QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
[Discorsi di San G. B.M. VIANNEY curato d’Ars – Vol. II.; IV. Ediz. Totino-Roma, Ed. Marietti 1933]
Prolapsi sunt: rursum crucifigentes sibimetipsis Filium Dei.
Coloro che peccano crocifiggono in se stessi nuovamente il Figlio di Dio.
(S. Paolo: agli Ebrei, VI, 6.)
Possiamo, F . M., concepire un delitto più orribile di quello che commisero i Giudei, quando fecero morire il Figlio di Dio, che essi aspettavano da quattro mila anni, Lui che era stato l’ammirazione dei profeti, la speranza dei patriarchi, la consolazione dei giusti, la gioia del cielo, il tesoro della terra, la felicità dell’universo? Alcuni giorni prima, l’avevano ricevuto in trionfo nella sua entrata in Gerusalemme, manifestando così chiaramente che lo riconoscevano pel Salvatore del mondo. Ditemi, F. M., è possibile, che ciò nonostante lo vogliano far morire dopo averlo satollato d’ogni sorta d’oltraggi? Qual male aveva dunque loro fatto il divin Salvatore? O piuttosto qual bene non faceva loro, liberandoli dalla tirannia del demonio, riconciliandoli col Padre suo, aprendo la porta del cielo, che il peccato di Adamo aveva loro chiusa? Ahimè! di che non è capace l’uomo che si lascia accecare dalle sue passioni! Pilato lascia loro la scelta di aver libero Gesù o Barabba, un famoso assassino. Essi liberano il ladro carico di delitti: e Gesù, la stessa innocenza, anzi il loro Redentore, vogliono che sia fatto morire! Mio Dio qual preferenza indegna! Ciò vi sorprende, F. M., ed avete ragione: eppure vi dirò che noi facciamo questa preferenza ogni volta che pecchiamo. E per meglio farvelo sentire, vi mostrerò quanto è grande l’oltraggio che facciamo a Gesù Cristo, preferendo la via delle nostre passioni alla via di Dio. – Sì, F. M., la malizia degli uomini ha fatto trovar loro dei mezzi per rinnovare i patimenti e la morte di Gesù Cristo, non solo allo stesso modo crudele adoperato dai Giudei, ma altresì in un modo sacrilego e orrendo. Gesù Cristo sulla terra non aveva che una vita, ed un Calvario, sul quale venir crocifisso: ma dopo la sua morte, l’uomo coi suoi peccati gli fa trovar tante croci quanti sono i cuori sulla terra. Per meglio convincercene, esaminiamo la cosa più davvicino. Che cosa scopriamo nella passione di Gesù Cristo? Non è un Dio tradito, abbandonato persino dai suoi discepoli: un Dio messo a confronto con un infame assassino: un Dio esposto al furore dell’empietà, e trattato come un re da burla? Infine, non è un Dio posto su di una croce? Tutto ciò, ne converrete, era ben umiliante e crudele nella morte di Gesù Cristo. Eppure, F. M., non esito a dire che quanto avviene ogni giorno fra i Cristiani è assai più doloroso per Gesù Cristo di quanto gli fecero soffrire i Giudei.
1° So bene che Gesù Cristo fu tradito ed abbandonato dai suoi Apostoli: forse fu questa la ferita più dolorosa pel suo Cuore così buono. Ma affermo altresì che per la malizia dell’uomo e del demonio viene rinnovata ogni giorno questa ferita così dolorosa da un numero in finito di cattivi Cristiani. Se Gesù Cristo, F. M., ci ha lasciato nella santa Messa il ricordo ed i meriti della sua Passione, ha pur permesso che vi fossero ancora uomini e Cristiani che portano il carattere di suoi discepoli, e tuttavia lo tradiscono e l’abbandonano quando se ne presenta l’occasione. Non si fanno scrupolo alcuno di rinunciare al Battesimo e di rinnegare la loro fede: e ciò pel timore di essere derisi o sprezzati da qualche libertino o da qualche miserabile ignorante. Di questo numero sono tre quarti degli uomini d’oggigiorno, che non osano mostrare coi loro atti d’essere Cristiani. Ora noi l’abbandoniamo il nostro Dio ogni volta che tralasciamo di pregare al mattino od alla sera, e manchiamo alla santa Messa, ai Vespri, e alle altre funzioni della Chiesa. Abbiam abbandonato il buon Dio da quando non frequentiamo più i Sacramenti. Ah! Signore, dove sono coloro che vi sono fedeli, e vi seguono sino al Calvario? … Gesù Cristo, durante la sua passione, prevedeva già che ben pochi Cristiani lo seguirebbero dappertutto, non lasciandosi separare da lui né dai tormenti, né dalla morte. Fra tutti i suoi discepoli, allora vi fu solo la sua santa Madre e S. Giovanni che ebbero abbastanza coraggio d’accompagnarlo sino al Calvario. Finché nostro Signore colmò di benefizi i suoi discepoli, essi furono sempre pronti a soffrire. Così erano S. Pietro, S. Tommaso: ma giunto il momento della prova, tutti l’abbandonarono. Immagine evidente di tanti Cristiani che fanno a Dio le più belle promesse, ma alla minima prova lo lasciano e l’abbandonano: non vogliono riconoscere né Dio né la sua provvidenza: una piccola calunnia, un piccolo torto ricevuto, una malattia un po’ lunga, il timore di perdere l’amicizia di alcuno dal quale ricevettero o sperano di ricevere qualche favore, fa loro considerare la Religione come un nulla: la mettono da parte, e giungono persino a scagliarsi contro chi la pratica. Pigliano tutto in mala parte, maledicono coloro che stimano causa dei loro malanni. Ahimè! mio Dio, quanti disertori! quanto pochi Cristiani vi seguono, come la santa Vergine, sino al Calvario! … Ma, mi direte, come possiamo noi conoscere se seguiamo Gesù Cristo? — F. M., niente di più facile a sapersi: quando osservate fedelmente i suoi comandamenti. Ci è ordinato di pregar Dio mattino e sera con grande rispetto: ebbene lo fate voi in ginocchio prima di mettervi al lavoro, coll’intenzione di piacere a Dio e salvar l’anima vostra? ovvero, al contrario, lo fate per abitudine, per usanza, senza pensar a Dio, senza curarvi che siete in pericolo di perdervi, e quindi avete bisogno delle grazie del Signore per non dannarvi? I comandamenti di Dio vi proibiscono di lavorare in giorno di domenica. Ebbene! vedete se vi siete fedeli, se avete passato santamente questo giorno nella preghiera, oppure confessando i vostri peccati, per timore che la morte vi sorprenda in tale stato da farvi cadere nell’inferno. Esaminate il modo col quale assistete alla santa Messa, per vedere se siete ben penetrati della grandezza di questa azione, se avete veramente pensato che era Gesù Cristo stesso, come uomo e come Dio, presente sull’altare. Vi siete venuti colle disposizioni che aveva la Ss. Vergine sul Calvario, giacché è lo stesso Dio, ed il medesimo sacrificio? Avete detto a Dio quanto eravate pentiti di averlo offeso, e che avreste preferito, coll’aiuto della sua grazia, di morire, anziché di peccare ancora? Avete fatto tutto il possibile per rendervi degni dei favori che Dio voleva accordarvi? Gli avete domandato che vi facesse la grazia di ben approfittare delle istruzioni che avete avuto la buona fortuna di udire, e che hanno solo il fine di istruirvi sui doveri verso di Lui e verso il prossimo? I comandamenti di Dio vi proibiscono di bestemmiare: vedete quali parole escono dalla vostra bocca, consacrata a Dio pel santo Battesimo: esaminate se pronunciate invano il santo nome di Dio, se avete l’abitudine di dire parole cattive? Dio vi ordina con un comandamento di amare il padre o la madre… Dite di essere figli della Chiesa …; vedete se osservate quanto vi comanda (citarne i precetti). Sì, F. M., se siamo fedeli a Dio come la santa Vergine, non temeremo né il mondo né il demonio: saremo pronti a sacrificare tutto anche la vita. Ecco un esempio. – La storia racconta che dopo la morte di S. Sisto tutte le ricchezze della Chiesa furono affidate a san Lorenzo. L’imperatore Valeriano fece venire il santo alla sua presenza, egli ordinò di consegnargli tutti quei tesori. S. Lorenzo, senza scomporsi, domandò una dilazione di tre giorni. Frattanto, raccolse quanti poté ciechi, storpi, ed altri poveri ed ammalati, colpiti da infermità o coperti di ulceri. Passati i tre giorni, S. Lorenzo li mostrò all’imperatore dicendogli che quello era il tesoro della Chiesa. Valeriano, sorpreso e irritato dalla presenza di quella folla, che sembrava riunire tutte le miserie della terra, s’infuriò, e voltandosi ai soldati ordinò di caricar intanto S. Lorenzo di catene di ferro, riservandosi poi il piacere di farlo morire di morte lenta e crudele. Infatti lo fece battere con verghe, gli fece lacerar la pelle e subire tormenti d’ogni sorta: il santo si burlava di queste torture, sicché Valeriano, fuori di sé, fece stendere Lorenzo su d’un letto di ferro sotto il quale fu acceso un piccolo fuoco di carboni, per farlo arrostire adagio adagio, e render la sua morte più crudele e più lenta. Quando il fuoco ebbe consumato una parte del suo corpo, S. Lorenzo, sempre ridendosi dei supplizi, si volse all’imperatore, col viso ilare e tutto splendente: “Non vedi, dissegli, che la mia carne è abbastanza arrostita da un lato? voltala adunque dall’altro, onde sia ugualmente gloriosa in cielo. „ D’ordine del tiranno, i carnefici voltarono il martire. Dopo un po’, S. Lorenzo s’indirizzò all’imperatore. “La mia carne è ora ben arrostita; puoi mangiarne. „ Non riconoscete, F. M., a questi segni un Cristiano che, imitando la Ss. Vergine e S. Giovanni, seppe seguire il suo Dio sino al Calvario? Ahimè! che sarà di noi, quando Dio ci metterà in faccia a questi Santi, che preferirono di tutto soffrire anziché rinnegare la loro religione e la loro coscienza?
2° Noi non ci contentammo di abbandonare Gesù Cristo, come gli Apostoli che, dopo essere stati ricolmati di benefizi, fuggirono quando Egli aveva maggior bisogno di consolazione; ahimè, quanto grande è il numero di coloro che preferiscono Barabba, cioè preferiscono seguire il mondo e le passioni, anziché Gesù Cristo carico della sua croce! Quante volte lo ricevemmo come in trionfo nella santa Comunione, e poco dopo, sedotti dalle passioni, abbiamo preferito a questo Re di gloria, ora il piacere di un momento, ora un vile interesse, cui andiamo dietro nonostante i rimorsi della coscienza! Quante volte, F. M., non ci siamo divisi tra la coscienza e le passioni, ed in questa lotta abbiamo soffocato la voce di Dio per non ascoltar che quella delle nostre cattive inclinazioni! Se ne dubitate, ascoltatemi un istante, e lo capirete assai chiaramente. La coscienza, che è il nostro giudice, quando facciamo qualche cosa contro la legge di Dio, ci dice internamente: “Cosa fai? … ecco il tuo piacere da una parte, ed il tuo Dio dall’altra: non puoi piacere a tutt’e due insieme: per chi vuoi dichiararti?… Rinuncia o al tuo Dio o al tuo piacere.„ Ahimè! quante volte facciamo come i Giudei: diamo la preferenza a Barabba, cioè alle passioni! Quante volte abbiam detto: “Voglio il mio piacere ! „ La coscienza ci ha risposto: “Ma del tuo Dio, che cosa sarà? „ — “Ne sia pur quel che gli garberà, rispondono le passioni; io voglio soddisfarmi. „ — “ Sai bene, ci dice la coscienza coi rimorsi che ci fa sentire, che gustando quel piacere proibito, fai morire una seconda volta il tuo Dio! „ — Che m’importa, risponde la passione, se il mio Dio vien crocifisso, purché io mi accontenti?„ — 8 Ma che male t’ha fatto il tuo Dio, e qual ragione hai d’abbandonarlo? Sai bene che ogni volta lo hai disprezzato, te ne sei pentito: e elle seguendo le cattive inclinazioni perdi l’anima tua, il cielo ed il tuo Dio!„ — Ma la passione, che arde dal desiderio di soddisfarsi: “ Il mio piacere, ecco la mia ragione: Dio è nemico del mio piacere; sia crocifisso! „ — “Preferirai tu il piacere d’un istante al tuo mDio? „ — “ Sì, esclama la passione, avvenga che può dell’anima mia e del mio Dio, purché io goda. „ Ecco intanto, F. M., ciò che facciamo ogni qual volta pecchiamo. E vero che non ce ne rendiam sempre conto così chiaramente: ma sappiam benissimo che ci è impossibile desiderare e commettere il peccato, senza perder Dio, il cielo e l’anima. Non è vero che ogni volta che siamo sul punto di peccare, udiamo una voce interna la quale ci grida di fermarci; altrimenti ci perdiamo, e facciam morire il nostro Dio? Ah! possiam ben dirlo, F. M., la Passione che i Giudei fecero soffrire a Gesù Cristo era quasi un nulla in confronto di quella che i Cristiani gli fan patire cogli oltraggi del peccato mortale. I Giudei preferirono a Gesù Cristo un assassino che aveva commesso parecchi omicidi: e cosa fa il Cristiano peccatore? Non preferisce un uomo al suo Dio, anzi, diciamolo gemendo, un miserabile pensiero d’orgoglio, di odio, di vendetta o d’impurità; un atto di golosità, un bicchier di vino, un miserabile guadagno di appena cinque lire; uno sguardo osceno, od una azione infame: ecco che cosa preferisce al Dio tutto santità! Ah! disgraziati, che facciamo noi? Quale sarà il nostro orrore quando Gesù Cristo ci mostrerà ciò che gli abbiam preferito!… Ah! F. M., possiamo spinger tant’oltre il nostro furore contro un Dio che ci ha tanto amati?… Non meravigliamoci se i Santi che conoscevano la grandezza del peccato, anziché commetterlo, preferirono soffrire quanto può inventare il furore dei tiranni. Ne vediamo un mirabile esempio in santa Margherita. Il padre suo, sacerdote idolatra e di gran reputazione, sapendola cristiana e non potendo farle rinunciare la sua religione, la maltrattò nel modo più indegno, poi la scacciò di casa. Margherita non si scosse e nonostante la nobiltà sua, andò a condurre vita umile e oscura presso la sua nutrice, che sin dai suoi primi anni le aveva ispirato le virtù cristiane. Un prefetto del pretorio, di nome Olibrio, colpito dalla sua bellezza, se la fece condurre innanzi per farle rinnegare la fede e sposarla. Alle prime domande del prefetto, gli rispose che era cristiana, e che intendeva restare per sempre sposa di Gesù Cristo. Olibrio, irritato dalla risposta della santa, comandò ai carnefici di spogliarla delle vesti e stenderla sul cavalletto. Ivi la fece battere a colpi di verga con tanta crudeltà che il sangue scorreva da tutte le membra. In mezzo a questi tormenti, le si diceva di sacrificare agli dèi dell’impero, affine di non perder la bellezza e la vita con la sua ostinazione. Ma tra i supplizi ella gridava: “No, no, giammai lascerò il mio Dio per un bene perituro ed un piacere vergognoso! Gesù Cristo, mio sposo ha cura di me e non mi abbandonerà. „ Il giudice vedendone il coraggio, che chiamava ostinazione, la fece percuotere sì crudelmente che, barbaro com’era, fu obbligato a distogliere da essa gli sguardi. Temendo soccombesse, la fece condurre in prigione. Il demonio apparve alla vergine sotto forma di orribile dragone, pronto ad ingoiarla. Ma avendo ella fatto il segno della croce, il dragone morì ai suoi piedi. Dopo questo terribile combattimento, vide una croce splendente come un globo di luce, ed intorno ad essa una colomba d’una bianchezza meravigliosa si aggirava. Si sentì tutta confortata. Poco dopo, il giudice iniquo, vedendo che nulla poteva su di essa, malgrado le torture che atterrivano gli stessi carnefici, le fece alfine tagliar il capo. Ebbene, F. M., facciamo anche noi come S. Margherita, noi che preferiamo un vile interesse a Gesù Cristo? noi che anziché dispiacere al mondo preferiamo trasgredire i comandamenti di Dio e della Chiesa? noi che per piacere ad un amico empio, mangiamo carne nei giorni proibiti? che per render un servigio al vicino, non ci facciamo scrupolo di lavorare o di favorire le nostre bestie nel santo giorno di domenica? che infine, passiamo una parte di questo giorno ed anche il tempo delle funzioni sacre al giuoco ed all’osteria, anziché disgustare qualche miserabile amico? Ahimè! F. M., i Cristiani disposti a fare come S. Margherita, a tutto sacrificare, i loro beni e la vita, piuttosto che dispiacere a Gesù Cristo, sono così rari come gli eletti, cioè così rari come coloro che andranno in cielo. Mio Dio, quanto il mondo è cambiato!
3° Gesù Cristo fu esposto agli insulti dell’empietà, e trattato come un re da burla da una turba di falsi adoratori. Vedete quel Dio, che il cielo e la terra non possono contenere, e che volendolo, con un solo muover di ciglia potrebbe annientare il mondo: gli si getta sulle spalle un vil manto di porpora, gli si mette una canna in mano, ed una corona di spine sul capo; lo si abbandona ad una coorte di insolenti soldati. Ahimè! in quale stato è ridotto Colui che gli Angeli adorano tremando! Piegano il ginocchio davanti a lui per rendere la derisione più amara: prendono la canna che tiene in mano, e gli percuotono il capo sanguinolento. Oh! quale spettacolo! quale empietà!… Ma la carità di Gesù Cristo è così grande, che malgrado tanti oltraggi e senza alcun lamento, muore volontariamente per salvarci tutti. Eppure, F. M., questo spettacolo, che non possiamo considerare senza fremere, si riproduce ogni giorno nella condotta di gran numero di Cristiani. Consideriamo il contegno che questi sventurati tengono durante le sacre funzioni, alla presenza d’un Dio che si è annientato per noi, che sta sui nostri altari e nei nostri tabernacoli solo per colmarci d’ogni sorta di beni: quali adorazioni gli rendono! Ditemi, Gesù Cristo non è forse trattato più crudelmente dai Cristiani che dai Giudei, i quali non avevano come noi la fortuna di conoscerlo? Vedete quei sensuali: appena piegano un ginocchio negli istanti più solenni del mistero: fate osservazione a quei sorrisi, a quelle parole, a quegli sguardi gettati in ogni parte della chiesa, a quei segni che si fanno quei piccoli empi ed ignoranti: e questo è solo l’esterno: se potessimo penetrare sino al fondo del cuore, ahimè, quanti pensieri di odio, di vendetta, d’orgoglio! Oserei dire, quanti pensieri impuri divorano e corrompono quei cuori! Quei poveri Cristiani non hanno spesso né libri né rosario durante la santa Messa, e non sanno in che occuparsi durante le sacre funzioni. Quindi ascoltateli mormorare e lamentarsi di esser tenuti troppo a lungo alla santa presenza di Dio. O Signore! quale oltraggio e quale insulto vi si fa nel momento stesso in cui aprite con tanta bontà ed amore le viscere della vostra misericordia!… Non mi meraviglio, F. M., che i Giudei abbiano colmato Gesù Cristo di obbrobrio, l’abbian considerato come un delinquente, anzi abbian creduto di fare un’opera buona; perché “se l’avessero conosciuto, ci dice S. Paolo, non avrebbero mai fatto morire il Re della gloria. „ (I Cor. II, 8). – Ma i Cristiani i quali sanno benissimo che Gesù Cristo in persona è presente sugli altari; e quanto il loro poco rispetto l’offenda, e la loro empietà lo oltraggi! … O mio Dio! i Cristiani, se non avessero perduto la fede, potrebbero entrare nei nostri templi senza tremare e senza piangere amaramente i loro peccati? Quanti vi sputano in faccia colla loro troppa cura d’abbellire il lor volto; vi incoronano di spine col loro orgoglio; vi fanno sentire i crudi colpi della flagellazione colle loro azioni impure che ne profanano il corpo e l’anima; vi danno, ahimè, la morte coi loro sacrilegi; vi tengon confitto in croce, restando nel peccato!… O mio Dio! Quanti giudei trovate tra i Cristiani! . ..
4° Non possiamo pensare senza fremere a quanto avvenne ai piedi della croce: là il Padre eterno aspettava il suo Figlio adorabile per scaricare su di lui tutti i colpi della sua giustizia. Possiamo dire del pari che ai piedi degli altari Gesù Cristo riceve gli oltraggi più sanguinosi. Ahimè! quanto disprezzo per la sua santa presenza! quante confessioni mal fatte! quante messe ascoltate male! quante comunioni sacrileghe! Ah! F. M., non potrei dire con S. Bernardo: “Che pensate del vostro Dio, quale idea ne avete? Disgraziato: se aveste l’idea che dovete averne, verreste voi sino a’ suoi piedi ad insultarlo? „ È un insultar Gesù Cristo il venir nelle chiese davanti agli altari con lo spirito distratto e tutto occupato degli affari del mondo: è insultar la maestà di Dio lo stare alla sua presenza con meno modestia che in una casa dei grandi del mondo. Lo oltraggiano, quelle donne e quelle giovani mondane, che sembrano non venir ai piedi degli altari se non per sfoggiare la loro vanità, attirare gli sguardi, e rubare la gloria e l’adorazione dovute a Dio solo. Dio è paziente, F. M., m a verrà l’ora sua… Lasciate che venga l’eternità! … Se altre volte Dio si lamentava che il suo popolo gli era infedele e profanava il suo santo nome, quali rimproveri non dovrebbe farci ora, che non contenti di oltraggiare il suo santo nome con bestemmie da far fremere l’inferno, si profana il Corpo adorabile del suo Figlio, ed il Sangue suo prezioso! O mio Dio, a che siete ridotto! … Prima non avevate che un solo calvario: ora ne avete tanti, quanti sono i cattivi Cristiani!. .. Da tutto ciò, F. M., che cosa concluderemo, se non che siamo ben disgraziati a far tanto soffrire il nostro Salvatore che tanto ci ha amato? No, non facciamo più morire Gesù Cristo coi nostri peccati, lasciamolo vivere in noi, e viviamo noi stessi della sua grazia. Così avremo la sorte di tutti coloro che hanno evitato il peccato e fatto il bene, col solo fine di piacergli.
(*) Il testo originale è nel I volume di: SERMONS du Vénérable Serviteur de Dieu J.-B.-M. VIANNEY CURÉ D’ARS – PARIS LIBRAIRIE VICTOR LECOFFRE, 90 RUE BONAPARTE. ——- LYON LIBRAIRIE CHRÉTIENNE (Ancienne Maison BAUCHU) ED. RUBAN, PLACE BELLECOUR, 6 –
APPROBATION.
Archevêche De LYON – Lyon, 20 août 1882.
† L. M. Card. CAVEROT, Archevêque de Lyon.
L’opera è pubblicata in rete da: Bibliothèque Sain Libère – htpp: www. liberius.net –
La traduzione italiana è redazionale, ma confrontata con la versione italiana di Giuseppe D’Isengard F. d. M. in “I SERMONI DEL B° GIOVANNI B. M. VIANNEY, Curato d’Ars”. Libreria del Sacro Cuore – Rimpetto ai Ss. Martiri -, Torino, 1907 (Tip. Salesiana, via Cottolengo, 32).
Nihil obstat,
Torino, 5 aprile 1908 Teol. Coll. Giacomo Sacchieri, prete della Missione, Revisore delegato.
Imprimatur
Torino, 8 Aprile 1908, Can. Ezio Gastaldi-Santi Provic. Gen.
[N.B.: Si diffidano i fedeli “veri” Cattolici dal consultare altre versioni di a-cattolici modernisti, in particolare gli scismatici eretici aderenti alla setta del Novus ordo, in comunione con gli antipapi usurpanti attuali, non dotate né di Nihil obstat né dell’Imprimatur canonico imposto dalla Costituzione Apostolica “Officiorum ac Munerum“ di S. S. Leone XIII, e dall’Enciclica “Pascendi” di S. S. San Pio X, passibili quindi di SCOMUNICA “ipso facto” latæ sententiæ riservata in modo speciale alla Sede Apostolica. … intelligenti pauca!]
Possiamo noi, fratelli miei, indubbiamente in tutta la nostra Religione, trovare un momento, una circostanza più felice, di quella dell’istante in cui Gesù-Cristo istituì il Sacramento adorabile degli altari? No, fratelli miei, no! Perché questa circostanza ci richiama l’amore immenso di un DIO per le sue creature. È vero che in tutto ciò che DIO ha fatto, le sue perfezioni si manifestano all’infinito. Creando il mondo Egli fa brillare la grandezza della sua potenza. Governando questo vasto universo, ci dà prova di una saggezza incomprensibile, ed anche noi possiamo dire con il salmo tredicesimo: « Si, DIO mio Voi siete infinitamente grande nelle piccole cose, e nella creazione dell’insetto più vile. » Ma nell’istituzione di questo grande Sacramento d’amore, non v’è solo la sua potenza e la sapienza, ma l’amore immenso del suo cuore per noi. Sapendo molto bene che era prossimo il suo tempo per tornare al Padre, non potette risolversi di lasciarci soli sulla terra, di fronte a tanti nemici, che cercavano tutti la nostra perdita. Sì, prima che Gesù-Cristo istituisse questo Sacramento d’amore, Egli sapeva bene a quanti disprezzi e profanazioni andasse ad esporsi; ma tutto questo non fu capace di fermarlo; Egli vuole che noi abbiamo la felicità di trovarlo tutte le volte che vorremmo ricercarlo, e con questo grande Sacramento si impegna a restare in mezzo a noi, giorno e notte; ed in Lui troviamo un DIO Salvatore che ogni giorno si offrirà per noi alla giustizia del Padre suo. O nazione felice! Chi lo ha mai compreso? Per ispirarci un rispetto ed un grande amore verso Gesù-Cristo, nel Sacramento adorabile dell’Eucaristia, vi mostrerò quanto Gesù-Cristo ci abbia amato nell’istituzione dell’Eucaristia. Qual felicità, fratelli miei, per una creatura ricevere il suo DIO!, nutrirsene, impinguarsene! O amore infinito, immenso ed incomprensibile! …, Può un Cristiano pensarvi e non morire d’amore e tremore alla vista della sua indegnità! …
I. È vero che in tutti Sacramenti che Gesù-Cristo ha istituito, Egli ci mostra una infinita misericordia. Nel Sacramento del Battesimo ci strappa dalle mani di lucifero e ci rende figli di DIO sua Padre; ci apre il Cielo che ci era chiuso; ci rende partecipi di tutti i tesori della Chiesa e, se restiamo fedeli ai nostri impegni, ci viene assicurata un eterna felicità; nel Sacramento della Penitenza, ci mostra e ci fa partecipe della sua misericordia fino all’estremo; poiché ci strappa dall’inferno, ove i nostri peccati di malizia ci avevano trascinato, e di nuovo ci applica i meriti infiniti della sua morte e della sua Passione; nel Sacramento della Confermazione, ci dà uno spirito di luce per condurci nel cammino della virtù, che ci fa conoscere il bene ciò che dobbiamo fare, ed il male che dobbiamo evitare; per di più, ci dà uno spirito di forza per superare tutto ciò che possa impedirci di giungere alla nostra salvezza. Nel Sacramento dell’estrema Unzione vediamo con gli occhi della fede che Gesù ci copre con i meriti della sua morte e passione. In quello dell’Ordine, Gesù-Cristo dà tutti i suoi poteri ai suoi Sacerdoti; essi li fanno poi scendere in quello del Matrimonio, e vediamo che Gesù-Cristo santifica tutte le nostre azioni, anche quelle in cui sembra che seguiamo le inclinazioni corrotte della natura. Ecco, voi mi direte, delle misericordie degne di un DIO che è infinito in tutto. Ma nel Sacramento adorabile dell’Eucaristia, Egli va oltre: tutto questo non sembra essere che un primo assaggio del suo amore per gli uomini; Egli vuole, per la felicità delle sue creature, che il suo Corpo e la sua Anima e la sua Divinità si trovino in tutti gli angoli del mondo, affinché, tutte le volte che si vorrà, lo si possa trovare, e con Lui noi troviamo ogni sorta di felicità. Se siamo nelle pene e nel dolore, Egli ci consolerà e ci allevierà. Siamo malati? Egli ci guarirà, ci darà forze onde soffrire in maniera da meritare il cielo. Se il demonio, il mondo e le nostre inclinazioni ci fanno guerra, Egli ci darà armi per combattere, per resistere e riportare vittoria. Se noi siamo poveri, Egli ci arricchirà con ogni tipo di ricchezze per il tempo e per l’eternità. Queste sono tante grazie, voi pensate. Oh, no! Fratelli miei, il suo amore ancor non è soddisfatto, Egli ne ha da farci delle altre, che il suo immenso amore, ha trovato nel suo cuore infiammato per il mondo, questo mondo ingrato che sembra essere colmo di tanti beni per oltraggiare il suo Benefattore. Ma no, fratelli miei, lasciamo l’ingratitudine degli uomini per un momento, apriamo la porta del suo Cuore sacro ed adorabile, rinchiudiamoci per un istante nelle sua fiammo d’amore, e vedremo quel che possa un DIO che ci ama. O DIO mio! chi potrà comprenderlo e non morire d’amore e di dolore vedendo da una parte tanta carità e dall’altra tanto disprezzo ed ingratitudine! Leggiamo nel Vangelo che Gesù-Cristo, conoscendo molto bene che il momento in cui i Giudei dovevano farlo morire era giunto, dice ai suoi Apostoli che Egli desiderava fortemente celebrare la Pasqua con essi. Essendo giunto questo momento tanto felice per noi, Egli si mette a tavola, volendo lasciarci un pegno del suo amore. Si alza dalla tavola, lascia i suoi abiti, si cinge di un lino; dopo aver messo acqua in un vaso, comincia a lavare i piedi dei suoi Apostoli ed anche di Giuda, ben sapendo che egli stava per tradirlo. Egli voleva con questo dimostrarci la purezza che dobbiamo imparare da Lui [per mostrarci due cose: la purezza e l’umiltà (Nota del venerabile)]. Messosi di nuovo a tavola, prende del pane tra le sue mani sante e venerabili, alzando gli occhi al cielo per rendere grazie a suo Padre, al fine di farci comprendere che questo grande dono ci veniva dal cielo; lo benedice e lo distribuisce ai suoi Apostoli dicendo loro: « Mangiatene tutti, questo è veramente il mio Corpo che sarà offerto per voi. » Avendo poi preso il calice, ove aveva mescolato vino on acqua, lo benedice ugualmente, lo presentò loro dicendo: « Bevetene tutti, questo è il mio sangue che sarà sparso per la remissione dei peccati, e tutte le volte che voi pronuncerete le stesse parole, farete le stesso miracolo; cioè voi cambierete il pane nel mio Corpo ed il vino nel mio Sangue. » Quale amore!? – … per noi, fratelli miei, quello di un DIO nell’istituzione del Sacramento adorabile dell’Eucaristia! Ora ditemi, fratelli miei, da quale sentimento di rispetto non saremmo noi stati penetrati se fossimo stati sulla terra e avessimo visto con i nostri occhi Gesù-Cristo quando istituì questo grande Sacramento d’amore. Tuttavia, fratelli miei, questo grande miracolo si ripete ogni volta che il Sacerdote celebri la santa Messa, in cui il divin Salvatore si rende presente sugli altari. Ah! se avessimo questa fede vive, da qual rispetto noi non dovremmo essere penetrati? Con qual rispetto e tremore non compariremmo davanti a questo grande Sacrificio, nel quale Dio ci mostra la grandezza del suo amore e della sua potenza! È vero che voi lo credete; ma vi comportate come se non lo credeste! Se bisogna farvi ben comprendere la grandezza di questo mistero, ascoltatemi, e vedrete quanto grande dovrebbe essere il rispetto che dobbiamo portarne. Leggiamo nella storia di un Prete che, nel dire la santa Messa in una chiesa della città di Bolsena, e dubitando, dopo aver pronunciate le parole della consacrazione, della realtà del Corpo e del Sangue di Gesù-Cristo nell’Ostia santa: cioè se le parole della Consacrazione avessero veramente mutato il pane in Corpo di Cristo, ed il vino nel suo Sangue, nel medesimo istante, la santa Ostia fu interamente coperta di sangue. Gesù-Cristo sembra che abbia voluto rimproverare al suo ministro la sua infedeltà, riportalo al ravvedimento, fargli ricevere la fede che stava perdendo con il suo dubbio; e nello stesso tempo, mostrarci con questo grande miracolo, quanto dobbiamo essere convinti della sua santa presenza nella santa Eucaristia. Questa Ostia santa versò sangue con tale abbondanza, che il corporale, il telo e lo stesso altare, ne furono interamente coperti. Il Papa, al quale si fece partecipe di tale miracolo, ordinò che gli si portasse questo corporale tutto sanguinante; esso fu portato nella città di Orvieto, ove fu ricevuto in pompa straordinaria e depositato nella chiesa. Avendo in seguito fatto costruire una magnifica chiesa onde ricevere questo prezioso deposito … tutti gli anni si porta in processione questa preziosa reliquia, il giorno della Festa-Dio. Vedete, fratelli miei, quanto questo debba raffermare la fede di coloro che hanno un qualsiasi dubbio. Ma, DIO mio, come poter dubitare, dopo le parole di Gesù-Cristo stesso che ha detto ai suoi Apostoli, e nella loro persona a tutti i Sacerdoti: « Tutte le volte che pronuncerete queste stesse parole, farete lo stesso miracolo, cioè voi farete come me: voi cambierete il pane nel mio Corpo, ed il vino nel mio Sangue. » Quale amore! Fratelli miei, quale carità, quella di Gesù-Cristo di scegliere la veglia del giorno in cui lo si doveva far morire, per istituire un Sacramento per mezzo del quale restava in mezzo a noi per essere nostro Padre, nostro Consolatore e tutta la nostra felicità! Più felici ancora di coloro che vivevano la loro vita mortale in cui bisognava fare tante leghe per avere la felicità di vederlo; oggi, noi invece lo troviamo in tutti i luoghi del mondo, e questo beneficio ci è promesso fino alla fine del mondo. O amore immenso di un Dio per le sua creature! No, fratelli miei, niente può arrestarlo, quando si tratta di mostrare la grandezza del suo amore. In questo momento per noi felice, tutta Gerusalemme è a fuoco, tutta la popolazione in rivolta, tutti cospirano per la sua perdita; tutti vogliono spargere questo sangue adorabile; ed è precisamente in questo momento che si prepara loro il pegno più ineffabile del suo amore. Gli uomini tramano i più neri complotti contro di Lui, mentre Egli non è occupato che a dar loro ciò che ha di più prezioso, che è Egli stesso. Non si pensa che ad erigergli una croce infame per farlo morire, ed Egli non pensa che ad erigere un altare per immolarsi Egli stesso ogni giorno per noi. Ci si prepara a versare il suo Sangue, Gesù-Cristo vuole che questo stesso Sangue sia per noi una bevanda di immortalità per la consolazione e la felicità delle nostre anime. Sì, fratelli miei noi possiamo dire che Gesù-Cristo ci ami fino ad esaurire le ricchezze del suo amore, sacrificando in tutto, ciò che la sua sapienza e la sua potenza abbiano potuto ispirargli. – O amore tenero e generoso di un DIO per delle vili creature come noi, che ne siamo indegni! Ah! Fratelli miei, quale rispetto non dovremo noi avere per questo gran Sacramento in cui un DIO si fa uomo rendendosi presente ogni giorno sui nostri altari! Benché noi vediamo che Gesù-Cristo sia la bontà stessa, Egli non lascia talvolta il punire rigorosamente il disprezzo che si fa per la sua santa presenza, come vediamo a più riprese nella storia. (Ahimè! Quanti che non hanno la fede dei demoni che tremano alla sua presenza. Ahimè, noi non abbiamo che una fede languida e quasi morta – nota del Venerabile). Si racconta che un Sacerdote di Friburgo, nel portare il buon DIO ad un malato, si trovò a passare in una piazza dove c’era tanta gente che danzava. Il suonatore, benché senza Religione, si fermò dicendo: « Io sento la campanella, si porta il buon DIO ad un malato, mettiamoci in ginocchio. » Ma in questa compagnia, si trovava una donna empia ispirata dal furore dell’inferno: « Continuiamo, sono delle campanelle appese al collo delle bestie di mio padre; quando esse passano, non ci si ferma, né ci si mette in ginocchio. » Tutta la compagnia applaudì a questa empietà e tutti continuarono a danzare. Nello stesso momento arrivò un temporale così violento, che tutte le persone che danzavano furono scaraventate via e non si è mai potuto sapere ciò che siano diventate. Ahimè! Fratelli miei, tutti questi miserabili pagarono caramente il disprezzo che ebbero per la presenza di Gesù-Cristo: questo ci fa comprendere quanto dobbiamo noi rispettare la presenza santa di Gesù-Cristo, sia nel suo tempio, sia quando vediamo che lo si porta ai poveri malati.
