29 GIUGNO 2021, FESTA DI SAN PIETRO

FESTA DI SAN PIETRO (2021)

I Santi Apostoli Pietro e Paolo.

Doppio di 1a classe con Ottava comune – Paramenti rossi

Tutta la Chiesa è in festa, perché « Dio ha consacrato questo giorno col martirio degli Apostoli Pietro e Paolo » (Or.) Nelle due grandiose basiliche erette a Roma sulle tombe « di questi Principi che hanno conquistato con la croce e la spada il loro posto nel senato eterno (Inno ai Vespri), come in Catacumbas sulla via Appia, il Papa celebrava oggi solennemente la Messa stazionale. Più tardi, a causa della gran distanza che separa queste due chiese, si divise questa festa, onorando più particolarmente San Pietro il 29 giugno, e San Paolo il 30 giugno. – 1° San Pietro, Vescovo di Roma, è il Vicario, luogotenente, sostituto visibile del Cristo. Come mostrano il Prefazio, l’Alleluia, il Vangelo, l’Offertorio e l’Antifona della Comunione, gli Ebrei avevano respinto Gesù, e fecero lo stesso verso il suo successore (Ep.). Spostando allora il centro religioso del mondo, Pietro lasciò Gerusalemme per Roma, che divenne la città eterna e la sede di tutti i Papi. — 2° San Pietro, primo Papa, « parla a nome del Cristo » che gli ha comunicato la sua infallibilità dottrinale. Quindi non la carne e il sangue lo guidano, ma il Padre celeste, che non permette che le porte dell’Inferno prevalgano contro la Chiesa, di cui egli è il fondamento ( Vang.). — 3° San Pietro ricevendo le chiavi è preposto al « regno dei cieli » sulla terra, cioè alla Chiesa, « e regna in nome del Cristo», che lo ha investito della sua potenza e della sua autorità suprema (Vang.). I nomi di San Pietro e di S. Paolo aprono la lista degli Apostoli nel Canone della Messa. — Con la Chiesa, che non cessava di rivolgere preghiere a Dio per Pietro (Ep.), preghiamo per il suo successore, « il servo di Dio, il nostro Santo Padre, il Papa [Gregorio XVIII – ndr.] » (Canone della Messa)

Incipit

In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Acts 12:11
Nunc scio vere, quia misit Dóminus Angelum suum: et erípuit me de manu Heródis et de omni exspectatióne plebis Judæórum.

[Adesso riconosco veramente che il Signore ha mandato il suo Angelo: e mi ha liberato dalle mani di Erode e da ogni attesa dei Giudei.]


Ps CXXXVIII: 1-2
Dómine; probásti me et cognovísti me: tu cognovísti sessiónem meam et resurrectiónem meam.

[Signore, tu mi scruti e mi conosci: conosci il mio riposo e il mio cammino.]


Nunc scio vere, quia misit Dóminus Angelum suum: et erípuit me de manu Heródis et de omni exspectatióne plebis Judæórum.

[Adesso riconosco veramente che il Signore ha mandato il suo Angelo: e mi ha liberato dalle mani di Erode e da ogni attesa dei Giudei.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui hodiérnam diem Apostolórum tuórum Petri et Pauli martýrio consecrásti: da Ecclésiæ tuæ, eórum in ómnibus sequi præcéptum; per quos religiónis sumpsit exórdium.

[O Dio, che consacrasti questo giorno col martirio dei tuoi Apostoli Pietro e Paolo: concedi alla tua Chiesa di seguire in ogni cosa i precetti di coloro, per mezzo dei quali ebbe principio la religione.]

Lectio

Léctio Actuum Apostolórum.
Act 12: 1-11

In diébus illis: Misit Heródes rex manus, ut afflígeret quosdam de ecclésia. Occidit autem Jacóbum fratrem Joánnis gládio. Videns autem, quia placeret Judæis, appósuit, ut apprehénderet et Petrum. Erant autem dies azymórum. Quem cum apprehendísset, misit in cárcerem, tradens quátuor quaterniónibus mílitum custodiéndum, volens post Pascha prodúcere eum pópulo. Et Petrus quidem servabátur in cárcere. Orátio autem fiébat sine intermissióne ab ecclésia ad Deum pro eo. Cum autem productúrus eum esset Heródes, in ipsa nocte erat Petrus dórmiens inter duos mílites, vinctus caténis duábus: et custódes ante óstium custodiébant cárcerem. Et ecce, Angelus Dómini ástitit: et lumen refúlsit in habitáculo: percussóque látere Petri, excitávit eum, dicens: Surge velóciter. Et cecidérunt caténæ de mánibus ejus. Dixit autem Angelus ad eum: Præcíngere, et cálcea te cáligas tuas. Et fecit sic. Et dixit illi: Circúmda tibi vestiméntum tuum, et séquere me. Et éxiens sequebátur eum, et nesciébat quia verum est, quod fiébat per Angelum: existimábat autem se visum vidére. Transeúntes autem primam et secundam custódiam, venérunt ad portam férream, quæ ducit ad civitátem: quæ ultro apérta est eis. Et exeúntes processérunt vicum unum: et contínuo discéssit Angelus ab eo. Et Petrus ad se revérsus, dixit: Nunc scio vere, quia misit Dóminus Angelum suum, et erípuit me de manu Heródis et de omni exspectatióne plebis Judæórum.

[In quei giorni: Il re Erode mise le mani su alcuni membri della Chiesa per maltrattarli. Uccise di spada Giacomo, fratello di Giovanni. E, vedendo che ciò piaceva ai Giudei, fece arrestare anche Pietro. Erano allora i giorni degli azzimi. Arrestatolo, lo mise in prigione, dandolo in custodia a quattro squadre di quattro soldati ciascuna, volendo farlo comparire davanti al popolo dopo la Pasqua. Pietro, dunque, era custodito nella prigione; ma la Chiesa faceva continua orazione a Dio per lui. Ora, la notte precedente al giorno che Erode aveva stabilito per farlo comparire innanzi al popolo, Pietro, legato da due catene, dormiva fra due soldati, e le sentinelle alla porta custodivano la prigione. Ed ecco apparire un Angelo del Signore e una gran luce splendere nella cella. Toccando Pietro al fianco, lo riscosse, dicendo: Alzati in fretta. E gli caddero le catene dalle mani. L’Angelo gli disse: Mettiti la cintura e infílati i sandali. Pietro obbedí. E l’Angelo: Buttati addosso il mantello e séguimi. Ed egli uscí e lo seguí, senza rendersi conto di quel che l’Angelo gli faceva fare, parendogli un sogno. Oltrepassata la prima e la seconda guardia, giunsero alla porta di ferro che mette in città, ed essa si aprí da sé davanti a loro. E usciti, si avviarono per una strada, e improvvisamente l’Angelo partí da lui. Pietro, allora, tornato in sé, disse: Adesso riconosco davvero che il Signore ha mandato il suo Angelo e mi ha liberato dalle mani di Erode, e da ogni attesa dei Giudei.]

Graduale

Ps XLIV:17-18
Constítues eos príncipes super omnem terram: mémores erunt nóminis tui, Dómine.
V. Pro pátribus tuis nati sunt tibi fílii: proptérea pópuli confitebúntur tibi. Allelúja, allelúja.

[Li costituirai príncipi sopra tutta la terra: essi ricorderanno il tuo nome, o Signore.
V. Ai padri succederanno i figli; perciò i popoli Ti loderanno. Alleluia, alleluia.]


Matt XVI:18
Tu es Petrus, et super hanc petram ædificábo Ecclésiam meam. Allelúja.

[Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt XVI:13-19
In illo témpore: Venit Jesus in partes Cæsaréæ Philippi, et interrogábat discípulos suos, dicens: Quem dicunt hómines esse Fílium hóminis?
At illi dixérunt: Alii Joánnem Baptístam, alii autem Elíam, álii vero Jeremíam aut unum ex Prophétis. Dicit illis Jesus: Vos autem quem me esse dícitis? Respóndens Simon Petrus, dixit: Tu es Christus, Fílius Dei vivi. Respóndens autem Jesus, dixit ei: Beátus es, Simon Bar Jona: quia caro et sanguis non revelávit tibi, sed Pater meus, qui in cœlis est. Et ego dico tibi, quia tu es Petrus, et super hanc petram ædificábo Ecclésiam meam, et portæ ínferi non prævalébunt advérsus eam. Et tibi dabo claves regni cœlórum. Et quodcúmque ligáveris super terram, erit ligátum et in cœlis: et quodcúmque sólveris super terram, erit solútum et in cœlis.

[In quel tempo: Gesú, venuto nei dintorni di Cesarea di Filippo, cosí interrogò i suoi discepoli: Gli uomini chi dicono che sia il Figlio dell’uomo? Essi risposero: Alcuni dicono che è Giovanni Battista, altri Elia, altri ancora Geremia o qualche altro profeta. Disse loro Gesú: E voi, chi dite che io sia? Simone Pietro rispose: Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente. E Gesú: Beato sei tu, Simone figlio di Giona, perché non la carne o il sangue ti hanno rivelato questo, ma il Padre mio che è nei cieli. E io ti dico: Tu sei Pietro, e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. Io darò a te le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra, sarà legato anche nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto anche nei cieli.]

OMELIA

IL PAPA

[G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi – S. Ed. Vita e Pensiero: VI ed., Milano, 1956]

Pietro! quest’uomo dalle larghe spalle di pescatore, dalle mani rosse per l’acqua e per il sole, dalla barba rotonda rischiarata da un sorriso bonario, dagli occhi teneri e azzurri come il lago in cui escava, oggi ci viene davanti all’animo così come noi lo conosciamo dai due episodi più salienti della sua vita: l’uomo della fede e dell’amore. Una volta Gesù si rivolge ai dodici e domanda loro improvvisamente : « Che dice di me la gente ?» – « Dicono che sei Elia », risposero alcuni. « Dicono che sei Geremia, risposero altri.

« Che sei il Battista! che sei un profeta! » risposero altri e altri ancora. – Gesù interruppe quelle discordanti testimonianze, dicendo: « Ma voi, voi che pensate di me? chi sono Io per voi? ». Ci fu un momento di silenzio. Allora Simone, quel Simone che aveva lasciato il suo lago, le reti, la barca, la casa, il padre, non aveva dubitato di balzar dalla barca e camminar sui flutti in mezzo al lago, quel medesimo Simone s’elevò al di sopra dei dodici, al di sopra di tutti gli uomini ed esclamò: « Tu sei il Cristo, Figlio di Dio».

In questa risposta voi vedete Pietro: l’uomo della fede. Ma un’altra volta Gesù lo prende in disparte. Si era sulle rive del lago, uno degli ultimi quaranta giorni che il Redentore, passò sulla terra dopo la sua Risurrezione. Lo fissa negli occhi e gli domanda tre volte: « Pietro mi ami tu? mi vuoi bene più di tutti gli altri? ». Pietro a quella triplice domanda, si ricorda della sua triplice negazione. E cominciò a tremare di dolore e soprattutto d’amore: « Signore! — rispose quasi singhiozzando, – Tu che sai tutto, vedi bene, quanto ti amo! E voleva dire, ma non osava: « Con tutta la vita, fino alla morte ». In quest’altra risposta voi vedete ancora Pietro: l’uomo dell’amore. Fede e amore: luce che illumina, fuoco che riscalda. Questa è l’anima di S. Pietro.

Ma questa è pure l’anima del Papa! Poiché il Papa non è che S. Pietro che si rinnova con perpetua vicenda nei secoli.

1° – Il Papa è la verità che guida tutto il mondo.

2° – Il Papa è l’amore che guida tutto il mondo.

1. IL PAPA È LA VERITÀ CHE GUIDA TUTTO IL MONDO

Torbidi tempi per la giovane Chiesa di Cristo. In Alessandria, un uomo smanioso di dominio, Dioscoro, andava spargendo nel Popolo dottrine false. A Costantinopoli un archimandrita di nome Eutiche con ardente parola sviluppava gli errori di Dioscoro. « Cristo — dicevano — non fu un uomo vero come noi, ma ebbe soltanto una unica natura, la divina ». Ma i Vescovi s’accorsero dell’abisso in cui si stava per cadere: negato Cristo uomo, troppo facilmente si sarebbe negato anche Cristo Dio; e tutta la nostra fede, per cui già milioni di martiri avevano dato il proprio sangue, sarebbe stata rovesciata nell’errore. Per ciò si proclamò un Concilio. E dall’Africa, e dall’Italia e dalla Siria convennero a Calcedonia 630 Vescovi. Già da più giorni si discuteva, quando arrivò una lettera stupenda di papa Leone. Tutti l’ascoltarono in silenzio, poi uno si alzò, in mezzo a tutti, gridando: « Pietro ha parlato per bocca di papa Leone ». Allora da tutti i petti eruppe un grido di vittoria: « Questa è la fede degli Apostoli; così, tutti crediamo ». – Quello che avvenne a Calcedonia ci esprime chiaramente che il Papa è l’infallibile guida di verità. Chi lo segue non cammina nelle tenebre del falso. Quando il Papa parla, ogni questione è finita, disse S. Agostino; perché il Papa ha la parola della verità. Ed è un dogma di fede che il Papa non sbaglia mai quando con tutta la forza della sua autorità definisce qualche dottrina di fede e di morale. – La storia del pensiero umano è qualche cosa di commovente: è l’uomo spinto dal desiderio di sapere che ascende alla cognizione del mondo e alla scoperta dei misteri della natura. Ma quanti spropositi. Quelle dottrine che prima si ritenevano come verità, ora si rigettano come errori. Ai tempi di S. Tommaso tutti i fisici credevano che la terra fosse circondata da una zona d’aria, e la zona d’aria fosse circondata da una zona di fuoco. Oggi queste ingenuità ci fanno sorridere. – Ci furono di quelli che insegnarono che il mondo si è fatto da solo, per un caso; altri non ebbero vergogna di proclamarsi discendenti dalle bestie, altri infine giunsero a negare la propria esistenza per dire che tutto il mondo è un sogno. In quali confusioni non è mai trascinata la superba scienza degli uomini. Ma sulla terra, dove tutto muta, e soprattutto mutano le parole e le teorie degli uomini, vi ha un miracolo d’una Cattedra che da venti secoli non ha mai cambiato una parola: è la cattedra di Roma. Il Credo che imparammo sulle ginocchia materne e che insegnammo ai nostri figliuoli è il Credo che hanno recitato i nostri nonni, i nostri bisnonni, che hanno recitato i primi Cristiani: è il Credo degli Apostoli. E quello che ogni Papa insegna in solenne ammaestramento dei fedeli, non si cancellerà più, ma starà in eterno. So bene che il demonio, più volte, ha cercato di addensare nella Chiesa di Dio le tenebre dell’errore: «Simone! Simone! — aveva detto Gesù si primo Papa — ecco satana che ti agiterà come nel cribio si agita il grano… E satana suscitò Simon Mago che voleva comprare col danaro lo Spirito Santo. Suscitò Cerinto, Valentino, Marcione e tutti gli eretici dei primi secoli. Suscitò Eutiche e i Doceti a negarne la umanità. Suscitò Fozio a dividere in mezzo la Chiesa. Suscitò Lutero a dilaniarla in brani. Ed anche ai nostri giorni suscita i moderni increduli coi loro libri osceni ed atei. [Nei tempi recenti ha suscitato gli antipapi Roncalli e Montini, l’eretico polacco, un eretico tedesco, ed un eretico sudamericano – ndr. -], « .. ma io ho pregato per te, o Pietro! » — La preghiera di Gesù ha reso infallibile il Papa. Passarono e passeranno tutti i nemici della verità come le onde del Tevere passano sotto i ponti di Roma; ma il Papa sta e non cambia. Chi non è col Papa è nell’errore, perché solo il Papa è la verità. E di lui si potrebbero ripetere le parole di S. Paolo: « Se anche un Angelo vi annunciasse qualcosa di diverso di quello che il Papa insegna, non credeteci perché sbaglia ».

2. IL Papa È L’AMORE CHE AMA TUTTO IL MONDO

Un poeta latino scrisse questo verso tremendo: Te regere imperio Populos, Romane, memento! Ricordati, o romano, che tu sei nato a comandare sui Popoli con la forza. Noi, venuti dopo, sappiamo come ha fallito il verso di Virgilio. La Roma conquistatrice e usurpatrice, la Roma della forza brutale, che aggiogava al suo carro i popoli, si è sfasciata sotto le sue rovine. Ma un’altra Roma è sorta che trionfa e trionferà senza fine e senza rovine: la Roma cristiana. Non è più però con la forza che Roma cristian è più con la spada, ma è con i1 cuore, Te regere amore populos, Romane, memento! – O Roma, tu sei nata a vincere i Popoli Quando con l’amore. – Quando l’Italia. fu invasa dai barbari, quando Attila incendiario flagellava le nostre contrade, quando gli Eruli di Odoacre e i Goti di Teodorico Agilulfo uccidevano e devastavano senza pietà, fu l’amore del Papa che ci ha salvato; che ha respinto il barbaro con la maestà del suo volto, che ha raccolto gli orfani, gli ammalati, che ha sostenuto le vedove e i poveri. –  E quando nell’Africa e nell’America persone infami rapivano e mercanteggiavano i poveri negri strappati dalle loro tribù e dai loro villaggi di paglia, chi si è levato a difenderli, a salvarli, se non l’amore del Papa? E quando la Polonia fu perseguitata dai Russi e le volevano imporre una lingua ed una fede che non era la sua, ed i preti erano calunniati di tradimento ed i fedeli feriti e carcerati, fu il Papa che chiamò a Roma lo Czar. L’imperatore delle Russie sale al Vaticano; sulla porta, solo inerme stanco dagli anni  e dai travagli, lo attende un vecchio bianco, il papa Gregorio XVI. Con le lacrime agli occhi dice: « Sire, verrà un giorno in cui entrambi compariremo dinanzi al tribunale di Dio, Io vecchio, prima; ma anche voi, dopo. Sire, pensateci bene: Dio ha istituito i re perché siano padri e non i carnefici dei loro popoli! » – Pallido, muto, smarrito, lo Czar discese e partì. – Un’altra volta è Filippo Augusto re di Francia che, dopo aver sposato Ingelburga, figlia del re di Danimarca, la vuol ripudiare. Raduna a Compiègne un conciliabolo e respinge Ingelburga e sposa Agnese di Merania. L’infelice regina, lontana dai suoi, quando sentì l’amara sorte d’essere scacciata, scoppiò in un grido: « Roma! Roma! ». – Oh, com’è bello questo grido di un’anima oppressa che invoca da Roma la sua giustizia! È una pecora del gregge che, assalita da lupo, col suo belato chiama al pastore. E il Papa ascolta questo lamento di agnello, e lancia la maledizione sul lupo ed il suo regno. E Filippo Augusto dovette rendere giustizia alla sua sposa. O Roma, tu sei nata a vincere con l’amore! Quando però gli uomini non ascoltano la sua voce d’amor ecco il Papa che soffre, non sa resistere e muore, Bonus pastor animam suam dat pro ovibus suis. – Si era nella primavera del 1914: l’ultimatum dell’Austria alla Serbia, non lasciava alcun dubbio sopra le intenzioni bellicose degli imperi centrali. Pio X aveva troppa intuizione per non comprendere ciò che sovrastava al mondo. L’Ambasciatore di Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, venne a Roma ed osò domandargli la benedizione sopra le armate austriache. Il Papa lo guardò come indignato e disse: « Io benedico la pace e non la guerra ». – Ma vedendo che ormai ogni suo sforzo era disperato e che per i suoi figli non poteva far niente, fuor che piangere e benedire, sentì la sua salute già scossa peggiorare nell’angoscia e nel dolore. Quando gli portarono le notizie del primo sangue sparso, il suo cuore paterno scoppiò e morì martire d’amore per il suo gregge dilaniato. Bonus pastor animam suam dat pro ovibus suis. Ed anche oggi chi leva la sua voce contro il sangue inutile, gli odi, le ingiustizie, e oppressioni? il Papa! [quello vero -ndr. -]. Solo la sua voce risuona sempre pura e disinteressata fra tanti egoismi e prepotenze. La sua voce viene da un cuore pieno d’infinito amore: il Cuore di Gesù. –   È bello ricordare anche qui l’ardente parola che S. Paolo scrisse a quei di Corinto: «Se qualcuno non ama Nostro Signor Gesù Cristo, sia anatema! ». Scomunicato, fuor della Chiesa, chi non ama Gesù Cristo? Ma il Papa non è il dolce Cristo in terra? Allora, con verità, possiamo applicare a lui il detto paolino: « Se qualcuno non ama il Papa, sia anatema! ». – Non basta amarlo a parole, ma bisogna amarlo in opere e in verità. E il Papa lo si ama quando si prega per lui: egli è nostro padre e ogni figlio deve pregare per suo padre. Il Papa lo si ama, quando lo si ascolta: la sua parola deve essere studiata con amore, creduta con fermezza, praticata con volontà.  Il Papa lo si ama quando il nostro obolo è generoso per Lui. Le Missioni, le chiese povere, i seminari, gli orfanotrofi, tutte le miserie del mondo volgono al Papa la loro voce. E il Papa come le potrebbe soccorrere? Amiamo il Papa.

IL CREDO


Offertorium


Orémus
Ps 44:17-18
Constítues eos príncipes super omnem terram: mémores erunt nóminis tui, Dómine, in omni progénie et generatióne.

[Li costituirai príncipi su tutta la terra: essi ricorderanno il tuo nome, o Signore, di generazione in generazione.]

Secreta

Hóstias, Dómine, quas nómini tuo sacrándas offérimus, apostólica prosequátur orátio: per quam nos expiári tríbuas et deféndi

[Le offerte, o Signore, che Ti presentiamo, affinché siano consacrate al tuo nome, vengano accompagnate dalla preghiera degli Apostoli, mediante la quale Tu ci conceda perdono e protezione.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt XVI: 18
Tu es Petrus, ei super hanc petram ædificabo Ecclésiam meam.

[Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa.]

Postcommunio

Orémus.
Quos cœlésti, Dómine, aliménto satiásti: apostólicis intercessiónibus ab omni adversitáte custódi.

[Quelli, o Signore, che Tu saziasti di un alimento celeste, per intercessione degli Apostoli, proteggili contro ogni avversità.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

P.S. La redazione tutta in festa, augura all’Augusto Pontefice regnante, S. S. Gregorio XVIII, successore di S. S. Gregorio XVII – G. Siri – ovunque si trovi, una buona Festa di San Pietro, assicurandogli la preghiera di tutti noi, pusillus grex cattolico, per la sua salute e la sua liberazione. Auguri Santità! W il Papa!

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (VII)

I TRE PRINCIPIIDELLA VITA SPIRITUALE (VII)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN. DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica 1922

Nihil obstat quominus imprimatur. Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR Vicetiæ, 25 Martii 1922.  M. Viviani, Vic. Gen

SECONDO PRINCIPIO FONDAMENTALE: VINCERE SE STESSO (II)

CAPITOLO VI.

Mortificazione esterna.

1. L’esterna mortificazione consiste nella forza necessaria, per dominare e tener soggetti i sensi e le potenze corporali e fare di esse quell’uso che è richiesto dalla ragione e dalla coscienza.

2. Il fine della mortificazione esterna in generale è il retto uso dei sensi, preservandoli da ogni eccesso e disponendoli ad operare il bene con costanza. In altre parole: sottrarre ai sensi tutto ciò che li possa mettere in pericolo; rinunziare a tutte le lusinghe sensuali che abbiano per oggetto solo il piacere, ed abituare il corpo a sopportare quanto gli riesce sgradito e faticoso. In particolare, bisogna abituare la vista a non vedere e leggere tutto, specialmente se dovesse riceverne pericolose impressioni, Nemmeno all’udito si deve concedere la soddisfazione d’inutili conversazioni; ed al gusto non si deve permettere che vada alla caccia di squisitezze, ma che si contenti d’ogni cosa, e non si lamenti del cibo, né oltrepassi i limiti della sobrietà. Del bere nulla si dica, nel quale richiedesi somma moderazione. Il tatto deve abituarsi a portare la croce di un lavoro severo, a moderarsi nel dormire, a sopportare la stanchezza, il freddo ed il caldo e rendervisi indifferente. Un mezzo generale, innocuo e durevole, è il tenere esternamente la condotta che corrisponde a ciascuno, giusta lo stato suo e condizione.

3. Anzitutto, nel modo d’esercitare la mortificazione conviene usare moderazione e prudenza. Il fine suo, che è d’aiutare la natura, non di pregiudicarla, è quello che deve regolare e governar tutto. Una regola importante è di non perseverare troppo a lungo in una medesima austerità, ma variarla di quando in quando. Il privarsi di qualche cosa ogni qual tanto non fa danno. Fa d’uopo raccomandare e seguire un metodo di vita, che conservi l’individuo, e particolarmente il giovane, in buone forze. « Poco, ma con costanza », diceva un Santo, parlando della mortificazione esterna.

4. Il primo motivo che si presenta per la pratica di questa virtù, si basa sull’attuale condizione del corpo nostro moralmente considerato. Giusta il principio cattolico, il corpo, dopo la prima caduta, è una fucina di perversità e di peccato; per cui la Sacra Scrittura lo chiama semplicemente: corpo di peccato (Rom. VI, 6), legge di peccato (Ivi VII, 23); e dice che la carne ha desiderî contrari allo spirito (Gal. V, 47). Perciò San Paolo castiga il suo corpo e considera la mortificazione come una prova della sua missione apostolica, Risulta, quindi, da quanto si è detto, che trattare il corpo in questo modo è molto conforme all’idea cristiana. La concupiscenza che ci trascina al peccato, risiede propriamente nell’anima; ma il corpo e l’anima vivono uniti, formando un composto naturale, e per quest’intima unione, ciò che entra per i sensi influisce sull’anima, e può arrivare ad esser peccato, se si aggiunge il consenso. Chi non sa l’impressione e il danno che può cagionare un’occhiata imprudente? La maggior parte delle tentazioni arrivano all’anima mediante i sensi; per questo frenare i sensi equivale a prevenire le tentazioni e togliere forza al male. Bisogna mortificarsi, non solamente per levare al corpo il disordine delle passioni e l’ansia per le impressioni sensuali, ma per liberarlo altresì dalle difficoltà e indecisioni sue ad operare il bene, dalla sua accidia, pigrizia ed amore alle comodità, e per procurargli nello stesso tempo facilità, prontezza buona disposizione e costanza nel compimento d’ogni bene; per il che non c’è via migliore che mortificare il corpo ed i sensi. Da questa mortificazione corporale ne ricava vantaggio altresì l’anima, per conseguire l’umiltà. Imperocchè il trattamento che senza nessun riguardo è obbligata a dare al suo corpo, le ricorda di continuo la sua debolezza ed inclinazione al peccato, e così si guarda dalla superbia, radice di tutti i vizî e schiva umilmente e cautamente ogni pericolo di peccare. Anche lo spirito guadagna forza contro la sensualità, ed acquista prontezza, fervore, animo, gusto alla preghiera e facilità di farla; mediante l’esercizio della penitenza esterna, che consiste nella mortificazione corporale, eleva i suoi pensieri, a guisa d’aquila ringiovanita, dalle miserie di questa terra alle bellezze del cielo.

5. Finalmente, la mortificazione esterna ci viene predicata in tutti i toni dai Santi, anche i più dolci ed amabili; i quali non sono in ciò se non gl’interpreti della vita e degli esempi di Gesù Cristo. Essi parimente praticarono la mortificazione esterna, per quanto lo permettevano il loro stato e condizione. Somma è la stima che di questa mortificazione ha lo spirito cristiano; chi non facesse caso e la disprezzasse, non arriverebbe mai ad essere uomo spirituale.

CAPITOLO VII.

Mortificazione interna.

1. La mortificazione interna, come contrapposta all’esterna, consiste nel governare e indirizzare le interiori potenze dell’anima, per tenerle lontane dal male, conservarle nel bene e renderle atte ad ogni perfezione… Per potenze interne intendiamo l’intelletto, la volontà, l’immaginazione e l’appetito sensitivo.

2. Quanto sia l’importanza dell’interna mortificazione, chiaro apparisce, in primo luogo, comparandola coll’esterna, che non è altro se non un mezzo, una condizione e un frutto dell’interna. Questa è la sorgente ed il fine di quella alla quale comunica tutto il suo valore. Più ancora: mancando l’interna mortificazione non può aver durata l’esterna; senza di quella avremmo al più la religiosità del fakiro, o un’educazione puramente esterna della quale sono suscettibili persino gli animali. L’esterna penitenza può venire supplita in dati casi dall’interna, mediante il ritiro, il raccoglimento di spirito e la purità di cuore. Inoltre, quella dev’essere circoscritta a luogo, tempo e misura; mentre l’interna si può e si deve praticare sempre, dovunque e senza alcuna restrizione.  Si dimostra in secondo luogo l’importanza della interna mortificazione considerando le sue relazioni colla moralità e col progresso nella virtù. L’ordine e il disordine morale, il peccato ed il merito derivano dalle interne potenze dell’anima. Da esse, dall’intelligenza e dalla libera volontà, dipende il valore morale della nostra vita e la responsabilità delle nostre azioni. L’azione esterna. non aggiunge nulla d’essenziale. È nel cuore che si commettono i peccati, come disse il Salvatore: Dal cuore partono i mali pensieri, gli omicidî, gli adulterî, le fornicazioni, i furti, i falsi testimonî, le maldicenze. Queste sono le cose che imbrattano l’uomo (Matt. XV, 18). L’interna mortificazione possiede in grado eminente le vere condizioni e contrassegni che caratterizzano le virtù solide. Solido è anzitutto quello che proviene da un principio vero e stabile, non dalla passione, né dall’utilità propria o impulso naturale, ma da Dio, da motivi soprannaturali, da una retta volontà; solido è inoltre quello che ci costa qualche molestia e difficoltà, poiché il farlo è segno certo che non cerchiamo noi stessi e che va contro la natura; solido finalmente è ciò che ci fa progredire, vale a dire, ciò che rimuove gl’impedimenti che opponiamo alla divina grazia. Orbene; tutte queste condizioni della virtù solida e massiccia si riscontrano unicamente nella mortificazione interna. Per questo è riconosciuta e indicata da tutti i santi e maestri di spirito come la vera e infallibile pietra di paragone della virtù, della perfezione e della santità. Basandosi sulla medesima, il maestro infallibile d’ogni santità, Gesù Cristo, distinse e giudicò le virtù. Gl’ipocriti farisei del giudaismo suoi contemporanei, malgrado l’esteriore loro apparenza di santità, non erano per Lui che dei sepolcri coperti e imbiancati al di fuori, e di dentro pieni d’immondezze e di ossa di morti (Matt. XXIII, 27).

3. Ma, in che cosa dobbiamo noi mortificarci? Anzitutto in ciò che risguarda la nostra vocazione, vale a dire, in quelle cose che c’impediscono di compiere perfettamente i doveri del nostro stato. In secondo luogo, in ciò di che ciascuno abbisogna in modo particolare, ,date le difficoltà sue personali e proprî difetti, siano essi interni od esterni. Finalmente, in ciò che Iddio vuole ed esige da noi.

CAPITOLO VIII.

La mortificazione dell’ intelletto.

Discendiamo a specificare di più l’oggetto della mortificazione.

4. Trattandosi dell’intelletto, è cosa evidente che quanto in esso debbasi mortificare non può essere che qualche disordine o mancanza colpevole, sia per eccesso o per difetto, nell’educazione ed uso del medesimo.

2. L’intelletto è la facoltà che conosce la verità, e siccome questa si consegue quando acquistiamo cognizioni, si deduce che nel raggiungimento di essa ed in quello della scienza consiste la formazione intellettuale. Aver una cura speciale per questa formazione, è la prima cosa e la più importante che dobbiamo fare; poiché l’intelletto è la più elevata e nobile facoltà dell’uomo, ed in un certo senso la più necessaria per la vita. Gl’ignoranti a nulla servono, né a Dio, né al mondo, né al demonio.

3. Nell’acquisto delle cognizioni si può peccare anzitutto per difetto. Esse devono essere certe, chiare e così estese come lo richiede la nostra condizione; bisogna guardarsi dalla superficialità e dalla pigrizia. Tra le cognizioni che dobbiamo acquistare non possono assolutamente mancare le verità religiose, quelle sublimi ed eterne verità (rationes æternæ), che rivelandoci i rapporti che passano tra noi e ciò che ci sta d’attorno, tra il mondo, Dio e l’eternità, ci fanno concepire una retta idea delle cose, idea ché senza dubbio è, l’oggetto più nobile che possa e debba conseguire l’intellettuale formazione; senza quest’idea manca la base ed il laccio d’unione con tutte le altre scienze, e per essa si arriva alla cognizione delle massime cristiane che regolano la vita morale, massime senza le quali l’uomo resterebbe privo di sostegno. Siccome questi fondamenti si basano sulla fede, ne consegue che dessa è ciò che col maggiore impegno dobbiamo conoscere e cercar di tradurre nella vita pratica.

4. D’altra parte, può anche avvenire che qualcuno voglia troppo sapere e studiare, ed allora è necessario reprimere la smoderata brama di penetrar tutto senza distinguere l’utile e necessario dall’inutile, superfluo e pericoloso; come anche di lanciarsi solo per presunzione e vanità in ciò che non si può raggiungere. – Gli antichi designavano in proposito una virtù speciale che chiamavano studiosità, la quale frena e modera la smoderata brama di sapere, ed a ragione; poiché questo vizio trae con sé molti inconvenienti, dei quali il primo è un’eccessiva preponderanza dell’intendimento; e siccome di frequente accade che ciò che pretendiamo di sapere supera le nostre forze intellettuali, risulta o una falsità e disordine di idee e di concetti, o una lamentabile superficialità e confusione. Imperocchè nulla vi ha che preoccupi tanto l’essere nostro, come lo studio e l’investigazione.. Conseguenza d’uno studio esagerato è l’impossessarsi che fa di noi una desolante aridità di cuore, accompagnata da una vera inettitudine di pregare, per nulla dire di un’incresciosa debolezza della volontà, che disgraziatamente patiscono tanti uomini d’ingegno. Dobbiamo, quindi, regolarci colla scienza come coll’alimento corporale; poiché, siccome il troppo mangiare nuoce allo stomaco, così l’esagerato sapere gonfia ed invanisce l’uomo. La scienza non è il bene maggiore che possa darsi; è assai più la verità, senza la quale ogni sapere non è che inganno e menzogna. Perciò alla scienza od all’investigazione non si può concedere incondizionatamente il preteso primato. Insomma, ciò che prima si deve apprendere è il necessario, poi l’utile e finalmente il dilettevole.

5. Guardiamoci, infine, dall’essere rigidi ed inflessibili nei nostri giudizî ed opinioni, poiché alla tenacità non può andare unita la pietà. Questa virtù cammina sempre colla semplicità, col candore e l’umiltà, virtù queste di cui è privo lo spirito pertinace, il quale invece genera dissensioni e rende l’uomo odioso e aborrito. La tenacità di giudizio diventa una specie di fanatismo e non si arrende alla verità; ed è già noto che la cosa migliore che può farsi coi fanatici è di lasciarli soli. – La tenacità di giudizio è nemica d’ogni verità e d’ogni scienza. Non vi fu eresia che in essa non abbia avuto i suoi principî. Non possono frenare l’ostinato né Dio, né la Chiesa; poiché risulta che egli rigetta non soltanto le verità speculative, ma anche le morali, e spesso tutta la scienza della vita pratica che si fonda sul buon senso e la ragionevolezza. Non v’è cosa che sia più opposta alla vita pratica dell’insensatezza, come del pari nulla si dà che più s’avvicini all’insensatezza della tenacità ed ostinazione al proprio parere. – Non crediamo d’essere giunti a far nostre tutte le scienze e di avere l’ultima parola in tutte le questioni; è infinitamente più ciò che ignoriamo di quel che sappiamo. Pensare da sé è buona cosa; ma è anche bene, e spesso meglio, ascoltare ed accettare ciò che dicono gli altri. È buona l’indipendenza, ma a condizione che non sia contro la verità. La conoscenza di sé è il migliore preservativo contro la tenacità di questo giudizio; essa ci rende umili e ragionevoli. I più saggi sono sempre i più docili.

