IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (1)

IL PAGANESIMO ANTICO E MODERNO (1)

OTTO DISCORSI DETTI DAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.

NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862 IN ROMA

ROMACOI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862

AL LETTORE

La opportunità, che il soggetto, trattato in questi discorsi, parve avere alle condizioni del nostro tempo e della presente Italia, ha fatto giudicare, che potrebbe riuscire di qualche comune utilità il metterli a stampa. E per questa ragione medesima si è altresì passato per sopra a quella probabilità, che pure vi è non mediocre, che essi, essendo letti, non siano per trovare tutta quella indulgenza, colla quale furono ascoltati. Che poi quel soggetto sia singolarmente appropri alle nostre contrade, potrà intenderlo chiunque conoscendo le condizioni di queste (e chi può ignorarle sotto il peso della terribile lezione, che Iddio sta dando all’Italia?), corra coll’occhio gli argomenti posti in capo a ciascun discorso. Da essi si rileverà leggermente, tutti essere indirizzati a combattere quella non tanto dottrina che pratica, la quale è la radice segreta delle gravi calamità, che affliggono la patria nostra, e sarebbe delle più gravi che la minacciano. Quella fu chiamata Cristianesimo civile, Naturalismo, Razionalismo sociale o individuale, e non si sa come altro. Ma è sempre la super pretensione di ordinare l’uomo privato ed il pubblico coi soli elementi fornitici dalla natura. Ora questa fu proprio la condizione dell’antico Paganesimo; e comincia ad essere ancora del Paganesimo moderno: il quale è tanto più reo ed abbominevole dell’altro, quanto che l’antico pur camminava al Riparatore venturo, laddove il moderno ripudia il Riparatore venuto. Soggetto, come ognun vede, vastissimo, siccome quello che abbraccia tutto l’uomo, come particolare persona e come membro del consorzio domestico e civile; e ciò nel doppio ordine naturale e sovrannaturale. Ma di tanta amplissima svariatezza non si essendo potuto che toccare alcuni capi precipui, si sono scelti quelli che meglio rispondevano al bisogno del tempo moderno ed all’indole sacra di discorsi dovuti dire, non in adunanza accademica, ma nel tempio di Dio. – Questi discorsi sono ora pubblicati in forma forse meno incompiuta, ma certo più piena di quella, onde, nella Chiesa di Sant’Andrea della Valle, furono detti. Essendosi chi li diceva prefissa la legge di non oltrepassare, parlando, lo spazio di un’ora, ogni qualvolta gli avveniva di aggiungere, nel calore del dire, qualche tratto non compreso nella tela divisata, era costretto ad omettere qualche altro presso che uguale. Ma dallo spazio nello stampare non si avendo quel costringimento, che pure si volle avere dal tempo nel favellare, i discorsi si sono potuti dare alla luce nella loro integrità; tanto che, comprendendo fedelmente tutto quello che fu detto. Contengono altresì qualche parte, e non breve, la quale, per la ragione sopra indicata, nel dirli fu preterita. – Da ultimo si vuole notare, che, nel concepire questo piccolo lavoro, non si ebbe alcuna idea che esso dovesse mai essere dato alla stampa. E così nelle varie autorità che vi si citano, bastò che fossero sicure, senza che si vedesse alcune necessità di cercare i luoghi precisi, ove quelle si tenevano; ed il più spesso alcuna necessità di cercare i luoghi precisi, ove quelle si trovano; ed il più spesso furono appuntati dalla memoria. Ora che va sotto degli occhi, sarebbe certo stato uopo di riscontrare e verificare le singole appellazioni. Ma essendo mancato il tempo e l’agio di farlo, se alcuna inesattezza per questo rispetto sarà occorsa, si lascia alla gentilezza del lettore il condonarla; ed egli si accorgerà forse, nel leggere, che quella non è né la sola, né la precipua occasione, che avrà di mostrarsi gentile.

Roma, 5 Febbraio 1862.

DISCORSO PRIMO

ARGOMENTO

La considerazione della Epifania è opportunissima alla Cristianità raccolta dal Paganesimo, alla moderna società che piega ai pensieri ed agli amori pagani, e soprattutto, a Roma che fu il centro dell’antico Paganesimo.

Un drappello di Re, o sapienti che fossero i Magi, i quali, con tutto lo sfoggio della pompa orientale, con salmerie di servi, di cammelli e di dromedari, muovono alla ricerca di un Re neonato; una stella fulgidissima che, di nuovi splendori rallegrando il firmamento, scorge a quelli il cammino; una città regale che all’annunzio di quel nato Re si conturba, ed un altro Re che, punto di sospetti ed agitato da gelosie di Stato, si volge, a fine di assicurarsi in capo la corona, alle più scaltrite arti di volpina politica, e vi resta deluso; sono questi, miei riveriti uditori, altrettanti obbietti degnissimi della vostra considerazione, ed i quali certo potrebbero non mediocremente allettarvi colle attrattive del grandioso, dello straordinario, dell’inaspettato. Ma nei Misteri della nostra Fede, più che le apparenze della corteccia, si debbono considerare le realità del midollo; più che il seguito di fatti, spesso non dissomiglianti dai naturali, si deve tenere l’occhio ai sensi misteriosi, onde quei fatti stessi sono l’indumento e l’involucro; sicché ben meritano il nome di Misteri, in quanto che recano nascosa in grembo alcuna cosa di segreto, di arcano e da sensibili apparenze velato. Certo di questo Mistero appunto della Epifania disse il Magno Leone, non potere essere vuoto di profonde significazioni ciò che accadeva così fuori d’ogni uso naturale ed umano: ut confestim advertatur, non esse otiosum, quod tam in solitum videbatur (Serm . I. in Epiphan.). Non tanto dunque la Epifania per sé medesima, quanto l’arcana significazione, ond’è fecondo quell’alto.

I. Mistero, rende insigne questa splendida solennità, renderà a voi di segnalata utilità spirituale lo assistervi, e rende a me singolarmente caro il potervi, col ministerio della mia voce, in qualche modo contribuire. Né questa utilità spirituale per le vostre anime, la quale io mi prometto dalla considerazione della Epifania, è quella utilità generale, che più o meno può cogliersi da tutti e singoli i Misteri della nostra fede. Questa della Epifania ha un’opportunità tutta speciale al nostro Cristianesimo raccolto dalla Gentilità; ha opportunità più speciale ancora alla condizione della moderna società, nelle cui inclinazioni poco dissimulate ad un assoluto Naturalismo molti lamentano un ritorno ai pensieri ed agli affetti del Gentilesimo; da ultimo ha una opportunità specialissima a questa vostra Roma, la quale di quella Gentilità stessa fu il centro e, per così dire, l’acropoli e il propugnacolo. E questa singolare opportunità credo io essere stata la ragione, perché un tale Mistero volle specialmente prescelto ad essere solennizzato ogni anno, con pompa unica in quest’Ottavario, quell’apostolico e piissimo Sacerdote, che vive ancora nella vostra memoria, o Romani, e che, morendo, vi lasciò, dolcissima eredità di affetto, una famiglia a sé nello zelo e nella pietà somigliante. (L’ab. Vincenzo Pallotti, di pia e venerata memoria, morto nel 1850, fu l’istitutore dell’Ottavario solenne in onore dell’Epifania, nel quale sono stati detti questi Discorsi; e la Congregazione di Sacerdoti, da lui fondata, ne ha ora tutto il pensiero.). Tant’è, Signori miei! Tra tutti i Misteri del Redentore, io mi avviso non esservene alcuno più appropriato ai bisogni presentissimi dei nostri tempi e delle città nostre, di quello che sia il Mistero della Epifania; e se questo fu la cagione precipua dell’essersi istituita in Roma la presente splendidissima solennità, questo può essere altresì la cagione per voi di assistervi con frequenza, con raccoglimento, con verace desiderio del vostro spirituale profitto. Siate pertanto contenti che io mi fermi quest’oggi a mostrarvi appunto la singolare opportunità della Epifania al nostro tempo, ai nostri uomini ed alla vostra città, per quindi alla fine divisarvi il modo, onde intendo ragionarne nei seguenti Discorsi. Non facendo io professione, né avendo esercizio di predicare, e distratto in cure molto lontane da tal ministero, sento pur troppo, e me ne duole, che potrò ben poveramente rispondere allo splendore di tanta solennità ed alla gentilezza della vostra espettazione. Tuttavolta mi conforto al pensare, che quel poco di franchezza nel ragionarvi e quel non poco desiderio del vostro bene, che altre volte vi fè non ingrato al tutto questo mio dire, possa, eziandio nella presente congiuntura, tenervi vece di altri pregi, che sento di non avere. Incomincio.

II. Epifania è greca voce che suona propriamente manifestazione; ed indica e rammemora e solennizza quella pietosa dispensazione, onde il Verbo Incarnato, fino dai primordii della sua infanzia, degnò manifestarsi ai Gentili. Chiamansi poi col nome di Gentili, di Gentes o di Nationes quei popoli che gli Ebrei appellavano גוים (goim) ed i Greci ebraizzanti dicevano Ethnici da Ἐθνῆ [etne]; i quali poscia furono detti ancora Pagani, quando, scacciata dalle città, la idolatria riparò nei luoghi appartati, com’erano i villaggi, detti latinamente Pagi: onde, Pagani, Paganesimo ed altre voci affini si derivarono. Col nome, pertanto, di Pagani o di Gentili intendevansi tutti i popoli diversi dal giudaico; il che vuol dire tutto quasi il genere umano, di cui il popolo giudaico era piccolissima parte, poco conosciuta e meno apprezzata nel mondo, soprattutto dall’Occidente e nel tempo, in cui apparve il Redentore. Ma se la famiglia di Giacobbe era poco considerata dagli altri popoli, gli altri popoli erano spregiati, vilipesi, quasi abbominati dalla famiglia di Giacobbe; la quale avea in conto di barbari i Gentili, e li riputava esclusi dalle promesse divine, come vedeali infatti da se separati nel culto di Dio. Vero è che la vocazione dei Gentili alla Fede era stata in cento luoghi vaticinata nelle Scritture, e specialmente Isaia l’aveva altamente prenunziata e nelle sue più piccole circostanze descritta. Vero è che Noè medesimo, nel maledire alla irriverente petulanza del figliuolo Cham, non pure avea predetto che la stirpe di Giafet saria stata coerede con quella di Sem, che volea dire la Gentilità col popolo giudaico; ma avea di più adombrata la riprovazione di questo e la elezione di quella nella parola simbolica, che Giafet sarebbesi dilatato ed avrebbe abitato nei tabernacoli o nelle tende di Sem: Dilatet Dominus Iaphet et habitet in tabernaculis Sem (Gen IX, 27). Ma non fu questo il solo caso, che la protervia del popolo giudaico o non intese od intese a rovescio gli oracoli divini; e quando esso era stato per grazia eletto ad essere il primo, si arrogò superbamente il privilegio di esser il solo, meritando con questo di non esser neppure l’ultimo, almeno finora e siccome popolo. Intanto quel dilatet noetico si cominciò ad avverare; e le nazioni coprirono la faccia della terra, furono quasi il tutto del genere umano, senza che né esse sospettassero, né altri attribuisse loro quella salute, che pur dovea essere universale, e che con tanti vaticinii era loro stata promessa nelle Scritture. – Ora sapreste voi dirmi quali e dove sono gli eredi legittimi di quella salute manifestata alle genti? Sapreste dirmi qual fu il principio di quella fortunata manifestazione? O signori miei, io non posso pensarvi, senza sentire alta commozione nel cuore, e senza che gli occhi misi gonfino di lacrime! E voi che siete Cristiani e pietosi, se vi porrete mente, sono sicuro ne sentirete simigliantissimi effetti. O si! Gli eredi del Gentilesimo siamo noi; noi popoli giapetici che copriamo la colta Europa, e che travalicando le colonne erculee ed il vasto Atlantico, mandammo insieme col sole tante migrazioni alle plaghe occidue di ambedue le Americhe; noi siamo la stirpe di Giafet, noi i tardi nipoti delle generazioni cieche ed idolatre. Che se da esse non ereditammo la cecità della mente e l’idolatria, lo dobbiamo alla pietosissima vocazione di Cristo. Udirono, sì, udirono gli ave nostri la grande parola di San Leone: « Oh, entri tra i Patriarchi la pienezza delle genti; ed i figliuoli della promessa accolgano quella benedizione nel seno di Abramo, la quale i figli della carne ripudiarono. » Intret, intret in Patriarcharum familiam, gentium plenitudo, et benedictionem in semine Abrahæ, qua se filii carnis abdicant, filii promissionis accipiant (Serm. 33). Signori sì! Signori sì! ed intendetelo bene; chè questo è punto capitalissimo. Se noi, in luogo di adorare stupidamente divinità spietate od impure, conosciamo ed adoriamo in ispirito e verità la Triade sacrosanta in un solo Iddio; se in luogo dell’orgoglio feroce, della lascivia sfrenata e della forza prepotente, noi conosciamo e pratichiamo la serena umiltà, la casta temperanza e il santo impero della ragione e del dritto, noi lo dobbiamo alla graziosa vocazione di Dio, qui eripuit nos de potestate tenebrarum, et transtulit in regnum fili dilectionis suæ (Coloss. I,  12). E disse bene l’Apostolo : eripuit « strappò; » perché davvero non fummo noi, no! che ci separammo da quella sozza e sanguinosa orgia di quaranta secoli, che era oggimai il Paganesimo: fu Dio che ce ne trasse di viva forza: eripuit nos. Non fummo noi che, per propria elezione, ci aggiungemmo a questo regno beato di dilezione, di decoro, di pace e di speranza, che è il Cristianesimo: fu Dio che vi ci trasportò, noi neppur consapevoli, e, quasi che non dissi, noi renitenti: transtulit nos. E l’Epifania del Redentore fu appunto il felice istante, in cui quella nostra vocazione ed elezione venne iniziata. Già il Crisostomo aveva detto che Cristo, fin dagli inizi aveva dischiusa la porta ai Gentili, ab ipsi statim initiis ostrium gentibus aperuit (Hom. VI in Matth.); ma San Tommaso, notò appresso, che i Magi furono le vere primizie del Gentilesimo, e che quella manifestazione fatta ad essi fu come un saggio della più piena che dovea venire appresso: quædam praelibatio plenae manifestationis, quæ erat futura (S. Th. III p. q, 36 a 4). Anzi in quel fatto san Leone vede raccolta, come in compendio, tutta la economia della conversione del Gentilesimo, senza che vi mancassero le vestigia della illuminante grazia nella stella, e delle persecuzioni dalla parte dei Pagani nell’empio Erode, del martirio negli uccisi innocenti. Eccovi le espresse sue parole: In stellæ fulgore Dei gratia , et in rege impio crudelitas paganorum, et in occisione infantium cunctorum martyrum forma præcessit (Hom. VIII in Epiph.). Pertanto se noi siamo il Cristianesimo raccolto dalle Genti, ossia dalle nazioni pagane; se ogni nostro bene temporale ed eterno si deriva fontalmente dall’essere noi stati così eletti e chiamati; se di questa elezione e di questa chiamata l’inizio, l’attuazione e l’adombramento si compì nella Epifania; deh! miei amatissimi, con quanta riverenza non dovremmo noi proseguire questa festa di quanto amore prediligerla! con quanto studio non dovremmo applicarci a penetrarne le arcane significazioni, a ponderarne le promesse ineffabili e le speranze immortali che essa ne inspira!

III. E pure (che giova dissimularlo?) mi vien forte a temere, non forse alcuni pretesi sapienti del nostro tempo stentino a capire, come io pregi tanto questa vocazione del Gentilesimo all’Evangelio, e neppure saprebbero intendere, come e perché i Santi Padri l’abbiano tanto magnificata. Usi dalla fanciullezza ad una improvvida ed esagerata ammirazione della grandezza pagana; studiata da giovani una storia, che è cospirazione faziosa contro del vero, ed una filosofia che ripudia ogni autorità ed ogni tradizione; gonfi, non so bene se il capo o il cuore, di superbie smisurate intorno alle forze della umanità ( è questa la propria loro parola), essi non bastano a vedere qual bisogno vi fosse di quella trasformazione del Paganesimo; pare loro che la perfettibilità naturale dell’uomo avrebbe di per sé sola raggiunte le parti accettabili dell’Evangelio; e per poco non dicono, bestemmiando, che Cristo avrebbe fatto miglior senno a lasciare le cose come trovolle, venendo al mondo. Dall’altra parte giudici pregiudicati ed ingiusti della grandezza cristiana, essi non vi trovano nulla che li satisfaccia; e per loro l’eroe pagano sovrasta di gran lunga all’Evangelo, senza che sappiano scorgere, in tutti i fasti Cristiani, cui paragonare al buffone attico, come Arnobio chiamò Socrate, o al soggiogato dal Re di Bitinia, come dalla soldatesca licenziosa fu salutato Giulio Cesare. In somma se per cotesti traviati è molto problematico il benefizio della vocazione della Gentilità alla Fede, essi non debbono avere in gran capitale il Mistero dell’Epifania, il quale appunto quel beneficio rammemora ai Fedeli, per eccitarne in essi la riconoscenza. – Ora tutto questo dimostra appunto, quanto sia appropriata al nostro tempo, la considerazione dell’Epifania e dal significato onde fu essa il simbolo alla stess’ora ed inizio. Perchiocché tutto quel discorso fatto oggimai comune a moltissimi, se non nella teorica, nella pratica, dimostra che la società moderna ritorna a gran passi al Paganesimo; e senza suscitarne la grossiera idolatria, vi torna coi pensieri, cogli amori, colle inclinazioni, colle opere, colle parole, talmente che di sotto a questo immenso sepolcro, che è il suolo romano, si levasse redivivo il popolo il popolo coetaneo già agli Scipioni e ai Coriolani, e senza guardare ai nostri templi ed al nostro culto, attendesse solo ai pensieri, alle aspirazioni, ai parlari di non pochi, ahimè, io non credo io non credo che si accorgerebbe essi devariare gran fatto da loro se non fosse dalla prostrazione degli animi e nella fiacchezza dei propositi. Pertanto, essendosi nel tempo nostro da molti sconosciuto radicalmente l’insigne beneficio della vocazione del Paganesimo alla Fede, fino quasi ad agognare al ritorno di quella bugiarda grandezza defunta; deh, quale migliore opera potrebbe oggi farsi che mostrare e far sentire quello che fosse in realtà il Paganesino, in cui languiva l’antico mondo; quello che sia in realtà il Cristianesimo, e che fu tramutato, per quindi fare giusta stima della vocazione di quello a questo ? Ed a ciò fare donde potremo trarre più opportuna occasione, che dal Mistero della Epifania, il quale appunto di quella vocazione fu l’inizio e, diciamo così, l’inaugurazione fortunata? Oh sì, pur troppo è vero! E per quanto sia doloroso il dirlo bob sarebbe rimedio sufficiente a guarire il male il tacerlo. Il nostro mondo, ed al presente, più di qualunque parte del mondo, la nostra Italia, per la fede debilitata, e pel mal costume ringarglialdito, comincia pur troppo ad avere pensieri, affetti, desideri, poco dissomiglianti dai gentileschi, né vi credereste che a questo sia uopo adorare gli idoli: oh! Niente affatto! Il Paganesimo nella sua parte costitutiva, o vogliamo dire nella sua ragione formale di essere, non importava altro che Naturalismo, come io nei seguenti giorni vi verrò mostrando. Ora se voi mirate la cosa pubblica e la privata, se attendete ai discorsi che si intrecciano, se leggete i libri e le effemeridi  che si stampano, se ponete mente alle inclinazioni che si manifestano, voi in quelli ed in queste appena troverete altro, che la natura e la natura sola e la natura sempre. E  nella società che professa le idee nuove del secolo, quale è ramo della letteratura e della filosofia, qual parte delle scienze economiche o delle sociali, quale tratto di storia o quale estetica di arti belle, quale appartenenza domestica o civile o politica vi ha oggimai, che serbi un vincolo di attinenza colle Rivelazione? Anzi quale non ha fatto pieno ed assoluto divorzio della Rivelazione stessa, presumendo di tutto trarre da questo povero fondo dell’intelletto umano, il quale allora solo può essere buono a qualche cosa, quando è conscio della sua debolezza ed ha la modestia di confessarlo a sé e ad altrui? Che se alcuna cosa pur si ritiene dalla Fede o nella teorica o nella pratica; ciò è solo quel poco che si acconcia alle nostre disordinate abitudini, che non iscomoda, che favorisce anzi le nostre passioni ed i nostri interessi, e soprattutto che non si leva sopra quello, che alla losca nostra ragione piace tenere per vero. Il qual bisticcio di alcuni pensieri ed affetti tolti dall’Evangelio, commisti e manipolati coi pensieri e cogli affetti. della guasta natura, è propriamente quel Cristianesimo civile, messo in voga, già sono tre lustri, il quale molti dicono di professare, e del quale io non so se e quanto sia civile, ma so di certo che non è cristiano. La mercè di questo nuovo trovato, noi, incapaci e svogliati di levarci alle altezze limpidissime della Fede, pensiamo di aver ottenuto gran cosa, quando abbiamo fatto declinare la Fede alla nostra bassezza, snaturandola e stremandola del più splendido suo carattere, di essere cioè qualche cosa più alta, che noi omicciattoli non possiamo immaginare. Ora cotesto Naturalismo introdotto e dominante nel moderno mondo, è puro e pretto Paganesimo; ma Paganesimo tanto più reo e condannevole, che non era l’antico, quanto che questo moderno è effetto di una pratica apostasia da quella Fede, a cui l’antico era ordinato, e la quale esso abbracciò con tanta alacrità e devozione. Paganesimo redivivo che dello spento ha tutte le servilità e tutte le abbominazioni, senza la originalità e la grandezza; non essendo la grandezza pagana cosa possibile; a risuscitare, e chi lo ha tentato, non è riuscito che a scimmiature sguaiate, che sarebbon ridicole, se troppo spesso non fossero state atroci. Paganesimo disperato, perché nessun Balaam gli ha promessa una stella di Giacobbe, come all’antico, il quale pure aspettava una chiamata; laddove il nostro, nato dalla corruzione del Cristianesimo, o piuttosto da una civiltà decrepita ed ingancrenita, non aspetta altra chiamata, che quella dell’eterno Giudice, che lo condanni di tante abusate misericordie. Di questo Paganesimo se qualche alito, miei dilettissimi, vi avesse mai offeso, e permettete all’amor che vi porto, il dubitarne od anche solo il temerne, voi non potrete trovarvi migliore rimedio, che la considerazione devota e ragionata dell’Epifania.

IV. Ma oltre a quella ragione generale e comune a tutta la Gentilità convertita, che vuol dire a tutto il Cristianesimo; oltre a questo meno comune ed attenentesi alle inclinazioni della moderna società, egli vi ha nelle condizioni speciali delle città, in cui vi parlo, una peculiarissima ragione di tributare ossequio tutto singolare a questo Mistero della Epifania. E chi siete voi, o ascoltatori? Voi, sì! Voi siete gli eredi ed i discendenti di quei prischi Romani, i quali avendo incentrata in loro tutta la grandezza e la potenza pagana, parve che tutto il Paganesimo fosse trionfato dalla Croce, quando quei vostri maggiori furono conquisi alla Croce. Noi ci troviamo sopra le ruine di quella Roma che, fatta rocca e propugnacolo della Idolatria, come parlò il Magno Leone, s’immaginava di possedere una splendida Religione, perché nessuna superstiziosa insania avea rifiutata: Magnam sibi videbatur assumpsisse religionem, quia nullam respuerat falsitatem (Serm . I. in Nat. App . Petri et Pauli.). Sopra quella Roma che a tutte le più nefande deità innalzò are e delubri, sgozzò vittime e bruciò incenso, meno a quel Dio Ottimo, Massimo, che solo n’era degno, come Arnobio le gettò in viso. – Ora come foste voi cangiati in un’altra cosa da quel che furono i vostri antichi? Come per questa Roma fu fatale l’essere, non capitale di di non so che regno sgangherato e fallito prima di nascere, ma reina e reina sempre del mondo; sì che non dovendo più imperiare sui popoli per la prepotenza delle armi, cominciasse a reggere l’orbe tanto più nobilmente per la santità augusta della Religione! Quisquid non possidet armis religione tenet (Prudenzio, Carmina). Chi non ravvisa il dito di Dio in questa portentosa trasformazione d’una in altra grandezza, per forma nondimeno che la profana grandezza, dovendo pur essere per sé medesima ostacolo insormontabile alla sacra, riuscì tuttavolta ad esserne fondamento provvidenziale ed apparecchio? Chi non vede come l’unità del mondo romano, opera di otto secoli e tra le umane la più stupenda, fu ordinata a fare da substrato alla unità più vasta e più duratura del mondo cristiano? O miei fratelli! fate di entrar bene in questo pensiero; ché nessun altro per avventura al pari di questo può farvi intendere gran cosa che per voi è, o Romani, l’Epifania: nessun altro meglio di questo può premunirvi contro certe scaltre seduzioni, che vorrebbero passare per italiane, e sono pagane. – Guardate! Noi ci aggiriamo per questi fori, dove assembravano i figliuoli di Quirino, a sentirvi arringare dai vostri magni oratori, ed a deliberarvi gli assassini dei popoli, che si chiamavano, e dai pagani redivivi si chiamano tuttavia conquiste. Noi calpestiamo le zolle di quei circhi ed anfiteatri che rimbombavano altra volta da inverecondi e tempestosi tripudi di una plebe ubriaca di sangue, che era beata di bere gli cogli occhi le agonie e gli spasimi di uomini, perciò, solo devoti alla morte. Noi camminiamo accanto alla ruine di queste terme, di questi templi, di questi fornici; e templi e fornici, in opera di prepotente libidine, erano tutt’uno; tanto che , se ogninume pagano dai nostri tribunali avrebbe meritato per lo meno la galea, pgni tempio non poteva guardarsi altrimenti, che come un pubblico lupanare avendo detto per Minucio Felice, che frequentius in ædituorum cellulis, quam in ipsis lupanaribus, flagrans libido defungitur (Octavius, cap. XXV). E sopra questo indistinto osceno di prepotenza calpestatrice di ogni diritto, di derocia gavazzante nel sangue, di mostruosa lascivia che fa a fidanza con divinità prostitute,; sopra questo indistinto, io dico, che fu come la torre munita di tutto il Paganesimo nell’antica Roma, che vedete voi al presente? Voi non vedete oggimai trionfare altro sopra quelle ruine che la Croce,; e la Croce coi casti suoi pensieri, e la Croce colla sua umiltà rassegnata e con le sue speranze. Sulle arene silenziose dell’anfiteatro Flavio, inzuppate già del sangue di tanti mancipii, e di tanti martiri, grave e devoto incede al presente ai posti giorni un pio drappello; e quale velato il capo, quale scalzo il piede, tutti col cuore compunto, con innanzi inalberata la Croce. Riandano i dolori dell’Uomo-Dio ivi medesimo, ove tanti dolori incompianti furono divorati dalle generazioni che passarono, ove sedeva già il Campidoglio, smisurata e superstiziosa ambizione di un popolo padrone della terra, siede oggi numerosa famiglia del poverello d’Assisi, che, nell’umile povertà della Croce, seppe e sa educare pel cielo la terra i serafini, sul palazzo dei Cesari, ricetto infame che fu d’ogni più impura nequizia, un coro eletto di vergini sacre a Dio fa oggi fiorire come in giardino di paradiso, i gigli della illibatezza più pura; e mentre il mondo assonnato riposa, deste esse alla nota squilla, levansi notturne a mattinare il celeste loro sposo, perché le ami. Che più? Quel tempio, cui Agrippa dicava a tutti le infami divinità del Paganesimo, eccovelo già espiato dai riti cristiani, già sacro alla Reina del cielo e a tutti i Santi: anzi, quasi ciò fosse poco, quel tempio medesimo, riprodotto nelle vaste sue proporzioni, voi scorgete dall’audacia dell’arte cristiana, fatto sol parte d’immenso tutto, e campato nella regione delle tempeste, servire di coperchio alla tomba dello scalzo e spregiato Pescator galileo. Né queste trasformazioni ricordai quasi fossero sole; le ricordai più veramente, come ad esempio, perché sono precipue. Nel resto in questa vostra città non vi è sasso per avventura, non vi è zolla, non vi è rudero di vetusto monumento, che non vi narri in sua favella la smisurata ambizione e la bugiarda grandezza del popolo che foste un tempo; è narrandovi questo, vi deve far sentire l’immenso benefizio del Redentore, che chiamovvi ad essere quel tutt’altro popolo che al presente voi siete. – E (sia detto ad onor del vero) voi, o Romani, deste in questi ultimi tempi, e state dando tuttavia segni risplendidissimi di averlo inteso! Voi, a confusione di chi aveva interesse a supporvi e dipingervi tutt’altro da quello che siete, mostraste al mondo ammirato, e dico ancora alla Cattolicità rinfrancata, come qui la fedeltà dei sudditi, accoppiata in bell’accordo alla pietà dei cattolici, vi facea non che satisfatti, ma lieti, ma nobilmente alteri di sapere i vostri destini civili immedesimati ai destini della Roma Cristiana, in quanto avete a vostro Principe il Vicario stesso di Cristo. Io non so se altra età vi sia stata, in cui fossero i Romani più devoti ai loro Pontefici; ma è indubitato, che in nessun’altra età ne diedero, mai prove così affettuose, così splendide, così universali, come sono quelle che voi, da oggimai due anni ne state dando. E ne avete ragione! Per una Roma, sotto ai cui piedi Iddio volle poste, quasi sgabello, le ruine maestose del massimo Imperio che vedessero le stelle, ogni altra corona saria minore della sua grandezza! Sul capo augusto di lei solo sta bene e si addice quella che sta portando da dodici secoli, lungo i quali tanti troni crollarono, sparirono tante dinastie e tanti scettri fur fatti polvere! quella corona per cui, guardata Roma siccome patria spirituale di quanti sono credenti, è salutata Capo dell’Orbe, Reina, madre, maestra ed altrice dell’universo mondo! Riposiamo.

V. Vedete dunque per quali e quanți titoli la solennità e la considerazione dell’Epifania è opportunissima a noi tutti Cristiani, i quali fummo, nelle generazioni che ci precedettero, chiamati e raccolti dalla Gentilità; è opportunissima alla condizione presente della società che, in mezzo a tante superbie di progresso, rinverte miseramente ai pensieri, agli amori, alle tendenze del Paganesimo, già trionfato dalla Croce; è opportunissima da ultimo a voi, o Romani, i quali, dall’essere il centro e la viva espressione del Paganesimo dominante, passaste a vedere locato nel vostro mezzo il centro e come il cuore di questo gran corpo, che è la Chiesa universale. – Dissi poi solennità e considerazione della Epifania, parendomi che in queste due parti possa dividersi tutto ciò, che è per farsi in questo splendido ottavario. E la solennità, che attesta la riconoscenza, è raccomandata agli zelanti che coll’opera o colle largizioni vi prendono parte. Quanto alla considerazione, ordinata ad eccitare la riconoscenza, essa sarà frutto della divina parola, che sì copiosa ed in tante svariate forme, sarà amministrata nei correnti giorni in questo tempio. E, nella piccola parte, che ne è a me raccomandata, io non mi dipartirò dal soggetto indicatovi oggi; e vi discorrerò l’antico ed il moderno Paganesimo: quello da cui Dio ci trasse per sua misericordia; questo a cui il mondo presente è incamminato per sua colpa e per sua sventura. – Ora né questa colpa, né questa sventura  potrà intendersi , né la grazia della vocazione dei Gentili, se non si fa giusta stima di quello che fosse veramente la Gentilità. Oh, sì! A quella società così ammirata pei suoi poeti, pei suoi oratori, pei suoi artisti, e più ancora per i suoi uomini di stato in pace ed in guerra, a quella società, io dico, conviene strappare d’attorno lo splendido velo che l’ammanta, per tutta vedernel’orribile abbominazione e la schifosità snaturata. Senza ciò, non è possibile intendere abbastanza bene l’immensa trasformazione compiuta dall’Evangelo; e noi, senza il concetto di quello che fummo, non intenderemo mai la grazia ed il pregio di essere stati fatti quello che siamo. – Ed a farlovi intendere, secondo la mia piccola facoltà, io vi discorrerò domani la radice del Paganesimo, la quale mi pare di ravvisare principalmente nell’assoluta separazione dell’uomo da Dio. Da questa málaugurata radice pullularono due funesti germogli: l’avere cioè l’uomo sconosciuto sé medesimo, e l’essersi alterato nelle sue relazioni coll’universo esteriore; e questi saranno i suggetti del terzo e del quarto discorso. Quell’alterazione poi, che nella intenzione di chi la volle dovea fruttare all’uomo piena indipendenza da tutto che non fosse lui; per contrario importò nell’uomo pagano una triplice schiavitudine: schiavitudine alle forze della natura, schiavitudine alle seduzioni del senso, schiavitudine alla prepotenza dello Stato; e questi tre saranno gli altrettanti suggetti dei seguenti. L’ultimo o l’ottavo sarà una conchiusione pratica di tutti gli altri, tolta dal mezzo stupendo, di che si valse la Provvidenza per compiere quella trasformazione; quantunque in tutti mi studierò di non farvi desiderare applicazioni morali ai nostri tempi ed alle nostre condizioni.

IL SEGNO DELLA CROCE (5)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (4)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA QUARTA.

29 novembre.

Risposta ad un’obiezione. — I tempi sono cambiati. Ragioni in favore de’ primi  Cristiani desunte dalla natura del segno della croce. — Il segno della croce è cinque cose. — Un segno divino, che nobilita l’uomo. — Prove che il segno della croce è divino.

