QUARE ERGO RUBRUM EST INDUMENTUM TUUM, ET VESTIMENTA TUA SICUT CALCANTIUM IN TORCULARI? … ET ASPERSUS EST SANGUIS EORUM SUPER VESTIMENTA MEA, ET OMNIA VESTIMENTA MEA INQUINAVI . – Gestito dall'Associazione Cristo Re Rex Regum"Questo blog è un'iniziativa privata di un’associazione di Cattolici laici: per il momento purtroppo non è stato possibile reperire un esperto teologo cattolico che conosca bene l'italiano, in grado di fare da censore per questo blog. Secondo il credo e la comprensione del redattore, tutti gli articoli e gli scritti sono conformi all'insegnamento della Chiesa Cattolica, ma se tu (membro della Chiesa Cattolica) dovessi trovare un errore, ti prego di segnalarlo tramite il contatto (cristore.rexregum@libero.it – exsurgat.deus@libero.it), onde verificare l’errore presunto. Dopo aver verificato l’errore supposto e riconosciuto come tale, esso verrà eliminato o corretto. Nota: i membri della setta apostata del Novus Ordo o gli scismatici ed eretici sedevacantisti o fallibilisti, o i "cani sciolti" autoreferenti falsi profeti,non hanno alcun diritto nè titolo per giudicare i contenuti di questo blog. "
[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]
LIBRO TERZO
LA CHIESA
II. — I caratteri divini della Chiesa.
d) La Cattolicità della Chiesa.
D. Che cosa intendi per cattolicità?
R. Questa nota appartiene alla Chiesa secondo che essa è universale, vale a dire adattata a tutti gli uomini, fatta per tutti gli uomini, e, per questo, sciolta da ciò che limita, particolareggia e restringe in un genere qualunque il territorio di azione.
D. Non parli dunque di una universalità di fatto?
R. No, se non in desiderio o in speranza. La Chiesa fu sempre cattolica e non è sempre stata diffusa da per tutto; è lontana, anche oggi, dal raccogliere tutti gli uomini. Ma è universale di diritto. I suoi quadri sono del tutto pronti per ricevere l’umanità intera, per avvolgere le manifestazioni totali della sua vita, La vocazione universale degli uomini è di entrarvi, in tal modo che se non vi entrano e ciò sia per colpa loro, essi sono colpevoli riguardo ad essa e quindi ne fanno parte in certo modo, come transfughi. E se non è affatto per colpa loro, ma a cagione delle circostanze esterne o interne che non escludono punto il buon volere, essi ne fanno parte, perché il loro cuore ne fa parte, avessero pure sulle labbra delle negazioni, avessero pure nella bocca delle bestemmie.
D. Le ragioni della cattolicità sono le medesime che quelle della santità e dell’unità?
R. Esattamente le medesime. La Chiesa, non essendo che l’umanità organizzata in Dio per mezzo di Cristo, si trova essere cattolica per definizione: cattolica in estensione, facendone parte tutte le stirpi a titolo di aderenti o di candidati: cattolica in durata, non avendo i tempi altra missione che di render religiosa tutta l’umanità; cattolica in profondità, perché se ne trovano eliminati gli elementi umani che suscitano i particolarismi, siano essi etnici, nazionali, sessuali, intellettuali, politici, economici o mondani, senza dimenticare il particolarismo dell’io, sorgente delle religioni individualiste. La religione allora si dà pensiero esclusivamente del suo oggetto, che è di rilegare a Dio, Padre di tutti, e a Cristo, Figliuolo dell’Uomo, l’umanità e tutti i suoi membri vagheggiati nella loro unità, vale a dire nel loro fondo, dove non si spiega né si giustifica alcuna tendenza particolarista.
D. Tu ritorni sempre all’idea del germe universale, e alle proprietà di questo germe.
R. È vero. La cattolicità della Chiesa è anzitutto una proprietà; essa qualifica un organismo religioso operante al modo di un fermento, di un germe, potere universale riguardo alla materia che gli è sottomessa. Uno spermatozoo organizza l’animale intero; un po’ di lievito basta a una grossa massa di pasta; con un chicco di frumento si può, col tempo, coprire di semenza il mondo.
D. Il Vangelo non dice qualche cosa di simile?
R. Non faccio altro che riferire i suoi paragoni: Il regno de’ cieli sopra la terra è simile al lievito, che una donna prende e rimescola in tre staia di farina, finché sia levata tutta la massa. – Il regno di Dio è simile a un granellino di senapa, il più piccolo di tutti ì semi, che diventa un albero universale.
D. Il fatto dunque è la prova della proprietà di cui si parla.
R. Esso ne è in realtà la testimonianza. Volendo sapere se un grano è buono, lo si getta nella terra per vedere se germoglierà; ma non è necessario aspettare un grand’albero, e chi fosse dotato di una scienza perfetta si potrebbe contentare dell’analisi intima del granello. Qui, come abbiamo veduto, i due procedimenti si corroborano e i risultati concordano. La Chiesa ha tutto quello che occorre per un’opera universale, ed essa lo fa vedere.
D. Come lo fa vedere?
R. Adattandosi indifferentemente, nel corso della storia, a tutte le razze, a tutte le nazionalità, a tutte le forme intellettuali, a tutte le organizzazioni pratiche, a tutti i governi politici e sociali, a tutti i caratteri individuali, a tutti gli ambienti e a tutti i gradi che essi formano, a tutti gli stati di vita, purché siano rispettati i fini che essa si propone e i metodi indispensabili che li procurano.
D. La tua Chiesa non è forse orientale per la sua origine, romana per la sua costituzione e la sua sede?
R. La Palestina le prestò la sua culla, ma non ve la rinchiuse; Pietro e Paolo la misero subito al largo. Roma la servì, e noi vedremo in qual senso si chiama romana; ma non è affatto in senso restrittivo. Da Roma, come centro, la Chiesa irradia da per tutto. Essa è così poco orientale, che s’incorpora senza difficoltà lo spirito americano; è così poco occidentale, che si adatta al Giappone e lo conquista.
D. Non è particolarista in filosofia, col suo tomismo?
R. La Chiesa preconizza il tomismo, perché secondo il suo giudizio questo sistema di idee fondamentali è più favorevole al bene intellettuale dei credenti e si combina meglio col suo dogma. È la sua filosofia propria, come il canto fermo è la sua musica propria; ma essa non ne fa un obbligo universale più che non imponga il canto fermo ai nostri artisti contemporanei. S. Agostino era platonico; Fénelon era cartesiano; Malebranche aveva una sua filosofia propria; tutti e tre e una pleiade di altri, aderenti a sistemi diversi, professano intellettualmente come praticamente lo stesso Cristianesimo.
D. In politica, la Chiesa non sta per la monarchia?
R. Essa stessa è una monarchia; ma se la intende facilmente con le repubbliche, purché non si chiami repubblica un governo deliberatamente anticristiano.
D. In economia sociale e nella vita quotidiana, essa pare infeudata ai gruppi possidenti, ai potenti, ai padroni.
R. Come sarebbe ciò, quando essa stessa nacque povera, praticò ne’ suoi fervidi inizi il più stretto comunismo, fece sempre onore ai poveri per la loro « eminente dignità » e considerò la ricchezza quasi come una sventura? Fu detto del Cristianesimo che era una religione di poveri, e fu detto che desinava al castello: le due cose sono vere, come dello stesso Salvatore: è vero che era l’amico dei pastori e figurava alle nozze di Cana. Ciò significa che la Chiesa è tutta a tutti, a fine di salvarli tutti.
D. I sistemi sociali che favoriscono i piccoli non le sono sospetti?
R. I sistemi sociali appariscono tanto migliori alla Chiesa quanto più sposano le sue preoccupazioni universali. Ma coloro che più si dànno pensiero dei piccoli, come il socialismo, non mancherebbero del suo favore, se, rinunziando predicare una falsa dottrina di vita, a costituire una ribellione contro i rapporti più naturali degli uomini, e per giunta ad erigersi contro Dio, diventando così delle religioni a rovescio, consentissero a rinchiudersi nel loro oggetto: l’economia sociale.
D. Il tuo sacerdozio esclusivamente mascolino segna un particolarismo dei sessi.
R. Non si tratta punto di particolarismo, ma di divisione dei compiti e di adattamento di ciascuno al compito per il quale è riconosciuto più atto. Fin dal principio fu detto: Non vi è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né donna né uomo; perché voi siete una sola cosa in Gesù Cristo (S. Paolo). La testimonianza mistica di questo sentimento è la Vergine madre. In quanto alle sue testimonianze storiche, esse sono ricordate a sazietà. Ognuno sa che, se la donna ha nelle società moderne una situazione affatto nuova, una personalità morale riconosciuta, punto di partenza della sua emancipazione sociale, essa lo deve alla Chiesa e allo spirito nuovo che recava il suo Vangelo.
D. Il Vangelo non è la Chiesa.
R. Ho già detto che questa distinzione è fittizia. Quello che il Vangelo ha fatto, è la Chiesa che lo ha fatto. Quello che la Chiesa non avesse fatto sarebbe stato nel Vangelo allo stato di lettera morta; nulla di effettivo ne sarebbe uscito.
D. Che cosa intendevi di dire, eliminando dalla Chiesa « un particolarismo dell’io, padre delle religioni individualiste »?
R. Pensavo al protestantesimo, e a ogni dottrina che pretenda di partire dall’io per stabilire un sistema religioso senza radici sociali.
D. La religione non si rivolge all’io?
R. Essa non può partire di lì appunto perché si rivolge all’io. Bisogna che essa prima esista, che sia una vita, alla quale una individualità sarà chiamata ad aggiungersi. La Chiesa deve precedere l’individuo, e non l’individuo la Chiesa.
D. I protestanti non si trovano nello stesso vostro caso? Non hanno chiese in seno alle quali essi nascono religiosamente, che li formano, e che, dopo ciò, la loro libera volontà consacra?
R. Così è veramente, perché non può essere altrimenti; ma ciò contradice la dottrina protestante, e per conseguenza la giudica. I protestanti hanno delle chiese; anzi ne hanno troppe; e tutte sono di troppo, poiché non ce ne vuole che una; ma, secondo la loro teologia, queste Chiese sono formate dopo, per una iniziativa puramente umana, poiché la religione individuale prima esiste sola; di modo che queste Chiese procedono in realtà da un istinto gregario, o da fatti politici, senza nessun rapporto essenziale con l’atto di fede. Non è la religione che qui abbia l’iniziativa della socializzazione: dunque questa religione non è una religione umana, poiché l’uomo è un essere essenzialmente sociale, e più che mai, come lo abbiamo dovuto riconoscere, nel campo religioso. Dunque, finalmente, questa religione non può essere divina; non può rispondere all’incarnazione; essa divide il « Corpo di Cristo » in tante frazioni quanti sono gli uomini, o per dir meglio non lo forma affatto, e quindi non è propriamente cristiana.
D. Tu sei severo!
R. Io espongo una dottrina, che conserva un pieno rispetto alle persone. Dottrinalmente, sono obbligato a dire con Augusto Comte: «I protestanti non sanno che cosa sia una religione »; essi non sono una religione, poiché ignorano la sociabilità propriamente religiosa, non fondandosi religiosamente su una base sociale. Con ciò, ed è quello che volevo dire, essi presentano l’estremo opposto della cattolicità, cioè un individualismo stretto, antropologicamente falso, divinamente offensivo, poiché esso ignora il fiume di vita emanato dalla croce, la grazia sociale da cui ogni vita religiosa individuale procede.
D. Io non sapevo che foste così lontani gli uni dagli altri.
R. Intendimi! Quelli che noi chiamiamo nostri fratelli separati sono vicini a noi in molte cose; per la carità sono vicinissimi al nostro cuore; ma è un fatto che il loro allontanamento è al massimo in ciò che riguarda il concetto della Chiesa. Essi fanno parte di ciò che Bossuet chiama la « moltitudine confusa », nella quale ciascuno prende in se solo il suo pensiero e la sua parola d’ordine, in vece della «moltitudine ordinata», che un pensiero e un impulso venuti da più alto unificano e adunano. Ciò del resto apparirà meglio parlando dell’apostolicità.
e) L’apostolicità della Chiesa.
D. Che cosa è dunque questa apostolicità?
R. È un carattere che si attribuisce alla Chiesa per indicare che essa si riallaccia a Cristo con un vincolo di continuità ininterrotto, un vincolo visibile nello stesso tempo che spirituale, un vincolo sociale. Da ciò si vede, ben manifestato, quello che distingue il cattolico dal protestante, che intende di allacciarsi «a Cristo » direttamente, senza società intermedia, senza continuità visibile, a guisa degli apostoli senza dubbio, ma non per mezzo di loro e dei loro successori.
D. Come sì stabilisce per te la continuità?
R. Il suo punto di partenza è nella scelta dei dodici Apostoli, nella loro investitura come rappresentanti di Gesù, nella loro missione solenne e nella stabilità regolare della loro successione in ciò che riguarda l’autorità, della loro tradizione in ciò che riguarda l’insieme del gruppo. Al principio gli Apostoli sono la Chiesa; noi non possiamo essere oggi la Chiesa, la Chiesa visibile e vera società, senza allacciarci visibilmente e socialmente agli Apostoli. Sono i Dodici che tra Cristo e noi stabiliscono il passaggio. Essi saldano la catena. Sono il primo anello interamente umano. Se vi fosse una rottura; se tutta la catena non dipendesse dal primo anello, non dipenderebbe dunque nemmeno dal pezzo principale semidivino, semiumano che è Cristo; non dipenderebbe dunque da Dio. Siccome essa pretende di dipenderne, non bisogna meravigliarsi di veder chiamare, presso di noi, l’autorità centrale la Sede apostolica, e tutta la Chiesa rivendicare una nota di apostolicità senza la quale essa non sarebbe, autenticamente, questa sintesi del divino e dell’umano inaugurata in Cristo per questa incarnazione permanente, sociale, chiamata la Chiesa.
D. Tu vuoi, insomma, che tutta la tua Chiesa secolare non costituisca che una sola vita?
R. Il tuo pensiero, che è di fatto il nostro, si trova mirabilmente espresso in questa celebre frase di Pascal: « L’umanità è come un uomo unico, che sussiste sempre e impara continuamente », Un vivente è una continuità per evoluzione; l’umanità è una continuità per eredità; la Chiesa è una continuità per comunicazione e per tradizione. E nello stesso modo che il vivente individuale non può essere una continuità senza riallacciarsi vitalmente alla sua culla; nello stesso modo che il genere umano non può essere una continuità senza dipendere ereditariamente dai primi uomini: così la Chiesa non può essere una vita, una unità del genere umano in Dio, per Cristo, se non a patto che essa dipenda da Cristo e da Dio per il tramite dei primi Cristiani, che sono gli Apostoli.
D. Non dici tu che la tua Chiesa è al di sopra del tempo?
R. Anche un uomo è al di sopra del tempo per l’anima sua; ma egli è nel tempo, e l’anima sua con lui, per il suo corpo. Così la Chiesa è al di sopra del tempo per il suo Dio; ma tocca il tempo per il suo Cristo, e prolunga il contatto a mezzo degli Apostoli, poi a mezzo della successione apostolica e della tradizione, per le quali essa si estende verso l’avvenire.
D. Allora l’apostolicità non è una unità nel tempo?
R. Hai detto molto bene, ed è per questo che noi abbiamo intraveduto questa nozione parlando dell’unità stessa.
D. Tuttavia i protestanti pretendono di esser loro quelli che hanno la vera tradizione degli Apostoli.
R. Essi ciò intendono della dottrina, e io ho detto quello che vale questa pretensione. Ma supponendo che i protestanti e non noi, fossero in possesso della dottrina degli Apostoli ciò proverrebbe senza dubbio che noi non siamo apostolici ma non potrebbe provare che lo siano essi. È questa una condizione necessaria, ma non sufficiente. Professare la dottrina di qualcuno, professarla per conto proprio, sotto la propria responsabilità esclusiva, ciò non significa essere in continuità sociale con lui. La vita sociale ha altre esigenze; è una vita collettiva una vita organizzata, che importa la comunanza dei beni, sotto un’autorità che rappresenta la finalità sociale e la serve. Ora, per il protestante, propriamente parlando, non vi è vita sociale cristiana; non autorità centrale; non sacerdozio propriamente detto; non funzione religiosa veramente collettiva; tutto questo non è che minimato, se pure non è eliminato. Allora come parlare di apostolicità nel senso profondo e pieno che importa la teologia cattolica?
D. Non basta forse a se stesso il Cristiano che apre l’anima sua al cielo?
R. Il protestante che apre l’anima sua Dio crede di bastare a se stesso, almeno con la sua Bibbia, e almeno teoricamente; perché di fatto, come abbiamo veduto, egli si affida ad un gruppo, e siccome questo gruppo è privo di attacchi autentici con l’origine della vita che esso crede di trasmettere, si affida al caso. Ma il Cattolico, alla sua volta, non si crede sotto il Cielo e in relazione autentica col cielo se non a patto di essere nel gruppo organizzato che Dio anima, che Dio ha stabilito appunto per questo, che è l’effetto della sua incarnazione temporale e la prolunga attraverso alle età. È possibile, accidentalmente, che uno si attacchi a Dio senza ricorrere alla Chiesa visibile, come diremo più tardi, e già abbiamo suggerito più volte; ma non si tratta qui dell’accidente; noi definiamo il piano, l’ordine normale delle cose, e io constato che nel protestantesimo quest’ordine è distrutto.
D. Gli rimangono Dio e Cristo.
R. Sì, ma contradetti in tutti i loro pensieri, in tutti i loro disegni. Il Dio dei protestanti è individualista; il loro Cristo è un personaggio lontano, al quale essi non sono rilegati se non per mezzo di un libro. E in queste condizioni, i loro apostoli per essi non sono altro che dei protestanti prima del protestantesimo, degli isolati gli uni per rapporto agli altri, degli isolati per rapporto a noi, che siamo altresì degli isolati. Ciò, invece della grande effusione di vita, invece della stretta comunità che, nel concetto cattolico, avvolge i tempi e i luoghi nel suo amplesso immenso.
D. « La persona eterna» di Pascal sembra di fatto un più grande pensiero.
R. Trasferito al soprannaturale, è il pensiero della Chiesa Apostolica.
f) La Chiesa Romana
D. Avevi annunziato degli schiarimenti relativamente alla Chiesa romana.
R. Lo schiarimento essenziale consiste nel dire questo: Chiesa romana e Chiesa apostolica sono tutt’uno.
D. Allora perché queste due parole?
R. L’espressione Chiesa romana vuole indicare che la Chiesa, che si connette agli Apostoli il capo dei quali era Pietro, Vescovo di Roma, ha dunque per capo, nel corso delle età, il successore di Pietro, Vescovo di Roma.
D. È una concentrazione dell’apostolicità?
R. Si tratta di fatto di richiamare l’apostolicità al suo centro. Per connettere la Chiesa attuale al gruppo primitivo che servì di embrione alla Chiesa, non bisogna forse connetterlo al centro dell’unità di questo gruppo rappresentato da Simon Pietro?
D. Simon Pietro non fu sempre Vescovo di Roma?
R. Egli fissò per sempre il centro spirituale del mondo appunto diventando Vescovo di Roma.
D. Il centro spirituale del mondo non è a Gerusalemme, là dove fu piantata la croce?
R. Gerusalemme, città d’Oriente, città del passato religioso degli uomini, fu il punto di partenza delle sacre iniziative; ma non ne è il centro. All’oriente il sole spunta; ma al mezzogiorno si affermano la perseveranza del giorno, la distribuzione regolare delle chiarezze, la potenza di avvolgimento luminoso e la regolazione della vita sopra la terra. Roma è il mezzogiorno del sole Cristiano.
D. Perché Roma?
R. Qui non possiamo far altro che seguire la Provvidenza; le nostre ragioni non pretendono di reggerla. Ma si può osservare che Roma, nel momento che nacque la Chiesa, era per il mondo quello che Pietro era per la Chiesa; Roma era un centro di vita; e come la Città per eccellenza, Urbs, irradiava da per tutto e lanciava le proclamazioni de’ suoi padroni Urbi et Orbi: così nello spirituale, il capo della Chiesa. Questo era antecedentemente figurato da quello e da quello doveva essere servito. La Chiesa, collocata nel cuore del mondo dove essa nasceva, per esercitare subito il suo compito universale, non avrebbe che da seguire le pulsazioni di questo cuore, lanciare come esso, per tutti canali geografici e amministrativi secolarmente preparati, il suo sangue e l’anima sua. È quello che Bossuet descrisse così magnificamente nel suo Discorso sulla Storia universale.
D. Bisogna confessare che è un bell’incontro; ma era necessario?
R. Non era affatto necessario; il cattolicismo avrebbe potuto stabilirsi altrimenti e altrove. Ma Dio si serve naturalmente degli strumenti preparati dalla sua Provvidenza. L’opera dell’incivilimento temporale e l’opera religiosa sono fatte per unirsi: Dio aiuta l’una con l’altra.
D. Roma aiutò la Chiesa; ma che cosa ha fatto la Chiesa per Roma?
R. Se Roma esercita ancora oggi quell’attrazione che fa di essa non la città italiana, ma una città mondiale, godendo della frequenza è dell’ammirazione di un plebiscito universale, e chi lo deve? Le grandi vinte della storia: Memfi, Tebe, Ninive, Babilonia, Atene stessa perirono o si atrofizzarono. In grazia della Rocca evangelica, Roma si sollevò più in alto; salì al mondo dello Spirito e vi rimane. Lo scettro della croce le sarà stato più profittevole che le aquile. Essa aveva conquistato con le armi le rive ammirabili e fertili, ma strette, dopo tutto, del Mediterraneo: per lo Spirito essa conquistò il mondo lontano; entrò in comunicazione coi mondi. E quello che essa aveva perduto alla prima coalizione dei popoli contro di sé, una volta trasferita nel soprannaturale da Cefa, le viene acquistato per sempre.
D. All’inizio, era ben marcato il legame tra il Vescovo di Roma e gli altri pastori di chiese?
R. Era molto debole, e ne dico la ragione generale: l’embrione non è l’uomo. Come ragione particolare, vi è questo che il governo apostolico dava a ciascuno di quelli che avevano goduto del contatto personale di Gesù, che avevano udito le sue parole, una specie di compito universale analogo a quello di Gesù stesso. Una Chiesa che aveva alla sua testa uno dei Dodici si sentiva al sicuro da ogni deviazione. Ora questo governo durò qualche tempo ancora, nei successori immediati che approfittavano ancora delle abitudini acquisite. Il ricorso a Roma, difficile in quel tempo, non sembrava indispensabile. Se ne trovano tuttavia numerose tracce; ma relativamente deboli, e bisognava aspettarselo.
D. Come si fa la transizione?
R. Il potere degli altri vescovi diventa più ristretto alle loro chiese, più locale; quello del vescovo di Roma si universalizza in proporzione, con l’intento di soddisfare i bisogni nuovi di una crescente unità e di una complicazione funzionale che richiede un concentramento più forte.
D. E quando si compie questo concentramento?
R. Nel Concilio Vaticano, con la proclamazione dell’infallibilità personale del Papa e della sua indipendenza dai concili.
D. Non è questo un eccesso?
R. È l’accettazione letterale del testo che ti ho già citato: Tu sei Pietro, e sopra questa pietra io edificherò la mia Chiesa.
D. Ma il dare a Roma un tale primato non era un italianizzare la Chiesa universale?
R. Era un universalizzarla maggiormente, riconducendo all’oceano, dove la barca di Pietro si avanza, i fiumi che si attardavano nelle pianure nazionali.
D. Sembra che vi fossero degli abusi.
E. Ve ne sono sempre; ma un’istituzione secolare non si giudica secondo la misura di minuscoli incidenti.
D. E come interpreti i recenti accomodamenti tra la Roma civile e la Roma apostolica?
E. Non vi fu maggiore avvenimento dopo Pipino il Breve e dopo Costantino. Il Cesare aveva dato alla Chiesa il suo statuto sociale. Il figlio di Carlo Martello, facendo il Papa sovrano, garantiva l’indipendenza dello spirituale in un mondo politico movimentato; ma, in cambio, aggravava il potere religioso delle cure temporali che non tornavano sempre a suo vantaggio. Per il recente accordo, il grave pondo è rigettato, e rimane la garanzia spirituale, fondata oramai sull’accettazione spirituale delle anime e dei popoli.
TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.
LETTERA DECIMASECONDA.
7 dicembre.
Necessità continua del segno della croce per ottenere la forza . — Esortazione e pratica dei capi della lotta spirituale. — Il segno della croce nelle tentazioni. — Il segna della croce nella morte. — Esempio de’ martiri. — Esempio di veri Cristiani morenti di morte naturale. — Moribondi che li fanno segnare da’ loro fratelli.
Mio caro Federico
Il segno della croce nulla ha perduto della sua forza, e della sua necessità. È vero: i tiranni sono morti, e gli anfiteatri cadono in ruina, il segno della croce ha trionfato degli uni e degli altri; ma se i secondi non più si levano dalle loro ruine, i primi, di tanto in tanto, sortono dalle loro tombe. La razza de’ Neroni non sarà giammai estinta, e la più terribile deve ancora venire! Con un furore antico, quelli, che sono apparsi dipoi i Cesari, hanno decimato i Cristiani; quest’altra razza parimente immortale, è razza consacrata alla morte, come dice Tertulliano, expeditum morti genus. Quanto hanno fatto ieri in Occidente, e quello che fanno oggi in Oriente, potranno farlo dimani dapertutto dove comandano. Avviso a’ combattenti: niuno dimentichi ove trovasi la sorgente della forza! Attendendo, ricorda, caro amico, che la pace ancora ha i suoi martiri, habet et pax martyres suos. Qual è l’uomo che non ha uno, o più Neroni? V’ha un giorno della sua vita ragionevole, e ancora un’ora, in cui egli non debba vegliare, o combattere? Che dico? venti volte al giorno degli oggetti seducenti si presentano ai suoi sguardi, de’ pensieri non buoni importunano il suo spirito, i sensi in rivolta solleticano il suo cuore a vili tradimenti. Oh! che egli ha bisogno di forza! Dove la troverà? Nel segno della croce. – La testimonianza de’ secoli, l’esperienza de’ veterani e de’ coscritti della virtù, attestano oggi, come ieri, il sovrano potere del segno divino, per dissipare gl’incanti seduttori, scacciare i pravi pensieri e reprimere i movimenti della concupiscenza. Ascolta il poeta de’ martiri, Prudenzio, che conobbe ad un tempo i dettagli de’ loro trionfi ed il segreto delle loro vittorie. « Quando all’invito del sonno tu cerchi il casto letto, segna della croce la tua fronte ed il tuo cuore. La croce ti preserverà d’ogni peccato: le potenze infernali fuggono al suo cospetto; l’anima santificata per essa, non sa vacillare » (Fac cum vocante somno Castum petis cubile, Frontera locumque cordis Crucis figura signet; Crux pellet omne crimen, Fugiunt crucem tenebra;. Tali dicata signo Mens fluctuare nescit. – Àpud S. Greg. Turón, lib. I Miracul c. 106).Ascolta ancora il capo della eterna battaglia. I grandi geni e gran santi peritissimi dell’arte della guerra spirituale, che si chiama ascetismo, tutti non hanno che una sola voce per esortare i soldati cristiani all’uso del segno della croce. « Senti il tuo cuore infiammarsi ? dice san Giovanni Grisostomo: fa il segno della croce sul petto, e all’istante istesso la collera si dissiperà al pari del fumo» (Si succendi cor tuum senseris, pectus continuo signaculo crucis signato, et ira illieo tamquam pulvis dissipabitur. – S. Joan. Chris. Homil. 88 in Matth.). E sant’Agostino: « Amalec vostro nemico, cerca di sbarrarvi la strada e d’impedirvi l’Avanzare?Fate il segno della croce, sarà vinto » (Si adversarius Amalecita iter intercludere atque impedire conabitur, pro reverentissima extensione brachiorum ejusdem crucis indicio superetur. – S. August. Homil, 20, lib. 50, Homil.). Ed il gran servo di Dio, Marco, che predice all’imperatore Leone l’ora della morte. « Per propria esperienza conosco come siffatto segno dissipi le interne guerre, e produca la sanità dell’anima. Immediatamente dopo il segno della croce la grazia opera: tutto si calma » (Statim post Signum crucis gratia sic operatur: sedat omnia membra pariter et cor. – Biblioth. PP. tom. V.). San Massimo di Torino: «Dal segno della croce noi dobbiamo attendere la guarigione delle nostre ferite. Se il veleno dell’avarizia si sparge nelle nostre vene, facciamo il segno della croce, ed il veleno sarà cacciato. Se lo scorpione della voluttà ci punge, facciamo ricorso allo stesso mezzo, e noi guariremo. Se gl’immondi pensieri della terra cercano insozzarci, facciamo il segno della croce, e noi vivremo vita divina » (Apud S. Ambros. Semi. 55.). San Bernardo: « chi è l’uomo si padrone de’ suoi pensieri da non averne d’impuri? Ma son da reprimere i loro attacchi, e tosto, per vincere l’inimico là dov’egli sperava trionfare; l’infallibile mezzo per riuscirvi è fare il segno della croce » (De passione Dom. c. XIX, ti. 65). San Pier Damiano: « Se per caso sperimentate che un pensiero non buono sorga nel vostro spirito, operate col pollice il segno della croce, e siate certi che tosto svanirà » (Institut. Monast.). Il pio Teberth: Niente v’ha di più efficace, che il segno della croce, per dissipare le tentazioni per quanto siano disonorevoli » (lib. viar. Domin, c. XXIJ.). Riassumiamo tutte queste testimonianze: « Qualsiasi la tentazione, che ci appena, conchiude san Gregorio di Tours, noi dobbiamo respingerla. Epperò fate, non vigliaccamente ma con coraggio il segno della croce o sulla vostra fronte, o sul vostro petto » (Viriliter et non tepide Signum vel fronti, vel pectori salutare superponas. (S. Greg. Tur. ubi supr). – Se fosse mestieri confermare con la storia quanto tu leggi, mille fatti lo confermerebbero. Un solo basti. È la rivelazione di che fu favorito un santo monaco a nome Patroclo, con la quale Iddio gli manifestò la potenza sovrana di questo segno contro le tentazioni. Un dì il demonio trasformandosi in angelo di luce si mostrò al venerabile abate, e con parole d’ogni maniera di astuzia gli consigliava lasciare la solitudine e tornare al mondo. L’uomo di Dio sentendosi correre per le vene come un fuoco, si prostese sul suolo e pregò il Signore, perché eseguita fosse la sua volontà. La preghiera è accolta. Un Angelo gli appare, e siffattamente gli parla: Se tu vuoi conoscere il mondo, ascendi questa colonna e tu saprai quel che si sia. Rapito in estasi il pio solitario crede avere dinanzi a sé una colonna di prodigiosa altezza, e l’ascende. Dal sommo di essa vede omicidi, furti, massacri, fornicazioni e tutti i delitti del mondo. Ah! esclama, Signore non permettete che io torni in un luogo di tante abominazioni. E l’Angelo a lui: Cessa adunque dal desiderare il mondo, per non perire con lui; invece corri nel tuo oratorio, prega il Signore che ti dia con che sostenerti nel mezzo delle prove del tuo pellegrinaggio. Detto, fatto: trovò un segno di croce scolpito in un mattone, e tosto comprese il dono di Dio, e che questo segno è inespugnabile fortezza contro le tentazioni (Greg. Turon, Vita Patr., c. 9). – Un martire della guerra, o un martire della pace: ecco l’uomo lungo il corso della vita. Ed alla morte che cosa è egli? Vedi questo infermo in preda al dolore ed abbandonato dal mondo, circondato da’ soli parenti ed amici impotenti a soccorrerlo? Per lo passato il tempo che fugge; per l’avvenire, l’eternità che si avanza, in cui sentasi trascinato, senza che alcuna potenza umana possa ritardare il momento della partenza, e addolcire le agonie del viaggio. Questo malato, sei tu, mio caro, sono io, è ogni uomo ricco o povero che sia, suddito o monarca. Se lungo le guerre della vita noi abbiamo bisogno di lume, di forza, di consolazione e di speranza, dimmi, se un tal bisogno non cresce di mille tanti nelle lotte decisive della morte? E bene, il segno della croce opera tutto ciò. Per questa nuova considerazione desso fu caro a’ nostri avi, e dev’esserlo ancora a noi. Come i martiri andando all’ultima battaglia non mancavano di fortificarsi col segno della croce, cosi i veri Cristiani de’ secoli passati facevano ricorso a questo medesimo segno, per addolcire i dolori e santificare la loro morte: citiamo qualche esempio. – Parlando della sua diletta sorella, santa Macrina, ch’egli stesso assistè negli estremi momenti della vita, san Gregorio Nisseno così si esprime: « Ella dicea: Signore, per mettere in fuga l’inimico, e proteggere la loro vita, voi avete dato a quelli, che vi temono, il segno della croce. E pronunziando tali parole ella formava il segno adorabile sopra i suoi occhi, le labbra ed il cuore » (Vita di S. Macrina). I primi Cristiani alcune volte invece di fare il segno della croce con la mano sul punto di morire, lo facevano distendendo le braccia, e ciò appellavano il sacrifizio della sera, sacrifìcium vespertinum. A questo modo di fare il segno della croce Arnobio applica le parole del Salmista: L’elevazione delle mani è il mio sacrifizio della sera. Egli dice, che tale sia il nostro sacrifizio della sera, voglio dire della sera della vita, quando tutta la nostra attenzione è da porre ad elevare le nostre mani in croce, per consolarci nel Signore, nel momento, che corriamo a lui (Tunc enim in sacrificio vespertino sumus. Ibi est tota nostra cogitationis ponenda intentio, ut levantes manus nostras, in signo crucis, dum ad Dominum pergimus, gratulemur in Christo Jesu. – In Ps. CXL). – In pari attitudine mori Paolo il patriarca del deserto, come lo trovò Antonio (Introgressus speluncam, vidit gcnibus complicatis, erecta cervice, extensisque in altum manibus, corpus exanime – S. Hieron. De Vita S. Pauli). Né altrimenti san Pacomio: « Essendo sul punto di morire, scrive lo scrittore della sua vita, egli si armò del segno della croce, vide con grande gioia un angelo di luce venire a lui, e rese la sua santa anima a Dio »(4(4) Vita di S. Pacomio. c. 53). Della stessa maniera morì santo Ambrogio. « L’ultimo giorno di sua vita, scrive il prete Paolino, da poi circa l’undecima ora, fino a che egli rese l’anima, pregò con le mani distese in croce » (Eodem tempore quo migravit ad Dominum, ab hora circiter undecima diei, usque ad illam horam qua emisit spirituni). – Da Milano passiamo a Costantinopoli. Ecco un altro Vescovo che muore. Santo Eutichio, dice il suo istoriografo, fu preso da violenta febbre verso la metà della notte, e restò per ben sette giorni in tale stato, non cessando di pregare e di fortificarsi col segno della croce (Apud Sur. 2. Iul.). Compiamo il nostro viaggio in Francia ed assistiamo alla morte di qualche nostro re. Arrestiamoci ad Aix-la-Chapelle per vedervi morire il grande imperatore: L’indomani giunto, dice un Vescovo testimone oculare, Carlo Magno sapendo quel che dovesse fare distese la destra e come poté, si segnò la fronte, il petto e tutto il corpo (Thegan. De Gestis. Ludov. Imper.). Tale dovea essere la morte di questo grande uomo. E suo figlio Luigi il Pio, disposti gli affari, ordinò che si recitasse presso di lui l’uffizio della notte, e che sul suo petto si mettesse una reliquia della croce, e lungo questo tempo, come le forze glielo permettevano, egli faceva il segno della croce sulla fronte e sul petto, e quando era stanco pregava il fratello di continuare (Apud Gretzer, lib. IV, c. 26, p. 618). – Veniamo ad uno de’ suoi più degni successori, il buon re Roberto. Negli ultimi giorni di sua vita, egli non rifiniva dall’implorare il soccorso de’ santi del cielo col gesto e con la voce; si fortificava col segno della croce sulla fronte, su gli occhi, sulle narici e le labbra, sulla gola e gli orecchi, in memoria della Incarnazione, della Natività, della Passione, Risurrezione, dell’Ascensione del Signore, e della venuta dello Spirito Santo. Una tale consuetudine era stata conservata da questo principe in tutta la sua vita, e giammai trasandò d’aver con lui dell’acqua benedetta (Helgald. in Epitom. vit. Robert.). Citiamo ancora Luigi il Grosso. Vedendosi presso a morte, fece stendere un tappeto sulla terra, e sopra di esso spargere della cenere in forma di croce, e fattosi deporre da’ suoi uffiziali su di questo letto di morte, che gli ricordava quello del re del Calvario, il virtuoso monarca non cessò di fare il segno della croce fino all’ultimo respiro (Elevata aliquantulum manu omnes benedixit, rogavitque adstantes episcopo!, u t sanctissimis suis manibus cum crucis signo communirent. Apud Sur. 25 Maii). Per un re morire come un Dio v’ha forse qualche cosa che disonori? Quel che disonora è morire senza comprendere la morte, morire con la insensibilità delle bestie. Tu hai visto i martiri pregare i loro fratelli di segnarli del segno della croce innanzi morissero, se da per sé non lo potessero eseguire; ora i nostri avi facevano del pari morendo di morte naturale. Oltre l’esempio di Luigi Debonnaire che tu hai letto; voglio ricordartene qualche altro de’ primi secoli, dessi mostrano la continuazione della tradizione. – San Zenobio, amicissimo di santo Ambrogio, sul punto di terminar la sua vita con una morte preziosa, elevò le mani e fece il segno della croce su quanti lo circondavano; quindi pregò i Vescovi di fare sopra di lui con le mani consacrate il segno della forza, della speranza e della salute (S. Elig. De rectitud. catech. etc. inter opp. S. August. tom. VI). – Dal letto di un prete passiamo al talamo di un semplice fedele. Una giovane con rispettoso affetto assiste la tenera ed illustre madre. Oggi quasi tutti usano prestare a’ loro più cari infermi delle cure materiali, si farebbero coscienza di trasandare la minima prescrizione del medico, ma l’assistenza cristiana? le prescrizioni del divin medico, e della Chiesa nostra madre? qual è la loro sollecitudine a compierle? I nostri avi più intelligenti e migliori di noi a queste cure univano quelle dell’anima. A Betlemme l’illustre figlia de’ Fabii muore. Presso del letto è Eustachio degna figlia di tal madre. Che cosa fa quest’angelo di tenerezza? « Dessa non cessa, dice san Girolamo, dal fare il segno della croce sulle labbra e sul petto di sua madre, studiando di addolcire le sue sofferenze con l’impressione del segno consolatore » (Eustochium Paulæ matris os stomachumque signabat, et matris dolorem crucis impressione nitebatur lenire. – S. Hier. in Epitaph. Paulae). – Tu il vedi: nella vita ed alla morte il segno della croce era presso i nostri avi il mezzo costantemente usato per ottenere a sé ed agli altri lume, forza, rassegnazione, coraggio e speranza. Il segno della croce è dunque gran cosa! esclamava un testimone di questi ammirabili effetti: Magna res signum crucis (Apud Sur. 10 Aug.)! Dimani noi vedremo la sua efficacia in un nuovo ordine di cose.
