QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
Questa Lettera Enciclica, scritta ai Ruteni Greco-Cattolici, ha una grande importanza perché, seppur trattando di questioni specifiche, definisce delle certezze canoniche per la Chiesa Cattolica in ciò che riguarda la santa Liturgia, le cui modifiche sono espressamente condannate: … « Con lo specioso pretesto dunque di purificare i riti e di ricondurli all’antica purezza, queste persone senza scrupoli si propongono di tendere insidie alla fede dei Ruteni di Chelm e di allontanarli dal grembo della Chiesa Cattolica con il chiaro proposito di indirizzarli all’eresia e allo scisma », – « … si tratta infatti di un problema di primaria importanza, cioè della salvezza delle anime, dal momento che le illegittime innovazioni mettono in estremo pericolo la Fede cattolica e la santa unità dei Ruteni. ». Quello che veniva giustamente ricordato ai Ruteni ingannati da un falso illegittimo amministratore senza giurisdizione, vale a maggior ragione oggi, quando la Liturgia Cattolica di sempre, è stata totalmente sconvolta ed adattata alle imbeccate della Massoneria, infiltrata nei sacri palazzi, nei conclavi, nei seminari ed in tutte le istituzioni ecclesiastiche. E tutti sanno pure che tale liturgia “modernista” del c. d. Novus Ordo, è stata imposta da un antipapa privo di vera giurisdizione, un impostore Simon Mago che sedeva al posto di Simon Pietro, il Santo Padre legittimamente e canonicamente eletto, Gregorio XVII. Ora se le minime innovazioni – ci ricorda Pio IX – mettono in estremo pericolo la Fede Cattolica e quindi la salvezza eterna dell’anima, figuriamoci il totale stravolgimento del Sacrificio della Messa, delle formule sacramentali e delle varianti dottrinali che la setta satanica del “novus ordo” spaccia come dottrina della Chiesa Cattolica! Miliardi di anime sono in pericolo certo di dannazione eterna, anche se allegramente partecipano a riti blasfemi e sacrileghi offerti al “signore dell’universo” – il baphomet delle logge – accompagnati da canti aliturgici e cacofonie musicali di ogni risma con uso di strumenti elettronici e tambureggianti manovrati da dissennati dilettanti allo sbaraglio, che dissacrano quella minima apparente sacralità dei riti e dei luoghi. Che dire allora dopo aver letto questa Lettera Enciclica? Possiamo solo pregare per tante anime ignare – seppur in maggior parte colpevolmente – della loro condizione spirituale, offrirci come ostie in sacrificio, almeno nelle azioni ordinarie, e sperando in un rapido intervento del Redentore, affinché ripristini una situazione umanamente compromessa, comportarci come i Ruteni di allora che « … preferirono affrontare ogni male e mettere addirittura a repentaglio la propria vita piuttosto che sacrificare la fede degli avi e abbandonare i Riti Cattolici ricevuti dagli antenati, affermando di volerli conservare integri e senza macchia per sempre. »
Pio IX
Omnem sollicitudinem
Fin dai primi anni del Nostro lungo Pontificato abbiamo impegnato tutta la Nostra attenzione e abbiamo operato per procurare e favorire il bene spirituale delle Chiese Orientali, dichiarando solennemente, fra le altre cose, che le peculiari liturgie di rito cattolico dovevano essere mantenute e conservate con ogni cura e diligenza, in sintonia con i Nostri Predecessori che le circondarono della massima attenzione e considerazione. Esiste al riguardo una ricca documentazione a noi trasmessa da Clemente VIII nella sua Costituzione Magnus Dominus del 1595, da Paolo V nel suo Breve del 10 dicembre 1615, e soprattutto, per tralasciare altri documenti, da Benedetto XIV nelle sue Encicliche Demandata del 1743 e Allatæ sunt del 1755. Esistendo uno stretto rapporto che lega le norme liturgiche alle dottrine dogmatiche, questa Sede Apostolica, maestra infallibile della Fede e accorta custode della Verità, non appena rilevava che “si era insinuato nella Chiesa Orientale qualche rito pericoloso e disdicevole, lo condannava, lo riprovava e ne interdiceva l’uso” . – La summenzionata sollecitudine a mantenere integri gli antichi riti liturgici non impedì di accogliere tra i riti orientali alcuni altri praticati presso altre Chiese e che, come scriveva Gregorio XVI di felice memoria ai Cattolici Armeni, “i vostri antenati preferirono, o perché sembravano più semplici, o perché li avevano accolti già da qualche tempo come segno di distinzione dagli eretici e dagli scismatici” . “Resta dunque ferma“, come tramanda lo stesso Sommo Pontefice, “la norma che ribadisce l’obbligo di non procedere a modifiche dei sacri riti liturgici senza aver preventivamente consultato la Sede Apostolica, sia pure con il pretesto di introdurre cerimonie ritenute più conformi alle liturgie approvate dalla stessa Sede, se non in presenza di serie motivazioni e dopo l’assenso della stessa Sede Apostolica” . – A queste norme, saggiamente disposte per tutte le Chiese di rito orientale, deve pure soggiacere, come fu più volte dichiarato, ma soprattutto nel menzionato Breve di Paolo V, la disciplina liturgica dei Ruteni, che i Romani Pontefici non cessarono mai di circondare con particolare benevolo affetto e con peculiari favori. Non appena si prospettò qualche pericolo a minacciare la loro fede, la Sede Apostolica non tralasciò di far udire immediatamente la propria voce per ovviare a un così grave male. È tuttora viva l’eco delle solenni parole pronunciate dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di felice memoria, quando la Nazione dei Ruteni, come è noto a tutti, fu coinvolta in una situazione di così estrema gravità che tre milioni di loro furono strappati dal seno della Chiesa Cattolica, e ancora oggi ne piangiamo. – Neppure mancò l’aiuto della Sede Apostolica alla Nazione dei Ruteni, quando sorsero gravi e interminabili controversie nella Provincia di Leopoli per la difformità dei riti e per i rapporti che intercorrevano fra gli ecclesiastici di rito latino e quelli di rito greco, con negativi riflessi sulla carità cristiana. Intervenne allora un accordo, o convenzione, proposto dai Vescovi di entrambi i riti che, sancito da un decreto della S. Congregazione di Propaganda Fide per gli affari delle Chiese di rito orientale in data 6 ottobre 1863, risolse e pose felicemente fine alla controversia. – Per la verità, la deplorevole situazione in cui si viene a trovare la stessa Provincia ecclesiastica [di Leopoli], e in modo particolare la confinante Diocesi di Chelm, chiama nuovamente in causa, e a buon diritto, il Nostro dovere di sollecita vigilanza. È assai recente la notizia a Noi riportata di un’accesa controversia fra codesti Cattolici di rito Greco-Ruteno temerariamente imbastita su questioni di liturgia. Alcuni individui, e tra questi anche membri del clero, attratti dalle novità e sulla scorta di un loro capriccio, vanno proponendo innovazioni dei riti liturgici, alcuni già in uso da tempo immemorabile e altri solennemente recepiti dal Sinodo di Zamosc, approvato dalla Sede Apostolica. – Ma ciò che maggiormente Ci affligge e riempie di profonda amarezza il Nostro cuore è la gravissima situazione, a Noi recentemente riferita, in cui versa la Diocesi di Chelm. Non appena si allontanò il Vescovo, scelto da Noi stessi pochi anni orsono e ancora spiritualmente legato a quella Diocesi, uno pseudo-amministratore già da Noi ritenuto indegno della dignità episcopale, non esitò ad usurpare la giurisdizione ecclesiastica, a sovvertire ogni cosa nella suddetta Chiesa, a sconvolgere e ad alterare a proprio arbitrio le disposizioni liturgiche sancite dai canoni. – Con animo affranto scorriamo le righe della lettera circolare emanata il 20 ottobre 1873, con cui quel funesto pseudo-amministratore osa innovare l’esercizio del culto divino e la sacra liturgia, con l’evidente proposito di introdurre nella cattolica Diocesi di Chelm la liturgia degli scismatici: al fine di ingannare gli incolti e gl’ingenui per indurli più facilmente allo scisma, non si vergogna di produrre varie Costituzioni della Sede Apostolica storcendone fraudolentemente le disposizioni al proprio scopo. D’altra parte, non può esserci alcuno che non ritenga nullo e irrito quanto disposto sulla liturgia nella succitata lettera, e Noi, forti del Nostro Potere Apostolico, dichiariamo ciò nullo è irrito. Questo pseudo-amministratore risulta assolutamente privo di qualsiasi giurisdizione ecclesiastica: né il Vescovo legittimo al momento della partenza, né in seguito la Sede Apostolica giammai gliela conferirono. È dunque chiaro ed evidente che “non è entrato nell’ovile delle pecore per la porta, ma che vi è penetrato per altra via” (Gv 10,1), e deve essere considerato un intruso. – I Sacri Canoni della Chiesa dispongono che gli antichi riti orientali legittimamente introdotti debbano essere scrupolosamente osservati: “I Romani Pontefici Nostri Predecessori, dopo averli esaminati con ogni cura e non avendoli trovati in contrasto con la Fede cattolica, né occasione di pericolo per le anime, né capaci di sminuire il decoro ecclesiastico, ritennero opportuno approvarli e permetterli” ; sono sempre gli stessi Romani Pontefici a proclamare solennemente che a nessuno è lecito, senza aver consultato questa Sede Apostolica, introdurre nella liturgia innovazioni sia pure di poco peso. È quanto dispongono chiaramente le Costituzioni Apostoliche ricordate all’inizio della presente. – Non ha alcuna importanza il fatto che, per gettare fumo negli occhi, si presentino le innovazioni come strumento per purificare i riti orientali e restituirli all’antica forma. Non può infatti esistere alcuna altra liturgia dei Ruteni diversa da quella istituita dai Santi Padri della Chiesa, definita dai canoni dei Sinodi, invalsa per legittima consuetudine, ma sempre espressamente o tacitamente approvata dalla Sede Apostolica. Se con il trascorrere del tempo subentrarono variazioni nella Liturgia, queste non avvennero senza il consenso dei Romani Pontefici e furono introdotte con il preciso intento di preservare i riti da ogni contaminazione eretica e scismatica, perché potessero ergersi a difesa dei dogmi cattolici e della fede, e diventassero più idonei alla promozione del bene delle anime. – Con lo specioso pretesto dunque di purificare i riti e di ricondurli all’antica purezza, queste persone senza scrupoli si propongono di tendere insidie alla fede dei Ruteni di Chelm e di allontanarli dal grembo della Chiesa Cattolica con il chiaro proposito di indirizzarli all’eresia e allo scisma. – Ma in mezzo a queste amarissime avversità, che Ci assediano da ogni parte, Ci ristora e Ci solleva la visione straordinaria di un comportamento eroico e indefettibile offerto recentemente a Dio, agli Angeli e agli uomini dai Ruteni della Diocesi di Chelm. Essi, respingendo le inique disposizioni dello pseudo-amministratore, preferirono affrontare ogni male e mettere addirittura a repentaglio la propria vita piuttosto che sacrificare la fede degli avi e abbandonare i riti cattolici ricevuti dagli antenati, affermando di volerli conservare integri e senza macchia per sempre. – Per parte nostra non tralasciamo di innalzare a Dio, ricco di misericordia, suppliche incessanti perché effonda benigno la luce della sua grazia nel cuore di coloro che, contro ogni norma divina, violentano la Diocesi di Chelm e, nello stesso tempo, sovvenga con la sua onnipotenza quei miseri fedeli privi di ogni aiuto e di assistenza spirituale, e acceleri la consolazione dell’auspicata tranquillità. – A questo punto rivolgiamo a Voi, Venerabili Fratelli, che vi siete fatti carico con tanta dedizione e con zelo ammirevole della cura spirituale dei Ruteni, una pressante esortazione nel Signore perché difendiate le disposizioni liturgiche approvate dalla Sede Apostolica o introdotte con la sua consapevolezza e senza il suo divieto. E poiché non è assolutamente permesso introdurre innovazioni, vogliate affidare una meticolosa salvaguardia dei Sacri Canoni, in particolare delle decisioni del Sinodo di Zamosc, ai Parroci e ai Sacerdoti, persino ricorrendo a pene severissime se fosse necessario. – Si tratta infatti di un problema di primaria importanza, cioè della salvezza delle anime, dal momento che le illegittime innovazioni mettono in estremo pericolo la Fede cattolica e la santa unità dei Ruteni. Proprio per questo occorre applicarsi con tutto l’impegno, affrontare ogni fatica e non lasciare nulla di intentato per reprimere sul nascere tutto lo stravolgimento messo in opera da uomini malvagi in codesta regione in campo liturgico. Siamo certi, Venerabili Fratelli, che non verrete meno in alcun modo al preciso dovere di accollarvi, con l’aiuto della grazia di Dio, gli impegni menzionati con decisione e accortezza. – Perché ciò possa felicemente avverarsi, impartiamo con affetto a Voi, Venerabili Fratelli, e al popolo affidato a ciascuno di Voi, l’Apostolica Benedizione.
Dato a Roma, presso San Pietro,
il 13 maggio 1874, anno ventottesimo del Nostro Pontificato.
FESTA DELL’ARCICONFRATERNITA
DEL SS. ED IMMACOLATO CUORE DI MARIA
[Dufriche Desgenettes – Notizie storiche
intorno all’Arciconfraternita del Ss. CUORE DI MARIA , Imola, Baracani St.
Vesc. 1843 –
Con dedica a S. E. Cardinal Giovanni Maria Mastai Ferretti, futuro Papa Pio IX)
PRŒMIO
Se ella è opera di uomo cotesta, dicea Gamaliele ai seniori di Gerusalemme, cadrà di per se stessa, ma se la vien da Dio, sussisterà; ed avete a temere non forse opponendovi a quella, vi opponiate a’ disegni di Dio. – Questa appunto si fu la sola risposta che ci permettemmo fare a coloro che sebbene con intenzione retta, biasimaron però sulle prime l’istituzione dell’Arciconfraternita del Sacro Cuor di Maria per la conversione de’ peccatori. Le obbiezioni loro, fondate sulla umana prudenza, non valsero a farci cader di animo, né ad arrestarci ne’ nostri sforzi, da che resistere non sapevamo all’interno nostro sentimento. – Oggimai dell’opera si farà giudizio agli effetti stupendi, sigillo verace delle òpere di Dio manifestato all’uomo; e così gli uomini che altra fiata la guardavano con animo pregiudicato, colpiti dal vasto e rapido suo incremento, sbalorditi pe’ copiosissimi frutt i che ella non cessa di produrre, le fanno essi stessi giustizia, e benedicono il nome di Maria, il cui intervento attrae tante grazie ed opera tanto meravigliose conversioni. – Senza prevalerci di. Un successo che vince della mano tutte nostre speranze, confessiam francamente che se fossimo stati consultati sul partito da prendersi per ricondurre a cristiana vita gli uomini del secol nostro, non avremmo noi pensato mai, parlando secondo uomo, a consigliare l’erezione di una arciconfraternita siccome mezzo efficace per convertire i peccatori. La parola stessa era un obbietto di derisione, qualche anno innanzi. Sarebbonsi tutti senza dubbio burlati della semplicità di un sacerdote che cercando satisfare alla necessità de’ tempi nostri e calmar le grida dei miserabili del nostro secolo, proposto avesse una meschina confraternita, rimembranza del medio evo. I Cristiani anche i più fedeli per poco istruiti del carattere dell’attuale incivilimento, avrebbero disdegnato questo strano e vieto rimedio, né avrebbero mai avvisato che sotto questo nome e con questa forma si potessero ricondurre all’ovile le smarrite pecorelle. – A così grandi bisogni si volean contrapporre più grandi aiuti; ogni uom serio che gemeva sulle nostre calamità e sul traviare de’ più alti intelletti, inculcava la necessità di un intero rinnovellamento di scienza e di una nuova diffusione di luce per guarire le piaghe del secolo, spegner la sete di sapere che crucia gli ingegni, saziare la fame degli umani desideri. Noi pur siamo stati d’avviso, che giammai la face della scienza cristiana non ebbe a fugare più folte e sparse tenebre. Intanto, diciamolo pur chiaramente, non mancò alla Chiesa questo soccorso; e se altri si fa a rimembrare le innumerevoli difficoltà che negli ultimi tempi opprimevano il sacerdozio ed attraversavano gli alti studi del clero, dovrà trasecolare al vedere le penne e gl’ingegni che a’ nostri dì si esercitano, negli scritti religiosi e ne’ pulpiti evangelici. I diversi rami dell’umano sapere non furono per avventura mai coltivati con più zelo e splendore di quel che si faccia presentemente da que’ medesimi che annunziano al mondo la divina parola. – Ma basta egli questo rimedio? La sola scienza può mai sopperire a tutti i bisogni? Ed acciò sia feconda e si coroni de’ divini frutti non debbe ella forse andar di conserva, nel cuor dei Cristiani, coll’amore e la pratica della carità? – La vera scienza, la scienza, che getta luce di fede e converte lo spirito, è dono del cielo, scaturisce dal Padre dei lumi, procede dall’amore; che per servirci delle espressioni del pio Cardinal di Berulle: Dall’amore appunto si fa passaggio alla luce e non è mai che dalla luce si passi all’amore. E così ad ottener scienza e luce si debbe amare, pregare, domandare e cercare con umiltà e confidenza. Tal si è la condizione ad ogni grazia: Cercate in prima il regno di Dio, e la sua giustizia, e ‘l rimanente vi sarà dato quasi per soprappiù. – La divina luce adunque impedita dalle tenebre di orgoglio che s’innalzano attorno a noi, ci è stata offerta; ma d’appressarvisi non è dato che all’umiltà, sol può vederla l’occhio obbediente della fede. Il perché in tutti i tempi l’incredulità della umana sapienza, poiché salse al suo più alto grado di esaltazione, ha dovuto esser confusa dai mezzi che a lei si parvero una follia. – L’arciconfraternita rinnova a’ giorni nostri una di queste sante follie. Col suo titolo ella comanda l’umiltà a coloro ch’ella accoglie; col suo obbietto risveglia la cristiana e fraterna carità; colle sue condizioni esige la preghiera; col suo fruttificare muove a riconoscenza ed amore; e l’amore alla sua volta riconduce gli animi e i cuori alla buona via, alla verità ed alla vita. – Se oggimai ci facciamo a considerare che l’Arciconfraternita nel sesto anno di sua esistenza conta già due milioni incirca di fratelli sparsi in tutte le contrade del mondo; che sonovi aggregate oltre a 1900 parrocchie, sì in Francia, sì presso le straniere nazioni; che ogni dì si accresce il novero, e che da ultimo infra sì gran moltitudine di fedeli riuniti nel sentimento di una stessa preghiera, noi osserviamo un considerevol numero di giovani e di uomini di mondo, d’ogni ordine della società, tutti parteciperanno alle speranze nostre sull’avvenire, ed agevole tornerà il comprendere l’interesse che può venire dal pubblicare periodicamente cotesti Annali.
D’altra parte non pretendiamo noi di
fornire la istoria contemporanea di soli documenti; non offriamo alla cristiana
pietà solo i fatti di edificazione: un altro disegno abbiamo in cuore, un più
serio e dolce pensiero ci stringe e ci predomina. A Maria, Madre del nostro
Signor Gesù Cristo dedichiam questi Annali;
e glieli presentiamo siccome novello monumento innalzatole dai riconoscenti
figli della Chiesa. – Maria sì, Maria e il compassionevole suo Cuore implorato
abbiamo, con confidenza invocato; e questo Cuore mosso dai nostri gemiti, si è
mostrato al nostro come un emblema dell’amore materno, come un simbolo di
grazia, come l’iride che annunzia serenità dopo la procella e che conferma l’alleanza
di Dio cogli uomini.
La santa Vergine, dal primo momento della incarnazione del Verbo, è divenuta mediatrice alla nostra riconciliazione, trono di grazie, pegno ed istrumento alle divine misericordie, aureo anello che conferma e stringe l’umanità colla Divinità. Che che ne dica l’eretico, questa immacolata Vergin Maria sarà eternamente il sostegno del popol di Dio, il rifugio dei peccatori, l’onore e la gloria della umanità rigenerata dal Sangue di Gesù Cristo. Ella è pur la Madre dei Cristiani non per figurato vocabolo di lingua, ma secondo la verità della eterna parola; dappoiché ella è Madre veramente: Madre di Dio fatto uomo, Madre di Gesù Cristo, Madre della Chiesa ch’è il corpo di Gesù Cristo; Madre d’ogni e singolo membro di questo mistico corpo, Madre di tutti i veri fedeli. – Questa saldissima verità, il dogma della maternità verginale e della materna verginità, questo dogma appunto fu altamente annunciato, e consacrato dall’alto della croce: Ecce Matertua! Egli è questa l‘ultima asserzione di un Dio moriente, il testamento di Gesù Cristo, il compimento del Cristianesimo, la pienezza dei doni di Dio. – Or se dalla prima pagina della santa Scrittura, la vittoria fu promessa alla Vergine che stritolerebbe il capodel serpente, ei si conveniva invocare questa Vergine vittoriosa sotto il nome di Nostra Signora delle Vittorie; e dappoiché l’umiltà fu sempre sua divisa e suo vessillo, ben si spiega la scelta da lei fatta di una delle più umili chiese della capitale della Francia per collocarvi il centro dell’Arciconfraternita. – Lasceremo ora che parlino i fatti, i quali ci mostreranno in più eloquente maniera, che il languido nostro parlare, i tesori del Cuor di Maria, l’inesauribile sua indulgenza, la possente sua mediazione a favor delle anime dolenti e traviate, l’efficacia di sua misericordiosa intercessione presso Gesù Cristo, nostro Salvatore, a cui la gloria e l’impero ne’ secoli de’ secoli si appartiene. Amen.
(Se rimanemmo tanto edificati in leggendo sì pii concetti espressi con tutta semplicità dal ch. autore, non ci sorprenderà meno la perspicuità e la forza di Logica ch’egli adopera in un primo articolo che tien dietro al proemio, ov’ei prende a dimostrar con invitti argomenti divini e umani, come 1’opera dell’Arciconfraternita sia opera della divina Misericordia. A farne intesi i lettori estrarremo la miglio parte di esso, volgendolo in volgar nostro, lasciando di sovente parlar lui stesso e non aggiungendo che qualche frase a legare i sentimentitolti qua e là all’uopo di farne un ristretto giusta lo scopo della presente appendice alle notizie storiche.)
La festa delia Purificazione chiude il Ciclo santoriale del Tempo dopo l’Epifania. È una delle più antiche solennità della Vergine, ed occupava a Roma, nel VII secolo, il secondo posto dopo l’Assunta. Questa festa si celebra il 2 febbraio, poiché, volendo sottomettersi alla legge mosaica, Maria doveva andare a Gerusalemme, 40 giorni dopo la nascita di Gesù (25 dicembre – 2 febbraio) per offrirvi il sacrificio prescritto. Le madri dovevano offrire un agnello, o, se i loro mezzi non lo permettevano, « due tortorelle odue piccioni ». La Santa Vergine portò con sé a Gerusalemme il Bambino Gesù; e la processione della Candelora, ricorda il viaggio di Maria e di Giuseppe da Betlemme al Tempio, alfine di presentarvi « l’Angelo dell’alleanza » (Ep., Intr.), come aveva predetto Malachia. Le Messe dell’Annunciazione, dell’Assunta, della Natività di Maria, dell’Esaltazione della Santa Croce e della Candelora erano accompagnate una volta dalla processione. Questa ultima sola resta. La Purificazione, alla quale la Madre del Salvatore non era obbligata, perché Ella partorì in modo straordinario, passa in secondo piano nella liturgia ed è la Presentazione di Gesù che forma l’oggetto principale di questa festa. Rileggiamo la 1° orazione della benedizione delle candele, per comprendere il simbolo della lampada del santuario e dei ceri benedetti in questo giorno, e per ben conoscere l’uso che bisogna farne al letto del morenti, nelle tempeste e nei pericoli che può incorrere il «nostro corpo e la nostra anima sulla terra e sulle acque ». Se la Purificazione cade in una domenica privilegiata, la festa si celebra il giorno dopo; tuttavia la benedizione delle candele si fa prima della Messa della Domenica.
BENEDIZIONE
DELLE CANDELE
Il celebrante, terminata l’ora di
Terza, rivestito di stola e piviale violaceo, con i Ministri, procede alla
benedizione delle Candele, poste dal lato dell’Epistola, e
stando in piedi dice:
V.:
Dóminus vobiscum
R.: Et cum spiritu tuo.
Oratio. – Domine sancte, Pater omnipotens, ætérne Deus, qui omnia ex nihilo creasti, et jussu tuo per opera apum, hunc liquórem ad perfectiónem cèrei venire fecisti: et qui hodierna die petitiónem justi Simeónis implésti: te humiliter deprecàmur: ut has candélas ad usus hóminum et sanitàtem córporarm, et animàrum, sive in terra, sive in aquis, per invocatiónem tui sanctissimi nóminis, et per intercessiónem beàtæ Mariæ semper Virginis, cujus hodie festa devòte celebrantur, et per preces omnium sanctórum tuórum, benedicere, et sanctificàre dignéris: et hujus plebis tuæ, quæ illas honorifice in manibus desiderat portare, teque cantando laudare, exaudias voces de cœlo sancto tuo, et de sede majestatis tuæ: et propitius sis òmnibus clamàntibus ad te, quos redemisti pretioso sanguine Filli tui, Qui tecum vivit ….
[Orazione. – O
Signor santo, Padre onnipotente, eterno
Dio, te che tutto creasti dal nulla e mediante l’opera delle api, per comando
tuo, facesti si che d’una molle sostanza si potessero formare dei ceri; te che
oggi compisti i voti del giusto Simeone, noi ti supplichiamo di benedire e
santificare queste candele, destinate ad uso degli uomini, a salute dei corpi e
delle anime, sia in terra che sulle acque, mediante l’invocazione del tuo santissimo
nome, l’intercessione della beata Maria sempre Vergine, di cui oggi si celebra
devotamente la festa, e le preghiere di tutti i tuoi Santi. Di questo popolo
tuo, che brama portare queste candele in mano in tuo onore e lodarti coi suoi
canti, esaudisci le preghiere dai cielo e sii propizio a tutti quelli che
t’invocano e che hai redento col sangue prezioso del Figlio tuo: Il quale teco
vive e regna…
– Cosi sia.]
Oratio – Omnipotens sempitèrne Deus,
qui hodiérna die Unigénitum ulnis sancti Simeónis in tempio sancto tuo
suscipiéndum presentasti: tuam sùpplices deprecàmur cleméntiam; ut has
candélas, quas nos fàmuli tui, in tui nóminis magnificéntiam suscipiéntes,
gestàre cùpimus luce accénsas, benedicere, et sanctificàre, atque lùmine
supérnæ benedictiónis accèndere dignéris: quàtenus eas tibi Domino Deo nostro offerendo, digni
et sancto igne dulcissimse caritàtis tuæ succénsi, in tempio sancto gióriæ tuæ
repræsentàri mereàmur.Per
eùmdem Dóminum nostrum.
Amen.
[Orazione. –
Onnipotente ed eterno Dio, che oggi presentasti il tuo Unigenito nel tempio
santo tuo per essere ricevuto tra le braccia del santo Simeone, noi preghiamo
supplichevoli la tua clemenza affinché queste candele, che noi tuoi servii
ricevendole al gloria del tuo santo nome bramiamo portare accese, benedica e
santifichi. Degnati di accenderle con il fuoco della benedizione celeste, di
modo che, con l’offrirle a te, Signore e Dio nostro, degni e accesi dal santo
fuoco della dolcissima carità, meritiamo
di essere presentati nel tempio della tua gloria! – Per il medesimo Signor nostro.
–
Cosi sia.]
Oratio. – Dòmine, Jesu Christe, lux
vera, quæ illùminas omnem hominem veniéntem in hunc mundum: effùnde
benedictiónem tuam super céreos, et sanctifica eos lùmine gràtiæ tuæ, et
concede propitius; ut, sicut hæc luminària igne visibili accénsa noctùrnas
depéllunt ténebras; ita corda nostra invisibili igne, id est, Sancti Spiritus
splendóre illustrata, omnium vitiórum cæcitàte càreant: ut, purgato mentis
óculo, ea cernere possimus, quæ tibi sunt plàcita, et nostræ saluti utilia;
quàtenus post discrimina, ad lucem indeficéntem pervenire mereàur. Per te,
Christe Jesu, Salvator mundi, qui in Trinitate perfécta vivis et regnas Deus,
per omnia sæcula sæculórum.
Amen.
[O Signore
Gesù Cristo, luce vera, che illumini ogni uomo che viene in questo mondo,
benedici questi ceri e santificali con il lume della tua grazia. Concedi propizio
che, come questi lumi accesi da un fuoco visibile fugano le tenebre, cosi i
nostri cuori, rischiarati da un fuoco invisibile, cioè dalla luce dello Spirito
Santo, siano liberi della cecità di ogni vizio, onde, purificato l’occhio della
nostra mente, possiamo discernere quelle cose che sono gradite ed utili alla nostra
salvezza, di modo che dopo le caliginose vicende di questo secolo, meritiamo di
pervenire alla luce indefettibile. – Per te, Gesù Cristo, Salvatore del mondo,
che nella Trinità perfetta vivi e regni Dio nei secoli dei secoli. –
Cosi sia.]
Oratio. – Omnipotens sempiterne Deus, qui per Moysen fàmulum tuum purissimum ólei liquórem ad luminaria ante
conspectum tuum jùgiter concinnànda præparàri jussisti: benedictiónis tuæ gratiam
super hos céreos benignus infùnde: quàtenus sic administrent lumen exterius,
ut, te donante, lumen Spiritus tui nostris non desit méntibus intérius.
Per Dóminum… in unitàte ejùsdem Spiritus Sancti.
Amen.
[Orazione. –
Onnipotente eterno Dio, che per mezzo di Mosè tuo servo, comandasti
di preparare
un purissimo olio per alimentare continuamente lumi davanti alla tua maestà,
infondi benigno la grazia della tua benedizione sopra questi ceri, affinché,
mentre procurano la luce esterna, per tuo dono non manchi alle nostre menti la
luce interiore del tuo Spirito. Per il Signor nostro… in unione dello stesso Spirito
Santo. – Cosi sia.]
Oratio. – Dòmine Jesu Christe, qui
hodiérna die in nostræ carnis substàntia inter hómines appàrens, a paréntibus
in templo es præsentàtus: quem Simeon veneràbilis senex, lumine Spiritus tui
irradiàtus, agnóvit, suscépit, et benedixit: præsta propitius; ut ejùsdem
Spiritus Sancti gràtia illuminati atque edócti, te veràcitar agnoscàmus, et
fidéliter diligàmus: Qui cum Deo Patre in unitàte ejùsdem Spititus Sancti vivis
et regnas Deus, per omnia sæculasæculórum.
Amen
[Orazione. – O
Signore Gesù Cristo, che oggi, mostrandoti fra gli uomini nella sostanza della
nostra carne, fosti presentato al tempio dai parenti e dal vecchio venerabile
Simeone, illuminato dalla luce del tuo Spirito, fosti riconosciuto, preso (fra
le sue braccia) e benedetto, concedi propizio che, illuminati ed ammaestrati
dalla grazia dello Spirito Santo conosciamo veramente e amiamo fedelmente Te,
che con Dio Padre in unità dello stesso Spirito Santo vivi e regni Dio, per
tutti i secoli. –
Così sia.]
Il
Celebrante pone l’incenso nel turibolo, asperge d’acqua benedetta le candele,
dicendo l’Antifona: Asperges me senza il Salmo e dopo le incensa.
Allora si avvicina all’Altare il più degno del Clero e porge la candela al
Celebrante, il quale la riceve stando in piedi e senza baciargli la mano.
Poscia il Celebrante distribuisce le candele cominciando dal più degno del
Clero, poi ai Ministri sacri, agli altri del Clero e da ultimo ai laici. Tutti
ricevono la candela genuflessi e baciano la candela e la mano del Celebrante, eccetto
i Prelati.
Lumen ad revelatiónem géntium: et glóriam plebis tuæ Israel. (Cant. – ibid., 29, 31)
Nunc dimittis servum tuum,
Domine, secùndum verbum tuum in pace.
Ant. – Lumen…
Quia vidérunt óculi mei salutare
tuum.
Ant. – Lumen…
Quod parasti ante fàciem omnium populórum.
Ant. – Lumen…
Glòria Patri et Filio et Spiritui
Sancto.
Ant. – Lumen…
Sicut erat in principio, et nunc, et semper, et in sæcula sæculórum.
Amen.
Ant. – Lumen…
Ant. – Ps. XLIII, 26. Exsurge, Dòmine, àdjuva nos: et libera nos propter nomen tuum.
Ps. -Ibid., 2. Deus, àuribus nostris audivimus: patres nostri annuntiavéruntnobis. f. Glòria Patri.
– Exsùrge
…
[Sorgi, o Signore, aiutaci e liberaci per il tuo nome. Aiutaci e
liberaci per iltuonome. Sai. – O
Dio, abbiamosentito con le nostre orecchie i nostri padri ci raccontaronoi prodigi da te operati a nostro favore. – f. Gloria al
Padre. Sorgi…]
Oratio. – Exàudi, quæsumus, Dòmine, plebem
tuam: et, quæ extrinsecus annua tribuis devotióne venerari, intérius àssequi
gràtiæ tuæ; luce concède. Per Christum Dóminum nostrum. R. Amen.
[Orazione. – Esaudisci, ti preghiamo, o Signore, il tuo popolo: e ciò
che gli concedi di venerare esteriormente con annua devozione, concedi pure di
conseguire interiormente con la luce della tua grazia. Per Cristo nostro
Signore.
Cosi sia.
Quindi
si fa la Processione: prima, però, il Celebrante pone l’incenso nel turibolo,
poi il diacono rivolto al popolo dice:
V. Procedamus in pace.
R. In nomine Christi. Amen.
Precede
il turiferario, segue il Suddiacono, che porta la croce fra ceroferari, poi il
Clero ed ultimo il Celebrante col Diacono alla sinistra; tutti portano le
candele accese e si cantano le seguenti Antifone:
Ant. – Adórna
thàlamum tuum, Sion, et sùscipe Regem Christum: amplectere Mariam, quæ est
cœlestis porta: ipsa enim portat Regem
gloriæ novi luminis: subsistit Virgo, adducens manibus Filium ante luciferum
génitum: quem accipiens Simeon in ulnas suas, prædicàvit pópulis, Dóminum eum
esse vitæ et mortis, et Salvatórem mundi.
[Ant. – Adorna il tuo talamo o Sion, e ricevi il Cristo Re: accogli con amore Maria, porta del cielo: Ella infatti reca il Re della gloria, la luce nuova. La Vergine si arresta, presentando sulle braccia il Figlio, generato prima dell’aurora. Simeone ricevendolo fra le sue braccia, annunzia ai popoli esser Egli il Signore della vita e della morte, il Salvatore del mondo.
