DOMENICA I DOPO PASQUA (2019)

DOMENICA I dopo PASQUA (2019)

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

1 Pet II, 2. Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja. [Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia,]

Ps LXXX: 2. Exsultáte Deo, adjutóri nostro: jubiláte Deo Jacob. [Inneggiate a Dio nostro aiuto; acclamate il Dio di Giacobbe.]

– Quasi modo géniti infántes, allelúja: rationabiles, sine dolo lac concupíscite, allelúja, allelúja allelúja. [Come bambini appena nati, alleluia, siate bramosi di latte spirituale e puro, alleluia, alleluia.]

Oratio

Orémus.

Præsta, quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui paschália festa perégimus, hæc, te largiénte, móribus et vita teneámus. [Concedi, Dio onnipotente, che, terminate le feste pasquali, noi, con la tua grazia, ne conserviamo il frutto nella vita e nella condotta.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joannis Apóstoli. – 1 Giov. V: 4-10.

“Caríssimi: Omne, quod natum est ex Deo, vincit mundum: et hæc est victoria, quæ vincit mundum, fides nostra. Quis est, qui vincit mundum, nisi qui credit, quóniam Jesus est Fílius Dei? Hic est, qui venit per aquam et sánguinem, Jesus Christus: non in aqua solum, sed in aqua et sánguine. Et Spíritus est, qui testificátur, quóniam Christus est véritas. Quóniam tres sunt, qui testimónium dant in coelo: Pater, Verbum, et Spíritus Sanctus: et hi tres unum sunt. Et tres sunt, qui testimónium dant in terra: Spíritus, et aqua, et sanguis: et hi tres unum sunt. Si testimónium hóminum accípimus, testimónium Dei majus est: quóniam hoc est testimónium Dei, quod majus est: quóniam testificátus est de Fílio suo. Qui credit in Fílium Dei, habet testimónium Dei in se”.  – Deo gratias.

Omelia I.

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

L A FEDE

“Carissimi: Tutto quello che è nato da Dio vince il mondo: e questa è la vittoria che vince il mondo, la nostra fede. Chi è che vince il mondo, se non colui che crede che, Gesù Cristo è figlio di Dio? Questi è Colui che èvenuto coll’acqua e col sangue, Gesù Cristo: non con l’acqua solamente, ma con l’acqua e col sangue. E lo Spirito è quello che attesta che Cristo è verità. Poiché sono tre che rendono testimonianza in cielo: il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo: e questi tre sono una cosa sola. E sono tre che rendono testimonianza in terra: lo spirito, l’acqua e il sangue: e questi tre sono una cosa sola. Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio èmaggiore. Ora, la testimonianza di Dio che è maggiore è questa, che egli ha reso al Figlio suo. Chi crede al Figlio di Dio, ha in sé la testimonianza di Dio” (1 Giov. 5, 4-10).

S. Giovanni, oltre il Vangelo e l’Apocalisse, scrisse tre lettere. La prima di queste è indirizzata ai fedeli dell’Asia minore, di cui Efeso, ove l’Apostolo dimorava, erane la capitale. Si potrebbe chiamare lettera accompagnatoria o introduzione del quarto Vangelo. Vi si fa risaltare la divinità di Gesù Cristo, e vi si danno prescrizioni per la pratica della vita cristiana, specialmente in relazione all’amor di Dio e all’amor del prossimo. L’epistola odierna è tolta da questa lettera. Per vincere il mondo con le sue concupiscenze, con i suoi errori, con le sue lusinghe, con le sue persecuzioni bisogna essere appoggiati a una fede viva nella divinità di Gesù Cristo. Fede che ha una base incrollabile, perché fondata sulla testimonianza del Padre, che proclama Gesù Cristo suo Figlio, quando è battezzato nelle acque del Giordano; dalla testimonianza del Figlio, che dimostra la sua divinità quando versa il sangue sulla croce; dalla testimonianza dello Spirito Santo, che, discendendo sopra gli Apostoli il giorno di Pentecoste, conferma la predizione di Gesù Cristo e quanto egli aveva insegnato sulla propria divinità. Accogliendo la testimonianza di Dio relativamente a Gesù Cristo, abbiam ben di più che la testimonianza degli uomini. Questo celebre passo di S. Giovanni ci suggerisce di parlar della Fede. Essa:

1. Ci fa trionfare delle passioni,

2. C i preserva dall’errore,

3. Ci fa rendere il dovuto omaggio a Dio.

1.

Questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede. Chi erede che Gesù Cristo è Dio, e vive in conformità di questa credenza, trova la forza necessaria per trionfare del mondo. Le lusinghe, l’esempio del male che dilaga, la concupiscenza esercitano sull’uomo una forza a cui ben difficilmente si resiste con considerazioni umane. Ci vuole una forza superiore, e questa forza è la fede. I due discepoli che il giorno di Pasqua ritornano scoraggiati al castello di Emaus, sono accompagnati, nel cammino, da uno sconosciuto, che spiega loro parecchi luoghi della Sacra Scrittura. Rimasti soli, si dichiarano a vicenda: «Non ci ardeva forse il cuore in petto mentre per istrada ci parlava e ci interpretava le Scritture?» (Luc. XXIV, 32). Quella parola accendeva i loro cuori, perché chi parlava era Gesù. La parola di Dio avvince i cuori con le sublimi verità che rivela, e gli infiamma a compiere con entusiasmo i più grandi sacrifici, con l’assicurazione che non mancherà mai l’aiuto della grazia divina. La fede parla di Dio e dei suoi attributi. Credere che Dio è santo, e illudersi che non abbiano a dispiacergli i peccati, è cosa impossibile. Credere che è sapientissimo, e lusingarsi che gli sfuggano le azioni degli uomini, è inconciliabile. Credere che è giusto, e aspettarsi che non punisca le colpe e non premi la virtù è pretesa assurda. L’uomo che crede con fede viva nella parola di Dio, cerca di conformare a essa la propria vita, e con la grazia che viene da Dio, vi riesce. « I precetti di lui non sono gravosi, — dice l’Evangelista — perché tutto ciò che viene da Dio vince il mondo » (I Giov. V, 3-4). I beni che ci offre il mondo perdono ogni attrattiva quando consideriamo seriamente l’ammonimento di Gesù Cristo: « Che giova mai all’uomo guadagnar tutto il mondo se poi perde l’anima? » (Matt. XVI, 26). Nessuno potrà mai arrivare a contare il numero di coloro, che, meditando questa massima della nostra fede, si son guardati dal commettere ingiustizie a danno degli altri, hanno moderato il loro desiderio di possedere, hanno, magari, rinunciato alle ricchezze, ottenendo una vittoria completa sulla cupidigia dei beni di questa terra, « radice di tutti i mali » (I Tim. VI, 10). Contro chi possiede una fede viva perdono la loro forza anche le minacce del mondo. «Non temete — leggiamo nel Vangelo — coloro che uccidono il corpo e non possono uccider l’anima; temete piuttosto chi può mandare in perdizione all’inferno e l’anima e il corpo» (Matt. X, 28). Queste parole, ricordate nel tempo della prova, producono i forti, che disprezzano qualunque tormento, piuttosto che venir meno alla voce della coscienza. E fanno sorgere i martiri che accettano la morte più straziante, ma non si stancano di dare a Dio l’onore e l’omaggio che gli si deve. « L’operaio è degno della sua mercede » (I Tim. V, 18.). E la fede ci dice che chi lavora nel combattimento contro il mondo avrà la sua mercede. Una gloria, in confronto della quale « le sofferenze del tempo presente non hanno proporzione (Rom. VIII, 18). In vista di questa gloria, chi non è spinto a combattere costantemente il mondo fino alla vittoria, dicendo col Poverello d’Assisi: « Tanto è il bene che m’aspetto che ogni pena mi è diletto »?

2.

E lo Spirito è quello che attesta che Cristo è verità. La testimonianza dello Spirito Santo esclude ogni dubbio, perché è proprio di Lui il dire la verità. E quanto c’insegna la fede è appunto testimonianza dello Spirito Santo. Felice l’uomo che ha la fede, perché egli trova la luce vera fra le tenebre che coprono la faccia della terra. Ci sono delle verità che anche l’intelletto dell’uomo può scoprire: come, l’esistenza di Dio, la sua unità, la sua provvidenza, la spiritualità e immortalità dell’anima, la distinzione tra il bene e il male ecc. Abbandonato però l’uomo alla sola ragione, non può venire alla conoscenza di queste verità e alle conseguenze che ne derivano, senza molta riflessione e ragionamento. Ma la gran massa degli uomini non è portata al ragionamento. Basa le sue convinzioni non sul ragionamento, ma sulla fede. E anche coloro che, dotati di ingegno superiore agli altri, cercano di penetrare le verità naturali, non sempre arrivano a conoscerle come si deve; e, frequentemente, arrivano a conclusioni diverse. Che dire poi se c’entrano le passioni? Quanti errori intorno a Dio e ad altre verità fondamentali, anche tra i popoli più colti, come quelli della Grecia e di Roma! Se conobbero Dio, non ne conobbero bene né la natura né gli attribuiti. Si formarono molti dei, e si crearono degli idoli. Se conobbero Dio non gli prestarono il culto dovuto. Accecati dalla loro superbia, e seguendo le inclinazioni della corrotta natura, precipitarono in errori d’ogni sorta. « S’invanirono nei loro ragionamenti, e fu avvolto di tenebre il loro stolto cuore. Dicendo di essere sapienti divennero stolti, e scambiarono la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine, rappresentante l’uomo corruttibile e uccelli e quadrupedi e rettili » (Rom. I, 21-23). Questa constatazione che l’Apostolo fa parlando del mondo greco-romano, ci dice di quanta importanza può essere la rivelazione, anche rispetto a quelle verità, che l’intelletto umano può conoscere da sé. Io mi avvio lungo una strada maestra, al valico d’una catena di monti. Ma le ore passano e il valico è ancor lontano. Quel continuo serpeggiar della strada comincia ad annoiarmi; il continuo salire, per quanto lento, mi fa sudare e mi stanca. Sarei ben felice se una veloce vettura si fermasse al mio fianco, e io fossi invitato a salirvi. In brevissimo tempo, senza sudore e logorio di forze, arriverei alla meta. La fede, anche nel campo delle verità naturali, mi porta con prontezza, senza fatica, là dove con le sole forze della ragione non si potrebbe arrivare che tardi, a stento, e non sempre felicemente. Se poi veniamo a parlare delle verità soprannaturali, come sono i misteri della nostra Religione, sarebbe da insensati pretendere di conoscerle con le forze della nostra ragione. «Non può esserci alcun dubbio che nella cognizione delle cose divine dobbiamo usare dell’insegnamento divino » (S. Ilario: De Trinitate L. 4, 14.). Noi che non conosciamo bene questa terra sulla quale siamo nati, abitiamo, ci nutriamo; che non siamo capaci di contare le arene del mare, né le gocce dell’oceano, né i giorni del mondo, non possiamo pretendere di arrivare con la nostra ragione a penetrare la profondità di Dio, a comprender cose che sono tanto al di sopra di noi, senza esservi guidati dal lume della fede.

3.

Se ammettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è maggiore. S. Giovanni intende parlare della testimonianza, che le tre Persone della SS. Trinità hanno fatto della divinità di Gesù Cristo; e si può applicare, in generale, a qualsiasi verità da Dio rivelata. Si dice: Chi crede facilmente, è facilmente ingannato. D’accordo; ma quando si crede con la testa nel sacco. Se io credo facilmente a un uomo che è degno di fede, non mi passa neppur per la mente il dubbio di essere ingannato. E questa mia sicurezza non è affatto irragionevole. « L’autorità — osserva S. Agostino — non è destituita di ragione quando si osserva a chi si presta fede » (De Vera Relig. c. 24, 45). È quello che possiamo constatare continuamente. In fatto di scienza, di arte, di cognizioni in genere, noi ci affidiamo alla autorità degli altri, e nessuno per questo ci accusa di essere irragionevoli. Gli ammalati credono alla parola del medico, perché sono persuasi che egli, che ha studio e pratica in proposito, conosce la malattia e i rimedi, e non vuole ingannarli. Gli scolari credono al maestro che ha l’ufficio e l’obbligo di insegnar loro la verità. Lo studioso di geografia conosce il nome dei continenti e dei vari Stati, in cui si dividono, e molto probabilmente in questi luoghi egli non è mai stato. Conosce l’altezza e l’estensione delle più importanti catene di monti, e forse non le ha mai valicate, né viste da lontano. Sa quali sono i fiumi principali, vi dice dove hanno la sorgente e dove la foce, vi annuncia esattamente la lunghezza del loro percorso; eppure non li ha mai visti né misurati. Egli crede a coloro che si occupano di questa materia. Si conoscono tanti fatti della storia antica e moderna; si precisa il tempo e il luogo dove avvennero, il nome delle persone che vi presero parte; eppure questa conoscenza non è diretta. Si crede alla parola di chi ne fu testimonio o agli scrittori che narrarono gli avvenimenti. Se è ragionevole che si creda alla testimonianza dei maestri e degli scrittori, perché li stimiamo seri e degni di fede, è molto più ragionevole che si creda alla testimonianza di Dio il quale, dopo aver parlato ai nostri padri per mezzo dei Profeti, « parlò a noi per mezzo del suo Figliuolo » (Ebr. 1, 2). Sarebbe inesplicabile credere agli uomini, che possono andar soggetti a errori, e non credere a Dio, che non può né errare, né ingannare. « Egli sa tutto lo scibile… annunzia le cose passate e quelle che accadranno, e segue la traccia di quelle occulte » (Eccl. XLII: 19). Se si considera l’indiscussa autorità di Dio, bisogna conchiudere con S. Gregorio Nazianzeno: « Per noi la fede è la perfezione del ragionare » (Or. theol. 3, 21). In fondo, noi rendiamo omaggio all’uomo, quando, sulla sua autorità, crediamo quanto egli dice. E credendo alla parola di Dio, gli rendiamo l’omaggio che ogni uomo è tenuto a rendergli. Per richiamare il popolo d’Israele, ritornato dalla schiavitù, a una vita più fervorosa, il Sacerdote Esdra legge il volume che contiene la parola di Dio. Egli legge in una piazza di Gerusalemme dall’alto di una tribuna. Appena apre il libro tutto il popolo si alza in piedi in segno di rispetto alla parola del Signore, e in piedi e in silenzio ascolta la lunga lettura (2 Esdrea VIII, 2-7). Piace certamente al Signore questo omaggio esterno reso alla sua parola, ma indubbiamente gli piace di più l’omaggio interno, l’omaggio della intelligenza, che gli si rende quando si crede fermamente alle verità da Lui rivelate.

Alleluja

Alleluia, alleluia – Matt XXVIII: 7. In die resurrectiónis meæ, dicit Dóminus, præcédam vos in Galilæam. [Il giorno della mia risurrezione, dice il Signore, mi seguirete in Galilea.]

Joannes XX:26. Post dies octo, jánuis clausis, stetit Jesus in médio discipulórum suórum, et dixit: Pax vobis. Allelúja. [Otto giorni dopo, a porte chiuse, Gesù si fece vedere in mezzo ai suoi discepoli, e disse: pace a voi.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XX: 19-31.

“In illo témpore: Cum sero esset die illo, una sabbatórum, et fores essent clausæ, ubi erant discípuli congregáti propter metum Judæórum: venit Jesus, et stetit in médio, et dixit eis: Pax vobis. Et cum hoc dixísset, osténdit eis manus et latus. Gavísi sunt ergo discípuli, viso Dómino. Dixit ergo eis íterum: Pax vobis. Sicut misit me Pater, et ego mitto vos. Hæc cum dixísset, insufflávit, et dixit eis: Accípite Spíritum Sanctum: quorum remiseritis peccáta, remittúntur eis; et quorum retinuéritis, reténta sunt. Thomas autem unus ex duódecim, qui dícitur Dídymus, non erat cum eis, quando venit Jesus. Dixérunt ergo ei alii discípuli: Vídimus Dóminum. Ille autem dixit eis: Nisi vídero in mánibus ejus fixúram clavórum, et mittam dígitum meum in locum clavórum, et mittam manum meam in latus ejus, non credam. Et post dies octo, íterum erant discípuli ejus intus, et Thomas cum eis. Venit Jesus, jánuis clausis, et stetit in médio, et dixit: Pax vobis. Deinde dicit Thomæ: Infer dígitum tuum huc et vide manus meas, et affer manum tuam et mitte in latus meum: et noli esse incrédulus, sed fidélis. Respóndit Thomas et dixit ei: Dóminus meus et Deus meus. Dixit ei Jesus: Quia vidísti me, Thoma, credidísti: beáti, qui non vidérunt, et credidérunt. Multa quidem et alia signa fecit Jesus in conspéctu discipulórum suórum, quæ non sunt scripta in libro hoc. Hæc autem scripta sunt, ut credátis, quia Jesus est Christus, Fílius Dei: et ut credéntes vitam habeátis in nómine ejus.” – 

OMELIA II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XXII

“In quel tempo giunta la sera di quel giorno, il primo della settimana, ed essendo chiuso le porte, dove erano congregati i discepoli per paura de’ Giudei, venne Gesù, e si stette in mezzo, e disse loro: Pace a voi. E detto questo, mostrò loro le sue mani e il costato. Si rallegrarono pertanto i discepoli al vedere il Signore. Disse loro di nuovo Gesù: Pace a voi: come mandò me il Padre, anch’io mando voi. E detto questo, soffiò sopra di essi, e disse: Ricevete lo Spirito Santo: saran rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saran ritenuti a chi li riterrete. Ma Tommaso, uno dei dodici, soprannominato Didimo, non si trovò con essi al venire di Gesù. Gli dissero però gli altri discepoli: Abbiam veduto il Signore. Ma egli disse loro: se non veggo nello mani di lui la fessura de’ chiodi, e non metto il mio dito nel luogo de’ chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo. Otto giorni dopo, di nuovo erano i discepoli in casa, e Tommaso con essi. Viene Gesù, essendo chiuse le porte, e si pose in mezzo, o disse loro: Pace a voi. Quindi dice a Tommaso: Metti qua il dito, e osserva le mani mie, e accosta la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma fedele. Rispose Tommaso, e dissegli: Signor mio, o Dio mio. Gli disse Gesù: Perché  hai veduto, o Tommaso, hai creduto: beati coloro che non hanno veduto, e hanno creduto. Vi sono anche molti altri segni fatti da Gesù in presenza de’ suoi discepoli, che non sono registrati in questo libro. Questi poi sono stati registrati, affinché crediate che Gesù ò il Cristo Figliuolo di Dio, ed affinché credendo otteniate la vita nel nome di Lui” (Jov. XX, 19-31).

Il Vangelo di questa domenica ci trasporta col pensiero nel Santo cenacolo e ci fa assistere a due importanti apparizioni, fatte da Gesù Cristo ai suoi Apostoli dopo la sua Risurrezione. E in una di esse ci mostra il divin Redentore confermare la missione di coloro che aveva scelti per la predicazione del suo santo Vangelo, e soprattutto affidare loro la podestà ammirabile della remissione dei peccati coll’istituzione solenne del Sacramento della Penitenza. Nella seconda apparizione ci pone innanzi l’amabilissimo Gesù, che rimproverando l’Apostolo S. Tommaso, la prima volta assente, della sua incredulità, fa a lui toccare col dito le sue piaghe e il suo costato aperto, e a tutti fa intendere come siano beati coloro, che credono alle verità della fede, benché non le veggano coi loro occhi materiali e non le comprendano con la loro ragione. Procuriamo pertanto a nostro ammaestramento di penetrare un po’ più a fondo queste verità così importanti.

1. È verità di fede che nella Chiesa vi è la facoltà di rimettere i peccati, e tutti i Cristiani del mondo, non esclusi gli eretici e gli scismatici, recitando il Simbolo degli Apostoli dicono: Credo la remissione dei peccati. Questa remissione o perdono dei peccati si fa per mezzo dei Sacramenti stabiliti da Gesù Cristo, dei quali uno de’ più necessari è appunto il Sacramento della Penitenza. Per mezzo di questo Sacramento ogni volta che una persona, avendo commesso peccati dopo il Battesimo, li confessa, ossia li dichiara ad un Sacerdote legittimo, con pentimento di averli commessi, concepito per motivi di fede, e con proposito di non più commetterli in avvenire, Iddio, per le parole dell’assoluzione dette dal Sacerdote, glieli perdona dal Cielo, le rimette la pena eterna, restituisce i beni perduti, la grazia e l’amicizia sua, le riconsegna il diritto al Regno celeste, se il peccato era mortale, le rende l’anima vieppiù bella e cara agli occhi suoi, e la fa meritevole di un aumento di gloria in Paradiso. Ora, che vi sia nei Sacerdoti cattolici questa facoltà di rimettere i peccati a chi li confessa con le dovute disposizioni, o non potendo, ha tuttavia il desiderio di confessarli, è verità che risulta evidente dal primo tratto del Vangelo di questa mattina. In quel tempo, esso ci dice, giunta la sera di quel giorno, il primo della settimana, (e lo stesso, che quello della sua Risurrezione) essendo chiuse le porte, dove erano congregati i discepoli per paura dei Giudei, venne Gesù, e si stette in mezzo, e disse loro: Pace a voi. E detto questo, mostrò loro le sue mani e il costato. Si rallegrarono pertanto i discepoli al vedere il Signore. Disse loro di nuovo Gesù: Pace a voi: come il Padre mandò me, anch’io mando voi. E detto questo, soffiò sopra di essi, e disse: Ricevete lo Spirito Santo: saran rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saran ritenuti a chi li riterrete. Poteva pertanto nostro Signore istituire in un modo più solenne e con termini più chiari il Sacramento delle sue misericordie? Ma qui è d’uopo osservare che con le citate parole Nostro Signor Gesù Cristo dà agli Apostoli un doppio potere, il potere cioè di rimettere e di ritenere, di perdonare e di non perdonare, di assolvere e di non assolvere. Quindi ne viene per legittima conseguenza l’obbligo imposto ai peccatori di confessare, ossia di manifestare le loro colpe, affinché il Sacerdote o confessore possa sapere quale delle due facoltà debba usare, se debba cioè pronunziare una sentenza di assoluzione, oppure di condanna. Al Sacerdote non è permesso di rimettere o non rimettere i peccati a capriccio, ma deve ciò fare con tutta ragionevolezza, come ministro di Dio e fedele dispensatore de’ suoi doni. Il confessore deve fare come un giudice, che condanna od assolve, ingiunge una pena grave o leggiera o non ne ingiunge alcuna, secondo che il reo dal processo risulta più o meno colpevole, oppure innocente. Né ciò egli può fare, se il reo o penitente medesimo non gli svela le proprie colpe. Le parole adunque, con le quali Gesù Cristo ha istituito il Sacramento della penitenza, sono pur quelle, con cui implicitamente ha istituita ed ordinata la Confessione propriamente detta, ossia manifestazione delle colpe al confessore. Ora chi non sa quanti Cristiani e quanti giovani sciagurati, i quali amando vivere in peccato, epperò rifuggendo del continuo dal Sacramento della Penitenza, per scusarsi della loro perversità vanno dicendo e ridicendo, insieme coi protestanti, che la Confessione è una invenzione degli uomini, dei Sacerdoti, e non è opera di Dio? Insensati ed infelici che essi sono! Insensati anzitutto, perché come mai dinnanzi a questa pagina di Vangelo, osano essi negare la Divina istituzione di questo Sacramento della Penitenza e della conseguente confessione delle proprie colpe ai Sacerdoti, successori agli Apostoli? Inoltre infelici, perché rigettando questo Sacramento non si privano forse di uno dei più grandi benefici di nostra santa fede? Noi pertanto guardiamoci bene dal dubitare di questa gran verità. E se alle volte ci assalisse intorno ad essa qualche dubbio, ricerchiamo tosto le sue origini; ed allora riconoscendo che un tal dubbio non nascerebbe d’altronde che dalla malvagità della vita, e dall’orribile brama di peccare senza freno, nel discoprire origini per lo meno così sospette, raffermiamoci mai sempre nel credere che la Confessione non è, non può essere opera degli uomini, ma che è veramente opera di Dio.

2. Prosegue il Santo Vangelo notando come a questa prima apparizione di Gesù a tutti gli Apostoli Tommaso, uno dei dodici, soprannominato Didimo, non si trovò con essi. Però gli altri discepoli gli dissero: Abbiam veduto il Signore. Ma egli rispose loro: Se non veggo nelle mani di lui la fessura dei chiodi, e non metto il mio dito nel luogo di essi, e non metto la mia mano nel suo costato, non credo. Così questo Apostolo si rifiutò di credere alla testimonianza di tutti gli altri Apostoli. E non pare inesplicabile questa sua incredulità? Tuttavia è assai più inesplicabile la incredulità di certi Cristiani e di certi giovani, i quali, col non voler credere alle verità della fede od anche solo col dubitarne, si rifiutano in realtà di credere non agli uomini, ma a Dio stesso. Ed in vero, poiché la nostra Religione è soprannaturale e divina, contiene perciò certe verità così sublimi e così misteriose, che nella vita presente non è dato all’uomo di comprenderne altro che una piccolissima parte. Il che tuttavia non ci dovrebbe meravigliare, poiché negli stessi oggetti materiali, che cadono sotto i nostri occhi, come le erbe, le piante, il fuoco, la struttura del corpo umano, scorgiamo molte cose di cui conosciamo bensì l’esistenza, ma delle quali non sappiamo darci ragione che in modo assai imperfetto. Onde se siamo costretti di ammettere segreti nelle cose materiali, che cadono sotto ai sensi, assai più dobbiamo ammetterli nelle cose spirituali. Con tutto ciò l’atto con cui l’uomo piega la sua volontà a credere, atto che chiamasi fede, è basato forse sopra un’autorità fallibile ed ingannatrice? Tutt’altro. Questa fede non è appoggiata sopra l’autorità degli uomini, che possono cadere in errore, ma sopra la parola di Dio, che è eterna, immutabile e che non può mai variare in cosa alcuna. Perciò a chiunque ci interrogasse del perché crediamo ai misteri di nostra santa Religione potremmo dare la risposta, che un bambino Cristiano diede ad un tiranno persecutore. S. Romano quando era condotto al martirio, vedendo la durezza del tiranno Asclepiade, volle provare di ammonirlo con un miracolo. Voltosi ad Asclepiade, gli disse: Se non credi a me, interroga quel bambino che tu vedi tra le braccia di sua madre, e dalla sua innocente bocca udrai confermato quanto ti ho predicato e ti predico intorno alla mia Religione. Il prefetto rimirò il bambino e persuaso che per l’età sua fosse incapace di articolare parola, dissegli per ischerzo: Sai tu dirmi chi sia il Cristo che i Cristiani adorano! Allora il bimbo snodò la lingua e alzando francamente la voce, forte gridò: Gesù Cristo, adorato dai Cristiani, è il vero Dio. – Chi ti disse questo? ripigliò Asclepiade. – L’altro replicò: Lo disse mia madre, la Chiesa. E chi lo disse a tua madre? ripigliò il prefetto meravigliato. – A mia madre lo disse Iddio. Ecco, alla nostra madre, la Chiesa, è Iddio stesso che ha rivelate le verità che la Chiesa ci propone a credere, sicché credendo alla Chiesa, noi crediamo a Dio stesso. Or bene, quale atto più grande, più nobile, e più doveroso ad un tempo noi possiamo fare, che credere a Dio? Eppure vi hanno tra gli uomini, di coloro i quali nel credere, che essi fanno, a tante cose, stanno a quel che ne dicono gli uomini e si fidano interamente della loro testimonianza, e poi non vogliono credere alle verità che Iddio medesimo ci ha insegnato e non si fidano della più splendida testimonianza che Egli stesso ha reso alle verità di ciò che si è degnato di insegnarci, e gridano: I dogmi della fede Cattolica, che vanno predicando il Papa, i Vescovi e i preti sono tutte storie, tutte favole. E perché? Perché appunto nelle verità, che loro vengono proposte a credere dalla fede cattolica, vi hanno cose che non possono vedere coi loro occhi materiali e neppure con quelli della loro ragione. E non è questo il massimo dell’orgoglio? Dal momento che le verità a cui bisogna credere sono state da Dio stesso rivelate, perché rifiutarsi di credere ed insultare ancora a coloro che credono? Ah! essi dicono che non vogliono per tal modo fare il sacrificio della loro dignità e della loro libertà! Graziosi davvero! Costoro, i quali per non avvilirsi e per non perdere la libertà non vogliono credere a Dio, si abbassano poi e si rendono miserabili schiavi di un uomo, di un romanzo e di un giornale. Perché, domandate pure a tutti cotesti liberi pensatori come la pensano, ed essi, se vogliono rispondervi il vero, vi dovranno confessare che la pensano come il loro maestro, come il romanzo, come il giornale che leggono: a questi essi credono ciecamente senza esibizione di prova e ci credono solo perché il maestro, il romanzo ed il giornale non sono di spirito Cristiano Cattolico. E si vantano liberi pensatori? Né liberi, né pensatori. Essi, come bambini contraddetti, battono i piedi per terra gridando: siamo liberi, siamo liberi: Ah! Ah! è il colmo della schiavitù. Del resto sapete che cosa vuol propriamente dire quel: « Non vogliamo credere se non quello che vediamo?» Vuol dire precisamente: «Non vogliamo fare quello che le verità, alle quali dovremmo credere, ci impongono di fare ». Le verità cattoliche non sono soltanto verità speculative, ma sono essenzialmente pratiche; non si impongono solamente all’intelligenza, ma eziandio alla volontà, affinché si applichi al bene e detesti il male. Ed è ciò appunto che non vogliono fare quei che si professano liberi pensatori. Il famoso calvinista Teodoro Beza dal dolcissimo S. Francesco di Sales convinto della verità ed invitato ad abbracciarla, rispondeva: Non posso. Ma il suo non posso non era altro che un non voglio abbandonare la donna, con la quale era malamente unito. Credetemi: Se questa innocentissima verità « due più due fanno quattro » domani avesse il potere di colpire le passioni dell’uomo, l’orgoglio, l’impudicizia, l’amor del danaro ed obbligare l’uomo a vivere dabbene, io vi assicuro che tutti costoro, che si rifiutano di credere alle verità cattoliche, salterebbero su a gridare: Come? due più due fanno quattro? È impossibile! È un assurdo! Sono i preti, che l’hanno inventato. È una nuova tirannide. Ma ritorniamo al Santo Vangelo.