OTTO DISCORSI DETTIDAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862IN ROMA
ROMA – COI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862
DISCORSO SESTO
ARGOMENTO
Illusione lagrimevole. L’istinto e la ragione riguardo alla sensualità. Tre gradi di corruttela. Il Paganesimo servì alla concupiscenza e l’adorò. Cristo francò il mondo da quella tirannide. La Vergine, la Sposa, la Madre: dignità conferita alla donna nel Cristianesimo. V’è onestà nel mondo, ma non è del mondo. Questo paganeggia nelle cose di costume. Segni che se ne hanno: un orrendo che se n’ebbe.
1. Una delle più compassionevoli nostre illusioni è il crederci non rade volte liberi, indipendenti, padroni assoluti di noi medesimi, quando gemiamo anzi in ischiavitudine tanto più lacrimabile, quanto meno avvertita. Mi pare di averlovi accennato altra volta; ma non vi gravi che vel ripeta, parendomi questa opportunissima somiglianza al mio proposito. Noi rendiamo allora immagine di un disgraziato, il quale, rinchiuso in prigione, costretto di ceppi, per farnetico che gli abbia preso il cervello, si creda essere un qualche gran fatto, un Principe, un Re, un Imperatore. Voi non sapreste dire se quel poveretto sia più a compassionare per la perdita della libertà, o del senno. Anzi vi dovrebbe parere questa seconda tanto più deplorabile dell’altra, quanto che per essa la persona perde l’uso della miglior parte di sé; laddove per la prima, gli si possono bene impedire alcune azioni esteriori, ma l’uso delle interne facoltà dell’anima gli resta sciolto ed intero: e può restargli nei ceppi più sciolto e più intero, che molti Re ed Imperatori sui medesimi loro troni non hanno. Or questa fu appunto la condizione dell’uomo pagano, il quale, separatosi da Dio e sconosciuto sé stesso, s’avvisò di essere signore assoluto di sé medesimo; ma ne fu punito, secondo la legge universale che fa servo il ribelle, coll’essere fatto schiavo. Né intendo già parlare della schiavitù propriamente detta, snaturata vergogna, da cui Cristo solo poté tergere la terra : quella fu condizione del massimo numero dei mortali nel Paganesimo, non fu di tutti. Parlo della schiavitù agli oggetti corporei, in cui gemea universalmente il Paganesimo: e più forse in esso quei pretesi Grandi, che si credevano padroni del mondo, in quella appunto, che servivano miseramente ad una voglia impura, ad un capriccio di orgoglio, ad una cupidità insensata e crudele. Voi lo vedeste nello alterarsene le relazioni dell’uomo colla sensibile natura, di cui divenne l’uman genere mancipio, quando pure era stato ordinato ad esserne signore. – Fia pregio dell’opera considerare quella servile condizione del Paganesimo a rispetto di due maniere di forze, che incatenarono ed oppressero l’uomo nella sua doppia qualità di persona individua, e di membro di consorzio civile, di popolo o nazione che vogliate chiamarla. E nel primo modo l’uomo servì alle forze sensuali; nel secondo servì alle forze sociali: ma nell’uno e nell’altro caso fu sempre servo della forza, colla pretensione per soprassetto di essere libero, quando si ravvolgeva come immondo animale nelle proprie sozzure, ovvero se medesimo immolava all’idolo vorace ed ampolloso, in cui il Paganesimo avea fatto degenerare l’amore della patria. Due subbietti sono questi, i quali per la loro ampiezza e rilevanza, vogliono essere trattati in due distinti discorsi; ed io, serbando a domani il secondo, mi tratterrò oggi nel primo. Pel quale intendo mostrarvi, come vergognosamente il mondo pagano servisse alla sensualità, e come Cristo lo līberasse da quel servaggio, recando ai mortali lume e forza bastevole a dominare regalmente, coi santi pensieri e coi casti affetti, quelle propensioni gagliardissime, le quali, inserite nell’uomo dall’Autore medesimo della natura, sono per la libera creatura il campo forse più fecondo di trionfi nobilissimi e d’ignominiose sconfitte. Intendo che di questo maledetto vizio, soprattutto quale fu in voga presso gli antichi, non si vorrebbe ascoltare neppure il nome in adunanza cristiana, essendo tal pece, che eziandio chi voglia tergerne altrui corre rischio di restarne imbrattato. Tuttavolta essendo non pure utile, ma necessario, che se ne favelli alcuna volta, io mi studierò di farlo per guisa, che eziandio i più schivi orecchi non ne abbiano a portare offesa, quanto che piccolissima. Incomincio.
II. E notate innanzi tratto onde si origini nell’uomo quella contraddizione con sé medesimo, per cui da una parte esso è sospinto con prepotente gagliardia alle opere del senso; da un’altra n’è ritratto con più tranquilla e riposata forza, la quale per questo appunto riesce molto spesso meno efficace. Io non farò, che esporvi in breve la dottrina di san Tommaso sopra questo punto. – Essendo la conservazione della specie un bene senza comparazione più rilevante, che non è quella degl’individui; a quella mira sempre la natura direttamente e per sé, ed a questi non mira che indirettamente e quasi per accidente. Pertanto se alla conservazione degl’individui fu provveduto colla propensione al cibo, pensate con quanto maggiore dovess’essere provveduto alla con servazione della specie, dovea essere tanto più gagliarda, quanto era più rilevante il bene, che per essa si voleva assicurato. Quindi in tutti gli animali furono inseriti gl’istinti che conducono alle opere richieste pel mantenimento dell’individuo e delle specie. Ma, oltre alla diversa loro intensità, è altresì diversa la maniera, onde quegl’istinti trovansi negli uomini e nei bruti animali. – In questi l’istinto è governato da una intelligenza, di cui essi non hanno né conoscenza né coscienza; e così senza poterne avere merito di sorta, in loro quegl’istinti non trasmodano mai fuori le norme, onde sono condotti, le quali finalmente sono le norme stabilite dalla Provvidenza. Il perché voi non vedete mai, che le bestie colgano, pel troppo bere o mangiare, ubriachezze, indigestioni ed altre cotali infermità che da quelle şi derivano; se non fossero di quelle bestie, le quali, introdotte in certa guisa nel consorzio civile, sogliono partecipare, come molti pregi, così alcune incomodità ed alcuni difetti della nostra cultura. Ma in generale i bruti animali non disordinano mai nel seguitare i proprii istinti. – Tutto diversamente fu ordinato per l’uomo. Anch’esso dovea avere norma e regola per gl’istinti animaleschi; ma perché questa norma potesse farsi radice di merito e di guiderdone, dovette essere liberamente assentita dall’operante ragionevole; ed alla libertà dell’assenso dovette di necessità prelucere la cognizione intellettiva della norma stessa. In somma gl’istinti hanno sempre uopo di regola: nei bruti l’hanno dalla ragione universale, che la imprime in essi necessaria; negli uomini debbono averla dalla ragione individuale, che la vede coll’intelletto, e vi aderisce colla libertà dell’arbitrio. Ora chi dice regola, dice per necessità limitazione, costringimento, disciplinata direzione di forze, le quali per sé medesime esorbiterebbero all’impazzata con proprio danno ed altrui. Né in altra maniera potreste dare regola ad un fiume, che arginandone la piena, costringendola a scorrere stretta tra limiti; senza i quali strariperebbe, dilagherebbe, perdendo perfino l’essere, il nome e la sembianza di fiume. Un tale costringimento poi negli esseri irragionevoli non reca ripugnanza o contraddizione di sorta; in quanto in essi l’istinto e la sua regola sono radicati nella medesima necessità naturale, e procedono dallo stesso principio. Di qualità che una fiera selvaggia, come è sospinta all’esca, quand’è affamata; così ne è ritratta indeliberatamente quand’è satolla: ed il sopraccaricarsi di cibo le è ugualmente ripugnante, che l’astenersene. – Per converso nell’uomo l’istinto e la regola, procedendo da diversi principii, quali sono la sensualità e la ragione, si trovano bene spesso in contraddizione tra loro; e lo scapestrare sbrigliato del senso non può avere costringimento e direzione, che dal rifrenarlo che dee fare la ragione. Dalla quale teorica di san Tommaso è spiegata ottimamente quella doppia legge, che san Paolo scorgeva e lamentava in sé medesimo, chiamando l’una legge delle membra, e legge della mente o della ragione l’altra, aggiungendo di sperimentarle in perenne ripugnanza fra loro. Video aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meæ (Rom. VII, 23). La legge delle membra è appunto l’istinto, il quale in noi è sgovernato, sconfinato, cieco, violento, smisurato, in quanto non ha altro motivo di gettarsi sul proprio obbietto, se non il trovare soddisfazione in quell’obbietto stesso. La legge della mente è la ragione, è la sinderesi, è il dettame della coscienza, che vede, sente o prescrive, senza alcuna nostra deliberazione, quell’istinto non si potere lecitamente secondare al di là di certi limiti, o fuori di alcune determinate condizioni. E tra questi due elementi siede arbitra la libertà; la quale si dice libertà di arbitrio, appunto perché tocca a lei l’arbitrare tra quei due contendenti. Ma tra questi è manifesto non potervi essere, che ripugnanza e contraddizione; almeno fino a tanto che la legge della mente non abbia preso il sopravvento sopra quella delle membra, imbrigliandola per forma, da non sentirne più alcuno contrasto; ed allora l’uomo si fa quasi Angelo: ovveramente fino a tanto che la legge delle membra non abbia soffocata la legge della mente; ed allora l’uomo si fa quasi bestia caso forse meno infrequente, che non è il primo. Ma nelle consuete condizioni dell’uomo quella lotta è accesa sempre, e se lascia respirare alcun poco, quel respiro ha piuttosto sembianza di tregua passeggera, che non di pace stabile e diuturna. Ora in questa condizione della nostra natura sapete voi per quali gradi si declina a poco a poco, fino ad un’abbiettezza ed avvilimento da fare scendere l’uomo bene al di sotto della bestialità animalesca, alla quale non può mai mancare la regola, perché è identificata coll’istinto stesso? Oh! miei amatissimi! così vi dia il Signore grazia da intendere questo gran vero! di quanto salutare vergogna non brucerebbe più di una fronte cristiana, da cui è forse scomparsa da un pezzo, nonché ogni dignità di Fede, ma ogni pudore di ragionevole creatura! Il primo grado adunque di cadimento è quando la libertà, benché non giunga a reggere e contenere il senso, scorge almeno il male, e lo riprova, lo condanna, lo deplora. Il secondo è quando, oscuratosi a poco a poco il lume della ragione, come il sole per fetidi e grossi vapori di sottostante palude, quella legge della mente resta mutola, inoperosa, svigorita d’ogni efficacia, non dirò a rifrenare l’istinto, che non trascorra ad opere di colpa, ma neppure a riconoscere e rimproverare, quando il trascorso è seguìto. Ma perciocchè la ragione non può rimanere lungamente inoperosa nell’ uomo; quando essa non si esercita a dirigere e governare la sensualità, o almeno a combatterla in buona guerra, avviene quasi sempre che si precipiti nel terzo ed infimo grado, nel quale la legge della mente si fa come complice della legge delle membra, ed in luogo di raffrenarla la sospinge, invece di rifrenarla la istiga. E condotta la cosa a questi termini, chi potrebbe immaginare profondo di abbominazioni e pazzi eccessi e mostruosi, a cui si arriva? Questo è precisamente il caso del proverbio, che corruptio optimi pessima; del quale san Tommaso avea assegnata la ragione in questo, che l’uomo, gettatosi alla sensualità, vi si deprava coll’aiuto di una facoltà ottima; si che quanto questa è più eccellente, e tanto la depravazione ne dee riuscire più squisita, più enorme, più sfoggiatamente abbominevole: fit malus per corruptionem optimæ facultatis.
III. E tale fu appunto la condizione del genere umano separatosi ed allontanatosi dal suo Creatore. La sensualità cominciò fin dagl’inizii a dominarlo e soggiogarlo per forma, che bene ebbe Iddio ragione di ritirare da lui il suo Spirito, come è scritto nel Genesi. Ciò importava che il lume della ragione e della rivelazione primitiva quasi più non servisse a rischiararlo; in quanto le propensioni carnali erano tanto in lui prevalute, che l’uomo oggimai non era altro, che carne. Non permanebit Spiritus meus in homine, quia caro est (Gen. VI, 3). E già sapete che le sozzure di quel mondo antinoetico andarono sì oltre, che appena poterono essere lavate colle acque di un diluvio, che, tranne otto anime, spense la vita in quante creature umane in quel tempo, ci vivevano. Al quale memorando castigo se accoppiate le fiamme piovute, per gran miracolo, dal cielo irato sopra la impura Pentapoli, voi avrete approvato dal fatto questo terribile documento: nessun umano eccesso avere Iddio punito mai con flagelli così universali e così strepitosi, come questo della concupiscenza sensuale. E ciò, credo io, per questo, che nessun altro eccesso ottenebra ed attuta e spegne così il lume della ragione, come questo fa, sospingendo. l’uomo a tutti gli altri vizi, ed alla medesima empietà contro Dio, come notò Lattanzio: ex luxuria ut vitia omnia , sic impietas adversus Deum nascitur (Div. Instit . II, 1). Tuttavolta in quel primo stadio della idolatria orientale, diciamo così, ed arcaica, la lussuria ebbe moltissima parte nel farla nascere; ma, quanto sappia io, non ne fu l’oggetto, e non ebbe culto speciale, se non fosse qualche simbolo, ordinato ad idoleggiare la fecondità della natura, ovvero in qualche piccolo popolo, come il fenicio ed il cananeo, dannato per questo da Dio allo sterminio. Ma in generale la ragione si contentava a tacersi, vinta dalla prepotenza della regnante concupiscibile, e, non che riprovare quegli eccessi, neppure avea forze da gemerne e vergognarne. Era proprio come se più non si trovasse la ragione nell’uomo, dominato, come questo era, dagli appetiti bestiali e sfrenati; ma almeno non se ne era dichiarata complice, avvocata, apologista ed adoratrice. Un privilegio cotanto obbrobrioso era serbato alla raffinata cultura del Paganesimo posteriore, e specialmente del forbitissimo mondo grecoromano. Questo, non pago ad avere la ragione mutola ed inerte per questa parte, la volle aiutatrice all’opera nefanda di corruzione; e l’ebbe per forma, da farne vergognare per lunghi secoli qualunque fronte non sia di bronzo. E qual cosa più ignominiosa di questa, che recare alla piena luce quelle turpitudini, di cui il cinismo più sfrontato arrossirebbe? Né recarle solamente alla luce, ma personificandole in questo o quell’essere fantastico o reale, costituirle in dignità di numi, e innalzare a loro onore are e delubri, e offerire sacrifizii e celebrare feste solenni e solenni riti. Dio immortale! e quale dovea essere una società, il cui supremo Nume, il Nεφεληγερέτα Zεύς [= Nefeleghereta Zeus] di Omero, il Pater hominumque Deumque di Virgilio, il sommo Giove, era tale cima di sozze furfanterie, di ratti incestuosi e di snaturate libidini, che nessun galantuomo tollererebbe a dì nostri, che gliene fosse appiccata addosso la centesima parte? Ed intendo galantuomo nell’antico significato della parola; chè nel nuovo sarebbe un altro discorso. Certo Arnobio chiedea ai sapienti del Gentilesimo del suo tempo, qual mai colpa avessero essi trovata nel loro Giove, sicchè volessero condensato sul capo di lui una così sformata congerie d’ignominie mostruose? Quid tantum quæso de vobis Iuppiter iste, quicumque est, meruit, quod genus est nullum probri infame, quod in eius non caput, velut in aliquam congeratis vilem luteamque personam? (ARNOB. V, 22). Ma all’Apologista cristiano non sarà certo sfuggita larisposta a quel suo dubbio. Il mondo pagano s’era fabbricato un così turpe Nume supremo, per onestarne, giustificarne, ed all’uopo ancora magnificarne tutte le proprie più abbominevoli turpitudini.Sarebbe lungo troppo e poco dicevole alla santità di questo luogo, ed alla onestà delle vostre orecchie svolgere alquanto la tela di quegl’inverecondi misteri, di quei sozzi arcani, di quegli osceni amori, onde la mitologia antica formicolava; ma voi certo ne saprete giàtanto, che vi basti per inorridire al pensiero di una società , di cui quella mitologia era la religione, il culto,la teologia, la teogonia, la morale, ogni cosa; sicché sacro presso quei miseri dovea suonare poco altro, che lascivo. Basti dire che, secondo ricorda Minucio Felice, vi avea delle sacre solennità, per cui celebrare era più acconcia la donna, che potesse mostrare di avere più spesso violata la fede coniugale; sì che le cosiffatte cercavansi a grande studio: Magna religione conqueritur quæ plura possit adulteria numerare . Basti ricordare dallo stesso Minucio, non avere avuto il Gentilesimo architetti più industri di nefandezze, di quello che fossero i pretesi suoi sacerdoti; né luogo avevano a ciò più acconcio dei loro templi: Ubi aulem magis a sacerdotibus conduntur stupra, tractantur lenocinia , adulteria meditantur, nisi in templis? Sicché,com’egli medesimo osserva, ed io ricordai altra volta,a quelle oscene abbominazioni meglio servivano i templi che non i medesimi lupanari: Frequentius in ædituorum cellulis, quam in ipsis lupanaribus flagrans libido defungitur? (OCTAVIUS, Cap . XXV).Via! nondimeno. E che serve dimorarci a rimestare cotesto lezzo, da cui altro non possono venire, che impuri miasmi e fetide esalazioni? Il pochissimo, che ne ho toccato, vi può ben condurre a formarvi un concetto abbastanza adeguato di quello che fosse il Paganesimo per questo capo. Poco sarebbe il qualificarlo per un immenso postribolo, da cui era sequestrata ogni più languida idea di verecondia o di pudore; bisognerebbe definirlo una smisurata accozzaglia di sozzi animali, a cui la ragione serviva solamente per adorare codardi quelle infami propensioni, ond’erano dominati; senza che vi avesse filosofo, o sapiente, o moralista, il quale non dirò condannasse quegli eccessi, ma che solo ne recasse in dubbio la lecitezza, e che anzi non li credesse legittimissimi. Che se il Senato fece alcune leggi per questo rispetto, ciò fu per attenuare in qualche modo i disastrosi effetti della scostumatezza, non per ombra di riverenza che si avesse alla onestà del costume. Leggete il primo capo di san Paolo ai Romani (Rom. I, 14-19); e da ciò che l’Apostolo gettava in viso ai Gentili, senza che questi potessero, non che giustificarsi, neppur zittire, voi intenderete che lo schizzo, da me delineatone, non è poi condotto con tratti troppo severi.
IV. Dalla quale tirannide, che pesava così ignominiosa sopra il mondo pagano, come Cristo affrancasse le generazioni redente, voi potrete intendere di leggieri, se ripeterete colla memoria ciò, che ieri discorremmo intorno al dominio, che cella grazia può acquistarsi dal Cristiano sopra tutte le cieche propensioni dell’istinto. Ciò che dicemmo della generalità di queste, deve applicarsi con tutta ragione alla particolarità di quella, da cui è sospinta la natura animata alle opere di senso; ed è manifesto che alla sua gagliardia dev’essere ammisurato un aiutorio divino, il quale, a trionfarlo pienamente, non ha bisogno che della cooperazione della nostra volontà. Ma quando questa vi è, la vittoria è più facile e più frequente di quello, che gli uomini carnali non mostrano di voler credere; i quali, col negare perfino la possibilità della continenza, pensano di avere apparecchiata una scusa valevole alla propria vita in viziata ed oscena. E pure ciò che si legge, ciò che si sa, ciò che si vede nella società cristiana ci dovrebbe convincere della verità, che si acchiude in questa parola di un filosofo cristiano, nessuna propensione essere così difficile a dominare, quanto questa del senso, chi non lo voglia davvero: nessuna essere così facile, chi davvero lo voglia; perché, supposta questa risolutezza del volere, la grazia aiutatrice non può mancare; e la grazia è onnipotente. È poi notevolissimo che, a rispetto delle cupidità sensuali, il medesimo principio, onde si deriva la prepotente loro forza, ne rende possibile un pieno ed assoluto trionfo, quale negli altri istinti indarno si cercherebbe. – Io vi dissi fin da principio, quella gagliardia originarsi da questo, che una tate propensione è ordinata alla conservazione della specie, bene sommo e direttamente e per sé voluto dalla natura. Or quinci appunto nasce, che quel bene, non essendo commesso a veruno particolare individuo, ma alla specie, alcuni di questa possono non pigliarvi parte nessuna, non pure senza riprensione, ma con laude nobilissima di serbata purezza. Da questa fortunata radice germinò quel giglio intatto di verginale candore, che è l’ornamento, il decoro, quasi la gemma della Chiesa, e del quale il Giudaismo ebbe quasi dispregio, il Paganesimo non giunse neppure a formarsi il concetto, se non fosse nella microscopica, temporanea e molto problematica continenza delle Vestali. Né solo lo stato della verginità ebbe merito e decoro uguale nel Cristianesimo, ma nel sesso minore la condizione medesima di sposa e di madre furono nobilitate e direi quasi consecrate: quella nella indissolubilità del matrimonio fatto grande Sacramento ed onorabile in tutto, come parlò san Paolo: questa nel sublime uffizio di allevare ed educare cittadini pel Paradiso. Ma quando fu rivelato ai mortali quel tramirabile fra i portenti, operato dalla divina Onnipotenza, la quale in Maria da Nazaret volle riuniti i caratteri nobilissimi di Vergine, di Sposa e di Madre, e ciò a rispetto del Verbo Incarnato; allora il sesso, che diciamo minore, ne acquistò onore tanto e tanto decoro, che nulla non ebbe più quasi ad invidiare al più forte. Oh! sì! Non è a dubitarne! La persona più nobile, che sia nell’universo, a comprendervi gli stessi Angeli; la creatura più eccelsa, che sia uscita dalle mani dell’Onnipotente (e notate che Cristo, benché abbia una creata umana natura individua, né persona umana non è, né creatura); quella persona, dico, di tutte la più nobile, e quella creatura di tutte la più eccelsa, è una donna. Tant’é! – Quando Iddio volle riversare in certa guisa fuori di Sé tutti i tesori delle ineffabili sue ricchezze, togliendo quasi a sé stesso la possibilità d’innalzare a maggiore altezza una creatura, non ne trovò più degno ricettacolo, che il seno castissimo d’una fanciulla giudea. Cosi quello Spirito di Dio, che dall’uomo fatto carne fu ri tirato: non permanebit Spiritus meus in homine, quia caro est; quello Spirito fu ridonato al mondo, in maniera ben altrimenti amplissima, quando venne a riposare nel grembo immacolato di Colei, in cui fu il Verbo fatto carne: Spiritus Domini superveniet in te ….. et Verbum caro factum est. La quale meravigliosa dignità, conferita alla donna nel Cristianesimo, apparisce tanto più preziosa, quanto era più depressa ed avvilita la sua condizione nel mondo pagano. Questo, essendo la tirannide assoluta della forza dovea per conseguenza conculcare spietatamente quella metà dell’uman genere, la quale per antonomasia è detta debole. Deh! che era la femmina presso i Pagani? Devo dirlo? era strumento morto di vili servigi, era animale da razza, era materia abbietta di voluttà più abbiette. Che è essa divenuta nel Cristianesimo? È divenuta donna, cioè domina, cioè signora: nome che io non so se le sia stato attribuito da alcuna lingua antica; e mi pare difficile, perchè mancando esse del concetto, non ne poteano avere la parola. Certo i Giudei la dissero נּשּׁהּ (=nascha), cioè dimenticata, perché di lei non si tenea ricordo nelle genealogie; i Greci la chiamarono γυνή [=gune], forse da γίνομαι [=ghinomai], genero, i Latini l’appellarono mulier, quasi mollior, come pensa sant’Isidoro. Noi, nella nostra lingua cristiana, la chiamiamo domina, perché il Cristianesimo fu il primo ad introdurre nel mondo il nuovissimo, e mai più non udito sentimento del rispetto alla debolezza; ed esso che pelprimo alle infinite turbe degli schiavi avea fatta udirela dolce appellazione di fratelli, fu altresì esso il primo,che fece sentire alla porzione più gentile della umana famiglia quella di signora. Ed è davvero signora la donna, chi consideri il soave impero, che essa nelle famiglie cristiane può esercitare, ed esercita molto spesso col mite ingegno, colle pietose virtù, colla tenerezza del cuore nelle care relazioni dei domestici affetti; chi consideri come la donna, chiamata ad essere anima e perno della famiglia, compagna di amore dell’uomo, e quasi necessario suo lenimento nei bisogni e nelle tempeste della vita, è stata sortita a simboleggiare niente meno, che la Chiesa nella mistica esacramentale significazione del cristiano connubio. E dove è più dunque la tirannide della concupiscenza,quando quella, che n’è il precipuo obbietto, trovasinel Cristianesimo innalzata a tanto eccelsa e tutto spirituale altezza?
V. Piuttosto vi potrebbe parere difficile a dimostrare siccome la società moderna, eziandio per questo capo, rinverté miseramente e di buon passo alle idee pagane. – Oh! che? in un mondo così forbito e che ha in tanto pregio la onestà, la morigeratezza, il buon costume pubblico e privato, diremo riprodotti i mostruosi concetti e le turpi abitudini del Paganesimo? Io, signori miei, riverisco ed inchino tutto quello che la moderna società ha di bene: me ne rallegro, e fo voti che ne divenga ognora più ricca. Tuttavolta, a non torre abbaglio, converrebbe nelle nostre città e nelle nostre famiglie accuratamente sceverare ciò che è cristiano, da ciò che non è, e professa apertamente di non essere. Se questa cernita si facesse, lo so ben io che in ogni condizione si troverebbero uomini di vita morigeratissima nel connubio, od anche fuori di quello; si troverebbero matrone specchiatissime, che sono ornamento o decoro delle famiglie; si troverebbero caste ed innocenti fanciulle che, pur vivendo nel mondo, sanno tenersi separate dal mondo, e, come la mammola nascosa sotto il cespuglio, imbalsamano l’aria della loro fragranza; si troverebbero giovani, pieni di rigoglio e di vita, intemerati e puri, mostrare col loro intatto candore di neanche sentire le fiamme sordide e cocenti della seduzione e dello scandalo. Non fosse altro, si troverebbero a mille a mille quei fortunati di ambi i sessi, i quali, avendo pure alcun poco aleggiato sovresso le sozzure di questo mondo, e non trovato ove posare il piede senza lordarsi, come già la colomba noetica ritornò all’Arca, ed essi, di lei non meno schivi, ripararono nei claustri solitari; ed ivi in quelle caste dimore, alternando la loro vita tra gli scarsi riposi ed il salmeggiare prolisso, attendono di essere fatti consorti dell’immacolato Agnello. Ma tutta questa purezza, che, la Dio mercé, pure alberga nel mondo, non ha nulla che fare col mondo: è cosa tutta cristiana e celeste, e per serbarsi intatta, dee separarsi dal mondo; deve aiutarsi di mezzi sconosciuti, derisi, calunniati dal mondo; deve perfino rassegnarsi a vedersi conculcata, spogliata, proscritta, assassinata dal mondo. E l’Italia, se non lo sapesse , sta avendo tutto l’agio d’impararlo. Che se a siffatto mondo ci restringiamo, ahimè! quanto è vero! alla foga, onde lo vediamo precipitare nei pensieri e negli amori, esso cammina a gran passi, per ridivenire pagano. Né già, vedete, innalzando templi ai Giovi adulteri ed alle Veneri lascive: questo, lo capisco anch’io, non si usa più; ma questo non era propriamente la sostanza, il midollo e, come a dire, la parte formale del Paganesimo, per ciò che riguarda le propensioni del senso. Quella dimorava propriamente nel tacere che facea la ragione, a guida e corregimento di quelle propensioni stesse; dimorava più ancora nell’abuso che faceasi della ragione, per giustificare, per onestare, per irritare, e fino per divinizzare le cupidità sensuali. Ora tutto questo pur troppo si vede avverato nella società moderna; la quale, avendoci, per mezzo dei suoi sapienti umanitari, insegnato l’unico supremo bene dell’uomo essere posto nel soddisfacimento delle proprie propensioni, a satisfare e blandire questa, che è la più prepotente, pensate se non si dovesse mettere a giocare di mani e di piedi! E chi non conosce la indifferenza, onde sono oggimai guardate queste faccende attenentisi a costume, dagli uomini che si pregiano di progresso? E voi lo avrete sentito da loro le cento volte; che quelle soddisfazioni sono finalmente debolezze, a cui si vuol compatire: sono peccatuzzi, a cui si vuol perdonare, e per cui non si vede, come mai la giustizia divina debba tanto inseverire. E questo, signori miei, non è avere condannata al silenzio la ragione? la quale, quando ve ne potesse parlare alto e chiaro, ve ne direbbe ben tutt’altro nel rossore onde, voi quasi inconsapevoli, vi tinge la fronte; nei rimorsi onde, voi ancora renitenti, vi agita la coscienza; nei danni privati e pubblici, che non potete non iscorgere negli effetti della regnante scostumatezza. Ma se, oltre a ciò, volete vedere, come a’ di nostri si abusa altresì la ragione ad aizzare le fiamme impure, quando anzi essa ci fu data per temperarle, voi non dovete che portare attorno lo sguardo per le città nostre, e per quelle segnatamente, dove i nuovi padroni intrusi, ai miseri popoli, estenuati dalle gravezze, scompigliati dalle ire civili, insidiati nella Religione dei padri loro, non sanno dare altro lenimento o compenso di tante calamità, che la licenza degli scandali, e gli scandali della licenza. Girate, dico, per le città nostre: scorrete coll’occhio le poesie, le novelle, i romanzi che più vi sono in voga; osservate, non che negli studii degli artisti, ma nelle private case e nei pubblici ritrovi, le opere di scalpello, di pennello o di bulino che più vi sono celebrate; assidetevi ai teatri o ascoltandone i drammi, o godendone le armonie, o mirandone le danze artificiose e seducenti. In questa rassegna voi vedrete la letteratura, le arti belle e le meccaniche a loro modo, direi quasi le scienze medesime congiuratesi a soffiare in un fuoco, che già per sé medesimo avvampa abbastanza, senza che siavi bisogno di attizzarlo, perché infellonisca più furibondo e più vorace. Ma quello, che propriamente costituisce il carattere speciale del nostro secolo, razionalista ed utilitario, è l’abbandono, lo spregio, la calunnia stessa di tutti quei presidi, onde la pietà cristiana avea assiepata la onestà, appunto perché la conosceva somigliante a specchio tersissimo, cui ogni fiato men che puro può appannare; somigliante a canna fragilissima, cui ogni aura benché leggiera può inchinare. Questi presidii (nessun Cristiano può ignorarlo) sono la purità del cuore, l’uso dei Sacramenti e della preghiera, la devozione filiale alla Beata Vergine, la fuga delle occasioni, la mortificazione della carne: ecco i mezzi che la Chiesa ci fornisce, per trapiantare in terra questo giglio di paradiso, per educarlo all’aura della Fede, e quinci tramutarlo un’altra volta al natio suo luogo, che è il cielo. Ora io non dico che in tempi e paesi credenti tutti adoperavano siffatti mezzi; ma tutti certo li riverivano almeno nella teorica, ed anche nella pratica che altri ne facea per sé; laddove quale è di questi mezzi, cui il nostro secolo miscredente ed orgoglioso non screditi cogli scherni; non vilipenda col disprezzo, non denigri colle calunnie? – Preghiere, Sacramenti, pratiche pietose, e soprattutto mortificazione, sono parole poco meno che barbare pei nostri sapienti: sono cose da idioti, da vecchiarelle scimunite, da fanciulle superstiziose. Per essi oh! Per essi, ne hanno d’avvanzo dalla filosofia e dalla ragione! La filosofia e la ragione, avete detto? Or bene: sostenetemi un istante, fin che respiri, e poscia vi farò un cenno del quanto meravigliosamente la filosoſia e la ragione sogliano, in opera di costume, servire bene i loro cultori.
VI. Se vi è qualità di colpa, che più studiosamente gli uomini si argomentano di coprire, è appunto questa della disonestà, forse per la speciale ignominia che essa racchiude. E nondimeno se vi ha qualità di colpa che meno si possa coprire, è appunto questa, che ammorba ed appesta, quasi carogna imputridita, un miglio da lungi. Non è dunque ridicolo venirci innanzi con coteste superbie di onestà naturale, quando appena ci è carità cristiana, che basti a coprirne in parte o dissimularne le turpitudini? Ma se io, smessi un poco siffatti riguardi, a questi presuntuosi barbassori del progresso umanitario volessi tastare il polso, od anche solo osservare la lingua, vi mostrerei davvero le febbri ignominiose, onde bollono le vene, ed i sintomi della gangrena che li divora fino nelle midolla delle ossa. Vi mostrerei i connubi male assortiti, peggio trattati e pessimamente conchiusi farsi seminario di cupi rancori, di prolungati dissidi, di gelosie smaniose, per riuscire alle separazioni scandalose, ed ai pubblici svergognamenti. Vi mostrerei un celibato, alla maniera musulmana, essersi fatto di moda tra uomini, che, portando tutti i pesi del matrimonio, le sante e caste delizie ne ignorano, e che avendo pure femmina e nati, né sposa né figli non hanno; ma dopo avere imbizzarrito, lascivi puledri tra vagabonde cavalle, si partono da una terra per essi contaminata, lasciando ad esseri inconsapevoli ed infelici, in perpetuo retaggio, la propria infamia. Vi mostrerei a cento a cento le sventurate fanciulle che, porgendo orecchio inconsulto a fallaci promesse, restarono, come madreperle abbandonate sull’arena spoglie della loro gemma, e piangono e trambasciano e si pentono, ma di tardo, d’inutile pentimento, e resterà inesaudito il loro pianto, come il lamento di tortora solinga sopra ramo vedovato di foglie: intanto che il perfido seduttore le disonesta colle calunnie, e più non le conosce, che per beffarle. Vi mostrerei una mano di fiorente gioventù; speranza che potrebb’essere della società e della Chiesa, gettatasi a disfreno al mal costume, rendersi zimbello e ludibrio di venali amanze, avvicendare la neghittosa loro vita tra la bisca ed il bordello, ed ivi disperdere le paterne sostanze, contaminare la sanità nel suo germoglio, manomettere la riputazione, e finire forse giorni vituperosi e tempestati nello squallore di uno spedale, nelle disperazioni incompiante di una prigione, e forse ancora nella infamia di un patibolo. E non vi basta questo, per convincervi, che l’uomo non ha alcun bisogno del timor di Dio per serbarsi onesto, e che la sola ragione e la filosofia sola a tant’uopo gli possono bastare? E non vi pare che la filosofia e la ragione abbiano serviti bene, e rimeritati meglio questi adoratori non tanto loro, quanto delle proprie animalesche propensioni? E adoratori veramente! ché se fossero essi soli al mondo, non dubito che, Pagani redivivi, innalzerebbero templi ed altari alla concupiscenza. E forse che non fu fatto a memoria dei nostri padri? forse che non ne corse un fremito immenso dall’un capo all’altro dell’Europa? fremito che nelle anime cristiane ancora non posa. Oh! che avranno detto i Santi del Paradiso! come gli Angeli della pace non si saranno velate delle eterne loro penne le lagrimose pupille! quando, nel maggior tempio che segga sulla Senna, sopra l’altare.augusto del Dio vivente, rimossane la effigie benedetta della purissima tra le creature, da mostri sbucati d’inferno, fu collocata (inorridisco a dirlo, e in petto mi trema il cuore! ma il pur dirò!) fu collocata la nudità nefanda d’una prostituta! E i successori di quei mostri, o certo i parteggiani delle coloro dottrine dovranno rigenerare le patrie nostre cristiane e credenti? — Oh! Dio grande! abbiate pietà di questa povera e conquassata Italia! Essa vi offese, è vero, vi oltraggið! ma la dolorosa non ha cessato mai di confessarvi; ed ora vi confessa e v’invoca forse con maggiore affetto, che non fece giammai. No! no! non la vogliate abbandonare, né tutta né lungamente, alla balia dei vostri e dei suoi nemici. Ne tradas bestiis animas confitentes tibi (Psalm. LXXIII, 19).
TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.
LETTERA UNDECIMA
6 dicembre.
Il segno della croce è un tesoro che ci arricchisce, comecché preghiera. — Prove. — Preghiera potente: prove. — Universale: prove. —Desso provvede a tutti i nostri bisogni. — Per l’anima l’uomo bisogno di lume. — Il legno della croce li ottiene: prove. — Di farti, il legno della croce li procura: prove.— Esempio dei Martiri.
II segno della croce è un tesoro che ci arricchisce: é questa una delle ragioni di sua esistenza. Ci arricchisce, perché desso è una eccellente preghiera. Ecco, mio caro amico, tu non l’hai dimenticato, il punto di dottrina che stabiliamo in questo momento. La prova è a metà già svolta; chedessa toglie la sua evidenza dall’antichità, universalità, e perpetuità del segno adorando. Nel mezzo dell’universale naufragio in che il mondo, idolatrandosi, lascia perire tante rivelazioni primitive, si vede sfuggire alla devastazione quella del segno della croce. Questo fatto ben chiaro e ragionevole per lo spirito cristiano, che riflette, ma forse per te e per gran numero di uomini incomprensibile, di quali verità è rivelatore? Desso afferma e rivela quanto sia utile all’uomo questo segno; avvegnaché ne mostra tutta la efficacia sul cuor di Dio. Dai ragionamenti passiamo ai fatti! – Il segno della croce è una preghiera, una preghiera potente, una preghiera universale! È una preghiera. Che cosa è l’uomo che prega? È un uomo che confessa dinanzi a Dio la sua indigenza, indigenza intellettuale, morale, materiale. È il povero alla porta del ricco. Ora il povero dimanda con la voce, ma più eloquentemente col magro e smorto viso, con le infermità, i cenci e l’attitudine, come pregava sulla croce l’adorabile Povero del Calvario! In questo stato il figlio di Dio, più che in altro mai era l’oggetto delle compiacenze infinite del Padre, ed Egli stesso ci dice, che questa preghiera più eloquente, per l’azione che per la parola, fu la leva che innalzò tutto a lui (1 di Joan. XII, 32. Cum exaltatus fuero a terra, omnia traham ad meipsum. Joan. XII, 32. Humiliavit semetipsum etc. propter quod et Deus exaitavit ilium etc. (Ad Philip. II, 8). – Che cosa fa l’uomo facendo il segno della croce, sia con la mano, che con le braccia? Egli imprime sovra se stesso l’immagine del divino Povero; s’identifica con Lui, è Giacobbe che si copre delle vestimenta di Esaù per ottenere la paterna benedizione. In questa attitudine, espressione di fede, di umiltà e di oblazione, che cosa dic’egli? Egli dice: Vedete in me il vostro Cristo, respice in faciem Christi tui. Preghiera è questa più eloquente di tutte le parole : dessa ascende, dice santo Agostino, ed il soccorso discende: ascendit deprecatiti et descendit Dei miseratio. (August. Serm. 226 De temp.). Tal è il segno della croce, non parla e dice tutto; eloquente silenzio della croce! È una preghiera potente. Quando l’agente dell’autorità, un delegato di polizia, un sindaco, un gendarme, mette la mano sul delinquente, gli dice: In nome della legge vi arresto. In questa parola in nome, il colpevole vede l’autorità della sua patria, la forza armata, i giudici, il re stesso, e preso da paura e riverenza, si lascia arrestare. Quando l’uomo trovasi in un pericolo, in preda alla sofferenza ed alle infermità, e pronunzia queste parole solenni, in nome del Padre etc, e, pronunziandole, fa il segno redentore del mondo, e trionfatore dell’inferno, il male non può opporre resistenza alcuna. L’uomo non ha forse eseguite tutte le condizioni necessarie al successo? Dio non è, in certo modo, obbligato d’intervenire, e di glorificare il suo nome e la potenza del suo Cristo? Ecco ragione che dell’efficacia particolare del segno della croce, né la Chiesa, né i secoli cristiani hanno dubitato; e teologi venuti in gran fama di profondo sapere insegnano che la croce opera per virtù propria indipendentemente dalle disposizioni di colui, che la esegue. Ne danno varie ragioni; io non ne citerò che due. La prima è l’uso incessantemente ripetuto del segno della croce. Se non producesse, dicono, i suoi effetti di per sé stesso, i Cristiani non avrebbero ragione facendone sì frequente uso. Perché usarne se un movimento dell’anima bastasse ad ottenere e realizzare quanto sperano ottenere e realizzare col segno della croce? (Dicimus signum sanctissimæ crucis producere suos effectus exopere operato. – Gretzer loc. cit. lib. IV, c 62, p. 703 – Ita etiam doctissimi quique theologi sentiunt, ut Gregorius de Valentia, Franciscus Suarez, Bellarminus, Tyrsus,et alii. – Ibid. – Etcerte nisi ex opere operato crux eflectus suos ederet, non esset cur iam sedulo a ildetibus usurparetur; quia bono animi motu etactu omne iiiud perflcere seque certo possent, quod adhibito crucis signáculo peragunt et sese peracturos sperant. – Ibid.). La seconda riposa su de’ fatti celebri nella storia, e di tale una autenticità da non poter di essi in verun modo dubitare. Il primo è quello di Giuliano Apostata. Quando ruppe a Dio la sua fede, com’è inevitabile, divenne adoratore di satana. Per conoscere l’avvenire, mandò per tutti gli uomini, che in Grecia erano in rapporto con i cattivi spiriti. Un evocatore si presenta, e promettegli piena soddisfazione. Eccoli in un tempio d’idoli: si eseguono le evocazioni, e detto fatto, l’imperatore è circondato di demoni, il cui aspetto gli mette paura. Per sentimento di timore, e senza alcuna riflessione si segna, ed eccoti i demoni disparire. Il mago ne lo rimprovera, e ricomincia le sue evocazioni. Di nuovo le istesse apparizioni. Giuliano si segna nuovamente, e gli spiriti dispariscono. Questo fatto è riferito da San Gregorio di Nazianzo, da Teodoreto ed altri Padri (Ad crucem confugit, eaque se adversus terrores consignat, «unique quem persequabatur in auxilium adsciscit. Valuit signæulum, caedunt doemones, pelluntur timorés. Quid deinde? reviviscit malum, rursus ad audaciam redit; rursus aggreditur; rursusiidem terrores urgent, sursus obiecto signáculo daemones conquiescunt, perplexusque hoeret discipulus. – S. Gregor. Nazianz. Orot. I contra Julian.). Il secondo è più noto nell’Occidente. La conoscenza di esso noi la dobbiamo al Pontefice San Gregorio, che siffattamente ce ne parla. « Quanto narro non può essere che certo, avvegnaché quanti sono gli abitanti di Fondi ne sono testimoni » (Nec res est dubia quam narro, quia pæne tanti in ea testes sunt, quanti et eiusdem loci habitatores existant. (S. Greg. Dialog. lib. III, c. 7). Un Giudeo dalla Campania si conduceva a Roma per la via Appia. Annottatosi verso Fondi, né potendo trovare ove passar la notte, si cacciò in un diruto tempio di Apollo. Quest’antica dimora di demoni gl’inspirava paura; però, tuttavolta non fosse Cristiano, si muni del segno della croce. Ma che! era già scorsa la metà della notte, ed il timore non gli consentiva dormire, quando una moltitudine di demoni entrò nel tempio, e pareva vi si recassero a rendere omaggio al loro capo, assiso nel fondo del tempio. Questo domandava aciascun di loro quel tanto che avesse fatto per indurre le anime a peccare, e ciascuno gli discopriva le male arti all’uopo usate. Nel mezzo di tali racconti, uno si avanza per narrare come avesse saputo tentare il Vescovo della città. Fino al presente, diceva, tutto avuoto: ma ieri, verso sera ho potuto instigarlo a dare un piccolo colpo sulla spalla della santa donna, che ha in cura l’azienda di lui. Continua, gli rispose l’antico inimico del genere umano, continua e compisci l’opera cominciata; da si grande vittoria ti verrà eccezionale compenso. A siffatto spettacolo il Giudeo respirava a pena: a farlo morir di paura, il presidente dell’infernale convegno ordinò che si prendessero indagini sul temerario, che ardiva rifugiarsi nel suo tempio. La folla degli spiriti si avvicina curiosa al Giudeo, e vedendolo segnato della croce esclama: Malore! malore! un vaso vuoto e segnato. Vae, Væ, vas vacuum et signatum. E cosi detto disparvero! Parimente il Giudeo si affrettò di sortire dal tempio, e si portò alla Chiesa, dimora del Vescovo, e gli narrò come sapesse del colpo dato il giorno innanzi, e lo scopo che il demonio si proponesse. Il Vescovo sorpreso il più che immaginar si possa, commiatò la santa donna ed inibì ad ogni femmina entrare nella sua dimora; sacrò a Sant’Andrea il vecchio tempio di Apollo, ed il Giudeo si rese cristiano (S. Greg. Dial. lib. III, cap. 7). Citiamo un altro fatto. Le storie di Niceforo ci raccontano come Maurizio Cosro, secondo re di Persia inviasse a Costantinopoli de’ Persiani in ambasciata, i quali aveano nella fronte il segno della croce. L’imperatore domandò loro perché portassero quel segno, cui non credevano. Questo che vedi, risposero, è segno di un benefizio in altri tempi ricevuto; poiché la peste disertava il nostro paese, ed alcuni Cristiani ci consigliarono di segnarci siffattamente come preservativo contro del male. E didatti noi lo credemmo, ed eccoci salvi nel mezzo di migliaia di famiglie distrutte dalla peste (Hist. lib. XVIII, c. 20). – A questi fatti naturalmente si unisce la riflessione del gran Vescovo d’Ippona, che pare decisiva in favore dell’insegnamento cattolico. « Non è da meravigliare, dice egli, se il segno della croce abbia gran potere quando è eseguito dai buoni Cristiani; poiché dessa è potente ancora quando è messa in uso da quelli che non credono, e ciò solo in onore del gran Re » (S. August. Lib. 83. De quæst. 79). – Ma per restare fra i limiti dell’ortodossia, è da aggiungere, che il segno della croce non opera da sé puramente e semplicemente, ma secondo che è utile alla nostra salute, o a quella degli altri, come di altre pratiche ha luogo, a mo’ d’esempio, gli esorcismi, a cui nessuna promessa divina assicura un effetto infallibile, e senza condizione alcuna. Aggiungasi ancora che la pietà di colui che fa il segno della croce contribuisce alla efficacia di esso. II segno della croce è una invocazione tacita di Gesù crocifisso, epperò la efficacia si proporziona al fervore con cui è invocato. Di maniera, che la invocazione del cuore, o della bocca è tanto più propria ad ottenere il suo effetto, quanto il fedele è più virtuoso e caro a Dio (Gretzer, ubi supra).È una preghiera universale. In un senso il segno della croce può dire come il Salvatore istesso: Ogni potere mi è stato dato nel Cielo e nella terra. Qui ancora più che altrove è da ragionare con i fatti, i quali sono sì numerosi da tornar solo difficile la scelta di essi. Tutti e ciascuno di essi, a sua maniera, proclama, da una parte la fede de’ nostri avi, e dall’altra l’impero del segno della croce sul mondo visibile ed invisibile, e come desso provveda a’ bisogni dell’anima e del corpo. – Per l’anima l’uomo ha bisogno di lumi, ed il segno della croce li ottiene. S. Porfirio Vescovo di Gaza deve disputare con una femmina manichea. Per dissipare con la chiarezza del ragionamento le tenebre in che era inviluppata la infelice, fa il segno della croce, e la luce brilla in questa intelligenza traviata. – Giuliano, il sofista coronato provoca a disputa Cesario fratello di san Gregorio di Nazianzo. Il generoso atleta scende nell’arena munito del segno della croce, ed appone ad un nemico peritissimo nell’arte della guerra, e della dialettica lo stendardo del Verbo, e lo spirito di menzogna si trovò arreticato nella propria rete (S. Greg. Nazianz. In laud. Caesar). – San Cirillo di Gerusalemme, sì potente in opere ed in parole, comanda si ricorra a questo segno tutte le volte che si debbono combattere i pagani, ed egli afferma che saranno ridotti al silenzio (Accipe arma contra adversarios hujuscrucis; cum enim de Domino cruceque contra infideles quæstio tibi erit, prius statue manu tua Signum, et obmutescet contradicens. -). – Nell’ordine temporale non meno che nell’ordine spirituale i lumi divini sono necessari all’uomo: il segno della croce li ottiene. Per la qual cosa gl’imperatori di Oriente, successori di Costantino, costumarono, parlando al Senato di cominciare dal segno della croce (Catech. Illum. IV). – Come di già vedemmo, san Luigi innanzi discutesse in consiglio gli affari del regno, si conformava a questa religiosa ed antica pratica. Se al pari de’ principi, i più grandi che abbiano governato il mondo, i re e gl’imperatori del secolo decimonono ricorressero a questo segno, pensi che gli affari anserebbero sì male? Per me son convinto, come della mia esistenza, che andrebbero molto meglio. I governi nostri contemporanei hanno minor bisogno di lumi, che quelli d’altri tempi? Hanno essi la pretensione di trovarli altrove che in Colui che ne è la sorgente, lux mundi? Conoscono eglino un mezzo più efficace del segno della croce per invocarlo con successo? Tutti i secoli non depongono per la sua efficacia con ogni maniera di testimonianze? La Chiesa, che dovrebbe essere loro oracolo, non rifinisce dal proclamarlo. V’ha un concilio, un conclave, un’assemblea religiosa che non cominci dal segno della croce? Fedeli ereditieri della tradizione, i preti cattolici parlano essi dall’alto della cattedra senza armarsi di questo segno? Con ciò eseguiscono la prescrizione degli antichi Padri : « Fate il segno della croce, scrive san Cirillo di Gerusalemme e, voi parlerete. Fac hoc signum, et loqueris » (S. Cyrill. Hieros. Catech. XIII). Quanto dissi de’ re, èda dire di quelli cui è commesso l’insegnamento altrui. Il Verbo incarnato, non è forse il Signore di tutte le scienze, il professore de’professori, il maestro de’ maestri? se il segno della croce presiedesse all’insegnamento moderno, a’ libri che si stampano, credi tu che sarebbero inondati di errori, di sofismi, d’idee false, di sistemi incoerenti, il cui effetto certo è di far discendere il mondo moderno nelle tenebre intellettuali, dalle quali il Cristianesimo l’aveva tratto? Per l’anima l’uomo ha bisogno di forza: ilsegno della croce n’è sorgente feconda. Guarda i tuoi illustri avi, i martiri. A chi questi domandano il coraggio pel trionfo nelle loro battaglie? Alla croce! Generali, centurioni, soldati, magistrati, senatori, patrizi o plebei, giovani e vecchi, matrone e candide vergini, tutti dimandano scendere nell’arena, muniti di questa invincibile armatura, insuperabilis christianorum armatura. Vieni, te ne mostrerò qualcuno. A Cesarea il generoso martire che cammina al supplizio èil centurione Gordio. Lo vedi ? calmo ed in sé raccolto, egli arma della croce lasua fronte (S. Basil. Orat. In S. Gord.).Qual è questa città dell’Armenia assisa nel mezzo delle nevi, e sulle sponde del lago di ghiaccio? È Sebaste. Eccoti verso sera quaranta uomini fra i ceppi, e nudi trasportati nel mezzo del lago condannati a passarvi la notte. Chi sono? Quaranta veterani dell’armata di Licinio. Una forza sovraumana è loro altrettanto più necessaria per resistere, che sulla riva son disposti de’bagni caldi per quelli che rinunziassero alla fede. Fanno il segno della croce, ed una morte eroica corona il loro coraggio (S. Ephrem, Encom. in 40 SS. Martyr.). – Abbiamo di già veduta Agnese segno di croce vivente nel mezzo delle fiamme. Ecco altre vergini nate all’epoca d’oro de’ martiri. La prima è Tecla d’illustre prosapia e più illustre ancora per la fede. I carnefici padroni di essa la conducono al rogo, e dessa coraggiosa l’ascende, e fatto il segno della croce tranquilla resta nel mezzo delle fiamme, ma una pioggia caduta a torrenti estingue le fiamme senza che un capello solo della giovane eroina venisse bruciato (Ado in Martir. 23 Sett.). -La seconda è Eufemia non meno celebre della prima. Il giudice la condanna alla ruota ed in un batter d’occhio il fatale strumento è allestito, per ricevere le delicate membra della giovane vergine. Questa si segna, e tutta sola s’avanza contro la spaventevole macchina armata di punte di ferro, la guarda senza neppure impallidire, ed al suo sguardo lo strumento va in pezzi e schegge (Apud. Sur. T.v., et Baron. Martirol. 16 Sett). Guarda ancora: noi siamo in uno de’ pretori romani che spesso rosseggiò del sangue de’ nostri padri, e fu testimone delle sublimi loro risposte, e della eroica costanza di essi. La persecuzione di Decio è nel suo bollore, e tu conosci questo sanguinario imperatore, che Lattanzio chiama esecrabile animale, execrabile animal Decius. Una folla di Cristiani è dinanzi al giudice incolpata dall’accusatore di mille delitti. I Cristiani sono condannati avanti il giudizio, ed eglino sel sanno. Che cosa fanno? elevano gli occhi al cielo, fanno il segno della croce e rivoltisi al proconsole, gli dicono: Vedrai non esser noi uomini timidi, e di nessun coraggio (Apud sur., 13 April.). Se volessi continuar siffatta storia dovrei fare defilare dinanzi agli occhi tuoi tutta 1’armata de’ martiri non v’ha un solo valoroso soldato del Crocifisso, che non abbia innalzato lo stendardo del suo re. Basti nominarne alcuni: san Giuliano, san Ponziano, i santi Costante e Crescenzio, santo Isidoro, san Nazario, san Celso, san Massimo, santo Alessandro, santa Sofia con le sue tre figlie, san Paolo e santa Giuliana, san Cipriano e san Giustino. Questi di tutti i paesi e di tutte le condizioni rendono testimonianza al costume de’ martiri di armarsi del segno della forza avanti entrassero in battaglia sia con gli uomini, che con le bestie e gli elementi. – V’ha ancor di più : temendo che il peso delle catene impedisse loro di formare il segno della croce, eglino pregavano i loro fratelli, i preti, loro padri spirituali di armarli del segno della vittoria. Corobo, convertito alla fede dal martire Eleuterio, corre nell’anfiteatro per ottenere la corona di martire: « Prega, per me, dice al suo padre in Gesù Cristo, ed armami col segno della croce, con che armasti Felice il condottiere dell’esercito » (Apud. Sur. 18 Aprile). Gliceria, nobile figlia di un padre per tre volte console, è messa nel fondo di una oscura prigione. Vedendosi alle prese con l’inimico, la prima cosa che opera è di pregare il prete Filocrate onde le segni la fronte col segno della croce. Filocrate esegue i suoi desideri dicendole: Il segno di Cristo compisca i tuoi voti (Ibid. III et Baron. T. II).Di fatti la giovane eroina discende nell’anfiteatro, e sul punto di raccogliere la palma della vittoria, rivolta a’ Cristiani confusi tra la folla degli spettatori, cosi dice loro: Fratelli, sorelle, figli e padri, e voi che potete essermi madre, vedete, e considerate, quale sia l’imperatore, di cui abbiamo il carattere, e quale sia il segno che onora la nostra fronte! (Ibid.). – Tu lo vedi; tutti i martiri hanno cercata la loro forza nel segno della croce. Avrebbero eglino cercato un sostegno nel niente? E questo grande Imperatore, per cui morivano, li avrebbe lasciati in siffatta incurabile illusione? Se qualcuno lo crede, ne apporti le prove.
OTTO DISCORSI DETTIDAL P. CARLO M. CURCI D. C. D. G.NELL’OTTAVA DELL’EPIFANIA DEL 1862IN ROMA
ROMA – COI TIPI DELLA CIVILTÀ CATTOLICA – 1862
DISCORSO QUINTO
ARGOMENTO
Lo spettacolo della natura soggiogó il Paganesimo, invece di rivelargliene l’Autore. Culto tribuito dal Paganesimo alle forze della natura; abbiettezza ridevole di quello. Cristo riordinò l’uomo verso la natura sensibile. Amore ed anche culto del Cristiano per questa. Esso ne domina le lusinghe, ne accetta i dolori, perché gl’intende, e vince la morte.
I. La singolare spensieratezza, onde noi mortali ci aggiriamo continuo in mezzo ad un mondo ricco di tante forze ed adorno di tante bellezze, senza talora degnarle, non che d’un’ammirazione, neppure d’uno sguardo, quella spensieratezza, io dico, non può ad altro attribuirsi, che alla lunga abitudine, la quale toglie alle cose eziandio più meravigliose la meraviglia. Ma io vado pensando tra me, che se un uomo sano ed adulto, col vigoroso esercizio di tutte le sue facoltà, sorgesse, come per incantesimo, di sotterra o piovesse dal cielo, tutt’un tratto, ed abbracciasse la prima volta d’un’occhiata il mondo; oh! questi davvero, al subito spettacolo di tanti portenti d’ordine, di vigore e di bellezza, sarebbe trasportato quasi fuori di sé in un’estasi di stupore. Vedere questa terra vestita di biade, adorna di fruttifere piante ed ammantata di fiori, sustentar tante vite, provvedere a tanti bisogni, fornirci tanti diletti e tante ricchezze, chiudersi in grembo di vaghissime pietre, di preziosi metalli e di gemme pellegrine. Osservare questa sterminata e svariatissima famiglia di bruti animali, e quali vigorosi e pazienti alla fatica per nostro servigio, quali sustanziosi e dilicati al gusto per nostro sustentamento, ed altri vaghissimi in vista e nel gorgheggiare canori, per nostro diletto. Mirare queste acque, dove raccolte in immensi fortunosi Oceani, non preterire i confini loro segnati dal dito di Dio; dove ristrette in maestosi fiumi favorire i commerzi di nazioni tra loro lontane; dove in limpidi ruscelli, dechinando da freschi e verdi poggi, fecondare innaffiando le sottostanti pianure: e queste acque medesime, assottigliate in vapori e librate nel liquido aere, ora condensarsi in piogge, ora indurarsi in grandine, ora spiumacciarsi in candidissime nevi. Ammirare questo cielo, che quasi padiglione maestoso ci si stende sul capo: bello quando versa a torrenti la vita, il calore e la luce nella chiarezza del giorno; ma più bello forse quando, nei sereni silenzii di tranquilla notte, muovono in loro danza i folgoranti astri, mentre veleggia solinga in quel suo mare d’azzurro l’argentea luna, e perle ruggiadose piovono dal manto stellato dell’antica notte. – Ora chi crederebbe che in mezzo di una natura così inestimabilmente splendida e feconda, l’uomo, creato ad esserne il re, abbandonato a sé stesso, lungi dal farsene conoscitore ed ammiratore intelligente, ne fu anzi stupido spettatore, timido schiavo e cultore superstizioso ed abbietto? E pure proprio questa fu la condizione lamentevole dell’uomo pagano, nelle sue attenenze coll’universo sensibile. Esso, separatosi da Dio e se stesso ignorando, non volle conoscere la sensata natura, la quale era stata appunto costituita, per essere come scala, o via mediana tra l’uomo e Dio: due termini a lui ugualmente oscuri ed ignoti. Pertanto la universalità delle cose esteriori, restando pel Paganesimo un libro chiuso, esso non vi lesse nulla di quello che il Creatore vi avea scritto; e sentendo la natura seducente, se ne lasciò sedurre; scorgendola inesplicabile, la disse fatale; sperimentandola prepotente, si abbassò ad adorarla, struggendo incensi ed offerendo sacrifizii a quegli obbietti ed a quelle forze naturali, da cui avrebbe dovuto essere servito come re e signore. Della quale mostruosa perversione credo io, che le medesime insensate creature vergognassero e gemessero e fremessero a loro modo; e così forse può intendersi quella profonda parola di Paolo ai Romani, laddove disse di sapere, che la creatura, fino ai tempi di Cristo, gemebonda dolorava, per partorire una volta quella cognizione del Creatore, alla quale produrre era stata ordinata. Scimus enim quod omnis creatura ingemiscit et parturit usque adhuc (Rom. VIII, 22). E questo appunto ho divisato móstrarvi nell’odierno discorso: come cioè il Paganesimo si rendesse mancipio della natura; come Cristo ce ne restituisse in certa guisa il dominio, abilitandoci colla sua grazia a superarne le seduzioni, a portarne con rassegnata tranquillità le molestie, ed a trionfare perfino la stessa morte. Incomincio.
II. Il dominare la natura sensibile o corporea non importa già, come alcuni maleavvisati potrebbero credere, il valersene ai proprii usi, alimentandoci del regno vegetale e dell’animale, respirando l’aria, rinfrescandoci dell’acqua, riscaldandoci col fuoco. A questa maniera se ne valgono eziandio i bruti animali, e non per questo si dice che essi dominano la natura corporea. Che se noi ne caviamo servigi ed emolumenti assai maggiori, che non fanno i bruti, perché nel valercene ci aiutiamo dell’intelletto; ciò significa che noi per natura siamo da più delle cose irragionevoli ed insensate, ma non ci conferisce alcuna perfezione morale o preminenza sopra di esse. Il trovarci dunque in questa natura sensata colla dignità propria dell’uomo e colla indipendenza da cose tanto minori di noi, suppone primamente l’intenderle per quello che sono; val quanto dire conoscerle come procedenti dall’Autore supremo dell’universo. Suppone secondamente il sapere perché sono, cioè a qual fine prossimo ed immediato furono ordinate, ed il saperlo non già di questa o quella cosa particolare, a che giunge spesso la scienza dei naturali; ma conoscerlo di tutto il complesso di questa gran macchina dell’universo. Il quale doppio conoscimento del che è, e del perché è, appartiene così propriamente alla nostra natura razionale ed intellettiva, che forse è il primo desiderio che si schiude nelle anime giovinette coi primi albori della ragione. E voi, o genitori, che assistete, senza avvedervene, a quel successivo svolgersi della ragione, che va a mano a mano aggiornando nelle care animucce dei vostri figliuoletti, voi avete potuto osservarlo le cento volte in quel richiedervi che essi vi fanno appunto di questo; ed in ogni tempo, in ogni luogo, qualunque cosa nuova si offra al loro occhio o qualunque nuova voce giunga loro all’orecchio, ed essi, afferrandovi pel braccio o tirandovi pel gherone, vi richieggono con molta istanza: babbo, mamma, che è egli codesto? e perché è codest’altro. Anzi se vi ponete mente, vi accorgerete che la domanda: perché è? viene alquanto più tardi dell’altra: che è? in quanto il concetto di causa, inchiuso nella prima, è posteriore al concetto dell’essere espresso nella seconda. Saputo poi che sono e perché sono le cose, cioè saputo che le sono creature di Dio, e sono state fatte ed ordinate da Lui a solo nostro servigio, noi acquistiamo tosto coscienza della nostra dignità, acquistiamo sentimento della nostra stragrande preminenza sopra tutta la natura corporea, della quale sentiamo di essere il fine immediato e lo scopo. O non sapete voi, più degno essere l’oggetto, per cui si fa alcuna cosa, che non la cosa che si fa? come più degno è il vostro figliuolo, che non la vesticciuola od il ninnolo, che gli comperaste in questi giorni per la Befana. Anzi le creature medesime irragionevoli ed insensate starei per dire, che sono, alla loro maniera, liete e gloriose di essere conosciute a questo modo; ché incapaci esse di conoscere Dio, in questo pongono ogni loro vanto, come acutamente osservò Agostino, nel rivelarlo a noi colle loro bellezze è nel farlo conoscere ed amare da noi: Cum noscere non possint, quasi innotescere velle videntur (August. Conf. XI). In questa economia poi tutte le forze della natura, non essendo che ministre di Dio, qualunque benefizio da esse ci venga, e dico ancora qualunque incomodo o danno, si guarda come venuto da Dio medesimo. Dirò più innanzi quanta dignità, quanta pace, quanta contentezza viene al Cristiano dal conoscere ed intendere la natura a questa maniera. Per ora mi è uopo venire all’antico Paganesimo, il quale dal non conoscere le creature a quel modo, trasse appunto gli effetti contrarii a quelli, che ne traggono i Cristiani. – In quel tempo di universale cecità l’uomo, considerandosi come balestrato guaggiù a caso, senza sapere da cui e perché, si vedea abbandonato alla balia della pazza fortuna o del cieco fato, che è tutto lo stesso. L’universale sensibile natura era per lui affatto mutola e diserta; le cose esteriori gli facéano solamente sentire il bisogno che esso ne avea, la dipendenza assoluta da loro, nella quale esso versava; e non trovando schermo che bastasse contro le prepotenti forze di quelle, se ne vedeva spesso vittima e zimbello, senza aver modo, non che di attenuarne gli effetti, neppure d’intenderne il perché. Noi nati alla Fede, noi allevati e cresciuti nel Cristianesimo non possiamo mai interamente svestire i concetti bevuti col latte; e però mal ci potremmo formare un’idea di quello, che dovea essere un uomo ed una società aggirantesi tra quelle tenebre. Generazioni incalzate da tanti dolori privati e pubblici, oppresse da tante sventure naturali ed artificiale, con innanzi agli occhi una morte indeclinabile, di cui s’ignorava al tutto che fosse o a che menasse; e frattanto senza un lenimento al mondo, senza una consolazione, senza una speranza, senza neppure una spiegazione che valesse, proprio come quelli, quispem non habent (1 Thessal. IV, 12). Quando io vi penso, mi sento compreso e vinto da tanta pietà, che non so quale sia maggiore la mia, o la compassione per tanti milioni di creature umane passate per la vita cosi sconsolate ed afflitte, o la riconoscenza a Cristo Redentore che, per sola sua grazia, a quella misera e svilente condizione ci ha tolti. Ed aggiunsi a vero studio alla qualificazione di misera quella altresì di svilente. Perciocchè qual cosa più vergognosa per un essere intelligente, che il divenire giuoco e ludibrio di creature vilissime, di forze cieche, di un inesorabile fato? Il quale sembra per dileggio detto fato, dall’antico forfaris, parlare o dire, perché addirittura il fato non parlava mai e non diceva mai nulla. Ma l’avvilimento del genere umano toccò il suo colmo, quando esso, abusando l’idea di Divinità, che pure ritenea confusamente, l’attribuì, per somma empietà, a quelle creature medesime, che erano state ordinate a servirlo, e se ne fece altrettanti dei, atterrandosi innanzi ad esse con maggiore riverenza , che molti Cristiani non farebbero al presente innanzi alla Croce, od alla medesima santissima Eucaristia. E pure questa fu la più compatibile delle idolatrie, la quale dichiarava dio tutto ciò di cui avesse bisogno o paura, come disse Minucio Felice: Sacra facta sunt, quae fuerant assumpta solatia (OCTAVIUS, cap. XX). E così in Apollo si adorò il Sole, perché fonte di luce e di calore; in Cerere si venerarono le biade, in Vulcano il fuoco, in Eolo il vento, in Bacco avea culto il vino, e così di altri innumerevoli. Anzi non pure le forze cieche della natura e gli oggetti necessarii o minacciosi alla vita erano, senza più, dichiarati divinità ed aveano templi, are e sacrifizii; ma erano divinizzate le azioni .più volgari della vita, da farsene una falange di numi, che si contavano a migliaia, con una stranezza e bizzarria di nomenclature, da imbrogliarvisi dentro i più consummati antiquarii. Certo da Varrone, che ne sapea a menadito, ricorda Arnobio, che una lupa, immemore dei proprii nati, diè nome a Luperca ed ai Lupercali; quod, abiectis infantibus, pepercit Lupa non mitis, Luperca est auctore appellata Varrone; e poscia ricorda di Præstana da præstare, di Pandica o Panda da pandere, di Pellona da pellere; e fino vi avea il genio o dio Lateranus, che presiedeva al focolare, perché questo era costrutto di mattoni, latinamente lateres. Che dirò poi della pavida e ridevole superstizione, onde dipendeano così ciecamente dagli augurii e dagli aruspici, dei quali riderebbero i nostri putti tant’alti, e che erano nondimeno la quintessenza della sapienza sacra di quei grandi uomini dell’antichità pagana. Signori si! io non conto favole! I Fabii ed i Camilli, i Cincinnati e gli Scipioni, anzi i Duci, i Consoli, il Senato, l’esercito ed il popolo allibivano dalla paura e soprassedevano le deliberazioni e le battaglie, se un uccello fosse volato di sbieco, se un maiale avesse grugnito in mal punto, se nelle interiora di un pollo si fosse scoperta una benché lieve magagna, la quale non impedirebbe il vostro cuoco dall’apprestarvene un intingolo alla mensa. Tant’è! la cosa è qui! a tale codarda abbiettezza, a tale vergognosa sommissione alla natura insensata era dechinato il Paganesimo, che un suo sapiente avrebbe temuto più la dea Tosse o la deessa Febbre di quello, che i più vili mancipii non temano la verga del loro padrone.
III . Come Cristo Redentore, colla pietosissima sua venuta e colla celeste sua dottrina, cangiasse in tutt’altra questa scena obbrobriosa e lagrimevole, sottraendo il genere umano alla servitù professata per gli elementi del mondo, e ricollocandolo sopra di quelli, voi potreste intenderlo con niente altro, che col volgere lo sguardo alla società cristiana; anzi con solo consultare i vostri pensieri ed i vostri affetti. Ma badate! io dissi la società cristiana, quale la fece la Chiesa, non quale la vorrebbero rifatta i nostri ammodernatori umanitari, ed in gran parte vi sono riusciti: io intendo i vostri pensieri ed i vostri affetti, quali ve li formò una madre pietosa, e ve li educò un pio maestro od una famiglia cristiana, non quali avete potuto voi storpiarlivi con conversazioni da scredenti o con letture mezzo atee. Se dunque voi in quella società cristiana guardate ed in voi medesimi, vedrete immensa distanza, smisurata differenza che dispaia l’uomo gentile dal Cristiano, nelle sue relazioni colle forze cieche della natura sensata e corporea. Questa pel Cristiano è una vasta orma della Bontà divina; è un raggio quasi sfolgorato fuori da quell’Oceano lucidissimo della ineffabile sua bellezza; e le forze e le operazioni della natura non gli appariscono altrimenti, che come altrettanti benefizii venutigli da un Padre affettuoso, che lo ama e lo provvede non pure del necessario e dell’utile, ma eziandio del dilettevole. Così la rivelazione, nel domma della creazione, non solamente ci ha svelata la verità fondamentale, che chiarisce, purifica, feconda e coordina in una immensa sintesi tutto il caos delle umane conoscenze; ma essa ci ha dischiusa nella medesima natura corporea una sorgente inesauribile di bellezze e di letizie, le quali, nel mondo del tirocinio, sono il saggio e l’apparecchio delle letizie e delle bellezze celestiali della patria. – Sapete pertanto perché noi Cristiani, e noi solamente intendiamo bene la creatura? Perché noi crediamo nel Creatore; e la inestimabile svariatezza degli oggetti che ne circondano, sotto quella luce riflessa della Fede, si abbellano, s’ingemmano, si avvivano in certa guisa e ci parlano in loro favella le glorie del loro Fattore. E i pesci che guizzano silenziosi nelle limpide onde, e i cari augelletti che dei loro canti rallegrano le foreste, e i fiori variopinti, e le erbe odorate, e le placide marine vestite di azzurro espresso dal cielo, e l’aurora inghirlandata di rose, e i dorati zaffiri di un sereno tramonto, e le tremolanti stelle mattutine, e l’iride che coi sette suoi colori s’accorda sì bene coi sette toni della musica; tutto in somma che è venusto, che è bello in questo mondo, lungi dallo sviarci da Dio e farcene dimenticare le ineffabili bellezze, ce ne è anzi testimonio eloquente, e ci conduce soavemente ad ammirarle, a sapergliene grado: dall’ammirazione poi e dalla riconoscenza è piccolo il varco all’amore. Che più? fino questo vuoto aere che ne circonda per tutto e che respiriamo, al nostro occhio cristiano si avviva quasi, si anima, si popola d’intelligenze separate o di spiriti angelici, che vogliamo dirli, mandati da Dio a nostro servigio ed a nostra custodia: concetto sì caro alle moltitudini credenti, che l’arte cristiana non seppe quasi mai istoriare un quadro, senza camparvi per aria alquanti angeletti, od anche solo delle testine alate, simbolo espressivo di esseri, tutta la cui vita è l’intendere, e che vincono di celerità gli stessi venti. Di qui voi vedete che pel Cristiano l’amore, e se volete, ditelo pure senza sospetto, il culto della natura è amore e culto di Dio; stante che, riguardata la natura come immagine del suo Autore, lo stesso alto, che si porta all’immagine, uopo è che si porti e si termini aļl’immaginato, come notò il Filosofo: eodem actu fertur intellectus in imaginem el in id cuius est imago (Aristot. Phys. VIII). Appunto come voi mirando con tanto affetto il ritratto del figlio, della sposa o dell’amico lontano, nel ritratto amate propriamente gli originali. Di questo santo e castissimo amore diligevano la natura un Filippo Neri, un Francesco di Sales, un Ignazio di Loiola, e soprattutto quel Serafino di Francesco d’Assisi, che, in tempi di feroci ire e di fraterne stragi, fu mandato dal cielo per ischiudere al mondo tesori di tenerezza e di amore: tesori che, dopo sei secoli, sono ricchi ancora. Per quell’anima innamorata suo caro fratello era il Sole, suora sua diletta gli era la Luna; e fratelli gli erano i fiori ed i passerini, sorelle le semplicette colombe e le modeste viole. Oh! che? non erano forse tutti figli dello stesso Padre? Ed era una delizia a sentirlo inneggiare a Dio dallo spettacolo della natura! udirlo conversare alla dimestica cogli astri lucenti, colle tranquille rugiade, colle rose vermiglie, coi candidi gelsomini e colle innocenti agnellette! Ti parea di essere trasportato, quasi per miracolo, nel giardino di Eden ad ammirarvi l’uomo, quale lo avea fatto e nobilitato Iddio, non quale esso si era ridotto per propria colpa. E vi è più oltre. L’uomo in questa guisa, rigenerato e rimesso quasi sull’antico suo seggio per la grazia del Salvatore, ci mostra qualche cosa di più stupendo, che non fosse lo stesso Adamo innocente. Perciocchè in Adamo innocente quello stato era in piena armonia colla natura; laddove nell’uomo rigenerato è proprio la natura estenuata e guasta, la quale così, trionfata dalla grazia, trionfa.
