dio. Ma per la grazia di Dio sono quel che sono, e la grazia di Dio in me non fu sterile: anzi ho lavorato più di essi tutti: non già io, ma la grazia di Dio con me „ (I. Cor. c. XV, vers. 1-10).

Noi siamo siffatti, che sentiamo il bisogno vivissimo di mutare spesso le cose che ci stanno intorno e le impressioni che riceviamo, anche belle e gradite. Un cibo, una bevanda, ancorché squisita, se è sempre quella, ci viene a noia: una armonia, una vista, una scena, ancorché incantevole, dopo un certo tempo, non ci interessa gran fatto. Noi abbiamo bisogno di variare le nostre impressioni per gustarne la bellezza: siamo simili alle api, che vanno di fiore in fiore, succhiando da ciascuno il miele e assaporandone sempre nuove dolcezze. I Libri sacri, massime del nuovo Testamento, sono come un immenso panorama, nel quale le scene variano mirabilmente: sono come un vastissimo prato, coperto d’una infinita varietà di fiori, una splendida mensa imbandita d’ogni sorta di cibi. La Chiesa ci spiega dinanzi questo panorama, ci mostra questo prato, ci introduce a questa mensa, ma pone ogni cura di variare le viste ed i fiori, di mutare i cibi, onde con la novità rendere più gradevoli le nostre impressioni. Perciò ogni Domenica la Chiesa ci mette innanzi qualche tratto nuovo, volete nell’Epistola, volete nel Vangelo: ora è un fiore colto in una delle quattordici lettere di S. Paolo, od in una di quelle di S. Pietro, di S. Giovanni o di S. Giacomo; ora ci dà a gustare una scena narrata in uno dei quattro Evangeli, e ci nutre col cibo sostanzioso delle sentenze di Gesù Cristo, che vi sono largamente disseminate. Così la novità delle cose eccita la nostra curiosità e tien desta la nostra attenzione, e la nostra curiosità eccitata e la nostra attenzione più vivamente destata, trovano più gradito e più sostanzioso l’alimento della verità che ci è offerta. – La Chiesa in questa Domenica ci fa leggere e meditare i primi dieci versetti del capo XV della prima lettera ai Corinti, e servono di prefazione alla dottrina della risurrezione finale dei nostri corpi che l’Apostolo ampiamente vi svolge. Io vi invito a considerare con me questa breve lezione della Epistola, con cui S. Paolo si apre destramente la via a spiegare il dogma fondamentale della futura nostra risurrezione. – È manifesto da questo capo XV di S. Paolo che a Corinto, nella Chiesa fondata da lui stesso, vi erano alcuni che negavano la risurrezione dei corpi o almeno ne dubitavano (vers. 12, 35) e muovevano difficoltà, che turbavano la fede dei semplici. Forse era il mal seme già sparso dagli eretici Imeneo e Pileto, riprovati da S. Paolo (II. Timot. II, 17, 18), e che si propagava come gangrena, a detta dello stesso Apostolo. Volendo egli pertanto porre in sodo questo articolo capitale della nostra fede, comincia dal ricordare ai Corinti ciò che loro aveva insegnato, cioè che Cristo era veramente risorto dai morti, e ne cita i testimoni, per conchiudere poi a suo luogo, che se Cristo era veramente risorto, Egli il capo dell’umanità, tutti sarebbero risorti. Udiamolo: “Ora io vi rammento, o fratelli, il Vangelo che vi ho predicato, che voi ancora avete accettato, nel quale vi mantenete saldi. „ Il Vangelo che Paolo qui ricorda ai fedeli di Corinto, non è certamente il libro scritto, ma sì l’insegnamento evangelico, ossia la dottrina di Gesù Cristo: questa dottrina, egli Paolo, l’aveva annunziata, ed essi, i Corinti, l’avevano accolta: Accepìstis, non solo, ma in essa stavano saldi: In quo et statis. Doppio elogio che l’Apostolo fa ai suoi Corinti, quello d’aver ricevuto il Vangelo e di perseverare in esso in mezzo ai pericoli ed alle persecuzioni, che d’ogni parte li circondavano e molestavano. Figliuoli! quel Vangelo che i Corinti avevano ricevuto adulti, noi l’abbiamo ricevuto ancor bambini, prima ancora di conoscerne il tesoro: i Corinti vi si tennero fermi; imitiamoli, conservando gelosamente e a qualunque costo questa santa eredità lasciataci dai nostri avi: In quo et statis. Pur troppo alcuni dei nostri cari fratelli, massime istruiti, colpa dei tempi e della scaltrezza dei nemici e della debolezza umana, hanno perduta la fede succhiata col latte tra le braccia della madre: deh! Che nessuno di voi la perda, ma la serbi intatta e viva, perché ad essa è legata la nostra speranza e la eterna nostra salvezza. – Seguitiamo S. Paolo. “Per questo Vangelo voi sarete salvi; „ ma a qual patto? ” … Se lo tenete nel modo, con cui io ve l’ho predicato, „ risponde l’Apostolo. Non basta, o cari, avere la fede, ma bisogna averla e conservarla quale l’autore e consumatore della fede; ma Egli ce la dà per mezzo della sua Chiesa, che ne è la depositaria ed interprete infallibile. Noi dunque dobbiamo ricevere e conservare questa fede secondo l’insegnamento della Chiesa: aggiungervi o levarne una sola sillaba sarebbe delitto, sarebbe sacrilegio. Nessuno può mutare una parola d’una sentenza pronunciata da un tribunale che giudica secondo il codice e l’applica ai casi particolari e, se la mutasse, sarebbe punito: similmente noi dobbiamo ricevere le sentenze della Chiesa, unica interprete infallibile del Vangelo. Teniamo dunque il Vangelo come ce lo porge la Chiesa, e allora non avremo creduto indarno: Nisì frustra credidistìs, giacché pretendere di piegare la fede, allargarla, restringerla, modificarla secondoché pare alla nostra corta intelligenza, è un sottoporre Dio a noi stessi, è un farci giudici della sua parola, è un distruggere la natura stessa della fede, e questa è inutile: Frustra credidistìs. In tal caso non crederemmo a Dio, ma a noi medesimi, e la fede sarebbe non l’opera di Dio, ma sì l’opera nostra. Che cosa anzi tutto avete voi insegnato, o grande Apostolo, ai vostri Corinti? Qual fu il punto capitale del vostro Evangelo? Eccovelo: “Prima di tutto vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto. „ La verità, sì la naturale, come la sovrannaturale, quella propria della ragione, come quella della fede, non è opera o fattura dell’uomo; se lo fosse, sarebbe in potere dell’uomo annientarla o mutarla: essa viene da Dio, da Dio solo, e l’uomo non può esserne che il mezzo o lo strumento di comunicazione, non mai la sorgente. Bene a ragione pertanto S. Paolo dice: Quelle verità, che io vi ho insegnate, non sono mie, non le traggo da me stesso, ma le ho ricevute anch’io, come voi le ricevete da me: Tradidi vobis in primis quod et accepi. E da chi le ha ricevute S. Paolo? Lo dice e lo ripete altrove; non dagli uomini, né per gli uomini, ma da Gesù Cristo. — E che cosa ricevette da Gesù Cristo? “… Che Gesù Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture. „ Non basta: “Fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture. ,, In queste poche parole, come vedete, si contiene il compendio di tutta la Fede cristiana, la morte di Gesù Cristo per i nostri peccati, la sua sepoltura, la sua risurrezione, in breve, il secondo mistero della fede, che ci insegna il Catechismo. È da notarsi quella espressione ripetuta due volte: “Secondo le Scritture: „ Secundum Scripturas, che la Chiesa volle conservata nel Simbolo che si canta nella Messa. E perché questa espressione è con insistenza