UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I LUPI ERETICI DI TORNO: CARITATIS STUDIUM di S. S. LEONE XIII

Questa lettera enciclica, benché diretta alla Chiesa di Scozia, contiene numerosi spunti dottrinali. Viene ancora e sempre ribadito il primato assoluto di Pietro e della sua Sede, su tutte le chiese dell’orbe, e l’assoluta preminenza dottrinale del Magistero pontificio. E l’insegnamento è ancor più attuale ai nostri giorni, in cui una falsa e blasfema setta ha usurpato la Sede del Sommo Pontefice spacciandosi, angelo di luce mascherato, per Chiesa di Cristo, e tutti si sentono in dovere ed in diritto di esprimere qualsiasi idiozia teologica senza fondamento dottrinale ed “… Infatti, in questo vorticoso cammino delle idee, ci sono parecchi uomini che dalla brama di disquisire su ogni cosa con arroganza e dal disprezzo dell’antichità sono sviati a tal punto da non dubitare di negare ogni fede al sacro volume, o almeno di sminuirla. Di certo gli uomini gonfi per presunzione di scienza e troppo fiduciosi del proprio giudizio, non capiscono come sia pieno di impudente temerità il valutare in modo del tutto umano le opere che sono di Dio; e per questo non ascoltano affatto Agostino che proclama: “Onora la Scrittura di Dio, onora la Parola di Dio anche se è oscura, metti in secondo piano, con la pietà, l’intelligenza”. Ovviamente si precisa che l’unico criterio di giudizio degno di fede, è il Magistero della Chiesa Cattolica, unica bussola certa, sicura e divinamente infallibile per orientarsi nel mare di congerie intellettualoidi psico-distorte in auge presso scriteriati e improbabili “teologi fai da te”, che fanno capo a sette eretiche e scismatiche, come il Novus ordo Vat. II, le (para)massoniche Fraternità pseudo-sacerdotali, le organizzazioni scismatiche di surreali monasteri o chiesetta da operetta (tipo palmariana), o come i sedevacantisti feeneysti, i sedevacantisti apocalittici, i tesisti antiteologici e chi più ne ha più … La dottrina vera distingue il Cattolico dai lupi infiltrati nel gregge, quindi seguiamo il consiglio di salvezza del Sommo Pontefice, e tutto ciò che non è conforme alla dottrina divina della Chiesa Cattolica, sia da rigettare … anathema sit!!

Leone XIII

Caritatis studium

Lettera Enciclica

25 luglio 1898

Il magistero della Chiesa in Scozia.

Lo zelo di carità che Ci rende solleciti per la salvezza dei fratelli dissidenti, non permette in alcun modo che Noi rinunciamo alla possibilità di richiamare all’abbraccio del Pastore buono coloro che un multiforme errore tiene lontani dall’unico ovile di Cristo. Sempre più fortemente ogni giorno ci rattristiamo per la misera sorte di un così grande numero di uomini che sono privi della integrità della fede cristiana. Pertanto, consapevoli della Nostra santissima funzione e come spinti dalla persuasione e dall’impulso interiore del Salvatore che tanto ama gli uomini, e la cui persona, senza alcun Nostro merito, rappresentiamo, persistiamo pieni di speranza nel chiedere con insistenza che vogliano finalmente anche loro rinnovare con noi la comunione dell’unica e medesima Fede. Opera grande, e fra le opere umane di gran lunga la più difficile da ottenersi: e il portarla a compimento appartiene soltanto a colui che può tutto. Dio. Per questo stesso motivo però, non ci perdiamo d’animo, e neppure siamo distolti dal proposito dalla grandezza delle difficoltà, che le forze umane da sole non possono vincere. “Noi infatti predichiamo Cristo crocifisso. … E ciò che è debolezza di Dio, è più forte degli uomini” (1Cor 1, 23-25). In tanto grande sviamento di opinioni, in mali tanto numerosi che incalzano e incombono, ci sforziamo di mostrare quasi con mano dove sia da ricercare la salvezza, esortando e ammonendo tutte le genti, affinchè alzino “gli occhi verso i monti, da dove verrà l’aiuto”. Infatti, ciò che Isaia aveva predetto come futuro, lo ha confermato l’evento: la chiesa di Dio appunto, che per l’origine divina e per il divino splendore così si segnala, da mostrarsi grandemente mirabile agli occhi di coloro che guardano: “Alla fine dei giorni, il monte della casa del Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei colli” (Is II,2).  – In questi Nostri pensieri e progetti, tiene un posto speciale la Scozia, che, gradita lungamente e assai a questa Sede Apostolica, Noi stessi abbiamo cara proprio per uno specifico motivo. Ricordiamo infatti con piacere che vent’anni or sono abbiamo dedicato le primizie del ministero apostolico agli scozzesi: il secondo giorno dall’inizio del Pontificato, ci siamo occupati della restaurazione presso di loro della gerarchia ecclesiastica. Da quel tempo, con l’appoggio vostro, venerabili fratelli, e con quello del vostro clero, sempre ci siamo dedicati molto chiaramente al bene di questa gente, la cui indole li rende senza dubbio molto adatti alla verità da abbracciare. Ora poi, dato che Ci troviamo in quell’età in cui è ormai più vicina l’umana conclusione, Ci è sembrato opportuno rivolgerci a voi, venerabili fratelli, e offrire al vostro popolo un nuovo documento della attenzione apostolica. – Quella terribile turbinosa tempesta che nel secolo sedicesimo ha fatto irruzione nella Chiesa, come moltissimi altri in Europa, così allontanò la maggior parte degli scozzesi dalla Fede Cattolica, che per più di mille anni avevano conservato con gloria. È cosa a Noi gradita richiamare con il pensiero le non piccole benemerenze dei vostri antenati verso la causa cattolica, e ugualmente Ci piace ricordare coloro, certamente non pochi, per la cui virtù e le cui gesta si è reso famoso il nome della Scozia. Forse oggi però i vostri cittadini si rifiutano di ricordare a loro volta che cosa debbono alla chiesa cattolica e alla sede apostolica. Ricordiamo cose a voi note e assolutamente certe. – Nei vostri antichi annali si legge di un certo Niniano, scozzese, che, avendo sentito con più ardore mentre leggeva le sacre Scritture lo slancio del progresso spirituale, ebbe a dire: “Mi alzerò, attraverserò i mari e le terre, cercherò la verità che la mia anima ama. Ma occorrono davvero tanto grandi cose? Non è stato forse detto a Pietro: “Tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”? Dunque nella fede di Pietro non c’è nulla di meno, nulla di oscuro, nulla di imperfetto, nulla di ostile per cui le dottrine depravate e le sentenze perverse, quasi porte dell’inferno, siano in grado di prevalere. E dove è la fede di Pietro, se non nella sede di Pietro? Di certo là, è là che io debbo andare, affinché uscendo dalla mia terra e dalla mia parentela, e dalla casa di mio padre, meriti di vedere nella terra di visione la volontà del Signore e di essere protetto dal suo tempio”. Si affrettò dunque pieno di riverenza verso Roma; e avendo con larghezza appreso presso i sepolcri degli Apostoli dallo stesso fonte e capo della cattolica verità, su ordine e mandato del Sommo Pontefice, ritornato a casa, educò i cittadini con gli esempi della fede romana, fondò la chiesa di Galloway, due secoli prima che il beato Agostino giungesse presso gli inglesi. Questa fede san Colomba, questa stessa gli antichi monaci, con le virtù così preclare dei quali è nobilitata la sede di Iona, questa essi custodirono con il massimo ossequio e insegnarono ad altri con la più grande diligenza. E perché non ricordare la regina Margherita, luce e splendore non soltanto della Scozia, ma del nome Cristiano in genere? Posta al vertice di cose mortali, avendo tuttavia aspirato in tutta la sua vita soltanto a ciò che è immortale e divino, riempì tutta la terra con lo splendore delle sue virtù. Ora poi, se ha raggiunto una santità così eccelsa, l’ha raggiunta per ispirazione e su impulso della Fede Cattolica. Non è poi forse la fermezza della Fede Cattolica che ha reso fortissimi difensori della patria Wallace e Bruce, luminari della vostra gente? Tralasciamo gli altri innumerevoli cittadini grandemente utili alla società, che la chiesa madre non ha mai cessato di formare. Tralasciamo tutti gli altri aiuti che sono stati a voi dati pubblicamente per mezzo di essa. Certamente con la sua provvidenza e autorità sono state aperte le sedi famosissime per gli ottimi studi di St. Andrews, Glasgow, Aberdeen, ed è stato costituito lo stesso sistema di amministrazione dei giudizi civili. Si capisce quindi che c’è un motivo sufficiente per cui il nome di “figlia speciale della Santa Sede” sia stato attribuito alla gente di Scozia.  – Da quel tempo però si è compiuto un grande rivolgimento e si è estinta in moltissime persone la fede degli avi. Dovremo forse pensare che non si potrà mai più rinnovare? Anzi, si manifestano invece alcuni segni inequivocabili che invitano a nutrire buona speranza riguardo agli scozzesi. Vediamo infatti che di giorno in giorno i Cattolici vengono considerati con maggiore gentilezza e benevolenza; che ai dogmi della sapienza cattolica non si mostra più, come un tempo, il disprezzo da parte del popolo, da molti invece simpatia, da non pochi rispetto; che le perverse opinioni che impediscono fortemente il discernimento del vero, a poco a poco vengono meno. E voglia il cielo che fiorisca con più abbondanza la ricerca della verità; e non si deve neppure dubitare che una più alta conoscenza della religione cattolica, ottenuta appunto genuina dalle sue fonti, e non da quelle altrui, cancelli totalmente dalle anime siffatti pregiudizi. – A tutti gli scozzesi si deve poi tributare una non piccola lode: hanno sempre avuto la consuetudine di studiare e riverire le divine Scritture. Permettano dunque che Noi con amore attingiamo qualcosa da questo argomento in ordine alla loro salvezza. È evidente che in questa venerazione delle sacre lettere, di cui abbiamo parlato, è in certo qual modo presente un qualche accordo con la Chiesa Cattolica; perché non potrebbe essere finalmente l’inizio del ristabilimento dell’unità? Non rifiutino di ricordare di aver ricevuto i libri dei due Testamenti dalla Chiesa Cattolica e non da altri: e che si deve alla vigilanza e alle continue attenzioni di questa se le sacre lettere sono uscite integre dalle terribili tempeste dei tempi e delle situazioni. – La storia dimostra che già nell’antichità il III Concilio di Cartagine e il pontefice romano Innocenzo I hanno operato con merito immortale per l’integrità delle Scritture. Più recentemente, sono note le vigilanti fatiche del medesimo genere di Eugenio IV e del Concilio di Trento. E anche Noi stessi, ben consapevoli dei tempi, con una lettera enciclica pubblicata recentemente, abbiamo richiamato con severità i Vescovi del mondo cattolico, e li abbiamo ammoniti diligentemente sul da farsi per salvaguardare l’integrità e la divina autorità delle sacre lettere. – Infatti, in questo vorticoso cammino delle idee, ci sono parecchi uomini che dalla brama di disquisire su ogni cosa con arroganza e dal disprezzo dell’antichità sono sviati a tal punto da non dubitare di negare ogni fede al sacro volume, o almeno di sminuirla. Di certo gli uomini gonfi per presunzione di scienza e troppo fiduciosi del proprio giudizio, non capiscono come sia pieno di impudente temerità il valutare in modo del tutto umano le opere che sono di Dio; e per questo non ascoltano affatto Agostino che proclama: “Onora la Scrittura di Dio, onora la Parola di Dio anche se è oscura, metti in secondo piano, con la pietà, l’intelligenza”. “Coloro che studiano le venerabili lettere debbono essere esortati… a pregare per poter comprendere”. “Non affermino temerariamente come conosciuto ciò che invece non è conosciuto … nulla deve essere affermato con temerarietà, ma ogni cosa deve essere trattata cautamente e con modestia”. – Pur tuttavia, siccome la Chiesa doveva sussistere in perpetuo, essa ha dovuto essere fondata non sulle sole Scritture, ma su di un qualche altro fondamento. Spettò certo al suo divino fondatore fare in modo che il tesoro delle celesti dottrine non venisse mai dissipato nella Chiesa; cosa che sarebbe necessariamente avvenuta, se lo si fosse affidato all’arbitrio dei singoli. È dunque evidente che fin dall’inizio della Chiesa è stato necessario un Magistero vivo e perenne, al quale fosse affidato dall’autorità di Cristo sia l’insegnamento salvifico di tutte le altre verità, sia l’interpretazione sicura delle Scritture; e che questo Magistero, munito e custodito dalla continua assistenza dello stesso Cristo, nel suo insegnamento, non potesse in alcun modo cadere in errore. A questo Dio ha provveduto con grandissima sapienza e larghezza per mezzo del suo unigenito Figlio, Gesù Cristo: e questi ha posto al sicuro l’autentica interpretazione delle Scritture quando ha ordinato ai suoi Apostoli, prima di tutto e principalmente, di non mettere mano alla scrittura, e di non distribuire senza discernimento e senza regola i libri delle Scritture più antiche, ma di insegnare a tutte le genti a viva voce, e di condurle con la parola alla conoscenza e alla professione della celeste dottrina: “Andate in tutto il mondo e predicate l’evangelo ad ogni creatura” (Mc 16,15). – Il primato poi dell’insegnamento lo ha affidato a uno solo, sul quale doveva poggiarsi, come sul fondamento, la totalità della chiesa docente. Consegnando infatti a Pietro le chiavi del regno dei cieli. Cristo gli affidò, nello stesso tempo, di reggere gli altri che dovevano dedicarsi al “ministero della parola”: Conferma i tuoi fratelli” (Lc XXII,32). Dovendo così i fedeli imparare da questo magistero tutto ciò che riguarda la salvezza, è necessario che essi gli richiedano anche la stessa intelligenza dei libri divini. – Appare poi facilmente come sia incerta e incompleta, e inadeguata allo scopo, la dottrina di coloro che pensano che si possa ricercare il senso delle Scritture unicamente sulla base delle Scritture stesse. Infatti, ammesso questo principio, il criterio supremo della interpretazione è posto infine nel giudizio dei singoli. Allora, cosa di cui ci siamo occupati prima, a seconda della disposizione d’animo, di ingegno, di conoscenze, di costumi con cui ciascuno si sarà accostato alla lettura, così interpreterà il significato della Parola divina sulle medesime cose. Di conseguenza, la differenza di interpretazione genera necessariamente la diversità del sentire e le contese, trasformando così in occasione di male, ciò che era stato dato per il bene dell’unità e della concordia. – La realtà stessa dimostra che Noi parliamo secondo verità. Infatti, tutti coloro che sono privi della fede cattolica e le sette fra loro in disaccordo riguardo alla religione, avanzano tutte la pretesa che le sacre Scritture confermano le loro convinzioni e le loro istituzioni. Tanto più che non vi è nessun dono di Dio così santo di cui l’uomo non possa abusare a sua rovina, quanto le stesse divine Scritture, come con gravi parole il beato Pietro ammonisce: “Gli ignoranti e gli instabili corrompono [le divine scritture]… per loro propria rovina” (2Pt III,16). Per questo motivo Ireneo, molto vicino al tempo degli apostoli e loro interprete fedele, non ha mai cessato di inculcare nelle menti degli uomini che la conoscenza della verità può essere ricevuta soltanto dalla viva dottrina della chiesa: “Dove infatti c’è la Chiesa, lì c’è pure lo Spirito di Dio, e dove c’è lo Spirito di Dio lì c’è la Chiesa e ogni grazia; lo Spirito è la verità …”. “Dove si trovano i carismi del Signore, là bisogna imparare la verità, presso coloro in cui si trova la successione Apostolica della Chiesa”.” Se i Cattolici, anche se non così uniti nell’ambito delle cose civili, sono tenuti tuttavia congiunti e connessi fra di loro nella meravigliosa unità della fede, non c’è il minimo dubbio che lo siano in virtù e ad opera principalmente di questo Magistero. – Molti scozzesi separati da noi nella fede, amano tuttavia il Nome di Cristo con tutto il cuore, e cercano di osservare i suoi insegnamenti e di imitare i suoi santissimi esempi. Ma con quale intelletto e con quale cuore potranno mai conseguire ciò che perseguono, se non permettono di essere ammaestrati loro stessi e gli altri alle cose celesti in quel modo e per quella via che lo stesso Cristo ha costituito? Se non sono in ascolto della parola della Chiesa, al cui insegnamento lo stesso Autore della fede ordinò agli uomini di obbedire come a lui stesso: “Chi ascolta voi, ascolta me, chi disprezza voi, disprezza me”? Se non chiedono gli alimenti della pietà e di tutte le virtù a colui che il Pastore supremo delle anime ha costituito Vicario della sua funzione, affidandogli la cura di tutto il gregge? Nel frattempo è certo che Noi non verremo meno al Nostro compito: prima di tutto quello di chiedere supplici a Dio che voglia concedere alle menti inclinate al bene un più abbondante sostegno della sua grazia. Possa davvero la bontà divina, da Noi supplicata, donare alla madre Chiesa questa desideratissima consolazione: potere riabbracciare molto presto tutti gli scozzesi ricondotti “in spirito e verità” alla fede dei padri. Che cosa non devono essi sperare da questa recuperata concordia con noi? Subito risplenderebbe ovunque la perfetta e assoluta verità con il possesso dei beni supremi che avevano perduto con la secessione. Tra questi beni uno di gran lunga si distingue, e la cui privazione è veramente miserevole: intendiamo il sacrificio santissimo nel quale Gesù Cristo, sacerdote e vittima nello stesso tempo, si offre Lui stesso ogni giorno al Padre, per il ministero dei suoi sacerdoti sulla terra. In virtù di questo sacrificio vengono a noi applicati gli infiniti meriti di Cristo, prodotti appunto dal sangue divino che Lui, posto sulla croce, per la salvezza degli uomini ha effuso una volta per tutte. La fede in queste cose fioriva integra presso gli scozzesi nel tempo in cui san Colomba trascorreva la sua vita mortale: e poi anche più tardi, quando qua e là furono edificati grandiosi templi, che attestano per i posteri lo splendore dell’arte e della pietà dei vostri antenati. – L’essenza stessa e la natura della Religione implicano in realtà la necessità del Sacrificio. In questo infatti risiede la parte essenziale del culto divino, nel riconoscere e riverire Dio come il supremo Dominatore di tutte le cose, sotto il cui potere ci troviamo noi e tutte le nostre cose. Non vi è infatti altra ragione e causa del Sacrificio, che proprio per questo è detto “cosa divina”: eliminati i sacrifici, nessuna religione può sussistere e nemmeno essere pensata. La legge dell’evangelo non è inferiore alla legge antica: è anzi di molto superiore, perché essa ha pienamente portato a compimento ciò che quella aveva iniziato. Molto tempo prima che Cristo nascesse, i sacrifici praticati nell’Antico Testamento prefiguravano infatti il Sacrificio compiuto sulla croce; dopo la sua Ascensione al cielo, quel medesimo sacrificio viene continuato con il sacrificio eucaristico. Errano pertanto grandemente coloro che lo respingono come se fosse una diminuzione della verità e della forza del sacrificio che Cristo ha compiuto inchiodato alla croce: “essendosi offerto una sola volta per espiare i peccati di molti” (Eb IX, 28). – Quella è stata una purificazione degli uomini del tutto perfetta e assoluta: e non è affatto un’altra, ma è la stessa, quella contenuta nel Sacrificio Eucaristico. Poiché infatti era necessario che un rito sacrificale accompagnasse in ogni tempo la Religione, il divino disegno del Redentore fu che il sacrificio consumato una volta per tutte sulla croce, diventasse perpetuo e perenne. La ragione di questa perpetuità è contenuta nella santissima Eucaristia, che non presenta soltanto una vana figura o memoria della cosa, ma la stessa verità, quantunque in un modo diverso: per questo l’efficacia di questo sacrificio, sia per ottenere sia per espiare, deriva totalmente dalla morte di Cristo: “Poiché da dove sorge il sole fin dove tramonta, il mio nome è grande fra le genti; e in ogni luogo si sacrifica e si offre al mio nome un’oblazione pura; perché grande è il mio nome fra le genti” (Mal 1,11). – Quanto al resto, poi, il Nostro discorso si riferisce più propriamente a coloro che professano il nome cattolico: e per questo semplice motivo, perché vogliano con la loro opera essere di un qualche giovamento al Nostro progetto. La carità cristiana comanda di ricercare, secondo le possibilità di ciascuno, la salvezza dei più vicini. A loro domandiamo quindi, prima di tutto, di non desistere dal pregare e supplicare per questo motivo Dio, il quale soltanto può effondere nelle menti la luce efficace e piegare le volontà a suo piacimento. Infine, poiché soprattutto gli esempi hanno il potere di piegare le anime, si dimostrino loro stessi degni della verità di cui per dono divino sono in possesso; e alla consuetudine di una vita bene ordinata, aggiungano il pregio della fede che professano: “La vostra luce risplenda dinanzi agli uomini, affinchè vedano le vostre opere buone” (Mt 5,16). E conseguano insieme, con l’esercizio delle virtù civili, che di giorno in giorno sempre più sia manifesto che non è possibile presentare, se non per calunnia, la religione cattolica come nemica della nazione: anzi da nessun’altra parte si ritrova un aiuto maggiore per la sua dignità e il pubblico vantaggio. – È poi anche di grande utilità custodire con ogni impegno, anzi rendere ancora più solida, e circondare con ogni difesa, l’educazione cattolica dei giovani. Noi sappiamo bene che ci sono presso di voi delle scuole di carattere pubblico adeguatamente organizzate per la gioventù desiderosa di imparare, nelle quali non si sente certo la mancanza di un ottimo metodo di studio. Ma è necessario sforzarsi e fare sì che le scuole cattoliche non siano in nulla inferiori alle altre; e non si deve neppure fare in modo che i nostri adolescenti siano meno preparati nella cultura letteraria e nella finezza della dottrina, cose che la fede cristiana reclama come stimatissime compagne per la sua difesa e per il suo ornamento. L’amore della Religione e la carità di patria esigono dunque che tutti gli istituti che i Cattolici convenientemente possiedono, sia per l’istruzione elementare sia per l’insegnamento delle discipline superiori, essi cerchino di rafforzarli e di accrescerli secondo le loro possibilità. – È anche giusto che si curi particolarmente l’erudizione e la cultura del clero, che oggi può mantenere con dignità e con utilità il suo posto soltanto se risplenderà di ogni pregio di cultura e di dottrina. A questo proposito proponiamo alla beneficenza dei cattolici di aiutare con il massimo zelo il Collegio Blairsense. Opera utilissima, avviata con grande zelo e generosità da un devotissimo cittadino, non si permetta con una interruzione che venga meno e che vada in rovina, ma con emula generosità si proceda anche in meglio, e si giunga celermente al compimento. Questo infatti ha un grande valore, come è grande il valore del provvedere affinché in Scozia l’ordine sacro possa davvero essere curato scrupolosamente e in modo conforme ai tempi. – Tutte queste cose, venerabili fratelli, che il nostro sentire così benevolo verso gli scozzesi Ci ha fatto dire, sappiate intenderle come particolarmente affidate al vostro zelo e alla vostra carità. Inoltre, della premura di cui a Noi avete ora dato prova in modo eccellente, continuate a dar prova, affinchè siano compiute queste cose che sembrano non poco giovevoli allo scopo prefissato. Certamente si tratta di una causa difficilissima, come spesso abbiamo dichiarato, e ben al di là delle forze umane per essere risolta; ma di gran lunga santissima e del tutto conforme ai disegni della bontà divina. Per questo non tanto Ci impressiona la difficoltà della cosa, quanto ci consola il pensiero che mai mancherà l’aiuto di Dio misericordioso a voi che vi impegnate assiduamente a seguire le Nostre prescrizioni. –  Come garanzia dei doni celesti e testimonianza della Nostra paterna benevolenza, a voi tutti, venerabili fratelli, al clero e al vostro popolo, impartiamo con grande affetto nel Signore la benedizione apostolica.

Roma, presso san Pietro, 25 luglio 1898, anno XXI del Nostro pontificato.

 

CHRIST’S KINGDOM ON EARTH

CHRIST’S KINGDOM ON EARTH

[Il regno di Cristo sulla terra:

Sermone-meditazione di

fr. U.K., Sacerdote Cattolico con missione canonica in unione on il Santo Padre GREGORIO XVIII.]