II. Noi diciamo che Gesù-Cristo, per operare questo grande miracolo, scelse del pane che è il nutrimento di tutti, dei ricchi e dei poveri, di colui che è forte e di colui che è languente, per mostrarci come questo celeste nutrimento sia per tutti i Cristiani che vogliono conservare la vita della grazia e la forza per combattere il demonio. Noi vediamo che quando Gesù-Cristo operò questo gran miracolo, levò gli occhi al cielo per rendere grazie a suo Padre, per farci vedere quanto questo momento felice per noi sia desiderato da Lui, ed infine per provarci la grandezza del suo amore. Sì, figli miei, dice loro questo divin Salvatore, il mio Sangue è impaziente di essere versato per voi; il mio Corpo brucia dal desiderio di essere distrutto per guarire le vostre piaghe; ben lungi dall’essere affranto dall’idea della tristezza amara che mi ha causato dapprima il pensiero delle mie sofferenze e della mia morte, al contrario, per me è il colmo del mio piacere. Ciò che causa questo, è che voi troverete nelle mie sofferenze e nella mia morte un rimedio a tutti i vostri mali. Oh! Quale amore, fratelli miei, quello di un DIO per le sue creature! San Paolo ci dice che il mistero dell’incarnazione, ha nascosto la sua divinità; ma che in quello del Sacramento dell’eucaristia, è andate persino a nascondere la sua umanità. Ahimè! Fratelli miei, non c’è che la fede che possa agire in un mistero così incomprensibile. Sì, fratelli miei, in qualunque luogo noi ci troviamo, volgiamo con piacere i nostri pensieri, i nostri desideri, dal lato ove riposa questo Corpo Adorabile, per unirci agli Angeli che lo adorano con tanto rispetto. Guardiamoci dal fare come gli empi che non hanno rispetto in questi templi che sono così santi, così rispettabili e sacri per la presenza di un DIO fatto uomo, che giorno e notte, abita in mezzo a noi! … Spesso noi vediamo che il Padre eterno punisce rigorosamente coloro che disprezzano il suo divin Figlio. Leggiamo nella storia che un tale si era trovato in una casa ove si portava il buon DIO ad un malato, e coloro che erano vicino al malato, gli dissero di mettersi in ginocchio, ma egli non volle; con un’orribile blasfemia: « Io – dice – mettermi in ginocchio… , io rispetto di più un ragno che è il più vile tra gli animali, che il vostro Gesù-Cristo che volete che io adori. » Ahimè! Fratelli miei, di cosa è capace colui che ha perso la fede! Ma il buon DIO non lascia impunito questo orribile peccato, e nel momento stesso un grosso ragno tutto nero si staccò da un rivestimento in legno e venne a cadere sulla bocca del blasfemo pungendogli le labbra. Subito si gonfiò, e morì all’istante. Vedete, fratelli miei, quanto siamo colpevoli quando non abbiamo questo grande rispetto per la presenza di Gesù-Cristo! No, fratelli miei, non stanchiamoci di contemplare questo mistero d’amore in cui un DIO, uguale a suo Padre, nutre i suoi figli non con un nutrimento ordinario, né con quella manna con cui il popolo giudeo era nutrito nel deserto; ma del suo Corpo adorabile e del suo Sangue prezioso. Chi potrebbe mai immaginarlo se non era Egli stesso a dircelo e farlo nello stesso tempo. Oh! Fratelli miei, tutte queste meraviglie, sono degne della nostra ammirazione e del nostro amore! Un DIO, dopo essersi caricato delle nostre debolezze, ci fa parte di questi beni! O nazioni dei Cristiani, quanto siete felici nell’avere un DIO così buono e così ricco! Noi leggiamo in San Giovanni che egli vide un Angelo al quale il Padre eterno affidava il calice del suo furore per versarlo su tutte le nazioni; ma qui vediamo il contrario. Il Padre eterno rimette nelle mani di suo Figlio il calice della misericordia per essere sparso su tutte le nazioni della terra. – Parlandoci del suo Sangue adorabile, ci dice, come ai suoi Apostoli: « Bevetene tutti e vi troverete la remissione dei vostri peccati e la vita eterna. » O sublime felicità! … O felice sorgente! Chi proverà fino alla fine dei secoli come questa credenza debba fare tutta la nostra felicità. Gesù-Cristo non ha cessato di far dei miracoli per portarci ad una fede viva nella sua Presenza reale. – Noi vediamo nella storia, che c’era una donna cristiana, ma molto povera. Avendo avuto in prestito da un giudeo una piccola somma di denaro, ella gli diede in pegno i suoi migliori abiti. La festa di Pasqua era vicina, ella pregò il giudeo di restituirle per un giorno la sua veste che gli aveva dato. Il giudeo le disse che non solo egli voleva restituirle i suoi effetti, ma pure il suo denaro, a condizione solamente … che ella gli portasse la santa Ostia quando l’avesse ricevuta dal Sacerdote. Il desiderio di questa miserabile di riavere i suoi effetti, e di non essere obbligata a restituire il denaro prestato, la portò ad un’azione orribile. All’indomani ella si recò nella chiesa della sua parrocchia. Dopo aver ricevuto l’Ostia santa sulla lingua, osò prenderla e metterla in un fazzoletto. Ella la portò a questo miserabile giudeo che ne aveva fatto richiesta per esercitare il suo furore contro Gesù-Cristo. Questo uomo abominevole trattò Gesù-Cristo con un furore spaventoso; e noi vediamo che Gesù-Cristo medesimo mostrò quanto questi oltraggi che gli si facevano, gli erano sensibili: il giudeo cominciò col mettere l’Ostia santa su un tavolo, gli diede dei colpi di temperino finché non fu contento; ma questo malvagio vide subito uscire dall’Ostia santa abbondante sangue, cosa che faceva rabbrividire suo figlio. Di poi, avendola con disprezzo tolta dal tavolo, la sospese con un chiodo contro il muro e le diede dei colpi di frusta finché volle. La trapassò con una lancia, e ne uscì nuovamente sangue. Dopo tutte queste atrocità, la gettò in una caldaia di acqua bollente: subito l’acqua sembrò mutarsi in sangue. L’Ostia apparve allora sotto la forma di Gesù-Cristo in croce: questo lo spaventò talmente che corse a nascondersi in un angolo della sua casa. Durante questo tempo il figli di questo giudeo che vedevano andare i Cristiani in chiesa, dicevano loro: « Ma dove andate, perché mio padre ha ucciso il vostro DIO; Egli è morto, non lo troverete più. » Una donna che ascoltava ciò che dicevano questi bambini, entrò nella loro casa. E, in effetti ella vide ancora l’Ostia santa sotto forma di Gesù-Cristo crocifisso; ma ben presto riprese la sua forma ordinaria. Questa donna, avendo preso un vaso che presentò, l’Ostia santa vi si andò a posare dentro. Questa donna così felice, molto contenta, la portò successivamente nella chiesa di San Giovanni in Grève, dove fu posta in luogo conveniente per essere adorata. A questo malvagio, gli si offrì il perdono se volesse convertirsi facendosi Cristiano; ma egli era così ostinato, che preferì bruciare vivo, piuttosto che farsi Cristiano. Tuttavia sua moglie, i suoi figli, ed una quantità di Giudei, si fecero battezzare. In seguito a questo miracolo che Gesù-Cristo aveva operato, e per non perdere mai il ricordo di queste meraviglie, si trasformò la casa in una chiesa ove si stabilì una comunità, affinché vi fossero persone che continuamente facessero ammenda onorevole a Gesù-Cristo per gli oltraggi che questo maledetto giudeo aveva fatto. Noi non possiamo ascoltare questo, fratelli mie, senza fremere! Ebbene! Fratelli miei, ecco a cosa si espone Gesù-Cristo per nostro amore, ed a cosa sarà esposto fino alla fine del mondo. Che amore! fratelli miei, di un DIO per noi! A quali eccessi non lo porta verso le sue creature! – Noi diciamo che Gesù-Cristo tenendo il calice stretto tra le sue mani, dice loro: “ancora un po’ di tempo e questo Sangue prezioso sta per essere sparso in maniera cruenta e visibile, ed è per voi che sta per essere sparso, l’ardore che Io ho di versarlo nei vostri cuori, mi ha fatto utilizzare questo mezzo. È vero che la gelosia dei miei nemici è certo una causa della mia morte, ma essa non è una delle principali; le accuse che essi hanno inventato contro di me per perdermi, la perfidia del discepolo che sta per tradirmi, la lassezza del giudice che sta per condannarmi, e la crudeltà dei carnefici che stanno per uccidermi, sono altrettanti strumenti di cui il mio amore infinito si serve per provarvi quanto vi ami. Sì, fratelli miei, è per la remissione dei nostri peccati! Vedete, fratelli miei, quanto Gesù Cristo ci ami, poiché Egli si sacrifica per noi alla giustizia del Padre con tanta alacrità; in più Egli vuole che questo Sacrificio si rinnovi tutti i giorni in tutti i luoghi del mondo. Qual felicità per noi, fratelli miei, sapere che i nostri peccati, anche prima di averli commessi, sono stati espiati nel momento del grande Sacrificio della Croce! Veniamo spesso, fratelli miei ai piedi dei nostri tabernacoli, per consolarci nelle nostre pene, per fortificarci nelle nostre debolezze. Abbiamo la grande sventura di aver peccato? Il Sangue adorabile chiederà grazia per noi. Ah! fratelli miei, quanto più viva della nostra era la fede dei primi Cristiani! Nei primi tempi, una quantità di Cristiani attraversavano i mari per andare a visitare i luoghi santi ove si era operato il mistero della nostra Redenzione. Quando si mostrava loro il cenacolo in cui Gesù-Cristo aveva istituito questo divin Sacramento che è stato consacrato a nutrire le nostre anime, quando si faceva loro vedere dove aveva irrorato la terra con le sue lacrime ed il suo Sangue durante la sua preghiera e la sua agonia, essi non potevano lasciar questi luoghi santi senza versare lacrime in abbondanza. Ma quando li si conduceva al Calvario, ove aveva Egli sopportato tanti tormenti per noi, essi sembravano non poter vivere più; essi erano inconsolabili, perché questi luoghi richiamavano il tempo, le azioni ed i misteri che si sono operati per noi; essi sentivano in essi la fede riaccendersi, il loro cuore bruciare di un fuoco nuovo. O luoghi beati! Esclamavano, in cui si sono operati tanti prodigi per salvarci. Ma, fratelli miei, senza andare tanto lontano, e senza darci la pena di attraversare i mari, di esporci a pericoli; non abbiamo noi qui, Gesù-Cristo in mezzo a noi non solamente come DIO, ma in Corpo ed Anima? Le nostre chiese non sono degne per noi di rispetto così come i luoghi sacri ove questi pellegrini andavano? Oh! Fratelli miei, la nostra felicità è troppo grande; no, no noi non lo comprenderemo mai. O Nazione beata quella dei Cristiani! Veder rinnovarsi ogni giorno tutti i prodigi che l’onnipotenza di DIO operò un tempo sul Calvario per salvare gli uomini. Perché dunque, fratelli miei, non vediamo questo amore, questa medesima riconoscenza, questo stesso rispetto, dal momento che ogni giorno si fanno sotto i nostri occhi gli stessi miracoli? Ahimè! Tanto noi abbiamo abusato delle grazie che il buon DIO, per punizione delle nostre ingratitudini, ci ha tolto in parte la nostra fede; appena noi la sentiamo, e comprendiamo di essere alla presenza di DIO. Mio DIO, quale disgrazia per colui che ha perso la fede! Ahimè! Fratelli miei, da quando abbiamo perso la fede, noi non abbiamo più che disprezzo per questo augusto Sacramento, e quanti si lasciano trascinare fino all’empietà, rimproverando coloro che sono così beati di attingervi le grazie e le forze necessarie per salvarsi. Temiamo, fratelli miei, ché il buon DIO non ci punisca del poco rispetto che abbiamo per la sua adorabile presenza; eccone un esempio dei più terribili. Il Cardinal Baronio riporta nei suoi Annali che vi era nella città di Lusignan, vicino a Poitiers, una persona che nutriva un gran disprezzo per la Persona di Gesù-Cristo; egli rampognava e disprezzava coloro che frequentavano i Sacramenti; metteva in ridicolo la loro devozione. Tuttavia il buon DIO, che ama meglio la conversione del peccatore che sua perdita, gli diede diverse volte dei rimorsi di coscienza, per cui vedeva bene di far male, visto che coloro a cui faceva rimproveri erano più felice di ella; ma quando si ripresentava l’occasione ella ricominciava, e con tal mezzo, poco a poco, finì per soffocare questi rimorsi che il buon DIO gli dava. Ma per meglio nascondersi, provò a entrare in amicizia con un santo religioso, superiore del monastero di Bonneval che si trovava poco vicino. Ella vi andava spesso, facendosene anche gloria, benché empio, e voleva credersi buono quando era con questi buoni religiosi. Il superiore che percepiva quasi ciò che aveva nell’anima, gli dice più volte: « Mio amico caro, voi non avete rispetto per la presenza di Gesù-Cristo nel Sacramento adorabile dei nostri altari; ma io credo che se volete convertirvi, vi converrà lasciare il mondo e ritirarvi in un monastero a farvi penitenza. Voi stesso sapete quante volte avete profanato i Sacramenti, siete coperto di sacrilegi; se doveste morire, sarete gettato nell’inferno per tutta l’eternità. Credetemi, pensate a riparare le vostre profanazioni; come potete vivere in tale miserevole stato? » Questo povero uomo sembrava ascoltarlo ed anche profittare dei suoi consigli, perché sentiva bene egli stesso che la sua coscienza era carica di sacrilegi; ma egli non voleva fare qualche piccolo sacrificio che doveva, di modo che con tutti i suoi pensieri, restava sempre lo stesso; egli cadde malato. L’abate si premurò di andare a visitarlo, sapendo quanto la sua anima fosse in cattivo stato. Questo povero uomo vedendo questo buon padre, che era un santo e che veniva a visitarlo, si mise a piangere di gioia e, forse nella speranza che andasse a pregare per lui, per aiutarlo a far uscire la sua anima dalla palude dei suoi sacrilegi, pregò l’abate di restare un po’ di tempo con lui. Essendo giunta la notte, tutti si ritirarono tranne l’abate che restò con il malato. Questo povero sventurato si mise a gridare orribilmente: « Ah! padre mio, soccorretemi! Ah! padre mio, venite, venite in mio soccorso! » Ma ahimè! Non c’era più tempo, il buon DIO lo aveva abbandonato per punizione dei suoi sacrilegi e delle sue empietà. « Ah! padre mio!, ecco due spaventosi leoni che vogliono portarmi via. Ah! padre mio, soccorretemi! » L’abate, tutto spaventato, si gettò in ginocchio per domandare grazia per lui; ma era troppo tardi, la giustizia di DIO lo aveva consegnato alla potenza dei demoni. Il malato cambiò voce tutto ad un tratto ed assunse un tono pacato; si mise a parlare come una persona affatto malata e che possiede tutto il suo spirito: « Padre mio – dice – questi leoni che erano poco fa intorno a me si sono ritirati; » ma nel mentre parlavano tra essi familiarmente, il malato perse la parola e sembrò essere morto. Tuttavia benché il religioso credesse che fosse morto, volle vedere la fine dolorosa di tutto questo; così egli passa il resto della notte accanto al malato. Questo povero sventurato, dopo alcuni momenti rientraòin se stesso, riprese la parola come prima, e disse al superiore: « Padre mio, io sto per comparire davanti al tribunale di Gesù-Cristo, e le mie empietà ed i miei sacrilegi sono la causa per la quale sono condannato a bruciare nell’inferno. » Il superiore, tutto spaventato, si mise a pregare, al fine di chiedere se vi fessero ancora possibilità per la salvezza di questo disgraziato; il morente, vedendolo pregare dice: « Padre mio, lasciate la vostra preghiera, il buon DIO non vi esaudirà mai a mio riguardo, i demoni sono al mio fianco; essi non aspettano che il momento della mia morte, che non tarderà. per sprofondarmi negli inferi e bruciare in eterno. » Tutto ad un tratto preso da spavento: « Ah! Padre, il demonio mi trascina; addio padre mio, io ho disprezzato i vostri consigli e sono dannato. » E dicendo questo, egli vomitò la sua anima maledetta all’inferno. Il superiore si ritirò versando delle lacrime sulla sorte di questo disgraziato che dal suo letto era caduto nell’inferno. Ahimè! Fratelli miei, quanto grande è il numero dei profanatori dei Cristiani che hanno perso la fede con i sacrilegi! Ahimè! Fratelli miei, se vediamo tanti Cristiani che non frequentano più i Sacramenti o che non li frequentano raramente, non cerchiamo altra ragione che i sacrilegi. Ahimè! Quanti altri sono lacerati dai rimorsi di coscienza, che si sentono colpevoli di sacrilegi e che, in uno stato che fa inorridire il cielo e la terra, attendono la morte. Ah! Fratelli miei, non andate oltre, non arrivate allo stesso misero stato di questo riprovato del quale abbiamo parlato. Come potete sapere se prima della morte non sarete abbandonati da DIO come costui, e gettati nel fuoco? O DIO mio, come poter vivere in uno stato così spaventoso? Ah! Fratelli miei, c’è ancora tempo, torniamo allora a gettarci ai piedi di Gesù-Cristo che riposa nel Sacramento adorabile dell’Eucaristia. Egli nuovamente offrirà il merito della sua morte e passione per noi a suo Padre, e noi saremo sicuri di ottenere misericordia. – Sì, fratelli miei, noi siamo sicuri che, se abbiamo grande rispetto per la presenza di Gesù-Cristo nel Sacramento adorabile dei nostri altari, otterremo tutto ciò che vorremo. Poiché, fratelli miei, queste processioni son tutte consacrate per adorare Gesù-Cristo nel Sacramento adorabile dell’Eucaristia, per ricompensarlo degli oltraggi che ha ricevuto, seguiamolo nelle nostre processioni, camminiamo al suo seguito con il rispetto e la devozione con cui lo seguivano i primi Cristiani nelle sue predicazioni, in cui Egli non passava mai in un luogo senza spandere ogni tipo di benedizioni (vedete il profeta nel deserto, Zaccheo, la beata madre di San Pietro, la Maddalena, la donna malata emorroissa, Lazzaro resuscitato – Nota del Venrabile). Sì, fratelli miei, noi vediamo nella storia con tanti esempi come il buon DIO punisca i profanatori della presenza adorabile del suo Corpo e del suo Sangue. Si narra che, essendo entrato un ladro di notte in una chiesa, prese tutti i vasi sacri ove erano rinchiuse le sante Ostie; egli le portò fino ad un luogo, cioè, una piazza che era nei pressi di Saint-Denis. Qui giunto, volle vedere i vasi per sapere se ancora vi erano delle ostie. Egli ne trovò ancora una che, una volta aperto il vaso, saltò in aria e volteggiava sopra di lui; fu questo prodigio che fece scoprire il ladro dalle persone che lo arrestarono. L’Abate di Sain-Denis ne fu avvertito, e ne diede avviso al Vescovo di Parigi; l’Ostia santa rimase miracolosamente sospesa in aria. Essendo venuto il Vescovo con tutti i suoi Sacerdoti ed una quantità di altre persone in processione, l’Osia santa si andò a posare nel ciborio del Sacerdote che l’aveva consacrata. La si portò indi in una chiesa ove si celebrò una gran Messa, un giorno di ciascuna settimana, in memoria di questo miracolo. Ora ditemi, fratelli miei, non ci deve questo ispirare un grande rispetto per la presenza di Gesù-Cristo, sia che siamo nelle nostre chiese, sia che lo seguiamo nelle nostre processioni? Veniamo a Lui con grande fiducia; Egli è buono, è misericordioso, Egli ci ama, e pertanto siamo certi di ricevere tutto quel che gli chiediamo; ma abbiamo l’umiltà, la purezza, l’amore di DIO, il disprezzo della vita; … guardiamoci bene dal non lasciarci andare nelle distrazioni. Amiamo il buon DIO, fratelli miei, con tutto il nostro cuore e così avremo il nostro Paradiso già in questo mondo …
[Goffiné: Manuale per la santificazione delle Domeniche e delle Feste. Traduz. : Antonio Ettori e Mauro Ricci delle Scuole Pie Tip. Galas. Dir. da A. Ferroni; Firenze – 1869]
In questa sera comincia l’ufizio delle tenebri. La Chiesa celebra, per così dire, in questi tre ultimi giorni, l’esequie del Salvatore. L’ufizio delle tenebre si compone del mattutino e delle laudi di domani, che per anticipazione si cantano la vigilia. Si è dato a questa parte d’ufizio il nome di Tenebre, perché verso la fine di esso rimangono spenti tutti i lumi, così per esprimere il duolo profondo della Chiesa, come per rappresentare le tenebre, onde tutta la terra fu avvolta alla morte di Gesù Cristo. L’estinzione dei lumi richiama ancora alla memoria un fatto storico della nostra bella antichità cristiana. L’ufizio che noi facciamo la sera si faceva di notte, e durava fino alla mattina; via via che il giorno si avvicinava, si spengevano successivamente le faci che non erano più necessarie. Queste faci sono candele poste sopra un candelabro triangolare, a sinistra dell’altare; ordinariamente in numero di quindici, sette per parte e una in mezzo. Si spengono le candele di ciascun lato, successivamente, alla fine d’ogni salmo, cominciando dalla più bassa, dalla parte del Vangelo, e quindi dall’altra, e così alternativamente, sinché resti sola quella di mezzo che si lascia accesa. Le dette candele sono di cera gialla, come prescrive un antico rituale romano, perché la Chiesa non ne impiega d’altra qualità nei funerali e nel gran lutto. Quella che è posta nel mezzo del candelabro triangolare, è ordinariamente di cera bianca perché raffigura Gesù Cristo. All’ultimo versetto del Benedictus, si toglie e si nasconde dietro l’altare, per tutta la recita del salmo Misereree le preci: quindi si riporta. Questa cerimonia ci raffigura la morte e la resurrezione del Salvatore. Le altre quattordici candele rappresentano gli undici Apostoli e le tre Marie: si spengono per rammentarci la fuga degli uni e il silenzio delle altre, nel tempo della passione. – Un tal numero di candele e il modo di disporle e di spegnerle gradatamente, ha origine da oltre al VII secolo. Quale deve essere la nostra venerazione per una cerimonia che è stata contemplata da tanti pii Cristiani? Possa ella eccitare in noi i medesimi sentimenti di pietà che essa eccitò nei nostri padri! In generale i riti usati dalla Chiesa, specialmente per le principali feste, sono di una antichità molto lontana. – Tutto l’Ufizio delle Tenebre è impresso del più profondo dolore: l’invitatorio, gli inni, il Gloria Patri, la benedizione, tutto è soppresso. Non vi si odono che quattro voci: quella di Davide, che piange sulla lira gli oltraggi fatti a Gesù Cristo e la morte del suo Signore e Figlio di Dio: quella di Geremia, che agguagliando i lamenti ai dolori, canta le ruine di Gerusalemme e i tormenti dell’augusta Vittima; quella della Chiesa, i cui teneri accenti chiamano i suoi figli alla penitenza: Gerusalemme, Gerusalemme, convertiti al SignoreDio tuo; e finalmente quella delle sante donne, che aveano seguito Gesù dalla Galilea, e che piangevano dietro a Lui mentre saliva il Calvario. Il loro viaggio, le loro lacrime, e le loro grida ci vengono rappresentate dai due chierici che cantano e inginocchioni, e andando, quei kyrie eleison, intramezzati dai responsi e da lamentevoli sospiri. – Non vi è né capo, né pastore per presedere all’ufizio di questi tre giorni; poiché sta scritto: Percoterò il pastore e le pecorelle della mandra saranno disperse. L’ufizio è seguito da un rumore confuso, che ci richiama alla mente la venuta e lo scompiglio tumultuoso della coorte che armata di bastoni, e condotta da Giuda s’inoltre nottetempo ad arrestare il divin Salvatore nell’Oliveto.
[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A.
Pezzana, Venezia – 1767)
Dell’Orazione.
CAP. XLIV
Se la diffidenza di noi stessi, la confidenza in Dio, e l’esercizio sono in questo combattimento tanto necessari, quanto si è dimostrato sin qui, sopra tutto è necessaria l’orazione (ch’è la quarta cosa, ed arma proposta di sopra) con la quale non pure le dette cose, ma ogni altro bene possiamo da Dio Signor nostro conseguire. – Perché l’orazione è strumento per ottenere tutte le grazie, che da quel divino fonte di bontà e d’amore piovono sopra di noi. Con l’orazione (se te ne servirai bene) porrai la spada in mano a Dio perché combatta e vinca per te. E per servirtene bene, fa bisogno che tu sia abituata, o che ti affatichi per esservi nelle seguenti cose. Prima, che in te viva sempre un deriderlo vero di servire in tutto a Sua Divina Maestà, e nel modo che a Lui più aggradisce. Per accenderti di quello desiderio, considera bene: Che Iddio per le sue soprammirabili eccellenze, bontà, maestà, sapienza, bellezza, ed altre sue infinite perfezioni, è sopradegnissimo d’essere servito, ed onorato. Ch’egli per Servire a te, ha penato e faticato trentatré anni, e le tue fetide piaghe, avvelenate dalla malignità del peccato, ha medicate e sanate, non con olio, vino, e stracci di panno, ma con il prezioso liquore, che uscì dalle sue sacratissime vene, e con le sue carni purissime lacerato da flagelli, spine e chiodi. E pensa, oltre ciò, quanto importa questo servigio, poiché ne veniamo a farci padroni di noi stessi, superiori al demonio, e figliuoli dell’istesso Dio. – Secondo ha da esser in te una viva fede e confidenza, che il Signore ti voglia dare tutto ciò che ti bisogna per suo servigio e tuo bene. Questa Santa confidenza è il vaso che la misericordia divina riempie dei tesori delle sue grazie, il quale sarà più grande e più capace, tanto più ricca tornerà l’orazione del nostro seno. E come potrà mancare l’immutabile onnipotente Signore di farci partecipi dei doni suoi, avendoci Egli stesso comandato, che li domandiamo, e promettendoci anche lo Spirito suo, se con fede e perseveranza lo richiederemo? – Terzo, che tu ti accosti ad orare con l’intenzione di volere la volontà divina sola e non la tua, così nel domandare, come nell’ottenere quello che domandi, cioè, che tu ti muova ad orare, perché Iddio lo vuole, e che desideri essere esaudita, in quanto Egli pure così voglia. Insomma l’intenzione tua dev’essere di congiungere la volontà tua con la divina, e non di tirare alla tua quella di Dio. E questo, perché essendo la tua volontà infetta e guasta dall’amor proprio, bene spesso erra, né fa quello quello che domanda, ma la divina è sempre congiunta con la bontà ineffabile, nè può errare giammai. Ond’ella è regola e regina di tutte le altre volontà, e merita e vuole da tutte essere seguita ed ubbidita. – E perciò si hanno da domandare sempre cose conformi al divino piacimento, e dubitando che alcuna tale non sia, la domanderai con condizione di volerla, se vuole il Signore che tu l’abbia. E quelle che sai certo che gli piacciono, come sono le virtù, le richiederai più per soddisfare e servire a Lui, che per altro qualunque fine o rispetto, ancorché spirituale. – Quarto, che tu all’orazione vada ornata d’opere corrispondenti alle domande, e che dopo l’orazione vieppiù ti affatichi per farti capace della grazia e virtù, che desideri. Perché l’esercizio dell’orare ha da essere talmente accompagnato con l’esercizio di superare noi stessi, che tutto in giro vada seguitando l’altro, perché altrimenti il domandare alcuna virtù, e non adoprarsi per averla, sarebbe piuttosto un tentare Dio, che altro. – Quinto, che alle domande precedano lo più i ringraziamenti per i benefici ricevuti a questo o somigliante modo: Signor mio, che per la tua Bontà mi hai creata, e redenta, e tante innumerabili volte che io stessa non sono, liberata dalle mani dei miei nemici, soccorrimi al presente,né mi negare quello che io ti chiedo, benché io a te sia stata sempre ribelle, ed ingrata. E se sei per domandare alcuna particolare virtù, ed hai alle mani qualche cosa contraria per esercitarmi in quella, non ti scordare di rendergli grazie dell’occasione che n’ha dato, che questo è pure non piccolo suo benefizio. – Sesto, perché l’orazione prenda la sua forza e possanza di piegare Dio ai nostri desideri dalla naturale bontà, e misericordia di Lui, dalli meriti della vita, e passione del suo unigenito Figliuolo, e dalla promessa, ch’Egli ci ha fatto di esaudirci, conchiuderai le tue domande con una, o più delle seguenti particelle: Concedimi Signore, questa grazia, per la tua somma pietà; possano presso di te i meriti del tuo Figliuolo impetrarmi quello ch’io ti chiedo, ricordati Iddio mio delle tue promesse, ed inchinati ai prieghi miei. – Ed altre volte domanderai ancora grazie per i meriti di Maria Vergine e di altri Santi, i quali possono molto appresso Dio e molto sono da Lui onorati, perché in questa vita onorano la sua Divina Maestà. – Settimo, fa bisogno, che tu continui perseverantemente nell’orazione, perchè l’umile perseveranza vince l’invincibile, che se assiduità, ed importunità della vedova evangelica inchinò alle sue richieste il giudice colmo d’ogni malvagita [Luc. XVIII], come non avrà forza di trarre ai pieghi nostri, la stessa pienezza di tutt’i beni? Onde ancorché dopo l’orazione il Signore tardasse a venire ed esaudirti, anzi ne mostrasse contrari segni, seguita pure orando e tenendo ferma e viva la confidenza del suo aiuto, poiché in Lui non mancano mai, anzi sovrabbondano con infinita misura tutte quelle cose che, per fare altrui grazie sono necessarie. – Onde, se il difetto non è dal tuo canto, sta pur sicura di dover ottenere sempre tutto ciò che domanderai o altro che ti sia più utile, oppure quello e questo insieme. E quanto più ti paresse d’esser ributtata, tanto più avvilisciti negli occhi tuoi, e considerando i tuoi demeriti, col pensiero fermo nella divina pietà, aumenta sempre in lei la tua confidenza, la quale mantenendosi viva e salda, quanto sarà più combattuta, tanto più piacerà al Signor nostro. – Rendigli poi sempre grazie, riconoscendolo per buono, sapiente ed amoroso, niente meno, quando alcune cose ti sono negate, che se concesse ti fossero, restando in qualunque avvenimento stabile, ed allegra nell’umile sottomissione alla divina provvidenza.
Che cosa sia l’orazione mentale.
CAP. XLV
L’orazione mentale è una elevazione di mente a Dio, con attuale o virtuale domanda di quello che desidera. L’attuale si fa, quando con parole mentali si domanda la grazia con questo, o somigliante modo: Signore Dio mio, concedimi questa grazia ad onore tuo; ovvero così: Signor mio, io credo che ti piaccia, e che sia tua gloria, che tidomandi, ed abbi questa grazia:compisci dunque ormai in me ildivino compiacimento. E quando sei in fatti dai nemici combattuta, orerai in questo modo: Sii presto, Dio mio, ad aiutarmi, perché non ceda ai nemici. Oppure, Dio mio, rifugio mio,fortezza dell’anima mia, soccorrimi presto, perché non cada. E continuando la battaglia, continua tu ancora questo modo di orare, sempre virilmente resistendo, a chi contro di te combatte. – Finita, che sarà poi l’asprezza della guerra, rivolta al tuo Signore, presentagli innanzi il nemico che ti ha combattuta, e la tua fiacchezza a resistergli, dicendo: Ecco, o Signore la creatura delle mani dalla tua bontà, col tuoSangue ricomperata. Ecco l’inimico, che tenta di levarla da te e divorarla. A te, Signormio, ricorro, in te solo confido che sei onnipotente e buono, e vedi la mia impotenza e la prontezza a farmeli senza il tuo aiuto volontariamente soggetta, Aiutami dunque, speranza mia, e fortezza dell’anima mia. Virtuale domanda s’intende quando si alza la mente a Dio per ottenere alcuna grazia, mostrandogli il bisogno senz’altro dire o discorrere. – Come, quando io levo la mente a Dio, e quivi alla presenza sua mi conosco impotente a difendermi dal male, e fare il bene, ed acceso di desiderio di servirlo umilmente, e con fede aspettando il soccorso suo, miro, e rimiro esso Signore. Questo così fatto conoscimento, acceso di desiderio, o fede innanzi a Dio è una orazione, che in virtù domanda quello che mi bisogna, e quanto più il detto conoscimento sarà chiaro, e sincero, il detto desiderio acceso, e viva la fede, tanto più efficacemente domanderà. – Vi è anco un’altra sorte di orazione virtuale più ristretta, che si fa con un semplice sguardo della mente a Dio, affine che ci soccorra, il quale sguardo non è altro che un tacito ricordo, e domanda di quella grazia che per l’innanzi avevamo domandata. E fa, che apprendi bene questa sorte di orazione, e te la faccia famigliare, perché (come l’esperienza ti mostrerà) è un’arma che facilmente in ogni occasione e luogo puoi avere alle mani, ed è di più valore, e giovamento ch’io ne sappia dire.
Dell’Orazione per via di Meditazione.
CAP. XLVI
Volendo orare per qualche spazio di tempo, come di mezz’ora, oppure di un’ora intera, e più, all’orazione aggiungerai la meditazione della vita e passione di Gesù Cristo, applicando sempre le azioni sue a quella virtù che desideri. Come se desideri d’ottenere grazia della virtù della pazienza, prenderai per avventura a meditare alcuni punti di mistero della flagellazione. – Primo. Come dopo l’ordine dato da Pilato, il Signore fu con gridi e scherni trascinato dai ministri della malvagità al luogo deputato per flagellarlo. – Secondo. Come fu da essi con frettolosa rabbia svestito, e ne restarono tutte scoperte, e nude le sue carni purissime. – Terzo. Come le sue innocenti mani con dura fune furono legate alla colonna. – Quarto. Come fu il suo corpo tutto lacerato e stracciato dai flagelli, onde corsero fino a terra i rivi del suo sangue divino. Quinto. Come aggiungendosi percosse a percosse in uno stesso luogo, si esacerbarono sempre più le piaghe già fatte. Così avendoti proposti, per acquistare la pazienza, questi o simili punti da meditare, applicherai prima i sensi a sentire più vivamente che potrai le amarissime angosce e pene acerbe, che in ciascuna parte del suo Sacratissimo Corpo, ed in tutte insieme, il tuo caro Signore sosteneva. Quindi passerai all’Anima sua santissima, penetrando, quanto si può, la pazienza e mansuetudine, con la quale tollerava tante afflizioni, non saziando però mai la fame di patire per onore del Padre e nostro beneficio, maggiori e più atroci tormenti. Miralo poi acceso d’un vivo desiderio, che tu voglia comportare il tuo travaglio, e vedi come ancora rivolto al Padre prega per te, che si degni farti la grazia di portar pazientemente la Croce, che allora ti crucia, e qualunque altra. Onde tu piegando più volte la volontà a voler tollerate il tutto con animo paziente, voglia poi la mente al Padre, e ringraziandolo prima, che per sua pura carità ha mandato al mondo il suo Unigenito Figliuolo a sopportare tanti aspri tormenti ed a pregare per te, domandagli poi la virtù della pazienza in virtù delle opere, e preghi del suo Figliuolo.
Di un altro modo
d’orare per via di
meditazione.
CAP. XLVII
Potrai anco in un altro modo orare e meditare, poiché avrai attentamente considerate le afflizioni del Signore, e col pensiero veduta la prontezza dell’animo con che le sosteneva; dalla grandezza dei suoi travagli, e dalla sua pazienza passerai a due altre considerazioni. L’una del merito suo. L’altra del contento e della gloria del Padre etemo, per la perfetta ubbidienza del suo appassionato Figliuolo. Le quali due cose rapprefentando a sua Divina Maestà, domanderai, in virtù loro, la grazia che desideri. E ciò potrai fare non pure in ciascun mistero della passione del Signore, ma in ogni atto particolare, interiore, ed esteriore, che Egli faceva in ciascun Mistero.
Di un modo d’orare col mezzo di Maria Vergine.
