CONOSCERE SAN PAOLO (1)

CONOSCERE SAN PAOLO

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

Il vaso di elezione. (1)

— SAULO DI TARSO.

1. L’AMBIENTE E L’UOMO. — 2. LA SCUOLA ELLENISTA DI TARSO.

1. Se l’azione divina sulla volontà e l’intelligenza fosse soltanto un impulso meccanico, se l’uomo ispirato fosse soltanto un’arpa che suona sotto le dita di Dio, o una penna che scrive le parole dello scrittore celeste, sarebbe inutile il cercare quale fu la fisonomia e l’ambiente dell’agiografo; ma questi non è materia inerte né strumento inanimato: egli sente, vuole e pensa, e i suoi pensieri e i suoi sentimenti non possono fare a meno di colorire la rivelazione che li penetra, come un fluido colorisce il raggio luminoso che lo attraversa. Isaia ed Ezechiele non ripetono con lo stesso tono lo stesso messaggio divino, e non è questione soltanto di vocabolario; in qualunque traduzione, le visioni di Osea non somiglieranno mai a quelle di Amos, e nessuno non scambierà mai un capitolo di San Marco con una pagina di San Giovanni. Perciò tutti gli esegeti giustamente proclamano la necessità di studiare il carattere individuale degli scrittori sacri con le loro abitudini mentali, con la forma ordinaria del loro pensiero, con la loro educazione e la loro condizione sociale, con le circostanze esterne della loro vita e della loro azione. – Di un uomo, e soprattutto di uno scrittore, si avrà sempre una conoscenza molto imperfetta, finché non si conosce il centro intellettuale e morale in cui è cresciuto. Da questo centro abbiamo il linguaggio, questo meraviglioso strumento dell’attività mentale, l’associazione incosciente e la forma abituale dei pensieri con un patrimonio più o meno ricco di concetti elaborati durante parecchie generazioni prima di arrivare fino a noi; e tutto questo messo insieme costituisce il temperamento dell’anima, come il sangue, la razza, il regime e il genere di vita formano il temperamento del corpo. L’educazione qualche volta modifica, più spesso rinforza questo primo fondo di atavismo; la stessa ispirazione divina non lo elimina, poiché la grazia, ben lungi dal sopprimere la natura, l’innalza e la trasforma, pure lasciandole la sua impronta e la sua individualità perfettamente distinta. – Per la sua nascita e per la sua educazione, Saulo ci fa prevedere una natura complessa in cui si uniranno tutti i contrasti. « Ebreo di nascita, nativo di Tarso e cittadino romano » (Atti, XXI, 29. Cfr. Atti, XXII, 3; XXII, 27.), tale è il suo stato civile che egli stesso denunzia al magistrato incaricato d’istruire il suo processo. Secondo San Girolamo, Giscala fu la culla della sua famiglia (De Viris illustr., 5.): anche il tredicesimo Apostolo sarebbe dunque un galileo. Allora, come oggi, gli Ebrei erano i più cosmopoliti degli uomini. Perseguitati in Palestina da poteri rivali, oppressi dagli invasori, attratti fuori dall’esca del guadagno e dall’istinto del commercio, avevano disseminato le loro colonie in ogni parte dell’impero. Sicuri di trovare dappertutto, presso i loro connazionali, accoglienza, soccorsi e protezione, al più leggero allarme cambiavano paese: l’universo era la loro patria. In quei tempi Tarso era una delle città più fiorenti dell’Asia. Colmata di favori da Poma, libera ed esente da imposte dal tempo di Pompeo il Grande, metropoli della Cilicia dal tempo di Augusto, essa doveva alla sua magnifica posizione la fortuna di essere un centro commerciale di prim’ordine. Dalle alture vicine alla città, sopra i boschetti di palme, l’occhio abbracciava ad un tempo le cime nevose del Tauro, le bianche vele del Mediterraneo, che un fiume allora navigabile, il Cidno, portava fin sotto le sue mura, e finalmente tutta la Cilicia Campestre solcata da innumerevoli canali e coperta di messi. – Quel panorama ridente e grandioso non pare abbia lasciato alcuna traccia nella fantasia di Paolo il quale più tardi attraverserà i luoghi più meravigliosi per le bellezze della natura o per la magia dei ricordi, senza mostrare nessuna ammirazione, senza arricchire il suo stile di un paragone o di un colore qualunque. Sotto questo aspetto egli è il contrario dei Profeti e degli Evangelisti. Si è voluto spiegare questo fenomeno o con una debolezza congenita di vista o con la mancanza del dono dell’osservazione. Il fatto sta che la natura morta non dice nulla a quella mente riflessiva e assorta nello spettacolo della lotta dolorosa di cui l’anima sua è il teatro e il premio. Egli non vede la natura inanimata se non nelle sue relazioni con l’uomo: il suo regno è la psicologia. Da molto tempo si è notato che le sue metafore sono prese quasi tutte, non dallo spettacolo e dalle attività del mondo fisico, ma dalle manifestazioni esterne della vita umana. Egli osserva con attenzione e descrive con finezza i giochi ellenici, i soldati romani agili sotto il peso delle armi, i mercati orientali formicolanti di schiavi, e anche i grandi edifizi, tempi e palazzi, dove si rivela la potenza e l’ingegno dell’uomo. Mentre le figure prese dalla vita dei campi non hanno gran rilievo, le espressioni tecniche del teatro o dello stadio, e soprattutto il suo linguaggio militare, offrirebbero argomenti di studio curiosi e istruttivi.

2. Verso l’età di sei anni, il fanciullo ebreo frequentava la scuola. Le scuole celebri abbondavano a Tarso, e in esse si studiavano tutte le scienze, specialmente la filosofia. Su questo punto quelli di Tarso rivaleggiavano con i sofisti di Alessandria e di Atene e avevano anche fama di superarli. Era loro specialità il fornire i precettori ai padroni del mondo: il precettore di Augusto, Atenodoro lo Stoico, era di Tarso; quello di Marcello e di Tiberio, anche, ed entrambi vennero a morire nella loro città natale, carichi di oro e di onori: dove la scienza frutta denaro, non manca mai di seguaci. Non da questi retori Paolo imparò gli elementi delle lettere; il suo greco non è quello delle scuole, ma è una lingua presa dall’uso delle conversazioni, viva, immaginosa, pittoresca, ammirabile per espressione, per originalità e vivacità, ma estranea ai precetti delle grammatiche ufficiali. Dove si trovavano abbastanza numerosi, gli Ebrei avevano le loro scuole particolari da cui erano banditi severamente i libri pagani e dove lo studio principale, se non l’unico, era la Bibbia: soltanto nella Diaspora essa si leggeva in greco. A tale scuola dovette essere mandato Saulo da suo padre, fariseo rigido. – Che egli abbia molto frequentato gli scrittori profani, non bastano a dimostrarlo le tre sue citazioni di poeti. Siccome Arato era della Cilicia e forse di Tarso, è possibile che l’Apostolo prenda direttamente da lui la frase citata dinanzi all’Areopago: « Perché noi siamo della sua stirpe ». Ma quell’emisticchio scorrevole e armonioso era di quelli che i versificatori introducevano volentieri nelle loro composizioni quando l’argomento vi si prestava: lo incontriamo difatti anche nell’Inno di Cleanto a Giove (Atti, XVII, 2). Il verso della Taide di Menandro, che questi, come si crede, avrebbe preso da Euripide, non era che una massima proverbiale di uso comune, e la forma che gli dà San Paolo, secondo i migliori manoscritti, prova che egli non era molto familiare col ritmo del trimetro giambico (I Cor., XV, 33). – Finalmente il motto satirico: « Cretesi, perpetui bugiardi, male bestie, ventri oziosi », che si legge negli Oracoli di Epimenide e, in parte, nell’Inno a Giove di Callimaco, doveva essere spesso lanciato contro i Cretesi dai loro nemici e dai loro rivali. Come si vede, ciascuno di questi tre testi si trova almeno in due autori diversi (Tito I, 12). – Nessun libro profano ha lasciato negli scritti di San Paolo una traccia sensibile della sua influenza. Sembra che l’Apostolo non abbia mai letto le elucubrazioni teosofiche del suo gran contemporaneo Filone di Alessandria, e non deve fare meraviglia, tanto sono diverse le loro mentalità. Si riferiscono talora a Filone le espressioni « immagine di Dio, primogenito della creazione », applicate al Cristo preesistente, ma è assai più naturale cercarne la fonte prima nel Libro della Sapienza. Paolo non s’ispira neppure dagli altri filosofi. La sua morale, insieme con profonde divergenze, ha qualche punto comune con quella degli stoici, e in questo, se si vuole, si potrebbe vedere un ricordo della sua educazione. I filosofi di quel tempo, specialmente quelli di Tarso e della Cilicia, facevano professione di stoicismo, e può essere che l’Apostolo, nella sua età matura, abbia discusso con essi, ma non vi è nulla, né per le idee né per la terminologia, che indichi chiaramente che egli sia stato alla loro scuola, e non occorre neppure avvertire che la sua pretesa corrispondenza con Seneca è semplicemente una frode letteraria o lo sciocco divertimento di qualche spirito ozioso. – Insomma, questa prima dimora a Tarso non lasciò su la sua intelligenza una traccia profonda; la sua famiglia non si lasciò penetrare dall’atmosfera esterna, e suo padre, Ebreo di antico stampo, sembra che abbia poco gustato la coltura ellenica e le abitudini sociali del mondo greco-romano. Più tardi Paolo potrà chiamarsi « Ebreo figlio di Ebrei, fariseo figlio di farisei », tanto si sentirà estraneo all’ellenismo. Ma un giorno ritornerà a Tarso, nell’età matura, quando la grazia divina lo avrà mutato; allora noterà le ridicolaggini di quei pretesi filosofi che fanno professione di vendere la sapienza, le loro cabale, le loro meschine gelosie, le ingiurie ignobili che si scambiano a vicenda, la loro avidità del guadagno, la loro corruzione mal celata, la loro superbia insopportabile fondata su una grande ignoranza. Il ritratto che, nell’Epistola ai Romani, ci fa di quei pazzi che si dicono saggi, non sembra tanto una copia fatta a memoria, quanto piuttosto un quadro dal vero. Nelle diverse dimore che fece nella sua città natale, si familiarizzò con i Settanta. Egli conosce la Bibbia nelle due lingue, ma quasi sempre la cita in greco, o perché la versione dei Settanta gli fosse davvero familiare, o piuttosto perché, scrivendo egli in greco, gli viene più naturalmente alla memoria il testo greco dei Settanta. – Secondo un calcolo più o meno esatto, ma giusto nel risultato generale, su ottantaquattro citazioni, trentaquattro concordano esattamente con i Settanta, trentasei se ne scostano pochissimo, dieci presentano differenze notevoli, due sono prese dall’ebraico, ma suppongono presente alla mente dell’autore il testo dei Settanta, finalmente due soltanto sono traduzioni affatto indipendenti o appartenenti ad altra versione. Insomma, l’Apostolo non si allontana dalla versione generalmente accettata e le resta fedele anche in casi in cui ci pare gli sarebbe convenuto allontanarsene. – Sotto il nome di Settanta, comprendiamo tutti i libri ammessi nel canone alessandrino che era quello degli Ebrei ellenisti. Paolo lesse certamente il Libro della Sapienza da cui s’ispira nell’esporre la prova filosofica dell’esistenza di Dio, e nel descrivere la panoplia delle virtù cristiane. Anche la similitudine del vasaio e altre simili, ci dicono la stessa cosa. Le relazioni con il Libro dell’Ecclesiastico, meno evidenti, bastano, secondo noi, a rendere probabile la dipendenza letteraria. L’erudizione di Paolo non è libraria: egli possiede a fondo una sola scienza, la religione rivelata; conosce un solo libro, la Bibbia.

AI PIEDI DI GAMALIELE.

1. LA SCUOLA EBRAICA D I GERUSALEMME. — 2. Uso DELL’ ANTICO TESTAMENTO. — 3. SAULO IL FARISEO.

1. Saulo aveva circa tredici anni, quando andò a Gerusalemme per compiervi la sua educazione, e non sappiamo se ve lo accompagnarono i suoi parenti. Circa quarant’anni più tardi, il figlio di una sua sorella stabilita nella città santa, gli salverà la vita. Già conosciamo le abitudini di viaggiare degli Ebrei di quei tempi e dobbiamo abituarci sempre più ai continui cambiamenti di posto che la storia del secolo apostolico segna a ogni pagina. Il fanciullo era destinato all’arte dello scriba, professione ambigua che preparava a tutte le carriere e apriva la via a tutti gli onori: lo scriba era ad un tempo avvocato e procuratore, magistrato e giureconsulto, consigliere e predicatore, uomo di legge e uomo di chiesa, letterato, retore e grammatico. Gli studenti di Gerusalemme erano allora divisi tra due scuole rivali i cui fondatori, Hillel e Shammai, di leggendaria memoria, personificano agli occhi della posterità, l’uno le vedute ristrette e la grettezza di mente, l’altro le idee larghe di un liberalismo illuminato; ma se dobbiamo credere alla Mishna, la fonte più autorevole delle tradizioni ebraiche, non vi è nulla che provi tale contrasto. – I dissensi si riferivano a minuzie, per esempio alla questione se un uovo fatto di sabato si potesse mangiare nel giorno stesso, oppure se il fiocco a vari colori, chiamato zizith in ebraico, fosse obbligatorio anche per il vestiario della notte. Eccetto queste inezie, le due scuole erano d’accordo: entrambe mantenevano la stretta osservanza della Legge, ricevevano le tradizioni rituali e storiche sovrappostesi alla Thora scritta, erano insomma imbevute del più puro fariseismo. Tuttavia, se possiamo mettere innanzi una differenza, forse la scuola d’Hillel tendeva generalmente verso l’interpretazione meno rigorosa. – Il successore d’Hillel, erede dei suoi principi, se non del suo sangue, era allora Gamaliele il Vecchio, venerabile agli occhi dei Cristiani perché difese gli Apostoli, senza che la sua riputazione postuma ne soffrisse presso i suoi correligionari. Gamaliele è rimasto il tipo ideale del fariseo: « Dopo la sua morte, dice la Mishna, non vi è più rispetto alla Legge; la purezza del fariseismo è morta con lui ». Del resto la sua storia è molto oscura, ed egli è spesso confuso col suo omonimo e nipote Gamaliele II, testimonio della rovina del Tempio e della suprema agonia del popolo ebreo. Il giovane Saulo venne dunque a sedersi ai piedi del Rabban Gamaliele, come onorevolmente era chiamato. Égli veniva a iniziarsi faticosamente alla scienza sacra proprio nel centro della vita nazionale, nel momento in cui Gesù, di sette od otto anni più vecchio di lui, progrediva in grazia e in sapienza, in un angolo oscuro della Galilea. Ci siamo potuto domandare se e quanto il paese natio abbia influito sul pensiero di Paolo; ma per Gerusalemme il dubbio non è possibile. Tarso è la sua patria civile dove riceve, col titolo invidiabile di cittadino romano, quella lingua ellenica che lo fa in certo modo cittadino dell’universo; ma Gerusalemme è la patria dell’anima sua, la patria della sua intelligenza come pure, e più ancora, del suo cuore. Verso Gerusalemme egli convergerà sempre nel corso del suo pellegrinaggio terrestre ed ha pienamente coscienza di avere là ricevuto l’impronta indelebile della sua formazione religiosa e morale; là veramente egli fu istruito ed educato ai piedi di Gamaliele, ed era a una buona scuola. Nonostante le loro sottigliezze puerili e le loro inconseguenze pratiche, i farisei erano i veri depositari della scienza sacra e gl’interpreti più autorevoli della legge divina: Gesù, loro avversario implacabile, doveva rendere loro questa testimonianza, che bisognava seguire il loro insegnamento senza imitarne la condotta.

2. La scuola ebraica era annessa alla sinagoga, e l’istruzione che vi si dava era esclusivamente religiosa. Matematica, geografia, storia profana, filosofia, non esistevano per l’ebreo ortodosso; per lui vi era soltanto la morale, il diritto positivo e la storia sacra, e tutto questo era la Bibbia. Compitandola s’imparava a leggere, e molti scribi la sapevano a memoria, come la sanno anche oggi alcuni pochi Israeliti. Noi vediamo Paolo che la cita sempre a memoria, e anche quando non la cita, il suo linguaggio è un tessuto di reminiscenze inconsapevoli o volute. Il suo stile, come quello di San Bernardo e di Bossuet, è tutto impregnato di espressioni bibliche le quali scaturiscono spontaneamente dai suoi ricordi, il che suppone una conoscenza particolareggiata e minuziosa, frutto di lunghi anni di studio. – Il fiume della rivelazione che ha la sua sorgente sul Sinai, o piuttosto nell’Eden, era continuato a scorrere, sempre accresciuto di nuove rivelazioni, fino alla soglia dell’era cristiana. Gli Ebrei contemporanei degli Apostoli parlavano di Dio, della sua infinita trascendenza, della sua potenza creatrice, della sua provvidenza paterna, in termini che il Cristianesimo non dovette rigettare. La dottrina dei novissimi — retribuzione dei giusti, pene riservate ai cattivi, risurrezione dei morti, giudizio finale — non aveva che da fare qualche leggero progresso per passare nel Vangelo. Altrettanto si può dire del dogma della caduta originale. La maniera di ravvisare la Scrittura come parola di Dio, come espressione della sua intelligenza e della sua volontà, poteva essere accettata senza modificazioni dai banditori della nuova fede. Non ci fermeremo su questa eredità ricevuta dai profeti né sul patrimonio di verità religiose accumulato nel corso dei secoli fino al giorno in cui la luce del Vangelo venne ad ecclissare la fiaccola della Sinagoga: sono senza dubbio fondi assai ricchi, ma non appartengono propriamente al Dottore delle genti. – Non possiamo invece dispensarci dal cercare, negli scritti dell’Apostolo, le tracce della sua educazione rabbinica alla scuola di Gerusalemme. Alla tradizione ebraica egli deve il senso tipico della Scrittura, l’impiego del senso chiamato accomodatizio e l’uso frequente dell’allegoria. – Siccome l’Antico Testamento è come la base del Nuovo, è naturale che lo Spirito Santo, autore di tutta la Bibbia, gli abbia dato un senso profetico o figurativo che risulta e dai racconti stessi e dal modo di narrarli. Questo senso che si sovrappone alla lettera della Scrittura, si chiama senso spirituale, e noi chiamandolo tipico, abbiamo il doppio vantaggio di evitare un equivoco e di conformarci alla terminologia di Paolo. L’Apostolo afferma che il primo Adamo era il tipo di Gesù Cristo, l’Adamo futuro, e sviluppa questa tipologia in due passi celebri (Rom. V, 12-19; I Cor. XV, 22, 45, 49). Così pure la sorte degli Israeliti nel deserto aveva un carattere tipico e fu scritta con lo scopo d’istruirci. Questi fatti figurativi rivestono perciò un significato spirituale che il racconto letterale non diminuisce affatto. Così pure la Legge di Mosè era l’ombra delle realtà future il cui corpo, la sostanza e il vero essere s’identificano con l’economia cristiana (Col. II, 17). Finalmente l’istituzione del matrimonio, ristabilito da Gesù Cristo nella sua unità e nella sua indissolubilità primitive, non pare misteriosa se non per il suo valore simbolico (Ef. V, 32). Non dobbiamo tuttavia credere che San Paolo riconosca il senso tipico soltanto quando ne pronunzia il nome: per lui la Sinagoga è la figura della Chiesa (I Cor. III, 16; II Cor. VI, 16), i sacrifizi antichi, specialmente l’agnello pasquale, sono figure del Cristo (I Cor. V, 7; Eph. V, 2), e certi suoi argomenti non hanno valore se non si ammettono i due significati, il letterale e il tipico, voluti entrambi e affermati dallo Spirito Santo. Non andiamo però agli eccessi: quando l’Apostolo si vanta di predicare soltanto dove ancora non si è udito il nome del Cristo (Rom. XV, 20-21), quando esorta i Corinzi a fare la limosina per stabilire tra i Cristiani quell’eguaglianza che regnava tra gli Ebrei nel raccogliere

la manna (II Cor. VIII, 14-15), e si appoggia, in tutti e due i casi, a un testo biblico, con la formola solenne di citazione, non siamo obbligati ad ammettere che egli veda in quei due testi un senso tipico, come se lo Spirito Santo, con l’aiuto del senso letterale e oltre a questo, avesse inteso di predire la colletta in favore di Gerusalemme o di limitare il campo di azione di Paolo. Qui vi è accomodazione pura e semplice. È privilegio dei predicatori l’adoperare così la Scrittura, e tutti hanno il diritto di esprimere i propri pensieri con le parole dei Libri santi; la formola di citazione non muta nulla né al diritto né al privilegio. – Si chiama accomodatizio, non propriamente un significato scritturale, ma l’applicazione di un testo biblico ad un fatto o ad un caso simile. Il Salmista aveva detto, parlando dei cieli, che celebrano alla loro maniera la gloria del Creatore: La loro voce risonò sopra la terra; E le loro parole, fino ai confini del mondo. San Paolo applica queste parole, senza formola di citazione, ma con manifesta allusione al versetto del Salmista, alla predicazione degli Apostoli (Rom. IX, , 18 citando il Ps. XVIII). Certi interpreti si credono obbligati a conchiuderne che, essendo ancora vivo Paolo, il Vangelo era stato predicato in tutto il mondo (San Giovanni Grisostomo), o che almeno vi era conosciuto di fama (San Tommaso). I più ci vedono soltanto un’iperbole: un’iperbole che sarebbe troppo forte se le parole in questione fossero dell’Apostolo, ma che è invece naturalissima dal momento che si tratta di una semplice allusione. Poiché l’allusione non pretende di essere vera alla lettera, ma le basta un rapporto di proporzione o di analogia. – L’accomodazione più prolungata è quella che occupa un capo della seconda ai Corinzi (II Cor. III, 14-15). Essa si fonda sul racconto dell’Esodo, secondo il quale Mosè parlava a Dio a faccia scoperta, ma se la copriva con un velo per parlare al popolo. Paolo ne trae una doppia applicazione, metà per analogia e metà per contrasto. I predicatori ndel Vangelo — e anche, in una certa misura tutti i Cristiani, trattano con Dio faccia a faccia e sono a poco a poco trasformati nell’immagine di Dio; ma quando si rivolgono al popolo, non si coprono con un velo, simbolo di timore e di servilismo. Al contrario gli Ebrei contemporanei hanno il cuore coperto di un fitto velo, come Mosè al ritorno dalle sue conversazioni celesti; ma un giorno, quando si convertiranno al Signore, getteranno quel velo, come Mosè quando andava a parlare con Dio. – L’esempio seguente di accomodazione oratoria è ancora più notevole, perché modifica molto il testo che adopera e vi mescola un’apparenza di argomentazione. Paolo applica alla legge di grazia un passo in cui si tratta della Legge mosaica, e lo fa per dimostrare che il nuovo regime è superiore all’antico: La giustizia (che nasce) dalla fede, parla così: non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? È (per) far discendere il Cristo. Oppure: Chi discenderà negli abissi? È per risuscitare il Cristo dai morti. Essa dica dunque: La parola è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore. È la parola della fede che noi predichiamo. Perché se tu confessi con la bocca il Signore Gesù, e se tu credi nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, tu sarai salvo (Rom. X., 6-9). – A prima vista questo uso della Scrittura è tanto arbitrario, che sconcerta: non solo il testo è riassunto e citato a brani, ma è modificato a bello studio. Invece di: Chi passerà di là dai mari? Paolo mette: Chi discenderà negli abissi? per preparare la sua applicazione alla risurrezione del Cristo. Poi presenta tre interpretazioni del genere midrash, che non sembrano suggerite dal testo, e finalmente rivolge contro la Legge quello che la Scrittura aveva detto della stessa Legge. Queste difficoltà sono distrutte o almeno molto attenuate dalle seguenti osservazioni: Paolo non argomenta, ma non fa altro che esporre e illustrare il carattere della nuova legge; egli non cita neppure la Scrittura, ma si limita a mettere in bocca della Giustizia personificata quello che Mosè aveva detto della Legge. – Il testo del Deuteronomio era divenuto quasi proverbiale per far intendere che una cosa era possibile e facile. La conclusione di San Paolo — che la fede è più facile e più accessibile che la Legge — è incontestabile, e la sua maniera di spiegare la cosa è un’accomodazione oratoria delle più legittime. Essa viene a dire: Mosè ha detto della Legge, che per conoscerla non occorre né salire al cielo né passare i mari, e questo conviene, a più forte ragione, al Vangelo. Infatti non occorre salire al cielo per farne discendere il Cristo, poiché il Cristo si è già incarnato; non occorre discendere negli abissi per trarne fuori il Cristo, poiché il Cristo è risuscitato da morte; basta credere di cuore e confessare con la bocca che Egli è il Signore e che è risuscitato. – Saremmo pure inclinati a vedere un esempio di accomodazione oratoria nel passo in cui Agar e Sara figurano i due testamenti (Gal. IV. 21-31). È un tipo biblico oppure un simbolo? In altri termini, lo Spirito Santo nell’ispirare l’autore sacro che ha scritto la storia di Abramo, voleva insegnarci il carattere differente delle due alleanze, oppure permetterci soltanto di servircene per meglio comprenderlo! Tale è la questione. San Paolo non parla di tipo, ma di allegoria; e se la maggior parte degli esegeti antichi stanno per il significato spirituale, si sa che essi danno a questo termine un significato molto elastico. – I rabbini solevano appoggiare sopra un testo della Bibbia qualunque opinione tradizionale così storica come giuridica, e questo appunto era l’oggetto dell’esegesi. Si distinguevano sei specie di prove, e le loro suddivisioni le facevano arrivare a tredici: l’a fortiori, l’analogia, la conseguenza, otto specie di analisi, il contesto e i luoghi paralleli. Parecchie di tali prove mancano di rigore; in materia positiva, l’a fortiori non è decisivo; l’analogia non è che una ragione di convenienza; il senso conseguente non è sempre un senso scritturale. Il più curioso si è che i rabbini non si lasciavano ingannare dai loro metodi di cui vedevano benissimo i lati deboli. Quando Rabbi Simeone sosteneva che se le donne Ammonite e Moabite erano ammesse nella Sinagoga da cui erano esclusi per sempre gli uomini del loro paese, le Egiziane a più forte ragione si potevano ammettere, si affrettava a invocare la halacha (tradizione), per tagliar corto con l’obbiezione che viene suggerita dall’argomento a fortiori. Avendo la tradizione, agli occhi dei rabbini, un valore indipendente dal testo biblico con cui si cercava di puntellarla, la prova scritturale diventava una semplice formalità. Si poteva, occorrendo, farne a meno e accontentarsi del remez (allusione); ma sempre ci voleva qualche cosa. L’abuso del remez doveva fare dell’esegesi ebraica un giochetto arbitrario e puerile. – Dinanzi a una citazione biblica di San Paolo, bisogna dunque domandarsi prima di tutto se vi è allusione o accomodazione o applicazione letterale o vera argomentazione, e in quest’ultimo caso, se l’argomento è scritturale o teologico oppure oratorio. La formola come sta scritto non indica sempre un’argomentazione propriamente detta, e lo stesso certamente si deve dire per la formola poiché sta scritto o per la particella “dunque” messa in principio di una conclusione che segue immediatamente una citazione scritturale. Resta allora da esaminare qual è il punto preciso che San Paolo vuole stabilire e sotto quale aspetto particolare egli considera il suo testo, perché spesso non tutto è da provare in una affermazione complessa, e frequentemente vi sono, in un testo portato come prova, mille circostanze indifferenti al punto che si vuole mettere in luce. – L’agiografo, anche quando si appoggia alla Scrittura, può argomentare come oratore più che come teologo, e la sua prova può non essere strettamente scritturale; o piuttosto non sarebbe tale se, a differenza del teologo o del predicatore ordinario, la conclusione dell’autore ispirato non avesse un valore assoluto indipendentemente dalle sue argomentazioni. Mosè aveva detto: « Non mettere la fusoliera al bue che trebbia il grano (I. Cor. IX cit. da Deut. XXV, 11-14) », e Paolo ne deduce che l’operaio apostolico può vivere del Vangelo. Questo è un argomento a fortiori che si è trovato presso i rabbini, ma la conclusione non è, strettamente parlando, un senso scritturale; sarebbe quello che i teologi chiamano un senso conseguente. Eccetto che si voglia adottare la teoria dei sensi multipli di Sant’Agostino, per costituire un senso scritturale non basta che una cosa ci sia suggerita dalla lettura della Bibbia né che la si possa trarre per mezzo della deduzione teologica od oratoria. La prova oratoria non sempre si risolve in un rigoroso sillogismo; l’analogia, la comparazione, la similitudine, tutto ciò che fa entrare più profondamente il pensiero nella mente dell’uditore, ve lo fissa e ve lo scolpisce, gli serve di schiarimento o d’illustrazione, si può chiamare prova oratoria, ma non è un argomento alla maniera di Aristotele. Ma perché si dovrà vietare allo scrittore sacro l’uso di procedimenti letterari che sono di diritto comune? Nessuno può liberarsi completamente dai metodi del suo tempo e della scuola dove si è formato. Se dal linguaggio e dalla forma del pensiero dei profeti è facile riconoscere la differenza delle loro condizioni sociali e della loro coltura intellettuale, perché si vorrebbe che San Paolo sia esente dalla stessa legge? L’interesse della verità non esigeva punto che egli disapprendesse tutto ciò che aveva imparato.