 

The Perpetual Sacrifice of the Cross

On some Internet sites and even in books circulating among Catholics, one can find strange statements. For example:“God the Father will cease having the Real Presence on the altars of the world, as the unbloody Sacrifice.” – Also: “We know now that the Priests could only be removed once the Papacy itself was put aside, into Exile.”- It seems that by the first statement someone says that God the Father “will cease” or stop Christ from being the Priest and the victim of the unbloody Sacrifice. – By the second statement, someone declares the Priesthood, instituted by Christ Himself, as removed, when the Papacy was put into Exile. – Both of these statements are heretical, because they contradict Holy Scripture and the Holy Tradition of the Catholic Church. – What are Catholics obliged to know about the perpetual renewal of the Sacrifice of the Cross? – The Real Presence on the altars as the unbloody Sacrifice and the Priesthood of Christ will be continued until the last day of this world’s existence. – First we must know the teaching of the New Testament and of the Catholic Catechism, which is the following:

“Mass will be celebrated until the Day of Judgment (1 Cor, XI, 26). Not any or all of the adversaries of the Church, not Antichrist himself, will be able to suspend the offering of the holy sacrifice. The last Mass said will be on the last day of this world’s existence. This is what Our Lord meant when He said: “I am with you all days, even to the consummation of the world” (Matt. xxviii, 20)”.

The Catechism Explained,
From the original of Rev. Francis Spirago, Professor of Theology,
Edited by Rev. Richard F. Clarke, S.J.
Nihil Obstat: Thos. L. Kinkead, Censor Librorum,
Imprimatur: + MICHAEL AUGUSTINE, Archbishop of New York.
New York, August 8, 1899.
Copyright 1899, by Benzinger Brothers,
New York, Cincinnati, Chicago
p. 536.

“He promises to be with them (not for three or four hundred years only) but all days even to the consummation of the world. How then could the Catholic Church ever go astray; having always with her pastors, as is here promised, Christ himself, who is the way, the truth, and the life. St. John, xiv.”

“For as often as you shall eat this bread, and drink the chalice, you shall shew the death of the Lord, until he come.” (1 Cor, XI, 26).

HOLY BIBLE

Douay Version of the Old Testament of 1609, and with the Rhemish Version of the New Testament of 1582,

Published by JAMES DUFFY, 7, Wellington-quay, Dublin, MDCCCLVII.

PUBLISHED WITH THE APPROBATION OF THE CATHOLIC ARCHBISHOPS & BISHOPS OF IRELAND

APPROBATION Given at Dublin, this 4th day of May, 1857.

+ PAUL CULLEN, Archbishop of Dublin, Primate of Ireland,

Delegate Apostolic, &c., &c.

+ JOSEPH DIXON, Archbp. of Annagh, Primate of all Ireland,&c.

+ JOHN, Archbishop of Tuam.

+ PATRICK M‘GETTIGAN, Bishop of Raphoe.

+ JOHN RYAN, Bishop of Limerick.

+ JAMES BROWNE, Bishop of Kilmore.

+ JOHN CANTWELL, Bishop of Meath.

+ THOMAS FEENY, Bishop of Killala.

+ CHARLES MAC NALLY, Bishop of Clogher.

+ EDWARD WALSHE, Bishop of Ossory.

+ WILLIAM DELANEY, Bishop of Cork.

+ JOHN DERBY, Bishop of Clonfert.

+ FRANCIS KELLY, Coadjutor Bishop of Derry.

+ DANIEL VAUGHAN, Bishop of Killaloe.

+ WILLIAM KEANE, Bishop of Cloyne and Ross.

+ PATRICK DURCAN, Bishop of Achonry.

+ PATRICK FALLON, Bishop of Kilfenora and Kilmacduagh.

+ JOHN KILDUFF, Bishop of Ardagh.

+ DAVID MORIARTY, Bishop of Kerry.

+ JOHN P. LEAHY, Coadjutor Bishop of Dromore.

+ D. O’BRIEN, Bishop of Waterford.

+ JAMES WALSHE, Bishop of Kildare and Leighlin.

+ DANIEL M‘GETTIGAN, Coadjutor Bishop of Raphoe. ,

+ L. GlLLOOLY, Coadjutor Bishop of Elphin.

+ JAMES MAC EVILLY, Bishop of Galway.

+ THOMAS FURLONG, Bishop of Ferns.

1 Cor, XI, 26 and Annotations on St. Mathew 28:18-20.

So, we see that the Word of God and the Catholic Catechism univocally and unequivocally state that “Mass will be celebrated until the Day of Judgment”, and the “Antichrist himself, will not be able to suspend the offering of the holy sacrifice”, and therefore the Blessed Sacrament of the altar and the Priesthood are Sacraments, which were instituted by God Himself, for His Church, “even to the consummation of the world”.

 

The teaching of THE COUNCIL OF TRENT:

“On the Institution of the Most Holy Sacrifice of the Mass.

Forasmuch as, under the former Testament, according to the testimony of the Apostle Paul, there was no perfection, because of the weakness of the Levitical priesthood; there was need, God, the Father of mercies, so or daining, that another priest should rise, according to the order of Melchisedech, our Lord Jesus Christ, who might consummate and lead to what is perfect as many as were to be sanctified. – He, therefore, our God and Lord, though He was about to offer Himself once on the altar of the Cross unto God the Father, by means of His death, there to operate an eternal redemption; nevertheless, because that His priesthood was not to be extinguished by His death, in the Last Supper, on the night in which He was betrayed – that He might leave, to His own beloved Spouse the Church, a visible sacrifice (can. i), such as the nature of man requires, whereby that bloody sacrifice, once to be accomplished on the Cross, might be represented, and the memory thereof remain even unto the end of the world, and its salutary virtue be applied to the remission of those sins which we daily commit, – declaring Himself constituted a priest forever, according to the order of Melchisedech, He offered up to God the Father His own Body and Blood under the species of bread and wine; and, under the symbols of those same things, He delivered (His own body and blood) to be received by His Apostles, whom He then constituted priests of the New Testament; and by those words, “Do this in commemoration of me” He commanded them and their successors in the priesthood to offer (them); even as the Catholic Church has always understood and taught (can. ii) (vii. 11, 18, 3 Heb. x. 14, 2Ibid- Heb. ix. 13 ff). For, having celebrated the ancient Passover, which the multitude of the children of Israel immolated in memory of their going out of Egypt, He instituted the new Passover (to wit), Himself to be immolated, under visible signs, by the Church through (the ministry of) priests, in memory of His own passage from this world unto the Father, when by the effusion of His own Blood He redeemed us, and delivered us from the power of darkness, and translated us into His kingdom. (1 Cor. xi. 24, Ps. cix. 4, I Cor. xi. 24, Ex. xii, xiii, Col. i. 13).”

DOGMATIC CANONS AND DECREES
AUTHORIZED TRANSLATIONS OF THE DOGMATIC DECREES OF THE COUNCIL OF TRENT, THE DECREE ON THE IMMACULATE CONCEPTION, THE SYLLABUS OF POPE PIUS IX, AND THE DECREES OF THE VATICAN COUNCIL
Nihil Obstat REMIGIUS LAFORT, D.D., Censor
Imprimatur +JOHN CARDINAL FARLEY, Archbishop of New York  – June 22, 1912
COPYRIGHT, 1912, BY THE DEVIN-ADAIR COMPANY
SESSION XXII September 17, 1562

DOCTRINE ON THE SACRIFICE OF THE MASS
DOGMATIC CANONS AND DECREES; CHAPTER I On the Institution of the Most Holy Sacrifice of the Mass p.132-134.
CHAPTER IX Preliminary Remark on the Following Canons ON THE SACRIFICE OF THE MASS, p.143

Perhaps you also heard statements like the following: “Masses wherein the priest alone communicates sacramentally are unlawful, and are therefore to be abrogated.”

Such statements as this are heretical too.

456 years ago, the same COUNCIL OF TRENT infallibly pronounced:

Canon VIII. If anyone saith that Masses wherein the priest alone communicates sacramentally are unlawful, and are therefore to be abrogated; let him be anathema” (the same book).

Let us look at the teaching of the

Baltimore Catechism.

“Was all sacrifice to cease with the death of Christ?

No; there was to be in the New Law of Grace a perpetual sacrifice, in order to renew continually that which was once accomplished on the Cross, and to apply the fruits of the sacrifice of the Cross to our souls.

Although the sacrifice of the Cross once accomplished was sufficient for all time, yet not the remembrance of a remote sacrifice only was to remain with men, but the sacrifice was to be ever present with them, and that which had been acquired for all men upon the Cross was, by a perpetual renewal of this sacrifice, to be applied also to each one.

Was such a sacrifice promised to us by God?

Yes; even in the Old Law it was prefigured by the sacrifice of Melchisedech, and was foretold by the Prophet Malachias: “I have no pleasure in you (Jews), saith the Lord of Hosts, and I will not receive a gift of your hand; for from the rising of the sun even to the going down, my name is great among the Gentiles, and in every place there is sacrifice, and there is offered to my name a clean oblation” (Mal. i, 10, 11). In this prophecy it is clearly expressed that:

The Jewish sacrifice was to be abolished by God.

In its place a new sacrifice was to be offered, which should be a clean sacrifice, and, as the Hebrew expression indicates, an oblation. This sacrifice was to be offered up to God perpetually among all nations, and in all places.”

This prophecy certainly does not apply to the bloody sacrifice of the Cross, which is not offered at all times and in all places, but was only offered once, upon Golgotha.

This prophecy applies, however, perfectly to the Holy Sacrifice of the Mass.

The sacrifice of Melchisedech was a figure of the Sacrifice of the Mass. Melchisedech was King of Salem, prince and priest, and as such he was a type of Jesus Christ. Melchisedech offered up bread and wine. His sacrifice was an offering of food.

Jesus Christ was to institute a more exalted sacrifice.

Which is the perpetual sacrifice foretold by Malachias?

It is the Sacrifice of the Mass.

By whom was the Sacrifice of the Mass instituted?

It was instituted by Jesus Christ at the Last Supper.

At the Last Supper Christ Himself celebrated the Holy Sacrifice of the Mass for the first time, and gave also to His Apostles the power and command to continue to celebrate it. Christ at the Last Supper offered up Himself to His heavenly Father under the appearances of bread and wine. He said: “This is my body, which shall be offered up for you. This is the chalice of my blood, which shall be shed for you.” By the separated species Jesus here evidently represents His death, which certainly was a sacrifice. He celebrates it beforehand, gives even now His Body and His Blood for us. He offers Himself for us to His heavenly Father, to whom He looks up, whom He thanks, to whom also He offers Himself upon the Cross. We find here at the Last Supper the same parts which form the chief parts of the Mass, as: Offertory, Consecration, Communion. Without sacrifice the figure of the Holy Eucharist, the Paschal Lamb, would not be exactly fulfilled.

Jesus instituted the Supper of the New Law as sacrifice and Sacrament for all time, by saying to His Apostles: “Do this in commemoration of me.”

For this reason the Council of Trent declares: “Whoever supposes by the words: “Do this in commemoration of me,” Christ did not ordain the Apostles as priests, or did not intend that they and other priests should offer up His Body and Blood, let him be anathema (excommunicated).”

Sunday School Teacher’s

EXPLANATION Of the Baltimore Catechism

BY THE REV. A. URBAN,
Nihil Obstat REMIGIUS LAFORT, S. T. L. – Censor Librorum

Imprimatur +JOHN M FARLEY, D. D – Archbishop of New York

NEW YORK, SEPTEMBER 14, 1908 – Copyright, 1908, by JOSEPH F. WAGNER, New York, Lesson Twenty-fourth, On the Sacrifice of the Mass, p.290, 291.

Thus, we can conclude:

God cannot contradict Himself.

According to God’s Revelation, God will not cease having the Real Presence on the altars of the world, as the unbloody Sacrifice until the consummation of the world, and Christ’s Priesthood was not removed once the Papacy itself was put aside, into Exile.

The Church of Christ, i.e. the Catholic Church, being God’s Institute, also cannot contradict Her Founder and Head.

Catholics are obliged to believe only in the truths revealed by God Himself and His Church. Consequently, every teaching, that contradicts God’s Revelation and the infallible Church’s teaching, must be absolutely rejected by Catholics.

In the Perpetual Sacrifice of the Cross,

Fr. UK

Il Sacrificio della croce è perpetuo

Gesù Cristo è il Monarca. La Chiesa di Cristo è la sua Monarchia. La Chiesa ha ricevuto la costituzione monarchica da Gesù Cristo stesso.

Cristo è il Re. La Chiesa è il regno di Cristo sulla terra.

Cristo è l’imperatore. La Chiesa è l’impero universale di Dio fondato su Gesù-Cristo stesso.

La Chiesa è la Sposa dell’Agnello di Dio, che toglie i peccati dei suoi membri, è la Gerusalemme celeste, la Città di Dio.

Cristo è lo Sposo e la Chiesa è la Sposa di Dio, la Regina del cielo.

Cristo è il capo della Chiesa. La Chiesa è il Corpo mistico di Cristo.

La Chiesa è la Casa di Dio e il suo Regno senza fine.

“Il Regno di Cristo fu molto chiaramente predetto dai profeti dell’Antico Testamento, gli ebrei cercarono un Principe della casa di David, perché pensavano che sarebbe venuto a renderli politicamente dominatori su tutta la terra. Essi si aspettavano un regno temporale, ma non un impero spirituale, religioso, come la Chiesa. Le loro menti, distorte dalla sapienza mondana, si rifiutarono di ricevere il Figlio di Dio, nato dalla casa di re Davide ed erede di Salomone, essi non desideravano avere un Re, ma Cesare, i cui successori li hanno in seguito dispersi dal loro paese e dalla loro casa quando hanno distrutto Gerusalemme “.

La Chiesa di Gesù Cristo è la città santa, la nuova Gerusalemme.

“C’è solo un’autorità nella Chiesa: l’autorità di Cristo”.

“Come Cristo ha ricevuto la pienezza del potere dal Padre suo, così Egli lo ha affidato interamente a Pietro e ai suoi successori”, dice san Cirillo.

“Essendo il Papa così strettamente unito a Cristo, la sua fede non può crollare, né vacillare, perché il nostro Redentore ha pregato per Pietro, affinché la sua fede non venisse mai meno, ed infatti nulla turba la Chiesa quanto l’attacco al Papato.” Se la Sede di Pietro viene scossa, pure l’intero Episcopato è minacciato … “dicono gli antichi vescovi di Francia”.

“Cristo non è morto per se stesso ma per noi; Egli ha fondato la Chiesa per la nostra salvezza, ha consacrato i Vescovi, ha ordinato sacerdoti e li ha inviati per la salvezza delle anime, ha nominato Pietro capo della Chiesa per l’unità ed il benessere della Chiesa”

 “Cristo è il capo e la fonte sia degli Ordini Sacri che della giurisdizione, che è l’esercizio degli ordini sacri. Perciò nessun Vescovo o pastore può esercitare le sue funzioni senza il consenso del Papa, che Cristo ha nominato nella persona di Pietro per nutrire i suoi agnelli e pascere le pecore del suo gregge “.

“I Vescovi ricevono la loro giurisdizione dal Pontefice, e governano le loro diocesi a nome proprio, essendo i Vescovi titolari delle loro sedi; il Papa, invece, è il Vescovo titolare non delle loro sedi, ma della Sede di Pietro, collocata nella città eterna di Roma. “

“I Papi possono essere cacciati da Roma per un certo periodo, per cause politiche o di altro tipo, e la storia ci dice infatti che diversi tra di loro sono stati cacciati molte volte dalla città eterna; ma successivamente, passata la tempesta, si torna di nuovo nella città di Pietro”.

“Cristo ha costituito la Chiesa dandogli la forma di una monarchia. Negarlo sarebbe contrario agli insegnamenti della Chiesa, dato che è insegnamento “De fide”. Cristo non ha costituito la Chiesa per essere amministrata come una repubblica, nella quale i Vescovi ed i sacerdoti fossero eletti dai laici. Poiché tutto il potere della Chiesa discende da Cristo fino al clero, l’autorità del clero non proviene dunque dal popolo ma da Cristo stesso.

“Cristo è il Re del suo clero e dei suoi laici.” La salvezza dei Cristiani non dipende dai re, dai monarchi, né dagli imperatori della terra.

La Chiesa di Cristo non fa affidamento su governanti terreni, che spesso anzi l’hanno perseguitata. La Chiesa è sopravvissuta a tutte le persecuzioni perché è stata sempre fedele a Cristo, che è il suo Governante, il suo Re, il suo Monarca, il suo Imperatore.

“Nel corso dei secoli, la Chiesa universale ha viaggiato da un luogo all’altro; come era stato già per il suo Sposo che, quando fu su questa terra, non ha avuto dimora stabile ove poggiare il capo, così essa è sempre in esilio ed in viaggio su questa terra. La Chiesa attraversa questo mondo di esilio, alla ricerca dei membri della decaduta progenie.”

Il Cristiano vive in questo mondo, sebbene non appartenga a questo mondo ma al cielo, dove il suo Signore e Maestro dimora nella gloria.

[testo tratto da:]

CHRIST’S KINGDOM ON EARTH,
Or THE CHURCH and her Divine Constitution, Organization and Framework
Explained for the people
By Rev. Jas. L. Meagher,
New York
The Christian Press Association
Publishing Co.
St. Joseph’s Provincial Seminary.
Perlegi opus cui tituliis : Christ’s Kingdom on Earth, or, The Church and Her Divine Constitution, Organization and Framework, Explained for the People,
by the Rev. J. L. Meagher,
et nihil in eo reperi quod obstat, quoad Fidem et Mores, quominus typis evulgetur,
Trojae, 9a Decembris, 1891.
H. GABRIELS, Censor Deputatus, Bishop of Ogdensburg
Imprimatur, + P. A. LUDDEN, Bishop of Syracuse.
Imprimatur, + M. A. CORRIGAN,  Archbishop of New York.
COPYRIGHT 1891
BY REV. JAMES L . MEAGHER
ALL RIGHTS RESERVED.

Fr. UK.

 

OTTAVARIO DEI MORTI (3) Possiamo piangere i nostri morti?

OTTAVARIO DEI MORTI (3)

TRATTENIMENTO V

Possiamo piangere i nostri morti?

[L. Falletti: I nostri morti e il purgatorio; M. D’Auria Ed. Napoli, 1924 – impr. -]

Sommario — Crudele chi vieta le lagrime — Pianse Gesù — Pianse Maria — Piansero i Santi — Le lagrime sono un benefizio — Dottrina di S. Francesco di Sales — Triplice pensiero incoraggiante. Esempio.

I.

Ella è certamente una grande consolazione il pensare che con la morte non tutto finisce e che l’anima, la parte più nobile di noi stessi, sopravvivrà alla distruzione del corpo. Ciò non impedisce però che alla perdita dei nostri cari noi possiamo sentire, e sentiamo infatti gravissimo dolore, ed amarissime lagrime sgorgano dai nostri occhi in occasione della loro scomparsa. La morte, per quanto siamo persuasi che è una legge inevitabile, a cui tutti più o meno presto, più o meno tardi, dobbiamo sottostare, è tuttavia qualche cosa di sì spaventoso e terribile che è impossibile non sentirsi sconvolgere l’animo. Sì, è vero, vi furono dei falsi devoti che col pretesto di onorare Iddio si spinsero all’eccesso di fare oltraggio alla natura umana e di proibire le lagrime a coloro che soffrono nella perdita delle persone che furono ad essi più care, ma ad un eccesso sì inaudito l’umanità diede un fremito di orrore e rivolse altrove gli sguardi. E li rivolse a Gesù, suo capo e modello, li rivolse a Maria, la più forte e magnanima delle creature, li rivolse ai Santi, i più grandi eroi della terra; ed a questi sguardi l’umanità comprese che la religione, no, non vieta il piangere coloro che ci hanno preceduti nell’eternità. Comprese anzi che le lagrime, per quanto amare, sono tuttavia un benefizio della Provvidenza, senza delle quali la vita sarebbe insopportabile. Non sono infatti desse che ci sollevano dal peso crudele delle angosce e alleggeriscono il cuore del pesante fardello del dolore? L’uomo è condannato a nutrirsi del pane bagnato nelle lagrime, e se non fosse bagnato in quest’acqua salutare, oh! quante volte questo pane sarebbe troppo duro ad ingoiarsi! Siamo già così disgraziati su questa terra, che se non ci fosse permesso di piangere, sovente varrebbe meglio mille volte morire che vivere cesi. La religione dunque non vieta di risentire la perdita di coloro che abbiamo amato, non comanda punto la stoica durezza dell’orgoglio e dell’indifferenza, ma vieta solo i lamenti, questi soltanto essa riprova, proibisce e condanna, ma le lagrime, no. Anzi ella ripete di continuo col suo fondatore: beati quelli che piangono! Scopo pertanto di questo trattenimento sia lo spiegare come un Cristiano debba piangere quelli che la morte gli ha rapito. In Betania, piccolo castello della Giudea, era morto Lazzaro, fratello di Maria Maddalena e di Marta; e quando Gesù, che molto lo amava, arrivò presso il castello, già quattro giorni erano passati, dacché il morto giaceva sepolto nella tomba. Trovò le due sorelle e gli Ebrei che erano con esse in grande costernazione, per cui anch’Egli si sentì molto turbato e pianse, dicono gli Evangelisti. Oh! quanto eloquenti non sono queste lagrime che Gesù ha versato sulla tomba del suo amico Lazzaro! Non ci dicono desse che, se in presenza della morte pianse lo stesso Uomo-Dio, non può essere una debolezza colpevole, se noi pure piangiamo la perdita dei nostri cari? Ma non solo pianse Gesù, ma ancora pianse Maria SS. In sul Calvario si consumava il più gran delitto che mai abbia funestato la terra. Appeso ad un duro legno di Croce, dove l’avevano confitto i suoi nemici, crivellato il capo con spine, trafitti con chiodi i piedi e le mani, il corpo tutto lacerato dai flagelli, se ne moriva, come un infame, il Redentore del mondo. Ai pie della croce una grande figura di donna, impietrita dal dolore, col volto inondato di pianto, stava fissando il morente. Era Maria che versava lagrime sulla morte crudele del Figlio. E quante non ne aveva già versate nel corso della sua vita, pensando a quell’ora crudele; quanti singhiozzi non avevano lacerato il suo cuore dopo la terribile profezia del vecchio Simeone: Defedi in dolore vita mea, et anni mei in gemitibus, la fa esclamare la Chiesa! Ora le lagrime ed i singhiozzi della Regina dei mesti, perché non dovrebbero legittimare, santificare anzi il nostro pianto, quando la morte ci colpisce nella persona dei nostri cari? Piansero i Santi: quante lagrime non versò S. Agostino sulla tomba della madre sua, S. Monica! « Al pensiero della tua serva fedele, dice egli indirizzandosi a Dio, mi si fece presente alla mente e il suo amore per te, e la sua grande tenerezza per me; ed a tale ricordo non potendo vincere la commozione lasciai libero corso alle lagrime, che fino allora avevo trattenute, ed alleviato da questo sfogo di pianto, il mio cuore trovò finalmente un dolce riposo, che tu solo conosci, o mio Dio e mio Signore ». – Non meno espressive, flebili e commoventi sono le espressioni che sgorgano dal cuore di S. Girolamo nell’elogio funebre del suo caro Nepoziano: « A chi consacrerò io d’ora in avanti le mie laboriose veglie? In qual cuore potrò io sfogare i miei più segreti pensieri? Dove è colui che m’incoraggiava nei miei studi, e li animava con armonie più dolci che non gli ultimi canti del cigno? Nepuziano non mi sente più! Tutto sembra morto attorno a me: la mia stessa penna incerta e triste, la carta bagnata dalle mie lagrime si rifiutano di comunicare e ricevere l’espressione del mio pensiero, come se più non volessero partecipare al sentimento del mio dolore. Ogni qualvolta io mio provo a dargli libero sfogo e spargere qualche fiore su quella tomba diletta,. ecco che subito i miei occhi si riempiono di lagrime, e la tristezza che è in me si risveglia, mi rigetta con lui nella polvere del suo sepolcro ». – Quante belle e commoventi non sono pure le parole di S. Bernardo, piangente su d’un suo fratello che la morte aveva rapito al suo tenero affetto, nel monastero stesso ove avevano vissuto così felici ed uniti! « Scaturite, scaturite pure dagli occhi miei, o lagrime, così bramose di scorrere per le mie guance. Colui che v’impediva di colare non è più!.. Non è già lui che è morto, son io che non vivo più che per morire! O Gerardo, fratello mio, tu mi sei stato tolto, tu mi sei stato rapito… Con te son scomparse tutte le mie gioie, tutte le mie delizie. Oh! chi mi darà di morire per raggiungerti più presto; poiché il sopravvivere è per me il più crudele dei tormenti. Che da quest’oggi io non viva più che nell’amarezza e nelle lagrime, non viva più che nei rimpianti; e non altra sia la mia consolazione che di sentirmi morire di giorno in giorno!…. Io ti piango, o Gerardo, sei tu tutta la causa delle mie lagrime; io piango perché tu mi eri fratello pel sangue, ma molto più perché noi due non formavamo che un solo spirito intento ad un solo scopo: al servizio di Dio. L’anima mia era sì unita alla tua che i nostri cuori non ne formavano che uno solo; e la spada della morte ha trafitto quest’ anima che era insieme e tua e mia e ci ha disgiunti Oh! Perché, perché ci siamo tanto amati, dal momento che dovevamo separarci: e dopo esserci così amati, perché non ce ne siamo insieme andati!.. » – Oh! quanto adunque non è dolce di piangere così, all’esempio di Gesù, di Maria e dei Santi; quando la morte ci colpisce negli affetti più cari, le lagrime, come abbiamo detto, sono un benefizio che Dio ci largisce per calmare il nostro dolore. Si direbbe che l’Altissimo nella sua misericordia verso l’uomo colpevole, senza tuttavia venire meno alla sua giustizia, abbia voluto procurargli in tal modo un sollievo in mezzo alle dure prove di questa triste esistenza. « Non sarò certamente io, esclama il dolce S. Francesco di Sales, che vi dirò di non piangere, quando avete la disgrazia di perdere un parente, un amico. Piangete, piangete pure: è ben giusto che voi versiate lagrime in testimonianza del sincero affetto che voi portavate a quei cari defunti. Così facendo non fate che imitare Gesù, che pianse sulla tomba di Lazzaro. Noi non potremo mai impedire alla nostra povera natura di sentire la condizione di questa vita e la perdita di coloro che ci erano dolci compagni nel cammino di quaggiù La religione non ci proibisce punto di sentire tali perdite, avendo lo stesso nostro dolce Salvatore consacrato l’affetto e benedetto le tenerezze dell’amicizia. Ed ecco perché io penso che l’insensibilità di coloro che non vogliono che siamo uomini, sempre mi parve una chimera, ed è perciò che sempre giudicai il dolore muto come orgoglioso e finto ».