3. Otto giorni dopo (la sovraddetta apparizione), di nuovo erano i discepoli in casa, e Tommaso con essi. Viene Gesù, essendo chiuse le porte, e si pone in mezzo, e disse loro: Pace a voi. Quindi dice a Tommaso : Metti qua il dito, e osserva le mani mie, e accosta la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma fedele. Tommaso rispose, e dissegli: Signor mio, e Dio mio. E Gesù soggiunse: Perché hai veduto, o Tommaso, hai creduto: beati coloro, che non hanno veduto, e hanno creduto. Così racconta il santo Vangelo avere operato Gesù con Tommaso incredulo. Conchiude poi dicendo: Vi sono anche molti altri segni fatti da Gesù in presenza de1 suoi discepoli, che non sono registrati in questo libro. Questi poi sono stati registrati, affinché crediate che Gesù è il Cristo Figliuolo di Dio, e affinché credendo otteniate la vita nel nome di Lui. Dal che oh! quanto chiaramente si rileva l’importanza della fede! La si rileva anzi tutto dalla condotta di Gesù Cristo con S.Tommaso. Imperciocché, come nota S. Gregorio, non fu a caso l’incredulità di questo Apostolo. Iddio nella sua provvidenza e bontà la permise, affinché dubitando egli, mentre nel suo Maestro toccava le ferite della carne, sanasse in noi le ferite della incredulità nostra. Sicché a noi riuscì di maggior vantaggio l’incredulità di Tommaso, che la fede degli altri Apostoli credenti; perché mentre quegli fu indotto a credere col toccare, la mente nostra, lasciato ogni dubbio, vien rassodata nella fede. La si rileva in secondo luogo dalle parole dette da Gesù Cristo allo stesso S. Tommaso: Perché hai veduto, hai creduto; ma beati coloro, che non hanno veduto ed hanno creduto. E finalmente dalla conclusione, che qui fa l’Evangelista S. Giovanni: Questi miracoli sono qui registrati, perché crediate. Riconoscendo adunque l’importanza di questa virtù, raffermiamoci mai sempre in essa. Sì, crediamo, e crediamo fermamente. Non ammettiamo mai nella nostra mente esitazioni, incertezze, dubbi di sorta. E se talvolta ne siamo all’improvviso sorpresi, cacciamoli tosto, disprezziamoli, non diamo loro importanza, dicendo tosto a noi medesimi: Come vorresti dubitare di ciò che hanno creduto tanti dotti, tanti scienziati, tanti Santi? di ciò che tutti i Dottori e tanti Padri della Chiesa hanno minutamente studiato, esaminato, discusso e trovato vero? di ciò che diciotto milioni di martiri hanno confessato col loro sangue, versato fra i più atroci tormenti? Che tutti costoro si siano ingannati? Che tu, tu la pensi giusta? Ah! Ah! Follia! Signore, credo, fermamente credo, a tutte le verità che vi siete degnato di rivelarci e che per mezzo della Santa Chiesa ci insegnate: Credo, Domine; adiuva incredulitatem meam (Marc. IX, 23). Inoltre crediamo interamente, vale a dire senza escludere alcuna delle verità che la Chiesa ci propone a credere. Tutte le verità della fede sono da Dio rivelate; quindi chi nega di credere un solo articolo di fede nega pur sempre di credere a Dio medesimo. Inoltre gli articoli di fede sono tutti legati insieme e formano una catena che lega la ragione con la rivelazione, e vengono a costituire una scala, per cui l’uomo monta fino a Dio. Ma rotto un anello della catena o spezzato un gradino di questa scala è rotta ogni relazione con Dio. Che varrebbe adunque dire di credere alla Chiesa, al Papa che è il Vicario di Gesù Cristo, se poi se ne disprezzassero gli insegnamenti? Parliamo chiaro: o tutti gli articoli di nostra fede o nessuno; perché il negarne un solo è negarli tutti. Pertanto, o miei cari, abborrite dalla compagnia di coloro, i quali, sebbene si professino Cristiani, tuttavia vanno dicendo di non poter credere o al Purgatorio, o alla grandezza e santità di Maria Vergine, od all’infallibilità del Sommo Pontefice. Tutti costoro non sono veri Cristiani, ma purtroppo eretici e scismatici, perché professano non già la fede di Gesù Cristo, ma l’errore, e sono perciò membri staccati dalla vera Chiesa. Finalmente la nostra fede sia congiunta con le opere. Gesù Cristo lo ha detto chiaro: Non tutti quelli che dicono: « Signore, Signore, entreranno nel regno dei cieli, ma tutti quelli che faranno la volontà del mio divin Padre », vale a dire tutti coloro che accompagneranno la loro fede in Dio con le buone opere nell’osservanza della sua santa legge. E S. Giacomo ha soggiunto che la fede senza delle opere è morta. Quindi S. Gregorio conchiudendo il suo commento al fatto dell’odierno Vangelo, ben giustamente dice: Oh quanto ci rallegra la sentenza di Gesù Cristo: Beati qui non viderunt et crediderunt: beati quelli che non videro e pur credettero; perciocché in questa sentenza veniamo indicati noi, che, pur non vedendo con gli occhi della nostra carne, crediamo con quelli della nostra mente. Ma veniamo indicati noi, se alla fede nostra facciamo tener dietro le opere. Perciocché colui veramente crede, che esercita con le opere quel che crede. Facciamo adunque, o carissimi, di meritarci con esattezza l’elogio che Gesù Cristo, risorto, ha fatto oggi dei veri credenti, col credere fermamente, interamente ed operosamente, ed allora un giorno, oltre all’elogio della fede nostra, avremo anche il premio.

Credo

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Matt XXVIII:2; XXVIII:5-6. Angelus Dómini descéndit de coelo, et dixit muliéribus: Quem quaeritis, surréxit, sicut dixit, allelúja. [Un Angelo del Signore discese dal cielo e disse alle donne: Quegli che voi cercate è risuscitato come aveva detto, alleluia.]

Secreta

Suscipe múnera, Dómine, quaesumus, exsultántis Ecclésiæ: et, cui causam tanti gáudii præstitísti, perpétuæ fructum concéde lætítiæ.

[Signore, ricevi i doni della Chiesa esultante; e, a chi hai dato causa di tanta gioia, concedi il frutto di eterna letizia.]

Communio

[Joannes XX: 27] Mitte manum tuam, et cognósce loca clavórum, allelúja: et noli esse incrédulus, sed fidélis, allelúja, allelúja.

[Metti la tua mano, e riconosci il posto dei chiodi, alleluia; e non essere incredulo, ma fedele, alleluia, alleluia.]

Postcommunio

Orémus.

 Quæsumus, Dómine, Deus noster: ut sacrosáncta mystéria, quæ pro reparatiónis nostræ munímine contulísti; et præsens nobis remédium esse fácias et futúrum. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

LO SCUDO DELLA FEDE (58)

LO SCUDO DELLA FEDE (58)

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

CAPITOLO IX.

IL PROTESTANTISMO SI CONVINCE FALSO DA CIÒ CHE NON HA SANTITÀ NÉ MIRACOLI.

Nella Chiesa vera di Gesù Cristo vi deve essere la Santità. Ora questa è solamente tra i Cattolici, non tra i Protestanti: dunque la vera Chiesa è solo con noi. Noi non vogliamo dire con ciò, che tutti i Cattolici siano Santi, perché anzi Gesù Cristo ci avvertì che vi sarebbero stati dei peccatori e perciò lasciò stabiliti i Santi Sacramenti per la loro conversione e giustificazione: vogliamo dire solamente che la vera Religione ha da essere tanto buona, tanto santa, tanto pura che chiunque l’osservi com’è prescritta, possa diventare santo; e che però molti divengano veramente tali con l’aiuto divino e che mostrino anche coi fatti e perfino coi miracoli la loro Santità. Ora tutto questo è pienamente verificato nella Chiesa Cattolica. Dite: se uno osservasse veramente tutto quello che la S. Chiesa ci prescrive, sarebbe egli santo o no? Se osservasse tutti i comandamenti divini, tatti i precetti, tutte le leggi che essa ci presenta, sesi valesse di tutti i mezzi che offre nella preghiera e nei sacramenti, sarebbe egli Santo? Ci presenta mai nessuna cosa che sia cattiva? Dio buono! Neppure l’ombra. Tutto al contrario ci ha sempre allontanati dal male coi consigli, con gli esempi, con le minacce, con le promesse, e perfino coi castighi materni: ci ha sempre inculcate tutte le virtù, la pazienza, la mansuetudine, l’umiltà, la carità, la temperanza, la purezza, la fuga dai pericoli come sapete. Oh quanto dunque è pura tutta la legge Cattolica; Ed infatti con tutti questi Divini insegnamenti, quanti gran Santi non ha formati! – Così le volessero tutti dare retta. Come perverrebbero alla più eroica Santità! Intanto però chi non ammira il coraggio che essa seppe ispirare a tante persone le quali erano deboli come noi, eppure nella Santa Chiesa seppero praticare le virtù più sublimi fino a diventare gran Santi? In ogni secolo sono tanti e così ammirandi che il raccoglierne solo i nomi è opera di molti volumi. Questi seppero praticare la penitenza più rigida in mezzo alla più rara innocenza sin nelle Corti. come gli Enrichi, i Ferdinandi, i Ludovichi, le Cunegonde, le Clotildi; quelli seppero perdonare ai loro nemici e beneficarli in ogni maniera, come S. Giovan Gualberto. S. Ignazio, S. Francesco di Sales, S. Alfonso di Liguori. Altri si posero con un coraggio al tutto celeste a divorare fatiche sterminate per benefizio del prossimo, come S. Antonio di Padova, S. Bernardino da Siena, S. Francesco Saverio, S. Francesco Regis, S. Vincenzo de’ Paoli. Altri vissero nell’umana carne puri come gli Angeli del cielo, come S. LuigiGonzaga, S. Stanislao, S. Teresa, S. Caterina, sino alla B. Marianna di Gesù beatificata ai dì nostri. Io non finirei mai se volessi porre sott’occhio tutte le belle ed eroiche virtù che risplendettero in tuttii tempi sino alla nostra età nella Santa Chiesa: bastivi il sapere che sono uomini e donne di tutte le età, di tutti gli stati, di tutti i paesi, ed in tanto numero, che non si regge a formarne i processi. Ma più: anche il dono dei miracoli hanno avuto molti di loro, e questo èun privilegio innegabile e ed una conferma della nostra fede. Gesù Cristo ha promesso che quelli che avessero avuto fede in Lui, avrebbero fatti prodigi e miracoli strepitosi, come aveva fatto Egli stesso, ed anche maggiori (Giov. XIV, 12). Ora domandate un poco a tutti i Protestanti, da trecento anni che sono al mondo, se mai uno di loro ha fatto il minimo miracolo, se ha, non dico risuscitato un morto, ma risanata una piccola febbre? Tutti sonocostretti a dirvi di no. Ma la S. Chiesa Cattolica ne ha avuti una bella serie e costantissima anche in questi tre secoli. I Protestanti che non possono vantarne, si ostinano a negare che noi abbiamo avuti dei veri miracoli: ma questa loro ostinazione valse solamente a metterli in maggiore splendore. Il solo S. Francesco Saverio ne ha fatti tanti e così solenni e così illustri, alla presenza di tante persone che non si sono potuti negare neppure dagli Eretici Olandesi. S. Filippo Neri ne riempì tutta la città di Roma. S. Luigi Gonzaga ne fece una moltitudine in tutta Italia. S. Isidoro buon contadino spagnolo, ne conta gran numero nelle Spagne. –  Molti di questi miracoli furono esaminati con processi diligentissimi, autenticati da testimoni d’ogni fatta, verificati dagli stessi Protestanti, e tanto sicuri che non si possono mettere in dubbio da niuno che abbia fiore d’intendimento. Ora perché fuori della Religione Cattolica non si trovano più  miracoli? Perché almeno qualcuna delle sette Protestanti non ne vanta? Se ne trovasse almeno uno in trecento anni! Eppure tant’è: noi soli abbiamo la verità. Non è questa una bella prova in favore della Cattolica Chiesa? – Eppure vi è molto da aggiungere, perché mentre la Chiesa Cattolica è santa nelle sue dottrine e nella sua legge, il Protestantismo è iniquo nell’una e nell’altra. Voi che sentite solamente quei tristi che vi si nascondono sotto la pelle di pastore e che fingono di parlarvi di Gesù e di carità fraterna e di fede, non vene accorgete facilmente: ma se sapeste le orribili dottrine che hanno ingegnate al mondo, ne avreste orrore. Io ve ne accennerò qualcuna, lasciando le più astruse,  perché sebbene sianole più inique, pure voi non le intendereste neppure. Insegnano questi ribaldi che Dio comanda agli nomini delle cose impossibili, e che non dà loro la grazia per eseguirle, e che poi li manda all’inferno perché non le hanno eseguite; il che è un’orrenda bestemmia perché fa Iddio crudele, ingiusto e tiranno; laddove Egli è Padre di misericordia e di bontà, che non comanda se non quello che è possibile a farsi col suo divino aiuto, che non ci lascia mai mancare. Insegnano che per salvarsi basta aver la fede e che non sono necessarie le buone opere, con che distruggono tutti i meriti degli uomini ed aprono la strada a commettere ogni iniquità. Giungono fino a dire (… turatevi pure gli orecchi a sentire queste bestemmie) che Dio è autore del male, che è Dio che ci dà la spinta a commettere il peccato: il che è lo stesso che trattare Dio, come se fosse uno scellerato. Insegnano ancora che è impossibile osservare i Divini comandamenti, il che è lo stesso che autenticare tutte le iniquità: che non si debbono manifestare i propri peccati al Confessore, il che toglie ogni freno al vizio. – Riprendono i voti che si fanno a Dio. di povertà, castità ed obbedienza, ed insegnano che non si hanno da osservare e così fanno gli uomini sacrileghi. Pretendono che l’uomo non meriti nulla con le sue buone opere, e così li rendono scioperati e distruggono la virtù: non vogliono saper nulla di digiuni, di mortificazione, di penitenza, e così fomentano tutti i vizi della carne ed accrescono le tentazioni. Disprezzano il culto e l’invocazione dei Santi, e così tolgono a loro l’onore, a noi il patrocinio. Non vogliono che si preghi pei morti, e così negano la Comunione dei Santi e ci rendono crudeli persino contro i poveri defunti. Vogliono che tutti prendano moglie per obbligo, e così vengono ad annientare l’esempio di Gesù  Cristo e di tanti Santi che per virtù sono stati celibi. Queste sono solo alcune delle orribili empietà che insegnano i maestri di questa bella religione che vogliono farvi abbracciare: e non basta questo solo a mostrarvi la sua falsità ed a mettervene orrore? Non vi aspettate poi da loro la Santità, non vi aspettate né Apostoli, né Martiri, né Confessori, né Vergini, né altri Santi, perché con queste orribili dottrine non è possibile la Santità. Mi direte che ciò non ostante vi sono dei Protestanti che non sono così cattivi, e che anzi danno qualche buon esempio, che fanno limosine, che vivono costumatamente, e che però non possono avere tutte quelle ree massime. Sì miei cari, questo è vero, ma state bene attenti alla risposta che io vi darò. Vi sonotra i Protestanti di quelli che avendo avuta una buona educazione ed essendo dotati di buon senso e di naturale onestà, vivono onestamente e fanno anche qualche buona opera: ma fanno ciò, perché rinunziano in molte cose alla loro Religione per vivere secondo la nostra. Se essi obbedissero ciecamente ai loro maestri sarebbero tanti scellerati, ed invece per bontà di cuore, per rettitudine naturale fanno quel che prescrive la Religione Cattolica, per questo se ne trovano anche tra loro degli esemplari. In una parola questa è la differenza in fatto di santità: noi quando osserviamo perfettamente la nostra legge siamo Santi: essi se la osservassero perfettamente sarebbero scellerati, e solo perché non osservano la loro, ma si accostano alla nostra diventano buoni. Il che mostra che noi possediamo fortunatamente il gran dono della Santità, il quale compete unicamente alla Religione di Gesù Cristo. – Non vi parlo poi della mancanza totale che hanno i Protestanti dei miracoli, perché essi stessi sono costretti a concedere che ne sono privi: il che vuol dire che mancano della più bella prova che Gesù Cristo diede al mondo, per conoscere quelli che gli appartengono. Non vi parlo neppure della bella impresa che fece Lutero, quando avendo posto un uomo in una bara perché sorgesse poi a sua richiesta, con grande sua confusione fu trovatoveramente morto quello che per denaro era concorso a quella sacrilega finzione. Piuttosto da tutto ciò torneremo a confermarci sempre più nell’amore della Santa Fede, e ci terremo sempre più stretti alla Chiesa Cattolica che sola ha il privilegio della vera Santità e dei miracoli.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (Agg. 2)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

AGGIUNTA AL COMBATTIMENTO SPIRITUALE. (2)

Che abbia Iddio fatto per l’uomo, e con che animo, e che sarebbe per fargli, se fosse bisogno.

CAP. XXI.

Quello che Iddio abbia fatto all’uomo, e per l’uomo, si può vedere medicando la Creazione, e la Redenzione. L’animo poi, con cui l’abbia fatto, ed operato la sua salute, supera l’infinito. – Infinito è stato il prezzo del riscatto, ma l’animo è stato più perché avrebbe voluto patire più e più volte morire, se fosse strato bisogno. Se dunque al riscatto tu devi tutta te stessa infinite volte, in qual modo resti debitrice all’anima di Dio verso di te, che avanza e supera esso riscatto.

Che faccia Iddio ogni giorno per l’uomo.

CAP. XXII.

Non giorno, non è momento che  l’uomo non riceva da Dio nuovi benefizi, perché ogni giorno e momento Iddio lo crea, conservandolo nell’essere. Ogni momento Iddio lo serve con le sue creature col Cielo, con l’aria, con la terra, con il mare, e con quanto è in loro. Ogni giorno gli dà la sua grazia, chiamandolo dal male al bene, guardandolo che non pecchi, e peccando lo aiuta perché più non pecchi. L’aspetta, lo chiama a penitenza, e venendo a Lui più presto gli perdona, che non è Egli presto a volere il perdono. Ogni giorno gli manda il suo Figliuolo, con tutte le ricchezze de’ misteri della Croce, e glielo tiene presente nel Sacramento dell’Altare.

Questa bontà mostri Iddio aspettando e tollerando il peccatore.

CAP. XXIII.

Perché tu conosca quanto di bontà mostri Iddio, sostenendo il peccatore, considera prima che amando Iddio la virtù indicibilmente, cosi all’incontro odia infinitamente. Che bontà dunque mostra Iddio sostenendo il peccatore, che innanzi agli occhi della sua purità e Maestà commette molte scelleratezze, non una, due, o tre volte , ma più, e più? – Ben mi avvedo (può dire il peccatore) Signor mio, che quando io peccavo, tu mi dicevi al cuore: Staremo a vedere, chi di noi due la vincerà, Tu ad offendermi, ed Io a perdonarti. Questo punto ben meditato, credo accenderà, con la grazia di Dio, il cuore del peccatore, perché presto si converta a Dio. Che se non lo farà, ha da temere molto gli alti ed inscrutabili giudizi di Dio, dai quali sogliono uscire colpi di vendetta molto presti, tremendi, e senz’alcun rimedio.

Che sia per fare Iddio nell’altra vita, non solo a chi l’ha sempre servito, ma al peccatore convertito.

CAP. XXIV

Sono tali, e tanti i favori, e le felicità, che si ricevono da Dio nella celeste Patria, che qui non si possono immaginare, né si sanno desiderare chiaramente, e compiutamente. Chi arriverà mai ad intender bene che cosa sia sedere l’uomo alla mensa di Dio, ministrandoli Egli, e cibandolo della sua beatitudine? Chi  s’immaginerà che cosa sia l’entrata dell’anime beate nel gaudio del Signor suo? E chi comprenderà mai l’amore e la stima, che mostra Iddio ai suoi Cittadini di cui parla S. Tommaso nell’Op. 63. Deus omnìpotens singulis Angelis sanctisque animabus in tantum se subiicit, quasi sit servus emptisius singulorum, quilibet vero ipsorum sit Deus suus. – O Signore, o Signore, chi va spesso profondamente considerando le tue opere verso le creature, ti ritrova così inebriato d’amore, che pare che la tua beatitudine consista in amarle, in far loro bene, ed in cibarle di te stesso. O Signore, dacci questa suddetta considerazione, in tal modo che poi ti amiamo, ed amandoti, diventiamo te stesso per unione amorosa. O cuore umano, dove corri? Appresso l’ombra? Appresso il vento? Appresso il niente? Lasciando quello che è ogni cosa? L’Onnipotenza? La somma Sapienza? L’ineffabile Bontà? L’increata Bellezza? Il sommo Bene, ed il Pelago infinito di ogni perfezione? Egli ti corre appresso, chiamandoti con tanti cari gridi e nuovi benefizi, non che con gli antichi solamente. Sai, donde nasce un tanto tuo male? Perché non ori! Perché non mediti! Onde stando senza luce, e senza calore, non è meraviglia che non ti muovi dalle opere delle tenebre. – Entra, entra ormai, o anima, o Religioso tiepido, nella scuola della suddetta meditazione ed orazione, che in essa tu imparerai per prova, che il vero studio del Cristiano e del Religioso, è studiare di negare la propria volontà, perché faccia quella di Dio, odiare se stesso, perché ami Dio. E che tutti gli altri studi, senza questo (siano pur di tutte le scienze) non sono altro, che legna di presunzione e di superbia, e che quanto più illuminano l’intelletto, più accecano la volontà a rovina delle proprie anime, di chi l’acquista.

Del quinto soccorso della volontà umana.

CAP. XXV

L’Oblio di noi stessi è un soccorso necessario alla volontà nostra, perché senza quello non verrà mai il soccorso dell’Amore divino, Autore d’ogni bene. Il modo di conseguirlo è che prima si domandi a Dio, poi, che si vadano meditando i danni, che ha fatto, e fa tuttavia l’amor proprio all’uomo. Non è  stato danno, né in cielo né in terra, che non sia nato dall’amor proprio. Questo amor proprio, e di noi stessi, è di tanta malignità, che se l’entrata sua in cielo fosse possibile, di subito da celeste Gerusalemme, diventerebbe una Babilonia. Or si consideri, che fa questa dentro un petto umano, ed in questa vita presente. Togli l’amor proprio dal mondo, che di subito l’Inferno si serra. E chi sarà quegli tanto empio contro se stesso, che meditando l’essere, la qualità, e gli effetti dell’amor proprio, non se gli sdegni contro, e non l’odi?

In qual modo si possa conoscere l’amor proprio.

CAP. XXVI

Perché tu conosca, quanto sia  in te largo e s’estenda il regno dell’amor proprio, ricorri spesso a vedere con quale passioni dell’anima sia più spesso occupata la volontà tua, perché non la ritroverai sola. E ritrovandola che ama o desidera, o che sia allegra, o mesta; considera allora bene, se la cosa amata, o desiderata, sia delle virtù e secondo i precetti di Dio, e l’allegrezza parimente, o la tristezza, se sia di quelle cose, di cui Dio vuole che ci rallegriamo, o attristiamo; ovvero il tutto nasca dal Mondo e dagli attacchi delle creature, perché sta negoziando con le creature, non per necessità, e quanto ricerca il bisogno, e come vuole Iddio; e s’è cosi, è chiaro che l’amor proprio regna nella tua volontà, e muove il tutto. Ma se i negozi ed occupazioni della volontà sono intorno alle virtù e nelle cose che vuole Iddio, è più da considerarsi, s’ella a quei negozi è mossa dalla volontà di Dio, oppure da qualche sua compiacenza e capriccio, perché spesso accade, che alcuno mosso da un so che di capriccio e compiacenza, si dia a diverse opere buone, come alle orazioni e digiuni, alle comunioni e ad altre opere sante. La prova di questo è in due modi. L’uno è se la volontà tua non si da nelle occasioni a tutte le opere che sono buone indifferentemente. E l’altro è, se sopravvenendo gli impedimenti, si lamenta, inquieta e turba; ovvero, succedendo a voglia sua, si compiace di se stessa, e si diletta. Che se è mossa da Dio, oltre il suddetto, s’ha da considerare, dove ed a che fine indirizza essa più le opere sue. Perché se il fine è il puro compiacimento di Dio, va bene il negozio, ma non però in tal modo che l’uomo vi si possa assicurare, tanto è sottile, ed acceso nelle opere buone e negli atti di virtù, l’amore di noi stessi. Quando appare manifesta questa crudelissima bestia dell’amor proprio, devesi con ogni odio perseguitare a morte, e nelle cose piccole, non che nelle grandi solamente. Dell’occulto si deve sempre star sospetto. Onde umiliata, datti la mano nel petto, dopo qualunque opera buona, pregando Iddio che ti perdoni e guardi, dall’amore di te stessa. Sarà dunque bene, che a buon ora la mattina, rivolta tu al Signore, ti protesti, che il tuo pensiero è di non offenderlo mai, e particolarmente in quel giorno, ma di far sempre in ogni cosa la sua divina volontà, e questo per piacergli. Del che ne pregherai spesso Iddio, che ti soccorra sempre e tenga la mano sul capo, acciocché tu conosca, e faccia quanto a Lui piace, e come a Lui piace.

Del sesto soccorso.

CAP. XXVII

L’ascoltare la Messa, è il sesto soccorso della volontà dell’uomo, la Comunione ancora e la Confessione. Perché essendo la grazia di Dio necessario soccorso, e principale della nostra volontà, acciò si guardi dal  male, e faccia il bene, ne segue che tutto quello in cui si acquista aumento di grazia, sia soccorso dalla volontà. Perché tu adunque ascoltando le Messe acquisti aumento di grazia, l’ascolterai nel seguente modo. Nella prima parte (che in tre si divide la Messa) che si estende dall’introito infino all’Offertorio, studierai di accenderti di un desiderio grande, che siccome il Figliuolo di Dio dal Cielo venne e nacque al Mondo, perché in questa nostra terra si accendesse il fuoco del suo amore, così si degni di venire e nascere con la sua virtù nell’intimo del tuo cuore, ut ardeat, non pensando ad altro, che a piacergli in ogni occasione, mentre vivi e sempre. Quando poi dal Sacerdote si dicono le orazioni, col desiderio acceso, domanda anco tu, anima bisognoso, le stesse grazie. E cominciandosi a dire l’Epistola e l’Evangelo, domanda con la mente a Dio intelletto e virtù, perché intenda il senso loro, e l’osservi in tutto. – Nella seconda parte, la quale incomincia dall’Offertorio fino alla Comunione, toltati tutta da ogni attacco e pensiero delle creature, e di te stessa, offriti tutta a Dio, e ad ogni suo volere. – Ed alzandosi l’Ostia, e il calice consacrato, adoraci il vero Corpo, e Sangue di Cristo, con tutta la Divinità. Contemplando sotto quegli accidenti di pane, e di vino ascoso, rendigli amorose grazie, che ogni giorno si degni venire a noi con i frutti preziosi dell’albero della Croce sua, e con la stessa offerta, per gli stessi fini, ch’Egli fece di sé al celeste Padre, offrilo tu ancora all’istesso Padre. Poi comunicandosi sacramentalmente il Sacerdote, comunicati spiritualmente, aprendogli il cuore, con chiuderlo a tutte le creature, affine che esso Signore vi accenda il fuoco del suo amore. Nella terza ed ultima parte, insieme col Sacerdote, egli con la lingua, e tu con la mente, domanderai quanto nelle orazioni dopo la Comunione si domanda.

Della Comunione Sacramentale.

CAP. XXVIII

Poiché tu comunicandoti, riceva aumento grande di grazia, ci bisognano ottime disposizioni, le quali non potendole noi avere da noi, tali quali si convengono, si dirà con grande affetto la seguente Orazione. Conscientia nostras, quæsumus Domine, visitando purifica, ut veniens JESUS Christus Filius tuus, Dominus noster, cum omnibus Sanctis, paratam sibi in nobis inveniat mansionem. Qui tecum, etc. Ma per non mancare noi dalla nostra parte di far qualche cosa insieme con l’aiuto divino, la preparazione tua farà il considerare prima: a che fine Cristo istituì il Ss. Sacramento dell’Altare. E ritrovando, che fu, perché ci ricordassimo dell’amore che ci mostrò nei misteri della Croce, considera di più: A che fine vuole questa memoria. Ed essendo, a fine, perchè noi l’amassimo, ed ubbidissimo, ottima preparazione sarà la nostra, un desiderio e voglia accesa di amarlo, ed ubbidirlo, dolendoci che per lo passato non l’abbiamo amato, ma offeso. E con questo desiderio, e voglia accesa di amarlo, ci prepariamo infino al tempo della Comunione. In quello poi che sei per comunicarti, avvivando la fede, che sotto quegli accidenti di pane consacrato, sia il vero Agnello di Dio, che toglie i peccati, adoralo profondamente, e pregalo, che tolga dal tuo cuore ogni peccato occulto, con tutti gli altri, ricevilo con la speranza, che ti abbia a dare il suo amore. Ricevuto che l’avrai, ed introdotto nel tuo cuore, domandagli più e più volte il suo amore, ed ogni altro bisogno per piacergli. Dopo l’offrirai al Celeste Padre, per sacrificio di lode della sua immensa carità, che ci ha mostrata in questo beneficio, ed in tutti gli altri della Redenzione, e perchè ti dia il suo amore e per li bisogni dei  vivi, e dei morti.

Della Confessione Sacramentale.

CAP. XXIX

La Confessione, per esser fatta come si deve, ha bisogno di più cose. prima d’una buona ricercata di coscienza intorno ai precetti di Dio, ed allo stato tuo. E ritrovati i tuoi peccati, benché piccoli, piangili amaramente, considerando l’offesa della Maestà di Dio  e l’ingratitudine contro la sua bontà e carità, usata dall’uomo: onde vituperandoti, dirai contro te queste belle parole: Haccine reddis Domino, stulte, et insipiens? Nunquid non ipse est Pater tuus, qui possedit te, et fecit, et creavìt te? – E ripigliando più volte una voglia accesa, che non fosse stato offeso Dio, di’: Oh, che non fosse stato offeso il mio Creatore, il mio Padre Celeste, il mio Redentore, ed avessi io patito ogni altro male. – Poi rivolta à Dio, con erubescenza e fede, che ti abbia a perdonare, digli di tutto cuore: Pater, peccavi in cœlum, et coram te; jam non sum dìgnus vocari filius tuus; fac me sicut unum ex mercenariìs tuis. – E ripigliando di nuovo il dolore dell’offesa divina, con proponimento di voler piuttosto sopportare qualunque pena, che volontariamente offender Dio; confessa i tuoi peccati al Confessore con erubescenza e dolore, appunto come li hai fatti, senza scusarti, o accusar altri. Dopo la Confessione, rendi grazie a Dio, che contuttoché tanto e tante volte è offeso, non resta però, che Egli non sia più presto al perdonare, che il peccatore a ricevere il perdono. Dal che pigliando occasione di più dolerti d’aver offeso un sì benigno Padre, con più piena volontà proponi di non volere più offenderlo con l’aiuto suo, e di MARIA Vergine, e dell’Angelo Custode, e d’altro particolare tuo devoto Santo e Protettore.

Come s’abbia a vincere la passione disonesta.

CAP. XXX.

Tutte le altre passioni si vincono affrontandole, e combattendole, benché si ricevano delle ferite, e col richiamarle ancor a battaglia, insino a tanto, che si superino in ogni voglia loro, e grande e piccola. Ma questa passione disonesta non solo non bisogna eccitarla, ma allontanarla da tutte quelle cose che la potessero eccitare. Vincesi dunque la tentazione della carne, e si mortifica la passione disonesta, fuggendo, e non combattendo da fronte a fronte. Chi dunque più presto fugge, e più lontano, più sicuramente vince.  – I buoni abiti, la volontà sincera, le prove passate e le vittorie, le parentele, e gli oggetti di poca e brutta apparenza, che non minacciano pericolo, e qualsivoglia altra cosa, che paia promessa di sicurtà, non sono buoni argomenti, perchè tu non debba fuggire.  Fuggite, fuggi, se non vuoi esser presa, anima diletta. Che se vi sono delle persone, che praticando con persone pericolosissime tutta la vita loro, non siano cadute, questo non tocca a te, ma ai giudizi di Dio: oltre che, ove alle volte non si vedono le cadute, ivi si sta più per terra. Fuggi tu, ed ubbidisci agli  avvisi, ed esempi, che Iddio ti dà nella Scrittura, e nella vita di tanti gran Santi, ed ogni giorno in questo, ed in quello. Fuggi, fuggi, lenza volgerti indietro a vedere, o pensare da che oggetto tu sii fuggita, che anche in questo è il pericolo, che non ritorni addietro. E bisognando praticare, sia corta e presta la tua pratica, ed abbia piuttosto del rustico il trattare, che del gentile, che anche qui sta il rischio, la fiamma ed il fuoco. – Qui va bene quell’avviso: Ante languorem adhibe medicinam. Non aspettare, che t’infermi, ma fuggi a buon’ora, che quella è la medicina di salute. E venendoti per disgrazia l’infermità, tutta la salute sta che nell’istesso momento, che si sente: Tu teneas, et allidas parvulos tuos ad petram; correndo al Confessore, senza nascondergli un peccatuccio veniale di questa passione, perché questo nascosto, germoglia più, e si fa grande.