3. In quel tempo Saulo si faceva notare per il rigore del suo fariseismo: « Io ero, dice, pieno di zelo per (la Legge di) Dio (Act. XXII, 3) … Io vissi da fariseo, secondo la setta più rigida della nostra religione (Act. XXVI) ». Quando i suoi avversari si faranno scudo della loro fedeltà scrupolosa alla Legge, egli risponderà: « Io pure ero fariseo, persecutore della Chiesa per zelo, irreprensibile dal lato della giustizia legale (Fl. III, 6) ». La vita del fariseo, racchiusa come in una fitta rete dalle seicento tredici prescrizioni del codice mosaico rinforzate da tradizioni senza numero, era una servitù intollerabile. Le purificazioni rituali prescritte dopo le impurità contratte col solo contatto di oggetti impuri, riempivano parecchi trattati del L’ultimo libro della Mishna (Seder Teharoth), di ben dodici trattati, è tutto consacrato a tali minuziose prescrizioni; impossibile uscire di casa, mangiare, fare un’azione qualunque, senza esporsi a mille infrazioni, e la paura di cadervi paralizzava la mente e toglieva il senso superiore della moralità naturale. Tutta la religione degenerava in un meschino formalismo: l’uomo era tentato di credersi l’artefice della propria giustizia e, dovendo tutto a se stesso, diventava creditore di Dio. A che pro il pentimento, la preghiera umile e ardente, i sospiri verso il cielo, del peccatore e del pubblicano? Egli, non era forse il giusto che digiunava due volte la settimana, il lunedì e il giovedì, secondo il costume della sua setta, che pagava esattamente la decima della menta, dell’anice e del cumino, che non dimenticava mai nessun rito tradizionale! Il fariseismo nutriva l’amor proprio, la superbia e la presunzione, e fomentava anche l’ipocrisia. L’ideale del fariseo era elevato, ma egli per arrivarci aveva soltanto la sua superbia; mancando questa, l’unico mezzo che gli restava era di dissimulare le sue mancanze o di farle passare per virtù dinanzi al volgo (‘am haarez), oggetto del suo timore e del suo disprezzo. A quali stratagemmi e a quali cavilli ricorre per temperare il rigore del digiuno, per moderare l’incomodo del sabato! Infatti il trattato Erubin permette di stabilire un domicilio fittizio al termine del riposo sabbatico, per prolungare di altrettanto il viaggio permesso, e di unire, in modo fittizio, parecchi domicili per portare alimenti dall’uno all’altro, senza infrangere la legge del riposo. Il fariseo cercava di riscattare le sue concessioni e le sue miserie con un’intolleranza feroce: Paolo, scoraggiato di trovarsi così lontano dal suo ideale di perfezione legale, si fece persecutore per zelo e per rimorso. Egli custodiva gli abiti dei lapidatori di Stefano, forse perché non era in grado di essere il giudice o il carnefice del martire; ma nel suo foro interno sanzionava e approvava tutto. La passione lo agitava con troppa violenza, per poter ascoltare le parole del santo diacono; ma ancorché le avesse ascoltate, quel discorso interrotto bruscamente dalla morte non lo avrebbe commosso. Nelle sue lettere non troviamo nessuna allusione a quell’avvenimento: egli si ricorda soltanto di aver perseguitato la Chiesa del Cristo. I suoi quattro accenni a quel deplorevole passato sono della massima importanza per giudicare del suo stato psicologico nel momento della sua conversione: « Io perseguitalo senza misura e devastavo la Chiesa di Dio, sorpassando per (l’esaltazione del) mio giudaismo la maggior parte dei miei contemporanei (Gal. I, 13-14). Io sono l’ultimo degli Apostoli e non sono degno del nome di apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa del Cristo (I Cor. XV, 2). Fui in altri tempi un bestemmiatore e un persecutore, un insultatore; ma ho ottenuto misericordia perché agivo per ignoranza nell’infedeltà (I Tim., 13). Fariseo secondo la Legge, persecutore della Chiesa per zelo, irreprensibile dal lato della giustizia che viene dalla Legge (28) ». Nel discorso che rivolge agli abitanti di Gerusalemme dopo la sua cattura (29), e in quello che pronunziò dinanzi al procuratore Festo assistito dal re Agrippa (30), ricorda benissimo la parte da lui presa nel martirio di Stefano, ma senza lasciar capire che provasse allora altro sentimento che il piacere di un desiderio soddisfatto. Del resto tutti i particolari sembrano confondersi nella sua memoria come la visione molesta di un incubo terrificante.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI APOSTATI MODERNISTI DI TORNO: QUAM RELIGIOSA

In questa breve Enciclica, S.S. Leone XIII prende posizione netta ed irrevocabile sull’introduzione della legge sul matrimonio civile in Perù. Il Santo Padre espone brevemente, ma con fermezza, il concetto che il Matrimonio, essendo stato innalzato da Gesù Cristo alla dignità Sacramentale, non è “affare” da gestirsi da una qualsiasi autorità che non sia la Chiesa di Cristo, la Chiesa Cattolica, se non limitatamente agli effetti puramente civili. Non si tratta quindi di nessuna novità dottrinale particolare [come potrebbe del resto un Papa “vero” modificare la dottrina che scaturisce dal deposito della fede? … solo un’antipapa potrebbe farlo!], ma semplicemente un richiamo elementare alla legge divina ed ecclesiastica. – Questo deve essere per noi occasione di meditazione sulle leggi attualmente promulgate in tutti gli Stati cosiddetti “civili” [tutto l’Occidente ed in buona parte pure l’Oriente europeo, il continente americano nella quasi totalità, ed oggi anche le nazioni asiatiche ed africane modernamente massonizzate], in realtà “gulag” gestiti imperiosamente da entità più o meno invisibili dedite tutte ai culti satanici ed adoratori del baphomet-lucifero gnostico-massonico. La cosa che dovrebbe poi stupire gli attuali “sedicenti” cattolici, cioè gli aderenti alla setta neo-gnostica modernista del “novus ordo” vaticano, è come questi esponenti della “quinta colonna” usurpanti i sacri palazzi, abbiano completamente modificato il loro orientamento rispetto alla dottrina insegnata da Cristo e dalla sua Chiesa, in tutti i luoghi teologici, giungendo a eliminare ogni “impedimento”, rendendo il legame rapidamente solubile con pronta riammissione ai sacramenti [per fortuna falsi ed affidati a mai-preti e non-vescovi giammai consacrati secondo le norme canoniche da sempre vigenti], addirittura sventolando il “divorzio cattolico breve”, più breve pure di quello laico-massonico, ed aprendo addirittura, in modo blasfemo e beffardo, agli abomini del matrimonio omosessuale, avendo preventivamente abolito, con un colpo di spugna netto, il “peccato che grida vendetta agli occhi di Dio”: la sodomia conclamata e praticata, benedetta invece come pratica di amore, e … non giudicabile ?! Ora ci chiediamo: ma cosa deve farvi vedere di più il Signore, per farvi capire l’inganno in cui siamo tutti coinvolti, inganno che ci porterà inesorabilmente al fuoco eterno … anche questo ripulito con un colpo di spugna ignifuga? Cosa deve farvi vedere di più il Crocifisso Risorto per convincervi che il tempo dell’anticristo, attraverso i suoi “illuminati” vicari, è già in piena opera, visto che il paolino “kathecon” è impedito ed “in vincoli”, sorvegliato a vista da carcerieri crudeli? E allora diciamola tutta: anche a noi tutti fa comodo essere “modernizzati”, poter fare le porcate di ogni tipo che Gesù e la sua Chiesa ha sempre condannato, anche a noi tutti fa comodo chiudere gli occhi per non essere additati come retrogradi e trogloditi, solo perché amiamo il Cristo e la sua legge, avendo poi la coscienza ripulita dalla partecipazione ai falsi sacramenti sacrileghi ed al rito del baphomet festivo, in cui il Sacrificio di Cristo viene spudoratamente offerto al signore dell’universo, cioè al lucifero delle logge massoniche. E ai “novissimi” nessuno ci pensa più, anzi … ma che so’ i “novissimi”, abiti alla moda lanciati da qualche sarto satanista … come tutti gli altri? Ma a breve [chi prima, chi dopo … ma è questione di anni, visto che nessuno è materialmente immortale] tutti saremo giudicati dal Tribunale di quel Cristo che abbiamo abiurato, dal quale abbiamo apostatato, che abbiamo bestemmiato in tutti i modi, con blasfemie e sacrilegi mai apparsi sotto la luce del sole … neanche quelli del culto di Mitra e dell’eliocentrismo fantascientifico! … Quam ob causam increpa illos dure, ut sani sint in fide, non intendentes judaicis fabulis, et mandatis hominum, aversantium se a veritate. [Tit. I, 13-14].

Leone XIII

Quam religiosa

Lettera Enciclica

La legge del matrimonio civile in Perù
16 agosto 1898

Con quanta religiosa fermezza nel conservare la fede cattolica si raccomandi l’illustre nazione del Perù, con quale ossequio, con quale identica volontà sia congiunta con Noi e con la sede apostolica, questo certamente lo hanno fatto conoscere parecchi segni, fra i quali giova qui ricordare le preghiere a Noi rivolte, affinché mandassimo nelle vastissime regioni di questo paese dei presbiteri per intraprendere sacre missioni e dei membri di congregazioni religiose, per l’attività e la solerzia dei quali si alimentasse la religione e la pietà e di giorno in giorno continuamente crescesse. E non è disgiunto da gioia il ricordo di quell’affollatissimo convegno cattolico che, due anni fa, si è tenuto nella città principale di questo paese, con uomini provenienti da ogni parte della regione, illustrissimi per dottrina, virtù, posizione, patrimonio, convegno dal quale scaturì un rinnovato e gradito ardore degli animi. Costoro infatti non ebbero il minimo dubbio di proclamare con pubbliche dichiarazioni, con quale zelo desiderassero fare progredire la religione dei padri, con quale ossequio e amore avrebbero seguito con costanza questa cattedra di Pietro. Noi poi, venerabili fratelli, non abbiamo mai tralasciato l’occasione di testimoniare la Nostra singolare benevolenza verso questa popolazione cattolica, con l’aggiunta di esortazioni, e con la presentazione di testimonianze certamente non oscure della Nostra assai grata disposizione dell’animo. Fra quelle certamente di maggior valore, non vogliamo tralasciare il fatto che, dagli onori e privilegi particolari concessi dalla sede apostolica al suo presidente, allo stato peruviano stesso ne è venuta una grande autorità e dignità. Questi onori poi, davano a Noi la sicura speranza che, come i vostri antenati per meritarseli operarono in modo insigne, così in seguito coloro che avessero governato la nazione non avrebbero usato un impegno minore per conservarli, e con la propria fermezza nella difesa della fede cattolica avrebbero comprovato che tutte quelle cose erano state loro conferite giustamente. È con dolore quindi che abbiamo appreso che in questa nazione è stata di recente promulgata una legge che, con il pretesto di regolare i matrimoni fra non cattolici, di fatto introduce il matrimonio cosiddetto “civile”, anche se questa legge non riguarda tutte le categorie di cittadini. E inoltre, messa da parte l’autorità della Chiesa, tale modalità civile è permessa per i matrimoni misti, anche quando la Sede Apostolica, per motivi gravissimi e per la salvezza eterna della famiglia cristiana, non abbia ritenuto opportuno dispensare in qualche caso dalla legge che vieta il matrimonio per disparità di culto. – Gravemente colpiti da queste cose che sono state compiute contro il rispetto dovuta alla Nostra dignità e contro il potere da Dio conferito al Nostro supremo ministero, eleviamo la voce apostolica, venerabili fratelli, e sproniamo il vostro zelo, affinché, provvedendo alla sicurezza dei fedeli del Perù, facciate in modo che la dottrina cattolica del matrimonio sia conservata integra e incorrotta. – Noi poi, preoccupati di tutto il popolo cristiano, come lo richiede la logica del dovere apostolico, non abbiamo mai trascurato di insegnare spesso e di prescrivere molte cose riguardanti la santità del matrimonio: non si può separare dalla religione e ridurre al rango delle cose profane una funzione naturale trasformata in sacramento da Cristo, autore della nuova alleanza; preceduta dal sacro rito, la vita dei coniugi è più tranquilla e felice; la concordia domestica è rafforzata; i figli sono meglio educati; si provvede in modo più conveniente alla stessa sicurezza dello stato. Abbiamo trattato tutto questo argomento più diffusamente e con ogni diligenza, nella lettera apostolica Arcanum divinae sapientiae consilium, dove abbiamo anche cercato di richiamare alla memoria dei fedeli cristiani sia la vigile sollecitudine che la Chiesa, la migliore custode e protettrice del genere umano, ha usato per custodire l’onore e la santità del matrimonio, sia quali siano, in questo ambito, le cose che possono a buon diritto stabilire e giudicare coloro che governano lo stato. Non intendiamo a questo punto, e non è necessario, riferire tutti gli insegnamenti che sono già a vostra conoscenza. Non riteniamo fuori luogo però, ricordare ancora una volta che coloro che governano lo stato hanno potere sulle questioni umane che derivano dal matrimonio e che sono di ordine civile; ma che sopra il matrimonio cristiano in se stesso, il loro diritto e la loro autorità sono nulle. Devono quindi accettare che sia sottomessa alla giurisdizione della Chiesa una cosa che non è stata posta in essere da una autorità umana. Una volta che il contratto nuziale sia compiuto in modo legittimo, cioè come Cristo lo ha istituito, allora ad essi sarà permesso di considerare se ne consegue qualcosa che interessa il diritto civile. È infatti dottrina cattolica, dalla quale nessuno può recedere senza la perdita della fede, che al matrimonio dei cristiani è sopravvenuta la dignità di Sacramento. – Quindi da nessun’altra autorità che non sia la divina autorità della Chiesa può essere governato e regolato, e nessuna unione coniugale può essere ritenuta valida e fondata, se non è stata contratta secondo la sua legge e la sua disciplina. Da questo si comprende facilmente che, dove è stata nel modo dovuto promulgata la legge Tridentina del capitolo Tametsi (Denzinger 1813-1816) qui debbono ritenersi invalidi i matrimoni conclusi contro le sue prescrizioni. Nello stato del Perù, quella legge Tridentina non solo è stata promulgata, ma ha avuto a lungo vigore nell’uso ed è stata osservata in modo fedelissimo fino a questi ultimi tempi. – Non vi è quindi nessun motivo perché la Sede Apostolica fortissimamente non voglia che sia legittimamente mantenuta la disciplina introdotta. – Queste cose, venerabili fratelli, insegnando al gregge a voi affidato, esponetele nel modo più ampio e più chiaro, affinché non sfugga a loro nulla di questa cosa gravissima, che interessa moltissimo la loro salvezza eterna. Desideriamo anche che voi, con autorità e con saggezza, siate talmente efficaci presso coloro che in questo stato sono preposti alla formazione delle leggi, ed entriate così nelle loro grazie, che questi si persuadano, ad esempio per la popolazione cattolica, nella cui mente si trovano gli illustri esempi di virtù dei beati Turibio e Rosa, a modificare pubblicamente il loro pensiero e la loro volontà. – Per cui risulti necessario che mai si allontanino nel formulare le leggi dai precetti della chiesa, osservati a buon diritto i quali, si produce anche la stessa felicità naturale dei popoli. E si impegnino così ad operare affinché il recente decreto sia emendato al più presto ed eliminato, e affinché le leggi civili sul matrimonio non presentino nulla di discorde dalla dottrina e dalle istituzioni della Chiesa. – Nel frattempo, fiduciosi nella speranza dell’aiuto divino e confidando nel vostro zelo e nella vostra solerzia, a voi, venerabili fratelli, a tutto il clero e al popolo a ciascuno affidato, impartiamo con grande amore nel Signore l’apostolica benedizione, auspice dei doni celesti e testimone della Nostra benevolenza.

DOMENICA XIII DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XIII dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXXIII:20; 19; 23
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]
Ps LXXIII:1
Ut quid, Deus, reppulísti in finem: irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ?
[Perché, o Signore, ci respingi ancora? Perché arde la tua ira contro il tuo gregge?]

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, da nobis fídei, spei et caritátis augméntum: et, ut mereámur asséqui quod promíttis, fac nos amáre quod præcipis.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, aumenta in noi la fede, la speranza e la carità: e, affinché meritiamo di raggiungere ciò che prometti, fa che amiamo ciò che comandi.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti S. Pauli Apóstoli ad Gálatas. [Gal. III:16-22]
“Fratres: Abrahæ dictæ sunt promissiónes, et sémini ejus. Non dicit: Et semínibus, quasi in multis; sed quasi in uno: Et sémini tuo, qui est Christus. Hoc autem dico: testaméntum confirmátum a Deo, quæ post quadringéntos et trigínta annos facta est lex, non írritum facit ad evacuándam promissiónem. Nam si ex lege heréditas, jam non ex promissióne. Abrahæ autem per repromissiónem donávit Deus. Quid igitur lex? Propter transgressiónes pósita est, donec veníret semen, cui promíserat, ordináta per Angelos in manu mediatóris. Mediátor autem uníus non est: Deus autem unus est. Lex ergo advérsus promíssa Dei? Absit. Si enim data esset lex, quæ posset vivificáre, vere ex lege esset justítia. Sed conclúsit Scriptúra ómnia sub peccáto, ut promíssio ex fide Jesu Christi darétur credéntibus”.

Omelia I

 [Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia I .- Torino 1899]

“Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua prole; non dice: Ed alle proli, come parlando a molte, ma come ad una: e dalla sua prole, la quale è Cristo. Ora io dico così: La legge, venuta dopo quattrocento trent’anni, non poté annullare un patto prima fermato da Dio, sicché restasse senza effetto la promessa. Perché, se l’eredità è per legge, non è più per la promessa. Eppure Dio la conferì ad Abramo per promessa. Perché dunque fu data la legge? Fu essa aggiunta in grazia delle trasgressioni, promulgata per angeli, per mezzo di un mediatore, finché non fosse venuta la prole, alla quale era stata fatta la promessa. – Ora mediatore non è di uno; eppure Dio è uno. Sarà dunque la legge contraria alle promesse di Dio? No. Ma se fosse stata data una legge capace di dare la vita, se ne avrebbe di fatto la giustificazione. Ma la Scrittura ha racchiusa ogni cosa sotto peccato, affinché la promessa di fede fosse data per Gesù Cristo ai credenti „ (Ai Galati, capo III, 16-22).

Anzitutto, o carissimi, devo dirvi che questi sette versetti della Epistola odierna che vi ho recitati, sono difficili ad intendersi, e voi stessi, udendoli, ve ne sarete accorti. La difficoltà ed oscurità di queste sentenze si deve far dipendere da varie cause. Primieramente si tratta dei rapporti tra la legge antica mosaica e la legge evangelica, e si accenna alla efficacia di questa sopra quella, verità a quel tempo assai contrastata: in secondo luogo si fa un’allusione di volo ad alcuni oracoli dell’antico Testamento, per noi oscuri; se ne deducono conseguenze d’alta importanza, con una concisione tutta propria dell’Apostolo. Finalmente il modo di fraseggiare e di argomentare qui usato da S. Paolo, è così rapido e serrato, e il giro del periodo sì involuto e duro, che rende faticoso il seguirlo ed afferrarne il significato. Ma se voi avrete la bontà di tenermi dietro con tutta l’attenzione, nutro fiducia di farvi comprendere perfettamente la dottrina dell’Apostolo, e troverete ampia mercede della fatica durata. Dio con la sua grazia, faccia sì che la mia parola sia semplice e chiara, e la vostra mente aperta e docile a riceverla. – La lettera di S. Paolo ai Galati si può dividere in tre parti: nella prima difende se stesso contro coloro che lo accusavano di aver alterato o frainteso il Vangelo e prova la sua missione divina; nella seconda svolge l’insegnamento dogmatico intorno alla giustificazione; nella terza inculca alcune verità morali pratiche. Il tratto che vi devo spiegare appartiene alla parte dogmatica, che aveva una importanza grande e pratica allorché l’Apostolo scriveva la sua lettera. Un cenno storico necessario. Molti Ebrei della Galazia, convertiti prima da S. Paolo, sedotti da falsi maestri, erano entrati nella persuasione che, per salvarsi, fosse necessario unire alla fede cristiana l’osservanza della legge mosaica in ogni sua parte, e nominatamente il rito della circoncisione. L’Apostolo vuol dissipare questo errore gravissimo, che rendeva perpetuo il giudaismo e tra gli altri argomenti, S. Paolo, parlando ad Ebrei, ricorda che Abramo fu giustificato dinanzi a Dio con la fede che prestò alla parola di Lui, non con la legge mosaica che non esisteva e che venne assai più tardi. E come Abramo piacque a Dio, non per la osservanza della legge mosaica, ma sì per la fede, così anche i veri suoi figli si giustificarono con la fede. Qui cominciano le sentenze, che dobbiamo interpretare: “Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua prole: non dice alle proli, come parlando a molte, ma come ad una: ed alla sua prole, che è Cristo. Ecco come ragiona S. Paolo: “La Scrittura c’insegna che Abramo piacque a Dio e si santificò allorché credette alla sua parola ed ubbidì ad essa, lasciando la patria sua: Dio allora gli fece una promessa solenne, assoluta, dicendogli: “Tutte le genti saranno benedette in te, cioè riceveranno come te e allo stesso modo la mia grazia. „ Ora allorché Abramo ricevette la grazia, non vi era né la legge di Mose, né la circoncisione: dunque si giustificò non in forza della legge mosaica e della circoncisione, ma per la fede che ebbe e per l’ubbidienza sua alla parola di Dio; ma Dio promise che allo stesso modo si sarebbero giustificate tutte le genti, o Gentili; “… dunque, o Galati, per piacere a Dio si esige la fede e l’obbedienza ai voleri divini, ma non l’osservanza della legge di Mosè”; e S. Paolo avverte che la promessa della giustificazione fu fatta non solo ad Abramo, ma anche alla sua “prole”, non proli, perché si indicava Cristo e tutti quelli che nella fede si sarebbero mostrati figli di Cristo. L’Apostolo prosegue argomentando così: “La legge venuta dopo 430 anni non poté annullare il patto già stabilito da Dio, sicché rimanesse la promessa senza effetto: „ che è quanto dire: la legge di Mosè, data da Dio sul Sinai, venne 430 anni dopo; ora, se fosse necessaria l’osservanza di questa legge per essere figli di Dio, Dio stesso avrebbe annullata la promessa od il patto stretto con Abramo in forza del quale i Gentili dovevano ricevere la benedizione alla maniera stessa di Abramo. Se la grazia divina venisse a noi dalla legge di Mosè, allora non verrebbe secondo la promessa fatta ad Abramo; eppure questa grazia fu promessa da Dio fuori e prima della legge, e la promessa di Dio sta e deve stare, come sta e deve stare un testamento a cui non è lecito né aggiungere, né levare una sillaba. È questo l’argomento, sottile sì, ma valido, dell’Apostolo. – Ora qualche osservazione acconcia ai nostri bisogni. In questi versetti si parla della giustificazione ottenuta da Abramo, e che doveva ottenersi dai suoi figli secondo lo spirito, mediante la fede in Cristo. Che cosa è questa giustificazione? È la grazia, è una forza stabile, che penetra tutta l’anima, la trasforma, la abbellisce e stampa in essa l’immagine di Dio e le dà il diritto di vederlo un giorno ed amarlo svelatamente ed essere felice della sua stessa felicità. Vedete un ferro: esso è di per sé freddo ed oscuro: fate che il fuoco, un fuoco potente lo investa; diventa non solo caldo, ma rovente e lucente senza cessare d’essere ferro: ciò stesso avviene dell’anima che riceve la grazia di Dio: non cessa d’essere anima, ma acquista doti e qualità ammirabili; diventa bella della bellezza di Dio, forte della sua forza stessa, e perciò i suoi atti acquistano un valore sovrumano. Quest’anima si dice giustificata, cioè fatta giusta e retta dinanzi a Dio, bella di quella bellezza ch’Egli vuole in lei, e perciò cara a Lui ed oggetto dell’amor suo: essa diviene partecipe della stessa divina natura, come il fiore è partecipe della bellezza del sole che lo colora ed abbellisce. Questa giustificazione o grazia divina non può essere il frutto delle opere nostre, né merito dei nostri sforzi, come non è merito del fiore l’essere abbellito dal sole: è dono, tutto e puro dono di Dio: tutto il nostro merito sta nel riceverlo, ancorché, ricevutolo, possiamo e dobbiamo accrescerlo con la nostra cooperazione. Questa grazia, che è il massimo dei doni di Dio, noi la riceviamo per i meriti di Gesù Cristo, nel quale e per il quale soltanto, come altrove scrive S. Paolo, siamo arricchiti d’ogni bene spirituale. – Seguitiamo l’Apostolo: “Voi direte, così egli fa parlare i Galati: Se la legge mosaica con tutte le sue prescrizioni e con la stessa circoncisione, non ci riconcilia con Dio e non ci santifica, che vale essa? Perché ci fu data? Qual pro di questa legge, che pure viene da Dio? Quid igitur lex?” — Risponde tosto l’Apostolo con la sua forma sì concisa: “Vi dico che la legge mosaica fu aggiunta alla promessa fatta ad Abramo, a causa delle trasgressioni del popolo d’Israele, il quale per la sua lunga dimora in Egitto, era caduto in tanta ignoranza ed in tanto pervertimento, che spesso faceva il male senza nemmeno conoscerlo: (Lex) posìta est propter transgressiones“. Spieghiamo un po’ meglio, se almeno ci vien fatto, la mente dell’Apostolo, che qui può parere oscura. – Abramo si giustificò innanzi a Dio, credendo alle sue parole e promesse ed ubbidendo ai suoi voleri; alla stessa maniera potevano e dovevano giustificarsi tutti i suoi discendenti: bastava che credessero alle divine promesse fatte ad Abramo e operassero conformemente ad esse, ma che avvenne? I suoi discendenti crebbero in gran numero, divennero un gran popolo in Egitto: a poco a poco dimenticarono le promesse avute per Abramo: caddero ripetutamente nell’idolatria e si resero colpevoli di gravissimi delitti. Che fece allora Iddio? Viste le male inclinazioni del popolo e le sue miserande cadute, nella sua misericordia gli diede la legge con tutto quel cumulo di minute prescrizioni ond’essa è ripiena: (Lex) propter transgressionea posita est. Questa legge di timore era un aiuto possente dato al popolo per tenerlo sulla via della verità e mantenere viva in lui la memoria delle promesse divine; questa legge, come poco appresso dice lo stesso Apostolo, era la guida, il pedagogo che doveva condurre Israele a Cristo e prepararlo al suo Vangelo (vers. 25). “La legge mosaica, soggiunge Paolo, fu promulgata dagli Angeli, per mezzo di un mediatore, che è Mosè. „ Da queste parole apprendiamo che la legge data sul Sinai, fu data per mezzo degli Angeli: Ordinata per angelos, e che dagli Angeli la ricevette Mosè, il quale fu poi il mediatore tra Dio e il popolo: In manu mediatoris. Forse alcuno tra voi dirà: Noi abbiamo sempre udito dire che Mosè  ricevette la legge da Dio stesso: come sta che qui S. Paolo ci insegna che Mosè la ricevette dagli Angeli? Nessuna difficoltà, o carissimi. Ciò che Iddio fa per mezzo degli Angeli o dei suoi ministri, dicesi fatto da Lui stesso, perché Egli ne è la causa principale. Non diciamo noi che Dio santifica il bambino nel Battesimo, scioglie dai peccati l’adulto, benché il Battesimo sia conferito dal ministro, e la penitenza amministrata dal Sacerdote ? Similmente le Scritture sante ci dicono che la legge fu data a Mosè, ora da Dio ed ora dagli Angeli, ed è l’una e l’altra cosa. E qui è superfluo il ciò che altre volte ebbi a dire, cioè Dio nelle opere tutte che compie fuori di sé, anche le più alte, suole usare come strumento le cause seconde, Angeli ed uomini, perché in tal guisa apparisce meglio la sua grandezza e la sua gloria, e perché eleva alla dignità di cause le creature, le nobilita e le rende più simili a sé. Impariamo dunque ad  venerare questi spiriti eccelsi, gli Angeli che stanno tra Dio e noi, e che sono i ministri ordinari dei suoi voleri sulla terra. E fino a quando doveva durare la legge di Mosè, data in aiuto delle promesse fatte prima ad Abramo? Finché fosse venuto il seme a cui aveva promesso — Donec veniret semen cui promiserat, „ E chi è questo seme? Non occorre il dirlo, è Cristo, nel quale avrebbe avuto compimento la benedizione promessa ad Abramo. Allorché il fanciullo diventa uomo, cessa l’opera del pedagogo: dunque alla venuta di Cristo doveva cessare la legge, e cessò. –  Continua S. Paolo e scrive: “Ora mediatore non vi fu per uno, eppure Dio è uno. „  È una sentenza che ha bisogno di essere chiarita, e così mi pare si possa chiarire: Dio è uno solo e Padre di tutti gli uomini, e tutti li vuol salvi, e la sua volontà è eterna ed immutabile: agli Ebrei diede la legge in aggiunta alla promessa per condurli a salute, e la diede per Mosè, come per un mediatore: a quelli che non sono Ebrei provvede Egli stesso, ponendo a loro capo Cristo stesso, e in Lui unificando i figli di Abramo ch’ebbero il mediatore in Mosè, ed i Gentili, che chiama a sé senza l’opera di Mosè. In altri termini: come gli uomini si salvavano senza la legge, prima di Mosè, per la fede in Cristo ventura, così ora si salvano senza la stessa legge, purché credano in Cristo già venuto: la legge di Mosè fu un aiuto temporaneo dato da Dio ai soli Ebrei. La conseguenza pratica di questo insegnamento dell’Apostolo nei versetti citati, si riduce in sostanza a stabilire questo punto fondamentale: la salute per tutti gli uomini, Giudei e non Giudei, prima e dopo Cristo, sta riposta unicamente in Cristo, Salvatore universale. Egli comparisce sulla terra nel mezzo dei tempi: una parte dell’umanità lo precede: l’altra viene dopo di Lui e continuerà, fino alla fine dei tempi: quella prima parte guarda a Cristo venturo con la fede nelle promesse divine, come Adamo, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, o con la fede aiutata dalla legge mosaica, come Mosè, Davide e tutti i profeti; la seconda parte guarda a Cristo venuto, e a Lui si unisce con la fede, che opera per la carità. Per tal modo Cristo è il gran centro di tutta l’umanità, e in Lui si appuntano tutti gli sguardi, tutti i desideri e tutti gli amori di quelli che cercano e vogliono la salvezza. Fratelli e figliuoli carissimi! Gesù Cristo è la luce delle nostre menti, è la forza delle nostre volontà, è la nostra vita. Tutti dunque uniamoci a Lui, perché solo per Lui abbiamo accesso a Dio, come scrive altrove San Paolo. Ma come  possiamo unirci a Lui, sì che la sua vita divina si spanda in noi? Eccovelo. L’anima nostra si svolge tutta negli atti di quelle due potenze che le sono proprie e caratteristiche: l’intelligenza e la volontà. L’intelligenza è ordinata al possesso della verità, come l’occhio è ordinato a ricevere la luce: e la volontà tende necessariamente ad amare, come i polmoni a respirare. Ora Gesù Cristo, autore e consumatore dalla fede, per mezzo della Chiesa, ci presenta le verità che sono la luce dalla nostra intelligenza, ci mostra se stesso, come oggetto degno di tutto il nostro amore. Ebbene:  appuntiamo la nostra intelligenza in queste verità che sgorgano da Cristo, come i raggi emanano dal sole; volgiamo il nostro cuore a Gesù, come il fiore volge il suo calice al sole che lo colora, e posiamolo in Lui, ed ecco compiuta la nostra unione con Gesù Cristo. Dietro alla mente ed al cuore, con la fede e con la carità intimamente uniti a Gesù Cristo, verranno le opere, verrà il corpo stesso, fedele esecutore di ciò che si conosce e si vuole od ama. Congiunti mente e cuore a Gesù Cristo nel tempo, lo saremo nella eternità. Ma è da passare alla spiegazione degli ultimi due versetti della nostra Epistola. “Sarà dunque la legge contraria alle promesse di Dio? No. „ — È una nuova difficoltà che l’Apostolo, secondo il suo stile sì conciso e vibrato, muove a se stesso. La legge di Mosè, come sopra si è stabilito, non dava la grazia e la santificazione per se stessa, ma questa veniva soltanto dalla fede salda alle promesse divine; ora l’essere aggiunta la legge di Mosè alle promesse divine, fa sì che sembri non bastevole la fede, e che la giustificazione derivi dalla legge stessa. In altra forma: l’aggiunta della legge mosaica alle promesse divine arguirebbe il difetto di queste e la necessità e sufficienza di quella. No, no, risponde Paolo, quasi inorridito: Absit. Se la legge mosaica avesse avuto virtù di santificarci per se stessa, allora sarebbe vero che è contraria alle promesse, perché la giustificazione ci verrebbe dalla legge e non dalle promesse divine e dalla fede alle medesime. Resta dunque verità indubitata, che la legge mosaica non può sostituire la fede nell’opera della nostra giustificazione, e che fu soltanto un aiuto temporaneo dato agli Ebrei, per renderla più sensibile e conservarla finché venne Cristo, che la rese inutile. – Siamo all’ultima sentenza dell’Apostolo: “Ma la Scrittura ha racchiusa ogni cosa sotto peccato, affinché la promessa di fede fosse data per Gesù Cristo ai credenti. „ Non ve lo dissimulo, o carissimi; anche quest’ultima sentenza è dura ad intendersi per la forma del dire e per la struttura del periodo: ma questo è il senso: No, la legge di Mosè non è contraria alle promesse di giustificare gli uomini con la fede in Gesù Cristo; anzi serve di mezzo a compirle. In qual modo? La legge mosaica data agli Ebrei tolse forse le trasgressioni ed arrestò le colpe loro? No; anzi crebbero a dismisura fino all’eccesso di mettere a morte il Figliuolo di Dio: la legge mosaica mise in piena luce la debolezza dell’uomo, e gli fece sentire dopo sì lunga prova la necessità dell’aiuto divino, e che solo per la fede in Gesù Cristo poteva giustificarsi. Questa dottrina dell’Apostolo mi richiama al pensiero ciò ch’egli stabilisce nei primi tre capi della sua lettera ai Romani, e particolarmente nel terzo (vers. 20). S. Paolo mostra con robusta eloquenza, che tanto i Gentili con la sola ragione e con la sola forza della natura, come gli Ebrei con la loro legge mosaica, non poterono piacere a Dio, e che tanto quelli che questi, dovevano confessare la loro impotenza assoluta nell’opera della propria giustificazione, ed erano forzati a riconoscerla soltanto da Gesù Cristo, e così nessuno possa gloriarsi dinanzi a Dio e tutti soggiacciamo al suo giudizio (Rom. III, 19). Tutti, Gentili ed Ebrei, sono peccatori: tutti egualmente, per piacere a Dio e salvarsi, hanno bisogno della fede in Gesù Cristo (Rom. III, 22, 23, 27, 29, 30). Deh! che questa fede, che riceveste nel santo Battesimo, che fu nutrita dalla parola di Dio e dai Sacramenti, che è la radice della nostra santificazione e che opera per la carità, sia sempre viva nei vostri cuori [Comprendo molto bene che il testo dell’Apostolo è oscuro e che anche dopo la mia spiegazione rimangano molti punti non abbastanza chiariti. Mi studierò di esporre in breve e più chiaramente il pensiero dell’Apostolo. S. Paolo vuol dimostrare che la legge mosaica per sé non salva e che salva la fede in Dio e in Gesù Cristo. Come lo mostra? Udite. Abramo si giustificò col credere a Dio e alle sue promesse: quelle promesse e quella fede furono anteriori alla legge di Mosè e alla circoncisione: dunque la legge di Mosè e la circoncisione, per sé, non sono necessarie, perché l’uomo si giustificò senza di esse con la fede allo promesse divine. Vanne la legge, venne la circoncisione. Perché? A che servono? Unicamente come aiuto e mezzo per avvivare la fede nelle divine promesse, attese le debolezze e la infedeltà d’Israele. La legge mosaica e la circoncisione non tolse dunque nulla alla efficacia della fede nelle divine promesse. Ora è venuto il termine delle divine promesse: Cristo. Via dunque la legge mosaica, via la circoncisione, ch’erano soltanto un aiuto per tenerci saldi alla fede nelle divine promesse: si leva l’impalcatura quando la fabbrica è compiuta. Così parmi spiegato meglio il testo apostolico].

