LO SCUDO DELLA FEDE (127)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

(Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884)

PARTE SECONDA

CAPO VI.

Si passa a difendere dalle imposture degli eretici i miracoli della Chiesa, con provar prima, che questi bastino a dimostrarla per vera.

I . Quanto il male è più vicino al cuore, tanto è più difficile a superarsi. Lieve impresa sarà però stata l’abbattere quei nemici che stan fuori del Cristianesimo, rispetto a quei che stan dentro. Gli eretici, e massimamente i moderni, trovandosi mal armati si aiutano ad ischivare colla scherma que’ colpi, che non possono ribattere colla lena. Che più miracoli? dicono ad ogni tratto; sono tutte favole dei Cattolici odierni, indettati insieme a vendere le finzioni per poco prezzo, ed a comperarle. I miracoli d’oggidì, o non bastano a provare la verità della religione, o non abbisognano. Non abbisognano, perché già la fede è confermata abbondantemente dai miracoli di Cristo, e da quelli dei suoi santi e dei suoi seguaci, fioriti sui primi secoli. Onde tuttoció che vi si aggiungesse sarebbe d’avanzo a farla comparir discesa dal cielo. Non bastano poi, perché anche gl’ingannatori operarono gran portenti là nell’Egitto, e sono per operarne sino alla fine del mondo; a segno che l’anticristo è per tirar con essi in errore, se tanto gli sia possibile, ancor gli eletti. Però chi giudicherà che tali opere possano, senz’altro esame renderne certi della vera religione, mentre esse medesime sono bisognose d’esame anche rigoroso? Così discorrono questi audaci, peggiori degli ebrei stessi, a provar che i miracoli siano non solo simulati ma ancor superflui: che era la seconda eccezione di sopra addotta. Onde converrà che da tale eccezione ancor li salviamo, a disinganno di quei fedeli più semplici che facilmente tengono le menzogne degli emoli per oracoli, sol perché da questi le sentono proferir con volto di bronzo.

II. E per cominciare da ciò che si asseriva in ultimo luogo: Come hanno cuore i meschini di pronunziare con tanta audacia, che i miracoli non bastino a confermare infallibilmente la verità della religione? Questo è un disprezzare a viso aperto il rimprovero fatto già da Cristo a’ giudei, quando loro disse: Si non fecissem in eis opera, quæ nemo alius fecit, peccatum non haberent. Nunc autem excusationem non habent de peccato suo (Ioannes xv.). Sicuramente non avrebbe Egli potuto tacciare d’inescusabili que’ protervi, i quali non accettavano una dottrina confermata da Lui con tanti miracoli, se i miracoli non avessero forza di confermarla quasi gran sigillo reale. Come pero quegli stessi, i quali professalidi credere all’evangelio possono arrivare anche a dargli sì gran mentita?

III. Tra i miracoli che si narrano dalla gente, ve ne ha probabilmente molti di falsi. Passi per concesso. Ma ciò che prova? Anche fra i racconti che si leggono nelle istorie, ve n’ha certamente molti di favolosi. Dunque alle istorie dovrà negarsi ogni fede, e porsi in lite se al mondo sia stata mai la città di Troia, se Annibale combattesse alle Canne, se Augusto sconfiggesse Cleopatra, se Cesare movesse guerra alle Gallie? Anzi i miracoli falsi che corron frammescolati in tali racconti arguiscono che ne sieno molti diveri, senza cui i falsi non potrebbero avere spaccio; come è delle monete adulterate che mai non correrebbero in sulla piazza, se di simil genere non fossero innumerabili le sincere; massimamente che v’è anche fra i prodigi il suo paragone da farne prova assai certa.

IV. Pertanto a pigliare la cosa da’ suoi principii, convien distinguere due generi d’operazioni miracolose, alcune miracolose assolutamente, altre non assolutamente, ma sol respettivamente. Il primo di questi due gèneri contiene effetti, i quali eccedono tutta la virtù naturale, qual più, qual meno: e dissi avvedutamente qual più, qual meno: perché alcuni la eccedono per la sostanza del fatto, come è che il sole a mezzo del suo corso ritorni indietro: cosa a cui la natura non può

mai giungere. E questi sono i miracol del primo ordine (S. Th. 1. p. b 105. art. 8. et contra gentes 1. 3. c. 101). Altri la eccedono, non per la sostanza del fatto, ma per la qualità del soggetto, nel quale accadono, come sarebbe render la vita a un cadavere, o restituir la vista ad un cieco. Atteso che può bene la natura arrivare a tanto di dar la vita, o di dar la vista, ma ad un corpo bene organizzato nel sen materno, non a chi in tutto ne sia rimasto già privo. E questi sono i miracoli del secondo ordine. Altri eccedono finalmente la forza della natura sol quanto al modo, com’è guarire alcun malato in istante. E questi sono i miracoli del terzo ordine. Il secondo genere poi di operazioni meravigliose contiene effetti, i quali sono miracoli, non in sé, perché non eccedono tutta la virtù naturale, ma solo alcuna. Sono in riguardo a noi, perché eccedono bene la virtù nostra, ma non una virtù molto superiore alla nostra, qual è l’angelica (S. Th. 1. p. q. 110. a. 2. ad 2).

V. Ora se si favelli del primo genere di prodigi, cioè di quelli i quali sormontano tutta la virtù di natura, non solo particolare, qual è la umana, ma universale; certo è che questi possono bene avere gli angeli per ministri, insegnandoci san Gregorio (Hom. 34. in Evang. dial. 1. 2. c. 31) che v’è un coro di angeli deputato per eseguirli; ma non possono avere per loro autore altri che Dio solamente, di cui sta scritto: Qui facit mirabilia magna solus (Ps. CXXXV). E però non può dubitarsi che non sieno testimoni irrefragabili delle verità da loro asserite, mentre sono un linguaggio proprio di Dio che per essi parla. Quindi è che avendo Cristo, non pure operati molti miracoli di tal guisa, ma operatili por testificare la propria divinità, bastavano essi a condannare totalmente dì rea quella sinagoga che negò contumace di riconoscerla.

VI. Ma se si favelli di quei del secondo genere, cioè di quei che non son prodigi assoluti, ma rispettivi, perché non sormontano la virtù naturale, ma la nostrale: questi non contengono tosto prova infallibile, senza qualche loro maggior giustificazione: potendo essi aver per cagione, non pure Dio, ma ancora il demonio: come l’ebbero le meraviglie dei maghi là nell’Egitto: e come l’avranno anche più quelle meraviglie con cui l’anticristo farà stupire il mondo al fine dei tempi. Ma certamente la provvidenza celeste non permetterebbe agli spiriti infernali una tale autorità di ridurre in atto quella virtù strana, che essi hanno di lor natura, se non ci avesse provveduti ad un tempo di chiarissima luce da ravvisare le operazioni divine, dalle diaboliche, che è quanto dire, la verità dalle larve.

VII. Lasciamo però stare che i prodigi bugiardi dell’anticristo sono già predetti tanti secoli innanzi nelle scritture, onde questo solo ai fedeli dovrà bastare a non farne caso. Miriamo puramente con attenzione l’opera, gli operanti, il fine che s’intende nell’operare, e la via che tiensi. E questi ci serviranno di tante faci a scoprir gl’inganni.

VIII. Quanto all’opera, le meraviglie di Simon Mago, e di altri suoi pari, sono per lo più mere illusioni di sensi, che duran poco: Phantasmata statim cessantia, come le nominò Ireneo (L. 2. c. 58): le meraviglie dei santi hanno fondo sodo.

IX. Quelle de’ maghi non superano le forze dellanatura superiore, ma solo della inferiore, cioè le umane, com’era levarsi a volo nell’aria, fare apparire improvvisamente giardini, palazzi, prospettive, boscaglie di piante annose, tagliar per mezzo una cote con un rasoio (come fe’ quell’augure celebrato di Cicerone) (De divin. 1. 1), rinvenir tesori sepolti, risaper trattari segreti, far latrare altamente un cane di sasso,e altre simili ciurmerie, ordinate ad un mero pascolo di curiosità popolare. Laddove i miracoli de’ santi, oltre al vincere che fanno bene spesso assolutamente, o nella sostanza, o nel soggetto, o nel modo ogni poter naturale: sono sempre tutti rivolti al bene dei popoli o corporale, o spirituale che apportano, senza un’ombra di proprio lucro.

X. E questo medesimo ci fa discernere appieno gli operatori di simili meraviglie, ed il loro fine. Conciossiachè gli stregoni, come sono istrumenti degli spiriti maligni, così sono anche tutti ribelli al cielo, impuri nelle loro persone, infesti alle altrui. Le loro arti hanno per unica mira distoglier tutti dal culto del vero Dio: immergerli nel fango di orribili laidezze; affliggerli con turbini, con tempeste, con malattie; che però sono intitolati malefici. E se talora rendono per un poco la sanità, non però possono intitolarsi benefici, perché se la rendono, è per abbatterla appresso più gravemente, come fa chi si ritira indietro ad urtar più forte: o non avendo il demonio lor assistente, quella gran facoltà che talun si crede, di applicare le cagioni naturali a proprio talento; o se l’ha, non valendosene ad altro che a sfogar l’odio che sino da’ primi secoli porta all’uomo: laddove i santi, uniti a Dio per amore, sono ancora a lui sempre somigliantissimi nel beneficare il genere umano, o con sottrarlo da’ pericoli, o con sollevarlo da’ pianti, o con renderlo colmo d’ogni virtù più gradita a Dio.

XI. Parimente il modo di operare è un distintivo grandissimo di tali opere. I fattucchieri operano le loro meraviglie con molto tempo, con molto contrasto, con molti circoli, con molte parole superstiziose, o anche sacrileghe. E i santi le operano col mezzo dell’orazione, coll’applicazione di cose sacre, di croci, di corone, di reliquie di uomini cari al cielo, o anche le operano con un assoluto comando, quali luogotenenti di quel Dio, che è padrone della natura. Né imitano gli stregoni, i quali primi si umiliano con mille prieghi vili a’ demoni, come a lor superiori, perché  vengano ad aiutarli ; e poi, venuti che sono, comandano loro già come ad inferiori con fasto sommo. I santi invocano Dio, comandano alla natura soggetta a Dio.

XII. In ogni caso è certissimo che venendo al confronto un operatore di vere meraviglie in virtù divine, con un operatore di finte in virtù diaboliche, le vero vinceran sempre le finte, come i prodigi di Mosè vinsero quelli di tutti gli stregoni di Egitto. Né poteva avvenire in diversa guisa: mentre avendo la provvidenza ordinato che i miracoli vagliano a manifestare la vera fede, era d’uopo, che vi fosse anche un tal carattere proprio a distinguere i veri dagli apparenti con sicurezza: né poteva ella permettere, salve le leggi di buon governo, che gli spiriti dell’inferno abusassero tutte le loro forre ad esterminio della verità da loro combattuta. Poco pregiudica alla repubblica che vi sieno perle finte, metalli finti, marmi finti. Il pregiudizio sarebbe quando la finzione fosse impossibile a ravvisarsi. Ma ciò non accade mai, perché la falsità può emulare la verità, ma non può agguagliarla. Così, che seguano de’ miracoli falsi per opera de’ demoni, non è gran male; anzi spesso è bene, perché ridonda in gloria tanto maggiore di quei fedeli che li scoprono, come gli apostoli scopersero quelli del reo Simone, dementator di Samaria (Act. VIII). Il male sarebbe, ove fossero indiscernibili. Ma questo non pub avvenire, mercecchè se l’angelo delle tenebre non ha da uguagliare mai l’Angelo della luce, convien che sempre vi sia modo altresì da raffigurarlo, per quanto si trasfiguri (Il criterio per sincerare i miracoli veri ed effettivi dagli apparenti ed illusori, va attinto dal concetto medesimo del miracolo, superiormente stabilito. Vero miracolo è quello, che trascende la virtù di qualunque forza creata, ossia che è divino nella sua origine, santo nel suo fine).

XIII. E con ciò rimane già provato abbastanza che l’uno e l’altro genere di miracoli, osieno quei che trascendono la virtù naturale in qualunque grado, o sian quei che solo trascendono la nostrale, sono una sottoscrizione dell’Altissimo così propria, che non può venire falsificata mai tanto da tutte le arti degli incantatori, ministri di satanasso, che al fine non si ravvisi. E posto ciò, chi dirà che i miracoli non bastino a comprovare la verità della nostra fede, su delle altrui, mentre in esse ne appare così gran numero, in altre niuno? Deus miràbilibus operibus loquitur, dice santo Agostino (Ep. 45. q. 6). Potete però voi giudicar che la verità non sia piuttosto dove Dio parla in tanti modi a scoprirla, che dove tace?

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “SUI PECCATI TACIUTI IN CONFESSIONE”

Sui peccati taciuti in confessione.

Adducunt ei surdum et mutum.

(MARC. VII, 32).

Questo sordomuto presentato a Gesù Cristo per esser guarito, F. M., è la triste immagine d’un gran numero di Cristiani, quando si presentano al tribunale di penitenza. Gli uni sono sordi alla voce della coscienza, che li sollecita a manifestare i propri peccati; gli altri sono muti; quando devono manifestarli tacciono, e quindi, profanano il Sacramento. Dio mio! qual disgrazia! Si, F. M., tacere un peccato mortale per vergogna o per timore, oppure accusarlo in modo da non farlo conoscere come la coscienza ce lo rimprovera, è un mentire a Gesù Cristo stesso, è un cambiare in veleno mortale il sacro rimedio che la misericordia di Dio ci offre per guarire le piaghe fatte dal peccato alla nostra povera anima. Che dico? è un renderci colpevoli del più grande di tutti i delitti, il sacrilegio. Ah! volesse Iddio che questo peccato fosse raro tra i Cristiani, come lo sono i mostri. Ah! volesse Iddio che quello ch’io dirò non si riferisse a nessuno di quanti sono qui presenti! Ma, ahimè! F. M., io lo dico piangendo amaramente, esso è più comune di quanto non si pensa! Dio mio! quante confessioni sacrileghe farà conoscere il gran giorno del giudizio! Dio mio! quanti peccati non mai conosciuti si manifesteranno in quel momento! Dio mio, può un Cristiano rendersi colpevole d’un tal oltraggio verso il suo Dio e il suo Salvatore? Per potervene ispirare il maggior orrore che mi sarà possibile, vi metterò innanzi, F. M.,

1° quanto un Cristiano, commettendolo, è barbaro e crudele verso Gesù Cristo suo Redentore;

2° quanto deve esser grande la misericordia di Dio per tollerare sulla terra un tal mostro, dopo così orribile attentato.

I. — Sì, F . M., parlarvi d ella confessione, è parlarvi di tutto ciò che vi ha di più prezioso nella nostra santa Religione, eccettuata la morte di Gesù Cristo ed il sacramento del Battesimo e dell’Eucaristia. Interrogate, F. M., tutti i dannati che bruciano nell’inferno; vi risponderanno che si sono dannati perché non usarono questo Sacramento o perché l’hanno profanato. Salite in cielo, domandate a tutti i beati assisi su quei troni di gloria, che cosa li ha condotti in quel luogo così felice? quasi tutti vi diranno che la confessione è stato il solo rimedio da essi usato per uscire dal peccato e riconciliarsi col buon Dio. O religione bella! Sei disprezzata perché non sei conosciuta! O religione consolante! quali mezzi facili ed efficaci ci fornisci per ritornare a Dio, quando abbiamo avuto la disgrazia di allontanarcene col peccato! — Ma, mi direte, che cosa dunque può rendere cattive le nostre confessioni? — Amico mio, molte sono le cause di questa disgrazia:

1° quando non impieghiamo un tempo sufficiente per l’esame;

2° quando non accusiamo i nostri peccati come li conosciamo;

3° quando non abbiamo la contrizione sufficiente per ricevere l’assoluzione;

4° quando ricevendo l’assoluzione non abbiamo la risoluzione di adempire alla penitenza dataci dal sacerdote; e

5° quando non vogliamo fare le restituzioni che possiamo e dobbiamo fare, e che il sacerdote ci comanda. – Vi assicuro, F. M., che il solo pensiero d’entrare in questi particolari mi fa tremare; e sono quasi certo che, se la fede non è spenta in voi, e se veramente desiderate la vostra salute, ben pochi tra voi non avranno da temere per le loro confessioni passate. – Su, F. M., interroghiamo quelle povere coscienze che, da tanti anni, sono lacerate dai rimorsi; prendiamo in una mano la fiaccola del gran giorno delle vendette, e nell’altra la bilancia che peserà tutte le azioni degli uomini, e vedremo ciò che non abbiamo mai veduto, o meglio, ciò che non abbiamo mai voluto vedere; e sentiremo il grido di quella coscienza che abbiamo cercato fino ad ora di soffocare.

— Date libero corso ai vostri rimorsi, F. M.; ben fortunati, se non avete perduto il dono prezioso della fede, se la disperazione non s’impadronisce di voi considerando l’abisso in cui siete precipitati. Ascoltate la vostra povera anima che vi grida d’aver pietà di lei, poiché, se la morte vi colpisse in questo stato, si dannerebbe. “Ah! di grazia, abbi pietà di me; strappami da quest’abisso in cui mi hai gettata! dovrò dunque esser separata per sempre dal mio Dio, che doveva formare tutta la mia felicità? Dio mio! non vedervi mai! quale spaventevole disgrazia!„ Ma no, F. M., veniamone alla prova, e conosceremo ancor meglio se siamo nel numero di questi disgraziati dei quali oggi vi parlo. 1° Dico dunque anzitutto, F. M., che, se non impieghiamo un tempo conveniente nell’esame, le nostre confessioni non valgono nulla, per non dire che sono sacrileghe. È vero che non è possibile determinare il tempo che dobbiamo impiegare nell’esame. Chi è stato tanto tempo senza confessarsi deve impiegarvi maggior tempo di chi si confessa spesso. Dobbiamo quindi impiegarvi un tempo proporzionato allo stato in cui ci troviamo, ed al tempo dacché non ci siamo confessati. E diamovi quel tempo e quelle cure che metteremmo in un affare, che ci stesse molto a cuore. L’esame è dunque la prima cosa che dobbiamo fare, per sperare una buona confessione. Si deve cominciarlo colla preghiera, implorando con tutto il cuore i lumi dello Spirito Santo e la protezione della Ss. Vergine. Bisogna far qualche buona opera, come ascoltare la S. Messa; e, se possiamo, fare qualche piccola mortificazione nei pasti e nel sonno; offrire le nostre pene della giornata a Dio, per cominciare ad intenerire la sua giustizia. Bisogna poi ritirarsi in un luogo appartato, se si può; od almeno, svegliandosi, o per via, man mano che il buon Dio vi fa conoscere i vostri peccati, attestargliene il vostro dolore. Non dovete accontentarvi di scorrere i vostri peccati una volta sola, ma più volte, fino ad impararli a memoria, per quando avrete la grazia di confessarvene; perché sapete quanto me, che se tralasciate qualche peccato mortale, per mancanza di esame, quando pure foste stati disposti, se li aveste conosciuti, a confessarli, la vostra confessione non cesserebbe per questo d’essere un sacrilegio. Se, prima di comunicarvi, vi ricordate di qualche peccato mortale, state bene attenti: se li avete taciuti per vostra colpa, o perché non avete impiegato un tempo conveniente per l’esame, dovete, selo potete, riconciliarvi, e, se non lo potete dovete ancora esaminarvi davanti al buon Dio se, qualora non vi foste confessati di quel peccato, il sacerdote vi avrebbe dato il permesso di comunicarvi … se siete in dubbio è meglio tralasciare la vostra comunione rimandandola ad un’altra volta. Ahimè! se prendessimo tante precauzioni per la salute della nostra anima come ne abbiamo per i nostri affari temporali, tutte le nostre confessioni sarebbero buonissime e ci assicurerebbero il perdono! Ahimè! quante confessioni fatte quasi senza esame, senza preparazione! Si può quindi viver tranquilli in uno stato cosi disgraziato?

2° Ho detto in secondo luogo, che dopo aver bene esaminata la nostra coscienza, dobbiamo accusare i nostri peccati meglio che possiamo, se vogliamo ottenerne il perdono. Se parlassi per esempio ad increduli, comincerei col dimostrar loro l’assoluta certezza di questa necessità d’accusare i propri peccati; ma con voi, P. M., sarebbe inutile. Nessuno dubita d’una grazia sì preziosa, che forma, quaggiù, tutta la felicità d’un Cristiano; poiché dopo il peccato essa è la sola ed unica speranza per ottenere il cielo. Dico dunque, F. M., che questa seconda condizione è assolutamente necessaria, perché la nostra confessione sia buona. L’accusarsi è quanto costa di più ai peccatori orgogliosi; ed è anche quello che fa commettere il maggior numero di confessioni sacrileghe. Vedete quanti giri adoperano questi cattivi Cristiani per sembrare meno colpevoli: siamo più preoccupati del modo con cui accuseremo i nostri peccati per provare meno confusione, che del modo con cui dirli come Dio li conosce. Quante volte abbiamo sentito la nostra coscienza che ci faceva conoscere che non li dicevamo come si doveva, e noi ci siamo acquietati pensando che era la stessa cosa. Quante volte ci siamo accorati di conoscere troppo bene i nostri peccati, ed anche di conoscerne tanti, perché ci trovavamo assai colpevoli, invece di ringraziare con tutto il cuore Iddio di questa grande grazia? Quante volte non abbiamo scelto il momento in cui il sacerdote aveva meno tempo, perché non potesse farci qualche domanda? Quante volte abbiamo detto i nostri peccati in fretta, senza lasciare al sacerdote tempo di farci confessare qualche notevole circostanza, che si doveva assolutamente far conoscere, perché la confessione fosse buona? – Non parlerò di coloro, F. M., che pregano Dio per trovar confessori che non li costringano a lasciare le loro cattive abitudini. Non vogliono certo morire in esse; ma non sono risoluti di abbandonarle subito. Ahimè! sono poveri ciechi che corrono nell’inferno a passi da gigante, e forse senza pensarvi. Ma quanti ve ne sono che, per ignoranza o per timore, non vogliono nemmeno prendersi la briga di esaminarsi, né distinguere le circostanze che aggravano il peccato o ne mutano la specie. – Non entrerò in grandi particolari, perché l’anno scorso, vi ho spiegato tutto questo abbastanza. Vi accusate d’aver lavorato alla festa; ma non dite per quante ore, né quante persone avete fatto lavorare, né se era durante le sacre funzioni; né quante persone vi hanno visto e son rimaste scandalizzate. Vi accusate, è vero, d’aver mangiato di grasso nei giorni proibiti; ma non dite quante persone abbiano mangiato per causa vostra, e quante, avendovi visto, si sono scandalizzate, e forse, imitarono il vostro esempio; non dite se avete indotto anche i vostri figli ed i vostri domestici. Vi accusate d’aver mangiato di grasso, ma non dite se l’avete fatto per empietà, ridendovi dei precetti della Chiesa; dite che non ci avete pensato; ma non dite che ne fu causa la vostra golosità. Vi accusate d’aver lasciate alcune pratiche di pietà: il Benedicite, l’Agimus, l’Angelus, il segno di croce passando davanti ad una croce o ad una chiesa; ma non dite se fu per rispetto umano, ciò che aumenta considerevolmente il vostro peccato. Vi accusate d’aver avuto distrazioni nelle vostre orazioni; ma non dite se fu durante la S. Messa, e nel fare la vostra penitenza, il che spesso è peccato mortale, mentre non lo è nelle altre preghiere della giornata. Dite che avete cantato cattive canzoni; ma non dite quanto in esse v’era di cattivo, né se alcuno vi ascoltava; non dite se le avete insegnate ad altri, né se avete pregato altri di insegnarvele. Vi accusate di aver parlato male del prossimo; ma non dite se fu di vostro padre, di vostra madre, o di persone consacrate a Dio, il che aggrava il vostro peccato; non dite nemmeno che l’avete fatto per odio, per vendetta o per gelosia, o se avete cercato chi gli voleva male, per meglio parlare a vostro agio. Dio mio! quante cose a cui non si pensa! Dio mio! quante confessioni sacrileghe! Ma ecco, F. M., un’astuzia di cui il demonio si serve per ingannare e perdere un gran numero d’anime. Una persona avrà taciuto un peccato, due, tre, o se volete, dieci anni fa: troppo tormentata, se ne accusa come se l’avesse commesso dopo la sua ultima confessione, e poi si crede tranquilla, sebbene non abbia detto quante confessioni e comunioni abbia fatte in quello stato, né accusato di nuovo tutti i peccati commessi e confessati dopo quel momento. Dio mio, quale accecamento! Costui lungi dal cancellare il suo peccato, non fa che aggiungere un nuovo sacrilegio agli antichi. Ah! F. M., chi potrebbe dirvi il numero delle anime che il demonio trascina nell’inferno a questo modo? Altri, che avranno commesso qualche grave peccato, non osando accusarlo, domanderanno di fare la confessione generale, per unire questo peccato agli altri, come se l’avessero commesso da lungo tempo. V’ingannate, la vostra confessione non vale nulla. .Dovete accusare particolarmente tutti i peccati che avete commessi da quando avete ricevuta l’ultima assoluzione, se volete che la vostra confessione sia buona. Ecco qui un altro laccio che il demonio ci tende. Quando vede che i peccati taciuti non tormentano troppo, cerca di tranquillizzarci, dicendoci che li confesseremo la prima volta che torneremo a confessarci, e lo fa sempre nella speranza che, prima d’allora ci colga la morte, oppure Dio ci abbandoni. Sì, F. M., il sacrilegio è un delitto che ci allontana talmente da Dio, e spegne sì presto in noi la fede, che spesso, malgrado tutti i mezzi che abbiamo per uscire da questo stato, non lo facciamo; e questo è per un giusto castigo di Dio, attiratoci dai nostri sacrilegi; eccone uno spaventoso esempio. Il padre Lejeune racconta un fatto, che ci dice d’aver raccolto dalla bocca di chi ne era stato testimonio. Narra che presso Bruxelles viveva una povera, cheagli occhi del mondo, adempiva esattissimamente i suoi doveri di religione. La gente l’aveva in concetto di santa; ma la povera disgraziata taceva sempre un peccato vergognoso che aveva commesso nella sua giovinezza. Essendosi ammalata, della qual malattia poi morì, restò come tramortita per alcuni momenti, poscia ripresa la cognizione, chiamò sua sorella che la serviva, dicendole: “Sorella mia, sono dannata. „ Quella poveretta s’appressò al letto dell’inferma e le disse: “Sorella, tu sogni, svegliati, e raccomandati al buon Dio. „ — “Non sogno, no, rispose ella, so bene ciò che dico; ho visto il posto che mi è preparato nell’inferno.„ La sorella corse subito a cercare il parroco. Non essendo questi i n casa, suo fratello, che ne era il vicario, venne subito a vedere la povera ammalata: è da lui, ci dice il padre Lejeune, che ho saputo il fatto, predicando una missione in quei dintorni. Accompagnandoci, ci fece vedere la casa abitata da quella povera donna; e ci fece piangere tutti raccontandoci il fatto. Ci disse che entrato nella casa, s’avvicinò all’ammalata: “Ebbene! buona donna, che avete dunque visto, che vi è parso così spaventoso? „ — “Reverendo, gli rispose ella, sono dannata; ho veduto il posto che mi è preparato nell’inferno, perché, una volta, ho commesso il tal peccato. “E lo confessò davanti a tutti quelli che erano nella camera. “Eh! mia buona donna, ditemelo in confessione, e ve ne assolverò.„ —- “Signore, gli rispose, sono dannata. „ — “Ma, le disse il sacerdote, siete ancora in vita e potete ancora salvarvi; se volete, vi darò un biglietto scritto col mio proprio sangue, col quale m’obbligherò, anima per anima, a dannarmi per voi, se voi per caso lo foste, purché vogliate domandar perdono a Dio e confessarvi. „ — “So benissimo, le rispose essa, che se voglio domandar perdono con tutto il mio cuore a Dio, Egli mi perdonerà; so che posso riparare a tutti i miei sacrilegi; ma non voglio domandargli perdono, perché da troppo tempo abuso delle sue grazie e lo crocifiggo coi miei sacrilegi.„ Il sacerdote rimase per tre giorni e tre notti a piangere presso l’ammalata, senza poter farle fare un solo atto di contrizione, né indurla a confessarsi; anzi, un momento prima di morire, ella rinnegò il buon Dio, rinunciò al suo Battesimo e si diede al demonio. Mio Dio, che disgrazia! Capite, F . M., che cos’è il profanare i Sacramenti? Non vedete che, malgrado tutti i mezzi che abbiamo per riparare il male fatto, non ce ne serviamo? Ahimè! se il buon Dio ci abbandona per punirci delle nostre colpe, che ne sarà di noi? Quanti peccati sono di questo numero, senza sembrare tali agli occhi del mondo, ma che agli occhi di Dio non sono meno colpevoli! Quanti si trovano in questo stato, non perché tacciono i loro peccati, ma perché non hanno contrizione, perché non si correggono affatto delle lor cattive abitudini; sono sempre gli stessi, in loro non si vede mai alcun cambiamento in meglio. Dio mio, quanti Cristiani dannati, e che, agli occhi del mondo, sembrano essere buoni! Vedete dunque, F. M., che se noi comprendessimo bene che cos’è ricevere i Sacramenti, vi recheremmo disposizioni ben diverse da quelle che vi portiamo. È vero che la maggior parte, tacendo i loro peccati, conservano sempre il pensiero di accusarli; ma, senza un miracolo, si perderanno egualmente. Se ne volete sapere il perché, è facilissimo dirvelo: perché più restiamo in questo stato spaventoso che fa fremere il cielo e la terra, e più il demonio prende potere su di noi, più la grazia di Dio diminuisce, e più s’accresce il nostro timore, più i nostri sacrilegi si moltiplicano e più andiamo indietro; e quindi ci mettiamo nella quasi impossibilità di rimetterci in grazia di Dio. Potrei citarvene cento esempi. Ma, ditemi, F. M, forseché, dopo aver trascorso nel sacrilegio cinque o sei anni, durante i quali avete oltraggiato il buon Dio più di tutti i Giudei insieme, osate ancora credere che Dio vi darà tutte le grazie necessarie per uscire da questo stato spaventoso? Credete forse, che di fronte a tante atrocità di cui vi siete resi colpevoli verso Gesù Cristo, non avete che a dire: “Abbandonerò il peccato;„ e che tutto sia finito? Ahimè! amico mio, e chi vi garantisce che Gesù Cristo non vi abbia fatto la stessa minaccia che fece ai Giudei, e non abbia pronunciato contro di voi la stessa sentenza che pronunciò contro di essi: “Voi non volete approfittare delle grazie di cui volevo colmarvi; ma io vi abbandonerò, e voi mi cercherete, e non mi troverete e morrete nel vostro peccato. „ (Giov. VIII, 21). Ahimè! F. M., quando la nostra povera anima è nelle mani del demonio, non ne esce così facilmente come noi crediamo. – Ecco, F. M., ciò che fa il demonio per ingannarci: quando commettiamo il peccato ce lo dipinge come cosa da poco. Ci fa pensare che molti altri ne commettono ben più di noi; oppure, che ce ne confesseremo, accusandone quattro invece di due. Ma quando il peccato è commesso, fa tutto il contrario: ce lo rappresenta come una montagna, e ce ne ispira tanto orrore che non abbiamo più la forza di confessarcene. Se siamo troppo tormentati per aver taciuto un peccato, per rassicurarci, ci dice che lo accuseremo nella prima confessione; poi, ci dice che non ne avremo il coraggio, che bisogna aspettare un’altra volta per dirlo. Guardatevi bene, F. M., solo il primo passo costa; una volta entrati \ nella prigione del peccato, è ben difficile uscirne! Ma, fra tutti i peccati, quello che ci fa commettere maggior numero di sacrilegi, è quello contrario alla santa virtù della purità (… e quello che si commette allungando le mani alla roba altrui – nota del Beato); questo maledetto peccato reca con sé tale infamia, che ci trascina ad ogni sorta di sciagure; e, vedremo, nel giorno del giudizio, che la maggior parte delle confessioni cattive furono rese tali da questo peccato. Si racconta nella storia, che un giovane fin dai suoi primi anni s’era consacrato a Dio. S’era di più ritirato in un bosco per vivere da solitario. Per le sue grandi virtù era diventato oggetto d’ammirazione in tutti i dintorni; si parlava di lui come d’un santo. Ma il demonio che non poteva tollerare tanta virtù in un uomo sì giovane, mise in opera tutte le sue arti per rovinarlo. Continuamente lo perseguitava con cattivi pensieri. Il giovane ricorreva subito alla preghiera domandando al buon Dio la forza per non cadere. Il demonio non gli lasciava pace né giorno né notte, sempre nella speranza di guadagnarlo. Ahimè! il povero giovane, stanco di combattere, a poco a poco si arrese; e finalmente, nel suo cuore acconsentì ad un desiderio d’impurità. Ebbe appena acconsentito a quel desiderio, che tosto si sentì turbato. Quanto è vero che allorché il peccato entra nel nostro cuore, la pace se ne va! – Vedendosi vinto s’abbandonò ad una così profonda tristezza che nulla poteva consolarlo; piangeva continuamente: “Ah! Pelagio, diceva, parlando tra sé, come ti sei lasciato troppo presto ingannare! tu, che poco fa, eri un figlio diletto di Dio, ed ora, sei schiavo del demonio: bisognerà pur che te ne confessi e faccia penitenza del tuo peccato. Ma, se lo confesso, che si penserà di me? Perderò la mia stima presso il sacerdote. „ In mezzo a tanti pensieri, andò verso la porta del suo eremitaggio, e vide passare una persona vestita da pellegrino, che gli disse: “Pelagio, perché vi abbandonate ad una sì profonda tristezza? chi serve un Dio tanto buono, non deve esser così triste; se l’avete offeso, fate penitenza, confessatevi, e senza dubbio Dio, che è sì buono, vi perdonerà.

