DOMENICA III dopo PENTECOSTE

Introitus

Ps XXIV:16; XXIV:18 Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus. [Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

Ps XXIV:1-2 Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam. [A te, o Signore, elevo l’ànima mia: Dio mio, confido in te, ch’io non resti confuso.]

Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus. [Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

 Orémus. Protéctor in te sperántium, Deus, sine quo nihil est válidum, nihil sanctum: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, te rectóre, te duce, sic transeámus per bona temporália, ut non amittámus ætérna. [Protettore di quanti sperano in te, o Dio, senza cui nulla è stabile, nulla è santo: moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché, sotto il tuo governo e la tua guida, passiamo tra i beni temporali cosí da non perdere gli eterni.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet V:6-11 “Caríssimi: Humiliámini sub poténti manu Dei, ut vos exáltet in témpore visitatiónis: omnem sollicitúdinem vestram projiciéntes in eum, quóniam ipsi cura est de vobis. Sóbrii estote et vigiláte: quia adversárius vester diábolus tamquam leo rúgiens circuit, quærens, quem dévoret: cui resístite fortes in fide: sciéntes eándem passiónem ei, quæ in mundo est, vestræ fraternitáti fíeri. Deus autem omnis grátiæ, qui vocávit nos in ætérnam suam glóriam in Christo Jesu, módicum passos ipse perfíciet, confirmábit solidabítque. Ipsi glória et impérium in sæcula sæculórum. Amen”. [Carissimi: Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti nel tempo della sua visita: e affidate a Lui ogni vostra preoccupazione, poiché Egli stesso ha cura di voi. Siate sobrii e vigilate, poiché il vostro nemico, il diavolo, vi circonda come un leone ruggente, cercando di divorare qualcuno: ad esso resistete forti nella fede; sapendo che le medesime sofferenze hanno i vostri fratelli sparsi per il mondo. Tuttavia, il Dio di ogni grazia, che ci ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesú, ci perfezionerà dopo che avremo sofferto un poco, e ci confermerà nella fede, ci irrobustirà. A Lui gloria e impero nei secoli dei secoli. Amen.]

Omelia I

[Mons. Bonomelli: da “Omelie”, vol III – Omelia VII, Torino 1899]

“Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi innalzi allorché verrà a visitarvi, abbandonando in lui ogni vostra affannosa cura, perché egli ha pensiero di voi”. Siate sobri e vegliate, perché il demonio, vostro avversario, come leone ruggente, gira intorno a voi, cercando chi divorare. A lui tenete testa, saldi nella fede, sapendo che le stesse tribolazioni incalzano i vostri fratelli sparsi pel mondo. Il Dio poi d’ogni grazia, che in Gesù Cristo ci ha chiamati alla eterna sua gloria, poiché avrete alcun poco sofferto, egli stesso vi perfezionerà e solidamente vi stabilirà. A lui sia gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen „ (I . di S. Pietro, v, 6-11).

In queste sentenze voi avete voltato nella nostra lingua, parola per parola, il tratto dell’epistola, che la Chiesa ci fa leggere nella Messa di questa Domenica; tratto che si legge verso la fine della la lettera di S. Pietro. Esso è breve, ma, come voi stessi vi sarete accorti, udendone la recita, contiene alcune verità morali d’una importanza altissima, ch’io mi ingegnerò di sviluppare e voi vi studierete di comprendere. – S. Pietro, prima di chiudere la sua lettera, divisa in cinque piccoli capi, con affetto paterno si rivolge ai pastori di anime e vivamente li esorta allo zelo, al disinteresse ed alla modestia, ponendo innanzi ai loro occhi la corona immarcescibile che un dì riceveranno dal Principe dei pastori, Gesù Cristo. Poi si rivolge ai giovani e li esorta ad essere docili e rispettosi verso i provetti ed umili tra loro, perché l’umiltà è cara a Dio, che la ricolma di grazia. Quindi, rivolgendosi a tutti, continua: “Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, „ “Humiliamìnì sub potenti manu Dei”. L’umiltà, come sapete, è figlia del conoscimento di se stesso (S. Bernardo), e volentieri aggiungo, e del conoscimento di Dio, giacché il primo conoscimento si compie e perfeziona nel secondo, precisamente come le ombre d’un quadro hanno il loro risalto dalla luce. Raccogliamoci in noi stessi un istante e gettiamo uno sguardo sopra l’essere nostro. Che è questo corpo? Un po’ di terra, che presto ritornerà alla terra: un po’ di nebbia, che un raggio del sole abbellisce per pochi momenti e un soffio d’aria disperde: un fiore, che al mattino sfoggia i suoi colori smaglianti e spande la sua fragranza, e la sera china il capo, inacidisce e muore. – Questo corpo, che sembra pieno di vita, di forza e di bellezza, è travagliato da mille infermità, invecchia, si curva sotto il peso agli anni, è calato nel sepolcro, si riduce ad un pugno di polvere. E l’anima che l’avviva? Legata a questo corpo, se lo trascina dietro penosamente, come la chiocciola si trascina dietro la sua casa; tormentata dalle passioni, si dibatte miseramente tra l’errore e la verità, tra il vizio e la virtù, troppo spesso schiava di quello, raramente amica e discepola di questa: la sua vita è un intreccio continuo di debolezze e di colpe, che fanno salire la vergogna sulla sua fronte: il rimorso la segue e l’incalza, l’orrore della morte e il terrore del divino giudizio l’arresta, la respinge. Se leviamo gli occhi a Dio, che vediamo? Quale confronto tra Lui e noi? Tutto ciò che abbiamo è dono suo: nulla che sia nostro, del peccato in fuori: Egli eterno, immenso, immutabile, sapientissimo, la stessa bontà; noi racchiusi in questo angusto circolo del tempo, in questo punto impercettibile del nostro essere, soggetti ad incessanti mutazioni, pieni di dubbi, di incertezze, di errori, di ree tendenze. – Chi siamo noi d’innanzi a Dio? Povere, miserabili creature, degne d’ogni disprezzo e d’ogni pena. Consci di noi stessi e delle nostre miserie estreme, sentiremo il dovere e la necessità di umiliarci sotto la mano potente di Dio, che tutto conosce e dispone a nostro bene. – Che se curveremo la nostra fronte e fiaccheremo il nostro orgoglio dinanzi alla potenza ed alla maestà di Dio e diventeremo piccoli e spregevoli ai nostri occhi, ecco la mercede, che infallibilmente ne avremo: “Egli, Iddio, ci solleverà nel giorno della visitazione, „ Ut vos exaltet in tempore visitationis. – E la gran legge, che brilla da un capo all’altro del Vangelo e che ha il suo pieno compimento nel nostro capo divino, Gesù Cristo. Vuoi essere grande dinanzi a Dio? Abbassati agli occhi tuoi. Vuoi essere il primo nel regno dei cieli? Sii l’ultimo quaggiù sulla terra, perché sta sempre la sentenza di Cristo: “Chi si abbassa sarà esaltato: Agli umili Dio concede la sua grazia. „ E quando al tuo volontario abbassamento risponderà l’innalzamento tuo? In tempore visitationis, nel tempo che Dio verrà a te, il dì cioè della tua morte, il giorno nel quale si chiuderà la vita presente e comincerà l’eterna (La frase “In tempore visitationis„ si incontra più volte nei libri sacri, e vuol dire, ora la visita che Dio fa colla sua grazia ed anche con i suoi castighi, ed ora il giudizio, sia particolare, sia universale. È una forma di dire ebraica e poetica).Voi vedete, o cari, che i Libri santi per sostenere la nostra debolezza nelle dure lotte della vita, per confortarci in mezzo alle pene ed alle amarezze, inseparabili compagne di chi batte il cammino della virtù, ci fanno sempre brillare agli occhi della mente le gioie della Vita futura: Ut vos exaltet in tempore visitationis. Togliete all’uomo la speranza del premio nella vita futura, chiudetegli sul capo le porte del cielo, ditegli che tutto finisce quaggiù, nella fossa del sepolcro, e voi avrete gettato nel suo cuore la disperazione, voi lo costringerete a maledire la sua esistenza, la virtù come un sogno, come un tormento. Ah! Se non vi fosse altra vita che la presente, altro premio per la virtù tribolata, che quello che da il mondo, la nostra esistenza quaggiù sarebbe un enigma insolubile, una contraddizione manifesta, e noi saremmo, come scrisse l’Apostolo, i più miserabili degli esseri.Vi sono anche al giorno d’oggi alcuni dotti, i quali pensano e insegnano che è cosa indegna dell’uomo operare il bene, praticare la virtù per la mercede promessa nella vita futura. Essi dicono, che in tal guisa la virtù si trasforma in una merce, la si abbassa, la si avvilisce: affermano, la virtù doversi praticare per se stessa, né doversi aspettare un premio futuro quale che sia; i credenti colla loro speranza della ricompensa essere volgari mercanti. – Che si possa esercitare la virtù, prescindendo dalla mercede futura, per la sua bellezza intrinseca, per piacere solo a Dio, che la comanda, nessun dubbio: è virtù altissima, lo sappiamo: che sia cosa indegna e biasimevole, esercitarla per la speranza della retribuzione, è grave errore, condannato dai Libri santi, che ci incoraggiano alla battaglia della vita, all’esercizio della virtù, proponendoci il premio; è anche cosa che ripugna alla natura stessa dell’uomo, che non può non desiderare il proprio bene e che per vincere le passioni e superare gli ostacoli ha bisogno di attingere forza nella speranza della ricompensa. Costoro mostrano di non conoscere la natura umana e sollevano la virtù a tanta altezza da renderla non solo difficile, ma impossibile almeno alla maggior parte degli uomini.Compresi del vostro nulla dinanzi a Dio, fisso lo sguardo della mente in Lui “abbandonate in lui ogni vostra cura affannosa.Omnem sollicitudinem vestram projicientes in eum”. Come bella e cara è questa sentenza del principe degli Apostoli! Voi, figliuoli miei, così sembra parlare, voi siete oppressi dai timori e dalle ansie, che vi assediano e stringono da ogni parte: siete come poveri pellegrini, che, camminando verso la patria, sentono gravate le spalle da enorme fardello. Quante cure moleste! Quante pene dello spirito, spesso più pungenti di quelle che affliggono il corpo! Ebbene: di tutte queste cure, che vi affannano, di tutte queste pene del corpo e dello spirito alleggeritevi, fatene un fascio e gettatele in Dio: Projicientes in eum! La espressione qui usata da S. Pietro è piena di forza: non dice ponetele in Dio, offritele a Dio, rassegnatevi al volere di Dio, o alcun che dimile, ma, Projicientes: Gittatele in Dio, che significa il totale e perfetto abbandono d’ogni nostra cura ed ansia in Dio, a talché ne smettiamo al tutto ogni pensiero ed ogni timore.Dobbiamo noi dunque vivere spensierati? S. Pietro in questo luogo ci vieta forse di occuparci delle cose nostre e ci comanda di starcene neghittosi, colle mani in mano, il tutto rimettendo alla Provvidenza divina? No sicuramente; così facendo, offenderemmo la stessa Provvidenza di Dio, che vuole il concorso dell’uomo: sarebbe un tentar Dio e un trasformare la virtù in un vizio. S. Pietro in questa sentenza vuole, che cessiamo dalle sollecitudini eccessive, ma che dal canto nostro facciamo ciò che possiamo: condanna la cura smoderata, affannosa, che ripone ogni fiducia nei propri sforzi e dimentica che al di sopra dell’uomo vi è Dio, che governa ed ordina ai suoi fini altissimi. Facciamo tutto, come scrisse un santo, come se non vi fosse la Provvidenza, e poi governiamoci come se tutto avesse fatto la Provvidenza.E perché dobbiamo abbandonarci interamente fra le braccia della Provvidenza? “Perché risponde S. Pietro, Dio ha pensiero di voi” Quìa ipsi cura est de vobis. Dio non fa come l’architetto, il quale dopo avere fabbricato la casa, se ne va; come il pittore, il quale dopo avere ritratta sulla tela la figura, pensa ad altro lavoro: egli è creatore e insieme conservatore e provveditore, e non perde di vista l’opera delle sue mani per un solo momento, e pensa e provvede a ciascuna come se fosse sola. Come dunque non dobbiamo riposare tranquillamente in questa paterna Provvidenza? Abbandonandoci in Dio, come figli nel seno del padre, noi lo onoriamo, riconoscendo la sua sapienza, la sua potenza e la sua bontà, e, se è lecito il dirlo, lo obblighiamo a circondarci di cure più affettuose. Il figlio, che tutto si affida alle cure del padre amoroso, lo onora grandemente ed è sicuro, se è possibile, di accrescerne la tenerezza. Sì, o dilettissimi, gettiamo tutte le nostre sollecitudini in Dio, perché Egli ha pensiero di noi.E sì vero che S. Pietro, esortandoci a collocare ogni nostra cura in Dio, non intesa a scioglierci da ogni lavoro e sforzo dal lato nostro, che soggiunge: “Siate sobrii e vegliate, „ Sobrii estote et vigilate. Due cose accoppia tra loro e raccomanda l’Apostolo, la sobrietà e la vigilanza, perché non si possono separare. La sobrietà o temperanza in ogni cosa è madre della vigilanza, nutrice della scienza e tutrice della castità, come la gola e la crapula sono amiche del sonno, della pigrizia, dell’ignoranza, del basso sentire e della lussuria. “Sobrii estote” Siate sobri, che il cibo non sia mai soverchio, o soverchiamente delicato, che la bevanda estingua la sete, non solletichi il gusto: che l’uno e l’altra siano contenuti entro la giusta misura, né gravino il corpo ed oscurino la mente: soddisfino i bisogni della natura, non eccitino le passioni, né siano alimento del vizio. Come volete che vegli, che stia in guardia, che preghi, che pesi le parole, che regoli gli atti suoi colui che è oppresso dal cibo, la cui mente è abbuiata dai vapori del vino? Come volete che si sollevi a Dio col pensiero e coll’affetto chi giace sotto il peso della crapula? Come volete che fissi l’occhio della mente nella luce sì pura della verità e della virtù chi l’ha pressoché chiuso per l’intemperanza del mangiare e del bere? Siate sobri e sarete vigilanti: e ciò è necessario, perché grandi pericoli e terribili nemici ne circondano. – Quali nemici? Udite: “Perché il demonio, vostro avversario, come leone ruggente, si aggira intorno, cercando chi divorare.„ Nemico nostro è il mondo, colle sue seduzioni, con i suoi inganni; nemico nostro è il corpo, che portiamo, colle passioni che in esso si annidano, quasi serpi velenose sotto un cespuglio di fiori; nemici nostri sono i tristi, che insidiano la nostra fede; ma il nemico principale, il nemico, che sotto la sua bandiera raccoglie tutti i nostri nemici, che li muove e scatena ai nostri danni, è il demonio, il nostro avversario per eccellenza; egli sedusse i nostri primi padri e continua in noi, loro figli, l’opera sua, opera di morte. Non ignoro, o dilettissimi, che parecchi anche credenti, all’udir nominare il demonio, si stringono nelle spalle, sorridono e quasi in aria di compatimento, dicono: Il demonio! chi ora ci crede? Chi l’ha mai veduto ? È una credenza, che si può lasciare alle pie donne del volgo. L’esistenza dello spirito malvagio, che troviamo in fondo a tutte le credenze religiose antiche e moderne, per noi Cattolici, è verità di fede: le pagine dei Libri santi ne sono ripiene e possiamo dire che tutta la divina rivelazione, dal Genesi all’Apocalisse, si svolge sotto l’azione della lotta tra gli spiriti maligni ed i figli di Dio. Essa comincia nell’Eden, prosegue fino al Calvario ed avrà fine al termine tempi, quando il principe delle tenebre sarà cacciato per sempre dalla terra. Non ascoltate dunque coloro, che mettono nel numero delle favole o delle leggende l’esistenza dei demoni; essa è un articolo di fede. – Il demonio odia Dio, a cui si ribellò e che lo punisce, ed odia fieramente noi, perché sue creature, portanti in noi stessi l’immagine di Dio, perché amati da Dio e da Lui chiamati a quel regno beato, dal quale egli fu per sempre sbandeggiato. Vedetelo, dice S. Pietro, vedetelo il demonio, il vostro implacabile nemico, egli è simile al leone: il leone, il re della selva, è superbo, feroce, pieno d’ira e di rabbia: esso arruffa il pelo, colla coda si flagella i fianchi; dagli occhi balena una luce sinistra, con i suoi ruggiti fa tremare il deserto, si lancia sulla sua preda, la ghermisce, la dilania con le unghie poderose e coi denti la maciulla: esso non sa che uccidere e degli uccisi si pasce. Il demonio, come leone affamato, rugge, e si aggira intorno a voi, in cerca della preda, e guai al misero sul quale può stendere l’unghia terribile! Voi vedete che S. Pietro in poche battute ci descrive al vivo la forza, la crudeltà, la rabbia onde il demonio arde contro di noi, e quanto sia necessario vegliare per non cadere nelle sue fauci. – Prima condizione per non essere sua vittima è la vigilanza, perché quantunque questo nemico sia tremendo per la forza e per la ferocia. esso è incatenato da Cristo, è come chiuso entro la sua gabbia, e soltanto coloro che incautamente gli si avvicinano, sono da lui afferrati e divorati. Lungi adunque, lungi dalla fiera belva: badate di non cercare il pericolo, di non esporvi alla tentazione senza necessità: chi cerca il pericolo, chi si espone senza motivo sufficiente alla tentazione è simile a quell’imprudente che si accosta alla gabbia del leone e scherza con esso; sentirà la forza dei suoi artigli e sarà suo pasto miserando. – Non basta star lungi, fuggire la tentazione, vigilare per non essere colto ed addentato; fa d’uopo al bisogno tenergli testa: Cui resistite fortes. Assai volte possiamo fuggire la tentazione, ma talora è impossibile fuggirla: talora è forza affrontarla, massime vivendo in questo mondo. Allora, o miei cari, noi siamo simili a coloro che sono costretti ad entrare nella gabbia, dove giace il leone e affrontarne il furore. Che fanno essi? Non è mai che gli volgano le spalle: fissano lo sguardo immobile e dominatore sul leone, e questo qua e là si aggira ruggendo, ma non osa assalirli, anzi diviene loro zimbello. Così noi, o carissimi, costretti a lottare corpo a corpo contro il demonio, il tentatore, teniamo fisso sopra di lui l’occhio illuminato dalla fede. Un raggio solo della luce divina, che per la fede si riflette nel nostro sguardo, farà sentire al nemico la presenza di Cristo, che lo vinse, lo soggiogherà, lo renderà impotente, ed allora, come cantava il Salmista, potremo camminare sul capo del leone e del dragone. È questo, che vuole insegnarci S. Pietro, allorché ci dice: “Tenete testa, forti nella fede, „ Cui resistite fortes in fide. – “Lo so, in questa lotta soffrirete assai, così S. Pietro; ma ricordatevi, che altri soffrirono come voi. Chi sono? I vostri fratelli, sparsi pel mondo”: Scientes eamdem passionem ei, quæ in mundo est, vestræ fraternitati fieri. Questa lettera fu scritta da S. Pietro in Roma, sette anni circa prima della sua morte. I fedeli ai quali scriveva, non potevano certamente ignorare le sue tribolazioni, le persecuzioni che soffriva egli, Principe degli Apostoli, e con lui soffrivano tutti i fratelli suoi nell’apostolato, e più o meno tutti i cristiani sparsi nel mondo. È un conforto, doloroso, se volete, ma è sempre un conforto il sapere che altri patiscono come noi, come noi e per gli stessi motivi, per i quali soffriamo noi. È un conforto, perché se soffrono altri come noi e per gli stessi motivo, perché non soffriremo ancor noi? La loro costanza, il loro esempio ci incoraggia e ci avvalora. L’essere soli a lottare e soffrire sconforta: guai al solo, dice la Scrittura: avere compagni sembra raddoppiare le nostre forze. È un conforto, perché la nostra fede si ravviva, si ravviva la nostra speranza, perché sappiamo che altri per esse soffrono con noi. I soldati, che sanno i loro commilitoni pugnare altrove valorosamente, sentonsi eccitati ad imitarli e più animosi si gettano nella mischia. Bene a ragione adunque S. Pietro rammenta ai fedeli dell’Asia, che se essi soffrono, soffrono pur altri, i loro fratelli, dovunque sparsi sulla terra. Da queste parole dell’Apostolo noi comprendiamo che fin d’allora tutti i credenti, benché lontanissimi tra loro, si consideravano come fratelli, formanti una sola famiglia, tantoché i dolori come le gioie erano comuni. – Questo spirito di solidarietà, dirò meglio, di mutua carità e fratellanza, è caratteristico della Chiesa di Gesù Cristo; allorché alcuni suoi membri soffrono per la fede, per la causa della giustizia, siano pure sulle ultime spiagge dell’Oriente, o tra le aride sabbie del deserto, o tra le selve d’Africa o d’America, gli altri soffrono con essi, pregano e li soccorrono, se possono. – Questa comunione delle gioie e dei dolori tra i figli della Chiesa, è frutto della stessa fede e della stessa carità, e ne è ad un tempo l’alimento. – Soffriamo tutti, dice in sostanza S. Pietro, soffriamo tutti in questa lotta col principe delle tenebre e con i suoi alleati: che posso dirvi? Io non fo che un voto, ed è questo: “Il Dio d’ogni grazia, che in Cristo ci ha chiamati alla gloria eterna, dopo il breve patire, vi perfezioni e solidamente vi stabilisca. „ Dio, che è fonte inesausta d’ogni grazia, per i meriti di Cristo, che ci ha redenti, compia l’opera sua in voi, vi perfezioni nella pazienza e nella carità, vi tenga saldi nella lotta contro il nemico e dopo i brevi patimenti della vita presente, vi stabilisca in quella gloria beata, alla quale ci ha chiamati. – Sempre questo lo spirito che informa l’insegnamento della fede e che brilla mirabilmente in tutti gli scritti del nuovo Testamento; noi siamo posti su questa terra per conoscere, amare e servire Iddio; siamo posti su questa terra, non per godere di questi poveri beni, ma per acquistarci colle nostre fatiche la immortalità beata; tutto il Vangelo di Gesù Cristo si riduce a questa semplicissima verità, vivere santamente sulla terra per meritare il cielo, patire nella vita presente per amore di Dio e godere con Lui per sempre nella vita futura. “È questo, diceva Lattanzio, il compendio d’ogni cosa, è questo il segreto di Dio, è questo il mistero del mondo” (Lact.lib. 7, c. 6). Ricordate questa verità, compendio di tutta la fede, S. Pietro sembra quasi rapito fuori da se stesso: fissando gli occhi della fede nella sempiterna felicità, che ci aspetta; considerando il poco che ci si domanda per guadagnarla, coll’anima riboccante di gratitudine e di gioia verso Dio, quasi fosse giunto al termine del suo pellegrinaggio ed immerso in quell’oceano di ineffabili godimenti, esce in questo grido, in quest’inno d’amore: “A Lui, cioè a Dio, a Gesù Cristo gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen. „ Noi, miserabili creature, non possiamo dar nulla a Dio, perché nulla abbiamo di nostro e di nulla Egli abbisogna: eppure, in qualche senso noi possiamo dare a Dio alcun che di nostro; anzi possiamo offrirGli un dono prezioso e tutto nostro e ch’Egli aspetta e che altamente lo onora. E quale ? La nostra volontà, la nostra libertà. Essa pure è dono, o dono di Dio; ma Dio l’ha data a noi per modo che è nostra, tutta nostra e noi possiamo restituirla a Lui e non restituirla ed usarne a nostro talento. Non v’è offerta, che maggiormente onori Iddio e che torni a Lui accettevole della nostra libera volontà, appunto perché libera ed è in poter nostro fargliene omaggio o ricusarglielo. Non dimenticatelo mai, o cari; un atto della libera libera volontà rende a Dio più onore che tutte insieme le creature irragionevoli del cielo e della terra. Offriamo dunque a Dio la nostra volontà, e la offriremo, facendo la volontà sua nella osservanza esatta della sua legge. A Dio non possiamo dar nulla, perché Egli di nulla abbisogna ed è il centro di tutte le perfezioni, è vero, ma possiamo godere della infinita sua grandezza e delle sue perfezioni; possiamo desiderare che il nome suo sia santificato su tutta la terra, che la sua volontà sia dovunque adempiuta, cioè possiamo desiderare che gli uomini tutti Lo conoscano, Lo lodino, Lo esaltino, Lo glorifichino e da questa s’innalzi perenne il grido di S. Pietro: “A Dio gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen”. — Così sia.