speciale inculcata? Le Scritture, delle quali parla in questo luogo l’Apostolo, non possono essere i libri del nuovo Testamento, che allora non esistevano che in minima proporzione, nè v’era ragione di citarli. Resta dunque che si alluda a quelli dell’antico Testamento, e v’era ben ragione di accennarvi. In quasi tutti i libri dell’antico Testamento si parla di Gesù Cristo, della sua venuta, della sua origine, della sua vita, della sua passione, morte e risurrezione, tantoché non è esagerazione il dire che tutta la vita di Cristo, prima che nei Vangeli, è scritta nei Profeti. È questo un vero miracolo, una prova della divinità di Gesù Cristo, e perciò S. Paolo, inteso sempre a raffermare nella fede i suoi neofiti, ricordando la vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, ricorda eziandio che questa vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, era già stata predetta e descritta nei Libri santi, e così delle prove della divinità di Gesù forma un solo fascio, che vince ogni opposizione e schiaccia qualunque mente riottosa. Vedete, sembra dire l’Apostolo, il cumulo di miracoli operati da Cristo che tutti si incentrano nella risurrezione, sono più che bastevoli a mostrare chi Egli sia: eppure vi è un altro cumulo di miracoli, che si legano ai primi, ed è che questi miracoli furono tutti predetti, e se volete persuadervene pigliate in mano i libri del vecchio Testamento e ve li troverete descritti prima che avvenissero: Secundum Scripturas. – Scopo dell’Apostolo, come dicemmo, è di mostrare il dogma della risurrezione universale: per mostrare questo dogma, egli appella alla risurrezione di Cristo, predetta dai Profeti. Ma questa risurrezione di Cristo è avvenuta? È certa? Si può provare? La risurrezione di Gesù Cristo è un miracolo, il sommo dei miracoli operati da Cristo, ed è insieme un fatto; un fatto che si può e si deve provare a punta di ragione. Ora i fatti come si provano? Indubbiamente coi testimoni; non c’è altra via. Come provate voi che Cristoforo Colombo abbia scoperto l’America e che Goffredo di Buglione abbia preso Gerusalemme? Con le testimonianze di quelli che videro od udirono quei fatti. Similmente nel caso nostro: se Cristo è veramente risorto noi lo sapremo da coloro che lo videro ed udirono risorto. Fuori dunque i testimoni degni di fede della risurrezione di Cristo. Paolo li accenna per sommi capi, e le sue parole sono come l’eco ed il sunto delle narrazioni evangeliche. “Gesù Cristo, dice S. Paolo, apparve a Cefa, cioè Pietro: „ Visus est Cephæ? È cosa che non deve passare inosservata: l’Apostolo, enumerando le principali apparizioni di Cristo, mette in primo luogo quella fatta a Pietro, avvenuta certamente il giorno stesso della risurrezione, come apparisce dal Vangelo di S. Luca (XXIV, 34), ancorché l’Evangelista non la descriva particolarmente (Senza dubbio la prima apparizione di Cristo risorto e dai Vangelisti narrata, fu fatta alle donne e alla Maddalena, andata al sepolcro in sul far del giorno, ma l’Apostolo la passa sotto silenzio e si restringe a quelle che ebbero gli Apostoli e discepoli, e la ragione è manifesta). E perché porre in primo luogo l’apparizione di Pietro: Visus est Cephæ? La ragione vuolsi cercare, penso io, nella dignità di Pietro: egli era il capo degli Apostoli, la pietra fondamentale della Chiesa, il Vicario di Gesù Cristo, da Lui stesso ripetutamente designato come tale: la sua testimonianza era la maggiore, e perciò doveva andare innanzi a quella degli Apostoli tutti: è questo un indizio non dubbio del primato di S. Pietro, che l’Apostolo S. Paolo ci dà in questo luogo, e del quale si deve tener conto. Dopo l’apparizione di Pietro viene quella degli Apostoli uniti: Et post hoc undecim. Gesù apparve il giorno della risurrezione, a notte chiusa, ai dieci Apostoli raccolti in Gerusalemme: erano dieci, perché, oltre Giuda, il traditore, mancava Tommaso, come narra S. Luca (XXIV). Otto giorni appresso, ancora secondo il Vangelo di S. Luca, Gesù apparve nuovamente agli Apostoli, ed a questa seconda apparizione di Gesù era presente S. Tommaso, ed a questa indubbiamente accenna S. Paolo, allorché dice: ” E poscia agli undici: „ Et post hoc undecim. Credo poi che l’Apostolo, accennando a questa seconda e più completa apparizione fatta a tutti gli Apostoli, in modo indiretto sì, ma certo, alludesse anche alla prima fatta ai dieci e registrata nello stesso Vangelo di S. Luca che, secondo alcuni, è quello che S. Paolo chiama Vangelo suo: Secundum Evangelium meum. Prosegue S. Paolo la sua enumerazione, e dice: ” Quindi apparve a più di cinquecento fratelli insieme: „ Deinde visus plus quam quingentis fratribus simul. La parola, insieme, usata da S. Paolo, non permette di considerare questi cinquecento e più testimoni come la somma totale di quelli ai quali Gesù risuscitato apparve; qui evidentemente parlasi di una apparizione speciale, a cui erano presenti più di cinquecento persone. Non può essere quella della Ascensione, perché S. Luca (Atti Apost. c. I, vers. 15) afferma che questa avvenne sul monte degli Olivi, presso Gerusalemme e sembra che tutti quelli i quali ne furono testimoni, si raccogliessero poi nel cenacolo, ed erano in numero di circa cento venti. Quale è dunque questa apparizione fatta a più di cinquecento persone insieme, molte delle quali, allorché S. Paolo scriveva la sua lettera, erano morte, ma alcune vivevano ancora? Dai Vangeli non apparisce né quando, né dove, né come avvenisse la grandiosa apparizione, ma secondo ogni verosimiglianza avvenne nella Galilea, dove Gesù Cristo stesso aveva comandato si radunassero e dove si sarebbe loro mostrato. ” Dite ai fratelli miei, che vadano in Galilea; là mi vedranno „ (Matt. XXVI, 10). – Checché sia del luogo e del tempo di questa apparizione, è indubitato che oltre a cinquecento persone ne furono testimoni, che è ciò che più importa. S. Paolo continua la enumerazione: “Dopo apparve a Giacomo, poi a tutti gli Apostoli .„ – Ignoriamo i particolari della apparizione fatta a Giacomo che si crede sia il Minore e poi Vescovo di Gerusalemme. L’apparizione poi che dicesi fatta agli Apostoli tutti, si può considerare come il compendio o riassunto di tutte le altre narrate o indicate nei Vangeli. – “Finalmente, all’ultimo di tutti, come ad aborto, conchiude S. Paolo, apparve anche a me. „ Io pure, esclama il grande Apostolo, ho veduto Cristo risorto, là sulla via di Damasco; io, ultimo degli Apostoli, io aborto di Apostolo, perché chiamato a tanta dignità dopo gli altri e in modo affatto diverso dagli altri, io pure l’ho veduto Gesù risorto, io pure ne sono testimonio. — Qui la mente dell’Apostolo, com’era naturale, vola sulle memorie e sulle vicende del passato: ricorda ciò che fu e quel che è di presente, raffronta l’alta dignità di Apostolo, della quale è rivestito, e la sua vita e condotta prima della miracolosa sua vocazione, sente la propria indegnità e l’immenso beneficio della grazia ricevuta, e nell’impeto, non so ben dire della sua riconoscenza o del suo dolore, e più probabilmente dell’una e dell’altro, esce in questo grido sublime: “Perché io sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato Apostolo! „ E perché, o vaso di elezione, vi chiamate minimo degli Apostoli, indegno d’essere Apostolo? Non avete voi lavorato come e più degli altri Apostoli? Non siete voi l’Apostolo dei Gentili? Non siete voi stato chiamato da Cristo stesso, e in un baleno da Lui trasformato meravigliosamente? Non avete portate le vostre catene dinanzi ai tribunali della terra per amore di Cristo, per Lui vergheggiato, per Lui lapidato? Migliaia e migliaia di Gentili guadagnati a Cristo, non formano la corona e la gloria del vostro apostolato? Sì, tutto questo è vero, lo so, risponde l’incomparabile Apostolo; ma io ricordo d’aver perseguitato la Chiesa di Dio: Persecutus sum Ecclesiam Dei; il sangue di Stefano mi sta sempre dinanzi agli occhi: sono Apostolo di Cristo, ma prima fui suo persecutore e feroce persecutore: Persecutus sum supra modum, come scrive altrove: unico tra gli Apostoli fui persecutore della Chiesa prima d’essere Apostolo: ciò mi umilia, mi confonde, mi copre di vergogna, e mi fa sentire d’essere non solo l’ultimo degli Apostoli, ma indegno d’essere Apostolo. Questi due versetti, nella loro semplicità ed inarrivabile eloquenza, ci rivelano tutta la grand’anima dell’Apostolo, ce ne fanno vedere il fondo, e per poco ci strappano le lacrime. Ma torniamo all’argomento che l’Apostolo sta svolgendo. Vuol provare, come dicemmo, la risurrezione futura dei nostri corpi; per provarla appella alla risurrezione gloriosa del corpo di Gesù Cristo, nostro capo e modello: e per provare il fatto della risurrezione di Gesù Cristo appella all’autorità dei testimoni, Pietro, Giacomo, gli undici Apostoli, tutti gli Apostoli, cinquecento persone che lo videro, e infine produce la propria testimonianza. Qual serie, quale schiera di testimoni pel numero, per le qualità morali, per la costanza, per la varietà ed unanimità, per le conseguenze pari a questa! Un fatto qualunque attestato da due, tre, quattro persone oneste ed intelligenti e degne di fede genera in noi la certezza del fatto istesso, per guisa che non ci resta ombra di dubbio, e sulla loro testimonianza i tribunali pronunciano sentenze della più alta importanza, e tutti le trovano ragionevoli e giuste: il fatto della risurrezione di Gesù Cristo è affermato da tutti gli Apostoli e i discepoli: è affermato da oltre cinquecento persone che protestano d’averlo veduto e toccato, d’aver mangiato con Lui e ricevuti i suoi comandi; è affermato dovunque, costantemente, sempre allo stesso modo, ed a costo di esili, di carceri, di supplizi e della morte più atroce: chi mai potrebbe dubitarne? Se fosse possibile dubitare di tale e tanta testimonianza, sulla terra non vi sarebbe più un solo fatto che si potesse dir certo; sarebbe forza dubitare d’ogni cosa. Voi vedete pertanto che il gran fatto della risurrezione di Gesù Cristo, base della nostra fede, riposa sul più incrollabile fondamento che si possa desiderare, agli occhi stessi della ragione umana. Paolo aveva proclamato d’essere il minimo degli Apostoli, d’essere indegno di sì alta prerogativa: era il grido sincero della sua coscienza, era l’omaggio dovuto alla verità; ma l’umiltà è inseparabile dalla verità, anzi essa è verità, null’altro che verità. Io, per me, dice Paolo, non sono stato che un miserabile persecutore della Chiesa, e lo sarei tuttora; “… ma per la grazia di Dio sono quel che sono; „ sono cioè Apostolo di Gesù Cristo: Gratìa Dei sum id quod sum. E perché, o grande Apostolo, per la grazia di Dio siete quel che siete? Perché, risponde, la grazia di Dio in me non fu sterile. ., Non fu come un raggio di sole, che cade sopra un occhio chiuso, come un seme sparso sulla pietra, come un ramo innestato sopra un tronco disseccato. A questa grazia, con la quale Iddio mi chiamò senza alcun mio merito, anzi ad onta dei miei demeriti, io risposi, e risposi perché mi diede la grazia di rispondere e feci ogni suo volere. In altri termini, se sono uscito dalla cecità ebraica ed ho abbracciato il Vangelo di Gesù Cristo, e fattone Apostolo, lo devo anzi tutto alla grazia di Dio; ma non solo alla grazia di Dio, sebbene anche alla mia cooperazione. È questa la dottrina cattolica intorno ai rapporti della grazia divina e del nostro libero arbitrio, esposta da S. Paolo con una chiarezza e precisione, che non lascia nulla da desiderare. Dio previene con la sua grazia, illuminando la mente e movendo la volontà, e l’uomo lasciandosi illuminare e muovere e cooperando alla grazia con l’unire all’azione di questa la propria azione. Che cosa sono le opere buone e sante del Cristiano? Sono il risultato dell’azione divina, mercé della grazia e dell’azione umana, mercé del concorso della volontà nostra, insieme unite ed armonizzanti. – Badiamo, o cari, che la grazia di Dio non fa mai difetto, come nel seme non fa difetto il principio vitale; ma che questo rimane sterile se la terra che lo riceve, non è preparata e non risponde. Che non rimanga giammai sterile questo germe della grazia che Dio ci largisce, onde possiamo dire con S. Paolo: Gratia ejus in me vacua non fuit! L’Apostolo conchiude il suo dire che la grazia di Dio in lui non solo non fu sterile ma fu ricca di opere, a talché, soggiunge: “Ho faticato più di tutti gli Apostoli: „ Abundantius illìs omnibus laboravi. Santa franchezza e mirabile audacia questa del nostro Paolo! Protesta d’essere l’ultimo degli Apostoli, indegno di chiamarsi Apostolo, non Apostolo, ma aborto di Apostolo, e poi non esita a dichiarare di aver fatto più di tutti gli altri Apostoli. Parrebbe una contraddizione manifesta, ed è una lampante verità: egli è veramente l’uno e l’altro, secondochè consideriamo in lui ciò che era da sé prima dell’opera della grazia, e ciò che fu poi dopo l’opera trasformatrice della grazia. E poiché gli parve che l’aver detto: “Ho faticato più degli altri Apostoli, „ potesse sonare millanteria, quasi fosse opera tutta sua, spiega stupendamente l’espressione, soggiungendo: “Non io, ma sì la grazia di Dio con me: „ Non ego autem. sed gratia Dei mecum. Le opere del mio apostolato sono grandi, maggiori di quelle dei miei fratelli, che mi precedettero; voi le vedete e le vede il mondo tutto; ma esse non sono esclusivamente mie; sono mie e della grazia di Dio, che mi prevenne, mi avvalorò e le condusse a termine. È la stessa verità sopra accennata è  qui ribadita con una frase brevissima e insieme chiarissima: “La grazia di Dio con me. „ – Tenete saldi, o dilettissimi, questi due gran capi di dottrina cattolica, qui stabiliti dall’Apostolo, vale a dire, la necessità della grazia di Dio e la cooperazione della libera nostra volontà per fare il bene ed operare la nostra salvezza eterna; questi due elementi, queste due forze insieme unite portano le anime nostre alle altezze dei cieli e le depongono in seno a Dio; separate, le lasciano povere e nude su questa misera terra, anzi le lasciano cadere negli abissi di eterna dannazione. Il far sì che siano o congiunte o separate dipende da noi, onde se bene si guarda, la salute eterna o l’eterna perdizione è nelle nostre mani, perché è sempre in nostro potere usare o non usare della grazia divina a tutti e sempre più che bastevolmente offerta.