IV. Né è ch’io non vegga ciò che voi potreste opporre. Voi potreste dire, che anche i Cristiani dopo il Vangelo sono lusingati dalle bellezze seducenti della natura; si veggono tribolati e spesso ancora stritolati dalle prepotenti sue forze, né più né meno di quel che fossero i Pagani; ed in ogni caso vi è la morte, colla quale il mondo cristiano non ha potuto venire a patti più di quello, che potesse già il gentilesco. Voi dite verissimo, signori miei, ed io non potrei certo recare in forse le vostre asserzioni. È indubitato: un oggetto lascivo, un cumulo d’oro, un rinomo glorioso esercitano, per quello che materialmente è in loro, lo stesso fascino sopra un’anima cristiana, che già facesse sopra una pagana: ed i nostri credenti ed i nostri Santi patiscono fame e sete, caldo e freddo, dolori, agonie e morte proprio come le patirono i ciechi ed empi Gentili: questo è certissimo. Ma che perciò? Pretendo io forse che la Redenzione abbia cangiata la natura? Neppure per ombra! La natura è restata la stessa, e lo stomaco digiuno latra, e le folgori incendiano, e le stagioni si stemperano, e i dolori affliggono, e la morte uccide ora, siccome prima, e forse, da che la medicina ha fatto tanti progressi, più presto di prima. Quello che sostengo io è, che per la Redenzione si sono cangiate le relazioni dell’uomo verso la natura corporea; sicché la dipendenza si è fatta libertà, ed il servaggio si è fatto dominio, e le privazioni violente si sono fatte volenterosa rassegnazione, ed il patimento si è mutato in gaudio, e la morte medesima si è cangiata in ferma speranza di eterna vita. Ora vi pare egli poco tatto cotesto? E che è finalmente la schiavitudine, che è il servaggio, se non il perdere la padronanza di sé medesimo, ed essere la persona da forza estrinseca costretta a fare quello che non vorrebbe, od impedita dal fare quello che vorrebbe? Pertanto se un obbietto sensibile mi lusinga a quello, che il mio intelletto ripudia, che la mia coscienza condanna e che la mia ragionevole volontà non vorrebbe; ed io nondimeno mi ci piego, è manifesto che io non fo quel che voglio, ma fo piuttosto quello che non vorrei, e che sento di non dover volere. È proprio la parola di san Paolo, il quale, in persona dell’uomo debilitato per la colpa, dice appunto: Non quod volo bonum hoc facio, sed quod nolo malum hoc ago (Rom . VII , 15 .). Avete notato? Non fo quello che vorrei; ma fo quello che non vorrei. Ora questo appunto è la schiavitudine: fare ciò che l’uomo non vorrebbe fare: ed è schiavitudine tanto più abbietta, quanto è più abbietta la cosa che così ci domina. Il Paganesimo per questa parte, io già vel mostrai, era un popolo di schiavi, perchè tutti a questa maniera servivano agli oggetti sensibili, e non sospettàvano neppure la possibilità del dominarli. Questo fu dono prezioso di Cristo e dell’Evangelio; in quanto che noi, illuminati dalla Fede e confortati dalla grazia, facciamo propriamente quello che vogliamo colla parte migliore di noi, senza che vi abbia, non che cosa terrena, ma potenza creata, che valga ad imporci quello che non vogliamo od a rivolgerci da quello che vogliamo. Eh! questa sì! che è vera signoria di sè, vera libertà ed indipendenza vera! Ma quando noi dalle prescrizioni di Cristo ci dipartiamo, per attaccarci a qualche oggetto illecito, che ci captiva, allora, in quell’atto almeno, diventiamo dipendenti e schiavi di quell’obbietto stesso.- Ed oh! miei cari! fossero meno frequenti quegli atti! ma troppo spesso veggiamo persone anche gravi, anche addottrinate ed autorevoli servire ed obbedire, non dirò ad un paio d’occhi cerulei, o ad una bocchina rosata, ma all’odore di un pollo arrosto in venerdì. Quasi mi vergogno, che siami sfuggita di bocca una così vulgare parola: e ve ne chieggo scusa; ma la sconvenienza che forse vi è stata nel dirlo, vi ammonisca della sconvenienza tanto maggiore che vi sarebbe nel farlo. Ed il peggio si è, che i poveretti si credono di esercitare proprio allora il loro libero arbitrio, quando proprio allora la fanno da schiavi, di cui meno dovrebbero; e se interrogano bene la propria coscienza, si accorgeranno di servire ancora a cui meno vorrebbero. Per converso il Cristiano allora propriamente si fa padrone di tutti gli oggetti sensibili ed allora li domina tutti, quando quelli accetta che vuole, quelli rifiuta che non vuole, e, secondo la bella parola di Minucio Felice, allora propriamente li possiede tutti, quando contro i dettami della ragione e della Fede non ne agogna nessuno. Quæ omnia, si non concupiscimus, possidemus (OCTAVIUS ,. cap . XXXVI).
V. Che se tanta è la differenza dell’uomo pagano dal Cristiano, quanto alle lusinghe della natura, non credeste che sia minore, quanto alle forze della natura stessa, ed agli scomodi, ed ai dolori, ed alle distruzioni che ce ne derivano, compresavi ancora la suprema. Perciocché credete voi che sia piccolo il divario tra il soffrire alcun travaglio coll’assenso della volontà, o colla ripugnanza di essa? Io anzi vi so dire che questo è il tutto; stante che il patire dell’uomo non dimora tanto nella fisica reazione ad esteriori impressioni sgradevoli, quanto nella violenta opposizione della volontà, che a quelle ripugna. Ove questa ripugnanza si togliesse, ove in suo luogo vi succedesse la conformità della volontà stessa, non solo sarebbe tolto ciò che ci ha di più cocente nel patire, ma questo si convertirebbe in rassegnazione e quasi che non dissi in soddisfazione ed in gusto. Oh! che? non sapete con quanta soddisfazione una madre affettuosa si priva del sonno, si priva del cibo, non cura i divertimenti, per assistere le lunghe notti un figliuoletto infermuccio? E quella soddisfazione non si volgerebbe in vera contentezza, in verissimo gaudio, quando essa fosse certa che, con quei suoi disagi, giungerà ad assicurare la vita e la sanità a quel caro sofferente? Ditemi ora voi: Forse che il digiuno, le lunghe vigilie, la solitudine, l’aere putido e graveolente che empie la stanza e circonda il letto di un infermo, non sono incomodi? non sono disag ? Sono, qual dubbio c’è? ma se la volontà, non che accettarli, li desidera, se ne compiace, se ne dice beata; che cosa vorreste più innanzi, perché tutta la persona se ne debba tenere contenta? Supposto dunque che gl’incomodi ed i mali, originati dalle forze necessarie della natura, siano indeclinabili, il vero segreto di attenuarli consisterebbe nel trovar modo, che la volontà non vi ripugnasse, ne fosse anzi non solo rassegnata, ma soddisfatta. – Ora di questo modo il Paganesimo non conobbe, non sospettò un’acca; e chi ne avesse parlato saria stato tenuto poco meno che mentecatto: chi avesse professato di desiderare e di cercare il patimento, saria stato accolto colle fischiate, come sarebbe a’ dì nostri, esempligrazia , un Cappuccino nelle vie di Londra. Come! vi avrebbono detto: accettare, amare, procurare fino il dolore! ma cotesto ripugna al senso comune! come se altri dicesse, che si odii il bene e si ami il male. Ne potea altro essere in una società, la quale appena conosceva altro bene ed altro male che il fisico, e ristretto all’individuo, di cui era bene o male. So che vi avea una setta nominata degli Stoici, che faceano professione di non turbarsi ai mali della vita; e ciò per la sola ragione, che il turbarsene non valeva a medicarli. Ma io non basto ad intendere che razza di conforto dovea essere questo! La impossibilità di schivarlo, lungi dall’attenuare il dolore, spesso lo aggrava; e quella stupida ed orgogliosa insensataggine se vietava i femminili lamenti a sfogo dell’ambascia, traboccava l’uomo nei cupi dispetti e nella sterile rabbia dell’impotenza! Tutto al contrario il Cristianesimo! Esso, rivelandoci da cui ci vengono i mali fisici, i fini perché ci vengono, i frutti di necessaria espiazione e di virtù preziose, che se ne possono cogliere in questa vita, ed i guiderdoni immortali, che ne possiamo sperare nell’altra, ci ha spiegato il dolore, lo ha lenito, lo ha confortato, lo ha reso, non che accettabile, desiderevole. Né ciò il Cristianesimo ha fatto colla sola dottrina (che pure sarebbe molto); ma di questa dottrina ci tiene perpetuamente sotto degli occhi l’attuazione parlante, prima in Cristo, per antonomasia « l’Uomo dei dolori »: Vir dolorum (Isai. LIII , 3), poscia in tutta l’agiografia e nella vivente santità, soprattutto nei claustri religiosi; in quanto quella e questa, esemplando in loro il divino modello, appena sono altro, che la professione delle privazioni e delle sofferenze. Che se l’abbracciarle volontariamente è di pochi, il rassegnarvisi con molta pace può e deve essere di tutti; ed è in fatto di moltissimi, fino a parerci divenuta la cosa tanto comune, che più non vi si bada. E chi è che badi alla risposta dell’infermo o del comunque altro tribolato, che richiesto del come stia, vi risponde: Come Dio vuole? Ed ha ragione! sta come Dio vuole; e stando così, qual cosa più facile, che il conchiuderne di stare ottimamente? E se tutte le forze della natura sono ministre di Dio; se questo Dio è mio Padre amoroso, che vuole la mia eterna felicità più di quello che non possa desiderarla io medesimo; deh! quale calamità privata o pubblica, qual mio infortunio, o dolore, o scomodo, o traversia mi dovrà parere soverchia? lo penso di essere un infermo, e volentieri accetto dal medico i tagli benché dolorosi, i farmaci benché amari, perché so che quei tagli e quei farmaci saranno la mia salute. Io sono un figlio, e lungi dal gravarmene, mi rallegro, quando mi veggo corretto e castigato dal Padre affettuoso, che con ciò mi dà nuovo pegno del suo amore. Dove è dunque la ripugnanza ai mali, se io anzi li accetto, li amo, me ne rallegro? E se io non ripugno, non io servo ad essi, ma essi servono a me per la mia eterna salute; e così io domino, io signoreggio quei mali, perché in sostanza il dominare, il signoreggiare alcuna cosa non è altro, che il potersene valere liberamente a proprio profitto. – E benché questa non sia cosa, che si attenga necessariamente al nostro discorso, non voglio nondimeno preterire di osservare, come questo può applicarsi eziandio a quei mali che ci vengono, non dalle forze della natura irragionevole, ma dalla malizia degli uomini. Alla quale ragione di mali, appunto per quell’ intervento della rea altrui volontà, noi ci sogliamo porgere più impazienti assai e più restii, che non ai naturali. E pure se vi è cosa esploratissima nelle Scritture, nei Padri e nei Dottori, ella è questa; che cioè la malizia stessa degli uomini, in maniera più assai arcana, ma nulla meno vera, è strumento nelle mani di Dio altrettanto docile, che le forze cieche della natura. E benché del morale disordine, che è nella colpa, Iddio non abbia altra volontà che permissiva, cioè quella di lasciare operare le cause seconde alla loro maniera; l’effetto nondimeno, che procede dalla colpa a detrimento degli eletti di Dio , è voluto positivamente da Lui a loro correggimento, a loro santificazione ed ammaestrevole disciplina: proprio come vuole, all’intento medesimo, le mortalità, le grandini ed i tremuoti. Così noi possiamo benissimo in questo modo patire ingiustizie, come purtroppo ne patiamo; ma per noi Cristiani non è mai vero, che ci debba parere ingiusto il patire quelle ingiustizie, secondo la bella parola del Crisostomo: iniusta patimur, sed non iniuste (Homil . XVII ad populum Antiochenum); essendovi una mano segreta e giustissima, la quale, a nostro verace vantaggio, adopera, come le forze cieche della natura, così la de liberata malizia degli uomini e le sapienti loro nequizie.
VI. Ma sopratutto la morte! come non ha cangiato aspetto nel mondo cristiano la morte! E che è finalmente questo spauracchio della povera nostra natura? che è esso mai divenuto, dopo che Cristo è nato, è morto ed è risorto per noi? Niente altro che un riposare, requiescit; niente altro che una migrazione, obitus; niente altro che un sonno, dormitio: ecco come la chiamiamo noi Cristiani; ed i sepolcri sono appunto dormitorii, come suona la greca voce κοιμητήριον [=koimeterion). Talmente che, quando voi vi trovate in uno di questi, dovete fare ragione di trovarvi come, di ferma notte, in un gran corridoio di Religiosi, che dormono quinci e quindi, ciascuno nella sua cella, ed aspettano la sveglia del domani. Oh! sì! anche i nostri trapassati, riposando in questo gran dormitorio che è il cimitero, aspettano una sveglia, che fia più sicura di quella, che desterà i Religiosi. Anzi qualche cosa meno del sonno è la morte, come notò il Crisostomo; in quanto nel dormente sono impedite le migliori facoltà dell’uomo: nel trapassato queste sono speditissime, e solo le minori e le infime restano sospese. – Ora non è questo un averci liberati dalla schiavitudine della morte, la quale pesò già così inesorabile e ferrea sul mondo pagano? Ed oh! che conforto pel passaggio nostro e dei nostri cari! E che hanno gli uomini scredenti del nostro tempo, per confortarsi in questa tremenda necessità della natura? Infelici! essi colla Fede hanno ripudiato ogni dignità, ogni blandimento, ogni consolazione, di che essa si fa madre e ministra! Hanno un bel multiplicare di fiori, di poesie, di necrologie e di bugiarde iscrizioni! Hanno un bello innalzare di monumenti più bugiardi delle iscrizioni, i quali la giusta posterità coprirà di fango, se non si vorrà pigliare il fastidio di ridurli in polvere! Ad essi, Pagani redivivi, la tomba non ha altra risposta a dare, che la già data agli antichi: o un dubbio desolante se sono scettici, od uno stupido nulla se sono materialisti. E per converso quante cose non dice a noi la tomba di un nostro diletto estinto, che dormì nel bacio del Signore! Quanto non ci conforta la fiducia, che esso sappia di noi, preghi per noi, e che noi possiamo stendergli la mano soccorrevole e pietosa, fino in quella regione di pene espiatrici e di speranze! E se morte vi ghermì un fantolino, come fiore appena sbocciato sullo stelo e reciso, deh! qual balsamo alla piaga del vostro cuore non è il dolce pensiero, che esso sia al presente un angioletto di più nel Paradiso! Oh! che? non lo vedete da quei seggi inzaffirati e splendenti invitarvi festoso e farvi cenno, coi cari occhietti e colle innocenti manine, d’andarlo a raggiungere, nella patria comune, in seno a Dio? Riposiamo.
VII. A renderci preziosa la chiamata, che di noi fece il Redentore dalla cecità gentilesca alla luce dell’Evangelio, quand’anche non vi fosse altro, che il ragionatovene quest’oggi, mi pare che noi dovremmo stare continuo colla fronte nella polvere, a professare la nostra gratitudine a tanta rivelata salute. E questa chiamata, come sapete, s’iniziò nel Mistero della Epifania. Dio immortale! qual grazia, qual favore, qual dignità acquistata all’uomo per quella chiamata! Di servi abbietti delle più vili creature, quasi tornati ad essere re e signori della universa natura sensata, intendendone per Fede e ragione lo scopo, dominandone regalmente le seduzioni, sostenendone con rassegnata tranquillità le punture, usufruttuandole a vita eterna, e guardando sicuri in viso la stessa morte; la quale in fin dei conti non potrà fare, che tramutarci da una vita tenebrosa e caduca, ad una infinitamente splendida ed immortale. Talmente che la Chiesa, rammemorando nel Martirologio il giorno della morte dei suoi Santi, lo chiama loro giorno natale o natalizio. Ma ad acquistare tanta dignità, non fanno nulla, miei amatissimi, i ricchi patrimonii, i titoli pomposi, la scienza profana, la potenza del comando, e quanti sono mai altri fallaci beni, di che la umana superbia si gonfia e l’umana cupidità si abbevera. Tutti questi obbietti riescono anzi a difficultarci gravemente quella eccelsa dignità; e quasi sempre signoreggiano essi ed opprimono di vera tirannide gli sciagurati, che troppo li agognano quando non li hanno, o li amano troppo quando, per loro sventura, li ottennero. Quello che ci acquista una tanta dignità è la semplicità del cuore, l’umile sentire di noi medesimi, la partecipazione alla povertà,ai dolori, agli obbrobrii del Redentore. Or queste doti non si trovano comunemente, che nei poveri, nei pusilli, negli spregiati dal mondo, i quali sono per questo appunto i prediletti di Dio e la sua più cara porzione. La quale predilezione Cristo dichiarò fino dal suo nascere, come notò il Magno Gregorio, in quanto che egli prima si manifestò a semplici e poveri pastori, che non ai ricchi ed ai saputi Principi di Oriente. Il mondo avrebbe fatto tutto a rovescio: prima i grandi e poscia i piccoli; ma Cristo sapea bene quel che si fare. Dove siete adunque, o diseredati dalla fortuna, oppressi dagli uomini, perseguitati dalla ingiustizia, schiacciati dalla prepotenza, e che vi divorate, nel segreto del vostro cuore straziato, tante privazioni, tante, lagrime, tanti dolori? oh! dove siete? Venite qua! ché io vi voglio mettere in capo stasera quella corona, che vi compete sopra tutto il creato. Se voi siete fedeli a Dio, non vi è lusinga che vi seduca, non vi è male che vi sgomenti, non dolore che vi vinca, non forza che sopra di voi prevalga. Voi avete tutto quel che volete, perché altro non volete avere da quello che Dio vuole; e se Dio vuole in voi passeggero abbassamento e sofferenze passeggere, vorrà (statene certi!) e molto presto gaudii ineffabili e gloria sempiterna.
TRADOTTO ED ANNOTATO DA. R. DE MARTINIS P. D. C. D. M.
LETTERA DECIMA
5 dicembre.
Secondo modo di fare il legno della croce presso i pagani. — Testimonianze.— La PIETAS PUBLICA. — I pagani riconoscevano nella croce un potere misterioso. — D’onde questo venisse. — Gran mistero del mondo morale. — Importanza della croce agli occhi di Dio. — Il segno della croce nel mondo tisico. — Parole dei Padri e di Platone. — Inconseguenza de’ pagani antichi e moderni. — Ragioni dell’odio del demonio contro questo segno.
Uscendo di collegio dopo dieci anni di studio di latino e di greco, non conosciamo neppure la prima parola dell’antichità pagana; l’educazione ci mostra la superficie delle corti, e mai il fondo. Quello che ha luogo in Francia si osserva presso tutti i nostri vicini, e n’ho ben ragione di dirlo. Di che segue, che il fatto di che devo parlarti sarà per molti una strana novella: eccolo. – Quando un’armata romana assediava una qualche città, la prima operazione, che eseguiva il generale, fosse questi un Camillo, un Fabio, un Metello, un Cesare o Scipione, non era di scavar fossati, o di elevar linee di circonvallazione, ma d’invocare gli dei difensori della città, perché passassero nel proprio campo. La formula dell’invocazione è troppo lunga per una lettera, tu potrai leggerla in Macrobio. Ora profferendola il generale faceva per ben due volte il segno della croce. La prima come Mosè, come i primi Cristiani, come al presente il prete all’altare, con le mani distese verso il cielo invocava Giove. Quindi fiducioso per l’efficacia della sua preghiera, crociava devotamente le mani sui petto (Cum Jovem dicit, manus ad cœlum tollit: cum votum recipere dicit, manibus pectus tangit. (Macrob. Saturnal, lib. III, cap. 2).Ecco due forme della croce incontestabili, universali e perfettamente regolari. Se questo fatto degno di considerazione è generalmente ignorato, ecco un’altro che l’è un poco meno. L’uso di pregare con le braccia in croce era comune fra i pagani dell’Occidente e dell’Oriente. Su questo punto non v’ha alcuna differenza fra noi ed i Giudei. Rileggi i tuoi classici. Tito Livio ti dirà: In ginocchio elevavano le loro mani supplicanti verso il cielo, e verso gli dei (Nixæ genibus supinas manus ad cœlum ac Déos tendentes, – lib. XXXVI). Dionigi d’AIicarnasso: Bruto conoscendo la sventura e la morte di Lucrezia, elevò le mani al cielo, invocò Giove con tutti gli dei (Brutus, ut cognovit casum et necem Lucretiæ, protensis ad cœlum manibus: Jupiter, inquit, diique omnes etc. – Antiquit.,lib. IV). E Virgilio: Il padre Anchise sulla riva invoca i grandi dei, con le mani distese (At pater Anchises, passis de littore palmis, Numina magna vocat – Æneid. lib. III). Ed Ateneo: Dario avendo inteso come Alessandro trattasse le sue figlie prigioniere, prostese le mani verso il sole, e pregò, che se egli regnare più non dovesse, il regno fosse dato ad Alessandro. Ed in fine, Apuleo dichiara formalmente che tale maniera di pregare non era eccezionale, o come qualche giovane potrebbe qualificarla, una eccentricità, ma un permanente costume « L’attitudine di quelli che pregano, egli scrive, è di elevare le mani verso il cielo » (Cum hoc Darius cognovisset, manus ad Solem extendens precatus est, ut vel ipse imperaret, vel Alexander, – lib. XIII, c. 87). Un istinto che appellerei tradizionale, altrimenti non avrebbe nome, loro insegnava il valore di questo segno misterioso. Poterlo fare negli estremi momenti del viver loro, era per essi sicuro argomento di salute. Se la morte mi sorprende nel mezzo delle mie occupazioni, mi sarà sufficiente poter levare le mani al cielo, (Habitus orantium sic est, ut manibus extensis ad cælum precemur. – Lib. de Mundo vers. for.) diceva Arieno. E qui è da osservare, ed attendi bene ch’egli non dice: Se posso piegare il mio ginocchio, o battere il petto, o prostrare nella polvere la fronte; ma: Se posso stendere le mie braccia, ed elevarle verso il cielo. Perché ciò? Domandalo a’ tuoi compagni. E domanda ancora perché gli Egiziani aveano la croce nei templi, e pregavano dinanzi questo segno reputandolo nunzio di futura prosperità? Ai tempi di Teodosio, dicono gl’istorici greci Socrate e Sozomeno, quando erano distrutti i tempi degli dei, quello di Serapide in Egitto si trovò pieno di pietre su cui era scolpita la croce. Il che faceva dire a’ neofiti che fra Cristo e Serapide v’era qualche cosa di simile. Questi storici aggiungono che presso di loro la croce simboleggiava il secolo futuro (Theodosio magno regnante, cum fana gentilium diruerentur; inventæ sunt in Serapidis templo hieroglyphicæ litteræ habentes crucis formam, quas videntes illi, qui ex Gentiiibus Christo crediderant, aiebant significare crucem, apud peritos hieroglyphicarum notarum, vitam venturam. – Socrat. lib. V, c. 11. — Sozom. lib VII, c. 15;.). – Presso i Romani, questo istinto si era tradotto in fatto, di che dubiterei, se non avessi sott’occhio una medaglia, che me ne dà una prova materiale. Conoscendo eglino la forza del segno della croce, di che parlo, né volendo restare come Mosè, ed i primi Cristiani con le braccia distese lungo tutto il tempo di loro preghiere, che cosa fecero? Immaginarono una dea cui era commesso d’intercedere continuamente per la repubblica; e la rappresentarono nella postura di Mosè sul Monte, Per la qual cosa in Roma, nel mezzo del Forum olitorium, dove sono al presente i ruderi del teatro Mercello, si elevò la statua della dea detta : Pietas Publica. Dessa era rappresentata in piedi con le braccia distese da far croce col corpo, come Mosè, o come i primi Cristiani delle catacombe, avendo a sinistra un altare su cui bruciava l’incenso simbolo della preghiera (GRETZER, De Cruce, p. 33. — Porcellini, art. Pietas etc.). – Sul conio del valore impetratorio e latreutico del segno della croce, l’Oriente del Nord era d’accordo con l’Occidente, i Cinesi coi Romani. Il crederesti tu? L’imperatore Hien-Suen sì antico da essere pressoché favoloso, avea come Platone presentito il mistero della croce. Per onorare l’Altissimo, questo antico imperatore congiungeva due pezzi di legno uno dritto e l’altro trasverso (Discours prelim. du CHOU-KING del P. PRIMARE. cap. IX, p. XCII). Dalle quali cose seguita, che de’ sette modi onde la croce può esser fatta, i pagani ne conoscevano tre, da essi eseguiti religiosamente e nelle importanti contingenze. – Benissimo, mi dici, ma sapevano eglino quel che facessero? Non era un segno puramente arbitrario, di nessun significato, e da che nulla è da dedurre? Che i pagani avessero inteso come noi il segno della croce, non è mia pretensione affermarlo; poiché presso di loro questo segno era come le figure presso i Giudei. Presso questi le figure aveano un significato reale, un grande valore più o meno misterioso a seconda de’ tempi, de’ luoghi e delle persone. Tu devi conoscere le lettere scritte con inchiostro simpatico. Queste tuttoché sieno reali, pure sono pressoché inapparenti, ma l’azione del fuoco le rende in un subito visibili. Così e non altrimenti è del segno della croce de’ pagani. Quando fu irradiato dalla luce evangelica questo segno chiaro oscuro, divenne intelligibile a tutti, si scoperse, parlò, come le figure dell’Antico Testamento. Credere che il segno della croce presso i pagani fosse un segno arbitrario è tale una supposizione che di per se svanisce, poiché tutto ciò ch’è universale non è arbitrario, ed il segno della croce è universale più che ogni altra cosa. Noi tocchiamo, mio caro Federico, uno de’ più profondi misteri dell’ordine morale. Non dimenticare lo scopo che mi son proposto, devo dimostrare, che la croce è un tesoro che ci arricchisce. Per essere arricchito è mestieri che l’uomo domandi; che Dio lo esaudisca, e che all’uopo l’uomo sia caro a Dio. Non v’ha di più caro a Dio che il suo Figlio e quelli, che a questo si assomigliano. Ora il Figlio di Dio è un segno di croce vivente, e vivendo eternamente segno di croce, di poi l’origine del mondo, Agnus occisus ab origine mundi, è il gran Crocifisso, e questo gran Crocifisso è il nuovo Adamo, il tipo del genere umano. Per tornar caro a Dio è forza che l’uomo si assomigli al suo divino modello, è mestieri ch’egli sia un crocifisso, un segno di croce vivente. È questo il suo destino sulla terra come quello del Verbo. Povero, in tale attitudine deve presentarsi a Dio dimandandogli soccorso. La Provvidenza non ha voluto lasciargli ignorare questa condizione necessaria pel successo della sua preghiera. Come l’uomo non ha perduto la memoria della sua caduta, e la speranza della redenzione, cosi egli non ha perduto la conoscenza dello strumento redentore. Quindi la esistenza della conoscenza e della pratica, sotto una od altra forma, del segno della croce nelle preghiere, di poi l’origine de’ secoli sino a noi. Dio non solo ha commesso nel cuore dell’ uomo l’istinto del segno della croce, ma ha voluto che nel mondo materiale tutto fosse fatto secondo questo segno, per ricordare all’uomo ancora per Io mezzo degli occhi corporali la necessità di questo segno salutare, ed il ministero sovrano che esercita nel mondo morale. Diffatti, tutto quaggiù ne riproduce l’immagine. Ascolta quelli che hanno occhi per vedere! « È degno di grandissima considerazione, dice Gretzer, che di poi la origine del mondo Dio ha voluto la croce fosse presente agli occhi umani, ed all’uopo ha di maniera disposte le cose, che l’uomo nulla potesse fare senza l’intervento del segno della croce » (Illud consideratione dignissimum est, quod Deus flguram crucis ab initio semper in hominum oculis versari voluit, namque ita instituit, ut homo propemodum nihil agere posset; sine interveniente crucis specie. –De Cruce, lib. 1, c. 58). – Gretzer è il centesimo eco della filosofia tradizionale; ascoltane altri. « Quanto v’ha nel mondo è messo in opera secondo questo segno. L’uccello che attraversa gli spazi del cielo, e l’uomo sia che egli nuoti, o preghi non può agire che secondo questo segno. Per tentare la fortuna, e cercare le ricchezze fino negli estremi confini del mondo, l’uomo ha bisogno di una nave. Questa non può solcare le onde senza alberi, e questi di braccia a croce, senza che, impossibile tornerebbe darle una direzione. L’agricoltore dimanda alla terra il suo cibo, e quello de’ ricchi, e de’ re? ad ottenerlo adopera l’aratro, che col vomero rappresenta una croce » (Aves quando volant ad æthera formam crucis assumunt; homo natans per aquas, vel orans, forma crucis visitur. (S. Hieron. in c. XI, Marc.) — Antennae navium, velorum cornua, sub figura nostræ crucis volitant. – Origen. homil. Vili in divers.) – Sicut autem Ecclesia sine cruce stare non potest, ita et sine arbore navis infirma est. Statim enim diabolus inquiétat, et illam ventis allidit. At ubi signum crucis erigitur, statim et diaboli iniquitas repellitur, et ventorum procella sopitur. (S. Maxim. Taurin, ap. S. Ambr. t. III, ser. 56, etc.).Se il segno della croce è mezzo all’uomo per agire sulla natura fisica, l’è altresi per communicare con i suoi simili. Nelle battaglie non è la vista degli stendardi, che anima i combattenti? Che ci mostrino le cantabra e i sipario, de Romani, che non eran che degli stendardi a forma di croce. Gli uni e gli altri erano delle lance dorate sormontate da un legno orizzontale, di dove pendeva un velo d’oro, o di porpora. Le aquile colle ali distese al sommo delle lance e delle altre insegne militari ricordano invariabilmente il segno della croce; i monumenti delle vittorie, ed i trofei formano la croce. La religione de’Romani tutta guerriera, adora gli stendardi, giura per essi, e li preferisce a’ suoi dei, e questi stendardi sono delle croci : omnes illi imaginum suggestas insignes monilia crucium sunt (Tertull. Apolog. XVI). Di modo che, quando Costantino volle perpetuare nel vessillo imperiale, la memoria della vittoria avuta per la croce, vi aggiunse solo il monogramma di Cristo (EUSEB. lib. IX. Histor. 9). L’uomo si distingue dalla bestia perché cammina ritto su i piedi, e può distendere trasversalmente le braccia; e l’uomo in piedi con le braccia distese è la croce. Per lo che c’è imposto pregare in tale attitudine, affinché le nostre membra proclamino la passione del Signore, e quando ciascuno a sua maniera con lo spirito e col corpo confessa Gesù in croce, è sicuro che la nostra preghiera è esaudita. Il cielo istesso è disposto a questa forma. Qual cosa mai rappresentano i quattro punti cardinali, se non le quattro braccia della croce e la universalità di sua virtù salutare? La creazione tutta intiera ha l’impronta della croce. Platone istesso non ha forse scritto che la potenza più vicina al primo Dio, s’è estesa sul mondo in forma di croce? (Ideo elevatis manibus orare præcipimur, ut ipso quoque membrorum gettu passionem Domini fateamur. Tum enim citius nostra exauditur oratio, cum Christum, quem mens loquitur, etiam corpus imitatur. – S. Maxim. Taurin. Apud S. Ambros. tom. Ill, Serm. 36. — S. Hier, in Marc. XI. — Tertull. Apol. XVI.—Origan. Hom. VIII in divers). – Dalle cose dette segue la risposta da Minuzio Felice indirizzata ai pagani, che rimproveravano a’ Cristiani di fare il segno della croce. « E che, forse la croce non è da per tutto, diceva loro? Le vostre insegne, i vostri stendardi, le bandiere e i trofei, che cosa sono, se non la croce? Non pregate voi come noi a braccia distese? ed in tale attitudine non pronunziate voi delle formole che proclamano un solo Dio? Non vi assomigliate voi allora a’ Cristiani adoratori di un Dio unico, e che hanno il coraggio di confessare la loro fede nel mezzo delle torture dispiegando le braccia in forma di croce? Tra noi ed il vostro popolo qual differenza vi corre, quando con le braccia distese esclama: Gran Dio, Dio vero, se Dio lo vuole? È questo il linguaggio naturale del pagano, o la preghiera del Cristiano. Quindi, o il segno della croce è il fondamento della ragione naturale, o desso serve di base alla vostra religione istessa! » (Ita signo crucis aut. ratio naturalis innititur, aut vestra religio formatur. Minut. Felix in Octavio.).– Perchè adunque, soggiungono altri apologisti, lo perseguitate voi? Ed io altresì, mio caro Federico, potrei domandare a’ moderni pagani: Perché lo perseguitate questo segno? Perché ne avete onta? Perché siete larghi in lanciar sarcasmi contro i coraggiosi che lo fanno? La risposta è a capello quella che veniva data in altri tempi. « satana che scimmia Dio in tutto, si era impossessato di questo segno, e lo faceva eseguire a’ pagani per proprio conto. Il perfido! Egli era contento di vedere che gli uomini usano, per adorarlo e perdersi, il segno destinato alla adorazione del vero Dio, e salvare il genere umano. » – Riguardo ai Cristiani era tutt’altra cosa. Per essi questo segno esercitava il suo vero ministero, comeché mezzo da onorare il vero Dio, e precipuamente il Verbo incarnato, oggetto dell’odio di satana cui il Cristo strappava l’uomo per salvarlo. E se pel Cristiano siffatto segno diveniva oggetto di scherno, era per lui un delitto degno della morte. – D’onde procede che gl’iniqui di tutti i secoli mostrano de’ sentimenti contraddittori, d’amore e di odio, di rispetto e di scherno per questo segno adorabile? Da satana istesso, risponde Tertulliano. « Spirito di menzogna, agogna ad alterare la verità e le cose sante a profitto della idolatria. Così egli battezza i suoi adepti assicurandoli che quest’acqua li purificherà da ogni colpa, e di questa maniera inizia al culto di Mitra. Segna la fronte de’ suoi soldati, celebra l’oblazione del pane, promette la risurrezione, e la corona guadagnata con la spada. Che altro dirò? Egli ha un Sommo Pontefice cui interdice le seconde nozze, ha le sue vergini, e i suoi continenti. Se noi esaminassimo per minuto le superstizioni stabilite da Numa, gl’impieghi sacerdotali, le insegne, i privilegi, l’ordine e le parti de’ sacrifizi, gli utensili, i vasi da sacrifizio, gli oggetti per le espiazioni e le preghiere, non troveremmo noi che il demonio, scimmiando Mosè, ha tutto ciò stabilito? Dopo l’Evangelio lacontraffazione si è continuata » (A diabolo scilicet, cujus sunt partes intervertendi veritatem, qui ipsas quoque res sacramentorum divinorum ad idolorum mysteria æmulatur etc. (TERTULL. de præscript.). satana s’è spinto più oltre! Conoscendo tutta la potenza della croce ha voluto appropriarsela interamente, e sostituirsi alDio crocifisso per averne gli onori. « Questo implacabile nemico del genere umano risaputo, per lo mezzo degli oracoli profetici, dice Firmico Materno, ha reso strumento d’iniquità il segno che arrecar dovea la salvezza al mondo. Che cosa sono le corna di che si gloria? Strazio di quelle che l’inspirato profeta ha nominato, e che, o satana, credi adattare alla tua orribile figura. Come puoi tu trovarvi la tua gloria, ed il tuo ornamento? Queste corna non sono altro che il segno venerabile della croce » (Agitans et contorquens comua biformis… nequissimum hostem generis humani, de Sanctis venerandisque propheta-rum oraculis ad contaminata furoris suae transtulisse. Quæ sunt ista cornua quæ habere se jactat? Alia sunt comua, quæ propheta Sancto Spiritu annuente commemorat, quæ tu, diabolo, ad maculatam faciem tuam putas posse transferee, linde tibi ornamenta quæris et gloriam? Cornua nihil aliud, nisi venerandum crucis Signum monstrant. De error, prof. Relig. t. XXII). Così la fronte armata di questo sacro segno lo fa fremere di bile, e non trova supplizio, per crudele che sia, per punirlo d’aver portato l’immagine del Verbo incarnato; epperò, mio caro, egli ha fatto pessimo strazio de’ nostri padri e delle madri nostre, de’ fratelli e sorelle martiri di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ora ha fatto loro scuoiare la fronte, e sulle denudate ossa imprimere ignominiosi caratteri; ora pendere in forma di croce, e stirarli con corde e batterli con nervi di bue da far sconoscere in essi la figura umana (GRETZER: De Cruce lib. IV, c. 32, pag. 688). Grande insegnamento! L’odio di satana per la croce sia per noi norma della fiducia e dell’amore che dobbiamo a questo segno: Dimani vedrai che desso ha altri titoli ancora per questo duplice sentimento.
UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO: S. S. PIO XII – “SUMMI PONTIFICATUS” (1)
Questa lettera Enciclica è come un biglietto da visita, una carta di “Identità Spirituale” con la quale il novello Sommo Pontefice, S. S. Pio XII si presenta al mondo cattolico e a tutto l’orbe in occasione del suo insediamento sulla Cattedra di S. Pietro, in un anno funestato dall’inizio di una guerra terribile che non avrebbe risparmiato rovine, lacrime e sangue all’intera umanità. Superfluo sarebbe sottolineare la caratura spirituale di questo Vicario di N. S. Gesù Cristo, l’ultimo Pontefice operante liberamente prima dell’invasione massonica della Chiesa e l’insediamento di una serie di antipapi, falsi profeti precursori dell’anticristo imminente. «Quand’ebbero crocifisso Gesù si fece buio». Questo brevissimo passaggio evangelico viene ricordato per illustrare simbolicamente la situazione sociale dell’epoca, situazione ancor più grave oggi quando l’umana società si trova a brancolare tra tenebre spirituali, morali e sociali, anticamere delle “tenebre esteriori” in cui sarà gettata gran parte dell’umanità se non torna prontamente alla fede ed alla pratica della dottrina cristiana. D’altra parte questi sono i tempi nei quali si devono compiere le sacre Scritture che, compiutesi in Gerusalemme per il Capo del Corpo Mistico, dovranno compiersi pure su tutto il pianeta per tutte le membra del Corpo mistico di Cristo. La Chiesa, crocifissa ed uccisa da un infame conciliabolo e dall’apostasia postconciliabolare, si trova sepolta in un sepolcro dal quale risorgerà gloriosa dopo 40 ore di sepoltura e di silenzio [cioè dopo 40 anni dall’omicidio di S. S. Gregorio XVII, l’ultimo Papa conosciuto sebbene impedito!], in coincidenza della fine della “deportazione a Babilonia” iniziata il 26 ottobre del 1958. Alla morte sanguinosa sulla croce, farà seguito, al suono dell’ultima tromba, come ricordano nelle Scritture sia San Paolo che San Giovanni Evangelista, il ritorno inatteso e glorioso della sua “vera” Chiesa – Una, Santa, Cattolica ed Apostolica – e di Cristo che brucerà con il soffio delle sue labbra l’anticristo, con il falso profeta ed il dragone scatenato che saranno scaraventati nello stagno di fuoco e di zolfo ove saranno tormentati in eterno. – Godiamoci la prima parte di questo meraviglioso documento magisteriale.
PIO XII
LETTERA ENCICLICA
SUMMI PONTIFICATO (1)
PROGRAMMA DEL PONTIFICATO
L’arcano disegno del Signore Ci ha affidato, senza alcun Nostro merito, l’altissima dignità e le gravissime sollecitudini del sommo Pontificato proprio nell’anno in cui ricorre il quarantesimo anniversario della consacrazione dell’umanità al sacratissimo cuore del Redentore, indetta dal Nostro immortale predecessore, Leone XIII, al declinare del secolo scorso, alle soglie dell’anno santo. Con quale gioia, commozione e intimo consenso accogliemmo allora come un messaggio celeste l’Enciclica Annum sacrum, proprio allorquando, novello levita; avevamo potuto recitare: «Introibo ad altare Dei» (Sal XLII ,4). E con che ardente entusiasmo unimmo il Nostro cuore ai pensieri e alle intenzioni, che animavano e guidavano quell’atto veramente provvidenziale di un pontefice, che con tanta profonda acutezza conosceva i bisogni e le piaghe, palesi e occulte, del suo tempo! Come quindi potremmo non sentire oggi profonda riconoscenza verso la Provvidenza, che ha voluto far coincidere il Nostro primo anno di pontificato con un ricordo così importante e caro del Nostro primo anno di sacerdozio; e come potremmo non cogliere con gioia l’occasione per fare del culto al «Re dei re e Signore dei dominanti» (1 Tm VI,15; Ap XIX,16) quasi la preghiera d’introito di questo Nostro Pontificato, nello spirito del Nostro indimenticabile predecessore e in fedele attuazione delle sue intenzioni? Come non faremmo di esse l’alfa e l’omega del Nostro volere e del Nostro sperare, del Nostro insegnamento e della Nostra attività, della Nostra pazienza e delle Nostre sofferenze, consacrate tutte alla diffusione del regno di Cristo? – Se Noi contempliamo sotto la luce dell’eternità gli eventi esterni e gli interiori sviluppi degli ultimi quarant’anni e ne misuriamo grandezze e deficienze, quella consacrazione universale a Cristo re appare allo sguardo del Nostro spirito sempre più nel suo significato sacro, nel suo simbolismo esortatore, nel suo scopo di purificazione e di elevazione, di irrobustimento e di difesa delle anime e in pari tempo nella sua preveggente saggezza, mirante a guarire e nobilitare ogni umana società e promuoverne il vero bene. Sempre più chiaramente Ci si rivela come un messaggio di esortazione e di grazia di Dio non solo alla sua Chiesa, ma anche a un mondo, troppo bisognoso di scuotimento e di guida, il quale, immerso nel culto del presente, si smarriva sempre più e si esauriva nella fredda ricerca di terreni ideali; un messaggio a un’umanità, la quale, in schiere sempre più numerose, si staccava dalla fede in Cristo e più ancora dal riconoscimento e dall’osservanza della sua legge; un messaggio contro una concezione del mondo, a cui la dottrina di amore e di rinunzia del Sermone della montagna e la divina azione d’amore della croce apparivano scandalo e follia. Come un giorno il precursore del Signore a coloro che, cercando, interrogavano, proclamava: «Ecco l’Agnello di Dio» (Gv 1, 29), per ammonirli che l’aspettato delle genti (cf. Ag II, 8 Vg) dimorava, sebbene ancora sconosciuto, in mezzo a loro; così il rappresentante di Cristo rivolgeva scongiurando il suo grido potente: «Ecco il vostro Re!» (Gv XIX,14) ai rinnegatori, ai dubbiosi, agli indecisi, agli esitanti, i quali o rifiutavano di seguire il Redentore glorioso, sempre vivente e operante nella sua Chiesa, o lo seguivano con noncuranza e lentezza.
Dalla diffusione e dall’approfondimento del culto del divin cuore del Redentore – che trovò lo splendido coronamento, oltre che nella consacrazione dell’umanità al declinare del secolo scorso, anche nell’introduzione della festa della regalità di Cristo da parte del Nostro immediato predecessore di felice memoria – sono scaturiti indicibili beni per innumerevoli anime: «un impeto di fiumana», che «rallegra la città di Dio» (cf. Sal XLV,5). Qual epoca più della nostra fu così tormentata da vuoto spirituale e da profonda indigenza interiore, nonostante ogni progresso tecnico e puramente civile? Non può forse ad essa applicarsi la parola rivelatrice dell’Apocalisse: «Vai dicendo: sono ricco e dovizioso e non mi manca nulla; e non sai che tu sei meschino e miserabile e povero e cieco e nudo» (Ap III,17)?
Venerabili fratelli! vi può essere dovere più grande e più urgente di «annunziare … le inscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef III, 8) agli uomini del nostro tempo? E vi può essere cosa più nobile che sventolare il vessillo del Re davanti ad essi, che hanno seguìto e seguono bandiere fallaci, e riguadagnare al vittorioso vessillo della croce coloro che l’hanno abbandonato? Quale cuore non dovrebbe bruciare ed essere spinto al soccorso, alla vista di tanti fratelli e sorelle, che in seguito a errori, passioni, incitamenti e pregiudizi si sono allontanati dalla fede nel vero Dio, e si sono distaccati dal lieto e salvifico messaggio di Gesù Cristo? Chi appartiene alla milizia di Cristo – sia ecclesiastico, sia laico – non dovrebbe forse sentirsi spronato e incitato a maggior vigilanza, a più decisa difesa, quando vede aumentar sempre più le schiere dei nemici di Cristo, quando s’accorge che i portaparola di queste tendenze, rinnegando o non curando in pratica le vivificatrici verità e i valori contenuti nella fede in Dio e in Cristo, spezzano sacrilegamente le tavole dei comandamenti di Dio per sostituirle con tavole e norme dalle quali è bandita la sostanza etica della rivelazione del Sinai, lo spirito del Sermone della montagna e della croce? Chi potrebbe senza profondo accoramento osservare come questi deviamenti maturino un tragico raccolto tra coloro che, nei giorni della quiete e della sicurezza, si annoveravano tra i seguaci di Cristo, ma che – purtroppo, Cristiani più di nome che di fatto – nell’ora in cui bisogna resistere, lottare, soffrire, affrontare le persecuzioni occulte o palesi, divengono vittime della pusillanimità, della debolezza, dell’incertezza e, presi da terrore di fronte ai sacrifici imposti dalla loro professione cristiana, non trovano la forza di bere il calice amaro dei fedeli di Cristo? – In queste condizioni di tempo e di spirito, venerabili fratelli, possa l’imminente festa di Cristo re, in cui vi sarà pervenuta questa Nostra prima Enciclica, essere un giorno di grazia e di profondo rinnovamento e risveglio nello spirito del regno di Cristo. Sia un giorno, in cui la consacrazione del genere umano al Cuore divino, la quale dev’essere celebrata in modo particolarmente solenne, riunisca presso il trono dell’eterno Re i fedeli di tutti i popoli e di tutte le nazioni in adorazione e in riparazione, per rinnovare a Lui e alla sua legge di verità e di amore il giuramento di fedeltà ora e sempre. Sia un giorno di grazia per i fedeli, in cui il fuoco, che il Signore è venuto a portare sulla terra, si sviluppi in fiamma sempre più luminosa e pura. Sia un giorno di grazia per i tiepidi, gli stanchi, gli annoiati, e nel loro cuore, divenuto pusillanime, maturino nuovi frutti di rinnovamento di spirito, e di rinvigorimento d’animo. Sia un giorno di grazia anche per coloro che non hanno conosciuto Cristo o che l’hanno perduto; un giorno in cui si elevi al cielo da milioni di cuori fedeli la preghiera: «La luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo» (Gv I, 9) possa rischiarare loro la via della salute e la sua grazia possa suscitare nel cuore inquieto degli erranti la nostalgia verso i beni eterni, nostalgia che spinga al ritorno a colui, che dal doloroso trono della croce ha sete anche delle loro anime e desiderio cocente di divenire anche per esse «via, verità e vita» (Gv XIV, 6).
Ponendo questa prima Enciclica del Nostro Pontificato sotto il segno di Cristo re con cuore pieno di fiduciosa speranza, Ci sentiamo interamente sicuri del consenso unanime ed entusiastico dell’intero gregge del Signore. Le esperienze, le ansietà e le prove dell’ora presente risvegliano, acuiscono e purificano il sentimento della comunanza della famiglia cattolica in un grado raramente sperimentato. Esse eccitano in tutti i credenti in Dio e in Cristo la coscienza di una comune minaccia da parte di un comune pericolo. – Di questo spirito di comunanza cattolica, potentemente aumentato in così ardue circostanze, e che è raccoglimento e affermazione, risolutezza e volontà di vittoria, Noi sentimmo un soffio consolante e indimenticabile in quei giorni, in cui con trepido passo ma fiduciosi in Dio, prendemmo possesso della cattedra che la morte del Nostro grande predecessore aveva lasciata vacante. – Con il vivo ricordo delle innumerevoli testimonianze di filiale attaccamento alla Chiesa e al Vicario di Cristo, rivolteCi in occasione della Nostra elezione e incoronazione, con manifestazioni così tenere, così calde e spontanee, Ci piace cogliere questa occasione propizia, per rivolgere a voi, venerabili fratelli, e a quanti appartengono al gregge del Signore, una parola di commosso ringraziamento per tale pacifico plebiscito di amore riverente e di inconcussa fedeltà al Papato, con il quale si veniva a riconoscere la provvidenziale missione del Sommo Sacerdote e del Supremo Pastore. Poiché veramente tutte quelle manifestazioni non erano né potevano essere rivolte alla Nostra povera persona, ma all’unico, altissimo ufficio, al quale il Signore Ci elevava. Se già fin da quel primo momento sentivamo tutto il peso delle gravi responsabilità, connesse con la somma potestà, che Ci veniva conferita dalla Provvidenza divina, Ci era insieme di conforto il vedere quella grandiosa e palpabile dimostrazione dell’inscindibile unità della Chiesa cattolica, che tanto più compatta si stringe alla infrangibile rupe di Pietro e le forma attorno tanto più forti murali e antemurali, quanto più cresce la baldanza dei nemici di Cristo. – Questo stesso plebiscito di mondiale unità cattolica e di soprannaturale fraternità di popoli attorno al Padre comune, Ci pareva tanto più ricco di felici speranze, quanto più tragiche erano le circostanze materiali e spirituali del momento in cui avveniva; e il suo ricordo Ci andò confortando anche nei primi mesi del Nostro pontificato, nei quali abbiamo già sperimentato le fatiche, le ansietà e le prove, di cui è seminato il cammino della Sposa di Cristo attraverso il mondo. – Né vogliamo passare sotto silenzio quanta eco di commossa riconoscenza abbia suscitato nel Nostro cuore l’augurio di coloro che, sebbene non appartengano al corpo visibile della Chiesa Cattolica, non hanno dimenticato, nella loro nobiltà e sincerità, di sentire tutto ciò che, o nell’amore alla persona di Cristo o nella credenza di Dio, li unisce a Noi. A tutti vada l’espressione della Nostra gratitudine. Affidiamo tutti e ciascuno alla protezione e alla guida del Signore e assicuriamo solennemente che un solo pensiero domina la Nostra mente: imitare l’esempio del buon pastore, per condurre tutti alla vera felicità, «affinché abbiano la vita e l’abbiano abbondantemente» (Gv X,10). – Ma in singolar modo Ci sentiamo mossi dall’animo Nostro a far palese l’intima Nostra gratitudine per i segni di riverente omaggio pervenutiCi da sovrani, da capi di stato e da pubbliche autorità di quelle nazioni, con le quali la Santa Sede si trova in amichevoli rapporti. E a particolare letizia si eleva il Nostro cuore nel potere, in questa prima Enciclica indirizzata a tutto il popolo cristiano sparso nel mondo, porre in tal novero la diletta Italia, fecondo giardino della fede piantata dai prìncipi degli apostoli, la quale, mercè la provvidenziale opera dei Patti Lateranensi, occupa ora un posto d’onore tra gli stati ufficialmente rappresentati presso la Sede Apostolica. Da quei Patti ebbe felice inizio, come aurora di tranquilla e fraterna unione di animi innanzi ai sacri altari e nel consorzio civile, la «pace di Cristo restituita all’Italia»; pace, per il cui sereno cielo supplichiamo il Signore che pervada, avvivi, dilati e corrobori fortemente e profondamente l’anima del popolo italiano, a Noi tanto vicino, in mezzo al quale respiriamo il medesimo alito di vita, invocando e augurandoci che questo popolo, così caro ai Nostri predecessori e a Noi, fedele alle sue gloriose tradizioni cattoliche, senta sempre più nell’alta protezione divina la verità delle parole del Salmista: «Beato il popolo, che per suo Dio ha il Signore» (Sal CXLIII,15). – Questa auspicata nuova situazione giuridica e spirituale, che quell’opera, destinata a lasciare una impronta indelebile nella storia, ha creato e suggellato per l’Italia e per tutto l’Orbe cattolico, non Ci apparve mai così grandiosa e unificatrice, come quando dall’eccelsa loggia della Basilica Vaticana Noi aprimmo e levammo per la prima volta le Nostre braccia e la Nostra mano benedicente su Roma, sede del Papato e Nostra amatissima città natale, sull’Italia riconciliata con la Chiesa, e sui popoli del mondo intero.
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Come vicario di Colui, il quale in un’ora decisiva, dinanzi al rappresentante della più alta autorità terrena di allora, pronunziò la grande parola: «Io sono nato e venuto al mondo per render testimonianza alla verità; chiunque sta per la verità ascolta la mia voce» (Gv XVIII, 37), Noi di nulla Ci sentiamo più debitori al Nostro ufficio, e anche al nostro tempo, come di «rendere testimonianza alla verità». Questo dovere, adempiuto con apostolica fermezza, comprende necessariamente l’esposizione e la confutazione di errori e di colpe umane, che è indispensabile conoscere, perché sia possibile la cura e la guarigione: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv VIII, 32). Nell’adempimento di questo Nostro dovere, non Ci lasceremo influenzare da terrene considerazioni, né Ce ne tratterremo per diffidenze e contrasti, per rifiuti e incomprensioni, né per timore di misconoscimenti e di false interpretazioni. Ma lo faremo sempre animati da quella paterna carità che, mentre soffre dei mali che travagliano i figli, indica loro il rimedio, sforzandoCi cioè di imitare il divino modello dei pastori, il buon pastore Gesù, che è luce insieme e amore: «Seguendo il vero con amore» (Ef IV, 15). – All’inizio del cammino, che conduce all’indigenza spirituale e morale dei tempi presenti, stanno i nefasti sforzi di non pochi per detronizzare Cristo, il distacco dalla legge della verità, che egli annunziò, dalla legge dell’amore, che è il soffio vitale del suo regno. Il riconoscimento dei diritti regali di Cristo e il ritorno dei singoli e della società alla legge della sua verità e del suo amore sono la sola via di salvezza. – Nel momento in cui, venerabili fratelli, scriviamo queste righe, Ci giunge la spaventosa notizia, che il terribile uragano della guerra, nonostante tutti i Nostri tentativi di deprecarlo, si è già scatenato. La Nostra penna vorrebbe arrestarsi, quando pensiamo all’abisso di sofferenze di innumerevoli persone, a cui ancora ieri nell’ambiente familiare sorrideva un raggio di modesto benessere. Il Nostro cuore paterno è preso da angoscia, quando prevediamo tutto ciò che potrà maturare dal tenebroso seme della violenza e dell’odio, a cui oggi la spada apre i solchi sanguinosi. Ma proprio davanti a queste apocalittiche previsioni di sventure imminenti e future, consideriamo Nostro dovere elevare con crescente insistenza gli occhi e i cuori di coloro, in cui resta ancora un sentimento di buona volontà verso l’Unico da cui deriva la salvezza del mondo, verso l’Unico, la cui mano onnipotente e misericordiosa può imporre fine a questa tempesta, verso l’Unico, la cui verità e il cui amore possono illuminare le intelligenze e accendere gli animi di tanta parte dell’umanità, immersa nell’errore nell’egoismo, nei contrasti e nella lotta, per riordinarla nello spirito della regalità di Cristo. Forse – Dio lo voglia – è lecito sperare che quest’ora di massima indigenza sia anche un’ora di mutamento di pensiero e di sentire per molti, che finora con cieca fiducia incedevano per il cammino di diffusi errori moderni, senza sospettare quanto fosse insidioso e incerto il terreno su cui si trovavano. Forse molti, che non capivano l’importanza della missione educatrice e pastorale della Chiesa, ora ne comprenderanno meglio gli avvertimenti, da loro trascurati nella falsa sicurezza di tempi passati. Le angustie del presente sono un’apologia del Cristianesimo, che non potrebbe essere più impressionante. Dal gigantesco vortice di errori e movimenti anticristiani sono maturati frutti tanto amari da costituire una condanna, la cui efficacia supera ogni confutazione teorica. Ore di così penosa delusione sono spesso ore di grazia: un «passaggio del Signore» (Es XII,11), in cui alla parola del Salvatore: «Ecco, io sto alla porta e busso» (Ap III, 20) si aprono le porte, che altrimenti sarebbero rimaste chiuse. Dio sa con quale amore compassionevole, con quale santa gioia il Nostro cuore si volge a coloro che, in seguito a simili dolorose esperienze, sentono in sé nascere il desiderio impellente e salutare della verità, della giustizia e della pace di Cristo. Ma anche per coloro, per i quali non è ancora suonata l’ora della suprema illuminazione, il Nostro cuore non conosce che amore e le Nostre labbra non hanno che preghiere al Padre dei lumi, perché faccia splendere nei loro animi indifferenti o nemici di Cristo un raggio di quella luce, che un giorno trasformò Saulo in Paolo, di quella luce che ha mostrato la sua forza misteriosa proprio nei tempi più difficili per la Chiesa. – Una presa di posizione dottrinale completa contro gli errori dei tempi presenti può essere rinviata, se occorrerà, ad altro momento meno sconvolto dalle sciagure degli esterni eventi: ora Ci limitiamo ad alcune fondamentali osservazioni. – Il tempo presente, venerabili fratelli, aggiungendo alle deviazioni dottrinali del passato nuovi errori, li ha spinti a estremi, dai quali non poteva seguire se non smarrimento e rovina. Innanzitutto è certo che la radice profonda e ultima dei mali che deploriamo nella società moderna sta nella negazione e nel rifiuto di una norma di moralità universale, sia della vita individuale, sia della vita sociale e delle relazioni internazionali; il misconoscimento cioè, così diffuso ai nostri tempi, e l’oblio della stessa legge naturale. – Questa legge naturale trova il suo fondamento in Dio, Creatore onnipotente e Padre di tutti, supremo e assoluto legislatore, onnisciente e giusto vindice delle azioni umane. Quando Dio viene rinnegato, rimane anche scossa ogni base di moralità, si soffoca, o almeno si affievolisce di molto, la voce della natura, che insegna, persino agli indotti e alle tribù non pervenute a civiltà, ciò che è bene e ciò che è male, il lecito e l’illecito, e fa sentire la responsabilità delle proprie azioni davanti a un Giudice supremo. – Orbene, la negazione della base fondamentale della moralità ebbe in Europa la sua originaria radice nel distacco da quella dottrina di Cristo, di cui la cattedra di Pietro è depositaria e maestra; dottrina che un tempo aveva dato coesione spirituale all’Europa, la quale, educata, nobilitata e ingentilita dalla croce, era pervenuta a tal grado di progresso civile da diventare maestra di altri popoli e di altri continenti. Distaccatisi invece dal Magistero infallibile della Chiesa, non pochi fratelli separati sono arrivati fino a sovvertire il dogma centrale del Cristianesimo, la divinità del Salvatore, accelerando così il processo di spirituale dissolvimento. – Narra il santo Vangelo che quando Gesù venne crocifisso, «si fece buio per tutta la terra» (Mt XXVII,45): spaventoso simbolo di ciò che avvenne e continua ad avvenire spiritualmente dovunque l’incredulità, cieca e orgogliosa di sé, ha di fatto escluso Cristo dalla vita moderna, specialmente dalla vita pubblica, e con la fede in Cristo ha scosso anche la fede in Dio. I valori morali, secondo i quali in altri tempi si giudicavano le azioni private e pubbliche, sono andati, per conseguenza, come in disuso; e la tanto vantata laicizzazione della società, che ha fatto sempre più rapidi progressi, sottraendo l’uomo, la famiglia e lo stato all’influsso benefico e rigeneratore dell’idea di Dio e dell’insegnamento della Chiesa, ha fatto riapparire anche in regioni, nelle quali per tanti secoli brillarono i fulgori della civiltà cristiana, sempre più chiari, sempre più distinti, sempre più angosciosi i segni di un paganesimo corrotto e corruttore: «Quand’ebbero crocifisso Gesù si fece buio». – Molti forse nell’allontanarsi dalla dottrina di Cristo, non ebbero piena coscienza di venire ingannati dal falso miraggio di frasi luccicanti, che proclamavano simile distacco quale liberazione dal servaggio in cui sarebbero stati prima ritenuti; né prevedevano le amare conseguenze del triste baratto tra la verità, che libera, e l’errore, che asservisce; né pensavano che, rinunziando all’infinitamente saggia e paterna legge di Dio, all’unificante ed elevante dottrina di amore di Cristo, si consegnavano all’arbitrio di una povera mutabile saggezza umana: parlarono di progresso, quando retrocedevano; di elevazione, quando si degradavano; di ascesa alla maturità, quando cadevano in servaggio; non percepivano la vanità d’ogni sforzo umano per sostituire la legge di Cristo con qualche altra cosa che la uguagli: «divennero fatui nei loro ragionamenti» (Rm 1, 21). Affievolitasi la fede in Dio e in Gesù Cristo, e oscuratasi negli animi la luce dei princìpi morali, venne scalzato l’unico e insostituibile fondamento di quella stabilità e tranquillità, di quell’ordine interno ed esterno, privato e pubblico, che solo può generare e salvaguardare la prosperità degli stati. Certamente, anche quando l’Europa era affratellata da identici ideali ricevuti dalla predicazione cristiana, non mancarono dissidi, sconvolgimenti e guerre, che la desolarono; ma forse non si sperimentò mai più acutamente lo scoramento dei nostri giorni sulla possibilità di comporli, essendo allora viva quella coscienza del giusto e dell’ingiusto, del lecito e dell’illecito, che agevola le intese, mentre frena lo scatenarsi delle passioni e lascia aperta la via a una onesta composizione. Ai nostri giorni, al contrario, i dissidi non provengono soltanto da impeto di passione ribelle, ma da una profonda crisi spirituale, che ha sconvolto i sani principi della morale privata e pubblica.
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Fra i molteplici errori, che scaturiscono dalla fonte avvelenata dell’agnosticismo religioso e morale, vogliamo attirare la vostra attenzione, venerabili fratelli, sopra due in modo particolare, come quelli che rendono quasi impossibile, o almeno precaria e incerta, la pacifica convivenza dei popoli. Il primo di tali perniciosi errori, oggi largamente diffuso, è la dimenticanza di quella legge di umana solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dall’uguaglianza della natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull’ara della croce al Padre suo celeste in favore dell’umanità peccatrice. – Infatti, la prima pagina della Scrittura, con grandiosa semplicità, ci narra come Dio, quale coronamento della sua opera creatrice, fece l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gn 1, 26-27); e la stessa Scrittura ci insegna che lo arricchì di doni e privilegi soprannaturali, destinandolo a un’eterna ineffabile felicità. Ci mostra inoltre come dalla prima coppia trassero origine gli altri uomini, di cui ci fa seguire, con insuperata plasticità di linguaggio, la divisione in vari gruppi e la dispersione nelle varie parti del mondo. Anche quando si allontanarono dal loro Creatore, Dio non cessò di considerarli come figli, i quali, secondo il suo misericordioso disegno, dovevano un giorno essere ancora una volta riuniti nella sua amicizia (cf. Gn XII, 3). – L’Apostolo delle genti poi si fa l’araldo di questa verità, che affratella gli uomini in una grande famiglia, quando annunzia al mondo greco che Dio «trasse da uno stesso ceppo la progenie tutta degli uomini, perché popolasse l’intera superficie della terra, e determinò la durata della loro esistenza e i confini della loro abitazione, affinché cercassero il Signore …» (At XVII, 26-27). Meravigliosa visione, che ci fa contemplare il genere umano nell’unità di una comune origine in Dio: «Un solo Dio e Padre di tutti, colui che è sopra tutti e per tutti e in tutti» (Ef IV, 6): nell’unità della natura, ugualmente costituita in tutti di corpo materiale e di anima spirituale e immortale; nell’unità del fine immediato e della sua missione nel mondo; nell’unità di abitazione, la terra, dei beni della quale tutti gli uomini possono per diritto naturale giovarsi, al fine di sostentare e sviluppare la vita; nell’unità del fine soprannaturale, Dio stesso, al quale tutti debbono tendere; nell’unità dei mezzi, per conseguire tale fine. – E lo stesso Apostolo ci mostra l’umanità nell’unità dei rapporti con il Figlio di Dio, immagine del Dio invisibile, «in cui tutte le cose sono state create» (Col 1,16); nell’unità del suo riscatto, operato per tutti da Cristo, il quale restituì l’infranta originaria amicizia con Dio mediante la sua santa acerbissima passione, facendosi mediatore tra Dio e gli uomini: «Poiché uno è Dio, uno è anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1Tm II, 5). – E per rendere più intima tale amicizia, tra Dio e l’umanità, questo stesso Mediatore divino e universale di salvezza e di pace, nel sacro silenzio del cenacolo, prima di consumare il sacrificio supremo, lasciò cadere dalle sue labbra divine la parola che si ripercuote altissima attraverso i secoli, suscitando eroismi di carità in mezzo a un mondo vuoto d’amore e dilaniato dall’odio: «Ecco il mio comandamento: amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv XV, 12). – Verità soprannaturali sono queste che stabiliscono profonde basi e fortissimi comuni vincoli di unione, rafforzati dall’amore di Dio e del Redentore divino, dal quale tutti ricevono la salute «per l’edificazione del corpo di Cristo, finché non giungiamo tutti insieme all’unità della fede, alla piena conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, secondo la misura della pienezza di Cristo» (Ef IV,12-13). – Al lume di questa unità di diritto e di fatto dell’umanità intera gli individui non ci appaiono slegati tra loro, quali granelli di sabbia, bensì uniti in organiche, armoniche e mutue relazioni, varie con il variar dei tempi, per naturale e soprannaturale destinazione e impulso. E le genti, evolvendosi e differenziandosi secondo condizioni diverse di vita e di cultura, non sono destinate a spezzare l’unità del genere umano, ma ad arricchirlo e abbellirlo con la comunicazione delle loro peculiari doti e con quel reciproco scambio dei beni, che può essere possibile e insieme efficace, solo quando un amore mutuo e una carità vivamente sentita unisce tutti i figli dello stesso Padre e tutti i redenti dal medesimo Sangue divino.
La Chiesa di Cristo, fedelissima depositaria della divina educatrice saggezza, non può pensare né pensa d’intaccare o disistimare le caratteristiche particolari, che ciascun popolo con gelosa pietà e comprensibile fierezza custodisce e considera qual prezioso patrimonio. Il suo scopo è l’unità soprannaturale nell’amore universale sentito e praticato, non l’uniformità, esclusivamente esterna, superficiale e per ciò stesso debilitante. Tutte quelle direttive e cure, che servono ad un saggio ordinato svolgimento di forze e tendenze particolari, le quali hanno radici nei più riposti penetrali d’ogni stirpe, purché non si oppongano ai doveri derivanti all’umanità dall’unità d’origine e comune destinazione, la chiesa le saluta con gioia e le accompagna con i suoi voti materni. Essa ha ripetutamente mostrato, nella sua attività missionaria, che tale norma è la stella polare del suo apostolato universale. Innumerevoli ricerche e indagini di pionieri, compiute con sacrificio, dedizione e amore dai missionari d’ogni tempo, si sono proposte di agevolare l’intera comprensione e il rispetto delle civiltà più svariate, e di renderne i valori spirituali fecondi per una viva e vitale predicazione dell’evangelo di Cristo. Tutto ciò che in tali usi e costumi non è indissolubilmente legato con errori religiosi troverà sempre benevolo esame e, quando riesce possibile, verrà tutelato e promosso. E il Nostro immediato predecessore, di santa e venerata memoria, applicando tali norme a una questione particolarmente delicata, prese generose decisioni, che innalzano un monumento alla vastità del suo intuito e all’ardore del suo spirito apostolico. Né è necessario, venerabili fratelli, annunziarvi che Noi vogliamo incedere senza esitazione per questa via. Tutti coloro che entrano nella chiesa, qualunque sia la loro origine o la lingua, devono sapere che hanno uguale diritto di figli nella casa del Signore, dove dominano la legge e la pace di Cristo. In conformità con queste norme di uguaglianza, la chiesa consacra le sue cure a formare un elevato clero indigeno e ad aumentare gradualmente le file dei vescovi indigeni. Al fine di dare a queste intenzioni espressione esteriore, abbiamo scelto l’imminente festa di Cristo re per elevare alla dignità episcopale, sul sepolcro del principe degli apostoli, dodici rappresentanti dei più diversi popoli e stirpi. – Tra i laceranti contrasti che dividono l’umana famiglia, possa quest’atto solenne proclamare a tutti i Nostri figli, sparsi nel mondo, che lo spirito, l’insegnamento e l’opera della Chiesa non potranno mai essere diversi da ciò che l’Apostolo delle genti predicava: «Rivestitevi dell’uomo nuovo, che si rinnovella dimostrandosi conforme all’immagine di Colui che lo ha creato; in esso non esiste più greco e giudeo, circonciso e incirconciso, barbaro e scita, schiavo e libero, ma tutto e in tutti è Cristo» (Col III,10-11). – Né è da temere che la coscienza della fratellanza universale, fomentata dalla dottrina cristiana, e il sentimento che essa ispira, siano in contrasto con l’amore alle tradizioni e alle glorie della propria patria, o impediscano di promuoverne la prosperità e gli interessi legittimi, poiché la medesima dottrina insegna che nell’esercizio della carità esiste un ordine stabilito da Dio, secondo il quale bisogna amare più intensamente e beneficare di preferenza coloro che sono a noi uniti con vincoli speciali. Anche il divino Maestro diede esempio di questa preferenza verso la sua terra e la sua patria, piangendo sulle incombenti rovine della città santa. Ma il legittimo giusto amore verso la propria patria non deve far chiudere gli occhi sulla universalità della carità cristiana, che fa considerare anche gli altri e la loro prosperità nella luce pacificante dell’amore. – Tale è la meravigliosa dottrina di amore e di pace, che ha sì nobilmente contribuito al progresso civile e religioso dell’umanità. E gli araldi che l’annunziarono, mossi da soprannaturale carità, non solo dissodarono terreni e curarono morbi, ma soprattutto bonificarono, plasmarono ed elevarono la vita ad altezze divine, lanciandola verso i culmini della santità, in cui tutto si vede nella luce di Dio; elevarono monumenti e templi i quali mostrano a qual volo di geniali altezze spinga l’ideale cristiano, ma soprattutto fecero degli uomini, saggi o ignoranti, potenti o deboli, templi viventi di Dio e tralci della stessa vite, Cristo; trasmisero alle generazioni future tesori di arte e di saggezza antica, ma soprattutto le resero partecipi di quell’ineffabile dono della sapienza eterna, che affratella gli uomini con un vincolo di soprannaturale appartenenza.
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Documento
Questa lettera Enciclica è come un biglietto da visita, una carta di “Identità Spirituale” con la quale il novello Sommo Pontefice, S. S. Pio XII si presenta al mondo cattolico e a tutto l’orbe in occasione del suo insediamento sulla Cattedra di S. Pietro, in un anno funestato dall’inizio di una guerra terribile che non avrebbe risparmiato rovine, lacrime e sangue all’intera umanità. Superfluo sarebbe sottolineare la caratura spirituale di questo Vicario di N. S. Gesù Cristo, l’ultimo Pontefice operante liberamente prima dell’invasione massonica della Chiesa e l’insediamento di una serie di antipapi, falsi profeti precursori dell’anticristo imminente. «Quand’ebbero crocifisso Gesù si fece buio». Questo brevissimo passaggio evangelico viene ricordato per illustrare simbolicamente la situazione sociale dell’epoca, situazione ancor più grave oggi quando l’umana società si trova a brancolare tra tenebre spirituali, morali e sociali anticamera delle “tenebre esteriori” in cui sarà gettata gran parte dell’umanità se non torna prontamente alla fede ed alla pratica della dottrina cristiana. D’altra parte questi sono i tempi nei quali si devono compiere le sacre Scritture che, compiutesi in Gerusalemme per il Capo del Corpo Mistico, dovranno compiersi pure su tutto il pianeta per tutte le membra del Corpo mistico di Cristo. La Chiesa, crocifissa ed uccisa da un infame conciliabolo e dall’apostasia postconciliabolare, si trova sepolta in un sepolcro dal quale risorgerà gloriosa dopo 40 ore di sepoltura e di silenzio [cioè dopo 40 anni dall’omicidio di S. S. Gregorio XVII, l’ultimo Papa conosciuto sebbene impedito!]. Alla morte sanguinosa sulla croce, farà seguito, al suono dell’ultima tromba, come ricordano nelle Scritture sia San Paolo che San Giovanni Evangelista, il ritorno inatteso e glorioso e della sua “vera” Chiesa Cattolica – Una, Santa, Cattolica ed Apostolica – e di Cristo che brucerà con il soffio delle sue labbra l’anticristo, con il falso profeta ed il dragone scatenato che saranno scaraventati nello stagno di fuoco e di zolfo ove saranno tormentati in eterno. – Godiamoci la prima parte di questo meraviglioso documento magisteriale.