Alia Ant. – Luc. II, 26-29 Respónsum accépit Simeon a Spiritu Sancto, non visùrum se mortem, nisi vidéret Christum Domini: et cum indùcerent puerum in templum, accepit eum in ulnas suas, et benedixit Deuin, et dixit: Nunc dimittis servum tuum, Dòmine, in pace.
t . Cum indùcerent pùerum Jesum paréntes ejus, utfàcerent secùndum consuetùdinem legis prò eo, ipse accépit eum in ulnas
suas.
[Altra Ant. – Lo Spirito Santo aveva rivelato a Simeone che non sarebbe morto, prima di vedere l’Unto del Signore: e quando il bambino fu portato al tempio lo prese fra le sue braccia, benedisse Dio e disse: Ora lascia, o Signore, che se ne vada in pace il tuo servo.
V. Quando i genitori recarono il bambino Gesù, per compiere a suo riguardo le prescrizioni della legge, Simeone lo accolse fra le sue braccia.]
Nel
rientrare in chiesa si canta.
Obtulerunt pro eo Dòmino par tùrturum, aut duos pullos columbàrum: * Sicut
scriptum est in lege Dòmini.
f. Postquam impléti sunt dies purgatiónis Mariæ, secùndum legem Móysi,
tulérunt Jesum in Jerùsalem, ut sisterent eum Domino. * Sicut scriptum
est in lege Dòmini, f. Glòria Patri… * Sicut scriptum est in lege Dòmini.
[Offrirono per lui al Signor un paio di tortore o duepiccoli colombi:
come è scritto nella legge del Signore.
f. Compiuti i giorni della purificazione di Maria, Gesù secondo la legge di Mosè, fu portato a Gerusalemme, per esser presentato al Signore: come è scritto nella legge Signore. – f. Gloria al Padre …
Come è scritto nella legge del Signore]
Terminata la Processione, Celebrante e Ministri depongono i paramenti violacei ed assumono i paramenti bianchi per la Messa
In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps
XLVII: 10-11. Suscépimus,
Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et
laus tua in fines terræ: justítia plena est déxtera tua. [Abbiamo conseguito, o Dio, la tua misericordia
nel tuo tempio: secondo il tuo nome, o Dio, la tua lode andrà fino ai confini
della terra: le tue opere sono piene di giustizia.]
Ps XLVII: 2. Magnus Dóminus, et laudábilis nimis: in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. [Grande è il Signore e sommamente lodevole: nella sua città e nel suo santo monte.]
Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio
templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ: justítia
plena est déxtera tua.
[Abbiamo
conseguito, o Dio, la tua misericordia nel tuo tempio: secondo il tuo nome, o
Dio, la tua lode andrà fino ai confini della terra: le tue opere sono piene di
giustizia.]
Oratio
Orémus. Omnípotens sempitérne Deus, majestátem tuam súpplices exorámus: ut, sicut unigénitus Fílius tuus hodiérna die cum nostræ carnis substántia in templo est præsentátus; ita nos fácias purificátis tibi méntibus præsentári. [Onnipotente e sempiterno Iddio, supplichiamo la tua maestà onde, a quel modo che il tuo Figlio Unigenito fu oggi presentato al tempio nella sostanza della nostra carne, cosí possiamo noi esserti presentati con ànimo puro.]
Lectio
Léctio Malachíæ Prophétæ. Malach III:1-4. Hæc dicit Dóminus Deus: Ecce, ego mitto Angelum meum, et præparábit viam ante fáciem meam. Et statim véniet ad templum suum Dominátor, quem vos quæritis, et Angelus testaménti, quem vos vultis. Ecce, venit, dicit Dóminus exercítuum: et quis póterit cogitáre diem advéntus ejus, et quis stabit ad vidéndum eum? Ipse enim quasi ignis conflans et quasi herba fullónum: et sedébit conflans et emúndans argéntum, et purgábit fílios Levi et colábit eos quasi aurum et quasi argéntum: et erunt Dómino offeréntes sacrifícia in justítia. Et placébit Dómino sacrifícium Juda et Jerúsalem, sicut dies sǽculi et sicut anni antíqui: dicit Dóminus omnípotens.
[Questo dice il Signore Iddio:
Ecco, io mando il mio Angelo, ed egli preparerà la strada davanti a me. E
subito verrà al suo tempio il Dominatore che voi cercate, e l’Angelo del
testamento che voi desiderate. Ecco, viene: dice il Signore degli eserciti: e chi
potrà pensare al giorno della sua venuta, e chi potrà sostenerne la vista?
Perché egli sarà come il fuoco del fonditore, come la lisciva del gualchieraio:
si porrà a fondere e purgare l’argento, purificherà i figli di Levi e li
affinerà come l’oro e l’argento, ed essi offriranno al Signore sacrifici di
giustizia. E piacerà al Signore il sacrificio di Giuda e di Gerusalemme, come
nei secoli passati e gli anni antichi: così dice Iddio onnipotente.]
Graduale
Ps XLVII:10-11;9. Suscépimus, Deus, misericórdiam tuam in médio templi tui: secúndum nomen tuum, Deus, ita et laus tua in fines terræ.
[Abbiamo conseguito, o Dio, la tua
misericordia nel tuo tempio: secondo il tuo nome, o Dio, la tua lode andrà fino
ai confini della terra.
V. Sicut audívimus, ita et vídimus in civitáte Dei nostri, in monte sancto ejus. V. Ciò che sentimmo, ora lo abbiamo visto: nella città del nostro Dio, nel suo monte santo.
Allelúja,
V. Senex Púerum portábat: Puer autem senem regébat. Allelúja.
[ Alleluia, alleluia.
V. Il vecchio portava il Bambino: ma il Bambino reggeva il vecchio. Allelúia.]T
Evangelium Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Lucam. R. Glória tibi, Dómine.
Luc II: 22-32. In illo témpore: Postquam impleti sunt dies purgatiónis Maríæ, secúndum legem Moysi, tulérunt Jesum in Jerúsalem, ut sísterent eum Dómino, sicut scriptum est in lege Dómini: Quia omne masculínum adapériens vulvam sanctum Dómino vocábitur. Et ut darent hóstiam, secúndum quod dictum est in lege Dómini, par túrturum aut duos pullos columbárum. Et ecce, homo erat in Jerúsalem, cui nomen Símeon, et homo iste justus et timorátus, exspéctans consolatiónem Israël, et Spíritus Sanctus erat in eo. Et respónsum accéperat a Spíritu Sancto, non visúrum se mortem, nisi prius vidéret Christum Dómini. Et venit in spíritu in templum. Et cum indúcerent púerum Jesum parentes ejus, ut fácerent secúndum consuetúdinem legis pro eo: et ipse accépit eum in ulnas suas, et benedíxit Deum, et dixit: Nunc dimíttis servum tuum, Dómine, secúndum verbum tuum in pace: Quia vidérunt óculi mei salutáre tuum: Quod parásti ante fáciem ómnium populórum: Lumen ad revelatiónem géntium et glóriam plebis tuæ Israël.
[In quel tempo: Compiutisi i
giorni della purificazione di Maria, secondo la legge di Mosè, portarono Gesù a
Gerusalemme per presentarlo al Signore, come è scritto nella legge di Dio: Ogni
maschio primogenito sarà consacrato al Signore; e per fare l’offerta, come è
scritto nella legge di Dio: un paio di tortore o due piccoli colombi. Vi era
allora in Gerusalemme un uomo chiamato Simone, e quest’uomo giusto e timorato
aspettava la consolazione di Israele, e lo Spirito Santo era in lui. E lo
Spirito Santo gli aveva rivelato che non sarebbe morto prima di vedere l’Unto
del Signore. Condotto dallo Spirito andò al tempio. E quando i parenti vi
recarono il bambino Gesù per adempiere per lui alla consuetudine della legge:
questi lo prese in braccio e benedisse Dio, dicendo: Adesso lascia, o Signore,
che il tuo servo se ne vada in pace, secondo la tua parola: Perché gli occhi
miei hanno veduta la salvezza che hai preparato per tutti i popoli: Luce per
illuminare le nazioni e gloria del popolo tuo Israele.]
OMELIA
[G. PERARDI: LA VERGINE MADRE DI DIO – Libr. del Sacro Cuore, Torino, 1908]
XIII.
Presentazione di Gesù al Tempio e Purificazione di Maria
ESORDIO: Il fatto evangelico. Semplicità e misteri. — I . PURIFICAZIONE: Maria non v’è tenuta. Mistero di umiltà. Siamo umili. — II. OFFERTA DI GESÙ: 1. La legge dell’offerta. — 2. Come Maria l’adempì. Significato. Il sacrifizio di fsacco. — 3. Ragione della legge. Raggiunge lo scopo coll’offerta di Gesù. — 4. Gesù si offre volontariamente.— 5. Maria è l’altare e il sacerdote. — III. SIMEONE: 1. Chi era. —2. Il cantico — 3. Gloria a Gesù e Maria. — IV. CONCLUSIONE: Imitiamo Maria nell’umiltà.
Dopo Betlemme dobbiamo recarci in
spirito a Gerusalemme, ove, quaranta giorni dopo la sua nascita, troviamo il Bambino
Gesù e la Madre sua. Per l’intelligenza del fatto bisogna ricordare due leggi
mosaiche: la prima riguardante la madre, la seconda riguardante il neonato, se
primogenito. La madre doveva presentarsi per la cerimonia della purificazione
legale; il neonato, se primogenito, doveva venire offerto al tempio, poi
riscattato mediante un’offerta. Altrimenti quel fanciullo avrebbe dovuto
prestarsi al servizio divino per tutta la vita. – Maria e Giuseppe si portano
al tempio per presentare Gesù al Signore e per fare l’offerta. Allora « era in
Gerusalemme un uomo, di nome Simeone, persona giusta e pia, che aspettava la
consolazione d’Israele; e lo Spirito Santo era in lui: e gli era stato rivelato
dallo Spirito Santo che non vedrebbe la morte, prima di vedere il Cristo del Signore.
Così per lo spirito andò al tempio. E quando i genitori v’introdussero il
bambino Gesù per far di lui secondo il rito della legge, egli pure se lo prese
tra le braccia e benedisse Dio, esclamando: Adesso, Signore, rimanda in pace
il tuoservo, secondo la tua parola; che gli occhi miei han vistola
tua salute, la quale hai disposta al cospetto di tutti ipopoli: luce a
rivelazione per le nazioni e gloria d’Israele,tuo popolo. E il
padre e la madre di Gesù restavano meravigliati delle cose che sì dicevano di
lui. E Simeone li benedisse, dicendo però a Maria, sua Madre: Ecco, Egli è
posto per rovina e per risurrezione di molti in Israele e per segno di
contraddizione; e anche a te una spada trapasserà l’anima affinché restino
svelati i pensieri di molti cuori. C’era inoltre una profetessa, Anna,
figliuola di Fanuel, della tribù d’Aser; molto avanzata in età, vissuta col suo
marito sette anni dalla sua verginità. Rimasta vedova fino agli ottantaquattro anni,
non usciva dal tempio, servendo Dio notte e giorno con preghiere e digiuni.
Questa dunque sopraggiunse in quell’ora stessa, e dava gloria al Signore,
parlando di Lui a quanti aspettavano la redenzione d’Israele » (S. Luca, II,
25-28). Quale semplicità di narrazione è mai questa! Ma quali sublimi misteri
offre alla nostra mente. « Misteri venerabili, dice il Bourdaloue, nei quali
scopriamo ciò che la nostra Religione ha non solo di più sublime e divino, ma
di più edificante e commovente: un Uomo-Dio offerto a Dio, il Santo dei santi
consacrato al Signore, il sommo Sacerdote della nuova alleanza in istato di
vittima, il Redentore del mondo riscattato; una vergine purificata; e una madre
che sacrifica il proprio figliuolo; quali prodigi nell’ordine della grazia » (Sermone
II della Purificazione.). No, non vi ha cosa in apparenza più semplice
e più sublime in realtà del racconto che il Vangelo ci fa di questi misteri.
Consideriamoli brevemente. Ci assista Maria perché possiamo ricavarne frutto di
grazia per l’anima nostra.
I. — Il primo fatto su cui dobbiamo
raccogliere la nostra considerazione è la Purificazione
di Maria. Pronunziando la parola purificazione e applicandola a
Maria il nostro cuore prova un senso di ripugnanza, perché sente che la legge
della purificazione non era fatta per Maria, la creatura tutta bella, santa,
pura, perché sente che le due parole purificazione e Maria contrastano, essendo
Maria la Vergine per eccellenza, la Vergine Madre. Ed a Maria perciò si applica
con più ragione la parola già indirizzata ad Ester: La legge non è fatta per
te. No, la legge della purificazione fatta per le donne ebree, non era per
Maria. E perché Maria vi si assoggetta ? Ha Ella forse dimenticato il saluto
celeste: Benedetta tu fra le donne? Ha dimenticato d’aver Ella stessa
proclamato che tutte le generazionila chiameranno beata perché in
Lei grandi cose aveva operato colui che è potente, Iddio? Non poteva Ella
ripetere in questo momento che era beata, che era benedetta, e
che era benedetto il frutto del suo seno; che veniva non a cercare la
purificazione, ma a recarla al mondo, che veniva non a domandare il riscatto,
ma a recarlo? Gl’interessi del suo Figliuolo non parevano forse prescriverle
questo, mentre il suo silenzio e la sua condotta parevano derogare alla divinità
di Lui e, facendolo passare per figliuolo ordinario, smentivano i tanti prodigi
e i tanti oracoli che lo avevano già proclamato Figliuolo di Dio? Così
certamente avrebbe pensato ed operato qualunque altra donna: non così pensa
Maria. Maria è una creatura al tutto singolare. La sua grandezza è incomprensibile,
ha dell’infinito; ma non meno grande è la sua umiltà. Questa virtù che spicca
in tutti gli atti della vita di Maria, che abbiamo particolarmente ammirato nel
mistero dell’Annunciazione, qui ci si rivela in un nuovo abisso
incomprensibile, solo paragonabile alla incomprensibile grandezza di Lei. Ella
accordandosi mirabilmente coi disegni di umiliazione e di sacrifizio di suo
Figlio, si spoglia di tutte le grandezze, vela le sue glorie per soggettare Sé
e Lui alle prescrizioni più umilianti. Scrutate quest’umiltà: Non sono
trascorsi ancora undici mesi che Maria riceveva la visita dell’Angelo venuto
dal cielo a richiederla del suo consenso alla divina Maternità: Maria tiene in
sì alto pregio l’illibatezza verginale che è disposta a sacrificarle pur l’incomparabile
grandezza della Maternità divina; e allora soltanto presta il suo consenso. Quando
è assicurata che la sua verginità non patirà alcun detrimento, che quello che
avverrà sarà dello Spirito Santo, che la potenza dell’Altissimo l’avrebbe
adombrata. Ora nella purificazione Maria dimostra un amore, direi, ancor più
grande dell’umiltà. Se per amore della verginità era disposta a rinunziare
all’onore di Madre di Dio; ora per amore dell’umiltà si spoglia di tutte le
grandezze, vela tutte le glorie, sacrifica lo stesso onore esterno della sua verginità.
È la Vergine Madre di Dio: si umilia a segno da non comparire né Madre di Dio, né
vergine, si umilia a comparire bisognosa di purificazione come un’altra donna qualsiasi.
Quant’è ammirabile l’umiltà di Maria! Impariamo da questo fatto il dovere
nostro di mortificare la superbia e praticare fedelmente l’umiltà se vogliamo
essere veri devoti di Maria, imitandone quelle virtù ch’Essa ha particolarmente
amato e praticato. Maria si assoggetta alla cerimonia della purificazione, offre
le due piccole colombe pel sacrifizio, le due vittime che, se avessero potuto
comprenderlo, si sarebbero stimate felici di essere offerte. Andate, piccoli
animali, innocenti vittime, andate a morire per Gesù sinché Egli possa morire
per noi.
II . — Il secondo
fatto che dobbiamo considerare è la presentazione
di Gesù al Tempio, cioè l’offerta di Gesù all’Eterno Padre.
1° Maria, purificata, si avanza nel tempio. « Quale indescrivibile commozione dovette provare Maria, rivedendo quel luogo confidente dei pensieri e dei fervori della sua fanciullezza? Lì Ella aveva passati lunghi giorni nella preghiera, aveva votato la sua verginità al Signore, e aveva accettato la mano di Giuseppe, ornata di gigli, per proteggere i suoi. Quante cose celesti erano passate da un anno appena; e adesso vi ritorna a presentare il Figliuol suo, l’Emanuele » (Lemann, La Vergine Maria, etc.). L’offerta del primogenito che gli Ebrei dovevano fare a Dio, si collegava con la loro liberazione dalla schiavitù d’Egitto e coll’uccisione di tutti i primogeniti degli Egiziani. L’indomani di questo prodigio Dio, per mezzo di Mosè promulgava la legge : Consacratemi tutti i primogeniti tra ifigli d’Israele, poiché ogni cosa mi appartiene (Es. XIII, 2). Or Gesù, Figlio di Dio, appartiene veramente a Dio, anche come uomo. Sia dunque offerto a Lui. – Quando Iddio dispose che alla tribù di Levi fossero affidate le cure del culto riformò la legge dell’offerta dei primogeniti disponendo che, dopo d’averli offerti, i genitori li potessero riscattare mediante cinque sicli d’argento (circa 15 lire). Giuseppe e Maria offrono Gesù al Padre e lo riscattano coi cinque sicli d’argento. Oh Maria, riscattatelo pure il vostro Gesù! non lo avrete per lungo tempo; lo vedrete rivenduto per trenta denari.
2° Maria, coll’offrire Gesù non ha compiuto soltanto una cerimonia. Essa conosceva la grandezza dell’offerta: era l’offerta vera e reale di Gesù all’eterno Padre pel sacrifizio che il divin Figliuolo avrebbe offerto un giorno, della sua vita, sul Calvario. Quale sacrifizio pel cuor di Maria, pel cuor della Madre! – Un giorno Abramo ed Isacco ascendevano il monte Moria per offrire a Dio un sacrifizio. Isacco, che portava la legna per l’altare, domanda al padre: Dov’è la vittima dell’olocausto? E Abramo, col cuore lacerato da immenso dolore, non ebbe animo di rivelare ad Isacco ch’egli stesso era la vittima designata e si contentò di rispondere: Iddio stesso ci provvedere la vittima per l’olocausto
(Gen. XXII). Noi ammiriamo l’eroica ubbidienza di Abramo, la sua perfetta
sottomissione al cenno divino. Ma osserviamo pure che Dio domandò il sacrificio
di Isacco non alla madre Sara, ma al padre. Una madre meditando questo fatto ebbe
a dire che Dio non avrebbe chiesto un simile sacrificio ad una madre. Quello di
cui Sara non sarebbe stata capace, compì Maria coll’offerta di Gesù al Tempio.
Il sacrificio di Gesù non doveva consumarsi che più tardi sul Calvario: Nel
tempio però Maria dà il suo consenso e offrendolo, in certo modo, dispone la
vittima sull’altare. Maria aveva certamente coscienza di questo grande mistero
nel momento in cui Ella lo compiva: «Se di fatto gli Ebrei illuminati
intendevano in un senso spirituale quello che celebravano corporalmente, con
ben maggior ragione Maria, la quale aveva il Salvatore tra le braccia e lo
offriva con le sue mani all’eterno Padre, doveva eseguire quella cerimonia in
ispirito ed unire la sua intenzione a ciò che era rappresentato dalla figura,
vale a dire all’oblazione santa del Salvatore per tutto il genere umano.
Pertanto nella guisa medesima che nel giorno dell’Annunciazione aveva prestato
il suo consenso all’Incarnazione del Messia, che era argomento dell’annunzio
angelico: così ratificò, per così esprimerci, in questo giorno il trattato
della sua passione, poiché questo giorno n’era figura e come primo apparecchio
» (Bossuet,
Sermone III sulla festa della
Purificazione). Perciò in questo giorno riscatta il Redentore; ma lo
riscatta in figura per darlo poi in realtà; lo riscatta temporaneamente e quasi
sotto condizione per allevarlo in vista del sacrificio, per essergli in esso
compagna e dividerlo con Lui.
3° L’offerta di Gesù va considerata
ancora sotto un altro aspetto per intendere tutto il disegno divino. E l’ha
fatto con un’insuperabile maestà di vedute un grande oratore francese (Bourdaloue,
Serm. II sulla Purificazione di Maria)
che scrisse: « Dio voleva che in ogni famiglia il primogenito gli fosse offerto
perché gli rispondesse di tutti gli altri e fosse come un ostaggio della
dipendenza di quelli de’ quali era il capo. Ma ciascuno di questi primogeniti non
era capo che della sua casa e la legge di cui si parla non obbligando che i
figliuoli d’Israele, a Dio non ne poteva venire che un onore limitato,
circoscritto. Che fa Iddio? Nella pienezza dei tempi elegge un uomo capo di
tutti gli uomini, la cui oblazione gli è come un tributo universale per tutte
le nazioni e per tutti i popoli: un uomo che ci rappresenta tutti e che sostenendo
a nostro riguardo l’ufficio di primogenito risponde a Dio di lui e di noi, a
meno che abbiamo l’audacia di sconfessarlo o che siamo così ciechi da
separarcene: un uomo, infine, in cui tutti gli esseri riuniti rendano a Dio
l’omaggio della loro sottomissione e che, mediante la sua obbedienza, rimetta sotto
l’impero di Dio tutto ciò che il peccato ne aveva sottratto: ed anche su questo
è fondato il diritto di primogenitura che Gesù Cristo deve avere al di sopra di
tutte le creature: Primogenitus omnis
creaturæ(Col. I, 15). « Dico di più: Tutte le creature, prese
anche insieme, non avendo alcuna proporzione coll’Essere divino, e, come parla Isaia,
non essendo tutte le nazioni, che una goccia d’acqua innanzi a Dio, un atomo,
un nulla, perciò qualunque sforzo facessero per attestare a Dio la loro
dipendenza, Dio non poteva essere pienamente onorato, e nel culto che riceveva restava
sempre un vuoto infinito che tutti i sacrifici del mondo non avrebbero potuto riempire.
Occorreva un soggetto grande come Dio, e che col più stupendo prodigio possedendo
da una parte l’infinità dell’essere, e dall’altra parte mettendosi in istato di
venire immolato potesse dire a tutto rigore di parola, che Egli offriva a Dio
un sacrificio eccellente quanto Dio stesso, e che nella sua persona sottometteva
a Dio non vili creature, non poveri schiavi, ma il Creatore e il Signore
istesso ». E questo appunto fa oggi il Figliuolo di Dio coll’offerta sua
all’eterno Padre, nel tempio di Gerusalemme.
4° Poiché occorre
ricordare che Gesù al Tempio non solo viene offerto, ma Egli stesso
volontariamente si offre. Gesù si era fatto bambino, del bambino aveva
rivestito la debolezza ma non l’inconsapevolezza. Gesù era bambino e Dio: le
umiliazioni a cui si sottometteva, gli atti che compiva non erano umiliazioni
od atti di cui fosse inconscio; erano umiliazioni ed atti volontari. Gesù
volontariamente si era sottomesso, otto giorni dopo la nascita, alla
circoncisione; volontariamente aveva sofferto i primi dolori, sparse le prime
lagrime, versate le prime stille di sangue; volontariamente si offrì nel
Tempio, costituendosi fin da quell’istante vero e proprio mediatore nostro
presso l’eterno Padre. Gesù aprendo gli occhi alla vita, già sapeva la sua missione,
sapeva a qual sacrificio si sottoponeva. A nostro modo di esprimerci questo
sacrificio ha nuovamente accettato col lasciarsi offrire, anzi col voler essere
offerto da Maria all’Eterno Padre. E quindi in quell’ora ha, a dir così, accettato
ufficialmente di essere, innanzi al Padre, nostro Redentore; ha accettato di
essere a noi Maestro con la parola e con l’esempio, ha accettato la morte, la
croce, i flagelli. Perciò dobbiamo oggi un pensiero ed un affetto specialissimo
a Gesù. Figuratevi il figlio d’un Re che redime uno schiavo a prezzo di un
grande sacrificio. Lo schiavo redento ricorderà un giorno tutti gli atti della
sua liberazione; la determinazione, i preparativi, l’opera del suo liberatore.
Ricorderà quell’istante in cui il Principe Reale, fatti gli apparecchi, rinnova
l’accettazione della sua missione ricordando e quasi passando in rassegna le
disposizioni prese e date, e confermando il suo proposito. E appunto nella sua
presentazione al tempio, nel porsi tra Dio Padre e noi, Gesù ha confermato la
determinazione presa da tutta l’eternità, i preparativi già fatti pel nostro riscatto,
l’accettazione di quel genere di morte, ch’era secondo il beneplacito di Dio,
accompagnata da tutti quei dolori che erano o necessari o convenienti al nostro
maggior bene. Quindi riguardo a Gesù noi ricordiamo oggi l’atto suo di porsi
tra Dio Padre e noi, quasi dicesse: Questi infelici prendo io sotto la mia tutela;
sono peccatori: soddisferò io quello che non possono essi. In quest’offerta di sé,
Gesù fu mosso da un doppio sentimento: amor del Padre per soddisfare all’eterna
di Lui giustizia; amore di noi per salvarci. Vedete quindi come un affetto
specialissimo meriti da noi oggi Gesù: sia un affetto di fervido amore e di
sincera riconoscenza.
5° Un pensiero
ancora all’offerta di Gesù la quale viene fatta per mano di Maria. Gloria
incomparabile per Maria, e fondamento certo della nostra fiducia nella
mediazione di Lei. Riflettete: Nell’Incarnazione il Figliuolo di Dio, mercé la
cooperazione e la sostanza di Lei ha avuto un corpo come il nostro. Nella
redenzione sarà immolato in unione a Maria che starà presso la croce. Nella presentazione
vuole essere portato da Lei al Tempio, e da Lei medesima offerto. Le braccia ed
il cuore di Maria sono come l’altare del sacrificio; Maria il Sacerdote; Gesù
il Sacerdote e la vittima. « In quest’attitudine sublime le braccia della Madre
di Dio offrivano; il suo cuore ardeva, e Gesù era nelle sue braccia e in mezzo
al suo fuoco: non è questo l’altare del sacrificio? Come l’altare è
inseparabile dalla vittima, la porta, la sostiene e sembra dirle: Sono una cosa
sola con te, così la carità di Maria era pronta ad accompagnare ovunque la
carità del Figliuolo di Dio pel mondo » (LÉMANN, op. cit.). Quanto ci si rivela grande la cooperazione di
Maria alla nostra redenzione, e come basterebbe questo fatto a meritarle il
titolo di corredentrice. – « Così questo mistero ci unisce alla santa Vergine
in modo particolare. Essa vi rappresenta la Chiesa, offrendo Gesù Cristo a Dio
in nome di tutta la società cristiana; ma tutta la società cristiana deve
altresì congiungersi a Lei ed unirsi al suo sacrificio, come a quello del
principale dei suoi membri operante in nome di tutto il corpo, e ciascuno deve
procurare di entrare nelle sue disposizioni e pregarla di ottenerne qualche
partecipazione » ( NICOLE, Saggi di
morale, tomo XIII, pag. 318).
III. — Il terzo
fatto dell’odierno mistero è costituito dalla parte che vi prende il vecchio
Simeone.
1° Il Vangelo ci
dice che questo vecchio era giusto e timorato di Dio e aspettava la
consolazione d’Israele. Era giusto: la quale parola non esprime solo una
virtù; ma le virtù nel loro complesso. Era timorato di Dio, di quel
santo e figliale timore che è il principio dell’amore. Era giusto e timorato ed
aspettava la consolazione d’Israele. Certamente non era solo ad
aspettare; tutta la nazione, anzi tutto il mondo aspettava il Salvatore. I
patriarchi, i profeti, i giusti l’avevano aspettato. L’avevano aspettato la
terra, il cielo, il limbo. Di questa universale aspettazione il vecchio Simeone
era come la personificazione veneranda; lo spirito dei giusti dell’antica legge
era passato nel santo vecchio. Da questo giudicate le elette disposizioni
dell’anima di lui. E ne riceve il premio: lo Spirito Santo dimorava in lui con singolare
compiacenza, e gli aveva apertamente rivelato « che non vedrebbe la morte prima
di vedere il Cristo del Signore ».
2° Il santo
vecchio vive in quest’ansiosa aspettazione. Un giorno, mosso da presentimento
divino, si reca al tempio quando appunto vi entrava la Sacra famiglia.
Riconosce nel fanciullo il Salvatore del mondo, lo riconosce a nome di Gerusalemme che, atterrita da Erode
non aveva ardito aggiungere
alcun rappresentante al corteo dei Magi, lo riconosce, e con un movimento ardente e rapido come l’amore lo prende tra le sue braccia e
stringendolo al cuore, erompe
nel cantico: Adesso, o Signore, rimanda in pace iltuo
servo… che gli occhi miei hanno visto la tua salute. E allora una chiara
visione dell’avvenire si manifesta a Simeone: l’universalità del regno di quel bambino: Alcospetto di tutti i popoli, porterà la luce della fede non ai soli Giudei, ma altresì alle nazioni pagane: Luce
e rivelazioneper le
nazioni; ma questa luce
viene dal popolo d’Israele
eletto, come a prepararla, e perciò il bambino è gloria d’Israele.
3° Questa profetica manifestazione della grandezza di Gesù ci rivela la
costante economia di Dio a riguardo di Gesù e di Maria, la quale usa pure riguardo
a tutti i Cristiani. Maria e Gesù nel mistero della Purificazione e della Presentazione
cercano l’oscurità e l’umiliazione, e trovano lo splendore e la gloria. Come
Vergine, Maria sacrifica la sua riputazione di verginità; come Madre, sacrifica
il suo Figliuolo. E tosto per disposizione provvidenziale questo figlio,
raccolto nelle braccia del vecchio Simeone, è proclamato Salvatore del mondo e
Maria ristabilita nella gloria della sua maternità divina che aveva voluto
nascondere sotto il velo della più umiliante condizione. – Ammiriamo le vie
della Provvidenza; affidiamoci ad essa, sicuri che le vie da Essa disposte a
nostro riguardo saranno le più salutari per noi.
IV. — Riserbandoci di considerar altra volta il seguito della profezia di
Simeone raccogliamo il frutto dell’odierna considerazione, e raccogliamolo in
una ferma risoluzione di praticar con singolare predilezione l’umiltà, col
sacrificio volenteroso del nostro amor proprio. Se vi ha virtù di cui nel mondo
si parla con disprezzo, perché ignorata, è appunto la umiltà! Oh, che non si
dice contro tale virtù? Comprendete bene, o devoti Cristiani, che la vera
umiltà è fondata sulla verità. Per l’umiltà dobbiamo sottometterci a Dio
riconoscendo il suo pieno e perfetto dominio su noi. Non siamo nostri, siamo di
Dio, a Dio apparteniamo noi e le cose nostre. Per l’umiltà dobbiamo riconoscere
che se abbiamo qualche cosa di bene, essa non è nostra, ma di Dio da cui
l’abbiamo avuta. Tutto quello che’ abbiamo, l’abbiamo avuto da Dio, e perciò
dobbiamo usarne secondo la volontà di Dio, ricordando che perciò appunto a Dio
un giorno dovremo renderne rigorosissimo conto. Per l’umiltà dobbiamo
riconoscere il bisogno costante che abbiamo della divina grazia, perché se per
un istante solo ci abbandona, che sarà di noi? Questo il pensiero che ci
obbliga a non anteporci ad alcuno, neppure al più grande peccatore, perché tra
breve possono essere cambiate completamente le cose: noi possiamo cadere e
pervertirci, mentre il peccatore può rialzarsi e convertirsi. Per l’umiltà
dobbiamo seriamente riflettere: Se Iddio avesse ad altri concesse le grazie che
accordò a noi, qual maggior frutto avrebbero saputo ritrarne! E poi: quanti si
trovano all’inferno, ed hanno peccato meno di noi! E perciò se avviene che il
prossimo ci manchi di riguardo o di attenzione, se anche ci avviene di essere
offesi, ricordiamo che innanzi a Dio abbiamo meritato ben peggio. Sappiamo
elevarci a Dio, e rimirare in quello che quaggiù avviene, una permissione di
Dio: e nelle persone, lo strumento di cui Iddio si serve. – Cerchiamo pertanto
di conoscere seriamente il nostro nulla, la debolezza che portiamo con noi onde
diffidare di noi e delle nostre forze. Imitiamo Maria: cerchiamo di essere
buoni, virtuosi, pii innanzi a Dio, e non curiamoci del giudizio del mondo, non
cerchiamone la stima, od il plauso. Nascondiamo volentieri agli occhi del mondo
quel poco di bene, che con la grazia di Dio abbiamo potuto fare; da Dio solo
attendiamone la ricompensa e sia nostra regola la sentenza di Gesù che vedemmo
avverata nell’odierno mistero: Chi si innalza, sarà umiliato ; e chi si
umilia, saràesaltato(S. Luca, XIV, 11). Evitiamo ogni
innalzamento di superbia pernon essere eternamente umiliati; umiliamoci
quaggiù peressere eternamente esaltati nella gloria del cielo.
Orémus Ps XLIV: 3. Diffúsa est grátia in lábiis tuis: proptérea benedíxit te Deus in ætérnum, et in sǽculum sǽculi.
[La grazia è diffusa sulle tue
labbra: perciò Iddio ti benedisse in eterno e nei secoli dei secoli]
Secreta
Exáudi, Dómine, preces nostras: et, ut digna sint múnera, quæ óculis tuæ majestátis offérimus, subsídium nobis tuæ pietátis impénde. [Esaudisci, o Signore, le nostre preghiere: e, affinché siano degni i doni che offriamo alla tua maestà, accordaci l’aiuto della tua misericordia.]
Luc II:26. Respónsum accépit Símeon a Spíritu Sancto, non visúrum se mortem, nisi vidéret Christum Dómini.
[Lo Spirito Santo aveva rivelato a
Simone che non sarebbe morto prima di vedere l’Unto del Signore]
Postcommunio
Orémus. Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut sacrosáncta mystéria, quæ pro reparatiónis nostræ munímine contulísti, intercedénte beáta María semper Vírgine, et præsens nobis remédium esse fácias et futúrum.
[Ti preghiamo, o Signore Dio
nostro: affinché questi sacrosanti misteri, che ci procurasti a presidio della
nostra redenzione, intercedente la beata sempre Vergine Maria, ci siano rimedio
per la vita presente e futura].