Graduale
Ps LIV:23; LIV:17; LIV:19 Jacta cogitátum tuum in Dómino: et ipse te enútriet. [Affida ogni tua preoccupazione al Signore: ed Egli ti nutrirà.] V. Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam ab his, qui appropínquant mihi. Allelúja, allelúja. [Mentre invocavo il Signore, ha esaudito la mia preghiera, liberandomi da coloro che mi circondavano. Allelúia, allelúia]

Ps VII:12 Deus judex justus, fortis et pátiens, numquid iráscitur per síngulos dies? Allelúja. [Iddio, giudice giusto, forte e paziente, si adira forse tutti i giorni? Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.

Luc XV:1-10 “In illo témpore: Erant appropinquántes ad Jesum publicáni et peccatóres, ut audírent illum. Et murmurábant pharisaei et scribæ, dicéntes: Quia hic peccatóres recipit et mandúcat cum illis. Et ait ad illos parábolam istam, dicens: Quis ex vobis homo, qui habet centum oves: et si perdíderit unam ex illis, nonne dimíttit nonagínta novem in desérto, et vadit ad illam, quæ períerat, donec invéniat eam? Et cum invénerit eam, impónit in húmeros suos gaudens: et véniens domum, cónvocat amícos et vicínos, dicens illis: Congratulámini mihi, quia invéni ovem meam, quæ períerat? Dico vobis, quod ita gáudium erit in coelo super uno peccatóre poeniténtiam agénte, quam super nonagínta novem justis, qui non índigent poeniténtia. Aut quæ múlier habens drachmas decem, si perdíderit drachmam unam, nonne accéndit lucérnam, et evérrit domum, et quærit diligénter, donec invéniat? Et cum invénerit, cónvocat amícas et vicínas, dicens: Congratulámini mihi, quia invéni drachmam, quam perdíderam? Ita dico vobis: gáudium erit coram Angelis Dei super uno peccatóre pœniténtiam agénte”.

[In quel tempo: si erano accostati a Gesú pubblicani e peccatori per ascoltarlo. E scribi e farisei mormoravano, dicendo: “Riceve i peccatori e mangia con essi”. Allora egli disse questa parabola: “Chi di voi, avendo cento pecore, perdutane una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella smarrita finché la ritrova? E ritrovatala, non la pone contento sulle spalle e, tornato a casa, raduna amici e vicini, dicendo loro: Congratulatevi con me, perché ho ritrovata la pecora che si era smarrita? Io vi dico che in cielo vi sarà più gioia per un peccatore che fa penitenza, che non per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza”. – “E qual è quella donna che, avendo dieci dracme, se ne avrà perduta una, non accende la lucerna e non spazza tutta la casa e non cerca diligentemente finché non la ritrova? E appena l’avrà ritrovata non chiama le amiche e le vicine, dicendo loro: Congratulatevi con me, perché ho ritrovata la dracma che avevo perduta? Io vi dico che vi sarà un grande gàudio tra gli Angeli di Dio per un peccatore che fa penitenza”.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

Abuso della Divina Misericordia

Mio Dio, dunque egli è vero che quell’istessa via da voi aperta per nostra salvezza, si cangia ora in via di perdizione per nostra malizia? – E quell’istesso balsamo da voi preparato per nostro rimedio si converte sovente per nostra colpa in micidiale veleno? Così è, ascoltatori umanissimi, e ne abbiamo l’esempio nell’odierno Vangelo. Il divin Salvatore discende dal cielo a farci misericordia, dipinge sé stesso sotto l’allegoria di un buon pastore, che va in cerca della pecora errante, e trovatala se la pone in su le spalle e la riconduce all’ovile. E perché la figura corrisponda al figurato, egli va in cerca dei peccatori, li accoglie, al suo seno e siede con essi a mensa. E pure la malignità dei Farisei di questa sua bontà Lo incolpa e Lo condanna. “E mirate, dicono, con chi ci conversa e con chi siede a tavola”. “Hic peccatores recipit, et manducat eum illis”. Piacesse a Dio che stravolgimento consimile non si rinnovasse tra noi. Che cos’ha in effetti di più santo, di cui non abusi l’umana amicizia? Osservate: Iddio è il Padre delle misericordie: “Pater misericordiarum, et Deus totius consolationis” (2 ad Cor. I, 3), verità consolante, verità salutevole, ma al tempo stesso, per il mal uso che se ne fa, diviene per tanti una verità infruttuosa e dannevole. E come? Dio è buono, dice taluno, Dio è misericordioso, è vero, ma io appunto mi son prevalso della sua bontà per oltraggiarLo. Come dunque volete ch’io speri? Dio è la stessa misericordia, dice un altro, ho peccato e pecco, è vero, ma sa compatire e saprà perdonarmi. Ed ecco la misericordia di Dio, nel passato abusata, dà motivo al primo di diffidenza e disperazione, la stessa misericordia, sperata in futuro, dà spinta al secondo di più liberamente peccare, e presumerne il perdono. – Ad allontanare da questi due scogli fatali qualche anima ingannata, eccomi a confortare il peccatore che dispera, ed atterrire il peccatore che presume. Uditemi attentamente, ché ben lo merita l’importante argomento.

I. “Della divina misericordia (così un peccator disperato nell’agitazione de’ torbidi suoi pensieri e nelle fitte de’ suoi fieri rimorsi), della divina misericordia io ho disseccato il fonte, la mia vita è una catena di misfatti, anzi una mostruosa guerra tra me e Dio, Egli in beneficarmi, io in servirmi dei suoi benefizi come di tante armi per oltraggiarLo. Pazienza del mio Dio, io v’ho stancata, è troppo giusto che finalmente vi armiate contro il più perfido dei vostri nemici a tremenda vendetta. Altro che la pecora errante descritta nell’odierno Vangelo, sono stato una vipera, che ha squarciate le viscere di quel seno che mi portò; per me dunque non v’è più né misericordia, né pietà”. – Se vi fosse tra voi, uditori miei cari, chi, delirando così parlasse, ah! vorrei dirgli proteso ai suoi piedi, abbiate, figlio, abbiate pietà di voi e della vostr’anima, non colmate la misura delle vostre colpe colla maggiore di tutte, qual è il disperare della divina misericordia: non imitate Caino primogenito dei presciti, non imitate Giuda traditore. Fu grande il misfatto di Caino in uccidere l’innocente suo fratello; ma fu immensamente maggiore il suo reato, allorché disse con orrenda bestemmia, che la sua iniquità non era capace di perdono. Fu atrocissimo il delitto di Giuda in vendere per trenta danari, e tradir con un bacio il suo divino maestro; ma senza paragone più grave fu il disperare della divina clemenza. Confessò l’infelice aver tradito un sangue innocente, ma la disperazione lo condusse ad un laccio, che compì la sua malizia e la sua riprovazione. Disperare della misericordia di Dio, è il peccato più ingiurioso a Dio e il più nocivo all’uomo: il più ingiurioso a Dio, perché lo va direttamente a colpire in quell’attributo, di cui più si pregia, qual è la sua bontà; il più nocivo all’uomo, perché distruggendo in lui la speranza, estingue la carità, attacca la fede, e per conseguenza fa morire nell’uomo cristiano tutt’i princìpi della vita, della grazia e della salute. Di che temete, fratello carissimo, in ritornare a Dio? Ch’Ei vi rigetti, perché peccatore di molta età e di molta malizia? Pensate! anzi i più gran peccatori sono da Lui i più ricercati, i più ben accolti. Un Davide, un S. Pietro, una Maddalena, un Agostino, una Maria Egiziaca, una Margherita da Cortona, e mille altri di voi forse peggiori, non furono tutti accolti, abbracciati, careggiati come prede della sua carità, come trofei della sua grazia, come figli del suo cuore? Temete che non vi accolga? Oh Dio! Quegli che vi venne dietro quando da Lui fuggiste, come vi scaccerà se Gli correte incontro? Chi vi desidera, chi vi cerca, chi vi prega a venire a Lui, come potrà rigettarvi? Osservate una immagine del suo buon cuore in un tenero tratto di S. Agostino. Scrivendo questi a Dioscoro, “tu vuoi perderti, gli dice, o Dioscoro. Tu agitato da uno spirito di vertigine pronunzi la tua sentenza con dire, voglio dannarmi, ed Io rispondo non voglio. Vale più il mio non voglio, che il tuo voglio. Il tuo “voglio” è parto di un’insensata mania. Il mio non voglio è figlio d’un cuore tutto compassione ed amore per te”. “Plus valet meum nolle, quam tuum velle”. E non son queste l’espressioni e le proteste del misericordioso nostro Signore a riguardo dei peccatori? E di quanto vincono il paragone?Nolo, dice Egli, nolo mortem impii, sed ut convertatur, et vivat” (Ez. XXXIII, 11) . Peccatori miei cari, no, non voglio la vostra morte, non voglio la vostra dannazione. Se nulla mi costasse l’anima vostra, potreste forse diffidare della pienezza di mia volontà, ma costandomi tutto il sangue mio, ah! no, non voglio né la vostra né la mia perdita: “Nolo mortem impii”. Qual pro avere sparso per voi tutto il mio sangue, se poi vi perdo, se voi vi perdete? “Quæ utilitas in sanguine meo?”- Se voi ancor dubitate è segno che voi non conoscete né la preziosità della vostr’anima, né la bontà del mio cuore, né il mio disgusto in perdervi, né la mia consolazione in acquistarvi. Venite orsù a farmi contento col vostro ritorno. Venite, o almeno non fuggite da me, ché anche fuggendo confido raggiungervi e stringervi al seno. Le vostre colpe vi fanno orrore? Appunto per questo nol fanno a me, e mi muovono a pietà e non a sdegno. Temete forse che me ne ricordi? Non sarà così, me ne dimenticherò totalmente, me le getterò dietro le spalle, anzi perché più non mi tornino sott’occhio le seppellirò nel più profondo del mare. Sono queste le patetiche espressioni, colle quali Iddio pietoso, ricco in misericordia, per la bocca de’ suoi Profeti per vincere le nostre ritrosie, per dileguare i nostri timori, per trarci a sé, per assicurarci di quel tenerissimo accoglimento, che ebbe già il figliuol prodigo in quella dolce parabola, in cui coi più vivi colori dipinse la nostra miseria, e la sua misericordia. Ma ohimè! che queste amorevoli proteste del buon Dio servono di lusinga e di pretesto a più d’un peccatore, per durarla in peccato sulla falsa speranza della divina misericordia!

.II. Io sono devoto, dice taluno, d’una gran Santa che ne ha salvati tanti. Questa mia avvocata singolarissima è la misericordia di Dio, che è un mare di infinita bontà, io mi getto in seno a questo gran mare, ei può salvarmi, spero mi salverà. – Mirate quanto sono irragionevoli le vostre lusinghe, e mal fondate le vostre speranze. Voi dite che la divina misericordia è un mare in seno al quale vi abbandonate. Dite ora a me. Se trovandovi in alto mare, vicino ad imminente naufragio, diceste così: per non andare a fondo insieme colla nave, mi lascerò nel mare, esso ha tanta forza per cui sostiene navi di peso immenso, a più forte ragione sosterrà il mio corpo; e gettatovi in mare pretendeste che vi tenesse a galla, senza adoperare né braccia, né piedi al nuoto, non sarebbe ridicola, non sarebbe da pazzo la vostra pretensione? E il mare con tutta la sua capacità a sostenervi non vi lascerebbe lasciar andare a fondo naufragato e perduto? Mare immenso senza fondo e senza lido è la divina misericordia; ma se voi non fate le vostre parti, se non vi date ad opere di penitenza, se non alzate neppur la voce ad implorare il suo soccorso, è certo che vi lascerà cadere nell’abisso di eterna perdizione. Come pretendere che vi salvi, se nulla volete fare per salvarvi, se anzi fate di tutto per perdervi? Quel Dio, dice S. Agostino che ha creato voi senza di voi, non vi salverà se voi non vi adoperate per la vostra salvezza:Qui creavit te sine te, non salvabit te sine te”. – Aspettate che Dio faccia un miracolo per farvi risorgere dallo stato di morte in cui giacete? Egli più volte si è accinto per farlo. Non è egli vero, che come a Lazzaro quatriduano, vi ha fatto sentire la sua voce per mezzo dei suoi ministri, e coll’interne ispirazioni e con i salutari rimorsi che ha eccitati nel vostro cuore? Lazare, veni foras(Io. 11, 43). Esci, o figlio dall’errore del tuo sepolcro, sorgi dal fango di tante disonestà, che più di Lazzaro ti rendono fetente. E voi, sordo alle sue chiamate, avete amata la vostra tomba e la vostra morte. La sua misericordia però non si è stancata, ha rinnovate le prove per richiamarvi a vita, e come usò verso il defunto figliuolo della vedova di Naim col toccare il suo feretro, “tetigit loculum”(Luc. VII, 14), fece sentire la sua mano sopra di voi, e vi toccò con quella infermità, con quella disgrazia, con quella tribolazione, e voi non vi curaste di alzarvi dal vostro peccato, né di aprire gli occhi sul vostro stato infelice. Ed ora per colmo di cecità e di follia pretendete persistere in questo stesso stato di morte, e che intanto la misericordia di Dio vi sopporti finché abbiate sfogato a sazietà le vostre passioni, e dopo poi quando vi piacerà, faccia il maggior di tutti i miracoli con risuscitarvi a vita di grazia, e prendendovi per i capelli come Abacuc vi porti di volo al Paradiso. Che deliri son questi, che diaboliche pretensioni? – Peggio ancora. Un’anima in peccato, e massime se nel peccato voglia persistere, ella è attuale nemica li Dio; sperare che la misericordia di Dio le sia propizia, è lo stesso che servirsi della misericordi stessa come di scudo e di riparo per oltraggiare impunemente, e con maggiore franchezza la sua maestà. Che vi pare? Può andare più oltre l’insensataggine e là temerità? – Iddio, peccatori miei cari, coll’abbondanza di pietà vi domanda la pace: voi ostinati volete guerra, che potete aspettarvi? Immaginate una città, come è avvenuto più volte, che scosso il gioco del proprio Sovrano abbia innalzato lo stendardo della ribellione. Il re clemente, compassionando l’infelice città, a condizione che dismetta le armi le accorda un generale perdono. Quella vuol guerra e non perdono: egli la cinge con forte assedio, ella è combattuta, e combatte. Rinforza il re le batterie, apre la breccia, intima la resa: tutto è vano non vuol arrendersi: si dà finalmente la scalata, l’esercito nemico inonda le strade della città: pace, pace, perdono, gridano i rivoltosi, gettando le armi a terra. Che pace, che perdono, ferro, fuoco, sangue, strage, sterminio. Ecco ciò che dovete aspettarvi se a tempo non vi arrendete ai tratti pacifici della divina bontà. – Padre giusto, esclamava Gesù Cristo, il mondo non vi conobbe, non vi conosce : “Pater iuste, mundus te non cognovit(Io. XVII, 14). Non dice, Padre onnipotente, Padre misericordioso, ma Padre giusto, perché da taluni non si crede, né si vuol credere la severità della sua giustizia, e il rigore dei suoi tremendi giudizi. Iddio a nostro modo d’intendere, con due mani regge e governa il mondo, colla misericordia cioè, e colla giustizia. Or l’una or l’altra adopera di queste mani. Ditemi ora, se dopo aver Egli steso la mano di sua misericordia in tollerarvi, non debba mai più venire il tempo che alzi la sua destra a punirvi? Viva Dio! Che questa destra armata di spada fulminatrice si scaricherà sopra di voi con piaga insanabile. Volete sottrarvi da questo colpo? Opponete lo scudo della penitenza: distruggete in voi il peccato con dolore sincero, e rotta cadrà la spada della sua giustizia: volete misericordia da Dio? Usate misericordia all’anima vostra e fate pace con Dio; Egli stesso arriva a pregarvi che abbiate pietà della vostr’anima. “Miserere animæ tuæ placens Deo[Eccl. XXX, 21]. Chi sa che questa non sia per voi l’ultimata chiamata? Schivate, carissimi, quei due scogli fatali, la disperazione e la presunzione della divina misericordia. Non disperate, ma non presumete; non disperate, che infinita è la sua misericordia: non presumete, ché di sua misericordia non sono infiniti gli effetti. Non disperate, avete a far con un Dio infinitamente buono; non presumete: avete a fare con un Dio infinitamente giusto!

CREDO …

 Offertorium

Orémus Ps IX:11-12 IX:13 Sperent in te omnes, qui novérunt nomen tuum, Dómine: quóniam non derelínquis quæréntes te: psállite Dómino, qui hábitat in Sion: quóniam non est oblítus oratiónem páuperum. [Sperino in te tutti coloro che hanno conosciuto il tuo nome, o Signore: poiché non abbandoni chi ti cerca: cantate lodi al Signore, che àbita in Sion: poiché non ha trascurata la preghiera dei poveri.]

 Secreta

Réspice, Dómine, múnera supplicántis Ecclésiæ: et salúti credéntium perpétua sanctificatióne suménda concéde. [Guarda, o Signore, ai doni della Chiesa che ti supplica, e con la tua grazia incessante, fa che siano ricevuti per la salvezza dei fedeli.]

 Communio

Luc XV:10. Dico vobis: gáudium est Angelis Dei super uno peccatóre poeniténtiam agénte. [Vi dico: che grande gaudio vi è tra gli Angeli per un peccatore che fa penitenza.]

 Postcommunio

Omus. Sancta tua nos, Dómine, sumpta vivíficent: et misericórdiæ sempitérnæ praeparent expiátos. [I tuoi santi misteri che abbiamo ricevuto, o Signore, ci vivifichino, e, purgandoci dai nostri falli, ci preparino all’eterna misericordia.]

SAN GIOVANNI BATTISTA

Omelia di S. S. GREGORIO XVII (1976)

Cappella di S. Giovanni Battista a Genova, cattedrale S. Lorenzo.