„ — “E dove m’avete conosciuto? domandò Pelagio.„ — “Vi conosco benissimo, rispose il pellegrino, voi siete Pelagio, tenuto da tutti per un santo. Se volete uscire da questa tristezza, confessatevi, e riavrete l’antica pace dell’anima e la vostra primiera tranquillità. „ Il povero Pelagio restò tutto stupito di quanto gli diceva il pellegrino, e lo invitò a sé; ma guardando da ogni parte, non lo vide più, perchè era scomparso: ciò che gli fece capire che era un avvertimento del cielo. Allora risolse di fare una austera penitenza, capace di placare la giustizia di Dio; e per meglio eseguire il suo disegno, risolse di andare in un monastero vicino dove si esercitavano grandi austerità. Si presentò al superiore dicendogli che aveva un grande desiderio di vestire il sacro abito. L’abate e tutti i religiosi ne provarono grande gioia, molto più perché era considerato come un gran santo. Infatti quando fu nel monastero, era sempre il primo nelle pratiche di pietà; faceva rigorose penitenze, portava sempre il cilicio e digiunava esattissimamente. Dopo qualche tempo, cadde ammalato e parve certo che dovesse morire. Il buon Dio nella sua misericordia, in compenso di tante virtù che aveva praticate nel monastero, gli mandò forti ispirazioni di confessarsi del peccato taciuto; ma egli non ebbe mai il coraggio di accusarlo, trattenuto sempre dal timore della vergogna, mentre confessava tutti gli altri peccati con vivo dolore. Un momento dopo ricevuto il santo Viatico, morì. I religiosi fecero i funerali, non come quelli d’un morto ordinario, ma di un santo di cui si cominciava già ad implorare la protezione presso Dio. Tutti gli abitanti dei paesi vicini venivano in folla per raccomandarsi allesue preghiere. Ahimè! come Dio giudica diversamente dagli uomini. La notte seguente, essendosi il sagrestano alzato per suonare il mattutino, e passando per la chiesa, gettò gli occhi sul luogo dove era stato sepolto Pelagio; s’accorse che il cadavere era fuori di terra, e pensando che non l’avessero ben interrato, lo seppellì senza dir nulla. Ma all’indomani lo trovò ancora fuori della sua tomba; e notò che la terra l’aveva rigettato al di fuori. Andò dall’abate e gli raccontò quanto aveva visto. L’abate fece radunare tutti i religiosi e comandò che andassero in chiesa. Presso al sepolcro di Pelagio, pregarono nostro Signor Gesù Cristo di far conoscere la sua volontà, se forse il defunto dovesse essere sepolto in un luogo più onorevole; si rivolsero anche al morto, dicendogli ad alta voce : “Voi, Pelagio, che siete stato sì obbediente nella vostra vita, diteci se Iddio vuole che il vostro corpo sia messo in un luogo più degno. „ Allora il defunto gettò un grido spaventoso, esclamando: “Ah! me disgraziato, per aver taciuto un peccato in confessione, sono condannato al fuoco dell’inferno finché Dio sarà Dio; se volete assicurarvene, avvicinatevi e guardate il mio corpo.„ L’abate s’avvicinò e vide il suo corpo tutto infuocato, come i pezzi di ferro posti in una fornace. Allora il defunto disse che la volontà di Dio era ch’egli fosse gettato sul letamaio come una carogna. Ahimè! che disgrazia, F. M.! quanto gli sarebbe stato facile salvarsi, poiché era un santo riguardo alle altre virtù! Dio mio, che disgrazia! per non aver avuto la forza di confessare un solo desiderio cattivo, che, appena nato nel suo cuore, aveva subito detestato! Ahimè! quanti rimorsi e quante lagrime per tutta l’eternità! Ahimè ! F. M., quante cattive confessioni fa commettere questo peccato, o meglio, quante anime conduce nell’inferno! Ahimè! quanti, fra quelli che; ascoltano, sono di questo numero, ed ai quali occorrono tutte le loro forze per non farsi conoscere! Ah! amico, lasciate libero il corso ai vostri rimorsi, lasciate scorrere le vostre lagrime, venite a gettarvi ai piedi del Signore, e troverete la pace e l’amicizia del vostro Dio, che avevate perdute. – Ma, voi pensate, non credo che vi siano cristiani capaci di tacere i propri peccati, perché ne sarebbero troppo tormentati. — Ah! F. M., se dovessi giurare, per affermare che ve ne sono, non esiterei a dirvi che fra quelli che m’ascoltano ve ne sono almeno cinque o sei lacerati dai rimorsi, e ben persuasi che quello che dico è vero; del resto abbiate pazienza, lo vedrete nel giorno del giudizio, ed allora vi ricorderete di ciò che oggi vi dico. Dio mio! la vergogna od il timore possono farrimanere un Cristiano in uno stato sì spaventoso! Ah! amico mio, che cosa vi preparate? Non osate aprirvene al vostro pastore? ma c’è forse lui solo nel mondo? Non troverete sacerdoti che vi faranno la carità di accogliervi? Pensate che vi si imporrà una penitenza troppo lunga? Ah! amico, non sgomentatevi! sarete aiutato, se ne farà per voi la maggior parte; si pregherà per voi, si piangeranno i vostri peccati, per attirare su di voi in maggior copia le misericordie di Dio! Amico mio, abbiate pietà di questa vostra povera anima, che ha tanto costato a Gesù Cristo!… Dio mio! chi potrà mai comprendere l’accecamento di questi poveri peccatori? Avete taciuto un peccato, amico, ma bisognerà pur che un giorno sia conosciuto, e agli occhi di tutto l’universo; mentre, con una parola l’avreste nascosto per sempre e cambiato il vostro inferno in una eternità di gloria! Ahimè! dove un sacrilegio conduce questi peccatori! non vogliono morire in questo stato, ma non hanno la forza di uscirne. Dio mio, tormentateli in modo che non possano più resistervi!…

3° Ho detto, in terzo luogo, che la mancanza di contrizione rende cattive le nostre confessioni. Sebbene, da ciò che ho detto, abbiate visto quante persone fanno cattive confessioni, vi dirò ora che, esaminato tutto, la mancanza di contrizione sarà la causa del maggior numero di confessioni sacrileghe. Non voglio estendermi su questo perché ve ne parlerò forse domenica; vi dirò solo per ora che non dobbiamo confessarci senza domandare di tutto cuore al buon Dio la contrizione con ferventi preghiere. È vero, F. M., facciamo assai bene preoccupandoci di ottenere la grazia di ben accusare i nostri peccati; ma dobbiamo ancor più preoccuparci di sapere se abbiamo la contrizione dei nostri peccati. Quando abbiamo la disgrazia di tacere un peccato, ci pare di aver nell’anima una tigre che ci divora; e della mancanza di contrizione non ci interessiamo. Ma, mi direte, che cosa bisogna fare per averla? — Dovete anzitutto domandarla al buon Dio qualche tempo prima di confessarvi, e se volete sapere se l’avete, il che è facilissimo, vedete se avete mutato vita. Perché la nostra confessione non ci lasci alcuna inquietudine, bisogna, che dopo aver confessato i nostri peccati, possediamo le virtù contrarie. Bisogna che l’umiltà, il disprezzo di noi stessi, prenda posto dell’orgoglio e di quella buona opinione che abbiamo di noi; bisogna che lo spirito di carità, di bontà e di misericordia, prenda il posto dello spirito di odio, di vendetta, gelosia e d’invidia; bisogna che lo spirito di distacco dai beni di questo mondo succeda allo spirito d’avarizia, di cupidigia, ed al desiderio d’ingannare il prossimo; bisogna che lo spirito di mortificazione e di espiazione dei propri peccati, prenda il posto della golosità e dell’amore dei piaceri del mondo: bisogna che la bella virtù della purità salga su quel trono dove dominava il vizio infame. Ah! che dico, F. M.? bisogna che il fervore e l’amore alia preghiera e la vigilanza nel respingere le tentazioni del demonio, succedano alla tiepidezza, alla negligenza ed indifferenza per tutto ciò che riguarda Dio, e la salute dell’anima; e che la dolcezza, la pazienza occupino il posto della collera, degli scatti d’ira e d’ogni sfogo di sdegno; in una parola: noi eravamo peccatori; ora che ci siamo confessati, dobbiamo cessare di esserlo. Ahimè! F. M., se non vediamo in noi questi cambiamenti, dopo tante confessioni e comunioni, tremiamo, o piuttosto, ritorniamo indietro, perché non ci sia dato di sentirne, m a troppo tardi, la necessità.

4° Ho detto in quarto luogo, F. M., che le nostre confessioni non valgono nulla, quando non diciamo, almeno più esattamente che ci è possibile, il numero dei nostri peccati mortali. Vi son di quelli che si accontentano di dire: “Mi accuso d’aver bestemmiato, d’aver cantato cattive canzoni, e nulla più. „ Le vostre confessioni non saranno mai buone, se non determinate il numero dei vostri peccati mortali. E vero che non si può sempre dirlo esattamente, ma bisogna accostarvisi per quanto è possibile.

5° In quinto luogo una confessione è cattiva, quando ricevendo 1’assoluzione, non si ha l’intenzione di compiere la penitenza che il sacerdote ci impone. Non dovete accontentarvi di confessare d’aver tralasciato la penitenza; ma bisogna dire che confessandovi non avevate l’intenzione di farla; poi, se l’avete tralasciata per negligenza. Se l’avete omessa volontariamente ed avevate confessato peccati mortali, commettete un nuovo peccato mortale. Dobbiamo sempre compiere la penitenza in ginocchio, eccetto che il sacerdote ci dica che possiamo farla stando seduti. Alcuni la fanno camminando, lavorando; questo non è soddisfare alla penitenza. Non dovete mai cambiarla da voi stessi, né farla cambiare da un altro sacerdote, eccettuato che non possiate andare da quello che ve l’ha imposta; e questo cambiamento non deve farsi che quando vi è impossibile Compierla. Alcuni sanno poco leggere: se si impone loro qualche preghiera che sia nei libri, per orgoglio, non vogliono dire che non sanno abbastanza leggere e poi la dicono tutta sbagliata. Dovete dire semplicemente che non sapete abbastanza leggere, affinché il confessore ve la cambi, e, se questo vi è capitato parecchie volte, dovete dirlo in confessione, affinché ve ne sia data un’altra.

6° Ho detto in sesto luogo che la mancanza di restituzione rende sacrileghe le nostre confessioni. Non parlo di quelli che hanno derubato od ingannato il prossimo, e non se ne confessano: costoro sono già perduti; ma dico che coloro ai quali il confessore ha imposto qualche restituzione, se nel momento in cui ricevono l’assoluzione, non hanno l’intenzione di farla, la loro confessione non vale nulla; e se, potendolo, non avete restituito come avevate promesso, confessandovi dovete dirlo. Convenite dunque con me quanto sia necessario dare di quando in quando un piccolo sguardo alla propria vita passata, per riparare le cattive confessioni che, anche senza saperlo, avremmo potuto fare.

II. — Ma, ahimè! . M., che vita disgraziata conducono quelli che tacciono i loro peccati in confessione, e restano con tali carnefici nel cuore! Pensate sempre che li accuserete in qualche confessione, o prima di morire. Amico mio, voi siete cieco, non lo farete mai: il demonio o nelle vostre confessioni, od in punto di morte ve lo impedirà come ve lo ha impedito sino ad ora. Se ne dubitate, ascoltatemi, e vedrete che è vero; chi vive nel sacrilegio è quasi sicuro di morirvi. Racconta il padre Giovanni Romano, della Compagnia di Gesù, che il famoso Giovanni d’Avila, predicando in una città della Spagna, fu chiamato ad ascoltare la confessione d’una giovinetta che per le cure della madre era stata allevata in ogni più bella virtù. La madre non mancava di comunicarsi ogni sabato in onore della santa Vergine. Morta la madre, la figlia continuò nella stessa divozione, aggiungendovi parecchie elemosine, digiuni ed altre buone opere. Udendo spesso predicare il Padre Giovanni d’Avila ne era sinceramente commossa, e si sentiva vivamente portata alla virtù. Caduta inferma, lo fece pregare di venire a visitarla, perché desiderava confessarsi da lui. Sebbene la sua malattia non fosse molto pericolosa, voleva provvedere presto alla salute della propria anima. Il Padre le concedette con gioia ciò che domandava. Essa cominciò a confessarsi con segni d’un dolore sì vivo e con una sì grande abbondanza di lagrime, che il Padre era stupito di trovare, almeno in apparenza, una sì bell’anima. Finita la confessione, il Padre se n’andò tutto consolato: avendole data l’assoluzione, la lasciava, sempre, almeno in apparenza, in una grande sicurezza della sua salute. Accadde intanto un fatto straordinario. Il fratello, che padre d’Avila aveva condotto con sé, stando in un’altra stanza, vedeva uscire di quando in quando dalla parte del muro, una mano nera tutta pelosa, la quale stringeva la gola dell’ammalata, in modo che sembrava volesse soffocarla. Il fratello, vedendo questo, restò fortemente stupito. Tornato al convento si presentò al superiore, egli raccontò quanto aveva visto. Il superiore gli domandò se ne era ben sicuro. Ed il fratello: ” Ne sono sicuro come sono sicuro d’esser qui davanti a voi. Per un momento ne ho dubitato, ma raddoppiata 1’attenzione, ho visto tutto ciò che vi dico. „ Allora il superiore chiamò padre Giovanni e, sebbene fosse di notte, gli comanda di ritornare dall’ammalata, dicendogli di fare ogni possibile per indurla a riconciliarsi, se si sentiva qualche cosa che non la lasciasse quieta. Il Padre partì collo stesso compagno. Quando furono alla porta sentirono pianti e gemiti; appena ebbero battuto, un valletto venne a dir loro che la padrona era morta, che quasi subito dopo essersi confessata aveva perduto la parola e l’uso dei sensi, sicché non aveva potuto comunicarsi. Dopo aver vista la defunta, ritornarono al convento dove informarono il superiore di quanto era accaduto: cosa che l’afflisse molto. Il Padre che aveva confessato l’ammalata fu preso da un sì grande dolore che si mise a piangere amaramente, e se n’andò davanti al Ss. Sacramento, ove prostrato, cominciò a pregare il Signore per il riposo di quella disgraziata giovane, domandando che volesse liberarla dall’eterna dannazione. Dopo aver pregato per qualche momento, sentì un gran rumore, come di grosse catene trascinate per terra. Voltatosi là donde sentiva venire il  rumore, vide davanti a sé una persona circondata da capo a piedi di catene e di fiamme tenebrose. Il Padre, senza spaventarsi, le domandò chi fosse. Ella rispose: “Sono l’anima di quella disgraziata giovane che siete venuto a confessare stamattina, sono quella per la quale ora pregate, ma invano. Ho ingannato tutti colle mie ipocrisie, e colle mie false virtù. Bisogna che voi conosciate quelle ipocrisie. Dopo la morte di mia madre, un giovane s’innamorò di me; dapprima opposi qualche resistenza; ma poi egli vinse la mia debolezza. Se il mio fallo fu grande, fu ben più grande la ripugnanza a confessarlo, che il demonio suscitò in me; io sentiva vivi rimorsi di coscienza; il pensiero dei tormenti in cui ora mi trovo mi era un supplizio. Inconsolabile, e non cercando che di uscire da questa pena, avevo deciso parecchie volte di confessarmene; ma la vergogna ed il timore che il confessore perdesse la buona opinione che aveva di me, me lo impedivano sempre. Così continuai le mie confessioni e comunioni. Quando sentivo le vostre prediche, esse erano tanti dardi che mi ferivano il cuore, e finalmente risolvetti di confessarmi da voi: per questo vi feci chiamare. Ah! avrei dovuto cominciare da’ miei sacrilegi, e non dalle piccole mancanze! Poiché dopo, non ebbi più la forza di accusarvi il mio peccato taciuto. Ed eccomi ora dannata per sempre! Non perdete il vostro tempo a pregare per me. „ — “Ma, qual è la più grande delle Vostre pene? „ le domandò il Padre. “È il vedere, risposegli, che avrei potuto salvarmi confessando il mio peccato, colla stessa facilità con cui lo faccio ora, senza però che adesso ne abbia alcun merito. „ E dopo scomparve, mandando grida spaventose e facendo un orribile fracasso colle sue catene. Ah! F. M., quale stato orrendo è mai quello di un’anima che compare davanti al tribunale di Gesù Cristo rea di sacrilegi. Frughiamo nei più segreti ripostigli delle nostre coscienze e se sentiamo qualche rimorso, cerchiamo di farlo dileguare con una buona confessione, che è il solo rimedio, poiché né le penitenze, né le elemosine potranno ripararvi. Ahimè! F. M., un povero Cristiano in questo stato non ricava alcun merito da tutte le sue buone opere, per lui tutto è perduto pel cielo. Dio mio, si può vivere con sacrilegi sulla coscienza, soprattutto quando ci sono noti? Non si è già all’inferno per i rimorsi che continuamente si provano? È possibile gustare qualche piacere nella vita? . S. Antonio ci racconta ciò che il buon Dio rivelò ad un santo prelato, mentre ascoltava la confessione d’una persona che, per vergogna, taceva un peccato d’ impurità. Il santo vedendo accanto ad essa un demonio, gli domandò che cosa facesse in quel luogo. Il demonio rispose che adempiva ad un ordine di Gesù Cristo. “Che! gli disse il santo, da quanto tempo osservi gli ordini di Gesù Cristo ?,,“Sì, disse il demonio, io che avevo tolta la vergogna a costei, perché più arditamente peccasse, ora gliela restituisco, affinché vinta dalla vergogna, non confessi il suo peccato.„ Dio mio! quant’è da compiangere un orgoglioso e com’è in pericolo di dannarsi; poiché, infatti, se noi tacciamo i nostri peccati, se non li diciamo quali sono, questo non è che effetto d’orgoglio. Dio mio! acconsentire a dannarsi, o meglio, cambiare l’umiliazione di cinque minuti con quella d’una eternità!… Ahimè! quei poveri dannati accuseranno i loro peccati taciuti ed i loro sacrilegi per tutta l’eternità senza poterne ottenere il perdono; mentre, in questo mondo, una semplice accusa ad un sacerdote pieno di carità, che ci aiuta a domandare perdono al buon Dio e che desidera al pari di noi la nostra salute, ci avrebbe salvati. Ah! no, no, F. M., questo non si può capire! portare il proprio accecamento fino a tal punto!… Siete caduto, amico mio, senza dubbio avete fatto molto male; ma rialzatevi presto, poiché ancora lo potete; forse un altro giorno non lo potrete più: eccone la prova. Si narra nella storia che un missionario era andato notte tempo, da un’ammalata. Vedendo che la malattia era mortale, avvicinatosi al letto, le disse: “Signora, eccovi vicina a render conto a Dio della vostra condotta, temo assai che abbiate taciuto qualche peccato in confessione; se non ve ne accusate, vi dannerete: riflettete. „ — “Possibile, esclamò l’ammalata, debbo morire? Riconosco, disse al missionario, che da molto tempo mi confesso malissimo, tacendo per vergogna alcuni peccati.„ Ma dicendo questo, perdette la parola, e senza poter dire una sola sillaba, morì in questo stato miserando e, certamente si dannò. Ahimè! in quale orribile stato compariranno costoro nel giorno del giudizio, trovandosi coperti di sacrilegi! Ah! diranno “montagne copriteci, crollate su di noi, nascondeteci a Dio„ (Apoc. VI, 16) come noi abbiamo nascosto i nostri sacrilegi agli occhi del mondo! Ma no, tutto si vedrà e tutto comparirà davanti all’universo. Ah! quale rammarico d’aver vissuto tre o quattro anni, forse, in questo stato, divorati dai rimorsi di coscienza senza aver voluto rimediarvi! – Ma, ditemi, che deve pensare una persona che si rende colpevole di questo peccato, quando riceve l’assoluzione? Che deve pensare quando il sacerdote le dice: “Andate in pace, e procurate di perseverare?„ Ah! se essa sentisse Gesù Cristo che, dall’alto dei cieli, grida al suo ministro: “Fermati, fermati, disgraziato: quel sangue prezioso che fai scendere su quell’anima grida vendetta, e scriverà la sua condanna: fermati ministro, io condanno e maledico quest’anima. „ Ah! disgraziato, tu hai tradito il tuo Dio! Va, va, perfido Giuda, accostati alla sacra Mensa per compire l’opera del tuo furore! Va a dargli la morte! Ah! F. M., se sentiste Gesù Cristo che dal fondo del suo tabernacolo vi grida: Fermati, fermati, figlio mio! Ah! di grazia, risparmia il Padre tuo! Perché vuoi farmi morire? Fermati, fermati, figlio mio, risparmia il tuo Dio; perché vuoi dargli il colpo mortale? „ Ah! se un Cristiano fosse capace di comprendere l’enormità del suo delitto, potrebbe spingere ad un simile eccesso il suo furore contro un Dio sì buono, un Dio che ci ama più di se stesso, che non vuole e non desidera che la nostra felicità? Dio mio! un Cristiano che avesse commesso un delitto così orrendo, quale è il sacrilegio, potrebbe ancora vivere? Non gli parrebbe di udire incessantemente dentro di sé una voce, quale l’udiva quel giovane che aveva ucciso suo padre : “Figlio mio, perché mi hai ucciso, perché mi hai tolta la vita?„ Un Cristiano che avesse avuta questa disgrazia, potrebbe ancora fermare i suoi occhi su quella croce, volgere il suo sguardo verso quel tabernacolo: oh! che dico? verso quella sacra Mensa dove ha fatto morire Gesù Cristo suo Dio e suo Salvatore in un modo così orribile e spaventoso? Sì, F. M., questo peccato è orrendo, ed è purtroppo assai comune; vi sarebbe da morire al solo pensarvi!… Che dobbiamo dunque concludere da quanto abbiamo detto? Ecco: dobbiamo usare tutti i mezzi possibili per ben fare le nostre confessioni; non dobbiamo mai ricevere l’assoluzione quando abbiamo qualche cattiva abitudine, se non abbiamo l’intenzione di correggercene; non dobbiamo confessarci mai in fretta; non cercare mai i termini che possano mitigare l’accusa dei nostri peccati, od attenuarli ai nostri occhi o a quelli del nostro confessore, e non confessarci mai senza domandare a Dio la contrizione dei nostri peccati. Finalmente, se anche da venti, trent’anni, avessimo taciuto alcuni peccati, non dobbiamo dar retta a nessun pretesto; ma bisogna confessarli subito: e se siamo sinceri, stiamo certi che il buon Dio ci perdonerà; mentre invece, se aspettiamo in punto di morte, o non potremo fors’anche, per un castigo terribile della giustizia di Dio, come abbiamo visto, non lo vorremo. Quando siamo tentati di tacere qualche peccato, pensiamo subito ai rimproveri che il nostro confessore stesso ci farà nel giorno del giudizio, quando vedrà che l’abbiamo ingannato. Sì, operiamo come vorremmo aver fatto all’ora di nostra morte, a tutto andrà bene. È ciò che..