II.

Ma dopo aver permesso le lagrime, così continua il santo Dottore: « Procurate però che queste dimostrazioni esterne siano moderate, e che i vostri sospiri e i vostri singhiozzi non siano tanto testimonianze di rincrescimento che segni di compassione e di tenerezza. Lungi da noi il piangere come coloro che, solo attaccati a questa miserabile vita, dimenticano completamente che noi siamo in viaggio verso l’eternità. Adoriamo in tutte le cose i segreti disegni della divina Provvidenza e diciamo sovente in mezzo alle nostre lagrime: Mio Dio, siate benedetto, poiché tutto è buono ciò che a voi piace « Quindi, dopo che avremo pagato il tributo alla parte inferiore dell’anima, fa d’uopo che compiamo il dovere alla superiore, ove risiede, come su d’un trono, lo spirito di fede che deve consolarci nelle nostre afflizioni per mezzo delle nostre stesse afflizioni. Beati quei che godono d’essere afflitti e convertono l’assenzio in miele! Sia lodato Iddio! È sempre con calma che io piango, sempre con un sentimento di amorosa sottomissione verso la Provvidenza di Dio, poiché, dacché Nostro Signore ha amato la morte, e l’ha data per oggetto al nostro amore, non posso volerne alla morte, perché mi toglie i miei cari, purché essi muoiono nell’amore della morte santa del Salvatore Qual cosa di più ragionevole che la santissima volontà di Dio si compia in coloro che noi amiamo come in tutte le altre cose? E non basta che in questi casi noi ci sottomettiamo alla sua volontà, ma ancora dobbiamo mostrarci in un qualche modo contenti di quello che fa. Non è Egli un buon padre, che sa perfettamente perché ci affligge e ci toglie quelli che amiamo? Entriamo pertanto nei suoi disegni, e ci aiuti la fede a sopportare questi sacrifici impossibili alla natura. Diciamogli dal profondo dell’anima: Signore, fate pur quanto vorrete; toccate pure nel mio cuore la fibra che vi piacerà, che dessa darà sempre un suono armonioso. Sì, o mio Dio, che la vostra volontà sia fatta su di mio padre, su di mia madre, su di tutti i miei cari, in tutto e da per tutto!…. Non voglio con ciò dire che non bisogna augurare loro una lunga vita, e pregare per la loro conservazione; no!, ma solamente che non dobbiamo lasciarci andare a dire a Dio: « Lasciateci questa persona, prendeteci quella ». E quand’anco il Signore ci togliesse quanto abbiamo di più caro, non ci dovrebbe più che tanto bastare di possedere Iddio? Non è Egli tutto? Non è Egli forse vero, che se non avessimo che Lui, avremmo già troppo? Ahimè! il Figlio di Dio, il nostro caro Gesù, non possedette certo tanto in sulla croce, allorché dopo aver tutto lasciato ed abbandonato per amore ed ubbidienza del Padre suo, fu come abbandonato e lasciato derelitto da Lui ». Tale il linguaggio del santo Vescovo di Ginevra, che del resto non è altro che il linguaggio della fede e delle anime stesse dei nostri cari, che la morte ci ha tolto, se la loro parola potesse arrivare fino a noi. « Certamente, continua lo stesso Santo, il più grande desiderio, che questi cari defunti ebbero nel separarsi da noi, fu che noi non prolungassimo di troppo il dispiacere che ci cagiona la loro assenza, ma che ci sforzassimo di moderare, per amor loro, il dolore che ci dà il loro amore; ed ora, dal seno della felicità che già hanno raggiunto o stanno per raggiungere, ci augurano una santa consolazione, e ci fanno capire che, moderando il nostro dispiacere, dobbiamo conservare e i nostri occhi per piangere ciò che è più degno di pianto ed il nostro spirito per occuparci di cose più nobili ed efficaci di quello che non lo siano le cose transitorie e caduche. « Non piangete, par che ci dicono, seguite piuttosto la via che può condurvi ove noi già ci troviamo; sappiate che ad essa si arriva portando la propria croce, amando Iddio, servendolo con tutto il cuore nel lutto, nelle separazioni, nei dolori, nelle tristezze, nelle lagrime, di cui tutta la vita nostra è ripiena. – Il Cielo è in capo a tutto ciò: fa d’uopo passare per queste prove, come il soldato s’incammina verso la gloria attraverso i campi di battaglia, senza vacillare e senza meravigliarci. E poiché è proprio della vera amicizia il cercare di assecondare le giuste bramosie dell’amico, per far piacere a queste anime dilette, rassegniamoci alla divina volontà, riprendiamo coraggio, abbandonandoci in tutto e per tutto alla misericordia infinita del nostro dolce Salvatore ».

III.

E ci aiuterà ad ottenere questa rassegnazione un triplice pensiero: anzitutto che questi cari defunti appartenevano a Dio ben più che non a noi; quindi, se Egli nella sua provvidenza ha giudicato che era tempo di chiamarli a sé, dobbiamo credere che l’ha fatto pel più gran bene delle anime loro, e dobbiamo perciò amorosamente e dolcemente chinare il capo innanzi ai suoi segreti disegni, adorando in silenzio e benedicendo la profonda sapienza di Colui che tutto dirige, e governa. In secondo luogo che questa terra, in cui viviamo, non è poi un soggiorno così dolce e dilettevole che debbasi tanto rimpiangere per coloro che lo lasciano. Quindi se Iddio per un effetto misterioso della sua misericordia li ha tolti dal mondo, dobbiamo piuttosto consolarci che non rattristarci, perché li ha nello stesso tempo sottratti alle sofferenze, alle miserie e agli affanni di questa triste esistenza, nonché ai tormenti degli affari e alle agitazioni ed alle rivolte che turbano questa nostra età, ai disinganni della fortuna, alle infermità, alle malattie, alle disgrazie di ogni genere continuamente sospese sul nostro capo e che ci minacciano ad ogni istante. Poiché che cosa è mai la vita umana se non una serie di dolori, di lagrime e di angosce?…. Quanto dunque non sono più felici coloro che Dio ha tolti da questo mondo, ove non v’ha che perversità, menzogna, ipocrisia, ove siamo di continuo esposti alle calunnie, alle ingiustizie, alle catastrofi di ogni specie. Mio Dio, come si può mai essere attaccati a questa vita, quando la si vede fuggire così rapidamente, e nonostante ciò ripiena di tristezze, di pianti e di tombe? Non piangiamo dunque troppo i nostri cari trapassati; pensiamo che se sono morti giovani hanno sfuggito tante pene e dolori che forse più tardi li attendevano, ed essendo meno pesante il conto che devono rendere a Dio, più presto saranno ammessi agli eterni gaudi. Se invece erano già avanzati in età, Iddio li ha preservati dal bere le ultime gocce del calice della vita che ordinariamente sono le più amare, se ne son iti, quando non più altro avevano da aspettarsi quaggiù che le debolezze, le miserie, le malattie della vecchiaia. E v’ha forse qualche cosa in ciò che sia veramente da compiangersi? Un terzo pensiero che deve consolarci nella perdita dei nostri cari è che questi morti non sono poi così lungi da noi, come il possiamo credere. Senza vederli possiamo ancora conversare con loro, scambiare i nostri pensieri, comunicare loro i nostri sentimenti. Se già sono in possesso della felicità eterna, la teologia c’insegna che s’interessano a noi, vedono in Dio ciò che noi facciamo, e, se a Dio piace, conoscono le parole che loro noi rivolgiamo, pregano per noi; e se invece sono nel Purgatorio ci è facile confidare al nostro buon Angelo custode ciò che desideriamo comunicare loro. E perché non adottiamo ancor noi questa bella pratica tanto in uso presso i Santi? Di Suor Maria Dionisia dell’Ordine della Visitazione, morta in odore di santità, si legge che aveva l’abitudine di confidare agli Angeli Custodi delle anime del Purgatorio le preghiere e le commissioni, che ella voleva far loro pervenire. « Sovente, racconta l’autore della sua vita, queste sante comunicazioni andavano tant’oltre che la pia religiosa sentiva attorno a sé questi spiriti protettori, che le scoprivano i bisogni delle anime sofferenti affidate alle loro cure, e le inspiravano ciò che doveva fare per la loro liberazione ».

* *

Con quest’esempio poniamo fine al presente trattenimento e concludiamo. Quando adunque la morte viene a battere alla porta della nostra casa e ci rapisce una persona amata, oh! Lasciamo pure che i nostri occhi versino amare lagrime, il non piangere in questi casi, il non sentire dolore è come avere un cuore di marmo, senza viscere, senz’amore. Procuriamo però per altro lato che le nostre lagrime non siano già sterili ed inefficaci, ma meritorie; e tali lo saranno, quando saranno accompagnate da sentimenti di fede, di speranza, di amore. Ah! sì piangiamo con la fede ed accettando il calice del dolore, che Dio ci porge, non dubitiamo di dire « Signore, siete voi che volete infliggermi una tanta perdita; io non ne so il perché, ma credo, credo fermamente che è per il mio bene, perché Voi siete giusto, Voi siete buono, Voi siete amoroso. Ah! Signore, vedete: tutta la mia natura è in fremito, troppo le ripugna questo calice amaro, ma non la mia, la vostra volontà sia fatta ». Piangiamo, sì, ma il nostro pianto scorra nella speranza; e fidenti nella divina misericordia, sollevando al Cielo gli occhi pieni di lagrime, esclamiamo: « Là si riposano, si deliziano, si beano le anime di coloro che piango, là un giorno mi ricongiungerò con essi per non esserne mai più separato ». Piangiamo, sì, ma piangiamo per amore e ricordando Gesù, che tanto sofferse per amor nostro, ci goda l’animo di poter soffrire anche noi qualche cosa per amor di Lui. E poi preghiamo: la preghiera è sempre un bisogno dell’anima, ma lo è specialmente ai pie’ di una tomba. Il mondo ci pesa, quando il dolore si è impadronito di noi; si è allora che l’anima nostra si sente portata verso regioni più alte, più pure, più calme, ove essa vuol cercare coloro che la morte le ha strappato. Ha come un bisogno prepotente di rivederli, di parlare loro ancora. Ma chi la solleverà dalla terra, chi la trasporterà al di là degli astri, verso quest’altro mondo più luminoso e perfetto, che è la dimora degli spiriti? La preghiera, la preghiera umile e fiduciosa, la preghiera del figlio sul seno del padre suo. Oh! se tutti gli afflitti conoscessero i tesori nascosti che racchiude la preghiera; se sapessero tutto ciò che contiene di santi sfoghi, d’ineffabili tenerezze, di consolazioni soavi e celesti, come ben presto le loro lagrime sarebbero asciugate e come accetterebbero facilmente le croci che la Provvidenza loro manda! Ma noi lo sappiamo: perché dunque non ricorriamo a lei nel momento della prova? Facciamolo e saremo consolati.

ESEMPIO: S. Francesco di Sales.

Un esempio ammirabile, del come dobbiamo diportarci in occasione della perdita dei nostri cari, ce lo porge il grande Vescovo di Ginevra in tutta la sua vita, ma specialmente in occasione della morte del suo genitore, che egli amava con affetto tutto singolare. Quando questo vegliardo rese l’anima sua generosa a Dio, il figlio prediletto del suo cuore non attorniava con gli altri il letto della sua agonia; si trovava ad Annecy, impegnato nella predicazione della Quaresima. Il messaggero, che gli apportava la straziante notizia, senza riguardo alcuno, gliela comunicò, quando egli, uscendo dalla sagrestia, stava per salire in sul pulpito. Il santo rimase per un momento atterrato, congiunse le mani in silenzio, ed alzò gli occhi al Cielo: poscia, sostenuto da una forza di volontà sovrumana e dalla grazia divina, montò in pulpito e predicò sul Vangelo del giorno col suo solito zelo e fervore. Non fu che in sul finire del suo discorso che disse ai suoi uditori con un accento che l’emozione faceva tremare e che si spense nelle lagrime: « Fratelli miei, appresi pochi momenti fa la morte di colui a cui più d’ogni altro sono debitore sulla terra; mio padre, l’amico vostro, non è più! Come voi gli facevate la grazia di amarlo, così vi supplico di pregare pel riposo dell’anima sua e di non aver a male che io mi assenti due o tre giorni per recarmi a rendergli i miei estremi doveri ». L’incredibile fermezza di Francesco che aveva potuto durante un’ora dominare assolutamente la natura, l’accento commosso delle sue ultime parole, le lagrime che gli inondavano il viso, fecero profondissima impressione nell’uditorio. Da tutte le parti si scoppiò in singhiozzi; ogni ascoltatore mescolò le sue lagrime a quelle dello apostolo, e questo esempio sublime d’energia cristiana in un’anima così tenera, sorpassò l’effetto di tutti i suoi sermoni. Nel discendere dal pulpito Francesco, che già aveva celebrato la sua Messa, ne intese due altre, inginocchiato in un canto dell’ altare, immobile e come immerso in profonda adorazione, nel suo dolore e nelle consolazioni divine. Dopo partì subito pel castello di Sales. Arrivando nella camera mortuaria, si gettò ginocchioni accanto al corpo inanimato del padre suo, lo copri di baci e di lagrime, e senza venir meno nel suo dolore alla gravità di un prete ed a quel pieno possesso di se stesso che dà la santità, si mostrò il più tenero ed il migliore dei figli. Presiedette egli stesso alla sepoltura ed ai funerali del padre suo, e non ne abbandonò le spoglie mortali che quando l’ebbe deposto, con le preghiere supreme della Chiesa, nel sepolcro della cappella di Sales. Allora, facendo tacere il suo dolore, si occupò di consolare gli assistenti e specialmente la santa madre sua, che non trovava che nelle sue parole celestiali un dolce refrigerio allo strazio del suo cuore. La confessò, come pure i suoi fratelli, le sue sorelle, ed i suoi famigliari, ed il giorno dopo, nella Messa che celebrò per l’anima del padre suo, li comunicò tutti di sua mano. Dopo il santo Sacrificio, rivolse loro ancora qualche parola di consolazione, e poscia, senza perder tempo, si accomiatò da tutti per recarsi nuovamente là, dove il suo dovere pastorale e la salute delle anime lo volevano. Riprese le sue prediche della Quaresima e le continuò anche lungo tempo dopo le feste di Pasqua. La sua ammirabile energia nell’accettare e padroneggiare il dolore profondo, che gli aveva cagionato la perdita del suo amato genitore, aveva dato alla sua santità già così luminosa qualche cosa di più perfetto ancora, e Dio ne lo ricompensò con maggior abbondanza di grazie. Non meno ammirabile fu la sua condotta nell’occasione della morte della madre sua. Iddio permise che egli la assistesse durante la sua agonia e ne ricevesse l’ultimo respiro. Quando tutto fu finito, benedisse la sua spoglia mortale, le chiuse gli occhi e la bocca, e, dopo averle dato l’ultimo bacio, lasciò finalmente sgorgare le sue lagrime che aveva trattenute fino a quel momento. Profondo fu il suo dolore, inconsolabile agli occhi del mondo, perché  aveva perduto la sua migliore amica, ma pieno di consolazione davanti a Dio. Fu in quest’occasione che scrisse parole celestiali a S. Giovanna Chantal, cercando, egli che aveva tanto bisogno di consolazione, di consolare quest’anima santa, che in quei giorni era stata orbata della morte di una sua carissima figliuola. « Ah! sì, il mio dolore è vivo, ma pure è tranquillo, e non oso né gridare, né lamentarmi sotto il colpo della mano divina che ho imparato ad amare teneramente fino dalla mia giovinezza. Ma ahimè! bisognava pure dare un tantino sfogo alle lagrime; non abbiamo noi un cuore umano ed una natura sensibile? Perché non piangere un poco sui nostri trapassati, dal momento che lo Spirito di Dio non solo ce lo permette, ma c’invita? Dio ci dà, Dio ci toglie: sia benedetto il suo santo nome ». Ed è cosi che i Santi piangevano la morte dei loro cari; a loro somiglianza piangiamoli pure ancor noi, soltanto procuriamo che, come le loro, anche le nostre lagrime siano lagrime di rassegnazione e di abbandono alla santa volontà di Dio.

DOMENICA XXIII, IV quæ superfuit Post EPIPHANIA (2018)

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE, 

IV quæ superfuit Post EPIPHANIA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps XCVI: 7-8

Adoráte Deum, omnes Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judæ.

[Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi: Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda.]

Ps XCVI: 1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.

[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti.]

Orémus.

Deus, qui nos, in tantis perículis constitútos, pro humána scis fragilitáte non posse subsístere: da nobis salútem mentis et córporis; ut ea, quæ pro peccátis nostris pátimur, te adjuvánte vincámus.

[O Dio, che sai come noi, per l’umana fragilità, non possiamo sussistere fra tanti pericoli, concédici la salute dell’ànima e del corpo, affinché, col tuo aiuto, superiamo quanto ci tocca patire per i nostri peccati.]

LECTIO

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom XIII: 8-10

Fratres: Némini quidquam debeátis, nisi ut ínvicem diligátis: qui enim díligit próximum, legem implévit. Nam: Non adulterábis, Non occídes, Non furáberis, Non falsum testimónium dices, Non concupísces: et si quod est áliud mandátum, in hoc verbo instaurátur: Díliges próximum tuum sicut teípsum. Diléctio próximi malum non operátur. Plenitúdo ergo legis est diléctio.

OMELIA I

 [Mons. BONOMELLI, Omelie, vol. I, Marietti Ed. Torino, 1899. Om. XVII]

“Non vogliate avere altro debito, che quello d’amarvi l’un l’altro; perché chi ama il prossimo, ha adempiuta la legge. Di fatto, il non fare adulterio, non uccidere, non rubare, non dir falsa testimonianza, non desiderare il male e se vi è alcuna altro precetto, tutto è compreso in questa parola: Amerai il prossimo come te stesso. L’amore del prossimo non opera alcun male: il compimento dunque della legge è l’amore „ (Rom. XIII, 8-10).

Il tratto della epistola, letta or ora, è tolto dal capo decimoterzo della lettera di S. Paolo ai fedeli di Roma. È brevissimo, perché si contiene tutto in soli tre versetti: ma se poche sono le parole e le sentenze, vasto quanto mai si può dire è il loro significato. Bastici il dire che l’Apostolo i n queste poche righe ha compendiata tutta la legge, come in termini dichiara egli stesso in quelle parole, che avete udito: Il compimento della legge è l’amore. Il soggetto, che siamo chiamati a considerare è caro e giocondo ad ogni anima bennata e per se stesso si raccomanda alla vostra attenzione. “Non vogliate avere altro debito, che quello di amarvi l’un l’altro. „ Queste parole si possono mutare in queste altre: Ogni vostro dovere si riduce all’amore scambievole. Se noi percorriamo tutti gli scritti del nuovo Testamento non troviamo un precetto più spesso e più vivamente raccomandato e inculcato quanto il precetto della carità fraterna. Gesù Cristo lo chiama precetto nuovo, perché prima di lui non fu mai sì chiaramente imposto, né mai a tanta altezza di perfezione portato: lo chiama precetto suo, perché è quello che più gli sta a cuore e meglio d’ogni altro esprime la natura e l’indole della legge evangelica, tantoché afferma, che all’osservanza di questo precetto si conosceranno i suoi discepoli. Nessuna meraviglia pertanto che S. Paolo qui riduca tutti i doveri del cristiano all’amore reciproco. Ma qui si affaccia naturalmente una difficoltà: come è mai possibile che tutti i doveri del cristiano si riducano all’amore fraterno, che dobbiamo avere gli uni con gli altri? – Narra S. Girolamo, che l’apostolo Giovanni, più che nonagenario, dimorava in Efeso: ogni volta che i fedeli si raccoglievano nella chiesuola, vi veniva portato a braccia dai discepoli, che lo pregavano di far loro udire la sua parola. Il santo vegliardo non faceva che ripetere: ” Figliuolini miei, amatevi a vicenda. „ Annoiati i discepoli di udir sempre quelle parole, gli dissero : “Maestro, perché  ci dici sempre questo? „ Egli rispose, scrive S. Girolamo, in modo degno di lui: “Perché è il precetto del Signore, e se anche solo si adempie, basta ,, (Degli Scrittori eccles.). La risposta d’un tanto apostolo, commentata da tanto dottore, mi dispenserebbe da qualunque spiegazione; ma è prezzo dell’opera svolgerla più largamente. E per pigliare le cose un po’ dall’alto, vediamo anzi tutto che cosa sia questo amore del prossimo. E forse quel sentimento comune, che più o meno ci porta tutti ad amare il nostro prossimo, quella cotal tenerezza, che sentiamo verso i nostri simili, che fa spuntare negli animi nostri la compassione verso i sofferenti? Certamente questo sentimento è buono, fa onore alla nostra natura; questa tenerezza, questa compassione verso i sofferenti è il carattere delle anime nobili ed è dono del cielo. Ma non è questo l’amore del prossimo, che il Vangelo comanda. Questo sentimento, questa tenerezza, questa compassione può aversi anche senza le opere. Quanti mostrano di sentire al vivo i mali altrui e son larghi di parole e scarsissimi ai fatti! Silla fu uno de’ più mostruosi tiranni, dei quali parli la storia. Eppure, assistendo in teatro, piangeva come un fanciullo udendo rappresentare alcune scene commoventi. S’inteneriva alle scene d’un immaginario dolore e faca versare torrenti di sangue e di lagrime. – Ho visto avari commuoversi dinanzi alle miserie dei tapini e rifiutare un soldo di limosina! – L’amore del prossimo comandato da Gesù Cristo è forse quel sentimento che ci muove ad amarlo per le sue buone e belle doti, per i benefici ricevuti, per i vantaggi che ne speriamo, per il piacere che proviamo in beneficarlo? Non io condannerò siffatto amore, che può essere naturalmente buono; ma in tal caso l’amor nostro non abbraccerà tutti, perché non tutti sono forniti di belle e buone qualità, ne da tutti abbiamo ricevuti benefici, o possiamo sperarne, e il piacere che si prova in amarli e beneficarli non è continuo e bastevole, e lo fosse anche, sarebbe un motivo affatto umano, e perciò troppo debole e incerto. Qual è dunque l’amor del prossimo che compendia in sé l’adempimento di tutti i nostri doveri? È quello che si accende nel nostro cuore, che esce dalle fibre più riposte dell’anima nostra, che ci fa sentire il bene e il male altrui come se fosse bene e male nostro: è quello che si manifesta nelle opere, che ci muove efficacemente al soccorso di quanti ne abbisognano, secondo le nostre forze: è quello infine che ha la sua radice e il suo alimento nella ragione non solo, ma nella fede e in Dio stesso. È questo l’amore del prossimo, che regge ad ogni prova e che compendia l’adempimento di tutti i nostri doveri. – Io devo amare il mio prossimo; e perché? Perché Dio lo ha creato, quel Dio che ha creato me pure; perché Dio lo conserva; perché Dio ha scolpita in lui la sua immagine e lo ama come un padre ama il figliuol suo. Io devo amare il mio prossimo, perché il Figliuol di Dio si è fatto uomo per lui, come per me; perché ha patito ed è morto per lui, come per me; perché Gesù Cristo gli offre le sue grazie, ha stampato od è pronto a stampare nell’anima sua il carattere d i figlio di Dio, e lo chiama al possesso eterno di se stesso. Io devo amare il mio prossimo, in una parola, perché lo vuole Iddio, perché Gesù Cristo me lo comanda, perché è mio fratello per natura. e per grazia, e come è operoso l’amore di Dio  verso il prossimo, così a somiglianza del suo dev’essere operoso il mio. Ecco l’amore del prossimo secondo il Vangelo. – L’amore del prossimo, che scaturisce da sì alta e pura fonte, racchiude in sé tutte le qualità e doti, che lo rendono perfetto. Esso è universale, perché si estende a tutti ed a ciascun uomo, perché non vi è pure un uomo solo, pel quale non valgano i motivi sopra accennati. Siano cattolici, siano eretici, siano scismatici, siano ebrei, siano pagani, tutti sono opera delle mani di Dio, per tutti è morto Gesù Cristo. — Questo carattere di universale nel senso più ampio della parola è proprio soltanto dell’insegnamento evangelico. Fuori del Cristianesimo l’amore del prossimo è l’amore di famiglia, della tribù, della nazione, ma non dell’uman genere: si estende ad alcuni, ma non a tutti e per lo più. è figlio delle simpatie, della gratitudine, o della speranza. È un amore continuo, perpetuo, perché i motivi, che lo accendono e lo alimentano, come ciascun vede, sono continui e non cessano, né possono cessare un solo istante. I motivi non sono propriamente negli uomini, nei loro meriti, ma in Dio Creatore e Redentore, nel suo volere, e perciò non soggetti a mutamento di sorta e quindi anche l’amore, che ne è l’effetto, non solo è universale e continuo, ma eguale nel senso or ora spiegato. – È un amore eguale, perché quantunque possa e debba variare d’intensità in ragione dei vincoli diversi che ci legano al prossimo, nondimeno a tutti si estende senza eccezione, come a tutti si estendono la creazione e la redenzione. – Che importa che questi sia povero, rozzo, ignorante? Che importa che quello sia ingrato, vizioso, scellerato? Che importa che mi odi, mi insulti, mi perseguiti ferocemente? Io deplorerò, condannerò le opere sue, ma amerò lui, perché non cessa d’essere l’opera di Dio, la conquista di Gesù Cristo. Il mio amore si appunta in Dio e in Gesù Cristo, e Dio e Gesù Cristo non si muta mai. Ecco il segreto che spiega la carità cristiana; ecco il perché questi missionari e queste suore abbandonano la famiglia e la patria, si seppelliscono in un ospitale, in un ricovero, valicano i mari, si gettano in mezzo ai barbari, ai selvaggi, ai c annibali per istruirli, incivilirli, per morire per loro e con loro. Ora, l’amore del prossimo, quale l’abbiamo tratteggiato, deve necessariamente manifestarsi in due modi: col non dire, né far cosa che spiaccia o rechi danno al prossimo e col dire e fare tutto ciò che gli piace o gli rechi vantaggio, come meglio è dato a noi. E per questo che l’Apostolo, volendo mostrare che tutti i doveri verso il prossimo si recapitolano nella carità, scrive: “Di fatto il non fare adulterio, non uccidere, non rubare, non dir falsa testimonianza, non desiderare il male, e se vi è altro precetto, tutto è compreso in questa parola: Amerai il prossimo come te stesso. „ Chi ama di vero amore il prossimo, come ama se stesso, adempie la legge perfettamente, non fa male a chicchessia e fa bene a tutti quelli, ai quali può farlo. E dunque vero ciò che l’Apostolo soggiunge in forma di sentenza assoluta: “Compimento della legge è l’amore — Plenitudo legis est dilectio. Forse mi direte: Ma non abbiamo noi doveri verso noi stessi e verso Dio? Ora questi non sono compresi nell’amore verso del prossimo. Come dunque poté dire l’Apostolo: “L’amor e del prossimo è il compimento della legge? „ Veramente può intendersi i n questo senso: A quel modo che l’amore di Dio ci porta all’adempimento dei doveri, che riguardano Dio, così l’amore del prossimo ci porta ad adempire tutti i doveri, che abbiamo col prossimo; ma parmi che possa intendersi assai bene in quest’altro modo: Certamente chi ama Dio, dee volere ciò che vuole Iddio e, per conseguenza, deve amare il prossimo, come lo ama Dio e come Dio comanda. Nell’amore di Dio è chiaramente compreso l’amore del prossimo, come nella causa si contiene l’effetto. Ma nell’amore del prossimo si contiene anche l’amore di Dio? In qualche senso, sì, o carissimi. Perché è impossibile amare il prossimo stabilmente, senza eccezione, attuosamente, con sacrificio di se stessi, anche quando esso è ingrato e ci odia, senza l’aiuto di Dio, senza l’amore di lui e se nel prossimo non vediamo e non amiamo Dio stesso. “Niuno, dice S. Giovanni, vide giammai Iddio: se noi ci amiamo gli uni gli altri, Dio dimora in noi e la sua carità in noi è compiuta „ (Epist. I. IV, 12). Che è come dire: Iddio si ama nell’uomo: chi ama l’immagine di Dio, ama Dio, e l’uomo è veramente l’immagine viva di Dio sulla terra. Amiamo adunque Dio e ameremo il prossimo: amiamo il prossimo, come si dee, ed ameremo Dio, perché questi due amori non si possono separare.