PIO XII
LETTERA ENCICLICA
SUMMI PONTIFICATUS (1)
PROGRAMMA DEL PONTIFICATO
L’arcano disegno del Signore Ci ha affidato, senza alcun Nostro merito, l’altissima dignità e le gravissime sollecitudini del sommo Pontificato proprio nell’anno in cui ricorre il quarantesimo anniversario della consacrazione dell’umanità al sacratissimo cuore del Redentore, indetta dal Nostro immortale predecessore, Leone XIII, al declinare del secolo scorso, alle soglie dell’anno santo. Con quale gioia, commozione e intimo consenso accogliemmo allora come un messaggio celeste l’Enciclica Annum sacrum, proprio allorquando, novello levita; avevamo potuto recitare: «Introibo ad altare Dei» (Sal XLII ,4). E con che ardente entusiasmo unimmo il Nostro cuore ai pensieri e alle intenzioni, che animavano e guidavano quell’atto veramente provvidenziale di un pontefice, che con tanta profonda acutezza conosceva i bisogni e le piaghe, palesi e occulte, del suo tempo! Come quindi potremmo non sentire oggi profonda riconoscenza verso la Provvidenza, che ha voluto far coincidere il Nostro primo anno di pontificato con un ricordo così importante e caro del Nostro primo anno di sacerdozio; e come potremmo non cogliere con gioia l’occasione per fare del culto al «Re dei re e Signore dei dominanti» (1 Tm VI,15; Ap XIX,16) quasi la preghiera d’introito di questo Nostro Pontificato, nello spirito del Nostro indimenticabile predecessore e in fedele attuazione delle sue intenzioni? Come non faremmo di esse l’alfa e l’omega del Nostro volere e del Nostro sperare, del Nostro insegnamento e della Nostra attività, della Nostra pazienza e delle Nostre sofferenze, consacrate tutte alla diffusione del regno di Cristo? – Se Noi contempliamo sotto la luce dell’eternità gli eventi esterni e gli interiori sviluppi degli ultimi quarant’anni e ne misuriamo grandezze e deficienze, quella consacrazione universale a Cristo re appare allo sguardo del Nostro spirito sempre più nel suo significato sacro, nel suo simbolismo esortatore, nel suo scopo di purificazione e di elevazione, di irrobustimento e di difesa delle anime e in pari tempo nella sua preveggente saggezza, mirante a guarire e nobilitare ogni umana società e promuoverne il vero bene. Sempre più chiaramente Ci si rivela come un messaggio di esortazione e di grazia di Dio non solo alla sua Chiesa, ma anche a un mondo, troppo bisognoso di scuotimento e di guida, il quale, immerso nel culto del presente, si smarriva sempre più e si esauriva nella fredda ricerca di terreni ideali; un messaggio a un’umanità, la quale, in schiere sempre più numerose, si staccava dalla fede in Cristo e più ancora dal riconoscimento e dall’osservanza della sua legge; un messaggio contro una concezione del mondo, a cui la dottrina di amore e di rinunzia del Sermone della montagna e la divina azione d’amore della croce apparivano scandalo e follia. Come un giorno il precursore del Signore a coloro che, cercando, interrogavano, proclamava: «Ecco l’Agnello di Dio» (Gv 1, 29), per ammonirli che l’aspettato delle genti (cf. Ag II, 8 Vg) dimorava, sebbene ancora sconosciuto, in mezzo a loro; così il rappresentante di Cristo rivolgeva scongiurando il suo grido potente: «Ecco il vostro Re!» (Gv XIX,14) ai rinnegatori, ai dubbiosi, agli indecisi, agli esitanti, i quali o rifiutavano di seguire il Redentore glorioso, sempre vivente e operante nella sua Chiesa, o lo seguivano con noncuranza e lentezza.
Dalla diffusione e dall’approfondimento del culto del divin cuore del Redentore – che trovò lo splendido coronamento, oltre che nella consacrazione dell’umanità al declinare del secolo scorso, anche nell’introduzione della festa della regalità di Cristo da parte del Nostro immediato predecessore di felice memoria – sono scaturiti indicibili beni per innumerevoli anime: «un impeto di fiumana», che «rallegra la città di Dio» (cf. Sal XLV,5). Qual epoca più della nostra fu così tormentata da vuoto spirituale e da profonda indigenza interiore, nonostante ogni progresso tecnico e puramente civile? Non può forse ad essa applicarsi la parola rivelatrice dell’Apocalisse: «Vai dicendo: sono ricco e dovizioso e non mi manca nulla; e non sai che tu sei meschino e miserabile e povero e cieco e nudo» (Ap III,17)?
Venerabili fratelli! vi può essere dovere più grande e più urgente di «annunziare … le inscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef III, 8) agli uomini del nostro tempo? E vi può essere cosa più nobile che sventolare il vessillo del Re davanti ad essi, che hanno seguìto e seguono bandiere fallaci, e riguadagnare al vittorioso vessillo della croce coloro che l’hanno abbandonato? Quale cuore non dovrebbe bruciare ed essere spinto al soccorso, alla vista di tanti fratelli e sorelle, che in seguito a errori, passioni, incitamenti e pregiudizi si sono allontanati dalla fede nel vero Dio, e si sono distaccati dal lieto e salvifico messaggio di Gesù Cristo? Chi appartiene alla milizia di Cristo – sia ecclesiastico, sia laico – non dovrebbe forse sentirsi spronato e incitato a maggior vigilanza, a più decisa difesa, quando vede aumentar sempre più le schiere dei nemici di Cristo, quando s’accorge che i portaparola di queste tendenze, rinnegando o non curando in pratica le vivificatrici verità e i valori contenuti nella fede in Dio e in Cristo, spezzano sacrilegamente le tavole dei comandamenti di Dio per sostituirle con tavole e norme dalle quali è bandita la sostanza etica della rivelazione del Sinai, lo spirito del Sermone della montagna e della croce? Chi potrebbe senza profondo accoramento osservare come questi deviamenti maturino un tragico raccolto tra coloro che, nei giorni della quiete e della sicurezza, si annoveravano tra i seguaci di Cristo, ma che – purtroppo, Cristiani più di nome che di fatto – nell’ora in cui bisogna resistere, lottare, soffrire, affrontare le persecuzioni occulte o palesi, divengono vittime della pusillanimità, della debolezza, dell’incertezza e, presi da terrore di fronte ai sacrifici imposti dalla loro professione cristiana, non trovano la forza di bere il calice amaro dei fedeli di Cristo? – In queste condizioni di tempo e di spirito, venerabili fratelli, possa l’imminente festa di Cristo re, in cui vi sarà pervenuta questa Nostra prima Enciclica, essere un giorno di grazia e di profondo rinnovamento e risveglio nello spirito del regno di Cristo. Sia un giorno, in cui la consacrazione del genere umano al Cuore divino, la quale dev’essere celebrata in modo particolarmente solenne, riunisca presso il trono dell’eterno Re i fedeli di tutti i popoli e di tutte le nazioni in adorazione e in riparazione, per rinnovare a Lui e alla sua legge di verità e di amore il giuramento di fedeltà ora e sempre. Sia un giorno di grazia per i fedeli, in cui il fuoco, che il Signore è venuto a portare sulla terra, si sviluppi in fiamma sempre più luminosa e pura. Sia un giorno di grazia per i tiepidi, gli stanchi, gli annoiati, e nel loro cuore, divenuto pusillanime, maturino nuovi frutti di rinnovamento di spirito, e di rinvigorimento d’animo. Sia un giorno di grazia anche per coloro che non hanno conosciuto Cristo o che l’hanno perduto; un giorno in cui si elevi al cielo da milioni di cuori fedeli la preghiera: «La luce che illumina ogni uomo che viene a questo mondo» (Gv I, 9) possa rischiarare loro la via della salute e la sua grazia possa suscitare nel cuore inquieto degli erranti la nostalgia verso i beni eterni, nostalgia che spinga al ritorno a colui, che dal doloroso trono della croce ha sete anche delle loro anime e desiderio cocente di divenire anche per esse «via, verità e vita» (Gv XIV, 6).
Ponendo questa prima Enciclica del Nostro Pontificato sotto il segno di Cristo re con cuore pieno di fiduciosa speranza, Ci sentiamo interamente sicuri del consenso unanime ed entusiastico dell’intero gregge del Signore. Le esperienze, le ansietà e le prove dell’ora presente risvegliano, acuiscono e purificano il sentimento della comunanza della famiglia cattolica in un grado raramente sperimentato. Esse eccitano in tutti i credenti in Dio e in Cristo la coscienza di una comune minaccia da parte di un comune pericolo. – Di questo spirito di comunanza cattolica, potentemente aumentato in così ardue circostanze, e che è raccoglimento e affermazione, risolutezza e volontà di vittoria, Noi sentimmo un soffio consolante e indimenticabile in quei giorni, in cui con trepido passo ma fiduciosi in Dio, prendemmo possesso della cattedra che la morte del Nostro grande predecessore aveva lasciata vacante. – Con il vivo ricordo delle innumerevoli testimonianze di filiale attaccamento alla Chiesa e al Vicario di Cristo, rivolteCi in occasione della Nostra elezione e incoronazione, con manifestazioni così tenere, così calde e spontanee, Ci piace cogliere questa occasione propizia, per rivolgere a voi, venerabili fratelli, e a quanti appartengono al gregge del Signore, una parola di commosso ringraziamento per tale pacifico plebiscito di amore riverente e di inconcussa fedeltà al Papato, con il quale si veniva a riconoscere la provvidenziale missione del Sommo Sacerdote e del Supremo Pastore. Poiché veramente tutte quelle manifestazioni non erano né potevano essere rivolte alla Nostra povera persona, ma all’unico, altissimo ufficio, al quale il Signore Ci elevava. Se già fin da quel primo momento sentivamo tutto il peso delle gravi responsabilità, connesse con la somma potestà, che Ci veniva conferita dalla Provvidenza divina, Ci era insieme di conforto il vedere quella grandiosa e palpabile dimostrazione dell’inscindibile unità della Chiesa cattolica, che tanto più compatta si stringe alla infrangibile rupe di Pietro e le forma attorno tanto più forti murali e antemurali, quanto più cresce la baldanza dei nemici di Cristo. – Questo stesso plebiscito di mondiale unità cattolica e di soprannaturale fraternità di popoli attorno al Padre comune, Ci pareva tanto più ricco di felici speranze, quanto più tragiche erano le circostanze materiali e spirituali del momento in cui avveniva; e il suo ricordo Ci andò confortando anche nei primi mesi del Nostro pontificato, nei quali abbiamo già sperimentato le fatiche, le ansietà e le prove, di cui è seminato il cammino della Sposa di Cristo attraverso il mondo. – Né vogliamo passare sotto silenzio quanta eco di commossa riconoscenza abbia suscitato nel Nostro cuore l’augurio di coloro che, sebbene non appartengano al corpo visibile della Chiesa Cattolica, non hanno dimenticato, nella loro nobiltà e sincerità, di sentire tutto ciò che, o nell’amore alla persona di Cristo o nella credenza di Dio, li unisce a Noi. A tutti vada l’espressione della Nostra gratitudine. Affidiamo tutti e ciascuno alla protezione e alla guida del Signore e assicuriamo solennemente che un solo pensiero domina la Nostra mente: imitare l’esempio del buon pastore, per condurre tutti alla vera felicità, «affinché abbiano la vita e l’abbiano abbondantemente» (Gv X,10). – Ma in singolar modo Ci sentiamo mossi dall’animo Nostro a far palese l’intima Nostra gratitudine per i segni di riverente omaggio pervenutiCi da sovrani, da capi di stato e da pubbliche autorità di quelle nazioni, con le quali la Santa Sede si trova in amichevoli rapporti. E a particolare letizia si eleva il Nostro cuore nel potere, in questa prima Enciclica indirizzata a tutto il popolo cristiano sparso nel mondo, porre in tal novero la diletta Italia, fecondo giardino della fede piantata dai prìncipi degli apostoli, la quale, mercè la provvidenziale opera dei Patti Lateranensi, occupa ora un posto d’onore tra gli stati ufficialmente rappresentati presso la Sede Apostolica. Da quei Patti ebbe felice inizio, come aurora di tranquilla e fraterna unione di animi innanzi ai sacri altari e nel consorzio civile, la «pace di Cristo restituita all’Italia»; pace, per il cui sereno cielo supplichiamo il Signore che pervada, avvivi, dilati e corrobori fortemente e profondamente l’anima del popolo italiano, a Noi tanto vicino, in mezzo al quale respiriamo il medesimo alito di vita, invocando e augurandoci che questo popolo, così caro ai Nostri predecessori e a Noi, fedele alle sue gloriose tradizioni cattoliche, senta sempre più nell’alta protezione divina la verità delle parole del Salmista: «Beato il popolo, che per suo Dio ha il Signore» (Sal CXLIII,15). – Questa auspicata nuova situazione giuridica e spirituale, che quell’opera, destinata a lasciare una impronta indelebile nella storia, ha creato e suggellato per l’Italia e per tutto l’Orbe cattolico, non Ci apparve mai così grandiosa e unificatrice, come quando dall’eccelsa loggia della Basilica Vaticana Noi aprimmo e levammo per la prima volta le Nostre braccia e la Nostra mano benedicente su Roma, sede del Papato e Nostra amatissima città natale, sull’Italia riconciliata con la Chiesa, e sui popoli del mondo intero.
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Come vicario di Colui, il quale in un’ora decisiva, dinanzi al rappresentante della più alta autorità terrena di allora, pronunziò la grande parola: «Io sono nato e venuto al mondo per render testimonianza alla verità; chiunque sta per la verità ascolta la mia voce» (Gv XVIII, 37), Noi di nulla Ci sentiamo più debitori al Nostro ufficio, e anche al nostro tempo, come di «rendere testimonianza alla verità». Questo dovere, adempiuto con apostolica fermezza, comprende necessariamente l’esposizione e la confutazione di errori e di colpe umane, che è indispensabile conoscere, perché sia possibile la cura e la guarigione: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv VIII, 32). Nell’adempimento di questo Nostro dovere, non Ci lasceremo influenzare da terrene considerazioni, né Ce ne tratterremo per diffidenze e contrasti, per rifiuti e incomprensioni, né per timore di misconoscimenti e di false interpretazioni. Ma lo faremo sempre animati da quella paterna carità che, mentre soffre dei mali che travagliano i figli, indica loro il rimedio, sforzandoCi cioè di imitare il divino modello dei pastori, il buon pastore Gesù, che è luce insieme e amore: «Seguendo il vero con amore» (Ef IV, 15). – All’inizio del cammino, che conduce all’indigenza spirituale e morale dei tempi presenti, stanno i nefasti sforzi di non pochi per detronizzare Cristo, il distacco dalla legge della verità, che egli annunziò, dalla legge dell’amore, che è il soffio vitale del suo regno. Il riconoscimento dei diritti regali di Cristo e il ritorno dei singoli e della società alla legge della sua verità e del suo amore sono la sola via di salvezza. – Nel momento in cui, venerabili fratelli, scriviamo queste righe, Ci giunge la spaventosa notizia, che il terribile uragano della guerra, nonostante tutti i Nostri tentativi di deprecarlo, si è già scatenato. La Nostra penna vorrebbe arrestarsi, quando pensiamo all’abisso di sofferenze di innumerevoli persone, a cui ancora ieri nell’ambiente familiare sorrideva un raggio di modesto benessere. Il Nostro cuore paterno è preso da angoscia, quando prevediamo tutto ciò che potrà maturare dal tenebroso seme della violenza e dell’odio, a cui oggi la spada apre i solchi sanguinosi. Ma proprio davanti a queste apocalittiche previsioni di sventure imminenti e future, consideriamo Nostro dovere elevare con crescente insistenza gli occhi e i cuori di coloro, in cui resta ancora un sentimento di buona volontà verso l’Unico da cui deriva la salvezza del mondo, verso l’Unico, la cui mano onnipotente e misericordiosa può imporre fine a questa tempesta, verso l’Unico, la cui verità e il cui amore possono illuminare le intelligenze e accendere gli animi di tanta parte dell’umanità, immersa nell’errore nell’egoismo, nei contrasti e nella lotta, per riordinarla nello spirito della regalità di Cristo. Forse – Dio lo voglia – è lecito sperare che quest’ora di massima indigenza sia anche un’ora di mutamento di pensiero e di sentire per molti, che finora con cieca fiducia incedevano per il cammino di diffusi errori moderni, senza sospettare quanto fosse insidioso e incerto il terreno su cui si trovavano. Forse molti, che non capivano l’importanza della missione educatrice e pastorale della Chiesa, ora ne comprenderanno meglio gli avvertimenti, da loro trascurati nella falsa sicurezza di tempi passati. Le angustie del presente sono un’apologia del Cristianesimo, che non potrebbe essere più impressionante. Dal gigantesco vortice di errori e movimenti anticristiani sono maturati frutti tanto amari da costituire una condanna, la cui efficacia supera ogni confutazione teorica. Ore di così penosa delusione sono spesso ore di grazia: un «passaggio del Signore» (Es XII,11), in cui alla parola del Salvatore: «Ecco, io sto alla porta e busso» (Ap III, 20) si aprono le porte, che altrimenti sarebbero rimaste chiuse. Dio sa con quale amore compassionevole, con quale santa gioia il Nostro cuore si volge a coloro che, in seguito a simili dolorose esperienze, sentono in sé nascere il desiderio impellente e salutare della verità, della giustizia e della pace di Cristo. Ma anche per coloro, per i quali non è ancora suonata l’ora della suprema illuminazione, il Nostro cuore non conosce che amore e le Nostre labbra non hanno che preghiere al Padre dei lumi, perché faccia splendere nei loro animi indifferenti o nemici di Cristo un raggio di quella luce, che un giorno trasformò Saulo in Paolo, di quella luce che ha mostrato la sua forza misteriosa proprio nei tempi più difficili per la Chiesa. – Una presa di posizione dottrinale completa contro gli errori dei tempi presenti può essere rinviata, se occorrerà, ad altro momento meno sconvolto dalle sciagure degli esterni eventi: ora Ci limitiamo ad alcune fondamentali osservazioni. – Il tempo presente, venerabili fratelli, aggiungendo alle deviazioni dottrinali del passato nuovi errori, li ha spinti a estremi, dai quali non poteva seguire se non smarrimento e rovina. Innanzitutto è certo che la radice profonda e ultima dei mali che deploriamo nella società moderna sta nella negazione e nel rifiuto di una norma di moralità universale, sia della vita individuale, sia della vita sociale e delle relazioni internazionali; il misconoscimento cioè, così diffuso ai nostri tempi, e l’oblio della stessa legge naturale. – Questa legge naturale trova il suo fondamento in Dio, Creatore onnipotente e Padre di tutti, supremo e assoluto legislatore, onnisciente e giusto vindice delle azioni umane. Quando Dio viene rinnegato, rimane anche scossa ogni base di moralità, si soffoca, o almeno si affievolisce di molto, la voce della natura, che insegna, persino agli indotti e alle tribù non pervenute a civiltà, ciò che è bene e ciò che è male, il lecito e l’illecito, e fa sentire la responsabilità delle proprie azioni davanti a un Giudice supremo. – Orbene, la negazione della base fondamentale della moralità ebbe in Europa la sua originaria radice nel distacco da quella dottrina di Cristo, di cui la cattedra di Pietro è depositaria e maestra; dottrina che un tempo aveva dato coesione spirituale all’Europa, la quale, educata, nobilitata e ingentilita dalla croce, era pervenuta a tal grado di progresso civile da diventare maestra di altri popoli e di altri continenti. Distaccatisi invece dal Magistero infallibile della Chiesa, non pochi fratelli separati sono arrivati fino a sovvertire il dogma centrale del Cristianesimo, la divinità del Salvatore, accelerando così il processo di spirituale dissolvimento. – Narra il santo Vangelo che quando Gesù venne crocifisso, «si fece buio per tutta la terra» (Mt XXVII,45): spaventoso simbolo di ciò che avvenne e continua ad avvenire spiritualmente dovunque l’incredulità, cieca e orgogliosa di sé, ha di fatto escluso Cristo dalla vita moderna, specialmente dalla vita pubblica, e con la fede in Cristo ha scosso anche la fede in Dio. I valori morali, secondo i quali in altri tempi si giudicavano le azioni private e pubbliche, sono andati, per conseguenza, come in disuso; e la tanto vantata laicizzazione della società, che ha fatto sempre più rapidi progressi, sottraendo l’uomo, la famiglia e lo stato all’influsso benefico e rigeneratore dell’idea di Dio e dell’insegnamento della Chiesa, ha fatto riapparire anche in regioni, nelle quali per tanti secoli brillarono i fulgori della civiltà cristiana, sempre più chiari, sempre più distinti, sempre più angosciosi i segni di un paganesimo corrotto e corruttore: «Quand’ebbero crocifisso Gesù si fece buio». – Molti forse nell’allontanarsi dalla dottrina di Cristo, non ebbero piena coscienza di venire ingannati dal falso miraggio di frasi luccicanti, che proclamavano simile distacco quale liberazione dal servaggio in cui sarebbero stati prima ritenuti; né prevedevano le amare conseguenze del triste baratto tra la verità, che libera, e l’errore, che asservisce; né pensavano che, rinunziando all’infinitamente saggia e paterna legge di Dio, all’unificante ed elevante dottrina di amore di Cristo, si consegnavano all’arbitrio di una povera mutabile saggezza umana: parlarono di progresso, quando retrocedevano; di elevazione, quando si degradavano; di ascesa alla maturità, quando cadevano in servaggio; non percepivano la vanità d’ogni sforzo umano per sostituire la legge di Cristo con qualche altra cosa che la uguagli: «divennero fatui nei loro ragionamenti» (Rm 1, 21). Affievolitasi la fede in Dio e in Gesù Cristo, e oscuratasi negli animi la luce dei princìpi morali, venne scalzato l’unico e insostituibile fondamento di quella stabilità e tranquillità, di quell’ordine interno ed esterno, privato e pubblico, che solo può generare e salvaguardare la prosperità degli stati. Certamente, anche quando l’Europa era affratellata da identici ideali ricevuti dalla predicazione cristiana, non mancarono dissidi, sconvolgimenti e guerre, che la desolarono; ma forse non si sperimentò mai più acutamente lo scoramento dei nostri giorni sulla possibilità di comporli, essendo allora viva quella coscienza del giusto e dell’ingiusto, del lecito e dell’illecito, che agevola le intese, mentre frena lo scatenarsi delle passioni e lascia aperta la via a una onesta composizione. Ai nostri giorni, al contrario, i dissidi non provengono soltanto da impeto di passione ribelle, ma da una profonda crisi spirituale, che ha sconvolto i sani principi della morale privata e pubblica.
***
Fra i molteplici errori, che scaturiscono dalla fonte avvelenata dell’agnosticismo religioso e morale, vogliamo attirare la vostra attenzione, venerabili fratelli, sopra due in modo particolare, come quelli che rendono quasi impossibile, o almeno precaria e incerta, la pacifica convivenza dei popoli. Il primo di tali perniciosi errori, oggi largamente diffuso, è la dimenticanza di quella legge di umana solidarietà e carità, che viene dettata e imposta sia dalla comunanza di origine e dall’uguaglianza della natura razionale in tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, sia dal sacrificio di redenzione offerto da Gesù Cristo sull’ara della croce al Padre suo celeste in favore dell’umanità peccatrice. – Infatti, la prima pagina della Scrittura, con grandiosa semplicità, ci narra come Dio, quale coronamento della sua opera creatrice, fece l’uomo a sua immagine e somiglianza (Gn 1, 26-27); e la stessa Scrittura ci insegna che lo arricchì di doni e privilegi soprannaturali, destinandolo a un’eterna ineffabile felicità. Ci mostra inoltre come dalla prima coppia trassero origine gli altri uomini, di cui ci fa seguire, con insuperata plasticità di linguaggio, la divisione in vari gruppi e la dispersione nelle varie parti del mondo. Anche quando si allontanarono dal loro Creatore, Dio non cessò di considerarli come figli, i quali, secondo il suo misericordioso disegno, dovevano un giorno essere ancora una volta riuniti nella sua amicizia (cf. Gn XII, 3). – L’Apostolo delle genti poi si fa l’araldo di questa verità, che affratella gli uomini in una grande famiglia, quando annunzia al mondo greco che Dio «trasse da uno stesso ceppo la progenie tutta degli uomini, perché popolasse l’intera superficie della terra, e determinò la durata della loro esistenza e i confini della loro abitazione, affinché cercassero il Signore …» (At XVII, 26-27). Meravigliosa visione, che ci fa contemplare il genere umano nell’unità di una comune origine in Dio: «Un solo Dio e Padre di tutti, colui che è sopra tutti e per tutti e in tutti» (Ef IV, 6): nell’unità della natura, ugualmente costituita in tutti di corpo materiale e di anima spirituale e immortale; nell’unità del fine immediato e della sua missione nel mondo; nell’unità di abitazione, la terra, dei beni della quale tutti gli uomini possono per diritto naturale giovarsi, al fine di sostentare e sviluppare la vita; nell’unità del fine soprannaturale, Dio stesso, al quale tutti debbono tendere; nell’unità dei mezzi, per conseguire tale fine. – E lo stesso Apostolo ci mostra l’umanità nell’unità dei rapporti con il Figlio di Dio, immagine del Dio invisibile, «in cui tutte le cose sono state create» (Col 1,16); nell’unità del suo riscatto, operato per tutti da Cristo, il quale restituì l’infranta originaria amicizia con Dio mediante la sua santa acerbissima passione, facendosi mediatore tra Dio e gli uomini: «Poiché uno è Dio, uno è anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù» (1Tm II, 5). – E per rendere più intima tale amicizia, tra Dio e l’umanità, questo stesso Mediatore divino e universale di salvezza e di pace, nel sacro silenzio del cenacolo, prima di consumare il sacrificio supremo, lasciò cadere dalle sue labbra divine la parola che si ripercuote altissima attraverso i secoli, suscitando eroismi di carità in mezzo a un mondo vuoto d’amore e dilaniato dall’odio: «Ecco il mio comandamento: amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi» (Gv XV, 12). – Verità soprannaturali sono queste che stabiliscono profonde basi e fortissimi comuni vincoli di unione, rafforzati dall’amore di Dio e del Redentore divino, dal quale tutti ricevono la salute «per l’edificazione del corpo di Cristo, finché non giungiamo tutti insieme all’unità della fede, alla piena conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, secondo la misura della pienezza di Cristo» (Ef IV,12-13). – Al lume di questa unità di diritto e di fatto dell’umanità intera gli individui non ci appaiono slegati tra loro, quali granelli di sabbia, bensì uniti in organiche, armoniche e mutue relazioni, varie con il variar dei tempi, per naturale e soprannaturale destinazione e impulso. E le genti, evolvendosi e differenziandosi secondo condizioni diverse di vita e di cultura, non sono destinate a spezzare l’unità del genere umano, ma ad arricchirlo e abbellirlo con la comunicazione delle loro peculiari doti e con quel reciproco scambio dei beni, che può essere possibile e insieme efficace, solo quando un amore mutuo e una carità vivamente sentita unisce tutti i figli dello stesso Padre e tutti i redenti dal medesimo Sangue divino. – La Chiesa di Cristo, fedelissima depositaria della divina educatrice saggezza, non può pensare né pensa d’intaccare o disistimare le caratteristiche particolari, che ciascun popolo con gelosa pietà e comprensibile fierezza custodisce e considera qual prezioso patrimonio. Il suo scopo è l’unità soprannaturale nell’amore universale sentito e praticato, non l’uniformità, esclusivamente esterna, superficiale e per ciò stesso debilitante. Tutte quelle direttive e cure, che servono ad un saggio ordinato svolgimento di forze e tendenze particolari, le quali hanno radici nei più riposti penetrali d’ogni stirpe, purché non si oppongano ai doveri derivanti all’umanità dall’unità d’origine e comune destinazione, la chiesa le saluta con gioia e le accompagna con i suoi voti materni. Essa ha ripetutamente mostrato, nella sua attività missionaria, che tale norma è la stella polare del suo apostolato universale. Innumerevoli ricerche e indagini di pionieri, compiute con sacrificio, dedizione e amore dai missionari d’ogni tempo, si sono proposte di agevolare l’intera comprensione e il rispetto delle civiltà più svariate, e di renderne i valori spirituali fecondi per una viva e vitale predicazione dell’evangelo di Cristo. Tutto ciò che in tali usi e costumi non è indissolubilmente legato con errori religiosi troverà sempre benevolo esame e, quando riesce possibile, verrà tutelato e promosso. E il Nostro immediato predecessore, di santa e venerata memoria, applicando tali norme a una questione particolarmente delicata, prese generose decisioni, che innalzano un monumento alla vastità del suo intuito e all’ardore del suo spirito apostolico. Né è necessario, venerabili fratelli, annunziarvi che Noi vogliamo incedere senza esitazione per questa via. Tutti coloro che entrano nella chiesa, qualunque sia la loro origine o la lingua, devono sapere che hanno uguale diritto di figli nella casa del Signore, dove dominano la legge e la pace di Cristo. In conformità con queste norme di uguaglianza, la chiesa consacra le sue cure a formare un elevato clero indigeno e ad aumentare gradualmente le file dei vescovi indigeni. Al fine di dare a queste intenzioni espressione esteriore, abbiamo scelto l’imminente festa di Cristo re per elevare alla dignità episcopale, sul sepolcro del principe degli apostoli, dodici rappresentanti dei più diversi popoli e stirpi. – Tra i laceranti contrasti che dividono l’umana famiglia, possa quest’atto solenne proclamare a tutti i Nostri figli, sparsi nel mondo, che lo spirito, l’insegnamento e l’opera della Chiesa non potranno mai essere diversi da ciò che l’Apostolo delle genti predicava: «Rivestitevi dell’uomo nuovo, che si rinnovella dimostrandosi conforme all’immagine di Colui che lo ha creato; in esso non esiste più greco e giudeo, circonciso e incirconciso, barbaro e scita, schiavo e libero, ma tutto e in tutti è Cristo» (Col III,10-11). – Né è da temere che la coscienza della fratellanza universale, fomentata dalla dottrina cristiana, e il sentimento che essa ispira, siano in contrasto con l’amore alle tradizioni e alle glorie della propria patria, o impediscano di promuoverne la prosperità e gli interessi legittimi, poiché la medesima dottrina insegna che nell’esercizio della carità esiste un ordine stabilito da Dio, secondo il quale bisogna amare più intensamente e beneficare di preferenza coloro che sono a noi uniti con vincoli speciali. Anche il divino Maestro diede esempio di questa preferenza verso la sua terra e la sua patria, piangendo sulle incombenti rovine della città santa. Ma il legittimo giusto amore verso la propria patria non deve far chiudere gli occhi sulla universalità della carità cristiana, che fa considerare anche gli altri e la loro prosperità nella luce pacificante dell’amore. – Tale è la meravigliosa dottrina di amore e di pace, che ha sì nobilmente contribuito al progresso civile e religioso dell’umanità. E gli araldi che l’annunziarono, mossi da soprannaturale carità, non solo dissodarono terreni e curarono morbi, ma soprattutto bonificarono, plasmarono ed elevarono la vita ad altezze divine, lanciandola verso i culmini della santità, in cui tutto si vede nella luce di Dio; elevarono monumenti e templi i quali mostrano a qual volo di geniali altezze spinga l’ideale cristiano, ma soprattutto fecero degli uomini, saggi o ignoranti, potenti o deboli, templi viventi di Dio e tralci della stessa vite, Cristo; trasmisero alle generazioni future tesori di arte e di saggezza antica, ma soprattutto le resero partecipi di quell’ineffabile dono della sapienza eterna, che affratella gli uomini con un vincolo di soprannaturale appartenenza. http://summi pontificato (2)
DOMENICA V “quæ superfuit” DOPO EPIFANIA – III. Novembris (2021)
Semidoppio. Paramenti verdi.
Nei Vangeli delle precedenti Domeniche dopo l’Epifania la divinità di Gesù Cristo appariva nei suoi miracoli; oggi essa si afferma nella sua dottrina che « riempì di ammirazione » i Giudei di Nazaret (Com.). Gesù è nostro Re (Vers., Intr., All.), perché accoglie nel suo regno non solo i Giudei, ma anche i Gentili. Chiamati per pura misericordia a far parte del Corpo mistico di Cristo, bisogna dunque che anche noi usiamo misericordia al prossimo, perché noi facciamo in Gesù una cosa sola con Lui (Ep.). Perciò bisogna esercitarsi nella pazienza; perché nel regno di Dio, qui sulla terra, ci sono buoni e cattivi, e verranno separati per sempre gli uni dagli altri solo quando Gesù verrà per giudicare gli uomini.
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Jer XXIX :11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.
[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.
[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe]
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.
[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Oratio
Orémus. Famíliam tuam, quǽsumus, Dómine, contínua pietáte custódi: ut, quæ in sola spe grátiæ cœléstis innítitur, tua semper protectióne muniátur.
[Custodisci, o Signore, Te ne preghiamo, la tua famiglia con una costante bontà, affinché essa, che si appoggia sull’unica speranza della grazia celeste, sia sempre munita della tua protezione.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Colossénses Col III: 12-17
Fratres: Indúite vos sicut electi Dei, sancti et dilecti, víscera misericórdiæ, benignitátem, humilitátem, modéstiam, patiéntiam: supportántes ínvicem, et donántes vobismetípsis, si quis advérsus áliquem habet querélam: sicut et Dóminus donávit vobis, ita et vos. Super ómnia autem hæc caritátem habéte, quod est vínculum perfectionis: et pax Christi exsúltet in córdibus vestris, in qua et vocáti estis in uno córpore: et grati estóte. Verbum Christi hábitet in vobis abundánter, in omni sapiéntia, docéntes et commonéntes vosmetípsos psalmis, hymnis et cánticis spirituálibus, in grátia cantántes in córdibus vestris Deo. Omne, quodcúmque fácitis in verbo aut in ópere, ómnia in nómine Dómini Jesu Christi, grátias agéntes Deo et Patri per Jesum Christum, Dóminum nostrum.
[“Come eletti di Dio, santi e bene amati, vestite viscere di misericordia, benignità, umiltà, mitezza, pazienza, sopportandovi gli uni gli altri e perdonando, se alcuno ha querela contro di un altro; come il Signore ha perdonato a voi, voi pure così. Ma più di tutto vestite la carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo, alla quale foste chiamati in un sol corpo, regni nei vostri cuori e siate riconoscenti. La parola di Cristo abiti riccamente in voi con ogni sapienza, istruendovi ed ammonendovi tra voi con salmi ed inni e cantici spirituali, cantando con la grazia nei cuori vostri a Dio. Quanto fate in parole ed opere, tutto fate nel nome del Signore Gesù Cristo, rendendo grazie a Dio Padre per lui „ ].
I SEGRETI DELLA CARITA’.
(S. Paolo ai Colossesi: 3, 12-17).
E’ uno dei tasti, questo della carità, che San Paolo batte più spesso e più volentieri. Nel che egli imita e persegue la tattica del Maestro divino Gesù. Pel Maestro la carità riassume la lettera della Legge e lo spirito dei Profeti: per il discepolo la carità è l’intreccio delle perfezioni. E la carità reciproca, pel discepolo come pel Maestro, deve spingersi, per essere carità fino al perdono. Se non arriva lì, se deliberatamente si ferma più in qua, non è carità: è un surrogato, una imitazione, una contraffazione, forse non è carità cristiana, carità vera. Sopportarci a vicenda dobbiamo, dice con grande senso della realtà vera, quotidiana della vita; sopportarci dobbiamo se vogliamo essere caritatevoli. La sopportazione concerne i nostri difetti, grazie ai quali ci si urta l’un l’altro. È una forma di pazienza necessaria, perché gli urti nella vita sono facili, anche indipendentemente dalla nostra volontà. Pensate che per uno può diventare difetto ciò che per un altro è pregio. La calma del flemmatico è di fastidio alla vivacità del temperamento impulsivo. Bisogna sopportarci per amare. La carità è viva a prezzo di pazienza. Perciò altrove San Paolo enumerando le qualità che la carità deve avere, pone in alto, in prima linea la pazienza: «Charitas patiens est ». – Ma non basta essere tolleranti dei difetti altrui, la carità esige da noi il perdono, la condonazione. Qui non si tratta più di difetti del prossimo, cioè di qualità altrui che spiacciono a noi. Non ci sono sole le vivacità che offendono la mia flemma, ci sono gli sgarbi veri e proprî che irritano la mia coscienza; umiliazioni che offendono la mia dignità, male parole che so di non meritare. Ci sono le offese meditate, calcolate, volute, gratuite, dannose. Provocano lo sdegno. L’istinto grida vendetta. E all’istinto fa eco un certo senso molto egoistico di giustizia. Vendetta? No, dice il Vangelo; no, dice Paolo in nome della carità, il programma nuovo del Cristianesimo: bisogna perdonare, condonare: « Sopportatevi l’un l’altro (sono le parole testuali dell’Apostolo nell’odierna Epistola) e condonatevi l’un l’altro, se avete motivo di lagnarvi ». Ma l’Apostolo dice anche il perché di questo precetto nuovo: ci insegna il segreto, la molla di questa virtù eroica. « Come Dio ha condonato a voi, così voi reciprocamente ». Terribile motivo, travolgente. Ogni giorno abbiamo bisogno del perdono di Dio, ogni giorno facciamo appello alla Sua misericordia, per ottenerla. «Perdonaci » gridiamo nella preghiera. « Dimitte nobis debita nostra». Ma allora bisogna essere logici: non negare agli altri, ciò che sivuole, quasi si pretende per se stessi. E la preghiera quotidiana continua implacata ed implacabile:«Sicut et nos dimittimus debitoribus nostris ». Come anche noi perdoniamo, condoniamo a chi si è fatto, si è reso nostro debitore offendendoci iniquamente. Atto eroico, atto difficilissimo questo del perdono ai nostri offensori, meno difficile quando se ne considera la misteriosa e reale giustizia e, sempre sulla scorta di San Paolo, un frutto prezioso e provvidenziale la pace. La pace è il sospiro dell’anima umana; la pace è l’atmosfera normale della vita: la pace è l’atmosfera normale della vita e della gioia. La guerra stessa, che ha i suoi fanatici non vale se non in quanto serve alla pace. Non sifa la guerra per la guerra, si fa la guerra perla vittoriosa pace, la pace nella vittoria. Ma la pace, non è, non sarà mai l’epilogo della vendetta. La vendetta ha un meccanismo fatto a catena. Una violenza, una ingiustizia produce l’altra: « Abjssum invocat … ».Il tuo schiaffo genera, in linea vendicativa, il mio pugno, il mio pugno il tuo bastone, il tuo bastone la mia rivoltella e così fino all’infinito. Dove e quando la vendetta fu costume e legge, la pace fu un mito astratto, un desiderio pio, una invocazione vana. Questa catena maledetta e infinita di rappresaglie la tronca il perdono. È un punto fermo, è un cambiamento di registro, e l’intimazione efficace di un basta colle lagrime e col sangue. Alle anime veramente caritatevoli, perché caritatevoli fino al perdono, Paolo annuncia, come ricompensa la pace di Cristo, pace lieta tripudiante. « Et pax Christiexultet in cordibus vestris.» Perché, fratelli se vogliamo la pace sappiamo come e dove procurarcela. Col perdono imparato alla scuola di Gesù Cristo. Carità, perdono, pace sono tre fili di una sola, magnifica, infrangibile corda.