DA SAN PIETRO A PIO XII (23)

[G. Sbuttoni: Da san Pietro a Pio XII, Ed. A.B.E.S. Bologna,1953]

CAPO XI.

CONDANNA DEL COMUNISMO

PREAMBOLO

Che cosa è il comunismo

Fondamentalmente è il sistema economico-politico basato sulla comunione dei beni; la quale però fu intesa in vario senso, da Platone (deriso da Aristofane e confutato da Aristotele), ai manichei, ai montanisti e agli eretici da essi derivati, nel Medio Evo, a sfondo pseudomistico, e dalla gnosi panteista di ogni risma e tempi).

Nel sec. XVI si passa ad una visione utopistica del problema, ad esempio con l’« UTOPIA » di Tommaso Moro e poi con la « CITTÀ del SOLE » di T. Campanella; ma via via si scende ad una impostazione pratica (sec. XVII e XVIII) orientata verso un collettivismo, come proprietà collettiva degli strumenti di lavoro e organizzazione nelle mani dello Stato, della produzione e distribuzione della ricchezza; oppure verso una vera abolizione della proprietà privata, almeno dei beni produttivi; sistema detto socialismo o comunismo (Babeuf, Proudhon, Lassalle). Con Carlo Marx ed Engels nasce il vero socialismo o comunismo del sec. XIX; nasce particolarmente con il loro « MANIFESTO dei COMUNISTI » (1848) ed ebbe nei loro scritti la trattazione sistematica, fondata:

a) sul materialismo storico e sul determinismo dialettico;

b) sulla teoria del lavoro, come unico elemento di valore (evoluzionismo panteista mascherato –ndr.- );

c) sull’abolizione della proprietà privata.

Ma nell’attuazione del programma marxista si ebbero varie tendenze e vari metodi; moderati gli uni, oltranzisti gli altri e decisi a tutto, anche alla violenza rivoluzionaria. In Russia prevalse, dopo la rivoluzione del 1917, la tendenza massimalista e s’instaurò il bolscevismo, esprimendo così la forma tipica del comunismo odierno. Esso trova lucida e serena definizione ed analisi in documenti di altissimo valore, collaudati nelle più recenti esperienze, quali le encicliche di Pio IX, Leone XIII, Pio XI, Pio XII. Pio XI con la mirabile enciclica « Divini Redemptoris » (29 marzo 1936), dinanzi ai luttuosi fatti della Spagna, del Messico, della Russia, discopre il vero volto del Comunismo ateo, analizzando il morbo e proponendo i rimedi. Alla luce di questi documenti, il comunismo oggi non è che bolscevismo.

Questo in sintesi è:

a) materialismo assoluto,

b) determinismo ineluttabile,

c) amoralismo,

d) ateismo militante,

e) particolarmente anticristianesimo aggressivo,

f) totalitarismo rivoluzionano e universalistico.

C’è qui più che la sufficienza per giustificate la vigorosa azione del Santo Padre Pio XII con la condanna, attraverso il decreto del S. Ufficio del 1 luglio 1949, del comunismo.

D . Che fece Pio XII contro il comunismo?

— Il 1 luglio 1949, a mezzo del S. Ufficio, folgorò la scomunica, in special modo riservata alla S. Sede, contro coloro che professano la dottrina anticristiana del marxismo e del comunismo. Con la scomunica il subdolo mito comunista della «mano tesa», per trarre agevolmente in inganno i Cattolici, è del tutto finito, come pure, tra le contaminazioni del secolo, è eliminata quella di un idillio tra Cristo e Marx (in Italia questo morbo si è trasformato in un cancro devastante ed incurabile che rientra nella medesima scomunica, chiamato Partito Democratico, parto bicefalo, distocico e mostruoso del P. C. e della cugina Democrazia “anti” cristiana – ndr.-)

D. Che significa la scomunica del comunismo?

— La scomunica dei figli di Marx, Lenin e Stalin significa che la Chiesa — contro tutte le soluzioni empiriche della nostra travagliatìssima società — contrappone la «realtà» Cristo all’« utopia » Marx. Perciò la rottura.

D. In che modo Marx è l’utopìa?

— Proprio perché è la storia dei nostri fallimenti, proprio perché è il bilancio passivo di tutti i nostri tradimenti, fatti alle spalle di Cristo.

NOTA. – Marx non è la realtà della persona umana, tanto è vero che i comunisti, illudendo di migliorarla socialmente, la calpestano nel suo diritto alla libertà. E se agli uomini di poca fede, Cristo può sembrare la maggiore utopìa, nel senso che il suo insegnamento e il suo esempio paiono irraggiungibili, è da credersi invece che la Chiesa ha capito meravigliosamente che, in tempi come i nostri disperati, occorrono rimedi estremi e cioè totali: e proprio perché molti disertano e traviano dietro troppe illusioni, ecco che la Chiesa ha definitivamente rotto ogni possibile incantesimo delle mezze verità, dei baratti conciliativi, delle tattiche prudenziali ecc., e dì fronte ai fedeli e agli infedeli ha dichiarato, con la sua sanzione più grave, che Cristo non è spartibile con niente e con nessuno.

D. È intransigenza questa?

— No. una confortante illuminazione. È finalmente, in un regno del doppio gioco, la proclamazione di una verità che non è bifronte.

NOTA. – Si farà appello al dogmatismo. Ma non è forse per la paura e per la incapacità di essere « dogmatico » — e cioè di avere delle idee reali in testa! — che l’uomo moderno diventa ogni giorno di più un poveruomo? Per non essere dogmatici, siamo diventati i bastardi delle mezze idee e dei mezzi fatti. Il trionfo del comunismo, come già quello del fascismo e del nazismo, non è stato preparato che dalle nostre continue dimissioni di uomini senza più verità, vittime scervellate delle mezze idee dell’ultimo venuto.

D. Per chi è propriamente la scomunica?

— È per i fanatici e soprattutto per i fanatizzanti, che formano il culturame comunistoide.

NOTA. – La Chiesa non condanna Marx per condannare le riforme sociali: la realtà è che le riforme sociali, come oramai è chiaro anche per i ciechi, non stanno dalla parte di Marx. Del marxismo la Russia non tiene vivo che i presupposti materialistici e ateistici. Contro il comunismo la Chiesa ha rivendicato non solo « la libertà dei figli di Dio », ma, in un secolo che continua a mortificare l’uomo nella idolatrìa dei miti, ha sanzionato senza equivoci la « insostituibilità di Cristo ».

Cristo non è un idolo di turno; e ancor meno è un Dio da manomettere, da camuffare, da compromettere, con i Gog e i Magog della giornata. La Chiesa non ha separato; ha invitato l’uomo a tornare ad essere « uno ».Separando Cristo da Marx, la Chiesa ha restituito l’uomo a quella integralità dì idea e di azione, perduta in un secolo e più di romanticismi religiosi e sociali, ideologici e politici. Chissà che i marxisti non siano gli ultimi romantici! Ma Cristo non è romantico; perché la verità non è romantica.

D. Il comunismo potrebbe andar d’accordo con la religione?

— No, nel modo più assoluto. Basta considerare la dottrina insegnata dai suoi maestri e fondatori. La Chiesa Cattolica, a chi domanda di voler conoscere la vera dottrina del Cristianesimo, presenta i quattro Vangeli. Ebbene anche il comunismo ha i suoi quattro evangelisti : Marx, Engels, Lenin e Stalin.

D. Che cosa insegnano i maestri del comunismo?

— Insegnano che la « religione è l’oppio del popolo » , « è uno degli aspetti della oppressione spirituale che grava ovunque sulle masse popolari, schiacciate come sono dal continuo lavoro per il profitto altrui, dalla miseria e dall’abbandono». Gli studiosi del problema religioso sono definiti « lacchè diplomati dell’oscurantismo clericale ». Ritengono da Religione come « il massimo nemico ». Ne fanno fede le persecuzioni religiose da essi promosse : è spaventoso ormai il martirologio dell’oltre cortina di ferro, con il massacro, l’imprigionamento, l’internamento, e praticamente, la scomparsa di presso che tutto il clero in Ucraina, nei Paesi Baltici, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Jugoslavia, Albania; e si aggiunga pure tutta la Cina.

D. In Italia come si svolge la lotta antireligiosa del comunismo?

Con un’opera scristianizzatrice assidua e calcolata contro i singoli individui, la famiglia e i vari aggruppamenti sociali. In particolare ora si manifesta funesta l’azione contro la fanciullezza, minacciata attraverso l’Associazione dei Pionieri d’Italia (A. P. I.).

D. La Chiesa ha provveduto alla difesa contro l’A.P.l. ? — Sì, con il monito del S. Ufficio del 28 luglio1950, che scomunica i maestri che ne attuano il programma ateistico e corruttore, e proibisce d’amministrare i Sacramenti ai bambini, che entrano a far parte dell’A. P. I. e ai genitori, che ve li mandano.

NOTA. – I comunisti con l’A.P.l. tentano di fare degli dei ribelli ad ogni autorità, alla vecchia morale, vecchia cultura, vecchio ordine. Qui l’aggettivo « vecchia » significa « cristiana »; perciò si parla di « pionieri » della «nuova» morale, « nuova» cultura ecc. Le armi che usano sono: disprezzo della religione e dei suoi ministri, e odio contro l’ordine attuale. Per convincersene basta leggere la lettera di S. E. Mons. Beniamino Socche, vescovo di Reggio Emilia, dell’8 aprile 1952, in cui denuncia i misfatti dell’A.P.I. presso i bimbi di S. Michele di Sassuolo.

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “LA MALDICENZA”

La maldicenza.

Solutum est vinculum linguæ ejus, et loquebatur recte.

(MARC. VII, 35).

         (Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. II, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Quanto sarebbe desiderabile, F. M., che si potesse dire di ciascuno di noi, quello che l’Evangelo dice di quel muto, che, guarito da Gesù Cristo, parlava speditamente. Ahimè! F. M., non ci si potrebbe invece rimproverare che parliamo quasi sempre male, quando parliamo specialmente del nostro prossimo? Infatti, qual è la condotta della maggior parte dei Cristiani odierni? Eccola: Criticare, censurare, denigrare, e condannare quanto fa e dice il prossimo: ecco il più comune di tutti i vizi, il più universalmente diffuso, e forse il peggiore di tutti. Vizio che non si potrà mai detestare abbastanza; vizio che produce le più funeste conseguenze, che porta dappertutto il disordine e la desolazione. Ah! mi concedesse Iddio uno dei carboni, che servirono all’angelo per purificare le labbra del profeta Isaia (Is. VI, 6-7), vorrei purificare con esso la lingua degli uomini tutti! Oh! quanti mali  verrebbero banditi dalla terra, se si potesse scacciarne la maldicenza! Potessi, F. M., infondervene un tale orrore, che vi procurasse la fortuna di correggervene per sempre! Qual è dunque il mio assunto, F. M.? eccolo: — Vi farò conoscere: 1° Che cos’è la maldicenza; 2° quali ne sono le cause e gli effetti; 3° la necessità e difficoltà di ripararvi.

I . — Non vi mostrerò la enormità e l’odiosità di questo vizio che fa tanto male: che è causa di tante dispute, odii, omicidi, ed inimicizie le quali spesso durano tutta la vita, e che non risparmia né i buoni né i cattivi! mi basta dirvi che è uno dei vizi che trascinano più anime all’inferno. Credo sia più necessario farvi conoscere in quanti modi possiamo rendercene colpevoli; perché conoscendo il male che fate, possiate correggervene, ed evitare i tormenti preparati nell’altra vita. Se mi domandate: che cos’è una maldicenza? vi rispondo: è far conoscere un difetto od una colpa del prossimo in modo da nuocere più o meno alla sua riputazione; e questo avviene in parecchi modi.

1° Si mormora quando si attribuisce al prossimo un male che non ha fatto, od un difetto che non ha; e questa è calunnia, peccato gravissimo, eppure molto comune. Non illudetevi, F. M., dalla maldicenza alla calunnia non v’è che un passo. Se esaminiamo bene le cose, vediamo che quasi sempre si aggiunge o si esagera nel male che si dice del prossimo. Una cosa passata per parecchie bocche non è più la stessa, chi l’ha detta per primo non la riconosce più, tanto è cambiata od ampliata. Ne concludo quindi che un maldicente è quasi sempre un calunniatore, ed ogni calunniatore è un infame. Un santo Padre ci dice che si dovrebbero scacciare dalla società degli uomini i calunniatori, come tante bestie feroci.

2° Si mormora quando si esagera il male fatto dal prossimo. Avete visto qualcuno commettere uno sbaglio: che fate voi? invece di coprirlo col manto della carità, od almeno diminuirlo, voi lo esagerate. Vedrete un domestico che si riposa un istante, ovvero un operaio: se qualcuno ve ne parla, voi dite senza altro che è un ozioso, che ruba il denaro del padrone. Vedrete alcuno passare per una vigna od un orto, prendere qualche grappolo o frutto, cosa che certamente non dovrebbe fare: ebbene voi andate a raccontare a quanti incontrate che egli è un ladro, che bisogna guardarsene, sebbene non abbia mai rubato nulla: e cosi di seguito… E questa è maldicenza per esagerazione. Ascoltate S. Francesco di Sales: “Non dite, così questo santo ammirabile, che il tale è un ladro ed un ubbriacone, avendolo visto rubare od ubbriacarsi una volta. Noè e Lot si ubbriacarono una volta, eppure né l’uno né l’altro erano ubbriaconi. S. Pietro non fu bestemmiatore, perché in una occasione ha bestemmiato

2 . Una persona non è viziosa perché è caduta una volta nel vizio; e vi cadesse pure parecchie volte, v’è sempre pericolo di mormorare accusandola. Questo precisamente accadde a Simone il lebbroso, quando vide Maddalena ai piedi del Signore, che bagnava colle sue lagrime: “Se costui, disse tra sé, fosse un profeta, com’egli afferma, conoscerebbe certamente che costei è una peccatrice.„ (Luc. VII, 39). Si sbagliava grossolanamente: Maddalena non era più una peccatrice, ma una santa penitente, perché i suoi peccati le erano stati perdonati. Vedete ancora quel fariseo orgoglioso, che in mezzo al tempio sfoggiava tutte le sue pretese opere buone, ringraziando Iddio di non essere del numero degli adulteri, ingiusti, ladri, come il pubblicano. Diceva  che costui era un ladro: mentre nel medesimo tempo era stato giustificato. (Matt. XVIII, 11-14) Ah! figli miei, aggiunge l’amabile S. Francesco di Sales, se la misericordia di Dio è così grande, che le basta un sol momento per perdonarci i maggiori delitti del mondo, come oseremo noi dire che chi era un gran peccatore ieri, lo sia ancor oggi? „ Concludo dicendo che quasi sempre ci inganniamo nel giudicar male del prossimo, qualsiasi apparenza di verità abbia il fatto sul quale basiamo il nostro giudizio.

3° Si mormora quando senza legittima ragione si fa conoscere un difetto nascosto del prossimo, od uno sbaglio non conosciuto. Alcuni s’immaginano che quando sanno qualche male del prossimo, possono dirlo ad altri ed occuparsene. Vi ingannate, amico mio. Quale cosa v’è nella nostra santa religione più raccomandata della carità? La ragione stessa ci ispira di non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi. Esaminiamo la cosa un po’ più davvicino: saremmo proprio contenti se alcuno avendoci visto commettere uno sbaglio andasse a raccontarlo a tutti? no, senza dubbio: anzi se avesse la carità di tenerlo celato, gliene saremmo ben riconoscenti. Vedete quanto vi spiace che si dica qualche cosa sul conto vostro o della vostra famiglia: dov’è adunque la carità e la giustizia? Sinché lo sbaglio del vostro prossimo sarà nascosto, egli conserverà la sua riputazione: ma facendolo conoscere, voi gli togliete la riputazione, e quindi gli fate maggior torto che non togliendogli parte dei suoi beni: perchè lo Spirito Santo ci dice che una buona riputazione vale più delle ricchezze (Prov. XXII, 1).

4° Si mormora quando s’interpreta in mala parte le buone azioni del prossimo. Alcuni assomigliano al ragno, che cambia in veleno anche le cose migliori. Un povero disgraziato, se cade una volta sotto la lingua dei maldicenti, è simile ad un grano di frumento sotto la macina del mulino. Vien stritolato, schiacciato, interamente distrutto. Coloro vi attribuiranno intenzioni da voi mai avute, avveleneranno ogni vostra azione, ogni vostra parola. Se vi date alla pietà, ed adempite fedelmente le vostre pratiche di religione, non siete che un ipocrita, santo in chiesa e demonio in casa. Se fate opere buone, penseranno che è solo per orgoglio, per farvi vedere. Se fuggite il mondo, diranno che volete essere singolare, mentre siete di spirito debole: se avete cura delle cose vostre, non siete che un avaro: insomma, F . M., la lingua del maldicente è come un verme che rode i frutti buoni, cioè le azioni migliori degli altri, e cerca di interpretrarle malamente. La lingua del maledico è un bruco che insozza i fiori più belli, lasciandovi la traccia disgustosa della sua bava.

5° Si mormora anche non dicendo nulla; ed ecco come. Si loda alla presenza vostra uno, e tutti sanno che voi lo conoscete: ma voi non dite nulla, o lo lodate solo debolmente: il vostro silenzio e la vostra riserbatezza fanno pensare che sappiate sul suo conto qualche cosa di male, che vi induce a tacere. Altri mormorano quasi compassionando. Conoscete, nevvero, la tale? sapete, avete udito che cosa le è accaduto? che peccato siasi lasciata ingannare! … certo, al par di me, non l’avreste creduto!… S. Francesco ci dice che questa maldicenza è simile ad un dardo velenoso che si intinge nell’olio perché penetri più addentro. Infine, un gesto, un sorriso, un ma, un muover del capo, una piccola aria di disprezzo: tutto fa molto dubitare di colui del quale si parla. – Ma la maldicenza più brutta, e più funesta nelle sue conseguenze, è il riferire ad alcuno quanto si è detto o fatto contro di lui. Queste informazioni producono i mali più terribili, fanno nascere sentimenti di odio, di vendetta, che durano spesso fino alla morte. Per mostrarvi quanta colpevolezza vi sia in questo, ascoltate che cosa ci dice lo Spirito Santo: “Sei cose odia Iddio, ma la settima la detesta, cioè le informazioni„ Ecco press’a poco, F. M., in quanti modi si può peccare di maldicenza. Scandagliate il vostro cuore, e vedrete se siete per nulla colpevoli in questa materia. Vi dirò altresì, che non devesi facilmente credere il male che si dice degli altri, e se una quand’è accusata non si difende, non devesi  credere per questo, che quanto si dice di lei sia ben certo: eccone un esempio che vi mostrerà come possiamo tutti ingannarci, e che non dobbiamo credere se non difficilmente al male che ci vien detto degli altri. Narrasi nella storia che un vedovo avendo una figlia unica assai giovane, la raccomandò ad un suo parente, e si fece religioso in un monastero di solitari. La sua virtù lo fece amare da tutti i religiosi. Da parte sua era assai contento della sua vocazione: ma, dopo un po’ di tempo, la tenerezza che sentiva pensando alla sua figliuola, lo riempì di dolore e di tristezza per averla così abbandonata. Il padre abate se ne accorse, ed un giorno gli disse: “Che avete, fratel mio, da essere così afflitto? „ — ” Ahimè! padre mio, rispose il solitario, ho lasciato i n città una mia creatura giovanissima: ecco la causa della mia pena.„ L’abate non sapendo che era una figliuola, credendo fosse un figlio, dissegli: “Andate a cercarlo, conducetelo qui ed allevatelo con voi.„ Tosto egli parte, considerando ciò come un’ispirazione del cielo, e va a trovare la sua figliuola, chiamata Marina. Le disse di prendere il nome Marino, proibendole di non far mai conoscere di essere una fanciulla, e la condusse nel suo monastero. Il padre si diede tanta cura di mostrarle la necessità della perfezione in chi lasciava il mondo per darsi a Dio, che in poco tempo ella divenne un modello di virtù, benché cosi giovane, anche pei religiosi più vecchi. Prima di morire, il padre le raccomandò di nuovo caldamente di non mai dire chi ella fosse. Marina non aveva ancora diciassette anni quando le morì il padre: tutti i religiosi non la chiamavano che col nome di fratel Marino. L’umiltà sua così profonda, e la perfezione così poco comune la fecero amare e rispettare da tutti i religiosi. Ma il demonio geloso di vederla avanzar tanto rapidamente nella virtù, o piuttosto Iddio, volendo provarla, permise che fosse calunniata nel modo più infame. Le sarebbe stato facile mostrare la propria innocenza, ma non lo fece. Vedete come un’anima che ama davvero Iddio, riguarda tutto quello che accade per divina permissione, anche la maldicenza e la calunnia, come ordinato soltanto a nostro bene. I frati usavano andare al mercato in certi giorni della settimana per fare le loro provvigioni: ed il fratello ve li accompagnava. Il padrone dell’albergo aveva una figliuola, che s’era lasciata sedurre da un soldato. Scoperto il disonore, il padre ne volle sapere l’autore: e la giovane, piena di malizia, inventò la più infame maldicenza, e la più infame calunnia, dicendogli che era stato proprio fratel Marino a sedurla, e che con questi era caduta in peccato. Il padre, furibondo, venne a lamentarsi coll’abate, che restò ben sorpreso d’una tal cosa da parte di fratel Marino, che era stimato un gran santo. L’abate fece venire alla sua presenza fratel Marino, domandandogli che cosa avesse fatto, quale enorme errore commesso, disonorando in tal guisa la religione! Il povero fratel Marino, levando il suo cuore a Dio, pensò che cosa dovesse rispondergli, ed anziché diffamare l a giovane impudica, si accontentò di dire: “Sono un peccatore, che merita di far penitenza. „ L’abate non esaminò oltre, e credendo Marino colpevole del delitto di cui era accusato, lo fece castigare severamente, e lo scacciò dal monastero. Ma la povera giovane, a somiglianza di Gesù Cristo, ricevette i colpi e gli affronti senza aprir bocca per lamentarsi, né fece riconoscere la sua innocenza, mentre le sarebbe stato così facile. Restò per tre anni alla porta del monastero, riguardata da tutti i religiosi come un’infame: quando passavano, essa si prostrava davanti a loro a domandar il soccorso delle loro preghiere ed un pezzo di pane per non morir di fame. La figlia dell’albergatore, partorì e tenne per un po’ di tempo il bambino: ma appena slattato lo mandò a fratel Marino come a chi ne era padre. Senza neppur fare apparire la sua innocenza, essa lo ricevette come fosse suo figlio, e lo nutrì per due anni, dividendo seco lui le poche elemosine che riceveva. I religiosi, commossi da tanta umiltà pregarono l’abate d’aver pietà di fratel Marino, mostrandogli che da cinque anni faceva penitenza alla porta del convento, e che bisognava riceverlo e perdonargli per amor di Gesù Cristo. L’abate, fattolo chiamare lo rimproverò aspramente: “Il padre vostro era un santo, diss’egli, e voi aveste la sfacciataggine di disonorar questa casa col delitto più detestabile: tuttavia, vi permetto di rientrare col bambino, del quale siete l’indegno padre, e per espiazione del vostro peccato vi condanno alle opere più vili e più basse, ed a servire tutti gli altri fratelli.„ Il povero fratel Marino, senza un lamento si sottomise a tutto, sempre contento e risoluto di non dir mai nulla che potesse rivelare che egli non era affatto colpevole. Il nuovo lavoro affidatogli che solo un uomo robusto avrebbe potuto sostenere, non lo scoraggiò. Dopo qualche tempo però, oppresso dalla fatica e dalle austerità dei digiuni, dovette soccombere, e poco appresso morì. L’abate caritatevolmente ordinò che gli si rendessero gli estremi onori come ad ogni altro religioso: ma che per ispirar maggior orrore per quel vizio, fosse sepolto lontano dal monastero, sicché se ne perdesse anche la memoria. Dio però volle far conoscere l’innocenza, tenuta nascosta per tanto tempo. Nel disporre la salma avendo scoperto che era una giovane: “O mio Dio, esclamarono i religiosi percuotendosi il petto, come poté questa santa figliuola soffrir con sì grande pazienza tanti obbrobri ed afflizioni, senza lamentarsi, mentre le era così facile giustificarsi?„ Corsero dall’abate, e con alte grida e lagrime in abbondanza: “Venite, padre, gli dissero, venite a vedere il fratel Marino. „ L’abate, meravigliato di quelle grida e di quelle lagrime, accorse e vide la povera giovane innocente. Fu colpito da sì vivo dolore che si gettò in ginocchio, prostrando la fronte a terra e versando torrenti di lagrime. Tutti insieme, egli ed i religiosi, esclamarono piangendo: “O santa ed innocente giovane, vi scongiuriamo per la misericordia di Gesù Cristo, di perdonarci tutte le pene e gli ingiusti rimproveri che vi abbiamo inflitti! — Ahimè, esclamava l’abate, io fui nell’ignoranza; voi aveste abbastanza pazienza per tutto soffrire, ed io troppo pochi lumi per riconoscere la santità della vostra vita.„ Fatto deporre il corpo della santa giovane nella cappella del monastero, ne recarono notizia al padre della giovane che aveva accusato fratel Marino. La povera disgraziata che aveva accusato falsamente santa Marina, era dal tempo del suo peccato ossessa dal demonio: venne tutta desolata a confessare il suo delitto ai piedi della santa, domandandole perdono. E all’istante fu liberata per sua intercessione. Vedete, F . M., come la calunnia e la maldicenza fanno soffrire poveri innocenti! quanti poveretti sono, anche nel mondo, accusati falsamente, e che nel dì del giudizio riconosceremo innocenti. Tuttavia coloro che sono accusati in questo modo debbono riconoscere che è Dio che lo permette, e che il miglior rimedio per loro è di lasciare la propria innocenza nelle mani del Signore, e non tormentarsi di quanto può soffrirne la loro reputazione: quasi tutti i santi fecero così. Vedete anche S. Francesco di Sales, accusato davanti a molti di aver fatto uccidere un uomo per vivere con la moglie di lui. Il santo rimise tutto nelle mani di Dio, non preoccupandosi della sua reputazione. A chi gli consigliava di difenderla, rispondeva che a colui che aveva permesso che la sua reputazione fosse diffamata lasciava l’incarico di ristabilirla quando gli piacesse. Siccome la calunnia è qualche cosa di ben doloroso, Dio permette che quasi tutti i santi vengano calunniati. Credo che la miglior cosa per noi in tali circostanze sia di non dir nulla, e domandare al buon Dio di tutto soffrire per amor suo, e pregare pei calunniatori. D’altra parte, Dio noi permette che per coloro sui quali ha grandi viste di misericordia. Se una persona è calunniata, è perché Dio ha stabilito di farla pervenire ad un’alta perfezione. Dobbiamo compiangere coloro che denigrano la nostra reputazione, e rallegrarci per nostro conto: perché sono ricchezze che aduniamo pel cielo. – Ritorniamo all’argomento, perché mio scopo principale è di far conoscere il male che il maldicente fa a se stesso. Vi dirò che la maldicenza è un peccato mortale, quando trattasi di cosa grave; perché S. Paolo lo mette nel numero di quelli che ci escludono dal regno dei cieli (I Cor. VI, 10). Lo Spirito Santo ci dice che il maledico è maledetto da Dio, che è abbominato da Dio e dagli umini (Abominatio hominum detractor. – Prov. XXIV, 9). – La maldicenza è altresì più o meno grave, secondo la qualità e la dignità delle persone che colpisce, o le loro relazioni con noi. Quindi è maggior peccato far conoscere le colpe ed i vizi dei superiori, come del padre e della madre, della moglie, del marito, dei fratelli, delle sorelle, dei parenti, che non quelli degli estranei, perché si deve avere più carità per loro che per gli altri. Il parlar male delle persone consacrate e dei ministri della Chiesa, è ancora maggior peccato per le conseguenze così funeste per la religione che ne derivano e per l’oltraggio che si fa al loro carattere. Ascoltate quanto ci dice lo Spirito Santo per bocca del suo profeta: “Chi parla male dei miei ministri tocca la pupilla dei miei occhi;„ (Zacc. II, 8) cioè niente può oltraggiarlo in modo così sensibile; delitto quindi sì grande è questo, che non lo potrete mai comprendere. Anche Gesù Cristo ci dice: “Chi disprezza voi, disprezza me.„ (Luc. X, 16). Perciò, F. M., quando siete con persone di altra parrocchia, che parlano sempre male del loro pastore, non dovete partecipare ai loro discorsi, ritiratevi, se potete, altrimenti tacete. Dopo ciò, F. M., converrete con me che per fare una buona confessione non basta dire che abbiamo parlato male del prossimo; bisogna anche dire se per leggerezza, per odio, per vendetta tentammo nuocere alla sua reputazione: dire di quali persone abbiamo parlato: se d’un superiore, d’un eguale, del padre, della madre, dei parenti, di persone consacrate a Dio: davanti a quante persone: tutto ciò è necessario per fare una buona confessione. Molti si ingannano su di questo: si accuseranno, è vero, d’aver parlato male del prossimo, ma senza dire di chi, né con quale intenzione; ciò che è causa di molte confessioni sacrileghe. Altri ancora, interrogati, vi risponderanno che queste maldicenze non recarono danno al prossimo. — Amico mio, vi ingannate: ogni volta che avete detto una cosa ignota a chi vi ascoltava, avete portato danno al prossimo, perché avete diminuito la buona riputazione che quegli ne poteva avere. — Ma, mi direte, quando una colpa è pubblica, non v’è nulla di male. — Amico mio, quando la cosa è pubblica, è come se alcuno avesse il corpo tutto coperto di lebbra, tranne una piccola parte, e voi diceste che poiché quel corpo è quasi tutto coperto di lebbra, bisogna ricoprirnelo interamente. È la stessa cosa. Se è un fatto pubblico, dovete anzi aver compassione del povero disgraziato, nascondere e diminuire la sua colpa quanto potete. Ditemi, sarebbe giusto se, vedendo una persona ammalata sull’orlo d’un precipizio, si approfittasse della sua debolezza e dell’esser presso a cadere per spingervela? Ebbene: ecco quanto avviene quando si rammenta ciò che è già pubblico. — Ma, mi direte, e se lo si dice ad un amico, con la promessa di non palesarlo?