Da tante cose s’ha da fuggire, perché non si cada nel vizio disonesto.

CAP. XXXI

La fuga, perché non si diano le ali al ischio della passione dell’amore disonesto, ha da essere da molte cose. La prima, e principale è delle persone, che minacciano evidente pericolo. La seconda, anco dalle altre, quando si può. La terza, dalle visite, dalle ambasciate, dai presenti, ed amicizie, benché larghe, perché le cose larghe, si possono fare strette più facilmente che non le strette larghe. La quarta dai ragionamenti dì tal passione, dalle musiche e canzoni, e libri di poco buoni costumi. La quinta fuga, da pochi conosciuta ed avvertita, e meno praticata, la fuga dal diletto universale delle creature, come di vestimenti, di varie cose, che si tengono nelle camere solo per diletto, di cibi ed altre cose, i quali diletti, sebbene il più delle volte sono leciti, tuttavia avvezzano il cuore dell’uomo a dilettarsi, e lo tengono avido di diletto. Onde offrendoglisi poi il disonesto (che di natura sua è presto a ferire, ed a penetrare le midolla delle ossa), difficilmente esso cuore trova la via di mortificarsi nei diletti, non avendola mai altre volte praticata. Onde all’incontro i cuori avvezzi a fuggire dai diletti leciti, accadendo che se gli offrano degli illeciti e disonesti, ne fuggono dal nome solo, non che da essi, con facilità grande.

Che cosa s’abbia a fare, quando in questo vizio disonesto s’è caduto.

CAP. XXXII

Accadendo, che per disgrazia o talora per malizia tu sia caduta in questo vizio di carne, il rimedio è, perché tu non aggiunga peccato a peccato, che corra presto con ogni velocità, senz’altro esame di coscienza alla Confessione, ove lasciare tutte le prudenze umane, tu dica a bocca piena, e manifesti tutta la tua infermità, pigliando qualunque medicina e consiglio ti vien dato, sia pur amaro e duro, quanto si voglia. Non indugiare, siano pur cento e mille ragioni dell’indugio, perché se tu indugi, tu ricadi, dal cui ricadimento nascono poi altri indugi, di maniera, che da indugi, ricadimenti, e dai ricadimenti, nuovi indugi procedendo, verrai a passare gli anni, innanzi, che ti confessi, e che ti levi dal peccato. Per conclusione dunque di questo vizio disonesto, ti avviso di nuovo, che se non vuoi cadere, fuggi. E dei pensieri, che ti vengono per piccoli, che siano, stimali, e fuggili, niente manco dei grandi e per molta chiarezza, che avessi, quando li hai fuggiti presto, sono peccati leggeri, confessali pure, e scopri il tuo nemico al confessore. Ed essendo caduta, corri alla Confessione, non ti lasciando mai vincere dalla vergogna.

Di alcuni motivi, perché il peccatore debba convertirsi presto a Dio.

CAP. XXXIII.

Il primo motivo, perché il peccatore debba ritornare a Dio, è la considerazione dello stesso Iddio,  il quale essendo il sommo Bene, la somma Potenza, Sapienza, e Bontà, non deve l’uomo avere ardimento di offenderlo. – Non per via di prudenza, perché  è mala elezione, pigliarsela con l’onnipotenza, e col supremo Giudice, che l’ha da giudicare. Non per via di convenienza e di Giustizia, non essendo cosa da tollerarsi, che il niente, il fango, e la creatura offenda il Creatore: il servo il Signore, il beneficato il suo Benefattore: il figlio il Padre. – Il secondo motivo è l’obbligo grande del peccatore, perché presto ritorni in casa di suo Padre, essendo la conversione del figlio ed il ritorno in casa, onore al Padre, e festa a tutta la casa sua, alla vicinanza, ed agli Angioli del Cielo. Ché siccome prima, peccando, il figlio offese il Padre, e lo irritò, così ritornando con i pianti amari dell’offesa, e con piena volontà di volergli per l’avvenire in tutti i suoi precetti ubbidire, ed in ogni cosa, l’onora, lo rallegra, e gli ferisce in tal modo il cuore, e muove a misericordia, che non gli basta l’aspettarlo con desiderio, ma correndogli all’incontro, gli cade sul collo, lo bacia, e lo veste della sua grazia, e degli altri doni suoi. Il terzo è l’interesse proprio, perché ha da considerare ogni peccato, che se non si converte a tempo, di certo venendo l’inverno, ed il giorno del sabato, per sempre cadrà nelle pene dell’Inferno, dove quando mai non fosse altra pena, che l’accrescerglisi in infinito le passioni, che lo tenevano in peccato, senza speranza che pur una volta abbia di quelle acque che gli piacevano tanto, quanto ne può portare la sommità di un dito, questo lo dovrebbe atterrire. Né è buona fidanza il suo proponimento di convertirsi nell’ultimo di sua vita, o di là ad alcuni anni, o mesi, perché questo proponimento è pazzo, e pieno di empia malizia. Effetto di poco cervello è proporre di superare una difficoltà grande nel tempo, che l’uomo si trova più fiacco. Il peccatore continuando nel peccato, ogni giorno diventa più fiacco alla conversione, e per l’abito, che va più crescendo e convertendosi in natura, e per l’indisposizione maggiore a ricevere la grazia della conversione: ed anche perché sdegnando Dio con l’empia malizia di pigliarsi quanto può alle creature, e poi all’ultimo fiato, o tardi darsi a Dio interessatamente, viene a togliergli la voglia di aiutarlo efficacemente. È anche da pazzo il suddetto consiglio e proponimento perché,  concessagli la possanza della conversione, e la grazia efficacia, la sicurtà poi, che trattando non muoia di spirito, e senza parola come a tanti e tanti è avvenuto ed avviene, chi gliela data o darà. – Grida, grida, peccatore adesso che leggi, al tuo Signor dicendo: Converte me, et convertar, quia tu Dominus Deus meus! Né cessar mai, infino a tanto che non sii convertito al tuo Signore e Padre, piangendo dirottamente la sua offesa, con una rassegnazione a quanto gli piacerà per per sua soddisfazione.

Del modo di  procurarsi il pianto dell’offesa a Dio, e la conversione.

CAP. XXXIV

Miglior modo di procurarsi il pianto dell’offesa di Dio, non è che la meditazione della grandezza della Bontà di Dio, e non della sua carità che ha mostrato all’uomo. Perché chi considera, che peccando ha offeso il sommo Bene, e l’ineffabile Bontà, che non sa se non far bene, né altro ha fatto e fa tuttavia, piovendo delle sue grazie, e dando del suo lume ad amici e nemici, perchè poi l’abbia offeso per un niente, per un capriccio, e per un poco di falso diletto, non può che piangere dirottamente. Ti metterai dunque innanzi ad un Crocifisso, ove immaginandoti che dica: Aspice in me, e poi considera ad una ad una le mie piaghe, perchè dai tuoi peccati io sono stato piagato e così maltrattato, come tu vedi. – E sono pur Io il tuo Iddio, il tuo Creatore, il tuo benigno Signore, e pietoso Padre.  Onde, Revertere ad me, con pianto puro, con voglia accesa che Io non fossi stato offeso, e con piena volontà di voler tollerare qualunque pena, perchè più non mi offenda: Revertere ad me, quoniam redemi te. – Poi pigliato Cristo nella tua immaginazione con la Corona in capo di spine, e con la canna in mano, tutto piagato, t’immaginerai, che ti dica Ecce Homo! Ecco l’uomo, che amandoti con amore ineffabile ti ha redenta con questi scherni, con queste piaghe e con questo Sangue, Ecce Homo, quest’Uomo è l’offeso da te, dopo tanto amore mostrato, dopo tanti benefici. – Ecce Homo. Quest’Uomo è la misericordia di Dio, e la redenzione copiosa. Quest’Uomo, per te, con tutti i suoi meriti si offre al Padre ogni ora e momento. Quest’Uomo sedendo alla destra del Padre, per te interpella, e per te fa l’Avvocato, perchè dunque mi offendi? Perché non ritorni? Revertere ad me quia delevi ut nubem iniquitates tuas, et quasi nebulam peccata tua.

Di alcune ragioni perché si vive Senza pianto dell’offesa di Dio, senza virtù, e senza la Cristiana perfezione.

CAP. XXXV

La ragione perché l’uomo dorma nella tiepidità, né levandosi dal peccato si dia alla virtù, come si deve, sono molte, e fra le altre sono le seguenti: Perché l’uomo non abita dentro di sé a vedere, che si fa nella sua casa, e chi la possiede, ma vago e curioso, ne mena i giorni in passatempi di vanità. E se pure vi sta occupato in cose lecite e buone in se stesse, di quelle poi che importano alla virtù, ed alla perfezione Cristiana, non ne ha pensiero alcuno, e se talora l’ha, e conosce il suo bisogno, ed è da Dio chiamato ed ispirato a mutar vita, risponde: Cras, cras,… poi, poi. Né  mai viene l’Oggi, ed Adesso, perché avendo il vizio del Cras e del poi,  in ogni Oggi, ed in ogni Adesso, gli si partorisce il Cras, ed il Poi. Non mancano degli altri che credendosi che la mutazione vera della vita e gli esercizi delle virtù consistano in certe divozioni loro, spendono quali tutto il giorno a dire Pater noster, ed Ave,  senza però, che si metta la mano alla mortificazione delle passioni loro disordinate, le quali li tengono attaccati alle creature. – Altri si danno agli esercizi di virtù, ma fabbricano senza i fondamenti loro, avendo ciascheduna virtù il suo proprio fondamento, come l’umiltà ha per fondamento  il desiderio d’esser tenuta da poco, da nulla, ed esser confusa da altri, e d’esser vile negli occhi suoi, perché chi fonda prima, e fabbrica questo fondamento, con allegrezza poi riceve le pietre della fabbrica dell’umiltà che sono le poche stime, che questi e quelli fanno di noi, e le occasioni di fare atti d’umiltà. Onde accrescendosi il desiderio di essere bassamente stimati, e ricevendo volentieri la poca stima, che ne vien fatta da altri, si va acquistando l’umiltà, domandandola soprattutto spesso a Dio, in virtù del suo umiliato Figliuolo. E sebbene si fa tutto questo da alcuni, non si fa però per amore della virtù, e per piacere a Dio. Dal che ne nasce che gli atti della virtù, non corrispondono con tutti ed in ogni luogo: essendo con questi umile, e con quegli superbo. Umile in presenza d’altri, superbo con quelli, la stima dei quali non confà ai suoi disegni. Vi sono degli altri, che desiderando la perfezione cristiana, la vanno procurando dalle forze loro che son debolissime, dalle industrie ed esercizi propri, e non da Dio, col diffidarsi di loro stessi; epperò vanno in dietro piuttosto che innanzi. – Né manca chi appena entrato nella via della virtù, subito si dia a credere d’esser arrivato alla perfezione, e così fatto vano in se stesso, svanisca anco nelle virtù. Perché tu dunque acquisti la virtù e la perfezione Cristiana, prima  diffidati di te stessa, poi confidata in Dio, studia d’accenderti di desiderio, quanto più sia possibile, avanzandolo ogni giorno. Sta in oltre avvertita che non ti fugga dalle mani qualche occasione di virtù, sia pur essa grande, o piccola. E fuggendoti castigati in qualche cosa, né lasciar mai questo castigo. – E per molto, che cammini alla perfezione, ogni giorno fa conto, che allora incominci; e studiati di fare qualunque atto con tanta diligenza, come se in quello solamente consistesse la perfezione; e così fa poi nel secondo, nel terzo, e negli altri. Con quella diligenza guardati dai difetti piccioli, con cui i diligenti si guardano dai grandi. – Abbraccia la virtù per la virtù e per piacere a Dio, che a questo modo con tutti farai la stessa, sola ed accompagnata. E saprai a questo modo talora lasciare la virtù per la virtù, e Dio per Dio. Non declinare, né a destra, né alla sinistra, né ti voltare addietro. Sii discreta amica della solitudine, della meditazione, e dell’orazione, pregando spesso Iddio, che ti dia le virtù e la perfezione, che vai cercando, perché Iddio è il fonte d’ogni virtù e la perfezione, a cui ci chiamano ogni ora.

Dell’amore verso i nemici.

CAP. XXXVI

Avvenga, che la perfezione Cristiana sia la compita obbedienza dei precetti di Dio, nientedimeno dal precetto d’amare i nemici procede principalmente: tutto è somigliante al costume di Dio questo precetto. Onde volendo tu acquistare compendiosamente ed in breve la suddetta perfezione, studia d’osservare compitamente quanto comanda Cristo nel precetto d’amare i nemici. Amandoli, facendo loro bene e pregando per loro. Non a stampa e lentamente, ma con tanto affetto, che quasi scordata di te stessa, tutto il cuor tuo si dia all’amor loro, ed a pregare per loro. Del far loro bene poi, in quanto tocca al bene dell’anima, hai da stare avvertita, che da te piglino mai occasione d’offender le anime loro, mostrando sempre con i gesti del corpo, con le parole e con le opere, che li ami e stimi, e che in te è sempre prontezza di Servirli. Degli altri beni temporali, quelle, che s’ha da fare, la prudenza, ed il giudizio l’andrà raccogliendo dalla qualità dei nemici, dallo stato tuo e dalle occasioni. Se tu attenderai a questo, vedrai che la virtù, e la pace entrerà nel tuo cuore a gran piena. Né questo precetto ha quella difficoltà, che altri credono. Duro è alla natura, non è dubbio, ma a chi vuole, e sta sull’avviso d’esser presto a mortificar i moti della natura, e dell’odio, diventerà facile, portando egli nascostamente dentro una dolce pace, e facilità. Pure, perché li soccorra la nostra debolezza, ti servirai di quattro potentissimi aiuti. – Uno è l’orazione, spesso domandando a Cristo questo amore in virtù del suo, il quale stando in Croce, prima si ricordò dei nemici, poi della Madre, e nell’ultimo di se stesso. – Il secondo aiuto sarà il dire teco: Precetto del Signore è ch’io ami i nemici, dunque devo farlo. – Il terzo, che tu mirando in loro la viva immagine di Dio, che loro diede creandoli, ti svegli a stimarla, ed amarla. – Il quarto, che mirandovi di più il riscatto ineffabile, con che sono stati da Cristo riscattati, che non è stato oro, ed argento, ma il suo sangue, t’adopri in modo che non sia indarno speso, perso conculcato.

Dell’esame di coscienza.

CAP. XXXVII.

L’esame di coscienza da’ diligenti si suol fare tre volte il giorno: Innanzi pranzo, innanzi vespro; e innanzi, che si vada a letto. Che se questo non si può da alcuno, quello della sera non si deve tralasciare mai: che se Iddio due volte mirò l’opere che fece all’uomo, l’uomo non mirerà a quel tanto che fa a Dio, a cui egli ha di più a rendere stretto conto più d’una volta. L’esame si farà in questo modo: – prima domanderai a Dio lume perché tu conosca tutto l’interiore ed opere tue. – Poi comincerai a considerare come sei stata chiusa e raccolta nel tuo cuore, e come l’hai guardato. – Terzo, come hai in quel giorno obbedito a Dio in tutte le occasioni che ti ha date, perché lo servissi. Qui non dico altro, che quella terza considerazione chiude in sé lo stato, ed obbligo di ciascuno. Della corrispondenza alla grazia e delle opere buone, ringraziato che ne avrai Dio, scordatene affatto rimanendo desiderosa di cominciare di nuovo il tuo cammino, come se niente ancora avessi fatto. Dei mancamenti, difetti, e peccati, rivolta a Dio, digli dolendoti dell’offesa sua: Signore, io ho fatto da quello che sono. Nè qui mi sarei fermata, se la tua destra non mi avesse tenuta: del che ti rendo grazie: Fa’ tu ora, ti prego Signore mio, in nome del tuo diletto Figlio, da quel che sei. Perdonami e dammi grazia, perché più non ti offenda. Per penitenza poi dei tuoi mancamento, e per stimolo di emendazione, mortifica la tua volontà in qualche cosuccia lecita, che ciò a Lui molto piace. Lo stesso dico del corpo, e fa che non lasci queste, o somiglianti penitenze, se non vuoi, che le ricerche della tua coscienza siano piuttosto a stampa e per un non so che uso di tiepidi, senza frutto.

Di due Regole per vivere in pace.

CAP. XXXVIII.

Sebbene, chi vive secondo quel tanto che s’è detto fin qui, sempre sta in pace, tuttavia voglio in quest’ultimo Capitolo darti due regole racchiuse anco nel suddetto, le quali osservando, tu vivrai quieta in questo Mondo iniquo, quanto sia possibile. L’una è, che tu attenda con ogni diligenza a vieppiù chiudere la porta del tuo cuore ai desideri; essendo il desiderio il legno lungo della Croce e dell’inquietudine, il quale sarà grave secondo la grandezza del desiderio. E se. di più cose saranno i desideri, più saranno i legni a più croci preparati. Onde venendo poi le difficoltà, e gli impedimenti, che non si eseguisca il desiderio, ecco l’altro legno, ch’è il traverso della Croce, sopra della quale rimane inchiodato il desideroso. – Chi dunque non vuol Croce, non desideri, e ritrovandosi in Croce, lasci il desiderio che in quello che lo lascerà, egli sarà sceso dalla Croce. Né vi è altro rimedio. – L’altra regola è che quando sei molestata, ed offesa da altri, non ti dia alla considerazione di quelli, considerandovi diverse cose, e che non dovevano far questo con te, e chi sono, o si pensano d’essere e somiglianti cose, le quali tutte sono legna, ed accendimento d’ira, di sdegno, e d’odio. – Ma ricorri subito in tali casi alla virtù, ed ai precetti di Dio: perché tu sappi quel che devi fare e non falli peggio di loro. Che a questo modo ritroverai la via della virtù, e della pace. – Che se tu poi con te, non farai quello che devi, che meraviglia è, che altri teco nol facciano? E se ti piace di vendicarvi di chi ti offende, devi prima fare vendetta di te stessa, di cui non hai maggiore inimico, ed offensore.

IL FINE.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (Agg. 1)

AGGIUNTA AL COMBATTIMENTO SPIRITUALE.

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Che cosa sia la perfezione Cristiana

CAPO PRIMO.

Perché, anima devota, non ti affatichi negli esercizi spirituali in vano, com’è accaduto a molti, e non corri senza saper dove; hai prima da intendere, che cosa sia la perfezione Cristiana. – La perfezione Cristiana altro non è che una compiuta osservanza dei precetti di Dio, e della sua legge affine di piacergli, senza che si declini alla destra, o alla sinistra o si rivolga addietro: Et hoc est omnis homo. – Di modo che lo scopo di tutta la vita del Cristiano, che vuole diventare perfetto, ha da esser uno studio di far abito, che dimenticandosi vieppiù ogni giorno e disavvezzandosi di fare la propria volontà, ogni cosa faccia, come mosso da sola volontà di Dio, a fine di piacergli, ed onorarlo.

Come bisogna combattere per conseguire la perfezione Cristiana.

CAP. II.

Con poche parole si è detto il molto, che si pretende: ma chiuderlo ora nelle mani, e metterlo in esecuzione. Hoc opus, hic labor est. Perché essendo in noi per il peccato dei primi Padri, e nostri mali abiti, una legge contraria a quella di Dio, bisogna combattere contra di noi stessi, ed anco contro il Mondo, ed il demonio, eccitatori, e motori delle nostre guerre.

Di tre cose, che ha bisogno il novello Soldato di Cristo.

CAP. III.

Protestandoci dunque la guerra, Soldato novello di Cristo, di tre cose hai di bisogno. D’animo grande, e risoluto di combattere, d’armi e di saperle maneggiare. La risoluzione di combattere la piglierai dalla considerazione frequente che: Militia est vita hominis super terram. E che quella guerra ha per legge che chi non combatte come si deve, del certo vi muore per sempre. La grandezza dell’animo l’acquisterai, prima con diffidarti di te stessa e poi confidare grandemente in Dio, e tener per cosa certa che Egli sta dentro di te, perché ti cavi dal pericolo. Hai dunque da stimare per sicuro che, assaltata dai nemici, ogni volta che sconfidata delle proprie forze e sapere, con confidenza ricorrerai alla potenza, sapienza, e bontà di Dio, ne riporterai combattendo la vittoria. L’armi sono: Resistenza, e Violenza.

Della resistenza e violenza, e nell’arte di maneggiarla.

CAP. IV.

La resistenza, e violenza, benché siano armi gravi e penose, tuttavia sono necessarie e riportatrici delle vittorie. Si maneggiano quelle armi nel seguente modo. Quando dalla tua corrotta volontà e mali abiti, perché tu non voglia e faccia le cose volute da Dio, sei combattuta; hai da resistere dicendo: Sì, sì, che le voglio fare. Con la stessa resistenza ti opporrai quando sei chiamata e tirata alle voglie dei mali abiti e della corrotta volontà, dicendo: No, no. La volontà di Dio voglio io fare con l’aiuto suo sempre. Deh Iddio mio, soccorrimi presto, perché questa voglia, che per tua grazia ho adesso di fare sempre la tua volontà, non sia soffocata poi nelle occasioni della mia antica e corrotta volontà. E sentendo gran pena nel resistere, e debolezza di volontà, hai da farti ogni sorte di violenza, ricordandoti qui, che il Regno dei Cieli patisce violenza, e che violenti a se stessi ed alle proprie passioni lo rapiscono. – Che se la pena , e la violenza sarà così grave, che ti senti angustiare il cuore, va col pensiero nell’orto a Cristo, ed accompagnando le angosce tue con le sue, pregalo che in virtù delle sue ti dia la vittoria di te stesso, acciò di cuore possa dire al Celeste Padre: Non sicut ego volo, sed sicut tu, fiat voluntas tua. Onde poi piegherai più, e più volte la tua volontà a quella di Dio, volendo come egli voleva che volessi. Studiandoti di fare qualunque atto con tanta pienezza di volontà e purità, come se in quell’uno solamente consistesse tutta la perfezione, ogni piacimento, ed onore di Dio. Ed a questo modo poi farai il secondo ed il terzo, ed il quarto e gli altri. – Di più ricordandoti alle volte di aver trasgredito alcun precetto, dogliti della trasgressione, e piglia maggior vigore d’animo di ubbidire a Dio in quel precetto che ti trovi nelle mani, ed in qualunque altro nelle occasioni. Ed avverti qui, perché non tralasci mai occasione alcuna, per piccola che sia, di ubbidire a Dio, che se gli sarai ubbidiente nelle piccole cose, Iddio ti darà nuova grazia di ubbidire poi con facilità nelle maggiori. Avvezzati ancora, che venendoti a mente alcuno dei precetti divini, tu prima adori Dio, e poi lo preghi che nelle occasioni ti soccorra, perché gli ubbidisci.

Che bisogna vegliare di continuo sopra la nostra volontà, per vedere con quale delle passioni se la fa.

CAP. V.

Sta in te raccolta, quanto più si può, perché conosca, quale delle tue passioni se la faccia più spesso la tua volontà, che da quella suole più che da altre esser ingannata, e fatta serva. Onde non essendo solita la volontà dell’Uomo stare senza la compagnia di alcuna delle nostre passioni, è di bisogno, che ella o ami, o odi, o desideri, o fugga, o stia allegra, o si rattristi, o speri, o si disperi, o sia audace, o iraconda. E ritrovandola appassionata non  secondo vuole Dio, ma secondo il suo proprio amore, affaticati, perché dall’amor di se stessa la pieghi all’amor di Dio, ed all’osservanza dei precetti di Dio, e della sua legge. Il che tu devi fare non solamente nelle passioni di momento, che ai peccati muovono, ma in quelle che nei veniali fanno cadere: perché quelle, benché si muovano leggermente, e vadano pian piano, tuttavia ci tengono infermi e senza virtù, quando sono volontarie, ed in pericolo grande di cadere nei peccati mortali.

Come levando la prima passione, Che è  l’amore delle creature e di noi stessi, e dandola a Dio,tutto il resto rimane ben regolato ed ordinato.

CAP. VI.

Perché tu compendiosamente, e con ordine liberi la tua volontà dalle passioni disordinate, è di bisogno, che tutta ti dii a vincere ed ordinare la prima passione che è l’amore, perché questa tutte le altre la seguitano con le stesse pedate, nascendo da essa, ed in essa avendo la loro radice e vita. come chiaramente discorrendo si vede; perchè quel tanto si desidera, che s’ama, ed in questo si diletta, l’uomo. Quel tanto s’odia, o fugge, e ci attrista, che impedisce, ed offende la cosa amata, né altro si spera che la cosa amata. E di questa stessa disperiamo quando le difficoltà di conseguirla ci paiono insuperabili ed invincibili. Né alcuno teme, o è audace o si sdegna; se non con quello, che impedisce o per offendere la cosa amata. – Il modo di vincere, ed ordinarela prima passione, si è il considerare nella cosa, che ella ama e sta attaccata, le qualità sue, e che si pretende in quell’attacco ed amore. E ritrovando qualità di bellezza e di bontà, e pretendenza di diletto, e di utile, potrai dire a te stessa più e più volte: E che maggior bellezza e bontà di quella di Dio, che è l’unico fonte di bene, e perfezione? E quale pretendenza d’utile e di diletto si può immaginare maggiore, che amare Dio, poiché amandolo, si trasforma l’uomo in Lui, in lui solo dilettandosi, e lui godendo? Di più il cuore dell’uomo è di Dio, perché lo stesso Iddio l’ha creato, e poi redento, ed ogni giorno con nuovi benefizi lo domanda dicendo: Fili, probe mihi cor tuum. Sicché toccando a Dio il cuor umano tutto, per tante ragioni che più a basso si diranno, ed essendo piccolo molto a soddisfare agli obblighi, che s’hanno con Dio, deve ognuno esserne gelosissimo, perché non ami altro che il solo Dio e con quella moderanza e modo che piace a Dio. La stessa gelosia si deve avere anche (essendo queste due il fondamento della fabbrica della perfezione), della passione dell’odio, perché non odi altro che il peccato, e quanto induce al peccato.

Che bisogna soccorrere la volontàUmana.

CAP. VII.

E perché la volontà nostra appassionata è molto fiacca a resistere e superare le sue passioni per ordinarle a Dio, ed alla sua ubbidienza (come ben mostra l’esperienza che, benché ella voglia, e proponga di mortificarsi, tuttavia nelle occasioni poi soffocata dalle sue passioni e svanito ogni suo proponimento e voglia, se le da in preda) perciò bisogna non solo nelle occasioni soccorrerla, ed ajutarla, a buon’ora ancora, acciocché pigliando forza contro se stesa, si stessa, si vinca, e liberi dalla servitù delle sue passioni, dandosi tutta a Dio ed al suo piacimento.

Come vincendo il Mondo, vienela volontà dell’uomo ad esser soccorsa grandemente.

CAP. VIII.

Movendoci, e pigliando forza le nostre passioni dal mondo, e dalle cose sue, mentre egli ci mostra le sue grandezze, ricchezze, e diletti; benne segue che, dato a terra il Mondo con le sue cose, viene la volontà dell’uomo a respirare, ed a volgersi  altrove, non potendo ella stare senza amare, e senza dilettarsi. – Il modo di dare a terra il mondo, è considerare profondamente  che cosa sono nel vero le sue cose e le sue promesse. Nel che, per non errare, accecati noi forse da qualche nostra passione, e conchiusone quel, che ne dice il sapientissimo Salomone, che di tutto aveva fatta esperienza: Vanitas, dice egli, Vanitarum, et omnia vanitas et afflictio spiritus. Questa verità si prova ogni giorno che, desiderando il cuor dell’uomo di saziarsi, con tutto che alle volte abbia quanto desidera, pur non resta mai sazio, ma con maggior fame, e quello non per altro se non perché pascendosi egli delle cose del Mondo, viene a pascersi d’ombra, di vanità, e di bugia, cose che non danno nutrimento alcuno. Le promesse del Mondo sono tutte false e piene d’ inganni. Promette una cosa per un’altra. Promette felicità e dà inquietudine. Promette e non dà il più delle volte. Dà, e presto toglie. E non togliendo presto più poi affligge gli appassionati che hanno i loro desideri posti nel fango. Ai quali si può dire: Filli hominum, usquequo gravi corde, ne quid deligitis vanitatem et quaeritis mendacium? – Ma concedasi ad un certo modo a costoro che gli apparenti beni di questo mondo siano veri beni, che diranno della prestezza, con che ne passa la vita dell’uomo? Ove sono la felicità e grandezze e la superbia dei principi, dei regi e degli imperatori? Sono pure passate. Il modo dunque,perché ti vincail Mondo, di tal maniera che egli puzzi a te, e tu a lui, o vogliamo dire, che a te sia crocifisso, e tu a lui, si è, che prima, che gli si attacchi la volontà, te gli faccia innanzi con una profonda considerazione delle sue vanità, e bugie, e poi con la volontà, che così non essendo né la volontà, né l’intelletto appassionati, con facilità lo disprezzerai, e ad ogni creatura, che ti farà innanzi, potrai dire: Sei tu creatura? leva, leva l’attacco tuo, perché io vo cercando nelle creature il Creatore, e lo spirituale, non il corporale. Quello, che vi dà l’operare e le virtù, e non voi voglio, e desidero amare.

Del secondo soccorso della volontà.

CAP. IX.

Il secondo soccorso della volontà umana, consiste in cacciar fuori il principe delle tenebre, come autore d’ogni disordinato accadimento delle nostre passioni. Si caccia fuori questo nemico e si vince ogni volta, che noi nelle concupiscenze nostre e desideri disordinati vinciamo e superiamo. Sicché volendo che il demonio fugga da te, resiste alle tue passioni, che questa è la resistenza che S. Giacomo vuole che se gli faccia. E qui è da avvertire che il demonio così alle volte ci assalta, accendendo le  concupiscenze della carne e le passioni, che pare, che l’uomo sia costretto a cedergli. Ma non è da sbigottirti. Resisti pure e tieni per certo che Dio è teco perché non ti sia fatta soverchieria. Resisti, dice, che al certo, preservando vincerai. Ho detto: perseverando, perché non basta resistere una, due o tre volte, ma ogni volta che egli tenterà. Perché è costume del demonio, di tentare domani quel che oggi non ha potuto, e in altra settimana, quel che in questa non ha ottenuto, e così va continuando con gran pazienza di tempo in tempo, or con furia, or con destrezza, in fino a tanto che gli vien fatto di vincerci. Onde bisogna essere costante sempre con l’armi in mano, né fidarsi mai per molto che si abbiano avuto delle vittorie, giacché la vita dell’uomo è una continua guerra, la vittoria della quale non consiste in oggi, e domani, ma nel fine.  Che se tu in questo senti pena, sappi, che più pena sente assai il| demonio, quando se gli resiste. Onde se gli può dire a tua consolazione: A penare, va demonio infernale; ma perché tu peni iniquamente, ed io per non offendevi il mio Signore, la pena tua sarà eterna, e la mia, per grazia di Dio, si muterà in pace eterna.

Delle tentazioni della superbiaSpirituale.

CAP. X

Nel precedente Capitolo ti ho parlato delle tentazioni che il demonio ci suole dare con le grandezze del Mondo, ricchezze e diletti, ma ora ti parlo delle tentazioni della superbia spirituale, compiacenza, e vanagloria, tanto più pericolosa e da temersi, quanto che è meno conosciuta e più nemica di Dio. O quanti generosi soldati gran servi di Dio, dopo le vittorie di molti e molti anni, ha dato questa superbia, e fatti servi di Lucifero. Lo scampodi questo tremendo colpo ed occulto laccio, è il tremare sempre, ed operare opere buone con timore, e tremore, che queste non siano, per qualche occulto verme d’amor proprio e di superbia guaste ed odiose a Dio. E perciò umiliandosi in quelle, devesi cercare sempre di farle migliori, come se niente per addietro si avesse operato di bene. E quando ci paresse (il che non deve mai stimarti) di aver fatta ogni cosa, dottiamo di tutto cuore dire: Servi inutiles sumus. E sopra tutto ricorrere spesso a Cristo che, liberandoci d’ogni superbia, ci insegni ed aiuti ad essere umili di cuore. Ed anche ricorrere spesso all’umilissima Madre di Dio, pregandola ci impetri la vera umiltà, la quale è il fondamento delle virtù, e le accresce e le accompagna acciò non si perdano, ma s’aumentino e s’assicurano. Di questa materia d’umiltà avendone parlato a lungo nel Combattimento Spirituale, non dico altro qui.