« Per me, tu mi dici, mio caro Federico, la questione è giudicata. Giammai potrei credere che Iddio avesse dato la verità ed il buon senso a’ suoi inimici, condannando allo errore, ed alla superstizione i migliori amici suoi ».  Questa confessione mi consola, e non mi sorprende. Il tuo spirito cerca la verità, ed il tuo. cuore non la rigetta. Se tutti fossero nella istessa disposizione, il compito d’apologista sarebbe facile, ma sventuratamente l’è tutto altrimenti! Nella maggior parte delle controversie, e principalmente nelle controversie religiose l’uomo discute, non con la sua ragione, ma con le proprie passioni. Non per la verità, ma per la vittoria egli combatte. Triste vittoria, che conferma la sua schiavitù all’errore, ed al vizio.  – Quello, che so de’ tuoi compagni e di altri pretesi Cattolici del nostro tempo, mi fa temere ch’eglino agognino a siffatta vittoria. Io li amo, devo loro disputarla: e, per squarciare tutte le bende, in che si ravvolgono, e per illuminare la tua convinzione, voglio esporti le ragioni intrinseche, che giustificano l’inviolabile fedeltà de’ veri Cristiani al frequente uso del segno della croce. Ma facciamo innanzi giustizia alla grande obiezione de’ moderni disprezzatori del segno adorabile. Altri tempi, altri costumi, eglino dicono. Quanto era utile ed ancora necessario ne’ primi secoli della Chiesa, non l’è più di presente. I tempi si cambiano: è da vivere col proprio secolo.  San Pietro risponde loro, che : Gesù era ieri, egli è oggi, egli sarà lo stesso ne’ secoli de secoli. Tertulliano aggiunge: il Verbo incarnato si chiama verità, e non consuetudine. Ora la verità non cambia. Quello, che gli Apostoli e i Cristiani della primitiva Chiesa, i veri Cristiani di tutti i secoli hanno creduto utile, e fino ad un certo punto necessario, non ha finito di esserlo. Io oso affermare, che di presente è più necessario che in altri tempi. Il che è reso manifesto da’ caratteri di somiglianza che esistono fra le posizioni de’ Cristiani de’ primi secoli, e quella de’ Cristiani del secolo decimonono. Qual era la posizione de’ nostri padri delia Chiesa primitiva? Dessi erano al cospetto di un mondo non cristiano, che non voleva divenirlo, che non voleva che altri lo fosse, che perseguitava a morte quanti si ostinavano ad esserlo. E noi, non siamo noi in faccia di un mondo, che cessa di essere cristiano, che non vuole divenirlo di nuovo, che non vuole che altri lo sia, che perseguita, or con scaltrite arti, ed or con la forza quelli che coraggiosi professano il Cristianesimo? Se, in una eguale posizione i primi Cristiani, disciplinati alla scuola apostolica, hanno riconosciuto necessario l’uso frequente del segno della croce, quali ragioni avremmo di abbandonarlo? Siam noi forse più abili, o più forti? I pericoli sono meno grandi, i nemici in minor numero, o meno perfidi? Il proporre simili questioni, è un averle risolute. Passiamo innanzi! – Fino al presente, mio caro Federico, ho fatto valere le circostanze esteriori della causa; ora è mestieri difenderla a fondo, deducendo le ragioni dalla natura del segno istesso della croce. Queste per te, per me. per tutti gli uomini siffattamente si riassumono:  Figli della polvere, il segno della croce è un segno divino che ci nobilita; Ignoranti, il segno della croce è un libro che ci nstruisce;  Poveri, il segno della croce è un tesoro, che ci arrichisce; Soldati, il segno della croce è un’arma, che dissipa l’inimico;  Viaggiatori verso il ciclo, il segno della croce è una guida che ci conduce.  – Prendi la tua toga, siedi da giudice, ed ascolta!

Figli della polvere, il segno della croce è un segno divino che ci nobilita. Chi è, dimmi, questo essere che viene al mondo piangendo, soggetto come il più piccolo degli animali a tutte le infermità, incapace più di lui, e per maggior spazio di tempo, di soddisfare a’ suoi bisogni? Che l’uomo si chiami principe, re, imperatore; che la donna abbia titolo di contessa, duchessa, imperatrice, non ne vadano gonfii; poiché uno sguardo retrospettivo insegnerà loro, ch’eglino sono questo essere. Questo essere è l’uomo, verme nel suo principio, e cibo de vermi nella tomba (Primam vocem similem omnibus emisi plorans. In involumentis sum, et curis magnis. Nemo enira ex regibus aliud habuit nativitatis initium. Sap.VII. 3). – Questo essere tanto infermo, si nullo, e si vergognosamente confuso con i deboli e vili animali lungo i primi anni di sua esistenza, e spinto d’altronde a rassomigliarlo pe’ suoi instinti. Non pertanto, questo essere è l’immagine di Dio, il Re della creazione, egli non deve degradarsi. Dio lo tocca alla fronte, v’imprime un segno divino, che la nobilita, e la nobiltà obbliga. Rispettato dagli altri, egli rispetterà se stesso. Queste lettere di nobiltà, questo segno divino, è il segno della croce. È divino, cheviene dal cielo e non dalla terra: l’è divino, cheil padrone può solo marcare i suoi prodotti. Desso viene dal cielo, perché la terra confessa di non essere suo trovato. Percorri tutti i paesi, e tutti i secoli, in nessun luogo tu troverai l’uomo che abbia immaginato il segno della croce, il santo che l’abbia insegnato, come proprio insegnamento; il Concilio, che l’abbia imposto come suo precetto. La tradizione lo insegna, la consuetudine lo conferma, la fede lo pratica » (Harum et aliaruui hujusmodi disciplinarum si legem ex-postules, scripturarura nullam invenies. Traditio te prætenditur autrix, consuetudo confirmatrix, et fides observatrix. Ter. de Coron. c. III). Così Tertulliano: e per esso tu ascolti la voce della seconda metà del secondo secolo. S. Giustino (Dextera manu in nomine Cbristi quos crucis signo obsignandi sunt, obsignamus. Quæst. 118) parla per la prima, e ti apprende non solo la esistenza, ma il modo con che tale segno era fatto, è con ciò noi siamo a’ tempi primitivi, tempi di memoria eterna, che gli eretici istessi chiamano l’età d’oro del Cristianesimo, sì per la purezza della dottrina, che per la santità de’ costumi. Ora, noi vi troviamo il segno della croce in piena pratica in Oriente, come in Occidente.  Diamo qualche passo, e daremo la mano a s. Giovanni, quello, che sopravvisse a tutti gli Apostoli. Vedi il venerabile vecchio, che fa il segno della croce su di una coppa avvelenata, e beve il micidiale liquore impavidamente (S. Simeon: Metaph. in Joan.). Un po’ più lontano, ed ecco i suoi più illustri colleghi, Pietro e Paolo. Come Giovanni il discepolo amato dal divino Maestro, Pietro e Paolo, principi dell’apostolato, fanno religiosamente il segno della croce, e l’insegnano dall’oriente fino all’occidente, a Gerusalemme, in Antiochia, ad Atene, a Roma, ai Greci ed ai barbari. Ascoltiamo un irrecusabile testimone della tradizione, c Paolo, dice santo Agostino, posto dappertutto il reale stendardo della croce, pesca gli uomini, e Pietro segna le nazioni col segno della croce (Circumfert Paulus Dominicum in cruce vexillum. Et iste piscator hominum, et ille titulat signo crucis gentiles. S. loan Chrys. Ser. XXVIII). » Nè solamente eglino lo eseguono sugli  omini, ma sulle creature inanimate, e vogliono che altri ancora il facesse. Ogni creatura di Dio è buona, scrive il grande Apostolo, non è da rigettare alcuna cosa, che possa riceversi con rendimento di grazie; poiché dessa è santificata dalla parola di Dio, e dalla preghiera. Questa è la regola: quale n’é il senso? Nel diritto se v’ha un testo oscuro, come si chiarisce? Per chiarirlo, si consulta l’interprete il più autorizzato, ed il più vicino al legislatore: la sua parola è legge.  Ascolta la parola la più autorizzata dall’Apostolo s. Paolo, s. Crisostomo « Paolo, egli scrive, ha stabilito qui due cose: la prima che nessuna creatura è immonda: la seconda, che se lo fosse, facile cosa sarebbe purificarla. Segnala del segno della croce, rendi grazia e gloria al Signore, e detto fatto, l’immondizia partirà (Duo capita ponit, unum quidem quod creatura nulla communis sit. Secundo, quod etsi communis sit, medicamentum in promptu est. Signum illi crucis imprime, gratias age, Deo gloriam refer, et protinus immunditia omnis abscessit. In Tim. hom. XII). » Ecco l’insegnamento apostolico. I principi degli Apostoli non solamente facevano questo segno adorabile sulle cose inanimate, e sopra i popoli che accorrevano alla fede, ma sopra se stessi. Questo segno adunque esisteva prima di loro. Paolo il persecutore è rovesciato lungo il cammino di Damasco, perché divenga l’apostolo del Dio, ch’egli perseguita. Quale sarà il primo atto del Dio vincitore sul nobile vinto? Sarà segnarlo del segno della croce. Va, dice Egli ad Anania, e segnalo del mio segno (Vade ad eum, et signa eum charactere meo. S. Aug. Ser. l et Ser. XXV, De Sanctis). Chi è dunque l’autore e institutore del segno della croce? Per trovarlo è da sormontare tutti i secoli, tutte le cose visibili, tutte le gerarchie angeliche, per venire fino al Verbo eterno, alla verità istessa. Ascolta un altro testimone, perfettamente in grado di saperlo, e che ha confermato la testimonianza col suo sangue. Ho nominato l’immortale Vescovo di Cartagine, s. Cipriano. « Signore, egli esclama, sacerdote santo, voi ci avete legato tre cose che non periranno giammai: il calice del vostro sangue, il segno della croce e l’esempio de’ vostri dolori. (Tu Domine, sacerdos sáncte, constituisti nobis inconsumptibiliter potum vivificum, crucis Signum, et mortificationis exemplum. Serm. de Pass. Christi) » Santo Agostino aggiunge: Siete voi, o Signore, che avete voluto questo segno impresso sulla nostra fronte (Signum suum Christus in fronte nobis fligi voluit. In psal. 130). Sarebbe facile citare venti altri testimoni; ma perché scrivo delle lettere, e non un libro, mi arresto. Il segno della croce è un segno divino: ecco un fatto constatato per la discussione. Ve n’ha un altro, di che sarà parola dimani.

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “SULL’AMORE DEL PROSSIMO”

I SERMONI DEL CURATO D’ARS:

DISCORSI DI SAN G. B. M. VIANNEY CURATO D’ARS

Vol. III, Marietti Ed. Torino-Roma, 1933~

Visto nulla osta alla stampa. Torino, 25 Novembre 1931.

Teol. TOMMASO CASTAGNO, Rev. Deleg.

Imprimatur.

C . FRANCISCUS PALEARI, Prov. Gen.

Proprietà è della traduzione (23-XI-07-10- 29-XII-32-15).

Sull’amore del prossimo.

“Vade, et tu fac similiter”.

(Luc. X, 37).

Un dottore della legge, narra S. Luca, si presentò a Gesù Cristo dicendogli per tentarlo: “Maestro, che cosa bisogna fare per ottenere la vita eterna?„ Gesù Cristo gli rispose:” Che cosa sta scritto nella legge, che cosa vi leggi?„ E l’altro rispose: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutte le tue forze: ed il prossimo tuo come te stesso.„ — “Hai risposto bene, gli replicò Gesù Cristo: va, fa questo, ed avrai la vita eterna.„ Il dottore gli domandò poi chi fosse il suo prossimo, e chi dovesse amare come se stesso. Gesù Cristo gli propose questa parabola: “Un uomo andava da Gerusalemme a Gerico: cadde fra le mani dei ladri che non contenti di averlo spogliato, lo copersero di ferite e lo lasciarono mezzo morto sulla strada. Per caso passò di là un sacerdote che scendeva per la medesima via. Avendolo visto in così misero stato, non lo guardò nemmeno. Poi un levita, avendolo scorto, passò via parimente: ma un Samaritano che faceva la stessa strada, avendolo visto gli si avvicinò, e ne fu vivamente mosso a compassione: discese dal cavallo, e si mise ad aiutarlo con ogni suo mezzo. Lavò le sue ferite con olio e vino, le fasciò, e messolo sul suo cavallo lo condusse ad un albergo, dove ordinò al padrone di prenderne cura, dicendogli che se il danaro datogli non bastava, al ritorno gli darebbe ciò che avesse speso di più. „ Gesù Cristo disse al dottore “Quale dei tre credi tu sia stato prossimo a quest’uomo che cadde nelle mani dei ladri?„ Il dottore gli rispose: “Credo sia colui che gli ha usato misericordia.„ — “Ebbene va, gli disse Gesù Cristo, fa altrettanto ed avrai la vita eterna.„ Ecco F. M., il modello perfetto della carità che dobbiamo avere pel nostro prossimo. Vediamo quindi, F. M., se abbiamo questa carità che ci assicura la vita Eterna. – Ma, per meglio farvene sentire la necessità, vi mostrerò che tutta la nostra religione non è che falsità, e tutte le nostre virtù non sono che larve, e noi non siamo che ipocriti davanti a Dio, se non abbiamo questa carità universale per tutti senza distinzione: cioè per i buoni come per i cattivi, per i poveri come per i ricchi, per tutti coloro che ci fanno del male come per coloro che ci fanno del bene. No, F . M., non vi è virtù che meglio della carità ci faccia conoscere se siamo figli di Dio! e l’obbligo che abbiamo di amare il nostro prossimo è così grande, che Gesù Cristo ce ne fa un comandamento, che mette subito dopo quello col quale ci ordina di amar Lui con tutto il nostro cuore. Ci dice che tutta la legge ed i profeti son compresi nel comando di amare Dio e il prossimo.(Matt. XXII, 40). Sì, F. M., dobbiamo considerare questo dovere come il più universale, il più necessario ed essenziale alla religione e alla nostra salvezza; perché adempiendo questo comandamento adempiamo tutti gli altri. S. Paolo ci dice che gli altri comandamenti ci proibiscono l’adulterio, il furto, le ingiurie e il dire il falso in testimonio: se amiamo il nostro prossimo non faremo niente di tutto questo, perché l’amore che portiamo al nostro prossimo non può soffrire che gli facciamo alcun male (Rom. XIII, 9, 10). Dico anzitutto, che: – 1° questo comandamento che ci ordina di amare il nostro prossimo, è il più necessario alla nostra salvezza, poiché S. Giovanni ci dice che se non amiamo i nostri fratelli, cioè gli uomini, siamo in istato di riprovazione. Vediamo altresì che Gesù Cristo ha tanto a cuore l’adempimento di questo comandamento, che ci dice che solo dall’amore che avremo gli uni per gli altri Egli ci riconoscerà per suoi figli (Giv. XIII, 35). – 2° Affermo inoltre, F. M., che questo obbligo così grande di amarci gli uni gli altri, ci è imposto perché abbiamo tutti il medesimo Creatore, tutti la stessa origine; siamo tutti d’una stessa famiglia, della quale Gesù Cristo è il padre, e tutti portiamo la sua immagine e somiglianza; siamo tutti creati per uno stesso fine, che è la gloria eterna; e tutti fummo redenti dalla passione e morte di Gesù Cristo. Dopo di ciò, F. M., non possiamo rifiutarci di amare il nostro prossimo, senza offendere Gesù Cristo in persona che ce lo comanda sotto minaccia di dannazione eterna. S. Paolo ci dice che avendo tutti una stessa speranza, la vita eterna, uno stesso Signore, una stessa fede, uno stesso battesimo ed uno stesso Dio che è Padre di tutti gli uomini, dobbiamo amare tutti gli uomini come noi stessi se vogliamo piacere a Gesù Cristo e salvare le anime nostre (Ephes. IV, 2-6). Ma, forse chiederete, in che consiste adunque l’amore che dobbiamo al nostro prossimo?

— F. M., esso consiste in tre cose:

1 ° nel voler il bene di tutti; 2° nel farne loro ogni qual volta il possiamo; 3° nel sopportare, scusare e nascondere i loro difetti. Ecco, F. M., la vera carità dovuta al prossimo, ed il vero segno d’una vera carità, senza la quale non possiamo né piacere a Dio né salvare le anime nostre.

1° Dobbiamo desiderare bene a tutti, e sentirci afflitti davvero quando sappiamo che accade al nostro prossimo qualche sventura, perché dobbiamo considerare tutti gli uomini, anche i nemici, come nostri fratelli: dobbiamo usare maniere belle ed affabili verso tutti: non invidiare coloro che stanno meglio di noi; amare i buoni per le loro virtù, ed i cattivi perché diventino buoni: augurare la perseveranza ai primi e la conversione ai secondi. Se un uomo è gran peccatore, possiamo odiare il peccato che è opera dell’uomo e del demonio; ma bisogna amare l’uomo che è immagine di Dio.

2° Dobbiamo far del bene a tutti, almeno quanto possiamo: e lo si fa in tre maniere, che si riferiscono ai beni del corpo, dell’onore e dell’anima. Riguardo ai beni del corpo non dobbiamo mai recar danno al prossimo, né impedirgli di fare un guadagno anche se questo potesse esser nostro. Non vi sono Cristiani così accetti a Dio come quelli che hanno compassione pei disgraziati. Vedete S. Paolo: ci dice che piangeva coi piangenti, e gioiva con chi era contento Quanto all’onore del prossimo, dobbiamo guardarci bene dal nuocere alla sua riputazione con maldicenze e molto meno con calunnie. Se possiamo impedire quelli che parlano male, dobbiamo farlo; se non possiamo, dobbiamo lasciarli od almeno dire tutto il bene possibile di quelle persone. Ma quanto ai beni dell’anima, che sono cento volte più preziosi di quelli del corpo, possiamo loro procurarli pregando per loro, allontanandoli dal male coi nostri consigli, e soprattutto coi buoni esempi: vi siamo specialmente obbligati verso coloro coi quali viviamo. I padri e le madri, i padroni e le padrone vi sono obbligati in modo particolare per il conto che dovranno rendere a Dio dei loro figli e dei loro servi. Ahimè! F. M., si può dire che i padri e le madri amano i loro figli, quando li vedono vivere così indifferenti per ciò che riguarda la salvezza delle anime loro, e non muovono un dito? Ahimè! F. M., un padre ed una madre, che avessero la carità che debbono avere pei loro figli, potrebbero vivere senza piangere dì e notte sullo stato miserando dei loro figliuoli che sono in peccato, che vivono, purtroppo, da reprobi, che non sono più pel cielo, ma sono invece per l’inferno? … Ahimè! F. M., come desidereranno di procurare la loro salvezza se non pensano neppure alla propria? Davvero, F. M., quanti padri e madri che dovrebbero gemere e pregare continuamente per la condizione dei loro miseri figli, li distraggono invece dal bene e li avviano al male parlando ad essi dei torti, delle offese, delle ingiurie, che hanno loro detto o fatto i vicini, della lor mala fede, dei mezzi impiegati per vendicarsi: il che spinge spesso i figli a volersi essi pure vendicare, od almeno a conservare l’odio nel cuore. Oh! F. M., quanto i primi Cristiani erano ben lontani da ciò, perché comprendevano il valore di un’anima! F. M., se un padre ed una madre conoscessero il valore d’un’anima, potrebbero con tanta indifferenza lasciar perdere quelle dei loro figli o domestici? Potrebbero far loro trascurare la preghiera, per farli lavorare? Avrebbero il coraggio di farli mancare alle sacre funzioni? Mio Dio! che risponderanno a Gesù Cristo quand’Egli mostrerà loro che hanno preferito una bestia all’anima dei loro figli? Ah! che dico? un pugno di fieno! O povera anima, quanto poco sei stimata! No, no, F. M., questi padri e queste madri ciechi ed ignoranti, giammai hanno compreso che la perdita dell’anima è un male più grande che la distruzione di tutte le creature che esistono sulla terra. Giudichiamo, F. M., della dignità d’un’anima da quella degli Angeli: un Angelo è così perfetto che quanto vediamo sulla terra od in cielo è meno d’un grano di polvere in confronto al sole: eppure per quanto perfetti siano gli Angeli, non hanno costato a Dio che una parola: mentre un’anima ha costato il prezzo del suo Sangue adorabile. Il demonio per tentare il Salvatore gli offerse tutti i regni del mondo, dicendogli: “Se vuoi prostrarti davanti a me, ti darò tutti questi beni (Matt. IV, 9): „ il che ci mostra che un’anima è infinitamente più preziosa agli occhi di Dio, ed anche del demonio, che non tutto l’universo con quanto contiene (Matt. XVI, 26). Ah! quale vergogna per questi padri e queste madri che stimano l’anima dei loro figli meno di quanto le stima il demonio stesso! Sì, F. M., la nostra anima ha un valore così grande che, dice S. Giovanni Crisostomo, se vi fosse stato anche un sol uomo sulla terra, la sua anima è così preziosa agli occhi di Gesù Cristo, che non avrebbe stimato indegno di sé il morire per salvarla. ” Sì, dice egli, un’anima è sì cara al suo Creatore, che, se essa l’amasse, Egli annienterebbe i cieli piuttosto che lasciarla perire.„ —” 0 mio corpo, esclamava S. Bernardo, quanto sei onorato di albergare un’anima così bella! „ Ditemi, F. M., se foste stati ai piedi della croce, ed aveste raccolto in un vaso il Sangue adorabile di Gesù Cristo, con qual rispetto l’avreste conservato? Ora, F. M., dobbiamo avere altrettanto rispetto e cura per conservare l’anima nostra, perché essa è costata tutto il sangue di Gesù Cristo. “Dacché ho riconosciuto, ci dice S. Agostino, che la mia anima è stata redenta col sangue d’un Dio, ho deciso di conservarla a costo pure della mia vita, e di non ridonarla mai al demonio col peccato. „ Ah! padri e madri, se foste ben convinti che siete i custodi delle anime dei figli vostri, potreste lasciarle perire con tanta indifferenza? Mio Dio, quante persone dannate per aver lasciato perdere qualche povera anima, ciò che, volendo, avrebbero potuto impedire! No, F. M., non abbiamo la carità che dovremmo avere gli uni per gli altri, e soprattutto pei nostri figli e domestici. – Leggiamo nella storia che al tempo dei primi Cristiani, quando gli imperatori pagani li interrogavano per sapere chi fossero, rispondevano: “Ci domandate che cosa siamo, eccolo: non formiamo che un solo popolo ed una sola famiglia, unita insieme dai vincoli della carità: Quanto ai nostri beni, sono tutti in comune: chi ha dà a chi non possiede; nessuno si lamenta, nessuno si vendica, nessuno dice male dell’altro o fa male ad alcuno. Noi preghiamo gli uni per gli altri, ed anche per i nemici; invece di vendicarci facciamo del bene a chi ci fa del male, benediciamo quelli che ci maledicono. „ Ah! F. M., dove sono quei tempi felici? Ahimè! quanti Cristiani al presente non hanno che amore per se stessi, niente pel prossimo! –  Volete sapere, F. M., che cosa sono i Cristiani dei nostri giorni? Ecco, ascoltatemi. Se due persone maritate sono del medesimo umore, dello stesso carattere, ovvero hanno le medesime inclinazioni, voi le vedete che amandosi vivono insieme: questo non è cosa rara. Ma se l’umore od il carattere non si accordano, non v’è più pace, amicizia, carità, prossimo. Ahimè! F. M., sono Cristiani che non hanno che una falsa religione: amano il loro prossimo solo quando esso possiede le loro inclinazioni, o favorisce i loro sentimenti ed interessi, altrimenti non possono più vedersi, né tollerarsi in compagnia: bisogna separarsi, si dice, per avere la pace e salvare l’anima propria. Andate, poveri ipocriti, andate, separatevi da quelli che non sono, come dite, del vostro carattere, e coi quali non potete vivere: non potete allontanarvi tanto da essi quanto già lo siete da Dio. Andate, la vostra religione non è che apparenza, e voi stessi non siete che dei riprovati. Non avete mai conosciuto né la vostra religione, né ciò che vi comanda, nè la carità che dovete avere pel vostro fratello per piacere a Dio e salvarvi. Non è difficile amare quelli che ci amano, e che sono del nostro parere in quanto diciamo o facciamo, perché in ciò non facciamo nulla di più dei pagani, che facevano altrettanto. S. Giacomo ci dice (Giac. II, 2, 3): “Se fate bella accoglienza ad un ricco, e disprezzate il povero; se salutate con garbo chi vi ha fatto del bene, mentre appena salutate chi vi ha insultato, voi né adempite la legge, né avete la carità che dovete avere: non fate niente di più di coloro che non conoscono il buon Dio. „ — Ma, mi direte, come dobbiamo adunque amare il nostro prossimo? — Eccolo. S. Agostino ci dice che dobbiamo amarlo come Gesù Cristo ci ama: Egli non ha ascoltato né la carne né il sangue, ma ci ha amati per santificarci e meritarci la vita eterna. Noi dobbiamo augurare e desiderare al nostro prossimo tutto il bene che possiamo desiderare per noi stessi. Sì, F. M., non conosceremo di essere sulla strada del cielo e di amare veramente il buon Dio, se non quando trovandoci con persone interamente opposte al nostro carattere e che sembrano contraddirci in tutto, tuttavia le amiamo come noi stessi, le vediamo di buon grado, ne parliamo bene e mai male, cerchiamo la loro compagnia, le preveniamo, e rendiamo loro servizi, a preferenza di tutti quelli che ci interessano e non ci contraddicono in nulla. Se facciamo questo, possiamo sperare che l’anima nostra sia nell’amicizia di Dio, e che amiamo il nostro prossimo cristianamente. Ecco la regola ed il modello che Gesù Cristo ci ha lasciato e che tutti i santi hanno riprodotto: non inganniamoci, non v’ha altra via che ci conduca al cielo. Se non fate questo, non dubitate un solo istante che voi camminate per la via della perdizione. Andate, poveri ciechi: pregate, fate penitenza, assistete alle funzioni sacre, frequentate i Sacramenti tutti i giorni, se vi piace: date tutta la vostra sostanza a quelli che vi amano, non per questo sfuggirete d’andar a bruciare nell’inferno dopo la vostra vita! Ahimè! F. M., quanto è scarsa la vera divozione, quante divozioni invece di capriccio, d’inclinazione! Vi sono di quelli che danno tutto, e sono pronti a tutto sacrificare, quando si tratta di persone che loro convenga di trattar così o che essi amano. Ahimè! pochi hanno quella carità che piace a Dio e conduce al cielo! F. M., volete un bell’esempio di carità cristiana? eccovene uno che potrà servirvi di modello per tutta la vostra vita. Si racconta nella storia dei Padri del deserto (Vita dei Padri del deserto, t. IV, pag. 23. Storia di Eulogio d’Alessandria e del suo lebbroso), che un solitario incontrò un giorno per via un povero storpio, coperto di ulceri e di putredine: era in istato così miserabile da non poter né guadagnarsi la vita, e neppur trascinarsi. Il solitario, mosso a compassione, lo portò nella sua colletta, e gli diede tutti i conforti possibili. Avendo il povero riprese le forze, il solitario gli disse: “Volete, fratello mio, restare con me? farò quanto potrò per nutrirvi, e pregheremo e serviremo il buon Dio insieme. „ — “Oh! qual gioia mi date, dissegli il povero; quanto son felice di trovare nella vostra carità un sollievo alla mia miseria!„ Il solitario che stentava già tanto a guadagnarsi da vivere, raddoppiò il lavoro per poter nutrire il povero il meglio che potesse, ed assai meglio di se stesso. Ma, dopo qualche tempo, il povero cominciò a mormorare contro il suo benefattore, lamentandosi che lo nutriva troppo male. ” Ahimè! caro amico, gli disse il solitario, vi nutro meglio di me, non posso fare di più per voi. „ Alcuni giorni dopo, l’ingrato ricominciò i suoi lamenti, e lanciò contro il benefattore un torrente d’ingiurie. Il solitario soffrì tutto con pazienza, senza rispondere. Il povero si vergognò d’aver parlato in tal modo ad un uomo così santo, che non gli faceva che del bene, e gli domandò scusa. Ma ricadde bentosto nelle stesse impazienze, e concepì un tal odio contro il buon solitario, che nol poteva più sopportare. “Sono stanco di vivere con te, voglio che tu mi riporti dove m’hai trovato; non son uso ad esser nutrito così male… Il solitario gli domandò perdono, promettendogli che cercherebbe di trattarlo meglio. Il buon Dio gli ispirò d’andare da un caritatevole benestante vicino per domandargli del cibo migliore pel suo storpio. Il benestante, mosso a compassione, gli disse di venire ogni giorno a prendere il vitto. Il povero sembrò contento: ma dopo alcune settimane, ricominciò a fare nuovi e pungenti rimproveri al solitario. ~ Va, gli diceva, tu sei un ipocrita, fai mostra di cercar l’elemosina per me, ed invece lo fai per te: tu mangi la parte migliore di nascosto, e non mi dai che i tuoi avanzi. „ — “Ah! amico mio, dissegli il solitario, mi fate torto. vi assicuro che non domando mai niente per me , che non tocco neppur un briciolo di quanto mi si dà per voi: se non siete contento dei servizi che vi rendo, abbiate almeno pazienza per amore di Gesù Cristo, aspettando ch’io faccia meglio. „ — ” Va, rispose il povero, non ho bisogno delle tue esortazioni, „ e, preso un sasso, lo scagliò alla testa del solitario, che appena poté evitarlo. Di poi il tristo, preso un grosso bastone, di cui servivasi per trascinarsi, gli diede un colpo così forte da gettarlo a terra. “Il buon Dio vi perdoni, dissegli il solitario; da parte mia, per amor di Gesù Cristo vi perdono i cattivi trattamenti che mi usate. „ — “Dici che mi perdoni, ma non è che a fior di labbra; perché so che tu vorresti vedermi morto. „ — “Vi assicuro, amico mio, dissegli dolcemente il solitario, che è con tutto il mio cuore che vi perdono. „ E volle abbracciarlo per dimostrargli che l’amava. Ma il miserabile lo prese alla gola, gli graffiò il viso colle unghie, e tentava strangolarlo. Essendosi il solitario svincolato dalle sue mani, il povero gli disse: “Va pure, ma non morrai che per mano mia. „ Il solitario, sempre preso da compassione e ripieno di carità veramente cristiana, portò pazienza con lui per tre o quattro anni. Durante questo tempo, Dio solo seppe quanto ebbe a soffrire da parte del povero. Questi gli diceva ad ogni momento di riportarlo al luogo dove l’aveva trovato, che preferiva morir di fame o di freddo, od esser divorato dalle belve piuttosto che vivere con lui. Il solitario non sapeva a qual partito appigliarsi: da una parte, la carità gli dimostrava che, riportandolo al posto dove l’aveva trovato, sarebbe morto di miseria: dall’altra, temeva di perder la pazienza nella prova. Pensò d’andar a consultare S. Antonio sul partito da prendere per essere più accetto a Dio: non temeva né le pene, né gli oltraggi che riceveva in cambio dei suoi benefizi; ma voleva soltanto conoscere la volontà di Dio. Arrivato da sant’Antonio, prima ancora di parlare, questi inspirato dallo Spirito Santo, gli disse : “Ah! figlio mio, so che cosa ti conduce qui, e perché vieni a trovarmi. Guardati bene dal seguire il pensiero che hai di mandar via quel povero: è una cattiva tentazione del demonio che vuol rapirti la corona: se avessi la sventura di abbandonarlo, figlio mio, non l’abbandonerebbe il buon Dio. „ Sembrava, a quanto dissegli S. Antonio, che la sua salvezza dipendesse dalle cure che aveva pel poveri. “Ma, padre mio, dissegli il solitario, temo di perdere la pazienza. „ — ” E perché la perderesti, figliuol mio? gli replicò S. Antonio: non sai che è appunto verso quelli che ci trattano peggio, che dobbiamo esercitare la nostra carità più generosamente? Figlio mio dimmi, qual merito avresti esercitando la pazienza con chi non ti facesse mai alcun male? Non sai tu che la carità è una virtù coraggiosa, che non guarda i difetti di chi ci fa soffrire, ma invece guarda Iddio solo? Quindi, figlio mio, ti impegno assai a custodire questo povero: più è cattivo, più devi averne pietà: quanto gli farai per carità, Gesù Cristo lo riterrà fatto a se stesso. Mostra colla tua pazienza che sei discepolo d’un Dio che ha patito. Ricordati che dalla pazienza e dalla carità si conosce il Cristiano. Considera questo povero come quegli di cui vuol servirsi Iddio per farti guadagnare la tua corona. „ Il solitario fu soddisfattissimo di udire da quel gran santo ch’era volontà di Dio ch’ei custodisse il suo povero, e che quanto faceva per luì era assai accetto al Signore. Ritornò presso il suo povero, e dimenticando tutte le ingiurie ed i maltrattamenti ricevuti sino allora, mostrò verso di lui una carità senza limiti, servendolo con una umiltà ammirabile, e non cessando di pregare per lui. Il buon Dio vide nel giovane solitario tanta pazienza e carità che gli convertì il povero: e con questo mostrò al suo servo, quanto gli fosse gradito tutto quello che aveva fatto, perché concesse all’infelice la conversione e la salvezza. Che ne pensate, F. M.? È questa una carità cristiana, sì o no? Oh! quanto quest’esempio nel gran giorno del giudizio confonderà i Cristiani che non vogliono neppur soffrire una parola, sopportare per otto giorni il cattivo carattere d’una persona senza mormorare, e forse volerle male. Bisogna lasciarsi, si dice bisogna separarsi per aver la pace. O mio Dio, quanti Cristiani si dannano per mancanza di carità! No, no, F. M., faceste anche miracoli, non andrete mai salvi, se non avete la carità. F. M., non aver carità è non conoscere la propria religione: è avere una religione di capriccio, stravagante, e volubile. Andate, andate, non siete che ipocriti e riprovati! Senza la carità giammai vedrete Dio, giammai vedrete il cielo… Date i vostri beni, fate grandi elemosine a quelli che v’amano o vi piacciono, ascoltate tutti i giorni la santa Messa, comunicatevi anche, se vi piace ogni dì: non siete che ipocriti e riprovati: continuate la vostra strada e ben presto vi troverete all’inferno! … Non potete sopportare i difetti del vostro prossimo, perché è troppo noioso, non vi piace starvene con lui. Andate, andate pure, disgraziati, non siete che ipocriti, non avete che una falsa religione, la quale, con tutto il bene che fate, vi condurrà all’inferno. Mio Dio! Come è rara questa virtù! Ahimè! è così rara come sono rari quelli che andranno in cielo. Non amo vederli, mi direte: in chiesa, mi causano distrazioni con ogni loro atto. — Ah! disgraziato; di’ piuttosto che non hai carità, che sei un miserabile, che ami solamente quelli che s’accordano coi tuoi sentimenti od interessi, che non ti contraddicono in nulla, e ti adulano per le tue buone opere, che usano ringraziarti dei tuoi benefici, e ti ricambiano con la riconoscenza. – Voi farete di tutto per costoro, non vi rincresce neppur di privarvi del necessario per soccorrerli: ma se vi disprezzano, se vi contraccambiano con ingratitudini, non li amate più, non volete più vederli, fuggite la loro compagnia: nei colloquii che avete con loro, tagliate corto. Mio Dio! quante false divozioni che devono condurci tra i riprovati! Se ne dubitate, F. M., ascoltate S. Paolo, che non può ingannarvi: “Se donassi, egli dice, ogni mio avere ai poveri, se facessi miracoli risuscitando i morti, ma non avessi la carità, non sono altro che un ipocrita (1 Cor. XIII, 3). „ Ma per meglio convincervene, percorrete tutta la passione di N. Signore Gesù Cristo, vedete tutte le vite dei Santi, non ne troverete alcuno che non abbia questa virtù, cioè che non abbia amato quelli che lo ingiuriavano, che gli volevan male, che lo ricambiavano d’ingratitudine nei suoi benefizi. No, no, non ne vedrete uno, che non abbia preferito far del bene a chi gli abbia fatto qualche torto. Vedete S. Francesco di Sales, che ci dice che se avesse un’opera buona soltanto da fare, sceglierebbe chi gli ha fatto qualche oltraggio, piuttosto che uno da cui avesse ricevuto qualche servigio. Ahimè! F. M., una persona che non ha la carità quanto va innanzi nel male! Se alcuno le ha fatto qualche torto, vedetela esaminare ogni sua azione: le giudica, le condanna, le volge in male, credendo sempre d’aver ragione. — Ma, mi direte, tante volte, si vede che agiscono male, non si può pensar diversamente. — Amico mio, non avendo carità, credi che facciano male: ma se avessi la carità, penseresti ben diversamente, perché crederesti sempre che puoi ingannarti, come spesso avviene: e per convincervene, eccovi un esempio, che vi prego di non iscancellar dalla vostra mente, specialmente quando vi verrà il pensiero che il vostro prossimo faccia male. – Si racconta nella storia dei Padri del deserto (Vita dei Padri del deserto, t. VIII, pag. 244, S. Simeone, soprannominato Sal, o Salus. cioè lo Stravagante), che un solitario chiamato Simeone, dopo essere stato più anni nella solitudine, ebbe il pensiero di andare nel mondo: ma domandò a Dio che giammai gli uomini potessero conoscere le sue intenzioni. Avendogli Dio accordata questa grazia, andò nel mondo. Faceva il pazzo, liberava gli ossessi dal demonio, guariva gli ammalati: entrava nelle case delle donne di mala vita, faceva loro giurare che non avrebbero amato altri che lui, dando loro tutto il denaro che aveva. Ognuno lo teneva per un solitario impazzito. Si vedeva ogni giorno quest’uomo, che aveva più di settant’anni, giuocare coi fanciulli per le vie: altre volte si gettava in mezzo ai balli pubblici per danzare cogli altri, dicendo loro qualche parola che mostrasse il male che facevano. Ma tutto ciò si considerava come cosa che veniva da un pazzo, non raccoglieva che disprezzi. Altre volte saliva sui teatri, e gettava pietre su quelli ch’erano sotto. Quando vedeva qualche ossesso dal demonio, si metteva in sua compagnia e imitava l’ossesso come se lo fosse egli pure. Lo si vedeva correre per le osterie, accompagnarsi cogli ubbriachi: nei mercati si rotolava per terra, e faceva mille altre cose assai stravaganti. Tutti lo condannavano, lo disprezzavano; gli uni lo stimavano pazzo, gli altri un libertino ed un cattivo soggetto, meritevole solo della prigione. Eppure, F. M., malgrado ciò, era un santo, che cercava solo il disprezzo, e di guadagnare anime a Dio, sebbene il mondo lo giudicasse male. Il che ci mostra che sebbene le azioni del nostro prossimo ci appariscano cattive, non dobbiamo giudicarle male. Spesso le giudichiamo cattive, mentre agli occhi di Dio non sono tali. Ah! chi avesse la fortuna di possedere la carità, questa bella ed incomparabile virtù, si guarderebbe dal giudicare il suo prossimo e dal volergli male! — Ma, direte, il suo carattere: è troppo cattivo, non si può sopportarlo. — Voi non potete sopportarlo, amico mio; credete dunque d’essere un santo e senza difetti? povero cieco! vedrete un giorno che ne avete fatto soffrire più voi a coloro che vi stanno intorno, che non essi a voi. È cosa solita che i cattivi credono di non far soffrire nulla agli altri, e che debbono tutto soffrire dagli altri. Mio Dio, quanto l’uomo è cieco, quando la carità non trovasi nel suo cuore! D’altra parte, se non aveste nulla da soffrire da coloro che vivono con voi, che cosa avreste da presentare al buon Dio? — Quando, dunque, si potrà conoscere di essere sulla strada che conduce al cielo? — No, no, F. M., finché non amerete coloro che sono d’umore, di carattere differente dal vostro, ed anche coloro che vi contraddicono in quanto fate, sarete solo un ipocrita, mai un buon Cristiano. Fate, finché volete tutte le altre opere buone; esse non vi impediranno d’andar dannati. Del resto vedete la condotta che tennero i Santi, e come si diportarono col prossimo: ed eccovi un esempio che ci mostra come questa virtù sola, sembra assicurarci il cielo. Narrasi nella storia che un solitario, il quale aveva condotto una vita assai imperfetta, almeno in apparenza ed agli occhi del mondo. si trovò all’ora della morte così contento e consolato, che il superiore ne fu sorpreso. Pensando fosse un inganno del demonio, gli domandò donde potesse venirgli tale contentezza, sapendo benissimo che la sua vita non poteva troppo rassicurarlo, considerato che i giudizi di Dio sono così terribili, anche pei più perfetti. “È vero, Padre mio, dissegli il morente; io non ho fatto opere straordinarie, anzi quasi nulla di bene: ma ho cercato in tutta la mia vita di praticare quel gran precetto del Signore, che è quello d’amar tutti, di pensar bene di tutti, di sopportare i difetti, di scusarli, di render loro servizi; io l’ho fatto tutte le volte che n’ebbi occasione: ho procurato di non far mai male ed alcuno, di non parlar male, e di pensar bene di tutti: ecco, Padre mio, ecco quanto forma tutta la mia consolazione e speranza in questo momento, e che, malgrado le mie imperfezioni, mi dà fiducia che il buon Dio avrà pietà di me. „ Il superiore ne fu così meravigliato, che esclamò con trasporto di ammirazione: “Mio Dio! quanto questa virtù è bella e preziosa agli occhi vostri. „ — “Andate, figlio mio, disse al solitario, avete tutto fatto ed adempiuto osservando questo comandamento: andate, il cielo per voi è sicuro. „ Ah! F. M., se conoscessimo bene questa virtù, e quale ne sia il valore davanti a Dio, con quanta premura coglieremmo tutte le occasioni per praticarla, poiché essa racchiude tutte le altre, e ci assicura così facilmente il cielo! No, no, F. M., non saremo che ipocriti, finché questa virtù non accompagnerà tutte le nostre azioni. Ma, penserete tra voi, donde nasce che non abbiamo questa carità, mentr’essa ci rende felici anche in questo mondo per la pace e l’unione che regnano tra coloro che hanno la gran fortuna di possederla ? — F. M., tre cose ce la fanno perdere, cioè: l’avarizia, l’orgoglio e l’invidia. — Ditemi: perché non amate quella persona? — Ahimè! perché non ne avete alcun interesse: avrà detto qualche parola o fatto qualche cosa che non vi piacque: ovvero le avete domandato qualche favore che vi ha rifiutato: ovvero avrà fatto qualche guadagno che speravate voi: ecco ciò che vi impedisce d’amarla come dovreste. E non pensate che, finché non amerete il vostro prossimo, cioè tutti gli uomini, come vorreste essere amati voi, siete un, che se aveste a morire sareste dannato. Eppure vi piace ancora nutrire nel vostro cuore sentimenti che non son davvero caritatevoli; fuggite quelle persone; ma badate bene, amico mio, che anche il buon Dio non vi fugga. Non dimenticate che finché non amate il vostro prossimo, Dio è in collera con voi: se veniste a morire, vi precipiterebbe subito nell’inferno. Mio Dio! si può vivere coll’odio nel cuore? Ahimè! amico mio, voi siete davvero abbominevole agli occhi di Dio, se siete senza carità. È perché vedete dei grandi difetti nel vostro vicino? Ebbene, amico mio, siate ben persuaso che ne avete anche voi; e forse più grandi agli occhi di Dio, e che non conoscete. E vero che non dobbiamo amare i difetti ed i vizi del peccatore; ma dobbiamo amare la persona; perché sebbene peccatore, non cessa d’essere una creatura di Dio, fatta a sua immagine. Se non volete amare che coloro che non hanno difetti, non amereste nessuno, perché nessuno è senza difetti. Ragioniamo, F. M., un po’ più da Cristiani: più un Cristiano è peccatore, più è degno di compassione e d’aver un posto nel nostro cuore. No, P. M., per quanto cattivi siano coloro coi quali viviamo, non dobbiamo odiarli: ma, ad esempio di Gesù Cristo, amarli più di noi stessi. Vedete come Gesù Cristo, nostro modello, si è comportato coi suoi nemici: ha pregato per loro, e per loro è morto. Chi ha indotto gli apostoli attraversare i mari, ed a finire la vita col martirio? Non fu l’amore per gli uomini? Vedete la carità di S. Francesco Zaverio, che abbandona la patria ed i beni, per andar ad abitare tra i barbari, che gli fanno soffrire quanto è possibile far soffrire ad un Cristiano, salvo la morte. Vedete S. Abramo, un solitario, che abbandona la solitudine per andare a predicare la fede in un paese, dove nessuno aveva potuto farla ricevere. Non fu la sua carità causa ch’ei fosse battuto, e trascinato per terra fino ad esservi abbandonato mezzo morto? Non poteva lasciarli nella loro cecità? Sì, senza dubbio; ma la carità, il gran desiderio di salvare quelle povere anime gli fece soffrire tutte queste ingiurie (Vita dei Padri del deserto, t. VIII, pag. 165, s. Abramo, prete e solitario). Sì, F. M., chi ha la carità non vede i difetti del fratello, ma soltanto la necessità di aiutarlo a salvar l’anima a qualunque costo. Aggiungo inoltre, che se amiamo davvero il nostro prossimo ci guarderemo dallo scandalizzarlo, o far cosa che possa distoglierlo dal bene e portarlo al male. Sì, F. M., dobbiamo amar tutti, e a tutti far del bene quanto possiamo e per l’anima e pel corpo: perché Gesù Cristo ci dice, che quando facciamo qualche bene al prossimo nel suo corpo, lo facciamo a Lui stesso: quindi, a più forte ragione, quando l’aiutiamo a salvar l’anima. Non dimentichiamo mai queste parole che Gesù Cristo ci dice nel Vangelo: “Venite, benedetti del Padre mio, ebbi fame, e mi deste da mangiare, ecc. (Matt. XXV, 34). „ Vedete la carità di san Serapione, che lasciò il suo abito per donarlo ad un povero: ne incontrò un altro, gli diede la sottoveste: non restandogli che il libro del Vangelo, va a venderlo per poter ancora dare. Un discepolo gli domandò chi l’avesse cosi spogliato. Rispose, che avendo letto nel suo libro: “Vendete, date quanto avete ai poveri, ed avrete un tesoro in cielo: perciò ho venduto anche il libro. „ Andò ancora più innanzi, diede se stesso ad una povera vedova perché lo vendesse, e ne ricavasse di che nutrire i suoi figli: e, condotto fra i barbari, ebbe la lieta sorte di convertirne buon numero. Oh! bella virtù! se avessimo la felicità di possederti, quante anime condurremmo al buon Dio!… Quando S. Giovanni l’Elemosiniere pensava a questa bella azione di S. Serapione: “Credetti, diceva a’ suoi amici, d’aver fatto qualche cosa, dando tutto il mio denaro ai poveri: ma ho riconosciuto che non ho ancora fatto nulla, perché non ho dato me stesso come il beato Serapione, che si vendé per nutrire i figli della vedova „ (Vita dei Padri del deserto, t. IV, pag. 49. S. Serapione il Sindonita). – Concludiamo, F. M., che la carità è una delle più belle virtù, e che più d’ogni altra ci assicura l’amicizia del buon Dio: colle altre virtù, possiamo essere ancora sulla strada dell’inferno: ma con la carità, che è universale, che non fugge, che ama i nemici come gli amici, che fa del bene a chi ci fa del male, come a chi ci fa del bene! Chi la possiede è sicuro che il cielo è suo!… È  la felicità ch’io vi auguro.

