IL MESSIA GIUDAICO (1)

Roger Gougenot des Mousseaux

– IL GIUDEO, Il giudaismo e la giudaizzazione
dei popoli cristiani –

2e édition
Paris: F. Wattelier, 1886

CAPITOLO DODICI. (1)

PRIMA DIVISIONE.                              

IL MESSIA GIUDAICO – I –

Il Giudeo ortodosso non cessa di sperare in una rivoluzione universale che lo elevi, attraverso il suo Messia, al di sopra di tutti i popoli. – Israele ha conservato la sua ingenua e robusta fede nel Messia o no? Sì, ma il Giudeo, da qualche anno, non è più, qua e laggiù, simile a se stesso. – Il rabbino Lazard afferma che il ristabilimento di Gerusalemme è solo una cosa ideale, che non danneggia di conseguenza il loro patriottismo nazionale. – I riformatori tedeschi hanno lo stesso linguaggio, perché parlare di questa restaurazione sarebbe un ostacolo alla loro emancipazione. – I Giudei inglesi sono più franchi, e l’immensa maggioranza dei Giudei crede nel Messia, ma è loro vietato fissarne la data. – Il Messia dei talmudisti rimane il perno della fede giudaica. – La lettera del signor Levy Bing sul Messia, è un capolavoro di chiarezza. – L’unificazione dei popoli deve avvenire, affinché Israele sia, sopra tutti, il popolo-Papa. – Il brindisi universale. – Il cuore e la patria finale di ogni giudeo è quindi ancora la Giudea. – Tuttavia, il Messia non sarà di natura divina. – Egli ricostruirà Gerusalemme e vi riporterà i Giudei liberati. – Il Giudeo talmudico si nutre della speranza della conquista e della spoliazione dei popoli che gli danno il diritto di cittadinanza. – Prova, aneddoti. – Per il giudeo progressista, il Messia è l’epoca filosofica attuale, che rovescia la Chiesa e il Talmud; per il giudeo ortodosso, questa epoca è una delle tappe che preparano il vero Messia. – Superstizioni grottesche. – Famiglie messianiche, descrizioni.

I Giudei hanno sempre sperato nel loro Messia, e, a volte pensandoci, a volte senza rendersene conto, hanno preparato l’opera della rivoluzione sociale ed universale, il cui strumento finale sarebbe questo Messia – che deve essere e sarà il risultato finale – al quale non cessano mai di pensare. Il risultato finale di questa rivoluzione deve essere e sarà quello di stabilire il loro dominio su tutti i popoli della terra! Ma non potremmo capire né la vivacità di questa speranza, né la forza che questa fede tradizionale dà all’esecuzione del loro piano, se non ci fermassimo un momento a considerare l’ardore e la tenacia della loro fede, che lega la mente ed il cuore del Giudeo all’idea del Messia. La questione, quindi, si pone a noi in questi termini: Israele ha conservato o meno la sua fede natia ed ardente nel Messia? E la risposta che ci danno i figli della dispersione è questa: Guai! Guai a chi ha perso questa fede! Mentre tra i Giudei c’è chi crede nel Messia con una fede franca e vigile, altri sembrano negare questo Desiderato dei discendenti di Giacobbe, ed altri ancora alterano e distorcono i tratti così vigorosamente accentuati nella sua figura tradizionale; cerchiamo più che mai, nella nostra ricerca della verità, di osservare alternativamente i pro e i contro; e prima di tutto, ricordiamo che non si tratta più di immaginare che il Giudeo sia qui, là e altrove, quello che era solo qualche anno fa, cioè sempre e ovunque uguale ed identico a se stesso. Dobbiamo quindi guardarci dal prendere colui che è alla portata delle nostre orecchie e dei nostri occhi come se fosse simile nel credo al Giudeo la cui parola e la cui vista non ci sono familiari. Ciò che è notevole, dice un abitante della capitale della Francia, il dotto e reverendo padre Theodore Ratisbonne, un israelita convertito, è la cura con cui i Giudei « … evitano ogni discussione seria e dogmatica. Soprattutto, si evita la grande questione del Messia, l’unica che si interpone tra i Giudei ed i Cristiani. » – Oggi « i Giudei non ammettono più questo punto fondamentale della religione dei loro padri; rifiutano sia il mistero del peccato originale che la promessa del Redentore. Oppure, se invocano ancora il Messia nella recita obbligatoria dei salmi, … non attribuiscono alcun significato alle loro parole; le considerano come formule superate; essi dichiarano persino che non si debba più aspettare il Messia, né chiedere altra emancipazione che quella che hanno ottenuto nella loro situazione politica. Il Messia è venuto per noi il 28 febbraio 1790, con i Diritti dell’Uomo. Così si esprimeva uno degli organi più autorevoli dei Giudei moderni, M. Cahen, il traduttore della Bibbia. » (La Question juive, p. 18, 1868, 31 pages; et M. Cahen, Archives israélites, VIII, p. 801; 1847). Queste parole sono indubbiamente limitate, nell’intenzione del dotto Religioso, ai Giudei letterati e riformisti di una parte dell’Europa, uomini potenti per ricchezza, per la loro influenza, e spesso anche per la loro brillante onorabilità, ma che costituiscono solo un piccolo numero della nazione. Un altro Cristiano, la cui penna rappresenta la Terra Santa elevata all’incrocio di tre continenti come una fortezza la cui cinta attende Israele, si esprime in termini che vale la pena di essere riportata: « La soluzione finale della questione orientale – ci dice M. Vercruysse – non sarà raggiunta dal ristabilimento del popolo israelita nel suo paese, la Palestina? … Il ristabilimento dei Giudei in Palestina ha due lati: quello religioso e quello politico. » – « Il popolo israelita e il popolo arabo o ismaelita sono i popoli che possono rivendicare la più antica nazionalità del mondo; essi sono stati provvidenzialmente conservati e preservati;… e, possiamo esserne certi che i destini di queste due nazionalità, unici e misteriosi, saranno ancora più grandi in futuro che nel passato….. » Tuttavia, i signori Isidore Cahen e Marc Lévy citano queste parole solo per combatterle con una singolare audacia di dottrina riformista. Ascoltiamoli: « Ci siamo spesso pronunciati su questa questione in un senso diverso. La storia non ricomincia, e gli israeliti, messaggeri dell’idea monoteista, devono disperdersi nel mondo, non essere confinati in una fortezza. » (Archivio Israelita, p. 884; 15 ottobre 1866).  È una calunnia che viene ripetuta a sazietà da tutti i teologi del Cristianesimo, che « i Giudei non vollero riconoscere il Messia nel figlio di Maria, perché erano carnali e speravano in lui. I Giudei non volevano riconoscere il Messia nel figlio di Maria, perché erano carnali e speravano in un Messia che avrebbe dato loro innanzitutto il dominio assoluto del mondo, asserzione gratuita e contraria alla storia. In effetti, l’elezione di Israele non ha nulla di mondano. Esso ha da sempre capito che il suo regno non è di questo mondo. È il primo tra le nazioni, come il sacerdote è primo tra i credenti. Esso ha per missione di far conoscere agli uomini la vera dottrina; come potevano gli Israeliti supporre che Dio avrebbe loro sottomesso tutte le nazioni, quando il profeta Daniele aveva appena insegnato che ogni popolo ha il suo Angelo custode, come Israele? (La Bibbia non dice forse di questo Angelo: « Non vi perdonerà quando peccherete? » Esodo, XXIII, 21).Essi erano lontani dall’avere quello spirito intollerante esclusivo ed ambizioso che viene loro attribuito; non c’era e non poteva esserci nulla del genere nelle loro speranze messianiche. (Questo esempio è uno di quelli che ci mostrano ciò che una penna giudea osa mettere sulla carta. Il Talmud, la storia delle tradizioni rabbiniche, che sono il catechismo dei Giudei, la storia dei falsi Messia e delle famiglie messianiche, ci dicono cosa dobbiamo pensare di un tale giudizio. Vedi Marc Levy, Archives israélites, VI, p. 249, 1867; continua a leggere, e vedi il contrario più in basso.). Invano – gridava il rabbino Lazard dal pulpito – si cercherebbe di riportare Gerusalemme alla sua antica gloria. « Non si tratta più di ripopolarla, ma di rivolgere i nostri pensieri verso di essa » perché non è la nostra città materiale, è solo la nostra « città ideale ». – Ed è così che « la preghiera quotidiana che chiede la restaurazione di Gerusalemme non danneggia il nostro patriottismo nazionale ».  (Archivio Israelita, XVII, p. 810; 1867). Così il Giudeo, cessando di essere Giudeo nazione, lo sarebbe solo di culto! E questo culto sarebbe simbolico! Far accettare alla massa della nazione tali enormità: « la nostra bandiera religiosa porta quattro dogmi chiari e luminosi come il sole: l’unità assoluta e rigorosa di Dio; l’immortalità dell’anima; la rivelazione sinaitica, e infine la venuta del Messia. » Ma, per questo dogma della venuta del Messia, dobbiamo intendere solo « la perfettibilità indefinita dell’umanità!  (Archives israélites, IV, p. 164; 1868. Auscher, rabbin. — O Israël !!!).  – Tutta la fede messianica porterà dunque a questa grottesca sottigliezza, contro la quale si protesta una formula che, tra tutti i popoli, esprime la più incrollabile e positiva fede nella cosa attesa: … Io lo attendo come i Giudei  attendono il Messia.I riformatori tedeschi, ci dice l’israelita Rabbiowicz, vedevano nei « passaggi che parlano del ritorno dei Giudei alla terra dei loro ancestri e della restaurazione del regno di Davide… un ostacolo all’emancipazione ». Determinati a sbarazzarsi di questo ostacolo, hanno quindi coraggiosamente fatto il passo di fare buon mercato delle loro speranze messianiche. Questa è la chiave del mistero di questa svolta! Meglio consigliati, al contrario, e più generosi, i Giudei inglesi « hanno compreso che questa sarebbe stata una riforma che avrebbe fatto più male che bene. » Essi trovarono giustorispettare la fede secolare dei Giudei, che hanno il diritto, secondo loro, « di formare i desideri più ardenti di una patria infelice, anche se determinati a non tornare mai, di persona, nella terra dei loro ancestri ». (The Israelite Reform in London, 15 novembre 1866; Archivi Israeliti, XXII, p. 984; 1866).La fede, dunque, non è più uniforme tra tutti i figli della dispersione; ma i meno ciechi sono quelli che si scoraggiano più rapidamente quando si tratta di credere nel loro Messia; e, nel loro pensiero, il credito di questo personaggio scende ogni giorno di più; perché « ha lasciato passare senza mostrarsi tutte le epoche che i rabbini avevano previsto essere giunte alfine delle loro molte supposizioni! » (Seconda lettera di un rabbino convertito (Drach), p. 100; Parigi, 1827). La loro fede incessantemente delusa è diventata, alla lunga, stanca! Alcuni, entrando nel senodella Chiesa, si sono umiliati davanti al Messia di Betlemme e del Calvario, altri si sono forgiati un protestantesimo filosofico, mentre altri ancora sembrano riposarsi e rinfrescarsi con l’immergersi nelle profondità dell’indifferenza. Tuttavia, la grande maggioranza della dispersione è ciecamente fedele alle sue credenze messianiche ed ai suoi rabbini, che, con grande prudenza, guidati dal dotto Abrabanel, hanno decretato l’anatema contro chiunque presuma di fissare una data per l’arrivo del Messia; è solo loro sufficiente vedere apparire a suo tempo questo illustre restauratore di Israele! Ma se questa immensa maggioranza rimane quella che era, allora dunque cos’era? Il seguente passaggio ce lo insegna in termini molto chiari: « I saggi ed i maestri della Sinagoga terminano di solito, ai giorni nostri, con il pensiero di QUESTO TRIONFATORE FUTURO i discorsi che tengono nelle loro assemblee: essi stimolano i loro correligionari alla fedele osservanza della legge, sostenendo la loro speranza di vedere la venuta del Messia e di godere di tutti i beni promessi ad Israele. Ora, uno di questi beni è il momento desiderato del massacro dei Cristiani e la completa estinzione della setta dei Nazareni.  La parola è chiara, e quello che si dice anche oggi si diceva molti secoli fa. Così San Girolamo, che conosceva a fondo le dottrine giudaiche, scriveva a proposito della piccola pietra che si stacca dalla cima della montagna per infrangere la statua di Nabucodonosor: « I Giudei voltano questo passaggio a loro vantaggio, e rifiutano di riconoscere Cristo in questa pietra. Per essi, questa non designa altro che il popolo d’Israele che è diventato improvvisamente abbastanza forte da rovesciare tutti i regni della terra e fondare il suo impero eterno sulle loro rovine. (La Chiesa e la Sinagoga, pp. 18-19; Parigi, 1859). – Più tardi, nel XV secolo, il dotto Rabbi Abrabanel (Su Geremia, cap. XXX) annuncia nei suoi commentari il regno del Messia, tempo glorioso in cui si compirà lo sterminio dei Cristiani e dei gentili; e Reuchlin ci dice: « Essi aspettano con ansia il rumore delle armi, le guerre, la devastazione delle province e la rovina dei regni. La loro speranza è quella di un trionfo simile a quello di Mosè sui Cananei, e che sarebbe il preludio di un ritorno glorioso a Gerusalemme restituita al suo antico splendore. » (Reuchlin: Quindicesimo secolo. Un personaggio molto stimato dai Giudei, che fu ministro delle finanze in Portogallo e Spagna sotto Ferdinando il Cattolico. Fu bandito con il corpo della sua nazione e, checché se ne dica, questa cacciata dei Giudei fu la salvezza della Spagna, di cui erano il flagello, come lo sono ora della Romania…). Queste idee sono l’anima dei commenti rabbinici sui profeti, e sono state tradizionalmente trasmesse ed inculcate nelle menti di quella nazione; e così gli Israeliti si sono da tempo immemorabile preparati per questo evento, la meta suprema delle aspirazioni della razza Giudaica! (Buxtorf, Sinagoga giudaica, cap. XXXV. Maimonide in Surenheinsius, Mischna, parte IV, p. 164; Abrabanel, Præco salutis. La Chiesa e la Sinagoga, pp. 18-20. – Questa preparazione continua vigorosamente anche oggi). Il Messia dei talmudisti, che non è ancora un vinto, non era dunque affatto un mito; e M. Félicité (Vercruysse) può e potrà a lungo affermare che gli israeliti non rinunciano a questa credenza custodita di generazione in generazione durante una così lunga catena di secoli. (Opuscolo intitolato La Régénération du monde, dedicato alle dodici tribù d’Israele; Parigi, 1860, e di cui M. Vercruysse figlio ci fece un graziosissimo regalo al congresso di Malines del 1864; un’opera molto interessante, ma le cui idee non possiamo adottare nella loro totalità). Perché il Messia è « il perno della loro fede e della loro speranza; e non avendo accettato Cristo come il profeta promesso, aspettano! Ma c’è da sperare che un giorno riconosceranno il loro errore; altrimenti c’è da temere che un gran numero finirà per ammettere l’Anticristo come Messia. Questo è ciò che Dio ha previsto e per questo ha voluto avvertirli… » (Ibid., Vercruysse, p. 43. Vedi il seguito). Così, nonostante le numerose defezioni, essi per la maggior parte aspettano, si preparano alla realizzazione di questa speranza instancabilmente sostenuta, ed « immaginano sempre di essere gli eletti, o il popolo di Dio »; immaginano che per questo « sono superiori a tutte le nazioni (Gojim), che sono fisicamente e moralmente diversi da loro, e che queste ultime dovranno essere sterminate al momento della venuta del loro Messia. » Quindi il Giudaismo è stato fino ad oggi, « politicamente, religiosamente e fisicamente, uno spirito di casta, che, per il rigore e l’inesorabile parzialità dei suoi aderenti, non ha eguali in nessuna classe di uomini in Europa…. Quindi da questo un antagonismo permanente tra lo Stato ed il Giudaismo è inevitabile! »  (Kluber, Coup d’oeil des délibérations diplomatiques du Congrès de Vienne, vol. III, p. 390; – Goschler, Dictionnaire encyclopédique de la théologie catholique, dei più sapienti professori e dottori in teologia della Germania, t. XII, p. 451; Paris, 1861, in-8o). Così, in una parte del Giudaismo rimane e si erge l’antica e incrollabile credenza nel Messia come sterminatore e depredatore dei popoli; mentre dall’altra parte, questo dogma a volte evapora, si riduce ad un simbolo, e a volte viene scartato senza un attimo di esitazione se il minimo interesse lo richiede; ma i dottori dotati di una certa prudenza si guardano bene dal respingere brutalmente i fedeli che si ostinano a prenderlo sul serio. – Gli Archivi Israeliti, i cui redattori sono tra coloro che trasformano il Messia in un mito, aprono quindi ampiamente le loro pagine alle credenze degli ortodossi, e ci danno nella seguente lettera un mirabile monumento dell’incrollabile attesa dei Giudei: Nancy, 21 marzo 1864. – « Signore, io sono di quelli che pensano che la nostra generazione non vedrà il giorno della grande riparazione promessa. Eppure non vorrei affermare il contrario, in presenza degli avvenimenti e delle trasformazioni di cui siamo stati testimoni negli ultimi quindici anni! » – « Voi dite: Noi non crediamo che questa idea, – del Messia, e del suo ritorno trionfale a Gerusalemme, – sia fattibile o accettabile! Avete pensato alla gravità di queste parole? Avete ben considerato la gravità di queste parole? Perché sono una negazione completa della nostra fede e della nostra missione nel mondo! Questo non è certo il vostro pensiero; ma è giusto che un organo dell’importanza degli Archivi non sia considerato come non pienamente consapevole dei doveri e delle speranze di Israele. Ma come, voi non credete nella missione finale della casa di Giacobbe? Gerusalemme sarebbe una parola vana per voi? Ma questo sarebbe il rovesciamento immediato del nostro culto, della NOSTRA TRADIZIONE, della nostra ragion d’essere; e, a tal fine, tutti i nostri libri sacri dovrebbero essere immediatamente bruciati? Il nostro rituale, ordinario o straordinario, tutto ci parla sempre della MADRE PATRIA; quando ci alziamo, quando ci corichiamo, quando ci sediamo a tavola, noi invochiamo il nostro Dio di affrettare il nostro ritorno a Gerusalemme, SENZA RITARDO, E FIN DAI NOSTRI GIORNI! (Questo è abbastanza letterale, abbastanza antisimbolico, tanto positivo quanto preciso; e notiamo questa parola: il ritorno alla patria. Cosa sono allora le sue patrie d’occasione per per i Giudei?). Quindi sarebbero solo vane parole? La ripetizione generale e universale di queste parole non avrebbe quindi più senso? Sarebbe pura forma? » Per fortuna non è così; e voi vedete, caro signore, che, se molti di noi hanno dimenticato l’importanza del ritorno, Dio ci ha suscitato nuovi fratelli e sorelle che a volte capiscono meglio di noi stessi QUESTO MIRACOLO, UNICO nella vita del mondo, di un intero popolo disperso da milleduecento anni in tutte le parti dell’universo senza essere confuso o mescolato in nessuna parte con il popolo tra cui vive! E, questa incredibile conservazione, fatta per aprire gli occhi dei ciechi, non avrebbe significato, nessun valore per noi e per il mondo? » Ma guardiamo l’orizzonte e consideriamo tre segni sorprendenti che ci colpiscono. Tre parole, tre cose hanno il privilegio di occupare tutte le menti e di assorbire l’attenzione del tempo presente: NAZIONALITÀ, CONGRESSO, SUEZ.  » Ebbene, la chiave di questo triplice problema (dei popoli che entrano in possesso di se stessi per unificarsi, e unificare con l’aiuto del filo elettrico e del vapore le varie regioni del mondo), la chiave di questa triplice soluzione, è Israele, è Gerusalemme! Come ho detto prima, tutta la religione giudaica è basata sull’idea nazionale. – E che ne siano consapevoli o no, non c’è un battito, non un’aspirazione dei figli d’Israele che non sia verso la patria. (Il paese dei padri! Ci si dirà, come i Giudei possano essere veri cittadini con questo pensiero necessario, con questi desideri dominanti nelle loro anime?). – Ripeto, sarebbe necessario chiudere dal primo all’ultimo dei nostri libri se dovessimo bandire Gerusalemme dai nostri pensieri! » – « E queste aspirazioni, questi pensieri, non sono solo una cosa intima, personale della nostra razza, ma è un bisogno universale; è la realizzazione delle parole dei profeti; come dire? … delle parole di Dio. È la prova della Sua presenza eterna in mezzo a noi; è la sanzione di cui ho parlato. » Se, a poco a poco, la vendetta personale è scomparsa; se il barbaro e stupido pregiudizio del duello non sarà presto più che un ricordo; se, in una parola, non è più lecito farsi giustizia da soli, ma piuttosto rimettersi a giudici generalmente accettati e disinteressati alla controversia, non è forse naturale, necessario, e molto più importante, vedere presto un altro tribunale, un tribunale supremo, incaricato delle grandi controversie pubbliche, dei reclami tra nazioni e popoli, che giudichi in ultima istanza, e la cui parola faccia fede? E questa parola è la parola di Dio, pronunciata dai suoi figli maggiori (i Giudei), e davanti alla quale tutti i minori si inchinano con rispetto, cioè l’universalità degli uomini, i nostri fratelli, i nostri amici, i nostri discepoli. (Io sono il popolo-Papa! una parola sorprendente di Israele, e che lo colloca nel punto di vista più ultramontano: Avete bisogno di un giudice supremo e quindi infallibile, o nazioni della terra! Bene, eccomi qui, devo essere io, io sarò quell’arbitro, quel giudice. Riconoscete in un congresso giudaico, riconoscete in me non solo il popolo-re, ma il popolo-PAPA. » – Ancora una parola, caro signore… Ci stiamo avvicinando all’anniversario dell’uscita degli Israeliti, i nostri padri, dall’Egitto. Fu la sera del 20 aprile che, in tutta la terra, un popolo disperso per quasi duemila anni, nello stesso giorno, ALLA STESSA ORA, IMPROVVISAMENTE, risorge come un solo uomo. Afferra la coppa della benedizione posta davanti a lui e, con voce fortemente accentuata, ripete tre volte il seguente magnifico brindisi: IL PROSSIMO ANNO A GERUSALEMME! Direte voi ancora che la ricostituzione della nazione giudaica non è né fattibile né accettabile? – (Archivi Israeliti, pp. 335-350; 1864 – La lettera dovrebbe essere letta per intera.). LEVY BING. » –

IL MESSIA GIUDAICO (2)

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. GREGORIO XVI – “INTER EA”

Inter ea Greg. XVI

Continua l’opera di depredazione e di appropriazione indebita dei beni ecclesiastici usurpati a conventi ed istituzioni della Chiesa, ed avidamente incamerati da organismi statali e privati, opera avviata ed incentivata dalle conventicole di perdizione – le pseudo-filantropiche logge muratorie dei satanisti anticristiani mascherati da agnelli liberatori – prima in Europa e poi in America e in tutto il mondo cristiano debitamente paganizzato. Il Pontefice si rammarica in questa lettera, degli avvenimenti compiutisi in Svizzera con la partecipazione di sedicenti Cattolici, evidentemente ipocriti liberal-modernisti che non si preoccupavano di scomuniche o anatemi, accumulati con tali partecipazioni sacrileghe, che tagliano la via dell’eterna beatitudine:  « … anche uomini cattolici, senza tenere in alcun conto i diritti dell’autorità ecclesiastica e di questa Santa Sede e disdegnando le pene e le censure che le Costituzioni Apostoliche e i Concili Ecumenici, soprattutto il Concilio Tridentino  infliggono ipso facto a coloro che non si peritano di compiere tali azioni … ». Simile disdegno si profila per gli apostati novusordisti delle logge vaticane e dei loro adepti pseudo-fedeli, oggi tutti intenti a smantellare le strutture cattoliche per consegnarle alla nuova religione universale di ispirazione giudaico-massonica, monoteista luciferina. Si tratta di un tradimento ben più grave della partecipazione alle ruberie svizzere, ma non essendoci più fede nella vita ultraterrena e nella eterna beatitudine, è facile confluire nell’idea gnostica del “tutto universale” che assorbe le anime inutilmente (secondo i teologi modernisti anticristiani) redente dal Sacrificio di Cristo. Ma Dio si riderà di loro e li distruggerà in un attimo rendendo loro l’obolo meritato dall’apostasia, dallo scisma, dalle mille ipocrisie perpetrate nei templi cristiani. Altro che mercati nel tempio, qui abbiamo a che fare con potestà e principati decaduti che invasano saldamente falsi chierici in talari multicolori e cappelloni bicornuti luccicanti con le insegne del loro padre, il diavolo. A noi, piccolo gregge residuo, tocca pregare anche per loro come nostri nemici, ma tocca pure urlare sui tetti il grido di allarme contro i nemici di Dio, folli candidati allo stagno di fuoco … clama ne cesse

ENCICLICA DEL SOMMO PONTEFICE
GREGORIO XVI

INTER EA

Ai Vescovi della Svizzera, diletti figli Nostri in Cristo.

Il Papa Gregorio XVI. 
Venerabili Fratelli, salute e Apostolica benedizione.

Tra i motivi che da tempo Ci rendono ansiosi e solleciti (mentre incombono i doveri del supremo apostolato) non occupano certamente l’ultimo posto i decreti promulgati da diversi governi di codeste regioni a danno dei conventi, di cui alcuni sono stati addirittura aboliti, dopo aver aggiudicato alla Repubblica i beni ad essi appartenenti o averli svenduti all’asta o averli temerariamente destinati ad altri usi. E accadde un fatto ancor più penoso per il nostro cuore: nel compiere, o piuttosto nel perpetrare, tali abusi, ebbero parte anche uomini cattolici, senza tenere in alcun conto i diritti dell’autorità ecclesiastica e di questa Santa Sede e disdegnando le pene e le censure che le Costituzioni Apostoliche e i Concili Ecumenici, soprattutto il Concilio Tridentino  infliggono ipso facto a coloro che non si peritano di compiere tali azioni. Inoltre non è necessario spiegare a molti quanto gravemente si sia peccato contro la Religione e contro lo stesso interesse temporale dei popoli procedendo in tal modo. Nessuno infatti ignora quanto ovunque, e quanto soprattutto in Svizzera, siano grandi i meriti monastici, fondati sia sulla promozione del culto divino, sia sulla cura delle anime, sia sulla educazione della gioventù alla pietà e alle buone opere, sia infine sull’instancabile soccorso dei poveri con ogni genere di aiuto. Invero, Noi, non appena conoscemmo il fatto con grande sofferenza dell’animo, non indugiammo affatto nel protestare, attraverso il Nunzio Nostro e di questa Sede Apostolica, sostenendo l’inviolabilità dei monasteri, dei diritti e dei beni dei quali essi godono: inviolabilità peraltro sancita con pubblico patto. – Tuttavia non poco sollievo al Nostro dolore recò il comportamento adottato da numerose amministrazioni di codesti villaggi che, ottimamente disposti verso la Religione, la Chiesa e le istituzioni monastiche, non solo si opposero tosto ad ogni funesta decisione, ma per di più, collegandosi nello zelo, non mancarono di resistere apertamente alla vendita dei beni spettanti a quelle istituzioni. Perciò non tralasciamo di compensare con meritate lodi la loro virtù, esortandole contemporaneamente a che, nel nome dell’avita devozione e fedeltà alla Chiesa e a questa Apostolica Sede, siano tenacemente coerenti col santo proposito e insistano con il più ardente zelo a favorire e a patrocinare la sacra causa. – Per la verità le richieste avanzate a Nostro nome non conseguirono lo stesso risultato presso le amministrazioni di altri villaggi, assiduamente impegnate (come è stato riferito) a condurre a termine l’intrapresa, scellerata azione contro le dimore religiose, i loro diritti e le loro proprietà. – Questa è stata la causa, Venerabili Fratelli, per la quale vorremmo rivolgerci a Voi con questa lettera. Pur non dubitando affatto, e anzi avendo appurato che Voi, in tale affare, non siete mai venuti meno ai doveri del vostro ministero, tuttavia, memori del compito che per ispirazione divina Ci induce a dirigere e ad infiammare i fratelli, perché siano tutelati i beni che sono di Dio e della Chiesa, manifestiamo più apertamente a Voi il Nostro pensiero circa la stessa gravissima questione. Pertanto, di nuovo riprovando e vivamente deplorando i predetti decreti promulgati dal potere laico per sopprimere costà non pochi monasteri e relative comunità religiose, richiamiamo alla memoria di ciascuno che le alienazioni di beni e di diritti ad essi pertinenti (sia avvenute finora, sia che avverranno in futuro) senza il consenso della Nostra autorità e della Santa Sede, sono da considerare nulle e vane al cospetto della Chiesa in base alle sanzioni canoniche; pertanto decretiamo che tali debbano essere tassativamente considerate. Di conseguenza sarà vostro compito rifiutare ad essi ogni aiuto o condiscendenza e insieme, con quella singolare prudenza per la quale siete tanto accreditati, avvertire sollecitamente coloro ai quali, in forza delle illegittime alienazioni suddette, siano pervenuti o stiano per pervenire quegli stessi beni, che nessuno di essi può con tranquilla coscienza conservare la proprietà ricevuta, né riceverla in seguito. D’altra parte viviamo nella ferma speranza che soprattutto i cattolici che hanno cooperato a proporre e ad applicare i decreti più volte ricordati, esaminata attentamente la questione al cospetto di Dio, tosto recedano (come giova crederlo) dalla via temeraria che hanno imboccato. E più e più Ci affidiamo al Signore affinché voi, Venerabili Fratelli, vi dedichiate per parte vostra a questo scopo con tutto l’impegno di pazienza e di carità pastorale.