Graduale
Ps LXXIII:20; 19; 22.

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum: et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem.
[Signore, abbi riguardo al tuo patto: e non dimenticare per sempre le ànime dei tuoi poveri.,+

Exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam: memor esto oppróbrii servórum tuórum. Allelúja, allelúja
[
V. Sorgi, o Signore, e difendi la tua causa e ricordati dell’oltraggio a Te fatto. Allelúia, allelúia].

Alleluja

Ps LXXXIX:1
Dómine, refúgium factus es nobis a generatióne et progénie. Allelúja. [O Signore, [Tu fosti il nostro rifugio in ogni età. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XVII:11-19

In illo témpore: Dum iret Jesus in Jerúsalem, transíbat per médiam Samaríam et Galilaeam. Et cum ingrederétur quoddam castéllum, occurrérunt ei decem viri leprósi, qui stetérunt a longe; et levavérunt vocem dicéntes: Jesu præcéptor, miserére nostri.
Quos ut vidit, dixit: Ite, osténdite vos sacerdótibus. Et factum est, dum irent, mundáti sunt. Unus autem ex illis, ut vidit quia mundátus est, regréssus est, cum magna voce magníficans Deum, et cecidit in fáciem ante pedes ejus, grátias agens: et hic erat Samaritánus. Respóndens autem Jesus, dixit: Nonne decem mundáti sunt? et novem ubi sunt? Non est invéntus, qui redíret et daret glóriam Deo, nisi hic alienígena. Et ait illi: Surge, vade; quia fides tua te salvum fecit.” 

OMELIA II

 [Mons. Bonomelli: ut supra; vol. IV, Omelia II.- Torino 1899]

“Avvenne che, nel muovere alla volta di Gerusalemme, Gesù passava attraverso la Samaria e la Galilea; ed essendo entrato in un certo villaggio, gli si fecero incontro dieci lebbrosi, i quali si fermarono da lontano e levarono la voce, dicendo: “O Gesù maestro, abbi pietà di noi”. E vedutili, disse loro: “Andate e mostratevi ai sacerdoti”. E avvenne, che nell’andare, furono mondati. Ed uno di quelli, vedutosi mondato, torna indietro, glorificando Dio a gran voce. E gittossi con la faccia per terra, ai piedi di Lui, ringraziandolo, e questi era samaritano. Allora Gesù, rispondendo, disse: Non furono forse dieci i mondati? E dove sono gli altri nove? Non si è trovato chi tornasse a dar gloria a Dio se non questo straniero? Egli disse: Levati su e vattene: che la tua fede ti ha salvato!” (S. Luca, XVII, 11-19).

Il miracolo della resurrezione di Lazzaro, sì strepitoso, sì evidente, operato da Gesù sulle porte di Gerusalemme, aveva messo sossopra il Sinedrio. I capi dei farisei e del popolo, radunati a concilio sotto la presidenza di Caifa, avevano deliberato di metterlo a morte. Gesù allora (Giov. XI, 54) lasciò Gerusalemme e Betania e si ritrasse ad Efrem, cittadella sui confini della Giudea. Poco appresso lasciò anche Efrem, prese la via della Samaria, risalì fino in Galilea e di là discese nella valle del Giordano e ripigliò il cammino verso Gerico e Gerusalemme, poco prima dell’ultima Pasqua. Fu in questo viaggio, che precedette di pochi giorni la sua morte, che avvenne il fatto, o meglio, il miracolo, che vi ho narrato. Esso non presenta difficoltà alcuna: ma si presta ad applicazioni morali non prive di pratico interesse, meritevoli della vostra pia attenzione. – Narra un viaggiatore moderno di aver trovato, sulla via che da Giaffa mette a Gerusalemme, una turba di pezzenti. Essi, scrive il viaggiatore, erano senza capelli, senza naso, senz’occhi, e tendevano verso di lui le braccia senza mani: non parlavano, ma mugolavano nella gola parole impossibili ad intendersi. Erano lebbrosi che vivevano rilegati fuori dell’abitato, in certi casolari abbandonati; nessuno toccava né loro, né i loro abiti od utensili. I tocchi dalla lebbra, oggi assai rari anche in Oriente, erano numerosi al tempo di Cristo. Questa terribile malattia, comune allora in Oriente, passò in Occidente al tempo delle Crociate e vi si diffuse in modo che si eressero molti ospitali per i lebbrosi. Oggidì in Occidente è quasi scomparsa, ma non sono rari i casi in Oriente, massime in Palestina e se ne hanno in altre parti del mondo. Era ed è una conseguenza del difetto d’ogni pulizia. Mosè aveva stabilito le regole più minute e più severe da osservarsi quanto ai lebbrosi od anche solo sospetti d’essere colti dal fiero morbo. Il sacerdote, ch’era anche medico, doveva esaminare l’infermo sospetto di lebbra: trovatolo caso dubbio, lo separava finché cessasse il dubbio. Se non era lebbra, lo lasciava libero; se la lebbra si manifestava, lo separava totalmente dalla società: se guariva, ciò che accadeva raramente, il lebbroso doveva presentarsi al sacerdote, il quale, accertata la guarigione, nella sua qualità anche di medico, gli permetteva di ritornare in mezzo alla società. Mosè si può considerare come il primo legislatore, che contro il propagarsi delle malattie contagiose (e contagiosa in sommo grado era la lebbra) stabilì la più assoluta separazione. Mandate innanzi queste semplici osservazioni, veniamo al fatto narrato dal Vangelo. Avvenne che nel muovere alla volta di Gerusalemme, Gesù passava attraverso la Samaria e la Galilea. „ La Samaria divide la Giudea dalla Galilea, tantoché non si poteva passare dall’una all’altra provincia senza attraversare la Samaria, o fare un lungo giro ad oriente, di là del Giordano. – ” Essendo entrato, in un certo villaggio, gli si fecero incontro dieci lebbrosi. „ Noi ignoriamo il nome di questo villaggio che il Vangelo non ha nominato; ma secondo ogni verosimiglianza è il villaggio che oggi si chiama Diennin (V. P. Didon, Vita di Gesù Cristo, vol. 1, pag. 140), a metà strada tra Nazaret e Sichem. Presso il villaggio gli si fecero incontro dieci lebbrosi. Non deve far meraviglia trovarne dieci insieme, sia perché, come dissi, allora in Palestina erano più frequenti che al presente i casi di lebbra, sia perché, cacciati dai luoghi abitati ed andando qua e là a guisa di vagabondi, era naturale che gl’infelici si cercassero a vicenda, per temperare nella convivenza, che sola era loro possibile, lo strazio dei loro dolori e l’affanno e la desolazione dell’isolamento inesorabile a cui erano condannati. Il trovarsi tra loro un Samaritano prova che si erano mossi insieme, dandosi quasi la posta, da vari paesi. Quei miseri avevano certo dovuto udire più volte pronunziare il nome di Gesù, come quello di un gran profeta, d’un gran maestro, anzi del Messia aspettato. La fama dei miracoli operati da lui, certamente era giunta ai loro orecchi, e con essa era nata nel loro cuore la speranza d’essere per Lui risanati. Per chi è percosso da grave infermità è tanto naturale aprir l’animo ala speranza della guarigione, anche quando sembra impossibile! Pensate se non lo dovessero aprire questi sventurati, che di Gesù, della sua bontà e della sua potenza avevano udite tante meraviglie! Io credo che qualche persona, impietosita di quegli infelici e bramosa di vedere un miracolo, corresse a loro, e stando da lungi, li chiamasse e gridasse loro che Gesù di Nazaret, l’operatore di tanti miracoli, si avvicinava al villaggio; ch’Egli poteva guarirli; che non dovevano lasciar sfuggire sì bella occasione; che corressero a Lui, che lo pregassero, che lo supplicassero a risanarli: era sì buono, che li avrebbe esauditi, come altri ne aveva esauditi! Immaginate voi se quei poveretti avevano bisogno d’altri conforti. Essi, unitisi insieme, e forse sorreggendosi pietosamente gli uni gli altri, si collocarono sulla via per dove passava Gesù, e appena lo videro o l’udirono avvicinarsi, rispettando la legge, che li obbligava a starsene lontani: “Levaverunt vocem suam — si misero a gridare come più e meglio potevano. „ E che dicevano essi quei tapini? Qual era il grido, lamentevole, quale la preghiera ardente, che rivolgevano a Gesù, agitando le braccia? Uditela: “O Gesù maestro, abbi pietà di noi” – = — Jesu præceptor, miserere nostri. „ Lo chiamano col suo nome proprio e sì dolce, e vi aggiungono il titolo d’onore: “Maestro – Rabbi, „ che gli si dava dal popolo e che a Lui sì bene conveniva. Il loro grido, la loro preghiera è sì bella, sì semplice e sì eloquente, che altra più naturale e più efficace non si può immaginare. È questa la preghiera che il bisogno e la stessa natura mettono sulle labbra dell’uomo, ed è quella che dovrebbe risonare sulle nostre ogni qualvolta ci prostriamo dinanzi a Dio: Signore, abbiate pietà di me: Miserere mei, Deus. E la confessione della nostra miseria, è l’espressione della nostra fiducia in Dio: è il grido dell’umiltà e della speranza, le due ali con le quali voliamo a Dio. Allorché, o carissimi, siamo afflitti, desolati e gemiamo sotto il peso dei nostri dolori, e talvolta non sappiamo come pregare, prostriamoci dinanzi a Dio e ripetiamo spesso questa sì breve e sì santa preghiera: “Signore, abbiate pietà di me. „ I poveri lebbrosi non gridano a Gesù: Liberaci, o Maestro, da questa lebbra, mondaci da queste schianze e fetide piaghe onde siamo coperti: essi le mostrano e a chi ha cuore, basta mostrare i bisogni per essere esauditi. Io credo che, come al solito, gran folla di popolo accompagnasse Gesù, desiderosa di vedere il miracolo. Gli occhi di tutta quella moltitudine si fissavano avidamente ora sopra il divino Maestro, ed ora sui dieci sventurati; il silenzio doveva essere profondo, vivissima l’aspettazione. Gesù fermò gli occhi pieni d’amore e di tenerezza sopra di essi, mostrando che sentiva al vivo i loro dolori, e poi con voce amorevole e che mostrava i loro voti dover essere fatti paghi, disse: “Andate, mostratevi ai sacerdoti — Ite, ostendite vos sacerdotibus. „ Perché mai Gesù Cristo non volle mondare immediatamente, lì sul luogo, quei dieci lebbrosi, come fece quasi costantemente ogni volta che fu richiesto di qualche miracolo? Perché volle che questi lebbrosi se ne andassero e si mostrassero ai sacerdoti? Non è mestieri il far osservare che Gesù poteva operare i miracoli come meglio stimava, e nessuno aveva il diritto di imporgli il modo di operarli: ma non è temerità investigare con umiltà e riverenza, perché ha voluto tenere questo modo insolito con i dieci lebbrosi, e noi lo facciamo seguendo l’insegnamento dei Padri e degli interpreti più autorevoli. – Secondo la legge di Mosè (Levit., c. XXIV) era uffizio dei sacerdoti, come poc’anzi accennai, il verificare l’esistenza della lebbra e la sua guarigione; e Gesù, per rispetto alla legge, e fors’anco per disarmare con quell’atto di deferenza i sacerdoti, che sapeva essergli nemicissimi, Gesù mandò quei lebbrosi ai sacerdoti per mettere alla prova la loro fede ed ubbidienza, e in tal guisa far loro quasi meritare il miracolo. Finalmente, penso io, voleva che gli stessi sacerdoti, suoi nemici, fossero testimoni del miracolo, e così aprissero gli occhi alla verità. Certamente è poi da credere, che Gesù pronunziò queste parole : “Andate e mostratevi ai sacerdoti, „ in modo che i lebbrosi compresero benissimo che la guarigione era sicura, e non per virtù dei sacerdoti, ma di Lui che li mandava ai sacerdoti. Onde lieti partirono per recarsi dai sacerdoti, e … “avvenne che nell’andare furono mondati. „ Senza dubbio dal contesto del Vangelo è chiaro: la loro guarigione avvenne in un istante, benché dei particolari intorno al modo non vi sia un solo cenno: Et factum est, dum irent mundati sunt. – Voi vedete che la certezza del miracolo non potrebb’essere maggiore. Si tratta d’una malattia visibile a tutti e notissima, e la cui guarigione era assai rara: e quando pure lunga cura, ed era progressiva, non mai repentina; qui il risanamento avvenne sulla via, ad un tratto, in tutti i dieci egualmente, in quella che ubbidiscono al comando di Cristo: non si applica nessun rimedio, non precede la minima cura. Il fatto si compie all’aperto, sulla via pubblica e, credo, sotto gli occhi di molti che li dovevano seguire, se non altro, per una certa curiosità. Si tratta non di un solo lebbroso mondato, ma di dieci; d’uno o di due forse si poteva dubitare che fossero allucinati, o come che sia ingannati o ingannatori: ma dieci allucinati, tutti ingannati o ingannatori, e ingannatori senza motivo, contro ogni interesse proprio, calpestando la propria coscienza, esponendosi ai più gravi pericoli, questo, o cari, è troppo, è impossibile. La guarigione pertanto dei dieci lebbrosi, quale ci è narrata dal Vangelo, considerata in ogni sua parte, col solo lume del senso comune, apparisce un fatto indubitato, e per conseguenza un’opera evidentemente sovrumana, in una parola, un vero miracolo. – E qui mi parrebbe di lasciare imperfetto e manchevole il commento di questo miracolo evangelico, se lasciassi da banda un’altra osservazione od applicazione che vedo toccata da tutti gli interpreti cattolici, e che torna sempre opportunissima. La lebbra, onde quei meschini erano coperti e orribilmente malconci e disfatti, era figura del peccato: il guasto che la lebbra faceva dei corpi, coprendoli di macchie schifose e piaghe puzzolenti e gangrenose e dimorandoli vivi, lo fa il peccato dell’anima nostra. A guisa di immonda lebbra la copre, altera in essa o bruttamente svisa la bella immagine di Dio e la rende deforme ed abominevole ai suoi occhi. Chi la monderà da tanta bruttura? Chi farà cadere quelle pustole fetenti, che tutta la insozzano? Chi chiuderà le sue piaghe, che menano un lezzo intollerabile? Chi ristorerà in essa la immagine di Dio e farà rifiorire l’antica sua bellezza? Dio solo, o carissimi, può ciò fare, perché come Egli solo col Battesimo ha creato queste capolavoro di bellezza, che è l’anima adorna della sua grazia, così Egli solo può rifarlo, rifondendo la stessa grazia: lo può e lo vuole col più acceso desiderio. Dio può mondarla dalla lebbra del peccato e rivestirla della sua prima bellezza, infondendo in essa la sua grazia direttamente, senza bisogno di qualsiasi mezzo o strumento; chi potrebbe dubitarne? Ma Dio vuol fare tutto questo, associando a sé l’uomo, dirò meglio, il sacerdote, e usando di lui, come di strumento, in maniera che  senza il suo concorso, Egli ordinariamente non fa nulla. Dio vuole sciogliere il peccatore dalla lebbra del suo peccato e rifarlo suo figliuolo per adozione mercè l’opera del Sacerdote. Udite ciò che Cristo dice ai dieci lebbrosi, che con le lacrime agli occhi gli chiedono la guarigione: ” Andate, mostratevi ai sacerdoti. „ Così Egli dice a noi tutti peccatori, che gli chiediamo la guarigione dell’anima nostra, il perdono dei nostri peccati: ” Sì, io vi monderò della vostra lebbra; io vi perdonerò le vostre colpe e vi rivestirò dell’ammanto prezioso della grazia; ma andate, e mostratevi ai Sacerdoti — Ite, ostendite vos sacerdotibus. „ Chi mai potrebbe lagnarsi di questa condizione impostaci per avere il perdono delle nostre colpe? Non è Egli il padrone assoluto, al cui impero nessuno può sottrarsi? Non poteva Egli imporci condizioni assai più dure e gravose? E non dovremmo noi anche in tal caso essergli grati della misericordia usata? E chi ne può dubitare? Infine ci dice: “ Andate, mostratevi ai Sacerdoti, „ cioè aprite loro il vostro cuore, i penetrali della vostra coscienza: anch’essi, questi Sacerdoti, per ottenere il perdono delle loro colpe, sono sottoposti alla stessa legge, e devono, come voi, manifestare la propria coscienza ai fratelli loro, ed avendo essi pure bisogno di carità, la useranno tutta con voi. Non temete di palesar loro le vostre debolezze e le vostre colpe; esse rimarranno sepolte per sempre nel loro cuore. E non sarà piccolo il vantaggio che voi ritrarrete, manifestando le vostre coscienze ai Sacerdoti: voi sarete obbligati a studiare e conoscere meglio voi stessi, le vostre passioni, le vostre tendenze: il rossore che proverete scorrendo le vostre colpe sarà parte di quella penitenza che dovreste fare, e sarà un valido ritegno al trascorrere delle passioni, e umiliando l’orgoglio troppo naturale del vostro cuore, vi renderà più saldi e più generosi nelle lotte quotidiane che dovrete sostenere. Non vi incresca adunque di ubbidire, come i dieci lebbrosi, al comando, non degli uomini, ma di Gesù Cristo, di andare e mostrarvi ai Sacerdoti con la Confessione, e così essere mondati dalla lebbra del peccato. – Voi dovete sapere che il Vangelo nella narrazione dei fatti è oltre ogni dire conciso: accenna appena le cose più necessarie, e le altre le lascia sottintendere ai lettori. Senza fallo, allorché Gesù Cristo disse ai dieci lebbrosi: “Andate, mostratevi ai sacerdoti, „ ancorché nol dicesse, lasciò loro intendere che certamente sarebbero stati mondati, e perciò la loro fede fu piena, la loro obbedienza fu pronta e cieca, e se ne andarono. Mentre se ne andavano, ad un trattò si videro cadere le squame della lebbra, chiudere le piaghe aperte e rifiorire la carne e perfettamente risanati. Stupiti si guardavano a vicenda, e quasi non sapevano credere ai propri occhi. Potete immaginare la gioia di questi poveri lebbrosi, che testé si vedevano cacciati dalla convivenza sociale, condannati ad una morte inesorabile ed atrocissima, ed ora si vedono ritornati in vita e liberi di rientrare in seno alle loro famiglie. La guarigione dovette avvenire in un istante, come dicevo, e per loro non poteva esservi ombra di dubbio che l’autore del miracolo era Gesù Cristo. L’istantanea e prodigiosa guarigione dalla lebbra di quei tapinelli, è figura di quell’altra istantanea e che Gesù Cristo opera in noi mercé della sacramentale Confessione. Allorché noi, guidati dalla fede, ubbidiamo al comando di Gesù Cristo, e confessiamo schiettamente le nostre colpe al suo ministro: allorché egli alza la sua mano e pronunzia le sante parole: “Io ti assolvo, „ la lebbra del peccato sparisce dall’anima nostra, ed essa è rivestita della bellezza divina, ond’era stata nel santo Battesimo arricchita. Ah! se in quell’istante i nostri occhi potessero vedere ciò che avviene nell’anima nostra e la sua meravigliosa trasformazione, la nostra gioia per fermo non sarebbe inferiore a quella onde furono ricolmi i dieci lebbrosi. –  Ritorniamo alla narrazione evangelica. Visto il miracolo che fecero, che dissero i dieci lebbrosi? Noi immaginiamo che tutti e dieci, senza esitare un solo istante, dovessero rifare la via e a gran corsa ritornare a Gesù, che non doveva essere lontano, e ringraziarlo e benedirlo, e narrare a tutti ciò ch’Egli aveva operato in loro; ma non fu così. Nove proseguirono il loro cammino, come se nulla fosse, e certo si recarono dai sacerdoti, affinché, accertata la guarigione, secondo la legge di Mosè, e fatta l’offerta, fosse loro dato di ritornare nelle loro famiglie (Gesù Cristo comandò ai lebbrosi di mostrarsi ai sacerdoti, non solo, credo io, perché la legge lo voleva e per far palese com’Egli la rispettava, ma perché essi stessi potessero e dovessero vedere con i loro occhi il miracolo per Lui operato e ne fossero testimoni.), il decimo per contrario, appena si vide mondato, ritornò sui suoi passi, corse da Gesù, si buttò ai piedi di Lui, con la faccia sul suolo: Cecidit in faciem suam ante pedes ejus, ringraziandolo senza fine: Gratias agens. E chi era egli questo lebbroso, che solo dei dieci ritornava a Gesù per attestargli la sua gratitudine? Il Vangelo non lo tacque: “Egli era samaritano — Et hic erat samaritanus.” I Giudei, come altra volta ebbi occasione di osservare, odiavano, abbominavano i Samaritani, e li tenevano in conto non solo di erranti e pagani, ma peggio ancora, se era possibile. Eppure Gesù non fece differenza alcuna nel miracolo operato; Egli guarì il Samaritano come gli altri nove che erano giudei, combattendo e distruggendo in tal guisa il pregiudizio nazionale, e mostrando come il Vangelo avrebbe stabilito il regno della carità universale. Poco prima il Salvatore (capo X, 33), ad un dottore della legge, alla presenza delle turbe giudaiche, nella persona di un Samaritano, aveva proposto il modello della carità fraterna; qui, in un Samaritano vero e reale, ci mette innanzi il tipo della gratitudine. Si direbbe che Gesù Cristo disponeva a bello studio le cose in modo da umiliare l’orgoglio degli Ebrei e distruggere il loro inveterato pregiudizio contro dei Samaritani. Credo anche non inutile avvertire un’altra cosa, che mostra il perché il buon Samaritano solo se ne tornò a Gesù, ed è questa: Egli troppo bene sapeva che se si fosse presentato ai sacerdoti, l’avrebbero dispettosamente respinto e rifiutato la sua offerta, appunto perché samaritano; e sapeva d’altra parte che quel Gesù che l’aveva mondato con tanta prontezza e bontà, l’avrebbe anche amorevolmente accolto, e che in fine valeva meglio ringraziare chi l’aveva con sì strepitoso miracolo risanato, che presentarsi al tempio e ai sacerdoti, che nulla avevano fatto, né potevano fare… Il buon Samaritano stava ai piedi di Gesù, e, come meglio poteva, con gli atti e con le parole, e, credo, anche con le lacrime, mostrava la sua gratitudine e benediceva il divino Maestro. Questi lo accoglieva con ogni amorevolezza, lo guardava con occhio pieno d’amore, e taceva; gli Apostoli e le turbe meravigliati gli facevano corona, aspettando pure che Gesù parlasse, e finalmente parlò e disse: “Non furono forse dieci i mondati? E gli altri nove dove sono? „ Voi lo comprendete, o dilettissimi: in queste domande di Gesù si sente un cotale accento di dolore, di mestizia, di nobile e tranquillo lamento, che va dritto al cuore, e che un lungo discorso difficilmente potrebbe esprimere. “Io so bene d’averne risanati dieci: ora come avviene che ne vedo un solo? Gli altri nove dove sono essi? „ Le parole di Cristo non erano rivolte né al Samaritano, né agli Apostoli, ma sono una forma di soliloquio, che fa seco stesso. Dopo un breve silenzio molto significante Gesù riprese, ed in modo solenne, girati intorno gli sguardi, disse: “Dunque non si è trovato chi tornasse a dar gloria a Dio, se non questo straniero! „ Di dieci lebbrosi un solo sentì il dovere di ringraziare chi li aveva sì prodigiosamente risanati, e, per di più, quest’uno non era un figlio di Abramo, ammaestrato dalla legge e dai profeti, ma uno straniero, un Samaritano! Non vi sfugga una osservazione, che mi sembra assai grave: in questo luogo Gesù, in modo abbastanza chiaro, afferma, sé essere Dio, perché dice: “Non si è trovato chi tornasse a dar gloria a Dio che questo straniero; „ ora lo straniero ch’era tornato a dar gloria o ringraziare, com’era suo dovere, dava gloria a Gesù Cristo, e Lui ringraziava: Gesù Cristo adunque parlava da Dio. – Una delle offese più cocenti, una delle ferite più dolorose che un’anima nobile e delicata possa ricevere, è senza dubbio l’ingratitudine delle persone beneficate, massime se queste hanno con essa vincoli speciali di parentela od amicizia, e se i benefizi sono grandi e segnalati. Avea ragione S. Bernardo di scrivere, che l’ingratitudine sopra ogni altra cosa spiace a Dio, particolarmente nei suoi cari figliuoli; che l’ingratitudine chiude la porta alla grazia, e che, quasi vento infuocato, dissecca la fonte della pietà, la rugiada della misèricorda, i ruscelli della grazia (Serm. 51). Non è vero, o cari, che allorché voi avete coscienza di aver colmato di benefizi un amico, di aver teneramente amato i vostri figli e sudato per essi, e li trovate sconoscenti, o anche solo indifferenti, vi sentite trafitti nella parte più intima del cuore ed esclamate: Oh gli ingrati! — Ebbene: da ciò misurate l’offesa che noi facciamo a Dio allorché sì malamente usiamo dei suoi benefizi. Questi, pel numero, per la qualità, per la durata, per la grandezza, per l’amore di chi li concede, non potrebbero essere maggiori. La vita che abbiamo, tutto ciò che alla vita è congiunto, la sua conservazione ad ogni istante, tutti i mezzi per conservarla e perfezionarla: la fede, la grazia, i sacramenti, la vita futura che ci promette ed offre, sono tali e tanti benefizi, che superano al tutto ogni umano comprendimento. Eppure a tanti benefizi, a tanto amore come abbiamo noi corrisposto? Me ne appello a voi. Noi ci lagniamo sì spesso di trovare uomini ingrati, e i nostri benefici sono quasi sempre un nonnulla: con quanta maggior ragione Dio può lagnarsi di noi, che tante volte lasciamo passare, non dico le ore e i giorni, ma le settimane, i mesi e gli anni senza dirgli: “O Signore, vi ringrazio della vita che mi avete accordato; della fede che mi avete dato, dei tanti benefizi che mi avete concessi! Questa gratitudine la dovremmo in ispecial maniera mostrare a Dio quando ci monda dalla lebbra dei nostri peccati nel Sacramento della Penitenza. In questo bagno salutifero Gesù Cristo ci monda dalla lebbra del peccato e ci adorna del manto glorioso della sua grazia; sarebbe mai, o dilettissimi, che a somiglianza dei nove lebbrosi, uscendo da questo lavacro purificatore, non ci recassimo ai piedi dell’altare, dove Gesù dimora nell’augusto Sacramento, e prostrandoci alla sua presenza col buon Samaritano, non lo ringraziassimo e levassimo a cielo la sua bontà e misericordia? Ah! se non lo facessimo, saremmo pure ingrati, e Gesù a ragione; potrebbe dire: E questo lebbroso, ch’io ho mondato nel mio sangue, non è venuto a ringraziarmi? Tanti pagani e Gentili ringraziano i loro idoli di quei benefizi che credono d’aver ricevuto da loro; tanti musulmani pubblicamente s’inginocchiano per benedire quel Dio, ch’ essi sì imperfettamente conoscono; tanti eretici e scismatici, che vivono nei loro errori, sollevano a me le loro mani e mi ringraziano a gran voce dei doni loro concessi; e i figli della Chiesa, i miei figli, prosciolti per me dai loro peccati, risanati dalla lebbra che li divora, non si curano tampoco di ringraziarmi. Ogni giorno al mattino ed alla sera, porgiamo a Dio il tributo della nostra riconoscenza, ringraziandolo degli innumerevoli benefizi onde ci è largo, e più particolarmente ogni volta che nel Sacramento della Penitenza ci mondiamo dalla lebbra del peccato, ricordandoci che il mezzo più efficace di ottenere grazie da Dio è quello di mostrarci grati di quelle ricevute. “Allora Gesù Cristo, così S. Luca chiude il suo racconto, disse al Samaritano: Levati e vattene, che la tua fede ti ha salvato. „ Tu hai creduto alle mie parole: tu, ubbidiente, andavi per mostrarti ai sacerdoti, secondo il mio comando: premio della tua fede e della tua ubbidienza è stata la guarigione; più grato de’ tuoi compagni, venisti a ringraziarmi; or levati e vattene. ,, Gesù qui, come in tanti altri luoghi del Vangelo, attribuisce la guarigione del lebbroso alla fede: certo la causa principale di quella guarigione era la bontà e la onnipotenza di Gesù Cristo; ma da queste parole apparisce che vi ebbe anche parte la fede del lebbroso stesso, tantoché è da dire, che se il lebbroso non avesse avuto questa fede, non sarebbe stato nemmeno risanato. Quantunque le parole di Cristo: ” La tua fede ti ha salvato, „ direttamente si riferiscano alla guarigione del corpo, è comune sentenza degli interpreti, che si riferiscano anche alla guarigione dell’anima, sia perché non è esclusa, sia perché era costume di Gesù Cristo risanare coi corpi anche le anime, sia finalmente perché la condotta del povero samaritano, i suoi ringraziamenti, la sua gratitudine sì altamente lodata dal Salvatore, non ci lasciano dubbio della sua pronta e sincera conversione. L’esempio di questo avventurato samaritano ci stia sempre dinanzi alla mente: egli ottenne insieme la salute del corpo e quella dell’anima: la ottenne dalla bontà del divino Maestro, ma non senza la propria cooperazione, per testimonianza di Cristo: ” La tua fede ti ha salvato. „ Noi pure otterremo la salvezza dell’anima nostra, ma a patto di prestare fedelmente la nostra cooperazione, radice della quale è la fede viva: Fides tua te salvum fecit.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps XXXIII:15-16
In te sperávi, Dómine; dixi: Tu es Deus meus, in mánibus tuis témpora mea.
[O Signore, in Te confido; dico: Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono le mie sorti.]

Secreta
Popitiáre, Dómine, pópulo tuo, propitiáre munéribus: ut, hac oblatióne placátus, et indulgéntiam nobis tríbuas et postuláta concedas. [Sii propizio, o Signore, al tuo popolo, sii propizio alle sue offerte, affinché, placato mediante queste oblazioni, ci conceda il tuo perdono e quanto Ti domandiamo.]

Communio
Sap XVI:20
Panem de coelo dedísti nobis, Dómine, habéntem omne delectaméntum et omnem sapórem suavitátis.
[Ci hai elargito il pane dal cielo, o Signore, che ha ogni delizia e ogni sapore di dolcezza.]