IL SEGNO DELLA CROCE (4)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (4)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA TERZA.

28 novembre.

Seguito della terza presunzione: I dottori dell’Oriente e dell’Occidente.— Costantino, Teodosio, Carlomagno, San Luigi, Baiardo, Don Giovanni d’Austria, Sobieski. — Quarta presunzione: La condotta della Chiesa. — Quinta presunzione: Quelli che non fanno il segno della Croce. — Riassunto.

Ora, mio caro amico, senza eccezione alcuna tutti questi grandi geni facevano il segno della Croce, come devote giovanette. Questi lo facevano continuamente e non rifinivano dall’inculcare i Cristiani di eseguirlo in tutte le occasioni. Fare il segno della croce sopra di quelli che mettono in Gesù Cristo ogni loro speranza, dice uno di loro, è cosa fra noi notissima, e studiosamente eseguita, Primum est et notissimum (S. Basil. De S. S. c. XXVII). Un altro: La croce è dappertutto: presso i re ed i sudditi, gli uomini e le femmine, le vergini e le spose, gli schiavi ed i liberi, tutti segnano di esso il membro più nobile, la fronte…. Non vogliate sortire dalla vostra abitazione senza dire: Rinunzio a satana, e sono seguace fedele di Cristo, e senza accompagnare queste parole col segno della croce: cum hoc verbo et crucem in fronte imprimas (Crysost. Him. XXI, ai pop. Antioch.). Ed un altro: Noi dobbiamo segnarci ad ogni operazione che ci occorre compiere nel corso del giorno; omne diei opus in signo facere Salvatori* (S. Ambr. Serm. XLIII). E Gaudenzio, il gran Vescovo: « Il segno della croce sia fatto constantemente sul cuore, sulle labbra, e sulla fronte, al pranzo, al bagno, al letto, entrando o sortendo da casa, nella gioia e nella tristezza, stando seduto ed in piedi, parlando, camminando, a dir corto, in ogni operazione: verbo dicam, in omni negotio. Facciamolo sul nostro petto e sopra tutte le membra, onde l’intiero nostro corpo sia difeso da questa invincibile arma de’ Cristiani: armemur hac insuperabili christianorum armatura » (S. Gaud. Ep. Brix Tract. de lect. evang., S. Ciril. Hier. Catech, iv, n. 14. – S Efrem de Panoplia). – Fino agli estremi di loro vita, confermando le parole coi loro esempi, noi vediamo questi geni morire, come l’illustre Crisostomo, questo re della eloquenza, segnandosi del santo segno redentore. Il fiore de’ Cristiani formato a questa scuola ne imitava gli esempi. Girolamo parlando di Paola, di questa discendente degli Scipioni, ci dice: Dessa, sul punto di rendere la sua bell’anima, quando ci era già impossibile più intendere le sue parole, avea il dito sulla bocca, e, fedele al pio uso, ella disegnava la croce sulle sue labbra (Ad Eustoch. De Epiph. Paulæ).  – Attraversiamo i secoli ed accenniamo qualche anello della catena tradizionale. Senza far parola degl’immortali imperatori, legislatori e guerrieri ad un tempo, Costantino, Teodosio, Carlomagno, fedeli al pio uso di segnarsi del santo segno della croce, arriviamo al migliore de’ re, che abbia avuto la Francia, S. Luigi. Il suo amico ed istoriografo de Joinville scrive di lui: « Il re cominciava dal segno della croce la tavola, il consiglio, la guerra, tutte le sue azioni »(Vita cap. XV). Del cavaliere senza paura e sema rimprovero, Baiardo, ferito a morte, ultimo gesto fu il segno della croce, ch’egli fece con la spada. La potenza cattolica e la potenza musulmana si trovano di rincontro nel golfo di Lepanto, rappresentate da due flotte che sorpassavano il numero di quattrocento vele. Da questa guerra dipende il trionfo della civiltà, o quello della barbarie, i destini dell’Europa sono nelle mani di Don Giovanni d’Austria. L’eroe cristiano innanzi di dare il segno della battaglia si segna, ed i capitani lo imitano. L’islamismo non ancora può rifarsi della completa rotta, che ne riportò. Ma non pertanto un secolo più tardi volea riparare le sue perdite. Le sue orde innumerevoli si avanzavano fin sotto le mura di Vienna. Sobieski accorre con forze che sono un nulla al confronto di quelle dell’inimico. Ma Sobieski è Cristiano. Innanzi di discendere nel campo della battaglia fa segnare di croce la sua armata, e se stesso segua di una croce vivente, ascoltando la messa con le braccia distese in forma di croce. Per questo segno, dice un guerriero Cristiano, il visir fu battuto.  Non la finirei, mio caro, se volessi narrare lutti i fatti storici che confermano la frequenza e la perpetuità di questo segno, presso i veri Cristiani di tutti i secoli e di tutte le condizioni, sì nel mondo, che nei chiostri dell’Oriente e dell’Occidente. Questa gloriosa tradizione non è una presunzione rispettabile in favore de’ nostri maggiori della Chiesa primitiva? Che cosa mai ne pensano i tuoi compagni?  

Quarta presunzione in favore de’ primi Cristiani è l’uso della Chiesa. I secoli, e con essi gli uomini cangiano leggi, abitudini, mode, linguaggio, maniera di vedere e di giudicare: tutto si modifica. Solo la Chiesa non cambia mai, immutabile come la verità di che è maestra, quanto essa insegnava e faceva ieri, insegna ed opera quest’oggi, insegnerà ed opererà domani e sempre. Qual è il suo pensiero e la sua condotta sul conto del segno delia croce? Nulla v’ha, su di che meglio si mostri la sua divina immutabililà. Da poi 18 secoli si può dire, che la Chiesa vive del segno della croce: un istante solo non lascia di praticarlo. Comincia, continua, compie ogni operazione con questo segno. Di tutte le sue pratiche il segno della croce è la principale, la più comune e familiare, desso è l’anima de’ suoi esorcismi, delle sue preghiere e benedizioni. Quanto essa opera al presente nelle nostre basiliche sotto i nostri occhi, essa operava nelle catacombe al cospetto de’ nostri padri. Senza il segno della croce, dicono essi, nulla si fa tra noi legittimamente, niente è santo e perfetto (Sine quo signo nihil est sanctum, neque alia consecratio meretur effectum. S. Cypr. de bapt. chr. Quod signum nisi adhibeatur, nihil recte perficitur. S. Aug Tract. 188 in Joan. n. 5). Il potere della Chiesa, come quello del suo Fondatore, si esercita sulle persone e sulle cose, si estende sino al cielo e per tutta la terra: Data est mini omnis potestas. Come la esercita essa? Per Io mezzo del segno della croce. Quanto essa destina a’ suoi usi, l’acqua, il sale, il pane, il vino, il fuoco, le pietre, il legno, l’olio, il balsamo, il lino, la seta, il bronzo, i metalli preziosi, tutto segna di croce. Quanto appartiene ai suoi figli, le loro dimore, i campi, gli armenti, i loro strumenti da lavoro, le invenzioni di loro industria, di tutto prende possesso col segno della croce.  Vuole dessa preparare al Signore del cielo un’abitazione sulla terra? Innanzitutto la croce deve conservare lo spazio che occuperà l’edilizio. Niuno, dicono i Concili, si permetta innalzare una Chiesa, innanzi venga il Vescovo e vi faccia il segno della croce per scacciare satana (Nemo Ecclesiam ædificet, antequam Episcopus civitatis veniat et ibidem crucem figat: addit glossa, ad abigendas inde dæmonum phantasia.’. (Novella T, paragraph. I. Cap. Nemo consecrat. dixt.). Il segno della croce è il primo mezzo, di che usa per benedire i materiali del tempio, e per ben venti volte lo esegue sul pavimento, sui pilastri, e l’altare, e per renderlo immobile fa sormontare il tempio da una croce di ferro. Quando i suoi figli verranno nella casa di Dio, che faranno eglino avanti che ne passino la soglia? Il segno della croce. Da qual cosa i capi della preghiera, i Vescovi ed i preti cominceranno a celebrare le lodi dell’Altissimo? Dal segno della croce. Quando al principio de’ santi uffizi noi facciamo il segno della croce accompagnandolo con le parole: Signore venite in mio soccorso; è come se dicessimo, scrive un’antico liturgista: Signore, la vostra croce è il nostro aiuto: la mano ve ne rappresenta il segno, e la lingua vi prega. satana è il condottiere di tutti i nostri nemici; egli governa il mondo, e solletica la nostra carne. Ma se voi, o Signore, verrete in nostro soccorso con la vostra croce, esso e tutti i nostri nemici verranno messi in fuga. Ecco la sua condotta per l’uomo tempio vivo della Trinità. Quello, che opera sopra di lui quando sorte dal seno materno, è il segno della croce; e quando l’uomo entra nel seno della terra, la Chiesa dello stesso segno l’adorna. Questo è il primo saluto e l’ultimo addio, ch’ella usa col figlio della sua tenerezza. E quanti segni di croce lungo il tempo interposto fra la tomba e la culla? Al Battesimo, quando egli diviene figlio di Dio, lo segna di croce; nella Confermazione, sul punto di divenire soldato della virtù, lo segna di questa croce; nella Eucaristia, quando riceve il Pane degli Angeli, lo segna parimente; alla penitenza, dove l’uomo riacquista la vita divina, il segno redentore è eseguito sopra di lui; nella Estrema unzione, dalla quale trae forza per l’ultima battaglia, la croce lo segna; nell’Ordine e nel Matrimonio, in questa associazione alla paternità divina,la Chiesa onora l’uomo con questo segno (Si regenerari oportet, crux adest; si mystico cibo nutriri, si ordinari, et si quidvis aliud faciendum, ubique nobis adest hòc victoriæ symbolum. (S. loan. Chrysot. iti Matth, homil. 54, ri. 4). Quod Signum nisi adbibeatur frontihus crederitium, sive ipsi aquæ in qua regenerantur, sive oleo quo cbrismate unguntur, sire sacrificio quo aluntur, nihil eorum recte perficitur. S. August, in Joan, tract. 128, n. 5). Ma v’ha di più. Quando la Chiesa nella persona del Sacerdote ascende l’altare armato della onnipotenza con che comanda, non più alla creatura ma al Creatore, non all’uomo ma a Dio, il cielo si apre alla sua voce, ed il Cristo rinnova tutti i misteri della sua vita, della sua morte, e della gloriosa Resurrezione; v’ha alto alcuno da eseguire con maggiore solenne gravità, e da cui è da eliminare accuratamente quanto potrebb’essere straniero e superfluo? Ora nel corso di questa azione per eccellenza, che cosa fa la Chiesa? In essa più che in ogn’altra moltiplica il segno della croce; dessa si ravvolge nel segno della croce; cammina attraverso questo segno, lo ripete sì soventemente, che il numero di questo potrebbe sembrare esagerato, se non fosse profondamente misterioso. Sai tu quante volte il prete esegue il segno della croce lungo il tempo della Messa? Egli lo fa quarantotto volte. Dico male: per quanto dura il Sacrifizio, il prete è un segno di croce vivente.  E la Chiesa cattolica, la grave institutrice delle nazioni, la grande maestra della verità, si compiacerebbe di ripetere in sì solenne azione, un segno inutile, superstizioso, o di nessuna importanza! Se i tuoi compagni lo credono, a torto sono increduli; non mancano di credulità. La condotta della Chiesa e de’ veri Cristiani di tutti i secoli, è una presunzione vittoriosa in favore de’ nostri antenati.

La quinta presunzione in favore de’ primi Cristiani sono quelli che non fanno il segno della croce. Sulla terra v’hanno sei categorie di esseri che non fanno il segno della croce. I pagani: Cinesi, Indiani, Tibetani, Ottentotti, i selvaggi dell’Oceania, gli adoratori d’idoli mostruosi, i popoli profondamente degradati, e non meno infelici; questi non fanno il segno della croce. I maomettani: simili agl’immondi animali pel sensualismo, ed alle tigri per la ferocia, sono automi del fatalismo; questi, non si segnano. I Giudei: incrostati di falde di profonda superstizione, sono una pietrificazione vivente di una razza scaduta; questi neanche si segnano. Gli eretici: settari orgogliosi a segno da voler riformare l’opera di Dio, e cui toccò in sorte perdere fin l’ultimo lembo di verità, lo posso, scriveva non ha guari uno de’ ministri prussiani, scrivere sull’unghia del mio pollice quanto v’ha di comune credenza fra i protestanti: i protestanti non hanno il segno della croce. I cattivi Cattolici: rinnegati del loro Battesimo, schiavi del rispetto umano, superbi ignoranti, che parlano di tutto del tutto, ignoranti, adoratori del dio ventre, del dio carne, del dio materia, e la cui vita è sozza al pari d’immondo limo: questi del pari non si segnano. Le bestie: bipedi e quadrupedi di tutte le specie; cani, gatti, asini, muli, cammelli, i barbagianni, i coccodrilli, le ostriche, gl’ippopotami, questi non si segnano. – Tali sono le sei categorie di esseri che non fanno il segno della croce. Se nei tribunali il carattere morale degli accusatori e dei difensori contribuisce grandemente, innanzi lo stesso esame della causa, a formare l’opinione de’ giudici; lascio a te stesso pensare se il carattere di quelli che non fanno il segno della croce sia una presunzione favorevolissima pei primi Cristiani!  A dir breve, relativamente al segno della croce frequentemente eseguito, il mondo è diviso in due campi opposti.

A favore: gli ammirevoli Cristiani della primitiva Chiesa, gli uomini di gran santità, i più grandi geni dell’Oriente e dell’Occidente, i veri Cristiani di tutti i secoli, la Chiesa Cattolica istessa, maestra di verità.

Contro: i pagani, i maomettani, i giudei, gli eretici, i cattivi cattolici e le bestie.

Mi pare che tu possa di già pronunziarti. Ma meglio lo potrai quando saprai le ragioni, che condannano gli uni e giustificano gli altri. Te le dirò nelle seguenti lettere.

IL SEGNO DELLA CROCE (5)

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S.S. LEONE XIII – “QUOD MULTUM”

Questa  lettera Enciclica di S. S. Leone XIII, venne indirizzata ai Vescovi ungheresi, ma contiene insegnamenti, esortazioni e timori, che sono di utilità somma a tutti i Cristiani fedeli di ogni parte del mondo e di ogni tempo. A maggior ragione oggi, epoca in cui assistiamo alla sistematica elusione di ogni principio cattolico, anche il più elementare e – diremmo – ovvio, questa lettera riacquista una importanza decisiva non solo per la residua Gerarchia cattolica oggi impedita ed “eclissata”, ma per tutti gli uomini battezzati di buona volontà. Sottolineiamo questo passaggio in particolare: « … Tuttavia, non possiamo tacere ciò che non sfugge quasi a nessuno, cioè quanto i tempi siano ostili alla virtù; quante volte la Chiesa sia combattuta con artifici; quanto ci sia da temere, fra tanti pericoli, che la fede, indebolita, languisca, anche là dove è solida e fondata su radici profondissime. È sufficiente ricordare quella funestissima fonte di mali che sono i principi del razionalismo e del naturalismo, diffusi senza freno dappertutto. Ne conseguono innumerevoli allettamenti corruttori: il dissenso o l’aperta opposizione del potere pubblico alla Chiesa; la pervicace audacia delle sette clandestine; il sistema qua e là adottato di educare la gioventù senza alcun rispetto per Dio. » Questo timore non è stato fatto debitamente proprio né dagli uomini di Chiesa, né dai governanti, né dai singoli Cristiani che oggi si trovano a pagare questa inadempienza in una società paganizzata totalmente dalle conventicole diaboliche che hanno preso il comando totale di tutte le attività umane, comprese quelle falsamente ispirate alla pratica religiosa cristiana. Tutti i popoli sono stati, e saranno ancor più puniti da Dio, con la perdita della vera fede e della pratica religiosa cristiana, surrogata da un modernismo di stampo luciferino che ha preso possesso di tutti i sacri palazzi e poteri civili e religiosi. Ogni frase va meditata con attenzione e fatta propria, al di là degli edificanti ricordi storici ungheresi ai quali si fa cenno affettuosamente come modello di zelo fervente verso la Religione Cattolica Romana, la vera ed unica Chiesa di Cristo.