— Vi ingannate ancora: come volete che gli altri tacciano, se non ne siete stati capaci voi? E come se diceste a qualcheduno: “Ecco, amico mio, voglio dirvi una cosa; vi prego di essere più saggio e discreto di me, di aver più carità di me; non ripetete a nessuno quanto vi dico.„ Credo che il mezzo migliore sia di non dir nulla: qualsiasi cosa si dica o si affermi degli altri non occupatevene, e pensate solo di guadagnarvi il cielo. Niuno si pente mai di aver detto nulla; invece ci pentiamo quasi sempre d’aver parlato troppo. Lo Spirito Santo ci dice: “Chi parla tanto, spesso falla.„ (In multiloquio non deerit peccatum. Prov. X, 19).

II— Vediamo ora le cause e gli effetti della maldicenza. Parecchi sono i motivi che ci portano a mormorare del prossimo. Alcuni lo fanno per invidia, quando specialmente persone di ugual professione vanno a gara per attirarsi la clientela: diranno male degli altri: che le loro merci non valgono nulla; ovvero che imbrogliano, che non hanno nulla in casa, che è impossibile vendere le merci ad un tal prezzo: che molti se ne lamentano che si vedrà bene che non faranno buona riuscita … ovvero che vi manca il peso o la misura. Un giornaliero dirà che un altro non è un buon operaio: che va in tante case, ma non restano contenti: egli non lavora, si diverte: ovvero, non sa il suo mestiere. “Non bisogna riferire quanto vi dirò, soggiunge, altrimenti ne avrebbe danno. „ Dovete rispondere: “Era ben meglio che non aveste parlato voi: sarebbe stato più presto fatto.„ Un contadino vede che i terreni del vicino prosperano meglio dei suoi; ciò lo affligge, ne parlerà male. Altri sparlano dei loro vicini per vendetta; se avete detto o fatto qualche cosa ad alcuno, sia pur per dovere o per carità, cercheranno di screditarvi, di inventare molte cose contro di voi per vendicarsi. Se si parla bene di colui pel quale hanno avversione, se ne affliggono, e vi diranno: “È come gli altri, egli pure ha i suoi difetti: ha fatto questo, ha detto quest’altro: non lo conoscete? è perché non avete mai avuto relazione con lui. Parecchi mormorano di orgoglio, credono di innalzarsi abbassando gli altri, dicendone male: faranno valere le loro pretese qualità buone: quanto dicono e fanno è tutto bene, e quanto dicono o fanno gli altri è male. Ma la maggior parte mormora per leggerezza, per una certa smania di parlare, senza esaminare se ciò che dicono sia vero o no: bisogna che parlino. Quantunque costoro siano meno colpevoli degli altri, di coloro cioè che parlano male per odio, per invidia o vendetta, non sono però senza peccato: qualsiasi motivo li faccia agire, feriscono sempre la riputazione del prossimo.

Credo che il peccato della maldicenza racchiuda quanto v’ha di più malvagio. Sì, F. M., questo peccato contiene il veleno di tutti i vizi, la piccineria della vanità, il tossico della gelosia, il rancore della collera, il fiele dell’odio, e la leggerezza così indegna di u n Cristiano: ciò fa dire a S. Giacomo apostolo: “La lingua del maldicente è piena di veleno mortale, è una sentina di iniquità.„ (Giac. III, 8).  E se vogliam darci la pena di esaminarlo, nulla è più facile a comprendersi. Non è infatti la maldicenza che quasi dappertutto semina la discordia, la disunione tra gli amici, impedisce la riconciliazione tra i nemici, turba la pace delle famiglie, inasprisce il fratello contro il fratello, il marito contro la moglie, la nuora contro la suocera, il genero contro il suocero? Quante famiglie in buona armonia, messe sossopra da una lingua cattiva, e i loro membri non possono più né vedersi né parlarsi. Quale la causa? Solo la lingua cattiva del vicino o della vicina … Sì, F. M., la lingua del maldicente avvelena tutte le buone azioni, e svela tutte le cattive. Essa tante volte, getta sopra una famiglia intera macchie che passano di padre in figlio, da una ad altra generazione, e forse non si cancelleranno mai più! La lingua maledica va a frugare anche nelle tombe dei morti, smuove le ceneri di questi poveri infelici, facendone rivivere, cioè rammentando i loro difetti, sepolti con essi nella tomba. Quale enormità, F. M.! Di quale indignazione non sareste accesi, se vedeste un miserabile accanirsi contro un cadavere, straziarlo, dilaniarlo? Ciò vi farebbe inorridire. Ebbene, è assai più grande il delitto di chi rammenta le colpe d’un povero morto. Quante persone hanno l’abitudine parlando di un morto: “Ah! ne ha fatte ai suoi tempi! era un ubbriacone perfetto, un furbo matricolato, insomma un essere cattivo.„ Ahimè, amico mio, probabilmente vi ingannate; e fosse anche come dite, egli ora è forse in cielo, il buon Dio gli ha perdonato. Ma dove è la vostra carità? Non vedete che dilacerate la reputazione dei suoi figli, se ne ha, o dei parenti? Sareste contento che si parlasse così dei vostri cari, che son morti? Se portassimo in cuore la carità, non avremmo nulla da dire di nessuno; cioè ci affanneremmo ad esaminare soltanto la nostra condotta, e non quella del prossimo. Ma se lasciate da parte la carità, non troverete un uomo sulla terra, nel quale non sia facile scoprire qualche difetto: e la lingua del maldicente trova sempre da criticare. No, F. M., conosceremo solamente nel gran giorno delle vendette il male fatto da una lingua maledica. Vedete: la sola calunnia da Aman fatta contro i Giudei, perché Mardocheo non volle piegare il ginocchio davanti a lui, aveva determinato il re a far morire tutti i Giudei (Esther III, 6). Se la calunnia non fosse stata scoperta, la nazione giudaica sarebbe stata distrutta: era il progetto di Aman. O mio Dio! quanto sangue sparso per una calunnia! Ma Dio, che non abbandona mai l’innocente, permise che quel perfido perisse dello stesso supplizio da lui destinato ai Giudei (Ibid, VII, 10). – Ma senza andare tant’oltre, quanto male non fa chi ad un figlio dirà male di suo padre, della madre sua o dei padroni! Gliene avete dato un cattivo concetto, egli li guarderà con disprezzo: se non temesse di venir punito, li oltraggerebbe. I padri, le madri, i padroni, le padrone li malediranno, li maltratteranno: chi fu la causa di tutto ciò? La vostra cattiva lingua. Avete parlato male dei sacerdoti, e forse del vostro parroco: avete affievolito la fede in chi vi ascoltava, ed essi hanno abbandonato i Sacramenti, vivono senza religione: di chi la colpa? della vostra cattiva  lingua. E per vostra causa che questo negoziante e quell’operaio non hanno più i loro clienti; voi li avete diffamati. Quella donna, cosi in buona armonia col suo marito, l’avete calunniata presso di lui: ora egli non la può più soffrire; sicché dopo le vostre delazioni, v’è solo odio e maledizioni in quella casa.

III. Se gli effetti della maldicenza, F. M., sono così terribili, la difficoltà di ripararvi non è meno grande. Quando la maldicenza è considerevole, F. M., non basta confessarsene: non voglio dire di non confessarsene: no, – F. M., se non confessate le vostre maldicenze sarete dannati nonostante tutte le penitenze, che possiate fare: ma voglio dire che confessandole, bisogna assolutamente, se si può, riparare il danno che la calunnia ha causato al prossimo: e come il ladro che non restituisce la cosa rubata non vedrà mai il cielo, così chi avrà tolto la riputazione al prossimo, non entrerà mai in cielo, se non fa quanto dipende da lui per riparare la riputazione del prossimo offesa. Ma, mi direte, come si deve fare per riparare la riputazione del prossimo offesa ? — Ecco. Se quanto è stato detto contro di lui è falso, bisogna assolutamente andare da tutti quelli coi quali abbiamo parlato male, dicendo che quanto abbiamo detto era falso, era per odio, per vendetta o per leggerezza; anche se dovessimo passare per bugiardi, ingannatori, impostori, dobbiamo farlo. Se quanto abbiamo detto è vero, non possiamo disdirci, perché non è permesso di mentire: ma si deve dire tutto il bene che si conosce di quella persona, affine di riparare al male raccontato. Se questa maldicenza, questa calunnia hanno prodotto qualche danno, si è obbligati di ripararlo più che si può. Giudicate da questo, F . M., quanto è difficile riparare gli effetti della maldicenza. Vedete, F. M., quanto è faticoso il pubblicare che siamo bugiardi, eppure, se quanto dicemmo è falso, bisogna farlo, altrimenti noi non si va in cielo! Ahimè, F. M., questa mancanza di riparazione dannerà il mondo! Il mondo è ripieno di maldicenti e di calunniatori, e quasi nessuno ne fa riparazione: e quindi quasi nessuno si salverà. È come riguardo alle cose rubate; andremo dannati, se, potendolo, non vogliamo restituire. Ebbene, F. M., comprendete voi ora il male che fate colla lingua, e la difficoltà di ripararvi? Bisogna però capire che non tutto è maldicenza, quando si fanno conoscere le colpe d’un figlio ai genitori, d’un domestico al padrone, purché si faccia perché si correggano, e se ne parli a chi può rimediarvi; e sempre guidata da motivi di carità. Finisco dicendo che non solo è male il mormorare e il calunniare, ma anche l’ascoltar con piacere la maldicenza e la calunnia: perché se nessuno ascoltasse, non vi sarebbero i maldicenti. Così facendo ci rendiamo complici di tutto il male che fa il maldicente. S. Bernardo ci dice che è ben difficile sapere chi è più colpevole chi sparla o chi ascolta: l’uno ha il demonio sulla lingua, l’altro nelle orecchie. — Ma, mi direte, che si deve fare quando ci troviamo in una compagnia di maldicenti? — Ecco. Se è un inferiore, cioè una persona al di sotto di voi, dovete imporgli silenzio subito; mostrandogli il male che fa. Se è una persona di ugual condizione, dovete destramente cambiare il discorso parlando di altra cosa, o facendo mostra di non sentire quanto dice. Se è un superiore, cioè una persona al disopra di voi, non bisogna riprenderla: ma tenere un contegno serio e triste, che gli riveli il vostro dispiacere, e, se potete andarvene, dovete farlo. – Che dobbiam concludere da tutto ciò, F . M.? Ecco: non prendiamo l’abitudine di parlare della condotta altrui; pensiamo che molto si potrebbe dire sul nostro conto, se ci conoscessero quali siamo; e fuggiamo le compagnie del mondo quanto possiamo, dicendo spesso come S. Agostino: “Mio Dio, fatemi la grazia di conoscermi quale sono.„ Fortunato! Mille volte fortunato chi adoprerà la lingua solo per domandare  a Dio perdono de’ suoi peccati e cantare le lodi del Signore! È quanto io …

15 SETTEMBRE: I SETTE DOLORI DELLA BEATA VERGINE MARIA

(GIOACCHINO VENTURA: LA MADRE DI DIO, ovvero Spiegazione DEL MISTERO DELLA SS. VERGINE A PIE’ DELLA CROCE; GENOVA, Presso D. G. ROSSI 1852)

PARTE SECONDA

CAPO VI.

Fortezza dì Maria.

A differenza di Agar, che non vuole veder morire Ismaele, Maria deve essere spettatrice della morte di Gesù Cristo. Suo viaggio del Calvario ed incontro doloroso col Figlio. Suo contegno diverso da quello di Giacobbe alla vista della tonaca insanguinata di Giuseppe.

Se si fosse adunque trattato di una madre comune, la stessa carità che avea condotte sul Calvario le altre, sante matrone ne dovea tener lontana Maria. Ciò che per le discepole fu atto di generosa pietà poteva sembrar durezza per la Madre. Non è nelle regole ordinarie della convenienza che una madre sia spettatrice dell’estremo supplizio del figlio cui non può dare alcun soccorso: e ciò perché lo spettacolo di una madre immersa in un profondo dolore non accresca i patimenti del figlio; o la vista degli acerbi dolori del figlio non funesti lo sguardo e strazii il cuor della madre. – Egli è però che Agar, serva di Àbramo, essendole mancata l’acqua nella solitudine di Bersabea, e vedendo il suo unigenito figlio Ismaele già boccheggiante per l’ardor della sete, « Se non posso – disse – più recargli alcun soccorso, a che serve, e io lo tenga stretto ancora tra le mie braccia? se esso deve irreparabilmente perire, che bisogno vi è che io funesti il mio sguardo materno collo spettacolo doloroso del suo fiero destino? Ah! che non ho cuore di vedermi morire il figlio sotto degli occhi miei: cumque consummata esset aqua.. dixit: Non videbo morientem puerum. » Ed in così dire, depone il fanciullo moribondo a piedi di un albero e si ritira in disparte alla distanza del tiro di un dardo, Abjecit puerum subter unum arborem, et abiit procul quantum potest iucere arcum; e postasi a sedere sopra di un sasso, e scoppiando in un dirottissimo pianto, fece echeggiare l’aria intorno di gemiti profondi e di dolorosissime grida: Et sedens contra levavit vocem suam et flevit. – Cosi adoperò la madre di un puro uomo: ma la madre di un uomo che allo stesso tempo è Dio non deve adoperare così. Come madre di Dio, Maria ha degli obblighi da cui sono dispensate le altre madri: e quello che per ogni altra madre avrebbe potuto sembrare per lo meno una inconveniente, per Maria è un dovere. Come essa ha ricevuto questo Figliuolo in una maniera tutta particolare, così non deve perderlo che in una maniera tutta propria di lei. Come Gesù Cristo non muore per necessità alla foggia degli altri uomini, così Maria in questa morte deve portarsi in un modo tutto diverso delle altre madri. Sul Calvario tutto deve essere grande, straordinario, misterioso, sublime, degno della vittima divina che s’immola. Maria dev’essere dunque presente alla morte di Gesù Cristo, affinché dalla maniera eroica, straordinaria, miracolosa con cui a questa morte assiste la Madre, possa conoscersi la divinità del Figliuolo. Appena perciò da Giovanni, il solo fra i discepoli che non avea mai perduto di vista nel corso della sua passione il suo divino Maestro, sente Maria che il giudice iniquo, con quelle medesime labbra con cui avea dichiarato solennemente Gesù innocente. Io aveva condannato alla morte, e che già il suo diletto Figliuolo carico del peso della sua croce s’incammina per la via del Calvario, « Ecco il tempo – esclama – ecco il giorno, ecco l’ora dei divini misteri! Morrà pur troppo, o eterno Padre, il mio unigenito Figlio, poiché la vostra gloria lo esige, la vostra giustizia lo vuole, la salute degli uomini lo domanda: ma esso non morrà che sotto degli occhi miei: e quella vita che gli diedi, gliela vedrò terminare io stessa: ridebo morientem puerum. Quando Gesù Cristo riempiva le contrade di Palestina de’ benefici del suo amore e della fama de suoi portenti: quando gli correvano appresso i popoli acclamandolo come l’inviato del cielo per la consolazione della terra, quando entrò in Gerusalemme in trionfo tra le acclamazioni e le grida festose delle turbe devote; Maria non gli teneva appresso, sene allontanava, si nascondeva, perché nessun raggio della gloria del Figlio venisse a riflettere sopra la Madre. Ma quando questo Figlio medesimo va al patibolo per finirvi la vita colla morte più obbrobriosa e spietata, quando si tratta di dividerne gli affronti e le pene, Maria si mostra. Alla gloria, alla soddisfazione innocente di essere additata come la madre avventurosa di un profeta, volentieri rinunzia: ma non rinunzia già all’ignominia e al dolore di essere pubblicamente additata come la madre infelice di un condannato: ed il trasporto con cui corre ad essere spettatrice e consorte del martirio del Figlio è eguale alla cautela che usa per essere dimenticata quando trattasi de’ trionfi di Lui: Fidebo morientem puerum. – Eccola quindi abbandonare la sua solitudine e, come la sposa dei Cantici, vera figura de’ santi trasporti di Maria, girare per le vie e le piazze di Gerosolima, impaziente d’incontrarsi col diletto del suo cuore che s’incammina al patibolo: Circuivi civitatem. La città è presso che abbandonata e deserta: il popolo tutto corre in folla al luogo de’ condannati, riempiendo l’aria di grida di una gioja feroce. Maria ne ode da lungi il rumor cupo, il rimbombo funesto; e dietro adesso e molto più alle orribili tracce che lasciava il Figlio nel suo penoso cammino, segnando la terra che calava di cadute e di sangue, riconosce la via in cui ritrovarlo.Guari infatti non va che sente il fiero squillo della tromba che lo precede e pubblica il preteso delitto e l’atroce condanna;e poco dopo ecco venirle innanzi Egli stesso. Ma ahi! che di uomo, secondo la profezia d’Isaia, esso non ha nemmeno più la figura: Vidimus eum, et non erat aspectus. La sua fronte è circondata di una ghirlanda ignominiosa e crudele di pungentissime spine, che, trapassate avendo le tempie, mostrano al di fuori le punte insanguinate: i suoi occhi umidi delle lacrime sparse sopra Gerusalemme deicida e grondanti di sangue; il suo volto è livido e contraffatto: il suo petto squarciato di piaghe: tutto il corpo è pesto da flagelli: ed Egli languido, spossato, anelante sotto l’orribile peso della sua croce, tra gl’insulti del popolo e le spinte crudeli della sbirraglia, va lentamente guadagnando a stento l’erta pendice del Calvario. Oh incontro! oh vista! oh spettacolo atroce al cuor di una madre!Di Giacobbe sta scritto che, al vedere la tonaca insanguinata del suo figliuolo Giuseppe, diede in altissime grida di dolore, si strappò di dosso le vesti, proruppe in un torrente di lacrime, cadde in un’ambascia profonda, e sdegna ogni consolazione ed ogni conforto: Quam cum agnovisset pater, dicit: Tunica filli mei est; fera pessima devoravit Joseph. Scissisque cestibus, lugiens filium suum multo tempore … noluit consolationem accipere. – Ora che farà Maria alla vista non già della veste, ma del corpo del proprio Figlio, solcato da profonde ferite e ricoperto di sangue?Qualche scrittore che ha minutamente descritto tutti i luoghi teatro della passione dolorosa dell’uomo-Dio, afferma che vi è tuttavia sul Calvario un tempietto diroccato che dicesiS. Maria dello spasimo, ed un sentiero che chiamasi ancora oggidì la strada dell’amarezza, poiché dicesi che ivj appunto, essendosi incontrata Maria a vedere il Figlio in atteggiamentosì compassionevole, in una situazione sì crudele,cadde a terra svenuta, non reggendo alla piena inondatrice del suo dolore. Ma, senza ammettere una tal caduta,che gravissimi scrittori negano come indegna della Madre di Dio, nella quale tetto dovea indicare una costanza. Una fortezza, una grandezza d’animo più che umana, é fuor di dubbio però che a quella vista le si gelò il sangue nelle vene, tutte le si commossero le sante viscere per compassione, lesi spezzò in seno il cuor per dolore: e perciò rimase ivi alquanto immobile e come assiderata, astratta da’ sensi, ma non alienata dalla ragione. – Che anzi fu a sé stessa sì presente che non mai apparve sì magnanima e sì sublime, quanto in questo istante in cui fu più addolorata. Gli occhi della Madre s’incontrano negli occhi del Figliuolo: si rimirano entrambi, e i due cuori commossi arcane misteriose parole si parlano e si rispondono. La vista di tanta fermezza, in mezzo a tanto dolore per parte di una madre, intenerisce, dice S, Bernardo, anche i cuori più duri; essi non possono contenersi dal mescolare le loro colle lacrime delle figlie di Gerusalemme, cui Gesù Cristo ha vietato di compassionarlo e di piangerlo; Multo» etiam invitos ad lacrymas provocabat omues plorabant qui ovbviabant ei, e nel pianto comune Ella sola non piange, e nella commozione comune alla vista dell’acerbità delle sue pene, Ella sola soffre con animo sereno, con ciglio asciutto. E, ben differente da Giacobbe, non un solo movimento, non un solo segno, non un solo accento, non una sola lacrima di dolore, non un solo rimprovero alla sinagoga ingrata, che’ le ritorna il Figlio in uno stato sì compassionevole e sì diverso da quello onde Maria glielo allevò e gliel diede: non un solo lamento sull’odio infernale degli accusatori, sulla ingiustizia dei magistrati, sulla barbarie dei carnefici, sulla cieca rabbia del popolo; non un solo tentativo, dal quale non avrebbe potuto astenersi ogni altra madre, di gittarsi tra la folla, di giungere sino al Figlio per stringerselo al seno e recargli conforto. Ma reprimendo gl’impeti della sua tenerezza materna sì profondamente ferita, ma comandando ai suoi affetti e al suo dolore, ma concentrando nel fondo del trafitto suo cuore tutta l’ambascia che lo crucia, tutta la tristezza che lo ingombra, accompagna Gesù in silenzio, come Abramo – dice S. Ambrogio – accompagna Isacco sino al luogo del suo sacrificio: Abraham Isaac, Maria comitabatur filium. Anzi, Soggiunge Giuglielmo abate, come essa è la prima dei predestinati: così è la prima a percorrerne la via: e praticando il Vangelo prima che fosse promulgato, è laprima che, giusta il precetto di Gesù Cristo, prende la sua croce e lo segue sul Calvario per essere interiormente crocifissa con Lui: Tollebat et Mater crucem suam et scquebatur eum, crucifigenda figenda cum ipso (in Cant. 7).Così, come Gesù Cristo dimostra che non si va al cielo che per la via del Calvario e dietro le orme sanguinose del Figlio di Dio, Maria dimostra che non si va a Gesù Cristo che dietro le tracce ed in compagnia della sua Madre: che tenendo fedelmente dietro all’odore prezioso degli unguenti delle sue virtù, si va dritto ad incontrare Gesù Cristo: e la strada che batte Maria è quella appunto in cui si trova Gesù: e difatti lo stuolo glorioso delle vergini eroiche che secondo la profezia di Davide, cammineranno dietro le pedate di Maria, perciò solo si troveranno con Gesù, il vero Re della gloria, saranno a Lui presentate e ricevute da Lui, e dietro questa guida seguiranno l’Agnello dovunque Egli va: Adducentur Regi virgines post eum; proximæ afferentur tibi. Maria perciò, allo stesso tempo che generi figli della Chiesa coll’eroismo della sua carità, li conduce ancora e li guida colla sublimità de’ suoi esempi, ed indica ed appiana la via ai figli del suo amore e del suo dolore, ai quali ha procurato la vita.

MULIER, ECCE FILIUS TUUS

(GIOACCHINO VENTURA: LA MADRE DI DIO, ovvero SPIEGAZIONEDEL MISTERO DELLA SS. VERGINE A PIE’ DELLA CROCE; GENOVA, Presso D. G. ROSSI 1852)

PARTE PRIMA, CAPO X.

Passo importante di Origene sulle parole –

DONNA, ECCO IL TUO FIGLIO

I veri fedeli formano un solo corpo con Gesù Cristo; e questa unione è cominciata sul Calvario. Come Gesù Cristo è Figlio di Maria, cosi i fedeli a lui uniti sono divenuti sul Calvario in Lui e con Lui anche di Maria Figliuoli. I Giudei e gli eretici non intendono questo mistero, e quanto sono perciò infelici. Vantaggio di noi cattolici, che, essendo nella vera Chiesa, soli abbiamo Maria per nostra vera Madre.