Del terzo soccorso della volontà umana.

CAP. XI

Il terzo soccorso, con che spessissime volte s’ha da soccorrere la volontà nostra, è l’orazione: avvezzandoti, che in quello che tu sei assalita, ricorra subito a Dio, dicendo: Deus, in adiutorium meum intende: Domine ad adiuvandum me festina. – Il tuo combattimento dunque farà con l’orazione, con la resistenza nella presenza di Dio, sempre vestita di diffidenza di te stessa e confidenza in Lui. Che se combatterai con questo modo ed apparato, tieni per sicura la vittoria. Che cosa non supera, e non vince l’orazione? Che cosa è che non ributti la resistenza accompagnata con la diffidenza di se stessa e confidenza in Dio? – E da qual pugna può essere vinto, chi sta in presenza di Dio con animo di piacergli?

In qual modo abbia da abituarsi l’uomo per tenere ogni volta che vorrà, presente Dio.

CAP. XII

Perché tu abbi l’uso di tenere presente Dio ogni volta che vorrai, studiati di ripigliar spesso un pensiero che innanzi a te sta nascostamente Iddio, che ti mira e considera qualunque tuo pensiero ed opera. Oppure che tutte le creature le quali vedi, siano quasi tanti cancelli per i quali il nascosto Iddio ti guarda ed alle volte dica: Petite et accipietis: omnis enim qui petit, accipit, et pulsanti aperietur. Potrai anche farti presente Dio, mirando le creature nelle quali, lasciando il corporale, va col pensiero a Dio che loro ministra l’essere, il moto e la virtù di operare. – Quando dunque vorrai orare combattendo o facendo alcuna cosa, rappresentati a Dio in uno dei suddetti modi,prega poi, e domandagli aiuto, e soccorso. E sappi qui, anima devota, che se tu ti farai familiare alla presenza di Dio, ne riporterai vittorie, e tesori infiniti . E tra gli altri tu ti guarderai da moti, da pensieri, da parole, e da opere, che non convengono alla preferenza di Dio, ed alla vita del Figliuolo suo. E la stessa presenza di Dio ti infonderà virtù, perché tu possa stare in sua presenza. Che se dalla presenza, e vicinanza degli agenti naturali, che sono di virtù limitata e finita, se ne riporta delle loro qualità, e virtù, che s’ha da dire della presenza di Dio, che è d’infinita virtù, e comunicabile indicibilmente? – Oltre il Suddetto modo d’orare, Deus, in adjutorium meum intende : Domine ad ajuvandum me festina,  che è per ogni bisogno, potrai ancora orare in altri modi più particolari. Come desiderando tu di conoscere e fare la volontà di Dio, l’orazione tua farà una delle seguenti: Benedictus es Domine, doce me facere justificationes tuas. Deduc me Domine, in semìtam mandatorum tuorum. Utinam dirigantur via mea ad custodìendas justificationes tuas. –  E per dimandare a Dio quanto se gli può domandare, e gli piace che se gli domandi, userai l’Orazione Dominicale, la quale si deve dire con tutto l’affetto del cuore e con ogni attenzione.

Di alcuni avvisi intorno all’orazione.

CAP. XIII

Prima hai d’avvertire, che l’orazione (non parlo delle meditazioni, delle quali si dirà appresso) devono esser brevi nel modo suddetto, ma spesse, piene di desiderio, e d’attuale fede, che Iddio ti abbia a soccorrere, se non a modo tuo, e quando tu vorresti, con assai miglior soccorso, e più opportuno tempo. – Secondo, che vadano sempre accompagnate, quando attualmente, quando in virtù, con una delle seguenti clausolette. – Per tua bontà. Secondo le tue promesse. Ad onore tuo. In nome del tuo diletto Figlio. In virtù della tua Passione. In nome di Maria Vergine, Figlia, e Sposa, e Madre tua. – Terzo, che alle volte segli aggiungano dell’Orazioni giaculatorie, come: Concedimi Signore l’amor tuo in nome del tuo diletto Figlio. E quando sarà Signor mio che io l’abbia? quando? Il che anco si può fare dopo ciascuna domanda dell’Orazione Dominicale: oppure dopo tutte, come, Pater noster, qui es in cœlis, Sanctificetur nomen tuum. Ma quando sarà, nostro Celeste Padre che il nome tuo sia conosciuto per tutto ilMondo, onorato, e glorificato? quando Iddio mio? Quando? E così dopo le altre domande. – Quarto, che domandandosi delle virtù, e grazie, sarà bene considerare ilpiù delle volte il valore della virtù, ed il bisogno che se ne ha: La grandezza di Dio e della sua bontà: I meriti di chi domanda, che a questo modo si domanderà con più affetto, e desiderio, con più riverenza, e confidenza, e con più umiltà; e similmente s’ha da considerare il fine della domanda, acciò sia per piacere a Dio, e ad onore suo.

Di un altro modo di orare

CAP. XIV

Si suole anco orare perfettamente, stando in presenza di Dio col pensiero senza altro dire, giuculandogli di tempo in tempo sospiri, volgendogli un occhio, ed un cuore desideroso piacergli, ed un breve ed infuocato desiderio che ti conceda la grazia domandata nelle orazioni precedenti.

Del quarto soccorso della volontà Umana

CAP. XV

Il quarto soccorso della volontà nostra è l’amore divino, il quale soccorre e fortifica in tal modo la volontà che non è cosa che non possa, né passione e tentazione che non vinca. Il modo di conseguirlo è l’orazione, domandandolo spesso a Dio, e la meditazione, meditando quei punti che sono atti, con la grazia di Dio, ad accenderlo nella terra dei cuori umani.Questi sono: Chi è Iddio. Quanta, e quale la potenza, Sapienza, Bontà, e Bellezza di Dio. Che ha fatto Iddio per l’uomo, e che sarebbe di più per fargli, se fosse di bisogno. Con che animo l’abbia fatto. Che cosa faccia ogni giorno all’uomo, e che cosa è per fargli nell’altra vita, se qui vivendo, ubbidisce ai suoi precetti, per fargli piacere e con purità di mente.

Della meditazione dell’Esseredi Dio.

CAP. XVI

Che cosa sia Iddio, Egli stesso, che compitamente si conosce, l’ha detto rispondendo e così dicendo: Ego sum, qui sum! E tale, e tanto questo predicato di Dio, che non si può dare a creatura alcuna; non a Principi, non a’ Regi, o Imperatori, non ad Angioli, non a tutto il Mondo insieme, perché ogni cosa ha l’essere dipendente da Dio, e come da sé è un bel niente. E da qui appare, quanto vano è l’uomo, che ama le creature e gli sta attaccato, non amando in esse il Creatore e le creature secondo vuole esso Signore. È vano, dico perché ama le vanità. È vano, perché pensa saziarsidi quelle cose, che da sé non sono. È vano, perché s’affatica di avere di quelle cose, che col dare tolgono ed uccidono. Se dunque hai ad amare, come che bisogna amare, amisi Iddio, che empie e sazia il cuore.

Della meditazione della Potenzadi Dio.

CAP. XVII

Già si sa, che non questa o quella sola potenza del Mondo, ma tutte unite insieme volendo edificare non Regni, non Città, ma un solo Palagio, pure hanno bisogno di varie materie e maestranze, e di molto spazio di tempo, se poi con tutto ciò l’edificio riesce appunto a voglia loro. Ma Iddio con la sua potenza, di niente  in un subito creò tutto l’universo, e poteva crearne per la stessa facilità infiniti altri, e distruggerli, e ridurli a niente. Questo solo punto, quanto più profondamente si medita, e mediterà, tanto più se ne caveranno nuovi stuporied incentivi di amare un Signore sì possente.

Della Meditazione della Sapienzadi Dio.

CAP. XVIII

Quanto poi sia alta, ed  inscrutabile la Sapienza di Dio, non è chi lo possa comprendere. Pure perché ne abbi qualche cognizione, vogli l’occhio dell’ornamento del Cielo, alla vaghezza della terra e ditutto l’universo, che non ritroverai altro che Sapienza incomprensibile dell’Architetto divino. Volgi la mente al vivere degli uomini, ed agli accidenti vari, che occorrono, che non è cosa tanto disordinata, che nel cospetto di Dio non sia Sapienza inscrutabile. Medita i misteri della redenzione, che li troverai tutti pieni d’altissima Sapienza: O altitudo, divitiarum Sapientia, et scientia Dei! Quam incomprehensibilia sunt judicia ejus!

Della Meditazione della Bontàdi Dio.

CAP. XIX

La bontà di Dio è, siccome tutte le altre sue infinite perfezioni, in se stessa incomprensibile, ma per che di fuori e tanta, che non è cosa al mondo in che non si ritrovi. La creazione è dalla Bontà di Dio, la Conservazione e Governo è della Bontà di Dio, la Redenzione ci mostra, che ineffabile ed infinita è la Bontà di Dio, dandoci qui per nostro riscatto il proprio Figlio, e parimente per cibo quotidiano nel Sacramento dell’Altare.

Meditazione della Bellezzadi Dio.

CAP. XX

Della Bellezza diDio questo deve bastare a tutti, ch’ella è tale e tanta, che contemplando se stesso Iddio ab Aeterno, senza che altrove mai si rivalga, resta nella capacità sua infinita, incomprensibilmente sazio e beato. O uomo, conosci ormai la dignità alla qual sei chiamato dalla Bontà di Dio, e non esser più di sì guasto cuore, che spregiata questa, dia il tuo amore alla vanità, alle bugie, ed all’ombre. – Ti chiama Iddio all’amore della sua Potenza, Sapienza, Bontà, al diletto della sua bellezza ed all’entrar nel suo gaudio; e tu ti fai sorda? Pensa, pensa ai fatti tuoi, che non ti sopraggiunga tempo, ove il pentimento non giova.

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (11)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (11)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Della Comunione Spirituale

CAP. LVI

Benché non si possa ricevere sacramentalmente il Signore più d’una volta il giorno, nientedimeno spiritualmente si può ricevere (come ho detto) ogni ora ed ogni momento, e questo da nessuna creatura, fuori che la negligenza, o altra nostra colpa ci può essere tolto. E sarà alle volte questa Comunione tanto fruttuosa e cara a DIO, quanto per avventura non saranno molte altre sacramentali, per difetto di coloro che le ricevono. Quante volte dunque ti disporrai e preparerai a tal Comunione, riceverai pronto il Figliuolo di Dio, che di se stesso con le proprie mani spiritualmente ti ciberà. – Per apparecchiarti a ciò, rivolgiti con la mente a Lui con questo fine, e con un breve sguardo nei tuoi mancamentì, dogliti seco dell’offesa sua, e con ogni umiltà, e fede pregalo, che si degni venire nella tua povera anima con nuova grazia per sanarla, e fortificarla contro i nemici. Oppure quando sei per violentarti e mortificarti in qualunque tuo appetito, o per fare qualche atto di virtù, fa tutto affine di preparare il cuor tuo al Signore, che di continuo te lo domanda. E rivoltandoti a Lui, chiamalo con desiderio, che venga con la grazia sua a sanarti e liberarti dai nemici, perché Egli solo possegga il cuor tuo. Ovvero, rammentandoti della passata sacramentale Comunione, dì con acceso cuore: Quando Signor mio ti riceverò un’altra volta, quando, quando?Che se vorrai prepararti e comunicarti spiritualmente con più debito modo, indirizza dalla sera innanzi tutte le mortificazioni, gli atti delle virtù ed ogni altra opera buona, affine di ricevere spiritualmente il tuo Signore. E la mattina a buon’ora considerando che bene, che felicità è di quell’anima che degnamente riceve il SS. Sacramento dell’Altare; poiché in esso le virtù perdute si riacquistano, l’anima ritorna nella prima bellezza, e se le comunicano i frutti ed i meriti della passione di esso Figliuolo di Dio, e quando piace a Dio, che noi lo riceviamo, ed abbiamo i detti beni, studiati di accendere nel cuor tuo un desiderio grande di riceverlo per piacergli. Ed accesa che sarai di questo desiderio, rivolgiti a Lui, dicendogli: “Poiché a me, Signore, non è concesso, che in questo giorno sacramentalmente io ti riceva, fa Tu, bontà, e potenza increata, che io degnamente, perdonandomi ogni fallo e sanandomi, ti riceva spiritualmente adesso, ogni ora, ed ogni giorno, con darmi nuova grazia, e fortezza contro tutti i nemici, e particolarmente questo, a cui per piacere a te io faccio guerra.”

Del rendimento di grazie.

CAP. LVII

Perché tutto il bene che abbiamo e facciamo, è di Dio, e da Dio siamo debitori di rendergli grazie di ogni nostro buon esercizio e vittoria di tutti i benefici che dalla sua pietosa mano abbiamo ricevuti, particolari  e comuni. – E per far questo con debito modo, si ha da considerare il fine, da che si muove il Signore a comunicarci le grazie sue; che da questa considerazione e conoscimento, si viene ad imparare, come vuole Iddio essere ringraziato. E perché in ogni beneficio, il Signore principalmente intende l’onore suo e di tirarci all’amore e servizio suo, prima considera teco a questo modo. Con che potenza, sapienza e bontà il mio Iddio mi ha concesso e fatto questo beneficio e grazia? – Poi vedendo che in te (come da te) non è cosa degna di beneficio alcuno, anzi non altro che demerito ed ingratitudine, con umiltà profonda al Signore dirai: E com’è Signore, che ti degni riguardare un cane morto, facendomi tanti benefizi? Sia il tuo nome benedetto nei secoli dei secoli. – E finalmente vedendo che Egli da te col benefizio ricerca che tu l’ami e lo serva, infiammati d’amore verso un tanto amoroso Signore e di sincero desiderio di servirlo a modo suo. E perciò, a questo aggiungerai una piena offerta, la quale farai nel seguente modo.

Dell’Offerta.

CAP. LVIII

Perché l’offerta di te stessa sia da tutte le parti cara a Dio, di due cose ha ella bisogno: Una è l’unione con le offerte che fece Cristo al Padre, l’altra, che la volontà tua sia distaccata da qualunque attacco di creatura. – Per la prima cosa, hai da sapere che il Figliuolo di Dio, vivendo in questa valle di lacrime, non pure se stesso e le opere sue con se stesso, e le opere nostre offriva al celeste Padre. Talché le offerte nostre si hanno da fare in unione e confidenza alle sue. – Nella seconda cosa, considera bene, innanzi che ti offra, se la tua volontà ha qualche attacco, perché avendolo, ti devi prima staccare da ogni affetto e ricorri perciò a Dio, affine, che staccandoti Egli con la sua destra, possa tu offrirti alla sua Divina Maestra sciolta, o libera da ogni altra cosa. – E sta molto avvertita in questo perché se tu ti offri a Dio, stando attaccata alle creature, non offri il tuo, ma quello degli altri, sento che tu non sei tua, ma di quelle creature a cui la volontà tua sta attaccata, cosa che spiace al Signore, quasi che se li voglia dare la burla.- E di qui avviene, che le tante offerte che a Dio facciamo di noi stessi, non pure vacue ne ritornano e senza frutto, ma cadiamo di poi in vari difetti e peccati. – Possiamo noi offrire noi stessi a Dio, benché attaccati con le creature, ma affine però che la sua bontà ci sciolga, perché possiamo poi darci totalmente alla sua divina Maestà ed al servigio suo, e quello dobbiamo farlo spesso e con grande affetto.  Sia dunque la tua offerta senz’attacco e senza proprietà d’alcun tuo volere, non mirando né a beni terreni, né a celesti, ma alla pura volontà e provvidenza divina, alla quale ti devi tutta uniformare e sacrificare in olocausto perpetuo e, scordata d’ogni cosa creata, dire: Ecco o Signore e Creatore mio, il tutto ed ogni mia voglia in mano della tua volontà ed eterna provvidenza, fa’ di me ciò che ti pare e piace in vita ed in morte e dopo morte, così nel tempo, come nell’eternità. –  Se farai a questo modo sinceramente (del che te ne avvedrai quando accadono cose contrarie) tu diventerai di terrena, evangelica negoziatrice e felicissima, perché tu sarai di Dio, ed Iddio sarà tuo, essendo sempre Egli di coloro che togliendosi dalle creature e da loro stessi, tutti si danno e sacrificano a Sua Divina Maestà. – Or tu vedi qui, figliuola, un modo potentissimo di vincere tutti i tuoi nemici, perché se così ti unisce con Dio la detta offerta, che tu diventi tutta sua ed Egli tutto tuo, qual nemico e qual potenza ti potrà giammai offendere? – E quando vorrai offrirgli alcuna opera tua, come digiuni, orazioni, atti di penitenza ed altre cose buone, volta prima la mente all’offerta che Cristo faceva al Padre dei suoi digiuni, orazioni ed altre opere, ed in confidenza del valore e virtù di queste, offri poi le tue. Che se vorrai al Padre celeste fare offerte delle opere di Cristo per i debiti tuoi, tu la farai a questo modo. – Darai uno sguardo generale e talvolta distinto ai tuoi peccati, e vedendo chiaramente che non è possibile che tu da te possa placare l’ira di Dio, né soddisfare la divina giustizia, ricorrerai  alla vita e passione del Figliuol suo, pensando ad alcuna sua operazione, come per esempio, quando digiunava, orava, sopportava e spargeva il Sangue, dove vedrai che, per renderti placato il Padre e per lo debito delle tue iniquità, gli offriva quelle sue opere, passioni e Sangue, quasi dicendo: Ecco, Padre eterno, che secondo la tua volontà io soddisfo alla tua giustizia, sovrabbondantemente, per li peccati e debiti di N. piaccia alla tua Divina Maestà di perdonargli, e riceverla nel numero dei tuoi eletti. – Onde tu allora quella stessa offerta e queste preghiere offri per te ad esso Padre, supplicandolo che in virtù loro ti rimetta ogni debito. E questo potrai fare, non solamente passando da uno ad un altro mistero, ma anche dall’uno all’altro Atto di ciascun di essi, e non pure per te, ma per altri ancora ti potrà servire questo modo  di offerta.

Della Devozione sensibile edelle aridità.

CAP. LIX

La devozione sensibile è cagionata ora dalla natura, ora dal demonio, ed ora dalla grazia: dai frutti suoi potrai discernere d’onde proceda; perché se non ne segue in te miglioramento di vita, hai da dubitare che sia dal demonio o dalla natura, e tanto più quanto sarà accompagnata da maggior gusto, dolcezza ed attacco e da qualche stima di te stessa. – Onde, quando ti sentirai addolcire la mente dai gusti spirituali, non stare a disputare da che parte ti vengano, né ti appoggiare ad essi, né ti lasciar cavare dalla cognizione del tuo niente, e con maggior diligenza ed odio di te stessa, studiati di tener libero cuor tuo da qualunque attacco, benché spirituale, e desidera  dolo Dio ed il suo compiacimento che a questo modo, o sia il gusto dalla natura o dal demonio, ti diventerà dalla grazia. L’aridità può procedere parimenti dalle tre dette cagioni. Dal demonio per intiepidire la mente e rivoltarla dall’impresa spirituale a’ trattenimenti e diletti del mondo. Da noi stessi per le nostre colpe, attacchi della terra, e negligenze; dalla grazia, o per darci avviso che siamo più diligenti a lasciare ogni attacco, ed occupazione che sia Iddio, ed in Lui non si termini; o perché conosciamo per esperienza che ogni nostro bene ci viene da Lui, o perché più stimiamo per l’avvenire i doni suoi, e siamo più umili e cauti a conservarli, o per unirci più strettamente con Sua divina Maestà con la totale rinunzia di noi stessi, anco nelle delizie spirituali, acciocché a queste attaccato il nostro affetto, non dividiamo il cuore che il Signore vuole tutto per sé, oppure perché Egli si compiace per nostro bene di vederci combattere con tutte le nostre forze ed uso della grazia sua. – Dunque, se ti sentirai arida entra in te stessa a vedere per qual tuo difetto ti sia stata sottratta la devozione sensibile, e contro quello prendi la pugna, non per recuperare la sensibilità  della grazia, ma per togliere da te quello, che spiace a Dio. – E non trovando il difetto, sia la tua devozione sensibile, la vera devozione ch’è la rassegnazione pronta alla volontà di Dio. E però fa che a nessun conto tu tralasci i tuoi esercizi spirituali, ma seguili con ogni sforzo per infruttuosi ed insipidi che ti paressero, bevendo volentieri il calice di amaritudini, che nell’aridità ti porge l’amorosa volontà di Dio. E se l’aridità talora fosse accompagnata da tante e così folte tenebre di mente, che tu non sappi né dove voltarti, né che partito prendere; non però ti sbigottire, ma sta solitaria e salda in Croce, lontana da ogni diletto terreno, ancora che dal mondo o dalle creature ti fosse offerto. Occulta la tua passione a qualunque persona, eccetto che al tuo padre spirituale al quale la scoprirai non per alleggerimento di pena, ma per tuo ammaestramento nel modo di sopportarla, secondo il piacimento di Dio. Le comunioni, orazioni, e gli altri esercizi, non li usare perché tu scenda di Croce, ma per ricevere forza di esaltare detta Croce a maggior gloria del Crocifisso. E non potendo per la confusione di mente, meditare ed orare a modo tuo, medita nel miglior modo che puoi. E quello che non puoi eseguire con l’intelletto, fatti violenza, perché l’eseguisca con la volontà e con le parole, favellando teco e col Signore, che ne vedrai effetti mirabili, e così il cuor tuo piglierà fiato, e forza. Potrai dunque in tal caso dire: Quare tristis es, anima mea etquare conturbas me? Spera in Deo, quoniam adhuc confitebor illi, salutare vultus mei, et Deus meus. Ut quid, Domine, recessisti longe, despicis in opportunitate in tribulatione? Non me derelinquas usquequaque. – E ricordandoti di quella sacra dottrina, che Iddio infuse nel tempo delle tribolazioni alla sua diletta Sara, moglie di Tobia, servitene anche tu dicendo con viva voce: Hoc autem prò certo habet omnis, qui te colit, quod vita ejus si in probatione fuerit, coronabitur; si autem in tribulatione fuerit, liberabitur: et si in correptione fuerit, ad misericordiam tuam venire licebit. Non enim delectaris in perditionibus nostris, quia post tempestatem tranquillum facis, et post lacrimationem et fletum, exultatione infundis. Sit nomen tuum, Deus Israel benedictum in sæcula. (Tob. III, 22-23). [Ma questo è tenuto Per certo da chiunque ti onora, che se la sua vita sarà messa alla prova, ei sarà coronato;  e s’ei, sarà in tribolazione, sarà liberato; e se  sarà sotto la verga potrà pervenire alla tua misericordia. Perocchè tu della perdizione nostra non hai diletto, e dopo la tempesta fai la bonaccia, e dopo le lacrime, e i sospiri infondi il giubilo. Sia il nome tuo, o Dio d’Israele, benedetto pe’ secoli.] – Ti ricorderai ancora del tuo Cristo che nell’orto e nella Croce, a sua gran pena, dal Padre suo abbandonato, e con esso sopportando la Croce di tutto cuore dirai: Fiat voluntas tua. – Che, così facendo, la tua pazienza ed orazione leveranno le fiamme del sacrificio del tuo cuore insino al trono di Dio, rimanendo tu vera devota. Essendo (come ti ho detto) la vera devozione, una viva prontezza di verità e ferma, di seguire Cristo con la Croce in spalla per qualunque via a sé ne invita e chiama, e volere Dio per Dio, e lasciare talvolta Dio per Dio. E se da questa e non dalla sensibile devozione, molte persone che attendono allo spirito, e massimamente le donne, misurassero il profitto loro, non sarebbero ingannate da loro stesse né dal demonio, né si dorrebbero inutilmente da loro stesse, anzi ingratamente, d’un tanto bene che loro fa il Signore, ed attenderebbero con fervore maggiore a servire S. D. M. che tutto dispone a gloria sua e nostro bene. Ed in questo ancora s’ingannano le donne, che con timore e prudenza si guardano dalle occasioni di peccati, le quali essendo talora molestate da orribili, brutti e spaventevoli pensieri, e quando da visioni ancora bruttissime, si confondono, si perdono d’animo, e si danno a credere d’esser abbandonate e lontane in tutto da Dio, non potendosi persuadere, che in mente piena di sì fatti pensieri vi possa abitare il suo divino spirito. – Così restando molto abbattute, quasi sono per disperarsi, e lasciano ogni loro buon esercizio, ritornarsene all’Egitto. Né comprendono bene queste, la grazia che loro fa il Signore, il quale le lascia assalire da questi spiriti di tentazione, per ridurle al conoscimento di loro stesse, e perché come bisognose di aiuto, si accostino a Lui. Onde ingratamente si dolgono di quello, di che dovrebbero restarne obbligate alla sua infinita bontà. – Quello, che tu devi fare in tali avvenimenti, si è, che ti profondi nella considerazione della tua inclinazione perversa, la quale vuole Iddio per tuo bene, che tu conosca pronta ad ogni gravissimo male, e che senza il suo soccorso precipiteresti in estrema rovina. E da questo entra in speranza e confidenza ch’Egli sia per aiuto, poiché ti fa vedere il pericolo, e ti vuol tirare più presto a sé con l’orazione, e col ricorso a Lui, al quale perciò ne devi rendere umilissime grazie. E tieni per certo, che simili spiriti di tentazione, e pensieri brutti meglio si cacciano con una paziente tolleranza della pena, e con una destra rivolta di spalle, che con troppo ansiosa resistenza.

 Dell’Esame della Coscienza.

CAP. LX

Per l’esame della coscienza, considera tre cose:

Le cadute di quel giorno.

La cagione loro, e

L’animo, e la prontezza, che tieni per far loro guerra, ed acquistare le virtù loro contrarie.

Intorno alle cadute farai, quanto ti ho detto nel Capitolo di quando siamo feriti.  La cagione di esse ti sforzerai di abbattere, e mandare a terra. – La volontà per far questo e per l’acquisto delle virtù, fortificherai con la diffidenza di te stessa, con la confidenza in Dio, con l’orazione, e con la moltitudine degli atti odiosi del vizio, e desiderosi della virtù contraria. – Le vittorie ed opere buone, che avrai fatte, ti siano sospette. Oltre che non consiglio che molto le consideri, per lo pericolo quali inevitabile, almeno di qualche motivo occulto di vanagloria, e superbia. Onde lasciatele addietro tutte alla misericordia di Dio, quali essi siano, indrizza il tuo pensiero al molto più, che ti rimane da fare. Per quanto tocca poi al rendimento di grazie dei doni e favori, che il Signore ti ha fatti in quel giorno, riconoscilo per fattore d’ogni bene e ringrazialo, perché ti ha liberata da tanti nemici manifesti, e molto più dagli occulti; che ti ha dati pensieri buoni occasioni delle virtù e di ogni altro benefizio che tu non conosci.

Come in questa battaglia fa bisogna continuare, combattendo sempre fino alla morte.

CAP. LXI

Fra le altre cose, che si ricercano in questo combattimento, l’una è la perseveranza, con la quale dobbiamo attendere a mortificare sempre le nostre passioni, che in questa vita non muoiono mai, anzi come mal’erba ogn’or germogliano. E questa è battaglia, che siccome non finisce se non con la vita, così non si può da noi fuggire, e chi non vi combatte di necessità vi resta preso e morto. Oltre ciò si ha da far con nemici che ci portano odio continuo, onde non se ne può sperar pace né tregua giammai, poiché più crudelmente uccidono, chi più cerca di farsi lor amico. Non ti hai però da spaventare per la potenza, e numero loro, perché in questa battaglia non può restare perditore se non chi vuole. E tutta la forza dei nostri nemici sta in mano del Capitano, per l’onore del quale abbiamo a combattere. Egli non pure non permetterà che ti sia fatta soverchieria, ma per te ancora prenderà le armi, e come più potente di tutt’i tuoi avversari ti darà la vittoria in mano, se tu però con lui insieme, virilmente combattendo, non in te, ma nella sua potenza, e bontà confiderai. – E se il Signore non cosi presto  ti concedesse la palma, non ti perdere d’animo, perché tu hai da essere certa (e questo ti gioverà anco a combattere confidentemente) ch’Egli tutte le cose, che ti si faranno incontro, e quelle che più ti pareranno lontane, anzi contrarie alla tua vittoria (siano di che forte si vogliano) convertirà in benefizio, e vantaggio tuo, se tu ti porterai da fedele e generosa combattitrice. Tu dunque figliuola seguendo il tuo celeste Capitano, che per te ha vinto il Mondo, e dato morte a sè stesso, attendi con magnanimo cuore a quella battaglia, ed alla totale distruzione i tutti i tuoi nemici: che se pure uno ne lasciassi vivo, ti farebbe come stecco negli occhi, e lancia nei fianchi, che t’impedirebbe il corso di così gloriosa vittoria.

Del modo di apparecchiarsi controi nemici che ci assaltano nel tempo della morte.

CAP. LXII

Avvegnaché tutta la nostra vita sia una guerra continua spra la terra, la principale però, e più segnalata giornata è nell’ultima ora del gran pellegrinaggio, poiché chiunque in quei punto cade, non si leva più. Quello che tu hai da fare per trovarti bene apparecchiata allora, è che in questo tempo, che ti è concesso, tu combatta virilmente, essendo, che chi combatte bene in vita, facilmente per l’abito buono già fatto,  ottiene vittoria nel punto della morte. – Oltre a ciò pensa spesse fiate con attenta considerazione alla morte, perché quando ti verrà sopra, la temerai meno, e la mente farà libera e pronta alla battaglia. Gli uomini mondani fuggono da questo pensiero, per non interrompere il compiacimento loro nelle cose terrene alle quali stando volentieri attaccati con amore, sentirebbe pena, se pensassero al doverle lasciare. Così non si diminuisce l’affetto loro disordinato, anzi sempre va più prendendo forza, onde poi il separarli da quella vita, e da cose tanto caro è loro di affanno inestimabile e maggiore alle volte in quelli che più lungamente le hanno goduto.Potrai anche per far meglio questo importante apparecchio immaginarti qualche fiata dì trovarti sola, senz’aiuto alcuno possa fra le ristrettezze della morte, e ridurti alla mente le cose frequenti che ti potrebbero a quel tempo travagliare, e qui poi discorrerai intorno ai rimedi, che ti porterò per potertene meglio servire in quest’ultima angustia, perché il colpo, che si ha da fare una volta sola, fa bisogno, che bene prima s’impari, per non commettere errore, dove non ha luogo l’emenda.

Di quattro assalti dei nostri  nemici nel tempo della morte; e primadell’assalto contro la fede, e del modo di difendersi.

