IL SACERDOTE RISPONDE: Chiarimento di un dubbio!

Il Sacerdote risponde: “Chiarimento di un dubbio”

Caro Fedele,

Dopo aver letto l’articolo “The Perpetual Sacrifice of the Cross” (∗), uno dei fedeli mi ha posto una domanda:

“Sono un po’ confuso: … questo significa che il Vaticano II possiede ancora il sacerdozio, la Messa (il Sacrificio incruento) e i Sacramenti?”

Trovo che questa domanda sia molto importante, ed è per questo che ho chiesto al fedele che me l’ha posta, il permesso di rispondere pubblicamente. Il permesso mi è stato concesso, e quindi ecco la mia risposta …

Dom: Sono un po’confuso: questo significa che il Vaticano II possiede ancora il sacerdozio, la Messa (il Sacrificio incruento) ed i Sacramenti? “

Risp.: È molto importante che tu chieda al tuo sacerdote, dato che è canonicamente corretto per i fedeli ascoltare le risposte ed i chiarimenti dai loro sacerdoti piuttosto che dare un’interpretazione personale e giungere a delle conclusioni private, cosa proibita dalla Legge della Chiesa.

Penso che sarai contento di sentire la seguente mia breve risposta:

1) Ai giorni nostri solamente i preti in comunione con Sua Santità, il Papa in esilio Gregorio XVIII, possono offrire il Sacrificio Incruento validamente e lecitamente. Tutti possono trovare questa dichiarazione pubblicata su T.C.W. Blog. com.

2) Il Vaticano II, essendo quindi fuori della Chiesa di Cristo, non possiede il sacerdozio di Cristo.

Tuttavia, è mio dovere di sacerdote fornirti una risposta un po’ più esauriente, in quanto vi sono alcuni elementi essenziali da prendere in considerazione.

Sulla base del punto 1), dovresti concordare sul fatto che l’affermazione “Sappiamo ora che i sacerdoti non possono essere ordinati, visto che il Papato stesso è stato estromesso, trovandosi in esilio”, è falsa, perché contraddice la possibilità dell’esistenza reale dei Sacerdoti anche quando il Papato stesso sia in esilio. Credo che tu sia a conoscenza di questa realtà da T.C.W. Blog e anche dall’esperienza personale.

Il motivo per cui la suddetta affermazione contraddice la Sacra Bibbia e la Santa Tradizione, lo conosci già dal precedente articolo, “Il Sacrificio Perpetuo della Croce”.

Per quanto riguarda il punto 2), ci sono due tipi o gruppi nel clero all’interno del Vaticano II: a) quelli che furono ordinati prima del 1968 e  b) quelli che sono stati ordinati dopo il 1968 (18 giugno 1968 -ndt. -).

Il primo gruppo:

I sacerdoti, validamente ordinati secondo il rito cattolico antecedente al 1968, sono dei sacerdoti validi. Quando celebrano una Messa nel rito latino, possono consacrare il pane e il vino, purché mantengano determinate condizioni.

Se le specie del pane e del vino sono quelle prescritte e convalidate con la giusta intenzione, pronunciando la formula corretta, in tal caso c’è il Santissimo Sacramento.

“La materia e la forma devono essere utilizzate senza variazione alcuna. Modifiche sostanziali invalidano l’atto”, e “ … non avviene la consacrazione se un sacerdote che intende amministrare un Sacramento, si trovi in stato di ebbrezza, sia mentalmente disturbato o addormentato.” (Teologia morale. Il segno esterno. IL MINISTRO DEI SACRAMENTI).

Uno potrebbe pure ritenere che i sacerdoti validamente ordinati (membri del Vaticano) possano essere ubriachi, dementi o addormentati a causa dell’adesione alla nuova religione non-cattolica. Quindi, c’è il pericolo fondato che essi non abbiano più intenzione di agire come membri del Sacerdozio di Cristo.

Inoltre, tutti i sacerdoti validamente ordinati, che sono membri del Vaticano II, sono o scismatici, oppure scismatici ed eretici.

a) Sono scismatici nel caso in cui, in “foro interno” (in coscienza) non accettino tutte le “riforme” anti-cattoliche del Vaticano II, ma tuttavia, nonostante la loro coscienza,  decidano di aderire al sistema non-Cattolico del Vaticano II.

b) Sono scismatici ed eretici nel caso invece in cui, anche nella loro coscienza, abbiano accettato tutte le “riforme” anticattoliche del Vaticano II, aderendovi.

In entrambi i casi sono “ipso facto” scomunicati dalla Chiesa Cattolica.

A causa dei suddetti enunciati, possiamo concludere che esiste un solo comportamento moralmente e canonicamente corretto dei fedeli Cattolici rispetto a tali “sacerdoti”. Le messe celebrate da questi ministri del Vaticano II dovrebbero essere evitate senza alcun compromesso dai fedeli Cattolici, anche se è noto che potrebbero essere dei sacerdoti validamente consacrati [messe illecite –ndr. -].

Tuttavia, quando parliamo del Sacramento della penitenza, secondo la legge canonica, un Cattolico può fare la Confessione da un sacerdote validamente ordinato solo in pericolo di morte [in articulo mortis].

“Il pericolo di morte può essere determinato da malattie o da cause diverse potenzialmente mortali, ad esempio pericolo di incendio, guerre, naufragi, ecc. Ogni sacerdote ha questo potere, persino il prete irregolare, censurato, apostata, scismatico o eretico, fornito di valida ordinazione. “. (C. 882. Teologia morale, Il ministro del sacramento della penitenza.)

Ma pure in tal caso c’è ancora pericolo per l’anima di un Cattolico. Un sacerdote pur validamente ordinato, che è un membro del Vaticano II, non ha intenzione di assolvere, ma ascolta solo un penitente, per cui in tal caso non c’è assoluzione e non c’è il Sacramento della Penitenza. Questo atto può essere definito come un “monologo” di un penitente, o una conversazione, priva però di qualsiasi effetto sacramentale.

Quando un Prete sicuramente Cattolico non sia quindi disponibile ed il fedele Cattolico non possa confessarsi difronte ad un vero prete, la soluzione migliore è quella di praticare un attento esame quotidiano di coscienza, con un atto di “perfetta contrizione”. In pericolo di morte, è ugualmente richiesto un atto di contrizione perfetta.

Il secondo gruppo:

Tutti gli uomini che la gente chiama “preti” e “vescovi”, ordinati con il nuovo rito dell’antipapa “Paolo VI” dopo il 1968, sono in realtà non sacerdoti, bensì dei “presbiteri laici”, insediati, secondo l’uso protestante, per presiedere alle cerimonie non sacramentali.

Il potere del Sacerdozio di Cristo non è stato dato loro, e quindi essi non possono amministrare Sacramenti validi. L’unica eccezione è il Battesimo, qualora usino la materia e la forma valide, con l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa, nel caso in cui non ci sia un Prete cattolico presente.

(Un Sacerdote Cattolico in esilio)

[Traduz. di G. D. G.]

(∗) hhttps://www.exsurgatdeus.org/2018/11/11/il-sacrificio-della-croce-e-un-sacrificio-perpetuo

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (X)

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO 

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO IX.

I Principi della Città del bene.

Gli angeli buoni, principi della Città del bene — Prova particolare della loro esistenza — Loro natura — Essi sono puramente spirituali, ma possono prendere dei corpi: prove — Loro qualità: l’incorruttibilità, la bellezza, l’intelligenza, l’agilità, la forza — Prodigiosa estensione della loro forza — Essi l’esercitano sopra i demoni sul mondo e sull’uomo quanto al corpo e quanto all’anima: prove.

Il Re della Città del bene non è solitario. Intorno al suo trono stanno innumerevoli legioni di principi risplendenti di bellezza che formano la sua corte.(Dan. VII, 10) Ufficio, loro è di onorare il grande Monarca, vegliare alla guardia della Città e presiedere al suo governo: questi principi sono i buoni Angeli. Sotto pena di lasciare nell’ombra una delle più grandi meraviglie del mondo superiore ed il roteggio più importante della sua amministrazione, noi dobbiamo farli conoscere. Perciò fa d’uopo dire la loro esistenza, natura, numero, le loro gerarchie, i loro ordini e funzioni.

Esistenza degli Angeli. Gli Angeli sono tante creature incorporee, invisibili, incorruttibili, spirituali, dotate di intelligenza e di volontà. (Viguier, c. in, § 2, vers. 2, p. 77) La fede del genere umano, la ragione, l’analogia delle leggi divine si riuniscono per stabilire sopra un fondamento incrollabile il domma dell’esistenza degli Angeli. Di già abbiamo visto la lede del genere umano manifestarsi con splendore nel culto universale dei geni buoni e cattivi. La ragione dimostra facilmente che il nostro mondo visibile con la sua imperfetta natura, non ha né può avere in sé, né la ragione della sua esistenza, né il principio delle leggi che la regolano. Bisogna cercarla in un mondo superiore, del quale non è che il reverbero. Com’è per l’albero, il cui fogliame sboccia ai nostri sguardi, cosi sono i principii di vita e di solidità, nascosti nelle profondità della terra. – L’osservazione più sapiente delle leggi divine provoca quest’assioma: che non vi è salto nella natura né rottura nella catena degli esseri. (Natura non facit saltus. Linneo). Nello stesso tempo essa dimostra che di questa catena magnifica l’uomo non può essere l’ultimo anello. Dio è l’oceano della vita. Egli la diffonde su tutte le forme, vegetativa, animale, intellettuale. Secondo che essa è più o meno abbondante, la vita segna il grado gerarchico degli esseri. Ora essa è più abbondante via via che l’essere si avvicina più a Dio. Cosi per ricondurre a sé con gradi insensibili tutta la creazione discesa da lui, l’Onnipotente, la cui infinita sapienza si è divertita nella formazione dell’universo, ha tratto dal nulla parecchie specie di creature. Le une visibili e puramente materiali, come per esempio, la terra, l’acqua, le piante: altre, visibili ed invisibili a un tempo, materiali e immateriali, come gli uomini; altre infine, invisibili ed immateriali come gli Angeli. Questi ultimi, non meno degli altri, sono dunque una necessità della creazione. Ascoltiamo il più grande dei filosofi: « Supposto, dice san Tommaso, il decreto della creazione, l’esistenza di certe creature incorporee è una necessità. Difatti il fine principale della creazione, è il bene. Il bene o la perfezione consiste nella rassomiglianza dell’essere creato col Creatore, dell’effetto con la causa. La rassomiglianza dell’effetto con la causa è perfetta, allorquando l’effetto imita la causa, secondo che essa lo produce. Ora, Dio produce la creatura con intelletto e con volontà. La perfezione dell’universo esige dunque che vi siano creature intellettuali ed incorporee.(I p. q. L, art. 1, cor.) – « Di maniera che, che vi siano Angeli, e che questi siano esseri personali, e non miti o allegorie, quest’è una verità insegnata dalla rivelazione, confermata dalla ragione, e attestata dalla fede del genere umano. –

« Natura degli Angeli. L’abbiamo già indicata; gli Angeli sono incorporei, vale a dire che non hanno corpi con i quali siano essi naturalmente uniti. La ragione è che essendo tanti esseri completamente intellettuali e sussistenti per se medesimi, formæ subsistentes, come  parla san Tommaso, cosi essi non hanno bisogno di corpo per essere perfetti. Se l’anima umana è unita ad un corpo, è che essa non ha la pienezza della scienza, e che è obbligata ad acquistarla per mezzo delle cose sensibili. Quanto agli Angeli, essendo perfettamente intellettuali per loro natura, non hanno niente da apprendere dalle creature materiali: e il corpo loro è inutile.1 »1 (Sum.th. I p.? q. LI, art. 1. cor.). – Da ciò resulta che gli Angeli non possono, come le anime umane, essere uniti essenzialmente a dei corpi, e diventare una stessa persona con loro. Essi sono per conseguenza incapaci di esercitare nessun atto della vita sensibile o vegetativa, come vedere corporeamente, sentire, mangiare e altre cose simili. (Viguier, ubi supra, p. 78.) Dell’aria o di un’altra materia già esistente, essi possono però formarsi dei corpi, e dar loro una figura ed una forma accidentale. L’Arcangelo Raffaello diceva a Tobia: Quando io era con Voi per volere di Dio, pareva che io mangiassi e bevessi, ma io faceva uso di cibi invisibili. 33 (Tob., XII). Cosi, l’apparizione degli Angeli sotto una forma sensibile non è una visione immaginaria. La visione immaginaria non è che nella immaginazione di colui che la vede: essa sfugge agli altri. Ora, la Scrittura ci parla sovente degli Angeli che appaiono sotto forme sensibili, e che sono visti indistintamente da tutti. Gli Angeli che appariscono ad Abramo sono visti dal patriarca, da tutta la sua famiglia, da Lot e dagli abitanti di Sodoma. Cosi pure l’Angelo che apparisce a Tobia è visto da lui, da sua moglie, da suo figlio, da Sara e da tutta la famiglia di Sara. È dunque manifesto che non era quella una visione immaginaria. Era bensì una visione corporea, nella quale quegli che ne gode, vede una cosa che è esteriore a lui. – Ora, l’oggetto di una simile visione, vale a dire la cosa esteriore non può essere altro che un corpo. Ma, poiché gli Angeli sono incorporei e che non hanno corpi, ai quali siano naturalmente uniti, ne resulta, ch’essi rivestono, quando ne hanno bisogno, di corpi formati accidentalmente. (S. Th., I p. q. LI, art. 1, cor.). Questi corpi, composti d’aria condensata, o di un’altra materia, gli Angeli non gli prendono per sé ma per noi. Tutte le loro apparizioni si riferiscono al mistero fondamentale dell’Incarnazione del Verbo, e alla salute dell’uomo del quale è la indispensabile condizione. Le une lo preparano, le altre lo confermano, intanto che esse provano la esistenza del mondo superiore con le sue realtà eterne, gloriose o terribili. « Conversando familiarmente con gli uomini, dice san Tommaso, gli Angeli vogliono mostrarci la verità di questa grande società degli esseri intelligenti, che noi attendiamo nel cielo. Nell’antico Testamento, le loro apparizioni avevano per scopo di preparare il genere umano all’Incarnazione del Verbo, imperocché erano tutte figura dell’apparizione del Verbo nella carne. (Id. ad 1) – Nel Nuovo, esse concorrono al compimento del mistero, sia in se medesimo, ossia nella Chiesa e negli eletti. È facile convincersene esaminando le circostanze delle apparizioni angeliche a Zaccaria, alla santa Vergine, a San Giuseppe, a san Pietro, agli Apostoli, ai martiri, ai santi in tutti i secoli. Secondo i più dotti interpreti, le apparizioni accidentali degli Angeli sulla terra non sarebbero che il preludio di una apparizione abituale in cielo. « I reprobi, dicono essi, saranno tormentati non solamente nella loro anima, per la conoscenza dei loro supplizi: ma altresì nei loro corpi, vedendo le figure orribili dei demoni. In essi gli occhi del corpo hanno peccato nello stesso modo che gli occhi dell’anima; è dunque giusto che tanto gli uni che gli altri ricevano il loro castigo. « Parimenti, è probabile che nel cielo gli Angeli prenderanno corpi magnifici aerei, a fine di rallegrare gli occhi degli eletti, e di conversare con essi a bocca a bocca. Ciò pare esatto, da un lato, per l’amicizia, per l’unione, per la comunicazione intima, la quale esisterà tra gli Angeli ed i beati, come concittadini della stessa patria: dall’altro per la ricompensa dovuta alla mortificazione

dei sensi ed alla vita angelica che i santi hanno menato quaggiù, nella speranza di godere della società degli Angeli. Se fosse altrimenti, i sensi degli eletti non riceverebbero nessuna gioia dagli Angeli,, ed anche ogni relazione con essi sarebbe loro impossibile. Tutto si limiterebbe ad una comunicazione mentale, ed il corpo sarebbe privato di una parte della sua ricompensa. » (Corn. a Lap., In Is., XXXIV, 14. — In virtù dello stesso ragionamento non si potrebbe supporre che le due persone della Santa Trinità che non hanno preso corpo, il Padre e lo Spirito Santo, degneranno pure mostrarsi agli eletti sotto una forma visibile? 0 altitudo diuitiarum!) Parlando del giudizio ultimo essi aggiungono: « Egli è credibilissimo che tutti gli Angeli riappariranno in corpi splendidi; altrimenti questa gloria del Figliuolo di Dio non sarebbe veduta dagli empi, pei quali appunto sarà soprattutto mostrata. L’esercito potente dei cieli niente aggiungerebbe alla maestà esteriore del Giudice supremo; maestà che la Scrittura prende cura di descrivere con tanta precisione. La moltitudine degli Angeli essendo innumerevole, essa riempirà dunque le immense pianure dell’aria e presenterà alle nazioni radunate, il formidabile aspetto d’un’armata schierata in battaglia. Non è meno credibile che i demoni appariranno sotto forme corporee: altrimenti non sarebbero veduti dai reprobi, e però la gloria del Nostro Signore e la confusione dei malvagi esigono che siano visibili. (Viguier, p. 78).

« Qualità degli Angeli. Dalla semplicità o incorporeità della loro natura, resulta che i principi della Città del bene sono incorruttibili. Esenti da languori e da infermità, essi non conoscono né il bisogno di nutrimento o di riposo, né le debolezze dell’infanzia, né le infermità della vecchiaia. Resulta ancora ch’essi sono dotati di una bellezza, di una intelligenza, di una agilità e di una forza incomprensibile all’uomo. – Iddio è la bellezza perfetta e la sorgente di ogni bellezza. Quanto più un essere gli rassomiglia, tanto più è bello. I cieli sono belli, la terra è bella, perché i cieli e la terra riflettono alcuni raggi della bellezza del Creatore. Di tutti gli esseri materiali il corpo umano è il più bello, perché possiede in un grado più elevato la forza e la grazia, la cui felice unione forma il marchio della bellezza. L’anima è più bella del corpo, perché è l’immagine più perfetta dell’eterna bellezza. L’angelo, dunque essendo alla sua volta l’immagine incomparabilmente più perfetta di questa bellezza, è incomparabilmente più bello che l’anima umana. – Per conseguenza quale spettacolo offre agli sguardi il Re della Città del bene, circondato da tutti questi principi, rilucenti come tanti soli, il meno bello dei quali ecclissa tutte le bellezze visibili! Il giorno in cui sarà dato all’uomo di vederlo faccia a faccia, entrerà in un rapimento, indicibile anche a Paolo che ne fu testimone. Frattanto l’umanità ha l’istinto di questa suprema bellezza; imperocché, per indicare il grado più perfetto della bellezza sensibile essa dice; bello come un Angelo. La bellezza degli Angeli è il raggio della loro perfezione essenziale, e questa loro essenziale perfezione è l’intelligenza. Chi ne dirà l’estensione? Risponde san Tommaso : « L’intelligenza angelica è deiforme, vale a dire, che l’Angelo acquista la conoscenza della verità non mediante la vista delle cose sensibili, né per via del ragionamento, ma per il semplice sguardo.1 (S- Th., 2a 2æ, q. CLXXX , art. 6 ad 2.). Come sostanza esclusivamente spirituale la potenza intellettiva é in lui completa, cioè dire ch’essa non è mai in potenza come nell’uomo, ma sempre in atto, di maniera che l’Angelo conosce attualmente tutto ciò che può conoscere naturalmente. » (Id. , q. L, art. 1, ad 2; q . LV, art. 1, cor.; e t art. 2, cor.) Ei lo conosce tutto intero, nel complesso, e nei particolari, nel principio, e nelle ultime conseguenze. « Le intelligenze d’un ordine inferiore, come l’anima umana, hanno bisogno per giungere alla perfetta cognizione della verità di un certo movimento, di un certo lavoro intellettuale, col quale esse procedono dal noto all’ignoto. Questa operazione non avrebbe luogo se, dal momento che esse conoscono un principio, ne vedessero istantaneamente tutte le conseguenze. Tale è la prerogativa degli Angeli. Tosto che sono in possesso di un principio, già conoscono tutto quel che racchiude: ecco perché si chiamano intellettuali, e le anime umane semplicemente ragionevoli. Così non può esservi né falsità, né errore, né inganno nell’intelligenza di nessun angelo.2 (Id., art. 5, c.). – A che cosa si estende la conoscenza dei principi della Città del bene? Essa si estende a tutte le verità dell’ordine naturale.I p. q. LXXV, art. 1, cor., etc.). Per essi il cielo e la terra niente hanno di celato; e dacché sono confermati in grazia, conoscono la maggior parte delle verità dell’ordine soprannaturale. Noi diciamo “la maggior parte”, poiché sino al di del giudizio, in cui il corso dei secoli finirà, gli Angeli riceveranno delle nuove comunicazioni intorno al governo del mondo, e in particolare circa la salute dei predestinati.(Id. q. CVI, art. 4, ad 3.). Se l’intelligenza dei principi della Città del bene è per essi la sorgente di voluttà ineffabili, essa è per noi un triplice soggetto di consolazione, di tristezza e di speranza; di consolazione, perché i buoni Angeli non si servono della loro intelligenza, se non che nel nostro interesse e quello del nostro Padre celeste. Di tristezza, perché in Adamo noi possedevamo un’intelligenza simile alla loro, esente da errore e noi l’abbiamo perduta. (Id. I p. q. XCIV, art. 1 et 4, cor.). Di speranza, perché noi la ritroveremo in cielo, e già ne possediamo le primizie negli splendori della fede. – Dalla incorporeità degli angeli nasce la loro agilità. – Come essere finito, l’Angelo non può essere dappertutto nel tempo stesso, ma tale è la rapidità de’ suoi movimenti, che equivalgono quasi all’ubiquità. « L’Angelo, dice san Tommaso, non è composto di diverse nature, di modo elle il movimento dell’una impedisca o ritardi il movimento dell’altra; come avviene all’uomo, in cui il movimento dell’anima è contenuto dagli organi. Ora dunque, siccome nessun ostacolo lo ritarda né lo impedisce, l’essere intellettuale si muove in tutta la pienezza della sua forza. Per lui lo spazio sparisce. Così, i principi della Città del bene possono a un colpo d’occhio, essere in un luogo, ed, in un altro colpo d’occhio, in altro luogo senza durata intermedia. (I p. q. LIII, art. 3, ad 3; q. LXII, art. 6, cor.). Tale è d’altro canto la loro sottigliezza, che i corpi più opachi sono per essi meno di un velo diafano che per i raggi del sole. Come agilità, la forza degli Angeli prende la sua sorgente nell’essenza del loro essere, il quale partecipa più abbondantemente d’ogni altro dell’essenza divina, forza infinita.(Diamo a questa partecipazione il significato delle parole di san Pietro: divinæ consortes naturæ. Ciò che non è del panteismo Cosi l’una e l’altra sorpassano tutto ciò che noi conosciamo d’agilità e di forza nella natura, vale a dire che esse sono incalcolabili e si esercitano sul mondo e sull’uomo. Sul mondo: gli Angeli sono quelli che gli imprimono il moto. Tutte le creature materiali, come inerti di loro natura, sono nate per essere messe in movimento dalle creature spirituali, siccome il nostro corpo e l’anima nostra. « È legge della divina sapienza, insegna l’angelico dottore, che gli esseri inferiori siano mossi dagli esseri superiori. Ora la natura materiale essendo inferiore alla natura spirituale, è manifesto ch’essa è posta in movimento da esseri spirituali. Tale è l’insegnamento della filosofia e della fede. » (I p. q. ex, art. 3, cor.). Ora, la forza d’impulsione della quale gli Angeli sono dotati è cosi grande, che basta un solo per mettere in moto tutti i corpi del sistema planetario; e benché sia ad oriente la sua azione, secondo un’antica credenza conservata pure presso i pagani, si fa sentire a tutte le parti del pianeta. Di guisa che lo stesso uomo, la cui mano pone in azione la ruota maestra di un’immensa macchina produce senza cambiar di luogo, il movimento di tutte le ruote secondarie. (Viguier, p. 81). La conseguenza logica di questa forza d’impulsione è che gli Angeli possono spostare i corpi più voluminosi e trasportarli dove vogliono con una tale rapidità che sfugge al calcolo. Secondo sant’Agostino la forza naturale dell’ultimo degli Angeli è tale, che tutte le creature corporee e materiali gli obbediscono quanto al moto locale, nella sfera della loro attività, a meno che Iddio o un Angelo superiore non vi ponga ostacolo. Se dunque Iddio lo permettesse, un Angelo solo trasporterebbe un’intera città da un luogo ad un altro, come l’hanno fatto per la santa Casa di Loreto trasportata da Nazaret in Dalmazia, e di Dalmazia al luogo ove riceve oggi gli omaggi del mondo cattolico. (Apud Viguier, p. 81). Non solamente gli Angeli imprimono il moto al mondo materiale, ma lo conservano, sia impedendo ai demoni di portare la perturbazione nelle leggi che presiedono alla sua armonia, ossia vegliando al mantenimento perpetuo di quelle leggi ammirabili. « Tutta la creazione materiale, dice sant’Agostino, è amministrata dagli Angeli. – Perciò nulla impedisce di dire, aggiunge san Tommaso, che gli Angeli inferiori sono preposti dalla sapienza divina al governo dei corpi inferiori, e i superiori al governo dei corpi superiori, e in fine, i più elevati, all’adorazione dell’Essere degli esseri. » (Tota creatura corporats administratur a Deo per angelos, ut Aug. dicit, tib. III, De Trinit, c. IV et V). Non bisogna dunque illudersi: l’ordine meraviglioso che ci colpisce nella natura e soprattutto nel firmamento, è dovuto non al caso, non alla forza delle cose, non a leggi immutabili, ma all’azione continua dei principi della Città del bene. [Questo intervento degli angeli, che san Tommaso e gli antichi filosofi ammettevano per spiegare il moto dei globi celesti, può benissimo conciliarsi con le cognizioni che abbiamo ora dalle scienze naturali, in specie dall’astronomia, in questo senso, che gli angeli cioè senza effettuare immediatamente cotesti moti, presiedano alle leggi fìsiche, che direttamente li producono. (N. d. Ed.)]. –  Sotto gli ordini del loro re, essi conducono gli immensi globi che compongono la splendida armata dei cieli, come tanti ufficiali conducono i loro soldati, come i capi del treno conducono le terribili macchine; con questa differenza che gli ultimi possono ingannarsi, i primi giammai. A malgrado della spaventosa rapidità che imprimono a queste masse gigantesche, essi le mantengono però nella loro orbita, facendo percorrere ad ognuna la sua ruota con una precisione matematica. Un giorno solamente, che sarà l’ultimo dei giorni, questa magnifica armonia sarà rotta. All’avvicinarsi del Giudice supremo, allorché tutte le creature si armeranno contro l’uomo colpevole, i potenti conduttori degli astri, rovesceranno l’ordine del sistema planetario, allora le nazioni, inorridiranno di timore nell’aspettativa di ciò che deve succedere. (Corn. a Lap. in Matth., XXIV, 29). Sull’uomo: In virtù della stessa legge di subordinazione gli esseri spirituali di un ordine inferiore sono sottomessi all’azione degli esseri spirituali di un ordine superiore. Così l’uomo è soggetto corpo e anima, alle potenze angeliche e gli Angeli non sono a lui soggetti. Bisognerebbe scorrere tutta la Scrittura qualora si volessero

riferire le diverse operazioni degli Angeli sul corpo dell’uomo. – Citiamo soltanto l’esempio del profeta Abacuc trasportato da un angelo dalla Palestina in Babilonia, a

fine di portare il suo nutrimento a Daniele rinchiuso nella fossa coi leoni. Citiamo altresì l’esercito del re d’Assiria Sennacheribbe, del quale cent’ottantacinque mila uomini sono tagliati a pezzi da un Angelo in una notte. Ricordando questo fatto a proposito delle dodici legioni d’angeli che Nostro Signore avrebbe potuto chiamare intorno a sé nell’orto degli Ulivi, san Crisostomo esclama con ragione: « Se un Angelo solo ha potuto mettere a morte cent’ottantacinque mila soldati che cosa non avrebbero fatto dodici legioni d’angeli? » (In Matth. XXVI, 3). Si potrebbe aggiungere il passo cosi noto dell’Angelo sterminatore, al quale pochi istanti bastarono per fare perire tutti i primogeniti degli uomini e degli animali nel vasto regno d’Egitto. Quanto alla nostra anima, Ali angeli possono esercitare, e in realtà esercitano su di lei una azione a quando a quando ordinaria e straordinaria, di cui è difficile misurare la potenza. L’intelletto deve ad essi i suoi lumi più preziosi. « Le rivelazioni delle cose divine, dice il gran san Dionigi, giungono agli uomini per mezzo degli Angeli. » (Revelationes divinorum. perveniunt ad homines mediantibus

angelis. Cælest hierarch., c. IV). – Dalla prima sino all’ultima tutte le pagine dell’antico e del nuovo Testamento verificano le parole dell’illustre discepolo di san Paolo. Abramo, Lot, Giacobbe, Mosé, Gedeone, Tobia, i Maccabei, la SS. Vergine, san Giuseppe, le sante donne e gli Apostoli sono istruiti e diretti da questi spiriti amministratori dell’uomo e del mondo. Noi vedremo che l’Angelo custode compie certo con meno splendore, ma non con meno realtà le stesse funzioni rispetto all’anima affidata alla sua sollecitudine. Questa illuminazione così potente intorno alla condotta della vita ha luogo in parecchie maniere. Ora l’Angelo fortifica l’intelletto dell’uomo, affinché possa concepire la verità; ora gli presenta immagini sensibili, mediante le quali egli può conoscere la verità, perché senza di esse non conoscerebbe. A questo modo si conduce l’uomo medesimo nell’istruirne un altro. (S. Th.. p. q. CXI, art. 1, corp.). Si tratta per caso della volontà? È vero che gli Angeli, buoni o malvagi, non possono forzare le sue determinazioni, imperocché l’anima resta sempre libera; ma l’esperienza universale insegna quanto le ispirazioni degli Angeli buoni e le suggestioni degli angeli cattivi sono efficaci, per condurci al bene come al male. Tanto gli uni che gli altri, traggono gran parte della loro forza dalla potenza che hanno i principi della Città del bene e della Città del male, di agire profondamente sopra i sensi esteriori. Mercé di essi, i demoni affascinano l’immaginazione con lusinghiere immagini che tolgono al male la sua bruttura, e lo rivestono dell’apparenza di bene; sommuovono tutta la parte inferiore dell’anima e accendono in tal modo la concupiscenza. Al contrario i buoni Angeli allontanano le nubi dell’errore e le tenebre delle passioni, riconducono i sensi alla loro natia purezza, e producono come una seconda veduta, mediante cui le cose si presentano agli apprezzamenti dell’anima sotto il vero loro aspetto. In certi casi, gli Angeli possono altresì privare l’uomo dell’uso dei suoi sensi, come avvenne agli abitanti di Sodoma. A questa legge si ricollega la lunga serie dei fatti del soprannaturale divino e del soprannaturale satanico, che riempiono gli annali di tutti i popoli, e di cui la ragione non può molto meno spiegare la natura o disconoscere la causa, come non può negarne l’autenticità. (I p. q. CVI, art. 2, corp.; q. CXI, art. 3 et 4 corp., etc.). I Pagani meno ignoranti o meno ostinati nell’errore dei nostri razionalisti moderni, che non avevano inventato ancora il sistema delle leggi immutabili, proclamano altamente e senza restrizione il libero governo dell’uomo e del mondo, mediante le potenze angeliche. Oltre le testimonianze già citate, abbiamo quella di Apuleio. Esso è talmente esplicito, che direbbesi una pagina del libro di Giobbe. « Se, dice egli, è sconveniente per un re di far tutto, e governare tutto da sé medesimo, egli è molto più per Iddio. Per conservar a lui tutta la sua maestà, bisogna dunque credere che Egli stia assiso sul suo sublime trono e che governi tutte le parti dell’universo con le potenze celesti. Infatti egli governa il mondo inferiore mediante le loro cure: perciò non gli occorre né fatica, né calcoli, cose di cui l’ignoranza o la debolezza dell’uomo hanno bisogno. « Quando dunque il re ed il padre degli esseri che noi non possiamo vedere, fuorché con gli occhi dell’anima, vuol porre in movimento l’immensa macchina dell’universo, risplendente di stelle, fulgida di mille bellezze, regolata dalle sue leggi ei fa, se dirlo è permesso, come facciamo nel momento di una battaglia. Al suono della tromba i soldati, animati dai suoi accenti, si pongono in moto; chi piglia la sua spada, chi il suo scudo; quelli la loro corazza, il loro elmo, i loro stivali; questi inforca il suo cavallo, l’altro attacca i suoi cavalli alla quadriga, ciascuno con ardore si prepara. I veliti formano le loro file, i capitani fanno la loro ispezione e i cavalieri ne pigliano il comando. Ognuno si occupa del suo ufficio. Ciononostante tutto l’esercito obbedisce ad un sol generale che il re pone alla sua testa. Cosi avviene lo stesso nel governo delle cose divine ed umane. Sotto gli ordini di un solo capo, ciascuno conosce il suo dovere e lo compie, quantunque esso non conosca la molla segreta che lo fa agire e che questa potenza sfugge agli occhi del corpo. Prendiamo un esempio in un ordine meno elevato. Nell’uomo l’anima è invisibile. Però bisognerebbe essere pazzo per negare che tutto ciò che l’uomo fa, viene da questo principio invisibile. A lui deve la vita umana e la sua sicurezza, i campi la loro cultura, i frutti il loro uso; le arti il loro esercizio; insomma tutto quel che fa l’uomo. »(De mando lib. unus, p. 148). Bossuet è stato dunque l’eco della fede universale, allorquando ha pronunziato questa magistrale parola: « La subordinazione delle nature create chiede che questo mondo sensibile ed inferiore sia diretto dal superiore ed intelligibile, e la natura corporea dalla natura spirituale. (Sermone per la festa dei SS. Angeli p. 402, t. XVI, edit. Lebel. – Che l’uomo dunque se ne ricordi. Come il mondo materiale è governato dalle potenze angeliche, egli stesso è posto sotto l’azione immediata di un angelo buono o malvagio. Non una parola, non una azione, non un minuto nella sua esistenza che non sia influenzato da una o dall’altra di queste potenti creature. Ma è dolce il pensare che il potere dei principi della Città del bene supera quello dei principi della Città del male. « In Dio, dice l’Angelo delle Scuole, è la sorgente principale di ogni superiorità. Quanto più esse si accostano a Dio, tanto più le creature partecipano di Esso e tanto più sono perfette. Ora, la perfezione più grande, quella che si accosta più di tutto a quella di Dio, appartiene agli esseri che godono di Dio medesimo; tali sono gli Angeli buoni. I demoni sono privi di questa perfezione. Ecco perché i buoni angeli sono superiori a loro in potenza, e li tengono soggetti al loro impero. – Di qui deriva, come conseguenza, che l’ultimo degli Angeli buoni comanda al primo dei demoni, atteso che la forza divina, alla quale egli partecipa, la vince sulla forza della natura angelica. » (Dicendum quod angelus, qui est inferior ordine naturæ, praeest dæmonibus, quamvis superioribus ordine naturæ; quia virtus divinæ justitiæ, cui inhærent boni angeli, potior est quam virtus naturalis angelorum. I p. q. CIX, art. 4 corp. et ad 3)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI SCISMATICI ED ERETICI DI TORNO: QUARTUS SUPRA DI S. S. PIO IX

“…Voi vedete che si adempie anche presso di Voi quello che avevano predetto i santi Apostoli di Dio, cioè che sarebbero sorti negli ultimi tempi dei dileggiatori per ingannarvi: gente che cammina secondo le proprie concupiscenze. Sforzatevi dunque di non passare da Colui che vi ha chiamato alla grazia di Cristo, ad un altro vangelo. In realtà non ce n’è un altro; soltanto, ci sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo. E veramente vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo coloro che si sforzano di rimuovere il fondamento che lo stesso Cristo Dio ha posto alla sua Chiesa; negano o vanificano la cura universale di pascere le pecore e gli agnelli che nel Vangelo fu affidata a Pietro. … È questa la parte finale dell’Enciclica che proponiamo oggi, lettera importantissima e densa di contenuti, anche se prende l’avvio da fatti concernenti la Chiesa Armena, nella quale si era creato più di un evento scismatico, causato da elezione di prelati  a sedi patriarcali e vescovili, senza che vi fosse stato il concorso e l’approvazione del Santo Padre, cioè della Santa Sede. Qui viene spontaneo ricollegarsi ai noti eventi determinate da indebite proclamazioni di pseudo-vescovi avvenute senza il consenso, anzi con l’esplicita condanna di quello che essi stessi ritenevano il vero Papa regnante. Notissima è la posizione ambigua del “figlioccio spirituale” del cavaliere kadosh (tale padrino, tale figlioccio …): Marcel Lefebvre, il quale, non solo era stato invalidamente consacrato sacerdote e poi (falso)vescovo da un non-prete e non-vescovo, il cardinale A, Lienart, noto massone di alto grado ben prima della sua falsa consacrazione a presbitero (era già cavaliere rosacroce 18° livello della Massoneria di rito scozzese, rito in cui nel corso di un’agape si immola un agnello coronato di spine – figura evidentemente del Cristo crocifisso – e con gli arti perforati da chiodi, arti e testa poi tagliati e bruciati nel fuoco ed offerti a satana), e poi a Vescovo (era nel frattempo giunto al grado 30° cavaliere kadosh della stessa sinagoga satanica, grado in cui si compie un giuramento di vendetta contro Dio ed adesione alla volontà di lucifero, quindi non aveva alcuna volontà di operare per la Chiesa Cattolica, tutt’altro …), ma osò ordinare a sua volta (pseudo)-sacerdoti e finanche (falsi) vescovi, senza l’approvazione, il mandato, la giurisdizione necessaria concessa sì, dall’antipapa all’epoca usurpante, ma che lo stesso riteneva, solo a parole e per ingannare i disgraziati che lo seguivano, essere il vero Pontefice regnante, sapendo invece bene chi fosse il falso (patriarca degli illuminati di Baviera) ed il vero Papa, essendo amico intimo sia di Lienart che di Tisserant che da massoni di “alto bordo” avevano partecipato al conclave del 1958 e del 1963, e conoscevano il nome ed il volto del Santo Padre Gregorio XVII, da loro occultato ed esiliato. Solo questo basterebbe a far capire l’inganno feroce operato da “coloro che odiano Dio, il suo Cristo, i Cristiani e tutti gli uomini”, nel comporre la tenaglia spirituale che ha schiacciato  e stritolato i poveri fedeli ignari, ma colpevolmente ignoranti, che nella ganascia  del lato “sinistro” comprendeva i modernisti ecumenisti della chiesa dell’uomo aperta al mondo (… cioè ai lupi), mentre in quella del lato “destro”, reclatava man mano coloro che resistendo alle innovazioni palesemente eretiche ed a-cattoliche, pensavano di trovare un porto sicuro in un tradizionalismo di facciata, gestito da finti prelati, mai ordinati validamente nè lecitamente, espressione di un inganno spirituale ancor più sottile e devastante: il “tradizionalismo delle fraternità (paramassoniche … ad essere buonisti) pseudo-sacerdotali”, infiorescenze dalle quali sono sbocciati poi virgulti come gli eretici tesisti, i pittoreschi sedevacantisti, i Fineysti, e tanti personaggi improbabili di finti prelati, di virtuali monasteri, di  “cani sciolti”, etc. Seguendo le direttive del Santo Padre, conoscendole ed osservandole strettamente, tutto questo abominio che oggi vige in tutto l’orbe ex-cristiano, si sarebbe evitato, senza che si debba in fine aspettare l’intervento del Capo supremo della Chiesa che con “… il soffio della sua bocca brucerà l’anticristo e tutti i suoi sostenitori”. Ma passiamo alla lettura dell’Enciclica, traendone motivi di meditazione ed applicazione pratica.