Postcommunio
Orémus.
Sumptis, Dómine, coeléstibus sacraméntis: ad redemptiónis ætérnæ, quǽsumus, proficiámus augméntum.
[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, ricevuti i celesti sacramenti, progrediamo nell’opera della nostra salvezza eterna.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XXIV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXIV

LA VITA E LA MORTE.

La lunga vita dei patriarchi. — Perché Dio ci lascia morire? — E dacchè Dio ci lascia morire, è poi gran male il suicidio? — E il duello? — Che dire del martirio e delle penitenze di certi santi? — La penitenza non è un attentato alla vita? – La cremazione.

— Ora vorrei sapere se sia vero che Adamo, il primo uomo, visse novecento e trent’anni, e tutti i primi uomini vissero come lui per lunghe età?

Verissimo, la Scrittura ne fa fede.

— Ma quegli anni non erano forse di gran lunga più brevi dei nostri?

Fin dai tempi di S. Agostino, taluni sorpresi di tanta longevità pretesero di ridurre egli anni allo spazio di trentasei giorni. Ma ciò erroneamente, perché l’autore del Genesi parlando altrove dell’anno enumera il primo, il secondo, il settimo, il decimo mese, ciò che mostra che intendeva parlare di uno spazio presso a poco uguale al nostro, ossia come pare probabilissimo di uno spazio di dodici mesi lunari, corrispondenti a 354 giorni.

— Ma una tale longevità non è fisicamente impossibile?

Nelle presenti condizioni di natura l’uomo certamente non può giungere ad una età antica quanto quella dei patriarchi benché anche oggi vi siano casi di vite lunghe fino a 190 anni e anche di più. Ma probabilmente prima del diluvio, le condizioni climateriche erano differenti da quelle d’oggidì, la qual circostanza, se non fu l’unica cagione, ebbe forse una grande efficacia sulla lunga vita dei primi uomini.

— Ho inteso. Ma perché Iddio dopo d’averci data la vita ci lascia morire? Io dico: « O la vita è un male, e allora perché Dio ce l’ha data? o è un bene, e allora perché ce la toglie? »

Tu dici così, perchè così hai letto in un cattivo romanzo. Ma non ti avvedi che questo specioso dilemma è tutto basato sul falso? Che la vita sia un bene e non un male non ci vuole un gran comprendonio a capirlo. – Dio, ch’è buono, non dà certamente agli uomini una cosa cattiva. Con tutto ciò la vita non è certamente il bene fine, ma il bene mezzo di un altro bene infinitamente maggiore, la beatitudine eterna, alla quale Dio, perché padrone di fare quel che vuole, ha stabilito che si arrivi passando per la morte. E avendo stabilito così ci fa forse Egli qualche torto, o si regola forse contrariamente alla sua bontà? Che anzi non ci dà prova maggiore di bontà in tal guisa, he lasciandoci vivere sempre in questo mondo? Supponi che tuo padre ti avesse dato dieci lire, dicendoti: Se te ne servirai a bene e le farai fruttare, dopo quel certo tempo che piacerà a me ti ripiglierò quelle dieci lire per dartene centomila: dimmi tuo padre avrebbe fatto male a darti quelle dieci lire? e in seguito ti farebbe un torto a togliertele per dartene centomila? – Capisci adunque quanto sia falso il dire quel che dice quel romanziere: « O la vita è un male, eccetera, eccetera ».

— So però essere verissimo, che Dio vuole che noi ci conserviamo la vita. Come dunque mediare questa sua volontà colla morte, di cui ci lascia essere vittime?

Questa conciliazione è la più facile che vi sia. Dio vuole certamente che noi ci conserviamo la vita, e vuole cioè che per parte nostra non ci togliamo sì gran dono, che desso ci ha fatto, avendocelo dato perché lo impieghiamo ad operare il bene per tutto quel tempo che Egli vuole lasciarci quaggiù. Ma passato questo tempo Egli vuole altresì, che noi ci rassegniamo alla morte, dalla quale ci lascia colpire per farci entrare nella eternità.

— Dacché adunque Iddio ha stabilito che noi tutti dobbiamo morire, non sarà proprio mai lecito che l’uomo si dia da se stesso la morte? Ho inteso dire varie volte che taluno nel togliersi la vita ha fatto un’ottima cosa, degnissima di lode!

Così pur troppo la pensa il mondo; ma si sa lo spirito mondano è diametralmente opposto allo spirito cristiano. Epperò non mai e poi mai sarà lecito il suicidio, ma sempre deve riguardarsi come un gravissimo delitto. In tutte le creature vi è una forza naturale, istintiva ed indistruttibile, che le spinge a far di tutto per conservare la propria esistenza. Epperò questa forza bisogna riconoscere che Dio stesso l’ha posta nelle sue creature come una legge di natura, cui anche l’uomo deve sottostare. Oltreché con la legge di natura Iddio ha pur proibito il suicidio nella legge positiva; giacché in quel « 5° Non ammazzare » è chiaro che Dio proibisce all’uomo non solo di ammazzare gli altri, ma ancora se stesso. Chiunque pertanto si dà la morte, viola gravissimamente un doppio precetto del Signore, senza nulla dire dell’ingiustizia, che commette verso della famiglia e della società.

— Come? Che chi si uccida violi la legge di natura e positiva lo intendo; ma non capisco come si renda pure ingiusto verso la famiglia e la società.

Rifletti che ogni uomo fa parte di una famiglia e di una società. E tanto all’una come all’altra egli è legato con dei diritti e dei doveri, che non deve disconoscere e rinnegare. Se pertanto egli si dà la morte, che cosa fa? Calpesta questi diritti e questi doveri, spezza violentemente i vincoli di sposo, di padre, di figlio, getta il disonore sulla famiglia, cui appartiene, priva la medesima e la società della propria esistenza e della propria opera.

— Tutto ciò è giusto; ma quando la vita, a cagione dei dispiaceri, dei dolori, dei contrasti, delle infermità, del disonore e di altre simili miserie diventa insopportabile non è meglio allora farla finita?

Primieramente ti osservo che la vita a cagione delle sue tribolazioni diventa insopportabile a coloro soltanto, che mancano di sentimenti cristiani. Chi nutre nel suo cuore tali sentimenti, anche in mezzo ai più acerbi dolori, non ostante che possa provare dei fremiti di natura contrari alla rassegnazione, non di meno o poco o tanto sa farsi violenza e sopportare la vita anche più dura. – In secondo luogo ti dirò che se fosse lecito di fronte alle tribolazioni della vita darsi la morte, in tutto il mondo si presenterebbe del continuo lo spettacolo del suicidio, perché vi è forse qualcuno, che durante la vita possa sfuggire del tutto i dolori fisici o morali? – Da ultimo ti assicuro che per quanto siano gravi le tribolazioni della vita non possono mai superare il bene della esistenza. Colui pertanto, che dinanzi ai dispiaceri, ai disgusti, al disonore e simili si dà la morte, è un vile miserabile, degno del massimo biasimo.

— Un vile miserabile? E non vi sono stati vari uomini grandi, che si suicidarono?

Se essi apparvero o furono tali per le grandi opere, che compirono durante la vita, senza dubbio lasciarono di essere tali allora che in tal guisa se la tolsero, perché la vera grandezza d’animo, come riconobbero gli stessi pagani, sta nel saper sopportare generosamente i disagi d’ogni genere, cui si va incontro quaggiù. – Se poi vi sono dei romanzieri, che esaltano il suicidio di questi così detti grandi,, gli è perché ancor essi hanno perduto il senso morale e tentano di farlo perdere eziandio agli altri.

— Eppure quanti ai giorni nostri, eziandio tra la gioventù, per un contrasto qualsiasi, si tolgono la vita!

Sì, ciò è verissimo pur troppo, ed è la dolorosa conseguenza dell’ambiente ateo, che si è andato formando in questi ultimi tempi. Si è posta da banda la fede, si sono scossi i principi della moralità negando la coscienza e insegnando il turpe materialismo, si è predicato quale unico scopo della vita il piacere, e poi sui giornali, sui romanzi, sui teatri, talora nelle stesse scuole, si è preso a fare l’apologia del suicidio: quindi nessuna meraviglia che questa piaga funesta si sia andata e vadasi allargando sempre più.

— Che si dovrebbe fare per rimediare a tanto male?

Si capisce: bisognerebbe combatterne e rimuoverne le cause. Bisognerebbe anzitutto ravvivare quanto più è possibile la fede e la pratica della religione; bisognerebbe poi proibire la pubblicazione di romanzi, di scritti, di articoli, di racconti, ove il suicidio è messo in mostra e quasi esaltato; bisognerebbe risvegliare il buon senso morale, sì che si abbia a riconoscere il gran delitto che il suicidio è, e l’infamia con cui merita di essere colpito; bisognerebbe che gli stessi poteri umani, come colpiscono di disonore i ladri e gli assassini, così facessero del suicida, che del ladro e dell’assassino è peggiore assai.

— Ella dice bene. Ma dacché siamo entrati in questo argomento, desidererei ora sapere qualche cosa di ciò che mi pare assai affine al suicidio, vale a dire del duello.

Tu hai ben ragione di dire che il duello è affine al suicidio, perché nel duello, che è un combattimento convenuto fra due, col pretesto di avere una riparazione d’onore, l’uomo senza alcuna vera necessità si espone al pericolo di essere ferito od ucciso contro la stessa legge di natura e quella positiva, di cui ti ho già parlato, e che ci impone di conservare la vita e ben anche l’integrità delle nostre membra.

— Dunque il duello è anch’esso un male grave?

È un male gravissimo, e tanto più ai giorni nostri. Che a questa rea pratica si abbandonassero quei barbari rozzi ed ignoranti, di cui parla Cicerone, i quali rimettevano la sentenza delle loro liti non già al tribunale, ma al ferro; che vi si abbandonassero gli stessi uomini civili nel medio evo, in cui tanti pregiudizi ed errori ottenebravano le menti, è cosa abbastanza spiegabile; ma che con la tanta luce e civiltà, di cui si vantano i tempi nostri, vi siano ancora di coloro così barbari e così sciocchi ad un tempo da mettere il loro onore sulla punta d’una spada o sopra una palla di rivoltella è del tutto inesplicabile e sommamente condannevole.

— Ma quando alla fin fine non vi è altro mezzo per avere soddisfazione d’un oltraggio ricevuto, mi pare che il duello non sia poi il gran male, che ella dice.

Come? Non vi è altro mezzo per avere soddisfazione d’un oltraggio ricevuto? Non vi sono forse i tribunali a cui ricorrere? Non vi sono dei giudici, delle leggi? E soprattutto poi per un cristiano non vi è il dovere di perdonare? – Ma via, mettiamo pure come tu di’, che alle volte cioè non vi sia altro mezzo per avere soddisfazione di un oltraggio ricevuto; forse che il duello serva a dare questa soddisfazione? Ecco: tu hai offeso me ed io ti sfido a duello. Tu accetti. Nel giorno, nell’ora e nel luogo convenuto, con le armi in mano e con i nostri padrini, o testimoni, ci troviamo a batterci. Tu sei coraggioso, forte e destro nel maneggiare la spada. Io invece sono timido, fiacco e poco esperto nella scherma. Al primo scontro tu mi ferisci, e se il duello è stato convenuto a primo sangue, i padrini c’intimano l’alt, se no, ripetiamo gli scontri, in seguito ai quali io da te sbudellato casco per terra e me ne vo all’altro mondo. Che riparazione d’onore ho avuto io? E dopo che tu m’avrai ferito od ammazzato, cessa forse d’esser vero che tu mi abbia offeso? – Ma supponiamo pure che per caso o per valentia o destrezza maggiore, sia io il primo a ferir te, e che compiuto così il duello a primo sangue noi ci riconciliamo tra le congratulazioni dei nostri padrini, o che pure trattandosi di duello a ultimo sangue, io riesca a far te freddo cadavere, resta forse così dimostrato che io sono stato da te offeso e che io ho avuto riparazione dell’offesa, che mi hai recato? Niente affatto: resta dimostrato che io nel battermi con te ho dispiegato una valentia, una destrezza, una forza superiore alla tua, e null’altro. Di maniera che il mio onore rimane offeso come prima, e non è stato per nulla riparato. E così non serve assolutamente né a dare soddisfazione d’un oltraggio ricevuto, né a decidere una lite, né a indicare dove stia il torto e dove la ragione, a meno che si voglia credere questa grande bestialità, che la ragione sempre da parte del più forte e che il torto spetta sempre al più debole. Vedi adunque come il duello oltre ad una barbarie, ad una violazione della legge naturale e positiva, sia ancora una stoltezza inesplicabile.

— Il suo ragionamento è giustissimo. Non comprendo però perché sia lecita la guerra, alla fin fine non è che un grande duello fra due popoli, e che non sia lecito battersi in due soli.

Vedi, caro mio: la guerra per un popolo, che sia stato offeso ne’ suoi diritti, non avendo esso più altro mezzo per difenderli, è necessaria ed anche giusta. Certamente, se i popoli non avessero in generale apostatato da Dio, potrebbero anche dirimere i loro contrasti e le loro liti ricorrendo all’arbitrato del Vicario di Gesù Cristo, del Papa, come molte volte in passato si fece. Ma pur troppo oggidì si è arrivati al punto di escludere proprio lui solo, il Papa, dai Congressi ed arbitrati di pace. Ad ogni modo torno a dirti che la guerra per parte di quel popolo, che giustamente crede violati i suoi diritti, diventa necessaria per la difesa e conservazione dei medesimi. Ma il duello non potrà mai e poi mai riguardarsi come necessario, essendovi altri mezzi per decidere sulla ragione e sul torto dei due litiganti, e quindi non potrà mai contestarsi come cosa giusta.

— Eppure oggidì chi sfidato a duello non accetta, è reputato vile, e se si tratta di un militare ho inteso dire che viene punito.

Così è purtroppo. Ma il vero vile è colui, che si fa schiavo di un uso il più barbaro, il più irragionevole e colpevole che vi sia ancora, e non sa levarsi su al di sopra di queste stupide idee del mondo. E se nell’esercito si punisce chi sfida a duello e chi sfidato non lo accetta, si cade nella più strana e deplorevole contraddizione.

— Ciò è verissimo.

E dopo tutto comprendi come la Chiesa abbia stabilito, nell’ordine suo, pene gravissime contro i duellanti e tante volte abbia levato la voce contro il loro delitto.

— Comprendo tutto. Mi viene però in mente una difficoltà. Se non è lecito esporsi in duello al pericolo di restar anche solo ferito, e se tanto meno è lecito di togliersi col suicidio la vita, che cosa si dovrà dire anzitutto di certi martiri, che da per se stessi si sono gettati nel rogo o tra le fiere per essere privati della vita?

Si deve dire, epperciò riconoscere, che questi martiri, non fecero ciò coll’intendimento di darsi la morte contro il volere di Dio, ma in quella vece per una specialissima ispirazione, per un movimento straordinario della grazia divina, che li spinse a compiere nel loro martirio un atto di vero eroismo; giacché da tutte le circostanze, che accompagnano il loro martirio, risulta chiaro, che nel gettarsi essi medesimi in braccio alla morte mirarono a sottrarsi al vituperio e al pericolo di peccare.

— Ho inteso. E di quegli altri santi poi si accorciarono la vita coi digiuni, con le penitenze, con le flagellazioni e simili, che si deve pensare?

Anzi tutto a questo riguardo bisognerebbe poter dimostrare davvero il fatto, che certi si siano accorciata la vita con le austerità da te indicate; giacché le statistiche dimostrano che gli uomini dediti alle austerità ordinariamente menano una vita più lunga degli altri. In secondo luogo se realmente nella Chiesa vi furono taluni santi, che sembrino avere spinto le loro penitenze oltre i confini della moderazione, sta anche a loro discolpa una ispirazione peculiare, che essi certamente ebbero da Dio, il quale, padrone com’è della vita d’ogni uomo, voleva santificarli per quelle vie straordinarie allo scopo, che gli altri apprendessero da loro la necessità di fare almeno le modiche penitenze, che insegna il catechismo, e la mortificazione della carne a vantaggio spirito.

— La penitenza adunque e la mortificazione, che predica la Chiesa, non è un attentato alla vita?

Se fosse come tu dici, o dirò meglio come avrai inteso a dire, la penitenza e la mortificazione cristiana sarebbe contraria alla legge morale. Epperò Gesù Cristo, che tanto l’ha raccomandata affine di raffrenare i sensi, avrebbe fatto contro alla sua stessa divina legge. E tutti i santi che la praticarono, avrebbero sbagliato e sbaglieremmo anche noi nell’onorarli.

— Ma insomma come conciliare il dovere di conservare la propria esistenza e di non recare offesa neppure alle nostre membra con la penitenza e con la mortificazione?

Ciò non è così difficile come tu pensi. A tal fine non bisogna dimenticare che nel composto umano l’anima è superiore al corpo, il quale è fatto per quella e non quella per questo. In secondo luogo bisogna osservare che non solo la fede, ma pure l’esperienza dimostra che tra l’anima e il corpo vi è antagonismo, giacché i sensi vorrebbero spesso soddisfazioni, che la retta ragione condanna, e le chiedono talvolta così imperiosamente, che senza una grande virtù non è cosa facile renderli rassegnati al diniego. In terzo luogo fa d’uopo ricordare che gli istinti dell’appetito sensitivo col diniegare loro fermamente e di spesso ciò che domandano, e col frenarli ed affliggerli ben anche con la mortificazione e penitenza, a lungo andare si domano, la natia lor violenza a poco a poco si spunta, come avviene del cavallo indomito, che col morso e con altre pene umilianti ed afflittive alla fine si riduce ad obbedire al cenno del cavaliere. Epperò la penitenza e la mortificazione fanno sì che la nostra esistenza diventi quale deve essere, dignitosa e virile, ricca di onestà e di virtù. – E così sta, che per una parte noi siamo in dovere secondo il formale precetto di Dio di conservare la vita e le forze per l’adempimento dei nostri obblighi, e che per l’altra, senza punto ledere le nostre forze, almeno gravemente sì da renderci inetti al disbrigo dei nostri impegni, dobbiamo valerci dei digiuni, delle astensioni da certi cibi, delle mortificazioni dei nostri sensi e di quelle pratiche, che pigliano il nome di penitenza, per condurre una vita conforme alla nostra dignità umana e alla nostra grandezza cristiana. – Dunque sai ciò che piuttosto attenta alla nostra vita ed alle nostre forze? Sono certi vizi nefandi, sono le golosità, l’intemperanza nel mangiare e nel bere, la crapula, l’ubriachezza, certe scommesse insensate che taluni fanno a chi più mangia e più beve, certe mode di vestire che stringono troppo il corpo e lo comprimono, ed altre simili cose. Ed è contro di ciò, che devesi giustamente inveire ma non contro la penitenza e la mortificazione cristiana.

. — Anche questo l’ho inteso. Avrei ora un’ultima domanda a farle. Perché la Chiesa di fronte alla morte non vuole saperne di cremazione?

La Chiesa non vuole la cremazione e severamente la proibisce, non già perché essa sia veramente contraria al dogma o alla morale cristiana, ma perché ella vede che con il pretesto della cremazione si vorrebbero aboliti i cimiteri, dall’esistenza dei quali tanto bene ne deriva al popolo cristiano; perché ella vuole maggiormente rispettato il corpo umano, differendone quanto più le è possibile la dissoluzione e impedendo atti irriverenti verso di esso; perché ella desidera che più a lungo ci rimanga impressa nella mente anche l’immagine materiale dei trapassati e più a lungo ci ricordiamo di pregare per essi, ciò che più difficilmente avverrebbe, quando non ci trovassimo dinanzi che ad un pugno di cenere.

— Tutto ciò va bene; ma non è forse vero che l’abbruciare i cadaveri sarebbe più igienico che il sotterrarli!

Così si dice, ma così non è affatto. Le più accurate indagini hanno dimostrato che l’inumazione, anche igienicamente considerata, deve preferirsi alla cremazione. Senti che cosa dice in proposito Paolo Mantegazza, non sospetto certo di tenerezza per la Chiesa: « Queste povere carni umane non hanno alcun che di specifico, che le renda più pericolose nella loro-putrefazione che i frusti dei cavoli, e le ossa delle nostre bistecche, e i nostri mazzi di fiori, e lasciatemelo pur dire, i nostri escrementi. Ma, calcolate di grazia tutto il nostro pandemonio escrementizio e domestico, che ogni uomo produce intorno a sé, e facilmente troverete che ogni uomo vivo, in un solo anno produce cento volte almeno di più di materia putrescente che un uomo morto… ». E tutta questa materia non è sepolta sotto terra come il calunniato cadavere umano, ma è gettata sui nostri orti e sulle nostre campagne! » – Davvero, caro mio, che per una parte c’è veramente da ridere al considerare le contraddizioni, in cui cadono taluni per far valere le loro opinioni. I rosticcieri moderni se la pigliarono così calda contro i cimiteri, come luoghi d’infezione! (Nota bene però, che a Parigi ve ne sono ben dodici nell’interno della città, senza timore d’infezione alcuna), e li vogliono lontani dalle Chiese parrocchiali e dalle abitazioni, e poi proprio nel mezzo delle città e dei paesi lasciano i gazometri, le fogne, gli stallaggi, le fabbriche di colla, le conce di pelli, le fosse per la macerazione del lino e della canapa, e cento altre cose simili, che appestano l’aria davvero, e sono causa non di rado di febbri maligne.

— Già è veramente così.

Lascia adunque la cremazione alla massoneria, che l’ha inventata, e tienti alla legge della Chiesa, che vuole all’ombra della Croce le nostre tombe confortate dal pianto cristiano e dalle preghiere.

LA VIA CRUCIS DI S. LEONARDO DA PORTO MAURIZIO

VIA CRUCIS

Questo esercizio della Via Crucis rappresenta il viaggio doloroso di Gesù Cristo, quando andò con la Croce sulle spalle a morire sul Calvario per nostro amore; per cui questa devozione deve essere praticata con tanta tenerezza, pensando di accompagnare il Salvatore con le nostre lacrime per compatirlo e ringraziarlo. – Fin dall’inizio del Cristianesimo nei luoghi stessi della Passione si vollero distinguere, con segni e monumenti particolari (poi chiamati Stazioni), i vari punti dov’erano avvenuti l’incontro di Gesù con sua Madre, il colloquio con le donne, le diverse cadute, l’episodio dell’uomo di Cirene, ecc.: sono quelle 14 Stazioni di Gerusalemme rappresentate poi in altrettanti quadri, per soddisfare in qualche modo la devozione di tutti, anche di coloro che non potevano e non possono andare nella Città santa. – Furono i Francescani, custodi dei Luoghi santi, a diffondere in tutto il mondo la pratica della Via Crucis. In Italia, fu san Leonardo da Porto Maurizio a farla nascere ed amare. Nato nel 1676, predicò al popolo ininterrottamente per 43 anni, fino alla morte, percorrendo tutta l’Italia. – Ottenne dal Papa di poter erigere la Via Crucis anche nelle chiese non francescane e ne fondò personalmente ben 572. Di queste la più famosa è quella del Colosseo, a ricordo dell’Anno Santo del 1750. Si usa accompagnare la Via Crucis con lo Stabat Mater di Iacopone da Todi, o con altri canti.

INDULGENZE:

VIA CRUCIS

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Fidelibus, qui sive singulatim sive in comitatu, saltem corde contrito, pium exercitium Viæ Crucis, legitime erect, ad præscripta Sanctae Sedis, peregerint, conceditur:

Indulgentia plenaria quoties id egerint;

Alia Indulgentia plenaria, si eodem die quo memoratum pium exercitium peregerunt, vel etiam infra mensem ab eodem decies peracto ad sacram Synaxim accesserint;

Indulgentia decem annorum prò singulis stationibus, si forte incœptum exercitium, quavis rationabili causa, ad finem non perduxerint.

Easdem indulgentias lucrari valent:

a) Navigantes, carceribus detenti, infirmi et illi qui morantur in partibus infìdelium aut legitime impediuntur, quominus pium exercitium Viæ Crucis forma ordinaria peragant, dummodo manu tenentes Crucifixum a saceriote, legitima facultate munito, ad hoc benedictum, saltem corde contrito ac devote recitent, cum pia recordatione Passionis Domini, viginti Pater, Ave et Gloria, unum nempe prò qualibet statione, quinque in sanctorum Domini nostri Iesu Christi Vulnerum memoriam et unum urta mentem Summi Pontificis. Quod si omnes præscriptos Pater, Ave et Gloria ex rationabili causa recitare nequiverint prò indulgentia plenaria, partialem indulgentiam decem annorum prò singulis Pater cum Ave et Gloria recitatis consequi valent.

b) Infirmi, qui vi morbi absque gravi incommodo vel difflcultate pium exercitium Viae Crucis nec in forma ordinaria nec in forma supra statuta scilicet per recitationem viginti (20) Pater, Ave et Gloria peragere possunt, dummodo cum affectu et animo contrito osculentur vel etiam tantum intueantur in Crucifixum ad hoc benedictum, eis a sacerdote vel ab aliqua alia persona exhibitum, et recitent, si possint, brevem aliquam orationem vel precem iaculatoriam in memoriam Passionis et Mortis Iesu Christi Domini nostri (Clemens XIV, Audientia 26 ian. 1773; S. C. Indulg., 16 sept. 1859; S. Pæn. Ap., 25 mart. 1931, 20 oct. 1931, 18 mart. 1932 et 20 mart. 1946). 

[1) Plenaria per ogni volta. 2) parziale di 10 anni ogni stazione, quando per ragionevole motivo si dovesse interrompere il pio esercizio.

È necessario e sufficiente: 1) Che la Via Crucis sia stata eretta legittimamente; 2) percorrere le 14 Stazioni; quando per il numero dei fedeli non si può percorrere le Stazioni, basta alzarsi e inginocchiarsi mentre il Sacerdote o chi per lui percorre la Via Crucis; 3) avere il cuore contrito.

Non è necessario: leggere le considerazioni; recitare il Pater, Ave, Gloria; pregare per le intenzioni del Papa; confessarsi o comunicarsi. Ma chi fa la comunione in quel giorno, acquista un’altra indulgenza plenaria. Si può interrompere il pio esercizio per confessarsi o comunicarsi senza perdere le indulgenze se qualcuno poi vuol fare più di una volta la Via Crucis in una chiesa, per guadagnare ogni volta l’indulgenza non è necessario che esca dalla chiesa.

Crocifìssi e Via Crucis. Chi è impedito di recarsi in chiesa (malati, carcerati, viaggiatori, operai) può acquistare le indulgenze; 1) tenendo in mano, o almeno indosso, un crocifisso composto di una croce di qualunque materiale (tranne piombo, stagno, vetro) col Cristo appeso alla croce e benedetto da chi ne ha il potere. 2) Recitando 14 Pater, Ave, Gloria e pensando alle rispettive Stazioni o alla Passione in generale; altri 5 alle 5 piaghe di N. Signore; 1 secondo le intenzioni del Santo Pontefice (20 totali). Per i malati gravi è sufficiente baciare o guardare il suddetto crocifisso con amore e contrizione, e recitare una breve preghiera o giaculatoria in onore della Passione. – Per offrire la Via Crucis per le anime del Purgatorio, invece del GloriaPatri, si reciti il Requiem.].

#     #     #

In ginocchio davanti all’altar maggiore, baciando la terra quando si è soli, oppure profondamente inchinato, adorando la S. Croce, e con l’intenzione di guadagnare le indulgenze per sé o per le anime del Purgatorio, dirai:

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum

Orèmus

Clementissimo mio Gesù, infinitamente buono e misericordioso, eccomi prostrato ai tuoi piedi, pieno di dolore e tutto compunto, perché ti ho offeso, perché ho offeso te, mio grande bene. Gesù mio amabilissimo, provoca il mio cuore, e nel riflettere alle tue pene fammi partecipare in lacrime al tuo dolore. Ti offro questo santo viaggio in onore di quello dolorosissimo che tu facesti per me, indegno peccatore, mentre ora sono risoluto a cambiar vita. – Ti offro questo santo viaggio per ricevere le indulgenze concesse a chi pratica questo pio esercizio, e ti supplico umilmente di far sì che mi sia utile per ottenere la tua misericordia nella vita e la gloria eterna.

Amen.

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate Che le piaghe del Signore Siano impresse nel mio cuore!

Con te vorrei, Signore,

oggi portar la Croce;

nel tuo dolor atroce

io ti vorrei seguire. –

-Ma sono infermo e stanco

donami il tuo coraggio,

perché nel gran viaggio

non m’abbia a smarrire.

#    #    #

Tu col divin tuo sangue

vieni segnando i passi,

ed io laverò quei sassi

con molto lacrimare –

– Né temerò smarrirmi

nel monte del dolore,

quando il tuo santo amore

m’insegna a camminare.

PRIMA STAZIONE

– Gesù è condannato a morte –

“Stabat Mater dolorósa Juxta Crucem lacrimósa, Dum pendébat Filius.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

In questa prima Stazione si rappresentano la casa e il Pretorio di Pilato, dove il nostro buon Gesù ricevette l’ingiusta sentenza di morte. Considera l’ammirabile sottomissione dell’innocente Gesù nel ricevere una così ingiusta sentenza, e sappi che i tuoi peccati furono i falsi testimoni che la sottoscrissero; e le tue bestemmie, le tue mormorazioni, i tuoi discorsi scorretti indussero il giudice a proferirla. Se così è, rivolgiti verso l’amoroso tuo Dio, e più con le lacrime del Cuore che con l’espressione della lingua, digli:

« Caro Gesù mio, che amore senza fondo è mai il tuo! Per una creatura indegna hai sofferto prigione, catene, flagelli, fino ad essere condannato a morte! Tanto basta per ferirmi il cuore, e piango amaramente i miei peccati che ne sono la causa. E per questa strada dolorosa me ne andrò piangendo, sospirando, e ripetendo: Gesù mio misericordia, Gesù mio misericordia!».

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate Che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Se il mio Signor diletto

a morte hai condannato,

spiegami almen, Pilato

qual fu il suo fallire. –

– Che poi se l’innocenza

error da te s’appella,

per colpa così bella

potessi anch’io morire!

SECONDA STAZIONE

– Gesù è caricato della Croce –

“Cùjus ànimam geméntem, Contristàtam et doléntem, Pertransivit gladius.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa seconda Stazione rappresenta il luogo dove l’amatissimo Gesù fu caricato del pesante legno della Croce. Considera come Gesù si abbraccia alla santa Croce. E con quale mansuetudine soffre le percosse e gl’insulti di gente scellerata. Mentre tu, impaziente, cerchi di scappare dal più piccolo dolore, e fuggi dal portare la croce della vera penitenza. Non sai che senza la Croce in Cielo non si entra? Piangi pure la tua cecità, e rivolto al tuo Signore digli così:

« A me, e non a te caro Gesù mio, spetta questa Croce Pesantissima, Croce che fu fabbricata da tanti miei peccati. Caro Salvatore, dammi la forza di abbracciare tutte le croci che meritano le mie gravissime colpe. Anzi, fa’ che io muoia abbracciato, alla santa Croce, innamorato della Croce, e ripeta più e più volte, insieme alla tua diletta Teresa: «O patir, o morire, o patire o morire!».

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate Che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Chi porta il suo supplizio

Ma se Gesù si vede

so che ne appar ben degno:

di croce caricato, –

– so che la pena è segno

paga l’altrui peccato

del già commesso errore,

per l’immenso suo amore.