Il Vangelo è tratto dallo stesso capo del Santo Vangelo della terza Domenica dopo l’Epifania. È il racconto di un nuovo miracolo. Gesù manifesta la sua divinità comandando ad elementi potenti ed indocili come le acque sconvolte ed i venti scatenati. E « l’Evangelista fa risaltare l’importanza del prodigio, opponendo alla grande agitazione delle onde », « la grande calma che ne segue » (Vang.). Ma è nella Chiesa che si esercita la regalità divina di Gesù; così i Padri hanno visto nei venti che soffiano in tempesta un simbolo dei demoni di cui l’orgoglio suscita le persecuzioni contro i Santi, e nel mare tumultuoso le passioni e la malvagità degli uomini; cause delle trasgressioni ai comandamenti e delle lotte fraterne. Nella Chiesa, al contrario, regna la gran legge della carità perché, se i tre primi precetti del Decalogo ci impongono l’amore di Dio, altri sette ci impongono, come conseguenza logica, l’amore del prossimo (Ep.) Dio infatti è nel prossimo perché, mediante la grazia siamo in certo modo il complemento del corpo di Cristo. È questo il mistero dell’Epifania. Gesù si rivela Figlio di Dio e tutti quelli che riconoscendolo tale, lo riconoscono loro Capo, divengono membri del suo corpo mistico. Formando tutti un solo corpo nel Cristo, i Cristiani devono anche amarsi reciprocamente. Questa barca, dice S. Agostino, rappresenta la Chiesa la quale manifesta nei secoli la divinità di Cristo. È infatti alla protezione del Salvatore che Essa deve « malgrado la sua fragilità » (Or. Sec), se non è inghiottita in mezzo a tanti pericoli che la minacciano (Or.). Gesù, dice S. Giov. Crisostomo, sembra che dorma per costringerci a
ricorrere a Lui, e salva sempre quelli che lo invocano.
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Ps XCVI:7-8 Adoráte Deum, omnes
Angeli ejus: audívit, et lætáta est Sion: et exsultavérunt fíliæ Judae. [Adorate Dio, voi tutti Angeli suoi:
Sion ha udito e se ne è rallegrata: ed hanno esultato le figlie di Giuda.]
Ps XCVI: 1 Dóminus regnávit,
exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ.[Il Signore regna, esulti la terra: si rallegrino
le molte genti.]
Orémus.
Deus, qui nos, in tantis
perículis constitútos, pro humána scis fragilitáte non posse subsístere: da
nobis salútem mentis et córporis; ut ea, quæ pro peccátis nostris pátimur, te
adjuvánte vincámus.
[O Dio, che sai come noi, per l’umana
fragilità, non possiamo sussistere fra tanti pericoli, concédici la salute
dell’ànima e del corpo, affinché, col tuo aiuto, superiamo quanto ci tocca
patire per i nostri peccati.]
LECTIO
Léctio Epístolæ beáti Pauli
Apóstoli ad Romános.
Rom XIII: 8-10
Fratres: Némini quidquam
debeátis, nisi ut ínvicem diligátis: qui enim díligit próximum, legem implévit.
Nam: Non adulterábis, Non occídes, Non furáberis, Non falsum testimónium dices,
Non concupísces: et si quod est áliud mandátum, in hoc verbo instaurátur:
Díliges próximum tuum sicut teípsum. Diléctio próximi malum non operátur.
Plenitúdo ergo legis est diléctio.
Omelia I.
[A. Castellazzi: La
scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]
L’AMOR DEL
PROSSIMO.
“Fratelli:
Non vi resti con nessuno altro debito che quello dell’amore scambievole; poiché
chi ama il prossimo ha adempiuto la legge. Infatti: «Non commettere adulterio;
non ammazzare; non rubare; non dire falsa testimonianza; non desiderare; e
qualsiasi altro comandamento si riassume in questa parola: «Amerai il prossimo
come te stesso». L’amore del prossimo non fa male alcuno. L’amore è, dunque, il
compimento della legge»”. (Rom. XIII, 8-10).
L’Epistola di quest’oggi è tolta dal cap. 13 della lettera ai Romani. L’Apostolo, inculcata antecedentemente la soggezione alle autorità costituite, e mostrati i motivi di questa soggezione, viene a parlare del dovere di rendere a ciascuno il fatto suo. Gli uni devono essere sciolti da qualsiasi debito verso gli altri. Un solo debito deve rimanere ai Cristiani: quello della carità fraterna. Invero, questo è un debito:
1.
Al quale, nessun Cristiano può sottrarsi,
2.
Che deve animare tutte le sue relazioni col prossimo,
3.
Senza escludere nessuno.
1.
Fratelli: non vi resti con nessuno altro debito che quello dell’amore scambievole.Dopo gli obblighi versole autorità costituite, vengono gli obblighi verso gli individui. Come abbiamo dei debiti verso la società, così neabbiamo verso i singoli membri che la compongono. Se si considerano i debiti soltanto dal lato materiale, tanti potranno dire: Io non ho debiti con nessuno. Felice chi può dire così; perché di questi debiti non si dovrebbe averne. E se, caso mai, ce ne fosse qualcuno, la giustizia obbliga a pagarlo subito, se è possibile; o a mettersi in grado di poterlo pagare il più presto che si può. – L’Apostolo, però, non considera solamente questi debiti, che nessuno dovrebbe avere. Considera anche un debito d’una natura tutta particolare: il debito della carità. Nessuno a questo debito può sottrarsi. L’uomo deve amar Dio. Nessuno, per altro, è così insensato da dire che ami Dio colui che non vuol amare ciò che Dio ama. E che Dio ami il mio prossimo è cosa più chiara della luce. Per tutti gli uomini, nessuno escluso, fu spinto dal suo amore a versar il sangue sulla croce. Sarebbe, dunque, un assurdo affermare che io ami Dio, quando escludo dal mio amore, coloro che Dio amò fino a morir per essi. «Infatti — dice S. Giovanni— chi non ama il suo fratello che vede, come può amar Dio, che egli non vede?». (I Giov. IV, 20).«L’uomo deve amare ciò che è caro a Dio». (S. Cipriano. De bono patientiæ, 3). E il prossimo è tanto caro a Dio, che il Discepolo prediletto ci assicura che chi ama il proprio fratello è quasi certo di vivere nella grazia del Signore. «Noi sappiamo che siam passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli». (I Giov. III, 14). E tanto più dobbiamo amare i propri fratelli, quanto più sono meschini, diseredati, sofferenti. Questi erano i prediletti da Gesù Cristo. E i santi, considerando in essi le membra sofferenti di Gesù Cristo, li facevano oggetto particolare del loro amore. Il Beato Andrea Umberto Fournier, rimproverato una volta dalla sorella, perché aveva dato parte dei suoi abiti a un poverello, risponde:« Che vuoi, ho incontrato Nostro Signore Gesù Cristo, potevo rifiutargli qualche cosa? ». Un’altra volta, preso un bicchiere, che aveva servito a un povero, dice: « Ch’io beva dopo Nostro Signore Gesù Cristo! » (Il Beato Andrea Umberto Fournier, Milano, 1926, p, 361). – Il soldato si conosce dalla divisa, e le varie armi tra i soldati si conoscono dai distintivi particolari di ciacun’arma. Qual è il distintivo del buon cristiano? È l’amore disinteressato verso i propri fratelli. Ciò afferma il Redentore stesso : « Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore l’uno per l’altro » (Jov. XIII, 35). Può capitare che uno, con tutta la sua buona volontà, non sia in potere di concorrere a un’opera di beneficenza; che sia nell’impossibilità di concedere un favore, che gli si chiede; e sia costretto a dire: «Mi dispiace, ma non posso accontentarvi». Chi è il Cristiano che osi dire: «Non posso amare il mio fratello?». Chi ha questi sentimenti, si pone da se stesso fuori del numero dei buoni Cristiani, e dimostra di non voler seguire Gesù Cristo.
2.
Non commettere
adulterio: non ammazzare; non rubare; non dire falsa testimonianza: non
desiderare, e qualsiasi altro comandamento si riassume in questa parola: «Amerai
il prossimo come te stesso».
Chi ama il prossimo non desidera che al proprio fratello accada ciò che non vorrebbe accadesse a se stesso. Così, nessuno desidera che a proprio danno si commettano quelle mancanze che qui enumera S. Paolo, e altre simili. Naturalmente, non deve desiderare che si commettano neppure a danno del proprio fratello. Comincia a non commetterne da parte sua, e, per quanto sta da lui, s’adopera per impedire che si commettano dagli altri. E qui, quanto è vasto il campo! Se tutte le nostre azioni fossero informate dalla carità, non recheremmo mai offesa a persona qualsiasi. Chi ama il proprio fratello non lo critica, senza un giusto motivo; non lo giudica precipitosamente, non fa strazio della sua fama. – Le visite, i convegni, le passeggiate porgono facile occasione di parlare del prossimo con grande leggerezza. Se si tratta di azioni apertamente cattive, non c’è pericolo che, pur condannando il male, il cattivo esempio, lo scandalo,si abbia a trovare qualche attenuante per il peccatore. Se si tratta di azioni a cui si possono dare diverse interpretazioni, siano pronti a dare, senz’altro, l’interpretazione peggiore. Se si tratta di azioni manifestamente buone, andiamo a cercare i secondi fini. Se si tratta di falli ancora nascosti, non ci par vero di essere i primi a farli palesi. Ben diversamente si comportano quelli che, nelle loro relazioni col prossimo, sono guidati dalla carità. Essi procurano di coprire i difetti del prossimo, non di rivelarli; di attenuarli, non di ingrandirli; di interpretarli in bene fin dove è possibile. Essi si guardano bene di scavar il solco della discordia tra fratelli, come fanno, per esempio, quelli che riportano le parole degli altri. Chi è animato dalla carità non inasprisce le sofferenze altrui con modi scortesi, con parole che umiliano. Cerca, anzi, di addolcirle con farsele proprie. « È un atto di vero amore far proprie le sofferenze di chi soffre».(S. Pietro Cris. Serm. 14). C’è poi una virtù che è veramente la prova dell’amore che anima le nostre relazioni col prossimo: la pazienza! Questa parola che noi ripetiamo volentieri agli altri e a noi stessi in tante circostanze, corrisponde ai fatti? Se sopportiamo i difetti del nostro prossimo; se sopportiamo con dolcezza le provocazioni, tante volte involontarie, che da esso ci possono venire, allora abbiamo la pazienza, e dimostriamo di amare il prossimo.
3.
L’amore del
prossimo non fa male alcuno.
Chi ha l’amore del prossimo non fa dei torti al suo fratello, chiunque esso sia; anzi, è disposto a riceverne, invece di farne; e, quando li riceve, perdona. L’amor del prossimo è un amore che esclude ogni egoismo. Noi diciamo che non c’è vera amicizia, quando si cerca di sfruttare l’amico, pronti ad abbandonarlo quando non ci torna più utile, o ci potrebbe recar delle noie o chiedere dei sacrifici. Lo stesso dobbiamo dire dell’amor del prossimo, se ha per scopo il tornaconto. Si dà uno, ma con la speranza di potere un giorno, direttamente o indirettamente, ricavarne dieci. Si dà un aiuto, ma con l’animo di ipotecare chi lo riceve. Questa è una carità che fa piuttosto torto al prossimo. Far del bene a quelli che ne fanno a noi; amare chi ci ama è buona cosa, ma è troppo poco per un Cristiano, che, oltre la ricompensa degli uomini, attende quella di Dio. « Quando — dice il divin Maestro — fai qualche convito, chiama i poveri, gli zoppi, i ciechi, e sarai fortunato, perché non hanno da rendertene il contraccambio; ma il contraccambio ti sarà reso nella risurrezione dei giusti». (Luc. XIV, 13-14). Nessuna esclusione, dunque, di coloro che non possono esserci utili, o retribuirci. – Capita, quando si chiede qualche sussidio o qualche favore per una persona, di sentirsi rispondere: «Per quella persona ho già fatto abbastanza: adesso basta! ». Noi non dobbiamo mai dire basta, quando si tratta di usare, in un modo o in un altro, la nostra carità verso il prossimo. La carità è un debito diverso dai debiti materiali. Quando tu hai versato la somma che il creditore ti richiede puoi dire: “Adesso basta! Tra me e te i conti son saldati”. Ma il debito della carità è sempre aperto fin che c’è vita. E fino a che uno vive non puoi escluderlo dai tuoi creditori. Nota poi che, attingendo al tesoro materiale, questo tanto più diminuisce, quanto più ne dai al creditore. Attingendo, invece, al tesoro della carità questo tanto più s’accresce, quanto più sono gli atti di carità che noi usiamo verso gli altri, quanto più numerose sono le persone che ricevono dalla nostra carità. L’osservazione è di S. Agostino. La carità «con il darla non si perde, anzi, quanto più uno ne è prodigo, tanto più in lui s’accresce» (Ep. 192 ad Coles.). Ma si tratta di un nemico, d’una persona, che mi ha fatto del male; come posso amarla? Puoi amarla con l’aiuto di Dio. Se Dio comanda una cosa, dà anche la forza di compierla, e il comando di Dio è troppo chiaro per pretendere di sottrarsene. «Avete udito che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: Amate i vostri nemici; fate del bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi perseguitano e calunniano». ( Matth. V, 43-44). Nessuno nega che è un bel sacrificio amare i nostri nemici; che è difficile amarli se li consideriamo come tali; ma in pratica la difficoltà diminuisce se li consideriamo come creature di Dio, figli come noi di uno stesso Padre. «Pensa — dice il Crisostomo — che tu fai bene non al nemico, ma a te. Non ami lui, ma obbedisci a Dio». (In Ep. ad Ephes. Hom. 7, 4). Si dice: L’amore è cieco, ma vede da lontano. Il nostro amore sia cieco sui torti del prossimo. Di là dei torti veda la volontà di Dio. “Non
vogliate avere altro debito, che quello d’amarvi l’un l’altro; perché chi ama
il prossimo, ha adempiuta la legge. Di fatto, il non fare adulterio, non
uccidere, non rubare, non dir falsa testimonianza, non desiderare il male e se
vi è alcuna altro precetto, tutto è compreso in questa parola: Amerai il
prossimo come te stesso. L’amore del prossimo non opera alcun male: il
compimento dunque della legge è l’amore „ (Rom. XIII, 8-10).
Graduale
Ps CI: 16-17
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam. [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: tutti i
re della terra la tua gloria.]
ALLELUJA
V. Quóniam ædificávit Dóminus
Sion, et vidébitur in majestáte sua. Allelúja, allelúja. [Poiché il
Signore ha edificato Sion: e si è mostrato nella sua potenza. Allelúia,
allelúia] Alleluja
Ps XCVI: 1 Dóminus regnávit,
exsúltet terra: læténtur ínsulæ multæ. Allelúja. [Il Signore
regna, esulti la terra: si rallegrino le molte genti. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠sancti
Evangélii secúndum Matthæum.
Matth. VIII: 23-27
“In illo témpore: Ascendénte Jesu
in navículam, secúti sunt eum discípuli ejus: et ecce, motus magnus factus est
in mari, ita ut navícula operirétur flúctibus, ipse vero dormiébat. Et
accessérunt ad eum discípuli ejus, et suscitavérunt eum, dicéntes: Dómine,
salva nos, perímus. Et dicit eis Jesus: Quid tímidi estis, módicæ fídei? Tunc surgens,
imperávit ventis et mari, et facta est tranquíllitas magna. Porro hómines
miráti sunt, dicéntes: Qualis est hic, quia venti et mare obædiunt ei?”
OMELIA II
[A. Carmignola,
Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino, 1921]
SPIEGAZIONE IX.
“In quel
tempo essendo Gesù montato nella barca, lo seguirono i suoi discepoli.
Quand’ecco una gran tempesta si sollevò nel mare, talmente che la barca era
coperta dall’onde; ed egli dormiva. E accostatisi a lui i suoi discepoli, lo
svegliarono, dicendogli: Signore, salvaci: ci perdiamo. E Gesù disse loro: Perché
temete, o uomini di poca fede? Allora rizzatosi, comandò ai venti e al mare; e
si fe’ gran bonaccia. Onde la gente ne restò ammirata, e dicevano: Chi è
costui, a cui ubbidiscono i venti e il mare”?
Nel
Santo Vangelo si parla ripetutamente di un lago, il quale perciò è diventato
assai celebre. Questo lago, che trovasi nella Palestina, è attraversato dal
fiume Giordano, ed ha la forma ovale. Ed ora vien chiamato lago di Tiberiade dal
nome della grande città romana, che sorgeva sopra le sue rive, ora il lago di
Genezaret per ragione della vasta pianura di Genezar, di cui rende mite l’aria
e fertilizza il suolo, ora semplicemente il mare, perciocché esso ha alle rive
coperte di ghiaia il leggero movimento d’un piccolo mare. Incassato da ogni
parte, eccetto che a mezzodì, da alte montagne, allorquando spunta il sole
sembra un’immensa coppa azzurra incastonata nell’argento. Intorno ad esso
sorgevano una diecina circa di città, e tra le più nominate Cafarnao, Betsaida,
Tiberiade, Magnala; poi una gran moltitudine di castelli, di ville, di giardini.
Era un luogo incantevole. Ed è attorno a questo lago, anzi sopra di questo lago
medesimo, che Gesù Cristo compì la più parte dei grandi fatti della sua vita
pubblica. Ed è pure in questo lago, che Gesù operò il grande miracolo, che ci
racconta il Vangelo d’oggi, della tempesta sedata.
1. Ci dice adunque il Vangelo di questa Domenica, che essendo Gesù montato nella barca, loseguirono i suoi discepoli. Ora, prima di andarti innanzi, conviene subito di sapere che cosa significa questa barca, sopra la quale montò Gesù Cristo. Ascoltate. Il nostro divin Salvatore disceso dal cielo in terra per salvarci, volle stabilire un mezzo, onde fosse assicurato il deposito della fede, fondando quaggiù un regno spirituale. Questo regno è la sua Chiesa, ovvero la congregazione de’ fedeli Cristiani di tutto il mondo, che professano la dottrina di Gesù Cristo sotto la condotta dei legittimi pastori, e specialmente del Romano Pontefice. Questa Chiesa qual madre amorosa doveva in ogni tempo e in ogni luogo ricevere coloro, che avessero voluto ricoverarsi nel suo materno seno, ed essere perciò in ogni tempo visibile ed accessibile a tutti. Quindi nel Vangelo questa Chiesa ora è paragonata ad una colonna, con tra cui nulla valgono gli assalti dei nemici delle anime, ora è paragonata ad una pietra, sopra cui poggia un grande edificio, che deve durare sino alla fine dei secoli, ed ora, come qui, è paragonata ad una barca, la quale farà sempre il suo cammino senza mai affondare, per quanto infurino contro di essa i venti e le tempeste delle persecuzioni. E sopra di questa barca in modo ora invisibile vi è Gesù Cristo, che l’assiste, ed in modo visibile a governarla vi è il Vicario di Gesù Cristo, il Romano Pontefice, successore di S. Pietro. E ciò è pure chiaramente indicato dal Vangelo di oggi, giacché la barca, sopra della quale montò nostro Signore, era propriamente quella di S. Pietro. Ora, o miei cari, come al tempo di Noè, quanti si trovavano fuori dell’arca miseramente perirono, così ora quanti sono fuori della barca di Gesù Cristo e di S. Pietro, vale a dire della “vera” Chiesa, non possono salvarsi. E qui vi è da tremare pensando al gran numero di coloro, che sono fuori della Chiesa Cattolica, epperciò fuori della barca, che conduce al porto celeste. Per altra parte vi è da rallegrarsi grandemente nel riflettere, che noi abbiamo la bella fortuna di trovarci dentro. Quale riconoscenza dobbiamo perciò al Signore per questo singolare benefizio, che ci fece senza alcun nostro merito! Ma il miglior modo di dimostrare la nostra gratitudine a Dio per tanto bene è quello di amare, rispettare, obbedire questa Chiesa istessa, di cui siamo figliuoli. Ed in ciò possiamo noi gloriarci di compiere esattamente il volere di Gesù Cristo, espresso in quelle parole: si autem Eccclesiam non audierit sit tibi sicutethnicus et publicanus: Chi non ascolta la Chiesa, abbilo come per gentile e per pubblicano (Matt. XVIII, 19). Miei cari, riflettiamo bene, che la Chiesa, quando ci fa dei comandi, ce li fa con autorità, perché Gesù Cristo disse agli Apostoli, e nella loro persona a tutti i loro successori, il Papa ed i Vescovi, queste parole: « Ogni potere mi fu dato in cielo ed in terra: come il Padre mio ha inviato me, così Io mando voi. Andate adunque, ammaestrate tutte le nazioni, insegnando loro ad osservare i precetti, che Io ho dato a voi. Tutto ciò che voi scioglierete sulla terra, sarà sciolto in cielo, e tutto ciò che avrete legato sulla terra, sarà legato in cielo. Chi ascolta voi, ascolta me: chi disprezza voi, disprezza me »; e che perciò i comandamenti della Chiesa sono veri comandamenti, cioè atti di autorità, coi quali essa può e vuole con una legittimità perfetta legare la nostra coscienza, pel nostro vero bene, per la nostra eterna salute. Guai adunque a noi, se non la ubbidiamo nei suoi precetti! Sarà lo stesso come se non avessimo obbedito a Dio. Pur troppo vi hanno tanti Cristiani, che guardano alle leggi della Chiesa senza alcuna stima e se le mettono sotto i piedi con una leggerezza e superbia incredibile. – La Chiesa ad esempio comanda di lasciare assolutamente la lettura di certi libri e di certi giornali da lei proibiti, perché contrari alla fede ed ai costumi, o almeno pericolosi, e vi ha chi dice: Perché?… Come c’entra la Chiesa in ciò? Vuol dunque impedire di istruirci? E poi… non sono mica più un fanciullo! Mi sento abbastanza fermo nella mia fede e non temo affatto per essa cotali letture. E intanto superbamente disobbedisce. La Chiesa per ispirito di penitenza saggiamente ci impone il digiuno in certi giorni dell’anno, e il magro in qualche dì della settimana, e madre benigna ed amorosa ciò fa, massime ai giorni nostri, con una remissione direi più unica che rara. Eppure quanti Cristiani vi sono, che scrollando la testa a questi santi precetti esclamano: Che magro? Che digiuno? Non è ciò che entra nella bocca, che macchia l’uomo. E superbamente disobbediscono. La Chiesa del tutto sollecita che la grazia del Signore adorni le anime nostre e la sua pace sia con noi, ci ordina di recarci almeno una volta all’anno ai piedi di un sacerdote per fare la confessione delle nostre colpe. Ma a questo precetto quanti non vi sono, che vanno dicendo: Che confessarci ? Noi ci confessiamo a Dio. E poi se c’è proprio questo dovere, lo soddisferemo al punto di morte. E superbamente disobbediscono anch’essi. Ora costoro che con sì futili e sì superbi pretesti si esimono dall’osservanza dei precetti ecclesiastici si potranno dire Cristiani? Impossibile. Si potranno ben dire protestanti, eretici, scismatici, ma Cristiani no. È Gesù Cristo stesso, che lo dice: Siautem ecclesiam non audierit sit tibi sicut ethnicus et publicanus (Matt. XVIII, 19). Chi non ascolta la Chiesa abbilo come per gentile e per pubblicano. Oh quanto importa perciò di fare in proposito un po’ di esame di coscienza per vedere se caso mai alcuno di noi appartenesse al numero di questi falsi Cristiani. Quanto importa che prendiamo la ferma risoluzione di volere mai sempre essere obbedienti ai comandi della Chiesa! Sì, o miei cari, obbediamo sempre umilmente, prontamente, esattamente, alla Chiesa Cattolica, al suo Capo augusto il Romano Pontefice, a’ suoi santi Pastori, i Vescovi; ed obbediamo in tutto, fiduciosi che obbedendo alla Chiesa obbediamo a Dio. Che se accadesse di parlare o udire altri a parlare della Chiesa diportiamoci come rispettosi figli verso amorosa madre: non diciamo mai cosa alcuna contro a quanto la Chiesa comanda o proibisce: e per quanto sta in noi parliamone sempre bene ed opponiamoci coraggiosamente a chiunque cercasse di parlarne male. Lo Spirito Santo ci assicura, che chi onora sua madre, è come chi fa tesori (Eccli. III, 5). E ciò sarà tanto più vero per colui che onora la sua madre secondo lo spirito, la Chiesa.
2. Ma Gesù Cristo non fu pago di fondare la Chiesa, Egli per di più le ha promessa e comunicata tale una forza, per cui non verrà meno giammai sino alla consumazione dei secoli. Tu sei Pietro, disse al Principe degli Apostoli, e sopra di questa pietra fabbricherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa giammai: et porta inferi non prævalebunt adversus eam (S. Matt. XVI, 18). Io ho pregato per te, affinché non venga meno la tua fede: rogaviprò te, ut non deficiat fides tua (S. Luc. XXII, 31). E a tutti gli Apostoli disse: Ecco che io sarò con voi sino alla consumazione dei secoli: Ecceego vobiscum sani usque ad consummationem sæculi (S. Matt. XXVIII, 20). Così ha parlato Gesù Cristo alla Chiesa nella persona degli Apostoli, e Gesù Cristo ha fatto, fa e farà onore alla sua parola sino alla fine del mondo. Come la testa tiene il primo luogo nel corpo umano e da lei l’anima dà vita e forza a tutto il corpo, così Gesù Cristo capo invisibile di tutto il corpo mistico, che è la Chiesa, risiedendone sempre in Lui lo spirito e l’anima, a tutto il corpo mantiene la vita e la forza. – Ma sebbene per la promessa, che fedelmente Gesù Cristo mantiene, la Chiesa Cattolica non debba mai temere, o tanto o poco, di venir meno, è certo tuttavia, che la Chiesa va soggetta alle persecuzioni, è destinata anzi alle persecuzioni, e le persecuzioni formano uno de’ suoi essenziali e divini caratteri. Lo stesso Gesù Cristo come predisse ed assicurò alla Chiesa la indefettibilità, così le predisse e assicurò le persecuzioni. Se hanno perseguitato me, disse agli Apostoli, perseguiteranno anche voi: Si me persecuti sunt,et vos persequentur (Giov. XV, 20). E difatti da diciannove secoli, quanti ne conta la Chiesa Cattolica, mentre nel suo cammino e nel suo stabilirsi attraverso il mondo da molti è stata felicemente accolta, amata, obbedita, da molti altri invece è stata derisa, odiata, perseguitata a morte. E così sarà con momenti più o meno lunghi di tregua e di pace sino alla fine del mondo. E ciò perché mai? senza dubbio per moltissime ragioni, alcune delle quali non comprenderemo che in cielo. Ma tra quelle, che anche qui in terra possiamo rilevare, questa tiene un principalissimo posto: volere, cioè, il Signore Nostro Gesù Cristo, che non dimentichiamo giammai essere Egli colui, dal quale solo viene la vita e la forza della Chiesa, e dovere noi perciò incessantemente ricorrere a Lui per aiuto e protezione, affinché esaudendo le nostre preghiere e concedendo alla Chiesa l’aiuto e la protezione invocata, si renda ognor più manifesta la sua potenza e la sua gloria. È ciò che ci ha fatto chiaramente intendere Gesù Cristo stesso nel Vangelo di oggi. Poiché dopo d’essere con gli Apostoli montato sopra quella nave sul lago di Genezareth, e apoppa di quella nave dormendo, si suscitò una grantempesta, talmente che la barca era coperta dalleonde e sembrava da un momento all’altro doversi capovolgere e calare a fondo. Quindi accostatisia Lui i suoi discepoli, lo svegliarono mandandoun grido di spavento e di invocazione, dicendo:Signore, salvaci, periamo: Domine, salva nos,perimus. Or bene, bellamente osserva Origene, quantunque Gesù Cristo dormisse allora col corpo, vegliava con la sua divinità, perché concitava il mare e conturbava gli Apostoli, affine di manifestare la sua potenza: Dormiébat corpore, sed vigilabatDeitate, quia concitdbat mare, conturbabatApostolos, suam potentiam ostensurus. E poiché, come dice S. Agostino, quella nave, in cui Gesù Cristo si trovava cogli Apostoli, in tale circostanza raffigurava la Chiesa Cattolica, perciò ben possiamo dedurre che l’intendimento, che ebbe allora nel permettere la tempesta, lo abbia tuttora nel permettere le persecuzioni. Egli è certo ad ogni modo che la Chiesa ha mai sempre riconosciuto il bisogno ed il dovere di ricorrere a Dio per aiuto e protezione in tutti quanti i tempi, ma allora massimamente che trovavasi stretta dalla tribolazione; epperò sempre, benché con molteplici forme, Ella ha fatto salire al cielo questo grido: Salva nos, perimus. Signore, vieni in nostro aiuto, in nostra protezione, affinché non abbiamo a perderci. Ora, o miei cari, se noi amiamo davvero la Chiesa, adesso più che mai dobbiamo con lei e per lei rivolgere a Dio lo nostre ardenti preghiere, perché se mai furono tempi calamitosi per la Chiesa di Gesù Cristo, se mai volsero giorni così infausti alla nostra santissima fede, sono propriamente i giorni ed i tempi nostri. Oggi, più che mai, si muove guerra tremenda contro i santi altari; oggi, più che mai, si assaltano i dogmi, i misteri, la dottrina e la morale di Gesù Cristo; oggi, più che mai, si vede l’empietà sfidare il cielo e far disperate prove onde sbandire dalle menti umane persino l’idea di Dio. È ritornato proprio oggidì il tempo in cui fremuerunt gentes.., astiterunt reges terræ, etprincipes convellerunt in unum adversus Dominunet adversus Christian eius (Salm. II). Popoli e re, grandi e piccoli, tutti l’hanno con Cristo e con la sua Chiesa. I falsi dotti con la penna, la stampa irreligiosa coi fogli, il popolazzo con le urla e con le maledizioni, i governi con la forza brutale assalgono ad un tempo e da ogni parte questa barca costrutta da Dio, e già quasi si applaudono d’averla affondata. Si snaturano le intenzioni della Chiesa, le si attribuiscono umane passioni ed ingorde voglie, e sotto questi futili pretesti, i quali alle masse poco istruite, segnatamente in fatto di Religione, presentano sempre qualche cosa di specioso, le si rimprovera d’aver degenerato dalla primitiva perfezione, la incolpano di idee retrograde, di ostinazione a non volersi associare al progresso dei tempi, si rovesciano le sue istituzioni, si perseguitano le sue corporazioni religiose, si rapiscono violentemente i suoi beni, si atterrano le sue opere pie, si assediano e si spiano i suoi ministri per coglierli in fallo, ed al caso si calunniano, si sparge il ridicolo sopra le sue più auguste cerimonie, si beffano i più devoti e fedeli suoi figli. E intanto l’incredulità e l’indifferenza religiosa si impadroniscono dei cuori, il vizio passeggia a fronte alta da per tutto, i popoli, la gioventù si guastano e si corrompono spaventosamente, e così i membri della Chiesa di Gesù Cristo corrono i più gravi pericoli della eterna perdizione. Or bene, quantunque la Chiesa neppure ai dì nostri abbia a temere di se stessa, né con una lotta sì accanita abbia a cadere, a disfarsi, a perire, pur tuttavia ella ha bisogno di aiuto e di protezione celeste. Noi, da veri suoi figli, imploriamola da Dio nelle nostre preghiere per lei. Non dimentichiamo che questo è pure un nostro importantissimo dovere; epperò compiamolo volentieri e con impegno, ed allora avverrà anche tra di noi, quel che avvenne sul lago di Genezareth.
3. Poiché il Santo Vangelo prosegue a dirci che al grido degli Apostoli, Gesù disse loro:Perché temete, o uomini di poca fede? E allora rizzatosi,comandò ai venti e al mare, e si fe’ granbonaccia. Onde la gente ne restò ammirata, e dicevano:Chi è costui, a cui ubbidiscono i venti e ilmare? Sì, o miei cari, quello che allora avvenne sul lago di Genezareth per virtù onnipotente di Gesù Cristo, è quello che è avvenuto ed avverrà in tutto il corso dei secoli. E qui è impossibile narrarvi, anco a brevi tratti, tutti i fasti della Chiesa, ipericoli tutti e le tempeste ch’ella ha superato per l’intervento meraviglioso del suo Capo e nocchiero celeste Gesù Cristo. Ricordate, o miei cari, iflutti di sangue, le persecuzioni dei primi secoli, quei flutti furibondi che agitavano questa barca e sembravano dover inghiottirla nel sangue dei suoi figli. Allora Gesù Cristo parve dormire per ben tre secoli. Ma si destava un giorno, e nella sua Chiesa entrava con Costantino il trionfo, e si stabiliva la tranquillità più perfetta: Facto, esttranquillitas magna. Ricordate come scatenavasi poscia su questa barca il vento dell’eresia, e veniva per fracassarla e sommergerla nell’abisso, dal quale pareva non dovesse giammai risorgere. Ma allora apparvero igrandi dottori, e la verità di Gesù Cristo che si risvegliò al grido della Chiesa, alle grida de’ suoi Pontefici, ristabilì ben tosto la tranquillità: Et facta est tranquillitas magna. –Ricordate come vennero in seguito gli scismi a lacerare il seno della Chiesa, ed a turbarne il regime. Ma Gesù Cristo si è levato, e la piò perfetta tranquillità è rinata: Et facta tranquillitasmagna. – Ecco poi gli scandali dell’incredulità e dell’orgoglio, per cui la fede in Gesù Cristo, la verità di Dio, la purezza dei costumi, la Chiesa stessa, tutto pareva distrutto. Ma Gesù Cristo con la sua voce comanda ai venti e al mare, e si ristabilì la più perfetta tranquillità: Et facta est tranquillitas magna. – Così la calma si ristabilirà anche ai tempi nostri, perché Gesù Cristo non verrà meno al suo costume. Tuttavia non lasciamoci addormentare dalla soverchia fiducia che tutto debba fare Iddio, e guardiamoci bene dal credere, che una tale fiducia ci comandi, od anche solo ci permetta l’inazione. Senza dubbio Iddio ha contato il tempo anche ai nemici della sua Chiesa, ma non è necessario lasciarli imbaldanzire come loro piace. È necessario anzi combatterli, e combatterli con tutte le nostre forze intellettuali, morali e materiali. È necessario combatterli col rivendicare costantemente i sacrosanti diritti, che noi abbiamo di manifestare anche pubblicamente il nostro amore alla Chiesa, combatterli con la manifestazione coraggiosa della nostra fede, combatterli con l’aiutare efficacemente la buona stampa, il movimento cattolico, le buone associazioni, e tutto ciò che mira a distruggere il regno di satana, combatterli col mostrare quanto più è possibile le arti inique, di cui essi si valgono, combatterli segnatamente con l’abbracciare la vera democrazia cristiana insegnata e voluta dall’Autorità della Chiesa, con l’inchinarsi pieni di compassione e di amore verso il popolo e verso la gioventù affine di illuminarli, indirizzarli, sostenerli nella via diritta dell’amore di Dio e della Chiesa istessa. Allora sì, combattendo ancor noi contro il furore delle tempeste, che irrompono contro la Chiesa, potremo ritenere per certo che il nostro Divin Capitano Gesù Cristo non tarderà a comandare un’altra volta al vento ed al mare delle mondane persecuzioni affinché cessino, e a ridonare alla Chiesa una grande tranquillità.
Altra omelia:
[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]
Sopra la Mansuetudine.