CAP. XLVIII
Oltre i sopraddetti vi è un altro modo di meditare, ed è col mezzo di Maria Vergine, rivoltando la mente prima all’eterno Iddio, poi al dolce Gesù, ed ultimamente ad Ella gloriosissima Madre. A Dio rivolta, considera due cose: l’una sono i diletti, ch’Egli ab æterno di te stesso considerato in Maria prendeva, avanti ch’Ella avesse l’esser fuori del niente. L’altra le virtù ed azioni di Lei, poiché fu prodotta al mondo. – I diletti cosi li mediterai. Sollevati in alto col pensiero sopra ogni tempo, e sopra ogni creatura, ed entrata nell’istessa eternità e mente di Dio, confiderà le delizie, che di se stesso prendeva in Maria Vergine, e tra questi diletti trovato esso Dio, in virtù loro domanda sicuramente grazia e forza per la distruzione dei tuoi nemici, e particolarmente di quello che ti combatte allora. – Passando poi alla considerazione delle tante e così singolari virtù ed azioni in Ella Madre santissima, ed appresentandole quando tutte insieme, quando alcuna d’esse a Dio, in virtù di quelle chiedi alla sua infinita bontà ogni tuo bisogno. – Al Figliuolo poi rivolgendo la mente, gli ridurrai a memoria il vergineo Ventre che nove mesi lo portò; la riverenza con cui, dopo che fu nato, la Verginella l’adorò, e riconobbe per vero uomo e vero Dio, Figliuolo, e Creatore suo. Gli occhi pietosi che lo mirarono tanto povero, le braccia che lo raccolsero, le care labbra che lo baciarono; il latte che lo nutrì e le fatiche ed angosce, che in vita ed in morte sostenne per Lui. Per virtù delle quali cose, farai al Divino Figliuolo dolce violenza, perché ci esaudisca. – Rivolta unitamente alla Ss. Vergine, ricordale, che dall’eterna provvidenza e bontà è stata eletta per Madre di grazia e di pietà, ed Avvocata nostra. Onde non abbiamo, dopo il suo benedetto Figliuolo, più sicuro e potente ricorso, che a Lei. Di più ricordale quella verità, che di Lei si scrive, e si ha per tanti e tanti effetti miracolosi, che mai nessuno con fede la invocò, che non gli abbia pietosamente risposto. – Finalmente le porrai davanti i travagli del suo unico Figliuolo, che per la nostra salute tollerò, pregandola, che t’impetri grazia da Lui, perché a gloria e contento suo, in te abbiano quell’effetto per lo quale Egli li sostenne.
Di alcune considerazioni, perché con fede e confidenzasi ricorra a Maria Vergine.
CAP. XLIX
Volendo tu ricorrere a Maria Vergine con fede e confidenza in ogni tuo bisogno, potrai conseguirla dalle seguenti considerazioni. – Primo. Già si sa per esperienza, che tutti quelli vasi, ove è stato del muschio, o qualche liquore prezioso, ritengono seco, benché più non vi sia, del suo odore, e tanto più, quanto più spazio di tempo vi farà stato e molto più, se ancora in qualche modo ve ne fosse rimasto; eppure il muschio è di virtù limitata e finita, e così ogni prezioso liquore. Come anco quel che sta vicino ad un gran fuoco, ritiene per molto tempo il calore, ancorché dal fuoco si allontani. Essendo questo vero di che fuoco di carità, di che sensi di misericordia, e di pietà, diremo noi, che le Viscere di Maria Vergine siano abbruciate e piene? che nove mesi ha Ella tenuto nel suovergineo ventre, e sempre tiene nel petto e nell’amore il Figliuolo di Dio, che la stessa carità, misericordia e pietà, non già di virtù finita e limitata, ma d’infinita, e senza termine alcuno. Talché, siccome si accosta ad un gran fuoco, non può non ricevere del focolare, così molto più, ogni bisognoso che con umiltà e fede si avvicinerà al fuoco di carità, di misericordia e di pietà, che sempre arde nel petto di Maria Vergine, ne riceverà aiuti, favori, e grazie, e tanto più, quanto più spesso e con maggior fede e confidenza vi si accetterà. – Secondo. Niuna creatura amò giammai tanto Gesù Cristo, né tanto fu conforme alla volontà di Esso, quanto la Madre sua santissima. Se dunque l’istesso Figliuolo di Dio, che tutta la vita sua, e tutto se stesso ha speso per li bisogni di noi peccatori, ci ha dato laMadre sua per nostra Madre ed Avvocata, affine che ci aiuti e sia, dopo di Lui, mezzo della salute nostra; in qual modo potrà mai essa Madre, ed Avvocata nostra mancarci, e diventare ribelle alla volontà del Figlio? Ricorri pure figliuola con confidenza in ogni tuo bisogno alla Ss. Madre Maria Vergine, perché ricca e beata è questa confidenza, e sicuro è rifugio a Lei, poiché partorisce tuttavia grazie, e misericordie.
Di un modo di meditare, ed orare per mezzo degli Angioli, e di tutti i Beati.
CAP. L
Per servirti in ciò dell’ aiuto, e favore degli Angioli, e dei Santi del Cielo, potrai tenere due modi. – L’uno è, che ti rivolti al Padre eterno, e gli presenti l’amore e le lodi, con cui è esaltato da tutta la Corte celestiale, e le fatiche e pene, che i Santi hanno sofferto in terra per suo amore, ed in virtù di quelle cose, tu domandi alla Sua Divina Maestà tutto ciò, che ti fa bisogno. – L’altro è, che tu ricorra ad essi gloriosi Spiriti, come a quelli, che non pure bramano la nostra perfezione, ma che in più alto luogo di essi siamo collocati, chiedendo il soccorso loro contro tutti i vizi e nemici tuoi, ed anco per la tua difesa nel punto della morte. Ed alcuna volta ti metterai a considerare le molte grazie e singolari che hanno ricevute dal sommo Creatore, eccitando in te verso loro un vivo affetto d’amore, ed allegrezze perché sono ricchi di tanti doni come se tuoi propri fossero. Anzi ti rallegrerai, se possibile sia, più ch’essi, che loro e non tu, li abbiano, poiché tale fu la volontà di Dio, il quale perciò ne sia lodato, e ringraziato. – E per fare questo esercizio con ordine e facilità, potrai dividere le schiere dei Beati per li giorni della settimana in questa maniera. – La Domenica prenderai li nove Cori Angelici.
Il Lunedi S. Giambattista.
Il Martedì i Patriarchi e i Profeti.
Il Mercoledì gli Apostoli.
Il Giovedì i Martiri.
Il Venerdì i Pontefici cogli altri
Santi.
Il Sabato le Vergini con le altre Sante.
Ma non lasciar mai per ciascun giorno di ricorrere spesso a Maria Vergine, Regina di tutti i Santi, all’Angiolo tuo Custode, a S. Michele Arcangelo, ed a tutti i tuoi Santi Avvocati. Ed ogni giorno prega Maria Vergine, il Figliuolo suo ed il celeste Padre, che ti concedano tanta grazia di darti per principale Avvocato eProtettore, S. Giuseppe, sposo di Ella Vergine, ricorrendo poi ad esso Santo con prieghi e confidenza, che ti riceva sotto la sua protezione. Si narrano molte cose di questo glorioso Santo, e molti favori che da esso hanno ricevuti tutti quelli che l’hanno avuto in riverenza, e sono ricorri a lui, non solamente ne’ bisogni spirituali, ma temporali ancora, e particolarmente nell’indirizzare i devoti nel modo di ben meditare ed orare. Che se degli altri Santi tiene tanto conto Iddio, perché fra noi vivendo gli resero ubbidienza ed onore, quanto dobbiamo credere che da Lui sia stimato, ed appresso di Lui vagliano i preghi di questo umilissimo e felicissimo Santo, il quale dall’istesso Dio in terra fu onorato talmente, che volle a lui soggettarsi e come Padre ubbidirlo, e servirlo?
[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A.
Pezzana, Venezia – 1767)
Che dovendosi sempre continuare nell’esercizio della virtù, non sidebbono fuggire le occasioni che per acquistarle ci si presentano.
CAP. XXXVII
Abbiamo veduto assai chiaramente, che nel viaggio che tende alla perfezione, ci conviene camminare sempre avanti, senza fermarci. Per far questo, stiamo bene avvertiti e vigilanti a non lasciarci uscire dalle mani qualunque occasione, che per acquistar le virtù, ci si presenta. Onde male l’intendono quelli, che si allontanano quanto possono dalle cose contrarie, che a questo effetto potrebbero servire. Che se desideri (per non partirmi dal solito esempio) acquistare l’abito della pazienza, è bene che ti ritiri da quelle persone, azioni, e pensieri che ti muovono all’impazienza. E perciò non hai da toglierti da alcune pratiche, perché ti siano moleste, ma conversando, e trattando con qual si sia, che ti apporti noia, tieni sempre disposta, e pronta la volontà per tollerare qualunque cosa rincrescevole e di disgusto, che te ne possa venire, perché altrimenti facendo, non ti avvezzerai mai alla pazienza. – Così parimente se una operazione ti reca fastidio, o per se stessa o per chi te l’ha imporra, o perché ti svia dal far altro che più ti aggradirebbe, non restare perciò d’imprenderla e continuarla, ancorché te ne sentissi inquieta, e lasciandola te ne potessi trovare quiete, perciocché così non impareresti mai a patire, e la tua sarebbe vera quiete non producendo da animo purgato da passione ed ornato di virtù. Il medesimo ti dico dei pensieri, che alcuna volta travagliano e disturbano la tua mente, perché non hai da scacciarli in tutto da te, poiché con la pena che ti danno, ti vengono insieme a servire per assuefarti alla tolleranza delle cose contrarie.- E chi altrimenti ti dice, piuttosto ti insegna a fuggire il travaglio che ne senti, che a conseguire la virtù che desideri. È ben vero che conviene, massimamente al novello soldato, traccheggiare e schermirti nelle dette occasioni con avvertenza e destrezza, ora affrontandole, ora scansandole, secondo che più o meno va acquistando virtù e forza di spirito. Ma non si deve però mai in tutto voltare le spalle e ritirarsi di maniera, che affatto che ne lasci addietro ogni occasione dì contrarietà, perché se per allora ci salvassimo dal pericolo di cadere, staremmo per l’avvenire con maggior rischio esposti ai colpi dell’impazienza non essendosi prima armati e fatti forti con l’uso della virtù contraria. Questi ricordi però non hanno luogo nel vizio della carne, di che abbiamo già trattato particolarmente.
Che si debbono avere care tutte leoccasioni di combattere per l’acquisto delle virtù, e più quelle che portano più difficoltà.
CAP. XXXVIII
Non mi contento figliuola, che tu non schivi l’occasioni che ti si fanno incontro per l’acquisto delle virtù, ma voglio che, come cosa di gran valore e stima, siano alcuna volta da te cercate ed abbracciate sempre lietamente subito che compariscono, e quelle che tu reputi più preziose e care, e che al tuo senso sono più dispiacevoli. Questo ti verrà fatto col divino aiuto, se ti imprimerai bene nella mente le seguenti considerazioni. L’una è che l’occasioni sono proporzionati, anzi necessari per acquistar le virtù. Onde quando tu domandi quelle al Signore, conseguentemente domandi quelli ancora: altrimenti la tua orazione sarebbe vana, e verresti a contraddire a te stessa, ed a tentare Dio, poiché Egli ordinariamente non dà la pazienza senza le tribolazioni, né senza dispregi di umiltà. E così di tutte le altre virtù dire si puote, le quali non vi è dubbio che si conseguano col mezzo degli avvenimenti contrari che ci portano tanto maggior aiuto per questo effetto, che ci hanno da essere perciò tanto più cari e graditi, quanto sono più travagliosi; perché gli atti che noi facciamo in casi tali, sono più generosi e forti, e più agevolmente e più presto ci aprono la strada alla virtù. Sono però da stimare e da non lasciare senza il suo esercizio, anco le minime occasioni, come di uno sguardo, o parola contro la nostra volontà, poiché gli atti che vi si fanno, sono più frequenti, benché manco intesi, che quelli che sono da noi prodotti nelle difficoltà importanti. – L’altra considerazione (che ho anco toccato di sopra) si è che tutte le cose, che ci occorrono, venga da Dio per nostro benefizio e perché noi ne caviamo frutto. E quantunque di queste, alcune, che sono nostri mancamenti, o d’altri (come pure dicemmo in altro luogo) non si può dire che siano da Dio, che non vuole il peccato, sono però da Dio in quanto Egli le permette, e potendo impedirle, non le impedisce; ma tutte le afflizioni e pene che ci avvengono, o per nostri difetti, o per malignità d’altri, sono e da Dio, e di Dio, poiché Egli in queste concorre, e ciò che non vorrebbe, che si facesse, perché contiene deformità odiosa sopra modo ai suoi purissimi occhi, vuole che si patisca per quel bene di virtù, che noi trarre ne possiamo, e per altre giuste cagioni a noi occulte. Laonde essendo noi più che certi che vuole il Signore, che sosteniamo volentieri qualunque molestia ci venga dalle altrui, o anco dalle ingiuste operazioni, il dire (per una cosi fatta scusa della loro impazienza dicono molti) che non vuole, anzi abborrisce le cose mal fatte, non è altro che con un vano preteso coprire la propria colpa, e rifiutare la Croce che non possiamo negare, che gli piace che noi portiamo. Anzi dico di più, che pareggiato il resto, il Signore ama più in noi la tolleranza di quelle pene, che derivano dall’iniquità degli uomini (massimamente se sono stati prima serviti e beneficati) che le molestie che procedono da altri travagliosi accidenti, sì perché ordinariamente più in quelle che in questi la superba natura si reprime, sì ancora perché soffrendole noi volentieri, veniamo a contentare ed esaltare sopra modo il nostro Dio cooperando con Lui in cosa dove riluce sommamente la sua ineffabile bontà ed onnipotenza, che è dal veleno pestifero della malizia, e del peccato cavare prezioso, e saporito frutto di virtù e di bene. – Perciò sappi, figliuola, che non sì tosto scopre il Signore in noi vivo desiderio di farla da vero e di attendere, come si deve a sì glorioso acquisto, che Egli ci apparecchia il calice delle più forti tentazioni, ed occasioni più dure che siano, perché lo prendiamo a suo tempo, e noi come riconoscitori dell’amor suo, e del proprio nostro bene, dobbiamo a chiusi occhi riceverlo volentieri, e fino al fondo scoperto beverlo tutto sicuramente e prontamente, poiché è medicina composta da mano che non può errare, d’ingredienti, tanto più giovevoli all’anima, quanto in se stessi sono più amari.
Come di diverse
occasioni dobbiamo valerci
per esercizio di una stessa
virtù.
CAP. XXXIX
Si è veduto di sopra, come per qualche tempo sia più fruttuoso l’esercizio d’una sola virtù, che di molte insieme, e che secondo quella, si hanno da regolare le occasioni che s’incontrano, benché fra loro diverse. Ora attendi, come ciò si possa eseguire assai facilmente. – Occorrerà in un istesso giorno ed anco in un’istessa ora, che siamo ripresi di un’azione, che però sia buona, o che per altro si mormori di noi; che ci sia duramente negata alcuna grazia da noi richiesta, o qualsivoglia ben piccola coserella che sia sospettato male di noi senza cagione che ci sopravvenga alcun corporale dolore, che ci sia imposto alcun affaretto noioso, che ci sia portata una vivanda mal condita , o altre cose più importanti e dure a tollerare ci avvengano, delle quali è piena la miserabile umana vita. Nella varietà di quelli, o simili accidenti, ancora che si possano produrre diversi atti di virtù, nondimeno volendo tenere la mostrata regola, ci andremo esercitando con atti conformi tutti alla virtù che allora avremo alle mani, come per esempio. Se nel tempo, che verranno le dette occasioni ci eserciteremo nella pazienza, produrremo atti di sopportarle tutte volentieri e con allegrezza di animo. Se il nostro esercizio sarà d’umiltà, ci conosceremo in tutte quelle contrarietà di ogni male degni. – Se d’ubbidienza, ci sottoporremo prontamente alla mano potentissima di Dio, e per suo contento (poiché Egli così vuole) alle creature ragionevoli, ed anche inanimate, dalle quali ci vengono questi disgusti. Se di povertà, ci contenteremo d’essere spogliati e privi d’ogni consolazione, grande o piccola di questo mondo. Se di carità, produrremo atti di amore, e verso il prossimo nostro, come strumento del bene che possiamo acquistare, e verso il Signore Dio, come principale ed amorosa cagione da cui procedono, o sono permessi quegli incomodi per nostro esercizio e spirituale profitto. E da questo, che diciamo intorno ai diversi accidenti, che possono avvenire per ciascun giorno, si comprende insieme, come in una sola occasione d’infermità o d’altro travaglio, che continuasse lungamente, possiamo andar facendo atti di quella virtù, in cui allora ci esercitiamo.
Del tempo, che si ha da porre nell’esercizio di ciascuna virtù, e dei segni del nostro profitto.
CAP. XL
Quanto al tempo, nel quale si abbia da continuare nell’esercizio di ciascuna virtù, a me non sta a determinarlo: poiché ciò si ha da regolare dallo stato e bisogno dei particolari, dal progresso che si va facendo nella via dello spirito, e dal giudizio di chi per quella ci guida. Ma se con quei modi e sollecitudini, che detto abbiamo, vi si attendesse davvero, non è dubbio che in non molte settimane si profitterebbe più che molto. Segno d’aver fatto profitto nella virtù è, quando nell’aridità, e fra le tenebre ed angustie dell’anima, e la sottrazione dei gusti spirituali, saldamente si va continuando nei virtuosi esercizi. Di ciò ne darà anco assai chiaro indizio il contrasto, che nel produrre gli atti della virtù, farà la sensualità; ché quanto questa andrà perdendo di forze, tanto in quella sarà da stimare l’avere avanzato. Onde non sentendosi contraddizione e ribellione nella parte sensuale ed inferiore, massimamente fra gli assalti subiti ed improvvisi, sarà quello segno d’avere già conseguita la virtù. – E quanto più gli atti nostri saranno accompagnati da maggiore prontezza ed allegrezza di spirito, tanto più potremo pensare d’avere profittato in questo esercizio. Si avverta però, che non dobbiamo mai darci ad intendere come per cosa certa di essere possessori delle virtù, e vittoriosi affatto di alcuna nostra passione, ancora che dopo molto tempo, e molte battaglie non avessimo sentito i moti suoi, che qui può ancora avere luogo l’astuzia ed operazione del demonio, ed ingannevole nostra natura, onde alle volte quello è vizio, che per occulta superbia pare virtù. Oltre che, se miriamo alla perfezione alla quale ci chiama Iddio, per molto cammino che avessimo fatto nella via delle virtù, non avremmo da persuaderci d’essere pure entrati nei suoi primi confini. – Perciò tu, come novella guerriera, e quasi bambina pure allora nata per combattere, ripiglia sempre, come da principio, i tuoi esercizi quasi che nulla addietro avessi operato. – E ti ricordo figliuola, che tu attenda piuttosto a camminare avanti nelle virtù, che a fare scrutinio del proprio profitto, perché il Signore Iddio, vero e solo scrutatore dei nostri cuori, ad alcuni ciò fa conoscere, ad alcuni no, secondo che vede che a tale cognizione sia per seguirne o umiliazione, o superbia, e come Padre amorevole agli uni leva il pericolo, e agli altri porge occasione d’accrescimento di virtù. E perciò, ancorché l’anima non si avveda del suo progresso, seguiti pure negli esercizi suoi, che lo vedrà, quando piacerà al Signore, che per maggior suo bene lo veda.
Che non dobbiamo lasciarci prendere la voglia d’esser liberi dai travagli, che sostentiamo pazientemente, e del modo dì regolare tutti i nostri desideri,acciò siano virtuosi.
CAP. XLI
Quando tu ti ritrovi in qualunque cosa penosa, che sia, e la sostieni con animo paziente, sta avvertita di non lasciarti mai persuadere dal demonio, e dal tuo proprio amore di desiderarne la liberazione, perché da ciò ti verrebbero due principali danni. L’uno è, che se questo desiderio non ti togliesse per allora la virtù della pazienza, almeno a poco a poco ci anderebbe disponendo all’impazienza. – L’altro è che la tua pazienza si renderebbe difettosa, e sarebbe ricompensata da Dio solamente per quello spazio di tempo che tu patissi, laddove se non averli desiderato la liberazione, ma del tutto ti fossi rimessa alla sua divina bontà, benché in effetto il tuo patire fosse stato di un’ora sola, ed anche meno, il Signore l’avrebbe riconosciuto per servigio di lunghissimo tempo. Perlochè in quella e in tutte le cose, abbi per regola universale, di tenere i tuoi desideri così lontani da ogni altro oggetto, che mirino puramente e semplicemente nel suo vero ed unico scopo, ch’è il volere di Dio, che di questo modo saranno giusti e retti, e tu in qualunque contrario avvenimento, starai non pure quieta, ma contenta, poiché non potendo occorrere alcuna cosa senza la superna volontà, volendo tu quella, verrai a volere insieme e avere tutto ciò che desideri e succede in ogni tempo. – Questo, che non s’intende nei peccati d’altri, o tuoi, poiché Dio non li vuole, ha luogo in ogni male di pena, che da quelli, o d’altronde ne venisse, quantanque ella fosse tanto violenta e penetrasse così dentro che, toccando il fondo del cuore, andasse seccando le radici della vita naturale, che questa è pure croce con cui piace a Dio di favorire talora i suoi amici più intimi e cari. – E ciò ch’io dico della sofferenza che hai d’avere in ogni caso, intendilo, quanto a quella parte di ciascun travaglio, che ne rimane, ed è di contento al Signore, che sosteniamo, dopo che faranno stati da noi usati i leciti mezzi per liberarcene. E questi pur anche si debbono regolare dalla disposizione e volontà di Dio che li ha ordinati, alfine che ce ne serviamo, perché Egli così vuole e non con l’attacco di noi stessi, né perchè amiamo e desideriamo la liberazione delle cose moleste, più di quello appunto, che è di suo servizio e piacimento.
Del modo di opporsi al demonio mentre cerca d’ingannarci conla
indiscrezione.
CAP. XLII
Quando il sagace demonio si avvede che, con vivi e ben ordinati desideri, camminiamo dirittamente per la via delle virtù, onde con aperti inganni non può tirarci dalla sua si trasfigura in Angelo di luce, e con amichevoli pensieri e sentenze della Scrittura, ed esempi dei Santi, importunamente ci sollecita a camminare indiscretamente nel colmo della perfezione, per farne poi cadere in precipizio. Onde ci conforta a castigare aspramente il corpo con discipline, astinenze, cilici, ed altre somiglianti afflizioni, acciocché, o insuperbiamo, parendoci (come alle donne particolarmente occorre) di fare cose grandi, o perché sopravvenendoci qualche infermità, diventiamo inabili all’opere buone, oppure alfine, che per troppa fatica e pena ci vengano a noia ed abborrimento gli esercizi spirituali, e così a poco a poco, intiepiditi nel bene, con maggior avidità che prima, ci diamo poi in preda ai terreni diletti e passatempi, il che è avvenuto a molti che, seguendo con presunzione di spirito l’impeto di un indiscreto zelo, trapassata con immoderati patimenti esteriori la misura della propria virtù, sono periti nelle loro invenzioni, e fatti in derisione ai maligni demoni. Il che non sarebbe loro succeduto se avessero bene considerate le cose dette, e che a quella forte di atti penosi, ancorché siano lodevoli ed apportino frutto, dove siano forze corporali ed umiltà di spirito corrispondenti, sia però bisogno di temperamento conforme alla qualità e natura di ciascuno. Ed a chi non può in quest’asprezza di vita travagliare con i Santi, non mancano altre occasioni, per imitare la vita loro con grandi ed efficaci desideri ed orazioni ferventi, aspirando alle più gloriose corone dei veri combattenti per Gesù Cristo, col dispregiare il mondo tutto, e se stesso ancora: col darsi al silenzio ed alla solitudine, coll’essere umile, e mansueti con tutti, col patire male, e far bene a chiunque gli è più contrario, e col guardarsi da ogni colpa, anche leggiera, che è cosa più grata a Dio, che non sono gli esercizi afflittivi del corpo, nei quali io do a te per consiglio d’esser piuttosto discretamente parca, per poterli accrescere bisognando, che con certi eccessi porti a rischio di ridurti a termine di lasciarli: perché già io mi persuado, che tu non sia per inciampare nell’errore di alcuni, per altro tenuti Spirituali, che allettati ed ingannati dalla lusinghevole natura, sono troppo diligenti nel conservarle la loro salute corporale. E se ne mostrano tanto gelosi e ansiosi, che per un minimo che, stanno tempre in dubbio, ed in timore di perderla. E non è cosa, di che pensino più, e trattino più volentieri, che del governo in questa parte della vita loro: onde attendono di continuo a procurare cibi conformi più al gusto, che allo stomaco loro, il quale molte volte per soverchia delicatezza si viene ad infiacchire, il che mentre si fa sotto pretesto di poter meglio servire a Dio, non è altro che volere accordare insieme, senza prò niuno, anzi con danno dell’uno e dell’altro, due capitali nemici che sono spirito e corpo, poiché con sì fatta sollecitudine a questo della sanità, e da quello si toglie della devozione. E perciò è più sicuro e giovevole per ogni rispetto, un certo modo di viver libero, non scompagnato però da quella discrezione che ho detto, avendo riguardo a diverse condizioni e complessioni, che tutte non soggiacciono ad una stessa regola. – Ed aggiunge che non pure nelle cose esteriori, ma anco nell’acquistare le virtù interiori, dobbiamo proceder con gualche moderazione, come si è dimostrato di sopra nell’acquisto delle virtù a grado a grado.
Quanto possa in noi la mala nostra inclinazione, e l’istigazione del demonio per indurci a giudicare temerariamente il prossimo, e del modo di far loro resistenza.
CAP. XLIII
Dal sopraddetto vizio della propria stima e riputazione, un altro ne nasce, che ci porta gravissimo danno, ed è il temerario giudizio, che facciamo deu prossimi nostri, onde veniamo a tenerli a vile, dispregiarli, ed abbassarli. Il qual difetto, siccome ha il suo nascimento dalla mala inclinazione e superbia: cosi è da lei fomentato, e nutrito volentieri, perché con essi insieme essa ancora si va aumentando, compiacendo, ed ingannando insensibilmente, poiché senza avvedercene, tanto più ci presumiamo d’innalzare noi stessi quanto più nell’opinione nostra, deprimiamo gli altri, parendoci di essere lontani da quelle imperfezioni che in essi ci diamo a credere, che siano. – Ed il sagace demonio, che scorge in noi cosi fatta pessima disposizione d’animo, di continuo stavigilante per aprirci gli occhi e tenerci svegliati, per vedere, esaminare ed ingrandire gli altrui mancamenti. Non si crede, non si conosce dalli trascurati, quanto egli si adopera, e studia per imprimere nelle nostre menti i piccioli difetti, non potendo i grandi, di questo e di quello. Però s’egli vigila ai tuoi danni, sia desta tu ancora, per non cadere nei lacci suoi, e subito, ch’egli ti appresenta davanti alcun fallo del prossimo tuo, prestamente ritira da quello il pensiero, e se pure ti senti muovere a farne giudizio, non ti lasciar condurre, e considera che a te non è stata data questa facoltà, il che, quando anco fosse, non ne potresti pur fare giudizio retto, trovandoti attorniata da mille passioni e purtroppo inchinata a pensar male, senza giusta cagione. – Ma per efficace rimedio di ciò, ti ricordo, che stia occupata con il pensiero nei bisogni del tuo cuore, che ogni ora più ti andrai avvedendo d’avere tanto da fare, e travagliare in te e per te, che non ti avanzerà tempo, né voglia di badare ai fatti altrui. Oltre, che attendendo a tal esercizio nel modo, che si conviene, verrai sempre più a purgare il tuo occhio interiore da quei mali amori onde procede questo pestifero vizio. – E sappi, che quando sinistramente pensi alcun male del fratello, qualche radice dell’istesso male è nel tuo cuore, il quale, secondo che si trova mal disposto, così riceva in sé ogni simile affetto che gli si fa incontro. Però quando ti cade in animo di giudicare altri di qualche difetto, sdegnata contro di te, come di quell’istesso colpevole, dirai nell’animo tuo, come stando in misera sepolta in questi e più gravi difetti, prenderò ardire di levare il capo per vedere e giudicare, quelli degli altri. E così l’armi che indirizzate contro d’altri, venivano a ferir te, adoprate contro di te, porteranno salute alle piaghe tue. Che se l’errore commesso è chiaro e manifesto, scusalo con affetto di pietà, e credi che in quel fratello vi siano delle virtù occulte, per guardia delle quali il Signore permette ch’egli cada, o abbia per qualche tempo quel difetto, perché si tenga più vile negli occhi suoi, e con l’esserne dispregiato dagli altri, ne cavi frutto d’umiliazione, e si faccia più grato a Dio e cosi il guadagno suo ne venga ad essere maggiore della perdita. – E se il peccato è non pure manifesto, ma grave, d’ostinato cuore, ricorri col pensiero ai tremendi giudizi di Dio, dove vedrai uomini ch’erano prima scelleratissimi, esser poi arrivati a segno di santità grande, ed altri dal più sublime stato di perfezione, al quale pareva che fossero pervenuti, esser caduti in miserabile precipizio. E perciò sta sempre in timore e tremore più che d’alcun altro di te medesima. E renditi certa, che tutto quel bene e contento che senti del prossimo tuo, è effetto dello Spirito Santo, ed ogni dispregio, temerario giudizio, ed amarezza contro di lui, viene dalla propria nostra malizia e da diabolica suggestione. Però se alcuna imperfezione d’altri avesse in te fatta impressione non ti acquietare mai, né dar sonno agli occhi tuoi, finché a tuo potere non te la levi dal cuore.
[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A.
Pezzana, Venezia – 1767)
Dell’ultimo
assalto, ed inganno proposto di
sopra con cui tenta il demonio perché le virtù acquistate ci siano occasione
di rovina.
CAP. XXXII
L’Astuto e maligno serpente, non manca di tentarci con i suoi inganni, anco nelle virtù che abbiamo acquistate, perché ci siano occasione di rovina, mentre compiacendosi di quelle e di noi medesimi, veniamo a levarci in alto per cadere poi nel vizio della superbia e vanagloria. Per guardarti tu dunque da questo pericolo, combatti sempre, sedendo nel campo piano e sicuro, di un vero e profondo conoscimento che niente sei, niente sai, niente puoi, e niente altro hai che miserie e difetti, né altro meriti che l’eterna dannazione. E fermata e stabilita dentro i termini di questa verità, non ti lasciar mai trar fuori pure un puntino di qualsivoglia pensiero o cosa che ti avvenga, tenendo per certo che tutti siano tanti remici tuoi dai quali (se tu dessi nelle mani loro) ne rimarresti o morta o ferita. Per esercitarti bene a correre nel suddetto campo della conoscenza vera della tua nullità, serviti di questa regola: “quante fiate volte ti rivolti alla considerazione di te stessa e dell’opere tue, considerati sempre con il tuo e non con quello che è di Dio e della sua grazia. E poi tale si stima quale col tuo ti ritrovi ad essere. Se consideri il tempo avanti che tu fossi, vedrai che in tutto questo abisso d’eternità, sei stata un puro niente, e che niente hai operato, né potuto operare, perché avessi l’essere. In questo tempo poi, che tu hai l’essere per sola bontà di Dio, lasciando a Lui il suo (ch’è il continuo reggimento col quale ogni momento ti conserva) che altro sei col tuo, che parimente un niente? Peiché non v’è dubbio alcuno, che al tuo primo niente, da cui ti cavò la sua onnipotente mano, ne ritorneresti in un istante, s’Egli per un solo minimo momento ti lasciasse. È cosa chiara dunque, che in questo essere naturale, stando col tuo, non hai ragione di stimarti, o di volere da altri essere stimata. Quanto poi tocca al ben essere della grazia, ed all’operare il bene, la tua natura spogliata del divino aiuto, qual cosa buona e meritoria potrebbe ella mai fare da sé medesima? Che considerando dall’altra parte i tuoi molti falli passati, ed oltre a ciò il molto d’altro male, che da te sarebbe proceduto se Iddio con la sua pietosa mano non ti avesse tenuta, troverai che le tue iniquità per la moltiplicazione non pure dei giorni, e degli anni, ma anche negli atti ed abiti mali (poiché un vizio chiama, e tira seco l’altro), sarebbero giunte a numero infinito e tu ne saresti diventata un altro Lucifero infernale. – Onde non volendo tu essere ladra della bontà di Dio, ma starti sempre col tuo Signore, di giorno in giorno peggiore ti devi riputare. Ed avverti bene che questo giudizio che fai di te stessa, sia accompagnato dalla giustizia, perché altrimenti ti sarebbe di non piccolo danno. Che se quanto alla cognizione della tua malvagità avanzi alcuno che per sua cecità si tenga da qualche cosa, perdi però tu d’assai, e ti rendi peggiore di lui nelle opere della volontà, se vuoi essere dagli uomini riputata e trattata da tale quale sai di non essere. – Se vuoi dunque, che il conoscimento della tua malizia e viltà tenga lontani i tuoi nemici, e ti faccia cara a Dio, fa’ di mestiere, che non pure spregi te stessa, come indegna di ogni bene, e meritevole di tutti i mali, ma, che dagli altri abbia caro d’essere spregiata, abborrendo gli onori, godendo dei vituperi, ed inchinandoti con le occasioni a fare tutto quella che altri spregiano. Il giudizio dei quali, per non lasciare quella santa pratica non hai da stimare punto, purché ciò sia fatto da te per quello fine solo del tuo abbassamento ed esercizio, e non per una certa presunzione di animo, e non bene conosciuta superbia, per la quale talora, sotto altri buoni pretesti si tiene poco o niun conto dell’altrui opinione. E se alle volte ti occorre per alcun bene, che Iddio ti ha dato d’essere come buona, amata e lodata da altri, sta bene raccolta dentro di te , né ti muovere punto dalla suddetta verità e giustizia, ma rivoltati prima a Dio, dicendo con il cuore: Non sia mai Signore, che io sia ladra dell’onore e delle grazie tue …Tibi laus, honor et gloria, mihi confusio! E poi verso il tuo lodatore, così favellando interiormente: Ond’è, che questi mi tengano perbuona, se veramente è buono ilmio solo Dio, e le sue opere? Che facendo in questo modo e rendendo al Signore tuo, terrai da lungi i nemici, e ti disporrai a ricevere maggiori doni e favori da Dio. E quando la memoria delle opere buone ti mette in pericolo di vanità, mirandole, non cosa tua, ma di Dio, quali loro parlando, potrai dire nell’animo tuo Io non so, in qual modo voi ed incominciaste ad avernella mente mia, perché io non sono l’origine vostra, ma il buonIddio e la sua grazia vi ha creato, nutrito, Lui solodunque vo riconoscere per vero, eprincipale Padre, Lui ringraziare, ed a Lui vo darne ogni lode. – Considera poi, che tutte le opere che hai fatte, giammai sono state non solamente poco corrispondenti al lume ed alla grazia, che per conoscerle ed eseguirle ti è stata concessa, ma per altro ancora molto imperfette, e pur troppo lontane da quella pura intenzione e debito fervore e diligenza, con che dovevano essere accompagnate ed operate. – Onde sebbene vi pensi, piuttosto tu ne hai da vergognare, che da piacerne vanamente, perché è pur troppo vero, che le grazie che da Dio riceviamo pure, e perfette sono, nell’eseguirle dalle nostre imperfezioni macchiate. Di più paragona le opere tue con quelle dei Santi, ed altri servi di Dio, che a comparazione di esse con chiarezza conoscerai, che le migliori, e maggiori delle tue sono di molto bassa lega e valore! Paragonandole poi con quelle dì Cristo, che nei misteri della vita sua e continua Croce per te operò, e considerandole senza la persona Divina in se stesse solamente, e per l’affetto, e per la purità dell’amore con cui furono fatte, vedrai che tutte le opere tue sono, come appunto un niente. Che se per ultimo leverai la mente alla Divinità, ed all’immensa Maestà del tuo Dio, ed al servigio che merita, vedrai chiaro, che non vanità, ma tremore grande ti resta da qualunque tua opera. Onde per tutte le vie in ogni opera tua, per santa ch’ella sia, devi con tutto il cuore dire al tuo Signore: Deus, propitius esto mihi peccatori. – Ti avviso di più, che non vogliesser facile a scoprire i doni, che Iddio ti abbia fatto, che quello quasi sempre spiace al tuo Signore, come ci dichiara Egli medesimo con la seguente dottrina. – Apparse Egli una fiata informa di fanciullo ad una sua devota, quasi pura creatura; fu da lei così semplicemente ricercato, che recitando la Salutazione Angelica, cominciò Egli prontamente: Ave,gratia plena, Dominus tecum, Benedicta tu in mulieribus, e poi si fermò, perché non volle con le altre parole lodare se stesso. E mentre ella pure lo pregava, che più oltre dicesse, Egli nascondendosi, lasciò consolata la sua serva, palesandole col suo esempio quella celeste dottrina. – Impara ancora tu figliuola ad abbassarti, conoscendoti con tutte le opere tue per quel niente che sei. Questo è il fondamento di tutte le altre virtù. Iddio, prima che fossimo, ti creò di niente, ed ora, che siamo per Lui, vuole sopra questa nostra cognizione, che da noi niente siamo, fondare tutta la fabbrica spirituale. E quanto più in quello ci profondiamo, tanto più in alto crescerà questa. Ed a proporzione della terra delle miserie nostre, che andremo cavando, vi porrà il divino Architetto tante fermissime pietre, per mandare avanti l’edificio. Né ti persuadere figliuola di poter mai profondarti tanto, che basti: anzi fa’ di te questa stima, che se cosa infinita si potesse dare in creatura, tale sarebbe la tua viltà. – Con questa cognizione bene praticata, possediamo ogni bene, senza quella siamo poco più, che niente, ancorché facessimo le opere di tutti i Santi, e stessimo sempre occupati in Dio. O beata cognizione, che ci fa in terra felici e gloriosi in Cielo! O lume, che uscendo dalle tenebre, rende l’arme lucide e chiare! O gioia non conosciuta che risplende fra le immondizie nostre! O niente, che conosciuto, ci fa padroni del tutto! Non mi sazierei mai di ragionarti di ciò; se vuoi lodare Iddio, accusa te stessa, e brama di essere accusata dagli altri. Umiliati con tutti, e sotto a tutti, se vuoi in te esaltare Lui, e te in Lui. Se desideri ritrovarlo, non t’innalzare, ch’Egli fuggirà. Abbassati, ed abbassati quanto puoi, ch’Egli verrà a trovarti ed abbracciarti. E tanto ti accoglierà, e stringerà seco in amore più caramente, quanto più ti avvilirai negli occhi tuoi; e compiacerai d’essere avvilita da tutti, e come cosa abbominevole ributtata. E di tanto dono, che ti fa il tuo, per te vituperato Dio per unirti seco, fa’ che ti stimi indegna, e non mancare di renderli spesso grazie, e tenerti obbligata, a chi te ne data occasione, e più a quelli che ti hanno conculcato, o più credono che tu mal volentieri e di non buona voglia lo sopporti. Il che, quando anche fosse, non devi mostrar segni di fuori. Se non ostante tante considerazioni che sono pur troppo vere, di astuzia del demonio, e l’ignoranza, e la mala inclinazione nostra prevalessero in noi di modo che i pensieri della propria esaltazione non cessassero d’inquietarci, e fare nel cuor nostro impressione, pure allora è tempo d’umiliarci, tanto più negli occhi nostri, quanto che dalla prova vediamo avere poco profittato nella via dello spirito, e conoscimento leale di noi stessi, poiché non possiamo liberarci da sì fatte molestie che hanno radice dalla nostra vana superbia. Così dal veleno caveremo miele e sanità dalle ferite.