Graduale Ps CI: 16-17

Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i re della terra la tua gloria.]

V. Quóniam ædificávit Dóminus Sion, et vidébitur in majestáte sua. Allelúja, allelúja. [Poiché il Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia, allelúia] Alleluja

Ps XCVI: 1 Dóminus regnávit, exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja. [Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.

Matt VIII: 23-27

“In illo témpore: Ascendénte Jesu in navículam, secúti sunt eum discípuli ejus: et ecce, motus magnus factus est in mari, ita ut navícula operirétur flúctibus, ipse vero dormiébat. Et accessérunt ad eum discípuli ejus, et suscitavérunt eum, dicéntes: Dómine, salva nos, perímus. Et dicit eis Jesus: Quid tímidi estis, módicæ fídei? Tunc surgens, imperávit ventis et mari, et facta est tranquíllitas magna. Porro hómines miráti sunt, dicéntes: Qualis est hic, quia venti et mare obœdiunt ei?”

OMELIA II

 [Mons. G. Bonomelli, ut supra, omelia XVIII]

” Gesù essendo entrato in una navicella, i suoi discepoli lo seguitarono: ed ecco si levò un grande movimento del mare, talché la navicella era coperta dalle ondate. E Gesù dormiva. I suoi discepoli, accostatisi a lui, lo svegliarono, dicendo : Signore  salvaci, noi ci perdiamo. E Gesù disse loro: A che tanta paura, o uomini di poca fede? E alzatosi, comandò al vento ed al mare e si fece grande bonaccia. E gli uomini ne stupivano, dicendo: E chi è costui, che i venti ed il mare gli ubbidiscono? „ (Matt. VIII, 23-28).

Gesù Cristo dopo aver guarito il lebbroso presso Cafarnao e in Cafarnao il famiglio del centurione e liberata dalla febbre la suocera di Pietro, lungo la riva del lago di Tiberiade o di Genesaret, che gli Ebrei chiamavano mare, montò sopra una barchetta e di là, come narra S. Marco (IV, 1, 2), ammaestrava le turbe schierate sulla riva. E poiché ebbe finito, licenziata la moltitudine, volle tragittarsi sulla riva opposta del lago. Nella traversata avvenne il fatto che vi ho narrato, che sarà il soggetto delle nostre considerazioni comuni, sì, ma pur sempre belle ed utili. “Gesù, essendo entrato in una navicella, i suoi discepoli lo seguitarono: ed ecco si levò un gran movimento nel mare, talché la navicella era coperta dalle ondate. „ Questo il fatto, che non ha bisogno di spiegazione di sorta; piuttosto qui è da ricordare una dottrina comune dei Padri, che ha il suo fondamento nei Libri santi, ed è questa: vi sono nei Libri divini fatti che dobbiamo tenere con tutta certezza, essere avvenuti, come si narrano e che sono ordinati a significare altri fatti e ad insegnarci altre verità. Così noi dobbiamo tenere che Isacco saliva veramente il monte, carico delle legna, come narra la Scrittura; ma dobbiamo anche tenere che Isacco, in quell’atto, raffigurava Gesù Cristo che saliva il Calvario, portando il legno della croce. Possiamo applicare questo principio al fatto evangelico, che veniamo considerando. Eccovi la barchetta, sulla quale montò Gesù Cristo coi discepoli: eccovi il mare e la tempesta, che sorge. Che simboleggia essa quella barchetta? Simboleggia la Chiesa, nella quale sta sempre Gesù Cristo co’ suoi discepoli. Che cosa adombra il mare? La vita presente, che si alterna tra le burrasche e la calma. E la burrasca che sorse, che significa? Le lotte, i travagli, le prove, le persecuzioni che la Chiesa deve sostenere attraverso ai secoli. Ora quello che si può dire della Chiesa, in qualche senso e ragguagliata ogni cosa, si può dire d’ogni anima, nella quale Gesù Cristo abita per la fede e per la grazia, che  viaggia su questo mare del mondo, ora tranquillo ed ora tempestoso. La storia della Chiesa e d’ogni anima cristiana è dipinta al vivo nella navicella, che solca il lago di Tiberiade. La Chiesa sferra dalle spiagge della terra, e spiega le vele verso le sponde del cielo: sopra di essa sta sempre Gesù Cristo con gli Apostoli, nella persona del suo Vicario e de’ suoi Vescovi e lo seguono i suoi fedeli. Essa, è vero, non può naufragare, ma non va immune da tempeste: tempeste suscitate dalle passioni, da nemici interni ed esterni, più o meno violente secondo i tempi ed i luoghi. Ricordatevelo bene, o figliuoli dilettissimi: Gesù Cristo non promise mai alla sua Chiesa la pace stabile; anzi le predisse persecuzioni d’ogni fatta: annunziò che le porte, cioè le potenze d’inferno, l’avrebbero sempre combattuta e ch’essa ne sarebbe uscita vincitrice. Dunque non facciamo le meraviglie se la vediamo sì spesso or qua, or là, ora nel capo, ora nelle membra fieramente assalita. È la sua condizione. Può avere periodi di pace; ma pace continua, stabile, non mai; essa naviga sul mare, troppo spesso campo e giuoco dei venti e delle procelle; la pace vera e perfetta l’avrà solo in quel dì, che si chiuderanno i tempi e getterà l’àncora sul porto tranquillo e sicuro della eternità. Ciò che dico della Chiesa, l’applichi ciascuno a se stesso, e si ricordi che la vita è una milizia, cioè un periodo, in cui la pace e le battaglie necessariamente si avvicendano. E perché Dio vuole che la sua Chiesa, come una nave, che veleggia sul mare, sia a sì frequenti intervalli flagellata dalle procelle? Perché il somigliante vuole o permette per ogni anima, che naviga in questo pelago fortunoso della vita? Perché, se la guerra mostra il valore del soldato, la lotta mette in luce la forza divina della Chiesa: perché le prove impongono la vigilanza continua, affinano la virtù, obbligano a ricorrere a Dio, esercitano la pazienza, avvivano la fede, accrescono la, speranza e danno occasione al merito. L’acqua che ristagna, impaluda e si corrompe; un’aria immobile si altera e soffoca; la pace troppo lunga snerva il soldato: il movimento preserva l’acqua dalla corruzione, la bufera muta e rinfresca l’aria, la guerra addestra il soldato, e le lotte ringagliardiscono e purificano la Chiesa non meno che i singoli fedeli (S. Cipr.: De Mortalitate). – Ritorniamo alla navicella, che sul lago di Tiberiade era fieramente sbattuta dai venti per guisa, dice il Vangelo, che a quando a quando era coperta dalle ondate e minacciata d’essere sommersa. Che faceva Gesù? “Egli  ntanto dormiva, „ col capo adagiato, come dice S. Marco, sopra un guanciale. Egli dormiva e, credo, veramente, non in apparenza. Egli era perfetto uomo, e come uomo aveva bisogno di cibo, di bevanda, di riposo e di sonno come noi, e perciò nulla di più naturale, che dopo le fatiche della predicazione e dell’intera giornata secondasse il bisogno della natura e si addormentasse. Egli certo vedeva il pericolo ed il terrore degli Apostoli, eppure dormiva e mostrava di non veder nulla e di nulla curarsi. Similmente talvolta accade che la Chiesa soffra grandi pressure e corra gravi pericoli, e che Gesù Cristo lasci fare e quasi dorma: accade talvolta che la navicella dell’anima nostra sia qua e là trabalzata dalle onde frequenti delle tribolazioni e delle tentazioni, e che l’aiuto dall’alto venga meno: Gesù dorme. Egli vuole che ricorriamo a lui, e così con la preghiera in parte meritiamo l’onore della vittoria. — E ciò che fecero gli Apostoli là sul lago di Tiberiade. Essi, vedendo Gesù che riposava tranquillamente, in sulle prime non volevano turbare il suo sonno; ma, crescendo l’impeto della procella, e levandosi più minacciose le onde, e non potendo più oltre reggere al timone ed ai remi, vistasi la morte alla gola, corsero a Gesù, e destatolo, sclamarono: ” Signore, salvaci, noi ci perdiamo. ,, E questo, o cari, uno dei frutti più preziosi delle tribolazioni e dei grandi pericoli: veggendoci impotenti a superare la prova, conosciamo meglio noi stessi, sentiamo la necessità del soccorso divino e mossi dalla fede e dalla speranza, ci prostriamo innanzi a Dio e preghiamo. — Ah! sono le tribolazioni, sono i dolori, sono le tentazioni quelle che ci sollevano da questa terra e ci conducono a Dio. – Gli Apostoli ricorsero a Gesù e lo pregarono perché li stringeva davvicino il pericolo della morte. Imitiamoli ogni qualvolta i venti delle tentazioni e delle tribolazioni agitano e minacciano la navicella dell’anima nostra: il nostro grido, la nostra preghiera sia quella stessa degli apostoli: “Signore, salvaci, . noi ci perdiamo — Domine, salva nos, perimus. E Gesù disse loro: A che tanta paura, o uomini di poca fede? „ E come ciò? Gli Apostoli si gettano ai piedi di Gesù e lo pregano con tutto l’ardore dell’anima di salvarli dalla morte, ed Egli li rimprovera, come soverchiamente timidi e uomini di poca fede? Dovevano dunque astenersi dal pregarlo ed aspettare quando tutti fossero stati gettati in mare? Perché dunque il rimprovero? Senza dubbio Gesù li rimprovera pel soverchio timore, onde erano sopraffatti, timore, che non dovevano avere, trovandosi con Lui, che non poteva perire: è il manco di conoscimento della sua divina persona, l’angoscia smodata, la poca fede che Gesù riprende negli Apostoli. Allorché preghiamo d’essere liberati dai mali del corpo, non ci facciano mai difetto la calma, la rassegnazione ai divini voleri e la figliale fiducia in Dio. “E alzatosi, Gesù comandò ai venti ed al mare e si fece grande bonaccia. „ Sembra evidente che Gesù volgesse la parola al vento ed al mare, anzi S. Luca dice che li rimproverò, e ciò in forma di comando assoluto, come Signore d’ogni cosa, e incontanente si quietò il vento, e il lago tornò tranquillo in guisa che apparve chiaramente tutto ciò essere stato effetto del volere di Gesù Cristo. Come allora pregato fece cessare la tempesta del lago, così anche al presente, pregato da noi, sperderà i venti e le burrasche, che travagliano la sua Chiesa e turbano le anime nostre, se ciò tornerà a bene di quella e di queste. Purtroppo, o fratelli, per molti si pecca in varie maniere per ciò che spetta il ricorrere a Dio nei bisogni. – Vi sono molti, che non si curano di ricorrere a Dio allorché i nemici spirituali li stringono e le passioni rompono a rivolta, o ricorrono fiaccamente. Questi cadranno, perché senza l’aiuto di Dio non possono far nulla, e l’aiuto Iddio ordinariamente non l’accorda a chi non lo prega. Allorché adunque la tentazione ci preme e ci incalza, leviamo la mente a Dio, imploriamo con fede viva il soccorso, ed il soccorso, non ne dubitate, verrà. Vi sono altri, che nelle pene della vita, nei travagli temporali, nelle infermità, nelle calamità pubbliche o private, corrono ai piedi degli altari, pregano, fanno pellegrinaggi, digiuni e pretendono in modo assoluto che Dio li esaudisca. Costoro confondono malamente le cose: allorché si tratta della salvezza dell’anima nostra, dei beni spirituali assolutamente necessari, anche la preghiera può e deve essere assoluta, perché Dio si è obbligato ad esaudirci. Non sia mai per altro che vogliamo imporre a Dio il tempo e il modo. Che se si tratta di beni temporali, la nostra preghiera vuol essere condizionata, perché potrebb’essere che ciò che per noi si domanda non piacesse a Dio e tornasse anche di danno al conseguimento della salvezza nostra. Stiamo in guardia contro tutti questi difetti, nei quali frequentemente si cade anche dai buoni. “Gli uomini poi ne stupivano, dicendo: Chi è costui, che il vento e il mare gli ubbidiscono? „ Questi uomini, che rimasero colmi di stupore alla vista di tanto miracolo, erano gli Apostoli e forse anche alcuni altri, che sopra altre piccole barche l’avevano seguito. Ed è bene a credere, che non solo stupissero del miracolo, ma vivamente ringraziassero Gesù d’averli scampati dalla morte e lo riconoscessero per l’aspettato Messia, per Salvatore del mondo e l’adorassero. Figliuoli carissimi! la gratitudine è un sacro dovere con gli uomini, allorché ci beneficano: quanto è più sacro con Dio ogni qualvolta ci benefica, e ci benefica sempre, ad ogni istante! La gratitudine dei benefici ricevuti è il miglior mezzo per ottenerne altri anche maggiori.

 Credo

Offertorium

Ps CXVII: 16; 17

Déxtera Dómini fecit virtutem, déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini. [La destra del Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma vivrò e narrerò le opere del Signore.]

Secreta

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut hujus sacrifícii munus oblátum fragilitátem nostram ab omni malo purget semper et múniat. [O Dio onnipotente, concedici, Te ne preghiamo, che questa offerta a Te presentata, difenda e purifichi sempre da ogni male la nostra fragilità.]

Communio

Luc IV:22 Mirabántur omnes de his, quæ procedébant de ore Dei. [Si meravigliavano tutti delle parole che uscivano dalla bocca di Dio.]

Postcommunio

Orémus.

Múnera tua nos, Deus, a delectatiónibus terrenis expédiant: et coeléstibus semper instáurent aliméntis. [I tuoi doni, o Dio, ci distolgano dai diletti terreni e ci ristorino sempre coi celesti alimenti.]

 

OTTAVARIO DEI MORTI (2) Immortalità dell’anima

OTTAVARIO DEI MORTI (2)

TRATTENIMENTO II

Immortalità dell’anima

[L. Falletti: I nostri morti e il purgatorio; M. D’Auria Ed. Napoli, 1924 – impr. – ] 

Sommario — Che sarà del corpo? — E dell’anima? — Le perfezioni di Dio esigono l’immortalità dell’anima — La sua giustizia — La sua bontà — L’esige la natura dell’uomo — Consenso generale — Perché il rispetto alle spoglie mortali?  Pensiero consolante. Esempio.

È legge inesorabile che noi tutti dobbiamo morire: lo disse chiaramente S. Paolo: « Statutum est hominibus semel mori! » Qual sorte sia per toccare al nostro corpo, noi ben il sappiamo; non son punto necessari grandi ragionamenti per persuaderci che, formato dalla terra, alla terra dovrà ritornare. Non è questo un mistero per alcuno: « Ricordati, o uomo, che sei polvere, ed in povere ritornerai », ci ripete ogni anno la Chiesa nel deporci in sulla fronte le ceneri nel primo giorno di Quaresima. Ma non è già del corpo che noi dobbiamo eccessivamente preoccuparci, ma bensì dell’anima, che è la parte più nobile e preziosa di noi stessi; ora dell’anima che ne sarà? Subirà dessa pure la condizione del corpo e perirà con esso lui? Ah! lo so che così la pensano i libertini dei giorni nostri, non dissimili in ciò dai gaudenti del tempo di Salomone che, non contenti di contemplare con isguardo indifferente la morte, esclamavano con scandalosa indifferenza: « Coroniamoci di rose prima che appassiscano: la breve durata dei giorni nostri ci avverte di prevenire fra i godimenti le ingiurie del tempo… Dopo la morte vi ha il nulla; la loquela non è che una scintilla, spenta la scintilla, il corpo ritorna cenere e lo spirito si dissipa ». Ma fortunatamente così non è: e noi già l’abbiamo accennato nel trattenimento precedente. L’immortalità dell’anima però è argomento troppo importante perché noi ci limitiamo a brevi accenni. Non è desso il fondamento e la base di quanto noi andremo in seguito dicendo? poiché se l’anima muore col corpo, a qual prò la divozione verso quelle anime che, non ancora purificate, soffrono nel carcere del purgatorio? Prima adunque di procedere oltre, diremo alcunché di questo dogma necessario dell’ immortalità dell’anima, che Dio non ha già scritto sulla pietra o sulla pergamena, ma ha scolpito nell’intimo dell’esser nostro: Egli ha voluto che l’uomo non potesse rigettarlo, se non a patto di abdicare a se medesimo. Ed una prima prova ci viene fornita dalla natura stessa di Dio. Il grande Iddio infatti, che noi adoriamo, possiede in un grado infinito tutte le perfezioni: Egli è infinitamente potente, buono, giusto, sapiente; e tutte queste perfezioni gli sono talmente necessarie che non si potrebbe rifiutargliene una senza negare la sua stessa esistenza. Non é egli forse vero che se noi, per esempio, ammettessimo che Iddio, anche per un istante solo, non fosse giusto oppure rimanesse indifferente dinanzi al bene ed al male, pel fatto istesso Egli cesserebbe di essere Dio? Ciò ammesso, noi diciamo che Dio non sarebbe né giusto, né buono, se non avesse creato le anime nostre immortali. Ed anzitutto non sarebbe giusto, se Egli permettesse che l’anima nostra morisse in un col nostro corpo. La giustizia invero esige, non solo in terra ma anche in cielo, che si renda a ciascuno ciò che gli è dovuto: alla virtù la sua ricompensa, al delitto il suo castigo. Io sento nel più intimo della mia coscienza che colui che fa il bene è degno di stima e di premio, mentre colui che opera il male, non solo è biasimevole, ma è ancora meritevole di punizione. Tale è il sentimento universale, la voce della natura: e se Dio. che ha stampato nelle anime nostre questa invincibile nozione della giustizia, non vi conformasse la sua condotta, dovremmo dire che Egli non sarebbe giusto, e quindi cesserebbe di essere il vero Dio. Ora io mi dimando: È così che le cose si passano in sulla terra? possiamo noi dire di aver sempre veduto il vizio castigato, come si merita, e le buone azioni sempre coronate di una legittima ricompensa? o non è piuttosto il contrario che sovente addolora i nostri sguardi? Chi non ha visto la maggior parte degli uomini virtuosi trascorrere i loro giorni quaggiù nella povertà, nelle persecuzioni, nelle tribolazioni, ed accanto a loro uomini perversi e immersi in tutti i vizi vivere ricchi, felici, corteggiati, adulati, portati alle stelle? Ammessa e riconosciuta una tale verità, non esige forse la giustizia che vi sia un’altra vita, in cui tante virtù, che sono in sulla terra disconosciute, ricevano finalmente il premio che hanno meritato, e tanti delitti, che restano quaggiù impuniti, siano finalmente puniti? – Ora come sarebbe ciò possibile, se le anime non avessero una vita al di là della tomba? Egli è adunque necessario che le anime siano immortali altrimenti Iddio non sarebbe giusto. Tale è la voce del buon senso e della fede, e se talvolta qualche incredulo uscisse in quelle parole blasfeme: « Dove è adunque la giustizia del vostro Dio? a qual prò farci violenza, quando in sulla terra Egli rimane indifferente tanto al bene quanto al male? » rispondiamo loro con S. Agostino: « Pazienza, pazienza, l’anima tua è immortale, e Dio è eterno. Egli non vuole sempre colpire il delittuoso durante la vita presente, perché non vuol distruggere la sua libertà; ma saprà ben Egli raggiungerlo un giorno. Nulla dimentica la sua giustizia, e per aver indugiato qualche po’, non sarà che più terribile. Che importa qualche giorno di più, ed anche qualche anno, a Colui che possiede l’eternità: Patiens quia æternus? ». Dico dippiù che Iddio non solo non sarebbe giusto, ma non sarebbe neppure buono, se non avesse creato le anime nostre immortali. La bontà è la perfezione che è più conosciuta del nostro Creatore. Non v’ha creatura che altamente non la proclami, e non vi si raccomandi con fiducia, facendovi appello noi stessi quando invochiamo Iddio col nome di Padre nostro, dandogli così il nome che esprime tutto ciò che la bontà ha di più dolce e di più forte. Ora se l’anima nostra non fosse immortale, come potremmo noi credere alla bontà di Dio? È un fatto che, per la grande maggioranza dei mortali, i giorni avversi sono più numerosi di quelli prosperi e per quanto sia breve la nostra vita, infiniti sono i mali ed i dolori che ci tormentano. Mentre le malattie e le infermità abbattono i corpi, le anime nostre vivono in preda a continue inquietudini ed agitazioni, e non è che per una rarissima eccezione che qualche volta vediamo risplendere sul nostro capo il sole radioso della felicità. Se così è, che dobbiamo noi pensare d’un Dio che non ci avrebbe creati che per renderci vittime di tante miserie? Egli non era punto obbligato di trarci dal nulla, ma poiché gli piacque di chiamarci alla vita, la sua bontà gli imponeva di non far sì che la nostra esistenza fosse soltanto per noi un male. Sì, se l’anima nostra non fosse immortale, bisognerebbe dire che Dio ha creato l’uomo per un capriccio crudele, gli impone la vita come un peso schiacciante, e non ne lo libera che quando è stanco di tormentarlo. Ma chi non vede che questa sarebbe una conclusione orribile e nondimeno rigorosamente vera, se non si ammettesse l’immortalità dell’anima? – Ma, ammettendo questo dogma consolatore, tutto cangia immediatamente d’aspetto nella nostra vita. Comprendiamo subito che Iddio, che ci ha creati liberi, liberamente ci lascia quaggiù agire, riserbando per più tardi i suoi diritti. Le miserie presenti, le malattie, i dispiaceri, che il più delle volte sono originati dalle nostre stesse colpe, non hanno più nulla che possa spaventarci; essi, secondo l’espressione dei Libri santi, sono radice d’immortalità. Seminiamo la virtù nelle lagrime per raccogliere un dì una messe abbondante di felicità eterna. La vita presente non è che un viaggio brevissimo, la nostra patria è il cielo. Che importa se difficile è il cammino, quando in capo ad esso noi troveremo il riposo e la gioia d’una inalterabile beatitudine? Cessi adunque il nostro labbro di accusare la bontà divina, se noi, finché vivremo in questa terra d’esilio, incontreremo triboli e spine: noi sappiamo qual magnifica ricompensa non riservi Iddio ai nostri travagli in una vita futura. Egli è sempre buono, e le anime nostre sono immortali. Appoggiati ad una tale incrollabile speranza, cammineremo sempre calmi e fiduciosi, perché, in mezzo ai dolori che riempiono la nostra vita, sappiamo che, al termine della nostra mortale carriera, ci aspetta il tesoro dell’ immortalità.