“La solennità odierna e il brano del Vangelo (Lc. 1, 57-66.80) che avete ora sentito leggere ci riportano alla nascita di San Giovanni Battista, unico tra i Santi del quale si celebri la nascita. E la ragione è questa: che era un predestinato fin dal momento della sua creazione e che aveva già al momento della nascita tutto il contorno di manifestazioni soprannaturali che tale lo indicavano, tanto che si diceva, come riferisce il Vangelo di Luca, nelle montagne di Giudea: “Ma chi sarà mai questo fanciullo?” (Lc I 66) Questa nascita è circondata da segni soprannaturali, ma – ed è l’oggetto del mio parlare oggi – ha una caratteristica: é punteggiato dai due più grandi cantici del Nuovo Testamento, il “Magnificat” e il “Benedictus”. – Cominciamo dal primo. Il “Magnificat” (Lc 1, 46-55) è noto a tutti, la parola risuona nelle orecchie di tutti. E il cantico sciolto della Vergine Madre del Signore. Dove? Sulla porta della casa di Ain Karim, dove sarebbe nato S. Giovanni Battista e dove la Vergine Madre del Signore andava a servire per tre mesi, cioè fintanto che non è nato lui, la sua vecchia parente Elisabetta, che aspettava Giovanni il Battista. Il “Magnificat” fu il primo atto compiuto dalla Vergine mentre andava a servire la madre del nascituro. E il nascituro se ne accorse, perché – cosa che non accade agli altri, lo riferisce il Vangelo di Luca – all’udire la voce di Maria esultò nel grembo della madre. Sapeva che quel cantico era collegato con lui, con la sua missione e inquadrava la sua figura di uomo che entrava in questo mondo con una strada ben segnata e divinamente disegnata. Ora, che cosa disse Maria nel “Magnificat”? Esaltò il Signore per la misericordia, esaltò fedeltà di Dio nel mantenere le promesse fatte ai padri e allo stesso Abramo, annunciò che sarebbero stati riempiti di bene gli umili e gli affamati e sarebbero stati cacciati giù dai troni i superbi. Annunciò in quel modo poetico, proprio della lingua in cui la Vergine cantava, che in questo mondo ci sarebbe stata una giustizia, non certo inclusa nei cicli delle nostre stagioni; ma c’è! Nessuna si creda di farla e alla Divina Provvidenza e alla legge di Dio. O prima o poi il ciclo della giustizia si chiude, e questo è uno dei segni evidenti, tangibili e qualificati per noi per intendere la presenza di una giusta Provvidenza nel mondo. E questo è un ammonimento. Più tardi lo stesso Giovanni Battista avrebbe ripreso il motivo nei discorsi tenuti al Giordano e che un po” ci sono riferiti da tutti e quattro gli Evangelisti, dicendo a tutti: “Osservate bene la giustizia voi capi del popolo, voi soldati” (cfr. Lc III, 10-14). Ricordò a tutti che se la giustizia non l’avessero fatti loro, l’avrebbe fatta un Altro. E il momento di ricordare questa legge della storia. Quando la giustizia non la fanno gli uomini, la fa Iddio! E molte cose che accadono a questo mondo non portano sopra, come se fossero delle bottiglie, un’etichetta per indicare che sono il frutto di un’eterna giustizia, ma lo sono. – L’altro cantico; il “Benedictus” (Lc. I, 68-79). Quando il padre che, essendo stato incredulo prima all’annuncio dell’Angelo, era stato punito con l’incapacità di parlare, era muto; quando il padre, dopo lui nato e richiesto di dire che nome voleva dare – i parenti lo volevano chiamare Zaccaria; tale era in nome del padre -, prese una tavoletta e scrisse sopra: ” I l suo nome è Giovanni” (Lc. 1, 63), (anche la madre aveva detto questo), in quel momento, compiuto il suo dovere, si sciolse la lingua di Zaccaria e cantò pieno di Spirito Santo il “Benedictus”, l’altro cantico grande del Nuovo Testamento. Lo cantò dinanzi alla culla del fanciullo al quale imponeva il nome determinato da Dio. E che cosa disse nel suo cantico Zaccaria? Rese grazie a Dio, annunciò la missione di quel fanciullo, che era di illuminare e portare la luce dove erano le tenebre, ma soprattutto cantò la fedeltà di Dio alle promesse e cantò la sicurezza che dava alla vita degli uomini la fedeltà di Dio alle Sue promesse. “Sine timore” (Lc. 1, 74), “senza timore liberati” possiamo cantare a Lui l’inno di grazie. Cantò la fedeltà di Dio. E l’unico veramente fedele; gli altri quand’anche vogliono esser fedeli, sono soggetti alla sonnolenza, al sonno, alla dimenticanza e ai diversi sbalordimenti dalle diverse cause e dalle diverse qualifiche. Anche volendolo, non riescono tutti a mantenere tutte le loro promesse. Dio solo è fedele, e il cantico della fedeltà, cominciato all’inizio del Nuovo Testamento, è cantato dinnanzi alla culla di questo bambino e proclamato lì. – Ecco con quale appannaggio entra nel mondo Giovanni Battista. Ecco con quali certezze entra nel mondo Giovanni Battista. Possiamo esser tranquilli di Dio, certo! Perché? Perché la Grazia di Dio all’interno degli uomini può operare cose meravigliose che annullino tutto quello che gli avvenimenti iniqui possono di perverso combinare all’intorno dell’uomo. Dio all’interno può sempre pareggiare quello che all’esterno la libertà umana tollera si pareggi. [Il colore rosso è redazionale].

DOMENICA II dopo PENTECOSTE

Introitus Ps XVII:19-20.

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me. [Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.] Ps XVII:2-3

Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus. [Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.] Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]

Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis. [Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III:13-18

“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”

I Omelia

[Mons. Bonomelli. Omelia, vol III – Torino 1899, Omel. V]

“Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere stati tramutati dalla morte alla vita, perciò amiamo i fratelli. Chi non ama, resta nella morte. Chiunque odia il fratello suo è un micidiale; ora voi sapete, che nessun omicida ha la vita eterna in sé. In questo poi abbiamo conosciuto la carità di Dio, ch’Egli diede per noi la sua vita, e noi dobbiamo per i fratelli dare la vita. Ora se alcuno ha dei beni di questo mondo, e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio alberga in costui? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non in parole e colla lingua, ma coi fatti e colla verità. „ (S. Giovanni, I . c. III, vers. 13-18). –

Voi stessi avrete compreso, che queste sentenze debbono appartenere all’apostolo della carità, S. Giovanni. Gli scritti di questo diletto discepolo di Gesù Cristo, e specialmente la prima delle sue lettere, dalla quale è tolto il brano che avete udito, hanno un carattere tale, una fisionomia sì spiccata, che è impossibile non riconoscerne tostamente l’autore. – Pressoché tutte le sue sentenze sono un’armonia continuata, una variazione stupenda di due soli motivi fondamentali, l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Nessuno degli autori ispirati del nuovo Testamento meglio di lui mise in luce l’indole e la natura della legge di grazia, che è l’amore, secondo quella sentenza di nostro Signore, che disse: “La legge ed i profeti si compendiano nella carità “Ex quo universa lex pendet et prophetæ”.– Nessuna meraviglia pertanto che negli scritti di Giovanni, e nominatamente nella prima lettera, siano frequentissime le ripetizioni. Narra S. Girolamo, che l’evangelista e l’Apostolo della carità, già nonagenario, era portato a braccia dai discepoli in mezzo alla radunanza dei fedeli, affinché rivolgesse loro qualche parola di edificazione. Ed egli non faceva che ripetere queste parole: “Miei figlioletti, amatevi tra di voi. „ Annoiati i fedeli, gli domandarono, perché dicesse sempre la stessa cosa; ed egli, scrive S. Girolamo, diede una risposta degna di lui: “Perché, disse, è comando del Signore, e se questo si osserva, basta. „ La lettera, che abbiamo di lui, sì direbbe essere la fedele ripetizione della esortazione, che l’Apostolo faceva alle pie adunanze, delle quali fa cenno Girolamo. – Se voi pertanto udrete, anche in questa omelia. ripetuta più e più volte la stessa verità dell’amore fraterno, non vogliate meravigliarvi: né annoiarvi: è precetto del Signore, e se questo si adempie, basta. Seguitiamo dunque il maestro e l’Apostolo della carità, e meditiamone le sante parole. Perché possiate intendere meglio la spiegazione dei versetti sopra riferiti, è mestieri rifarci alquanto indietro e rilevare il nesso che corre tra loro. Quelli che fan male, dice S. Giovanni, perciò stesso che fan male, si mostrano seguaci del demonio, e figli di Dio si palesano quelli che fanno bene. Il grande annunzio, portato sulla terra da Gesù Cristo è l’amore dei fratelli. Il mondo, cioè i cattivi, i seguaci del demonio odiano naturalmente i buoni, i figli di Dio: essi cominciano da Caino, che odiò ed uccise il fratel suo, Abele e continuano sino a noi. Per il che, dice Giovanni: “Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. „ È questa la ripetizione alla lettera d’una sentenza di Gesù Cristo che leggiamo nel Vangelo dello stesso Giovanni: ” Voi non siete del mondo, anzi io vi ho eletti dal mondo, per questo il mondo vi odia „ (XV, 19). Il santo Apostolo non vuole che ci meravigliamo di questo odio del mondo contro i discepoli di Gesù; eppure a me sembra cosa piena di meraviglia, perché quasi incredibile. Questi cristiani, a somiglianza del divino loro Maestro, non fan male a chicchessia; amano tutti come fratelli, a tutti fanno quel bene che possono, anche ai loro nemici più implacabili: sono umili, modesti, pazienti, casti, adorni di tutte le virtù, formano lo stupore degli stessi pagani. Nessuno dunque poteva odiarli, tutti dovevano amarli, od alla men peggio tollerarli. Nondimeno essi sono fieramente odiati, e S. Giovanni afferma che nessuno doveva stupirne: “Nolite mirari si odit vos mundus”. Come ciò? Come si spiega questa contraddizione manifesta del mondo? Il mondo, cioè gli uomini tristi generalmente odiano i buoni e li devono odiare: le tenebre sono nemiche della luce e i tristi sono nemici dei buoni; la virtù di questi è un rimprovero continuo e amaro per quelli: la condotta dei buoni è la condanna dei malvagi, sveglia nei loro cuori il rimorso, li umilia, li offende, li ferisce, e perciò non vorrebbero vederli, né udirli, e se fosse possibile li vorrebbero sbanditi dalla terra. L’odio dei malvagi contro dei buoni, più che dalla ragione, e dalla riflessione, deriva dall’istinto, nasce dalla natura delle cose; è l’odio del lupo per l’agnello, del cane che si getta sulla lepre: non provocati e nemmeno stimolati dalla fame, il lupo sbrana l’agnello, il cane insegue e addenta la lepre, e l’uomo tristo si strugge di odio contro il virtuoso. Il mondo ha odiato e perseguitato gli Apostoli, tutti i Santi, il Santo dei santi, Gesù Cristo: e noi stupiremo che odi e perseguiti quelli che camminano dietro a Lui? – Il mondo ci odia, come Caino odiò Abele, e i Giudei odiarono Cristo: quale conforto possiamo avere? Questo: “Noi sappiamo di essere stati tramutati dalla morte alla vita „ – Che importa a noi l’essere odiati e perseguitati da questo mondo perverso? Noi camminavamo nelle tenebre dell’errore: eravamo noi pure figli di questo mondo riprovato e morti a Dio; ora, per sua grazia, siamo usciti da queste tenebre, ci siamo separati da questo mondo, siamo sfuggiti alla morte, e pel Battesimo e per la fede siamo entrati nel regno della vita. E come lo sappiamo noi? Quale prova ne abbiamo? Questa è sicurissima: “Che amiamo i fratelli, – Quoniam diligimus fratres„ Segno infallibile che abbiamo la vita della grazia, a cui risponderà a suo tempo la vita della gloria, è il sentire in noi stessi l’amore verso de’ fratelli. Non dubito punto, che con la parola fratelli, qui usata, S. Giovanni intenda non solo i fratelli nella fede, ma tutti indistintamente gli uomini, anche non credenti e nemici, perché anche questi sono fratelli. E invero S. Giovanni in questo luogo vuol mettere sottocchio ai suoi lettori cristiani il contrassegno indubitato, ch’essi sono nel regno della vita divina, e lo mette nella carità fraterna. Se questa carità fosse stata circoscritta ai pochi cristiani, che allora esistevano, ad esclusione di tutti gli altri, come poteva essere un segno ch’essi erano trasportati nel regno della vita, nel regno di Gesù Cristo? Anche gli Ebrei, anche i pagani, fino ad un certo punto si amavano tra loro, almeno i congiunti, almeno gli amici, i conoscenti, i connazionali, mase noi pigliamo questa parola “fratelli, nel senso amplissimo, in quantoché abbraccia tutti gli uomini, allora ci dà veramente il carattere sovraumano e divino della carità. “Noi, così S. Giovanni, abbiamo una prova d’essere figli di Dio in questo che amiamo tutti gli uomini e tutti li teniamo in conto di fratelli, anche quando ci odiano, ci calunniano e ci perseguitano. „ Questo amore universale, sì generoso e sì costante all’uomo è impossibile con le sole forze della natura: esso non può venire che dall’alto, da Dio stesso, è dono al tutto suo, e perciò in esso noi abbiamo la certezza d’essere veri seguaci di Gesù Cristo, e d’avere nei nostri cuori la sua grazia: “Nos scimus, quoniam translati sumus de morte ad vitàm, quoniam diligimus fratres”. – Accennata la carità verso dei fratelli, questo segno caratteristico dei discepoli di Gesù e della trasformazione meravigliosa operata dalla grazia, S. Giovanni, seguendo il suo stile, dirò meglio, il bisogno del suo cuore, mostra il pregio di questa virtù, e scrive: “Chi non ama, dimora nella morte: „ “Qui non diligit, manet in morte”. Chi non ama, cioè chi non ha l’amore dei fratelli, l’amore operoso, che scaturisce dalla grazia, è in peccato, e perciò, ancorché vivo nel corpo, è morto nell’animo. L’anima, per fermo, è immortale per se stessa, come apprendiamo dalla fede e sappiamo dalla ragione: ma priva della grazia, è separata da Dio, e perciò priva della fonte d’ogni vita. Il corpo come e perché è vivo? È vivo in quanto e perché è unito all’anima, che tutto lo penetra ed informa. Separate l’anima dal corpo: che vedete voi? Esso è morto, e va tosto disfacendosi. Così fate che l’anima sia separata dalla grazia, ossia da Dio, essa è come morta. Ora non apparisce la sua morte agli occhi del corpo, come nella stagione invernale non apparisce quali siano gli alberi vivi e quali morti: ma aspettate la bella stagione ed allora vedrete morti i morti e vivi i vivi, Similmente quanto all’anima, e per ragion dell’anima anche quanto al corpo: aspettate la seconda venuta di Gesù Cristo, aspettate: Rispunti il sole di eterna giustizia e vedrete che cosa voglia dire la morte dell’anima e del suo compagno eterno. – L’anima senza la grazia o senza la carità, è in stato di morte. Questa idea della morte desta nello scrittore ispirato un’altra idea analoga, ma che rischiara e ribadisce la prima: “Chiunque odia il fratel suo è omicida. Parmi chiaro che per S. Giovanni il non avere amore per i fratelli è un odiarli, ancorché per sé il non amare non sia sempre odiare, giacché si concepisce uno stato di indifferenza, quasi medio tra l’amore e l’odio. Ma in questo luogo l’Apostolo dice chiaramente: “Chi non ama, odia, e chi odia il fratello è omicida. „ Omicida di chi? Di sé o del fratello? Si può intendere che è omicida di sè, perché non avendo in sé la carità verso il fratello, anzi odiandolo, pecca gravemente, e perciò uccide l’anima sua, e in questo senso disse benissimo S. Ambrogio, che “chi odia, anzitutto uccide se stesso, „ Qui odit, non alium prius quam seipsum occidit”. Ma non sembra questo il senso più ovvio e naturale della sentenza apostolica: essa sembra esigere che l’ucciso non sia chi odia, ma l’odiato. Ma come può dire che chi odia il fratello lo uccide? Non è questa una esagerazione? Tra l’odiare e l’uccidere una persona corre una differenza grandissima. E vero l’odio non è l’omicidio, e guai al mondo se l’uno fosse sempre l’altro: ma ricordiamoci, o fratelli, di un’altra sentenza del Vangelo simile a questa: “Chi avrà rimirata una donna con desiderio di lei, dice Gesù Cristo, ha già commesso peccato con lei in cuor suo „ (Matt. V, 28). Il che vuol dire, che il solo pensiero deliberato di commettere peccato, dinanzi a Dio è come commesso, perché Dio vede e giudica i cuori; similmente in questo luogo S. Giovanni vuol dire: badate, o figliuoli, di non albergare nel vostro cuore odio contro il fratello, perché quell’odio vi porterà a volere il suo male e a desiderare di torgli la vita e a toglierla di fatto. Ed in vero, donde le risse, i ferimenti e gli omicidi? Dall’odio. L’odio partorisce l’omicidio e in quanto ne è causa si può chiamare omicida chi lo accoglie in cuore. Scrive S. Girolamo (Epist. 36 Ad castor.). Grazie a Dio, non sono molti quelli che odiano il fratello: ma quelli che lo vedono di mal occhio, che nutrono rancore contro di lui, che non sanno dimenticare un’offesa ricevuta, spesso immaginaria, che tengono chiuso cuore con lui e se non l’odiano, certo non l’amano, pur troppo sono molti, e non è il caso anche tra persone che si reputano devote. Che dire di costoro? Dio solo legge nei cuori e pesa sulla sua bilancia le colpe degli uomini: ma ciò che è indubitato è, che di questo difetto di carità comunemente non si tiene calcolo o leggero, tantoché le stesse persone non se ne curano. Eppure vi è sempre colpa e tale che spesso apre la via all’odio manifesto. Carissimi! stiamo in guardia e non lasciamo penetrare nel nostro cuore questo mal seme, che traligna facilmente in odio. – Ora, domanda l’Apostolo, qual è la pena riserbata all’omicida? La morte. Dunque, chi odia non può avere la vita eterna. E qui S. Giovanni torna da capo all’idea della carità ed al modello supremo della carità, che è Gesù Cristo, ed esclama: “E in questo noi abbiamo conosciuto la carità di Dio, che Egli diede per noi la sua vita. „ Gli uomini troppo spesso odiano e tolgono la vitaai fratelli loro: Gesù Cristo per contrario ama tutti gli uomini, e li ama per guisa che dà per essi la sua vita. Quale e quanta carità! Qual modello da imitare! E non è fuor di proposito l’osservare come San Giovanni in questo luogo chiami Gesù Cristo Dio, giacché dice espressamente, che noi abbiamo conosciuto l’amore di Dio nel fatto che Egli egli diede la sua vita per noi. Ora chi diede la sua vita e si immolò per noi? Gesù Cristo! Dunque Gesù Cristo in questa sentenza è chiamato Dio. E che dobbiamo apprendere da Gesù Cristo, modello supremo di carità? ” Egli diede per noi la sua vita e noi dobbiamo porre la nostra per i fratelli. „ Questa sentenza di nostro Signore significa forse che noi possiamo sacrificare la vita dell’anima, la vita eterna per la salvezza spirituale dei fratelli nostri? Più che una follia sarebbe un’empia bestemmia il solo pensarlo: la vita dell’ anima è il supremo nostro bene, e per esso tutto devesi sacrificare, non mai esso ad altro bene quale che sia. La vita, di cui parla S. Giovanni e che noi dobbiamo sacrificare per i fratelli, non può essere che la vita del corpo. Ma come? direte voi. Siamo noi obbligati a dare la vita per i fratelli nostri? È questo un Debemus, come dice il sacro testo? E sempre? Ma in tal caso noi saremmo tenuti ad amare il prossimo più di noi stessi, mentre il Vangelo e la stessa natura ci impongono di amare il prossimo come noi stessi, cioè ad imitazione dell’amore, che dobbiamo a noi medesimi. – La risposta è piana e manifesta. L’ ordine della carità vuole che amiamo noi stèssi più dei fratelli, perché ciascuno è più prossimo a sé che non io sia il fratello, e perciò per regola ordinaria nessuno è tenuto a dare la sua vita per salvare quella del fratello. E se lo fa, che diremo noi? Se per salvare chi travolto dalla corrente d’un fiume, chi è circondato da un incendio, altri si getta nel fiume e si slancia tra le fiamme, diremo che viola l’ordine della carità, che merita biasimo? Ce ne guardi il cielo: nessuno è obbligato a far questo, onde se non lo fa, non pecca, perché non viola nessuna legge: ma se 1o fa noi lo saluteremo come un eroe e ci inchineremo riverenti dinanzi a tanta grandezza d’animo, a questo martire glorioso della carità, a questo imitatore del divino Maestro, che diede la vita per noi! – E se accadesse che per salvare la vita spirituale del fratello fosse necessario far getto della mia temporale, sarei io tenuto ad immolarla? Senza dubbio sarei tenuto ad immolarla quando fossi tenuto per ufficio, che tengo. Onde in ogni tempo noi vedemmo sacerdoti, parrochi, vescovi, pastori di anime non esitare un istante a sfidare la morte al capezzale degli appestati negli ospedali e nei lazzaretti per offrir loro i conforti della Religione. Se il soldato, fedele al suo dovere, non paventa la morte sui campi di battaglia per la difesa della patria, per gli interessi della terra, come potremmo esitar noi ad affrontare la morte, allorché si tratta degli interessi del cielo, dell’acquisto della patria superna? No, non vi è sulla terra spettacolo più sublime di colui che offre il sacrificio della propria vita per salvare la vita temporale del fratello: che dovrà essere quando l’offre per salvare non la vita temporale, ma 1’eterna del fratello? – Dopo aver parlato della carità verso dei fratelli in genere e del supremo suo grado, che consiste in dare per essi, se è necessario, anche la vita, il nostro Apostolo discende alla pratica applicazione più comune della carità, e così prosegue: “Se alcuno ha beni in questo mondo, e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio albergherà in costui? „ – La carità, la vera carità si manifesta nelle opere: vuoi tu conoscere se questa carità alberga nel tuo cuore? Guarda alle opere: la bontà dell’albero si conosce e si giudica dai frutti e non dalle foglie. Vedi tu il fratello che soffre la fame? che mal vestito trema dal freddo? che non ha tetto, che lo copra? Che non ha un giaciglio su cui passare la notte? Che infermo non ha chi lo assista? che soffre e non ha chi lo conforti? Qui si vedrà alla prova la tua carità. A te sfamarlo, vestirlo, trarlo, soccorrerlo colla limosina, o meglio ancora, se è possibile, col dargli lavoro, limosina che non umilia: a te, se non puoi aiutarlo del tuo, farti suo avvocato presso chi può soccorrerlo: a te rivolgergli una parola di consiglio, di conforto, aprirgli il tuo cuore affinché egli ti apra il suo. – Il mondo, atterrito, ode grida di minaccia e vede turbe di uomini, che si aggirano per le vie chiedenti pane o lavoro: vede un esercito immenso di sofferenti, che aspettano o vagheggiano 1’ora dello sconvolgimento sociale: il fragore della bufera (che vale dissimularlo?) più e più si avvicina: la marea monta, monta sempre e finirà col passare come un torrente di lava, su tutto il continente, distruggendo tutto ciò che troverà sul suo passaggio. Vi è un rimedio, che ci salvi da tanta rovina? Sì, vi è; ma non è riposto nei discorsi, nei trattati, nei libri dei dotti e nemmeno nelle leggi e nella forza armata, a difesa delle leggi. Esso sta riposto nella gran legge della carità: gli istruiti, i ricchi, i grandi si abbassino, amino davvero i loro fratelli, li ammaestrino, li soccorrano: li soccorrano nel loro superfluo, e sopratutto si mescolino a loro, formino con essi una sola famiglia per quella carità, che tutto pareggia, e la bufera sarà dissipata. La soluzione del tremendo problema, che si agita intorno a noi, è tutta in questi due periodi di S. Giovanni: “Se qualcuno ha beni di questo mondo, e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuderà il suo cuore verso di lui, come mai la carità di Dio albergherà in esso? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non con parole e con la lingua, ma colle opere e in verità. „ Ecco il rimedio infallibile ai mali, che ci minacciano; ecco la vera e pratica soluzione del problema che ci affanna: la eguaglianza, figlia non della forza e della ingiustizia, ma della carità volontaria. – Chiuderò la mia omelia, ripetendo le parole di due Padri della Chiesa: il primo parla al Vescovo e, fatta proporzione, ai preti; l’altro a voi, o laici. Udite il primo, S. Bernardo: “Guai a te, vescovo. Non ti è lecito spiegar lusso con i beni della Chiesa e sprecare in cose superflue: non ti è lecito arricchire: non ti è lecito portare in alto i consanguinei: non ti è lecito fabbricare palazzi: tutto ciò che oltre il vitto necessario ed il semplice vestito tieni dalla Chiesa, non è tuo: è rapina, è sacrilegio! „ – Udite il secondo, o laici: ” Forse che tu non sei spogliatore, tu, che reputi tuo ciò che hai ricevuto per distribuirlo altrui? Quel pane, che tieni per te, è pane dell’affamato: appartiene all’ignudo quella veste, che conservi nell’armadio: allo scalzo spettano quei calzari, che si consumano in casa tua: è denaro del povero quello che crudelmente possiedi. Ondeché tu fai ingiuria a tanti poveri, quanti sono quelli, ai quali potresti porgere soccorso. „