TERZA STAZIONE

– Gesù cade la prima volta –

“O quam tristis et afflicta, Fuit illa benedicta, Mater Unigèniti!”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

In questa terza Stazione si rappresenta la prima caduta di Gesù sotto la Croce. Considera come l’afflittissimo Gesù, indebolito per il continuo spargimento di sangue, cade per la prima volta a terra. Guarda come le guardie lo percuotono con pugni, con calci, e con schiaffi. Eppure il paziente Gesù non apre bocca, soffre e tace; mentre tu, appena ti capita una piccola contrarietà, subito maledici e ti lamenti, forse bestemmi. Detesta una volta per sempre la tua impazienza e superbia, e prega il tuo afflitto Signore così:

« Amato Redentore mio, ecco ai tuoi piedi il più perduto peccatore che vive sulla terra: quante cadute! Quante volte sono precipitato in un abisso d’iniquità! Porgimi la tua santa mano affinché mi rialzi. Aiuto, Gesù mio, aiuto! Perché in vita non cada mai più, ed in morte mi assicuri l’affare della mia eterna salute. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Chi porta in pugno il mondo

a terra è già caduto,

e non gli si porge aiuto:

oh, ciel, che crudeltà! –

– Se cade l’uomo ingrato

subito Gesù conforta,

e per Gesù è morta

al mondo ogni pietà.

QUARTA STAZIONE

– Gesù incontra sua Madre –

“Quæ mærèbat et dolébat, Pia Mater dum vidébat, Nati pœnas inclyti.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

In questa quarta Stazione si rappresenta il luogo dove Gesù s’incontrò con la sua Madre afflitta. Che dolore trapassò il cuore a Gesù! Che spada ferì il cuore a Maria, quando s’incontrarono! Che ti ha fatto il mio Gesù? (dice Maria dolente), che male ti ha fatto la mia povera Madre? (dice l’appassionato Gesù). Lascia il peccato che è la causa delle nostre pene. E tu cosa rispondi?

« O Figlio divino di Maria, o santa Madre del mio Gesù: eccomi ai vostri piedi umiliato e contrito! Confesso che sono io quel traditore che ha fabbricato col peccato, il coltello di dolore che ha trapassato i vostri tenerissimi cuori. Me ne pento con tutto il cuore, e vi chiedo misericordia e perdono. Misericordia, Gesù mio, misericordia; Maria santissima, misericordia! Fate che mediante una così grande misericordia io non pecchi più, e mediti notte e giorno le vostre pene, i vostri dolori. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, Che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Sento l’amaro pianto

Della dolente Madre

Che gira tra le squadre

In cerca del suo Bene –

– Sento l’amato Figlio

che dice: Madre addio

più forte del dolor mio

il tuo mi passa il cuore.

QUINTA STAZIONE

– Gesù è aiutato dal Cireneo –

“Qui est homo, qui non fleret, Matrem Christi si vidéret, in tanto supplicio?”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

In questa quinta Stazione si rappresenta il luogo ove Simone Cireneo fu obbligato a prendere la croce di Gesù. Considera che tu sei il Cireneo che porti la Croce di Cristo, o per apparenza o per forza, perché sei troppo attaccato alle comodità di questo mondo. Risvegliati per una volta e solleva il tuo Signore dal grande peso, caricandoti di buon cuore di tutti i travagli che ti vengono addosso. Metti l’intenzione di vederli soffrire non solo con pazienza, ma con rendimento di grazie al tuo Dio, che pregherai così:

« O Gesù mio, ti ringrazio delle tante e buone occasioni che mi dai di patire per te e di meritare per me. Fa’, o mio Dio, che soffrendo con pazienza ciò che ha apparenza di male, faccia acquisto di beni eterni. Se non altro, ricevi l’offerta del mio pianto qui con te, per essere fatto poi degno di venire a regnare ancora insieme a te. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Se delle tue crude pene

son io, Signore, il reo,

non deve il Cireneo

la Croce tua portare. –

– S’io sol potei per tutti,

di Croce caricarti,

potrò nell’aiutarti

per uno sol bastare.

SESTA STAZIONE

– Gesù è asciugato dalla Veronica –

“Quis non posset contristàri, Christi Matrem contemplari, Doléntem cum Filio?”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

In questa sesta Stazione si rappresenta il luogo dove la santa Veronica asciugò con un panno il volto benedetto di Gesù. Considera in quel sudario l’estenuato sudore del tuo Gesù, e spinto dall’amore cerca di fartene un espressivo ritratto nel tuo cuore. Felice te, se vivrai con il volto del tuo Signore scolpito nel cuore! Più che fortunato, se con il Signore impresso nel cuore morirai! E per essere meritevole di un tanto bene, prega così:

«Tormentato mio Salvatore, imprimi, te ne supplico l’effige del tuo santo volto nel mio cuore, così che giorno e notte pensi sempre a te. Con la tua dolorosa passione sotto gli occhi, voglio piangere i miei peccati e con questo pane di dolore voglio nutrirmi fino alla fine, detestando sempre la mia vita cattiva. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Così vago è nel tormento

Il volto del mio Bene

Che quasi a me diviene

amabile il dolore. –

– In Cielo che sarai

se in quel velo impresso,

da tante pene oppresso

spiri così dolce amore?

SETTIMA STAZIONE

– Gesù cade la seconda volta –

“Pro peccàtis suæ gentis vidit Jesum in torméntis, et flagéllis sùbditum.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa settima Stazione rappresenta quella porta di Gerusalemme detta « Giudiziaria » dove Gesù cadde a terra per la seconda volta. Considera il tuo Signore disteso per terra, abbattuto da dolori, calpestato dai nemici, deriso dal popolo. Pensa che la tua superbia gli ha dato la spinta per cadere, il tuo orgoglio l’ha così buttato a terra. Abbassa una volta la testa, e con dolorosa contrizione del tuo passato, proponi per il futuro di umiliarti ai piedi di tutti. Di’ al tuo Signore:

« O santissimo mio Redentore, nonostante che ti veda caduto per terra, ti confesso in questo momento come Onnipotente. Ti prego di abbassare i miei pensieri pieni di superbia, di ambizione e di stima di me stesso. Fammi camminare sempre con la testa bassa, e abbracciare con umiltà vera l’abbiezione e il disprezzo. Con umiltà vera che a te piace, potrei riuscire a sollevarti da questa dolorosa caduta. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Sotto i pesanti colpi

della cattiva scorta,

un nuovo inciampo porta

a terra il mio Signore. –

– Più teneri dei cuori

siate voi duri sassi,

né più intralciate i passi

al vostro Creatore.

OTTAVA STAZIONE

– Gesù consola le donne di Gerusalemme –

“Vidit suum dulcem Natum Moriéndo desolàtum, Dum emisit spiritum.” 

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa ottava Stazione rappresenta il luogo ove Gesù incontrò e consolò le donne di Gerusalemme, afflitte e addolorate. Considera che tu hai un doppio motivo di piangere: per Gesù che patisce tanto per te, e per te stesso che non sei capace di godere se non l’offendi. Alla vista di tante pene, ancora fai il duro e non vuoi spargere lacrime di compassione. Almeno nel vedere Gesù, manifesta una così grande pietà a quelle povere donne, fatti coraggio, e tutto addolorato e compunto digli:

« Amabilissimo mio Salvatore, perché questo mio cuore non si scioglie tutto in lacrime di vero pentimento? Caro Gesù mio, ti chiedo lacrime, lacrime di dolore, lacrime di compassione. Con le lacrime agli occhi, e con il dolore nel cuore, vorrei meritare quella pietà che hai dimostrato alle povere donne. Concedimi quest’ultima consolazione: che guardato te con occhi pietosi in vita, possa sicuramente vedere te nell’ora della mia morte.

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Figlio, non più su queste

Piaghe che porto impresse,

ma sui figli e su voi stesse

v’invito a lacrimare. –

– Tenete il vostro pianto,

o sconsolate donne,

per quando l’empia Sion

vedrete rovinare.

NONA STAZIONE

– Gesù cade la terza volta –

“Eja, Mater, fons amóris, Me sentire vim dolóris, Fac ut tecum lùgeam.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa nona Stazione rappresenta il luogo, ai piedi del monte Calvario, dove il buon Gesù cadde la terza volta. – Quanto fu penosa questa caduta del buon Gesù! Guarda con che rabbia quell’Agnello mansueto viene trascinato da lupi rabbiosi; guarda come lo percuotono, lo calpestano, fino a farlo macerare tutto nel fango! Maledetto peccato, che maltratta il Figlio di un Dio! Merita le tue lacrime un Dio oppresso, un Dio calpestato. Spezza il tuo cuore, e piangendo digli così:

« Onnipotente mio Dio, che con un sol dito sostieni il cielo e la terra, chi mai ti ha fatto così brutalmente cadere? Sono state le mie prolungate, ripetute iniquità. Io ti ho accresciuto tormenti a tormenti, con accumulare peccati a peccati. Ma eccomi compunto ai tuoi piedi, risoluto a farla finita. E con le lacrime e sospiri ripeto cento e mille volte: «Mai più peccare, mio Dio, mai più, mai più ».

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

L’ispido Monte guarda

il Redentor piangente,

e sa che inutilmente

per molti deve salire. –

– Quest’orribile pensiero

così forte il cuor gli tocca

che languido trabocca,

e si sente di morire.

DECIMA STAZIONE

– Gesù è spogliato delle vesti –

“Fac, ut àrdeat cor meum, in amando Christum Deum, ut sibi complàceam.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa decima Stazione rappresenta il luogo dove Gesù fu denudato e gli diedero da bere del fiele. Considera, anima mia, il tuo Gesù tutto lacero e ferito, mentre gli danno da bere del disgustoso e amaro fiele. Ecco come paga Gesù con la sua nudità, la tua immodestia e la tua vanità esteriore; con la sua amarezza la tua voglia di godere. Non ti muovi a pietà? Gettati ai piedi del tuo Gesù denudato, e digli così:

« Afflitto mio Gesù, che orribile contrapposto è questo? Tu sei tutto sangue, tutto piaghe, tutto amarezze; ed io tutto diletti, tutto vanità, tutto dolcezze! No, che non sto camminando bene, no! Ti prego, fammi cambiar strada, fammi cambiar vita, in modo che d’ora in poi non possa gustare altro che la santissima tua Passione, ed arrivare a godere con te le delizie del santo Paradiso. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate, che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Mai l’arca del Signore

Del velo si vide senza,

ed ora nuda la Potenza

si vede e senza velo? –

– Se dell’Uomo le membra

or ricoprire non sanno,

dimmi, mio Dio che fanno

tutti gli Angeli nel Cielo?

UNDICESIMA STAZIONE

– Gesù è inchiodato sulla Croce –

“Sancta Mater, istud agas, Crucifixi fige plagas, cordi meo vàlide.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa undicesima Stazione rappresenta il luogo dove Gesù fu disteso ed inchiodato sulla Croce, alla presenza di sua Madre. Considera il sovrumano dolore che soffrì il buon Gesù nel sentirsi trapassare e rompere dai chiodi le vene, le ossa, i nervi e la carne tutta. Come mai non ti senti struggere di tenerezza alla vista di tante pene, che sono il riflesso delle tue ingratitudini? Almeno sfoga il dolore col pianto, così:

« Clementissimo Gesù mio Crocifisso per me, batti e ribatti questo mio duro cuore col tuo santo amore e timore. – Poiché i miei peccati furono i chiodi che crudelmente ti trafissero, fa’ sì che il mio dolore sia come un carnefice che trafigge e inchioda le mie passioni non regolate. Così, per mia buona sorte, vivendo e morendo crocifisso con te in terra, potrò venire a regnare glorioso con te. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Vedo sul duro tronco

disteso il mio diletto,

e il primo colpo aspetto

dell’empia crudeltà. –

– Quelle divine mani

che per il bene son fatte

ora il martello le batte

senz’ombra di pietà.

DODICESIMA STAZIONE

– Gesù muore in Croce –

“Tui Nati vulnerati, Tam dignàti prò me pati, Pœnas mecum divide.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa dodicesima Stazione rappresenta il luogo più adorabile del mondo intero, dove fu piantata la croce, con sopra Gesù crocifisso. – Alza gli occhi, e guarda l’amatissimo Gesù che pende da tre chiodi, guarda il suo Volto divino moribondo, osserva come prega per chi l’offende, dona il Paradiso a chi lo chiede, affida la Madre a Giovanni, raccomanda al Padre la sua anima, e poi muore chinando la testa. Dunque, è morto il Figlio di Dio. È morto in Croce per me? E tu che fai? Vedi di non partire di qua se non pentito e compunto; e abbracciato alla Croce di Gesù digli così:

« Mio amato Redentore, io lo so, e lo confesso, che i miei peccati sono stati i carnefici più spietati, e che ti hanno tolta la vita. Non merito il perdono, perché sono io quel traditore che ti ha crocifisso. Ma l’anima mia si consola nell’ascoltarti pregare per i tuoi carnefici. Eccomi se così è, eccomi pronto a perdonare chiunque mi offenda; sì, mio Dio, per amore tuo perdono tutti, abbraccio tutti, desidero il bene di tutti. Anch’io spero sentirmi dire da te: “Oggi sarai con me in Paradiso!”. Amen. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Veder l’orrenda morte

Del suo Signor non vuole,

così si copre il sole

e mostra il suo dolore. –

– Trema commosso il mondo,

il sacro velo si spezza

piangono con tenerezza

i duri sassi ancora.

TREDICESIMA STAZIONE

– Gesù deposto dalla Croce –

“Fac me tecum pie flere, Crucifixo condolére, donec ego vixero.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

Questa tredicesima Stazione rappresenta il luogo dove Gesù fu deposto dalla Croce in grembo a sua Madre. Considera quale spada di dolore trapassò il cuore della sconsolata Signora quando ricevette fra le braccia suo Figlio morto. Alla vista di tante ferite si rinnovarono in lei tutti gli spasimi del suo tenero cuore. Ma la spada più acuta che la trafisse è stato il peccato; il peccato ha tolto la vita al suo caro Figlio. Piangi dunque il maledetto peccato, e mescolando le lacrime con quelle di una Madre addolorata, dille:

« O Regina dei martiri, fammi capace di capire e compatire insieme le tue pene, ed averle sempre presenti nel mio cuore. Fa’, o gran Signora, che giorno e notte pianga tante mie enormi colpe che ti procurarono tanta sofferenza. Piangendo, amando e sperando, voglio morire con te, per vivere eternamente con te.

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Tolto di Croce il Figlio

le materne braccia stende

l’afflitta Madre e prende

nel grembo il morto bene. –

– Versa con gli occhi il cuore

in lacrime disciolto,

bacia quel freddo volto

e se lo stringe al seno.

QUATTORDICESIMA STAZIONE

– Gesù è posto nel Sepolcro –

“Quando corpus moriétur, Fac, ut ànimæ donétur, Paradisi glòria. Amen.”

V. Adoràmus te, Christe, et benedicimus tibi.

R. Quia per sanctam Crucem tuam redemisti mundum.

In questa ultima Stazione si rappresenta il Sepolcro, dove fu posto il corpo morto del santo Redentore. – Considera quali furono i pianti di Giovanni, della Maddalena, delle Marie e di tutti i seguaci di Cristo quando lo chiusero in quel Sepolcro. Considera la desolazione del cuore addolorato di Maria nel vedersi privata del suo amato Figlio. Alla vista di tante lacrime dovresti finalmente trovare la spinta per vergognarti di aver manifestato così poco sentimento di pietà, durante questo santo viaggio. Muoviti e bacia la pietra che ricopre la tomba, fa’ uno sforzo grande per lasciar là il tuo cuore, e prega il tuo defunto Signore: « Pietosissimo Gesù mio, che per solo mio amore hai voluto compiere un viaggio tanto doloroso, ti adoro defunto e rinchiuso nel santo Sepolcro. Ma ti vorrei anche rinchiuso nel mio povero cuore, unito a te, per risorgere ad una nuova vita. Con viva fede, con ferma speranza, con amore ardente, potrò morire con te, morire per te,  per  vivere con te per tutti i secoli dei secoli. Amen. »

Pater noster, Ave Maria, Gloria …

V. Miserere nostri, Dòmine,

R. Miserere nostri.

Santa Madre, deh voi fate che le piaghe del Signore, siano impresse nel mio cuore!

Tomba che chiudi dentro

Il mio Signor già morto,

finché non sarà risorto

non partirò da te. –

– Alla spietata morte

allora dirò con gioia:

dov’e la tua vittoria

il tuo potere dov’è?

V. Salva nos Christe Salvator.

R. Qui salvasti Petrum in Mari, mìserére nobis.

Oremus

Deus, qui nos inclita Passione Filii tui per viam Crucis ad œtérnam Gloria pervenire docuisti: concede propitius; ut, quem piis ad Calvàriœ locum sociàmus afféctibus, in suis étiam triùmphis perpetim subsequàmur. Qui tecum vivit et regnat in sæcula sæculórum. Amen.

V. Divinum auxilium maneat sempre vobiscum.

R. Amen.

BEFFE DEI CATTIVI

BEFFE DEI CATTIVI

[E.Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, vol. I, S.E.I.- TORINO, 1930]

1. In tutti i tempi i cattivi si sono burlati dei buoni. — 2. Per i cattivi non vi è nulla di sacro. — 3. Perché i cattivi deridono i buoni? — 4. Le beffe degli empi ricadono su loro. — 5. I buoni devono andar gloriosi delle beffe dei tristi. — 6. Verrà il tempo del trionfo per i giusti. 

1. In tutti i tempi i cattivi si sono burlati dei buoni. — Durante i cento anni che Noè impiegò a costruire l’arca, egli non cessò mai di avvertire gli uomini che facessero penitenza, perché sarebbe avvenuto un diluvio universale; ma gli uomini corrotti si ridevano di lui e gli davano la baia… Lot avvisò i Sodomiti che un diluvio di fuoco stava per seppellirli, e ne fu beffato. I Profeti parlano e comandano, esortano e minacciano nel nome del Signore; ma gli empi volgono in derisione le loro parole… Arrivato Gesù alla casa dell’Arcisinagogo, quando udì i suonatori di flauto e la folla che menava chiasso, disse: « Via di qua, perché la fanciulla non è morta, ma dorme ». A quest’annunzio si levò un universale bisbiglio sarcastico e beffardo (Matth. IX, 24). « Noi siamo, dice il Profeta, l’obbrobrio ai nostri vicini, favola e derisione in bocca alle genti che ci circondano » (Psalm. LXXVIII, 4) e volto a Dio diceva: «Voi ci avete resi oggetto d’insulto ai nostri vicini e di scherno ai nostri avversari » (Psalm. LXXIX, 7). E Gesù Cristo diceva di se medesimo per bocca del Profeta: « Io fui il loro ludibrio » (Psalm. LXXIII, 12). E come furono dai malvagi trattati gli Apostoli? « Noi siamo disprezzati come gente dappoco, scriveva il grande Apostolo; fino al presente soffriamo fame, sete, e nudità; schiaffeggiati, sfrattati, maledetti, perseguitati, ingiuriati; siamo considerati come la spazzatura del mondo ed il rifiuto della società » (I Cor. IV, 10-13). Da Gesù Cristo insultato sul Golgota, fino al presente, i cattivi hanno sempre disprezzati i buoni…

2. Per i cattivi non vi è nulla di sacro. — Quel sant’uomo di Giobbe in mezzo ai patimenti, coperto di piaghe, perfino sul letamaio è canzonato dai malvagi, ed anche dai suoi pretesi amici… Tobia diventa cieco, ed ecco i parenti, gli intimi suoi deridere la sua condotta e dirgli: « Dov’è la tua speranza, per cui facevi tante limosine e sepolture? » (Tob. II, 16). La sua donna anch’essa rinfacciargli che apertamente vane erano le sue speranze e vedersi alla prova dei fatti che cosa giovassero le sue limosine (Ibid. II, 22). – Non hanno forse i cattivi messo in ridicolo Gesù Cristo, tutta la sua vita? si burlarono de’ suoi miracoli, de’ suoi benefizi, della sua divina dottrina, della sua sublime morale. Ma al tempo della sua passione gl’insulti e le oltraggiose beffe toccarono il colmo. L’oltraggia Giuda vendendolo per il prezzo d’uno schiavo, trenta denari, e baciandolo. L’oltraggiano gli Apostoli abbandonandolo; l’oltraggiò Pietro, disconoscendolo e rinnegandolo. E gli schiaffi, e gli sputi, e la corona di spine, e lo scettro di canna, e lo straccio di porpora, e l’Ecce homo, e i pontefici, e i giudici, e i re, e i soldati, e la plebaglia, tutto concorre a gettare sopra di lui lo scherno e il ridicolo sino all’ultimo suo respiro… Gli empi si burlano della parola di Dio, della religione, della pietà, della Chiesa, dei Sacramenti, della legge di Dio, delle domeniche e delle feste, delle sacre cerimonie, del culto delle cose sante, di Dio, de’ Santi, del dogma, della morale, della vita, della morte, del giudizio, del Paradiso, dell’inferno, del tempo, dell’eternità; addentano, sbranano, calunniano, bestemmiano tutto ciò che ignorano.

3. Perché i cattivi deridono i buoni? — « Parlano con arroganza, e beffardamente di tutto, dice il Salmista, perché sono operai di iniquità » (Psalm. XCIII, 4). Agli Apostoli, ch’erano dai loro connazionali derisi, Gesù annunziava che se avessero appartenuto al mondo, il mondo li avrebbe amati come cosa sua; ma non essendo essi del mondo, perché Egli li aveva scelti dal mondo, perciò il mondo li odiava e li insultava. “Il servo non è da più del padrone. Ora se il mondo ha perseguitato me, perseguiterà anche voi, ma tutto ciò egli farà per il mio nome, perché non conosce Colui che mi ha mandato” (Ioann. XV, 15-21). – «La semplicità del giusto è schernita», dice Giobbe (Iob. XII, 4). Così grande è la perversità degli empi, che non hanno pace fino a tanto che non abbiano reso gli altri malvagi e perversi come loro: per ciò canzonano i buoni chiamandoli falsi devoti, baciapile, colli torti, ipocriti, ecc. Questo linguaggio poi e questa condotta è provocata dalla diversità dei costumi e della vita. Veggono essi, i cattivi, che il loro vivere dissipato, le loro sregolatezze, sono rimproverate e condannate dalla vita virtuosa, assegnata ad esemplare dei buoni: quindi se ne ridono, li beffano, li insultano, li oltraggiano, guardandoli quali censori dei loro disordini, quali sferze che li flagellano. E questo notava già S. Prospero il quale scriveva che tutti quelli i quali vogliono vivere piamente in Gesù Cristo, hanno da aspettarsi insulti e scherni, dalla parte degli empi; saranno chiamati pazzi che gettano via i beni presenti, aspirando e desiderando solo i beni futuri. Dio permette questo per accrescere la corona de’ buoni. Tali disprezzi e scherni ricadranno in capo ai malviventi quando la loro abbondanza si cangerà in penuria, e il loro orgoglio in confusione (In Sent. el Epigr. e. XXXII). « Nella bocca dell’insensato sta la verga dell’arroganza », leggiamo nei Proverbi (Prov, XIV, 3). L’orgoglio rende altezzoso ed insolente. Gli orgogliosi s’innalzano sopra gli altri, li deridono, li scherniscono, li oltraggiano… Il malvagio carico di peccati si diporta come se avesse autorità sui buoni: pretende che gli sia lecito malmenare e calpestare tutti… « Gli empi, dicono i Proverbi, detestano chi rettamente vive (Prov. XXI, 27).

4. Le beffe degli empi ricadono su loro. — Le insolenti ed ingiuste beffe dei malvagi si volgono contro di loro per umiliarli e condannarli; poiché mettono in luce l’ignoranza, l’odio, la malvagità, la corruzione del loro cuore… « Rovina se stesso chi strazia il buono » (Prov. XX, 25) : e « pronto è il giudizio per il derisore, e il martello che lo deve percuotere», dicono i Proverbi (Prov. XIX, 29). « Una beffa, una maledizione pazientemente sofferta, ricade sul suo autore, dice S. Agostino, e rimane illeso quegli contro di cui fu lanciata »; e S. Ambrogio soggiunge che è convinto e punito di follia chi scaglia contumelie. Dio delle vendette, Signore Iddio delle vendette, manifestatevi, grida il Salmista. Alzatevi, o giudice della terra, date la mercede che si meritano, ai derisori superbi. E fino a quando, o Signore, e fino a quando gli empi si vanteranno? fino a quando vomiteranno insulti? fino a quando parleranno alteramente, e imbaldanziranno tutti questi artefici d’iniquità? Essi calpestano il vostro popolo, o Signore, desolano la vostra eredità. Strozzano la vedova e l’orfano, uccidono lo straniero, dicendo: « Non ci vedrà il Signore». O uomini stupidi, e quando mai intenderete? Quegli che formò il vostro orecchio non vi udirà, o chi formò il vostro occhio non vi vedrà? Colui che punisce le nazioni non vi castigherà? Colui che insegna agli uomini la scienza non comprenderà? (Psalm. XCIII, 1-10),

5. I buoni devono andar gloriosi delle beffe dei tristi. « Le ingiurie e gli scherni sono la porzione di coloro a cui sta riservata la gloria », dice S. Ambrogio. Dividere gli oltraggi, le beffe, le burle con Noè, coi Patriarchi e coi Profeti, con Gesù Cristo e con i suoi Apostoli, coi Martiri, coi Confessori, con le Vergini, coi Santi di tutti i secoli, con la Chiesa, è il più grande onore, la più sublime gloria, la più bella ricompensa che possa toccare ad un uomo… Sì, è cosa onorevole e gloriosa venir burlato, deriso, criticato, morso dai malvagi, dagli uomini corrotti, spudorati, scandalosi, empi; perché questo prova che non li imitiamo, e il non imitarli ridonda a nostro sommo onore. Disgraziato colui che è lodato da una bocca macchiata!…

6. Verrà il tempo del trionfo per i giusti. — I cattivi si ridono de’ buoni perché non ne scorgono l’interiore bellezza, ma la vedranno il dì del giudizio: allora conosceranno chi sono i giusti, i quali compariranno ai loro occhi, non più oscuri, vili, spregevoli, ma risplendenti di gloria e di maestà, perché simili a Dio ed a Gesù Cristo… ma se ne accorgeranno troppo tardi… Al presente i malvagi vedono e disprezzano i buoni, ma in quel giorno il Signore schernirà loro, come dice la Sapienza (Sap. IV, 18) « Allora i giusti si leveranno con coraggio contro quelli che li insultarono, derisero, tormentarono, e tolsero il frutto dei loro lavori. A questa vista gli empi impallidiranno e tremeranno per lo spavento. E tocchi da cordoglio, diranno con affannosi sospiri: Questi sono coloro i quali noi una volta riguardavamo come oggetto di derisione e ponevamo esempio di obbrobrio. Noi stolti, la loro vita stimavamo insensatezza, ed il loro fine disonorato : ed ecco che essi hanno posto tra i figliuoli di Dio, e parte coi santi. Dunque noi smarrimmo la via di verità, e non rifulse per noi la luce della giustizia, e non si levò il sole dell’intelligenza. Ci stancammo nella via d’iniquità e di perdizione, battemmo strade disastrose e non conoscemmo la via del Signore. Che giovò a noi la superbia? e la ostentazione delle ricchezze qual pro a noi fece? Tutte quelle cose si dileguarono come ombra, e come passeggero che va in fretta. Come una nave valica le onde agitate senza lasciare traccia del suo passaggio, né solco aperto dalla sua carena nei flutti… Così noi, nati che fummo, tosto cessammo d’essere, e niun segno di virtù potemmo mostrare, e nella nostra malvagità ci consumammo (Sap. V, 1-14). Qui i cattivi si dichiarano da se medesimi colpevoli di un triplice errore: 1° l’essersi sviati dal sentiero del vero…; 2° di non aver veduto la luce della giustizia, della prudenza, della carità, perché l’hanno disprezzata, volendo rimanere nelle tenebre della concupiscenza e delle passioni…; 3° di non avere aperto l’occhio al sole che è Gesù Cristo, vera luce la quale illumina ogni uomo che viene in questo mondo; perché gli hanno tenuto chiuso il loro cuore… Insensati derisori, voi pensavate che la vita de’ giusti non fosse che un giuoco (Sap. XV, 12). Guardate ed osservate ora dove si trovano essi, e dove vi trovate voi!…

MESSA DELL’ASSUNZIONE (2018)

MESSA DELL’ASSUNTA 2018

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ap XII:1
Signum magnum appáruit in cœlo: múlier amicta sole, et luna sub pédibus ejus, et in cápite ejus coróna stellárum duódecim [Un gran segno apparve nel cielo: una Donna rivestita di sole, con la luna sotto i piedi, ed in capo una corona di dodici stelle].
Ps XCVII:1
Cantáte Dómino cánticum novum: quóniam mirabília fecit. Cantate al Signore un càntico nuovo: perché ha fatto meraviglie.
Signum magnum appáruit in coelo: múlier amicta sole, et luna sub pédibus ejus, et in cápite ejus coróna stellárum duódecim [Un gran segno apparve nel cielo: una donna rivestita di sole, con la luna sotto i piedi, ed in capo una corona di dodici stelle].

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui Immaculátam Vírginem Maríam, Fílii tui genitrícem, córpore et ánima ad coeléstem glóriam assumpsísti: concéde, quǽsumus; ut, ad superna semper inténti, ipsíus glóriæ mereámur esse consórtes.
Onnipotente sempiterno Iddio, che hai assunto in corpo ed ànima alla gloria celeste l’Immacolata Vergine Maria, Madre del tuo Figlio: concédici, Te ne preghiamo, che sempre intenti alle cose soprannaturali, possiamo divenire partecipi della sua gloria.

Lectio
Léctio libri Judith.
Judith XIII, 22-25; XV:10
Benedíxit te Dóminus in virtúte sua, quia per te ad níhilum redégit inimícos nostros. Benedícta es tu, fília, a Dómino Deo excelso, præ ómnibus muliéribus super terram. Benedíctus Dóminus, qui creávit coelum et terram, qui te direxit in vúlnera cápitis príncipis inimicórum nostrórum; quia hódie nomen tuum ita magnificávit, ut non recédat laus tua de ore hóminum, qui mémores fúerint virtútis Dómini in ætérnum, pro quibus non pepercísti ánimæ tuæ propter angústias et tribulatiónem géneris tui, sed subvenísti ruínæ ante conspéctum Dei nostri. Tu glória Jerúsalem, tu lætítia Israël, tu honorificéntia pópuli nostri.
[Il Signore ti ha benedetta nella sua potenza, perché per mezzo tuo annientò i nostri nemici. Tu, o figlia, sei benedetta dall’Altissimo più che tutte le donne della terra. Sia benedetto Iddio, creatore del cielo e della terra, che ha guidato la tua mano per troncare il capo al nostro maggior nemico. Oggi ha reso cosí glorioso il tuo nome, che la tua lode non si partirà mai dalla bocca degli uomini che in ogni tempo ricordino la potenza del Signore; a pro di loro, infatti, tu non ti sei risparmiata, vedendo le angustie e le tribolazioni del tuo popolo, che hai salvato dalla rovina procedendo rettamente alla presenza del nostro Dio. Tu sei la gloria di Gerusalemme, tu la gloria di Israele, tu l’onore del nostro popolo!]

Graduale
Ps XLIV:11-12; XLIV:14
Audi, fília, et vide, et inclína aurem tuam, et concupíscit rex decórem tuum. [Ascolta, o figlia; guarda e inclina il tuo orecchio, e s’appassionerà il re della tua bellezza.]

ALLELUJA

Omnis glória ejus fíliæ Regis ab intus, in fímbriis áureis circumamícta varietátibus. Allelúja, allelúja. [V. Tutta bella entra la figlia del Re; tessute d’oro sono le sue vesti. Allelúia, allelúia].
V. Assumpta est María in cœlum: gaudet exércitus Angelórum. Allelúja. [Maria è assunta in cielo: ne giúbila l’esercito degli Angeli. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc 1: 41-50
“In illo témpore: Repléta est Spíritu Sancto Elisabeth et exclamávit voce magna, et dixit: Benedícta tu inter mulíeres, et benedíctus fructus ventris tui. Et unde hoc mihi ut véniat mater Dómini mei ad me? Ecce enim ut facta est vox salutatiónis tuæ in áuribus meis, exsultávit in gáudio infans in útero meo. Et beáta, quæ credidísti, quóniam perficiéntur ea, quæ dicta sunt tibi a Dómino. Et ait María: Magníficat ánima mea Dóminum; et exsultávit spíritus meus in Deo salutári meo; quia respéxit humilitátem ancíllæ suæ, ecce enim ex hoc beátam me dicent omnes generatiónes. Quia fecit mihi magna qui potens est, et sanctum nomen ejus, et misericórdia ejus a progénie in progénies timéntibus eum.”