II

Una seconda prova non meno luminosa e convincente, e nello stesso tempo più facile a capirsi, dell’immortalità dell’anima, ci viene fornita dalla stessa natura dell’uomo. Che altro mai infatti vuol significare quell’orrore istintivo e quasi insormontabile che noi tutti proviamo per la morte? Perché mai anche le volontà più energiche si sentono profondamente commosse, quando si avvicina questo momento terribile? Si ha buon conto di burlarsi della morte quando non si ha che vent’anni, si è pieni di forza e di salute, e si respira a pieni polmoni l’aria profumata della primavera della vita; ma non appena le ali della morte ci toccano leggermente ahi! come scompare a poco a poco tutta la nostra sicurezza! Giovani e vecchi, ricchi e poveri, ferventi Cristiani o increduli ostinati, tutti si sentono atterriti e sperduti all’avvicinarsi dell’istante supremo. Un orrore segreto ci agita, un sudore freddo inonda la nostra fronte, e fin nelle braccia della morte ci dimeniamo ancora per prolungare la nostra vita. Donde mai tanto terrore della morte? Dalla convinzione intima che non tutto il nostro essere è destinato a scomparire, non è tanto la cessazione della vita che ci spaventa, quanto quello che le terrà dietro; e se fossimo certi, che v’ha il nulla al di là del sepolcro, subiremmo l’estremo passaggio senza agitazione. Ma il pensiero di un’altra vita ci preoccupa nostro malgrado: l’idea di un non so quale soggiorno ignoto e misterioso in cui stiamo per entrare, senza sapere precisamente se abbiamo meritato di esservi felici o infelici, mette in subbuglio l’anima nostra e c’inspira quei sensi di terrore da cui non possono liberarsi neppure i più coraggiosi. Ed è così che la natura dell’uomo, nel suo orrore per la morte, rende una preziosa testimonianza all’immortalità dell’anima. – Un’altra testimonianza, non meno preziosa, ci viene fornita dal consenso unanime del genere umano nel credere a questo dogma consolatore. Qual credenza infatti più antica di questa? Non è già da ieri, da duecento, da due mila anni che l’umanità la possiede e se la trasmette d’età in età: questa convinzione rimonta alla sua origine stessa, sì bene che la storia non ha mai potuto citarci il nome di un solo uomo di genio che per primo, in un dato momento, abbia detto: L’anima mia è immortale! Ci fa d’uopo rimontare su, su, per tutti i secoli per arrivare fino ad Adamo e da lui fino a Dio, suo Creatore, il quale gli ha rivelato l’immortalità dell’anima sua, e ne ha conservato gelosamente il senso intimo nei suoi discendenti. Dessa è ancora una tradizione universale la quale costituisce talmente il fondo dell’umanità che invano si cercherebbe un popolo che non l’abbia professata. Hanno dessi i popoli un bel vivere separati gli uni dagli altri per immense distanze, o per profonde differenze di linguaggio, di costumi, di religione, tutti sono però unanimi nella credenza a questa verità. L’indiano invoca l’ombra di suo padre , come il Cinese rende un culto solenne ai suoi antenati, e quando i nostri Missionari si recano nelle vaste regioni dell’America del Sud, o nei torridi deserti dell’Africa, sempre trovano presso le miserabili tribù che colà abitano, la credenza a queste due verità: la fede nell’esistenza di un Dio, e la persuasione della sopravvivenza delle anime. Ora se gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi hanno sempre creduto e credono tuttora a questo dogma così importante, bisogna ben dire che sia vero. Non è possibile che tutto quanto il genere umano si sbagli sopra un punto così capitale, e sarebbe dar prova di poco criterio, per non dire peggio, il volersi mettere in opposizione contro una sì completa e costante unanimità.

III.

Finalmente un’ultima prova ci viene fornita dal culto, dalla pietà, dal rispetto che si ha sempre avuto e si ha tuttora per le misere spoglie mortali, anche allorquando furono separate dal principio vitale. « Noi vediamo infatti nella storia nell’antico Testamento, dice S. Agostino, gli uomini più raccomandabili pei loro meriti e per la loro pietà rendere onori insigni alla spoglia mortale delle loro spose, come Abramo fece per Sara; innalzare loro monumenti, come quello che Giacobbe fece innalzare sulla strada di Efrata per la sua diletta Rachele; noi li vediamo preoccuparsi, ancora viventi, della loro sepoltura, come Giuseppe che diede ordini per la traslazione delle sue ossa nella terra dei padri suoi ». E che non avvenne dopo che Gesù spirò l’anima sua sul Calvario ? Due dei suoi più cari discepoli, volendo in qualche modo consolarsi della perdita di sì buon Maestro, si affrettano di rendergli gli onori della sepoltura; e l’Evangelista si fa uno studio di mettercene sott’occhio il lusso veramente notevole. Si procurano con grandi spese dei profumi, circa cento libbre di mirra e di aloè, e inviluppano il corpo di Gesù in un bianco lenzuolo con aromi. E noi, che troviamo ovunque il buon Gesù, circondato d’indigenza e di povertà, nel sepolcro invece il vediamo ricevere dai suoi discepoli tutte le cure più delicate. E l’Evangelista, dopo averci ciò narrato, ci fa osservare che i discepoli, così diportandosi, non facevano altro che seguire l’usanza di quei tempi. Ora perché, ci domandiamo noi. tante cure, tanti riguardi, tante delicate attenzioni per quei miseri resti, fulminati dalla morte, destinati fra breve a ridursi a quel non so che, che non ha nome in nessun linguaggio del mondo? Forse unicamente per tributare un ultimo segno di stima e d’ amore per coloro dei quali deploriamo e piangiamo la perdita? Oh! Certamente no; ma bensì e soprattutto perché si vuole preservare per qualche tempo ancora dalla corruzione la dimora terrestre di una anima immortale, destinata a regnare eternamente con Dio in cielo. Lo dice chiaramente S. Agostino : « La cura data al corpo che è inanimato, ma che dovrà risuscitare un giorno ed esistere eternamente, è una testimonianza di questa fede nell’immortalità dell’anima Ecco perché non è possibile, che noi cessiamo d’amare ed onorare i corpi dei nostri parenti ed amici, quando la morte è venuta a strapparceli! Essi che ci furono così cari e venerandi durante la loro vita, e perché non dovranno più esserlo dopo la morte? Trattiamo quindi con grande rispetto i corpi dei defunti, specialmente quelli dei giusti e dei fedeli dei quali lo Spirito Santo si è servito, come di strumento, per ogni specie di buone opere. Se si conserva la veste di un padre, il suo anello, se tali oggetti sono tanto più cari ai discendenti, quanto più vivo è l’affetto verso i parenti, perché non dovremo noi rispettare i loro corpi, non solo perché ci furono più intimamente uniti, ma soprattutto perché furono il soggiorno di un’anima immortale, il tempio dello Spirito Santo, l’ara sacrosanta su cui riposò il Corpo ed il Sangue di Gesù? » – Ed ecco quindi perché noi, dominati da tali sentimenti, che la Chiesa approva e consacra, perché essa non è venuta ad abolire la legge, ma a perfezionarla ed a conservare quanto di sacro e di rispettabile v’ha negli antichi costumi e nella natura, non appena uno dei nostri simili, parente o amico, ha reso l’ultimo respiro, noi gli chiudiamo piamente gli occhi, collochiamo tra le sue mani ghiacciate un crocifisso, poi, gettando sulla fredda spoglia qualche goccia d’acqua benedetta, recitiamo per lui un De Profundis, un’Ave Maria. Il giorno dopo accompagniamo alla Chiesa colui che ieri era ancora un uomo ed oggi non è più che un cadavere. Il prete offre per lui il santo sacrificio, mentre noi tutti, con la fronte chinata, in ginocchio, a pie’ dell’altare ci percuotiamo il petto ripetendo l’inno della misericordia: O Signore, dà all’anima sua il riposo eterno! E quando finiti sono i funebri canti noi versiamo ancora una ultima lagrima con un’ultima preghiera sulle sacre zolle che ci nasconderanno per sempre un padre, una madre teneramente amati. Ci ritiriamo finalmente lasciandolo d’ora innanzi in custodia del crocifisso che stende le sue braccia protettrici sul campo dell’ultimo riposo. – Ecco quello che comunemente si fa alla morte dei nostri cari, e guai se qualcuno fosse così ardito da impedirci così commovente manifestazione, sapremmo ben noi protestare come si deve! Ora, come già dissi, se tutto morisse col corpo, perché mai queste cerimonie, queste preghiere, queste pompe funebri? Qual vantaggio per quel povero corpo, invaso dal freddo della morte e senza vita, che viene portato all’ultima dimora? Forsechè i vermi lo divoreranno meno prestamente? A qual prò pregare per un cadavere? Oh! sì, se non si crede all’ immortalità dell’anima, checché dire ne possano gli organizzatori dei funerali civili, di queste sacrileghe parodie il cui solo spettacolo rattrista qualche volta i nostri sguardi, tutto ciò non si risolverebbe che in una commedia, insultante per coloro che ne sono l’oggetto e disonorante per coloro che la rappresentano. Ma viva Dio! non è al corpo che tutte queste dimostrazioni sono rivolte, ma bensì all’anima, all’anima immortale che nell’uscire dalla sua prigione di carne, è comparsa davanti al suo Dio ed al suo giudice, a quest’anima che forse soffre nelle fiamme del Purgatorio e che noi perciò dobbiamo suffragare. Ed ecco perché ognuna delle nostre preghiere per i morti è un atto di fede nell’immortalità dell’anima, e che quindi è cosa buona e salutare pregare per coloro che non sono più. Incrollabile sia adunque la nostra credenza nell’immortalità dell’anima, poiché se questo dogma è per noi consolantissimo in tutte le circostanze della vita, lo è specialmente in quei momenti terribili, in cui la morte ci strappa qualcuno dei nostri cari. In mezzo a queste grandi catastrofi che desolano la nostra vita e ci riempiono di dolore, quanto non è dolce il pensare che l’oggetto del nostro affetto non è tutto intero rinchiuso sotto la pietra del sepolcro, ma che la miglior parte di esso sfuggì alla morte, e ci attende nell’ eternità, ove speriamo di rivederlo! Ed è appunto a questo consolante pensiero che ci invita a ricorrere la Chiesa, ogni qualvolta ci fa risuonare all’orecchio

i l magnifico Prefatìo che si legge nella Messa dei defunti. « In Cristo, ella esclama, rifulse per noi la speranza di una beata risurrezione, affinché coloro cui contrista una certa condizione di morire vengano consolati dalla promessa della futura immortalità. Imperocché ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non vien tolta, ma solo mutata, e sciolta la casa di questo soggiorno terrestre, viene preparata in cielo una eterna dimora ». « O immortalità benefica, esclamiamo adunque ancor noi con un illustre oratore, io credo alla tua esistenza, e vi crederò sempre. Il tuo pensiero è una forza soprannaturale che mi consola nei miei dolori, mi fortifica contro le tentazioni, mi sostiene nella pratica delle virtù per meritarti in cielo. Tu sei la mia migliore speranza, perché è in seno a te che io voglio possedere il mio Dio e gustare la felicità eterna che Egli promette a coloro che lo servono fedelmente, Credo vitam aeternam.

ESEMPIO: Un principe polacco.

Il celebre P. Lacordaire, al principio delle sue conferenze sulla immortalità dell’anima, raccontava agli allievi del collegio di Soreze il seguente esempio: « Un principe polacco, incredulo e noto materialista, aveva scritto un libro e stava per farlo stampare, quando un giorno, passeggiando nel suo giardino, incontra una donna tutta in lagrime, che gettandosi ai suoi piedi, gli dice: « Ah! mio buon padrone, mio marito è morto la sua anima sarà in Purgatorio, dove soffrirà tanto; ed io sono così misera da non potere dare la somma sufficiente per fare celebrare la Messa pei defunti. Abbiate la bontà di aiutarmi a favore del mio povero marito.» Il gentiluomo, sebbene pensasse che la donna era vittima della sua credulità, non ebbe il coraggio di respingerla. Trova una moneta d’oro nella tasca e gliela dà; la donna, felicissima, corre in chiesa e prega un sacerdote di celebrare delle Messe per l’anima del suo marito. Cinque giorni dopo, il principe rileggeva il detto manoscritto nel suo gabinetto; quando, alzando gli occhi, vede a due passi da lui, un uomo vestito come un contadino del paese: « Principe, sente dirsi dallo sconosciuto, vengo a ringraziarvi: sono il marito di quella povera donna che vi pregava, pochi giorni fa, di darle un’elemosina per fare celebrare la santa Messa in suffragio dell’anima mia. La vostra carità è stata gradita da Dio: ed è Egli che m’ha permesso di venire a ringraziarvi. » Ciò detto il contadino sparì come un’ombra. Dopo di ciò quel principe diede alle fiamme il suo lavoro e cedendo alla verità ed alla grazia di Dio si convertì e visse da buon cristiano sino alla morte.

LO SCUDO DELLA FEDE (XXXV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXXV.

LA PENITENZA E L’ESTREMA UNZIONE.

Il sacramento della penitenza non può essere stato inventato dai preti. — L’ha istituito Gesù Cristo. — Errore di Lutero nell’attribuirlo a Papa Innocenzo III. — La confessione non è dura, benché apporti una salutare umiliazione. — Il segreto della confessione. — La prudenza nella manifestazione del peccato commesso con altri. — L’estrema Unzione.

— Ed anzitutto la prego di dirmi francamente e magari in confidenza se non sono stati proprio i preti che abbiano inventato questo Sacramento della Penitenza.

Così asseriscono i protestanti e in seguito a loro molti increduli dei giorni nostri, senza neppur sapere che cosa si dicano. Difatti, si provino costoro a dire quali siano stati i preti di che luogo, di che tempo, i quali abbiano fatto questa invenzione? Possibile che la Storia, la quale, se si tratta di quella profana, ci narra per filo e per segno non solo tutte le vicende dei popoli, tutte le loro guerre, tutte glorie, tutte le loro ignominie, ma eziandio tutte le invenzioni, tutte le innovazioni, tutte le riforme che si fecero, e se si tratta di quella ecclesiastica, ci registra minutamente non solo tutte le opere compiute dai Pontefici, dai Vescovi, dai Concili generali e particolari, tutte le istituzioni, tutte le leggi, tutti i decreti, tutte le pratiche devote, ma eziandio tutte le eresie, tutti gli scismi, tutte le novità che si tentò d’introdurre nel seno della Chiesa, non dica assolutamente nulla del quando, del dove, del come i preti introdussero la pratica della confessione? E poi dimmi, se sono stati i preti ad inventare la confessione, non dovevano averci qualche fine! Ora quale interesse ci possono avere? che cosa ci guadagnano? che si paga loro per la confessione? che divertimento vi si pigliano, massime quando devono stare in confessionale delle ore intere, respirando talora certi aliti poco somiglianti all’odor di rosa, quando devono levarsi su di notte, di gelato inverno, per recarsi al letto dei moribondi, quando infine in tempo di colera, di peste, di altre malattie contagiose devono ben anche sfidare la morte? – Di più: se fossero stati essi ad inventare la Confessione non ti pare, che avrebbero dovuto avere la furbizia di esimere se stessi da quest’obbligo, di modo che non si vedesse e non si sapesse, che anch’essi, preti, vescovi, cardinali e Papi vanno a confessarsi? Ah! davvero che per buttare là di cosiffatte calunnie ci vuole fronte ben incallita, tanto più pei protestanti che han sempre il Vangelo in bocca e nelle mani! Perciocché il Vangelo non mostra forse nel modo più chiaro che questo sacramento fu istituito, come tutti gli altri da Gesù Cristo?

— Sarei contento di conoscere ciò con la massima precisione.

Ascolta adunque. Il Vangelo ci narra che Gesù Cristo dopo la sua risurrezione apparso agli Apostoli disse loro: « Come il Padre mio ha mandato me, così Io mando voi. Ricevete lo Spirito Santo. I peccati saranno rimessi a coloro, ai quali li rimetterete, e saranno ritenuti a coloro, ai quali li riterrete » (Vedi Vangelo di S. Giovanni, capo XX, versetti 22, 25). Dalle quali parole non risulta chiaro che è Gesù Cristo l’istitutore del Sacramento della Penitenza?

— Scusi: da tali parole risulterà chiaro che Gesù Cristo ha dato agli Apostoli il potere di rimettere o no i peccati, ma non risulta chiaro che Egli abbia voluto la confessione ossia la manifestazione dei nostri peccati ai sacerdoti.

Lasciami proseguire, e vedrai che risulterà chiaro anche questo. Tu dunque hai già riconosciuto il potere dato da Gesù Cristo agli Apostoli. Ora dimmi, con quale criterio avrebbero dovuto essi esercitare un tale potere? Così a capriccio, a talento, ad impulsi momentanei per modo che possa avvenire che sia perdonato chi non ne è degno, e non sia perdonato chi lo merita?

— Oh ciò non può essere; sarebbe contrario alla ragione, indegno del volere di Dio. Essi avrebbero dovuto esercitare un tale potere secondo le leggi della giustizia e della equità.

Benissimo. Or dunque come giudicare le coscienze, e per quanto è possibile con giustizia ed equità, senza conoscerle? e come conoscerle senza che queste si rivelino, e con esattezza e precisione? In termini più chiari, come l’assoluzione o la negazione della medesima senza la confessione? Né starmi a dire che Gesù Cristo non ne parla espressamente: ciò non era affatto necessario. Se un principe costituisce dei giudici a far le parti sue nell’assolvere e condannare gli accusati, è necessario che dica loro: Badate bene che prima di assolvere o condannare, voi dovete pigliar buona conoscenza dei fatti, obbligando e gli accusati e i testimonii a manifestarveli? No, assolutamente no, perché dal momento che il principe costituisce dei giudici a far le sue veci, ciò intende che si faccia. Or dunque se Gesù Cristo ha dato agli Apostoli e ai loro successori la potestà di assolvere o di non assolvere, Gesù Cristo senza dubbio ha voluto e vuole eziandio che si faccia quanto è necessario al conveniente esercizio di questa potestà. Senza di ciò il potere dato agli Apostoli med ai loro successori non sarebbe che un potere ridicolo. No, non è possibile sfuggire a questo termine sacrilego per Gesù Cristo, se non si crede che Gesù Cristo nel conferire una tale potestà abbia pure implicitamente voluto la confessione auricolare, specifica e precisa, se non si crede insomma che la confessione è opera divina.

— Il suo ragionamento non fa la più piccola piega, e non capisco come i protestanti osino venir fuori a dire che la confessione è invenzione dei preti! Mi pare tuttavia d’aver inteso dire che Lutero l’attribuisse al Papa Innocenzo III, nel Concilio di Laterano IV.

Sì, è così propriamente, ma oggidì gli stessi scrittori protestanti riconoscono che egli volle deliberatamente prendere un solenne granchio, essendoché quel Papa in quel Concilio non ha fatto altro che stabilire con un decreto disciplinare, che i Cristiani giunti all’uso della ragione vadano a confessarsi almeno una volta all’anno. Del resto, se fosse così, non si dovrebbe trovare traccia della confessione prima dell’anno 1215, in cui quel Papa fece tale decreto. E invece fin dai primi secoli del Cristianesimo le prove di sua esistenza e pratica abbondano. Negli Atti degli Apostoli si riferisce che i Cristiani di Efeso convinti del male che avevano fatto nel ritenere dei cattivi libri, andarono ai piedi di S. Paolo a « confessare ed annunziare le opere loro ». S. Clemente, terzo Papa dopo S. Pietro, scrivendo ai Cristiani di Corinto, i quali avevano commessi gravi disordini, li esorta a confessarsi, mentre sono ancora in tempo, perché, egli dice, quando saremo partiti per l’altro mondo, colà non potremo più confessarci. Nel secolo II abbiamo tra le altre la testimonianza di S. Ireneo, vescovo di Lione, il quale parlando di certe donne, dice che prese dalla vergogna dei loro peccati, non avendo osato di confessarsi, caddero nella disperazione. S. Cipriano, vescovo di Cartagine, nella metà del III secolo parla dei Cristiani che si confessano ai Sacerdoti di Dio con dolore e con sincerità, e depongono il peso della loro coscienza, e cercano il rimedio alle loro ferite. Che poi nel IV secolo la Confessione dei peccati fatta ai sacerdoti fosse praticata siccome unico mezzo di ottenerne da Dio perdono, Sant’Ambrogio, vescovo di Milano, lo insegna con le parole e col fatto. Parlando della Confessione, egli scrive: Dobbiamo assolutamente astenerci da ogni sorta di vizio, perché non sappiamo se avremo tempo di confessarci a Dio e al Sacerdote. Il medesimo santo era un abilissimo confessore, onde Paolino, scrittore di sua vita, scrisse: Ogni volta che alcuno andava a confessargli le proprie cadute per ottenerne la penitenza, il santo Vescovo piangeva così, che costringeva al pianto anche il penitente. Nei secoli susseguenti dal quinto al dodicesimo le testimonianze della pratica della confessione si moltiplicano a dismisura, ed io le lascio per non abusare della tua mente, che si stancherebbe nell’udire tante volte ripetuta la stessa cosa. – Vedi adunque se può essere Innocenzo III, nel Concilio Lateranense IV, colui che ha istituito la Confessione! No, caro mio, la confessione non è, non può essere invenzione degli uomini: essa è opera di un Dio.

— Non mi potrà però negare che la confessione sia dura ed umiliante assai.

Ed io non ti voglio negare del tutto che confessarci sia duro ed umiliante. Ma che cos’è tutto ciò di fronte alla grave offesa, che si reca a Dio col peccato? Non poteva Gesù Cristo imporci una condizione più dura e più umiliante ancora? Non sta bene che sia così anche per mettere un ritegno al nostro peccare? D’altronde alla fin fine è tutto ciò che meglio risponde alla natura dell’uomo, che sotto l’oppressione di gravi affanni sente il bisogno di manifestarli altrui per confortarsi e, che riconoscendosi colpevole capisce che non v’ha nulla di più efficace a meritarsi il perdono che manifestarsi spontaneamente tale.

— Non poteva però Gesù Cristo stabilire che noi ci confessassimo a Dio, come dicono appunto di far taluni?