P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.
(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)
Graduale
Ps XLIII: 8-9 Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.
[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano. V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. Allelúja, allelúja.
[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno. Allelúia, allelúia.] Ps: CXXIX: 1-2 De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum. Matt XIII: 24-30
In illo témpore: Dixit Jesus turbis parábolam hanc: Símile factum est regnum cœlórum hómini, qui seminávit bonum semen in agro suo. Cum autem dormírent hómines, venit inimícus ejus, et superseminávit zizánia in médio trítici, et ábiit. Cum autem crevísset herba et fructum fecísset, tunc apparuérunt et zizánia. Accedéntes autem servi patrisfamílias, dixérunt ei: Dómine, nonne bonum semen seminásti in agro tuo? Unde ergo habet zizánia? Et ait illis: Inimícus homo hoc fecit. Servi autem dixérunt ei: Vis, imus, et collígimus ea? Et ait: Non: ne forte colligéntes zizánia eradicétis simul cum eis et tríticum. Sínite utráque créscere usque ad messem, et in témpore messis dicam messóribus: Collígite primum zizzania, et alligáte ea in fascículos ad comburéndum, tríticum autem congregáta in hórreum meum.
[“Gesù disse questa parabola: Il regno dei cieli è simile ad un uomo, che seminò seme buono nel suo campo. Ma mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico e soprasseminò zizzania nel mezzo del grano e se ne andò. E quando l’erba fu nata ed ebbe fatto frutto, apparvero anche le zizzanie. E i servi del padre di famiglia vennero a lui e gli dissero: Padrone, non seminasti tu buona semenza nel campo? Donde adunque le zizzanie? Ed egli disse loro: Un qualche nemico ha fatto ciò. Ed essi a lui: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? Ma egli disse: No! perché talora, raccogliendo le zizzanie, insieme con esse non abbiate a svellere anche il grano. Lasciate crescere insieme le une e l’altro fino alla mietitura, e allora dirò ai mietitori: Raccogliete prima le zizzanie e legatele in fasci per bruciarle: il grano poi riponete nel mio granaio „ ].
OMELIA
(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956)
IL NEMICO, IL SUO SEME E LA SUA ORA.
Un uomo aveva seminato, nel suo campo, frumento di prima qualità. Ma intanto che gli agricoltori dormivano, il nemico passò sui solchi a gettarvi la grama zizzania. Nessuno s’accorse della vendetta. Giunse la buona stagione e i grani germogliati crebbero in erba. Un giorno, tornando dai campi; gli agricoltori corsero dal padrone, pallidi per la dolorosa sorpresa. Signore nostro, tu seminasti grano scelto ed è venuto su frumento e zizania … ». «È stato il nemico! » rispose tristemente. E quelli bruciando dall’ira: «Noi ritorniamo indietro, e sterpiamo ogni mala pianta. Lo vuoi? ». « No, che mi rovineresti anche la buona pianta. Lasciate che l’una e l’altra crescano sino alla mietitura; allora io dirò ai mietitori: « Il tempo è venuto: su sterpate prima la zizzania e legatela in fasci che daremo alle fiamme, Il grano invece riponetelo nel mio granaio ». – La parabola è bella chiara. Gesù Cristo è il padrone, il mondo è il suo campo. Per questo suo campo non ha lesinato sudori e sangue e neppure la vita. Ma noi fermiamoci a discorrere del nemico, del suo seme, della sua ora. – Il nemico più forte e più accanito della nostra anima è il demonio. Inimicusautem est diabolus (Mt., XIII, 39). Egli si avvicina alle anime, — lo dice S. Giovanni — per derubarle, per ferirle, per ucciderle. Infatti, egli è il ladro del tesoro più prezioso che ciascuno porta con sé: la grazia. Egli è il feritore che aperse in noi piaghe mortali e pressoché incurabili; il peccato. Egli ancora è la perdizione di molte anime, che, sedotte dalle sue astuzie, precipitano nelle fiamme eterne. Non bisogna credere però che il demonio ci venga attorno di persona. È troppo furbo per far questo: sa di essere orribile e noi fuggiremmo da lui lontano per lo spavento. Si trasfigura in mille maniere, e più spesso sotto le apparenze di un uomo, amico o compagno o vicino di casa. Inimicus homo. – S. Teresa, già suora al convento dell’Incarnazione in Avila, s’era stretta in amicizia con una persona di cui ella non ha voluto scrivere il nome: senza dubbio era di condizione nobile, gran signora e gran dama della città. Di grave nulla vi era, ma con quella persona trascorreva lunghe ore in parlatorio, dimenticando così i rigori della sua vita monastica. Già più volte ne aveva sentito rimorso, già più volte aveva anche promesso a Dio di troncare con un taglio netto quell’amicizia: ma il suo cuore vi era così attaccato che al momento decisivo veniva a mancarle il coraggio e cedeva. «Una volta — ella narra nella sua autobiografia, — trovandomi ancora con quella persona in parlatorio, vedemmo venire verso di noi, (ed altre persone che erano là lo videro egualmente) qualcosa che assomigliava ad un enorme rospo, ma molto più leggero di quanto siano di solito questi animali. Non posso ancora comprendere come mai in pieno giorno, in quel luogo, vi potesse entrare una bestia di quella specie, né seppi mai donde venisse ». Comunque, n’ebbe tanto spavento che quella dolce e pericolosa amicizia, che le impediva i suoi doveri e la sua santificazione, fu troncata per sempre. Esaminiamo le nostre amicizie: sono tutte buone? in fondo a quella familiarità con persona di diverso sesso, non c’è forse il rospo schifoso dell’inferno? Se avessimo la grazia di S. Teresa, forse anche noi lo vedremmo avvicinarsi paurosamente dopo certi colloqui, in certe passeggiate, in certi ritrovi. Non è forse per quel compagno, per quell’amicizia che noi tante volte abbiamo peccato, tante volte abbiamo tralasciato i doveri religiosi? – Già nella coscienza abbiamo sentito rimorso, già in qualche confessione abbiamo promesso a Dio. Poi il coraggio ci è mancato. È troppo piacevole quella compagnia, è tanto dolce quell’amicizia… – Vi ricorderò la scellerata astuzia che quelli di Ioppe usavano con i Giudei ingenui. Invitarono dunque i Giudei a salire con loro sulle barche per una gita di piacere in mare: era tanta l’allegria, l’affabilità, l’amore che quei di Ioppe dimostravano, che essi entrarono in barca con le mogli e i figli, e senza alcun sospetto cantavano e ridevano. D’improvviso, tra i canti e i suoni, i falsi amici di Ioppe presero gli Ebrei e li scaraventarono in mare. Gli annegati non furono meno di duecento. (II Macc., XII, 3-4). – Al demonio quest’astuzia non è ignota. In mezzo ai canti, alle risa, ai piaceri, nelle gite di falsi amici, quanti improvvisamente han sentito la loro anima sprofondare nell’abisso del peccato e dell’inferno! – Il cuore dell’uomo è il mistico campicello di Dio. In esso ogni giorno vi semina ispirazioni buone e propositi santi, in esso frequentemente lascia cadere la sua parola che scende dalla bocca dei sacerdoti, in esso lo Spirito Santo prega e geme senza interruzione; in esso vi sono gli Angeli a custodia. Eppure, per colpa nostra, il nemico si avvicina e può scagliare la sua maligna semenza. Semenza di ribellione a Dio. « Perché gli obbedisci? — insinua il serpente nel cuore di Adamo — mangia il frutto proibito e diverrai indipendente e sovrano come lui ». Perché, insinua ancora il serpente nel nostro cuore, rispetti le leggi della Chiesa, santifichi la domenica, preghi mattino e sera?… fa quello che vuoi e sarai padrone di te. – Semenza di discordia in famiglia. « Perché il tuo fratello Abele deve essere sempre preferito, e tu lasciato in disparte? Non vedi che il suo mestiere di pasturare le greggi è senza fatiche e tu invece devi vangare la terra dura e bagnarla di sudore? uccidilo e avrai la sua parte… ». Variata, a seconda delle circostanze, ma è ancora questa la semenza che egli getta in molte case, dove i fratelli odiano i fratelli, i figli non amano i genitori, le nuore non sopportano i vecchi. – Semenza di parole cattive. Le bestemmie, i discorsi osceni, i libri impuri, i giornali senza pudore né fede, son tutta semenza dell’uomo nemico. Semenza di vizi disonesti. La storia del figlio prodigo che abbandona la casa del padre sospinto dagli amici dietro ai piaceri della carne, è vera anche ai nostri tempi. Ci sono famiglie che piangono, ci sono poveri cuori che soffrono, ci sono anime in cui il buon frumento di Dio è stato soffocato dalla zizzania delle passioni impure. – È ora di notte. Gesù è il padrone della semina nella luce del giorno pieno; ma il nemico sceglie per le sue vendette le ore della notte. Cum autem dormirent homines. « L’omicida si leva prima dell’alba e nelle tenebre compie i suoi latrocini. L’occhio dell’adultero brama l’oscurità, e nascondendo nel buio la sua faccia, dice: nessuno mi vedrà. Di notte i tristi sfondano le porte segnate di giorno. Per questa gente, come per i gufi, il giorno è noioso al pari della morte » (Giobbe, XXIV, 14-17). Quando poi Giuda si decide ad uscire dal cenacolo, per correre a vendere il Salvatore, il Vangelo osserva: « Erat autem nox ». Di notte fu compiuto dunque il peccato più grave che mai vide la terra. È ora di ozio. Ma l’ora del nemico non è appena quella della notte, ma anche quella dell’ozio. Cum autem dormirent omnes. C’è il sonno che sana e ristora le forze perdute; e c’è un’altra specie di sonno che debilita e rovina l’anima e il corpo: l’ozio. Nessuna ora è tanto propria del demonio quanto quella dell’ozio. Le immaginazioni cattive ci assalgono nei momenti di ozio. Come spiegate voi l’atto sacrilego degli Ebrei che si abbassarono ad onorare il vitello d’oro? Ce lo confida S. Paolo: «Il popolo sedette in ozi a mangiare, a bere, a divertirsi ». — E come spiegate la rovina di Davide, il re secondo il cuore di Dio? cadde nell’ora dell’ozio. Udite che arguta frase ha detto S. Tommaso da Villanova: « David in bello sanctus, in otio adulter et homicida ». Nelle opere di guerra Davide si conservò santo, nell’ora dell’ozio divenne adultero ed omicida. È ora di negligenza. Infine, l’ora del nemico, non solo è nelle tenebre e nell’ozio, ma è pure nella trascuratezza. Cum dormirent omnes. Dormono molti Cristiani e non fanno più penitenza, né dicono più alcuna preghiera: intanto il demonio semina in loro quelle tentazioni a cui non potranno resistere. Dormono molti genitori, né più si curano di custodire con pazienza i figli e le figlie: e ad un certo momento s’accorgono che non sono più né ubbiditi né amati. S’accorgono che i figli non vanno all’oratorio né alla chiesa, che le figlie fanno parlare malamente di sé. Raccogliete il monito di S. Paolo: « Vigilate et orate et state in fide » (I Cor., XVI, 13). Solo così il nemico che s’aggira attorno al nostro campo non vi potrà gettare il seme maligno. Solo così il buon frumento di Dio crescerà in spighe d’oro per il Paradiso.
– Il campo dove frumento e zizzania crescono insieme è questo mondo in cui i buoni sono misti ai cattivi, e la mistura durerà fino alla fine del mondo; gli Angeli sono i mietitori che allora faranno la grande spartizione. Questa è l’interpretazione della parola che Gesù stesso diede agli Apostoli. – Eppure, non molto tempo dopo, Giacomo e Giovanni se ne dimenticarono. Sdegnati della malignità dei Samaritani che non li lasciavano passare sul loro territorio, dissero a Gesù: « Vuoi che comandiamo al fuoco del cielo di cadere su loro e incenerirli all’istante? ». Si sentirono rispondere: « Non sapete di che spirito siete » (Lc., IX, 54-55). A quanti Cristiani, ancora oggi dopo due millenni di Cristianesimo, Gesù potrebbe ripetere il rimprovero fatto ai due figli di Zebedeo! Quando vi lamentate e dite quasi di perdere la fede perché Dio permette che i cattivi sconvolgano le nazioni, distruggano le chiese, massacrino preti e monache, violino i sepolcri, non sapete di che spirito siete. Quando vi meravigliate che Dio non faccia morire o almeno non mandi un malanno a certi impudichi, sacrileghi; contenziosi che mettono scandalo e discordia tra le buone famiglie, non sapete di che spirito siete. Perché, dunque, questa sopportazione divina da lasciare crescere la zizzania in mezzo a grano fino alla mietitura? Per misericordia verso i cattivi. Per amore verso i buoni. – Un istruttivo episodio è raccontato da S. Dionigi in una lettera. C’erano in una città due pessimi soggetti che angariavano in ogni guisa un uomo pacifico ed onesto di nome Carpo. Non potendo ottenere rispetto e giustizia dagli uomini, il perseguitato la invocava da Dio, supplicandolo incessantemente a mandare la morte che gli togliesse di mezzo i due iniqui. Dio invece andò in sogno al buon Carpo. Gli pareva di vedere la bocca spalancata d’un abisso dal quale, in mezzo a fumo e a fiamme, montavano immani serpenti per avvinghiare due uomini e strapparli dall’orlo giù nel baratro. Quei due uomini erano i suoi nemici e Carpo tremava di gioia nell’attesa di vederli da un momento all’altro precipitare. Ma sollevando un poco lo sguardo vide una mano nuda, forata in mezzo alla palma e sanguinante, che si protendeva in aiuto dei due sciagurati. Capì subito che quella mano era di Cristo crocifisso, di cui nel sonno udiva anche la voce: « Sono pronto ancora a morire per la vostra salvezza ». Quando si svegliò, Carpo non fece più la preghiera per la morte degli iniqui, e non si scandalizzò più della sopportazione divina che lascia vivere i cattivi in mezzo ai buoni, che lascia trionfare a volte l’ingiusto sopra il giusto. Aveva capito tre cose che anche da noi è necessario siano capite. A noi le anime non sono costate nulla, ma al Redentore sono costate il sangue e la vita. Egli le amò fino a morire sulla croce in mezzo a spasimi atroci, ed il suo tenerissimo cuore non può lasciarle cadere nella dannazione infernale senza aver prima tentato tutte le vie per salvarle. Non vuole la punizione ma il perdono, non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva. Il buon pastore ha forse battuto ed ucciso la pecorella traviata? Ha forse lasciato lapidare la donna adultera? Qual è il medico che non tenta ogni risorsa fino all’ultimo per guarire l’ammalato? Gesù è il paziente medico venuto per guarire le anime malate dei peccatori. Come deve sentirsi triste e incompreso quando intorno a lui si grida: «Falli morire! liberaci dal loro disturbo! ». Ancora risponde amaramente come ai figli di Zebedeo: « Non sapete di che spirito siete ». – Bisogna inoltre riflettere che se Dio facesse giustizia con la impazienza voluta da molti, e lasciasse cadere nell’inferno ogni uomo appena lo meritasse, non mancherebbero poi gli scandalizzati per l’esagerata severità del Signore. Che direbbero allora quelli a cui l’inferno sembra già un supplizio incompatibile con la divina bontà? Gli uomini, agitati come sono dalle passioni, passano da un eccesso all’altro nel loro giudizio. Dio invece possiede il perfetto equilibrio dell’amore e della giustizia. Egli solo conosce tutta l’atrocità e l’eternità delle pene dell’inferno, e conosce anche la fragile tempra della nostra natura; perciò sopporta i cattivi aspettando con paterno amore la loro conversione. Ma la sua pazienza ha pure un limite, e venuto il tempo della mietitura in essa farà lampeggiare la falce della sua giustizia. La pazienza di Dio è dunque una manifestazione del suo amore e della sua giustizia. – Infine c’è da riflettere che anche noi siamo stati in qualche momento cattivi nella vita, per giorni, per anni forse, siamo stati zizzania nel campo della Chiesa. Dio non voglia che la coscienza in questo momento ci accusi d’esserlo ancora. Se l’impazienza dei servi venisse ascoltata, se la zizzania fosse sradicata nell’istante in cui è scoperta, che sarebbe di noi ora? Dove saremmo? Sia ringraziata e benedetta la misericordiosa sopportazione del Signore. – « No, aspettate! — disse il padrone del campo; — altrimenti, sradicando subito la zizzania, ne soffrirebbe pure il buon grano ». Dunque, è anche per amore del buon grano che il padrone comanda d’aspettare. Ci sono infatti dei vantaggi per i buoni nella convivenza coi cattivi. a) Il primo vantaggio è nella possibilità di una conquista d’anime. Con la preghiera, con la mansuetudine, e massime col buon esempio possono persuadere il peccatore della bellezza delle virtù, della pace misteriosa ed intima che si prova nel vivere col Signore; possono indurlo a dire: « Si isti et istæ cur non ego? ». Non è necessario salpare l’oceano per salvare anime. Nella nostra casa forse, tra i nostri parenti ed amici; tra le persone con cui ci mette in contatto la nostra professione o il nostro lavoro ci sono anime smarrite nel buio dell’incredulità, anime assetate di gioia che fanno il male nell’illusione di sentirsi felici. Che grande onore se Dio ci usasse come strumenti di redenzione e di salvezza! Che grande gloria e ricompensa in cielo se riuscissimo a convertire un cuore! « Chi farà che un peccatore si converta dal suo traviamento, salverà l’anima sua dalla morte e coprirà la moltitudine dei suoi peccati » (Giac., V, 20). b) Un altro vantaggio che deriva ai buoni dalla comunanza coi peccatori è l’esercizio e lo stimolo della virtù. La vicinanza gravosa del peccatore è la cote su cui s’affila la pazienza e la costanza del giusto. Si ode spesso dire: « Tutti i miei peccati, i miei disordini, i miei dispiaceri provengono dall’aver a che fare continuamente con un consorte ubriacone o iroso, con figliuoli ribelli, con parenti invidiosi, con padroni esosi e ingiusti, con compagni libertini e irreligiosi, con gente sfrenata nelle passioni ». Bisogna condolerci con le persone che si lamentano così, perché soffrono tutti gli incomodi di questa grave e noiosa società dei peccatori, senza però ricavarne nessun merito. Non hanno forse l’occasione di farsi simili al loro Maestro e Capo, l’Uomo umile e mite di cuore, il Dio fattosi agnello di espiazione che perdonò a tutti e pregò per coloro che lo mettevano in croce? Perché non ne approfittano? Tutto coopera al bene di quelli che amano il Signore: anche le mormorazioni, le calunnie, l’odio, le ingiustizie dei cattivi perché attraverso a simili tribolazioni, i buoni si purificano e s’innalzano. – Nel campo del Signore la zizzania cresce in mezzo al grano, e così sarà fino al giorno della mietitura. Sull’aia del Signore i chicchi di frumento son frammisti a molta paglia e pula: e così sarà fino al momento del ventilabro. Intanto domandiamoci: il Signore che scruta i cuori, mi vede come grano o come zizzania nella sua Chiesa? come chicco di frumento o come pula? Se ci vede come buon grano, ricordiamoci di vigilare per non diventare zizzania. Benché costretti a vivere in mezzo ai corrotti, teniamoci separati da loro col cuore e coi sentimenti; di sopportare con carità e con silenzio. Anche Dio ha sopportato noi quando fummo cattivi, ed ancora adesso ci sopporta perché al suo sguardo nessuno può dirsi buono; di dare buon esempio. « Siate irreprensibili e sinceri figliuoli di Dio, scevri di colpa in mezzo ad una nazione prava e corrotta, fra cui risplendete come luminari del mondo » (Phil., II, 15). – Se invece in questo momento ci vedesse come pula sulla sua aia, o come zizzania nel suo campo, convertiamoci subito. Ci sproni:
— l’esempio e la gioia dei buoni;
— l’amorosissima pazienza con cui Dio ci ha aspettati finora, ed ancora ci aspetta per stringerci al suo cuore paterno;
— il timore che il giorno della mietitura, che il momento del ventilabro sia per noi imminente. Forse sarà domani. Forse oggi stesso. – La parabola della zizzania si può benissimo applicare alla tragedia che avvenne all’inizio della storia umana. Dio è il padrone e il suo campo coltivato e seminato con amore era l’umanità. Aveva infatti creato un uomo pieno d’armonia: tutte le forze e i sensi del corpo ubbidivano all’anima, e l’anima a sua volta ubbidiva a Dio. Anzi aveva voluto abbellirlo con doni singolari di intelligenza e di volontà; non solo, ma per un atto di intelligenza ed amore immenso e incomprensibile aveva voluto farlo partecipe della sua vita divina. – Ma ecco che il nemico, in un momento di solitudine, colse l’uomo e lo indusse al peccato: il primo peccato, la prima ribellione a Dio sulla terra. La zizzania ormai era seminata. Da allora, ogni uomo che viene al mondo, sente di essere in uno stato di disarmonia e di squilibrio: i sensi tendono a ribellarsi all’anima, l’anima sedotta tende a ribellarsi a Dio. È una lotta sorda tra corpo e anima, tra anima e Dio; è una mistione di bene e di male, un ondeggiamento di luce e tenebre, una concrescita di grano e zizzania nel solco umano. – Il peccato originale è una realtà d’ogni giorno. (Ecco il primo pensiero da meditare). Di fronte a questa dolorosa realtà come si comportano gli uomini? (Ecco il secondo pensiero). Alcuni con esagerato ottimismo, altri con uno sfiduciato pessimismo. I primi proclamano che tutto è buono quel che è in noi; i secondi proclamano che tutto è necessariamente corrotto quel che è in noi. E gli uni e gli altri, per diverso motivo, s’accordano nel rinunciare alla lotta: perché non c’è nemico da vincere, dicono i primi; perché tutto è fatalmente perduto, dicono i secondi. Gesù si pone in mezzo a costoro, e agli esagerati ottimisti dice: « Vigilate e fate penitenza »; e agli sfiduciati pessimisti dice: « Chi crede in me ha la vittoria e la vita eterna».
a) Osservate un bambino. Egli viene al mondo e i suoi buoni genitori lo circondano d’intelligenti e affettuose cure; allontanano da lui ogni cosa, ogni parola, ogni esempio che lo potrebbe male impressionare. Cresce sano e buono, già ripete con dolce trasporto le prime preghiere, già corrisponde con tenerissimo affetto all’affetto dei suoi cari; ma già si manifestano anche tendenze egoistiche, disobbedienze, bugie, pigrizie, capricci, che vuol dire questo? Non erano stati messi nel cuore soltanto semi buoni? Perché appaiono le male erbe? È che il cuore del bambino non è più una terra vergine. Il peccato originale vi ha disseminato la zizzania delle cattive inclinazioni che affiorano nell’animo quando meno ci si pensa. È verissimo che il Battesimo toglie il peccato originale, ridonando la vita divina ch’era perduta, ma ne restano le conseguenze; come quando guariti da un grave male ci trasciniamo dietro le debolezze della convalescenza.
d) Osservate un giovanetto. È vissuto finora ingenuo e pio, con negli occhi la luce delle cose belle, con nel cuore il desiderio spontaneo delle cose pure. Poi, una volta egli avverte rumore strano in sé: proprio dal fondo di quel suo cuore buono si sommuove qualcosa di torbido, e viene adagio adagio a galla, e appare nella sua laidezza accanto ai fiori dell’innocenza. Egli, per primo, è spaventato di ciò che gli è venuto in mente, lo detesta; non l’ha voluto e l’ha discacciato. Discacciato, dunque. Eppure il suo cuore già trema in un altro punto: ecco, accanto ad un gentile desiderio è sbocciato un desiderio perverso, malefico, inconfessabile. Lo vede, e s’attrista la luce delle sue pupille; egli non lo vuole, lo odia, eppure, suo malgrado, avverte una curiosità insana, una voluttà d’indugio, un fascino nefasto! – Oh! l’angoscia di questa scoperta! si ripete la dolorosa sorpresa del padrone quando intuì che nel suo campo era stata seminata la zizzania. Il peccato originale ha seminato la zizzania della concupiscenza nei profondi solchi del nostro cuore. c) Osservate un uomo. Quest’uomo sia uno dei più nobili e santi che la storia conosca: Paolo di Tarso. Grandiosi pensieri, sovrumani affetti lo trasportano a mirabili gesta, lo esaltano fino al martirio; si sente maggiore di se stesso, capace di far tutto. « Omnia Possum!». Eppure, a momenti, si ferma e trema: «Io non capisco — esclama — quello che avviene in me. Si desta una forza contro me, che vorrebbe trascinarmi a fare ciò che non voglio, e mi impedisce di fare ciò che voglio. Io, di mia vera e libera volontà, non voglio che osservare la legge di Dio; ma dalla mia carne si leva un vento furioso che cerca di rapinarmi e gettarmi contro la legge del Signore che amo. Orbene, se io faccio ciò che non voglio, c’è qualcuno in me che m’induce a farlo: chi è questo qualcuno? È il peccato… Chi mi libererà da esso? » (Rom., VII, 15-24). – Tra poco vedremo la risposta a questa implorazione pietosa; ora ci preme constatare che il peccato originale non è un male sospeso all’inizio della storia umana, ma fluisce incessantemente nelle nostre vene. Ma come si comportano gli uomini? A) Agli esagerati ottimisti: vigilare e lottare! Tolstoi racconta un episodio infantile, profondamente psicologico. Vola, un fanciullo di otto anni, va tutto felice per incarico della mamma a portare un dolce alla nonna. Ma poco dopo il fratello maggiore trova Vola nel corridoio, che piange con un piatto vuoto fra le mani. « Perché piangi? » gli domanda. «Io — risponde il piccolo singhiozzando — io non avevo intenzione… e tutto a un tratto… per caso… (si badi a questo « per caso ») l’ho mangiato ». E la mamma credeva che tu fossi contento di portarlo alla nonna, e non desiderassi che di vederla sorridere del dono!… ». «Ma. sì, — protesta il piccino, — io ero contento davvero, e non volevo che quello. Soltanto, a un tratto, per caso… mi venne in mente di assaggiarlo. Credimi, di assaggiarlo appena… Poi, non ricordo più come sia andata… Ecco che è SUCCESSO ». E torna a piangere: i goccioloni cadono sul piatto vuoto. Il grande scrittore russo ha toccato un punto essenziale della psicologia umana: «per caso »; e v’insiste tanto bene che nella sconfitta del piccino di otto anni, noi scorgiamo in germe tanti drammi della vita. Infatti, quelli che pretendono d’agire come se la nostra natura fosse tutta integra e sana, come se il peccato originale non vi stesse in agguato per travolgerci al male, cadono nell’ingenuità di quel bambino; ma. poi piangono per motivi assai più seri e per cadute assai più deplorevoli. «Io vado al cinema, alle commedie, ai balli, senza nessuna. intenzione di male, soltanto per. svagarmi un poco… ». Ma poi, tutto ad un tratto, « … per caso », non si può neanche dire come avviene… una scintilla balza da sotto la. cenere, una gran fiamma, e, addio virtù! si torna a casa con l’anima-disfatta e con l’amarezza che opprime. «Io vado all’appuntamento sola con lui solo, passeggiamo per vie meno usate; ma non c’è nessuna intenzione cattiva, perché siamo fidanzati e i genitori lo sanno, si fidano di noi che tanto spesso ci lasciano soli in casa… ». Ma, poi, tutto ad un tratto (per caso…) e, addio virtù! verrà il giorno delle nozze e si presenteranno all’altare due cuori sciupati, infangati, insozzati; e s’illuderanno che Dio su di cuori siffatti possa fabbricare la salda struttura di una buona famiglia. «Io leggo certi giornali, certe riviste, certi romanzi, non per gusto di male ma soltanto per passatempo, per cultura… ». Ma poi c’è un punto, e si sprigiona un narcotico morboso e l’anima; non si sa come, cede. Cede e non l’intendeva, non lo voleva. Si arriva fino al punto di non distinguere più il bene dal male, il frumento dalla zizzania, e si fa d’ogni erba fascio. « È un’esigenza della natura… Soffocarla è un immiserire la vita…. A tanta perversione di giudizio. conduce l’aver dimenticato che in noi ci sono le conseguenze del peccato originale, e che tutta la vita dell’uomo richiede vigilanza e mortificazione. B) Agli sfiduciati pessimisti: possiamo e dobbiamo vincere. – All’opposto, al comodo ottimismo di quelli che dimenticando il peccato originale giustificano tutti gli istinti della natura, v’è il pessimismo di quelli che li credono invincibili e s’abbandonano alla loro tirannia come a una fatalità. Anzitutto la fede c’insegna che il nostro Salvatore Gesù, morendo sulla croce, ci ha liberati dalla colpa originale infondendo nelle anime che credono in lui la sua vita divina. Inoltre ci ha meritato una tale abbondanza di grazia che ci rende capaci di superare tutte le conseguenze di una natura decaduta. Per quanto forti siano le passioni, per quanto profonde le tare ereditarie, sempre ci assiste un aiuto divino che, se vi collaboriamo con la buona volontà facendo tutto quanto ci è possibile, ci rende capaci di trionfare del male. «Chi mi libererà dalle tendenze corrotte della mia natura?» chiedeva angosciato S. Paolo. E udiva nel suo cuore la risposta che gli assicurava la certezza della liberazione: «La grazia del Signor Nostro Gesù Cristo». Con la grazia si sentiva capace di tutto: «Omnia possum». Un giorno alcuni malvagi, volendo uccidere S. Benedetto, gli presentarono da bere una coppa di vino avvelenato. Il santo fece il segno della croce sulla coppa e questa si spezzò e il vino mortifero si sparse per terra. – Un altro giorno S. Cunegonda si risvegliò per un eccessivo calore che sentiva nel sonno. Fece il segno della croce e il fuoco si spense, lasciandola illesa. Cristiani, dopo che il Figlio di Dio morì per noi sulla croce, dalla croce ci viene una forza infinita per la salvezza. Se il mondo e il demonio ci offrono la coppa avvelenata delle loro seduzioni, se le passioni provocano l’incendio intorno a noi, attacchiamoci a Cristo Crocifisso: con la preghiera, la mortificazione e la buona volontà invochiamo l’aiuto divino della sua croce, e il male non prevarrà giammai sulla nostra anima. Ma perché Gesù con la sua preziosa e sovrabbondante redenzione non ci ha liberati anche dalle perverse inclinazioni? Perché il Battesimo che ci lava dal peccato originale, non monda il nostro cuore anche dalla ripullulante zizzania? Perché bisogna ancora farsi tanta violenza per conquistare il cielo? Anche l’indemoniato di Gerasa (Mc. V, 1-20), liberato da Gesù, rivolse al Signore domande impazienti come le nostre; Lo ricordate questo infelice, invaso da una «legione» di demoni, che i suoi compaesani legavano, nudo, con catene di ferro in mezzo ai sepolcri, come se si trattasse di bestia feroce? Gesù lo liberò dai molti demoni che aveva indosso; i quali s’abbatterono su una mandria di porci e la gettarono nel lago dove affogò. Quando il giovane liberato vide Gesù che se ne andava, si mise ai suoi piedi e sollevando a Lui gli occhi pieni di lacrime implorava: « Conducimi via di qui! Conducimi con te!» Ma Gesù gli rispose di restare per dar gloria a Dio in quel selvaggio suo paese. Così, Cristiani, come la sorte di quel giovane, è la nostra. Gesù è venuto, ci ha liberati dal demonio, ha infranto le catene che ci legavano al sepolcro della morte eterna, ci ha rivestiti con lo splendore dei suoi meriti, ma non ci ha ricondotti nel paradiso terrestre. – Ci ha lasciati qui a lottare, su questa terra piena di seduzione, con questo fragile nostro cuore di cui non possiamo mai fidarci. Perché? È difficile dirlo, perché la sapienza delle disposizioni divine è spesso così profonda che alla nostra mente riesce misteriosa. Certo è per un nostro più grande bene, per una sua gloria maggiore. Inoltre, bisogna riflettere che Dio non ha voluto salvarci quasi non fossimo persone dotate d’una loro volontà e capaci d’una loro azione; quasi fossimo cose inanimate e non uomini. L’Amore infinito ebbe un gran rispetto della nostra personalità; ci dona la redenzione, ma insieme ce la fa conquistare; ci offre la salvezza, ma senza toglierci l’onore e la gioia di meritarla. Pertanto, rivestiamoci con le armi della luce e della giustizia, e combattiamo senza vili compromessi, nell’attesa del suo ritorno. Quand’Egli tornerà, beato l’uomo che avrà trovato al suo posto, fedele e vigile in arme!
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.
[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]
Postcommunio
Quǽsumus, omnípotens Deus: ut illíus salutáris capiámus efféctum, cujus per hæc mystéria pignus accépimus.
[Ti preghiamo, onnipotente Iddio: affinché otteniamo l’effetto di quella salvezza, della quale, per mezzo di questi misteri, abbiamo ricevuto il pegno.]
[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]
LIBRO TERZO
LA CHIESA
II. — I caratteri divini della Chiesa.
b) L’unità della Chiesa.
D. Oltre alla sua origine e alla sua perpetuità, la Chiesa, secondo te, ha altri caratteri divini?
R. Ve ne sono quattro che si presentano tradizionalmente come i più notevoli, e per questa ragione si chiamano note o segni caratteristici della Chiesa. Noi li abbiamo inclusi or ora in una veduta generale; e sono l’unità, la santità, la cattolicità e l’apostolicità.
D. Come intendi l’unità?
R. Noi l’intendiamo di una sola credenza, di un solo governo, di un solo culto; e ciò per tutti i tempi e per tutti i paesi come in ciascun tempo e in ciascun paese. Perché tale è la prima necessità di questo gran corpo.
D. Non vi sarebbero dunque, in tutto questo, varietà e variazioni?
R. Ve ne sono e ve ne devono essere. Ma qui noi parliamo dell’essenziale.
D. Perché questa unità?
R. Perchè l’unità è la realtà stessa, perché soprattutto l’unità e la vita non sono che una sola cosa. Ma inoltre ricorda quale vita e quale realtà sono quelle della Chiesa. Se la Chiesa non è altro che l’unione di Dio con l’uomo e l’unione dell’uomo con Dio sotto una forma sociale, come mai vi sarebbero più Chiese, o come mai vi sarebbe divisione nel suo seno riguardo a ciò che precisamente ci aduna? Pluralità di Chiese significherebbe o pluralità di Dio, o pluralità dell’uomo secondo che egli ha rapporto con Dio. Se Dio è uno, e se anche l’uomo è uno, in Cristo, per unirsi a Dio, non ci può essere che una Chiesa. Da Dio e dall’uomo, in essa, sorge una nuova unità: quella dell’organismo umano-divino del quale Cristo è il capo, e tutti gli uomini sono chiamati a diventarne i membri, e lo Spirito Santo ne è l’anima. Perciò noi diciamo della Chiesa che essa è l’Incarnazione continuata, cosa necessariamente una. Il corpodi Cristo è forse diviso? dice S. Paolo. Non vi è che un Signore, una fede, un battesimo, un Dio padre di tutti, che (agisce) per mezzo di tutti, che (è) in tutti.
D. Dicevi poc’anzi che solo recentemente la Chiesa ha operato il suo ultimo concentramento: sarà dunque perché fin qui non era una.
R. La Chiesa fu sempre una; ma vi sono dei gradi nell’unità come ve ne sono nella vita, che noi diciamo confondersi con essa. Un organismo si unifica tanto più quanto più cresce la sua differenziazione e si moltiplicano le sue funzioni, purché questa differenziazione e quest’accrescimento di funzioni procedano dall’interno stesso, dal principio iniziale che cerca di rivelarsi in un modo sempre più ricco. L’uomo è più che un protozoo; questo, sezionato, sussiste: provati a segare un uomo! Così la Chiesa oggi, molto più complicata di quella dei primi tempi, e anche più una, perché la sua complicazione è il risultato d’un rigoglio interno, quello del principio divino che si vuole manifestare di più, e per questo si crea degli organi, ma senza cessare di dominarli, di orientarli verso i suoi propri fini, tanto più che il loro numero è più grande e più grandi le loro risorse.
D. Non vi sono nella Chiesa delle crisi di unità?
R. La vita sociale, religiosa o civile, come pure la vita individuale, è una serie di crisi che si sciolgono. L’essere ben costituito, tanto più l’essere divinamente costituito, trae di lì il suo progresso e fa l’opera sua.