Pio IX

Quartus supra

1. È già trascorso il ventiquattresimo anno da quando, ricorrendo i sacri giorni in cui il nuovo astro sorse in Oriente per illuminare le genti, inviammo una Nostra lettera Apostolica agli Orientali per confermare nella fede i cattolici e per richiamare all’unico ovile di Cristo coloro che miseramente si trovano fuori della Chiesa Cattolica. Ci sorrideva la lieta speranza che, con l’aiuto di Dio e del Salvatore nostro Gesù Cristo, la purezza della fede cristiana si sarebbe diffusa sempre più largamente e sarebbe rifiorito in Oriente l’impegno per la disciplina ecclesiastica, alla ricomposizione ed al ristabilimento della quale a norma dei sacri canoni avevamo promesso di non fare mancare la Nostra autorità. Dio sa quanta sollecitudine abbiamo sempre avuto da quel tempo verso gli Orientali e con quanto affetto e carità li abbiamo seguiti: quello che in verità abbiamo compiuto a questo fine tutti lo sanno, e Dio volesse che tutti lo comprendessero. In realtà, per l’imperscrutabile disegno di Dio avvenne che per nulla gli avvenimenti rispondessero all’aspettativa e alle Nostre sollecitudini; e non solo non dobbiamo rallegrarci, ma invece gemere e dolerci per una nuova calamità che affligge alcune Chiese degli Orientali.

2. Quello che l’Autore e perfezionatore della nostra fede, Gesù Cristo, già aveva predetto (Mt 24,5), cioè che molti sarebbero venuti in suo nome ad affermare “Io sono il Cristo“, seducendo molti, voi al presente siete costretti a patirlo e a sperimentarlo. Infatti il comune nemico del genere umano, eccitando da tre anni un nuovo scisma fra gli Armeni nella città di Costantinopoli, impiega ogni sforzo per sovvertire la fede, travisare la verità, spezzare l’unità utilizzando la sapienza mondana, argomenti ereticali, le sottigliezze dell’astuzia e della frode, e perfino la violenza. San Cipriano, deplorando tale simulazione e tale dolo e nello stesso tempo denunciandoli, diceva : “Rapisce gli uomini dalla stessa Chiesa e mentre sembra loro di essersi avvicinati alla luce e di essere sfuggiti alla notte del mondo, infonde in loro, ignari, nuove tenebre, in modo che non stando con il vangelo, con la sua legge e la sua osservanza, si chiamano cristiani, credono di possedere la luce e invece camminano nelle tenebre, sotto le blandizie e l’inganno dell’avversario, il quale, secondo l’espressione dell’Apostolo, si trasfigura in angelo di luce (2 Cor XI, 14), e veste i suoi collaboratori come ministri di giustizia, confondendo la notte con il giorno, la perdizione con la salvezza, la disperazione sotto la maschera della speranza, la perfidia camuffata come fede, l’anticristo sotto il nome di Cristo: così, mentre mentiscono presentando con sottigliezze cose verosimili, tradiscono la verità“.

3. Sebbene l’inizio di questo nuovo scisma fosse avvolto, come si suole, in molte ambiguità, Noi tuttavia presentando la sua malvagità e i suoi pericoli, subito, secondo il Nostro dovere, Ci siamo opposti con Lettere Apostoliche: una del 24 febbraio 1870, che comincia con le parole Non sine gravissimo, l’altra del 20 maggio dello stesso anno che inizia Quo impensiore. In verità la cosa andò così avanti che gli autori e i seguaci dello stesso scisma, disprezzando le esortazioni, i moniti e le censure di questa Sede Apostolica, non esitarono ad eleggersi uno pseudo Patriarca. Noi dichiarammo con la Nostra lettera Ubi prima dell’11 marzo 1871 che quella elezione era del tutto invalida e scismatica, e che l’eletto e i suoi elettori erano incorsi nelle censure canoniche. In seguito, usurpate violentemente le Chiese dei cattolici, costretto ad uscire dai confini dell’Impero Ottomano il legittimo Patriarca (il Venerabile Fratello Antonio Pietro IX), dopo aver occupato militarmente la stessa sede patriarcale della Cilicia che si trova in Libano, dopo essersi impadroniti anche della prefettura civile, premettero sulla popolazione della cattolica Armenia, sforzandosi di staccarla completamente dalla comunione e dalla obbedienza alla Sede Apostolica. E perché questo avvenga, molto si dà da fare fra i sacerdoti Neoscismatici quel Giovanni Kupelian che già in precedenza eccitava le popolazioni per favorire lo scisma nella città di Diyarbekir, o Amida, e che il Venerabile Fratello Nicola, Arcivescovo di Marcianopoli, Delegato Apostolico in Mesopotamia e in altre regioni, con la Nostra autorità, pubblicamente e nominativamente aveva scomunicato e dichiarato separato dalla Chiesa Cattolica. Egli, infatti, dopo avere ricevuto la sacrilega consacrazione episcopale dallo pseudo Patriarca, ed essersi impadronito del potere, ebbe la presunzione e si sforzò di sottomettere al proprio potere i cattolici di rito armeno, sia con la persuasione, sia con minacce fatte pubblicamente. Se questo avvenisse, i cattolici ritornerebbero completamente a quella miserrima condizione che 42 anni prima avevano subito, allorché erano stati soggetti al potere del vecchio rito scismatico.

4. Noi non abbiamo lasciato nulla di intentato affinché, secondo la prassi dei Nostri Predecessori – dei quali gli illustri Vescovi e Padri delle Chiese Orientali in simili circostanze di tempo e di eventi implorarono sempre l’autorità, il patrocinio e l’aiuto – potessimo allontanare da voi tanti mali. Alla fine abbiamo mandato costà un Nostro legato straordinario e – per non apparire di avere tralasciato qualche cosa – Ci siamo rivolti recentemente allo stesso eccelso Imperatore Ottomano con una particolare Nostra lettera, pregandolo che, attraverso la giustizia, venissero risarciti i danni inferti ai cattolici Armeni, e venisse restituito al suo gregge l’esule Pastore. Ma affinché non venisse data risposta alle Nostre suppliche si opposero con le loro arti astute taluni che, mentre si dichiarano cattolici, in realtà sono nemici della croce di Cristo.

5. Evidentemente la cosa è giunta a tal punto da temere considerevolmente che gli autori e i seguaci del nuovo scisma avanzino verso il peggio e possano condurre sulla via della perdizione, seducendoli per mezzo di ciò che è stato loro preposto, i più deboli nella fede o gli incauti, sia fra gli Armeni, sia fra i cattolici di altri riti. Pertanto siamo costretti dal Nostro stesso carisma di ministero a rivolgerci ancora a Voi e, dissipando le tenebre e la molta caligine con la quale sappiamo venire manipolata la verità, ammonirvi tutti affinché si confermino coloro che sono saldi, siano sostenuti i vacillanti e con l’aiuto di Dio siano richiamati sulla buona strada anche quelli che miseramente si sono allontanati dalla verità e dall’unità cattolica, se vorranno ascoltare ciò che con tanta insistenza chiediamo a Dio.

6. La frode più usata per ottenere il nuovo scisma è il nome di cattolico, che gli autori e i loro seguaci assumono ed usurpano malgrado siano stati ripresi dalla Nostra autorità e condannati con Nostra sentenza. Fu sempre cosa importante per eretici e scismatici dichiararsi cattolici e dirlo pubblicamente, gloriandosene, per indurre in errore popoli e Principi. E questo lo attestò tra gli altri il Presbitero San Girolamo : “Sono soliti gli eretici dire al loro Re o al loro Faraone: siamo figli di quei sapienti che fin dall’inizio ci tramandarono la dottrina degli Apostoli; siamo figli di quegli antichi re che si chiamano i re dei Filosofi e abbiamo unito la scienza delle Scritture con la sapienza del mondo“.

7. Per dimostrarsi cattolici, i Neoscismatici si richiamano a quella che essi definiscono dichiarazione di fede da loro pubblicata il 6 febbraio 1870: vanno predicando che essa non dissente per nulla dalla fede cattolica. Ma in verità a nessuno è mai stato lecito proclamarsi cattolico dopo avere a proprio arbitrio proclamate le formule della fede nelle quali si è reticenti su quegli articoli che non si vogliono professare. Essi invece dovrebbero sottoscrivere tutte quelle verità che vengono proposte dalla Chiesa, come attesta la storia ecclesiastica di tutti i tempi.

8. Che fosse subdola e capziosa la formula di fede da essi pubblicata è confermato anche dal fatto che avevano respinto la dichiarazione o professione di fede proposta ritualmente dalla Nostra autorità, e che il Venerabile Fratello Antonio Giuseppe, Arcivescovo di Tiane, Delegato Apostolico a Costantinopoli, aveva ordinato loro di sottoscrivere con lettera monitoria, ad essi inviata il 29 settembre dello stesso anno. È alieno sia dal divino ordinamento della Chiesa, sia dalla sua perpetua e costante tradizione, che qualcuno possa affermare la propria fede e asserire di essere veramente cattolico, se non partecipa di questa Sede Apostolica. A questa Sede Apostolica , per il suo particolarissimo primato, tutta la Chiesa, ossia i fedeli, ovunque si trovino, devono aderire, e chiunque abbandona la Cattedra di Pietro sulla quale è fondata la Chiesa, soltanto falsamente può affermare di appartenere alla Chiesa. Pertanto è già scismatico e peccatore colui che colloca un’altra cattedra in contrapposizione all’unica Cattedra del Beato Pietro, dalla quale promanano, verso tutti, i diritti di una veneranda comunione.

9. Certamente, tutto questo non era sconosciuto ai preclarissimi Vescovi delle Chiese Orientali. Infatti, nel Concilio di Costantinopoli celebrato nell’anno 536, Menna, Vescovo di quella città apertamente dichiarava ai Padri, che approvavano: “Noi, come la vostra carità già conosce, seguiamo la Sede Apostolica e le obbediamo; riconosciamo in comunione con essa i suoi membri che l’approvano, mentre condanniamo coloro che essa condanna“. Ancora più apertamente ed espressamente San Massimo , Abate di Crisopoli e confessore della fede, parlando di Pirro Monotelita dichiarava: “Se non vuole essere eretico e non vuole sentirselo dire, non si metta dalla parte di questo o di quello: ciò è inutile e irragionevole perché se c’è uno che si scandalizza di lui, tutti sono scandalizzati, e se uno è appagato, tutti senza dubbio sono appagati. Quindi si affretti ad accordarsi su tutto con la Sede Romana. Una volta accordatosi con essa, tutti insieme e ovunque lo riterranno pio e ortodosso. Infatti parla inutilmente chi crede che una persona siffatta debba essere persuasa e sottratta al castigo da me; egli non dà garanzie e implora il beatissimo Papa della santissima Chiesa dei Romani, cioè la Sede Apostolica, la quale dallo stesso Verbo di Dio incarnato, ma anche da tutti i santi Sinodi, secondo i sacri canoni ricevette e detiene il governo, l’autorità e il potere di legare e di sciogliere in tutto e su tutto, quanto si riferisce alle sante Chiese di Dio che esistono su tutta la terra“. Perciò Giovanni, Vescovo di Costantinopoli, dichiarava ciò che poi avvenne nell’ottavo Concilio Ecumenico, cioè “che i separati dalla comunione della Chiesa Cattolica, cioè coloro che non sono in accordo con la Sede Apostolica, non dovevano essere nominati nella celebrazione dei Sacri Misteri” ; con ciò si significava palesemente che essi non venivano riconosciuti come veri cattolici. – Tutto questo è di tale importanza che chiunque sia stato indicato come scismatico dal Pontefice Romano, finché non ammetta espressamente e rispetti la sua potestà, debba cessare di usurpare in qualsiasi modo il nome di cattolico.

10. Tutto questo non può minimamente giovare ai Neoscismatici che, seguendo le vestigia degli eretici più recenti, giunsero al punto di protestare che era ingiusta e quindi di nessun conto e valore quella sentenza di scisma e di scomunica comminata contro di essi in Nostro nome dal Venerabile Fratello l’Arcivescovo di Tiane, Delegato Apostolico nella città di Costantinopoli; dissero che non potevano accettarla per evitare che i fedeli, rimasti privi del loro ministero, passassero agli eretici. Queste ragioni sono del tutto nuove e sconosciute agli antichi Padri della Chiesa, e inaudite. Infatti, “tutta la Chiesa diffusa per il mondo – in quanto legata alle decisioni di qualsiasi Pontefice – sa che la Sede del Beato Apostolo Pietro ha il diritto di sciogliere, così come ha il diritto di giudicare su qualsiasi chiesa, mentre a nessuno è lecito intervenire su una sua decisione” . Per questo avendo gli eretici giansenisti osato insegnare simili affermazioni , cioè che non si deve tenere conto di una scomunica inflitta da un legittimo Prelato con il pretesto che è ingiusta, certi di adempiere, nonostante quella il proprio dovere – come dicevano –, il Nostro Predecessore Clemente XI di felice memoria, nella Costituzione Unigenitus pubblicata contro gli errori di Quesnel, proscrisse e condannò tali proposizioni, per niente diverse da alcuni articoli di Giovanni Wicleff, già condannati in precedenza dal Concilio di Costanza e da Martino V. Infatti, sebbene possa avvenire che per l’umana incapacità qualcuno possa essere colpito ingiustamente di censure dal proprio Prelato, è tuttavia necessario – come ha ammonito il Nostro Predecessore San Gregorio Magno – “che colui che è sotto la guida del proprio Pastore abbia il salutare timore di essere sempre vincolato, anche se ingiustamente colpito, e non riprenda temerariamente il giudizio del proprio Superiore, affinché la colpa che non esisteva non diventi arroganza a causa dello scottante richiamo“. Se poi ci si deve preoccupare di uno condannato ingiustamente dal suo Pastore, che cosa non dovremo dire, però, di coloro che, ribelli al loro Pastore e a questa Sede Apostolica, lacerarono e fanno a pezzi con il nuovo scisma l’inconsutile veste di Cristo, cioè la Chiesa?

11. La carità, che specialmente i sacerdoti devono avere verso i fedeli, deve provenire “da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sicura“, come ammonisce l’Apostolo (1Tm 1,5) che, richiamando le qualità per le quali dobbiamo mostrarci come ministri di Dio, aggiungeva: “in carità sincera, nella parola della verità” (2Cor 6,6). Anzi, lo stesso Cristo, il Dio che è amore (1Gv 4,8), dichiarò apertamente di considerare come un pagano o un pubblicano chi non avrà ascoltato la Chiesa (Mt 18,17). D’altronde il Nostro Predecessore San Gelasio così rispondeva ad Eufemio, Vescovo di Costantinopoli, che proponeva tesi analoghe: “Il gregge deve seguire il Pastore, quando lo richiama a pascoli salutari, e non il Pastore il gregge, quando questo va errando fuori strada“. Infatti “il popolo deve essere istruito non seguito: e noi, se quelli non sono informati, dobbiamo istruirli su ciò che è lecito o non lecito, e non dare loro il nostro consenso” .

12. Ma, affermano i Neoscismatici, non si è trattato di dogmi, ma di disciplina a questa infatti si riferisce la Nostra Costituzione Reversurus pubblicata il 12 luglio 1867 ; quindi a coloro che la contestano non possono non essere negati il nome e le prerogative di cattolici: e Noi non dubitiamo che a voi non sfuggirà quanto sia futile e vano questo sotterfugio. Infatti, tutti coloro che ostinatamente resistono ai legittimi Prelati della Chiesa, specialmente al sommo Pastore di tutti, e si rifiutano di eseguire i loro ordini, non riconoscendo la loro dignità, dalla Chiesa Cattolica sono sempre stati ritenuti scismatici. Per quanto hanno fatto i sostenitori della fazione Armena di Costantinopoli, nessuno potrà ritenerli immuni dal reato di scisma, anche se non sono stati condannati come tali dall’autorità apostolica. La Chiesa, come hanno insegnato di Padri è un popolo riunito con un sacerdote; è un gregge che aderisce al suo Pastore: perciò il Vescovo è nella Chiesa, e la Chiesa nel Vescovo, e chi non è con il Vescovo, non è nella Chiesa. Del resto, come ammoniva il Nostro Predecessore Pio VI nella lettera Apostolica con cui condannò in Francia la costituzione civile del Clero, spesso la disciplina aderisce talmente al dogma e influisce a tal punto sulla conservazione della sua purezza che i sacri Concilii in moltissimi casi non hanno dubitato di separare con anatemi dalla comunione della Chiesa i violatori della disciplina.

13. Questi Neoscismatici sono andati veramente oltre dal momento che vanno dicendo che “nessuno scisma è per se stesso un’eresia, tale da essere visto rettamente come allontanamento dalla Chiesa” . Infatti non si sono fatti scrupolo di accusare la Sede Apostolica come se, oltrepassando i limiti della Nostra potestà, avessimo avuto la presunzione di porre mano alla falce in campo altrui, pubblicando alcune norme di disciplina da osservarsi nel patriarcato Armeno; come se le Chiese degli Orientali dovessero osservare con Noi la sola comunione e unità di fede, e non fossero sottomesse alla potestà apostolica del Beato Pietro in tutte le materie che riguardano la disciplina. Inoltre, siffatta dottrina non solo è eretica dopo che sono state deliberate dal Concilio Ecumenico Vaticano la definizione e la proclamazione del potere e della natura del primato pontificio, ma anche perché come tale l’ha sempre ritenuta e condannata la Chiesa Cattolica. Fin d’allora i Vescovi del Concilio Ecumenico di Calcedonia professarono chiaramente nei loro Atti la suprema autorità della Sede Apostolica, e richiedevano umilmente dal Nostro Predecessore San Leone la conferma e la validità dei loro decreti, anche di quelli che riguardavano la disciplina.

14. E in realtà il successore del Beato Pietro, per il fatto stesso che per successione tiene il posto di Pietro, vede assegnato a sé per diritto divino tutto il gregge di Cristo, avendo ricevuto assieme all’Episcopato il potere del governo universale, mentre agli altri Vescovi viene assegnata una particolare porzione del gregge, non per diritto divino, ma per diritto ecclesiastico, non per bocca di Cristo, ma per l’ordinamento gerarchico onde poter esercitare in esso una ordinaria potestà di governo. Se la suprema autorità dell’assegnazione venisse tolta a San Pietro e ai suoi successori, prima di tutto vacillerebbero le stesse fondamenta delle principali Chiese e le loro prerogative. “Se Cristo volle che ci fosse qualcosa in comune fra Pietro e gli altri pastori, non concesse mai alcunché se non per mezzo di lui“. “Infatti fu lui che onorò la sede di Alessandria, inviandovi [Marco] l’Evangelista, suo discepolo; fu lui che affermò la sede di Antiochia, dove rimase per sette anni prima di partire per Roma“. E per tutto ciò che fu decretato nel Concilio di Calcedonia a proposito della sede di Costantinopoli, fu assolutamente necessaria l’approvazione della Sede Apostolica. Lo dichiararono apertamente lo stesso Anatolio, Vescovo di Costantinopoli , e anche l’Imperatore Marciano .

[Gli Atti di Pio IX omettono il paragrafo 15 che, secondo la successione aritmetica, dovrebbe trovarsi a questo punto della presente Enciclica].

16. Senza dubbio, dunque, i Neoscismatici, anche se a parole proclamano di essere cattolici – a meno che non si receda del tutto dalla costante e ininterrotta tradizione della Chiesa, confermata largamente dalla testimonianza dei Padri – non potranno mai persuadersi di esserlo realmente. E se non fosse abbastanza nota e provata la sottigliezza astuta delle falsità ereticali, non si potrebbe comprendere come il Governo Ottomano li possa ancora considerare cattolici, pur sapendo che essi sono già separati dalla Chiesa Cattolica per Nostro giudizio e con la Nostra autorità. E come la religione cattolica gode di sicurezza e libertà nell’Impero Ottomano, come è stato garantito dai decreti dell’eccelso Imperatore, così è necessario che le siano accordati tutti quei riconoscimenti che spettano all’essenza della religione stessa, quale il primato di giurisdizione del Romano Pontefice, e che sia lasciato al suo giudizio di universale e supremo Capo e Pastore lo stabilire chi siano i cattolici e chi no; il che è accettato dovunque e da tutte le genti, presso qualsiasi umana e privata società.

17. Questi Neoscismatici asseriscono di non opporsi per nulla alle istituzioni della Chiesa, ma soltanto che essi combattono per difendere i diritti delle loro Chiese e della loro nazione, anzi del loro stesso Sovrano, che fantasiosamente dichiarano essere stati da Noi violati. E su questo punto non esitano a rigettare su di Noi e sulla Sede Apostolica ogni causa dell’odierno turbamento, come già accadde da parte degli Scismatici Acaciani contro San Gelasio, Nostro Predecessore, e prima ancora da parte degli Ariani che calunniavano il Papa Liberio, pure Nostro Predecessore, presso l’Imperatore Costantino, perché egli si rifiutava di condannare Sant’Atanasio, Vescovo di Alessandria, e di mettersi in comunione con quegli eretici . E di questo ognuno può dolersi, ma non meravigliarsi! Così infatti scriveva in proposito il santissimo Pontefice Gelasio all’Imperatore Anastasio: “Spesso questa categoria di malati ha la pretesa di accusare i medici che li vogliono riportare alla salute con giuste prescrizioni, piuttosto che consentire di abbandonare e riprovare i propri nocivi appetiti“. – Pertanto, essendo queste le principali argomentazioni con le quali i Neoscismatici si attirano il favore e si procurano il patrocinio dei potenti, anche se al servizio di una così pessima causa, è necessario da parte Nostra agire più energicamente della semplice ripulsa di codeste calunnie, affinché i fedeli non vengano indotti in errore.

18. Non vogliamo certamente ricordare qui a quale situazione erano giunte le condizioni delle Chiese Cattoliche che si erano formate in tutto l’Oriente dopo che era prevalso lo scisma e per castigo di Dio fu spezzata l’unità della sua Chiesa e fu abbattuto l’impero dei Greci. Neppure osiamo ricordare quanto faticassero i Nostri Predecessori, appena fu loro permesso, per riportare le pecore disperse all’unico e vero gregge di Cristo Signore. E sebbene i frutti nel loro complesso non abbian corrisposto alla fatica compiuta, tuttavia, per misericordia di Dio, numerose Chiese di diversi riti sono ritornate alla verità e all’unità cattolica; e la Sede Apostolica accogliendole fra le braccia come bambini appena nati, provvide sollecitamente a riconfermarle nella vera fede cattolica e a conservarle immuni da ogni macchia ereticale.

19. Pertanto, quando fu riferito che in Oriente venivano sparsi falsi dogmi di qualche setta già condannata dalla Sede Apostolica, specialmente quelli che tendevano a deprimere il primato Pontificio di giurisdizione, allora il Papa Pio VII, di felice memoria, molto turbato dalla gravità del pericolo, subito stabilì che si doveva provvedere affinché per sterili tortuosità e ambiguità di discussioni non venisse meno negli animi dei fedeli cristiani l’autentico significato delle parole trasmesso dagli antichi. Per questa ragione ordinò di inviare ai Patriarchi e ai Vescovi Orientali l’antica formula del Nostro Predecessore Sant’Ormisda, e contemporaneamente ordinò che i singoli Vescovi, su tutto il territorio della loro giurisdizione, come pure il clero, sia secolare, sia regolare in cura d’anime, sottoscrivessero la professione di fede prescritta da Urbano VIII per gli Orientali qualora non vi avessero provveduto prima, e che la stessa professione di fede fosse sottoscritta da coloro che venivano iniziati agli ordini ecclesiastici, oppure che venivano promossi a qualunque sacro ministero.

20. Inoltre, non molto tempo dopo, cioè nell’anno 1806, presso il monastero di Carcafe, nella diocesi di Beirut, fu convocato un Sinodo denominato Antiocheno, il quale sosteneva molte affermazioni che erano state tratte tacitamente e con l’inganno dal già condannato Sinodo di Pistoia, e inoltre alcune proposizioni dello stesso Sinodo di Pistoia condannate dalla Santa Sede Romana in parte ad litteram e altre come insinuate ambiguamente, e ancora altre, in odore di Baianismo e Giansenismo, contrarie al potere ecclesiastico, che turbavano l’ordinamento della Chiesa, e contrarie alla sana e consolidata dottrina della Chiesa. Tale Sinodo di Carcafe, pubblicato in caratteri arabici nell’anno 1810 senza avere consultato la Sede Apostolica, e contestato con molte critiche dai Vescovi, fu infine disapprovato e condannato con una particolare lettera apostolica dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di felice memoria, che ordinò ai Vescovi di attingere la norma di governo e della sana dottrina dagli antichi Sinodi approvati dalla Sede Apostolica. E fossero cessati gli errori dei quali brulicava quel Sinodo già condannato! Tali malvagie dottrine non cessarono di serpeggiare di nascosto per l’Oriente, aspettando l’occasione di manifestarsi apertamente: e quello che prima fu tentato inutilmente per circa 20 anni, i Neoscismatici Armeni ora hanno osato attuare.

21. Veramente, essendo la disciplina il legame della fede, incombeva alla Sede Apostolica l’obbligo d’intervenire per restaurarla. A questo suo gravissimo dovere non venne mai meno, sebbene per le avverse circostanze di tempi e di luoghi poté provvedere soltanto per le necessità contingenti, attendendo frattanto tempi migliori che, con l’aiuto di Dio, talvolta giunsero. Infatti sotto la pressione dei Nostri Predecessori Leone XII e Pio VIII, e con l’aiuto dei sommi Principi di Austria e di Francia, l’eccelso Imperatore Ottomano, venuto a conoscenza della diversa condizione esistente fra cattolici e scismatici, sottrasse i primi dalla civile potestà di questi ultimi e decretò che i cattolici, a guisa di regione – come si suol dire – avessero un loro Capo o Prefetto civile. Fu permesso prima di tutto che i Vescovi di rito Armeno che godevano di potestà ordinaria, potessero risiedere tranquillamente a Costantinopoli; fu permesso erigere Chiese cattoliche dello stesso rito armeno e professare ed esercitare pubblicamente il culto cattolico. Pertanto il Nostro Predecessore Pio VIII di felice memoria eresse a Costantinopoli la Sede primaziale e arcivescovile degli Armeni , particolarmente sollecito che in essa rifiorisse in modo consono e opportuno la disciplina cattolica.

22. Dopo alcuni anni, appena parve possibile, furono erette da Noi delle Sedi episcopali soggette alla Sede primaziale di Costantinopoli, e allora fu stabilito il metodo da osservare nella elezione dei Vescovi. Poi, affinché la potestà civile cosiddetta del Prefetto non interferisse nelle cose sacre – il che è sempre stato contrario alle leggi della Chiesa Cattolica – fu provveduto dall’autorità dello stesso Imperatore Ottomano con un diploma imperiale del 7 aprile 1857 indirizzato al Venerabile Fratello Antonio Hassun, che allora era Primate della stessa sede. Allorché poi, su richiesta degli stessi Armeni, abbiamo riunito, con la lettera apostolica Reversurus, la Chiesa primaziale di Costantinopoli (abrogando questo titolo) alla Sede patriarcale della Cilicia, abbiamo ritenuto opportuno, anzi necessario, che alcuni dei più importanti capitoli sulla disciplina venissero sanciti con l’autorità della stessa Costituzione. E con la lettera apostolica che inizia con la parola Commissum, pubblicata il 12 luglio 1867, abbiamo demandato al Sinodo patriarcale, che abbiamo comandato si celebrasse al più presto, il compito di operare con cura e sollecitudine affinché in tutto il Patriarcato Armeno venisse istituito un accurato ordinamento di disciplina.

23. Per la verità il “nemico” ha ripreso a seminare zizzania a più non posso nella Chiesa Armena di Costantinopoli, essendo stata sollevata da parte di alcuni la questione sulla prefettura civile della comunità Armena, che ritenevano fosse stata eliminata di nascosto dal nuovo Patriarca. Un grave scompiglio fece seguito a questa controversia, e lo stesso Patriarca fu accusato di avere tradito i diritti nazionali per il fatto che aveva accettato la predetta Nostra Costituzione, come si addice ad un Vescovo cattolico; e così appunto contro questa Costituzione cospirarono tutti i progetti, le macchinazioni e le maldicenze dei dissidenti.

24. In questa questione furono incriminati, prima di tutto, i decreti sulla elezione dei sacri Pastori e sull’amministrazione dei beni ecclesiastici; e fu asserito che questi decreti erano contrari ai diritti della loro nazione, anzi, calunniosamente, anche a quelli dello stesso Sovrano. Le cose che Noi abbiamo definito su questi due capitoli, sebbene dovrebbero essere arcinote, tuttavia è bene siano ripetute: infatti è sempre avvenuto ed avviene che molti parlano (Ef 4,17-18) nella frivolezza della loro mente a causa dell’ignoranza che è in loro; altri poi (Pr 23,7) simili a maghi e indovini, apprezzano ciò che non conoscono.

25.  Abbiamo stabilito che il Patriarca debba essere eletto dal Sinodo dei Vescovi, escludendo dalla sua elezione i laici e anche tutti i chierici che non sono insigniti del carattere episcopale; abbiamo comandato anche che l’eletto entri nell’esercizio della sua potestà – come si dice, venga intronizzato – soltanto dopo avere ricevuto la lettera della sua conferma dalla Sede Apostolica. In verità, abbiamo stabilito che i Vescovi vengano eletti come segue: tutti i Vescovi della provincia, riuniti in Sinodo, propongono tre idonei ecclesiastici alla Sede Apostolica. Se risultasse impossibile che tutti i Vescovi potessero accedere al Sinodo, la proposta venga fatta da almeno tre Vescovi diocesani riuniti in Sinodo con il Patriarca, con l’obbligo di comunicare per iscritto agli altri Vescovi la terna proposta. Dopo ciò, il Pontefice Romano sceglierà uno dei tre proposti con il compito di presiedere alla Chiesa vacante. Abbiamo anche notificato che non dubitavamo che i Vescovi Ci avrebbero proposto uomini veramente degni e idonei, per non essere costretti Noi o i Nostri Successori, per dovere del Nostro Apostolico ministero, a scegliere una persona non proposta da mettere a capo della Chiesa resasi vacante.

26. Queste disposizioni, in verità, se vengono considerate con animo alieno dagli interessi di parte, vengono travate conformi a quello che è sancito dai Canoni della fede cattolica. Per quanto riguarda l’esclusione dei laici dalla elezione dei sacri Presuli, si deve accuratamente distinguere il diritto di eleggere i Vescovi (affinché non venga portato avanti alcunché contrario alla fede cattolica) dalla facoltà di portare testimonianza riguardo alla vita e ai costumi dei candidati. La prima affermazione si potrebbe riferire alle false opinioni di Lutero e di Calvino che asserivano essere di diritto divino che i Vescovi siano eletti dal popolo. Tutti sanno che questa falsa dottrina è sempre stata condannata dalla Chiesa Cattolica e lo è tuttora; il popolo non ha mai avuto il potere di eleggere i Vescovi o altri sacri ministri, né per diritto divino, né per diritto ecclesiastico.

27. Per la testimonianza del popolo su quello che riguarda la vita e i costumi di coloro che devono essere promossi all’episcopato, “dopo che per la violenza degli Ariani, favoriti dall’Imperatore Costantino, furono cacciati dalle loro sedi i Presuli cattolici e nelle loro sedi furono immessi i seguaci di quelli, come deplora Sant’Atanasio il complesso delle circostanze rese necessaria la presenza del popolo nelle elezioni dei Vescovi per poter difendere nella sua sede quel Vescovo che era stato eletto davanti al suo popolo“. Pertanto codesto costume per un po’ di tempo fu conservato nella Chiesa: però, sorgendo continue discordie, tumulti e altri abusi, fu necessario escludere il popolo dalle elezioni e tralasciare la sua testimonianza e il suo desiderio circa la persona da eleggere. Come infatti avverte San Girolamo : “spesso il giudizio del popolo e del volgo è in errore, e nell’approvare i sacerdoti ciascuno favorisce i propri costumi, in modo che egli ricerca un presbitero che, più che buono, sia simile a lui“.

28. Ciò nonostante, Noi, nello stabilire il metodo della elezione, abbiamo lasciato libera facoltà al Sinodo dei Vescovi di indagare in tutte le più ampie maniere, e come essi volevano, sulle doti dei candidati, chiedendo anche – se lo stimavano opportuno – la testimonianza del popolo. In verità, gli Atti inviati a questa Santa Sede attestano che, anche dopo l’emanazione della Nostra Costituzione, ci fu un’indagine da parte dei Presuli Armeni, quando si trattò di eleggere, tre anni or sono, il Vescovo per le regioni di Sebaste e Tokat. Però questo non lo abbiamo ritenuto opportuno, e neppure ora lo riteniamo conveniente per quanto riguarda l’elezione del Patriarca, sia per l’eminenza della sua dignità, sia perché è preposto a tutti i Vescovi della sua regione, sia perché dagli Atti trasmessi a questa Sede Apostolica risulta che le elezioni dei Patriarchi di qualsiasi rito orientale è stata compiuta dai soli Vescovi, se non quando particolari e straordinarie circostanze richiesero di agire altrimenti, come quando i Cattolici, per difendersi dalla potestà e dalla violenza degli scismatici, ai quali erano soggetti, avendo ricercato un altro Patriarca che proprio per questo si era ritirato dagli scismatici, lo confermarono a testimonianza di una conversione vera e sincera alla fede cattolica, come avvenne anche nella elezione di Abramo Pietro I.

29. Abbiamo rivendicato a questa Sede Apostolica il diritto e il potere di eleggere il Vescovo fra una terna che Ci viene proposta, o anche prescindendo da essa; abbiamo proibito che sia intronizzato il Patriarca eletto, se prima non è stato confermato dal Romano Pontefice: questo è ciò che alcuni sopportano malvolentieri e contestano. Essi Ci pongono davanti le consuetudini e i canoni delle loro Chiese, come se Noi avessimo voluto recedere dalla custodia dei sacri canoni. A queste affermazioni si potrebbe rispondere con quanto scrisse San Gelasio, Nostro Predecessore , che dovette subire una simile calunnia dagli scismatici Acaciani: “Ci oppongono dei canoni, mentre non sanno quello che dicono; si scagliano contro gli stessi canoni, quando si rifiutano di obbedire alla prima Sede, che li richiama a cose rette e sane“. Sono infatti gli stessi Canoni che riconoscono in ogni maniera la divina autorità del Beato Pietro su tutta la Chiesa, e che asseriscono – come è stato detto nel Concilio di Efeso – che Egli fino ad ora e sempre vive nei suoi Successori ed esercita il diritto di giudicare. Giustamente pertanto Stefano, Vescovo di Larissa, poté rispondere risolutamente a coloro che ritenevano che per l’intervento del Romano Pontefice si diminuissero i privilegi delle Chiese della regale città di Costantinopoli: “L’autorità della Sede Apostolica, che da Dio e Salvatore nostro è stata data al capo degli Apostoli, sovrasta a tutti i privilegi delle Sante Chiese: nella sua confessione tutte le Chiese del mondo trovano la pace” .

30. Certamente, se recuperate la storia delle vostre regioni, vi vengono incontro esempi di Pontefici Romani che usarono di questo potere, allorché lo stimarono necessario per la salvezza delle Chiese Orientali. Infatti il Pontefice Romano Agapito con la sua autorità depose Antimo dalla sua Sede di Costantinopoli, e a lui sostituì Menna senza ricorrere ad alcun Sinodo. E Martino I, Nostro Predecessore, affidò il suo potere vicariale per le Regioni Orientali a Giovanni Vescovo di Filadelfia, e “per quella Apostolica Autorità – come disse – che ci è stata data dal Signore attraverso il Santissimo Pietro, Principe degli Apostoli“, comandò al predetto Vescovo di costituire Vescovi, Presbiteri e Diaconi in tutte quelle città che sottostanno alle Sedi sia Gerosolimitana che Antiochena. E se si vuole ricorrere ai tempi più recenti, voi sapete che Mardense, Vescovo degli Armeni, fu eletto e consacrato per disposizione di questa Sede Apostolica, e, infine, che i Nostri Predecessori concedettero ai Patriarchi la cura pastorale della Cilicia, attribuendo ad essi l’amministrazione delle regioni della Mesopotamia, sempre a beneplacito della Santa Sede. Tutto questo è in piena conformità col potere della suprema Sede Romana, che fu sempre riconosciuta, riverita e professata dalla Chiesa degli Armeni, eccettuati i luttuosi tempi dello scisma. Non stupisce che presso i vostri concittadini ancora separati dalla fede cattolica, resti sempre viva l’antica tradizione che quel gran Vescovo e martire (di cui la vostra gente si gloria, meritatamente lo considera l’Illuminatore e San Giovanni Crisostomo lo definì “il sole nascente nelle regioni orientali, il cui splendore giunge con i suoi raggi fino alle Popolazioni della Grecia“), abbia ricevuto la sua potestà dalla Sede Apostolica per raggiungere la quale non esitò ad affrontare – da nulla atterrito – un lungo e difficile viaggio.