Sì, ma dacché Gesù Cristo nella sua infinita sapienza ha stabilito diversamente, bisogna fare come Egli ha voluto senza inutili ricerche. Del resto in questo caso, che ci avessimo da confessare a Dio, vi sarebbe ancora un’umiliazione adeguata alla superbia del peccato? Che cosa ci costerebbe pentirci in segreto e in segreto confessarci a Dio? Ed in questa umiliazione, che è già da nulla per il nostro spirito, quale castigo subirebbero i nostri sensi che devono pur essere castigati? Sapremmo noi ingiungere loro la dovuta penitenza? Il nostro amor proprio ci lascerebbe agire con giustizia? Il confessarsi adunque a Dio, soltanto, come vorrebbero far taluni, come anzi taluni pretendono di fare (senza però che realmente lo facciano), potrà parere maggior misericordia, ma non sarebbe in realtà, anche solo perché non umiliandoci e castigandoci abbastanza, non ci farebbe abbastanza comprendere la malizia infinita della colpa, né ce la farebbe abbastanza detestare e fuggire per l’avvenire.

— Eppure quelli che si confessano, sento a dire che sono peggiori degli altri.

Eh! via lasciamo un po’ da parte queste false statistiche comparative. Senza dubbio, oltrecchè la confessione non rende impeccabili, non tutti si confessano bene: e quei che si confessano male certo fanno peggio di coloro che non si confessano. Ma se si tratta di coloro, che si confessano bene, com’è possibile che avendo nelle loro opere il freno e l’aiuto della Confessione siano peggiori di coloro, che senza tale freno ed aiuto si danno in piena balia delle loro passioni?

— Certamente lo cosa dev’essere come lei dice. Ora vorrei soddisfatte ancora, riguardo alla confessione, certe mie curiosità. Io so che il confessore è tenuto al segreto e so pure che del segreto della confessione vi sono dei martiri. Non di meno non potrebbe il confessore avvertire i genitori o i superiori del penitente a stare attenti sopra di lui?

Guai, se egli lo facesse! Non può, non deve assolutamente farlo e non lo farà mai.

— Non potrebbe almeno far cenno ai genitori o superiori, che stiano più attenti in quel tempo, in quel luogo, in quella circostanza, in quel dato caso, sopra qualcuno dei loro figli o alunni?

Nemmeno, assolutamente non lo può fare.

— E se il confessore fosse un superiore, per le cose udite in confessione potrebbe togliere al penitente qualche punto di condotta o suggerire che glielo tolgano, oppure tenergli dietro per vedere, se esso fa di nuovo quel male che ha confessato?

Neppure, neppur questo. E a togliere, non dirò questi pericoli, ma anche solo questi sospetti la Chiesa desidera, e direi, vuole di volontà precisa, come apparisce da alcuni suoi decreti, che i superiori non ascoltino le confessioni dei loro dipendenti, se non in casi affatto eccezionali. Insomma è tale e tanto il rispetto che la Chiesa giustamente esige pel segreto della confessione, che se il tuo confessore avesse intesa da te una colpa, che egli, prima ancora che tu la confessassi, già conosceva, perché o l’aveva veduta o gli era stata riferita, dopo che l’ha intesa da te in confessione, si diporterà come se ne sapesse nulla affatto.

— Mi dica ancora; qualora un cotale avesse commesso delle gravi colpe con qualche altro, deve dire al confessore il nome di costui?

No; egli deve accusare se stesso e non gli altri, e nel caso che non gli sia possibile accusare il peccato e le circostanze che ne mutano la specie, senza indicare la persona, con cui fu commesso, si deve manifestare non il nome (e nemmeno l’ufficio o la carica, che copre una tal persona, giacché in certi casi sarebbe lo stesso che dirne il nome), ma la qualità o il grado di parentela, che si ha con la medesima, per esempio fratello, sorella, cugino, un prossimo parente, una persona religiosa, eccetera.

— E se il confessore cercasse un tal nome, minacciando al penitente di negargli l’assoluzione, se non glielo dice?

Il confessore, giova sperarlo, non commetterà mai cosa simile, giacché egli sa che simil cosa darebbe scandalo, recherebbe ingiuria al Sacramento della Penitenza, tenderebbe alla violazione del Sigillo Sacramentale, secondochè ha dichiarato il Sommo Pontefice Benedetto XIV, il quale per di più ha sapientemente sentenziato che quei confessori, i quali avessero l’ardire di insegnarla come lecita o di difenderla, o di sostenerla, incorressero immediatamente nella scomunica riservata al Papa. Quindi il confessore potrà fare benissimo delle interrogazioni, alle quali si è obbligati di rispondere con tutta sincerità, ma salva sempre la regola che ti ho detta circa il nome del compagno della colpa o la designazione del medesimo; epperò qualora per una qualsiasi supposizione accadesse il caso che mi hai fatto, il penitente potrebbe umilmente ricordare al confessore che ciò non occorre, nella certezza che il medesimo, se non v’è altra ragione che questa, non gli negherà l’assoluzione.

— Queste cognizioni mi piacciono assai, perché da una parte mi mostrano con quanta rettitudine e delicatezza la Chiesa voglia sia amministrato questo Sacramento, e dall’altra mi persuadono che certe cose che si dicono e si stampano contro la pratica di questo sacramento sono falsità o calunnie. – Ed ora mi favorisca ancora una parola sul sacramento dell’Estrema Unzione, e mi dica se vi ha cenno di essa nella Santa Scrittura.

Dell’Estrema Unzione così parla San Giacomo (capo V, versetti 14, 15): « Alcuno tra di voi cade infermo? Chiami i sacerdoti della Chiesa, i quali preghino sopra di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore; e la preghiera della fede salverà l’infermo, e Iddio gli darà conforto, e se si trova nei peccati gli saranno rimessi ». Dopo di che meritamente si deduce che anche questo Sacramento, senza che il Vangelo lo dica apertamente, sia stato istituito da Gesù Cristo.

— Ma l’amministrazione di questo Sacramento non pare a lei che sia un atto di crudeltà verso del povero infermo, che gli fa conoscere essere vicino a morire?

Pur troppo l’ignoranza e l’indifferenza religiosa dei nostri tempi fa credere a molti così, i quali perciò aspettano a chiamare il prete vicino al loro infermo, quando questi si trova già più nel mondo di là che ancora in quello di qua, con questo falso e sciocco pretesto di non spaventarlo. Ma dimmi un po’,  si ragiona forse così per indurre l’ammalato a fare il testamento? oppure anche solo per fare attorno al suo letto un consulto medico? Del resto quando pure non si potesse fare a meno di recare qualche po’ di commozione all’infermo col fargli venire dappresso il Sacerdote a dargli l’Olio Santo e gli altri Sacramenti,  che poi alla fin fine lo tranquillano e lo confortano ineffabilmente, non conviene di farlo per provvedere con maggior sicurezza alla sua eterna felicità? E il lasciare che l’infermo muoia, come si suol dire sìne luce e sine cruce, a guisa di un cane, ti pare carità, tenerezza, I pietà? Ah! caro mio: quanto importerebbe che certi pregiudizi a questo riguardo scomparissero e non fossimo più contristati da questo doloroso spettacolo di tante morti anticristiane, senza i conforti della fede! Fiat!

OTTAVARIO DEI MORTI (1) Il Cimitero

OTTAVARIO DEI MORTI (1)

TRATTENIMENTO VIII

Il Cimitero.

[L. Falletti: I nostri morti e il purgatorio; M. D’Auria Ed. Napoli, 1924 – impr. -]

Sommario — Anche dopo morte! — Dormitorio — Luogo del riposo — Campo Santo —Campo di Dio—Messe degli eletti —S. Agostino — Motivi di consolazione — Reliquiario prezioso — Sempre rispettato — Profanazione odierna — Inutili tentativi — Morieris tu! — Esempio.

Benedetta, sì, mille volte benedetta sia la nostra santa Religione! Essa che con assidua vigilanza e tenerezza materna segue ovunque i suoi figli nel cammino della vita, prendendo parte alle loro gioie ed ai loro piaceri, prodigando loro i suoi benefizi, i suoi incoraggiamenti e le sue consolazioni, non li abbandona neppure dopo la loro dipartita da questa terra; ed anche quando la morte li ha colpiti riducendoli ad un oggetto d’orrore agli occhi dei viventi, non cessa un momento di vegliare su di loro e di circondarli di sue cure premurose. Non permette perciò che i loro corpi vadano a marcire senza onore in una terra profana; ma vedendo sempre in essi dei vasi consacrati, che hanno racchiuso l’abbondanza dei doni celesti, e dei tabernacoli augusti, già dimora dello Spirito Santo, ha preparato loro un luogo di riposo che essa, dopo aver benedetto e santificato colle sue preghiere, ha collocato sotto l’autorità speciale dei suoi ministri. «I santi canoni, leggiamo nel Rituale romano, vogliono che il Vescovo benedica solennemente questi luoghi ove dormono i fedeli, morti nella Comunione della Chiesa, e proibiscono formalmente di seppellire i cristiani in un luogo profano ». E questi luoghi di riposo, ove dormono i fedeli si chiamano cimiteri. Oh! quanto adunque non dobbiamo essere riconoscenti alla Chiesa, la quale anche in ciò ha voluto tener conto di una aspirazione del cuore umano! « Non v’ ha persona, povera o ricca, esclama il domenicano Lacordaire, che non pensi alla sua tomba e non desideri riposare in una tomba amata sotto la custodia di santi ricordi. Gli antichi stessi, quantunque meno di noi istruiti sulla grandezza dei resti mortali, stimavano una disgrazia 1’essere privi di una sepoltura di loro scelta, e quando Scipione volle con un rimprovero eterno vendicarsi di Roma che, nonostante la sua provata onestà, aveva dato ascolto ai suoi accusatori inverecondi, legò le sue ceneri ad una terra d’esiglio e fece incidere sulla sua tomba questa amara ed eloquente iscrizione: « Ingrata patria, non avrai le mie ossa! » Ma non basta che noi ci mostriamo riconoscenti alla Chiesa, egli è ancor necessario che noi ci sentiamo penetrati di un santo rispetto verso questi luoghi venerandi, ed entrando nello spirito di questa buona Madre li consideriamo, non già soltanto come regno e dimora della morte, ma, ciò che è più consolante, come veri luoghi di dormizione, da cui i nostri corpi, ridestati un giorno dal sonno della morte, risorgeranno per partecipare gloriosi alla beata eternità. Non si poteva certamente dare al luogo di sepoltura dei nostri resti mortali un nome più appropriato e nello stesso tempo più consolante di quello di cimitero, parola di profondissimo significato, di filosofia tutta celestiale e di faustissimo augurio che, mentre mette la tomba sotto la protezione della speranza, toglie tutto il suo orrore alla morte. Che altro infatti vuol dire cimitero se non luogo di riposo, dormitorio? Ora non è forse vero che il dormitorio suppone il sonno, ed il sonno suppone il risveglio? Ed infatti, per parlare più propriamente, il cristiano non muore, ma dorme nell’attesa della risurrezione finale; per lui la morte non è che un sonno un po’ più lungo che quello della notte, che dovrà essere seguito da un risveglio eterno. Ed è appunto perciò che nell’antico Testamento, per esprimere la morte dei Patriarchi, si trova sovente adoperata questa frase: « Si addormentò coi padri suoi ». Noi sappiamo pure che Gesù Cristo ed i suoi Apostoli hanno sovente chiamato la morte dormizione o sonno, ed i morti dormienti. Lo stesso linguaggio noi troviamo in bocca a S. Paolo, il quale, in tutte le sue lettere, ma più chiaramente nella prima ai Tessalonicesi, chiama la morte un sonno ed i defunti degli addormentati: « Non vogliamo, dice egli, che siate nell’ignoranza per quanto concerne quelli che si addormentano, affinché non siate contristati, come avviene degli altri che non hanno speranza; poiché, se crediamo che Gesù è morto ed è risuscitato, dobbiamo anche credere che Dio ricondurrà per mezzo di Gesù e con Gesù quelli che si sono addormentati » (IV, 13). Ed è ancora per questo che gli antichi Cristiani parlando dei loro morti dicevano « che si erano addormentati nel sonno della morte, che si erano messi a riposare per qualche tempo, ma per risvegliarsi ben presto, » e dominati da questo pensiero avevano adottato l’abitudine di disporre i cadaveri nei loro funebri ripostigli, in modo che avessero la faccia rivolta verso l’Oriente, come per aspettare il ritorno della luce e salutare i primi raggi di questo novello giorno che non avrà crepuscolo. – La sola parola cimitero pertanto riassumendo in se stessa quelle belle parole dei Libri santi in cui è detto « che coloro che dormono nella polvere della terra si risveglieranno un giorno » ci ricordano quel dogma di nostra santa fede che, mentre è tanto consolante per l’anima fedele, è così terribile pel cattivo e per l’empio, la risurrezione cioè della carne. Ora se la morte è un sonno, i luoghi sacri ove riposano, dormono i corpi dei fedeli, nell’attesa della risurrezione finale, che altro sono se non dei dormitori? Ciò considerando i Padri dell’antica Chiesa non potevano far a meno di sentirsi ripieni di santa esultanza: « O dormitorio, esclama uno di essi, nome divino, nome rivelatore, nome degno di eterna benedizione! quanto non sei bello, giusto, pieno di consolazione e di filosofia! Egli è adunque vero che la morte non è la morte, ma un sonno, un assopimento passeggiero. In ricordo del giorno (il Venerdì santo) in cui Nostro Signore è disceso ai morti, noi siamo radunati in questo luogo, e questo luogo si chiama cimitero, affinché sappiate che i morti e coloro che qui riposano non sono già morti, ma solo addormentati. Prima della venuta del Redentore, la morte si chiamava morte; ma dopo la venuta del Figlio di Dio e dopo che Egli ha sofferto la morte per dare la vita al mondo, la morte non si chiama più morte, ma sonno, assopimento. È Lui stesso che le ha dato questo nome ed i suoi apostoli l’hanno imitato. Che non disse quando fu condotto presso la tomba dell’ amico Lazzaro ? « Il nostro amico Lazzaro dorme »; non disse già: è morto; benché realmente il fosse. E che questa denominazione di sonno, per designare la morte, fosse nuova, noi il possiamo dedurre dal turbamento degli Apostoli i quali, pur accettandone subito il significato, dicono a Gesù: « Signore, ma se dorme, egli è salvo! » – « Oh! sì, dappertutto la morte è chiamata un sonno! Ed è perciò che il luogo dove riposano i defunti è chiamato cimitero, che vuol dire dormitorio. Quando adunque qui portate un trapassato, non desolatevi; voi non lo portate alla morte, ma al sonno: questo nome basta per consolarvi. Abbiate sempre presente il luogo dove l’avete portato: al dormitorio: ed il tempo in cui l’avete portato: cioè dopo la morte del Cristo, quando tutti i vincoli della morte sono stati troncati ».

II.

Nel linguaggio della Chiesa il cimitero ha ancora due altri nomi, pei quali desso non merita meno il nostro rispetto e la nostra venerazione, perché ancor essi ci ricordano e ci predicano eloquentemente il dogma della risurrezione. Si chiama infatti Campo santo, e Campo di Dio — Campo santo! non è forse questo il nome che gli si dà generalmente da noi in Italia? Ed oh! quanto un tal nome non è preso in sul serio, tanto che noi sappiamo dalla storia che l’antica repubblica di Pisa, una delle grandi potenze marittime del Medio-Evo, organizzò una spedizione navale in Oriente per trasportare in patria la terra di Palestina, santificata dai passi del divin Redentore, onde comporne con quella il suo cimitero, il suo Camposanto. Oh! sì, egli è santo il luogo dove riposano le fredde spoglie dei nostri cari defunti; santo, perché solennemente consacrato con le auguste cerimonie della Chiesa per mano dei suoi Pontefici; santo, perché luogo di riposo di corpi che furono templi vivi dello Spirito Santo, membra di Gesù Cristo, rigenerati e santificati dalla grazia e dai Sacramenti; santo finalmente, perché dominato dalla Croce, simbolo sacro della nostra Redenzione, che s’innalza maestosa nel bel mezzo del sacro recinto e par che raccolga quei che non son più « sotto le grandi ali — del perdono di Dio ». Non meno eloquente è l’altro nome del Cimitero: Campo di Dio. Il Creatore, il Conservatore, il Restauratore di tutte le cose, Dio, è un seminatore; Egli stesso si chiama con questo nome: « Uscì quegli che semina a seminare; non seminasti forse del buon grano? » Ora come ogni seminatore ha un suo campo, così Iddio ha pure il suo, e questo è il cimitero. Ma a differenza del seminatore ordinario che semina differenti specie di semi nel suo campo, Dio invece non ne semina che di una specie, che del resto è sempre la stessa. Che fa il grano nella terra? comincia per alterarsi e marcire. Questo grano è nudo; uscito dalla spiga, ha più nulla che lo protegga, è appena coperto da una leggiera pellicola, di cui si sbarazzerà ben presto. Ridotto così alla sua più semplice espressione, il seminatore, con un atto di fede incrollabile nella risurrezione, lo affida risoluto alla terra, nel cui seno subirà rapidamente una gloriosa trasformazione. E la sua fede non lo ingannerà; passano pochi mesi, ed ecco che il campo si copre di meraviglia. Quel grano morto risuscita, e da un solo seme ne nascono parecchi. E questi nuovi grani non sono già nudi, come il loro padre, nascosti come esso nel seno della terra; no, ma si mostrano ai raggi del sole, s’innalzano verso il Cielo. Si appalesano riccamente vestiti, circondati di foglie, ornati di fiori, e graziosamente sostenuti da leggiadri steli che il vento fa lievemente ondeggiare, come la madre che in diversi sensi dondola la culla del suo bambino. Ora qual è il grano che Dio semina nel suo campo? Il più bello, il più prezioso, il più amato di tutti i grani; il corpo dell’uomo, formato a sua immagine, riscattato col sangue dell’Agnello immacolato, erede della sua gloria e felicità. E questo corpo, gettato nel seno del Campo di Dio, dopo aver subito, sotto l’occhio amoroso e la vigile e gelosa custodia del suo divin Seminatore, le stesse trasformazioni che il grano nel seno della terra, in virtù del germe divino in lui deposto dal Redentore, si alzerà pure a sua volta, come messe immensa, nel giorno della finale risurrezione, brillante e glorioso per tutta un’eternità. Oh! quanto non è consolante questo pensiero e di quale conforto, specialmente per quelle anime afflitte che piangono sulla tomba dei loro parenti e dei loro amici defunti: « Voi siete tristi e sconsolati, diceva il grande Vescovo d’Ippona inspirandosi ad esso, poiché avete veduto portato al sepolcro colui che amavate, e più non udite la sua voce. Egli viveva ed ora è morto; egli mangiava ed or non mangia più; più non prende parte alle gioie ed ai piaceri dei viventi. Ma forsechè voi piangete il seme, allorché l’affidate al solco? Se un uomo fosse in tutto talmente ignorante da piangere il grano che si semina nel campo, che si getta in terra, che si seppellisce nel terreno, lavorato dall’aratro, e dicesse in sé stesso: « Oh! Perché mai hanno sepolto questo grano, mietuto con tanta fatica, pulito, conservato nel granaio? noi l’abbiamo veduto, e la sua bellezza faceva la nostra gioia… ed ora è scomparso dai nostri occhi….! » Se vi fosse un uomo che così piangesse, forsechè non gli si direbbe: « Deh! non t’affliggere; certamente questo grano sepolto non è più nel granaio, non si trova più in nostre mani; ma quando più tardi noi verremo a visitare questo campo ci rallegreremo nel vedere la ricchezza della messe là ove tu piangevi l’aridità del solco ». Le messi le si vedono ogni anno, ma quella del genere umano non la si vedrà che una volta sola, alla fine dei secoli, quando cioè al suono delle angeliche trombe coloro qui dormiunt in sonno pacis, evigilabunt, si risveglieranno, e sorgendo dal seno della terra vivranno per non addormentarsi più ». – Così il santo dottore; ed a suo esempio, contemplando i nostri cimiteri, veri campi di Dio, diciamo ancor noi: è in questa terra, santificata dalle preghiere liturgiche, che germoglia la futura messe degli eletti. Essi non sono morti, no, che non è possibile che gli uomini fatti ad immagine e somiglianza di Dio muoiono per non rivivere mai più; ma riposano nella fede e nella speranza comune. Ma verrà un dì che secondo la parola del Creatore rivivranno a novella vita ed allora oh! gioia, oh! felicità, mors ultra non erit. Ecco che cosa è il cimitero; ecco quello che in suo muto linguaggio dice al cuore del cristiano. Non dobbiamo quindi meravigliarci che desso sia sempre stato e sia ancora tuttodì oggetto di universale rispetto e venerazione. « Presso ogni popolo del mondo, dice un moderno autore, abbia già desso fatti grandi passi nella via del progresso, o sia ancora agli inizi della civiltà, vi hanno due cose che sempre hanno tenuto un posto specialissimo nell’estimazione degli uomini, e davanti all’una o all’altra delle quali essi non possono far a meno di provare un sentimento, a cui non possono sottrarsi, sentimento che trionfa di tutti gli odi, e di tutte le passioni. E queste due cose sono la culla e la tomba. In un giorno di cieco furore il popolo potrà arrivare all’eccesso di atterrare il palazzo dei re e di portare una mano sacrilega sulle nostre chiese e sui nostri altari, ma è ben difficile che vengano profanate le tombe ombreggiate e difese dalla croce. Non è forse vero che sempre e dovunque il piccolo cantuccio di terra, che ricopre le spoglie mortali dell’uomo, venne trattato col più gran rispetto, ed in ogni tempo la violazione di una tomba venne considerata come una profanazione? » Parlando del cimitero così esclama uno scrittore cristiano: « O patria nostra, tu ci sei cara non solo per le aure che bevemmo fanciulli; pei nostri ridenti giardini; per la casa che ci albergò; ma anche per quel campo benedetto dove han trovato asilo parenti, congiunti ed amici. Quanti non sono coloro, che lungi morendo dal luogo natio, chiedono imperiosamente che i loro resti mortali sieno portati là, dove la voce della patria pare che reclami sempre, e vivi e morti, i suoi figli. Una legge di natura, e certamente una legge d’ amore, sospinge gli uomini a riunirsi in un solo asilo, affinché rimanga dopo morte quella comunione che mantennero in vita, e che punto non si rompe colla morte. Senza dubbio la prospettiva del cimitero ingenera un sentimento che vi obbliga di quando in quando a recarvi sul tumulo di chi avete amato; che vi costringe a scoprirvi il capo e a piegar le ginocchia; che dal vostro cuore sa strappare una prece e dagli occhi vostri una lagrima. Non è questo vero? La santità del luogo, unita a tante rimembranze, vi infonde una soavità di dolore, che si trasmuta in un indefinito conforto, è una mesta ma soave musica quella che si forma attorno alle croci di quell’asilo solitario». Quanti motivi pertanto non si riuniscono per renderci cari e sacri questi asili della morte collocati alle porte delle nostre città o all’entrata dei nostri templi per sollecitare da noi suffragi o per ricordarci che siamo polvere! Qui riposano in un sonno tranquillo, coricate le une sulle altre, migliaia e migliaia di generazioni, migliori che non la nostra: dormono sotto le zolle benedette coloro che furono i benefattori dei poveri e delle chiese, i fondatori dei nostri ospizi, delle nostre scuole, delle nostre istituzioni caritatevoli, di tutti quegli stabilimenti di pubblica utilità, di cui noi raccogliamo i frutti, senza pensare alla mano che ce li elargì, senza che la nostra memoria abbia conservato il nome di questi uomini generosi; qui aspettano il giorno del risveglio quella serie interminabile di pastori vigilanti e disinteressati che hanno istruito, consolato, diretto di età in età le generazioni estinte, e che hanno iniziato noi stessi alla scienza del dovere ed alla conoscenza della fede. Qui riposano, in una santa pace, dei fratelli, degli amici, un padre, una madre, dei figli ai quali avevamo promesso nelle strette angosciose dell’ultimo addio un ricordo eterno, qui soprattutto vi sono dei Cristiani, segnati del sigillo di una adozione divina, dei figli della Chiesa, dei membri di Gesù Cristo, dei quali Iddio custodisce le ossa, come parla il profeta, per risuscitarli nel giorno finale… In questi luoghi benedetti si trovano delle vere reliquie, poiché, chi può dubitare che fra i numerosi fedeli, il cui corpo vi venne deposto, molti non siano già in possesso della gloria? Reliquie preziose, spoglie venerande, alle quali non manca per avere diritto allo stesso culto con cui si onorano le reliquie esposte sui nostri altari, che la dichiarazione della Chiesa confermante la santità dei giusti ai quali esse appartengono. Ah! con quanta verità adunque, ogni qualvolta calpestiamo la terra di questi funebri asili, può essere a noi rivolta la parola che Iddio fece intendere a Mosè dal mezzo del roveto ardente: « La terra su cui tu cammini è santa, togli i tuoi calzari in segno di rispetto ». Sì, è la polvere dei Santi che i nostri piedi premono: è una polvere che per rianimarsi e per risorgere viva ed immortale non aspetta che il primo squillo dell’angelica tromba: sì, tutta questa terra che ci sta sotto gli occhi ha vissuto, tutta questa terra un giorno rivivrà!