Infine, invocando dal Signore gran copia di aiuto celeste per voi tutti, e che Egli sia auspice del desiderato evento e testimone della Nostra paterna benevolenza, impartiamo amorosamente l’Apostolica Benedizione a ciascuno di voi, da trasmettere al gregge affidatovi.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 1 aprile 1842, anno dodicesimo del Nostro Pontificato.

DOMENICA DI PASSIONE I. (2021)

DOMENICA DI PASSIONE I (2021)

Stazione a S. Pietro;

Semidoppio, Dom. privit. di I cl. • Paramenti violacei.

« Noi non ignoriamo, dice S. Leone, che il mistero pasquale occupa il primo posto fra tutte le solennità religiose. Durante tutto l’anno, col cercare di migliorarci sempre più, noi ci disponiamo a celebrare questa solennità in maniera degna e conveniente, ma questi ultimi e grandissimi giorni esigono ancor più la nostra devozione, poiché sappiamo che essi sono vicinissimi al giorno in cui celebriamo « il mistero cosi sublime della misericordia divina » (II Notturno). Questo mistero è quello della Passione del Salvatore di cui è ormai prossimo l’anniversario. Pontefice e mediatore del Nuovo Testamento, Gesù salirà ben presto sulla Croce e presenterà al Padre, il sangue, che Egli verserà entrando nel vero Sancta Sanctorum che è il Cielo (Ep.). « Ecco, canta la Chiesa, brilla il mistero della Croce, dove la Vita ha subito la morte e con la Sua morte ci ha reso la vita » (Inno dei Vespri). E l’Eucaristia è frutto dell’amore immenso di un Dio per gli uomini, poiché istituendola, Gesù ha detto: « Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi. Questo è il calice della nuova alleanza nel sangue mio. Fate questo in memoria di me » (Com.). Cosa fecero gli uomini in risposta a tutte queste bontà divine? « I suoi non lo ricevettero » dice S. Giovanni, parlando dell’accoglienza fatta a Gesù dai Giudei: » Gli fu reso il male per il bene » (4 Ant. della Laudi) e gli furono riservati solamente gli oltraggi « Voi mi disonorate » dirà loro Gesù ». Il Vangelo ci mostra in fatti l’odio sempre crescente del Sinedrio,  Abramo, [Dopo la festa dei Tabernacoli che ebbe luogo il terzo anno del suo ministero pubblico, Gesù pronunciò nel Tempio le parole del Vangelo d’oggi. Una parte dell’atrio era stata trasformata in deposito Perché il Tempio non era ancora interamente ricostruito. I Giudei vi raccolsero delle pietre per lapidare Gesù che si nascose ai loro sguardi, la sua ora non essendo ancora venuta.] il padre del popolo di Dio, aveva fermamente creduto alle promesse divine che gli annunciavano Cristo futuro e nel Limbo la sua anima che, avendo avuto fede in Gesù, non è stata colpita da morte eterna, si è rallegrata nel vedere il realizzarsi di queste promesse, con la venuta del Salvatore. I Giudei che avrebbero dovuto riconoscere in Gesù il Figlio di Dio, più grande di Abramo e dei profeti perché  eterno, misconobbero il senso delle sue parole e, dopo averlo insultato trattandolo da invaso dal demonio e bestemmiatore, lo vollero lapidare (Vang.). « Non temere davanti ad essi, gli dice Dio in persona di Geremia, poiché io farò che tu non tema i loro volti. Poiché oggi Io ti ho reso come una città fortificata, come una colonna di ferro, come un muro di bronzo contro i re di Giuda, i suoi principi, i suoi sacerdoti ed il suo popolo. Essi combatteranno contro te, ma non prevarranno: perché io sono con te, dice il Signore, per liberarti (I Notturno). « Io non cerco la mia gloria, dice Gesù; vi è qualcuno che la cerca e giudica» (Vang.). E per bocca del salmista, Egli continua: « Giudicami, Signore, e discerni la mia causa da quella della gente empia: liberami dall’uomo iniquo ed ingannatore». Questo popolo «bugiardo» (Vang.) afferma Gesù, è il popolo Giudeo. « Liberami dai miei nemici, continua il Salmista; mi strapperai dalle mani dell’uomo iniquo » (Grad.). « Il Signore è giusto. Egli decapiterà i peccatori » (Tratto). Dio infatti, non permise agli uomini di mettere la mano su Gesù prima che la sua ora fosse giunta (Vang.) e quando l’ora dell’immolazione fu suonata, Egli strappò il Suo figlio dalle mani dei malvagi, risuscitandolo. Questa morte e questa resurrezione erano state annunciate dai Profeti ed Isacco ne era stato il simbolo, allorché, mentre per ordine di Dio, stava per essere immolato da Abramo, suo padre, fu salvato da Dio stesso e sostituito da un ariete, che rappresentava l’Agnello di Dio sacrificato per il genere umano (v. p. 288). Gesù doveva dunque nel Suo primo avvento essere umiliato e soffrire; soltanto dopo Egli apparirà in tutta la Sua potenza: ma i Giudei, accecati dalle passioni, non ammisero che una sola venuta: quella che deve prodursi nella gloria e, scandalizzati dalla Croce di Gesù, lo respinsero. Per questo motivo, Dio li respinse a sua volta, mentre accolse con benevolenza coloro che hanno poste le loro speranze nella redenzione di Gesù, ed uniscono le loro sofferenze alle Sue. « Giustamente e per ispirazione dello Spirito Santo, dice S. Leone, i SS. Apostoli hanno ordinato digiuni più austeri durante questi giorni; affinché, con una comune partecipazione alla Croce di Cristo, noi pure facciamo qualche cosa che ci unisca a quello che Egli ha fatto per noi. Come dice l’Apostolo S. Paolo: « Se soffriamo con Lui, saremo anche glorificati con Lui ». Certa e sicura è l’attesa della promessa beatitudine là dove vi è partecipazione alla passione del Signore (IV Lezione). — La Stazione si tiene nella Basilica di S. Pietro, innalzata sull’area dove prima sorgeva il Circo di Nerone, dove il Principe degli Apostoli morì, come il suo Maestro, sopra una Croce. – In ricordo della Passione di Gesù, di cui si avvicina l’anniversario, pensiamo che, per risentirne gli effetti benefici, bisogna, come il Divin Maestro, saper soffrire persecuzioni per la giustizia, E quando, membri della «famiglia di Dio », siamo perseguitati con e come Gesù Cristo, chiediamo a Dio che « custodisca i nostri corpi e le nostre anime » (Or.).

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, Comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

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Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLII: 1-2.

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea.

[Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Ps XLII:3

Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me de duxérunt et adduxérunt in montem sanctum tuum et in tabernácula tua.

[Manda la tua luce e la tua verità: esse mi guídino al tuo santo monte e ai tuoi tabernàcoli.]

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea.

[Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, familiam tuam propítius réspice: ut, te largiénte, regátur in córpore; et, te servánte, custodiátur in mente.

[Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, guarda propízio alla tua famiglia, affinché per bontà tua sia ben guidata quanto al corpo, e per grazia tua sia ben custodita quanto all’ànima.]

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebræos.

Hebr IX: 11-15

Fatres: Christus assístens Pontifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum, et cinis vítulæ aspérsus, inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ideo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

“Fratelli: Cristo, essendo venuto come pontefice dei beni futuri, attraverso un tabernacolo più grande e più perfetto, non fatto da mano d’uomo, cioè non appartenente a questo mondo creato, e mediante non il sangue di capri e di vitelli, ma mediante il proprio sangue, entrò una volta per sempre nel santuario, avendo procurato una redenzione eterna. Poiché se il sangue dei capri e dei tori e l’aspersione con cenere di giovenca santifica gli immondi rispetto alla mondezza della carne, quanto più il sangue di Cristo, il quale, mediante lo Spirito Santo, ha offerto se stesso immacolato a Dio, monderà la nostra coscienza dalle opere morte, perché serviamo al Dio vivente? E per questo Egli è il mediatore del nuovo testamento, affinché, essendo intervenuta la sua morte a redimere dalle trasgressioni commesse sotto il primo testamento, quelli che sono stati chiamati conseguono l’eterna eredità loro promessa, in Gesù Cristo Signor nostro”. (Ebr. IX, 11-15).

Ci avviciniamo ai grandi misteri della Settimana Santa. La Passione di N. S. Gesù Cristo e la nostra Redenzione — la Redenzione nostra per mezzo della Passione sua — mistero centrale della nostra fede. Il valore del sacrificio di N. S. per noi ce lo illumina S. Paolo nel passo dell’Epistola agli Ebrei che oggi la Chiesa ci fa leggere. Sono poche parole, misurate, contate, direbbe Dante, ciascuna delle quali ha il suo peso e merita la sua attenzione. Eccovele nel loro contesto. Se il sangue degli animali (nella vecchia Legge, nell’economia religiosa ch’essa rappresentava) santifica quelli che sono macchiati d’una purificazione carnale, quanto più non monderà la nostra coscienza il Sangue di Gesù Cristo, che per lo Spirito Santo offrì se stesso immacolato a Dio. Offrì Gesù se stesso. Il Suo fu un sacrificio volontario. Gesù ha voluto soffrire, ha voluto fare la volontà del Padre, fino alla morte; a costo della morte. Nessuno lo costrinse. Volle. Il profumo d’ogni nostro sacrificio, qualunque  esso sia, per qualunque causa (buona, s’intende) sia fatto, è nella sua spontaneità. La bellezza di questo fiore che si chiama il sacrificio è in questa sua freschezza di volontà. « Oblatus est quia ipse votuit: » le parole profetiche di Gesù meravigliosamente si adempiono. Il Vangelo sottolinea questa bella libertà in Gesù, nei momenti in cui le apparenze di una violenza usatagli sono più accentuate: quando gli sgherri credono di essere venuti nel Getzemani a prenderlo di viva forza, quando Pilato crede di avere lui nella sua mano onnipotente di funzionario dell’Impero, la vita di Gesù. Libertà intiera, completa, profonda. E offrì se stesso. Ah fratelli miei! che differenza dai redentori o salvatori umani! e che rilievo ne ridonda per questo Salvatore Divino! Quanto è facile e frequente immolare gli altri: pagare con moneta altrui, versare l’altrui sangue! – Gesù ha versato il suo ed ha ardentemente desiderato si spargesse questo solo. Lo ha versato tutto. Il Suo sacrificio è stato un olocausto, senza riserva. La generosità della spontaneità si compie colla generosità, starei per dire, quantitativa del dono. Dà sempre molto chi dà tutto. E offrì se stesso immacolato. Senza macchia. Le vittime, simboliche, del V. T. vittime materiali dovevano essere materialmente così: pure senza macchia, senza macchia l’agnello senza difetto il bove. Gesù non ebbe peccati suoi da espiare; ed ecco perché ha potuto così largamente espiare i peccati altrui. Le sofferenze, anche del peccatore sono sante, sono, a lor modo, belle. Ma quel sacrifizio sa di espiazione personale. È una giustizia, non una generosità. Il martire delle cause più alte doveva essere purissimo, lo fu. Gesù è l’agnello immacolato. Ci ha tenuto in modo particolare. « Chi di voi potrà convincermi di colpa? » ha detto, ha gridato ai suoi avversari. E offrì, liberamente se stesso (generoso olocausto) immacolato a Dio per « Spiritum sanctum ». A Dio. La causa che Gesù è venuto a difendere, che ha difeso da buon soldato col valore e la morte, colla predicazione, la passione, col Vangelo, con la Croce, è la causa di Dio, la causa religiosa. Perché sulle rovine degli Dei falsi e bugiardi regnasse il Dio vero e vivo, perché sulle rovine della Sinagoga sorgesse la grande, universale Chiesa, per questo che significava la maggior gloria di Dio, la maggiore, la vera felicità del genere umano. Egli è caduto martire, Egli si è offerto vittima del più grande sacrificio del mondo.

 [G. Semeria: Le Epistole delle Domeniche O. N. M.- d’I. Roma-Milano, 1939 – nihil obs. P. De Ambrogi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Cur. Arch.]

Graduale

Ps CXLII: 9, 10

Eripe me, Dómine, de inimícis meis: doce me fácere voluntátem tuam

[Liberami dai nemici, o Sognore: insegnami a fare la tua volontà]

Ps XVII: 48-49

Liberátor meus, Dómine, de géntibus iracúndis: ab insurgéntibus in me exaltábis me: a viro iníquo erípies me.

[Mi libererai dai nemici accaniti, o Signore: e mi eleverai sopra di quelli che si volgono contro di me: mi libererai dall’uomo iniquo]

Tractus

Ps CXXVIII: 1-4

Sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

[Mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Dicat nunc Israël: sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

[Lo dica Israele: mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Etenim non potuérunt mihi: supra dorsum meum fabricavérunt peccatóres.

[Ma non mi hanno vinto: i peccatori hanno fabbricato sopra le mie spalle.]

V. Prolongavérunt iniquitátes suas: Dóminus justus cóncidit cervíces peccatórum.

[Per lungo tempo mi hanno angariato: ma il Signore giusto schiaccerà i peccatori.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VIII: 46-59

“In illo témpore: Dicébat Jesus turbis Judæórum: Quis ex vobis árguet me de peccáto? Si veritátem dico vobis, quare non créditis mihi? Qui ex Deo est, verba Dei audit. Proptérea vos non audítis, quia ex Deo non estis. Respondérunt ergo Judæi et dixérunt ei: Nonne bene dícimus nos, quia Samaritánus es tu, et dæmónium habes? Respóndit Jesus: Ego dæmónium non hábeo, sed honorífico Patrem meum, et vos inhonorástis me. Ego autem non quæro glóriam meam: est, qui quærat et jdicet. Amen, amen, dico vobis: si quis sermónem meum serváverit, mortem non vidébit in ætérnum. Dixérunt ergo Judaei: Nunc cognóvimus, quia dæmónium habes. Abraham mórtuus est et Prophétæ; et tu dicis: Si quis sermónem meum serváverit, non gustábit mortem in ætérnum. Numquid tu major es patre nostro Abraham, qui mórtuus est? et Prophétæ mórtui sunt. Quem teípsum facis? Respóndit Jesus: Si ego glorífico meípsum, glória mea nihil est: est Pater meus, qui gloríficat me, quem vos dícitis, quia Deus vester est, et non cognovístis eum: ego autem novi eum: et si díxero, quia non scio eum, ero símilis vobis, mendax. Sed scio eum et sermónem ejus servo. Abraham pater vester exsultávit, ut vidéret diem meum: vidit, et gavísus est. Dixérunt ergo Judaei ad eum: Quinquagínta annos nondum habes, et Abraham vidísti? Dixit eis Jesus: Amen, amen, dico vobis, antequam Abraham fíeret, ego sum. Tulérunt ergo lápides, ut jácerent in eum: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo.” Laus tibi, Christe!

[“In quel tempo disse Gesù alla turbe dei Giudei ed ai principi dei Sacerdoti: Chi di voi mi convincerà di peccato. Se vi dico la verità, per qual cagione non mi credete? Chi è da Dio, le parole di Dio ascolta. Voi per questo non le ascoltate, perché non siete da Dio. Gli risposero però i Giudei, e dissero: Non diciamo noi con ragione, che sei un Samaritano e un indemoniato? Rispose Gesù: Io non sono un indemoniato, ma onoro il Padre mio, e voi mi avete vituperato. Ma io non mi prendo pensiero della mia gloria; vi ha chi cura ne prende, e faranno vendetta. In verità, in verità vi dico: Chi custodirà i miei insegnamenti, non vedrà morte in eterno. Gli dissero pertanto i Giudei: Adesso riconosciamo che tu sei un indemoniato. Abramo morì, e i profeti; e tu dici: Chi custodirà i miei insegnamenti, non gusterà morte in eterno. Sei tu forse da più del padre nostro Abramo, il quale morì? e i profeti morirono. Chi pretendi tu di essere? Rispose Gesù: Se io glorifico me stesso, la mia gloria è un niente; è il Padre mio quello che mi glorifica, il quale voi dite che è vostro Dio. Ma non l’avete conosciuto: io sì, che lo conosco; e se dicessi che non lo conosco, sarei bugiardo come voi! Ma io conosco, o osservo le sue parole. Abramo, il padre vostro, sospirò di vedere questo mio giorno: lo vide, e ne tripudiò. Gli dissero però i Giudei: Tu non hai ancora cinquant’anni, e hai veduto Abramo? Disse loro Gesù: In verità, in verità vi dico: prima che fosse fatto Abramo, io sono. Diedero perciò di piglio a de’ sassi per tirarglieli: ma Gesù si nascose, e uscì dal tempio” (Jo. VIII, 46 59)].

Omelia

[Discorsi di San G. B. M. VIANNEY CURATO D’ARS . VOL. II, IV ed. Torino-Roma, C. ed. Marietti, 1933]

Sulla Contrizione.

Vaæ mihi, quia peccavi nimis in vita mea.

Guai a me, perché ho peccato molto nella vita mia.

 (Dalle Confes. de S. Agostino, lib. II, c. 10.)

Questo era, fratelli miei, il linguaggio di San Agostino quando ricordava gli anni della sua vita, durante i quali era sprofondato con tanto furore nelle vita infame dell’impurità. « Ah! Guai a me perché ho peccato molto nei giorni della vita mia! » Ed ogni volta che gli veniva questo pensiero, si sentiva il cuore lacerato e distrutto dal rimpianto. « O DIO mio! – esclamava – una vita passata senza amarvi! O DIO mio, quanti anni perduti! Ah! Signore, degnatevi, vi scongiuro di non ricordarvi più delle mie colpe passate! » Ah! lacrime preziose, ah! rimorsi salutari che d’un gran peccatore, hanno fatto un grande santo. Oh! Un cuore distrutto dal dolore ha riguadagnato ben presto l’amicizia del suo DIO! Ah! piacque a Dio che ogni qualvolta rimettiamo i nostri peccati davanti agli occhi, noi possiamo dire, come con lo stesso rimorso di San Agostino: Ah! Guai a me perché ho molto peccato durante gli anni della mia vita! DIO mio, usatemi misericordia! Oh! Le nostre lacrime subito coleranno e la nostra vita non sembrerà più la stessa! Sì, fratelli miei, conveniamo tutti, quanti siamo, con dolore e sincerità, che siamo dei criminali degni di portare tutta la collera di un DIO giustamente irritato dai nostri peccati, che forse sono più numerosi dei capelli della nostra testa. Ma benediciamo sempre la misericordia di DIO che ci apre nei suoi tesori una risorsa ai nostri malanni! Sì, fratelli miei, benché grandi siano i nostri peccati, occorre che il nostro rimorso racchiuda quattro qualità: 1° bisogna che il peccatore odi e detesti sinceramente i suoi peccati con la contrizione; 2° che abbia concepito un fermo proposito di non ricadervi più; 3° che ne faccia un’umile dichiarazione al ministro del Signore; e 4° che ripari, per quanto può, l’ingiuria fatta a DIO ed il torto al prossimo.

I. Per farvi comprendere ciò che è la contrizione, cioè il dolore che dobbiamo avere dei nostri peccati, bisognerebbe poter farvi conoscere, da un lato, l’orrore che ne ha DIO ha in se stesso, i tormenti che ha sofferto per noi per ottenerne il perdono presso il Padre; e dall’altra i beni che perdiamo peccando ed i mali che ci attiriamo per l’altra vita, e questo non sarà mai dato all’uomo comprenderlo. Dove devo condurvi, fratelli miei, per farvelo comprendere? Forse in fondo al deserto, dove grandi santi vi hanno passato venti, trenta, quaranta, cinquanta ed anche ottanta anni a piangere delle colpe che secondo il mondo non sono colpe? Ah! No, no, il vostro cuore non sarebbe ancora toccato. Forse alla porta dell’inferno per ascoltare le grida, le urla ed i digrignamenti dei denti causati dal solo rimorso del loro peccato? Ah! dolore amaro, ma dolore e rimorso infruttuoso ed inutile! Ah! No, fratelli miei, non è ancor là ove imparerete a piangere i vostri peccati con il dolore ed il rimorso che dovete averne! Ah! Ma è ai piedi di questa croce ancora tinta del sangue prezioso di un DIO che non lo ha sparso se non per cancellare i nostri peccati. Ah! se mi fosse permesso di condurvi in questo giardino di dolori dove un DIO uguale a suo Padre piange i nostri peccati, non con lacrime ordinarie, ma con tutto il suo sangue che imporpora tutti i pori del suo corpo, ed ove il suo dolore fu sì violento da gettarlo in una agonia che sembra togliergli la vita e distruggergli il cuore. Ah! se potessi condurvi alla sua sequela, mostrarlo caricato della sua croce nelle vie di Gerusalemme: tanti passi, altrettante cadute, e tante volte rialzato a pedate! Ah! se potessi farvi avvicinare a questo Calvario dove un DIO muore piangendo i nostri peccati! Ah! diremmo ancora: bisognerebbe che DIO ci donasse questo amore ardente del quale aveva infiammato il cuore del grande Bernardo al quale la sola vista della croce faceva versare lacrime con tanta abbondanza! Ah! bella e preziosa contrizione! Felice è colui che la possiede! Ma a chi sto per parlarne, chi è colui che la racchiude nel suo cuore? Ahimè! Io non lo so! Sarebbe a questo peccatore indurito che forse da venticinque, trenta anni, ha abbandonato il suo DIO e la sua anima. Ah! no, no, sarebbe fare come chi vorrebbe ammorbidire una roccia gettandovi sopra acqua, mentre non farebbe che indurirla ancor più. Sarebbe a questo Cristiano che ha disprezzato missioni, ritiri e giubilei e tutte le istruzioni dei suoi pastori? Ah! no, no, sarebbe come voler riscaldare dell’acqua mettendola nel ghiaccio. Sarebbe a queste persone che si contentano di fare le loro pasque continuando il loro genere di vita, che tutti gli anni hanno sempre gli stessi peccati da raccontare? Ah! no, no, queste sono delle vittime che la collera di DIO ingrassa per servire da alimenti alle fiamme eterne. Ah! diciamo meglio, essi sono simili a criminali che hanno gli occhi bendati e che, aspettando di essere giustiziati, si danno a tutto ciò che il loro cuore corrotto può desiderare. Sarebbe ancora a questi Cristiani che si confessano ogni tre settimane od ogni mese, e che ogni giorno ricadono? Ah! no, questi sono dei ciechi che non sanno né quel che fanno, né ciò che devono fare. A chi dunque potrei indirizzare la parola? Ahimè, io non saprei … o DIO  mio! dove bisogna andare per trovarla, a chi farla domandare? Ah! Signore, io so essa da dove viene e chi la dà; essa viene dal cielo e siete Voi che la date. O mio DIO! Dateci, se vi piace, questa contrizione che distrugge e divora i nostri cuori. Ah! questa bella contrizione che disarma la giustizia di DIO, che… eternità dannata in una eternità felice! Ah! Signore, non rifiutateci questa contrizione che ci rende prontamente l’amicizia di DIO! Ah! bella virtù, quanto sei necessaria, ma come sei rara! Tuttavia, senza di essa, non c’è perdono, senza di essa, non c’è il cielo; diciamo di più, senza di essa, per noi tutto è perduto, penitenze, carità, elemosine e tutto ciò che possiamo fare. Ma pensate in voi stessi, cosa vuol dire tutto questo, cos’è questa parola “contrizione”, e se forse necessita il conoscere se la si abbia? – Amico mio, desiderate saperlo? Eccolo. Ascoltatemi un momento: andate a vedere se l’avete oppure no, ed in seguito il mezzo per averla. Entriamo in un semplice dettaglio: se voi mi chiedete: che cos’è la contrizione? Io vi direi che è un dolore dell’anima ed un detestare i peccati commessi con una risoluzione ferma di non ricadervi più. Sì, fratelli miei, questa disposizione è la più necessaria di tutte quelle che DIO domanda onde perdonare il peccato; non solo essa è necessaria, ma aggiungo ancora che  nulla può dispensarcene. Una malattia che ci toglie l’uso della parola può dispensarci dalla Confessione, una morte rapida può dispensarci dalla soddisfazione, almeno in questa vita; ma non è lo stesso per la contrizione; senza di essa è impossibile, assolutamente impossibile ottenere il perdono dei propri peccati. Sì, fratelli miei, noi possiamo dire gemendo che è questo difetto di contrizione che è la causa di un numero infinito di Confessioni e Comunioni sacrileghe; ma ciò che ancora è più deplorevole e che non ce ne si accorge quasi mai, e che si vive e si muore in questo miserevole stato. Sì, fratelli miei, nulla di più facile da comprendere. Se abbiamo avuto la sventura di cadere in peccato nelle nostre confessioni, questo crimine è continuamente davanti agli occhi come un mostro che sembra divorarci, cosa che fa che sia ben raro che ce ne scarichiamo una volta o l’altra. Ma per la contrizione, non è lo stesso; noi ci confessiamo, il nostro cuore non è per niente nell’accusa che facciamo dei nostri peccati, riceviamo l’assoluzione, ci avviciniamo alla santa mensa con un cuore freddo, ben insensibile, indifferente come se venissimo a fare la recita di una storia; andiamo di giorno in giorno, di anno in anno, infine arriviamo alla morte e crediamo di aver fatto un qualche bene; noi non troviamo e non vediamo che crimini ed i sacrilegi che le nostre Confessioni hanno partorito. O DIO mio! Quante cattive Confessioni per difetto di contrizione! O DIO mio, quanti Cristiani che nell’ora della morte non trovano che confessioni indegne. Ma non andiamo oltre, temo di turbarvi; io dico turbarvi. Ah! È ben al presente che bisognerebbe portarvi a due dita di disperazione affinché, colpiti dal Vostro stato, possiate ripararlo senza aspettare il momento in cui lo conoscerete senza poter riparare. Ma veniamo, fratelli miei, alla spiegazione e vedrete se, ogni qual volta vi siete confessati, avete avuto il dolore necessario, assolutamente necessario per avere la speranza che i vostri peccati siano perdonati. Io dico 1° la contrizione è un dolore dell’anima. Bisogna necessariamente che il peccatore pianga i suoi peccati o in questo mondo o nell’altro. In questo mondo voi potete cancellarli con il rimorso che ne sentite, ma non nell’altro. O quanti di noi dovremo essere riconoscenti alla bontà di DIO di questo! In luogo dei rimorsi eterni e dei dolori i più laceranti che meritiamo di soffrire nell’altra vita, cioè nell’inferno, DIO si contenta solamente che i nostri cuori siano toccati da un vero dolore, seguito poi da una gioia eterna! O DIO mio! Voi vi contentate di ben poca cosa!

1° io dico che questo dolore deve avere quattro qualità, se ne manca una sola, noi non possiamo ottenere il perdono dei nostri peccati. La sua prima qualità: deve essere interiore, cioè venire da profondo del cuore. Essa non consiste dunque nelle lacrime, anche se esse sono buone ed utili, è vero; ma non sono necessarie. In effetti, quando San Paolo ed il buon ladrone si sono convertiti, non è detto che essi abbiano pianto, ed il loro dolore è stato sincero. No. fratelli miei, non è sulle lacrime che bisogna contare: esse sono spesso ingannevoli, molte persone piangono nel tribunale della penitenza e poi ricadono alla prima occasione. Ma il dolore che DIO richiede da noi eccolo! Ascoltate ciò che dice il Profeta Gioele: « Avete il dolore del peccato? Ah! figli miei, distruggete e lacerate il vostro cuore con i rimorsi! » – « Se avete perso il Signore con i vostri peccati, ci dice Mosè, cercatelo con tutto il vostro cuore nell’afflizione e nell’amarezza del vostro cuore. » Perché, fratelli miei, DIO vuole che il nostro cuore si penta? Non è il cuore nostro che ha peccato: è dal nostro cuore, dice il Signore, che sono nati tutti questi cattivi pensieri, questi desideri cattivi; bisogna dunque che assolutamente che se il nostro cuore ha fatto il male, si penta, altrimenti DIO non ci perdonerà mai.