Leone XIII
Quod multum

Lettera Enciclica

Ciò che desideravamo vivamente e da molto tempo, cioè che ci fosse l’occasione di parlarvi come abbiamo fatto con i Vescovi di numerose altre popolazioni, con il proposito cioè di comunicarvi i Nostri consigli sugli argomenti che concernono la prosperità del Cristianesimo ed il bene degli Ungheresi, Ci è reso possibile in maniera particolarmente positiva da queste stesse giornate nelle quali l’Ungheria, memore e lieta, celebra il bicentenario della liberazione di Buda. – Fra i meriti nazionali degli Ungheresi questa liberazione rimarrà di spicco per sempre, in quanto i vostri antenati recuperarono, con la pazienza ed il valore, la città capitale, nella quale i nemici si erano insediati per un secolo e mezzo. – Affinché rimanessero la memoria e la gratitudine per tale favore divino, giustamente Papa Innocenzo XI, Pontefice Massimo, stabilì che il 2 settembre, giorno nel quale si compì il prestigioso avvenimento, in tutto il mondo cristiano si celebrino riti solenni in onore di Santo Stefano, che fu il primo fra i vostri re apostolici. – Per la verità, si sa che la Sede Apostolica ebbe parte – e non certo di ultimo piano – nel meraviglioso e faustissimo evento del quale parliamo, che è quasi nato spontaneamente come conseguenza della splendida vittoria riportata tre anni prima sullo stesso nemico, presso Vienna; senza dubbio essa va attribuita in gran parte e a buon diritto all’impegno apostolico di Innocenzo; infatti, a partire da allora, le forze maomettane cominciarono ad indebolirsi. – In verità, anche prima di quel periodo, i Nostri Predecessori si erano preoccupati, in situazioni analoghe, di alimentare le forze dell’Ungheria con il suggerimento, con gli aiuti, con il denaro, con le alleanze. Da Callisto III ad Innocenzo XI sono molti i Pontefici Romani che sarebbe opportuno enumerare a questo titolo per rendere loro merito. – Uno eccelle fra tutti, Clemente VIII, al quale – quando Strigonia e Vincestgraz furono affrancate dalla dominazione turca – le massime Assise del regno decretarono pubblici ringraziamenti, poiché egli solo si era prodigato in favore dei derelitti, quasi disperati sulla loro sorte. – Pertanto, come la Sede Apostolica non è mai venuta meno alle aspettative della gente ungherese, ogni volta che toccò loro combattere contro i nemici della Religione e dei costumi cristiani, così ora che la commemorazione di un evento attesissimo commuove gli animi, a voi volentieri si unisce nella comunione di una giusta gioia; pur tenendo conto della diversità dei tempi, questo solo vogliamo e a questo solo Ci dedichiamo: confermare la moltitudine nella professione cattolica e parimenti impegnarci per quanto possiamo nell’allontanare il comune pericolo, in quanto il Nostro compito è provvedere alla salvezza delle genti. – La stessa Ungheria è testimone che nessun dono più grande può giungere da Dio, alle singole persone o alle comunità, che quello di abbracciare, col Suo intervento, la verità cattolica e conservarla una volta ricevuta. In un enorme dono di tal fatta è automaticamente racchiusa la somma degli altri beni grazie ai quali non solo gli individui possono ottenere la felicità eterna nei cieli, ma le nazioni stesse giungono ad una prosperità degna di tale nome. Poiché il primo dei re apostolici aveva ben capito questo, nulla egli soleva richiedere con più calore a Dio; niente, in tutta la vita, seguì con più attenzione e con maggior costanza che portare la fede cattolica in tutto il regno e stabilirla fin da principio su solidi fondamenti. Perciò subito cominciò, fra i Pontefici Romani e i re ed il popolo d’Ungheria, quello scambio di attenzioni e di cortesie che non vennero mai meno nel periodo successivo. – Stefano fondò e creò il regno, ma volle ricevere il diadema regio solo dal Pontefice Romano; fu consacrato re dall’autorità pontificia, ma volle che il suo regno fosse offerto alla Sede Apostolica; fondò con munificenza non poche sedi Vescovili e diede vita piamente a molte organizzazioni, ma in queste meritorie azioni ha avuto come compagne la massima benevolenza e l’indulgenza assolutamente singolare della Sede Apostolica in molte circostanze. Dalla sua fede e dalla sua pietà il re santissimo trasse la luce del consiglio e le migliori norme per governare lo Stato. Da null’altro, se non dall’assiduità della preghiera, egli ottenne quella forza d’animo con la quale rintuzzò le crudeli congiure dei nemici e respinse vittorioso i loro assalti. – Così, auspice la Religione, è nata la vostra nazione: conservandola come custode e come guida, siete giunti non solo alla maturità, ma alla forza del comando e alla gloria a pieno titolo. – L’Ungheria ha conservato santa ed inviolata la Religione ricevuta dal suo re e padre come un’eredità, anche nei tempi più difficoltosi, quando un pernicioso errore allontanò i popoli confinanti dal seno materno della Chiesa. Parimenti, insieme alla fede cattolica, il rispetto e l’amore devoto verso la sede di Pietro rimasero costanti nel re Apostolico, nei Vescovi e in tutto il popolo; d’altronde vediamo che continue testimonianze confermano la propensione favorevole e la paterna benevolenza dei Pontefici Romani verso gli Ungheresi. Oggi, dopo che sono trascorsi tanti secoli e sono accadute tante cose, rimangono, grazie a Dio, gli antichi vincoli; le stesse virtù dei vostri antenati non si sono assolutamente estinte nei posteri. Lodevole è inoltre l’impegno profuso, non senza frutto, nell’adempimento degli impegni Vescovili: il conforto fornito nelle calamità; lo studio mirato a difendere i diritti della Chiesa; la costante e fervida volontà di mantenere la fede cattolica. – Mentre riflettiamo su queste cose, l’animo è mosso da un giocondo senso di letizia, e a Voi, Venerabili Fratelli, e al popolo ungherese volentieri indirizziamo la lode meritata per avere ben agito. Tuttavia, non possiamo tacere ciò che non sfugge quasi a nessuno, cioè quanto i tempi siano ostili alla virtù; quante volte la Chiesa sia combattuta con artifici; quanto ci sia da temere, fra tanti pericoli, che la fede, indebolita, languisca, anche là dove è solida e fondata su radici profondissime. È sufficiente ricordare quella funestissima fonte di mali che sono i principi del razionalismo e del naturalismo, diffusi senza freno dappertutto. Ne conseguono innumerevoli allettamenti corruttori: il dissenso o l’aperta opposizione del potere pubblico alla Chiesa; la pervicace audacia delle sette clandestine; il sistema qua e là adottato di educare la gioventù senza alcun rispetto per Dio. – Se mai in altri tempi, in questo di certo converrà che sia universalmente accertata non solo l’opportunità ma l’assoluta necessità della Religione cattolica per la tranquillità e la salute pubblica. È confermato da quotidiane riprove fino a che punto si spingono a schiacciare lo Stato coloro che si sono abituati a non temere alcuna autorità e a non porre freni alle proprie bramosie. Perciò non può essere più un segreto per alcuno a che cosa mirino; con quali arti si adoperino; con quale tenacia muovano battaglia. – I più grandi imperi e le repubbliche più fiorenti sono costretti a combattere praticamente in ogni momento con branchi di uomini di tal fatta, uniti dalla sintonia delle opinioni e dalla comunione nelle azioni: pertanto ne deriva sempre qualche pericolo per la sicurezza pubblica. In alcuni luoghi, per contrastare un’audacia tanto grande e malvagia, con saggezza si è deciso di accrescere l’autorità dei magistrati e la forza delle leggi. Tuttavia, per evitare le minacce del socialismo, c’è un modo eccellente ed efficacissimo, impiegato il quale poco varrà come deterrente la paura della pena; esso consiste nel fatto che i cittadini siano profondamente attaccati alla Religione e che le loro azioni siano improntate a devozione ed amore per la Chiesa. Questa è infatti la custode santissima della Religione, la madre e l’educatrice degl’innocenti costumi e di tutte le virtù che spontaneamente sgorgano dalla Religione. Coloro che seguono con spirito religioso integro i precetti del Vangelo, per ciò stesso automaticamente restano lontani da qualsiasi ombra di socialismo. Infatti, la Religione ordina che, come si venera e si teme Dio, così si deve essere soggetti ed obbedienti al legittimo potere; vieta assolutamente i comportamenti sediziosi; vuole che ciascuno veda rispettati i propri beni ed i propri diritti; vuole che coloro che hanno maggiori ricchezze aiutino con bontà d’animo le moltitudini dei poveri. Accompagna i bisognosi con ogni forma di carità; allevia coloro che soffrono con la più soave consolazione, con l’annunciata speranza di beni infiniti ed immortali, che giungeranno tanto maggiori quanto più duramente e più a lungo gli uomini avranno patito. – Per questi motivi, coloro che governano le nazioni non possono far nulla di più saggio ed opportuno che permettere alla Religione di diffondersi negli animi senza alcuna barriera, per richiamarli, tramite i suoi precetti, all’onestà ed integrità dei costumi. Diffidare della Chiesa e trattarla con sospetto è in primo luogo palesemente ingiusto, ed inoltre non giova a nessuno, se non ai nemici dell’ordinamento civile e a coloro che sono desiderosi di sconvolgere il sistema. – L’Ungheria, per grazia di Dio, non ha visto i rilevanti moti nelle città, le folle terribili che in altri luoghi hanno distrutto la tranquillità delle popolazioni. Ma il pericolo incombente impone a Noi, e a Voi parimenti, Venerabili Fratelli, di vigilare e di sforzarci ogni giorno di più per mantener vivo e fiorente, costà, il nome della religione, e garantire l’onore delle istituzioni cristiane. – A tal fine, è auspicabile in primo luogo che la Chiesa possa godere, in tutto il regno Ungherese, di quella libertà piena e totale di cui godeva un tempo e di cui si è servita solo per il bene comune. Noi Ci auguriamo soprattutto che siano abolite dalle leggi le disposizioni che sono in conflitto con i diritti della Chiesa, ne limitano la libertà d’azione e pregiudicano la professione del Cattolicesimo. Per ottenere ciò, Noi e Voi dobbiamo costantemente impegnarci, nell’ambito consentito dalle leggi, così come tanti illustri personaggi hanno fatto in precedenza. Frattanto, per tutto il tempo in cui resteranno vigenti le norme di legge di cui parliamo, è vostro compito far sì che nuocciano il meno possibile alla salvezza, dopo avere ammonito minuziosamente i cittadini su quali siano gli obblighi di ciascuno in tale frangente. Indicheremo alcuni punti che sembrano essere i più pericolosi. – Il primo dovere è dunque abbracciare la vera religione: in nessuna età dell’uomo esso può essere limitato. Nessuna età è priva di valore nel regno di Dio. Chiunque, saputo ciò, deve comportarsi di conseguenza, senza alcuna esitazione: dalla volontà di agire in tal senso scaturisce per ciascuno un sacro diritto, che non si può violare se non con la massima ingiustizia. Analogamente, coloro che hanno cura d’anime hanno il fondamentale compito di ammettere a far parte della Chiesa tutti coloro che, in età matura per decidere, chiedono di essere ammessi. Perciò, se i curatori d’anime sono costretti a scegliere diversamente, è necessario che essi sopportino la severità delle leggi umane piuttosto che provocare l’ira di Dio vendicatore. – Per quanto concerne la società coniugale, impegnatevi, Venerabili Fratelli, affinché si radichi profondamente negli animi la dottrina cattolica sulla santità, unità e perpetuità del matrimonio; affinché sia spesso ricordato alla gente che i matrimoni fra cristiani, per la loro stessa natura, sono soggetti soltanto al potere ecclesiastico. Sia ricordato che cosa la Chiesa pensa ed insegna a proposito di quello che chiamano matrimonio civile; con quale atteggiamento e con quale spirito i Cattolici debbano obbedire a leggi di codesto tipo; come non sia lecito ai Cattolici, e ciò per validissime ragioni, contrarre matrimonio con cristiani estranei alla Religione Cattolica; chiunque osi far ciò, al di fuori della benevola autorità della Chiesa, pecca contro Dio e contro la Chiesa stessa. – Poiché il problema è – come vedete – così diffuso, coloro a cui compete debbono impegnarsi il più possibile affinché nessuno, per nessun motivo, s’allontani da questi precetti. Tanto più perché in questa materia più fortemente che in altre l’obbedienza alla Chiesa è strettamente connessa, tramite vincoli necessari, al benessere dello Stato. La società domestica alimenta e contiene infatti i principi e, per così dire, le basi migliori della vita civile; pertanto, da ciò derivano in gran parte la pace e la prosperità della nazione. La società domestica si sviluppa secondo lo stesso andamento dei matrimoni; e i matrimoni non possono riuscire bene se non regolati da Dio e dalla Chiesa. Privato di queste condizioni; asservito alle alterne passioni; iniziato contro la volontà di Dio e privato perciò dei necessari conforti celesti: tolta anche la comunione di vita sul tema che maggiormente preme, cioè la Religione, inevitabilmente il matrimonio genera frutti amarissimi, fino all’ultima distruzione delle famiglie e delle società. Perciò sono meritevoli non solo nei confronti della Religione, ma anche della Patria, quei Cattolici che da due anni (da quando le Assemblee legislative ungheresi stabilirono ed ordinarono che fossero validi i matrimoni dei Cristiani con gli ebrei) unanimemente e, a voce libera, ripudiarono tale norma ed ottennero con successo che fosse mantenuta l’antica legge sui matrimoni. Ai loro voti si unì, da tutte le parti dell’Ungheria, la unanime volontà di molti che confermavano di pensarla nello stesso modo ed approvavano la decisione con testimonianze palesi. Analoga univocità di pensiero ed altrettanta costanza d’animo possano essere espresse ogni volta che ci sia da combattere in favore del cattolicesimo; la vittoria sarà raggiunta; alla peggio, rimossa l’indolenza e superata l’inerzia, sarà più vigile e fruttuosa l’azione futura qualora i nemici del Cristianesimo volessero assopire ogni valore cattolico. – Alla comunità deriverà un’utilità non minore se ci si preoccuperà di educare la gioventù con rettitudine e saggezza fin dall’età infantile. Tali sono i tempi e le abitudini in cui assolutamente troppe persone – con molto impegno – si dedicano a distogliere dalla vigilanza della Chiesa e dalla più proficua virtù religiosa i giovani dediti alle lettere. Vengono vagheggiate e talora richieste scuole che chiamano neutre, miste, laiche, allo scopo indubitabile che gli allievi crescano nella più totale ignoranza delle cose sante e senza alcuna preoccupazione religiosa. Dato che il male è tanto maggiore e tanto più diffuso dei rimedi, vediamo svilupparsi una generazione incurante del bene dell’anima, non partecipe della Religione, spessissimo empia. Tenete lontana dalla vostra Ungheria, Venerabili Fratelli, con ogni mezzo e con ogni possibile sforzo, una calamità così grande. In questo momento è di grande giovamento non solo per la Chiesa ma anche per lo Stato educare gli adolescenti indirizzandoli fin dall’infanzia verso costumi cristiani e sapienza cristiana. Tutti coloro che ragionano correttamente capiscono perfettamente ciò; infatti, vediamo in molti luoghi e in gran numero i Cattolici intensamente impegnati nell’educazione dei bambini, e a tal fine si dedicano con attività preminente e costante, senza preoccuparsi né del costo né dell’imponente fatica. Conosciamo molte persone, anche in Ungheria, che con analogo proposito si sforzano di ottenere lo stesso risultato; nondimeno permettete, Venerabili Fratelli, che Noi sollecitiamo sempre più il vostro impegno episcopale. – Certamente, data la gravità del tema, noi dobbiamo desiderare e volere che alla Chiesa sia integralmente consentito di svolgere, nell’educazione pubblica dei fanciulli, quei ruoli che le sono stati attribuiti dal Cielo; né possiamo esimerci dal richiedere con insistenza che vi dedichiate con zelo a questo obiettivo. Intanto non cessate di ammonire i capi famiglia, affinché non sopportino che i loro figli frequentino scuole dove si teme che la fede cristiana sia in pericolo. Allo stesso tempo fate sì che vi siano in abbondanza scuole raccomandabili per la correttezza dell’istituzione e la probità degl’insegnanti, governate dalla vostra autorità e dalla vigilanza del Clero. Vogliamo che sia così non soltanto nelle scuole elementari, ma anche in quelle di lettere e delle più avanzate discipline. – Grazie alla pia generosità degli antichi e soprattutto alla munificenza dei vostri re e dei vostri Vescovi, esistono molte eccellenti strutture per coloro che si dedicano allo studio delle lettere. Gode di ottimo ricordo fra Voi, elogiato anche dalla posterità, il Cardinale Pazmany, Arcivescovo di Strigonia, che fondò il grande Liceo cattolico di Budapest e lo fornì di una ricchissima dote. È bello ricordare che un’opera di tale entità fu compiuta con la pura e sincera intenzione di promuovere la religione cattolica; analogo intento fu confermato dal re Ferdinando II, affinché la verità della Religione Cattolica rimanesse intatta nei luoghi in cui era fiorente; dov’era indebolita fosse nuovamente rafforzata e il culto divino fosse propagato ovunque. Noi abbiamo ben chiaro con quanta forza e con quanta costanza vi siete adoperati affinché, senza alcun mutamento rispetto alla natura originaria, codeste sedi di ottimi studi continuino ad essere come le vollero i loro fondatori e cioè Istituti cattolici, nei quali la struttura, l’amministrazione e l’insegnamento rimangano sotto il potere della Chiesa e dei Vescovi. Vi esortiamo a non tralasciare alcuna occasione e a tentare con ogni mezzo affinché da ogni parte si consegua tale nobile ed onesto risultato. Lo otterrete certamente, considerata la grande sensibilità religiosa del Re Apostolico e la saggezza degli uomini che guidano lo Stato; non è infatti pensabile che vi tocchi sopportare che sia negato alla Chiesa Cattolica ciò che è stato concesso alle organizzazioni che sono in contrasto col Cattolicesimo. – Se lo spirito dei tempi richiederà che si dia vita a nuovi istituti di questo tipo o che siano ingranditi quelli esistenti, non dubitiamo che seguirete l’esempio dei predecessori e vorrete dar prova di religiosità. Ci è stato anzi riferito che vi state preoccupando di realizzare un’opportuna accademia per formare insegnanti eccellenti. Ottima decisione quant’altre mai, all’altezza della vostra saggezza e della vostra virtù; speriamo che possiate portarla a compimento in breve tempo, con l’aiuto di Dio. – Se è importante per il bene pubblico l’educazione di tutti gli adolescenti, tanto più è importante quella di coloro che devono essere avviati ai sacri ministeri. A questa dovete dedicarvi, uno per uno, Venerabili Fratelli, ed impiegare la maggior parte delle vostre veglie e delle vostre fatiche; infatti, i giovani chierici sono una speranza, e per così dire un abbozzo di forma sacerdotale; Voi conoscete bene di quanta fama la Chiesa goda per i suoi sacerdoti e come ne tragga giovamento la stessa salvezza eterna delle genti. Per formare un chierico sono assolutamente necessarie due cose: la dottrina per la cultura della mente, e la virtù per la perfezione dell’anima. Alle discipline umanistiche sulle quali è solitamente basata l’educazione dell’adolescente, vanno aggiunte le discipline sacre e quelle canoniche, dopo essersi assicurati che la dottrina di tali materie sia sana, assolutamente incorrotta, interamente in accordo con i documenti della Chiesa (soprattutto di questi tempi) e ricca di forza e di argomenti, affinché sia in grado di esortare… e confutare coloro che contraddicono. – La santità della vita, senza la quale la scienza è solo vento e non costruisce, racchiude non soltanto i costumi probi ed onesti, ma anche l’insieme delle virtù sacerdotali donde deriva la somiglianza con Gesù Cristo, sommo ed eterno Sacerdote, che è la caratteristica dei buoni preti. A questo tendono i Seminari; e Voi, Venerabili Fratelli, avete non poche istituzioni di rilievo sia per preparare i ragazzi alla vita sacerdotale, sia per formare solidamente i sacerdoti. Le vostre preoccupazioni e i vostri pensieri siano concentrati soprattutto su questi obiettivi; procurate che all’insegnamento delle lettere e delle scienze siano posti uomini di valore, nei quali l’esattezza della dottrina sia unita all’innocenza dei costumi, affinché a buon diritto possiate fidarvi di loro in un settore così importante. Scegliete i responsabili della cultura e i maestri di religiosità fra coloro che eccellono per prudenza, saggezza ed esperienza; la regola della vita comune venga temperata dalla vostra autorità in modo che gli alunni non solo non compiano qualcosa di contrario alla pietà, ma anzi abbondino di tutti quegli strumenti con i quali si alimenta la fede: con opportuni esercizi siano stimolati al quotidiano miglioramento delle virtù sacerdotali. Dall’impegno e dalla diligenza spesi per formare i sacerdoti riceverete frutti più desiderabili, e vi accorgerete che sarà molto più facile e molto più vantaggioso gestire il vostro ruolo di Vescovi. – Ma è necessario che le vostre paterne cure si spingano ancora più in là, in modo da accompagnare i sacerdoti nel compimento stesso dei loro sacri doveri. Con attenzione e con delicatezza, come conviene alla vostra carità, controllate che essi non assumano mai atteggiamenti profani; che non siano mossi né dalla cupidigia né dalla preoccupazione per impegni secolari: che anzi eccellano esemplarmente nella virtù e nelle opere, senza mai tralasciare la preghiera ed accostandosi castamente ai sacri misteri. Cresciuti e rafforzati con queste concezioni, i sacerdoti affronteranno spontaneamente la fatica quotidiana degl’incarichi sacri e si dedicheranno con impegno, come è giusto, ad educare gli animi della gente, soprattutto con la predicazione e con il ricorso ai sacramenti. – Per ritemprare le forze del loro animo, che per la debolezza umana non possono essere perennemente al culmine, non c’è nulla di meglio che – come altrove è consuetudine particolarmente apprezzata – ritirarsi di tanto in tanto per periodiche meditazioni spirituali, disponibili, in tali periodi, soltanto per Dio e per se stessi. Quanto a Voi, Venerabili Fratelli, visitando, secondo la vostra discrezione le diocesi, avrete naturalmente e opportunamente l’occasione di conoscere le attitudini e le abitudini dei singoli, e parimenti di accertare che cosa – nelle contingenti circostanze – sia necessario proibire (e con quali motivazioni) oppure correggere, se si sia insediato, qualche peccato. In questo caso, affinché il potere della disciplina ecclesiastica non sia infranto, dove sia necessario occorrerà applicare con la giusta severità le norme dei canoni sacri: tutti dovranno capire che il sacerdozio e i vari gradi della dignità altro non sono che il premio delle buone azioni, e che sono riservati a coloro che abbiano servito la Chiesa; che si siano prodigati per la salvezza delle anime; che siano apprezzati per dottrina e per integrità di vita. – Con un Clero dotato di queste virtù, si sarà provveduto in misura non esigua anche a favore del popolo, il quale – amante com’è della Chiesa ed attentissimo alla religione dei padri – volentieri si lascerà condurre dai ministri della fede. – Voi non dovete tuttavia tralasciare alcuna di quelle attività che vi paiano valide per conservare fra la gente l’integrità della dottrina cattolica, la disciplina evangelica nelle azioni, nella vita, nei costumi. Impegnatevi affinché spesso vengano intraprese sacre missioni per l’educazione delle anime; mettete alla loro testa uomini di provata virtù, animati dallo spirito di Gesù Cristo ed infiammati di carità per il prossimo. – Per prevenire od eliminare gli errori d’opinione, distribuite con abbondanza fra il popolo scritti che collimino con la verità e conducano alla virtù. Sappiamo che già si sono costituite società che hanno proprio questo lodevole e fruttuoso obiettivo, e che non si sono impegnate invano. Noi desideriamo che esse crescano di numero, e che di giorno in giorno ottengano risultati sempre più positivi. Ancora questo vogliamo: che Voi stimoliate tutti, ma in particolare coloro che eccellono per cultura, ricchezza, dignità o potere, affinché in ogni momento della vita, in privato e in pubblico, curino con il massimo impegno il nome della Religione e la causa della Chiesa; secondo la vostra indicazione più fortemente si sforzino e non rifiutino di aiutare e far sviluppare tutte le iniziative cattoliche già esistenti o che saranno create. – Allo stesso modo è necessario resistere ad alcune opinioni fallaci – elaborate a sproposito con lo scopo di proteggere l’onore individuale – che addirittura ripugnano alla fede ed ai precetti dei comportamenti cristiani ed aprono la strada ad azioni turpi e scellerate. Infine, è necessaria la vigilanza assidua e coraggiosa contro le associazioni illecite delle quali deve essere capito in anticipo e sventato l’influsso con tutti i mezzi, in particolare quelle che abbiamo indicate altrove specificatamente nella Nostra Lettera Enciclica. Vogliamo che di questo vi incarichiate con solerzia tanto maggiore, dal momento che società di codesto genere quanto più sono numerose ed hanno ricchezze, tanto più hanno potere. – Queste sono le cose, Venerabili Fratelli, che vi abbiamo scritto sotto la spinta della carità; confidiamo che esse saranno accolte da tutto il popolo Ungherese con animo pronto all’obbedienza. – Se i vostri padri trionfarono a Buda contro un nemico odiosissimo, ciò non fu ottenuto soltanto dalla forza bellica, ma dal vigore della fede, la quale, così come all’inizio generò gran forza e prestigio all’impero, così procurerà prosperità nella popolazione e gloria all’estero in futuro. Noi desideriamo che codesti benefici e codesti favori vi siano destinati, e perciò preghiamo, con l’intercessione della grande Vergine Madre di Dio, alla quale il regno d’Ungheria è consacrato e dalla quale ha anche preso il nome. Per lo stesso fine umilmente imploriamo l’intervento di Santo Stefano che, avendo ornato e avvantaggiato il vostro Stato con ogni genere di benefici, lo guarderà dall’alto dei cieli, come Noi speriamo, e lo proteggerà con sicuro patrocinio. – Con questa speranza, a Voi singolarmente, Venerabili Fratelli, al Clero ed a tutti i vostri fedeli impartiamo la Benedizione Apostolica più affettuosa nel Signore, come auspicio dei doni celesti e testimonianza della Nostra paterna benevolenza.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 22 agosto 1886, anno nono del Nostro Pontificato.

DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE (2021)

DOMENICA XXI DOPO PENTECOSTE (2021)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Le letture dell’Ufficio divino che si fanno in questa Domenica sono spesso quelle dei Maccabei (vedi Dom. precedente). « Antioco, soprannominato Epifane, avendo invaso la Giudea e devastato tutto, dice S. Giovanni Crisostomo, aveva obbligato molti Ebrei a rinunziare alle sante pratiche dei padri loro, ma i Maccabei rimasero costanti e puri in queste prove. Percorrendo tutto il paese, essi riunivano tutti i membri ancora fedeli e integri che incontravano; e di quelli che si erano lasciati abbattere o corrompere, ne riconducevano molti al loro primo stato, esortandoli a ritornare alla fede dei padri loro e rammentando loro che Dio è pieno di indulgenza e di misericordia e che mai rifiuta di accordare la salvezza al pentimento, che ne è il principio. E questa esortazioni facevano sorgere un esercito di uomini più valorosi, che combattevano non tanto per le loro donne, i loro figli, i loro servitori, o per risparmiare al paese la rovina e la schiavitù, quanto per la legge dei padri loro e i diritti della nazione. Dio stesso era il loro capo, e perciò, quando in battaglia serravano le file e prodigavano la loro vita, il nemico era messo in fuga: essi stessi fidavano meno nelle loro armi che nella causa che li armava e pensavano che essa sarebbe sufficiente per vincere anche in mancanza di qualunque armatura. Andando al combattimento, non empivano l’aria di vociferazioni e di canti profani come usano fare alcuni popoli: non si trovavano tra loro suonatori di flauto come negli altri campi; ma essi pregavano invece Iddio di mandar loro il suo aiuto dall’alto, di assisterli, di sostenerli, di dar loro man forte, poiché per Lui facevano guerra e combattevano per la sua gloria » (4a Domenica di ottobre Notturno). Dio non considera nel mondo che il suo popolo, Gesù Cristo e la sua Chiesa che sono una cosa sola. Tutto il resto è subordinato a questo. « Dio, che esiste ab æterno e che esisterà per tutti i secoli, è stato per noi, dice il Salmo del Graduale, un rifugio di generazione in generazione» (Introito). «Allorché Israele usci dall’Egitto e la casa di Giacobbe da un popolo barbaro » continua il Salmo dell’Alleluia, Dio consacrò Giuda al suo servizio e stabilì il suo impero in Israele ». Dopo aver mostrato tutti i prodigi, che Dio fece per preservare il suo popolo, il salmista aggiunge: « Il nostro Dio è in cielo, tutto quello che ha voluto, Egli lo ha fatto. La casa di Israele ha sperato nel Signore; Egli è il loro soccorso ed il loro protettore ». Il Salmo del Communio e del Versetto dell’Introito, dice il grido di speranza che le anime giuste innalzano al cielo: « L’anima mia è nell’attesa della tua salvezza, quando farai giustizia dei miei persecutori? Gli empi mi perseguitano, aiutami, Signore mio Dio». «Signore, aggiunge l’Introito, ogni cosa è sottomessa alla tua volontà, poiché Tu sei il Creatore e il padrone dell’Universo ». – « Signore, dice ugualmente la Chiesa nell’Orazione di questo giorno, veglia sempre misericordiosamente sulla tua famiglia, affinché essa sia, per mezzo della tua protezione, liberata da ogni avversità e attenda, con la pratica delle opere buone, a glorificare il tuo nome ». Il popolo antico e il popolo nuovo hanno un medesimo scopo, che è la glorificazione di Dio e l’affermazione dei suoi diritti. Tutti e due hanno anche gli stessi avversari, che sono satana e i suoi ministri. La Chiesa, ispirandosi alle Letture del Breviario delle Domeniche precedenti, ricorda oggi gli assalti che Giobbe ebbe da sostenere da parte di satana (Offertorio) e Mardocheo da parte di Aman, che fu calunniatore come il demonio (Introito). Dio liberò questi due giusti, come pure liberò il suo popolo dalla cattività d’Egitto, come venne in aiuto ai Maccabei che combattevano per difendere la sua causa. Cosi pure i Cristiani devono subire gli assalti degli spiriti maligni, poiché i persecutori della Chiesa sono suscitati dal demonio, come quelli del popolo d’Israele nell’antica legge. «Abbiamo da combattere, dice San Paolo, non contro esseri di carne e di sangue, ma contro i principi di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male sparsi nell’aria (Epistola). Come per i Maccabei che, per quanto valorosi, fidavano più in Dio che nelle loro armi, così i mezzi di difesa che devono adoperare i Cristiani sono anzitutto di ordine soprannaturale. « Fortificatevi nel Signore, dice l’Apostolo, e nella sua virtù onnipotente. Rivestitevi dell’armatura di Dio per difendervi dal demonio ». – I soldati romani, servono di esempio al grande Apostolo nella descrizione minuziosa che ci dà della panoplia mistica dei soldati di Cristo. Come armi difensive la Chiesa ha ricevuto nel giorno della Pentecoste, la rettitudine, la giustizia, la pace e la fede; come armi offensive le parole divinamente ispirate dallo Spirito Santo. Ora la parabola che Gesù ci dice nell’Evangelo di questo giorno, riassume tutta la vita cristiana nella pratica della carità, che ci fa agire verso il prossimo come Dio ha agito verso di noi. Egli ci ha perdonato delle gravi colpe: sappiamo a nostra volta perdonare ai nostri fratelli le offese che essi ci fanno e che sono molto meno importanti. Il demonio geloso porta gli uomini ad agire come quel servitore cattivo che prese per la gola il compagno, che gli doveva una somma minima e lo fece mettere in prigione perché non poteva pagare immediatamente. Se anche noi agiremo così, nel giorno del giudizio, cui ci prepara la liturgia di questa Domenica, dicendo: « Il regno dei cieli è simile ad un re che volle farsi rendere i conti dai suoi servi », Dio sarà verso di noi, quali noi saremo stati verso il prossimo. – L’Apostolo parla di una lotta accanita contro i nemici invisibili che ci lanciano dardi infiammati. Il combattimento è terribile e dobbiamo armarci fortemente per poter restare in piedi dopo aver riportata una vittoria completa. Come il soldato, il Cristiano deve avere un largo cinturone, una corazza, dei calzari, uno scudo, un elmo ed una spada.

Mostrarci implacabili per una ingiuria ricevuta, dice s. Girolamo, e rifiutare ogni riconciliazione per una parola amara, non è forse giudicare noi stessi degni della prigione? Iddio ci tratterà secondo le intime disposizioni del nostro cuore: se non perdoniamo, Dio non ci perdonerà. Egli è nostro giudice e non vuole un semplice perdono puramente esteriore. Ognuno deve perdonare a suo fratello « di tutto cuore », se vuol esser perdonato nell’ultimo giorno » (Mattutino).

Incipit9

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Esth. XIII: 9; 10-11
In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, cœlum et terram et univérsa, quæ cœli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es.

[Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.

[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

In voluntáte tua, Dómine, univérsa sunt pósita, et non est, qui possit resístere voluntáti tuæ: tu enim fecísti ómnia, coelum et terram et univérsa, quæ coeli ámbitu continéntur: Dominus universórum tu es.

[Nel tuo dominio, o Signore, sono tutte le cose, e non vi è chi possa resistere al tuo volere: Tu facesti tutto, il cielo, la terra e tutto quello che è contenuto nel giro dei cieli: Tu sei il Signore di tutte le cose.]

Oratio

Orémus.

Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut a cunctis adversitátibus, te protegénte, sit líbera, et in bonis áctibus tuo nómini sit devóta.

[Custodisci, Te ne preghiamo, o Signore, con incessante pietà, la tua famiglia: affinché, mediante la tua protezione, sia libera da ogni avversità, e nella pratica delle buone opere sia devota al tuo nome.]

Lectio

Lectio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes VI: 10-17

Fratres: Confortámini in Dómino et in poténtia virtútis ejus. Indúite vos armatúram Dei, ut póssitis stare advérsus insídias diáboli. Quóniam non est nobis colluctátio advérsus carnem et sánguinem: sed advérsus príncipes et potestátes, advérsus mundi rectóres tenebrárum harum, contra spirituália nequítiae, in coeléstibus. Proptérea accípite armatúram Dei, ut póssitis resístere in die malo et in ómnibus perfécti stare. State ergo succíncti lumbos vestros in veritáte, et indúti lorícam justítiæ, et calceáti pedes in præparatióne Evangélii pacis: in ómnibus suméntes scutum fídei, in quo póssitis ómnia tela nequíssimi ígnea exstínguere: et gáleam salútis assúmite: et gládium spíritus, quod est verbum Dei.

“Fratelli, fortificatevi nel Signore e nella forza della sua potenza. Vestite tutta l’armatura di Dio, perché possiate tener fronte alle insidie del demonio; poiché noi non abbiamo a combattere contro la carne ed il sangue, ma sì contro i principati, contro le podestà, contro i reggitori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti malvagi, per i beni celesti. Per questo pigliate l’intera armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio e in ogni cosa trovarvi ritti in piedi. Presentatevi adunque al combattimento cinti di verità i lombi, coperti dell’usbergo della giustizia, calzati i piedi in preparazione dell’Evangelo della pace. Sopra tutto prendete lo scudo della fede, col quale possiate spegnere tutti i dardi infuocati del maligno. Pigliate anche l’elmo della salute e la spada dello spirito, che è la parola di Dio „.

SOLDATI DI CRISTO.