Graduale

Ps CXIX:1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me. [Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]

V. Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja [O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]

Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja. [Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. R. Gloria tibi, Domine! Luc XIV:16-24

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit coenam meam”.

Omelia II

Omelia della DOMENICA II dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

Numero dei Peccati.

E perché al primo rifiuto degl’invitati nell’odierna parabola vien fulminata sentenza fatale di esclusione perpetua dal regno di Dio? Un uomo di qualità, imbandita una grande cena, mandò il suo servo ad invitare molti. Il primo di questi invitati si scusò con dire, aver lui fatto acquisto di una villa, e conveniva si conducesse sul luogo a vederla. Il secondo allegò per scusa aver comprato cinque paia di buoi, e doveva andar a provarli se erano idonei all’aratro. Disse il terzo, che di fresco aveva presa moglie, e gli era impossibile venir al convito. Offeso da questi villani rifiuti quel personaggio, altamente si protestò che niun di costoro si sarebbe mai più assiso alla sua mensa, mai più avrebbe gustato della sua cena. Quest’uomo qualificato, al dir di S. Cirillo e del magno Gregorio, riportati dall’angelico dottor S. Tommaso (in Cat. Aurea), egli è Dio che ha imbandita una lauta mensa delle carni immacolate del divino agnello, ha spedito il suo servo, cioè i ministri della sua Chiesa ad invitar tutti i fedeli, a partecipare di così santo e salutare convito; ma molti ingrati corrispondono a tanta bontà con un rifiuto. E perché, io ripeto, dopo il primo rifiuto gl’invitati dell’indicata parabola sono fulminati con fatale sentenza? Ecco, uditori, una risposta, che racchiude una spaventosissima verità. Compirono con quel rifiuto la misura della loro malvagità. Che in fatti vi sia un certo numero di peccati da Dio stabilito universalmente per tutti, dopo il quale non resti più luogo a perdono, e qual possa essere in particolare per ciascuno quello stesso numero, è ciò che formerà il soggetto della presente spiegazione.

Che il grande Iddio, che tutto ordina dispone ed eseguisce in numero, peso e misura, abbia determinato un certo numero di peccati, compiuto il quale più non accordi perdono, è cosa certa, dice S. Agostino, comprovata dal giudizio di Dio medesimo nelle divine Scritture: “Esse certum peccatorum numerum atque mensuram, ipsius Dei iudicio certissime comprobatur”. Promette infatti Iddio ad Abramo la fertilissima terra di Canaan, ma tu, soggiunge non entrerai al possesso della medesima, finché non sian compiute le iniquità degli Amorrei: “Necdum enim completæ sunt iniquitates Amorrhæorum” (Ge. XV, 16), Gesù Cristo, rinfacciando ai caparbi scribi e ai superbi farisei l’empietà delle loro massime, e la scostumatezza delle loro opere. Compite, dice ad essi, compite la misura dei malvagi vostri genitori: “et vos implete mensuram patrum vestrorum” (Matth. XXV, 32). Lo stesso finalmente conferma l’apostolo nella prima sua epistola (cap. II, 15) a quei di Tessalonica. A rendervi più sensibile questa importantissima verità fatevi tornare a mente l’universale diluvio, allorché Iddio, per castigare con esempio inaudito il peccato della disonestà, tutta sommerse l’umana generazione. Poteva l’onnipotente Iddio in un sol giorno, in un’ora, in un istante affogare nell’acque il mondo intero, pure volle impiegarvi lo spazio di giorni quaranta di pioggia dirotta. Fu questo, dice S. Giovanni Crisostomo, un tratto di misericordia, acciocché in vista di un castigo che aveva cominciamento e progresso, potessero i rei aver tempo a salvarsi; ma fu altresì ripiglia Origene, un atto di sua tremenda giustizia; perciocché nei primi giorni andarono in fondo quei che compito avevano il numero de’ propri peccati, e così nei giorni susseguenti gradatamente restarono sommersi coloro che ripiena avevano la misura dei loro delitti: “Quam mensurasn credendam et fuisse completam ab iis , qui diluvio perierunt(Orig.). Mi chiedete ora qual sia per ciascuno in particolare questa determinata misura? Questa per alcuni è più ampia, per altri è più ristretta. Apriamo di nuovo le divine Scritture: ah, diceva Iddio a Mosè, io voglio una volta disfarmi queste tue genti; e assegnando la cagione della sua collera. È già la decima volta, soggiunge, che questa malnata genìa provoca, il mio furore: “Tentaverunt me iam per decem vices” (Num. XIV, 22). – Lo stesso Dio, parlando dei popoli di Damasco, dice ad Amos profèta: Io perdonerò a questo popolo le sue scelleratezze la prima, la seconda, la terza volta, e non più: “Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum” (Am. I, 3). Ma, Signore, non siete sempre il Dio delle misericordie tanto la prima, che la seconda, la quarta e la centesima fiata? Io sono in natura, in sostanza, in ogni tempo, ma per il popolo di Damasco nol sarò in effetto, se non fino alla terza volta, ma non per la quarta. “Super tribus sceleribus Damasci, et super quatuor non convertam eum”. Ecco dunque per gli Ebrei nel deserto, che la loro misura arriva fino a dieci, e per quel di Damasco fino a tre. Vi sono o esser vi possono ancor più corte misure? O giudizi di Dio tremendi, profondi, inscrutabili! Vi sono purtroppo numeri più ristretti, misure più scarse. Per alcuni talvolta il primo peccato è l’ultimo. Così avvenne agli Angeli nel cielo empireo, così agl’invitati nell’odierna parabola. – Fissate bene le prove di questa formidabile verità, ditemi, fedeli amatissimi, siete voi nello stato d’innocenza? Mi giova il crederlo. Ah! se così, tenetevi ben cara questa gemma preziosa, guardatevi bene di macchiare la candida stola della vostra battesimale integrità, perché il primo peccato potrebbe forse essere l’ultimo, potrebbe cadere su voi quel fulmine improvviso e irreparabile, che colpì gli Angeli prevaricatori, e i convitati dell’odierno Vangelo, come già vi accennai. Se poi, perduta la prima tavola dell’innocenza, vi siete appigliati alla seconda della penitenza, se, abbandonata la strada di perdizione, vi siete incamminati in quella della salute, deh! Per pietà non tornate addietro, non date un passo, non mettete un piede fuor di questa via, perché il primo passo potrebb’essere per voi un precipizio, una caduta, che vi sprofondasse nel baratro sempiterno.Se finalmente foste ancora nello stato di peccato, stato d’inimicizia con Dio, stato di dannazione, uscite per carità da stato sì pericoloso, non aggiungete colpa a colpa, peccato a peccato; perché la bilancia che sta in mano alla divina giustizia è già carica dal peso de’ vostri reati e va ondeggiando, sostenuta, a non preponderare a vostro danno, dalla divina misericordia; ma un altro peccato, che vi si accresca, può farla tracollare a vostra rovina. – Forse alcun di voi andrà dicendo fra sé: “conviene dire che la misura de’ miei peccati sia ben dilatata ed estesa: poiché dopo tanti che ne ho commessi senza numero, senza fine, in ogni genere, in ogni modo, la giustizia di Dio non mi ha fatto sentire neppure il fischio del suo flagello; invece io vivo sano, vegeto, robusto e prosperoso. – Perdonatemi se vi compiango, e uditemi con pazienza. Un orologio montato a svegliarino corre con un leggiero moto e poco si fa sentire tutta la notte, ma giunto al punto fissato da chi lo caricò, ecco un’improvvisa rivoluzione di ruote, uno strepito di martelli, un sì forte trambusto, che sveglia chi anche profondamente dormiva. – Voi al presente dormite tranquillo in seno al peccato, sentite però a qualche ora un leggiero movimento, il rimorso cioè della rea coscienza, che non sa tacere; pur proseguite il vostro sonno, o piuttosto il vostro letargo; ma al giungere di quel punto fatale determinato dal padrone della vita e della morte, si scaricherà su di voi la giusta sua collera, vi sveglierete dalla profonda letargia, aprirete gli occhi, e vedrete il mondo che vi fugge, la morte che v’incalza, l’eternità che vi assorbe, l’ira di Dio che vi sta sopra in atto di fulminarvi, e sprofondarvi all’abisso. Succederà a voi come a tanti pari vostri, uomini di bel tempo, che nel fior dell’età, nel più bello dei loro sozzi piaceri, venuto il fatal punto, furono all’improvviso precipitati all’inferno: “Ducunt in bonis dies suos, et in puncto, notate bene, et in puncto ad inferna discendunt” [finiscono nel benessere i loro giorni e scendono tranquilli negli inferi] (Job. XXI, 13). Questo terribile punto fissato dalla mano dell’Onnipotente, arrivò già per i superbi e rivoltosi Core, Datan e Abiron, “si aprì loro la terra sotto de’ piedi, e vivi vivi piombarono nel profondo dell’inferno”: “Descenderuntque vivi in infernum” (Num. XVI, 33). Questo formidabile punto non preveduto arrivò per l’incestuoso Ammone, e la mano di Dio lo colse sedente a lauto convito, che fu il palco funesto della sua morte. Questo punto non preveduto giunse per l’empio Baldassarre, e la divina vendetta lo colpì, mentre giaceva in un profondo sonno, trucidato dalle spade nemiche de’ Medi e dei Persiani. Questo punto arrivò per Sisara generale di grande armata, addormentato nel padiglione di Giaele, da lungo chiodo dall’una all’altra tempia miseramente trafitto. Questo punto arrivò per l’orgoglioso Oloferne, mentre sepolto nel sonno e nel vino, lasciò la testa sotto la spada della forte Giuditta. Questo punto, a finirla, arrivò per tanti libertini dei nostri tempi, increduli, scostumati, scandalosi, da noi conosciuti, che nella debolezza dei loro animi, e nella bruttezza dei loro vizi affettavano spirito forte, e mascherato patriottismo, colpiti da improvvisa morte nel fiore degli anni, senza sacramenti, senza un segno di religione, senza un atto di cristiana pietà. Per tutti quest’infelici, non è egli evidente che si avverò l’oracolo dello Spirito Santo per bocca di Giobbe: “Ducunt in bonis dies suos, et in puncto – notate di nuovo – et in puncto ad inferna descendunt”? Questo divino oracolo, questa tremenda minaccia si compirà in chiunque mette la sua felicità nelle terrene cose, nei vietati piaceri, nello sfogo delle brutali passioni, in chiunque non teme Dio, non si cura di Dio, calpesta le sue leggi e mena una vita peggiore delle bestie insensate. Sì, miserabili, seguite pure la via del piacere, vedrete ove andrà a terminare: impegolatevi nelle crapule, ubriacatevi nelle sensualità, coronatevi di rose; anche i montoni s’incoronano di fiori, e si lasciano carolare sul prato, ma son già destinati alla scure ed al macello. Cantino pure nella prigione quei scioperati malfattori, si divertano con giuochi villani, con tresche brutali; intanto la sentenza del loro supplizio è già pronunziata dal giudice e spiccata dal tribunale, ed essi nol sanno, e proseguono a ridere ed a cantare. Voi li compiangete; ma ecco il vostro caso precisamente (perdonatemi se vi parlo con evangelica libertà pel bene che vi voglio, per l’amore che vi porto), ecco, diceva, precisamente il caso vostro. È fissato, peccatori restii, il punto di vostra sorte, siete posti sulla bilancia come Baldassarre, tanti peccati farete e non più, tanti saranno i vostri giorni e non più: suonerà per voi l’ultima ora, la vostra sentenza è già scritta in cielo, la vostra condanna è in moto, già ne sento il tuono, già ne veggo il fulmine diretto a togliervi di questa terra, e ad inabissarvi all’inferno. – Ma dove mi trasporta l’amore di giovarvi, peccatori miei cari? Perdonate lo zelo di chi vi amareggia a fin di sanarvi, di chi vi minaccia a fin di salvarvi. Confortate il vostro cuore, e ditegli ch’è ancor luogo a sperare. La misura de vostri peccati è ampia, è vero, ma non è ancor compita: si compie, dice S. Agostino, quando una improvvisa morte colpisce un’anima impenitente; ma fin che Dio vi soffre in vita, è segno che non sono ancor chiuse le viscere della sua misericordia. Cessate da quest’ora dal più peccare: cancellate or ch’è tempo accettevole il chirografo delle colpe con lacrime di contrizione sincera, provvedete ai vostri novissimi, riformate la vostra condotta, intraprendete la via di salute: all’invito che oggi vi fa per mia bocca Iddio pietoso, non allegate scuse, come i convitati dell’odierno Vangelo: un rifiuto vi può costare la vita temporale ed eterna: ricordatevi che il primo peccato può essere l’ultimo, e il sigillo fatale della vostra eterna riprovazione. Che Iddio vi guardi!

Credo …

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Ps VI:5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam. [O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]

Secreta

Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem. [Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]

Communio

Ps XII:6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi. [Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]

Postcommunio

Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza.]

CORPUS DOMINI : Messa – LAUDA SION, Letture ed Omelia di S. S. GREGORIO XVII

Messa

Lectio

Léctio Epistolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios 1 Cor XI:23-29

Fratres: Ego enim accépi a Dómino quod et trádidi vobis, quóniam Dóminus Jesus, in qua nocte tradebátur, accépit panem, et grátias agens fregit, et dixit: Accípite, et manducáte: hoc est corpus meum, quod pro vobis tradétur: hoc fácite in meam commemoratiónem. Simíliter ei cálicem, postquam cenávit, dicens: Hic calix novum Testaméntum est in meo sánguine. Hoc fácite, quotiescúmque bibétis, in meam commemoratiónem. Quotiescúmque enim manducábitis panem hunc et cálicem bibétis, mortem Dómini annuntiábitis, donec véniat. Itaque quicúmque manducáverit panem hunc vel bíberit cálicem Dómini indígne, reus erit córporis et sánguinis Dómini. Probet autem seípsum homo: et sic de pane illo e dat et de calice bibat. Qui enim mánducat et bibit indígne, judícium sibi mánducat et bibit: non dijúdicans corpus Dómini.”

[Fratelli: Io stesso ho appreso dal Signore quello che ho insegnato a voi: il Signore Gesú, nella stessa notte nella quale veniva tradito: prese il pane, e rendendo grazie, lo spezzò e disse: Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che sarà immolato per voi: fate questo in memoria di me. Similmente, dopo cena, prese il calice, dicendo: Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue, tutte le volte che ne berrete, fate questo in memoria di me. Infatti, tutte le volte che mangerete questo pane e berrete questo calice, annunzierete la morte del Signore fino a quando Egli verrà. Chiunque perciò avrà mangiato questo pane e bevuto questo calice indegnamente, sarà reo del Corpo e del Sangue del Signore. Dunque, l’uomo esamini sé stesso e poi mangi di quel pane e beva di quel calice: chi infatti mangia e beve indegnamente, mangia e beve la sua condanna, non riconoscendo il corpo del Signore.]

Sequentia [Thomæ de Aquino]

Lauda, Sion, Salvatórem,

lauda ducem et pastórem

in hymnis et cánticis.

Quantum potes, tantum aude:

quia major omni laude,

nec laudáre súfficis.

Laudis thema speciális,

panis vivus et vitális

hódie propónitur.

Quem in sacræ mensa cenæ

turbæ fratrum duodénæ

datum non ambígitur.

Sit laus plena, sit sonóra,

sit jucúnda, sit decóra

mentis jubilátio.

Dies enim sollémnis agitur,

in qua mensæ prima recólitur

hujus institútio.

In hac mensa novi Regis,

novum Pascha novæ legis

Phase vetus términat.

Vetustátem nóvitas,

umbram fugat véritas,

noctem lux elíminat.

Quod in coena Christus gessit,

faciéndum hoc expréssit

in sui memóriam.

Docti sacris institútis,

panem, vinum in salútis

consecrámus hóstiam.

Dogma datur Christiánis,

quod in carnem transit panis

et vinum in sánguinem.

Quod non capis, quod non vides,

animosa fírmat fides,

præter rerum órdinem.

Sub divérsis speciébus,

signis tantum, et non rebus,

latent res exímiæ.

Caro cibus, sanguis potus:

manet tamen Christus totus

sub utráque spécie.

A suménte non concísus,

non confráctus, non divísus:

ínteger accípitur.

Sumit unus, sumunt mille:

quantum isti, tantum ille:

nec sumptus consúmitur.

Sumunt boni, sumunt mali

sorte tamen inæquáli,

vitæ vel intéritus.

Mors est malis, vita bonis:

vide, paris sumptiónis

quam sit dispar éxitus.

Fracto demum sacraménto,

ne vacílles, sed meménto,

tantum esse sub fragménto,

quantum toto tégitur.

Nulla rei fit scissúra:

signi tantum fit fractúra:

qua nec status nec statúra

signáti minúitur.

Ecce panis Angelórum,

factus cibus viatórum:

vere panis filiórum,

non mitténdus cánibus.

In figúris præsignátur,

cum Isaac immolátur:

agnus paschæ deputátur:

datur manna pátribus.

Bone pastor, panis vere,

Jesu, nostri miserére:

tu nos pasce, nos tuére:

tu nos bona fac vidére

in terra vivéntium.

Tu, qui cuncta scis et vales:

qui nos pascis hic mortáles:

tuos ibi commensáles,

coherédes et sodáles

fac sanctórum cívium. Amen. Allelúja.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangéli secúndum Joánnem.

R. Gloria tibi, Domine! – Joann VI:51-59

“In illo témpore: Dixit Jesus turbis Judæórum: Ego sum panis vivus, qui de cælo descendi. Si quis manducaverit ex hoc pane, vivet in aeternum : et panis quem ego dabo, caro mea est pro mundi vita. Litigabant ergo Judaei ad invicem, dicentes: Quomodo potest hic nobis carnem suam dare ad manducandum? Dixit ergo eis Jesus: Amen, amen dico vobis : nisi manducaveritis carnem Filii hominis, et biberitis ejus sanguinem, non habebitis vitam in vobis. Qui manducat meam carnem, et bibit meum sanguinem, habet vitam aeternam : et ego resuscitabo eum in novissimo die. Caro mea vere est cibus et sanguis meus vere est potus. Qui mandúcat meam carnem e bibit meum sánguinem, in me manet et ego in illo. Sicu misit me vivens Pater, et ego vivo propter Patrem: et qu mandúcat me, et ipse vivet propter me. Hic est panis, qu de coelo descéndit. Non sicu manducavérunt patres vestri manna, et mórtui sunt. Qui manducat hunc panem, vivet in ætérnum. [In quel tempo: Gesú disse alle turbe dei Giudei: Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.[ Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Gesù disse: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno”.]