31. Quelle vicende – e Dio ne è testimone – sono state a lungo meditate da Noi, tenendo presenti i vecchi e i più recenti avvenimenti. Esse Ci hanno indotto ad adottare questa disposizione, non per suggerimento di qualcuno, ma motu proprio e con sicura conoscenza. Infatti, chiunque comprende facilmente che dalla buona scelta dei Vescovi dipende l’eterna felicità del popolo cristiano e talvolta anche quella temporale. Per questa ragione, in certe particolari circostanze di tempi e di luoghi, si dovette provvedere che ogni potere per la scelta dei sacri Vescovi venisse riservato alla Sede Apostolica. Tuttavia Ci sembrò giusto moderare l’esercizio di tale potere, in modo che rimanesse al Sinodo dei Vescovi la potestà di eleggere il Patriarca, e fosse in loro potere di proporre a Noi, per ogni sede vacante, una terna di nomi di uomini idonei, come fu poi sancito nella succitata Costituzione.

32. Anche in questa vicenda, per stimolare i pigri e per accrescere lo zelo di coloro che già camminano bene, dichiarammo che speravamo sarebbero stati proposti uomini veramente adatti a quell’ufficio, per non essere costretti a porre a capo di una sede vacante un altro non proposto; che si procedesse con cautela era stato stabilito nell’Istruzione da Noi emanata nell’anno 1853. Abbiamo saputo che da queste pur mitissime parole alcuni presero occasione di sospettare che la proposta sinodale dei Vescovi sarebbe stata in futuro illusoria e di nessuna importanza per Noi. Altri, andando oltre, hanno immaginato che in queste parole fosse nascosto il proposito di affidare a Vescovi Latini la cura spirituale degli Armeni. Anche se queste critiche non meriterebbero alcuna risposta poiché le fanno coloro che si smarrirono dietro i loro pensieri e presero timore dove non c’è di che temere, tuttavia abbiamo ritenuto che non si dovesse tacere sul Nostro diritto di fare qualche elezione anche fuori della terna proposta, affinché in futuro nessuno possa costringere la Sede Apostolica ad agire secondo il suo vantaggio. È ben vero che anche col Nostro silenzio il diritto e il dovere della Cattedra del Beatissimo Pietro sarebbero rimasti integri, poiché i diritti e i privilegi che le sono stati conferiti dallo stesso Cristo Dio possono essere sì contestati, ma non possono essere aboliti; e non è in potere di alcun uomo rinunciare ad un diritto divino, quando talvolta, per volontà di Dio, fosse costretto ad esercitarlo.

33. Certamente, nonostante queste leggi siano state rese note agli Armeni da oltre diciannove anni e più volte si siano eletti Vescovi, non è mai capitato fino ad ora che Noi abbiamo usato questo potere, neppure nei tempi più recenti quando, dopo avere emanato la Costituzione Reversurus, avevamo ricevuto la proposta di una terna di nomi, dalla quale non abbiamo potuto scegliere un Vescovo. Allora Noi abbiamo ordinato che da parte del Sinodo dei Vescovi si rinnovasse la terna secondo le leggi già prescritte, per non essere costretti ad eleggere un altro non proposto. Ma questo fu impedito da un nuovo scisma che lacerò la Chiesa degli Armeni. Confidiamo pertanto che nel futuro non vengano tempi così calamitosi per le Chiese Cattoliche Armene, da costringere i Romani Pontefici a collocare al governo di codeste Chiese uomini non proposti dal Sinodo dei Vescovi.

34. Non c’è molto da aggiungere sulla vietata intronizzazione dei Patriarchi prima della conferma di questa Santa Sede. Gli antichi documenti attestano che mai fu ritenuta definitiva e valida l’elezione dei Patriarchi senza l’assenso e la conferma del Romano Pontefice. Anzi è risaputo che fu sempre chiesta questa conferma dagli eletti alle sedi Patriarcali, anche contro l’assenso degli stessi Imperatori. E pur tralasciando altri nomi in questa cosa arcinota, ricorderemo che il Vescovo di Costantinopoli, Anatolio, uomo non certamente molto benevolo verso la Santa Sede, e lo stesso Fozio, principale autore dello scisma greco, chiesero con insistenza che le loro elezioni venissero confermate dall’assenso del Romano Pontefice, utilizzando anche la mediazione degli Imperatori Teodosio, Michele e Basilio. I Padri del Concilio di Calcedonia vollero che restasse nella sua sede il Vescovo di Antiochia, Massimo, nonostante avessero dichiarato invalidi tutti gli Atti del brigantesco Sinodo Efesino nel quale egli era stato sostituito a Domno, per il fatto che “il santo e beatissimo Papa, che aveva confermato l’episcopato del santo e venerabile Massimo, come Vescovo di Antiochia, con questo dimostrava chiaramente e giustamente di approvare i suoi meriti“.

35. Se poi si tratta dei Patriarchi delle altre Chiese che, rigettato lo scisma, in questi tempi recenti sono tornati all’unità cattolica, non troverete nessuno di loro che non abbia chiesto la conferma della sua elezione al Romano Pontefice: e tutti furono confermati con lettere particolari, con le quali erano posti a capo delle loro Chiese. Accadde anche che i Patriarchi eletti usarono del loro potere anche prima della conferma del Sommo Pontefice, ma ciò avvenne per tolleranza della Sede Apostolica, data la lontananza delle loro regioni e in considerazione dei pericoli che si potevano incontrare nei viaggi, nonché, molto spesso, per la prepotenza che minacciava guai da parte degli scismatici dello stesso rito. Ciò fu concesso anche in Occidente a coloro che erano molto distanti, e sempre per le necessità e l’utilità delle loro Chiese. Ma è giusto osservare che ora queste cause sono cessate, e sono state eliminate le difficoltà dei viaggi, dopo che i Cattolici furono sottratti, per concessione del Sovrano Ottomano, alla potestà degli scismatici. Tutti possono convincersi che così si provvede con maggiore sicurezza alla conservazione della fede cattolica, che non può essere arbitrariamente turbata per il fatto che salga su una sede patriarcale uno indegno di quell’ufficio, prima che abbia ricevuto la conferma Apostolica. Certamente si può impedire che sorgano occasioni di perturbazioni, qualora il Patriarca eletto, respinto dalla Santa Sede Apostolica, si ritiri dal suo posto.

36. Senza dubbio, se si considerano le cose attentamente, apparirà che tutte le disposizioni sancite dalla Nostra Costituzione tendono alla conservazione e all’incremento della fede cattolica, nonché alla vera libertà della Chiesa e a rivendicare l’autorità dei Vescovi, i cui diritti e privilegi, nella fermezza della Sede Apostolica, si rafforzano, si consolidano e trovano sicurezza. I Romani Pontefici, su richiesta dei Vescovi di qualsiasi dignità, nazione o rito, hanno sempre strenuamente difeso tali diritti contro eretici e ambiziosi.

37. Sui diritti nazionali – come si suol dire – non è necessario rispondere con molte parole. Se si tratta soltanto dei diritti civili, questi sono in potere del supremo Principe, al quale spetta giudicare legalmente di essi e decretare, come stima più opportuno e necessario per il bene dei sudditi. Se poi si tratta di diritti ecclesiastici, sia chiaro, e nessuno può ignorare, che i Cattolici mai hanno riconosciuto diritti nazionali o di popoli sulla Chiesa, la sua gerarchia e i suoi ordinamenti. Se poi da tutto il mondo confluiscono genti e nazioni nella Chiesa, tutti Dio li ha riuniti nell’unità del Suo Nome, sotto colui che Egli stesso ha messo a capo di tutti, cioè sotto il Sommo Pastore San Pietro, Principe degli Apostoli, affinché – come ammoniva l’Apostolo – “non ci sia più Pagano e Giudeo, Barbaro e Scita, schiavo e libero, ma Cristo sia tutto e in tutti (Col 3,11): quel Cristo dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso mediante la collaborazione di ogni componente secondo l’energia propria di ciascun membro, riceve forza per crescere ed edificare se stesso nella carità” (Ef 4,16). Il Signore non ha mai concesso alcun diritto sulla Chiesa ad alcun popolo o nazione, ma ordinò agli Apostoli di istruire tutte le genti (Mt 28,19), imponendo loro il dovere di credere; per cui il Beatissimo Pietro (At 15,7), agli Apostoli e agli Anziani convenuti insieme, dichiarò apertamente che Dio aveva fatto una scelta: cioè che i pagani ascoltassero per bocca sua la parola del Vangelo e venissero alla fede.

38. Ma dicono anche che da Noi sarebbero stati violati i diritti del Sovrano imperante. È una volgare calunnia, ormai logorata per il lungo uso fattone dagli eretici; questa calunnia, escogitata per la prima volta dagli Ebrei contro Cristo, in seguito fu usata dai pagani contro gli Imperatori romani e fino ad oggi l’hanno usata molto spesso gli eretici nei confronti dei Principi, anche cattolici, e volesse il Cielo che non venisse più usata. In proposito, San Girolamo scrisse : “Gli eretici adulano la dignità regale e sono soliti imputare la propria superbia ai re, e ciò che essi stessi fanno, lo fanno apparire come fatto dal re; accusano le persone sante e i banditori della fede presso il re, e ordinano ai profeti di non predicare in Israele, per non fare qualcosa contro la volontà del re, perché Bethel, cioè la casa di Dio e la falsa chiesa, siano la santificazione del re e la casa del suo regno“. Sarebbe più opportuno coprire col disprezzo e col silenzio queste impudenti calunnie, tanto esse sono lontane dalla dottrina cattolica, dai Nostri costumi, dalle Nostre istituzioni. Ma è giusto e doveroso che i semplici e gli indotti non ne ricevano danno, formandosi una sinistra opinione di Noi e della Sede Apostolica, per le dicerie dei maligni “i quali scagliandosi contro gli altri, cercano di favorire i propri vizi” .

39. La dottrina della Chiesa Cattolica insegnata dallo stesso Cristo Dio e trasmessa dai Santi Apostoli afferma che si deve dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio; pertanto anche i Nostri Predecessori non omisero mai, quando fu necessario, di imporre la dovuta fedeltà ed obbedienza ai Principi. Da questo deriva che è proprio del Sovrano l’amministrazione degli affari civili, mentre le realtà ecclesiastiche appartengono unicamente ai sacerdoti. A queste realtà sono da attribuire tutti quei mezzi che sono necessari – come dicono – per costituire e decretare la disciplina esteriore della Chiesa. E come fu già definito dal Nostro Predecessore Pio VI di felice memoria , sarebbe ereticale asserire che l’uso di questo potere ricevuto da Dio sarebbe un abuso d’autorità della Chiesa. La Sede Apostolica si è sempre adoperata molto perché si conservasse integra la distinzione dei due poteri, e i santissimi Presuli apertamente condannarono l’intrusione del potere secolare nel governo della Chiesa; il che fu chiamato da Sant’Atanasio “spettacolo nuovo e inventato dalla eresia ariana” . Fra questi Presuli è sufficiente nominare Basilio di Cesarea, Gregorio il Teologo, Giovanni Crisostomo e Giovanni Damasceno. Quest’ultimo affermava apertamente: “Nessuno pensi che la Chiesa possa essere amministrata con gli editti dell’Imperatore; essa è retta dalle regole dei Padri, siano esse scritte o no“. Per questo i Padri del Concilio di Calcedonia nella causa intentata da Fozio, Vescovo di Tiro, apertamente dichiararono con l’assenso dei legati dell’Imperatore: “Contro la regola non vale nessuna pratica contingente (cioè un decreto imperiale); si osservino i Canoni dei Padri“. E poiché i predetti legati chiedevano con insistenza “se il sacro Concilio intendesse giudicare così tutti i decreti imperiali, che risultano pregiudizievoli per i Canoni, tutti i Vescovi risposero: Tutti i decreti contingenti dovranno cessare: ci si attenga ai Canoni, e questo sia fatto anche da voi“.

40. Sono due i punti nei quali si afferma che i diritti imperiali furono da Noi violati e cioè: primo, perché abbiamo stabilito il modo di eleggere e insediare i Vescovi, e l’altro perché abbiamo vietato ai Patriarchi di alienare i beni ecclesiastici senza aver prima consultato la Sede Apostolica.

41. Ma che cosa può essere più pertinente all’ordinamento ecclesiastico della elezione dei Vescovi? In nessun luogo della Sacra Scrittura abbiamo mai trovato che essa sia stata lasciata all’arbitrio dei re o del popolo. Sia i Padri della Chiesa, sia i Concilii Ecumenici, sia le Costituzioni Apostoliche sempre riconobbero e sancirono che tale elezione appartiene al potere ecclesiastico. Se dunque nel costituire un Pastore della Chiesa, la Sede Apostolica definisce le modalità da osservare nel fare la scelta, con quale ragione si potrà dire che sono stati violati i diritti imperiali, quando la Chiesa stessa esercita non i diritti di altri, ma quelli del suo proprio potere? È infatti esimia e venerabile l’autorità esercitata dal Vescovo sul popolo che gli è stato affidato; il potere civile non ha pertanto nulla da temere poiché nel Vescovo troverà non un nemico, ma un assertore dei diritti del Principe. Per contro, se si verificasse un’umana leggerezza, la stessa Sede Apostolica non trascurerebbe minimamente di riprendere quel Vescovo che mancasse della dovuta fedeltà e del dovuto sostegno al Principe legittimo. E neppure è da temere che giunga alla dignità episcopale chi avesse l’animo avverso al legittimo Principe, poiché si è soliti investigare adeguatamente secondo le leggi della Chiesa su coloro che possono essere promossi, affinché siano dotati di quelle virtù che l’Apostolo richiede in essi. Non risplenderebbe certamente di queste virtù chi fosse noto per non osservare il precetto del Beato Pietro, il Principe degli Apostoli (1Pt 2,13): “Siate sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano; sia ai governanti come suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio: cioè che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all’ignoranza degli stolti; comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio“.

42. Se poi il supremo Sovrano Ottomano di Costantinopoli e i suoi successori ritennero utile affidare ai Vescovi e ad altri ecclesiastici anche l’amministrazione e un compito civile, non per questo può essere diminuito il pieno e completo potere della Chiesa a seguito della loro elezione. Sarebbe assolutamente sconveniente che i valori celesti venissero posposti a quelli terreni, e i valori spirituali dovessero servire quelli civili. D’altronde resterebbe sempre integro il diritto del Sovrano di attribuire ad altri il grado e il potere civile, qualora lo giudicasse opportuno, restando sempre pieno e libero per i Vescovi cattolici l’esercizio del potere ecclesiastico. E, come è noto, ciò è avvenuto con un particolare decreto del Sovrano Ottomano nell’anno 1857.

43. Tutte queste Nostre disposizioni, a Nostro nome e per Nostro mandato, furono trasmesse alla sublime Porta Ottomana dal Venerabile Nostro Fratello l’Arcivescovo di Tessalonica allorché era Nostro legato straordinario a Costantinopoli. Si dovrebbe quindi cessare di ridestare queste calunniose ed obsolete dicerie, a meno che gli invidiosi avversari non vogliano essere reputati più amanti della faziosità che della verità.

44. Noi siamo rimasti molto meravigliati, allorché Ci è stato riferito che siamo stati contestati per la rinnovata e da Noi confermata legge circa l’alienazione dei beni ecclesiastici, come se volessimo non tanto invadere i diritti imperiali, quanto rivendicare per Noi gli stessi beni delle Chiese Armene. I beni ecclesiastici appartengono alle rispettive Chiese, come i beni dei cittadini appartengono ai cittadini, e sono di loro proprietà: ciò è sancito non solo dai canoni, ma dettato – come ognuno sa – dalla stessa legge naturale. Per la verità, l’amministrazione di questi beni fu affidata all’arbitrio e alla coscienza dei Vescovi fin dai primi secoli della Chiesa; i decreti dei Concilii che seguirono non tralasciarono di regolare la materia, emanando delle leggi per definire con quali criteri e con quali finalità doveva essere condotta la loro amministrazione e permessa la loro alienazione. In proposito, l’antico potere dei Vescovi fu limitato, e concesso secondo la prudente decisione dei Sinodi o dei Presuli Maggiori. Ma siccome non pareva che si provvedesse abbastanza alla sicurezza dei beni ecclesiastici, sia per la rara celebrazione dei Sinodi, sia per altre cause, dovette intervenire l’autorità della Sede Apostolica, con la quale si provvide che non venissero alienati i beni delle Chiese, senza consultare il Pontefice Romano.

45. Per la salvaguardia delle Chiese, fu ritenuta cosa tanto importante e necessaria stabilire, già da molto tempo, che gli eletti alle Chiese cattedrali, metropolitane o anche patriarcali dovessero obbligarsi, con religioso giuramento, all’osservanza di questa legge. Anche gli Atti che sono nei Nostri archivi apostolici attestano che questo giuramento fu prestato anche dai Patriarchi di rito Orientale, relativamente ai beni della loro mensa, fin da quando le loro Chiese sono ritornate alla verità e unità cattolica: e non c’è stato nessuno che non abbia promesso con giuramento di osservare la legge predetta. Lo stesso procedimento fu seguito e si segue ogni giorno da parte dei Vescovi di rito Latino di tutte le nazioni, regni o repubbliche, senza che mai le autorità civili abbiano protestato per la violazione di qualche loro diritto. E giustamente. Infatti, con queste leggi il Pontefice Romano non pretende nulla; nulla si arroga: l’essenziale è che sì definisca con appropriate decisioni cosa sia necessario fare nei singoli casi da parte del Vescovo, o quali poteri si concedano al Vescovo, sempre tenendo conto dell’interesse delle singole Chiese: con l’intento non dissimile da quello di un padre di famiglia che tratta con i figli su ciò che si deve compiere. Quanto al fatto che ai Patriarchi soggetti a Roma è vietato alienare i beni della loro mensa senza aver consultato la Sede Apostolica, ciò abbiamo ritenuto dovesse essere inserito nella Nostra Costituzione relativa agli altri beni ecclesiastici, non senza gravissimi motivi, dei quali ben sappiamo che dovremo rendere doveroso conto a Dio: nessuno che voglia giudicare con retta coscienza può sospettare altrimenti. Ogni saggia persona comprenderà che con la citata Nostra Costituzione fu provveduto alla salvaguardia e alla conservazione dei beni ecclesiastici in modo più sicuro ed efficace, senza che sia stato recato alcun pregiudizio ai diritti di chicchessia.

46. Noi quindi confessiamo francamente di non comprendere in che modo con questi Nostri decreti siano stati lesi – come dicono – i diritti del Sovrano, tanto siamo lontani dall’averlo voluto o dal pensare che ciò potesse avvenire. Se non si può affermare che è contrario al diritto quel potere con il quale i Patriarchi e i Vescovi dell’Impero Ottomano operano nell’amministrazione dei beni ecclesiastici, non si può affermare che sia contrario al diritto quel potere che la Sede Apostolica esercita doverosamente e legalmente quando stabilisce le modalità con le quali i Vescovi debbono operare, in modo che siano di utilità e non di danno. È evidente che con questo documento Noi abbiamo provveduto alla salvaguardia dei beni ecclesiastici; in futuro ciò sarà di grandissima utilità alle Chiese cattoliche dell’Oriente; e quando si saranno quietate le contestazioni, tutti lo riconosceranno; i posteri poi, se si osserveranno religiosamente queste leggi, lo sperimenteranno. Poiché l’Imperatore Ottomano ha stabilito con i suoi decreti la libertà di quelle Chiese e ha comunicato a Noi che avrebbe gestito con molta umanità il loro patrocinio, Noi non dubitiamo che, considerata la cosa come veramente è, e rigettate le pretestuose calunni degli avversari, ci si dovrà rallegrare più che dolere di questi provvedimenti, che risulteranno evidentemente di grande utilità per esse.

47. Non è meno calunnioso il commento escogitato più recentemente da taluni e subito accettato avidamente dai dissidenti Orientali, secondo il quale il Romano Pontefice, per il fatto che è il Vicario di Cristo, deve essere considerato come un’autorità esterna che si inserisce nel governo interno dei regni e delle nazioni: pertanto – affermano – questo si deve assolutamente proibire, affinché al Sovrano restino intatti tutti i suoi diritti e si chiuda ogni via a che altri Principi non siano indotti ad osare simili iniziative.

48. È facile comprendere quanto siano false queste contestazioni e quanto siano aberranti dalla retta ragione e dal divino ordinamento della Chiesa Cattolica. È falso, prima di tutto, che i Romani Pontefici siano usciti dai limiti del loro potere o che si siano intromessi nella civile amministrazione degli Stati usurpando i diritti dei Principi. Se con questa calunnia si biasimano i Pontefici Romani perché vogliono deliberare sulle elezioni dei Vescovi e dei sacri ministri della Chiesa, o su legittimi motivi e su altre faccende che sono di pertinenza della disciplina ecclesiastica, e che chiamano esteriore, si devono allora ammettere due ipotesi: o si ignora, o si vuole respingere il divino e immutabile ordinamento della Chiesa Cattolica. Questa rimase e rimarrà sempre stabile; né si può esigere che sia soggetta a qualsiasi patto o mutamento, specialmente in quelle regioni dove la libertà e la tranquillità della Religione cattolica sono assicurate persino dai decreti imperiali del Sovrano. Essendo poi un dogma della fede cattolica che la Chiesa è una e che il suo capo supremo è il Romano Pontefice (il quale è padre e maestro universale di tutti i cristiani), il Pontefice non potrà mai essere dichiarato estraneo a nessuna Chiesa particolare e ai Cristiani, a meno che qualcuno voglia affermare che il capo è estraneo alle membra del corpo, il padre è estraneo ai figli, il maestro ai discepoli, il pastore al suo gregge.

49. Coloro che persistono nel chiamare la Sede Apostolica autorità estranea, con questa espressione lacerano l’unità della Chiesa o danno occasione di lacerarla, per il fatto che negano al successore del Beato Pietro il titolo e i diritti di Pastore universale, defezionando dalla dovuta fede cattolica, se si considerano suoi figli, o combattendo la sua dovuta libertà, se ne sono fuori. Cristo Signore apertamente insegnò (Gv 10, 5) che le pecore conoscono e ascoltano la voce del Pastore e lo seguono; ma fuggono “da un estraneo, perché non conoscono la voce degli estranei“. Se dunque il Sommo Pontefice è dichiarato estraneo a qualche Chiesa particolare, sarà quella Chiesa estranea alla Sede Apostolica, cioè alla Chiesa Cattolica che è una sola, fondata su Pietro dalla parola stessa del Signore. Coloro che la vogliono separare da quel fondamento non rispettano più la Chiesa divina e cattolica, ma tentano di crearne una umana, la quale – come affermano – legata soltanto dai vincoli umani della nazionalità, non sarebbe più cementata dal glutine dei sacerdoti che aderiscono con fermezza alla Cattedra del Beato Pietro, non resterebbe salda con essa e non sarebbe connessa e congiunta nell’unità della Chiesa cattolica.

50. Abbiamo deciso, Venerabili Fratelli e diletti Figli, di scrivervi tutte queste cose nel presente frangente: a Voi, che avete ricevuto la Nostra identica fede nella giustizia di Dio e del Salvatore nostro Gesù Cristo, onde risvegliare la vostra mente sincera in questa vicenda. Voi vedete che si adempie anche presso di Voi quello che avevano predetto i santi Apostoli di Dio, cioè che sarebbero sorti negli ultimi tempi dei dileggiatori per ingannarvi: gente che cammina secondo le proprie concupiscenze. Sforzatevi dunque di non passare da Colui che vi ha chiamato alla grazia di Cristo, ad un altro vangelo. In realtà non ce n’è un altro; soltanto, ci sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo. E veramente vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo coloro che si sforzano di rimuovere il fondamento che lo stesso Cristo Dio ha posto alla sua Chiesa; negano o vanificano la cura universale di pascere le pecore e gli agnelli che nel Vangelo fu affidata a Pietro. “Il Signore permette e sopporta che queste cose avvengano, rispettando il libero arbitrio di ciascuno, affinché, mentre la prova della verità valuta i vostri cuori e le vostre menti, rifulga di chiara luce la fede integra di coloro che sono stati messi alla prova“. È necessario che, secondo il precetto dell’Apostolo, Voi evitiate costoro che avanzano ogni giorno verso il peggio, e che non accogliate in vostra compagnia nessuno di loro, con nessun ripensamento, come fino ad ora avete fatto saggiamente e con costanza, onde conservare intemerata la fede nei vostri cuori.

51. “Ma nessuno cerchi di ingannarvi, come è avvenuto per opera degli antichi scismatici per il fatto che dichiarino che non esiste dissenso sulla fede, ma sui costumi, o che la Sede Apostolica non si occupa tanto della causa della comunione nella fede cattolica, quanto si duole perché sospetta di essere stata disprezzata da loro. Coloro che sono irretiti nell’errore non cessano di spargere queste e simili dicerie per ingannare le persone semplici“. È invece evidente, sia dalle loro dichiarazioni, sia dai loro scritti divulgati fra il popolo, che viene impugnato apertamente quel primato di giurisdizione assegnato da Cristo Signore a questa Sede Apostolica nella persona del Beato Pietro, allorché viene impedito questo suo diritto sulle Chiese di rito Orientale: la Nostra succitata Costituzione non poté essere la causa, ma soltanto l’occasione e il pretesto per spargere questi errori fra menti turbolente o impreparate. “La Sede Apostolica non si duole tanto dell’offesa , quanto si preoccupa di salvaguardare la fede e la sincera comunione, così che anche oggi, se tutti coloro che sembrò prorompessero nel disprezzo di lei ritornassero veramente pentiti nell’animo all’integrità della fede e della comunione cattolica, essa li accoglierebbe con tutto l’affetto del cuore e con totale amore, secondo il costume delle regole paterne“. Chiediamo che il misericordiosissimo Dio si degni di perdonare, e Noi, che nell’umiltà del Nostro cuore da tempo chiediamo ciò premurosamente, desideriamo e vogliamo che anche Voi facciate lo stesso.

52. Per il resto, Venerabili Fratelli e diletti Figli, confortatevi nel Signore e nella potenza della sua Grazia; indossate l’armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno cattivo, imbracciando in ogni occasione lo scudo della fede; e non sacrificate la vostra anima che è più preziosa di Voi stessi. Ricordatevi dei vostri Maggiori, che non temettero di soffrire l’esilio, il carcere e la morte stessa, per conservare a sé e a Voi il dono della vera fede cattolica. Essi ben sapevano che non si devono temere quelli che uccidono il corpo, ma colui che può perdere l’anima e il corpo nella Geenna. Affidate a Dio ogni vostra preoccupazione, perché Egli ha cura di Voi, e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma dalla tentazione vi farà ricavare vantaggio, affinché possiate resistere. In Lui esulterete, anche se ora dovrete affliggervi in vari tentativi, affinché la prova della vostra fede, molto più preziosa dell’oro che si prova col fuoco, ritorni a lode, gloria e onore nella rivelazione di Gesù Cristo. Infine vi scongiuriamo, nel nome del medesimo Dio e Salvatore nostro, che siate tutti concordi nel dire e nel fare, e siate perfetti in ogni cosa, nella medesima dottrina, impegnati a conservare l’unità della fede nel vincolo della pace. E la pace di Dio, che supera ogni Nostro sentimento, custodisca i vostri cuori e le vostre intelligenze in Cristo Gesù, nostro Signore, nel cui nome e per la cui autorità impartiamo con grande affetto a Voi, Venerabili Fratelli e diletti Figli, che perseverate nella comunione e nella obbedienza a questa Santa Sede, l’Apostolica Benedizione.

 

DOMENICA XXIV DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XXIV DOPO PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ier XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.
[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Iacob.
[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Oratio

Orémus.
Excita, quǽsumus, Dómine, tuórum fidélium voluntátes: ut, divíni óperis fructum propénsius exsequéntes; pietátis tuæ remédia maióra percípiant.
[Eccita, o Signore, Te ne preghiamo, la volontà dei tuoi fedeli: affinché dedicandosi con maggiore ardore a far fruttare l’opera divina, partécipino maggiormente dei rimedi della tua misericordia.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses.
Col 1: 9-14
“Fratres: Non cessámus pro vobis orántes et postulántes, ut impleámini agnitióne voluntátis Dei, in omni sapiéntia et intelléctu spiritáli: ut ambulétis digne Deo per ómnia placéntes: in omni ópere bono fructificántes, et crescéntes in scientia Dei: in omni virtúte confortáti secúndum poténtiam claritátis eius in omni patiéntia, et longanimitáte cum gáudio, grátias agentes Deo Patri, qui dignos nos fecit in partem sortis sanctórum in lúmine: qui erípuit nos de potestáte tenebrárum, et tránstulit in regnum Fílii dilectiónis suæ, in quo habémus redemptiónem per sánguinem eius, remissiónem peccatórum”.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Omelie, vol. IV, Omelia XXV – Torino, 1899]

“Non cessiamo dal pregare per voi, e chiedere che siate ripieni del conoscimento della volontà di Dio, in ogni sapienza e intelligenza spirituale, affine di camminare in modo degno di Dio, in ogni beneplacito, fruttificando in ogni opera buona crescendo nel conoscimento di Lui, fortificati di grande vigoria, secondo la sua gloriosa potenza, ad ogni patimento e longanimità, rendendo grazie a Dio Padre, che ci mise a parte della sorte dei santi nella luce; il quale ci strappò dalla potestà delle tenebre e ci ha tramutati nel regno del Figliuolo suo dilettissimo, in cui abbiamo la redenzione per il sangue di Lui, la remissione dei peccati„ (Ai Colossesi, I, 9-13).