III.

E dopo ciò ci domandiamo: Che cosa è mai adunque che dà alla tomba un carattere sacro? La credenza universale del genere umano che sempre ha ritenuto e ritiene che la tomba non è altro che la soglia dell’eternità. Che cosa è mai che spiega e giustifica il rispetto e la deferenza che accompagna e segue i freddi e tristi resti dell’esistenza umana? La sublime dottrina dell’immortalità dell’anima e della risurrezione della carne. Sì, se l’anima sopravvive al corpo, se 1′ uomo tutto intero è destinato a ridiventare un altro se stesso alla fine dei tempi, io comprendo le pie premure, la venerazione, il culto che si ha per le tombe. Se quel che giace sotto la fredda pietra sepolcrale è una spoglia che l’anima immortale ha bensì lasciato un giorno, ma riprenderà un altro giorno, è un tempio che la mano dell’Onnipotente riordinerà a suo tempo; è un santuario le cui sparse membra saranno più tardi riunite da Dio, come non meriterà quell’onore e quel rispetto che merita tutto ciò che è santo e sacro? Ma se invece tutto ha termine con la morte, se il nulla è l’ultima parola degli umani destini, se noi non ci troviamo più che alla presenza di qualche molecola di materia senza nome, senza dignità, senza avvenire, se non vi rimane più nulla di reale, di vivente a cui possano riferirsi i nostri pensieri, i nostri affetti, i nostri ricordi, se tutto ciò si è dissipato come un soffio nell’aria, che cosa vorrà allora significare il rispetto della tomba? A qual pro tanto apparato e tante pompe funebri per un mucchio di putridume, più o meno riccamente avviluppato, e che ormai non si tratta più che di fare scomparire al più presto possibile, come un oggetto di disgusto e di orrore, e di farlo scomparire il più lontano che si può dagli occhi umani? Ahimè! lo so purtroppo che così la pensano e così vorrebbero i moderni libertini e liberi pensatori. E non è forse perciò che sotto un falso pretesto di salubrità e di pubblica igiene vorrebbero tenere discoste dalle abitazioni dei vivi le tombe degli avi loro? È stato mille volte provato dalla scienza stessa, confermandolo del resto l’esperienza de’ secoli, che le pretese morbose emanazioni uscenti dalle tombe dei cimiteri non esistono che nell’immaginazione di certe persone che troppo paventano la morte. Ma che importa loro questa verità, pur che raggiungano i loro diabolici intenti? « Ma guai, guai a costoro, esclama il P. Monsabrè, che sacrificano all’igiene del corpo, l’igiene dell’anima! Impareranno a loro proprie spese ciò che diventa un popolo, il quale dimentica o trova troppo lunga la strada del Camposanto! » – « Col pretesto della pubblica salute, scrive un dotto medico, il Martini, già si impedirono le sepolture nelle chiese, ed ora si vogliono perfino distruggere i cimiteri. Ma forsechè oggidì si vive più lungamente di prima? si gode più prospera salute?.. Le popolazioni in generale non si videro mai tanto acciaccate, come dopo tanti trattati di pubblica igiene. E si può ripetere della pubblica sanità ciò che si dice della libertà e dell’economia politica: l’economia ci porta alla bancarotta, la libertà al dispotismo, e l’igiene ci fa morire tisici. Guardate quei buoni frati, che vivevano nei loro conventi, dove le Chiese annesse erano piene di sepolture e queste di cadaveri, menavano la vita più sana e vigorosa che mai, raggiungendo tale numero di anni che ci è difficile trovare in mezzo alla società odierna. È il mal costume che miete le popolazioni, e siccome il pensiero della morte eccita a vivere bene, così indirettamente il cimitero favorisce la pubblica sanità ». Ma non basta: a quale altro eccesso non li vediamo noi arrivare i moderni nemici dei cimiteri? « È orribile il dirsi: sempre con lo stesso scopo noi li vediamo opporre al Camposanto il forno crematorio… qualche cosa di orrendo e di insopportabile al cuore dell’uomo….! E la chiamano ara, tempio crematorio! Forno sì, altare e tempio no. E nomineremo altare questa scena d’orrore? Altare questo feretro senz’Angeli e senza Dio? Altare questo luogo né sacro, né  santificato, senza riti ed incensi, senza fiori e senza ghirlande, senza profumo di gentilezza e di umanità? Altare questo carbone, queste fiamme divampanti, avvivate da una scienza senza cuore, dall’idea del nulla, dall’odio della divinità, dal rito schernitore dell’ateo e del materialista? Meglio, mille volte meglio il rispetto delle pie ed universali tradizioni, meglio il cipresso della religione antica, che le ombre della novella acacia. Più dell’onda grassa del fumaiolo crematorio oh! meglio quell’atmosfera santa e severa che si spande dalle tombe, dove il corpo ridonato alla terra, naturalmente riposa fra le braccia della gran madre antica ». Ed ecco perché noi protestiamo contro tali crudeli e barbare innovazioni che non hanno altro di mira che di distruggere nell’anima del popolo la credenza dell’immortalità dell’anima, e con noi altamente protesta tutta quanta l’umanità che sempre ed ovunque ha avuto in onore il culto dei morti. « Io posso perdonare molte cose, diceva Napoleone, ma provo orrore per colui che non vede in noi che della materia. Come volete voi che io abbia qualche cosa di comune con un uomo che non crede all’ esistenza dell’anima, che crede che egli non è che un impasto di fango, e che vuole che io sia come lui un pugno di fango? » Ed ancora oggidì, nonostante le mene dei novatori non vediamo noi le stesse masse operaie delle nostre grandi città, a cui si è strappato con false ed empie teorie e bugiardi sofismi il rispetto di tutte le grandi cose, il rispetto del dovere, della famiglia, della stessa Religione, conservare in mezzo a tante rovine vivo e rigoglioso il culto dei morti? E non si è senza provare una viva e profonda commozione che nel giorno, consacrato alla solenne commemorazione dei fedeli defunti, noi le vediamo incamminarsi silenziose e raccolte verso il Camposanto, ed affollarsi commosse ed intenerite sulle tombe dei loro cari. Oh! sì, gli increduli ed i libertini avranno un bel predicare al nostro popolo che la questione dei novissimi non è più che una questione di chimica e di fisica; forse in certi momenti di odio e di passione troveranno ascolto; ma allorquando si presenterà il momento di manifestare la sua vera credenza con un atto solenne di fede, se ne andrà in folla a protestare contro di loro e contro se stesso sulle tombe dei morti, per quanto lontane le abbiano volute dal consorzio dei viventi; vi deporrà commosso gli emblemi dell’immortalità; attraverso il tempo e lo spazio darà la mano a coloro che non vivono più sulla terra, il suo cuore si slancerà verso di loro e col suo cuore la sua fede le sue speranze in un avvenire migliore. Spes illorum immortaliate piena est. Sii tu dunque benedetta, o Religione Cattolica, tu che eterna consolatrice innalzi la fiaccola della risurrezione e vegli intanto a difesa delle ossa inaridite. Tu sei pur qualche cosa di meglio di quel terribile nulla, martirio e spavento degli scettici, che mentre favorisce ogni delitto sulla terra, toglie persino quell’ultimo conforto che ci aspetta nel sepolcro. Anch’io voglio fare che una mesta viola sorga sul mio tumulo deserto; fecondata essa dall’alito sereno ed avvivatore della Croce, dalla luce del sole, e delle preghiere di tutti, dirà ai superstiti che sorge sul capo di un dormente, il quale attende il soffio della novella vita e lo squillo delle angeliche trombe.

* *

Certamente quanto in questo trattenimento si è detto sul cimitero è più che mai adatto per farlo apparire sotto un aspetto rassicurante e pieno di sante speranze. Non vorrei però che completamente ne venisse sbandito quel sacro terrore che pur necessariamente deve incutere, in quanto che desso è pure il regno della morte, in cui questa violenta livellatrice delle umane grandezze regna sovrana, e dal suo trono severo imparte lezioni che oltre a farci comprendere il nulla della vita c’insegneranno eziandio a ben vivere. Ah! lo so pur troppo che gli uomini di questa nostra età, che della morte hanno paura, e per molti dei quali i sepolcri stessi, che sono per noi Cristiani la culla dell’immortalità, non esistono che come cattedre d’immoralità e di corruzione, vorrebbero cancellarne dalle menti perfino il ricordo, e distruggere perciò quanto potrebbe farne sentire troppo vivamente la voce, onde non parli troppo altamente al cuore dei viventi. Ma viva Dio! essi avranno un bell’infiorare le tombe dei loro morti, avranno un bel cercare di ridurre i nostri cimiteri a luoghi di lusso, di vanità, di spasso, di curiosità, di presentarli come esposizioni permanenti di belle arti, non riusciranno mai a far sì che la morte non regni in essi come sovrana, e dai tumuli chiusi pur esca grave ed ammonitrice la voce : « Morieris tu! Anche tu morrai ! Tutti coloro che ti precedettero già hanno reso omaggio alla sua potenza e si sono schierati sotto il suo scettro così pure sarà di te! » E volesse il Cielo che una tal voce trovasse un’eco nel loro cuore! poiché mentre così imparerebbero a ben morire, prenderebbero coraggio per ben morire.

ESEMPIO: La predica sul Cimitero.

Davasi una sacra missione in una parrocchia della nostra Italia. Anche colà gli increduli tentarono ogni via per frastornare i devoti dall’accorrere ad ascoltare la parola di Dio. Fra questi si distinse un famoso fabbro ferraio, per nome Angelotto, il quale aveva la sua officina nei pressi della Chiesa. Tant’era l’odio che covava costui in cuore contro havvi di più sacro e santo, che ogni qualvolta il missionario saliva in pergamo, gli faceva tale uno strepito, cantando le più laide canzoni, e di sì formidabili colpi faceva risuonare l’incudine, che più volte il missionario dovette affaticarsi oltre modo perché la sua voce fosse intesa da tutti. Una sera all’ora della predica, Angelotto esce a diporto, quand’ecco la fitta nebbia, che aveva fino allora coperta la faccia del sole, anziché dissiparsi, s’era ad un tratto condensata in nubi, indi si è convertita in pioggia minuta che bagna e penetra fino alle midolla delle ossa. Angelotto sulle prime non ha fatto caso, ha continuato la sua passeggiata: ma che? non è ancora andato innanzi una ventina di passi, che egli è già tutto molle, ed il suo cappello goccia acqua da tutte le parti. « Maledetto tempo! esclama egli e proferendo cosi a mezza voce una bestemmia torna indietro per andarsene a casa; ma vedendo che la porta era chiusa, fa una imprecazione alla moglie che era in chiesa alla predica. Dopo che, così pieno d’ira, entra in chiesa per fermarsi e far passare un quarto d’ora di tempo. Il missionario già stava sul pulpito, e i buoni fedeli assistevano con compostezza e raccoglimento alla parola di Dio. Angelotto gittossi su d’un banco e diessi così per ingannare il tempo, a volgere in giro lo sguardo, lanciando qui e là bieche occhiate alle persone che stavano in chiesa raccolte. Egli non aveva né piegato il ginocchio, né fatto un segno di croce, né detto Ave a quel Gesù che stava là rinchiuso nel tabernacolo per suo amore. Parea avesse posto in oblio che era quella la casa di Dio, la casa della preghiera; eppure il Signore pietoso lo attendeva al varco per usargli misericordia e concedergli la maggiore delle grazie, quella del ravvedimento. Intanto il predicatore era giunto a buon punto della sua predica: « Fratelli miei, diceva con voce dolce e tenera, fratelli miei, il cimitero è una bella e salutare scuola per noi. Tutti in quel luogo andremo alla fine dei nostri giorni, e v’andremo fra breve : Hodie mihi, cras tibi; oggi tocca a me, domani a Voi. Figliuoli, conchiuse egli, se è così, non indugiate più oltre a darvi a Dio; pensate al Cimitero, è ora, fate presto che il Signore non vi trovi impreparati, pensate al cimitero, è ora! per molti di voi sarà questa l’ultima ora alla quale seguirà poi una felicità, o una miseria eterna ». Benché Angelotto avesse cercato di distrarsi, non aveva potuto fare a meno di ripiegare per un istante il guardo a sé stesso. « Il missionario avrebbe mai parlato di me? Oh! Dio! Che vita ho menato da dieci anni a questa parte? » Al pensare a quelle parole « Il cimitero, è ora » ei non regge più, si getta ginocchioni, chiude la testa fra le mani e piange. È finita la predica e la gente è uscita di Chiesa, ed Angelotto non si è mosso. Eppure non piove più; ma il cimitero suona ancora tremendamente al suo orecchio, ed egli stassene tuttora ginocchioni. Viene il sagrestano per chiudere la Chiesa, scuote le chiavi per dire ai pochi rimasti che se ne vadano. Angelotto allora si alza, piglia il suo cappello, ma invece di uscire, va difilato in sagrestia, trova il predicatore: « Ah! padre mio! Son dieci anni che non vi ho pensato!… voglio subito confessarmi, aiutatemi voi! » Il buon missionario l’accoglie, lo abbraccia. Angelotto si prostra, fa la sua confessione: grosse lagrime gli scendono dagli occhi, ma son lagrime di pentimento e di consolazione. Ricevuta l’assoluzione, si alza e, baciando la mano del buon missionario: « Era ora, gli dice; siate benedetto! » Si parte di là, ma Angelotto non pensa più all’osteria, agli amici, alle crapule, e ripetendo fra sé « cimitero, è ora! » rientra in casa… ! Da quel di fu tutt’altro uomo: ogni giorno prima di mette rsi al lavoro andò alla Messa, e nel giorno di festa la sua bottega vedevasi chiusa ed egli in Chiesa a fare le sue divozioni. Ma ecco la prima Domenica di quaresima, e la campana della Chiesa suona a morto. Chi è questo poveretto che non è più? È Angelotto, il fabbro ferraio, una malattia di quattro giorni lo ha portato al cimitero: beato lui che pensò in tempo al Cimitero!

 

 

IL GIORNO DEI MORTI (2018)

IL GIORNO DEI MORTI (2818)

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli, Vol. III, Soc. Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1939)

LE ANIME PURGANTI

Ora che la campagna è spoglia, che i cieli si fanno grigi per le nebbie, che le foglie cadono, la Santa Chiesa con un fine intuito educativo ci richiama al pensiero della morte, al pensiero dei nostri cari morti. La nostra vita sulla terra è rapida come una stagione, poi vengono le nebbie della vecchiezza, il vento autunnale e triste della fine e ci spoglia d’ogni terrestre illusione. Debemur morti nos nostraque; e noi e le nostre cose siamo destinati a morire. Quanti tra quelli stessi che conoscemmo ed amammo già sono morti. Compagni di scuola, compagni d’allegria, compagni d’armi, compagni di lavoro, sono già stati innanzi tempo presi dalla morte e condotti nell’eternità. Nella nostra stessa casa forse c’è più d’un vuoto: care persone sparite da anni, o solo da mesi, comunque sparite dalla nostra vista. – Oggi s’aprono i cancelli e noi pellegriniamo in folla su quella terra che nasconde la loro salma. Portiamo fiori e lumi, ed è questo un atto molto gentile. Ma quei fiori e quei lumi sono uno sterile simbolo se non vi aggiungiamo preghiere, elemosine, suffragi d’opere buone. Noi sappiamo, Cristiani, che se alcuno muore in grazia di Dio, ma con qualche peccato veniale non perdonato, o con qualche debito di pena temporanea non ancora scontato, non può entrare direttamente in Paradiso, ma è ritenuto in Purgatorio finché abbia pienamente soddisfatto alla divina Giustizia. Non solo, ma noi sappiamo anche un’altra verità che è molto consolante. Siccome noi, vivi e morti, formiamo tutti ancora nella Santa Chiesa una famiglia sola, possiamo noi che camminiamo sulla terra placare Dio anche per loro che più non sono qui. S. Giovanni Crisostomo rivolgeva queste esortazioni ai fedeli del suo tempo: « Perché piangete, se al defunto si può ottenere grande perdono? Non è questo un bel guadagno, un cospicuo vantaggio? Molti furono liberati con un’elemosina fatta per loro da altri; perché l’elemosina ha la virtù di togliere i peccati, se mai il morto è partito di qua con qualche venialità sulla coscienza. Vi assicuro che l’aiuto nostro per le anime non è mai vano: è Dio che vuole che ci soccorriamo l’un l’altro ». – Con questa confortante fede chiudeva gli occhi S. Monica, e morendo pregò il figlio Agostino di offrire per lei il sacrificio della Messa. E S. Agostino, come narra nelle sue Confessioni subito dopo la morte offerse per lei il sacrificio del nostro riscatto, e per lei pregò così; «Ascoltami, Dio Onnipotente: ascoltami, per Gesù Medico delle nostre ferite, che pendette dalla croce, e ora alla tua destra supplica per noi. So che ella ha usato soave misericordia ai poveri e ha rimesso i debiti ai suoi debitori. E tu rimetti ora anche a lei i debiti suoi! Condonale anche il peso di quelle miserie di cui s’è caricata nei molti anni che visse dopo il lavacro del Battesimo. Perdonala, o Signore, perdonala; te ne prego, non chiamarla al tuo giudizio ». Ecco il suffragio migliore che un figlio può mandar dietro alla madre diletta: la S. Messa, accompagnata dalla sincera e personale preghiera. È vero che i nostri cari nel Purgatorio non mancano di profonde dolcissime consolazioni, tra cui la più grande è quella d’esser certe che Dio le ama, e che andranno alla fine della loro purificazione a goderlo per sempre; ma è pur vero che fin tanto che dura la loro purificazione le anime soffrono gravissime pene. Soffrono i nostri cari morti! E noi possiamo e dobbiamo aiutarli.

I . I MORTI SOFFRONO

Un giovanetto di nome Giuseppe, un giorno, fu calato in una cisterna, e, sopra, i suoi undici fratelli vi gettarono una pietra con rimbombo, perché non potesse uscire più. Poi vi sedettero sopra mangiando, e bevendo il vino dei loro fiaschi. Comedentes et bibentes vinum in phialis. Giuseppe singhiozzava nel fondo della cisterna, ove non scendeva una boccata d’aria, ove non filtrava un filo di luce: in una cisterna stretta e profonda, umida e muffolente. Singhiozzava; ma i suoi fratelli, sopra, mangiavano e bevevano e non potevano udire il suo grido straziante. Lui moriva, essi se la godevano. Lui in prigione, essi nella libertà delle loro case e dei loro campi. Lui senza pane e senz’acqua, essi pieni di carne e di vino. Comedentes et bibentes vinum in phialis. Questa scena angosciosa si ripete ogni giorno, anche oggi. Nel carcere del Purgatorio c’è qualche nostro fratello, un amico, forse il babbo, forse la mamma nostra che soffre; e noi non ci ricordiamo mai di loro che sono morti. Noi ci divertiamo, bevendo e mangiando, mentr’essi soffrono tormenti più struggenti della fame e della sete. Ricordiamoli i morti perché soffrono. Che cosa soffrono? Soffrono misteriose pene, più o meno gravi, ma che sono sempre cagione d’acuto dolore. Ma la sofferenza più affliggente è il ritardo che li disgiunge da Dio. Qui sulla terra l’anima che si allontana da Dio, immersa com’è nei sensi, può non penare, può cercare conforto nelle creature. Ma nell’eternità non sarà più così: non solo l’uomo non potrà cercare un surrogato alle creature, ma si accenderà nella sua anima un bisogno, anzi una fame di felicità divina, di congiungimento nella visione col suo Signore. Pensate allora la dolorosa aspirazione delle anime purganti: sentirsi fatte per Dio, sentirsi ormai giunte al sicuro porto, e vedersi rattenute dall’entrare in patria, impedite dell’abbraccio divino! È la penosa speranza dell’ammalato a cui il medico assicurò la guarigione, ma che intanto deve stare immobile per mesi nel letto. È la tensione acerba dell’assetato che quando crede d’essere giunto alla fonte d’acqua viva, s’accorge ch’essa gli scorre ancora molto lontana. È l’attesa struggente del prigioniero di guerra, che giunto il giorno di rimpatriare e d’abbracciare la vecchia madre e la sposa e i figliuolini, si vede messo in quarantena per una certa sua infezione. « Miseri noi: credevamo d’essere giunti al termine, ed ecco il cammino ci si allunga davanti… ». Così sospirano con pacato dolore le anime sante del Purgatorio.

2. NOI LI POSSIAMO ALLEVIARE

Uno degli episodi più pietosi delle Sacre Scritture è quello del paralitico sotto i portici della piscina probatica. V’era a Gerusalemme una vasca con cinque portici in giro: ed ogni anno quell’acqua, scossa da un Angelo, acquistava una virtù miracolosa, che qualunque malato per primo vi si fosse immerso ne sarebbe riuscito sanato perfettamente. Ed eran già 38 anni che un povero paralitico era là ad aspettare la guarigione. Smorto per tanto soffrire, le carni incadaverite, le vesti luride, invocava con gemiti e con lacrime la pietà della gente. A guarirlo, non si richiedevano medici specialisti che venissero da lontano, non si richiedeva danaro, non medicina preziosa e rara. Bastava soltanto che qualcuno, appena l’Angelo commoveva l’acque, gli desse un tuffo. Eppure, dopo 38 anni ch’era là, non uno gli aveva saputo fare quel piacere. E quando Gesù passò sotto il portico, quel poverino ruppe in singhiozzi, dicendo: a Domine, hominem non habeo! ». O Signore, non ho proprio nessuno! – Anche molte anime del Purgatorio ripetono il grido del paralitico: « Signore, non ho proprio nessuno! nessuno che si ricordi di me, nessuno che preghi, che faccia pregare… ». E son anni e anni che gemono là; e per strapparle dal fuoco non occorre enorme fatica, e neppure grosse somme di danaro: ma basta una preghiera detta col cuore, basta una Comunione fervorosa, una santa Messa ascoltata o fatta celebrare… Ed è un dovere d’amore ricordarsi, è un dovere di giustizia. Chi sono quelle povere anime? forse i nostri fratelli, le sorelle, le spose, i padri, le mamme… Oh vi ricordate di quel giorno, di quella notte in cui morirono? Là, sul letto, disteso: già ne’ suoi occhi dilatati v’era l’immagine della morte. Ardeva accanto una candela benedetta, quella dell’agonia. Egli non poteva parlare più, già la morte gli sigillava le labbra per sempre: eppure qualche cosa voleva pur dirci, che tremava tutto: «Ricordati di me, quando sarò morto!». E noi scoppiammo in pianto, e tra i singhiozzi abbiamo giurato, in faccia alla morte, di non scordarlo più. Invece dopo qualche settimana noi ci demmo pace; e chi è morto, giace. « Ricordati di me, che tu mi puoi aiutare! ». Non la sentite questa voce alla sera, quando invece di fermarvi in casa a rispondere il Rosario voi uscite a chiacchierare, a giocare? Non la sentite questa voce alla mattina presto, quando suonano le campane della Messa, dell’Ufficio, e voi poltrite nelle piume del letto? Non la sentite questa voce che vi supplica di cambiar vita, di frequentare i Sacramenti, di lasciare quella relazione? – Non la sentite questa voce a scongiurarvi che facciate un po’ d’elemosina, che procuriate una S. Messa, un Ufficio di suffragio? Eppure dovreste sentirla: forse, quei campi che voi lavorate, quella che voi abitate, quel gruzzolo di danaro che avete alla banca, è il frutto del sudore dei vostri morti. Siete obbligati, per giustizia, a ricordarli!

CONCLUSIONE

Dall’esilio S. Giovanni poteva finalmente rientrare in Efeso. Entrando egli nella sua città incontrò un funerale: portavano a seppellire il corpo di Drusiana, la quale aveva sempre seguiti i suoi ammaestramenti. Come la gente s’accorse della presenza dell’apostolo, a gran voce diceva : « Benedetto tu che nel nome di Dio ritorni! ». Allora le vedove che Drusiana aveva in vita racconsolate, i poveri che aveva nutrito, gli orfani a cui aveva fatto da madre, circondarono l’Evangelista, e col pianto nella voce cominciarono a supplicarlo: « O santo Giovanni! vedi che portiamo Drusiana morta a seppellire: ella ci ha confortati, ci ha dato da mangiare, ci ha protetti, ed ora è morta, senza poterti rivedere, che pur lo desiderava tanto ». S. Giovanni fu commosso da quelle preghiere ardenti. Fermò il funerale, fece deporre in terra la bara, e con chiara voce disse davanti a tutti: « Drusiana! per l’amore che portasti agli orfani, per l’elemosina che facesti ai poveri, per l’aiuto che prodigasti alle vedove, il mio Signor Gesù Cristo ti risusciti ». E subito ella si levò dalla bara, sì che pareva non resuscitata da morte, ma destata da dormire (BATTELLI, Leggende cristiane). – Verrà un giorno, e per quanto sia tardi non è lontano, che noi pure porteranno a seppellire. Ma la nostra anima, nuda e sola, convien che vada al tribunale di Cristo. Oh, se durante questa vita ci saremo ricordati dei poveri morti, allora molte anime si faranno intorno a Gesù giudice e a gran voce diranno: « Signore! ricordati che costui mi ha alleviato il fuoco del Purgatorio, con le sue preghiere, con le mortificazioni, con l’elemosina. Signore! ricordati di quelle Messe e di quegli Uffici che m’ha fatto celebrare, ricordati delle Comunioni, delle elemosine che faceva in mio suffragio ». E Gesù non saprà resistere a queste suppliche e ci dirà: « Per la misericordia che hai avuto dei poveri morti, anch’io ti faccio misericordia: vieni presto in Paradiso ».