CAP. LXIII

Quattro sono gli assalti principali, e più pericolosi, coi quali i nostri nemici sogliono farsi incontro a noi nel tempo della morte. Questi sono: La tentazione della fede. La disperazione. La vanagloria e varie illusioni, e trasfigurazione di demoni in Angioli di luce. Quanto al primo affare, se l’inimico ti comincerà a tentare con suoi falsi argomenti, ritirati presto dall’intelletto alla volontà dicendo: va addietro satanasso, padre di menzogna, ch’io non ti voglio pur udire, bastandomi di credere, quanto crede la Santa Chiesa Romana.E non dar luogo, per quanto puoi, a pensieri della fede, per amici che ti paressero, tenendoli per motivi del demonio per attaccare briga. Che se pure non fossi a tempo per ritirare la mente a segno, sta forte e falda bene, per non cedere a qualunque ragione, o autorità di scritture che l’avversario allegasse, perché tutte saranno tronche, o mal allegate, o mal interpretate, ancorché a te paressero buone, chiare, ed evidenti. E se l’astuto serpente ti domandasse quello, che crede la Chiesa Romana, non gli rispondere, ma vedendo la sua fallacia, e che pur ti vorrebbe prendere in parole, fa un atto interiore di più viva fede, oppure per farlo scoppiare di sdegno, rispondigli, che la S. Chiesa Romana crede la verità: e se replicasse ilmaligno: Qual è questa verità? tu ripiglia: Quello appunto, ch’ella crede. – Sopra tutto tieni sempre il cuore intento al Crocifisso, dicendo: Iddio mio Creatore, e Salvator mio, soccorrimi presto, e non ti partire da me, perché io non mi parta dalla verità  della tua Santa Fede Cattolica; e piacciati, che in quella, come per tua grazi a nata sono, così a gloria tua finisca questa vita mortale.

Dell’assalto della disperazione, e del suo riparo.

CAP. LXIV

L’altro assalto, col quale si sforza il perverso demonio di abbatterci affatto, è lo spavento, che ci mette con la memoria delle nostre colpe, per farci precipitare dentro la fossa della disperazione. In questo pericolo, attendi a questa regola certa, che i pensieri dei tuoi peccati sono dalla grazia, ed a tua salute, quando in te fanno effetto di umiltà, di dolore dell’offesa di Dio, e di confidenza nella bontà sua. Ma quando t’inquietano e pongono in diffidenza, e pusillanimità, ancorché a te paressero di cose vere, e sufficienti a darti adintendere che tu sei dannata, e che per te. non vi è più tempo di salute, riconoscili pure per effetto dell’ingannatore; umiliati più, e più confida in Dio, che a questo modo con le stesse sue armi, vincerai il nemico, ed al Signore darai la gloria. Dogliati sì dell’offesa divina, ogni volta che ti viene a memoria, ma però con confidenza nella tua passione domandane perdono. Di più ti dico che, se ti paresse che lo stesso Dio ti dicesse, che tu non sei delle sue pecorelle, tu però non dovresti lasciare in conto veruno la confidenza in Lui, ma umilmente dirgli: Hai ben ragione per i miei peccati, Signore mio, di riprovarmi , ma io nella tua pietà ne ho una maggiore, perché tu mi perdoni. Onde ti domando la salute di questa meschina creatura tua, dannata sì dalla sua malizia, ma redenta col prezzo del tuo Sangue. Mi voglio, Redentor mio, a gloria tua salvare, e con fiducia della tua immensa misericordia, mi lascio tutta nelle tue mani. Fa’ di me quanto ti piace, perché tu sei il mio unico Signore, che se anco mi uccidessi, pure in te voglio tener vive le speranze mie.

Dell’ assalto della vanagloria.

CAP. LXV

Il terzo assalto è della vanagloria, e presunzione. In questo non ti lasciar mai in niuna via immaginabile indurre ad una minima compiacenza di te, né  delle opere tue. Ma il tuo compiacimento sia nel Signore puramente, nella sua pietà, e nelle opere della sua vita, e passione. Avvilisciti sempre più negli occhi tuoi, infino all’ultimo spirito d’ogni bene fatto da te, che ti si rappresentasse davanti, riconosci Dio solo per Autore. Ricorri all’aiuto suo, ma non l’aspettare per i meriti tuoi, per molte, e grandi battaglie che avessi superate. E sta sempre in un santo timore, confessando sinceramente, che tutte le tue provvisioni farebbero vane, se sotto l’ombra delle sue ali non ti raccogliesse il tuo Dio, nella cui protezione unicamente confiderai. seguendo questi avvisi non potranno contro te prevalere i tuoi nemici. E cosi ti aprirai la strada per passare lietamente alla Gerusalemme celeste.

Dell’assalto delle illusioni, e false apparenze nel punto della morte.

CAP. LXVI

Se l’ostinato nostro nemico, che non si stanca mai di travagliare ti assalisce con apparenze false, e trasfigurazioni in Angiolo di luce, sta pur ferma e salda nella cognizione del tuo niente e digli arditamente: Ritorna infelice nelle tue tenebre ch’io non merito visioni, né ho bisogno di altro, che  della misericordia dei mio Gesù, e dei preghi di Maria Vergine, di S. Giuseppe e degli altri Santi. – E se pure ti paresse per molti quasi evidenti segni che fossero cose venute dal Cielo, ricusale pure e scacciale lungi da te, quanto puoi, né temer, che questa resistenza fondata nella tua indegnità dispiaccia al Signore, perché se il negozio farà suo, saprà Egli bene chiarirlo, e tu niente perderai, poiché chi dà la grazia agli umili non la leva per atti, che si facciano d’umiltà. – Queste sono l’armi più comuni che il nemico suole ad operare contro noi in quell’estremo passo. Ciascuno poi va tentando, secondo le particolari inclinazioni, alle quali il conosce più soggetto. Però prima, che si avvicini l’ora del gran conflitto, dobbiamo contro le nostre passioni più violente e che più ci signoreggiano, armarci bene, e combattere valentemente, per facilitare la vittoria, nel tempo che ci toglie ogni altro tempo di poterlo fare.

Pugnabis contra eos usque ad internecionem (1. Reg. XV, l8).

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (10)

IL COMBATTIMENTO SPIRITUALE (10)

[P. Lorenzo SCUPOLI, presso G. A. Pezzana, Venezia – 1767)

Della meditazione della passione di Cristo per cavarne diversi affetti.

CAP. LI

Quello che sopra ho detto intorno alla Passione del Signore serve per orare e meditare e per via di domande, ed ora soggiungo: come possiamo dalla stessa trarne diversi affetti. Ti proponi (per esempio) di meditare la Crocifissione, nel qual mistero, fra gli altri punti, puoi considerare i seguenti. – Primo. Come essendo il Signore sopra il monte Calvario, furiosamente spogliato da quelle arrabbiate genti, se gli tracciarono a pezzi le carni, attaccate, per le passate battiture ai vestimenti. – Secondo. Come gli fu levata di capo la Corona di spine, la quale essendogli poi rimessa, gli fu cagione di nuove ferite. – Terzo. Come fu a colpi di martello e chiodi crudelmente confitto in Croce. – Quarto. Come le sue sacre membra, non arrivando all’aperture fatto per lo detto effetto, furono con tanta violenza tirate da quei cani che gli ossi tutti slogati si potevano numerare ad uno ad uno. – Quinto. Come pendendo il Signore sul duro legno, né avendo altro sostegno, che dei chiodi, per lo peso del corpo, che calava abbasso, si allargarono ed inasprirono con indicibile dolore le sue sacratissime piaghe. Da questi o altri punti, volendo eccitar in te affetto d’amore, studiati con la meditazione di essi, di passare da cognizione in maggior cognizione dell’infinita bontà del tuo Signore e amore verso di te, che per te volle tanto patire che, quanto si aumenta in te questa cognizione, tanto crescerà parimenti l’amore. Dalla stessa cognizione della bontà ed amore infinito che lo stesso Signore ti ha mostrato, facilmente ne caverai contrizione e dolore di avere offeso tante volte e con tanta ingratitudine il tuo Dio, che per le tue iniquità è stato maltrattato; e stracciato in tante maniere. Per indotti a speranza, considera che in quello stato di tanta calamità, è caduto un Signore sì grande per estinguere il peccato e liberarti dai lacci del demonio e delle colpe tue particolari, per renderti propizio il suo Padre eterno, e per darti confidenza di ricorrere a Lui in ogni tuo bisogno. – Allegrezza ne sentirai passando dalle sue pene agli effetti loro, cioè che per quelle purga i peccati di tutto il mondo, placa l’ira del Padre, confonde il principe delle tenebre, uccide la morte e riempie le sedie Angeliche. Di più muoviti ad allegrezza per lo contento che ne riceve la Santissima Trinità, con Maria Vergine, la Chiesa trionfante e militante. Per incitarti all’odio dei tuoi peccati, tutti i punti che mediterai, applica a questo solo fine, come se per altro effetto il Signore non avesse patito, che per indurti all’odio delle tue male inclinazioni, e di quella appunto che ti domina, e più dispiace alla sua divina bontà. Per muoverti a meraviglia considera qual cosa può essere maggiore di questa, vedere il Creatore dell’universo, che a tutte le cose dà vita, esser perseguitato a morte dalle creature, vedere conculcata, avvilita la Maestà suprema! La giustizia condannata, sputacchiata la bellezza di Dio, odiato l’amore  del celeste Padre. Quella luce increata ed inaccessibile, ridotta in potestà delle tenebre; la stessa gloria e felicità, reputata disonore e vituperio del genere umano ed abissata in estrema miseria. Per compassionare il tuo addolorato Signore, oltre il meditar le sue pene esteriori, penetra col pensiero ad altre, senza paragone maggiori, che internamente lo tormentavano. Che se per quelle ti affliggerai, per quelle sia meraviglia, come non si spezzi il tuo cuore di doglia. Vedeva l’anima di Cristo l’offesa divina, come ora la vede in Cielo, la conosceva degnissima sopra modo d’ogni onore e servigio, ed a quello per ineffabile suo amore verso di lei, desiderava che tutte le creature s’impiegassero con tutte le forze loro. Onde vedendola per lo contrario, per le infinite colpe ed abbominevoli scelleratezze del mondo, così umanamente offesa e vituperata, era in un istesso tempo trafitta da infinite punture di doglie, le quali tanto più la cruciavano, quanto maggiore era il suo amore e desiderio, che sì alta Maestà fosse da tutti onorata e servita. – E come la grandezza di questo amore e desiderio non si può capire, cosi non è, chi possa arrivare a conoscere, quanto acerba e grave fosse perciò l’afflizione del Crocifisso Signore. Di più amando Egli tutte le creature indicibilmente, a proporzione di questo amore, si dolse sopra modo per tutti i loro peccati per li quali erano per separarsi da Lui, perché per ogni peccato mortale che avevano fatto, ed avevano da fare tutti gli uomini che furono, e faranno mai tante volte, quante ciascuno peccava, altrettante si separava dall’anima del Signore, con la quale era per carità consunto. Separazione tanto più dolorosa, che quella dei corporali membri, quando si disgiungono dal luogo loro naturale: quanto l’anima, per essere puro spirito, e del corpo più nobile e più perfetta, era perciò più capace di dolore. Fra queste passioni per le creature, fu acerbissima quella che provò il Signore per tatti i peccati dei dannati, i quali non potendo mai più riunirsi a Lui, erano per patire eterni incomparabili tormenti. E se l’anima intenerita del caro Gesù, passerà più avanti col pensiero, troverà in Lui per compatirle, pene pur troppo gravi non pure per li peccati commessi, ma per quelli ancora che non furono commessi mai: perché non è dubbio che il perdono di quelli e la preservazione da questi, ei guadagnò il Signor Nostro a costo dei suoi preziosi travagli. Non ti mancheranno, figliuola altre considerazioni per condolerti col tuo appassionato Crocifisso. Perché non è stato, né sarà mai dolore alcuno in qualsivoglia ragionevole creatura, ch’Egli in se stesso non abbia sentito. Le ingiurie e le tentazioni, le infamie e le penitenze, ed ogni angustia e travaglio di tutti gli uomini del mondo cruciarono l’anima di Cristo più vivamente che non fecero di quegli stessi che le patirono. Perché tutte le loro afflizioni, grandi e piccole dell’anima e del corpo, fino ad una minima doglia di capo e puntura d’ago, vide perfettamente, e per la sua immensa carità volle compatire ed imprimere nel cuor suo il pietosissimo Signor nostro. Ma quanto l’accorarono le pene della sua SS. Madre, non è chi lo possa spiegare. Perché Ella in tutti i modi, e per tutti i rispetti che il Signor si dolse e patì tanto, in tutti ancora, benché non così intensamente, ma però acerbissimamente si dolse e patì la Verginella Santa. E questi suoi dolori stessi rinnovarono al suo benedetto Figliuolo le interne plaghe, e ne restò, come tante saette infocate d’amore, ferito il suo dolcissimo Cuore, il quale per tanti tormenti, che ho detto, e per altri quali infiniti occulti a noi, ben si potrebbe dire, che fosse un “amoroso inferno di volontarie pene”, come si scrive di un’anima devota, che così con santa semplicità soleva chiamarlo. Se tu, Figliuola, consideri bene la cagione di tutti i suddetti dolori che tollerò il nostro Crocifisso Redentore e Signore, altri non troverai, che il peccato. Onde ne segue chiaramente, che il vero e principale compatire, ed il rendimento di grazie, ch’Egli da noi ricerca e gli dobbiamo indicibilmente, è il dolerci noi puramente per amor suo, della sua offesa, odiare sopra ogni odio il peccato e combattere generosamente contro tutti i nemici suoi e le male nostre inclinazioni, perché spogliatici dell’uomo vecchio e degli atti suoi ci vestiamo del nuovo, ornando l’animo nostro delle virtù evangeliche.

Dei profitti, che si possono trarre dalla  meditazione del Crocifisso,e della imitazione delle sue virtù.

CAP. LII

Tra gli altri profitti, che sono molti, che tu devi cavare da questa santa meditazione, l’uno sia che tu non pure ti dolga dei peccati tuoi passati, ma anche ti affligga perché vivano in te le disordinate tue passioni, che hanno posto in croce il tuo Signore. – L’altro, che tu le chieda perdono delle tue colpe e la grazia del perfetto odio di te stessa per non offenderlo più, anzi, in ricompensa di tanti suoi affanni per te, amarlo e servirlo per l’avvenire perfettamente; il che senza quest’odio non si può fare. – Il terzo, che con effetto tu perseguiti a morte ogni tua mala inclinazione per piccola che sia. – Il quarto è, che a tutto poteri ti sforzi d’imitare le virtù del Salvatore, il quale ha patito non pure per redimerci, soddisfacendo per le nostre iniquità, ma anco per darci esempio di seguitare i suoi santi vestigi. Qui ti propongo un modo di meditazione che ti servirà per questo effetto. Desiderando tu adunque di far acquisto (per esempio) della pazienza, per imitare il tuo Cristo, considera i seguenti punti: primo; quello che faccia l’anima di Cristo appassionato verso Dio. – Secondo che faccia Iddio verso l’anima di Cristo. – Terzo, che faccia l’anima di Cristo verso la stessa ed il suo sacratissimo Corpo. – Quarto, quello che faccia Cristo verso di noi. – Quinto, quello che noi dobbiamo fare verso Cristo. Primieramente dunque considera, come l’anima di Cristo, stando tutta intenta in Dio, stupisce vedendo quella infinita e incomprensibile grandezza, a pari di cui tutte le cose create sono come un puro niente, sottoposta (stando più immobile nella sua gloria) a sopportare in terra trattamenti degnissimi per l’uomo, da cui non ha ricevuto altro che infedeltà ed ingiurie, e come l’adora, la ringrazia, e tutta se le offre. – Secondo. Mira appresso che fa Iddio verso l’anima di Cristo, come vuole e la spinge a sostenere per noi le guanciate, gli sputi, le bestemmie, i flagelli, le spine e la Croce, scoprendole il suo compiacimento di vederla tutta ricolmata d’ogni sorta di obbrobri ed afflizioni. – Terzo. Da quello passa all’anima di Cristo, e pensa come col suo intelletto tutto lume scorgendo, quanto sia grande in Dio questo compiacimento, e con l’affetto tutto fuoco amando sua Divina Maestà, sopra ogni misura, e per l’infinito suo merito, e per gli obblighi immensi che gli aveva; essendo da lei invitata a patire per nostro amore ed esempio, contenta e lieta si dispone ad ubbidire prontamente alla sua santissima volontà. E chi può penetrare dentro quei profondi desideri, che di ciò aveva quell’anima purissima, ed amorosissima? Quivi ella si trova quasi in un labirinto di travagli, cercando sempre e non trovando (come vorrebbe) nuovi modi e vie di patimenti. E però liberamente dà tutta se stessa e le sue innocentissime carni, perché ne facessero ciò che volessero, in discrezione e preda degl’iniqui uomini, e demoni dell’inferno. – Quarto. Dopo questo riguarda il tuo Gesù, che con occhi di pietà verso di te rivolto ti dice: Ecco, figliuola, dove, per non volerti tu fare un poco di violenza, mi hanno condotto le tue smoderate voglie. Ecco quanto patisco e quanto allegramente per tuo amore, e per darti esempio di vera pazienza. Per tutti i dolori miei, ti prego, figliuola, che tu porti volentieri questa Croce, ed ogni altra che a me più piaccia, lasciandoti affatto nelle mani di tutti i persecutori che ti darò, siano pure vili e crudeli quanto più si possa, contro l’onore ed il corpo tuo. Oh, se tu sapessi la consolazione che ne sentirò! Ma puoi bene vederla in quelle ferite che ho volute come care gioie ricevere, per ornare di preziose virtù la povera anima tua, da me, sopra ogni tua stima diletta. E se io per questo sono ridotto a così estremo passo, perché, sposa mia cara, non vorrai tu patire un poco per soddisfare al cuor mio, ed addolcire quelle piaghe che mi ha cagionate la tua impazienza, la quale più che le piaghe tue stesse, così amaramente mi afflisse? – Quinto. Pensa poi bene. Chi sia quello che cosi teco ragiona e vedrai, che è lo stesso Re di gloria Cristo vero Dio, ed uomo vero. Confiderà la grandezza dei suoi tormenti, e vituperi che sarebbero indegni del più infame ladro del mondo. Vedi il tuo Signore fra tanti strazi stare non pure immobile e paziente a meraviglia, ma che ne gode, come di sue nozze. E che siccome per poco acqua più si accende il fuoco, così con l’aumento dei cruciati, che alla sua sovrabbondante carità erano piccioli, cresceva più sempre il godimento e la brama di soffrirne di maggiori. Considera che tutto ciò ha patito ed operato, il clementissimo Signore, non per forza né per suo interesse, ma (come Egli ti ha detto) per la carità sua verso di te, e perché tu a sua imitazione ti eserciti nella virtù della pazienza: e penetrando bene à dentro quello che Egli da te vuole, ed al contento che gli darai con l’esercitarti in quella virtù, produci atti d’infuocate voglie di portare non solo pazientemente, ma con allegrezza, la tua Croce d’allora ed ogni altra, quando fosse più grave, per meglio imitare il tuo Dio, e dargli maggior conforto. – E ponendoti innanzi gli occhi della mente le sue ignominie ed amarezze gustate per te, e la costanza sua, vergognati di stimare che la tua sia pura ombra di pazienza, né i tuoi siano veri dolori e vituperi. E temi e trema, che anco un minimo pensiero di non voler patire per amore del tuo Signore, trovi luogo da fermarsi pure un poco dentro al tuo cuore. Questo stesso Signore crocifisso, figliuola mia, è il libro ch’io ti dò a leggere, dal quale tu potrai cavarne il vero ritratto d’ogni virtù. Perché essendo libro di vita, non pure ammaestra l’intelletto con parole, ma anche con il vivo esempio infiamma la volontà. Dei libri è pieno tutto il mondo, e nondimeno non possono tutti insieme così perfettamente insegnare il modo d’acquistare tutte le virtù, come si fa mirando in Dio Crocifisso. – E sappi figliuola, che coloro che spendono molte ore in piangere la passione di Nostro Signore e considerare la pazienza sua, e poi nelle avvesità, che sopravvengono, si mostrano cosi impazienti, come se nell’orazione avessero ogni altra cosa appreso, sono simili a dei soldati del mondo che, sotto i padiglioni avanti il tempo della battaglia si promettono cose grandi, e poi al comparir dei nemici, lasciate le armi, si danno a fuggire. E qual cosa può essere più stolta, e miserabile di questa, che mirare come in un lucido specchio le virtù del Signore ed amarle, ed ammirarle, e poi scordarsene affatto, o non stimarle, quando si presenta l’occasione di esercitarle?

Del Santissimo Sacramento dell’Eucaristia.

CAP. LIII

Sin qui figliuola, ti ho (come hai veduto) provveduta di quattro armi, che ti bisognavano per vincere i tuoi nemici, e di molti avvertimenti, per maneggiarle bene, ma ora resta che io te ne proponga un’altra, che è il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia. Che siccome questo Sacramento è sopra tutti gli altri Sacramenti, così questa quint’arma è superiore a tutte le altre. Le quattro suddette pigliano il valore, e dai meriti e grazia che ci hanno meritato il Sangue di Cristo, ma quest’arma è il Sangue e la carne con l’anima e la divinità di Cristo. Con quelle si combatte contro i nemici, con la virtù di Cristo, e Cristo li combatte insieme con noi, poiché, chi mangia la carne di Cristo, e beve il suo Sangue, sta con Cristo e Cristo sta con Lui. E perché questo SS. Sacramento, e quest’arma in due modi si può esercitare, e pigliare Sacramentalmente una volta il giorno, e spiritualmente ogni ora, ed ogni momento, non devi lasciare di prenderla spessissime volte nel secondo modo, e sempre, quando ti è concesso, nel primo.

Del modo di ricevere il SS. Sacramento dell’Eucaristia.

CAP. LIV

Per diversi fini possiamo noi accostarci a questo Divinissimo Sacramento, per conseguire li quali abbiamo a fare diverse cose divise in tre tempi. Avanti la comunione, quando stiamo per comunicarci: e dopo la comunione. – Avanti la comunione (e ricevasi pure per qual fine si voglia) è di bisogno, che ci laviamo e mondiamo col Sacramento della penitenza dalla macchia di peccato mortale, se vi fosse, e che con l’affetto di tutto cuore ci diamo tutti con tutta l’anima, con tutte le forze, e con tutte le potenze a Gesù Cristo, ed a quanto piace a Lui giacché Egli in questo Sacratissimo Sacramento a noi dà il sangue suo, e la carne, con l’anima, con la divinità, o con i meriti suoi: e considerando che poco e quasi niente è il dono nostro a rispetto del suo, dobbiamo considerare d’avere, quanto mai gli hanno offerto e dato tutte le creature umane e celesti, per darlo a sua Divina Maestà. Onde volendo tu riceverlo a fine, che si vincano in te e distruggano i tuoi e suoi nemici, avanti che ti comunichi, comincia dalla sera, o quanto prima, a considerare il desiderio che ha il Figliuolo di Dio, che tu gli dia luogo nel cuor tuo, con questo Sacramento, per unirsi teco, ed aiutarti ad espugnare ogni tua viziosa passione. Questo desiderio è nel Signor nostro così grande ed immenso, che da creato intelletto non può esser compreso. Tu per fartene in qualche parte capace, t’imprimerai bene nella mente due cose. Una è il compiacimento ineffabile del sopra buono Iddio di starsi con noi, poiché questo chiama delizie sue. – L’altra è il considerare, ch’Egli odia sopra modo il peccato, e come impedimento ed ostacolo alla sua unione con noi tanto da Lui bramata, e come in tutto contrario alle Divine perfezioni sue, perché essendo Egli sommo bene, pura luce e bellezza infinita, non può se non odiare, ed abbominare infinitamente il peccato, che altro non è che tenebre, difetto e macchia intollerabile delle anime nostre. Ed è così ardente quest’odio del Signore contro il peccato, che alla sua distruzione sono state ordinate tutte le opere del vecchio e nuovo Testamento, e particolarmente quelle della sacratissima passione del suo Figliuolo, il quale dicono gl’illuminati Servi di Dio, che per annullare in noi ogni nostra ben piccola colpa, di nuovo (se fosse bisogno) si esporrebbe a ben mille morti. Dalle quali considerazioni, venendo tu a comprendere, benché molto imperfettamente, la grandezza del desiderio che tiene il Signore di entrare nel cuor tuo, per scacciare fuori ed abbattere in tutto i tuoi e suoi nemici, ecciterai in te una viva voglia di riceverlo per l’istesso effetto. – Cosi fatta tutta generosa, e preso d’animo dalla speranza della venuta in te del tuo celeste Capitano, chiama più volte a battaglia la passione che hai presa per vincere e reprimerla con replicate ed odiose voglie, producendo atti di virtù a quella contrari, e così andrai continuando la sera e la mattina avanti la SS. Comunione. – Quando poi sarai per prendere il Santo Sacramento, un poco avanti darai un breve sguardo ai tuoi mancamenti dalla precedente Comunione fino allora, i quali così sono stati da te commessi, come se Iddio non fosse, né avesse per te tanto tollerato ne’ misteri della Croce, facendo tu più conto di un vile contento e delle tue voglie, che della volontà di Dio e del suo onore, e con vergogna di te medesima, e con un santo timore ti confonderai nella tua ingratitudine ed indegnità. Ma pensando poi, che l’abisso smisurato della bontà del tuo Signore, chiama l’abisso della tua ingratitudine e poca fede, accostati a Lui confidentemente, dandogli largo luogo nel cuore, perché se ne faccia total Padrone. Ed allora gli darai largo luogo, quando da esso cuore ne scaccerai fuori qualunque affetto delle creature, chiudendolo poi perché altro non vi entri, che il tuo Signore. – Comunicata che sarai, ritirati subito nel segreto del cuor tuo, ed adoratelo prima, così con ogni umiltà e riverenza, ragiona mentalmente col tuo Signore: Tu vedi unico mio bene, quanto facilmente io ti offenda, e quanto possa contro di me questa passione e che da me non valgo a liberarmi. Però tua è principalmente questa pugna, e da te solo spero la vittoria, benché a me ancora bisogni combattere. Poi rivolta al Padre Eterno, offrigli per rendimento di grazie, e per la vittoria di te stessa il suo benedetto Figliuolo, ch’Egli ti ha dato e che già tieni dentro di te, e generosamente combattendo contro la suddetta passione, con fede  aspetta la vittoria da Dio, che non è per mancarti, se dal tuo canto tu farai quanto potrai, ancorché la ritardasse.

Come dobbiamo prepararci alle Comunione, affine di eccitare in noi l’amore.

CAP. LV

Per eccitarti con questo sopra-celeste Sacramento ad amar il tuo Dio, ti volterai col pensiero all’amore suo verso di te, meditando dalla sera innanzi. – Come quel grande ed onnipotente Signore, non contento d’averti creata ad immagine e somiglianza sua, e d’avere mandato in terra il suo Unigenito Figlio a patire trentatré anni per le tue iniquità e sopportar asprissimi travagli, e la penosa morte della Croce per ricomperarti, volle di più lasciartelo per tuo cibo e bisogno nel SS. Sacramento dell’Altare. Considera bene, figliuola l’eccellenza incomprensibile di questo amore, che lo rendono in tutte le sue parti perfettissimo e singolare. Perché se miriamo al tempo, il nostro Iddio ci ha amato perpetuamente e senza alcun principio, e quanto Egli è eterno nella sua divinità, tanto ancora eterno è l’amore col quale avanti tutti i secoli fu stabilito nella sua mente di darci il suo Figlio in questo modo meraviglioso. Di che giubbilando dentro di te per interna letizia, potrai così dire: Dunque in quell’abisso di eternità, la mia piccolezza era tanto stimata ed amata dal sommo Dio, ch’Egli pensava di me e bramava, con voglie di carità ineffabile, di darmi il suo stesso Figliuolo in cibo? – Secondo. Di più, tutti gli altri amori, per grandi, che siano, hanno qualche termine, né possono più oltre estendersi, ma questo solo del Signor nostro è senza misura. E però volendo soddisfarsi a pieno, ha dato il proprio Figliuolo, di Maestà ed infinità uguale a Lui,  e di una stessa sostanza e natura. Onde tanto è l’amore, quanto il dono, e tanto il dono, quanto l’amore, e l’uno e l’altro così grande, che maggior grandezza da nessuno intelletto immaginar si puote. – Terzo. Né ad amarci è stato tirato Iddio da alcuna necessità o forza, ma in sua intrinseca naturale bontà unicamente l’ha mosso a tale e tanto incomprensibile affetto verso di noi. – Quarto. Né opera alcuna o merito nostro ha potuto precedere, perché quell’immenso Signore facesse con la meschinità nostra  tanto eccesso di amore, ma per sua sola liberalità, tutto si è Egli donato a noi indegnissime creature sue. – Quinto. E se ti rivolti col pensiero alla purità di questo amore vedrai che non è, come gli amori mondani, mischiato con alcuno interesse, poiché il Signore nostro non ha bisogno dei nostri beni, essendo Egli senza noi in sé stesso solo, felicissimo, e gloriosissimo, come è stata la sua ineffabile bontà e carità puramente impiegata in noi, non per suo, ma per beneficio nostro. – Il che pensando tu bene, dirai fra te medesima: Com’è , che Signore tanto sublime, ponga il suo cuore in creatura così bassa? Che vuoi tu, Re di gloria? che aspetti da me, che altro non sono che poca polvere? Scorgo io bene, Dio mio, nel lume della tua sola carità, che un solo disegno ne hai, che più chiaramente mi scopri la purità del tuo amore verso di me, poiché non per altro mi ti doni tutto in cibo, che per convertirmi tutta in te, non  per bisogno che di me tu abbia, ma perché vivendola in me, io in te, io diventi per union amorosa tu stesso, e della viltà del cuore terreno si faccia teco un solo divino cuore. –  Onde tu piena di stupore, e giocondità, vedendoti così altamente pregiata, ed amata da Dio, e conoscendo ch’Egli col suo onnipotente amore altro non intende, né vuole da te, che ritirare in sé tutto l’amor tuo, togliendoti prima da tutte le creature, e poi anco da te stessa, che creatura sei; offriti tutta al tuo Signore in olocausto, perché da qui in poi il suo solo amore e piacimento divino muova l’intelletto, la volontà, la memoria tua, e regga i sensi tuoi. – E vedendo poi, che nessuna cosa possa in te produrre sì divini effetti, come il ricercarlo degnamente nel SS. Sacramento dell’Altare, aprigli il cuore per quell’effetto, con le seguenti orazioni giaculatorie ed aspirazioni amorose: « Oh cibo sopraceleste, quando sia quell’ora che non con altro fuoco che del tuo amore io mi santifichi tutta a te, quando, quando, o amore increato? Oh pane vivo, quando io vivrò solamente in te, per te, ed a te? Deh quando, vita mia, vita bella, gioconda, ed eterna? O manna celeste, quando fastidita io di qualunque altro cibo terreno te sola bramerò? di te sola mi pascerò? quando sarà, dolcezza mia, quando unico mio bene? Deh Signor mio amoroso ed onnipotente, libera ormai questo misero cuore da ogni attacco e da ogni viziosa passione, ornalo delle tue sante virtù, e di quel fine puro di fare ogni cosa puramente per piacere a te, che a questo modo verrò io ad aprirti il cuore, ti invierò e ti farò dolce violenza, perché vi entri: onde tu, Signore, senza resistenza opererai poi in me quegli effetti, che hai sempre desiderati. » – Ed in questi amorosi affetti ti potrai esercitare la sera, e la mattina, per l’apparecchio della Comunione. Avvicinandosi poi il tempo della comunione, pensa, che cosa sei per pigliare: il Figliuolo di Dio, di Maestà incomprensibile avanti della quale tremano i Cieli, e le potestà tutte; il Santo dei Santi, lo Specchio senza macchia e la Purità incomprensibile, alla comparazione della quale non è creatura che monda sia; quello che, come verme e feccia della plebe, volle per amor tuo essere rifiutato, calpestato, illuso, sputacchiato, e crocifisso dalla malizia ed iniquità del mondo. Sei (dico) per ricevere Dio, in mano del quale sta la vita e la morte di tutto l’universo. – Che tu all’incontro, come da te sei un niente, e che per lo peccato e malizia tua, ti sei fatta inferiore a qualunque vilissima ed immonda creatura irrazionale, degna d’esser confusa ed illusa da tutti i demoni infernali. E che in cambio di gratitudine e tanti immensi ed innumerabili benefìci, hai nei tuoi capricci e voglie spregiato un tanto e tale, alto ed amorevole Signore, e conculcato il suo prezioso sangue. – Che con tutto ciò, nella sua carità perpetua ed immutabile bontà, Egli ti chiama alla sua divina mensa, e talora ti costringe, perché vi vada con minacce di morte e chiude la porta della sua pietà, né anco ti volta le sue divine spalle, benché tu per natura sei lebbrosa, zoppa, idropica, cieca, indemoniata, e ti sei data a molti fornicatori. Questo solo domanda da te; Primo, che ti dolga dell’offesa sua. Secondo. Che abbi sopra ogni altra cosa in odio il peccato e grande e picciolo. Terzo. Che tutto ti offra e dia con l’affetto di sempre, e con gli effetti sei nelle occasioni alla volontà obbedienza sua. Quarto. Che speri poi, ed abbi ferma fede, che Egli ti perdonerà, ti farà monda, e guarderà da tutti i nemici tuoi. Confortata da questo amore ineffabile del Signore, ti accosterai poi per comunicarti con un timore santo ed amoroso, dicendo: Io, Signore, non son degna di riceverti per tante e tante volte, che gravemente ti ho offeso, né ancora ho pianto come devo, l’offesa tua. Io, Signore non sono degna di riceverti, perché non sono affatto monda dagli affetti de’ peccai veniali. Io, Signore, non sono degna di riceverti, perché ancora non sinceramente mi sono data al tuo amore, alla tua volontà, ed all’ubbidienza tua. Deh! Signor mio onnipotente ed infinitamente buono, nella virtù della tua bontà e parola, fammi degna, che con quella fede (amor mio) io ti riceva. – Comunicata che sarai, rinchiuditi subito nel segreto del cuor tuo, e scordata di qualunque cosa creata, a questo o somigliante modo ragiona col tuo Signore: O Altissimo Re del Cielo, chi ti ha condotto dentro di me, che sono miserabile, povera, cieca ed ignuda, ed Egli ti risponderà, Amore. E tu replicando dirai: O Amore increato, o Amore dolce, che cosa vuoi tu da me? Non altro ti dirà Egli, che Amore, né altro fuoco voglio, che arda nell’Altare del tuo cuore e nei sacrifici tuoi, ed in tutte le opere tue, che il fuoco dell’amor mio, che consumando ogni altro amore ed ogni tua propria volontà, mi dia odore soavissimo. Questo ho domandato e domando sempre, perché bramo d’essere tutto tuo, e che tu sii tutta mia. Il che non sarà giammai, mentre non facendo di te quella rassegnazione che tanto mi diletta, starai attaccata all’amore di te medesima al tuo proprio parere, e ad ogni tua voglia, e reputazione. – Ti domando l’odio di te stessa per darti il mio amore; e il tuo cuore perché si unisca col mio, che per questo mi fu aperto in Croce, e chieggo tutta te, perché io sia tutto tuo. Tu vedi, che io sono d’incomparabile prezzo, e niente di meno  per mia bontà valgo, quanto vali tu. Comprami dunque ormai anima mia diletta, con dare te a me. Io voglio, figliuola mia dolce, da te, che tu niente voglia, niente pensi, niente intenda, niente veda fuori di me e della mia volontà; acciocché io in te tutto voglia, pensi, intenda e veda, in modo che il tuo niente assorto nell’abisso della mia infinità in questa si converta: così tu sarai in me pienamente felice, e beata ed Io in te tutto contento. Finalmente offrirai al Padre suo Figliuolo, prima per rendimento di grazie, poi per li bisogni suoi, di tutta la Chiesa Santa, di tutt’i tuoi, di quelli a’ quale sei obbligata, e per le anime del Purgatorio; e questa offerta la farai con la memoria ed unione di quella che Egli fece di se stesso quando tutto cruento e pendendo in Croce, si offrì al Padre. – Ed in questo modo gli potrai offrir tutti i sacrifici, che in  quel giorno si fanno nella Chiesa Romana.