L’Epistola d’oggi ci schiude dinanzi degli orizzonti di una vastità sconfinata, che sono però gli orizzonti stessi della vita cristiana. Ogni vita, nessuno ormai lo ignora, è a base di lotta, dalla forma più elementare e semplice alla più alta e complicata. La lotta è la condizione naturale della vita, ne è la intima legge. Non tutte le lotte hanno la stessa importanza appunto perché non tutte le forme di vita si svolgono allo stesso livello. Purtroppo, noi diamo molta importanza a lotte che ne hanno poca, pochissima. Tali, ad esempio, le nostre lotte economiche, che pure tanto ci appassionano, che noi giudichiamo spesso le maggiori, le massime nostre lotte. Il poeta moderno le poté perciò definire: « il ronzìo d’un’ape dentro un bugno vuoto ». Le grandi lotte, le vere, sono le lotte tipiche del Cristianesimo, le lotte morali. Il Cristianesimo è vita superiore, vita altissima dell’anima in Dio, Dio verità, Dio giustizia, Dio bontà, bontà sovratutto. La vita della verità, la vita cristiana della verità è per la bontà morale. E questa vita è lotta perché il bene ha un misterioso avversario: il male. Lotta individuale e sociale; ogni Cristiano impegna la sua lotta, per la verità contro l’errore, per la giustizia contro l’iniquità, per il bene contro il male. L’ultimo Cristiano, il più modesto, la povera donnicciola, l’umile contadino, l’operaio, sono militi di questa guerra. Che è poi la vita e la lotta della società cristiana, della Chiesa. – Ebbene, nelle lotte economiche anche più colossali, è impegnata una piccola parte del nostro pianeta. E ne risulta che le lotte (economiche) più all’apparenza gigantesche, sono piccole, sono cosa da poco, da nulla. E lasciano effettivamente di sé traccia così breve! Di fronte ad esse il Cristianesimo ha sempre affermato, afferma ancora la grandezza della sua lotta, la grande lotta morale, la lotta del bene e del male. San Paolo scrive frasi classiche per questa epica grandezza. Grandezza cosmica. In esso è interessato il mondo, proprio il mondo, tutto il mondo spirituale. Questo mondo spazia oltre la materia, oltre l’umanità per gli innumeri gradi che ricollegano Dio, lo Spirito più alto, all’uomo, l’infimo nella gerarchia spirituale. Tutto questo vastissimo mondo visibile e invisibile è ricollegato da quella unità di interesse. Nella vittoria del bene è interessata con Dio la falange degli spiriti buoni; nella vittoria del male è interessata l’opposta falange degli spiriti malvagi. Ecco le vere forze che stanno le une di fronte all’altre, di qua e di là tutte collegate. Il piccolo soldato che ha il suo piccolo settore di combattimento non si accorge della vastità del fronte suo, del fronte avverso; non la sente questa grandezza. San Paolo scuote questa incoscienza, scarsa coscienza nella quale ciascuno di noi rischia di precipitare: questa, chiamiamola così, involuzione, per cui ciascuno crede di avere il suo nemico solo dentro di sé, come dice benissimo l’Apostolo, la carne ed il sangue, il nostro egoismo, la nostra corruzione. Questa nemica individuale, intima, piccola c’è e bisogna rompere questa trincea fatale dell’egoismo; bisogna guarire dalla corruzione per vincere, per dar ragione in noi stessi a Dio, per diventare soldati suoi. Ma il nemico interiore ha degli alleati fuori di noi, alleato il mondo, l’ambiente sociale, le coalizioni di tutta la parte dell’umanità che non è con Dio. La quale, non essendo con Lui, è contro di Lui e contro tutti quelli che lo amano e lo seguono. E colla carne e col mondo, compie il trinomio grandioso il demonio, la coalizione del male, e la coalizione contro Dio. – Quando siamo chiamati a deciderci, e la decisione è il punto saliente, il vero momento tragico, della vita, non siamo chiamati a deciderci tra entità astratte, bene e male, ma tra forze concrete e vive e innumerevoli, estesissime. Ogni vittoria nostra, ogni vittoria in noi del bene ha ripercussione immensa in tutta la falange degli spiriti buoni, di rabbia nel mondo degli spiriti malvagi: e viceversa d’ogni nostra sconfitta che noi decretiamo al bene, si rallegra la falange malvagia; la santa falange si rattrista. E anche questo deve essere a noi motivo e stimolo di valore. Alla grandezza della pugna dev’essere proporzionata la grandezza spirituale del combattente. Armiamoci nel Nome di Dio, per una lotta nella quale sono impegnati l’onore di Lui e i destini del mondo.

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.

(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)

Graduale

Ps LXXXIX: 1-2
Dómine, refúgium factus es nobis, a generatióne et progénie.
V. Priúsquam montes fíerent aut 9 terra et orbis: a saeculo et usque in sæculum tu es, Deus.

[O Signore, Tu sei il nostro rifugio: di generazione in generazione.
V. Prima che i monti fossero, o che si formasse il mondo e la terra: da tutta l’eternità e sino alla fine]

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps 113: 1
In éxitu Israël de Ægýpto, domus Jacob de pópulo bárbaro. Allelúja.

[Quando Israele uscí dall’Egitto, e la casa di Giacobbe dal popolo straniero. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XVIII: 23-35
In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis parábolam hanc: Assimilátum est regnum cœlórum hómini regi, qui vóluit ratiónem pónere cum servis suis. Et cum cœpísset ratiónem pónere, oblátus est ei unus, qui debébat ei decem mília talénta. Cum autem non habéret, unde rédderet, jussit eum dóminus ejus venúmdari et uxórem ejus et fílios et ómnia, quæ habébat, et reddi. Prócidens autem servus ille, orábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Misértus autem dóminus servi illíus, dimísit eum et débitum dimísit ei. Egréssus autem servus ille, invénit unum de consérvis suis, qui debébat ei centum denários: et tenens suffocábat eum, dicens: Redde, quod debes. Et prócidens consérvus ejus, rogábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Ille autem nóluit: sed ábiit, et misit eum in cárcerem, donec rédderet débitum. Vidéntes autem consérvi ejus, quæ fiébant, contristáti sunt valde: et venérunt et narravérunt dómino suo ómnia, quæ facta fúerant. Tunc vocávit illum dóminus suus: et ait illi: Serve nequam, omne débitum dimísi tibi, quóniam rogásti me: nonne ergo opórtuit et te miseréri consérvi tui, sicut et ego tui misértus sum? Et irátus dóminus ejus, trádidit eum tortóribus, quoadúsque rédderet univérsum débitum. Sic et Pater meus cœléstis fáciet vobis, si non remiséritis unusquísque fratri suo de córdibus vestris.

In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. E avendo iniziato a fare i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Ma non avendo costui modo di pagare, il padrone comandò che fosse venduto lui, sua moglie, i figli e quanto aveva, e cosí fosse saldato il debito. Il servo, però, gettatosi ai suoi piedi, lo supplicava: Abbi pazienza con me, e ti renderò tutto. Mosso a pietà, il padrone lo liberò, condonandogli il debito. Ma il servo, partito da lí, trovò uno dei suoi compagni che gli doveva cento denari: e, presolo per la gola, lo strozzava dicendo: Pagami quello che devi. E il compagno, prostratosi ai suoi piedi, lo supplicava: Abbi pazienza con me, e ti renderò tutto. Ma quegli non volle, e lo fece mettere in prigione fino a quanto lo avesse soddisfatto. Ora, avendo gli altri compagni veduto tal fatto, se ne attristarono grandemente e andarono a riferire al padrone tutto quello che era avvenuto. Questi allora lo chiamò a sé e gli disse: Servo iniquo, io ti ho condonato tutto quel debito, perché mi hai pregato: non dovevi dunque anche tu aver pietà di un tuo compagno, come io ho avuto pietà di te? E sdegnato, il padrone lo diede in mano ai carnefici fino a quando non avesse pagato tutto il debito. Lo stesso farà con voi il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello.”

OMELIA

Sulla collera.

Tenens suffocabat eum, dicens: Redde quod debes.

(MATTH. XVIII, 28).

Come sono differenti i sentimenti dell’uomo da quelli di Dio! Questo miserabile, cui era stato condonato tutto ciò che doveva al suo padrone, invece di sentirsi mosso a riconoscenza ed esser pronto ad usare la medesima indulgenza verso il suo fratello, non appena lo scorge, monta su tutte le furie, non sa trattenersi, lo prende per la gola e sembra volerlo strozzare. L’altro può ben gettarglisi ai piedi per domandargli grazia, niente lo commuove, niente lo trattiene. Bisogna che sfoghi il suo furore contro quell’infelice, e lo fa gettare in prigione finché abbia pagato il debito. Tale è, Fratelli miei, la condotta della gente del mondo. Dio ci è rappresentato nel padrone. Se Egli ci condona volontariamente quanto dobbiamo alla sua giustizia, se ci tratta con tanta bontà e dolcezza, è perché, dietro il suo esempio, noi ci abbiamo a comportare allo stesso modo coi nostri fratelli. Ma un uomo, ingrato e violento, dimentica subito ciò che il buon Dio ha fatto per lui. Per un nonnulla lo si vedrà abbandonarsi a tutto il furore d’una passione così indegna di un Cristiano, e così oltraggiosa verso un Dio di dolcezza e di bontà. Temiamo, F. M., una passione così malvagia, così capace di allontanarci da Dio e che fa condurre a noi ed a tutti quelli che ci circondano una vita infelice. Vi mostrerò:

1° quanto la collera oltraggi Dio;

2° quanto sia indegna d’un Cristiano.

I. — Non intendo parlarvi di quelle piccole impazienze, di quei borbottamenti che sono così frequenti. Sapete che ogni qualvolta non vi frenate offendete Dio. Sebbene questi non siano ordinariamente peccati mortali, non dovete però mancare di accusarvene. Se voi mi domandate che cos’è la collera, vi risponderò che è un moto violento, impetuoso dell’anima, che rigetta con veemenza ciò che le dispiace. Se apriamo i libri santi dove si contengono le azioni degli uomini che formarono l’ammirazione del cielo e della terra, vediamo dappertutto che essi hanno sempre avuto in orrore questo maledetto peccato, e che l’hanno considerato come segno di riprovazione. Frattanto vi dirò con S. Tommaso che v’ha una santa collera, la quale proviene dallo zelo che abbiamo nel difendere la causa di Dio. Si può, dice egli, qualche volta adirarsi senza offendere Dio, secondo il Re profeta: Adiratevi; ma non peccate„. (Ps. IV, 5) Vi ha dunque una collera giusta e ragionevole, la quale si può piuttosto chiamare zelo che collera. La sacra Scrittura ce ne mostra un gran numero d’esempi. Vi leggiamo che Finees (Num. XXV), uomo che temeva il Signore e sosteneva la sua causa, entrò in una santa collera alla vista dello scandaloso peccato di un Giudeo con una Madianita, e li uccise con un colpo di spada. Non solo egli non offese il Signore colla morte di quei due miserabili, ma al contrario fu lodato del suo zelo nel vendicar le offese che gli si facevano. E tale fu la condotta di Mosè. Indignato perché gli Israeliti avevano adorato un vitello d’oro disprezzando il vero Dio, ne fece uccidere ventitré mila per vendicare il Signore; e ciò per ordine di Dio stesso (Exod. XXXII, 28). Tale ancora fu quella di Davide che, fin dal mattino, dichiarava guerra a tutti quei grandi peccatori che passavano la vita oltraggiando Iddio (Ps C, 8). E tale infine fu quella di Gesù Cristo stesso, quando entrò nel tempio per scacciare quelli che compravano e vendevano, dicendo loro: “La mia casa è casa di preghiera, e voi ne avete fatto una spelonca di ladri (Matt. XXI, 13)„. – Tale deve essere la collera d’un pastore, cui sta a cuore la salute dei suoi parrocchiani e la gloria di Dio. Se un pastore resta muto vedendo Dio oltraggiato e le anime perdersi, guai a lui! Se non vuol dannarsi bisogna che, se vi è qualche disordine in parrocchia, metta sotto i piedi il rispetto umano ed il timore d’essere odiato o disprezzato dai suoi parrocchiani, e quand’anche fosse certo d’esser ucciso appena sceso dal pulpito, ciò non deve trattenerlo. Un pastore che vuol adempiere il suo dovere deve sempre avere la spada in mano per difendere gli innocenti, ed incalzare i peccatori finché non siano ritornati a Dio; questo continuo incalzare deve durare fino alla morte. Se non fa così, è un cattivo sacerdote, che perde le anime, invece di condurle a Dio. Se vedete succedere qualche scandalo nella vostra parrocchia, ed i vostri pastori non dicono nulla; guai a voi, perché Dio mandandovi tali pastori vi punisce. Dico dunque che tutte queste collere non sono che sante collere, lodate ed approvate da Dio stesso. Se tutte le vostre collere fossero così, non si potrebbe che lodarvi. Ma quando riflettiamo un poco su ciò che avviene nel mondo, quando s’odono tanti sussurri, si vedono dissensioni regnare tra vicini e vicine tra fratelli e sorelle; riconosciamo in ciò una passione violenta, ingiusta, viziosa ed irragionevole, di cui occorre mostrarvi gli effetti dannosi, per farvene concepire l’orrore che merita. Ascoltate quello che ci dice lo Spirito Santo: L’uomo quando s’incollerisce, non solo perde la sua anima ed il suo Dio, ma accorcia anche i suoi giorni, « Zelus et iracundia minuunt dies ». (Eccli. XXX, 26). – Ve lo provo con un esempio sorprendente. Leggiamo nella storia della Chiesa che l’imperatore Valentiniano, ricevendo gli ambasciatori dei Quadi, s’infuriò così grandemente, che perdette il respiro e morì sull’istante. Dio mio! che orrore! che passione detestabile e mostruosa! essa dà la morte a chi se ne lascia soggiogare. So bene che non si va di frequente a tali eccessi; ma quante donne incinte, abbandonandosi alla collera, fanno perire i loro poveri figli prima di aver loro dato la luce ed il battesimo! Questi disgraziati non avranno dunque mai più la fortuna di vedere Dio! Nel giorno del giudizio li vedremo perduti: essi non andranno mai in cielo! E la collera d’una madre ne sarà stata la sola causa! Ahimè! questi poveri fanciulli gridano spesso nell’inferno: Ah, maledetto peccato di collera, di quanti beni ci hai privati!… tu ci hai strappato il cielo; tu ci hai condannati ad essere divorati dalle fiamme! Dio mio, quanti beni ci ha strappati questo peccato! Addio, bel cielo, noi non ti vedremo mai: ah! quale disgrazia!… Mio Dio, una donna che si fosse resa colpevole d’un tal delitto, potrebbe vivere senza versare giorno e notte torrenti di lacrime, e non ripetere ad ogni momento: Disgraziata, che hai fatto? dov’è il tuo povero bambino? tu l’hai gettato nell’inferno. Ahimè! quali rimproveri nel giorno del giudizio, quando lo vedrai venire a domandarti il cielo! Questo povero bambino si getterà sulla madre con un furore spaventoso. Ah! madre! le dirà, maledetta madre! rendimi il cielo! tu me l’hai strappato! Questo bel cielo che non vedrò mai, te lo domanderò per tutta l’eternità; questo bel cielo che la collera d’una madre mi ha fatto perdere!… Mio Dio! che disgrazia! Eppure quanto è grande il numero di questi poveri bambini! — Una donna incinta, confessandosi d’un peccato di collera, se vuol salvarsi non deve mancare di far conoscere il suo stato, perché invece d’un peccato mortale può averne commessi due. Se non fate così, cioè se non dite questa circostanza, dovete dubitare delle vostre confessioni. Così un marito che ha fatto incollerire sua moglie deve accusarsi di questa circostanza, e lo stesso devono fare tutti coloro che si sono resi colpevoli del medesimo fallo. Ahimè! come son pochi quelli che si accusano di questo! Mio Dio! quante confessioni cattive! Il profeta Isaia ci dice che l’uomo in collera è simile ad un mare in tempesta. (Isa. LVII, 20). Bella similitudine, F. M… Infatti, niente rispecchia meglio il cielo come il mare quand’è calmo; è un grande specchio nel quale gli astri sembrano riprodursi; ma subito, quando l’uragano commove le acque, tutte queste celesti immagini scompaiono. Così, l’uomo che ha la fortuna di conservare la pazienza e la dolcezza è, in questa calma, un’immagine sensibile di Dio. Ma non appena la collera e l’impazienza hanno distrutta questa calma, l’immagine della divinità scompare. Quest’uomo cessa d’essere l’immagine di Dio, e diventa l’immagine del demonio. Ne ripete le bestemmie, ne riproduce il furore. Quali sono i pensieri del demonio? Non sono che pensieri di odio, di vendetta, di divisione, e tali sono quelli di un uomo in collera. Quali sono le espressioni del demonio? Maledizioni e bestemmie orribili. Se ascolto un uomo in collera, dalla sua bocca non si sentono che spergiuri e maledizioni. Mio Dio! che triste compagnia è quella d’una persona che va soggetta alla collera! Vedete una povera donna che ha un tal marito: se essa ha il timor di Dio e vuol evitare a lui delle offese, ed a sé dei cattivi trattamenti, non può dire una sola parola, anche se ne avesse il più gran desiderio. Bisogna che si accontenti di lamentarsi e piangere in segreto, per poter vivere d’accordo e non dare scandalo. — Ma, mi dirà un uomo stizzoso, perché ella mi resiste? sa bene che sono stizzoso. — Voi, amico, siete stizzoso, ma credete che gli altri non lo siano al par di voi? Dite piuttosto che non avete religione, e direte quello che veramente siete. Una persona che ha il timor di Dio non deve forse saper domare le proprie passioni, invece di lasciarsi domare da esse? – Ahimè! se ho detto che vi sono delle mogli disgraziate perché hanno mariti furiosi; vi sono dei mariti che non sono meno disgraziati con donne, che non sapranno mai dire una parola dolce, che per un nonnulla s’infuriano e vanno fuori di sé. Ma quale disgrazia in un matrimonio quando né l’uno né l’altra si vogliono piegare; sono continui alterchi, collere e maledizioni. Gran Dio! Non è questo un vero inferno anticipato? Ahimè! a quale scuola sono quei poveri fanciulli? quali lezioni di bontà e di dolcezza ricevono? S. Basilio ci dice che la collera rende l’uomo simile al demonio, perché non vi sono che i demoni capaci di abbandonarsi a tale sorta di eccessi. Una persona in questo stato è simile ad un leone furente, il cui ruggito fa di terrore gli altri animali. Vedete Erode, poiché i re Magi l’avevano ingannato, preso da tale collera, o meglio da tale ira che fece sgozzare tutti i piccoli fanciulli di Betlemme e dei dintorni (Matt. II, 16). E non si contentò di questi orrori, ma fece pugnalare anche sua moglie ed i suoi figli. Ahimè! quanti poveri fanciulli sono storpiati per tutta la loro vita, per i crudeli colpi che hanno avuti dai loro genitori in questi eccessi di collera! Ma aggiungo che la collera quasi mai è sola, essa è sempre accompagnata, come vedremo, da molti altri peccati.

II. — La collera trascina con sé spergiuri, bestemmie, rinnegamenti di Dio, maledizioni, imprecazioni. S. Tommaso ci dice che il giurare è un peccato così grave, così orribile agli occhi di Dio, che noi non potremo mai comprendere l’oltraggio che gli fa. Questo peccato non è come gli altri che per la leggerezza della materia sono soltanto peccati veniali. Nei giuramenti, più la materia è leggera, e più il peccato è grave, perché è un maggior disprezzo ed una maggior profanazione del santo Nome di Dio. Lo Spirito Santo ci assicura che la casa dell’uomo solito a giurare sarà piena d’iniquità, e non cesseranno per essa i castighi di Dio fino a che non sarà distrutta (Eccli. XXIII, 12). Si può sentire senza fremere questi disgraziati, che osano portare il loro furore fino a giurare sul santo Nome di Dio, questo Nome adorabile che gli Angeli con tanta gioia ripetono incessantemente: “Santo, santo, santo, è il Dio degli eserciti! sia benedetto per tutti i secoli de’ secoli! „ Se si riflettesse bene prima di usare la lingua, che essa è un organo datoci da Dio per pregarlo, per cantare le sue lodi; che questa lingua è stata bagnata dal Sangue prezioso di Gesù Cristo, che essa tante volte ha servito di altare al Salvatore stesso; si potrebbe servirsene per oltraggiare un Dio così buono, e per profanare un Nome così santo e così rispettabile?… Vedete come i Santi abborrivano i giuramenti. S. Luigi, re di Francia, aveva fatta una legge per la quale chi giurasse avrebbe la lingua forata da un ferro rovente. Un cittadino di Parigi, in un alterco, giurò il santo Nome di Dio. Fu condotto davanti al re, che tosto lo condannò ad avere forata la lingua. Essendo venuti tutti i personaggi insigni della città per domandare grazia, il re rispose loro che, se egli avesse avuto sventura di cadere in tale peccato, da stesso se la sarebbe traforata. Ed ordinò che la sentenza fosse eseguita. Quando andò a combattere in Terra santa, venne fatto prigioniero. Gli si domandò un giuramento che, del resto, non sembrava offendere la sua coscienza, tuttavia, preferì esporsi alla morte, tanto temeva di giurare (Ribadeneira, 25 Ag.). Perciò vediamo che chi giura spesso, d’ordinario è una persona abbandonata da Dio, oppressa da mille disgrazie che fa non di rado una fine infelice. Leggiamo nella storia un esempio che può ispirarci il più grande orrore pel giuramento. Quando S. Narciso governava la chiesa di Gerusalemme, tre libertini lo calunniarono orribilmente, appoggiando le loro asserzioni con tre esecrabili giuramenti. Il primo disse che, se quanto affermava non era vero, voleva essere abbruciato vivo; l’altro che voleva morire di male caduco; ed il terzo che  voleva gli fossero strappati gli occhi. Per queste calunnie, S. Narciso fu scacciato dalla città come un infame, cioè come un Vescovo che s’abbandonava ad ogni sorta d’impurità. Ma la vendetta di Dio non tardò a punire quegli infelici. Essendosi appiccato il fuoco alla casa del primo, questi vi restò abbruciato vivo. Il secondo morì di male caduco; il terzo, spaventato da sì orribili castighi, perdette la vista piangendo i suoi peccati. So che questi giuramenti avvengono di rado. I più ordinari sono: In fede mia! — In coscienza! — Mio Dio! sì; — Mio Dio! no; perbacco! — caspita! — cane d’un…! – Quando vi confessate, dovete dire il perché avete giurato; se per affermare cose false o vere: se avete fatto giurare altre persone, perché non volevate credere ad esse. Dovete dire se ne avete l’abitudine, e da quanto tempo. Bisogna poi guardarsi bene di non aggiungere al giuramento l’imprecazione. Vi sono alcuni che dicono: “Se questo non è vero, che non mi muova mai più di qui; che non veda il cielo; che Dio mi danni! che la peste mi soffochi! che il diavolo mi porti via! …„ Ahimè! amico, forse il diavolo non aspetta che la tua morte per portarti via! … Dovete dire nelle vostre confessioni, se ciò che avete detto era o no contro la verità. Alcuni credono che non sia alcun male giurando per assicurare che una cosa è vera. Il male, non è certo così grave come se si fosse giurata una cosa falsa; ma è sempre un peccato e grave. Siete adunque obbligati di accusarvene sempre, senza di che vi dannerete. Eccone un esempio che fa tremare. Si racconta nella vita di S. Edoardo, re d’Inghilterra (Ribadeneira, 13. ott.) che il conte Gondevino, suocero del re, era così geloso che non poteva sopportare persona alcuna vicino al re. Il re l’accusò un giorno d’aver cooperato all’uccisione di suo fratello. Il conte rispose che se ciò era vero, voleva che un boccone di pane lo soffocasse. Il re fece il segno di croce su un pezzo di pane; il suocero lo prese e, mentre l’inghiottiva, il pane gli s’infisse nella gola e lo soffocò, ed egli morì. Terribile punizione, F. M. Ahimè! dove andò la sua povera anima, poiché morì nell’atto di commettere questo peccato? Non solo: non dobbiamo giurare per qualunque pretesto, anche se si trattasse di perdere i beni, l’onore e la vita; perché, giurando, perdiamo il cielo, il nostro Dio e la nostra anima; ma non dobbiamo nemmeno far giurare gli altri. S. Agostino ci dice (Serm. CCCVIII) che, se prevediamo che quelli che facciamo chiamare in giudizio, giureranno il falso, non dobbiamo farli chiamare; noi siamo colpevoli al par loro, ed ancor più colpevoli che se togliessimo loro la vita. Infatti, uccidendoli, non facciamo che dare la morte al loro corpo, se hanno la fortuna di essere in istato di grazia; il male è tutto nostro; invece facendoli giurare, perdiamo la loro povera anima, e la perdiamo per tutta l’eternità. Si racconta che un cittadino di Ippona, uomo dabbene, ma molto attaccato alla terra, costrinse uno, cui aveva prestato del denaro, a giurare in giudizio; costui giurò il falso. La stessa notte, si trovò in sogno presentato al tribunale di Dio. — Perché hai tu fatto giurare quest’uomo?… Non dovevi perdere ciò che ti doveva piuttosto che rovinare la sua anima? Gesù Cristo gli disse che per questa volta gli perdonava, ma che lo condannava ad essere staffilato; il che fu sull’istante eseguito dagli Angeli. Al domani si trovò tutto coperto di piaghe. — Voi mi direte: Devo perdere quello che mi si deve? — Sì, dovreste perdere quello che vi è dovuto: stimate voi, dunque, meno l’anima del vostro fratello che il vostro denaro? – Del resto, siete sicuri che se farete questo per Iddio, Egli non mancherà certo di ricompensarvene. I padri e le madri, i padroni e le padrone devono esaminarsi se non sono mai stati, per i loro figli o dipendenti, causa di qualche giuramento, pel timore d’essere maltrattati o rimproverati. Si giura tanto il vero che il falso. Guardatevi bene, quando sarete chiamati in giudizio, di non giurare mai il falso. Anche se non avete giurato, dovete esaminarvi se avete avuto il pensiero, e quante volte l’avete avuto; se avete consigliato agli altri di giurare il falso col pretesto, che, dicendo la verità, verrebbero condannati. Siete obbligati a dire tutto questo. Accusatevi anche se avete usato qualche astuzia di parole per dire in modo differente da quello che pensavate; perché siete obbligati di dire ciò che pensate, ciò che avete visto e sentito; altrimenti commettete un grave peccato. Dovete altresì accennare distintamente se avete fatto qualche cosa per indurre gli altri a mentire: così un padrone, che minacciasse il servo di maltrattarlo o di fargli perdere il posto, deve dir in confessione tutto questo, altrimenti la confessione non sarebbe che un sacrilegio. Lo Spirito Santo ci dice che il falso testimonio sarà punito rigorosamente (Deut. XIX, 18. 21).  – Ho detto che cos’è il giuramento e lo spergiuro; vediamo ora che cos’è la bestemmia. Vi sono molti che non sanno distinguere la bestemmia dal giuramento. Se non sapete distinguere l’uno dall’altra, non potete sperare che le vostre confessioni siano buone, poiché non fate conoscere i vostri peccati come li avete commessi. Ascoltatemi dunque, affinché abbiate a togliere questa ignoranza che certissimamente vi dannerà. Bestemmia è parola greca che vuol dire detestazione, maledizione d’una beltà infinita. S. Agostino ci dice (De morìbus Manichæorum lib. II, lib. XI) che si bestemmia quando si attribuisce a Dio quello che non ha o non gli conviene: quando gli si toglie quello che gli compete, o, infine, quando si attribuisce a sé quello che non è dovuto che a Dio. Spieghiamoci.

1° Noi bestemmiamo quando diciamo che Dio non è giusto, se ciò che facciamo od intraprendiamo non riesce.

2° Dire che Dio non è buono, come fanno alcuni nell’eccesso della loro miseria, è una bestemmia.

3° Bestemmiamo quando diciamo che Dio non sa tutto; che non bada a quello che avviene sulla terra; ch’Egli non sa che noi siamo al mondo; che tutto va a casaccio; che Dio non si cura di sì poca cosa; che venendo al mondo siamo destinati ad essere felici od infelici, o che Dio non vi muta nulla.

4° Quando diciamo: Se Iddio usasse misericordia con quel tale, non sarebbe proprio giusto, perché ne ha fatte troppe, e non merita che l’inferno.