Jesus imperavit ventis, et mari, ct facta est tranquillitas magna. Matth. VIII.
Quanto
è dolce, Fratelli miei, di vedere la calma succedere ad una tempesta, in cui
veduti ci siamo in pericolo di perdere la vita ! tale fu la felice circostanza,
in cui si trovarono gli Apostoli sul mare di Tiberiade, dove una violenta
procella, che sollevata vi si era, aveagli alle porte della morte condotti. Con
qual piacere, cessare non videro i venti e la burrasca pel comando di Colui, al
quali tutti ubbidiscono gli elementi! Tale è altresì la fortunata situazione di
un’anima, che è stata lo scherno della morte eterna, e che dopo averne scosso
il giogo, le dolcezze gusta, e la serenità che la virtù accompagnano. Volete
voi farne, Fratelli miei, la felice esperienza? Domate le vostre passioni,
sottomettetele all’impero della virtù, e gusterete la pace dell’anima. Or una
delle virtù le più proprie a procurarvi questa pace, è senza contradizione la
virtù della mansuetudine; poiché quanto l’ira intorbida il riposo dell’anima, altrettanto
la mansuetudine conserva la serenità. Se lo stato di un uomo collerico
rassomiglia ad un mare agitato dai venti, dove trovasi uno esposto ad ogni momento
a far naufragio, dire si può che quello di un’anima, in cui regna la
mansuetudine, simile è ad un mare tranquillo, ove si naviga in sicurezza, e con
un’intiera fiducia di giungere felicemente al porto: “facta est tranquillitas magna”.
Così dopo avervi fatto conoscere i disordini dell’ira, egli è mio dovere di dimostrarvi
i vantaggi della mansuetudine, che n’è il rimedio. Infatti, per guarire le
malattie dell’anima, usarne bi sogna come si fa per le malattie del corpo: per
risanare queste, ci serviamo dei rimedi che loro sono contrari; rinfreschiamo
quando evvi troppo di calore, riscaldiamo quando v’è troppo di raffreddamento.
L’ira è un fuoco che fa dei gran danni in un’anima; convien dunque opporgli la
mansuetudine, come una rugiada, che ne tempra gli ardori, Quali sono i vantaggi
di questa virtù? Primo punto. Quale n’è la pratica? Secondo punto.
I. PUNTO. Dire si può della mansuetudine ciò, che Salomone disse della sapienza, ch’ella ci mette in possesso di tutti i beni, che render ci possono felici in questo mondo: venerunt mihi omnia pariter cum illa. La mansuetudine ci procura la benevolenza di Dio, l’amicizia del prossimo, e ci rende padroni di noi medesimi. Tali sono i vantaggi, che render ci devono stimabile questa virtù. La mansuetudine ci rende piacevoli a Dio; fu per questo mezzo che Mosè guada ò la sua benevolenza. Fu da Dio amato, la Scrittura, perché era il più mansueto tra gli uomini: dilectus Deo (Sap. IX). Con la mansuetudine noi possediamo il cuore di Dio, come un figliuolo possiede quello di suo padre. Beati, dice il Salvatore, sono i pacifici, perchè saranno chiamati i figliuoli di Dio: beati pacifici, quoniam filii Dei vocabuntur (Matth. V). Infatti, quanto il Signore abborrisce un’anima, in cui regna la dissensione e la discordia, altrettanto si compiace di fare la sua abitazione in quella dove regna la pace; ne fa le sue delizie, vi sparge i suoi più dolci favori: mansuetis dabit gratiam (Prov. III). La mansuetudine, dice il Crisostomo, è una virtù, che dà all’uomo un carattere di somiglianza con Dio, e che molto lo avvicina alla Divinità. Imperciocchè l’idea la più consolante che formar ci possiamo di Dio, e che c’ispira più di confidenza, si è quella della pazienza e della mansuetudine, ch’Egli esercita verso gli uomini. Non è forse sorprendente, infatti, che un Dio sì onnipotente, e sì giusto, com’Egli è, soffra con tanta pazienza gli affronti d’una infinità di peccatori, che precipitar potrebbe nel profondo degli abissi? Che non solamente li soffra, ma che li ricerchi,… che loro perdoni, quando a Lui ritornano: che li tratti con dolcezza: che ricolmi di benefici coloro che disprezzato l’hanno, offeso, ed oltraggiato? Con questi tratti di dolcezza, e di bontà verso gli uomini peccatori, fa particolarmente conoscere la sua onnipotenza, come ce lo annunzia la Chiesa: Deus qui omnipotentiam tuam parcendo, et miserando manifestas. E da ciò che ne segue, Fratelli miei? Che l’uomo, il quale è mansueto verso i suoi fratelli, e perdona di buon cuore le ingiurie, diventa per quanto può esserlo, simile a Dio; è sulla terra un’immagine vivente della Divinità; e per conseguenza l’oggetto delle compiacenze di Dio, il quale si riconosce in quest’anima, e si comunica ad essa con l’abbondanza delle sue grazie. Sono parimente le anime mansuete, e pacifiche, dice il Profeta, che Dio rende cura di condurre, e a cui insegna strade sicure, che bisogna tenere: docebit mites vias suas. Vuole ben volentieri servir loro di guida, e sotto la sua condotta non faranno esse alcun falso passo. Così dire si può, che la mansuetudine è uno dei segni i più certi di nostra predestinazione. Ce lo assicura Gesù Cristo medesimo, il quale apertamente ci dice, che coloro, che sono mansueti, sono beati, perché possederanno la terra: beati mites, quoniam ipsi possidebunt terram. (Matth. V.). – Or qual sarà questa terra, che sarà il retaggio degli uomini pieni di mansuetudine? Non è già, Fratelli miei, questa terra dai mortali abitata, la quale non è che un luogo di esilio, una valle di lagrime: questa terra è occupata dai peccatori egualmente che dai giusti: noi vediamo ancora, che i peccatori sono talvolta molto meglio favoriti nell’abbondanza de’ suoi beni, che i servi di Dio. La terra dunque, che è promessa a quelli che sono mansueti, è la felice terra dei viventi, dove più non si muore, da dove la tristezza, le malattie, i dolori sono interamente sbanditi; si è questo soggiorno di pace, in cui gli eletti di Dio gusteranno delizie ineffabili, e godranno l’abbondanza di tutti i beni: mansueti hæreditabunt terram, et delectabantur in multitudine pacis. (Psal. XXXVI.). Per farvi intendere questa verità, vediamo il gran segno di predestinazione, che ci dà l’Apostolo S. Paolo nella sua lettera ai Romani. Coloro, dice egli, saranno predestinati, che il Padre celeste ritroverà conforme all’immagine di suo Figliuolo: quos prædestinavit conformes fieri imaginis filii sui. (Rom. VIII). E non è forse stata la mansuetudine il carattere particolare del figliuolo di Dio? Non è forse stata una delle sue virtù le più gradite ? Con qual dolcezza trattò egli i peccatori? Ne rigettò mai alcuno? Qual fu la sua pazienza nel soffrire le rozzezze de’ suoi Apostoli? Come rintuzzò lo zelo amaro dei due tra loro, che volevano far scendere il fuoco dal cielo sui popoli ribelli? Niun altra difesa ha impiegato contro le violenze e le persecuzioni de’ suoi nimici: non è comparso innanzi a loro, secondo l’espressione di un Profeta, che come un agnello, il quale tosare si lascia senza dolersi: sicut agnum coram tondente se obmutescet. (Isai. V.). Mirate questo divin Salvatore nella sua passione, carico d’obbrobri, oppresso dalle ingiurie e dai cattivi trattamenti: come si difendeva? Non diceva neppur una parola per lamentarsi: Jesus autem tacebat. (Matth. XXVI). Ah quanto è eloquente questo silenzio di Gesù Cristo per ispirarci la mansuetudine, e la pazienza nel soffrir le ingiurie che ci dicono, i cattivi trattamenti che ci fanno! Tali sono l’arme, che ci ha messe in mano per difenderci dai nostri nemici, e per riportare la vittoria, che deve assicurare la nostra corona. Niun’altra ne diede ai suoi discepoli, allorchè gl’inviò a predicare il suo Vangelo. Io vi mando, loro disse, come agnelli in mezzo dei lupi: conservate sempre la semplicità della colomba, insieme con la prudenza del serpente. Gli Apostoli ancora renduti si sono più commendabili, ed hanno sommesse più nazioni all’impero di Gesù Cristo con la mansuetudine, e con la pazienza nelle afflizioni, che con i miracoli, che hanno operato, dice S. Gerolamo. La mansuetudine deve far dunque il carattere del Cristiano, giacché ha fatto quello di Gesù Cristo, e dei Santi: ma facendo il carattere del Cristiano essa è la sorgente della sua felicità, poiché gli guadagna il cuor di Dio, lo rende figliuol di Dio, e per conseguenza erede del suo regno, ed è uno dei segni i più certi della sua predestinazione. Tali sono i vantaggi, che ci procura la mansuetudine dal canto di Dio; grandi ancora ce ne procura essa dal canto del prossimo, di cui altresì il cuore guadagna, e l’amicizia. – Possiamo noi farci ubbidire con l’autorità; possiamo convincer lo spirito con la forza delle ragioni; ma non v’è che la mansuetudine, che guadagnar possa i cuori; alcuno non avvi, che non ceda alle sue attrattive; essa ha la virtù, dice lo Spirito Santo, di farsi degli amici, e di raddolcire anche i suoi nemici: multiplicat amicos, mitigat inimicos. (Eccl. VI.). Ed invero, chi astenere si può di amare un uomo mansueto e buono, il quale si fa un piacere di obbligar tutto il mondo, ed è di un carattere sempre eguale? Quanto si fugge la compagnia di un uomo collerico, altrettanto si ricerca e si ama quella dei mansueti. La loro conversazione incanta; si prova un gran diletto nel trattenersi con essi, perché si sa che di nulla si offendono, e facilmente perdonano i mancamenti, cui è l’umanità soggetta. Siccome portano sempre il miele nella loro bocca, ben lungi di disputar con calore, cedono anche con compiacenza i loro diritti i più legittimi: siccome sono sempre cortesi, e pronti a far piacere, ad essi ciascuno si indirizza con confidenza, persuaso che verrà graziosamente accolto. Se accordar non possono quanto loro si domanda, accompagnano i loro rifiuti con modi sì obbliganti, che se ne ritorna quegli molto soddisfatto della loro buona volontà. E come mai, ripeto, non amare persone di simil carattere? Oh quanto sarebbe mai tranquilla, e piacevole la società degli uomini, se composta non fosse che di persone mansuete e placide! Parlar non si sentirebbe né di contrasti, né di liti, né di rancore, né di vendetta: diverrebbe la terra simile al cielo, ove i cuori sono talmente uniti coi legami della carità, che tutti hanno i medesimi sentimenti, e gli affetti medesimi. Ma quanto rari sono questi uomini. Ed oh? come dovremmo loro unirci, quando li conosciamo! Mentre niente havvi di più prezioso nell’umana società, che un uomo ripieno di mansuetudine. Questa virtù ha non solo il potere di farci degli amici, ma ancora di riconciliare i nemici: mitigat inimicos. Essa trionfa dei cuori i più ribelli; non evvi uomo alcuno così feroce ch’ella non renda affabile. L’ira la più violenta, dice lo Spi rito Santo, resister non può ad una parola mansueta e cortese. Ne chiamo quì in testimonio l’esperienza, Fratelli miei; quante volte veduta non avete la vendetta la più pertinace disarmata dalla mansuetudine? E certamente in tal circostanza, che cosa risoluto non avevate ? Formati voi avevate neri disegni contro quella persona, che vi aveva disgustati; ma ben tosto voi siete stati appagati: le scuse che vi ha fatte, i modi cortesi, che ha per voi avuto, e i servigi, che vi ha renduti, tutto questo ha cangiato le vostre cattive disposizioni, e siete stati forzati di lodare la sua placidezza, ed il suo buon naturale: prova certissima, che nulla resiste alla mansuetudine. Non solamente questa virtù calma i nostri nemici, e con essi ci riconcilia, ma ancora quelli pacifica, coloro che sono tra loro divisi. Un uomo mansueto, dice il Crisostomo, sa talmente maneggiar gli spiriti, insinuarsi nei cuori, che discaccia ogni amarezza, che un insulto, o un cattivo servigio può avervi cagionata. Ora sono motivi di Religione, che propone per muovere a perdonare: ora sono scuse, di cui si serve, per sminuire il mancamento di colui che ha offeso; senza prendere alcun partito, dà a ciascheduno sua ragione, e prende sì bene le sue misure, che viene a capo di riunire i cuori divisi. Di qual vantaggio non è questo angelo di pace nell’umana società? Egli è un vero Apostolo, che procura la gloria di Dio, e degli uomini: dilectus Deo, et hominibus. Or se è padrone del cuor degli altri, lo è ancora di più di se stesso; terzo vantaggio della virtù della mansuetudine. Se l’ira trasporta l’uomo fuori di se medesimo, di modo che più non conosce se stesso, né sa più che cosa faccia; la mansuetudine all’opposto ritiene l’uomo in se stesso, lo rende padrone di tutti i movimenti del suo cuore; vede come in un acqua limpida, e chiara tutto ciò che avviene dentro di se medesimo; la minima procella, che vi si sollevi, sa immediatamente calmarla, perché la ragione, che gli serve da pilota, conduce il timone come vuole, e lo fa godere di una perfetta tranquillità. Tale è anche in questa vita medesima la ricompensa della mansuetudine, dissimile in ciò da molte altre virtù, le quali non avranno la loro ricompensa che nell’altro mondo, come la povertà, la pazienza, la mortificazione, le quali nulla hanno che di penoso in questo mondo; ma la mansuetudine porta seco la sua ricompensa; ella procura un riposo, che fa sino in questa vita un paradiso anticipato. Tanto le promette Gesù Cristo nel suo Vangelo: Imparate da me che sono mansueto, e ritroverete in questa mansuetudine il riposo delle anime vostre; et invenietis requiem animabus vestris (Matth. XI.), Ah, questa pace interiore, che accompagna la mansuetudine, quanti vantaggi procura all’uomo! Ella lo rende superiore ad ogni sventura, e a tutte le persecuzioni dei suoi nemici, agli affronti, ai dispregi, cui gli stessi più giusti sono esposti; gli si tolgano i beni con ingiustizie, gli si oscuri la sua reputazione con calunnie; egli è sempre eguale, sempre contento, perché possiede la pace di Dio, la quale supera tutto quanto dire si può, o pensare: pax Dei exsuperat omnem sensum (Philipp. IV.). Egli è a coperto di tutte le inquietudini, di tutte le agitazioni, di tutti gli affanni, che divorano, e consumano inutilmente l’uomo collerico. Può veramente esser sensibile ai mali, ma la sua virtù, e la sua religione soffocano ben presto i sentimenti della natura, e gli fanno trovare in se stesso un bene che lo risarcisce al centuplo di tutti i mali che può soffrire; un bene tanto più sodo, quanto che alcuno non può rapirglielo, e che da lui dipende di sempre conservare con la grazia di Dio, la quale non gli manca giammai. Questo vantaggio solo della mansuetudine bastar dovrebbe per rendercela pregevole. Imperciocchè nulla v’è di più soave, che di esser padrone di se stesso: ma nel medesimo tempo nulla di più grande, mentre è più glorioso, dice lo Spirito Santo, il trionfare di se stesso, che il vincere battaglie, ed il soggiogare città, e provincie. Volete voi farne, Fratelli miei, la felice esperienza? Apprendete qual sia la pratica della mansuetudine.
II. Punto. La mansuetudine non è soltanto l’effetto di un temperamento tranquillo; può bensì contribuire in qualche cosa a questa virtù, ma non ne fa il merito. Altro è l’essere mansueto per temperamento, altro è l’esserlo per virtù. Quelli, che sono mansueti per temperamento, hanno per verità minori vittorie da riportare per donar l’ira, che coloro, i quali sono di un temperamento vivo, e facile ad adirarsi. Ma questa placidezza può qualche volta degenerare in viltà, se non è sostenuta ed animata dalla forza, e regolata dalla prudenza, che è l’anima delle virtù. La mansuetudine non consiste nemmeno in alcune maniere oneste, in alcune parole affettate; possono esse esserne l’effetto, ma non ne sono un segno certo: un cuore inasprito, ed ulcerato si nasconde spesse fiate sotto le apparenze della civiltà, e ben molti fanno carezze a quelli, che l’oggetto sono del loro rancore, e della loro avversione. – La mansuetudine risiede dunque principalmente nel cuore; ed il proprio di questa virtù, dice S. Gioanni Crisostomo, è di reprimere, o di moderare in noi lo sdegno, e di cedere all’altrui: ecco in due parole il suo carattere, e la sua pratica. Se l’ira, che in noi si solleva, è biasimevole, la mansuetudine ne reprime i movimenti; se l’ira è lodevole, ed onesta, la mansuetudine la modera secondo le regole della prudenza, e della carità. Questa virtù non consiste dunque nell’insensibilità al male che ci accade; mentre aver si può della placidezza, e risentir vivamente il dolore per un’ingiuria che ci si dica, per un disprezzo che ci si faccia. La mansuetudine non è nemmeno incompatibile con un’ira giusta e ragionevole, che deve reprimere il vizio, e sostenere gl’interessi di Dio. Ma il proprio della mansuetudine, come dissi, è di reprimere in noi l’ira che merita biasimo, e di moderare quella che è degna di lode. Sì, Fratelli miei, se voi siete mansueti, avrete attenzione di reprimere ogni moto di collera che vi porti a vendicarvi, a nuocere al vostro prossimo. Voi soffocherete eziandio sino al minimo sentimento di amarezza, e di avversione, che potrebbe far nascere in voi un’ingiuria ricevuta, un cattivo servigio, che renduto vi avessero. Per la qual cosa esortava il grande Apostolo i primi Cristiani, a non avere tra essi niuna amarezza, niuno sdegno, nessun dispetto, nessun contrasto; ma abbiate, loro diceva, gli uni per gli altri della bontà, della compassione per perdonarvi vicendevolmente, come Dio perdonato vi ha in Gesù Cristo: estote invicem benigni, misericordes, donantes vobis invicem, sicut Deus in Christo donavit vobis. – Guardatevi duuque, se qualcheduno vi disgusta, di cercare i mezzi di rendergli la pariglia. Se v’han fatto qualche torto nei vostri beni, nel vostro onore, e che non possiate avere soddisfazione che per giustizia, fate in modo, che l’ira non abbia mai parte in questa riparazione: non proseguiate i vostri diritti con pregiudizio della carità; consultatevi prima d’intraprendere cosa alcuna, affinché la passione non conduca vostri passi, ma che vi presieda la sola ragione: rammentatevi sempre, che v’è maggior gloria, maggior profitto, maggior tranquillità nel perdonare, che nel farsi rendere giustizia; guardatevi soprattutto di render ingiuria per ingiuria; non è riparar il suo onore il macchiare quello del prossimo; ed affinché la vostra mansuetudine riporti una vittoria più compiuta sopra l’ira, non facciate neppur conoscere ad alcuno il dispiacere che vi è stato fatto, perché ritrovar potreste qualche spirito turbolento, come avvene purtroppo, che v’inasprirebbe di più, e vi impegnerebbe a prender soddisfazione del vostro nimico; in una parola, v’accada ciò che si vuole di dispiacevole dalla parte degli uomini, innalzatevi al di sopra di una natura sensibile sempre nimica di quanto le dispiace. Non siamo, è vero, padroni dei primi movimenti, che si sollevano nella nostr’anima; ma non è già il senso che ci rende colpevoli, è il consenti mento al male: tocca alla mansuetudine di prevenirlo, d’impedirlo, e di farci possedere la nostra anima in pace in mezzo delle più grandi tribolazioni: in patientia vestra possidebitis animas vestras (Luc. XXI). Ho detto in secondo luogo, che la mansuetudine deve moderar l’ira lodevole, ed il giusto sdegno, che risentire dobbiamo dei mancamenti altrui. Imperciocchè lungi da noi, Fratelli miei, una rea compiacenza, che non è sensibile alle offese di Dio, che tutto tollera, che non corregge il peccatore per tema di dargli fastidio, e d’incorrere nella sua disgrazia. Se cercassi di piacere agli uomini, diceva l’Apostolo, io non sarei più servo di Gesù Cristo: si hominibus placerem, Christi servus non essem (Gal. 1). La mansuetudine deve dunque essere accompagnata dalla fermezza per opporsi al vizio, per riformare gli abusi, massime in chi ha l’autorità, ed incaricato si trova per dovere di procurare la salute del prossimo. Quest’ira è sì necessaria, dice il Crisostomo, che senza di lei trionferebbe il vizio, e la virtù sarebbe oppressa. Mosè, benché il più mansueto degli uomini, si mise in collera contro gli adoratori del vitello d’oro, ed uccider ne fece venti mila. Gesù Cristo, l’agnello pieno di mansuetudine, si mise anche in collera contro i profanatori del tempio. Possiamo dunque adirarci senza peccare, come dice il Profeta, quando si tratta di sostenere gl’interessi di Dio: irascimini, et nolite peccare (Psal. IV). Ma quest’ira dee esser moderata dalla mansuetudine. Essa si sforza di distruggere il vizio, senza voler distruggere il peccatore: riprender si deve il peccatore con fermezza, ma la mansuetudine ha da temperare l’amarezza delle riprensioni: in spiritu lenitatis (Gal. VI). Bisogna mescolare l’olio col vino per risanare le piaghe dell’infermo, facendogli vedere, che è la carità, e non la passione che ci spinge: caritas urget nos (2 Cor. V). Lungi dunque da noi, Fratelli miei, quei trasporti furiosi, quelle parole aspre, ed ingiuriose, quella voce minaccevole, quei modi fieri ed orgogliosi, quelle imprecazioni, quei cattivi trattamenti, i quali non fanno, che irritar il male, invece di guarirlo. Molti, che si lusingano di aver dello zelo, non hanno di severità che per gli altri, e d’indulgenza per se medesimi. Il vero zelo non inspira che rigore per se stesso e dolcezza per gli altri, ama meglio mancare per troppa bontà, che per troppo rigore. Finalmente la mansuetudine ceder ci fa all’altrui ira, e ci induce a prendere le convenienti misure per calmarla. Ella è cosa facile di esser mansueto e cortese con quelli, che lo sono per noi, di avere pazienza quando alcuno non ci reca fastidio. Ma non è già facile di cedere all’altrui ira, di essere sempre in pace, come il Reale Profeta, con quelli che non amano che la guerra: cum his qui oderunt pacem, eram pacificus (Psal. CXIX). Si ricerca per questo una mansuetudine universale e costante; universale per soffrire in ogni tempo, ed in ogni sorta di persone: una mansuetudine costante per non, disanimarsi dalle dure prove, cui ella è esposta. Tale nondimeno deve essere la mansuetudine cristiana; cedendo piuttosto che combattendo guadagna essa gli spiriti. Perciocché, se l’ira è un fuoco, che cerca distruggere tutto quanto gli viene imposto, invano per estinguerlo si vorrebbe opporgli un altro fuoco; non si farebbe che vieppiù accenderlo. Niente all’opposto più capace di che la mansuetudine, la quale, al dire della Scrittura, è una soave rugiada, che tempera gli ardori dell’ira. Ecco, Cristiani, l’arme di cui servir vi dovete per trionfare dell’altrui collera. – Voi a soffrire avete da qualunque sorta di persone, congiunti, vicini, amici, nemici, i quali talvolta si offendono di quanto avete detto, o fatto senza disegno di recare loro dispiacere; voi avete a vivere con persone bizzarre, turbolente, altere, che vi cercano contrasti ad ogni istante; con ostinati che intender non vogliono ragione alcuna; con violenti, che essere non possono dalle affabili maniere raddolciti, cui tutto il bene che si fa non serve che a renderli più cattivi. Come dovete voi regolarvi con questa sorta di gente. Imparatelo dal grande Apostolo: non vi lasciate vincere dal male, ma procurate di vincere il male col bene: noli vinci a malo, sed vince in bono malum (Rom. XII). Così si diportarono Gesù Cristo e i Santi riguardo ai loro nemici. A quanti affronti ed ingiurie corrisposto non hanno che coi benefizi i più segnalati? Caricavano Gesù Cristo d’oltraggi e di maledizioni, dice S. Pietro, ed Egli non malediceva alcuno: Christus cum malediceretur, non maledicebat ( 1 Pet. 2). Ci danno maledizioni, dice l’Apostolo, e noi loro diamo benedizioni; ci offendono con parole, e noi preghiamo per coloro che ci oltraggiano: blasphemamur, et obsecramur (1 Cor. IV). Ah! se i cristiani in tal modo si regolassero, se non opponessero che la mansuetudine all’ira di quelli con cui sono obbligati di vivere, si vedrebbero forse, come si vedono al giorno d’oggi, tante discordie e dissensioni nelle famiglie? Se una moglie, per esempio, invece di rispondere a suo marito con parole amare e pungenti, allorché si mette in collera contro di essa, non opponesse alle sue violenze, che le vie della mansuetudine; se osservasse il silenzio. quando non può altrimenti vincere i trasporti di un marito furioso, essa non ecciterebbe sopra di sé tempeste, di cui è la triste vittima: non si attirerebbe i cattivi trattamenti, che vengono tanto per colpa sua, quanto per l’ira di suo marito. Fu con la mansuetudine, che S. Monica venne a capo di calmare, e di convertire suo marito idolatro e furioso. Felici sarebbero le mogli, se seguissero quel modello: se la pazienza non convertisse i loro mariti, almeno vi troverebbero un gran fondo di merito innanzi a Dio: allo stesso modo se un marito avesse la compiacenza di cedere, quando vede una moglie resistergli in faccia, se procurasse di appagarla con buone ragioni; si vedrebbe regnar la pace nelle famiglie, si vedrebbe regnare altresì tra i vicini, i quali non sono in guerra gli uni con gli altri, se non se perché alcuno ceder non vuole. Ma se io sempre cedo, diretevi se il tutto soffro con pazienza, la mia mansuetudine mi attirerà nuovi insulti, si befferanno di me, mi disprezzeranno. La mansuetudine non ha ella forse i suoi limiti? Deve ella essere sì costante, e non deve finalmente esaurirsi a forza di perdonare? Ascoltate su questo proposito la risposta del grand’Apostolo: la vera carità non deve mai estinguersi; è un debito, che il cristiano de e sempre pagare, e di cui non è mai libero: nemini quidquam debeatis, nisi ut invicem diligatis (Rom. III). Voi potete bensì liberarvi dagli altri de biti, di cui caricati vi siete verso del prossimo; ma la carità è un debito di tutta la vita: perché, dice lo stesso Apostolo, la carità è la pienezza della legge: e chi soddisfa a questo precetto riempie tutta le legge: qui diligit proximum, legem implevit (ibid.). Non basta dunque di avere della mansuetudine in qualche occasione, di averne per qualche tempo: questa mansuetudine deve essere costante per sostenere in ogni tempo tutte le prove, cui può ella esser messa qualunque cosa molesta ci accada, qualsisia parola spiacevole ci si dica, fa d’uopo possedere sempre l’anima nostra in pace. – Volete voi finalmente, Fratelli miei, avere una mansuetudine costante e saldissima? abbiate l’umiltà, siate staccati da tutte le cose, e sottomessi ai voleri di Dio; la mansuetudine appoggiata sopra fondamenti sì sodi, ferma diverrà ed invincibile. Perciocché, se l’ira proviene dall’amore di se stesso, da un orgoglio segreto, da un attaccamento ai beni. del mondo; da un difetto di sommissione ai voleri di Dio; la mansuetudine è l’effetto delle virtù contrarie a questi vizi. Sì, fratelli miei, subito che avrete l’umiltà, voi avrete la mansuetudine. Gesù Cristo mette queste due virtù insieme, come due compagne indivisibili: imparate da me, che sono mansueto ed umile di cuore: discite a me quia mitis sum, et humilis corde. Tosto che avrete bassi sentimenti di voi medesimi; vi riputerete indegni d’ogni onore, amerete i dispregi e le umiliazioni; voi non sarete dunque disgustati del dispregio, che faranno di voi, degli affronti, degli insulti con cui vi opprimeranno; perché vi troverete il motivo della vostra umiltà. Se voi avete l’umiltà, accondiscenderete volentieri ai sentimenti altrui, parlerete loro in un modo affabile, sarete sempre d’un umore ugnale; il che è l’effetto della mansuetudine. Oimè! voi amate la mansuetudine e l’umiltà negli altri! Perché non praticate voi le virtù, che ritrovate sì amabili, e di cui siete molto contenti, che vi si diano delle prove? Siate staccati dai beni del mondo, né le perdite, né le disgrazie vi sapranno irritare. Siate staccati da voi medesimi, siate mortificati, ed avrete la mansuetudine; mentre l’ira, e l’impazienza non vengono che da un cuore immortificato. Siate ancora sommessi ai voleri di Dio, ed avrete la pazienza nelle afflizioni, nelle tribolazioni di cui Egli servirassi per provare la vostra virtù Non avvi virtù alcuna senza pazienza, ma è la pazienza, dice S. Giacomo, che dà alla virtù la sua perfezione patientia opus perfectum habet (Ja cob, 1). Ella è altresì che corona i uostri meriti, e che ci conduce alla somma felicità. Io ve la desidero. Così sia.
Déxtera Dómini fecit virtutem,
déxtera Dómini exaltávit me: non móriar, sed vivam, et narrábo ópera Dómini. [La destra del
Signore ha fatto prodigi, la destra del Signore mi ha esaltato: non morirò, ma
vivrò e narrerò le opere del Signore.]
Secreta
Concéde, quaesumus, omnípotens
Deus: ut hujus sacrifícii munus oblátum fragilitátem nostram ab omni malo
purget semper et múniat. [O Dio onnipotente, concedici, Te ne
preghiamo, che questa offerta a Te presentata, difenda e purifichi sempre da
ogni male la nostra fragilità.]
Luc IV: 22 Mirabántur omnes de
his, quæ procedébant de ore Dei. [Si meravigliavano tutti delle parole
che uscivano dalla bocca di Dio.]
Postcommunio
Orémus.
Múnera tua nos, Deus, a delectatiónibus terrenis expédiant: et
coeléstibus semper instáurent aliméntis. [I
tuoi doni, o Dio, ci distolgano dai diletti terreni e ci ristorino sempre coi
celesti alimenti.]
Dal procurare che la natura fa quegli effetti, i quali ella ottiene, ai manifesti che ella non opera a caso.
I. Qualunque artefice retto, secondo la dottrina che dà l’Angelico, considera tre cose nei suoi disegni (S. Th. l. dist. 39. q. 2. art. 1). Considera il fine dell’opera: come si è (qualora egli abbia da fabbricar una casa) per chi la fabbrichi. Considera le proporzioni che hanno a tenersi: cioè la proporzion generale dell’opera al fine, e la proporzione speciale di ciascuna parti; dell’opera verso l’altre. E finalmente considera quali siano quei mezzi i quali più promuovono questo fine, e ne tengono indietro gl’impedimenti: valendosi però di modelli, di manovali, e di ordigni i più confacevoli che può
ritrovare a tal uopo. Tutte queste considerazioni proprie dell’arte, nelle operazioni
della natura risplendono a meraviglia: onde, se di niuno artefice, il quale
proceda conforme alle dette regole, si dirà che egli operi a caso, ma che operi
anzi con saper sommo; perché dovrà dirsi solo della natura? Forse non le
osserva ella sempre divinamente? Miriamolo in ciò che ciascuno ha davanti gli occhi.
I.
II. La natura vuole che gli animali non lascino di nutrirsi, per la
necessità che hanno tutti di riparare con l’alimento ciò che il calor innato
consumò in essi con la sua attività.
III. Ed ecco che a tal fine ella riempie la terra d’erbe infinite, di
frumento, di frutta, l’aria di pennuti, l’acque di pesci, le foreste di
selvaggine, affinché quasi da dispensa incessante ne tragga chiunque vive una
refezione proporzionata al talento, scegliendo fin tra ciò che talvolta all’uno è veleno,
all’altro è rimedio.
IV. Ma non basta che vi sia cibo: conviene che il cibo adattisi a quelle membra che si hanno ad alimentare. Ecco però, che a tutti gli animali, senza eccezione, vien data bocca da inghiottirlo, palato da discernerlo, denti da romperlo, da sminuzzarlo, da macinarlo; tanto che fino i tarli più tenerelli trovano nel duro legno di che sfamarsi, ed hanno al masticarlo una dentatura sì forte, che non si arrende dove si spezzan le seghe.
V. Senonchè non è sufficiente quella prima digestione di cibo che gli
animali formano nella bocca, ad estrarne il sugo. Conviene che questo per la
gola scenda allo stomaco, prodigioso nel suo lavoro. Perché, se quivi non si incontrasse
una fervidezza piacevole, un fermento proporzionato, e una robustezza
sufficiente di fibre e nervose e carnose con buona interna fodera vellutata
nelle sue tuniche e corredata di minutissime glandule (affinché, secondo che è
d’uopo, il cibo ritenuto si ammollisca, si agiti, si disciolga, ed in nuova
tenera massa, risultante dal mescolamento del cibo con la bevanda, possa per lo
clivo del piloro scorrere agevolmente nelle intestina, ciò che mangiossi,
sarebbe più di peso che di sostegno.
VI. E pur che è ciò, rispetto al rimanente dell’opera che vi vuole alla nutrizione? Parlate agli anatomisti, ed essi con i propri lor termini vi diranno quanti liquori tuttavia vi abbisognino, stemperati con mirabil arte nelle officine del fegato, e del pancreas, donde per due loro acquedotti sgorghino al principio delle budella, quasi nuovo fermento, necessarissimo alla perfezion del chilo, perché assottigliato vieppiù, e quasi volatilizzato che questo siasi, possano le particelle utili (che sono le nutritive) separarsi dalle inutili (che sono le escrementizie), tanto che in virtù della pressione dei muscoli soprapposti, e delle fibre stesse degl’intestini, vadano a penetrare per angustissimi ingressi negl’innumerabili canali lattei, i quali, sparsi pel mesenterio, passano a prò del chilo per quelle ghiandole, prima di versarlo nel loro ricettacolo universale, detto altresì vaso linfatico grande. Né solo cibo, ma vi diranno come ivi il chilo nuovamente approfittisi nel mescolamento di sottilissima linfa, finché salendo per via poc’anzi scopertasi alla vena succlavia sinistra, arrivi misto finalmente col sangue, mediante la vena cava, al ventriglio destro del cuore; senzachè neppure venga però ammesso a
nutrire perfettamente se non dopo essersi rotato prima tutto per li polmoni. E
vi aggiungeranno, come alle imboccature dei canali per cui trascorre, son posti
per ogni via tanti ripari contro il ringorgo de’ fluidi, e scompartiti tanti
ingegni, e scansati tanti intoppi, e tenute tante avvertenze, che l’accennarle tutte
sarebbe non finir mai. Pare a voi pertanto, che la natura in quel pochissimo solo
che ne ho qui detto conseguisca un fine, il quale non sia da lei preteso
direttamente, anzi procurato con tutte e tre quelle previe considerazioni le
quali costituiscono il buono artefice (Queste considerazioni si trovano
stupendamente espressa da Cicerone nel secondo libro del suo De naturaDeorum.)?