2° Io dico che bisogna che il dolore che dobbiamo sentire per i nostri peccati sia soprannaturale, cioè che sia lo Spirito Santo che lo ecciti in noi, e non delle cause naturali. Distinguo: essere afflitti per aver commesso un tal peccato perché ci esclude dal Paradiso e merita l’inferno; questi motivi sono sovrannaturali, è lo Spirito Santo che ne è l’autore; questo può condurci ad una vera contrizione. Ma affliggersi a causa della vergogna che il peccato necessariamente genera in sé, come i mali che esso ci attira, come la vergogna di una fanciulla che ha perso la sua reputazione, o di un’altra persona che è stata sorpresa a derubare il suo vicino; tutto questo non è che un dolore puramente naturale che non ci merita il perdono. Da qui è facile concepire che il dolore dei nostri peccati, il pentimento dei nostri peccati, possono venire o dall’amore che abbiamo per Dio, o dal timore dei castighi. Colui che nel suo pentimento non considera che DIO, ha una contrizione perfetta, condizione così eminente da purificare il peccatore da se stessa ancor prima di aver ricevuto la grazia dell’assoluzione, qualora sia nella disposizione di riceverla appena può. Ma per colui che non ha il pentimento dei propri peccati se non per i castighi che i suoi peccati gli attirano, ha solo una contrizione imperfetta che non lo giustifica, ma solo lo dispone a ricevere la sua giustificazione nel Sacramento della Penitenza.

Terza condizione della contrizione: essa deve essere sovrana, vale a dire la più grande di tutti i dolori, più grande, direi, di quella che noi proviamo alla perdita dei nostri genitori e della nostra salute, e generalmente di tutto ciò che abbiamo di più caro al mondo. Se dopo aver peccato, non avete questo intenso rimorso, tremate per le vostre confessioni. Ahimè! Quante volte per la Perdita di un oggetto di nove o dieci soldi, si piange, ci si tormenta tanti giorni, fino a non voler mangiare … Ahimè, e per i peccati, e spesso per peccati mortali non si verserà né una lacrima né si emetterà un sospiro. O DIO mio, l’uomo conosce poco quel che fa peccando! – Ma perché, direte, il nostro dolore deve essere così grande? – Amico mio, eccone il motivo: essa deve essere proporzionata alla grandezza della perdita che noi attuiamo ed alla rovina in cui ci conduce il peccato. Pertanto, giudicate quale deve essere il dolore, dal momento che il peccato ci fa perdere il cielo con tutte le sue dolcezza. Ah! Cosa dico? Ci fa perdere il nostro DIO con tutte le sue amicizie e ci precipita nell’inferno che è la più grande di tutte le sventure! Ma voi pensate, come si può dunque riconoscere se questa contrizione vera sia in noi? È cosa molto facile. Se veramente l’avete, voi non agirete, non penserete come in precedenza, essa avrà cambiato totalmente la vostra maniera di vivere: odierete ciò che avete amato, ed amerete ciò che avete fuggito e disprezzato; vale a dire voi avete confessato di avere avuto dell’orgoglio nelle vostre azioni e nelle vostre parole, bisogna ora che facciate comparire in voi una bontà, una carità per tutti. Non occorre che siate voi a giudicare se avete fatto una buona Confessione, perché potreste facilmente ingannarvi; ma occorre che le persone che vi hanno visto o inteso prima della vostra confessione, possano dire: non è più lo stesso; è avvenuto in lui un grande cambiamento. Ahimè! DIO mio! Dove sono queste confessioni che operano questo bene così grande? Oh! Quanto sono rare; ma lo sono pure quelle che sono fatte con tutte le disposizioni che DIO richiede! Confessiamolo, fratelli miei, a nostra confusione, che se sembriamo così poco toccati, questo non può che venire che dalla nostra poca fede e dal nostro poco amore che abbiamo per DIO. Ah! se abbiamo la fortuna di comprendere quanto DIO sia buono e quanto il peccato sia enorme, e quanto nera è la nostra ingratitudine nell’oltraggiare un Padre così buono, ah! senza dubbio sembreremmo afflitti ben altrimenti di come non lo siamo. Ma, voi direte, io vedrò di averla, questa contrizione quando mi confesso e non posso averla. Ma è ciò che ho detto all’inizio? Non vi ho già detto che essa viene dal cielo, e che è a DIO che bisogna chiederla? Cosa hanno fatto i santi, amico mio, per meritare questa felicità di piangere i loro peccati? Essi l’hanno chiesta a Dio con il digiuno, la preghiera, con ogni tipo di penitenza e di opere buone, poiché non dovete contare affatto sulle vostre lacrime. Io vado a provarvelo: aprite i libri santi e ne sarete convinti. Vedete Antioco, quanto piange, quanto chiede misericordia, tuttavia lo Spirito Santo ci dice che piangendo, egli discese all’inferno. Vedete Giuda, egli ha concepito un sì grande dolore del suo peccato, lo piange con tale abbondanza che finisce per perdersi. Vedete Saul, egli lancia le sue gride dolenti per aver avuto la disgrazia di disprezzare il Signore, tuttavia egli è nell’inferno. Vedete Caino, le lacrime che versa dopo aver peccato, tuttavia egli brucia. Chi di noi, fratelli miei, che avrebbe visto scendere tutte le sue lacrime e pentirsi, non avrebbe creduto che il buon Dio non gli avesse perdonato; tuttavia nessuno di essi ne è perdonato; ecco che Davide invece, appena ebbe detto: « Io ho peccato; » subito il suo peccato gli fu rimesso. – E perché questo, voi direte? Perché questa differenza, i primi non furono perdonati, mentre Davide lo è? – Amico mio eccolo. È per il fatto che i primi non si pentono e non detestano i loro peccati se non a causa dei castighi e dell’infamia che il peccato produce necessariamente con sé, e non in rapporto a Dio; invece Davide pianse i suoi peccati non a causa dei castighi che il Signore stava per fargli subire, ma alla vista degli oltraggi che i suoi peccati avevano fatto a Dio. Il suo dolore fu così vivo e sincero che Dio non gli poté rifiutare il suo perdono. Avete chiesto a Dio la contrizione prima di confessarvi? Ahimè, forse non lo avete fatto mai. Ah! tremate per le vostre confessioni; ah! quanti sacrilegi, DIO mio! Quanti Cristiani dannati! 

4° Essa deve essere universale. Nella vita dei Santi è riportato, sul soggetto del dolore universale che noi dobbiamo avere dei nostri peccati, che se non li detestiamo tutti, non saranno perdonati né gli uni, né gli altri. Si riporta che San Sebastiano, stante a Roma e facendo dei miracoli i più strepitosi che riempivano di ammirazione, il governatore Cromo che, in questo tempo era gravato da infermità, desiderò ardentemente di vederlo, per chiedergli la guarigione dai suoi mali. Quando il Santo fu davanti a lui: è da molto tempo che gemo, coperto di piaghe, senza aver trovato un uomo al mondo capace di liberarmi; corre voce che voi ottenete tutto ciò che volete dal vostro DIO, se volete domandargli la mia guarigione, io vi prometto che mi farò Cristiano. Ebbene! gli dice il Santo, se voi siete in questa determinazione, io vi prometto da parte del DIO che io adoro, che è il Creatore del cielo e della terra, che dal momento che avrete distrutto tutti i vostri idoli, sarete perfettamente guarito. Il governatore gli dice: non solo io sono pronto a fare questo sacrificio, ma ancor di più se è necessario. Essendosi separati l’uno dall’altro, il governatore cominciò a distruggere i suoi idoli; l’ultimo che prese per eliminarlo, gli sembrò così rispettabile che non ebbe il coraggio di distruggerlo, e si persuase che questa riserva non impedisse la sua guarigione. Ma permanendo i suoi dolori più violenti che mai, andò a trovare il Santo facendogli i rimproveri più obbrobriosi perché, dopo aver distrutto i suoi idoli, come aveva comandato, ben lungi dal guarire, soffriva ancor di più. Ma, gli disse il Santo, li avete distrutti tutti senza riservarne alcuno? Allora egli lo prende e lo distrugge, e nello stesso istante fu guarito. Ecco, fratelli cari, un esempio che ci illumina sulla condotta di un numero pressoché infinito che si pentono di certi peccati e non di tutti e che, similmente a questo governatore, ben lungi dal guarire le piaghe che il peccato ha fatto alla loro povera anima, ne fanno di più profonde; e fintanto che non avranno fatto come lui, distrutto questo ultimo idolo, vale a dire infranto questa abitudine a certi peccati, finché non avranno lasciato questa cattiva compagnia, questo orgoglio, questo desiderio di piacere, questo attaccamento ai beni della terra, tutte le loro confessioni non faranno che aggiungere crimini su crimini, sacrilegi a sacrilegi. Ah! DIO mio, che orrore e che abominio! Ed in questo stato essi vivono tranquilli, mentre il demonio riserva loro un posto nell’inferno. Noi leggiamo nella storia un esempio che ci mostra quanto i Santi riguardassero questo dolore dei nostri peccati come necessario per ottenere il loro perdono. Essendosi un ufficiale del Papa ammalato, il Santo Padre che molto lo stimava per la sua virtù e santità, gli inviò uno dei suoi cardinali per testimoniargli il dolore che gli causava la sua malattia e nello stesso tempo applicargli le indulgenze plenarie. Ahimè, dice il morente al cardinale, riferite al Santo Padre che io gli sono infinitamente riconoscente per la tenerezza del suo cuore verso di me, ma ditegli pure che io sarei infinitamente più felice se egli volesse domandare a DIO per me la contrizione dei miei peccati. Ahimè esclamò, a cosa mi servirà tutto questo se il mio cuore non si lacera e si distrugge dal dolore di avere offeso un DIO così buono! O mio DIO! … Gridò questo povero morente, fate, se possibile, che il dolore dei miei peccati eguagli gli oltraggi che vi ho fatto! … Oh! Fratelli miei, quanto questi dolori sono rari, ed ahimè quanto rare sono le buone confessioni. Sì, fratelli miei, un Cristiano che ha peccato e che vuol ottenerne il perdono deve essere nella disposizione di soffrire le crudeltà più atroci, piuttosto che ricadere nei peccati che sta per confessare. 1° Io cerco di provarvelo con un esempio, e se, dopo esserci confessati, noi non siamo in queste disposizioni, nessun perdono … Leggiamo nella storia del quarto secolo che Sapore, imperatore dei Persiano, divenuto il più crudele nemico dei Cristiani, ordinò che tutti i sacerdoti che non adoravano il sole e non lo riconoscessero come Dio, sarebbero stati messi a morte. Il primo che fece prendere fu l’Arcivescovo di Seleucia, che era San Simone. Iniziò col provare a sedurlo con ogni tipo di promesse. Non potendo cavarne nulla, nella speranza di convincerlo, gli mostrò tutti i tormenti che la sua crudeltà aveva potuto inventare per far soffrire i Cristiani, dicendogli che se la sua ostinazione gli faceva rifiutare qual che egli comandava, l’avrebbe fatto passare per sì atroci e rigorosi tormenti onde farlo obbedire, e per di più avrebbe eliminato tutti i sacerdoti ed i Cristiani del suo regno. Ma vedendolo così fermo come una roccia in mezzo ai mari battuti dalle tempeste, lo fece condurre in prigione nella speranza che il pensiero dei tormenti che gli venivano preparati, gli avrebbero fatto cambiare sentimento. Lungo il cammino egli incontrò un vecchio eunuco che era sovrintendente del palazzo imperiale. Costui, preso da compassione nel vedere un santo Vescovo trattato tanto indegnamente, si prosternò davanti a lui per testimoniargli il rispetto per lui di cui era pieno. Ma il Vescovo, ben lungi dal sembrare sensibile alla testimonianza rispettosa di questo eunuco, si voltò dall’altra parte per rimproverargli il crimine della sua apostasia, perché un tempo egli era Cristiano e Cattolico. A questo rimprovero che non si aspettava, egli fu così sensibile, gli penetrò s’ vivamente il cuore che nello stesso istante non fu più padrone delle sue lacrime, né dei suoi singhiozzi. Il crimine della sua apostasia gli sembrò così odioso, che dismise gli abiti bianchi di cui era rivestito e ne prese dei neri, corse come un disperato a gettarsi fuori dalla porta del palazzo e là darsi a tutti i rimorsi e ad dolore più lacerante. Ah! disgraziato, cosa stai per fare? Ahimè! Quali castighi devi aspettarti da Gesù-Cristo al quale hai rinunciato, se questo è stato così sensibile al rimprovero di un Vescovo che non è che il ministro di Colui che hai così ignominiosamente tradito … Ma l’imperatore avendo appreso tutto quel che succedeva, stupefatto da questo spettacolo, gli domandò: « Qual è la causa dunque del tuo dolore e di tante lacrime? » – Ah! piuttosto a Dio, egli esclamò, che tutte le disgrazie ed i malanni del mondo mi fossero tutti addosso, piuttosto ciò che è la causa del mio dolore. Ah! io piango per il fatto che non sia morto. Ah! potrò ancora guardare il sole che ho la sventura di adorare, temendo di dispiacervi. – L’imperatore che lo amava a causa della sua fedeltà, tentò se potesse convincerlo promettendogli ogni sorta di beni e favori. – Ah! no, no, gridò; Ah! sarò molto felice se posso con la mia morte riparare agli oltraggi che ho fatto a Dio, e ritrovare il cielo che ho perduto. O DIO mio e mio Salvatore, abbiate ancora pietà di me! Ah! se almeno avessi mille vite da darvi per testimoniarvi il mio rimorso ed il mio ritorno. – L’imperatore che sentì il linguaggio che teneva, moriva di rabbia e, disperando di non poterlo convincere, lo condannò a morire tra i supplizi. Ascoltatelo, andando al supplizio: « Ah! Signore, quale felicità morire pere voi; sì, DIO mio, se ho avuto la sventura di rinunciare a voi, almeno avrò la felicità di dare la mia vita per voi. » Ah! dolore sincero, dolore possente, che gli aveva tanto prontamente riguadagnato l’amicizia del mio DIO! … Leggiamo nella vita di Santa Margherita, che ebbe un sì grande dolore di un peccato che aveva commesso in gioventù, che ne pianse tutta a vita: essendo vicino alla morte, le si domandò quale fosse il peccato che aveva commesso e le aveva fatto versare tante lacrime. « Ahimè! Esclamò ella piangendo, come non potrei io piangere! All’età di cinque o sei anni, ebbi la sventura di dire una bugia a mio padre. » Ma, le si disse, non c’era tanto di che piangere. « Ah! tenermi un simile linguaggio! Voi dunque non avete mai concepito ciò che è il peccato, l’oltraggio che si fa a DIO e i malanni che ci attira? » Ahimè, fratelli miei, cosa sarà per noi, se tanti Santi hanno fatto sentire i loro gemiti alle rocce ed ai deserti, hanno formato per così dire dei fiumi con le loro lacrime per peccati di cui noi ci facciamo gioco, mentre noi abbiamo commesso dei peccati mortali forse più numerosi dei capelli della nostra testa. E non una lacrima di dolore e pentimento! Ah! triste accecamento a cui ci hanno condotto i nostri peccati. – Noi leggiamo nella vita dei Padri del deserto, che un ladro chiamato Gionata, perseguito dalla giustizia, corse a nascondersi nei pressi della colonna di San Simeone Stilita, sperando che il rispetto che si teneva per il santo, gli garantisse lo sfuggire alla morte. In effetti nessuno osò toccarlo; essendosi il Santo posto in preghiera per chiedere a Dio la sua conversione, nel momento stesso, risentì di un dolore sì vivo dei suoi peccati che per giorni e notti non fece che piangere. Il Santo gli disse: « Amico mio, tornate nel mondo a ricominciare con i vostri disordini. » – Ah! DIO mi preservi da questo malanno; io vi domando che fare per andarmene in cielo; io ho visto Gesù Cristo che mi ha detto che tutti i miei peccati mi erano perdonati dal gran dolore che ne ho sentito. – « Andate, figlio mio, gli dice il Santo; andate a cantare nel cielo le grandi misericordie di Dio per voi. » In questo momento egli cade morto, ed il Santo riporta egli stesso che vide Gesù-Cristo che conduceva la sua anima al cielo. O morte bella e preziosa, il morire con il dolore di avere offeso DIO! Ah! se almeno noi non moriamo di dolore come questi grandi penitenti, vogliamo fratelli miei, eccitarci ad una vera contrizione, imitiamo questa santo Vescovo morto ultimamente, che ogni volta che si presentava al tribunale delle penitenza per avere un vivo dolore dei propri peccati, faceva tre stazioni. La prima in inferno, la seconda in cielo, la terza sul Calvario. Dapprima portava il suo pensiero in questi luoghi di orrore e di tormento, e figurava di vedere i dannati che vomitavano torrenti di fiamme dalla bocca, che urlavano divorandosi gli uni con gli altri; questo pensiero gli ghiacciava il sangue nelle vene, e credeva di non poter più vivere alla vista di un tale spettacolo, soprattutto considerando che i suoi peccati avevano varie volte meritato questi supplizi. Da qui il suo spirito si portava nel cielo e faceva la rivista di tutti questi troni di gloria sui quali erano seduti i beati, e si rappresentava le lacrime che essi avevano sparso e le penitenze che avevano fatto durante la loro vita per peccati così leggeri e che egli stesso aveva commesso tante volte senza far nulla per espiarli, cosa che faceva piombare in una tristezza così profonda che sembrava che le sue lacrime non potevano asciugarsi. Non contento di tutto ciò dirigeva i suoi passi sul luogo del Calvario e là, man mano che i suoi sguardi si avvicinavano alla croce, ove un DIO era morte per lui, le forze gli mancavano, restava immobile alla vista delle sofferenze che i suoi peccati avevano causato al suo DIO. In ogni istante lo si sentiva ripetere queste parole con dei singhiozzi: « DIO mio, DIO mio, posso mai vivere ancora considerando gli orrori che i miei peccati vi hanno causato? » Ecco, fratelli miei, ciò che possiamo chiamare una vera contrizione, perché vediamo che egli non considerava i suoi peccati che in rapporto a DIO.

II. — Abbiamo detto che una vera contrizione deve racchiudere un buon proposito, cioè una ferma risoluzione di non peccare più per l’avvenire; occorre che la nostra volontà sia determinata e non ci sia il benché minimo desiderio di non correggersi; non si otterrà mai il perdono dei propri peccati se non vi si rinunzia con tutto il cuore. Noi dobbiamo essere nello stesso sentimento del santo Re-Profeta: « sì, DIO mio, io vi ho promesso di essere fedele nell’osservare i vostri comandamenti: e vi sarò fedele con il soccorso della vostra grazia. » Il Signore stesso ci dice: « Che l’empio lasci la via delle sue iniquità ed il suo peccato gli sarà rimesso. » Non c’è da sperare misericordia che per colui solo che rinunci ai suoi peccati di tutto cuore e per sempre, perché DIO non ci perdona fintanto ché il nostro pentimento non sia sincero e facciamo tutti gli sforzi per non ricadervi. Sarebbe infatti beffarsi di DIO il domandargli perdono per un peccato che ancora si vorrebbe commettere.  – Ma, voi mi direte, come si può distinguere un fermo proposito da un desiderio debole ed insufficiente? Se desiderate saperlo, fratelli miei, ascoltatemi un istante e vado a dimostrarvelo: questo si può conoscere in tre maniere: 1° il cambiamento di vita; 2° la fuga dalle occasioni prossime del peccato, e 3° il lavorare con tutto ciò che si può per correggere e distruggere le proprie cattive abitudini. Dico innanzitutto che il primo risultato di un buon proposito, è il cambiamento della vita; è questo che ce lo mostra con maggior sicurezza ed è meno soggetto ad ingannarci. Veniamo ad una spiegazione: una madre di famiglia si accuserà di essersi spesso rivoltata contro i suoi figli o suo marito; dopo la sua confessione, andate a visitarla all’interno del suo focolare domestico: non c’è più traccia di ribellione, né di maledizioni; al contrario vedete in ella questa dolcezza, questa bontà, il darsi pensiero anche per i propri inferiori; le croci, i dispiaceri e le perdite non le fanno perdere la pace dell’anima. E sapete perché ciò, fratelli miei? Eccolo: perché il suo ritorno a Dio è stato sincero, la sua contrizione perfetta e di conseguenza ella ha ricevuto veramente il perdono dei suoi peccati; infine, la grazia ha preso delle radici profonde nel suo cuore ed ella ne trae frutti in abbondanza una giovane donna verrà ad accusarsi di aver seguito i piaceri del mondo, le danze, le veglie serali ed altre cattive compagnie. Dopo la sua confessione, se questa è ben fatta, andate a cercarla in questa serata, a richiederla in queste occasioni di piacere e che cosa vi si dirà? « Da un po’ di tempo non la vediamo più; io credo che se volete trovarla. Bisogna andare in chiesa, o a casa dei genitori. » In effetti, se andate dai suoi genitori, la troverete e di cosa si occupa? Parlare di vanità come un tempo o a rimirarsi davanti ad uno specchio, o a folleggiare con altri giovani? Ah! No! Fratelli miei, non sono più qui il suo operato, ella ha calpestato tutto ciò; voi la vedrete fare una lettura di pietà, aiutare sua madre nella conduzione delle faccende di casa, istruire i suoi fratelli e sorelle verso l’obbedienza e la premura verso i genitori; ella amerà la loro compagnia. Se non la trovate a casa, allora è in chiesa, la vedrete testimoniare a DIO la sua riconoscenza per aver operato in ella un sì gran cambiamento: vedrete in ella quella modestia, questo ritiro, questa premura per tutti, sia per i poveri che per i ricchi; la modestia si dipinge sulla sua fronte, la sola sua presenza vi porta a DIO. E perché questo, fratelli miei – mi direte – tanti beni vi sono in ella? Perché, fratelli miei, il suo dolore è stato sincero ed ella ha ricevuto veramente il perdono dei suoi peccati. – Altra volta sarà un giovanotto che sta per accusarsi di essere stato nelle bettole e nei giochi; ora che egli ha promesso a Dio di lasciare quel che a Lui potrebbe dispiacergli, mentre prima amava le bettole ed i giochi, ora invece li rifugge. Prima della sua confessione il suo cuore non era occupato che da cose terrene, cattive; al presente i suoi pensieri non sono che per DIO, ed il disprezzo per le cose del mondo. Tutto il suo piacere è intrattenersi con il suo DIO e pensare ai mezzi per salvare la propria anima. Ecco, fratelli cari, i segni di una vera e sincera contrizione; se dopo la vostra confessione, sarete così, potrete sperare che la vostra confessione sia stata buona ed i vostri peccati perdonati. Ma se fate tutto il contrario di ciò che vi ho appena detto; se qualche giorno dopo le confessioni si vede questa giovane che aveva promesso a DIO di lasciare il mondo ed i suoi piaceri per non dedicarsi che a piacergli, se la vedo, come prima, in questi ritrovi mondani; se vedo questa madre maldisposta e negligente verso i suoi figli ed i domestici, e litigiosa con i vicini come prima della confessione; se io ritrovo questo giovanotto di nuovo ai giochi ed alle bettole, o orrore! O abominio! O mostro di ingratitudine che sei! O DIO grande! In quale stato è questa povera anima! O orrore! O sacrilegio! I tormenti dell’inferno saranno lunghi e rigorosi per punire un tale attentato.

2° Diciamo che il secondo risultato di una vera contrizione è la fuga dalle occasioni prossime del peccato. Ve ne sono di due tipi: gli uni vi portano per se stessi, come sono i libri cattivi, le commedie, i balli, le danze, le pitture, i quadri o le canzoni disoneste, e la frequentazione di persone di sesso differente; le altre sono occasione di peccato per le cattive disposizioni di coloro che vi sono: come i cabarettisti, i mercanti che ingannano o vendono nelle domeniche; una persona in un impiego che non compie i suoi doveri sia per rispetto umano sia per ignoranza. Che deve fare una persona che si trova in una di queste posizioni? Eccolo: ella deve lasciare tutto, a qualunque costo, senza salutare nemmeno. Gesù-Cristo ci ha detto che se il nostro occhio o la nostra mano ci scandalizza, dobbiamo strapparli e gettare lontano da noi, perché – ci dice – è molto meglio andare in cielo con un braccio ed un occhio solo, che essere gettati nell’inferno con tutto il corpo; vale a dire, a qualsiasi costo, qualunque sia la perdita che ne abbiamo, non dobbiamo omettere il lasciarle; senza di questo, nessun perdono.       

3° Diciamo che il terzo segno di un buon proposito, è il lavorare con tutto ciò che si può, per distruggere le cattive abitudini. Si chiama abitudine la facilità che si ha nel ricadere nei vecchi peccati. Bisogna: vegliare accuratamente su se stesso, fare spesso delle azioni che siano contrarie: se siamo soggetti all’orgoglio, bisogna applicarsi a praticare l’umiltà, esser contenti di essere disprezzati, non cercare la stima del mondo, sia nelle parole, sia nelle azioni; credere sempre che ciò che facciamo sia fatto male; se facciamo bene, rappresentarci che siamo indegni che Dio si serva di noi, non guardandoci nel mondo che come una persona che non faccia che disprezzare DIO durante la sua vita, e che meritiamo ben più di quanto si possa dire di male di noi. Siamo soggetti alla collera? Bisogna praticare la dolcezza, sia nelle parole, sia nella maniera di comportarci verso il prossimo. Se siamo soggetti alla sensualità bisogna mortificarci nel bere, nel mangiare, nelle nostre parole, nei nostri sguardi, imporci delle penitenze ogni volta che ricadiamo. E se non prendete queste precauzioni, tutte le volte che commetterete nuovamente i vostri peccati, potrete concludere che tutte le vostre confessioni non valgono a nulla e non avete fato che sacrilegio, crimine sì orribile, per il quale sarebbe impossibile poter vivere se ne conosceste tutta l’orribile natura, la tenebrosità, le atrocità … Ecco la condotta che dobbiamo tenere, facciamo come il figliuol prodigo che colpito dallo stato in cui i suoi disordini lo avevano sprofondato, fu soggetto a tutto ciò che suo padre esigeva da lui per avere la felicità di riconciliarsi con lui. Innanzitutto lasciò sul posto il paese in cui aveva provato tanti mali, e le persone che per lui erano state occasione di peccato; non si degnò nemmeno di guardarli, ben convinto che non avrebbe avuto la felicità di riconciliarsi con suo padre se non quando si fosse allontanato da essi: di modo tale che dopo il suo peccato, per mostrare a suo padre che il suo ritorno era sincero, e non cercò se non di fargli piacere facendo tutto il contrario di ciò che aveva fatto fino al presente.  – Ecco il modello sul quale noi dobbiamo conformare la nostra contrizione: la conoscenza che dobbiamo avere dei nostri peccati, il dolore che dobbiamo averne, devono metterci nella disposizione di sacrificare tutto per non ricadere nei nostri peccati. Oh! Quanto rare sono queste contrizioni: Ahimè! Dove sono coloro che sono pronti ad intraprendere la medesima via, piuttosto che commettere di nuovo i peccati che hanno già confessato? Ah! non saprei! Ahimè! Quanti al contrario, dice San Giovanni Crisostomo, non fanno che delle confessioni da teatro, che cessano di peccare per qualche istante senza lasciare interamente il peccato; questi sono, ci dice, simili a quei commedianti che rappresentano combattimenti sanguinosi ed accaniti, e sembrano accusare colpi mortali. Vi si vede uno che è abbattuto, steso, sanguinante: sembrerebbe veramente che abbia perso la vita, ma aspettate che la tela si abbassi, e vedrete rialzarsi pieno di forza e di salute, sarà come era prima della rappresentazione teatrale. Ecco precisamente – ci dice – lo stato in cui si trova la maggior parte delle persone che si presentano al tribunale della penitenza. A vederli sospirare e gemere sui peccati che accusano, voi direste che veramente essi non sono più gli stessi, che si comportano in maniera tutta diversa di quanto abbiano fatto fino al presente. Ma ahimè, aspettate, io non dico cinque giorni, ma uno o due giorni, li ritroverete simili a prima della confessione: stesso comportamento, stessa vendetta, stessa avidità, medesima negligenza nei doveri verso la religione. Ahimè! Quante confessioni e cattive confessioni! Ah! Figli miei, ci duce San Bernardo, volete avere una vera contrizione dei vostri peccati? Voltatevi dal lato di questa croce ove il vostro DIO è stato inchiodato per l’amore verso di voi; ah! piuttosto vedrete scorrere le vostre lacrime, ed il vostro cuore si lacererà. In effetti, fratelli miei, quel che fece versare tante lacrime a Santa Maddalena, la quale fu nel suo deserto, ci dice il grande Salviano … , non fu altra cosa che la vista della croce. Noi leggiamo nella sua vita che, dopo l’Ascensione di Gesù-Cristo, essendosi ritirata in solitudine, domandò a DIO la gioia di piangere per tutta le vita le colpe della sua giovinezza. Dopo la sua preghiera, San Michele Arcangelo le apparve presso la  sua solitudine, piantò una croce davanti alla sua porta, ella si gettò ai piedi come aveva fatto sul Calvario, pianse per tutta la sua vita con tale abbondanza che i suoi occhi erano simili a due fontane. Il grande Ludolfo riporta che un solitario chiedeva un giorno a DIO cosa potesse essere più capace si scuotere il suo cuore per piangere i suoi peccati. In questo momento, DIO gli apparve così com’era sull’albero della croce, tutto coperto di piaghe, tremante, caricato di una pesante croce, dicendogli: « guardami, il tuo cuore fu più duro delle rocce del deserto, esso si struggerà e non potrà più vivere alla vista dei dolori che i peccati del genere umano mi hanno causato. » Questa apparizione lo toccò talmente che fino alla sua morte, la sua vita non fu che una vita di lacrime e singhiozzi. Molto spesso si rivolgeva agli Angeli ed ai Santi, pregandoli di venire a piangere con lui sui tormenti che i suoi peccati avevano causato ad un DIO così buono. Leggiamo nella storia di San Domenico, che un religioso, chiedendo a DIO la grazia di piangere i propri peccati, Gesù-Cristo gli apparve con le cinque piaghe aperte, e il sangue scorreva in abbondanza. – Nostro Signore, dopo averlo abbracciato, gli disse di avvicinare la sua bocca all’apertura delle sue piaghe; egli ne sentì tale felicità che non poteva comprendere come i suoi occhi potessero versare tante lacrime. Oh! Come erano felici, questi penitenti, fratelli miei, di trovare tante lacrime per piangere i propri peccati, temendo poi di piangerli nell’altra vita! oh! Qual differenza tra essi ed i Cristiani dei giorni nostri che hanno commesso tanti peccati! E nessun rimorso o lacrime! … Ahimè, cosa diverremo? Quale sarà la nostra dimora? Oh! Quanti Cristiani perduti perché bisogna piangere i propri peccati o in questo mondo o andarli a piangere negli abissi! Cosa dobbiamo concludere da quanto detto, fratelli miei? eccolo: è il domandare incessantemente a DIO questo orrore del peccato, il fuggire le occasioni del peccato e non perdere mai di vista che i dannati non bruciano e non piangono nell’inferno se non perché non si sono pentiti dei loro peccati in questo mondo e che essi non hanno voluto lasciare. No, quanto grandi possano essere i sacrifici che abbiamo da fare, essi non devono esser capaci di trattenerci; bisogna assolutamente combattere, soffrire e gemere in questo mondo, se vogliamo avere l’onore di andare a cantare le lodi di DIO per tutta l’eternità, è la felicità che vi auguro.