La lettera ai fedeli di Colossi, città dell’Asia minore, nella Frigia, dalla quale sono tolti questi cinque versetti, fu scritta da S. Paolo in Roma, nel 63 o 64 dell’era nostra, durante il tempo della sua prima prigionia. Quella Chiesa non era stata fondata da lui, ma dal suo discepolo Epafra, che fu anche il portatore della lettera stessa. Questa ha due parti distintissime, la prima è dogmatica, morale la seconda. S. Paolo in carcere, forse da Epafra stesso aveva inteso come i fedeli di quella Chiesa correvano grave pericolo d’essere ingannati da certi maestri d’errore, che dovevano essere gnostici o, al solito, ebraizzanti. Quelli, mescolando insieme gli insegnamenti della fede con le teorie filosofiche, ond’erano imbevuti, erravano intorno alla persona di Cristo e introducevano non so qual nuovo e strano culto degli angeli: questi poi si attenevano ancora ad alcune pratiche legali, che non potevano comporsi colla fede cristiana. La lettera è una delle più brevi, ma ripiena di altissimi sensi. – I pochi versetti che avete uditi, e che formano la prefazione della lettera, ve ne sarete accorti voi stessi, udendoli, si presentano involuti, oscuri e assai difficili a spiegarsi, perché le verità vi sono condensate a forza, le une serrate alle altre, in una forma di dire al tutto ebraica e che alle nostre orecchie torna assai dura. Ad ogni modo, invocando l’aiuto di Dio e chiedendo tutta la vostra attenzione, mi accingo a darvene il commentario. – S. Paolo comincia la lettera, scritta anche a nome di Timoteo, con i saluti, che sono presso a poco quelli delle altre lettere: poi ringrazia Dio per la fede e per la carità dei Colossesi, secondo il Vangelo ricevuto da Epafra, che gli portò novelle di loro; e, continuando, scrive: “Noi non cessiamo di pregare per voi — “Non cessamus prò vobis orantes. „ È cosa degna di considerazione questa, che parecchie volte S. Paolo, nelle sue lettere, assicura i fedeli che prega per loro. Non vi è cosa maggiormente inculcata nei Libri santi, quanto la preghiera: essa è voluta dalla fede, è richiesta dalla natura stessa, è un bisogno del nostro cuore, è il respiro, come fu ben detto, dell’anima nostra. Se siamo lieti, se siamo afflitti, se speriamo, se temiamo, la preghiera, per chi ammette Dio, è una necessità. Noi possiamo pregare per noi stessi e possiamo pregare anche per gli altri: la preghiera per noi stessi è sì naturale, che non può creare difficoltà di sorta; ma la preghiera per gli altri può sembrare strana e quasi temeraria. Come! dirà taluno, siamo sì poveri, sì miserabili, pieni di tante colpe, che a stento possiamo presentarci a Dio e pregarlo per noi stessi, e oseremo poi pregare per altri e farci intercessori dei nostri fratelli? Questa non è cosa che ripugna e che sa di superbia? Ci basti pregare per noi. No, o carissimi; preghiamo, sì, per noi; ma preghiamo anche per gli altri, che non vi è ombra di superbia, ed è cosa gratissima a Dio. La preghiera, se bene sì guarda, è un atto di umiltà per eccellenza, perché chi prega si riconosce bisognoso e si mette ai piedi di Dio; onde la preghiera, se è vera preghiera, sia fatta per sé, sia fatta per altri, è sempre un esercizio di umiltà. Sarebbe superbia se, chi prega per altri, si considerasse degno di pregare e mettesse innanzi a Dio i meriti propri, quasi titoli, per essere esaudito. La preghiera poi, fatta pei fratelli nostri, quali ch’essi siano, è gratissima a Dio, essa è figlia di quella carità che tanto ci è raccomandata nel Vangelo e che fa nostri i bisogni altrui, e ci muove a soccorrerli, ricorrendo a Lui, che tutto può. La preghiera è figlia dell’umiltà, e la preghiera per gli altri è figlia della carità. Ecco un padre, che ha parecchi figli, i quali tutti hanno bisogno di lui. Uno di questi figli, dopo aver implorato l’aiuto del padre per sé, l’implora anche per il fratello suo, che non fa, o fors’anche rifiuta di farlo. Non è egli vero che quel buon padre deve sentirsi commosso udendo un figlio che intercede per un altro figlio? Non è egli vero che quest’atto di amore fraterno deve tornare accettevole al padre e renderlo più inchinevole al perdono verso il figlio ingrato e dimentico dei suoi doveri? Ah! credetelo, o dilettissimi, la preghiera che noi innalziamo a Dio per i fratelli nostri, ha un’efficacia specialissima, perché si innalza a Lui quasi avvolta nel profumo della carità scambievole e ispirata a quella forma di preghiera ch’Egli stesso ci ha insegnata, dicendo: “Padre nostro, che siete nei cieli … Preghiamo adunque e sempre, e per noi e per tutti. S. Paolo pregava per i Colossesi, e a quale intento? Forse perché diventassero ricchi? Fossero potenti e salissero in grande onore e fama? Perché fossero ricolmi di prosperità materiali? Queste cose le domandano e le desiderano gli uomini del mondo, ma non potevano nemmeno passare per la mente dell’Apostolo delle genti. Uditelo: “Preghiamo per voi affinché siate ripieni del conoscimento della volontà di Dio. „ Ecco la prima cosa che S. Paolo prega da Dio per i suoi Colossesi. In che sta riposta, o cari, la virtù ed il sommo della virtù, che è la santità? Evidentemente nel fare ciò che vuole Iddio: chi in ogni cosa è conforme alla volontà di Dio, questi ha toccato la cima d’ogni santità. Ma per essere in ogni cosa conformi alla volontà di Dio, bisogna conoscerla questa volontà di Dio. E in qual modo, per qual via Dio ce la fa conoscere? Per doppia via: l’una è la via della ragione, via assai imperfetta, lunga, incerta, e per la quale a pochissimi è dato camminare; l’altra è la via della fede, perfetta, breve, sicura, a tutti facilissima ed eguale. Ed è senza dubbio di questo conoscimento della volontà di Dio che parla S. Paolo e prega che siano non solo forniti, ma ripieni i fedeli di Colossi, e ripieni per guisa che sappiano non solo le verità da Dio manifestate, ma anche il modo di adempirle: “In ogni sapienza e intelligenza spirituale (La sapienza riguarda la sola cognizione teorica, i principi, l’intelligenza, la pratica applicazione dei medesimi. La parola Spirituale indica la natura delle verità conosciute, o fors’anche l’origine, che viene dallo Spirito Santo.). „ – Carissimi! Dio non manca di farci conoscere queste verità: Dio è pronto a versarle con ogni pienezza nelle anime nostre; ma Egli vuole che pur noi facciamo dal canto nostro il necessario per riceverle; Egli le offre, ma bisogna pigliarle, e così vuole perché rispetta la nostra libertà e intende che rimanga a noi il merito di acquistarle. E come possiamo giungere al conoscimento della volontà di Dio? Ascoltando la sua parola, il suo insegnamento là dove si porge, nel tempio, leggendo i libri divini e udendo quelli che li spiegano. Scorre un ampio fiume e lambisce con le sue acque fertili campi, coperti di ricche messi: il sole con i suoi cocenti raggi dissecca quelle messi e minaccia di rendere vani i sudori del contadino. Di chi la colpa? L’acqua abbonda, le messi la domandano; perché, o contadino, sulla riva del fiume non apri un canale e non fai scorrere sul tuo campo l’acqua fecondatrice? Se le messi falliscono, ne sarà in colpa la tua inerzia. Le acque della verità scorrono copiose nella casa di Dio: qui si fa conoscere la volontà di Lui: perché qui non accorrete a bere di queste acque, e farle scorrere sui campi delle vostre anime? Perché qui non accorrete per conoscere la volontà di Dio e ad essa conformare la vostra vita? Oh! venite, venite, e qui sarete ripieni del conoscimento della volontà di Dio, in ogni sapienza e intelligenza spirituale. Ma che gioverebbe aver la mente inondata di luce e conoscere la volontà di Dio e poi non adempirla? Nulla: anzi, questo conoscimento, se non è accompagnato dalle opere, ci renderebbe inescusabili e più colpevoli. Perciò S. Paolo, dopo aver pregato ai Colossesi il conoscimento pieno della verità, prosegue e dice: “Affinché camminiate in modo degno di Dio, „ cioè pensiate, parliate e operiate come si conviene a chi serve a Dio. – Chi serve ad un gran personaggio, ad un monarca, se ha mente e cuore, è compreso degli obblighi  che gli impone il suo ufficio; sente la necessità di far onore alla grandezza del suo signore, e con ogni studio si guarda dal far cosa che lo mostri  immeritevole della fiducia onde l’onora. E noi serviamo non un grande, un personaggio insigne, un monarca, ma il Monarca dei monarchi; con quanta cura adunque dobbiamo onorare la dignità del nostro servizio, tener alto il glorioso ufficio che abbiamo! Servi di Dio, dirò di più, figli adottivi di Dio, camminiamo, ossia viviamo in modo che sia degno di Lui e di noi: Ut ambuletis digne Deo. Allorché un figlio di re si disonora con una condotta indegna, i popoli, segnandolo a dito, esclamano: Vergogna! Egli dimentica la sua dignità, getta nel fango l’onore del padre! — Che debbono dire di noi, Cristiani, allorché trasciniamo nella polvere la dignità di figli di Dio? Se camminerete come si conviene a chi serve a Dio, “camminerete in ogni beneplacito — per omnia bene placentes, „ farete cioè tutto ciò che piacerà a Dio, battendo la via della sua legge. E quale sarà il vostro guadagno? Eccolo: “fruttificherete in ogni cosa buona — In omni opere bono fructificantes. „ Non vi sfugga una osservazione, che è utile ricordare. L’Apostolo, nelle sue lettere, tratto tratto si eleva alla contemplazione di altissime verità teoriche, e assorto in quella luce sfolgorante, che lo rapisce e lo inebria, parrebbe quasi dover dimenticare le cose pratiche e comuni: non è vero. In un istante, da quelle altezze divine scende sempre alle cose pratiche della vita, e le inculca come conseguenze di quelle. E qui ne avete una prova: egli, dopo aver parlato di conoscimento della volontà di Dio, di sapienza, di intelligenza spirituale, ricorda che dobbiamo fruttificare in ogni buona opera, „ cioè mostrare nelle opere tutte quelle sì eccelse cose, che domanda a Dio per i fedeli di Colossi. Intendete, o cari? Tutta la scienza e sapienza delle cose celesti sarebbe un nulla, quando non ci conduce a fare le opere buone. Se queste ci fan difetto, tutto il resto non val nulla, è un po’ di frasche, un’apparenza di virtù, è una luce fosforica, che brilla un istante e poi tosto si dilegua, è un bronzo che tintinnisce. Badiamo adunque che la nostra fede, la nostra cognizione delle cose di Dio si traduca nelle opere, in tutte le opere buone: In omni opere bono fructificantes. Una vita cristiana, ricca di opere sante, accrescerà la vostra scienza delle cose divine, continua l’Apostolo: Crescentes in scientia Dei. – Sembra una ripetizione di ciò che ha detto poc’anzi, ma non lo è: questa sentenza racchiude una verità profonda, che è prezzo dell’opera toccare. Datemi un uomo, un Cristiano, che conosca i suoi doveri e li adempia: nell’adempimento costante e fedele de’ suoi doveri acquisterà non solo l’abito delle virtù cristiane, ma sentirà crescere in sé l’amore, la stima e il conoscimento pratico delle stesse: a mano a mano che in esse perdurerà, andrà pure crescendo nell’intima persuasione della loro bontà ed eccellenza. Accade al Cristiano virtuoso quel che avviene all’artista valente. Come questo col lungo esercizio dell’arte sua si va perfezionando in essa e sempre più amandola, per forma che non gli è possibile abbandonarla; così quello nella via della virtù: più la pratica e più la conosce bella e degna d’essere amata, e più amandola, più la conosce, e giunge a tal punto, che gli torna quasi impossibile cessare di praticarla. Questo ci spiega il fatto frequente, che ci incontra di vedere in alcuni buoni e semplici Cristiani, che senza studio alcuno della Religione, che nel loro stato e al loro ingegno non è possibile, hanno una certezza somma, incrollabile della sua bontà, e sarebbero pronti a dare per essa la vita. Dove attinsero tanta certezza della Religione? Non vi è che questa risposta: Nella pratica della stessa, nell’esercizio della virtù, ch’essa impone. — Se il difetto delle opere cristiane a poco a poco vela l’occhio della fede, e la spegne, la pratica delle medesime la rischiara e la rinsalda mirabilmente. E perché abbiamo visto uomini dottissimi nelle scienze sacre finire con l’apostasia, e poveri figli del popolo, povere fanciulle uscite dal volgo, entrare in Religione, valicare i mari, evangelizzare i pagani e morire per la fede. Le opere sante avvalorano la loro scienza delle cose celesti: Crescentes in scientia Dei. Segue il terzo oggetto della preghiera del nostro Apostolo, che è la perseveranza nel bene, la quale, più che dalle nostre sì deboli forze, dobbiamo aspettare dalla potenza divina. “Fortificati di grande vigoria, così san Paolo, secondo la gloriosa sua potenza, ad ogni patimento e longanimità con allegrezza. „ È sempre la preghiera che S. Paolo continua a fare per i Colossesi. Noi, io e Timoteo, così S. Paolo, non cessiamo dal pregare Dio, affinché, dopo aver dato il conoscimento pieno della verità, la pratica delle virtù ed opere degne di Cristiani, dia la forza di soffrire tutto ciò che è inevitabile nel camminare per la dritta via: In omni patientia, notate bene questa parola: “Ad ogni patimento”; dobbiamo essere disposti a vivere cristianamente, ad esercitare la virtù a costo, non di questo o di quel dolore o patimento, che a noi piace, ma ad “ogni patimento — in omni patientia, „ senza eccezione di luogo, di tempo e di circostanze. E come dobbiamo essere disposti a patire, o benedetto Apostolo? Longanimitate, cioè con una pazienza instancabile, dolce, mite, che ricusa di vendicarsi, anche quando facilmente lo potrebbe fare. E basta? Non ancora: “Con allegrezza — Cum gaudio. „ S. Paolo ci vuole pronti a patire con pazienza, con longanimità non solo, ma con allegrezza. Patire con gioia! Quale altezza di perfezione! Il mondo non aveva mai udito fino allora sì strano e divino insegnamento. Esso aveva udito alcuni filosofi insegnare che l’uomo virtuoso deve saper patire per la virtù con animo forte: che deve disprezzare il dolore e quelli che lo cagionano: aveva udito quella superba dottrina degli stoici, che la virtù è premio a se stessa, e aveva potuto comprendere che la forza di soffrire si deve attingere nell’orgoglio, nelle proprie forze; il mondo aveva visto Regolo, Socrate ed altri affrontare con animo generoso i dolori e la morte per non venir meno al dovere: ma a nessuno di quei grandi passò per la mente che si potesse patire e morire per la verità e per la virtù con allegrezza, con gaudio, come qui proclama il nostro Paolo. E pure a questo giunse l’insegnamento evangelico, e si videro a mille a mille, uomini e donne d’ogni classe e d’ogni età, patire acerbissimi dolori e morte crudelissima con la fronte serena, con l’inno del ringraziamento e della gioia sulla lingua e nel cuore. – Il periodo cominciato dall’Apostolo continua sempre, accumulando incisi sopra incisi, e in ciascuno racchiudendo sempre qualche nuovo e alto concetto: “Rendendo grazie a Dio Padre, che ci ha messi a parte della sorte dei santi nella luce. „ Oltre di pregare per voi, o Colossesi, ringraziamo anche Dio Padre, e in Lui e con Lui, Principio senza principio del Figlio e dello Spirito Santo, l’augusta Trinità, perché e voi e noi si è degnato chiamare a parte dell’eredità dei santi, cioè dei chiamati alla fede, e perciò anche alla santità, nella luce, che è il Vangelo; questo il senso delle parole dell’Apostolo. Qual è, o cari, il massimo dei benefizi fattoci da Dio? Senza dubbio quello di chiamarci al conoscimento della fede e alla dignità di figli ed eredi della vita eterna. Vedete quanti milioni di fratelli nostri giacciono ancora in mezzo alle tenebre degli errori! Che merito avevamo noi d’essere preferiti a loro? Nessuno. Eppure noi siamo chiamati nel regno della luce, che è la Chiesa: noi abbiamo la fede, e con la fede tutti i mezzi per camminare sulla dritta via del cielo. E di questo incomparabile beneficio della fede quante volte porgiamo a Dio i nostri ringraziamenti? Ditelo voi, o cari: forse appena  alcuna volta fra l’anno! Quale ingratitudine! “Il Quale (Dio Padre) ci ha strappati dalla podestà delle tenebre, e ci ha tramutati nel regno del Figliuolo suo dilettissimo. „ – S. Paolo attribuisce la nostra liberazione a Dio Padre, inquantoché egli ha dato il Figliuolo suo per noi; del resto voi non potete ignorare che se l’opera della nostra salvezza è attribuita egualmente alle tre divine Persone, che con un atto di eterno amore e di misericordia lo vollero, essa fu compiuta unicamente dalla seconda Persona nell’umanità assunta, nella quale pagò ogni nostro debito. Ci strappò dalla podestà delle tenebre: in quella parola “strappò„ “eripuit”, voi vedete lo sforzo fatto da Gesù per noi, sforzo che gli costò la vita sulla croce. Indubbiamente poteva toglierci di mano al nemico con un atto semplicissimo della sua volontà; ma allora ne sarebbe apparsa la potenza di Dio, non si sarebbero egualmente manifestate la bontà e la giustizia di Lui; doveché con la sua morte la sapienza, la bontà, la potenza e la giustizia di Dio confondono in un solo tutti i loro raggi. Nei Libri santi come la luce significa la verità, la fede, Dio stesso, così le tenebre indicano l’errore, l’infedeltà, il principio del male, il demonio. Dio Padre adunque ci strappò dalle mani del nemico suo e nostro, il demonio, e mercé della fede ci trasportò dalle tenebre nel regno della luce del dilettissimo suo Figliuolo, cioè nel regno della sua Chiesa. “Nel quale (Figliuolo suo) abbiamo la redenzione pel sangue suo, in remissione dai peccati. „ Si può dire che in questi due versetti S. Paolo ha compendiato tutto il mistero della nostra salvezza; parla del Padre divino e del Figliuolo, della liberazione dal potere tirannico del demonio, della Chiesa e della redenzione nostra ottenuta con la morte di Gesù Cristo. Noi, pel peccato, eravamo condannati alla morte eterna: Gesù, volendo salvare i diritti eterni della giustizia, si offre a ricevere sopra della sua stessa Persona la pena che doveva cadere sopra di noi: noi dovevamo essere soggetti alla morte eterna: Gesù mette se stesso al luogo nostro, muore per noi, e noi siamo sciolti da ogni debito, appropriandoci per la fede e per i sacramenti i meriti suoi: così si opera la redenzione nostra, così si compie la remissione dei nostri peccati. Carissimi! Seguendo l’Apostolo e facendo nostri i suoi sensi e le sue parole, leviamo gli occhi, la mente e il cuore al cielo, e ringraziamo Dio Padre d’averci dato il Figliuolo suo, d’averci strappati dalle mani del principe delle tenebre, d’averci collocati nel grembo della sua Chiesa, d’aver lavato i nostri peccati nel sangue suo, e preghiamolo che di tanto beneficio elargito misericordiosamente a noi, faccia partecipe tanti fratelli nostri sepolti ancora nelle tenebre dell’errore e nelle ombre della morte. A Lui sia onore e gloria ora e sempre e in tutti i secoli! Così sia.

 Graduale

Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti. [
Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]
V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula.
[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]

Alleluja
Allelúia, allelúia.
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúia.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia  sancti Evangélii secúndum S.  Matthǽum.

Matt XXIV: 15-35

“In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Cum vidéritis abominatiónem desolatiónis, quæ dicta est a Daniéle Prophéta, stantem in loco sancto: qui legit, intélligat: tunc qui in Iudǽa sunt, fúgiant ad montes: et qui in tecto, non descéndat tóllere áliquid de domo sua: et qui in agro, non revertátur tóllere túnicam suam. Væ autem prægnántibus et nutriéntibus in illis diébus. Oráte autem, ut non fiat fuga vestra in híeme vel sábbato. Erit enim tunc tribulátio magna, qualis non fuit ab inítio mundi usque modo, neque fiet. Et nisi breviáti fuíssent dies illi, non fíeret salva omnis caro: sed propter eléctos breviabúntur dies illi. Tunc si quis vobis díxerit: Ecce, hic est Christus, aut illic: nolíte crédere. Surgent enim pseudochrísti et pseudoprophétæ, et dabunt signa magna et prodígia, ita ut in errórem inducántur – si fíeri potest – étiam elécti. Ecce, prædíxi vobis. Si ergo díxerint vobis: Ecce, in desérto est, nolíte exíre: ecce, in penetrálibus, nolíte crédere. Sicut enim fulgur exit ab Oriénte et paret usque in Occidéntem: ita erit et advéntus Fílii hóminis. Ubicúmque fúerit corpus, illic congregabúntur et áquilæ. Statim autem post tribulatiónem diérum illórum sol obscurábitur, et luna non dabit lumen suum, et stellæ cadent de cælo, et virtútes cœlórum commovebúntur: et tunc parébit signum Fílii hóminis in cœlo: et tunc plangent omnes tribus terræ: et vidébunt Fílium hóminis veniéntem in núbibus cæli cum virtúte multa et maiestáte. Et mittet Angelos suos cum tuba et voce magna: et congregábunt eléctos eius a quátuor ventis, a summis cœlórum usque ad términos eórum. Ab árbore autem fici díscite parábolam: Cum iam ramus eius tener fúerit et fólia nata, scitis, quia prope est æstas: ita et vos cum vidéritis hæc ómnia, scitóte, quia prope est in iánuis. Amen, dico vobis, quia non præteríbit generátio hæc, donec ómnia hæc fiant. Cœlum et terra transíbunt, verba autem mea non præteríbunt.”

Omelia II

[Mons. Bonomelli: ut supra, Omelia XXVI – Torino, 1899]

“Quando vedrete l’abominazione della desolazione, annunziata da Daniele profeta, a posta nel luogo santo, chi legge, ponga mente. Allora chi trovasi nella Giudea fugga a ai monti. E chi è sul tetto, non scenda a togliere checchessia in casa sua: e chi è in  campagna, non ritorni a prendere la sua veste. Guai poi alle incinte e lattanti in quei giorni! Pregate perché la vostra fuga non accada in inverno o in sabato. Perché allora  sarà calamità grande, quale non fu mai da principio del mondo fino ad ora, e non sarà. Che se non fossero accorciati quei giorni, anima viva non scamperebbe, ma per gli  eletti quei giorni saranno abbreviati. Allora se alcuno vi dirà: Ecco qui, o là, è il Cristo, non lo credete. Perché si leveranno falsi Cristi e falsi profeti, e faranno prodigi grandi e meraviglie fino a pervertire, se fosse possibile, anche gli eletti. Ecco, io ve l’ho predetto. Se pertanto vi diranno: Ecco, egli è nel deserto, non andate: Ecco, egli è nei nascondigli, non vi credete. Perché come la folgore guizza in oriente e si mostra fino in ponente, così sarà pure la venuta del Figliuol dell’uomo. Ove che sia il cadavere, là converranno le aquile. Ora, subito dopo le angosce di quei giorni, il sole si abbuierà e la luna non darà più il suo chiarore e le potenze del cielo saranno scrollate. E allora comparirà in cielo il segno del Figliuol dell’uomo e tutte le tribù della terra si batteranno il petto e vedranno il Figliuol dell’uomo venire dal cielo con grande potere e gloria: e manderà i suoi Angeli con trombe e grida alte e raccoglieranno gli eletti suoi dai quattro venti, dall’uno all’altro estremo del cielo. Dalla ficaia imparate questa similitudine. Quando il suo ramo si rammorbidisce e spuntano le foglie, voi conoscete che l’estate è vicina. E così voi, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che è vicino sulle porte. In verità vi dico, che non passerà la presente generazione, che tutte queste cose non siano avvenute „ (San Matteo, XXIV, 15-34).

Si era il martedì dopo il trionfale ingresso di Gesù Cristo in Gerusalemme, e precedente la sua passione e morte. Egli aveva predicato tutto il giorno nel tempio e lottato con gli scribi e farisei, che lo premevano con difficoltà d’ogni guisa per coglierlo in fallo. In sul declinare del giorno lasciò la città per ridursi alla vicina Betania, in casa di Lazzaro e delle sorelle, pigliare il cibo e riposare. Nell’uscire dal tempio i discepoli gli mostravano la costruzione sì massiccia, e la ricchezza meravigliosa del tempio: noi ignoriamo perché di questa osservazione degli Apostoli, che sembra affatto superflua, massime pel divino Maestro. Gesù rispose nettamente: Guardate tutte queste cose; in verità vi dico: qui non rimarrà pietra sopra pietra che non sia diroccata. „ All’udire siffatta risposta, i discepoli, stupefatti e atterriti, tacquero, e seguirono il Maestro; con Lui scesero nella valle del Cedron, ad oriente, e poi salirono il colle degli Olivi, e qui si posero a sedere. Allora i discepoli, con la mente turbata dalla profezia terribile poc’anzi fatta da Gesù intorno alla rovina del tempio, lo presero in disparte e gli dissero: Dicci, quando avverranno queste cose? E quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo? — Tre cose adunque domandano a Gesù, ed Egli risponde partitamente. Ma prima manda innanzi (vers. 4-14) un cenno sulle calamità e seduzioni precedenti, e annunzia che il Vangelo sarà predicato da per tutto. Poi entra a parlare dei segni che precederanno lo sterminio di Gerusalemme, e suggerisce alcune precauzioni (vers. 15-26); poi passa a rispondere alla terza domanda riguardante la fine del mondo (vers. 26-34). Ed ora veniamo alla esposizione che dovrà essere succinta e storica più che altro, se non vogliamo valicare i confini della moderazione, che ci siamo fin qui imposta. – Quando avverrà la distruzione del tempio in guisa che non rimarrà pietra sopra pietra? Ecco la domanda, ed ecco la risposta: “Allorché vedrete l’abominazione della desolazione, predetta da Daniele profeta, posta nel luogo santo, chi legge, ponga mente . „ Daniele profeta, cinque secoli prima, aveva predetto, che dopo la morte di Cristo, nel tempio (che allora era distrutto) sarebbe stata la abominazione della desolazione. Dal tempo di Cristo, anzi qualche anno prima di Cristo fino ad oltre trent’anni dopo la sua morte, erano frequenti le contese tra Giudei e Gentili in Giudea e fuori, e spesso ruppero in feroci combattimenti e stragi spaventose. Sotto Nerone scoppiò con incredibile furore la rivolta giudaica: i Giudei, offesi nella religione e anelanti alla indipendenza, eccitati da falsi profeti, promettenti la vittoria e la venuta del Cristo, che li doveva liberare dal giogo straniero, insorsero in ogni dove e avvennero stragi inaudite, con la peggio ora dei Giudei ed ora dei Romani. Questi, condotti prima da Cestio Gallo, poi da Vespasiano, poi dal figlio Tito, con poderoso esercito strinsero Gerusalemme, e dopo lunghi e sanguinosissimi combattimenti la presero, la saccheggiarono, l’arsero e l’agguagliarono al suolo, meno le tre torri e un muro del tempio. Allorché i Romani si accamparono intorno alla città, spiegarono le loro bandiere con figure di idoli, oggetti di abominazione per i Giudei. Ecco l’abominazione nel luogo santo predetta da Daniele e da Cristo, abominazione foriera della imminente desolazione. E questo il segno dato agli Apostoli ed ai credenti: “Chi legge ponga mente. „ Queste parole sono dell’Evangelista, non di Cristo, che non scrisse nulla, ma messe in bocca a Cristo. E come un grido di S. Matteo, che scrisse circa trent’anni prima della catastrofe: Quando leggerete queste parole, state all’erta e provvedete a voi stessi. — Allorché adunque vedrete l’esercito cingere intorno intorno Gerusalemme, fuggite ai monti, che non c’è tempo da perdere. “Chi è sul tetto non scenda in casa per togliere alcuna cosa. „ Gli Ebrei, come dissi altrove, avevano le case costruite in modo che generalmente si saliva sul tetto o sulla terrazza per una scala esterna, e questa forma delle loro case ci fa capire questa espressione: “Chi trovasi nei campi, non ritorni a casa per pigliarvi la veste. „ Queste due espressioni vogliono significare la rapidità delle mosse operate dai duci romani, la prontezza straordinaria con cui la città fu investita e resa impossibile la fuga. Basti il sapere, che i Romani, in tre giorni soli, scavarono un fosso di otto chilometri, che chiudeva intorno la misera città, tantoché nessuno degli sciagurati chiusivi dentro poteva fuggire senza cadere nelle mani dei nemici, che senza pietà li uccidevano, ponendoli o in croce o scannandoli. La mente di Gesù, pensando a quell’eccidio senza confronto, corre ai deboli, a quelli che maggiormente avrebbero sofferto, e con accento di inesprimibile pietà esclama: “Guai poi alle incinte ad alle lattanti in quei giorni! „ La condizione di queste infelici madri, impotenti a fuggire e trepidanti per sé e per i loro nati, stringe il cuore di Gesù e lo fa gemere dolorosamente. – “Pregate, continua Gesù, che la vostra fuga non accada in inverno od in sabato. „ La stagione invernale, con i suoi rigori, accrescerebbe i disagi e i patimenti dei fuggiaschi; se avvenisse in sabato, in cui l’Ebreo non credeva lecito fare un cammino più lungo di un chilometro, alla difficoltà della fuga si aggiungerebbe l’angustia della coscienza. Notate una cosa, o dilettissimi. Gesù dice di pregare affinché la fuga non avvenisse in inverno o in sabato; è dunque cosa chiara che la preghiera avrebbe potuto scemare quegli orrori e far sì che si mutassero in parte le sorti della guerra. Come ciò se l’esito della guerra dipendeva dai condottieri romani? Vuol dire Gesù che Dio, per le preghiere degli uomini, avrebbe disposto gli avvenimenti politici e militari per modo, che quella fuga sì precipitosa non avvenisse nella stagione invernale o in giorno di sabato, scemando così i dolori di quella immane sventura. Ammirate pertanto potenza della preghiera sulle stesse vicende umane naturali, e nelle sventure sì private come pubbliche, ad essa fiduciosi e rassegnati ricorrete. I cuori degli uomini, anche dei cattivi e degli stessi miscredenti, sono nelle mani di Dio, ed Egli per vie e modi a noi interamente ignoti, li muove e li piega come gli piace. – Rammento d’aver udito un uomo dotto e rettissimo, che diceva: Per me la preghiera in quanto si domanda qualche cosa, come sarebbe la liberazione d’un contagio, una pioggia e via dicendo, non so concepirla: essa in sostanza domanda a Dio che operi un miracolo, mutando le leggi di natura. Ciò offende la ragione. Davvero se si domandasse a Dio il mutamento delle leggi naturali, la difficoltà avrebbe una certa forza. Ma Dio per esaudire le nostre preghiere non è obbligato a mutare le leggi naturali, che sarebbe uno sconvolgere tutto il mondo fisico ad ogni istante, cioè ad ogni preghiera che gli facessimo. Le leggi naturali restano quali sono e a Dio non mancano modi di derogare ad esse senza mutarle. Noi uomini non mutiamo noi con le forze della natura le leggi della natura? Noi, usando delle forze della natura, spingiamo le acque in alto, facciamo correre sui dorso dei mari cittadelle di acciaio, guidiamo dove ci piace il fulmine, imprigioniamo in una locomotiva forze terribili. Perché non potrebbe fare altrettanto Iddio, padrone assoluto di ogni cosa? Ah! no, allorché noi preghiamo Dio, non domandiamo un miracolo; domandiamo solo ch’Egli, onnipotente com’è, disponga le cose in guisa che ci accordi ciò che chiediamo in quei modi che alla sua sapienza non possono essere ignoti. – “Perché sarà allora calamità grande, soggiunge nostro Signore, quale non fu dal principio del mondo sino ad ora, né sarà. „ Taluno potrebbe essere tentato di credere che questa sentenza di nostro Signore sulla catastrofe di Gerusalemme e di tutta la Giudea sia alquanto esagerata. No, no, carissimi: è la espressione della più pura verità storica. Percorrete i fasti della storia, e non troverete in disastro, che, ragguagliata ogni cosa, possa sostenere il confronto della rovina di Gerusalemme e della nazione giudaica. I particolari di quella spaventosa lotta noi li abbiamo da un testimonio oculare, che ne fu parte, e nella sua qualità di ebreo merita piena fede; è Giuseppe Flavio. Da alcuni anni proseguiva feroce e disperata la lotta tra i Giudei e le legioni romane. Prese ad una ad una le città di Galilea, dove si contendeva a palmo a palmo il terreno, pressoché tutti i superstiti Ebrei furono ridotti in Gerusalemme. I Cristiani soli, memori del vaticinio di Cristo, si ritrassero sui monti della Giudea, che stanno sulla sinistra del Giordano, presso Pella, dove poterono sfuggire all’eccidio supremo. Sembra che in Gerusalemme e nei luoghi vicini si fossero radunati circa due milioni di Ebrei, decisi di vincere o perire sotto le rovine della patria. La peste e la fame infierivano in mezzo a quelle turbe per guisa che una madre uccise il proprio figlio per mangiarsene le carni. Alla guerra senza quartiere, che si combatteva ogni giorno coll’esercito romano, si aggiungeva la guerra civile fra le mura della città. Tre fazioni, capitanate da tre scelleratissimi uomini, Eleazaro, Giovanni e Simone, i quali si spacciavano ciascuno per Messia, e promettevano infallibile vittoria, ogni giorno venivano alle mani tra loro e riempievano le vie e il tempio stesso di sangue e di cadaveri; dentro la città il furore dei partiti, fuori, i Romani, che non davano quartiere e la serravano da ogni parte. Segni paurosi in cielo e grida misteriose nel Santo dei santi avevano riempito di terrore il popolo; un uomo di notte correva per le vie, gridando senza posa: Guai a Gerusalemme! guai al tempio! … finché cadde ucciso dai Romani. Invitati alla resa da Tito, fu un grido solo di quei miserabili: Giammai —Chi parlava di resa era da quei furibondi fatto in pezzi. La città, dopo lunghi e ripetuti assalti, fu presa: uccisi per le vie e per le case quanti si trovarono uomini, donne, fanciulli. Si ridusse la difesa al tempio, che sembrava una rocca inespugnabile: fu preso, e un soldato romano vi appiccò il fuoco: in un istante divampò l’incendio: a quella vista i pochi rimasti vivi cessarono il combattimento, lasciarono cadere le armi, gettarono un grido e si lanciarono tra le fiamme. In quella guerra di sterminio, senza tener conto dei trucidati nelle varie città e castelli della Palestina, nella sola Gerusalemme perirono un milione e cento mila Ebrei, novantasette mila menati schiavi e venduti a pochi soldi, il resto dispersi sulla terra e persino vietato loro per molti anni di recarsi a piangere sulle rovine del tempio. E noi li vediamo ancora questi sventurati figli di Abramo, raminghi su tutte le regioni del pianeta, senza tempio, senza altari, senza legge propria, senza patria, dispersi in mezzo ai popoli senza mai confondersi con loro, padroni di ricchezze colossali, pieni d’ingegno, e pur sempre guardati di mal occhio, con sospetto e quasi con ribrezzo, e vergognantisi del loro nome. Non avevo io ragione di dire che la sentenza di Cristo ” sarà allora calamità grande, quale non fu da principio del mondo, né sarà „ era la espressione più perfetta della verità storica? – “Che se non fossero abbreviati quei giorni, anima viva non scamperebbe: ma in grazia degli eletti saranno abbreviati. „ È una verità che merita d’essere seriamente ponderata. Apprendiamo dalla bocca stessa di Gesù Cristo, che quella immensa catastrofe di Gerusalemme e della intera nazione giudaica, fu più breve, e perciò meno ruinosa di quello che poteva essere. Lo storico Giuseppe Flavio fa le più alte meraviglie della rapidità con cui quell’assedio fu condotto a termine, e che il numero, il valore disperato degli assediati, la fortezza del luogo e i preparativi della difesa dovevano rendere lunghissimo. Quella rapidità abbreviò i patimenti e le agonie degli assediati e salvò la vita a circa quaranta mila Giudei, che si sottrassero  all’eccidio. Questo fatto particolare, predetto da Cristo, che scemò in qualche modo l’orrore di quel disastro senza nome, a chi si dovette? “Agli eletti, „ propter electos. Le loro preghiere, i loro meriti, i loro patimenti resero meno orrenda la sorte della sventurata città. – Ah, dilettissimi figliuoli! Quante volte, anche in mezzo a noi, le preghiere, le penitenze, le espiazioni, le virtù di tante anime pie, ignote al mondo, che vivono nella quiete dei campi, nella solitudine dei chiostri, placano la giusta ira del cielo e ci salvano dai flagelli che meritiamo! Se dieci soli giusti avrebbero salvato Sodoma e Gomorra dallo sterminio, le tante anime giuste, che vivono nella nostra società, la devono sottrarre ai castighi della divina giustizia. I giusti che vivono in mezzo a noi, mi danno l’immagine di quegli alberi altissimi, sparsi nelle campagne, che con le loro cime tacitamente traggono sopra di sé l’elettricità delle nubi e scaricano le folgori, allorché la procella imperversa. Benedette pertanto quelle nazioni, benedette quelle parrocchie, nelle quali abbondano le anime giuste, che senza rumore disarmano il cielo! E che farete voi, o discepoli, in quei giorni di ineffabili agonie e di pericoli supremi per la vostra fede? “Allora se alcuno vi dirà: Ecco qui e colà è il Cristo, non lo credete. Perché sorgeranno falsi Cristi e falsi profeti. „ Come sapete, era universale l’aspettazione del Messia allorché Cristo nacque, e naturalmente quel fermento dell’aspettazione durò circa un secolo. Di quella aspettazione parecchi scaltri e scellerati agitatori si prevalsero, spacciandosi per Messia, o per il Cristo promesso; alcuni affermarono che Erode stesso era il Messia, altri che era Giovanni Battista; più tardi Teuda, Giuda gaulonita, poi Simone, poi Barcocheba, o figliuolo della stella, ed altri si dissero il Cristo predetto, o profeti, eccitarono il popolo, lo spinsero alla rivolta, e furono causa precipua dell’eccidio giudaico; essi talvolta condussero il popolo nel deserto, talvolta si nascondevano e poi comparivano e operavano cose straordinarie a conferma della loro missione. Gesù Cristo dice che avrebbero fatto prodigi grandi e meraviglie, e tali da trarre in inganno, se fosse stato possibile, anche gli eletti. Erano veri miracoli? No, sicuramente. Dovevano essere inganni, ciarlatanerie, forse applicazioni di forze naturali da loro conosciute, fors’anche fenomeni meravigliosi per virtù diaboliche, come sembra facesse Simon Mago. E Dio lo poteva permettere, avendone messo in sull’avviso quelli che potevano essere sedotti, e non essendo difficile discernere quelle imposture dai veri miracoli, per poco che avessero esaminate le persone, la loro condotta, la loro dottrina ed il modo di operarli. Così avvenne per giusto giudizio di Dio, che quel popolo, il quale non aveva creduto ai miracoli sì numerosi e sì splendidi di Cristo, prestasse poi fede a quei tristissimi ciurmatori, che lo trassero all’estrema rovina. –  Carissimi! L’ammonimento solenne di Gesù Cristo è utile e necessario anche al giorno d’oggi in mezzo a tanti seminatori di novelle dottrine. Noi abbiamo l’insegnamento della fede e il Pastore supremo della Chiesa che ci guida; lui ascoltiamo, lui solo seguiamo e chiudiamo le orecchie a questi maestri, che ci assordano: “Non li ascoltate, non li seguite, che vi insegneremo la verità. „ La verità è con Gesù Cristo soltanto e col suo Vicario, che continua l’opera sua. – Fin qui Gesù Cristo ha parlato della distruzione del tempio e di Gerusalemme: ora passa a rispondere all’altra domanda fattagli dagli Apostoli: “Qual è il segno della tua venuta? „ — “Come la folgore guizza in oriente e si mostra fino in occidente, così sarà ancora la venuta del Figlio dell’uomo. „ Non vogliate credere che in quei giorni di dolore e di terrore, il Salvatore, o Messia, si nasconda qua e là, o nel deserto: quand’egli verrà la seconda volta, qual giudice dei vivi e dei morti, non verrà quasi occultamente: Egli apparirà a guisa di fulmine, gettando luce da ogni parte, quando meno gli uomini lo aspetteranno: sarà circondato di maestà e gloria, e alla sua infinita potenza si piegherà ogni creatura in cielo ed in terra. Non vogliate dunque, così Cristo, confondere la mia prima venuta con la seconda, perché differentissime. – E allorché il Figliuol dell’uomo apparirà nella sua luce sfolgorante, che avverrà? Gesù usa una metafora comune presso gli orientali, e che a noi torna alquanto strana; ma è da ricordar sempre ch’Egli parlava ad orientali, e si acconciava al loro modo di esprimersi. Dov’è un cadavere, eccovi tosto accorrere da ogni parte gli avvoltoi e le aquile per divorare le sue carni; così, dice Cristo, appena apparirà in cielo il Figliuolo dell’uomo, intorno a Lui accorreranno gli Angeli ed i giusti per fargli corona e saziarsi della sua vista: Rapìemur sìmul in nubibus obviam Christo in aera. – E in vero, “subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà, la luna non darà più il suo chiarore, e le stelle cadranno dal cielo, e le potenze del cielo saranno scrollate. „ Dunque subito dopo la catastrofe della nazione ebraica doveva succedere la fine del mondo? Voi comprendete che se così fosse, non solo il fatto sarebbe contrario all’annuncio, ma nelle parole stesse di Cristo vi sarebbe una contraddizione, perché predisse la predicazione del Vangelo in tutto il mondo prima della sua venuta (cosa impossibile in quel breve periodo di tempo) e perché dichiarò che di quel giorno ultimo nessuno ne sapeva nulla. Quelle parole adunque di Cristo, “subito dopo la tribolazione di quei giorni „ pare si possano intendere semplicemente come un passaggio, cioè dopo quella orrenda calamità, quasi da quella adombrata, verrà l’ultima e massima delle calamità, la fine del mondo. – Badate, o cari, che allorché i profeti annunziano qualche straordinario avvenimento, come la caduta di Babilonia, sogliono usare queste forme di dire grandiose ed enfatiche, di sole che si oscura, di luna che si abbuia, di cielo che si scuote, di terra che traballa, e via dicendo. Gesù, facendo suo il linguaggio dei profeti, poté benissimo annunziare la fine del mondo con le stesse espressioni poetiche e sublimi. Possiamo adunque credere che Gesù Cristo, con quelle locuzioni ed immagini sì terribili, intendesse di significare in genere i fenomeni meravigliosi e paurosissimi che precederanno l’ultimo giorno, senza determinarli in particolare. Certamente quel gran giorno deve essere preceduto e accompagnato da sconvolgimenti fisici inauditi, e dei quali noi non possiamo formarci nemmeno un’idea, e su questo punto i Libri sacri sono chiarissimi. Quel cadere poi delle stelle non si vuol pigliare alla lettera, perché essendo esse smisuratamente maggiori della terra, non si sa capire come possano cadere sopra di essa, ondechè tutto induce a credere che queste espressioni del sacro testo importino un generale disordine, che si manifesterà nel mondo terrestre e sidereo, preludio dello sfasciamento e del rinnovamento universale, che dovrà seguire. “E allora comparirà nel cielo il segno del Figliuolo dell’uomo. „ Qual segno? Si disse e si dice che questo segno del Figliuolo dell’uomo sarà la croce, il segno della sua suprema umiliazione, e, per conseguenza, della sua gloria, ed è conveniente il credere che sarà essa il vessillo del suo finale trionfo; ma nulla si oppone che quella parola segno indichi altra cosa a noi ignota, qualche stupenda manifestazione della gloria di Cristo. “E allora le tribù della terra si batteranno il petto, „ cioè tutti i malvagi ancora viventi conosceranno le loro colpe e dolorosamente esclameranno: Ergo erravìmus — Dunque abbiamo errato ed abbiamo corse le vie dell’errore e della perdizione!… E potranno ancora riparare i falli loro, ravvedersi e salvarsi? Il sacro testo non l’afferma e non lo nega. “E vedranno il Figliuol dell’uomo venire sopra le nubi del cielo con podestà grande e gloria. „ Non crediate, o dilettissimi, che il Salvatore del mondo, venendo per rendere a tutti solenne ed irrevocabile giustizia, abbia bisogno di nubi, di luce o d’altra cosa qualsiasi per dare maestà alla propria Persona: tutto ciò è detto unicamente perché per noi uomini, che non possiamo pensare che cose sensibili, è sempre giocoforza usare un linguaggio sensibile persino allorché parliamo di Dio e delle sue azioni stesse interne, che sono eminentemente spirituali. “E manderà i suoi Angeli con trombe ed alto grido, e raccoglieranno i suoi eletti dai quattro venti, dall’uno estremo del cielo all’altro.„ Manifestamente qui Gesù Cristo parla della risurrezione, che avrà luogo alla fine dei secoli, e noi apprendiamo ch’essa sarà operata, sì, da Dio, che solo può dare e ridare la vita, ma non senza il ministero degli Angeli. Si può dire che tutto ciò che Iddio opera sulla terra, l’opera per mezzo degli Angeli, ministri ed esecutori dei suoi voleri: il perché, come Iddio si serve del loro ministero, comunicando con noi, uomini, così noi dovremmo ricorrere a Dio per mezzo loro, come per i nostri naturali mediatori. Nostro Signore parla di trombe e d’alto grido, con cui gli Angeli raccoglieranno innanzi a Lui gli eletti. E sono trombe materiali? E un grido che risuona come il grido dell’uomo? Non credo. Sono spiriti purissimi, e come possono usar trombe materiali o grido e voce come d’uomo? I Giudei solevano chiamare al tribunale quelli che dovevano essere giudicati a suono di tromba o con la voce gagliarda dei banditori. Parlando pertanto del giudizio estremo, Gesù accenna alle trombe, al grido dei celesti banditori, che lo intimano; ma queste cose vanno intese non materialmente, ma come vuole la natura dell’Angelo. Saranno dunque gli Angeli che in quei modi che sono voluti dalla loro natura e dalle loro forze, a nome e in virtù di Dio, richiameranno in vita gli uomini, e da qualunque punto della terra, da un estremo all’altro del cielo o dell’orizzonte li condurranno innanzi a Cristo giudice. Così si chiuderà per sempre la scena di questo mondo e sarà reso a ciascuno secondo le opere sue. Giorno formidabile, nel quale ciascuno di noi udirà quella sentenza, che per volgere di secoli mai non sia che si muti! Deh! Che possiamo tutti, tutti, senza eccezione, essere nel numero di quegli eletti, che gli Angeli raccoglieranno dai quattro venti, cioè dall’uno all’altro estremo del cielo! Così sia.

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.
,[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta
Propítius esto, Dómine, supplicatiónibus nostris: et, pópuli tui oblatiónibus precibúsque suscéptis, ómnium nostrum ad te corda convérte; ut, a terrenis cupiditátibus liberáti, ad cœléstia desidéria transeámus. [Sii propizio, o Signore, alle nostre súppliche e, ricevute le offerte e le preghiere del tuo popolo, converti a Te i cuori di noi tutti, affinché, liberati dalle brame terrene, ci rivolgiamo ai desiderii celesti.]