CAPITOLO IX.

La mortificazione della volontà.

I. Si danno tre ragioni per provare l’esistenza somma che ha in sé la mortificazione o formazione della volontà. La prima è perché questa facoltà si presenta tra le principali dell’uomo, il quale, nato per la verità ed il bene, li comprende coll’intelletto e la volontà. La volontà in un certo senso è la facoltà principale; ma cieca in sé e per sé, ha bisogno che l’intelletto le indichi e proponga il bene a cui deve tendere, ed essa ordinariamente vi consente; e dico ordinariamente, perché non è necessità ad abbracciare questo o quel bene, come lo è l’intelletto a conoscere la verità, ma può qualche volta dissentire da ciò che questo le propone. È libera, e come libera che è e dev’esserlo. Nessun uomo e nemmeno Dio potrà mai costringerla. Mercè questa libertà che per scegliere e determinarsi possiede la volontà, essa è così grande ed eccellente, vera immagine dell’indipendenza divina. Il bene ed il male, tutti gli atti morali dipendono dalla volontà e da essa vengono determinati. Per questo la medesima è il pomo di discordia tra Dio e il demonio. Insomma, della felicità o infelicità dell’uomo è la sua propria volontà che decide. – La seconda ragione è la necessità che ha la volontà di essere formata e d’assoggettarsi inoltre ad una severa educazione. Di sua natura è limitata e cieca nelle sue decisioni; in conseguenza del peccato originale fu resa più debole e fiacca. Essa ricevette il primo e principale colpo dal detto peccato e ne sente continuamente gli effetti, parte per la concupiscenza, parte per le tentazioni che le vengono dal di fuori. Or da lacci sì sottili come sono le forze dell’umana volontà stà pendente la felicità dell’uomo. E questa precisamente è la ragione del perché Dio abbia dato molta più virtù alla volontà che non all’intelletto. – La terza ragione è che la volontà umana è sommamente suscettibile di educazione e di formazione; al che si aggiunge che questa educazione riesce molto più utile e vantaggiosa che non quella dell’intelletto. L’uomo può assoggettarsi la volontà, non così l’intelletto. Inoltre, per tutte parti s’incontrano difficoltà che l’intelletto non può superare: la volontà, in cambio, colla grazia di Dio può tutto. E a provarlo abbiamo l’esempio dei Santi, nei quali ciò che vale a canonizzarli è la buona volontà.

2. La mortificazione deve liberare la volontà da tre mancamenti ed eccessi.

Il primo è il disordine e la mancanza di rettitudine nell’intenzione. L’ordine, la rettitudine e la purità d’intenzione consistono nell’assoggettamento e nell’obbedienza della volontà a tutto ciò che la ragione e la coscienza le dettano come buono e necessario; la mancanza di rettitudine, nella resistenza ed insubordinazione contro ciò che come tale riconosce. Questo è il peggior peccato che possa commettere la volontà. Deve, quindi, lasciarsi reggere dalla ragione e dalla coscienza, il che non nuoce alla sua dignità regale. È cieca e deve tener dietro a chi la guida, se non vuol inciampare e cadere; poiché, infine, si assoggetta a Dio, regola suprema di bontà, che le si manifesta mediante la ragione e la coscienza. Sarà perfetta la purità d’intenzione quando la volontà nulla intraprenda né faccia che non sia conforme alla ragione, e operi tutto il bene che le corrisponde.

Il secondo mancamento è la durezza, l’immobilità, l’indecisione, la lentezza nell’operare il bene conosciuto, ed al quale è obbligata. Certamente che bisogna prima pensare ai motivi, ma poi fa d’uopo correre, e correre con sollecitudine ed energia, senza tentennamenti di sorta. Altrimenti potrebbe costar troppo caro il ritardo, poiché può trattarsi talvolta del cielo o dell’inferno.

Il terzo mancamento è la fiacchezza, la poca costanza ed energia, che molte volte derivano da qualche attacco ad alcun bene della terra. E bisogna considerare che questa affezione è sempre una degradante schiavitù, che, oltre ad inceppare la nostra libertà di azione e movimento, ci abbassa e impiccolisce rendendoci ridicoli e degni di compassione. Allora non ci resta altro rimedio che di sradicare e tagliare ciò che ci trattiene. Così si libera il cuore, che ricupera la sua pace e fortezza. L’incostanza della volontà può derivare altresì da pusillanimità o poca energia nel vincere le difficoltà, o dal timore di dover dar mano a maggiori e più difficili imprese. Non ci sfugga dalla memoria: una volontà debole non è fatta per questo mondo, dove non mancano mai croci e contraddizioni; o facciamo noi forse propositi solo per la quiete? Una volontà che non abbia energia per operare e resistere, non è volontà; tutt’al più essa potrebbe servire da banderuola.

3. Mezzo d’educazione della volontà è anzitutto la preghiera, che considerata in sé è una scuola di pazienza, specialmente se si fa in tempo determinato, qualsisiano le circostanze. Oltr’a ciò mediante la preghiera ci viene la grazia, senza la quale non possiamo noi assoggettare la riluttante nostra volontà, né sottrarci alla volubilità e leggerezza sua. – Un altro mezzo è di aver solidi e chiari principî, e di fare propositi risoluti e ben determinati. Se malgrado tali propositi e principî siamo così deboli ed incostanti, che saremmo senza di essi? È anche un buon mezzo avere una norma fissa di vita a cui assoggettarci; poiché ciò che le regole sono pel Religioso, pel secolare è l’orario quotidiano. Ad esso dobbiamo attenerci invariabilmente, e ad esso ritornare se avesse dovuto soffrire qualche turbamento. – Un’ottima occasione per rinvigorire la volontà sono le tentazioni che ci sopravvengono, vere guerre e battaglie in cui si esercita il nostro valore e la nostra costanza; e siccome sono tante e così diverse, possiamo, se sappiamo rintuzzarle con energia, acquistarci col tempo grande fermezza di carattere e copia di solida virtù.  – Un mezzo altresì eccellente per educare la volontà è il vincersi nelle cose piccole e indifferenti che ad ogni passo s’incontrano durante il giorno, le quali, quantunque leggiere, sono molte, e la volontà vi acquista sempre forza. Esigua è la cosa, ma grande l’efficacia.

4. Un’educazione solida, retta e duratura della volontà è oggidì tanto più importante e necessaria, in quanto che si attende più esclusivamente e sovrabbondantemente a formare l’intelletto, lasciando la volontà abbandonata a sé stessa ed a tutte le tempeste, come un arbusto selvatico in campo aperto. E quali ne saranno i risultati? Che più tardi, quando dovrà lottare contro le insorgenti sue passioni, troverassi impotente a resistere. Gli è che nessuno avea pensato di darle un’educazione. Non s’insisterà mai abbastanza sostenendo che non è troppo l’occuparsi nell’educare e rinvigorire la volontà con un metodo chiaro, forte e sodo. Si fa presto ad imparare quello che è necessario per divenire buoni ed utili. Se metà dell’attenzione e fatica che in ciò mettiamo. l’adoperassimo nella formazione della volontà, saremmo presto santi.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO VI – “UBI LUTETIAM”

Questo documento apostolico ha una grande importanza oggi, così come all’epoca, poiché di infiltrati falsi prelati nella Chiesa, almeno in quella apparente, ce n’è a iosa, a cominciare da tutti i falsamente consacrati dai riti sacrileghi e blasfemi di G B. Montini (sedicente Paolo VI), per passare ai fallibilisti gallicani di Ecône senza giurisdizione alcuna e privi di missione canonica, e finire poi nell’arcipelago sedevacantista, luogo variegato popolato da personaggi autoreferenti privi di tutto, ordine, missione, giurisdizione, e nel mondo scismatico dei cani sciolti in talare, girovaganti in cerca di prede da divorare, non solo spiritualmente, ma pure materialmente nei loro beni. Allora c’era un’Autorità liberamente operante che poteva rimuovere censure ed infrazioni varie, ma oggi, che i poteri infernali delle conventicole di perdizione, hanno operato un’eclissi della vera Autorità Apostolica, l’unica che ha potere di rimuovere, come dicevamo, censure o rimettere debiti canonici, per questi poveri disgraziati non resta che fare una dura penitenza per chiedere a Dio, una volta pentiti dei propri misfatti, la grazia di incontrare un delegato pontificio (della vera Chiesa eclissata) capace di assolverli da censure e peccati, possibilmente non in articulo mortis, e far ritorno all’ovile della Chiesa Cattolica, l’unica in cui ci si possa salvare in eterno. Invece la maggior parte di questi poveracci non fa che combattere ancor più la verità evangelica, teologica, canonica, accumulando ogni giorno, in ogni loro atto – come ricorda opportunamente il Sommo Pontefice Pio VI – peccato su peccato, sacrilegio su sacrilegio e coinvolgendo oltretutto i malcapitati loro fedeli settari. Situazione veramente drammatica, nella quale si coglie in pieno la drammatica conseguenza della parola dell’Apostolo delle genti ai fedeli di Tessalonica (2 Tess.: II, 10-11): … mittet illis Deus operationem erroris ut credant mendacio, ut judicentur omnes qui non crediderunt veritati, sed consenserunt iniquitati.

Pio VI
Ubi lutetiam

1. Quando giunse a Parigi l’indulto apostolico relativo ad alcune facoltà straordinarie che Noi concedemmo il 19 marzo scorso a tutti gli Arcivescovi, ai Vescovi e agli amministratori di diocesi di Francia, subito i vostri confratelli abitanti in quella città, che avevano ottenuto quell’indulto a nome di tutto il corpo episcopale, capirono agevolmente che fra le facoltà a loro concesse era stata omessa quella di assolvere gli ecclesiastici estranei e, pensando che questo preciso particolare fosse dovuto ad una dimenticanza, si rivolsero di nuovo a Noi per chiederci che includessimo in una nuova formula anche questa facoltà.

2. Subito dopo i vostri confratelli dichiararono di non sapere se alla facoltà compresa nel primo articolo dello stesso indulto, cioè quella di assolvere chiunque da tutte le censure, sia laici, sia ecclesiastici secolari e regolari dei due sessi, e anche quelli che avevano aderito allo scisma e che avevano prestato giuramento civile perseverando in esso più dei quaranta giorni fissati nella lettera apostolica del 13 aprile dello scorso anno per non incorrere nella sospensione a divinis, fosse aggiunto il potere di assolvere anche gli ecclesiastici intrusi, il crimine dei quali è superiore al delitto di quelli che si sono vincolati soltanto con il giuramento civico e dei quali si è fatta menzione specifica in quell’articolo.

3. In questa incerta situazione, i Vescovi, con devota e scrupolosa cura, dichiararono di non pretendere affatto di superare i limiti delle facoltà loro attribuite, però, ricorrendo di nuovo a Noi per eliminare ogni motivo d’incertezza, Ci fecero capire che desideravano ardentemente che ai Vescovi fosse concessa la facoltà di riottenere per gli intrusi la grazia della Chiesa e di assolverli da ogni condanna, giacché questa facoltà non solo non costituirebbe alcun pericolo, ma potrebbe invece essere di grande utilità per la religione.

4. Questo vostro comportamento, diletti figli Nostri e Venerabili Fratelli è sicuramente degno del più grande apprezzamento, che Noi manifestiamo come già facemmo in altra occasione. Pertanto, pronti e ben disposti ad assecondare le vostre petizioni in tutto ciò che riterremo possa giovare al Signore, siamo venuti nella determinazione di investirvi di un nuovo più ampio potere che corrisponda ai vostri lodevoli intendimenti e contemporaneamente soddisfi alle regole canoniche e alle consuetudini della Chiesa.

5. È tuttavia necessario, prima di ogni cosa, considerare che da ciò che avete puntualmente appreso da Noi nella prima e nella seconda occasione, è evidente che fra le facoltà contenute nell’indulto generale Noi non intendevamo affatto includere quella di assolvere gli ecclesiastici intrusi. L’omissione di questa facoltà non può essere riferita a una dimenticanza. Infatti, rivedendo personalmente la Nostra lettera del 13 aprile 1791, nella quale si faceva menzione non solo del delitto di prestato giuramento civile, ma si era anche parlato dell’altro crimine del quale si erano macchiati gli invasori delle sedi vescovili e parrocchiali, non Ci potevano sfuggire gli aspetti pertinenti sia al primo che al secondo delitto. Se nel primo articolo citato fu da Noi ricordato chiaramente l’uno, e passato sotto silenzio l’altro, si può benissimo arguire che la concessione riguardava il caso di cui avevamo parlato e che quello passato sotto silenzio era riservato unicamente a Noi.

6. D’altra parte non lo cederemo mai ad altri, ma riserveremo solo a Noi il potere di assolvere gl’intrusi; il principale motivo senza dubbio è quello che fra l’una e l’altra infamia si frappone quel divario che è stato avvertito dai vostri stessi confratelli e che è evidente agli occhi di tutti. In realtà, per quanto sia grave il delitto imputato a quelli che, mettendo in mezzo anche il vincolo della Religione, si obbligarono ad osservare una costituzione che, stando al parere di tutto il corpo episcopale francese, così come alla Nostra solenne dichiarazione, è in parte eretica e in parte scismatica, tuttavia un’infamia molto maggiore e ben più grave è perpetrata da chi, deliberatamente e consapevolmente, si accinge ad eseguire ciò che aveva promesso sotto giuramento (cioè sacrilegamente o consacrato secondo il rito, se vescovo; sacrilegamente od ordinato secondo il rito, se prete) ed esercita così una missione e un’autorità illegittime e invade le chiese vescovili o parrocchiali; a tal punto separato da questa Sede Apostolica e dai Vescovi legittimi, accumula giorno per giorno, con velocità inaudita, tanti peccati quanti sono gli atti che compie secondo una giurisdizione illegittima; profana inoltre i più alti Sacramenti; induce miseramente le popolazioni nell’errore; porta nel regno una nuova chiesa costituzionale diversa dalla Chiesa di Gesù Cristo, sia nella sostanza che nelle leggi e nel nome; infine traccia di propria mano un’amplissima strada allo scisma.

Per rimuovere questo stato di cose, era giusto e doveroso ricorrere alla Santa Sede come quella che più di ogni altro subisce ingiustizia, e che può inoltre usare le opportune misure d’indulgenza che non si potrebbero facilmente e regolarmente applicare se la facoltà di assolvere fosse affidata all’arbitrio di molti.

7. Certamente non vi è ignoto, Venerabili Fratelli, quanta severità usava la Chiesa contro i responsabili di tali delitti. Facendo in ogni caso attenzione alla diversità esistente fra quelli che per loro sfortuna discendevano da genitori eretici o scismatici e quelli che, nati da genitori cattolici, passavano volontariamente dalla parte degli eretici, di fronte a quelli nati nell’eresia e nello scisma e a quelli diventati eretici e scismatici, sempre trattò questi ultimi molto più duramente in quanto considerati maggiormente responsabili. Questa severità di comportamento è stata rivolta in modo ancor più rigido contro gli ecclesiastici, tanto che conosciamo le minacce che furono fatte contro di loro, cioè che se qualcuno si fosse rivolto intenzionalmente ad un eretico e ne avesse ricevuto l’ordinazione, sarebbe stato respinto dalla Chiesa.

8. Questa severissima regola della Chiesa ci è ricordata da Sant’Innocenzo I. Scrivendo a Rufo e agli altri Vescovi della Macedonia, egli insegna che il Vescovo o il chierico ordinato nell’eresia o nello scisma o anche che vi sia caduto in seguito, può usufruire solo della comunione laica, secondo le antiche regole che, tramandate dagli Apostoli e dai loro discendenti, la Chiesa Romana custodisce. Anche se i Padri del primo Concilio di Nicea, usato un certo riguardo verso i Novaziani, concessero benevolenza al canone ottavo stabilendo che se i chierici fossero tornati alla Chiesa avrebbero continuato a far parte del clero, e chi era considerato Vescovo nella sua comunità avrebbe mantenuto l’incarico di prete, sempre che al vero Vescovo non fosse piaciuto confermargli la dignità della carica, tuttavia stabilirono che, prima di tutto, avrebbero dovuto, con argomenti più che convincenti, sconfessare il loro errore; inoltre decretarono che da loro fossero rispettate alcune regole, e cioè, in primo luogo: riconoscere, accogliere e seguire tutte le disposizioni e i dogmi della Chiesa cattolica e apostolica; in secondo luogo: riguardo a quelli che nel corso della persecuzione continuarono a cadere in errore fossero osservati gli spazi fissati e i tempi stabiliti per fare la prova del loro ravvedimento, cioè quei quattro gradi di penitenza che, secondo le norme allora vigenti, dovevano precedere la riconciliazione e la riammissione ai Sacramenti; infine, che abbandonassero le chiese occupate e le lasciassero ai legittimi Vescovi. È infatti cosa certa, come dissero i già citati Padri, che solo al Vescovo titolare deve essere riconosciuta la dignità vescovile e che nella stessa città non possono coesistere due vescovi.

9. Quando Rufo, Vescovo di Tessalonica, volle ricevere, in forza di questo canone di Nicea, i chierici ordinati dai Vescovi Fotiniani e, al riguardo, chiese consiglio a Sant’Innocenzo I, il Pontefice rispose: “Posso dire che questa prescrizione si riferisce solo ai Novaziani e che non può riguardare gli altri chierici eretici. Infatti, se avessero voluto comprendere tutti, avrebbero aggiunto ai Novaziani gli altri eretici pentiti per farli riammettere nel loro ordine“.Senza dubbio il Santo Pontefice, in questa occasione, stabilì che non si può presentare con caratteristiche generali un condono applicato una volta tanto, ed è abbastanza evidente che fu quasi un atto amministrativo “come rimedio e necessità del momento“.

10. Non fu diversa l’opinione di San Girolamo. Infatti, parlando al Sinodo di Rimini dei Vescovi caduti in errore, dichiarò che essi, spogliati delle prerogative episcopali, dovessero essere riportati allo stato laicale per piangere in eterno sul loro delitto. Tuttavia il Santo Dottore osservava che si poteva moderare alquanto questo rigore. Perché tale clemenza fosse accompagnata da regole precise, nel Sinodo di Alessandria, al quale intervennero S. Atanasio, S. Ilario di Poitiers S. Eusebio di Vercelli, si ritenne di stabilire che verso i principali delitti e i relativi responsabili, dei quali non si poteva scusare l’errore, si conservasse intatta l’antica regola e che gli altri pentiti sinceri si potessero associare alla Chiesa. Tutta la Chiesa Romana Occidentale diede il suo consenso, come conferma lo stesso San Girolamo.

11. Non ci discosteremo minimamente dall’equità e dall’indulgenza, accettate in seguito dalla Chiesa, se, rispondendo alla vostra domanda generica sulla facoltà di assolvere gli intrusi, distingueremo i preti e gli altri ecclesiastici di ordine inferiore dagli Arcivescovi e dai Vescovi di ordine superiore. Ai preti e agli altri ecclesiastici, in quanto spetti, da Noi inclusi nella quarta e quinta classe della lettera apostolica del 19 marzo scorso, concediamo per un anno, a ciascuno, diletti figli Nostri e Venerabili Fratelli, la facoltà di assolvere direttamente o per mezzo di preti da voi incaricati, tutti coloro che, ordinati sia illegittimamente, sia legittimamente, occuparono un’intera parrocchia o anche una sola parte e, delegati da Vescovi intrusi, vi esercitarono atti ufficiali, e di riportarli in seno alla Chiesa di modo che, rispettando l’indulgenza del predetto canone ottavo del Concilio di Nicea, possano rimanere nel clero.

12. E perché tali assoluzioni non siano elargite inconsultamente o non siano discordanti tra loro. Ci uniformeremo al suddetto Concilio di Nicea e ai principi più favorevoli della disciplina ecclesiastica: ordiniamo che nessuno degli intrusi sia assolto se prima non abbia sconfessato per iscritto il giuramento civico e gli errori contenuti nella Costituzione civile del clero francese e non abbia dichiarato specificamente che le ordinazioni ricevute o concesse dagli intrusi sono sacrileghe, che l’autorità da loro conferita non è valida, che l’intrusione è iniqua e nulla, così come gli atti che ne sono derivati, e non abbia promesso con giuramento di obbedire a questa Sede Apostolica e ai legittimi Vescovi, e infine che abbia realmente rinunciato alla parrocchia o alla parte di essa occupata; rinuncia e abdicazione debbono essere pubbliche così come fu pubblica la colpa, imponendo a ciascuno di essi “secondo ciò che suggeriranno il sentimento e la saggezza – come dicono i Padri Tridentini – delle soddisfazioni salutari e adatte alla qualità del delitto e alla condizione dei penitenti“, in sostituzione dei gradi della penitenza pubblica che, vigente al tempo del Concilio di Nicea, è stata più tardi mitigata dalla benevolenza della Chiesa. Riserviamo a Noi la facoltà di permettere, a quelli che saranno assolti, di avere e di conservare i benefici e le parrocchie da loro occupati e posseduti illegalmente.

13. Mentre vi concediamo questa più ampia facoltà di assolvere anche gli ecclesiastici di ordine inferiore dall’infame sacrilegio dell’intrusione, per la verità non possiamo non rivolgerci ancora paternamente a voi e a quei tali ecclesiastici. A voi, ripetiamo, affinché usiate con cautela la facoltà concessa a scopo di edificazione e osserviate scrupolosamente quelle condizioni che vi sono state prescritte; agli ecclesiastici pentiti, perché si avvalgano con animo riconoscente della nostra indulgenza, senza simulazione alcuna, in quanto non sarebbe per loro di nessun vantaggio, ma li spingerebbe verso una rovina maggiore. Infatti, assolti davanti alla Chiesa, non lo sarebbero affatto davanti a Dio e trasformerebbero il rimedio in veleno. Se quelli che rinnegano se stessi non possiedono lo Spirito Santo, certamente non lo potrà ricevere chi sta falsamente nella Chiesa, poiché sta scritto: “Lo Spirito Santo rifugge dal falso“. Perciò, chi vuole possedere lo Spirito Santo, si guardi dall’entrare nella Chiesa sotto mentite spoglie; ma se già vi entrò così, eviti di persistere in tale simulazione, se vuole rimanere strettamente unito all’albero della vita.

14. Inoltre, al fine di rimuovere ogni ambiguità, aggiungiamo che i poteri compresi nel già citato indulto generale, nonché quelli contenuti in questa lettera, si intendano concessi sia agli Arcivescovi e ai Vescovi francesi, sia agli stranieri le cui popolazioni e diocesi si estendono nel regno di Francia

15. Altresì, per quanto riguarda gli Arcivescovi e i Vescovi dell’ordine ecclesiastico superiore, siano consacratori e assistenti, o essi stessi intrusi o anche solo vincolati dal giuramento civico, fanno tutti parte della prima, seconda e terza classe della Nostra lettera del 19 marzo scorso, e riteniamo sia opportuno riservare unicamente a Noi e ai Nostri successori la facoltà di assolverli. Sulla loro defezione, infatti, ricade un giudizio che è molto più grave degli altri e li supera di gran lunga, dal momento che alcuni di loro sono i capi di tutta l’infame situazione; tutti possono veramente essere considerati gli autori del fatale scisma che imperversa rovinosamente per tutto codesto regno, tanto più che, secondo i ricordati canoni, meritano che contro di loro si proceda con maggior rigore. Tuttavia non vogliamo certamente che per questa riserva il loro animo si abbatta e s’infranga, ma desideriamo ardentemente che la loro fiducia si risollevi tanto da rivolgersi verso la Madre comune e rifugiarsi prontamente nel suo seno. Se poi il loro pentimento sarà sincero e vorranno condannare con convincenti riparazioni i loro misfatti e rinunciare alle chiese occupate, Noi, e l’abbiamo già dichiarato col Papa San Leone e allo stesso modo lo dichiariamo di nuovo, li accoglieremo a braccia aperte e li chiameremo a godere, in concordia, della pace e della Nostra comunione. Le Nostre come le vostre intenzioni non mirano ad altro che a ricondurre all’ovile i dispersi, a porre finalmente termine allo scisma, come ininterrottamente supplichiamo in lacrime Dio Ottimo Massimo.

16. Dopo tutto ciò, se mai ce ne fosse bisogno, vi informeremo su un certo scritto che Ci è stato appena ora trasmesso. Si tratta di uno scritto che gli scismatici, non sperando più di poter difendere oltre la loro autorità, disprezzata da tutti e ormai annientata, hanno avuto l’ardire di divulgare con il Nostro nome sotto il titolo di Breve, redatto in lingua francese e tedesca e, in più, come se fosse dato “a Roma, presso Santa Maria Maggiore, sotto l’anello del pescatore, il giorno 2 aprile del 1792“, cioè quattordici giorni dopo l’ultima Nostra lettera scritta il giorno 19 del marzo scorso. Questo falso Breve, il cui inizio è “Il Nostro cuore paterno“,con inaudita temerarietà dichiara false tutte le lettere apostoliche da Noi redatte e pubblicate contro la Costituzione civile del clero francese; i suoi autori e sostenitori spogliano questa Santa Sede del suo primato giurisdizionale, continuano a celebrare con infinite lodi tutta la Costituzione, esortando le popolazioni ad obbedire ai Vescovi e ai parroci costituzionali.

17. Oh, malaugurata astuzia! come se non fosse evidente a tutti il tono falso e calunnioso di questo scritto, sia guardando il luogo da dove si finge che sia stato emesso – Noi il giorno 2 del mese di aprile abitavamo, come del resto tuttora, non a Santa Maria Maggiore, ma in San Pietro – sia considerando l’intero contesto e il nesso del discorso così come è stato concepito. Infatti, usando il solito linguaggio ingannatore a loro tanto familiare, non aggiungono alcun argomento che non sia stato cento volte controbattuto e respinto e, altrettanto a ragione, si può dire che in quel testo vi sono tanti errori quante sono le parole. Nondimeno, perché gli ingenui non siano ingannati, Noi, coerenti con quello che dicemmo nell’ultima Nostra Lettera contro siffatti documenti perversi, dichiariamo quello scritto falso, immaginario, calunnioso, eretico e scismatico, perciò lo respingiamo, lo riproviamo e lo condanniamo. Quanto più grandi sono le frodi dei Nostri avversari, maggiore deve essere la Nostra e la vostra vigilanza. Questa vi raccomandiamo più che mai e, per il momento, a voi, diletti figli e Venerabili Fratelli e ai greggi affidati alle vostre cure impartiamo con grande affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 13 giugno 1792, anno diciottesimo del Nostro Pontificato

DOMENICA V DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA V DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B.; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti venti.

La liturgia di questa Domenica è consacrata al perdono delle offese. La lettura evangelica mette in risalto questa lezione non meno che quella d’un passo delle Epistole di S. Pietro, la cui festa è celebra in questo tempo: infatti la settimana della V Domenica di Pentecoste era in altri tempi detta settimana dopo la festa degli Apostoli.

Quando David riportò la sua vittoria su Golia, il popolo d’Israele ritornò trionfante nelle sue città e al suono dei tamburi cantò: «Saul ha ucciso mille e David diecimila! ». Il re Saul allora si adirò e la gelosia lo colpì. Egli pensava: « Io mille e David diecimila: David è dunque superiore a me? Che cosa gli manca ormai se non d’essere re al mio posto? » Da quel giorno lo guardò con occhio malevolo come se avesse indovinato che David era stato scelto da Dio. Così la gelosia rese Saul cattivo. Per due volte mentre David suonava la cetra per calmare i suoi furori, Saul gli lanciò contro il giavellotto e per due volte David evitò il colpo con agilità, mentre il giavellotto andava a conficcarsi nel muro. Allora Saul lo mandò a combattere, sperando che sarebbe rimasto ucciso. Ma David vittorioso tornò sano e salvo alla testa dell’esercito. Saul allora ancor più perseguitò David. Una sera entrò in una  caverna profonda e scura, ove già si trovava David. Uno dei compagni disse a quest’ultimo: « È il re. Il Signore te lo consegna, ecco il momento di ucciderlo con la tua lancia ». Ma David rispose: « Io non colpirò giammai colui che ha ricevuto la santa unzione e tagliò solamente con la sua spada un lembo del mantello di Saul e uscì. All’alba mostrò da lontano a Saul il lembo del suo mantello. Saul pianse e disse: « Figlio mio, David, tu sei migliore di me ». Un’altra volta ancora David lo sorprese di notte addormentato profondamente, con la lancia fissata in terra, al suo capezzale e non gli prese altro che la lancia e la sua ciotola. E Saul lo benedisse di nuovo; ma non smise per questo di perseguitarlo. Più tardi i Filistei ricominciarono la guerra e gli Israeliti furono sconfitti; Saul allora si uccise gettandosi sulla spada. Quando apprese la morte di Saul non si rallegrò ma, anzi, si stracciò le vesti, fece uccidere l’Amalecita che, attribuendosi falsamente il merito di avere ucciso il nemico di David, gli annunciò la morte apportandogli la corona di Saul, e cantò questo canto funebre: « O montagne di Gelboe, non scenda più su di voi né rugiada, né pioggia, o montagne perfide! Poiché su voi sono caduti gli eroi di Israele, Saul e Gionata, amabili e graziosi, né in vita, né in morte non furono separati l’uno dall’altro » (Bisogna riaccostare questo testo a quello nel quale la Chiesa dice, in questo tempo, che S Pietro e S. Paolo sono morti nello stesso giorno). – Da tutta questa considerazione nasce una grande lezione di carità, poiché come David ha risparmiato il suo nemico Saul e gli ha reso bene per male, così Dio perdona anche ai Giudei; non ostante la loro infedeltà, è sempre pronto ad accoglierli nel regno ove Cristo, loro vittima, è il Re. Si comprende allora la ragione della scelta dell’Epistola e del Vangelo di questo giorno: predicano il grande dovere del perdono delle ingiurie « Siate dunque uniti di cuore nella preghiera, non rendendo male per bene, né offesa per offesa » dice l’Epistola. « Se tu presenti la tua offerta all’altare, dice il Vangelo, e ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia la tua offerta davanti all’altare, e va prima a riconciliarti con tuo fratello ». — David, unto re di Israele, dagli anziani a Ebron, prende la cittadella di Sion che divenne la sua città, e vi pose l’arca di Dio nel santuario (Com.). Fu questa la ricompensa della sua grande carità, virtù indispensabile perché il culto degli uomini nel santuario sia gradito a Dio (id.). Ed è per questo che l’Epistola e il Vangelo ribadiscono che è soprattutto quando noi ci riuniamo per la preghiera che dobbiamo essere uniti di cuore. Senza dubbio la giustizia di Dio ha i suoi diritti, come lo mostrano la storia di Saul e la Messa di oggi, ma se esprime una sentenza, che è un giudizio finale, è soltanto dopo che Dio ha adoperato tutti i mezzi ispirati dal suo amore. Il miglior mezzo per arrivare a possedere questa carità è d’amare Dio e di desiderare 1 beni eterni (Or.) e il possesso della felicità (Epist.) nella dimora celeste (Com.), ove non si entra se non mediante la pratica continua di questa bella virtù.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI: 7; 9 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus.

[Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Ps XXVI: 1 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timébo?

[Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò?]

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus.

[Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Oratio

Orémus.

Deus, qui diligéntibus te bona invisibília præparásti: infúnde córdibus nostris tui amóris afféctum; ut te in ómnibus et super ómnia diligéntes, promissiónes tuas, quæ omne desidérium súperant, consequámur.

[O Dio, che a quanti Ti amano preparasti beni invisibili, infondi nel nostro cuore la tenerezza del tuo amore, affinché, amandoti in tutto e sopra tutto, conseguiamo quei beni da Te promessi, che sorpassano ogni desiderio.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet III: 8-15

“Caríssimi: Omnes unánimes in oratióne estóte, compatiéntes, fraternitátis amatóres, misericórdes, modésti, húmiles: non reddéntes malum pro malo, nec maledíctum pro maledícto, sed e contrário benedicéntes: quia in hoc vocáti estis, ut benedictiónem hereditáte possideátis. Qui enim vult vitam dilígere et dies vidére bonos, coérceat linguam suam a malo, et lábia ejus ne loquántur dolum. Declínet a malo, et fáciat bonum: inquírat pacem, et sequátur eam. Quia óculi Dómini super justos, et aures ejus in preces eórum: vultus autem Dómini super faciéntes mala. Et quis est, qui vobis nóceat, si boni æmulatóres fuéritis? Sed et si quid patímini propter justítiam, beáti. Timórem autem eórum ne timuéritis: et non conturbémini. Dóminum autem Christum sanctificáte in córdibus vestris.”

“Carissimi: Siate tutti uniti nella preghiera, compassionevoli, amanti dei fratelli, misericordiosi, modesti, umili: non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma al contrario benedite, poiché siete stati chiamati a questo: a ereditare la benedizione. In vero, chi vuole amare la vita e vedere giorni felici raffreni la sua lingua dal male e le sue labbra dal tesser frodi. Schivi il male e faccia il bene, cerchi la pace e si sforzi di raggiungerla. Perché gli occhi del Signore sono rivolti al giusto e le orecchie di lui alle loro preghiere. Ma la faccia del Signore è contro coloro che fanno il male. E chi potrebbe farvi del male se sarete zelanti del bene! E arche aveste a patire per la giustizia, beati voi! Non temete la loro minaccia, e non vi turbate: santificate nei vostri cuori Gesù Cristo”.

Anche l’Epistola di quest’oggi è tolta dalla I. lettera di S. Pietro. È naturale che, scrivendo ai Cristiani dispersi dell’Asia minore, tenga sempre presente la condizione in cui si trovano: sono pochi fedeli tra numerosi pagani, e sono sotto la persecuzione di Nerone. Come devono diportarsi? devono vivere in stretta unione fra di loro, mediante la misericordia, la compassione, la condiscendenza; essendo stati chiamati al Cristianesimo a render bene per male, affinché abbiano per eredità la benedizione celeste. Non trattino con la stessa misura quelli che fanno loro del male. La vita felice è per chi raffrena la lingua, evita il male e procura di aver pace con il prossimo. Del resto i giusti non sono abbandonati dal Signore, e nessuno può loro nuocere, se sono zelanti del bene. Quanto alla persecuzione, beati loro se hanno a soffrire qualche cosa per la religione cristiana. Siano, quindi, calmi, senza ombra di timore: onorino, invece, e temano Gesù Cristo. Anche noi, dobbiamo procurare di vivere una vita felice, per quanto è possibile tra le miserie e le persecuzioni di questo mondo. Sforziamoci di vivere in pace, ciò che ci è possibile con l’aiuto di Dio, anche tra le tempeste di quaggiù.

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929]

Graduale

Ps LXXXIII: 10; 9

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice super servos tuos.

[O Dio, nostro protettore, volgi il tuo sguardo a noi, tuoi servi]

V. Dómine, Deus virtútum, exáudi preces servórum tuórum. Allelúja, allelúja

[O Signore, Dio degli eserciti, esaudisci le preghiere dei tuoi servi. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XX: 1

Alleluja, alleluja Dómine, in virtúte tua lætábitur rex: et super salutáre tuum exsultábit veheménter. Allelúja.

[O Signore, nella tua potenza si allieta il re; e quanto esulta per il tuo soccorso! Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt. V: 20-24

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nisi abundáverit justítia vestra plus quam scribárum et pharisæórum, non intrábitis in regnum coelórum. Audístis, quia dictum est antíquis: Non occídes: qui autem occídent, reus erit judício. Ego autem dico vobis: quia omnis, qui iráscitur fratri suo, reus erit judício. Qui autem díxerit fratri suo, raca: reus erit concílio. Qui autem díxerit, fatue: reus erit gehénnæ ignis Si ergo offers munus tuum ad altáre, et ibi recordátus fúeris, quia frater tuus habet áliquid advérsum te: relínque ibi munus tuum ante altáre et vade prius reconciliári fratri tuo: et tunc véniens ófferes munus tuum.”