Omelia di

S. S. GREGORIO XVII (1975)

Avete sentito leggere un tratto (Gv VI, 51-58) di quello che è accaduto a Cafarnao un anno prima dell’istituzione dell’Eucaristia, quando Gesù cioè tenne il celebre e lungo discorso sull’Eucaristia. Il tratto che avete sentito leggere vi ha presentato la difficoltà degli uditori ad accettare una simile verità. Gli uditori avevano questo torto: non si ricordavano che poco prima Gesù aveva moltiplicato i pani e i pesci, dimostrando con questo di essere padrone tanto della sostanza che della quantità e di poterne disporre da Creatore a Suo piacimento. Questo era il loro torto. In questo torto non sarebbe caduto Pietro, – questo non l’abbiamo lettolo -, che terminò l’incidente, non comprendendo nulla anche lui, ma dicendo a Gesù: “Signore, da chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv VI, 68). – Pur avendo torto, c’era un motivo d’interrogazione, non di contestazione, e il motivo d’interrogazione era questo: “Ma, Signore, come mai ti metti sotto apparenze così semplici come quelle di un pane, di una ostia, niente di più umile, di più comune, Signore?”. La domanda, non la contestazione, la domanda poteva essere ragionevole. In noi la stessa domanda, che potrebbe essere ragionevole, fa questo effetto purtroppo, e io sono qui a protestare fortemente contro questo effetto: che, non interpretando l’umiltà con la quale Dio si manifesta a noi e la delicatezza suprema, noi usiamo il massimo di irriverenza verso la Santissima Eucaristia, il massimo. E io sono qui a protestare con tutta l’anima contro questo. Non con voi che siete qui, cari, ma potrebbe essere che anche voi abbiate bisogno di sentire questa protesta. In altri termini, l’umiltà e la delicatezza divina nel trattare con noi uomini ci fa da dimenticare la maestà di Dio, perché nell’Eucaristia è presente Gesù Cristo Dio. E pertanto accanto all’umiltà e alla delicatezza della manifestazione e del sacro segno va ricordata la Maestà divina per trarre tutte le conseguenze. – Perché questa umiltà divina? E tutto uno stile di Dio che meriterebbe un lungo e interessantissimo discorso, perché è una delle linee principali della Provvidenza Divina nel trattare con gli uomini. Dio ci parla continuamente attraverso la creazione: il sole che sorge, l’alba rosata, la primavera che esplode, l’estate che matura, l’autunno che dà i suoi frutti, l’inverno che dà il suo raccoglimento e, per via dei contrasti, fa amare quello che è caldo, tutto, ma dolcemente, parla del Creatore. Non si arriva di conseguenza del Creatore se non si mette un’attenzione volontaria, libera, e Dio è delicato proprio per lasciare a noi il merito di questa iniziativa, di questo non primo, ma secondo passo (il primo lo fa sempre la Grazia Sua all’interno di noi), il merito di questo secondo passo. Dio non vuole con impressioni cogenti, violente, diminuire il valore del nostro atto libero e del nostro merito: questa è la ragione. Ho detto che meriterebbe un ben lungo discorso, e forse in altre occasioni lo faremo. Ma mi importa proseguire nel tema che propongo a voi questa mattina. – Sì, l’Eucaristia si presenta dolcissimamente umile, cosa comune all’esterno, segno che non viola nessuno dei limiti della nostra debolezza, ma c’è la maestà di Dio lì e dobbiamo rispettarla! La maestà: che cos’è? E una parola che è nella testa degli uomini generalmente confusa da un’idea di grandezza, di impotenza da parte nostra, di superiorità e basta, un’idea che sconvolge, che noi ricordiamo unicamente per darla alle cose che riteniamo massime in questo mondo, ma è difficile che se ne abbia una idea precisa. Ora, la maestà è quella qualità per cui Dio si alza all’infinito sopra delle Sue creature; questa è la maestà. Noi abbiamo degli elementi per parlarne, certamente, ma sempre come quando si parte da una riva e si cerca di solcare un mare che va all’infinito. Noi vediamo il sole, le altre stelle, le vediamo – in genere non le guardiamo, almeno per quanto mi consta -, però, se si osservano, si sente una grandezza tale, la grandezza dataci dall’idea di spazio, e l’idea di spazio lancia verso l’immenso. Noi siamo oppressi dal rotare degli anni, dei giorni, dei mesi, delle ore, del tempo; la storia in fondo dà questa impressione, è la prima che essa dà: che tutto quanto passa, che tutto quanto incalza, che tutto quanto ha fretta e tutto quanto lascia nella polvere, nel silenzio e, quaggiù, nella morte; ma il tempo è la sponda dalla quale si parte per avere l’idea dell’eternità. Le cose a noi sembrano mirabili, grandi; i colori si prestano, le forme, tutte le forme si prestano a questo, congegnando così l’impressione esterna della bellezza della quale è ripieno il mondo: e tutto questo costituisce una sponda che ci spinge un’altra volta sul mare infinito, quello dell’eterna bellezza. – Quando tuona il fulmine, quando il terremoto scuote, quando l’alluvione irrompe, noi abbiamo impressioni orribili e orrende, ma sentiamo la grandezza: sono le piccole rivelazioni della presenza di Dio; qualche volta sono anche un castigo, ma sono delle rivelazioni con le quali Dio, non presentando un elemento cogente all’intelligenza, perché deve rimanere libera, ma al sentimento esterno, a quel sentimento fisico che hanno anche gli animali, comune con noi, che è di fuga – e noi lo chiamiamo anche spavento -: ed è una sponda anche questa dalla quale si può partire come per un mare immenso per vedere di quanto Iddio stia al di sopra di noi. Fratelli miei, potrei continuare, ma il tempo limimitato. Dio ci dà gli elementi per la maestà, ce la richiama. – Parliamo di noi che la dimentichiamo. Quando io vedo gente che contesta d’inchinarsi davanti al Santissimo Sacramento, mi chiedo fino a che punto sia decaduta la potenza intellettuale e logica degli uomini, fino a che punto! Quando io devo constatare che bisogna proteggere il culto alla Santissima Eucaristia anche contro coloro che lo dovrebbero promuovere, piangerei. Ma siamo diventati così ciechi, siamo diventati così poveri di spirito nel senso deteriore, da non ricordarci di intendere almeno qualche volta in vita questo supremo richiamo che ci viene da tutto il creato? Se questa cattedrale crollasse e desse a noi, schiacciandoci, un segno della potenza che ha la forza di gravità o dell’attrazione della terra, sarebbe piccola e futile cosa davanti all’onnipotenza di Dio: ma abbiamo bisogno che ci cadano le cattedrali sulla testa per capire che dobbiamo adorare Colui che si degna di stare nei piccoli, umili tabernacoli – che spesso cerchiamo di rendere più spogli e miserabili -, che si degna di restare per amore nostro? A questo punto mi par di sentire una voce che dice: “Ma il senso della maestà ci opprime”. E credete che sia un male? Non è affatto un male! Se dobbiamo essere anche e fortemente richiamati al più elementare senso di giustizia verso Chi ci ha creato e redento, ben venga. Però non è questa la risposta. – Ho detto che Dio si manifesta a noi in modo umile e dolce per amore. L’Eucaristia è un atto d’amore di Dio, che ha voluto scegliere il pane e il segno della manducazione, dell’assimilazione, che è la forma più grande con la quale una creatura si può inverare nell’altra, per indicare fino a che punto Dio vuole essere unito a noi e noi uniti a Lui. E per amore! – E concludo col dire che l’amore, quando è tale, è un amore adorazione alla maestà di Dio. E non c’è da scomporsi; la logica va perfettamente a posto: in Dio, perfezione eterna ed assoluta, amore e maestà si identificano. Se s’identificano in Lui, non c’è affatto difficoltà che l’atto di adorazione in noi sia amore e l’atto di amore sia adorazione.

 

 

 

Prima DOMENICA dopo PENTECOSTE – FESTA DELLA SANTISSIMA TRINITA’

Introitus

Tob XII:6. Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam [Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.]

Ps VIII:2

Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in univérsa terra! [O Signore, Signore nostro, quanto è mirabile il tuo nome su tutta la terra!]

V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sæcula sæculórum. Amen Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam [Sia benedetta la Santa Trinità e indivisa Unità: glorifichiamola, perché ha fatto brillare in noi la sua misericordia.].

Oratio

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo.

Orémus.

Omnípotens sempitérne Deus, qui dedísti fámulis tuis in confessióne veræ fídei, ætérnæ Trinitátis glóriam agnóscere, et in poténtia majestátis adoráre Unitátem: quaesumus; ut, ejúsdem fídei firmitáte, ab ómnibus semper muniámur advérsis. [O Dio onnipotente e sempiterno, che concedesti ai tuoi servi, mediante la vera fede, di conoscere la gloria dell’eterna Trinità e di adorarne l’Unità nella sovrana potenza, Ti preghiamo, affinché rimanendo fermi nella stessa fede, siamo tetragoni contro ogni avversità.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom XI:33-36.

“O altitúdo divitiárum sapiéntiæ et sciéntiæ Dei: quam incomprehensibília sunt judícia ejus, et investigábiles viæ ejus! Quis enim cognovit sensum Dómini? Aut quis consiliárius ejus fuit? Aut quis prior dedit illi, et retribuétur ei? Quóniam ex ipso et per ipsum et in ipso sunt ómnia: ipsi glória in sæcula. Amen”. [O incommensurabile ricchezza della sapienza e della scienza di Dio: come imperscrutabili sono i suoi giudizii e come nascoste le sue vie! Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi gli fu mai consigliere? O chi per primo dette a lui, sí da meritarne ricompensa? Poiché da Lui, per mezzo di Lui e in Lui sono tutte le cose: a Lui gloria nei secoli. Amen.] R. Deo gratias.

Graduale Dan III:55-56. Benedíctus es, Dómine, qui intuéris abýssos, et sedes super Chérubim, [Tu, o Signore, che scruti gli abissi e hai per trono i Cherubini.] Alleluja

Benedíctus es, Dómine, in firmaménto cæli, et laudábilis in sæcula. Allelúja, [V. Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, alleluia.]

Dan III:52 V. Benedíctus es, Dómine, Deus patrum nostrórum, et laudábilis in sæcula. Allelúja. . [V. Benedetto sei Tu, o Signore, nel firmamento del cielo, e degno di lode nei secoli. Allelúia, allelúia]

Evangelium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum. R. Gloria tibi, Domine! Matt XXVIII:18-20

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Data est mihi omnis potéstas in coelo et in terra. Eúntes ergo docéte omnes gentes, baptizántes eos in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti: docéntes eos serváre ómnia, quæcúmque mandávi vobis. Et ecce, ego vobíscum sum ómnibus diébus usque ad consummatiónem sæculi”. [In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Mi è dato ogni potere in cielo e in terra. Andate, dunque, e istruite tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo, e insegnando loro ad osservare tutto quello che vi ho comandato. Ed ecco che io sarò con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli.]

R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Credo

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Tob XII:6. Benedíctus sit Deus Pater, unigenitúsque Dei Fílius, Sanctus quoque Spíritus: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. [Benedetto sia Dio Padre, e l’unigenito Figlio di Dio, e lo Spirito Santo: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Secreta

Sanctífica, quæsumus, Dómine, Deus noster, per tui sancti nóminis invocatiónem, hujus oblatiónis hóstiam: et per eam nosmetípsos tibi pérfice munus ætérnum. [Santífica, Te ne preghiamo, o Signore Dio nostro, per l’invocazione del tuo santo nome, l’ostia che Ti offriamo: e per mezzo di essa fai che noi stessi Ti siamo eterna oblazione.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Communio Tob XII:6. Benedícimus Deum coeli et coram ómnibus vivéntibus confitébimur ei: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. [Benediciamo il Dio dei cieli e confessiamolo davanti a tutti i viventi: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]

Postcommunio S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus. Profíciat nobis ad salútem córporis et ánimæ, Dómine, Deus noster, hujus sacraménti suscéptio: et sempitérnæ sanctæ Trinitátis ejusdémque indivíduæ Unitátis conféssio. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

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MESSA I DOMENICA DI PENTECOSTE

Antifona

Domine, in tua misericordia speràvi: esultavi cor meum in salutari tuo: cantabo Dómine, qui bona tribuit mihi. [0 Signore, io spero nella tua misericordia; il mio cuore esulta per la tua salvezza: canterò al Signore, poiché mi ha beneficato.]

Sal. Usquequo, Domine, oblivisceris me In finem? Usquequo avertis faciem tuum a me? [Fino a quando, o Signore, mi vorrai dimenticare? Fino a quando mi terrai celato il tuo volto?]

Oremus

Deus, in te speràntium Fortitudo, adesto propitius invocationibus nostris: et quia sine te nihil potest mortalis infirmitas, presta auxilium gratiæ tuæ exsequendis mandàtis tuis, un voluntate tibi et actióne placeamus. Per Dominum nostrum Iesum Christum. [O Dio, fortezza di chi spera in Te, sii propizio alle nostre suppliche, e poiché senza di Te nulla può l’umana debolezza, concedici l’aiuto della tua grazia affinché, nel compiere i tuoi comandamenti, possiamo piacerti nel volere e nell’agire. Per nostro Signore Gesù Cristo] 

Lectio

Léctio I Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli IV, 8-21

“Carissimi, Deus Deus caritas est. In hoc apparuit caritas Dei in nobis, quoniam Filium suum unigenitum misit Deus in mundum, ut vivamus per eum. In hoc est caritas : non quasi nos dilexerimus Deum, sed quoniam ipse prior dilexit nos, et misit Filium suum propitiationem pro peccatis nostris. Carissimi, si sic Deus dilexit nos: et nos debemus alterutrum diligere. Deum nemo vidit umquam. Si diligamus invicem, Deus in nobis manet, et caritas ejus in nobis perfecta est. In hoc cognoscimus quoniam in eo manemus, et ipse in nobis: quoniam de Spiritu suo dedit nobis. Et nos vidimus, et testificamur quoniam Pater misit Filium suum Salvatorem mundi. Quisquis confessus fuerit quoniam Jesus est Filius Dei, Deus in eo manet, et ipse in Deo. Et nos cognovimus, et credidimus caritati, quam habet Deus in nobis. Deus caritas est : et qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo. In hoc perfecta est caritas Dei nobiscum, ut fiduciam habeamus in die judicii: quia sicut ille est, et nos sumus in hoc mundo. Timor non est in caritate : sed perfecta caritas foras mittit timorem, quoniam timor poenam habet : qui autem timet, non est perfectus in caritate. Nos ergo diligamus Deum, quoniam Deus prior dilexit nos. Si quis dixerit, Quoniam diligo Deum, et fratrem suum oderit, mendax est. Qui enim non diligit fratrem suum quem vidit, Deum, quem non vidit, quomodo potest diligere? Et hoc mandatum habemus a Deo : ut qui diligit Deum, diligat et fratrem suum.”  

Omelia

di mons. Bonomelli [da Omelie: vol. III, om. III, Torino -1899]

“Carissimi, Dio è carità. Ed in questo rifulse la carità di Dio verso di noi, ch’egli mandò l’unigenito suo Figliuolo nel mondo, perché vivessimo per Lui. La carità sta riposta in questo, non che noi avessimo amato Dio, ma che Egli pel primo ha amato noi ed ha mandato il Figliuol suo, propiziazione pei nostri peccati. Carissimi, se così Dio ci ha amati, noi pure dobbiamo amarci tra noi. Nessuno ha mai veduto Dio; se ci amiamo tra noi, Dio dimora in noi e la sua carità resta in noi e in noi è perfetta. Da ciò conosciamo, che noi siamo in Lui ed Egli in noi, perché ci ha dato del suo Spirito. E noi abbiamo veduto ed attestiamo, che il Padre ha mandato il Figlio, Salvatore del mondo. Chi avrà confessato, che Gesù è il Figlio di Dio, Dio rimane in Lui ed Egli in Dio. E noi abbiamo conosciuta e creduta la carità, che Dio ha verso di noi. Dio è carità, e chi rimane nella carità, rimane in Dio e Dio in lui. La carità si perfeziona in noi in ciò, che noi abbiamo sicurezza pel dì del giudizio, perché, come egli è, cosi siamo anche noi in questo mondo. Nella carità non è timore, ma la perfetta carità scaccia il timore, perché il timore è penoso, onde chi teme, non è perfetto nella carità. Dunque facciamo di amare Dio, perché Dio pel primo ha amato noi. Se alcuno dice di amare Dio ed odia il fratello, è bugiardo; perché se non ama il suo fratello, che vede, come potrà amare Dio che non vede? Ora questo precetto noi abbiamo da Dio, che chi ama Dio ama ancora il fratello suo „ (I. Gio. IV, 8-21).