Communio
Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.
[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato]

Postcommunio
Orémus.
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine: ut per hæc sacraménta quæ súmpsimus, quidquid in nostra mente vitiósum est, ipsorum medicatiónis dono curétur.
[Concedici, Te ne preghiamo, o Signore: che quanto di vizioso è nell’ànima nostra sia curato dalla virtú medicinale di questi sacramenti che abbiamo assunto.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XXXVIII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXXVIII.

LA CHIESA CATTOLICA.

Se Gesù Cristo non poteva far a meno di fondare la Chiesa. — Come l’abbi fondata. — Vane invenzioni del Paolinismo e Petrinismo. — I caratteri della vera Chiesa. — Non si trovano presso i protestanti e gli scismatici. —  Indefettibilità della Chiesa di Gesù Cristo. — Immutabilità del dogma e suo mirabile sviluppo.

— Ricordo che lei mi disse come Gesù Cristo per la salvezza degli uomini ha pur fondato la sua Chiesa.

Sì, Gesù Cristo per salvare tutti gli uomini ha fondato la sua Chiesa, e cioè ha creato un ente morale, che ricevuti dalle sue mani i stesse i tesori della sua dottrina e dei suoi sacramenti, e fornito del suo espresso mandato e della necessaria autorità, valesse a comunicare quegli stessi tesori agli uomini di ogni luogo e di ogni tempo sino alla fine del mondo.

— E non avrebbe potuto Gesù Cristo, senza valersi di alcun intermediario, applicare agli uomini l’efficacia della redenzione, comunicando egli a ciascuno la luce della sua dottrina e l’aiuto della sua grazia?

Non c’è nessun dubbio che egli avrebbe potuto far ciò; ma oltreché questa rivelazione immediata a ciascuno avrebbe moltiplicato i miracoli senza necessità, avrebbe isolato l’uomo dagli altri, l’avrebbe fatto inorgoglire e l’avrebbe abbandonato ad una deplorevole inerzia per non essere costretto a fare alcuno sforzo per conoscere la verità, il fatto è che a Gesù Cristo così non piacque, e che egli scelse la via dell’insegnamento vivo per mezzo della Chiesa appositamente fondata.

— Ma io ho appreso dal Catechismo che « la Chiesa è la congregazione di tutti i fedeli, che fanno professione della fede e legge di Gesù Cristo, nella ubbidienza ai legittimi Pastori e principalmente al Papa ». Or quando è che Gesù Cristo, ha fondato questa Chiesa? Io non ho mai inteso dire nel Vangelo che Gesù Cristo abbia congregato dei fedeli, eccetera eccetera.

Non devi mica credere che Gesù Cristo per fondare la sua Chiesa abbia seguito quelle formalità, che si seguono oggidì ogni qual volta si fonda una società; che cioè egli ne abbia preparato e scritto lo statuto, e poi abbia scelto un giorno apposito, nel quale radunando degli individui intorno a sé abbia loro detto formalmente: « Ecco: io ho intenzione di fondare una società così e così per questo fine e con questo scopo, con questi obblighi e con questi vantaggi, epperò v’invito ad ascrivervi in essa, eccetera, eccetera; » e che poscia realmente taluni si siano ascritti, accettando le condizioni da lui proposte, e in tal guisa la Chiesa sia nata col suo perfetto organismo in pochi istanti. No, non fu così che Gesù Cristo ha fondato la sua Chiesa.

— Come fece egli adunque?

* Egli incominciò dal radunare intorno a sé dei discepoli, che si diedero a seguirlo ovunque si recava per lo spazio di tre anni incirca, cioè per l’intero periodo della sua vita pubblica. Era di essi ne scelse specialmente dodici, cui diede il nome di Apostoli, ossia mandati. A poco a poco li andò istruendo delle divine verità e della missione che intendeva loro di affidare. Stando quindi per lasciare la terra e ritornare al cielo, in modo chiaro e preciso li incaricò di spargere per ogni dove il suo Vangelo e di trasmettere agli uomini la sua grazia con queste parole : « Come il Padre celeste ha mandato me, così io mando voi. Andate per tutto il mondo, predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi ascolta voi, ascolta me, chi disprezza voi, disprezza me. Ricevete lo Spirito Santo; i peccati saranno rimessi a chi li rimetterete, saranno ritenuti a chi li riterrete. Andate, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo; insegnando loro ad osservare tutto quello che io vi ho insegnato ». Per tal guisa egli conferì agli Apostoli la missione e la potestà di applicare agli uomini il benefizio della sua redenzione.

— E quando è che gli Apostoli incominciarono ad esercitare questa loro missione e potestà?

Incominciarono il dì della Pentecoste, nel quale avendo ricevuto lo Spirito Santo, secondo che loro aveva promesso Gesù Cristo, si sentirono ripieni di forza celeste. D i maniera che si può dire che nel dì della Pentecoste fu dagli Apostoli inaugurata solennemente la Chiesa di Gesù Cristo. Giacché in quel giorno incominciarono ad esservi in gran numero dei credenti e dei battezzati, che presero a professare la fede e la legge di Gesù Cristo nell’obbedienza degli Apostoli, primi pastori del gregge cristiano e principalmente di S. Pietro, primo Papa. E d ecco in tal guisa costituita quella società, che ben presto cresciuta riempì tutto il mondo.

— Ma ho inteso dire che l’origine della Chiesa è ben altra. Ho inteso dire che è l’effetto di una evocazione naturale, per quanto meravigliosa, di cui Gesù Cristo sarebbe fattore parziale, e gli Apostoli, i filosofi, la società, gli uomini, persino Nerone, sarebbero i fattori collettivi e quasi inconsci. Così si tenta di dimostrare dagli scienziati razionalisti moderni con lavori vasti, pazienti, e potremmo anche dire profondi, che certamente sarebbero degni di stima se, anziché a sistemare l’errore, fossero indirizzati a far maggiormente rilucere la verità. E ciò si tenta propriamente con questo fine di mostrare che la Chiesa non è l’opera di Gesù Cristo Dio, ma il risultato di molte cause umane, e quindi opera nient’altro che umana. Anzi taluni spingono così innanzi le loro elaborazioni razionalistiche da considerare addirittura quale fondatore della Chiesa e del Cristianesimo l’apostolo Paolo. Ora è verissimo che S. Paolo è uno dei più grandi geni del Cristianesimo, è verissimo che Dio lo elesse ad essere il grande apostolo delle genti, e che a tal fine decuplo colla sua grazia

le doti eminenti che erano in lui, è verissimo che egli attese in modo speciale a liberare la Chiesa nascente dalle pastoie legali e cerimoniali della sinagoga e a formulare nelle sue lettere l’insegnamento dogmatico e morale del Vangelo; ma affermare che sia egli il fondatore della Chiesa e del Cristianesimo, è un falsare apertamente la storia e un negare la missione medesima, che S. Paolo ripetutamente afferma aver ricevuta da Gesù Cristo stesso di predicare il Vangelo di lui.

— Ho appunto inteso dire anche questo: che la Chiesa Cattolica sia l’effetto della prevalenza del Paolinismo sul Petrinismo. A dirle il vero però io non so di che cosa si tratti.

Vedi: nei primi tempi della Chiesa sorsero delle questioni riguardo a certe pratiche

giudaiche e gentilesche, che tanto i giudei, come i gentili che si convertivano alla fede, pretendevano conservare gli uni in opposizione agli altri. Ora S. Pietro nella sua prudenza credeva più a proposito usare dei riguardi ai convertiti dal giudaismo; S. Paolo invece, pieno di ardore, avrebbe voluto subito farla finita coi riti mosaici e dava appoggio di preferenza ai convertiti dal gentilesimo. Prendendo occasione da ciò i razionalisti moderni (specialmente il Baur fondatore della Scuola di Tubinga), hanno sognato il Cristianesimo del 1° secolo diviso in due grandi sistemi religiosi con a capo dell’uno S. Pietro, e chiamato perciò Petrinismo, e dell’altro S. Paolo e detto Paolinismo, i quali sistemi si sarebbero dopo la morte degli Apostoli a poco a poco accordati tra di loro, prevalendo però il secondo sul primo. Ma questi sono sogni di menti inferme. La verità è che le questioni, insorte tra Giudei e Gentili convertiti, nel consiglio di Gerusalemme furono sciolte in favore della libertà, ma che i due Apostoli erano in perfetto accordo tra di loro nel predicare l’identica dottrina di Gesù Cristo. – Epperciò parlare di Chiesa Pietrina e di Chiesa Paolina fondate l’una da Pietro e l’altra da Paolo, e opposte l’una all’altra fino a che quest’ultima trionfò della prima costituendo essa la Chiesa e il Cristianesimo, è un trottolare da matti.

— La Chiesa dunque è opera esclusiva di Gesù Cristo?

* Sì, fu egli che la volle, egli che la fondò, egli che la stabilì. E se a poco a poco la Chiesa mediante l’opera degli Apostoli, dei loro successori, dei martiri, dei dottori, dei Padri, eccetera, prese quello sviluppo che Gesù Cristo; stesso le aveva profeticamente assicurato, ciò non è già in forza di una evoluzione naturale! per quanto meravigliosa, ma in forza di quella! divina virtù, che ad essa Chiesa Gesù Cristo! suo divin Fondatore, comunicò, assicurandole che sarebbe rimasto con lei sino alla consumazione dei secoli.

— Di ciò sono ben persuaso. Se non chi come si fa a conoscere con precisione e sicurezza che la società religiosa di noi Cattolici veramente la Chiesa di Gesù Cristo? Forse che non si arrogano un tale vanto anche società religiose dei Protestanti e dei Scismatici ?

Basta considerare dove si trovino i caratteri essenziali, di cui Gesù Cristo, appositamente ha voluto che fosse dotata la Chiesa sua.

— E quali sono questi caratteri? Sono quattro: l’unità, la santità, la cattolicità

e l’apostolicità.

— E come si sa che Gesù Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse dotata di questi quattro caratteri?

Lo si sa dal suo insegnamento o da quello degli Apostoli. Riguardo all’unità Gesù Cristo ha rivolta al suo padre celeste prima di andarsi ad immolare per noi questa preghiera: « Padre Santo, io ti raccomando coloro, che mi hai affidato, conservali affinché tutti siano una cosa sola come la siamo noi. Io non ti prego per essi soltanto, ma per tutti coloro, che devono credere in me sulla loro parola, affinché tutti siano una cosa sola in noi… e tutti siano consumati nell’unità (Vedi Vangelo di S. Giovanni, capo XVII, versetti 11, 20, 21, 23). Riguardo alla santità S. Paolo dice: « Gesù Cristo nell’amor suo per la Chiesa si è dato per lei affine di renderla gloriosa, senza macchia e senza ruga, santa ed immacolata » (Vedi lettera agli Efesini, capo V, versetti 25, 27). Riguardo poi alla cattolicità ossia universalità, Gesù Cristo ha detto chiaro agli Apostoli: « Andate per tutto il mondo predicate il Vangelo a tutti gli uomini (Vedi Vangelo di San Marco, Capo XVI, versetto 15). E in conformità a tale comando li chiamò pescatori d’uomini, li volle luce del mondo e sale della terra. E finalmente riguardo all’apostolicità, ad essere cioè poggiata sull’autorità degli Apostoli e sul loro insegnamento lo stesso Gesù Cristo dichiarò la sua volontà col dire: « Come il Padre ha mandato me, così io mando voi: chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me » (Vedi Vangelo di S. Giovanni, capo X versetto 21, e Vangelo di S. Luca – capo XX, versetto 16).

— E questi caratteri voluti da Gesù Cristo  a contrassegno della sua Chiesa si trovano essi nella nostra Chiesa Cattolica?

^ Sì, e solamente in essa. È la nostra Chiesa, che chiamata anche Romana dal suo capo visibile, il Vescovo di Roma, anzi tutto è una. Per quanto siano diversi per origine, per costumi, per colore, per linguaggio, i popoli che vi appartengono, essi professano tutti lo stesso Credo; essi ricevono da per tutto gli stessi Sacramenti; essi obbediscono tutti allo stesso Capo, il Papa, Pater Patrum, padre dei padri, formando un solo ovile sotto la scorta di un solo pastore. – È la nostra Chiesa che in secondo luogo è santa, giacché è in essa che il Capo invisibile Gesù Cristo è tre volte santo, che vi ha una dottrina che guida alla santità, che abbondano i mezzi per operare la propria santificazione, tra i quali come precipui i santi sacramenti, che si contano a centinaia, a migliaia, a milioni i santi e le sante di ogni età, di ogni sesso, di ogni condizione, che non cessarono e non cesseranno mai sino alla fine del mondo. – È la nostra Chiesa, che in terzo luogo è Cattolica, giacché è essa sola, che ha ricevuto da Gesù Cristo il diritto di espandersi da per tutto, essa sola che realmente si espande sino agli estremi confini della terra. – E finalmente è la nostra Chiesa, che è apostolica, perché è in essa che si crede e si insegna, si crederà e si insegnerà mai sempre quello, che hanno creduto ed insegnato gli Apostoli; è in essa che con una catena non mai interrotta dal Pontefice gloriosamente regnante si va sino a S. Pietro, dai Vescovi che la governano si arriva sino agli altri Apostoli, sicché il Pontefice e i Vescovi che in essa vi sono e saranno sino alla fine del mondo, sono e saranno sempre i veri e soli successori degli Apostoli.

— Dunque non si trova nulla di tutto ciò presso dei Valdesi, dei Luterani, degli Anglicani, degli Scismatici, eccetera?

Nulla. Non si trova l’unità, perciocché per quanto costoro si vantino di credere tutti

a Gesù Cristo e al suo Vangelo, discordano tuttavia tra di loro nella fede, quante sono

nazioni, quanti sono paesi, quante sono famiglie, quanti sono individui, e più ancora

quante sono le voglie di uno stesso individuo, cui oggi piace di credere ad una cosa e domani ad un’altra. – Non si trova la santità, perciocché come sarebbe possibile dove le dottrine erronee sono impotenti a produrla? dove ad essa manca l’aiuto dei Sacramenti, in massima parte ripudiati? dove i capi sono un Lutero, monaco apostata, vanitoso, ghiottone, ubbriacone, libidinoso, che confessava di avere il diavolo attaccato al collo; un Calvino uomo pieno di orgoglio e di crudeltà: un Enrico VIII, re dissoluto e sanguinario; una Elisabetta d’Inghilterra mostro di libidine e di barbarie? E come a queste società religiose manca l’unità e la santità, così manca la cattolicità. È vero i protestanti vorrebbero riuscire a questo di ottenere una specie di universalità, epperò inviano i loro ministri carichi di bibbie nei lontani paesi; ma questi ministri, che accompagnati dalla, moglie nel loro apostolato non mirano che a far la loro fortuna, a che sono essi riusciti? Essi medesimi lo dovettero confessare: i loro sforzi per diffondere il pane della vita (come essi chiamano la parola della Bibbia da loro falsificata) non ostante alcuni successi ottenuti qua e là, riuscirono perfettamente inutili. E la ragione è chiara : né le sètte dei protestanti, né le altre sette eretiche e scismatiche sono apostoliche. Dal momento che con l’eresia e con lo scisma rifiutarono la dottrina degli Apostoli e si staccarono dalla catena dei loro legittimi successori, cessarono affatto di possedere l’apostolicità; e se pure vanno pel mondo a predicare una dottrina, oltreché non predicano la dottrina creduta ed insegnata dagli Apostoli, non vi vanno perché mandati da Gesù Cristo, ma perché essi medesimi si sono arrogata questa missione.

— Ho inteso pienamente. Se adunque la vera ed unica Chiesa di Gesù Cristo, è la sola Chiesa nostra, bisognerà altresì che a salvare per essa gli uomini di ogni luogo e di ogni tempo Gesù Cristo l’abbia resa indefettìbile.

Certamente. Ed è questa per l’appunto una verità inconcussa. Gesù Cristo nei termini più formali assicurò alla Chiesa che egli sarebbe rimasto con lei sino alla consumazione dei secoli, e che le porte dell’inferno non avrebbero contro di essa prevalso giammai. E Gesù Cristo ha fatto e farà sempre onore alla sua parola. Nemici d’ogni maniera si scagliarono del continuo contro di lei, ma ognuno sempre dovette poi confessare:

Stolto, che volli coll’immobil Fato

Cozzar della gran Roma, onde ne porto

Rotte le tempia e il fianco insanguinato;

Che di Giuda il Leon non anco è morto;

Ma vive e fugge, e il pelo arruffa e gli occhi,

Terror d’Egitto e d’Israel conforto.

E se monta in furor, l’aste e gli stocchi

Sa spezzar dei nemici, e par che gridi:

Son la forza di Dio, nessun mi tocchi.

(MONTI, Basvilliana).

 

No, la Chiesa non verrà meno giammai. Gesù Cristo l’ha giurato, e lì è il gran segreto.

— Ma se la Chiesa è indefettibile in quanto alla sua esistenza, si può dire che lo sia pure in quanto al resto, cioè in quanto al simbolo, al decalogo e ai sacramenti? Io ho inteso dire che la Chiesa ha già variati più volte i suoi dogmi.

Questa è un’infame calunnia del protestantesimo. Già abbiamo riconosciuto che la

Chiesa perciò appunto si chiama apostolica, perché professa mai sempre la stessa dottrina, che gli Apostoli impararono da Gesù Cristo e che essi credettero e predicarono ; epperò non è assolutamente vero e neppure possibile che la Chiesa abbia fatto delle variazioni. Dico neppure possibile, perché dacché Gesù Cristo ha istituito la sua Chiesa per salvare gli uomini d’ogni luogo e d’ogni tempo, gli uomini d’ogni luogo e d’ogni tempo debbono, per salvarsi, credere gli stessi insegnamenti di Gesù Cristo, osservare la stessa sua legge, valersi degli stessi suoi sacramenti, bisogna assolutamente, che la Chiesa non possa per nessuna ragione né per ignoranza, né per interesse, né per timore, né per debolezza, né per malvagità, fare alterazioni di sorta, o permettere che se ne facciano. Se Gesù Cristo non avesse dato alla Chiesa questa potenza di mantenere sempre inviolato il deposito da lui ricevuto, non avrebbe certamente provveduto a che tutti gli uomini possano per essa salvarsi. – Del resto i protestanti che asseriscono aver la Chiesa variato i dogmi ricevuti dagli Apostoli ci dicano quando si fece tale variazione, chi la fece, e su qual punto di dottrina venne fatta! La storia della Chiesa ci dice con la massima precisione tutte le eresie, che tentarono d’infestare la Chiesa incominciando dal tempo degli Apostoli sino ai nostri giorni; la storia ci dice altresì le innumerevoli variazioni, che fecero le sètte protestanti, ma non ci parla mai e poi mai di alcuna variazione avvenuta nella Chiesa Cattolica riguardante o il dogma, o la morale, o i Sacramenti di Gesù Cristo.

— Non è vero tuttavia che la Chiesa lungo il corso dei secoli ha introdotti dei nuovi

dogmi ed ha così accresciuto gli articoli di fede?

No, non è assolutamente così. La Chiesa certamente lungo il corso dei secoli, specialmente nei suoi Concili, quando parve necessario od opportuno, fece delle definizioni dogmatiche, vale a dire riconobbe che certe verità, che prima già si credevano, ma che da taluni si osarono mettere in dubbio, sono veramente contenute nella divina rivelazione, ed esservi perciò l’obbligo di crederle ad essere veri Cristiani, ma non perciò introdusse delle nuove verità ed aggiunse dei nuovi articoli di fede. E non era forse in dovere la Chiesa di fare così? Sorgeva, per esempio, Ario a negare la divinità di Gesù Cristo, e la Chiesa doveva lasciar che si credesse alla blasfema dottrina di quell’eresiarca? e non condannarla, e non dichiarare che Gesù Cristo è vero Dio, consostanziale al Padre celeste? Sorgeva Nestorio a negare la divina Maternità di Maria, e la Chiesa non doveva proclamare solennemente questa verità sempre creduta, che Maria è vera Madre di Dio?… Pertanto tutt’altro che aggiungere nuove verità e nuovi articoli di fede, la Chiesa lungo il corso dei secoli non ha fatto altro che salvare e mantenere con tutta l’energia quelle verità, che da Gesù Cristo e dagli Apostoli aveva ricevuto in sacro deposito. – Naturalmente che in tal guisa ne è venuto nella Chiesa un vero sviluppo dogmatico, ossia da certi dogmi, da certe verità ne furono dedotte altre in quelle già racchiuse, e le une e le altre si sono rassodate con prove più copiose e più valide, si sono meglio illustrate, dichiarate, eccetera, ma ciò non è aggiungere delle verità o mutare le esistenti. « Di quella guisa, dice S. Vincenzo Lirinense, che un uomo crescendo negli anni sviluppa il suo organismo ma resta sempre il medesimo nella sua natura e nella sua persona, così la dottrina della Chiesa seguendo la regola del progresso e affermandosi, sviluppandosi, approfondendosi in ragione del tempo, resta tuttavia sempre una, incorrotta e pura ». – Ma a questo proposito, se tu volessi approfondirti meglio, potresti leggere l’opera dell’inglese Cardinale Enrico Newman intitolata: Saggio sopra lo sviluppo della Dottrina cristiana; scritta da lui prima ancora che dall’Anglicanismo si convertisse al Cattolicismo. In quanto a me non ti aggiungo altro.

— Ed io la ringrazio di quanto mi ha detto, perché mi sembra chiaro assai e penso d’averlo ben inteso.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (IX)

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO 

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO VIII

Il Re della Città del bene.

Lo Spirito Santo, Re della Città del bene: Perché? — Risposta della teologia— Nomi diversi del Re della Città del bene: Spirito Santo, Dono, Unzione, Dito di Dio, Paracleto — Spiegazione particolareggiata di ciascuno di questi nomi.

 L’ordine visibile non è che il riflesso dell’ordine invisibile. Nei governi della terra l’ordine si compone essenzialmente di una autorità suprema e di autorità subalterne, incaricate di eseguire la volontà della prima. Non può concepirsi veruna società senza questi due elementi. Cosi avviene del pari della città del bene e della città del male. Sì nell’una, come nell’altra il governo si compone di un re e di ministri, di potenza disuguale, soggetti ai suoi ordini. Ora, come l’abbiamo indicato, il Re della Città del bene è lo Spirito Santo. Perché si attribuisce allo Spirito Santo e non al Figliuolo o al Padre, la gloriosa monarchia della città del bene? La Teologia cattolica risponde: «Quantunque tutte le opere esteriori della Santa Trinità, opera ad extra, siano comuni alle tre Persone, pur tuttavia, per appropriazione la lingua divina attribuisce allo Spirito Santo le opere, in cui l’amor di Dio si manifesta con uno splendore più marcato. Cosi la potenza è attribuita al Padre, la sapienza al Figliuolo, la bontà allo Spirito Santo. Con tutto ciò in queste tre Persone, la potenza, la sapienza e la bontà è una e indivisibile: come è una e indivisibile, la divinità, l’essenza e la natura. » – Essendo la città del bene la creazione più magnifica dell’amor di Dio, a giusto titolo la monarchia viene attribuita allo Spirito Santo, amore consustanziale del Figliuolo e del Padre. Il fondamento, o come parla la Scrittura, la pietra angolare di questa città è il Verbo incarnato. Ora dunque, l’incarnazione del Verbo è l’opera dello Spirito Santo. Con la sua ordinaria profondità, l’angelo della scuola mostra l’esattezza di questo linguaggio, dicendo: « Il concepimento del corpo di Gesù Cristo è senza dubbio l’opera di tutta la Trinità. Nondimeno, essa è attribuita allo Spirito Santo, e ciò per tre ragioni.

« La prima perché ciò conviene alla causa dell’Incarnazione, considerata dal lato di Dio. Difatti lo Spirito Santo è l’amor del Padre e del Figliuolo. Ora è un effetto dell’immenso amore di Dio che il Verbo si sia rivestito di carne nel seno di una vergine. Quindi la parola di san Giovanni: Iddio ha amato il mondo sino al punto di dargli l’unico suo figliuolo.

« La seconda, perché ciò conviene alla causa dell’Incarnazione, considerala dal lato dell’umana natura. Con ciò si capisce perché la natura umana è stata presa dal Verbo e unita alla sua Persona divina senza alcun merito da parte sua; ma unicamente per un affetto della grazia che è attribuita allo Spirito Santo secondo la parola dell’Apostolo: Le grazie sono diverse ma vengono dallo stesso Spirito.

« La terza, perché conviene ciò all’intento dell’Incarnazione. Difatti il fine dell’incarnazione era che l’uomo che stava per essere concepito fosse santo e Figlio di Dio. Ora la santità e la figliolanza divina sono attribuite allo Spirito Santo. Prima di tutto è da Lui che gli uomini divengono figli di Dio, come l’insegna l’Apostolo san Paolo ai Galati: Perché voi siete figli di Dio, Iddio ha inviato lo Spirito del suo Figlio nei vostri cuori, gridando: Salve, o Padre. Di poi Egli è lo Spirito di santificazione, come lo stesso Apostolo lo scrive ai Romani. Perciò nella stessa guisa che è mediante lo Spirito Santo che gli altri uomini sono santificati spiritualmente, a fine di essere i figli adottivi di Dio; così il Cristo, l’uomo per eccellenza, il novello Adamo, è stato concepito nella santità mediante lo Spirito Santo, a fine d’essere il Figlio naturale di Dio. « Tale è l’insegnamento dell’Apostolo, il quale parlando di nostro Signore dice: Chi è stato predestinato Figliuolo di Dio in potenza, aggiungendovi subito: Secondo lo Spirito santificante; vale a dire, perché è stato concepito dallo Spirito Santo. Finalmente l’Arcangelo, annunziando l’effetto di questa promessa, cioè: lo Spirito Santo sopravverrà in te, conclude: perchè l’essere santo che da te nascerà sarà chiamato il Figliuolo di Dio. 1 » (S. Th.., p. III, q. XXXII,  art. 1, corp.).

Re della Città del bene, perché ne ha formato la base viva; lo Spirito Santo l’é altresì, perché ne è l’anima e la vita. Circolando Egli in tutte le parti di questo gran corpo, come il sangue circola nelle nostre vene e la luce nell’aria, così la sua carità lo ispira, la sua sapienza lo governa, la sua beltà lo abbellisce, la sua potenza lo protegge. (Omnipotens sempiterne Deus, cujus Spiritu totum corpus Ecclesiæ sanctifìcatur et regitur. Orat., Eccl. inter divers.) All’oggetto di conoscere la natura e il modo delle sue comunicazioni divine, in altri termini il governo del Re della Città del bene, accostiamoci con rispetto misto ad amore al trono ove è assiso, e vediamo Qual è in se stesso questo divino Re. Il conoscerlo è tutto quel che vi è di più alto a farci desiderare di vivere sotto il suo impero.Conoscere un essere, vuol dire sapere il suo nome; chi ci dirà i nomi propri del Re della Città del Bene? Egli solo; imperocché l’Essere infinito può solo nominarsi. Ora Egli si chiama: Spirito Santo, Dono, Unzione, Dito di Dio, Paracleto. Che la più vasta intelligenza creata prenda queste parole divine nel loro più alto significato, e si ricordi che, a malgrado di tutti gli sforzi, rimarrà sempre infinitamente al disotto delle sublimi realtà ch’essi esprimono. Tal è il suo dovere, studiando l’Ineffabile. Egli si chiama Spirito Santo,

Spiritus Sanctus.

Spirito. Le altre due persone divine, il Padre, ed il Figliuolo, sono altresì degli Spiriti e Spiriti Santi. Tutti gli Angeli del cielo e tutte le anime beate lo sono del pari. Perché dunque attribuire ad un solo il nome comune a parecchi ? « È vero, risponde san Tommaso, la Trinità nella sua natura e nelle sue Persone, è Spirito Santo. Contuttociò, siccome la prima Persona ha un nome proprio, che è quello di Padre; e la seconda quello di Figlio, si è lasciato alla terza il nome di Spirito Santo, per distinguerla dalle due altre e per fare intendere la natura delle sue operazioni.

« Questo nome la distingue; poiché designa la Persona divina che procede mediante l’amore. Indica la natura delle sue operazioni, imperocché nelle cose corporee, la parola Spirito significa un certo impulso. Di qui deriva che noi chiamiamo spirito, l’alito e il vento. Ora, proprietà dell’amore è di spingere la volontà di colui che ama verso l’oggetto amato, e la santità si attribuisce alle cose che tendono a Dio. È dunque con grande proprietà di linguaggio che si chiama Spirito Santo la terza Persona della Trinità, la quale procede mediante l’amore, amore pel quale noi amiamo Dio. » (S. Th., I, p . q. XXXVI, art.1, corp.). – È vero ancora che gli Angeli e le anime beatificate sono tanti spiriti santi; ma essendo semplici creature, non sono santi che per grazia, mentre lo Spirito Santo è Santo per natura e la stessa santità. È dunque arcigiustissimo che lo si chiami per eccellenza lo Spirito Santo. Come quello del Padre e del Figlio, il nome dello Spirito Santo viene, non dagli uomini, ma da Dio medesimo. Di questa conoscenza siamo debitori alla Scrittura che lo ripete più di trecento volte, tanto nell’antico che nel nuovo Testamento.