D. Le crisi vanno crescendo con l’unità?
R. Le crisi vanno forse crescendo in numero, in ragione delle complicazioni nuove; ma decrescono in importanza coi progressi dell’unità. Oggi non si vede più la possibilità dell’arianesimo, del grande scisma d’Occidente, dello scisma greco, della riforma. Gli assaggi di dissidio, in Francia, nel momento della separazione, sono caduti nel ridicolo; la crisi modernista fu prontamente vinta. Ogni volta che una tale prova infierisce, una reazione unitaria viene a dimostrare la volontà di vita in uno che conserva la Chiesa.
D. Dici che l’unità si limita all’essenziale: in che consiste l’accessorio?
R. Consiste in differenze alle volte notevolissime, benché secondarie, in materia di credenze, di pratiche, di vita rituale, ecc., differenze che la Chiesa accetta oppure rifiuta di lasciar ridurre, perché essa le giudica utili, ad ogni modo normali, a condizione di mantenersi nei limiti.
D. Chi fissa i limiti?
R. La Chiesa stessa, solo giudice dell’anima sua e di ciò che rispetta, serve od offende l’anima sua.
D. Questa tolleranza ha anche i suoi periodi di tempo?
R. Normalmente essa cresce con l’unità di concentramento che ho descritto. Si è molto più facili circa i particolari, quando si è sicuri dell’insieme. Se Leone XIII e i suoi successori poterono sciogliere i riti orientali, è perché il Concilio Vaticano assicurava ugualmente l’unità, e se domani qualche genio incorpora alla teologia cristiana tutto il contributo contemporaneo, sarà perché prima si saranno ben notate le frontiere tra ciò che è acquisito e irreformabile da una parte, e dall’altra ciò che rimane pieghevole e che è materia di avvenire.
D. Perché l’avvenire apparterrebbe tutto alla tua Chiesa? Perché non vi sarebbe, più tardi, un’altra Chiesa?
R. Ci vorrebbe per questo un altro Cristo; ci vorrebbe una nuova incarnazione, e a che pro? Che farebbe il nuovo Cristo, che non abbia fatto e per sempre il primo? Che nuova materia d’azione, quando Gesù si è rivolto a ogni carne e ha inteso di unire a sé tutto il genere umano? Vi può essere un nuovo Adamo? Dunque, non è possibile, parimenti, che vi sia più un nuovo Cristo, un nuovo corpo di Cristo così come chiamiamo la Chiesa.
D. Il nuovo venuto potrebbe essere un nuovo profeta, un annunziatore.
R. E che cosa annunzierebbe? Parlando nel suo proprio nome, indipendentemente dalla divina parola già udita, egli non sarebbe che un anticristo; parlando nel nome di Cristo e nel senso di Cristo, non farebbe altro che spiegare, sviluppare, e a questo fine basta la Chiesa. Lo Spirito divino in missione permanente in mezzo a noi non ha altro compito. Venga pure un annunziatore, ma parlerà secondo questo Spirito; spiegherà il Cristo; egli sarà nella Chiesa.
D. Tu rifiuti dunque anticipatamente ogni nuovo Messia?
R. Lo stesso Gesù ci mise in guardia: « Se qualcuno vi dice; Cristo è qui, o: Egli è là, non lo credete ». Del resto quei che sognano rivelazioni successive e attendono dei nuovi Messia, anzitutto sono in ritardo; infatti, per quanto è possibile prevederlo, il conflitto dell’avvenire, come quello del presente, sarà questo: il Cristianesimo, o niente. Ma, ad ogni modo, costoro fanno Gesù diverso da quello che Egli è; vedono in lui il rabbino galileo di Renan, e non il Figliuolo dell’Uomo.
c) La Santità della Chiesa.
D. Hai parlato di santità: pretendi forse che la tua Chiesa sia una società di santi?
R. È anzi piuttosto una società di peccatori, poiché è una società di uomini. Ma se gli uomini ne sono la materia, la Chiesa stessa, nella sua realtà totale, è tutt’altro. In grazia di Cristo e dello Spirito di Cristo, essa è un composto umano-divino, e questo composto, disponendo degli influssi di Dio sotto tutte le forme richieste da questa vita a due che Dio propone all’umanità, non può essere che santo e santificante, checché ne sia delle miserie de’ suoi membri. La Chiesa è santità in Dio; la Chiesa è santa perfettamente in Cristo; è santa ne’ suoi mezzi usciti da Dio e da Cristo; aspira solamente ad essere santa in tutti i suoi membri.
D. Non basta questa mescolanza per paralizzare la sua azione?
R. La mescolanza del bene e del male nella Chiesa la incomodò sempre, ma non la potrebbe paralizzare. Anche un grano impuro germoglia, purché le sue impurità non tocchino il potere di germinazione nel suo centro. Qui il centro è divino; la tessitura stessa è divina e non potrebbe perire.
D. Si possono dunque esigere degli effetti di santificazione?
R. Teoricamente, no; perché questi effetti di santificazione hanno per soggetto delle creature libere. L’opera d’arte non è mai sicura di riuscire, quando la sua materia ha il potere di rifiutarsi. Dipende da ciascuno di noi per parte sua il tenere in scacco la santità della Chiesa, secondo che essa consiste in una estensione del suo valore. La Chiesa sarà nondimeno, nel suo fondo, santa e santificante, avendo sempre in sé lo Spirito e tutto il sistema de’ suoi mezzi di espansione.
D. Tu dici che questa risposta è teorica.
R. Unicamente teorica di fatto. Giacché l’umanità è ciò che è, composta di cattivi e di negligenti indubbiamente, ma anche di grandi anime e di anime di buona volontà; se nella Chiesa non vi fossero dei frutti visibili di santità, a buon diritto si dubiterebbe del suo valore santificante. L’albero si riconosce da’ suoi frutti, dice il nostro Vangelo.
D. Non temi che questa massima si rivolga contro di te?
R. La Chiesa non la teme; anzi l’invoca. Il germe che ha germogliato a dispetto delle sue impurità non dimostra forse la sua qualità intima e la sua autenticità in quanto grano di una certa specie? La Chiesa, non ostante i vizi de’ suoi fedeli o de’ suoi dirigenti, ha prodotto della santità nel mondo; si può dire che essa ne ha coperto il mondo: perché appunto vi era in essa un germe divino.
D. Non siete forse soddisfatti a troppo buon mercato?
E. La Chiesa è lontanissima da un contentamento ottimista; non è essa l’eterna brontolona che sempre dispera delle nostre bassezze, motivo per cui anche le nostre bassezze spesso si esasperano? Ciononostante, ambiziosa di assoluto, essa, a chi le domanda dei santi, ne può mostrare delle gloriose falangi. – Avevamo riconosciuto più sopra che nessun gruppo religioso ne può anche lontanamente offrire l’equivalente.
D. Essa non ha cambiato il mondo.
R. Anche i discepoli di Emmaus, il giorno dopo la Risurrezione, al principio dell’opera reale di Cristo, dicevano: « Noi credevamo che Egli avrebbe riscattato Israele ». L’opera della Chiesa è l’opera umana sopra la terra; essa è laboriosa; e, come ho detto, dipende da noi stessi, e il mondo non è finito,
D. Non vi sono dei tempi in cui la Chiesa pare diseredata di santità?
R. Solo la forma cambia. Là dove manca l’estensione, si osserva una concentrazione. Quando i canali regolari della grazia si chiudono, la grazia erompe, qua o là, in getti mirabili, e i periodi ingrati della storia contano i più grandi Santi,
D. Questi sono degli individui; ma vi è anche una santità sociale.
R. Noi ne abbiamo trattato, come dell’altra, a proposito della vera religione. Abbiamo dovuto confessare che la morale evangelica messa in opera nella Chiesa e per la Chiesa, nelle società cristiane, è alla base della civiltà.
D. La Chiesa cattolica vi ebbe una parte preponderante?
R. Fino alla riforma, ciò non si può mettere in dubbio. Dopo la riforma, ciò è anche più certo.
D. Tuttavia si sente dire che le società protestanti, sono superiori, moralmente, alle società cattoliche.
R. A questo darò una triplice risposta. Guardando alle apparenze, si potrebbe credere che certi gruppi protestanti son di fatto di una moralità e di una religione superiore, almeno sotto certi aspetti. Ma quando si è abbastanza informati da andare a fondo delle cose e si generalizza, il giudizio cambia. – In secondo luogo, se tu consideri la parte eletta, che permette un più giusto apprezzamento, la bilancia trabocca totalmente in favore della parte eletta cattolica. – Finalmente, e qui sta il principale, cerca dove sono i Santi, cioè gli eroi religiosi, quelli che, in grazia di quell’alto misticismo che prova l’unione con Dio, manifestano appieno la portata e la fecondità del principio: essi sono una pleiade nel Cattolicismo; non se ne vedono nel protestantesimo. Il protestantesimo alberga molte nobili anime; se ha prodotto dei santi, fu nel segreto; storicamente, in ciò che si vede, che solo è in causa per noi, si ha il diritto di dire: Esso non ha prodotto dei santi; non ha dei genii religiosi; non ha degli eroi. Ora, se tu volessi stabilire tra due eserciti una scala comparativa di valori, non parleresti anzitutto delle unità eminenti, dei grandi soldati, dei grandi capi, dei grandi duci, degli eroi? Così si giudica, nel fatto, il principio vivificante della Chiesa.
D. Tu attendi dall’avvenire un grande sforzo di santità nuova?
R. Ancora una volta, che l’opera dello Spirito si compia, dipende da quelli in cui lo Spirito lavora. Ma noi non temiamo uno scacco che supporrebbe o una malizia sovrumana dalla parte degli uomini, o un rifiuto della misericordia dalla parte di Colui che disse: La mia misericordia è più grande del tuo peccato, o Israele. «Io credo, scriveva Ozanam, al progresso dei tempi cristiani; e non mi spavento delle cadute e dei traviamenti che lo interrompono. Le fredde notti che succedono al calore dei giorni non impediscono all’estate di seguire il suo corso e di maturare i suoi frutti ».
J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;
LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-
[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]
PARTE TERZA.
Sviluppo storico della divozione.
CAPITOLO TERZO.
PRIMO SVILUPPO DELLA DEVOZIONE(SECOLO XVI)
IV.
LA SPAGNA E L’ITALIA:MISTICI ED ASCETI – SCRITTORI DIVERSI
Luigi Garcia. – I B. Anyès – Pietro d’Alcantara e Francesco Borgia. — Giovanni d’Avila. – Luigi di Granata. – Santa Teresa. – S. Alfonso Rodriguez – Baldassare Alvarez. -— Anna Ponzia di Leoni – Sancha di Carillo – Vittoria Colonna Caterina dei Ricci – Maddalena dei Pazzi – Scrittori ascetici, esegeti, teologici. – Fatti diversi.
La Spagna merita una menzione speciale in questa prima fioritura. 1 suoi preti hanno cantato la nostra divozione, i suoi mistici l’hanno vissuta, i suoi scrittori ne hanno parlato. Non sappiamo precisamente ciò che si trovava in certi versi catalani scritti per una giostra pubblica nel 1456 da un prete di Valenza, Luigi Garcia, il titolo dei quali mostra che erano « in onore del sacratissimo Cuore di Nostro Signore Dio, Gesù Cristo », perché la composizione è perduta (Secondo il P. Fita, Apuntes para formar una biblioteca hispano-americana del Sagrado Corazon de Jesus, Barcelona 1874, p. 6). Ma ci rimane un testimonio prezioso, il più antico nel suo genere, della devozione spagnola al cuore di Gesù. A Valenza, infatti, appariva sino dal 1150, una specie di Piccolo Ufficio del sacro Cuore, sotto il titolo: Septem hore precariae ad Christi cor, perstringentes precipuos Pas:sionis Domini actus ab ejus captione in sepulturam. L’opuscolo è di I. B. Anyès, pio e sapiente prete spagnuolo, di S. Francesco Borgia e di santa Teresa. Esso è dedicato a una parente di san Francesco Borgia, che era badessa del monastero di santa Chiara a Candia. È tutto in versi, meno l’orazione. Ogni piccola ora contiene in cinque versi una menzione del sacro Cuore, in rapporto con una delle scene della Passione, seguita da un distico, che costituisce versetto e responsorio, e dalla orazione che non variano. È molto pio e non si discosta dalla linea della divozione. Ecco, perché se ne abbia una idea, l’Ad Matutinum (Testo in NILLES, t.II, p. 221-223; testo e traduzione francese nella Petite anthologie du Sacré-Caur de Jésus, del P. Francesi, Tournai, 1903, p. 9-13)
Cordis pura tui puro præconia corde
Da modulis celebrare piis mihi, dulcis Iesu;
Corde ut agone tuo tecum certemus amaro,
Vincti et amore simul tua vincula dura feramus
Atque alapas animo, verbera, sputa, pio.
V). Cor mundum da, Christe, pii da flumina fletus.
R). Plangamus pœnas corde animoque tuas.
Oremus. Bonorum omnium largitor Deus, qui omnes thesauros tuos in cordis Filii tui Domini nostri Jesu Christi, arca recondisti, ut in cruce militis aperta lancea eos in pauperes miseros liberalis effunderes: quæsumus, ut cordibus nostrìs ita illos recondas, ut vita et mortis ejusdem Filii tui semper memores, digni efficiamur gloria resurrectionis. – Per eumdem….
Ecco, dopo compieta, la preghiera finale intitolata
Commendatio;
Cordis diva tui cecini præconia, Christe,
Pleni divitis deitatis: lucis, amoris,
Flaminis et vitæ. Toto fac corde animoque
Te deamem, cupiam, quæram, inveniam, teneamque
Post mortem ut cœlo te super astra fruar.
I grandi mistici ed asceti spagnoli non hanno dato un posto alla nostra divozione. Nondimeno non l’hanno dimenticata. Senza parlare di S. Pietro d’Alcantara (1499-1562), né di S. Francesco Borgia (1506-1566), nei quali. la divozione al cuore non si libera ancora, o molto poco, dalla divozione alla piaga del costato, possiamo segnalare casi e testi precisi in cui l’attenzione quantunque fissata principalmente sulla piaga del costato, distingue pertanto il cuore e la ferita che gli ha fatto l’amore, ben più che il è ferro crudele d’una lancia » (La parola è di S. Pietro D’ALCANTARA, Traité de l’Oraison, 1.a parte, c. 4. Per il sabato. Ediz. Migne, Oeuvres de sainte Therése, t. Ill, p.-332, Cf trad. 1. Bourx, 1862, p. 148. In questo stesso luogo il cuore è rammentato: « Dio ti conservi, preziosa piaga del costato che ferisci i cuori devoti rosa d’ineffabile bellezza, rubino di valore inestimabile, ingresso al cuore di Gesù Cristo, testimonianza del suo amore e pegno della vita eterna ». Al principio del capitolo, il santo autore, indicando la maniera di meditare sulla Passione, raccomanda d’insistere sulle sofferenze interne dell’anima, ma non nomina il cuore. La parola citata nel testo, si ritrova in Lours GRENADE, De l’Oraison et de la considération, 1.a parte, c. 2. Per il sabato; Oeuvres complètes, traduzione Bareille, Parigi 1863; t, II, p, 83. I due passi sono identici. Vedi: Franciosi col. 309 e col. 325. Sui rapporti fra le due opere, vedi, per lo stato attuale della questione: Villien, Pierre d’Alcantara ou Louis de Grenade? nella Revue du clergé francais, t. LXXXII, p. 65-69 – aprile 1915. Franciosi, riporta la bella preghiera di san Francesco Borgia alla piaga del costato).
Ecco da prima, il beato Giovanni d’Avila.
Il B. Giovanni d’Avila, morto nel 1569, ha parlato del sacro Cuore meno di Luigi di Blois, di Lansperge e di san Francesco di Sales. Si è anzi sorpresi che egli gli passi spesso così da vicino, per così dire, senza vederlo (Così nel Discours de l’amour de Dieu, c. 4 e 5, egli insiste sull’amor di Gesù morente in croce per noi, sulle ferite fatte dalla corona di spine e dai chiodi, ma niente sulla ferita del cuore. Les Oeuvres du B. Jean d’Avila, Paris Arnauld d’Andelly, Paris 1673, pag. 494-497). Qualche volta, però, lo nota e ne parla. Allora egli si ferma da vero devoto del sacro Cuore, e, senza osservazioni teoriche, né spiegazioni, ci mostra la devozione in atto. Spiegando la maniera di meditare sulla vita di Nostro Signore egli scrive: « Considera…. ciò che egli soffriva…. e ascolta le parole uscite dalla sua bocca. Ma soprattutto fissate lo sguardo dell’anima sua al sacro Cuore, con un sentimento vivo e tranquillo, per vedere come l’amore di cui arde per tutti gli uomini, sorpassi tanto ciò che apparisce al di fuori delle sue sofferenze, quantunque siano inconcepibili quanto il cielo è al disopra della terra » (Trattato Audi filia, c. 74, p. 674 Ho verificato la traduzione sul testo spagnuolo: Obras del Ven. Maestro Juan de Avila, Madrid 1759, t. IV, p. 10-32-33, ma vi è l’essenziale.). Egli ci insegna dunque ad entrare nel « santo dei santi » considerando « il cuore di Gesù Cristo che non solo è santo, ma la santità stessa ». – « Perchè, continua egli, non essendosi contentato di soffrire esteriormente, ma avendoci amato dal fondo del cuore, non deve bastare a voi di considerarlo ed imitarlo nelle sue sofferenze esteriori, ma dovete entrare nel suo cuore, per considerare ed imitare quello che vi avviene ». Eccoci qui in piena divozione al sacro Cuore. Ciò che segue è ancor più espressivo. « Per renderci questo più facile, Egli ha permesso che dopo la morte un colpo di lancia gli trafiggesse il costato per aprire una porta attraverso la quale potessimo entrare in quel cuore e vedervi ed ammirarvi le meraviglie onde è pieno ». Una volta giunti là, Egli ci fa meditare amorosamente l’amore di Gesù nelle sue sofferenze e le ricchezze del divin Cuore. « Tutto quello che Gesù Cristo ha fatto in nostro favore, è meraviglioso, ma ciò che ha sofferto lo è molto di più. Ma se si considerano quali erano i suoi sentimenti per noi, nel più forte dei suoi dolori, si può, forse dimenticare tutto il resto e trattenersi dall’esclamare: Chi è simile a Voi, o Signore? Quando dunque, figlia mia, vedrai in spirito che Gesù vien legato con corde, che lo si schiaffeggia, che si incorona di spine, che si configge con chiodi su di una croce e che vi soffre la morte, pregalo di accordarti la grazia di comprendere come può farsi che Egli essendo onnipotente si lasci trattare così; e San Giovanni vi risponderà che è perché ci ha amato e ha voluto lavare, nel suo sangue, i nostri peccati. Medita bene queste parole, imprimile nel tuo cuore e pensa e ripensa all’eccesso di un tale amore ». (Audi filia c. 78, p. 684-685). Seguono delle pie considerazioni su questo amore così generoso e disinteressato: il tutto nel senso della devozione al sacro Cuore. – Il Venerabile Luigi de Granada, O. P. (1505-1588) si esprime spesso a poco come il beato Giovanni d’Avila, salvo forse, che egli fa maggior eco di pensieri tradizionali e ne ripete le principali espressioni: « Nostro Signore, per un divino consiglio ha voluto che il suo costato fosse aperto da una lancia, per farci comprendere che per l’apertura delle sue piaghe noi dobbiamo entrare nel suo cuore e nei segreti della sua divinità » (Addition au Mèmorial, 2.° tratt., Avant-propos, c. l., Oevres spirituelles, traduites par M. Giraud, Paris, 1679, p. 1679, p. 916. In Franciosi, col. 325. La traduzione di M. Bareille risveglia meno chiaramente l’idea del cuore simbolico, ma il senso è lo stesso. Oevres complètes, Paris, 1863, t. XIII, p. 196. Ho verificato i testi sullo spagnolo: Obras del Ven. P. M. Fray Luis de Granada, repartitas en tres tomos, Madrid 1701. Quello che precede è al t. I, p. 823 col. I.). Egli dice altrove, a San Pietro d’Alcantara (testo e note), dove il cuore è espressamente nominato: « Aprimi, Signore, aprimi questa porta, ricevi il mio cuore in questa deliziosa dimora e per essa dammi libero passaggio sino al più intimo del vostro sacro Cuore! (a las netranas de tu amor). Che io mi disseti a questa sorgente deliziosa, che mi purifichi in questa acqua santa, che mi inebri di questo nettare prezioso. Lascia che l’anima mia si addormenti nel tuo cuore divino (en este pheco sagrado), e la dimenticherò tutte le vane cure del mondo » (Traitè de l’Oration, 1.a parte, c. 2, Meditation pour le samedi. In Franciosi, col. 325-326. Obras t. I, p. 233-234. Abbiamo già notato l’identità di questo passo con quello di san Pietro d’Alcantara ibid. Col. 309. Ma s. Pietro d’Alcantara si ferma meno al cuore. Qui ancora la traduzione di Mareille è meno espressiva, ma dice la stessa cosa. Oevres complètes, t. II, p. 83). – Nel Memoriale (trattato V. c. 10, n. 8) si trova un’altra preghiera a Gesù, contemplando il tuo costato trafitto: « Io ti ringrazio, o mio dolce Gesù, per aver voluto che il tuo dolcissimo cuore (coraçon) fosse aperto dalla lancia del soldato e che ne uscisse sangue ed acqua, per lavare le anime nostre e dar loro la vita. Oh! se ferissi il mio cuore con la lancia del tuo amore in maniera che non potesse d’orinnanzi volere altra cosa se non quello che tu vuoi! Che l’anima mia, abbia accesso, per la piaga del tuo costato, nel santuario tuo tuo amore, nel tesoro della tua divinità, per adorarti … e, strappando dalla mia memoria l’immagine di tutte le cose visibili, non mi occupi più che di te, non veda che te, sempre ed in tutte le cose (Traduzione diretta dallo spagnuolo, Obras, t. 1, p. 583; col. I.). – La stessa via, santa Teresa (1525- 1582) indicava al vescovo di Osma, tracciandogli, dietro sua richiesta, un metodo d’orazione. « La piaga. del suo costato, per la quale ci lascia vedere allo scoperto il suo cuore, vi rivelerà se l’indicibile tenerezza d’amore che ci ha indicato, volendo che questa sacra piaga fosse il nostro nido e il nostro asilo, e che ci servisse di porta, per entrare nell’arca, nel tempo delle tentazioni e delle tribolazioni. Voi lo supplicherete che, come ha voluto che il suo costato fosse aperto per prova dell’amore che ci porta, così faccia, per bontà sua, che si apra a sua volta, per discuoprirgli le nostre miserie e domandergliene, con successo, il rimedio. (Lettres, traduzione Bovix, t. III, p. 336. Citato da Franciosi, col. 321 Come si vede è l’idea tradizionale che esprimevano alla lor volta s. Pietro d’Alcantara e Luigi di Granata nei passi citati. La medesima idea nel P. Bernardo d’Osimo, Méditations sur la Passion du Christ, Avant-propos, p. 3 e segg. Citato dal P. Henry pe Grèsez, p. 185-186.) La stessa santa ha espresso in uno squisito volumetto una delle grandi verità della vita soprannaturale, la nostra dimora in Dio e la dimora di Dio in noi per amore, sotto forma di presenza reciproca nel cuore. Il pensiero del cuore materiale è poco marcato in questo documento; mi sembra, non pertanto, che vi si ritrovi. « L’amore, o anima, ha potuto tracciare in me il tuo ritratto in tal modo, che il pittore più abile non avrebbe saputo produrre una simile immagine. È il mio amore che ti ha formata, bella da rapire, e che ti ha così dipinta nel mio cuore che, se tu ti perdessi, anima cara, bisognerebbe ricercarti in me. Io so che tu ti troveresti impressa e riprodotta sì al vivo nel mio cuore, che se tu ti vedessi, ti rallegreresti vedendoti così ben riprodotta » (Vedi Histoire de sainte Thérése, secondo i Bollandisti, t. II, p. 507, Paris 1886. Sul senso preciso del documento e sua verità profonda, vedi: Nature et surnaturel, 4a ediz., Parigi, 1911. Prefazione, p. XIX e seguenti). – Medesime idee e medesime esperienze mistiche in sant’Alfonso Rodriguez (1534-1617), umile fratello coadiutore della Compagnia di Gesù, quando spiega « come l’anima abita per la contemplazione nel cuor di Gesù, e come Gesù per il grande amore che le porta, se la ponga nel suo proprio cuore ». Egli mostra l’anima pia che legge sul santo volto di Gesù i dolori del suo cuore e dell’anima sua che beve, per la compassione, alla sorgente da cui provengono, sorgente che non è altro « che il cuore di Cristo ». « Allora lo stesso Cristo, la conduce sin nell’interno del suo cuore; ed essa, una volta entrata in quel cuore, in quell’oceano di tribolazione e di angoscia, gli tien compagnia…. E, siccome questo santo cuore è un fuoco d’amore, essa s’infiamma là, di un fuoco d’amore, e gli ardori che Gesù le comunica son così vivi che ei la trasforma in sé stesso, presso a poco come fa con il ferro il fuoco materiale, quando è grande; penetra al punto che il ferro sembra fuoco. Così immersa tutta in quel ritiro del Cuor di Gesù, l’anima gode di ciò che questo dolce Salvatore, che l’ama tanto, le comunica di se stesso, rivestendola, da capo a piedi dei suoi grandi dolori e delle sue sofferenze »
(De la union y transformacion del alma en Christo, c. 7 – nelle Obras espirituales del B. Alonso Rodriguez, ordenados y publicadas por el P. Jaime Nonell, t. Il, p. 140-1411, Barcelone, 1886. Traduzione in francese; un po’ libera, ma esatta, in LETIERCE t. I, p. 52-53: L’opuscolo intiero è stato tradotto dal P. de Bénazé, Union et transformation de l’ame en Jésus-Christ suivie de L’explication des demandes du Pater. Nuova edizione, Paris–Lille, 1907, II c. VII, qui accennato, è alla p. 65 e seguenti. Si trovano delle analoghe nella 10.a meditazione del santo sulla Passione. Obras, t. I, p: 373; e nelle considerazioni che seguono, intitolate: De quelques manières d’union et de transformations de l’Ame en Jésus-Christ, lui demeurant en elle, et elle dans le coeur du Christ». Obras, t. I, p. 374-376.).
Il P. Luigi du Pont ci mostra in simile modo Baldassare Alvarez (1533-1580) « che entra del cuore di Dio fatto uomo e che sale poi per immergersi nei misteri di Dio che è trino nelle Persone ed uno nell’essenza ». (Vie de P. Balthasar Alvarez, traduzione Bouix, p. 24, citato da Franciosi, col. 321). – Prima di lasciare la Spagna, segnaliamo ancora il caso di mistiche che, nel XVI secolo, ci sono indicate come aventi intimi rapporti col sacro Cuore. Una di esse è Anna Ponce de Leon, e di Feria, che si fece clarissa nel convento di Montilla presso Siviglia, sotto il nome di suor Anna della Croce. Ad essa Luigi de Granata dedicò il Supplemento al Memoriale: Racconta ella stessa che Nostro Signore le fece comprendere un giorno come dovesse riguardare il suo Cuore come il suo unico bene, mettere in Lui tutta la sua confidenza e ricever tutto come se venisse da questo cuore amantissimo. Un’altra volta, Egli le apparve, mostrandole il suo cuore ferito, e dicendole: « È il mio amore per te che mi ha ferito così. In compenso io desidero che tu ti dia tutta a me» (P. Martinez DE Roa, s. j., Vida maravillosa de D: Anna Ponce de Leon, 1. 1, c.-7, e 1.2; c. 2; secondo i Padri Martorell, e Castella, Theses de cultu S. Cordis Jesu, editio 3a, Barcellona, 1880, p. 24). – Sancia di Carillo, vide un giorno il cuore di Gesù così Infiammato da un accesso di amore per gli uomini, che neppur quegli che potesse penetrargli nel cuor e veder quest’amore, non potrebbe comprenderlo. Dal centro del Cristo, uscivano dei raggi d’amore che arrivavano agli uomini, a tutti e a ciascuno; passati; presenti o da venire » (P. Martinez De Roa s. j., Vida y maravillosas virtudes D. Sancha de Carillo, t. 2, c. 12; secondo il medesimo, ibid.). – In Italia vediamo pure menzione del sacro Cuore fra le mistiche dell’epoca. La venerabile Madre Clara Maria della Passione, Vittoria Colonna, fondatrice delle Carmelitane di Regina cæli a Roma (morta nel 1575), racconta che l’anima sua fu attratta, un giorno, « con una, forza deliziosa, nel sacro costato di Gesù Cristo e sino nel suo cuore…. Io comprendeva, dic’ella, che questo cuore divino è pieno d’amore; ma di un amore così puro, che non ha parole per esprimere. Io vedeva l’anima mia come immersa in quel cuore…. e, sentendomi così nel cuore di Gesù Cristo, conoscevo con chiarezza ed efficacia e insieme con gioia inesplicabile, che quel luogo, cioè il petto e il cuore di Gesù, era un luogo eminentissimo » (Vita pubblicata a Roma nel 1681, 1. 2; c. 9, citata da Gallifet l. 3, c. 3, p. 198.). – La vita di santa Caterina dei Ricci (1522-1590) ci offre diversi tratti di divozione alla piaga del costato, dove il pensiero del cuore, senza pur mancare, non è espresso direttamente: accanto a questi tratti, però, si trova una specie di scambio dei cuori, come fu per santa Caterina da Siena, ma dove il realismo del simbolo, impallidisce molto più dinnanzi alla realtà simboleggiata. In una delle sue estasi, ella vide la santa Vergine che la prendeva per mano e la conduceva al suo divin Figliuolo. « Figlio mio diss’ella, ecco che io ti presento la nostra carissima vergine Caterina, che implora, dalla tua tenerezza, la grazia di cambiare il suo cuore di carne, in un cuore tutto celeste, affinché prendendo un cuore simile al tuo, possa esser più degna di te. — O mia cara Madre, rispose Gesù, ti ho io forse mai rifiutato cosa alcuna, e non è forse il tuo cuore la via naturale che con luce al mio cuore?…. Sarà fatto come tu domandi. E poi mia carissima figlia Caterina, ricordati che da questo momento non ti appartieni più e che sei tutta mia, poiché ecco che io purifico il tuo cuore da ogni affezione che non sia per me, e lo riempio del mio solo amore ». Nostro Signore, toccò allora con la sua mano divina, il costato sinistro della santa, mise in lei un cuor nuovo…. Quando ella si sentì battere questo cuore, nel petto, uscì dalla sua estasi esclamando: « Non sono più io che vivo, è Gesù Cristo che vive in me » (Vedi Messager du Sacré-Coeur, febbraio 1862, t. I, p. 282. In Franciosi, col. 328). – Santa Maddalena dei Pazzi (1566-1607) ricevé un giorno da Nostro Signore la promessa che le avrebbe dato il suo cuore, ed ella pregava i suoi santi preferiti, perché l’aiutassero a riceverlo. E diceva pure a Nostro Signore con profonda umiltà: « 0 mio Gesù, io te ne prego, fai che nessuno sappia che mi dai il tuo cuore ». Allora, infiammata d’amore, si struggeva per la dolcezza, e, aprendo le braccia, e sporgendosi verso il suo Sposo, ne ricevé il cuore, E dopo questo favore inestimabile, incrociò le braccia sul petto in forma di croce come per rinchiuderlo nel suo proprio cuore (Vita del P. Vincenzo Puccini, 2. parte, c. 5, n. 200-204, Acta Sanctorum, t. XIX, maggio 6, ad diem 25; P. 229-230, in FRANCIOSI, col. 345-346.). Questa stessa santa ha detto di san Luigi Gonzaga quella bella parola, così spesso citata: « Oh! come ha egli amato sulla terra! Egli lanciava delle frecce al cuore del Verbo…. Ed ora, che è in cielo, quelle frecce si accolgono nel suo proprio cuore, perché comprende bene, adesso, e gode quegli atti di amore e di unione…. ai quali si esercitava » (Ibid. p. 212. In Franciosi, col. 329). Io non saprei dire se il pensiero del sacro Cuore, si trova espresso in questo tratto; ma la sola scelta delle espressioni vale a dimostrare come le formule più espressive della vita cristiana si combinino, naturalmente, con quelle della nostra divozione. – Non è possibile notare tutti gli autori; teologi, esegeti, asceti, oratori che hanno parlato del sacro Cuore nel corso del XVI secolo, nominerò, almeno, i principali. Da prima i Francescani Niccolò Factore (1520-1583) che, per arrivare alla contemplazione, raccomanda la divozione al costato trafitto e al cuore di Gesù (Vedi il P. Henry de Grézes, p. 182); Bernardo d’Osimo (morto nel 1591), e che fu per sei anni provinciale dei Cappuccini di Parigi (1681-1587), parla della piaga del costato e del cuore in termini degni di San Francesco di Sales (Testi del suddetto, p. 185-188) );- Giovanni di Cartagena (morto 1617) studia da esegeta tutto quel che ha rapporto alla ferita e del costato e del cuore, e riassume, a questo riguardo, i dati tradizionali (De religionis christiana arcanis homiliæ sacræ L. 12;- De arcanis in vulnere lateris Christi latentibus, 1. 12, Homil. 1 e 2, t. I, p. 411 e sq., Anversa, 1622. In FRANCIOSI, col. 351-352, Analisi nel P. Henri DE Grizes, 190-200). – Nell’ordine di s. Domenico possiamo segnalare Pietro Dorè (1500 – 1569) che nel Nouveu testament d’amour di N. S. Jesus Christ. Signé de son sang, Parigi 1550, ha qualche bella pagina sul sacro Cuore (C. 14. Quinto dono eccellente che nostro Padre ci ha fatto nel suo testamento, che è il suo cuore. Testi in Franciosi, col. 394-396). – Non meno pia è una pagina del B. Alfonso d’Orozeo (1500-1591), monaco agostiniano, nel suo commentario sul Cantico dei Cantici, Burgos, 1581: Di già il postulatore del 1697, la citava come tutta impregnata della divozione al sacro Cuore (A proposito del testo Vulnerasti cor. meum: Vedi Nilles t. I, p. 445 e in Franciosi col. 332). – Quasi dello stesso genere delle spiegazioni di Giovanni da Cartagena, sono quelle del Salmeron (1515 – 1585), uno dei primi compagni di Sant’Ignazio, e quelle del dotto Toleto (1531 – 1596), a proposito del sso di san Giovanni, sulla piaga del costato (Salmeron, Commentarii in NT, t X tr. 48, p. 391 sq: Toletus, in sacrosanctum Joannis Evangelium); e pur quelle del Gerosolimitano Danniele Mallonius, (morto circa il 1616), a proposito delle piaghe di Cristo (Fr. Danielis Mallonii, Lucidationes in historiam admirandum de J. C. stigmatibus, Donai 1607, c. 20 n. 1, p. 371, n. 8, p. 383. Testi in latino in Franciosi col. 340-343). E, finalmente, quelle di Suarez, nel suo Trattato sull’Incarnazione (In 3° parte S, Th. Disp. 41 setc. 1). Più brevi, ma sempre nello stesso senso, sono le riflessioni del P. Ribadeneira, nella sua vita di N. S. Gesù Cristo, con cui ha preceduto i suoi Fiori della vita dei Santi (testi in francese di Franciosi col. 336, secondo la traduzione di René Gaultier, Donai 1650.). – Il p. Fr. Decoster, gesuita belga, in un libro pubblicato a Ingolstadt nel 1588 per i congregazionisti, inseriva, per il venerdì una meditazione « sulla inestimabile e ardentissima carità di Nostro Signore Gesù Cristo » dove scriveva: « Fuggite dunque all’appressarsi della tentazione,nell’amabile Cuore di Gesù e nelle sue ferite aperte; contemplate in quella la sua bontà ineffabile e la sua carità » (Libellus sodalitatis, hoc est christianarum institutionem libri quinque, libro I c. 26, p. 159. Comunicato dal P. F. Brucker). – In una parola verso la fine del XVI secolo, l’attenzione è attratta da ogni parte verso il Cuore di Gesù. Se ne parla dappertutto; la devozione esiste, ed è molto diffusa. (il P. Benedetto Nigri, gesuita, morendo a Verdun, circa il 1590, diceva ai suoi fratelli: « Io vi auguro di abitare di abitare nel cuore di Gesù Cristo e desidero che formiate per me lo stesso augurio. Citato dal P. Fouqueray, Histoire de la Compagnie de Jesus en France, t. II, p. 242. Nel monastero di Fontaine les-Nonnes presso Meaux, gli atti di professione delle religiose, fra il 1565 e 1601, portano spesso, sotto la firma, l’immagine di un cuore disegnato alla penna. Ordinariamente, il cuore è trapassato da una spada (non da una lancia), con tre chiodi, qualche volta contiene il monogramma IHS, spesso una piccola croce in mezzo. Qualche volta è messo appiè della croce, altre sulla sbarra verticale della croce, al di sotto della traversa orizzontale. Communication di Bergy, a cui il sig. Curato decano de la Ferté-sous-Jouarre ha mostrato questi atti di professione. Con le nostre idee attuali, si pensa, naturalmente, che questa immagine sia quella del Cuor di Gesù, monogramma, croce, chiodi, lancia, o spada, fanno pensare alle cinque piaghe. Crederei, piuttosto che il cuore rappresentato forse quello della religiosa consacrato a Gesù e attaccato alla croce per i suoi reati come da tre chiodi, sotto l’influenza dell’amor Divino che l’ha ferita di una spada. Incontreremo più di un caso simile (Giovanna di Montel, S. Francesco di Sales e le Visitandine, il Beato Giovanni Eudes). Si può accordare, peraltro, che questa figura supponga già una certa devozione alle cinque piaghe e al sacro Cuore.).