(In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Se la vostra giustizia non sarà stata più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli. Avete sentito che è stato detto agli antichi: Non uccidere; chi infatti avrà ucciso sarà condannato in giudizio. Ma io vi dico che chiunque si adira col fratello sarà condannato in giudizio. Chi avrà detto a suo fratello: raca, imbecille, sarà condannato nel Sinedrio. E chi gli avrà detto: pazzo; sarà condannato al fuoco della geenna. Se dunque porti la tua offerta all’altare e allora ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta all’altare e va prima a riconciliarti con tuo fratello, e poi, ritornato, fa la tua offerta).

Omelia

[da: DISCORSI DI SAN G. B. M. VIANNEY CURATO D’ARS Vol. III, Marietti Ed. Torino-Roma, 1933.

Visto nulla osta alla stampa. Torino, 25 Novembre 1931.

Teol. TOMMASO CASTAGNO, Rev. Deleg.

Imprimatur. C . FRANCISCUS PALEARI, Prov. Gen.]

Sul secondo Comandamento di Dio. Non nominare il nome di Dio invano.

Fa gran meraviglia, F. M., che Dio sia obbligato a farci un comando per proibirci di profanare il suo santo Nome. È possibile concepire che vi possano essere Cristiani i quali si abbandonino talmente al demonio, da diventare nelle sue mani strumento per maledire un Dio sì buono e sì benefico? E possibile che una lingua, consacrata a Dio nel santo Battesimo, bagnata tante volte dal suo Sangue adorabile, sia adoperata per maledire il suo Creatore? Potrebbe fare una cosa simile chi crede davvero che Dio non gliel’ha data che per benedirlo e cantare le sue lodi? Voi converrete meco che questo è un delitto spaventoso che sembra costringere Dio a schiacciarci con ogni sorta di sventure, e ad abbandonarci al demonio, al quale obbediamo con tanto zelo. Questo delitto fa rizzare i capelli a chiunque non abbia ancor perduto interamente la fede. Tuttavia, malgrado la gravità di questo peccato, malgrado il suo orrore e la sua atrocità, vi è forse un peccato più comune del giuramento, della bestemmia, dell’imprecazione, della maledizione? Non abbiamo forse il dolore di sentire spesso uscire dalla bocca di fanciulli, che non sanno ancora bene il Pater noster, bestemmie così enormi da attirare ogni sorta di maledizioni su una parrocchia? Io vi mostrerò adunque, F. M., che cosa s’intenda per giuramento, per bestemmia, rinnegazione, imprecazione e maledizione. E voi intanto dormite, dormite profondamente mentre io parlo, affinché nel giorno del giudizio abbiate la scusa di aver fatto il male senza sapere cosa facevate, e la vostra ignoranza sia il solo motivo della vostra condanna.

I. — Per farvi comprendere la gravità di questo peccato, bisognerebbe, ch’io potessi farvi comprendere la gravità dell’oltraggio ch’esso arreca a Dio; ciò che non sarà mai dato a un essere mortale. No. M. F., non c’è che l’inferno, non c’è che la collera, la potenza e il furore di un Dio, tutti adunati sopra quei mostri infernali, che possano far comprendere la grandezza della sua atrocità. No, no, F. M., più innanzi: per questo peccato ci vuole davvero un inferno eterno. D’altra parte, non è il mio assunto: io voglio soltanto farvi conoscere la differenza che passa tra il giuramento, la bestemmia, la rinnegazione, l’imprecazione, la maledizione e le parole grossolane. Molti le confondono e prendono una cosa per l’altra; ragione per cui non si confessano quasi mai, come si deve, e si espongono perciò a far cattive confessioni e, per conseguenza, a dannarsi.

Il secondo comandamento, suona così: “Non usare invano il Nome del Signore tuo Dio, „ come se il Signore ci dicesse: “Io vi ordino e vi comando di riverire questo Nome, perché santo e adorabile; Io vi proibisco di profanarlo, adoperandolo per autorizzare l’ingiustizia, la menzogna, o anche la verità, ma quando non c’è una ragione sufficiente, „ e Gesù Cristo ci dice di non giurare assolutamente. Io dico in primo luogo, che le persone poco istruite, confondono spesso la bestemmia col giuramento. Uno sciagurato, in un momento di collera, o, meglio, di furore, dirà: “Dio non è giusto facendomi soffrire o perdere questa cosa.„ Con ciò egli ha rinnegato il buon Dio; eppure s’accuserà dicendo: “Padre, mi accuso d’aver giurato, „ invece si tratta di una bestemmia, non di un giuramento. Uno sarà falsamente accusato di un fallo, che non ha commesso: per giustificarsi dirà: “Se io ho fatto ciò, ch’io non vegga la faccia di Dio in eterno,,. Non è un giuramento, ma un’orribile imprecazione. Ecco due peccati non meno gravi del giuramento. Un altro che avrà dato al suo vicino del ladro o del furfante, s’accuserà « d’aver giurato dietro al suo vicino. » Ora, ciò non è un giurare, ma un ingiuriarlo. Un altro, dirà parole sconce e disoneste, e si accuserà “d’aver detto cattive espressioni.„ V’ingannate; bisogna confessare che avete detto delle oscenità. Ecco, F. M., che cosa è il giuramento: è un prendere il buon Dio per testimonio di ciò che si dice o promette; e lo spergiuro è un giuramento falso, cioè quando si giura per garantire una menzogna. Il Nome del buon Dio è sì santo, sì grande, sì adorabile che gli Angeli e i santi, ci dice S. Giovanni, non fanno altro in cielo che cantare: « Santo, santo, santo il Dio degli eserciti: sia benedetto il suo Nome per tutti i secoli dei secoli ! » Quando la santa Vergine andò a visitare la cugina Elisabetta e questa santa le disse: “Quanto sei tu fortunata di essere stata eletta Madre di Dio, „ la santa Vergine le rispose: « Colui che è onnipotente e il Nome del quale è santo, ha operato in me grandi cose. „ Noi dovremmo adunque, F. M., aver gran rispetto per il Nome del buon Dio e non pronunciarlo mai se non colla massima venerazione, e molto meno pronunciarlo invano. S. Tommaso ci dice che pronunciare il Nome di Dio invano, è un peccato grave; e che non è un peccato come gli altri. Negli altri peccati la leggerezza della materia può diminuire l’atrocità e la malizia, e, bene spesso ciò che per sua natura sarebbe peccato mortale non è che veniale; come il furto, che è un peccato mortale; ma se si tratta di poca cosa, come due o tre soldi, non sarà che veniale. La collera e la gola sono peccati mortali, ma una piccola collera o una piccola golosità sono semplicemente veniali. Non è così per il giuramento: qui più la materia è leggiera più la profanazione è grande! (Ogni bestemmia ha in sé la materia d’un peccato mortale, perché essa è un’ingiuria alla Maestà divina, e questa ingiuria non ammette parvità di materia per ragione della sovrana dignità di Dio. Il peccato adunque non può diventar veniale se non per difetto d’attenzione o di consenso). Perché? Perché più leggiera è la materia, e più grande è la profanazione. Se uno pregasse il re di fargli da testimonio in una sciocchezza, non sarebbe un burlarsi dì lui e un disprezzarlo? Il buon Dio ci dice che chi giurerà nel suo Nome sarà rigorosamente punito. Leggiamo nella santa Scrittura che, ai tempi di Mosè, c’erano due uomini, di cui uno giurò nel Nome santo del Signore. Subito fu preso e condotto a Mosè, il quale domandò al Signore che cosa dovesse farne. E il Signore gli disse di condurlo in un campo e comandare a tutti quelli ch’erano stati testimoni di questa bestemmia di mettergli la mano sul capo e ucciderlo, per togliere questo bestemmiatore di mezzo al suo popolo (Lev. XXIV, 14).  Lo Spirito Santo ci dice ancora che la casa di chi è avvezzo a giurare sarà piena di iniquità e non ne uscirà la maledizione fin che non sia distrutta (Eccli. XXIII, 12). Il Nostro Signore Gesù Cristo ci dice nel Vangelo di non giurare ne per il cielo né per la terra, poiché né l’uno né l’altra ci appartengono. Quando vorrete assicurare gli altri di una cosa, dite: “È così, o non è così; sì o no; l’ho fatto o non l’ho fatto; il di più vien tutto dal demonio (Matth. V, 34-37).„ D’altra parte chi ha l’abitudine di giurare è di solito impetuoso, attaccato al proprio giudizio, e giura sempre, per la verità come per la menzogna. — Ma. si dirà, se non giuro, non mi si crede. — V’ingannate; non si crede mai così poco come a uno che giura, perché ciò fa supporre in lui nessuna Religione, e chi non ha religione non è degno di esser creduto. Ci sono alcuni che non sanno vendere la minima cosa senza giurare, quasi che il loro giuramento facesse diventar buona la loro merce. Quando si vede un mercante che, per vendere, giura, bisogna pensar subito ch’egli non ha fede, e quindi mettersi in guardia per non lasciarsi ingannare. I suoi giuramenti fanno orrore e non gli si crede. Invece se uno non giura, noi crederemo a ciò che dice. – Leggiamo nella storia un esempio riportato dal cardinale Bellarmino, il quale ci mostra come il giuramento non giova a niente. C’erano in Colonia, dice egli, due mercanti che pareva non potessero vendere senza giurare. Il loro pastore li esortò fortemente a lasciare quest’abitudine assicurandoli che, ben lungi dal perderci, ci avrebbero guadagnato molto. Essi seguirono il suo consiglio. Ma, per qualche tempo, non vendettero molto. Allora andarono a trovare il loro pastore e gli dissero che non vendevano tanto quanto egli aveva fatto loro sperare. Il pastore disse loro: « Abbiate pazienza, miei figliuoli: siate sicuri che Dio vi benedirà. „ Infatti, dopo qualche tempo il concorso fu sì grande che pareva dessero la merce per niente. Essi stessi riconoscevano che il buon Dio li benediceva in un modo particolare. — Lo stesso cardinale ci dice che c’era una buona madre di famiglia che aveva una gran abitudine di giurare: a forza di farle capire quanto questi giuramenti erano indegni d’una madre e che ella non faceva altro che attirare la maledizione di Dio sulla sua casa, riuscì a correggersi completamente; e allora confessò ella stessa che, da quando aveva perduta questa cattiva abitudine, vedeva che tutto le riusciva bene e che Dio la benediceva in modo affatto particolare. Volete voi, F. M., esser felici nella vostra vita e che Dio benedica le vostre case? Guardatevi dal giurare e vedrete che tutto vi riuscirà bene. Iddio ci dice che, sulla casa in cui regnerà il giuramento, piomberà la maledizione del Signore e la distruggerà. E perché, M. F., v’abbandonerete al giuramento, se il buon Dio lo proibisce sotto pena di renderci infelici in questa vita e riprovarci nell’altra? Ahimè! come conosciamo poco ciò che facciamo! Ebbene: lo conosceremo un giorno; ma troppo tardi! In secondo luogo, dico che vi è un giuramento anche più cattivo, ed è quando al giuramento si aggiungono parole di esecrazione, cosa che fa tremare; come gli sciagurati che dicono: “Se ciò che dico non è vero, ch’io non vegga la faccia di Dio in eterno! „ Ah! disgraziati! voi rischiate purtroppo di non vederla mai. Altri dicono: “Se ciò non è vero, ch’io perda il mio posto in paradiso! Dio mi danni! o che il demonio mi porti via ! … „ Ah! vecchio indurito! il demonio ti porterà con sé purtroppo, senza che tu ti dia anticipatamente a lui. Quanti altri hanno sempre il demonio in bocca, alla minima cosa che non vada loro a genio. – Diavolo d’un ragazzo!… diavolo d’una bestia!… diavolo d’un lavoro!… „ Ahimè! chi ha sì spesso il demonio in bocca, c’è ben da temere l’abbia anche nel cuore. Quanti altri non sanno che dire : “Si, per fede mia!… no, in fede mia! … cane d’un ragazzo!… „ oppure anche: “In verità!… sulla mia coscienza!… sulla mia fede di Cristiano!… „ C’è un’altra specie di giuramenti, di maledizioni, che nessuno pensa di confessare, e sono quelli che si fanno in cuore. C’è di quelli che credono che, perché non lo dicono con la bocca, non ci sia niente di male. Ma v’ingannate assai, amici miei. Avviene che qualcuno faccia qualche danno alle nostre terre o altrove qualche guasto? Voi imprecate loro nel vostro cuore, e li maledite dicendo:  « Almeno il diavolo se li portasse via!… che il fulmine li schiacci!… che queste rape o quelle patate li avvelenino mentre le mangiano!… „ E questi pensieri li conservate a lungo nei vostri cuori! E credete forse che, perché non li manifestate con la bocca, non siano nulla! Sono peccati gravi, miei amici, e bisogna pur che ve ne confessiate, altrimenti andrete perduti! Ahimè! quanto pochi conoscono lo stato della loro povera anima, quale apparisce agli occhi di Dio! In terzo luogo, ci sono altri, ancor più colpevoli, i quali giurano non solo per cose vere, ma anche per cose false. Ah! se voi poteste comprendere quanto la vostra empietà disprezza allora Iddio, non avreste, certo, mai il coraggio di commetterla. Voi vi comportate allora con Dio, come un vile schiavo che dica al suo re: « Sire, è necessario che mi facciate da falso testimonio. » Ciò non vi fa orrore, M. F.? Il Signore ci dice nella santa Scrittura: « Siate santi, poiché Io sono santo. Non mentite, non ingannate il prossimo, non spergiurate prendendo il nome del Signore vostro Dio a testimoniare una menzogna; non profanate il nome del Signore. » S. Giovanni Crisostomo ci dice: « Se è già un gran peccato giurare per una cosa vera, quale sarà la gravità del delitto di colui che giura il falso, per garantire la menzogna? » Lo Spirito Santo ci dice che il bugiardo perirà. Il profeta Zaccaria ci assicura che la maledizione verrà sulla casa di colui che giurerà il falso, e vi resterà finche quella casa sia abbattuta e distrutta. – S. Agostino ci dice che lo spergiuro è un grave delitto, una bestia feroce che fa uno strazio spaventoso. E ciò che rende ancor più grave questo peccato è che ci son di quelli che, al falso giuramento, aggiungono una bestemmia d’imprecazione. « Se ciò non è vero ch’io non vegga la faccia di Dio in eterno!… che Dio mi danni!… che il demonio mi porti via! … » Ah! sciagurati! se il buon Dio v’avesse preso in parola, dove sareste voi ora? Da quanti anni non brucereste nell’inferno! Dite, F. M., è possibile concepire che un Cristiano possa rendersi colpevole d’un tal delitto, di una così grande mostruosità? O mio Dio! Un verme della terra spingere la sua barbarie a un tal eccesso? No, no, F. M., ciò è assolutamente inconcepibile in un Cristiano. Dovete altresì esaminarvi se abbiate avuto l’intenzione di giurare semplicemente, ovvero di giurare il falso, e quanti giorni abbiate mantenuto questo pensiero; vale a dire quanto tempo siete stati nella disposizione di farlo. Buona parte dei Cristiani a questo non bada neppure, sebbene sia un peccato grave. — Ma, mi direte voi, è vero che ci avevo pensato, ma non l’ho fatto. — Voi non l’avete fatto, ma il vostro cuore sì; e, poiché siete ancora nella disposizione di farlo, voi siete colpevole dinanzi a Dio. Ahimè! Povera religione! quanto poco sei conosciuta! Abbiamo nella storia un esempio terribile del castigo che spetta a coloro che giurano il falso. Ai tempi di S. Narciso, vescovo di Gerusalemme, tre giovani libertini, che s’abbandonavano alla disonestà, calunniarono orribilmente il loro santo Vescovo, accusandolo dei loro propri delitti, nella speranza che egli non avrebbe osato riprenderli delle colpe loro. Si presentarono davanti ai giudici dicendo che il Vescovo aveva commesso tale peccato. Il primo disse: « Se ciò non è vero, ch’io possa esser soffocato! „ Il secondo: « Se ciò non è vero, ch’io possa esser bruciato vivo! » Il terzo: « Se ciò non è vero, ch’io perda la vista! » — Ahimè! la giustizia di Dio non tardò a punirli: il primo fu davvero soffocato e morì miseramente; il secondo bruciò vivo nella sua casa, incendiata da un razzo di fuochi d’artifizio durante una festa che si faceva in città; il terzo, benché punito, fu meno infelice degli altri: egli riconobbe il proprio fallo, ne fece penitenza e ne pianse tanto che perdette la vista. — Un altro esempio, non meno terribile. Leggiamo nella storia: essendo re d’Inghilterra S. Edoardo, il conte Gondevino, suo suocero, era sì geloso e orgoglioso che non voleva soffrire alcuno vicino al re. Il re un giorno gli rinfacciò ch’egli aveva partecipato alla morte di suo fratello. « Se ciò è vero, rispose il conte, che questo boccon di pane mi soffochi. „ Il re prese il pane e lo benedisse senza dubitare di nulla. L’altro mangiò; ma il boccone gli si fermò in gola, lo soffocò, sicché lo spergiuro morì sull’istante. — Dopo questi terribili esempi, convenite meco, F. M., che questo peccato dev’essere ben mostruoso agli occhi di Dio, se Egli lo punisce così terribilmente. Ci sono anche padri e madri, padroni e padrone che hanno sempre in bocca di queste frasi: “Carogna d’un ragazzo!… bestia!… imbecille!… crepa una buona volta, finirai di tormentarmi!… Vorrei esser lontano da te le mille miglia!… Dio ti castighi una buona volta!… „ e aggiungono alle imprecazioni i titoli più sconciamente offensivi, applicandoli alle persone contro cui sono dirette, anche le più care. Sì, F . M., ci sono genitori sì poco Cristiani, che hanno sempre in bocca queste parole. Ahimè! quanti poveri figliuoli sono deboli e infermi, intrattabili, viziosi per le maledizioni dei loro padri e delle loro madri! Leggiamo nella storia che una madre disse a un suo figliuolo: « Non creperai mai dunque, o tormento?… » E il povero fanciullo cadde morto a’ suoi piedi. — Un’altra disse a suo figlio: “Che il diavolo ti porti via! „ e il fanciullo disparve senza che alcuno abbia potuto sapere dove fosse andato. Mio Dio! quale sventura per il figlio, quale sventura per la madre! — Nella provincia di Valesia c’era un uomo rispettabilissimo per la sua condotta. Un dì, tornato da un viaggio, chiamò il suo domestico con modo assai sgarbato. « Vieni adunque, gli disse, diavolo d’un servo, levami le calze! „ All’istante le sue calze cominciarono a togliersi senza che alcuno le tirasse. Allora tutto spaventato, cominciò a gridare: ” Via, via di qua, satana; non è te ch’io chiamo, ma il mio servo, „ di modo che il demonio se ne fuggì tosto lasciandolo mezzo scalzo. Questo esempio ci prova, o F . M., come il demonio s’aggiri sempre attorno a noi per ingannarci e perderci, appena se ne presenti l’occasione. È appunto per questo che i primi Cristiani avevano tanto orrore del demonio che non osavano nemmeno pronunciarne il nome. Guardatevi dunque bene anche voi dal pronunciarlo, e dal lasciarlo pronunciare ai vostri figliuoli e ai vostri domestici; quando li sentite, riprendeteli, finché vediate che si sono corretti. Non solo, F. M., è male giurare, ma anche il far giurare gli altri. S. Agostino ci dice che chi è causa per cui uno giuri il falso in testimonio, è più colpevole di chi commetta un omicidio, « perché – egli dice – chi uccide un uomo non uccide che il corpo; chi invece fa giurare a un altro il falso in testimonio, ne uccide l’anima. » Per darvi un’idea della gravità di questo peccato, vi mostrerò tutta la colpa di chi chiami uno in testimonio, mentre prevede che giurerà il falso. Leggiamo nella storia che a Ippona c’era un possidente, buon uomo, ma un po’ troppo attaccato alle cose terrene. Costui volle citare in giudizio uno che gli doveva qualche cosa. Il miserabile giurò il falso, vale a dire che gli doveva niente. La notte seguente, colui che aveva fatto citare l’altro in giudizio per essere pagato, si trovò egli stesso davanti a un tribunale, in cui vide un giudice che gli parlava con voce terribile e minacciosa, domandandogli perché avesse fatto spergiurare quell’uomo; se non sarebbe stato meglio perdere il suo avere che dannare quell’anima; che per quella volta gli faceva la grazia in vista delle sue buone opere; ma che però lo condannava ad essere fustigato con verghe. Infatti, il giorno dopo vide il suo corpo tutto insanguinato. Ma, mi direte voi, se non lo faccio giurare perdo ciò che mi deve. Preferite dunque rovinare la sua anima e la vostra; anziché perdere il vostro danaro? D’altra parte, F. M., potete stare ben certi che se fate un sacrificio per impedire un’offesa a Dio, vedrete che Dio non mancherà di ricompensarvi in altro modo. Tuttavia questo fatto avviene di raro. Piuttosto bisogna guardarsi bene dal far regali o dal sollecitare quelli che devono deporre in giudizio contro di noi a non dire la verità. Rovinereste loro e voi stessi assieme. Se mai l’aveste fatto e foste riuscito con la vostra menzogna a far condannare un innocente, voi sareste obbligati a riparare tutto il male che ne fosse provenuto e a risarcire quelle persone sia nella roba, sia nella riputazione, fin dove potete, senza di che andrete dannati. Bisogna anche vedere se abbiate mai avuto il pensiero di giurare il falso, e quanto tempo avete nutrito questo pensiero. Ci sono alcuni che appunto perché non l’hanno espresso a parole, non lo credono male. Mio caro, benché non l’abbiate espresso, il vostro peccato è commesso, perché siete nella disposizione di farlo. Vedete ancora se non avete mai dato dei mezzi consigli. Uno vi dirà: “Credo d’essere chiamato in giudizio per un tale; tu che ne dici? Avrei intenzione di non dir tutto quello che ho visto por non farlo condannare: l’altro ne ha di più e può pagare. Vedo però che faccio male.„ Voi gli dite: « Oh, questo non è poi gran male! … All’altro sì faresti troppo danno!… „ Se dopo ciò egli giura il falso, e non ha di che risarcire il danno, siete obbligato a risarcirlo voi. Volete sapere, F. M., che cosa dovete fare in giudizio e altrove? Sentite che cosa dice Gesù: « Piuttosto che litigare, se ti domandano il soprabito, dà anche il vestito (S. Matteo, V, 40); meglio così, che questionare. » Ahimè! quanti peccati fa commettere un processo! quante anime i processi fanno dannare per questi giuramenti falsi, per questi odi, per questi inganni, per queste vendette! Ma ecco. F. M., i giuramenti che si fanno più spesso, o piuttosto a ogni muover di ciglio. Quando diciamo qualche cosa a qualcuno e questi non vuol credere, eccoci a giurare e, se occorre, anche con una bestemmia. Da ciò devono guardarsi bene specialmente i padri, le madri, i padroni e le padrone. Spesso i loro figliuoli o i loro domestici commettono qualche sbaglio ed essi vogliono costringerli a confessarlo. I figliuoli e i domestici, per timore di esser battuti o sgridati, giurano quanto volete che non è vero, che non vorrebbero poter più fare un passo se ciò è vero. Non sarebbe meglio non dir niente e soffrire lo sbaglio, anziché farli dannare? D’altra parte, che cosa ci guadagnate? Offendete Dio tutti, e non altro. Quale rimpianto, F. M., se al giorno del giudizio doveste vedere questi poveri fanciulli dannati per una sciocchezza, per una cosa da nulla! – Ci sono altri che promettono e giurano di fare o di dare questa cosa a un altro, senza aver l’intenzione di farlo davvero. Prima di fare una promessa bisogna veder bene se si potrà mantenerla. Prima di promettere non bisogna mai dire: « Se non lo faccio, possa non veder Dio in eterno, possa non muovermi dal mio posto! » Guardatevene bene, F. M., questi sono peccati ancor più orribili di quanto possiate comprendere. Se, p. es., in un accesso di collera, avete promesso di vendicarvi, senza dubbio non siete obbligati a farlo; anzi dovete domandarne perdono a Dio. Lo Spirito Santo ci dice che chi giurerà sarà punito.

II — 1° Se voi mi domandate che cosa s’intende per questa parola ” bestemmia „ F. M., questo peccato è sì orribile, che non parrebbe vero che un Cristiano possa aver la forza di commetterlo. “Bestemmia„ è una parola che significa “maledire e detestare una bontà infinita, „ ciò che indica che questo peccato colpisce direttamente Dio. S. Agostino ci dice: – Noi bestemmiamo quando attribuiamo a Dio qualche cosa che non ha o non gli conviene, o gli togliamo ciò che gli conviene o, finalmente, quando si attribuisce a se stessi ciò che conviene a Dio, e non è dovuto che a Lui solo. Dunque noi bestemmiamo: 1° quando diciamo che Dio non è giusto, perché fa sì che ci siano alcuni tanto ricchi che hanno tutto in abbondanza, mentre tanti altri sono sì poveri che hanno a mala pena un tozzo di pane: — 2° ch’Egli non è buono, come si dice, poiché lascia tanti nel disprezzo e nelle infermità, mentre altri sono amati e rispettati da tutti; — 3° ovvero dicendo che Dio non vede tutto, non bada a ciò che avviene sulla terra; — 4° o anche dicendo: « Se Dio usa misericordia al tale, non è giusto: ne ha fatte troppe; „ — 5° ovvero quando subiamo qualche danno e ce la prendiamo con Dio, dicendo: « Ah! me infelice! Dio non può farmene di più! Credo ch’Egli non sa ch’io sono al mondo, o, se lo sa, non è che per farmi soffrire. » Parimente è bestemmia ridersi della Vergine e dei Santi, dicendo: « Oh! non hanno gran potere! io ho fatte molte preghiere e non ne ho ottenuto mai nulla!! » S. Tommaso ci dice ancora che la bestemmia è una parola ingiuriosa, oltraggiosa contro Dio o contro i Santi; ciò che si può fare in quattro modi: 1° Per affermazione, dicendo: « Dio è ingiusto e crudele permettendo ch’io soffra tanti mali, che mi si calunni in questo modo, che mi si faccia perdere questo danaro o questo processo. Ah, me infelice! tutto va male in casa mia e non ho nulla, mentre agli altri riesce tutto bene e abbondano » 2° Si bestemmia dicendo che Dio non è Onnipotente, e che potranno fare qualunque cosa senza di Lui. Fu appunto questa bestemmia che pronunciò Sennacherib, re dell’Assiria, quando assediò Gerusalemme, dicendo che, malgrado Dio, avrebbe preso la città. Egli si burlava di Dio dicendo che non era tanto potente da impedirgli d’entrare e di metter tutto a fuoco e a sangue. Ma Dio, per punire questo miserabile della sua bestemmia e mostrargli ch’Egli era davvero onnipotente, gli mandò un Angelo che in una sola notte gli uccise 185 mila uomini. Il giorno dopo il re, vedendo sgozzato tutto il suo esercito senza sapere da chi, se ne fuggì tutto atterrito a Ninive, dove egli stesso fu ucciso da due suoi figli. 3° Si bestemmia quando si attribuisce a una creatura ciò che è dovuto a Dio solo, come quei miserabili che dicono a una creatura infame oggetto della loro passione: « Io vi amo con tutta la tenerezza del mio cuore!… È tanto il mio affetto, che vi adoro!… „ Delitto che fa orrore, e tuttavia tanto comune, almeno in pratica.

4° Si bestemmia dicendo : Ah! S… N. .. di D… „ Ciò fa orrore. Questo peccato è sì grave e sì spaventoso agli occhi di Dio, che attira ogni sorta di sventure sopra la terra. I Giudei avevano tanto orrore della bestemmia che, quando sentivano qualcuno bestemmiare, si squarciavano le vesti. Non osavano neppur pronunciare questa parola; la dicevano invece: « Benedizione. » Il santo Giobbe temeva tanto che i suoi figliuoli potessero aver bestemmiato, che offriva sacrifici a Dio per placarlo se mai l’avessero fatto (Giob. I, 5). S. Agostino dice che quelli che bestemmiano Gesù Cristo che è in cielo, sono più crudeli di quelli che l’hanno crocifisso sulla terra. Il cattivo ladrone bestemmiava Gesù Cristo in croce, dicendo: « S’Egli è onnipotente, liberi se stesso e noi assieme. » Il profeta Nathan disse al re Davide: « Poiché tu sei stato causa per cui si è bestemmiato il Nome di Dio, il tuo figlio morrà, e il castigo non si allontanerà dalla tua casa per tutta la tua vita. » — Dio ci dice: « Chi bestemmierà il Nome del Signore, voglio sia messo a morte. » — Leggiamo nella S. Scrittura che venne condotto a Mosè un uomo che aveva bestemmiato. Mosè consultò il Signore, il quale gli manifestò che bisognava condurlo in un campo e farlo morire; vale a dire, ucciderlo a colpi di pietra (Lev. XXIV, 14) Possiamo dire che la bestemmia è davvero il linguaggio dell’inferno. San Luigi, re di Francia, aveva tanto in orrore questo delitto che aveva comandato che tutti i bestemmiatori fossero segnati con un ferro arroventato sulla fronte. Un giorno essendogli stato condotto un possidente di Parigi, molti vollero sollecitare la grazia per lui; ma il re disse loro che avrebbe voluto morire egli stesso per distruggere questo maledetto peccato; e comandò che fosse punito. L’imperatore Giustino faceva strappare la lingua a quelli che avevano avuto la disgrazia di commettere un sì grande delitto. Durante il regno di re Roberto, la Francia era oppressa da ogni sorta di sventure: e il buon Dio rivelò a una santa che tanto sarebbero durati i castighi quanto le bestemmie. Allora si sancì una legge che condannava tutti i bestemmiatori ad aver forata la lingua da un ferro infuocato, la prima volta; la seconda, comandava che fossero fatti morire. Badate bene, M. F., che, se la bestemmia regnerà nella vostra casa, tutto andrà a male. S. Agostino ci dice che la bestemmia è un peccato ancor più grave dello spergiuro, perché, dice egli, con lo spergiuro prendiamo il Nome di Dio in testimonio d’una cosa falsa, mentre con la bestemmia diciamo una cosa falsa di Dio stesso. Quale delitto! Chi di noi ha mai potuto comprenderlo? S. Tommaso ci dice ancora che v’ha un’altra specie di bestemmia, quella contro lo Spirito Santo, la quale si commette in tre modi: 1° Attribuendo al demonio le opere di Dio, come facevano i Giudei, i quali dicevano che Gesù Cristo cacciava i demoni in virtù del principe dei demoni; come facevano i tiranni e i carnefici, i quali attribuivano alla magia o al demonio i miracoli dei martiri; — 2° si bestemmia contro lo Spirito Santo, ci dice sant’Agostino, “quando si muore nell’impenitenza finale.„ L’impenitenza è uno stato di bestemmia; poiché la remissione dei nostri peccati si fa con la carità, che è lo Spirito Santo;

— 3° quando facciamo azioni che sono direttamente opposte alla bontà di Dio, come quando disperiamo della nostra salute, o non vogliamo usare tutti i mezzi per ottenerla; come quando ci rodiamo perché altri ricevono più grazie di noi. Guardatevi bene dall’abbandonarvi a questa sorta di peccati, perché sono oltremodo orribili. Noi trattiamo Dio da ingiusto, dicendo che dà più agli altri che a noi. Non avete voi forse bestemmiato, F. M., dicendo che non c’è Provvidenza se non per i ricchi e i birbanti? Non avete forse bestemmiato, quando subiste qualche danno, dicendo: “Ma che cosa ho fatto dunque io al Signore più degli altri, per aver tante disgrazie? „ — Che cosa avete fatto? Mio caro, alzate gli occhi e vedrete che l’avete crocifisso. — Non avete forse bestemmiato dicendo che siete troppo tentato, che non potete far diversamente, che tale è il vostro destino?… Ecché? F. M., voi non pensate a ciò che dite!… Dunque Dio vi ha fatti viziosi, collerici, violenti, fornicatori, adulteri, bestemmiatori! Ma dunque voi non credete nel peccato originale che ha degradato l’uomo dallo stato di rettitudine e di giustizia, in cui eravamo da principio stati creati!… La tentazione è superiore alle vostre forze!… Ma, mio caro, la Religione non vi aiuta dunque per nulla a farvi comprendere tutta la corruzione originale?… E voi osate, infelice, bestemmiare ancora contro Colui che ve l’ha data come il più gran dono che potesse farvi?… Non avete voi altresì bestemmiato mai contro la S. Vergine e i Santi? Non avete mai sorriso delle loro virtù, delle loro penitenze, dei loro miracoli?… Ahimè! in questo secolo sciagurato, quanti empi troviamo che spingono la loro cattiveria fino a disprezzare i santi del cielo e i giusti della terra; quanti che si fanno beffe delle austerità dei santi, e che non vogliono servire Dio per sé, né permettere che lo servano gli altri! Vedete ancora, M. F., se non avete mai lasciato ripetere i vostri giuramenti e le vostre bestemmie ai fanciulli. Ah! infelici! quali castighi vi attendono nell’altra vita!. ..

2° Ma, mi domanderete, che differenza passa tra il bestemmiare e rinnegare Dio? — Una differenza grande, M. F. Osservo che parlando di rinnegazione, non intendo parlare di quelli che rinnegano il buon Dio abbandonando la vera Religione; costoro noi li chiamiamo apostati. Intendo dirvi di quelli che, parlando, hanno la maledetta abitudine di rinnegare, per collera o per impeto, il santo Nome di Dio: come uno che ci rimettesse al mercato o perdesse al gioco, e se la prendesse con Dio, quasi volesse far credere che ne sia stato Lui la causa. Quando vi capita questo, bisogna che il buon Dio sopporti tutti i furori della vostra collera, quasi fosse Lui la causa della vostra perdita o dell’accidente che v’è toccato. Ah, sciagurati! Quegli che vi ha tratti dal nulla, che vi conserva evi ricolma continuamente di benefizi, voi osate ancora disprezzarlo, profanare il suo santo Nome e rinnegarlo; mentre, se non avesse voluto ascoltare che la sua giustizia, da quanto tempo sareste inabissati nell’inferno! Ordinariamente vediamo che chi ha la sventura di commettere questi enormi delitti perisce miseramente. Si legge nella storia che un povero ammalato era ridotto in miseria. Essendo entrato da lui un missionario per vederlo e confessarlo: “Ah, padre! gli disse l’ammalato, Dio mi punisce per le mie collere, per le mie violenze, le mie bestemmie, e rinnegazioni. Io sono ammalato da molto tempo e ridotto estremamente povero. Tutte le mie cose hanno fatto una misera fine. I miei figli mi disprezzano e abbandonano, e non son buoni a nulla per i mali esempi ch’io ho dato loro. È già da tempo che soffro su questo pagliericcio; la mia lingua è tutto corrosa, e non posso inghiottir cosa alcuna senza soffrire dolori incredibili. Ahimè, padre! io ho gran timore che, dopo aver sofferto tanto in questa vita, debba soffrire anche nell’altra.„ Anche ai nostri giorni vediamo che questi uomini soliti a giurare e a rinnegare il santo Nome di Dio finiscono quasi sempre miseramente. Badate bene, M. F., se avete questa malvagia abitudine, dovete correggervene subito, per timore, che se non fate penitenza in questo mondo, non andiate a farla nell’inferno. Non dimenticatevi mai che la vostra lingua non deve servire che a pregare il buon Dio e a cantare le sue lodi, Se avete avuto il mal abito di giurare, dovete pronunciare spesso il santo Nome di Gesù con gran rispetto per purificare le vostre labbra.