Graduale
Ps XXVII:7 – :1
In Deo sperávit cor meum, et adjútus sum: et reflóruit caro mea, et ex voluntáte mea confitébor illi.
[Il mio cuore confidò in Dio e fui soccorso: e anche il mio corpo lo loda, cosí come ne esulta l’ànima mia.]
V. Ad te, Dómine, clamávi: Deus meus, ne síleas, ne discédas a me. Allelúja, allelúja [A Te, o Signore, io grido: Dio mio, non rimanere muto: non allontanarti da me.]

Alleluja

Allelúia, allelúia
Ps LXXX:2-3
Exsultáte Deo, adjutóri nostro, jubiláte Deo Jacob: súmite psalmum jucúndum cum cíthara. Allelúja.

[Esultate in Dio, nostro aiuto, innalzate lodi al Dio di Giacobbe: intonate il salmo festoso con la cetra. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum s. Marcum.
R. Gloria tibi, Domine!
Marc VII:31-37
In illo témpore: Exiens Jesus de fínibus Tyri, venit per Sidónem ad mare Galilaeæ, inter médios fines Decapóleos. Et addúcunt ei surdum et mutum, et deprecabántur eum, ut impónat illi manum. Et apprehéndens eum de turba seórsum, misit dígitos suos in aurículas ejus: et éxspuens, tétigit linguam ejus: et suspíciens in cœlum, ingémuit, et ait illi: Ephphetha, quod est adaperíre.
Et statim apértæ sunt aures ejus, et solútum est vínculum linguæ ejus, et loquebátur recte. Et præcépit illis, ne cui dícerent. Quanto autem eis præcipiébat, tanto magis plus prædicábant: et eo ámplius admirabántur, dicéntes: Bene ómnia fecit: et surdos fecit audíre et mutos loqui.

Omelia II

[Mons. G. Bonomelli, ut supra, om. XXIV]

“Gesù, partitosi” di nuovo dai confini di Tiro, venne per Sidone, presso al mare di Galilea, per mezzo i confini della Decapoli. – Gli condussero innanzi un sordo è mutolo, e lo pregavano, perché gli volesse porre la mano sul capo. Ed egli, trattolo in disparte dalla folla, pose le sue dita nelle orecchie di quello, ed avendo sputato, gli toccò la lingua. Poi, levati gli occhi al cielo, trasse un gran sospiro, e dissegli: Effeta, cioè apriti. E incontanente le sue orecchie furono aperte e si sciolse il nodo della lingua e speditamente parlava. E comandò loro che non lo dicessero a persona; ma più Egli lo divietava loro e più quelli lo predicavano. E n’erano sopramodo stupiti, dicendo: Egli ha fatto bene ogni cosa, e fa udire i sordi e parlare i muti „ (S. Marco, VII, 31-87). –