II.
VII. Che se nella pura nutricazione degli animali, che è la più bassa di tutte le opere loro, bada ella sì attentamente al fine di essa, bada all’ordine, bada agli organi, bada a tutto, giudicate voi ciò che ella faccia nelle più sollevate: da che come un genere di ornamento cittadinesco, qual è il corintio, o il composto, è dovere che sia condotto più gentilmente di un rusticano: così nella fabbrica impareggiabile di qualunque animale non lascia la natura di avere la mira a ciò che dee più stimarsi. – Ditemi dunque: in che consiste far le cose a disegno, se questo è, secondo voi, farle a caso? Vedeste giammai miracolo così strano? Un cieco, nato senz’occhi, che mai non rimirò la luce in se stessa, mai ne’ colori, pigliare in mano un pennello, ed alla rinfusa bagnandolo in varie tinte, disegnare ad un tempo, e tirare a fine, non dirò un’opera pari a quella cena ammirabile degli dei, per cui RaffaelIo si dimostrò quasi nume della pittura, ma neppure una di quelle tanto inferiori che diedero il primo credito a Cimabue? Come può pertanto avvenire, che se la figura, contraffatta ancora e storpiata, di un animale, non può lavorarsi senz’arte, possa senz’arte lavorarsi a stupore l’animale medesimo vivo e vero? Bisogna bene uscire affatto di sé per credere queste ciance.
Galeno mandò già un cartello di disfida a tutti gli epicurei, dando loro di tempo
un intero secolo ad emendare, ad aggiungere, ad aggrandire, e mutare in meglio una
minima particella del corpo umano; ed ove questo eseguissero, si offriva a
farsi loro seguace, sino a riconoscere il caso per architetto di sì bello
edifizio. Su, portate voi parimente una disfida simile agli ateisti sopra qualunque
altro lavoro della natura, e vedrete se rimarran più che svergognati: tanto è
infallibile che con tutto l’ingegno loro aguzzato dalla passione non troveranno
in quei lavori altro oggetto che di applauso e di ammirazione; tale è la
scienza del fine, tale è la disposizion delle parti, e tale è la prudenza in
tutti que’ mezzi che la natura adopera al fine inteso.
III.
VIII. Né vale punto il ricorrere alle infinite combinazioni possibili di quegli atomi andati in volta: fra le quali una può dirsi che questa fu, da cui si forma al presente il nostro universo. Debol puntello a macchina sì cadente. Conciossiachè fra tutte le combinazioni che sian possibili al caso, non può trovarsi mai veruna di quelle che sono unicamente possibili all’intelletto. Se per infiniti secoli fossero andati già vagando per l’aria tutti i caratteri delle stampe olandesi, non avrebbero sortito mai di formare la Gerusalemme liberata del Tasso, ma ad ogni accoppiamento felice avrebbero sempre uniti a migliaia i falli; non potendo avvenire che il caso con tutti i suoi ravvolgimenti possibili giunga ad operar mai da quello che egli non è, cioè ad operare da artefice, non da caso; come non può avvenir che tutti i fantasmi di un cavallo, o di un cane, con infiniti ravvolgimenti che facciano in una tale immaginativa, giungano a produr mai discorso da uomo, mercecchè il discorrere trascenda tutti i confini prescritti al modo che tiene nel suo operare qualunque testa brutale. Tal è l’essenza del caso. Essere una cagione determinata a proceder in modo opposito a quello dell’intelletto, cioè a procedere senza connessione e senza corrispondenza: onde, se quei caratteri avessero mai formato un sol verso giusto, sarebbe stato un miracolo di fortuna maggior di quello che Plutarco racconta di un tal pittore, il quale disperato di poter esprimere al vivo la spuma del cavallo da lui ritratto col freno in bocca, gli gettò sul freno la spugna a guastare il fatto, e invece di guastarlo il perfezionò. E pure questo miracolo di fortuna cambiata in arte disse Plutarco esser l’unico a ricordarsi: Hoc unum fortunate artificiosumfacinus narratur (Plut. libello de fortuna). Nel resto, come col gittar tale spugna infinite volte non sarebbe a quel dipintore riuscito mai di formare l’Elena di Zeusi, il Gialiso di Protogene, il Genio di Parrasio, l’Andiomene di Apelle, ma al più al più sarebbe avvenuto di fare qualche altra facile combinazion di colori, simigliante alle casuali; così quei caratteri, con accozzarsi infinite volte tra sé, non sarebbero mai pervenuti a formare un poema eroico. Pertanto, se immensamente più colma d’intelligenza e d’ingegno è qualunque composizione di un corpo animato, che non è qualunque composizione di versi, benché bellissimi; come può esser parto del caso un elefante, un alicorno, un delfino, un’aquila, un uomo, anzi tutto il concerto dell’universo sì ben disposto, se non può essere parto del caso un poema di ottava rima?
IV.
IX. Che più? Va per le bocche di tutti, che l’arte è bella, quando imita
più la natura. Or come dunque la natura è senz’arte? Può chi copia cavare dall’esemplare
ciò che non vi è?
X. Anzi, se l’arte ha bisogno di tanto senno e di tanta sagacità per imitar la natura; convien che la natura di tanto prevalga all’arte in senno e in sagacità, di quanto quel maestro che dà l’idea conviene che prevalga a quello scolaro che debba apprenderla. (L’arte umana è figlia della natura, come la natura è figlia di Dio, giusta il verso di Dante: « Sì che vostr’arte a Dio quasi è nipote – Inf. c. 11, v.105. ») É gran prodigio, che la luce di una verità così folgorante non ferisse a forza le pupille di Democrito, tutto che chine e chiuse in lui dall’impegno. Fu pur egli già quel Democrito, il quale abbattutosi in un tal villanello, detto Protagora, che su le spalle portava a casa un fastelletto di legne legate insieme con garbo non ordinario, si fermò prima tacito ad osservarlo, e dipoi fattogli scomporre da capo il suo piccol carico, pronunziò che Protagora avea talento da divenire filosofo di gran nome, e l’indovinò. Ora udite cosa incredibile, e pur sicura. Democrito riconosce in un fascio di legne ben ordinate l’ingegno di un uomo; ed in questo gran teatro dell’universo, sì metodico, riconosce se non il caso fabbricante a chius’occhi! Non vuole che poche legna accozzate insieme con qualche proporzione possano procedere da altra inferior cagione, che da un intelletto operante con avvedimento e con accortezza; e vuole che questa grande architettura del mondo, di cui tutti gl’ingegni umani non arrivano a penetrare la superficie, non che le finezze ed il fondo, sia struttura di un brulicame confuso di corpicciuoli volanti a caso nel nulla, ed acchiappatisi insieme, come fanno i ragazzi, alla gatta cieca. Ebbe ben ragione Aristotile (L. 1. metaph. c. 4) di chiamare questo discorso un discorso di ebbro, il quale non vede, travede. Se non che disse anche poco, mentre queste di verità non sono traveggole, sono stralunamenti. Ma voi frattanto che dite? Vi pare, che s’inducano a credere belle cose quei che hanno a sdegno di credere fermamente, che Dio vi sia? In qual de’ due casi dovete voi trattar più da tiranno la vostra mente; in obbligarla ad approvare i discorsi che sono cosi confacevoli alla ragione, o in obbligarla ad approvar le stoltizie? Ma tale è questa, che la natura non intenda quei fini a cui fa che cospirino tanti mezzi. Rimane ora a mostrare, che questi fini non ottenga ella soltanto una volta, o un’altra, come fa il caso, gli ottenga costantemente. Ma perché questo è chiamarmi all’altra proposizione, che getta a terra le fabbriche attribuite sì falsamente da Democrito a un orbo, riserbiamo il provarla ad un altro capo, da che so ‘l merita.
CALENDARIO LITURGICO DELLA CHIESA
CATTOLICA: FEBBRAIO 2020
FEBBRAIO è il mese che la CHIESA DEDICA alla SANTISSIMA TRINITA’
All’inizio di questo mese è bene rinnovare l’atto di
fede Cattolico – autentico e solo – recitando il Credo Atanasiano, le cui
affermazioni, tenute e tenacemente professate contro tutte le insidie della
falsa chiesa dell’uomo vaticano-secondista e della gnosi modernista,
protestante, massonica, pagana, atea, comunisto-liberista, noachide-mondialista,
permettono la salvezza dell’anima per giungere all’eterna felicità.
IL CREDO
Atanasiano
(Canticum Quicumque * Symbolum Athanasium)
“Quicúmque
vult salvus esse, * ante ómnia opus est, ut téneat cathólicam fidem: Quam nisi
quisque íntegram inviolatámque serváverit, * absque dúbio in ætérnum períbit. Fides autem cathólica hæc est: * ut unum Deum in Trinitáte, et Trinitátem
in unitáte venerémur. Neque confundéntes persónas, * neque substántiam
separántes. Alia est enim persóna Patris, ália Fílii, * ália Spíritus Sancti:
Sed Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti una est divínitas, * æquális glória,
coætérna majéstas. Qualis Pater, talis Fílius, * talis Spíritus Sanctus.
Increátus Pater, increátus Fílius, * increátus Spíritus Sanctus. Imménsus Pater,
imménsus Fílius, * imménsus Spíritus Sanctus. Ætérnus Pater, ætérnus Fílius, *
ætérnus Spíritus Sanctus. Et tamen non tres ætérni, * sed unus ætérnus. Sicut
non tres increáti, nec tres imménsi, * sed unus increátus, et unus imménsus.
Simíliter omnípotens Pater, omnípotens Fílius, * omnípotens Spíritus Sanctus.
Et tamen non tres omnipoténtes, * sed unus omnípotens. Ita Deus Pater, Deus
Fílius, * Deus Spíritus Sanctus. Ut tamen non tres Dii, * sed unus est Deus.
Ita Dóminus Pater, Dóminus Fílius, * Dóminus Spíritus Sanctus. Et tamen non
tres Dómini, * sed unus est Dóminus. Quia, sicut singillátim unamquámque
persónam Deum ac Dóminum confitéri christiána veritáte compéllimur: * ita tres
Deos aut Dóminos dícere cathólica religióne prohibémur. Pater a nullo est
factus: * nec creátus, nec génitus. Fílius a Patre solo est: * non factus, nec
creátus, sed génitus. Spíritus Sanctus a Patre et Fílio: * non factus, nec
creátus, nec génitus, sed procédens. Unus ergo Pater, non tres Patres: unus
Fílius, non tres Fílii: * unus Spíritus Sanctus, non tres Spíritus Sancti. Et
in hac Trinitáte nihil prius aut postérius, nihil majus aut minus: * sed totæ
tres persónæ coætérnæ sibi sunt et coæquáles. Ita ut per ómnia, sicut jam supra
dictum est, * et únitas in Trinitáte, et Trínitas in unitáte veneránda sit. Qui
vult ergo salvus esse, * ita de Trinitáte séntiat. Sed necessárium est ad
ætérnam salútem, * ut Incarnatiónem quoque Dómini nostri Jesu Christi fidéliter
credat. Est ergo fides recta ut
credámus et confiteámur, * quia Dóminus noster Jesus Christus, Dei Fílius, Deus
et homo est. Deus est ex substántia Patris ante sǽcula génitus: * et homo est
ex substántia matris in sǽculo natus. Perféctus Deus, perféctus homo: * ex
ánima rationáli et humána carne subsístens. Æquális Patri secúndum divinitátem:
* minor Patre secúndum humanitátem. Qui licet Deus sit et homo, * non duo
tamen, sed unus est Christus. Unus autem non conversióne divinitátis in carnem,
* sed assumptióne humanitátis in Deum. Unus omníno, non confusióne substántiæ,
* sed unitáte persónæ. Nam sicut ánima rationális et caro unus est homo: * ita
Deus et homo unus est Christus. Qui passus est pro salúte nostra: descéndit ad
ínferos: * tértia die resurréxit a mórtuis. Ascéndit ad cælos, sedet ad
déxteram Dei Patris omnipoténtis: * inde ventúrus est judicáre vivos et
mórtuos. Ad cujus advéntum omnes
hómines resúrgere habent cum corpóribus suis; * et redditúri sunt de factis
própriis ratiónem. Et qui bona egérunt, ibunt in vitam ætérnam: * qui
vero mala, in ignem ætérnum. Hæc est fides cathólica, * quam nisi quisque
fidéliter firmitérque credíderit, salvus esse non póterit.”
L’adorazione della
Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, con il mistero
dell’Incarnazione e la Redenzione di Gesù-Cristo, costituiscono il fondamento
della vera fede insegnata dalla Maestra dei popoli, la Chiesa di Cristo, Sposa
verità unica ed infallibile, via di salvezza, fuori dalla quale c’è dannazione
eterna. … O
uomini, intendetelo quanto questo dogma vi nobiliti. Creati a similitudine
dell’augusta Trinità, voi dovete formarvi sul di lei modello, ed è questo un
dover sacro per voi. Voi adorate una Trinità il cui carattere essenziale è la
santità, e non vi ha santità sì eminente, alla quale voi non possiate giungere
per la grazia dello Spirito santificatore, amore sostanziale del Padre e del
Figlio. Per adorare degnamente l’augusta Trinità voi dovete dunque, per quanto
è possibile a deboli creature umane, esser santi al pari di lei. Dio è santo in
se stesso, vale a dire che non è in lui né peccato, né ombra di peccato; siate
santi in voi stessi. Dio è santo nelle sue creature: vale a dire che a tutto
imprime il suggello della propria santità, né tollera in veruna il male o il
peccato, che perseguita con zelo immanchevole, a vicenda severo e dolce, sempre
però in modo paterno. Noi dunque dobbiamo essere santi nelle opere nostre e
santi nelle persone altrui evitando cioè di scandalizzare i nostri fratelli,
sforzandoci pel contrario a preservarli o liberarli dal peccato. Siate santi,
Egli dice, perché Io sono santo. E altrove: Siate perfetti come il Padre
celeste è perfetto; fate del bene a tutti, come ne fa a tutti Egli stesso,
facendo che il sole splenda sopra i buoni e i malvagi, e facendo che la pioggia
cada sul campo del giusto, come su quello del peccatore. Modello di santità,
cioè dei nostri doveri – verso Dio, L’augusta Trinità è anche il modello della
nostra carità, cioè dei nostri doveri verso i nostri fratelli. Noi dobbiamo
amarci gli uni gli altri come si amano le tre Persone divine. Gesù Cristo
medesimo ce lo comanda, e questa mirabile unione fu lo scopo degli ultimi voti
che ei rivolse al Padre suo, dopo l’istituzione della santa Eucarestia. Egli
chiede che siamo uno tra noi, come Egli stesso è uno col Padre
suo. A questa santa unione, frutto della grazia, ei vuole che sia riconosciuto
suo Padre che lo ha inviato sopra la terra, e che si distinguono quelli che gli
appartengono. Siano essi uno, Egli prega, affinché il mondo sappia che Tu mi
hai inviato. Si conoscerà che voi siete miei discepoli, se vi amate gli uni gli
altri. « Che cosa domandate da noi, o divino Maestro, esclama sant’Agostino, se
non che siamo perfettamente uniti di cuore e di volontà? Voi volete che
diveniamo per grazia e per imitazione ciò che le tre Persone divine sono per la
necessità dell’esser loro, e che come tutto è comune tra esse, così la carità
del Cristianesimo ci spogli di ogni interesse personale ». – Come esprimere
l’efficacia onnipotente di questo mistero? In virtù di esso, in mezzo alla
società pagana, società di odio e di egoismo, si videro i primi Cristiani con
gli occhi fissi sopra questo divino esemplare non formare che un cuore ed
un’anima, e si udirono i pagani stupefatti esclamare: « Vedete come i Cristiani
si amano, come son pronti a morire gli uni per gli altri! » Se scorre tuttavia
qualche goccia di sangue cristiano per le nostre vene, imitiamo gli avi nostri,
siamo uniti per mezzo della carità, abbiamo una medesima fede, uno stesso
Battesimo, un medesimo Padre. I nostri cuori, le nostre sostanze
siano comuni per la carità: e in tal guisa la santa società, che abbiamo con
Dio e in Dio con i nostri fratelli, si perfezionerà su la terra fino a che
venga a consumarsi in cielo. – Noi troviamo nella santa Trinità anche il
modello dei nostri doveri verso noi stessi. Tutti questi doveri hanno per scopo
di ristabilire fra noi l’ordine distrutto dal peccato con sottomettere la carne
allo spirito e lo spirito a Dio; in altri termini, di far rivivere in noi
l’armonia e la santità che caratterizzano le tre auguste persone, e ciascuno di
noi deve dire a sé stesso: Io sono
l’immagine di un Dio tre volte santo! Chi dunque sarà più nobile di me! Qual
rispetto debbo io aver per me stesso! Qual timore di sfigurare in me o in altri
questa immagine augusta! Qual premura a ripararla, a perfezionarla ognor più!
Sì, questa sola parola, io sono l’immagine di Dio, ha inspirato maggiori virtù,
impedito maggiori delitti, che non tutte le pompose massime dei filosofi.
3
Te Deum Patrem ingenitum, te Filium unigenitum, te Spiritum Sanctum
Paraclitum, sanctam et individuam Trinitatem, toto corde et ore confitemur,
laudamus atque benedicimus. (ex Missali Rom.).
Indulgentia quingentorum dierum.
Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotìdie per integrum mensem precatiuncula devote reperita fuerit
(S. C. Ind., 2 iul. 1816;
S. Pæn. Ap., 28 sept. 1936).
12
a) O sanctissima Trinitas, adoro te habitantem per gratiam tuam in
anima mea.
b) Osanctissima Trinitas, habitans per gratiam tuam in anima mea,
facut magis ac magis amem te.
c) O sanctissima Trinitas, habitans per gratiam tuam in anima mea,
magis magisque sanctifica me.
d) Mane mecum, Domine, sis verum meum gaudium.
Indulgentia trecentorum dierum prò singulis iaculatoriis precibus
etiam separatim (S. Pæn. Ap., 26 apr. 1921 et 23 oct. 1928).
16
a) Sanctus Deus,
Sanctus fortis, Sanctus immortalis, miserere nobis.
b) Tibi laus, tibi gloria, tibi gratiarum actio in sæcula sempiterna,
o beata Trinitas (ex Missali Rom.).
Indulgentia quingentorum dierum prò
singulis invocationibus etiam separatim.
Indulgentia plenaria suetis conditionibus, si quotìdie per integrum mensem alterutra prex iaculatoria devote recitata fuerit (Breve Ap., 13 febr. 1924; S. Pæn. Ap., 9 dec. 1932).
40
In te credo, in te spero, te
amo, te adoro,
beata Trinitas unus Deus,
miserere mei nunc et
in hora mortis meæ et salva
me.
Indulgentia trecentorum dierum (S.
Pæn. Ap., 2 iun.)
43
CREDO IN
DEUM,
Patrem omnipotentem, Creatorem cœli et terræ. Et in Iesum Christum,
Filium eius unicum, Dominum nostrum: qui conceptus est de Spiritu Sancto, natus
ex Maria Virgine, passus sub Pontio Pilato, crucifixus, mortuus et sepultus;
descendit ad inferos; tertia die resurrexit a mortuis ; ascendit ad cœlos;
sedet ad dexteram Dei Patris omnipotentis; inde venturus est iudicare vivos et
mortuos. Credo
in Spiritum Sanctum, sanctam Ecclesiam catholicam, Sanctorum communionem,
remissionem peccatorum, carnis resurrectionem, vitam æternam, Amen.
Indulgentia quinque annorum.
Indulgentia plenaria suetis conditionibus, dummodo quotìdie per integrum mensem praefatum Apostolorum Symbolum pia mente recitatum fuerit (S. Pæn. Ap., 12 apr. 1940).
ACTUS ADORATIONIS ET GRATIARUM ACTIO PROPTER BENEFICIA, QUÆ HUMANO GENERI EX
DIVINI VERBI INCARNATIONE ORIUNTUR.
45
Santissima Trinità, Padre, Figliuolo e Spirito Santo, eccoci prostrati alla
vostra divina presenza. Noi ci umiliamo profondamente e vi domandiamo perdono
delle nostre colpe.
I . Vi adoriamo, o Padre onnipotente, e con tutta
l’effusione del cuore vi ringraziamo di averci dato il vostro divin Figliuolo
Gesù per nostro Redentore, che si è lasciato con noi nell’augustissima
Eucaristia sino alla consumazione dei secoli, rivelandoci le meraviglie della
carità del suo Cuore in questo mistero di fede e di amore.
Gloria Patri.
II. O divin Verbo, amabile Gesù Redentore nostro, noi vi
adoriamo, e con tutta l’effusione del cuore vi ringraziamo di aver preso umana
carne e di esservi fatto, per la nostra redenzione, sacerdote e vittima del
sacrificio della Croce: sacrificio che, per eccesso di carità del vostro Cuore
adorabile, Voi rinnovate sui nostri altari ad ogni istante. 0 sommo Sacerdote,
o divina Vittima, concedeteci di onorare il vostro santo sacrificio
nell’augustissima Eucaristia con gli omaggi di Maria santissima e di tutta la
vostra Chiesa trionfante, purgante e militante. Noi ci offriamo tutti a voi; e
nella vostra infinita bontà e misericordia accettate la nostra offerta, unitela
alla vostra e benediteci.
Gloria Patri.
III. O divino Spirito Paraclito, noi vi adoriamo, e con
tutta l’effusione del cuore vi ringraziamo di avere con tanto amore per noi
operato l’ineffabile beneficio dell’Incarnazione del divin Verbo, beneficio che
nell’augustissima Eucaristia si estende e amplifica continuamente. Deh!
per questo adorabile mistero della carità del sacro Cuore di Gesù, concedete a
noi ed a tutti i peccatori la vostra santa grazia. Diffondete i vostri santi
doni sopra di noi e sopra tutte le anime redente, ma in modo speciale sopra il
Capo visibile della Chiesa, il Sommo Pontefice Romano [Gregorio XVIII], sopra
tutti i Cardinali, i Vescovi e Pastori delle anime, sopra i sacerdoti e tutti
gli altri ministri del santuario. Così sia.
Gloria Patri.
Indulgentia trium annorum (S. C. Indulg. 22 mart. 1905; S. Pæn. Ap., 9 dee. 1932).
Queste sono le feste del mese di:
FEBBRAIO 2020
1 Febbraio S. Ignatii Episcopi et
Martyris – Duplex
1° Sabato
2 Febbraio Dominica IV
Post Epiphaniam Semiduplex Dominica minor
In
Purificatione Beatæ Mariæ Virginis Duplex II. Classis
Festa dell’Arciconfraternita
del Cuore Immacolato di Maria
3 Febbraio S. Blasii Episcopi –
Feria
4 Febbraio S. Andreæ Corsini Episcopi
et Confessoris Duplex
5 Febbraio S. Agathæ Virginis et Martyris – Duplex
6 Febbraio S. Titi Episc. et
Confessoris – Duplex
7 Febbraio S. Romualdi Abbatis
Duplex
1°
Venerdì
8 Febbraio S. Joannis de Matha Confessoris – Duplex
9 Febbraio Dominica in
Septuagesima Semiduplex II. classis
S. Cyrilli Episc. Alexandrini Confessoris Ecclesiæ Doctoris Duplex
10 Febbraio S. Scholasticæ Virginis – Duplex
11 Febbraio In Apparitione Beatæ Mariæ
Virginis Duplex majus
12 Febbraio Ss. Septem Fundat. Ord. Servorum B. M. V.
Duplex
14 Febbraio S. Valentini –
Feria
15 Febbraio SS. Faustini et Jovitæ –
Feria
16 Febbraio Dominica in
Sexagesima – Semiduplex II. classis
18 Febbraio S. Simeonis Faustini
Episcopi et Martyris Feria
22 Febbraio In Cathedra S. Petri Ap. – Duplex
II. classis
23 FebbraioDominica in Quinquagesima Semiduplex II. classis
S. Petri Damiani Duplex
25 Febbraio S. Matthiæ Apostoli – Duplex II. classis
26 Febbraio Feria
IV Cinerum – Semiduplex
28 Febbraio S. Gabrielis a Virgine
Perdolente Confessoris Duplex
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE
TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et
d’Éloquence sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME DEUXIÈME.
PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR
13, RUE
DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18 août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 93
Psalmus
ipsi David, quarta sabbati.
[1] Deus ultionum Dominus;
Deus ultionum libere egit.
[2] Exaltare, qui judicas terram, redde retributionem superbis.
[4] effabuntur et loquentur iniquitatem, loquentur omnes qui operantur injustitiam?
[5] Populum tuum, Domine, humiliaverunt; et hæreditatem tuam vexaverunt.
[6] Viduam et advenam interfecerunt, et pupillos occiderunt.
[7] Et dixerunt: Non videbit Dominus, nec intelliget Deus Jacob.
[8] Intelligite, insipientes in populo; et stulti, aliquando sapite.
[9] Qui plantavit aurem non audiet? aut qui finxit oculum non considerat?
[10] Qui corripit gentes non arguet, qui docet hominem scientiam?
[11] Dominus scit cogitationes hominum, quoniam vanae sunt.
[12] Beatus homo quem tu erudieris, Domine, et de lege tua docueris eum;
[13] ut mitiges ei a diebus malis, donec fodiatur peccatori fovea.
[14] Quia non repellet Dominus plebem suam, et hæreditatem suam non derelinquet:
[15] Quoadusque justitia convertatur in judicium, et qui juxta illam omnes qui recto sunt corde.
[16] Quis consurget mihi adversus malignantes? aut quis stabit mecum adversus operantes iniquitatem?
[17] Nisi quia Dominus adjuvit me, paulo minus habitasset in inferno anima mea.
[18] Si dicebam: Motus est pes meus, misericordia tua, Domine, adjuvabat me.
[19] Secundum multitudinem dolorum meorum in corde meo, consolationes tuæ lætificaverunt animam meam.
[20] Numquid adhæret tibi sedes iniquitatis, qui fingis laborem in præcepto?
[21] Captabunt in animam justi, et sanguinem innocentem condemnabunt.
[22] Et factus est mihi Dominus in refugium, et Deus meus in adjutorium spei meæ.
[23] Et reddet illis iniquitatem ipsorum, et in malitia eorum disperdet eos; disperdet illos Dominus Deus noster.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
Salmo da recitarsi pel mercoledì. Argomento è la Provvidenza di Dio, che non lascia di punire infine i malvagi e
rimunerare i buoni.
Salmo dello stesso David per il quarto giorno della settimana.
1.
Il Signore è il Dio delle vendette: il Dio delle vendette opera liberamente.
2. Dà a conoscere come glorioso sei tu,
o Giudice della terra: rendi la loro retribuzione a’ superbi.
3.
Fino a quando, o Signore, fino a quando i peccatori anderanno fastosi?
4. Apriranno la bocca, e parleranno
iniquamente; parleranno con arroganza tutti quelli che operano l’ingiustizia?
5. Signore, eglino hanno umiliato il tuo
popolo, e hanno malmenata la tua eredità.
6.
Hanno ucciso la vedova e lo straniero, e messi a morte i pupilli.
7. E hanno detto: Il Signore non vedrà,
e non ne saprà altro il Dio di Giacobbe.
8.
Intendete, o i più stupidi del popolo; o voi, stolti, imparate una volta.
9. Colui che piantò l’orecchia, non
udirà? e quei che lavorò l’occhio, sarà senza vista?
10. Non vi condannerà forse colui che castiga
le genti? che all’uomo insegna la scienza?
11.
Il Signore conosce i pensieri degli uomini, e come son vani.
12.
Beato l’uomo, cui tu avrai istruito, o Signore, e cui avrai tu insegnata la tua
legge,
13. Per rendere a lui men duri i giorni cattivi, fino a tanto che sia scavata la fossa del peccatore.
14. Imperocché il Signore non rigetterà
il popol suo, e non lascerà in abbandono la sua eredità.
15.
Fino a tanto che la giustizia venga a far giudizio e (fino a tanto) che staran
presso a lei tutti quelli che sono di cuore retto. (1)
16. Chi si alzerà per me contro i
maligni o chi starà dalla parte mia contro di quelli che operano l’iniquità?
17. Se non che il Signore mi ha aiutato quasi
quasi avrei avuto per mia stanza il sepolcro.
18. Se io diceva a te: Il mio piede
vacilla e la tua misericordia, o Signore, veniva in mio soccorso.
19. A proporzione dei molti dolori, che
prova il cuor mio le tue consolazioni letificarono l’anima mia.
20. Ha forse il tribunale d’iniquità
qualche cosa di comune con te, che ci prepari travaglio nei tuoi comandamenti? (2)
21.
Anderanno a caccia del giusto, e non danneranno il sangue innocente.
22.
Ma il Signore è stato mio rifugio, e il mio Dio il sostegno di mia speranza.
23.
Ed ei renderà ad essi la loro iniquità, e per la loro malizia gli sperderà; li
manderà in perdizione il Signore Dio nostro.
(1) Finché la
giustizia si volge in giudizio, fino a che il diritto sia riconosciuto come
retto nel giudizio, finché il giudizio torni alla giustizia, da cui non avrebbe
dovuto mai allontanarsi.
(2) Sarete voi come
un giudice iniquo, voi che avete dato dei precetti difficili e che non avete
disposto di osservare?
Sommario analitico (3)
(3) Questo salmo,
come il Salmo LXXXI, contiene delle minacce contro i giudici iniqui che abusano
del loro potere. Tra le opinioni supposte circa l’epoca alla quale far risalire
la composizione di questo salmo, due sembrano le più verosimili. Una lo riporta
ai tempi in cui Isaia e Michea fulminavano di anatemi contro i giudici iniqui
ed avidi dei beni altrui (Is. X, Mich. III, VII), e secondo questa opinione
questi giudici iniqui erano Israeliti. – L’altra opinione pone la composizione
di questo salmo ai tempi delle incursioni degli Assiri nella Terra Santa ed è
contro di questi che il salmista dirigerà i suoi lamenti (P. Emman, Essai sur les Psalmes.)..
Il Profeta parlando qui a nome del
popolo cristiano, della Chiesa di Gesù-Cristo perseguitata, dopo aver posto in
cima a questo salmo due grandi attributi di Dio, la potenza nell’esercitare le
sue vendette e la libertà di esercitarla (1):
I. Prega Iddio Onnipotente di esercitare la
sua giusta vendetta
1° Contro gli orgogliosi che si vantano
ed applaudono i loro crimini (2-4);
2° Contro gli oppressori dei giusti,
delle vedove, degli stranieri e degli orfani (5,6).
II. – Egli combatte l’empietà di coloro che
negano la divina provvidenza (7):
1° Li accusa di follia (8);
2° Li persuade dell’errore con un ragionamento
tratto dai doni che il Creatore ha fatto alla sua creatura e che deve possedere
in un grado infinitamente superiore (9, 10);
3° Egli li accusa di vanità (11).
III. – Proclama felici i giusti, perché
1° Essi hanno Dio per dottore, – a) che
li istruisce con la sua legge (12), – b) li preserva dalla rovina riservata ai
peccatori (13), – c) non li rigetta lontano da sé (14), – d) li riunisce ai
santi che saranno presso di Lui nel giorno del giudizio finale (15);
2° essi hanno Dio come difensore: – a)
Egli si leva per essi contro i malvagi (16); – b) tende loro la mano perché non
cadano nell’inferno (17); – c) la sua misericordia li sostiene quando i loro piedi vacillano (18);
3° Essi hanno Dio per consolatore: a)
Egli proporziona la grandezza delle consolazioni all’estensione ed alla
moltitudine dei precetti (20); b) compensa la pena attaccata all’osservazione
dei precetti (20).
4° Essi hanno Dio come sostegno:- a)
necessario contro i malvagi che cospirano contro la loro vita (21); – b)
potente, per servire loro da rifugio ed appoggio (22); – c) giusto, per far
ricadere sui malvagi la pena delle loro iniquità (23).
Spiegazioni e Considerazioni
I. — 1-6.
ff. 1-6. – Ricordiamoci
innanzitutto di questa verità, spesso ripetuta, che la Scrittura, attribuendo
sovente a Dio la gelosia, la collera, il furore e la vendetta, parla agli
uomini un linguaggio umano, per accondiscendere alla debolezza dei loro
pensieri ed elevarli più facilmente alla maestà dell’Essere supremo. – Che
cos’è il Dio delle vendette? Il Dio dei castighi. Voi mormorate senza dubbio perché
Egli non punisce i malvagi. Non mormorate se non volete essere nel numero di
coloro che Egli punirà. Un uomo ha commesso un furto; voi mormorate contro Dio,
perché colui che vi ha derubato non muore. Esaminate se voi stessi non
commettete furto. E nel caso in cui voi non ne commettiate, cercate di
ricordare se ne abbiate mai commesso. Se ora siete il giorno, ripassate il
tempo in cui eravate notte; se ora siete rafforzati nel cielo, ripassate il
tempo in cui abitavate la terra. Forse troverete che nel passato siete stato
colpevole di furto, e che un altro si irritasse del fatto che siete stato
lasciato in vita malgrado il vostro latrocinio, e che la morte non vi
cogliesse. Ma nello stesso momento dei vostri crimini, Dio vi ha lasciato in
vita affinché poteste rinunciare ai crimini, e riguardate come dopo aver
traversato il ponte della misericordia di Dio, non vogliate rivoltarlo dopo di
voi. Ignorate dunque che mille altri devono passare là dove siete passato voi
stesso? E potreste voi mormorare oggi, se colui che ha mormorato contro di voi
fosse stato esaudito? E tuttavia ora voi desiderate che Dio punisca i malvagi;
voi vorreste vedere morire questo ladro e mormorate contro Dio perché questo
ladro non sia morto… pesate sulla
bilancia dell’equità un ladro ed un bestemmiatore. Voi dite ora di non essere
un ladro, e sia; ma mormorando contro Dio, siete un blasfemo. Il ladro
sorveglia il sonno di un uomo per rubargli qualcosa; e voi, voi osate dire Dio
dorme e non vede ciò che l’uomo fa! Voi volete dunque che quest’uomo corregga
la sua mano: cominciate a correggere la vostra lingua; voi volete che Egli
corregga il suo cuore colpevole verso un uomo, cominciate a correggere il
vostro cuore colpevole verso Dio, per timore che questa punizione di Dio che
voi invocate, non cada dapprima su di voi quando Dio verrà. (S.