È verità fondamentale della cattolica fede che il Figliuolo di Dio per tutti si è incarnato, per tutti ha patito e data la vita, per tutti ha sodisfatto, ha meritato a tutti la riconciliazione e il perdono, a tutti ha acquistalo il diritto ai suoi beni, ai suoi privilegi, alla sua amicizia, alla sua fratellanza, come di tutti avea preso ed espiato i peccati; e che nessuno è stato escluso dalla generosità della sua offerta, né dal merito del suo sacrificio: Pro omnibus mortuus est Christus (II Cor. V.). Ciò nulla ostante però, in fatto, siccome non tutti sono Cristiani, così non tutti sono figliuoli di Dio, né per conseguenza sono tutti veri discepoli, veri amici, veri fratelli di Gesù Cristo: ma quelli solamente son tali che, incorporati con Lui pel Battesimo, rimangono a Luì uniti pei legami della fede, nelle sue dottrine e della fedeltà ai suoi comandamenti. – Al medesimo modo, sebbene Maria per la sua cooperazione alla redenzione, alla nascita spirituale di tutti, come vedremo, sia divenuta di tutti la madre, come Gesù Cristo è il redentore di tutti: pure in fatto essa non è realmente madre se non di coloro di cui Iddio è il vero padre, e Gesù Cristo il vero maestro e fratello; cioè a dire dei veri Cattolici, di quelli che con Gesù Cristo compongono il corpo di cui Egli è il capo, cioè la Chiesa. – Questa verità appunto, tanto preziosa quanto consolante per noi che abbiamo la sorte di appartenere a questa Chiesa, Gesù Cristo ha voluto rammentarci coll’avere detto a Maria, additando Giovanni: Ecco IL VOSTRO FIGLIO, Ecce filius tuus, perché, come abbiamo di sopra osservato, è stato come se avesse dichiarato che in fatto solo coloro, sarebbero i veri figli di Maria ai quali converrebbero i caratteri distintivi di S. Giovanni, che sono quelli dì essere il discepolo fedele di Gesù e l’oggetto del suo tenero amore: Discipulus quem, diligebat Jesus. In diversi luoghi del capo precedente e del presente ancora si è di già accennata questa dottrina, che non si può partecipare a questa porzione dell’eredità di Gesù Cristo, di avere cioè, Maria per Madre, se non entrando ad abitare nei tabernacoli di Sem, ossia nella vera Chiesa: ma qui è il luogo di trattarla con una certa estensione, procurando di penetrare, per quanto ci è possibile, ancora più innanzi nello spirito delle parole di Gesù Cristo. Origene, commentando queste stesse parole del Salvatore crocifisso: Donna, ecco il tuo figlio, fa una osservazione assai bella, che sparge grandissimo lume sulla verità che andiamo spiegando. Nessuno, dice egli, può avere la piena intelligenza del Vangelo di S. Giovanni, né entrare nel suo senso verace, se non ha avuto, come quest’Apostolo, il privilegio di riposare sul petto stesso di Gesù Cristo, e se da Gesù Cristo medesimo non ha ricevuto Maria per madre. – Tutti coloro che hanno sentimenti degni di lei sono pienamente persuasi ch’essa non ha avuto altro figlio fuori di Gesù Cristo, e per conseguenza che, quando Gesù Cristo disse alla sua Madre, in parlando di S. Giovanni: Ecco il vostro figlio; e non già: Eccovi in Giovanni un altro figlio, fu lo stesso che dire: Questi è Gesù, di cui voi siete la Madre: imperciocché chiunque è perfetto non vive altrimenti esso più in sé stesso, ma è Gesù Cristo che vive in lui: Evangelii a Joanne traditi sensum percipere nemo potest, itisi qui supra pectus Jesu recubuerit, vel acceperit a Jesu Mariam, quæ ipsius etiam mater fiat. … Si nullus est Mariæ filius, judicio eorum qui de ipsa bene senserunt. præterquam Jesum, dixitque Jesus Matri: Ecce Filius tuus; et non: Ecce etiam hic est filius tuus; perinde est ac si dixisset: Ecce hic est Jesus quem genuisti; etenim quisque perfectus est, non amplius vivit ipse, sed in ipso vivit Christus (Orig. in Joan.). – Queste parole sono profonde: ma esse sono di una ammirabile esattezza teologica: giacché sono appoggiate ad una verità che è il fondamento della vera fede, e che S. Paolo non ha cessato di spiegare, d’inculcare, di ripetere nelle sublimi sue lettere, cioè a dire che tutti i veri fedeli, tutte le membra della vera Chiesa, non formano con Gesù Cristo che una medesima cosa, un medesimo tutto, un medesimo corpo, un solo e medesimo figliuolo. Gesù Cristo stesso aveva di già manifestata questa grande e gioconda dottrina allora quando nella tenera preghiera diresse al suo Padre per la sua Chiesa pochi momenti prima di andare a morire per essa, gli disse: lo ho comunicato a questi miei discepoli la mia chiarezza, affinché non siano, non compongano che una stessa e medesima cosa con me, come Io e Voi, mio Padre, non siamo che una cosa medesima: Ego claritatem quam dedisti mihi dedit eis, ut sint unum, sicut ego et tu unum sumus (Joan. XVII). S. Paolo, per ispiegare questa misteriosa unità, ricorre alla similitudine del corpo umano. E siccome, dice egli, in un corpo vi sono membra fra loro diverse, come diversi sono gli  usi e i fini cui sono destinati; e, ciò non ostante, membra unite al capo non formano che un sol corpo: così tutti noi con Gesù Cristo non formiamo che un corpo solo: Sicut in uno corpore multa membra habemus, omnia autem membra non eundem actum habent: illa unum corpus sumus in Christo (Rm. XII). Altrove poi, ritornando l’Apostolo sulla stessa similitudine, spiega ancora il modo in cui si opera questa misteriosa unione, cioè pel Battesimo, pel quale entriamo nella Chiesa, siamo incorporati in Gesù Cristo e diveniamo una stessa cosa con Lui, poiché dice: Uno è il corpo, sebbene sia di molte membra composto: giacché queste membra insieme riunite non formano che uno stesso e medesimo corpo. Or così appunto accade di Gesù Cristo. Imperciocché, essendo stati noi battezzati pel medesimo spirito, formiamo con Gesù Cristo un corpo solo, cioè la Chiesa. Voi dunque, o Cristiani, siete le vere membra e il corpo di cui Gesù Cristo è il capo: Sicut corpus unum est et membra habet multa, omnia autem membra corporis, cum sint multa, unum tamen corpus sunt, ita et Christus. Etenim in uno spiritu omnes nos in unum corpus baptizati sumus…. Vos autem eslis corpus Christi et membra de membro (I Cor. XII). Or siccome il capo e le membra in un medesimo corpo, sebbene abbiano forma, uso e destini diversi, pure sono della sostanza medesima: così noi Cristiani, subito che pel Battesimo siamo incorporati a Cristo. diventiamo partecipi della stessa natura di Lui, divinæ consortes naturæ, come afferma S. Pietro: ed è in tal modo che tutti i suoi titoli, le sue ragioni, i suoi privilegi, le sue grazie ci divengon comuni: giacché nel corpo umano al buono stato, alla condizione de! capo partecipano ancora tutte le membra. Perciò come Gesù Cristo è Figlio di Dio, oggetto della sua tenerezza, ed erede della sua gloria: noi ancora, subito che siamo a Gesù Cristo incorporati e formiamo una cosa istessa con Lui, diventiamo per questo, solo, in Gesù Cristo e con Gesù Cristo, figli di Dio. oggetti delle tenerezze di Dio, eredi della gloria di Dio. Sicché come separati da Gesù Cristo non abbiamo nulla, non meritiamo nulla, non siamo nulla: così, uniti a Lui, in Lui  e con Lui abbiamo tutto, meritiamo tutto e siamo tutto quello che è esso stesso: In quo omnia. – Or siccome Gesù Cristo è ancora vero figlio di Maria; così, nell’incorporarci a Lui per mezzo dei sacramenti, nel divenire una stessa cosa con Lui, come appunto l’innesto, secondo S. Paolo, diviene una cosa medesima coll’albero in cui è messo: diveniamo altresì figli di Maria a quel medesimo modo e per quella ragione medesima onde dopo questa unione diveniamo figli di Dio, perché Gesù Cristo di Dio è Figliuolo: Ma questa nostra figliolanza da Dio e da Maria siccome è l’effetto della nostra unione con Gesù Cristo, e non l’otteniamo che in Lui e con Lui: così non formiamo con Lui ed in Lui che un figlio solo di Dio, un figlio solo di Maria, perché in Lui e con Lui formiamo un solo tutto, un solo composto mistico, un solo corpo. Questa unione nostra poi con Gesù Cristo come a nostro capo è vero che si verifica per mezzo dei sacramenti, nei quali cisi applica il merito del suo sangue e il frutto del suo sacrificio: ma siccome questo sangue, dal quale noi rinasciamo ad una novella vita e diventiamo membri di un corpo novello, si sparge sul Calvario, e questo sacrificio si compie sulla croce; così sulla croce e sul Calvario si piantano le basi, si fissano i titoli, si aprono le vie e si apprestano i mezzi di questa nostra misteriosa unione. Anzi essa in Giovanni, che tutti ci rappresenta, in Giovanni che è veramente bagnato dal sangue che piove a rivi da tutto, il corpo di Gesù Cristo, ed è il primo con Maria a sperimentare gli effetti del sacrificio di cui era testimonio, in Giovanni, dico, questa nostra unione comincia effettivamente a compiersi sul Calvario. – Con queste spiegazioni s’intende bene il bel passo di Origene ne testé riportato. In qualità di uomini siamo tutti figli di Maria perché, come vedremo a suo luogo, essa ha cooperato col suo amore e col suo dolore alla nostra nascita spirituale, a quel modo onde Gesù è padre e redentore di tutti perché tutti ci ha redenti e rigenerati col suo sangue. Ma siamo figli di dolore, figli di adozione, figli di grazia, figli diversi, figli distinti da Gesù Cristo. Ma in qualità di Cristiani, di veri discepoli di Gesù Cristo, a Lui uniti, incorporati con Lui e divenuti una stessa cosa con Lui, siamo figli di Maria, come lo è Gesù Cristo: non siamo più da esso distinti; formiamo con Lui come uno stesso corpo, così uno stesso figliuolo. Perciò sebbene Maria abbia a questo titolo tanti figliuoli quanti sono i veri fedeli, pure è vero il dire che Ella non ha che un figlio solo che è Gesù Cristo; poiché Gesù che vive in noi quando gli siamo veramente uniti: e tutti i fedeli non formano con Lui che un solo e medesimo Gesù Cristo, di cui Maria è vera Madre, e perciò è ancora vera Madre nostra. – Ecco dunque, secondo Origene, perché Gesù Cristo nell’additare Giovanni a Maria non le dice: Eccovi in Giovanni un altro figliuolo, un figliuolo diverso, che Io vi lascio in mia vece per supplire alla mia mancanza; ma le dice semplicemente: Ecco, o donna, il vostro figlio, Mulier, ecce filius tuus, poiché fu lo stesso che dirle, Donna Voinon avete che un solo figliuolo, e questi son Io. Ma siccome, pel mistero che al presente Io vado operando, Giovanni a me s’incorpora, a me si unisce e forma una stessa cosa con me, ed è in me, come Io viverò in lui; così, eccovi, o donna, in Giovanni, che sta a piedi della croce il vostro figlio stesso che sta in croce, il vostro Gesù Cristo che avete generato e che si trova tutto nel discepolo, come il capo nelle membra cui è unito. Mirate in lui gli effetti della mia redenzione, le tracce del mio sangue, la comunicazione ineffabile delle mie grazie, la partecipazione persino della stessa natura divina. Nulla gli manca per essere un altro me, una stessa cosa con me; e come Io vi sono Figliuolo, così esso ancora e tutti coloro che avranno i medesimi titoli e si troveranno nelle stesse condizioni di Giovanni, con me ed in me sin da questo momento divengono l’unico vostro figliuolo: Dixit Matri: Ecce filius tuus et non: Ecce etiam hic est filius, perinde ac si dixisset: Ecce hic est Jesus quem genuìsti; etenim quìsque perfectus est, non amplius vivìt ipse, sed in ipso vivit Christus. – Per intendere anche meglio questa sublime dottrina, si osservi che il Padre eterno genera il suo Verbo dalla sua sola sostanza. Questo Verbo di Dio adunque, in quanto generato Verbo nell’eternità è solo Figlio di Dio; ed a questa generazione eterna Maria non ha alcuna parte. Ma questo Verbo medesimo, questa Persona divina, generato di già ab eterno e nato da Dio solo e Dio esso stesso, ha preso e si è formato un corpo umano dal sangue purissimo di Maria; ed a questo corpo si è unito con una unione ipostatica o personale, intima, sostanziale, indissolubile, che, senza confondere le due sostanze, forma di Dio e dell’uomo in Gesù Cristo una sola persona, Non confusione substuntiæ, sed unitate personæ di modo che in Gesù Cristo Iddio è uomo, e l’uomo è veramente Dio. Ora poiché Maria ha generato, ha partorito questo misterioso composto indissolubile, nel quale tutto ciò che si afferma dell’uomo si può in tutto il rigore teologico affermare ancora di Dio; così si dice e si dee dire che Maria ha generato il Verbo di Dio, ha partorito Iddio, ha allevato Iddio, ed è vera genitrice e vera Madre di Dio. Come dunque Maria, sebbene non abbia fatto che somministrare del proprio sangue l’umanità che questo Dio ha assunta ed ha unita in modo sì intimo a se stesso; pure, perché a questa umanità si è unito sostanzialmente Dio, Maria si chiama ed è vera madre di Dio: allo stesso modo nel caso nostro (sempre colla proporzione e coi riserbi dovuti) sebbene Maria non abbia generato naturalmente se non Gesù Cristo, pure, perché questo Gesù Cristo ha unito intimamente a se stesso anche noi, sino a formare di tutti noi con Lui un solo e medesimo corpo di cui è capo, cosi Maria, per questa unione sì intima dell’unico suo Figlio naturale con noi, diviene in Gesù Cristo ancora nostra Madre e noi suoi figliuoli. Ma come il Dio e l’uomo, perché uniti in Gesù Cristo inuna sola Persona per mezzo all’unione ipostatica, non sono due Gesù Cristi e due figli di Maria, ma un solo Gesù Cristo ed un solo Figliuolo; così Gesù Cristo e i veri Cristiani, perché uniti da Lui in un medesimo corpo, non sono che un solo e medesimo figliuolo di Maria;e siccome questa unione nostra con Gesù Cristo si ferma sul Calvario; così sul Calvario siamo divenuti anche noi in Gesù Cristo non già i figli, ma il figlio di Maria; e Gesù Cristo proclama, manifesta questo ineffabile mistero sul Calvario, allorché dice a Maria: Eccovi, o donna, il vostro figlio.– S. Paolo insisteva su questa verità allora quando diceva: ricordatevi che le promesse sse sono state fatte ad Abramo ed al suo figlio; e che non disse già Iddio ai tuoi figli come se si fosse trattato di molti, ma, come se si trattasse di un solo, al tuo figlio, il quale non è che Gesù Cristo: Abrahæ factas sunt promissiones et semini ejus. Et non dicit: Et seminibus, quasi in multis; sed, quasi in uno: Et semini tuo  quod est Christus (Galat. V). – Sul Calvario adunque Dio si mostra il tenero padre di tutti gli uomini, giacché sacrifica ed abbandona alla morte naturale il suo Figlio, per far nascere e crearsi gli .uomini in figli adottivi. Gesù Cristo è ancora ivi di tutti gli uomini il fratello, il redentore, la vittima, perché non solo ha comune con tutti gli uomini l’umana natura ed è come essi vero figlio di Adamo: ma perché per tutti soddisfa, per tutti prega, a tutti stende le sue braccia e tutti chiama a partecipare, del frutto del sangue e dell’eredità del suo amore. Ma questa paternità di Dio, questa fratellanza di Gesù Cristo rispetto a tutti gli uomini è una paternità ed una fratellanza in senso larghissimo, una paternità una fratellanza di compassione, di misericordia e che direbbesi quasi di potenza o di disposizione. In atto poi, in realtà i veri figli di Dio, i veri fratelli di Gesù Cristo, coloro che in fatti costituiscono la sua vera famiglia, la sua casa, il suo corpo, sono solamente i veri Cristiani che sono incorporati a Lui, e che, fin tanto che durano in questo stato, partecipano a tutto quello che Gesù Cristo ha e che Gesù Cristo è in se stesso. – Ora al medesimo modo. Maria per la sua cooperazione all’opera della nostra salute, alla nostra nascita novella, è madre di tutti gli uomini, giacché per tutti gli uomini offri sul Calvario alla morte quel figlio che per tutti avea partorito. Ma questa sua maternità rispetto a tutti gli uomini è pure di disposizione, di potenza, di compassione e di amore. In atto però i suoi veri figli sono quelli soli che in atto sono i veri figli di Dio e fratelli di Gesù Cristo, e formano una cosa sola con Lui. – Non già che questa tenera Madre non s’interessi alla sorte di quegli uomini che sono fuori del corpo della Chiesa, come sono gli infedeli, gli eretici, o di quelli che sono fuori dello spirito della medesima Chiesa, come sono i peccatori: giacché, come Gesù Cristo estende anche a costoro la sua misericordia, chiamandoli al lume della fede o alla vita della grazia, e intercedendo di continuo pei peccatori presso del Padre, come lo affermano S. Giovanni e S. Paolo, e così si mostra di tutti il fratello; così Maria coopera colla sua intercessione, colla sua preghiera alla propagazione della fede, alla conversione dei peccatori; e di essi essendo oltremodo sollecita, mostra per questi infelici ancora viscere e tenerezza di madre, ed è loro madre altresì per compatirli, per aiutarli, per attirarli al bene, per consolarli; anzi di ciò ancora ha ricevuto da Gesù Cristo un incarico particolare. Ciò  nulla ostante però, i suoi figli di giustizia, i suoi figli veraci, che hanno al suo amore un diritto eguale al dritto che vi ha Gesù Cristo, sono coloro in cui, secondo l’espressione di S. Paolo, vive Gesù Cristo medesimo, Vivit vero in me Christus (Galat. II); sono quelli in cui e con cui Gesù Cristo è una stessa e medesima cosa, e perciò in Lui e con Lui, e rispetto a Dio e rispetto a Maria uno stesso e medesimo figliuolo; siamo noi veri Cattolici e veri figli della Chiesa; è la Chiesa stessa che forma un corpo con Gesù Cristo e cogli uomini, di cui Maria è Madre; e questi sono, questo è il figlio vero, il figlio reale, effettivo che in particolar modo le addita Gesù Cristo e le lascia nel suo Giovanni: Ecce filius tuus.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. LEONE XIII – “DUM MULTA”

In queste breve lettera Enciclica alla Gerarchia ecclesiastica dell’Equador, il Santo Padre Leone XIII, ribadisce i capisaldi del Cristianesimo cattolico circa il Sacramento del matrimonio, che la setta infernale colà trapiantata, attraverso un empio e corrotto governo – come ancora oggi in tutto il mondo – aveva stravolta a dannazione dei singoli e dei popoli. Questa è l’azione costante e capillare delle sette infernali delle conventicole massoniche, che in nome di un folle libertinaggio, spacciato per libertà di coscienza, cioè libertà dalle leggi divine, provvede ad asservire alla schiavitù di lucifero e dei suoi adepti, umani o angelici, in vista della eterna dannazione. Qui oltretutto per tutti gli ipocriti pseudo-cristiani della sinagoga di satana vaticana, c’è materia di rivedere i concetti che dal Fondatore in poi, fino al 1958 – epoca dell’introduzione della setta infernale in Vaticano – sono stati detti e ribaditi a coloro che vogliono seguire le orme del Cristo, essere figli adottivi di Dio e partecipare delle grazie divine per santificarsi e godere dell’eterna gloria in cielo. Ora questi privilegi sono riservati solo agli appartenenti al Corpo mistico di Cristo, quel Corpo dal quale dottrinalmente sono esclusi gli apostati, gli eretici, gli scismatici seguaci di falsi Vescovi e veri antipapi – come gli attuali sepolcri imbiancati –, ed avviati quindi all’eterna dannazione. Ai veri Cattolici del pusillus grex il compito di praticare con fermezza indomita e senza cedimento alcuno e sordi agli infami richiami delle sirene moderniste, la dottrina del Figlio di Dio incarnato e della sua unica vera Chiesa – garantita dal suo Vicario in terra – fino alla fine dei tempi, quando il Signore Gesù, balenando come un fulmine dall’Oriente, verrà a giudicare quelli alla sua sinistra per l’eterna dannazione, e questi alla destra per l’eterna beatitudine.

DUM MULTA

Enciclica di Leone XIII

SULLA LEGISLAZIONE MATRIMONIALE

Ai venerati fratelli, l’Arcivescovo di Quito e gli altri Vescovi dell’Ecuador.

Mentre siamo oppressi da molta tristezza nell’apprendere a quale stato doloroso è ridotta la Chiesa in Ecuador, siamo stati molto soddisfatti delle vostre ordinanze tempestive e pubblicamente proclamate. Nella vostra cura pastorale, non avete esitato a protestare ad alta voce contro quelle leggi che si oppongono non solo ai diritti della Chiesa, ma anche al diritto divino. Le avete condannate fin dal momento in cui sono state proposte. Avete dedicato tutto il vostro zelo ed il vostro impegno prima che fosse fatto il danno, onde impedire che gli oratori pubblici realizzassero la loro rovinosa intenzione legislativa. Voi non siete inconsapevoli della costante lungimiranza che abbiamo dedicato nel ristabilire la tranquillità religiosa del vostro Paese. Questo è della massima importanza per il bene della Chiesa e dello Stato. Ma le speranze che Noi avevamo, le speranze che hanno incoraggiato quasi tutto il popolo dell’Ecuador, sono svanite miseramente. Infatti, non solo non è stata fatta alcuna riparazione per precedenti ingiustizie distruttive, ma sono state ancora aggiunte altre ingiustizie molto gravi. Vediamo infatti che una diocesi che era stata costituita secondo i santi canoni è stata abolita. Sappiamo che sono stati nominati i Vescovi in diocesi vacanti, senza alcuna autorizzazione da parte della Santa Sede. Sappiamo anche che la santità del matrimonio cristiano è stata impedita in vari modi.

La natura del matrimonio cristiano

2. Abbiamo trattato spesso questo argomento in altre lettere, specialmente nella Nostra lettera apostolica del 10 febbraio 1880. In essa abbiamo sottolineato la natura del matrimonio cristiano, la sua forza, la cura che la Chiesa ha dedicato alla protezione del suo onore e dei suoi diritti, ed il ruolo dell’autorità civile nei suoi confronti. È infatti evidente che siccome Cristo, il Figlio di Dio, Redentore e restauratore della natura umana, ha elevato il matrimonio cristiano alla dignità di Sacramento, ogni matrimonio cristiano è tal Sacramento. La questione del contratto può essere  separata in qualche modo dalla natura del Sacramento. Ciò significa che mentre l’autorità civile conserva in pieno il suo diritto di regolare i cosiddetti effetti civili, il matrimonio stesso è soggetto all’autorità della Chiesa. Inoltre, è certo che Gesù, il Redentore di ogni razza, ha abolito l’usanza del ripudio, ha rafforzato il matrimonio con il potere sacro ed ha ripristinato la legge della indissolubilità, così come era stata stabilita dalla volontà di Dio fin dall’inizio. Ne consegue che il matrimonio dei Cristiani, quando è pienamente compiuto, è santo, indivisibile e perfetto. Non può essere sciolto per nessun altro motivo che non sia la morte di uno dei due coniugi secondo le sacre parole: “Non separi l’uomo ciò che Dio ha unito”. Così facendo, Cristo ha certamente inteso conferire molti benefici al genere umano, perché questa istituzione preserva o ristabilisce nel modo più efficace la moralità, promuove l’amore di un coniuge per l’altro, conferma le famiglie con la forza divina, rinnova l’educazione e la protezione della prole, ristabilisce la dignità della donna, e infine stabilisce l’onore e la prosperità del consorzioii familiare e civile nel modo più benefico ed eccellente.

Condanna del matrimonio civile

3. Pertanto, in conformità al Nostro dovere di maestro supremo che ci rende custodi e paladini della legge divina ed ecclesiastica, Noi alziamo la voce e condanniamo totalmente le cosiddette leggi sul matrimonio civile recentemente emanate in Ecuador. Per quanto riguarda i divorzi, li respingiamo insieme ad ogni assalto alla santa disciplina della Chiesa. Il fatto che queste leggi siano state stabilite di fronte alla vostra opposizione e siano così in contrasto con lo sviluppo della prosperità civile e con gli interessi della Religione non è motivo di scoraggiamento. Dovreste piuttosto aumentare il vostro zelo per la Religione ed essere più vigili. Continuate dunque a difendere i diritti trascurati e disprezzati della Chiesa, senza cedere alla violenza. Insegnate ai fedeli affidati alle vostre cure ed educateli affinché conservino il rispetto dovuto ai loro capi; siate fedeli all’insegnamento della Religione cattolica e praticate la moralità cristiana. Con fervide e ardenti preghiere al Sacratissimo Cuore di Gesù, al quale il vostro popolo è stato solennemente consacrato al di sopra di tutte le nazioni, voi tutti dovreste chiedere che Egli si degnasse di donare tempi più felici alla Chiesa dell’Ecuador attraverso l’abbondanza delle sue misericordie. Noi rimaniamo ancora il vostro compagno e condividiamo i vostri dolori e le vostre suppliche. Nel frattempo, come segno della Nostra buona volontà e come pegno dei doni divini, impartiamo amorevolmente al Signore la Nostra benedizione apostolica a voi e ai vostri fedeli.

Dato a Roma, a San Pietro, il 24 dicembre dell’anno 1902, venticinquesimo anno del Nostro Pontificato.

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE (2020)

XV DOMENICA DOPO PENTECOSTE.

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani – comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. • Paramenti verdi.