3° Se, finalmente, mi domandate che cosa s’intende per maledizione e per imprecazione, vi dirò che s’intende, M. F., maledire, in un momento di collera o di disperazione, una persona, una cosa, o una bestia; s’intende voler annientarla o renderla infelice. Lo Spirito Santo ci dice che chi ha spesso la maledizione in bocca, deve ben temere che Dio non mandi a lui ciò ch’egli augura agli altri. Ci sono alcuni che hanno sempre in bocca il demonio, e a lui mandano tutto ciò che li urta. Se una bestia lavorando non va come deve, la maledicono o la mandano al diavolo. Altri, quando fa cattivo tempo, dicono: “Maledetto tempo! maledetta pioggia! ah, maledetto freddo!., maledetti ragazzi!… „ Non dimenticate mai che lo Spirito Santo ci dice che una maledizione, pronunciata invano e con leggerezza, su qualcuno dovrà cadere. S. Tommaso ci dice che, se pronunciamo una maledizione contro qualcuno, è peccato mortale, se auguriamo davvero ciò che diciamo. E S. Agostino ci narra di una madre che aveva maledetto i suoi figliuoli in numero di sette; ebbene, tutti quanti furono invasi dal demonio. Si sa che molti fanciulli, per essere stati maledetti dai loro genitori, furono infermi e infelici per tutta la vita. Leggiamo di una madre che, essendo andata in collera per colpa di sua figlia, le disse: “Ti s’inaridisse il braccio!„ E quasi all’istante alla povera figlia il braccio s’inaridì. I coniugati devono guardarsi dal maledirsi tra loro. Ci sono alcuni che, se non vanno bene in famiglia, maledicono la moglie, i figli, i genitori e tutti quelli che s’intromisero nel matrimonio. Ahimè, F. M.! tutte le vostre disgrazie provengono dall’esservi entrato con una coscienza tutta nera di peccati. — Gli operai, non devono mai maledire il loro lavoro, né quelli che loro lo danno: d’altra parte tutte le vostre maledizioni non faranno mai andar meglio i vostri affari; se invece aveste un po’ di pazienza, se sapeste offrire tutte le vostre pene a Dio, guadagnereste molto per il cielo. E gli strumenti del lavoro non li avete mai maledetti, dicendo: “Maledetta vanga! maledetta roncola! Maledetto aratro!„ eccetera? Ecco, M. F., ciò che attira ogni sorta di maledizioni sulle vostre bestie, sui vostri lavori, sulle vostre terre, spesso devastate dalla tempesta, dalla pioggia o dal gelo! — Non avete mai maledetto voi stessi, dicendo: « Oh, non avessi mai visto la luce!… fossi morto mentre veniva al mondo!… fossi ancor nel nulla!… „ Ahimè! quanti peccati, di cui molti non si accusano affatto, e non vi pensano neppure! — Dirò ancora che non dovete mai maledire né i vostri figliuoli, né le vostre bestie, né il vostro lavoro, né il tempo, perché in tutto ciò maledite la manifestazione della santa volontà del Signore. — I figliuoli si guardino bene dal dar occasione ai loro genitori di maledirli, ciò che è la più grande di tutte le sventure; poiché troppo spesso un fanciullo maledetto da’ suoi genitori è anche maledetto da Dio. Quando qualcuno vi offende in qualche cosa, invece di mandarlo al diavolo, non sarebbe meglio dirgli: “Che il buon Dio vi benedica? „ Allora sareste davvero i buoni servi di Dio, che rendono bene per male. Riguardo a questo comandamento, ci sarebbe ancor da parlare dei voti. Bisogna guardarsi bene dal far voti a capriccio. Certuni, quando sono ammalati, si votano a tutti i Santi, e una volta guariti, non si danno affatto pensiero di soddisfare i loro voti. Bisogna anche vedere se si son fatti davvero come si doveva, cioè in istato di grazia; se li avete osservati. Ahimè! quanti peccati in questi voti! ciò, che invece di piacere a Dio, non può che offenderlo. Che se mi domandate come mai dunque ci sono tanti che giurano, giurano anche il falso, che pronunciano maledizioni e imprecazioni orribili, che rinnegano Dio, vi dirò, M. F., che quelli che si abbandonano a questi orrori non hanno né fede, né religione, né coscienza, né virtù; sono in gran parte abbandonati da Dio. Quanto noi saremmo più felici se avessimo la grazia di non adoperar mai la nostra lingua, consacrata a Dio col santo Battesimo, se non per pregare un Dio sì buono, sì benefico, e cantare le sue sante lodi! Poiché è appunto per questo che Dio ci ha dato una lingua; consacriamola a Lui, affinché, dopo questa vita, possiamo avere la felicità di andarlo a benedire in cielo per tutta l’eternità. Ciò che vi auguro di cuore

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XV: 7 et 8. Benedícam Dóminum, qui tríbuit mihi intelléctum: providébam Deum in conspéctu meo semper: quóniam a dextris est mihi, ne commóvear. [Benedirò il Signore che mi dato senno: tengo Dio sempre a me presente, con lui alla mia destra non sarò smosso.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris: et has oblatiónes famulórum famularúmque tuárum benígnus assúme; ut, quod sínguli obtulérunt ad honórem nóminis tui, cunctis profíciat ad salútem.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche, e accogli benigno queste oblazioni dei tuoi servi e delle tue serve, affinché ciò che i singoli offersero a gloria del tuo nome, giovi a tutti per la loro salvezza.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXVI: 4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. 

[Una cosa sola chiedo e chiederò al Signore: di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita].

Postcommunio

Orémus.

Quos cœlésti, Dómine, dono satiásti: præsta, quæsumus; ut a nostris mundémur occúltis et ab hóstium liberémur insídiis.

(O Signore, che ci hai saziato col dono celeste; fa che siamo mondati dalle nostre occulte mancanze, e liberati dalle insidie dei nemici.)

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “SUL SECONDO COMANDAMENTO”

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

(DISCORSI DI SAN G. B. M. VIANNEY CURATO D’ARS

Vol. III, Marietti Ed. Torino-Roma, 1933

Visto nulla osta alla stampa. Torino, 25 Novembre 1931.

Teol. TOMMASO CASTAGNO, Rev. Deleg.

Imprimatur. C . FRANCISCUS PALEARI, Prov. Gen.)

Sul secondo Comandamento di Dio.

Non nominare il nome di Dio invano.

Fa gran meraviglia, F. M., che Dio sia obbligato a farci un comando per proibirci di profanare il suo santo Nome. È possibile concepire che vi possano essere Cristiani i quali si abbandonino talmente al demonio, da diventare nelle sue mani strumento per maledire un Dio sì buono e sì benefico? E possibile che una lingua, consacrata a Dio nel santo Battesimo, bagnata tante volte dal suo Sangue adorabile, sia adoperata per maledire il suo Creatore? Potrebbe fare una cosa simile chi crede davvero che Dio non gliel’ha data che per benedirlo e cantare le sue lodi? Voi converrete meco che questo è un delitto spaventoso che sembra costringere Dio a schiacciarci con ogni sorta di sventure, e ad abbandonarci al demonio, al quale obbediamo con tanto zelo. Questo delitto fa rizzare i capelli a chiunque non abbia ancor perduto interamente la fede. Tuttavia, malgrado la gravità di questo peccato, malgrado il suo orrore e la sua atrocità, vi è forse un peccato più comune del giuramento, della bestemmia, dell’imprecazione, della maledizione? Non abbiamo forse il dolore di sentire spesso uscire dalla bocca di fanciulli, che non sanno ancora bene il Pater noster, bestemmie così enormi da attirare ogni sorta di maledizioni su una parrocchia? Io vi mostrerò adunque, F. M., che cosa s’intenda per giuramento, per bestemmia, rinnegazione, imprecazione e maledizione. E voi intanto dormite, dormite profondamente mentre io parlo, affinché nel giorno del giudizio abbiate la scusa di aver fatto il male senza sapere cosa facevate, e la vostra ignoranza sia il solo motivo della vostra condanna.

I. — Per farvi comprendere la gravità di questo peccato, bisognerebbe, ch’io potessi farvi comprendere la gravità dell’oltraggio ch’esso arreca a Dio; ciò che non sarà mai dato a un essere mortale. No. M. F., non c’è che l’inferno, non c’è che la collera, la potenza e il furore di un Dio, tutti adunati sopra quei mostri infernali, che possano far comprendere la grandezza della sua atrocità. No, no, F. M., non andiamo più innanzi: per questo peccato ci vuole davvero un inferno eterno. D’altra parte, non è il mio assunto: io voglio soltanto farvi conoscere la differenza che passa tra il giuramento, la bestemmia, la rinnegazione, l’imprecazione, la maledizione e le parole grossolane. Molti le confondono e prendono una cosa per l’altra; ragione per cui non si confessano quasi mai, come si deve, e si espongono perciò a far cattive confessioni e, per conseguenza, a dannarsi.

Il secondo comandamento, suona così: “Non usare invano il Nome del Signore tuo Dio, „ come se il Signore ci dicesse: ” Io vi ordino e vi comando di riverire questo Nome, perché santo e adorabile; Io vi proibisco di profanarlo, adoperandolo per autorizzare l’ingiustizia, la menzogna, o anche la verità, ma quando non c’è una ragione sufficiente, „ e Gesù Cristo ci dice di non giurare assolutamente. Io dico in primo luogo, che le persone poco istruite, confondono spesso la bestemmia col giuramento. Uno sciagurato, in un momento di collera, o, meglio, di furore, dirà: “Dio non è giusto facendomi soffrire o perdere questa cosa.„ Con ciò egli ha rinnegato il buon Dio; eppure s’accuserà dicendo: “Padre, mi accuso d’aver giurato, „ invece si tratta di una bestemmia, non di un giuramento. Uno sarà falsamente accusato di un fallo, che non ha commesso: per giustificarsi dirà: “Se io ho fatto ciò, ch’io non vegga la faccia di Dio in eterno,,. Non è un giuramento, ma un’orribile imprecazione. Ecco due peccati non meno gravi del giuramento. Un altro che avrà dato al suo vicino del ladro o del furfante, s’accuserà « d’aver giurato dietro al suo vicino. » Ora, ciò non è un giurare, ma un ingiuriarlo. Un altro, dirà parole sconce e disoneste, e si accuserà “d’aver detto cattive espressioni.„ V’ingannate; bisogna confessare che avete detto delle oscenità. Ecco, F. M., che cosa è il giuramento: è un prendere il buon Dio per testimonio di ciò che si dice o promette; e lo spergiuro è un giuramento falso, cioè quando si giura per garantire una menzogna. Il Nome del buon Dio è sì santo, sì grande, sì adorabile che gli Angeli e i santi, ci dice S. Giovanni, non fanno altro in cielo che cantare: « Santo, santo, santo il Dio degli eserciti: sia benedetto il suo Nome per tutti i secoli dei secoli! » Quando la santa Vergine andò a visitare la cugina Elisabetta e questa santa le disse: “Quanto sei tu fortunata di essere stata eletta Madre di Dio, „ la santa Vergine Je rispose: « Colui che è onnipotente e il Nome del quale è santo, ha operato in me grandi cose. „ Noi dovremmo adunque, F. M., aver gran rispetto per il Nome del buon Dio e non pronunciarlo mai se non colla massima venerazione, e molto meno pronunciarlo invano. S. Tommaso ci dice che pronunciare il Nome di Dio invano, è un peccato grave; e che non è un peccato come gli altri. Negli altri peccati la leggerezza della materia può diminuire l’atrocità e la malizia, e, bene spesso ciò che per sua natura sarebbe peccato mortale non è che veniale; come il furto, che è un peccato mortale; ma se si tratta di poca cosa, come due o tre soldi, non sarà che veniale. La collera e la gola sono peccati mortali, ma una piccola collera o una piccola golosità sono semplicemente veniali. Non è così per il giuramento: qui più la materia è leggiera più la profanazione è grande! (Ogni bestemmia ha in sé la materia d’un peccato mortale, perché essa è un’ingiuria alla Maestà divina, e questa ingiuria non ammette parvità di materia per ragione della sovrana dignità di Dio. Il peccato adunque non può diventar veniale se non per difetto d’attenzione o di consenso). Perché? Perché più leggiera è la materia, e più grande è la profanazione. Se uno pregasse il re di fargli da testimonio in una sciocchezza, non sarebbe un burlarsi dì lui e un disprezzarlo? Il buon Dio ci dice che chi giurerà nel suo Nome sarà rigorosamente punito. Leggiamo nella santa Scrittura che, ai tempi di Mosè, c’erano due uomini, di cui uno giurò nel Nome santo del Signore. Subito fu preso e condotto a Mosè, il quale domandò al Signore che cosa dovesse farne. E il Signore gli disse di condurlo in un campo e comandare a tutti quelli ch’erano stati testimoni di questa bestemmia di mettergli la mano sul capo e ucciderlo, per togliere questo bestemmiatore di mezzo al suo popolo (Lev. XXIV, 14).  Lo Spirito Santo ci dice ancora che la casa di chi è avvezzo a giurare sarà piena di iniquità e non ne uscirà la maledizione fin che non sia distrutta (Eccli. XXIII, 12). Il Nostro Signore Gesù Cristo ci dice nel Vangelo di non giurare né per il cielo né per la terra, poiché né l’uno né l’altra ci appartengono. Quando vorrete assicurare gli altri di una cosa, dite: “È così, o non è così; sì o no; l’ho fatto o non l’ho fatto; il di più vien tutto dal demonio (Matth. V, 34-37).„ D’altra parte chi ha l’abitudine di giurare è di solito impetuoso, attaccato al proprio giudizio, e giura sempre, per la verità come per la menzogna. — Ma si dirà, se non giuro, non mi si crede. — V’ingannate; non si crede mai così poco come a uno che giura, perché ciò fa supporre in lui nessuna Religione, e chi non ha religione non è degno di esser creduto. Ci sono alcuni che non sanno vendere la minima cosa senza giurare, quasi che il loro giuramento facesse diventar buona la loro merce. Quando si vede un mercante che, per vendere, giura, bisogna pensar subito ch’egli non ha fede, e quindi mettersi in guardia per non lasciarsi ingannare. I suoi giuramenti fanno orrore e non gli si crede. Invece se uno non giura, noi crederemo a ciò che dice. – Leggiamo nella storia un esempio riportato dal cardinale Bellarmino, il quale ci mostra come il giuramento non giova a niente. C’erano in Colonia, dice egli, due mercanti che pareva non potessero vendere senza giurare. Il loro pastore li esortò fortemente a lasciare quest’abitudine assicurandoli che, ben lungi dal perderci, ci avrebbero guadagnato molto. Essi seguirono il suo consiglio. Ma, per qualche tempo, non vendettero molto. Allora andarono a trovare il loro pastore e gli dissero che non vendevano tanto quanto egli aveva fatto loro sperare. Il pastore disse loro: « Abbiate pazienza, miei figliuoli: siate sicuri che Dio vi benedirà. „ Infatti, dopo qualche tempo il concorso fu sì grande che pareva dessero la merce per niente. Essi stessi riconoscevano che il buon Dio li benediceva in un modo particolare. — Lo stesso cardinale ci dice che c’era una buona madre di famiglia che aveva una gran abitudine di giurare: a forza di farle capire quanto questi giuramenti erano indegni d’una madre e che ella non faceva altro che attirare la maledizione di Dio sulla sua casa, riuscì a correggersi completamente; e allora confessò ella stessa che, da quando aveva perduta questa cattiva abitudine, vedeva che tutto le riusciva bene e che Dio la benediceva in modo affatto particolare. Volete voi, F. M., esser felici nella vostra vita e che Dio benedica le vostre case? Guardatevi dal giurare e vedrete che tutto vi riuscirà bene. Iddio ci dice che, sulla casa in cui regnerà il giuramento, piomberà la maledizione del Signore e la distruggerà. E perché, M. F., v’abbandonerete al giuramento, se il buon Dio lo proibisce sotto pena di renderci infelici in questa vita e riprovarci nell’altra? Ahimè! come conosciamo poco ciò che facciamo! Ebbene: lo conosceremo un giorno; ma troppo tardi! – In secondo luogo, dico che vi è un giuramento anche più cattivo, ed è quando al giuramento si aggiungono parole di esecrazione, cosa che fa tremare; come gli sciagurati che dicono: “Se ciò che dico non è vero, ch’io non vegga la faccia di Dio in eterno! „ Ah! disgraziati! voi rischiate purtroppo di non vederla mai. Altri dicono: “Se ciò non è vero, ch’io perda il mio posto in paradiso! Dio mi danni! o che il demonio mi porti via ! … „ Ah! vecchio indurito! il demonio ti porterà con sé purtroppo, senza che tu ti dia anticipatamente a lui. Quanti altri hanno sempre il demonio in bocca, alla minima cosa che non vada loro a genio. – Diavolo d’un ragazzo!… diavolo d’una bestia!… diavolo d’un lavoro!… „ Ahimè! chi ha sì spesso il demonio in bocca, c’è ben da temere l’abbia anche nel cuore. Quanti altri non sanno che dire : “Si, per fede mia!… no, in fede mia!… cane d’un ragazzo!… „ oppure anche: “In verità!… sulla mia coscienza!… sulla mia fede di Cristiano!… „ C’è un’altra specie di giuramenti, di maledizioni, che nessuno pensa di confessare, e sono quelli che si fanno in cuore. C’è di quelli che credono che, perché non lo dicono con la bocca, non ci sia niente di male. Ma v’ingannate assai, amici miei. Avviene che qualcuno faccia qualche danno alle nostre terre o altrove qualche guasto? Voi imprecate loro nel vostro cuore, e li maledite dicendo:  « Almeno il diavolo se li portasse via!… che il fulmine li schiacci!… che queste rape o quelle patate li avvelenino mentre le mangiano!… „ E questi pensieri li conservate a lungo nei vostri cuori! E credete forse che, perché non li manifestate con la bocca, non siano nulla! Sono peccati gravi, miei amici, e bisogna pur che ve ne confessiate, altrimenti andrete perduti! Ahimè! quanto pochi conoscono lo stato della loro povera anima, quale apparisce agli occhi di Dio! – In terzo luogo, ci sono altri, ancor più colpevoli, i quali giurano non solo per cose vere, ma anche per cose false. Ah! se voi poteste comprendere quanto la vostra empietà disprezza allora Iddio, non avreste, certo, mai il coraggio di commetterla. Voi vi comportate allora con Dio, come un vile schiavo che dica al suo re: « Sire, è necessario che mi facciate da falso testimonio. » Ciò non vi fa orrore, M. F.? Il Signore ci dice nella santa Scrittura: « Siate santi, poiché io sono santo. Non mentite, non ingannate il prossimo, non spergiurate prendendo il Nome del Signore vostro Dio a testimoniare una menzogna; non profanate il Nome del Signore. » S. Giovanni Crisostomo ci dice: « Se è già un gran peccato giurare per una cosa vera, quale sarà la gravità del delitto di colui che giura il falso, per garantire la menzogna? » Lo Spirito Santo ci dice che il bugiardo perirà. Il profeta Zaccaria ci assicura che la maledizione verrà sulla casa di colui che giurerà il falso, e vi resterà finche quella casa sia abbattuta e distrutta. – S. Agostino ci dice che lo spergiuro è un grave delitto, una bestia feroce che fa uno strazio spaventoso. E ciò che rende ancor più grave questo peccato è che ci son di quelli che, al falso giuramento, aggiungono una bestemmia d’imprecazione. « Se ciò non è vero ch’io non vegga la faccia di Dio in eterno!… che Dio mi danni!… che il demonio mi porti via! … » Ah! sciagurati! se il buon Dio v’avesse preso in parola, dove sareste voi ora? Da quanti anni non brucereste nell’inferno! Dite, F. M., è possibile concepire che un Cristiano possa rendersi colpevole d’un tal delitto, di una così grande mostruosità? O mio Dio! Un verme della terra spingere la sua barbarie a un tal eccesso? No, no, F. M., ciò è assolutamente inconcepibile in un Cristiano. Dovete altresì esaminarvi se abbiate avuto l’intenzione di giurare semplicemente, ovvero di giurare il falso, e quanti giorni abbiate mantenuto questo pensiero; vale a dire quanto tempo siete stati nella disposizione di farlo. Buona parte dei Cristiani a questo non bada neppure, sebbene sia un peccato grave. — Ma, mi direte voi, è vero che ci avevo pensato, ma non l’ho fatto. — Voi non l’avete fatto, ma il vostro cuore sì; e, poiché siete ancora nella disposizione di farlo, voi siete colpevole dinanzi a Dio. Ahimè! Povera religione! quanto poco sei conosciuta! Abbiamo nella storia un esempio terribile del castigo che spetta a coloro che giurano il falso. Ai tempi di S. Narciso, vescovo di Gerusalemme, tre giovani libertini, che s’abbandonavano alla disonestà, calunniarono orribilmente il loro santo Vescovo, accusandolo dei loro propri delitti, nella speranza che egli non avrebbe osato riprenderli delle colpe loro. Si presentarono davanti ai giudici dicendo che il Vescovo aveva commesso tale peccato. Il primo disse: « Se ciò non è vero, ch’io possa esser soffocato! „ Il secondo: « Se ciò non è vero, ch’io possa esser bruciato vivo! » Il terzo: « Se ciò non è vero, ch’io perda la vista! » — Ahimè! la giustizia di Dio non tardò a punirli: il primo fu davvero soffocato e morì miseramente; il secondo bruciò vivo nella sua casa, incendiata da un razzo di fuochi d’artifizio durante una festa che si faceva in città; il terzo, benché punito, fu meno infelice degli altri: egli riconobbe il proprio fallo, ne fece penitenza e ne pianse tanto che perdette la vista. — Un altro esempio, non meno terribile. Leggiamo nella storia; essendo re d’Inghilterra S. Edoardo, il conte Gondevino, suo suocero, era sì geloso e orgoglioso che non voleva soffrire alcuno vicino al re. Il re un giorno gli rinfacciò ch’egli aveva partecipato alla morte di suo fratello. « Se ciò è vero, rispose il conte, che questo boccon di pane mi soffochi. „ Il re prese il pane e lo benedisse senza dubitare di nulla. L’altro mangiò; ma il boccone gli si fermò in gola, lo soffocò, sicché lo spergiuro morì sull’istante. — Dopo questi terribili esempi, convenite meco, F. M., che questo peccato dev’essere ben mostruoso agli occhi di Dio, se Egli lo punisce così terribilmente. Ci sono anche padri e madri, padroni e padrone che hanno sempre in bocca di queste frasi: “Carogna d’un ragazzo!… bestia!… imbecille!… crepa una buona volta, finirai di tormentarmi!… Vorrei esser lontano da te le mille miglia!… Dio ti castighi una buona volta!… „ e aggiungono alle imprecazioni i titoli più sconciamente offensivi, applicandoli alle persone contro cui sono dirette, anche le più care. Sì, F . M., ci sono genitori sì poco Cristiani, che hanno sempre in bocca queste parole. Ahimè! quanti poveri figliuoli sono deboli e infermi, intrattabili, viziosi per le maledizioni dei loro padri e delle loro madri! Leggiamo nella storia che una madre disse a un suo figliuolo: « Non creperai mai dunque, o tormento?… » E il povero fanciullo cadde morto a’ suoi piedi. — Un’altra disse a suo figlio: “Che il diavolo ti porti via! „ e il fanciullo disparve senza che alcuno abbia potuto sapere dove fosse andato. Mio Dio! quale sventura per il figlio, quale sventura per la madre! — Nella provincia di Valesia c’era un uomo rispettabilissimo per la sua condotta. Un dì, tornato da un viaggio, chiamò il suo domestico con modo assai sgarbato. « Vieni adunque, gli disse, diavolo d’un servo, levami le calze! „ All’istante le sue calze cominciarono a togliersi senza che alcuno le tirasse. Allora tutto spaventato, cominciò a gridare: ” Via, via di qua, satana; non è te ch’io chiamo, ma il mio servo, „ di modo che il demonio se ne fuggì tosto lasciandolo mezzo scalzo. Questo esempio ci prova, o F . M., come il demonio s’aggiri sempre attorno a noi per ingannarci e perderci, appena se ne presenti l’occasione. È appunto per questo che i primi Cristiani avevano tanto orrore del demonio che non osavano nemmeno pronunciarne il nome. Guardatevi dunque bene anche voi dal pronunciarlo, e dal lasciarlo pronunciare ai vostri figliuoli e ai vostri domestici ; quando li sentite, riprendeteli, finché vediate che si sono corretti. – Non solo, F. M., è male giurare, ma anche il far giurare gli altri. S. Agostino ci dice che chi è causa per cui uno giuri il falso in testimonio, è più colpevole di chi commetta un omicidio, « perché – egli dice – chi uccide un uomo non uccide che il corpo; chi invece fa giurare a un altro il falso in testimonio, ne uccide l’anima. » Per darvi un’idea della gravità di questo peccato, vi mostrerò tutta la colpa di chi chiami uno in testimonio, mentre prevede che giurerà il falso. Leggiamo nella storia che a Ippona c’era un possidente, buon uomo, ma un po’ troppo attaccato alle cose terrene. Costui volle citare in giudizio uno che gli doveva qualche cosa. Il miserabile giurò il falso, vale a dire che gli doveva niente. La notte seguente, colui che aveva fatto citare l’altro in giudizio per essere pagato, si trovò egli stesso davanti a un tribunale, in cui vide un giudice che gli parlava con voce terribile e minacciosa, domandandogli perché avesse fatto spergiurare quell’uomo; se non sarebbe stato meglio perdere il suo avere che dannare quell’anima; che per quella volta gli faceva la grazia in vista delle sue buone opere; ma che però lo condannava ad essere fustigato con verghe. Infatti, il giorno dopo vide il suo corpo tutto insanguinato. Ma, mi direte voi, se non lo faccio giurare perdo ciò che mi deve. Preferite dunque rovinare la sua anima e la vostra; anziché perdere il vostro danaro? D’altra parte, F. M., potete stare ben certi che se fate un sacrificio per impedire un’offesa a Dio, vedrete che Dio non mancherà di ricompensarvi in altro modo. Tuttavia questo fatto avviene di raro. Piuttosto bisogna guardarsi bene dal far regali o dal sollecitare quelli che devono deporre in giudizio contro di noi a non dire la verità. Rovinereste loro e voi stessi assieme. Se mai l’aveste fatto e foste riuscito con la vostra menzogna a far condannare un innocente, voi sareste obbligati a riparare tutto il male che ne fosse provenuto e a risarcire quelle persone sia nella roba, sia nella riputazione, fin dove potete, senza di che andrete dannati. Bisogna anche vedere se abbiate mai avuto il pensiero di giurare il falso, e quanto tempo avete nutrito questo pensiero. Ci sono alcuni che appunto perché non l’hanno espresso a parole, non lo credono male. Mio caro, benché non l’abbiate espresso, il vostro peccato è commesso, perché siete nella disposizione di farlo. Vedete ancora se non avete mai dato dei mezzi consigli. Uno vi dirà: “Credo d’essere chiamato in giudizio per un tale; tu che ne dici? Avrei intenzione di non dir tutto quello che ho visto por non farlo condannare: l’altro ne ha di più e può pagare. Vedo però che faccio male.„ Voi gli dite: « Oh, questo non è poi gran male! … All’altro sì faresti troppo danno!… „ Se dopo ciò egli giura il falso, e non ha di che risarcire il danno, siete obbligato a risarcirlo voi. Volete sapere, F. M., che cosa dovete fare in giudizio e altrove? Sentite che cosa dice Gesù: « Piuttosto che litigare, se ti domandano il soprabito, dà anche il vestito (S. Matteo, V, 40); meglio così, che questionare. » Ahimè! quanti peccati fa commettere un processo! quante anime i processi fanno dannare per questi giuramenti falsi, per questi odi, per questi inganni, per queste vendette! – Ma ecco. F. M., i giuramenti che si fanno più spesso, o piuttosto a ogni muover di ciglio. Quando diciamo qualche cosa a qualcuno e questi non vuol credere, eccoci a giurare e, se occorre, anche con una bestemmia. Da ciò devono guardarsi bene specialmente i padri, le madri, i padroni e le padrone. Spesso i loro figliuoli o i loro domestici commettono qualche sbaglio ed essi vogliono costringerli a confessarlo. I figliuoli e i domestici, per timore di esser battuti o sgridati, giurano quanto volete che non è vero, che non vorrebbero poter più fare un passo se ciò è vero. Non sarebbe meglio non dir niente e soffrire lo sbaglio, anziché farli dannare? D’altra parte, che cosa ci guadagnate? Offendete Dio tutti, e non altro. Quale rimpianto, F. M., se al giorno del giudizio doveste vedere questi poveri fanciulli dannati per una sciocchezza, per una cosa da nulla! – Ci sono altri che promettono e giurano di fare o di dare questa cosa a un altro, senza aver l’intenzione di farlo davvero. Prima di fare una promessa bisogna veder bene se si potrà mantenerla. Prima di promettere non bisogna mai dire: « Se non lo faccio, possa non veder Dio in eterno, possa non muovermi dal mio posto! » Guardatevene bene, F. M., questi sono peccati ancor più orribili di quanto possiate comprendere. Se, p. es., in un accesso di collera, avete promesso di vendicarvi, senza dubbio non siete obbligati a farlo; anzi dovete domandarne perdono a Dio. Lo Spirito Santo ci dice che chi giurerà sarà punito.

II — 1° Se voi mi domandate che cosa s’intende per questa parola ” bestemmia „ F . M., questo peccato è sì orribile, che non parrebbe vero che un Cristiano possa aver la forza di commetterlo. “Bestemmia„ è una parola che significa “maledire e detestare una bontà infinita, „ ciò che indica che questo peccato colpisce direttamente Dio. S. Agostino ci dice: – Noi bestemmiamo quando attribuiamo a Dio qualche cosa che non ha o non gli conviene, o gli togliamo ciò che gli conviene o, finalmente, quando si attribuisce a se stessi ciò che conviene a Dio, e non è dovuto che a Lui solo. Dunque noi bestemmiamo: 1° quando diciamo che Dio non è giusto, perché fa sì che ci siano alcuni tanto ricchi che hanno tutto in abbondanza, mentre tanti altri sono sì poveri che hanno a mala pena un tozzo di pane: — 2° ch’Egli non è buono, come si dice, poiché lascia tanti nel disprezzo e nelle infermità, mentre altri sono amati e rispettati da tutti; — 3° ovvero dicendo che Dio non vede tutto, non bada a ciò che avviene sulla terra; — 4° o anche dicendo: « Se Dio usa misericordia al tale, non è giusto: ne ha fatte troppe; „ — 5° ovvero quando subiamo qualche danno e ce la prendiamo con Dio, dicendo: « Ah! me infelice! Dio non può farmene di più! Credo ch’Egli non sa ch’io sono al mondo, o, se lo sa, non è che per farmi soffrire. » Parimente è bestemmia ridersi della Vergine e dei Santi, dicendo: « Oh! non hanno gran potere! io ho fatte molte preghiere e non ne ho ottenuto mai nulla!! » S. Tommaso ci dice ancora che la bestemmia è una parola ingiuriosa, oltraggiosa contro Dio o contro i Santi; ciò che si può fare in quattro modi: 1° Per affermazione, dicendo: « Dio è ingiusto e crudele permettendo ch’io soffra tanti mali, che mi si calunni in questo modo, che mi si faccia perdere questo danaro o questo processo. Ah, me infelice! tutto va male in casa mia e non ho nulla, mentre agli altri riesce tutto bene e abbondano » 2° Si bestemmia dicendo che Dio non è onnipotente, e che potranno fare qualunque cosa senza di Lui. Fu appunto questa bestemmia che pronunciò Sennacherib, re dell’Assiria, quando assediò Gerusalemme, dicendo che, malgrado Dio, avrebbe preso la città. Egli si burlava di Dio dicendo che non era tanto potente da impedirgli d’entrare e di metter tutto a fuoco e a sangue. Ma Dio, per punire questo miserabile della sua bestemmia e mostrargli ch’Egli era davvero onnipotente, gli mandò un Angelo che in una sola notte gli uccise 185 mila uomini. Il giorno dopo il re, vedendo sgozzato tutto il suo esercito senza sapere da chi, se ne fuggì tutto atterrito a Ninive, dove egli stesso fu ucciso da due suoi figli. 3° Si bestemmia quando si attribuisce a una creatura ciò che è dovuto a Dio solo, come quei miserabili che dicono a una creatura infame oggetto della loro passione: « Io vi amo con tutta la tenerezza del mio cuore!… È tanto il mio affetto, che vi adoro!… „ Delitto che fa orrore, e tuttavia tanto comune, almeno in pratica.

4° Si bestemmia dicendo: Ah! S… N. .. di D… „ Ciò fa orrore. Questo peccato è sì grave e sì spaventoso agli occhi di Dio, che attira ogni sorta di sventure sopra la terra. I Giudei avevano tanto orrore della bestemmia che, quando sentivano qualcuno bestemmiare, si squarciavano le vesti. Non osavano neppur pronunciare questa parola; la dicevano invece: « Benedizione. » Il santo Giobbe temeva tanto che i suoi figliuoli potessero aver bestemmiato, che offriva sacrifici a Dio per placarlo se mai l’avessero fatto (Giob. I, 5). S. Agostino dice che quelli che bestemmiano Gesù Cristo che è in cielo, sono più crudeli di quelli che l’hanno crocifisso sulla terra. Il cattivo ladrone bestemmiava Gesù Cristo in croce, dicendo: « S’Egli è onnipotente, liberi se stesso e noi assieme. » Il profeta Nathan disse al re Davide: « Poiché tu sei stato causa per cui si è bestemmiato il nome di Dio, il tuo figlio morrà, e il castigo non si allontanerà dalla tua casa per tutta la tua vita. » — Dio ci dice: « Chi bestemmierà il nome del Signore, voglio sia messo a morte. » — Leggiamo nella S. Scrittura che venne condotto a Mosè un uomo che aveva bestemmiato. Mose consultò il Signore, il quale gli manifestò che bisognava condurlo in un campo e farlo morire; vale a dire, ucciderlo a colpi di pietra (Lev. XXIV, 14) Possiamo dire che la bestemmia è davvero il linguaggio dell’inferno. San Luigi, re di Francia, aveva tanto in orrore questo delitto che aveva comandato che tutti i bestemmiatori fossero segnati con un ferro arroventato sulla fronte. Un giorno essendogli stato condotto un possidente di Parigi, molti vollero sollecitare la grazia per lui; ma il re disse loro che avrebbe voluto morire egli stesso per distruggere questo maledetto peccato; e comandò che fosse punito. L’imperatore Giustino faceva strappare la lingua a quelli che avevano avuto la disgrazia di commettere un sì grande delitto. Durante il regno di re Roberto, la Francia era oppressa da ogni sorta di sventure: e il buon Dio rivelò a una santa che tanto sarebbero durati i castighi quanto le bestemmie. Allora si sancì una legge che condannava tutti i bestemmiatori ad aver forata la lingua da un ferro infuocato, la prima volta; la seconda, comandava che fossero fatti morire. Badate bene, M. F., che, se la bestemmia regnerà nella vostra casa, tutto andrà a male. S. Agostino ci dice che la bestemmia è un peccato ancor più grave dello spergiuro, perché, dice egli, con lo spergiuro prendiamo il nome di Dio in testimonio d’una cosa falsa, mentre con la bestemmia diciamo una cosa falsa di Dio stesso. Quale delitto! Chi di noi ha mai potuto comprenderlo? S. Tommaso ci dice ancora che v’ha un’altra specie di bestemmia, quella contro lo Spirito Santo, la quale si commette in tre modi: 1° Attribuendo al demonio le opere di Dio, come facevano i Giudei, i quali dicevano che Gesù Cristo cacciava i demoni in virtù del principe dei demoni; come facevano i tiranni e i carnefici, i quali attribuivano alla magia o al demonio i miracoli dei martiri; — 2° si bestemmia contro lo Spirito Santo, ci dice sant’Agostino, “quando si muore nell’impenitenza finale.„ L’impenitenza è uno stato di bestemmia; poiché la remissione dei nostri peccati si fa con la carità, che è lo Spirito Santo;

— 3° quando facciamo azioni che sono direttamente opposte alla bontà di Dio, come quando disperiamo della nostra salute, o non vogliamo usare tutti i mezzi per ottenerla; come quando ci rodiamo perché altri ricevono più grazie di noi. Guardatevi bene dall’abbandonarvi a queste sorta di peccati, perché sono oltremodo orribili. Noi trattiamo Dio da ingiusto, dicendo che dà più agli altri che a noi. Non avete voi forse bestemmiato, F. M., dicendo che non c’è Provvidenza se non per i ricchi e i birbanti? Non avete forse bestemmiato, quando subiste qualche danno, dicendo: “Ma che cosa ho fatto dunque io al Signore più degli altri, per aver tante disgrazie? „ — Che cosa avete fatto? Mio caro, alzate gli occhi e vedrete che l’avete crocifisso. — Non avete forse bestemmiato dicendo che siete troppo tentato, che non potete far diversamente, che tale è il vostro destino?… Ecché? F. M., voi non pensate a ciò che dite!… Dunque Dio vi ha fatti viziosi, collerici, violenti, fornicatori, adulteri, bestemmiatori! Ma dunque voi non credete nel peccato originale che ha degradato l’uomo dallo stato di rettitudine e di giustizia, in cui eravamo da principio stati creati!… La tentazione è superiore alle vostre forze!… Ma, mio caro, la Religione non vi aiuta dunque per nulla a farvi comprendere tutta la corruzione originale?… E voi osate, infelice, bestemmiare ancora contro Colui che ve l’ha data come il più gran dono che potesse farvi?… Non avete voi altresì bestemmiato mai contro la S. Vergine e i Santi? Non avete mai sorriso delle loro virtù, delle loro penitenze, dei loro miracoli?… Ahimè! in questo secolo sciagurato, quanti empi troviamo che spingono la loro cattiveria fino a disprezzare i santi del cielo ei giusti della terra; quanti che si fanno beffe delle austerità dei santi, e che non vogliono servire Dio per sé, né permettere che lo servano gli altri! Vedete ancora, M. F., se non avete mai lasciato ripetere i vostri giuramenti ele vostre bestemmie ai fanciulli. Ah! infelici! quali castighi vi attendono nell’altra vita!. ..