FESTA DI TUTTI I SANTI (2018)

FESTA DI TUTTI I SANTI (2018)

Beati pauperes spiritu: quoniam ipsorum est regnum caelorum.

Beati mites: quoniam ipsi possidebunt terram.

Beati qui lugent: quoniam ipsi consolabuntur.

Beati qui esuriunt et sitiunt justitiam: quoniam ipsi saturabuntur.

Beati misericordes: quoniam ipsi misericordiam consequentur.

Beati mundo corde: quoniam ipsi Deum videbunt.

Beati pacifici: quoniam filii Dei vocabuntur.

Beati qui persecutionem patiuntur propter justitiam : quoniam ipsorum est regnum caelorum.

Beati estis cum maledixerint vobis, et persecuti vos fuerint, et dixerint omne malum adversum vos mentientes, propter me: gaudete, et exsultate, quoniam merces vestra copiosa est in caelis. [Matth. V, 3-12]

CHI SONO I SANTI

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli, Vol. III, Soc. Ed. Vita e Pensiero, Milano, 1939)

Prima ancora della venuta del Salvatore Gesù, un famoso architetto di nome Marco Agrippa, aveva innalzato in Roma un tempio magnifico detto Pantheon, cioè consacrato a tutti gli dei, a quelli noti e a quelli ignoti. Quando Roma fu convertita al Cristianesimo, quel tempio non fu distrutto: se i pagani avevano i loro dei bugiardi, non avevamo noi i nostri santi da onorare? Perciò dal Papa Bonifacio IV fu consacrato al culto dei Martiri che in ogni parte della terra avevano offerto il sangue e la vita a Dio. Dal culto di tutti i Martiri al culto di tutti i Santi fu breve il passo. E d è chiara la ragione. Di quanti Santi noi non conosciamo né la storia, né il nome! Dio solo ha visto e compreso la loro anima, le loro virtù, le preghiere, le sofferenze lunghe, le penitenze aspre… E poi, anche di quelli che conosciamo, non ci è possibile celebrare una festa particolare durante l’anno. Eppure non è giusto che molti di questi eroici Cristiani siano dimenticati, e non è bene perdere la protezione loro potente. Per tutte queste ragioni la santa Chiesa ha stabilito una festa per onorarli e invocarli insieme. – Permettetemi ancora due altre chiarificazioni:

. Quando veneriamo i Santi, noi non siamo idolatri, perché ogni onore dato a questi, termina sempre a Dio, a cui soltanto si deve l’onore, la gloria, l’adorazione. Se voi ammirate e lodate un quadro di valore, forse che il pittore si offenderà? Ebbene, i Santi sono le opere artistiche di Dio, il quale ha scolpito e dipinto il suo volto nella loro anima.. Se voi ammirate e lodate i figlioli, forse che il padre si offenderà? Ebbene i Santi sono i figli prediletti del Signore, quelli che più gli assomigliano.

. I Santi poi si devono onorare santamente, e non come il mondo festeggia i suoi amici. Ci sono di quelli che amano la festa del Santo, ma non il Santo. Amano la festa perché sono esercenti e sperano guadagno; amano la festa perché potranno darsi all’allegria, al piacere della gola, allo sfoggio d’un bel vestito. « Che maniera è questa? — esclama sdegnato S. Gerolamo. — Con la sovrabbondanza del bere e del mangiare volete onorare chi ha vissuto in digiuno e penitenza? Con le mollezze e le immodestie del vestito volete onorare chi ha vissuto nella solitudine e nella modestia angelica? Voi amate la festa del Santo, ma non il Santo » (S. HIER., Ad Eust.). – Ci sono poi degli altri che amano il Santo, ma non la sua santità. Ne troverete moltissimi in giro all’altare di S. Antonio, di S. Espedito, di S. Teresa; moltissimi che portano lumi e fiori agli altari; ma sono pochi quelli che si mettono dietro gli esempi che i Santi ci hanno lasciato. Eppure non v’è devozione più efficace dell’imitazione. « È falsa pietà onorare i Santi, e trascurare di seguirli nella santità » (S. EUSEB., In homilid). E allora? allora noi dobbiamo sforzarci di raggiungere la vera devozione dei Santi, quella che è fatta di umiliazione e di preghiera, poiché i Santi sono un grande esempio ed un grande aiuto per noi. Erano tristissimi giorni per il popolo israelitico. Gerusalemme posseduta dallo straniero; il tempio invaso, derubato, profanato; la gioventù uccisa o prigioniera; e per ogni villaggio s’udivano le feroci canzoni dei soldati d’Antioco, sempre bramosi di predare e di massacrare. Matatia, il vecchio genitore dei Maccabei, s’era nascosto nel deserto, ove, un po’ per l’età e molto per l’angoscia, s’ammalò da morire. Ma prima di chiudere la sua bocca nel silenzio eterno, si chiamò vicino i suoi cinque figli e disse : « Creature mie! vi tocca vivere in un mondo perverso, in un tempo di peccato e di scandalo: ricordate gli esempi dei vostri padri, e ne ricaverete forza e gloria. Ricordate la fede d’Abramo, che credette alle promesse di Dio anche quando gli fu imposto di uccidere il primogenito suo: abbiate anche voi fede in Dio ora che la nazione nostra è distrutta. Ricordate la rassegnazione di Giuseppe, venduto da’ suoi fratelli crudeli e pure tanto timoroso della legge di Dio che fuggì dall’impura donna di Putifarre, e fu premiato poi da Dio: anche voi dovete ora rassegnarvi ai voleri della Provvidenza, e mantenervi puri se volete un premio. – Ricordate Giosuè che con molte fatiche e prodezze riuscì a conquistare la terra promessa. Ricordate Davide, quanto fu pio, quanto fu saggio! e Dio gli diede un trono nei secoli. Ricordate Daniele che per la sua rettitudine fu messo nella fossa dei leoni, e quei tre giovanetti che preferirono farsi gettare nel forno acceso piuttosto che trasgredire la legge… ». – Così di generazione in generazione, il vegliardo morente rievocava ai figli le gesta dei santi dell’antico Testamento. E quand’ebbe finito alzò le mani a benedire: ma già le sue labbra non si agitavano più: era spirato (I Macc., II). – A me pare che, come il vecchio Matatia, anche la Chiesa raduni oggi i suoi figliuoli e additi gli esempi dei Santi. Noi viviamo in tempi di peccato e in un mondo maligno, ma prima di noi ci vissero i Santi che ora sono in Paradiso. Ricordiamo i loro esempi, per imitarli e farci ancora noi santi. « Ma io non ho tempo — si dice da alcuni — per pensare alla santificazione dell’anima, e a tante devozioni: sono troppo occupato negli affari ». E credete voi che S. Teresa di Gesù, S. Caterina da Genova, S. Filippo Neri non avessero occupazioni materiali? Ah, se deste all’anima vostra tutto il tempo che date al divertimento, alle vanità, alle conversazioni mondane e frivole, quanto grande sarebbe la vostra santificazione! Dite di non aver tempo: ma voi avete tutta la vita, perché Dio v i ha creati solo per questo. – « Ma io ho famiglia, io vivo in un ambiente corrotto, io mi trovo in mezzo a scandali ». Non crediate che solo i frati o lo suore possano diventare santi: ci fu S. Luigi, re di Francia; e una S. Pulcheria che viveva nella corruzione della corte di Costantinopoli; e un S. Isidoro contadino; e una S. Zita serva in famiglie private. In ogni ambiente si può salvare l’anima. – « Ma io ho un temperamento focoso, superbo, sensuale… non posso resistere alle tentazioni ». Anche i Santi ebbero una carne e un sangue come il vostro; anch’essi provarono tutte le vostre tentazioni; eppure riuscirono. Se quelli riuscirono, e perché non noi? Non crediate che a S. Agostino sia stato facile vivere in purità, non crediate che a S. Carlo sia costato poco vivere in umiltà, non crediate che a S. Francesco di Sales sia stato naturale vivere in soavità: studiate la loro vita, e conoscerete che furiose lotte sostennero contro le passioni! Eppure vinsero. Soltanto noi non vinceremo?

  1. I SANTI SONO UN GRANDE AIUTO

Quando la carestia affamò la terra di Canaan un vecchio e i suoi figli vennero in Egitto, e si presentarono al Faraone per avere da mangiare. Ma in Egitto, nello stesso palazzo del Faraone v’era Giuseppe.

« È mio padre! Sono i miei fratelli! » disse Giuseppe presentandoli al Sovrano. E quelli ebbero da mangiare, da vivere beatamente e terre da coltivare; ebbero quello che chiedevano e molto di più. Anche noi abbiamo nella regione d’ogni abbondanza, nella magione stessa del gran sovrano Iddio, i nostri ricchi fratelli: i Santi. Ogni volta che per carestia spirituale o materiale ci rivolgiamo al cielo, essi si volgono a Dio per dirgli: « Ascoltali! Esaudiscili, perché sono i nostri fratelli minori ». Potrà il Signore non ascoltare la preghiera de’ suoi intimi amici? – I Santi nel cielo non diventano egoisti che si godono la meritata felicità; essi si ricordano ancora di noi poveri mortali. Essi che soffrirono un tempo quello che oggi soffriamo noi, sanno capirci e ci seguono con ansietà per ogni peripezia del viaggio terreno e supplicano, con vive istanze Colui che comanda ai venti e al mare di proteggere la nostra barchetta dalla burrasca delle passioni. Essi che già esperimentano la infinita gioia del Paradiso, tremano che noi abbiamo a perderla e supplicano perché ci si conduca al beato porto. I Santi in cielo e i Cristiani in terra sono una famiglia unica; e come in una famiglia il fratello buono intercede presso il padre adirato per la disubbidienza dei figli discoli, così i Santi placano Iddio quando vuole castigarci per i peccati. Non avete letto nella storia sacra che il Signore aveva una volta deciso di sterminare la gente ebrea, perché s’era ribellata ai suoi comandamenti? Ma in mezzo al popolo maledetto stavano due anime sante: Mosè ed Aronne. «Allontanatevi voi! — diceva nel suo furore Iddio. — Perché io voglio sterminare tutti in un momento ». Quelli invece non si ritirarono, e Dio per la loro intercessione s’accontentò di punire soltanto i tre più colpevoli (Num., XVI, 20 ss.). – Come Mosè, come Aronne, i Santi si mettono tra l’ira di Dio e noi. Chi può dire quanti fulmini hanno sviato dal nostro capo? Perché non siamo morti dopo il primo peccato mortale? Perché il Signore ci lascia ancora tempo a penitenza? Oh se potessimo vedere quello che avviene in Paradiso!… Se i Santi sono così potenti per chiedere ed intercedere, è tutto nostro interesse pregarli frequentemente, fervorosamente. Però non facciamo come molti Cristiani i quali ricorrono ai Santi solo per gli interessi materiali: sarebbe un grave torto verso di loro che tanto disprezzo hanno avuto per le cose mondane. Tante preghiere per l a salute del corpo, e per quella dell’anima? Tanti lumi e tanti fiori per un affare di danaro o di roba, e per gli affari della gloria di Dio e della conversione dei peccatori? Chiediamo prima il regno di Dio, che il resto non ci mancherà. – Il Signore ha promesso che dove sono in due o più a pregare nel suo nome, egli è in mezzo a loro e li esaudisce: ebbene, in Paradiso, non uno o due appena, ma sono migliaia e migliaia, e santi, che pregano per noi. La loro preghiera quindi è il nostro più grande aiuto.

CONCLUSIONE

S. Giovanni l’Evangelista, rapito in visione, vide aperta innanzi a sé una gran porta, per la quale entrava in cielo una sterminata moltitudine; d’ogni età, d’ogni sesso, d’ogni tempo, d’ogni condizione di vita. Questa rivelazione è consolante. Se il numero degli eletti è interminabile così che neppure S. Giovanni è riuscito a contarli, vuol dire che non è poi tanto difficile salvarsi, vuol dire che anche noi possiamo riuscire a passare per quella porta, che è Cristo, ed entrare in compagnia dei Santi. V’è però una condizione essenziale. Quelli che giungono a salvamento, recano tutti in fronte un suggello che è come il carattere di somiglianza e di appartenenza all’Eterno Padre e al suo Figlio Unigenito. Questo suggello, — secondo il profeta Ezechiele, — ha la forma d’un T, cioè d’una croce, e vien impresso sulla fronte di coloro che piangono e gemono. Signa Tau super frontem vivorum gementium et flentium. Che vuol dir ciò? vuol dire che per essere partecipi della gloria e del gaudio dei Santi, bisogna prima aver partecipato alle loro penitenze e sofferenze.

CALENDARIO LITURGICO DI NOVEMBRE (2018)

NOVEMBRE

è il mese che la Chiesa Cattolica dedica alle anime sante del PURGATORIO.

SEQUENZA DIES IRÆ

Dies iræ, dies illa
Solvet sæclum in favílla:
Teste David cum Sibýlla.

Quantus tremor est futúrus,
Quando judex est ventúrus,
Cuncta stricte discussúrus!

Tuba mirum spargens sonum
Per sepúlcra regiónum,
Coget omnes ante thronum.

Mors stupébit et natúra,
Cum resúrget creatúra,
Judicánti responsúra.

Liber scriptus proferétur,
In quo totum continétur,
Unde mundus judicétur.

Judex ergo cum sedébit,
Quidquid latet, apparébit:
Nil multum remanébit.

Quid sum miser tunc dictúrus?
Quem patrónum rogatúrus,
Cum vix justus sit secúrus?

Rex treméndæ majestátis,
Qui salvándos salvas gratis,
Salva me, fons pietátis.

Recordáre, Jesu pie,
Quod sum causa tuæ viæ:
Ne me perdas illa die.

Quærens me, sedísti lassus:
Redemísti Crucem passus:
Tantus labor non sit cassus.

Juste judex ultiónis,
Donum fac remissiónis
Ante diem ratiónis.

Ingemísco, tamquam reus:
Culpa rubet vultus meus:
Supplicánti parce, Deus.

Qui Maríam absolvísti,
Et latrónem exaudísti,
Mihi quoque spem dedísti.

Preces meæ non sunt dignæ:
Sed tu bonus fac benígne,
Ne perénni cremer igne.

Inter oves locum præsta,
Et ab hœdis me sequéstra,
Státuens in parte dextra.

Confutátis maledíctis,
Flammis ácribus addíctis:
Voca me cum benedíctis.

Oro supplex et acclínis,
Cor contrítum quasi cinis:
Gere curam mei finis.

Lacrimósa dies illa,
Qua resúrget ex favílla
Judicándus homo reus.

Huic ergo parce, Deus:
Pie Jesu Dómine,
Dona eis réquiem.
Amen.

[Giorno d’ira sarà quello: il fuoco distruggerà il mondo come disse David con la Sibilla. – Qual terrore vi sarà, quando verrà il giudice ad esaminare tutto con rigore! – La tromba spanderà il suono mirabile sulle fosse della terra, radunerà tutti presso il trono. – Stupirà la morte e la natura, quando la creatura risorgerà per rispondere al Giudice. – Sarà aperto il libro scritto, dove è tutto quello riguardo a cui il mondo sarà giudicato. – Quando il Giudice si assiderà, tutto ciò che è occulto sarà svelato: niente resterà segreto. – Misero che sono! che dirò allora? A chi mi raccomanderò se appena il giusto sarà sicuro? – O Re di tremenda maestà, che salvi gratuitamente gli eletti, salvami, o fonte di pietà. – Ricorda, o Gesù pio, che io son la causa della tua venuta: non mi dannare in quel giorno. – Ti affaticasti a cercarmi, per salvarmi hai sofferto la croce: non sia vano tanto lavoro. – Giusto giudice vendicatore, dammi la grazia del perdono avanti il giorno dei conti. – Come reo gemo, la colpa copre di rosso il mio volto, o Dio, perdona a chi ti supplica. – Tu che assolvesti la Maddalena ed esaudisti il ladrone, da’ anche a me la speranza. – Le mie preghiere non son degne, ma tu buono e pietoso fa’ che non bruci nel fuoco eterno. – Mettimi tra le pecorelle, e separami dai capretti, ponendomi dalla parte destra. – Condannati i maledetti, e consegnatili alle orribili fiamme, chiama me coi benedetti. – Ti prego supplice e prosteso, col cuore contrito come la cenere, abbi cura del mio fine. – Giorno di lacrime sarà quello in cui dalla cenere l’uomo reo risusciterà per essere giudicato. – A lui dunque perdona, o Dio. O pio Signore Gesù, dona loro il riposo. Così sia.]

[indulg. Trium annorum. Indulgentia plenaria, suetis conditionibus, sequentia quotidie per integrum mensem pie recitata (S. Pænit. Ap. 9 mart. 1934]

PIA EXERCITIA

588

Fidelibus, qui in suffragium fìdelium defunctorum aliquas preces quolibet anni tempore pia mente effuderint, cum proposito idem pium exercitium per septem vel novem dies continuos iterandi, conceditur : Indulgentia trium annorum semel quovis die; Indulgentia plenaria suetis conditionibus, expleto septenario vel novendiali exercitio (Pius IX, Audientia 5 ian. 1849; S. C. Episc. et Reg., 28 ian. 1850; S. C. Indulg., 26 nov. 1876; S. Paen. Ap., 28 maii 1933).

[Per un settenario o un novenario in suffragio dei morti si concede indulg. di tre anni per ogni giorno, ed Ind. Plen. s. c. al termine dell’esercizio]

589

Fidelibus, qui mense novembri preces aliave pietatis exercitia in suffragium fìdelium defunctorum præstiterint, conceditur : Indulgentia trium annorum semel quolibet mensis die; Indulgentia plenaria, suetis conditionibus, si quotidie per integrum mensem idem pietatis opus compleverint. – Iis vero, qui præfato mense piis exercitiis in suffragium fìdelium defunctorum in ecclesiis vel publicis oratoriis devote interfuerint, conceditur: Indulgentia septem annorum quolibet mensis die; Indulgentia plenaria, si memoratis exercitiis saltem per quindecim dies vacaverint, additis sacramentali confessione, sacra Communione et oratione ad mentem Summi Pontifìcis (S. C . Indulg., 17 ian. 1888; S. Pæn. Ap., 30 oct. 1932).

[Se nel mese di novembre, si farà un esercizio per i defunti, si lucra ind. di tre anni (o sette anni se fatto in chiesa o in un oratorio pubblico) per ogni giorno, ed ind. Plen.  se fatto almeno per 15 giorni e s. c.]

590

Fidelibus, die quo Commemoratio Omnium Fidelium Defunctorum celebratur vel die dominico proxime insequenti, quoties aliquam ecclesiam aut publicum vel (prò legitime utentibus) semipublicum oratorium defunctis suffragaturi visitaverint, conceditur: Pro fìdelibus defunctis

Indulgentia plenaria animabus in purgatorio detentis tantummodo applicabilis, si præterea sacramentalem confessionem instituerint, sacram Communionem susceperint et sexies Pater, Ave et Gloria ad mentem Summi Pontifìcis in unaquaque visitatione recitaverint (S. C. Officii, 25 iun. 1914 et 14 dec. 1916; S. Pæn. Ap., 5 iul. 1930 et 2 ian. 1939).

[per i fedeli che visiteranno una chiesa o un pubblico oratorio nel giorno dei defunti o nella domenica successiva, si concede Ind. Plen. s. c. e recitando 6 Pater, Ave, Gloria, per le intenzioni del Sommo Pontefice,  applic. alle anime del Purgatorio]

591

Missæ omnes, in quocumque altari et a quocumque sacerdote durante Commemorationis Omnium Fidelium Defunctorum octavario celebratæ, gaudent, prò anima tamen cui applicantur, privilegio ac si litatæ in altari privilegiato fuissent (S. C. Indulg., 19 maii 1761; Benedictus XV, Const. Ap. Incruentum Altaris, 10 aug. 1915; can. 917 § 1, C . I . C . ; S. Pæn. Ap., 31 oct. 1934 et 12 iun. 1949). (Le Messe durante l’ottava della commemorazione dei defunti, godono del privilegio dell’altare privilegiato)

592

Fidelibus, qui, durante Commemorationis Omnium Fidelium Defunctorum octavario, coemeterium pie ac devote visitaverint et, vel mente tantum prò defunctis exoraverint, conceditur: Indulgentia plenaria suetis conditionibus, singulis diebus, defunctis tantum applicabilis.

Iis vero, qui eamdem visitationem et orationem, quovis anni die, peregerint, conceditur: Indulgentia septem annorum defunctis tantummodo applicabilis (S. Paen. Ap., 31 oct. 1934).

[Ai fedeli che visiteranno devotamente, durante l’ottavario della commemorazione dei fedeli defunti, un cimitero pregando per i defunti, si concede indulgenza plenaria s. c. nei singoli giorni. In altro giorno dell’anno sette anni.)

ACTUS HEROICUS CARITATIS

593

a) Fidelibus, qui actum heroicum erga animas in purgatorio detentas emiserint, conceditur:

Indulgentia plenaria fìdelibus tantum defunctis applicabilis: 1° quocumque die ad sacram Communionem accesserint, si præterea confessi aliquam ecclesiam vel publicum oratorium visitaverint et ad mentem Summi Pontifìcis oraverint; 2° qualibet anni feria secunda, vel aliquo obstante impedimento, Dominica insequenti, si Missæ sacrificio in suffragium eorumdem defunctorum fidelium adstiterint ac præterea suetas adimpleverint conditiones.

b) Sacerdotes, qui præfatum heroicum actum emiserint, indulto altaris privilegiati personalis gaudere possunt singulis anni diebus (S. C. Indulg., 30 sept. 1852 et 20 nov. 1854; S. Pæn. Ap., 26 ian. 1932).

[Per i fedeli che emettono l’Atto eroico di carità, è concessa indulg. Plen. s. c. in ogni giorno; con la sola visita di una chiesa o oratorio ogni lunedì dell’anno o, impediti, la domenica successiva. Al Sacerdote è concesso il privilegio dell’altare privilegiato]

Le FESTE del mese di NOVEMBRE

1 Novembre Omnium Sanctorum  –  Duplex I. classis *L1*

2 Novembre In Commemoratione Omnium Fidelium DefunctorumDuplex I. classis – 1° Venerdì

3 Novembre 1° Sabato

4 Novembre Dominica IV Postepiphaniam  I. Novembris  Semiduplex Dominica minor Novembre S. Caroli Epíscopi et Confessoris  Duplex

8 Novembre In Octavam Omnium Sanctorum  –  Duplex majus

9 Novembre In Dedicatione Basilicæ Ss. Salvatoris  –  Duplex II. classis *L1*

10 Novembre S. Andreæ Avellini Confessoris  – Duplex

11 Novembre Dominica V Post Epiphaniam,  II Novembris –  Martini Epíscopi et Confessoris   –

12 Novembre. S. Martini Papæ et Martyris – Duplex

13 Novembre S. Didaci Confessoris  – Semiduplex

14 Novembre  S. Josaphat Epíscopi et Martyris  –  Duplex

15 Novembre S. Alberti Magni Epíscopi Confessoris et   

                             Ecclesiæ Doctoris    Duplex

16 Novembre  S. Gertrudis Virginis – Duplex

17 Novembre   S. Gregorii Thaumaturgi Epíscopi et

                              Confessoris  –  Duplex

18 Novembre  Dominica VI Post Epiphaniam – III. Novembris 

–  In Dedicatione Basilicarum Ss. Apostolorum Petri et Pauli    Duplex *L1*

19 Novembre  Elisabeth Víduæ – Duplex

20 Novembre  S. Felicis de Valois Confessoris – Duplex

21 Novembre In Præsentatione Beatæ Mariæ Virginis  –  Duplex

22 Novembre  S. Cæciliæ Virginis et Martyris  – Duplex *L1*

23 Novembre  S. Clementis Papæ et Martyris  –  Duplex

24 Novembre  S. Joannis a Cruce Confessoris et Ecclesiæ Doctoris -Duplex

25 Novembre Dominica XXIV Ultima post Pentecostem – Semiduplex dominica min.

– Catharinæ Virginis et Martyris  –  Duplex

26 Novembre S. Silvestri Abbatis  –  Duplex

30 Novembre S. Andreæ Apostoli  –  Duplex II. classis *L1*