[In quel tempo: Elisabetta fu ripiena di Spirito Santo, e ad alta voce esclamò: Benedetta tu fra le donne, e benedetto il frutto del tuo seno! Donde a me questo onore che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, infatti, che appena il tuo saluto è giunto alle mie orecchie, il bimbo ha trasalito nel mio seno. Beata te, che hai creduto che si compirebbero le cose che ti furono dette dal Signore! E Maria rispose: L’ànima mia magnifica il Signore, e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore, perché ha guardato all’umiltà della sua serva; ed ecco che da ora tutte le generazioni mi diranno beata. Perché grandi cose mi ha fatto colui che è potente, e santo è il suo nome, e la sua misericordia si estende di generazione in generazione su chi lo teme.]

OMELIA DELL’ASSUNTA

 La Festa dell’Assunzione

[J. Thiriet: Prontuario evangelico. Libr. Arciv. G. Daverio, MILANO, 1917 -impr.]

“Quæ est ista, quæ ascendit de deserto, delicùs affluens, innixa super dilectum suum?”  (Cantic. VIII, 5 ).

L’assunzione e l’esaltazione di Maria nel cielo hanno degnamente coronato la sua vita ammirabile: la festa dell’Assunzione è una delle più solenni che si celebrino in suo onore. Oggi la Chiesa ci invita a celebrarla con la più viva letizia: « Gaudeamus omnes in Domino… O gloriosa Domina, excelsa super sidera ».

Consideriamo le tre fasi di questo mistero:

1. la morte preziosa di Maria;

2. la sua risurrezione;

3. la sua assunzione e il suo trionfo in cielo.

— Il transito prezioso di Maria Ss.

1. — Gesù, morendo, aveva affidato i suoi discepoli alle materne sollecitudini della Madre sua: volle adunque che, dopo la sua ascesa al Cielo, rimanesse Maria ancor lungo tempo sulla terra per consolarli, per istruirli, e per dirigere i primi fedeli: occorreva che da parte sua completasse, a bene della Chiesa, quello che ancor mancava alle sofferenze di N. S. G. C.

2. — E Maria, nonostante ardentemente desiderasse di ricongiungersi al suo Figliuolo, sempre obbediente, chinò il capo ai voleri del suo Figliuolo. – Vuole la tradizione che Maria, dopo l’Ascensione di Cristo al Cielo rimanesse sulla terra per una ventina d’anni all’incirca ricevendo ogni dì la S. Comunione, glorificando il suo Dio con atti di purissimo amore, e di completa conformità ai suoi voleri, e aumentando ogni dì più il capitale de’ suoi meriti.

3. — Concepita senza peccato originale, doveva essere esentata dalla legge di morte. Il Signore invece aveva stabilito ch’Ella morisse, com’era morto il suo Figliuolo G. C. la santità per eccellenza… che gli somigliasse nella morte come gli era stata somigliante nella vita, e s’offrisse, come lui, in perfetto oloucasto. – Finalmente doveva esserci di modello in questa grande partenza per l’eternità e costituire per noi una sorgente di consolazione.

4. — Ma la morte non dovendo essere un castigo per Maria, ecco che sen venne a Lui non in quella maniera con cui s’affaccia al letto dei figli dell’uomo, cioè preceduta da angosce, da malattie, da spasimi e da crisi agoniche… La sua morte fu un estasi, un rapimento; Maria morì d’amore… L’amor di Maria era radicato m Dio Padre, il Quale aveva fecondato il suo seno, sicché Ella diede alla luce il Verbo divino fatto carne, che amò come suo proprio figliolo. L’amor di Maria era un amor di madre per il suo figliuolo, era l’amor d’una santa per il suo Dio. Vinta dall’amor di Dio, l’anima sua si separò dal corpo, senza scosse e senza dolore.

5. — Vuolsi che l’Arcangelo Gabriele l’abbia prevenuta della sua vicina morte. A quest’annunzio naturalmente avrà risposto col solito suo ritornello: Ecce ancilla Domini etc… Narra S. Giov. Damasceno, che gli Apostoli, avvertiti dell’imminente transito di Maria, siano convenuti nella cameretta ove stava adagiata su di umile letticiuolo. Tutti erano presenti, meno Giacomo il minore che aveva già subito il martirio, e Tommaso che arrivò troppo tardi. Maria vedendoli, li avrà benedetti con effusione di cuore, e avrà fatto loro delle raccomandazioni, quali sa fare una madre nell’atto di staccarsi da’ suoi figliuoli.

6. — S. Giovamii Damasceno soggiunge che N. S. venne dal cielo, seguito da parecchie legioni di Angeli, per accogliere l’anima della Madre sua.

7. — Quando dette l’ultimo respiro, gli Angeli, continua a dire S. Giov. Damasceno, riempirono l’aere di dolcissime armonie, come quando nacque Gesù-Cristo. Gli Apostoli, che rappresentavano tutta la Chiesa, si fecero venerabondi intorno alla salma di Maria; e disposero pel suo seppellimento, che pare, secondo una tradizione, abbia avuto luogo nella valle di Giosafat.

— Risurrezione della SS. Vergine.

1. — Trascorsi tre dì dal seppellimento, ecco arrivare Tommaso, il quale manifesta il suo vivo desiderio di vedere per l’ultima volta le sembianze della Madre sua. — Pietro e Giovanni lo fecero pago — e andarono insieme ad aprire la tomba. Ma, oh! prodigio: il sepolcro non racchiudeva più la salma di Maria …. in fondo ad esso c’era un lenzuolo e le vesti in cui era stato avviluppato il corpo di Maria: il corpo era scomparso…. Gli Apostoli proruppero in lodi, ringraziando il Salvatore che di tal modo aveva glorificato la Madre sua — (Leggansi nel Breviario Romano le lezioni IV. V. VI. del quarto giorno nell’ottava dell’Assunzione — 18 Agosto).

2. — Era giusto che Maria fosse esente dalla corruzione del sepolcro, preservata dalla colpa orignale, per singolare privilegio, preservata dalla colpa originale: giacché solo all’uom peccatore fu detto: morrai… ma inoltre: Tu ritornerai nella polvere… donde sei stato cavato. Ancora: era conveniente che non dovesse cadere preda della putredine e dei vermini quella carne che era immacolata, e della quale era stata formata quella del Verbo Incarnato… Iddio aveva disposto che l’arca di Mosè, che doveva racchiudere la mamma (figura di N. S. G. C.) fosse costrutta di legno incorruttibile: poteva adunque essere soggetta alla corruzione l’Arca vera e vivente, che aveva rinchiuso nel suo grembo il Santo dei Santi? ». Il Cielo, scrive S. Agostino, merita meglio della terra di conservare un tesoro sì prezioso…. – Gesù, infinitamente possente, ha potuto preservare il corpo di Maria SS. dalla corruzione, come aveva preservato l’anima sua dal peccato originale. Se l’ha potuto, dunque realmente l’ha fatto, perocché è sovranamente buono ». Spettava alla giustizia di Dio, nonché alla sua sapienza, alla sua bontà, ed al suo amore il compimento di questo miracolo in favore di Maria.

III. — Assunzione e trionfo di Maria.

1. — Dopo la sua risurrezione, Cristo rimase sulla terra quaranta giorni per istruire i suoi Apostoli e fortificare la loro fede. Ma per Maria, una volta risorta, non c’erano le stesse ragioni per differire la sua partenza da questa terra. In cielo era vivamente desiderata ed attesa: la potenza divina la elevò al cielo; Gesù la presentò al suo Eterno Genitore. Quale trionfo per Maria! Gli Angeli, il cielo tutto eruppero in quel cantico: « Quæ est ista, quæ ascendit de deserto, deliciis affluens, innixa super dilectum suum? … O gloriosa Domina, excelsa super sidera »•

2. — Ricordiamo gli onori che resero Assuero ad Ester, coronandola regina, e Salomone alla madre sua Bersabea, facendola assidere su di un trono accanto al suo…. ma queste non sono che pallide figure di quello che ha fatto Gesù verso la madre sua, e la SS. Trinità verso Maria: la realtà è di gran lunga superiore alla figura! Tota pulchra es, … tota pulchra es … le avrà detto Iddio. Veni coronaberis…. secondo i tuoi meriti, e l’amor mio… Poi dandole per vestimento il sole, la luna come sgabello ai suoi pie (siccome la vidde Giovanni nella visione di Patmos), la fece sedere su di un trono più elevato di tutti gli altri, ed ordinò che tutti chinassero il capo, e piegassero le ginocchia al pronunciarsi del nome di Maria. La costituì Regina del Cielo e della terra, degli Angeli e degli uomini.

3. — A questa dignità sovrana Iddio aggiunse un potere senza limiti … I poteri della terra sono circoscritti all’ordine materiale… spesse volte sono distruttori o oppressori…- o almeno effimeri…. che cosa è mai la più grande longevità della vita umana? Inoltre il potere di Maria è universale nella sua estensione, e tocca il mondo, vuoi nell’ordine spirituale, come in quello materiale; è un potere eminentemente benefico, non l’esercita che per fare del bene, e per distruggere il male… è un potere senza limiti, quanto alla sua durata, perché Maria autorevolmente comanderà finché Dio sarà Dio, finché avrà il diritto di dire al Verbo Incarnato, assiso alla destra del Padre suo: Filius meus es tu, ego… genui te. Maria che in terra si chiamò l’ancella del Signore, in cielo è stata costituita Regina, Avvocata e Protettrice!

Conclusione. — Esultiamo per il trionfo e per la gloria accordata alla Madre nostra! Raddoppiamo la nostra fiducia in Dio! Se Iddio l’ha fatta sì potente, l’ha costituita tale, perché c’aiutasse e ci soccorresse nei nostri bisogni spirituali e temporali. O Signora, o Madre nostra, otteneteci la grazia di vivere santamente, di imitare le vostre virtù, di morire piamente fra le vostre braccia, affinché possiamo salire là ove Voi siete, per lodare insieme a Voi la Ss. Trinità, che vi ha così esaltata e glorificata.

Offertorium
Orémus
Gen III:15
Inimicítias ponam inter te et mulíerem, et semen tuum et semen illíus.[Porrò inimicizia tra te e la Donna: fra il tuo seme e il Seme suo.]

Secreta
Ascéndat ad te, Dómine, nostræ devotiónis oblátio, et, beatíssima Vírgine María in coelum assumpta intercedénte, corda nostra, caritátis igne succénsa, ad te júgiter ádspirent.
[Salga fino a Te, o Signore, l’omaggio della nostra devozione, e, per intercessione della beatissima Vergine Maria assunta in cielo, i nostri cuori, accesi di carità, aspirino sempre verso di Te.]

Communio
Luc 1:48-49
Beátam me dicent omnes generatiónes, quia fecit mihi magna qui potens est. [Tutte le generazioni mi diranno beata, perché grandi cose mi ha fatto colui che è potente.]

Postcommunio
Orémus.
Sumptis, Dómine, salutáribus sacraméntis: da, quǽsumus; ut, méritis et intercessióne beátæ Vírginis Maríæ in coelum assúmptæ, ad resurrectiónis glóriam perducámur.
[Ricevuto, o Signore, il salutare sacramento, fa, Te ne preghiamo, che, per i meriti e l’intercessione della beata Vergine Maria Assunta in cielo, siamo elevati alla gloriosa resurrezione.]

FESTA DELL’ASSUNTA (2018)

FESTA DELL’ASSUNTA

[P. V. Stocchi: Ragionamenti Sacri; Tip. Befani, ROMA, 1886]

RAGIONAMENTO XXXVI. ASSUNZIONE DI MARIA

“Exaltata est Sancta Dei Genitrix super choros angelorum ad cælestia regna”.

Qualunque alberga in petto una scintilla di amore a Maria, chi non lo alberga di noi che questo amore suggemmo col primo latte? non è possibile che non saluti con peculiare esultanza questo gran giorno, che per la Vergine nazarena può con verità chiamarsi il giorno dei giorni. Questo è il giorno infatti nel quale, venuta al termine del suo viaggio l’incomparabile pellegrina che primogenita di ogni creatura era proceduta dalla bocca dell’Altissimo, udì finalmente la voce dello sposo che la chiamava, e nascosto così per vezzo dietro il riparo della parete domestica, e dalla finestra sguardandola e dalle sbarre dei nativi cancelli, ecco le diceva che “sparve il verno”, ecco che fecero sosta le pioggia, già le nostre spiagge si smaltano di fiori, già l’eco del bosco ripete il gemito amoroso della tortorella, già il potatore dà di mano  alla ronca, levati amica mia, diletta mia, colomba mia e vieni. E Maria, impenna le ali e si leva e, snella come colomba, vola al nido, trascorre velocissima le vie del baleno, e precedendola e corteggiandola gli Angioli penetra in Paradiso, sale fino al trono di Dio e si asside nel preparato soglio, Regina cinta di triplice diadema di figlia, sposa e madre di Dio. Di questa Assunzione esulta in paradiso la Chiesa dei Santi, di questa esulta in terra la Chiesa dei viatori, e ambedue congiunte in un coro glorificano il Signore in questa Creatura che è il portento dei portenti dell’Onnipotente, e la gloria e presidio del genere umano; e nella esultanza esclamano stupefatti: Exaltata est Sancta Dei genitrix super choros angelorum ad cælestia regna. La Santa Genitrice di Dio è stata esaltata sopra i cori degli Angioli ai regni celesti. Ora di questa esultanza a me conviene farmi interprete parlando stamane dell’Assunzione di Maria. Non mi state a dire che arduo è l’assunto, lo so pur troppo e mi atterrisce Bernardo intuonandomi che l’Assunzione di Maria, è un mistero ineffabile quanto l’incarnazione del Verbo. Filii ìncarnationem et Mariæ assumptionem quis enarrabit? Con tutto ciò, poiché conviene parlare, parlerò. Ma dentro quali confini costringerò la orazione, perché non vagoli barchetta sgovernata e raminga in pelago senza sponda? Mi argomenterò di misurare l’immisurabile, verrò cioè indagando e, se così può dirsi, scandagliando e tentando la sublimità della gloria alla quale Maria Assunta in cielo fu sollevata. Il cimento supera le mie forze; ma questa Vergine, Sede di sapienza e Madre della sapienza increata, può cavare anche la sua lode dal labbro di un lattante e di un pargolo.

1. E prima di tutto, o signori, in questo giorno celebriamo quello che si appella il “transito di Maria”. Questa parola di Maria favellandosi si sostituisce alla parola “morte”, la quale rispetto a questa Creatura incomparabile sembra troppo dura ed acerba per non dire ingiuriosa. Che aveva infatti a che fare con Maria la morte? La morte non fu creata da Dio, no! Deus mortem non fecit, (Sap. 1. 13.). Dio non fece la morte, la morte fu introdotta nel mondo dal diavolo; l’uomo sedotto dal diavolo peccò e la carne umana, divenuta carne di peccato, cadde sotto la giurisdizione della morte. Che avevi dunque o morte a che fare con Maria? Dirai che anche la carne di Maria era carne di Adamo. Verissimo! Era carne di Adamo, ma non carne di Adamo peccatore, era carne di “Adamo innocente”. Dio onnipotente, che voleva che la carne di questa donna diventasse un giorno carne sua propria, con privilegio unico, incomparabile, senza simile, senza seguente, sequestrò la carne di Maria dalla massa maledetta e dannata, e la grazia pervenne e sanò la natura nell’istante primo dell’Immacolato Concepimento, onde la giurisdizione del peccato e del diavolo e però neppure della morte non ebbe luogo sopra di Lei. Doveva qual dubbio ci è, la cruda falce di morte stare lontana da Maria che mai non ebbe peccato, e la inesorabile nemica dei vivi, non avrebbe forse osato tagliare lo stame di quella vita santissima. Ciò premesso, ho detto con gran ragione che valutare la gloria di Maria è misurare l’immesensurabile, imperocché chi non lo sa? La prima misura secondo la quale in cielo si dispensa la gloria, è la grazia santificante che veste l’anima, la sublima e l’adorna; bisognerebbe quindi aver mente per estimare il tesoro della grazia onde all’istante del suo passaggio era ricca Maria per misurarne la gloria, ma questa estimazione eccede ogni possanza di intelletto umano ed angelico. E non ne dubiterà chi rammenti che i Santi Padri riconoscono inombrata Maria in quel monte che punta colle radici sopra il vertice degli altri monti, e quando il Salmista cantò che al Signore sono dilette le porte di Sion sopra tutti i tabernacoli di Giacobbe volle, dicono i santi dottori, darci ad intendere, che la prima grazia che nel primo istante che fu concetta fece santa Maria, sopravanzò quella di tutti insieme i comprensori celesti per modo tale che ciò che era termine e compimento pel più fiammante dei serafini, fosse appena principio per la Verginella di Nazaret. Così come fra tutti i fiori di primavera la più bella è la rosa, così fra tutti gli astri del cielo l’astro mattutino è il più bello, così i congiunti splendori delle stelle e della luna in notte serena non pareggiano lo splendor dell’aurora allorché si affaccia a1 balcone di oriente e foriera bellissima apre al sole le porte del cielo e con le rosee dita gli indora la via. Mirabile cosa pertanto: se per Maria fosse stato diviso da un solo istante l’essere creatura e beata, e col primo ornamento di grazia che nella Coniazione la fece santa senza usufruttuarla né accrescerlo con nessuna cooperazione, con nessun traffico, trapassata fosse dall’utero della madre al Paradiso, con questo solo sarebbe stata tra tutti i Santi la prima, e di tal lume sfolgorato avrebbe nel cielo, che a paragone sarebbe stato fioco il fulgore di tutti i cori celesti. Così un’umile forosetta, se dalla compiacenza che in lei ponga il monarca, venga assunta repente dalla capanna e dal prato al regio talamo e al soglio si leva in un attimo sovra ogni altezza più nobile della corte, e splende cinta di diadema quasi luna tra le minori fiammelle. Ma se è così, conviene subito dar vinte le mani. Misurare la gloria che circondò Maria in questo giorno del guiderdone? Impossibile. Imperocché dotata Maria, dicono con gran concordia i Sacri dottori, fino dal primo istante che fu concepita dell’uso spedito e libero di sua ragione, non tenne ozioso un momento l’immenso capitale di grazia, onde il Signore la fece ricca, ma con gli atti intensissimi di fede, di carità e di ogni più eletta virtù, la venne sempre aggrandendo con prodigioso moltiplico. E così il secondo istante del viver suo quel capitale era aggrandito del doppio, il terzo istante del quadruplo, il quarto istante era otto volte maggiore, e di ben sedici volte eccedeva nel quinto istante quel che fu da principio. Procedete, signori con questo moltiplico e raddoppiate il capitale di istante in istante per modo che l’istante che succede, la trovi sempre del doppio più santa di quel che la lasciò il precedente, e ciò pel corso di forse meglio che settant’anni di vita, e poi andate ed estimate i tesori di gloria onde fu oggi guiderdonata Maria. La celebrano i Santi Padri e ne parlano a modo di estatici. Quid grandius Virgine esclama S. Pier Damiani, attende Seraphim et in illius naturæ supervola dignitatem et videbis quidquid maius est, minus Virgine solumque opifìcem opus istud supergredi. Chi è più grande di questa Vergine? Grandi sono i serafini, ma il più grande fra essi è nulla in faccia a Maria, e solo il Creatore eccede questa Creatura. E S. Epifanio a Maria si rivolge, e solo Deo excepto, le dice cunctis superior existis … da Dio infuori, nessun può venire in competenza con te. E ad Epifanio fa tenore l’affetto di Andrea da Creta, che sfogando il suo cuore: O Vergine, esclama, o regina di tutta l’umana natura a Dio sottostai, ma dopo Dio sei la più sublima di tutti. O Virgo, o regina omnis humanæ naturæ excepto Deo es omnibus altior.

2. E questa è, o signori, l’unica conclusione alla quale convien che venga chi misura l’altezza di gloria alla quale ascese in questo giorno Maria; che sia una gloria della quale non possa escogitarsi maggiore dopo quella di Dio. E ce ne capaciterei!, ancor di vantaggio se ci faremo a considerare, come nulla fu in Ella che si opponesse alla grazia. Imperocché era Ella, come noi siamo, figlia di Adamo, ma non figlia di Adamo peccatore, ma di Adamo innocente. Però la carne di Maria non era carne di peccato, né provava questa Vergine dentro di sé la triplice infestazione della concupiscenza, della ignoranza e della malizia che ottenebra, corrompe e debilita noi che siamo, per natura, figliuoli di ira. Era oltre di ciò, per altissimo privilegio confermata in grazia, onde peccato non poteva in esso aver luogo, non dico solo mortifero, ma neppure veniale e lievissimo. Datemi dunque quel capitale di grazia che detto abbiamo, aggiungete il privilegio di non peccare, a questo aggiungete l’altro di non poter neppure essere tentata al peccato, datemela sempre illustrata di limpidissimo lume nell’intelletto, ordinata sempre con dirittura perfettissima nella volontà, col senso sempre alla ragione soggetto, con la ragione sempre soggetta a Dio, non iscossa mai né turbata da urto di passione o da impeto di appetito, ed eccovi che questa avventurata creatura, per tutta quanta la vita, fece acquisto sempre di nuovi meriti e mai non incorse nessun discapito. Si si, fu sempre intatto questo giglio delle convalli, sempre immacolata questa suggellala fontana, sempre odorosa questa rosa di Gerico, fu sempre eretta questa palma di Cades, stampò sempre le orme incontaminate dal fango di questa terra di morte, e i miasmi di questo ergastolo consolò con profumi perenni di balsamo, di cinnamomo, di mirra. Tutti i santi, mentre pellegrinarono in terra, pagarono qualche tributo alla imbecillità della carne che li vestiva, e o per fragilità inciamparono e allentarono per stanchezza. Maria no, Maria avanzò sempre, sempre salì di altezza in altezza, a somiglianza dell’aquila che, fitti gli occhi nel sole, vince coi suoi voli ogni poter di pupilla onde facta est quasi navis institoris de longe portans panem suum. (Prov. XXXI, 14), rendette similitudine di un bene arredato naviglio che, con tutte le vele allargate al vento che spira amico da poppa in tutti i porti che incontra amici o nemici, si carica sempre di nuove merci senza far gettito mai di nessuna.

3. E dico in tutti i porti che incontra amici o nemici, imperocchè quale fu mai il tenore della vita mortale di Maria? In quali opere si svolse la tela mirabile dei suoi giorni? Quali splendori la illustrarono? Di che gloria rifulse? Omnis gloria eius filiæ regis ab intus. Sottratta, interiore, arcana, misteriosa, invisibile ad ogni sguardo, fuorché a quello di Dio, è l’opera e il magisterio onde Maria intrecciò la corona dei meriti che oggi si trasformò in corona di gloria. Noi infatti contemplando Maria, altro non vediamo fuorché un meraviglioso conserto di nobiltà e di abbiezione, di grandezza e di umiltà, di innocenza e di pene, di oscurità e di gloria, ma tutto ordinato e misto per modo che, nobiltà e innocenza e gloria e grandezza, ad altro non riesca fuorchè a dar lume e risalto alla umiltà, alla oscurità, alla abbiezione, alle pene. Discende dalla regia stirpe di David e in Lei fa capo ringiovanito e santificato il sangue dei re di Giuda, ma al cospetto del mondo non dà altra vista che dell’umile sposa del falegname di Nazaret. È santa, è tutta santa, è sempre santa, ma in una nazione nella quale, alla osservanza della legge, sono proposti guiderdoni [doni] terreni larghissimi, a Lei non toccano altro fuorché affanni, tribolazioni e dolori. Diviene madre di Dio? Ma in termine di partorire il Dio fatto carne, non trova casa che la raccolga e le è forza sciorre [sciogliere] il suo grembo dentro una stalla. Col Dio pargoletto fugge raminga in Egitto, raminga col Dio già grandicello dall’Egitto ritorna. Gioisce in cuore per gli imperi ineffabili di un amore che è insieme amore naturale di madre e amore celeste di carità, ma le si rivela che quel caro pegno è riserbato alla croce, ed Ella assisterà presso il patibolo, spettatrice immobile del supplizio e delle agonie del frutto delle sue viscere. Così o Maria da Nazaret a Bettelemme, da Bettelemme al Calvario, dal Calvario al Cielo, trapassi o Maria senza posa di grazia in grazia, di grandezza in grandezza, di gloria in gloria, ma ogni grazia, ogni grandezza, ogni gloria altro frutto non ti rende, fuorché di angosce e di pene; le tue mani distillano mirra, e il Dio tuo figlio o pargoletto ti giocondi coi cari vezzi infantili, o adolescente ti allieti con la amorosa obbedienza, o giovane ti sostenti con le fatiche, o uomo ti contristi collo spettacolo della passione e del sangue è sempre un fascetto di mirra che ti posa sul cuore. Fasciculus myrrhæ dilectus meus mihi inter ubera mea commorabitur. (Cant. I, 14). Or in questo conserto e quasi conflitto perpetuo di umiltà con la gloria, di abbiezione con la grandezza, di innocenza con i dolori e le pene, chi può estimare la eccellenza delle virtù che esercita, e la corona dei meriti che si tesse Maria? Nella quale può dirsi cosa che a pensarla solo sbalordisce per istupore, ed è questa: che Ella sale al primo soglio del Paradiso esaltata sopra tutti i cori degli Angeli, essendosi da sé medesima con le opere sue e coi suoi meriti, guadagnato e quasi espugnato quel soglio. Così è, signori, non è Maria assunta in Cielo sì alto per dono meramente gratuito della compiacenza di Dio, no, la grazia non si merita, la gloria si! Maria ha conquistato quel soglio: operata est Consilio manuum suarum, (Prov. XXX. 13) l’ha conquistato con l’esercizio indefesso e squisito delle opere sante e delle sublimi virtù. Ma se è così, o signori, leviamoci a volo in questo giorno e immaginando di essere presenti all’ingresso trionfale e alla coronazione di Maria, fingiamo che tocchi a noi di domandare la gloria che deve fregiare Maria. Io per me, credo che rivolgendomi al Re della gloria parlerei fidatamente così: Voi o Signore proporzionate la gloria alla grazia che quasi veste preziosa adorna l’anima santa, date dunque il primo soglio di gloria a Maria per la grazia onde la vestiste fino dal primo istante che fu concepita. Ma questa grazia nelle mani di Maria si raddoppia ad ogni istante, dunque dite a Maria ascende superius. Più su, o beata, più su il doppio, sempre più alto di tanti gradi quanti sono gli istanti della tua vita. Gran cosa è questa o Signore ma pure non basta. Ecco qua la schiera celeste delle sante virtù, che compagne indivisibili corteggiarono Maria nel pellegrinaggio mortale, e tutte chiedono una corona da fregiarle la fronte. Ecco la “fede” bianco vestita e coperta gli occhi di un velo, e chiede una corona di bellezza perfetta perché io, dice, fui in Maria perfetta sì che nel credere la feci beata, beata quæ credidisti. (Luc. I. 45) E io, ripiglia la speranza, fui cara a Maria sì che Ella parve mia madre, Mater sanctæ spei e una corona le debbo di bellezza sovrana: ma ambedue le vince vestita di colore vivo di fiamma la “carità”, e per incoronarla prediletta di Dio non si appaga di meno che di tutto il riso che accolgono i gaudii del cielo. E questa è la “fortezza” e vuole mille corone per fregiare Colei che per antonomasia si appella torre di David; e mille ne vuole la “prudenza” per Maria che condottiera sovrana delle vergini prudenti guida la danza, mille ne vuole la “temperanza”, la “giustizia” mille: poi viene la “umiltà” e poi la “verecondia”, e poi la “pietà”, e poi la “mansuetudine”, e tutte in corto dire tutte le virtù in vergine coro traggono innanzi, e tutte tendono le palme, tutte chiedono ghirlande da fare onore a Maria, perché di tutte Maria colse il fiore e la cima. Avete, o gran Re, che camminate fra i gigli una aureola per coloro che guardarono incontaminato il giglio dei vergini? Datela a Maria; ma sia così vaga, che più rifulga del sole, perché nessun candore pareggia il candore di Maria, che agli onori di vergine congiunge i gaudi di madre. Avete un’altra aureola per i martiri che vi resero testimonianza col sangue? Si deve questa aureola a Maria, che sotto la vostra si incoronò Regina dei martiri. Serbate un’altra aureola per quei sapienti che il popolo vostro erudirono alla giustizia, aureola di tanta luce che i fortunati che la conquistano fa splendere come soli nelle perpetue eternità? Sede di sapienza è Maria; la più luminosa di quelle aureole si deve a Lei che alla Chiesa santa insegna ogni verità, conquide ogni errore. Che andare in tante parole? Quanto è, o Signore, nei vostri tesori di premi, di doni, di doti, di gaudi di corone di frutti, tutto si accumuli su questo capo diletto, e non abbia modo la gloria dove non hanno modo i meriti, non ha moda la grazia. Cosi pare a me, che avrei gridato nel giubbilo dell’anima mia se trovato mi fossi presente alla glorificazione di Maria, e gli Angeli stupefatti avrebbero fatto tenore alle mie parole e confessato che questa figlia di Adamo si era, con le sue mani, lavorata una corona della loro più bella. Operata est Consilio manuum

4. Grandi cose sono queste, non può negarsi, e se dovessimo misurare la gloria di ogni altra creatura che non fosse Maria, saremmo al termine, ma di Maria trattandosi siamo appena al principio. Queste corone, onde abbiamo finora veduto inghirlandata a Maria la fronte, sono corone di giustizia, si posero sulla fronte a Maria che le meritò. Ma secondo giustizia si glorificano ancora i sudditi, e Maria è la figlia, la sposa e la Madre del Re del cielo che la glorifica. Esce quindi Maria davanti al Signore dall’ordine consueto delle altre creature, e forma un ordine, un ceto, un grado da sé con nomi, diritti, prerogative, privilegi comunicabili, unici e affatto divini. Ella è Madre di Dio, e stretta per conseguenza con vincoli ineffabili di consanguineità e affinità con le Persone della Trinità sacrosanta: Figlia del Padre e insieme col Padre, quanto all’assunta natura, ma secondo la stessa Persona principio del Figlio. Madre del Figlio, il quale si dice come Figlio a Dio così anche figlio dell’uomo, perché prese la carne che con vera somministrazione materna gli diede Maria: Sposa dello Spirito Santo, perché con lo Spirito Santo costituisce un solo Principio generatore il cui termine è la Persona del Verbo. Si mescola pertanto, si intreccia, si intromette Maria con la Trinità sacrosanta, e ogni creatura deve al suo cospetto umiliarsi e stupire, tutti celebrarla, esaltarla tutti, nessuno attentarsi di determinare a Dio la misura della sua gloria. Imperocché chi sarebbe o sì folle che si stupisse, o sì temerario che muovesse richiamo degli onori, benché smisurati e non pria veduti, che un monarca pur anco di questa terra accumulasse sul capo della sua figlia, della sua madre, della sua sposa? Che coi sudditi si adoperi la giustizia distributiva e la ricompensa, e la gloria si proporzioni col merito, bene sta: ma la misura degli onori di un figlio rispetto alla madre, di un padre rispetto alla figlia, di uno sposo rispetto alla sposa, non è il merito no, non è la giustizia, ma la pietà, e la pietà è virtù cosiffatta alla quale non si pone misura, ma quanto è negli onori più profusa, tanto è più bella. Ascendendo dunque in questo giorno al cielo Maria, ascese piena di grazia e piena di meriti, e Dio rimuneratore giusto e liberale fu nel guiderdone profuso e magnifico. Ma questa creatura che ascese piena di grazia e di meriti era Figlia, Sposa, Madre di Dio. E qui ogni mente vacilla, ogni immaginazione è soperchiata, è impotente ogni lingua a pensare e a ridire che cosa fecero il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo per onorare Maria, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo che nell’onorarla non erano limitati da altra misura che dalla pietà e dall’amore. E notate come Dio non volle che della divina maternità cogliesse in terra nessun vantaggio, nessuno onore, mentre visse mortale: quindi, nessuno seppe che il frutto benedetto delle sue viscere era opera dello Spirito Santo, nessuno seppe che senza offesa del suo fiore verginale, Ella fosse madre; il mondo ignorò che Ella fosse Madre di Dio, portò quindi in paradiso, intatto il diritto che l’essere Madre le dava di partecipare alla gloria del Figlio, l’essere Figlia e Sposa di partecipare alla gloria dello Sposo e del Padre. Qual lingua pertanto, umana od angelica, potrà ridire quali feste o quali accoglienze, quali onori, qual trono, quali corone, apprestasse in questo giorno il paradiso a Maria; un Padre onnipotente che vuole onorare da pari suo la figliuola sua primogenita, un Figliuolo onnipotente che vuole mostrare quanto ami la Madre sua che per lui tanto fece e patì, uno Sposo onnipotente che alla diletta sua sposa arreda il talamo e il trono. Mi dica il Damasceno che infinita è la distanza che nella gloria divide la Madre dai servi di Dio, Dei matris et servorum Dei infinitum est discrimem, aggiunga S. Pier Damiani che come il sole con la sua luce sembra spegnere le stelle; così il fulgore di Maria ecclissa quello di tutti i santi, Virginis splendor ut sol astris sanctis spiritibus caliginem offundit: asserisca Sofronio che come niuno è buono al paragone di Dio, ut in comparatione Dei memo bonus; così nessuna eccellenza creata si trova perfetta al paragone della Vergine; ita nulla creatura in comparatione Virginis renitur perfecta; gran cose mi avranno detto, ma non mi avranno detto tanto che io non trovi poco, se penso che Maria tanto dové ricevere di gloria, quanto Dio gliene potette dare, e tanta gliene potette dare, quanto volle, e tanta gliene diede, quanta poté.