5° Quando ci adiriamo con Dio per qualche perdita, e diciamo: No, Dio non può farmi più di quello che mi ha fatto. Ed è pure una bestemmia mettere a burla e motteggiare la Ss. Vergine od i Santi dicendo: È un santo che ha poca potenza; son già più giorni che prego… e non ho nulla ottenuto; certo non ricorro più a lui. È una bestemmia dire che Dio non è potente, e trattarlo indegnamente, come dicendo: A dispetto di Dio! ecc. – I Giudei avevano talmente in orrore questo peccato che, quando sentivano bestemmiare, si stracciavano le vesti in segno di dolore (Per esempio Caifa, durante la passione. Matth. X. vers. 65). Il santo Giobbe temeva questo peccato a tal segno che, nel timore che i suoi figli l’avessero a commettere, offriva a Dio dei sacrifizi in espiazione (Job. I, 5). Il profeta Nathan disse a Davide: Poiché sei stato la causa che si bestemmiasse Dio, tuo figlio morrà, ed i castighi non si allontaneranno dalla tua casa per tutta la tua vita (II Reg. XII, 14). Il Signore dice nella sacra Scrittura (Lev. XXIV, 16.): Chiunque bestemmierà il mio santo Nome, voglio sia messo a morte; quando gli Ebrei erano nel deserto, venne sorpreso un uomo che bestemmiava, ed il Signore ordinò che fosse ucciso a colpi di pietra (Lev. XXIV, 14). Sennacherib, re degli Assiri, che assediava Gerusalemme, aveva bestemmiato il Nome di Dio, dicendo che a dispetto di Dio prenderebbe la città e la metterebbe tutta a ferro e fuoco; il Signore allora mandò un Angelo, che in una sola notte uccise cento ottantacinquemila uomini, e il re stesso fu sgozzato dai suoi propri figli al suo ritorno a Ninive, nel tempio di Moloch, (IV Reg. XIX). Fin dal principio del mondo la bestemmia è sempre stata in orrore: essa è infatti il linguaggio dell’inferno, poiché il demonio ed i dannati non cessano di proferirla. Quando l’imperatore Giustino sapeva che qualcuno dei suoi sudditi aveva bestemmiato, gli faceva tagliare la lingua. Durante il regno del re Roberto, la Francia fu afflitta da una grande guerra. Il buon Dio rivelò ad un’anima santa che tutti questi mali durerebbero sino a che nel regno non si cessasse dal bestemmiare. Non è dunque uno straordinario miracolo, che una casa dove si trova un bestemmiatore non venga schiacciata dalla folgore, ed oppressa da ogni sorta di disgrazie? S. Agostino dice ancora che la bestemmia è un peccato più grave dello spergiuro; perché in questo si prende Dio come testimonio d’una cosa falsa; in quella invece è una cosa falsa che si attribuisce a Dio (S. Aug. Contra mendacium, c. XIX). Riconoscete dunque con me, F. M., l’enormità di questo peccato e la disgrazia di chi vi si abbandona. Quando taluno vi si è abbandonato, non deve temere che la giustizia di Dio lo punisca sull’istante come ha fatto con tanti altri? – Vediamo ora la differenza che passa tra la bestemmia ed il rinnegar Dio. Non voglio parlarvi di quelli, che rinnegano Dio abbandonando la Religione Cattolica per abbracciarne una falsa, come i protestanti, i giansenisti e tanti altri. Noi chiamiamo queste persone rinnegati ed apostati. Parlo ora di quelli che, dopo qualche perdita o qualche disgrazia, hanno la maledetta abitudine di uscire in parole di collera contro Dio. Questo peccato è orribile, perché per la minima cosa che ci accade, ce la prendiamo con Dio stesso, e ci adiriamo con Lui: è come se dicessimo a Dio: Siete un…! un… ! uno sciagurato, un vendicativo! Voi mi punite per quell’azione, voi siete ingiusto! Dio deve subire la nostra collera, come se fosse la causa della perdita che abbiamo fatto, dell’incidente che ci è toccato. Non fu questo tenero Salvatore che ci ha tratti dal nulla, che ci ha creati a sua immagine, che ci ha riscattati col proprio Sangue prezioso, e che ci conserva così lungamente, mentre meriteremo già da molti anni d’essere inabissati nell’inferno?… Egli ci ama di un amore ineffabile, e noi lo disprezziamo; profaniamo il suo santo Nome, lo spergiuriamo, lo rinneghiamo! Oh orrore! V’ha forse delitto più mostruoso? Non è imitare il linguaggio dei demoni? dei demoni, che null’altro fanno nell’inferno? Ahimè! F. M., se li imitate in questa vita, state ben certi di andare a far loro compagnia nell’inferno. Dio mio! può un Cristiano abbandonarsi a tali orrori! Una persona che s’abbandona a questo peccato deve aspettarsi una vita disgraziata, anche in questo mondo. Si racconta che un uomo, il quale aveva bestemmiato per tutta la sua vita, disse al prete che lo confessava: Ahimè! padre, quanto fu disgraziata la mia vita! Io avevo l’abitudine di giurare, di bestemmiare il Nome di Dio; ho perduto le mie ricchezze, che erano considerevoli; i miei figli, su cui non ho attirato che maledizioni, non sono buoni a nulla; la mia lingua, che ha giurato, bestemmiato il Nome santo di Dio, è ulcerata e va incancrenandosi. Ahimè! dopo essere stato disgraziato in questo mondo, temo di dannarmi in causa delle mie bestemmie. Ricordatevi, F. M., che la lingua non vi è stata data che per benedire il buon Dio; essa gli è stata consacrata col santo Battesimo e colla santa Comunione. Se per disgrazia andate soggetti a questo peccato, dovete confessarvene con grande dolore e farne un’aspra penitenza; altrimenti ne subirete il castigo nell’inferno. Purificate la vostra bocca, pronunciando con rispetto il Nome di Gesù. Domandate spesso a Dio la grazia di morire, piuttosto di ricadere in questo peccato. Non avete mai pensato quanto la bestemmia sia orribile davanti a Dio e davanti agli uomini? Ditemi, vi siete confessati come si deve? Non vi siete accontentato di dire che avete giurato, oppure che avete detto delle parole triviali? Esaminate la vostra coscienza, e non addormentatevi, poiché può darsi che le vostre confessioni non valgano nulla. – Vediamo ora che cosa s’intende per maledizione ed imprecazione. Ecco. Si cade nella maledizione quando, trascinati dall’odio o dalla collera, vogliamo annientare o rendere disgraziato chiunque si opponga alla nostra volontà. Queste maledizioni cadono su di noi, sui nostri simili, sulle creature animate od anche inanimate. Quando facciamo così, non operiamo secondo lo spirito di Dio, che è uno spirito di dolcezza, di bontà e di carità; ma secondo lo spirito del demonio, il cui ufficio è solo quello di maledire. Le maledizioni più cattive sono quelle che i padri e le madri invocano sui loro figli, per i grandi mali che ne seguono. Un figlio maledetto dai suoi genitori è ordinariamente, un figlio maledetto da Dio stesso; perché Dio ha detto che se i genitori benedicono i loro figli, Egli li benedirà: al contrario, se li maledicono, la maledizione cadrà su di loro. (Eccli. III, 11). S. Agostino ne cita un esempio degno d’essere impresso per sempre nel cuore dei padri e delle madri. Una madre, ci dice, incollerita, maledisse i suoi tre figli ed all’istante essi furono invasi dal demonio (De civ. Dei). Un padre disse ad uno dei suoi figli: Non morirai una benedetta volta dunque? Il figlio cadde morto a’ suoi piedi. Ciò che aggrava di più questo peccato, è che se un padre ed una madre hanno l’abitudine di commetterlo, i figli contrarranno la medesima abitudine, ed il vizio diventa ereditario nella famiglia. Se vi sono tante case disgraziate, e che sono veramente la soddisfazione dei demoni e l’immagine dell’inferno, ne troverete la spiegazione nelle bestemmie e nelle maledizione degli antenati, che sono passate da nonno in padre, da padre in figlio, e continuerete così di generazione in generazione. Voi avete sentito un padre incollerito pronunziar giuramenti, imprecazioni e maledizioni; ebbene! ascoltate i suoi figli quando sono in collera: hanno sulle labbra gli stessi giuramenti; le stesse imprecazioni. Così i vizi dei genitori passano nei loro figli, come le loro ricchezze e meglio ancora. Gli antropofagi non uccidono che gli stranieri per mangiarli; ma, fra i Cristiani vi sono dei padri e delle madri che, per soddisfare le loro passioni, augurano la morte a coloro ai quali essi stessi han dato la vita ed abbandonano al demonio tutti coloro che Gesù Cristo ha riscattati col suo Sangue prezioso. Quante volte si sente dire da questi padri e madri senza religione: Ah! maledetto ragazzo, non creperai… una volta? Mi dai fastidio; il buon Dio non ti punirà dunque una buona volta?… vorrei che tu fossi lontano da me quanto mi sei vicino! cane d’un ragazzo! demonio d’un figlio! Carogne di figli!… bestie! O mio Dio! possibile che tutte queste maledizioni escano dalla bocca d’un padre e d’una madre, i quali non dovrebbero augurare e desiderare ai loro poveri figli che le benedizioni del cielo? Se vediamo tanti figli scemi, storpi, stizzosi, senza religione, non cerchiamone la causa, almeno per la maggior parte dei casi, che nelle maledizioni dei genitori. – Qual è poi il peccato di coloro che nei momenti di malumore maledicono se stessi? È un delitto spaventoso, contrario alla natura e alla grazia; poiché la natura e la grazia ci comandano l’amore verso noi stessi. Chi maledice se stesso rassomiglia ad un arrabbiato, che si uccide colle proprie mani; egli è anche peggiore; spesso se la prende colla sua anima, dicendo: Che Dio mi danni! che il diavolo mi porti via! vorrei essere all’inferno piuttosto che in questa condizione! Ah! disgraziato, dice S. Agostino, che Dio non ti esaudisca; perché andresti a vomitare il veleno della tua rabbia nell’inferno! Mio Dio! se un Cristiano pensasse a ciò che dice, avrebbe la forza di pronunciare queste bestemmie, che potrebbero, in qualche modo, obbligare Dio a maledirlo dall’alto del suo trono? Oh! quanto è disgraziato un uomo soggetto alla collera! Egli costringe a punirlo quel Dio, il quale non vorrebbe che il suo bene e la sua felicità! Si riuscirà mai a comprendere questa cosa? – Qual è pure il peccato d’un marito e d’una moglie, d’un fratello e d’una sorella che vomitano l’un contro l’altro ogni sorta di maledizioni? È un peccato di cui non si potrà mai esprimere l’enormità; è un peccato tanto più grande quanto più rigorosamente essi sono obbligati ad amarsi ed a sopportarsi a vicenda. Ahimè! Quante persone maritate non cessano di vomitarsi vicendevolmente ogni sorta di maledizioni! Un marito ed una moglie che non dovrebbero farsi che dei felici augùri, e sollecitare la misericordia di Dio per ottenere l’un per l’altro d’andar in cielo a passare insieme l’eternità, si caricano di maledizioni; si strapperebbero, potendolo, gli occhi, si toglierebbero la vita! Maledetta moglie, o maledetto marito, gridano, non t’avessi, almeno, mai visto o conosciuto! Ah! maledetto mio padre, che m’ha consigliato di sposarti! … Mio Dio! quale orrore per dei Cristiani, i quali non dovrebbero occuparsi che di diventar santi! Essi fanno come i demoni ed i dannati! Quanti fratelli e sorelle vediamo augurarsi la morte, maledirsi, perché uno è più ricco, o per qualche ingiuria ricevuta; e conservare spesso l’odio per tutta la vita, ed a stento perdonarsi anche prima di morire! È altresì un grave peccato maledire il tempo, le bestie, il proprio lavoro. Quante persone, quando il tempo non è come vorrebbero, lo maledicono, dicendo: Maledetto tempaccio, non ti cambierai più dunque? Voi non sapete quello che dite: è come se diceste: Ah! maledetto Dio, che non mi dai il tempo come vorrei. Altri maledicono le loro bestie : Ah! maledetta bestia, non potrò farti andare come voglio?… Che il diavolo ti porti via, che il fulmine ti annienti! che il fuoco del cielo ti abbruci!… Ah! disgraziati, le vostre maledizioni hanno il loro effetto, più spesso che non crediate. Spesso alcune bestie periscono o si storpiano, e ciò in conseguenza dello maledizioni che avete loro date. Quante volte le vostre maledizioni, i vostri impeti di collera, le vostre bestemmie hanno attirato la brina o la grandine sui vostri raccolti! – Ma qual è il peccato di coloro che augurano male al prossimo? Questo peccato è grande in proporzione del male che augurate, e del danno che gli procurerebbe, se ciò si avverasse. Voi dovete accusarvene ogni. qualvolta fate di questi augùri. Quando vi confessate dovete dire quale male avete augurato, e quale danno ne sarebbe avvenuto se il vostro augurio si fosse adempito. Dovete spiegare se si trattava dei genitori, dei fratelli e delle sorelle, dei vostri cugini o cugine, zii o zie. Ahimè! Quanto pochi sono quelli che confessandosi fanno queste distinzioni! Si saran maledetti i fratelli, le sorelle, i cugini, le cugine, e si starà contenti di dire che si ha augurato male al prossimo, senza dire a chi, né quale era l’intenzione. Quanti altri hanno fatto giuramenti orribili, pronunciato bestemmie, imprecazioni, rinnegamenti di Dio da far rizzare i capelli in capo, e si accontentano di dire che hanno detto parole grossolane e nient’altro. Una parola grossolana, lo sapete, è una specie di piccola imprecazione detta senza collera. Ahimè, quante confessioni e comunioni sacrileghe! Ma, mi direte, che cosa bisogna fare per non commettere questi peccati, che sono così orribili e capaci di attirare su di noi ogni sorta di disgrazie? —Bisogna che tutte le pene che ci colpiscono ci facciano ricordare che, essendoci noi ribellati contro Dio, è giusto che le creature si rivoltino contro di noi. Bisogna non dar mai occasione agli altri di maledirci. I figli ed i servi soprattutto devono fare il possibile per non obbligare i genitori ed i padroni a maledirli, poiché è certo, presto o tardi toccherà loro qualche castigo. I padri e madri devono considerare che non hanno nulla di più caro al mondo che i loro figli, e lungi dal maledirli, non devono cessare di benedirli affinché Dio effonda su di loro i beni che essi augurano. Se vi capita qualche cosa di doloroso, invece di coprire di maledizioni chi non fa come voi vorreste, vi sarebbe ben facile dire: Dio vi benedica. Imitate il santo Giobbe che benediceva il Nome del Signore in tutte le grandi sventure che gli toccavano, e riceverete le stesse grazie. Vedendo la sua grande sottomissione alla volontà di Dio, il demonio fuggì, le benedizioni si sparsero abbondantemente sulle sue ricchezze, e tutto gli venne raddoppiato. Se, per disgrazia, vi capita di pronunciare qualcheduna di queste cattive parole, fate subito un atto di contrizione per domandarne perdono, e promettete che non vi ricadrete mai più. S. Teresa ci dice che, quando pronunciamo con rispetto il Nome di Dio, tutto il cielo si rallegra; come fa l’inferno, quando pronunciamo ogni cattiva parola. Un Cristiano non deve perdere di vista che la sua lingua non gli è data che per benedire Dio in questa vita, ringraziarlo dei beni di cui l’ha colmato, per benedirlo durante tutta l’eternità cogli Angeli e coi santi: questa sarà la sorte di quelli che avranno imitato gli Angeli e non il demonio. Io ve la desidero…

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Job I. 1
Vir erat in terra Hus, nómine Job: simplex et rectus ac timens Deum: quem Satan pétiit ut tentáret: et data est ei potéstas a Dómino in facultátes et in carnem ejus: perdidítque omnem substántiam ipsíus et fílios: carnem quoque ejus gravi úlcere vulnerávit.

[Vi era, nella terra di Hus, un uomo chiamato Giobbe, semplice, retto e timorato di Dio. Satana chiese di tentarlo e dal Signore gli fu dato il potere sui suoi beni e sul suo corpo. Egli perse tutti i suoi beni e i suoi figli, e il suo corpo fu colpito da gravi ulcere.]

Secreta

Suscipe, Dómine, propítius hóstias: quibus et te placári voluísti, et nobis salútem poténti pietáte restítui.

[Ricevi, propizio, o Signore, queste offerte con le quali volesti essere placato e con potente misericordia restituire a noi la salvezza.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps CXVIII: 81; 84; 86
In salutári tuo ánima mea, et in verbum tuum sperávi: quando fácies de persequéntibus me judícium? iníqui persecúti sunt me, ádjuva me, Dómine, Deus meus.

[L’ànima mia ha sperato nella tua salvezza e nella tua parola: quando farai giustizia di coloro che mi perseguitano? Gli iniqui mi hanno perseguitato, aiutami, o Signore, Dio mio.]

Postcommunio

Orémus.
Immortalitátis alimoniam consecúti, quǽsumus, Dómine: ut, quod ore percépimus, pura mente sectémur.

[Ricevuto il cibo dell’immortalità, Ti preghiamo, o Signore, affinché di ciò che abbiamo ricevuto con la bocca, conseguiamo l’effetto con animo puro]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “SULLA COLLERA”

I SERMONI DEL CURATO D’ARS

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

Sulla collera.

Tenens suffocabat eum, dicens: Redde quod debes.

(MATTH. XVIII, 28).

Come sono differenti i sentimenti dell’uomo da quelli di Dio! Questo miserabile, cui era stato condonato tutto ciò che doveva al suo padrone, invece di sentirsi mosso a riconoscenza ed esser pronto ad usare la medesima indulgenza verso il suo fratello, non appena lo scorge, monta su tutte le furie, non sa trattenersi, lo prende per la gola e sembra volerlo strozzare. L’altro può ben gettarglisi ai piedi per domandargli grazia, niente lo commuove, niente lo trattiene. Bisogna che sfoghi il suo furore contro quell’infelice, e lo fa gettare in prigione finché abbia pagato il debito. Tale è, Fratelli miei, la condotta della gente del mondo. Dio ci è rappresentato nel padrone. Se Egli ci condona volontariamente quanto dobbiamo alla sua giustizia, se ci tratta con tanta bontà e dolcezza, è perché, dietro il suo-esempio, noi ci abbiamo a comportare allo stesso modo coi nostri fratelli. Ma un uomo, ingrato e violento, dimentica subito ciò che il buon Dio ha fatto per lui. Per un nonnulla lo si vedrà abbandonarsi a tutto il furore d’una passione così indegna di un Cristiano, e così oltraggiosa verso un Dio di dolcezza e di bontà. Temiamo, F. M., una passione così malvagia, così capace di allontanarci da Dio e che fa condurre a noi ed a tutti quelli che ci circondano una vita infelice. Vi mostrerò:

1° quanto la collera oltraggi Dio;

2° quanto sia indegna d’un Cristiano

I. — Non intendo parlarvi di quelle piccole impazienze, di quei borbottamenti che sono così frequenti. Sapete che ogniqualvolta non vi frenate offendete Dio. Sebbene questi non siano ordinariamente peccati mortali, non dovete però mancare di accusarvene. Se voi mi domandate che cos’è la collera, vi risponderò che è un moto violento, impetuoso dell’anima, che rigetta con veemenza ciò che le dispiace. Se apriamo i libri santi dove si contengono le azioni degli uomini che formarono l’ammirazione del cielo e della terra, vediamo dappertutto che essi hanno sempre avuto in orrore questo maledetto peccato, e che l’hanno considerato come segno di riprovazione. Frattanto vi dirò con S. Tommaso che v’ha una santa collera, la quale proviene dallo zelo che abbiamo nel difendere la causa di Dio. Si può, dice egli, qualche volta adirarsi senza offendere Dio, secondo il Re profeta: Adiratevi; ma non peccate„. (Ps. IV, 5) Vi ha dunque una collera giusta e ragionevole, la quale si può piuttosto chiamare zelo che collera. La sacra Scrittura ce ne mostra un gran numero d’esempi. Vi leggiamo che Finees (Num. XXV), uomo che temeva il Signore e sosteneva la sua causa, entrò in una santa collera alla vista dello scandaloso peccato di un Giudeo con una Madianita, e li uccise con un colpo di spada. Non solo egli non offese il Signore colla morte di quei due miserabili, ma al contrario fu lodato del suo zelo nel vendicar le offese che gli si facevano. E tale fu la condotta di Mosè. Indignato perché gli Israeliti avevano adorato un vitello d’oro disprezzando il vero Dio, ne fece uccidere ventitré mila per vendicare il Signore; e ciò per ordine di Dio stesso (Exod. XXXII, 28). Tale ancora fu quella di Davide che, fin dal mattino, dichiarava guerra a tutti quei grandi peccatori che passavano la vita oltraggiando Iddio (Ps C, 8). E tale infine fu quella di Gesù Cristo stesso, quando entrò nel tempio per scacciare quelli che compravano e vendevano, dicendo loro: “La mia casa è casa di preghiera, e voi ne avete fatto una spelonca di ladri (Matt. XXI, 13)„. – Tale deve essere la collera d’un pastore, cui sta a cuore la salute dei suoi parrocchiani e la gloria di Dio. Se un pastore resta muto vedendo Dio oltraggiato e le anime perdersi, guai a lui! Se non vuol dannarsi bisogna che, se vi è qualche disordine in parrocchia, metta sotto i piedi il rispetto umano ed il timore d’essere odiato o disprezzato dai suoi parrocchiani, e quand’anche fosse certo d’esser ucciso appena sceso dal pulpito, ciò non deve trattenerlo. Un pastore che vuol adempiere il suo dovere deve sempre avere la spada in mano per difendere gli innocenti, ed incalzare i peccatori finché non siano ritornati a Dio; questo continuo incalzare deve durare fino alla morte. Se non fa così, è un cattivo sacerdote, che perde le anime, invece di condurle a Dio. Se vedete succedere qualche scandalo nella vostra parrocchia, ed i vostri pastori non dicono nulla; guai a voi, perché Dio mandandovi tali pastori vi punisce. Dico dunque che tutte queste collere non sono che sante collere, lodate ed approvate da Dio stesso. Se tutte le vostre collere fossero così, non si potrebbe che lodarvi. Ma quando riflettiamo un poco su ciò che avviene nel mondo, quando s’odono tanti sussurri, si vedono dissensioni regnare tra vicini e vicine tra fratelli e sorelle; riconosciamo in ciò un passione violenta, ingiusta, viziosa ed irragionevole, di cui occorre mostrarvi gli effetti dannosi, per farvene concepire l’orrore che merita. Ascoltate quello che ci dice lo Spirito Santo: L’uomo quando s’incollerisce, non solo perde la sua anima ed il suo Dio, ma accorcia anche i suoi giorni,« Zelus et iracundia minuunt dies ». (Eccli. XXX, 26). – Ve lo provo con un esempio sorprendente. Leggiamo nella storia della Chiesa che l’imperatore Valentiniano, ricevendo gli ambasciatori dei Quadi, s’infuriò così grandemente, che perdette il respiro e morì sull’istante. Dio mio! che orrore! che, passione detestabile e mostruosa! essa dà la morte a chi se ne lascia soggiogare. So bene che non si va di frequente a tali eccessi; ma quante donne incinte, abbandonandosi alla collera, fanno perire i loro poveri figli prima di aver loro dato la luce ed il battesimo! Questi disgraziati non avranno dunque mai più fortuna di vedere Dio! Nel giorno del giudizio li vedremo perduti: essi non andranno mai in cielo! E la collera d’una madre ne sarà stata la sola causa! Ahimè! questi poveri fanciulli gridano spesso nell’inferno: Ah, maledetto peccato di collera, di quanti beni ci hai privati!… tu ci hai strappato il cielo; tu ci hai condannati ad essere divorati dalle fiamme! Dio mio, quanti beni ci ha strappati questo peccato! Addio, bel cielo, noi non ti vedremo mai: ah! quale disgrazia!… Mio Dio, una donna che si fosse resa colpevole d’un tal delitto, potrebbe vivere senza versare giorno e notte torrenti di lacrime, e non ripetere ad ogni momento: Disgraziata, che hai fatto? dov’è il tuo povero bambino? tu l’hai gettato nell’inferno. Ahimè! quali rimproveri nel giorno del giudizio, quando lo vedrai venire a domandarti il cielo! Questo povero bambino si getterà sulla madre con un furore spaventoso. Ah! madre! le dirà, maledetta madre! rendimi il cielo! tu me l’hai strappato! Questo bel cielo che non vedrò mai, te lo domanderò per tutta l’eternità; questo bel cielo che la collera d’una madre mi ha fatto perdere!… Mio Dio! che disgrazia! Eppure quanto è grande il numero di questi poveri bambini! — Una donna incinta, confessandosi d’un peccato di collera, se vuol salvarsi non deve mancare di far conoscere il suo stato, perché invece d’un peccato mortale può averne commessi due. Se non fate così, cioè se non dite questa circostanza, dovete dubitare delle vostre confessioni. Così un marito che ha fatto incollerire sua moglie deve accusarsi di questa circostanza, e lo stesso devono fare tutti coloro che si sono resi colpevoli del medesimo fallo. Ahimè! come son pochi quelli che si accusano di questo! Mio Dio! quante confessioni cattive! Il profeta Isaia ci dice che l’uomo in collera è simile ad un mare in tempesta. (Isa. LVII,20). Bella similitudine, F. M… Infatti, niente rispecchia meglio il cielo come il mare quand’è calmo; è un grande specchio nel quale gli astri sembrano riprodursi; ma subito, quando l’uragano commove le acque, tutte queste celesti immagini scompaiono. Così, l’uomo che ha la fortuna di conservare la pazienza e la dolcezza è, in questa calma, un’immagine sensibile di Dio. Ma non appena la collera e l’impazienza hanno distrutta questa calma, l’immagine della divinità scompare. Quest’uomo cessa d’essere l’immagine di Dio, e diventa l’immagine del demonio. Ne ripete le bestemmie, ne riproduce il furore. Quali sono i pensieri del demonio? Non sono che pensieri di odio, di vendetta, di divisione, e tali sono quelli di un uomo in collera. Quali sono le espressioni del demonio? Maledizioni e bestemmie orribili. Se ascolto un uomo in collera, dalla sua bocca non si sentono che spergiuri e maledizioni. Mio Dio! che triste compagnia è quella d’una persona che va soggetta alla collera! Vedete una povera donna che ha un tal marito: se essa ha il timor di Dio e vuol evitare a lui delle offese, ed a sé dei cattivi trattamenti, non può dire una sola parola, anche se ne avesse il più gran desiderio. Bisogna che si accontenti di lamentarsi e piangere in segreto, per poter vivere d’accordo e non dare scandalo. — Ma, mi dirà un uomo stizzoso, perché ella mi resiste? sa bene che sono stizzoso. — Voi, amico, siete stizzoso, ma credete che gli altri non lo siano al par di voi? Dite piuttosto che non avete religione, e direte quello che veramente siete. Una persona che ha il timor di Dio non deve forse saper domare le proprie passioni, invece di lasciarsi domare da esse? – Ahimè! se ho detto che vi sono delle mogli disgraziate perché hanno mariti furiosi; vi sono dei mariti che non sono meno disgraziati con donne, che non sapranno mai dire una parola dolce, che per un nonnulla s’infuriano e vanno fuori di sé. Ma quale disgrazia in un matrimonio quando né l’uno né l’altra si vogliono piegare; sono continui alterchi, collere e maledizioni. Gran Dio! Non è questo un vero inferno anticipato? Ahimè! a quale scuola sono quei poveri fanciulli? quali lezioni di bontà e di dolcezza ricevono? S. Basilio ci dice che la collera ronde l’uomo simile al demonio, perché non vi sono che i demoni capaci di abbandonarsi a tale sorta di eccessi. Una persona in questo stato ad un leone furente, il cui ruggito fa di terrore gli altri animali. Vedete Erode, poiché i re Magi l’avevano ingannato, preso da tale collera, o meglio da tale ira che fece sgozzare tutti i piccoli fanciulli di Betlemme e dei dintorni (Matt. II, 16). E non si tentò di questi orrori, ma fece pugnalare che sua moglie ed i suoi figli. Ahimè! poveri fanciulli sono storpiati per loro vita, per i crudeli colpi che hanno avuti dai loro genitori in questi eccessi di collera! Ma aggiungo che la collera quasi mai sola, essa è sempre accompagnata, come vedremo, da molti altri peccati.

II. — La collera trascina con sé spergiuri, bestemmie, rinnegamenti di Dio, maledizioni, imprecazioni. S. Tommaso ci dice che il giurare è un peccato così grave, così orribile agli occhi di Dio, che noi non potremo mai comprendere l’oltraggio che gli fa. Questo peccato non è come gli altri che per la leggerezza della materia sono soltanto peccati veniali. Nei giuramenti, più la materia è leggera, e più il peccato è grave, perché è un maggior disprezzo ed una maggior profanazione del santo Nome di Dio. Lo Spirito Santo ci assicura che la casa dell’uomo solito a giurare sarà piena d’iniquità, e non cesseranno per essa i castighi di Dio fino a che non sarà distrutta (Eccli. XXIII, 12). Si può sentire senza fremere questi disgraziati, che osano portare il loro furore fino a giurare sul santo Nome di Dio, questo Nome adorabile che gli Angeli con tanta gioia ripetono incessantemente: “Santo, santo, santo, è il Dio degli eserciti! sia benedetto per tutti i secoli de’ secoli! „ Se si riflettesse bene prima di usare la lingua, che essa è un organo datoci da Dio per pregarlo, per cantare le sue lodi; che questa lingua è stata bagnata dal Sangue prezioso di Gesù Cristo, che essa tante volte ha servito di altare al Salvatore stesso; si potrebbe servirsene per oltraggiare un Dio così buono, e per profanare un Nome così santo e così rispettabile?… Vedete come i santi abborrivano i giuramenti. S. Luigi, re di Francia, aveva fatta una legge per la quale chi giurasse avrebbe la lingua forata da un ferro rovente. Un cittadino di Parigi, in un alterco, giurò il sanito Nome di Dio. Fu condotto davanti al re, che tosto lo condannò ad avere forata la lingua. Essendo venuti tutti i personaggi insigni della città per domandare grazia, re rispose loro che, se egli avesse avuto sventura di cadere in tale peccato, da stesso se la sarebbe traforata. Ed ordinò che la sentenza fosse eseguita. Quando andò a combattere in Terra santa, venne fatto prigioniero. Gli si domandò un giuramento che, del resto, non sembrava offendere la sua coscienza, tuttavia, preferì esporsi alla morte, tanto temeva di giurare (Ribadeneira, 25 Ag.). Perciò vediamo che chi giura spesso, d’ordinario è una persona abbandonata da Dio, oppressa da mille disgrazie che fa non di rado una fine infelice. Leggiamo nella storia un esempio che può ispirarci il più grande orrore pel giuramento. Quando S. Narciso governava la chiesa di Gerusalemme, tre libertini lo calunniarono orribilmente, appoggiando le loro asserzioni con tre esecrabili giuramenti. Il primo disse che, so quanto affermava non era vero, voleva essere abbruciato vivo; l’altro che voleva morire di male caduco; ed il terzo che  voleva gli fossero strappati gli occhi. Per queste calunnie, S. Narciso fu scacciato dalla città come un infame, cioè come un Vescovo che s’abbandonava ad ogni sorta d’impurità. Ma la vendetta di Dio non tardò a punire quegli infelici. Essendosi appiccato il fuoco alla casa del primo, questi vi restò abbruciato vivo. Il secondo morì di male caduco; il terzo, spaventato da sì orribili castighi, perdette la vista piangendo i suoi peccati. So che questi giuramenti avvengono di rado. I più ordinari sono: In fede mia! — In coscienza! — Mio Dio! sì; — Mio Dio! no; perbacco! — caspita! — cane d’un…! – Quando vi confessate, dovete dire il perché avete giurato; se per affermare cose false o vere: se avete fatto giurare altre persone, perché non volevate credere ad esse. Dovete dire se ne avete l’abitudine, e da quanto tempo. Bisogna poi guardarsi bene di non aggiungere al giuramento l’imprecazione. Vi sono alcuni che dicono: “Se questo non è vero, che non mi muova mai più di qui; che non veda il cielo; che Dio mi danni! che la peste mi soffochi! che il diavolo mi porti via! …„ Ahimè! amico, forse il diavolo non aspetta che la tua morte per portarti via! … Dovete dire nelle vostre confessioni, se ciò che avete detto era o no contro la verità. Alcuni credono che non sia alcun male giurando per assicurare che una cosa è vera. Il male, non è certo così grave come se si fosse giurata una cosa falsa; ma è sempre un peccato e grave. Siete adunque obbligati di accusarvene sempre, senza di che vi dannerete. Eccone un esempio che fa tremare. Si racconta nella vita di S. Edoardo, re d’Inghilterra (Ribadeneira, 13 ott.) che il conte Gondevino, suocero del re era così geloso che non poteva sopportare persona alcuna vicino al re. Il re l’accusò un giorno d’aver cooperato all’uccisione di suo fratello. Il conte rispose che se ciò era vero, voleva che un boccone di pane lo soffocasse. Il re fece il segno di croce su un pezzo di pane; il suocero lo prese e, mentre l’inghiottiva, il pane gli s’infisse nella gola, lo soffocò, morì. Terribile punizione, F. M. Ahimè! dove andò la sua povera anima, poiché morì nell’atto di commettere questo peccato? Non solo non dobbiamo giurare per qualunque pretesto, anche se si trattasse di perdere i beni, l’onore e la vita; perché, giurando, perdiamo il cielo, il nostro Dio e la nostra anima; ma non dobbiamo nemmeno far giurare gli altri. S. Agostino ci dice (Serm. CCCVIII) che, se prevediamo che quelli che facciamo chiamare in giudizio, giureranno il falso, non dobbiamo farli chiamare; noi siamo colpevoli al par loro, ed ancor più colpevoli che se togliessimo loro la vita. Infatti, uccidendoli, non facciamo che dare la morte al loro corpo, se non hanno la fortuna di essere in istato di grazia; il male è tutto nostro: invece facendoli giurare, perdiamo la loro povera anima, e la perdiamo per tutta l’eternità. Si racconta che un cittadino di Ippona, uomo dabbene, ma molto attaccato alla terra, costrinse uno, cui aveva prestato del denaro, a giurare in giudizio; costui giurò il falso. La stessa notte, si trovò in sogno presentato al tribunale di Dio. — Perché hai tu fatto giurare quest’uomo?… Non dovevi perdere ciò che ti doveva piuttosto che rovinare la sua anima? Gesù Cristo gli disse che per questa volta gli perdonava, ma che lo condannava ad essere staffilato; il che fu sull’istante eseguito dagli Angeli. Al domani si trovò tutto coperto di piaghe. — Voi mi direte: Devo perdere quello che mi si deve? — Sì, dovreste perdere quello che vi è dovuto: stimate voi, dunque meno l’anima del vostro fratello che il vostro denaro? – Del resto, siete sicuri che se farete questo per Iddio, Egli non mancherà certo di ricompensarvene. I padri e le madri, i padroni e le padrone devono esaminarsi se non sono mai stati, per i loro figli o dipendenti, causa di qualche giuramento, pel timore d’essere maltrattati o rimproverati. Si giura tanto il vero che il falso. Guardatevi bene, quando sarete chiamati in giudizio, di non giurare mai il falso. Anche se non avete giurato, dovete esaminarvi se avete avuto il pensiero, e quante volte l’avete avuto; se avete consigliato agli altri di giurare il falso col pretesto, che, dicendo la verità, verrebbero condannati. Siete obbligati a dire tutto questo. Accusatevi anche se avete usato qualche astuzia di parole per dire in modo differente da quello che pensavate; perché siete obbligati di dire ciò che pensate, ciò che avete visto e sentito; altrimenti commettete un grave peccato. Dovete altresì accennare distintamente se avete fatto quale cosa per indurre gli altri a mentire: così un padrone, che minacciasse il servo di maltrattarlo o di fargli perdere il posto, deve dir in confessione tutto questo, altrimenti la confessione non sarebbe che un sacrilegio. Lo Spirito Santo ci dice che il falso testimonio sarà punito rigorosamente (Deut. XIX, 18. 21).  – Ho detto che cos’è il giuramento e lo spergiuro; vediamo ora che cos’è la bestemmia. Vi sono molti che non sanno distinguere la bestemmia dal giuramento. Se non sapete distinguere l’uno dall’altra, non potete sperare che le vostre confessioni siano buone, poiché non fate conoscere i vostri peccati come li avete commessi. Ascoltatemi dunque, affinché abbiate a togliere questa ignoranza che certissimamente vi dannerà. Bestemmia è parola greca che vuol dire detestazione, maledizione d’una beltà infinita. S. Agostino ci dice (De morìbus Manichæorum lib. II, lib. XI) che si bestemmia quando si attribuisce a Dio quello che non ha o non gli conviene: quando gli si toglie quello che gli compete, o, infine, quando si attribuisce a sé quello che non è dovuto che a Dio. Spieghiamoci.

1° Noi bestemmiamo quando diciamo che Dio non è giusto, se ciò che facciamo od intraprendiamo non riesce.

2° Dire che Dio non è buono, come fanno alcuni nell’eccesso della loro miseria, è una bestemmia.

3° Bestemmiamo quando diciamo che Dio non sa tutto; che non bada a quello che avviene sulla terra; ch’Egli non sa che noi siamo al mondo; che tutto va a casaccio; che Dio non si cura di sì poca cosa; che venendo al mondo siamo destinati ad essere felici od infelici, o che Dio non vi muta nulla.

4° Quando diciamo: Se Iddio usasse misericordia con quel tale, non sarebbe proprio giusto, perché ne ha fatte troppe, e non merita che l’inferno.