2° Ma, mi domanderete, che differenza passa tra il bestemmiare e rinnegare Dio? — Una differenza grande, M. F . Osservo che parlando di rinnegazione, non intendo parlare di quelli che rinnegano il buon Dio abbandonando la vera Religione; costoro noi li chiamiamo apostati. Intendo dirvi di quelli che, parlando, hanno la maledetta abitudine di rinnegare, per collera o per impeto, il santo nome di Dio: come uno che ci rimettesse al mercato o perdesse al gioco, ese la prendesse con Dio, quasi volesse far credere che ne sia stato Lui la causa. Quando vi capita questo, bisogna che il buon Dio sopporti tutti i furori della vostra collera, quasi fosse Lui la causa della vostra perdita o dell’accidente che v’è toccato. Ah, sciagurati! Quegli che vi ha tratti dal nulla, che vi conserva evi ricolma continuamente di benefìzi, voi osate ancora disprezzarlo, profanare il suo santo Nome e rinnegarlo; mentre, se non avesse voluto ascoltare che la sua giustizia, da quanto tempo sareste inabissati nell’inferno! Ordinariamente vediamo che chi ha la sventura di commettere questi enormi delitti perisce miseramente. Si legge nella storia che un povero ammalato era ridotto in miseria. Essendo entrato da lui un missionario per vederlo e confessarlo: “Ah, padre! gli disse l’ammalato, Dio mi punisce per le mie collere, per le mie violenze, le mie bestemmie, e rinnegazioni. Io sono ammalato da molto tempo e ridotto estremamente povero. Tutte le mie cose hanno fatto una misera fine. I miei figli mi disprezzano e abbandonano, e non son buoni a nulla per i mali esempi ch’io ho dato loro. È già da tempo che soffro su questo pagliericcio; la mia lingua è tutto corrosa, e non posso inghiottir cosa alcuna senza soffrire dolori incredibili. Ahimè, padre! io ho gran timore che, dopo aver sofferto tanto in questa vita, debba soffrire anche nell’altra.„ Anche ai nostri giorni vediamo che questi uomini soliti a giurare e a rinnegare il santo Nome di Dio finiscono quasi sempre miseramente. Badate bene, M. F., se avete questa malvagia abitudine, dovete correggervene subito, per timore, che se non fate penitenza in questo mondo, non andiate a farla nell’inferno. Non dimenticatevi mai che la vostra lingua non deve servirò che a pregare il buon Dio e a cantare le sue lodi, Se avete avuto il mal abito di giurare, dovete pronunciare spesso il santo Nome di Gesù con gran rispetto per purificare le vostre labbra.

3° Se, finalmente, mi domandate che cosa s’intende per maledizione e per imprecazione, vi dirò che s’intende, M. F., maledire, in un momento di collera o di disperazione, una persona, una cosa, o una bestia; s’intende voler annientarla o renderla infelice Lo Spirito Santo ci dice che chi ha spesso la maledizione in bocca, deve ben temere che Dio non mandi a lui ciò ch’egli augura agli altri. Ci sono alcuni che hanno sempre in bocca il demonio, e a lui mandano tutto ciò che li urta. Se una bestia lavorando non va come deve, la maledicono o la mandano al diavolo. Altri, quando fa cattivo tempo, dicono: “Maledetto tempo! maledetta pioggia! ah, maledetto freddo!., maledetti ragazzi!… „ Non dimenticate mai che lo Spirito Santo ci dice che una maledizione, pronunciata invano e con leggerezza, su qualcuno dovrà cadere. S. Tommaso ci dice che, se pronunciamo una maledizione contro qualcuno, è peccato mortale, se auguriamo davvero ciò che diciamo. E S. Agostino ci narra di una madre che aveva maledetto i suoi figliuoli in numero di sette; ebbene, tutti quanti furono invasi dal demonio. Si sa che molti fanciulli, per essere stati maledetti dai loro genitori, furono infermi e infelici per tutta la vita. Leggiamo di una madre che, essendo andata in collera per colpa di sua figlia, le disse: “Ti s’inaridisse il braccio!„ E quasi all’istante alla povera figlia il braccio s’inaridì. I coniugati devono guardarsi dal maledirsi tra loro. Ci sono alcuni che, se non vanno bene in famiglia, maledicono la moglie, i figli, i genitori e tutti quelli che s’intromisero nel matrimonio. Ahimè, F. M.! tutte le vostre disgrazie provengono dall’esservi entrato con una coscienza tutta nera di peccati. — Gli operai, non devono mai maledire il loro lavoro, né quelli che loro lo danno: d’altra parte tutte le vostre maledizioni non faranno mai andar meglio i vostri affari; se invece aveste un po’ di pazienza, se sapeste offrire tutte le vostre pene a Dio, guadagnereste molto per il cielo. E gli strumenti del lavoro non li avete mai maledetti, dicendo: “Maledetta vanga! maledetta roncola! Maledetto aratro!„ eccetera? Ecco, M. F., ciò che attira ogni sorta di maledizioni sulle vostre bestie, sui vostri lavori, sulle vostre terre, spesso devastate dalla tempesta, dalla pioggia o dal gelo! — Non avete mai maledetto voi stessi, dicendo: « Oh, non avessi mai visto la luce!… fossi morto mentre veniva al mondo!… fossi ancor nel nulla!… „ Ahimè! quanti peccati, di cui molti non si accusano affatto, e non vi pensano neppure! — Dirò ancora che non dovete mai maledire né i vostri figliuoli, né le vostre bestie, né il vostro lavoro, né il tempo, perché in tutto ciò maledite la manifestazione della santa volontà del Signore. — I figliuoli si guardino bene dal dar occasione ai loro genitori di maledirli, ciò che è la più grande di tutte le sventure; poiché troppo spesso un fanciullo maledetto da’ suoi genitori è anche maledetto da Dio. Quando qualcuno vi offende in qualche cosa, invece di mandarlo al diavolo, non sarebbe meglio dirgli: “Che il buon Dio vi benedica? „ Allora sareste davvero i buoni servi di Dio, che rendono bene per male. Riguardo a questo comandamento, ci sarebbe ancor da parlare dei voti. Bisogna guardarsi bene dal far voti a capriccio. Certuni, quando sono ammalati, si votano a tutti i Santi, e una volta guariti, non si danno affatto pensiero di soddisfare i loro voti. Bisogna anche vedere se si son fatti davvero come si doveva, cioè in istato di grazia; se li avete osservati. Ahimè! quanti peccati in questi voti! ciò, che invece di piacere a Dio, non può che offenderlo. Che se mi domandate come mai dunque ci sono tanti che giurano, giurano anche il falso, che pronunciano maledizioni e imprecazioni orribili, che rinnegano Dio, vi dirò, M. F., che quelli che si abbandonano a questi orrori non hanno né fede, né religione, né coscienza, né virtù; sono in gran parte abbandonati da Dio. Quanto noi saremmo più felici se avessimo la grazia di non adoperar mai la nostra lingua, consacrata a Dio col santo Battesimo, se non per pregare un Dio sì buono, sì benefico, e cantare le sue sante lodi! Poiché è appunto per questo che Dio ci ha dato una lingua; consacriamola a Lui, affinché, dopo questa vita, possiamo avere la felicità di andarlo a benedire in cielo per tutta 1’eternità. Ciò che vi auguro di cuore …

LO SCUDO DELLA FEDE (162)

P. F. GHERUBINO DA SERRAVEZZA Cappuccino Missionario Apostolico

IL PROTESTANTISMO GIUDICATO E CONDANNATO DALLA BIBBIA E DAI PROTESTANTI (30)

FIRENZE – DALLA TIPOGRAFIA CALASANZIANA – 1861

SECONDA PARTE.

Genuino prospetto del Cattolicismo, e del Pretestantismo, delineato dai Protestanti.

PRATTENIMENTO IV

Accusa della Riforma contro la Chiesa Cattolica. – Quanto abbiano di verità, e a chi debbano propriamente applicarsi

PUNTO III.

Vera ragione per cui i Riformatori dichiararono la Santa Scrittura unico giudice della fede, unica regola del cristiano secondo il senso privato. — Effetti della interpretazione privata.

55. Prot. Tale avvenimento sarebbe stato realmente una significante disfida, se i Riformatori avessero conservata e data la vera Bibbia: ma l’essersi appellati alla Bibbia, l’aver data la Bibbia come unica regola, etc. dopo averla travisata, alterata e rifatta a lor modo, come già ti ho detto, (Vedi sopra, N, 31, e la I, parte, N, 72). Tale avvenimento non è più un’onorata disfida, ma una vituperevole trufferia. Oltre a ciò, la vera ragione che a tal partito li spinse, equivale a una solenne condanna della lor causa, quand’anche avessero conservata intatta la Bibbia. Se tu l’ignori, ascoltami, che io ti narrerò il tutto esattamente e per ordine.

« La Tradizione, una prescrizione di tempi lontanissimi, le decisioni date da colui che siede nella sedia di S. Pietro, i pensieri dei Padri della Chiesa e dei Dottori di lei, ed a soprassello di delirio, pur anco la venerabile formola nel primo Sinodo di Gerusalemme — Egli piace allo Spirito Santo ed a Noi pronunziata da’ Concilii ecumenici o generali, vennero reputate cose da nulla, e quasi altrettante quisquilie e superfluità da’ Riformatori e da’ loro seguitatori, allora quando erano contrarie alla prima loro convinzione ed agli argomenti su cui essa saldissima si fondava. E conviene però sapere, tutto questo essere avvenuto a poco a poco.

» Da prima essi medesimi molto dubitavano della strada per la quale avevano mosso il passo; né sapevano fin dove gli avrebbe ella condotti, essendo essi ben lungi dall’iscacciar da sé di primo colpo ogni autorità della sede Romana, dei Padri della Chiesa, dei Concilii e della Tradizione. Si studiavano a tutto uomo, perché le loro interpretazioni riuscissero in guisa, che fossero appoggiate da’ Santi Padri, e dai grandi dottori della Chiesa, dalla Tradizione e dalle decisioni de’ Concilii. Ma non prima addiveniva che coteste autorità dessero, comunque fosse, una testimonianza favorevole a’ loro avversarii, tantosto la negavano, e ne appellavano ad un’autorità superiore. Se un’appellazione veniva spesse fiate riportata ad un futuro Concilio ecumenico, e valeva alcun che più che una segreta mena chiesta imperiosamente dalle loro circostanze, questa riteneva in sé una fiducia nella maggioranza di tal concilio, la quale rispondeva a capello a quel convincimento, che i Riformatori avevano intorno alla bontà della causa loro. Imperocchè, dato che il Concilio avesse presa decisione contro di essi (come poco dopo venne fatto dal Concilio di Trento) che altro rimaneva, se non palesare in aperto, tutta la Gerarchia radunata in consesso non esser che uomini, i quali, quantunque insieme raccolti, pur fossero tanto fallibili ed all’errore propinqui, quanto ciascuno per sé isolatamente lo fosse?

» Per il che prestamente si trovarono in quel punto, donde non si poteva più uscire senza dichiarare, come fecero.,. esser la Scrittura l’unico e perentorio giudice nelle materie pertinenti alla fede, e il solo fonte, da cui si dovesse attingere e derivare la dottrina di Cristo. Quanto poi le cose, di che parliamo, avessero valore rispetto alla Chiesa Cattolica, e questa quali opposizioni avrebbe potuto fare a cosiffatto sistema, non è a dire. Bastaci solamente di qui accennare che separossi a poco a poco vieppiù, il lume, ben dove ognuno avvedersi, che un libro, per quanto infallibile e divino si fosse; allora solamente era da riputarsi siccome giudice infallibile in materia di fede, quando sì assomigliasse ai principii della scienza Geometrica…. La Bibbia non è un tal libro.» (Wieland, Opere varie, T. 1, p. 186).

56. « Per il che abbiam fatto sètte e fazioni, predicando senza alcun discernimento; senza precauzione né prudenza alla canaglia, a plebe insensata e furibonda. Molta gente brava ed esperta vi ha fatto anch’essa naufragio, ed assai predicatori riputati nostri… non sanno ben maneggiarsi; e da uomini frenetici e furibondi non fanno che schiamazzare al popolazzo – Parola di Dio, parola di Dio, parola di Dio, — e dal Vangelo escono (cioè fanno uscire) menzogne diaboliche: per la qual cosa da un Lutero sorge un Munstero, e gli altri fomentatori di turbolenze, gli Anabattisti, i Sacramentarii, e tanti altri falsi fratelli! » (Lutero, Opp. ediz, di Wittemberga, 1573, part. V, p. 5, 6, 75).

« Che razza di gente sono i nostri protestanti, vaganti su e giù portati da ogni vento di dottrina ora da questa, ora da quella parte? Voi potete forse conoscere quali sieno i loro’ sentimenti di oggi in materia di religione; ma non potete certamente dire quali saranno quelli di domani! In quale articolo di religione si accordano quelle Chiese tra loro, le quali hanno rigettato il Vescovo di Roma? Esaminatele tutte da capo a’ piedi, voi appena troverete una cosa affermata da uno, che non sia immediatamente condannata da un altro come empia dottrina! » (Andrea Dudith, nella sua lettera a Reza)

« Tutti tra noi sono Dottori; tutti divinamente addottrinati! Non vi è il più infimo facchino o buffone, il quale non ci spacci i suoi propri sogni per parola di Dio!… Per il che un’immensa caverna sembra che siasi aperta, d’onde si è innalzato un fumo, il quale ha offuscato i cieli e le stelle, e le locuste sono uscite fuori con gli aculei, vale a dire – una numerosa progenie di settari e di eretici, i quali hanno rinnovellate tutte le antiche eresie, ed hanno ritrovate molte mostruose opinioni loro proprie. Questi hanno riempiute le nostre città, villaggi, campagne, case, anzi le nostre chiese ed i pulpiti ancora, ed hanno tirato seco il misero deluso popolo alla fossa di perdizione (Il dott. Wartan, nella prefazione della sua poliglotta).

« Gli eroi della seconda Riforma, erano gran leggitori della Bibbia, e presso che ognuno di essi diventava, all’occasione, predicatore … Ciascheduno interpretava la Bibbia a suo modo, e tutti erano per la Bibbia senza note, o commenti. Ruggièro North (protestante) nel suo Esame dà ragguagli di tutte le specie di bestemmie e di orrori commessi da siffatta gente, che avevano infettati gli animi di tutta quasi l’intiera comunità. Quindi ogni sorta di mostruosi misfatti. A Dover una donna recise il capo ad un suo bambino, adducendo di averne avuto, come Abramo, un particolare comando da Dio. Un’altra donna fu giustiziata a York per aver crocifissa la propria madre. Essa aveva insieme sacrificato un vitello ed un gallo. Questi tra gli orrori di quella compiutamente pia Riforma, non sono che un mero saggio. E come non farsi luogo a simili orrori? Noi troviamo nella Bibbia delle uccisioni; e se uno debbe essere a sé stesso l’interprete di quel libro, chi sarà che dica di agire in modo contrario alla propria interpretazione di quello? E come impedire tutte coteste nuove mostruose sètte? (Gobbet, Op. cit. Lett. 12, § 366). » Sino dal principio io sospirando diceva:

« Se l’interpretazione della Bibbia secondo l’opinare e il sistema di quelle scuole prende il sopravvento, in poco stante, non vi ha dubbio, la Sacra Scrittura si ridurrà in un bel niente, e verrà la ragione dell’uomo in sua vece; questa salirà sul trono, questa diventerà la guida benevola, questa sarà l’unica norma della nostra religione. » (Francesco Turrentino, Ministro e professo di teologia in Ginevra, Lett. a Giov. Heiddeger, 1665). Tutto questo lo vediamo avverato. Il protestantismo è un pretto razionalismo.

PUNTO IV.

L’Inquisizione spagnuola e la protestante.

37. Apost. Checchè sia della vostra Riforma, è certo almeno che essa non è sanguinaria come il Cattolicismo. A chi non son noti gli orrori dell’Inquisizione di Spagna?

Prot. Tu non ignorerai che i Giudei eran singolarmente presi di mira dall’Inquisizione di Spagna. Or dunque senti che cosa. Ne dice un Giudeo Rabbino Tedesco.

« Le ingiustizie di Spagna son cosa affatto speciale e propria del popolo spagnuolo. Quando la Spagna cacciava i Giudei, i Papi (N. B.) accoglievano in Roma e nei loro Stati i perseguitati; quando la Spagna inferociva con barbarie contro di loro, essi trovavano nei Papi protezione e salvezza. » (Rabbino Philipson, nella sua Gazzetta Universale pei Giudei, che esce in Magdeburgo. Vedi il Cattolico (giornale) di Genova, 7 Genn. 1860, N. 3046).

Ecco pienamente giustificata la Chiesa Cattolica su questo punto da un giudice non sospetto di parzialità.

« Tutti professano unanimemente, ed in generale con sincerità, la massima avversione ad ogni genere di persecuzione…. A principio (di persecuzione) i primi Riformatori non rinunziarono. Si lagnavano delle persecuzioni a cui erano esposti, non perché  dubitassero che gli eretici debbano venire perseguitati, ma perché negavano di essere essi eretici. Dichiararono che la persecuzione consiste nelle pene inflitte a coloro che seguono la vera Fede, e tale era secondo essi la loro, ma il mettere a morte i veri eretici era agli occhi loro non persecuzione, ma bensì un atto di giustizia! » (Whately, attuale Arcivescovo Anglicano di Dublino, Introduzione alla storia del culto religioso; Lez. IX, § 5)

Troppo lunga e spaventosa sarebbe la mia narrazione, se riferir ti dovessi le stragi, li orrori commessi a questo’ proposito in Ginevra da Calvino, ed in generale dai protestanti in tutti i paesi di loro dominio in Europa, e singolarmente in Inghilterra. Quindi per non andar troppo in lungo mi ristringerò a darti un saggio delle persecuzioni avvenute contro i Cattolici in questo ultimo paese sotto il regno di Enrico VIII, e di Elisabetta sua figlia, e di quelle avvenute in Olanda. Ascolta.

« L’opera di sangue cominciò (in Inghilterra), e continuò poi di passo costante… E per dare un saggio delle opere del Riformatore (Enrico VIII), contentiamoci di parlare del trattamento usato con Giovanni Houghton priore della Certosa di Londra. (Questo infelice priore, per aver ricusato di prestare il giuramento (di supremazia ecclesiastica), il quale (notate) prestar non poteva senza commettere uno spergiuro, fu trascinato a Tyburn (luogo di supplizio). Appena egli fu appeso, che si tagliò la corda; ond’egli vivo stramazzò sul suolo…. Fu denudato, gli furono stracciati dal corpo gli intestini, i visceri ed il cuore, e gettati sulle fiamme; gli fu troncata dal busto la testa, il fusto fu diviso a quarti fatti sobbollire; i quarti poi tagliati a pezzi, ne furono sospese le membra nelle differenti parti della città, ed uno de’ suoi bracci fu inchiodato al muro sull’ingresso principale del suo Convento!

« Tali sono i mezzi che a talento di Burnet (protestante) furon necessarii ad introdur la Religione protestante! Ahimè! Come differiscono essi da quelli che il Pontefice S. Gregorio e Santo Agostino impiegarono ad introdurvi la Cattolica Religione ! » (Cobbet, Op, cit. Lett. 3, § 97, 98).

« Bettina era una gran Dottoressa di Teologia; era estremamente gelosa delle sue prerogative e del suo potere, ma sopra tutto in ciò che riguardava il suo Primato della Chiesa. Ella volle far sì che tutti i suoi sudditi fossero della sua religione, sebbene alla sua coronazione avesse solennemente giurato di esser cattolica…. è per piegare le coscienze del popolo al suo tirannico volere stabilì un’inquisizione la, più orribile, che si fosse mai udita al mondo. Ella diede una Commissione, come la chiamava, a certi Vescovi ed altri, il cui potere estendevasi su tutto il regno e su tutte le classi e gradi del popolo. Erano coloro autorizzati ad esercitare un assoluto potere sulle opinioni di tutti gli uomini, a punire tutti gli uomini a loro capriccio, eccetto la morte…. Questi mostri subalterni imponevano quelle multe che andavano loro a genio, imprigionavano essi delle persone per quella lunghezza di tempo che loro attalentava. Essi mettevano in campo quantunque nuovi articoli di fede suggeriva loro il capriccio; insomma erasi questa una Commissione che in nome e pei disegni della buona regina Betta esercitava un assoluto potere sui corpi e sugli spiriti di quella gente, che i vili, gli ipocriti ed i rapaci Riformatori pretendevano di aver liberata da una schiava soggezione del Papa….

« Un’occhiata che si dia ai fatti di cotesta indegna Tiranna, nel vedere a quanto abietta schiavitù ridotta ella aveva la nazione, e specialmente nello scorgere questa Commissione, egli è per noi impossibile il non riflettere con vergogna su ciò, che siamo andati sì lungo tempo dicendo contro la Ingiustizia di Spagna, la quale dal primo suo stabilimento fino al giorno d’oggi non ha commessa tanta crudeltà, quanta ne ha commessa questa feroce apostata femmina protestante, in ciascuno dei quarantacinque anni del suo regno. E piacciavi di osservare, e di non mai dimenticare, che i Cattolici quando imponevano delle punizioni le imponevano sul fondamento che i delinquenti eransi dipartiti dalla fede in c 7ui erano stati educati, e che aveano essi professato per tutta la loro vita. E nel caso particolare di questa brutale ipocrita, furon essi puniti poi nel modo più barbaro per aderire appunto a quella religione, che ella aveva manifestamente professata per molti anni di sua vita, ed a cui aveva giurato di appartenere nell’atto stesso della sua coronazione.

« Vi ha bisogno appena il tentar di descrivere gli strazi che ebbero a patire i Cattolici durante questo regno crudele. Niuna lingua, niuna penna esser puote all’uopo adeguata. L’ udir Messa, il ricettare un prete, l’ammetter la supremazia del Papa, il negare a quest’orrida amazzone la spirituale supremazia e cose altre parecchie che un onorato Cattolico poteva a mala pena evitare, lo consegnavano al palco ed al coltello dilaniatore…. I sacerdoti che non erano mai usciti d’Inghilterra, e che. erano preti innanzi al regno di codesta femmina orribile, al ventesimo anno del costei regno erano ridotti a ben pochi; perocchè per legge vietavasi l’ordinarne de’ nuovi sotto pena di morte…. Quindi vessò gli antichi rimanenti sacerdoti per siffatto modo, che all’anno ventesimo del suo regno furono eglino presso che sterminati. E siccome per un sacerdote era morte l’andar fuori del regno, morte il dargli ricovero, morte per lui il far le sue funzioni in Inghilterra, morte il sentir la sagramental confessione, sembrava impossibile l’arrestar colei dall’estirpare, e totalmente estirpar dal suo reame quella religione, sotto i cui auspici l’Inghilterra era stata sì grande e felice per tanti secoli….

« Essendo poi soddisfatta in tutti i suoi progetti di distruggere il tronco di quegli evangelici operarii, ella con più furia che mai si fece addosso alle branche e al fusto di quello. Il dir messa e l’udirla; il far la confessione e l’ascoltarla, l’insegnare la Cattolica Religione e l’esserne ammaestrato, infine l’alienarsi dalla Chiesa di lei, erano questi tutti gran delitti, e tutti puniti con più o meno di severità; per cui le forche, è patiboli e le torture erano in uso continuo; e le carceri, e le segrete erano stivate di vittime. » (Cobbet, Op. cit. Lett. XI, §338, e segg.).

«In Olanda i tormenti ordinarii della tortura la più crudele non furono che i minori mali che si fecero soffrire a questi innocenti (cattolici). Le loro membra slogate, i loro corpi lacerati dalle verghe, venivano in seguito avviluppati in lenzuola bagnate nell’acquavite, vi si appiccava il fuoco, e si lasciavano in questo stato fino a che la lor pelle annerita e rangrinzata scoprisse i nervi nelle parti del loro corpo. S’impiegava lo zolfo, e mezza libbra di candele per abbruciar le ascelle e le piante de’ piedi. Di tal guisa martoriati si lasciavano alcune notti coricati sulla terra senza coperta, ed a furia di colpi si cacciava lungi da essi il sonno. Il lor nutrimento non era che di aringhe ed altri alimenti che loro si porgevano affin di eccitare nelle loro viscere tutto il fuoco di una sete divorante, senza lor permettere l’oso di un bicchier d’acqua per quante suppliche si facessero. Si collocavano dei calabroni sull’ombelico dei pazienti e se estraeva il pungolo che vi avevano immerso, della lunghezza dell’articolazione di un dito. Soni stesso aveva inviato a questo spaventevole tribunale, un certo numero di topi che si collocavano sul petto e sul ventre di questi infelici, sotto uno strumento di pietra, o di legno fatto a tal uopo, e ricoperto di una placca di rame. Il fuoco posto sopra questa placca sforzava questi animali a roder le carni e farsi un passaggio sino al cuore ed alle viscere. Si abbruciavano queste ferite con carboni accesi, si faceva colare del lardo fuso su questi corpi insanguinati! … Altri orrori più ributtanti ancora furono posti in opera con un sangue freddo, de’ quali appena, si potrebbero trovare esempi tra i cannibali; ma la decenza mi proibisce di proseguire! » (Abregé de l’histoire de la Hollande par M. Kerroux, Leyde 1778, T. 2, p. 310).

I TRE PRINCPII DELLA VITA SPIRITUALE (VI)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (VI)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S., J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica; 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M. Viviani, Vic. Gen.

SECONDO PRINCIPIO FONDAMENTALE: VINCERE SE STESSO (I)

Oltre che necessaria, la preghiera è il principio d’ogni bene; ma non più che il principio. Ad essa deve necessariamente unirsi la vittoria di se stesso, che è il secondo dei tre principî fondamentali, e quello che rende sicura ed anche soave la nostra vita spirituale,

CAPITOLO I.

Retta idea dell’uomo.

La preghiera regola e indirizza a Dio i nostri pensieri; per cui riesce facile a chi conosce Dio il pregare. Il vincere sé stessi volge le nostre cure su noi medesimi, e c’insegna come dobbiamo trattarci. Ma, perché  uno si regoli convenientemente, fa d’uopo che prima si conosca ed abbia di sé e della propria natura un giusto concetto. Tre sono le principali dottrine circa l’uomo.

1. Cominciando dalla prima, l’uomo fin dalla sua origine e di sua natura è assolutamente buono e perfetto; la sua depravazione viene più tardi, e nasce non da lui ma dal suo contatto col mondo corrotto e dalla influenza malefica che questo esercita su di lui. Per cui l’uomo non ha da far altro che guardarsi dall’azione perversa del mondo esterno. Quanto al resto, ben può lasciarsi andare e svilupparsi conforme agli impulsi della sua natura. Questo è il concetto che dell’uomo si formano i materialisti di tutte le sfumature. Negano ogni intervento soprannaturale, e non vogliono sentir parlare di peccato originale né delle fatali sue conseguenze nell’uomo. Sovversivo ottimismo, che, non volendo vedere questo disordine e questa desolazione evidenti e palpabili che si manifestano nell’uomo, distrugge tutto il Cristianesimo.

2. La seconda teoria o dottrina è del tutto opposta alla prima. L’uomo fu creato buono da Dio; però il peccato originale l’ha inclinato in tal modo al male, che nel suo essere non c’è nulla di buono ma solo peccati manifesti. Non può nemmeno Dio migliorarlo più interiormente; solamente, obbligato a prescindere dalla di lui malizia, lo riveste all’esterno colla giustizia di suo Figlio, della quale l’uomo s’adorna mediante la fede e la speranza; restando per sé sempre cattivo, anche in cielo. Così la pensavano i riformatori del secolo XVI. È questo un pessimismo infondato e può dirsi anche una specie di manicheismo, nel quale Dio medesimo apparisce incapace di dominare il male che una volta ha permesso. Siccome questo sistema di giustificazione è un controsenso, all’uomo non resta altro rimedio che la disperazione.

3. La terza dottrina insegna che Dio da principio creò l’uomo buono e retto; ma che costui, sedotto dal serpente, cadde, e, in conseguenza del peccato originale e della perdita della grazia santificante, non solo restò privo del suo fine soprannaturale, ma indebolito altresì nella sua natura, sebbene non essenzialmente, per la disordinata concupiscenza. Mediante il santo Battesimo ricupera la grazia santificante, la bontà, la giustizia e santità interne; gli restano nondimeno la concupiscenza e le sregolate passioni, le quali, pur non privandolo della sua libertà, gli muovono una guerra accanita e gli offrono continuo incentivo alla colpa, sempre certo però che, tanto per la grazia di Gesù Cristo e della propria cooperazione, quanto per l’uso dei mezzi offertigli dalla Chiesa, nella preghiera e nell’esercizio del vincere se stesso, può uscire vittorioso.

Questa è la dottrina cattolica unicamente vera e retta rispetto all’uomo. In essa si dà a Dio la parte dovutagli; e così all’uomo, cui al tempo stesso umilia ed eleva, previene, incoraggia ed infonde speranza. Tutto vi stà al suo giusto posto; a Dio, come autore e consumatore della santità, si offre la riconoscenza; all’uomo, l’onore ed il merito di cooperare alla propria salvezza. Qui non v’è alcuna esagerazione. È il pessimismo più moderato, ed il più ragionevole e nobile ottimismo. – Pertanto, è della massima importanza il persuaderci fermamente che il vincere sé stessi è il campo in cui dobbiamo anzitutto manifestare l’attività propria.

CAPITOLO II.

Che cosa sia il rinnegare sé stessi.

Il rinnegare sé stessi, detto altresì mortificazione, è ciò che forma lo spauracchio degli uomini. Nulla v’è di peggio d’una cieca paura, che non sa rendersi ragione; e per toglierla, nessun rimedio migliore del mettere allo scoperto l’oggetto che la produce, e far vedere che è pretta fantasia. Orbene, dicasi altrettanto del vincere sé stessi o mortificarsi: basta osservare ciò che è per allontanare da noi ogni ripugnanza.

1. Che cosa è, dunque, il rinnegare o vincere sé  stessi? Non è altro che l’imposizione o sforzo morale che dobbiamo farci per vivere secondo che lo esigono la ragione, la coscienza e la fede; la fatica che ci costa per operare in conformità del nostro dovere ed essere realmente ciò che dobbiamo e vogliamo: uomini ragionevoli e di carattere. È chiaro che per ciò, richiedesi una non comune energia, conseguenza questa della prima caduta, ed un ricordo che ha lasciato in noi il peccato originale. Anteriormente tutto tornava facile e soave, ed ora non più. A causa della lotta che dobbiamo sostenere, riceve questa virtù diversi nomi: abnegazione, resistenza, dominio, mortificazione, odio di sé stessi, i quali tutti denotano la medesima cosa, che giustamente, attesa la violenza che dobbiamo farci, prendeva i varî titoli seguendo l’esempio della Sacra Scrittura. Tutti questi nomi, infatti, richiamano precisamente l’idea del combattimento, contrasto e forza richiesta, che interiormente ci fa provare un certo malessere. La difficoltà non deriva tanto dalla cosa in sé, poiché possiamo persino volerla ed apprezzarla, bensì da noi, dall’attuale nostra natura, debole e sensibile, che fa d’uopo portare in alto.

2. Qual è propriamente l’oggetto di questa lotta? Che cosa è che dobbiamo combattere e distruggere? La natura? Tutt’altro. Non l’abbiamo creata noi, né ci appartiene: è di Dio. Possiamo farne uso, ma sprecarla no. E tanto meno sono oggetto di mortificazione le potenze naturali; al contrario ne abbiamo bisogno e ci sono indispensabili per vivere e lavorare. Quanto più sono forti e perfette, tanto meglio. Similmente, nemmeno le passioni considerate in sé stesse sono quelle che dobbiamo combattere; le passioni sono parti integranti della natura nostra, e, prese in sé, sono buone od almeno indifferenti; è solo l’uso cattivo che le rende nocevoli. Nessuna di queste cose è oggetto della mortificazione, ma unicamente ciò che in esse v’è di disordinato. Qual cosa, dunque, potremo dire disordinata? Ecco, tutto quello che si oppone direttamente al fine, o ce lo fa perdere, o ci mette in pericolo d’allontanarcene, o finalmente ciò che in nessun modo torna utile a conseguirlo. Disordinato è dunque, secondo questo, anzitutto ciò che è peccaminoso: poi ogni pericolo di peccare cercato od accettato senza necessità; infine tutto quello che è inutile e non necessario e che si oppone alla nostra ragione, alla coscienza ed alla fede. Questo e solo questo è l’oggetto della mortificazione, e contro di esso dobbiamo combattere sino a distruggerlo, se vogliamo condurre una vita pura e degna d’un essere ragionevole.