Di alcuni
avvertimenti per vincere le passioni
viziose, ed acquistare le
nuove virtù.
CAP. XXXIII
Per molto, ch’io ti abbia detto del modo che hai da tenere per superare te stessa, ed ornarti delle virtù, pure mi rimane d’avvertirti di altre cose. Primo. Non ti lasciar mai persuadere, volendo far acquisto delle virtù, da quegli esercizi spirituali, che a stampa (come si dice) hanno determinati i giorni della settimana, uno per una virtù, e gli altri per le altre. Ma l’ordine del combattere ed esercizio, sia di far guerra a quelle passioni che ti hanno sempre danneggiato, e tuttavia spesso ti assaltano, e danneggiano, e di ornarti delle virtù loro contrarie, e quanto più perfettamente sia possibile. Perché acquistando tu quelle virtù, tutte le altre con facilità e con pochi atti le acquisterai prestamente nelle occasioni loro, che mai non mancano, essendo che le virtù vanno sempre incatenate insieme e chi ne possiede una perfettamente, tutte le altre le ha pronte nelle porte del cuore. – Secondo: Non determinare mai tempo all’acquisto delle virtù, né settimane, né anni, ma sempre, quali allora nata, e come novello soldato combatti, e cammina all’altezza della perfezione loro. Ne ti fermare pure per un puntino perché il fermarti nel cammino delle virtù, e della perfezione, e non è pigliar fiato e forza, ma ritornare addietro, o diventare più fiacca di prima. – Fermarsi intendo io, il darsi a credere d’aver acquistato la virtù compiutamente, ed il fare alle volte poco conto e delle occasioni, che a nuovi atti di virtù ci chiamano, e de’ piccoli mancamenti. Onde sii sollecita e fervente, e destra, perché non perda pure una minima occasione di virtù. Ama dunque tutte le occasioni che inducono alle virtù, e quelle più che sono difficili a superarsi, essendo che gli atti, i quali si fanno per superare le difficoltà più presto, e con più alta radice fanno gli abiti, ed abbi cari quelli che te le porgono. Quelle solamente a larghi passi con ogni industria e prestezza hai da fuggire, che alla tentazione della carne ti potrebbero introdurre. – Terzo. Sii prudente, e discreta in quelle virtù, che possono cagionare danno al corpo, come sono affliggerlo con discipline, cilici, digiuni, vigilie, meditazioni, ed altre cose somiglianti, perché quelle virtù si devono acquistare a poco a poco, e per li gradi loro come appresso diremo. Dell’altre virtù poi totalmente interne, come amar Dio, spregiare il Mondo, avvilirsi negli occhi propri, odiare le viziose passioni ed il peccato, essere paziente, e mansueta, amare tutti, e chi ti offende, ed altre simili, non vi è bisogno per acquetarle del poco a poco, né di salire alla loro perfezione per gradi, ma sforzati pure di fare ogni atto, quanto più perfetto sia possibile. – Quarto. Tutto il pensiero tuo, il desiderio, ed il cuore altro non pensi, e desideri, o brami, che vincere quella passione che combatti, ed acquistare la virtù sua contraria. Questo sia tutto il Mondo e il Cielo e la terra, questo ogni tesoro tuo e tutto affine di piacere a Dio. – Se mangi, se digiuni, se ti affatichi, se riposi, se vegli, se dormi, se sei in casa, se fuori di casa, se attendi alle devozioni, se alle opere manuali, tutto sia indirizzato a superare e vincere la detta passione ed acquistare la sua contraria virtù. – Quinto. Sii nemica universalmente dei diletti terreni e comodità, che a questo modo con poca forza sarai assalita dai vizi che tutti hanno per radice il diletto. Onde tagliata questa con l’odio di noi stessi, vengono quelli a perdere le forze ed il valore. Che se vorrai far guerra da una parte ad alcun vizio e diletto particolare, e dall’altra attendere ad altri diletti terreni, benché non siano mortali, ma di leggera colpa, dura sarà la guerra, sanguinosa e molto incerta, e rara la vittoria. Perciò terrai sempre a mente queste sentenze divine. Qui amat animam suam, perdeteam, et qui odit animam suam in hoc mondo, in vitam æternam custodit eam. [Jo. XII. 25.] – Fratres, debitores sumus non carni,ut secundum carnem vivamus. Si enim secundumcarnem vixeritis, moriemini. Si autem spiritu facta carnìs mortìficaverìtis, vivetis. [Rom. VIII, 12]. – Sesto. E per ultimo ti avviso che sarebbe bene, e forse necessario, che tu facessi prima una confessione generale, con tutti quei debiti modi che si deve, perché più ti assicuri di stare in grazia del tuo Signore, da cui si anno da aspettare tutte le grazie, e le vittorie.
Che le virtù si hanno da acquistare a poco a poco, esercitandosi per li gradi loro, ed attendendo prima all’una, e poi all’altra.
CAP. XXXIV
Avvegnaché il vero soldato di Cristo, che aspira al colmo della perfezione, non abbia da porre mai al suo profitto termine veruno, tuttavia sono da essere raffrenati con certa discrezione alcuni fervori di spirito che, abbracciati massimamente sul principio con troppo ardenza, mancano poi e si lasciano a mezzo il corso. Onde oltre quello che si è detto intorno al moderarsi negli esterni esercizi, si sappia di più che le virtù interne ancora si hanno da acquistare a poco a poco, e per li gradi loro, che così il poco diventa presto molto e di durata. Onde (per esempio) nelle cose avverse, non dobbiamo ordinariamente esercitarci a rallegrarsene e desiderarle, se prima non siamo passati per li gradi più bassi della virtù della pazienza. E non a tutte, né a molte virtù insieme, consiglio che tu attenda principalmente, ma ad una sola e poi alle altre, perché così si pianta più facilmente e fermamente nell’anima l’abito virtuoso, essendo che, con l’esercizio continuato di una sola virtù, la memoria in ogni occasione a quella corre più prontamente; l’intelletto si va sempre più assottigliando nel trovare nuovi modi e ragioni per acquistarla, e la volontà vi si inchina più facilmente e con maggiore affetto che non sarebbero se molte virtù si occupassero. – E gli atti intorno ad una sola virtù per la conformità che hanno fra loro, si vengono a fare con questo uniforme esercizio meno faticosi, poiché l’uno chiama ad aiuto l’altro suo simile, e per questa somiglianza ancora fanno in noi maggior impressione, trovando la fede del cuore già apparecchiata e disposta per ricevere quelli che di nuovo si producono, come agli altri ad essi conformi diede prima luogo. Le quali ragioni hanno tanto più di forza, quanto che si fa certo che chiunque si esercita bene in una virtù, apprende anco il modo di esercitarsi nell’altra, e così con l’aumento di una crescono tutte insieme per la inseparabile congiunzione che hanno fra loro, essendo raggi procedenti da una stessa divina luce.
De’ mezzi co’ quali si acquistare levirtù, e come ce ne dobbiamo servire per attendere ad una sola per qualche spazio di tempo.
CAP. XXXV
Per acquistare le virtù, oltre quello che ne dicemmo di sopra, si ricerca un animo generoso e grande, ed una non fiacca, né rimessa ma risoluta e forte volontà, e certo presupposto di dover passare per molte cose contrarie ed aspre. Oltre ciò vi si tenga particolare inclinazione ed affezione, la quale si potrà conseguire considerando spesso quanto piacciano a Dio e siano nobili ed eccellenti in se stesse ed a noi utili e necessarie, poiché da esse ha principio e fine ogni perfezione. – Si facciano ogni mattina efficaci proponimenti di esercitarvisi, secondo le cose che occorreranno umilmente in quel giorno, nel quale più volte ci abbiamo da esaminare, e se li abbiamo eseguiti o no, rinnovandoli poi più vivamente. E tutto ciò particolarmente intorno alla virtù che allora avremo alle mani. Parimente gli esempi de’ Santi, le operazioni nostre, e meditazioni della vita e passione di Cristo, tanto necessarie in ogni spiritual esercizio, tutte si applichino principalmente per quell’istessa virtù nella quale allora ci eserciteremo. Il medesimo si faccia di tutte le occasioni (come particolarmente mostreremo più avanti) ancora che siano fra loro diverse. Procuriamo d’avvezzarci talmente gli atti virtuosi interni ed esterni, che veniamo a farli con quella prontezza e facilità con che prima facevamo gli altri conformi alle voglie naturali. E quanto saranno a queste più contrari (come dicemmo in altro luogo), tanto più presto introdurranno l’abito buono nell’anima nostra. I sacri detti della Divina Scrittura espressi con la voce, o almeno con la mente, nel modo che li conviene, hanno meravigliosa forza per aiutarci in quello esercizio. Però, se ne abbiano in pronto molti intorno alla virtù che praticheremo, si vadano dicendo fra il giorno, e massimamente, quando insorge la contraria passione: come per esempio, se attenderemo all’acquisto della pazienza, potremo dire i seguenti, o altri somiglianti detti: Filii, patientur sustinete iram qua supervenit vobis. [Bar. IV, 25] – Patientia pauperum non peribitin finem. [Ps. IX, 19] – Melior est patiens viro forti, et qui dominatur animo suo, expugnatoreurbium. [Prov. XVI, 32] – In patientia vestra possidebitisanimas vestras. [Luc. XXI.19]. – Per patientiam curramus ad propositum nobis certamen. [Heb. XII. 1]. Parimenti per lo stesso effetto potremo dire le seguenti, o simili orazioncelle: Quando, Iddio mio, farà questo mio cuore armato nello scudo dellapazienza?– Quando per dar contento al mio Signore, passerò con animo tranquillo ogni travaglio? – Oh troppo care pene, che mi fanno simile al mio Signor e Gesù appassionato per me! – Sarà mai, unica vita dell’anima mia, che per sua gloria io viva fra mille angosce contenta? Felice me, se in mezzo al fuoco delle tribolazioni arderò di voglia di sostenere cose maggiori! – Di quelle orazioncelle ci serviremo e d’altre, che siano conformi al progresso nostro nelle virtù, e che insegnerà lo spirito della devozione. – Queste orazioncelle si chiamano jaculatorie, perché sono come jacoli e dardi, che si lanciano verso il Cielo, ed hanno forza grande, per eccitarci alla virtù e penetrare fino al cuore di Dio, se da due cose, quasi da due ali, siano accompagnate. L’una è la vera cognizione del contento del nostro Dio per lo nostro esercizio delle virtù. L’altra è un vero ed infocato desiderio d’acquistarle, per questo fine solamente di compiacerne Sua Divina Maestà.
Che nell’esercizio della virtù, si ha da camminare con sollecitudine continua.
CAP. XXXVI
Fra tutte le cose più importanti e necessarie per l’acquisto delle virtù, oltre l’insegnate di sopra, l’una è, che per arrivare al fine, che noi qui ci proponiamo, fa di mestieri continuare, andare sempre avanti, altrimenti col fermarsi solo, si torna addietro, Perché quando noi cessiamo gli atti virtuosi, ne segue di necessità, che per violenta inclinazione dell’appetito sensitivo e dell’altre cose che esteriormente ci muovono, si generino in noi molte passioni disordinate, le quali distruggono, o almeno diminuiscono le virtù, oltre che restiamo privi di molte grazie e doni che, col fare progresso, avremmo dal Signore potuto conseguire. Perciò il cammino spirituale è differente dal cammino che fa il viandante per terra, imperocché in quello col fermarsi non si perde niente del già fatto viaggio, come si perde in quello. Ed oltre a ciò la stanchezza del pellegrino del mondo si aumenta con la continuazione del moto corporale, dove che nella via dello spirito, quanto più si cammina tanto più si acquista maggior forza, e vigore. Perché con l’esercizio virtuoso, la parte inferiore che con la sua resistenza rendeva aspro e faticoso il sentiero, sempre si debilita più, e la parte superiore, dove sta la virtù, più si stabilisce, e fortifica. Onde col progresso nel bene, si va scemando di qualche pena, che vi si sente, e certa segreta giocondità, che per operazione divina si mescola con la stessa pena, ogni ora si va facendo maggiore. A questo modo continuando d’andar sempre con più agevolezza, e diletto di virtù in virtù, si arriva finalmente alla sommità del monte, dove l’anima fatta perfetta, opera poi senza fastidio, anzi con gusto e giubilo, perché avendo già vinte ed amate le sregolate passioni, e soprastando a tutto il creato, ed a se stessa, vive felicemente nel cuore dell’Altissimo, e quivi soavemente travagliando,prende riposo.
La lettera enciclica che proponiamo all’attenzione dei lettori, è una delle più importanti nella storia della Chiesa, e uno degli ultimi documenti di un Papa Cattolico, libero di esprimersi, prima della falce massonica e della ruspa liturgico-teologica che hanno determinato un macello putrido tra le anime, ed un cumulo di macerie nella Chiesa di Cristo, alterandone i connotati ideologici, filosofici, teologici, liturgici, con il ribaltone del falso pseudo-concilio c. d. Vaticano II, mediante il quale gli infiltrati marrani della “quinta colonna” si sono appropriati, usurpandoli, di tutti i posti chiave all’interno della struttura ecclesiastica, approfittando sia dei cani guardiani dormienti, sia dei pastori distratti dalla vanità, dai bagordi, dalle passioni sodomitiche, dall’amore dei beni del mondo e dall’amor proprio, novelli Giuda che, per un pugno di denari, dal vessillo di Cristo, sono passati sotto lo stendardo del nemico infernale, determinano la perdita di un numero incalcolabile di anime, comprese le loro. In questo vero syllabus degli errori del neo-ultra-modernismo, viene riaffermato il ruolo di assoluta importanza del Magistero Pontificio, sintesi ed elaborazione infallibile della Tradizione e della Sacra Scrittura, della quale è l’unica interprete autorizzata per diritto divino, e della filosofia e teologia scolastica, il cui apice è ovviamente il Dottore Angelico, proprio quello rigettato dalla blasfema, eretica, gnostica, satanica, la cosiddetta “nouvelle Theologie”, capace di moltiplicare all’infinito i bubboni pestiferi del modernismo già ampiamente condannati, ma mai sopiti e recidivati con virulenza maligna e metastatizzati tra le menti bacate di pseudo-teologi tutti accreditati nella falsa “chiesa dell’uomo”, la meretrice e la degna concubina del “signore dell’universo”, cioè dell’angelo decaduto e sprofondato negli inferi, concubina grottesca, mascherata obbrobriosamente da Sposa di Cristo. Ma senza andare oltre conviene effettivamente attenersi alla lucidissima analisi di S. S. Pio XII, ben coadiuvato nella stesura del documento pontificio da teologi illuminati (… non di Baviera!) ancora fedeli alla Chiesa, alla sua dottrina ed al suo Magistero; tra questi ci piace annoverare il futuro Papa Gregorio XVII, il Cardinal Giuseppe Siri, accanito ed irriducibile difensore della Chiesa, guardiano fedele della Dottrina, della filosofia e della teologia speculativa nonché dei testi canonici, dei quali era indiscussa autorità ai livelli assoluti. Godiamoci allora queste pagine che costituiranno pure una bella rinfrescata di memoria per chi ricorda appena concetti filosofici astrusi e falsi, propagandati ancora oggi dalla cultura laico-massonica (falsamente)progressista, e annichiliti dalla esposizione magistrale del Pontefice Massimo.
ENCICLICA
“HUMANI GENERIS”
DI S. S. PIO XII
“CIRCA ALCUNE FALSE OPINIONI CHE MINACCIANO DI SOVVERTIRE I FONDAMENTI DELLA DOTTRINA CATTOLICA”
AI VENERABILI FRATELLI, PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI
AVENTI CON L’APOSTOLICA SEDE
PACE E COMUNIONE
PIO PP. XII
SERVO DEI SERVI
DI DIO
VENERABILI
FRATELLI, SALUTE E APOSTOLICA BENEDIZIONE
Introduzione
I dissensi e gli errori degli uomini in
materia religiosa e morale, per tutti gli onesti, soprattutto dei i sinceri e
fedeli figli della Chiesa, sono sempre stati origine e causa di fortissimo
dolore, ma specialmente oggi, quando vediamo come da ogni parte vengano offesi
gli stessi principi della cultura cristiana. – Veramente non c’è da meravigliarsi,
se fuori dell’ovile di Cristo sempre vi sono stati questi dissensi ed errori.
Benché la ragione umana, assolutamente parlando, con le sue forze e con la sua
luce naturale possa effettivamente arrivare alla conoscenza, vera e certa, di
Dio unico e personale, che con la sua Provvidenza sostiene e governa il mondo,
e anche alla conoscenza della legge naturale impressa dal Creatore nelle nostre
anime, tuttavia non pochi sono gli ostacoli che impediscono alla nostra ragione
di servirsi con efficacia e con frutto di questo suo naturale potere. Le verità
che riguardano Dio e le relazioni tra gli uomini e Dio trascendono del tutto
l’ordine delle cose sensibili; quando poi si fanno entrare nella pratica della
vita e la informano, allora richiedono sacrificio e abnegazione. Nel
raggiungere tali verità, l’intelletto umano incontra ostacoli della fantasia,
sia per le cattive passioni provenienti dal peccato originale. Avviene che gli
uomini in queste cose volentieri si persuadono che sia falso, o almeno dubbio,
ciò che essi “non vogliono che sia vero”. Per questi motivi si deve
dire che la Rivelazione divina è moralmente necessaria affinché quelle verità
che in materia religiosa e morale non sono per sé irraggiungibili, si possano
da tutti conoscere con facilità, con ferma certezza e senza alcun errore.
(Conc. Vat. D. B. 1876, Cost. “De fide
Cath.”, cap. II,
De revelatione). – Anzi la mente umana qualche volta può trovare difficoltà
anche nel formarsi un giudizio certo di credibilità circa la fede cattolica,
benché da Dio siano stati disposti tanti e mirabili segni esterni, per cui anche
con la sola luce naturale della ragione si può provare con certezza l’origine
divina della Religione cristiana. L’uomo infatti, sia perché guidato da
pregiudizi, sia perché istigato da passioni e da cattiva volontà, non solo può
negare la chiara evidenza dei segni esterni, ma anche resistere alle
ispirazioni che Dio infonde nelle nostre anime. Chiunque osservi il mondo
odierno, che è fuori dell’ovile di Cristo, facilmente potrà vedere le
principali vie per le quali i dotti si sono incamminati. Alcuni, senza prudenza
né discernimento, ammettono e fanno valere per origine di tutte le cose il
sistema evoluzionistico, pur non essendo esso indiscutibilmente provato nel
campo stesso delle scienze naturali, e con temerarietà sostengono l’ipotesi
monistica e panteistica dell’universo soggetto a continua evoluzione. Di quest’ipotesi
volentieri si servono i fautori del comunismo per farsi difensori e propagandisti
del loro materialismo dialettico e togliere dalle menti ogni nozione di Dio. – Le
false affermazioni di siffatto evoluzionismo, per cui viene ripudiato quanto vi
è di assoluto, fermo ed immutabile, hanno preparato la strada alle aberrazioni
di una nuova filosofia che, facendo concorrenza all’idealismo, all’immanentismo
e al pragmatismo, ha preso il nome di “esistenzialismo” perché, ripudiate
le essenze immutabili delle cose, si preoccupa solo della “esistenza”
dei singoli individui. Si aggiunge a ciò un falso “storicismo” che si
attiene solo agli eventi della vita umana e rovina le fondamenta di qualsiasi
verità e legge assoluta sia nel campo della filosofia, sia in quello dei dogmi
cristiani. In tanta confusione di opinioni, Ci reca un po’ di consolazione il
vedere coloro che un tempo erano stati educati nei principî del razionalismo,
ritornare oggi, non di rado, alle sorgenti della verità rivelata, e riconoscere
e professare la parola di Dio, conservata nella Sacra Scrittura, come
fondamento della Teologia. – Nello stesso tempo però reca dispiacere il fatto
che non pochi di essi, quanto più fermamente aderiscono alla parola di Dio,
tanto più sminuiscono il valore della ragione umana, e quanto più volentieri innalzano
l’autorità di Dio Rivelatore, tanto più aspramente disprezzano il Magistero
della Chiesa, istituito da Cristo Signore per custodire e interpretare le
verità rivelate da Dio. Questo disprezzo non solo è in aperta contraddizione
con la Sacra Scrittura, ma si manifesta falso anche con la stessa esperienza.
Poiché frequentemente gli stessi “dissidenti” si lamentano in
pubblico della discordia che regna fra di loro nel campo dogmatico, cosicché,
pur senza volerlo, riconoscono la necessità di un vivo Magistero. – Ora queste
tendenze, che più o meno deviano dalla retta strada, non possono essere
ignorate o trascurate dai filosofi e dai teologi cattolici, che hanno il grave
compito di difendere le verità divine ed umane e di farle penetrare nelle menti
degli uomini. Anzi, essi devono conoscere bene queste opinioni, sia perché le
malattie non si possono curare se prima non sono bene conosciute, sia perché
qualche volta nelle stesse false affermazioni si nasconde un po’ di verità, sia
infine, perché gli stessi errori spingono la mente nostra a investigare e a
scrutare con più diligenza alcune verità sia filosofiche che teologiche. Se i
nostri cultori di filosofia e di teologia da queste dottrine, esaminate con
cautela, cercassero solo di cogliere i detti frutti, non vi sarebbe motivo
perché il Magistero della Chiesa avesse a interloquire. Ma, benché Noi sappiamo
bene che gli insegnanti e i dotti cattolici in genere si guardano da tali
errori, è noto però che non mancano nemmeno oggi, come ai tempi apostolici,
coloro che, amanti più del conveniente delle novità e timorosi di essere
ritenuti ignoranti delle scoperte fatte dalla scienza in quest’epoca di
progresso, cercano di sottrarsi alla direzione del sacro Magistero e perciò
sono nel pericolo di allontanarsi insensibilmente dalle verità Rivelate e di trarre
in errore anche gli altri. Si nota poi un altro pericolo, e tanto più grave,
perché si copre maggiormente con l’apparenza della virtù. – Molti, deplorando
la discordia e la confusione che regna nelle menti umane, mossi da uno zelo imprudente
e spinti da uno slancio e da un grande desiderio di rompere i confini con cui
sono fra loro divisi i buoni e gli onesti; essi abbracciano perciò una specie
di “irenismo” che, omesse le questioni che dividono gli uomini, non
cerca solamente di ricacciare, con unità di forze, l’irrompente ateismo, ma anche
di conciliare le opposte posizioni nel campo stesso dogmatico. E come un tempo
vi furono coloro che si domandavano se l’apologetica tradizionale della Chiesa
costituisse più un ostacolo che un aiuto per guadagnare le anime a Cristo, cosi
oggi non mancano coloro che osano arrivare fino al punto di proporre seriamente
la questione, se la teologia e il suo metodo, come sono in uso nelle scuole con
l’approvazione dell’autorità ecclesiastica, non solo debbano essere perfezionate,
ma anche completamente riformate, affinché si possa propagare con più efficacia
il regno di Cristo in tutto il mondo, fra gli uomini di qualsiasi cultura o di
qualsiasi opinione religiosa. Se essi non avessero altro intento che quello di
rendere, con qualche innovazione, la scienza ecclesiastica e il suo metodo più
adatti alle odierne condizioni e necessità, non ci sarebbe quasi motivo di
temere; ma alcuni, infuocati da un imprudente “irenismo”, sembrano
ritenere un ostacolo al ristabilimento dell’unità fraterna, quanto si fonda
sulle leggi e sui principî stessi dati da Cristo e sulle istituzioni da Lui
fondate, o quanto costituisce la difesa e il sostegno dell’integrità della fede, crollate le quali,
tutto viene sì unificato, ma soltanto nella comune rovina. Queste
opinioni, provenienti da deplorevole desiderio di novità o anche da lodevoli
motivi, non sempre vengono proposte con la medesima gradazione, con la medesima
chiarezza o con i medesimi termini, né sempre i sostenitori di esse sono pienamente
d’accordo fra loro; ciò che viene oggi insegnato da qualcuno più copertamente
con alcune cautele e distinzioni, domani da altri, più audaci, viene proposto pubblicamente
e senza limitazioni, con scandalo di molti, specialmente del giovane clero, e
con detrimento dell’autorità ecclesiastica. Se di solito si usa più cautela nelle
pubblicazioni stampate, di questi argomenti si tratta con maggiore libertà
negli opuscoli distribuiti in privato, nelle lezioni dattilografate e nelle
adunanze. Queste opinioni non vengono divulgate solo fra i membri del clero
secolare e regolare, nei seminari e negli istituti religiosi, ma anche fra i
laici, specialmente fra quelli che si dedicano all’educazione e all’istruzione
della gioventù.
I
Per
quanto riguarda la Teologia, certuni intendono ridurre al massimo il significato
dei dogmi; liberare lo stesso dogma dal modo di esprimersi, già da tempo
usato nella Chiesa, e dai concetti filosofici in vigore presso i dottori
cattolici, per ritornare nell’esporre la dottrina cattolica, alle espressioni
usate dalla Sacra Scrittura e dai Santi Padri. Essi così sperano che il dogma,
spogliato degli elementi estrinseci, come essi dicono, alla divina rivelazione,
possa venire con frutto paragonato alle opinioni dogmatiche di coloro che sono
separati dalla Chiesa e in questo modo si possa pian piano arrivare
all’assimilazione del dogma con le opinioni dei dissidenti. Inoltre, ridotta in
tali condizioni la dottrina cattolica, pensano di aprire cosi la via attraverso
la quale arrivare, dando soddisfazione alle odierne necessità, a poter esprimere i dogmi con le
categorie della filosofia odierna, sia dell’immanentismo, sia dell’idealismo, sia
dell’esistenzialismo o di qualsiasi altro sistema. – E perciò taluni,
più audaci, sostengono che ciò possa, anzi debba farsi, perché i misteri della
fede, essi affermano, non possono mai esprimersi con concetti adeguatamente
veri, ma solo con concetti approssimativi e sempre mutevoli, con i quali la
verità viene in un certo qual modo manifestata, ma necessariamente anche
deformata. Perciò ritengono non assurdo, ma del tutto necessario che la
teologia, in conformità ai vari sistemi filosofici di cui essa nel corso dei
tempi si serve come strumenti, sostituisca nuovi concetti agli antichi;
cosicché in modi diversi, e sotto certi aspetti anche opposti, ma come essi dicono
equivalenti, esponga al modo umano le medesime verità divine. Aggiungono poi
che la storia dei dogmi consiste nell’esporre le varie forme di cui si è
rivestita successivamente la verità rivelata, secondo le diverse dottrine e le
diverse opinioni che sono sorte nel corso dei secoli. – Da quanto abbiamo detto
è chiaro che queste tendenze non
solo conducono al relativismo dogmatico, ma di fatto già lo contengono;
questo relativismo e poi fin troppo favorito dal disprezzo verso la dottrina tradizionale
e verso i termini con cui essa si esprime. Tutti sanno che le espressioni di
tali concetti, usate sia nelle scuole sia dal Magistero della Chiesa, possono
venir migliorate e perfezionate; è inoltre noto che la Chiesa non è stata
sempre costante nell’uso di quelle medesime parole. È chiaro pure che la Chiesa non può essere legata
ad un qualunque effimero sistema filosofico; ma quelle nozioni e quei
termini, che con generale consenso furono composti attraverso parecchi secoli
dai dottori cattolici per arrivare a qualche conoscenza e comprensione del
dogma, senza dubbio non poggiano su di un fondamento così caduco. Si appoggiano
invece a principî e nozioni dedotte da una vera conoscenza del creato; e nel
dedurre queste conoscenze, la verità rivelata, come una stella, ha illuminato
per mezzo della Chiesa la mente umana. Perciò non c’è da meravigliarsi se qualcuna
di queste nozioni non solo sia stata adoperata in Concili Ecumenici, ma vi abbia
ricevuto tale sanzione per cui non ci è lecito allontanarcene. Per tali
ragioni, è massima imprudenza il trascurare o respingere o privare del loro
valore i concetti e le espressioni che da persone di non comune ingegno e santità,
sotto la vigilanza del sacro Magistero e non senza illuminazione e guida dello
Spirito Santo, sono state più volte con lavoro secolare trovate e perfezionate
per esprimere sempre più accuratamente le verità della fede, e sostituirvi
nozioni ipotetiche ed espressioni fluttuanti e vaghe della nuova filosofia, le
quali, a somiglianza dell’erba dei campi, oggi vi sono e domani seccano; a
questo modo si rende lo stesso dogma simile a una canna agitata dal vento. Il
disprezzo delle parole e delle nozioni usate dai teologi scolastici, di per sé
conduce all’indebolimento della teologia speculativa, che essi ritengono priva
di una vera certezza in quanto si fonda sulle ragioni teologiche. Purtroppo questi amatori delle
novità facilmente passano dal disprezzo della teologia scolastica allo spregio
verso lo stesso Magistero della Chiesa che ha dato, con la sua autorità, una
cosi notevole approvazione a quella teologia. Questo Magistero viene da
costoro fatto apparire come un impedimento al progresso e un ostacolo per la
scienza; da alcuni acattolici poi viene considerato come un freno, ormai ingiusto,
con cui alcuni teologi più colti verrebbero trattenuti dal rinnovare la loro
scienza. E benché questo sacro Magistero debba essere per qualsiasi teologo, in
materia di fede e di costumi, la norma prossima e universale di verità (in
quanto ad esso Cristo Signore ha affidato il deposito della fede – cioè la
Sacra Scrittura e la Tradizione divina – per essere custodito, difeso ed
interpretato, tuttavia viene alle volte ignorato, come se non esistesse, il
dovere che hanno i fedeli di rifuggire pure da quegli errori che in maggiore o
minore misura s’avvicinano all’eresia, e quindi “di osservare anche le
costituzioni e i decreti. con cui queste false opinioni vengono dalla Santa
Sede proscritte e proibite” (Corp. Jur. Can., can. 1324; Cfr. Conc. Vat.
D. B. 1820, Cost. “De fide cath.”, cap. 4, De fide et
ratione, post canones). – Quanto viene esposto nelle Encicliche dei Sommi
Pontefici circa il carattere e la costituzione della Chiesa, viene da certuni,
di proposito e abitualmente, trascurato con lo scopo di far prevalere un
concetto vago che essi dicono preso dagli antichi Padri, specialmente greci. I
Pontefici infatti – essi vanno dicendo – non intendono dare un giudizio sulle
questioni che sono oggetto di disputa tra i teologi; è quindi necessario
ritornare alle fonti primitive, e con gli scritti degli antichi si devono
spiegare le costituzioni e i decreti del Magistero. Queste affermazioni vengono
fatte forse con eleganza di stile; però esse non mancano di falsità. Infatti è vero che generalmente i Pontefici lasciano
liberi i teologi in quelle questioni che, in vario senso, sono soggette a
discussioni fra i dotti di miglior fama; però la storia insegna che parecchie
questioni, che prima erano oggetto di libera disputa, in seguito non potevano
più essere discusse. Né si
deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il
nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del
loro Magistero Supremo. Infatti questi insegnamenti sono del Magistero
ordinario, di cui valgono poi le parole: “Chi ascolta voi, ascolta
me” (Luc. X, 16); e per lo più, quanto viene proposto e inculcato
nelle Encicliche, è già per altre
ragioni patrimonio della dottrina
cattolica. Se poi i Sommi Pontefici nei loro atti emanano di proposito una
sentenza in materia finora controversa, è evidente per tutti che tale questione,
secondo l’intenzione e la volontà degli stessi Pontefici, non può più
costituire oggetto di libera discussione fra i teologi. È vero pure che i
teologi devono sempre ritornare alle fonti della Rivelazione divina: è infatti
loro compito indicare come gli insegnamenti del vivo Magistero “si trovino
sia esplicitamente sia implicitamente” nella Sacra Scrittura o nella
divina tradizione. Inoltre si aggiunga che ambedue le fonti della Rivelazione
contengono tali e tanti tesori di verità da non potersi mai, di fatto,
esaurire. Le scienze sacre con lo studio delle sacre fonti ringiovaniscono
sempre; al contrario, diventa sterile, come sappiamo dall’esperienza, la
speculazione che trascura la ricerca del sacro deposito. Ma per questo motivo la
teologia, anche quella positiva, non può essere equiparata ad una scienza solamente
storica. Dio insieme a queste sacre fonti ha dato alla sua Chiesa il vivo
Magistero, anche per illustrare e svolgere quelle verità che sono contenute nel
deposito della fede soltanto oscuramente e come implicitamente. E il divin Redentore non ha mai
dato questo deposito, per l’autentica interpretazione, né ai singoli fedeli, né
agli stessi teologi, ma solo al Magistero della Chiesa. Se poi la Chiesa
esercita questo suo officio (come nel corso dei secoli è spesso avvenuto) con
l’esercizio sia ordinario che straordinario di questo medesimo officio, è
evidente che è del tutto falso il metodo con cui si vorrebbe spiegare le cose
chiare con quelle oscure; anzi è necessario che tutti seguano l’ordine inverso.
Perciò il Nostro Predecessore di imperitura memoria Pio IX, mentre insegnava
che è compito nobilissimo della teologia quello di mostrare come una dottrina
definita dalla Chiesa è contenuta nelle fonti, non senza grave motivo
aggiungeva le seguenti parole: “in quello stesso senso, con cui è stata
definita dalla Chiesa”.
II
Ritorniamo ora alle teorie nuove, di cui
abbiamo parlato prima: da
alcuni vengono proposte o istillate nella mente diverse opinioni che
sminuiscono l’autorità divina della Sacra Scrittura. Con audacia alcuni pervertono
il senso delle parole del Concilio Vaticano con cui si definisce che Dio è
l’Autore della Sacra Scrittura, e rinnovano la sentenza, già più volte
condannata, secondo cui l’inerranza della Sacra Scrittura si estenderebbe
soltanto a ciò che riguarda Dio stesso o la religione e la morale. Anzi
falsamente parlano di un senso umano della Bibbia, sotto il quale sarebbe
nascosto il senso divino, che è, come essi dichiarano, il solo infallibile.