QUARESIMALE XXXVII

XXXVII. NEL LUNEDI’ DOPO PASQUA.

Sperabamus quia ipse esset redempturus Israel; et nunc tertia dies est hodie, quod hæc facta sunt.

Luc. XXIV, 21

Chi ama, teme. Non è ciò forse verissimo, o ascoltatori? Anzi teme tanto chi ama, che teme troppo; e palpita ad ogni dubbio, benché improbabile; e spaventa ogni rischio, benché leggiero: res est solliciti plena timoris amor. Non vorrei pertanto che voi mi prendeste a sdegno, se con troppo ingenuo candore io vi discuopro questa mattina un timore che in cuor mi è sorto. Temo che voi non veniate, e forse di breve, ad abbandonare quel santo tenor di vita, il quale avete animosamente intrapreso in questi dì sacri. Non vi offendete, perciò, miei signori, non vi offendete; perché sì fatto timore non nasce in me dalla gravità del pericolo ch’io ne sorga; né anche nasce da vile stima ch’io m’abbia della vostra pietà, della vostra sodezza, del vostro senno: nasce, se così mi sia lecito di parlare, da grande amore. Benché, a dire il vero, non è né anche il pericolo sì leggiero, o si inverosimile, che non porti il pregio dell’opera prevenirlo. E non udiste ciò che pur ora nel Vangelo sì è letto di quei due tanto celebri pellegrini che se ne andavano in Emausse? Si erano essi, non può negarsi, da principio portati sì fedelmente, dando intera credenza ai detti di Cristo, e concependo indubitate speranze della resurrezione di Cristo: Sperabamus quia ipse esset redempturus Israel. Ma perché già comincia a spuntar la sera del terzo giorno, ed essi nol veggono, che fanno i poverini? Cominciano a vacillare: anzi a diffidare, anzi a discredere in modo che Cristo è costretto a rimproverarli di increduli, a tacciarli di mentecatti: O stulti et tardi corde ad credendum! (Luc. XXIV, 23). – Tanto ogni poco vale a stravolgere un cuore dal ben propostosi. Chi però mi promette, o signori miei, che innanzi a domani sera, ch’è dire, innanzi d’arrivare a sera del terzo dì, qualcun di voi non cominci ancor egli a mutar sentenza, a cambiarsi di volontà, ed a mancar di fedeltà verso Cristo? Chi mi promette, che non pensi a tornare alle usate pratiche? Chi mi promette che non pensi di ridursi ai pristini giuochi? Chi mi promette che non pensi a riamare, ahi pur troppo presto, i suoi detestati costumi? – Ho io però risoluto questa mattina fare una cosa, mostrare apparentemente di non fidarmi della vostra costanza, a fine di stabilirla. E però vi chiedo quella udienza che merita chi, solamente premendo in ciò che può esservi di profitto, non altro applauso, come ormai potete vedere, ha perpetuamente, curato nelle sue prediche, se non quel solo, il quale gli è per ventura potuto nascere dall’aver di cuore trattati i vostri interessi, e con serietà persuasovi il vostro bene.

II. E primieramente io non vi niego, uditori, che cotesta nuova forma di vivere più corretta vi sarà facilmente di qualche pena; che vi lusingheranno i piaceri antichi, che vi combatteranno le passioni avverse, e che però vi converrà di farvi un poco di forza a perseverare. Ma dite a me: per quanto spazio di tempo vi converrà di usare a voi questa forza? Per anni ed anni (non è così?), per un corso lungo di età che vi sopravanza, prima di arrivare alla morte. Oh Dio! eche sarebbe, uditori, se quella morte, la quale a voi par vedere così da lungi, in oscurità, in lontananza, fosse oggi mai vicinissima al vostro albergo; e voi frattanto, per impazienza di perseverare ancor pochi mesi in cotesto stato più regolato e più saggio, perdeste la corona promessa ai perseveranti? Non so se mai vi sia caduta in pensiero una osservazione, la quale, ognor ch’io la feci, mi spremè quasi dagli occhi a forza le lagrime per pietà. Avevano i miseri Israeliti aspettato Mosè dal monte con gran longanimità, senza mai dar per ancora veruno indizio o di cuor ribelle, o di spiriti irreligiosi; quando finalmente attediati della dimora, cominciarono a infastidirsi; e divisandosi che ormai Mosè si fosse affatto dimenticato di loro, e che però non dovesse ritornar più, o almeno dovesse indugiare infinitamente, deliberarono di eleggersi un nuovo capo; e per poterne più agevolmente disporre a lor volontà, non isdegnarono di soggettarsi ad un bue, quantunque dorato: mutaverunt gloriam suam in similitudinem vituli comedentis fœnum (Ps. CIII, 20). E già avevano allegramente cambiata la modestia in dissoluzione, la pietà in giuochi, la religione in idolatria: quando ecco sopraggiunge a un tratto Mosè, il quale a quello indegno spettacolo divampando di un implicabile zelo, spezza incontanente le tavole della legge, sgrida Aronne, stritola il simulacro; e, assoldata tutta la tribù di Levi, ne scorre a guisa di un folgore per i quartieri della moltitudine attonita e disarmata; e spargendo per tutto ferite, per tutto sangue, per tutto strage, uccide alla rinfusa in brev’ora presso a ventitré mila persone, con un macello tanto più orribile, quanto più impetuoso. Or io vi domando: quanto credete, o signori miei, che costoro avessero trascorso pazientemente in attendere il loro Mosè? Trentacinque dì per lo meno, come il dottissimo Abulense dimostra nei suoi commenti. Sicché quando avessero con egual pazienza aspettato cinque altri dì, che tanto appunto differì quegli a tornare, non avrebbero né commesso un eccesso sì detestabile, nè sofferto un macello sì sanguinoso. E non vi muove, uditori, a gran compassione la disgrazia di questa turba? Infelice! per incostanza di sì poche giornate patito tanto! Oh sventura indicibile! Oh caso strano! Ben ora intendo quanto sia vero ciò che leggesi ne’ Proverbi, che chi si lascia vincere finalmente dall’impazienza, non può far mai se non pazze risoluzioni impatiens operabitur stultitiam; impatiens exaltat stultitiam (Prov. XIV, 17 et 29). Non apparve forse chiarissimo in questo fatto? – Or che sarebbe, se avvenisse a voi pure una somigliante infelicità, che sarebbe? Voi riputate la morte lontana assai, e però tutte v’infastidite, dicendo fra voi medesimi, che fo io? Ho io dunque a durare ancora tanti anni in sì fatta vita? Io tanti anni senza un piacer di vendetta? Io tanti anni senza un diletto di senso? Io senza dire una parola licenziosetta in tanti anni? Chi può resistere? Eh non dite così, dilettissimi miei, non dite così; perché potrebbe avvenire che questi conti, i quali voi fate ad anni, non riuscissero forse neppure a mesi, neppure a settimane, ma a pochi giorni. La morte forse è già cominciata a calare dalla montagna, già forse arriva, già ruota il ferro, già vibra il colpo, già vi toglie di vita: e volete voi cader d’animo per sì poco? Vac iis, qui perdiderunt sustinentiam, et derelinquerunt vias rectas, et diverterunt in vias pravas! così protesta l’Ecclesiastico (II. 16) ad uomini sì incostanti. Væ iis, Væ iis! Che sarebbe dunque, o Cristiani, se voi cadeste nel numero di costoro sì miserabili, e vi traeste con essi addosso la loro maledizione? Oh quali singhiozzi, oh qual fremiti voi dareste per tutta l’eternità! Ed oh come ogn’ora accompagnando nell’Inferno le strida degli Israeliti impazienti, ancor voi direste: per cinque giorni, per cinque giorni mal tollerati siam qui; e l’incostanza di uno spazio sì breve ne convien pagar con le pene di tutti i secoli!

III. Ma su, passi per concesso che il viver vostro debba essere ancora ad anni, e tale appunto, quale ve lo promettono o la gioventù ancor fiorita, o la complessione ancor forte: sapete, posto ciò, perché parvi sì malagevole il mantenervi innocenti? Perché vi credete di dover sempre provare in ciò quei contrasti ch’or voi provate. Ma questo è falso. Scemeranno, scemeranno ciascun giorno più le presenti difficoltà; e siccome al sorger del sole cadono le nebbie, ed all’apparir della vampa sparisce il fumo; così anche al crescere che in voi sempre farà la grazia divina, si dilegueranno dal vostro animo quelle angustie, quelle ansietà, quegli affetti disordinati, i quali or lo tengono sì malamente ingombrato. – Chi di voi non rimembrasi di Sansone caduto già disgraziatamente in potere dei Filistei? Era spettacolo di pietà rimirare un uomo così forte divenuto ludibrio di plebe vile. Chiuso in carcere, carico di catene, fu necessitato a lasciarsi trar da’ nemici ambedue gli occhi di fronte. Indi, qual giumento, applicato a girar la mola, aveva d’intorno una foltissima turba di fanciulli indiscreti, di vecchi lividi, di feminelle sfacciate, che lo insultavano: a chi lo sferzava qual pigro, e chi lo sbeffava quel orbo; né mai da lui si partivano, pugni, coi calci, con le guanciate, avessero preso un crudel trastullo, e, Sansone, e dov’è ora quella rendevati sì temuto? quella virtù, con cui ti spezzavi d’attorno i lacci di nervo, quasi fossero stoppe mostrate al fuoco; e ti recavi in collo le porte della città, quasi fossero bronzi dipinti in tela? Non se’ tu quegli che già sfidavi a lottar teco i leoni, e che con le nude mani afferratili, gli strozzavi, li soffocavi, e ne lasciavi i cadaveri in preda all’api? Non sei tu che fugavi gl’interi popoli? Non sei tu che spiantavi gl’interi campi? E come i cagnolini si fanno or beffe di te coi loro latrati, e a te non dà neppur l’animo di acchetarli? Eh aspettate un poco, uditori, aspettate un poco, e vedrete poi chi sia Sansone. Voi considerate il meschino, or che i capelli, ne’ quali sta la sua forza, gli son tonduti; ma non sarà sempre così. Cresceranno questi in breve corso di tempo, rimetteranno; e allora oh come più robusto di prima voi lo vedrete scuotere con le braccia due gran colonne, atterrare edifici, eccitar rovine, e ancor morendo far dei Filistei sbigottiti più fiero macello ch’egli ne facesse mai vivo! E non fu ciò vero, uditori? – Ora così appunto fingete che sia di voi. Sono in voi di presente i capelli bassi, ch’è come dire, la grazia dello Spirito confortatore è assai limitata. Qual meraviglia è però se par che i sensi or vi trattino come schiavo, se i demoni, con sozze larve v’inquietano, se vi dan frequente molestia le tentazioni? Ma che? concedete un poco di agio alla grazia, sì ch’ella cresca, ed allor vedrete. Ritorneranno tutte in voi quelle forze, le quali già nel Battesimo riceveste; ravviverassi la fede, rinverdirà la speranza, riaccenderassi la carità, in una parola, insiliet in vos Spiritus Domini (1. Reg. X. 6): e allora voi vi sentirete sì intrepidi, sì animosi, che neppur avrete a terrore l’istessa morte. Senza che, chi non sa che tutti i princìpi sono alquanto più faticosi de’ lor progressi? Ai tori è più malagevole da principio obbligarsi al giogo, a’ cavalli è più noioso patire il morso, a’ cammelli e più strano inchinarsi al carico. Così le arti di sonare, di ballare, di scrivere, di scolpire, di ricamare, tutte da principio riescono più difficili a chi le apprende. Chi va alla guerra, più facilmente spaventasi ai primi assalti; chi scioglie in mare, più facilmente amareggiasi alle prime navigazioni; chi s’incammina per terra, più facilmente si stanca ai primi pellegrinaggi. Non vi sembri nuovo però, se nella vita cristiana l’istesso accada. Quindi osservò con singolare acutezza Filone ebreo, che le prime acque nel deserto incontratesi, furie amare; le altre poi furono sì deliziose, sì dolci, che, come tali a poco a poco rubarono il nome al mele. – Non mirate dunque a quelle difficoltà, le quali ora vi si parano innanzi al divin servizio; perciocché queste sono difficoltà da principio comuni a tutti. A tutti è duro da prima frenar la carne, custodire la lingua, reprimer l’ira, soggiogar l’alterezza; ma se avrete un poco pazienza, vi diverrà sì leggiero, sì dilettevole, che talor forse, di voi stupiti, direte con Agostino (Confess. 1. 9. c I): O quam suave mihi subito factum est carere suavitatibus nugarum! Oh che allegrezza è questa, oh che pace, oh che contentezza! Non avrei creduto che fosse mai così facile abbandonare ogni reo diletto per Dio, e che quæ modo amittere metus fierat, jam dimittere gaudium foret. – Siasi pertanto pur vero ch’or voi provate qualche notabil fatica a non ricadere nei vizii a voi famigliari, non però voi dovete disanimarvi, perché, o moriate, o campiate, ella sarà breve. Usque in tempus, usque in tempus (sono parole infallibili di quel Dio che non può mentire), usque in tempus sustinebit patiens; e poi? et postea redditio jucunditatis (Eccli. I. 29).

IV. – Benché non vedete voi che cotesta scusa da voi recata finora, o sia verità, o sia velame, se nulla vale, vale a conchiudere contro di voi la sentenza di eterna condannazione? Perciocché sentite, e tenetelo bene a mente. Se per confession vostra voi provate ora una difficoltà così grande a non ricadere, quanto dunque maggior voi la proverete, poiché sarete ricaduti, a risorgere? non sarete allora più infievoliti? più languidi? più abbattuti? Non si accresceranno i mali abiti? non si imperverseranno le perfide inclinazioni? Tanto a voi dunque è ritornare a peccare, quanto è dannarsi. Questo argomento, a mio parere, è si forte, che non ha replica. Con tutto ciò, perché ne restiate convinti ancor maggiormente, voi dovete considerare che, ricascando, non solo vi sarà malagevole di tornare allo stato d’ora, per ciò che appartiene a voi, cioè perché voi sarete prostrati più; ma parimente per ciò che riguarda il demonio, e per ciò che rimira Dio. E quanto al demonio, io ve lo farò chiaro con una similitudine assai vivace, ma non meno ancor conchiudente.

V. Avverrà talora che un nobile Cristiano venga fatto in Algeri prigion dal Turco, ed ivi servato con diligenze anzi discrete che rigide, e più cortesi che strane. Si prevale egli però della buona opportunità; e perché le guardie non sono un dì sì sollecite o sì sagaci, che fa il meschino? Rompe i ceppi, sforza i serragli, ne fugge al mare; ed ivi scorta una fusta pronta, rimettesi in libertà. Benissimo. Ma s’egli sia tanto stolto, che di nuovo lasci raggiungersi e ricondursi sotto l’unghie del Barbaro furibondo, da cui fuggì, tra quali carceri, sotto a quali custodie credete ch’ei verrà posto? La più spaventosa segreta, che renda celebri le latomie africane, sarà la sua. Ferri al pie’, ferri al collo, ferri alle mani. Se prima gli era permesso di respirare liberamente all’aperto, or non vedrà neppur lume. Se prima gli era concesso di passeggiare frequentemente alla larga, or neppur potrà coricarsi. E perché il misero divenga sempre più fiacco, e così men abile ai pristini tentativi, non andrà dì, ch’egli non sia macerato con lunghe inedie, con duri strazi, con furia di bastonate. – Or così appunto farà il demonio, uditori, con esso voi. Egli vi teneva già suoi schiavi; ed, o perché ei vi guardasse con minor cura, o perché voi vi portaste con maggior animo, gli siete usciti felicemente di mano: non è così? Che farà egli dunque, se voi mai più gli ritorniate in potere? Ve lo dirò con una formula tolta da un Geremia: ut non egrediamini, aggravabit compedes vestros (Thr. III, 7); vi raddoppierà le catene, vi rinforzerà le ritorte; ed attentamente mirando per quali vie voi siete ora scappati dalle sue mani, circumædificabit adversum vos (Ibid.); chiuderà tutti gli aditi, sbarrerà tutti i passi, non vi lascerà neppure un angusto spiraglio, onde mirar cielo. Se voi vi siete or convertiti per una lezione che faceste di libri pii, egli starà sempre attentissimo che non vi vengano altri libri alle mani, che di romanzi, di frascherie, di favolette, di amori: se per le prediche, ve ne distrarrà con affezionarvi al negozio; se per le congregazioni, ve ne distaccherà con allettarvi ai ridotti; se per le ispirazioni interiori, procurerà di tenervi involti fra strepiti, fra tumulti, fra brighe tali, tra cui la voce divina mai possa udirsi; ed in una parola, egli adoprerà tutta la malvagità, tutta l’arte, per più non perdervi: circumædificabit adversum vos, ut non egrediamini, aggravabit compedes vestros. Guardate dunque, o Cristiani; perché se voi gli ritornate in potere, voi ci restate: andate cauti, camminate avveduti, che non sono questi pericoli da scherzare.

VI. E ciò per quello che s’appartiene al demonio. – Quanto a Dio poi, chi non sa che voi, ricascando, meno potrete confidar innanzi di quegli ajuti, i quali Egli per l’addietro vi diede, affinché sorgeste? Perocché ditemi: come volete ch’Egli più si fidi di voi, se voi già più volte siete bruttamente mancati a lui di parola; e dopo avergli asseverato, protestato, promesso di non più offenderlo, ritornate sempre ad offenderlo più di prima? Questo dunque è trattar da uomo di onore? Giuda, per mantener la promessa fatta a Giacobbe di restituire a lui Beniamino dall’Egitto, si offerse a restar egli in dura prigione. Giosuè, per mantener la promessa fatta a’ Gabaoniti di serbar loro amistà, come collegato, s’indusse a trarsi addosso un’aspra battaglie. Regolo, quantunque gentile, per mantenere ancor egli ai Cartaginesi la sua famosa promessa di ritornare, se non si conchiudeva il riscatto, non dubitò di andare incontro ad un’atrocissima morte, chiuso ignudo dagli emoli in una botte, foderata tutta di pungoli spaventosi. – E a fine  di mantener la parola a Dio, non volete voi contentarvi  di patir nulla? non di frenare un appetito di senso? non di reprimere un impeto di furore? Che fede è questa, che lealtà, che schiettezza di cuor bennato? Irrisor est, non pœnitens (così dice il gran prelato Agostino), qui adhuc agit quod pœnituit, et peccala non minuit, sed multiplicat. Questo è un beffarsi di Dio, questo è un uccellarlo, questo è trattarlo da meno assai che non fate ad un ciabattino, a un paltoniere, a un pitocco, a cui, per vii ch’egli siasi  non volet’essergli apertamente infedeli. Aggiungete, che voi, tornando a peccare, prorompete in un atto d’ingratitudine più eccessivo, il più enorme, che possa usarsi da creatura mortale, qual è sprezzare la grazia restituitavi dopo il primo peccato; e che però voi siete allor quella terra chiamata già dall’Apostolo terra reproba, la quale avendo ricevute dal cielo larghe rugiade, sæpe venientem super se bibens imbrem (ad Hebr. VI, 7), in cambio di dar erbe opportune, produce spine, produce sierpi, proferì tribulos; nè perciò più altro si merita, se non fuoco: cujus consummatio in combustionem ( Ib. VI, 8). Aggiungete, che più grave scandalo; aggiungete, che date più grave lostrate più sordida sfacciatezza; aggiungete, che voi cadete nel numero di quei cani tornati al vomito, di cui si dice che sono sì abbominevoli innanzi a Dio. Canis reversus ad vomitum, così abbiamo in san Pietro (II, 22). Canis qui revertitur ad vomitum suum, così abbiam nei sacri proverbi (XXVI, 11). Ma chi è chiamato così? Già voi lo sapete: imprudens qui iterat stultitiam suam (Ibid.). Vi par però che, almen per quello che spetta a Dio, voi possiate peccar di nuovo, senza manifesto pericolo di perire? Ah, se ciò fosse, non avrebbe di costoro mai definito sì chiaramente il Principe della Chiesa: melius erat illis non cognoscere viam justitiæ, quam post agnitionem, retrorsum converti ab eo, quod illis traditum est, sancto mandato (2 Petr. II 21).

VII. Ma perché andarcene in traccia tante ragioni, mentre noi ne abbiamo una che, bene intesa, supplisce a tutte? Io vorrei però che la udiste con attenzione; perché, quantunque potrà ella forse atterrirvi non leggermente, ciò sarà per vostro profitto; ed io non ho tanto a cuore di riuscirvi giocondo nei miei discorsi, quanto giovevole. E manifesto che presso a Dio tutte le cose umane sono disposte ed in peso ed in numero ed in misura, come disse a lui lo scrittore della Sapienza (XI. 21): omnia in mensura et numero et pondere disposuisti. Sicché non solo il Signore ha già stabilito precisamente quante anime vuol al mondo di mano in mano, ma tiene ancora annoverati i loro atti, le loro parole, i loro passi, i loro pensieri, né ci è pericolo che in veruna cosuccia, quantunque minima, abbiasi punto a trasgredir questo numero già prefisso. Da ciò ne segue, ch’abbia Dio già parimente determinato qual numero di peccati voglia Egli tollerare pazientemente da ciascuno di noi; onde, quando già questo numero sia compito, forza è che al primo, il qual dì poi commettiamo, egli o ci tronchi improvvisamente la vita, oppur ci tolga impensatamente di senno, e così abbandonici in braccio alla dannazione. – Udite santo Agostino (De vita chr. c. 3), per la cui bocca io vi ho finor favellato. Illud sentire nos convenit, tamdiu unumquemque a Dei patientia sustineri, quamdiu nondum suorum peccatorum terminum finemque compleverit; quo consummato, eum illic percuti, nec ullam illi veniam jam reservari. Né di ciò mancano nelle divine Scritture segnalate testimonianze, tratte da ciò che Dio disse prima degli Amorrei; di poi de’ Pentapoliti, ed appresso dei Farisei. Ma, lasciate queste da parte, ne dirò una, la quale è la più cospicua. Peccarono gl’Israeliti più volte per lo deserto, or mormorando, or disperando, or gridando, ora idolatrando; e tuttavia col castigo dato ad alcuni sempre andò congiunto il perdono donato ad altri, finché i meschini non si trovarono a vista della famosissima terra di promissione. Quivi tornarono essi a peccar di nuovo, rammaricandosi come altre volte di Dio, perché gli avesse voluti trar dall’Egitto. Allora Iddio tutto irato disse a Mosè: e fino a quando ho Io più a offrire pazientemente le villanie di costoro? Io li voglio tutti distruggere, quanti sono, con una general pestilenza; li voglio spiantare, li voglio sterminare, li voglio ridurre al niente: usquequo detrahet mihi populus iste? Feriam igitur eos pestilentia atque consumam (Num. XIV, 11 et 12). Contuttociò, intercedendo caldamente Mosè per loro salvezza, finalmente Iddio condiscese a questo partito. A tutti coloro, i quali erano nati dopo l’uscir dell’Egitto, o non molto prima, a tutti fu contento di perdonare; ma quanto a tutti quegli altri, i quali di età già adulta n’erano usciti, non fu possibile ch’Egli più volesse usar loro pietà veruna. Ora mi sapreste voi dire qual fu la ragione, la quale addusse Iddio di sì fatta disagguaglianza? Ascoltate quale. Perché costoro lo avevano irritato già dieci volte: tentaverunt me jam per decem vices ( lb. XIV. 22). Dieci volte già, dieci volte m’hanno irritato; perciò si muoiano tutti. Sì? E così dunque Iddio teneva minutamente contate tutte le volte ch’Egli voleva tollerarli! Oh se gli sfortunati, giunti che furono a quel nono peccato, il qual era l’ultimo termine del perdono, trovato avessero per ventura un amico accorto e animoso, il quale avesse saputo a tempo gridar loro: fermatevi, basta, basta, non passate più oltre, che dopo questo vi sarà al tutto vano sperar pietà, quanto rilevante servigio avrebbe lor fatto! Ma chi lo voleva mai sapere? Troppo incerto è un tal numero, troppo vario: né si osserva con tutti una stessa legge, ma a chi più volte perdonasi, ed a chi meno. – Ond’è che Iddio, se fino al decimo eccesso aveva stabilito di sofferir quegli Ebrei, assai più stretto rigore egli volle usare con gli abitatori di Damasco e di Gaza, di Tiro e di Edom; e però udite ciò ch’egli fece dinunziar loro per bocca di Amos profeta: super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum. Super tribus sceleribus Gazæ, et super quatuor non convertam eum. Super tribus sceleribus Gazæ, et super quatuor non convertam eum. Super tribus sceleribus Edom, et super quatuor non convertam eum (Amos I. 3, 6, 9 et 11). Il che non altro fu in buon linguaggio che un protestarsi che al quarto eccesso Egli avrebbegli abbandonati; e così letteralmente ciò spiegano, a favor mio, Teodoreto, Remigio, Aimone, Dionigi, il Lirano, ed altri seguaci in ciò dell’interprete massimo san Girolamo ( vide apud Sancium  in Amos 1). – Or, posta una dottrina sì soda, sì sussistente, venite qua, Cristiani mici, dite un poco: che sapete voi che quel peccato, da cui voi siete novellamente risorti, non sia quell’ultimo, il quale Iddio ne’ suoi profondi decreti ha prescritto di condonarvi? Avete forse voi del contrario certezza alcuna? Che diss’io certezza? Ne avete voi forse qualche indizio, qualche barlume? Anzi, avendovi Iddio tollerati già non solo, come gli Ebrei, fino a dieci volte, ma fino a venti, ma fine a trenta, ma forse fino alle cento, è molto più verisimile ch’oggimai voi dobbiat’esser puniti, ch’esser sofferti. E voi nondimeno trattate di ricadere? Ahimè, credetemi ch’io per voi tutto palpito, tutto tremo, solamente in riflettere al vostro rischio. Questo peccato, il qual voi trattate or di fare, questo sarà forse quello, a cui non rimane più grazia di sorte alcuna. Non perché al peccatore (ponete niente), non perché al peccatore, fìnch’egli ha vita, o finch’egli ha libertà, non sia sempre possibile ravvedersi di qualsisia gran peccato; questo non può dirsi in sincera teologia; ma perché, quand’egli n’ha compito quel cumulo a lui tassato per lo perdono, convien che al primo, il qual di poi ne commetta,  illico percutiatur; ch’è quanto dire, o egli muoia, o egli ammattisca; o, se non altro, restisi privo di quegli aiuti efficaci, senza cui non avviene che alcun si salvi. A che volere star dunque più irrisoluti? Signori no: bisogna fissare il chiodo: clavos tuos consolida, non lo dice forse Dio chiaro per Isaia? (LIV, 2). No, che non è materia questa di lunghe consultazioni, né si vuol mettere la nostra eterna salute a sì gran cimento per un piacer fuggitivo, qual egli siasi, o di vendetta, o d’interesse, o di amore, o di vanità. A tutti i patti convien che vi facciate un poco di forza; e dacché voi per misericordia divina vi siete già felicemente riscossi dalla schiavitù del peccato, convien che vi risolviate a non ricadervi, vadane ciò che si vuole: vadane roba, vadane riputazione, vadane amici, vadane ancor, se bisogni, la vita stessa. Prima morire che più peccare: prima morire, prima morire. Agonizare prò anima tua, sentite come lo dice ben l’Ecclesiastico ( IV, 33). agonizare prò anima tua; e se neppur questo è bastevole, ancor si muoja: et usque ad mortem certa prò justitia.