3. Con ciò resta altresì ben assodato che il fine della mortificazione non è di contrariare, costringere, danneggiare o distruggere la natura, ma di averne cura, di sostenerla, guidarla, ordinarla, educarla, migliorarla, renderla forte, volonterosa, costante e disposta ad ogni cosa buona: di ritornarla per quanto è possibile alla sua primitiva purezza, giustizia e santità, di rinvigorirla e addestrarla nel buon uso delle sue facoltà, al servizio di Dio ed all’aiuto e salvezza degli uomini. Per cui il fine a cui è diretta l’abnegazione propria, non può essere la violenza colle sue difficoltà. – L’uomo non nasce al dolore, ma alla felicità sia dell’anima come del corpo, egli era felice da principio, e solo dopo il peccato cessò di esserlo. Il dolore, quindi, gli è semplice compagno e non fine; è la guida che ha da condurlo gloriosamente alla vittoria ed alla pace. Il dolore stesso e la pena andranno insensibilmente scomparendo, nella proporzione che noi ci consacreremo con energia ed animo virile al rinnegamento di noi stessi e vi persevereremo con costanza.

4. Una luce ancor maggiore avremo circa la natura e l’importanza della mortificazione, nel considerare il posto che questa virtù occupa tra le altre e nel sapere a quale di esse appartenga. Non appartiene propriamente a nessuna in particolare, ma prende posto dovunque occorra energia e buona volontà. Viene in aiuto quasi sempre della temperanza e della fortezza, giusta la necessità di frenare e reprimere l’immoderato zelo d’una passione, o d’infondere vitalità, energia e costanza in un’impresa difficile. Questa, dunque, e non altro è l’abnegazione o dominio di sé stessi. Come si vede, è la cosa più semplice e naturale del mondo, attese le presenti circostanze. – Si tratta unicamente di arrivare coll’aiuto suo ad essere ciò che dobbiamo e vogliamo essere, di renderci, cioè, per quanto è possibile, uomini stimati, nobili, puri e buoni Cristiani. Come in poche parole insegna molto bene S. Ignazio nel libro degli Esercizi, la mortificazione consiste nel diportarsi in maniera da non lasciarsi travolgere da alcuna passione sregolata. Credere che la mortificazione sia qualche cosa di più di quello che abbiamo detto, è pura fantasia, e serve solo a renderla spregevole. Gran parte dell’orrore che essa ispira proviene precisamente dall’errata idea che se ne ha: è proprio il leone del pigro, ricordato dalla Sacra Scrittura (Prov. XXVI, 13), lo spauracchio terribile che spoglia de’ suoi diritti la nobile nostra natura creata da Dio, e che la mette in angustie di morte; e nulla di più falso! Importa moltissimo aver idee giuste in proposito, ché tagliano di colpo il nodo gordiano.

CAPITOLO II.

Perché dobbiamo mortificarci.

I motivi che abbiamo di mortificarci sono innumerevoli.

1. Anzitutto bisogna aver presente che noi viviamo in uno stato di natura decaduta; stato di disordine e di depravazione, come chiaramente ce lo insegna l’esperienza. La natura nostra è simile ad un vecchio albero. traforato ed infetto da una moltitudine di piccoli insetti: sono inclinazioni ed appetiti, piccoli sì ma pericolosi ed anche ripugnanti. i quali ritraendosi dal bene, ci spingono al male e c’inclinano al peccato. Siamo pieni d’amor proprio, di vanità, d’invidia, di pusillanimità, d’impazienza, di sensualità, d’infingardaggine e d’incostanza. L’uomo migliore può cadere miseramente, se non si fa continua violenza. Un sol giorno che lasciassimo campo libero alle passioni, potrebbe bastare perché fossimo trascinati al male in una maniera incredibile. Le bestie feroci si custodiscono in gabbia, e non è da fidarsi del tutto nemmeno degli animali domestici. Non v’ha nulla di così basso e volgare, di cui non sia capace l’uomo, se è trascinato da passioni sfrenate. L’unico rimedio è la grazia di Dio e il dominio di sé stessi.

2. Siamo uomini e viviamo in mezzo agli uomini. Il mondo non è per noi un inferno, ma neppure un paradiso. La vita è un viaggio, però non un semplice viaggio di piacere; è una lotta continua e faticosa, e la fatica stanca; è un servizio militare, di cui non passiamo dispensarci; è una guerra, e guerra di vita o di morte; è un intreccio di dolori e di gioie. di fortune e sfortune, che alle volte c’innalzano fino a renderci superbi, tal altra ci deprimono fino allo scoraggiamento ed alla disperazione; è una società in cui gli uni e gli altri si sostengono mediante una rete d’associazioni, classi, stati e vocazioni distinte, ciascuna delle quali esige particolari sacrifici. sarà capace di soddisfare a tutti quegli obblighi senza farsi violenza, senza sacrificarsi, senza una gran provvista di pazienza? È necessario aver pazienza con tutti: con noi, col prossimo, e persino con Dio medesimo. Ma può darsi pazienza senza mortificazione?

3. Siamo Cristiani e non v’è cosa nel Cristianesimo che non ci obblighi alla mortificazione. Il Salvatore, che fondò la nostra Religione, non ristrette un momento dal predicarcela colla dottrina e coll’esempio. Dalla culla alla croce tutti i misteri della sua vita sono un esercizio continuo di mortificazione; la impone come condizione necessaria ai suoi discepoli e seguaci (Matt. XVI, 24), e ne fa il contrassegno e distintivo della sua Chiesa, La fede cristiana è una croce per l’orgogliosa nostra scienza, ed è l’armeria dove si trovano schierati tutti gli argomenti pel rinnegamento di sé stessi; anche i Comandamenti sono oggetto di mortificazione, e perfino i Sacramenti sono emblemi di abnegazione per ciò che rappresentano, e moventi di essa per la grazia che comunicano; insomma, giusta San Paolo, tutta la vita cristiana è un morire ed essere sepolti con Cristo (Rom. VI, 4 – Col. III, 3). Senza l’essenziale abnegazione, necessaria per evitare tutti i peccati mortali, osservare tutti i Comandamenti e resistere a tutte le tentazioni, il nostro Cristianesimo sarebbe cosa vana ed inutile. Soltanto per la spinosa via e l’angusta porta della mortificazione. Si può arrivare al cielo (Matt. VII, 44). Rigettare per sistema il rinnegamento di noi stessi, è di spiriti nemici di Dio, ed equivale a disertare dal Cristianesimo e dal concetto cristiano del mondo.

4. Più ancora: dobbiamo essere virtuosi; poiché solo per mezzo delle virtù conseguiremo il fine nostro. La via per giungervi sono le buone opere, e siccome per ben operare sono necessarie le forze, e queste precisamente sono le virtù che consistono nell’abituale energia, risulta che, in maggiore o minor grado, ci sono necessarie. Ora: tutte le virtù costano, e perciò dobbiamo abbracciare la mortificazione e lottare contro noi stessi. Da ciò risulta che non è questa un’unica virtù, ma coopera con tutte. La virtù in sé stessa è bella e desiderabile, ma la difficoltà di possederla ed esercitarla ci rimuove ed allontana. Ed ecco, che la abnegazione supera questa difficoltà; quegli che ha imparato a vincersi, possiede la chiave di tutte le virtù. – Questa è la parte importantissima che la mortificazione sostiene nella vita virtuosa.

5. Altrettanto dicasi del merito, senza del quale non si può conseguire la gloria. Non si dà merito più sicuro di quello dell’abnegazione, poiché questa va direttamente contro l’inclinazione nostra naturale, ed è libera perciò d’ogni inganno. Ma v’ha di più. Il dominio di sé stessi non solo ha il merito più certo, ma anche il più grande, in quanto che è la cosa più difficile, e per la quale è necessario esercitare le più alte virtù. Come apprezzeremo qualunque sacrificio, qualunque atto d’abnegazione, ancorché piccola, all’avvicinarsi dell’eternità, quando giungerà il momento in cui si deciderà del merito delle nostre azioni! E quanti atti di mortificazione, grandi e piccoli, potremmo praticare tutti i giorni, mettendo un po’ di cura!

6. Stando così le cose, è evidente che il miglior maestro spirituale è colui che ci anima a dominare noi stessi, il libro migliore d’ascetica quello che c’insegna l’arte della mortificazione. « Tanto sarà il profitto tuo, quanto sarà la violenza che ti farai», dice Tomaso da Kempis. È certo che la vera vita spirituale,. libera d’inganni, consiste nel conservare il cuore mondo dai peccati, nell’esercitare atti virtuosi ed estirpare le sregolate passioni, il che può conseguirsi solamente colla mortificazione, vera pietra di paragone dell’ascetica.

7. Finalmente, noi desideriamo e dobbiamo essere uomini del giorno, uomini moderni, d’attualità. Vale a dire, che, ben intesa la cosa, dobbiamo vivere col tempo, facendo nostre le sue buone idee ed aspirazioni e caldeggiandole in noi. Dio non si oppone a questo; anzi, tali ideali ed eccitamenti, sono mezzi coi quali Egli guida l’umanità sempre verso la mèta assegnatale. Si parla molto presentemente e si tratta della formazione, cultura, incivilimento e progresso in generale; e venendo al concreto, si discute circa la formazione dell’individualità, della personalità e del carattere. E giustamente; imperocchè a che giovano tutti i progressi esteriori, tutta la scienza, tutta la cultura, l’arte di governare i popoli, se l’uomo si presenta come rozzo, barbaro e d’inferiore condizione, come un mendicante, moralmente parlando, e come un misero schiavo delle più basse passioni, in mezzo alla grandezza del mondo, sua dimora, avverandosi così letteralmente il detto del profeta: La terra è piena d’argento, e d’oro, e i suoi tesori sono inesausti… ma in mezzo ad essi c’è l’uomo… incurvato e umiliato (Is. II, 7 sgg.)? Ed in che altro consiste la formazione del carattere personale e dell’individualità propria, se non nel formare, educare e rendere pronta la volontà, per tutto ciò che sa di buono, di nobile ed elevato? E come conseguire questa formazione e perfezionarla? Vincendo sé stessi principalmente. In questo modo si provano le forze della volontà, e bisogna che questa seguiti tal metodo se vuol diventare uno strumento di bene.

8. L’uomo che pratica questi insegnamenti è veramente nel posto d’onore e di grandezza, in cui era stato collocato primitivamente da Dio. Ogni atto vittorioso sulle cattive inclinazioni, l’avvicina di più al modello divino e col tempo arriverà ad essere ciò che Dio si propone di lui: un riflesso della divinità; ; un vero santuario di giustizia, di sapienza; di ordine, di bellezza, di verità e di fede. Notisi bene però: tutto questo potrà solo conseguirsi al prezzo della propria abnegazione.

CAPITOLO IV.

Proprietà dell’ abnegazione propria.

Il fine della propria abnegazione è veramente magnifico; però non ogni abnegazione può conseguirlo; ma solo la vera, che deve avere le proprietà seguenti:

1. Solidità: Non è raro il caso di trovar uomini che consentono di vincersi di quando in quando, in date occasioni, in via eccezionale, quando non possono far a meno. Ma questo non basta. Il dominio di sé dev’essere costante, radicale, premeditato, e sorga naturalmente dallo stesso metodo di vita. È d’uopo proporci seriamente di essere guardinghi, e di non lasciar passare occasione di farci violenza, altrimenti non finiremo mai di vincere le passioni sregolate e le cattive inclinazioni che continuamente ci tendono insidie e minacciano. Non bisogna dimenticare che il disordine ed il mal germe non si trovano in noi soltanto di passaggio e in date circostanze, ma che pur troppo sono l’eredità della natura che portiamo con noi dalla nascita e che saranno il perpetuo martello nostro per tutta la vita. Il male, come dice l’Apostolo S. Paolo, (Rom. VII, 23) è in noi una legge ed un abito radicato, una forza saldamente fondata. E siccome una consuetudine non può vincersi che con altra consuetudine, una legge con altra legge, una forza con altra forza equivalente alla prima, ne viene di conseguenza che chi voglia vivere sicuro bisogna che rammenti questa sentenza: « Se non vuoi che il male s’impadronisca di te, devi farti violenza e vincere ».

2. La forza di mortificarci e vincere deve, in secondo luogo, tenere presente ed abbracciare tutto. Nulla può escludere: bisogna che si estenda al corpo ed all’anima, alle potenze ed alle passioni, all’intelletto ed alla volontà. Una passione a cui non badassimo, sarebbe un nemico di più lasciato alle spalle, che potrebbe assalirci e farci cadere. Chi avrebbe pensato che l’avarizia potesse spingere un Apostolo al tradimento ed al suicidio? Ricordiamoci, infine, che ogni passione disordinata è uno spirito cattivo che può rovinarci.

3. In terzo luogo, il dominio di noi stessi dev’essere costante e senza interruzioni; imperocchè mentre noi lavoriamo d’abnegazione, non riposa il male, ma avanza, come si riproducono le cattive erbe nei giardini. Per questo suol dirsi che fa d’uopo aver sempre alla mano il sarchiello. Inoltre, far contro la propria sensualità e dominarci costa fatica, e solo coll’esercizio e coll’abito può rendersi lieve. È il caso degli animali da tiro, che una volta avviati seguono con facilità; al contrario, quante grida e quante frustate non sono necessarie perché riprendano il cammino dopo una lunga fermata! Ora, lo stesso avviene nella lotta che dobbiamo sostenere noi con noi stessi: se l’interrompiamo per alcun tempo, torniamo a sentire la stessa difficoltà che da principio. E così l’esistenza nostra viene ad essere una fatica ed un lavoro continuo.

4. L’ultima proprietà è che chi vuol riuscire vincitore non deve stare solamente sulla difensiva, ma deve prendere l’offensiva, e tenersi sempre pronto all’attacco. Questo che nelle guerre di quaggiù è un principio fondamentale, ha una non minore applicazione trattandosi della lotta spirituale, nella quale non dobbiamo attendere di essere assaliti, ma dobbiamo noi assalire, altrimenti potrebbe accadere che fossimo sorpresi, e che, quando vorremo resistere fosse troppo tardi. È sempre più facile assalire che difendersi. Nell’attacco, siamo noi che operiamo e godiamo il vantaggio; nella difesa, soffriamo e ci troviamo in condizioni inferiori. Se vuoi la pace, trovati preparato alla guerra. Questa è la tattica che nei suoi Esercizi insegna S. Ignazio: non contentarsi del puro necessario, ma progredire sempre più. Siamo tentati di oltrepassare la giusta misura nel cibo, o d’accorciare alquanto il tempo fissato per la preghiera? Ebbene, mangiamo un po’ meno, e prolunghiamo un po’ più la preghiera. Tal è il soldato che ci descrive nel Regno di Cristo: così diventeremo temibili al nemico. Queste sono le proprietà della vera abnegazione, e queste le armi dei valorosi d’Israele. Con esse, ma solo con esse, potremo tener fronte a qualunque nemico.

CAPITOLO V.

Alcune obiezioni.

Non si può negare che la vera mortificazione non è cosa da potersi prendere in giuoco, ma un’azione seria, grande e santa. Se non fosse così, come potrebbe produrre sì mirabili effetti? Senza fatica, nulla si fa in questo mondo, e ciò che nulla costa, nulla vale. Non c’è, quindi, da meravigliarsi, che in questa materia si suscitino delle obiezioni e difficoltà: è cosa di tutti i tempi, e molto ovvia e naturale.

1. La prima obiezione presenterebbe l’impossibilità di imprendere e mantenere sempre una vita sì mortificata. Il precetto dell’abnegazione fu dato dal divin Salvatore a tutti gli uomini, ed è conseguenza naturale del peccato originale. Non si può fare altrimenti: dobbiamo conformarci alla realtà; vincere o perire. rinnegare sé stessi è considerato anche dagli uomini di buon senso e Cristiani come una vera esigenza della ragione. D’altra parte, le proprietà che abbiamo più sopra numerate, nascono dal fine medesimo del dominio di noi stessi, e senza di esse è impossibile che questo possa conseguirsi. Ma ciò che Dio comanda, e gli uomini di buon senso reputano giusto; ciò che è non solo approvato ma ordinato dalla ragione, deve necessariamente essere non soltanto possibile ma anche facile. E infatti, sono moltissimi coloro che giunsero e giungono pur di presente a conseguirlo. Perché, dunque, non riusciremo noi? Aiuti e mezzi non ci mancano: non siamo soli. Deplora S. Paolo le molteplici miserie interiori che si riscontrano in noi, e termina, non con un grido di scoraggiamento, ma con una preghiera ricolma di speranza e di visione profetica inneggiando alla vittoria: Infelice me! chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio, per Gesù Cristo Signor nostro (Rom. VII, 24-25). Abbiamo la grazia, abbiamo la preghiera, abbiamo una volontà dotata di pieghevolezza e resistenza senza limiti, e non ci manca, infine, la grande fiducia di conseguire in Dio e coll’aiuto di Dio la vittoria.

2. Ma questa continua resistenza alle proprie sregolate passioni, non ci tornerà di nocumento e pericolo alla salute? Ciò potrebbe avvenire, mancando la prudenza; e questa non si avrebbe se si procedesse senza ordine, senza attendere al fine a cui dev’essere diretta la nostra mortificazione. Il fine certamente non è quello di distruggere la natura, ma d’aiutarla. Per cui non sì tosto avvenisse che le si rechi un danno reale, il procedimento dev’essere cambiato. Ora, se si trattasse di una indisposizione insignificante e passeggera, ciò non dovrà reputarsi un danno né un pericolo. Si potrebbe anche essere imprudenti, quando non si avesse riguardo all’oggetto della mortificazione, che è di opporsi soltanto al peccato, al disordine, all’inclinazione pericolosa ed inutile, non alla natura stessa ed a ciò che in essa v’è di buono e di ordinato: ché questo deve sempre conservarsi e favorire. – Altra imprudenza sarebbe il voler conseguire tutto in una volta. Finchè Iddio ci dà vita, diamo tempo al tempo; e la natura e la grazia opereranno insensibilmente. se noi saremo costanti nel lavoro. Finalmente mecchierebbesi d’imprudenza se si volesse procedere di propria testa, senza guida né consiglio. No: lasciamo che un prudente direttore ci determini il come ed il quando, e ci indichi persino fin dove dobbiamo arrivare. Tenendo presenti queste avvertenze, la mortificazione non nuocerà; al contrario, il non mortificarsi è molto più pericoloso e nocevole. Sono in maggior numero quelli che s’ammalano e muoiono per non mortificarsi e vincere sè stessi, che altri pel troppo mortificarsi; e soccombono i primi certamente con assai minor gloria! – « Ma, s’insisterà, è che essa è difficile ». Non dimentichiamo che non è meno gravoso, lasciando da parte la mortificazione, il servire a briglia sciolta le passioni. Breve è il godimento, e non resta che il rimorso. Inoltre, la difficoltà diventa leggera col tempo, e la soddisfazione interiore, la quiete e il gaudio dello spirito rendono più lievi la fatica e l’incomodo. A dire il vero la mortificazione si fa difficile, quando non si esercita con buona volontà e non si continua sempre e in tutto. Il nostro spirito è infermo e se vogliamo guarire bisogna metterci sotto cura. Quante difficoltà ha vinto questa parola: voglio; e che grandi e sublimi imprese non ha compiuto! Vogliamo, dunque; ché volendo, tutto conseguiremo.

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (III)

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (III)

INTERPRETAZIONE DELL’APOCALISSE. Che comprende LA STORIA DELLE SETTE ETÁ DELLA CHIESA CATTOLICA.

DEL VENERABILE SERVO DI DIO

BARTHÉLEMY HOLZHAUSER RESTAURATORE DELLA DISCIPLINA ECCLESIASTICA IN GERMANIA,

OPERA TRADOTTA DAL LATINO E CONTINUATA DAL CANONICO DE WUILLERET,

PARIS, LIBRAIRIE DE LOUIS VIVÈS, ÉDITEUR RUE CASSETTE, 23

1856

LIBRO PRIMO

SUI TRE PRIMI CAPITOLI

Descrizione dei sette Angeli della Chiesa Cattolica da Gesù-Cristo fino alla consumazione dei secoli, figurate dalle sette Chiese dell’Asia, dalle sette Stelle e dai sette Candelabri.

§ III.

Descrizione della Chiesa militante rivelata a San Giovanni per la sua somiglianza a Gesù-Cristo.

CAPITOLO I. – Versetto 13-20

… et in medio septem candelabrorum aureorum, similem Filio hominis vestitum podere, et præcinctum ad mamillas zona aurea: caput autem ejus, et capilli erant candidi tamquam lana alba, et tamquam nix, et oculi ejus tamquam flamma ignis: et pedes ejus similes auricalco, sicut in camino ardenti, et vox illius tamquam vox aquarum multarum: et habebat in dextera sua stellas septem: et de ore ejus gladius utraque parte acutus exibat: et facies ejus sicut sol lucet in virtute sua. Et cum vidissem eum, cecidi ad pedes ejus tamquam mortuus. Et posuit dexteram suam super me, dicens: Noli timere: ego sum primus, et novissimus, et vivus, et fui mortuus, et ecce sum vivens in osæcula sæculorum: et habeo claves mortis, et inferni. Scribe ergo quæ vidisti, et quæ sunt, et quae oportet fieri post hæc. Sacramentum septem stellarum, quas vidisti in dextera mea, et septem candelabra aurea: septem stellæ, angeli sunt septem ecclesiarum: et candelabra septem, septem ecclesiæ sunt.

[… e in mezzo ai sette candelieri d’oro uno simile al Figliuolo dell’uomo, vestito di abito talare, e cinto il petto con fascia d’oro: e il suo capo e i suoi capelli erano candidi come lana bianca, e come neve, e i suoi occhi come una fiamma di fuoco, e i suoi piedi simili all’oricalco, qual è in un’ardente fornace, e la sua voce come la voce di molte acque: e aveva nella sua destra sette stelle: e dalla sua bocca usciva una spada a due tagli: e la sua faccia come il sole (quando) risplende nella sua forza. E veduto che io l’ebbi, caddi ai suoi piedi come morto. Ed egli pose la sua destra sopra di me, dicendo: Non temere: io sono il primo e l’ultimo, e il vivente, e fui morto, ed ecco che sono vivente pei secoli dei secoli, ed ho le chiavi della morte e dell’inferno. Scrivi adunque le cose che hai vedute, e quelle che sono, e quelle che debbono accadere dopo di queste: il mistero delle sette stelle, che hai vedute nella mia destra, e i sette candelieri d’oro: le sette stelle sono gli Angeli delle sette Chiese: e i sette candelieri sono le sette Chiese].

XVIII. Ed io mi voltai … e vidi sette candelabri d’oro; vale a dire, sette chiese piene di olio delle buone opere, ardenti di fuoco e carità, illuminate dalla saggezza del Verbo divino. E brillanti, agli occhi del mondo, come lampade e candelabri. In effetti, Gesù-Cristo istituì la sua Chiesa, affinché venisse in soccorso degli indigenti con l’olio delle opere di misericordia; ché gli infermi fossero unti e fortificati; coloro che sono freddi fossero riscaldati dal fuoco della carità; che i ciechi fossero rischiarati dalla saggezza celeste; e le opere delle tenebre prendessero la fuga davanti alle opere di luce e di santa condotta. Candelieri d’oro; vale a dire: fusi nella scienza della discrezione e nella prudenza celeste, perché, così come l’oro è più stimato degli altri metalli dai re, dai principi e dagli altri uomini; e così come ha grande efficacia, in medicina, per guarire gli infermi; così pure la discrezione e la prudenza sono non solamente stimatissimi dagli uomini, ma ancor più necessari alla medicina spirituale, con la correzione fraterna. Candelieri d’oro, per mezzo dei quali sono rappresentati lo splendore, la ricchezza, la maestà, l’onore e la gloria esteriore di Gesù-Cristo, suo Sposo e renderlo splendente agli occhi del mondo, secondo la diversità dei tempi. Candelieri d’oro, cioè puliti e ben lavorati; perché come l’oro è provato col fuoco, ed il candelabro prende la sua forma sotto lo strumento dell’artigiano, così la Chiesa si consuma e si estende in longanimità, purgata dalle tribolazioni e dai colpi della tentazione.

XIX. Vers. 13. – Ed in mezzo ai sette candelieri d’oro (io vidi) uno che somigliava al Figlio dell’uomo, vestito con una veste talare, stretta al di sotto delle mammelle, da una cintura d’oro. Questo testo descrive alla lettera la persona del Cristo, che l’Angelo rappresentava, essendo costituito da Dio Padre, per essere il Sommo Sacerdote ed il Giudice dei viventi e dei morti. Questa persona del Cristo figura anche la persona, il governo e la natura della Chiesa, sua Sposa. Ed in mezzo ai sette candelieri d’oro, uno che somigliava al Figlio dell’uomo; vale a dire un Angelo che non era Cristo in persona, ma un Angelo da Lui inviato, che rappresentava la persona del Cristo: simile al Figlio dell’uomo; vale a dire, offrendo un’immagine, una similitudine o una idea di Gesù-Cristo, secondo la quale formò la sua Chiesa simile a Lui. Simile al Figlio dell’uomo; designando con ciò lo Spirito di Cristo, che mantiene e vivifica spiritualmente il corpo della sua Chiesa, come l’anima vivifica il suo corpo. Ecco perché San Giovanni scrive queste parole: in mezzo ai sette candelieri d’oro.  In effetti, il Cristo, la cui persona è rappresentata dall’Angelo, è in mezzo alla sua Chiesa come un capo invisibile, governandola, sostenendola, vivificandola, istruendola, consolandola, difendendola ed amandola; come un maestro è in mezzo ai suoi discepoli, un padre in mezzo ai suoi figli, un re in mezzo ai suoi sudditi, ed un capitano un mezzo ai suoi soldati, secondo quanto è scritto, (Matth., XXVIII, 20): « Io sono con voi tutti i giorni, fino alla consumazione dei secoli. » I suoi Angeli sono così in mezzo alla Chiesa, come dei ministri preordinati da Dio per essere a nostra tutela, nostra salvezza e nostro soccorso. Infine, quest’Angelo che è in mezzo ai sette candelieri d’oro, è anche il prototipo di tutti gli altri Angeli.

XX. Vestito di una veste talare, e con sotto il petto di una cintura d’oro. Queste parole designano questo essere simile al Figlio dell’uomo; e questa descrizione ci rivela la natura ed il governo della Chiesa Cattolica, Sposa di Cristo. 1° San Giovanni dice che lo vede vestito di una veste talare; ora, la lunga veste o abito sacerdotale che discende fino ai piedi, è l’alba. Questo abito designa l’umanità di Gesù-Cristo sotto la quale si mostrò agli uomini, essendosi reso simile a noi, coperto da un abito come un uomo e come un pontefice che potesse compatire le nostre infermità. Fu costituito da Dio Padre, Sacerdote eterno secondo l’ordine di Melchisedech, essendosi offerto al Padre una volta, sulla croce, come ostia vivente; ed offrendosi ogni giorno per noi nel Sacrificio della Messa. Ora, tale è anche la Chiesa Cattolica: essa offre, in effetti, una viva immagine del Cristo, e ci dà un’idea o un prototipo del suo divino sposo, essa è ornata da una lunga veste, cioè dalla dignità e dall’abito sacerdotale talare, per rappresentare il sacerdozio che continuerà fino alla consumazione del secolo. Il candore di questa lunga veste indica la purezza di coscienza, la semplicità dell’anima, l’umiltà di spirito e la castità del corpo, che devono sempre accompagnare il sacerdozio, E cinto sotto il petto una cintura d’oro, della cintura di giustizia e della verità di Gesù. Isaia, XI, 5: « La giustizia sarà la cintura dei suoi reni, e la fede l’armatura di cui sarà cinto » (le due parole latine lumbi e renes significano i reni, e la scrittura se ne serve ordinariamente per designare il centro della forza, come anche la concupiscenza.). Cintura d’oro, vale a dire che il sacerdote avrà molto da soffrire dal mondo a causa della giustizia e della verità, e sarà provato come l’oro nella fornace. Ora, è così che si può dire della Chiesa di Cristo, cinta sotto il petto, con i reni cinti, si comprende la mortificazione della carne, così come era prescritta nell’Antico Testamento; e per il torace cinto sotto il petto, si intende la mortificazione dell’anima, così come è ordinata nella nuova Legge. Infatti, sotto la Legge nuova, Gesù-Cristo orna e cinge nuovamente la Chiesa, sua sposa, come una cintura di oro prezioso. (Matth., V, 27): « Avete appreso che è stato detto agli anziani: voi non commetterete adulterio; ma io vi dico chi chiunque avrà guardato una donna con desiderio ha già commesso adulterio nel suo cuore. »

Vers. 14. – La sua testa ed i suoi capelli erano bianchi come la lana bianca e come la neve. È conveniente che la testa del sacerdote, come quella del giudice, abbia il candore della maturità e della saggezza. È per questo che vien detto che colui che era simile al Figlio dell’uomo aveva la testa ed i capelli bianchi come la lana bianca e come la neve. La testa rappresenta il Verbo di Dio, la sapienza eterna. Ed è detto che la sua testa era bianca come per rappresentare l’età, perché Egli è eterno, ed è la sapienza eterna del Padre. Ecco perché il Profeta Daniele dice del Cristo, (cap. VII, 9): « Ero attento a ciò che vedevo, fin quando furono posti i troni e l’Antico dei giorni si assise ». I capelli significano i Santi ed i giusti formano una folla sì grande di tutte le nazioni che nessuno può contare, etc.. In più, i capelli crescono sulla testa, sono aderenti. E ne sono l’ornamento; ora, è così che i Santi ed i giusti di Dio sono stati prodotti dalla divina Sapienza, avendo per capo Gesù-Cristo, sul quale essi si fondano; per di più gli sono connessi con la fede, la speranza e la carità, e ne sono come l’ornamento esterno o al di fuori. Perché Dio è glorificato dai suoi Santi che hanno vinto per Lui il mondo, la carne ed il demonio, per giungere al regno eterno. Infine si è qui parlato di due tipi di candore: 1° Bianco come la lana bianca; 2° bianco come la neve. 1° per i capelli bianchi come la lana bianca, si comprende tutti coloro che diverranno bianchi per le molte prove, e furono lavate come la lana nelle acque delle tribolazioni, che non potettero spegnere la loro carità. Sotto questa specie sono comprese anche coloro che si infangarono su questa terra con la melma del peccato mortale, e si lavarono in seguito come Maria Maddalena ed altri Santi nelle acque del Giordano e della penitenza, nel modo in cui si lavano le pecore prima di essere tosate. – 2° Per i capelli bianchi come la neve, si comprende le vergini e tutti quelli che, avendo conservato la loro primitiva innocenza, la porteranno in cielo al loro Sposo Gesù-Cristo. Questo come nell’Apocalisse (XIV, 5): Non si è trovata menzogna nella loro bocca, perché sono puri, davanti al trono di Dio, come la neve. In tutte queste cose, il suo capo invisibile è Gesù-Cristo, che ha formato il suo corpo, e che gli comunica interiormente la pienezza della grazia e della verità. Il suo capo visibile è, per successione continua, il sovrano Pontefice, anch’egli sacerdote e rappresentante del sacerdozio in tutti i sacerdoti che gli sono subordinati. In questi sono compresi tutti i prelati che, assistite dalla grazia dello Spirito Santo, governano e reggono la Chiesa sulla terra per Gesù-Cristo. Il capo visibile della Chiesa ha pure il candore dell’età, poiché è esistito con una successione continua dopo Gesù-Cristo fino a questo giorno, avendo schiacciato la testa a tutti i capi delle eresie. Egli ha il candore della maturità, perché la sua dottrina fu sempre sana, ragionevole e santa, e che la Chiesa cattolica ha sempre osservato un ordine magnifico nelle sue cerimonie ed in tutte le altre cosa sacre. 3° Ed i suoi occhi sembravano come fiamma di fuoco; ciò che significa la vivacità di intelletto nella conoscenza della verità. Infatti, come l’uomo possiede naturalmente due occhi, il destro ed il sinistro; così Gesù-Cristo, che è perfetto come Dio e come uomo, ha due occhi puri e perspicaci, che sono tutta la scienza della divinità e dell’umanità. Questi occhi di Gesù-Cristo sono di una vista e di una intelligenza infinita, perché Egli scruta intimamente e vede tutte le cose tanto sovrannaturali che naturali, sia buone che cattive, nel passato, presente ed avvenire. Con l’occhio destro vede i buoni con le loro buone opere, e con l’occhio sinistro vede i malvagi e le loro iniquità. (Ps. XXXIII, 18): « Gli occhi del Signore veglia sui giusti, e le sue orecchie sono aperte alle loro preghiere. Ma lo sguardo del Signore è su coloro che fanno il male, per cancellare dalla terra il loro ricordo. » Ecco perché San Giovanni aggiunge: Come una fiamma di fuoco; perché come il fuoco è un elemento semplice e terribile che prova l’oro e lo purifica, che rischiara le tenebre e rivela le loro opere, che divora e penetra tutto; gli occhi di Dio sono terribili, quando scrutano i reni ed i cuori; essi vedono e rischiarano tutto, le tenebre e le opere delle tenebre in qualunque modo nascoste. Gli occhi di Dio penetrano fin nei segreti dell’inferno, la nostra santa madre Chiesa cattolica ha pur’essa due occhi perfettamente simili. Il primo dei suoi occhi è divino; è l’assistenza dello Spirito Santo. Gesù-Cristo domandò quest’occhio al Padre, e lo donò alla sua sposa. (Jo., XIV, 16): « Io pregherò mio Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore, affinché dimori eternamente con voi. Lo spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce; ma voi, voi lo conoscerete perché Esso resterà in voi e sarà in voi. » L’altro occhio della Chiesa è la santa Scrittura, i santi Canoni, gli scritti dei Padri Santi, i Santi Concili, la teologia, la fonte di tutte le altre scienze sia naturali che soprannaturali, alle quali si fa riferimento nelle definizioni e nelle sentenze. E questi due occhi di verità e di chiarezza della Chiesa sono magnifici. (Cantic., IV, 1): « Come sei bella, mia diletta! Come sei bella! I tuoi occhi sono gli occhi della colomba. » Ora, tali sono gli occhi della sposa di Gesù-Cristo, con i quali si discerne il bene ed il male, la verità e l’errore, le tenebre della luce, che fanno il giudizio, la giustizia e la verità, e sono questi occhi che, come fiamma ardente, hanno ucciso tutti gli eretici, hanno vinto il demonio, il padre della menzogna, il dragone, la bestia, e che penetrano fino ai segreti dell’inferno.