5° Quando ci adiriamo con Dio por qualche perdita, e diciamo: No, Dio non può farmi più di quello che mi ha fatto. Ed è pure una bestemmia mettere a burla e motteggiare la Ss. Vergine od i santi dicendo: È un santo che ha poca potenza, son già più giorni che prego… e non ho nulla ottenuto; certo non ricorro più a lui. È una bestemmia dire che Dio non è potente, e trattarlo indegnamente, come dicendo: A dispetto di Dio! ecc. – I Giudei avevano talmente in orrore questo peccato che, quando sentivano bestemmiare, si stracciavano le vesti in segno di dolore (Per esempio Caifa, durante la passione. Matth. X. vers. 65). Il santo Giobbe temeva questo peccato a tal segno che, nel timore che i suoi figli l’avessero a commettere, offriva a Dio dei sacrifizi in espiazione (Job. I, 5). Il profeta Nathan disse a Davide: Poiché sei stato la causa che si bestemmiasse Dio, tuo figlio morrà, ed i castighi non si allontaneranno dalla tua casa per tutta la tua vita (II Reg. XII, 14). Il Signore dice nella sacra Scrittura (Lev. XXIV, 16.): Chiunque bestemmierà il mio santo Nome, voglio sia messo a morte; quando gli Ebrei erano nel deserto, venne sorpreso un uomo che bestemmiava, ed il Signore ordinò che fosse ucciso a colpi di pietra (Lev. XXIV, 14). Sennacherib, re degli Assiri, che assediava Gerusalemme, aveva bestemmiato il Nome di Dio, dicendo che a dispetto di Dio prenderebbe la città e la metterebbe tutta a ferro e fuoco; il Signore allora mandò un Angelo, che in una sola notte uccise cento ottantacinquemila uomini, e il re stesso fu sgozzato dai suoi propri figli (al suo ritorno a Ninive, nel tempio di Moloch, IV Reg. XIX). Fin dal principio del mondo la bestemmia è sempre stata in orrore: essa è infatti il linguaggio dell’inferno, poiché il demonio ed i dannati non cessano di proferirla. Quando l’imperatore Giustino sapeva che qualcuno dei suoi sudditi aveva bestemmiato, gli faceva tagliare la lingua. Durante il regno del re Roberto, la Francia fu afflitta da una grande guerra. Il buon Dio rivelò ad un’anima santa che tutti questi mali durerebbero sino a che nel regno non si cessasse dal bestemmiare. Non è dunque uno straordinario miracolo, che una casa dove si trova un bestemmiatore non venga schiacciata dalla folgore, ed oppressa da ogni sorta di disgrazie? S. Agostino dice ancora che la bestemmia è un peccato più grave dello spergiuro; perché in questo si prende Dio come testimonio d’una cosa falsa; in quella invece è una cosa falsa che si attribuisce a Dio (S. Aug. Contra mendacium, c. XIX). Riconoscete dunque con me, F. M., l’enormità di questo peccato e la disgrazia di chi vi si abbandona. Quando taluno vi si è abbandonato, non deve temere che la giustizia di Dio lo punisca sull’istante come ha fatto con tanti altri? – Vediamo ora la differenza che passa tra la bestemmia ed il rinnegar Dio. Non voglio parlarvi di quelli, che rinnegano Dio abbandonando la Religione Cattolica per abbracciarne una falsa, come i protestanti, i giansenisti e tanti altri. Noi chiamiamo queste persone rinnegati ed apostati. Parlo ora di quelli che, dopo qualche perdita o qualche disgrazia, hanno la maledetta abitudine di uscire in parole di collera contro Dio. Questo peccato è orribile, perché per la minima cosa che ci accade, ce la prendiamo con Dio stesso, e ci adiriamo con Lui: è come se dicessimo a Dio: Siete un…! un… ! uno sciagurato, un vendicativo! Voi mi punite per quell’azione, voi siete ingiusto! Dio deve subire la nostra collera, come se fosse la causa della perdita che abbiamo fatto, dell’incidente che ci è toccato. Non fu questo tenero Salvatore che ci ha tratti dal nulla, che ci ha creati a sua immagine, che ci ha riscattati col proprio Sangue prezioso, e che ci conserva così lungamente, mentre meriteremo già da molti anni d’essere inabissati nell’inferno?… Egli ci ama di un amore ineffabile, e noi lo disprezziamo; profaniamo il suo santo Nome, lo spergiuriamo, lo rinneghiamo! Oh orrore! V’ha forse delitto più mostruoso? Non è imitare il linguaggio dei demoni? dei demoni, che null’altro fanno nell’inferno? Ahimè! F. M., se li imitate in questa vita, state ben certi di andare a far loro compagnia nell’inferno. Dio mio! può un Cristiano abbandonarsi a tali orrori! Una persona che s’abbandona a questo peccato deve aspettarsi una vita disgraziata, anche in questo mondo. Si racconta che un uomo, il quale aveva bestemmiato per tutta la sua vita, disse al prete che lo confessava: Ahimè! padre, quanto fu disgraziata la mia vita! Io avevo l’abitudine di giurare, di bestemmiare il Nome di Dio; ho perduto le mie ricchezze, che erano considerevoli; i miei figli, su cui non ho attirato che maledizioni, non sono buoni a nulla; la mia lingua, che ha giurato, bestemmiato il Nome santo di Dio, è ulcerata e va incancrenandosi. Ahimè! dopo essere stato disgraziato in questo mondo, temo di dannarmi in causa delle mie bestemmie. Ricordatevi, F. M., che la lingua non vi è stata data che per benedire il buon Dio; essa gli è stata consacrata col santo Battesimo e colla santa Comunione. Se per disgrazia andate soggetti a questo peccato, dovete confessarvene con grande dolore e farne un’aspra penitenza; altrimenti ne subirete il castigo nell’inferno. Purificate la vostra bocca, pronunciando con rispetto il Nome di Gesù. Domandate spesso a Dio la grazia di morire, piuttosto di ricadere in questo peccato. Non avete mai pensato quanto la bestemmia sia orribile davanti a Dio e davanti agli uomini? Ditemi, vi siete confessati come si deve? Non vi siete accontentato di dire che avete giurato, oppure che avete detto delle parole triviali? Esaminate la vostra coscienza, e non addormentatevi, poiché può darsi che le vostre confessioni non valgano nulla. – Vediamo ora che cosa s’intende per maledizione ed imprecazione. Ecco. Si cade nella maledizione quando, trascinati dall’odio o dalla collera, vogliamo annientare o rendere disgraziato chiunque si opponga alla nostra volontà. Queste maledizioni cadono su di noi, sui nostri simili, sulle creature animate od anche inanimate. Quando facciamo così, non operiamo secondo lo spirito di Dio, che è uno spirito di dolcezza, di bontà e di carità; ma secondo lo spirito del demonio, il cui ufficio è solo quello di maledire. Le maledizioni più cattive sono quelle che i padri e le madri invocano sui loro figli, per i grandi mali che ne seguono. Un figlio maledetto dai suoi genitori è ordinariamente, un figlio maledetto da Dio stesso; perché Dio ha detto che se i genitori benedicono i loro figli, Egli li benedirà: al contrario, se li maledicono, la maledizione cadrà su di loro. (Eccli. III, 11). S. Agostino ne cita un esempio degno d’essere impresso per sempre nel cuore dei padri e delle madri. Una madre, ci dice, incollerita, maledisse i suoi tre figli ed all’istante essi furono invasi dal demonio (De civ. Dei). Un padre disse ad uno dei suoi figli: Non morirai una benedetta volta dunque? Il figlio cadde morto a’ suoi piedi. Ciò che aggrava di più questo peccato, è che se un padre ed una madre hanno l’abitudine di commetterlo, i figli contrarranno la medesima abitudine, ed il vizio diventa ereditario nella famiglia. Se vi sono tante case disgraziate, e che sono veramente la soddisfazione dei demoni e l’immagine dell’inferno, ne troverete la spiegazione nelle bestemmie e nelle maledizioni degli antenati, che sono passate da nonno in padre, da padre in figlio, e continuerete così di generazione in generazione. Voi avete sentito un padre incollerito pronunziar giuramenti, imprecazioni e maledizioni; ebbene! ascoltate i suoi figli quando sono in collera: hanno sulle labbra gli stessi giuramenti; le stesse imprecazioni. Così i vizi dei genitori passano nei loro figli, come le loro ricchezze e meglio ancora. Gli antropofagi non uccidono che gli stranieri per mangiarli; ma, fra i Cristiani vi sono dei padri e delle madri che, per soddisfare le loro passioni, augurano la morte a coloro ai quali essi stessi han dato la vita ed abbandonano al demonio tutti coloro che Gesù Cristo ha riscattati col suo Sangue prezioso. Quante volte si sente dire da questi padri e madri senza religione: Ah! maledetto ragazzo, non creperai… una volta? Mi dai fastidio; il buon Dio non ti punirà dunque una buona volta?… vorrei che tu fossi lontano me quanto mi sei vicino! cane d’un ragazzo! demonio d’un figlio! Carogne di figli!… bestie! O mio Dio! possibile che tutte queste maledizioni escano dalla bocca d’un padre e d’una madre, i quali non dovrebbero augurare e desiderare ai loro poveri figli che le benedizioni del cielo? Se vediamo tanti figli scemi, storpi, stizzosi, senza religione, non cerchiamone la causa, almeno per la maggior parte dei casi, che nelle maledizioni dei genitori. – Qual è poi il peccato di coloro che nei momenti di malumore maledicono se stessi? E’ un delitto spaventoso, contrario alla natura e alla grazia; poiché la natura e la grazia ci comandano l’amore verso noi stessi. Chi maledice se stesso rassomiglia ad un arrabbiato che si uccide colle proprie mani; egli è anche peggiore; spesso se la prende colla sua anima, dicendo: Che Dio mi danni! che il diavolo mi porti via! vorrei essere all’inferno piuttosto che in questa condizione! Ah! disgraziato, dice S. Agostino, che Dio non ti esaudisca; perché andresti a vomitare il veleno della tua rabbia nell’inferno! Mio Dio! se un Cristiano pensasse a ciò che dice, avrebbe la forza di pronunciare queste bestemmie, che potrebbero, in qualche modo, obbligare Dio a maledirlo dall’alto del suo trono? Oh! quanto è disgraziato un uomo soggetto alla collera! Egli costringe a punirlo quel Dio, il quale non vorrebbe che il suo bene e la sua felicità! Si riuscirà mai a comprendere questa cosa? – Qual è pure il peccato d’un marito e d’una moglie, d’un fratello e d’una sorella che vomitano l’un contro l’altro ogni sorta di maledizioni? E un peccato di cui non si potrà mai esprimere l’enormità; è un peccato tanto più grande quanto più rigorosamente essi sono obbligati ad amarsi ed a sopportarsi a vicenda. Ahimè! Quante persone maritate non cessano di vomitarsi vicendevolmente ogni sorta di maledizioni! Un marito ed una moglie che non dovrebbero farsi che dei felici augùri, e sollecitare la misericordia di Dio per ottenere l’un per l’altro d’andar in cielo a passare insieme l’eternità, si caricano di maledizioni; si strapperebbero, potendolo, gli occhi, si toglierebbero la vita! Maledetta moglie, o maledetto marito, gridano, non t’avessi, almeno, mai visto o conosciuto! Ah! maledetto mio padre, che m’ha consigliato di sposarti! … Mio Dio! quale orrore per dei Cristiani, i quali non dovrebbero occuparsi che di diventar santi! Essi fanno come i demoni ed i dannati! Quanti fratelli e sorelle vediamo augurarsi la morte, maledirsi, perché uno è più ricco, o per qualche ingiuria ricevuta; e conservare spesso l’odio per tutta la vita, ed a stento perdonarsi anche prima di morire! È altresì un grave peccato maledire il tempo, le bestie, il proprio lavoro. Quante persone, quando il tempo non è come vorrebbero, lo maledicono, dicendo: Maledetto tempaccio, non ti cambierai più dunque? Voi non sapete quello che dite: è come se diceste: Ah! maledetto Dio, che non mi dai il tempo come vorrei. Altri. maledicono le loro bestie : Ah! maledetta bestia, non potrò farti andare come voglio?… Che il diavolo ti porti via, che il fulmine ti annienti! che il fuoco del cielo ti abbruci!… Ah! disgraziati, le vostre maledizioni hanno il loro effetto, più spesso che non crediate. Spesso alcune bestie periscono o si storpiano, e ciò in conseguenza delle maledizioni che avete loro date. Quante volte le vostre maledizioni, i vostri impeti di collera, le vostre bestemmie hanno attirato la brina o la grandine sui vostri raccolti! – Ma qual è il peccato di coloro che augurano male al prossimo? Questo peccato è grande in proporzione del male che augurate, e del danno che gli procurerebbe, se ciò si avverasse. Voi dovete accusarvene ogniqualvolta fate di questi augùri. Quando vi confessate dovete dire quale male avete augurato, e quale danno ne sarebbe avvenuto se il vostro augurio si fosse adempito. Dovete spiegare se si trattava dei genitori, dei fratelli e delle sorelle, dei vostri cugini o cugine, zii o zie. Ahimè! Quanto pochi sono quelli che confessandosi fanno queste distinzioni! Si saran maledetti i fratelli, le sorelle, i cugini, le cugine, e si starà contenti di dire che si ha augurato male al prossimo, senza dire a chi, né quale era l’intenzione. Quanti altri hanno fatto giuramenti orribili, pronunciato bestemmie, imprecazioni, rinnegamenti di Dio da far rizzare i capelli in capo, e si accontentano di dire che hanno detto parole grossolane e nient’altro. Una parola grossolana, lo sapete, è una specie di piccola imprecazione detta senza collera. Ahimè, quante confessioni e comunioni sacrileghe! Ma, mi direte, che cosa bisogna fare per non commettere questi peccati, che sono così orribili e capaci di attirare su di noi ogni sorta di disgrazie? — Bisogna che tutte le pene che ci colpiscono ci facciano ricordare che, essendoci noi ribellati contro Dio, è giusto che le creature si rivoltino contro di noi. Bisogna non dar mai occasione agli altri di maledirci. I figli ed i servi soprattutto devono fare il possibile per non obbligare i genitori ed i padroni a maledirli, poiché è certo, presto o tardi toccherà loro qualche castigo. I padri e madri devono considerare che non hanno nulla di più caro al mondo che i loro figli, e lungi dal maledirli, non devono cessare di benedirli affinché Dio effonda su di loro i beni che essi augurano. Se vi capita qualche cosa di doloroso, invece di coprire di maledizioni chi non fa come voi vorreste, vi sarebbe ben facile dire: Dio vi benedica. Imitate il santo Giobbe che benediceva il Nome del Signore in tutte le grandi sventure che gli toccavano, e riceverete le stesse grazie. Vedendo la sua grande sottomissione alla volontà di Dio, il demonio fuggì, le benedizioni si sparsero abbondantemente sulle sue ricchezze, e tutto gli venne raddoppiato. Se, per disgrazia, vi capita di pronunciare qualcheduna di queste cattive parole, fate subito un atto di contrizione per domandarne perdono, e promettete che non vi ricadrete mai più. S. Teresa ci dice che, quando pronunciamo con rispetto il Nome di Dio, tutto il cielo si rallegra; come fa l’inferno, quando pronunciamo ogni cattiva parola. Un Cristiano non deve perdere di vista che la sua lingua non gli è data che per benedire Dio in questa vita, ringraziarlo dei beni di cui l’ha colmato, per benedirlo durante tutta l’eternità cogli Angeli e coi santi: questa sarà la sorte di quelli che avranno imitato gli Angeli e non il demonio. Io ve la desidero…

LO SCUDO DELLA FEDE (177)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XIII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO SECONDO

I MISTERI

VII. — La Vergine Madre.

D. Non dài tu un posto speciale alla Vergine nell’Incarnazione?

R. Questo posto si delinea da se stesso nel disegno, tal quale lo concepisce la nostra teologia cattolica. L’opera di Dio nell’Incarnazione ha un cominciamento, ed è la Vergine Madre. Maria è l’aurora che precede il giorno; la sua luce è fatta del giorno che Ella annunzia; questa luce non sarà forse della stessa essenza: spirituale, come la luce di Cristo è spirituale, e superiormente umana prima dello splendore sovrumano?

D. Che intendi con ciò?

R. Che Maria, Madre di Cristo, che è Dio, per conseguenza Madre di Dio, benché ciò sia unicamente secondo l’uomo, Maria, associata immediatamente ai più grandi misteri e oggetto della loro preparazione, Maria, che sempre è questo, dacché Cristo è predetto, dacché è preveduto, vale a dire dalla costituzione di questo disegno eterno, non può essere una madre ordinaria. Gli strumenti si preparano secondo l’opera. Maria è lo strumento dell’Incarnazione e della Redenzione; il suo caso dipende dall’Incarnazione e dalla Redenzione; primizia dell’opera e causa della sua Causa, Ella dev’essere il suo capolavoro.

D. Tanti grandi esseri hanno madri qualsisiasi e che la storia non ricorda.

R. I grandi esseri di cui parli possono essere grandi e benefici per rispetto a ciò che li segue; ma nulla possono per quello che li precede. La loro madre, dunque, nulla può ritrarre dalla loro grandezza prima della loro azione. Ma Cristo, che è «ieri, oggi e in tutti i secoli », regola, come Dio, le condizioni della sua propria venuta; è Lui che si dà una madre, come si darà dei discepoli, e se ha ricolmato i Dodici del suo Spirito perché lo continuassero degnamente, come non avrebbe disposto di sua madre in modo che Ella lo precedesse degnamente, precorritrice intima, associata ben diversamente da S. Giovanni Battista, poiché Cristo sarà la carne della sua carne, invitato così a fare di Lei, poiché lo può e in certo modo lo deve, lo spirito del suo Spirito.

D. Chi ti dice che questa convenienza fosse ubbidita?

R. La Chiesa; ma noi ne abbiamo la prova, se non altro il segno ben chiaro in ciò che ci raccontano gli Evangelisti. Noi vediamo che Maria è dichiarata piena di grazia e benedetta fra tutte le donne, perché l’Essere santo che nascerà da Lei sarà chiamato Figliuolo di Dio, ed è tutta la nostra dottrina. Noi non vediamo lì una madre che mette al mondo un bambino che poi formerà la sua gloria; ma la vediamo prevenuta del disegno, invitata ad associarvisi e, per il suo consenso, a provocarlo in una certa maniera. Ella ci dà veramente l’Uomo Dio; si tiene dal lato del Padre e dello Spirito come una libera cooperatrice; è la «porta del cielo »: chi dubiterà che Ella non sia come quelle porte della celeste Gerusalemme, che Giovanni vide risplendere come perle, o come quelle strade d’oro della Città di luce che conducono al Sole vivente?

D. Si riferisce forse a questo il vostro dogma dell’Immacolata Concezione?

R. Senza dubbio! Noi non vogliamo che Dio entri nel mondo per una porta lorda, che il nuovo Paradiso terrestre, « Paradiso animato, in cui dev’essere piantato l’Albero della vita » (San GIOVANNI DAMASCENO), sia un deserto immondo. Anzi noi domandiamo a Dio di preservarlo e di ornarlo; Egli ci dice che lo ha fatto, e noi gliene diamo lode.

D. Tuttavia questo dogma è nuovo.

R. Questo dogma non è nuovo; è nuova soltanto la sua dichiarazione. Sempre latente nella Chiesa, esso se ne è sprigionato, come una bolla nasce da particelle prima disperse in seno a un liquido.

D. Qual è la sua precisa nozione?

R. Figurati un battesimo anticipato. Quella purezza e quella ricchezza spirituale che i meriti di Cristo applicati per il battesimo conferiscono al neonato o all’adulto, Maria l’ottiene sovrabbondantemente e per i medesimi meriti nel momento della sua stessa Concezione. La redenzione la previene prima che Ella vi cooperi per conto suo; Ella è la prima riscattata da Cristo, riscattata prima di nascere e prima che Cristo sia nato; riscattata per nascere intatta e perché il Cristo, alla sua volta, nasca da una Madre intatta. «Infatti, non occorre forse, dice Bossuet, che giovi a Maria l’avere un Figliuolo che sia l’autore della sua nascita? ».

D. Pensi tu che Maria non avesse altro figlio che Gesù?

R. È una questione di rispetto. La porta del Cielo vivo non dà punto passaggio ad altri.

D. Che sono dunque quei «fratelli di Gesù » di cui parla il Vangelo?

R. Sono dei cugini, chiamati fratelli secondo il costume giudaico.

D. E Gesù fu dato a Maria nelle condizioni ordinarie?

R. No affatto. Lo « credevano » figlio di Giuseppe; ma non era se non Figlio di Dio. Il Verbo che ha solo un Padre eterno, non vuole, neanche temporalmente, averne altro; il nuovo Adamo «secondo primo uomo » (P. LAGRANGE), nascerà da Dio solo, come il primo. Una partenogenesi d’onore si è effettuata qui, non a disprezzo del matrimonio; ma perché vi è qualcosa di più alto: il commercio con Dio solo per un’opera in cui la causalità divina deve risplendere.

D. Almeno la nascita di Gesù fu una nascita comune?

R. Neppure. L’integrità della Vergine fu in essa rispettata dalla delicatezza d’un Figliuolo onnipotente. Facendo uso di quelle proprietà del corpo « spirituale » che manifesterà più tardi il suo corpo risuscitato, Egli emana da un astro puro come un puro raggio (Sicut sidus radium profert virgo filium).

D. L’esistenza della Vergine finirà come ha cominciato e proseguito, per un miracolo?

R. Noi crediamo alla sua Assunzione, che pure non è un articolo di fede (Oggi lo è, dal 1954 -ndr.-). Il tempio vivo non deve conoscere la corruzione, benché a somiglianza del suo Figliuolo la Regina dei martiri debba gustare la morte. La corruzione sepolcrale è come una suprema mortificazione della concupiscenza primitiva e della concupiscenza volontaria del peccatore; ora «un essere perfettamente puro, come Cristo o la Vergine, non ha più niente da purificare. Il suo corpo non è più che il ritmo apparente dell’anima sua, la quale non ha più nessuna ragione di separarsene » (MARCELLO SCHWOB).

D. Nella serie dei tempi, quale compito attribuisci alla Vergine Madre?

R. Poiché Ella è stata associata alla nostra salute dandoci per consentimento Colui che la opera; poiché Dio stesso, richiedendo il suo consentimento, ha fatto conoscere il suo costante disegno di unirla all’opera sua redentrice, e poiché finalmente Ella ci è stata data sulla croce nella persona di S. Giovanni, come la intendono tutti i Padri della Chiesa, noi crediamo che Maria, Madre di Dio, è nello stesso tempo Madre degli uomini, Madre tenerissima, che non può rifiutare il suo cuore dopo aver dato il suo Tesoro; Madre potentissima, anzi onnipotente di una onnipotenza di supplicazione (omnipotentia supplex), in ragione dell’autorità effettiva che Ella esercitò sopra il suo Figliuolo e che le continua la filiale tenerezza. Ella è una mediatrice in secondo grado, mediatrice puramente ma squisitamente umana, al di sotto del Mediatore uomo e Dio.

D. Tu vedi così in lei il canale delle grazie?

E. Non è una dottrina definita, ma una piissima credenza. Maria continua in noi la sua maternità. Non siamo noi i membri di Cristo? Ella ha sofferto per noi a piè della croce, acconsentendo al grande Sacrifizio. Il sangue di Gesù e le lacrime di sua Madre non si separano punto, né per conseguenza la mediazione di Gesù e quella di sua Madre, l’umana mediatrice. Vi sono lì due casi essenzialmente differenti, e, checché ne dicano i protestanti, noi non li confondiamo affatto, ma li avviciniamo, perché la natura delle cose li avvicina. Il sole e la luna sono due astri; ma per via del sole, la luna stessa, illumina la nostra notte.

D. Non dici tu che ogni anima è associata così alla redenzione?

R. Ogni anima è associata alla redenzione; ogni anima è come Maria, con Maria, una nuova Eva data da Dio al nuovo Adamo come un aiuto simile a lui. Ma quello che noi siamo, come imitatori, Maria lo è come modello. Onde noi la chiamiamo nostra vita, nostra dolcezza e nostra speranza, come Cristo, benché ciò sia per via di Lui.

IL SEGNO DELLA CROCE (3)

IL SEGNO DELLA CROCE AL SECOLO XIX (3)

PER Monsig. GAUME prot. apost.

TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.

LETTERA SECONDA.

27 novembre.

Esame della questione.— Presunzioni in favore dei primiCristiani. —1a presunzione: i loro lumi. — 2a presunzione: loro santità — 3a presunzione: l’uso dei veri Cristiani in tutti i secoli. — I padri della Chiesa erano dei grandi geni?

Mio Caro Amico

Ne’ giudizi ordinari le circostanze esteriori producono grande effetto. Soventi volte desse contribuiscono alla formazione della opinione de’ giudici, come le testimonianze dirette. Tu il sai, sono così detti gli antecedenti, la posizione, il carattere morale degli interessati nella causa. Perché eliminarle noi dal processo che ci occupa? Innanzi però di apportare le ragioni de’ primi Cristiani dedotte dalla natura istessa del segno della croce, esaminiamo insieme le presunzioni, che militano in favore della loro condotta.  –

Prima presunzione in favore de’ Cristiani è la loro vicinanza agli Apostoli. Gli Apostoli avevano conversato col Verbo incarnato, con la verità istessa, e vistala con ipropri occhi, toccata di loro mani. Eglino erano idepositari e gli organi infallibili della sua dottrina, con ordine d’insegnarla per intiero e senza mutamento alcuno. I Cristiani parimenti avevano visto gli Apostoli e gli uomini apostolici, li avevano intesi ed usato con loro frequentemente ricevendo la fede ed il battesimo dalla bocca e dalla mano di essi. Bevvero la verità alla fonte istessa! – Di questa verità, cui tutto dovevano, si nutrivano, ne facevano la norma del loro operare, conservandola con inviolabile fedeltà, perseverantes in doctrìna apostolorum. E chiaro che nessuno mai trovossi in condizioni migliori per conoscere il pensiero degli Apostoli, e di Nostro Signore istesso. È mestieri però affermare che, se i Cristiani primitivi avessero fatto il segno della croce a ciascun instante, avrebbero ubbidito ciò facendo ad una raccomandazione apostolica; altrimenti gli Apostoli ed i loro primi successori, custodi infallibili del triplice deposito della fede, della morale e della disciplina si sarebbero ben dato la pena d’interdire un uso inutile, superstizioso e tale da esporre i neofiti allo scherno del paganesimo ignorante. Sicché, lo ripelo, i Cristiani della Chiesa primitiva facendo soventemente il segno della croce agivano con piena conoscenza di causa. — Prima presunzione in favore di loro condotta.

Seconda presunzione in favore de’ primi Cristiani; la loro santità. I primi Cristiani erano, non solo peritissimi della dottrina degli Apostoli, ma altresì fedelissimi nella pratica di essa. N’è prova la loro santità, e, che questo fosse il carattere generale de’ primi Cristiani, è facilissima cosa il vedere come sia evidentemente dimostrato.

1° – Eglino amavano piuttosto perdere tutto e la vita istessa nel mezzo di crudeli supplizii, anziché offendere il loro Dio. L’eroismo dell’animo loro durò quanto la persecuzione, tre secoli.

2 ° – Ferventissima n’era la carità. Il cielo e la terra di unita hanno fatto del loro fraterno amore un elogio unico negli annali del mondo. Eglino avevano un sol cuore ed un’anima sola, cor unum et anima una, ha detto di loro Dio stesso. Vedete come si amino, ed in qual maniera sieno solleciti di morire gli uni per gli altri, vide ut invicem ne diligant et ut prò alterutro morì sint parati, esclamavano i pagani.

3° Il cuore nutriva tale un rispetto, e tanta tenerezza per gli Apostoli da esser loro ubbidienti con filiale sommissione. San Paolo, che non era largo di elogi, scrive a’ Cristiani di Roma, che la loro fede è in gran fama nel mondo intiero; e a quelli dell’Asia: che l’amavano siffattamente, che gli occhi istessi gli avrebbero donato. Alla preghiera dell’Apostolo tutte le Chiese gareggiano per correre al soccorso de’ fratelli di Gerusalemme, e Filemone riceve Onesimo.

4° I Padri della Chiesa testimoni oculari continuano siffatta testimonianza in favore della santità de’ primi Cristiani. Tertulliano diceva ai giudici, ai pretori, ai proconsoli dell’impero, sfidandoli: Ne appello alle vostre procedure, o magistrati, cui è commesso il ministero della giustizia. In tutta quella moltitudine di accusati che ciascun giorno è tradotta innanzi ai vostri tribunali, v’ha qualche avvelenatore, un sacrilego, un assassino, che sia Cristiano? De’ vostri rigurgitano le prigioni, i vostri popolano le mine, i vostri ingrassano le belve dell’anfiteatro; de’ vostri è composto l’armento de’ gladiatori. Fra essi non v’ha un solo Cristiano, e se v’ha, vi è pel solo delitto di essere Cristiano (1(1) Apolog. c. 44).

5° – Gl’istorici pagani riconoscono la loro innocenza ed i persecutori istessi rendono omaggio alla loro virtù. Tacito, questo scrittore pur troppo prevenuto ed ingiusto contro i nostri padri, narra gli orrendi massacri di Cristiani de’ tempi di Nerone. Una moltitudine enorme, multitudo ingens, moriva nel mezzo de’ più barbari supplizi. Dessa era innocente di quanto veniva accusata; ma dessa era colpevole dell’odio del genere umano odio generis umani. Così egli. — E chi era mai questo genere umano? Tacito istesso lo dice: Il fango del popolo, la crudeltà vivente. — Perché tant’odio? Perché il male è un nemico irreconciliabile del bene. La santità de’ nostri padri era la condanna severa de’ mostruosi delitti commessi dai pagani; epperò le carneficine di Nerone, e le sue fiaccole viventi. Quaranta anni dopo Nerone, Plinio il giovane governatore della Bitinia riceve ordine da Traiano di procedere contro de’ Cristiani. Cortigiano fedele esegue gli ordini del suo signore per filo ed a segno da dar la caccia dappertutto ai nostri padri e di persona interrogava i torturati. Ma da tutte le sanguinose inchieste qual fu il delitto scoperto? « Tutto il delitto de’ Cristiani, scrive egli a Traiano, è di assembrarsi in alcuni giorni innanzi l’aurora per cantare ad onore di Cristo degli inni, come ad un Dio; obbligarsi con sacramento di non commettere alcun delitto, di guardarsi dal commettere furti, adulterio, spergiuro. Ne ho torturato ben molti, ma non li trovo colpevoli, che di una falsa ed eccessiva superstizione » (Epist. lib. x, ep. 97).  – Discorrendo della santità de’ nostri antenati mi son dilungato alquanto, perché dessa, a mio modo di credere, è la presunzione la più forte in favore del segno della croce. Quando uomini di questa tempra si mostrano al cospetto della morte tenerissimi di qualche uso, è mestieri affermarlo più importante di quello, che i tuoi nuovi compagni lo reputano.

Terza presunzione in favore dei Cristiani primitivi, è  la pratica de veri Cristiani ne’ secoli successivi. — L’Oriente e l’Occidente hanno visto formarsi tosto delle comunità religiose di uomini e di femmine. In questi asili separati dal mondo lo spirito evangelico e le apostoliche tradizioni sono conservate, se non immobilmente, per lo meno con la maggior fedeltà e verità. Fra gli antichi usi conservati con particolare cura è il segno della croce. I nostri padri, scrive uno de’ loro istoriografi, praticavano il segno della croce con grandissima frequenza e religione. Eglino si segnavano levandosi da letto ed avanti di collocarvisi, avanti il lavoro, sortendo di monastero e dalle celle, e quando vi entravano. A mensa segnavano di croce il pane, il vino, ciascuna vivanda (Marlene De antiq. monach. ritib. lib. 1, c. I, n. 35 etc.).  Nel mondo, fuori di questi asili, il segno redentore cammina su di una linea parallela. Tutti quei grandi nomi che nel corso di cinque secoli si sono succeduti in Oriente ed Occidente, quei geni impareggiabili, che sono detti Padri della Chiesa: Tertulliano, Cipriano, Atanasio, Gregorio, Basilio. Agostino, Grisostomo, Girolamo, Ambrogio, e tutti gli altri, il cui catalogo spaventa l’orgoglio, e lo schiaccia col suo peso; tutte queste sublimi intelligenze facevano assiduamente il segno della croce, ed inculcavano a tutti i Cristiani di eseguirlo in ogni occasione. – Ho detto i Padri della Chiesa essere grandi geni, e grandi uomini. Se come tali li presenterai a’ tuoi compagni, attenditi un sorriso di compassione. Non voler loro portarne astio; i poveri giovani conoscono i Padri della Chiesa, come gli antipodi. Invece dimanda loro quello ch’eglino intendano per grande uomo, ed in mancanza di loro risposta ecco la mia, di che potrai al bisogno far uso.

Chiama grandi uomini coloro, che con genio elevato, profondo, esteso abbracciano l’orizzonte del mondo della verità; che conoscono le scienze, gli uomini e le cose, non superficialmente, ma ne’ loro principii, nel loro scopo ed intima natura; non la sola materia, ma e lo spirito; non l’uomo solo, ma pur l’Angelo; non la sola creatura, ma ancora il suo Creatore; non sol quanto è al di quadella tomba, ma eziandio quanto è oltr’essa. Di tutto non solo le singole parti, ma l’insieme, di che sanno far scaturire delle luminose ed inattese applicazioni al perfezionamento della umanità. Ecco il genio, ed ecco il padre della Chiesa! Tu puoi ben sfidare i tuoi compagni di trovare fra gli antichi ed i moderni qualcuno, che abbia meglio, o così bene in sé attuata la definizione del grand’uomo. Per quanto siano salite in fama le specialità attuali in chimica, in fisica, in meccanica, in industria, non sono, né geni, né grandi uomini. L’uomo, il cui sguardo abbraccia una sola legge dell’armonia universale, non merita il nome di genio; come non si chiama gran musico chi non sa far sortire dal suo strumento che un suono solo, ma quello che fa vibrare armonicamente tutte le corde.  Il tempo non mi consente compiere la lettera questa sera, il seguito a domani.

I SERMONI DEL CURATO D’ARS: “Sull’ubriachezza”

I SERMONI DEL CURATO D’ARS:

(Discorsi di s. G. B. M. VIANNEY Curato d’Ars – vol. IV, 4° ed. Torino, Roma; Ed. Marietti, 1933)

“Sull’ubriachezza”

Nolite inebriari vino, in quo est luxuria.

(EPHES. V, 18).

S. Paolo ci assicura che gli ubbriaconi non entreranno mai nel regno dei cieli (I Cor. VI, 10); bisogna dunque dire che l’ubriachezza sia un peccato molto grave. E ciò si capisce facilmente, poiché, sotto qualunque aspetto lo si consideri, questo peccato è disonorante anche per gli stessi pagani; devono dunque i Cristiani temerlo mille volte più della morte. Lo Spirito Santo ce lo dipinge in un modo pauroso; Egli ci dice: “Guai a voi che vi vantate di bere molto vino, e siete forti nell’inebriarvi… guai a colui che si alza al mattino col pensiero di darsi all’ubriachezza! „ (Prov. VI, 6). Ahimè! Fratelli miei, sono assai pochi quelli che, presi da questo vizio, procurano di correggersi. Alcuni  non trovano alcun male nel bere ad ogni occasione; gli altri pensano che, purché non perdano la ragione, non commettono grave peccato; altri infine, si scusano perché i compagni ve li trascinano. Per disingannarli tutti di questi errori, io mostrerò loro:

1° che tutto condanna l’ubriachezza;

2° che tutti i pretesti che i bevitori tentano di addurre non riescono a giustificarli davanti a Dio.