VIII. Oh quanto grande fu l’allegrezza che il Cielo pigliò di voi, quando voi già fermi per queste sacre feste di rendervi a quel Signore, a cui vi eravate malvagiamente ridotti, ne usciste tutti animosi di casa vostra, ne andaste alla chiesa, vi accostaste al confessionale, e quivi inginocchiativi a’ pie di quel sacerdote, il quale vi sostenea le veci di Cristo, mandaste prima dal cuore un breve sospiro, e poi, battendovi il petto, e bassando i lumi, con vero interno rammarico gli diceste: Padre,io peccai! Oh come allora tutti gli Angeli insieme ne fecero festa! oh che tripudj, oh che trionfi, oh che giubili se ne videro infra i beati! Che affettuose congratulazioni ne furono tosto fatte a Maria vostra protettrice, a Gesù vostro redentore, a Dio vostro padre! Vi basti di risapere che tutti i Giusti unitamente non erano allora al cielo di tanta gioia, di quanta gli era ciascun di voi per sè solo. –  E voi, dopo avere al Ciel dato un sì gran diletto, già cominciate a disegnar di ritorglielo, come farebbe chi oggi vi presentasse un ricco regalo, e poi domani ve lo mandasse ripentito a richiedere? Oh che inciviltà! Oh che insolenza! E che altro è ciò, ripiglia il Savio, che un rendersi al tutto odioso? Hodie fœneratur quis, et eros expetit: odibilis est (Eccli. XX, 16). Io fui per dire, era forse meglio che voi non lusingaste tutti i cittadini celesti con la speranza di avervi già riguadagnati per loro eterni compagni, se poi volevate ritornare ad affligerli così presto’, e a convertire le loro cetre in lutto, i lor canti in lagrime, e l’onor lor fatto in più gravo affronto. Væ, filii desertores, vorrei gridar tutto irato, se così fosse, con Isaia (XXX. 1): Væ, fìlli desertores! così dunque si viene a mancar di fede, ut addatis peccatum super peccatim? Mirate bene: voi avete già fatto prova di due padroni, del demonio e di Cristo. Servito avete variamente alcun tempo or l’uno e or l’altro, sicché oramai si può credere che sappiate quale sia ciascuno.. Se però voi, dopo aver lasciato il demonio, ed esservi di presente ridotti a Cristo, lasciate Cristo, e ritorniate al demonio, che sarà ciò? Non sarà un sentenza a note apertissime, che la servitù del demonio vi par migliore, che trovate in essa più gusto, che traete da essa più utilità? Comparationem videtur egisse qui utrumque cognoverit (fu ponderazione tremenda di Tertulliano – De pœnit. c. 2), et judicato pronunciaste eum meliorem, cujus se rursum esse maluerit. – E a un Dio sì buono volete dar questo smacco? Ah no, Cristiani, per quel sangue, il qual Egli ha sparso per voi, per quel sangue io vi supplico, per quel sangue, tanto a voi salutare, non gliene date. Prima morire, prima morire. Altrimenti miseri voi! Væ, f01ìlii desertores, tornerò ad esclamare, che ardire è il vostro? Lasciare un Dio pel demonio? Lasciare un Dio pel demonio? Oh che torto orrendo! E che mai potete cavare dalla servitù dell’inferno, fuorché rancori? Quid tibi vis in via Ægypti, ut bibas aquam turbidam? quid tibi cum via Assyriorum, ut bibas aquam fluminis? (Jer. II. 18). Adunque state pur forti, grida l’Apostolo: state, et nolite iterum jugo servitutis contineri (ad Gal. V. 1). Animatevi, avvaloratevi. Tutto il Cielo è pronto ad assistervi, purché voi gli vogliate esser fedeli. Non dubitate, che col suo patrocinio potrete più di quel che voi credereste. Quanti ivi sono, hanno sofferte assai più aspre battaglio di quante converrà per ventura incontrare a voi: chi fu segato, chi lapidato, chi arso, chi abitò su gli scogli, chi marcì dentro le caverne, chi macerò le carni sue con digiuni portentosissimi, chi con cilicj, chi con catene, chi con carneficine atrocissime d’ogni membro. Eppure agevolmente poterono tutto ciò col favor divino. E perché dunque con questo voi non potrete tanto di meno, quanto sol è non peccar più mortalmente? – Stabiliscasi dunque che così sia, ed a Dio si dica col fedelissimo Giobbe; vostro, o Signore ho deliberato di essere, vostro sono, vostro sarò: justificationem meam, quam cœpi tenere, non deseram (Job XXVII. 6). Toglietemi pur dal mondo, se voi vedete dover giungere un dì, ch’io non sia più vostro.

SECONDA PARTE

IX. Io non dubito punto che voi non siate arrivati bene ad intendere quanto sia grande la necessità ch’or abbiamo a non ricadere. E se i pesci sottrattisi una volta dall’amo, e se i cervi divincolatisi una volta dai lacci, sono da indi in poi più avveduti a non ritornarvi; perché non dovrem fare il simile ancora noi, che pur siamo dotati di tanto più salutevole accorgimento? Riman però chi solamente or ci dimostri una pratica da facilmente eseguire quanto abbiam detto. Ma non dubitate: san Giovanni Crisostomo ce la dà; né, a parer mio, può darsene altra più accertata, più acconcia; e tal è, tenersi lontano dalle occasioni. Non però sol dalle gravi (vedete bene, perché su ciò fu da noi tenuto altra volta, se vi ricorda, un discorso intero), ma dalle più leggiere, dalle più piccole, da quelle ancora, che assai da lungi potrebbero indurvi al malo; sicché se voi siete avvezzi a carnalità licenziose, vi asteniate anche da leggerezze non del tutto lascive; se siete avvezzi a ragionamenti sfacciati, vi asteniate anche dalle facezie non del tutto immodeste; se siete avvezzi a crapule intemperanti, vi asteniate anche dalle delizie non del tutto vietate; e così andate voi discorrendo per gli altri vizi in cui siete usi a cadere. Hoc maxime sccuritatis erit occasio (udite già le parole proprie del Santo – Hom. 15 ad pop.), non tantum peccata fugere verum etiam quæ videntur indifferentia quidem esse seu media, ad peccata vero nos supplantant. Vis pudicus esse? fuge etiam petulantem uspectum. Visa verbis lurpibus abesse? Fuge etiam risum solutum. Vis ebrietate separari? fuge delicias, et lautas mcnsas, et vinum radicitus extirpa.

X . Ma voi direte che dagli amici devon chiedersi cose oneste; laddove il voler tanto da voi, quanto qui si è detto, che altro sarebbe in verità che dannarvi ad una vita non solamente stentata, ma  insopportabile? Che non sia poco, quando voi vi guardiate da colpe espresse: nel rimanente voler che voi vi asteniate ancor dai trastulli non proibiti, non sozzi, ma indifferenti, ciò vi par troppo. Troppo? Ahimè che dite, uditori? fermate, un poco; che non mostrate, così dicendo, d’intendere quanto voi di presente dobbiate a Dio, ed a quanto vi obblighi lo stato, in cui vi trovate, di penitenti. E che direste se vi avess’io richiesti, come altri fanno, di asprissimi, flagellazioni sanguigne, cilicj irsuti, silenzj indispensabili, veglie lunghe? Osereste voi dire che fosser troppo? Pensate dunque s’è troppo non voler altro se non che vi priviate di alcuni piacerucci, per altro leciti, dappoiché tanti ne ammessi de’ licenziosi, de’ laidi, per non aggiungere ancor degli scandalosi! – Non così certo fu di parere il re Davide allora ch’egli, ardendo un giorno di sete, bramò quell’acqua freschissima di Betlemme. Oh con quanta avidità, recata che fu, la mirò, la tolse, ed accostossela, per trangugiarla in pochi sorsi alle labbra! Ma poi, tutto a un tratto restando, si mutò di animo: e, senza pur volerne gustare una sola gocciola, la sparse in aria, e sacrificolla al Signore: noluit bibere, sed libavit eam Domino (2 Reg. XXIII, 16). E per qual cagione fe’ ciò? Sapete perché? ne risponde il pontefice san Gregorio. Si venne Davide a ricordare in quel punto dei diletti pigliati pochi anni innanzi con Rersabea; e però, colmo di profondissimo orrore, riputò audacia che più pensasse a cavarsi capricci leciti chi si era un tempo sfogati anche i disonesti. Et quia se illicita perpetrasse meminerat. contra semetipsum jam rigidus, voluit etiam a licitis abstinere (Greg. hom. 34 in Evang.). Pare a voi dunque gran fatto che, ricordandovi ancora voi degli spassi da voi pigliati più volte ad onta di Dio, veniate un poco per amor d’esso a privarvene di qualcuno, permesso sì, ma non però sicurissimo, come sarebbe d’un festino, d’un ballo, d’una commedia, d’un libretto amoroso, di un detto vano? Ah no, signori miei cari, non convien credere che l’istesso fervore sia sufficiente ad un peccatore convertito, qual poteva esserci allor ch’egli era innocente. E però in figura di ciò noi troviamo nelle Scritture che gli Israeliti, dopo la lor lacrimosa cattività ritornati in Gerusalemme, furono nel culto divino molto più puntuali, come fu osservato da Beda; e che i Maccabei, dopo una fuga rincoratisi alla battaglia, furono nel dispregiare la vita molto più forti come fu considerato da Bachiario: per tacer d’altri, che qui sarebbe ora lungo di annoverare. Non mi dite dunque ch’è chiedere da voi troppo, chieder che voi vi teniate ora lontani da alcune occasioncelle di colpa, quantunque piccole; perché maggiore si richiede in voi di presente la perfezione.

XI. Ma senza ciò, guardate ch’altra risposta io vi voglio dare inaspettatissima. Voglio che voi, com’io diceva, vi astenete dalle occasioni leggiere, non però per vostra maggior mortificazione, signori no, ma per maggior comodo vostro; mercecché assai più difficile vi sarebbe donare il poco ad una vostra mal regolata passione, a negarle il molto, che non vi sarà di fatica a negarle tutto. Mi spiegherò. San Giovanni Crisostomo muove un dubbio, che a certi giovani, vagheggiatori di dame cosi insaziabili, sarà forse caro il saperlo: per qual cagione allora che Cristo corroborò nella nuova legge i precetti intimatici dall’antica, condannasse con termini significativi sì pesanti un guardo lascivo. Non sarebbe bastato dannar gli adulteri, dannar gli stupri, dannar le fornicazioni? Perché però mostrarsi tanto sollecito ancor de’ guardi, i quali nulla per sé stessi ridondano a danno altrui? Rende il Santo a ciò una risposta degnissima del suo ingegno, cioè divina, e dice: Cristo aver proceduto così, per facilitarci la strada del paradiso. Perché fingete che si stimi lecito un guardo, qual si diceva: quanto più duro ci sarà, dopo quel guardo, non ritenere nella mente l’amabile rimembranza della bellezza guardata, non invaghirsene, non infiammarsene, non cedere a quegli assalti che tosto il senso ribelle ci muoverà, per far che passiamo alle fornicazioni, agli stupri ed agli adulteri, che non ci sarebbe stato difficile l’astenersi perfettamente anche dal medesimo guardo! Il non guardare agevolmente si ottiene da chi che sia con un torcimento di volto, con un bassamente di ciglia, con un leggiero distrarsi a qualche altro affare; ma non così si ottiene ancora il resistere a quegli assalti che succedono dopo di aver guardato. Questi richiedono  un valor sovrumano, una virtù somma, quale non si posson promettere di se stessi neppure i Santi; e però, conchiude il Crisostomo: propterea et Christus eum supplicio mulctavit, qui muliere impudico aspectu fuerit contuitus, ut majore labore nos liberaret  (Hom. 2 in epist. ad Rom.). Essendo assai men difficile non lasciare appiccare il fuoco a un campo di stoppie, che non è spegnerlo quand’egli già si è appiccato, e impetuoso già solleva le vampe, già dilata le falde, già è fatto incendio. Or veniamo a nostro proposito. Se voi volete con facilità contenervi da quegli eccessi, a cui le vostre mal frenate passioni vi han già condotti, qual modo c’è? Non cominciare a condiscendere ad esse neppure in parte (intendete, Cristiani?), neppure in parte; perché se voi le appagherete nel poco, credete a me, sarete stretti ad appagarle di breve ancora nel molto.

XII. Ed a che tanto dolersi alcuni di voi della difficoltà che ritrovano, già risorti, a non ricadere? Lo credo anch’io. Se voi tenete in casa vostra i fomenti d’ogni libidine; se, ovunque girate il guardo, non altro voi rimirate intorno la camera se non che pitture lascive, vergognosi trofei della impurità; se ai vostri sensi mai non osate interdire un piccol trastullo; ma o voi dormiate, e volete a giacer le piume più molli; o voi mangiate, e volete a nutrirvi i cibi più eletti; o voi beviate, e volete a dissetarvi i falerni più vigorosi; se godete tanto del lusso, che arrivate a conciarvi come una femmina; se conversate del continuo con gente che ha sbandita dall’animo ogni pietà, dal volto ogni verecondia; se non ragionate mai, che i discorsi vostri non siano o licenziosi nei racconti che fanno, o svergognati nei proverbi che usurpano o sregolati nelle brame che esprimono, se ogni atto, ogni portamento, ogni moto, ogni parola, ogni gesto è come uno sprone, il qual v’incita a peccare, come volete poi nel resistere non sentire le più tormentose agonie? E quello ch’io, sol per cagion di esempio, vi ho divisato nell’unico peccato di senso, fate voi ragion che succeda con proporzione in quegli altri ancora, a cui già la natura sia malavvezza. Sei tu forse troppo sfrenato in correre al sangue? Prescriviti una legge di soffocare, appena nato, lo sdegno. Il dissimular sui principi una paroletta pungente li sarà nel vero molesto, ma tollerabile; laddove se tu per quella accendi una rissa, quanto ti sarà poi difficile uscir d’impegno! E tu sei forse troppo scorretto nell’accenderti in giuoco? lmponti un’obbligazione di non appressarti, benché invitato, alle bische. Il ripugnar da principio a quello scostumato compagno ti parrà per ventura strano, ma comportabile; laddove se tu per esso rientri in cricca, quanto ti sarà poi penoso restar dal vizio! – Ha la natura donate l’ale agli uccelli, signori sì; ma per qual effetto? Perché si sbrighino dalle panie, da’ lacci, poiché v’han dato? Non già; ma perché gli schivino. Lo schivarli sia loro legger fatica; ma lo sbrigarsene, oh che dibattimenti richiede, oh che strappate, oh che scosse! Né però basta. Or così appunto, se noi crediamo a san Giovanni Grisostomo, sia di noi. Le buone massime, i proponimenti onorati, i pii sentimenti ci serviranno come l’ale agli uccelli,  non ad uscire da quelle reti che il demonio tien tese per l’universo, ma a non entrarvi. Entrati che noi vi siamo, sarà difficile spiccare un volo sì vigoroso, che vaglia a scapparne liberi. Sed quantumeumque resilierimus, capti sumus (Chrys. hom. 15 ad pop.) Su dunque: questa sia quella pratica divinissima, la qual noi questa mattina apprendiamo a non ricadere: tenersi lungi dalle occasioni di peccato, quantunque piccole; dai lacciuoli. Qui cavet laqueos, securus erit (Prov. XI,15). E quando noi dal canto nostro adempiamo ciò che a noi tocca, fidiamoci poi di Dio; perché quantunque la perseveranza finale sia dono in tutto grazioso, in tutto gratuito, non però mancherà così il buon Signore di pietosamente concederla ancora a noi.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: LEONE XIII – OMNIBUS COMPERTUM

Omnibus compertum

In questa breve lettera il Santo Padre esorta all’unità disciplinare i religiosi della comunità orientali greco-melchite, di rito arabo-bizantino affinché risolvano i dissidi interni ricorrendo all’autorità del loro Patriarca antiocheno e, se necessario, presentandoli al giudizio dell’Autorità Apostolica del Santo Padre, unico detentore della Cattedra del Beato Pietro, nominato Vicario di Cristo dallo stesso Fondatore della Chiesa Cattolica, l’unica Chiesa istituita da Gesù a salvezza dell’umanità redenta. Anche in questo caso viene indicata, come Autorità suprema, capace di dirimere ogni questione religiosa, il Vescovo di Roma, assistito dallo Spirito Santo, e depositario della Fede immutabile, infallibile, e della eterna Dottrina rivelata da Gesù Cristo ed affidata alla sua unica vera Chiesa, Sposa incontaminata di Cristo, sulla quale nulla possono le porte degli inferi, sia che la attacchino frontalmente dall’esterno, sia che la infiltrino dall’interno attraverso l’opera dei marrani di ogni risma, degli operatori delle sette infernali o degli aderenti alla sinagoga di satana. È chiaro quindi anche da questo documento, come l’obbedienza, dottrinale e disciplinare, di ogni Cristiano, chierico della Gerarchia o semplice fedele, debba essere assoluta al Romano Pontefice, “condicio sine qua non”, onde appartenere alla Chiesa Cattolica, ed ottenere così la salvezza eterna … « … extra Ecclesiam nullus omnino salvatur! » Facciamo quindi ogni sforzo, alla luce della dottrina e dei Canoni ecclesiastici (C. J. C. Pio-benedettino del 1917), e non delle apparenze mediatico-massoniche, per comprendere la vera essenza del Papato e delle “vere” funzioni del Papa, e se non riusciamo a scorgerle tra gli improbabili figuri propinati dalla falsa chiesa dell’uomo, crediamo comunque alla parola di Gesù e del Concilio Vaticano “… il Beato Pietro avrà una serie ininterrotta di successori” … ripeto: ininterrotta! Perché sempre così è stato e sempre così sarà, fino alla “soluzione finale”, … se ne facciano tutti una ragione, il contrario sarebbe una orribile bestemmia: “… Gesù, l’Uomo-Dio ci ha mentito” o, ancora peggio:  “… non è riuscito a mantenere la sua parola”.  

Leone XIII

Lettera Enciclica

Omnibus compertum

I dissensi nati nella chiesa greco-melchita
21 luglio 1900

È a tutti noto e comprovato, venerabili fratelli, che Noi, fin dall’inizio del Nostro pontificato, abbiamo rivolto lo sguardo con grande amore alle nazioni cristiane dell’oriente, pubblicati inoltre non pochi atti. soprattutto la costituzione Orientalium, molte cose sono state da parte Nostra opportunamente dichiarate e decretate per mantenere stretta la loro unione con la cattedra di Pietro e per favorire la riconciliazione dei separati. – Abbiamo trovato in seguito con piacere altre occasioni per attestare la nostra operosa benevolenza verso i cattolici orientali, e, conservati uniti gli animi alla sede apostolica, non abbiamo certamente avuto nulla di più caro, nulla di più santo che stimolare in loro l’ardore e la fecondità della fede, al punto da tendere, con rinnovati esempi, all’eccellenza e alla fama degli antenati. – Fra tutte le chiese orientali, abbiamo seguito e seguiamo con una benevolenza del tutto particolare, l’illustre nazione e il patriarcato antiocheno greco-melchita. E infatti, per ricordare soltanto poche cose, voi sapete perfettamente, venerabili fratelli, che Noi fin dal 1882 abbiamo allestito nella città di Gerusalemme un seminario per i greco-melchiti, e vi abbiamo messo a capo i Missionari algerini. Inoltre, a Nostre spese, abbiamo cura che siano formati a Roma, nel Collegio atanasiano, parecchi alunni della stessa nazione greco-melchita, affinché attingano proprio alla fonte la verità cattolica, e si abituino a venerare apertamente e ad amare appassionatamente il centro dell’unità, che da Dio è stato istituito nella sede apostolica. Infine, nel 1894, come si ricava dalla stessa costituzione Orientalium, abbiamo attribuito al patriarca greco-melchita la giurisdizione anche su tutti i fedeli dello steso rito che vivono dentro i confini dell’impero turco. – Volentieri attestiamo che a questa benevolenza verso la nazione greco-melchita, ha risposto in modo adeguato la religiosa attività del vostro ordine, sia per lo zelo con cui, chiamati a prendere parte alla Nostra sollecitudine, cercate di compiere il vostro ministero, sia per l’operosità con la quale provvedete all’incolumità del gregge affidatovi. In verità, anche se ricordiamo tutte queste cose non senza la lode del vostro Ordine, non possiamo tuttavia dissimulare la tristezza dalla quale fummo colpiti, quando venimmo a sapore delle discordie che da non molto tempo erano sorte tra voi. Abbiamo potuto comporre tale dissidio con il favore e l’assistenza della grazia di Dio, quando molti di voi, che il mese scorso erano venuti a Roma, si sono sottomessi lodevolmente alle Nostre esortazioni, e subito si è ristabilita la pace e la concordia. Ora, per consolidare questo accordo degli animi, abbiamo deciso di dichiarare in modo particolare tre cose per mezzo di questa lettera.

I. Per quanto riguarda i diritti patriarcali, i privilegi, le funzioni, le prerogative, vogliamo che nulla sia sottratto o diminuito; tuttavia, nello stesso tempo, con tutte le nostre forze preghiamo il venerabile fratello Nostro, il patriarca antiocheno greco-melchita, affinché accolga con la dovuta riverenza e abbracci con fraterna carità i vescovi della stessa nazione, “che lo Spirito santo ha posto a reggere la chiesa di Dio”, secondo il precetto del beato Pietro il primo degli apostoli: “Non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge” (1 Pt V, 3); con cui si accordano le bellissime parole di Bernardo: “Operi la carità più che il potere”.

II. Raccomandiamo inoltre a tutti i vescovi della stessa nazione, di onorare e rispettare il sullodato patriarca come legittimo presule, e di prestare la dovuta obbedienza. Qualora sorga fra loro qualche controversia, la sottopongano umilmente in primo luogo al giudizio del patriarca; se poi succede che la cosa non venga risolta, la si porti in modo riverente alla sede apostolica.

III. Per evitare le future contestazioni sui diritti, sarà di ottimo aiuto la celebrazione del sinodo nazionale. A questo riguardo, come già altre volte vi abbiamo raccomandato, così ora, con la presente lettera, prescriviamo che tale sinodo venga convocato al più presto. In questo si tratti dei diritti dei patriarchi e dei vescovi, della giusta amministrazione dei fedeli, della disciplina del clero, delle istituzioni monastiche e delle altre pie istituzioni, delle necessità delle missioni, del decoro del culto divino, della sacra liturgia, e delle altre cose dello stesso genere, che con diligenza e con grande cautela debbono essere prese in considerazione per procurare la maggiore gloria di Dio e per accrescere lo splendore della chiesa greco-melchita. Come presso le altre chiese orientali la celebrazione del sinodo nazionale si è realizzata con vantaggio in ordine alla composizione dei problemi e al rinnovamento della disciplina ecclesiastica, così Noi a buon diritto ci ripromettiamo che dalla elaborazione e dalla promulgazione di leggi scritte si otterranno per la vostra Chiesa bellissimi frutti. Ora Invero, prima di porre fine alla presente lettera, con l’intimo affetto del nostro Cuore vi esortiamo e scongiuriamo affinché, avvinti strettamente ogni giorno di più da un fortissimo patto di carità, “cerchiate di conservare con ogni umiltà e mansuetudine l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace”. Nessuno di voi infatti ignora quale importanza abbia per il bene di tutta la chiesa e per favorire la riconciliazione dei separati, la concordia degli animi, delle volontà e dei pensieri. Per questo Noi abbiamo la certa speranza, venerabili fratelli, che voi, assecondando di tutto cuore queste paterne ammonizioni, desideri, richieste, vogliate eliminare radicalmente i germi dei dissensi, e così portare a compimento la Nostra gioia, e farvi carico di tutte le funzioni del vostro gravissimo ufficio per il perfezionamento dei santi e per l’edificazione del corpo di Cristo. Siate certi che Noi abbiamo deciso di compiere tutte quelle cose che verremo a conoscere come utili per il maggiore vantaggio della chiesa greco-melchita. Nel frattempo, nell’umiltà del Nostro cuore, preghiamo e supplichiamo Dio affinché vi elargisca propizio una grande abbondanza dei celesti carismi. Auspice della divina assistenza e testimone di quella ardentissima carità con cui vi abbracciamo nel Signore, impartiamo con grande amore a voi, venerabili fratelli, e a tutti i chierici e ai fedeli laici greco-melchiti, la benedizione apostolica.

Roma, presso San Pietro, 21 luglio 1900, anno XXIII del Nostro pontificato.

DOMENICA DI PASQUA (2019)

DOMENICA DI PASQUA (2019)

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps CXXXVIII: 18; CXXXVIII: 5-6.

Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuisti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja. [Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.]

Ps CXXXVIII: 1-2.

Dómine, probásti me et cognovísti me: tu cognovísti sessiónem meam et resurrectiónem meam. [O Signore, tu mi provi e mi conosci: conosci il mio riposo e il mio sòrgere.]

Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuísti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja. [Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.]

Oratio

Deus, qui hodiérna die per Unigénitum tuum æternitátis nobis áditum, devícta morte, reserásti: vota nostra, quæ præveniéndo aspíras, étiam adjuvándo proséquere. [O Dio, che in questo giorno, per mezzo del tuo Figlio Unigénito, vinta la morte, riapristi a noi le porte dell’eternità, accompagna i nostri voti aiutàndoci, Tu che li ispiri prevenendoli.] Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 1 Cor V: 7-8

“Fratres: Expurgáte vetus ferméntum, ut sitis nova conspérsio, sicut estis ázymi. Etenim Pascha nostrum immolátus est Christus. Itaque epulémur: non in ferménto véteri, neque in ferménto malítiae et nequitiæ: sed in ázymis sinceritátis et veritátis.” 

Omelia I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929]

LA RISURREZIONE SPIRITUALE

“Fratelli: Togliete via il vecchio fermento, affinché siate una pasta nuova, voi che siete già senza lievito. Poiché Cristo, che è la nostra pasqua, è stato immolato. Pertanto celebriamo la festa non col vecchio lievito, né col lievito della malizia e delle perversità, ma con gli azimi della purità e della verità”. (1 Cor. V, 7-8).

L’Epistola è un brano della prima lettera di S. Paolo ai Corinti. Siamo alle feste pasquali. Gli Ebrei celebravano la loro pasqua, mangiando l’agnello con pane azimo, dopo aver fatto scomparire tutto il pane fermentato. Anche i Corinti devono liberarsi da tutte le tendenze grossolane e carnali, e rinunciare al lievito del peccato. – Gesù Cristo, il nostro agnello pasquale, immolando se stesso, ha istituito una pasqua che dura sempre. Anche i Corinti, rinnovellati in Gesù Cristo, devono condurre continuamente una vita innocente e retta davanti a Dio. Cerchiamo di ricavare anche noi qualche frutto dall’insegnamento dell’Apostolo.

1. Dobbiamo liberarci dal peccato.

2. Specialmente nel tempo pasquale,

3. Sigillando la nostra conversione col banchetto eucaristico.

1.

Fratelli: Togliete via il vecchio fermento. Comunque si vogliano intendere queste parole, che l’Apostolo indirizza ai Corinti, è certo che li esorta a vivere santamente, lontani da ogni peccato, tanto più che si avvicinava la solennità di Pasqua. « Non c’è uomo che non pecchi », dice Salomone (3 Re, VIII, 46). E si pecca non solo venialmente: da molti si pecca mortalmente con la più grande indifferenza. Forse cesserà il peccato di essere un gran male, perché è tanto comune? Una malattia non cessa di essere un gran male, perché molto diffusa; e il peccato non cessa di essere il gran male che è, perché commesso da molti. Dio, autorità suprema, ci dice: «Osservate la mia legge e i miei comandamenti» (Lev. XVIII, 5). E noi non ci curiamo della sua legge e dei suoi comandamenti, che mettiamo sotto i piedi. Quale guadagno abbiamo fatto col peccato, e qual vantaggio riceviamo dal non liberarcene? Se non hai badato al peccato prima di commetterlo; consideralo almeno ora che l’hai commesso. Col peccato avrai acquistato beni, ma hai perduto Dio. Avrai avuto la soddisfazione della vendetta; ma ti sei meritato un condegno castigo; perché « quello che facesti per gli altri sarà fatto per te: sulla tua testa Dio farà cadere la tua mercede » (Abdia, 15). Se non aggraverà su te la sua mano in questa vita, l’aggraverà nella futura. Avrai provato godimenti terreni, ma hai perduto il diritto ai godimenti celesti. Ti sei attaccato a ciò che è momentaneo, ma hai perduto ciò che è eterno. Ti sarai acquistata la facile estimazione degli uomini, ma hai perduto l’amicizia di Dio. Hai abusato un momento della libertà; ma sei caduto nella schiavitù del peccato. « Che cosa hai perduto, che cosa hai acquistato?… Quello che hai perduto è più di quello che hai acquistato » (S. Agostino Enarr. in Ps. CXXIII, 9). – Il peccatore, però, da questo stato di perdita può uscire, rompendo le catene del peccato. Egli lo deve fare. Dio stesso ve lo incoraggia: « Togliti dai tuoi peccati e ritorna al Signore » (Eccli. XVII, 21), dice egli. « Io non voglio la morte dell’empio, ma che l’empio si converta dalla sua via, e viva… E l’empietà dell’empio non nuocerà a lui, ogni qual volta egli si converta dalla sua empietà » (Ezechiele XXXIII, 11…. 12). Non si è alieni dal ritornare a Dio; ma non si vuole far subito. Si vuole aspettare in punto di morte. Ma la morte ha teso le reti a tutti i varchi, e frequenti sono le sue sorprese. Può coglierci da sani, quando nessuno ci pensa; può coglierci da ammalati; quando non si crede tanto vicina, o si crede di averla già allontanata. Non sono pochi quelli che muoiono senza Sacramenti, perché si illudono che la malattia non sia mortale, o che il pericolo sia stato superato. E poi, non è da insensati trattare gli affari della più grande importanza, quando non si possono trattare che a metà, con la mente preoccupata in altre cose? E nessuno affare può essere importante quanto la salvezza dell’anima nostra; ed è imprudenza che supera ogni altra imprudenza volerlo trattare quando il tempo ci verrà a mancare, quando non avremo più la lucidità della mente. – Nessuno che è condannato a portare un peso, aspetterebbe a levarselo di dosso domani, se potesse levarselo quest’oggi. Nessuno che ha trovato una medicina, che può guarire una malattia recente, si decide a prenderla quando la malattia sarà inveterata. Nel nostro interno c’è la malattia del peccato; non lasciamola progredire. Un medico infallibile, Gesù Cristo, ci ha dato una medicina per la nostra guarigione spirituale, la confessione; non trascuriamola.

2.

Cristo, che è la nostra pasqua, è stato immolato. Per i Cristiani la festa pasquale è una festa che dura per tutta la vita, perché Gesù Cristo, nella festa pasquale, si è immolato una volta per sempre. Per tutta la vita, dunque, i Cristiani devono vivere in unione con Dio, mediante la santa grazia. E se il Cristiano avesse perduta la grazia? Non deve lasciar passare la Pasqua, senza riacquistarla Nei giorni della settimana santa la Chiesa ci ha rappresentato al vivo i patimenti di Gesù; e con questa rappresentazione voleva dire: Ecco, o peccatore, a qual punto i tuoi peccati hanno ridotto l’Uomo-Dio. Ecco in quale stato si è trovato per volerti liberare da essi. Ecco la croce su cui è morto per riparare i danni della colpa. Ecco il fiele da cui fu abbeverato, ecco le spine che gli forarono il capo, ecco i chiodi che gli trapassarono le mani e i piedi, ecco la lancia che gli aperse il costato, da cui uscirono acqua e sangue per lavacro delle anime. E tu rifiuterai di purificarti in questo lavacro? Davanti allo spettacolo di Dio che muore in croce per liberare gli uomini dal peccato, persino la natura si commuove: la terra trema, e le pietre si spezzano, e tu solo, o Cristiano resterai indifferente, mostrandoti più duro delle pietre? Imita piuttosto la moltitudine convenuta a quello spettacolo, che « tornava battendosi il petto » (Luc. XXIII, 48). Questa mattina la Chiesa ti invita a risorgere dal peccato col ricordo della risurrezione di Gesù Cristo. Essa ti rivolge le parole del salmista: « Questo giorno l’ha fatto il Signore, esultiamo e rallegrandoci in esso » (Salm. CXVII, 24. — Graduale —). Come prender parte all’esultanza della Chiesa in questo giorno, se l’anima nostra è morta alla grazia? Poiché l’esultanza che la Chiesa ci domanda non è l’esultanza delle piazze, delle osterie, dei caffè, degli spettacoli. È l’esultanza che viene dalla riconciliazione dell’uomo con Dio, dalla riacquistata libertà di suoi figli. Il peccatore non è insensibile all’invito della Chiesa. Ma la voce della Chiesa è soffocata da un’altra voce, per lui più forte, dalla voce del rispetto umano. Che diranno, se si verrà a sapere che sono andato a confessarmi? Se si tratta di curare una ferita non si ascoltano le voci dei profani, ma quella del chirurgo. Trattandosi di guarire le ferite prodotte dal peccato, saremmo ben stolti, se dessimo più peso alle chiacchiere dei negligenti, dei superbi, dei viziosi, che alla voce autorevole della Chiesa. Pensa quale consolazione procurò alla vedova di Naim la risurrezione del figlio. Le lagrime che avevano commosso Gesù, ora si sono cangiate in lagrime di consolazione. « Di quel giovane risuscitato gioì la vedova madre; degli uomini risuscitati spiritualmente goda ogni giorno la santa madre Chiesa» (S. Agostino Serm. 98, 2). Nel suono delle campane più festoso del solito essa vorrebbe farti sentire le parole dell’Apostolo: «E’ ora di scuoterci dal sonno» (Rom. XIII, 11). Svegliati, dunque, e non voler persistere nel pericolo di passare, senza svegliarti, dal sonno del peccato al sonno della morte.