Nell’interpretazione della Sacra Scrittura essi non vogliono tener conto
dell’analogia della fede e della tradizione della Chiesa; in modo che la
dottrina dei Santi Padri e del Magistero dovrebbe essere misurata con quella
della Sacra Scrittura, spiegata, però, dagli esegeti in modo puramente umano; e
non piuttosto la Sacra Scrittura esposta secondo la mente della Chiesa, che da
Cristo Signore è stata costituita custode e interprete di tutto il deposito
delle verità rivelate. Inoltre il senso letterale della Sacra Scrittura e la
sua spiegazione elaborata, sotto la vigilanza della Chiesa, da tali e tanti
esegeti, dovrebbe, secondo le loro false opinioni, cedere il posto ad una nuova
esegesi, chiamata simbolica e spirituale; secondo quest’esegesi i libri del
Vecchio Testamento, che oggi nella Chiesa sono una fonte chiusa e nascosta,
verrebbero finalmente aperti a tutti. In questo modo – essi affermano –
svaniscono tutte le difficoltà alle quali vanno incontro soltanto coloro che si
attengono al senso letterale delle Scritture. – Tutti vedono quanto tutte
queste opinioni si allontanino dai principi e dalle norme ermeneutiche
giustamente stabilite dai Nostri Predecessori di felice memoria: da Leone XIII
nell’Enciclica “ProvidentissimusDeus“, da Benedetto XV
nell’Enciclica “Spiritus Paraclitus“, come pure da Noi stessi
nell’Enciclica “Divino afflante Spiritu“. Non deve recare
meraviglia che tali novità in quasi tutte le parti della teologia abbiano
prodotto i loro velenosi frutti. Si mette in dubbio che la ragione umana, senza
l’aiuto della divina Rivelazione e della grazia, possa dimostrare con argomenti
dedotti dalle cose create, l’esistenza di un Dio personale; si afferma che il
mondo non ha avuto inizio e che la creazione del mondo è necessaria, perché
procede dalla necessaria liberalità del divino amore; così pure si afferma che
Dio non ha prescienza eterna ed infallibile delle libere azioni dell’uomo:
tutte opinioni contrarie alle dichiarazioni del Concilio Vaticano (Cfr. Conc.
Vat. Cost. “De fide cath.”, cap. 1: De Deo
rerum omnium creatore). Da alcuni poi si mette in discussione se gli Angeli
siano persone; se vi sia una differenza essenziale fra la materia e lo spirito.
Altri snaturano il concetto della gratuità dell’ordine sovrannaturale, quando
sostengono che Dio non può creare esseri intelligenti senza ordinarli e chiamarli
alla visione beatifica. Né basta; poiché, messe da parte le definizioni del
Concilio di Trento, viene distrutto il vero concetto di peccato originale e
insieme quello di peccato in genere, in quanto offesa di Dio, come pure quello
di soddisfazione data per noi da Cristo. Né mancano coloro che sostengono che
la dottrina della transustanziazione, in quanto fondata su un concetto
antiquato di sostanza, deve essere corretta in modo da ridurre la presenza
reale di Cristo nell’Eucaristia ad un simbolismo, per cui le specie consacrate
non sarebbero altro che segni efficaci della presenza di Cristo e della sua intima
unione nel Corpo mistico con i membri fedeli. Certuni non si ritengono legati
alla dottrina che Noi abbiamo esposta in una Nostra Enciclica e che è fondata
sulle fonti della Rivelazione, secondo cui il Corpo mistico di Cristo e la
Chiesa cattolica romana sono una sola identica cosa. Alcuni riducono ad una vana formula la necessità
di appartenere alla vera Chiesa per ottenere l’eterna salute. Altri
infine non ammettono il carattere razionale dei segni di credibilità della fede
cristiana. È noto che questi errori, ed altri del genere, serpeggiano in mezzo
ad alcuni Nostri figli, tratti in inganno da uno zelo imprudente o da una
scienza di falso conio; e a questi figli sono costretti a ripetere, con animo addolorato,
verità notissime ed errori manifesti, indicando loro con ansietà i pericoli
dell’errore.
III
Tutti sanno quanto la Chiesa apprezzi il
valore della ragione umana, alla quale spetta il compito di dimostrare con
certezza l’esistenza di un solo Dio personale, di dimostrare invincibilmente per
mezzo dei segni divini i fondamenti della stessa fede cristiana; di porre
inoltre rettamente in luce la legge che il Creatore ha impressa nelle anime
degli uomini; ed infine il compito di raggiungere una conoscenza limitata, ma
utilissima, dei misteri (Cfr. Conc. Vat. D. B. 1796). Ma questo compito potrà
essere assolto convenientemente e con sicurezza, se la ragione sarà debitamente
coltivata: se cioè essa verrà nutrita di quella sana filosofia che è come un
patrimonio ereditato dalle precedenti età cristiane e che possiede una più alta
autorità, perché lo stesso Magistero della Chiesa ha messo al confronto con la
verità rivelata i suoi principî e le sue principali asserzioni, messe in luce e
fissate lentamente attraverso i tempi da uomini di grande ingegno. Questa
stessa filosofia, confermata e comunemente ammessa dalla Chiesa, difende il
genuino valore della cognizione umana, gli incrollabili principî della
metafisica cioè di ragion sufficiente, di causalità e di finalità ed infine
sostiene che si può raggiungere la verità certa ed immutabile. In questa filosofia vi sono
certamente parecchie cose che non riguardano la fede e i costumi, né
direttamente né indirettamente, e che perciò la Chiesa lascia alla libera
discussione dei competenti in materia; ma non vi è la medesima libertà riguardo
a parecchie altre, specialmente riguardo ai principî ed alle principali
asserzioni di cui già parlammo. Anche in tali questioni essenziali si
può dare alla filosofia una veste più conveniente e più ricca; si può rafforzare
la stessa filosofia con espressioni più efficaci, spogliarla di certi mezzi
scolastici meno adatti, arricchirla anche – però con prudenza – di certi
elementi che sono frutto del progressivo lavoro della mente umana; però non si
deve mai sovvertirla o contaminarla con falsi principî, né stimarla solo come
un grande monumento, sì, ma archeologico. La verità in ogni sua manifestazione
filosofica non può essere soggetta a quotidiani mutamenti specialmente trattandosi
dei principî per sé noti della ragione umana o di quelle asserzioni che
poggiano tanto sulla sapienza dei secoli che sul consenso e sul fondamento
anche della Rivelazione divina. Qualsiasi verità la mente umana con sincera
ricerca ha potuto scoprire, non può essere in contrasto con la verità già
acquisita; perché Dio, Somma Verità, ha creato e regge l’intelletto umano non
affinché alle verità rettamente acquisite ogni giorno esso ne contrapponga
altre nuove; ma affinché,, rimossi gli errori che eventualmente vi si fossero
insinuati, aggiunga verità a verità nel medesimo ordine e con la medesima organicità
con cui vediamo costituita la natura stessa delle cose da cui la verità si
attinge. Per tale ragione
il Cristiano, sia egli filosofo o teologo, non abbraccia con precipitazione e
leggerezza tutte le novità che ogni giorno vengono escogitate, ma le deve
esaminare con la massima diligenza e le deve porre su una giusta bilancia per
non perdere la verità già conquistata o corromperla, certamente con pericolo e
danno della fede stessa. – Se si considera bene quanto sopra è stato
esposto, facilmente apparirà chiaro il motivo per cui la Chiesa esige che i
futuri sacerdoti siano istruiti nelle scienze filosofiche “secondo il
metodo, la dottrina e i principi del Dottor Angelico” (Corp. Jur. Can.,
can. 1366, 2), giacché, come ben sappiamo dall’esperienza di parecchi secoli,
il metodo dell’Aquinate si distingue per singolare superiorità tanto
nell’ammaestrare gli animi che nella ricerca della verità; la sua dottrina poi
è in armonia con la Rivelazione divina ed è molto efficace per mettere al sicuro
i fondamenti della fede come pure per cogliere con utilità e sicurezza i frutti
di un sano progresso (A. A. S. vol. XXXVIII, 1946, p. 387). Perciò è quanto mai
da deplorarsi che oggi la filosofia confermata ed ammessa dalla Chiesa sia
oggetto di disprezzo da parte di certuni, talché essi con imprudenza la
dichiarano antiquata per la forma e razionalistica per il processo di pensiero.
Vanno dicendo che questa nostra filosofia difende erroneamente l’opinione che
si possa dare una metafisica vera in modo assoluto; mentre al contrario essi
sostengono che le verità, specialmente quelle trascendenti, non possono venire
espresse più convenientemente che per mezzo di dottrine disparate che si
completano tra loro, benché siano in certo modo l’una all’altra opposte. Perciò
la filosofia scolastica con la sua lucida esposizione e soluzione delle
questioni, con la sua accurata determinazione dei concetti e le sue chiare
distinzioni, può essere utile – essi concedono – come preparazione allo studio
della teologia scolastica, molto bene adattata alla mentalità degli uomini medievali;
ma non può darci – aggiungono – un metodo ed un indirizzo filosofico che
risponda alle necessità della nostra cultura moderna. Oppongono, inoltre, che
la filosofia perenne non è che la filosofia delle essenze immutabili, mentre la
mentalità moderna deve interessarsi della “esistenza” dei singoli
individui e della vita sempre in divenire.
Però, mentre disprezzano questa
filosofia, esaltano le altre, sia antiche che recenti, sia di popoli orientali che
di quelli occidentali, in modo che sembrano voler insinuare che tutte le
filosofie o opinioni, con l’aggiunta – se necessario – di qualche correzione o
di qualche complemento, si possono conciliare con il dogma cattolico. Ma nessun
cattolico può mettere in dubbio quanto tutto ciò sia falso, specialmente quando
si tratti di sistemi come l’immanentismo, l’idealismo, il materialismo, sia
storico che dialettico, o anche come l’esistenzialismo, quando esso professa
l’ateismo o quando nega il valore del ragionamento nel campo della metafisica. Infine
alla filosofia delle nostre scuole essi fanno questo rimprovero: che essa nel
processo del pensiero bada solo all’intelletto e trascura la funzione della
volontà e del sentimento. Ciò non corrisponde a verità. La filosofia cristiana
non ha mai negato l’utilità e l’efficacia che hanno le buone disposizioni di
tutta l’anima per conoscere ed abbracciare le verità religiose e morali; anzi,
ha sempre insegnato che la mancanza di tali disposizioni può essere la causa
per cui l’intelletto, sotto l’influsso delle passioni e della cattiva volontà,
venga cosi oscurato da non poter rettamente vedere. Di più, il Dottor Comune ritiene
che l’intelletto possa in qualche modo percepire i beni di grado superiore
dell’ordine morale sia naturale che soprannaturale, in quanto esso esperimenta
nell’ultimo una certa “connaturalità” sia essa naturale, sia frutto
della grazia, con i medesimi beni (Cfr. S. Thom., Summa Theol. IIa IIæ,
quæst. I, art. 4 ad 3; et quæst. 45, art. 2, in c.); ed è chiaro quanto questa,
sia pur subcosciente, conoscenza possa essere di aiuto alla ragione nelle sue
ricerche. Ma altro è riconoscere il potere che hanno la volontà e le disposizioni
dell’animo di aiutare la ragione a raggiungere una conoscenza più certa e più
salda delle verità morali, ed altro in quanto vanno sostenendo quei tali
novatori: cioè che la volontà e il sentimento hanno un certo potere intuitivo e
che l’uomo, non potendo col ragionamento discernere con certezza ciò che
dovrebbe abbracciare come vero, si volge alla volontà, per cui egli possa
compiere una libera risoluzione ed elezione fra opposte opinioni, mescolando
malamente così la conoscenza e l’atto della volontà. Non c’è da meravigliarsi
che con queste nuove opinioni siano messe in pericolo le due scienze filosofiche che, per
natura loro, sono strettamente collegate con gli insegnamenti della fede, cioè
la teodicea e l’etica; essi ritengono che la funzione di queste non sia
quella di dimostrare con certezza qualche verità riguardante Dio o altro ente
trascendente, ma piuttosto quella di mostrare come siano perfettamente coerenti
con le necessità della vita le verità che la fede insegna riguardo a Dio, Essere
personale, e ai suoi precetti, e che perciò devono essere accettate da tutti
per evitare la disperazione e per ottener l’eterna salvezza. Tutte queste
affermazioni e opinioni sono apertamente contrarie ai documenti dei Nostri Predecessori
Leone XIII e Pio X, e sono inconciliabili con i decreti del Concilio Vaticano.
– Sarebbe veramente inutile deplorare queste aberrazioni, se tutti, anche nel
campo filosofico, fossero ossequienti con la debita venerazione verso il
Magistero della Chiesa, che per istituzione divina ha la missione non solo di
custodire e interpretare il deposito della Rivelazione, ma anche di vigilare
sulle stesse scienze filosofiche perché i dogmi cattolici non abbiano a ricevere
alcun danno da opinioni non rette.
IV
Rimane ora da parlare di quelle
questioni che, pur appartenendo alle scienze positive, sono più o meno connesse
con le verità della fede cristiana. Non pochi chiedono instantemente che la
Religione Cattolica tenga massimo conto di quelle scienze. Il che è senza
dubbio cosa lodevole, quando si tratta di fatti realmente dimostrati; ma
bisogna andar cauti quando si tratta piuttosto di ipotesi, benché in qualche modo
fondate scientificamente, nelle quali si tocca la dottrina contenuta nella
Sacra Scrittura o anche nella tradizione. Se tali ipotesi vanno direttamente o
indirettamente contro la dottrina rivelata, non possono ammettersi in alcun
modo. – Per queste ragioni il Magistero della Chiesa non proibisce che in conformità
dell’attuale stato delle scienze e della teologia, sia oggetto di ricerche e di
discussioni, da parte dei competenti in tutti e due i campi, la dottrina
dell’evoluzionismo, in quanto cioè essa fa ricerche sull’origine del corpo
umano, che proverrebbe da materia organica preesistente (la fede cattolica ci
obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente sia Dio). Però
questo deve essere fatto in tale modo che le ragioni delle due opinioni, cioè
di quella favorevole e di quella contraria all’evoluzionismo, siano ponderate e
giudicate con la necessaria serietà, moderazione e misura e purché tutti siano pronti
a sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato l’ufficio
di interpretare autenticamente la Sacra Scrittura e di difendere i dogmi della
fede (Cfr. Allocuzione Pont. ai membri dell’Accademia delle Scienze, 30 novembre
1941; A. A. S. Vol. , p. 506). Però alcuni oltrepassano questa libertà di
discussione, agendo in modo come fosse già dimostrata con totale certezza la
stessa origine del corpo umano dalla materia organica preesistente, valendosi
di dati indiziali finora raccolti e di ragionamenti basati sui medesimi indizi;
e ciò come se nelle fonti della divina Rivelazione non vi fosse nulla che esiga
in questa materia la più grande moderazione e cautela. Però quando si tratta
dell’altra ipotesi, cioè del poligenismo,
allora i figli della Chiesa non godono affatto della medesima libertà. I
fedeli non possono abbracciare quell’opinione i cui assertori insegnano che
dopo Adamo sono esistiti qui sulla terra veri uomini che non hanno avuto
origine, per generazione naturale, dal medesimo come da progenitore di tutti
gli uomini, oppure che Adamo rappresenta l’insieme di molti progenitori; non
appare in nessun modo come queste affermazioni si possano accordare con quanto
le fonti della Rivelazione e gli atti del Magistero della Chiesa ci insegnano
circa il peccato originale, che proviene da un peccato veramente commesso da
Adamo individualmente e personalmente, e che, trasmesso a tutti per
generazione, è inerente in ciascun uomo come suo proprio (cfr. Rom. V, 12-19; Conc. Trident., sess. V, can. 1-4).
V
Come
nelle scienze biologiche ed antropologiche, cosi pure in quelle storiche vi
sono coloro che audacemente oltrepassano i limiti e le cautele stabilite dalla
Chiesa. In modo particolare si deve deplorare un certo sistema di
interpretazione troppo libera dei libri storici del Vecchio Testamento; i fautori di questo
sistema, per difendere le loro idee, a torto si riferiscono alla Lettera che
non molto tempo fa è stata inviata all’arcivescovo di Parigi dalla Pontificia
Commissione per gli Studi Biblici (16 gennaio 1948; A. A. S., vol. XL, pp.
45-48). Questa Lettera infatti fa notare che gli undici primi capitoli del
Genesi, benché propriamente parlando non concordino con il metodo storico usato
dai migliori autori greci e latini o dai competenti del nostro tempo, tuttavia
appartengono al genere storico in un vero senso, che però deve essere
maggiormente studiato e determinato dagli esegeti; i medesimi capitoli – fa ancora
notare la Lettera – con parlare semplice e metaforico, adatto alla mentalità di
un popolo poco civile, riferiscono sia le principali verità che sono
fondamentali per la nostra salvezza, sia anche una narrazione popolare dell’origine
del genere umano e del popolo eletto. Se qualche cosa gli antichi agiografi
hanno preso da narrazioni popolari (il che può essere concesso), non bisogna
mai dimenticare che hanno fatto questo con l’aiuto dell’ispirazione divina, che
nella scelta e nella valutazione di quei documenti li ha premuniti da ogni
errore. Quindi le narrazioni popolari inserite nelle Sacre Scritture non
possono affatto essere poste sullo stesso piano delle mitologie o simili, le
quali sono frutto più di un’accesa fantasia che di quell’amore alla verità e
alla semplicità che risalta talmente nei Libri Sacri, anche del Vecchio
Testamento, da dover affermare che i nostri agiografi son palesemente superiori
agli antichi scrittori profani. Veramente Noi sappiamo che la maggioranza dei
dottori cattolici, dei cui studi raccolgono i frutti gli Atenei, i Seminari e i
Collegi dei religiosi, sono lontani da quegli errori che apertamente o di
nascosto oggi vengono divulgati, sia per smania di novità, sia anche per una
non moderata intenzione di apostolato. – Ma sappiamo anche che queste nuove
opinioni possono fai presa tra le persone imprudenti; quindi preferiamo porvi
rimedio sugli inizi, piuttosto che somministrare la medicina quando la malattia
è ormai invecchiata. Per questo motivo, dopo matura riflessione e considerazione,
per non venir meno al Nostro sacro dovere, ordiniamo ai Vescovi e ai Superiori
Generali degli Ordini e Congregazioni religiose, onerata in maniera gravissima
la loro coscienza, di curare con ogni diligenza che opinioni di tal genere non
siano sostenute nelle scuole o nelle adunanze e conferenze, né con scritti di
qualsiasi genere e nemmeno siano insegnate, in qualsivoglia maniera, ai
chierici o ai fedeli. Gli insegnanti degli Istituti ecclesiastici sappiano che essi non possono
esercitare con tranquilla coscienza l’ufficio di insegnare che è stato loro
affidato, se non accettano religiosamente le norme che abbiamo stabilite e non
le osservano esattamente nell’insegnamento delle loro materie. Quella
doverosa venerazione ed obbedienza che nel loro assiduo lavoro devono professare
verso il Magistero della Chiesa le infondano anche nella mente e nell’anima dei
loro scolari.
Conclusione
Cerchiamo con ogni sforzo e con passione
di concorrere al progresso delle scienze che insegnano; ma si guardino anche
dall’oltrepassare i confini da Noi stabiliti per la difesa della fede e della
dottrina cattolica. Alle nuove questioni, che la cultura moderna e il progresso
hanno fatto diventare di attualità, diano l’apporto delle loro accuratissime
ricerche, ma con la conveniente prudenza e cautela; infine, non abbiano a
credere, per un falso “irenismo”, che si possa ottenere un felice
ritorno nel seno della Chiesa dei dissidenti e degli erranti, se non si insegna
a tutti, sinceramente, tutta la verità in vigore nella Chiesa, senza alcuna
corruzione e senza alcuna diminuzione. Fondati su questa speranza, che sarà
aumentata dalla vostra pastorale solerzia, come auspicio dei celesti doni e
segno della Nostra paterna benevolenza, impartiamo di gran cuore a voi tutti
singolarmente, come al clero e al popolo vostri, l’apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro,
il giorno 22 del mese di Agosto dell’anno 1950, XII del Nostro Pontificato.
Ant.
Hosánna
fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. O Rex Israël: Hosánna in
excélsis. [Osanna al
Figlio di David, benedetto Colui che viene nel nome del Signore. O Re di
Israele: Osanna nel più alto dei cieli!] Orémus. Bene ☩ dic, quǽsumus, Dómine, hos palmárum
ramos: et præsta; ut, quod pópulus tuus in tui veneratiónem hodiérna die
corporáliter agit, hoc spirituáliter summa devotióne perfíciat, de hoste
victóriam reportándo et opus misericórdiæ summópere diligéndo. Per Christum
Dominum nostrum.[ Bene ☩ dici Signore, te ne preghiamo, questi rami di palma e concedi che quanto
il tuo popolo ha celebrato materialmente in tuo onore, lo compia spiritualmente
con somma devozione, vincendo il nemico e corrispondendo con profondo amore
all’opera della tua misericordia. Per Cristo nostro Signore.]
De
distributione ramorum
Ant. Púeri Hebræórum, portántes ramos
olivárum, obviavérunt Dómino, clamántes et dicéntes: Hosánna in excélsisI [I fanciulli ebrei, portando rami
di olivo, andarono incontro al Signore, acclamando e dicendo: Osanna nel più
alto dei cieli.].
Dómini est terra et plenitúdo eius, orbis terrárum et univérsi
qui hábitant in eo. Quia ipse super mária fundávit eum et super flúmina
præparávit eum. Ant. Púeri Hebræórum, portántes …
Attóllite
portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex
glóriæ. Quis est iste rex glóriæ? Dóminus fortis et potens: Dóminus potens in
prǽlio. Ant. Púeri Hebræórum, portántes…
Attóllite portas, príncipes, vestras: et
elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ. Quis est iste rex glóriæ?
Dóminus virtútum ipse est rex glóriæ. Ant. Púeri Hebræórum, portántes …
Ant. Púeri Hebræórum, portántes …
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes:
Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini. . [I fanciulli Ebrei stendevano le
loro vesti sulla via e acclamavano dicendo: Osanna al Piglio di David!
Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!] Omnes gentes pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exultatiónis. Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis, rex magnus super omnem terram. Ant. Púeri Hebræórum … Subiécit pópulos nobis: et gentes sub pédibus nóstris. Elegit nobis hereditátem suam: spéciem Iacob quam diléxit. Ant. Púeri Hebræórum …
Ascéndit
Deus in iúbilo: et Dóminus in voce tubæ. Psállite Deo nostro, psállite: psállite regi nostro, psállite. Ant. Púeri Hebræórum …
Quóniam rex
omnis terræ Deus: psállite sapiénter. Regnávit Deus super gentes: Deus sedit super sedem sanctam suam. Ant. Púeri Hebræórum vestiménta …
Príncipes populórum congregáti sunt cum Deo
Abraham: quóniam Dei fortes terræ veheménter elevati sunt. Ant. Púeri Hebræórum vestiménta …
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes:
Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini.
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti
Evangélii secúndum Matthǽum.
“In illo témpore: Cum appropinquásset Jesus
Jerosólymis, et venísset Béthphage ad montem Olivéti: tunc misit duos
discípulos suos, dicens eis: Ite in castéllum, quod contra vos est, et statim
inveniétis ásinam alligátam et pullum cum ea: sólvite et addúcite mihi: et si
quis vobis áliquid dixerit, dícite, quia Dóminus his opus habet, et conféstim
dimíttet eos. Hoc autem totum factum est, ut adimplerétur, quod dictum est per
Prophétam, dicéntem: Dícite fíliae Sion: Ecce, Rex tuus venit tibi mansuétus,
sedens super ásinam et pullum, fílium subjugális. Eúntes autem discípuli, fecérunt,
sicut præcépit illis Jesus. Et adduxérunt ásinam et pullum: et imposuérunt
super eos vestiménta sua, et eum désuper sedére tecérunt. Plúrima autem turba
stravérunt vestiménta sua in via: álii autem cædébant ramos de arbóribus, et
sternébant in via: turbæ autem, quæ præcedébant et quæ sequebántur, clamábant,
dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini”.
OMELIA
[A. Carmignola,
Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino, 1921]
“In quel tempo
Gesù avvicinandosi a Gerusalemme arrivati che furono a Betfage al monte
Oliveto, mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: Andate nel castello, che
vi sta dirimpetto, e subito troverete legata un’asina, e con essa il suo asinino:
scioglietela, e conducetemela. E se alcuno vi dirà qualche cosa, dite che il
Signore ne ha bisogno; e subito ve li rimetterà. Or tutto questo seguì,
affinché si adempisse quanto era stato detto dal profeta, che disse: Dite alla
figliuola di Sion: Ecco che il tuo re viene a te mansueto, cavalcando un’asina,
ed un asinello, puledro di un’asina da giogo. I discepoli andarono, e fecero come
aveva lor comandato Gesù. E menarono l’asina e l’asinello, e misero sopra di
essi le loro vestimenta, e lo fecero montare sopra. E moltissime delle turbe
distesero le loro vesti per la strada; altri poi tagliavano rami dagli alberi,
e li gettavano per la strada. E le turbe che procedevano, e quelli che
andavangli dietro, gridavano, dicendo: Osanna al Figliuolo di David; benedetto
colui che viene nel nome del Signore: Osanna nel più alto de’ cieli”(Matth.XXI, 1-9).
Eccoci, o miei cari, alla settimana
santa, settimana, nella quale la Chiesa ci ricorda i più grandi misteri d’amore
della nostra SS. Religione. Giacché è in questa settimana, che ci fa anzitutto
meditare sopra la Passione e la morte di Gesù Cristo, e poi sopra l’istituzione
ammirabile della SS. Eucaristia, che della Passione di Gesù Cristo è il gran
memoriale: in quo recoliturmemoria
passionis eius. Perciò a far degna commemorazione di sì grandi
misteri, e a corrispondervi in qualche modo la Chiesa istessa in questo tempo
col precetto della Comunione Pasquale vi invita alla sacra mensa. E voi
certamente, figliuoli di lei docili e sottomessi, siete per rispondere a questo
invito. Lasciate pertanto che io vi ricordi il modo, con cui dovete accostarvi
a compiere questo grande atto di pietà cristiana, perché ne abbiate a
profittare. Al che mi dà bella occasione lo stesso Vangelo di oggi.
1. Gesù, dice il Vangelo, avvicinandosi a Gerusalemme, arrivati che furono a Betfage al monte Oliveto, mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: Andate nel castello, che vi sta dirimpetto, e subito troverete legata un’asina, e con essa il suo asinino: scioglietela, e conducetemela. Et reliqua … – Ora quello che fecero gli abitanti dì Gerusalemme per ricevere Gesù Cristo nella loro città, è quello che dovete pure fare voi per ricevere Gesù Cristo nell’anima vostra. Essi anzitutto, si spogliarono delle loro vesti per metterle sotto ai piedi di Gesù e tagliarono i rami degli alberi per gettarli sul suo passaggio. Così pure voi dovete prima di tutto togliere dall’anima vostra l’abito del peccato mortale, se mai vi fosse, recidere i rami di tutte le colpe gravi. Guai allo sciagurato che avesse l’ardire di accostarsi a ricevere la Santa Comunione col peccato mortale sopra dell’anima, senza essere in grazia di Dio! Ben diversamente dal ricevere l’abbondanza della divina grazia, egli riceverebbe la sua condanna e la sua maledizione, e come un abisso chiama un altro abisso, il miserabile, dopo aver compiuto un sì orribile sacrilegio, diverrebbe capace di compiere ancora qualsiasi altro più nero delitto. Avreste voi il coraggio d’inghiottire uno stilo, che scannasse la gola e vi lacerasse le viscere? Or peggio assai fareste, se vi cibaste di Gesù Cristo indegnamente, perché voi vi mangereste e vi berreste, secondo l’espressione dell’apostolo Paolo, il vostro giudizio,vale a dire la sentenza di vostra eterna condanna all’inferno. Oh Dio! Che diabolico congiungimento fanno mai coloro, che vanno a ricevere Gesù nella Comunione col peccato mortale. Essi uniscono la luce alle tenebre, Cristo con Belial, il cielo con l’inferno! Una delle più crudeli barbarie inventate da Mazenzio, tiranno, fu quella di far legare un uomo vivo con un uomo morto, unendo bocca a bocca, occhi ad occhi, piedi a piedi, e lasciarli ivi così stretti fintantoché il morto, colla puzza e col fracidume, facesse marcire e morire il vivo. Simile, per non dir maggior crudeltà, usano in certa maniera quegli scellerati, che si comunicano in peccato mortale: imperocché essi uniscono Cristo vivo e glorioso con la loro anima morta e fracida, la quale agli occhi di Dio è la cosa più sozza e più fetida del mondo. Che direste voi, se v’imbatteste a vedere una particola consacrata in un immondezzaio? Non vi farebbe egli raccapriccio una sì orribile vista? Or quando questi empii la ricevono in un’anima imbrattata di peccato mortale, la collocano in un luogo sì schifoso e fetente, che se Gesù Cristo non fosse impassibile ed immortale, verrebbe a morire per la nausea dell’intollerabile fetore; giacché per Lui puzza più un’anima peccatrice, che per noi un cane morto ed inverminito. Oh! che cuori spietati sono coloro, ai quali regge l’animo di commettere sì nero misfatto! Se avessero da ricevere in casa il loro stesso sovrano, gli farebbero trovare in esso una persona, che gli fosse odiosa, un suo nemico, un suo traditore, un suo ribelle? Or quando si fa la Comunione, si riceve nel petto il Sovrano del mondo, il Re dei re, il Creatore, Iddio, e ricevendolo in peccato mortale, gli si fa trovare nel petto medesimo il suo più gran nemico, la cosa più odiosa che Egli abbia al mondo; anzi l’unico oggetto del suo odio divino, ed odio infinito ed essenziale, in guisa che se non odiasse per un momento solo infinitamente ed essenzialmente il peccato mortale, non sarebbe più Dio in quel momento stesso; perché il peccato mortale è quello che alzò lo stendardo di ribellione contro di Lui; il peccato mortale è quello che lo tradì e gli diede morte, quando fu capace di morire. Che Iddio pertanto vi tenga lontani da questa orribile sventura di una Comunione sacrilega. E voi ricordate, che sarebbe mille volte meglio non comunicarvi mai, anziché recarvi anche ogni giorno alla Comunione, ma sempre col peccato sull’anima.
2. Ma le turbe, oltre a togliersi di dosso gli abiti e tagliare i rami da gettare sul passaggio di Gesù Cristo, si diedero ancora ad acclamarlo, a manifestare cioè i sentimenti del loro cuore. Così se ad accostarsi alla Santa Comunione la condizione prima ed indispensabile si è l’essere in grazia di Dio, ad ottenere poi che la Comunione produca in noi frutti di santificazione ci vogliono altresì talune altre prossime disposizioni, ci vogliono cioè i più vivi sentimenti di fede, di speranza e di carità, vale a dire di quelle virtù, che riguardano a Dio, che nella Santa Comunione si va a ricevere. — Che cosa è quell’Ostia, che fra breve il Sacerdote verrà a deporre sulla mia lingua, e che io farò discendere nel mio cuore? In apparenza non altro che un po’ di pane: di pane ha il colore, l’odore, il sapore; ma in realtà essa non è pane, no; essa è il vero Corpo di nostro Signor Gesù Cristo. Col ricevere quell’Ostia io ricevo le sue carni immacolate, il suo preziosissimo sangue, la sua anima e la sua divinità. È proprio Iddio, che viene a me, quel Dio sì grande che, se guarda la terra la fa tremare, se tocca i monti li fa fumare, se chiama le stelle, queste senza indugio gli si presentano dinanzi luminose, pronte ad eseguire i suoi cenni. È quel Dio sì potente, che ha segnato al mare i suoi confini, che comanda alle sue onde, che raffrena la furia dei venti, che signoreggia la natura tutta quanta, che col semplice fiat ha creato il mondo e mille altri ne potrebbe creare con un atto solo della sua onnipotente volontà. È quel Dio così sublime, che abita una luce inaccessibile, ed innanzi a cui gli Angeli stessi stanno col capo velato per rispetto alla sua maestà infinita; sì, sì è proprio desso. Ed io in sua comparazione, quasi nulla più che un verme della terra, ripieno di ogni miseria, lo ospiterò nel mio cuore? Ma come mai, o Signore, Voi volete venire dentro all’anima mia? Ah! Signore, no, non son degno che Voi entriate in me. Ma un’altra volta: chi sto io per ricevere? Io sto per ricevere quel Gesù, che è il tesoro delle anime, la consolazione degli afflitti, la luce dei ciechi, la guida degli erranti, il medico degli infermi, il ristoro dei tribolati, il conforto dei deboli, la gioia degli eletti, il gaudio del paradiso. Io sto per ricevere quel Gesù, che mondava i lebbrosi, che dava la vista ai ciechi, l’udito ai sordi, la parola ai muti, che raddrizzava gli storti e faceva camminare gli zoppi, che sanava ogni sorta di infermi, che cacciava i demoni, che risuscitava persino i morti. Io sto per ricevere quel Gesù, nelle cui mani stanno i tesori di tutte le grazie, che è pieno di bontà e di misericordia, che al trono del suo Divin Padre prega continuamente per la mia salute. In te adunque, o caro Gesù, io ripongo tutta la mia speranza; nel venire a prender possesso dell’anima mia la sanerai dalle sue infermità, la monderai dalle sue imperfezioni, le darai luce, forza, amore, santità, la riempirai di tutte le tue benedizioni: sì, o Gesù, Tu sei tutta la mia speranza. E poi una terza volta ancora: chi è che fra brevi istanti verrà ad unirsi intimamente a me? È quel Dio, che è carità, che mi ha amato da tutta l’eternità, che mi ha creato per amore, che si è incarnato e fatto uomo, che è nato da Maria Vergine, che ha patito ed è morto in croce per me, per la mia salute, quel Dio che mi ha fatti ed è pronto a farmi ancora tanti benefici, e che adesso mi dà l’estrema prova del suo amore col venire a me e col farsi cibo e bevanda dell’anima mia. Oh carità! oh amore infinito del mio Dio per me! Ed io non risponderò a tanto amore? Resterò freddo, insensibile, indifferente? No, no, o mio Gesù e mio Dio, io vi amo, vi voglio amare con tutto il mio cuore, con tutta la mia anima, con tutte le mie forze; anzi vorrei avere il cuore dei Serafini del cielo, vorrei avere quello istesso della Madre vostra per amarvi, come meritate di essere amato. Venite adunque, o mio bene, o mio tesoro, o mio tutto, venite a prendere possesso del cuor mio: io vi desidero, vi sospiro, vi bramo ardentissimamente. O Maria, datemi voi l’aiuto per ricevere Gesù nell’anima mia, come si conviene che sia ricevuto. — Ecco, è con questi od altri simili sentimenti, che noi dobbiamo recarci alla Comunione: e dopo d’averla ricevuta è pur con questi od altri simili sentimenti, che dobbiamo adorare, ringraziare, lodare, benedire Gesù ed implorare la sua grazia, se desideriamo che la nostra Comunione valga per ciò a farci santi. Ora, sono questi davvero i sentimenti, che portiamo noi alla Comunione? Forse talora si leggono espressi anche sui libri, ma a che vale, se non si accompagnano con l’affetto del cuore? Talora poi si va alla Comunione con freddezza, con indifferenza, irriflessione, e dopo d’averla ricevuta si volge tosto altrove la mente, senza pensar punto a trafficare quei momenti così preziosi per la nostra anima! Non sia così della Comunione, che stiamo per fare in questo tempo e di tutte quelle che faremo ancora nel restante di nostra vita.