È questa la lezione evangelica, che la Chiesa ci mette innanzi a meditare in questa Domenica undecima dopo la Pentecoste. In essa non troviamo una sola sentenza che si riferisca alle verità di fede da credersi, o a quelle del costume da praticarsi, ma si narra soltanto un miracolo operato da Gesù Cristo nella persona d’un sordo e mutolo. Ma poiché S. Girolamo ci insegna, che nelle S. Scritture non vi è punto, non àpice, che non racchiuda verità preziosa, non è a dubitare che eziandio in questo fatto si contengano documenti d’alta sapienza, utilissimi a conoscersi. La Scrittura santa, scrisse S. Ireneo, “… è simile ad una miniera ricca d’oro; per trovare il prezioso metallo fa d’uopo scavare, penetrare nelle viscere della terra, scrutarne ogni parte e, trovatolo, sceverarlo dalla mondiglia. E ciò che faremo noi pure stamattina, studiando il fatto evangelico, che avete udito. – “Gesù, partitosi di nuovo dai confini di Tiro, per Sidone, venne presso al mare di Galilea, per mezzo i confini della Decapoli. „ Rare volte nei Vangeli troviamo determinati e nominati sì particolarmente i luoghi, che Gesù onorò della sua presenza, come in questo tratto. È dunque da fermarvisi un poco per conoscere il teatro che Gesù Cristo scelse per spiegarvi le opere della sua potenza. La Palestina si stende dai piedi del Libano fin presso ai confini dell’Egitto, chiusa ad oriente dai monti di Moàb, dal Giordano e dai laghi di Genesaret o Tiberiade e mar Morto, e ad occidente dal Mediterraneo. La sua larghezza da Oriente ad Occidente varia da 40 a 70 chilometri, la sua lunghezza da tramontana a mezzogiorno, può toccare i duecento, onde la sua estensione totale è assai minore della nostra Lombardia; sono sedici mila chilometri quadrati! La Galilea, serrata tra il Libano, il suo lago ed il mare, è separata dalla Giudea, perché tramezzo sta la Samaria. Regione incantevole un tempo per i suoi colli, per le sue valli, per i suoi monti, per l’ubertà meravigliosa della sua terra, coperta di messi, di vigne, di olivi, di oleandri, vero sorriso del cielo, ed oggi povera e convertita quasi in deserto. Fu là, su quelle rive ridenti del suo lago, su quei colli amenissimi, che Gesù cominciò a predicare il regno dei cieli ai poverelli, che fece udire le più sublimi verità che siano mai cadute da labbro umano. Dopo aver moltiplicato i cinque pani, voi lo sapete, le turbe nel loro entusiasmo lo volevano far re: Gesù si sottrasse, e sembra che all’intento di quitare ogni tumulto popolare e tagliar corto a qualunque tentativo di questa natura, per qualche tempo si ritraesse da quei luoghi. Egli, come narrano gli Evangelisti, si ridusse presso il mare, nelle vicinanze di Tiro e Sidone, dove guarì la figlia della povera Cananea. Di là, riprese la via che metteva ancora al lago di Galilea, attraversando la Decapoli, ossia le dieci città, dove erano misti Ebrei e Gentili. E fu appunto in questo viaggio, che Gesù operò il miracolo del sordomuto che ci narra il Vangelo, benché taccia il luogo preciso dove avvenne. – Gesù si studiava di evitare la folla, ma il suo nome era sulle bocche di tutti: la curiosità naturale, la brama di vedere miracoli, di udire quella parola ammaliatrice, traevano sui suoi passi le moltitudini: ciechi, zoppi, infermi d’ogni maniera si mettevano dinanzi a Lui affinché li risanasse. Tra gli altri, scrive il nostro Evangelista, “gli menarono innanzi un sordo e muto e lo pregavano, affinché gli ponesse la mano sul capo. „ Questo fatto è narrato dal solo S. Marco. È noto che la mutolezza di origine è conseguenza della sordità, perché chi non ode non può apprendere la favella, e perciò il malanno della sordità trae seco l’altro malanno della mutolezza. Non si dice nel Vangelo se l’infelice era tale dalla nascita o lo divenisse appresso, limitandosi ad affermare, “che era sordo e mutolo; „ ma sembra che fossa diventato sordo appresso, perché la sua mutolezza non era assoluta. E in vero, il testo greco dice che parlava male, a stento, balbettando, e perciò in qualche modo si poteva chiamare muto. Questo sordo e muto fu tratto innanzi a Gesù Cristo da alcune caritatevoli persone, le quali pregarono il divino Maestro a risanarlo. – E qui permettetemi due osservazioni semplicissime, che il fatto mi suggerisce. La prima è questa; senza dubbio Gesù Cristo conosceva la sventura del povero sordomuto e ne voleva la guarigione: perché dunque non la operò senza esserne pregato? Perché la differì sino a che ne fu pregato? Appunto per esserne pregato! Sono pochi, pochissimi i miracoli operati da Cristo, senza esserne pregato e talora istantemente. E perché? Perché vuole che ne riconosciamo il bisogno, che ci umiliamo, confessando la nostra impotenza e la sua onnipotenza, e perché in qualche modo con la nostra preghiera concorriamo ad ottenere il miracolo istesso. Si direbbe che Dio non vuol far nulla senza di noi, dove noi possiamo concorrere. La seconda osservazione è questa: i nostri fratelli protestanti negano che gli Angeli ed i Santi in cielo possano pregare ed intercedere per noi: dicono che noi, rivolgendoci ai Santi, agli Angeli, alla Vergine affinché preghino Iddio per noi, facciamo ingiuria a Dio stesso, quasi ché Egli sia men buono di loro ed abbia bisogno di mediatori. Voi qui vedete alcuni pietosi che menano a Gesù Cristo il sordo e mutolo e lo pregano di guarirlo: Deprecabantur eum; e Gesù non si offese, non respinse come ingiuriosa la loro preghiera, anzi la gradì, e la gradì per modo che fece paghi i loro desideri, e la esaudì con il miracolo. Se qui in terra gli uomini, sì imperfetti e spesso peccatori, possono pregare per i loro fratelli bisognosi, perché i Santi, gli Angeli, la Vergine benedetta, non lo potranno pregare in cielo? Perché Iddio rigetterà in cielo ciò che gli è accettevole in terra? È dunque chiaro che la invocazione dei Santi è lecita, utile e cara a Dio. Quei buoni popolani che condussero a Gesù il sordo e muto, lo pregarono di sanarlo; ma in qual modo? Con gl’imporgli la mano sul capo: Ut imponet illì manum. È cosa singolare l’udire quella buona gente, chiedere un miracolo a Gesù e determinarne per poco il modo, mercé l’imposizione delle mani. Perché l’imposizione delle mani? Era questo un rito in uso presso gli Ebrei e consacrato poi nella Chiesa: esso soleva accompagnare la preghiera che si faceva sopra una persona, quasi simbolo della grazia divina che discende dall’alto. Giacobbe morente benedice i figli di Giuseppe e pone le sue mani tremanti sul loro capo (Gen. XLVIII, 14-17): il capo della sinagoga, Giairo, prega Gesù di salvargli la figlia agonizzante, e Gli dice: “Vieni, metti la tua mano sul suo capo e sarà salva „ (Marco, V, 23). Gesù benedice i fanciulli e pone le sue mani sul loro capo (Marco, X, 16). Che più? Gesù Cristo stabilì che lo Spirito Santo fosse dato nel Sacramento della Conferma zione, e il Sacerdozio conferito nel Sacramento dell’Ordine con la imposizione delle mani. Questo rito dunque è antico e venerando e da Gesù Cristo usato non solo, ma da Lui elevato alla dignità di Sacramento. – Le mani che si posano sul capo, la parte più nobile e più elevata dell’uomo, congiunte alla invocazione divina, ci adombrano il misterioso commercio della terra con il cielo, dell’uomo con Dio, e sembrano stabilire tra l’uno e l’altro l’invisibile corrente della grazia. Ecco perché coloro che menarono a Gesù il sordomuto, lo pregarono che volesse mettere sopra di lui la mano: era un dirgli: “Prega per lui e guariscilo.” Gesù non fu mai pregato indarno. Pigliate in mano il Vangelo, scorretelo pagina per pagina, versetto per versetto, e troverete che Gesù Cristo alcuna volta operò miracoli non pregato, ma non troverete giammai che, pregato, rimandasse inesaudito chicchessia: la bontà del suo cuore non glielo permetteva, quantunque per lo più non si trattasse di beni e favori spirituali, ma di grazie temporali: ed una prova l’abbiamo nel fatto evangelico odierno. Appena Gesù si vide innanzi quel misero ed ebbe udita la preghiera di quelli che glielo presentarono, fu tocco di compassione, e presolo in disparte dalla turba, pose le sue dita nelle orecchie di lui, ed avendo sputato, gli toccò la lingua, e poi levati in alto gli occhi e dato un gran sospiro, gli disse: ” Effeta, cioè apriti. „ . – Non occorre il dirlo, o carissimi! Gesù, il Figlio di Dio, onnipotente, poteva operare qualunque miracolo nei modi e luoghi e tempi che voleva; poteva operare qualunque miracolo con l’atto solo del suo volere, senza lasciarne apparire esternamente nemmeno un segno, un indizio tuttoché minimo; ma è chiaro dal Vangelo ch’Egli accompagnò sempre i suoi miracoli con qualche atto esterno, o con la parola, o con la preghiera, o con l’impero, o con qualche altro segno che varia secondo le circostanze. Caccia i demoni e rabbonaccia il lago con una parola d’assoluto imperio: guarisce infermi, monda lebbrosi, restituisce la vista ai ciechi con queste semplici parole: Sii sano, sii mondato! vedi: risana un paralitico, dicendo: Piglia il tuo letticciuolo e vattene; risuscita Lazzaro con quelle tre parole: ” Lazzaro, vien fuori. „ È cosa evidente che Gesù opera i suoi miracoli, accompagnandoli con alcune parole o con qualche atto o toccamento, non perché di queste cose abbisognasse (che sarebbe cosa ridicola), ma per mostrare nella coincidenza delle sue parole, dei suoi atti e de’ suoi toccamenti, coll’effetto miracoloso, che questo era veramente suo. Se i miracoli suoi non fossero stati congiunti con la manifestazione del suo volere, che solo ne era la causa, chi mai avrebbe potuto dire e credere con sicurezza che erano opera sua? Queste parole e questi atti accompagnanti i miracoli di Gesù Cristo sono vari, ma in generale rispondono alla natura dei miracoli