Credo …

IL CREDO

 Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 17, 107

Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: retríbue servo tuo: vivam, et custódiam sermónes tuos: vivífica me secúndum verbum tuum, Dómine.

[Ti glorífico, o Signore, con tutto il mio cuore: concedi al tuo servo: che io viva e metta in pràtica la tua parola: dònami la vita secondo la tua parola.]

Secreta

Hæc múnera, quaesumus Dómine, ei víncula nostræ pravitátis absólvant, et tuæ nobis misericórdiæ dona concílient.

[Ti preghiamo, o Signore, perché questi doni ci líberino dalle catene della nostra perversità e ci otténgano i frutti della tua misericórdia.]

COMUNIONE SPIRITUALE

 Communio

1 Cor XI: 24, 25

Hoc corpus, quod pro vobis tradétur: hic calix novi Testaménti est in meo sánguine, dicit Dóminus: hoc fácite, quotiescúmque súmitis, in meam commemoratiónem.

[Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi: questo càlice è il nuovo patto nel mio sangue, dice il Signore: tutte le volte che ne berrete, fàtelo in mia memoria.]

Postcommunio

Orémus.

Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos tuis mystériis recreásti, perpétuis defénde subsidiis.

[Assístici, o Signore Dio nostro: e difendi incessantemente col tuo aiuto coloro che hai ravvivato per mezzo dei tuoi misteri.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (149)

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (18)

FIRENZE

DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA 1861

DISCUSSIONE XVII. (1)

Il culto de’ Santi: — Immagini: — Reliquie.

92. Prot. Si accordi pure alla Madonna, ed anche agli altri quanto loro appartiene, io non mi oppongo; ma come scusare da esecranda idolatria la Chiesa Cattolica, la quale contro il divino comando di non adorare, ossequiare, etc. con religioso culto che il solo Dio, gli adora, gli invoca, etc. singolarmente la Madonna, non solo in sé stessi, ma anche nelle loro Immagini, da Dio severamente proibite, e nelle loro Reliquie !!!

Bibbia. Ecco le parole del divino Comando: « Io sono il Signore Dio tuo,… non avrai altri dii dinanzi a me » (Es. XX, 2, 3). È dunque proibito, è idolatria adorare, etc. la Madonna, i Santi, quando si adorano quali divinità, essendo questo quel culto divino unicamente a Dio dovuto, a Dio riserbato; ma non è punto proibito, non è idolatria adorarli, invocarli, etc. con religioso culto quali servi di Dio, amici di Dio, favoriti di Dio, poiché in tal modo si onora Dio stesso come autore dei loro meriti e santità, che anzi è interamente conforme alla divina sua volontà, siccome sta scritto: « Dice il Signore,… io glorificherò chiunque mi avrà glorificato. » (I Re, II, 30) — « Chi servirà a me sarà onorato dal Padre mio. » (Giov. XII, 26). – « Sono grandemente da me onorati, o Dio, gli amici tuoi.» (Salm. CXXXVIII, 16) -«Loda il Signore nei Santi suoi. » (Sal. CL, 1). Ma voglio dichiararti meglio questa materia punto per punto. Ascoltami.

PUNTO I.

Adorazione o venerazione dei Santi.

95. « Aperse tosto il Signore gli occhi a Balaam, ed ei vide l’Angelo del Signore e prostratosi a terra lo adorò. (Num. XXII, 34). – E quegli rispose (a Giosuè): io sono il principe dell’esercito del Signore Cadde Giosuè boccone per terra, e adorandolo disse: che è quello che il mio Signore dice al suo servo? Disciogli (dissegli) i tuoi calzari dai tuoi piedi: perocché il luogo dove sei è santo. E Giosuè fece come era ordinato. » (Gios. IV, 13 e segg.), Qui vedi che l’Angelo non solo approva il culto religioso prestatogli da Giosuè, ma esige un ossequio maggiore.

PUNTO II.

Invocazione dei Santi.

94. « Giacobbe benedì i figliuoli di Giuseppe, e disse: L’Angelo, che mi ha liberato da tutti i mali, benedica questi figliuoli. » (Gen. XLVIII, 15, 16).

« Chiama adunque, se vi ha alcuno che ti risponda, e ricorri ad alcuno dei Santi. » ((Giob. V, 1)

« Riposerai (o Giobbe), e moltissimi a te porgeranno preghiere. » (ivi, XI, 19) — « Pace a voi da colui il quale è, il quale era, e il quale è per venire: e dai sette spiriti i quali sono dinanzi al trono di lui. (Apoc. I, 4) »

PUNTO III

I Santi conoscono le preghiere e i bisogni dei mortali:

pregano per quelli che loro si raccomandano, ed anche per altri.

95. « Faranno festa gli Angeli di Dio per un peccatore che faccia penitenza. » (Luc. XV, 10).

« E venne un altro Angelo,… e gli fu data gran quantità d’incenso, affinché offerisse delle orazioni di tutti i santi (cioè di tutti i fedeli, come è chiaro da tutto il contesto) sopra l’altare d’oro, e dinanzi al trono di Dio, e salì il fumo degli incensi delle orazioni dei santi dalla mano dell’ Angelo dinanzi a Dio. » (Apoc. VIII, 3).

« La visione (di Giuda Maccabeo) fu tale: Egli vedeva Onìa, che era stato Sommo Sacerdote, uomo dabbene,… il quale, stendendo le mani, faceva orazione per tutto il popolo de’ Giudei. E di poi era comparso un altro uomo venerabile per lìetà e per la maestà, cinto di magnificenza da tutti i lati, e che Onia rispondendo a lui (a Giuda) gli aveva detto: Questi è l’amico de’ fratelli e del popolo d’Israele: questi è colui che prega fortemente pel popolo e per tutta la città santa, Geremia Profeta di Dio. » (2° Macc. XV, 12, 13).

PUNTO IV.

Iddio esaudisce le preghiere dei Santi a prò de’ fedeli.

96. Il Signore disse a Mosè: sino a quando mi oltraggerà questo popolo?… Io dunque lo ferirò colla pestilenza, e li consumerò. E Mosè disse…. Perdona, ti prego, secondo la misericordia tua grande, il peccato di questo popolo…. e il Signore disse: Ho perdonato secondo la tua parola. » (Num. XIV, 11, e seg.). E l’Angelo del Signore rispose, e disse: Signore degli eserciti, sino a quando non avrai misericordia di Gerusalemme e delle città di Giuda colle quali sei adirato? Ed il Signore rispose buone parole, parole di consolazione all’Angelo che parlava in me, parole di consolazione: E disse a me l’Angelo che parlava in me, alza la voce e di’: il Signore degli eserciti dice così: Ho avuto zelo grande per Gerusalemme e per Sionne: Per questo dice il Signore, mi volgerò a misericordia verso Gerusalemme, etc. » (Zac. I, 12 e seg.)

PUNTO V.

Iddio comanda talvolta di ricorrere alla intercessione, o mediazione de’ Santi, ne vuol concedere agli uomini le sue grazie che a tal condizione.

97. « Ma Dio si fe’ vedere di notte in sogno ad Abimelech, e dissegli: tu morrai per ragion della donna che hai rapita:… Rendi dunque adesso la moglie al suo marito, perché  egli è profeta: ed egli farà orazione per te, e tu viverai? » (Gen. XX, 3, 7).

« Il Signore disse ad Eliphaz di Theman: Io sono altamente sdegnato contro di te, e contro i due tuoi amici,… prendete dunque sette tori e sette arieti, andate a trovare Giobbe mio servo, e offerite olocausti per voi. e Giobbe mio servo farà orazione per voi, e in grazia dì lui non sarà imputata a voi la vostra stoltezza. » (Gio. XLII, 7, 8).

PUNTO VI.

Potenza delle preghiere de’ Santi.

98. « Egli (il peccatore) si avvicina alla corruzione, e la sua vita dà tutti i segni di morte. Se uno delle migliaia di Angeli per lui parlerà, e lo istruirà dei doveri dell’uomo , Egli (Dio) avrà compassione di lui, e dirà: Salvatelo dal cedere nella corruzione: ho trovato motivo onde averne pietà. » (Giob., XXIII, 22, e seg. Vedi anche – Genes. XIX, 18, e seg.)

« Il Signore disse di nuovo a Mosè: Io veggo che questo popolo è di dura cervice. Lasciami fare, affinché io sfoghi il mio furore contro di loro, e gli stermini…. E Mosè supplicava, e il Signore si placò. » (Esod. XXII. 9 e segg.).

« Il Signore farà la volontà di coloro che lo temono, ed esaudirà le loro preghiere » (Sal. CXLIV, 19).

« Allora Giosuè parlò al Signore,… e disse alla loro presenza: Sole, non ti muovere di sopra Gabaon: luna, (non muoverti) di sopra la valle di Ajalon: e si fermarono il sole e la luna, … obbedendo il Signore alla voce dell’uomo. » (Gen. X, 12 e segg.)

PUNTO VII.

Si ricorre a Dio pei meriti de’ Santi.

99. « Mosè supplicava il Signore Dio suo, dicendo:… Ricordati di Abramo, d’Isacco e d’Israele tuoi servi…. E il Signore si placò, e non fece al popol suo quel male che aveva detto. » (Esod. XXII, 11 e segg.)

« Ricordati, o Signore, di Davide e di tutta la sua mansuetudine…. Per amore di Davide tuo servo non allontanare la presenza del tuo Cristo. » (Sal. CXXXI, 1, 10)

« Azaria orò in questo modo, e disse: Benedetto se’ tu Dio de’ padri nostri;… Non ritirare da noi la tua misericordia per amore di Abramo diletto tuo, e d’Isacco tuo servo, e d’Israele tuo santo. » (3° Re, VIII, 36).

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (6)

VITA
dell’Angelico Dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (6)


dell’ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti
Card.
Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA – FRANCESCO FERRARI, 1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

38. — La Canonizzazione.

Mentre S. Tommaso spirava a Fossanova, il Beato Alberto Magno che in Colonia si accingeva a partire pel Capitolo di Lione, ove sperava rivederlo, fu veduto a un tratto dare in un dirotto pianto e fu udito esclamare: È morto Fra Tommaso, il mio figliolo in Cristo! La desolante notizia si sparse rapidamente per tutto. L’Università di Parigi, scrivendo al Capitolo di Bologna che doveva tenersi in quell’anno, si fece eco dei lamenti di tutta la Chiesa e ne pianse la rapida scomparsa come di un sole che in pieno mezzogiorno avesse sottratto al mondo i suoi raggi. – A Fossanova i monaci, pel gran concorso del popolo, doveron collocare per vari giorni la bara ove giaceva il sacro cadavere alla porta del monastero. Nei funerali solenni che si fecero, Fra Re- ginaldo fu invitato a parlare, e non potè sottrarsi a quelle preghiere. Le parole che egli disse, spesso interrotte dal pianto, furono il più bel panegirico che forse alcuno abbia mai fatto del Santo Dottore. Gli fu data sepoltura nella Chiesa davanti all’altar maggiore, prova luminosa del concetto che si aveva della sua santità. Ma prima che il corpo fosse collocato nella tomba, Fra Reginaldo ebbe cura di togliere dai suoi fianchi il cingolo prodigioso di cui gli angeli lo avevano cinto nel giorno del suo trionfo più bello, come in pegno dell’immacolata verginità che avrebbe conservato fino alla morte, e lo recò con sé al Concilio di Lione, ove, per incarico dei Padri, egli doveva portare il manoscritto del Santo Dottore domandato da Gregorio X. Il Beato Giovanni da Vercelli, che già si trovava, dal febbraio, a Lione presso il Pontefice, lo ricevé come il più prezioso tesoro; e terminato il Concilio, lo portò al suo convento di Vercelli dove fu venerato sino alla fine del secolo XVIII. Di là nel 1802, alla soppressione di quel Convento, fu recato a San Domenico di Chieri, ove tuttora si trova. Come fu chiusa la tomba, Fra Reginaldo si allontanò da Fossanova collo strazio nel cuore: ma prima di partire, dichiarò formalmente a nome dell’Ordine, che quella sepoltura non era che provvisoria, avendo ogni diritto d’avere quel venerato corpo la famiglia domenicana. – Non così pensarono i Cistercensi, che allegavano in difesa del loro diritto a ritenerlo una certa consuetudine; e per timore che un giorno o l’altro esso venisse sottratto, il loro Abate Giacomo da Firenze lo fece toglier via segretamente e lo fece deporre in un angolo della cappella di Santo Stefano. Ma sette mesi dopo fu riportato al suo luogo per comando dell’Abate stesso, che era stato atterrito da una visione. Dal corpo, trovato mirabilmente intatto, si diffuse per tutta la chiesa e il monastero un soavissimo odore. Fu celebrata allora una messa come di un santo confessore, e nessuno ebbe ardire di recitare le preci dei defunti e di usare i paramenti da morto. Intanto a quel sepolcro avvennero le grazie più strepitose, e di molte restò memoria nei processi: tutti acclamavano la santità del Dottore Angelico e ne predicavano le virtù. – Né minor lode veniva tributata alla sua dottrina, giudicata dai più non solo sicura, ma santa e prodigiosa. Un tal giudizio non era però ancora stato confermato ufficialmente dalla Chiesa, che suol prendere lentamente le sue decisioni; e non mancavan perciò i dissidenti, anche negli stessi centri di studio. Non era possibile, del resto, che la dottrina d’un uomo che, per stabilirla su solide basi, erasi dovuto opporre a tante correnti intellettuali, e che sebbene avesse derivato il suo sapere dalle maestose sorgenti della verità, poteva sembrare un novatore, fosse subito accettata senza contrasti. E questi sorsero; e, duole il dirlo, fu la stessa Università di Parigi, col Vescovo Stefano Tempier a capo, che appena tre anni dopo la morte del Santo Dottore, condannò, tra le altre, varie proposizioni che contenevano la dottrina di lui e della nuova scuola domenicana. Si vide allora partirsi da Colonia e venire a Parigi, sebbene vecchio di oltre ottant’anni, il Beato Alberto Magno, stato già a Tommaso maestro e padre, e che già eletto Vescovo di Ratisbona, era poi tornato alla quiete del chiostro. Nella celebre Università fece udire le sue parole in difesa del suo grandissimo alunno, che egli affermò vivente, dicendo che non avrebbe avuto bisogno d’esser difeso da un vecchio, che aveva ormai i piedi nella fossa! – La verità si fece strada a poco a poco, le opposizioni lentamente cessarono e la dottrina di San Tommaso andò prendendo piede via via in tutte le scuole. Una sentenza solenne della Chiesa aveva perciò nel caso nostro un doppio valore: dalla santità di Tommaso non avrebbe potuto disgiungersi la dottrina, ma l’una e l’altra dovevano in certo modo essere canonizzate. – E così, tra le altre cause che ritardavano la sentenza definitiva della Chiesa, fra le quali son da porsi le vicende travagliose della Santa Sede che poi la condussero all’esilio di Avignone, questa riesce tutta in lode del Santo Dottore, ed è il significato che tale sentenza avrebbe avuto in faccia al mondo cattolico. Non solo era da provarsi nel modo consueto la sua santità, ma glorificarsi in modo tutto speciale la sua dottrina, che per il suo carattere e la sua comprensione doveva esser manifestata come la dottrina comune della Chiesa e meritare a lui il titolo di dottore universale. – Introdotta infatti la causa nel 1318, fu compilato un processo, raccogliendo a Napoli ed a Fossanova le testimonianze, dal 23 luglio 1319 al 26 novembre del 1321. La Curia Romana, che risiedeva in Avignone, ne fece un rigoroso esame; e il 18 luglio del 1323, Giovanni XXII succeduto a Clemente V che là aveva trasferito la Sede, scriveva Tommaso nel catalogo dei Santi con gran solennità, alla quale intervennero Roberto d’Angiò Re delle Due Sicilie colla Regina e molti nobili del Regno, diciassette Cardinali, il Patriarca d’Antiochia, gli Arcivescovi di Capua e di Arles, il Vescovo di Londra ed altri altissimi Personaggi. Quel giorno, per volere del Pontefice fu festeggiato come la solennità del Natale. – Che tale esaltazione avesse altresì il valore di una consacrazione delle dottrine di San Tommaso, fu palesato dallo stesso Pontefice, che nella bolla di canonizzazione chiamò Opere di Dio gli scritti del Santo, e proferì quella sentenza rimasta famosa: Quanti articoli egli ha scritto, tanti miracoli ha fatto, aggiungendo che dopo gli Apostoli e i primi Dottori, egli aveva più di tutti illuminato la Chiesa di Dio. – Le solenni funzioni furon celebrate nella Chiesa di Nostra Signora des Doms, e i Domenicani le continuarono nella loro Chiesa. La canonizzazione di San Tommaso fu più efficace di qualunque apologia contro quelli che tuttora impugnavano alcune parti della sua dottrina. Essa fu il punto di partenza, veramente ufficiale, che lo condusse alla supremazia dottrinale che oggi ormai più nessuno gli contrasta.

39. — Le Sante Reliquie e il Sepolcro.

I Domenicani che avevano con somma gioia veduto alfine il loro grande Dottore decorato dell’aureola dei Santi, non ne possedevano ancora il corpo. Da esso i Monaci avevano nel 1288 tolta la mano destra, per farne regalo alla Contessa Teodora, sorella del Santo; e quando, nel 1304, salì al trono Pontificale Benedetto XI, Domenicano, temendo di perdere quelle sacre reliquie, avevano tolto il capo dal corpo ancora in carne e l’avevano dato in consegna al Conte di Piperno, pensando che se i Domenicani fossero riusciti ad avere il corpo, almeno la testa sarebbe rimasta nelle loro mani. – Così rimasero le cose fino al momento della canonizzazione, per la quale, strano a dirsi, non venne fatta alcuna ricognizione delle sante reliquie. Mentre Giovanni XXII in Avignone decretava a Tommaso gli onori dei Santi, il suo corpo restava, senza altro onore, a Fossanova. – Il timore di perdere le sacre reliquie si ridestò nei Monaci nel 1349, quando il Conte di Piperno, che già possedeva il capo, tentò d’impadronirsi del corpo. Il suo pensiero, possedute le reliquie, era di darle a Ludovico Re di Sicilia amico dei Domenicani, e aver denaro in compenso. La cosa fu scoperta dal Conte di Fondi Niccolò Caetani suo nemico, che si accordò col Vescovo della sua città e coll’Abate di Fossanova, perché il sacro corpo fosse trasportato nel suo castello, ove restò celato per dieci anni. Ma caduto egli un giorno da cavallo ed essendo in pericolo di vita, fe’ voto, che se ottenesse la guarigione, avrebbe restituito ai Monaci il sacro corpo. Il Conte guarì, e riportò il corpo a Fossanova, ma per breve tempo, perché poi, dimentico del voto, trovò modo di rapirlo di nuovo e lo riportò a Fondi, ove lo tenne nella propria camera, dalla quale fu poi recato nella cappella del castello. – Nella Città di Fondi i Domenicani avevano un Convento, già monastero benedettino, detto di Santa Maria, il più antico del Regno, dopo quello di Napoli. D’accordo col loro Generale Fra Elia da Tolosa, essi tanto fecero, che riuscirono ad avere dal Conte le desiderate reliquie, e le collocarono in un Oratorio dentro quel loro Convento. Era l’anno 1368. Sedeva sulla cattedra di San Pietro Urbano V, già abate di San Vittore a Marsiglia, favorevole ai Cistercensi. Maestro Elia fu da lui giudicato come un rapitore; ed avutolo a sé in Roma il sabato in alòis di quell’anno, il Papa gli disse: Tu hai rubato il corpo di San Tommaso! Ma il Padre Generale si gettò ai suoi piedi, ed esclamò: Padre Santissimo, e fratello nostro e carne nostra! Il Pontefice restò colpito da quelle parole, ed abbracciò il Padre Generale; e udito come alle ossa mancasse il capo e fosse tuttora a Piperno, ordinò che anche questo venisse restituito. E così fu fatto; ma rimane assai dubbio se fosse ceduto il vero capo; certo in Piperno è venerata una testa, ed è creduta del Santo Dottore. Si conservò memoria, in questo frattempo, di un altro colloquio avvenuto tra il Pontefice e il Padre Elia. Era il 16 giugno del detto anno, vigilia del Corpus Domini; e il Padre Generale disse al Pontefice: Un vostro grande predecessore, che portava appunto il vostro nome, Urbano IV, comandò a San Tommaso di scrivere l’Ufficio del Santissimo Sacramento. — È vero, disse il Pontefice, esso è cosa mirabile! Iddio concesse a San Tommaso una grazia singolarissima per potere scriver così della Santa Eucaristia! — Ebbene, disse il Padre Generale, per tanto merito abbia San Tommaso da Vostra Santità la grazia di poter alfine riposare presso i suoi confratelli! E così fu firmata la Bolla di concessione, e fu stabilito che il sacro corpo fosse trasportato a Tolosa, patria del Generale, anche perché, come fu detto, essa non aveva potuto avere, come avrebbe desiderato, il corpo di San Domenico, rimasto a Bologna. San Domenico, che raccolse i suoi primi religiosi a San Romano di Tolosa, poteva considerarsi come figlio di quel Convento. Durante il loro passaggio per le varie contrade d’Italia, le sante reliquie restarono celate; ed arrivate in Provenza, furon depositate nel monastero di Prouille all’insaputa delle suore. Intanto si preparò il solenne trasporto, che prese l’aspetto di un vero trionfo. Il venerdì 26 gennaio partì come un solenne corteo da Prouille, sostò ad Avignonet, ed arrivò all’aurora del 28 ad una cappella detta la Faretra fuori delle mura di Tolosa. La processione che di qui si svolse fu addirittura uno spettacolo: vi intervenne Luigi di Angiò fratello del Re Carlo, con molti Principi e Prelati; e l’intera turba si calcolò che giungesse a 150 mila persone. Mille faci accompagnarono le sante reliquie fino alla chiesa dei Frati Predicatori. Fu ad esse eretto un monumento in marmo, che dové certo abbellirsi di tutte le grazie dell’architettura e scultura trecentesca. Ma nel 1562 esso fu distrutto dal furore degli Ugonotti, i quali, fortunatamente, non dispersero le sacre ossa, che vennero trovate per terra avvolte in un drappo. Fu allora ideato un superbo mausoleo, di cui diè il disegno Fra Gaudio Borrey architetto e scultore domenicano. Era come un grandioso arco trionfale, aperto da quattro lati, che faceva riparo all’altare; lo adornavano dodici statue in dimensioni naturali; e tutto era scolpito con gusto e leggiadria. – Ma anche questo insigne monumento andò completamente distrutto nel 1790 dalla furia dei rivoluzionarii francesi: e la cassa fu posta in salvo nella Cattedrale di San Saturnino, dove nel 1878, per cura dell’Arcivescovo Desprez, poi Cardinale si coprì d’oro e di gemme.

40. — Il Dottore della Chiesa e il Patrono delle Scuole cattoliche.

Il titolo di Dottore con altri aggiunti di altissima lode fu dato a San Tommaso ancora vivente e subito dopo la sua morte: ma presto egli ebbe anche il nome di Dottore comune, ossia generale e universale: essendo la dottrina di lui fino dal suo secolo riconosciuta come dottrina comune nella Chiesa, quasi dottrina ufficiale, appartenente a lei come cattolica, vale a dire come universale. Così il titolo di Dottore Angelico vennegli dato fino dai primi tempi, essendo egli, come scrisse Leone XIII, da paragonarsi cogli angelici spiriti, non meno per l’innocenza che per l’intelligenza ». Toccava però al Santo Pontefice Pio V ad enumerare solennemente San Tommaso fra i Dottori della Chiesa, aggiungendolo come quinto ai quattro già salutati con quel titolo fra i Latini: San Gregorio Magno, Sant’Ambrogio, San Girolamo e Sant’Agostino. E questo egli fece con un celebre documento, di cui si conserva l’originale in San Domenico Maggiore di Napoli nella Cappella dedicata al Santo Dottore. Nell’emanare quella Bolla, firmata da trentacinque Cardinali, il grande Pontefice, mentre conferma a San Tommaso il titolo di Dottore Angelico, lo saluta fra i grandi Dottori, per aver egli non solo confutato gli errori del tempo suo, ma somministrato il modo di debellare anche le eresie che in seguito sarebbero sorte, del che aveva dato prova luminosa il Concilio di Trento. Ordina altresì che il giorno della sua santissima morte, 7 Marzo, sia celebrato in Napoli e in tutto il Regno come festa solenne. Così devesi a San Pio la celebre edizione, detta Pianeta di tutte le opere del Santo Dottore. – La decisione di San Pio V intorno alla nuova festa, accettata dai Napoletani col più vivo entusiasmo, li indusse a chiedere, dopo pochi anni, alla Santa Sede la nomina di San Tommaso a Patrono della Città e del Regno, da aggiungersi agli altri Santi Patroni. La domanda fu fatta a Clemente Vili dal Re, da cittadini d’ogni ordine e dal popolo intero. E il 22 Novembre del 1603, il Pontefice con viva compiacenza soddisfece al comune desiderio. Un’altra gloria era preparata a San Tommaso sullo scorcio del secolo XIX, quando al trono di San Pietro salì il gran Pontefice Leone XIII. Contro gli errori che traviano le intelligenze e corrompono i cuori egli non vide miglior rimediò che il ritorno alle sane dottrine e ai santissimi esempi del Dottore d’Aquino. A Leone XIII si deve la celebre enciclica Æterni Patris, che tutto il mondo accolse con plauso; a lui l’iniziativa della nuova e splendida edizione delle Opere di San Tommaso, detta Leòniana, ed a lui la nomina, domandata da quasi tutti i Vescovi della Cristianità, di San Tommaso a Patrono di tutte le scuole cattoliche, fatta col memorabile documento del 4 Agosto 1880. Alla gioventù che va educandosi nelle Università, nei Collegi, nei Seminarii e in tutti gli istituti cattolici, il gran Pontefice assegna Tommaso d’Aquino come celeste protettore, sia per la vita purissima, sia per lo studio di quella scienza che viene soltanto da Dio; e a tutti lo indica come guida sicura del pensiero cristiano. – A Duce degli studi additò San Tommaso il regnante Pontefice Pio XI fino dai primi giorni del suo sapiente governo, e confermò insieme quanto sotto i suoi predecessori Pio X e Benedetto XV era stato stabilito e confermato dal Codice di Diritto Canonico intorno al dovere di tenere come unica guida nelle discipline filosofiche e teologiche la dottrina di tanto maestro. E cólta l’occasione del sesto centenario della canonizzazione del Santo Dottore, Egli lo ha solennemente celebrato come eroe di santità e ad un tempo come maestro di vera sapienza; lo ha esaltato col nome di Dottore Eucaristico per aver egli divinamente scritto e poetato in lode del Divin Sacramento e ne ha presentato in modo speciale la purissima immagine alla cara gioventù come modello di quella purezza angelica, che è così necessaria per salire alle altezze della divina contemplazione. £ tutti i giovani egli ha chiamato, con amoroso invito, ad arrolarsi nella Milizia Angelica., perché mettano la loro purità sotto la tutela dell’Angelo delle scuole.