La Lezione dell’Ufficio in questo giorno coincide spesso con quella del libro di Giobbe. Questo pio e ricco signore del paese di Hus, dapprima ripieno d’ogni bene, fu colpito dai mali più spaventosi che si possono quaggiù immaginare. « satana, dicono le Sacre Scritture, si presentò un giorno avanti a Dio e gli disse: Circuivi terram, ho percorsa tutta la terra e ho visto come hai protetto Giobbe la sua casa, le sue ricchezze. Ma stendi la tua mano su di lui e tocca quello che possiede e vedrai come ti maledirà. Il Signore gli rispose: Va: tutto quello che lui possiede è in tuo potere, ma non togliergli la vita. E satana uscì dal cospetto del Signore. E ben presto Giobbe perdette il bestiame, i beni, la famiglia e fu colpito da Satana con un’ulcera maligna dalla pianta dei piedi fino alla testa ». E Giobbe, disteso su un letamaio, fu costretto a togliere il putridume delle sue ulceri con un coccio » La Chiesa, pensando alla malizia di Satana, ci fa domandare di essere sempre difesi contro gli assalti del demonio, contra diabolicos incursus (Segr.). satana ha l’impero della morte e, se Dio lo lasciasse fare, dicono i Padri, egli toglierebbe a tutti gli esseri la vita che posseggono. S. Paolo definisce una sua malattia: «L’angelo di satana che lo colpisce «. Ed il demonio, dice la S. Scrittura, riduce Giobbe a un punto tale, che il santo uomo può gridare: « Il soggiorno dei morti è diventato la mia dimora, io ho preparato il mio giaciglio nelle tenebre, e ho detto al marciume: tu sei mio padre; alla putredine: madre mia, sorella mia. (XVII, 14). Le mie carni si sono consumate come un vestito roso dai tarli, e le mie ossa si sono appiccicate alla mia pelle ». Così la Chiesa applica ai Defunti il disperato appello che Giobbe fece allora ai suoi amici: «Abbiate pietà di me almeno voi, o amici, poiché la mano del Signore m’ha colpito «. Ma il suo appello rimase senza risposta; Giobbe allora si rivolse verso Dio e gridò con una salda speranza: « Io so che il mio Redentore vive e ch’io risusciterò dalla terra l’ultimo giorno; che sarò di nuovo rivestito della mia pelle e nella mia carne rivedrò il mio Dio. Lo vedrò io stesso e i miei occhi lo contempleranno: questa speranza riposa nel mio cuore ». E Giobbe descrive la gioia con la quale ascolterà un giorno la voce di Dio che lo chiamerà a una vita nuova: «Tu mi chiamerai e io ti risponderò, tu stenderai la tua destra verso l’opera delle tue mani ». – « Il Signore, mettendo fine ai mali che lo travagliavano, gli rese il doppio di quello che possedeva prima e lo colmò di benedizioni più negli ultimi anni di vita che non nei primi ». — La Chiesa, raffigurata in Giobbe, domanda a Dio « di essere purificata, protetta, salvata e governata da Lui » (Oraz.). Col Salmo dell’Introito essa dice: « Rivolgi, o Signore il tuo occhio verso di me ed esaudiscimi, che io sono povera e mancante di tutto (Versetto 1°). Signore, abbi pietà di me, che ho gridato verso di te tutto il giorno. Vieni alla mia anima che io ho elevata fino a te (Versetto 4°). Io ti loderò, o Signore, poiché mi hai liberato dall’inferno più profondo (Versetto 13°)». Co! Salmo dell’Offertorio essa aggiunge: « Io ho atteso il Signore con perseveranza, ed Egli infine si è volto verso di me, ha esaudita la mia preghiera e ha messo sulle mie labbra un cantico nuovo». Questo cantico è quello delle anime cristiane risuscitate alla vita di grazia. « È bello, esse dicono, lodare il Signore e annunciare la sua grande misericordia » (Grad.). « Sì, davvero il Signore è il Dio onnipotente, il Gran Re che regna su tutta la terra » (All.).L’Epistola di S. Paolo è intieramente consacrata alla vita soprannaturale che lo Spirito Santo dà o rende alle anime. « Se noi viviamo per lo Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito», cioè siamo umili, dolci, caritatevoli, verso quelli che cadono, ricordandoci che noi siamo deboli e che di fronte al supremo Giudice porteremo il fardello delle nostre colpe personali. Contraccambiamo generosamente con beni temporali (denaro, cibi vesti) le persone che ci predicano la parola di Dio (divina parola che dà la vita) e non indugiamo, perché Dio non tollera che ci burliamo di Lui. Il raccolto sarà conforme alla natura della semenza gettata. Seminiamo opere piene di spirito soprannaturale e mieteremo la vita eterna. Non tralasciamo un istante di fare il bene. Evitiamo le opere della carne che sono la mancanza di carità, l’orgoglio, l’avarizia e la lussùria, poiché quelli che commettono peccati sono morti alla vita di grazia e non mieteranno che corruzione. Usciamo, dunque, dalla morte e viviamo come veri risuscitati.

— Il Vangelo ci dà questo stesso insegnamento raccontandoci la risurrezione del figlio della vedova di Naim. Gesù, vedendo il dolore di questa madre, fu mosso a compassione: si accostò al feretro e toccando il morto disse: «Giovinetto, te lo comando, alzati! ». E subito il morto si levò e cominciò a parlare. E tutti glorificavano Iddio dicendo; « un grande profeta è apparso in mezzo a noi e Dio ha visitato il suo popolo ». Il Verbo facendosi carne si è accostato alle anime che giacevano nella morte del peccato, e, commosso dalle lacrime della Chiesa, nostra madre, le ha resuscitate alla vita della grazia. Poi, mediante l’Eucaristia ha posto nei corpi un germe di vita, affinché essi risuscitino nell’ultimo giorno (Com.). — Fa, o Signore, che il nostro corpo e la nostra anima siano interamente sottomessi alla influenza dell’Ostia divina, affinché l’effetto di questo sacramento domini sempre in noi (Postcom.). – Vivificati dallo Spirito Santo, solleviamo con sollecitudine quelli che sono morti alla vita della grazia, aiutiamo con le nostre sostanze quelli che con la parola della verità diffondono la vita dello Spirito, e promuovono sempre più in noi la vita soprannaturale che abbiamo ricevuta nel Battesimo.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXXXV: 1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]


Ps LXXXV: 4
Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi.

[Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’anima mia.]

Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die.

[Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Oratio

Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur.

[O Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua grazia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V: 25-26; 6: 1-10

Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.

[Fratelli: Se viviamo di spirito, camminiamo secondo lo spirito. Non siamo avidi di vanagloria, provocandoci a vicenda, a vicenda inviandoci. Fratelli, quand’anche uno venisse sorpreso in qualche fallo, voi che siete spirituali ammaestratelo con lo spirito di dolcezza, e bada a te stesso che tu pure non cada nella tentazione. Gli uni portate i pesi degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. Poiché, se alcuno crede di essere qualche cosa, e invece non è nulla, costui inganna sé stesso. Piuttosto ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi soltanto in se stesso, e non nel confronto con gli altri. Perché ciascuno porterà il proprio fardello. Chi poi viene istruito nella parola faccia parte di tutti i beni a chi lo istruisce. Non vogliate ingannarvi: Dio non si lascia schernire. Ciascuno mieterà quello che avrà seminato. Così, chi semina nella sua carne, dalla carne mieterà corruzione: chi, semina nello spirito, dallo spirito mieterà la vita eterna. Non stanchiamoci dunque dal fare il bene; poiché se non ci stanchiamo, a suo tempo mieteremo. Perciò mentre abbiamo tempo facciamo del bene a tutti, e in modo speciale a quelli che, per la fede, sono della nostra famiglia.]  

Omelia I

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1921]

CONOSCI TE STESSO

L’Epistola di quest’oggi è la continuazione di quella della domenica scorsa, nella quale si inculcava di vivere secondo lo spirito. Per vivere secondo lo spirito, prosegue l’Apostolo, bisogna fuggire la vanagloria e l’invidia. Si deve correggere chi sbaglia con spirito di dolcezza; tutti hanno a sopportarsi vicendevolmente. Persuasi del proprio nulla, devono esaminar spassionatamente le proprie azioni. Siamo, inoltre, generosi con chi ci istruisce nella fede. E conclude esortando di non stancarci di fare il bene, essendo la nostra vita il tempo della semina. Se in questa vita non ci stancheremo a seminare nello spirito, a suo tempo, mieteremo la vita eterna. – Accogliamo l’invito di S. Paolo, a esaminare le nostre opere. Questo esame:

1 È necessario, data la nostre debolezza.

2 Dev’essere spassionato.

3 Deve prendere a guida il Vangelo.

1.

Non siamo avidi di vana gloria. Se l’uomo conoscesse bene se stesso, si convincerebbe che non ha troppi motivi di vanagloriarsi. La dignità dell’uomo è certamente grande. Dio lo ha costituito re del creato. Noi ammiriamo certi appartamenti dei palazzi reali. Tappeti, arazzi, quadri, affreschi, intarsi, fermano l’attenzione del visitatore, che non sa staccarsi da quelle sale. Queste sono le abitazioni che gli uomini hanno preparato per i re di questo mondo. Senza confronto più splendida è l’abitazione che Dio ha preparato per l’uomo. Salomone, nello splendore e nel lusso superò tutti i re d’Israele. Pure Gesù dichiara che un giglio del campo, cresciuto senza alcuna cura di giardiniere, veste più splendidamente di Salomone. E quel che si dice del giglio, si dica di tutta la creazione, che Dio ha apparecchiata per dimora dell’uomo. Nessun tappeto può gareggiare con la magnifica armonia di verde e di fiori, che ornano le nostre pianure, con lo strato di candida neve che copre le vette dei monti. Nessun pennello potrà uguagliare, riproducendole, certe scene della natura. Dev’esser pur grande l’uomo, se Dio ha preparato per lui una tale abitazione. Molto più grande ancora ci appare, se consideriamo la sua creazione. Dio, creandolo, disse: «Facciamo l’uomo a immagine e somiglianza nostra, e abbia potere sui pesci del mare e su gli uccelli del cielo, e su tutti gli animali e su tutta la terra» (Gen. I, 26). L’uomo, creato a somiglianza di Dio, è da Lui costituito re della creazione. Quale grandezza e quale dignità! Si comprende come Davide, rivolto a Dio, esclamasse: «Chi è mai l’uomo? Tu l’hai fatto di poco inferiore agli Angeli, l’hai coronato di gloria e di onore; gli hai dato il dominio su le opere delle tue mani, e ogni cosa hai posto sotto i suoi piedi» (Ps. VIII, 5-7). – Ma lo stesso Davide domanda ancora: « O Signore, che cosa è l’uomo, a cui hai voluto farti conoscere, o il Figlio dell’uomo che tu ne fai conto? L’uomo è simile al nulla, i giorni di lui passano come ombra» (Ps. CXLIII, 3-4). È questo dal lato fisico. Dal lato morale egli è costretto ogni giorno a confessare: «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole » (Matth. XXVI, 41). Se l’uomo dovesse pensare alla instabilità della sua vita e alle miserie che l’accompagnano, invece di coltivare la vanagloria per la sua dignità, dovrebbe esaminare, se a questa dignità non venga meno con la sua condotta. Nessuno vorrà certamente confondere la dignità con la virtù. La dignità dell’uomo, creato a somiglianza di Dio, non gli impedisce di scendere al livello degli animali irragionevoli. E siccome le azioni che non corrispondono alla sua dignità saranno un giorno giudicate da Dio, la più elementare prudenza suggerisce di prevenir questo giudizio, col metterci noi a giudicar noi stessi; e così vedere, dove c’è da continuare, dove c’è da riformare. È un giudizio che non bisogna, naturalmente, ripetere sempre, perché la chiamata al giudizio di Dio può venire da un momento all’altro.

2.

Se alcuno crede di essere qualche cosa, mentre non è nulla, costui illude se stesso. E noi siamo veramente nulla. Anche se presentemente uno non è peccatore, non deve credersi qualche cosa. « Avessi anche esercitato la virtù dai primi anni, avrai anche commessi molti peccati. Che se credi di non averne, pensa che questo non avvenne per tua virtù, ma per la grazia di Dio » (S. Giov. Cris. In Ep. Ad Tit. Hom. V, 3). Ma è poi proprio vero che sei senza peccati? È tanto facile illudersi! « Se vi fu peccato in cielo, quanto più in terra? Se vi fu delitto in quelli che sono liberi dalla tentazione corporale, quanto più in noi che siamo circondati da una carne fragile e diciamo con l’Apostolo: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte?» (S. Girol. Epist. 122, 3 ad Rust.). La nostra illusione deriva dal fatto che non conosciamo noi stessi. Ci sono di quelli che conoscono a meraviglia città e paesi molto lontani, e non conoscono i luoghi che confinano col loro paese o con la loro città. Ci sono quelli che parlano speditamente lingue straniere, e non sanno parlare la lingua propria. Ci sono Cristiani che conoscono le mancanze e i difetti degli altri e non conoscono le mancanze e i difetti propri. Il Battista, ai sacerdoti e ai leviti mandati dai Giudei a interrogarlo, risponde, parlando del Messia: « In mezzo a voi sta uno che non conoscete » (Joan. I, 26). Questa risposta è a proposito di un gran numero di Cristiani.

— In mezzo a voi sta uno che non conoscete: non conoscete il vostro cuore; non conoscete il vostro interno. Non vi date cura di osservare se l’anima vostra conserva ancora la grazia di Dio, o se l’ha perduta, se i vostri affetti sono per Dio o per il mondo. — E non conoscendo il nostro interno, non possiamo essere che degli illusi. –  Generalmente non si vuole interrogare il proprio interno, perché si ha paura delle risposte che ci potrebbe dare. Se la nostra coscienza ci rivelasse sempre cose a noi grate, non avremmo difficoltà a interrogarla. S. Paolo, in mezzo dell’Areopago di Atene, tiene un mirabile discorso, che attira l’attenzione di tutti. Ma quando viene a parlare del giudizio e della risurrezione dei morti la scena cambia. « Sentita nominare la risurrezione dei morti; gli uni se ne burlarono, gli altri poi dissero: Ti ascolteremo sopra di ciò un’altra volta » (Act. XVII, 32). Quella verità non piaceva ai superbi o gaudenti filosofi della Grecia: bisognava far tacere, bellamente, chi ne parlava, e licenziarlo. Quando i responsi della coscienza non ci piacciono, quando da essa si leva qualche voce ammonitrice, cerchiamo di tutto per farla tacere. — T’ascolteremo un’altra volta — diciamo dentro di noi. E intanto il danno è tutto nostro. Un uomo d’affari, non si contenta di esaminare l’attivo, ma esamina con attenzione il passivo, altrimenti non saprà mai come guidarsi nei suoi affari. Noi dobbiamo interrogare la nostra coscienza non con il proposito di trovarvi tutto bene; ma con il proposito di trovarla qual è realmente. Non solamente dobbiamo interrogare la coscienza su quel che abbiamo, ma anche, e specialmente, su quel che ci manca. «Perciò — dice S. Bernardo — non sii pigro nell’indagare che cosa ti manca, né di arrossire di confessare che qualche cosa ti manca» (De cons. l. 2. c. 7). – Coloro che negli affari riscontrano delle perdite, indagano le cause per poter porvi rimedio; così devesi fare anche quando si esamina la propria coscienza. A un esame superficiale non si scorgeranno sempre queste cause, ma a un esame diligente esse non possono sfuggire. – Un foro praticato da una talpa, da una biscia, la penetrazione d’una radice di albero nell’argine d’un fiume, in tempo di piena, sotto la pressione della corrente, possono facilmente aprir la via all’acqua, che, aumentando sempre più, aprirebbe una breccia nell’argine, e andrebbe a riversarsi sulle campagne. I profani passano sull’argine del fiume, senza badare a queste piccolezze: ma gli incaricati, esaminano l’argine attentamente e frequentemente; e quando scorgono uno di questi piccoli guasti, con la costruzione della coronella, un piccolo argine esterno di forma arcuata, provvedono a eliminare il pericolo. — Certe tendenze, trascurate perché sono ancora deboli, certe mancanze di cui non facciamo conto, perché non ci tolgono la grazia di Dio, ci possono predisporre sotto la violenza delle passioni, in circostanze impreviste, a dei gravi crolli spirituali. Un’occhiata attenta anche ad esse nel nostro esame.

3.

Si dice che la più difficile cosa che vi sia, è conoscer se stesso. I motivi di questa difficoltà sono molti. Non ultimo, però, è la falsa norma che si adotta per conoscer se stessi. Generalmente si giudica se stessi nel confronto con gli altri; e così avviene che crede di aver motivo di gloriarsi chi, giudicato davanti a Dio, non avrebbe che motivo di arrossire. È un sistema molto comodo di accontentar il nostro amor proprio, e di esimerci dall’obbligo di migliorar noi stessi. Se nessuno va esente da mancanze, o per lo meno, da difetti, è facile trovarli in coloro che ci circondano. Ma il nostro egoismo non ci lascia vedere che i difetti degli altri: non ce ne lascia scorgere la virtù. Inoltre, ci dà occhi di lince per vedere quello che fa il prossimo, e ci lascia ciechi per vedere quel che facciamo noi. Siamo come quelle macchine, che coi loro fanali gettano fasci di luce che rischiarano la strada, ma esso rimangono nell’oscurità. È facile, con questo sistema, il ragionamento: “in fondo, sono migliore di tanti altri; non faccio quel che fanno essi, quindi posso esser tranquillo. Se si salveranno essi, a maggior ragione mi salverò io”. Contro questa illusione ci premunisce l’Apostolo: Ciascuno esamini le proprie opere, e allora avrà motivo di gloriarsi in se stesso. Non ci dice: Confrontate le vostre azioni con quelle del vostro prossimo. Se in qualche cosa vi trovate migliori del prossimo vostro, state tranquilli: non avete più nulla da fare. Ci dice: Ciascuno esamini le proprie opere. Il che vuol dire : «Esaminiamo noi stessi e le nostre opere per vedere se vengono da Dio» (S. Efrem. in h. 1). Le azioni del prossimo non centrano, dunque, pur nulla in questo affare del nostro esame. Per vedere se le nostre azioni vengono da Dio, non abbiamo che da confrontarle con la dottrina del Vangelo. – Il Vangelo è una norma infallibile, e prendendolo per norma nel nostro esame non cadremo nel pericolo di essere ingannati. Mettendo la nostra coscienza di fronte al Vangelo, vedremo ciò che c’è da levare, ciò che c’è da aggiungere. Uno troverà che è dominato dalla superbia, l’altro dall’avarizia. Questi vedrà che è schiavo dell’ira, quell’altro dell’invidia, della lussuria, della gola. Chi, alla fine della giornata, trova che non ha messo via nulla di buono per l’eternità, si persuaderà che è un servo inutile. – Confrontando le nostre azioni con la legge di Dio, conosceremo veramente noi stessi. Siccome però, « ogni uomo, quantunque santo, quantunque giusto, quantunque progredito, in molte cose è un abisso » (S. Agostino. Enarr. in Ps. XLI, 13), domandiamo a Dio che ci aiuti ad acquistar questa conoscenza, dicendogli con Davide: «Scrutami, o Dio, ed esamina il mio Cuore: interrogami e ti siano manifesti i miei pensieri, E vedi se è in me la via dell’iniquità, e guidami per la vita eterna» (Ps. CXXXVIII, 23-24).

Graduale

Ps XCI: 2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime.

[È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]
V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemm.

[È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XCIV: 3 Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja.

[Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntiasancti Evangélii secúndum S. Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam.

[“In quel tempo avvenne che Gesù andava a una città chiamata Naim: e andavan seco i suoi discepoli, e una gran turba di popolo. E quand’ei fu vicino alla porta della città, ecco che veniva portato fuori alla sepoltura un figliuolo unico di sua madre, e questa era vedova: e gran numero di persone della città l’accompagnavano. E vedutala il Signore, mosso di lei a compassione, le disse: Non piangere. E avvicinossi alla bara, e la toccò (e quelli che la portavano si fermarono). Ed egli disse: Giovinetto, dico a te, levati su; e il morto si alzò a sedere, e principiò a parlare. Ed egli lo rendette a sua madre. Ed entrò in tutti un gran timore; e glorificavano Dio, dicendo: Un profeta grande è apparso tra noi; e ha Dio visitato il suo popolo” (Luc. VII, 11-16).]

Omelia II

[Mons. J. Billot; Discorsi Parrocchiali – Cioffi ed. Napoli, 1840]

Sopra la morte.

Ecce defunctus efferebatur filius unicus matris suæ-

Luc. VII.

Fermiamoci, fratelli miei, a considerare qualche tempo lo spettacolo compassionevole che l’odierno Vangelo ci mette avanti gli occhi: gli è un figliuolo teneramente amato, unica consolazione di una madre che fondava su di lui grandi speranze, e la morte lo ha mietuto nella primavera de’ suoi giorni. Convien forse stupirsi di veder questa madre immersa nel più amaro dolore, spargere torrenti di lagrime accompagnando una pompa altrettanto luttuosa, quanto inaspettata? Egli è dunque vero, miei cari uditori, che la morte non rispetta alcuno, che così i giovani come i vecchi sono soggetti ai suoi colpi, e che né il vigore dell’età, né la forza del temperamento non possono preservarcene. – Accostatevi al feretro di questo giovane, voi tutti che mi ascoltate, e vedrete il termine fatale a cui vanno le grandezze, le ricchezze, i piaceri e le lusinghe del mondo. Ah! che la vista del sepolcro è ben possente a staccarci dalla vita, a farci abbandonar il peccato, a portarci alla penitenza e alla pratica di tutte le virtù cristiane! Il pensiero della morte è amaro, è vero, a chiunque non ama la vita se non per godere dei beni e dei piaceri che ella presenta, perché quest’idea gli rammenta con dolore che deve un giorno lasciarli: ma benché molesta sia e dolorosa la sua rimembranza, nulla vi è di più salutevole; poiché vi si trova il rimedio a tutti i vizi, e i motivi più forti per praticare la virtù. Pensiamo dunque alla morte, fratelli miei, e pensiamoci sovente; si è il mezzo di prepararci ad essa come conviensi. E per trattare questo soggetto con ordine, due cose noi considereremo nella morte: la sua certezza e la sua incertezza. – Nulla di più certo che la morte; noi dobbiamo dunque prepararci alla morte primo punto; nulla di più incerto che il tempo della morte; dobbiamo dunque tenerci pronti in ogni tempo, secondo punto.

I . Punto. Noi morremo tutti, miei cari fratelli: Statutum est hominibus semel mori (Hebr. IX). Ma quand’anche Dio medesimo non si spiegasse così chiaramente sul nostro destino, noi non avremmo per chiarircene che a gettare gli occhi su ciò che accade al di fuori e al di dentro di noi. La terra che noi calchiamo coi piedi ci dice nel suo linguaggio che saremo un giorno rinchiusi nel suo seno. Quei morti che noi diamo seppellire ci avvertono che noi dobbiamo seguirli ben tosto: Hodie mihi, cras tibi. Noi prendiamo una strada ove voi camminerete necessariamente come noi. Portiamo ancora al di dentro di noi il principio e la risposta della morte, dice l’Apostolo. L’età, le malattie, i travagli indeboliscono la nostra sanità e precipitano ogni giorno verso la sua rovina la casa terrestre del nostro corpo. Ogni passo che facciamo ci conduce alla tomba, e fra poco andremo noi ad abitare con gli altri in quel tetro e nero soggiorno dei mortali: nulla di più certo, nulla di più inevitabile. – Senza fermarmi di più a provarvi una verità di cui la giornaliera esperienza deve convincerci, procuriamo in quest’oggi, fratelli miei, di penetrare il senso della sentenza di morte portata contro tutti gli uomini, e di farvene vedere l’esecuzione, a fine di trarre da questo principio le conseguenze salutevoli che contiene. Questa sentenza dee eseguirsi sopra tutti gli uomini: Statutum est hominibus. Non deve eseguirsi che una volta sola: Semel mori; due circostanze che ci devono indurre a prepararci alla morte. Appena il primo uomo ebbe trasgredito il comando del Signore, che in punizione della sua disubbidienza fu condannato alla pena di cui era stato minacciato; ma non fu già contro lui solo pronunciata la sentenza; siccome tutti i suoi figliuoli hanno parte al suo delitto, così furono compresi nel suo castigo. La morte è divenuta lo stipendio di quel peccato: Stipendia peccati mors (Rom. VI). Infatti, sin da quel momento si vide effettuarsi nella posterità di Adamo quella terribil minaccia che Dio gli fece: Morte morieris (Gen. II) voi morrete; ella è cosa stabilita: Statutum est; voi morrete, cioè un giorno voi uscirete da questo mondo come vi siete entrati. Dopo aver dimorato un certo numero di giorni, che Dio vi ha fissati, il tempo finirà per voi, e non sarete più del numero dei viventi: Morte morieris. Voi morrete, cioè un giorno voi lascerete beni, case, parenti, piaceri, società; voi non avrete più commercio con gli uomini. La terra, la putredine, i vermi diverranno il vostro retaggio; essi vi terranno il luogo di padre, di madre, di fratelli, di sorelle: Putredini dixi pater meus es, mater mea, et soror mea vermìbus (Job. XVII), Voi morrete, cioè verrà un giorno in cui gli occhi vostri non vedranno più, le vostre orecchie più non udiranno, la vostra bocca non parlerà più, le vostre mani non agiranno più, i vostri piedi più non cammineranno: dopo il momento in cui la vostr’anima sarà separata dal vostro corpo, questo corpo di cui vi prendete tanta cura non sarà più riguardato che come un oggetto di orrore. Egli sarà posto in un feretro e si porterà nella terra per involarlo alla vista degli uomini. Ah! che diverrà allora quella carne nutrita con tante delicatezze, quella bellezza conservata con tanti artifizi? Ella diverrà, fratelli miei, quel che sono già divenuti tanti altri, che voi avete veduto spirare sotto ai vostri occhi per diventare il pascolo dei vermi. Se ne dubitate, andate in quelle tombe a vedere il destino di coloro che vi sono rinchiusi: tale sarà il vostro: Veni et vide (Jo. XI). Venite e mirate in quel sepolcro lo stato, ove la morte ha ridotto quella persona che avete conosciuta, con cui avete vissuto alcuni mesi, alcuni giorni sono: Veni et vide. Mirate quella carne putrefatta, corrosa dai vermi, che esala un odore insopportabile; mirate quelle ossa spolpate sparse qua e là; quel capo sfigurato. Riconoscete voi quella persona? Distinguete voi quel ricco dal povero, quel grande dal piccolo, quella bellezza che incantava gli occhi del mondo, su cui voi ancora gettati avete illeciti sguardi? Ah! qual cangiamento la morte ha fatto in sì pochi giorni? – Tale è, fratelli miei, la sorte che dovete voi medesimi aspettarvi; quei morti sono stati quel che voi siete, sì ricchi che voi, altrettanto ed anche più distinti che voi: voi sarete un giorno quel che sono essi, cioè terra, cenere e polvere: Qaod vos estis, nos fuimus, et quod nos sumus, vos eritis. Ah! Che questa vista del sepolcro è capace di staccarci dalla vita, dal mondo e da noi medesimi! Ella è che ha fatti i santi con le impressioni salutevoli che ne hanno ricevute. Testimonio un Francesco Borgia, il quale vedendo nel feretro il corpo della più bella principessa del suo secolo, la trovò sì sfigurata che formò sin da quel momento il disegno di abbandonar il mondo per non attaccarsi che a Dio. Questa vista del sepolcro produrrebbe in noi i medesimi effetti, se ci riguardassimo sovente in quello specchio, che ci rappresenta ai naturale ciò che noi tutti saremo un giorno. – Imperciocché finalmente, fratelli miei, non v’è alcuno di noi che sfuggir possa ai formidabili colpi della morte: statutum est hominibus. Ella non risparmia alcuno, colpisce i ricchi come i poveri, i sapienti come gl’ignoranti, i re sul trono, come i sudditi nelle loro capanne; nulla può placarla o resisterle. Invano per difendersene i potentati dell’universo farebbero radunare tutte le loro forze; invano porrebbero in uso tutte le scienze e tutte le arti: può bensì taluno prolungar la sua vita di qualche giorno, ma tosto o tardi convien morire. Da che il mondo sussiste, si è forse veduto qualcheduno esente da questa legge? Quanti re conquistatori di nazioni che non sono più? Quanti grandi del mondo, ricchi, sapienti, la cui gloria si è terminata al sepolcro? Quante persone abbiamo noi medesimi vedute con cui siamo vissuti? Quanti dei nostri parenti, dei nostri amici sono di già ridotti in polvere! Essi sono passati: noi passeremo come essi, e verrà il giorno in cui si dirà di noi quel che si dice di essi: non è più, non vive più, è morto. – Ah! quanto questo pensiero: un giorno io non sarò più sulla terra, è capace di staccarci dalla vita d’inspirarci un generoso dispregio per tutto quello, che chiamasi grandezze, ricchezze, fortuna, stabilimenti vantaggiosi, allegrezza, piaceri, divertimenti del secolo! Tutto deve terminar nel sepolcro, e nulla ne porteremo con noi: pensiamo a questa verità, che è il mezzo di prepararci a ben morire. Mentre in che consiste questo apparecchio alla morte? A vivere in un intero distacco dalle cose del mondo e rinunciare al peccato, alle occasioni del peccato. Or nulla di più capace che il pensiero della morte a produrre in noi questi effetti. Come potrebbe alcuno staccarsi dal mondo, se lo riguardasse con l’Apostolo come una figura che passa? Come ricercherebbe egli i beni, gli onori, i piaceri del mondo, che sono i funesti prìncipi del peccato, se li rimirasse nel medesimo punto di vista, che li vedrà all’ora della morteæ? Praeterit figura huius mundi (1 Cor. VII.) Grandi del mondo che vi riputaste superiori agli altri a cagione del grado che occupate, e degli onori che vi si rendono, sareste voi dunque sì fortemente invaghiti di questi onori che fomentano il vostro orgoglio, se pensaste che passeranno come fumo, se rimiraste il sepolcro come lo scoglio inevitabile della grandezza, della nobiltà e della gloria? Avreste voi in dispregio gli altri, se rifletteste che la morte vi uguaglierà con il più vile degli uomini? Vos autem sicut homines moriemini (psal. LXXXI). Ricchi della terra che tanto vi affannate per accrescere i vostri tesori o formarne, e per acquistare eredità, come potreste voi attaccarvi ai beni frivoli e caduchi, se foste convinti che quei beni passeranno in altre mani, che nulla porterete con voi; che quelle case fabbricate con tante spese, quelle camere così artificiosamente addobbate saranno abitate da altri e che voi non avrete per dimora che un sepolcro? Solum mihi superest sepulchrum (Giob. II). E voi che, senza far conto del solo affare degno delle vostre attenzioni, cioè della vostra salute, non pensate che ad appagare passioni brutali, accordereste voi a quelle passioni ciò che domandano, se pensaste che quei corpi che nutrite con delicatezza, che abbandonate all’intemperanza, saranno un giorno il pascolo dei vermi? Convien forse far tante spese per una carne, che deve perire? E voi finalmente, disonesti, il cui cuore è attaccato all’oggetto di una passione impura; restereste voi sì lungo tempo prigioni nelle sue catene, se rimiraste quell’oggetto, quella bellezza nello stato in cui la morte deve ridurla, cioè in uno stato di fetore e di putrefazione che vi farebbe orrore? Ah! che questa vista sarebbe capace di disgustartene! Ma voi opponeste queste riflessioni ai colpi micidiali di cui la passione vi minaccia. – Ma se malgrado le forti sollecitazioni della grazia, malgrado gli avvertimenti dei confessori, dei predicatori, il vostro cuore non vuol fare questo sacrificio in un tempo in cui lo fareste con merito, il tempo verrà in cui lo farete malgrado vostro ed inutilmente pervoi: la morte romperà quei legami fatali che vi attaccano alla creatura: ellavi rapirà quell’idolo che adorate, vi separerà da quelle persone, da quelle occasioni che vi rovinano. Ah! Fratelli miei, non aspettate che la morte vi sforzi ad una separazione violenta ed infruttuosa, da quegli oggetti cari alla vostra felicità; rinunciate prima da voi medesimi a tutti i piaceri che vi potete trovare; e questa separazione, questa rinuncia volontaria sarà il principio della vostra felicità. Non aspettate di pensare e di prepararvi a morte quando il momento fatale ne sia giunto. Non si muore che una sol volta, e dal momento della morte dipende la nostra felicità o la nostra miseria eterna: Statutum est semel mori. – Seconda ragione che deve indurvi ad apparecchiarvi alla morte. Se la morte fosse una pena che si potesse subire più di una volta, arrivarvi senza avervi pensato, sarebbe un grande mancamento, pure non sarebbe irreparabile. Ma perché la sentenza è senza appello, tutto ciò che èal di là della morte è eterno ed immutabile, perciò morire senza avervi pensato si è morire per essere sempre infelice: l’albero resterà eternamente, dice Gesù Cristo dalla parte che sarà caduto; se è dalla parte di mezzogiorno o di settentrione, non cangerà più sito. Quanto è dunque terribile questo momento della morte, fratelli miei! Perché  è difficile far bene ciò che non si fa che una sola volta, e, che se non si fa bene, ha conseguenze sì funeste. Ma come lusingarci di riuscir in un affare di sì grande importanza, se non abbiamo ogni cura di ben prepararvici? Tutta la vita dovrebbe essere un continuo apparecchio alla morte; tutti i nostri pensieri, tutti i nostri passi debbono colà terminarsi. Invano riusciremmo in tutti gli altri affari; se manchiamo in questo, nulla abbiam fatto. Contuttociò, benché assaissimo importi agli uomini il prepararsi a ben morire, chi sono coloro che vi si apparecchiano? Chi sono coloro ancora che vi pensano? Nulla è sì frequente come la morte, nulla che ci tocchi sì da vicino, e nulla che sia più dimenticato. Il suono delle campane ci avverte della caduta degli uni; vediamo portar alla terra gli altri, che godevano di egual sanità che noi alcuni giorni sono, e non pensiamo che dobbiam ben tosto seguirli. È ben poca cosa l’uomo, diciamo alla vista di una pompa funebre, e pure non diventiamo migliori, dice s. Agostino, perché ci dimentichiamo subito lo spettacolo che dovrebbe farci rientrar in noi medesimi, e che ben presto presenteremo agli altri. Al vedere la condotta della maggior parte degli uomini, si direbbe che si credono immortali; essi operano come se non dovessero mai morire. Chi direbbe che quell’uomo avido dei beni e delle ricchezze pensa che deve morire, poiché non pensa che ad accumulare, a fare acquisti, a far valere un negozio, intraprende mille affari, si carica di mille imbarazzi cui la vita la più lunga non potrebbe bastare? Non si direbbe forse che ella è in sua disposizione? Ah insensato! forse in questa notte ti domanderanno la tua anima; e per chi sarà quello che hai accumulato? Per eredi ingrati che vorrebbero forse già vederti nel sepolcro. A che ti servirà l’esserti travagliato per gli altri, mentre nulla fai per te stesso? Siate dunque, fratelli miei, più attenti ai vostri veri interessi e pensate coll’apparecchiarvi alla morte ad assicurarvi una sorte per l’eternità. Chi sono coloro, torno a dire, che pensano e si preparano alla morte? Sono forse quegli uomini voluttuosi che hanno messo tutta la loro contentezza in questo mondo? che affidansi alla robustezza del loro temperamento? Sono forse quei peccatori abituati, che marciscono per mesi ed anni nel peccato, e differiscono la loro conversione alla morte? Essi la riguardano siccome molto lontana mentre ella tiene lor dietro da vicino. Ma questi insensati si ritrovano ad un tratto sorpresi; la morte viene, ed essi non son pronti; dopo aver passati i loro giorni nei beni e nelle delizie, cadono nell’inferno. Ecco il termine fatale a cui conduce la dimenticanza della morte. Pensatevi dunque fratelli miei, ma preparatevi ad essa in ogni tempo. Mentre non solamente è certo che noi morremo, ma non ne sapremo giammai il momento.