Nel linguaggio comune della Chiesa S. Paolo è chiamato l’Apostolo per eccellenza, l’Apostolo delle genti, e S. Giovanni è detto l’Apostolo della carità. Questo titolo sì glorioso di Apostolo della carità troppo bene compete a S. Giovanni, sia che si consideri il suo carattere personale, sia che si consideri l’indole della sua dottrina, quale risulta dai suoi scritti, in essi si respira un profumo di soavità e di carità verso Dio e verso il prossimo, che penetra tutta l’anima, che dolcemente la inebria e le fa sentire, che chi dettò quelle pagine divine, è veramente il discepolo diletto e posò il capo sul cuore d i Gesù. Il tratto, che vi ho recitato, anche solo, sarebbe più che bastevole a confermargli questo titolo sì bello di Apostolo della carità. Noi lo verremo meditando insieme colla maggior brevità possibile, perché è alquanto lungo: io mi permetto soltanto di avvertirvi, che le verità che vi si racchiudono sono di quelle, che si apprendono più col cuore, che colla mente. L’apostolo S. Giovanni, dopo aver esortato i fedeli a non prestar fede a tutti gli spiriti, ossia maestri, e dato loro il criterio per distinguere allora i buoni dai rei, e che quelli che sono da Dio non ascoltano i rei, discende a raccomandare l’amore scambievole, e dice: ” Dio è carità ; „ Deus charitas est.”. Percorrendo i Libri ispirati, troviamo tre definizioni di Dio: Dio è colui che è, cioè l’Essere assoluto; è la prima definizione data nell’antico Testamento: Dio è la Verità, data da Cristo nel Vangelo, è la seconda: la terza l’abbiamo qui: Dio è amore, o carità. Questa compie le altre due definizioni e rivela la vita intima, di Dio. Dio è amore o carità, tutto amore e carità, come è tutto essere e tutto verità, senza mescolanza di non essere e di errore. Tutto l’Essere divino, in ogni sua parte, in ogni sua fibra, se è lecito così dire, è amore, come il fuoco in ogni sua parte è caldo e luminosa la luce e fragrante il balsamo. Dio Padre ama con infinito amore il Figliuol suo, e tutto a Lui si dona, e il Figlio riama con infinito amore il Padre e a Lui tutto si ridona, e questo amore che quinci e quindi spira è sì perfetto, che si appunta in una Persona, che è lo Spirito Santo. Dio, nell’essere suo, conosce di poter dare l’esistenza ad innumerevoli esseri, e l’amor suo, che tende a parteciparsi, lo muove a crearli, e li crea e lancia fuori di sé l’universo, lo ama, come l’opera delle sue mani, e lo ricolma di beni. Che è l’amore di tutti gli animali, di tutti gli uomini, degli amici, dei padri, delle madri, dei santi, degli angeli tutti, se non uno sprazzo dell’amore divino, che si riverbera variamente nelle creature, come la luce ed il sole si spandono sovra di esse? Sì, amore, non altro che amore, ed anche quando punisce è amore, amore della giustizia. Ma verso quali creature singolarmente apparve l’amore di Dio? “Verso di noi, uomin” risponde l’Apostolo: “In hoc apparuit charitas Dei in nobis”. Ed in qual opera particolarmente?” In questo, ch’Egli mandò l’unigenito suo Figliuolo nel mondo: „ Quoniam Filium suum unigenitum misìt in mundum. Questa è la prova più magnifica, questo il monumento eterno della carità di Dio verso di noi, il dono del Figliuol suo, il mistero della Incarnazione. E per qual fine ci ha dato il Figliuol suo nella Incarnazione? “Perché vivessimo per Lui: „ Ut vivamus per eum; cioè fossimo riconciliati con Dio, ricevessimo quella grazia, che è la vita dell’anima, partecipazione della vita stessa di Dio. S. Giovanni qui spiega la natura di questa carità di Dio verso di noi, frutto precipuo della quale è l’Incarnazione e tutto ciò che colla Incarnazione è congiunto. Dio ci ha amato e ci ama teneramente: e perché? Forse perché noi prima abbiamo amato Lui? No, no, risponde l’Apostolo; anzi Egli prima ha amato noi e prima ci ha dato il massimo dei benefici, l’incarnazione, e prima ci ha condonati i nostri peccati.. L’amore, disse bene il poeta filosofo, muove l’amato ad amare: “Amor che nullo amato amar perdona”. – Il mezzo più efficace per ottenere l’amore è mostrare che amiamo; e quegli tiene il primo luogo nell’amore, che previene. Ora tra Dio e l’uomo chi è colui che previene? È Dio: Ipse prior dilexit nos. Egli, Iddio, la stessa grandezza, è il primo che si china verso l’uomo, l’ama e lo stringe al suo seno, e dell’amor suo gli porge le prove più splendide, sì nell’ordine naturale, come nell’ordine sovrannaturale. Questa è infinita degnazione di Dio, è vero, ma in pari tempo è anche una necessità. Noi, povere creature, non possiamo dare nulla a Dio del nostro, perché nulla abbiamo di nostro e siamo veramente nulla: noi non possiamo dare a Dio che quello che riceviamo da Dio nel doppio ordine della natura e della grazia. Perché possiamo amarlo bisogna che prima ci dia la intelligenza per conoscerlo e il cuore per amarlo: non basta: bisogna che presenti a questa intelligenza la verità e versi in questo cuore l’amore, che riverseremo a Lui, tantoché quando amiamo Dio, noi Lo amiamo con lo stesso amore, che prima riceviamo da Lui medesimo. Allorché l’albero vi presenta il suo frutto, esso non fa che dare a voi ciò che voi prima avete dato ad esso, piantandolo ed innestandolo: allorché lo specchio vi mostra il vostro volto, esso vi rende ciò che voi gli date, presentandogli il vostro volto; allorché i figli vi amano, o genitori, essi vi restituiscono un po’ di quell’amore, che voi spargeste nel loro cuore, amandoli e ricolmandoli di benefici. Dio ci ama pel primo e noi Lo riamiamo col suo stesso amore, né potremmo fare altrimenti. Ponete uno specchio lucido e pulito sotto i raggi del sole: che vedete voi? Quei raggi rimbalzano dritti pur su verso del sole; così i nostri cuori dovrebbero essere specchi tesissimi che rimandano a Dio i raggi dell’amor suo. E in quella vece assai volte che facciamo noi, o cari? Simili a quei corpi oscuri che ricevono e spengono in se stessi i raggi del sole, riceviamo l’amore di Dio in noi, lo soffochiamo in noi stessi o bruttamente lo rivolgiamo sopra le creature, profanando il massimo dei suoi doni. Ah! Carissimi figliuoli: Dio ci ama pel primo, Egli sì grande, sì santo, sì perfetto, sì buono: e noi riamiamolo, e allora il caldo raggio, che da Dio discende in noi, ritornerà a Lui e con esso ritorneremo noi pure e a Lui ci uniremo. Natura dell’amore è di legare gli amanti e di farne uno solo: ora come Dio e l’uomo si unirebbero insieme, se l’uomo ricevendo la fune dell’amore da Dio, che gliela porge, non la restituisse, tenendosi stretto ad essa? Dio pel primo ama noi e noi dobbiamo amare Lui: ma basta far questo? No, risponde ancora S. Giovanni: ” Carissimi, esclama il Santo con accento di tenerezza, se Dio ci ha amati così, noi pure dobbiamo amarci tra noi. „ L’amore di Dio verso di noi è infinito, perché è amore d’un essere infinito: ora l’amore nostro è necessariamente finito, come è finita la nostra natura, e S. Giovanni non intese per fermo che noi amiamo i fratelli nostri nella misura e perfezione, che Dio ama noi. L’Apostolo volle dire soltanto: Se Dio ama noi con tanto, sì cocente e sì operoso amore, Dio, che è sì grande, molto più noi, sì piccoli, dobbiamo amare i fratelli nostri, coi quali abbiamo comune la natura! Dio ama noi e qual sia l’amor suo per noi, lo provano gli innumerevoli benefici, dei quali ci ha ricolmati: ad amore dobbiamo amore, a benefici si risponde con benefici. Ma Dio non ha bisogno di noi: a Lui non possiamo fare beneficio di sorta: Egli li fa, non li riceve: non di meno, in qualche modo Dio ha bisogno di noi, e possiamo far benefici anche a Lui. Come? Non a Lui propriamente, ma a quelli, nella persona dei quali ama collocare se stesso, e sono i fratelli nostri, portando la sua immagine. Ecco perché S. Giovanni dice: ” Se Dio ci ha amati così, noi pure dobbiamo amarci tra noi: „ amando e beneficando i fratelli nostri, amiamo e benefichiamo Dio stesso, perché Gesù Cristo disse: “Ciò che farete ad uno di questi miei piccoli, l’avrò per fatto a me stesso. „ Gran cosa! o fratelli miei. Voi dite: Dio è padrone d’ogni cosa, di nulla abbisogna: è l’Essere assoluto: Egli dà e non riceve. Eppure Dio ha bisogno e grande, e noi possiamo aiutarlo e benericarlo. Come ciò? Egli si mette nella persona dei sofferenti e dei bisognosi e vi stende in essi le mani e vi chiede il soccorso: Gesù Cristo si fa povero nel povero, infermo nell’infermo, affamato nell’affamato: amando e soccorrendo questo, lo disse Egli stesso, amate e soccorrete Lui. Chi di voi rifiuterà di soccorere Gesù Cristo? Vi può esser onore e gloria maggiore che soccorrere l’Uomo-Dio? – E questo senso è chiaramente confermato dalla sentenza che segue: “Nessuno ha mai veduto Dio. „ Come se Giovanni dicesse: Noi non possiamo in modo esterno e visibile mostrare la nostra gratitudine e l’amor nostro a Dio, perché Egli non si vede, né si può vedere in terra, perché purissimo spirito: eppure abbiamo bisogno di mostrare esternante a Dio il nostro amore e la nostra riconoscenza. Ebbene: eccovi il modo facile e spedito per tutti: Dio si rende visibile negli uomini, sue immagini vive sulla terra: a questi prestiamo quegli uffici di carità che non possiamo prestare a Dio invisibile, e allora ameremo Lui e seconderemo il bisogno del nostro cuore; allora ameremo Dio e i fratelli, Dio invisibile nei fratelli visibili, Dio sarà con noi, la carità regnerà nelle anime nostre e sarà perfetta: Si diligìmus invicem, Deus in noìbis manet, et charìtas ejus in nobis manet et chiarita ejus in nobis perfecta est. Questa idea della carità, per la quale noi dimoriamo in Dio e Dio dimora in noi, sì famigliare a S. Giovanni, si ripete nel versetto seguente, quasi con le identiche parole. E qui non sarà fuori di proposito farvi intendere alcun poco questa verità, seguendo S. Tommaso. Per la carità Dio rimane in noi e noi in Dio: come ciò, o carissimi? Udite. Quando noi conosciamo una cosa qualunque, ponete, un albero, un monte, l’albero e il monte sono nella nostra mente e nell’anima nostra come la cosa conosciuta può stare nel conoscente: l’immagine, l’idea dell’albero e del monte sta nella nostra mente, non già l’albero e il monte stesso, che sarebbe cosa ridicola ed impossibile; e vista per modo, che noi diciamo: quell’albero, quel monte, li vedo, li tengo qui nella mente, benché forse siano lontanissimi. Le cose tutte, che conosciamo, si dicono nella nostra mente in quanto ché nella mente nostra sta la loro immagine ed idea. Ma noi possiamo avere nella mente l’idea o l’immagine d’una cosa senza averla nella nostra volontà, nel nostro amore. Noi possiamo avere nella mente l’immagine o l’idea, per ragione d’esempio, d’un serpente, del peccato, del demonio, ma certo noi non amiamo queste cose: ma più spesso quelle cose che conosciamo e perciò le abbiamo nella mente, se le apprendiamo come belle e buone, le amiamo. E allora che avviene? Quelle cose dalla mente discendono al cuore, dalla intelligenza passano nella volontà, ed essa, a cosi esprimermi, colle braccia dell’amore, quasi con dolci funi, le stringhe, le fa sue e con esse forma una sola cosa. Allora le cose non sono soltanto nella mente, ma sono altresì nella volontà o nell’amore, come possono essere nel volente e nell’amante. E perciò sono piene di verità e sapienza quelle espressioni delle persone amanti, che dicono alla persona amata: Io vi tengo qui, nel mio cuore: voi avete qui il vostro posto, qui voi regnate, ed altre somiglianti. Datemi due persone, che si amino davvero; io vi dico che l’una vive nell’altra, una nell’altra dimora, e questa dimora vicendevole è tanto più intima, profonda e durevole quanto è più intima, profonda e durevole la fiamma d’amore che le scalda. È un mistero, se volete, del cuore umano, dirò meglio, è un mistero d’amore, ma indubitato, evidente. Ora ciò avviene, o dilettissimi, tra Dio e l’anima che Lo ama. Dio ama l’anima, l’adorna della sua grazia, la tiene in sé, la vagheggia, la stringe al suo seno: l’anima dal suo canto lo tiene nella sua mente, lo tiene nel suo cuore, tutto a Lui si unisce, e così Dio dimora in essa ed essa in Lui, e a nostro modo d’intendere, di due si forma un solo spirito, una sola vita, come più volte insegna S. Paolo: ” Chi si unisce a Dio, fa un solo spirito: Vivo io, non più io, ma vive Cristo in me. „ E noi, soggiunge S. Giovanni, abbiamo un segno, una prova di questa dimora di Dio in noi, e di noi in Dio, ed è ” ch’Egli ci ha donato del suo spirito. „ Quando? Forse alla venuta visibile dello Spirito Santo, e forse intende parlare dello spirito di carità vicendevole, che si manifestava tra i cristiani in tutti i modi, spettacolo affatto nuovo sulla terra e prova innegabile, che lo Spirito di Dio era stato diffuso nei loro cuori. Alla mente dell’Apostolo, che ricorda la comunicazione dello Spirito Santo, fonte della carità, si affaccia naturalmente la prova massima dell’amore di Dio, e a costo di ripetere ciò che sopra (vers. 8) ha detto, scrive: ” E noi abbiamo visto e attestiamo, che il Padre ha mandato il Figlio, Salvatore del mondo. „ E questo il prodigio della carità di Dio, l’essere Egli stesso, il Figliuol suo, venuto in mezzo a noi, fatto uomo per salvarci: ” e noi, grida l’Apostolo quasi rapito in un’estasi di amore, noi l’abbiamo veduto, noi l’abbiamo udito, noi l’abbiamo toccato e lo annunziamo a voi. „ – Ricordato l’argomento fra tutti massimo dell’amore di Dio verso di noi, qual è l’Incarnazione, S. Giovanni coglie il destro di inculcare la fede nel grande mistero, e dice: ” Chi avrà confessato, che Gesù è il Figliuolo di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio. „ E a sapere, che a quei tempi erano già sorti parecchi eretici, come i Cerintiani, gli Ebioniti ed altri, che negavano la divinità di Gesù Cristo, e affermavano, Lui non essere che un uomo, ricolmo dei doni celesti, sì, ma uomo: per combattere costoro, o prima, o dopo questa lettera, Giovanni scrisse il suo Vangelo. Sappiatelo bene, grida l’Apostolo, Gesù è il Figlio dell’eterno Padre, il Salvatore del mondo e dovete francamente e pubblicamente confessare questa verità colla lingua e colle in questa confessione avrete anche una prova d i quella carità, che vi inculco e unisce Dio a voi e voi a Dio. – Uno dei caratteri degli scritti di S. Giovanni è questo di ripetere sotto varie forme e talora con le stesse parole la stessa verità. Si direbbe che è un padre, tutto amore per i suoi figli, e che non si sazia di inculcare ad essi quelle cose, che maggiormente gli stanno a cuore, e perciò anche nel versetto che segue il santo apostolo ripete la sua frase prediletta: ” E noi abbiamo conosciuta e creduta la carità, che Dio ha verso di noi. Dio è carità, e chi rimane nella carità, rimane in Dio e Dio in lui. „ – Passando sopra questa sentenza, già spiegata, fermiamo la nostra attenzione sui due versetti che seguono e nei quali S. Giovanni tocca una delle doti proprie della carità perfetta: “La carità di Dio si perfeziona in noi, per questo, che noi pigliamo sicurezza pel dì del giudizio, perché, com’Egli è, così noi pure siamo in questo mondo. „ Sentenza questa alquanto oscura, ma che si rischiara se la intendiamo in questo modo: A questo fine Iddio perfezionò, ossia diede fondo alla sua carità verso di noi, perché potessimo avere piena fiducia di esito felice nel giorno del giudizio: ossia, Dio fece tanto per noi, versò in noi senza misura i benefici della sua carità, perché nel gran dì del giudizio fossimo affrancati da ogni timore, e perché Egli, Gesù Cristo, è in questo mondo, cioè fu in questo mondo e vi è colle opere della sua carità, e spande su tutti le sue beneficenze, e noi pure siamo in questo mondo ed abbiamo bisogno di Lui e della sua carità continua; carità, che ci liberi dal timore del divino giudizio, perché “nella carità, così S. Giovanni, non è timore, ma la carità perfetta scaccia fuori il timore, poiché il timore è penoso, e perciò chi teme non è perfetto nella carità. „ La carità verso Dio ispira fiducia ed esclude il timore: ma è mestieri determinare il timore, che non si può comporre coll’amore. Quel timore, che ci porta alla diffidenza, che ci tiene sempre inquieti ed ansiosi sul perdono delle nostre colpe; quel timore, che guarda più al castigo, che al male del peccato, che reca pena: Timor pænam habet; questo timore non può stare colla perfetta carità: esso è una prova, che siamo più servi che figli di Dio. Ma quel timore che ha il figliuolo di offendere il padre ; quel timore, che viene dalla coscienza della propria debolezza e che porta a riporre ogni fiducia in Dio, questo è buono e santo, e può stare e deve stare con la carità perfetta e ne è parte, perché è figlio della ragione e dello stesso amore, e in questo senso S. Agostino diceva: ” Impari a temere chi non vuol temere. „ Dìscat timere qui non vult timere. Il timore di offendere Dio ci conduce a servirLo ed amarLo, e più lo ameremo e meno lo temeremo, ed amandolo perfettamente, più non lo temeremo: Signum perfectionis, nullus timor. San Giovanni, conchiudendo, dice: ” Facciamo dunque di amare Dio, perché Dio pel primo ha amato noi. „ Motivo questo bellissimo e più sopra i mplicitamente toccato e sul quale perciò non spendo parole, ricordandovi solo, .. che un amore non corrisposto è una ferita crudele per chi ama, e che quaggiù sulla terra troppo spesso si tramuta in odio feroce e si lava talora col sangue, e Dio punisce coll’abbandono. Punizione giustissima e tremenda! – Ma S. Giovanni ricorre ancora una volta a quella verità, che sopra ha accennata, ed è l’unione inseparabile dell’amore di Dio dall’amore del prossimo, e prima di por fine alla sua dottrina ed esortazione sulla carità, la ribadisce con queste parole: ” Se alcuno dice di amare Dio ed odia il fratello, è bugiardo, perché se non ama il suo fratello, che vede, come mai potrà amare Dio che non vede? „ – L’amore porta a fare la volontà della persona amata, e chi la viola e calpesta, mostra di non amarla: ora Dio vuole che amiamo il prossimo, il fratello nostro: se noi non l’amiamo, calpestiamo la volontà di Dio, e perciò col fatto mostriamo di non amare Iddio. Perciò, chi ama una persona, ha cara la sua immagine e le cose tutte amate da quella: gli uomini sono immagini vive ed immortali di Dio, e Dio li ama fino a dar se stesso per loro: dunque non amare il prossimo è non amare Iddio, e chi crede di poter amare Dio, non amando il prossimo, inganna se stesso. Volete voi dunque, o carissimi, conoscere con tutta certezza, se amate Iddio, se siete suoi figli? Esaminatevi se amate colle parole e più colle opere i vostri fratelli: la prova infallibile dell’amore di Dio è l’a more del prossimo. E qui il pensiero corre naturalmente ad un fatto, che vorrei fosse raro. Accade di veder persone, che han fama di religiose, che usano spesso ai Sacramenti, che fanno lunghe orazioni, che osservano le leggi della Chiesa, che compiono opere di pietà non imposte, ma solo consigliate; persone insomma che si direbbero esemplari, ma che pel prossimo non sanno fare un lieve sacrificio, non sanno privarsi d’un passatempo, d’un obolo. È questa la carità comandata da Cristo e proclamata dall’apostolo Giovanni? Meno preghiere, meno pratiche di pietà e più carità verso del prossimo. Volete sapere con certezza se voi amate Dio? Vedete se amate il prossimo, e se lo amate, non colle parole e colla lingua, ma colle opere. 

Graduale

Salmo XL: Ego dixi: Domine, miserere mei: sana animam meam , quia peccavi tibi.

V. Beatus qui intellegit sper egenum et pauperem. In die mala liberabit eum Dominus. [Io esclamai: Signore, pietà di me, guarisci l’anima mia, perché ho peccato contro di Te. V. Beato colui che ha pietà del bisognoso e del povero, poiché nel giorno della sventura il Signore lo libererà.]

Alleluja

Alleluia, alleluia. V. Verba mea auribus percipe, Domine: intellege clamorem meum. Alleluia. [Alleluia, alleluia. Signore, ascolta le mie parole, intendi le mie grida. Alleluia.]

Evangelium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.VI; 36-42 R. Gloria tibi, Domine!

“In illo tempore dixit Iesus discipulis suis: estote ergo misericordes sicut et Pater vester misericors est. Nolite judicare, et non judicabimini : nolite condemnare, et non condemnabimini. Dimitte, et dimittemini. Date, et dabitur vobis: mensuram bonam, et confertam, et coagitatam, et supereffluentem dabunt in sinum vestrum. Eadem quippe mensura, qua mensi fueritis, remetietur vobis. Dicebat autem illis et similitudinem: Numquid potest caecus caecum ducere? nonne ambo in foveam cadunt? Non est discipulus super magistrum : perfectus autem omnis erit, si sit sicut magister ejus. Quid autem vides festucam in oculo fratris tui, trabem autem, quae in oculo tuo est, non consideras? aut quomodo potes dicere fratri tuo: Frater, sine ejiciam festucam de oculo tuo: ipse in oculo tuo trabem non videns? Hypocrita, ejice primum trabem de oculo tuo: et tunc perspicies ut educas festucam de oculo fratris tui. [In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: <« Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, scossa, traboccante, vi sarà versata nel seno, poiché con la misura con la quale avrete misurato sarà rimisurato a voi ». Egli disse loro anche questa parabola: « Può un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno entrambi in un fosso? Non c’è discepolo che sia da più del suo maestro, ma ogni discepolo, giunto a perfezione, sarà come il suo maestro. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non noti la trave che è nel tuo proprio occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio ” tu che non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello ».]

Omelia

 Omelia della Domenica I dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

Luc. VI, 36-42

-Giudizi temerari-

Siate imitatori, dice a tutti noi nell’odierno Vangelo il divino Salvatore, siate imitatori della misericordia del vostro Padre celeste, con esser misericordiosi ancor voi. Per essere tali, astenetevi dal giudicare i vostri fratelli con giudizio e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati: “Nolite iudicare, et non iudicabimini, nolite condemnare, et non condemnabimini”. Se un cieco guida un altro cieco, cadono ambedue nella fossa. La vostra volontà è una potenza cieca, la sua guida è l’intelletto. L’intelletto che non può conoscere il pensiero, l’intenzione dell’altrui mente, né l’interno del cuore altrui, anch’esso in questa parte è cieco. Se egli dunque si porti a formar sinistro giudizio de’ prossimi suoi, un cieco guiderà l’altro cieco, e cadranno entrambi in colpe di temerari giudizi e d’ingiuste condanne. “Numquid potest caecus caecum ducere? Nonne ambo in foveam cadunt? E poi con che coraggio scoprite negli occhi altrui una tenua festuca e non vi accorgete della grossa trave che sta negli occhi vostri? Ipocriti, il vostro zelo è una ingiustizia. Togliete prima dai vostri la trave, e penserete poi a togliere la pagliucola dall’occhio del vostro fratello. Ecco con quali energiche forme si esprime contro i giudizi temerari il nostro legislatore Cristo Gesù. A secondare i suoi divini comandi, i suoi amorevoli avvisi, diretti a preservarci da tanto male, io passo ancor più a dimostrarvi quanto sono fallaci, quanto sono ingiusti i giudizi degli uomini che temerari ardiscono erigersi in giudici degli altri uomini. La grazia di Dio e la vostra attenzione, o signori, renda profittevole la presente spiegazione.