5. E non vedete infatti come anche rispetto al suo corpo santissimo non si pone misura nel glorificare Maria? Come si rompono tutte le leggi? Come si fà della risurrezione di Maria una copia fedele della risurrezione del suo Figliuolo? Subì anche Maria il taglio di morte, e lo spirito santissimo si separò dal suo compagno mortale, perché la morte è pena ma non è obbrobrio, né era disdicevole alla Madre passare per quel valico pel quale era passato il Figliuolo; ma se la morte è pena, non è solamente pena, ma ignominia ed obbrobrio di questa carne di peccato, la putredine è la corruzione del sepolcro. Però il verbo di Dio fatto carne subì la morte, ma l’obbrobrio della corruzione non ebbe accesso alla salma dell’uomo di Dio, e la respinse il profumo della divinità inabitante: e al modo medesimo non ebbe accesso al suo frale immacolato o Maria né duopo ebbe a respingerla di unguenti e di aromi o di balsami, e la respinse l’odore del Verbo che nove mesi abitato aveva nell’intemerato abitacolo delle tue viscere, e il profumo dello Spirito Santo che aveva fatto per settanta anni dimora dentro al tuo petto. Ora perché la copia rispondesse all’originale, e la gloria di Maria somigliasse a quella di Gesù, non volle Dio che la salma benedetta aspettasse nel sepolcro la tromba del giorno estremo; volle che l’anima santa con isposalizie novelle si raggiungesse al suo frale e quel fido compagno delle pene e del pellegrinaggio terrestre portasse al consorzio della gloria e del gaudio. E va, disse all’anima gloriosa di Maria la Trinità sacrosanta, va o bellissima delle creature, e sveglia la tua salma dalla polvere del sepolcro e irraggiandola della gloria e sfolgorandola del lume che ti riveste, portala teco quassù al trionfo ed al regno. E scese l’anima beata, e spiccandosi dall’empireo ratta così, che non è più ratta la folgore fu all’avello dove il terreno ve lo posava, e gli Angeli del paradiso a schiere a schiere: per vaghezza e per corteggio le tennero dietro. Sentì, la salma giacente, la presenza e il nume della compagna diletta, e per la virtù del Signore si rilevò, e correndosi incontro l’una con l’altra si riabbracciarono, si compenetrarono, si ricongiunsero, e Maria riprese la via del cielo, e volando sulle ali degli Angeli che ambiziosi si contendevano il carico e il ministero, sali all’empireo e trasvolando ogni altezza creata di uomini e di Angeli, prese possesso del trono più bello dopo quello di Dio. Così, amorosa colomba che si dissetò al ruscelletto argentino della fontana, con l’ali tese e ferme, vola al forame dell’amica torre se desio la punge del dolce nido e dei figli. E qui comincia una gara di tutti padri che tentando il freno all’affetto si piacciono in descrivere la salita trionfale e l’ingresso di Maria nella gloria. E chi descrive le schiere degli Angeli che circondano la benedetta trionfante e cantano canzoni di paradiso sulle cetre celesti; chi rappresenta Maria che affluente di delizie ascende come nuvoletta di incenso appoggiata un cotal poco al braccio del suo diletto, evapora le vie del cielo delle preziose fragranze del balsamo, del cinnamomo e del galbano. Altri inducono le schiere dei comprensori domandare attoniti chi è Colei che dal deserto ascende al cielo, bella come la Gerusalemme celeste; altri si dilettano di illustrare con paragoni la vista che Maria dà di sé al Paradiso e l’assomigliano alla rosa che in primavera si imporpora, all’iride che si colora tra le nubi, all’aurora che si affaccia al balcone di Oriente; dicono che è bella come la luna quando passeggia fra gli astri del Armamento quasi Regina tra le minori fiammelle, la decantano eletta come il sole quando, quasi gigante, esulta nella sua carriera, la celebrano all’inferno terribile come “esercito schierato a battaglia”. O quanto è bello il tuo incesso per le vie del baleno o figlia del principe. O di che orme stampi i sentieri del cielo, con la leggiadria di quei calzamenti che ti vestono le piante, lascia o lascia la dolce stanza del Libano, poni in obblio il tuo popolo e la casa del padre tuo e vieni; vieni e ti inghirlanderemo la fronte di un serto intrecciato sulle pendici dell’Amana e sulle vette del Sanir e dell’Eraion, dove i leoni si accovacciano e vanno in volta i leopardi. Cosi i Santi Padri. I quali se si provano a ridire le accoglienze che ricevette dalla Trinità Sacrosanta, confessano che né mente umana le può comprendere, né lingua umana ridire. Se vogliono descrivere il trono su cui si asside, dicono che ha per sgabello la luna che col disco di argento le soffolce il piede; se il manto che le veste le membra lo celebrano in tessuto dei più bei raggi del sole; se il diadema che le cinge la fronte sono dodici stelle delle più vaghe onde scintillano le azzurre volte dei cieli. Tota conglomeratur angelorum frequentia dice S. Pier Damiani, ut videant reginam sedentem a dextris Dei circumdata varietate. Fanno calca e pendono intorno a Maria gli Angioli e i Santi, né si saziano di animi quella bellezza e di contemplare quella gloria, e di esaltar il Re dei re che la creò e la fece sì grande, sì santa, sì gloriosa, e sì bella.

6. Ma è pur bello che su quest’ultimo, ci conduciamo col Damasceno alla tomba che chiuse il sacrosanto frale di Maria, e dov’è, gli domandiamo, dove è il deposito che si confidò alla tua fede? Dove è quell’oro purissimo che in te nascosero le apostoliche mani? Dove è quella gemma di Paradiso, dove quel tesoro di delizia, dove quell’abisso di santità, dove quell’arca di giustizia, quel fonte di vita? Parla, sepolcro, rispondi: la salma di Maria, dov’è? E ché cercate, risponde il sepolcro, ché cercate nelle viscere della terra Colei che fu rapita ai padiglioni celesti? Perché domandate a me ragione di un deposito che io non potevo ritenere? Sono forse le mie ritorte più valide del braccio di Dio? O è così robusta la mia possanza, che sappia resistere alla virtù dell’Altissimo? Una insolita luce di Paradiso invase i miei recessi; rivisse quel corpo santissimo, si sviluppò dalla sindone che lo avvolgeva, vaporò di fragranza celeste il mio seno, il guiderdone del ricetto che gli porsi fece di me un delubro di santità, mi riempié di fiori colti nei giardini superni, e addio, mi disse, e impennò l’ali e disparve. Così il Damasceno; e a lui sottentra Bernardo, e quasi in atto di cercarla nei cieli poiché involò se stessa alla terra: oh! le dice con le parole dei cantici; dinne, dinne, bellissima, qual regione ti tiene? Per qual plaga del cielo ti aggiri? In quali paradisi stampi il suolo di orme beate? Suoni nostre orecchie la voce tua, un’aura almeno venga quaggiù gli odori che spiri dal vestimento, tratti al profumo di quelle fragranze impenneremo le ali e volando senza allentare verremo a Te, e vagheggeremo la tua sembianza e gioiremo del tuo gaudio e festeggeremo della tua gloria. Ma, interrompe S. Pier Damiano, Ella siede alla destra del Figlio nel Paradiso, e tanto non è dalla terra al cielo, che più non sia dai cori più sublimi dei serafini al soglio di Lei. Come possiamo noi col carico di questa soma mortale adergerci a tanta altezza? Chi ci dà ali di volo si infatigato? O te beato, te quattro volte beato o Stanislao Kostka, gemma ed onore della Compagnia di Gesù, o tocchi a me, tocchi a tutti questi diletti che mi circondano, la sorte che a te toccò in questo giorno. Ardeva l’immacolato giovane di affetto immenso a Maria, la festa dell’Assunzione della Vergine al cielo si avvicinava, ed ei si struggeva di contemplarne il trionfo. Scrisse dunque con filial tenerezza una lettera alla Regina del cielo, e portandola piegata sul petto nel dì sacro al martire S. Lorenzo, ricevendo il corpo di Gesù Cristo, al santo martire la consegnò perché la rendesse a Maria. Era egli vegeto, era robusto, era sano: il fiore della gioventù gli riluceva in volto e gli atteggiava le membra, nulla presagiva la morte e la solennità di Maria era vicina. Quand’ecco a un tratto il giorno innanzi alla festa quel vago fiore languiva, e Stanislao per impeto di amore più che di morbo viaggiava verso il cielo a gran passi. La mezza notte della vigilia che precedeva la festa era passata, l’aurora del gran dì di Maria apriva con le rosee dita al sole la porta, quand’ecco presso la celletta di Stanislao, si ascolta un concento di paradiso, ecco una luce celeste ingombra l’aere all’intorno, ecco tra quelle vergini una Vergine senza misura più augusta e più bella. Era Maria che a Stanislao si rivolse e gli disse, vieni! Vide Stanislao la sua Madre, udì la cara parola, bastò. L’anima si sciolse dal corpo e volò in Paradiso, il corpo rimase in terra abbandonato a somiglianza del giglio che piega sullo stelo lo stanco capo se troppo vivo lo fiede un raggio di sole. O benedetto, che in questo giorno misto ai cori degli Angeli contempli e lodi Maria, piglia tu le nostre parti e parla alla Vergine per noi. Dille che siamo suoi figli, dille che le offriamo questa pompa terrestre, dille che la riguardi con occhio di amore, dille che ci benedica l’anima e il corpo, dille che ci sostenti tra le battaglie di questa terra, dille che ci conceda di contemplare un giorno i suoi trionfi celesti.

GNOSI: SINAGOGA DI sATANA: LA FRAMMASSONERIA

LA FRAMMASSONERIA

SINAGOGA DI SATANA

[L. Meurin: La frammassoneria, sinagoga di satana. Vers. A. Acquarone, Siena, 1895]

« Tutti i nostri secreti massonici sono impenetrabilmente nascosti sotto dei simboli. »

(Insegnamento ufficiale del 33° grado.)

INTRODUZIONE

I. IL NUMERO MASSONICO DI TRENTATRÉ TROVATO NELLE ANTICHE RELIGIONI PAGANE.

I gradi della frammassoneria sono, tutti lo sanno, in numero di trentatré.

Ora, studiando i Veda degli Indiani, abbiamo trovato il testo seguente: « O Dio, che siete in numero di undici in cielo; che siete in numero di undici sulla terra, e che, in numero di undici, abitate con gloria in mezzo all’aere, possa il nostro sacrificio esservi accetto (Big-Véda, Adhyaya, II. Anuvaka, XX. Sukta, IV, V. 11). » – L’Atharva Veda insegna che trentatré spiriti (trayas trinschad devah) sono contenuti nel Prajapati (Brahma) come suoi membri.

Lo Zend-Avesta, libro sacro degli antichi Persiani, contiene la nota seguente: « Che i trentatré Amschaspands (Arcangeli) e Ormazd siano vittoriosi e puri (Kordah-Avesta, III.1) ! »

Noi leggiamo ancora nel Yacna I, v. 33: « Io invito e onoro tutti i signori della purità: i trentatré più prossimi intorno ad Ha vani (l’Oriente), i più puri istruiti da Ahura-Mazda (Ormazd) e annunciati da Zarathustra (Zoroastro). » Questo numero misterioso di trentatré di cui non possiamo in nessun luogo trovare una spiegazione, ci pareva indicare fra i misteri dell’antichità pagana e la frammassoneria una connessione che meritava di essere studiata, e prometteva pure la scoperta dei secreti più nascosti di quella società tenebrosa. Non ci siamo ingannati.

II. IL NUMERO TRENTATRÉ NELLA FRAMMASSONERIA

I primi undici gradi della frammassoneria, lo vedremo più tardi, sono destinati a trasformare il Profano in Uomo vero, nel senso massonico; la seconda serie, dal 12° al 22° grado, deve consacrare l’Uomo Pontefice ebreo; e la terza serie, dal 23° al 33° grado, deve costituire il Pontefice, Re ebreo o Imperatore cabalistico.

I Capi secreti della frammassoneria, gli Ebrei, furono molto circospetti nella rivelazione graduale dell’organizzazione della loro società secreta. – Per darne un esempio, citeremo la Francia, che, nel 1722, non ha conosciuto che i primi tre gradi, nei quali, diciamolo subito, è nondimeno contenuta in germe tutta la dottrina massonica. Nel 1738, si osò duplicare questo numero; nel 1758, esso fu portato à ventidue, più i tre primi gradi della terza serie, cioè, in tutto, a venticinque gradi. Gli ultimi otto gradi che mancavano ancora al sistema perfetto, furono aggiunti solamente nel 1802, dopo che i lavori tenebrosi delle logge avevano portato i frutti su’ quali si era fatto assegnamento, facendo correre a flutti il sangue umano. – Paolo Rosen, un tempo frammassone del 33° ed ultimo grado, dà la descrizione dell’apertura delle sedute del Supremo Consiglio del 33° grado (Satan et C.ie Tournai, 1888, p. 219). Egli dice: « Un Supremo Consiglio deve essere composto di nove Sovrani Grandi Ispettori Generali almeno, e di trentatré al più. Nove, perché  questo numero, essendo l’ultimo dei numeri semplici, indica la fine di tutte le cose; trentatré, perché è a Charleston, al 33° latitudine nord, che il primo Supremo Consiglio si è costituito, il 31 maggio 1801, sotto la presidenza di Isacco Long, fatto Ispettore da Mose Cohen, che teneva il suo grado da Spitzer, Hayes, Franken e Morin. Quest’ultimo lo teneva, dal 27 agosto 1762, dal principe de Rohan e da nove altri massoni del Rito di Perfezione, che lo avevano deputato a stabilire in tutte le parti del mondo la Potente e Sublime Massoneria. » – Le autorità massoniche, come Pindel (Geschichte der Freimaurerei. Leipzig-. 1870, p. 847: Die Ordensliige des schottischen Ritus der 33 grade. Histoire de la franc-maçonnerie: la Menzogna dell’Ordine riguardante il rito scozzese di 33 gradi) e Clavel (Histoire pittoresque de la franc-magonnerie, 3a ed., 1844, p. 400.), dichiarano che l’Ebreo Morin non aveva patente che per lo stabilimento di venticinque gradi, e che la pubblicazione degli ultimi otto gradi non risale oltre il 1801. Questo è detto per distrarre gli spiriti troppo curiosi: il sistema massonico esige assolutamente trenta tre gradi. – Nel Catechismo del Maestro, secondo il Rito francese, leggiamo (Leo Taxil, les Frères Trois-Points, 2 vol. p. 126): « L’Assemblea generale, riunita annualmente in sessione e investita del potere legislativo, determina la legge che ci regge e regola gli interessi comuni dell’istituzione. In sua assenza, una commissione, designata col nome di Consiglio dell’Ordine, composta di trentatré membri eletti dall’Assemblea generale, amministra gli affari correnti.  – I misteri della frammassoneria, sono, la maggior parte, nascosti sotto leggende, emblemi, decorazioni, motti sacri, ecc…. La « Camera nera, » per cui deve passare l’aspirante al grado di Rosa-Croce, è illuminata da trentatré lumi, messi su tre candelieri di undici bracci (Leo Taxil, Les mysières de la franc-maçonnerie, p. 279). – Il Rito di Misrai’m (d’Egitto) conta 33 gradi simbolici, 33 gradi filosofici, 11 gradi mistici e 13 gradi cabalistici. Pel momento, basta verificare, in questo rito, la ripetizione del numero 33, il numero 11, e, ciò che ci conduce più lungi nei misteri, la professione aperta della Cabala ebrea.

III. IL NUMERO UNDICI NELLA CABALA EBREA.

La Cabala essendo stata nominata, nostra intenzione si è portata su quella dottrina filosofica degli Ebrei eterodossi. Là, noi abbiamo ancora ritrovato il numero undici, e con esso la chiave dei misteri massonici. Ci basta per ora di verificare che l’Ensoph-l’(Infinito) è la sorgente da cui, secondo la dottrina della Cabala, deriva, d’eternità in eternità, tutto ciò che è esistito, esiste, ed esisterà. Da lui emanano, in primo luogo, una Triade: la Corona, la Sapienza e l’Intelligenza, detta i Séfiroth (numeri) superiori, e in secondo luogo sette altri Séfiroth che, con i tre superiori, costituiscono l’Uomo primordiale [AdamKadmon). L’Ensoph e i dieci Séfiroth compongono « nel ciclo » il famoso numero undici che si ripete nella sfera degli spiriti, « in mezzo all’aere », come nel mondo materiale, « sulla terra », completando così il numero di trentatré. – I Cabalisti tengono molto ai numeri, soprattutto a quello di undici. Un frammento inserito nel Zohar (Luce), loro libro principale, è intitolato Idra roba, cioè la Grande Assemblea, perché esso contiene i discorsi indirizzati da Simon-ben-Jochaì a tutti i suoi discepoli, riuniti in numero di dieci; il maestro rappresentando così l’Ensoph in mezzo a dieci Séfiroth (Frank, la Kabbale, p. 126, nota).

IV. IL NUMERO UNDICI NELLE DECORAZIONI MASSONICHE.

Per assicurarci che noi eravamo entrati nel vero cammino che guida ai più intimi misteri della frammassoneria, ci è bastato di scoprire nelle decorazioni massoniche l’Ensoph coi dieci Séfiroth e sopra la Corona. Nelle « Grandi Costituzioni » del Rito scozzese, articolo 66, trovasi la descrizione della decorazione a cui hanno diritto i membri della Grande Loggia Centrale. – « Essi portano un cordone in traverso, bianco marezzato, largo da dieci a undici centimetri, ornato con frangia d’ oro di cinque millimetri per ogni parte; a cui è attaccata una rosetta di color rosso vivo. A questo cordone è sospeso un gioiello formato di tre triangoli intrecciati, sormontati da una corona; questo gioiello è in oro o dorato. » – I tre triangoli intrecciati rappresentano i nove Séfiroth che emanano dalla Corona, la quale li sormonta e completa il numero di dieci. – Il cordone bianco largo dieci centimetri rappresenta gli stessi dieci Séfiroth. Si dice: dieci a undici centimetri, per avere di che attaccare l’ orlo. L’orlo in oro, di un mezzo centimetro in ciascuna parte, completa il numero di undici centimetri; esso rappresenta  l’Ensoph (l’Infinito) che abbraccia tutta la creazione, o, per parlare più correttamente, tutta l’emanazione per cui egli si è rivelato. – La rosetta sulla punta del cordone rappresenta il pensiero o piuttosto l’azione feconda dell’Infinito, per cui egli si è rivelato nell’universo. – Il cordone portato dai « Maestri » 3° grado, è azzurro marezzato, largo undici centimetri; quello dei « Maestri secreti », 4.° grado, è pur azzurro, ma orlato di nero, e largo undici centimetri. La differenza dei colori nel 4.° e nel 33.° grado, indica una altra idea: ciò non è che nel 33.° grado che si giunge a ottenere ciò che, nel 4,° si piange ancora come perduto. – Nel 29.° grado, vi sono 7 segni, 3 toccamenti e 1 toccamento generale, che significano i 7 Séfiroth inferiori, i 3 superiori e l’Ensoph. In tutto undici. – La Camera del Supremo Consiglio del 33° grado scozzese è illuminata da undici lumi: un candeliere da cinque bracci all’oriente, un altro da cinque bracci all’occidente, un terzo da un braccio al nord e un quarto da due bracci al mezzogiorno. Oltre il numero mistico di undici, vi si troverà la data dell’anno 5312 (èra ebrea) ossia 1312 (èra cristiana), l’anno dell’abolizione dell’Ordine dei Templari. – La batteria dello stesso 33° grado si fa con undici colpi: prima 5, poi 3, 1 e 2; il che significa le stesse cose che gli undici lumi. In questi due simboli, i lumi e la batteria, noi vediamo riuniti i tre misteri fondamentali della frammassoneria:

1. Il mistero dell’Ordine decaduto dei Templari, che si nasconde dietro i gradi inferiori della società secreta: ecco l’anno 1312 che grida vendetta;

2. Il mistero della Sinagoga decaduta, che si nasconde dietro la società secreta di tutta la frammassoneria: ecco l’èra ebrea;

3. Il mistero dell’Angelo decaduto, che si nasconde dietro i dieci Séfiroth, cioè la Trinità divina e « i sette angeli che sono sempre davanti al trono di Dio (Apocalisse, cap. 1, 4 – Tobia, cap. XIII, 15) »: ecco il numero undici.

Tre odii congiurati contro il Signore e il suo Cristo!

V. LA CABALA EBREA, BASE DOGMATICA DELLA FRAMMASSONERIA.

Le indicazioni citate ci bastano per considerare come giusta la nostra ipotesi che la Cabala ebrea è la base filosofica e la chiave della frammassoneria. – Questa scoperta ci ha ispirato l’idea di questo lavoro. Servirà esso ad aprir gli occhi a quelle migliaia di frammassoni non Ebrei che non vedono la schiavitù alla quale i Farisei, gli Ebrei della Cabala, li hanno ridotti, e nella quale li tengono schiavi per mezzo di misteri che non rivelano ad essi neppure al 33° grado? – Vi si troverà la soggezione dei popoli cristiani e delle loro autorità politiche sotto la dominazione degli Ebrei?

VI. IL PAGANESIMO INCORPORATO NELLA CABALA EBREA.

Non è la sinagoga ortodossa, né la vera dottrina di Mosè, ispirata da Dio medesimo, che i Cabalisti moderni rappresentano; è il paganesimo di cui alcuni Ebrei settarii furono imbevuti, al tempo della schiavitù di Babilonia. Non si ha che a studiare, la dottrina della Cabala ebrea e a paragonarla con le dottrine filosofiche dei più antichi popoli civilizzati, Indiani, Persi, Babilonesi, Assiriani, Egiziani, Greci e altri, per assicurarsi che dappertutto è insegnato lo stesso sistema panteistico di emanazione. Dovunque si trova un certo principio eterno da cui emanano una prima triade, e, dopo questa, tutto l’ universo, non per creazione, ma per emanazione sostanziale. Si è costretti di ammetterlo, tra la filosofia cabalistica e l’antico paganesimo, havvi una connessione intima che è difficile spiegare in un altra maniera che per l’ispirazione di uno stesso autore, cioè del nemico del genere umano, dello Spirito di menzogna.

VII. sATANA NEL PAGANESIMO.

Nel corso di questo lavoro noi faremo risaltare l’abilità con cui questo ispiratore delle antiche dottrine pagane è riuscito a separare, dapprima, l’idea delle tre divine persone, conosciute nell’antichità con più o meno precisione, dall’idea di loro sostanza comune e inseparabile, rappresentandole come emanate, in un tempo più o meno remoto, da quella essenza comune; e in seguito, a introdursi lui stesso nella Trinità, soppiantando, sia la prima, sia la terza Persona, a fine di ottenere, in una maniera o in un altra, da parte degli uomini, l’adorazione divina che cercò ardentemente, dicendo: « Io salirò al cielo, sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono; salirò sul monte del testamento al lato di settentrione, sormonterò l’altezza delle nuvole, sarò simile all’Altissimo (Isaia, XVI, 13). – È là che si trova la sorgente avvelenata degli errori e degli odi soprannaturali che riempiono il paganesimo antico e moderno, come l’anima dell’Ebreo della Cabala e dell’addetto della frammassoneria, di una rabbia indescrivibile contro Dio e contro tutti coloro che credono in Dio.

VIII. GLI EBREI NELL’ORDINE DECADUTO DEI TEMPLARI.

Usurpatore degli onori divini, presentandosi come una delle persone della Santissima Trinità, il Principe delle tenebre ha saputo nascondersi negli antichi misteri pagani, fondati sull’errore panteistico. Per essi egli mena l’uomo a disordini inauditi e ad una scelleratezza che non indietreggia davanti al terribile attentato di detronizzare la maestà divina. – Dagli antri pagani questo Spirito del male ha saputo penetrare, con la sua dottrina infame, nello spirito di una certa classe del popolo giudeo tenuto schiavo in Babilonia. Collegato con i suoi nuovi addetti, conosciuti per la tenacità straordinaria della loro razza, ha saputo sconvolgere il mondo, e lo sconvolge ancora. Se i farisei non esitarono a crocifiggere il Cristo, essi non esiteranno nemmeno a perseguitare i Cristiani la cui fede spirituale è in diretta opposizione con le loro speranze temporali. – Passiamo sotto silenzio i tempi dei Gnostici e delle grandi persecuzioni dei primi secoli, in cui gli Ebrei facevano una parte tanto importante quanto odiosa, e fermiamoci nel medio-evo. – I Templari furono corrotti in Palestina. Nelle loro riunioni secrete, essi rinunciavano a Cristo, e — la conseguenza — si abbandonavano al disordine. Noi non abbiamo più a provare qui ciò che i Deschamps, i Pachtler e tanti altri hanno perfettamente stabilito su prove irrefragabili. L’Ordine decaduto dei Templarii dapprima con le sue dottrine e sue pratiche, poi con gli avanzi dei suoi membri dispersi, ha servito di punto di partenza per ciò che chiamasi oggidì la frammassoneria. Il 30° grado, il grado di Cavaliere Templario, è, in unione con il 18° grado, il grado di Rosa Croce, l’essenza stessa della frammassoneria. Gli altri gradi non servono che a prepararli e a celarli agli occhi dei « profani » e dei fratelli inetti e indegni di confidenza.

IX. CONCATENAZIONE DEGLI ODII E DEI MISTERI DELLA FRAMMASSONERIA.

I punti indicati devono servirci d’introduzione a questo breve trattato, per mostrare di primo aspetto al lettore la concatenazione degli odii misteriosi concentrati nella frammassoneria per la continuazione e il compimento dell’opera dell’Anticristo: « perché  il mistero di iniquità già si opera (Tess. c. XI, 7) ». Se noi siamo riusciti a mettere il dito sul verme roditore dell’umanità, uomini più competenti di noi si affretteranno forse a seguirci e completeranno ciò che noi non possiamo che abbozzare. Completata, l’opera nostra diverrà, tutto insieme, un libro di storia universale, un trattato di teologia e di filosofia, e una esposizione della magia nera. – Cerchiamo, e troveremo nella storia, la frammassoneria; nella frammassoneria, l’Ordine decaduto dei Templarii; nell’insieme, la Sinagoga cabalistica; nella frammassoneria. Ordine, Sinagoga, gli antichi misteri pagani, e finalmente, nel tutto, satana medesimo. – L’angelo decaduto ha sedotto gli antichi popoli con le sue dottrine bugiarde ; il paganesimo ha sedotto il Giudeo ipocrita e ostinato, il Giudeo ha sedotto e corrotto l’Ordine religioso dei Templari, e inganna ancora oggigiorno la gran massa credenzona dei frammassoni. Avendo accaparrato i tesori e il potere civile di questo mondo, l’Ebreo fa una guerra accanita, senza pietà e senza tregua, alla Chiesa di Gesù Cristo e a tutti coloro che ricusano di piegare il ginocchio dinanzi a lui e al suo vitello d’oro. – Cingere la fronte dell’Ebreo del diadema reale e mettere sotto i suoi piedi il regno del mondo, ecco il vero scopo della frammassoneria. – Noi ci lusinghiamo nella speranza di ricondurre con questa opera qualche spirito traviato, ma non abbiamo alcuna speranza di persuadere la generazione perversa che si cela sotto le trentatré pieghe dei secreti massonici ed oltre; perché essa non potrebbe essere convinta dalla ragione; essa non ha mai ceduto che alla forza maggiore. Probabilmente essa sarà oppressa da un sollevamento dovuto all’esasperazione popolare, o forse dalla defezione e dal disgusto di quegli stessi ch’essa riuscì a soggiogare e a incatenarsi con giuramenti illeciti, creduti oggidì ancora onesti e validi. – Il potere attuale dei capi della frammassoneria pare essere alla sua fine; ma non finirà senza una tragedia inaudita. « Smascherare la frammassoneria, dice Leone XIII, è vincerla ». Messa a nudo, ogni spirito retto e ogni cuore onesto l’abbandonerà, e per ciò stesso essa cadrà annientata ed esecrata.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: SINGULARI QUIDEM, PIO IX

Questa lettera enciclica, “Singulari quidem” è rivolta all’Episcopato austriaco dell’epoca, ma è rivolta in realtà, come tutta la parola di Dio, trasmessa dal Magistero apostolico, a tutti noi, oggi e sempre. C’è l’invito a tutti noi, in primis i chierici responsabili, con giurisdizione e missione canonica in unione con il Santo Padre, Gregorio XVIII, di vigilare contro due pesti moderniste, oggi più che mai in voga nella nostra corrotta società massonizzata e sdoganate dagli aderenti alla antichiesa dell’uomo, la vera sinagoga di satana del novus ordo, affiliata alle logge del b’nai b’rith: l’indifferentismo religioso ed il razionalismo pseudo-scientifico, gemelli nati da uno gnostico parto distocico. Qui poi è da condividere con orrore il dolore di Papa Mastai, per l’infedeltà del clero e del popolo un tempo cristiano, oggi apostata gaudente, autoassoltosi con il miraggio luciferino della “misericordia” senza pentimento e senza penitenza. Poveri noi, dove siamo finiti per non aver osservato in tempo e fatte nostre le sollecitazioni dei Sommi Pontefici fino a Pio XII. Poveri noi, quando, baldanzosi, andremo dal Giudice divino a raccogliere i frutti che credevamo buoni, anche se prodotti dalla “melma” e dallo “sterco” modernista, e ci sentiremo respingere con le terribili parole nella eterna sentenza: “… andate via da me, voi tutti, operatori di iniquità!”. Cerchiamo, finché siamo in tempo, di raddrizzare il timone della barca che sta precipitando nel lago di fuoco della eterna dannazione, ripariamo, con la dottrina e con la penitenza, alle nostre opere delle tenebre, e ricordiamo, come è ben affermato pure in questo scritto di “vita eterna” che: “all’infuori della Chiesa Cattolica Romana [la Vera Chiesa di Cristo, da non confondere con il satanico “novus ordo” usurpante, né con i fiancheggiatori dei falsi “tradizionalisti”], non si trova né la vera fede né la salute eterna, in quanto non può avere Dio come Padre chi non ha la Chiesa come Madre e assurdamente confida di appartenere alla Chiesa colui che abbandona la Cattedra di Pietro sulla quale è fondata la Chiesa!” Viva Gesù-Cristo, viva la Chiesa Cattolica, viva il Santo Padre GREGORIO XVIII!