I. — Per mostrarvi, F. M., l’enormità del peccato dell’ubriachezza, bisognerebbe poter farvi conoscere la grandezza dei mali che porta con sé per il tempo e per l’eternità: ciò che non sarà mai possibile ad un uomo mortale, perché Dio solo può conoscerlo. Quanto vi dirò dunque, sarà un nulla in confronto di ciò che è la realtà. Dapprima converrete con me, che una persona la quale ha ancora un po’ di buon senso e di religione, non può essere indifferente ed insensibile alla perdita della sua riputazione, della sanità e della salvezza dell’anima. Se devo spiegarmi meglio, vi dirò che l’ubbriacone, per il suo peccato, si rovina la salute, attira su di sé l’avversione degli uomini e la maledizione di Dio. Io credo, F. M., che questo solo potrebbe bastarvi per farvene concepire un vero orrore. Quale vergogna per una persona, ma specialmente per un Cristiano, immergersi in questo infame pantano! Lo Spirito Santo ci dice nella sacra Scrittura, che bisogna mandare il fannullone e l’ozioso dalla provvida formica, affinché da essa impari a lavorare (Prov. XX, 22); ma l’ubbriacone, dice che bisogna mandarlo dagli animali immondi, perché da essi impari la temperanza nel bere e nel mangiare. Quando si vuol indurre un peccatore ad uscire dal peccato gli si propongono gli esempi di Gesù Cristo e dei santi; ma per un ubbriacone bisogna cambiar linguaggio: bisogna proporgli l’esempio degli animali, senza temere di scendere ai più immondi. Gran Dio, che orrore! S. Basilio ci dice che non si dovrebbero tollerare gli ubbriaconi tra gli uomini; ma che bisognerebbe scacciarli, e relegarli tra le bestie selvagge in fondo alle foreste. – Questo peccato sembrava odioso anche agli stessi pagani. Si racconta nella storia che i magistrati di Sparta, i cui abitanti erano molto sobrii, per far bene comprendere ai giovani quanto questo vizio fosse indegno d’una creatura ragionevole, in un certo giorno facevano venire sulla pubblica piazza uno schiavo che prima era stato ubbriacato. I giovani vedendo quell’uomo trascinarsi nell’acqua o nel fango si stupivano e gridavano: O cielo, donde può venire un tal mostro? ha sembianze umane, ma è meno ragionevole d’un bruto. Vedete, F. M., che, sebbene pagani, non potevano comprendere come una persona ragionevole potesse abbandonarsi ad una passione che riduce l’uomo in uno stato così disonorante. Leggiamo pure che un giovane signore dabbene, aveva un servo il quale disgraziatamente di quando in quando si dava al vino. Un giorno lo trovò in questo stato mentre andava in chiesa, e gli domandò dove andasse. “Vado in chiesa a pregare Dio, rispose il servo.„ — “Tu vai in chiesa, soggiunse il padrone: come potrai pregare il buon Dio, mentre non saresti capace di dar da mangiare al cavallo? „ Non avviene di questo peccato come di molti altri che, col tempo e colla grazia, si correggono; occorre un miracolo della grazia, e non una grazia ordinaria. — Mi domandate perché gli ubbriaconi si convertono così raramente? Ecco: essi non hanno né fede, né religione, né pietà, né rispetto per le cose sante; nulla può commuoverli e far aprire ad essi gli occhi sul loro stato disgraziato. Se li minacciate colla morte, col giudizio, coll’inferno che li aspetta per abbruciarli; se li intrattenete sulla felicità che Dio riserva a quelli che l’amano; vi risponderanno con un piccolo sorriso sardonico, che significa: “Voi credete forse di farmi paura come si fa ai fanciulli; ma non sono ancora nel numero di coloro che si lasciano… per credere ciò.„ Ecco quanto ne ricaverete. Egli crede che dopo la morte tutto sia finito, Il suo Dio è il vino, e ne ha abbastanza. “Va, disgraziato, gli dice lo Spirito Santo, quel vino che bevi oltre misura è come un serpe che ti dà la morte. „  (Prov. XXIII, 22) Tu ora non credi nulla; ma nell’inferno conoscerai che oltre il tuo ventre vi è un altro Dio. Oltre il male che l’ubbriacone reca a sé stesso col suo peccato, a quali eccessi può giungere quando è immerso nella crapula! S. Agostino ce ne dà un esempio spaventoso. Nella città dove egli era vescovo, un giovane chiamato Cirillo aveva, come tanti altri, ahimè! la disgraziata abitudine di frequentare le bettole. Un giorno ritornando dal luogo de’ suoi stravizi, portò il furore della sua passione così oltre, che assalì la sua stessa madre da mesi incinta. Vedendosi ella nelle mani di questo figlio snaturato, si difese con tanti sforzi che fece morire il povero bambino che portava in seno. Dio mio, quale disgrazia! Un infante pel furore di quello sciagurato libertino non potrà mai vedere il cielo!… Quell’infame, vedendo che non riusciva a nulla con sua madre, andò in cerca d’una delle sorelle, la quale preferì lasciarsi pugnalare, piuttosto che acconsentire al suo infame desiderio. Il padre sentendo un gran rumore, accorse per liberare la figlia. Il disgraziato si getta sul padre, lo copre di coltellate e lo fa cadere ai suoi piedi. Un’altra delle sorelle corre in aiuto del padre che vedeva assassinare, e il disgraziato pugnala anche questa. Cielo! che orrore! Quale passione è simile a questa? S. Agostino, avendo fatto radunare i fedeli in chiesa per metterli a parte di questo avvenimento, ci dice che tutti si scioglievano in lagrime al racconto d’un tale delitto. Vedete, F. M., quale orrore per questo peccato vuole ispirarci lo Spirito Santo, quando ci dice “di non guardare il vino neppure quando brilla nel bicchiere. Se lo bevete senza moderazione, dice ancora, vi morderà come un serpente, vi avvelenerà come un basilisco.„ (Prov. XXIII, 31,32) Volete sapere, ci dice S. Basilio, che cos’è il ventre d’un ubbriaco? ecco: è un serbatoio ripieno di tutte le immondizie della bettola. Ordinariamente, dice egli, vedete che un ubbriacone conduce una vita snervata; non è capace che di rovinare la sua salute, di dar fondo alle sue sostanze, di gettare la famiglia in miseria: ecco ciò di cui è capace. Bisogna che questo vizio sia ben disonorante, poiché il mondo, corrotto com’è, non lascia di avere un sommo disprezzo per gli ubbriaconi, e di considerarli come pubblica peste. Ciò non è difficile a comprendersi: non vi è realmente in questo vizio tutto quanto può rendere un uomo infame ed odioso agli stessi pagani? Il beone non riesce odioso quando, per negligenza dei suoi affari, rovina la famiglia e la mette in miseria? Non è odioso per gli scandali che dà colla turpitudine della sua vita, e le ingiurie che lancia così contro i superiori come contro gli inferiori? giacché un ubbriacone non ha maggior rispetto per gli uni che per gli altri. Converrete con me, F. M., che non occorre tutto questo per rendere spregevole un uomo. Ascoltatemi ancora un momento, e lo comprenderete meglio. Dove troverete un padre che voglia dare sua figlia ad un ubbriacone, se lo conosce per tale? Appena glielo proponete vi risponde: “Se volessi far morire mia figlia di dispiaceri, lo farei; ma siccome amo i miei figli, preferisco tenerla con me per tutta la mia vita. „ Del resto, F. M., qual è quella giovane che acconsentirebbe di sposare un giovane che frequenta troppo le osterie? — “Proferisco, vi direbbe, passar la mia vita in un bosco piuttosto che sposare un abbrutito, che, proso dal vino, potrebbe uccidermi, come spesso si è visto. „ Ditemi, F. M., qual è quel proprietario che vorrebbe affidare la cura della sua sostanza ad un ubbriacone, incaricato di fare i suoi pagamenti, di riscuotere il suo denaro? Sopra cinque mila non ne troverete uno che vi acconsenta; e ben a ragione. Qual giudico vorrebbe accettare la deposizione d’un ubbriacone? Lo farebbe scacciare dall’udienza, ed ordinerebbe di condurlo nella sua scuderia insieme ai cavalli, o meglio co’ suoi porci, se ne avesse. Dove troverete una persona dabbene che voglia entrare in un albergo in compagnia d’un ubbriacone? Se nessuno la conosce, forse tollererà; ma se si crede riconosciuto da una persona onorata, fugge subito; o, se non può, cerca mille pretesti per far capire che s’è trovato in simil compagnia senza saperlo. – Se in una disputa volete inquietarlo, rimproverategli di averlo veduto in così bella compagnia; è lo stesso che dirgli che non vale gran fatto più di quell’ubbriacone: insomma ad un ubbriacone si attribuisce ogni sorta di cattive qualità! – S. Basilio ci dice che se le bestie potessero conoscere cos’è un ubbriacone, non lo tollererebbero in loro compagnia, credendo di disonorarsi. Un ubbriacone non si mette infatti al di sotto dell’animale più bruto? Infatti, una bestia, ha piedi per andare dove vuole, o dove è chiamata; ma l’ubbriacone non ne ha. Quante volte lo trovato steso in mezzo alla strada come un animale a cui siano state tagliate tutte quattro le zampe. Se, per un atto di carità lo rialzate, ricade subito, così che siete costretti o a lasciarlo nel fango od a prendervelo sulle spalle. Non è forse vero? — Sì, senza dubbio, pensate tra voi. — Una bestia ha occhi per vedere, per dirigersi, per andare a casa del suo padrone, e mettersi nella stalla al suo solito posto. Un ubbriacone non ha occhi per andare a casa, non sa se prendere la destra o la sinistra; e se siete un suo vicino non vi conoscerà nemmeno. Domandategli se è giorno o notte: non lo sa. Una bestia ha orecchie per sentire ciò che dice il suo padrone; non può rispondergli, ma lo guarda per mostrare che ha capito e che è pronta a fare tutto ciò ch’ei vuole. Un cane, al segno del padrone che ha perduto il fazzoletto od il bastone, va subito a cercarlo e lo riporta manifestando al padrone la gioia, il piacere che prova nel servirlo. Se trovate invece un ubbriacone sdraiato sulla via, cercate di parlargli per ore intere; non vi risponderà, tanto sono sorde le sue orecchie, tanto i suoi occhi sono annebbiati dal fumo del vino. Se l’ubriachezza gli lascia ancora la forza di aprire la bocca, vi risponderà una cosa per l’altra; e finirete per andarvene deplorando la sua disgraziata abitudine. Se poi, in questo stato, ha ancora un po’ di conoscenza, non v’ha trivialità ed infamia che non vomiti; lo vedrete commettere azioni che farebbero arrossire i pagani se fossero presenti, e tutto questo senza rimorso. Occorre dare un ultimo tratto di pennello per farvi meglio apprezzare il valore e le belle qualità d’un ubbriacone? aggiungo una sola parola: è un demonio d’impurità vestito di corpo, che l’inferno ha vomitato sulla terra; è il più sozzo, il più immondo degli animali. Toglietegli l’anima ed è l’ultima delle bestie che vivono sulla terra. – Credo che ora, F. M., potete farvi un’idea dell’enormità del peccato dell’ubriachezza. Noi lo troviamo stomachevole, eppure non abbiamo che una conoscenza assai limitata della malizia di questo peccato: vi lascio pensare come deve giudicarlo Iddio che perfettamente lo conosce! Se non fosse immortale, potrebbe, senza morir d’orrore, sopportare questo vizio che tanto lo disonora nelle sue creature, le quali sono, come dice S. Paolo, membra di Gesù Cristo? » (I Cor. VI, 15.).Ma, non andiamo più innanzi, F. M., ve n’è abbastanza. Vi dirò solo che un impudico, sebbene molto colpevole, può ancora nel suo peccato fare un atto di contrizione che lo riconcili col buon Dio; ma un ubbriacone è incapace del minimo segno di pentimento. Lungi dal conoscere lo stato della sua anima, non sa nemmeno se è al mondo; così Che morire nell’ubriachezza e morire da riprovato, F. M., è la stessa cosa. – Dico, inoltre, F. M., che un beone è del tutto incapace di lavorare per la sua salute, come vedrete. Per uscire dal suo stato, bisognerebbe che potesse sentirne tutto l’orrore. Ma, ahimè! egli non ha fede: o crede assai debolmente le verità che la Chiesa ci insegna. Dovrebbe ricorrere alla preghiera; ma non ne fa quasi mai, ovvero la fa vestendosi o spogliandosi, od anche si accontenterà di fare, bene o male, il segno della croce mentre si getta sul letto, come una bestia sullo strame. Dovrebbe frequentare i Sacramenti che, malgrado il disprezzo degli empi, sono i soli rimedi che la misericordia di Dio ci presenta per attirarci a sé. Ma ahimè! egli non conosce né le disposizioni necessarie per riceverli degnamente e nemmeno il più necessario di quanto bisogna sapere per salvarsi. Se l’interrogate sul suo stato, non capisce nulla, e vi risponde una cosa por l’altra. Se in tempo di giubileo, o durante le missioni vuol salvare le apparenze; si accontenterà di dire solo la metà dei peccati commessi; o, cogli altri sull’anima, va ad accostarsi alla sacra mensa, cioè va a commettere un sacrilegio; questo gli basta. Dio mio! quale stato è quello di un ubbriacone e quanto è difficile il poterne uscire! F. M., se volete darvi la pena di osservare il contegno d’un ubbriacone in chiesa credereste che egli sia un ateo, che non crede nulla; lo vedete venire per ultimo, oppure uscire per sollevarsi un poco, cercare qualcheduno de’ suoi amiconi che lo accompagni alla bettola, mentre gli altri stanno ad ascoltare la S. Messa. Il profeta Isaia ci dice che gli ubbriaconi sono creature inutili per il bene su questa terra, ma che sono però pericolosissime per il male Per convincervene, F. M., entrate in una bettola, che S. Giovanni Climaco chiama la bottega del demonio, la scuola dove l’inferno vende ed insegna la sua dottrina, il luogo dove si vendono le anime, dove si rovinano i matrimoni, si guasta la salute, cominciano gli alterchi e si commettono gli omicidi. Ahimè! tutte cose che fanno orrore a quelli che non hanno ancora perduta la fede. Che cosa vi si sente? Voi lo sapete meglio di me: bestemmie, spergiuri, imprecazioni, parole triviali. E quante azioni vergognose che non si farebbero altrove!… Vedete, F. M., quel povero ubbriaco! Egli è pieno di vino, mentre la sua borsa è vuota. Si getta bocconi su una panca o su di un tavolo: il domani, si stupisce di trovarsi in una bettola, mentre ei credeva d’essere a casa sua. Egli se ne va dopo avere sprecato tutto il denaro, e spesso è obbligato a lasciare in deposito il cappello o gli abiti con una polizza per poter portar via il suo corpo col vino che ha bevuto. Quando rientra in casa la povera moglie ed i figli, che ha lasciati senza pane, cogli occhi solo per piangere, sono costretti a fuggire por non essere maltrattati, come se essi fossero la causa della perdita del suo denaro, e dei suoi cattivi affari. Mio Dio, quanto è deplorevole lo stato d’un ubbriacone! Il Concilio di Magonza ha ragione di dirci che un ubbriacone trasgredisce i dieci comandamenti della legge di Dio. Se volete convincervene, esaminateli l’un dopo l’altro, e vedrete che un ubbriacone è capace di fare tutto ciò che i comandamenti ci proibiscono. Non voglio entrare in questi particolari che sarebbero troppo lunghi. S. Giovanni Crisostomo, parlando al popolo di Antiochia, dice: “Guardatevi bene, figli miei, di non darvi all’ubriachezza, poiché questo peccato degrada l’uomo in un modo così spaventoso da metterlo al di sotto del bruto privo di ragione. Sì, continua, gli ubbriaconi sono veramente gli amici del demonio: dove sono essi, sono i demoni in grande quantità. „ Ahimè! F. M., bisogna che questo peccato sia ben orribile agli occhi di Dio, se Egli lo punisce in modo così spaventoso anche in questo mondo! Eccone unchiaro esempio. Leggiamo nella S. Scrittura (Dan. V,) , che il re Baldassare, per ricevere i grandi della sua corte, aveva dato uno splendido banchetto, quale non aveva mai offerto durante il suo regno. Aveva fatto cercare per tutto il regno i vini più squisiti. Quando i convitati furono radunati, e, gloriandosi di bere a larghi sorsi, il sangue cominciò a scaldarsi e la lussuria ad infiammarsi (poiché ubriachezza e lussuria non vanno mai disgiunte): mentre ormai si tuffavano nelle voluttà, apparve ad un tratto davanti al re una mano senza corpo, la quale scrisse sul muro alcune parole che erano la condanna del re, senza che egli lo comprendesse. Ahimè! F. M., come l’uomo più fiero, più orgoglioso, più altero si fa piccolo piccolo davanti a simil caso, anzi al più lieve accidente! Baldassare ne fu così spaventato, e fu preso da un tremito così forte, che le giunture delle mani gli si rompevano e le ginocchia si urtavano l’un l’altro. Tutti i convitati furono presi da ugual terrore e sembravano mezzo morti. Il re s’affrettò a far cercare qualcuno che potesse spiegargli il significato di quelle parole; ma nessuno vi capiva nulla. Comandò allora di far venire tutti i suoi indovini, cioè i falsi profeti. Ciascuno voleva comprendere, ma non vi riusciva. Finalmente si disse al re che solo Daniele, il profeta del Signore, poteva darne la spiegazione. Siccome il re vivamente desiderava conoscere il significato di quelle parole misteriose, ordinò di farlo venire all’istante alla sua presenza. Il profeta, accondiscese tosto a comparire dinanzi al re, che lo ricevette con grande rispetto ed. offrendogli molti regali, gli domandò la spiegazione di quelle strane parole. Il profeta rifiutò i doni, poi: “Principe, disse, ascoltami. Ecco ciò che significano quelle tre parole Mane, Thecèl, Phares. La prima significa, che i tuoi giorni sono contati e che sei alla fine della tua vita e del tuo regno; la seconda che sei stato pesato e trovato troppo leggiero; la terza che il tuo regno sarà diviso tra i Medi ed i Persiani. „ Così il re dalla bocca stessa del profeta, udì la sentenza di condanna che gli annunciava la fine di tutti i suoi stravizi. Notatelo bene: ciò avveniva nel momento in cui questo disgraziato beveva coi convitati nei vasi sacri, rubati dal padre suo nel saccheggio del tempio di Gerusalemme; mentre si riempivano di vino e si tuffavano nelle più indegne voluttà. Dio mio! qual colpo di folgore della vostra collera! Ma la paura non lo salvò: tutto accadde come il profeta aveva predetto. Il re fu ucciso, ed il regno venne diviso fra i Medi ed i Persiani. Malgrado questo avvertimento che avrebbe convertito ogni altro peccatore, quel disgraziato vieppiù si ostinò; poiché non sembra che abbia dato segni di pentimento. Così, secondo tutte le apparenze, dalla sua orgia e dal suo spavento, discese nell’inferno. Questo ci mostra quanto sia difficile che un ubbriacone si converta. Vedete ancora Oloferne, il famoso superbo I che si vantava di riempirsi di vino fino a traboccarne, davanti alla bella Giuditta « (Judith XII, 20). Fu precisamente durante l’ubriachezza ch’ella gli tagliò il capo. Ah! F. M., quale funesta passione! chi potrebbe comprenderne la tirannia, ed abbandonarvisi? No, F. M., chi si dà all’ubriachezza non ha più alcun ritegno, nemmeno coi suoi genitori, come ho già detto. Ma, per ben imprimervelo nel cuore, ecco un esempio che non è meno spaventoso. Narra la storia che un padre aveva un figlio il quale, ancora giovanissimo, aveva l’abitudine di frequentare troppo le osterie. Un giorno vedendolo tornare da questo luogo sciagurato, ed accorgendosi che aveva bevuto un po’ troppo, il padre volle ricordargli che era cosa vergognosa per lui, ancora ragazzo, frequentare così le osterie dove non si commette che del male, mai del bene; che avrebbe fatto assai meglio a fuggire quei luoghi dove si perdeva la reputazione e l’onore, e che, se voleva continuare, lo caccerebbe di casa. Il giovane, sentendo queste parole, si accese di una tal collera che si slanciò sul padre, lo coprì di pugnalate e lo stese ucciso ai suoi piedi coperto di sangue. Ditemi, F. M., avreste mai pensato che l’ubriachezza potesse portare un uomo a simili eccessi? – Così l’ubbriacone non commette soltanto peccato di golosità; ma diventa capace per il suo peccato di abbandonarsi a tutti i delitti. Se non temessi di esser troppo lungo, ve lo mostrerei tanto chiaramente, che non potreste più dubitarne. Dopo questo, F. M., non è necessario dirvi quanto dovete temere l’ubriachezza, e fuggire quelli che vi si abbandonano. Ah! come è da temere che quelli che ne sono presi, non se ne correggano più! Pure, F. M., siccome la misericordia di Dio è infinita, ed Egli vuol salvare gli ubbriaconi, come tutti gli altri, quantunque la loro conversione sia molto difficile, se essi volessero corrispondere alla grazia, che è data loro por correggersi, riuscirebbero a trarsi da questo abisso. La prima cosa ch’essi devono fare, è di fuggire gli ubbriaconi e le osterie; questa condizione è ad essi assolutamente necessaria per tornare a Dio. La seconda è di ricorrere alla preghiera, per commuovere il cuore di Dio e riguadagnare la sua amicizia. La terza d’avere un gran rispetto per le cose sante; di non disprezzar nulla di ciò che si riferisce alla religione. La quarta di ricorrere ai Sacramenti, dove ci vengono accordate tante grazie: è questo il mezzo di cui tutti i peccatori si sono serviti per tornare a Dio tanto gli ubbriaconi quanto gli altri. – S. Agostino narra (Conf. lib. IX, cap. VIII, 18) . , conforme al racconto che aveva udito dalle labbra stesse di sua madre. che ella aveva corso pericolo di dannarsi mostrandosi golosetta del vino. Spiava il momento in cui nessuno la vedesse, e tosto cercava di soddisfare la sua gola. Ma una serva che qualche volta l’aveva vista, e colla quale un giorno ebbe a litigare, le disse che era una piccola bevitrice. Questa parola la offese talmente e ne provò tale confusione che, pentita, pianse per molto tempo. Andò subito a confessarsi di questo difetto che non aveva mai osato dire al suo confessore, tanto lo stimava brutto, pur avendo solo dodici anni, infame e vergognoso. E colla grazia di Dio se ne corresse così bene che non vi cadde più per tutta la sua vita, e visse in modo così esemplare che diventò una gran santa. Vediamo (Ibid., cap. IX) che Dio, per farle espiare il suo peccato, permise che ella sposasse un uomo ubbriacone e brutale, che le fece provare innumerevoli maltrattamenti. Il figlio Agostino, fino all’età di trentadue anni non fu meno beone del padre. S. Monica, riconoscendo che il buon Dio permetteva questo per soddisfare la sua giustizia, sopportò così bene questa prova che non fu mai sentita lamentarsi con alcuno. E finalmente ebbe la consolazione di vedere il marito ed il figlio Agostino convertirsi. Vedete, F. M., che Dio stende la mano, e dà la grazia a quelli che gliela domandano con vero desiderio di uscire dal peccato, e vivere solo per Lui. – Ma un altro esempio vi darà piacere, perché vi mostrerà che gli ubbriaconi, sebbene miserabili assai, pure possono salvarsi; e quelli che non cambiano le loro cattive abitudini, dicendo che non riusciranno mai a correggersi, s’ingannano di molto. Non sarebbe facile trovare un fatto che meglio convenga al nostro soggetto. In un villaggio presso Nimes, v’era un contadino chiamato Giovanni. Fin dalla sua gioventù si era talmente dato al vino, che era quasi continuamente ebbro e passava per il maggior ubbriacone del paese. Il curato della parrocchia avendo fatto venire dei missionari per istruire i suoi parrocchiani, pensò che bisognava far loro conoscere questo peccatore, per timore che li ingannasse. La saggia precauzione del pastore parve da principio inutile, poiché non solo il contadino non si presentò ad alcun missionario, ma non assistette neppure ad alcun esercizio della missione. Due giorni prima che la missione finisse, pensò d’andar a sentire il discorso sul Figliuol prodigo, o, meglio sulla misericordia di Dio, che era predicato dal Rev. Castel, sacerdote di Nimes, il missionario più bravo e zelante. Questo discorso scritto con nobile semplicità, ma pronunciato con molta forza ed unzione, fece vivissima impressione sul nuovo uditore. Egli riconobbe il suo ritratto nei disordini del Figliuol prodigo; vide nella bontà del padre un’immagine commovente di Dio, e ripieno, tutto ad un tratto, di pentimento e di confidenza, disse: Come il giovane Figliuol prodigo dell’Evangelo, uscirò finalmente dalla cattiva abitudine in cui marcisco da sì lungo tempo; mi getterò ai piedi di quel Dio di misericordia che mi vien presentato come il più amoroso di tutti i padri. La sua risoluzione non fu meno efficace che pronta. Il domani va a trovare quel medesimo Sac. Castel di cui aveva sentito il discorso, e avvicinandolo gli dice cogli occhi pieni di lagrime: “Vedete qui il più gran peccatore che vi sia sulla terra. Voi avete detto che la misericordia di Dio è ancor più grande dei nostri peccati; per attirarne su di me i salutari effetti, vi prego; fatemi la carità d’ascoltare la mia confessione. Ah! non rifiutatemela, Padre, ve ne scongiuro, questa grazia; mi fareste cadere nella disperazione. Non posso più sopportare il peso dei miei rimorsi, e non sarò tranquillo, se non quando m’avrete riconciliato con Dio che troppo ho offeso. „ Il missionario fu tanto più commosso e sorpreso da questo discorso, perché riconobbe nel suo interlocutore il famoso ubbriacone di cui gli aveva parlato il Curato. S’intenerì con lui, l’abbracciò amorosamente, e gli dimostrò gli stessi sentimenti che il padre del Figliuol prodigo aveva testimoniato al figliuol suo; ma nel medesimo tempo gli mostrò con bontà che era troppo tardi, che era alla vigilia della sua partenza e temeva di non potergli accordare ciò che gli domandava. “Ah! se è così, rispose il contadino singhiozzando, è finita: sono perduto. Quando mi conoscerete meglio, forse avrete pietà di me. Fatemi dunque la grazia di ascoltarmi, e che io abbia, almeno, la consolazione di confessarmi. „ Il missionario si arrese a questo desiderio, ed il contadino si confessò il meglio che gli fu possibile. Accompagnò l’accusa de’ suoi peccati con tante lagrime e con sì vivo pentimento; resisté con tanto coraggio ai prudenti consigli che gli si davano di non interamente rinunciare al vino per la sua salute, e di usarne solo più raramente e più sobriamente; protestò sì fortemente che non avrebbe giammai fatto la pace con questo crudele nemico, che aveva dato la morte alla sua anima, e che l’avrebbe tanto in orrore per tutta la sua vita, che il missionario, trovandolo così ben disposto, gli diede l’assoluzione, raccomandandogli fortemente di perseverare nei buoni sentimenti che Dio gli aveva ispirati. Questo grande peccatore glielo promise, e l’avvenire provò che il suo pentimento era stato sincero. Cinque o sei mesi dopo la missione, una delle sorelle di Giovanni fece un viaggio a Nimes. Incontrò il missionario che volle sapere se il suo famoso ubbriacone Giovanni aveva perseverato. “Voi venite, senza dubbio, dal vostro villaggio, dissele; potete darmi notizie del bravo Giovanni?„ — “Ah! signore, rispose la donna, quanto vi siamo obbligati! voi ne avete fatto un santo. Da quando avete lasciato il nostro paese, non solo i suoi amici non riuscirono a trascinarlo alle osterie: ma non ci è stato possibile largii bere una sola goccia di vino. No,dice quando gliene parliamo; è stato il vino il mio più grande nemico, e non mi riconcilierò mai più con lui; non parlatemene assolutamente.„ Il missionario non poté sentire queste parole senza piangere, tant’era la suagioia nel sapere che questo peccatore convertito aveva avuto la fortuna di perseverare. Tutte le volte che narrava questo fatto, aggiungeva sempre, che dopo una simile conversione, non si dovrebbe mai disperare dei più grandi peccatori, se il peccatore vuol corrispondere alla grazia che Dio dà a tutti perché possano salvarsi.

II. — Vedremo ora, F . M., che i peccatori, cioè gli ubbriaconi, non hanno alcun pretesto che possa giustificare i loro eccessi. S. Agostino ci dice che, quantunque l’ubriachezza sia condannata da tutti, pure ciascuno crede potersene scusare. Se domandate ad un uomo perché s’è lasciato vincere dal vino, vi risponderà senza turbarsi che un amico è venuto a trovarlo; sono andati assieme all’osteria e che, se han troppo bevuto non fu che per compiacenza. — Per compiacenza! ma, o quell’amico è un buon Cristiano, ovvero è un empio. Se è un buon Cristiano, l’avete scandalizzato in citandolo a bere e passando il vostro tempo nell’osteria: forse durante la S. Messa o durante i Vespri!… Ma che! fratel mio, siete entrati nell’osteria ambedue ragionevoli, e ne siete usciti meno ragionevoli che due bruti! Credetemi, amico, se aveste tenuto per un po’ il vostro amico in casa vostra e, non avendo vino, gli aveste offerto dell’acqua, gli avreste fatto molto più piacere che facendogli vendere l’anima al demonio. Se questo amico è un cattivo Cristiano od un empio senza religione, non dovete andare con lui, dovete fuggirlo. — Ma, mi direte, se non lo faccio bere, se non lo conduco all’osteria, mi vorrà male, mi tratterà d’avaro. — Amico, è una gran fortuna l’essere disprezzati dai cattivi. Questa è una prova che non somigliate ad essi. Voi dovete servir loro d’esempio. S. Agostino ci dice: Ah! miserabile, vi siete dato al vino per essere l’amico d’un ubbriacone, d’un empio, d’un libertino; ed intanto diventate il nemico di Dio! Ah! disgraziato! quale indegna preferenza! Vedete dunque, F. M., che non avete nulla che vi possa scusare: vi date al vino perché la vostra golosità vi trascina. Alcuni dicono che hanno l’abitudine d’andare all’osteria per bere in compagnia, ma che per quanto bevano, il vino non toglie loro la ragione. Amico mio, v’ingannate. Sebbene il vino non vi intorbidi la ragione, bevendone più del necessario, siete altrettanto colpevoli come se aveste perduta la ragione; non è che un piccolo scandalo di meno. E del resto, agli occhi del pubblico siete una colonna dell’osteria. Ascoltate ciò che dice il profeta Isaia: “Guai a voi che siete così forti che potete bere eccessivamente, che vi gloriate di ubriacare gli altri: voi ubbriacate voi stessi (Isa. V, 22). Altri dicono pure: E per fare un contratto, per dare o per ricevere denari. — Ahimè! amico, io non voglio dimostrarvi che quelli i quali si danno al vino fanno contratti rovinosi. Però, è un fatto, sì o no, che all’osteria i furbi fanno firmar quietanze, e poi, dato il denaro, cercano di ricuperarlo? Del resto, come volete conoscere ciò che fate? non conoscete nemmeno voi stessi.. – Quale conclusione dobbiamo trarre da tutto questo, F. M.? Eccola. Rientriamo seriamente in noi stessi, come ci dice il Signore per bocca del profeta Gioele: “Svegliatevi, dice, ubbriaconi, poiché v’attendono sciagure d’ogni sorta. Piangete e gridate, alla vista dei castighi che la giusta collera di Dio vi prepara nell’inferno in causa della vostra ubriachezza(Joel. I, 5). Svegliatevi, disgraziati, ai lamenti di quella povera donna che avete maltrattata dopo averle mangiato il pane; svegliatevi, ubbriaconi, alle grida di quei poveri fanciulli che riducete alla miseria o che mettete in pericolo di morir di fame. Ascoltate, infame ubbriacone, quel vicino che vi domanda il denaro che v’ha prestato, e che avete sciupato negli stravizi e nelle osterie. Egli ne ha bisogno per sfamare la moglie ed i figli, i quali piangono la loro miseria causata dalla vostra ubriachezza. Ah! disgraziato peccatore, che cosa avete promesso a Dio quando vi ha ricevuto tra i suoi figli? Gli avete promesso di servirlo, di non ricadere più in questi disordini, Che avete fatto nella vostra ubriachezza? Ahimè! avete rivelati segreti a voi confidati, e che non dovevate mai dire. Avete commesso un numero infinito di turpitudini che fanno orrore a tutti. Che avete fatto dandovi all’ubriachezza? Avete rovinata la vostra riputazione, le vostre sostanze, la vostra salute, ed avete resa la vostra famiglia così miserabile che, forse per vivere, s’abbandonerà ad ogni sorta di disordini. Siete diventato un uomo da nulla, la favola e l’obbrobrio dei vostri vicini che, ora, vi guardano solo con disprezzo ed orrore.Che avete fatto della vostra anima, di quest’anima così bella, che Dio solo la supera in beltà? L’avete resa carnale, l’avete sfigurata coi vostri eccessi. – Che cosa avete perduto colla vostra ubbriachezza? Ahimè, amico, avete perduto il più grande di tutti i beni. avete perduto il cielo, la felicità eterna, beni infiniti; avete perduto la vostra anima redenta dal Sangue adorabile di Gesù Cristo. Ah! diciamo ancor più: Avete perduto il vostro Dio, quel tenero Salvatore, che ha vissuto solo per rendervi felice durante tutta l’eternità. Oh! quale perdita! Ohi potrà comprenderla ed esservi insensibile? Quale disgrazia  si può paragonare a questa? Ma, che cosa avete guadagnato? Ahimè null’altro che l’inferno per esservi bruciato eternamente. Avete meritato, amico mio, d’esser collocato sulla mensa dei demoni, dove alimenterete il furore che essi hanno contro Gesù Cristo. Sarete la vittima sulla quale peserà la giusta collera di Dio per secoli senza fine!… Convenite con me, che forse non avete mai potuto formarvi un’idea dell’enormità del peccato dell’ubriachezza, dello stato a cui riduce chi lo commette, dei mali che attira su di lui durante la sua vita, e dei castighi che gli prepara per l’eternità. Chi non si commoverebbe davanti a tanta sciagura, F. M.? Piangete, o disgraziati ubbriaconi. le vostre sregolatezze e tutti i cattivi esempi che avete dato, invece di riderne come fate. Alzate la voce verso il cielo per domandare misericordia, per vedere se il Signore vuol ancora avere pietà di voi. Preghiamo il buon Dio che ci preservi da questo disgraziato vizio, che sembra metterci quasi nella impossibilità di salvarci. E perciò amiamo Dio solo: è la felicità che vi auguro…