Vers. 15.  – I suoi piedi erano simili al bronzo fine, quando è nella fornace ardente. Queste parole significano il fervore dello zelo nel procurare l’onore di Dio e la salvezza delle anime. Zelo infinito in Gesù-Cristo che discende dai cieli per noi e per la nostra salvezza, sopportando per questo scopo la fame e la sete per trentatré anni, etc. calpestò sotto i piedi il torchio della sua passione e delle tribolazioni. (Isai., LXIII, 3): « Io ero solo a pigiare il vino senza che alcun uomo tra tutti i popoli fosse venuto con me. » Conseguentemente con i piedi si intende la forza del Cristo nelle fatiche e nelle tribolazioni, e la sua pazienza invincibile per mezzo delle quali calpestava, come di passaggio, e vinceva tutte le difficoltà e le avversità che si presentarono a lui sul cammino della vita e soprattutto della sua passione. Ecco perché i suoi piedi sono chiamati simili al bronzo fine quando è in una fornace ardente. Perché come il bronzo fine che è un metallo molto duro, resiste ad ogni ardore del fuoco, e che più vi si espone, e più il suo colore diventa bello; così brillano nell’ardore delle tribolazioni e della sua passione la forza, la pazienza ed il fervore di Gesù Cristo. Ed è ancora così che i piedi della Chiesa sono il fervore della carità, che anima i Santi per procurare la salvezza delle anime. Perché la pazienza e l’umiltà dei Santi sostengono la Chiesa sulle tracce di Gesù Cristo; ed è con queste due virtù che sono come i loro piedi, che i Santi calpestano l’avversità e la felicità di questo mondo. Questi piedi di bronzo sono molto forti e durissimi nell’avversità e nella prosperità; essi bruciano del fuoco della carità, e sono esposti a questo fuoco nelle tribolazioni del mondo, della carne e del demonio. E vi resistono. Ecco perché la Scrittura dice con ragione: (Rom. X, 15) : « Oh come son belli i piedi di coloro che evangelizzano  la pace, di coloro che evangelizzano i veri beni! ». E la sua voce (era) come la voce di grandi acque. Queste parole significano l’efficacia della Parola nella predicazione e nella correzione. Perché la voce di Cristo è la predicazione, e anche il suo Vangelo dice nella sua Epistola agli Ebrei, (IV, 12): « La parola di Dio è vivente ed efficace, e più penetrante di una spada a doppio taglio e penetra anche nei più intimi recessi dell’anima e dello spirito, anche nelle giunture e nelle midolla; essa svela i pensieri e i movimenti del cuore. »  I profeti hanno parlato molto di questa voce, chiamandola verga, e anche lo spirito, o soffio della sua bocca. Questa voce è anche la grazia di Dio, di Gesù Cristo, che illumina ed eccita l’anima e che parla al cuore. Come la voce di grandi acque, come l’acqua che penetra, purifica, irrora ed è spiritualmente fertile. Si parla dell’efficacia di questa voce, che è come la voce di molte acque, nel libro dei Salmi, (Ps. XXVIII, 3): « La voce del Signore tuonò sulle acque; il Dio della maestà ha tuonato, il Signore si è fatto intendere su una grande abbondanza di acque. La voce del Signore è accompagnata da forza; la voce del Signore è piena di magnificenza. La voce del Signore infrange i cedri, perché il Signore spezzerà i cedri del Libano, e li farà a pezzi come se fossero giovani tori del Libano, o i piccoli degli unicorni. La voce del Signore fa scaturire fiamme e fuochi. La voce del Signore scuote il deserto, perché il Signore si muoverà e agiterà il deserto di Kadesh. La voce del Signore prepara [al parto] il cervo, e scoprirà i luoghi oscuri e densi, e tutti nel suo tempio manifesteranno la sua gloria. » La Chiesa ha anche una tale voce, ed è la voce dei predicatori che gridano nel deserto di questo mondo; questa voce è anche la parola di Dio espressa nell’antico e nel Nuovo Testamento. Queste voci sono le definizioni e i decreti dei Concili della Chiesa, i santi canoni e la voce del Sommo Pontefice e degli altri prelati che parlano ai fedeli. Isaia, (XLIX, 2) dice di questa voce: « Egli ha reso la mia bocca come una spada penetrante. Mi ha protetto sotto l’ombra della sua mano; mi ha tenuto in serbo come una freccia scelta; mi ha tenuto nascosto nella sua faretra. »

Vers. 16. – 7° Aveva sette stelle nella sua mano destra. Queste sette stelle significano l’universalità dei Vescovi, che vengono chiamati stelle, perché devono illuminare la Chiesa con la loro vita e la loro dottrina. (Dan. XII, 3): « Coloro che avranno istruito molti nella via della giustizia, brilleranno come stelle nell’eternità . » Viene detto di essi, che sono nella destra del Cristo, perché senza di Lui, essi non possono fare nulla di retto. (Giov. XV, 5): « Senza di me non potete far nulla. » Anche è detto che sono nella sua destra, perché posti sotto la sua potenza mediante la quale Egli a volta esalta, altre volte umilia, a volte eleva, talvolta abbassa sulla terra colui che deve essere calpestato dai piedi degli uomini. È così che Gesù-Cristo contiene nella sua grazia e nella sua potenza, designate quì con la sua destra. La Chiesa ha pure una simile destra, che è l’autorità del sovrano Pontefice, o la giurisdizione universale e gerarchica sotto la quale si trovano tutti gli altri Vescovi. 8° Dalla sua bocca uscì una spada a doppio taglio. Con la spada intendiamo la giustizia, essendo Gesù Cristo il giudice dei vivi e dei morti. Questa spada è a due tagli, perché questo giudice sarà giusto, non conoscendo né il re, né il povero; egli giudicherà il giusto e l’ingiusto,  e darà a ciascuno secondo le sue azioni. È necessario che questa spada esca dalla sua bocca, poiché la sentenza di un giudice è pronunciato dalla bocca. Infatti,  (San Matteo, XXV, 34), parlando di Gesù Cristo, dice: « Allora il Re dirà a quelli alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio”, possedete il regno preparato per voi fin dall’inizio del mondo. Perché io avevo fame e mi avete dato da mangiare; avevo sete e mi avete dato da bere. Ero forestiero e tu mi avete ospitato. Ero nudo e tu avete vestito; Ero malato e mi avete visitato; ero in prigione, e siete venuti da me, ecc. » (Ibidem, V, 41): « Allora egli dirà a coloro che sono alla sua sinistra: “Andate via da me, maledetti, nel fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e i suoi angeli, ecc. ecc. »  – Anche la Chiesa possiede una tale spada, poiché Gesù Cristo l’ha stabilita come giudice delle controversie che possono sorgere in certi momenti riguardo alla giustizia e alla fede. (Matth. XVI, 18) : « Tu sei Pietro, e su questa pietra costruirò la mia chiesa e le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa. E Io ti darò le chiavi del regno dei cieli; e qualunque cosa tu legherai sulla terra, sarà legato anche in cielo; e tutto ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto in cielo. » La Chiesa giudica dunque le cose della giustizia secondo i santi canoni, e decide ciò che è di fede, dichiarando il legittimo significato delle Sacre Scritture e di emettere sentenze di scomunica e di anatema contro gli ostinati. È quindi con ragione che chiamiamo il potere della Chiesa cattolica di pronunciare anatema e la scomunica, un potere che essa ha sempre usato e che sempre possiederà. 9. E Il volto era luminoso come il sole nella sua forza. Il volto di Gesù Cristo trionfante in cielo è la sua gloriosissima umanità, da cui si irradia la luce che è in lui, così come lo splendore della gloria eterna, volto che anche gli Angeli desiderano contemplare, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo (Giov. I, 9).  Ecco perché aggiunge: come il sole nella sua forza. Infatti, come il sole illumina il mondo, lo riscalda, lo feconda, e penetra con la sua forza le montagne, i mari e tutte le cose, così Gesù-Cristo, che è lo splendore della luce eterna. Irrora tutto ciò che è arido, con la rugiada della gloria divina; secca tutto ciò che è umido, con il calore dei desideri celesti; riscalda tutto ciò che è freddo con il fuoco del suo amore; Infine, riempie tutto con la sua bontà. Si dice del suo volto nel libro dei Salmi, (CIII, 29): « Se tu volgi la tua faccia da loro di loro, saranno turbati; toglierai loro toglierai loro lo spirito e cadranno in uno stato di debolezza e si trasformano nella loro polvere. » Il volto della Chiesa, la sposa di Gesù Cristo, è magnifica per lo splendore dello Spirito Santo, che fu versato su di essa nel giorno di Pentecoste; perciò brilla come il sole nella sua forza, cioè in un ordine molto bello, nella conformità di tutte le cose, nella magnificenza dei suoi riti e cerimonie, ecc. Brilla come il sole nella sua forza e nella magnificenza dei suoi riti e delle sue cerimonie, ecc. Brilla come il sole nella sua forza, cioè nelle sue leggi sacre in conformità con Dio, la natura e l’uomo. Come il sole nella sua forza, cioè nell’integrità, purezza e verità della sua fede. Ed è per questo che lei illumina ogni uomo che viene in questo mondo; così che se i pagani, gli eretici e gli altri infedeli guardasse il volto della Chiesa cattolica, essi potrebbero essere facilmente illuminati e convertiti alla vera fede.

XXI. Dopo avere sufficientemente descritto, dalla testa ai piedi, Colui che era simile ai Figlio dell’uomo, San Giovanni aggiunge:

Vers. 17. – Quando io lo vidi, caddi come morto ai suoi piedi. Con queste parole, si vede il terrore e la paura quasi mortale da cui fu colto San Giovanni. – Aggiunge, quindi, che cadde ai suoi piedi, affinché con questo lo Spirito di Cristo ci mostrasse che i piedi della sua Chiesa, che sono, come abbiamo detto sopra la forza e la pazienza, sarebbe stati sorprendenti e terribili, poiché la Chiesa doveva calpestare, fino alla fine del mondo il torchio delle tribolazioni, e camminare nel sangue dei martiri. Queste due parole, sorprendenti e terribili, sono davvero l’espressione dei sentimenti che si provano alla vista dei meravigliosi eventi che segnano le varie epoche della Chiesa. Infatti, che cosa terribile sono i mali che Dio permette contro la sua Chiesa onde provarla! Ma anche qual cosa strabiliante e mirabile è l’intervento della sua bontà, della sua pazienza e del suo amore in favore dei suoi eletti, in queste prove terribili! Dopo la paura ed il terrore, viene ordinariamente la consolazione.

XXII E pose la mano destra su di me. La sua destra designa la grazie e la potenza del Cristo, che Egli pose su San Giovanni, rappresentante qui la persona della Chiesa; cioè Egli pose la sua destra sulla sua Chiesa ed i suoi membri, dicendo: Non temete; come per dire: Non abbiate timore, poiché voi dovete subire orribili persecuzioni e traversare il torrente del sangue dei martiri, torrente che è piaciuto al Padre da tutta l’eternità che io bevessi per la gloria dei suoi eletti; perciò ho posto la mia mano destra su di voi, cioè la mia grazia. – La mia destra, cioè il mio potere, che non permetterà mai che vi si imponga al di là di ciò che possiate fare e sopportare. La mia destra, perché io sarò con voi in tutte le vostre tribolazioni, fino alla consumazione dei secoli.

XXIII. Vers. 18. – Io sono il primo e l’ultimo; Io sono Colui che vive; io ero morto ma sono vivente nei secoli dei secoli. Con queste parole eccita la Chiesa e noialtri che ne siamo i membri, con il suo esempio, il più ammirevole possibile, a sopportare tutti i mali; e ci conforta dicendo: Io sono il primo. Cioè Io sono Dio ed il principio di tutte le creature; e tuttavia, Io sono l’ultimo dei viventi. (Isa., LIII, 2): «Noi l’abbiamo visto, e non aveva nulla che attirasse lo sguardo, e lo abbiamo misconosciuto. Ci è sembrato un oggetto di disprezzo, l’ultimo degli uomini, un uomo di dolore, che da ciò che cos’è soffrire. Il suo viso era come nascosto. Sembrava disprezzabile e non lo abbiamo riconosciuto. Egli ha preso i nostri languori su di Lui, e si è caricato dei nostri dolori. Lo abbiamo considerato come un lebbroso, come un uomo colpito da Dio ed umiliato. Eppure è stato trafitto da ferite per le nostre iniquità, è stato annientato per i nostri crimini. Il castigo che dovrebbe darci la pace si è abbattuto su di lui, e siamo stati guariti dalle sue piaghe. » – Io sono colui che vive: Io ero morto; intendendo con queste parole: “Ecco, io sono morto davvero sulla croce, e sono stato deposto in una tomba; disperavano della mia vita e della mia resurrezione; eppure io sono veramente risorto e Io vivo, Io che ero morto. Ed ecco, Io sono vivo nei secoli dei secoli. Con queste parole, Nostro Signore Gesù Cristo ci mostra l’immortalità, e vuole convincerci e persuadere le nostre anime a sopportare morte pure con amore, dicendoci: Eccomi qui, Io, che ho sofferto un po’, sono vivo nei secoli dei secoli; cioè sono eternamente immortale e immutabile, secondo questa parola di Romani (VI:10): « Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al peccato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. » È in considerazione dell’immortalità che i santi Martiri e le vergini delicate vinsero e sopportarono con pazienza tutti i tormenti e tutte le tentazioni del secolo.

XXIV. E ho le chiavi della morte e dell’inferno. Le chiavi significano la potenza. Ho le chiavi della morte: testimonia il profeta Osea, (XIII, 14): « Morte, io sarò la tua morte. » E altrove il Signore dice anche: « La morte consegnerà i suoi morti al mio comando, al suono della tromba. Essa li renderà vivi, ecc. …. Alzatevi, morti, ecc. …. Venite al giudizio. » Farò in modo che la morte dei fedeli sia preziosi agli occhi del Signore, qualunque ne sia il genere. Ho le chiavi… dell’inferno. Vale a dire, il potere sul demone che, come il leone ruggente, gira intorno a noi, cercando di divorarci; e a cui dobbiamo resistere, forti della fede. Dell’inferno, cioè del principe di questo mondo, sia dei suoi ministri e membri che cercano con tutti i mezzi possibili di ridurvi in loro potere e portarvi via da me con innumerevoli tormenti. Ma questo principe è già stato respinto, ed è per questo che voi non dovete temere i suoi ministri. Questo è ciò che Gesù Cristo ci dice ancora in San Luca, (XII, 4): « Non temete quelli che uccidono il corpo ….. temete colui che, dopo aver tolto la vita, ha il potere di gettare nell’inferno. » Della morte e dell’inferno, perché quando quelli che sono i ministri del diavolo avranno perseguitato abbastanza, la morte li farà a pezzi per mio ordine e l’inferno li inghiottirà vivi. Non perseguiteranno contro la mia volontà, perché non permetterò che siate tentati oltre le vostre forze e renderò meritorie le vostre tentazioni. Chi ha la chiave della casa vi fa entrare chi vuole e ne esclude anche chi vuole.

Vers. 19. Scrivi dunque le cose hai viste, cioè, i mali passati che ti ho rivelato, quelli presenti o imminenti; e quelli che, per permesso di Dio, sono già cominciati o stanno per arrivare per provare la Chiesa; e quelli che devono arrivare in seguito, per provare la Chiesa. I mali che devono seguire o che arriveranno alla fine dei tempi, affinché con gli esempi di pazienza e di forza invincibile dei primi perseguitati, e di quelli che li seguiranno, e gli ultimi fedeli siano sufficientemente incoraggiati.

Vers. 20. Ecco il mistero delle sette stelle che hai visto nella mia mano destra, e dei sette candelabri d’oro. Vale a dire, ecco il mistero che Egli ci espone e ci insegna come con la proprietà delle cose e delle parole, e con le allegorie dobbiamo comprendere ed interpretare le altre cose. Con i sette Angeli si comprende dunque l’universalità dei vescovi che esisteranno nelle sette età della Chiesa. – I sette candelabri ci fanno comprendere le sette età venture della Chiesa nel corso delle quali sarà consumato iul secolo, tutto sarà ridotto in rovine; e la testa di colui che ha dominato il mondo sarà schiacciata. Le sette stelle sono i sette Angeli delle sette Chiese, e i sette candelabri sono le sette Chiese. San Giovanni descrive tutte queste cose in seguito.

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (IV)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (V)

I TRE PRINCIPII DELLA VITA SPIRITUALE (V)

LA VITA SPIRITUALE RIDOTTA A TRE PRINCIPII FONDAMENTALI

dal Padre MAURIZIO MESCHLER S. J.

TRADUZIONE ITALIANA PEL SACERDOTE GUGLIELMO DEL TURCO SALESIANO DEL VEN; DON GIOVANNI BOSCO

VICENZA – Società Anonima Tipografica, 1922

Nihil obstat quominus imprimatur.

Vicetiæ, 24 Martii 1922.

Franciscus Snichelotto

IMPRIMATUR

Vicetiæ, 25 Martii 1922.

    M, Viviani, Vic. Gen

PRIMO PRINCIPIO FONDAMENTALE: LA PREGHIERA (4)

CAPITOLO IX.

L’ Orazione mentale.

L’orazione mentale, chiamata altresì interna, è un’altra maniera di pregare. –

I. Dicesi interna, perché in essa non si fa uso d’una determinata formula di preghiera, né si pronunciano le parole; mentale, poiché anzitutto è una seria riflessione sulle verità della fede, affine di regolare la nostra vita in conformità delle medesime. Senza questa applicazione alla vita pratica, la meditazione riuscirebbe semplicemente uno studio di teologia. Chiamasi finalmente orazione o preghiera, perché la considerazione non è altro, parlando con proprietà, se non un apparecchio a pregare e trattenersi con Dio con maggior fervore ed intimità. La preghiera è sempre una conversazione con Dio; per cui, se si togliesse Dio dalla preghiera, riuscirebbe questa al più una considerazione o conversazione con sé stessi, un soliloquio.

2. Bisogna guardarsi anzitutto di pensare che la meditazione sia cosa troppo sublime e difficile e quindi ineseguibile. Nessuno potrà negare che tutti meditiamo molte volte senza saperlo. Pensando per es. se dobbiamo prenderci l’incarico d’un affare e come si debba condurlo a buon termine, che altro è se non una ben seria meditazione? Orbene, facciamo conto che questo affare si riferisca alla vita spirituale, e che pensando al medesimo preghiamo, ed avremo una vera meditazione.

3. Varî sono i metodi che sogliono darsi per meditare. Alcuni maestri di vita spirituale si contentano di proporre una serie di pensieri, atti virtuosi, riflessioni per es. di adorazione e rispetto dinanzi alla divina Maestà, atti di fede, di speranza, di carità, ecc., mediante i quali uno può intrattenersi con Dio. Sant’Ignazio insegna il metodo che consiste nell’applicar le tre potenze dell’anima, memoria, intelletto e volontà od una verità della fede, o ad alcun mistero della vita di Gesù Cristo. La memoria propone brevemente la verità, o il fatto storico, con una leggiera occhiata alla composizione di luogo fatta dall’immaginazione; l’intendimento speculativo procura di penetrare il mistero per comprenderne bene la verità, l’eccellenza, la bellezza e soavità, e l’intendimento pratico lo applica alla vita. Il sentimento dal canto suo eccita i suo corrispondenti atti d’amore o di odio a quanto si è già compreso, e la volontà abbraccia gl’insegnamenti ricevuti anzitutto mediante fermi propositi e chiede tosto la grazia di metterli in pratica. A tutto questo si suol premettere una breve preghiera preparatoria per chiedere a Dio la grazia di ben meditare. L’essenziale, quindi, di questo metodo consiste nell’applicazione delle potenze dell’anima ad una verità della fede o a un fatto storico, che secondo il suo contenuto può dividersi in diversi punti, in ciascuno dei quali possono considerarsi le persone, le parole e le azioni. Questo metodo di meditazione è semplice, facile, come dato dalla natura, molto efficace poiché in esso si occupa tutto l’uomo con tutte le sue forze per raggiungere, coll’aiuto di Dio, la verità divina e metterla fermamente e definitivamente in pratica. Per i principianti servono le regole; ma a poco a poco si va uno abituando a meditare, ed allora gli si rendono anche più facili e durevoli le applicazioni. Sant’Ignazio c’insegna ancora altri tre metodi d’orazione mentale.

Il primo consiste nel percorrere i misteri della vita di nostro Signore applicando ai medesimi ed alle virtù che vi si distinguono i sensi interni ed esterni, la vista, l’udito, il tatto, ecc. E° un metodo semplice e pratico che purifica e santifica la nostra fantasia, muove la volontà ed introduce l’intelletto nel santuario dei sentimenti e virtù del Redentore. Anche i grandi santi praticarono questo metodo d’orazione.

Il secondo metodo consiste nel percorrere i Comandamenti, i doveri del proprio stato, i sensi interni ed esterni, e vedere come ci troviamo, pentendocene di cuore e proponendo l’emendazione, se per disgrazia fossimo caduti in qualche peccato. Questo propriamente è un diligente esame di coscienza che può convertirsi in meditazione, col solo considerare in ogni parte quali sono le cose che ordinano e proibiscono i Comandamenti; e rispetto ai sensi, perché ci furono dati e qual uso ne fecero Gesù Cristo ed i santi. Vale moltissimo questo metodo per la delicatezza di coscienza, ed è un eccellente apparecchio alla Confessione.

– Il terzo metodo versa sopra una preghiera conosciuta, considerandone ciascuna parola e intrattenendovisi colla mente finché ci si presentino idee ed affetti. Questo modo di pregare offre ottimi vantaggi nelle lunghe funzioni di chiesa e quando si è stanchi o si patiscono distrazioni, e ci porta a conoscere l’intima essenza della preghiera, la sua bellezza ed elevato valore. Tanto più che è un buon aiuto insperato per far bene la preghiera vocale.

4. A chi ha tempo e facilità di meditare non si potrà mai raccomandare abbastanza, che procuri di dedicarsi quanto gli è possibile a quest’esercizio dell’orazione mentale. Quante volte Iddio nella Sacra Scrittura ci ammonisce di considerare la sua legge e d’apprezzare i di Lui benefizi! Il divin Salvatore, giorno e notte, era sempre intento alla meditazione, e lodò la vita contemplativa di Maria sorella di Marta, assicurandola che avea scelto la miglior parte. Per sé stessa la meditazione fa che la preghiera si prolunghi, gli affetti che da essa nascono eccitano il nostro fervore e desiderio, e così la preghiera consegue una forza intima di cui è priva senza la meditazione: con che crescono ed acquistano valore gli effetti della preghiera, quali sono il merito, la soddisfazione e l’efficacia. Convengono i grandi maestri di spirito che per raggiungere la perfezione, la preghiera mentale è moralmente necessaria. Deve, perciò, fra gli esercizî di pietà, occupare il primo posto nelle Case religiose, specialmente in quelle dei Religiosi di vita mista ed apostolica, i quali sono obbligati a vivere in contatto e comunicazione continua col mondo. La meditazione, prescritta in ogni Ordine dalle sue Costituzioni, fatta con diligenza, può compensare una meno rigorosa clausura ed austerità esterna. Come si potrà divenire apostolo, uomo di fede, se non si hanno presenti di continuo le verità della fede, meditandole e ruminandole ponderatamente, regolando la vita conforme ad esse e tenendole come principî fondamentali; se mediante l’orazione fervorosa non si scolpiscono nel cuore, perché diventino il capitale da cui tragga alimento la nostra vita? Senza questo deposito, si vivrà sempre meschinamente senza mai uscire dalla miseria, né arrivare ad una vita più fervorosa ed edificante. In ben diverso modo si forma e rinvigorisce lo spirito coll’orazione mentale che non colla vocale. Egli è certo che in questa si esercita la memoria, l’intelletto e la volontà, ma nella meditazione quest’esercizio è incomparabilmente più efficace, più intenso e di maggior durata, L’efficacia della meditazione continuata per lunghi anni è quella che d’un uomo di poca virtù deve fare un vero servo di Dio. Per questo un grande maestro di spirito dice che leggere pregare vocalmente e udire sermoni, aiutano molto per cominciare, ma che la meditazione, dev’essere il nostro libro, la preghiera nostra ed il nostro sermone; altrimenti saremo sempre scolari senza mai raggiungere la vera scienza. Ed ecco il perché, conchiude, sono così pochi i contemplativi tra i Religiosi, Sacerdoti e Teologi. (Gersone, Lib. di mist. teolog. prat., consid. II). – Il nostro più fermo proposito, quindi, dev’essere di meditare, se è possibile, tutti i giorni. In ogni caso quando non si possa, qualunque lettura spirituale, accompagnata da riflessioni e domande potrà servire di meditazione. Del resto dovremmo sempre preferire l’orazione mentale alla vocale, ed anche in questa se più non ci è determinata la durata, possiamo meditarne le parole e con brevissime pause fare degli atti d’elevazione a Dio dall’intimo del cuore. Una magnifica scuola d’orazione mentale sono gli Esercizi di Sant’Ignazio, la cui principal base è la meditazione: ivi si apprende a meditare, o vi si ritorna se mai ne fosse stato perduto l’uso.

CAPITOLO X.

Le divozioni della Chiesa.

Importa moltissimo per la vita della preghiera, praticare le divozioni della Chiesa.

1. Sono tutte un esercizio del culto divino ed appartengono essenzialmente agli atti dell’orazione e del servizio di Dio. L’oggetto di queste divozioni è sempre qualche cosa che deriva dalla fede, o che è in rapporto con essa; da ciò si deduce che non sono una novità. Di nuovo c’è soltanto questo, che secondo la diversità dei tempi, un fiore dell’albero secolare della fede, come colpito repentinamente da un raggio di luce, attrae a sé l’attenzione dei fedeli e risveglia nelle loro anime speciali sentimenti d’ammirazione e d’affetto, i quali, approvati dalla Chiesa, si cambiano in pratiche di pietà, che entrano a formar parte del pubblico culto. La cosa è antica; di nuovo non c’è che la luce. Questa luce procede dallo Spirito Santo, la cui azione consiste nel guidare la Chiesa ad ogni verità, nell’aprirle, secondo il bisogno dei tempi, nuove fonti di consolazione e soccorso e indirizzare l’attività sua vitale a quei fini che la divina Provvidenza le traccia lungo il corso dei secoli.

2. La preghiera è la prima e più naturale manifestazione delle divozioni, in quanto che queste appartengono propriamente alla religione, il cui esercizio principale è l’orazione. Le divozioni invitano i fedeli a pregare, e di pari passo che quest’invito va guadagnando terreno, va introducendosi altresì nella vita pratica la divozione, che a sua volta diventa un mezzo per esercitarsi nella preghiera. Merita considerazione il ricco corredo di preghiere, di feste e di cerimonie che le divozioni hanno regalato alla Chiesa. Quale decadimento e qual danno non si noterebbe nella vita della preghiera, se lasciando solo la Messa e la Comunione, si volessero togliere tutte le altre pratiche! Levate via i numerosi e svariati atti d’ossequio con cui si onorano la Santissima Vergine ed i Santi; sopprimete il bel numero di feste, preghiere ed usi della Chiesa, e vedrete come deserto e povero uscirebbe il nostro anno ecclesiastico, di quanta varietà, di quanti ornamenti e di magnificenze resterebbero spoglie le nostre chiese! Sono le divozioni che arricchiscono i giardini della Chiesa con i fiori sempre freschi della preghiera e della pietà.

3. E colla preghiera vengono tutte le grazie che le fan corteggio. Di essa sì servono come di mezzo queste devozioni, affinché si producano in maggior abbondanza le grazie che si trovano chiuse nelle verità della fede ed affluiscano nella Chiesa come ricche correnti. I frutti di benedizione che trae seco una divozione Popolare, possono molto bene rinnovare un’epoca, e infonderle una vita vigorosa e feconda. Per mezzo dei Santi, degli Ordini, delle Congregazioni Religione e delle grandi divozioni, si dice che Iddio rinnovi di continuo la faccia della terra.

4. Queste divozioni possiedono una tale attrattiva per indurre alla Preghiera, ed eccitano in tal modo la vita d’orazione in un Popolo, da far rammentare, senza volerlo, il detto d’Osea: « Io li trarrò, dice Iddio, coi vincoli propri degli uomini »; In funiculi Adam traham eos (Os. XI, 4). Come dire che mediante le divozioni discende Dio a noi per elevarci a Sé. In queste Ei s’adatta al carattere, spirito e tendenza di tutti gli uomini e di tutti i tempi; perciò esse sono tante quanti sono i tempi e gli uomini; e lo Spirito Santo ne suscita sempre di nuove. Colle medesime Egli sostiene la sua Chiesa, e la guida nell’opera cara al suo cuore, qual è di scandagliare i tesori di verità e di Sapienza che le lasciò in dote lo Sposo suo divino, e di applicare le scoperte alla capacità e necessità dei propri figli facendo risaltare per tal modo le grazie di sua bellezza, varietà e forza di adattamento. Così, accanto alle forme antiche di culto ne sorgono altre ché rompono la severità e rigidezza delle prime, e si adattano all’indole e gusto di ciascuno. Le devozioni della Chiesa sono come il grande e splendido banchetto d’Assuero (Est. I, 3 sgg.), in cui ognuno trova ciò che gli conviene e lo soddisfa; per esse ci si offre la grazia della preghiera nella forma che più conviene al nostro carattere, e con esse sembra che Dio e la Chiesa trattino di accaparrarci, per così dire, accomodandosi al nostro gusto, alla nostra predilezione spirituale, onde affezionarci alla preghiera che è il gran mezzo per conoscere la grazia. Chi oserà resistere a Dio, se Egli si abbassa così a noi? Potrebbe dirsi che le divozioni sono l’esca di cui si vale per trarci alla preghiera. Oh potesse conseguirlo a nostro favore! Nessun vantaggio a Lui risulta: vuole invece guadagnar noi alla preghiera, e per essa ad ogni bene, alla perfezione ed al Cielo.

CAPITOLO XI.

Lo spirito di preghiera.

I. Per spirito d’una cosa s’intende l’essenza, il midollo, la parte più nobile, più elevata di essa, come sarebbe l’anima ed il complesso di condizioni senza le quali non potrebbe esistere. Lo spirito di preghiera, quindi, è ciò che le dà efficacia, ciò che ad essa ci attrae e ci trattiene, ciò che infonde vigore all’orazione nostra e ciò che aiuta a farci conseguire il fine suo glorioso.

2. Lo spirito d’orazione consiste in tre cose. La prima è la stima della preghiera, la viva convinzione della sua eccellenza e dignità. Dobbiamo esser convinti che non possiamo far cosa che per sé sia migliore e più elevata, poiché pregare è mettersi in comunicazione e conversare con Dio, il massimo bene che della preghiera sì possa dire. Certamente che per volontà di Dio abbiamo altre cose importanti da fare, per es. adempiere gli obblighi del nostro stato, il che in un certo senso è anche una specie di preghiera e di servizio di Dio; ma c’è una differenza, ed è che tutto il resto che per volontà di Dio dobbiamo fare, non si riferisce a Lui direttamente, ma a qualche cosa fuori di Dio, a qualche cosa che appartiene a Lui, e che in certo modo bisogno restituirgliela; la preghiera invece mira direttamente a Dio, ed è un servigio personale della sua divina Maestà ed un atto del culto divino, e sappiamo che la virtù che ha per oggetto il culto di Dio dopo le teologali, è la più grande ed eccellente; cosa che non presenta nulla di strano se si osserva che anche nel mondo, tra gl’impiegati di corte, i più rispettati sono coloro che servono da vicino la persona del principe. Bisogna avere anzitutto una retta idea di Dio, per stimare come si deve la preghiera; perché se non si conosce Dio essa è sì poco stimata, ed anche molte volte, per disgrazia, posposta a tutto il resto. Pregare, si sente dire da alcuni, è far nulla;  la preghiera è buona per i fanciulli e per le donne, per i vecchi e gl’infelici. Noi non arriviamo a tanto; ma la leggerezza e mancanza di serietà soprannaturale e di fede viva, ci mettono in pericolo di non apprezzare come dobbiamo l’orazione e di subordinarla ad altre occupazioni nelle quali hanno la loro parte la leggerezza, la vanità o qualche altro fine mondano. Dovremmo stimare ed apprezzare la preghiera come Dio medesimo, e sotto quest’aspetto preferirla, giusta la misura de’ nostri doveri, ad ogn’altra occupazione, sacrificandole tutte ad essa, poiché è servigio e servigio personale ed eccellentissimo di Dio. A questo riguardo un profondo teologo diceva che avrebbe preferito di perdere tutto il suo sapere, anziché omettere di sua volontà un’Ave Maria sola di cui era in obbligo. – In secondo luogo, appartiene altresì allo spirito d’orazione l’intimo convincimento dell’assoluta necessità che di essa abbiamo per la vita spirituale, onde progredire nello spirito e di più salvarci. Stimiamo poco la preghiera perché conosciamo poco Dio, e non preghiamo perché non siamo convinti della nostra miseria e povertà e dell’assoluto bisogno che abbiamo di pregare: fa d’uopo aver presente che la preghiera è per noi un mezzo indispensabile e che non può surrogarsi per la perfezione e salvezza, e questo non solo perché così ha ordinato Iddio, ma per quello che essa è in sé. Se nostro Signore Gesù Cristo e gli Apostoli, la Chiesa ed i Santi Padri insistono così di frequente e con parole gravi a raccomandare la preghiera, è perché essa è basata sulla legge naturale di Dio e nella natura e disposizione dell’ordine della grazia. Il bisogno della grazia ed il precetto di Dio ci dichiarano l’imprescindibile necessità dell’orazione. Dobbiamo, dunque, pregare, se vogliamo progredire nel bene e non perderci; così che non vale il dire: « Pregare o non pregare, succederà lo stesso ciò che ha da succedere », perché è innegabile che molte cose avvengano perché si prega e molte non avvengono perché precisamente non si prega. « Ma io non so pregare ».  Impara adunque; poiché quello che è necessario, è altresì possibile. Quante cose abbiamo imparato in vita nostra più difficili della preghiera! « Il male è che io non ho fede e per questo non posso pregare ». Però la grazia della preghiera non ti manca; domanda la fede, e l’avrai; ché pregando s’impara a Credere. Il giorno in cui lasceremo la preghiera e ne faremo poco caso, saremo nuovamente esposti ad ogni pericolo, al peccato ed all’ultima rovina. La vita è un sentiero pieno di pericoli e d’insidie. Gli uomini sono per disgrazia ordinariamente tali qual è l’ambiente in cui vivono. Una grazia grande, quindi, ed un particolar favore di Dio, è di trovarci sempre in un ambiente sano, fuori d’ogni seduzione o senza provar il male che ci sta d’attorno; gli uomini privi di quest’aiuto speciale passano di pericolo in pericolo fino a perdersi. Ora, come potremo conseguire ed assicurarci questa protezione e difesa? Colla preghiera: con essa noi ci stringiamo alla mano di Dio, e se il fanciullo sostenuto dalla mano di sua madre non corre pericolo, quanto meno chi si stringe alla mano divina! Chi non vuole tenervisi, pensi lui cosa gli accadrà. La preghiera, dunque, è un mezzo indispensabile; ma è anche onnipotente: senza di essa, nulla; con essa, conseguiremo tutto. – Ed eccoci alla terza cosa; che infonde vigore e vita, all’orazione: l’illimitata fiducia in essa. Con essa noi possiamo ed otteniamo tutto, perché Dio ha impegnato la sua parola: Domandate ed otterrete! Questa fiducia consiste nell’intimo convincimento non esservi cosa che non si possa conseguire con una buona e costante preghiera. Egli è chiaro che nemmeno si debbano omettere le altre condizioni richieste dalla ragione e dalla coscienza. Chi si contentasse di pregare e si esponesse poi alle pericolose occasioni, pretendendo con ciò di non cadere, si burlerebbe della preghiera esigendo un vero miracolo. All’infuori di questo, non v’è dubbio che per la preghiera tutto è possibile, anche ciò che è più difficile e d’altissimo valore, com’è la trasformazione del cuore ed il conseguimento della perfezione. – Nel catechismo c’è una parola d’oro sopra la preghiera. Vi sì dice che la preghiera ci fa pensare come Angeli e Santi. Chi frequenta i saggi diventa saggio; il trattare frequentemente con Dio ci rende simili a Lui nei pensieri, nei principî, nei sentimenti, nelle parole ed intenzioni. Quanto più l’uomo prega, tanto più, insensibilmente e senza accorgersi ma in modo profondo e radicale, va rassomigliandosi a Dio. Fossero pur mondani i nostri affetti, a poco a poco il nostro cuore ed i pensieri nostri si muteranno; ciò che prima ci ripugnava e riusciva duro ed aspro, ci si renderà facile e soave; il mondo che trascinavaci dietro di sé, perderà tutte le sue attrattive; Dio solo e l’eternità diverranno per noi grandi e degni delle nostre aspirazioni. È questa la maggiore e più fondamentale vittoria che, contro questo fango della nostra natura, consegue la preghiera costante colla grazia che l’accompagna, i cui insegnamenti sono così teneri ed efficaci, come quelli che ricevevamo sul grembo materno. E siccome in codesta scuola senza alcuna fatica e sforzo imparavamo molte cose e molto buone, poiché apprendemmo a pensare ed a parlare, diventammo uomini e Cristiani, perché ivi era un essere caro, la madre, che abbassandosi a noi, si faceva piccina come noi, tutto esponeva come noi, e ci rassomigliava a sé, di maniera che copiammo i suoi modi di pensare e di parlare; similmente nella preghiera è Dio nostro Creatore e Padre che c’istruisce ed educa, e ci trasforma per la seconda volta a sua immagine e somiglianza in qualche cosa di sublime e divino. – La preghiera c’infonde altresì la stessa fiducia nell’esercizio del nostro ministero od in qualsiasi opera di carità a favore del prossimo, la cui perfezione e salvezza è ufficio della grazia e non della natura. È Dio il Signore della grazia; per conseguenza, quanto più intimamente stiamo uniti a Lui, tanto maggior numero di grazie si comunicheranno agli altri per mezzo nostro. Tutto ciò che è esterno e naturale non è che una spada, la quale, per quanto buona, vale ben poco se un forte braccio non l’impugna. Ciò che a Dio ci unisce è molto più poderoso ed efficace di quanto ci unisce agli uomini, perché Iddio può operare cose grandi con spregevoli strumenti; orbene, ciò che ci unisce a Dio è il soprannaturale, la preghiera. Dio esige la preghiera per l’aiuto del nostro prossimo. Dobbiamo convertire il mondo non tanto col lavoro, quanto con la preghiera: la stessa legge che ha valore per noi vale anche pel prossimo; così disponeva Dio per riservarsi l’onore e la gloria, e che non avessimo noi ad insuperbirci attribuendoci ciò che è suo. La preghiera inoltre è un mezzo assai più efficace della predicazione e di qualsiasi altro. Sempre e dovunque si può pregare, e l’efficacia dell’orazione è la più estesa ed universale. Possono poco la parola e la penna; non così la preghiera che si eleva sino a Dio e discende ricolma di frutti di benedizione, spargendo grazie su popoli e nazioni, regioni e secoli. Anche qui la storia della propagazione della fede e della riforma della Chiesa non è altro che la storia della preghiera. Quegli è migliore missionario, migliore cittadino e migliore patriota, che sa meglio pregare. Figli del secolo XX, noi abbiamo occasione di constatarlo. Vediamo dovunque i segni del lavoro più grande, più intenso e direi eccessivo, ma, disgraziatamente, solo materiale; si apprezza e stima unicamente l’attività esterna e naturale, ciò che brilla e fa rumore nel mondo, L’epoca nostra si distingue per una brama insaziabile di beni materiali. E che cosa resta in fine? Tutto passa e noi insieme; soltanto la pietà ha la promessa della vita di adesso e della futura (1. Tim. IV, 8). Prega e lavora, ecco il detto giusto, cristiano e di durata.