II. Punto. Sì, fratelli miei, la morte è incerta, per riguardo allo stato in cui ci troverà. Io dico primieramente che essa è incerta, perché deve sorprenderci. Si è Gesù Cristo medesimo che ce ne assicura, allorché dice che verrà nell’ora in cui non vi penseremo: Qua hora non putatis (Luc. XII). Ed è per questa ragione che egli paragona la morte ad un ladro, che per venir a capo dei suoi disegni sceglie il momento in cui di nulla sospettiamo; così la morte verrà in un tempo in cui nulla vi penseremo. Ella rapirà in mezzo dei suoi piaceri quel libertino, che si prometteva ancora lunghi anni di vita; ella sorprenderà quell’uomo che aveva formato intraprese per molti anni, dopo cui sperava vederle eseguite. Non lo vediamo forse, fratelli miei, accadere tutti i giorni? Quanti hanno cominciato affari, a cui la morte non ha lasciato il tempo di finirli? Ecco quel che accadrà a voi medesimi che mi ascoltate; voi non avrete terminati alla morte tutti i vostri affari: ma ciò che sarà più funesto per voi si è che non avrete forse ancora lavorato come conviensi. Voi vi affidate ad un tempo che forse non avrete. Vi sarà per voi un anno, in quest’anno un mese, in questo mese un giorno, in questo giorno un’ora, in cui morrete: ma quando sarà quest’anno, questo mese, quest’ora? Ecco quello che non sapete: Nescitis diem, neque horam (Matth. XXIII). Sarà forse il trentesimo, il quarantesimo anno della vostra età? Sarà forse l’anno venturo? Ecco ciò che vi è ignoto. Quanti avevano cominciato quest’anno che credevano finirlo, ed hanno vedute deluse le loro speranze? Quanti ve ne ha che non lo vedranno! Chi può lusingarsi che dopo aver veduto il mattino del giorno, ne vedrà la sera, o che il lenzuolo ove riposa non servirà a seppellirlo? Niuno può prometterlo, niuno può contare sopra un sol giorno di vita. Dio così ha voluto, così ha ordinato, nei disegni della sua sapienza; Egli ci tiene occulto il nostro ultimo giorno, dice s. Agostino, per impiegarci a ben regolare tutti gli altri giorni: Latet ultimus dies, ut obsenentur omnes dies. Imperciocché, fratelli miei, che accadrebbe mai, se ciascuno conoscesse la misura dei suoi anni? Oimè! Noi vedremmo gli uomini passare tutta la loro vita nell’iniquità, aspettare per darsi a Dio non l’ultimo anno, neppure l’ultimo giorno, ma, l’ultimo momento? Se i più degli uomini, non ostante l’incertezza della morte, differiscono sino a quel momento la loro conversione, che sarebbe se quell’ultimo momento lor fosse noto? Con molta saviezza adunque e per nostro vantaggio ci ha lasciati Iddio nell’incertezza dell’ora di nostra morte. Or se ella è incerta, qual precauzione non conviene usare per preservarsi dalle sue sorprese? Perché non correggere sin dal presente quel cattivo abito, non lasciare quell’occasione di peccato, non restituire quei beni mal acquistati, non riconciliarsi con quel nemico? Aspettate voi che la morte vi sorprenda in quel cattivo abito? Che vi trovi impegnati in quell’occasione, carichi di quella roba altrui? E se essa vi sorprende in quel pessimo stato, sarete voi ben ricevuti al giudizio di Dio quando direte che la morte non vi ha lasciato il tempo di eseguire un progetto di conversione, che avevate formato? Il Signore vi risponderà che voi eravate assai avvertiti delle sorprese della morte, che bisognava tenervi in guardia, che bisognava esser pronto quando ella verrebbe. Estote parati (Luc. XII). Voi non avete voluto profittare del tempo, delle grazie che vi erano date, dunque è colpa vostra, se siete condannati alla morte eterna: Perditio tua ex te Israel (Oseæ III). – Chi è avvertito che i ladri debbono assalire la casa, saccheggiarla e dargli la morte, lascia egli forse le porte aperte? Non porta forse via il suo danaro, o si munisce di un soccorso? Ecco il vostro ritratto, voi siete sicuri che la morte deve venire come un ladro, che vi sorprenderà all’ora che voi mai vi pensate; e pur vivete così tranquillamente come se nulla aveste a temere, come se Dio vi avesse promesso un certo numero di anni da vivere, come se pendesse da voi di allontanare l’ora della vostra morte; mentre non sapete se avreste solamente quest’anno, e siete altronde sicuri della testimonianza di vostra coscienza, che non siete in stato di comparire avanti Dio, e che sarete condannati al fuoco eterno. La spada della giustizia di Dio è pronta a colpirvi; non dipende che da un filo il quale può rompersi in un istante e voi non prendete misura alcuna per allontanare la disgrazia onde siete minacciati; voi dormite tranquillamente sull’orlo del precipizio, ove siete presti a cadere. Qual follia! Qual accecamento! Oh! fratelli miei, siate più. saggi e più sensibili ai vostri veri interessi.Incerti come siete del giorno in cui dovete morire, vivete tutti i giorni come se doveste ogni giorno morire; poiché la morte è incerta non solo quanto al tempo, ma ancora quanto allo stato in cui deve sorprenderci. Si è quest’ultima incertezza che deve, fratelli miei, penetrarci di un salutevole timore, e farci prendere tutte le precauzioni possibili per apparecchiare ad una santa morte; mentre finalmente che c’importa d’ignorare il tempo di nostra morte, se noi siamo sicuri di morire in buono stato? Morire in istato di grazia è il dono della perseveranza finale; grazia speciale, che noi possiamo. domandar a Dio, dice s. Agostino , ma che niuno di noi può meritar in rigor di giustizia né sicuramente prometter la grazia di cui un s. Ilarione, dopo settant’anni di penitenza, temeva ancor di essere privo, perché ella dipende dalla pura misericordia di Dio. Or chi di noi, fratelli miei, può essere certo di aver questa grazia? Chi di noi può promettersi di morire nell’amicizia di Dio? Chi vi ha detto, peccatori, che Dio aspetterà, per togliervi da questo mondo, che voi abbiate fatta penitenza dei vostri peccati? Chi vi ha promesso che voi non sarete sorpresi dalla morte in quel funesto stato? Che voi sarete assistiti dai sacramenti e dagli altri aiuti necessari? Oimè! Forse voi non avrete il tempo di ricevere questi aiuti, perché credete poterlo sempre avere! Forse all’uscir da quella partita di piacere, da quel luogo di dissolutezza, da quel convito d’intemperanza, da quella occasione di peccato, la morte, che non aspetta se non quel momento per colpirvi, non vi lascerà che il tempo di riconoscere che morrete in istato di peccato: In peccato moriemini. Volete voi, fratelli miei, evitare questa disgrazia, anzi volete voi assicurarvi il felice stato in cui dovete morire? Vivete meglio che non avete fatto sino al presente; e benché incerta sia la morte per riguardo alle sue circostanze, voi potete, per quanto è in voi, rendere certa una morte preziosa. Per questo che convien fare? Fate per tempo e durante la vita, come le vergini sagge, provvisione d’olio, cioè di virtù e di buone opere; le vostre lampade siano sempre accese , affinché all’arrivo dello sposo siate ammessi nella sala del convito. Temete la sorte delle vergini stolte, che ne furono escluse per avervi pensato troppo tardi: indarno vanno esse a provvedersi dell’olio quando sono avvertite dell’arrivo dello sposo; egli viene in quel frattempo, e al loro ritorno trovano la porta chiusa : Clama ed ianua. Invano dimandano esse con raddoppiati gridi che loro sia aperta: Domine, aperi nobis; non hanno altra risposta che quelle spiacevoli parole: Nescio vos, ritiratevi, voi venite troppo tardi, io non vi conosco. Oh! chi potrebbe comprendere, dice il pontefice s. Gregorio, qual sensibile affanno, qual orribile disperazione cagionò loro un sì amaro rifiuto! Tale sarà il dolore di un’anima che all’uscir da questa vita si troverà sprovveduta di buone opere. Vanne, le dirà il Signore, io non ti conosco; tu non entrerai giammai nel mio regno: Nescio vos. Vegliate dunque, conchiude Gesù Cristo, perché non sapete né il giorno, né l’ora in cui verrà: Vigilate quia nescitis diem necque horam. – Or in che consiste questa vigilanza che deve servirvi di apparecchio alla morte? Io la riduco a cinque punti principali, che vi propongo per pratica, terminando questa istruzione.

Pratiche. 1. Per ben prepararsi alla morte, bisogna pensare spesso, non in una maniera vaga e generale, ma in una maniera propria, e particolare che faccia su di noi una salutevole impressione. Io debbo morire un giorno e morrò più tosto che non credo, dobbiamo noi dire; bisogna principalmente fare questa riflessione allorché assistiamo alle esequie di un morto: forse per me farassi ben presto questa cerimonia, forse sarò io il primo per cui deve aprirsi la terra. Conservate diligentemente questo pensiero; andate di tempo in tempo, almeno una volta alla settimana, a meditare sulla morte nel luogo che avete eletto per vostra sepoltura. Occupatevi, sull’esempio di s. Antonio, in questo salutevole pensiero la mattina alzandovi dal letto: Forse io non vedrò la sera: coricandovi: Forse io non vedrò la mattina. Eccomi questa sera più vicino alla tomba che non era questa mattina.

2. Per ben prepararsi alla morte, bisogna sempre essere nello stato in cui si deve morire, cioè nello stato in cui si deve stare, vale a dire in istato di grazia; e non rimaner giammai in quello in cui non si vorrebbe morire, cioè in istalo di peccato. Perciò, fratelli miei, interrogate adesso la vostra coscienza. In quale stato siete voi? In quello del peccato? Uscitene al più presto per non essere sorpresi dalla morte.

3. Non aspettate all’ora della morte a fare le restituzioni di cui siete incaricati, a fine di essere padroni di voi medesimi in quegli ultimi momenti, e non pensare che all’affare della vostra salute.

4. Fate adesso tutto quel che vorreste aver fatto all’ora della morte, e nulla fate di quel che vorreste allora non aver fatto. Accostatevi al lato di un moribondo, e domandategli quali sono i suoi sentimenti, ciò che egli pensa dei beni, degli onori, dei piaceri. In qual dispregio non li ha egli? Dispregiateli nello stesso modo. Quale stima al contrario non la egli delle croci, dei patimenti, delle umiliazioni e di tutti i santi esercizi della vita cristiana? Vorrebbe che tutta la sua Vita fosse passata, come quella dei più gran santi. Pensate adesso come lui, entrate ne’ suoi sentimenti, e farete tutto il bene che Dio domanda da voi per prepararvi a ben morire. Ricordatevi che il tempo della morte è il tempo della messe, e che la vita è il tempo proprio a seminare. Voi non raccoglierete del grano in un campo ove nulla avete seminato! Bisogna dunque, dice l’Apostolo, far il bene senza interruzione, a fine di mietere alla morte: Homni facientes non deficiamus, tempore enim suo metemus (Gal. VI) . Profittate del tempo per guadagnar il cielo, perché non ve ne sarà più dopo la morte: sia questo il vostro motto ordinario: Deum tempus habemus, ojieremur bonum.

5. Nulla amate, nulla stimate, se non quello che vorreste aver amato e stimato alla morte: in tutti gli affari della vita considerate sempre la morte; in una parola, la morte sia la regola di tutte le vostre azioni. Vivete ogni giorno come se doveste ogni giorno morire, fate ogni mattina questo proponimento: io voglio vivere quest’oggi come se dovessi quest’oggi morire. Beato il servo vigilante che il Signore troverà fedele in queste pratiche! Egli lo farà entrare nel soggiorno della sua gloria. Così sia.

Credo …

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/12/il-credo/

Offertorium

Orémus
Ps XXXIX: 2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro.

[Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]

Secreta

Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus.

[I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/comunione-spirituale/

Communio

Joann VI: 52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita.

[Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]

Postcommunio

Orémus.

Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus.

[L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]

https://www.exsurgatdeus.org/2019/10/20/preghiere-leonine-dopo-la-messa/

https://www.exsurgatdeus.org/2018/09/14/ringraziamento-dopo-la-comunione-2/

https://www.exsurgatdeus.org/2019/05/20/ordinario-della-messa/

12 SETTEMBRE (2020): SS. NOME DI MARIA

(A. NICOLAS: LA VERGINE MARIA ed il disegno divino;  Milano C. Turati tip. Ed. 1857)

Dall’Introduzione:

… Ma il mistero della maternità divina si conoscerebbe solo materialmente e molto impropriamente se non si vedesse in questa maternità santa altro che una dignità oziosa ed una funzione accidentale, e se non si onorasse che pel fatto solo di aver portato, di aver dato una volta al mondo il frutto di vita. – Anche in questo caso si dovrebbe onorare, come si onora il legno insensibile della croce. Ma quanto diverso sarebbe l’onore renduto a questa croce, se essa fosse stata dotata di sentimento e avesse avuta una parte nelle virtù e nei dolori di cui è stata un mezzo, nel mistero di grazia onde è stata lo strumento! – Or bene, questa parte l’ebbe la santissima Vergine. Una delle grandi cagioni dell’indifferenza che si ha per il suo culto è questa, che gli uomini si figurano che non è Madre di Dio se non per necessità e per caso; perché bisognava una madre a Gesù Cristo; l’immaginano come una madre ordinaria, o come la madre di un grande uomo, che trova di averlo concepito e partorito tale senza volerlo, senza saperlo, e che non ne riceve onore se non dopo e ben tardi, senza merito personale, senza partecipazione anteriore o posteriore alla grandezza di questo Figliuolo, di cui essa non ha che la vana rappresentazione. E anche questa rappresentazione poi si rifiuta aMaria coll’interpretare empiamente la condotta che Gesù Cristo tenne con Lei, mentre Egli non gliela negava se non perché la negava a sé medesimo, voleva renderla più degna di essa, quando l’ora fosse venuta; e disegnava di darle assai più che la rappresentazione della grandezza, di darle la grandezza medesima in merito ed in esercizio.

Sentiam parlare la dottrina: « Io pongo per primo principio, dice Bossuet, che Dio avendo risoluto nell’eternità di darci Gesù Cristo per mezzo di Maria, Egli non si contenta di servirsi di Lei come di un semplice strumento per questo glorioso ministero; Egli non vuole che sia un semplice canale di una tale grazia, ma vuole che sia uno strumento volontario che contribuisca a questa grande opera, non solo colle sue eccellenti disposizioni, ma anche per un moto della sua volontà (Sermone primo pel giorno della Natività della santa Vergine, Terzo punto). » – Bossuet aggiunge, ciò che non è meno importante e che compie la conoscenza dell’uffizio della santissima Vergine. « Avendo Dio stabilito che la volontà della santa Vergine cooperasse efficacemente a dar Gesù Cristo agli uomini, questo primo decreto non si muta più, e noi riceviam sempre Gesù Cristo per mezzo della sua carità (Sermone quarto per la Festa dell’Annunziazione. Primo punto). » – Noi ci riserbiamo a svolgere nel corso dell’opera questa grande e bella verità, che ci fa veder Maria come uno strumento attivo e continuodella grazia di Gesù Cristo, come un canale animato di questa grazia, come una madre le cui viscere sempre aperte non hanno solo una volta generato Gesù Cristo, ma lo generano continuamente e lo genereranno sino alla fine del mondo ne’ suoi membri, che sono i Cristiani; come nostra Madre per conseguenza senso più vivo della parola, la madre dei viventi, la nuova Eva. – Maria non è dunque solamente un segno, è un sacramento. Il Verbo eterno, che ha illuminato il mondo, il Verbo di Dio continua a darsi al mondo per mezzo di Maria. – Questaproposizione sembrerà scandalosa agli spiriti fortio, come si dice ai dì nostri, agli spiriti privilegiati, perché li obbliga a chiamarsi debitori della pura e viva nozione di Dio che li illumina non solamente a Gesù Cristo, ma ancora all’umile Maria. Ei si befferanno della nostra semplicità; ma il fatto risponde per noi alla loro delicatezza, e qual fatto! – Ponno essi negare che il sole della verità divina, della cnoscenza di Dio, non siasi levato, fa or diciotto secoli, nelle alture dell’Oriente, dal seno di quattromila anni di tenebre, e non abbia cessato sino ai nostri giorni di luminare sino i più umili intelletti? – Ponno essi negare che, qualunque sia lo splendor de’ suoi  raggi, se tutti, credenti ed increduli, umili e superbi, fedeli e bestemmiatori, camminano alla sua luce, il centronon ne sia il Cristianesimo, e il disco, per così dire, non ne sia Gesù Cristo; e che se Gesù Cristo, se il Cristianesimo venisse a scomparire, il mondo sarebbe asperso nell’orrore delle tenebre più spaventevoli? – Ponno essi negare che la nozione del Verbo fatto carne, Gesù Cristo, che è il cristianesimo, poggia e si aggira, in certo qual modo su quella della maternità divina di Maria,come sopra il suo asse, e che il culto, che la devozioe alla santissima Vergine, non sia come la matrice dei veri Cristiani? – Ove sono i veri servi di Dio, se non fra i Cristiani? E dove sono i veri Cristiani, se non fra i pii servi di Maria? – Questo è stato vero in tutti i tempi, ma è più vero che mai oggidì. Di fatto, in passato la fede, la divozione generale dellasocietà collegava il Cristianesimo in tutte le sue parti, e il culto della santa Vergine vi prendeva la parte che esso deve avere nell’economia della Religione. L’empietà generale che venne poscia, assalendo ad un tempo tutti i nostri misteri, mantenne per l’universalità della stessa sua bestemmia quel rapporto che li univa, e il culto della santa Vergine, in questo regno dell’empietà generale, come precedentemente in quello della fede, non ebbe una sorte particolare né per conseguenza un’importanza più speciale. Più sottile, più perfido e più pericoloso dell’empietà scatenata del secolo passato, il razionalismo è venuto a penetrar fra i nostri diversi misteri, e li ha disuniti, alterati, decomposti, col farli suoi proprii. La nozione di Dio, quella della Trinità, quella dello stesso Gesù Cristo, sono diventate, sotto la sua azione, filosofiche, panteistiche, anticristiane, antisociali. Una sola nozione, un solo dogma non fu per anco assalito; che la sua umiltà lo ha sottratto dai pericolosi onori dei filosofi, il loro disprezzo lo ha salvato dalla dannosa lor stima; ed è il dogma della santa Vergine. Si fanno da questi alti intelletti i mille sistemi, le mille religioni diverse di Dio e di Gesù Cristo. Abbracciato o rigettato, solamente il culto della santa Vergine è risparmiato. Maria sola è rimasta quella che essa era in passato, e rimanendo ciò che essa era, essa ha mantenuto ciò che era il Cristianesimo. Essa è stata come l’ancora della Religione. Di nuovo la Madre ha salvato il Figliuolo. A Lei bisogna andare oggidì per ridomandarlo, per domandare il vero Gesù, il vero Dio. Di qui l’opportunità di preconizzare oggidì più che mai il culto della santa Vergine, e la provvidenziale sapienza della decisione che l’ha, non ha guari, dichiarata immacolata, perché ciò torna lo stesso che esaltar nel suo culto il culto di Gesù Cristo, il culto di Dio, che oggidì più che mai devono fare graduatamente un solo culto. – Lutero ha detto che non vi era festa cattolica che egli detestasse più di quella del corpo di Gesù Cristo e della Concezione di Maria; e secondo il suo modo di vedere, aveva ragione rii associar così nella sua ripulsa due cose unite nel nostro culto: la Madre ed il Figliuolo. Di fatto, se non v’è Madre non v’è Figliuolo. Ma ciò che si vuole subitamente aggiungere è che se non v’è Figliuolo non v’è Padre. – Gesù Cristo è nostro fratello per la sua filiazione umana, e per conseguenza per Maria; per questo noi facciamo con lui un solo corpo (multi unum corpus sumus in Christo. Rom. XII, 5), ed Egli ci comunica per viadi adozione la qualità che è a Lui naturale di Figliuoldi Dio. Solamente per questo spirito di adozione, comedice s. Paolo, noi siamo i coeredi di Gesù Cristo, i figli di Dio, e rieeviam la grazia d’invocarlo Padre nostro (Rom. VIII, 15). – L’adorazione del Padre in ispirito ed in verità, il culto di Dio, si attien dunque a quello della Madre di Dio.

Chi non ha Maria per madre non potrebbe aver Gesù Cristo per fratello e Dio per padre.