stessi, alle circostanze di tempo, di luogo e di persone, al fine che si proponeva e andate dicendo. Ciò posto, veniamo al modo affatto particolare, che Gesù Cristo tenne nella guarigione del nostro sordomuto. Anzitutto lo piglia in disparte dalla folla : Àpprehendens eum de turba seorum. Non lo trasse in disparte in guisa da essere solo a solo col sordomuto, e nascosto agli occhi della moltitudine, come io penso; ma lo volle separato dalla moltitudine in maniera che la moltitudine lo vedesse meglio e fosse spettatrice sicura del miracolo e del modo con cui operava il miracolo; giacché scopo precipuo dei miracoli di Gesù Cristo, come sapete, era quello di mostrare e confermare la sua divina missione e, per conseguenza, la dottrina che insegnava: ora per raggiungere questo scopo era necessario che i suoi miracoli fossero indubitati, operati alla piena luce del giorno, non nascostamente, a talché potessero convincere i più restii e gli stessi suoi nemici. Poiché Gesù ebbe tratto in disparte il sordomuto e messolo, a così dire, sotto gli occhi di tutti, gli pose le dita nelle orecchie, e umettato della sua saliva o l’indice od il pollice, con esso toccò la lingua di lui. Perché tutto questo? Ve l’ho or ora detto, non già che questi atti fossero necessari ad operare il miracolo, o che in essi si racchiudesse materialmente il segreto e la efficacia della guarigione, ma solo per mostrare ch’era Egli colui che risanava quelle parti o membra inferme, applicando ad esse la sua occulta virtù onnipotente, adombrata da quei due toccamenti misteriosi. Né tutto questo bastò a Gesù: dal profondo del suo petto, dall’intimo dell’anima, trasse un sospiro angoscioso ed in pari tempo levò gli occhi al cielo: Suspìciens in cœlum, ingemuit: due atti distintissimi e compiuti nello stesso momento: con quel sospiro o gemito Gesù mostrò come vedeva e sentiva tutte le miserie dell’umana famiglia, della quale il povero sordomuto era una prova parlante, e che la virtù risanatrice non veniva dalla terra, dagli uomini, ma dal cielo e da Dio stesso. Senza dubbio gli atti esterni sono, per chi bene li considera, parole che manifestano ciò che passa nell’animo, e parole eloquenti; ma se a questi atti si aggiunge la parola esterna che li spiega, il loro significato riceve maggior luce e si toglie ogni dubbiezza; è per questo che Gesù Cristo, istituendo i Sacramenti, che sono riti esterni significanti ciò che internamente operano, volle si aggiungessero le parole, che li spiegano con tutta chiarezza. Così, mentre col versare l’acqua sul capo del bambino si esprime l’interna purificazione e mondezza dell’anima, e con l’ungere la sua fronte col crisma si significa l’interna unzione della grazia, con le parole che accompagnano quei riti sacri, si spiega nettamente ciò che essi operano. Ecco il perché Gesù Cristo, al toccamento delle orecchie e della lingua del sordomuto, al sollevare degli occhi in cielo ed al gremito che trasse affannosamente dal cuore, aggiunse la parola: Effeta, apriti, che tutto comprendeva e spiegava … È troppo facile immaginare qual doveva essere in quell’istante solenne l’atteggiamento e l’aspettazione di quella folla che gli stava intorno. Tutti gli occhi erano fissi in Gesù e nel sordomuto; i lontani si levavano in punta di piedi per vedere; tutte le orecchie erano tese ad udire le parole di Gesù e del sordomuto, se per avventura ne pronunciava: il silenzio era profondo ed assoluto, e il ronzio d’un insetto sarebbesi certamente udito. Appena pronunciata quella parola imperiosa: ” Apriti, „ le orecchie furono aperte, si sciolse il legame della lingua e speditamente parlava (2). La doppia infermità della sordità e della mutolezza era certa, notissima; Gesù non vi adopra intorno alcun rimedio naturale, se rimedio non si vogliono dire il toccare le orecchie e la lingua, il guardare il cielo e il dare un sospiro e il pronunciare quella parola: ” Apriti . „ E fosse pure che vi avesse usato intorno qualche rimedio naturale, questo non poteva certamente produrre immediatamente il suo effetto: la guarigione fu istantanea, testimonio l’intero popolo: essa non può attribuirsi a cause umane, ma al solo comando di Cristo; che è quanto dire, è un miracolo manifesto. Alcune riflessioni non inutili, o carissimi: come sulla terra vi sono uomini, grazie a Dio, non molti, che sono infermi delle orecchie e della lingua del corpo, così vi sono uomini, e pur troppo senza numero, infermi delle orecchie e della lingua dell’animo. Sono coloro, che non ascoltano mai la parola di Dio, o se l’ascoltano talvolta, non ne penetrano il senso; sono coloro che non sciolgono mai la lingua alla preghiera, che non ringraziano mai il buon Dio dei benefici ricevuti, che pronti a parlare di tutto e a difendere lo loro massime, le loro idee, i loro diritti, sono muti allorché si tratta di confessare o difendere la fede, che professano e le ragioni della giustizia e della verità. Ah! questi uomini, questi sordi, questi mutoli hanno bisogno che Gesù Cristo apra loro le orecchie, sciolga la lingua del loro spirito con un gemito del suo cuore e con quella parola potente: “Apriti”. Ben è vero, che nel santo Battesimo, nei riti che lo precedono, a noi pure il sacro ministro toccò le nostre orecchie e con la sua saliva toccò la nostra lingua e pronunciò la mistica parola: “ Effeta, apriti, „ come Cristo fece col sordomuto del Vangelo; ma è pur vero che molti di noi, fatti adulti, volontariamente chiusero quelle orecchie che erano state aperte, legarono quella lingua ch’era stata sciolta, e divennero ancora sordi e muti. Che fare, o dilettissimi? Gesù è pronto a rinnovare in ciascuno di noi quel miracolo che operò nel sordomuto, di cui parla il Vangelo: lasciamo che lo operi, anzi preghiamolo che si degni operarlo in noi con quel suo gemito e con quella sua parola onnipossente: Apriti! Apriamo sempre le orecchie ad udire la parola di verità, e la lingua sia sempre pronta e sciolta a celebrare le lodi di Dio! Operato il miracolo e manifestatosi da sé stesso agli astanti nella favella libera e spedita del poverello già sordo e mutolo, “… Gesù comandò che non lo dicessero ad alcuno: ma più Egli lo vietava loro e più essi lo predicavano. „ – In questo stesso Vangelo di S. Marco (V, 19), si narra come Gesù liberò un infelice dalla signoria del demonio, che lo tiranneggiava e orribilmente malmenava, e poi gli disse: “Va, di’ ai tuoi quel che ti ha fatto il Signore. „ Come si compongono questi due comandi di Gesù Cristo? Con l’uno divieta che si divulghi il miracolo del sordomuto, e con l’altro impone che si manifesti la liberazione miracolosa dell’ossesso? E non era bene che il miracolo del sordomuto fosse conosciuto e così fosse conosciuta la missione divina di Gesù Cristo? Non era questo il fine, per cui operava i miracoli? Nell’interesse della salvezza delle anime e della gloria del Padre suo, Gesù doveva desiderarne la divulgazione massima: perché dichiara di non volerla? – Non fa mestieri il dirlo: in Gesù Cristo non vi fu mai, né poteva esservi ombra di contraddizione: questa diversità di condotta nei due fatti forse si deve spiegare da diverse condizioni di luogo, di tempo, di circostanze nelle quali Gesù si trovò e che noi non conosciamo e il Vangelo non volle dire (Apparisce dal “Vangelo che alcuna volta Gesù Cristo ebbe cura di non irritare maggiormente i suoi nemici, scribi e farisei; forse in quel momento fa prudenza per lui imporre silenzio alle turbe per mostrare ad essi che non cercava le lodi degli uomini e che, se queste gli venivano, erano uno spontaneo tributo di ammirazione e gratitudine); forse anche, come avvertono alcuni interpreti, qui è da ricordare in Gesù la sua doppia natura, divina ed umana: come uomo, Egli diceva: La gloria mia è nulla, ed amava il nascondimento, e perciò vietava o mostrava di desiderare che il miracolo si tenesse occulto; come Figliuol di Dio, voleva e doveva volere che fosse conosciuto e predicato dovunque. Qui parlò come uomo, dandoci esempio di modestia. Ma certo il suo divieto di parlarne non fu un comando esplicito, perché se fosse stato tale, ne avrebbe voluto la osservanza o, violato, ne avrebbe mosso rimprovero o lamento. Del resto, come esigere il silenzio sovra un miracolo ed esigerlo da una moltitudine che non capiva in sé per la meraviglia, e piena di un santo entusiasmo? Come impedire la manifestazione strepitosa della gratitudine? Era questa da parte del popolo e del sordomuto e suoi congiunti ed amici l’adempimento d’un dovere. – Il Vangelo si chiude con queste parole: “E ne erano sopra modo stupiti, e dicevano: Ogni cosa ha fatto bene, e fa udire i sordi e favellare i muti. „ Doveva, essere questo naturalmente il grido di quella moltitudine, grido nel quale si confondevano e compendiavano le voci e gli applausi che salivano al cielo. Carissimi! ogni giorno, ogni istante della nostra vita, riceviamo benefici da Dio e quali e quanti! Possiamo dire che la nostra esistenza è un continuo beneficio di Dio sì nell’ordine naturale come nel soprannaturale: questi benefici sono senza confronto maggiori di quello che ricevette il sordomuto e che le turbe ammirarono. I benefici nostri, per essere continui, passano quasi inosservati e spesso ci dimentichiamo di renderne grazie al benigno Datore: Assiduitate vilescunt. Ah! non sia così, o dilettissimi. Se non ad ogni momento, almeno a quando a quando fra il giorno, al meno all’aprirsi ed al chiudersi del giorno, ci esca dal cuore il grido di lode, di ammirazione, di ringraziamento, di gratitudine, che la guarigione miracolosa del sordomuto strappò a quella folla: Egli, il nostro Dio, il nostro Creatore e Salvatore ha fatto bene ogni cosa: a Lui onore e gloria ora e sempre per tutti i secoli. Amen.