Santo. Santo vuol dire puro, privo di composizione. Il Re della Città del bene è appellato santo perché è l’Essere propriamente detto; l’essere puro da ogni miscuglio e la sorgente di ogni purità. Quel che è l’Oceano alla pioggia che feconda la terra, e alle rugiade che la rinfrescano, cosi è lo Spirito Santo alla santità ed anche più. Non è solamente il serbatoio inesauribile, ma ne è il principio eterno ed eternamente fecondo. Ora, è verità d’ordine morale come d’ordine materiale, che la cagione del male, e per conseguenza della vergogna e del dolore, è il miscuglio, il dualismo o per dire la vera parola l’impurità. Comunicandosi alle creature che cosa fa lo Spirito di santità? Elimina gli elementi eterogenei che le disonorano e le fanno soffrire. Quanto più questa comunicazione è abbondante, tanto più le creature si semplicizzano; e quanto più si semplicizzano, tanto più si perfezionano; imperocché più che mai esse si accostano alla loro purità nativa ed alla purità ineffabile del loro Creatore e del loro modello. Ma a misura che esse si perfezionano, tanto più diventano belle e felici. Da queste nozioni fondate sull’essenza stessa delle cose, risulta che la santità è il principio unico della bellezza e della felicità. Poiché il Re della Città del bene essendo la santità medesima, possiamo giudicare se è glorioso, e se è dolce il vivere sotto le sue leggi. – Le creature materiali medesime ci rivelano qualcuna delle ricchezze racchiuse in questo nome misterioso dello Spirito Santo. Si può dire che fra tutti gli elementi, l’alito e il vento è il più necessario. Per esso vive tutto ciò che respira. Esso è il più forte; noi lo abbiamo visto sradicare in meno di sette minuti, cento mila piedi di alberi secolari sopra una estensione di tre leghe. (Tromba di Fuans -Doubs-, 11 luglio 1855). Ogni giorno i naviganti lo vedono mettere a nudo gli abissi del mare, sollevando fino alle nubi la pesante massa delle loro acque. Esso è il più carezzevole: chi non ha invocato con ardore la sua azione benefica in mezzo dei cocenti calori della state e non l’ha sentita con delizia? Esso è il più indipendente, il più utile, il più misterioso. Il vento è il principio sempre attivo che purifica le nostre citta, le nostre campagne e le nostre abitazioni; nessuno lo può incatenare. Egli è il veicolo della parola, e mediante essa il legame necessario della società. In un ordine più elevato, vale a dire più reale, lo Spirito Santo è tutto ciò. Egli è vita, è forza, è dolcezza è purificatore, è il legame universale. In lui tutto è uno; e sebbene abiti il cielo, la terra ed il purgatorio, l’immensa Citta della quale è re, non forma che uno stesso corpo, obbedendo allo stesso impulso. Da ciò viene che san Cipriano lo chiama l’anima del mondo: « Questo divino Spirito, dice il glorioso martire, anima di tutto ciò che è, riempie talmente gli esseri della sua abbondanza che le creature inintelligenti come le creature intelligenti ricevono ciascuna nel suo genere, e resistenza ed i mezzi d’agire conforme alla loro natura. Non è che Egli sia lui stesso sostanzialmente l’anima di ciascuna di esse; ma come distributore magnifico della sua pienezza egli comunica a ciascuna creatura e le fa proprie le sue divine influenze: simile al sole che dà il calore e la vita a tutta la natura, senza diminuzione né esaurimento. » (Serm. De Pentecost. in Biblioth. vetus. homil. etc.). Egli si chiama Dono. Tale è il nome proprio, il vero nome del Re della Città del bene. Chi ne dirà le incomprensibili ricchezze? Il dono è quello che si dà senza intenzione di ricambio; il che importa l’idea di donazione gratuita. Ora, la ragione di una donazione gratuita è l’amore: noi non diamo gratuitamente una cosa a qualcuno, se non perché gli vogliamo del bene: cosicché la prima cosa che noi gli diamo, è il nostro amore. Donde ne segue manifestamente, che l’amore è il primo dono, poiché è per lui che noi diamo gratuitamente tutto il resto. – Ne segue altresì che lo Spirito Santo essendo lo stesso amore, è il primo di tutti i doni, la sorgente di tutti, il dono per eccellenza. A nessun altro conviene come a Lui questo nome adorabile, e talmente gli conviene che è il suo nome personale. Non si creda del resto che questo nome implichi nello Spirito Santo una inferiorità qualunque rispetto al Padre ed al Figlio; il pensarlo sarebbe una eresia, il dirlo una bestemmia. Esso indica soltanto la relazione d’origine dello Spirito Santo nei suoi rapporti col Padre ed il Figlio che ce lo donano. Ma questo dono è lo stesso Spirito Santo, e il dono è pari al donatore, eterno, infinito, onnipotente, Dio insomma come lui. (S. Th., i, p. q. XXXVIII, art. 2, corp. et art. 1 ad 3 ; et ad Contra, – 2 S. Basii., lib. De Spir. Sancto, c. xxiv). – « Quando dunque, dice sant’Agostino, noi intendiamo chiamare lo Spirito Santo dono di Dio, dobbiamo ricordarci che questa espressione rassomiglia a quell’altra della Scrittura, Nostro Corpo di carne. Alla guisa stessa che il corpo di carne non è altro che la carne, così il dono dello Spirito Santo è lo stesso Spirito Santo. Esso è dono di Dio solamente in quanto ci è dato; ma perché il Padre ed il Figlio lo danno, ed Egli stesso si dà, non è punto ad essi inferiore; poiché è donato, come dono di un Dio, ed Egli medesimo si dà come Dio. « Nessuno infatti può dire, che non sia padrone di sé medesimo e perfettamente indipendente, poiché trovasi scritto di lui: Lo Spirito spira dove vuole. L’apostolo aggiunge: Tutte queste cose, è il solo e medesimo Spirito che le fa, distribuendo i suoi favori a ciascuno com’Egli l’intende. In tutto questo non bisogna dunque vedere né inferiorità in colui che viene donato, né superiorità in quelli che donano; ma l’ineffabile concordia del donato e dei donatori. » (De Trinit., lib. XV, c. XVII, n° 86). Cosi, amore donato, amore infinito, amore vivente, amore principio, amore Dio: tale è lo Spirito Santo. Ora, la proprietà dell’amore è di tendere all’unione; e la proprietà dell’amore infinito è di tendere all’unione infinita. L’unione infinita è l’unità. Fare, secondo il voto del Verbo incarnato, che tutti gli uomini siano uno, un tra loro, uno con Dio, di una verità simile a quella delle tre Persone dell’augusta Trinità; procurare con questa unità universale, la pace, la felicità, la deificazione universale; ecco l’unico pensiero del Re della Città del bene, lo scopo supremo al quale si riferiscono tutte le leggi, tutti i moti del suo governo. O uomo, chiunque tu sia, niente e polvere; se tu consideri la tua nudità, la tua impotenza, la tua triplice nullità di spirito, di cuore e di corpo, quale amore irresistibile non deve destare in te questo titolo adorabile di dono, sotto il quale il Re della Città del bene si rappresenta al tuo pensiero ! Quale energica volontà di vivere sotto le sue leggi! Tu non hai nulla e tu hai bisogno di tutto; lo Spirito Santo è il dono che racchiude tutti i doni: dono della fede che illumina; dono della speranza che consola, dono della carità che deifica; dono dell’umiltà, della pazienza, della santità, dono della conversione e della perseveranza; dono di tutti i beni dell’anima e del corpo. In nome dei tuoi bisogni, dei tuoi pericoli, e delle tue pene; in nome dei bisogni, dei pericoli e delle pene dei tuoi parenti, dei tuoi amici, della società e della Chiesa, sii il suddito fedele del Re nella Città del bene. Invoca con tutta la vivacità della tua fede lo Spirito Dio, dono e donatore, che desidera Egli stesso ardentemente di comunicarsi a te. In lui solo tu troverai tutti i beni, unum bonum in quo sunt omnia bona. Fuori di Lui tutti i mali: indigenza per il tuo cuore; vanità per il tuo spirito, malessere per la tua vita, terrori per la tua morte, supplizi per l’eternità. Egli si chiama unzione, unctio. Fra un numero grande di mirabili significati, unzione vuol dire sapienza e luce. Siccome esso è l’amore per essenza, cosi il Re della Città del bene è la stessa sapienza, la luce senz’ombra, la luce eterna, il sole senza eclisse. Egli partecipa la sua pienezza ai suoi sudditi, e inonda il suo impero. Partecipandone i suoi sudditi diventano tutto ciò che vi ha di più grande tra gli uomini: come Re, Sacerdoti, Profeti. – Come Re: invece d’essere dominati, dominano; invece d’essere servi della materia, delle creature, dei sensi, delle passioni degli angeli ribelli, essi gli tengono incatenati ai loro piedi. Né le promesse, né le minacce, né i rovesci, né le infermità, né le tentazioni fanno cadere la corona dal loro capo, né lo scettro dalle loro mani. La loro autorità diretta dall’eterna sapienza, ha per carattere l’equità, la dolcezza, la forza. (Sap. VIII, 1, e IX, 23) – Come Sacerdoti: essi si servono del loro dominio sulle creature e sopra sé medesimi, per fare di tutto ciò che è creato, di tutto ciò che posseggono, di tutto quel che essi sono, un grande olocausto a Dio, da cui tutto è disceso e a cui tutto deve ritornare. Come Real sacerdote, come popolo amato fra tutti i popoli, dovunque regnano i figli della città del bene, si fa la luce, l’ordine si stabilisce, la civiltà si sviluppa, le nazioni prospere procedono tranquillamente nella loro via. Ne volete la prova? interrogate la storia, e date un’occhiata al mappamondo. Come Profeti; le loro parole e le opere loro, più eloquenti delle loro parole, fanno irradiare sulla terra la luce divina da cui sono inondati. Esse proclamano incessantemente le eterne leggi dell’ordine, l’esistenza del mondo futuro, il gran giorno della giustizia e la duplice dimora di felicità o d’infelicità senza fine oltre la tomba. – « Di più, esclama un Padre della Chiesa, ciò che l’occhio umano può appena scorgere attraverso folte nubi, ciò che tutti i sapienti pagani non fanno altro che intravedere, i cittadini della Città del bene lo vedono chiaramente. Il loro corpo è sulla terra, la loro anima legge nei cieli: essi vedono come Isaia, il Signore assiso sopra un trono eterno. Come Ezechiele, vedono Colui che riposa sopra i Cherubini. Come Daniele, vedono i milioni di Angeli che lo circondano. Un omiciattolo, exiguus homo, vede con un solo sguardo il principio e la fine del mondo, la metà dei tempi, la successione degli imperi. Egli sa ciò che non ha mai imparato; imperocché in esso è il principio di ogni luce. Con tutto che rimanga uomo, ei riceve dal Re della Città del bene una scienza potente che va sino a scoprirgli le segrete azioni altrui. « Pietro in persona non era con Anania e Safira allorquando essi vendevano il loro campo: ma vi era per mezzo dello Spirito Santo. Perché, dice egli, satana ha tentato il vostro cuore sino al punto da farvi mentire allo Spirito Santo? Non v’era né accusatore, né testimonio. Come dunque lo sapeva egli? Non eravate voi liberi, soggiunge, di tenere il vostro campo, e quel che avete venduto non vi apparteneva? Perché dunque avete voi formato questo cattivo disegno? Così quest’uomo ignorante possedeva per la grazia dello Spirito Santo, una scienza che tutti i sapienti della Grecia non conobbero mai. Non trovate voi la stessa scienza in Eliseo? Assente, egli vede Giezi ricevere i doni di Naaman, ed al suo ritorno egli gli dice: Che forse il mio spirito viaggiava con te, poiché il mio corpo era qui; ma lo spirito che Iddio mi ha dato conosce ciò che accade lontano. Vedete come il Re della Città del bene illumina quando vuole, i suoi sudditi, toglie loro l’ignoranza e gli arricchisce di scienza. » (S. Cyrill., Hier., Catech., xvi). – Egli si chiama: DITO DI DIO, digitus Dei. Questo nome di una incomparabile ricchezza indica a un tempo la successione del Re della Città del bene, e la sua infinita potenza, come pure la diversità dei suoi doni e delle sue operazioni nell’eterna unità dell’amore. Ogni volta che l’uomo, come immagine di Dio, studierà sopra sé medesimo, accerterà la giustizia di questo nome divino. Come i diti procedono dalla mano e dal braccio senza essere staccati, cosi lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figliuolo, ai quali resta unito inseparabilmente.(Cor. a Lap. in Exod., VIII, 19). In tutte le lingue il braccio, la mano e i diti significano la potenza e l’azione, di cui sono gli istrumenti necessari. Di qui, il nome di dito di Dio, adoperato cosi sovente dalla Scrittura per notare l’azione onnipotente di Dio sulle creature, materiali o spirituali. Benché in Dio la forza attrice sia unica, essa è però molteplice e multiforme nelle sue opere. Di qui ancora, la Scrittura che parla di tanto in tanto dei diti e del dito di Dio. Cosi il Profeta Isaia ci rappresenta l’onnipotente che solleva il globo con tre diti. (Is., XL, 12). Davide dice al Signore che i cieli sono l’opera dei suoi diti. (Ps. VIII, 4). Mosè annunzia che le Tavole della legge sono scritte col dito di Dio; ed i maghi di Faraone, impotenti a contraffare certi miracoli operati da Aaron e dal suo fratello esclamano: Il dito di Dio è qui.  (Exod., XXX, 18, e 19). Qual nome poteva meglio di questo convenire allo Spirito Santo? Noi lo domandiamo all’uomo medesimo. Non fa egli ogni cosa con le sue dita? Se il genere umano non ne avesse avute, nessuna delle opere meravigliose delle quali è ricoperta la faccia del globo, esisterebbe. Se oggi cessa d’averne, domani tutti questi monumenti non saranno che rovine: lui stesso morrà. Così dunque co’ suoi diti o con quelli dello Spirito Santo, Iddio opera tutte le sue meraviglie, poiché tutte sono opera dell’amore. – Le dita delle nostre mani non servono soltanto a creare, servono pure a pigliare, a dividere, e a distribuire. La loro lunghezza e la loro forza disuguale, gli costituiscono in una mutua dipendenza e formano la bellezza della mano. Così è per mezzo dello Spirito Santo che Iddio somministra e distribuisce a ciascuna creatura i doni che gli riserba; e ciò in proporzioni ineguali; ad una più, all’altra meno, secondo le regole della sua infallibile sapienza. Disuguaglianza necessaria donde resulta la mutua subordinazione degli esseri tra loro, la base di ogni ordine, il principio di ogni armonia nel cielo e sulla terra. E malgrado la molteplicità del loro numero, la diversità delle loro forme, la varietà dei loro movimenti, le dita inseparabilmente unite tra di loro, obbediscono allo stesso impulso. I doni e le opere dello Spirito Santo, comecché sieno varii, procedono dallo stesso principio. Considerate i cieli e la terra; interrogate l’une dopo le altre le innumerevoli creature ch’essi racchiudono; stelle o soli, monti o valli, cedri o viole, tutte vi diranno: È un solo e medesimo Spirito che ci ha fatte: Hæc autem omnia operatur unus atque idem Spiritus. Alzate i vostri sguardi sopra una creazione più magnifica; contemplate gli ordini e le gerarchie di beltà e di disuguale potenza del mondo angelico: esse vi diranno ancora; Questo è un solo e medesimo Spirito che ci ha fatte: Hæc autem omnia operatur unus atque idem Spiritus. Abbassate il. vostro sguardo sul cielo della terra, la Chiesa, madre e modello di tutte le società incivilite. Donde vengono a lei i doni interni ed. esterni, i quali per la loro brillante varietà formano la sua potenza e la sua gloria? Una voce risponde: « Vi è diversità di doni, ma non vi è che un medesimo Spirito; diversità di operazioni, ma non vi ha che uno stesso Dio che opera tutto in tutti. Uno possiede il dono di parlare con sapienza, l’altro con scienza. Un altro il dono della fede; un altro il dono di guarigione; un altro il dono dei miracoli; un altro, il dono di profezia; un altro il dono di parlare diverse lingue; un altro il dono d’interpretarle. Ora questo è un solo medesimo Spirito che opera tutte queste cose: Hæc autem omnia operatur unus atque idem Spiritus. » (I Cor. XII, 4 e segg.). Lavorando ciascuno nella sua sfera tutte le nostre dita tendono allo stesso fine, cioè alla perfezione dell’opera da loro intrapresa. Come tutte le dita di Dio, così tutte le meraviglie dello Spirito Santo tendono ad un fine unico: realizzare nella Città del bene la più perfetta concordia, la più completa unità che si possa concepire, l’unità stessa del corpo umano e la concordia delle sue membra. Come il nostro corpo che è uno, è composto di parecchie membra, e tutte le membra del corpo sebbene numerose non sono tutte che un corpo solo; parimente nella Città del bene, che è il regno dello Spirito Santo e il corpo del Verbo incarnato. Come tutte le membra del corpo lavorano le une per l’altre, e che nessuna può soffrire senza che soffrano tutte le altre, né ricevere onore senza che tutte le altre non se ne rallegrino; cosi accade fra i membri della grande Città, della quale lo Spirito d’amore è la artefice, il re, l’anima, ed il vincolo.1S. Aug. Quæst. Evang. lib. II, etc. Che ideale magnifico! e quest’ideale imperfettamente realizzato sulla terra, lo sarà completamente nell’eternità. Sotto qual titolo possiamo noi invocare lo Spirito Santo che sia in rapporto con i nostri bisogni, quanto quello di dito di Dio? Potenza, bontà, istrumento di miracoli, Spirito Santo, dito di Dio, mescolatevi attivamente nelle nostre faccende e di quelle del mondo attuale. Giudicate la vostra propria causa, riparate, alzate i bastioni della vostra città: dissipate gli eserciti che l’assalgono, fate tacere i bestemmiatori che l’oltraggiano e voi con essi. Che lo splendore delle vostre opere confonda i vostri nemici, apra gli occhi ai ciechi, risvegli gli indifferenti, ammollisca gli induriti, forzi i moderni maghi a confessarsi vinti, affinché il campo delle anime, reso. Ai ministri della verità, riceva finalmente la cultura che sola può surrogare, con frutti di vita, i frutti di morte il cui odore infetto va a provocare sino al cielo terribili catastrofi. O Dito divino, scolpite profondamente nel nostro cuore la legge reale della Città del bene, la fede potente, l’immutabile speranza, l’immortale carità; date a ciascuno di noi l’armatura impenetrabile, della quale abbisogniamo per respingere i dardi infiammati di u nemico più che mai audace. Egli si chiama Paracleto: Paracletus. Attraente al pari degli altri, questo nome vuol dire, avvocato, esortatore, consolatore. Che nomi per un Re ! (S. Ang. in Joan., tract. CXIV, n. 2. — Exhortator, incitator, impulsor. Cor. A Lap., in Joan., XIV, 16).Ancorché lo Spirito del bene non ne avesse altri, questi non basterebbero per chiamare sotto le sue leggi tutti i popoli, tutte le tribù, tutti i membri della disgraziata famiglia umana? Come avvocato Egli difende: ma che difende Egli? La causa a cui fanno capo tutte le cause, tutti i processi, la causa delle anime, la causa dei popoli, la causa della Chiesa e del mondo, la causa dalla quale dipende l’eterna felicità o l’infelicità eterna. Dove la difende Egli? Ei la difende al duplice tribunale della giustizia e della misericordia. Della giustizia all’oggetto di piegarla e disarmarla; della misericordia a fine di ottenerne larghe effusioni di grazie, di forze, di lumi, di aiuti d’ogni genere, sia per preservare i cittadini della sua città dagli assalti del nemico, ossia per guarirli dalle loro ferite. Tribunali della giustizia e della misericordia divina, corti sovrane, dinanzi alle quali non v’è alcuno, re o suddito, popolo o particolare, che ogni giorno, ad ogni ora non abbia una causa attualmente pendente. Come difende Egli? Come sa difendere l’amore. Tutta la sua eloquenza è nei suoi sospiri. Lo Spirito Santo, scrive l’Apostolo, aiuta la nostra infermità, imperocché noi non sappiamo, né ciò che dobbiamo domandare, né come dobbiamo domandarlo; ma lo stesso Spirito domanda per noi con gemiti ineffabili. (Rom. VIII, 26). Com’è dunque profonda, gran Dio! la mia miseria, la miseria dell’uman genere! Privo di tutto e mendicante in questa valle di lacrime, io non conosco i miei veri bisogni; appena gli suppongo, e gli sento ancor meno. Se io gli vedo, ignoro il modo di chiederne il sollievo. Quale necessità maggiore d’avere un abile maestro che m’insegni a mendicare; caritatevole che mendica per me; onnipotente che mendica con successo. Il Re della città del Bene in persona mi rende questo caritatevole ufficio; Ei lo rende a tutti. Si, è di fede: lo Spirito Santo prega per me, e per me si fa mendicante. « Che cosa voglio io dire con ciò? Domanda sant’Agostino. Può lo Spirito Santo gemere, Lui che gode della felicità suprema col Padre e col Figliuolo? No certo. Lo Spirito Santo non piange in se stesso e nella beata Trinità; ma geme in noi, imperocché egli c’insegna a gemere. Insinuandoci alle orecchie del cuore che noi siamo viandanti nella valle delle lacrime; c’insegna a sospirare per la patria eterna, e questo desiderio produce i nostri gemiti. Colui che sta bene, o piuttosto che crede di star bene in questa terra d’esilio, colui che s’inebria della gioia dei sensi, e che nuotando nell’abbondanza dei beni temporali, si pasce di una vana felicità, costui non fa sentire se non che la voce del corvo; poiché la voce del corvo è schiamazzante e non gemente. « Al contrario, colui che sente il peso della vita, e che si vede ancora separato da Dio e privo della beatitudine infinita che ci ha promessa, che possiede in speranza, ma che non possederà in realtà se non il di in cui il Signore verrà splendente della sua gloria, dopo essere venuto nell’umiltà; colui che conosce ciò piange; e finché egli piange per questo, piange con profitto: poiché è lo Spirito Santo che gli insegna a piangere e ad imitare la colomba. Infatti piangono molti, allorquando sono essi colpiti da alcune avversità, o in preda ai dolori dell’infermità, o sotto i catenacci di una prigione, o nelle catene della schiavitù, o nell’onde semiaperte per inghiottirli, o nei lacci tesi dai loro nemici: ma essi non gemono di quel gemito della colomba; non è, né l’amore di Dio che gli fa gemere, né lo Spirito Santo che geme per essi. Perciò quando essi sono liberati dai loro mali, gli sentite esultare ad alta voce: il che dimostra che essi sono corvi e non colombe. » (S. Aug., in Joan., tract. VI, n. 2, opp., t. III, 1737).

Egli è Esortatore. Tutto il bene, degno di questo nome, che si compie sin dal principio del mondo, che tuttora si compie, che si compirà sino alla consumazione dei secoli, è dovuto al Figliuolo dello Spirito Santo, ai cittadini della Città del bene. Chi dà loro la volontà di farlo? il loro Re. Senza il di Lui aiuto nessuno può neppure pronunziare in modo utile per il cielo il nome del Redentore.(I Cor. XII, 3). Abele offre generosamente al Signore i suoi più pingui agnelli. Io vedo il sacrificio: dov’è l’anima che lo ispira? chi ne è l’esortatore? Il Re della Città del bene. – Noè affronta per cento anni le beffe dei suoi contemporanei e costruisce a po’ alla volta l’arca che deve salvare la specie umana. Io vedo il coraggio del patriarca e vedo la nave; ma qual è il sostegno dell’uno e l’ispiratore dell’altro? Il Re della Città del bene. Io vedo Abramo che lega sull’ara l’unico suo figlio Isacco, e sta alzando la mano per immolarlo; chi è l’esortatore e la guida dell’eroico padre dei credenti? Il Re della Città del bene. Io vedo nella serie degli antichi secoli i patriarchi, i re, ed i guerrieri d’Israele compiere mille atti splendidi, trionfare di mille difficoltà, affrontare senza timore dolori senza numero; quale fu l’anima di queste grandi anime? chi fu il loro esortatore? Il Re della Città del bene. – Nei tempi nuovi chiedete ai pescatori di Galilea chi gli ha spinti ai quattro angoli del mondo a fine di spargere dappertutto, come nubi benefiche, le divine rugiade della grazia; chi ha dato loro l’intelligenza e la forza necessarie per intraprendere le loro gravose fatiche, portare la guerra persin nel centro della Città del male, battere in breccia questa città colossale, smantellarla, minarla; e fabbricare in sua vece la città del bene? Quando occorre difendere l’opera divina, a costo di tutti i sacrifici, chi è l’esortatore dei martiri ed il sostegno del loro coraggio, in faccia ai tribunali, alle torture, ai roghi ed alle fiere dell’anfiteatro? Il Re della Città del bene. – Ciò che fu per gli Apostoli e per i martiri il divino Re, lo fu e continua ad esserlo, per i solitari, per le vergini, per i missionari, per i santi ed i fedeli, i quali in tutte le condizioni ed in tutti i paesi, ogni di intraprendono e conducono ad un fine felice l’opera eroica della loro santificazione e della santificazione degli altri. Contate se potete, il numero dei buoni pensieri, delle salutari risoluzioni, dei sacrifici d’inclinazione, di gusto, d’interesse, d’amore, di tendenze, di passioni che debbono per salvare un’anima, riempire una vita di cinquant’anni; calcolatene l’estensione e vedrete, quale buono, quale instancabile e qual potente esortatore è lo Spirito Santo.

Egli è Consolatore. Miei dilettissimi, sin qui io vi ho istruiti, diretti, consolati; ecco perché vi attrista la mia prossima dipartita. Fatevi coraggio, perché Io vi manderò in mia vece un altro consolatore che dimorerà con voi, non per un po’ di tempo come me, ma per sempre. Egli v’istruirà, vi dirigerà, vi consolerà nelle vostre pene, ne’ vostri dubbi, nelle vostre tentazioni, nei vostri incessanti combattimenti. Tale è il significato delle parole del Verbo incarnato annunziante lo Spirito Santo a’ suoi apostoli, alla Chiesa, a noi medesimi. (Joann. XIV, 16). Consolatore. Bisognava conoscer bene l’umanità per dare questo nome al Re della Città del bene. La vedete voi questa povera umanità, rovina vivente, che attraversa da sessanta secoli in qua una terra di miserie, troppo giustamente chiamata la valle delle lacrime: avvolta nelle tenebre, circondata da nemici, affranta da travagli, oppressa da dolori, rosa da cure: lasciando sul selciato della via le macchie del suo sangue, ed ai rovi i brandelli della sua carne: trascinantesi dietro una lunga catena di speranze deluse, scorgendo di lontano, come ultima prospettiva, una tomba semiaperta con misteri di decomposizione ch’essa non ardisce guardare; e al di là, gli abissi imperscrutabili di una doppia eternità? Fa d’uopo convenirne, se l’umanità ha bisogno di qualcuno, è innanzi tutto di un consolatore. Degno di questo nome veramente regio, il Re della Città del bene, è il consolatore per eccellenza: Consolator optime. La sua sovranità non ha altro scopo che di rasciugare le lacrime dei suoi sudditi, o di trasformarle in perle d’immortalità. Consolatore potente; le sue consolazioni non sono vane parole che si frangono alla superficie del cuore, ma sollievi efficaci, e intime gioie. Consolatore universale; non un patimento del corpo, non un dolore dell’anima, non un rovescio di fortuna, non un dubbio, non una perplessità, non un fallo, pei quali non abbia un rimedio, una luce, una speranza. Che l’uomo, il popolo, il secolo il quale non ha nessuna faccenda da trattare dinanzi al tribunale della giustizia e della misericordia divina; che non ha bisogno né di lumi per conoscere il bene, né coraggio per intraprenderlo, né perseveranza per compierlo, né consolazione nelle sue pene, insomma, che il niente orgoglioso che ha la pretensione di bastare a sé medesimo, o di trovare in braccia di carne un appoggio sufficiente per la sua debolezza, disprezza, oblia l’Avvocato divino, l’Esortatore soprannaturale, il Consolatore supremo: noi non ci abbiamo niente da dirgli. Una profonda pietà, delle preghiere e delle lacrime, questo è tutto ciò che resta a dargli. Quanto all’uomo, al popolo, al secolo che ha la coscienza dei suoi bisogni, trova nel fondo dell’anima sua mille motivi ogni giorno più pressanti, di invocare lo Spirito Santo, e di vivere sotto le sue leggi.Tale è, secondo i nomi principali che gli danno questo carattere, il Re della Città del bene. Se a tanti titoli che gli sono propri, si aggiungono quelli ch’Egli divide col Padre e col Figliuolo, ci apparirà come il più grande, il più magnifico, il più sapiente, il migliore di tutti i monarchi; la sua città, come il regno più glorioso, il più libero, il più felice che l’uomo possa sognare; i suoi sudditi, come una famiglia di fratelli, come un’assemblea di dei, incominciati dalla grazia e in via di divenire tanti dei consumati nella gloria. Se un simile spettacolo vi lascia la forza di parlare, sarà per dire col profeta: Città del mio Dio, quanto siete bella! beati coloro cbe vi abitano. (omium habitatio est in te. Ps. LXXXVI, 3, 7).

CONOSCERE SAN PAOLO (29)

LIBRO II.

Preistoria della redenzione.

CAPO I

L’umanità senza il Cristo. (3)

III. SCHIAVITÙ DELLA CARNE E LIBERTA’ DELLO SPIRITO.

1. FALSE PESTE. — 2. LA CARNE E LO SPIRITO. — 3. LA CARNE E IL PECCATO. — 4. RIASSUNTO.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA; S. E. I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Quando l’uomo possiede i tre elementi essenziali della vita morale, — conoscenza di Dio, legge naturale e libero arbitrio — che cosa gli manca ancora per raggiungere il suo ultimo fine? E fine di un essere non si deve cercare fuori della sua sfera di operazione, e se l’uomo è destinato alla beatitudine dev’essere in grado di giungervi. Eppure sembrerebbe che risulti il contrario dalla dottrina di san Paolo, e particolarmente dalla Lettera ai Romani, in cui egli insegna che l’impotenza morale dell’uomo deriva dalla carne e non ha altro rimedio che lo Spirito di Dio. Tra lo spirito e la carne, abbiamo già indicate due opposizioni: l’una fisica, tra le parti che costituiscono un medesimo essere, e l’altra ontologica, tra sostanze complete il cui carattere rispettivo è la spiritualità e la corporalità. Bisogna ora aggiungervi l’opposizione morale e religiosa, la principale e la più importante, la sola caratteristica del vangelo di san Paolo. L’errore di molti teologi eterodossi è stato quello di confondere praticamente l’antitesi morale « carne e spirito » o con l’opposizione fisica o con l’opposizione ontologica. Essi speravano così di unificare i concetti e di semplificare le teorie, ma invece di rendere più chiaro il problema, non fecero altro che renderlo ancora più oscuro. I primi, che dipendono tutti dalla scuola di Baur, pretendono che Paolo, abbandonando qui il terreno familiare agli Ebrei, faccia una disgraziata incursione nel campo della filosofia greca. Tuttavia il monoteismo biblico lo ferma a mezza via, ed egli non arriva fino al dualismo metafisico ma si ferma al dualismo morale (Holsten). Paolo avrebbe trasportato nell’ordine morale l’antitesi fisica che l’Antico Testamento suole stabilire tra Dio e il mondo, tra l’uomo e lo spirito di Dio, senza accorgersi del paralogismo e senza riflettere che questo equivale a far risalire al Creatore della natura l’origine del peccato. Per sostenere questo paradosso, bisogna imputare all’Apostolo contraddizioni su contraddizioni. Se la carne è cattiva in se stessa, in quanto è opposta allo spirito, come mai la carne del Cristo sarà santa? Ora è cosa indiscutibile, che san Paolo attribuisce al Cristo una carne simile alla nostra e che tuttavia gli nega ogni relazione col peccato (II Cor. V, 21). Questo prova evidentemente che il peccato non è inerente alla carne dalla quale è separabile. Se il nostro corpo è irrimediabilmente impuro, come mai sarà il tempio dello Spirito Santo? (I Rom. VI, 19). Come mai servirà di strumento alle opere di giustizia? (Rom. VI, 13). Come potrà essere offerto a Dio come ostia di grato odore? (Rom. XII, 1). L’Apostolo c’invita a schivare ogni macchia della carne e dello spirito (II Cor. VII, 1) »: ora se la relazione della carne col peccato fosse essenziale, non dipenderebbe da noi né il macchiarla né il preservarla dalle macchie. Paolo non potrebbe parlare, dal punto di vista dualista, di una redenzione del corpo e presentarla come il pieno compimento della salute? « La nostra salute, al contrario, dovrà essere perfetta allorché l’anima nostra sarà libera dai vincoli della materia (Sabatier) ». Nella teoria dualista, Adamo non avrebbe nessun significato: sarebbe soltanto il primo peccatore perché è il primo uomo. Ora si va facendo sempre più unanime l’accordo nel riconoscere che l’antropologia di san Paolo si fonda sulla base dell’Antico Testamento. Il racconto della Genesi con i suoi due corollari immediati — Dio personale e superiore al mondo, materia creata e perciò buona — è sempre presente al suo pensiero. Cercare nei suoi scritti il dualismo gnostico che della materia fa un principio cattivo, è un paradosso audace, smentito da tutti i testi, inconciliabile con l’educazione biblica di Paolo e con le sue ripetute allusioni ai primi capitoli della Genesi. Resta da discutersi la parte d’influenza ellenica; ma per quanto la si voglia supporre profonda, la sua importanza viene assai diminuita da questa considerazione, che la psicologia dell’Apostolo è soltanto un accessorio nel suo insegnamento: non è la psicologia quella che domina e orienta la sua dottrina teologica, ma è la sua dottrina teologica quella che comanda e determina la sua psicologia. Dal fatto che, in San Paolo, la carne è sempre la materia animata, che essa nel suo concetto comprende l’anima, che certi peccati di ordine intellettuale sono riferiti alla carne, che una volta le espressioni « voi siete uomini » e « voi siete carnali » si scambiano come sinonime, altri teologi protestanti conchiudono che la carne, nel senso morale di cui qui si tratta, indica la natura umana. Se il peccato abita nella carne, questo vuol dire, secondo loro, che l’uomo per la sua imperfezione naturale, ha l’occasione e il potere di mettersi in opposizione con Dio (Thouluce). Per essere logici, dovrebbero anche conchiudere — ed alcuni non esitano a confessarlo — che l’uomo è carnale non in quanto è uomo, ma in quanto è creatura: di qui risulterebbe il triplice paradosso, che anche Adamo era carnale come i suoi discendenti, che l’Angelo è carnale quanto l’uomo, e che né l’Angelo né l’uomo non potranno mai cessare di essere carnali perché sono essenzialmente esseri creati. Questo vuol dire attribuire gratuitamente a Paolo una confusione grossolana del male morale col male metafisico, della privazione di un bene che la natura ragionevole dovrebbe possedere secondo i disegni di Dio, con l’assenza di una perfezione multante dalla limitazione essenziale di ogni essere finito, indipendentemente da queste conseguenze assurde, il sistema in questione non si regge, poiché dall’organismo materiale dell’uomo San Paolo fa dipendere il peccato.

2. La carne, soprattutto sotto l’aspetto morale del quale ci occupiamo, non si può quasi definire senza la funzione dello spirito. Nell’Antico Testamento, lo spirito di Dio è il creatore e il conservatore se, l’agente del miracolo e dell’ispirazione profetica. Nel Nuovo Testamento la sua sfera di azione si allarga ancora di più: esso è lo spirito vivificatore, rigeneratore e santificatore; tutto ciò che concerne la grazia e i carismi è di suo dominio; siccome è l’anima del corpo mistico del quale il Cristo è il capo, tra lui e il giusto si stabilisce una relazione stretta, un vincolo intimo; il suo nome proprio, tratto dal suo carattere personale, è Spirito Santo; la sua presenza in noi è più che un rinnovamento interiore, e una metamorfosi, una vera creazione, la produzione di una natura divina dotata di proprietà e di operazioni nuove (II Cor. V, 17). A questa nuova natura Paolo dà anche il nome di spirito. Per non aver voluto riconoscere questo, certi esegeti vanno a perdersi nelle spiegazioni più inverosimili. Essi vogliono distinguere soltanto tra lo spirito dell’uomo o l’anima ragionevole, e lo Spirito di Dio, cioè la terza Persona della Santissima Trinità; vi è invece un mezzo termine: lo spirito che è formato in noi dallo Spirito Santo e che a lui si riferisce come l’effetto alla causa. Quando « lo Spirito rende testimonianza al nostro spirito (Rom. VIII, 16) », non è possibile nessun equivoco: lo Spirito che rende testimonianza è certamente lo Spirito di Dio, e perciò lo spirito in cui favore rende testimonianza non può essere altro che quel senso nuovo prodotto in noi dallo Spirito, e capace di percepire le cose divine; infatti l’intelletto abbandonato a se stesso non sa nulla della nostra filiazione adottiva. Non mancano altri esempi di questo sdoppiamento delle nostre facoltà: il glossolalo non è compreso dai presenti né da se stesso, ma soltanto da Dio, eccetto che abbia ricevuto per di più il dono dell’interpretazione: « E suo πνεῦμα (= pneuma) prega, ma il suo νοῦς (= nous) è senza frutto (I Cor. XIV, 14, 15) ». Per lui l’ideale sarebbe di pregare col νοῦς (= nous) e col πνεῦμα (= pneuma). Una preghiera fatta in lingua sconosciuta, sotto l’impulso della grazia, può essere una preghiera eccellente, capace di edificare il glossolalo con i sentimenti devoti che suggerisce; ispirata dallo Spirito di Dio, essa alimenta lo spirito dell’uomo; ma siccome non è compresa, è priva di azione sopra l’intelletto. Lo spirito e l’intelletto sono qui due princìpi distinti; l’uno rappresenta in noi l’elemento naturale, e l’altro l’elemento soprannaturale. Sotto questo aspetto, lo spirito comprende tanto il corpo quanto l’anima, poiché i l nostro corpo, destinato a diventare spirituale, ha ricevuto in precedenza il germe dello Spirito ed è il tempio dello Spirito Santo (II Cor. I, 22). Se lo spirito indica tutto l’uomo quale lo rifà la grazia, anche la carne indica tutto l’uomo quale lo ha fatto il peccato: l’intelletto diventa carnale quando è sregolato; vi è una sapienza carnale; i Corinzi sono chiamati carnali perché mantengono litigi e discordie; la carne ha i suoi pensieri e le sue volontà, le sue affezioni ed i suoi odi; finalmente i peccati che derivano dall’intelligenza, come l’idolatria, l’invidia, l’inimicizia, i dissensi, sono classificati tra le opere della carne (Col. II, 18). Di più, l’uomo è carnale per il solo fatto che rimane estraneo alle influenze dello Spirito di Dio. La sapienza secondo la carne, che per se stessa sarebbe cosa indifferente, diventa cattiva quando entra in lotta con lo spirito: « Poiché le dispute regnano tra voi, è detto ai Corinzi, non siete voi forse carnali e non camminate forse secondo l’uomo? Quando uno dice: Io sono di Paolo, e l’altro: Io sono di Apollo, non siete forse uomini? ». Se Paolo può rimproverare ai neofiti di essere uomini e di camminare secondo l’uomo, vuol dire che vi è disordine nella nostra natura; vuol dire che l’uomo non è più quale dovrebbe essere secondo i disegni di Dio; vuol dire che, sotto l’aspetto morale, v i sono i n noi due uomini, l’uomo vecchio e l’uomo nuovo. L’uomo vecchio non è Adamo, e l’uomo nuovo non è Gesù Cristo, come vollero sostenere, per ragioni assai deboli, certi esegeti male ispirati, l’uomo vecchio che muore, in principio, nel Battesimo, del quale san Paolo c’invita a spogliarci sempre di più, è l’eredità del nostro primo padre, è questa natura decaduta e corrotta che ci ha trasmessa, è quell’io carnale del quale si parla nell’Epistola ai Romani. l’uomo nuovo, che gli succede, è l’uomo rigenerato, nel quale la grazia soprannaturale conduce a termine l’immagine divina abbozzata dal fiat creatore. “Non mentite tra voi, poiché vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue opere, e vi siete rivestiti dell’uomo nuovo il quale si rinnova in conoscenza (soprannaturale) a immagine di colui che lo ha creato. Deponete l‘uomo vecchio, corrotto dalle concupiscenze ingannatrici, rinnovatevi nella vostra intelligenza (resa) spirituale, e rivestitevi dell’uomo nuovo creato secondo Dio in una vera giustizia e santità (Col. III, 9). – Mentre l’uomo interiore e l’uomo esteriore, dei quali si è parlato prima, sono le due parti che compongono l’uomo, in qualunque ordine di provvidenza si consideri, l’uomo vecchio e l’uomo nuovo sono due stati consecutivi del medesimo uomo, abbandonato prima alle influenze del peccato di cui Adamo è la sorgente, poi a quelle della grazia di cui Gesù Cristo è il dispensatore. L’uomo nuovo coincide dunque, per il significato, con lo spirito, e l’uomo vecchio con la carne.

  1. 3. Ma benché la carne indichi tutto l’uomo, in quanto è decaduto dalla giustizia originale, l’Apostolo mette frequentemente la carne in relazione speciale con la parte materiale del composto umano: « So che nulla di buono abita in me, cioè nella mia carne (Rom. VII, 18) ». Qui la carne è distinta dall’io, come la parte dal tutto; la carne appartiene pure all’io, ma essa ne è soltanto la metà meno nobile, quella che si oppone alla ragione, all’uomo interiore e che san Paolo chiama anche « la legge del peccato che è nelle membra (Rom. VII, 22, 23) ». Non vi è dubbio: la sede del male, il focolare del peccato, è dunque proprio il corpo medesimo; perciò la parte materiale dell’uomo, senza essere cattiva in se stessa, è tuttavia la sorgente del male morale. Come si risolve questo enigma? Anzitutto il peccato, entrato nel mondo con la colpa

di Adamo, invade tutta la posterità di lui, perché noi siamo, col nostro primo padre, una medesima carne; allora ogni carne diventa peccatrice, fatta eccezione per colui che prese « la somiglianza della carne del peccato » ma senza conoscere il peccato, poiché non usciva dalla massa peccatrice secondo le leggi della generazione naturale, e poi perché il peccato è assolutamente incompatibile con la sua persona. Tuttavia bisogna ricorrere ad un’altra considerazione per giustificare il linguaggio dell’Apostolo. È un fatto di esperienza, così vero da diventare persino volgare, che il corpo impedisce gli slanci dell’anima. Paolo lo aveva compreso meglio di qualunque altro quando esclamava: Quis me liberabit de corpore mortis huius? In forza dell’intima unione del composto umano, non vi è forse azione dell’anima che non si ripercuota sul corpo, nè impressione del corpo che non sia risentita nell’anima. Ora gli appetiti dei sensi sono moltissime volte in conflitto col fine della natura superiore che è la vera natura dell’uomo; e per colmo di disgrazia, essi sono essenzialmente ciechi ed egoisti. Così mentre l’uomo trova nella sua ragione un aiuto sicuro, benché insufficiente, contro l’attrattiva del male, da parte dei sensi non trova che ostacoli. Per ristabilire l’equilibrio e per neutralizzare l’attrazione della carne, l’uomo ha bisogno dello spirito, cioè di un aiuto superiore alla sua natura, di un principio soprannaturale. Ecco perché in san Paolo l’«omo carnale, l’uomo psichico, l’uomo naturale, o semplicemente l’uomo, sono locuzioni sinonimo che indicano l’uomo abbandonato a se stesso e alla sua corruzione naturale, senza l’antidoto dello spirito. Così la carne, nel senso morale del quale qui si tratta, è insieme la causa e l’effetto del peccato; e in tutti e due i modi, è la parte materiale del nostro essere quella che stabilisce tale relazione, perché essa è, in certo modo, il veicolo del peccato originale e lo stimolo al

peccato attuale. D a ciò si vede quanto era differente la condizione del primo uomo, e quanto sarebbe anche differente l a condizione dell’umanità nello stato di pura natura. Per un benefizio gratuito del Creatore, la ragione del primo uomo, dominando l’appetito sensibile, faceva regnare l’armonia in tutto il suo essere. Quest’armonia, è vero, non ci sarebbe nello stato di pura natura; ma indipendentemente dal peccato, sarebbe soltanto un’imperfezione fisica e non un disordine morale. Della concupiscenza si deve dire — e a più forte ragione — lo stesso che si dice della morte. Nello stato di pura natura, l’una e l’altra sarebbero una semplice risultante della nostra costituzione organica; nell’ordine attuale invece sono una decadenza, perché ci privano di un bene che noi, secondo i disegni di Dio, dovremmo avere; esse rivestono dunque un carattere morale perché sono frutti del peccato, e, se si tratta della concupiscenza, perché è la radice vivente da cui germoglia il peccato.

  1. 4. Riassumiamo: Per quanto siano svariate le accezioni di carne e di spirito, tutte però dipendono dal significato fondamentale di materia animata e di essere immateriale. Lo spirito e la carne, nel senso morale caratteristico della teologia paolina, comprendono tutto l’uomo sotto diversi aspetti: lo spirito è l’uomo sotto l’influenza dello Spirito Santo; la carne è l’uomo senza lo Spirito Santo.La carne, la parte materiale dell’uomo, non è né cattiva in se stessa né essenzialmente peccatrice, poiché è suscettibile di purificazione, di santificazione e di glorificazione. Tuttavia la carne, così come è attualmente in noi, implica una doppia relazione col peccato: relazione storica col capo colpevole della nostra razza, relazione psicologica con l’atto colpevole al quale è inclinata. La relazione psicologica dipende dagli istinti bassi, egoisti e ciechi della natura sensibile, i quali la mettono in un antagonismo continuo col bene essenziale della natura ragionevole. In tale conflitto, l’intelletto abbandonato a se stesso è infallibilmente vinto e diventa carnale; ma, con l’appoggio dello Spirito, esce vincitore dalla lotta, e tutto l’uomo diventa spirituale.

CONOSCERE SAN PAOLO (28)

LIBRO II

Preistoria della redenzione.