3. Lo spirito di preghiera, dunque, è la stima profonda di essa, il convincimento pratico della sua necessità, e la fiducia nella sua forza soggiogatrice. È una delle grazie più preziose della vita spirituale, il principio di tutte, l’introduzione ad ogni bene perfetto, il mezzo per eccellenza. Finché questo spirito dura in noi, Iddio e la virtù avranno la loro sede nell’anima nostra; con esso tutto si può sorreggere e migliorare. Al contrario, senza il medesimo, siamo messaggeri mal sicuri e Dio può fidarsi poco di noi. La maggiore infelicità sarebbe la perdita di questo spirito, poiché l’uomo allora non avrebbe più alcun fondamento né appoggio in Dio, e perirebbe senz’altro. S. Alfonso de’ Liguori, tra i numerosi ed utilissimi libri d’ascetica che scrisse, ne pubblicò uno piccolissimo, ma ch’ei giudicò, giusta la prefazione appostavi, come il più importante ed utile; tanto che osò affermare che, se per ipotesi tutte le sue opere fossero dovuto perire e questa sola si fosse conservata, sarebbe rimasto soddisfatto. È il libriccino che tratta della preghiera. — Ed ecco qui, pertanto, raccolto tutto ciò che riguarda il primo fondamento della vita spirituale; cioè: l’intimo convincimento dell’eccellenza, necessità, efficacia e facilità della preghiera.

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (II)

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (II)

INTERPRETAZIONE DELL’APOCALISSE Che comprende LA STORIA DELLE SETTE ETÁ DELLA CHIESA CATTOLICA.

DEL VENERABILE SERVO DI DIO

BARTHÉLEMY HOLZHAUSER

RESTAURATORE DELLA DISCIPLINA ECCLESIASTICA IN GERMANIA,

OPERA TRADOTTA DAL LATINO E CONTINUATA DAL CANONICO

DE WUILLERET,

PARIS, LIBRAIRIE DE LOUIS VIVÈS, ÉDITEUR – RUE CASSETTE, 23

1856

LIBRO PRIMO

SUI TRE PRIMI CAPITOLI

Descrizione dei sette Angeli della Chiesa Cattolica da Gesù-Cristo fino alla consumazione dei secoli, figurate dalle sette Chiese dell’Asia, dalle sette Stelle e dai sette Candelabri.

SEZIONE I.

SUL CAPITOLO I

L’INTRODUZIONE DEL LIBRO DELL’APOCALISSE

§ I.

L’iscrizione, l’autorità, lo scopo, e la materia del libro dell’Apocalisse.

Cap. I, vers. 1-8

(Apoc. I, 1-8)

Apocalypsis Jesu Christi, quam dedit illi Deus palam facere servis suis, quae oportet fieri cito: et significavit, mittens per angelum suum servo suo Joanni, qui testimonium perhibuit verbo Dei, et testimonium Jesu Christi, quæcumque vidit. Beatus qui legit, et audit verba prophetiæ hujus, et servat ea, quæ in ea scripta sunt : tempus enim prope est. Joannes septem ecclesiis, quae sunt in Asia. Gratia vobis, et pax ab eo, qui est, et qui erat, et qui venturus est: et a septem spiritibus qui in conspectu throni ejus sunt:  et a Jesu Christo, qui est testis fidelis, primogenitus mortuorum, et princeps regum terræ, qui dilexit nos, et lavit nos a peccatis nostris in sanguine suo, et fecit nos regnum, et sacerdotes Deo et Patri suo: ipsi gloria et imperium in sæcula sæculorum. Amen. Ecce venit cum nubibus, et videbit eum omnis oculus, et qui eum pupugerunt. Et plangent se super eum omnes tribus terrae. Etiam: amen. Ego sum alpha et omega, principium et finis, dicit Dominus Deus: qui est, et qui erat, et qui venturus est, omnipotens.

[Rivelazione di Gesù Cristo, che Dio gli ha data per far conoscere ai suoi servi le cose che debbono tosto accadere: ed egli mandò a significarla per mezzo del suo Angelo al suo servo Giovanni, il quale rendette testimonianza alla parola di Dio, e alla testimonianza di Gesti Cristo in tutto quello che vide. Beato chi legge, e chi ascolta le parole di questa profezia: e serba le cose che in essa sono scritte: poiché il tempo è vicino. Giovanni alle sette Chiese che sono nell’Asia. Grazia a voi, e pace da colui, che è, e che era, e che è per venire: e dai sette spiriti, che sono dinanzi al trono di lui: e da Gesù Cristo, che è il testimone fedele, il primogenito di tra i morti, e il principe dei re della terra, il quale ci ha amati, e ci ha lavati dai nostri peccati col proprio sangue, e ci ha fatti regno, e sacerdoti a Dio suo Padre: a lui gloria, e impero pei secoli dei secoli: così sia. Ecco che egli viene colle nubi, e ogni occhio lo vedrà, anche coloro che lo trafissero. E si batteranno il petto a causa di lui tutte le tribù della terra: così è: Amen. Io sono l’alfa e l’omega, il principio e il fine, dice il Signore Iddio, che è, e che era, e che è per venire, l’onnipotente].

La rivelazione di Gesù-Cristo. Che Dio gli ha dato per rivelare ai suoi servi ciò che deve presto accadere: lo ha manifestato inviando il suo Angelo a Giovanni, suo servo.

I. La maggior parte degli scrittori ha cura di mettere in testa dei loro libri dei titoli o delle iscrizioni, per invogliare tutti coloro tra le mani dei quali cadono i loro scritti, a leggerli ed a servirsene. È così e con altre buone ragioni che ha fatto la divina Sapienza nel presente Libro dell’Apocalisse, come si vede nel primo versetto che racchiude:

1. Iscrizione e titolo del Libro.

2. la sua autorità

3. la facoltà del Superiore.

4. Scopo di quest’opera.

5. soggetto del libro.

6. volontà del re che lo permette.

7. Brevità del tempo.

8. Modo della rivelazione.

9. Nome dello scrittore.

10. Persona dell’assistente.

II. Il primo ed il secondo punto si trovano in queste parole: La rivelazione di Gesù-Cristo. In effetti il lettore scorge nel titolo ciò che è questo libro, cioè la rivelazione dei segreti e dei misteri celesti fatta non da un uomo o da un re terreno che può mentire o ingannarsi, ma da Gesù-Cristo che non può né ingannare né essere ingannato. Queste parole dimostrano tutta la dignità e tutta l’autorità di questo libro.

III.  DIO in tre Persone, ha dato a Gesù-Cristo, inferiore al Padre secondo l’umanità, la facoltà di scrivere questo libro, affinché i fedeli pii e devoti che sono stati, che sono e che saranno nella Chiesa cattolica, che si deve considerare come il regno di Gesù-Cristo, fossero sufficientemente prevenuti delle tribolazioni che Dio ha voluto che essi soffrissero per provarli ed aumentare la loro gloria. Egli ha permesso tutto questo dall’eternità, affinché fossimo premuniti come dallo scudo di una prescienza necessaria contro tutte le avversità, tanto presenti che future, egli ha voluto che fossimo consolati dalla brevità delle nostre tribolazioni, rispetto all’eternità, resistendo con la forza più grande, confidando pienamente nel buon piacere della volontà e del permesso divino che non potrebbe eseguirsi, come si vede con le parole del testo: che Dio gli ha dato per scoprire ai suoi servi ciò che deve succedere presto.

IV. La maniera in cui Nostro Signore Gesù-Cristo ha rivelato tutte queste cose a San Giovanni fu la più perfetta, tale che non fu mai più perfetta, tale che non fu mai simile presso alcun profeta; perché essa consiste in queste tre cose:  

1. Visione immaginativa;

2. Intelligenza piena di misteri;

3. Assistenza di un Angelo.

Ora, san Giovanni ebbe questi tre soccorsi scrivendo questo libro dell’Apocalisse, come risulta dalla fine del testo: Egli lo ha manifestato inviando il suo Angelo a Giovanni, suo servo: vale a dire, Egli inviò l’Angelo (San Michele) che tenendo il posto di Cristo, a mo’ di un ambasciatore reale, apparve a San Giovanni Evangelista, per rivelargli i misteri di Dio riguardanti la sua Chiesa militante sulla terra e trionfante nel cielo, e per istruirlo esteriormente (exterius), comunicando a lui una piena intelligenza di tutte queste cose.

V. Vers. 2. –  Che ha reso testimonianza alla parola di Dio e a tutto ciò che ha visto di Gesù-Cristo. Queste parole annunciano l’autorità dello scrittore che non fu altri che San Giovanni Evangelista, questo discepolo caro al suo Maestro più di tutti gli altri, che ha reso testimonianza alla parola di Dio sulla sua generazione eterna (Jo., I): « In principio era il Verbo, ed il Verbo era con Dio, ed il Verbo era Dio; » e sulla sua incarnazione temporale: « Ed il Verbo si è fatto carne, ed ha abitato tra noi, e noi abbiamo visto la sua gloria, etc. etc. » Ecco perché egli ha aggiunto: Che ha reso testimonianza … a Gesù-Cristo … e a tutto ciò che ha visto nella sua conversazione, nei suoi miracoli, nella sua morte e nella sua resurrezione, come lo si vede nel Vangelo. Egli ha reso questa stessa testimonianza nella persecuzione di Domiziano,  confessando e predicando con la forza più grande nei tormenti, che Gesù-Cristo crocifisso è veramente Figlio di Dio e Figlio dell’uomo.

VI. Vers. 3. – Felice colui che legge ed ascolta le parole di questa profezia, e che conserva tutto ciò che vi trova scritto: perché il tempo è vicino. L’Apostolo rende qui gli ascoltatori attenti sull’utilità di questo libro il cui scopo è quello di farci acquisire la beatitudine celeste. Felice colui che legge. Questo si applica ai dottori che insegnano agli altri, con le parole di questa profezia, la giustizia e il timore del Signore, e che li fortificano nelle avversità per l’amore di Gesù-Cristo e per la ricompensa della vita eterna. Perché felici sono coloro che insegnano agli altri la giustizia, essi brilleranno come stelle nell’eternità. E felice colui che ascolta. Egli si rivolge qui ai discepoli pii e semplici che credono alle parole di questa profezia, conservando nel loro cuore la giustizia e la pazienza di Gesù-Cristo che vi sono descritte. E chi conserva tutto ciò che vi si trova scritto. Vale a dire, felice chi sopporterà i travagli e le tribolazioni, sopportandole con pazienza fino alla consumazione. Felice è l’uomo che sopporta la tentazione, quando sarà stato provato, riceverà la corona di vita che Dio promette a coloro che lo amano. Perché il tempo è vicino. Vale a dire, passa rapidamente. È come se volesse dire: il lavoro della pazienza è breve, e la ricompensa della beatitudine è eterna. Da qui le parole dell’Apostolo ai Romani, (VIII, 18) : « … perché io sono persuaso che le sofferenze della vita presente non hanno alcuna proporzione con questa gloria che sarà un giorno rivelata in noi. “

VII. Vers. 4-8 – Giovanni alle sette Chiese che sono in Asia: …. Questa Asia è una grande provincia dell’Asia Maggiore ove c’erano sette città, ed in queste città sette chiese con sette Vescovi, la cui metropoli era Efeso. San Giovanni scrisse ed inviò questo libro dell’Apocalisse a queste sette chiese che gli errano state assegnate nella separazione degli Apostoli. Questo numero sette, come per altre cose, rappresenta perfettamente l’universalità di tutte le chiese. E l’autore, volendosi conciliare la loro benevolenza ed invitandoli ad estenderla ed a leggerla, li saluta con umiltà non prendendo altro titolo che il suo nome: Giovanni alle sette Chiese, etc. . Questo nome non di meno era gradevole e riempiva di una gioia spirituale coloro che l’ascoltavano.

VIII. Dopo questo saluto viene l’augurio di beni, come tanti mezzi per accattivarsi la benevolenza: la grazia e la pace siano con voi: come a dire, io vi auguro la grazia di perseverare nel bene, la consolazione nelle avversità, il coraggio nelle prove, così come la pace del cuore e l’unità negli spiriti e la fede all’interno ed all’esterno, infine il riposo eterno. Ora tutte le cose sono dono di Dio secondo san Giacomo, (I, 17) : « Ogni grazia eccellente ed ogni dono perfetto viene da Dio e discende dal Padre dei lumi. » Ecco perché San Giovanni indica subito la fonte della vera pace e della grazia, dicendo: La grazia e la pace siano con voi. Da parte di Colui che è, che era e che deve venire. Queste parole non esprimono altra Persona che Dio, così come la sua perfezione e la sua autorità; e questa differenza del tempo passato, presente e futuro, non si vi si trova che per noi, che siamo incapaci di comprendere le cose altrimenti. Il senso di queste parole è dunque: grazie e pace a voi vengono da Dio che è ora, e che era da tutta l’eternità; che deve venire al giudizio con i suoi Santi e che deve vivere nell’eternità per sé, in sé, di sé, e per sé.

IX. E da parte dei sette spiriti che sono davanti al suo trono. 1° Con questi sette spiriti sono designati i sette doni dello Spirito Santo, che si effuse sugli Apostoli nel giorno di Pentecoste sotto forma di lingue di fuoco, e fu inviato in tutto il mondo. È per Lui che ogni grazia ed ogni pace vera fu comunicata alla Chiesa. Benché lo Spirito Santo sia vero Dio, seduto sul trono con il Padre ed il Figlio nella medesima gloria e maestà, è tuttavia detto qui che Esso è alla presenza del trono, a causa della distribuzione dei doni e delle grazie spirituali fatte sotto la forma delle lingue di fuoco. Lo Spirito Santo distribuisce questi doni secondo l’eterna volontà del Padre per la nostra salvezza; similmente è detto della Persona del Verbo: « Egli discese dal cielo per noi uomini e per la nostra salvezza. » 2° Per i sette spiriti si intende anche l’universalità dei santi Angeli che sono costituiti davanti al trono e sempre presenti, come ministri di Dio, a lavorare per la nostra salvezza, assistendo i Vescovi nel governo della Chiesa, secondo i bisogni del tempo.

X. E da parte di Gesù-Cristo, il testimone fedele della gloria, della maestà e della verità del Padre. Il testimone fedele, nella predicazione divina, essendo il Verbo di Dio, il testimone fedele, nei suoi miracoli e nell’effusione del sangue prezioso, essendosi reso obbediente fino alla morte, e alla morte di croce. Ecco perché Egli è chiamato il primo nato dai morti, vale a dire, il primo tra i resuscitati dai morti, destinato a divenire la causa o lo strumento, ed il testimone fedele della nostra resurrezione futura, dopo che avremo sofferto, gemuto e pianto in questa valle di lacrime. Ed il Principe dei re della terra: vale a dire il principe delle potenze terrestri. Avendo il potere di abbattere per l’utilità dei suoi eletti, o di conservarli a castigo dei peccatori, permettendo che essi servano e trionfino, come dice il detto San Matteo, XXVIII, 18, a consolazione della Chiesa: « Ogni potenza mi è stata data nel cielo e sulla terra. » Che ci ha amato per primo, quando eravamo suoi nemici; e che ci amato al punto da lavare i nostri peccati, sia l’originale che gli attuali, con il suo sangue innocente. E che è stato tradito e messo a morte dai nostri peccati e per i nostri peccati. Nel suo sangue, perché il Sacramento del Battesimo e la Penitenza, che lavano il peccato originale ed i peccati attuali, traggono la loro efficacia dalla sua passione benedetta. Ed ha fatto di noi il regno ed i sacerdoti. Noi fummo rigettati e cacciati dal paradiso, dal regno di Dio; e ci trovammo tenuti in schiavitù nel legami dei nostri peccati e nella servitù del demonio. Ora, il nostro Re Gesù-Cristo ci ha riscattati e ci ha costituito in un regno, o principato monarchico, qual è la Chiesa Cattolica; regno santo, mirabile e forte contro il quale le porte degli inferi non prevarranno qualunque siano gli sforzi dei nemici. E ha fatto di noi un regno, perché ci ha costituito sotto la legge santa del regno celeste, affinché Dio, il Padre del Signore Nostro Gesù-Cristo, regnasse su di noi. E noi, noi siamo popolo per l’obbedienza come Lui è nostro Re per l’impero. E di noi ha fatto un reame; vale a dire, che ha voluto riceverci come cittadini del regno celeste, di modo che non fossimo stranieri ed ospiti, ma concittadini di Santi, i servi di Dio, edificati sul fondamento degli Apostoli e dei Profeti, e su Gesù-Cristo stesso che è la pietra angolare. E sacerdoti, che non offrono più il sangue degli animali,  ma che offrono con Lui, sull’altare della croce sacra, il corpo ed il sangue prezioso di Gesù-Cristo; sacrificio infinitamente santo ed accettabile, che gli Angeli stessi desiderano contemplare, e che placa la collera di Dio, che ci hanno attirato i nostri peccati. Ed i sacerdoti che non si saziano più, come nell’antica legge, della carne degli animali o della manna del deserto; ma del corpo e del sangue prezioso di Gesù-Cristo, l’Agnello senza macchia che si offrì per essere nutrimento e bevanda spirituale delle nostre anime. Ed i sacerdoti offrono le ostie come un sacrificio di lode gradito a Dio, cioè alla Santissima Trinità, ed a Dio Padre, per la gloria del quale il Figlio ha disposto ogni cosa. A lui sia la gloria in se stesso, e l’impero su tutte le cose nei secoli dei secoli, cioè nell’eternità. Così sia. Che sia così o che questo si faccia.

XI. E perché il nostro cuore è inquieto, ed il tempo in cui gli empi trionfano su di noi ci sembra troppo lungo, finché saremo costituiti cittadini del regno di Dio, l’autore rileva le nostre anime inquiete con ammirevole efficacia con le seguenti parole: Egli verrà sulle nubi; il testo latino dice: Ecce venit cum nubibus, come se volesse dire:; ecco, il tempo è molto breve in rapporto alla pena o alla gloria eterna. Ecce, ecco: levate gli occhi della vostra anima verso i tempi passati; Essi sono passati come se non fossero mai stati, verso i tempi presenti; come passano rapidamente! E verso i tempi futuri; siccome questi si avvicinano e tutto si compie, benché noi non ci pensiamo! Pure la Scrittura dice: « Benché tardi, attendetelo; Egli vieni presto e non tarderà. » Eccolo che viene sulle nubi; il testo latino si serve del tempo presente, per far ben comprendere alla debolezza del nostro spirito che, per quanto lungo ci sembri il tempo che ci separa dal giorno del giudizio, esso è tuttavia, in rapporto all’eternità come un tempo presente, nel quale Gesù-Cristo verrà ed apparirà. « È così che verrà, etc., » Matth., XXIV, 30. La parola latina ecce, ecco, che è spesso impiegata in questo libro, vuol dire, nel pensiero dello Spirito Santo, che noi dobbiamo elevare le nostre anime ed eccitare la nostra immaginazione per comprendere qualche cosa di serio, di mirabile, amabile od orribile. –

XII. Ed ogni occhio lo vedrà, perché apparirà visibile a tutti. Ed ogni occhio lo vedrà: l’uomo libero e lo schiavo, il ricco ed il povero, il re ed il principe, i nobili ed i plebei, i sapienti e gli ignoranti, i giusti e gli empi, etc. ma tutti lo vedranno in maniera differente; perché la sua apparizione sarà infinitamente gradita ai giusti, come quella di uno sposo alla sua sposa, di un padre o di una madre a suo figlio, di un fratello ad un fratello, di un amico all’amico, e soprattutto di un salvatore ad un salvato. In effetti, Egli si presenterà ai giusti in qualità di sposo, di salvatore, di padre, di madre, di fratello e di amico. Luc. XXI, 28: « Ora, quando queste cose cominceranno ad avverarsi, sollevate la testa e guardate in alto, » (aprite i vostri cuori), « perché la vostra redenzione si avvicina.  » L’apparizione di Gesù-Cristo, al contrario, sarà terribile per gli empi e coloro che lo hanno inchiodato, come i Giudei che lo crocifissero, i soldati che lo hanno coronato di spine e flagellato il suo sacro corpo, Pilato che lo ha giudicato, Erode che lo ha deriso, il Sommi Sacerdoti che lo hanno bestemmiato trattandolo come un ladro; e noi che lo abbiamo trafitto con i nostri peccati. E coloro che lo hanno trafitto nelle sue sante membra, nei pupilli, nelle vedove, negli orfani, negli sventurati, nei poveri di cui è il protettore, l’avvocato ed il padre, e coloro che lo hanno trafitto calunniando, condannando, rifiutando, disprezzando e trattando indegnamente le persone e le cose sante e sacre, come i tiranni, che versarono il sangue innocente dei martiri a causa della fede e della giustizia; i principi, i re, i magistrati, i giudici, i tutori che avranno soverchiato e oppresso i pupilli, le vedove, etc.. Tali sono anche i dispregiatori, i detrattori, coloro che danno cattivi giudizi, gli impudichi, gli eretici, i venefici, etc..  È a tutti i malvagi che non avranno fatto penitenza che Egli apparirà come un giudice terribile, al punto da dire alle montagne: « Cadete su di noi; ed alle colline: copriteci perché non vediamo la faccia di Colui che è seduto sul trono. »

XIII. E tutte le tribù della terra vedendolo si batteranno il petto, il testo latino dice plangent se, essi piangeranno su se stessi vedendo le ricchezze della propria gloria dalle quali si vedranno privati così vergognosamente. Essi piangeranno su se stessi, gemeranno vedendo coloro che si saranno fondati su Gesù-Cristo. E diranno, pentendosi e gemendo nell’angoscia del loro spirito: « Questi sono quelli che sono stati altra volta l’oggetto delle nostre riprovazioni. » Sap. V, 3. Si, così sia.  Queste parole esprimono un’affermazione. La prima è di etimologia greca e significa le nazioni; la seconda derivata dall’ebraico, designa i Giudei; esse sono congiunte per persuadere dell’irrefragabile verità della resurrezione e dell’ultimo giudizio, perché in questo giorno tanto le nazioni che i Giudei, vedranno Gesù-Cristo come un giudice che renderà a ciascuno secondo le proprie opere, il bene o il male. E questa verità angelica è l’unica che possa meglio frenare la nostra volontà pervertita contro i piaceri proibiti della vita presente, ed esercitare in noi il timore di Dio e l’amore del bene futuro. Ecco perché questa verità è confermata efficacemente da queste due parole: Etiam, Amen. Si, così sia. Da ciò queste parole di Gesù-Cristo, Matth., V, 18: « Io vi dirò in verità, fino a che la terra ed il cielo passino, un solo iota o un solo punto non passerà che tutte queste cose avvengano. » Io sono l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine, dice il Signore Dio, che è, che era e che deve venire; volendo con ciò dire: la mia sentenza non può essere né cambiata né annullata; perché prima di me nessuno fu, e tutte le cose sono cominciate, cominciano e cominceranno da me, e non senza di me, al quale tutti converge. Egli è chiamato l’alfa e l’omega; perché l’alfa è la prima lettera dell’alfabeto greco, e l’omega l’ultima, volendo con ciò significare con queste parole che Dio è l’inizio e la fine di tutte le creature, che tutto gli è subordinato, allo stesso modo del mare da dove escono tutte le acque e dove tutte le acque finiscono. Che è, che era, e che deve venire; queste ultime espressioni si spiegano come più in alto.

§ II.

Dell’Autore dell’Apocalisse. Come San Giovanni ha visto e scritto questo libro.

CAPITOLO I. Vers. 9-12

Ego Joannes frater vester, et particeps in tribulatione, et regno, et patientia in Christo Jesu: fui in insula, quae appellatur Patmos, propter verbum Dei, et testimonium Jesu: fui in spiritu in dominica die, et audivi post me vocem magnam tamquam tubæ, dicentis: Quod vides, scribe in libro: et mitte septem ecclesiis, quæ sunt in Asia, Epheso, et Smyrnæ, et Pergamo, et Thyatirae, et Sardis, et Philadelphiæ, et Laodiciæ. Et conversus sum ut viderem vocem, quæ loquebatur mecum: et conversus vidi septem candelabra aurea:

[lo Giovanni vostro fratello, e compagno nella tribolazione, e nel regno, e nella pazienza in Gesù Cristo, mi trovai nell’isola che si chiama Patmos, a causa della parola di Dio, e della testimonianza di Gesù. Fui in ispirito in giorno, di domenica, e udii dietro a me una grande voce come di tromba, che diceva: Scrivi ciò, che vedi, in un libro: e mandalo alle sette Chiese che sono nell’Asia, a Efeso, e a Smirne, e a Pergamo, e a Tiatira, e a Sardi, e a Filadelfia, e a Laodicea. E mi rivolsi per vedere la voce che parlava con me: e rivoltomi vidi sette candelieri d’oro.]

XIV. (Vers. 9- 11) – Dopo il saluto, San Giovanni passa immediatamente alla narrazione: egli fa di nuovo menzione, come di passaggio, della sua persona, del luogo ove ha ricevuto la rivelazione, della ragione per la quale è stata fatta questa rivelazione in questo luogo, del tempo e del modo. Egli rende innanzitutto gli uditori attenti, come ha costume di fare sempre negli esordi. Io Giovanni, vostro fratello, non per legami del sangue, ma per la rigenerazione spirituale operata col sacramento del Battesimo. Vostro fratello nell’unità e la comunione dei Santi, nella carità, in Gesù-Cristo e per Gesù-Cristo, che è il Padre comune di noi tutti, secondo la rigenerazione nella vita eterna. Che ha parte alla tribolazione, ed al regno, ed alla pazienza di Gesù-Cristo. Perché è in Gesù-Cristo, che è nostro Capo, che è fondato ogni merito; ed è per l’unità della fede e della carità, che è nella comunione dei Santi, che derivano, come per una partecipazione di parentela o di sangue, i meriti dei giusti in ciascuno dei membri. Che ha parte alla tribolazione, cioè che è stato perseguitato a causa della fede di Gesù-Cristo come gli altri Apostoli, quando fu immerso in una caldaia di olio bollente. Io ho sopportato il martirio, finché mi è stato possibile, a causa del regno celeste nel quale non posso entrare se non per molte tribolazioni, così come lo stesso Gesù ha dovuto soffrire per entrare nella sua gloria. (Bisogna distinguere il senso di queste parole, per spiegarle con le parole mediatamente ed immediatamente: non tutti sono chiamati a subire le tribolazioni tali come l’autore le definisce, in maniera immediata, cioè personale, ma mediata, per cui i meriti dei martiri ci vengono applicati per la comunione dei Santi). – Da qui risulta che colui che non imita Gesù nelle tribolazioni, non lo seguirà nel suo regno. E la pazienza di Gesù-Cristo, vale a dire a causa di Gesù-Cristo che dà la pazienza, e ci consola nella tribolazione. La tribolazione differisce dalla pazienza, in quanto la tribolazione (che deriva dalle parole latine tribula, tribulatio), indica una persecuzione dei tiranni lunga, veemente e variata, per la quale l’anima paziente è messa in uno stato di angoscia di cui geme la Chiesa; mentre la pazienza esprime la sopportazione delle miserie comuni a tutti gli uomini. La parola tribolazione significa anche i tormenti di ogni genere con i quali i Santi sono provati come i grappoli sotto il torchio. E la pazienza è la virtù che la fa sopportare con uno spirito di calma. Io sono stato nell’isola di Patmos; infatti, San Giovanni essendo stato messo in una caldaia di olio bollente, non fu bruciato, ma piuttosto come un forte atleta, ne uscì più vigoroso. Egli fu inviato in esilio a Patmos da Domiziano, che successe a Tito, suo fratello, nell’anno di Gesù-Cristo 82. Ed è nel suo esilio che Dio rivelò a San Giovanni questi misteri dell’Apocalisse. Io sono stato nell’isola, etc., queste parole designano il luogo ove ricevette questa rivelazione, cioè un’isola sotto la cui figura è molto ben rappresentata la Chiesa di Gesù-Cristo; perché nella Chiesa, le cose celesti sono aperte ai fedeli come un’isola è generalmente accessibile da qualunque lato; e come un’isola è continuamente esposta alle ingiurie del mare, così la Chiesa è continuamente afflitta dalle persecuzioni del demonio, della carne e del mondo.

XV. Per la parola di Dio, e per la testimonianza resa a Gesù-Cristo. Con queste parole San Giovanni indica di passaggio la causa del suo esilio, perché non volle negare Gesù-Cristo, né cessare di predicarlo. In seguito egli aggiunge il modo della sua visione: Io fui rapito io cielo, vale a dire in estasi, nel giorno del Signore, che è il giorno destinato alla contemplazione divina. Io ho sentito nell’immaginativo, dietro di me. Per comprendere queste parole, occorre sapere che, presso i Profeti, le parole “davanti a me” designano un tempo passato; “in me” un tempo presente; e “dietro di me“, un tempo futuro; ora, siccome i principali misteri che furono rivelati a San Giovanni, quando scrive questo libro, dovranno compiersi in un tempo futuro, ecco perché egli dice: io ho inteso dietro di me una voce immaginaria, forte e squillante come una tromba. Queste ultime parole fanno vedere la virtù e l’autorità dell’Angelo che parla a nome di Gesù-Cristo, dicendo: ciò che tu vedi, vale a dire, ciò che tu che vedrai nella presente rivelazione. … ciò che tu vedi nella tua immaginazione e con l’intelletto, con piena intelligenza, scrivilo in un libro, per l’istruzione dei fedeli, ed indirizzalo alle sette chiese che sono in Asia: ad Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatira, a Sardi, a Filadelfia ed a Laodicea. Con queste sette chiese sono designate il sette Angeli della Chiesa Cattolica, vale a dire sette epoche diverse nel corso delle quali il Signore compirà ogni cosa, e schiaccerà la testa di molti sulla terra; ed il secolo sarà consumato. Ecco perché queste sette Chiese dell’Asia Minore furono il tipo delle sette ere avvenire della Chiesa, fino alla fine del mondo. San Giovanni scrive innanzitutto a queste sette Chiese, e descrive le cose di cui esse erano il tipo, come lo si vedrà più chiaramente nella spiegazione di ogni avvenimento in particolare.

XVI. Vers. 12. – Ed io mi voltai per vedere chi mi parlava. E nello stesso tempo, io vidi sette candelieri d0oro. Ed io mi girai; cioè voltai il mio pensiero, o applicai il mio spirito, per comprendere i misteri delle cose avvenire. Queste parole ci insegnano che, nella rivelazione delle cose celesti, occorre allontanare il proprio spirito dagli oggetti terrestri, e volgerli verso Dio. Per vedere chi mi parlava, il testo latino dice: ut viderem vocem, per vedere la voce, cioè vedere colui che parlava, prendendo l’effetto come causa. Come è scritto, Exod. XX, 18: Cunctus autem populus videbat voces, etc., tutto il popolo vedeva la luce, vale a dire, intendeva.

XVII. Avvertimento sulla maniera in cui San Giovanni scrive l’Apocalisse. Ci sono tre modi di vedere, di intendere o percepire qualche cosa con i sensi. Il primo è quella di vedere con gli occhi, o intendere con le orecchie, con l’operazione dei sensi; è così che noi vediamo le stelle del cielo, etc.; ed i compagni di Saul (di Paolo) intesero la voce di Gesù-Cristo. – La seconda è quando, addormentati o svegli, vediamo in spirito, o noi comprendiamo, per delle visioni o immaginazione, delle cose che ne figurano un’altra. In questi casi, i nostri sensi esteriori sono elevati dal Signore in maniera sì ammirabile ed ineffabile, che la persona che è messa in stato di estasi, comprende gli oggetti che gli sono presentati, d’una maniera più certa e più perfetta di quanto alcun uomo potrebbe vedere, intendere, sentire o capire un oggetto qualunque, fosse pure dotato dei sensi migliori. – La terza maniera ed intellettuale, è come quando vediamo una cosa con il solo pensiero, senza il soccorso delle immagini per le quali le cose si presentano a noi come figurate. Ora tutto ciò ha luogo presso i Profeti, per volontà di Dio, in quattro maniere:

1° Con l’oscurità della fede; quando il profeta non riconosce evidentemente che Dio parla; ma essendo elevato al di sopra della natura da una luce celeste, rimarca che è Dio che parla.

2° Con l’evidenza in colui che attesta. È allorché l’animo del Profeta è elevato ed illuminato da un tal soccorso, così che riconosce evidentemente che è Dio o un Angelo che gli parla.

3° Se non scrive le cose che vede così.

4° Infine, se lo stile naturale e l’eloquenza del profeta sono elevati in ciò che egli scrive, di modo che la sua penna corra, per così dire, con la più grande rapidità, e l’uomo scrive senza fatica, e conosce in tutto o in parte ciò che scrive, a seconda che Dio lo voglia per il suo buon piacere o per la nostra utilità. – Ora questa Apocalisse fu rivelata a San Giovanni l’Evangelista, il più grande di tutti i profeti, nella maniera più perfetta. Infatti egli vede e comprende tutti questi misteri, per delle visioni immaginarie e per il soccorso dell’Angelo che lo assisteva ed illuminava evidentemente la sua anima. È per questo che dice: Io sono stato rapito in spirito, nel giorno del Signore. Volendo significare, con queste parole, che la sua santa anima, rapita in estasi, vide, intese e comprese, con il soccorso dello stesso Angelo, tutto ciò che ha scritto in questo libro.

L’APOCALISSE INTERPRETATA DAL BEATO B. HOLZHAUSER (III)