41. — L’arte e il “Trionfo di San Tommaso „.

Le belle arti, a cui San Tommaso indicò la più nobile via, spronandole, nel più decisivo momento della loro storia, alla riproduzione nella natura del vero e del buono, e che ebbero dalle sue dottrine un impulso potente a risorgere, dovevano compensare nel più bel modo un tanto benefizio. La pittura specialmente, che è la più spirituale delle arti, glorificò il Santo Dottore ideando per lui quello che per nessun altro Santo ella aveva concepito: una forma nuova di glorificazione tanto della sua santità che della sua dottrina. Rappresentò fin dal secolo XIV, e continuò nei successivi. San Tommaso come un pacifico trionfatore, che seduto nella sua cattedra accoglie in sé un tesoro di sapienza divina ed umana, e fattolo suo, lo converte in dottrina salutare a beneficio di tutto il popolo cristiano, mentre i contradittori sono costretti ad umiliarsi ai suoi piedi. Tale è il concetto del Trionfo di San Tommaso, quale ci rimane in meravigliosi dipinti dovuti ai nostri principali maestri e conservati i più nelle chiese domenicane. Primo fra tutti fu quello che colorì per la chiesa di Santa Caterina di Pisa Francesco Traini, di poco posteriore a Giotto, in una tavola, già terminata in cuspide, il cui centro è occupato dalla grande figura di San Tommaso seduto entro un sole luminoso. Manda su di lui un triplice raggio di luce il Verbo di Dio fatto carne, e Mosè, San Paolo e i quattro Evangelisti illuminano ad un tempo la sua intelligenza, mentre altri due raggi a lui giungono da Aristotile e Platone che gli mostrano aperti i loro libri. Tutta questa dottrina divina ed umana si aduna nel volume di San Tommaso, da cui poi si diffonde largamente nel clero e nel popolo, mentre si vede prostrato ai suoi piedi il filosofo arabo Averroè, ed il suo « gran commento » è fulminato da un raggio che esce dai volumi del Santo Dottore. Dietro l’esempio del Traini, Andrea di Bonaiuto, sotto la guida’ del celebre Fra Iacopo Passavanti, colorì un più splendido Trionfo di San Tommaso nel Capitolo di Santa Maria Novella in Firenze, e vi aggiunse l’omaggio delle virtù teologiche e cardinali e il corteggio di tutte le scienze e delle arti, mentre i contradittori umiliati son tre: Sabellio, Ario e Averroè. Non mancò di colorire il suo Trionfo di San Tommaso il Beato, suo confratello, Fra Giovanni da Fiesole, che ebbe con lui comune il titolo di Angelico, e immaginò con semplicità, ma con vera genialità, San Tommaso che trionfa nella sua scuola, ove vediamo, tra gli altri uditori, San Luigi Re di Francia, mentre i contradittori sono Sabellio, Averroè e il celebre Guglielmo di Sant’Amore che, come vedemmo, fu da San Tommaso vittoriosamente confutato. – Splendido è il trionfo che il discepolo del Beato Angelico Benozzo Gozzoli colorì per la Primaziale Pisana e che sta ora nel Museo del Louvre in Parigi. Con arte più perfetta egli ripete il concetto del Traini, ed aggiunge nella base in piccole figure la scena della canonizzazione del Santo fatta da Giovanni XXII. – Due dipinti di questo soggetto ci lasciò, fra gli altri, la celebre scuola siciliana di Antonello da Messina. Uno, dovuto probabilmente allo stesso Maestro, già adornò la Chiesa domenicana di Santa Cita di Palermo, l’altro, della sua scuola, era già nella Chiesa dei Domenicani in Siracusa. In questi due dipinti è specialmente segnalato il vantaggio reso dalle dottrine di San Tommaso non meno alla Chiesa che alla civile società, rappresentata la prima dal Pontefice, la seconda dal Re; e la grandezza della scienza del Maestro Angelico si deduce dalla luce celeste che a lui viene dai due grandi apostoli Pietro e Paolo. Un più grandioso sviluppo si ha nel Trionfo di San Tommaso dovuto al pennello di Filippino Lippi, che lo affrescò nella Cappella Carafa in Santa Maria sopra Minerva di Roma. San Tommaso siede in ornatissimo trono, e gli stanno al fianco quattro vergini che figurano la Grammatica, la Dialettica, la Filosofia e la Teologia; e gli eretici più famosi, Ario, Sabellio, Apollinare, Fozio, Manete, stanno aggruppati ai piedi del trono e mirano i loro libri caduti a terra e lacerati, mentre il volume di San Tommaso splende di vivissima luce e Averroè giace vinto sotto i suoi piedi. La scuola spagnola tributò a San Tommaso un encomio sublime colla tavola di Francesco Zurbaran, vera apoteosi dell’Angelico Dottore, su cui discende la celeste sapienza dallo Spirito stesso di Dio; e i quattro massimi Dottori della Chiesa latina gli fanno a destra e sinistra solenne corteggio. Anche l’arte moderna rese a San Tommaso il suo tributo di ammirazione coi due celebri affreschi nei quali Ludovico Seitz si fece interprete del pensiero di Leone XIII, da cui ebbe incarico di colorirli nella volta della Galleria dei Candelabri in Vaticano. In due dipinti esagonali figurò l’omaggio che San Tommaso fa delle sue opere alla Chiesa, che le offre il ramo di lauro, mentre egli le dice di avere attinta tutta la sua scienza da Gesù Crocifisso, che a lui rivolge le parole: Hai scritto bene di me. I suoi libri di Teologia, di Filosofìa e i Commenti sulla Sacra Scrittura sono tenuti in alto e mostrati a tutti da tre Angeli bellissimi, mentre i corifei dell’empietà sono in vari modi atterriti. E vediamo tra questi Guglielmo di sant’Amore col suo impotente libello, Berengario, i due giudei Avice-bron e Mosè Maimonide e i corruttori arabi di Aristotile Avicenna e Averroè, debellati tutti per sempre dalle dottrine di San Tommaso d’Aquino. – A quest’omaggio della pittura, che in varii modi figurò il trionfo di San Tommaso e con Raffaello nella sua celebre Disputa lo pose in mezzo ai grandi dottori della Chiesa prima che San Pio V gli decretasse un tale onore, ed illustrò in tanti capolavori i fasti della sua vita, si unì quello non solo della scultura e dell’architettura, ma della musica e della poesia. E basti per ogni elogio la glorificazione che ne fece Dante Alighieri nella sua Divina Commedia, precorrendo il decreto di Giovanni XXII e collocando San Tommaso nel cielo del sole, tra le più alte intelligenze che brillano di perpetua luce presso il trono di Dio.

APPENDICE

Cenno sulle fonti storiche più antiche della Vita di San Tommaso d’Aquino.

I. — Fra Gerardo di Frachet, Domenicano, vestito nel 1225 e morto nel 1271, è l’autore del prezioso libro Vitæ Fratrum, da lui composto per ordine del Beato Umberto de Romanis, quinto Generale dei Predicatori. Parla di San Tommaso ancora vivente, e perciò non lo nomina. Narra di lui il fatto del suo arresto per opera dei fratelli, una visione avuta in Parigi, l’apparizione a lui della sorella e il sogno avuto prima di tenere il suo Principium per il Dottorato. — V. ed. di Lovanio 1896, pag. 201, § III e pag. 215, §§ VI, VII e VIII.

II. Fra Tommaso da Cantimprato, Domenicano belga, nato nel 1201 a Leuwis presso Bruxelles, entrò nell’Ordine nel 1232 nel Convento di Lovanio. Fu discepolo del B. Alberto Magno in Colonia prima che vi venisse San Tommaso. Morì verso il 1272. È celebre il suo volume Bonum universale de Apibus, dedicato al B. Umberto de Ro- manis. Nel libro I, cap. 20 (Ed. Donai 1627) parla della gioventù di San Tommaso e delle celebri contese sorte nell*Università di Parigi al tempo di Guglielmo di Sant’Amore.

III. — Fra Guglielmo di Tocco, Domenicano, da Benevento, nato verso il 1250 e morto dopo il 1323. È autore della più completa biografia del Santo, da lui scritta in previsione della Canonizzazione. Fu già discepolo di lui in Napoli. Dai Superiori dell’Ordine ebbe incarico di raccogliere le testimonianze per il processo. La biografia, dal titolo Historia Beati Thomae de Aquino Ordinis Frairum Praedicatorum, è stampata per intero nei Bollandisti Acta San- ctorum, nuova edizione, T. I di Marzo, pagg. 657-687 e ristampata dal P. Prum- mer O. P. nella sua collezione : Fontes Vilae ó*. Thomae Aquinatis, Tolosa 1912, Fase. II, p. 57-152.

IV. — Fra Tolomeo da Lucca, Domenicano, morto nel 1322, ha varie notizie biografiche su San Tommaso nella sua Historia Ecclesiastica (lib. XXII, cap, 20-25, 29, e lib. XXIII cap. 8-15) scritta poco prima del 1317 e stampata da L. A. Muratori nell’Opera Rerum italicarum Scriptores, Milano 1727. T. XI, col. 1151-1173. Fra Guglielmo di Tocco lo cita nella sua Historia Beati Thomae, Fu discepolo di San Tommaso in Roma nel 1272, e poi in Napoli fino alla partenza del Santo Dottore per il Concilio di Lione; e udì spesso le confessioni di lui. Fu eletto nel 1318 Vescovo di Torcello, e resse quella sede per circa 4 anni.

V. — Fra Pietro Calò, di Chioggia, Domenicano; scrisse verso il 1320 in 2 grossi volumi le sue Sanctorum, e fra queste una biografia di San Tommaso stampata recentemente dal P. PrOmmer o. c. Fase. I, pag. 17-55.

VI. — Fra Bernardo Guidonis (de la Guyonne), Domenicano, nato nella diocesi di Limoges verso il 1260 eletto nel 1324 Vescovo di Tuy e poi di Lodève, prov. di Narbona, morto nel 1331, scrisse, tra le altre cose, una Legenda Sancii Thomae de Aquino stampata da Boninus Mombritius, nella sua opera Sanciuarium, seu Vitae Sanctorum, Milano 1480. T. IL (Altra edizione Parigi 1910 in 2 volumi). Vi fu tralasciata una parte, edita però nei Bollandisti op. cit. Vol I. Martii, p. 716-722.

VII. — Processus ìnquisitionis factae super mia, conversatione ei miraculìs recoL mem. Fr. Thomae de Aquino Ord. Frairum Prae- dicaiorum, Sacrae Theologiae Doctoris anno salutis MCCCXIX etc. Bollandisti, op. cit. pag. 684-714. Il Processo fu tenuto a Napoli dal 21 luglio al 18 settembre 1319 e poi a Fossanova nel 1321. Manca un frammento stampato dal Baluzio, Vita Paparum Avenionensium, Parigi 1693. T. II col. 7 e dall’Ab. Uccelli, che ne aggiunse un altro, totalmente inedito, nello scritto: Due documenti inediti per la vita di S. Tommaso d’Aquino, Napoli 1873.

VIII. — Bolla di canonizzazione di S. Tommaso, del dì 18 Luglio 1323, di Giovanni XXII. Stampata più volte, e recentemente nel voi. XVI degli Analecta Sacri Ord. Fratrum Prædicatorum, pag. 173-192, con un esame diplomatico e molte annotazioni, e nel volume: In honorem D. Thomae Aquinatis documenta pontificia ele. Tip. Vaticana, 1923, pag. 9-27, con fac-simile tratto dall’esemplare autentico.

IX. — Fra Raimondo di Ugo, segretario e compagno del P. Elia da Tolosa Maestro Generale dell’Ordine dal 1367 al 1369, lasciò uno scritto intitolato: Historia Transla- tionis Corporis S. Thomæ da Aquino, stampato dai Bollandoti dall’autografo di Tolosa, op. cit. pag. 723-731, con varii documenti, pag. 731-736. Morì nel 1368.

X. — Sant’Antonino Pierozzi, Domenicano, Arcivescovo di Firenze nato nel 1389, morto nel 1459 ha una completa biografia di San Tommaso nel vol. III delle sue celebri Cronache, Tit. XXIII, c. VIII, p. 644- 656. In essa è raccolto con diligenza e in bella forma in 14 paragrafi quanto si ha negli storici precedenti, sicché poco, nella parte sostanziale, hanno potuto aggiungere i biografi posteriori.

Altre preziose notizie, specialmente sull’insegnamento di San Tommaso a Parigi e sulla parte da lui presa nelle cose concernenti l’Ordine Domenicano, si hanno dalla pubblicazione del Chartulariicm Universitaria Parisiensìs, stampato a Parigi nel 1889 dal P. Denifle O. P. e da P. Chatelain; e dai volumi degli Aria Capitulì Generalis Ord.

Praedìc. stampati a Roma 1898-1900 dal P. Reichert O. P. Si aggiungano gli estratti da varii Capitoli Generali, pubblicati nel detto voi. Analecta S. O. P. da pag. 168 a pag. 173, Vari eruditi, al presente, come i Domenicani P. Mandonnet, P. Destrez e P. Prùmmer, il P. Pelster S. I., il Prof. Scandone ed altri vanno compiendo diligenti studi sulle predette fonti ed accurate ricerche negli archivi d’Europa, per avere altri dati biografici, e specialmente per stabilire la cronologia, ancora incerta in vari punti, della vita di San Tommaso. E da sperarsi che si giunga a buoni risultati, e che si possa alfine avere una vita veramente critica, cosa che il P. Prùmmer (o. c. p. 7) ritiene impossibile nel momento. Mentre questo serve a giustificare le lacune e incertezze che potranno trovare i lettori nel nostro umile lavoro, non potrà però provare V inutilità di quegli scritti che fanno conoscere, come al presente si può, la vita mirabile del Santo Dottore.

F I N E

MESSA DI SAN GIUSEPPE (2021)

MESSA DI SAN GIUSEPPE (2021)

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XCI: 13-14
Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

Ps XCI: 13-14.
[Il giusto fiorisce come palma, cresce come cedro del Libano: piantato nella casa del Signore: negli atrii della casa del nostro Dio.]
Ps 91:2
Bonum est confiteri Dómino: et psállere nómini tuo, Altíssime.

Ps XCI: 2.
[É bello lodarTi, o Signore: e inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]

V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto.

V. Gloria al Padre, e al Figlio, e allo Spirito Santo.

R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sǽcula sæculórum. Amen.

R. Come era nel principio e ora e sempre nei secoli dei secoli. Amen.

Justus ut palma florébit: sicut cedrus Líbani multiplicábitur: plantátus in domo Dómini: in átriis domus Dei nostri.

[Il giusto fiorisce come palma, cresce come cedro del Libano: piantato nella casa del Signore: negli atrii della casa del nostro Dio.]

Oratio

Orémus.
Sanctíssimæ Genetrícis tuæ Sponsi, quǽsumus, Dómine, méritis adjuvémur: ut, quod possibílitas nostra non óbtinet, ejus nobis intercessióne donétur:


[Ti preghiamo, o Signore, fa che, aiutati dai meriti dello Sposo della Tua Santissima Madre, ciò che da noi non possiamo ottenere ci sia concesso per la sua intercessione… ]

Lectio

Lectio libri Sapientiæ
Eccli XLV: 1-6
Diléctus Deo et homínibus, cujus memória in benedictióne est. Símilem illum fecit in glória sanctórum, et magnificávit eum in timóre inimicórum, et in verbis suis monstra placávit. Glorificávit illum in conspéctu regum, et jussit illi coram pópulo suo, et osténdit illi glóriam suam. In fide et lenitáte ipsíus sanctum fecit illum, et elégit eum; ex omni carne. Audívit enim eum et vocem ipsíus, et indúxit illum in nubem. Et dedit illi coram præcépta, et legem vitæ et disciplínæ.

[Fu caro a Dio e agli uomini, la sua memoria è in benedizione. Il Signore lo fece simile ai Santi nella gloria e lo rese grande e terribile ai nemici: e con la sua parola fece cessare le piaghe. Lo glorificò al cospetto del re e gli diede i comandamenti per il suo popolo, e gli fece vedere la sua gloria. Per la sua fede e la sua mansuetudine lo consacrò e lo elesse tra tutti i mortali. Dio infatti ascoltò la sua voce e lo fece entrare nella nuvola. Faccia a faccia gli diede i precetti e la legge della vita e della scienza.]

Graduale

Ps XX: 4-5
Dómine, prævenísti eum in benedictiónibus dulcédinis: posuísti in cápite ejus corónam de lápide pretióso.
V. Vitam pétiit a te, et tribuísti ei longitúdinem diérum in sǽculum sǽculi.

[O Signore, lo hai prevenuto con fauste benedizioni: gli ponesti sul capo una corona di pietre preziose.
V. Ti chiese vita e Tu gli concedesti la estensione dei giorni per i secoli dei secoli.]


Tractus

Ps CXI: 1-3
Beátus vir, qui timet Dóminum: in mandátis ejus cupit nimis.
V. Potens in terra erit semen ejus: generátio rectórum benedicétur.
V. Glória et divítiæ in domo ejus: et justítia ejus manet in sǽculum sǽculorum …

[Beato l’uomo che teme il Signore: e mette ogni delizia nei suoi comandamenti.
V. La sua progenie sarà potente in terra: sarà benedetta la generazione dei giusti.
V. Gloria e ricchezza sono nella sua casa: e la sua giustizia dura in eterno.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Matthǽum
R. Glória tibi, Dómine.
Matt I: 18-21
Cum esset desponsáta Mater Jesu María Joseph, ántequam convenírent, invénta est in útero habens de Spíritu Sancto. Joseph autem, vir ejus, cum esset justus et nollet eam tradúcere, vóluit occúlte dimíttere eam. Hæc autem eo cogitánte, ecce, Angelus Dómini appáruit in somnis ei, dicens: Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est. Páriet autem fílium, et vocábis nomen ejus Jesum: ipse enim salvum fáciet pópulum suum a peccátis eórum.

[Essendo Maria, la Madre di Gesù, sposata a Giuseppe, prima di abitare con lui fu trovata incinta, per virtù dello Spirito Santo. Ora, Giuseppe, suo marito, essendo giusto e non volendo esporla all’infamia, pensò di rimandarla segretamente. Mentre pensava questo, ecco apparirgli in sogno un Angelo del Signore, che gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, cui porrai nome Gesù: perché egli libererà il suo popolo dai suoi peccati.]

OMELIA

GRANDEZZA E BONTÀ DI SAN GIUSEPPE

[G. Colombo: Pensieri … ed. Vita e Pens. Milano 1956]

Il piccolo figliuolo di Giacobbe, una mattina svegliandosi, diceva ai suoi fratelli e a suo padre: « Io ho sognato una bellissima cosa. Mi trovavo sospeso non so per quale virtù, in mezzo all’azzurro del cielo: ed ecco il sole, la luna e undici stelle fermarsi in giro a me; e adorarmi ». Dopo averlo ascoltato, tutti sgranarono gli occhi e non compresero il significato: quel bambino sarebbe un giorno diventato il Viceré d’Egitto, e suo padre e sua madre e i suoi undici fratelli si sarebbero prostrati a’ suoi piedi implorando un po’ di pane e di misericordia. Il fanciullo sognatore narrò ancora un’altra visione: « Si era nel campo in una giornata ardente di mietitura. Io mieteva ed anche voi mietevate: quand’ecco il mio covone levarsi da solo e starsene ritto mentre i vostri, curvi attorno ad esso, l’adoravano ». I fratelli, tra invidiosi e irosi, scoppiarono a ridere. « Forse che tu sarai il nostro Re? Forse che noi saremo i sudditi della tua minuscola potestà? ». Essi non sapevano come l’avvenire avrebbe dato ragione a quei sogni. Noi invece lo sappiamo dalla storia sacra. Ma noi sappiamo anche come Giuseppe figlio di Giacobbe non è che un’immagine profetica di Giuseppe, il padre putativo di Gesù, lo sposo della vergine Maria. È per lui che in modo più grande e più vero si realizzarono i sogni dell’antico Giuseppe. Vidi quasi solem et lunam et stellas undecim adorare me. Il sole di giustizia e di verità che illumina ogni uomo che viene al mondo è Gesù Cristo. La luna di grazia e di candore è Maria che nella Scrittura è detta splendida più che la luna.

Ebbene, nella quieta dimora di Nazareth, Gesù e Maria si curvavano ubbidienti al cenno di Giuseppe, capo della santa famiglia, e lo veneravano affettuosamente.

Vidi consurgere manipulum meum et stare; vestrosque manipulos circumstantes adorare.

La Chiesa è simile ad un’ampia campagna pronta per la mietitura: S. Giuseppe, patrono della Chiesa universale, vi sta ritto in mezzo a custodirla e a benedirla; mentre intorno a lui accorrono i fedeli da ogni parte. Oh come è grande, come è buono San Giuseppe! Della sua grandezza e della sua bontà dobbiamo parlare quest’oggi, ch’è la sua festa.

Un retore famoso tesseva un giorno nell’aeropago l’elogio di Filippo il Macedone. Decantate le nobili origini del suo eroe, le ricchezze, la potenza, il coraggio, le vittorie, tacque un istante come se non avesse più nulla d’aggiungere. Ma poi subitamente gridò: « Tutto questo è nulla. Egli fu il padre d’Alessandro, il conquistatore del mondo; ecco la sua gloria immensa». Anch’io, se vi facessi passare ad una ad una le virtù di S. Giuseppe, potrei infine concludere: « Tutto questo è nulla, la sua gloria eterna è di essere stato il padre custode di Gesù, Salvatore del mondo, e d’essere stato il casto sposo della vergine Maria, madre di Dio. Per ciò egli è al disopra dei santi. Questi sono i suoi titoli di nobiltà: consideriamoli singolarmente.

a) Sposo di Maria. — Benché Giuseppe e Maria rimanessero per tutta la vita vergini, vivendo insieme come vivrebbero gli Angeli, tuttavia contrassero un legittimo matrimonio; e così S. Giuseppe fu suo sposo vero. Ora, la sposa — come dice anche S. Paolo — è soggetta allo sposo: Maria quindi fu soggetta a S. Giuseppe. Pensate, quanto onore! Sposo di Maria significa essere sposo della creatura più grande che vi fu mai in cielo e in terra, della creatura che fu Madre di Dio. – Sposo di Maria significa essere sposo della Regina degli Angeli, degli Arcangeli, dei Patriarchi, dei Profeti, degli Apostoli, dei martiri; della Regina senza macchia; della Regina di pace.

b) Padre di Gesù. — Giuseppe non fu, è vero, il padre naturale di Gesù, perché il Figlio di Dio si fece uomo incarnandosi nel seno purissimo di Maria vergine per opera dello Spirito Santo. Eppure nel Vangelo più volte è chiamato col nome di padre. Dopo d’aver descritto il mistero della presentazione al tempio, dopo d’aver ricordato le profezie di Simeone, l’Evangelista aggiunge: « Erano suo padre e sua madre meravigliati » (Lc, II, 33). E la Madonna stessa nella gioia di ritrovare il Bambino tra i dottori ricorda S. Giuseppe col nome di padre: « Tuo padre ed io, piangendo, t’abbiamo molto cercato ».

Perché, se non cooperò alla sua generazione, S. Giuseppe fu chiamato Padre di Gesù? Per due motivi : perché fu sposo di Maria, e perché di padre ebbe tutta l’autorità e la responsabilità. – Il primo motivo è spiegato da S. Francesco di Sales. « Supponete che una colomba, volando dal suo becco lasci cadere un dattero in un giardino. Il frutto caduto dall’alto s’interra, e sotto l’azione dell’acqua e del sole germoglia, cresce, e diventa una bella palma. Questa palma di chi sarà? Evidentemente del padrone del giardino, come ogni altra cosa è sua che in esso vi nasca. Ora: quella colomba raffigura lo Spirito Santo che lasciò cadere il dattero divino, — il Figlio di Dio, — nel giardino conchiuso dove ogni virtù è fiorita, — il seno di Maria. — E Gesù nacque da Maria; ma appartenendo essa di pieno diritto al castissimo suo sposo, anche Gesù, — palma celeste, — almeno in qualche modo appartiene a Giuseppe ». – Il secondo motivo è spiegato da S. Giovanni Damasceno: « Non è appena la fecondità nel generare che ad alcuno dà il diritto di chiamarsi padre, ma anche l’autorità nel governare, e la responsabilità della vita ». E fu S. Giuseppe che lo sottrasse ad ogni pericolo, che lo allevò in casa sua, che lo fece crescere. Fu S. Giuseppe che insegnò un mestiere al Figlio di Dio, che comandò a lui come a un garzone. E chissà come tutto tremava in cuore, e come gli si inumidivano gli occhi, quando Gesù gli diceva: « Padre! ».

c) Più grande dei Santi. — Se Iddio destina una persona a qualche sublime ufficio, lo riveste di tutte le virtù necessarie per bene adempirlo. Così avendo eletto Maria ad essere sua Madre, la riempì di grazia sopra ogni creatura. Allo stesso modo, in proporzione, avendo eletto S. Giuseppe alla dignità di suo padre putativo e di sposo della Vergine, lo colmò di grazie immense, come nessun altro santo. – Il Vangelo chiama Giuseppe « uomo giusto ». E S. Girolamo spiega che quella parola « giusto » significa che egli possedeva tutte le virtù. Mentre gli altri santi si segnalarono particolarmente chi nell’una chi nell’altra virtù, egli fu perfetto egualmente in tutte le virtù. Per questo il 31 dicembre 1926, nella Basilica di S. Pietro, Pio XI cantando solennemente le litanie dei Santi, immediatamente dopo l’invocazione alla Madonna soggiunse quella a S. Giuseppe: — Sante Joseph intercede prò nobis.

2. BONTÀ DI GIUSEPPE

Re Assuero, una notte che non poteva prendere sonno, si fece leggere gli annali del suo regno. Il lettore nella quietudine notturna rievocava le gesta del re insonne: le battaglie sanguinose, le vittorie sonanti di grida, i movimenti più trepidi di gioia, e quelli spasimanti di pericolo, ed arrivò ad una congiura. Una congiura ordita da due ufficiali nella stessa reggia: fatalmente il re sarebbe caduto sotto le lame dei cospiratori, se la sagacia vigilante del primo ministro non fosse giunta a svelare la trama iniqua a tempo opportuno. «Fermati!» esclamò Assuero balzando sul letto d’oro… «Chi dunque mi ha salvato? ».

« Il primo ministro, sire ».

« E quale ricompensa si ebbe? ».

« Finora nessuna ».