CAPO I

L’umanità senza il Cristo. (2)

II. IL REGNO DEL PECCATO.

1. ORIGINE DEL PECCATO. — 2. ESTENSIONE DEL PECCATO. — 3. L’IMPERO DI sATANA. — 4. GLI SPIRITI ELEMENTARI.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA; S. E. I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. La corruzione del genere umano, luogo comune della teologia ebraica, non poteva non colpire gli stessi pagani. È noto che i primi tre capitoli della Lettera ai Romani svolgono questa tesi: « Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio… Tutti, Ebrei e Greci, sono sotto il (giogo del) peccato ( Rom. III, 23 e 9) ) ». L’Apostolo espone il fatto e non lo dimostra altrimenti che con appellarsi all’esperienza confermata, specialmente per gli Ebrei, dalla testimonianza della Scrittura. Il doppio fine, a cui mira, è di provare che non vi è salvezza fuori del Vangelo (Rom. III, 20), e che gli Ebrei, nonostante le loro incontestabili prerogative, non hanno, in faccia al peccato e alla giustizia soprannaturale, nessun privilegio sopra i Gentili, oggetto del loro disprezzo (Rom. II, 1). Un fenomeno generale deve risalire alla medesima causa, e si poteva pensare che l’Apostolo, descritto lo straripamento del male, ne avrebbe indicata la sorgente comune. Egli invece è trascinato altrove da due idee sussidiarie: gli preme di conchiudere che il Vangelo promette e dà quello che la Legge faceva sperare invano (Rom. III, 21-26); e poi non vuole lasciare il lettore sotto l’impressione che la salute portata dal Vangelo sia in contraddizione con la Legge (Rom. II, 13 e cap. V). Perciò quando viene a parlare dell’origine del peccato, non la mette in rapporto diretto con la corruzione morale di cui ha tracciato il triste quadro, ma si contenta di metterla in linea parallela con l’origine della giustizia che essa per analogia rischiara (ivi, V, 12-21): questo è passare dal più conosciuto al meno conosciuto, è procedere secondo le regole della logica. Infatti nessun Ebreo e nessun proselito poteva ignorare la storia della creazione e della caduta, e non vi è dubbio che questa storia facesse parte delle dottrine elementari insegnate a tutti i catecumeni che venivano dai Gentili. – Ora dal racconto della Genesi risulta chiaramente che la disobbedienza di Adamo attirò sopra l’umanità la morte, l’inimicizia di Dio e un cumulo di miserie delle quali la più umiliante è la ribellione dei sensi. L’uomo, formato di elementi perituri, trovava nell’albero della vita un antidoto contro la sua naturale corruttibilità; ma il peccato, scacciandolo dal paradiso terrestre, fece cadere sopra di lui e sopra la sua discendenza il fatale decreto di morte. Allora invece della familiarità divina e dei premurosi favori di cui era stato ricolmo, si vide cadere addosso maledizioni su maledizioni: infertilità del terreno, dura legge del lavoro, esilio lontano dalla faccia di Dio. Adamo ed Eva, creati nella rettitudine e nell’innocenza, non portavano in se stessi i germi della perversione morale; bisognò che la suggestione al male venisse loro dall’esterno; ma il peccato turbò subito l’armonia delle loro facoltà e tolse loro il dominio sopra le potenze inferiori; col sentimento del pudore nacque in essi la concupiscenza. Senza troppo speculare su questi tre dati scritturali, ogni lettore di buon senso conchiuderà che una penalità comune implica un’offesa comune; che la perdita dell’amicizia divina suppone uno stato anteriore di favore e di grazia; che per attirare sopra tutti i suoi discendenti una sentenza di condanna, Adamo doveva rappresentarli per un titolo che non gli era conferito soltanto dalla sua qualità di primo uomo, e che vi era dunque, nei disegni di Dio, tra Adamo e la sua discendenza, un’unione di solidarietà, assai poco conforme alle nostre idee moderne di individualismo a oltranza, ma perfettamente accessibili al pensiero antico. Perciò il dogma della decadenza originale non poteva creare nessuna difficoltà per i contemporanei di san Paolo poiché ammettevano senza esitare, sopra la fede delle Scritture, che la disobbedienza di Adamo ci procurò la morte, l’inclinazione al male e le tristi condizioni dell’umanità attuale. Le favole puerili, aggiunte più tardi al fondo biblico dai redattori del Talmud, non alterarono l’essenza del dogma. Paolo dunque non mira a dimostrare la caduta originale: egli suppone che sia già conosciuta, come suppone che sia conosciuto il rapporto di solidarietà senza del quale non sarebbe comprensibile la caduta originale; ma egli si serve di due idee per spiegare l’opera del rialzamento. Difatti la reversibilità dei demeriti nella persona di Adamo spiega la reversibilità dei meriti nella persona del Cristo, dato che la prima verità sia affatto incontestabile, e che vi sia tra Adamo e il Cristo una relazione facilmente ammissibile. Ciò posto, l’insegnamento dell’Apostolo si riassume così: Il peccato deriva da Adamo; la morte deriva dal peccato. Il peccato deriva da Adamo. « Per un solo uomo il peccato è entrato nel mondo ( V, 12) ». Quest’uomo è evidentemente il nostro primo padre; il peccato è la potenza del male che Gesù Cristo verrà a distruggere; il mondo significa il genere umano, e l’entrata del peccato non è un’apparizione isolata e passeggera, ma un’invasione trionfale. Il peccato non si propaga soltanto per imitazione, col contagio dell’esempio, ma si trasmette per eredità. « Infatti per la disobbedienza di un solo uomo, tutti nonostante il loro numero sono stati costituiti peccatori ». Non vi è che una sola colpa, e tuttavia vi sono molti condannati, molti colpevoli, molti peccatori: dunque la colpa di uno solo era comune a tutti.

La morte deriva dal peccato. « La morte passò in tutti gli uomini perché tutti avevano peccato ». Non si tratta di peccati personali, ma di un peccato unico comune a tutti. Difatti se l’Apostolo parlasse qui di peccati attuali, assegnerebbe alla morte un’origine differente da quella che le assegnava al cominciare della frase. Egli le assegnerebbe un’origine manifestamente falsa, poiché si sa che tutti gli uomini muoiono ma che non tutti sono colpevoli di peccati attuali. Le assegnerebbe una causa che egli stesso non ammette, poiché soggiunge tosto che « il peccato non viene imputato », come degno di morte, « a difetto di una legge » che pronunzi contro di esso la pena di morte, e che tuttavia « la morte ha regnato anche sopra quelli che non avevano peccato a imitazione della trasgressione di Adamo », in altri termini, « che non erano colpevoli di peccati attuali ». Perciò i migliori commentatori protestanti e razionalisti, quando fanno da esegeti e non da teologi, accettano la nostra spiegazione, per quanto questa possa essere contraria alle loro prevenzioni e ai loro sistemi, perché essa appare come la sola ragionevole e la sola conforme alla manifesta intenzione dell’Apostolo. – La trasmissione del peccato originale ha come corrispondente la diffusione della giustizia del Cristo: non bisogna allontanarsi da questa analogia. Come la privazione della grazia originale è consumata, in diritto e in principio, dalla disobbedienza di Adamo il quale agisce in nome e a danno di tutta la sua posterità, e come essa per diffondersi non aspetta che la nostra entrata reale nella famiglia umana per mezzo della generazione naturale, così il merito guadagnato da Gesù Cristo il quale agisce in nome ed a vantaggio dell’umanità di cui è rappresentante, ci è acquisito, in diritto e in principio, una volta per sempre, e per comunicarsi non aspetta che la nostra unione effettiva al Cristo per mezzo della fede e del battesimo. Se in questa solidarietà del merito e del demerito rimane sempre qualche cosa di misterioso, il mistero è il medesimo da una parte e dall’altra, ma la spiegazione di questo mistero non è di competenza della teologia biblica.

2. Il peccato, entrato nel mondo e stabilitovisi come in una fortezza, vi regna dispoticamente. L’impero del male cresce e si dilata sempre più; la corruzione del cuore guadagna la mente, e la perversione della mente affretta quella dei costumi. Così si spiega, agli occhi di san Paolo, il progresso dell’idolatria e lo straripare del vizio. L’essere divino, percepito attraverso il velo della creazione e in fondo alla coscienza, imponeva all’uomo un triplice dovere: cercare Dio intravveduto dalla ragione, onorarlo dopo di averlo trovato, ringraziarlo dei suoi benefizi per renderselo propizio. Al contrario i pagani, traviati dai loro istinti depravati, disprezzarono la felicità di conoscere Dio, incatenarono la verità per non udirne la voce molesta, prostituirono gli onori divini alle creature più abiette, spinsero il traviamento fino al punto di compiacersi della menzogna e della Così cadde su loro la pena del taglione, terribile e inesorabile. Prima di tutto si oscurò la loro ragione, i loro pensieri divennero vani, essi medesimi diventarono zimbello delle illusioni e dei sofismi, la loro stoltezza divenne tanto più incurabile, quanto più essi facevano pompa di sapienza. L’accecamento della loro mente, unito con l’indurimento del cuore, li abbandonò ben presto alle passioni impure; essi stessi si votarono all’ignominia e si fecero, senza volerlo, gli esecutori delle divine vendette (Rom. I, 18-28). Finalmente come essi avevano abbandonato Dio, così Dio li abbandonò al loro senso riprovato; essi furono « pieni d’iniquità, di malvagità, di cupidigia, di malizia, d’invidia, di omicidio, di dissenso, di astuzia, di furberia; detrattori, maledici, empi, insolenti, superbi, vanitosi, inventori di delitti, ribelli ai loro genitori; senza intelligenza, senza lealtà, senza affezione, senza misericordia (Rom. I, 29-31) ». Questo quadro fu molte volte confrontato con quello che fa l’autore della Sapienza (capp. XIII,- XIV). Se non vi è affatto dipendenza letterale e neppure un’imitazione voluta, è però difficile non vedervi una reminiscenza. L’assurdo del politeismo e la scostumatezza dei pagani dappertutto ripugnavano al senso morale degli Ebrei. Quello che distingue Paolo dai suoi compatrioti, è che nel flagellare con estremo rigore i vizi dei Gentili, simpatizza con la loro persona e stabilisce la loro colpabilità sopra le basi della moralità naturale, invece di fondarla sopra l’ignoranza della Legge, spiega il progresso dell’idolatria e della sfrenatezza con una specie di processo psicologico che serve ad un tempo come castigo e come rimedio e che fa risultare il bene dallo stesso eccesso del male. Qualcuno ha voluto sostenere che Paolo, non mantenendosi fedele alle sue massime, non attribuisse la corruzione generale dell’umanità alla caduta originale, e citano, come prova, queste sue parole: « Anche noi una volta camminavamo tutti nei nostri desideri carnali, facendo la volontà della carne e dei pensieri (cattivi) ed eravamo per natura figli d’ira come gli altri (Ephes. II, 3) ». Ma che cosa significa questa frase! In qualunque maniera si vogliano intendere, le parole « noi eravamo per natura figli di ira come gli altri », abbracciano necessariamente tutti gli uomini senza eccezione. Difatti se « noi » indica gli Ebrei, secondo la spiegazione comune, « gli altri » sono i non Ebrei, ossia tutti i Gentili; e se « noi » indica i Cristiani, come vogliono certi commentatori, « gli altri » saranno i non Cristiani, ossia tutti gli infedeli o Ebrei o Gentili: in tutti e due i casi l’affermazione è universale. D’altra parte, secondo l’analogia biblica, i « figli dell’ira » sono gli uomini meritevoli dell’ira divina, ed esposti ai colpi di quest’ira, vendicatrice. Non si tratta dunque più che di stabilire il significato della parola « naturalmente » o « per natura ». Siccome si chiamano disposizioni naturali quelle che noi portiamo nascendo, sia che le abbiamo per eredità, sia che le abbiamo per qualunque altra causa, sant’Agostino pensava che noi siamo « figli dell’ira per natura » in quel modo che uno è cieco di nascita o moro di razza, perché il peccato, senza appartenere alla costituzione essenziale del nostro essere, è ereditario in noi. Calvino attaccandosi a questa interpretazione, esagera, secondo il suo solito, il pensiero di sant’Agostino e pretende che noi nasciamo col peccato come il serpente nasce col suo veleno. Molti teologi protestanti arrivano a pretendere che il peccato originale sia inerente alla nostra natura. L’Apostolo non dice questo; egli indica ben chiaramente quello che ci rende « figli dell’ira »: è l’obbedire « ai desideri e alla volontà della carne »; è, in altri termini, il commettere il peccato attuale. Quando egli aggiunge che tali siamo « per natura », il senso di questa espressione dev’essere fissato dall’opposizione latente che essa implica; ora la sola opposizione qui suggerita dal contesto è quella della grazia: per la grazia, noi siamo giusti, santi, figli di Dio; per natura siamo peccatori e figli dell’ira, ossia evidentemente per la natura abbandonata a se stessa e senza l’appoggio della grazia. Se dunque il peccato originale qui non è nominato, è però sufficientemente indicato come la sorgente comune delle inclinazioni cattive che infettano la nostra natura.

3. Noi arriviamo così a tracciare la genealogia del male. Il regno del peccato si spiega con l’abuso della libertà umana; il cattivo uso della libertà dipende dalla corruzione della natura, dalla potenza della carne; la corruzione naturale deriva dalla disobbedienza di Adamo; ma bisogna risalire ancora più in alto. Secondo san Paolo come pure secondo san Giovanni, poiché tutti e due si ispirano dal racconto della Genesi e dal Libro della Sapienza, il primo istigatore del peccato fu il diavolo, il serpente infernale che sedusse Eva e, per mezzo di Eva, il nostro primo padre, e che, omicida fin da principio prosegue sempre, senza tregua, la sua opera di morte (Gen. III, 1-4). E diavolo è quello che suscita ostacoli a i predicatori del Vangelo e persecuzioni contro i fedeli; è quello che fomenta l’idolatria, insinua il dubbio nelle intelligenze e mette la ribellione nei cuori. Il suo nome ordinario è satana, ma Paolo lo chiama anche Belial e serpente, nelle Epistole ai Corinzi, diavolo nell’Epistola agli Efesini, nelle Pastorali e negli Atti (Rom. XVI, 20; I Cor. V, 5; etc.) …. Ora lo descrive come un solo personaggio o come un essere collettivo che rappresenta il potere del male; ora lo dissemina in una folla di spiriti cattivi che abitano le sfere superiori, le regioni sopramondane, le tenebre (Ephes. II, 2; VI, 12). È difficile decidere in quale misura l’Apostolo adoperi, senza troppo valutarlo, il linguaggio comune, perché le sue formule generalmente non sono l’oggetto di un’asserzione espressa e si trovano quasi tutte nella teologia ebraica e rabbinica.- Quello che afferma chiaramente, è che il gran nemico si è creato anche lui un regno col fine di distruggere il regno di Dio. Ogni regno si svolge nel tempo e nello spazio, occupa un territorio e riempie un’epoca: il territorio in cui si esercita l’impero di satana è questo mondo; l’epoca che gli è assegnata è il secolo presente. Per gli Ebrei contemporanei degli Apostoli, il mondo presente e il secolo presente erano due locuzioni simili che avevano come corrispondenti un mondo futuro e un secolo futuro, cioè un regno terreno del Messia o un regno celeste di Dio nei suoi santi. Esse assumevano da questo contrasto un senso peggiorativo più o meno marcato, secondo i diversi autori. Non occorre conoscere a fondo il linguaggio di san Paolo per aver osservato che in esso la parola mondo raramente indica il complesso della creazione materiale; molte volte il mondo vuol dire la dimora, il teatro, la condizione attuale dell’uomo; più spesso ancora indica l’umanità presente, debole, cieca, abbandonata alle passioni, lontana dal suo ultimo fine. Dopo il peccato, il mondo è nemico di Dio; la sapienza del mondo si oppone alla sapienza di Dio, lo spirito del mondo allo spirito di Dio, la tristezza del mondo alla tristezza secondo Dio, le cose del mondo alle cose di Dio. Paolo esprime con singolare energia questa irreconciliabile ostilità con dire che egli è crocifisso al mondo e che il mondo è crocifisso per lui. Lo stesso senso peggiorativo lo ha pure qualche volta il secolo presente in forza di un’antitesi espressa o sottintesa col secolo futuro. E secolo futuro è l’era della felicità senza mescolanza di mali e senza fine; il secolo presente, in preda alle miserie, alla morte e al peccato, è perverso nei suoi princìpi e nelle sue tendenze (Gal. I, 4). Di modo che il mondo e il secolo arrivano ad essere quasi sinonimi; tuttavia la distinzione etimologica rimane, e la sinonimia non è assoluta. Il mondo così inteso è il regno di satana; il secolo è la durata assegnata al suo regno. L’Epistola agli Ebrei, san Giovanni e san Paolo esprimono questa dominazione con formule alquanto differenti: san Giovanni chiama satana « il principe di questo mondo (Joan. XII, 31) »; l’Epistola agli Ebrei gli attribuisce « il potere della morte (Ebr. XII, 14) »; san Paolo, rincarando la dose, lo chiama « il dio di questo secolo (II Cor. IV, 4) ». Dopo il trionfo finale, Dio sarà tutto in tutti; ma durante il periodo di lotta che si estende alla parousia, l’impero del mondo è diviso, e il demonio si rivendica la sua parte di sovranità. Egli raccoglie intorno a sé i banditi, i ribelli, ì fuggiaschi; li acceca con i suoi sofismi e li sottrae all’influenza del Vangelo; egli regna interamente su loro: è il loro dio. Siccome la sua dominazione non può stabilirsi né durare se non con l’errore e la menzogna, « i l dio di questo secolo » è un dio delle tenebre: “Rivestite l‘armatura di Dio per poter resistere alle macchinazioni del diavolo; poiché noi non abbiamo da lottare contro la carne e il sangue, ma contro i principati, contro le potestà, contro i dominatori di questo Mondo di tenebre, contro gli spiriti di malizia (che sono) nelle regioni celesti” (Ephes. VI, 11). – Il potere occulto che ci fa guerra, ora è concentrato nella persona del suo capo, ora è diviso tra una moltitudine di esseri nemici, « potenze e principati, prìncipi di questo mondo, spiriti di malizia ». La loro sfera di azione sono il mondo, le tenebre, le regioni sublunari. Se si prendono queste espressioni nel senso letterale, le regioni celesti non possono essere altro che i luoghi vicini al pianeta, conosciuti volgarmente col nome di cielo; e che i demoni vi risiedano, è una necessità portata dalla guerra da loro ingaggiata contro l’umanità. San Paolo ricorda agli Efesini il tempo in cui essi seguivano « il corso di questo mondo, il capo della potenza dell’aria, dello spirito che ora opera nei figli della ribellione (Ephes. II, 11) ». Il senso preciso di quasi tutte queste parole è discusso; tuttavia non si può sfuggire all’impressione che l’aria di cui si tratta, sia proprio l’atmosfera materiale in cui stanno annidati i diavoli per piombare improvvisamente sopra l’uomo e dove « il ruggente si aggira nell’ombra i n cerca di una preda (I Piet. V, 8) ». Questa concezione era allora comune, e non vi è anacronismo nell’attribuirla a san Paolo. – Il peccato che domina il genere umano e che ha la sua sede nella carne, invece di essere una personificazione del male, non sarebbe forse una persona vera, il diavolo stesso? Alcuni Padri lo hanno creduto, e parecchi teologi eterodossi lo sostengono ancora (Simon). Ma questa opinione che non poggia sopra nessuna ragione solida, urta contro gravi difficoltà esegetiche. Tutto quello che si può e che si deve concedere, è che la presenza di un essere personale dietro il principio del male facilita assai la personificazione costante del peccato.

4. San Paolo riconosce forse una classe di spiriti intermedi, né diavoli né Angeli, benché forse destinati a diventare un giorno o diavoli o Angeli, esseri ambigui, più scaltri che cattivi, per lo più ostili all’uomo per bricconeria e per capriccio, esseri che ricordano i fauni, i silvani, le driadi e le ninfe della mitologia greco-latina, i folletti, i silfi delle leggende medioevali, i peri e i djinn delle fiabe arabe, i geni dei venti e delle acque delle religioni animistiche e della superstizione popolare? Ecco una questione affatto moderna che gli antichi commentatori non hanno mai fatta né sospettata. Diciamo subito che in san Paolo non si trova la più piccola traccia di questa nuova concezione. Quando egli scrive ai Galati: « Se noi o un angelo del cielo vi annunziasse un altro Vangelo, sia anatema (Gal., I, 9) », parla degli Angeli buoni, di quelli che vedono la faccia di Dio: egli però non prende sul serio il caso in cui o un Angelo dal cielo o egli stesso venga a distruggere quello che ha costruito: l’ipotesi è irrealizzabile; soltanto essa ripugna di meno alla ragione, che la verità di un altro Vangelo. – Neppure il consiglio che dà ai Corinzi non accenna agli angeli prevaricatori. « La donna deve avere in capo » il velo, simbolo del « potere » maritale, « per causa degli angeli (I Cor. I, 10) ». Gli angeli, senz’altra spiegazione, significano sempre gli Angeli buoni; non bisogna dunque pensare a quegli spiriti celesti, né buoni né cattivi definitivamente, i quali, secondo il Libro di Enoch, s’invaghirono delle figlie degli uomini e peccarono con esse. Questa interpretazione ha l’inconveniente d’introdurre un motivo estraneo al contesto, senza avere il vantaggio di rispondere alle idee ebraiche contemporanee; infatti la caduta degli Angeli era per gli Ebrei un fatto di storia antica, del quale non si vedeva più la ripetizione. Un’interpretazione più semplice e più naturale viene suggerita dalla lettura attenta del passo: « Conoscendo il vincolo di subordinazione che unisce la donna all’uomo sia nell’atto stesso della creazione, sia nel disegno del Creatore, la donna deve portare sul capo il segno della sua dipendenza, per motivo degli Angeli associati da Dio all’atto della creazione e da Lui incaricati di promulgare la Legge e di vigilare perché sia osservata. « Si tratta dunque del rispetto dovuto non tanto agli Angeli che sono testimoni del sacrificio eucaristico, quanto piuttosto agli Angeli preposti al governo del mondo e della Chiesa. – In favore degli spiriti intermedi che non sarebbero né angeli né demoni, s’invoca pure il testo seguente: « Ai perfetti noi predichiamo la sapienza, non la sapienza di questo secolo né dei principi di questo secolo la cui autorità passa, ma predichiamo la sapienza di Dio che ha per oggetto il mistero, la (sapienza) nascosta, che Dio ha predestinata prima dei secoli per la nostra gloria. Questa sapienza non l’ha conosciuta nessuno dei prìncipi di questo secolo, poiché se l’avessero conosciuta non avrebbero crocifisso il Signore della gloria (I Cor. II, 6-8) ». Alcuni Padri hanno creduto che i « prìncipi di questo secolo » sono i demoni; certi commentatori moderni vedono in essi gli spiriti elementari che mettono in azione le forze fisiche della natura. Ma senza parlare di questa idea strana, che i demoni o gli spiriti elementari abbiano crocifisso il Cristo e che non lo avrebbero crocifisso se avessero avuto la vera sapienza, il contesto indica chiaramente che i « prìncipi di questo secolo » indicano esseri umani, quelli che governavano allora il mondo e che ebbero il potere di mandare alla morte Gesù. Infatti in questi due primi capitoli Paolo stabilisce un contrasto tra la sapienza umana, la sapienza secondo la carne, la sapienza di questo mondo, che è propria dei filosofi, dei nobili e dei potenti, e la sapienza divina, rivelata dallo Spirito Santo agli umili, ai deboli e ai piccoli che formano la gran maggioranza della Chiesa: questa sapienza fu ignorata dagli Erodi, dai Caifa e dai Pilati, perché se l’avessero conosciuta non avrebbero crocifisso l’Autore stesso della sapienza. I fedeli dunque non arrossiscano della loro bassezza, della loro ignoranza, del loro nulla secondo il mondo, perché essi posseggono una scienza alla quale non possono arrivare i geni e le potenze di questo mondo. Chi non vede come l’intrusione di demoni o di spiriti elementari turberebbe il corso di un pensiero così limpido? La tesi degli spiriti elementari si ripara qualche volta sotto l’ombra protettrice di un testo oscuro. Dio « spogliando i principati e le potestà, le diede pubblicamente a spettacolo, conducendole in trionfo sopra la croce (Col. II, 15) ». Sappiamo che « i principati e le potestà » comprendono qualche volta gli spiriti infernali; ma qui la cosa è diversa. Difatti non si può credere che l’Apostolo non si riferisca ai « principati e alle potestà » che ha nominato pochi versetti prima. I Colossesi li onoravano con un culto superstizioso per causa della loro dignità intrinseca e perché li sapevano associati alla promulgazione e alla custodia della Legge mosaica. Paolo ricorda loro che Dio inchiodò sopra la croce di Gesù quella Legge decrepita e spogliò del loro potere i mediatori dell’antica alleanza. Non vi è più che un solo Mediatore; il compito degli Angeli è finito, ed essi ora servono all’esaltazione del Crocifisso e ne scortano, per così dire, il carro trionfale. Che essi siano stati infedeli alla loro missione, l’Apostolo non lo insinua affatto; ma comunque, la loro missione è terminata, e i Colossesi hanno torto a non riconoscerlo per inaugurare un culto ingiurioso al Cristo.

CONOSCERE SAN PAOLO (27)

LIBRO II.

Preistoria della redenzione. (1)

CAPO I

L’umanità senza il Cristo.

I. LA PSICOLOGIA PAOLINA.

1. FONDO BIBLICO. — 2. ELEMENTI ELLENICI. — 3. IL COMPOSTO UMANO. — 4. LINGUAGGIO ECCLETTICO.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA; S. E. I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Gli esegeti contemporanei non meritano il rimprovero di aver lasciato nell’ombra la psicologia di san Paolo, e parecchi le hanno dedicato monografie pregevoli; tutti poi le assegnano un posto di onore nell’economia della dottrina paolina. Ma vi è forse, nel senso stretto della parola, una psicologia di san Paolo? Se nessun libro sacro non è un libro scientifico, se gli scrittori ispirati non hanno ricevuto la missione di insegnarci i segreti della storia naturale e gli elementi della metafisica, Paolo, meno di tutti gli altri, avrà tollerato di essere abbassato al livello di quei filosofi ciarloni, di quei venditori ambulanti di sapienza umana, che egli colpiva con i suoi sarcasmi. Egli non ebbe mai l’intenzione di costruire un sistema di psicologia razionale. Egli adopera il vocabolario usuale — poiché bisogna pure che si faccia capire, e non avrebbe certamente la possibilità di istruirci se creasse di sana pianta un lessico nuovo — ma non ha pretese di esclusivismo nella scelta che fa, né di costanza nell’uso delle parole che prende a imprestito: ogni parola per lui è buona, purché traduca bene il suo pensiero del momento. La sua lingua si arricchisce e si modifica con l’età, con i paesi che attraversa, con le diverse società che frequenta: è personale nelle sue idee, ma ecclettico nella forma con cui le esprime, e questa varietà di colori forma uno degli stili, più vivi, più pittoreschi, più saporiti che si possano immaginare. Ma qualunque tentativo di trarne fuori un sistema filosofico coerente è assolutamente vano. Per convincersi che la lingua psicologica dell’Apostolo è in sostanza quella dei Settanta, e che la sua concezione dell’uomo è prima di tutto biblica, basterebbe considerare la parte che egli attribuisce al cuore. Per lui, come per gli autori dell’Antico Testamento, il cuore è il centro di ogni vita sensibile, intellettuale e morale, la sede universale degli affetti e delle passioni, del ricordo e del rimorso, della gioia e della tristezza, delle sante risoluzioni e dei desideri cattivi, il canale di tutti gli effluvi dello Spirito Santo, il santuario della coscienza, nel quale sono scolpite a caratteri indelebili le tavole della legge naturale, dove non penetra nessuno sguardo, eccetto quello di Dio. – La verità lo illumina, l’infedeltà lo acceca, l’impenitenza lo indurisce, l’ipocrisia lo falsa, la felicità lo dilata, l’angoscia lo stringe, la riconoscenza lo fa esultare. Il cuore è la misura dell’uomo; il cuore è l’uomo stesso, ed ecco perché Dio, volendo stimare l’uomo al suo giusto valore, lo considera nel cuore. Siccome il cuore riassume quasi tutta l’attività umana, la parte degli altri organi si trova ridotta in proporzione. Il fegato, sede della collera e dell’invidia, i reni, centro della coscienza, la milza, focolare della tristezza, non sono neppure nominati da san Paolo. – Gli occhi indicano l’intelligenza, e le orecchie l’attenzione, piuttosto per metafora che per metonimia; la figura per la quale i visceri esprimono la tenerezza o la misericordia, non ha quasi più nessun vigore. Però l’Apostolo risuscita un’antica parola, cara a Omero e agli antichi tragici — il diaframma, organo del sentimento e del giudizio — e la fa entrare in una decina di derivati o di composti che sono esclusivamente suoi. Ben più notevole è il compito che attribuisce alla testa. Per gli Ebrei, la testa era soltanto emblema della superiorità e della preminenza. I Greci ne facevano la sede del pensiero, perché in essa collocavano l’anima, monade immateriale, quasi sentinella alle porte dei sensi per scandagliare l’orizzonte e dirigere il cammino, come la vedetta che sta alla coffa della nave o come il pilota al timone. Ma Paolo, imbevuto di idee bibliche riguardo all’unità del composto umano, non poteva assimilare l’anima al motore di Descartes o al conduttore di Platone; perciò egli parla delle funzioni della testa nell’economia vitale, in termini nei quali sembrerebbe di udire l’eco delle dottrine biologiche moderne. Non facciamogli dire, con un esegeta contemporaneo, che il cervello ha il monopolio di tutte le impressioni sensorie per telegrafare poi in tutte le direzioni gli ordini dell’anima; ma si è portati per forza a credere che la relazione del Cristo con la Chiesa, nella sua teoria del corpo mistico, gli abbia dato l’intuizione di quello che è la testa rispetto al composto umano, tanto il suo linguaggio spicca su quello degli altri scrittori sacri. Già altrove abbiamo accennato a questo importante fenomeno così meritevole di attenzione.

2. L’influenza esercitata in lui dalla coltura ellenica non si può negare: essa si manifesta subito dall’introduzione di due termini — la coscienza (συνείδησις = suneidesis) e la ragione (νοῦς= nous) divenuti di uso tanto comune, che si stenta a capire come se ne sia potuto fare a meno. La parola « coscienza » è di origine abbastanza recente: nessuno scrittore del secolo di Pericle la conosceva ancora. Il primo a servirsene fu il comico Menandro, in questa celebre massima: Per ogni mortale, la coscienza è un dio (Framm. 654 – Didot, p. 103) ». Più tardi se ne impadronirono a gara storici e filosofi, dopo di averla spogliata del suo antico significato di testimonio e di complice, per farne, secondo la bella personificazione di Filone, quel giudice incorruttibile che siede in fondo all’anima e che si sforza, con i consigli e le minacce, di richiamare gli imprudenti ed i traviati, di ridurre i superbi e i Non già che l’idea di coscienza sia assente dalla Bibbia; ma le mancava la parola propria (es. Giob. IX, 21; Sam. XVIII, 13). Quello che può fare meraviglia è il fatto che, trovatasi là parola, gli autori del Nuovo Testamento ne lascino a Paolo l’uso quasi esclusivo. San Luca che la mette due volte in bocca all’Apostolo, per conto suo non se ne serve; poi non la troviamo più se non nell’Epistola agli Ebrei e nella prima Epistola di Pietro, che hanno così stretta parentela, per le idee e per il lessico, con lo stile di Paolo. Per san Paolo, la coscienza è un legislatore integro che formola e promulga la legge divina; un testimonio veridico le cui deposizioni non si possono respingere; un giudice imparziale che giudica in ultimo appello. Sicuro del valore di tale testimonianza e di tale sentenza, Paolo si appella alla coscienza sua e degli altri (II Cor. I, 12). Ma la coscienza per lui non è soltanto un tribunale dove si discute e si giudica il passato; è anche una luce interna che avverte l’uomo dei suoi doveri, una guida fedele che gli mostra imperiosamente la sua via. Così l’uomo sale o scende la scala della perfezione morale, nella misura in cui la sua coscienza è buona, pura, senza rimproveri, oppure al contrario è cattiva, macchiata, cauterizzata; il mezzo termine è che sia debole: allora merita indulgenza e riguardi (I Tim. I, 5-19). Non meno felice è l’altra parola che Paolo prende a imprestito dalla lingua profana; infatti siccome il λόγος (= logos) biblico significa la parola e non già la ragione, il νοῦς (= nous), di uso così frequente nella letteratura classica da Omero in poi, non aveva nella Bibbia un equivalente esatto. Il νοῦς (= nous), non è soltanto l’intelletto e la ragione, ma anche la maniera di pensare, l’opinione, il sentimento (Rom. VIII, 22). Essendo ausiliare nato della coscienza, con la quale talora sembra confondersi, è di sua competenza la legge naturale, ma quella soprannaturale è fuori della sua sfera, e i misteri la oltrepassano. Se non è assistito dal πνεῦμα (= pneuma) e da esso rinnovato, sarà vano, corrotto, riprovato; impotente contro la carne, può diventare esso medesimo carnale; e Paolo, sempre originale anche quando prende a ìmprestito, ci presenta strane associazioni di parole, come « lo spirito della ragione » e « la ragione della carne », le quali ci fanno toccare con mano l’impossibilità di spiegarlo col vocabolario classico. San Paolo s’impadronì pure della bella espressione platonica di « uomo interiore (Repubbl. IX, 589 A) », probabilmente senza conoscerne l’origine e dandole come corrispondente l’uomo esteriore; ma questa opposizione è di uso troppo sporadico e di una filosofia troppo elementare per formare il pernio di tutta la psicologia paolina, come pretenderebbero oggi alcuni esegeti. Nel passo dell’Epistola ai Romani, in cui afferma che gusta e approva la Legge di Dio secondo l’uomo interiore (Rom. VII, 22), l’Apostolo identifica chiaramente questo uomo interiore con la ragione, perché aggiunge: « Dunque io sono soggetto, per la ragione, alla Legge di Dio; per la carne, alla legge del peccato ». Il νοῦς (= nous) non si deve confondere col πνεῦμα (= pneuma): il πνεῦμα (= pneuma), entrando in lizza contro la carne, uscirebbe vittorioso dalla lotta, mentre il νοῦς (= nous) è infallibilmente vinto. L’antitesi carne e uomo interiore — oppure carne e ragione che è poi la stessa cosa — è dunque formata qui con elementi disparati, poiché l’uomo interiore indica la natura intellettuale che è l’essenza stessa dell’uomo, e la carne è la natura peccatrice la cui decadenza attuale suppone necessariamente uno stato primitivo di elevazione. Ma quando l’Apostolo augura agli Efesini « di essere fortificati dallo Spirito di Dio secondo l’uomo interiore », e scrive ai Corinzi: « Se il nostro uomo esteriore si. corrompe, il nostro uomo interiore si rinnova di giorno in giorno (Ephes. III, 16) », l’uomo interiore non è soltanto più l’anima o la ragione, ma è la natura intellettuale arricchita dei doni della grazia, l’anima abitata dallo Spirito Santo e in possesso del πνεῦμα (= pneuma). Riassumiamo: L’uomo esteriore dipende dall’ordine fisico; l’uomo interiore appartiene sia all’ordine fisico, sia all’ordine morale e religioso. — L’uomo interiore e l’uomo esteriore esisterebbero nello stato di natura, come esistono nello stato di elevazione soprannaturale; ma mentre la nozione dell’uomo esteriore rimane invariabile in tutti e due i casi, la comprensione dell’uomo interiore è differente. — Perciò l’uomo interiore non è unicamente la parte invisibile e immateriale del composto umano, ma panche quello che la grazia opera in noi. Sotto l’influenza dello Spirito Santo, l’uomo interiore si fortifica e si rinnova; lasciato a se stesso, è impotente contro la, carne e diventa carnale.

3. La carne o il corpo costituisce l’uomo esteriore; l’anima, lo spirito, il cuore, la ragione, la coscienza, sono diversi aspetti o diverse denominazioni dell’uomo interiore. Rigorosamente parlando, il corpo e la carne non sono sinonimi: il corpo è la materia organizzata, viva o morta, degli uomini e degli animali, la carne è il corpo, senza però l’idea di organismo, ma con l’idea, in più, della vita (la carne nutrimento è κρέας = kréas). La carne fa dunque astrazione dall’omogeneità delle parti e suppone invece il principio vitale dal quale fa astrazione il corpo. Fatte poche eccezioni, Paolo annette sempre al corpo l’idea di organismo e di organismo umano (I Cor. XV, 37-40); sappiamo con che felici espressioni egli indichi così la Chiesa, complemento organico del Salvatore e parte integrante del Cristo mistico. Tuttavia la sinonimia tra il corpo e la carne esiste per lui in larga misura. Quando egli si dice « assente di corpo, ma presente di spirito » oppure « assente con la carne, ma presente con lo spirito »; quando vuole che la vergine sia santa « di corpo e di spirito » e che tutti i fedeli evitino le macchie « della carne e dello spirito »; quando augura che « la vita di Gesù apparisca nei nostri corpi » oppure « nella nostra carne mortale »; quando scongiura lo sposo cristiano « ad amare la sua sposa come il suo proprio corpo, poiché nessuno odia la propria carne », è difficile scoprire una differenza di significato tra questi due termini che quasi sempre possono scambiarsi, fatta eccezione per alcune restrizioni imposte dall’uso biblico il quale, per esempio, esige che si faccia menzione della carne invece che del corpo, quando si tratta della circoncisione. Ma quando la carne è messa in relazione con l’anima o lo spirito, acquista, per tale avvicinamento, parecchi nuovi significati assai complessi. – Le parole anima e spirito ebbero in ebraico, come in greco e in latino, una sorte quasi uguale e nella loro evoluzione semantica seguirono una via poco diversa. Dal significato etimologico di « soffio, aria in movimento », vennero a significare a volta a volta il « respiro », indice e condizione della vita, poi la « vita » stessa, poi il « principio vitale », finalmente una « sostanza vivente » distinta dalla materia e superiore a questa. Ma mentre, nell’uso, lo spirito andava sempre più staccandosi dalla materia, l’anima, per un fenomeno inverso, tendeva a identificarsi col principio vitale degli esseri animati. Tuttavia negli scrittori biblici la loro sinonimia generale risulta da questa triplice legge, che si corrispondono frequentissimamente in frasi parallele, che facilmente si scambiano nella stessa frase e che ricevono quasi indifferentemente gli stessi predicati. Se si è creduto di osservare che né la gioia né la paura né la speranza non sono mai attribuite allo spirito, che il desiderio e l’appetito sensibile si attribuiscono sempre all’anima (Haton, Oxford, 1889), questi sono forse fatti accidentali dei quali non bisogna esagerare il valore. Paolo, essendo solito a concentrare nel cuore tutte le manifestazioni della vita e prendendo dal vocabolario classico nuovi termini per indicare le operazioni intellettuali, assai raramente chiama anima o spirito il principio pensante. Secondo il racconto biblico, Dio, soffiando nelle narici dell’uomo un soffio di vita, ne fece « un’anima vivente », ossia un’anima che esercita nella carne e per mezzo della carne le funzioni vitali. Quindi la carne non si concepisce senza l’anima, e l’anima non si definisce senza qualche rapporto con la carne. Quando Paolo ringrazia Epafrodito di aver esposto l’anima sua per amore di lui, quando loda Prisca e Aquila di aver esposto la loro testa per salvare la sua anima, quando assicura ai Tessalonicesi, che avrebbe voluto dare loro non soltanto il Vangelo, ma l’anima sua, come una madre la dà per il suo bambino, è evidente che vuole parlare della vita (Fil. II, 30; Rom. XVI, 4; I Tess. II, 8). Perciò un gran numero di fenomeni psichici sono attribuiti indifferentemente alla carne o all’anima, perché l’anima in quanto è principio vitale, non si distingue adeguatamente dalla carne: « ogni anima » e « ogni carne » sono due espressioni equivalenti. – Sembra pure che Paolo, se non vi è indotto da una ragione di simmetria o dal desiderio di accentuare un contrasto, eviti di chiamare spirito la parte intelligente dell’uomo. Ma quando per eccezione lo spirito indica la sostanza pensante (I Cor. II, 11 etc.), vi è tra esso e l’anima una differenza modale che permette di dire senza tautologia: « Il Dio della pace vi santifichi interamente e tutto il vostro spirito e la vostra anima e il vostro corpo siano conservati immacolati (I Tess. V, 23) ». Il corpo o il substrato materiale, l’anima o la vita sensibile, lo spirito o la vita intellettuale, sono tre aspetti dell’uomo, i quali riassumono tutto il suo essere e tutte le sue attività; non sono tre parti distinte del composto umano. Per cercare in queste parole la tricotomia platonica, bisogna aver dimenticato che l’antropologia dell’Apostolo si poggia notoriamente sopra la concezione scritturale, e che non si potrebbe ammettere senza inverosimiglianza, che egli se ne allontani una sola volta, in una frase incidentale, in favore di un sistema incompatibile con la teologia ebraica. Per l’anima, l’uomo ha delle affinità con le potenze superiori; con la carne contrasta con i puri spiriti: « Il mio spirito, dice il Signore, non resterà sempre nell’uomo perché questi è carne (Gen. VI, 3) ». L’Antico Testamento ci offre numerosi esempi di tale antitesi:

L’Egiziano è uomo e non Dio: i suoi cavalli sono carne e non spirito (Is. XXXI, 3).