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps XXIX:2-3
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me, nec delectásti inimícos meos super me: Dómine, clamávi ad te, et sanásti me.
[O Signore, Ti esalterò perché mi hai accolto e non hai permesso che i miei nemici ridessero di me: Ti ho invocato, o Signore, e Tu mi hai guarito.]

Secreta
Réspice, Dómine, quǽsumus, nostram propítius servitútem: ut, quod offérimus, sit tibi munus accéptum, et sit nostræ fragilitátis subsidium. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno al nostro servizio, affinché ciò che offriamo a Te sia gradito, e a noi sia di aiuto nella nostra fragilità.]

Communio
Prov III:9-10
Hónora Dóminum de tua substántia, et de prímitus frugum tuárum: et implebúntur hórrea tua saturitáte, et vino torculária redundábunt.
[Onora il Signore con i tuoi beni e con l’offerta delle primizie dei tuoi frutti, allora i tuoi granai si riempiranno abbondantemente e gli strettoi ridonderanno di vino.]

Postcommunio
Orémus.
Sentiámus, quǽsumus, Dómine, tui perceptióne sacraménti, subsídium mentis et córporis: ut, in utróque salváti, cæléstis remédii plenitúdine gloriémur.
[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, mediante la partecipazione al tuo sacramento, noi sperimentiamo l’aiuto per l’ànima e per il corpo, affinché, salvi nell’una e nell’altro, ci gloriamo della pienezza del celeste rimedio.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XXII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXII.

L’UOMO.

Il primo uomo e la prima donna. — Se si possa ammettere l’umanità preistorica. — Il trasformismo di Darwin, ossia l’uomo dalla scimmia. —  Le diverse razze e l’unità della specie umana. — Il fine della vita.

— Desidererei ora di apprendere qualche cosa intorno all’uomo.

Ed io ti dirò subito che la Scrittura ci dice chiaro, che l’uomo fu creato da Dio: che « Dio formò il corpo dell’uomo dal fango della terra, e gli alitò in volto il soffio della vita: che poscia, mandato un profondo sonno a questo primo uomo, gli trasse dal fianco una costa e con essa ne formò la prima donna, che diede a lui per aiuto e compagna, e che il primo uomo chiamò Adamo, che vuol dire di terra, oppure rosso, cioè di terra rossa, oppure anche dotato di linguaggio, e la prima donna Eva, che significa madre dei viventi ».

— Ma a dirle il vero tutto ciò mi sembra una storiella da ridere.

Ed io ti compatisco, perché so che più che il tuo sentimento esprimi quello degli increduli. Ma del resto che cosa vi ha di ridicolo in ciò! Vorrei un po’ che tu suggerissi qualche altro modo, che Iddio avrebbe potuto tenere nel creare l’uomo per vedere se alla mia volta non avrei da ridere del tuo suggerimento? D’altronde se Iddio è puro spirito, epperciò non ha le mani come noi, non devi mica credere che quando la Scrittura ci dice che Dio formò  il corpo dell’uomo, abbia preso del fango con le mani e poi dalla bocca gli abbia soffiato sopra materialmente: ma devi capire che l a Scrittura ci vuol in tal guisa significare che Iddio con la sua onnipotenza, valendosi forse anche, come dice S. Basilio, del ministero degli Angeli, formò il corpo di Adamo, e creò l’anima e gliela infuse.

— Ma quella creazione della donna da una costa dell’uomo?

Ti par proprio strana, non è vero? Ma ciò proviene dalla picciolezza della tua intelligenza, per cui misuri Iddio sopra te stesso e a seconda delle tue viste. Ma Dio non è come noi, e quello che a noi può sembrare strano per Lui è sapientissimo. In quante altre cose Dio segue delle vie tutto diverse da quelle che seguiremmo noi! Del resto se Iddio ha fatto così a creare la donna, ne ha avuto certamente le sue ragioni. E S. Tommaso d’Aquino, da quel gran genio, che egli è, ne indica alcune, dicendo che la donna fu tratta dall’uomo, perché fosse conservata la dignità dell’uomo istesso con l’essere egli il principio della sua specie: che non venne creata dalla testa, perché si conosca che essa non deve essere al di sopra dell’uomo, né fu creata dai piedi, perché si sappia che l’uomo non la deve disprezzare, ma che venne tratta dal fianco, vale a dire da vicino al cuore, perché sia manifesto che l’uomo deve riguardarla e stimarla come parte intima di se stesso.

— Ho inteso. Ma sento a dire tante volte che gli scienziati, i geologi hanno trovato le prove incontestabili dell’esistenza di uomini preistorici, di migliaia e migliaia di anni anteriori ad Adamo, la cui comparsa nel mondo, come già mi disse, risale a sei mila anni fa soltanto.

Sì è vero: certi geologi hanno questa pretesa. Secondo loro si sarebbero trovati dei crani che conterebbero nientemeno che 250,000 anni di esistenza! I più discreti asseriscono che almeno 50,000 anni fa già esistevano degli uomini! Ma queste non sono soltanto che ipotesi e congetture, lanciate a pieno vapore nei campi dell’ignoto, coll’unico intento di dare una smentita all’insegnamento della Bibbia; ma sono vere baie di una scienza tutt’altro che seria e profonda, ciarlatanesca e goffa. Figurati che fra le grandi prove, che si addussero in conferma di tali asserzioni, fuvvi la scoperta di uno scheletro, che si disse umano ed antichissimo, di migliaia d’anni anteriore ad Adamo, e che poi si riconobbe essere quello di una smisurata salamandra, e il ritrovamento di oggetti, lavorati dall’uomo, ad una tale profondità da farli supporre anch’essi di epoca remotissima e certamente appartenenti a uomini preistorici, ma che poi si venne a sapere che erano stati seppelliti appositamente per trafficare sulla buona fede dei geologi, di quei geologi, che amano meglio di lasciarsi truffare da qualche furbo matricolato che credere all’insegnamento della parola di Dio!

— Ma pure non si rinvennero negli strati della terra strumenti di pietra, di bronzo, di rame e di ferro, atti a determinare le loro corrispettive età, talune delle quali anteriori ad Adamo?

Sì, è vero che si rinvennero tali strumenti di diversa materia, ma non perciò si può inferirne con sicurezza delle diverse età, ed anteriori ad Adamo. « Supponete, scrive Pozzy nel suo libro La terra e il racconto biblico, che i geologi futuri, scavando i laghi e i fiumi dell’America e dell’Australia, trovino le armi, gli archi, le frecce degl’indigeni, mescolate alle armi da fuoco dei popoli europei, che li hanno cacciati e vinti: sarà logico inferire che ha dovuto scorrere un numero sterminato di secoli fra le due epoche rappresentate da questi avanzi? » L’uso adunque di utensili di legno, di pietra, di bronzo, di ferro, eccetera, può essere stato promiscuo e contemporaneo, come lo è anche presentemente, e la diversità della materia di questi oggetti rinvenuti non dà nessun diritto ad inventare successivamente l’età della silice, del bronzo, del rame, e via via, e ad inventarle anteriori ad Adamo.

— Dunque che vi sia stata sulla terra un’altra umanità prima di Adamo non si può ammettere?