Allora ordinò che al levar del sole il primo ministro fosse rivestito con abiti regali, e cavalcasse il suo cavallo più bello e girasse per le strade di tutta la città, mentre un araldo gridasse davanti a lui: — Così è onorato colui che il re vuol esaltare. — Questi ordini furono eseguiti: e chiunque aveva bisogno di grazia si rivolgeva al primo ministro, sicuro d’essere esaudito dal re. – Ma anche S. Giuseppe, o Cristiani, ha salvato la vita del Re del Cielo, — di Gesù Bambino, — quando la congiura d’Erode ha cercato di soffocarlo nel sangue. E pensate voi che verso il suo salvatore il Re del Cielo sia meno generoso di Re Assuero? Come potrà Iddio negare una grazia quando colui che gliela chiede è San Giuseppe? Si capisce allora come S. Teresa poteva dire: « Non si è mai sentito che alcuno abbia ricorso alla bontà di S. Giuseppe e non sia stato esaudito. Se non mi credete, per amor di Dio vi supplico a farne la prova, e mi crederete ». Gesù predicando alle turbe insegnava: « Chi avrà dato anche solo un bicchier d’acqua chiara all’ultimo povero di questo mondo in nome mio, avrà gran mercede ». Quale mercede non avrà dunque in Paradiso S. Giuseppe che, non appena un bicchier d’acqua all’ultimo poverello, ma per trent’anni ha nutrito e protetto in casa sua il Figlio di Dio? Rallegriamoci: presso il trono dell’Altissimo abbiamo un protettore onnipotente e buono, che può e desidera soccorrerci in tutti i travagli della vita. La vita è un peso, ha detto S. Paolo, e noi lo esperimentiamo ogni giorno: peso per i dolori, peso per i lavori, peso per la morte.

a) Ricorriamo a S. Giuseppe nel dolore. — Tutta la vita non la passò forse in patimento? Ricordate la notte di Natale: nell’albore del verno bussò invano di porta in porta, e fu costretto a porre nella greppia delle bestie i l Figlio di Dio. Ricordate la sua fuga, lontano dai parenti, dal paese, dalla bottega, da’ suoi affari. Ricordate i tre giorni di affannosa ricerca, quando lo smarrì in Gerusalemme. Oh! insegni anche a noi a far la volontà di Dio quando siamo tribolati; ci dia la pazienza di vivere in questa valle di lacrime; ci conforti.

b) Ricorriamo a S. Giuseppe nel lavoro. — Ci sono alcune volte in cui gli affari vanno male, ed il guadagno manca; in cui ci sembra d’andare in rovina, noie la nostra famiglia. Alziamo lo sguardo a lui: queste angustie egli le ha provate. Chi sa quante volte nella bottega nazarena si sarà sentito accasciato sotto la fatica,e quante volte anch’egli avrà visto i suoi modesti affari prendere una cattiva piega, e forse avrà pianto nel timore di far duramente soffrire la Vergine e il Figlio, dicui aveva la custodia e la responsabilità. Questo santo che prima di noi ha provato quello che soffriamo noi, non ci negherà nulla. Ma avanti d’esigere che ci ascolti, bisogna sforzarci sull’orma delle sue virtù. Siamo onesti nel lavoro come onesto era lui?

c) Ricorriamo a S. Giuseppe per una buona morte. — Morir bene è la cosa più importante di questo mondo. Eppure non è cosa facile: i progressi della civiltà, automobili, treni, velivoli, navi, hanno segnato un crescendo di morti improvvise; la corruzione dei costumi ha segnato un crescendo di morti impenitenti. Occorre il protettore per una morte buona: è S. Giuseppe.

Ed invero nessuno ha fatto una morte buona come la sua. Quando Gesù non ebbe più bisogno di chi lo nutrisse e lo allevasse, egli si sentì male ed entrò in agonia. Da una parte aveva la Madonna che piangeva e pregava; dall’altra aveva Gesù che gli sosteneva la testa languida e gli sussurrava: « Grazie di tutto quello che mi hai fatto; ora muori in pace. Muori nel mio bacio, e discendi al Limbo ove annunzierai che l’ora della redenzione è ormai giunta. Pochi anni, e passerò di là a prenderti per sollevarti nel Paradiso che dischiuderò con le mie mani che saranno trafitte ». S. Giuseppe non risponde che non ha più la forza: solo accenna a sorridere e muore.

«Oh che anch’io possa morire così! » sospira ognuno di noi, pensando a quelle beata fine. Questa sarebbe la grazia più bella e più grande che S. Giuseppe ci possa fare. Ma la morte del Giusto, o Cristiani, l’otterrà soltanto chi nella vita l’avrà imitato ed invocato.

CREDO …

IL CREDO

Offertorium


Orémus
Ps LXXXVIII: 25
Véritas mea et misericórdia mea cum ipso: et in nómine meo exaltábitur cornu ejus.

[La mia fedeltà e la mia misericordia sono con lui: e nel mio nome sarà esaltata la sua potenza].

Secreta

Débitum tibi, Dómine, nostræ réddimus servitútis, supplíciter exorántes: ut, suffrágiis beáti Joseph, Sponsi Genetrícis Fílii tui Jesu Christi, Dómini nostri, in nobis tua múnera tueáris, ob cujus venerándam festivitátem laudis tibi hóstias immolámus.

[Ti rendiamo, o Signore, il doveroso omaggio della nostra sudditanza, prengandoTi supplichevolmente, di custodire in noi i tuoi doni per intercessione del beato Giuseppe, Sposo della Madre del Figlio Tuo Gesù Cristo, nostro Signore, nella cui veneranda solennità Ti presentiamo appunto queste ostie di lode].

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de S. Joseph

Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Et te in Festivitáte beáti Joseph débitis magnificáre præcóniis, benedícere et prædicáre. Qui et vir justus, a te Deíparæ Vírgini Sponsus est datus: et fidélis servus ac prudens, super Famíliam tuam est constitútus: ut Unigénitum tuum, Sancti Spíritus obumbratióne concéptum, paterna vice custodíret, Jesum Christum, Dóminum nostrum. Per quem majestátem tuam laudant Angeli, adórant Dominatiónes, tremunt Potestátes. Cæli cælorúmque Virtútes ac beáta Séraphim sócia exsultatióne concélebrant. Cum quibus et nostras voces ut admítti júbeas, deprecámur, súpplici confessióne dicéntes: Sanctus …
[Èveramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza, rendere grazie sempre e dovunque a te, Signore, Padre santo, Dio onnipotente ed eterno: noi ti glorifichiamo, ti benediciamo e solennemente ti lodiamo di S. Giuseppe. Egli, uomo giusto, da te fu prescelto come Sposo della Vergine Madre di Dio, e servo saggio e fedele fu posto a capo della tua famiglia, per custodire, come padre, il tuo unico Figlio, concepito per opera dello Spirito Santo, Gesù Cristo nostro Signore. Per mezzo di lui gli Angeli lodano la tua gloria, le Dominazioni ti adorano, le Potenze ti venerano con tremore. A te inneggiano i Cieli, gli Spiriti celesti e i Serafini, uniti in eterna esultanza. Al loro canto concedi, o Signore, che si uniscano le nostre umili voci nell’inno di lode: Santo …]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt 1:20
Joseph, fili David, noli timére accípere Maríam cónjugem tuam: quod enim in ea natum est, de Spíritu Sancto est.

[Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere Maria come tua sposa: poiché quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo.]

Postcommunio

Orémus.
Adésto nobis, quǽsumus, miséricors Deus: et, intercedénte pro nobis beáto Joseph Confessóre, tua circa nos propitiátus dona custódi.

[Assistici, Te ne preghiamo, O Dio misericordioso: e, intercedendo per noi il beato Giuseppe Confessore, propizio custodisci in noi i tuoi doni.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

19 MARZO: FESTA DI SAN GIUSEPPE (2021)

FESTA DI S. GIUSEPPE

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi. VI ediz.– Soc. Ed. Vita e Pensiero; Milano, 1956]

GRANDEZZA E BONTÀ DI SAN GIUSEPPE

Il piccolo figliuolo di Giacobbe, una mattina svegliandosi, diceva ai suoi fratelli e a suo padre: « Io ho sognato una bellissima cosa. Mi trovavo sospeso non so per quale virtù, in mezzo all’azzurro del cielo: ed ecco il sole, la luna e undici stelle fermarsi in giro a me; e adorarmi ». Dopo averlo ascoltato, tutti sgranarono gli occhi e non compresero il significato: quel bambino sarebbe un giorno diventato il Viceré d’Egitto, e suo padre e sua madre e i suoi undici fratelli si sarebbero prostrati a’ suoi piedi implorando un po’ di pane e di misericordia. Il fanciullo sognatore narrò ancora un’altra visione: « Si era nel campo in una giornata ardente di mietitura. Io mieteva ed anche voi mietevate: quand’ecco il mio covone levarsi da solo e starsene ritto mentre i vostri, curvi attorno ad esso, l’adoravano ». I fratelli, tra invidiosi e irosi, scoppiarono a ridere. « Forse che tu sarai il nostro Re? Forse che noi saremo i sudditi della tua minuscola potestà? ». Essi non sapevano come l’avvenire avrebbe dato ragione a quei sogni. Noi invece lo sappiamo dalla storia sacra. Ma noi sappiamo anche come Giuseppe figlio di Giacobbe non è che un’immagine profetica di Giuseppe, il padre putativo di Gesù, lo sposo della vergine Maria. È per lui che in modo più grande e più vero si realizzarono i sogni dell’antico Giuseppe. Vidi quasi solem et lunam et stellas undecim adorare me. Il sole di giustizia e di verità che illumina ogni uomo che viene al mondo è Gesù Cristo. La luna di grazia e di candore è Maria che nella Scrittura è detta splendida più che la luna.

Ebbene, nella quieta dimora di Nazareth, Gesù e Maria si curvavano ubbidienti al cenno di Giuseppe, capo della santa famiglia, e lo veneravano affettuosamente.

Vidi consurgere manipulum meum et stare; vestrosque manipulos circumstantes adorare. La Chiesa è simile ad un’ampia campagna pronta per la mietitura: S. Giuseppe, patrono della Chiesa universale, vi sta ritto in mezzo a custodirla e a benedirla; mentre intorno a lui accorrono i fedeli da ogni parte. Oh come è grande, come è buono San Giuseppe! Della sua grandezza e della sua bontà dobbiamo parlare quest’oggi, ch’è la sua festa.

GRANDEZZA DI GIUSEPPE

Un retore famoso tesseva un giorno nell’aeropago l’elogio di Filippo il Macedone. Decantate le nobili origini del suo eroe, le ricchezze, la potenza, il coraggio, le vittorie, tacque un istante come se non avesse più nulla d’aggiungere. Ma poi subitamente gridò: « Tutto questo è nulla. Egli fu il padre d’Alessandro, il conquistatore del mondo; ecco la sua gloria immensa». Anch’io, se vi facessi passare ad una ad una le virtù di S. Giuseppe, potrei infine concludere: « Tutto questo è nulla, la sua gloria eterna è di essere stato il padre custode di Gesù, Salvatore del mondo, e d’essere stato il casto sposo della vergine Maria, madre di Dio. Per ciò egli è al disopra dei santi. Questi sono i suoi titoli di nobiltà: consideriamoli singolarmente.

a) Sposo di Maria. — Benché Giuseppe e Maria rimanessero per tutta la vita vergini, vivendo insieme come vivrebbero gli Angeli, tuttavia contrassero un legittimo matrimonio; e così S. Giuseppe fu suo sposo vero. Ora, la sposa — come dice anche S. Paolo — è soggetta allo sposo: Maria quindi fu soggetta a S. Giuseppe. Pensate, quanto onore! Sposo di Maria significa essere sposo della creatura più grande che vi fu mai in cielo e in terra, della creatura che fu Madre di Dio. – Sposo di Maria significa essere sposo della Regina degli Angeli, degli Arcangeli, dei Patriarchi, dei Profeti, degli Apostoli, dei martiri; della Regina senza macchia; della Regina di pace.

b) Padre di Gesù. — Giuseppe non fu, è vero, il padre naturale di Gesù, perché il Figlio di Dio si fece uomo incarnandosi nel seno purissimo di Maria vergine per opera dello Spirito Santo. Eppure nel Vangelo più volte è chiamato col nome di padre. Dopo d’aver descritto il mistero della presentazione al tempio, dopo d’aver ricordato le profezie di Simeone, l’Evangelista aggiunge: « Erano suo padre e sua madre meravigliati » (Lc, II, 33). E la Madonna stessa nella gioia di ritrovare il Bambino tra i dottori ricorda S. Giuseppe col nome di padre: « Tuo padre ed io, piangendo, t’abbiamo molto cercato ».

Perché, se non cooperò alla sua generazione, S. Giuseppe fu chiamato Padre di Gesù? Per due motivi : perché fu sposo di Maria, e perché di padre ebbe tutta l’autorità e la responsabilità. – Il primo motivo è spiegato da S. Francesco di Sales. « Supponete che una colomba, volando dal suo becco lasci cadere un dattero in un giardino. Il frutto caduto dall’alto s’interra, e sotto l’azione dell’acqua e del sole germoglia, cresce, e diventa una bella palma. Questa palma di chi sarà? Evidentemente del padrone del giardino, come ogni altra cosa è sua che in esso vi nasca. Ora: quella colomba raffigura lo Spirito Santo che lasciò cadere i l dattero divino, — il Figlio di Dio, — nel giardino conchiuso dove ogni virtù è fiorita, — il seno di Maria. — E Gesù nacque da Maria; ma appartenendo essa di pieno diritto al castissimo suo sposo, anche Gesù, — palma celeste, — almeno in qualche modo appartiene a Giuseppe ». – Il secondo motivo è spiegato da S. Giovanni Damasceno: « Non è appena la fecondità nel generare che ad alcuno dà il diritto di chiamarsi padre, ma anche l’autorità nel governare, e la responsabilità della vita ». E fu S. Giuseppe che lo sottrasse ad ogni pericolo, che lo allevò in casa sua, che lo fece crescere. Fu S. Giuseppe che insegnò un mestiere al Figlio di Dio, che comandò a lui come a un garzone. E chissà come tutto tremava in cuore, e come gli si inumidivano gli occhi, quando Gesù gli diceva: « Padre! ».

c) Più grande dei Santi. — Se Iddio destina una persona a qualche sublime ufficio, lo riveste di tutte le virtù necessarie per bene adempirlo. Così avendo eletto Maria ad essere sua Madre, la riempì di grazia sopra ogni creatura. Allo stesso modo, in proporzione, avendo eletto S. Giuseppe alla dignità di suo padre putativo e di sposo della Vergine, lo colmò di grazie immense, come nessun altro santo. – Il Vangelo chiama Giuseppe « uomo giusto ». E S. Girolamo spiega che quella parola « giusto » significa che egli possedeva tutte le virtù. Mentre gli altri santi si segnalarono particolarmente chi nell’una chi nell’altra virtù, egli fu perfetto egualmente in tutte le virtù. Per questo il 31 dicembre 1926, nella Basilica di S. Pietro, Pio XI cantando solennemente le litanie dei Santi, immediatamente dopo l’invocazione alla Madonna soggiunse quella a S. Giuseppe : — Sante Joseph intercede prò nobis.

2. BONTÀ DI GIUSEPPE

Re Assuero, una notte che non poteva prendere sonno, si fece leggere gli annali del suo regno. Il lettore nella quietudine notturna rievocava le gesta del re insonne: le battaglie sanguinose, le vittorie sonanti di grida, i movimenti più trepidi di gioia, e quelli spasimanti di pericolo, ed arrivò ad una congiura. Una congiura ordita da due ufficiali nella stessa reggia: fatalmente il re sarebbe caduto sotto le lame dei cospiratori, se la sagacia vigilante del primo ministro non fosse giunta a svelare la trama iniqua a tempo opportuno. «Fermati!» esclamò Assuero balzando sul letto d’oro… «Chi dunque mi ha salvato? ». « Il primo ministro, sire ». « E quale ricompensa si ebbe? ». « Finora nessuna ». – Allora ordinò che al levar del sole il primo ministro fosse rivestito con abiti regali, e cavalcasse il suo cavallo più bello e girasse per le strade di tutta la città, mentre un araldo gridasse davanti a lui: — Così è onorato colui che il re vuol esaltare. — Questi ordini furono eseguiti: e chiunque aveva bisogno di grazia si rivolgeva al primo ministro, sicuro d’essere esaudito dal re. – Ma anche S. Giuseppe, o Cristiani, ha salvato la vita del Re del Cielo, — di Gesù Bambino, — quando la congiura d’Erode ha cercato di soffocarlo nel sangue. E pensate voi che verso il suo salvatore il Re del Cielo sia meno generoso di Re Assuero? Come potrà Iddio negare una grazia quando colui che gliela chiede è San Giuseppe? Si capisce allora come S. Teresa poteva dire: « Non si è mai sentito che alcuno abbia ricorso alla bontà di S. Giuseppe e non sia stato esaudito. Se non mi credete, per amor di Dio vi supplico a farne la prova, e mi crederete ». Gesù predicando alle turbe insegnava: « Chi avrà dato anche solo un bicchier d’acqua chiara all’ultimo povero di questo mondo in nome mio, avrà gran mercede ». Quale mercede non avrà dunque in Paradiso S. Giuseppe che, non appena un bicchier d’acqua all’ultimo poverello, ma per trent’anni ha nutrito e protetto in casa sua il Figlio di Dio? Rallegriamoci: presso il trono dell’Altissimo abbiamo un protettore onnipotente e buono, che può e desidera soccorrerci in tutti i travagli della vita. La vita è un peso, ha detto S. Paolo, e noi lo esperimentiamo ogni giorno: peso per i dolori, peso per i lavori, peso per la morte.

a) Ricorriamo a S. Giuseppe nel dolore. — Tutta la vita non la passò forse in patimento? Ricordate la notte di Natale: nell’albore del verno bussò invano di porta in porta, e fu costretto a porre nella greppia delle bestie i l Figlio di Dio. Ricordate la sua fuga, lontano dai parenti, dal paese, dalla bottega, da’ suoi affari. Ricordate i tre giorni di affannosa ricerca, quando lo smarrì in Gerusalemme. Oh! insegni anche a noi a far la volontà di Dio quando siamo tribolati; ci dia la pazienza di vivere in questa valle di lacrime; ci conforti.

b) Ricorriamo a S. Giuseppe nel lavoro. — Ci sono alcune volte in cui gliaffari vanno male, ed il guadagno manca; in cui ci sembra d’andare in rovina, noie la nostra famiglia. Alziamo lo sguardo a lui: queste angustie egli le ha provateChi sa quante volte nella bottega nazarena si sarà sentito accasciato sotto la fatica,e quante volte anch’egli avrà visto i suoi modesti affari prendere una cattiva piega,e forse avrà pianto nel timore di far duramente soffrire la Vergine e il Figlio, dicui aveva la custodia e la responsabilità. Questo santo che prima di noi ha provatoquello che soffriamo noi, non ci negherà nulla.Ma avanti d’esigere che ci ascolti, bisogna sforzarci sull’orma delle sue virtù.Siamo onesti nel lavoro come onesto era lui?

c) Ricorriamo a S. Giuseppe per una buona morte. — Morir bene è la cosa più importante di questo mondo. Eppure non è cosa facile: i progressi della civiltà, automobili, treni, velivoli, navi, hanno segnato un crescendo di morti improvvise; la corruzione dei costumi ha segnato un crescendo di morti impenitenti. Occorre il protettore per una morte buona: è S. Giuseppe.

Ed invero nessuno ha fatto una morte buona come la sua. Quando Gesù non ebbe più bisogno di chi lo nutrisse e lo allevasse, egli si sentì male ed entrò in agonia. Da una parte aveva la Madonna che piangeva e pregava; dall’altra aveva Gesù che gli sosteneva la testa languida e gli sussurrava: « Grazie di tutto quello che mi hai fatto; ora muori in pace. Muori nel mio bacio, e discendi al Limbo ove annunzierai che l’ora della redenzione è ormai giunta. Pochi anni, e passerò di là a prenderti per sollevarti nel Paradiso che dischiuderò con le mie mani che saranno trafitte ». S. Giuseppe non risponde che non ha più la forza: solo accenna a sorridere e muore.

CONCLUSIONE

« Oh che anch’io possa morire così! » sospira ognuno di noi, pensando a quelle beata fine. Questa sarebbe la grazia più bella e più grande che S. Giuseppe ci possa fare. Ma la morte del Giusto, o Cristiani, l’otterrà soltanto chi nella vita l’avrà imitato ed invocato.

LA SITUAZIONE (4)

LA SITUAZIONE (4):

DOLORI, PERICOLI, DOVERI E CONSOLAZIONI DEI CATTOLICI DEI TEMPI PRESENTI

OPERA DI MONSIGNORE G. G. GAUME PROTONOTARIO APOSTOLICO

Custos, quid nocte?

Sentinella: che è della notte?

ROMA tipografia Tiberina – 1861

Lettera Quarta

Caro Amico.

Per quanto ho potuto, ho cercato, caro amico, di ben definire la situazione, in cui siamo. Voi intendete la natura del movimento che ci trascina, anzi, se non erriamo, il punto riciso, ove è la lotta eterna del male contro il bene. Essa si assomma oggidì nello spogliamento dello Stato Pontificio, o, che è tutt’uno, nella soppressione della sovranità visibile di Nostro Signore Gesù Cristo. Ma questo fatto è nato forse come un fungo sopra una quercia? ne è l’idea forse caduta ieri in testa ad alcuno chi che si fosse personaggio? Forse tutto ad un tratto e come a dire di salto l’Europa si è imbattuta, e impigliata nel terribile mal passo d’onde non sa come uscire? A sol pensarlo, è un errore. Il troppo famoso opuscolo Il Papa ed il Congresso non ha già esso creato la presente situazione, l’ha sì bene rivelata; che quello che è, emana da quello che fu. Onde non vedere nella situazione attuale; ma che un avvenimento transitorio, impreveduto, altro o improvvisato, è come un ridurre un gigante alla statura di un nano. Lo spogliamento completo della Chiesa Romana, come abbiamo detto, si manifesta un fatto annunziato da gran tempo, avente sue profonde radici nel passato dell’Europa moderna. E noi ci facciamo a ricercarlo. Perciocché a ben conoscere una malattia, e soprattutto a trattarne con buon successo, ci bisogna conoscerne l’origine. – Lo spogliamento supremo di cui siamo minacciati, considerato come idea e nella sua causa primiera, che è la rabbia di satana, è tanto antico quanto il Cristianesimo: ma se noi lo studiamo nella sua formola e nei suoi pretesti, in una parola nella sua manifestazione pubblica e riconosciuta, esso è sol vecchio di quattro secoli. Voi ben sapete, come entrando il Cristianesimo nel mondo, vi trovò il genere umano curvato sotto il giogo di Cesare. Ogni potere concentrato nelle mani di un uomo; ogni diritto nella sua volontà. Quest’uomo era un dio: questo dio si appellava Nerone, Tiberio, Caligola, Domiziano. Era unità nell’ultima abbiezione. A fine di lacerare questa caria del più mostruoso dispotismo, il Cristianesimo entra a dividere il potere. A fianco a Cesare crea il Pontefice. A Cesare subordinato al Pontefice egli confida i corpi; al Pontefice assegna le anime. Come l’anima ed il corpo, la società spirituale e la società civile, unite senza confondersi, procedono con passo sicuro verso la loro perfezione rispettiva. – In tal modo il dispotismo cesareo divenuto impossibile, la libertà umana è in salvo. Tre secoli di lotta accanita cacciano il demonio da Roma ch’era capitale del suo regno, che si diventa Capo alla Città di Dio. Ma come già ebbe detto l’eminentissimo Cardinal Vicario, satana furioso non però si tenne per vinto. Dopo la sua espulsione non cessò mai di aggirarsi intorno a Roma, e di fare incessanti sforzi per rientrarvi. La storia che ciò racconta, racconta altresì le sue disfatte. Invano resuscitare il passato, egli arrolla talvolta sotto i suoi sediziosi stendardi gl’Imperatori di Alemagna, e i loro legisti. Invano il poeta di Firenze pubblica l’apologia dell’antico Cesarismo; cheDante non vi profitta, come già fallirono i Ghibellini. Sopra il principio evangelico si posa, e sta lungamente l’ordine europeo, come la piramide del deserto sopra la sua base di granito. Questi vieti tentativi contro la sovranità pontificale saranno, se vi piace, le radichette della presente situazione; ma la vera radice è più moderna. Questa radice, senza la quale l’albero non sarebbe mai divenuto sì grande, venne piantata, ha già quattro secoli, nel suolo dell’Europa. A quell’età di sinistra memoria, si eccitò nelle nazioni cristiane dell’occidente certa specie di fanatismo in favore delle istituzioni politiche dei popoli pagani. Presentata come il tipo della forza e della perfezione sociale, la grande unità materiale del mondo di Tiberio si porge, come uno specchio all’Europa stupefatta. Roma antica sorge dalla tomba con tutto il suo corteggio di libertà, di virtù, e di vittorie. Si cantano le sue grandezze; si ridice il segreto di sua potenza; si ricostruisce in idea; ed alla sommità dell’edificio sempre brilla Cesare imperatore e pontefice. – Allora fu che compissi un cangiamento radicale nella politica tradizionale dell’Europa; e Macchiavelli ne fu principale strumento. « La sua opera, dice un autore non sospetto, il Sig. Matter, segna un’era novella, cioè un’era di sovversione completa; non già una semplice rottura tra la religione e la politica; ma proprio un’era di sovvertimento fondamentale delle loro antiche relazioni ». (Hist, des Soc. polit., etc. t. 1, p. 70). Ciò che nessun altro aveva fatto prima di lui, quest’uomo figlio della sua educazione, formola nettamente la teoria dell’onnipotenza cesarea, abolita dal Cristianesimo. Egli la parla, la scrive, la rende popolare. Un ostacolo si oppone, e si opporrà sempre a questa onnipotenza; la proprietà, onde la Chiesa è indipendente; e Macchiavelli si fa sollecito di far ciò bene conoscere: onde in tutta Europa l’ambizione coronata a poco a poco, presto, o tardi saprà farla scomparire: ed aspettando che ciò si esegua, il fiorentino mette mano all’opera nel suo proprio paese. Venti anni prima di Lutero, in seno ad una città cattolica, a poche leghe distante da Roma, egli osa pubblicare che l’unico ostacolo all’unità d’Italia e la causa di tutti i suoi mali è il potere temporale della Chiesa Romana. Si rimane stupefatto in trovare sotto la sua penna, alla lettera, tutta la politica del Piemonte, la Questione Romana di About, i proclami di Garibaldi, il programma di Mazzini, le arringhe di Cavour, i memorandum di Vittorio Emmanuelc, e le istruzioni delle società segrete![Il 3 Marzo di quest’anno (1860) Ricasoli governatore della Toscana diceva alle truppe: La nostra costituzione non può essere ostacolata che dal suo eterno nemico decrepito. Questo nemico è il potere temporale di Roma. » Sopraggiunge in conferma di ciò l’orribile ordine del giorno del generale piemontese Ferdinando Piuelli datato in Ascoli il 3 febbraio di quest’anno 1861; nel quale dice ai suoi soldati « Noi schiacceremo il sacerdotal vampiro, che colle sozze labbra succhia da secoli il sangue della madre nostra; purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall’immouda sua bava, etc. etc. « Altro che Drusi! Satana istesso non avrebbe potuto dichiarare più esplicitamente ove son diretti tutti i suoi sforzi.]. – Voi ne giudicherete da voi stesso: « Abbiamo dunque colla Chiesa e coi Preti noi Italiani, dice Macchiavelli, questo primo obbligo, di essere diventati senza religione, e cattivi; ma ne abbiamo ancora un maggiore, il quale è cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa nostra Provincia divisa. E veramente alcuna Provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d’una Repubblica, o d’un Principe E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch’ella o una repubblica, o un Principe che la governi, è solamente la Chiesa; perché avendovi abitato e tenuto Imperio temporale, non è stata sì potente, né di tal virtù che la abbia potuto occupare il restante d’Italia, e farsene Principe. E non è stata dall’altra parte sì debole, che per paura di non perdere il dominio delle cose temporali, la non abbi potuto convocare un potente che la difenda contra a quello che in Italia fosse diventato troppo potente. Non essendo dunque stata la Chiesa potente da poter occupare l’Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto un Capo, ma è stata sotto più Principi e Signori; dai quali è nata tanta disunione, e tanta debolezza, che la si è condotta ad essere stata preda non solamente dei Barbari potenti, ma di qualunque l’assalta. Di che noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri. » (‘ Discorsi sulle Deche ctc. Lib. I . Cap. XII. – Per facilitare la soppressione del dominio temporale della S. Sede, Macchiavelli toglie ogni scrupolo a coloro che vorranno intraprenderla; assicurandoli, che la religione medesima vi profitterebbe. Qui, mio caro amico, la sorpresa si accresce. Tutte le accuse messe in mezzo e ripetute tanto oggidì al medesimo scopo, ed accettate da moltissimi, tutte si contengono nelle opere di Macchiavelli. a Come l’Italia per aver mancato di Religione, mediante la Chiesa Romana, è rovinata: è questo il titolo del Capitolo XII sopra citato; ove abbiamo pur letto quella conclusione: « Abbiamo dunque colla Chiesa Romana e coi Preti noi Italiani questo primo obbligo di essere diventati senza religione, e cattivi ». Da questo tratto giudicate dell’intero capitolo. Non accade il dirlo! sta a capo di questi sofismi, e di queste calunnie ciò che noi vediamo cogli occhi nostri, o spogliamento del dominio di S. Pietro per causa di utilità Italiana. – Dopo l’esposizione dei motivi, Macchiavelli spinge alla pratica. Tutto ciò che da due anni a questa parte hanno scritto gli unificatori d’Italia e gli spogliatori della S. Sede, è copiato parola per parola dal libro del maestro. Macchiavelli, adulando la vanità ereditaria dei suoi compatrioti, mostra loro la seducente immagine dell’antico impero. L’ultimo capitolo del suo Libro intitolato il Principe, porta questo titolo: Esortazione a liberare l’Italia dai barbari; la quale esortazione si riduce in queste parole: Italiani, volete l’unità italiana sotto un principe italiano? Volete voi che ritornino quei giorni di forza, di gloria, e di felicità, di cui godettero i vostri antenati sotto la grande unità romana? Mettete mano all’opera. La prima cosa è il cacciare i barbari dall’Italia; la quale « rimasta come senza vita, aspetta quale possa esser quello che risani le sue ferite, e ponga fine alle direpzioni e ai sacchi di Lombardia, alle espoliazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite (Il Principe, c. XXVI). Affin di ristaurare in tutto il suo splendore l’antico impero, e di realizzare l’unità e la libertà italiana, che ne saranno le felici conseguenze, è necessario un Cesare: e Macchiavelli si guarda bene di ciò dimenticare. Al principe ambizioso di tanta gloria ci pone le regole che deve seguire, indica le qualità che deve avere. Prima di tutto, il principe liberatore deve riguardare la religione come un semplice istrumento di regno: « Debbe il principe, dice il maestro, tutte le cose che nascono in favore della religione, come che le giudicasse false, favorirle ed accrescerle, e tanto più lo deve fare, quanto più prudente egli è, e quanto più conoscitore delle cose naturali » (Disc. C. XII). E per dimostrare che tale fosse la condotta dei Romani, veri modelli della buona politica secondo il suo parere, impiega i seguenti capitoli XIII e XIV espressamente a tale oggetto. – A questa sacrilega ciurmeria, il successore di Tiberio aggiungerà la perfidia verso gli uomini. « Non può pertanto un Signore prudente, continua Macchiavelli, né debbe osservare la fede quando tale osservanzia gli torni contro, e che sono spente le cagioni che la fecero promettere …. Né mai ad un principe mancheranno cagioni legittime di colorare la inosservanzia …. Ed hassi ad intendere questo, che un principe, e massime un principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose, per le quali gli uomini sono tenuti buoni E però bisogna che egli abbia un animo disposto a volgersi secondo che i venti e le variazioni della fortuna gli comandano; e come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo; ma saper entrare nel male necessitato …. Nelle azioni di tutti gli uomini, e massime dei principi, si guarda al fine. Faccia dunque un principe conto di vincere c mantenere lo stato: i mezzi saranno sempre giudicati onorevoli e da ciascuno lodati. (Il Principe, c. XVIII). Da queste massime, e da altre dello stesso genere esposte colla medesima crudezza, Macchiavelli conchiude che il suo eroe deve partecipare del lione e della volpe conformemente al modello lasciatoci dagli antichi nostri maestri in politica. « Essendo dunque un principe necessitato saper bene usare la bestia, deve di quella saper pigliare la volpe ed il lione; perché il lione non si difende dai lacci, la volpe non si difende dai lupi. Bisogna dunque esser volpe a conoscere i lacci, e lione a sbigottire i lupi … Quel principe che ha saputo meglio usare la volpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla ben colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore. (ibid.) – Voi lo vedete, mio caro amico; la situazione delle cose, considerata nella sua formola e nei suoi pretesti, non è nuova. Se non ostante alcuni precursori più o meno numerosi, l’arianesimo si attribuisce giustamente ad Ario, e oò pelagianesimo a Pelagio, perché essi hanno dato nettamente la formola di quest’eresia, e ne sono stati gli apostoli; l’istoria è dunque ben fondata a dare il Macchiavelli per padre della politica piemontese o mazziniana, poiché egli primo ne mise il programma, e preparonne il trionfo. – Se la teoria dello spogliamento della Chiesa Romana risale a quattro secoli, la effettuazione parziale di questo principio supremamente anticristiano è appena posteriore di qualche anno. All’epoca di Macchiavelli la Chiesa era il più gran proprietario dell’Europa. E certo nessuna proprietà era più sacra della sua: ma tutto cangia colla politica cesarea ristorata dal Macchiavelli e dalla sua immensa scuola; che sviluppata il principio dal luteranismo, applicato da tutti i governi, lo spogliamento della Chiesa fa il giro dell’Europa. Tutti i Re vogliono esser Cesari, nel senso antico tutti i principi vogliono esser Re. – Davanti la loro ambizione eccitata e giustificata dal fiorentino, cadono tutte le barriere protettrici del diritto di proprietà ecclesiastica. Lo spogliamento della sposa di Gesù Cristo, o come si dice da due anni in qua, l’annessione, invade rapidamente la Prussia, la Svezia, la Danimarca, l’Olanda. Passa in Inghilterra; e colà come in tutti gli altri paesi, si consuma coll’effusione di torrenti di sangue cattolico. Ajutato dai legisti, e convien confessare, anche da certi membri del Clero, il Cesarismo pagano penetra di più in più nella politica dei governi. Lo spogliamento si estende agli stati cattolici. Giuseppe II passa sua vita in spogliare la Chiesa. La Francia cammina sulle orme delle altre nazioni, e le sorpassa di gran lunga. Il Portogallo, la Spagna, l’Italia medesima l’hanno imitata. Egli è dunque vero che ciò che si fa oggi contro Roma non è che il compimento di un attentato sacrilego cominciato sono ormai quattro secoli, e praticato in tutta Europa. Or tale è il gigante, contro il quale noi abbiamo a lottare. E questa è, mio caro amico, la situazione delle cose di presente, nel triplice punto di vista, dell’origine, della teoria, e della pratica. Domani sarò per parlarvi della causa intrinseca di questo strano fenomeno.