3.

Gli Ebrei, purificata la casa da tutto ciò che era fermentato, mangiavano l’agnello pasquale. I Cristiani, devono anch’essi mangiare il vero Agnello pasquale, di cui l’antico agnello era tipo. Purificati, nella confessione, dal lievito dei peccati della vita trascorsa, con coscienza pura e retta intenzione, partecipino al banchetto pasquale. È quanto inculca l’Apostolo. Pertanto celebriamo la festa non col vecchio lievito, ne col lievito della malizia e della perversità; ma con gli azimi della purità e della verità.Quando si fanno feste solenni il banchetto ha sempreuna parte principale. Il banchetto eucaristico deve avereuna parte principalissima nella letizia della solennitàpasquale. Poco importa assidersi a un banchetto materiale,se l’anima si lascia digiuna.« Peccando non abbiamo conservato né la pietà, né lafelicità; ma, pur avendo perduto la felicità, non abbiamperduto la volontà di essere felici» (De Civitate Dei, L. 22, c. 30). L’uomo ha perduto il Paradiso terrestre, ma vi ritornerebbe ancor volentieri. Il Paradiso terrestre, perduto da Adamo, non possiamo più possederlo; ma possiamo possedere, ancor pellegrini su questa terra, un altro paradiso. Sta da noi,dopo aver preparato l’anima nostra ad accogliere l’Ospite divino, andargli incontro, riceverlo, metterlo nell’anima nostra, come su un piccolo trono. Il nostro cuore diventerebb el’abitazione di Dio, e, dove c’è Dio, c’è il Paradiso. La Chiesa vorrebbe che noi li gustassimo sovente questi momenti di Paradiso. E, visto che noi non siamo tanto docili alla sua voce, ci prega, ci scongiura, ci comanda di voler provare queste delizie interne almeno a Pasqua.Fare Pasqua! Due parole che spaventano tanti Cristiani, e che, invece, dovrebbero essere accolte con la brama con cui un assetato accoglie l’annuncio d’una vicina sorgente ristoratrice. Accostarsi alla Confessione e alla Mensa eucaristica, vuol dire mettere il cuore in pace, trovare la felicità perduta.Sulla fine d’Ottobre del 1886 si presenta al confessionaledell’abate Huvelin, nella chiesa di S. Agostinoa Parigi, un giovane ragguardevole, Carlo de Foucald. Era stato luogotenente dei Cacciatori d’Africa, coraggioso e fortunato esploratore del Marocco. Nel suo cuore c’era l’inquietudine e la tristezza.« Signor abate — dice dopo un leggero inchino —io non ho la fede, vengo a chiederle d’istruirmi ». L’abate Huvelin lo guardò: « Inginocchiatevi confessatevi a Dio; crederete ». — « Ma non sono venuto per questo». —« Confessatevi ».Quel giovane cedette. S’inginocchiò, e confessò tutta la sua vita. Quando il penitente fu assolto, l’abate gli domanda: « Siete digiuno? » — « Sì ». — « Andate e comunicatevi». Il giovane si accostò subito alla sacra Mensae fece « la sua seconda Prima Comunione ». Quella Confessione e quella Comunione furono il principio d’un’altravita. Egli esce dal tempio con la pace nel cuore; pace che gli trasparisce sempre dagli occhi, dal sorriso, nella voce e nelle parole. Egli, da oggi, si prepara alla vita di trappista, di sacerdote, di eremita, che finirà nel Sahara, dopo esser vissuto vittima di espiazione per sé e per gli altri (Renato Bazin, Carlo de Foucauld. Traduzione dal Francese di Clelia Montrezza. Milano 1928, p. 48-49). Forse, il pensiero di dover cominciare una vita nuova, dopo essersi accostati alla Confessione e alla Comunione, intrattiene parecchi dal compiere il loro dovere in questi giorni. Eppure è nostro interesse procurare al nostro cuore una pace vera e una santa letizia, oltre essere nostro dovere è nostro interesse, e massimo interesse, incominciare una vita nuova, intanto che ne abbiamo il tempo; senza contare che « una grave negligenza richiede anche una maggiore riparazione» (S. Leone M. Serm. 84, 2). Facciamo una buona Pasqua col proponimento di camminare in novità di vita, e di non volere imitare gli Ebrei, che dopo aver mangiato l’agnello pasquale nella notte della loro liberazione, rimpiangono l’Egitto, la terra della loro oppressione. « Noi pure mangiamo la Pasqua, cioè Cristo… Nessuno di coloro che mangiano questa pasqua si rivolga all’Egitto, ma al cielo, alla superna Gerusalemme » (S, Giov. Crisost.); da dove ci verrà la forza di compiere il nostro pellegrinaggio, senza ritornare sui passi della vita passata.

Alleluja 

Alleluia, alleluia Ps. CXVII:24; CXVII:1 Hæc dies, quam fecit Dóminus: exsultémus et lætémur in ea. [Questo è il giorno che fece il Signore: esultiamo e rallegriàmoci in esso.] V. Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus. Allelúja, allelúja. [Lodate il Signore, poiché è buono: eterna è la sua misericòrdia. Allelúia, allelúia.] 1 Cor V:7 V.Pascha nostrum immolátus est Christus. [Il Cristo, Pasqua nostra, è stato immolato.]

Sequentia

“Víctimæ pascháli laudes ímmolent Christiáni. Agnus rédemit oves: Christus ínnocens Patri reconciliávit peccatóres. Mors et vita duéllo conflixére mirándo: dux vitæ mórtuus regnat vivus. Dic nobis, María, quid vidísti in via? Sepúlcrum Christi vivéntis et glóriam vidi resurgéntis. Angélicos testes, sudárium et vestes. Surréxit Christus, spes mea: præcédet vos in Galilaeam. Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére. Amen. Allelúja.” [Alla Vittima pasquale, lodi òffrano i Cristiani. – L’Agnello ha redento le pécore: Cristo innocente, al Padre ha riconciliato i peccatori. – La morte e la vita si scontràrono in miràbile duello: il Duce della vita, già morto, regna vivo. – Dicci, o Maria, che vedesti per via? – Vidi il sepolcro del Cristo vivente: e la glória del Risorgente. – I testimónii angélici, il sudàrio e i lini. – È risorto il Cristo, mia speranza: vi precede in Galilea. Noi sappiamo che il Cristo è veramente risorto da morte: o Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi. Amen. Allelúia.]

Evangelium 

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum Marcum. 

 Marc. XVI:1-7.

“In illo témpore: María Magdaléne et María Jacóbi et Salóme emérunt arómata, ut veniéntes úngerent Jesum. Et valde mane una sabbatórum, veniunt ad monuméntum, orto jam sole. Et dicébant ad ínvicem: Quis revólvet nobis lápidem ab óstio monuménti? Et respiciéntes vidérunt revolútum lápidem. Erat quippe magnus valde. Et introëúntes in monuméntum vidérunt júvenem sedéntem in dextris, coopértum stola cándida, et obstupuérunt. Qui dicit illis: Nolíte expavéscere: Jesum quǽritis Nazarénum, crucifíxum: surréxit, non est hic, ecce locus, ubi posuérunt eum. Sed ite, dícite discípulis ejus et Petro, quia præcédit vos in Galilǽam: ibi eum vidébitis, sicut dixit vobis.” [In quel tempo: Maria Maddalena, Maria di Giacomo, e Salòme, comperàrono degli aromi per andare ad úngere Gesú. E di buon mattino, il primo giorno dopo il sàbato, arrivàrono al sepolcro, che il sole era già sorto. Ora, dicévano tra loro: Chi mai ci sposterà la pietra dall’ingresso del sepolcro? E guardando, vídero che la pietra era stata spostata: ed era molto grande. Entrate nel sepolcro, vídero un giòvane seduto sul lato destro, rivestito di càndida veste, e sbalordírono. Egli disse loro: Non vi spaventate, voi cercate Gesú Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui: ecco il luogo dove lo avévano posto. Ma andate, e dite ai suoi discépoli, e a Pietro, che egli vi precede in Galilea: là lo vedrete, come vi disse.]

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

PEL SANTO GIORNO DI PASQUA

“In quel tempo, passato il sabato, Maria Maddalena, e Maria madre di Giacomo, e Salòme avevano comperato gli aromi per andare a imbalsamare Gesù. E (partite) di gran mattino, il primo dì della settimana, arrivano al sepolcro, essendo già nato il sole. E dicevano tra di loro: Chi ci leverà la pietra dalla bocca del monumento? Ma in osservando, videro ch’era stata rimossa la pietra, la quale era molto grossa. Ed entrate nel monumento videro un giovine a sedere dal lato destro, coperto di bianca veste, e rimasero stupefatte. Ma egli disse loro: Non abbiate timore: voi cercate Gesù Nazzareno crocifisso: egli è risuscitato, non è qui: ecco il luogo dove l’avevano deposto. Ma andate ai suoi discepoli e a Pietro: egli vi andrà innanzi nella Galilea; ivi lo vedrete, com’egli vi ha detto” (Marc. XVI, 1-1).

Surrexit! È risorto! Ecco, o miei cari, la gran parola, che oggi si ripete con gioia nei sacri riti della Chiesa: Gesù Cristo è risorto! Dopoché nel giorno di venerdì, alle tre pomeridiane, Egli era spirato sulla croce, Giuseppe d’Arimatea, nobile decurione e uomo buono e giusto, benché discepolo occulto del divino Maestro per timore dei Giudei, fattosi santamente audace si presentò a Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Pilato, inteso dal centurione che Gesù era veramente morto, annuì alla domanda di Giuseppe d’Arimatea. Il quale comperata una sindone monda si avviò al Calvario per deporre dalla croce il corpo di Gesù ed involgerlo entro a quella sindone. Ed essendosi a lui unito Nicodemo, altro discepolo occulto di Gesù, che portava con sé degli aromi preziosi, giunti al Calvario, calarono con santa riverenza il corpo di Gesù dalla croce, lo involsero nella sindone con quegli aromi, secondo il costume de’ Giudei; quindi andarono religiosamente a deporlo in un monumento nuovo scavato nel vivo sasso; ed appressata una gran pietra alla porta del monumento, lo lasciarono. Ivi il corpo di Gesù rimase parte di quel venerdì, tutto il susseguente sabbato e parte del giorno dopo, chiamato in seguito domenica. Ma in sull’alba del terzo giorno l’anima di Gesù che, dopo la sua morte, era discesa al limbo, venne a riunirsi al suo corpo, e Gesù per sua propria virtù risorse glorioso e trionfante dal suo sepolcro, deludendo tutte le precauzioni, che contro di Lui avevano preso i suoi nemici. Del quale grande avvenimento perché noi fossimo certi, non solo volle dopo la sua risurrezione ripetutamente apparire a’ suoi discepoli, ma volle ancora che gli Angeli del cielo venissero a manifestarlo e ad attestarlo agli uomini. Ed è appunto una tale manifestazione ed attestazione che la Chiesa in questo giorno solenne ci invita a considerare nel santo Vangelo.

1. In quel tempo, comincia a dirci il santo Vangelo, in quel tempo Maria Maddalena, e Maria di Giacomo, e Maria Salòme comprarono degli aromi, per recarsi ad ungere il corpo di Gesù. E qui, o miei cari, prima di andare innanzi fermiamoci un istante a prendere una bella lezione da queste pie e sante donne. Animate come esse erano da una gran fede, epperò persuase che il corpo racchiuso nel sepolcro di Giuseppe di Arimatea era veramente il corpo del Redentore del mondo; inoltre accese da una grande carità verso di quel caro Gesù, che avevano preso ad oggetto di tutto il loro amore, non potendo patire di starsene da Lui lontane e di lasciarlo negletto in quel sepolcro, comprarono degli aromi per recarsi a Lui vicino e con quelli fargli in qualche modo riparazione delle tante piaghe, da cui nella sua passione e morte era stato ricoperto. Or non è vero che è grandemente ammirabile la pietà di queste sante donne? Ma non meno della nostra ammirazione una tale pietà è sommamente meritevole della nostra imitazione. – Il nostro caro Gesù, non più morto come nel santo sepolcro, ma vivo come dopo la sua risurrezione, e come trovasi in cielo, risiede pure per la SS. Eucarestia nel piccolo monumento del santo tabernacolo, ivi trattenuto dal suo infinito amore per gli uomini. E chi sa dire i benefizi immensi, che di lì Egli sparge sopra gli uomini? Eppure vi sono tanti sciagurati, i quali in questo stesso Sacramento di amore lo oltraggiano, lo insultano e lo ricoprono per così dire di ferite e di piaghe. Ed in vero quante lingue malvagie bestemmiano questo SS. Sacramento! Quanti uomini superbi lo contraddicono ed osano negarne la verità! Quanti miserabili lo disprezzano col mancargli di rispetto e in Chiesa, dove se ne sta come in sua casa, e fuori di Chiesa, quando è portato in processione o per viatico agli infermi! Quanti altri lo affliggono col costringerlo nella Comunione sacrilega ad entrare nei loro cuori macchiati da grave peccato! E quanti disgraziati vi sono, che arrivano anche al punto di rapirlo nei santi tabernacoli e da gettarlo poscia tra le luridezze e in pasto ai cani! Or chi sa dire come tutti questi oltraggi ed insulti feriscono il cuore amoroso di Gesù? Conviene pertanto ai buoni Cristiani, animati da viva fede pel suo SS. Sacramento ed accesi per esso di santo amore, imitare la pietà delle sante donne, di cui parla il Vangelo di oggi, e farsi con visite devote al SS. Sacramento istesso a ripararlo degli oltraggi e degli insulti, che pur troppo riceve dai malvagi. E come quelle sante donne per riparare alle piaghe di Gesù portarono con sé degli aromi preziosi, così ancor noi nell’entrare nella casa di Dio a ripararlo degli oltraggi, che riceve nel S. S. Sacramento, dobbiamo portare con noi gli aromi preziosi di una viva fede e di una ardente carità, che ci eccitino a fare delle preghiere, le quali salgano al trono di Dio in odore di soavità e gli riescano di grata riparazione. Ecco adunque la prima e bella lezione, che dobbiamo prendere dal Vangelo di questa grande solennità.

2. Prosegue poi il Vangelo dicendo che, comperati quegli aromi, le pie donne assai per tempo nel primo dì dopo il sabbato vennero al monumento, essendo già balzato il sole. E dicevano tra di loro: Chi ci smuoverà la pietra dalla porta del monumento? E riguardando videro la pietra già rovesciata, benché fosse assai grande. Ed anche su questo tratto conviene che ci fermiamo qualche poco a fare un’importante osservazione. Quelle pie donne nel recarsi al monumento in cui era sepolto Gesù, si mostravano assai preoccupate dalla difficoltà in cui si sarebbero trovate per entrarvi, essendo che assai pesante era la pietra sovrapposta alla porta del monumento e per loro sarebbe stato assai difficile il poterla rimuovere. Ma ecco che riguardando attentamente videro scomparsa ogni difficoltà al loro intento, giacché quella gran pietra si presentò loro innanzi già bell’e rovesciata. Or ecco in queste circostanze rappresentato al vivo ciò che succede in certe anime, quando stanno per uscire da una vita di peccato per darsi invece ad una vita tutta intesa al servizio di Dio.Costoro, avendo pur volontà risoluta di lasciare il male e di appigliarsi al bene, immaginano tuttavia delle gravi difficoltà, prima nel compiere questo passo, e poi nel camminare costantemente per la retta via. Anzitutto si pensano che sia assai difficile compiere il primo passo, fare cioè una buona Confessione. Giacché, o essendo già da molti anni che non si confessano più, od essendo da vario tempo che si confessano male, temono che nella confessione, che pur vorrebbero fare, non possa riuscir loro di dire tutto, di spiegarsi bene e di riparare convenientemente alla trascuranza ed alla malvagità passata. E con questo timore talmente si angustiano, che alle volte per questa sola difficoltà rimandano e differiscono sempre di giorno in giorno la loro Confessione, esponendosi per tal guisa al pericolo di non poterla più fare, e ad ogni modo mantenendo il loro animo in uno stato di affanno e di ansietà indicibile. E poscia si crucciano altresì pensando, che, anche dopo d’aver con una buona Confessione riparato al passato, non riesca loro possibile mantenersi fermi nei loro buoni propositi e non ritornare alla vita peccaminosa di prima. Questa era appunto la difficoltà, che sentiva Santo Agostino, quando era pur risoluto di lasciare la vita mondana per darsi del tutto al divino servizio. Come mai, andava dicendo egli a se stesso, come mai riuscirò io a menare una vita veramente pura e casta? Come lascerò del tutto quei piaceri che sino ad ora ho gustati? Come vincerò le mie perverse inclinazioni? E così al pari di S. Agostino, vanno dicendo a se stessi molti giovani e molti Cristiani e quando dalla voce di Dio sono invitati a lasciare la vita del peccato, e quando sentono puro in cuore una grande volontà di lasciarla.Or bene costoro devono essere ben persuasi, che le difficoltà, che loro si presentano in questo caso, non sono che difficoltà apparenti, e che anzi tali difficoltà a chi è di buon volere non esistono più, come più non esisteva all’intento delle pie donne la difficoltà della gran pietra sovrapposta al monumento di Gesù Cristo. Ed in vero, chi è seriamente risoluto di lasciare il male per appigliarsi al bene, si accosti senz’altro al Sacramento della Penitenza e conoscerà a prova come tutt’altro che difficile, riesce invece assai facile coll’aiuto di Dio e del confessore a sgravarsi del peso delle proprie colpe, tanto da restare persino meravigliato della facilità, che vi ha in questo primo passo. E poscia continui tranquillamente nei suoi buoni propositi e vedrà che il Signore, facendosi con lui generoso della sua grazia, gli darà la forza per resistere alle tentazioni e vincerle, e per mantenersi costante nella pratica della virtù. Sicché in tanta agevolezza di operare il bene e di respingere il male dovrà dire in fondo al suo cuore: No, non mi sarei mai creduto, che fosse così soave il giogo di Gesù Cristo e così leggiero il peso della sua legge! Se pertanto, o miei cari, vi fosse ancora qualcuno che non si fosse del tutto deciso di lasciare una vita poco o nulla cristiana, si decida oggi a questo importante ammaestramento, che gli dà il Vangelo della solennità pasquale e, superate tutte le difficoltà, risorga ancor egli dal suo sonno di morte e partecipi alla giocondità della Risurrezione di Cristo, di quella Risurrezione, che come dissi, il Signore volle manifestata ed attestata anche dagli Angeli del Cielo.

3.  Ed in vero ecco ciò che ci racconta infine il Vangelo: Ed entrando quelle pie donne nel monumento videro un giovane che sedeva alla destra, ricoperto di una veste candida, e stupirono. Ma questi disse loro: Non vogliate spaventarvi: voi cercate Gesù Nazareno crocifisso: è risorto, non è più qui, ecco il luogo, ove lo posarono. Epperò andate, dite ai suoi discepoli ed a Pietro, che Egli vi precede in Galilea, che ivi lo vedrete, siccome Egli vi disse. Questo giovane pertanto, così chiamato nel Vangelo di S. Marco, e nel Vangelo di S. Matteo chiamato senz’altro col suo nome di Angelo del Signore, disceso dal Cielo e rimossa la pietra del monumento, col volto sfolgoreggiante di luce e col vestito candido come la neve rimase là per manifestare ed attestare a quelle pie donne, e per mezzo loro a tutti, che Gesù Cristo, conforme a quel che aveva predetto, era veramente risorto.Dal che è assai facile il riconoscere con qual lusso di testimonianze il Signore abbia voluto dimostrare la verità di quel miracolo, che è il massimo operato da nostro Signor Gesù Cristo, e che al dire di S. Paolo, basta da sé solo a costituire la base della nostra fede, poiché, come egli stesso si esprime, sarebbe vana la nostra fede, se Gesù Cristo non fosse risorto. Epperò mentre l’abbondanza di testimonianze di questo grande mistero ci deve raffermare nella fede del medesimo, accresce altresì la colpa di coloro, che superbamente negano alle verità della fede l’omaggio della loro credenza, e li rende affatto inescusabili. Tuttavia, o miei cari, prima di terminare io desidero ancora dall’attestazione dell’Angelo prendere argomento a fare un voto per ciascuno di noi. Gesù Cristo, disse l’Angelo alle pie donne,Gesù Cristo è risorto. Or ecco il voto che io intendo esprimere: che gli Angeli del cielo, riguardando di questi giorni a ciascuno di noi, possano dire di ciascuno di noi la stessa cosa: Questi giovani, questi Cristiani sono risorti! Sono risorti dai loro peccati e dai loro vizi; sono risorti dalle loro cattive abitudini; sono risorti dalla loro freddezza; sono risorti dalla loro indifferenza e dalla loro tiepidezza; son veramente risorti per non ricadere mai più, come Gesù Cristo risorse per non mai più morire. Ecco il voto che io esprimo, e che non è altro se non l’adempimento di quella raccomandazione, che con le parole di S. Paolo ci fa oggi la Chiesa dicendo: « Fratelli, togliete da voi il vecchio fermento della malizia e della nequizia e rendetevi come pani azimi per la sincerità e per la verità (1 Cor. V) ». Che si adempia pertanto questo voto, che si pratichi da tutti noi questa raccomandazione; ed allora con maggior animo si potrà da ciascuno di noi prender parte alle grandi feste della Pasqua, cioè della Risurrezione di Cristo.

  Credo…

Offertorium 

Orémus 

Ps. LXXV: 9-10.

Terra trémuit, et quiévit, dum resúrgeret in judício Deus, allelúja. [La terra tremò e ristette, quando sorse Dio a fare giustizia, allelúia.]

Secreta

Súscipe, quaesumus, Dómine, preces pópuli tui cum oblatiónibus hostiárum: ut, Paschálibus initiáta mystériis, ad æternitátis nobis medélam, te operánte, profíciant. [O Signore, Ti supplichiamo, accogli le preghiere del pòpolo tuo, in uno con l’offerta di questi doni, affinché i medésimi, consacrati dai misteri pasquali, ci sérvano, per òpera tua, di rimédio per l’eternità.] –

Communio 

1 Cor V: 7-8

Pascha nostrum immolátus est Christus, allelúja: itaque epulémur in ázymis sinceritátis et veritátis, allelúja, allelúja, allelúja.[Il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato, allelúia: banchettiamo dunque con gli àzzimi della purezza e della verità, allelúia, allelúia, allelúia.]

Postcommunio 

 Orémus.

Spíritum nobis, Dómine, tuæ caritátis infúnde: ut, quos sacraméntis paschálibus satiásti, tua fácias pietáte concordes. [Infondi in noi, o Signore, lo Spírito della tua carità: affinché coloro che saziasti coi sacramenti pasquali, li renda unànimi con la tua pietà.]

LO SCUDO DELLA FEDE (57)

LO SCUDO DELLA FEDE (57 )

[S. Franco: ERRORI DEL PROTESTANTISMO, Tip. Delle Murate, FIRENZE, 1858]

CONVINCE FALSO IL PROTESTANTISMO PERCHÈ NON È CATTOLICO, OSSIA UNIVERSALE.

La vera Chiesa fondata da Gesù dovette sempre esser nel mondo e dovette sempre esser così visibile, che tutti i popoli la potessero ravvisare e distinguere dalle altre. Non che tutte le nazioni abbiano dovuto all’istante ricevere il lume dell’Evangelio, ma che successivamente sia stato recato loro, di modo che si vegga sempre grandeggiare in qualche luogo e si conosce che questo è il medesimo che fu sparso per tutto il mondo ed abbracciato da tutte le nazioni. Così si conveniva alle promesse che la S. Chiesa aveva ricevuto dal suo Sposo divino Gesù Cristo. Sentitene alcuna per vostra consolazione. Gesù Cristo per mezzo della sua Chiesa, dice il Salmista, doveva dominare dal mare fino al mare, dal fiume fino al termine dell’orbe terraqueo (Ps. LXXI). Negli ultimi tempi, cioè in quelli della Chiesa, sarà preparato il monte della casa del Signore, sulla vetta di tutti gii altri monti, ed a Lui si recheranno tutte le genti ed egli c’insegnerà le sue vie (Is. II, 2). Io stringerò, dice altrove, un’alleanza sempiterna, e nelle nazioni si conoscerà il loro germe, ed il loro germe sarà in mezzo a tutti i popoli; tutti quelli che li vedranno, conosceranno che questi sono il seme a cui ha benedetto il Signore (Is LXI, 8-9). Chiedi a me, (dice Dio per bocca del Salmista al suo divino Figliuolo) ed io ti darò le genti per tua eredità e per tua possessione i confini ultimi della terra (Ps. II, 8). – Vedete se deve essere sparsa universalmente la vera Chiesa di Gesù? Inoltre conferma tutte queste Profezie lo stesso Gesù dicendo che l’Evangelio sarà predicato in tutto l’universo (Marc. XIII, 18), che in suo Nome si ha da predicare la penitenza e la remissione dei peccati a tutte le genti, incominciando da Gerusalemme (Luc. XXIV, 47). Mi renderete testimonianza, dice Gesù agli Apostoli ed ai suoi successori, in Gerusalemme, in tutta la Giudea, nella Samaria e fino all’estremità della terra (Act. IV, 8). Ora ditemi sinceramente: quale fu la Religione che adempì tutte queste Profezie dell’antico Testamento e del nuovo ? Non è evidentissimo che è la sola Chiesa Cattolica Apostolica Romana? Se voi considerate questo bel fiume della Chiesa Cattolica. voi vedrete appunto che essa di età in età. di secolo in secolo, andò introducendosi in tutti i paesi che sono sulla terra. Fino dai suoi primordi invase l’Oriente tutto, l’Egitto, l’Asia, le Indie, la Grecia e gran parte d’Italia, ed a mano a mano i Romani Pontefici successori di S. Pietro conquistarono le altre parti del mondo, inviando degli Apostoli da per tutto. Nel secolo primo per opera di S. Crescente furono convertiti i Moguntini, per opera di S. Materno e di S. Eucario i Coloniesi e i Treviresi, per opera di S. Lazzaro, i popoli di Marsilia, e di S. Ireneo quei di Lione, di Vienna ed altri. Nel secondo secolo S. Lucio fu spedito ai popoli della Rezia. S, Ghiliano a quei della Franconia, S. Ruperto a quei della Baviera. Nel secolo terzo, quarto e quinto si dilatò la Chiesa nell’Africa, nella Grecia e nelle Gallie. Sul fine del secolo sesto nell’Inghilterra per opera di S. Agostino speditovi da S. Gregorio. S. Bonifazio nel secolo settimo la propagò in molte parti della Germania: S. Firmino convertì i popoli dell’Alsalzia e della Svezia: S. Ludgero la Sassonia inferiore. Nei tempi susseguenti altri ed altri popoli entrarono nella Chiesa, fino al momento in cui spuntarono i Protestanti, nel qual tempo appunto per loro confusione Iddio fece vedere qual fosse la potenza della Chiesa Cattolica; la quale dilatò la Fede nelle Indie per mezzo di S. Francesco Saverio, aprì le porte del Giappone e della Cina fino allora chiuse, e vi fece fiorire nobilissime cristianità, e non lascia fino ai dì nostri di spargere nei vasti Regni di Siam e del Tonchino e della Cocincina, nella nuova Olanda ed in tante isole perdute in mezzo al mare, la sementa dell’Evangelio per farla fruttificare in anime senza numero. Ora come non è visibile da tutto ciò, che la Chiesa Romana è veramente Cattolica, cioè universale e sparsa a tutte le genti , e che così compie tutte le Profezie che erano state fatte intorno alla vera Chiesa? – Dall’altra parte può forse dirsi che si adattino e convengano queste Profezie ai protestanti? Nulla meno: imperocché dove sono stati essi in tutti i secoli anteriori alla riforma? Per mille e cinquecento anni non vi è chi abbia tenuta la loro dottrina né sentito parlare di loro. Lo stesso Lutero affermava che ai suoi tempi nessuno conosceva più le gran cose che egli aveva da insegnare. Non è dunque Cattolica la loro setta, perché non si estende a tutti i tempi. Ma neppure dopo che è nata questa setta può dirsi Cattolica, perché non si estende a tutti i popoli: perocché sebbene siano in vari paesi molti che si danno il nome di Protestanti, qual è però delle tante sette in che sono divisi quella che possa vantarsi di essere Cattolica, cioè universale? Forse 1’Anglicana? Ma questa non è universale neppure in Inghilterra, che è sì piccola rispetto al mondo intero, perché la avversano i Disuniti, i Presbiteriani, i Quaccheri, i Metodisti, i Vaslesiani, gli Scozzesi e cento altre sette che tutte la condannano. Forse la Luterana? Ma se questa ha ancora alcuni seguaci nella Svezia e nella Danimarca, la maggior parte della Germania l’ha abbandonata ed ha formate cento mila sette diverse. Forse il Calvinismo? Ma questo che aveva sua sedeprincipale in Ginevra, ha lasciato ivi stesso il luogo a tutti gli errori immaginabili, tantoché fra tante Religioni in Ginevra ve ne ha perfino una in onore del Diavolo. Non vi parlo degli Stati Uniti di America, dove pure sono Protestanti, perché ivi è impossibile numerare tutte le varie credenze che dominano e ciò per confessione degli stessi Protestanti. O quale adunque di tante sette può aspirare al vanto di esser Cattolica, cioè universale? Non vi sono dieci teste che si intendano insieme, ed hanno la superbia di chiamarsi Cattolici! ed essere essi la fiaccola che illumina l’universo! – Avete mai letta la favola della rana e del bue? Una rana una volta si lasciò prendere da tanta invidia al vedere un bel bue grosso che pasceva l’erba in un prato, che volle emularlo nella grandezza. Che fece? Cominciò a gonfiarsi sformatamente; ma alla fine crepò e questo fu tutto l’utile che ne trasse. Fate voi l’applicazione a quei Protestanti che vanno attorno chiamando la loro setta la Chiesa Cattolica. Del resto poi essi stessi sono così convinti nel cuore, che non sono i veri Cattolici, che secondo l’osservazione fatta da S. Agostino, se voi trovandovi in un paese di eretici domandaste dove sia la Chiesa Cattolica, essi sarebbero i primi a mostrarvi la Chiesa nostra e non la loro. Che segno è questo? Che la verità si fa largo da sé  stessa, anche a dispetto di quelli che non la vogliono.