3. Imitiamo pertanto, più ancora che gli abitanti di Gerusalemme, l’esempio dei Santi. I Santi nell’atto di comunicarsi erano tutti occupati in credere, sperare ed amare, e si servivano di varie pratiche devote, per rendere più vigorosi i loro sentimenti già pur così vivi. San Bernardo e Santa Caterina da Siena si immaginavano di dover ricevere del latte purissimo di Maria. S. Giovanni Crisostomo figuravasi di mettere la bocca al costato di Gesù per ricevere con più abbondanza quel preziosissimo sangue. San Francesco Borgia si raccoglieva dentro le piaghe del Redentore, come una pecora smarrita dentro l’ovile del suo pastore. Altri s’immaginavano di stare sotto la croce per ricevere sopra del capo, quel diluvio di sangue che Gesù vi sparse per nostro bene. Tutti eccitamenti a far delle sante Comunioni. E chi sa dire lo slancio di affetto, con cui si comunicò per la prima e per l’ultima volta la beata Imelda di Bologna? Era costei una fanciulla di pochi anni, ma già avanzatissima nella virtù e tanto devota del SS. Sacramento, da desiderare ardentissimamente di riceverlo nella Santa Comunione. Ma la sua tenera età le chiudeva la via e non ostante i fervidi suoi desideri, le monache non glielo volevano acconsentire. Il perché non è a dire quant’ella si cruciasse, vedendosi vicino al fonte senza potersi cavar la sete. Basti il dire che non le avveniva mai di vedere le monache accostarsi alla santissima Eucarestia, senza che ella tutta si sentisse divampare internamente e divenire anche esternamente fuoco negli occhi e nel volto, che sembrava quello di un Serafino. Ma non tardò molto il Signore ad appagare le fervide sue brame ed a compiacerla sovrabbondantemente. Trovandosi una mattina in chiesa con le monache, sollecitava più del solito il Signore a venire in lei con brame accese ed intense al possibile, quand’ecco, stupendo miracolo! comparve di repente dal cielo una sacra particola irraggiata da straordinario splendore, che sospesa in aria, si fermò sul capo della fortunata giovinetta. Oh Dio! che mirabile vista da rapire in estasi di stupore e di venerazione ogni cuore! Le monache rimasero trasecolate e come fuori di sé a vista di tanto portento; e recatane quindi la nuova al sacerdote che loro presiedeva, fecero sì che egli stesso venisse in persona a vederlo con i propri occhi. Venuto il sacro ministro, veduto il gran prodigio, fu altamente stupito; poi giudicando che fosse giusto il comunicare quest’anima, il che era approvato dal Cielo con tanta chiarezza, messa la mano alla sacra patena e ricevuta l’Ostia santa la porse ad Imelda, la quale, accolto nel suo seno il suo dilettissimo Gesù, raddoppiò le vampe del suo fervore per siffatta guisa, che di puro amore e di pura gioia spirituale se ne morì e andò a stringere in cielo eterne nozze col suo amorosissimo Sposo. Oh fortuna di chi va a fare una Santa Comunione!
De
processione cum ramis benedictis
Procedámus
in pace.
Occúrrunt turbæ cum flóribus et palmis Redemptóri óbviam: et victóri
triumphánti digna dant obséquia: Fílium Dei ore gentes prædicant: et in laudem
Christi voces tonant per núbila: «Hosánna in excélsis». [Con fiori e palme le
folle vanno ad incontrare il Redentore e rendono degno ossequio al Vincitore
trionfante. Le nazioni lo proclamano Figlio di Dio e nell’etere risuona a lode
di Cristo un canto: Osanna nel più alto dei cieli!]
Cum Angelis et púeris fidéles inveniántur,
triumphatóri mortis damántes: «Hosánna in excélsis». [Facciamo
di essere anche noi fedeli come gli Angeli ed i fanciulli, acclamando al
vincitore della morte: Osanna nel più alto dei cieli!] Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus,
qui venit in nómine Dómini: «Hosánna in excélsis». [Immensa
folla, convenuta per la Pasqua, acclamava ai Signore: Benedetto Colui che viene
nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!] Cœpérunt omnes turbæ descendéntium gaudéntes laudáre Deum voce magna,
super ómnibus quas víderant virtútibus, dicéntes: «Benedíctus qui venit Rex in
nómine Dómini; pax in terra, et glória in excélsis».[Tutta la
turba dei discepoli discendenti dal monte Oliveto cominciò con letizia a lodar
Dio ad alta voce per tutti i prodigi che aveva veduti dicendo: Benedetto il Re
che viene nel nome del Signore; pace in terra e gloria nell’alto dei cieli.]
Hymnus
ad Christum Regem
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe,
Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus
prompsit Hosánna pium. Israël es tu
Rex, Davidis et ínclita proles: Nómine qui in Dómini, Rex benedícte, venis. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus
prompsit Hosánna pium.
Coetus in excélsis te laudat caelicus omnis, Et mortális homo, et cuncta creáta
simul.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus
prompsit Hosánna pium.
Plebs Hebraea tibi cum palmis óbvia venit: Cum prece, voto, hymnis, ádsumus
ecce tibi.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus
prompsit Hosánna pium.
Hi tibi passúro solvébant múnia laudis: Nos tibi regnánti pángimus ecce melos.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus
prompsit Hosánna pium. Hi placuére
tibi, pláceat devótio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta placent. Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus
prompsit Hosánna pium
[Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna. Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna. Tu sei il Re di Israele, il nobile figlio di David, o Re benedetto che vieni nel nome del Signore. Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna. L‘intera corte angelica nel più alto dei cieli, l’uomo mortale e tutte le creature celebrano insieme le tue lodi. Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna. Il popolo Ebreo ti veniva dinanzi con le palme, ed eccoci dinanzi a te, con preghiere, con voti e cantici. Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna. Essi ti offrivano il tributo del loro omaggio, quando tu andavi a soffrire; noi eleviamo questi canti a te che ora regni. Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna. Ti piacquero essi: ti piaccia anche la nostra devozione, o Re di bontà, Re clemente, a cui ogni cosa buona piace. Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.]
Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine
Dómini: Hosánna in excélsis».
Psalmus CXLVII Lauda, Jerúsalem, Dóminum: * lauda Deum tuum, Sion. Quóniam confortávit seras portárum tuárum: * benedíxit fíliis tuis in te. Qui pósuit fines tuos pacem: * et ádipe fruménti sátiat te. Qui emíttit elóquium suum terræ: * velóciter currit sermo ejus. Qui dat nivem sicut lanam: * nébulam sicut cínerem spargit. Mittit crystállum suam sicut buccéllas: * ante fáciem frígoris ejus quis sustinébit? Emíttet verbum suum, et liquefáciet ea: * flabit spíritus ejus, et fluent aquæ. Qui annúntiat verbum suum Jacob: * justítias, et judícia sua Israël. Non fecit táliter omni natióni: * et judícia sua non manifestávit eis. Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».
Fulgéntibus
palmis prostérnimur adveniénti Dómino: huic omnes occurrámus cum hymnis et
cánticis, glorificántes et dicéntes: «Benedíctus Dóminus». Di festosi rami ornati, ci prostriamo
al Signor che viene: a Lui incontro corriamo tra inni e canti, Lui
glorifichiamo dicendo: Benedetto il Signore! Ave, Rex noster, Fili David, Redémptor mundi, quem prophétæ praedixérunt
Salvatórem dómui Israël esse ventúrum. Te enim ad salutárem víctimam Pater
misit in mundum, quem exspectábant omnes sancti ab orígine mundi, et nunc:
«Hosánna Fílio David. Benedíctus qui venit in nómine Dómini. Hosánna in
excélsis». [Ave, o nostro Re, Figlio di David, Redentore del mondo,
preannunciato dai Profeti come Salvatore venuto per la casa d’Israele. Il Padre
mandò Te come vittima di redenzione per il mondo; T’aspettavano tutti i santi
sin dall’origine del mondo, ed ora: Osanna, Figlio di David. Benedetto Colui
che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei Cieli!]
Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos
gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi
rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis
dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos
redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.
Ingrediénte
Dómino in sanctam civitátem, Hebræórum púeri resurrectiónem vitæ pronuntiántes,
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».
Cum audísset pópulus, quod Jesus veníret Jerosólymam, exiérunt óbviam ei.
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis». [Mentre il Signore
entrava nella città santa, i fanciulli ebrei proclamavano la risurrezione alla
vita,
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!
Avendo il popolo sentito che Gesù si avvicinava a Gerusalemme, gli mosse
incontro
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!]
Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos
gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi
rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis
dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos
redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum. [Signor Gesù Cristo, Re e Redentore
nostro, in onore del quale abbiamo cantato lodi solenni, portando questi rami,
concedi propizio che la grazia della tua benedizione discenda dovunque questi
rami saranno portati e che la tua destra protegga i redenti togliendo di mezzo
a loro ogni iniquità ed illusione diabolica. Tu che vivi e regni nei secoli dei
secoli.]
Introitus
Ps XXI: 20 et 22.
Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad
defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium
humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da
me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del
leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]
Ps XXI:2Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? longe a salúte mea verba delictórum meórum. [Dio mio, Dio mio, guardami: perché mi hai abbandonato? La salvezza si allontana da me alla voce dei miei delitti].
Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad
defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium
humilitátem meam. [Tu, o Signore, non
allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla
bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]
Oratio
Omnípotens sempitérne Deus, qui humáno generi, ad imitandum humilitátis exémplum, Salvatórem nostrum carnem súmere et crucem subíre fecísti: concéde propítius; ut et patiéntiæ ipsíus habére documénta et resurrectiónis consórtia mereámur. [Onnipotente eterno Dio, che per dare al genere umano un esempio d’umiltà da imitare, volesti che il Salvatore nostro s’incarnasse e subisse la morte di Croce: propizio concedi a noi il merito di accogliere gli insegnamenti della sua pazienza, e di partecipare alla sua risurrezione.]
LECTIO
Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses. Phil II: 5-11
“Fratres:
Hoc enim sentíte in vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei
esset, non rapínam arbitrátus est esse se æqualem Deo: sed semetípsum
exinanívit, formam servi accípiens, in similitúdinem hóminum factus, et hábitu
invéntus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus
oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit
illum: ei donávit illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut
in nómine Jesu omne genu flectátur coeléstium, terréstrium et inférno rum: et
omnis lingua confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei
Patris.”
OMELIA II
[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc.
Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]
L’UMILTÀ’
“Fratelli: Siano in voi gli stessi
sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, essendo della natura di Dio,
non ritenne come una preda la sua parità con Dio, ma spogliò se stesso,
prendendo la natura dì servo, divenuto simile agli uomini, e all’aspetto riconosciuto
quale uomo. Abbassò, se stesso facendosi obbediente fino alla morte, e alla
morte di croce. Perciò Dio lo ha sublimato, e gli ha dato un nome superiore a
ogni altro nome; perchè nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, sulla
terra e nell’inferno, e ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella
gloria di Dio Padre”. (Fil. II, 5-11).
L’Epistola è tratta dalla lettera ai Filippesi. Per togliere lo spirito di divisione e di rivalità che regnava tra essi. S. Paolo propone l’esempio di Gesù Cristo. Egli, essendo Dio, non considera la sua grandezza come un possesso da conservare a ogni costo, ma se ne spoglia volontariamente, facendosi uomo e umiliandosi fino alla morte di croce. Perciò Dio lo ha esaltato, dandogli un nome, dinanzi al quale tutti devono piegarsi e confessare che Egli possiede la gloria del Padre. Sull’esempio di Gesù Cristo ogni Cristiano deve praticare la virtù fondamentale dell’umiltà. L’uomo umile, convinto dei propri demeriti,
1. Opera con semplicità,
2. È pronto all’ubbidienza,
3. Non si preoccupa della propria
gloria, della quale lascia la cura a Dio.
I.
Fratelli: Siano in voi gli stessi sentimenti che furono in Gesù Cristo, il quale, essendo della natura di Dio, non ritenne come una preda la sua parità con Dio, ma spogliò se stesso prendendo la natura di servo. Gesù era Dio : la sua grandezza non aveva limiti. « Se in Lui fossero stati i sentimenti di parecchi Filippesi, egli avrebbe reclamato, discusso, difeso con energia questo bene che gli apparteneva in forza di un titolo eterno. L’avrebbe custodito con l’aspra fierezza del guerriero armato che non si lascia strappare la sua conquista e la sua parte di bottino avuto ». Ben diversi, però, sono i sentimenti di Gesù. Invece di attaccarsi tenacemente alla sua parità divina e alla gloria che ne deriva, se ne spoglia volontariamente ai nostri occhi, prendendo la forma e la natura di servo. Lezione più sublime di umiltà pei Filippesi e per i Cristiani tutti non si potrebbe trovare. Dopo che Gesù Cristo, nel mistero dell’incarnazione, ha tanto sublimato l’umiltà, tutti ne parlano. Pochi, però,la praticano, e non tutti la praticano nel debito modo. La confessione dei nostri demeriti, delle nostre debolezze, del nostro nulla, se non partono da un cuor sincero non possono chiamarsi atti di umiltà. Ci sono coloro che per sfuggire alla possibilità di un castigo, perprocurarsi un atto di clemenza, per rendersi accetti, dichiarano di aver sbagliato, ritrattano il male fatto con le parole e con gli scritti, si dichiarano indegni di perdono ecc; ma il loro interno com’è? Il loro cuore è più che mai lontano, attaccato a ciò che la bocca detesta. Neppure è sempre umiltà l’atteggiamento esterno. Si può esser trascurati negli abiti, col capo basso per le vie, battersi il petto in chiesa: ma accompagnar questi atteggiamenti col desiderio di essere osservati, considerati. È umile l’atteggiamento di S. Pietro, che si getta ai piedi di Gesù, ed esclama: « Signore, allontanati da me che sono un uomo peccatore ». (Luc. V, 8). È umile l’atteggiamento della Maddalena che con le lagrime bagna i piedi di Gesù. Ma al loro atteggiamento esterno corrisponde l’interna disposizione dell’animo. Quando l’atteggiamento esterno non è vivificato dall’aurea massima:« Ama di non esser conosciuto e di esser riputato per niente », non c’è umiltà, ma ipocrisia. Non sono sempre guidati dai sentimenti che erano in Gesù Cristo, quelli che, invitati a far qualche cosa di bene, ad accettare qualche carica onorifica, se ne schermiscono, protestando che non sono capaci, che si mettano altri più adatti e più degni. Anche qui, non raramente, l’apparenza inganna. Son proteste ispirate dal dispetto, dalla gelosia, da un non lodevole puntiglio. Si aspettava di essere invitati prima degli altri, si aspettava una carica più importante. L’ambizione non appagata si veste d’umiltà. Ci sarà in queste proteste e in questi rifiuti molto veleno del serpente, ma manca la semplicità della colomba.
2.
Gesù Cristo abbassò se stesso facendosi ubbidiente fino atta morte, e alla morte di croce. Chi non sa ubbidire non può esser umile. Sarebbe una contraddizione bella e buona dichiararsi un nulla davanti a Dio, riconoscered’aver tutto da Lui, di dover dipendere in ogni cosada Lui, e poi negargli obbedienza. E quel che si dice rispetto a Dio vale anche rispetto a coloro che ne rappresentano l’autorità, come i genitori e i superiori. Vediamo che cosa ci insegna in proposito Gesù Cristo, con gli esempi della sua vita. – Il Vangelo, parlandoci degli anni passati nella casa di Nazaret con Maria e Giuseppe, dice: « e stava loro sottomesso» (Luc.. X, 51). Il Creatore è sottomesso alla creatura. Ma in queste creature Egli vede i rappresentanti dell’autorità di Dio, e tanto basta, perché Egli ubbidisca. Un giorno comanderà ai venti, e questi gli ubbidiranno; comanderà ai demoni, e questi si piegheranno alla sua volontà, comanderà alla morte, e questa gli restituirà la sua preda; ma adesso Egli ubbidisce agli altri. Nella vita pubblica la sua missione sarà quella di comandare, adesso è quella di ubbidire. Devo far quello che mi vien comandato, se potrei insegnare a chi mi comanda? Gesù poteva certamente dare dei punti a Giuseppe. Chi ha dato all’universo un ordine così meraviglioso da strappare inni di lodi e di ammirazione dai più eletti ingegni, poteva far senza le istruzioni di Giuseppe. Invece fa l’opposto. Egli lavora nella bottega sotto la sua direzione, e si attiene alle sue istruzioni e ai suoi suggerimenti. Chi gli comanda tiene le veci del Padre: dunque gli si ubbidisca. Se avessimo in noi questi sentimenti di Gesù Cristo, non staremmo a discutere sulla capacità di chi comanda. Ne ha l’autorità! Ne ha abbastanza, perché io debba ubbidire. E s’intende che bisogna ubbidire anche quando si tratta di cose contrarie ai nostri gusti e alle nostre inclinazioni. Gesù Cristo ubbidisce al Padre in ciò che è più duro di tutto. Egli ubbidisce nel sottoporsi ai tormenti, alla morte, e non a una morte comune, ma a una morte ignominiosa, quale era la morte di croce. «Quella morte — dice S. Bernardo — quella croce, quegli obbrobri, quegli sputi, quei flagelli, tutto ciò che Cristo, il nostro capo, ha sofferto, non furono altro che splendidi esempi di ubbidienza, lasciati a noi che siamo il suo corpo». (1 Tractatus De Gradibus humilitatis, 7). E noi resteremo insensibili davanti agli esempi datici dal nostro capo, e ci rifiuteremo ancora di ubbidire, quando l’ubbidienza costa sacrifici? Non dimentichiamoci che il sacrificio dell’ubbidienza è più accetto a Dio che gli altri sacrifici. Gesù Cristo poteva dire di se stesso: «Io non cerco la mia gloria: c’è chi se ne prende cura,». (Giov. VIII, 50). E di fatti Dio lo ha sublimato e gli ha dato un nome superiorea ogni altro nome. Chi è umile, sull’esempio di Gesù Cristo, non cerea la propria gloria nel suo operare. Questa gli verrà un giorno dal Signore, se lo avrà servito fedelmente. Che importa della gloria del mondo al fedele servo di Dio! Essa è come il fumo che in un momento s’innalza, s’allarga, toglie la vista, e in un momento scompare. Come il fiore del prato, ricrea per un giorno, e poi svanisce. E d’altronde qual motivo c’è per gloriarsi? Poiché, chi differenzia te dagli altri? e che cosa hai tu che non abbia ricevuto?» (1 Cor. IV). « Chi stima che tutto dipenda da sé, è ingrato verso colui che ha creduto di onorarlo » (S. Giov. Crisost. In Epist. ad Philipp. Hom. 5, 2). Compia pure tante belle opere, senza l’aiuto di Dio non le potrebbe compiere; a lui dunque la gloria. – I superbi non lasciano sfuggire occasione alcuna per magnificare le loro opere fatte, o non fatte. Gli umili tacciono delle cose lodevoli da essi veramente compiute. Non sempre si riesce a nascondere il bene che si fa. Il Cristiano non vive chiuso in una scatola: le sue opere buone sono necessariamente viste da quelli che lo circondano. Delle volte, è necessario che compia le sue opere buone in presenza degli altri, per dare buon esempio; ma allora egli si fa guidare dalla norma: « L’azione sia pubblica, in modo, però, che l’intenzione rimanga in segreto » (S. Gregorio M. Hom. 11, 1). I superbi hanno la pretesa di non sbagliare mai. Perciò non sopportano un avviso, una correzione, un rimprovero. Il loro amor proprio ne resterebbe profondamente ferito. Gli umili, che non si curano delle ferite che potrebbe riceverne l’amor proprio, sono lieti di essere avvisati dei loro sbagli. Il Cardinal Richelmy, arcivescovo di Torino, capitato un giorno in visita a una parrocchia della sua archidiocesi, fece le più amorevoli accoglienze ad alcuni chierici che vide in sacristia, trascurando un vecchio cappellano, che ne rimase mortificato. Un sacerdote ebbe il coraggio di far rispettose rimostranze al Cardinale il mattino seguente. « Ha fatto bene a dirmelo — rispose il Cardinale — Non l’avevo visto ». E mandatolo a chiamare gli diede segni della più grande stima e del più grande affetto. Poi, ringraziò l’ammonitore: « Quando viene a Torino, passi in arcivescovado, all’ora degli amici s’intende ». (A, Vuadagnotti. Il Cardinale Richelmy. Torino – Roma. 1926 p. 277). Ecco come riceve le giuste osservazioni chi non si preoccupa della propria gloria. Considera gli ammonitori veri amici, meritevoli di ringraziamento e di delicate attenzioni. Se noi non ci preoccupiamo della nostra gloria, non vuol dire che questa non verrà a suo tempo. Ogni atto virtuoso compiuto per amor di Dio, riceverà da Lui un premio. Anche l’umiltà avrà il suo premio. «Premio dell’umiltà è la gloria», dice S. Agostino (In Joan. Evang. Tract. 104,3). E non può essere altrimenti, perché essa è la base della santità. Il fratello di Santa Maddalena Sofia Barat, un sacerdote austero, che guidava alla virtù la sorella, le disse un giorno ruvidamente: «Non sarai mai una gran Santa ». « Mi rivendicherò con l’esser molto umile », rispose pronta la fanciulla (Santa Maddalena Sofia Barat, fondatrice dell’Ist. Del Sacro Cuore. Firenze, 1925, p. 7). E la vendetta riuscì splendidamente. L’umiltà, che possedette in grado non comune, la condusse alle altezze della santità e alla conseguente gloria. Vogliamo arrivare alla gloria un giorno! Disprezziamola ora, umiliandoci per amor di Dio.
Graduale
Ps LXXII:24
et 1-3 Tenuísti manum déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me: et cum
glória assumpsísti me. [Tu mi hai preso per la destra, mi hai guidato col tuo consiglio, e mi
‘hai accolto in trionfo.]
Quam bonus
Israël Deus rectis corde! mei autem pæne moti sunt pedes: pæne effúsi sunt
gressus mei: quia zelávi in peccatóribus, pacem peccatórum videns. [Com’è buono, o Israele, Iddio con
chi è retto di cuore. Per poco i miei piedi non vacillarono; per poco i miei
passi non sdrucciolarono; perché io ho invidiato i peccatori, vedendo la
prosperità degli empi.]
Tractus Ps. XXI: 2-9, 18, 19, 22, 24, 32
Deus, Deus meus, réspice in me: quare me
dereliquísti?
Longe a
salúte mea verba delictórum meórum.
Deus meus, clamábo per diem, nec exáudies: in nocte,
et non ad insipiéntiam mihi.
Tu autem in sancto hábitas, laus Israël.
In te speravérunt patres nostri: speravérunt, et
liberásti eos.
Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: in te
speravérunt, et non sunt confusi.
Ego autem sum vermis, et non homo: oppróbrium
hóminum et abjéctio plebis.
Omnes, qui vidébant me, aspernabántur me: locúti
sunt lábiis et movérunt caput.
Ipsi vero consideravérunt et conspexérunt me:
divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt mortem.
Líbera me de ore leónis: et a córnibus
unicórnium humilitátem meam.
Qui timétis Dóminum, laudáte eum: univérsum
semen Jacob, magnificáte eum.
Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: et
annuntiábunt coeli justítiam ejus.
Pópulo, qui
nascétur, quem fecit Dóminus.
Evangelium
Pássio
Dómini nostri Jesu Christi secúndum Matthǽum.
[Matt
XXVI:1-75; XXVII:1-66].
“In illo
témpore: Dixit Jesus discípulis suis: J. Scitis,
quid post bíduum Pascha fiet, et Fílius hóminis tradétur, ut crucifigátur. C. Tunc congregáti sunt príncipes sacerdótum et
senióres pópuli in átrium príncipis sacerdótum, qui dicebátur Cáiphas: et
consílium fecérunt, ut Jesum dolo tenérent et occíderent. Dicébant autem: S. Non in die festo, ne forte tumúltus fíeret in
pópulo. C. Cum autem Jesus esset in Bethánia in
domo Simónis leprósi, accéssit ad eum múlier habens alabástrum unguénti
pretiósi, et effúdit super caput ipsíus recumbéntis. Vidéntes autem discípuli,
indignáti sunt, dicéntes: S. Ut quid perdítio
hæc? pótuit enim istud venúmdari multo, et dari paupéribus. C. Sciens
autem Jesus, ait illis: J. Quid molésti estis
huic mulíeri? opus enim bonum operáta est in me. Nam semper páuperes habétis
vobíscum: me autem non semper habétis. Mittens enim hæc unguéntum hoc in corpus
meum, ad sepeliéndum me fecit. Amen, dico vobis, ubicúmque prædicátum fúerit
hoc Evangélium in toto mundo, dicétur et, quod hæc fecit, in memóriam ejus. C. Tunc ábiit unus de duódecim, qui dicebátur Judas
Iscariótes, ad príncipes sacerdótum, et ait illis: S.
Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? C.
At illi constituérunt ei trigínta argénteos. Et exínde quærébat opportunitátem,
ut eum tráderet. Prima autem die azymórum accessérunt discípuli ad Jesum,
dicéntes: S. Ubi vis parémus tibi comédere
pascha? C. At Jesus dixit: J. Ite in civitátem ad quendam, et dícite ei: Magíster
dicit: Tempus meum prope est, apud te fácio pascha cum discípulis meis. C. Et fecérunt discípuli, sicut constítuit illis
Jesus, et paravérunt pascha. Véspere autem facto, discumbébat cum duódecim
discípulis suis. Et edéntibus illis, dixit: J.
Amen, dico vobis, quia unus vestrum me traditúrus est. C.
Et contristáti valde, coepérunt sínguli dícere: S.
Numquid ego sum, Dómine? C. At ipse respóndens,
ait: J. Qui intíngit mecum manum in parópside,
hic me tradet. Fílius quidem hóminis vadit, sicut scriptum est de illo: væ
autem hómini illi, per quem Fílius hóminis tradétur: bonum erat ei, si natus
non fuísset homo ille. C. Respóndens autem
Judas, qui trádidit eum, dixit: S. Numquid ego
sum, Rabbi? C. Ait illi: J. Tu dixísti. C. Cenántibus autem
eis, accépit Jesus panem, et benedíxit, ac fregit, dedítque discípulis suis, et
ait: J. Accípite et comédite: hoc est corpus
meum. C. Et accípiens cálicem, grátias egit: et
dedit illis, dicens: J. Bíbite ex hoc omnes. Hic
est enim sanguis meus novi Testaménti, qui pro multis effundétur in remissiónem
peccatórum. Dico autem vobis: non bibam ámodo de hoc genímine vitis usque in
diem illum, cum illud bibam vobíscum novum in regno Patris mei. C. Et hymno dicto, exiérunt in montem Olivéti. Tunc
dicit illis Jesus: J. Omnes vos scándalum
patiémini in me in ista nocte. Scriptum est enim: Percútiam pastórem, et
dispergéntur oves gregis. Postquam autem resurréxero, præcédam vos in
Galilaeam. C. Respóndens autem Petrus, ait illi:
S. Et si omnes scandalizáti fúerint in te, ego
numquam scandalizábor. C. Ait illi Jesus: J. Amen, dico tibi, quia in hac nocte, antequam
gallus cantet, ter me negábis. C. Ait illi
Petrus: S. Etiam si oportúerit me mori tecum, non te negábo. C. Simíliter et
omnes discípuli dixérunt. Tunc venit Jesus cum illis in villam, quæ dícitur
Gethsémani, et dixit discípulis suis: J. Sedéte
hic, donec vadam illuc et orem. C. Et assúmpto
Petro et duóbus fíliis Zebedaei, coepit contristári et mæstus esse. Tunc ait
illis: J. Tristis est ánima mea usque ad mortem:
sustinéte hic, et vigilate mecum. C. Et progréssus pusíllum, prócidit in fáciem
suam, orans et dicens: J. Pater mi, si possíbile
est, tránseat a me calix iste: Verúmtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. C. Et venit ad discípulos suos, et invénit eos
dormiéntes: et dicit Petro: J. Sic non potuístis
una hora vigiláre mecum? Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem.
Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma. C.
Iterum secúndo ábiit et orávit, dicens: J. Pater
mi, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum, fiat volúntas tua. C. Et venit íterum, et invenit eos dormiéntes: erant
enim óculi eórum graváti. Et relíctis illis, íterum ábiit et orávit tértio,
eúndem sermónem dicens. Tunc venit ad discípulos suos, et dicit illis: J. Dormíte jam et requiéscite: ecce, appropinquávit
hora, et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum. Súrgite, eámus: ecce,
appropinquávit, qui me tradet. C. Adhuc eo
loquénte, ecce, Judas, unus de duódecim, venit, et cum eo turba multa cum
gládiis et fústibus, missi a princípibus sacerdótum et senióribus pópuli. Qui
autem trádidit eum, dedit illis signum, dicens: S.
Quemcúmque osculátus fúero, ipse est, tenéte eum. C. Et
conféstim accédens ad Jesum, dixit: S. Ave, Rabbi. C.
Et osculátus est eum. Dixítque illi Jesus: J.
Amíce, ad quid venísti? C. Tunc accessérunt, et
manus injecérunt in Jesum et tenuérunt eum. Et ecce, unus ex his, qui erant cum
Jesu, exténdens manum, exémit gládium suum, et percútiens servum príncipis
sacerdótum, amputávit aurículam ejus. Tunc ait illi Jesus: J. Convérte gládium tuum in locum suum. Omnes enim,
qui accéperint gládium, gládio períbunt. An putas, quia non possum rogáre
Patrem meum, et exhibébit mihi modo plus quam duódecim legiónes Angelórum?
Quómodo ergo implebúntur Scripturae, quia sic oportet fíeri? C. In illa hora dixit Jesus turbis: J. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus
comprehéndere me: cotídie apud vos sedébam docens in templo, et non me
tenuístis. C. Hoc autem totum factum est, ut
adimpleréntur Scripturæ Prophetárum. Tunc discípuli omnes, relícto eo,
fugérunt. At illi tenéntes Jesum, duxérunt ad Cáipham, príncipem sacerdótum,
ubi scribæ et senióres convénerant. Petrus autem sequebátur eum a longe, usque
in átrium príncipis sacerdótum. Et ingréssus intro, sedébat cum minístris, ut
vidéret finem. Príncipes autem sacerdótum et omne concílium quærébant falsum
testimónium contra Jesum, ut eum morti tráderent: et non invenérunt, cum multi
falsi testes accessíssent. Novíssime autem venérunt duo falsi testes et
dixérunt: S. Hic dixit: Possum destrúere templum
Dei, et post tríduum reædificáre illud. C. Et
surgens princeps sacerdótum, ait illi: S. Nihil
respóndes ad ea, quæ isti advérsum te testificántur? C.
Jesus autem tacébat. Et princeps sacerdótum ait illi: S.
Adjúro te per Deum vivum, ut dicas nobis, si tu es Christus, Fílius Dei. C. Dicit illi Jesus: J.
Tu dixísti. Verúmtamen dico vobis, ámodo vidébitis Fílium hóminis sedéntem a
dextris virtútis Dei, et veniéntem in núbibus coeli. C.
Tunc princeps sacerdótum scidit vestiménta sua, dicens: S. Blasphemávit: quid adhuc egémus téstibus? Ecce, nunc audístis
blasphémiam: quid vobis vidétur? C. At illi
respondéntes dixérunt: S. Reus est mortis. C.
Tunc exspuérunt in fáciem ejus, et cólaphis eum cecidérunt, álii autem palmas
in fáciem ejus dedérunt, dicéntes: S. Prophetíza nobis, Christe, quis est, qui
te percússit? C. Petrus vero sedébat foris in átrio: et accéssit ad
eum una ancílla, dicens: S. Et tu cum Jesu Galilaeo eras. C. At ille negávit coram ómnibus, dicens: S. Néscio, quid dicis. C.
Exeúnte autem illo jánuam, vidit eum ália ancílla, et ait his, qui erant ibi: S. Et hic erat cum Jesu Nazaréno. C. Et íterum negávit cum juraménto: Quia non novi
hóminem. Et post pusíllum accessérunt, qui stabant, et dixérunt Petro: S. Vere et tu ex illis es: nam et loquéla tua
maniféstum te facit. C. Tunc cœpit detestári et
juráre, quia non novísset hóminem. Et contínuo
gallus cantávit. Et recordátus est Petrus verbi Jesu, quod díxerat: Priúsquam
gallus cantet, ter me negábis. Et egréssus foras, flevit amáre. Mane autem
facto, consílium iniérunt omnes príncipes sacerdótum et senióres pópuli
advérsus Jesum, ut eum morti tráderent. Et vinctum adduxérunt eum, et
tradidérunt Póntio Piláto praesidi. Tunc videns Judas, qui eum trádidit, quod
damnátus esset, pæniténtia ductus, réttulit trigínta argénteos princípibus
sacerdótum et senióribus, dicens: S. Peccávi,
tradens sánguinem justum. C. At illi dixérunt: S. Quid ad nos? Tu vidéris. C.
Et projéctis argénteis in templo, recéssit: et ábiens, láqueo se suspéndit.
Príncipes autem sacerdótum, accéptis argénteis, dixérunt: S. Non licet eos míttere in córbonam: quia prétium
sánguinis est. C. Consílio autem ínito, emérunt ex illis agrum fíguli,
in sepultúram peregrinórum. Propter hoc
vocátus est ager ille, Hacéldama, hoc est, ager sánguinis, usque in hodiérnum
diem. Tunc implétum est, quod dictum est per Jeremíam Prophétam, dicéntem: Et
accepérunt trigínta argénteos prétium appretiáti, quem appretiavérunt a fíliis
Israël: et dedérunt eos in agrum fíguli, sicut constítuit mihi Dóminus. Jesus
autem stetit ante praesidem, et interrogávit eum præses, dicens: S. Tu es Rex Judæórum? C.
Dicit illi Jesus: J. Tu dicis. C. Et cum accusarétur a princípibus sacerdótum et
senióribus, nihil respóndit. Tunc dicit illi Pilátus: S.
Non audis, quanta advérsum te dicunt testimónia? C. Et non respóndit ei ad ullum
verbum, ita ut mirarétur præses veheménter. Per diem autem sollémnem
consuéverat præses pópulo dimíttere unum vinctum, quem voluíssent. Habébat
autem tunc vinctum insígnem, qui dicebátur Barábbas. Congregátis ergo illis,
dixit Pilátus: S. Quem vultis dimíttam vobis:
Barábbam, an Jesum, qui dícitur Christus? C.
Sciébat enim, quod per invídiam tradidíssent eum. Sedénte autem illo pro
tribunáli, misit ad eum uxor ejus, dicens: S. Nihil tibi et justo illi: multa
enim passa sum hódie per visum propter eum. C.
Príncipes autem sacerdótum et senióres persuasérunt populis, ut péterent
Barábbam, Jesum vero pérderent. Respóndens
autem præses, ait illis: S. Quem vultis vobis de
duóbus dimítti? C. At illi dixérunt: S. Barábbam. C. Dicit
illis Pilátus: S. Quid ígitur fáciam de Jesu, qui dícitur Christus? C. Dicunt omnes: S.
Crucifigátur. C. Ait illis præses: S. Quid enim mali fecit? C.
At illi magis clamábant,dicéntes: S.
Crucifigátur. C. Videns autem Pilátus, quia
nihil profíceret, sed magis tumúltus fíeret: accépta aqua, lavit manus coram
pópulo, dicens: S. Innocens ego sum a sánguine
justi hujus: vos vidéritis. C. Et respóndens
univérsus pópulus, dixit: S. Sanguis ejus super
nos et super fílios nostros. C. Tunc dimísit
illis Barábbam: Jesum autem flagellátum trádidit eis, ut crucifigerétur. Tunc
mílites praesidis suscipiéntes Jesum in prætórium, congregavérunt ad eum
univérsam cohórtem: et exuéntes eum, chlámydem coccíneam circumdedérunt ei: et
plecténtes corónam de spinis, posuérunt super caput ejus, et arúndinem in
déxtera ejus. Et genu flexo ante eum, illudébant ei, dicéntes: S. Ave, Rex Judæórum. C.
Et exspuéntes in eum, accepérunt arúndinem, et percutiébant caput ejus. Et
postquam illusérunt ei, exuérunt eum chlámyde et induérunt eum vestiméntis
ejus, et duxérunt eum, ut crucifígerent. Exeúntes autem, invenérunt hóminem
Cyrenaeum, nómine Simónem: hunc angariavérunt, ut tólleret crucem ejus. Et
venérunt in locum, qui dícitur Gólgotha, quod est Calváriæ locus. Et dedérunt
ei vinum bíbere cum felle mixtum. Et cum gustásset, nóluit bibere. Postquam
autem crucifixérunt eum, divisérunt vestiménta ejus, sortem mitténtes: ut
implerétur, quod dictum est per Prophétam dicentem: Divisérunt sibi vestiménta
mea, et super vestem meam misérunt sortem. Et sedéntes, servábant eum. Et
imposuérunt super caput ejus causam ipsíus scriptam: Hic est Jesus, Rex
Judæórum. Tunc crucifíxi sunt cum eo duo latrónes: unus a dextris et unus a
sinístris. Prætereúntes autem blasphemábant eum, movéntes cápita sua et
dicéntes: S. Vah, qui déstruis templum Dei et in
tríduo illud reædíficas: salva temetípsum. Si Fílius Dei es, descénde de cruce.