S. S. Pio IX
“Singulari quidem”

Abbiamo appreso con gioia particolare dell’animo Nostro, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, che – solleciti nell’assecondare con grande fervore i desideri espressi quasi contemporaneamente a ciascuno di Voi da Noi stessi e dal Nostro carissimo Figlio in Cristo, l’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe – per ispirazione della fede che vi distingue e del vostro zelo pastorale, avete deciso di riunirvi in codesta città imperiale e regia di Vienna per discutere e conferire tra di Voi, in modo che possano essere perfezionate tutte le cose che furono sancite da Noi con lo stesso carissimo in Cristo Figlio Nostro in quella Convenzione che lo stesso preclaro e religiosissimo Principe ha avuto cura di concludere con Noi con somma Nostra consolazione, ad immortale gloria del suo nome, restituendo alla Chiesa i suoi diritti usurpati, recando letizia a tutti gli uomini onesti. Quindi con Voi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, Ci congratuliamo vivamente per il lodevole zelo che mostrate verso la Chiesa convocando codesta assemblea, né possiamo astenerci in questa circostanza dal parlarvi con grande amore, dal mostrarvi i sentimenti intimi del Nostro cuore e farvi così comprendere quanto è grande l’affetto che nutriamo verso di Voi e verso tutti i popoli fedeli di codesto vastissimo Impero affidato alla vostra cura. – Anzitutto, per ciò che concerne l’esecuzione della convenzione predetta, sappiate bene che essa contiene molti articoli che Voi soprattutto dovrete applicare, perciò desideriamo vivamente che circa il modo di dar loro esecuzione, Voi vogliate seguire una stessa sicura via e lo stesso metodo, avendo cura tuttavia di prendere con prudenza e attenzione tutte le precauzioni che potranno richiedere le usanze delle diverse province aggregate al vastissimo Impero d’Austria. Se alcuni articoli danno adito a dubbi, se sorgono difficoltà (cosa che non crediamo), Vi saremo grati se Ce lo riferirete in modo che, confrontati i pareri tra Noi e sua Maestà Cesarea Apostolica, così come è stato previsto dall’articolo trentacinquesimo della stessa Convenzione, possiamo darvi le opportune delucidazioni. – Ora, l’ardente carità che Ci fa abbracciare in un unico sentimento d’amore tutto il gregge del Signore, divinamente affidatoci da Gesù Cristo medesimo, e il gravoso incarico del Nostro Ministero Apostolico per cui dobbiamo provvedere con ogni Nostra forza alla salvezza di tutte le nazioni e di tutti i popoli, Ci sospingono, Nostri Diletti Figli e Venerabili Fratelli, a sollecitare sempre più, con tutta l’energia di cui siamo capaci, la vostra insigne pietà e la vigile virtù episcopale perché continuiate ad adempiere con zelo sempre più ardente e con la più premurosa diligenza tutte le funzioni del vostro ufficio episcopale, senza risparmiare né affanni, né consigli, né fatiche per conservare intatto e inviolabile nelle vostre Diocesi il patrimonio della nostra santissima fede. Vegliate sulla incolumità del vostro gregge, preservatelo da tutte le frodi e le insidie dei nemici. Infatti Voi conoscete bene gli infami artifici, le numerose macchinazioni e le mostruose invenzioni di ogni genere di opinioni con cui astuti architetti di dogmi perversi tentano di deviare dal sentiero della verità e della giustizia e di trascinare nell’errore e nella perdizione gli improvvidi e soprattutto gli sprovveduti. E neppure ignorate, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, che tra i tanti e mai abbastanza deplorati mali che turbano e sconvolgono la società ecclesiastica e civile, ora ne emergono in particolare due, che si possono considerare a buon diritto come l’origine di tutti gli altri. A Voi infatti sono anzitutto noti gli innumerevoli e funestissimi danni che sulla società cristiana e civile si riversano dal fetido errore dell’indifferentismo. Da qui la grave negligenza in tutti i doveri verso Dio in cui viviamo, ci muoviamo e siamo; da qui trascurata la santissima Religione; da qui scosse e quasi sconvolte le fondamenta di ogni diritto, della giustizia e della virtù. Da questa ignobile forma d’indifferentismo non molto si scosta la teoria, eruttata dalle tenebre, dell’indifferenza delle religioni per cui uomini estranei alla verità, avversari del vero credo religioso e immemori della loro salute, docenti di principi contraddittori e sprovvisti di solido convincimento, non ammettono alcuna differenza tra le professioni di fede più divergenti, vivono in pace con tutti, e pretendono che a tutti, a qualunque religione appartengano, sia aperto l’ingresso alla vita eterna. Infatti nulla importa loro, sebbene di diverse tendenze, pur di cospirare alla rovina dell’unica verità . – Voi vedete, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, di quale vigilanza occorre dar prova per impedire che il contagio di una peste tanto funesta infetti e distrugga miseramente le vostre pecore. Pertanto non rinunciate a premunire con zelo da questi esiziali errori i popoli a Voi affidati; a istruirli ogni giorno più intimamente nella dottrina della verità cattolica; a insegnare loro che, come vi è un solo Dio Padre, un solo Cristo Figlio di Lui, un solo Spirito Santo, così vi è una sola verità divinamente rivelata, una sola fede divina, principio d’umana salvezza, fondamento di ogni normativa per la quale il giusto vive, e senza la quale è impossibile piacere a Dio e pervenire alla comunione dei suoi figli (cf. Rm I,16-17; Eb XI,5); ; non vi è che una vera, santa, cattolica, Apostolica, Romana Chiesa e una sola Cattedra fondata dalla voce del Signore su Pietro, e all’infuori di essa non si trova né la vera fede né la salute eterna, in quanto non può avere Dio come Padre chi non ha la Chiesa come madre e assurdamente confida di appartenere alla Chiesa colui che abbandona la Cattedra di Pietro sulla quale è fondata la Chiesa. Infatti non vi può essere maggior delitto e nessuna macchia più ripugnante che essersi posto contro Cristo; aver operato per la distruzione della Chiesa, generata e assicurata dal Suo sangue divino; aver lottato con il furore di ostile discordia contro l’unanime e concorde popolo di Dio, avendo dimenticato l’amore evangelico. Invero, il culto divino si compone di questi due elementi: di pie dottrine e di buone azioni; né la dottrina senza opere buone è gradita a Dio, né Dio accoglie le opere distinte dai dogmi religiosi; non nella sola pratica delle virtù o nella sola osservanza dei precetti, ma anche nel cammino della fede si trova l’angusta e ardua via che conduce alla vita . Quindi non desistete di ammonire e incitare continuamente i vostri popoli fedeli, in modo che non solo persistano irremovibili, ogni giorno di più, nella professione della Religione Cattolica, ma si adoperino anche di rendere salda la loro vocazione e la loro scelta attraverso le buone opere. Mentre poi Vi impegnate ad assicurare la salvezza del vostro gregge, non trascurate di richiamare con tanta bontà, tanta pazienza, tanta dottrina, i poveri erranti all’unico ovile di Cristo e di ricondurli all’unità cattolica soprattutto con queste parole di Agostino: “Venite, Fratelli, se volete essere innestati sulla vite. È doloroso vedervi giacere in terra così recisi; contate soltanto sui sacerdoti provenienti dalla Sede di Pietro e considerate come su quel soglio dei nostri padri l’uno successe all’altro; quella è la pietra che non può esser vinta dalle superbe porte degl’inferi . Chiunque mangerà l’agnello fuori di questa casa, è un empio; se qualcuno non sarà nell’arca di Noè, perirà nel momento del diluvio.- Invero un’altra malattia non meno perniciosa ora infierisce, e ad essa, dalla tracotanza e da un certo orgoglio della ragione, è stato dato il nome di razionalismo. La Chiesa non disapprova certamente gli sforzi di coloro che perseguono la verità poiché Dio stesso attribuì all’uomo una ardente inclinazione alla conquista del vero, né biasima un retto e sano metodo di studi che coltivino la mente, investighino la natura, e portino in piena luce ogni suo più riposto arcano. La Chiesa, madre piissima, sa e ritiene con certezza che fra i doni celesti è soprattutto ragguardevole quello che consiste nella ragione per la quale, innalzandoci al di sopra di ciò che è soggetto ai nostri sensi, rechiamo in noi stessi una certa luminosa immagine di Dio. Essa ben sa che bisogna cercare fin quando troverai, e credere in ciò che hai trovato, in modo che tu ti persuada che non vi è nulla in cui credere, nulla da ricercare, una volta che tu abbia trovato e creduto in ciò che Cristo ha istituito, poiché Cristo ti ordina di cercare soltanto ciò che ha stabilito. – Che cosa dunque la Chiesa non tollera, non permette; che cosa essa biasima e condanna senza remissione, in linea con lo stretto dovere di tutelare il deposito divino? La Chiesa respinge con veemenza, sempre condannò e condanna il comportamento di coloro che, abusando della ragione, non arrossiscono né temono di opporla e di anteporla, con empia stoltezza, all’autorità della parola di Dio e mentre con arroganza si esaltano, accecati dalla propria superba presunzione, perdono il lume della verità, disprezzano con supremo orgoglio la fede in cui sta scritto che chi non crede sarà condannato (Mc 16,16) e confidando in sé stessi , negano di dover credere allo stesso Dio e di dover rispettare ciò ch’Egli di sé offerse alla nostra intelligenza. È a costoro che la Chiesa, con fermezza, obietta che è giusto , avendo cognizione del divino, credere in Dio stesso, a cui appartiene tutto quanto di Lui crediamo, poiché, come è logico, Dio non poteva essere conosciuto dall’uomo se Dio non lo avesse dotato della salvifica cognizione di sé. Sono costoro che la Chiesa cerca di richiamare alla sanità della mente con queste parole: che cosa vi è di più contrario alla ragione che cercare di elevarsi con la ragione al di sopra della ragione? E che cosa vi è di più contrario alla fede che rifiutare di credere in ciò che la ragione non può disvelare? La Chiesa non desiste dall’insegnare ad essi che la fede non è fondata sulla ragione, ma sull’autorità; infatti non conveniva che Dio, parlando all’uomo, confermasse le sue parole con argomenti, come se non avesse fede in lui, ma, come era logico, Dio ha parlato come supremo arbitro di tutte le cose: a Lui non si addice l’argomentare ma l’affermare. Ad essi esplicitamente dichiara che la sola speranza dell’uomo e la sua sola salvezza sono poste nella fede cristiana (che, insegnando la verità, e con la divina sua luce dissipando le tenebre dell’umana ignoranza, opera per amore) e nella Chiesa Cattolica, depositaria del vero culto, stabile dimora della stessa fede e tempio di Dio, fuori del quale, fatta salva la scusa di una invincibile ignoranza, chiunque resta escluso dalla speranza di vita e di salvezza. – Essa li ammonisce severamente e insegna che la scienza umana, se talora affronta i sacri testi, non deve avocare a sé, con arroganza, il diritto d’interpretarli ma, come un’ancella alla padrona, servirli con devoto ossequio, in modo che non erri spingendosi innanzi e, nel seguire i significati superficiali delle parole, non perda il lume della virtù e il retto sentiero della verità . Né si deve pensare che nella Chiesa di Cristo la Religione non abbia fatto alcun progresso; infatti ha progredito assai, purché il vero progresso stia nella fede e non nell’alterarla. Occorre dunque che crescano e progrediscano sensibilmente, nel corso delle età e dei secoli, l’intelligenza, la scienza, la saggezza sia dei singoli che di tutti, dell’uomo singolo e di tutta la Chiesa, in modo che sia compreso chiaramente ciò che prima era creduto oscuramente; in modo che la posterità si compiaccia di capire ciò che gli antichi veneravano senza averne conoscenza; in modo che siano estratte le preziose gemme della divina dottrina, che siano incastonate e adornate con perizia, splendano di luce, di grazia e di bellezza senza tradire tuttavia il dogma, il senso, il pensiero, in modo che siano esposte in modo nuovo ma senza introdurre novità alcuna.- Noi crediamo, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, che nessuno tra Voi si meravigli se, in ragione del Nostro primato e della Nostra autorità in materia di fede, abbiamo insistito su questi esiziali e funesti errori che riguardano la religione e la società, e se abbiamo deliberato di sollecitare la vostra straordinaria vigilanza al fine di sconfiggerli. Poiché il nemico non desiste dal seminare zizzania in mezzo al grano e poiché Noi, per disposto della Divina Provvidenza, presiediamo alla coltivazione del campo del Signore, e come servi fedeli e prudenti siamo stati posti a capo della famiglia del Signore , dobbiamo adempiere quei doveri inseparabili dal Nostro ufficio Apostolico. – Ora Noi chiediamo alla vostra pietà e alla vostra saggezza che in codesto congresso possiate raggiungere tra di Voi quelle provvide e sapienti decisioni che avrete giudicato atte a promuovere la maggior gloria di Dio nelle regioni di codesto vastissimo Impero e l’eterna salute degli uomini. È pur vero che Noi ci allietiamo ardentemente nel Signore quando sappiamo che vi sono molti ecclesiastici, molti laici che, egregiamente animati dallo spirito della fede e della carità cristiana, diffondono il soave profumo di Cristo; tuttavia siamo afflitti da non lieve pena quando veniamo a sapere che in certi luoghi alcuni sacerdoti, dimentichi della dignità del loro magistero, non procedono affatto conformemente a quella vocazione cui sono stati chiamati, e che il popolo cristiano, poco istruito nei santissimi precetti della nostra divina religione ed esposto ai più gravi pericoli, si astiene per sua disgrazia dalle opere di pietà e dalla frequentazione dei Sacramenti e deflette dalla onestà dei costumi, dalle regole di vita cristiana e corre verso la perdizione. Siamo intimamente persuasi che Voi, con la vostra ammirevole premura episcopale, consacrerete ogni cura e pensiero per eliminare del tutto i mali che abbiamo ricordato. E poiché Voi sapete benissimo, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, quanto potere abbiano i Concili Provinciali (sapientemente prescritti dalle regole canoniche e sempre frequentati dai santi Prelati per il supremo bene della Chiesa) al fine di restaurare la disciplina dell’Ordine ecclesiastico, di correggere i costumi dei popoli e di stornare i mali che ne derivano, desideriamo ardentemente che Voi celebriate i Sinodi Provinciali secondo le regole dei sacri canoni, in modo da applicare opportuni ed efficaci rimedi ai mali comuni di ogni provincia ecclesiastica di codesto Impero. E siccome Voi dovrete trattare in codesti Sinodi Provinciali questioni numerose e gravi, facciamo voto che grazie alla Vostra saggezza, in codesta assemblea Viennese, con animi concordi adottiate quelle risoluzioni in cui possiate raggiungere l’unanimità, sia soprattutto sulle questioni principali che nei Sinodi Provinciali dovrete trattare e decidere, sia su quelle che vorrete affrontare con lo stesso impegno unitario, affinché in tutte le province di codesto Impero la divina nostra religione e la sua dottrina salvifica ogni giorno di più si affermino, fioriscano, prevalgano e i popoli fedeli, allontanandosi dal male e operando il bene, procedano come figli della luce nella bontà, nella giustizia e nella verità. – Di tutti i mezzi che possono efficacemente condurre gli altri alla virtù, alla pietà e all’amore di Dio, nessuno è più valido della vita e dell’esempio di coloro che si dedicarono al divino ministero; perciò non tralasciate di adottare tra Voi, con tutto il vostro zelo, quei provvedimenti che restaurino la disciplina del Clero, ove si sia rilassata, e che la promuovano con cura dove sarà necessario. Di conseguenza, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, messi in comune e congiunti i vostri pareri e i vostri impegni, fate in modo, con tutto il vostro zelo, che gli ecclesiastici, sempre memori della dignità del loro ufficio, evitino tutto ciò che è vietato al Clero e che non gli si addice; ornati di tutte le più fulgide virtù, siano di esempio ai fedeli nelle parole, nei rapporti sociali, nella carità, nella fede, nella castità; recitino le ore canoniche quotidiane con l’attenzione che si conviene e con sentimento di devozione; si esercitino nella santa preghiera e insistano nella meditazione sui beni celesti; amino il decoro della casa del Signore; adempiano alle sante funzioni e alle cerimonie secondo il Pontificale e il Rituale Romano e svolgano con impegno, con sapienza e con santità l’incarico del proprio ministero; non interrompano mai lo studio delle sacre discipline e operino assiduamente per l’eterna salvezza degli uomini. – Con uguale cura provvedete che tutti i Metropolitani, i Canonici della Cattedrale e della Chiesa collegiale e gli altri Beneficiari addetti al coro, per severità di costumi, per integrità di vita e per pratica di pietà cerchino di splendere ovunque, come ardenti lucerne di un candelabro posto nel tempio del Signore, e adempiano con zelo a tutti i doveri del loro ministero, osservino l’obbligo di residenza, curino la magnificenza del culto divino, innalzino nelle veglie assidue le divine lodi del Signore con zelo, secondo il rito, con religiosa devozione e non, invece, con animo distratto, con occhi vaganti, con indecoroso atteggiamento della persona; non dimentichino mai che accedono al coro non solo per tributare a Dio un rito di adorazione, ma anche per invocare da Dio ogni bene per sé e per gli altri. Ognuno di Voi sa perfettamente quanto servano a proteggere e ad alimentare lo spirito ecclesiastico, e a preservare una salutare coerenza, gli esercizi spirituali che i Pontefici Romani Nostri Predecessori hanno arricchito di innumerevoli indulgenze. Perciò non cessate di raccomandare e di convincere tutti i vostri ecclesiastici a ritirarsi spesso in qualche luogo opportuno, in certi giorni determinati, dove – deposta ogni mondana cura – riflettano severamente su ogni loro azione, parola, pensiero al cospetto di Dio, abbiano in mente con assidua meditazione gli anni eterni, ricordino i sommi benefici ottenuti da Dio; cerchino di detergere la lordura tratta dalla polvere mondana, di risuscitare la grazia che su di essi è scesa per l’imposizione delle mani; si spoglino del vecchio uomo e delle sue azioni e si vestano del nuovo che è stato creato nella giustizia e nella santità. – Poiché le labbra dei sacerdoti debbono custodire il sapere che li mette in grado di rispondere a coloro che dalla loro bocca vogliono conoscere la legge, e di confutare i contraddittori, ne consegue, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, la necessità di rivolgere ogni vostra cura alla retta e accurata formazione del Clero. Con sommo impegno compite dunque ogni sforzo affinché, soprattutto nei vostri Seminari, s’imponga un ottimo e cattolico ordine di studi per cui i Chierici adolescenti, o fin dalla prima fanciullezza, siano plasmati alla pietà, ad ogni virtù e allo spirito ecclesiastico da apprezzati maestri, e siano educati alla conoscenza della lingua latina, alle lettere umane e alle discipline filosofiche, sottratte tuttavia ad ogni pericolo di errore. In primo luogo vigilate assiduamente affinché apprendano la teologia dogmatica e morale dai libri divini, dalla tradizione dei santi Padri, dall’infallibile autorità della Chiesa, e contemporaneamente acquisiscano una solida preparazione sulla letteratura sacra, sui sacri canoni, sulla storia della Chiesa, sulla liturgia. Dovete soprattutto evitare che nella scelta dei libri, in mezzo a tanta alluvione di perniciosi errori, gli adolescenti seminaristi abbandonino temerariamente la retta via della sana dottrina; in particolare Voi sapete che uomini dotti, ma in disaccordo con Noi in materia di religione e staccati dalla Chiesa, hanno pubblicato sia i libri divini che le opere dei santi Padri in traduzione elegante, ma spesso (e ce ne duole assai) viziata e distorta dalla verità nei commenti arbitrari. Nessuno di Voi ignora quanto la Chiesa abbia bisogno, soprattutto in questi tempi, di ministri capaci, prestigiosi per santità di vita e per fama di salutare dottrina, influenti negli atti e nei discorsi, che siano in grado di difendere strenuamente la causa di Dio e della sua Santa Chiesa, e di edificare una casa fedele al Signore. Nulla dunque si può lasciare d’intentato nell’educare alla santità e alla dottrina i giovani Chierici fin dalla tenera età, dato che non pochi di essi, debitamente istruiti, possono diventare utili ministri della Chiesa. Ora, allo scopo di giungere più facilmente e ogni giorno di più (grazie alla vostra insigne religiosità e alla vostra sollecitudine pastorale) ad un’accurata educazione del Clero, da cui in tanta parte dipendono il bene della Chiesa e la salute dei popoli, non Vi dispiaccia esortare, pregare gli insigni ecclesiastici delle vostre Diocesi, i laici più dotati di ricchezze e ben disposti verso il Cattolicesimo, di seguire il vostro esempio e di offrire di buon cuore una qualche somma di danaro perché possiate costruire nuovi seminari e fornire una congrua dote con la quale educare i Chierici adolescenti o fin dalla prima età. – Né con minore impegno, Diletti Figli e Venerabili Fratelli, cercate di adottare tutte le misure atte ad educare in senso cattolico, ogni giorno di più, la gioventù delle vostre Diocesi, di entrambi i sessi e di qualunque condizione. Perciò tendete l’arco della vostra vigilanza episcopale, così che la gioventù, anzitutto penetrata a fondo dal timore di Dio e nutrita del latte della pietà, sia educata non solo negli articoli di fede, ma anche nella più completa conoscenza della nostra santissima Religione; si conformi alla virtù, all’onestà dei costumi e al concetto di vita cristiana; sia infine tenuta lontano da tutte le seduzioni e dagli scogli della perversione e della corruzione. Con uguale sollecitudine, non desistete mai dal sospingere – nei modi più opportuni – i popoli fedeli a Voi affidati verso la religione e la pietà. Pertanto fate del vostro meglio per ottenere che i popoli fedeli, ogni giorno di più nutriti di salutare e verace dottrina cattolica, amino Dio con tutto il cuore, osservino anzitutto i suoi precetti, frequentino spesso e devotamente il suo Santuario, santifichino le sue feste, assistano con il rispetto e la pietà dovuta alla celebrazione del divino sacrificio, si accostino ai Sacramenti della Penitenza e della Eucarestia, e con particolare devozione seguano e adorino la Santissima Madre di Dio Immacolata Vergine Maria e, perseverando nella preghiera e in uno spirito di reciproca e costante carità, procedano degnamente in Dio, piacendo a Lui sotto ogni aspetto e fruttificando in ogni opera buona. E poiché le sacre Missioni officiate da persone capaci sono quanto mai idonee a risvegliare lo spirito religioso nei popoli e a richiamarli sul sentiero della virtù e della salvezza, vivamente desideriamo che esse siano organizzate spesso nelle vostre Diocesi. E concediamo meritate e somme lodi a tutti coloro che per vostro ordine hanno già introdotto nelle loro Diocesi questa opera, tanto salutare, delle sacre Missioni, dalle quali siamo lieti che siano stati raccolti copiosi frutti, sotto l’influsso della grazia divina. – Occorre che in codesto vostro convegno abbiate davanti agli occhi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, l’impegno comune di risanare i mali comuni. Infatti per riparare i guasti più gravi subiti da ogni vostra Diocesi e per promuovere la loro prosperità, Voi ben capite che non vi è nulla di più efficace delle frequenti visite nelle Diocesi e della celebrazione del Sinodo Diocesano. Nessuno di Voi ignora che il Concilio di Trento ha raccomandato e prescritto queste due pratiche pie. Perciò, data la vostra ammirevole sollecitudine e carità verso il gregge a Voi affidato, non abbiate nulla di più caro che visitare le vostre Diocesi con il più grande zelo, in conformità alle leggi canoniche, e compiere con cura tutto ciò che può conseguire l’esito fruttuoso della visita pastorale. Nell’adempiere tale dovere Vi stia soprattutto a cuore svellere dalle radici, con somma cura e specialmente con paterni consigli, con discorsi convincenti e con altri idonei mezzi, gli errori, la corruzione e i vizi che si annidano nel gregge; porgere a tutti gli insegnamenti della salvezza; vigilare che la disciplina del clero sia conservata integra; aiutare e fortificare i fedeli con tutti i soccorsi spirituali e guadagnarli a Cristo. Dedicate la stessa diligenza nel celebrare i Sinodi Diocesani, fissando quelle regole che nella vostra saggezza riterrete più adatte a conseguire il bene maggiore di ciascuna vostra Diocesi. Perché non accada che tra i sacerdoti (che devono applicarsi allo studio e all’insegnamento e che sono gravati dall’incarico d’istruire il popolo in ciò che tutti debbono sapere per la propria salvezza e di somministrare i Sacramenti) si estinguano o languiscano lo zelo e lo studio delle sacre discipline, è per Noi sommamente desiderabile che, dove è possibile, Voi promuoviate con le opportune regole i congressi in tutte le regioni delle vostre Diocesi, per trattare soprattutto di Teologia morale e dei sacri Riti, con l’auspicata partecipazione di tutti i preti che al congresso dovranno presentare una risposta scritta alle domande da Voi poste e, nel tempo che Voi vorrete determinare, dovranno discutere soprattutto di Teologia morale e sulle regole liturgiche, dopo che uno dei preti avrà pronunciato un discorso sui doveri sacerdotali. E, invero, i Parroci prima di tutti Vi presteranno aiuto e soccorso nella cura del vostro gregge in quanto Voi li avete messi al corrente della vostra sollecitudine e li avrete collaboratori nell’affrontare un’attività tra tutte le più degna; non tralasciate dunque, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, d’infiammare con ogni impegno il loro zelo perché adempiano al loro dovere con diligenza pari alla devozione. Dite loro che non cessino mai di pascere il popolo cristiano loro affidato con la predicazione del verbo divino, con la somministrazione dei Sacramenti e della multiforme grazia di Dio; di istruire con amore e pazienza gli ignoranti e soprattutto i fanciulli nei misteri della fede e nelle testimonianze della nostra religione; di ricondurre gli erranti sul cammino della salvezza; di impegnarsi con ogni sforzo a sradicare odi, rivalità, inimicizie, discordie e scandali; di incoraggiare i pusillanimi; di visitare gli infermi, procurando ad essi soprattutto ogni spirituale soccorso; di consolare i miseri, gli afflitti e i tribolati; di incitare tutti a una sana dottrina; di ammonirli a rendere devotamente a Dio ciò che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare; di insegnare che tutti, non solo per il timore del castigo ma per coscienza, devono essere sudditi e obbedire ai Principi e alle autorità in tutto ciò che non è contrario alle leggi di Dio e della Chiesa. – Inoltre continuate, come fate sempre, con somma lode del vostro nome, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, ad inviare alla Nostra Congregazione del Concilio la relazione sulle vostre Diocesi nei tempi stabiliti, e a tenerci al corrente, con zelo, delle questioni che riguardano le stesse Diocesi, in modo che sia possibile da parte Nostra procurare il maggior vantaggio vostro e delle stesse Diocesi. Siamo poi informati che in talune Diocesi del territorio germanico sono invalse alcune consuetudini, circa la sistemazione delle parrocchie e che alcuni di Voi desiderano che tali consuetudini siano conservate. Noi invero siamo disposti a usare indulgenza al riguardo, ma soltanto dopo aver sottoposto a un attento esame le stesse consuetudini esposte da ciascuno di Voi con particolare diligenza, in modo che da Noi siano autorizzate entro quei limiti che la necessità e le principali caratteristiche delle province avranno suggerito; infatti, per obbligo del Nostro Apostolico ministero dobbiamo fare osservare scrupolosamente le prescrizioni canoniche. – Prima di concludere questa Nostra Lettera, con cui siamo assai lieti di intrattenere Voi tutti, Prelati dell’Impero Austriaco, rivolgiamo il nostro discorso soprattutto a Voi, Venerabili Fratelli Arcivescovi e Vescovi che dimorate nello stesso nobilissimo Impero e siete solidali con Noi nella vera fede e nella unità cattolica, e aderite a questa Cattedra di Pietro e praticate i riti e le lodevoli consuetudini della Chiesa Orientale, approvate e consentite da questa Santa Sede. Voi avete appreso, voi sapete in quale pregio questa Apostolica Sede abbia sempre tenuto i vostri riti: ne ha inculcato assiduamente il rispetto, come dimostrano splendidamente i decreti e le Costituzioni di tanti Romani Pontefici Nostri Predecessori; fra queste è sufficiente ricordare la Lettera di Benedetto XIV, Predecessore Nostro, del 26 luglio 1755, che comincia con “Allatae” e la Nostra Lettera del 6 gennaio 1848, inviata a tutti gli Orientali, che comincia con “In suprema Petri Apostoli Sede“. Pertanto esortiamo cordialmente anche Voi affinché adempiate al vostro ministero secondo la vostra segnalata religiosità e sollecitudine episcopale; abbiate davanti agli occhi tutte le questioni che abbiamo trattato; dedichiate ogni vostra cura, attività e vigilanza in modo che il vostro Clero, ornato di ogni virtù e specialmente di ottime, sacre discipline, si applichi con tutte le forze a procurare l’eterna salute dei fedeli; in modo che i popoli fedeli seguano la strada che conduce alla vita, che ogni giorno di più si accresca e si estenda l’unità della Religione Cattolica, e che siano amministrati i Sacramenti e celebrate le funzioni divine secondo le vostre regole, tuttavia adottando i libri liturgici che furono approvati dalla Santa Sede. E poiché non vi è nulla per Noi di più desiderabile che venire in aiuto vostro e dei vostri fedeli indigenti, non trascurate di ricorrere a Noi, e a Noi esporre i problemi delle vostre Diocesi e di inviarne relazione ogni quattro anni alla Nostra Congregazione di Propaganda Fide. – Infine, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, Vi supplichiamo di impegnarvi, col massimo zelo e ogni giorno di più, a conservare, favorire e accrescere la pace e la concordia tra tutto il Clero di tutte codeste Diocesi, sia di rito latino, sia di rito greco-cattolico, così che tutti coloro che militano negli accampamenti del Signore, per mutuo sentimento di fraterna carità, si adoperino nel vicendevole rispetto e con unanime ardore siano al servizio della gloria di Dio e della salvezza delle anime. – Ecco a Voi quanto, nel Nostro grande amore per Voi e per i popoli fedeli di codesto vastissimo Impero, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, Noi giudicammo fosse doveroso annunciarvi; abbiamo per certo che Voi, ispirati dalla vostra eminente virtù, dalla religione, dalla pietà, dalla provata fede e dall’ossequio verso di Noi e verso questa Cattedra di Pietro, rispetterete con trasporto questi Nostri paterni desideri. E non dubitiamo affatto che Voi tutti, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, contemplando sempre Cristo Gesù, Principe dei pastori, che si è mostrato umile e mite di cuore e che ha donato la sua anima per le sue pecore, lasciando a noi un esempio che ci invita a seguire le Sue vestigia, vi sforzerete con ogni energia di prenderlo a modello, di obbedire ai Suoi insegnamenti, di vegliare assiduamente sul gregge affidato alle vostre cure, di occuparvi di ogni cosa, di adempiere al vostro ministero, e di cercare non ciò che piace a Voi ma ciò che piace a Gesù Cristo; non vi mostrerete come dominatori tra il Clero, ma come Pastori, anzi come Padri amorosi e, fatti nell’animo a immagine del gregge, non troverete nulla di così penoso, di così difficile, di così arduo che Voi non possiate affrontare e risolvere con pazienza, con mansuetudine, con dolcezza, con prudenza, per la salvezza delle vostre pecore. Noi intanto, in umiltà di cuore, non omettiamo di elevare assidue fervide preghiere al clementissimo Padre di luce e di misericordia, al Dio di ogni consolazione, affinché effonda sempre propizio i copiosi doni della Sua bontà su di Voi e anche sulle dilette pecore a Voi affidate. Come auspicio di questo divino soccorso e come testimonianza della Nostra affettuosa e zelante disposizione d’animo verso di Voi, Noi impartiamo con amore l’Apostolica Benedizione, che viene dal profondo del cuore, a ciascuno di Voi, Diletti Figli Nostri e Venerabili Fratelli, e a tutti i Chierici e ai fedeli Laici di codeste Chiese.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 17 marzo 1856, nel decimo anno del Nostro Pontificato.

[Grassetto e colore, sono redazionali]