I . “Mendaces Jilii hominum in stateris”. Bugiardi, dice il re Profeta, sono i figliuoli degli uomini nelle loro bilance. Queste bilance sono i giudizi che l’uomo fa dei suoi simili. Chi adopra queste bilance non è per l’ordinario la giustizia e la ragione, ma o un genio naturale o una viziosa passione. Il genio è un cristallo che fa vedere tutti gli oggetti tinti dello stesso colore. La passione è un peso che prepondera ad ogni buon senso, è un fumo che offusca la mente, è una benda che toglie la vista. Agli occhi di Gionata David, perché amico, è un oggetto di amore, agli occhi di Saul, perché lo teme suo successore nel regno, è un oggetto d’invidia e d’odio mortale. Giuditta,, che tutta spirante pompa e bellezza si porta al campo Assiro, desta in Ozia principe di Betulia stima, ammirazione e rispetto: eccita per l’opposto in Oloferne pensieri e sentimenti oltraggiosi alla di lei onestà. Tanto è vero che la disposizione dell’animo è la molla che agisce sui nostri concetti, e dà movimento ed impulso ai nostri giudizi. Ond’è che dall’altrui genio, e dall’altrui passione dipende il giudizio che si forma in noi. Ex alienis affectibus iudicainur (D. Anton. Ep.). Così la ragion persuade, così mostra l’esperienza. Guidato dunque da queste scorte ingannevoli, non può essere se non fallace il giudizio degli uomini. – Fallaci sono altresì gli umani giudizi, perché per lo più fondati sull’apparenza; perciò Gesù ci proibisce il giudicare secondo l’esteriore aspetto delle cose che si appresentano al nostro sguardo o alla nostra mente, “nolite judicare secundum faciem” (Jo. VII, 24). Chi avesse veduto il giovane Giuseppe fuggir dalla stanza della sua padrona, che col di lui mantello fra le mani gridava forte, tacciandolo di tentatore, l’avrebbe creduto colpevole, e si sarebbe ingannato. Chi avesse veduto Abramo alzar la spada in atto di uccidere l’innocente suo figlio, “padre crudele” avrebbe gridato tra sdegno e pietà, padre crudele! … e si sarebbe ingannato. E non si ingannò Eli credendo Anna, madre del Profeta Samuele ebbra, agitata dal vino, perché pregava con affannoso trasporto e straordinario fervore? E non s’ingannarono gl’isolani di Malta nel riputare S. Paolo uomo malvagio, perseguitato dall’ira di Dio in terra ed in mare, perché appena salvato dal naufragio lo videro morsicato da vipera velenosa? L’apparenza dunque non è regola di buon giudizio, ella anzi è la via dell’inganno. Lo disse anche un gentile, decipimur specie recti (Horat.). – Se dunque, io dico a voi, l’apparenza è un’ingannatrice, se non vorreste che altri formassero giudizio di voi dalla sola apparenza perché vi fate lecito per leggieri indizi dar corpo all’ombre, ammettere dubbi, fomentar sospetti, precipitar giudizi? Perché un saluto di convenienza, un sorriso d’urbanità stimarlo un segno di turpe amicizia? Perché la nuova veste di quella figlia che sarà frutto dei suoi lavori, o risparmio del suo sostentamento, la credete regalo di qualche seduttore ? Perché la pallidezza di quell’altra v’ingerisce sospetti ingiuriosi alla sua onestà? Perché coloro che coll’industria e col sudore si avanzano in acquisti ed in possessi, li giudicate ladri od usurai? Se non fate senno, se non cangiate costume, arriverà a voi ciò che si legge dei Moabiti. Il sole appena alzato all’orizzonte con i rossicci vapori coloriva l’acque stagnanti nel campo dei collegati col re d’Israele. Quel rosseggiante riverbero lo credettero sangue uscito dalle ferite dei loro nemici trucidati tra di loro; perciò ingannati si avvicinano al campo per rapirne le spoglie. Si avvidero dell’errore, ma troppo tardi, onde restarono vittime del proprio inganno, e pagarono col sangue vero un sangue apparente. Giudici per mere apparenze, i vostri giudizi sanguinosi dell’onore, della condotta, della fama dei vostri fratelli ricadranno sopra di voi. Giudicate? Sarete giudicati. Condannate? sarete condannati!

II. Né solamente sono fallaci gli umani giudizi perché basati sull’apparenza, ma ingiusti, perché mancanti d’autorità. Chi siete voi, v’interroga l’apostolo, che vi arrogate l’autorità di giudicare il vostro fratello? “Tu quis es, qui judicas fratrem tuum?” (Ad. Rom. XIV). Siete voi superiori, maestri, padri di famiglia? Se tali siete, dovete credere che quei vostri figli, quei vostri discepoli sieno morigerati, che vostra figlia sia cauta, sia costumata; ma per regola di buon governo invigilate sui loro andamenti, indagando, informandovi, con chi trattano, con chi si accompagnano, non vi fidate, temete, il cuor sempre vi batta su la loro condotta. Fuor di questo grado di superiorità, che vi autorizza ad ammetter dubbi e ragionevoli sospetti per impedire il male de’ vostri sudditi, non vi è permesso formar giudizi dei vostri eguali. A Dio soltanto supremo padrone delle sue creature, a Dio scrutatore dei cuori, cui nulla può esser celato, a Dio appartiene il giudicare di noi. Io, dic’Egli, sono il giudice e il testimonio di tutte le vostre azioni. “Ego sum iudex et testis, dicit Dominus(Sem. XXIX, 23). Ella è dunque un intollerabile temerità che l’uomo si usurpi quel che a Dio solo compete. – Ingiusti sono altresì i nostri giudizi, perché formati senza cognizione di causa. Sapeva il sommo Iddio il peccato de’ nostri progenitori, ciò non di meno per nostra istruzione istituisce una forma di giudizio. Chiama a sé Adamo, interroga Eva, domanda il perché hanno trasgredito il suo precetto. Più: l’infame delitto di Sodoma, oltre la scandalosa pubblicità nei suoi contorni, era, secondo l’espressione del sacro Testo, salito fino al cielo a provocare la divina vendetta; pure, prima di venire alla condanna udite come Dio parlò: “discenderò dall’alto: ed in persona mi porterò sul luogo a vedere e a riconoscere di presenza il corpo di quel nefando misfatto. “Descendam, et videbo utrum clamorem, qui venit ad me, opere compleverint(Gen. XVIII, 21). Aveva forse bisogno il Signore di una informazione locale a foggia umana? Tutto ciò sta così espresso per dare a noi lezione ed avviso; a noi che al primo indizio, ad una semplice ombra, subito fabbrichiamo sospetti e giudizi sul dorso dei nostri prossimi, e con tutta franchezza si taglia, si decide, si pronunzia prepotente quel ricco, usuraio quel mercante, sedotta quella figlia, infedele quella maritata, ipocrita quel divoto, ingiusto quel giudice, bugiardo quel povero uomo, strega quella povera vecchia. – Eh mio Dio! Sapete donde derivano siffatti giudizi che uccidono la carità e la giustizia? Dal cuore hanno la loro sorgente, e partono dal cuore, de corde exeunt, dice Gesù Cristo, “de corde exeunt cogitationes malæ( Matt. XV, 19). Un cuor maligno, un cuore infetto manda queste nere esalazioni alla mente, e i mali pensieri si accordano colle cattive affezioni del cuore. Datemi un cuor retto, in un cuor retto abita la carità, e la carità non ammette pensieri malvagi, “charitas non cogitat malum(1 Ad Cor., XIII). Retto, rettissimo era il cuore di S. Giuseppe, e benché avesse sott’occhio la pregnezza della sua sposa, ben lontano dal concepirne sinistra idea, l’ammirava come uno specchio della più illibata onestà, e voleva ritirarsi per lasciarne a Dio il pensiero. Retto era il cuore di Valentiniano imperatore, che al riferir di S. Ambrogio, non sapeva pensar male de’ suoi sudditi, tuttoché delinquenti. Se giovani attribuiva la colpa all’ardor del sangue in quell’inesperta età, se vecchi, alla debolezza della mente, se poveri, alla necessità e alla miseria, se ricchi, alla forza della tentazione. In somma separava sempre l’intenzione dall’azion cattiva, e voleva più tosto ingannarsi col pensar bene, che far violenza al suo cuore pensando male. Così è un cuor ben fatto, un cuor innocente sarà la vittima dell’altrui malizia, piuttosto che pensar male dell’altrui condotta. – Tutto l’opposto per chi ha in seno un cuor mal affetto: per la rea sua disposizione vede colla fantasia quel che non si presenta alla vista, tutto interpreta in senso obliquo, studia, macchina sull’altrui conto, esamina, critica parole, azioni, costumi senza eccezion di persone, cerca il nodo nel giunco, e trova il suo gusto in pascersi di dubbi immaginari, idee chimeriche, d’aerei supposti, di temerari sospetti, di sinistri giudizi . Che occupazione pessima è questa mai! Quanto di danno all’anima, quanto d’ingiuria al prossimo, quanto di offesa a Dio! – Miei dilettissimi questi disordini son troppo contrari alla virtù non solo e alla divina legge, ma alla ragione pur anche ed al buon senso. Volete evitarli? Togliete dall’occhio vostro la trave, togliete cioè dal vostro animo la passione, la malignità, l’avversione, l’invidia che fan vedere negli occhi altrui le festuche, e le fan comparire legnami da fabbriche. Non giudicate dall’apparenza. La Maddalena appariva a Simone il lebbroso tuttavia peccatrice, ed era già giustificata e santa. Non giudicate sugli altrui rapporti quasi sempre falsi e calunniosi. Per questi la casta Susanna, creduta colpevole, fu prossima ad essere lapidata, se Dio pel profeta Daniele non avesse difesa la sua innocenza. Non giudicate in modo veruno, perché ignorando l’intenzione dell’operante, non potete avere cognizione di causa, né pur la Chiesa dell’interno. Non giudicate perché non avete autorità; a Dio solo spetta il giudizio, e non a voi. Il giudizio che farete del vostro prossimo formerà il processo del giudizio vostro al tribunale di Cristo giudice. La stessa misura che adopererete per gli altri, sarà quella con cui sarete voi misurati. “Eadem quippe mensura, qua mensi fueritis, remitietur vobis”. Non giudicate, miei cari, e non sarete giudicati, “nolite iudicare et non iudicabimini”: non condannate, e non sarete condannati, “nolite condemnare, et non condemnabimini

Offertorium V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus – Intende voci orationis meæ, Rex meus; quotiamo ad te orabo, Domine. [Ascolta la voce della mia preghiera, o mio Re e mio Dio, perché a Te io rivolgo la mia supplica, o Signore.]

Secreta
Hostias nostras, quæsumus, Domine, tibi dicatas placatus assume:et ad perpetuum nobis tribue prevenire sunsidium. Per …[Accetta rappacificato, o Signore, questo sacrificio a Te consacrato e concedi divenga che per noi un aiuto indefettibile. Per nostro Signore.]

 

Communio

Sal. IX; 2,3 Narrabo omnia mirabilia tua: lætabor et exsultabo in te: psallam nomini tuo, Altissime.[Racconterò tutte le tue meraviglie, gioirò ed esulterò in Te ; inneggerò al tuo nome, o Altissimo.]

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus.

Tantis, Domine, repleti muneribus; præsta, quæsumus; ut et salutaria dona capiamus, et a tua numquam laude cessemus, per.. [Tu, o Signore, ci hai ricolmati di inestimabili favori, fa’ che ne traiamo frutti di salvezza e mai desistiamo dal lodarti. Per nostro Signore.]

 

SECONDA FESTA DI PENTECOSTE

SECONDA FESTA DI PENTECOSTE

[Mons. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, Torino 1899 –imprim.]

“Pietro disse: Fratelli, Gesù ci comandò di predicare al popolo e di attestare, ch’esso è costituito da Dio giudice dei vivi e dei morti. Di Lui attestano tutti i profeti, che nel suo nome si riceve la remissione dei peccati da quanti credono in Lui. Pietro ragionava ancora di queste cose e lo Spirito Santo discese sopra di tutti, che lo ascoltavano. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, meravigliavano, che il dono dello Spirito Santo fosse effuso eziandio sopra i Gentili, perchè li udivano parlare diverse lingue e magnificare il Signore. Allora Pietro prese a dire: Forseché alcuno potrà vietar l’acqua, sicché non siano battezzati questi, che hanno ricevuto lo Spirito Santo come noi? E comandò che fossero battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora lo pregarono affinché rimanesse con loro alcuni giorni „ (Atti apost. cap. X, 42-48).

La Chiesa festeggia, come sapete, i grandi misteri della fede, e ordinariamente li fa seguire dalla ottava. È cosa affatto naturale, che nella Messa, e specialmente nella Epistola e nel Vangelo, faccia leggere quelle parti dei Libri santi, che si riferiscono agli stessi misteri. Egli è perciò, che in questa seconda festa della Pentecoste (Da noi, in Lombardia, è ancora festa di precetto la seconda della Pentecoste, come sono di precetto la seconda di Pasqua e di Natale, e perciò ho creduto bene dettare l’Omelia del Vangelo e della Epistola di questa seconda festa invece della Domenica di Pentecoste. Della Pentecoste ragionerò nel volume dei Misteri), nella Epistola della Messa troviamo un tratto, tolto dal capo decimo degli Atti apostolici, nel quale si narra una prodigiosa comunicazione dello Spirito Santo avvenuta sotto gli occhi di S. Pietro, nella casa del centurione Cornelio, somigliantissima a quella che avvenne nel cenacolo e che si leggeva nella Messa di ieri. Io qui non vi riferirò i particolari, che precedettero questa manifestazione miracolosa dello Spirito Santo, perché, se la memoria non mi inganna, ve ne dissi quel tanto che occorreva, nell’omelia della seconda festa di Pasqua. Anzi devo farvi osservare, che i primi due versetti, sopra riportati, sono i due ultimi che ebbi ad interpretare in quella omelia: il perché nella presente me ne passo per non ripetere cose già dette altrove, ed eccomi a spiegarvi i versetti seguenti. “Pietro ragionava ancora di queste cose e lo Spirito Santo discese sopra tutti, che lo ascoltavano. „ Come dissi, S. Pietro tenne un discorso a quel gruppo di Gentili radunati in casa del centurione Cornelio, compendiando in esso tutto l’insegnamento cristiano, e di questo discorso S. Luca ci dà un brevissimo sunto nel suo libro. L’Apostolo non aveva ancora posto fine al suo discorso, ed ecco discendere sopra tutti quei Gentili lo Spirito Santo. Come discese sopra di loro? A qual segno riconobbe dagli astanti questa comunicazione dello Spirito Santo? Forse la si conobbe dagli effetti straordinari, che il sacro scrittore accenna tosto; ma mi sembra più conforme a verità il dire che, quella effusione miracolosa dello Spirito Santo si conobbe da tutti a qualche segno esterno e tale da non lasciare ombra di dubbio: e probabilmente dovette essere come quello che avvenne nel cenacolo sopra gli Apostoli il giorno della Pentecoste, cioè sotto forma di lingue di fuoco. Ciò sembra insinuare il sacro testo, perché soggiunge, che appena ricevuto lo Spirito Santo parlavano diverse lingue e glorificavano Dio, precisamente come fecero gli Apostoli nel cenacolo: la medesimezza degli effetti sembra indicare la medesimezza del modo, col quale lo Spirito Santo discese sopra quei Gentili. – Domanderete: Come mai quei Gentili poterono ricevere lo Spirito Santo prima ancora d’essere lavati e rigenerati col battesimo? La risposta è facilissima: Pietro li aveva istruiti: la fede si era accesa nei loro cuori e colla fede dovettero concepire un dolore perfetto dei loro peccati con un desiderio ardente di ricevere il battesimo: questa fede, questo desiderio, questa contrizione perfetta giustificarono quei Gentili e li resero atti a ricevere la pienezza dei doni dello Spirito Santo. Avvenne ad essi ciò che avviene in quelli, che si accostano al Battesimo od alla Confessione con un dolore perfetto delle loro colpe: essi, anche prima del Battesimo o della assoluzione sacramentale, hanno ottenuto il perdono dei loro peccati e sono pienamente santificati dalla grazia abituale. » E perché mai Iddio volle operare quel miracolo visibile sopra quei Gentili, e mostrare ch’erano santificati prima del battesimo? Il miracolo è una derogazione alle leggi di natura, e benché Dio possa fare come gli piace, perché Signore assoluto, non vuole farlo che per ragioni gravi, che noi possiamo investigare con riverenza. – In quei primi anni della Chiesa fondata in Gerusalemme e nei vicini paesi della Giudea e della Samaria, era profondamente radicata l’idea in quasi tutti gli Ebrei convertiti al cristianesimo, che il Vangelo si dovesse annunziare ai soli Ebrei, e che nessun Gentile potesse venire accolto nella Chiesa e battezzato se prima non riceveva la circoncisione e non si sottoponeva alla legge mosaica. Era un errore manifesto, contrario alle profezie, al comando di Cristo, che aveva detto agli Apostoli: ” Andate, ammaestrate tutte le nazioni;” contrario al fine stesso della sua redenzione, che doveva estendersi a tutti indistintamente gli uomini. Ma in quei primi principi gli Apostoli, ancorché conoscessero perfettamente la verità e qual era il volere del divino Maestro, dovevano procedere con somma prudenza, per non urtare di fronte al pregiudizio ebraico e mettere a troppo dura prova la fede di molti Ebrei convertiti, ed impedire la conversione di molti altri. – Gli Apostoli sapevano benissimo, che i Gentili, non meno degli Ebrei erano chiamati al conoscimento del Vangelo ed al benefizio della redenzione: ma quando? Come? A quali condizioni in faccia alle leggi mosaiche? Gesù non aveva determinato nulla ed aveva lasciata la cosa in balia degli Apostoli, che dovevano pigliar consiglio dalla prudenza e dalla carità. Era quindi naturale che anche negli Apostoli apparisse una diversità di giudizi e di condotta, e non fa meraviglia, che gli stessi principi degli Apostoli, Pietro e Paolo, in Antiochia, non fossero perfettamente d’accordo, come rileviamo dalla lettera ai Galati. Dovete sapere, o carissimi, che l’ispirazione e l’assistenza divina anche negli stessi Apostoli non escludevano il diverso modo di vedere le cose, né si estendevano ai singoli atti della vita pratica. Da questo fatto apprendiamo che anche persone pie e sante possono talora operare diversamente tra loro e che noi non abbiamo diritto di argomentare che l’una o l’altra operi malamente. – Le maggiori molestie, dirò meglio, le maggiori persecuzioni, che Pietro e specialmente Paolo, ebbero a soffrire dai Giudei, erano una conseguenza di questo pregiudizio: basta leggere gli Atti apostolici e le lettere di san Paolo, massimamente ai Galati. Era dunque necessario dissipare questo pregiudizio ebraico, che in sostanza voleva restringere il beneficio della redenzione operata da Cristo nell’angusta cerchia dell’ebraismo, e legare il Vangelo alla legge mosaica, e circoscrivere la Chiesa universale entro i confini della Sinagoga. E il miracolo avvenuto in casa di Cornelio era divinamente ordinato a distruggere questo errore. Era un gruppo di Gentili, non circoncisi, non battezzati, che credevano al Vangelo, annunziato da S. Pietro, e che in modo al tutto prodigioso ricevevano lo Spirito Santo, e lo ricevevano sotto gli occhi dei fedeli stessi circoncisi, ossia ebrei: Fideles ex circumcisione, che avevano accompagnato Pietro nella casa di Cornelio. Quel miracolo solenne, innegabile, che rinnovava a favore dei Gentili il miracolo della Pentecoste, apriva la porta del Vangelo e della Chiesa a tutti i Gentili, e faceva cadere il velo dell’errore, che copriva gli occhi degli ebrei. Ciò che gli Apostoli non potevano ottenere con la parola, l’otteneva lo Spirito Santo col miracolo, e il muro di divisione tra Gentili e Giudei era atterrato. L’effetto di quel miracolo fu grandissimo e decisivo sugli Ebrei, come apparisce dal capo seguente degli Atti apostolici, e da questo versetto della nostra Epistola: “I fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, meravigliavano, che il dono dello Spirito Santo fosse effuso eziandio sopra i Gentili. „ La fiera opposizione degli Ebrei convertiti, è vero, non cessò d’un tratto dopo quel miracolo: essi non si arresero tosto e pienamente alla verità: ma la questione era risolta e a poco a poco gli uomini di buona fede smisero la loro opposizione, e la verità trovò sgombra la via delle loro menti e dei loro cuori. Dio aveva parlato e non era possibile resistere più a lungo. -Nel miracolo operato sopra Cornelio e i suoi congiunti ed amici insieme radunati (vers. 24), come in generale in tutti i mirali operati sopra gli uomini, si devono distinguere due cose, il fatto o segno esterno e visibile dell’azione divina, e l’effetto, che essa produce nell’ animo di coloro, nei quali si opera. Il fatto esterno, o segno visibile della venuta dello Spirito Santo sopra gli Apostoli nel cenacolo furono le lingue di fuoco, che si videro posarsi sopra ciascuno di loro; l’effetto fu la loro trasformazione interna ed il parlare che fecero ad un tratto diverse lingue. Similmente in questo miracolo; al fatto esterno e visibile, quale che fosse, rispose subito in quelli che ricevettero lo Spirito Santo l’effetto sovraumano, e fu il dono delle lingue e il magnificare e glorificare Dio in guisa, che appariva bene, lo Spirito Santo essere in loro. Questi doni straordinari, nominatamente quello di parlare in lingue ignote, in quei primordi della Chiesa, erano assai frequenti, come raccogliamo dagli Atti apostolici e dalle lettere di S. Paolo, e come in termini aveva promesso Gesù Cristo (Marco, XVI, 17), e non potevano tornar nuovi ai compagni di Pietro, né eccitare in essi quella gran meraviglia, di cui fa cenno il sacro testo; ma la loro meraviglia proveniva dal fatto per loro non solo nuovo, ma creduto impossibile, che quei doni celesti erano dati a Gentili, e mostravano loro con argomento irrecusabile, che anche ad essi veniva aperta la via della salute e che la legge di Mose cessava per essi. Alla vista di tanto miracolo, che dissipava ogni dubbio, S. Pietro, rivolgendosi, come io penso, ai suoi compagni ebrei, disse: “Forseché potrà alcuno vietar l’acqua, sicché non siano battezzati costoro, che han ricevuto lo Spirito Santo come noi? „ Voi lo vedete, così suonano le parole di S. Pietro: questi Gentili hanno ricevuto lo Spirito Santo come noi: l’opera sua è manifesta in loro; come volete che noi rifiutiamo loro il battesimo? Siamo noi da più di Dio? Possiamo noi opporci al voler suo sì chiaramente qui manifestato? Dunque, smettete i vostri pregiudizi: arrendetevi alla voce di Dio e comprendete una buona volta, che Gesù Cristo è morto per tutti, che a tutti è offerto il frutto della redenzione, a noi, Giudei, ed ai Gentili. Dette queste parole, S. Pietro “comandò che quei Gentili fossero battezzati nel nome del Signore Gesù Cristo, „ e così aggregati alla Chiesa. Apprendiamo da queste parole, che Pietro non battezzò quei nuovi credenti gentili, ma volle fossero battezzati da altri, probabilmente da quei medesimi, che lo accompagnavano, alcuni dei quali dovevano essere sacerdoti. Così faceva pure S. Paolo (I . Cor. I, 17), il quale diceva che era mandato a predicare, non a battezzare, seguendo 1’esempio di Cristo, del quale sappiamo che battezzava per mezzo degli Apostoli (S. Luca, IV, 18). – Da questo luogo si fa manifesto, che l’acqua è la materia del sacramento del Battesimo, come è definito dalla Chiesa, giacché la parola acqua in questo luogo non può significare altra cosa che l’acqua naturale. E qui alcuno di voi potrebbe domandare: Cornelio e gli altri Gentili, che erano con lui avevano ricevuto lo Spirito Santo e perciò erano giustificati; che bisogno dunque avevano essi di ricevere il battesimo? Non era esso inutile? No, non era inutile ed era necessario che fossero battezzati, sebbene già fossero giustificati. E vero: essi erano adorni della grazia di Dio per la contrizione perfetta dei loro peccati; ma appunto perché avevano la contrizione o la carità perfetta, dovevano anche adempire il precetto divino a tutti imposto di ricevere il battesimo. Forsechè quelli che hanno il dolore perfetto dei loro peccati sono affrancati dall’obbligo di confessarli e riceverne l’assoluzione? L’adempimento di questa legge divina è anzi incluso nel dolore perfetto e da quello è voluto, come 1’effetto è voluto dalla causa. Oltreché se quei Gentili avevano ricevuto il perdono dei peccati e la grazia santificante, certamente non avevano ricevuto il carattere proprio del sacramento del Battesimo, e questo pure essi dovevano ricevere, perché senza di questo non potevano ricevere gli altri sacramenti. Questo versetto fa sorgere un dubbio nella nostra mente, ed è prezzo dell’opera esaminarlo e scioglierlo, e il dubbio è questo: San Pietro comandò che quei Gentili fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo; ma è desso valido il battesimo amministrato nel nome di Gesù Cristo? Certamente se oggi il Battesimo fosse conferito nel solo nome di Gesù Cristo, e non nel nome delle tre Persone auguste della Ss. Trinità, come fa la Chiesa, sarebbe nullo. Parve ad alcuni di poter dire, che in quei primi anni della Chiesa, per speciale divina concessione e per mettere in tutto l’onor suo il nome di Gesù Cristo presso i fedeli, fosse valido il battesimo, ancorché dato nel solo nome di Gesù Cristo, e si appoggiavano a questo e ad alcuni altri luoghi simili dei Libri divini. Ma siffatta opinione di alcuni pochi non ha fondamento, né è punto necessaria per intendere a dovere questo versetto ed altri somiglianti. S. Pietro volle dire soltanto, che a quei Gentili si amministrasse il Battesimo di Gesù Cristo, ossia il Battesimo istituito da Gesù Cristo, pronunciando il nome di ciascuna delle divine Persone, com’Egli stesso aveva comandato di fare agli Apostoli (S. Matteo, XVIII, 19). E forse il senso migliore e più naturale di quelle parole di san Pietro è questo: Si dia il battesimo a questi Gentili; esso riceve la virtù di santificare le anime da Gesù Cristo, dai meriti della sua passione e della sua morte, ed è amministrato per suo comando e per l’autorità o potere che viene da Lui solo. – La conversione ed il Battesimo di Cornelio e dei suoi compagni eccitò meraviglia grande, nella Chiesa di Gerusalemme, composta tutta; di Ebrei convertiti, e se ne chiese la spiegazione allo stesso Pietro e per poco gliene fu mossa accusa (Atti apost. XI, 1 seg.). Come ciò? Erano forse quelli i primi Gentili, che si ricevevano nella Chiesa? No, sicuramente. Gesù! Cristo aveva encomiata la fede d’un altro centurione (Luca, VII, 2), e quella della Sirofenissa o Cananea (Luca, VII, 26): aveva accolto Zaccheo, che sembra fosse pur egli gentile: Filippo diacono aveva battezzato l’eunuco della regina Candace, di Etiopia ( Atti, VII, 26 seg.); non doveva dunque tornare sì nuova agli Ebrei cristiani la conversione del centurione e il suo battesimo. Come dunque si levò sì grande rumore fino a costringere S. Pietro a difendersi e spiegare e giustificare la sua condotta? Penso che ciò provenisse dall’importanza del fatto e dai particolari, che accompagnarono quel fatto e che urtarono di fronte il pregiudizio giudaico. – Noi vediamo, all’occasione del Battesimo di Cornelio, un numero considerevole di cristiani di Gerusalemme, e tra loro alcuni anche qualificati, elevarsi quasi giudici dello stesso S. Pietro e più tardi di S. Paolo e di S. Barnaba, e più o meno apertamente mostrare diffidenza ed esprimere biasimo della loro condotta. Inferiori che biasimano superiori, e quali superiori? Gli Apostoli e lo stesso principe degli Apostoli! Era cosa deplorevole! Era un disordine gravissimo! Era uno spirito di insubordinazione, che poteva essere la radice d’uno scisma. Quel fatto è una lezione per noi, e ci insegna che non dobbiamo meravigliarci, né scandalizzarci se anche ai giorni nostri qua e là vediamo nella Chiesa i discepoli voler farla da maestri, e quelli che devono ubbidire, hanno la pretensione e la presunzione di sedere a scranna e giudicare quelli che hanno l’ufficio e il diritto di comandare. E qui, o carissimi, non vi sia grave che tocchi un disordine, una violazione della legge ecclesiastica, che non è rara. S. Pietro comandò che quei Gentili, che avevano creduto e ricevuto lo Spirito Santo fossero tosto battezzati. Che vediamo noi al presente in alcune parrocchie, e specialmente nelle nostre città? Non senza dolore vediamo, che alcuni genitori non si curano di presentare i loro bambini al Battesimo entro gli otto giorni dalla nascita, come vuole la Chiesa, e differiscono le settimane ed i mesi senza motivi ragionevoli. Che dire di codesti genitori? Essi violano una legge gravissima della Chiesa, intesa unicamente a procurare ai loro figli il maggiore dei beni, la grazia del santo Battesimo. Chi di voi, o genitori tarderebbe pure un’ora sola a fare tutti quegli atti civili, che sono necessari per assicurare ai suoi bambini una pingue eredità, una grande fortuna, fosse pure con un disagio sommo? Ebbene: si tratta di procurare ai vostri bambini la grazia di Dio, il diritto al possesso di Dio medesimo, l’eterna felicità, e voi, senza motivo alcuno, indugerete i giorni e le settimane e forse i mesi? Ed è cosa, che non esige né fatica, né sacrificio di sorta! – Vogliate anche considerare che la vita di questi bambini va soggetta a molti e gravi pericoli, e talora si spegne senza che quasi ce ne accorgiamo. Perché dunque non affrettarvi nel tempo debito a procurar loro la vita dell’anima? Qual cruccio, qual rimorso per voi, o genitori, per voi specialmente, o madri, se per sventura il vostro bambino morisse senza aver ricevuto la grazia del Battesimo? Voi non mancate di osservare la legge civile, che vi impone di far registrare sugli atti civili la nascita del vostro bambino prima degli otto giorni, e fate bene: adempite il dovere di buoni cittadini: perché tanta diligenza in ubbidire alla legge degli uomini, e tanta trascuratezza in ubbidire alla legge della Chiesa, vostra madre? Dio col santo Battesimo entra nell’anima del vostro bambino e vi stabilisce il suo regno; e voi gliene ritarderete il possesso? Quale offesa a Dio e qual danno ai vostri innocenti bambini! No, no, che nessuno di voi si renda mai colpevole di sì brutto peccato ed offra lo scandalo di violare una legge della Chiesa sì facile ad osservarsi e apportatrice di tanto bene a quei cari bambini, che voi sì teneramente amate. – Chiudo l’omelia colle ultime parole del testo sacro riportato: “Allora (Cornelio e i suoi) pregarono Pietro di rimanere con loro alcuni giorni. „ Ancorché S. Luca non dica che Pietro aderì alla preghiera di quei Gentili battezzati, è chiaro da ciò che narra più innanzi, ch’egli fece paghi i loro pii e santi desideri e rimase con essi qualche tempo. Pietro sapeva bene che per i Giudei era colpa abominevole accettare l’ospitalità presso un Gentile: prevedeva lo scandalo, che ne avrebbero avuto alcuni; ma non dubitò di consolare con la sua presenza quei buoni Gentili divenuti cristiani, e stimò necessario con quella dimora di far palese a tutti, ch’era venuto il tempo di aprire le porte della Chiesa anche ai Gentili e di condannare pubblicamente il pregiudizio degli ebrei convertiti, e mostrare che tutti, indistintamente, Ebrei e Gentili, erano chiamati alla salvezza.