Agost.). – Perché Egli verrà, verrà certamente e giudicherà coloro che
avranno perseverato nella loro malvagità, che saranno stati ingrati verso la
sua misericordia che li ha prevenuti ed ingrati verso la sua pazienza, che
avranno ammassato contro se stessi un tesoro di collera per il giorno della
collera e della manifestazione del giusto giudizio di Dio, quando renderà a
ciascuno secondo le sue opere (Rom. II, 46) – (S. Agost.). – Il Dio
delle vendette ha agito con libertà, ed in effetti non ha risparmiato nessuno
nei suoi discorsi; perché il Signore era
allora nella debolezza della carne, ma anche nella forza della parola. Egli non
ha fatto eccezione di persone nei confronti dei primi tra i Giudei. Cosa non ha
detto contro di loro? Cosa non ha detto
loro in faccia? Egli non temeva nessuno nei suoi discorsi perché meritavano di essere
risparmiati nei suoi giudizi; perché se si fossero rifiutati di ricevere il
rimedio della sua parola, avrebbero ricevuto la sua sentenza di giudice.
Perché? Perché Egli è il Dio delle vendette. Egli non li risparmiava nei suoi
discordi, perché meritassero di essere risparmiati nel suo giudizio. Perché il
profeta ha detto: « Il Dio delle vendette ha agito con fermezza; » e non ha
risparmiato nessuno nelle sue parole. E Colui che non ha risparmiato alcuno nei
suoi discorsi, nel momento di soffrire la sua Passione, risparmierà alcuno nel
suo arresto, al momento di giudicare? Colui che non ha temuto nessuno nella sua
umiltà, potrà temere qualcuno nella sua gloria? La fermezza dei suoi primi atti
vi dice come Egli agirà alla fine del mondo (S. Agost.). – « La
vendetta è mia, e sono Io che la farò, dice il Signore. » (Rom. XII, 19). – Dio,
nell’esercizio della sua giustizia, agisce liberamente: « Io mi vendicherò, e
qual è l’uomo che mi resisterà? » (Isai. XLVII, 3) – Per la ragione
stessa che la vendetta gli appartiene, Dio agirà liberamente e sovranamente,
cioè in Dio; in Dio senza considerazioni, o piuttosto al di sopra di ogni
considerazione; in Dio che, nell’ultimo giudizio che renderà agli uomini, non
avrà né condizioni da distinguere, né nessuno verso cui aver riguardi, perché
Egli verrà per vendicare gli abusi che avranno fatto gli uomini delle loro
condizioni, e per punire le attitudini criminali che hanno avuto per le loro
persone (Bourd. Jugem. De Dieu.)
– È un avvertimento dato a coloro che
giudicano la terra, il levarsi al di sopra di coloro che si giudicano elevati
sopra gli altri per la loro dignità o la loro potenza. – Non è con l’impazienza
che il giusto debba domandare a Dio di far brillare la sua potenza contro
coloro che lo opprimono, ma con un sincero amore della giustizia e per chiudere
la bocca a coloro che, vedendo i peccatori glorificarsi con insolenza,
potrebbero dubitare della Provvidenza di Dio. – Altra ragione c’è per domandare
a Dio che arresti l’insolenza dei peccatori, affinché l’impunità non li renda
ancor più criminali. Effetti funesti di questa impunità nei crimini sono:
umiliare tutti coloro che possono elevarsi al di sopra degli altri: affliggere
gli innocenti, opprimere i deboli o per interesse, o per la crudele soddisfazione
di far loro del male. (Dug.). « Elevatevi, voi che
giudicate la terra, rendete agli orgogliosi quello che hanno meritato. » Cosa
significano queste parole? È la predizione di un profeta e non l’ordine di un
audace. E non è in effetti se non perché il Profeta ha detto: « Elevatevi, voi
che giudicate la terra, », che il Cristo, obbedendo al Profeta, è resuscitato
per venire in cielo; ma è perché il Cristo voleva farlo che il Profeta l’ha
predetto … « Rendete agli orgogliosi ciò che essi hanno meritato. » Qual sono
gli orgogliosi? Coloro che non contenti di fare il male, vogliono pure
difendere i loro peccati … Chi è orgoglioso? Colui che si rifiuta di far penitenza
con la confessione dei suoi peccati alfine di poter ottenere la sua guarigione
con l’umiltà. Chi è orgoglioso? Colui che pretende di attribuirsi il poco di
bene che trova in lui e che ne rifiuta il merito alla misericordia di Dio. Chi
è orgoglioso? Colui che, pur attribuendo a Dio le sue bone opere, insulta
coloro che non ne fanno abbastanza e si eleva al di sopra di essi. (S.
Agost.). – Ma quando renderà a ciascuno la pena che ha meritato?
Nell’attesa i malvagi trionfano, i malvagi si danno all’allegria, i malvagi
bestemmiano e fanno tutto ciò che è male. Ne siete colpiti? Cercate il malvagio
con amore e non riprendetelo con orgoglio. Ne siete colpito? Il salmista
compatisce la vostra pena, e cerca con voi, non per ignoranza, ma cerca con voi
ciò che sa, per farvi trovare in lui ciò che voi non sapete. Così, colui che
vuol consolare qualcuno non può sollevarlo dal suo abbattimento che a
condizione di partecipare al suo dolore. Egli piange dapprima con lui e lo
consola con parole di consolazione … ma in questo salmo, lo Spirito di Dio,
benché sappia ogni cosa, cerca con voi e pronuncia in qualche modo le vostre
parole: « … Fino a quando i peccatori si glorieranno, risponderanno e terranno il linguaggio
dell’iniquità? Fino a quando coloro che commettono l’ingiustizia ne sosterranno
la lingua? » – Contro chi parlano se non contro Dio, coloro che dicono: A cosa
ci serve vivere così? Perché i malvagi conservano la vita, questi uomini
immaginano che Dio non sappia quel che facciano … « Fino a quando risponderanno
ed avranno un linguaggio iniquo? » Il profeta menziona qui tutte le loro
cattive opere. Che significa: essi risponderanno e parleranno con linguaggio di
iniquità? Essi avranno sempre qualche cosa da rispondere in opposizione ai
giusti. Un giusto viene a loro e dice: non commettete l’iniquità. Perché? Per
paura che ne moriate. Ma io ho già commesso l’iniquità, eppure non sono morto.
Un altro al contrario non ha fatto che opere di giustizia; perché Dio lo ha
punito severamente? Perché egli soffre? Ecco la risposta dei malvagi. Essi
hanno sempre una risposta pronta; e siccome Dio li risparmia, essi trovano in
questa pazienza di Dio degli argomenti di risposta. Dio li risparmia per un
motivo: essi rispondono su di un altro punto, sulla vita che viene loro lasciata.
L’Apostolo dice perché Dio li risparmia, ed egli spiega così le cause della
pazienza divina: « … Pensate voi dunque, voi che agite così, che sfuggirete al
giudizio di Dio e disprezzate dunque le ricchezze della sua bontà e della sua
longanimità? Ignorate che la pazienza di Dio ha per scopo di condurvi alla
penitenza? Ma voi, per la durezza del vostro cuore, per l’impenitenza del
vostro cuore, ammassate contro di voi un tesoro di collera per il giorno della
collera e della manifestazione del giusto giudizio di Dio che renderà a
ciascuno secondo le sue opere (Rom. II, 3, 6.). Cosi dunque Dio
estende la sua longanimità e voi estendete la vostra iniquità; Dio avrà un
tesoro di misericordia eterna per coloro che non avranno disprezzato la sua
misericordia, il vostro tesoro sarà un tesoro di collera, e ciò a cui vi
esponete giorno dopo giorno, lo troverete in un sol colpo; voi ammassate pezzo
su pezzo, ma troverete un mucchio enorme. Non vi rassicurate sulla poca gravità
dei vostri peccati di ogni giorno, perché queste sono piccole gocce che formano
i fiumi. (S. Agost.). Vedete qui la concatenazione del male: colui che ha
un linguaggio colpevole è come necessariamente indotto a fare del male; perché
la bocca parla dell’abbondanza del cuore, ed una coscienza corrotta si spande
in discorsi criminali (S. Girol.).
II. 7 – 11
ff. 7-11. –È il linguaggio degli atei e degli empi
di professione, ma è pure il linguaggio nelle loro opere diversi Cristiani, che
provano così bene che non sono convinti che Dio penetri il fondo dei cuori con
la sua luce e che ci sia una conoscenza esatta di tutte le loro azioni e di
tutti i loro pensieri. – Questi atei, questi empi difficilmente tornano
indietro. Poiché essi sono tanto più insensati perché credendosi saggi – ed
anche perché trattano gli altri con estremo disprezzo – è raro e quasi
impossibile che possano divenire veramente saggi. – « Come, colui che ha
formato l’orecchio non ascolta? E colui che ha fatto gli occhi è cieco? »
L’orecchio che Dio ha formato nell’uomo non intende, e l’occhio non vede che ad
una certa distanza; occorre che l’oggetto sia loro presente; ma Dio, posto a
qualunque distanza, intende molto distintamente tutto ciò che si dice fin nel
fondo del cuore; Egli vede chiaramente tutto ciò che accade nei luoghi più
reconditi, o piuttosto, è presente dappertutto (Dug.). – Perché non pensate che Egli è tutta la vista,
tutto l’udito, tutta l’intelligenza, che i vostri pensieri gli parlano, che il
vostro cuore gli scopre tutto, che la vostra coscienza è la sua sorvegliante ed
il suo testimone contro voi stessi? E tuttavia sotto questi occhi così vivi,
sotto questi sguardi così penetranti, voi vi rallegrate senza inquietudine del
piacere di essere nascosto; voi vi abbandonate alla gioia e vivete riposati tra
le vostre delizie criminose, senza pensare che Colui che ve le proibisce e vi
ha lasciato tante volte impunito, verrà qualche giorno inopinatamente a turbare
i vostri piaceri in modo terribile per i rigori del suo giudizio, quando meno
lo aspettate. – Colui che insegna
e punisce le nazioni, non le riprenderebbe? (Bossuet, “Serm., p. le I Dim. de l’Av., I^ p). È ciò che
Do fa ora: Egli insegna alle nazioni; ecco perché ha inviato la sua parola per
mezzo degli Angeli e dei Patriarchi, i suoi servi, una folla di araldi che
precedono il Giudice in arrivo. Egli ha inviato il Verbo stesso, suo Figlio, ha
inviato i servi di suo Figlio e suo Figlio stesso nei suoi servitori.
Nell’intero universo è predicata la parola di Dio. Qual è il luogo ove non si
dica agli uomini: rinunziate alle vostre antiche iniquità, e tornate sulla
retta via? Dio vi risparmia affinché vi correggiate; Egli non vi ha punito ieri
affinché oggi viviate nel bene. Egli insegna alle nazioni, non le riprenderà mai?
Egli non intenderà dunque al suo tribunale coloro ai quali insegna? Non
giudicherà forse coloro ai quali ha insegnato dapprima la sua parola e nei
quali ha sparso la sua semenza? Se frequentate una scuola, riceverete senza mai
rendere? Voi ricevete dal maestro quanto vi danno i suoi insegnamenti; il
maestro vi confida ciò che vi insegna, e credete che egli non esigerà quando
sarà venuto per voi il momento di renderglielo?
Forse credete che, venuto questo momento, non abbiate da temere il
colpo? Noi dunque riceviamo ora, e più tardi saremo condotti davanti al Padrone
per pagargli tutti i nostri debiti passati, cioè per rendergli conto di tutte
le cose di cui noi ora prendiamo l’anticipo. E che, colui che insegna le nazioni
non le riprenderà forse, Lui che da la scienza all’uomo? Colui che vi fa
sapere, non saprebbe Egli stesso, che è Colui che dà la scienza all’uomo? (S.
Agost.). – Tutti i pensieri e tutta la scienza dell’uomo che Dio non dà,
non sono che vanità. La scienza che non entra nel cuore, queste luci che non
vengono che dallo spirito, non ispirano che vani pensieri, non fanno che
gonfiare e servono piuttosto a farci condannare che salvare. – Lasciamo dunque
i nostri pensieri poiché sono vani, e prendiamo i pensieri di Dio, poiché essi
sono la saggezza medesima. (S. Agost.).
III. – 12-23.
ff. 12-15. – Felici coloro
ai quali Dio apre non solo l’orecchio del corpo per parlargli esteriormente,
non solo l’orecchio dello spirito, per dargli la conoscenza, ma pure l’orecchio
del cuore per ispirargli l’amore. – Dio è dottore dei giusti, li istruisce: – 1°
come un padre: « Il Signore vostro Dio vi ha istruito come un padre insegna al
figlio suo, affinché osserviate i comandamenti del Signore vostro Dio, e
camminiate nelle sue vie e lo temiate; (Deut. VIII, 5, 6); – 2° come guida
nella via che Egli ordina di seguire: « Io sono il Signore tuo Dio che ti insegna
ciò che è buono e ti dirige nella via che percorri; » (Isai. XLVIII, 17); – 3°
come il maestro degli atleti che si preparano al combattimento. « la sua
unzione tutto vi insegna; » (I Giov. II, 27); – 4° come nostro
Salvatore. « la grazia di Dio nostro Salvatore si è rivelata a tutti gli
uomini, per insegnarci a rinunciare all’empietà, ai desideri del secolo, ed a vivere
nel secolo con temperanza, con giustizia e con pietà. » (Tit. II, 11, 12). – Tale
è uno dei mirabili effetti della divina dottrina, addolcire l’amarezza che
prova il giusto vedendo e soffrendo le persecuzioni degli empi. Nessun riposo è
più dolce durante i cattivi giorni di questa vita, nessun fondamento più solido
in sicurezza dell’ultimo giorno, che è propriamente il cattivo giorno dei
peccatori, che la conoscenza pratica dell’amore della legge di Dio. – Per
quanto tempo sarà necessaria questa consolazione? Fino a quando sarà scavata
questa fossa nella quale gli empi saranno precipitati. Allora tutti i mali
saranno rivoltati dal lato dei malvagi, i giusti non avranno più bisogno di
consolazione, perché non avranno più pene. La prosperità del peccatore è una
fossa che si scava da sé sotto i suoi piedi. Più è elevato nel mondo, più
questa fossa è profonda. (Bellarm., Dug.). Dio, per effetto
della sua giustizia recondita, risparmia una uomo che sa peccatore ed empio, e
per questo fatto che Dio lo risparmia, la sua impunità lo gonfia ancor più d’orgoglio.
Egli si crede elevato ben in alto e cade, cade a motivo di questa impunità che
gli ha fatto credere di essere grande; egli considera la sua felicità come
un’elevazione, e Dio invece la chiama “fossa”. Una fossa precipita nell’abisso,
lungi dall’elevare al cielo; ecco perché i peccatori orgogliosi, che credono di
salire verso il cielo, non fanno che affossarsi sotto terra. Al contrario gli
umili, che sembrano abbassarsi fino a terra, si elevano al cielo (S.
Agost.). – « Perché il Signore non respingerà il suo popolo. » Egli lo
esercita e non lo respinge. Che dice in effetti la Scrittura in un altro luogo?
« … perché il Signore corregge colui
che Egli ama e sferza chiunque riconosce come figlio. (Ebr.
XII, 6). » Egli lo riceve dopo averlo punito, e voi dite che lo
respinge? Noi vediamo gli uomini agire nello stesso modo verso i loro figli: talvolta
li lasciano vivere a modo loro, i figli di cui essi disperano, ma puniscono
coloro nei quali hanno buone speranze; quanto a coloro, al contrario, dei quali
non sperano di domare i vizi, li lasciano vivere secondo la loro volontà. Ma il
padre rigetta dalla sua eredità il figlio che lascia vivere secondo la propria
fantasia, mentre castiga il figlio al quale riserva la sua eredità. Così,
quando Dio flagella suo figlio, che corre a sottomettersi alla mano del Padre
che lo colpisce, punendolo come Padre, gli insegna a meritare la sua eredità.
Egli non rigetta la successione del figlio che castiga, ma lo punisce perché sia
degno di raccoglierla (S. Agost.). – Questo stato di cose –
dice il Profeta – durerà fino al giorno in cui la giustizia che si era mostrata
molto più come una potenza passiva che come una potenza attiva, si formulerà
nel Giudizio supremo (Bellarm.) – La stessa verità che è
uscita dalla bocca di Gesù-Cristo, ci giudicherà nell’ultimo giorno. C’è conformità
tra l’uno e l’altro stato: così come l’avrà pronunziata, così apparirà per
pronunciare la nostra sentenza; questo sarà il precetto che diventerà una sentenza.
Là essa sembra apparire come in un pulpito per insegnarci; là, come in un
tribunale per giudicarci; ma essa sarà la stessa nell’uno e l’altro caso. Ma
come è nell’uno e l’altro caso, tale deve essere nella nostra vita; perché
chiunque non sia d’accordo con la regola, essa li respinge e li condanna;
chiunque viene a scontrarsi con questa rettitudine inflessibile, bisogna che
essa li rompa e li distrugga. (Bossuet, I° Serm. P. le D. de la Pass.).
– Applicatevi ora a possedere la giustizia, poiché non potete ancora possedere
il giudizio. Occorre che dapprima possediate la giustizia; ma la vostra
giustizia sarà cambiata essa stessa in giudizio. Questa giustizia, gli Apostoli
l’hanno posseduta e l’hanno portata gli ingiusti. Ma cosa ha detto loro il
Signore: « voi sarete seduti su dodici troni e giudicherete le dodici tribù di
Israele (Matth. XIX, 28). » – La loro giustizia sarà dunque cambiata in
giudizio. In effetti, chiunque sia giusto quaggiù non lo è che per meglio
sopportare i suoi mali con pazienza: che sopporti dunque il tempo della sua
passione e verrà in giorno in cui eserciterà il giudizio. Ma perché parlare dei
servi di Dio? Il Signore stesso, che è il Giudice di tutti i viventi e di tutti
i morti, ha voluto essere giudicato per primo, per giudicare poi, « fino a che
la giustizia sia cambiata in giudizio; ora, coloro che la possiedono hanno il
cuore retto. » Chi sono coloro « che
hanno il cuore retto? » Coloro che vogliono ciò che Dio vuole. Ora Dio risparmia
i peccatori, e voi volete che Dio perda da ora i peccatori? Il vostro cuore non
è retto, la vostra anima è depravata, dal momento che voi volete una cosa e Dio
un’altra. Dio vuole risparmiare i malvagi e voi non volete sopportare i peccatori?
Come ho già detto, voi volete una cosa e Dio un’altra: prendete il vostro cuore
e raddrizzatelo verso Dio. Astenetevi dunque dal voler curvare la volontà di
Dio sulla vostra, ma correggete la
vostra volontà secondo quella di Dio. La volontà di Dio è come una regola: se
avete, io suppongo, piegato una regola, ove trovare di che raddrizzarvi? Quanto
alla divina volontà, essa resta nella sua integrità, è una regola immutabile.
Intanto che la regola sia intatta, voi avete di che applicarvi per raddrizzare
ciò che in voi non è retto, ma cosa vogliono gli uomini? È poco che la loro
volontà sia tortuosa, essi vogliono addirittura piegare la volontà di Dio
secondo i desideri del loro cuore, e fare che Dio agisca secondo la loro
volontà, mentre essi stessi devono agire unicamente secondo la volontà di Dio (S. Agost.).
ff. 16, 17. –Questi due versetti, avvicinati l’uno
all’altro, racchiudono un grande e triste insegnamento: essi dipingono molto bene
quel che succede continuamente in questo mondo, quando si tratta di lottare
contro i malvagi, di resistere agli operatori d’iniquità. Una voce coraggiosa
si eleva: un uomo giusto e fermo si mette davanti per sostenere questa lotta,
per organizzare quella resistenza; egli fa appello agli uomini di cuore che sa
che amano la verità e vogliono il trionfo del buon diritto. Sforzi vani!
Qualche voce appena risponde alla sua voce: egli resta solo o quasi per sostenere
il combattimento del Signore; e se il Signore non viene Egli stesso in suo
soccorso, soccomberebbe certamente all’ingiustizia trionfante (Rendu).
– Sant’Agostino ringraziava Dio di avergli perdonato i peccati che aveva
commesso, e di averlo preservato dai peccati che non aveva commesso. Io
attribuisco alla vostra grazia – diceva confessando la propria miseria ai piedi
del Signore – di non aver commesso tutto il male he io potevo fare. Non c’è Santo
in cielo che non possa dire, come il Profeta: « Se il Signore non mi avesse
protetto, io sarei diventato ben presto preda dell’inferno. » La debolezza
dell’uomo, senza l’appoggio di Dio, è estrema; la corruzione dell’uomo, senza
il rimedio della grazia di Dio, è un male incurabile. Cosa troviamo fuori da
Dio? Gli altri uomini e noi stessi. Se riposiamo sugli uomini, cadiamo con
essi; se ci appoggiamo a noi stessi, acceleriamo da noi stessi la nostra
caduta. Ed allora – diceva ancora con tanta saggezza Sant’Agostino – se voi mettete la vostra speranza negli
uomini, vi umiliate in maniera indegna; se lo ponete in voi stessi, vi elevate
temerariamente; l’una e l’altra è cosa ugualmente perniciosa. Colui che si
abbassa come schiavo si arrampicherà sempre, e colui che si leva come temerario
farà una caduta deplorevole (Berthier.) – Dio non vi lascia tempo
ad altre cose terribili in fondo alla nostra anima. L’accesso di qualche
tentazione straordinaria, il risveglio fortuito di qualche passione per lungo tempo dormiente, o infine un raggio
di luce soprannaturale emanata da Dio, è sufficiente per rivelare ai nostri
sguardi delle cavità sconosciute che rivelano nuovi elementi di peccato, è
rende evidente il fatto che noi portiamo in noi immense riserve di peccato sconosciuto.
Le sagge disposizioni di una Provvidenza piena di misericordia, e l’impero
della grazia che ci sostiene, possono solo impedire che divengano dei fatti
compiuti. Oh! Come ci affrettiamo a cercare un riparo sotto il mantello di Dio,
come ci attacchiamo ai suoi piedi quando, per la prima volta, penetriamo in
questi misteri! Quale mirabile, felice sproporzione tra il male che noi
facciamo ed il male che siamo capaci di fare, che qualche volta siamo stati
pure talvolta sul punto di commettere! … Se un imperatore pagano ringraziava
Dio tutti i giorni per le tentazioni che allontanava da lui, quanto non
dobbiamo noi ringraziarlo per i peccati che non abbiamo commesso? (FABER,
Progrès de l’ame dans la vie spir., c. XX.) – Il Profeta spiega in
cosa consista questo soccorso di Dio che ha preservato la sua anima dal cadere
nell’inferno. Se riconoscessi la mia infermità e me ne umiliassi, ben presto la
vostra misericordia verrebbe in mio soccorso, illuminando la mia intelligenza,
purificando il mio cuore, fortificando la mia volontà. (Bellarm.)
ff. 18. –Notate con Sant’Agostino queste parole,
« … quando io ho detto », o « … se io dicessi »; poiché c’è una infinità di
uomini i cui piedi vacillano nella via della salvezza; ma essi non lo dicono,
non confessano la loro debolezza, non riconoscono il pericolo che li minaccia.
Dio conosce i nostri mali, ma – dice il santo Dottore – Egli vuole che ne
facciamo confessione: ama questa confessione, ama l’umiltà che accompagna questa
confessione. Noi siamo scossi: è proprio dell’uomo. Dio ci appoggia: è il
carattere di Dio. San Pietro cammina sulle acque, la paura lo prende, egli
implora il soccorso di Gesù-Cristo, Gesù-Cristo gli tende la mano. La nostra
forza dipende quindi solo da Dio, ma Dio esige da noi la persuasione della
nostra debolezza. Una umile preghiera è la strada che conduce alla sua
misericordia. (Berthier).
ff. 19-23. –È un paradosso sconosciuto a tutti
coloro che non ne hanno fatta mai l’esperienza, che stando il corpo nel dolore,
l’anima possa essere piena di consolazione e di gioia! San Paolo ne è un
testimone fedele quando scriveva con santo trasporto: « Io sono pieno di
consolazione e ricolmo di gioia in mezzo a tutte le mie tribolazioni, e nella
misura che le sofferenze di Gesù-Cristo abbondano in noi, le nostre
consolazioni abbondano pure mediante Gesù-Cristo. (II Cor. I, 5). – La grandezza delle ricompense è in
proporzione alla grandezza delle tribolazioni; tante ferite, tante corone; io
non ho versato che una lacrima, non ho meritato che una consolazione; io ne ho
versato dieci, sarò consolato dieci volte (S. Girol.). – Si, in questa valle
dei nostri mali, che Davide chiama eloquentemente una valle di lacrime, in
questo torrente di Cedron, dove il Salvatore del mondo è passato come noi, e
dove noi ogni giorno beviamo l’acqua triste e turbolenta della nostra vita, la
felicità non è una sconosciuta, neanche un’assente. Essa ha attraversato con
l’uomo, quando l’uomo cadde, la soglia perduta dell’Eden, e dopo sessanta
secoli, bandita come noi, essa erra con noi nel mondo, compagna sacra dei
nostri infortuni e concittadina del nostro esilio. Ad essa non è permesso
mostrarsi costantemente né interamente alla nostra vista, ma non le è impedito
scegliere un’ora e donarcela. Un giorno o l’altro essa batte alla nostra porta,
si siede al focolare deserto o pieno e con uno dei suoi sguardi, gettato sul
nostro cuore, ne tira fuori questa lacrima unica ove noi leggiamo ciò che essa
sia. Lacrime di madri che ritrovano i loro figli dopo assenze e disavventure!
Lacrime del viaggiatore che saluta al mattino le coste della patria per tanto
tempo perduta! Lacrime degli eroi tra la vittoria e la morte! Lacrime del
giusto tra i brividi della coscienza! Lacrime di Agostino che parla di Dio a
sua madre sulle creste delle onde che lo riportano a Cartagine! Quante non ne
racconteremo, e quante altre ne ignoriamo, perché il cuore dell’uomo sì
profondo per la miseria, lo è altrimenti pure per la felicità. La miseria gli
viene da un accidente, la felicità dalla sua natura e dalla predestinazione: «
Prendete forse posto sulla sedia dell’iniquità voi che avete messo per noi
travaglio nei precetti? » Il profeta vuol dire: Alcun ingiusto prende parte
nella vostra sede e mai Voi avrete una sede di iniquità. Egli rende poi conto
del motivo per il quale giudica così: «Voi che avete messo travaglio nei
precetti. » Io comprendo – egli dice – che voi non prenderete mai parte alla
sede dell’iniquità perché Voi non ci avete risparmiato. Ecco perché non
risparmiando Dio i suoi fedeli allo scopo di istruirli, il profeta ha detto: «
Voi componete per noi il dolore nell’insegnamento » … Voi formate – egli dice –
un insegnamento con il dolore, vale a dire: voi ci procurate dolore
nell’insegnarci. Come il dolore può essere un insegnamento per voi? Quando
siete punito da Colui che è morto per voi, che non vi ha promesso la felicità
in questa vita, che non può ingannarci e che non vi dà quaggiù tutto ciò che voi
cercate. Cosa vi darà? E dove ve lo darà? Quanto sarà grande ciò che vi donerà
Colui che non vi dà nulla quaggiù che vi istruisce e del dolore ne fa un
insegnamento? Quaggiù il lavoro è la vostra lotta, ma vi è ugualmente permesso
il riposo. Fate attenzione che soffrirete quaggiù, ma riflettete al riposo che
è promesso. Se poteste farvene un’idea, voi vedreste che il vostro lavoro non è
la compensazione di questo riposo … Non siate pigri nel lavoro un solo istante,
e voi vi rallegrerete per tutta l’eternità. Dio vi donerà la vita eterna,
pensate che al prezzo di quel lavoro voi dovete comprarlo. Ciò che Io ho – vi
dice Dio – è da vendere, compratelo. Che cos’è che occorre comprare? Il mio
riposo è da vendere, compratelo con la forza del lavoro. – Il santo Profeta dà
immediatamente un memorabile esempio di volontà rigorosa del Padre celeste,
alla quale bisogna sottomettersi: i malvagi cospireranno contro la vita del
giusto, e condanneranno il sangue innocente. Questa sottomissione è in se
stessa molto difficile, ma innanzitutto i malvagi non avranno potere se non
quello che Dio loro concede. È dunque la volontà di Dio e non quella dei
malvagi che occorre vedere nelle afflizioni con cui essi ci infliggono; per
questo essendo stato il Giusto per eccellenza perseguitato e condannato, coloro
che vogliono partecipare alla sua gloria devono stimarsi felici di partecipare
alla sue sofferenze (Rendu) – « Ma il Signore è diventato
il mio rifugio. » Voi non avreste mai cercato questo asilo se non avreste
avvertito il pericolo, e vi siete trovati nel pericolo alfine di ricorrere a
questo asilo. Ecco come Dio ci invia le sofferenze per istruirci: Egli permette
che i malvagi ci perseguitino, e queste persecuzioni ci fanno cercare un asilo
in Lui. Mentre noi gioiamo delle prosperità mondane, noi non pensiamo a questo
asilo; perché chi si ricorda di Dio gustando le soddisfazioni della vita
presente? Bisogna che svaniscano le speranze del secolo, perché rivivano le
speranze di Dio. Bisogna quindi provare delle disgrazie, per dire come il
Profeta: « Dio è divenuto il mio asilo, Dio è diventato l’appoggio della mia
speranza. » Non c’è che la speranza mentre siamo sulla terra. Noi speriamo, non
gioiamo. Ma non tralasciamo di sperare, perché abbiamo un garante che non ci
inganna; già Egli ci consola, stempera i mali che proviamo; mette, in una
parola, un sostegno alla nostra speranza (S. Agost., Berthier). – « Egli farà
ricadere su di essi la loro iniquità. » Giusta e ordinaria Provvidenza di Dio,
è quella di punire i malvagi da se stessi e far ricadere su di loro la propria
malizia. – « Egli li farà perire con la loro malizia. » Non è senza ragione che
il Profeta dice: « per la loro malizia. » Mi ci viene del bene dal loro
intervento, e tuttavia il Profeta parla della loro malizia e non del bene che
essi procurano. Certamente è con il male che essi fanno che Dio ci prova e ci
colpisca. A quale scopo Dio ci colpisce? In vista del regno dei cieli. Agendo
così, Dio ci istruisce perché possiamo meritare la sua eredità eterna; e spesso
ce la fa acquisire mediante i malvagi, per mezzo dei quali esercita e rende
perfetta la nostra carità, che Egli vuole che noi estendiamo fin anche ai
nemici (S. Agost.).
Imprimatur, Parisiis, die 14 Februarii, 1900. E. THOMAS, V. G.
PRIMA PARTE
DELLA PRESENZA COMUNE ED ORDINARIA DI DIO IN OGNI CREATURA.
CAPITOLO II
Quanto questa presenza sia intima, profonda, universale.
Suoi diversi gradi.
I.