C. Simíliter et príncipes sacerdótum illudéntes
cum scribis et senióribus, dicébant: S. Alios
salvos fecit, seípsum non potest salvum fácere: si Rex Israël est, descéndat
nunc de cruce, et crédimus ei: confídit in Deo: líberet nunc, si vult eum:
dixit enim: Quia Fílius Dei sum. C. Idípsum
autem et latrónes, qui crucifíxi erant cum eo, improperábant ei. A sexta autem
hora ténebræ factæ sunt super univérsam terram usque ad horam nonam. Et circa horam nonam clamávit Jesus
voce magna, dicens: J. Eli, Eli, lamma
sabactháni? C. Hoc est: J. Deus meus, Deus meus, ut quid
dereliquísti me? C. Quidam autem illic stantes
et audiéntes dicébant: S. Elíam vocat iste. C. Et contínuo currens unus ex eis, accéptam spóngiam
implévit acéto et impósuit arúndini, et dabat ei bíbere. Céteri vero dicébant:S. Sine,
videámus, an véniat Elías líberans eum. C. Jesus
autem íterum clamans voce magna, emísit spíritum.
Hic genuflectitur, et pausatur aliquantulum. …
Et ecce, velum templi scissum est in duas partes
a summo usque deórsum: et terra mota est, et petræ scissæ sunt, et monuménta
apérta sunt: et multa córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt. Et
exeúntes de monuméntis post resurrectiónem ejus, venérunt in sanctam civitátem,
et apparuérunt multis. Centúrio autem et qui cum eo erant, custodiéntes Jesum,
viso terræmótu et his, quæ fiébant, timuérunt valde, dicéntes: S. Vere Fílius Dei erat iste. C.
Erant autem ibi mulíeres multæ a longe, quæ secútæ erant Jesum a Galilaea,
ministrántes ei: inter quas erat María Magdaléne, et María Jacóbi, et Joseph
mater, et mater filiórum Zebedaei. Cum autem sero factum esset, venit quidam
homo dives ab Arimathaea, nómine Joseph, qui et ipse discípulus erat Jesu. Hic
accéssit ad Pilátum, et pétiit corpus Jesu. Tunc Pilátus jussit reddi corpus.
Et accépto córpore, Joseph invólvit illud in síndone munda. Et pósuit illud in
monuménto suo novo, quod excíderat in petra. Et advólvit saxum magnum ad óstium
monuménti, et ábiit. Erat autem ibi María Magdaléne et áltera María, sedéntes
contra sepúlcrum.
[In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: J.
Sapete bene che tra due giorni sarà Pasqua, e il Figlio dell’uomo verrà
catturato per essere crocifisso. C. Si radunarono allora i capi dei
sacerdoti e gli anziani del popolo nell’atrio del principe dei sacerdoti
denominato Caifa, e tennero consiglio sul modo di catturar Gesù con inganno, e
così poterlo uccidere. Ma dicevano: S. Non però nel giorno di festa
perché non sorga un qualche tumulto nel popolo. C. Mentre Gesù si
trovava in Betania nella casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna
che portava un vaso d’alabastro, pieno d’unguento prezioso, e lo versò sopra il
capo di lui che era adagiato alla mensa. Ma nel veder ciò, i discepoli se ne
indignarono e dissero: S. Perché tale sperpero? Poteva esser venduto
quell’unguento a buon prezzo, e distribuito [il denaro] ai poveri. C.
Ma, sentito questo, Gesù disse loro: J. Perché criticate voi questa
donna? Ella invero ha fatto un’opera buona con me. I poveri infatti li avete
sempre con voi, mentre non sempre potrete avere me. Spargendo poi questo
unguento sopra il mio corpo, l’ha sparso come per alludere alla mia sepoltura.
In verità io vi dico che in qualunque luogo sarà predicato questo vangelo, si
narrerà altresì, in memoria di lei, quello che ha fatto. C. Allora uno
dei dodici, detto Giuda Iscariote, se ne andò dai capi dei sacerdoti, e disse
loro: S. Che mi volete dare, ed io ve lo darò nelle mani? C. Ed
essi gli promisero trenta monete di argento. E da quel momento egli cercava
l’occasione opportuna per darlo nelle loro mani. Or il primo giorno degli
azzimi si accostarono a Gesù i discepoli e gli dissero: S. Dove vuoi tu
che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? C. E Gesù rispose loro: J.
«Andate in città dal tale e ditegli: Il Maestro ti fa sapere: Il mio tempo
oramai si è approssimato; io coi miei discepoli faccio la Pasqua da te». C.
E i discepoli eseguirono quello che aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la
Pasqua. Venuta poi la sera [Gesù], si era messo a tavola coi suoi dodici
discepoli; e mentre mangiavano, egli disse: J. In verità vi dico che uno
di voi mi tradirà. C. Sommamente rattristati, essi cominciarono a uno a
uno a dirgli: S. Forse sono io, o Signore? C. Ma egli in risposta
disse: J. Chi con me stende [per intingere] la mano nel piatto, è
proprio quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo, è vero, se ne andrà, come
sta scritto di lui; ma guai a quell’individuo, per opera del quale il Figliuolo
dell’uomo sarà tradito! Era bene per lui il non esser mai nato! C.
Pigliando la parola, Giuda, che poi lo tradì, gli disse: S. Sono forse
io, o Maestro? C. Gli rispose [Gesù]: J. Tu l’hai detto. C.
Stando dunque essi a cena, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo
porse ai suoi discepoli, dicendo: J. Prendete e mangiate; questo è il
mio Corpo. C. E preso un calice, rese le grazie, e lo dette loro,
dicendo: J. Bevetene tutti. Questo è il mio Sangue del nuovo testamento,
che sarà sparso per molti in remissione dei peccati. E vi dico ancora, che non
berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo
con voi nel regno del Padre mio. C. Recitato quindi l’inno, uscirono,
diretti al Monte oliveto. Disse allora Gesù: J. Tutti voi in questa
notte proverete scandalo per causa mia. Sta scritto infatti: Percuoterò il
pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che sarò resuscitato, vi
precederò in Galilea. C. In risposta, Pietro allora gli disse: S.
Anche se tutti fossero scandalizzati per te, io non mi scandalizzerò mai. C.
E Gesù a lui: J. In verità ti dico che in questa medesima notte, prima
che il gallo canti, tu mi avrai già rinnegato tre volte. C. E Pietro gli
replico: S. Ancorché fosse necessario morire con te, io non ti
rinnegherò. C. E dissero lo stesso gli altri discepoli. Arrivò alfine ad
un luogo, nominato Getsemani, e Gesù disse ai suoi discepoli: J.
Fermatevi qui, mentre io vado più in là a fare orazione. C. E presi con
sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a farsi triste e ad essere mesto.
E disse loro: J. È afflitta l’anima mia fino a morirne. Rimanete qui e
vegliate con me. C. E fattosi un poco più in avanti, si prostrò a terra
colla faccia e disse: J. Padre mio, se è possibile, passi da me questo
calice. In ogni modo non come voglio io [si faccia], ma come vuoi tu. C.
E tornò dai suoi discepoli e li trovò che dormivano. Disse quindi a Pietro: J.
E cosi, non poteste vegliare un’ora con me? Vegliate e pregate, perché non
siate sospinti in tentazione. Lo spirito, in realtà, è pronto, ma è fiacca la
carne. C. Di nuovo se ne andò per la seconda volta, e pregò, dicendo: J.
Padre mio, se non può passar questo calice senza che io lo beva, sia fatta la
tua volontà. C. E ritornò di nuovo a loro, e li ritrovò addormentati. I
loro occhi erano proprio oppressi dal sonno. E, lasciatili stare, andò
nuovamente a pregare per la terza volta, dicendo le stesse parole. Fu allora
che si riavvicinò ai suoi discepoli e disse loro: J. Dormite pure e
riposatevi. Oramai l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle
mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo; ecco che è vicino colui che mi tradirà.
C. Diceva appunto così, quando arrivò Giuda, uno dei dodici e con lui
una gran turba di gente con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e
dagli anziani del popolo. Il traditore, aveva dato loro questo segnale,
dicendo: S. Quello che io bacerò, è proprio lui; pigliatelo. C.
E, senza indugiare, accostatosi a Gesù, disse: S. Salve, o Maestro! C.
E gli dette un bacio. Gesù gli disse: J. Amico, a che fine sei tu
venuto? C. E allora si fecero avanti gli misero le mani addosso e lo
catturarono. Ma ecco che uno di quelli che erano con Gesù, stesa la mano,
sfoderò una spada e, ferito un servo del principe dei sacerdoti, gli staccò un
orecchio. Allora gli disse Gesù: J. Rimetti al suo posto la spada,
perché chi darà di mano alla spada, di spada perirà. Credi tu forse che io non
possa pregare il Padre mio, e che egli non possa fornirmi all’istante più di
dodici legioni di Angeli? Come dunque potranno verificarsi le Scritture, dal
momento che deve succedere così? C. In quel punto medesimo disse Gesù
alle turbe: J. Come un assassino siete venuti a prendermi, con spade e
bastoni. Ogni giorno io me ne stavo nel tempio a insegnare, e allora non mi
prendeste mai. C. E tutto questo avvenne, perché si compissero le
scritture dei Profeti. Dopo ciò, tutti i discepoli lo abbandonarono, dandosi
alla fuga. Ma quelli, afferrato Gesù, lo condussero a Caifa; principe dei
sacerdoti, presso il quale si erano radunati gli scribi e gli anziani. Pietro
però lo aveva seguito alla lontana fino all’atrio del principe dei sacerdoti;
ed, entrato là, si era messo a sedere coi servi allo scopo di vedere la fine. I
capi dei sacerdoti intanto e tutto il consiglio cercavano una falsa
testimonianza contro Gesù per aver modo di metterlo a morte; ma non trovandola,
si fecero avanti molti falsi testimoni. Per ultimo se ne presentarono altri
due, e dissero: S. Costui disse: Io posso distruggere il tempio di Dio,
e in tre giorni posso rifabbricarlo. C. Levatosi su allora il principe
dei sacerdoti, disse [a Gesù]: S. Io ti scongiuro per il Dio vivo, che
tu ci dica, se sei il Cristo, figlio di Dio. C. Gesù rispose: J.
Tu l’hai detto. Anzi vi dico che vedrete altresì il Figlio dell’uomo, assiso
alla destra della Potenza di Dio, venir giù sulle nubi del cielo. C. Il
principe dei sacerdoti allora si strappò le vesti, dicendo: S. Egli ha bestemmiato!
Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la
bestemmia! Che ve ne pare? C. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più
bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne
pare? C. È reo di morte! C. Allora gli sputarono in faccia e lo
ammaccarono coi pugni. Altri poi lo schiaffeggiarono e gli dicevano: S.
Indovina, o Cristo, chi è che ti ha percosso. C. Pietro intanto se ne
stava seduto fuori nell’atrio. Or gli si accostò una serva e gli disse: S.
Anche tu eri con Gesù di Galilea. C. Ma egli, alla presenza di tutti,
negò, dicendo: S. Non capisco quello che dici. C. Mentre poi
stava per uscire dalla porta, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: S.
Anche lui era con Gesù Nazareno! C. E di nuovo egli negò giurando: S.
Io non conosco quest’uomo! C. Di lì a poco gli si avvicinarono coloro
che si trovavano là, e dissero a Pietro: S. Tu sei davvero uno di
quelli, perché anche il tuo accento ti da a conoscere per tale. C.
Cominciò allora a imprecare e a scongiurare che non aveva mai conosciuto
quell’uomo. E a un tratto il gallo cantò; allora Pietro si rammentò del
discorso di Gesù: «Prima che il gallo canti, tu mi avrai rinnegato tre volte»;
ed uscito di là, pianse amaramente. Fattosi poi giorno, tutti i capi dei
sacerdoti e gli anziani del popolo congiurarono insieme contro Gesù per
metterlo a morte; e, legatolo, lo portarono via e lo presentarono al
governatore Ponzio Pilato. Il traditore Giuda, allora, visto che Gesù era stato
condannato, sospinto dal rimorso, riportò ai capi dei sacerdoti e agli anziani
i trenta denari, e disse: S. Ho fatto male, tradendo il sangue d’un
innocente! C. Ma essi risposero: S. Che ci importa? Pensaci tu! C.
Gettate perciò nel tempio le trenta monete d’argento, egli si ritirò di là,
andando a impiccarsi con un laccio. I capi dei sacerdoti per altro, raccattate
le monete, dissero: S. Non conviene metterle colle altre nel tesoro,
essendo prezzo di sangue. C. Dopo essersi consultati tra di loro,
acquistarono con esse un campo d’un vasaio per seppellirvi i forestieri. Per
questo, quel campo fu chiamato Aceldama, vale a dire, campo del sangue; e ciò
fino ad oggi. Così si verificò quello che era stato predetto per mezzo di
Geremia profeta: «Ed hanno ricevuto i trenta denari d’argento, prezzo di colui
che fu venduto dai figliuoli d’Israele, e li hanno impiegati nell’acquisto del
campo d’un vasaio, come mi aveva imposto il Signore». Gesù pertanto si trovò
davanti al governatore, che lo interrogò, dicendogli: S. Sei tu il re
dei giudei? C. Gesù gli rispose: J. Tu lo dici. C. Ed
essendo stato accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose
nulla. Gli disse allora Pilato: S. Non senti di quanti capi d’accusa ti
fanno carico? C. Ma egli non replicò parola, cosicché il governatore ne
rimase fortemente meravigliato. Nella ricorrenza della festività [pasquale] il
governatore era solito di rilasciare al popolo un detenuto a loro piacimento.
Ne aveva allora in prigione uno famoso, chiamato Barabba. A tutti coloro perciò
che si erano ivi radunati, Pilato disse: S. Chi volete che io vi lasci
libero? Barabba, oppure Gesù, chiamato il Cristo? C. Sapeva bene che per
invidia gliel’avevano condotto lì. Mentre intanto egli se ne stava seduto in
tribunale, sua moglie gli mandò a dire: S. Non aver nulla da fare con
quel giusto, perché oggi in sogno ho dovuto soffrire tante ansie per via di
lui! C. Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani sobillarono il popolo,
perché fosse chiesto Barabba e fosse ucciso Gesù. In risposta allora il governatore
disse loro: S. Chi volete che vi sia rilasciato? C. E quei
risposero: S. Barabba. C. Replicò loro Pilato: S. Che ne
farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo? C. E ad una voce, tutti
risposero: S. Crocifiggilo! C. Disse loro il governatore: S.
Ma che male ha fatto? C. Ed essi gridarono più forte, dicendo: S.
Sia crocifisso! C. Vedendo Pilato che non si concludeva nulla, ma anzi
che si accresceva il tumulto, presa dell’acqua, si lavò le mani alla presenza
del popolo, dicendo: S. Io sono innocente del sangue di questo giusto; è
affar vostro! C. E per risposta tutto quel popolo disse: S. Il
sangue di lui ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! C. Allora
rilasciò libero Barabba; e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù,
perché fosse crocifisso. I soldati del governatore poi trascinarono Gesù nel
pretorio e gli schierarono attorno tutta la coorte; e lo spogliarono,
rivestendolo d’una clamide di color rosso. Intrecciata poi una corona di spine,
gliela posero in testa, e nella mano destra [gli misero] una canna. E piegando
il ginocchio davanti a lui, lo deridevano col dire: S. Salve, o re dei
Giudei. C. E dopo avergli sputato addosso, presagli la canna, con essa
lo battevano nel capo. E dopo che l’ebbero schernito, gli levarono di dosso la
clamide, gli rimisero le sue vesti, e lo condussero via per crocifiggerlo.
Nell’uscire [di città], trovarono un tale di Cirene, chiamato Simone, e lo
costrinsero a pigliare la croce. E arrivarono a un luogo, detto Golgota, cioè,
del cranio. E dettero da bere [a Gesù] del vino mescolato con fiele; ma
avendolo egli gustato, non lo volle bere. E dopo che l’ebbero crocifisso, se ne
divisero le vesti, tirandole a sorte. E ciò perché si adempisse quello che era
stato detto dal Profeta, quando disse: «Si sono divisi i miei abiti ed hanno
messo a sorte la mia veste». E, postisi a sedere, gli facevano la guardia. E al
di sopra del capo di lui, appesero, scritta, la causa della sua condanna: –
Questi è Gesù, re dei Giudei -. Furono allora crocifissi insieme con lui due
ladroni: uno a destra ed uno a sinistra. E quelli che passavano di li, lo
schernivano, crollando il capo, e dicevano: S. Tu che distruggi il
tempio di Dio e che lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso; se sei il
Figlio di Dio, scendi giù dalla croce. C. Parimenti anche i capi dei
sacerdoti lo deridevano, beffandosi di lui cogli scribi e cogli anziani del
popolo, e dicendo: S. Salvò gli altri, e non può salvare se stesso. Se è
il re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo. Confidò in Dio.
Se vuole, Iddio lo liberi ora! O non disse che era Figliuolo di Dio? C.
E questo pure gli rinfacciavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui.
Si fece poi un gran buio dall’ora sesta fino all’ora nona. E verso l’ora nona
Gesù gridò con gran voce: J. Eli, Eli, lamma sabacthani; C. cioè:
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed alcuni che erano li vicini,
sentitolo, dissero: S. Costui chiama Elia! C. E subito uno di
loro, correndo, presa una spugna, l’inzuppò nell’aceto, e fermatala in vetta a
una canna, gli dette da bere. Gli altri invece dicevano: S. Lasciami
vedere, se viene Elia a liberarlo. C. Ma Gesù, gridando di nuovo a gran
voce, rese lo spirito. Si genuflette per un momento. Ed ecco che il velo
del tempio si divise in due parti dall’alto in basso; e la terra tremò; e le
pietre si spaccarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di Santi che vi erano
sepolti, resuscitarono. Usciti anzi dai monumenti dopo la resurrezione di Lui,
entrarono nella città santa e comparvero a molti. Il centurione poi e gli altri
che con lui facevano la guardia a Gesù, veduto il terremoto e le cose che
succedevano, ne ebbero gran paura e dissero: S. Costui era davvero il
Figliuolo di Dio. C. C’erano pure lì, in disparte, molte donne che
avevano seguito Gesù dalla Galilea per assisterlo, tra le quali era Maria
Maddalena, e Maria di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo.
Essendosi poi fatta sera, arrivò un uomo, ricco signore di Arimatea, chiamato
Giuseppe, discepolo anche lui di Gesù. Egli si era presentato a Pilato per
chiedergli il corpo di Gesù; e Pilato aveva dato ordine che ne fosse restituito
il corpo. E, presolo, Giuseppe lo avvolse in un lenzuolo pulito, e lo pose in
un sepolcro nuovo, che si era già fatto scavare in un masso; e, dopo aver
ribaltata alla bocca della tomba una gran lapide, se ne andò. Erano ivi Maria
Maddalena e l’altra Maria, sedute di davanti al sepolcro.]
OMELIA II
[A. Carmignola,
Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino, 1921]
Credo…
Offertorium
Orémus Ps LXVIII:21-22.
Impropérium
exspectávit cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur,
et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni: et dedérunt in escam meam
fel, et in siti mea potavérunt me acéto. [Oltraggio e dolore mi spezzano il cuore; attendevo
compassione da qualcuno, e non ci fu; qualcuno che mi consolasse e non lo
trovai: per cibo mi diedero del fiele e assetato mi hanno dato da bere
dell’aceto.]
Secreta
Concéde,
quæsumus, Dómine: ut oculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis
devotionis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat. [Concedi, te ne preghiamo, o
Signore, che quest’ostia offerta alla presenza della tua Maestà, ci ottenga la
grazia della devozione e ci acquisti il possesso della Eternità beata.]
Communio
Matt XXVI:42.
Pater, si
non potest hic calix transíre, nisi bibam illum: fiat volúntas tua. [Padre mio, se non è possibile che
questo calice passi senza chi lo beva, sia fatta la tua volontà.]
Postcommunio.
Orémus.
Per hujus,
Dómine, operatiónem mystérii: et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria
compleántur. [O Signore,
per l’efficacia di questo sacramento, siano purgati i nostri vizi e appagati i
nostri giusti desideri.].
[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]
CAPITOLO VII.
IL PROTESTANTISMO E’ FALSO PERCHE’ SUPPONE CHE LA VERA CHIESA POSSA MANCARE.
La ragione più forte che per allontanarvi dalla S. Chiesa Cattolica vi apportano i Protestanti è sempre questa, che la Chiesa Cattolica è venuta meno, che ha cambiata la Fede, che ha perduta la verità che Gesù Cristo le aveva affidato. Ebbene io vi ho già mostrato che è un fatto indubitabile che non l’ha perduta, perché non ha fatto verun cambiamento: ma adesso vi dirò anche di più, che se, per impossibile, avesse voluto far gettito delle vere dottrine, non avrebbe potuto. Se ciò è vero, non sarà anche vero che sono in un grandissimo errore i Protestanti, che si fondano totalmente sul presupposto che la Chiesa sia venuta meno? – Ebbene, osservate. Chi ha stabilita la S. Chiesa? Gesù Cristo! lo concedono tutti. Chi è Gesù Cristo? è Dio! Ora se Gesù Cristo si protestasse ch’Egli vuole fondare una Chiesa così fatta, così ordinata, così assistita, così assicurata, che fosse impossibile il distruggerla, il farla mancare: se Gesù Cristo Dio protestasse così, potremmo noi credere poi che la Chiesa è veramente indefettibile? Certo sì, se non giungiamo a tanta di audacia e di temerità da affermare che Gesù o non abbia saputo, o non abbia potuto, o non abbia voluto mantenere la sua parola, il che sarebbe una bestemmia orrenda (la stessa orrenda bestemmia, ma nei confronti del Papa, il Vicario “in perpetuo”di Cristo, oggi è pronunziata dai novelli protestanti: i c. d. sedevacantisti pseudo-tradizionalisti! – ndr.-). Tutto si riduce adunque a verificare se Gesù Cristo abbia veramente promesso di stabilire una Chiesa così fatta che non potesse mancare. Ma per verificare questo, basta saper leggere. Gesù Cristo dice espressamente che la Chiesa è di tale saldezza, che le porte dell’Inferno mai non prevarranno contro di lei [… e contro la sua pietra fondante, cioè Pietro ed i suoi successori– ndr. – ] (Matth. XVI, 18). Questa è una maniera orientale di parlare sommamente espressiva, che equivale al dire che, né tutti gli sforzi degli uomini, né tutte le furberie dei seduttori, né tutte le violenze dei persecutori, né le furie medesime dei demoni, mai varranno ad annientare la Chiesa. – Ora la Chiesa, che non vive se non se nella sua dottrina e nei suoi insegnamenti, se errasse in questi non sarebbe affatto annientata? e non avrebbe perduto il suo vero patrimonio, il suo grande scopo sopra la terra? Dunque se la parola di Gesù è vera, la Chiesa non può errare mai, in nessun tempo. Aggiungete che Gesù, per mantenerla nella sua verità, le ha promessa l’assistenza dello Spirito Santo, e questa non per un momento, ma fino alla consumazione dei secoli. Dunque con tale assistenza fino alla consumazione dei secoli debba conservarsi. [… questo prova altresì che il Novus Ordo ecumenico-conciliare degli antipapi marrani, setta che ha ribaltato tutta la dottrina Cattolica dall’interno della Chiesa, è opera satanica, di lucifero che ivi, travestito da “angelo di luce”, si spaccia per divinità facendosi adorare come “signore dell’universo” – ndr. -]. E poi non è essa chiamata dall’Apostolo Paolo « colonna ed il sostegno saldo della verità? » (1 Tim. III, 15)! Come dunque potrebbe esser vero questo nome, se non solo non fosse sostegno dell’edificio, ma fosse cagione di rovina? Più, la Chiesa non è fondata sopra di Pietro, il quale ha da confermare i suoifratelli nella fede, perché la sua fede, secondo le preghiere di Gesù, non potrà mai venirmeno? (Luc. XXII, 32) Aggiungete che Gesù Cristo ha affermato che Egli, se fosse stato innalzato diterra, cioè messo in Croce, avrebbe attrattotutto a sé (Giov. XIII, 32). Ora volete voi che abbia tirato a sé gli uomini per pochi anni e poi li abbia subito lasciati andare in perdizione per tanti secoli? E questo sarebbe l’onore di Gesù, che non avesse fatto neppure quello che fece Mosè, che mantenne per tanti anni la Sinagoga? Questo non sarebbe negare tutta la virtù della Croce di Cristo? Il demonio non si mostrerebbe più potente di Gesù, col togliergli subito tutta la Chiesa, ch’Egli aveva sposata ed unita a sé nel sangue suo? Gesù ha dato al mondo Apostoli, Profeti, Evangelisti, Pastori e Dottori per la consumazionedei Santi, per la opera del ministero,per la edificazione del Corpo di Gesù Cristo, dice S. Paolo (Ephes. IV, 13). Ora è già compito il numero dei Santi? e da quattordici secoli siamo già tutti fuori della salute, dacché non vi è salute fuori della vera Chiesa? E come adunque Dio che ha tanta cura degli uccelli dell’aria, che ebbe tanta sollecitudine del popolo Giudaico, ha lasciato marcire nell’infedeltà per tanti secoli la Chiesa sua sposa? Perché dunque nel Salmo (Ps. LXXX, 30, 38) ha fatto dire della Chiesa, che Dio l’ha fondata nella sua eternità, che il suotrono sarà permanente? Perché ha detto che la S. Chiesa sarà come il Sole davanti a Dio, perfetta come la Luna che semprerisplende nel cielo, come un testimonio fedele?Perché l’Arcangelo Gabriele ha detto che il regno di Gesù mai non avrebbe avutofine? (Luc. I, 33) . E dunque indubitatissimo che Gesù Cristo promise la indefettibilità alla sua Chiesa. Se l’ha promessa è impossibile che essa venga meno: giacché passeranno il cielo e la terra, ma la parola Divina non passerà. Che dire adunque dei Protestanti, i quali non intendono queste promesse, e poi affermano che tutta la Chiesa era in errore, che essi furono chiamati a riformarla? Ecco quello che si ha a dire: che essi mettendosi all’opera di riformare la Chiesa, trattano Gesù da falsario e da ingannatore, quasi ci avesse illusi, quando le promise la sua assistenza, e quasi non avesse saputo o potuto, o voluto mantenere la suapromessa. Oh che bestemmia esecranda! – Ma non vediamo poi talvolta degli abusi e degli scandali nella Chiesa, direte voi? Miei cari attendete bene. Voi vedete sì degli abusi e degli scandali in alcuni che appartengono alla Chiesa, ma non mai nella dottrina che viene insegnata dalla S. Chiesa. Ora qui è tutto l’abbaglio dei Protestanti. Se essi si contentassero di dire che tra i Cattolici vi sono pur troppo di quelli che prevaricando dalla dottrina della buona loro madre si precipitano in molte iniquità, direbbero una cosa verissima, che anche noi Cattolici deploriamo con le lacrime agli occhi: ma non è questo quello che dicono. Dicono invece che la stessa Chiesa nostra madre, fu essa la prevaricatrice, che essa insegnò ai suoi figliuoli degli errori, dellesuperstizioni, delle idolatrie: e questa è la loro orribile empietà. Imperocché può pur troppo errare il Cattolico, quando si scosta dagl’insegnamenti della sua madre; non può errare la madre, quando dà insegnamenti ai suoi figliuoli. – Pertanto l’affermare che abbia errato la S. Chiesa è prima di tutto un affronto a Gesù, perché è lo stesso che dire che Egli abbia abbandonata la sua sposa, la Chiesa, alla quale fece promessa di non lasciarla in eterno, e poi è un insulto alla Chiesa, perché è un farla passare per infedele ed adultera, che abbia cacciato Gesù per darsi in preda all’errore ed al demonio. E può un Cattolico pensar così? Ah noi ci consoleremo invece di appartenere ad una Chiesa, che non può mancare mai [anche se oggi è perseguitata ed “eclissata” – ndr. -], e detesteremo con tutto il cuore quei felloni che staccatisi dalla Chiesa per le loro iniquità, onde avere qualche scusa alla loro perfidia, ne rigettano tutta la colpa sopra delitti che calunniosamente appongono alla loro madre.
Cortassa Pro-Vic. Generale; Rist. Ivrea 10 agosto 1843, Ferraris prof. Rev. Pe]
XXXIII.
NEL VENERDÌ DOPO LA DOMENICA DI PASSIONE
Expedit, ut unus moriatur homo pro populo. [Jo. XI, 50]
1. E sia dunque spediente a Gerusalemme che Cristo muoia? Oh folli consigli! Oh frenetici consiglieri! Allora io voglio che torniate a parlarmi, quando, coperte tutte le vostre campagne d’arme e d’armati, vedrete l’Aquile romane far nido intorno alle vostre mura; ed appena quivi posate, aguzzar gli artigli, ed avventarsi alla preda; quando udirete alto rimbombo di tamburi e di trombe, orrendi fischi di frombole e di saette, confuse grida di feriti e di moribondi, allora io voglio che sappiate rispondermi s’è spediente. Expedit!E oserete dir expeditallora quando voi mirerete correre il sangue a rivi, ed alzarsi la strage a monti? Quando rovinosi vi mancheranno sotto i piedi gli edifizi? Quando svenate vi languiranno innanzi agli occhi le spose? Quando, ovunque volgiate stupido il guardo, voi scorgerete imperversare la crudeltà, signoreggiare il furore, regnar la morte? Ah! non diranno già expedit! quei bambini che saran pascolo alle madri affamate; non diranno quei giovani che andranno a trenta per soldo venduti schiavi; non lo diranno quei vecchi che penderanno a cinquecento per giorno confitti in croce. Eh che non expedit, infelici, no che non expedit. – Non expeditné al santuario, che rimarrà profanato da abominevoli laidezze; né al tempio, che cadrà divampato da formidabile incendio; né all’altare, dove uomini e donne si scanneranno, in cambio di agnellini e di tori. Non expedit alla Probatica, che si vuoterà di acqua per correr sangue. Non expedit all’Oliveto, che diserterassi di tronchi per apprestare patiboli. Non expedit al sacerdozio, che perderà l’autorità; non al regno, che perderà la giurisdizione; non agli oracoli, che perderanno la favella, non ai profeti , che perderanno le rivelazioni; non alla legge, che qual esangue cadavere rimarrà senza spirito, senza forza, senzaseguito, senza onore, senza comando, né potràvantar più suoi riti, né potrà salvare i suoi professori: mercecchè Dio vive in cielo, a fine di scornare e confondere tutti quegli, i quali più credono aduna maliziosa ragion di Stato, che a tuttele ragioni sincere della giustizia; ed indi vuole con memorabile esempio far manifesto che non est sapientia, non est prudentia, non est consilium contra Dominum (Prov. XXI. 30). Ecco: fu risoluto di uccidere Cristo, perché i Romani non diventassero padroni di Gerosolima; e diventarono i Romani padroni di Gerosolima, perché fu risoluto di uccider Cristo. Tanto è facile al Cielo di frastornare questi malvagi consigli, e di mostrare come quella politica, che si fonda non nei dettami dell’onestà, ma nelle suggestioni dell’interesse, è un’arte quanto perversa, altrettanto inutile; e la quale anzi, in cambio di stabilire i principati, gli stermina; in cambio di arricchirle famiglie, le impoverisce; in cambio di felicitare l’uomo, il distrugge. Questa rilevantissima verità voglio io pertanto questa mattina studiarmi di far palese perpubblico beneficio, provando che non è mai utile quello che non è onesto, onde nessuno si dia follemente a credere che per esser felice giovi esser empio.
II. Ma prima vi confesso, uditori, che mi dà quasi rossore il dovere agitare un tale argomento in questo teatro; quasi che presso ai Cristiani ancor sia dubbioso quello che fu sì chiaro presso ai Gentili. Con che furore non si scagliò Cicerone contro coloro i quali ardirono di seminare i primi nel mondo questa dottrina, che ciò che non è onesto possa esser utile? Non li chiamò perturbatori della quiete, discioglitori delle amicizie, distruggitori delle repubbliche, sterminatori delle virtù, sollevatori del mondo? Quindi a lor confusione narra un successo che molto può valere a confusion nostra, e fu questo ch’or io dirò. Parlando un giorno Temistocle nel senato di Atene, disse di avere un consiglio utilissimo alla repubblica; ma che siccome non voleva proporlo in pubblico, così gli fosse assegnato qualcuno, cui lo confidasse in privato. Fu destinato Aristide per ascoltarlo; e a lui Temistocle distintamente scoperse una certa frode, con cui si poteva maliziosamente dar fuoco ai legni spartani loro nemici, benché allora lor collegati. Udito questo, Aristide tornò in senato con grandissima espettazione d’ognuno, e senza spiegare il caso in particolare, sol disse in genere, che il consiglio di Temistocle era utile sì, ma non era onesto: perutile est consilium Themistoclis reipublicæ, sed minime honestum. Come? ripigliarono allora tutti, gridando senza distinzione e senz’ordine, ad una voce: questo è impossibile. Se il consiglio non è onesto, non può nemmeno esser utile: quod onestum non est, non potest esse utile. E cosi, senza neppur degnarsi di udirlo, lo ributtarono: tanto era radicata in quei consiglieri quest’opinione, come conchiuse Cicerone, e con lui Plutarco, ut quodjustum non erat, minime putaretur esse utile. – Or se alle menti di persone Gentili pareva questa verità così manifesta, com’è possibile che non vogliam persuadercela noi che pur ne abbiamo tante ampie testimonianze dall’istessa infallibile Verità? Finalmente quei miseri non sapevano, dipendere le sorti di tutti gli uomini dalle mani di un solo Dio. Ammettevano molti Dei, diversissimi e discordissimi, tra i quali però non era gran fatto, che se uno favoriva la virtù, un altro prosperasse per onta la scelleraggine. Anzi quale scelleraggine si trovava, che non avesse in ciclo il suo protettore? Proteggeva Giove gli adulteri, Mercurio i ladri, Marte i sanguinolenti, Bacco gli ubbriachi, Venere i lussuriosi, Plutone gli avari. Sicché i loro adoratori sarebbero finalmente stati in parte scusabili, se avessero giudicato, poter esser talora il vizio felice, mentre ogni vizio aveva per protettore anche pubblico qualche dio. Ma noi Cristiani, i quali crediamo esserci un Dio unico al mondo, e questo, quanto parziale della virtù, tanto nemico dichiarato del vizio, com’è possibile che con arti malvage dobbiamo mai sperare di farcelo favorevole? – Non dipende forse dalla sua mano qualunque nostra prosperità, così piccola, come grande sicché senza suo volere né spira un fiato per l’aria, né biondeggia una spiga per le campagne? Questo è certissime» In manu Dei prosperitas hominis, così chiaramente protestane l’Ecclesiastico (X, 5). Bona et mala, vita et mors, paupertas et honestas a Deo sunt(Ib. XI, 14). Adunque che politica è questa: per acquistar felicità, maltrattare chi la dispensa, offendere chi la dona? Pare a voi dunque bell’arte, per ricevere grazie, arrecare affronti; per riportare favori, usar villanie?