Tutto vostro etc.

LA SITUAZIONE (5)

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (5)

VITA
dell’Angelico Dottore
SAN TOMMASO D’AQUINO (5)


dell’ordine dei predicatori

SCRITTA
dal F. LODOVICO FERRETTI
DEL MEDESIMO ORDINE

Il più dotto tra i santi e il
più santo tra i dotti
Card.
Bessarione, Ad. calumn,
P
latonis, Lib. Il cap. VII.
ROMA

APPROVAZIONE DELL’ORDINE
Fr. Lodovico Theissling
Maestro Generale dei PP. Predicator
IMPRIMATUR
Fr. Alberto Lepidi O. P.
Maestro del Sacro Palazzo.
f Giuseppe Palica, Arciv. di Filippi
Vìcegerente.

LIBRERIA EDITRICE RELIGIOSA – FRANCESCO FERRARI, 1923

ROMA – TIPOGRAFIA ARTIGIANELLI S. GIUSEPPE

31. — La Somma Teologica.

Scongiurato il pericolo, Tommaso restò nella sua cella di Santa Sabina ringraziando il Signore per la quiete che gli aveva conservato; e si sentì obbligato ancor più ad un assiduo lavoro per il bene della Chiesa. Pose allora mano a quell’opera grandiosa, a cui doveva per sempre legare il suo nome: La Somma Teologica. Il lavoro durò circa nove anni, alternato alla composizione di altre varie opere più o meno estese, come i mirabili Commenti sopra Aristotile e molti trattati più o meno lunghi, raccolti sotto il titolo di Quodlibeti, Questioni disputate ed Opuscoli, scritti la maggior parte per rispondere a quesiti che da varie parti gli venivano mossi. – Nel ripensare a così poderoso lavoro e al breve tempo che vi impiegò, non ci fa meraviglia se leggiamo di lui, e troviamo confermato nei Processi, che dettasse talvolta a tre e quattro scrittori ad un tempo, di diverse materie. Ma nulla è impossibile a Dio, che volle in Tommaso stampare una vasta orma del suo infinito potere. – L’idea di San Tommaso nel metter mano alla Somma Teologica non poteva esser più modesta. Volle unire, ei ci dice, come in compendio, nella forma di brevi articoli, quanto da diversi era stato scritto intorno alle dottrine cristiane, e quanto egli stesso aveva scritto più ampiamente in altri luoghi; fare quasi una compilazione a vantaggio degli incipienti e con un metodo ad essi proporzionato; perché molti, dalle troppe questioni che si facevano e dalla mancanza di ordine, restavano confusi ed impediti. Ne sorse invece un capolavoro immenso, il primo e il più complesso insieme di Teologia cattolica, che fosse fino allora comparso, e tale da togliere a chiunque la speranza di superarlo. Pel numero delle questioni risolute da lui in ogni loro parte intorno a Dio e alle opere sue, può chiamarsi una portentosa enciclopedia, mentre per l’ordine meraviglioso e per l’esatta rispondenza delle parti abbiamo il diritto di dirla una sintesi perfetta, a cui nulla manca, né la necessaria chiarezza, né la scrupolosa precisione, né la vigorosa brevità, né la sicurezza assoluta della dottrina. – La Somma Teologica è divisa in tre grandi parti, di cui la seconda, per la vastità della materia, è suddivisa in due. Da Dio uno e trino tutte le creature procedono; gli Angeli e l’uomo sono le più perfette. Degli Angeli quei che peccarono sono in eterno lontani da Dio; l’uomo peccò, ma trovò presso Dio misericordia e grazia per Gesù Cristo, che è lo stesso Dio fatto carne. Chi sta unito a Cristo e si giova dei mezzi da lui stabiliti, salirà al possesso eterno di Dio; chi non vive di Cristo resterà in eterno lontano da Dio. Tale è il concetto semplice e meraviglioso di tutto il lavoro, che in 512 questioni, divise in 2652 articoli, nulla tralascia di quanto spetta alle materie teologiche e morali necessarie a conoscersi dagli studiosi. Le grandi intelligenze, di cui Iddio aveva fatto dono al mondo fino allora, non avevan saputo crear nulla di simile, né alcuno poi, in questa materia, ha potuto o saputo far meglio che tener dietro a lui. – Nessun libro ha avuto dalla Chiesa tante lodi come la Somma, e basti in luogo di tutte il fatto, che nel Concilio di Trento essa venne posta dai Padri in mezzo all’aula insieme alla Sacra Scrittura e ai decreti dei Pontefici, come la guida dottrinale più solida che potessero trovare. Il lavoro fu cominciato nel 1265, quando San Tommaso ebbe evitato il pericolo dell’elezione ad Arcivescovo di Napoli. Lo continuò, salvo alcune interruzioni, fino al 6 dicembre del 1273, e, come vedremo, lo lasciò interrotto. Venne completato dal suo fedele compagno, Fra Reginaldo da Piperno, con un Supplemento, tratto in gran parte dai Commentari del Santo Dottore sui Libri delle sentenze di Pietro Lombardo.

32. — Al Capitolo di Bologna.

Per il Capitolo Generale del 1267 era stato scelto dai Padri il Convento di Bologna. Fu appresa con somma gioia in quella città la notizia, che vi si sarebbe recato, in tale occasione, il celebrato Dottore; e la celebre Università soprattutto si tenne sommamente onorata di riceverlo e di udirlo. – Raccontano gli storici che la venuta di Tommaso in Bologna pose in tutti quei Professori e studenti come un nuovo ardore per lo studio della verità. Le lezioni che vi tenne per varie settimane restarono memorabili; e si sa che Tommaso condiscese volentieri a rispondere a molti quesiti che gli vennero fatti; così si ebbero nuovi e importanti opuscoli che poi furono raccolti. Ma un vero motivo di gioia ebbe Tommaso da quel viaggio, per essersi potuto trovare ad una cerimonia che fu oltremodo cara al suo cuore di figlio di San Domenico. Il 6 di agosto del 1221 il Santo Patriarca, in Bologna, spirava serenamente, tra il pianto dei suoi figli, che, per eseguire la sua volontà, lo avevano sepolto in umile luogo. Ma il 24 maggio del 1233 il suo successore, il Beato Giordano di Sassonia, aveva fatto aprire la tomba ed aveva trovato il cadavere incorrotto ed esalante gratissimo odore; ed aveva ordinato che venisse collocato in una tomba di pietra all’ingresso del coro. Il 3 luglio del seguente anno Gregorio IX proclamò solennemente la santità del grande Fondatore dei Predicatori; e si pensò allora ad una tomba più decorosa. Si dové alle premure del Beato Giovanni da Vercelli, quando fu eletto Provinciale di Lombardia, l’iniziativa del nuovo lavoro; ed eletto, come vedemmo, nel capitolo di Parigi, Generale dell’Ordine, fece decretare dal Capitolo seguente di Montpellier la costruzione di un solenne monumento, come veniva chiamato. Fu posto mano all’opera ; e sapendo che nel 1267 il lavoro sarebbe stato pronto, ottenne dai Padri adunati l’anno innanzi a Treviri che il Capitolo del 67 si tenesse in Bologna. E veramente solenne fu il lavoro che nella primavera della nostra scultura uscì dalle mani dei maestri di Pisa, e specialmente del bravo e dolce Fra Guglielmo, che lavorò per intiero, o almeno in gran parte, le ammirabili storie dello stupendo sarcofago. Aveva preso l’abito di converso nel convento pisano di Santa Caterina, ed aveva soli 26 anni quando si recò a Bologna con Niccola suo maestro, che dai Domenicani aveva avuto la commissione dell’opera; e ben volentieri il Maestro concesse al bravo artista di lavorare attorno alla tomba del Padre diletto. In due anni la bellissima arca fu scolpita, e così la nuova traslazione del corpo del Santo Padre poté essere onorata dalla presenza di tutti i Padri capitolari. Con essi e con quelli accorsi da varie parti, i religiosi raggiunsero il numero di cinquecento. – In questa bella schiera troviamo dei santi, come lo stesso Beato Giovanni da Vercelli, il Beato Giacomo da Varazze, poi Arcivescovo di Genova e il Beato Bartolomeo da Braganza, già Vescovo di Vicenza. Ma era dolce il vedere nella bella schiera spiccare la figura di San Tommaso, il più grande tra i figli di tanto Padre. – Alla festa celebrata nel giorno 5 giugno, solennità di Pentecoste, prese parte il Potestà di Bologna con tutto il suo seguito; e Clemente IV inviò speciali indulgenze. In tale circostanza San Tommaso mostrò il suo cuore di figlio, scrivendo in lode del Santo Patriarca un sermone, ove lo rassomiglia al sole, ministro di generazione delle cose, che le vivifica e nutre, le aumenta e perfeziona, le purifica e le rinnova. – Dopo il Capitolo di Bologna, se ne tornò a Roma sollecitamente, ove continuò nella quiete a lavorare attorno alla Somma.

33. — Al Re di Cipro.

Tra gli scritti che gli storici assegnano al tempo della dimora dell’Angelico Dottore in Bologna è degno di esser ricordato l’opuscolo del Governo dei Principi. Come già alla Duchessa del Brattante aveva il Santo Dottore indirizzato un opuscolo sapientissimo su varie questioni, specialmente sul modo di governare i Giudei, così ad istruzione del giovane Ugo II, Re di Cipro, della nobile dinastia dei Lusignani, cominciò a scrivere in Bologna quel celebre trattato, ove parla delle origini del potere, dei diritti e doveri dei governanti, e dell’esercizio della sovranità. Ma essendo morto, prima della fine di quell’anno 1267, il giovane Re, quel libro rimase incompleto e fu poi terminato dal suo discepolo Fra Tolomeo da Lucca, credesi sopra appunti lasciati dal Maestro. – Nei diciannove capitoli dovuti interamente al Santo Dottore si hanno mirabili documenti della sua alta sapienza. Dalla sorgente stessa del vero essa traeva le sue origini, e ben poteva estendersi anche alla pratica delle cose umane ed alla stessa politica, che non è arte astuta per reggersi sopra un trono od in un seggio qualunque, ma scienza diretta a ben governare gli uomini: e nessuno avrebbe allora pensato che per far godere ai popoli la prosperità materiale fosse espediente il privarli di quei beni dello spirito che la religione soltanto può dare. – Fu certo mirabile cosa il vedere un religioso mendicante che, senza uscire nemmeno di un passo dalla sua condizione, diveniva precettore dei re, e dall’umile sua cella dava lezioni ai potenti della terra. La superiorità morale di quest’uomo si sente dalla stessa nobiltà dello stile. Egli vuole presentare al re cosa che sia degna della reale maestà, e ad un tempo conveniente alla sua professione ed ai suoi doveri. E per farlo, egli chiede l’aiuto a Colui per cui regnano i re e i legislatori determinano le cose secondo giustizia. Parla anzitutto del regio potere in generale, e lo richiama al primitivo concetto dell’ufficio del pastore e del padre, così nobilitato dal Santo Vangelo. Esso gli vien suggerito dalla natura stessa dell’uomo e della società e dallo scopo finale dell’uno e dell’altra: Il pastore cerca il bene del suo gregge e non il comodo proprio, il padre vive pei figli e li provvede del necessario alla vita, regge la famiglia coll’autorità a lui data da Dio; tutti e due amano e vogliono essere amati, obbediti, seguiti. È regime perverso quello di chi cerca il vantaggio proprio e non il bene comune; e se un tal regime risiede in un solo, è tirannia. Esalta il Santo Dottore la superiorità del regime monarchico quando è giusto; perché meglio imita il governo di Dio nell’universo, ed ha ottimi esempi nell’unità dell’anima nell’uomo e del capo nel corpo; ma l’unità del capo, egli dice, vuole il concorso di tutte le membra all’azione, come l’unità dell’anima richiede l’esercizio conveniente delle varie facoltà spirituali e corporali. Così è bella la similitudine della nave, ove sian pure molti uomini nelle varie parti, ed artisti a restaurarla se guasta, ma a governarla non deve starvi che un capo. In quest’armonia tra il diritto di chi comanda e i doveri di chi ubbidisce, il dovere di ben governare e il diritto nei popoli d’esser ben governati, si ha il gaudio della pace, il fiore della giustizia, l’affluenza dei beni, la stabilità del governo. « Quando il regime è giusto, egli dice è bene che esso stia nelle mani di un solo; perché  così sarà più forte ». Ma se in chi regge le sorti della città e dello stato manchino le doti e virtù necessarie, né possa ottenersi che le acquisti, allora al cattivo governo di quest’uno sarebbe da preferirsi il governo di più; male minore che ne impedisce uno maggiore; la tirannia è pessima cosa, perché direttamente opposta al virtuoso governo di un solo, che ha chiamato ottimo. Per evitar tanto male, lo stesso monarca dev’esser richiamato a considerare lo stretto dovere che ha di rendersi degno di tenere uno scettro. Né la corona d’oro che gli cinge la fronte egli deve credere che talvolta non sia irta di spine. Per il bene altrui e per osservare debitamente la giustizia non è raro che tocchi al monarca tollerar pene e sacrifici; non è privo di angustie il pastore che vuol governare e difendere il suo gregge, né il padre che dà alla famiglia il frutto dei suoi sudori. A lui darà la religione virtù e fortezza per sacrificarsi quando occorra, pel bene del suo popolo. Ed un altro premio avrà dall’amore dei sudditi; preziosa ricompensa di chi ben governa, invano cercata dal tiranno che non trova chi lo ami, se non per proprio interesse, e finché questo dura. Ma d’altra parte anche ai sudditi conviene rendere men grave il peso a chi governa colla docilità e ubbidienza, ed anche col tollerarne le imperfezioni né sempre esigere l’ottimo, che nelle cose umane non si trova. Così a chi regge è tolto ogni motivo di incrudelire e piegarsi a tirannia. Se questo non si fa, sul popolo stesso ricade il danno, perché sono non di rado un castigo di sudditi indocili gli inetti o cattivi governanti. – Ed è mirabile il vedere con che acume il Santo Dottore tratta di ciò che spetta alle sollecitudini che ha da prendersi tanto il re quanto chi lo aiuta nell’esercizio del suo potere; l’udirlo trattare della necessità di promuovere il benessere dello stato col far prosperare soprattutto l’agricoltura e cercare lo sviluppo dei commerci. In questo punto è notevole come egli preferisca, in vantaggio comune, la ricerca della ricchezza che l’uomo trova nel suolo, e chiama più degna la nazione che ha l’abbondanza delle cose dal territorio proprio ». Non vieta al monarca di cercar ricchezze, onore e fama, e soprattutto la stabilità del suo potere, quando tutto sia rivolto al comune vantaggio che rimane sempre il fine d’ogni onesto regime; così la sua ricchezza e la sua gloria è come un patrimonio di tutti. Fu un vero danno che quest’opera rimanesse incompleta; sebbene in ciò che ci resta siano poste sapientemente le basi a dimostrare il vantaggio che alla società civile possono apportare i principii della morale cristiana.

34. — Ultimo viaggio a Parigi, e ritorno in Italia.

La dimora in Italia del Santo Dottore dové interrompersi un’altra volta per la sua andata a Parigi, ai primi del 1269 pel Capitolo Generale. Fu pregato a voler riprendere nello studio generale di San Giacomo il suo uffizio di Reggente, ed acconsentì. Il Capitolo fu tenuto, come per il solito, nella Pentecoste; e lo presiedé il Padre Giovanni da Vercelli. Sebbene la presenza di San Tommaso in quel Consesso abbia portato senza dubbio qualche vantaggio, e si ricordi in particolare un suo giudizio dottrinale intorno al segreto, pure è da pensarsi che qualche altra grave ragione inducesse. Tommaso a sostener la fatica di questo viaggio. Il Beato Giovanni era entrato in relazione con Clemente IV; e perfettamente si era inteso con lui intorno al gran bisogno della Cristianità in questo momento. Il comune desiderio era la sospirata unione della Chiesa Greca colla Latina, ed insieme il buon esito di una nuova Crociata contro gli infedeli; e il Papa sperava molto dall’Ordine di San Domenico, così diffuso anche in Oriente, e dalla scienza dei suoi Dottori, che avrebbe domato l’orgoglio dei Greci, ostacolo principale alla desiderata unione, che all’opera della Crociata avrebbe recato vantaggi immensi. Con una lettera del 9 giugno del 1267 si era rivolto al Maestro Generale, facendo assegnamento sull’aiuto di tanti bravi difensori della Chiesa, chiamati a riparare la grave rottura che lo scisma aveva fatto nella veste inconsutile di Gesù Cristo; e domandava intanto tre Religiosi per inviarli come suoi Legati all’Imperatore Michele Paleologo. – Non meno intense erano le premure del Santo Re Luigi IX, che non poteva consolarsi d’aver dovuto lasciare nelle mani degli infedeli il Santo Sepolcro di Cristo, e voleva bandire un’altra volta la guerra santa, nonostante i recenti disastri delle armi cristiane. Ottenuto il consenso da Clemente IV, si era anch’egli rivoltò ai Frati Predicatori per aver bravi missionari che bandissero ovunque la nuova crociata. Si sa infatti che per tutto quell’anno 1268 molti religiosi dell’Ordine furon destinati a tale ufficio. – Ma il 29 novembre dello stesso anno Clemente IV, dopo appena tre anni e dieci mesi di pontificato, moriva in Viterbo; e per deplorevoli circostanze l’elezione del successore ebbe un ritardo di due anni e nove mesi, con danno non leggiero per la Chiesa. Nondimeno i predicatori della Crociata continuarono nella loro missione, e il Capitolo di Parigi cercò di giovare alla grande opera, ordinando che si annunziasse la prossima partenza del Re e si raccogliessero offerte e pii legati dai fedeli. Intanto arrivavano orribili notizie dall’Oriente. Antiochia era caduta, Fra Cristiano, già Frate Predicatore, Patriarca di quella sede, era stato assassinato con quattro religiosi, nella sua Cattedrale, dai militi di Saladino; centomila Cristiani erano stati massacrati, molte suore oltraggiate e passate a fil di spada. Questi fatti aumentarono lo zelo del re, che cercò di affrettare la partenza col suo esercito. Ma prima di prendere in San Dionigi la croce e il bordone da pellegrino, ebbe varii colloqui col suo dolce amico San Tommaso. Era l’ultima volta che queste due grandi anime si incontravano su questa terra. Tommaso non doveva più toccare il suolo di Francia; ed il buon re, che il 1° luglio del 1270 partì da Aigues-Mortes, dopo lo sbarco a Cartagine, sotto i dardi di un sole cocente, il 25 agosto, colto dalla peste che distrusse gran parte dell’esercito crociato, spirò fra le braccia dei Frati Predicatori che nel viaggio gli erano stati amorosi compagni. Il suo corpo, recato da una nave a Trapani, traversò poi tutta l’Italia, portato come in trionfo fra le popolazioni commosse. Non mancaron certo le lacrime del suo grande amico San Tommaso d’Aquino. In Parigi Tommaso era da tutti ricercato. Può dirsi che dalla sua cattedra egli dirigesse il pensiero cristiano del suo tempo. Ciò che egli diceva era la dottrina cattolica che lo diceva; e tutti convenivano in questo pensiero. Tacevano le dispute ai piedi della sua cattedra, ogni dubbio svaniva; e la verità si manifestava in tutta la sua limpidezza. Né cessò in questo frattempo di scrivere o dettare; e i suoi sapienti consigli erano ricercati da tutti. Ma la volontà dei superiori lo richiamava a Roma; ed egli se ne tornò con molto rammarico di ognuno, non senza esprimere la sua viva gratitudine e la sincera affezione che conservava verso una città così piena per lui di grate memorie. Non i trionfi della sua dottrina gli tornarono a mente, ma i ricordi dei bravi maestri, dei colleghi e condiscepoli, di tanti alunni, insieme coi quali era salito alle altezze della divinità, di tanti confratelli, che lo avevano amato, e di cui egli aveva ricambiato con tenerezza la devota affezione. Ripassò da Bologna, ove la sua pietà era attratta dal sepolcro ove egli stesso aveva visto porre con tanto onore le ossa del suo caro e venerato Patriarca, di cui era così viva tra quei religiosi e in tutto il popolo la memoria. E forse in quest’occasione accadde il fatto che dobbiamo narrare, ricordato dai biografi, che fé conoscere quanto in lui fosse radicata la virtù dell’obbedienza. Un frate converso, che doveva uscire per la città a far provvisioni, chiese al Padre Priore la consueta benedizione ed il compagno. Il Priore, senz’altro pensare, gli disse che prendesse per socio il primo frate che gli capitava. Sceso il converso, s’imbattè in Fra Tommaso, che non conosceva, e gli riferì le parole del Priore. Tommaso accettò senz’altro; e fu visto tener dietro a stento per le vie di Bologna al frettoloso converso, sebbene stanco, e impedito da certo dolore ad una gamba. Ma per la città alcune persone riconobbero nel religioso zoppicante il celebrato Maestro, ed avvisarono il laico. Figurarsi la meraviglia, le scuse, le proteste del povero frate! Ma Tommaso non fece altro che sorridere; e disse con tutta calma: Son piuttosto io che merito rimprovero; voi avete fatto l’obbedienza, ed io invece non son riuscito a farla come avrei desiderato! Dopo aver pregato e pianto sulla tomba del santo Patriarca, rivalicò l’Appennino e se ne tornò a Roma.

35. — San Tommaso a Napoli.