Non si può e non si deve. La Santa Scrittura non solamente non parla di alcuna umanità anteriore ad Adamo, ma chiaramente ci apprende che Adamo è il primo uomo creato da Dio sulla terra, e che da lui proviene tutto il genere umano.

— Eppure io so che vi sono di coloro, i quali, anche peggio, vanno insegnando che l’uomo è provenuto da successive trasformazioni di esseri a lui inferiori.

Così insegnano i materialisti. Ma contro di questa assurdità basta che tu richiami alla tua mente quanto abbiam detto provando l’esistenza di Dio.

— Sì, me ne ricordo. Ma ho pur inteso dire che, non è gran tempo, uno scienziato inglese chiamato Darwin, aveva fatto la scoperta che l’uomo deriva dalla scimmia.

E che scoperta? una scoperta che ci onora assai! Capperi! Non vai in solluchero tu quando pensi che, secondo il Darwin, sei discendente d’un qualche bel scimmione?

— Capisco che lei è in vena di scherzare, ma io vorrei che mi dicesse qualche cosa sul serio a questo riguardo.

Ed io te lo dirò. E prima di tutto devi sapere i n che cosa consista la teoria darwiniana. Egli, il Darwin, si sforza di dimostrare che gli esseri viventi a lungo andare si scostano dal loro tipo primitivo a cagione delle influenze esterne, che operano su di loro; che essendo moltissimi gli esseri esistenti e scarsi gli alimenti per sostenerli, tali esseri lottano fra di loro in una lotta per l’esistenza affine di ridursi a pochi e poter vivere. Riducendosi a pochi e sopravvivendo, ben si capisce, i più forti, questi riproducendosi diventano sempre migliori, e così per mezzo di una lenta selezione naturale un tipo primitivo da imperfettissimo si fa perfetto. Così dovette accadere delle scimmie, fino a che per mezzo del trasforsmismo ne venne fuori il magnifico scimmione, che è l’uomo ».

— Questa teoria è abbastanza ingegnosa; ma come fu provata?

È quello che devesi ancor fare e che non si potrà fare mai. Non è che il Signor Darwin non l’abbia tentato, tuttavia non vi è riuscito, tanto che l’Accademia francese delle Scienze ha detto di lui che « è u n amatore di astrazioni generali, ma che resta straniero all’osservazione rigorosa dei fatti ». E il celebre Virchow, medico e naturalista tedesco, non sospetto certo di tenerezza per l’insegnamento cattolico, perché incredulo e libero pensatore, in un discorso tenuto a Berlino l’anno 1892 disse chiaro: « Tutti i progressi positivi che noi abbiamo fatto nel dominio dell’antropologia preistorica, ci allontanano sempre più da questa parentela (colla scimmia). Esiste un limite preciso, che separa l’uomo dall’animale, e che non si è punto sinora potuto scancellare, e si è la eredità, che trasmette ai neonati le facoltà dei genitori. Non abbiamo mai visto che una scimmia metta al mondo un uomo, o che un uomo produca una scimmia. Se v’ha qualche uomo che abbia un viso scimmioso, ciò non è altro che un effetto morboso ».

— Dunque non è vero che l’uomo rassomigli alla scimmia e la scimmia all’uomo?

No, non è vero affatto. Vi sono delle differenze grandissime. La scimmia è animale rampicante, epperò può afferrare con le mani e con i piedi. Non sta ritta che con fatica e si fa violenza per star in equilibrio. China la sua testa naturalmente verso terra, e non parla. L’uomo per contrario cammina, sta su dritto, ben equilibrato, e ben si comprende al solo vederlo che il suo organismo è ordinato alla postura verticale, e parla. Queste sono già differenze essenziali, ma ve ne sono poi moltissime altre che sarebbe troppo lungo enumerare.

— Ed io mi accontento di quelle che mi ha indicate.

Epperò ritieni quello che ci insegna la Fede Cattolica, che l’uomo fu creato da Dio, e per tal guisa riconoscerai e rispetterai altresì la tua dignità, ed imiterai Napoleone I che, udendo le dottrine dei precursori di Darwin diceva: « Non voglio aver nulla di comune col fango; se costoro vogliono credersi bestie tal sia di loro, ma non cerchino di farmi credere che sono una bestia anch’io ».

— In quanto a questo non dubiti, farò com’ella dice. Tuttavia contro questa creazione divina di un uomo e di una donna, da cui vengono tutti gli altri, non sta il fatto delle razze diverse, che vi sono al mondo?

Così la pensano i così detti Póligenisti, ma così non è assolutamente, perché sebbene gli uomini siano di razze diverse, sono tuttavia di una medesima specie, che presenta in tutti gli stessi caratteri non ostante le loro gradazioni, e sempre si conservano e si moltiplicano, benché si frammischino insieme quelli di una razza con quelli di un’altra, ciò che non potrebbe accadere, come mostra l’esperienza, qualora gli uomini essendo di razze diverse fossero anche di diversa specie.

— Ma, e il diverso colore della pelle? e la diversa forma de’ cranii? e la diversità di lingue!

Son tutte cose accidentali. Non vi sono anche tra di noi dei bruni, dei gialli, degli olivastri e dei rossi? Non vi sono anche tra di noi delle teste bislunghe, depresse, o altramente configurate? Ciò dipende dal clima, dal nutrimento, dal genere di vita e simili. E in quanto alle lingue diverse tutti i dotti ormai si accordano nel dire che non son altro che dialetti di una lingua primitiva spezzata.

— Ho inteso. Ma ora mi dica un po’: Perché mai Dio ha dato e dà tuttora la vita agli uomini?

La cosa è chiara. Dio ha dato e dà tuttora la vita agli uomini per la sua gloria e per la loro vera ed eterna felicità. L’uomo pertanto durante la sua esistenza è in dovere di attendere a glorificare il suo Creatore: perciò deve adoperarsi a conoscerlo, ad amarlo, ad obbedirlo, a rendergli l’onore dovuto, per poi possederlo e goderlo eternamente.

— L’uomo adunque non è creato per godere i beni di questo mondo, i piaceri, le ricchezze, i divertimenti, eccetera?

No, caro mio. L’uomo deve giovarsi dei beni di questo mondo unicamente per conseguire i beni eterni del cielo.

— Ma se la vita è un fumo e dobbiamo già sottostare a tanti dolori, contro nostra voglia, perché non conviene di darci al buon tempo, di divertirci e spassarcela quanto più è possibile?

Se la vita dell’uomo fosse tutta qui come quella dei bruti, se dopo di questa non vi fosse per noi la vita avvenire, avresti ragione. Ma dovendo un dì sloggiare da questo mondo, ed essendo stati creati per l’eterna felicità, è a quella che dobbiamo mirare, sacrificando perciò le nostre cattive passioni e sottostando a quei sacrifici, che il raggiungimento del nostro fine ci impone. Così insegna e vuole la nostra fede.

— Dunque noi dobbiamo menare una vita noiosa, triste, malinconica?

Ecco il pregiudizio ingiusto e funesto, di cui pur troppo restano vittima tanti uomini, e specialmente tanti giovani. No, per corrispondere al proprio fine, ed amare e servire Iddio non c’è affatto da menar vita noiosa, triste e melanconica; non è neppur necessario lasciar del tutto di ridere, di scherzare e di stare allegri; anzi Dio, secondo l’invito della Santa Scrittura, lo si deve servire nell’allegrezza. L’unica cosa che importa di fare è astenersi dalla colpa, la quale, vogliasi o no, è dessa la cagione della tristezza, poiché Dio lo ha detto, ed Egli non si inganna, non è pace, e tanto meno allegrezza a chi fa il male.

— Ciò è giusto, e debbo confessare che me ne persuade la mia stessa esperienza.