Perciò la Chiesa Cattolica, con un senso profondamente semplice e vero, introduce in tutte le sue preghiere il Pater e l’Ave, unisce il Padre celeste alla Madre terrena di Gesù Cristo, per ricordarci continuamente che per la Madre noi abbiam dei diritti sul Figliuolo, e pel Figliuol noi ne abbiamo sul Padre. E s. Gregorio di Nazianzo non andò troppo oltre allora che, cento anni prima del concilio di Efeso, riepilogava i titoli della Madre di Dio al nostro culto con queste parole, che si dovrebbero scrivere su tutti gli altari lei consacrati: Si quis sanctam Dei Genitricem non confitetur, a Deitate remotus est. « Quegli che non confessa la santa Madre di Dio è separato dalla divinità (Ep. I ad Cledon). » – Gesù Cristo è un fiore, la cui fragranza è Dio ed il cui stelo è Maria. Isaia lo profetava sotto questa graziosa immagine. Indarno si vorrebbe aver la fragranza senza il fiore, e indarno altresì si vorrebbe avere il fiore senza lo stelo; perocché questo stelo non ha portato il fiore solamente una volta, ma lo porta sempre e lo ha fatto fiorir sempre nelle anime. Chiunque pertanto voi siate, dice san Bonaventura, che aspirate alla grazia dello Spirito Santo, cercate il fiore nello stelo; per lo stelo infatti noi giungiamo al fiore, e pel fiore a quello Spirito della Divinità, del quale esso ha imbalsamato la terra. Quicumque Spiritus Sancti gratiam adipisci desiderata florem in virga quærat: per virgam enim ad florem, per florem ad Spiritum pervenimus(inSpec., cap. 6). – Gli uomini, in questo movimento generale che li riconduce oggi alla fede, sono così disposti che veggono ogni modo di contenderle passo a passo il terreno che Ella ripiglia sopra di essi; di far senza di Dio per essere filosofi, di far senza di Gesù Cristo per essere religiosi, e di far senza di Maria per essere Cristiani. Vana fidanza, che riesce a far solo de’ cattivi filosofi, de’ falsi deisti e de’ poveri Cristiani! « A chi fu manifesta la verità senza Dio? – domanda Tertulliano – a chi fu conosciuto Dio senza il Cristo? A chi è stato pienamente rivelato il Cristo senza lo Spirito Santo (Tert. De anim. Cap. 1), senza Maria che è il suo santuario e la più alta espressione della sua fecondità? » La Santissima Vergine adempie così nell’economia del Cristianesimo una funzione attiva e incessante di maternità, generando gli uomini alla vita di Dio, dopo generato Dio alla vita degli uomini. Ministero meraviglioso e incomparabile, di cui noi ci siamo proposto di tentare la contemplazione e di mostrar le sublimi e commoventi armonie. Maquello che vuolsi aggiungere alla gloria sovreminente della Vergine santissima è che la sua grandezza essenziale, ch’io chiamerò il sommo delle sue grandezze, è l’essere stata fatta degna di questa eccelsa maternità; l’esser stata stata non già presa per necessità e per caso fra le donne a fin di adempire questo prodigioso ministero, ma scelta e benedetta da tutta l’eternità fra tutte le creature per questo prodigioso disegno; più ancora, l’essere stata per questo fine, ricolma, abbellita di tutte le virtù e di tutte le grazie che convenivano a questo incomparabile destino, e l’averne a dismisura moltiplicato il numero, corrispondendovi con tutti gli atti, con tutti i sospiri della sua volontà. Grandezza della quale nessuno, né gli uomini, né gli angeli né Maria stessa, nessuno, Dio solo eccettuato, può misurare la sublimità. – E questa è una creazione a parte, è un mondo spirituale: ciò che l’uomo è nell’ordine della natura, ciò che Cristo è nell’ordine della gloria, Maria lo è nell’ordine della grazia; Ella ne è la meraviglia e la Regina; la Regina degli angeli e dei santi. Essa è un Cielo, come la chiama san Giovanni Crisostomo: Quæ igitur Virgo Mater cœlum. Io vorrei aprire agli sguardi questo mondo e questo cielo. – il lettore che non ha mai meditato su questo mistero e che vi reca un occhio velato dalle cose del tempo non comprenderà la verità del mio entusiasmo. Sembrerà a lui che queste parole feriscano il nulla e non echeggino che nel vuoto; che siano una triviale ridondanza ed una sciocca esagerazione tradizionale. Egli, al vedere la semplicità di Maria e la sua oscurità, della quale gli evangelisti, gli Apostoli e lo stesso suo divin Figliuolo sembrano essere stati i complici infino a che Ella è stata sulla terra, domanderà: Che havvi dunque di sì meraviglioso nel destino di questa donna? E non ci seguirà che collo scoraggiamento della diffidenza, colla noja della frivolezza e coll’ orrore dell’inganno. Tutt’al più egli ci riserverà qualche compassione. – Quando il primo uomo vide il primo sole tramontare sull’orizzonte, venir meno la luce del giorno, cancellarsi il magnifico aspetto della creazione e spegnersi da per tutto il rumore insiem colla luce, e il silenzio e la notte occupar l’universo, qual non dovette essere la disperazione della sua anima ignorante! Quale non sarebbe stata la sua diffidenza se una voce gli avesse detto: Preparati all’ammirazione: poiché da questo fondo di oscurità che ti agghiaccia uscirà tale spettacolo la cui magnificenza sarà eguale a quella del giorno! E quale di fatto non dovette essere il suo rapimento allora che il suo occhio scoraggiato vide spuntare una stella sul firmamento velato dal cielo, indi altre e poi accendersi stelle in ogni parte, il cielo empiersi di raggi e il cupo azzurro della sua volta tutto sfavillare di lumi! Quale non dovette essere sopra tutto la sua estasi allora che vide biancheggiar nell’orizzonte, levarsi ed avanzare, qual reina in mezzo alla sua corte, la luna, dal vergineo splendore; ed al suo apparire, sotto il suo misterioso e potente influsso, muoversi l’aere, purificarsi il cielo, i mari sollevarsi e la terra trasformarsi sotto un velo argenteo di luce! – Tale sarebbe certamente la gioja che noi faremmo provare ai nostri lettori se ci fosse dato di poter mostrar loro Colei della quale è stato detto: « Chi è costei che esce fuora come aurora sorgente, bella come la luna, eletta come il sole, terribile come un esercito messo in ordine a battaglia (Cant. VI, 9)? » Noi vorremo almeno tentarlo. Assunto immenso, poiché abbraccia nientemeno che tutta quanta la Religione. Nei nostri primi Studii ci siamo provati di mostrare il Cristianesimo mercé lo splendore di Gesù Cristo; noi vorremmo in questi farlo rivedere alla dolce chiarezza diMaria. (…) La gloria della santa Vergine, quale noi la concepiamo e vorremmo presentarla, è di non poter essere separata, di venire incessantemente ad unirsi con quella di Gesù Cristo e con quella di Dio: di modo che non si può toccarla senza far risuonare, per dir così, la grandezza di Gesù Cristo e la maestà di Dio medesimo; e il più bell’inno che si possa cantare a Gesù Cristo ed alla divinità è Maria, è per Maria. (…) « Ella è cosa per me venerabile e al mio cuore dolcissima l’avere a parlare, o Dio, della Madre del vostro Figliuolo, che solo ha meritato di ricevere in sé il Dio cui Ella doveva generar uomo, di diventare il trono di Dio e il palazzo del Re eterno, secondo che voi ce l’avete insegnato per mezzo di tutti i vostri santi patriarchi, profeti ed Apostoli, in tante figure e discorsi sui quali si appoggiano la nostra fede e la nostra certezza; perché non fu mai che Voi ingannaste, e non avreste cominciato ad ingannarci e a lasciarci ingannare mostrandoci il vostro Figliuolo coeterno a voi e consustanziale, che dovea incarnarsi e si è incarnato nel seno della Vergine, dalla quale ha preso carne Colui che con Voi ha creato tutti gli esseri corporei, che ne è l’Autore, il governatore e il Dio. Di Lei Egli ha preso la nostra natura, non l’origine, avendo il vostro Santo Spirito santificato, purificato e conficcato in Lei un seno umano per la concezione del vostro Figliuolo: meraviglioso effetto di grazia e dignità che il core non potrebbe concepire e che la lingua tenterebbe invano di esprimere. Tale di fatto è stata questa concezione,  tale è stato questo parto, quale conveniva ad un Dio, ad un Dio che veniva a riscattar quelli che aveva voluto creare; creare con la sua potenza, riscattare con la suaumiltà; pigliando dell’umiltà la natura, santa da un corpo santificato, immacolata da un corpo immacolato; poiché Egli coll’essere concepito e col nascere non ritirò da Ella quella grazia ineffabile di santificazione che aveale concessa in vista del suo concepimento. Per esso io vi supplico, o Signore, poiché per esso voi largite ogni bene, e loscegliete per concederlo, io vi supplico di concedermi che senza offendere una tale santità, giunga a favellarne; e che, non lo potendo interamente, il che torna impossibile ad ogni lingua umana, io ne esponga, almeno in parte, il soggetto qual è. Risuoni esso dunque come da sé medesimo; la sua profonda ricchezza echeggi riccamente la sua eminente santità santamente e il suo inestimabile valore fedelmente in quest’opera. E siccome questo sopravanza la ragione umana, il vostro Spirito sia con me e mi inizii atutta la verità che bisogna esporre. Finalmente, siccome io devo rispondere ad un’aspettazione di profondità e di sublimità a cui non potrei giungere, supplico il mio pio lettore che degni anch’esso pregare per me. Che se sopra alcuni punti non sembrassi inferiore al mio soggetto, la sua riconoscenza ne attribuisca il merito a Dio; se troppo sovente io sarò al di sotto, compatisca alla mia insufficienza, perché, per grande che sia, non potrebbe accusare in me difetto di buona volontà (Homilia IV, De Assumptione Virginis.). »

LO SCUDO DELLA FEDE (126)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO V.

Si difende dalle imposture la verità dei miracoli propri della Religione cristiana,incominciando da quei di Cristo, calunniati dai Giudei.

I. Quella volpe, che, non arrivando alla pergola, sprezzò l’uva con infamarla di agresta, non era favola, era figura perfetta, se fosse stata ordinata a vaticinare quello che poi dovevano far le sette invidiose al nome di Cristiano. Veggon ben queste da un lato, che lo verità della Religione, superando la capacità della nostra mente, non possono per via di ragione umana persuadersi abbastanza; conviene accreditarle per via di ragion divina, quali sono i miracoli. E però si sforzano quanto possono di arrivare a sì alta pergola anch’esse, con provarsi a fare, in confermazion de’ loro errori, qualche opera prodigiosa. Ma perché  gli sforzi son vani (non permettendo la provvidenza, che mai si giunga a contraffare tal opera tutta sua), si rivolgono le meschine a tacciare l’uva di agresta, con divulgare che i miracoli da noi Cristiani arrecati, non vaglion nulla, o sono simulati, o sono superflui, e conseguentemente non sono pienamente efficaci aprovare il vero.

II. Dunque nostro debito è qui di manifestare contra i giudei, e dipoi contra tutti assieme gli eretici, quanto sieno ingiuste queste due eccezioni solenni, da loro date a’ testimoni maggiori d’ogni eccezione, quali sono i miracoli propri nostri.

I.

III. I Giudei, tanto solleciti in voltare le spalle al vero, quanto dovrebbero essere ad abbracciarlo, oppongono, che i miracoli di Gesù, registrati in quattro vangeli, non son da credersi, perché non hanno altro istorico che li narri, fuora de’ nostri, e i nostri tutti sono al pari sospetti, mentre essi furono o divoti, o discepoli di quell’uomo, cui sì nuovi miracoli sono ascritti.

IV. Ma dico in prima: chi dunque dovea narrarli? Forse i gentili, i quali dedicavano i loro libri a principi sì arrabbiati in perseguitare la religione di Cristo poc’anzi nata? Non potea scrittore veruno riferir di lui meraviglie non più sentite, prima di crederle; né potea crederle, senza prima risolversi a non temere gli orrendi scempi destinati a chi le credesse. Ma di tal cuore non erano certamente i profani istorici.

V. Anzi solamente per ciò, perché erano profani, non parea giusto che la provvidenza divina gli eleggesse per testimoni di opere così eccelse. Conciossiachè qual fede in esse meritavan da’ posteri quelle penne che erano tanto apertamente venali, adulatrici, amplificatrici, bugiarde in più altre cose, da loro riferite a capriccio?

VI. Dall’altro lato, con che coscienza si allegano per sospetti gli evangelisti? È vero, che in giudizio vacilla l’attestazione de’ famigliari: ma non già quando si tratti di cose tali, che non potevano o sapersi, o spiarsi, fuorché da loro. In tal caso, i famigliari, anziché esclusi dal giudice, sono ammessi, ed ammessi gli unici, come testimoni oculari, e però più degni.

VII. Inoltre appare chiarissimo, non avere gli Evangelisti scritto adulando ed amplificando, all’usanza di quegli istorici che adattano i racconti ai loro interessi, cambiandosi come i polipi al novello colore di quello scoglio che li nutrica. Imperocché, se tali fossero stati non altro avrebbero raccontato di Cristo, che le sue operazioni meravigliose, dissimulando ad arte la   povertà, i patimenti, gli obbrobri che sempre lo accompagnarono unitamente fino al patibolo. Eppure gli evangelisti han fatto l’opposito, dando sulle loro tele pennellate smorte ai chiarori del loro Maestro, cariche all’ombre. De’ prodigi, chi di lor lasciò l’uno, chi lasciò l’altro: niuno lasciò di riferire, più diffusamente di ogni altra cosa, la morte, a primo aspetto sì indegna da lui sofferta, con aggiungere ai torti fattigli dai nemici fino gli strapazzi usatigli da’ discepoli, o traditori, o infedeli, o incostanti. Certamente, se le penne degli evangelisti non avessero unicamente mirato alla verità, non avrebbono almeno di se medesimi notificati ai posteri sì gran falli, né scrivendo al tempo stesso da luoghi così disgiunti, senzaché l’uno sapesse punto dell’altro, avrebbero concordato a narrare il tutto con tanta uniformità di deposizioni.

VIII. Di poi qual prò gli avrebbe indotti ad ingannare il genere umano con vane fole, sperando di farle credere? Chiunque mentisce, mentisce comunemente, o per timore di qualche male, o per ansia di qualche bene. Ma qual bene ambivano sulla terra i seguaci del Redentore, o di qual male temevano, mentre abbandonavano le ricchezze, e cercavano la povertà; abborrivano le ricreazioni, e correvano ai patimenti; sdegnavano l’aura popolare, e gioivano tra gli scherni? Che se poi morirono sì coraggiosi affin di testificare, che quanto avevano scritto era verità; qual timore di morte poteva prima avvilire le loro penne a lasciar da sé spremere una menzogna?

IX. Eppure ciò prova solo, che gli Evangelisti non volessero fingere quei miracoli; laddove io passo innanzi, e dico di più, che quando avesser voluto, non gli avrebbero neanche potuti fingere. Conciossiaché, chi furono gli Evangelisti? non furon uomini poveri di sapere? Come dunque eglino, se avesser finti i miracoli, gli avrebbero giammai finti con sì bell’arte? Maometto il quale, sprovveduto di ogni lettera, pur volle fìngerli, che non disse a spropositato, o di sciocco, non che di vile? Poco men dunque avrebbero fatto anch’essi gli Evangelisti, o almanco non avrebbero mai saputo vestir que’ fatti di circostanze sì decorose e sì degne, come essi fecero. Può mai da un fondaco di lanaiuoli venire una roba d’oro? tanto più, che ciascuno di quei miracoli fu indirizzato da Cristo a dar, con tale occasione, dottrine eccelse. E queste, come da favoleggiatori sì rozzi si sarebbero quivi potute inserire tutte, anzi intessere sì aggiustate, che neppure un filo vi sia di semplicità? dalla statua si giudica il suo scultore: né può chi mai non toccò scarpelli a’ suoi giorni, fare un colosso simile a quel di Rodi, senza mai dar botta in fallo.

X. Si aggiunga che essi non iscrissero cose accadute avanti il diluvio, che pure tanto giustamente si credono da’ Giudei, avvegnaché le narrasse un solo Mosè. Scrissero cose intervenute addì loro, e così addì parimente di quegli stessi a cui le scrivevano. Quale artifizio potevano dunque avere gli Evangelisti a persuaderle fin a’ loro stessi paesani, s’erano false? Non sarebbero in poco tratto stati anzi tutti convinti di mentitori? Se non furono veri i tanti prodigi vantati in Cristo, dell’acqua mutata in vino, de’ malati che risanò, dei morti che risuscitò, degli energumeni da Lui prosciolti ad un cenno, del pane aumentato, delle procelle abbonacciate, del velo squarciatosi da se stesso, de’ sassi spezzati, dei sepolcri spalancati, del sole tutto oscurato sì stranamente nel giorno della sua vergognosa crocifissione: come tra i Giudei non sollevossi per lo meno un Daniele a scoprire sì alte imposture con lingua intrepida, o come non comparve alcun Matatia, zelatore magnanimo della legge, a ficcare, se non la spada, almeno la penna in gola a menzogne le più sfacciate che mai veruno avesse date fuori ad obbrobrio della lor gente? Eppur i Giudei, non solo non opposero libri a libri, per confutare quanto gli Evangeli affermavano dì stupendo nel Redentore dannato innocentemente a morir da ladro; ma essi medesimi a più migliaia, concorsero ad approvarlo, a tenere indi quel crocifisso per Dio, e a non lasciarsi da Lui staccare neppure da quante funi vennero però loro avventate al collo, per trarli in carcere, e per trascinarli alle croci (Act. II.4. etc.).

XI. E poi, se quelle erano non verità, ma novelle, come le credettero i greci tanto superbi, i parti, i medi, i mesopotami, gli arabi, gli elamiti, gli egizi, e sopra tutti i romani, così alieni dal credere meraviglie? Erano pur tra questi molti filosofi, quali saggi, quali sofistici, che non si gloriavano d’altro, che di mettere al vaglio le novità per vaghezza di ributtarle. Come però il mondo tutto, dentro sì breve tempo, ne venne a credere tante prodigiosissime, e ancor le crede? Forse uno stuolo cencioso di giudei raminghi, che non han né patria, né sacerdoti, né sacrifizi, né fede, né sperienza, né scienza di alcuna guisa, salva quella di usureggiare, potrà dare eccezione a tanti gran principi, a tante città, a tanti cleri, a tante università, che riveriscono quelle storie medesime contraddette dal giudaismo, e le tengono per divine? E perché crede il giudaismo i miracoli di Mosè, di Elia, di Eliseo, se non perché n’è rimasta fra loro tutti una fama così costante, che non poteva derivare se non da testimoni veridici di veduta? Come poi dunque in egual affare essi adoperano più d’un peso, né vogliono colle bilance medesime regolare le credenze loro e le nostre? Quod quisque iuris in alterum statuit, ipse eodem iure uti debet, grida la legge (Extra de constit.c. cum omnes et 1. hoc edictum ff. quod quisque iuris). Anche tra noi è rimasta una fama simile, e fama si invitta, e fama sì invariata dopo il tratto di diciassette secoli ornai trascorsi, che non può avere sua fonte, fuorché nel vero, che è la vena sempre mancante all’istessa altezza.

XII. Si provino un poco gli ebrei presenti a far credere al mondo un solo miracolo operato da alcun de’ loro rabbini novellamente, come gli evangelisti fecero al mondo crederne tanti e tanti, operati addì loro dal Redentore. Strana cosa dunque, che questa arte di fingere meraviglie, sì persuasibili a tutti, si sia perduta; ma a dire il vero, tal arte non vi fu mai. I Giudei ancora, quando le lor meraviglie furono vere, le fecero tosto credere, tuttoché tanto giungessero inaudite, di sole fermo, di mari aperti, di manne amministrate, di piazze smantellate a forza di suono. Se non ne possono al presente far credere neppur una, che segno è? E segno manifestissimo che non l’hanno.

XIII. Finalmente qual cosa da’ lor profeti fu prenunziata più apertamente, che lo stuolo foltissimo de’ miracoli, i quali dovevano accompagnar la venuta del gran Messia? Come se ne sono essi dunque dimenticati? Che se pur vogliono ostinatamente travolgere le scritture su ciò concordi, che diran poi, mentre i maestri medesimi del loro talmud non seppero negare tali miracoli in Gesù Cristo (In tit. Ahedazora ap. Crotium 1. 2. n. 5. in Anot. c. Elbachera ap. Salm. c. 6. tr. 2); né con essi negar li seppero i nemici più giurati che mai sortisse la religion cristiana, senza neppure escluderne un Maometto nel suo alcocorano, non invidioso a Gesù di sì giusta gloria? (Il giudaismo s i compenetra così intimamente col cristianesimo ne’ suoi punti più sostanziali, che ai Giudei non è concesso dalla logica di impugnare i miracoli di Cristo senza rompere in brutta contraddizione).

XIV. E vero dunque (ciò che da principio fu opposto), che i nostri storici furono i primi a narrare gli inauditi miracoli da Lui fatti, perché ciò era più proprio; ma non è vero che gli storici esterni non ne abbiano poi lasciata menzione espressa, come di cosa assai nota. Egesippo (Apud Salm. t. 6. tr. 2) nel libro quinto, riferisce due lettere di Pilato a Tiberio Cesare, in cui mostrasi ripentito dell’ingiustissima condannazione di Cristo, egli dà parte de’ gran miracoli da Lui già fatti in vita, e del maggiore che fece poi risuscitando da morte; ciò che venne tenuto sì fuor di dubbio, che l’istesso Tiberio tentò d’introdur Cristo nel Campidoglio fra la turba degli altri dei; e perché il senato per disposizione divina nol consentì (non convenendo al Dio vero l’andare in riga con dii di stucco, o di sasso), non volle l’imperadore che i Cristiani ricevessero almanco verun contrasto, ma fossero lasciati river in pace, come si eseguì finché a ch’ei visse (Tert., in apol. Euseb. 1. 1. hist. Ec. c. 2).

XV. Ma che? Nostre forse eran le Sibille? Eppure le Sibille non altro fanno, che predicare le operazioni mirabili del futuro Messia, tutte ad una ad una avveratesi in Gesù Cristo, delineato tanto prima sì al vivo ne’ loro versi (Ap. Lact. 1. 4. inst. c. 15).

XVI. Molto meno era nostro Giuseppe Giudeo. E pure è tanto chiaro l’onore da lui renduto al nostro Gesù. che sarebbe solo bastevole a colmar di rossore la sua nazione, se in lei non fosse il volto, conforme al cuore già divenuto di smalto. Eodem tempore, dice egli (Ioseph. 1. 18. Ant. c. 4 ), fuit Jesu vir sapiens, si tamen virum eum fas est dicere. Erat enim mirabilim operum patrator, et doctor eorum qui libenter vera suscipiunt. E poco appresso, riferita che n’ebbe la morte atroce, così soggiugne: Apparuit enim eis tertia die vivus, ita ut divinitus de eo vates hoc et alia multa miranda prædixerant. Ecco dunque che i Giudei non volendo credere ai nostri, sono costretti a non dovere né anche credere a se medesimi, o per lo meno a calpestare quegli stessi scrittori i quali hanno in pregio sopra qualunque altro. Ma così va; Si contuderis stultum in pila non auferetur ab eo stultitia eius(Anche se tu pestassi lo stolto nel mortaio tra i grani con il pestello, non scuoteresti da lui la sua stoltezza. – Prov. II. 23). Quanto vuoti di senno,tanto ostinati, somigliano ad un pallone, chepiù che vien percosso, meno si acquieta.

II.

XVII. Convinti però della verità delle narrazioni, si rivolgono ad intorbidare il fondo di quelle meraviglie sì strepitose di cui non possono divertire la piena. Affermano che i miracoli di Cristo sono da Lui stati operati per arte magica. E che però, se non sono finti nel fatto, sono finti nella virtù (Quest’obbiezione si risolve da sé, sol che si rifletta, che il miracolo è tal fatto sovrannaturale, che da Dio solo ripete la sua cagione efficiente. Un miracolo, operato per arte magica o per forza naturale, senza il concorso diretto di Dio, non è un miracolo). Ma qualemopposizione più sconsigliata.

XVIII. Primieramente una somigliante calunnia ebbero da Apuleio i miracoli di Mosè, e l’ebber da Plinio. Ciò però che i Giudei risponderanno contro di questi in difesa del loro legislatore, risponderemo contro di loro noi, in difesa del nostro.

XIX. Dipoi, come fu mago Cristo, se la sua legge sì severamente proibisce, con tutte le altre scelleratezze, anche questa maggior dell’altre?

XX. Aggiungasi, che le maraviglie de’ magi sono indirizzate comunemente a danno di altrui, avendo per fine o vendette, o violenze, o furori di amore insano, più reo di ogni odio. Laddove i miracoli di Gesù furono sempre rivolti a beneficare i corpi, e più ancora l’anime, tirando ognuno all’amore dell’ onestà.

XXI. Più, l’onor del Padre celeste fu sempre il bersaglio di tutte le sue operazioni meravigliose: che perciò ricusò di operarle senza profitto nella patria incredula; o di operarle per vanità davanti ad un re curioso, anche quando l’operarle potea fin toglierlo dalla morte di croce. Chi mai però vide negli stregoni uno zelo simile, mentre essi sono la ribaldaglia del mondo. e come tali esiliati da tutti i popoli, puniti da tutte le leggi con pene orrende? »

XXII. Finalmente ciò che possono i magi si stende a poco, cioè a molto meno di ciò che possono gli spiriti maligni loro padroni, ai quali né anche permette Dio troppo ampia la sfera del noiare e del nuocere sulla terra. Come però avrebbe potuto coll’aiuto di tali spiriti effettuare Cristo cose tanto superiori alle loro forze, quali erano risuscitare i morti, e tra questi risuscitare in ultimo ancora sé? Come sarebbero mai state così durevoli le sanità da lui restituite agl’infermi se fossero state opere prestigiose e non sussistenti? Come avrebbe Egli insegnate dottrine sì salubri, sì sante, sì celestiali, se fosse stato un uomo indiavolato?

XXIII. I diavoli, quando han concorso ad opere di stupore, vi hanno concorso affine di promuovere singolarmente il culto dei falsi dei, cioè di se stessi, ambiziosissimi, sin dalla origine loro, d’innalzarsi a onori divini. E come dunque potean essi concorrere di buon grado a quelle di Cristo, mentre Cristo era tutto intento ad abbattere il loro culto, e a rimettere quello del vero Dio, con intenzione d’inviare gli Apostoli suoi seguaci per l’universo, alla distruzion general dell’idolatria? Si Satanas in seipsum divisus est, quomodo stabit regnum eius?

XXIV. Si vede bene, che i presenti Giudei son figliuoli peggiori de’ lor padri, mentre non temono di apporre a Cristo una taccia che gli antichi giudici stessi del sinedrio non ardirono di appiccargli (Tit. de Sinedrio et tit. de Sabach, apud Grotium 1.5. n. 5). Questi (se noi stiamo alla fede de’ talmudisti) dovevano essere tutti esperimentati nelle arti magiche per convincere quei che n’erano rei. Come però, per fondamento delle altre accuse da loro date a Gesù, non posero in campo questa dei sortilegi da lui tuttora operati? Misero lui, se glie l’avessero mai potuta attaccare, se non per vera almeno per verisimile, come una volta ma senza frutto tentarono i farisei, quando dissero al popolo ammiratore della possanza da lui già posseduta sopra l’inferno: In principe dæmoniorum eiicit dæmonia(per il principe dei demòni, Egli scaccia i demòni – Luc.XI. 15).

XXV. Sarebbe un non finir mai, se si volessero ad una ad una arrecare tutte le prove, per cui si dimostrano degni di ogni credenza i miracoli del Redentore, indegnissimi di veruna i centrasti che loro si fanno. E però, a ridurre quasi un’iliade in un guscio, possiamo dire che i prodigi di Cristo furono da lui effettuati in così gran numero, al cospetto di tanta gente, in luoghi sì diversi, con modi sì pii, con mano sì poderosa, con imperio di tanta sovranità, non più scorta al mondo, con tanta gloria di Dio, con tanto aiuto de’ popoli, con tanto accrescimento della pietà; e che di più vennero tramandati a notizia con uno stile tanto innocente, da penne si schiette, da persone sì sante, da testimoni cosi bene informati d’ogni minuzia, che il negarli non è solamente un chiudersi gli occhi, è cavarseli dalle casse, per farsi cieco in odio del giorno. Non accade pertanto che gli ebrei sperino colle loro lingue malevole di oscurarli. Sarà loro più facile il sollevarsi contra il sole, ed estinguerlo con un soffio.