Quanto intima, profonda, profonda, universale sia questa presenza, è ciò che è difficile da concepire, ed ancor più difficile da esprimere. Noi conosciamo solo direttamente e immediatamente le cause create; e per quanto efficace possa essere la loro azione, esse non raggiungono mai l’intero essere. La causa creata modifica, trasforma il soggetto su cui si svolge la sua attività, operatur transmutando opera trasmutando, non crea; e di conseguenza, lascia sempre sotto di sé, nella profondità intima dell’essere, qualcosa che non dà, che non produce, e di conseguenza ove essa non è. Lo scultore, ad esempio, può estrarre da un blocco informe di legno o di marmo un capolavoro che sarà ammirato non solo dai contemporanei, ma anche dai posteri più remoti; ma per quanto potente, per quanto inventivo, per quanto creativo possa essere il suo genio, quando si tratta di realizzare esternamente l’ideale che ha concepito nel segreto della sua mente, ha bisogno di una sostanza materiale sulla quale il suo bulino possa essere utilizzato, una sostanza che egli prende ma non produce. La nostra stessa anima, così intimamente unita al nostro corpo, in qualità di forma sostanziale, che gli comunica l’essere, la vita, la sensazione, l’azione, e costituisce con essa un’unica sostanza, la nostra anima suppone tuttavia la materia che essa informa e che non viene da essa. – La causalità divina non conosce queste barriere, essa è universale e si estende a tutto; sostanze, facoltà, abitudini, operazioni, tutto ciò che vi è di reale e positivo proviene da essa, tutto è opera sua, tutto, tutto, tranne il male e il peccato. Senza di essa, nulla può arrivare all’esistenza, nulla può esservi mantenuto, portans omnia verbo virtutis suæ (Hebr,, I, 3); senza la sua influenza attuale e immediata, nessun agente creato potrebbe agire:omnia opéra nostra operatus es nobis (Domine) Is., XXVI, 12; i nostri voleri più liberi non possono sottrarsi alla sua onnipotente azione: Deus est qui operatur in vobis et velle et perficere pro bonavoluntate (Philip. II, 13). Quindi, Dio, come prima causa, è presente ovunque, al centro, nel raggio e sulla circonferenza di ogni essere. Qualunque sia la natura dell’effetto prodotto e l’ordine al quale appartenga; sia che si tratti di un essere inanimato o di uno vivente, di un’anima da creare, preservare o giustificare, un dono naturale o soprannaturale da conferire, una facoltà di mettere in atto; in breve, non appena si trovi da una parte qualsiasi un effetto della causalità divina, Dio stesso vi si trova come agente. Quia nihil operari potest ubi non est…… necesse est, ut ubicumque est aliquis effectus Dei, ibi sit et ipse Deus effector1. . (S. Th., Contra Gent., 1. IV, c. XXI) – Questa modalità di presenza comune a tutti gli esseri, sostanzialmente la stessa ovunque, comprende tuttavia molti gradi, a seconda del numero e dell’eccellenza degli effetti prodotti, ovvero della maggiore o minore misura in cui ogni creatura partecipi alla perfezione divina. Così, come causa efficiente, Dio è presente in modo più perfetto, completo, pieno, nel mondo degli spiriti, piuttosto che in quello dei corpi, negli Angeli che negli uomini, nelle creature ragionevoli o viventi piuttosto che negli esseri non intelligenti o senza vita, nei giusti piuttosto che nei peccatori. Questo è ciò che Papa San Gregorio Magno insegna molto chiaramente: « Dio – dice – è dappertutto, ed intero dappertutto, perché Egli è in contatto con tutte le cose, anche se ha contatti diversi per cose diverse. Con le creature insensibili, ha contatti che danno l’essere senza vita; con gli animali, ha contatti che danno l’essere, la vita e la sensazione senza l’intelligenza; con la natura umana o angelica, ha contatti attraverso i quali dà sia l’essere, che la vita, la sensazione e l’intelligenza; con la natura umana o angelica, ha contatti attraverso i quali dà l’essere, la vita, la sensazione e l’intelligenza allo stesso tempo; e sebbene sia sempre simile a se stesso, tocca cose diverse in modo diverso » (S. Greg. M., In Ezech., 1.1, homil. VIII, n. 16.). – San Fulgenzio diceva dal suo canto: « Dio non è ugualmente presente in tutte le cose; perché se è dappertutto con la sua potenza, non è dappertutto con la sua grazia ». (S. Fulgent., Ad Trasim., 1. II, c. VIII.) E san Bernardo: « Dio, che è ovunque intero anche nella sua semplice sostanza, è tuttavia presente alle creature ragionevoli diversamente dalle altre; Egli è presente anche tanto nei buoni che nei cattivi, per la sua efficacia.Così, Egli è nelle creature non intelligenti in modo tale che esse non riescono ad afferrarlo. Gli esseri ragionevoli, al contrario, possono raggiungerlo attraverso la conoscenza, ma solo i buoni possono possederlo anche attraverso l’amore. È quindi solo nei buoni che Egli si trova nel modo da stare con essi con l’accordo delle volontà » (S. Bern., homil. III, super Evang. Missus est). – Per comprendere il senso e la portata di queste parole, è necessario ricordare una bella dottrina mutuata dall’Angelo della Scuola dai Padri greci, in particolare da San Dionigi, che l’aveva tratta dagli scritti di Platone. Secondo la dottrina platonica, in accordo su questo punto con gli insegnamenti di fede, ogni essere creato è una partecipazione dell’essere divino, ogni perfezione crea una partecipazione alla perfezione infinita….. Così la nostra natura è una partecipazione della perfezione divina: Propria natura uniuscujusque consista secundum quod per aliquem modum divinam perfectionem partecipat (Summa Theol, I, q. XIV, a. 6); la luce della nostra intelligenza, una partecipazione dell’intelligenza increata » (Ipsum lumen naturale rationis participatio quædam est divini luminis. » (S. Th., Summa Theol., I, q. XII, a. II, ad 3); la nostra vita, una partecipazione della vita di Dio. Insomma, tutto ciò che è buono, perfetto, positivo, che ha l’essere, in una parola, in qualunque creatura, tutto questo è una partecipazione dell’essere e bontà di Dio”. -Non dobbiamo concepire questa comunicazione che Dio fa di se stesso alle creature, come una divisione dell’essenza divina, come un frutto condiviso, i cui frammenti siano distribuiti; no, l’essenza divina mantiene la sua unità e la sua pienezza. Non bisogna al più immaginarlo come una vera e propria emanazione, un flusso, un’effusione della sostanza divina, come quando più flussi fluiscono da un’unica fonte, o quando un corpo caldo irradia intorno a sé ed impregna con il suo calore le cose che lo circondano; perché la bontà divina si diffonda all’esterno producendo esseri che gli somigliano, ma senza che prendano nulla dalla sostanza divina,nihil de substantiel ejus egreditur (S. Th. “Comment, in lib. de divinis Nom.”, c. II, lect. 6); è solo la sua somiglianza che passa nelle creature, così come il sigillo, lascia il suo segno nella cera, senza comunicargli nulla della sua sostanza. – Questa partecipazione delle creature alla bontà divina non consiste quindi in una certa comunità dell’essere e della perfezione, questo sarebbe panteismo. Le creature hanno un proprio essere, una loro bontà, che è loro intrinseca, e che è la causa formale che le costituisce ciò che esse sono: ed esse non si riferiscono a Dio che come causa estrinseca: all’idea secondo la quale sono state create, alla causa efficiente che le ha prodotte, al fine al quale devono tendere. (S. Th.: Summa Theol, I, q. vi, a. 4). Non a caso i Padri, e san Tommaso al loro seguito, chiamano le creature degli “esseri per partecipazione”, entia per participationem, e le loro perfezioni, delle perfezioni partecipate. Servendosi di queste espressioni, essi avevano un duplice scopo: in primo luogo, segnare chiaramente la profonda differenza tra il Creatore e la creatura, o meglio l’abisso che li separa; in secondo luogo, suggerire che ogni essere creato dipende essenzialmente da Dio come sua causa esemplare ed efficiente. Infatti, chi dice “essere partecipato”, dice un essere finito, limitato, definito; perché partecipare a qualcosa, ad esempio ad un’eredità, è prenderne la propria parte e non possederla interamente; dice anche un essere preso in prestito, un essere contingente, ricevuto da altri, ed essenzialmente dipendente da una causa che gli è estrinseca; poiché dal momento che non è l’essere in se stesso in tutta la sua pienezza, l’oceano dell’essere; bensì una semplice ruscello o un rigagnolo di essere, ciò che possiede dell’essere non gli appartiene in virtù della sua stessa essenza, ma gli viene dall’esterno, poiché ogni ruscello presuppone una fonte che lo generi (S. Th., Contra Gent., 1. II, ch. xv.). – Quindi, quando chiamiamo le creature degli esseri per partecipazione, vogliamo significare due cose: il primo è che le creature non possiedono l’essere in tutta la sua pienezza, ma che ne hanno solo una parte, una dose più o meno grande, ma essenzialmente finita e limitata; Il secondo è che questo essere limitato e vincolato non appartiene essenzialmente a loro, in virtù della loro stessa natura, ma è stato loro comunicato da una causa estrinseca, che non è altro che Dio; proprio come un ferro incandescente possiede il calore e la lucentezza del fuoco solo per azione di un agente esterno, e non in virtù della sua natura, ed è riscaldato solo per partecipazione. L’Essere divino, al contrario, non è un essere preso in prestito, un essere ricevuto da altri; Dio non lo deriva da nessuno, ma lo ha in virtù della sua stessa natura; Egli è quindi l’Essere che esiste da se stesso, Ens per se, l’Essere per essenza, Ens per essentiam, in contrapposizione all’essere contingente e dipendente da altri, Ens ab alio, ens per participationem. Così Egli è l’Essere per eccellenza, l’Essere stesso che sussiste da se stesso, ipsum esse per se subsistent, quindi l’Essere infinito, la pienezza dell’Essere, ipsa plenitudo essendi. Se Egli è la pienezza dell’Essere, nulla può esistere al di fuori di esso, che non derivi da Esso come dalla sua fonte e non è in Esso in modo sovraeminente; e tutto ciò che esiste fuori di Esso non è che l’essere semplicemente detto, ipsum esse simpliciter, cioè sono degli esseri, delle partecipazioni e delle imitazioni dell’Essere, entia per participationem (S. Th., Contra Gent., 1. II, C. XV.). – Ciò che diciamo dell’Essere deve applicarsi anche a tutte le altre perfezioni. Tutto ciò che Dio è, lo è per sé stesso, per sua essenza, e quindi senza misura; così, non solo è intelligente, saggio, buono, amorevole, potente, ma è anche l’intelligenza e la saggezza stessa, la bontà, l’amore, la potenza infinita, la fonte di ogni intelligenza e di ogni bontà. La creatura, al contrario, può anche essere intelligente, saggia, buona, potente, ma non è l’intelligenza stessa, né la saggezza, né l’amore; queste perfezioni non ne costituiscono l’essenza, ma sono semplicemente o delle facoltà, o delle proprietà, o delle operazioni distinte dall’essenza e limitate rispetto ad essa; in una parola, sono delle perfezioni partecipate.
III.
Dopo le spiegazioni che abbiamo appena dato, sarà facile cogliere il pensiero del nostro Dottore angelico quando dichiara che Dio è in tutte le cose come la causa è negli effetti che partecipano alla sua bontà. Ciò significa che Dio sia presente alle creature come causa efficiente, innanzitutto con la sua operazione: perché ogni agente deve essere in contatto con il soggetto su cui agisce in modo immediato; in seguito con i suoi doni, che costituiscono il termine di questa operazione, cioè con le perfezioni create, finite, contingenti che Egli comunica agli esseri di questo mondo, e che sono altrettante imitazioni lontane, copie imperfette, partecipazioni analogiche dell’essenza divina. – In effetti, è caratteristica della causa efficiente il comunicare ai suoi effetti, in misura maggiore o minore, la perfezione che possiede, e di essere così in essi non solo con il contatto della sua virtù, nel momento stesso in cui opera e finché dura la sua operazione, ma anche per la sua similitudine; poiché è nella natura stessa dell’agente di produrre all’esterno qualcosa che gli assomigli, essendo la perfezione dell’effetto solo una riproduzione, una partecipazione, una somiglianza di quella della causa (S. Th., Contra Gent., 1. 1, c. XXIX). – Ora Dio è la causa universale di tutto ciò che esiste, perché tutti gli esseri di questo mondo sono gli effetti della sua potenza. Essi tutti devono quindi possedere in essi qualcosa di Dio, non una porzione della sua sostanza, bensì una somiglianza ed una partecipazione della sua bontà a mo’ di vestigio o per modalità di immagine. Deus est in omnibus, sed in quibusdam per participationem suæ bonitatis, ut in lapide et in aliis hujusmodi; e talia non sunt Deus, sed habent in se aliquid Dei, non ejus substantiam, sed similitudinem ejus bonitatis (S. Th., In Epist. ad Coloss., c. II, lect. 2). E poiché gli effetti dell’attività divina sono molto diversi nelle varie creature, poiché i doni divini sono distribuiti in modo molto disuguale, sia nell’ordine della natura che in quello della grazia, il risultato è che gli esseri che partecipano in modo più eminente ai benefici del Creatore sono così più vicini a Dio, più uniti a Dio, più ricchi di Dio. – Da parte sua, Dio, in qualità di agente, esiste in modo più perfetto nelle creature che ricevono dalla sua munificenza maggiori liberalità; poiché, essendo presente direttamente e immediatamente attraverso la sua operazione, Egli è di conseguenza più strettamente unito agli esseri in cui opera cose più grandi. Tanto alicui naturæ perjectius unitur (Deus) quanto in ea magis suam virtutem exercet (S. Th., Opusc. 6 (alias 3) ad cantorem Antioch., c. VI). Se la sua sostanza sì semplice, sì una, sì indivisibile, che non conosce né divisione né frazione, non può essere trovata da qualche parte senza che vi sia interamente, lo stesso non si può dire della sua onnipotente operazione e della sua virtù, che, libera di esercitarsi all’esterno nella misura in cui lo ritiene opportuno, ha di fatto con le varie creature, contatti infinitamente diversificati. La nostra anima ci fornisce un termine di paragone su questo punto. Presente nella sua interezza con la sua sostanza a tutto il corpo e a ciascuna delle sue parti che essa anima e vivifica, essa è per la sua virtù più specialmente, più pienamente, più perfettamente unita alla testa, dove si trovano tutti i sensi, che al resto del corpo. E questo è comprensibile. Dotato, com’è, di molteplici facoltà, essa ha bisogno, per esercitare le sue funzioni, di vari organi che non si incontrano affatto in tutto il corpo e si trovano riuniti solo nella testa. Si può quindi dire in tutta verità che, presente interamente con la sua sostanza in tutto il corpo ed in ciascuna delle sue parti, essa è, per la sua virtù, principalmente ed eccellentemente nel cervello. Da qui le parole di San Bernardo: Anima cum in toto sit corpore, ottimo tamen e singularius est in capite, in quo sunt omnes sensus (S. Bern., serm, in Ps. Qui habitat). Ora comprendiamo come, nonostante la sua perfetta semplicità, Dio possa essere più qui che là; e come la sua presenza, come causa efficace, anche se formalmente e specificatamente ovunque la stessa, possa, se la consideriamo nella sua estensione, variare quasi all’infinito, nella misura in cui l’attività divina venga esercitata; così che, più completa, più eccellente, più perfetta, è là dove i termini di questa attività sono essi stessi più numerosi e più elevati; questa presenza diminuisce e diminuisce sempre di più, man mano che gli effetti della potenza divina si allontanino sempre più dalla perfezione della loro causa. Per questo si dice di alcuni esseri che siano vicini a Dio, mentre altri ne sono lontani, non certo per un riavvicinamento materiale e locale, ma per similitudine o dissomiglianza di natura o di grazia (S. Th., Samma Theol., I, q. VIII, a. I, ad 3.). Così, mentre gli Angeli, questi specchi puri della Divinità, mundissima Divinitatis specula, come li chiama San Dionigi, in qualche modo abitano nel vestibolo della Santissima Trinità perché, essendo le più perfette delle creature, sono quasi vicine a Dio, gli esseri materiali, al contrario, sono relegati agli ultimi confini della creazione, e si trovano più lontani da Dio per dissomiglianza di natura. – L’uomo si trova in mezzo a queste due classi di esseri; meno unito a Dio degli spiriti puri, ai quali è inferiore per sua natura, è incomparabilmente più vicino a Lui delle creature non intelligenti, incapaci di elevarsi al loro Autore attraverso la conoscenza e l’amore; si dice anche che l’uomo è stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio, Faciamus hominem ad imaginera e similitudinem nostram (Gen. I, 26), mentre gli animali, le piante e gli esseri inorganici non offrono più che una vestigia della Divinità. Ma è ancora al di sotto del mondo materiale che deve essere posto il peccatore, a causa della sua dissomiglianza morale con Dio « Ab eo (Deo) longe esse dicuntur, qui peccando dissimillimi facti sunt. » (S. Aug. 1. De præsentia Dei, c. V, n. 17.); ed è solo di questi che la Scrittura parla, quando dice che Dio è lontano dagli empi, Longe est Dominus ab impiis (Prov. XV, 29). Anche sant’Agostino, parlando della sua vita peccaminosa, diceva: “Ero allora lontano nella regione della dissomiglianza: « Longe eram in regione dissimilitudinis ». (S. Aug., Conf., 1. VII, c. X. “La lingua cristiana ha reso familiari questo tipo di espressioni. Intendiamo parlare di qualcuno che ha a lungo trascurato i suoi doveri religiosi e che langue nel peccato: si dice che vive lontano da Dio; se viene a mostrare delle disposizioni migliori: si dice che si sta avvicinando a Dio. E queste espressioni sono piene di precisione; perché, secondo il pensiero di San Prospero, non è attraversando le distanze che ci si avvicini o ci si allontani da Dio, ma è per la somiglianza, o per la dissomiglianza a Lui. Non locorum intervallis acceditur ad Deum, vel receditur ab eo; sed similitudo facit proximum, dissimilitudo longinquum (S. Prosp., Sentent. 123).
IV.
Perciò, sebbene Dio sia dappertutto, e interamente dappertutto, non è ugualmente dappertutto; ci sono alcuni luoghi dove risiede in modo così particolare tanto da poter essere chiamati la dimora di Dio. E se vi chiedete quali siano questi luoghi privilegiati, san Giovanni Damasceno vi risponde: Sono quelli dove l’operazione divina è più manifesta: Dicitur locus Dei, ubi ejus manifesta fit operatio. (S. Joan. Damasc., De fide orthod., 1. I, c. XVI.). È così, che il luogo dove un tempo Jehowah si degnò di manifestarsi a Giacobbe con visioni singolari, viene chiamato “la casa di Dio e la porta del cielo”. Dalle meraviglie fatte per lui, dalla scala misteriosa che vide nel suo sogno (Gen., XXVIII, 17), dalle magnifiche promesse fattegli dal Dio dei suoi padri, il Patriarca riconobbe la particolare presenza della Divinità in mezzo al deserto, e gridò con un santo entusiasmo intrecciato con timore: « Il Signore è veramente in questo luogo, ed io non lo sapevo: Vere Dominus è in loco isto, et ego nesciebam » (Gen., XXVIII, 16). Sotto l’antica legge, Dio abitava in modo particolare nel tabernacolo costruito da Mosè, e più tardi nel tempio di Gerusalemme, dove la sua presenza si manifestò sotto forma di una misteriosa nuvola. – Come non riconoscere anche una particolare presenza della Divinità, anche solo come causa efficace, nei profeti, ai quali lo Spirito Santo rivelava il futuro, negli Apostoli e negli autori ispirati, che illuminava con la sua luce? Nei Santi, che ricevono più abbondantemente i benefici della grazia? Nella Chiesa, che Egli assiste per preservarla dal terrore, santificarla e difenderla dai suoi nemici? Ovunque, in una parola, dove la sua operazione si fa sentire di più e dove diffonde i suoi doni con più abbondanza, sia nell’ordine della natura che in quello della grazia? – E perché è nei cieli che l’azione di Dio appare più chiaramente e si esercita in un modo più splendido; perché è là che la munificenza divina non conosce più confini; Dio, secondo il pensiero di san Bernardo, vi si trova in modo così speciale che, comparativamente parlando, non è quasi più altrove; per questo diciamo nell’orazione dominicale: Padre nostro che siete nei cieli (S. Bern., in Ps. Qui habitat, serm. I, n. 4.). – Cosa ci resta da concludere da tutto ciò che precede se non che Dio è in ogni essere ed in ogni luogo, non come il liquore è nel vaso che lo contiene, perché Dio non può essere contenuto dalle creature, ma è piuttosto Egli che le contiene conservandole (S. Th., Summ. Theol., I, q. VIII, a. I, ad a.); non come elemento costitutivo, come l’anima è nell’uomo (S. Th., Summa Theol, I, q. VIII, a. I.), e questo sarebbe panteismo; ma come causa, poiché l’agente è presente sul soggetto sul quale esercita l’azione immediata? È dappertutto, non direttamente e immediatamente con la sua sostanza, benché non sia assente da nessuna parte, ma per la sua operazione ed il contatto della sua virtù; perché da un lato la sostanza divina, essendo assoluta, non porta con sé né relazioni né rapporti con gli esseri del tempo; e dall’altro, essendo perfettamente semplice e priva di parti, non richiede di essere dispiegata nello spazio. Ma poiché nell’operazione di Dio, la virtù operativa e la sostanza non sono realmente distinte, bisogna riconoscere che dove c’è un effetto immediato della causalità divina, là Dio stesso è realmente e sostanzialmente presente (S. Th., Contra Gent., 1. IV, c. XXI). E poiché non c’è assolutamente nessuna creatura in cui Dio non eserciti la sua attività per preservarne l’essere e muoverla alle sue operazioni, ne consegue che Dio è ovunque, non solo con la sua azione o potenza, ma anche con la sua essenza. Quando poi la Scrittura, parlando della Divinità, ce la rappresenta che riempie il cielo e la terra: Numquid non cœlum et terram ego impleo? Dicit Dominus (Ger. XXIII, 24), non dobbiamo prendere queste espressioni alla lettera, non più degli altri antropomorfismi di cui il testo sacro abbonda, e comprendere l’immensità divina per modo di estensione, come un oceano senza rive che contiene nel suo seno tutto ciò che esiste e trabocca da ogni parte del mondo creato; spetta agli esegeti e ai teologi dare, in tali circostanze, il vero significato recondito in una forma di linguaggio che lo Spirito Santo ha voluto usare per mettere se stesso alla portata di tutti. Così fece san Tommaso per il testo che stiamo esaminando: « Dio – egli dice – riempie tutti i luoghi, non nel modo di un corpo che si dice riempia ogni spazio bandendo ogni altra sostanza materiale, ma dando e mantenendo l’essere alle cose che riempiono lo spazio e là si trovano » (S. Th., Samma Theol., I, q. VIII, a. a.). E poiché l’essere e le altre perfezioni sono comunicate alle creature in gradi che variano notevolmente, dal granello di sabbia al serafino che occupa la sommità delle gerarchie angeliche, la presenza di Dio, come causa efficiente, coinvolge anche molti gradi, a seconda di quanto ogni creatura partecipi alla perfezione divina. Questo è ciò che san Tommaso ha voluto dare ad intendere con le seguenti parole, ora comprensibili a tutti: « EstunuscommunismodusquoDeusestinomnibusrébusperessentiam, præsentiametpotentiam, sicutcausaineffectibusparticipantibusbonitatemipsius » (S. Th., Somma Theol., I, q XLIII, a. 3).
[A. CARMAGNOLA: STELLE FULGIDE – S. E. I. Torino, 1904
Omnibus omnia factus sum, ut omnes facerem salvos.
(1 Cor. IX, 21).
I.
Non vi ha certamente alcuno di sano intelletto, che non vegga la diversità immensa che passa fra l e conquiste fatte dai più celebri condottieri di eserciti e quelle fatte da Gesù Cristo. I più celebri condottieri di eserciti, quali ad esempio un Alessandro Magno, un Annibale, un Scipione, un Cesare, un Napoleone I conquistarono i corpi e la materia, Gesù Cristo conquistò i cuori e lo spirito; i più celebri condottieri di eserciti conquistarono tutto al più alcune nazioni, Gesù Cristo conquistò tutto il genere umano; i più celebri condottieri di eserciti nelle loro conquiste più che altro ingenerarono il terrore e l’odio. Gesù Cristo nelle conquiste sue ingenerò il conforto e l’amore. Ma una differenza anche più marcata tra le conquiste dei più celebri condottieri di eserciti e quelle di Gesù Cristo sta nei mezzi, di cui i primi ed il secondo si valsero. Perciocché mentre i primi per conquistare i popoli ricorsero alle armi, alla forza, alla violenza, il secondo non ricorse ad altro che alla parola dall’amore. Sì, Gesù Cristo venuto al mondo per illuminare coloro che giacevano nelle tenebre e nell’ombra di morte, predicò la sua celeste dottrina e persuase gli uomini ad accettarla e seguirla per mezzo di quella carità, con cui abbracciò nel cuor suo gli uomini d’ogni età e condizione, e piccoli e grandi, e giovani e vecchi, e ricchi e poveri, e dotti e ignoranti, e sani e infermi, e giusti e peccatori, e amici e nemici, per mezzo di quella carità, con cui si fece tutto a tutti e per tutti sacrificò la sua vita. Così, così Gesù Cristo ottenne in retaggio tutte le genti in conformità alla parola rivoltagli dal suo Padre Celeste: Et dabo tibi gentes hæreditatem tuam (Ps. II, 8). Ma i mezzi, di cui Gesù Cristo si valse egli per guadagnare le anime, volle pure che fossero i mezzi, di cui si avessero a valere mai sempre gli apostoli suoi, i suoi Vescovi, i suoi sacerdoti, i suoi missionari, i continuatori insomma dell’opera sua. « Andate, egli disse loro, in sostanza, andate, predicate il Vangelo a tutte le creature, insegnando a tutti quello che io ho insegnato a voi, e per rendere efficace la vostra predicazione siate a mia somiglianza pieni di carità adattandovi ai bisogni di tutti per tutti fare salvi; che anzi usate a tal fine il fior fiore della carità, cioè la dolcezza, la mansuetudine, l’umiltà imparando da me che sono mite ed umile di cuore ». E chi vi ha tra i veri Apostoli di Gesù Cristo, che a continuare quaggiù le sue grandi conquiste non abbia seguito questi suoi santi precetti? – Ma fra le schiere dei valorosi conquistatori di anime e fedeli esecutori delle norme a tal fine prescritte da Gesù Cristo, uno ve ne ha che oggi di preferenza attira a sé i nostri sguardi, e che anzi nell’esecuzione di tali norme sembra levarsi singolarissimo tra gli altri, il Santo cioè, che noi celebriamo come nostro Patrono, S. Francesco di Sales. Ed invero quella Chiesa, che nella infinita varietà delle orazioni da lei composte per interporre presso Dio la mediazione della infinita varietà de’ suoi santi ha saputo così mirabilmente innestare a ciascuna di esse le virtù caratteristiche ed i meriti speciali di ciascuno dei santi suoi, di qual tenore interpone ella la mediazione di Francesco di Sales. O Dio, ella prega, che alla salute delle anime il beato Francesco Confessore tuo e Pontefice hai voluto fatto tutto a tutti, ne concedi propizio, che per fasi della dolcezza della tua carità, indirizzandoci i suoi ammonimenti e suffragandoci i suoi meriti, impegniamo i gaudii eterni » . Così pertanto la Chiesa medesima ci mette in vista il singolare aspetto del nostro Santo e ce lo mostra a somiglianza e ad imitazione di Gesù Cristo grande conquistatore di anime per mezzo di quella dolce e soave carica da Gesù Cristo usata. Di modo che Francesco di Sales, come un altro dei più grandi conquistatori di anime, S. Paolo, può dire a tutta ragione: Omnibus omnia factus sum, ut omnes facerem salvos. Per la qual cosa io penso che non potrei meglio compiere oggi il mio ufficio di recitare le lodi del nostro santo Padrone che seguendo le traccE, che la Chiesa istessa ci ha date nella stupenda orazione composta in suo onore. – Ma tu, o dolcissimo Francesco, mentre io ti andrò lodando, spargi qualche po’ della dolcezza del cuor tuo sulle mie labbra, affinché meno aspramente io possa soddisfare il soavissimo compito.
II
La missione di conquista, che S. Francesco di Sales doveva compiere, non poteva esser meglio indicata che da quel sogno al tutto meraviglioso» che ebbe Carlo Augusto di Sales. quando ancor giovane era suo compagno di studio. Gli sembrò, come egli stesso narrava al Santo, di essere sulla cima del Moncenisio, di ritorno dall’Italia, con la faccia rivolta verso settentrione. Quand’ecco vide uscire dal lago di Ginevra un’idra a più teste ed avvicinarsi a grandi passi verso il monte con orribili fischi. E già aveva sormontate le più erte rupi, allorché tutto ad un tratto fattosele incontro Francesco armato di una spada a due tagli l’arrestò nel suo cammino ed infertele molte e gravissime ferite la forzò a ritornare addietro e a rintanarsi colà, donde era uscita. – Ed in vero Francesco per conquistare le anime a Dio doveva assalire e combattere l’idra infernale dell’eresia di Calvino, che nella diocesi di Ginevra aveva invaso massimamente il Chiablese e gli toccava perciò valerci di una spada a due tagli, cioè della divina parola resa efficace dal sicuro possesso della scienza e dall’uso costante di una dolce carità. Ed ecco Francesco fin dagli anni giovanili attendere seriamente a far acquisto dell’una e dell’altra. Sia pur dunque che nel castello di Sales, dove aperse gli occhi alla luce del giorno, dalla sua virtuosa madre, insieme col leggere e lo scrivere, possa apprendere per tempo le verità di nostra santa Religione, e non superficialmente, come ai più dei figlioletti accade, ma con sodezza e profondità; sia pure che a La Roche e ad Annecy egli impari la lingua latina e le umane lettere per guisa da superare costantemente i suoi condiscepoli e riportare mai sempre nello studio i principali premi: ciò è troppo poco per poter vincere gli intelletti schiavi dell’errore e domare le ritrose volontà. A far tesoro perciò di una scienza più profonda e a radunare nella sua mente le più vaste e più utili cognizioni eccolo per volere del genitore e per disposizione di Dio recarsi a Parigi, ed ivi appresa anzi tutto la retorica applicarsi in seguito all’apprendimento della soda filosofia e della sacra teologia, e addentrarsi quanto più gli era possibile nei loro intimi penetrali, e dappoi immergersi nello studio della lingua ebraica, perché gli torni più facile capire a fondo il senso delle sante scritture. Eccolo, dopo essersi arricchito di gran sapere a Parigi, portarsi a Padova e sotto la disciplina del celebre Pancirolo profittare per tal guisa nella scienza del diritto canonico e civile da conseguirne la laurea col pubblico plauso dei professori e condiscepoli. Eccolo sotto la guida del buon padre della Compagnia di Gesù, Possevino, innamorarsi sempre più delle scienze sacre e sempre più internarsi nello studio della Divina Scrittura e della Sacra Teologia, valendosi perciò della Somma teologica di S. Tommaso, delle opere di S. Bonaventura e delle Controversie del Cardinal Bellarmino; eccolo da questi studi passare alla lettura dei Santi Padri e percorrere poco alla volta S. Giovanni Grisostomo, S. Agostino, S. Girolamo, S. Bernardo e più ancora S. Cipriano, il cui stile armonioso tanto si confà all’indole sua, e impinguarsi di quei forti pensieri e di quei dolci affetti, per cui la sua parola quanto prima riporterà i più splendidi e salutari trionfi in mezzo ai popoli. Tant’è, Francesco, benché ancor giovane secolare già ha intesa la voce di Dio, che lo chiama al sacerdozio e all’apostolato, ed egli sa troppo bene che le labbra del sacerdote devono custodire la scienza, e che dalla bocca di lui i popoli si faranno a ricercare la interpretazione della divina legge: Labia sacerdotiscustodient scientiam, et legem requirent ex ore eius(Mal. II, 7); ed è perciò che con tanto ardore eifa acquisto della vera scienza.Dopo di che non c’è da far meraviglia che più tardi, passati già varii anni dopo i suoi studi,prendendo in Roma l’esame di Vescovo alla presenza del Sommo Pontefice, di otto Cardinali, diventi fra Vescovi e generali d’ordini religiosi, ed una gran moltitudine di altri illustri personaggi, e rispondendo a ben trentacinque sottilissime questioni,desse nondimeno sì chiare e sì sode risposte da destare in tutti la più alta ammirazione e da indurre il Pontefice a scendere dal trono, ad avvicinarsi a lui e ad abbracciarlo, dicendogli le parole della Sapienza: Bevi, figliuol mio. dell’acqua della tua cisterna e della viva sorgente de’ tuoi pozzi. Le tue acque scorrano al di fuori e diventino pubbliche fontane, ove tutti possano dissetarsi: Bibe, fili mi,aquam de cisterna tua et fluenta puteì tui; deriventurfontes tui foras, et in plateis aquas tuas divide(Prov. 1, l5, 16).
III.
Ma se la scienza è dote indispensabile a
chi vuol essere apostolo e conquistatore di anime, non è né la prima né la
sola: più di tutto importa la santità della vita, quella santità che altro non
è alla fin fine che un grande e vero amore a Gesù Cristo, congiunto ad una grande
e vera carità verso i prossimi. Or farà difetto a Francesco questa dote?
Tutt’altro; questa sarà la precipua. Miratelo: ancor tenero angioletto trova il
suo maggior piacere nell’essere condotto in chiesa e nello starvi in tale atteggiamento
da ispirare a quei che lo guardano gran divozione; non balbettando ancora che a
stento alcune parole staccate, è inteso a dire con grande meraviglia di tutti:
« Il buon Dio e la mamma mi amano molto! »; fatto più grandicello raduna intorno
a sé i fanciulli del vicinato, apprende loro le orazioni e le verità della
fede, e conducendoli alla chiesa parrocchiale fa lor compiere il giro del
battistero cantando il simbolo apostolico e poi li dirige verso il Santissimo
Sacramento per adorarlo; giovane studente ponendo la pietà per base di tutto,
si consacra alla cara madre Maria. si dà a frequentare i Sacramenti, a leggere
buoni libri, ad ascoltare con assiduità la parola di Dio, a meditarla ben anche
da se stesso, a vivere insomma interamente in Dio, con Dio, e per Iddio, prescrivendosi
un regolamento di vita tutto proprio di un’anima provetta nella santità.
Miratelo in seguito: già divenuto sacerdote e poi Vescovo con la più amabile
divozione celebra ogni dì la santa Messa, recita il suo breviario, passa le ore
intere a contemplare il nome di Gesù ed a ripetere: Viva l’Amor mio! Viva
l’amor mio! Con la massima frequenza visita il Santissimo Sacramento
dell’altare e con affetto di serafino il porta in processione e sempre riposa
sul cuore amoroso del suo Diletto. Ma dove più rifulge la fiamma del suo amore
si è nella condotta che tenne e nei sentimenti che ebbe, quando Iddio, essendo
egli ancor giovane studente a Parigi, lo provò nel crogiuolo della
tribolazione, permettendo che il nemico dell’uman genere gli desse la più
gagliarda delle tentazioni. « È inutile, prese a dirgli il re delle tenebre, è
inutile tutto il bene che tu vai facendo; perocché la tua perdizione con
irreparabile decreto è già scritta nel libro di Dio ». E questa voce d’inferno risuonando
del continuo al suo orecchio e su di essa fermando egli la sua riflessione; in
mezzo alla più crudele ambascia che l’andava struggendo : « Eh già, ripeteva a
se stesso, come pretendi tu, malvagio quale sei, di essere nel picciolo numero
dei predestinati?… Ma dunque, o Signore, io dovrò un giorno andar lontano da
voi? Oh amore! Oh carità! oh bellezza, alla quale ho consacrato tutti gli
affetti miei, non avrò dunque a godere le vostre delizie? e dovrò rinunziare ad
amarvi? e insieme con quella dei dannati dovrò unire la mia voce per bestemmiarvi
e maledirvi? Ah! se questo avrà a succedere, che io non abbia un dì a vedervi,
deh! date almeno questo sollievo al mio affanno: stabilite che io non abbia a
bestemmiarvi e maledirvi mai ». Così gemeva il misero giovane per circa due mesi;
ma alla fine, prima ancora che la Vergine lo liberasse poi del tutto da questo
travaglio, che conchiuse egli con Dio? Udite e meravigliate, che ben ve n’ha
ragione. « Se adunque, o Signore, egli disse, io non potrò più amarvi nell’altra
vita, fate almeno ch’io metta a profitto per amarvi tutti gli istanti della mia
breve dimora quaggiù, anzi concedetemi di guadagnarvi degli altri amanti più
avventurati di me ». Oh preghiera del più grande eroe! Oh amor di Dio il più
puro, il più ardente, il piò disinteressato! E non basta tutto questo per far
conoscere di qual tempra fosse il cuore di Francesco? Ed ora qual meraviglia
che egli fosse puro come un angelo, e che consacrato a Dio per man di Maria il
fiore della verginale purezza lo mantenesse mai sempre illibato, anche in mezzo
a gravi pericoli, cui scellerati compagni specialmente a Padova lo esposero! Qual
meraviglia ch’egli fosse sì mortificato da sopportare con gioia ogni sorta di disagio
e da andar ripetendo: Io non mi trovo mai a star così bene, come quando sto un
poco male! Beati i crocifissi! Gettiamoci in mezzo alle spine delle difficoltà,
lasciamoci passare il cuore dalla lancia delle persecuzioni, mangiamo
l’assenzio, beviamo il fiele, poiché così piace al nostro benigno Salvatore?
Qual meraviglia che egli fosse tanto e sì schiettamente umile, tanto e sì
risolutamente staccato dai beni della terra, tanto e sì appassionatamente
conforme al volere di Dio, tanto e si veramente buono?
IV.