Sebbene ancora il Santo Dottore fosse nella sua piena maturità ed avesse appena toccato il quarantacinquesimo anno, egli prevedeva la sua rapida scomparsa. La sua vita si faceva sempre più calma, i rapimenti erano più frequenti, una dolcezza inesprimibile, quasi come in dolce parola d’addio, si vedeva in tutti i suoi atti; e i suoi discorsi mostravano come egli si andasse sempre più staccando dalla terra ed anelasse al cielo. Varie città, intanto se lo contendevano a gara. La sua fama era volata tanto alta, che il solo averlo con sé sarebbe parso onore sì grande, da essere ambito più che qualunque altra gloria. Parigi, che ne aveva educato l’ingegno e dove egli aveva rivelato la sua grandezza, lo richiedeva nella sua Università; Bologna, dove egli aveva trovato tanta corrispondenza di stima e di affetto, gli offriva la più generosa ospitalità; Roma, la metropoli del mondo cattolico, lo avrebbe visto volentieri restare a fianco del Pontefice; e Napoli, che, d’altra parte, poteva dirlo suo e dove aveva ricevuto l’abito dell’Ordine, si lagnava che ancora non aveva potuto averlo; e tutte queste città moltiplicarono le loro istanze al Generale dell’Ordine. Il Capitolo Generale, che si tenne nel 1272 a Firenze, ebbe da quasi tutte le Università d’Europa domanda di averlo, almeno per qualche tempo; e sembra quasi che ovunque si prevedesse la sua scomparsa, e tutti desiderassero di udir quella voce prima che tacesse per sempre. La vittoria toccò a Napoli. I Superiori dell’Ordine, consentendo il Pontefice, accolsero le istanze del Re Carlo d’Angiò e Tommaso, dopo aver venerato per l’ultima volta le tombe dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, e salutati i suoi confratelli di Santa Sabina, se ne parti per Napoli col suo indivisibile compagno, Fra Reginaldo. Vi giunse alla fine dell’estate del 1272. – La gioia della città fu indescrivibile; fu portato come in trionfo fino alla porta del suo convento; altissimi prelati e personaggi dei più nobili gradi si confondevano colla folla almeno per  vederlo o udirlo quando predicava nella Chiesa o dava lezioni dalla cattedra, ma nemmeno l’alito della vanagloria giunse a toccarlo per sì festose accoglienze: all’altezza dell’ingegno che sempre più in lui si rivelava, rispondeva d’altra parte l’umiltà del suo animo riconoscente a Dio di tanta luce che gli aveva infuso, senza attribuir nulla, proprio nulla, a se stesso. A lui era grato starsene ritirato nella sua cella a pregare o a dettare i suoi preziosi volumi. Era giunto allora alla terza parte della Summa Teologica., a quel trattato dell’Incarnazione, che è il più gran monumento che la ragione umana abbia innalzato in omaggio al Verbo di Dio fatto carne. E sia che pregasse, sia che dettasse, egli era sempre come rapito e fisso nella contemplazione del vero: ed altissimi personaggi che in quei momenti si recavano a visitarlo, ne restavano ammirati e non osavano disturbarlo. Non dissimile era la sua predicazione che mai tralasciò. Rimase memoria della quaresima da lui predicata, certo nel 1273, tutta sull’Ave Maria. E così nello scrivere delle cose più alte, come dell’unione ineffabile del Verbo colla natura umana, dei misteri di Gesù Cristo, della sua vita e della sua passione, del divino influsso della sua virtù riparatrice per mezzo dei Sacramenti, delle grandezze della Vergine Madre, se egli, seguendo rigorosamente il suo metodo, e sempre più addentrandosi nei divini segreti, sembrava rattenere gli slanci del cuore, nel pregare davanti agli altari, nel celebrare il divin sacrificio, nel dir le lodi di Dio e della Vergine Madre, raggiungeva un tal grado di fervore, che sembrava non bastare il suo cuore all’influsso che a lui veniva dalla fonte increata della verità e della vita. Durante uno di questi slanci accadde il fatto raccontato da tutti gli storici sulla fede giurata del piissimo religioso Fra Domenico da Caserta, che ebbe la sorte di esserne testimone. Egli lo vide nella cappella di San Niccolò, ov’era solito pregare, sollevato di due cubiti da terra, davanti a un devoto Crocifisso. A un tratto dalle labbra del Divin Redentore uscirono queste parole: Tommaso, tu hai scritto bene di me. Qual premio dunque tu vuoi? E Tommaso: Nient’altro che voi, o Signore! Le sue preghiere da quel momento si fecero ancor più fervide e più abbondanti le lacrime. Nella Compieta secondo il rito domenicano, suol cantarsi per due settimane di quaresima, un responsorio commovente, interrotto da un versetto del Salmo 70°, che dice: Non mi rigettate, o Signore, nel tempo della mia vecchiezza, non mi abbandonate quando le mie forze verranno meno. Il versetto suol cantarsi da un sol religioso a turno; e quando toccò a Tommaso, tutto il suo volto si coprì di pianto. – Tra gli altri rapimenti fu notato quello della domenica di Passione, durante la Santa Messa. Mentre teneva in mano il corpo di Nostro Signore, prima di comunicarsi, ebbe un’estasi assai lunga, che fu avvertita dagli astanti, tra cui erano alcuni ministri del Re, i quali non si stancarono, ma s’infervorarono nella pietà ed attesero fino al termine. Non tralasciò, in questo tempo, le lezioni che tenne sia nella celebre Università ov’era stato discepolo, per le quali gli era stato assegnato da Re Carlo lo stipendio d’un’oncia d’oro al mese, sia nel convento in una vasta aula, ove tuttora si conserva la sua cattedra; e il concorso era immenso. Tra i discepoli che ebbe a Napoli è da ricordarsi Fra Guglielmo di Tocco, che doveva poi scriverne la vita, e lavorare per la sua canonizzazione; e Fra Bartolomeo, detto più comunemente Tolomeo da Lucca, altro suo biografo, che ascoltò talvolta le sue confessioni e che fu poi elevato al vescovado di Torcello. – A dimostrare la sua attività anche in questo tempo e le sue cure indefesse per il profitto dei giovani negli studi sta il fatto di un viaggio, avvenuto certamente tra l’estate e l’autunno di quell’anno 1273, a Viterbo, Perugia, Firenze e fino a Pisa, ove, per incarico del Capitolo tenuto l’anno precedente, stabilì nel celebre convento di Santa Caterina, ove si conserva ancora la sua cattedra, uno studio generale di Teologia. Altri piccoli viaggi egli fece a Salerno; e restò memoria di quello fatto al Castello di San Severino nel Salernitano, ove dimoravano le sue sorelle, Teodora sposata a Ruggero Conte di Marsico, e Maria signora di Marano. E qui avvenne che stando ad orare nella cappella, entrò in un’estasi lunghissima, che fece stare le sorelle in pensiero. Lo stesso Fra Reginaldo che lo aveva accompagnato si meravigliò perché mai l’aveva visto restare immobile e fuori di sé per tanto tempo. Come si fu riavuto, il compagno gli chiese con molta premura che cosa avesse veduto o udito in quel tempo; e Tommaso gli rispose colle parole di San Paolo: Ho visto e udito tali meraviglie, che all’uomo non è possibile raccontarle. Tutto quello che ho scritto non è che paglia, al confronto di quello che Iddio mi ha rivelato. E poi soggiunse: A te, o Reginaldo, manifesto il segreto del cuor mio: il mio insegnamento e la mia vita presto avranno fine. – Da quel giorno, che era il 6 di dicembre del 1273, il Santo Dottore cessò di scrivere. La Somma Teologica rimase interrotta alla fine del trattato della Penitenza, e la parte con cui essa è condotta a termine, chiamata il Supplemento, fu poi tratta, come sopra dicemmo, da altre opere del Santo Dottore da Fra Reginaldo, che gli succedé nella Cattedra di Teologia a Napoli.

36. — A Fossanova.

La scelta di Tebaldo Visconti a successore di Clemente IV fu un indizio del desiderio vivissimo che in tutto il mondo si aveva di vedere ormai terminata la lacrimevole separazione della Chiesa Greca dalla Latina e riunito tutto il popolo cristiano nella grande opera della liberazione del Santo Sepolcro. Egli era infatti uno dei più fervorosi apostoli che mai si fossero recati tra i Cristiani d’Oriente; e ricevuto in Palestina, ove si trovava, il decreto della sua nomina, si mise in viaggio per l’Italia e andò tosto a trovare in Viterbo i Cardinali per trattare subito con loro dei grandi interessi della Cristianità. Una delle cose a cui prima pensò fu di dare a Gerusalemme un buon pastore; e la scelta del nuovo Patriarca cadde su Fra Tommaso Agni da Lentino, che, come vedemmo, aveva già ricevuto nelle proprie mani la pròfessione del giovane Tommaso d’Aquino, ed era stato poi elevato all’arcivescovato di Cosenza. Nessuna idea ebbe per allora Gregorio IX di preparativi guerreschi, che da sé soli a nulla approdavano; molto invece egli sperò da una comune intesa dell’Episcopato cattolico, che lavorasse alla desiderata unione delle due Chiese; e indisse per il 1274 il Concilio Ecumenico da tenersi a Lione. Gli uomini più grandi di quel tempo, insieme coi Vescovi di tutta la cristianità vi furon chiamati; e tra gli altri, il Beato Alberto Magno, il Beato Pietro da Tarantasia. San. Bonaventura e il nostro Santo Dottore, che fu invitato con lettere particolari e incaricato dal Pontefice di recare con sé il suo celebre trattato Contro gli errori dei Greci. – Così ai primi di febbraio del 1274 Tommaso si congedò dai suoi confratelli di Napoli e si mise in viaggio col fedele Fra Reginaldo, sebbene sofferente e assai indebolito, soffermandosi in vari luoghi, dappertutto accolto con festa e caramente ospitato. Stando per via, Fra Reginaldo gli disse che correva voce che il Papa, nel Concilio, lo avrebbe fatto Cardinale con Fra Bonaventura e che sarebbe stato questo un grande onore pei due Ordini! State certo, rispose il Santo, che io non muterò mai lo stato in cui mi trovo. E quanto al mio Ordine, in nessuno stato gli potrei essere utile quanto in quello in cui resterò. Passò per Aquino, e al luogo della sua nascita diè l’ultimo saluto. Il suo pensiero salì anche all’asilo della sua infanzia: e ai piedi di Montecassino ebbe una lettera premurosa dell’Abate Bernardo, che lo invitava a salir lassù, anche perchè i monaci desideravano una sua spiegazione di un passo oscuro dei Morali di San Gregorio. Ma egli si scusò, dicendo d’essere stanco pel viaggio e pei digiuni dell’Ordine. Alcuni monaci allora discesero, ed egli rispose in iscritto colla consueta chiarezza. Entrato nella diocesi di Terracina, si fermò al castello di Maenza, nella vallata del Sacco, ov’era una sua nipote, la Contessa Francesca d’Aquino maritata ad Annibale da Ceccano, che lo trovò molto deperito e gli fece apprestare le più sollecite cure. Ma il male progrediva, e la Contessa chiamò a curarlo un medico, certo Guido da Piperno. La nipote avrebbe voluto trattenerlo, ma Tommaso non volle mettersi in letto fuori d’una casa religiosa, e si trascinò a stento sopra un muletto, entrò nella vallata dell’Amaseno, traversò Prossedi, passò sotto Sonnino e si fermò stanchissimo alla badia cisterciense di Fossanova, fra Terracina e Piperno. Entrando in quella sacra dimora, fu udito ripetere le parole del salmo CXXXI (14), che presso i Domenicani sono in uso nell’ufficiatura dei morti: Questo è il mio riposo nei secoli dei secoli; qui abiterò, perché me lo sono eletto. Gli furono assegnate due cellette presso quelle dell’Abate; in una stava un camino, nell’altra il letto. Le cure che gli ebbero i monaci durante un mese non si potrebbero descrivere. Tutti si tenevano onorati di poterlo servire; e basti il dire che andando a far legna nella foresta per fargli fuoco, vollero sempre portarle sopra le loro spalle, né mai permisero che gli animali portassero sul dorso cose che servivano per il Santo Dottore. La notizia si sparse per tutto. Corse la Contessa Francesca, che volle ogni giorno saper le nuove della malattia; vennero premurosi da Anagni, da Fondi, da Gaeta, ed anche da Napoli e da Roma, molti Domenicani, e ad essi si unirono vari Monaci e Frati Minori per aver notizie e ricever dal Santo qualche ricordo. Egli si sforzava di rispondere a tutti. A un religioso che gli chiese come avrebbe potuto fare a non perder mai la grazia di Dio, rispose: Cerca di vivere, come se in ogni ora tu dovessi morire. Alla nipote premurosa, che gli mandò a dire se gli occorresse nulla, fece rispondere: Non mi manca nulla; e diqui a poco avrò tutto. – Nemmeno una parola di lamento uscì dal suo labbro, e dal suo volto sempre più traspariva la serenità dell’anima. I monaci ne restarono ammirati; e alcuni di loro gli ricordarono che San Bernardo, prima di morire, aveva spiegato a quelli che lo assistevano il Cantico dei Cantici, e lo pregarono a fare altrettanto. Datemi lo spirito di San Bernardo, egli rispose, e anch’io farò lo stesso. Ma insistendo essi, egli dettò un mirabile commento che ancora rimane. Fu questa per Tommaso d’Aquino la più bella preparazione alla morte.Fra Reginaldo non lo abbandonò un momento; e Tommaso gli mostrò tutto il suo affetto lasciandogli i più cari ricordi e aprendosi con lui in confidenze affettuose. Un giorno gli disse: Di tre cose io devo ringraziare il Signore in modo speciale. La prima è di avermi dato un cuore nobile, che non si è lasciato attrarre dalle cose vili della terra. La seconda è di avermi lasciato nell’umiltà e povertà del mio Ordine. La terza è stata quella d’avermi fatto conoscere lo stato felice del mio fratello Rinaldo. Il suo pensiero correva a Rinaldo! A lui che lo aveva già malmenato e condotto alla carcere, a lui che, accordatosi col fratello, gli aveva preparato una spaventosa caduta, la quale avrebbegli tolto, se Dio non fosse corso in suo aiuto, il suo massimo onore e il nome di Angelico, a lui, che sapeva ora accolto nella gloria dal Dio delle misericordie, che tanti falli perdona per un atto generoso, egli andava ora col pensiero, sicuro di trovarlo presto nel cielo.

37. — La morte. Ritratto del Santo.

Sentendosi vicino alla sua fine, Tommaso chiese a Fra Reginaldo di udire la sua confessione generale; e poi domandò la grazia di restar solo, per disporsi a ricevere il Santo Viatico. Volle che lo togliessero dal suo letticciolo e lo ponessero a giacere in terra, sopra la cenere. Furon raccolte le parole che proferì nel momento in cui l’Abate gli presentò la Santa Eucarestia, e gli chiese di fare la consueta Professione di fede: Io ti ricevo, o Dio, prezzo della redenzione dell’anima mia, viatico del mio pellegrinaggio, per amore del quale ho vegliato e studiato, predicato ed insegnato. E tutto quello che ho scritto, io lo sottopongo alla correzione della Santa Chiesa Romana, nella cui obbedienza ora passo da questa vita. Ricevuta poi l’estrema unzione, placidamente spirò la mattina del 7 marzo del 1274, prima che spuntasse il sole, in età, a quanto sembra, di quarantotto anni. – Egli era grande e diritto di persona, ben formato, di corporatura oltre l’ordinaria, di complessione delicata, faccia tendente al bruno. Ebbe la fronte ampia ed elevata, e sul davanti alquanto calva, acuto lo sguardo, ma pieno d’inesprimibile dolcezza. Nei suoi gesti e in tutto il suo portamento mai si vide nulla di incomposto: taceva e meditava quasi sempre; interrogato rispondeva cortesemente e qualche volta con arguzia, ma sempre con semplicità e candore. Chiunque lo vedesse sentivasi stimolato ad abbracciar la virtù. Mai fu visto adirato, né turbato, nemmeno leggermente. Non amò affatto le grandezze di quaggiù, che lusingano l’ambizione, né le ricchezze, che non ci sanno dare la vera felicità. Una volta un compagno gli mostrò da un’altura la città di Parigi e gli domandò se avesse desiderato di esserne padrone; e rispose: Prenderei più volentieri le Omelie del Crisostomo su San Matteo. Come compendio di quanto fu detto e scritto della sua santità e delle grazie a lui concesse, bastino le due promesse che Iddio gli fece: che non sarebbe stato mai vinto dagli allettamenti della carne, né mai avrebbe sentito gli stimoli della vanagloria; basti la testimonianza di Fra Reginaldo, che tante volte lo aveva confessato, e fino sul letto di morte, di non aver trovato in lui se non la coscienza d’un bambino di cinque anni. – Quale fu nella vita tale è negli scritti. La tranquillità del ragionamento non si altera mai; sembra che egli tema degli slanci del cuore nel trattare dei divini misteri. Tutto è misurato nel suo eloquio: una parola di più lo guasterebbe, una di meno vi lascerebbe un vuoto. Contro gli erranti non ha mai parole di rimprovero, mentre li confonde collo splendore della verità. La frase più severa che sia uscita dalla sua penna fu quella che usò contro David de Dinant, quando chiamò stoltissima la sua dottrina, che confondeva Dio colla materia prima! Fu amantissimo del suo Ordine, e preferì a tutti gli onori del mondo il suo povero cappuccio di frate. Vero predicatore, seppe ben distinguere la cattedra dal pergamo; e parlando al popolo, mentre attingeva dalla sorgente stessa della divina eloquenza la sua dottrina, la esponeva con parole semplici e chiare, che egli paragonava alle monete, di cui tutti devon conoscere il valore. Ma ancor meglio che colla predicazione e l’insegnamento, egli parlò colla sua vita; e bene egli disse di se stesso con Sant’Ilario: Riconosco che il dovere principale che lega a Dio la mia vita, è che ogni mia parola ed ogni mio sentimento parli di Dio. E veramente egli sembrò in mezzo agli uomini la più alta espressione della verità. Ed un sincero amore della verità sarebbe stato anche causa della sua morte immatura ed avrebbe dato ad essa il valore di un martirio, se fosse accertato quanto vari storici affermarono, che essa fosse accelerata da un lento veleno fattogli dare da Carlo d’Angiò. Sospettoso e crudele com’era, quel Re avrebbe saputo di una risposta data dal Santo Dottore a chi gli aveva domandato che cosa egli avrebbe detto delle cose sue al Concilio di Lione, se ne fosse stato richiesto: Certamente io dirò la verità. Ed è la verità che spesso fa paura ai potenti.

VITA DELL’ANGELICO DOTTORE SAN TOMMASO D’AQUINO (6)

UN PAPA È STATO ELETTO

26 OTTOBRE 1958: fumata BIANCA dalla Cappella Sistina.

UN PAPA È STATO ELETTO!!

[di P. S. D.]

Quella lunghissima fumata bianca del conclave del 1958!

            “Il fumo è bianco…non c’è alcun dubbio. Un Papa è stato eletto!” annunciò solennemente Radio Vaticana al termine del Conclave del 1958, quando centinaia di migliaia di persone erano incollate agli schermi o erano con gli occhi fissati verso il comignolo del camino da cui sarebbe uscita la fumata che avrebbe sancito l’elezione del nuovo Papa.

            Erano periodi molto difficili, con le due superpotenze che si fronteggiavano l’un l’altra nello scacchiere politico internazionale e con pressioni che da più parti e sempre più forti intralciavano le scelte del Papa in Vaticano.

            Era la fine di un’epoca e, con riferimento alla nomenclatura adottata da San Malachia nella sua Profezia sui Papi, al Pastor Angelicus, come lui aveva indicato Pio XII, il Papa il cui Pontificato aveva caratterizzato un lungo periodo di crisi per la pace mondiale, doveva far seguito un altro Pastor, quel Pastor et Nauta che la storia, quella che da sempre scrivono i vincitori del periodo, ci ha presentato come un Cardinale vestito di rosso fra decine di altri porporati, ma che i tempi odierni fanno sempre più chiaramente indicare come il vero successore di Pietro destinato a succedere a Pio XII.

            Dopo la morte di Papa Pacelli, avvenuta il 9 ottobre 1958, fu osservato un novendiato di pausa, al termine del quale ebbe luogo il Conclave in cui si apprestava ad essere eletto l’altro Pastor del secolo, quello caratterizzato dal più grave conflitto della storia: la guerra contro la Cristianità, che si stava preparando a vincere la più grande battaglia fra quelle che le era stato consentito di vincere.

            A raccogliere lo scettro del Pastor Angelicus doveva essere un altro Pastore delle greggi, quello che più di chiunque altro era in continuità con Pio XII: Giuseppe Siri, che lo stesso Papa Pacelli aveva indicato come Suo Successore. E a questo Successore San Malachia di Armagh aveva dato lo stesso nome conferito a Pio XII, Pastor, a cui aveva fatto seguire anche la parola Nauta, “marinaio”.

            Ed al Conclave per la designazione del successore del Pastor Angelicus avvenne un fatto inaudito, senza precedenti: due giorni dopo l’inizio del Conclave si sollevò dal camino allestito in Vaticano un fumo denso ed inequivocabilmente bianco, che continuò ad essere emesso verso il cielo per lunghi minuti in tutta la sua nitidezza: ben cinque minuti. Cinque minuti in cui una moltitudine di fedeli ebbe modo di vedere con i propri occhi quell’avvenimento così chiaro nel suo significato e così insolito nella sua imponenza e nella sua durata.

Chi ancora oggi osserva la fumata bianca del 1958 sul web non può che restare sbalordito davanti a quel fumo così candido e denso che sale a lungo verso il cielo, quasi una colonna fitta e impenetrabile che offre una suggestione fuori dal comune e veramente molto forte.

            Poco prima del Conclave del 1958, alcuni giornali dell’epoca avevano riportato le modalità dell’emissione del fumo bianco dal camino del Vaticano con un dettaglio che potremmo definire sospetto, quasi avessero voluto porre preventivamente l’accento sulle possibili spiegazioni delle anomalie che si sarebbero potute verificare di lì a pochi giorni in fase di fumata.

            All’interno di un dettagliato articolo sul Conclave che sarebbe stato indetto di lì a pochi giorni, in corrispondenza di una foto che mostra l’angolo della Cappella Sistina con la stufa già approntata per bruciare le schede dopo le votazioni, un giornale di larga diffusione pubblicato il 23 ottobre del 1958 riportava testualmente:

“Prima di ogni scrutinio, le schede vengono controllate per vedere se corrispondono al numero dei presenti (e in caso contrario vengono subito distrutte). Infine, gli scrutatori procedono alla lettura del risultato e al bruciamento delle schede. Se la votazione ha dato la maggioranza dei due terzi più uno, nella stufa della cappella viene bruciata paglia secca: la fumata bianca che ne deriva annuncerà al popolo, all’esterno, che un nuovo Papa è succeduto a Pietro. (…) Nel caso invece che lo scrutinio sia stato negativo, le schede bruciate con paglia umida daranno il fumo nero del risultato nullo.”

Pertanto, a produrre il fumo bianco o il fumo nero sono le schede bruciate e la paglia.

Nel caso del conclave in cui sia stato eletto un Papa si aggiunge paglia secca, mentre, nel caso in cui non vi sia un nuovo Pontefice, si aggiunge paglia umida, che brucia producendo un fumo di colore nero.

Sia la carta che la paglia sono combustibili: sia la prima che la seconda sono composte da cellulosa, sostanza che si presta ad essere bruciata, ma c’è in esse qualcosa che le rende differenti, in quanto a comportamento nei confronti del fuoco. Mentre la carta è formata da fibre cellulosiche che sono state purificate (la carta riciclata, oltre ad essere un’acquisizione relativamente recente, non è sicuramente quella che viene impiegata in sede di Conclave, e meno che meno in quello del 1958), la paglia reca altre sostanze oltre alla cellulosa (pigmenti, elementi chimici che sono contenuti nei pigmenti stessi, impurità di vario genere, interstizi fra i nodi che fanno da camera di combustione, ecc.). Il risultato è che il fumo derivante dall’abbruciamento della carta è più chiaro di quello derivante dall’abbruciamento della paglia, e probabilmente non solo: il fatto che la carta sia costituita da materiale cellulosico “puro” fa sì che il fumo derivante dalla bruciatura della carta sia più denso di quello derivante dalla fiamma appiccata alla paglia.

Il caratteristico colore intenso delle bruciature delle stoppie è visibile da lontano, e chiunque può rendersi conto del fatto che tale fumo non è mai bianco candido; inoltre, a meno che non siano vaste superfici a bruciare, esso non tende a formare una coltre densa, impenetrabile.

Nel caso della carta, invece, la cellulosa è strettamente appressata e la fiamma che vi viene appiccata si approvvigiona di una fonte di combustibile ingente, compatta.

A seconda che, in sede di Conclave, si voglia produrre un colore bianco o nero della fumata, il passaggio del periodico del 1958 che ho riportato sopra è chiaro: non si agisce sulla carta, ma si agisce sulla paglia, o meglio sulla quantità di umidità contenuta in essa.

Per l’altro parametro, ossia alla durata della fumata, esso è direttamente proporzionale alla quantità di combustibile che viene bruciato, ossia alla quantità della carta e della paglia. Non ha senso aggiungere molta paglia – che farebbe probabilmente un colore differente da quel bianco candido che è visibile nella fumata del 1958 -: quello che si vuole bruciare non è la paglia, ma le schede; e, se la paglia trova un giusto impiego, inumidita, nel conferire il colore scuro al fumo della “fumata nera”, non altrettanto si può dire per la fumata bianca, per ottenere la quale è sufficiente bruciare le carte delle schede.

Per le considerazioni fatte prima, quel colore bianco della fumata dipende probabilmente, in primo luogo, dalla carta, da cui dipendono pure in gran parte, probabilmente, il maggior chiarore e la maggiore densità del fumo. Con pochi dubbi, quindi, nella fumata del conclave del 1958 quella consistenza così densa dipese dalla carta, e quella sua durata così prolungata dalla quantità di combustibile (i numerosi fogli di carta che dovevano essere bruciati) impiegato.

Queste le supposizioni, che non c’è motivo di ritenere infondate.

Prendiamole per buone: come mai fu bruciata tanta carta in occasione di quel Conclave e non in altri? Nel corso di un Conclave non dovrebbe essere pressappoco sempre la stessa, in base al numero dei cardinali elettori – che si presume non debbano variare di moltissimo – la quantità di carta che viene bruciata?

Ci viene in aiuto ancora l’articolista del pezzo comparso su un periodico del 1958, che si cura di precisare:

Al termine del conclave tutto sarà bruciato: ogni cardinale è tenuto a dare alle fiamme anche i più insignificanti foglietti che gli siano serviti a prendere appunti o magari a tracciare ghirigori nell’attesa.

Ecco, quindi, chiarito l’arcano: al termine del Conclave del 1958, come al termine di tutti gli altri Conclavi, non furono bruciate solo le schede, ma anche qualsiasi foglio su cui era stata trascritta qualsiasi cosa, anche la più infima e irrilevante.

Considerata la durata e la densità della fumata levatasi al termine del Conclave, durato solo due giorni, del 1958, è lecito chiedersi quanta sia stata la quantità di carta che sia stata bruciata, e la risposta è: ingente! Ci si può chiedere a questo punto a cosa fosse servita tutta quella carta, e per rispondere a questa legittima domanda faccio riferimento all’articolo “Gregorio XVII: l’incredibile storia” pubblicato su questo sito ed a sviluppare i concetti contenuti in esso.

È infatti ben più che presumibile che fossero stati fatti circolare fra i Cardinali elettori dei fogli contenenti le “istruzioni” da seguire nel corso del Conclave per avere in contraccambio dei vantaggi speciali – leciti e soprattutto, molto probabilmente, illeciti – nel caso in cui tali richieste fossero state esaudite, o, al contrario, vendette la cui portata è difficile da immaginare, nel caso in cui tali richieste non fossero state esaudite.

Ci furono, con tutta evidenza, “cose” che furono fatte leggere a tutti e che portarono alla rinuncia forzata – cioè alla violenta “cacciata” – o impeditio secondo C. J. C. – del Papa (… dopo avergli fatto però accettare l’elezione), ed imposto il silenzio a tutti gli altri … il tutto supportato da abbondante materiale cartaceo “scottante” che doveva scomparire rapidamente senza lasciare tracce ad eventuali “curiosi” sospettosi od a posteri complottisti …

È possibile che fosse stato messo in preventivo che fosse Siri ad uscire Papa da quel Conclave, o forse ciò era stato addirittura favorito dagli stessi personaggi che volevano cambiare l’ordine costituito: in questo modo si sarebbe avuto il Papa vero la cui presenza permettesse al mondo di andare avanti (e, fra le altre cose, che potessero essere sviluppati e condotti a termine i progetti di dissoluzione della Chiesa “visibile”).

Comunque sia, le istruzioni di quello che sarebbe dovuto succedere dopo la prima fumata bianca erano state probabilmente date nel corso di quel Conclave, ed è questo, a mio avviso, l’unico elemento che permetta di spiegare come mai fu bruciata, unica volta nel corso del Papato, tanta carta da dare luogo ad una fumata così densa e bianca durata ben cinque minuti.

La combustione fu fatta durare fino a suo completamento: non doveva restare traccia, nessun residuo incombusto da cui si potesse capire anche la minima parte di ciò che era avvenuto, e così tutta la massa cartacea contenente istruzioni, promesse, minacce forse, chissà, anche simboli esoterici, fu lasciata nella stufa fino alla sua combustione completa, a dare quel fumo così bianco ed intenso ed impenetrabilmente denso che tante persone ebbero modo di vedere stazionare a lungo nell’aria, direttamente o attraverso il mezzo televisivo.

Quando poi si fu sicuri che il fuoco avesse distrutto ogni traccia, allora e solo allora fu gettata nella stufa della paglia inumidita: bisognava dare al mondo un segnale non chiaro, non preciso, non netto: che il Papa era stato eletto, cioè no, che si era trattato di un errore di valutazione e che il fumo uscito dalla Cappella Sistina in realtà era nero, come ebbe a dire la stessa Radio Vaticana poco tempo dopo il suo annuncio così categorico dell’elezione del Papa.

***

Pochi giorni dopo, all’ ”Habemus Papam” che sarebbe seguito nel corso dello stesso Conclave (benché questo fosse in realtà terminato due giorni prima), una coltre scura non si limitò ad uscire dalla Cappella Sistina, ma piombò, come dicono le cronache, su tutta Roma.

Il 28 ottobre 1958 il Cardinale protodiacono Nicola Canali pronunciò dalla loggia centrale della basilica vaticana quelle fatidiche parole indicando il nome prescelto da Angelo Roncalli, il quale aveva adottato lo stesso nome di Baldassarre Cossa, l’antipapa che aveva convocato un concilio eretico pochi anni dopo la sua non-elezione.

Come narrano le cronache, in quello stesso giorno di ottobre del 1958 l’oscurità calò di botto su Roma, benché fossero appena le 18,05 ed il sole in quel giorno dell’anno tramonti nella Capitale alle 18,13 (per lasciare dopo di sé circa mezz’ora di chiarore soffuso).

L’ora era giunta: quel nero che era uscito appena due giorni prima dalla stufa della Cappella Sistina in pochissimo tempo aveva coperto il Vaticano e la città in cui esso era situato, e da lì si preparava ad invadere tutto il mondo.

GREGORIO XVII: L’INCREDIBILE STORIA