III. Risponderete, che in Dio forse non vale quest’argomento; perocché disprezzando Egli i beni terreni, non è però gran fatto che li comparta ancora a chi non li merita. Lasciar Lui piuttosto la cura di tali beni alle cagioni da noi chiamate seconde, da cui senza tanti riguardi son dispensati più largamente a coloro, i quali per altro pongono mezzi di lor natura più validi a conseguirli. Ma piano di grazia, perché codesto è un discorso, quanto lusinghevole agli empi, tanto fallace; onde io mi stimo obbligato a scoprirne la falsità, per togliere l’inganno. Ditemi un poco però: Dio non ha sempre sprezzati questi beni terreni all’istesso modo? Dio non si è sempre valso delle cagioni seconde all’istessa forma? Di questo non si può dubitare. E nondimeno io ritrovo, che per conseguire felicità ancor temporale, a nessuno ha giovato l’esser empio, laddove a molti spesso ha giovato esser pio. Parvi forse strana, uditori, questa proposizione? Io mi conforterei di provarvela con l’induzione di tutti quegli uomini memorabili ch’han fiorito fin dai principi del mondo, se il tempo me lo permettesse; ma perché questa mi sarebbe un’impresa, se non troppo difficile, almeno troppo ampia, ristringiamoci dentro alcuni confini. Ditemi adunque: se nel naufragio del mondo s’ebbe a salvare una famiglia fra tutte, quale fu scelta? quella dell’empio, o quella di un giusto? Se dall’incendio di Sodoma s’ebbe a sottrarre una famiglia fra tante, quale fu favorita, quella di un impudico, o quella di un casto? Chi possedette ai giorni suoi maggiori ricchezze di un Abramo, di un Isacco, di un Giacobbe, di un Giuseppe, patriarchi tutti santissimi? Ed a Giuseppe singolarmente qual arte giovò sì per salire al trono, la malvagità o l’innocenza? Quando egli con cuore intrepido resisteva alle violenze ed ai vezzi della padrona, credo io che alcuno di questi odierni politici non avrìa mancato di sussurrargli all’orecchio: Giuseppe, mirate bene a ciò che voi fate. Non so se vi torni conto di disgustar la padrona, e padrona sì ricca, e padrona sì amica, e padrona sì potente. Il marito è lontano; la camera è segreta: chi lo saprà? Importa troppo la grazia di una donna la quale, impetuosa in qualunque affetto, non sa né amare, né odiare, se non in sommo. Eppure si sarìa trovato consiglio più pernicioso per la prosperità di Giuseppe? È vero ch’egli, per non avere aderito a questo consiglio, si trovò in prigione ed in ceppi; ma la prigione non lo introdusse alla reggia? I ceppi non gli fabbricarono la corona? Passiamo avanti. Se Mosè, ancor fanciulletto, prezzava il diadema postogli da Faraone sul capo (come Filone racconta), se si rimaneva nella sua Corte, se seguitava i suoi riti, sarebbe mai divenuto quel condottiero di un tanto popolo, quel terrore di un tanto Re? Ricusò egli d’esser suo nipote, e fu constituito suo Dio: ecce constitue te DeumPharaonis (Exod. VII. 1). Le felicità poi della terra lungamente promessa da chi furono conseguite? Dai sollevatori del popolo? Dagli adoratori del vitello? dai dispregiatori di Dio? Neppur uno di questi, che pur erano più di seicentomila, vi pose il piede. E chi espugnò tante piazze, chi fugò tanti eserciti, chi riportò tante spoglie ai tempi dei Giudici, se non un Giosuè, un Calebbo, un Otoniello, un Gedeone, ed altri tali a lor somiglianti nella virtù, i quali tutti, come osservò l’Ecclesiastico (XLVI, 12), furono grandemente felici, ut viderent omnes,quìa bonum est, obsequi sancto Deo? E venendo a tempi dei Re, qual di loro ritroverassi, a cui l’impietà fosse d’utile, e non di danno? Me ne rammenterete pur uno? Se un Saule conseguì lo scettro per la bontà, non lo perdette per la colpa? Se un Davide provò mai fortuna contraria, non fu sol quando trasgredì la legge divina? E a Salomone quanto giovò l’aver preposta in quella sua famosa elezione alle ricchezze la sapienza! Buon per lui, che non chiamò prima a trattato su questo affare veruno di quegl’iniqui statisti, di cui parliamo; perché io credo fermamente che tutti gli avrebbero detto: sacra maestà, pensateci un poco bene, non precipitate il giudizio, non avventurate l’elezione. Che rilieva a voi tanta scienza? Mancheranno nello stato vostro dottori, mancheranno legisti, quando si avranno a decidere le controversie, o a ventilare le liti? Non sono le lettere quelle che costituiscono un principe formidabile. A voi si conviene dilatare le possessioni, accrescere le entrate, riempir l’erario; altrimenti si rideranno i nemici vostri di voi, quando vi vedranno ricco di libri, ma povero di danari, liberale d’inchiostro, ma scarso d’oro. Questo senza dubbio sarebbe stato il consiglio di tali politicastri. Ma quanto fu meglio per Salomone conformarsi ai dettami dell’onestà, che non alle suggestioni dell’interesse! Che se dopo un tempo cominciò a declinare la gran felicità del suo stato, qual ne fu la cagione? Non fu perch’egli deviò dal sentiero de’ divini comandamenti? Scorrete poi pur con agio tutto il catalogo de’ re di Giuda, suoi successori; voi troverete che i più fortunati furono un Ezechia, un Gioatamo, un Giosafatte, e un Giosia, che furono parimenti i più giusti. Questi goderono lunga vita, questi fabbricarono nuove piazze, questi accumularono ricche entrate, questi acquistarono meravigliose vittorie. In alcuni poi variò il tenore della loro felicità, conforme il vario tener de’ loro costumi, come può vedersi in Asa, in Gioas, in Ozia ed in Manasse. Ma tutti gli altri, sì re di Giuda, come re di Samaria, i quali furono costantemente malvagi, furono ancora costantemente infelici: che però loro furono le ribellioni, loro le sconfitte, loro i disertamenti, loro le prigionie, loro le stragi. Ma che più? Non è chiarissimo il testimonio registrato sopra di ciò dall’istesso Spirito Santo? Leggasi al capo quinto presso Giuditta (ver. 21). Usque dum non peccarent in conspectu Deisui, erant cum illis bona. Ubicumque ingressi sunt sine arcu et sagitta, et absque scuto et gladio; Deus eorumpugnavit prò eis vicit. (ver. 16). Et non fuit (ponete mente alle parole che seguono), et non fuit qui ìnsultaret populo isto, nisi quando recessit a cultu Domini sui (ver. 17). Ora io vorrei sapere un poco da voi, signori miei cari: Iddio governa oggi più il mondo in quella maniera medesima, con cui governa ai tempi di questi principi, o veramente ha Egli mutato stile? Dite: d’allora in qua ha Egli nella sua mente variate massime? ha Egli nel suo cuor cambiato volere? Forse finalmente s’è indotto ad amare il vizio, se allora lo abbominava? Ovvero non è ora più Egli quel che governa, ma ha cedute per avventura le briglie dell’universo a un Caso cieco, o a una Intelligenza maligna? O, se non altro, è sottentrato in suo luogo qualcuno di quegli dei menzogneri, i quali a gara prendevano il patrocinio delle persone malvagie? Che v’è di nuovo nella natura, che v’è? Ohimè, che solo il cadere in tali sospetti, non che l’esprimerli, è bestemmia troppo inaudita: Ego Dominus,et non mutor; cosi ci fa Dio sapere per Malachia (III, 6). Son quel di prima, son quel di prima. Ma s’è così, come dunque possiamo noi confidare, che per conseguir felicità ci debba mai giovar l’esser empio? Non è questa una presuntuosa baldanza, quasi che Davide non intendesse di favellare per noi pure, quando egli disse che vultus Domini super facientes mala, non per arricchirli, non per esaltarli, non per accreditarli, ma ut perdat de terra memoriameorum(Ps. XXXIII. 17), per mandarli tutti in malora?
IV. Ma perché non crediate che a favore mio vada io mendicando forse argomenti da un solo popolo, governato già dal Signore con un’assistenza più particolare, e più propria, facciamo così: mettete un poco voi da una parte il malvagio Erode, quello il quale per l’antichità si chiama il Maggiore, ed io per confronto metterò frattanto dall’altra il piissimo Costantino, quello il quale per i meriti è detto il Grande. Ad ambedue questi principi vien proposto un sanguinoso macello d’innocenti bambini: a quello per assicurarsi lo scettro, a questo per salvarsi la vita. Risponde Erode: si faccia questo macello, purché io non perda lo scettro. Risponde Costantino, perda io la vita, purché per me non si faccia questo macello. Ora date voi la sentenza. Che giovò più, ad Erode la sua empietà, o a Costantino la sua giustizia? Volete saperlo? Attendete. Costantino, il quale ricusò quella strage, guarì della sua insanabile infermità, e godette inoltre tranquillamente lo scettro. Erode, il quale la eseguì, perdé tra poco lo scettro, cadendo in una più orribile infermità. E pur famosa la lagrimevole fine che fece Erode, quando vedendosi cascare a brano a brano le carni, verminose prima che morte, addolorato dalle frequenti punture de’ nervi attratti, annoiato dall’intollerabile fetore delle membra incadaverite, tentò di accelerarsi la morte con un coltello. Ma senza ciò. Se prima Costantino aveva travagliato fra spesse ribellioni, di poi provò una giocondissima pace. Se Erode aveva prima provato gioconda pace, di poi travagliò fra spessissime ribellioni: perciocché congiurandogli contro il medesimo Antipatro suo figliuolo, aveva già concertato di avvelenarlo. Onde laddove potette Costantino, ancora vivente, crear Cesari i suoi figliuoli, Erode fu costretto a farli prigioni. Ma che dico a farli prigioni? Non prevalse ai suoi giorni quel motto celebre: Melius est Herodis porcum esse, quam filium? E con qual fondamento prevalse, se non perché chi perdonava la vita a quegli animali, come Giudeo, a due figliuoli la tolse, quantunque padre. Che se gran parte dell’umana felicità si stima l’essere amato, siccome l’essere odiato si tiene gran parte dell’umana miseria, quanto pur furono differenti tra loro Costantino ed Erode per un tal capo! Chi può contare le statue, gli archi, i trofei che furono a Costantino innalzati dall’amor pubblico? Non così invero di Erode: perocché avendo egli eretta per sua memoria non so qual aquila d’oro, gli fu tratta a terra, e gli fu fatta in pezzi con pubblica sedizione. Che più? Racconta Gioseffo ebreo, scrittore diligente delle sue antichità, che niuna cosa recava al malvagio principe tanta angoscia, quanto l’accorgersi dell’indicibile contento che dalle sue disavventure traevano i suoi vassalli, onde, prima di morire, avendo con certa fraude imprigionata nel circo tutta la nobiltà, die ordine che sul punto ch’egli spirava fosse mandata subito a fil di spada, perché così nella sua morte dovessero a forza piangere quei che non s’inducevano a piangere per amore. Ora ditemi dunque, signori miei: per titolo di acquistare felicità qual arte voi giudicate più, vantaggiosa: quella che tenne Erode uccidendo tanti innocenti bambini, o quella che usò Costantino ricusando di ucciderli? Conviene che o sia cieco chi non conosce, o protervo chi non si arrende a tal verità, tanto ella è palpabile.
V. Ma questo è poco. Tutte le istorie ecclesiastiche non ci dimostrano anch’esse concordemente quanto più vagliano a conseguire prosperità, ancora supreme, le arti sincere della innocenza, che le stravolte della malvagità? Mirate un poco tre celebratissimi imperatori, Gioviano, Valentiniano, e Valente. Tutti e tre questi, per quali vie s’incamminarono al soglio, se non per quelle onde l’umana politica avrìa creduto che se ne dovessero dilungare? Ritiraronsi tutti e tre, mentre ancor erano capitani privati dal servigio dell’insolente Giuliano apostata, per non aderire ai suoi folli comandamenti; e non passò molto che in quella Corte, donde uscirono esuli, rientrarono Imperatori. E qual prudenza mondana doveva all’imperator Onorio approvare quelle belle arti, con le quali egli governava il suo Stato? Considerate di grazia. Qualora, cinto da mille spade nemiche, vedeva che i Barbari gli movevano guerra, che faceva egli? Prendeva subito a muover guerra agli Eretici; e con questa diversione di armi, con cui pareva che dovesse indebolire lo Stato, il fortificava. Ma non avrìa creduto altrimenti? Come? (si doveva allora strepitare ne’ suoi Conigli) che prudenza è mai questa? Quasi i Goti e gli Unni inondando sopra di noi dalle Spagne, non siano bastanti a desolarci lo Stato, irritarci ancora contro l’Africa i Donatisti? Anzi ci dovremmo studiare con tutti i mezzi di renderli a noi concordi e confederati, quando essi ci volessero inimicare in simili congiunture. Qual ragione vuol dunque che da noi medesimi li irritiamo, mentr’essi non ci dan noja? prendasi pur a cuore le ingiurie della Religione; ma quando sieno prima fermati gli interessi della repubblica: altrimenti cadrà la repubblica e non sosterassi la Religione. Così dovevasi probabilmente discorrere in quei Consigli. Ma quanto fallacemente! perocché Dio con riuscite affatto contrarie dava a conoscere che allora più sicura trovavasi la repubblica, quando per la Religione esponevasi a più cimenti. E non combatté egli però con armi invisibili a favore di Onorio, uccidendo ben duecento mila soldati fra Goti ed Unni, condotti da Radagaso? Anzi, come se ciò fosse poco, gli estinse ancora nel breve giro di un anno sette usurpatori tirannici dell’impero, un Alarico, un Costantino, un Costante, un Massimo, un Giovino, un Sebastiano, un Saro, e altri simili, i quali a guisa di tanti cani nibbio, se gli erano avventati alla vita. Tanto che correva allora nel mondo questo bel detto: far quasi a gara tra loro Dio ed Onorio: Onorio per sterminare i nemici di Dio; Dio per sterminare i nemici d’Onorio. Che se finalmente una volta pur sotto lui prevalsero i Barbari, e saccheggiarono Roma, rispondetemi, quando fu? Non fu quando il misero si lasciò vincere dalle importune istanze dei suoi, e concedé per alcun tempo sì agli Etnici, sì agli Eretici il libero uso delle loro religioni? Allora Roma diventò subito preda del furore goto, allora divamparono le sue case, allora rovinarono le sue torri, allor seguì quell’eccidio così famoso, su cui versò tante lagrime san Girolamo quando scrisse: peccatis nostris barbari fortes sunt (Ep. 2 ad Heliod.). E che ciò sia pur vero, si manifesta; perché tosto che Onorio, ravvedutosi dell’errore, annullò le leggi malvagie, ed si affaticò per la distruzione delle fedi false e per la dilatazione della vera; tosto, dico, le cose cambiarono faccia: morirono i suoi principali nemici, e diventarono difensori di Roma quei Goti stessi, i quali n’erano stati gli oppugnatori. Piacesse al Cielo che le strettezze del tempo mi permettessero di trascorrere ad uno ad uno gli annali degli altri principi, a me ben noti: io son certissimo che l’esempio di ognuno porgerebbe baldanza all’iniquità, mentre le vicende stesse vedreste ne’ due Teodosj, in un Arcadio, in un Giustino e in un Giustiniano, in un Maurizio, in un Eraclio, e in tanti altri, allora miseri, quando fecero ubbidire la Religione all’interesse; allor felici, quando fecero servire l’interesse alla Religione. Se non che, a che vale stancarsi più lungamente in accattare testimonianze dagli uomini, dove abbiamo sì in pronto quelle di Dio? Ditemi un poco: l’infelicità non fu introdotta nel mondo a cagion del peccato? Certo che sì, risponderà l’Ecclesiastico (XL, 9 et 10): mors, sanguis, contentio, oppressiones, fames,et contritio, et flagella super iniquoscreata sunt, et propter illos factus est cataclysmus. Pel peccato hanno inondato nel mondo tante sciagure; pel peccato le guerre, per il peccato la povertà, pel peccato le pestilenze, pel peccato le carestie, pel peccato l’infamie, pel peccato la morte. Adunque come possiamo mai credere che il peccato sia mezzo acconcio a sfuggir l’infelicità, e non piuttosto ad incorrerla, se egli ne fu la cagione? Falso, falso! Se un iniquo dalla sua iniquità ritrarrà qualche ventura, qualche gloria, qualche grandezza, tutto sarà per mero accidente: di primaria istituzione sarà che avvenga il contrario. E però chi non vede che molto più frequentemente avverrà quello ch’è d’istituzione primaria, che non quello ch’è per mero accidente?
VI. Ripiglierete: somiglianti ragioni per avventura tutt’essere e belle e buone; nulladimeno non poter voi ribellarvi a ciò che il senso vi attesta, ed a ciò che dimostravi l’esperienza: che il mondo ha sempre abbondato di empi felici; che questo ha fatto sempre aguzzar mille penne contro la Provvidenza, questo fremere mille lingue; e che a volerla ora negare, bisognerebbe bruciar gli annali dei popoli, le declamazioni degli oratori, le satire dei poeti, e fino i lamenti de’ profeti medesimi, i quali esclamano: quare via impiorum prosperatur? (Jer. XII, 1). Piano, piano; che voi credete con cotesta replica vostra di avermi a un tratto conquiso, non che convinto: eppur voi nulla provate contra di me. Il mondo ha «sempre abbondato di felici? Questo è falsissimo, perché senza paragone sono stati più gli empi miseri, benché la felicità sia più osservata negli empi, che la miseria, come cosa più sconveniente. Con tutto ciò volete ch’io vel conceda per cortesia? Su, sia così: che no inferite però contro il mio discorso? Dunque è giovevole il vizio, dunque è utile l’empietà, dunque ad esser felice giova esser empio, ch’è la proposizione ch’io vi contrasto? Nego la conseguenza. Sapete dove consiste l’inganno vostro? Consisto in questo: che voi credete tali uomini esser divenuti felici per la malvagità; ed io vi dico di no. Vi dico ch’essi divennero tali mercé qualche opera buona, o cristiana o naturale, o morale, da loro fatta. Seminantijustitiam merces fidelis; tal è l’assioma infallibile dei Proverbi (XI. 18). Però, non lasciando mai Dio di premiar fedelmente verun’azione virtuosa, qualunque siasi, come non lascia mai di punirne alcuna malvagia, ha voluto con quella breve prosperità temporale rimunerare coloro ai quali per altro erano destinali tormenti eterni. – Furono crudeli i Goti, ma nemicissimi d’ogni carnalità; bestiali gli Unni, ma alieni da ogni delizia; rapaci i Vandali ma zelantissimi ancora in sterminare il culto d’idolatria. I Romani per contrario quantunque superstiziosi, non è credibile quanto fossero retti, liberali, fedeli, sobri, magnanimi, ed amanti dei popoli lor aggetti. Ne’ Turchi è insigne l’ubbidienza ai loro Principi; negli Svechi è singolare la fede alle lor consorti; e quel ch’io dico di questi popoli in genere, dite voi di più personaggi in particolare, come di un Jerone, d’un Pisistrato, d’un Dionisio, d’un Falaride, d’un Periandro, d’un Mario, d’un Gracco, d’un Silla, e di altri tali per alcun tempo felici nell’impietà. Furono tutti costoro malvagi sì; ma si scorse anche chiaro in ciascuno d’essi quanto sia quel dettato comune, che coi gran vizi, sogliono andare bene spesso congiunte di gran virtù: epperò Iddio, che doveva poi dare a’ lor vizi una lunga pena, volle dar prima alle lor virtù un breve premio, guiderdonandole, siccome erano tutte virtù manchevoli con bastoni di comando, con diademi di principato, con vittorie, con trofei, con tesori, e con altre simili felicità temporali; ch’è quanto dire, coi bricioli della sua mensa, con la polvere dei suoi piedi, con la spazzatura che si getta dai balconi del suo palazzo. Chi non vede però come questo medesimo non abbatte, ma conferma piuttosto l’intento mio, mentre ancor fra’ Gentili, se ben rimirasi, là si è trovata maggiore prosperità, come lungamente dimostra santo Agostino (De Civ. Dei), dove si sono trovate virtù maggiori, se non vere e reali, almeno verisimili ed apparenti?
VII. E non è per tutto ciò ch’io non sappia, Cristiani miei, che Dio più d’una volta permette che l’uomo arrivi con l’istesse malvagità ad acquistare or qualche carico illustre, ed ora qualche rendita copiosa: questo è verissimo. Ma io dico, che neppur in questo caso medesimo si deve chiamare utile quella malvagità; perché, regolarmente parlando, sempre sarà più il male, che il bene, il qual ne derivi. Prosperitas stultorum (come Salomone testifica) perdet illos(Prov. I. 32). Non dice perdit, ma perdet. E perché ciò? Perché non sempre una tale prosperità produce immediatamente i suoi tristi effetti, ma a passo a passo. Eh aspettate un poco di grazia, aspettale un poco, e vedrete dove andrà a terminare quel carico conseguito con le oppressioni degl’innocenti, dove quell’oro accumulato con l’estorsioni dei poveri. Non avete mai letto là presso Giobbe, che Dio talvolta con gli uomini si trastulla, e che però adducit consiliarios instultum fìnem? (Job. XII. 17). Non in stultumprincipium, no; in stultum finem. La scia che alzino la gran torre di Babele; ma di poi fa che per la confusione vadano dispersi. Lascia che alzino la bella torre di Siloe; ma di poi fa che sotto le rovine vi restino seppelliti. Questo è l’inganno, per lo quale molti uomini giudicano talora fortunata l’iniquità, e che ha condotti anche i Profeti medesimi a querelarsi amorosamente di Dio, e quasi ad accusar la sua provvidenza. Hanno i meschini considerato il principio, ma non hanno con Davide atteso il fine: donec intelligam in novissimis eorum (Ps. LXXII, 17); ch’è quanto dire, si sono fissi a mirare il bel capo d’oro dell’eccelso colosso babilonese, e quivi tutti attoniti, tutti assorti, non hanno subito calati gli occhi a osservare i piedi di fango. Udite, e si stabilisca la verità.
VIII. Se dopo il nascimento di Cristo fu serie d’uomini, i quali con arti inique si avanzassero a grandi acquisti, furono senza dubbio gl’imperatori, o, se così vogliamo piuttosto chiamarli, tiranni greci. Ora ditemi: vi sono però stati altri ìmperi ch’abbiano dati, o più fortunosi, o più ferali argomenti alle scene tragiche? Niceforo il primo giunse alla fine co’ suoi tradimenti e con i suoi spergiuri ad usurparsi l’impero, scacciandone Irene, giusta posseditrice. Ma che? per le continue calamità divenne a sé medesimo sì obbrobrioso, che si chiamava nuovo Faraone indurato nelle disgrazie; ed alla fine sconfitto e ucciso da’ Bulgari, diede occasione a’ suoi nemici di fare del suo cranio una tazza, dove, non so se per allegrezza o per onta, tutti beverono i principali del campo. Giunsero pur Staurazio con illegittime nozze, e Leone Armeno con pubbliche ribellioni a stabilirsi nel principato: ma quanto andò che per tal cagione morirono trucidati, l’uno in guerra, l’altro all’altare? Michele Balbo arrivò nella sua famosa congiura a passare dalla carcere al soglio, ed a farsi quivi adorare, mentre ancor era con le catene al collo e con i ceppi ai piedi; ma avendo ardire per tale prosperità di sposare una vergine sacra, subito gli si ribellò tutta la Schiavonia, subito gli fu sbaragliato tutto l’esercito; né per ciò ravvedendosi, fu consumato da una infermità stomachevole. Teofilo per le sue ragioni di Stato arrivò quasi a spegnere affatto il culto delle immagini sacre; ma presto ancora morì di affanno e di rabbia per una lagrimevole rotta ricevuta da’ Saracini. Michele III, riputato per le sue libidini e per le sue crudeltà novello Nerone, giunse a sterminar i tutori e sbandir la madre, per poter senza direttore regnare più francamente; ma quanto fu però contro di esso l’odio del popolo, quante le ribellioni, dalle quali alla fine rimase estinto, mentre giaceva sopraffatto dal sonno ed ebbro dal vino! Riuscì ad Alessandro di spogliare gli altari sacri, per trasportare, nel fisco l’oro de’ tempj; ma incontenente impazzì: né compì prima l’anno del principato, che vomitò col sangue insieme la vita. Che dirò di Romano I? Conseguì egli con astutissima frode di collocare nella sedia patriarcale di Costantinopoli un suo figliuolo fanciullo con discacciarne il legittimo possessore; ma l’anno stesso da un altro dei suoi figliuoli fu discacciato egli ancor dal trono imperiale, e rilegato in un’isola solitaria. Così il secondo Romano giunse ancor ei, per vaghezza di dominare, a togliere con veleno il padre dal mondo; ma fra brevissimo tempo fu tolto anch’egli dal mondo pur con veleno. Michele Paflagonio ottenne con arti inique d’intrudersi nell’imperio; ma fu invasato subito dal diavolo, da cui né per esorcismi, né per limosine, si poté più liberare fino alla morte. Michele Calefate conseguì d’esiliare l’imperatrice per regnar solo; ma fu pigliato incontinente dal popolo, da cui lapidato e accecato, fu strascinato ancor vivo per la città. E l’istessa lagrimosa fine ancor fecero Diogene ed Andronico, saliti ambedue sul soglio imperiale, l’uno col favore di amore impudico, l’altro col braccio di barbara fellonia. – Rispondetemi ora: pare a voi che si potessero chiamar punto felici le malvagità con cui questi si vantaggiarono? – Dite su: vi contentereste voi di godere dei loro acquisti, mentre dovreste parimente addossarvi le loro perdite? Chi v ‘è, chi v’è così sciocco, il quale stimi invidiabile la lor sorte? Or figuratevi che tal è stata universalmente la sorte di tutti quei che con arti inique anelarono ai lor vantaggi. Prosperitas stultorum perdet illos; sì, miei signori, prosperitas stultorum perdet illos (Prov. I. 32). Eh che non accade affannarsi in tal verità! Gridano tutti i libri, esclamano tutti i secoli, e tutti i regni unitamente sentenziano a favore della virtù: Justitia elevat gentes(Prov. XIV. 34); udite se può trovarsi un detto più favorevole al nostro intento, uscito dalla penna pur esso di Salomone: Justitia elevat gentes: la giustizia si è quella la quale sublima i popoli, li risuscita, li ravviva. Che quella che li fa miserabili? Il sol peccatro: miseros autem fàcit populos peccatum (Ibid.). Così pur altrove egli dice: non roborabitur homo ex impietate(Ib. XII. 3); ed altrove: in insidiis suis capientur iniqui(Ib. XI, 6); ed altrove: in impietate sua corruet impius(Ib. XI. 5); ed altrove: qui seminat iniquitatem, metet mala(Ib. XXII. 8). La Sapienza concorda in parlar così: malignitasevertet sedes potentium (Sap. V. 24), punto differente è il linguaggio dell’Ecclesiastico, il qual ci ha lasciato questo notabilissimo avvertimento, che i principati si veggono bene spesso andar vagabondi regnum a gente in gentem transfertur (Eccl. X, 8). Per qual cagione? per le ingiustizie, per le iniquità, per le fraudi, cui vennero amministrati: propter injustitias et injurias et contumelias et diversos dolos (Ibid.). Che dite dunque? Volete voi lasciarvi sì lusingare dalle fallaci promesse dell’impietà, che, ammirando le sue esaltazioni, non consideriate anche appressi i suoi precipizi? Eh rinunziatele pure, rinunziatele le sue arti, ed assicuratevi (checché v’insegnino altri nei loro volumi pestilenziali e perversi), assicuratevi, dico, che non vi sarà utile quello che non è onesto. Telas araneæ texuerunt, dice Isaia di questi artefici scaltri d’iniquità: opera eorum operainutilia; cogitationes eorum cogitationes inutiles (Is. LIX, 5, 6 et 7). Tengansi pur per sé il loro expedit maledetto questi odierni sconsigliatissimi consiglieri; che noi piuttosto con le generose parole di Matatia, nobilissimo maccabeo, vogliamo conchiudere: propitius sit nobis Deus; non est nobis utile relinquerelegem et justitias Dei (1 Mach. II. 21). Premettaci pure la malvagità ciò che vuole, non le crediamo. Mai non ci sarà utile lasciare la Religione per l’appetito, la Religione per l’interesse, la legge per l’affetto, Dio per nessuno. Non est, non est nobis utile relinquere leges et justitias Dei. Che cosa ci sarà utile? La pietà. Pietasomnia utilis, dice l’Apostolo (1 ad Tim., IV, 8); mercecchè questa ha le promesse di essere favorita non solo nella vita futura, dove sta il vero premio dei Cristiani, ma ancora nella presente, Promissionem habens vitae, quæ nunc est, et futuræ.
SECONDA PARTE
IX. Io vi ho ragionato sinora come se non ci fosse altra vita, che questa sola, la qual da noi si mena sopra la terra. Ma che? Ci è pur paradiso (o signori miei cari), ci e pur inferno. Se non siamo atei, lo dobbiamo confessare. Adunque, quando anche il vizio (ch’io non concedo) fosse nel mondo generalmente felice, basterebbe questo a poterlo chiamar giovevole? Eh miseri noi, che pensiamo al temporale, e non consideriamo l’eterno! Quid prodest nomini, simundum universum lucretur, animæ verosuoi detrimentum patiatur? (Matth. X. 26). Oh sentimento degno di essere ripetuto a gran voce su tutti i pergami, anzi di essere inciso a caratteri grandi in tutte le sale, in tutte le stanze, a fine di non lo perdere mai di vista! E dove ancora, uditori cari, arrivassimo a conseguire con i tentativi malvagi l’intento nostro, che avrem noi fatto? Quid prodest? Avremo acquistati alcuni anni di contentezza, ma ce ne saremo giuocata un’eternità. Oh potess’io questa mattina avanti ai vostri occhi spalancare tutto l’inferno, e farvi vedere quelle caverne di terrore, quelle carceri di tormenti! Che vorrei fare? Vorrei chiamare ad uno ad un tutti quegli, i quali vivendo non riconobbero su la terra altro Dio, che il loro interesse; e vorrei con alti scongiuri violentarli a rispondere, come sian ora contenti delle loro passate felicità. Dove siete, olà, dove siete, voi Geroboami, voi Tiberj, voi Giuliani, voi Arrighi, voi tutti di questa scuola? Venite pure, benché vestiti di fiamme, benché cinti di serpi, benché carichi di catene, che per nostro profitto giova il vedervi. Che dite? Voi vivendo adempiste già tutto ciò che vi suggerì il vostro perverso volere, con dir tra voi: sit fortitudo nostra lex justitiæ(Sap. II. 11). Non è così? Non temeste mai uomini, non rispettaste mai Dio; e sol tutti intesi ai vostri interessi domestici, non dubitaste di procurarli con l’oppressione dei poveri, con le calunnie degl’innocenti, col tradimenti degli amici, con le rovine degli emoli, col sangue dei popoli, con lo sconvolgimento dell’universo. Ebbene, che cavate ora voi dalla rimembranza dei vostri passati delitti? Sono per questo a voi men rigidi i ghiacci, o men voraci le fiamme? Vi ricordate, quanti già vi adoravano nelle reggi e quanti vi corteggiavano per le strade! quanti vi applaudivano ne trionfi! Vi ritraevano altri su dotte tele, altri vi figuravano in duri marmi; e per la vostra felicità giornalmente sagrificavansi non so se più vite nelle battaglie, o più vittime in su gli altari. Or che vi giova una tale felicità? rispondetemi, che vi giova? Quid prodest? Se voi poteste ritornare ora nel mondo a ripigliare i vostri cadaveri, a ritessere il vostro corso, qual tenore di fortuna vi eleggereste? Rientrereste voi più nell’istesse regge? rimontereste voi più su gli stessi troni? Oh Dio, che parmi di sentire che i miseri, bestemmiando, mandino urli per voci, e fremiti per parole. Che regge, gridano gl’infelici, che troni? Maledetta sia l’ora che vi salimmo; maledetti quei servi, che ci ubbidirono; maledetto quel cielo che ci esaltò. Selve, grotte, dirupi, orrori, sepolcri, là dentro correremmo tutti a nasconderci, se noi potessimo più tornare or al mondo. Così mi pare che i miseri mi rispondano. Ed oh con quanta ragione! Vere mendacium possiderunt;vanitatem, quæ eis non profuit (mi giova qui di ripetere ad alta voce con Geremia – XVI. 19): vere mendacium possiderunt; vanitatem, quæ eis non profuit. Poverini che sono! quanto meglio sarebbe stato per tutti questi nascer servi, nascere schiavi, che nascer grandi! Ubi sunt principes gentium? Dove sono più questi principi delle genti, dei quali abbiam ragionato? Qui dominantur super bestias, quæsunt super terram; e per andare in cocchio nutriscono tanti cavalli: qui in avibus cæliludunt; e per andare a caccia nutriscono tanti cani: qui argentum thesaurizant etaurum, in quo confidunt homines,et nonest finis acquisitionis eorum; e per arricchire le loro case privale non temono difar gemere le città. Ubi sunt? ubi sunt? Dove sono? dove sono? Exterminati sunt, ripiglia il Profeta. Sono spariti, sono spariti. Spariti? Non sarìa nulla. Exterminati sunt, et ad inferos descenderunt, et alii locoeorum surrexerunt (Baruch. III, 16 et seq.). Lasciarono ai loro posteri gli ostri e gli ori, ed essi andarono a starsene tra le fiamme. Così è di tutti coloro, che non son vissuti secondo le buone leggi. Felici però noi se sapessimo approfittarci alle spese loro! Ma noi troppo insensati invidiamo la loro antica felicità, e non badiamo alla presente loro miseria. Quid prodest, quid prodesthomini si mundum universum lucretur, animævero suæ detrimentum patiatur? Non è di fede, che tra quanti acquisti si facciano, di sogli, di clamidi, di corone, di scettri, di manti, di mitre o di pastorali,uniti ancora fuor d’ogni legge in un fascio,e la perdita che però s’incorra dell’anima, neppur v’è quella proporzione, la qual vi sarebbetra l’acquisto di un praticello selvatico, e la perdita di una monarchia paria quella che godé Augusto? Adunque come stimeremo mai felice quell’impietà che porta poi seco annesso sì grave danno?Non potest ulla compendii causa consistere, io dirò, francamente con santo Eucherio (Epist. 1 ad Paræn.), si constet animæintervenire dispendium.
X. Ma voi direte ch’io stamane non ho fatto altro che parlar sempre di principi e di principesse; che i più di voi, che soli avete bisogno della mia predica, non siete in sì grande stato; e che però nemmeno siete soggetti a sì gran pericoli. Che le vostre politiche non si stendono se non il più a scavalcare un vostro emolo nella Corte, o a soppiantare un vostro corrispondente in qualche contratto; e che però non dovete forse temere tante infelicità né temporali, né eterne per tali colpe. Sì eh? Oh piacesse al cielo, che pur fosse vera una simile conseguenza! Ma questo è il peggio, uditori miei, questo è il peggio, che per una cosa di niente offendiamo Dio, strapazziamo i suoi ordini, conculchiamo il suo sangue. Finalmente se per qualche acquisto assai grande lo conculcassimo, faremmo male, chi ne può dubitare? Faremmo malissimo, ma quanto più conculcandolo per sì poco! E non è questo il lamento che Dio già fece per bocca di Ezechiele quando egli disse: violabant mepropterpugillum hordei, et fragmen panis? (Ezech. XIII, 19). Quasi che volesse egli dire in poche parole: ascoltate voi, cieli; ascoltala, terra; e voi, cupi abissi, ascoltate. Quel mio popolo, a me sì caro e diletto, che ha ricevuto da me sì eccelsi favori, che è stato liberato da me di sì misera schiavitudine, che da me è stato esaltato a sì gran potenza; questo mio popolo stesso mi ha strapazzato, sapete, mi ha strapazzato con ingratissime offese. E indovinate perché? Forse per appropriarsi le spoglie di un esercito debellato, come fece un Saule? Non me lo recherei a tanta ignominia. Forse per arrogarsi l’amministrazione di un principato vacante, come fece un’Atalia? Non me lo riputerei a tanto scorno. Forse per usurparsi la possessione d’alcun cittadino innocente, come fece un Acabbo? Mi daria minor confusione. Forse per sfamare l’ingordigia dell’oro altrui, come fece un Giezi? Ancor in ciò sentirei minor il rossore. E perché dunque egli mi ha offeso? Perché? Ve lo dirò io. Per un pugno d’orzo, per un frusto di pane; sì, torno a dire, per un pugno di orzo, per un frusto di pane: propter pugillum hordei, et fragmen panis. Per sì leggiero interesse mi hanno gl’ingrati rivoltate le spalle, hanno dette enormi bugie, hanno inventate vituperose calunnie, hanno orditi bruttissimi tradimenti: ed io lo potrò tollerare? Così dolevasi Dio, signori miei cari, ne’ tempi andati. Sapete voi come dolgasi nel presenti? Basterebbe, per saper ciò, girare un poco le piazze più popolose della città, entrare ne’ fondachi, visitar le botteghe, vedere i banchi, ed ivi considerare per qual piccioli emolumenti si commettano colpe ancora mortali. Che menzogne, che contese non si odono colà dentro? che ingiustizie, che frodi non vi si ascondono? E Dio, ch’ivi è presente, comporterà divedersi per così poco oltraggiato tanto? Come? s’Egli castigherà sì severamente chi, a ragion di esempio, spergiura per un tesoro, non punirà più aspramente chi spergiuri per un quattrino? Fino i Gentili medesimi conoscevano che un istesso peccato, commesso per emolumento più rilevatile, pareva men grave; onde uno di loro ebbe a dire: si violandum jus est, regnandi causa violandum est. Mai non è lecito di peccare; ma quando inoltre è minore l’allettamento, allora in parità d’altre circostanze sempre è maggiore la colpa che si commette, perché Dio vien posposto ad un ben più minuto, ad un ben più vile, ad un bene più dispregevole. Conchiudiamo dunque così: se tanto fremeranno nell’inferno quei che vedranno di aver perduto Dio per una provincia o per un principato issai grande di questa terra, che sarà di quei miserabili che vedranno di aver fatta ancor essi una stessa perdita; ma perché? per una usura fecciosa di pochi soldi, per un cambio non sincero, per un censo non sussistente, o per alcun altro contratto di quei sì fini, che sono a voi meglio noti, che non a me? Non urleranno quei miseri di furore, molto più di un Esaù o di un Linneo, venditori sì sfortunati, quegli di una primogenitura, e questi d’un regno? E tali sono le perdite a cui conduco uno scellerato interesse, e conduce tutti, o grandi o piccoli, o governanti o plebei, ch’egli signoreggi. Considerate ora voi se vi è bene, il quale equivalga a perdite così gravi, e poi sentenziate se mai per esser felice giovi esser empio.