Ma è tempo ornai che fornito di sì grandi doti egli si accinga di proposito alla grande impresa della salvezza delle anime, nel sacerdozio dapprima e nell’episcopato dappoi. Rinunzi adunque il padre suo di tentare più oltre ad espugnare il cuor del figlio perché si arrenda a unirsi in maritaggio con nobile e gentile donzella. Il valoroso Carlo Emanuele I di Savoia non faccia altre insistenze perché Francesco si adatti ad essere innalzato alla dignità senatoria; egli ha risoluto di entrar nella casa dei Signore e volendo essere ministro di lui e non altro non può patire d’essere intricato in negozi secolareschi. Eccolo pertanto arrivato alla meta sospirata: eccolo ornai nel campo delle sue conquiste. E qui spingiamoci senz’altro a contemplarlo nelle sue fatiche apostoliche. Sventurato Chiablese! da settant’anni ha rigettata la fede cattolica e geme miserabile schiavo dell’eresia calvinistica. L’augusto Duca Sabaudo, avendolo ridotto di nuovo sotto alla sua signoria, non vede il momento che la vera Religione torni a regnare fra quella gente, ben persuaso che non sarà fedele al suo principe, se continuerà a vivere ribelle alla Chiesa. Anche il Vescovo di Ginevra Monsignor Graniero arde di vivissima brama di tentare tare ogni mezzo per convertire quella regione, ma chi sarà mai quello tra i suoi sacerdoti, cui basti l’animo di recarsi colà, di imprendervi gravose fatiche, di sottostare a mille rischi e pericoli? Chi! Ah! se alla proposta ch’ei rivolge colle lagrime agli occhi ai preti della sua diocesi, a tal fine raccolti presso di sé, non v’ha alcuno che si faccia generosamente innanzi a dirgli: Eccomi, son qua io; vi sarà Francesco. Il quale benedetto dal suo Vescovo con grande effusione di affetto va, e se all’esterno non porta seco che il breviario, la corona e la sacra bibbia, dentro al cuore porta una tale carità, uno zelo così ardente della gloria di Dio e della salvezza delle anime, che non tarderà a far delle grandi conquiste. – Ah! è vero, arrivato al castello delle Allinghe, girando di là lo sguardo sul circostante paese discoprirà rovesciati a terra i sacri templi e i campanili, rovinati i monasteri, spezzate le croci, atterrato ogni segno dell’antica fede, giacche l’eresia a guisa di turbine furente ha ivi distrutto o profanato ogni memoria di nostra Religione. È vero, pur recandosi difilato a Tonone, nido principale degli eretici, cominciando ivi a predicar la parola, di Dio, da principio, si vedrà da tutti fuggito e posto in ludibrio. È vero, ogni sera sarà costretto ad uscire di quella città e compiere quattro miglia di aspro cammino per ricondursi alla fortezza delle Allinghe, e talora dovrà aprirsi la strada tra le nevi, e tal’altra strisciarsi carpone sopra una trave incrostata di ghiaccio per trapassare la Duranza, e qua smarrendo la via e respinto da ogni abituro serenare la notte sotto un cielo gelato, e là recarsi a gran ventura se può scampar dalla morte, a cui è ricerco, riparandosi dentro un forno ancor tiepido. È vero per un anno intero, pur andando e tornando ogni dì a Tonone, non ritrarrà alcun frutto dalla sua missione, e quei sconsigliati continueranno a fuggirlo: ma no, non verrà meno la carità che in fiamma il cuor di Francesco, quella carità che tutto sopporta, che tutto sostiene, che tutto spera, quella carità che induce l’apostolo a gridare: Impendam etsuperimpendar prò animabus vestris(2 Cor. XII, 15); mi sacrificherò e tornerò a sacrificarmi per le vostre anime, quella carità che lo sprona a farsi tutto a tutti per far tutti salvi: Omnibus omnia factus, utomnes faceret salvos; e questa carità alfine trionfa. – O Chiesa di Ginevra, solleva la testa e indossa di bel nuovo le vesti della giocondità! E non odi suonar l’ora bramata della conversione de’ tuoi popoli? E non vedi i villaggi, le borgate, le città ritornare gaudenti alla fede di Cristo? E non scorgi rialzarsi i templi, ripiantarsi le croci, risorgere il culto della Religione Cattolica? Sì,i protervi si sono ammolliti. i duri si sono spezzati, i riottosi si son dati per vinti. Essi si son fermati alfine ad udire la parola di Francesco e questa parola li ha conquistati. Fremano pure di rabbia impotente i demoni, ma esultino di nuova gioia gli Angeli del cielo, che son ben settantadue mila gli eretici che Francesco ha convertiti. Oli trionfo! oh vittoria! oh conquista! E qual vanto maggiore potrà levare di sé un santo del cielo? Sì, al certo un gran numero di apostoli porranno render gloria a Dio per avergli guadagnate intere nazioni traendole dal paganesimo al Vangelo, ma rendergli gloria per avere convertiti un numero sì grande di eretici fra tutti i santi della Chiesa di Gesù Cristo finora solo Francesco di Sales il potrà, fattosi tutto anche agli eretici per fare salvi anch’essi: omnibus omnia factus, utomnes faceret salvos.
V.
Ed ora stupiremo ancora se avendo riportati sì grandi successi nei paesi infetti dell’eresia, altri non inferiori ne riporti nei paesi cattolici, e a Digione, e a Grenoble, e a Lione, e a Parigi, dove con tanta insistenza lo si chiama per intendere la sua parola, e dove non solo da gente di umile condizione, ma da magistrati ed uffiziali, da prelati e religiosi, da re e da regine viene, ascoltato con grandissimo frutto? Stupiremo ancora se egli avendo ricercato con tanto ardore quelli che erano lontani dalla fede di Cristo, con lo stesso ardore siasi studiato di mantenere fermi nella stessa quei che già la possedevano, e se riconoscendo che a tutti era debitore non solo ai sapienti, ma eziandio agli ignoranti, sapientibus et insipientibus debitorsum (Rom. I, 14), andasse talora tra la gente ruvida e incolta, su nei paesi più alpestri, tra i poveri montanari per parlar loro di Dio, per innamorarli della vita cristiana, trascinandosi carpone di balza in balza, segnando il cammino di orme sanguigne, e non restando né per inclemenza di cielo, né per larghezza e rapidità di fiumi, né per profondi burroni, né per rigidezza di gelo? Stupiremo ancora che i poverelli, i mendici, gli infermi, gli storpi formassero la sua vera famiglia e non solo invadessero le sue stanze vescovili, ma fossero da lui stesso cercati nei loro abituri e largamente soccorsi? Stupiremo ancora che, a somiglianza del Divin Redentore, cui stavano tanto a cuore i fanciulli, anch’egli li amasse per tal modo da trattenersi affettuosamente con loro per infondere nelle loro tenere animucce l’amor di Dio e l’orrore al peccato, e discendere mai sempre, ogni domenica che potesse, nella sua cattedrale per far loro il catechismo? Stupiremo che le anime peccatrici fossero per tal guisa la sua passione da ricercarle con la massima sollecitudine, da accoglierle al suo seno pentite con la più viva gioia e affetto? e che però in gran numero traessero esse medesime a lui dai paesi più lontani, spinte dalla fama della sua grande carità? Stupiremo infine che le anime buone di ogni età, d’ogni sesso, d’ogni condizione, e giovani donzelle e sagge spose, e dame venerande e illustri cavalieri, e magistrati insigni e valorosi militari, e pii sacerdoti e sante religiose ricorressero tutti a lui per averlo a guida e moderatore della loro coscienza? e per virtù dei suoi ammaestramenti camminassero spediti nella via della perfezione? O Santa Francesca di Chantal come potrei io tacer qui il tuo venerato nome? E non sei tu che sotto la scorta di Francesco di Sales per i vari stati della vita salisti ben presto ai più alti gradi della santità? Non sei tu che ti prestasti nelle mani di lui docile strumento alla fondazione di quel sacro ordine della Visitazione, dove tante anime elette avrebbero trovato un nido di pace e di pietà, e di dove sarebbe uscita un dì l’innamorata e l’apostola del Sacro Cuore di Gesù, la beata Margherita Alacoque? O Francesca, tu sola basteresti a rendere immortale il Santo di Sales. Perché tu sola basti a mostrare di qual guisa ei sapesse coltivare e santificare le anime. Tant’è: Omnibus omnia factus,ut omues faceret salvos.
VI.
Ma chi può contener lo zelo di un cuore tutto infiammato d’amore per Dio e per gli nomini?’Chi può segnargli e misurargli i mezzi per glorificare l’uno e salvare gli altri? Non pago adunque di mettere a profitto la sua parola il nostro caro Francesco dia pur mano alla penna e a somiglianza di quel dottore del Vangelo, che cava fuori dal suo tesoro cose nuove e antiche, qui profert de thesaurosuo nova et verterà (S. Matth. X III, 52) in un modo mirabilmente nuovo esponga alle anime di buona volontà l’arte antica appresaci dallo stesso Gesù Cristo di amare Iddio. E così egli fa. Ed ecco venir alla luce quell’amabile Filotea, che raffigurando quell’angelo, che guida il piccolo Tobia nel pericoloso cammino di questa vita, segna le vie più facili per andare a Dio e mostra a tutta prova quanto sia soave il giogo di Lui e leggiero il peso della sua legge. Ed ecco uscir fuori quel Teotimo, in cui il Santo, dipingendo senza avvedersene tutto il suo cuore, a guisa di ardente Serafino infonde il sacro fuoco, di cui egli ardeva come i beati spiriti del cielo, nel cuore dei più bramosi della santità e della perfezione. Ed ecco quelle Lettere, nelle quali ad ogni ordine di persone comunicando la soavità de’ suoi sentimenti, or discioglie i dubbii più forti, or disgombra le nebbie più fitte, or acqueta le più strane inquietudini, ora versa dolce balsamo nelle più gravi ferite, ora conforta e sostiene ogni più misera debolezza. Ecco quello stendardo della Croce e quelle Controversie, che prima scritte in tante copie a mano e sparse tra gli eretici gli servirono come di poderoso strumento ad operare la loro conversione, e nelle quali anche le più ardue ed intricate questioni sono sciolte con una chiarezza incantevole e con la forma più amabile. Ecco quegli scritti d’ogni maniera, e dogmatici, e polemici, e morali, e ascetici, e pastorali, e disciplinari, che lo fecero proclamare dai Cardinali Du Perron e di Berulle il teologo più valente del suo tempo, che dalla Sorbona gli meritarono l’onore di essere messo a pari degli Ambrogi, degli Agostini e dei Gregorii; che costrinsero un Giacomo I, re scismatico d’Inghilterra a riconoscere lo spirito di Dio, da cui era animato l’autore e gli strapparono l’asserzione di non aver letto mai nulla di simile, che infine dalla Chiesa Cattolica, sotto il Pontificato di Pio IX, il fecero incoronare dell’aureola di Dottore. Ecco insomma avverarsi alla lettera le parole del libro dei Proverbi rivoltegli da Clemente VIII: « Va, o figliuolo, e bevi l’acqua della tua cisterna e della viva sorgente del tuo pozzo: siano diffuse al di fuori le tue fonti e nelle piazze dividi le tue acque ». Ecco Francesco anche per mezzo degli scritti farsi tutto a tutti per far tutti salvi, e non solo i suoi contemporanei, ma eziandio centinaia e migliaia di anime, che sarebbero in seguito comparse sulla faccia della terra: Omnibus omnia factvs,ut omnes faceret salvos. Ed oh! Dio volesse che tanti Cristiani dei nostri dì, e massime tanti giovani e tante donzelle, anziché correre avventatamente a pascere la mente e il cuore del pestifero veleno (che trovasi a larga mano cosparso in tanti romanzi osceni, in tante opere empie ed immorali, dessero mano volonterosi ai soavissimi libri di Francesco di Sales, oltreché gusterebbero il dolce, di cui sono ripieni, nutrirebbero altresì la loro anima di cibo vitale e imparerebbero a rendersi buoni davvero e cari a Dio e agli uomini.
VII.
Ma quale fu alla fin fine il gran segreto, con cui Francesco, sia con la parola, sia con gli scritti, riuscì a trascinare dietro di sé i cuori e a guadagnarli alla santità? Non altro massimamente che quella virtù, la quale sovra le altre rese il suo nome tanto caro e glorioso al mondo, quella virtù che costituisce il fior fiore della carità, la virtù della dolcezza. È di questa virtù, che a costo di sforzi meravigliosi egli fece particolare acquisto. A forza di esami di coscienza, continuati ventidue anni, a forza di continuo vegliare su di sé e di combattere le sue inclinazioni, a forza, come egli scherzevolmente diceva, di pigliare la sua iracondia per il collo, di frenarla e cacciarsela sotto i piedi? ottenne tanta signoria di se stesso, che a ragione fu detto come Mosè l’uomo più dolce e mansueto che vivesse ai suoi dì, il santo che meglio ritraesse la mitezza di nostro Signor Gesù Cristo. Ed è questa dolcezza che a piene mani trasfuse nei suoi scritti, è di questa dolcezza che si valse per domare gli animi inferociti degli eretici e conquistarli alla fede, tanto da far dire al dottissimo Cardinale Du Perron che confutarli lo potea ancor esso, ma convertirli era merito soltanto di Francesco; è con questa dolcezza che riuscì persino a trionfare del mal animo, dei suoi nemici. Sembrerebbe possibile? La sua grande bontà è spina negli occhi dei tristi, e v’ha chi insolentemente lo ingiuria, e lo pone in caricatura, e si reca dappoi quasi ogni notte a far strepiti sotto le finestre del suo palazzo e a scagliare sassi nelle invetriate; v’ha chi gli lancia contro invettive e vituperi, e scende a villani fatti contro la sua autorità, e finisce per attentare alla sua vita sparandogli contro un’arma da fuoco. Ma egli che fa? Non solo perdona e prega il Signore pe’ suoi offensori, ma stende loro le braccia per serrarseli al seno e interporre la sua mediazione presso al Principe per scamparli dalla meritata pena, e protesta che quando pure gli avessero cavato un occhio, li avrebbe amorevolmente guardati con l’altro. E non basta, che quando una scellerata cortigiana lo dice autore d’una lettera infame, e per tre anni interi facendo inorridire Annecy fa pur gemere il santo sotto il peso della più orrenda calunnia, tutt’altro che venir meno alla sua dolcezza, non pensando neppur a scolparsi ei va dicendo con tutta calma: « Sa ben il Signore, di qual riputazione io abbisogni; io non ne voglio altra se non quella che mi dà; io dormo sicuro nella sua divina Provvidenza. E indotta al fine la miserabile al cospetto della morte a confessar la calunnia, tutt’altro che menarne festa e tripudio, piange la sua dipartita, ordina per lei pubblici suffragi e si duole di non aver potuto trovarsi al letto delle sue agonie per dirle a viva voce la parola del perdono. Ah! dica pure la Chantal, che ne ha ben ragione: « Io credo sia impossibile esprimere parole la dolcezza squisita, che Dio diffuse nell’anima di Francesco. E Vincenzo de Paoli esclami pure fuori di sé per meraviglia: « O Dio, se Monsignor di Ginevra è così buono, quanto più sarete buono voi! ». Or comprendo, o fratelli, perché il grande e venerato nostro Padre D. Bosco abbia voluto Francesco di Sales a patrono e modello de’ suoi figli. Se noi assecondando le sue mire, avremo nel cuor nostro qualche po’ di quella dolce carità che ebbe nel cuor suo Francesco, e che sì mirabilmente ricopiò in se stesso l’amato nostro Padre, anche noi a lor somiglianza diventeremo grandi conquistatori di anime. Ora comprendo perché la Chiesa prega oggi Iddio che, avendo voluto Francesco fatto tutto a tutti alla salute delle anime, ne conceda propizio che, perfusi della dolcezza della sua carità, indirizzandoci gli ammaestramenti di lui e suffragandoci i suoi meriti, conseguiamo i gaudi eterni. Se i popoli cristiani, oggidì massimamente, smettendo l’ira di parte, da cui son dominati, e la lotta fraterna con cui si travagliano, si appiglieranno in quella vece allo spirito della dolce carità di Francesco di Sales, tranquilli e felici incederanno alla meta gloriosa, cui Dio li ha destinati, e saranno veramente quei popoli avventurati, tra i quali regna Iddio e la sua benedizione. Almeno noi, o dilettissimi, che professiamo amore e divozione speciale all’amabilissimo santo, almeno noi siamo risoluti di camminare sulle sue orme gloriose, di seguire i suoi belli ammaestramenti e di imitare i suoi ammirabili esempi. E se egli il dì degli Innocenti dell’anno 1622 nella città di Lione dopo cinquantacinque anni di vita spesa interamente ad amare Iddio e a salvar delle anime, morì tutto sorridente e sereno, anche noi in quel dì, cui piacerà al Signore, ci addormenteremo in soavissima pace. Ma tu, o gran Santo, dall’alto de’ cieli ascolta l’invito, che il tuo gran devoto e imitatore D. Bosco a te d’accanto ti va oggi facendo: Leva in circuitu, oculos tuos et vide(Is. LX): gira intorno lo sguardo e vedi. Vedi questa grande famiglia di sacerdoti, di chierici e di laici, che da D. Bosco fondata, sparsa ornai sino agli estremi confini della terra, va suscitando anche nei pampas della Patagonia, fra gli scogli delle Malvine e nelle foreste del Brasile dei nuovi figli. Vedi queste schiere senza numero di caste e generose donzelle, che da D. Bosco accolte sotto il manto tutelare della Vergine Ausiliatrice van compiendo pel mondo prodigi di carità e di abnegazione. Vedi questo esercito sterminato di baldi garzoni e di pie giovanette, che dallo spirito di D. Bosco animati spiegano all’aure il vessillo della virtù e della religione di fronte ad un mondo corrotto e miscredente: vedi. Questi tutti per volere di D.Bosco sono figli tuoi; questi tutti, anche dalle più lontane parti del mondo, sono raccolti nel tuo nome: Omnes isti congregati sunt, venermttibi; filli tui de longe venient et filiæ tuæ de latere surgent. Come figli tuoi riguardali adunque, li benedici e li proteggi, sì che quel nome, che da te si hanno, sia nome benedetto sempre attraverso i secoli, sia nome che sempre esprima al vivo colui, che al par di te si fa’ tutto a tutti per far tutti salvi: omnibusomnia factus, ut omnes faceret salvos.
Per meglio illustrare la figura del Santo protettore di tutti gli scrittori cattolici e di coloro che promuovono il culto cattolico a mezzo stampa o simili – quindi Santo protettore del nostro blog – invitiamo alla lettura della Lettera Enciclica di S. S. PIO XI su S. Francesco di Sales: Rerum omnium pertubationem.
ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉSET MÉDITÉS
A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES
SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.
[I Salmi
tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e
delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli
oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]
Par M. l’Abbé
J.-M. PÉRONNE,
CHANOINE
TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et
d’Éloquence sacrée.
[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di
Scrittura santa e sacra Eloquenza]
TOME DEUXIÈME.
PARIS -LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE
DELAMMIE, 1878
IMPRIM.
Soissons, le 18
août 1878.
f ODON, Evêque de Soissons et Laon.
Salmo 92
Laus
cantici ipsi David, in die ante sabbatum, quando fundata est terra.
[1] Dominus regnavit, decorem indutus est:
indutus est Dominus fortitudinem, et præcinxit se. Etenim firmavit orbem terrae, qui non commovebitur.
[4] a vocibus aquarum multarum. Mirabiles elationes maris; mirabilis in altis Dominus.
[5] Testimonia tua credibilia facta sunt nimis; domum tuam decet sanctitudo, Domine, in longitudinem dierum.
[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.
Vol. XI
Venezia, Girol.
Tasso ed. MDCCCXXXI]
SALMO XCII
Il titolo non si legge nei codici
ebraici. Fu aggiunto dai LXX, forse per dire che il Salmo aveasi a cantare nella
feria sesta, il giorno avanti il sabbato, perché in quel di fu abitata la terra
dall’uomo, che Dio in quel dì creò; e in quel dì fu riparata e stabilita la
terra per la morte di Cristo. Argomento è il regno di Cristo per creazione e
redenzione.
Lauda,
ovver cantico dello stesso David pel giorno che precede il sabbato, quando la
terra fu fondata.
1. Il Signore ha preso possesso del regno, si è ammantato di splendore, si è ammantato di fortezza, e ne ha cinti i suoi fianchi. Perocché egli diede fermo stato alla terra, la quale non sarà smossa.
2.
Fin d’allora fu preparato, o Dio, il tuo trono; tu sei ab eterno.
3.
I fiumi hanno alzata, o Signore, hanno alzata i fiumi la loro voce. I fiumi
hanno alzati i loro flutti sopra lo strepito delle molte acque.
4.
Mirabil cosa l’elevazione del mare: più mirabile il Signore nell’alto.
5. Le tue parole sono oltremodo degne di fede; alla casa tua si conviene, o Signore, la santità
per la lunghezza dei secoli
1° Sommario analitico
Davide, contemplando l’ammirevole
spettacolo della creazione, considera ed ammira Dio:
I – Come il Re del cielo rivestito di
gloria e di forza (1);
II – Come il Creatore della terra: 1° che
Egli ha rafforzato fin dall’inizio; 2° e costituito come base del suo trono (2).
III. – Come il Sovrano Padrone delle
acque:
1° dei fiumi che elevano le loro onde
rumorose (3);
2° del mare le cui sollevazioni
dimostrano la mirabile potenza di Dio (4).
IV. – Come Legislatore degli uomini,
1° dei quali inclina l’intelligenza nel
credere ai misteri;
2° dei quali orna il cuore di giustizia
e santità (5).
2° Sommario analitico
Il Re-Profeta considera Gesù-Cristo
nella sua resurrezione e lo proclama:
I. – Mirabile in se stesso:
1° a causa della gloria del suo corpo
resuscitato;
2° della sua immortalità, della sua
agilità, della sua sottigliezza (1).
II. – Potente nella sua Chiesa:
1° che Egli fonda in modo incrollabile;
2° di cui fa la sede del suo impero per
l’eternità (2).
III. – Ammirabile nei suoi Apostoli:
1° come i fiumi, essi elevano la voce e
le loro onde rumorose (3);
2° essi riempiono il popolo come il mare
con l’abbondanza delle acque celesti (4).
IV. – Amabile ed attraente per i fedeli:
1° Egli rivela loro dei misteri
degnissimi di credenza;
2° comanda loro una santità ragionevole
e di tutta giustizia (5).
Spiegazioni e Considerazioni
I. — 1, 2.
ff. 1, 2. –« Il Signore ha regnato, si è rivestito
di gloria; il Signore si è rivestito di forza, si è cinto i fianchi. » Noi
vediamo che Egli si è rivestito di due cose, di gloria e di forza. Ma a quale
scopo? Per fondare la terra. Ecco in effetti ciò che segue: « perché Egli ha
stabilito il pianeta terra, che non sarà distrutto. » Come lo ha stabilito?
Rivestendosi di gloria. E non essendo sufficiente il rivestirsi di gloria si
riveste anche di forza. Perché dunque la gloria, e perché la forza? Quando
nostro Signore è venuto nella carne tra coloro ai quali predicava il Vangelo
del regno, piaceva agli uni e dispiaceva agli altri. Gli uni dicevano: è un
uomo dabbene; gli altri dicevano: no, ma seduce la folla (Giov. VII, 12). Gli uni
dicevano bene di Lui; gli atri lo calunniavano, lo deridevano, erano mordaci,
gli profondevano oltraggi; dunque per coloro ai quali piaceva, « … Egli si è
rivestito di gloria », per coloro ai quali dispiaceva, « … Egli si è rivestito
di forza. » Imitate così Nostro Signore,
alfine di diventare come il suo vestito; siate la sua gloria nei riguardi di
coloro ai quali piacciono le vostre buone opere; siate forti contro coloro che
vi calunniano … « mostriamoci ministri di Dio – dice l’Apostolo – con le armi
della giustizia, a destra ed a sinistra. » Vedete dove si trova la gloria e
dove si trova la forza: « nella gloria e nell’ignominia. Brillante nella
gloria, forte nell’ignominia. Presso gli uni, Egli predicava con gloria; presso
gli altri, trovava disprezzo ed ignominia. Egli portava la gloria a coloro ai
quali piaceva, e la forza contro coloro ai quali dispiaceva. (S.
Agost.). – « Egli ha
stabilito il vasto pianeta terra, di modo che non sarà mai distrutto. » Per
questo pianeta terra si può intendere, in un diverso senso, molto legittimo,
questa terra che noi calpestiamo con i piedi, oppure la Chiesa di Gesù-Cristo o
l’uomo giusto. – Il grande Apostolo parlando di Gesù-Cristo, dice: « … è per
Lui che tutto è stato creato nel cielo e sulla terra, le cose visibili e le
invisibili, i Troni, le Dominazioni, i Principati, le Potenze, tutto è stato
creato per mezzo di Lui e per Lui. Egli è prima di tutto, e tutte le cose
sussistono in Lui. » (Coloss. I, 16, 17). – La Chiesa è
una terra immutabile, raffermata per sempre con le mani del Signore: è questo
regno che non è soggetto a cambiamenti (Hebr. XII, 28); è questa città
costruita come un quadrato, allo stesso modo lunga e larga, come quella che ha
visto l’Apostolo san Giovanni (Apoc. XXI, 10); è la casa costruita
sulla pietra contro la quale le porte dell’inferno non prevarranno mai; è la
colonna ed il sostegno della verità (I Tim. II, 15); è questo solido
fondamento di Dio che sussiste e resta indistruttibile (II Tim. II, 19). La
Chiesa di Gesù Cristo è rafforzata dalla grazia, dalla fede, dai miracoli, i
Sacramenti e tutti gli altri doni che le prodiga il Salvatore. Questo pianeta
terra, rafforzata dalla mano di Dio, è anche l’uomo giusto. – C’è un pianeta
terra che non sarà distrutto. C’è un pianeta terra che sarà distrutto; perché i buoni che
sono chiusi nella fede sono il pianeta terra, perché non si dice che essi siano
a parte; ed i malvagi che non restano chiusi nella fede quando soffrono qualche
tribolazione, sono anch’essi il pianeta terra. C’è dunque un corpo terrestre
mobile, ed un corpo terrestre immobile. (S. Agost.). – Il regno di Dio, è regno
di tutti i secoli, come dice il Salmista; tuttavia, secondo la nostra maniera
di concepire, questo regno non è cominciato per noi se non alla creazione. –
Regno di Gesù Cristo dopo la sua resurrezione, quando il suo corpo fu rivestito
di gloria, di maestà, di forza, e ricevette ogni potere nel cielo e sulla
terra. – Non c’è parola in questo versetto che un’anima fedele non debba
meditare con attenzione. Dio è il re di questo universo; è a Lui che tutte le
creature devono l’onore, l’obbedienza e l’omaggio per ciò che esse sono e
posseggono. Dio è rivestito di gloria e di forza. « Dio si è preparato (con la
creazione): la parola del testo e delle versioni danno l’idea di qualcuno che
si è cinto le reni, come per essere pronto ad agire con prontezza ed efficacia.
» È una figura che rappresenta il
decreto di Dio, la volontà che ha avuto di creare questo universo. Quando ha
formato questo decreto? Quando ha avuto questa volontà? Fin dall’eternità,
senza dubbio, perché tutto è eterno in Dio. Ma l’esecuzione non ha luogo che
nei tempi, vale a dire quando Dio ha creato il mondo, il tempo è cominciato, ed
col tempo tutto l’universo, « Dio ha stabilito la terra, essa non sarà
distrutta. » Queste parole indicano la conservazione che è tanto l’opera del
Signore così come la creazione. Il mondo creato non ha forza in sé per
perseverare nello stato in cui Dio lo ha messo dall’inizio. Perché se esiste in
un istante, non ne consegue che debba esistere nell’istante seguente. Così è
Dio che crea questo universo in tutti gli istanti: Creazione differente da
quella che ha estratto l’universo dal nulla, ma che ne ha la medesima forza; è
per questo che la conservazione è chiamata a giusto titolo, una creazione
continua. Cosa c’è dunque di vero in questa parola dell’Apostolo: « Noi viviamo
in Lui, noi abbiamo i nostri movimenti in Lui, noi siamo in Lui! » (Berthier).
– Trono di Dio, indipendente dai luoghi e dai tempi, trono stabilito fin
dall’eternità, senza alcun rapporto con le sue creature; trono stabilito in
fondo ai nostri cuori, per regnarvi sovranamente. (Dug.). – Qual è il trono di Dio? Dove è il trono di Dio? Nei suoi
Santi. Volete essere il trono di Dio? Preparate nei vostri cuori un luogo ove
prenderà posto. Cos’è il trono di Dio se non il luogo ove Egli abita? Ove abita
Dio se non nel suo tempio? Qual è il suo tempio? È compreso tra mura? No!
Questo mondo sarebbe per caso il tempio di Dio, perché è così vasto, e
sembrerebbe degno di contenere Dio? Il mondo non saprebbe contenere Colui dal
quale è stato fatto. Ma dove è contenuto Dio? In un’anima in pace, in un’anima
giusta; è essa che porta Dio. Che cosa ammirevole! Certo Dio è grande; per i
forti è pesante; per i deboli è leggero. Chi sono coloro che ho chiamato forti?
I superbi che non sanno se non presumere delle loro forze; perché la debolezza
che nasce dall’umiltà è la più grande delle forze. Ascoltate l’Apostolo: « … è
quando sono debole che io sono forte. » (I Cor.
XII, 10). Èlà
che io vi ho segnalato che non c’è un istante che il Signore fosse cinto di
forza, quando ha insegnato l’umiltà ai suoi discepoli. Ecco dunque qual è il
trono di Dio del quale parla chiaramente un Profeta in altro luogo: « Su chi
riposerà il mio spirito? », cioè dove riposerà lo Spirito di Dio se non sul trono
di Dio? Ascoltate la descrizione che fa di questo trono: forse vi aspettate di
sentir parlare di un palazzo di marmo, con corti spaziose, con tetti elevati e
brillanti; ascoltate qual è il trono che Dio si prepara: « su chi riposerà il
mio spirito? Sull’uomo umile e che trama
ascoltando la mia parola. » Se siete
umile e tranquillo, Dio abiterà in voi. Dio è elevato; Egli non abiterà in voi
se pretendete di essere elevato. Forse pensate che bisogna essere elevato
perché Dio abiti in voi? No: siate umile e tranquillo, tremate ascoltando le
sue parole ed Egli abiterà in voi. Egli non teme di abitare una casa che trema,
perché Egli la rafferma (S. Agost.).
II. – 3, 4.
ff. 3, 4. –La creazione e l’ordine della natura
danno almeno a tutti la sensazione dell’infinito, se non lo rivelano. La
ragione e la coscienza non hanno che da fecondare e sviluppare come un germe
questa prima impressione, per arrivare alla conoscenza di Dio. Ciascuno ha il
suo posto speciale in questo e sempre splendido spettacolo della natura, e
ciascuno ha la sua scena prediletta. Per gli uni sono le fresche armonie del
mattino ed i raggi nascenti dell’aurora; per gli altri i bagliori del sole che
tramonta e l’incendio delle nuvole infiammate di riflessi all’orizzonte; a
questi altri le varietà affascinanti delle stagioni, i paesaggi, le montagne, i
frutti, i fiori; per quelli la contemplazione dei mondi stellati, l’accordo
delle sfere luminose pressate come grani di sabbia nel deserto, negli
innumerevoli spazi del firmamento; per altri infine, il mare con i suo vaghi
muggii, con le mille voci sublimi dei suoi venti e delle vaste masse d’acqua di
cui sono ricolmi, di cui parla il Profeta. Che il mare sia bello, o mio Dio! Ma
il Signore è ancora più mirabile nei cieli (Claude, Psaumes.). –
Tutti gli uomini apostolici, da quando hanno ricevuto la pienezza dello
Spirito, sono diventati dei fiumi dai quali è scaturita l’acqua della parola,
ed è ad essi che si applica questo passaggio del Salmista. « … I fiumi,
Signore, hanno levato la voce. » Come
dunque hanno parlato e perché è detto che abbiano alzato la voce? È che
dapprima, prima che lo Spirito fosse in loro, essi tacevano. Pietro non era
ancora un fiume quando, interrogato da una serva, negava il suo divino Maestro
e diceva: « … io non lo conosco. » Egli taceva, egli mentiva, non alzava la sua
voce, non era un fiume. Ma ecco che lo Spirito Santo è disceso sugli Apostoli.
I Giudei intimano loro l’ordine di presentarsi al tribunale, e li diffidano
dall’insegnare nel nome di Gesù-Cristo, e Pietro e Giovanni rispondono: « … se
è giusto davanti a Dio obbedire a voi piuttosto che a Dio, giudicatelo da voi
stessi: non ci è possibile non dire ciò che abbiamo ascoltato e visto. » (Act.
IV, 20). « I fiumi hanno alzato la loro voce. » (S. Agost.). – Sollevazione generale dei popoli che si
opposero in un primo tempo allo stabilirsi del regno di Gesù-Cristo. – Potenza
di Gesù-Cristo, che impedisce che le onde furiose si elevino al di sopra della
sua Chiesa: Egli ha imbrigliato il furore del mare e calmato con una sola
parola i suoi flutti agitati. (Ps. LXXXVIII, 10).
III. – 5.
ff. 5.
– Il
Profeta risponde all’obiezione che gli si sarebbe potuto fare nel primo senso
che applica questo Salmo alla creazione del mondo, cioè come abbia potuto
conoscere la maniera in cui questa creazione abbia avuto luogo. Egli ci da come
motivo di credibilità la rivelazione fatta a Mosè, e confermata da una serie di
miracoli che provano la veridicità della testimonianza di Mosè. Queste parole
sono ancora più vere, se possibili, quando le si applicano alla Redenzione;
perché le verità rivelate da Gesù-Cristo agli Apostoli sono state confermate da
una moltitudine di altre testimonianze che rendono la fede cristiana
incontestabile, al punto che possiamo dire a Dio: Signore, se noi siamo
ingannati, l’errore viene da Voi, perché le verità che ci avete proposte a credere
sono state confermate da tanti e sì grandi prodigi che solo Voi potete esserne
l’Autore (Ricc. De San Vittore). – Senza dubbio le fede non basa
unicamente la sua certezza suprema sulla solidità dei motivi che l’appoggiano.
Non è invano che la grazia che l’ispira è una luce che illumina la
comprensione, una forza soprannaturale che inclina la volontà sotto la parola
di Gesù-Cristo; ma né questa luce, né questa forza agiscono sul nostro spirito
senza essere aiutati dai suoi lumi naturali, e senza appoggiarsi sui principi
primari che sono come il fondo della nostra ragione e la costituiscono. Dio,
per onorare questa natura, ha voluto che la fede fosse una credenza
sovranamente ragionevole nei suoi motivi, e persuasiva naturalmente nel suo
principio; e per questo Egli l’ha fondata, come parla San Paolo, sugli sforzi
sensibili e dimostrativi del suo spirito e della sua potenza. Così, quando vi
si guarda con attenzione e sincerità, l’anima, sotto l’impressione di questa
evidenza e dell’impressione nella quale si trova alla vista del gran rispetto
con cui è piaciuto a Dio di governare la sua natura, esclama come il profeta: «
… Le vostre testimonianze, Signore, sono diventate troppo evidentemente
credibili, cioè che Dio ha dato alle testimonianze ed ai fatti sui quali riposa
la sua Religione una così eccessiva evidenza di credibilità, che bisognerebbe
rinunciare alla ragione stessa per misconoscerla, e che il più semplice impiego
del buon senso è sufficiente d’ordinario come condizione per una fede
ragionevole. È questa doppia azione della grazia e dei motivi di credibilità
che comunica alla vita cristiana il carattere di tutta una fermezza alla fede,
indistruttibile e pratica, che gli è propria. » (Mgr GINOUILHAC, Sur l’affaiblissement de la foi.)
– Santità che deve essere l’ornamento della casa di Dio, che è la Chiesa.
Noi entriamo nella Chiesa con il Battesimo, che ci rende santi e irreprensibili
agli occhi di Dio; ma si tratta poi di conservare questa grazia per tutta la
durata dei nostri giorni, cioè fino al momento della nostra unione con Dio, o
di recuperarla con la Penitenza, se dovessimo avere avuto la sventura di
perderla (Berthier).