O palese o latente, l’antitesi imprime ordinariamente alla carne un’idea accessoria di debolezza, d’impotenza, di miseria e di caducità. Tutto ciò che è transitorio, perituro, terreno, prende il nome di carne; e tutto ciò che vi è di eterno, d’incorruttibile, di celeste, appartiene alla categoria dello spirito (I Cor. IX, 11). In questo significato, la carne è frequentemente sostituita con la carne e il sangue; noi abbiamo da lottare non « contro la carne e il sangue, ma contro gli spiriti cattivi delle regioni superiori (Ephes. VI, 12) ». – A questo ordine di idee si collega una locuzione che è assai difficile  da analizzare. Gli Ebrei dicevano comunemente dei loro parenti: « É mia carne » oppure « mia carne e mie ossa ». Paolo designa nella stessa maniera la comunanza di origine e le relazioni di parentela (Rom. IX, 3). In quatto si potrebbe vedere una semplice opposizione fisica fra la carne trasmessa per generazione e comune ai membri di una stessa famiglia, e l’anima che viene da Dio; così infatti la considera l’Epistola agli Ebrei (Ebr. XII, 9). Ma Paolo unisce troppo strettamente la carne e l’anima perché si possa distinguere il padre dell’anima dal padre della carne. Tra i figli della carne e i figli di Dio. l’Israele secondo la carne e l’Israele di Dio, Ismaele nato secondo la carne e Isacco nato secondo lo spirito, il Cristo figlio di Davide secondo la carne e figlio di Dio secondo lo spirito di santità (Rom. IX, 8; ), l’opposizione è sempre ontologica; essa ha luogo tra sostanze complete, e non tra parti componenti di una medesima sostanza.

4. Si vede quale disparità di elementi, quale varietà di influenze, quale complessità di combinazioni presenta l’antropologia di san Paolo. Si sarebbe tentati di applicare a lui quello che si disse di Filone: « Adopera termini differenti per esprimere fenomeni identici, e termini identici per esprimere fenomeni differenti; egli prende il suo vocabolario ora da una filosofia, ora da un’altra, e per lo più dalla stessa Bibbia ». Ma l’eclettismo dei due scrittori ha motivi affatto opposti: Filone, desideroso di far vedere che non vi è molto di bello e di vero che sia estraneo alla Bibbia, si lascia trascinare dal suo spirito naturalmente indeciso dietro a tutti i sistemi; Paolo invece sta sopra tutti i sistemi e fonde i loro prodotti disparati in un insegnamento più che mai personale, il quale tocca con le sue ramificazioni quasi tutti i punti essenziali della sua teologia. Il suo lessico eterogeneo porta contrasti di parole e urti di idee di un effetto singolare e imprevisto; quello poi che porta al sommo la difficoltà, è l’impiego delle antitesi e l’uso di termini opposti i quali reagiscono l’uno su l’altro; è ancora l’abitudine di passare insensibilmente su le diverse sfumature di significato di una stessa parola, fino a percorrerne tutta la gamma in un medesimo contesto. Ma in fondo la sua concezione del composto umano si ispira costantemente dal racconto biblico. Da questo risulta, tra l’anima e il corpo, un’unione assai intima in forza della quale tutta l’attività dell’uomo si può riferire al cuore, focolare della vita. La celebre definizione: « un’intelligenza servita da organi » non sarebbe stata del gusto di Paolo. Per cogliere il suo pensiero, bisogna lasciare da parte il dualismo di Platone, di Descartes e di Kant [tutti impregnati di uno stesso gnosticismo satanico – ndr.]; se egli paragona di passaggio il nostro corpo a una veste o a una tenda, questa figura isolata non ha conseguenza (II Cor. V, 1-4). Non altrimenti che Filone il quale dipinge l’unità del composto umano con i colori più realistici eppure, all’occasione, rappresenta il corpo come la dimora, il santuario o anche la prigione e la tomba dell’anima; Paolo non divide in due parti l’io unico dell’uomo; se subordina il corpo all’anima, come è giusto, non lo sottrae alla personalità. – L’apparizione del peccato, descritta così conforme ai dati biblici, porta un disordine morale che distrugge l’equilibrio delle nostre facoltà. L’uomo che era carne, sia perché è materia animata, sia perché non è puro spirito, diventa carne per un nuovo titolo, perché in lui abita il peccato: quindi vi è lotta e discordia in tutto il suo essere. Per ristabilire l’armonia rotta, ci vuole l’intervento attivo dello Spirito Santo la cui presenza porta proprietà, funzioni, relazioni, insomma una natura nuova che prende essa stessa il nome di spirito. Ma prima di penetrare i n questo campo speciale, dobbiamo studiare l’origine, l’invasione e la dominazione del peccato.

IL PAPA IN ESILIO ED IL PAPA IMPEDITO

[Secondo Franco: RISPOSTE POPOLARI ALLE OBIEZIONI PIU’ COMUNI CONTRO LA RELIGIONE – Vol. PRIMO, Coll. Artigianelli, Torino, 1889, imprim.]

CAPO XL

1. Se il Papa sia veramente prigioniero.

2. Se le guarentigie valgano a guarentirlo.

Quando scrissi i capi antecedenti il Papa era già spogliato di alcune sue provincie e minacciato delle rimanenti, ma nel mettere che fo sotto il torchio la presente edizione, il latrocinio totale è consumato, ed il sommo Pontefice è privo di ogni podestà regia. Noi dicevamo che, toltagli questa, ei non poteva essere che uno schiavo, ed ora è luogo di osservare se ci siamo apposti al vero o abbiamo ragionato assennatamente. Sappiam bene che gli usurpatori dei suoi Stati, aggiungendo al danno la beffa, ridono della prigionia pontificia, e per isfatarla mostrano il palazzo splendido che gli hanno assegnato, i milioni che come ricco appannaggio gli hanno offerto, le leggi che hanno sancito per guarentigia del suo sacro ministero: e tanto esagerano questa loro liberalità da far credere a certi zoticoni che veramente la prigionia del Papa è una fiaba e persuadere a parecchi Governi (che del resto hanno una voglia matta di essere persuasi) che nulla manca al Capo della Chiesa di quanto può essere necessario all’adempimento del suo alto uffizio. – La verità però è questa: che quanto i Cattolici avevano predetto dover avvenire al sommo Pontefice, se gli fosse stato tolto il temporale dominio, tutto si è avverato al di là delle loro previsioni, e come è sommamente necessario che tutti ne siano convinti, cosi vediamolo brevemente.

  1. È dunque vero o falso che il Papa sia prigioniero? Sì è prigioniero, anzi questa parola non rende abbastanza il concetto per cui è adoperata. Il sommo Pontefice si espresse esattamente quando disse d’essere in balìa di una nemica podestà, sub hostili potestate constitutus. Imperocché meno è l’essere prigioniero che stare nelle mani di un nemico. La pubblica autorità quando ha soddisfatto alla legge condannando un reo alla carcere, non ha e non debbe esercitare con lui ostilità di sorta. Può anzi e deve, salva la pena a cui l’ha condannato la legge, usargli trattamenti, compassione e perfino quegli alleviamenti che un’ordinata carità prescrive e consiglia. Laddove chi sta nelle mani di un nemico non può aspettarsi altro che quello che l’odio e la passione sanno suggerire. Or questo è proprio tutto il caso del sommo Pontefice, voglialo o no la perfidia di quelli che l’hanno accerchiato. E si parrà chiaro solo che si consideri la differenza che passa fra quello che costituisce la libertà di un privato e quella che è richiesta al sommo Pontefice. Un privato non può reputarsi prigioniero quando abbia libertà di muoversi per una città ed anche di viaggiare in paesi stranieri, quando possa usare dei diritti comuni a tutti i cittadini di disporre della propria persona, di giovarsi dei tribunali per far valere i suoi diritti e per cessarsi le molestie ed i soprusi, quando abbia rendite non solo bastevoli ma pure abbondanti: e chi, godendo questi diritti, rimpiangesse la sua perduta libertà, si dichiarasse vittima de’ suoi nemici, moverebbe a riso e si farebbe stimare poco meno che fuor di cervello. Ma è tutt’altro il caso del sommo Pontefice. Quando si tratta di lui non si parla dell’uomo privato, si parla dell’uomo pubblico, si parla del Pontefice supremo in quanto è tale. Ora se è in istato di esercitare tutti i suoi ministeri, è libero veramente: se è inceppato in questi, a tutto rigore di verità egli è schiavo.Quali sono i suoi doveri? Egli è capo della Cristianità e capo che ha tal connessione colle membra che queste disgiunte da lui non hanno più vigore né vita soprannaturale. Quindi deve aver comunicazione libera co’ suoi soggetti ed i suoi soggetti debbono aver comunicazione libera con lui. Ha il Papa presentemente questa libertà di comunicazione? Inchiavellato nel regno d’Italia, le poste, i telegrafi, i vapori che sono i mezzi di comunicazione unici e soli, in mano di chi stanno? Certamente non in mano sua. Se il Governo italiano vuole intercettargli le lettere, sopprimergli i telegrammi, visitare i vapori che portano le sue ambasciate, i suoi ordini, chi gliel divieta efficacemente? Accadeva ben talvolta anche prima che un Governo estero nemico alla Chiesa, arrestasse a’ suoi confini gli ordini di Roma: ma il Pontefice pubblicandoli nel suo Stato, li rendeva noti ed obbligatorii dovechessia: ora che cosa farà? Eppure non abbiamo ancora visto il caso tutt’altro che impossibile ad avvenire, del Governo italiano in rotta ed in guerra con qualche altra nazione. Come farebbero allora questi nemici d’Italia a trattare col sommo Pontefice? Come si recherebbero a Roma, con qual facilità, con qual sicurezza, e di rincontro qual libertà avrebbe il Pontefice in tutti quei provvedimenti che avesse da prendere rispetto a quella nazione? In tutti questi incontri così facili ad avvenire dove andrebbe a parare la libertà del Vicario di Cristo?Inoltre il Papa è giudice supremo della fede e della morale, e questo titolo non importa solo risoluzione delle controversie che si sollevano a quando a quando sopra l’intelligenza d’una o di un’altra verità cristiana: ma importa vigilanza continua sopra la dottrina che s’insegna nei trattati messi a stampa, che si dà nelle scuole e nei seminari chiericali soprattutto, che si dimostra nella professione esterna delle credenze dal popolo cristiano. Si consideri per poco la vastità delle cognizioni d’ogni sorta che a ciò si richiedono, l’estensione del lavoro che vi ha trattandosi di tutta la cristianità divisa in tante lingue e tanti paesi, e si comprenderà quanta sia la necessità di dottori, di consultori, di congregazioni, di ufficiali d’ogni ragione per attendere ad opera così vasta. Il sommo Pontefice al presente possiede la libertà necessaria per formare cotesti uomini, per ispesarli, per giovarsene secondochè richiede l’uffizio suo?Il Pontefice è l’evangelizzatore del mondo. Niuno sarà per negare che al Vicario di Cristo sia detto principalmente Andate ed insegnate a tutte le Genti, poiché a lui spetta il dare la missione legittima agl’inviati. Del mondo sin quì conosciuto tre quarte parti giacciono ancora nell’ombra della morte e quindi aspettano dalla cattedra di Pietro l’avviamento all’eterna salute. Ma donde sceglie per ordinario il sommo Pontefice i suoi pacifici conquistatori? Li toglie dal clero vuoi secolare vuoi regolare, ma da questo secondo principalmente. E la ragione è chiara. Il clero secolare, come quello che nelle città e nei paesi cattolici porta il pondus diei et cestus del ministero quotidiano delle parrocchie, non è cosi libero a volare in paesi lontani. Laddove il clero regolare, sciolto per ordinario dalla cura delle parrocchie, si volge con tutto l’ardore al ministero dell’evangelizzazione dei paesi infedeli. Come i monaci hanno evangelizzato a lor tempo la Bretagna, le Gallie, la Germania, la Danimarca, la Svezia e quasi tutta l’Europa, cosi i religiosi del secolo decimosesto e decimosettimo hanno evangelizzato il Brasile, il Perù, il Messico e pressoché tutta l’America allora abitata. Ma lo stesso avviene ai di nostri. Le Missioni della Cina, delle Indie, dell’Africa, dell’Oceania, fatta qualche rara eccezione, son tutte in mano dei religiosi. Ond’è che il sommo Pontefice dalla sua Roma per mezzo dei superiori tutte le dirigeva ed amministrava. Ma, spenti i religiosi e tolti di mezzo i Capi d’Ordine, non si troverà il sommo Pontefice troncate le braccia per l’opera maggiore che Iddio gli abbia commessa sopra la terra? Già sin d’ora parecchie di queste Missioni se ne risentono grandemente.Dove si richiedevano dieci, venti missionari, non se ne trova più che qualcuno, e non solo non si procede ad acquisti novelli di anime, ma non si possono mantenere i già fatti. Eppure siamo solo ai principii della bufera. Che cosa sarà quando per questo stato di cose più prolungato, siano venute meno le vocazioni, sia stata impedita la formazione dei missionarii? Quale immensa rovina per le anime! quale violenza fatta alla Chiesa di Cristo! Certo a qualche ministro miscredente, a qualche deputato frammassone non turberà i sonni che i barbari rimangano barbari, che gli antropofagi continuino tra di sé a divorarsi, perché si sa quel che vale la loro filantropia. Ma il sommo Pontefice che vede e sente con la carità di Cristo il peso di quella barbarie e soprattutto la perdita di quelle anime, non ha forse ragione di gemere e dichiararsi costituito sotto una autorità ostile, quando si vede spogliato violentemente di tutti que’ mezzi che gli sono assolutamente necessari per riparare tanti mali? Il sommo Pontefice è il Capo del culto che la terra deve rendere al Cielo; culto che non si disfoga solo cogli atti di ossequio che si rendono direttamente alla divinità, quali sono la fede, la retta adorazione, il sacrificio, ma che abbraccia tutte le virtù onde l’uomo si rende meno indegno di Dio, tutte le opere che dall’indole stessa delle credenze fioriscono in quelli che le professano sinceramente. Di quanti ministri avrà dunque bisogno? di quanto magistero di uomini probi e sapienti? di quanto esercizio di opere pie d’ogni maniera? Or tutto ciò gli è reso pressoché impossibile. I Cristiani non nascono Cristiani, dicevano gli antichi, ma si formano tali: molto meno si nasce dottore, teologo, uomo di senno e di pietà: è dunque d’uopo di formarli con la pietà nell’educazione e con la dottrina. Qual mezzo è stato lasciato al sommo Pontefice per sì difficile impresa? Aveva egli due Università, che per le scienze civili stavan al pari di qualunque studio più eletto, per le scienze sacre erano le prime del mondo, vo’ dire la Sapienza, e l’Università Gregoriana sotto il nome di Collegio Romano. Questa gliel hanno sbandata e soppressa, quella gliel hanno ritolta e contaminata. Il Papa non ha più uno Studio, dove far insegnare solennemente la scienza della fede e cristianamente le scienze civili. E tutta quella gioventù che ivi accorreva, che ivi si formava alle scienze dei sacri canoni, della teologia, delle sante Scritture, della polemica, che forniva poi alle Congregazioni, al governo della Chiesa, la copia necessaria di sapienti sacerdoti, consultori e prelati, tutta quella gioventù dove è andata? È scomparsa del tutto. Rimangono alcuni Collegi particolari che, come appartenenti a nazioni estere, se poterono essere molestati, spogliati a mezzo delle rendite, non poterono essere soppressi. Ma qual prò dell’averli se a mano a mano siano privi di quei professori illustri che già vi attraevano tanta gioventù, e se per la confusione delle cose umane e divine che regna in Roma, riesce pericoloso il mandarveli? Ora io non so che cosa possa parerne ad altri, ma a me sembra pur qualche cosa che il Maestro delle nazioni sia condannato a non potere aprire uno Studio secondo la legge cristiana. E pel culto cattolico che cosa può fare? Avrebbe debito di promuoverlo col lustro delle sacre funzioni con la riverenza mantenuta ai sacri ministri, col non tollerar nulla che gli riuscisse di spregio. Si, ma si provi il Papa a bandire una processione, a prescrivere una solennità, a promuovere una mostra esterna di fede senza che se ne impensierisca il Governo, senza che ne impedisca tutto quello che è esteriore: sono poliziotti, sono gendarmi, sono guardie di ogni colore e di ogni nome, che hanno sempre qualche pretesto per infierire contro i fedeli sin nelle chiese, come avvenne al Gesù ed in S. Pietro. La libertà, la protezione, il favore è tutto riserbato per gli eterodossi, pei dileggiatori delle cose sante, per i frammassoni che accompagnano i loro frammassoni alla tomba, per le mascherate che deridono sacrilegamente le persone e le cerimonie di santa Chiesa. All’ombra dell’attuale Governo, le sètte più luride che appestino Europa ed America poterono ergere oltre a dodici sinagoghe nella città del Vicario di Cristo in pochi anni. Son pure fatti che significano qualche cosa.Non parlo delle Opere Pie che sono l’esplicamento naturale della fede di Gesù Cristo, opere che dal Papa debbono essere sopravvegliate, rette, amministrate da lui essenzialmente: perocché è chiaro che il Papa nella Roma di oggidì non può non dico fare un regolamento per un ospedale, dare una norma per un orfanotrofio, divisare un provvedimento per i poveri, ma non può mutare un inserviente scandaloso, od un direttore inetto in qualsiasi amministrazione di carità dalla Chiesa istituita e mantenuta. Or tutte queste prodezze della rivoluzione a taluni paiono la cosa più naturale del mondo, ma chi sa che non abbiano tutto il torto quelli che la reputano una violenza atroce fatta ai diritti di Gesù Cristo e di santa Chiesa?Finalmente, per restringere tutto in poche parole, ecco quali sono le condizioni che la rivoluzione in Italia ha fatte al sommo Pontefice. Il Papa ha stretta obbligazione di attuare tutte le istituzioni che Cristo ha poste nella sua Chiesa, e prima che in qualsivoglia altro luogo, conviene al suo decoro che le venga attuando nella sua diocesi propria. Ora nella stessa sua Roma egli è costretto a vedere coi propri occhi impunemente ed efficacemente manomessa, impedita, proscritta la professione dei consigli evangelici. Egli ha debito di governare tutte le nazioni cristiane indirizzandole al termine dell’eterna salvezza: e proprio nella sua Roma ha da sostenere la sottrazione di tutti i mezzi materiali e morali che sono richiesti ad opera così vasta. Egli ha debito di ammaestrare tutte le genti e soprattutto i pargoli: e deve vedere con i suoi occhi strappato il popolo ed i pargoli al suo insegnamento, perché sia dato in preda a turbe di maestri corrotti e corrompitori di ogni sano principio e di ogni buon costume nella stessa sua Roma. Egli ha obbligo di impedire gli scandali per quanto può privati e pubblici che contaminano i grandi ed i piccoli nelle città e nei regni: ed è costretto a sostenere nella sua Roma gli scandali più infami contro la fede e la morale nei teatri e nelle feste pubbliche. Egli ha obbligo, come Maestro dei Cristiani, di proibire la stampa rea vuoi dei giornali, vuoi dei libri; ed è costretto a vedere nella sua Roma una turba di giornalisti, di romanzieri, di pubblicisti di ogni fatta che impugnano la esistenza di Dio, la divinità di Cristo, e fino le leggi stesse della natura. Egli ha obbligo di mantener in fiore il culto divino, la solennità delle sacre funzioni, la riverenza ai ministri dell’altare, perché non si diminuisca il concetto verso le cose sante: ed ha da vedere nella sua Roma impedite le funzioni esterne della Chiesa, trascinati ai tribunali i suoi sacerdoti e la sua stessa persona travolta nel fango perfino dai deputati del parlamento. Insomma egli è il Vicario di Cristo, Sposo di santa Chiesa, Padre di tutti i credenti, Clavigero del regno dei Cieli, e là dove Cristo lo ha collocato ad esercitare sì eccelsi uffici deve vedere, impotente a rimediarvi, ergersi templi di falso culto, dilacerarsi la Chiesa, strapparsi dal seno delle verità i suoi figliuoli e chiudersi per anime senza numero la via del cielo.Sono vere o sono false tutte queste accuse? Se sono vere, come è manifesto, altro che prigioniero deve dirsi il sommo Pontefice, esso è fra le catene di una tirannia che lo odia, che lo beffeggia, che l’avversa, che lo inceppa in tutto quello che è più essenziale al suo ministero. Hanno pertanto buon garbo davvero quei grandi uomini che si fanno le grasse risa sopra il sommo Pontefice, quando si dichiara posto sotto autorità che gli è nemica: e garbo anche maggiore ha Giulio Simon presidente del ministero di Francia, quando dall’alto della sua presidenza ministeriale definisce ex tripode in servigio della rivoluzione che al Papa nulla manca di quanto gli è necessario al governo di santa Chiesa. Resterebbe solo a chiedergli per isfogo di una giusta curiosità, quale scopo abbia questa sua dichiarazione. E balordaggine che nulla vede? Non si può supporre neppure in un ministro rivoluzionario. E viltà d’animo per attirarsi le simpatie del Governo italiano? La Francia non è ancora caduta si basso da mendicare la protezione dell’Italia. Vuole egli beffarsi dei Cattolici dell’universo? È impresa a cui non si riesce. Vuole sfogare contro la Chiesa la bile frammassonica che lo divora? si scopre troppo da se medesimo. Che cosa sarà adunque? un effetto di tutte queste cause riunite insieme? Lo risolva il lettore. – Io passo ad aggiungere un’altra osservazione, ed è che, stando in questi termini le cose, il Papa, anche quanto alla sua persona, è a tutto rigore di verità prigioniero. E vaglia la verità a che serve il dire al Papa che esca dal suo palazzo, che dispieghi in pubblico la maestà delle sue funzioni, che respiri e goda le aure della libertà introdotta in Roma, quando non solo non è assicurato che gli verrà mantenuta la riverenza dovuta al suo grado, ma è moralmente certo che gli sarà perduto ogni rispetto e sarà fatto segno di ogni insulto più grave? E se il cielo vi salvi, non gli fu promessa dalla rivoluzione l’inviolabilità della persona come a sovrano monarca? Or bene, non è piena Roma delle caricature più luride ed oscene contro la maestà del Pontefice? E quando il Governo ne ha impedito l’esposizione e la vendita? Non sono stati gli atti della sua autorità dichiarati fuori di ogni sindacato? Eppure qual è quel giornalista cosi oscuro che non faccia risalire sino alla persona di lui le critiche più virulente ed amare? Qual è quel deputato cotanto abietto che, svillaneggiando nel parlamento di Roma il Vicario di Gesù Cristo, non ottenga gli applausi dei suoi onorandi colleghi? E quando di tutto ciò o camere, o ministri fecero risentimento? Più, la stessa sua persona non fu esposta a pubblico strazio in mascherate solenni, in orge popolari sotto gli occhi delle milizie che lasciavan fare; della polizia che batteva palma a palma? E dopo tutti questi fatti, avvenuti al cospetto di tutta Europa, trarranno innanzi con le mani piegate e col collo torto i nostri dabben liberali ad esclamare: Oh perché il Papa non si mostra in pubblico, oh perché i Gesuiti ce lo sequestrano? Perché lo rapiscono al nostro amore, alle nostre ovazioni? Ah tristi ed imbecilli, rispondete una parola se l’avete. Un Governo che lo protegge si efficacemente in tutte queste cose si gravi, dà fiducia che lo proteggerà meglio nella sua persona? Lo proteggerà in quelle strade in cui l’ha lasciato calpestare in effigie? In quelle chiese dove ha mandato i suoi soldati a percuotere i fedeli? Su quelle piazze dove ha imprigionato chi lo applaudiva? Che i cattolici siano semplici è bene, poiché cosi l’ha consigliato il Maestro divino, ma che siano stupidi da non comprendere le cose più chiare, niuno l’ha mai consigliato: anzi ci fu comandato di accoppiare alla semplicità la prudenza. Che però non crediamo a costoro che orde di popolani che il Governo ha sedotte per averle complici, a cui ha persuaso lungamente nelle conventicole operaie e nelle congreghe frammassoniche, il Papa essere il gran nemico d’Italia, che non hanno a temere per qualunque loro eccesso repressione di sorta, non crediamo, lo ripeto, che siano per riverirne la persona, riconoscerne la dignità. Noi non lo crediamo e con noi non lo crede il sommo Pontefice, non lo crede il sacro Collegio dei Cardinali, non lo credono quanti sono Cattolici sinceri: e tutti trovano necessario che la più grande autorità che sia al mondo, non si getti tra le mani ad agli insulti degli empi suoi nemici, e non si affidi alla discrezione di tali che stanno dando saggio di si squisita discrezione. Il perché rimane evidente fino a tanto che egli è per tal modo sotto la podestà de’ suoi nemici, è anche prigioniero nella sua persona.

II. Ma vi è la legge delle guarentigie che assicura al sommo Pontefice la libertà. Piano, che non v’è proprio nulla che assicuri nulla. Nei capi antecedenti abbiamo dimostrato che la rivoluzione non poteva, non voleva dare al Vicario di Cristo libertà alcuna: qui soggiungiamo che di fatto non l’ha data, e confermeremo che né può né vuole darla minimamente. Che non l’abbia data è manifesto da quanto abbiamo ragionato testé. Con tutte le guarentigie del mondo, al Papa sono state tolte di fatto tutte le libertà sopradescritte e tutte essenzialissime al suo ministero. Insegnamento ne’ collegi e nelle università, Ordini religiosi, possibilità di formar chierici, sacerdoti, consultori, ministri per le molteplici necessità della Chiesa, Opere Pie d’ogni ragione, tutto gli è stato Alla sua persona fu tolto il palazzo del Quirinale, la sede dei Conclavi, la inviolabilità dalle critiche e dagli oltraggi. In che si risolvono adunque le guarentigie? In nulla.E non potevano risolversi in altro, poiché esse sono in se stesse un assurdo. Infatti, perché fossero qualche cosa, esse dovrebbero essere un’assicurazione fatta al mondo cristiano che il sommo Pontefice mai non verrà spogliato di quei diritti che sono essenziali al suo ufficio. Ora a chi è stata fatta questa assicurazione? al Papa? No, perché gli si diede quello che si volle, senza che egli fosse consultato e con lui non si contrasse verun impegno. È una convenzione fatta con le Potenze cattoliche, con le quali si sia stretto un contratto bilaterale? Neppure. Le Potenze conobbero la legge detta delle guarentigie dai giornali, non la stipularono, si rifiutarono persino a riconoscerla. Hanno qualche consistenza almeno nella natura dell’atto con cui si è stabilita? Tutto il contrario, sono una legge fatta dal parlamento, e sotto di un ministero, che può essere attenuata od abrogata da qual si voglia ministero e parlamento. Chiamare adunque guarentigie, assicurazioni un tal atto, non è che un pigliarsi gabbo dei Cattolici ed al danno aggiunger le beffe. – Come dunque si condusse la rivoluzione a questo atto? Ebbe le sue belle e buone ragioni. Per quanto losca d’ingegno, capì la framassoneria che il mondo cattolico aveva diritto sulla libertà del suo Capo supremo, temé che i Governi potessero prendere le parti dei loro sudditi Cattolici e farne risentimento: quindi pose le mani avanti, finse di riconoscere la necessità del Pontefice libero, tolse anzi sopra di sé il provvedervi, e con la gherminella delle guarentigie l’accoccò a quei balordi che si appagano delle apparenze, e contentò quelli che principalmente volevano confiscato il temporale, perché fosse atterrata l’autorità spirituale. Nel qual tranello però si vede tutta l’iniquità degli usurpatori del temporale dominio del Pontefice. Imperocché se essi stessi riconoscono che il Papa ha diritto alla sua indipendenza, che i popoli cristiani possono insorgere per tutelarli, come è che poi credono di soddisfare a diritti reali con un dono grazioso di semplice cortesia? Eppure le guarentigie sancite per il Papa non sono altro che una cortesia del Governo italiano. Lo hanno detto mille volte i nostri supremi legislatori, quando hanno ventilato quelle magnanime loro concessioni. Lo hanno ripetuto quando hanno affermato che, come il Governo le ha concedute, cosi le può sminuire, abrogare secondo l’opportunità ed il bisogno. Quindi, mentre da una parte concedendole, vengono a riconoscere che il Pontefice ha diritto ad averle, dall’altra pretendendo di menomarle ed abrogarle a talento, vengono a confessare che ai diritti di lui non portano verun rispetto. Or la Cristianità potrà mai tollerare in pace che il suo Capo, il Vicario di Cristo sia trattato cosi indegnamente? Quando il Governo italiano usasse ogni più squisito riguardo al Papa, ancora non sarebbe tollerabile che il Papa gli fosse soggetto: perocché ai fedeli non basta che il loro Padre sia trattato convenientemente per cortesia dell’uno o dell’altro, ha diritto che sia assicurata la libertà di lui da ben altro che dal buon volere d’un ministro o di un principe. Niuno accetta a titolo di grazia quello a cui ha diritto. E se venisse fuori una legge che vi desse facoltà di mangiare, di bevere e vestir panni, voi ridereste della legge e del legislatore, perché a quelle opere avete diritto, senza che vi metta il naso nessun magistrato, dalla stessa legge naturale e divina. Or similmente il mondo cristiano non vuole che il Vicario di Cristo sia libero nelle sue attribuzioni per concessione di Nicotera o di Depretis, ma il vuole in quel modo e per quelle ragioni per cui l’ha fatto libero il divin Redentore. Molto più che, qualunque siasi il Governo italiano e quali che siano i ministri che lo reggono ed i parlamenti che vi fanno le leggi, non saranno poi mai altro che nemici personali del romano Pontefice. Essi medesimi vantandosene hanno detto e più volte replicato che sono tutti rivoluzionari, che è quanto dire vecchi cospiratori, fondiglia di società frammassoniche scomunicate da Santa Chiesa, che hanno pescato in tutte le rivolte degli anni scorsi, come lo dichiarano i loro nomi e le loro gesta. Fatta qualche rara eccezione di pochi illusi che s’imbrancano in quelle file perché non intendono l’obbedienza Cattolica, la grande maggioranza di essi sono uomini senza fede, senza Religione, amici e fautori di ogni culto purché non sia Cattolico, nemici e disapprovatori d’ogni pratica religiosa solo che sia cristiana. Né questo è un calunniarli, poiché i libri che parecchi di loro hanno stampato, ed i discorsi che pubblicamente hanno tenuto, e l’approvazione con cui hanno accolto quelli che li tenevano, lo tolgono di ogni dubbio. Quindi né sono, né possono essere che nemici personali del Vicario di Cristo, quando sono cosi avversi a quella Religione di cui egli è il Capo supremo. Ed a chi ancora ne dubitasse potremmo dire: aprite dunque una volta gli occhi e vedete quel che da venti e più anni a questa parte hanno fatto. Quale delle libertà cattoliche non hanno osteggiata, assalita e inceppata per quanto era in loro? come hanno tolta al Papa la libertà, cosi hanno incagliata l’opera dei Vescovi e dei sacerdoti. Se trovano questi ligi al loro pensare li armano e sostengono contro dei Vescovi, se li trovano contrarli, negano loro fin gli ultimi avanzi delle rendite non ancor confiscate. I Capitoli dei canonici altri totalmente soppressi, altri diminuiti di numero e di entrate. Le doti dei seminari messe all’incanto. Gli atti di culto pubblico attraversati, l’esercito senza cappellani, i preti sotto la leva militare, le scuole senza Catechismo ed obbligatorie, il matrimonio dissacrato, i Cattolici sinceri tolti spesso d’impiego, gli empi posti in onore, le rendite delle Opere Pie parte confiscate, parte stornate dal loro scopo, parte dissipate per impinguare una turba di amministratori, pressoché tutte tolte di mano al clero. Ogni giorno che passa porta a Cristo un nuovo affronto, alla Chiesa una nuova ferita, alla Religione Cattolica un nuovo sfregio, al popolo cristiano un nuovo ostacolo al bene, ed il Governo spesso d’accordo coi municipi che ha formato a sua somiglianza, fa quanto può per distruggere ed annientare il Cattolicismo. Pertanto se questi son fatti innegabili a chiunque abbia mente per intendere, occhi per vedere, riesce manifesto che gli autori di sì gloriose imprese non possono non essere sommamente avversi al romano Pontefice. Ora gli è proprio a questa genia malnata di atei, di deisti, di razionalisti, di empi d’ogni colore e di ogni nome, che tocca a vegliare sul romano Pontefice, a concedergli prima e poi a mantenergli le guarentigie necessarie al suo pastoral ministero! Ah se non si trattasse del più orrido sacrilegio che ricordino gli annali dell’umanità, del più perfido tradimento che mai siasi formato ad intere generazioni che restano spogliate della fede e quindi della vita eterna, sarebbe argomento da destare risa inestinguibili a lutto l’uman genere. Un parlamento come l’italiano a far leggi di guarentigie pel Papa! Ministri come un Cavour, un Rattazzi, un Sella, un Nicotera, un Mancini a custodirle e recarle in atto! Oh præclarum custodem ovium, ut aiunt, lupum! Il perché ornai a me sembra abbastanza chiaro ed evidente che né il Papa è libero, né bastano né basteranno in eterno le guarentigie del Governo italiano a renderlo tale. Dunque che cosa ne seguirà? Ci penserà Iddio, il quale non ha ancora emancipato il mondo, checché altri ne creda, e molto meno ha tolto alla Chiesa il suo amore e con l’amore il suo patrocinio e la sua difesa.

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L’autore di queste vibranti parole, piene di sdegno verso i frammassoni persecutori, e di amore filiale per il Santo Padre prigioniero, aveva immaginato che questo era quanto di peggio potesse capitare al Sommo Pontefice ed alla Cristianità tutta dell’epoca. Ma si sbagliava purtroppo, perché l’attuale situazione è ben peggiore ed ha toccato il fondo di ogni voragine. Il Santo Padre, Gregorio XVIII, eletto il 3 maggio del 1991, successore di Gregorio XVII, è prigioniero ed impedito ancor più di Pio IX costretto all’esilio di Gaeta e poi del Vaticano, e ridicolizzato dalle farsesche leggi delle guarentigie, promulgate da corrotti frammassoni servi di “coloro che odiano Dio, il suo Cristo, i Cristiani e tutta l’umanità”, … ed odiano pure i frammassoni di cui si servono nei loro piani diabolici. Questi scellerati, dal 26 ottodre del 1958, hanno esiliato il Santo Padre, in modo da renderlo invisibile, inesistente agli occhi dei fedeli, e lo hanno sostituito con una serie di “pupazzi” eretici ed a-cattolici che, insediati, usurpandoli truffaldinamente, nei palazzi sacri e nelle chiese Cattoliche, hanno costituito l’anti-chiesa dell’uomo che, dovendo essere ferocemente anticristiana, non poteva fondarsi su un vero Papa divinamente assistito e Vicario di Cristo, perché questi non avrebbe mai ceduto a proclamare eresie, blasfemie, falsità, modifiche sataniche della dottrina rivelata. Essi avevano bisogno di un falso “papa”, di un “papocchio”, un frammassone possibilmente kazaro, prono alle richieste dei suoi mentori e del capo supremo delle logge: lucifero, il cosiddetto “signore dell’universo”, il baphomet delle logge di qualsiasi obbedienza ed abominio degli altari del novus ordo. Quindi a questi “signori”, ai servi dell’antiCristo, occorreva ed occorre ancora, che ci sia il vero Papa, un Papa “oscurato”, impedito in ogni sua manifestazione, controllato in ogni sua mossa, ventiquattro ore al giorno, da apparenti “protettori”, ma ben vivo e vegeto, possibilmente in buona salute, perché paradossalmente costituisce il garante dei “papocchi” a-cattolici-kazari che occupano la Sede Apostolica che, in tal modo, sicuramente non sono Papi, né formali, né materiali ( “… Roma perderà le fede e sarà la sede dell’anti-Cristo” … apparizione di La Salette! – “L’Apostasia nella Chiesa comincerà dal suo vertice” … apparizione di Fatima). Ovviamente è pure indispensabile una Gerarchia minima, anch’essa impedita, controllata e dispersa, ma viva e vegeta, permessa per poter evidentemente organizzare un nuovo conclave che “garantisca” l’elezione di un nuovo vero Papa, a sua volta garanzia del falso “papocchio”, burattino dell’anti-Cristo. È  esattamente quello che San Paolo profetizza nella II Epistola ai Tessalonicesi, quando dice che il “katachon” sarà messo da parte (… non ucciso o eliminato, ma « messo da parte », perché possa apparire l’anti-Cristo, … che precisione di termini! … ἒως ἐκ μέσου γένηται = de medio fiat). Padre Secondo Franco, l’autore del discorso riportato, non immaginava certamente che la situazione pontificia romana che lo infiammava di tanto ardore apostolico, fosse solo una fase transitoria nella realizzazione dei piani satanici della setta infernale. Oggi ne vediamo la piena realizzazione ma … non è finita, ne vedremo ancora delle belle, Gesù ce l’ha promesso e San Paolo lo ha profeticamente confermato nella lettera citata, così come S. Giovanni nell’Apocalisse.

Et IPSA conteret caput tuum!