 

OMELIA DI PENTECOSTE DI S.S. GREGORIO XVII

 

OMELIA DI PENTECOSTE DI S.S. GREGORIO XVII

[che gli a-cattolici eretici e scismatici si ostinano a chiamare Cardinal G. Siri]

PENTECOSTE – S. Messa (1979)

Il testo evangelico (Gv XX, 19-23), che ci riporta al giorno stesso della Risurrezione del Signore, narra un’anticipazione della Pentecoste: parla di una prima diretta effusione dello Spirito Santo sugli Apostoli per dare ad essi il potere di rimettere i peccati. Ma il vero oggetto di questa, che è tra le massime solennità della Chiesa, la Pentecoste, è narrato nella prima lettura tolta dal 2° capitolo degli Atti degli Apostoli (vv. 1-11). Quello è l’oggetto, e su quello io invito voi a convergere le vostre riflessioni. – Il fatto della Pentecoste è grandioso, solenne, stupendo; riecheggia, ma in forma più dolce, la grande manifestazione del Sinai accaduta molti secoli prima per la promulgazione del Decalogo (cfr. Es XIX). Questa seconda promulgazione di tutto l’operato di Cristo, già ormai compiuto, ha un carattere più dolce, più amabile, adattandosi al tenore che la Provvidenza ha assunto nel Nuovo Testamento. Ora nel fatto della Pentecoste, oggetto della riflessione in questo giorno, bisogna distinguere alcune cose. La prima è il fatto esterno: il vento impetuoso che ha scosso le fondamenta della città; le fiammelle ardenti scese sul capo dei singoli che erano nel Cenacolo, fatto grandioso; la presenza, anzi la presidenza – e voglio sottolinearlo – della Santissima Vergine, perché nel Cenacolo c’era Maria. Ad Ella non erano state date le chiavi di Pietro, ma stava al di sopra delle chiavi di Pietro ed era Ella, la Madre del Signore, in ragione della dignità e della Venerabilità del suo ufficio, a tenere almeno nell’onore la presidenza di quella piccola assemblea degnata di un tanto fatto divino, che riecheggiava l’antico Sinai. Ma di questo parlerò stasera dopo i vespri, non ora. – C’è una seconda cosa: la vera Pentecoste. Perché la vera effusione dello Spirito Santo non è stata né il vento, né le fiammelle, né il chiarore, niente; questo era semplicemente un involucro esterno per accompagnare ad uomini che capiscono tutte soltanto attraverso le cose materiali, accompagnare a loro e lasciare un’adeguata impressione l’effusione interna dello Spirito Santo. La vera Pentecoste non si vedeva. E la vera Pentecoste, quella alla quale sono partecipi tutti i fedeli fino alla fine del mondo, non si vedrà, se non in casi straordinari, mai. Ora, anche in questa Pentecoste interiore c’è da fare una distinzione, cioè quello che è stato dato agli Apostoli allora e che è dato anche a noi nel Battesimo, nella Cresima, in tutti i Sacramenti e in tutti gli atti soprannaturali che noi compiamo, e quello, invece, che è state caratteristico per gli Apostoli. Bisogna distinguere: anche noi entriamo nella Pentecoste, ma non come loro. Vediamo prima quello in cui entriamo anche noi nella Pentecoste. Essi avevano la Grazia divina, cioè quella dignità soprannaturale che rende quanto è possibile la creatura partecipe della stessa natura divina, che è radice per cui gli atti fatti in state di Grazia hanno tutti un valore eterno, oltre che soprannaturale: quella dignità per cui si diventa figli adottivi di Dio, non più soltanto servitori; quella dignità che innalza ontologicamente, obbiettivamente – non è cavalierato che sta tutto nella medaglia appesa sul petto-, è intima, interiore e tocca le sorgenti dell’essere e della vita, per cui siamo, vivendo in questo mondo, appartenenti ad un ordine e ad una famiglia divina. Quello l’avevano e l’abbiamo anche noi, se siamo in Grazia di Dio; vorrei sperare che in questa chiesa, in questo momento, non ci fosse nessuno che sia in disgrazia del Signore, perché avrei paura che qualche cosa venisse giù. Ma non è qui solo: c’era e c’è in noi quell’intervento continuo soprannaturale che si chiama Grazia attuale, per prevenire, accompagnare, dando luce, forza e costanza. Tutti gli atti buoni, che noi compiamo e che possono essere valevoli, anche indirettamente, all’eterna salute e al merito che avremo nella gloria di Dio, l’ebbero loro e li abbiamo noi. I doni dello Spirito Santo, che sono quell’intervento divino che appresta l’anima, la allena ad aprirsi alla Grazia di Dio comunque essa venga data e in qualunque misura essa venga data, l’ebbero loro, li abbiano noi. – Ricordiamocene qualche volta, non fosse altro per portare rispetto a quel tanto di divino che è in noi, al quale pensiamo così poco, al quale pensando forse troveremmo la forza di evadere dalle strettoie degli avvenimenti che ci sono imposti dalla cattiveria del mondo. – Ma veniamo a quello che era proprio degli Apostoli. Ecco, mi sforzerò di descriverlo come so, per deduzione, perché è grande e sfugge in se stesso alla nostra penetrazione; ci è chiaro negli effetti. Gli Apostoli ebbero intera e perfetta la carica apostolica per convertire il mondo. Vi prego di misurare questa carica: prima dubitosi, paurosi, facili a suggestioni in un senso e nell’altro; immediatamente campioni che affrontano tutti nel giorno stesso i capi del popolo, e parlano a tutto il popolo, non hanno più paura né delle beffe – e gliene hanno fatte quel giorno e di grosse – né di insulti né di interpretazioni né di minacce. Niente da quel giorno e poi sempre. Tutta la lettura degli Atti degli Apostoli, libro meraviglioso della luminosità divina della Chiesa, mostra quest’atteggiamento ben alieno dalla paura, dal complesso di timidità, con un coraggio immenso che ha affrontato tutto. Badate bene: hanno affrontato un mondo che era marcio e hanno incominciato ad affrontarlo nel Medio Oriente, che era la culla di tutto il marciume, senza paura, a fronte alta, soli, poveri, niente in mano per potersi cambiare gli abiti e mangiare; questo hanno percorso il mondo, e tutto quello che vediamo di cristiano oggi è stato loro, è la conseguenza di quello che hanno fatto loro. Non lo dico io, l’Apostolo lo dice: sono il fondamento loro e restano il fondamento. Se pensiamo che questi uomini per questa carica spirituale non solo hanno affrontato tutto, ma hanno abbandonato tutto – meno uno, Giovanni, è da credere che tutti avessero famiglia -: il paese, la loro lingua, le loro usanze! Hanno affrontato tutto, e i due più coraggiosi di tutti hanno affrontato Roma. La carica che ebbe Pietro in quel giorno non lo fece restare a porre la sua sede primaziale di tutto l’universo in Antiochia, che sarebbe stata comoda e abbastanza vicina tanto all’Oriente che all’Occidente. No, la carica lo ha portato a portare la sede in Roma, dove stava sedendo un mostro imperiale che si chiamava Nerone, sapendo che là l’avrebbero ucciso. Questa carica! Noi possiamo entrare nei meandri del nostro spirito e parlare del sentimento che deve essere stato investito da tutto, di tutto quello che emerge dal nostro subcosciente che raccoglie dal passa e quasi antevede il futuro, di tutti i meandri della psicologia: là dentro è entrato questo Spirito divino. Non so dirvi di più di questa carica. So dirvi solo quello che è successo dopo, e da quello che è successo dopo si misura la carica del momento. – Ci sono tante anime che nella loro Pentecoste una certa carica, non come quella, ma una certa carica la ricevono e, se la ricevono, se la tengano nell’umiltà e nel silenzio. Si ricordino che a presiedere il giorno della Pentecoste c’era la Vergine Madre del Signore, che, appena diventata tale, per prima cosa partì e andò servire sua cugina, vecchia e in procinto di dare alla 1uce Giovanni Battista, le cui reliquie stanno là. Ha cominciata così la Madre di Dio, che ha presieduto il giorno della Pentecoste, e si è ritirata nel silenzio, protetta dall’usbergo dell’Apostolo vergine Giovanni. L’ha seguito, e quello ha piegato la sua vita all’incarico avuto da Cristo in Croce di conservarla nel silenzio; e nel silenzio del mondo se ne è andata per lasciare il posto ai cori angelici. Non dimentichiamo: nella gloria della Pentecoste, al sommo di quella stupenda piccola assemblea, sta la Vergine Madre del Signore. Ma i1 Magnificat l’ha cantato lei una volta, ora per Lei lo cantiamo noi.

DOMENICA DI PENTECOSTE

Introitus

Sap 1:7. Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja [Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Ps LXVII:2 Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus. [Sorga il Signore, e siano dispersi i suoi nemici: e coloro che lo òdiano fuggano dal suo cospetto]. V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sæcula sæculórum. Amen

Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja [Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Oratio

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo.

Orémus. Deus, qui hodiérna die corda fidélium Sancti Spíritus illustratióne docuísti: da nobis in eódem Spíritu recta sápere; et de ejus semper consolatióne gaudére.[O Dio, che in questo giorno hai ammaestrato i tuoi fedeli con la luce dello Spirito Santo, concédici di sentire correttamente nello stesso Spirito, e di godere sempre della sua consolazione.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate eiusdem Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Actuum Apostolórum.

Acts II:1-11

“Cum compleréntur dies Pentecóstes, erant omnes discípuli pariter in eódem loco: et factus est repéente de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis: et replévit totam domum, ubi erant sedentes. Et apparuérunt illis dispertítæ linguæ tamquam ignis, sedítque supra síngulos eórum: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, et coepérunt loqui váriis linguis, prout Spíritus Sanctus dabat éloqui illis. Erant autem in Jerúsalem habitántes Judaei, viri religiósi ex omni natióne, quæ sub coelo est. Facta autem hac voce, convénit multitúdo, et mente confúsa est, quóniam audiébat unusquísque lingua sua illos loquéntes. Stupébant autem omnes et mirabántur, dicéntes: Nonne ecce omnes isti, qui loquúntur, Galilaei sunt? Et quómodo nos audívimus unusquísque linguam nostram, in qua nati sumus? Parthi et Medi et Ælamítæ et qui hábitant Mesopotámiam, Judaeam et Cappadóciam, Pontum et Asiam, Phrýgiam et Pamphýliam, Ægýptum et partes Líbyæ, quæ est circa Cyrénen, et ádvenæ Románi, Judaei quoque et Prosélyti, Cretes et Arabes: audívimus eos loquéntes nostris linguis magnália Dei.” [Giunto il giorno di Pentecoste, tutti i discepoli stavano insieme nello stesso luogo: e improvvisamente si sentí un suono, come di un violento colpo di vento: che riempí tutta la casa ove erano seduti. Ed apparvero loro delle lingue come di fuoco, che, divise, si posarono su ciascuno di essi, cosicché furono tutti ripieni di Spirito Santo e incominciarono a parlare in altre lingue, secondo che lo Spirito concedeva loro. Soggiornavano allora in Gerusalemme molti Giudei, uomini religiosi di tutte le nazioni della terra. A tale suono si radunò molta gente, e rimase attònita, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. E si stupivano tutti, e si meravigliavano, dicendo: Costoro che parlano, non sono tutti Galilei? E come mai ciascuno di noi ha udito il suo linguaggio natio? Parti, Medi ed Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia, della Panfilia, dell’Egitto e della Libia, che è intorno a Cirene, e pellegrini Romani, tanto Giudei come proseliti, Cretesi ed Arabi: come mai abbiamo udito costoro discorrere nelle nostre lingue delle grandezze di Dio?]

Deo gratias.

 Alleluja Allelúja, allelúja

Ps CIII:30 Emítte Spíritum tuum, et creabúntur, et renovábis fáciem terræ. Allelúja. Hic genuflectitur.

Veni, Sancte Spíritus, reple tuórum corda fidélium: et tui amóris in eis ignem accénde.

Sequentia

Veni, Sancte Spíritus, et emítte cælitus lucis tuæ rádium. Veni, pater páuperum; veni, dator múnerum; veni, lumen córdium. Consolátor óptime, dulcis hospes ánimæ, dulce refrigérium. In labóre réquies, in æstu tempéries, in fletu solácium. O lux beatíssima, reple cordis íntima tuórum fidélium. Sine tuo númine nihil est in hómine, nihil est innóxium. Lava quod est sórdidum, riga quod est áridum, sana quod est sáucium. Flecte quod est rígidum, fove quod est frígidum, rege quod est dévium. Da tuis fidélibus, in te confidéntibus, sacrum septenárium. Da virtútis méritum, da salútis éxitum, da perénne gáudium. Amen. Allelúja.

Evangelium

 Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Gloria tibi, Domine!

Joannes XIV:23-31

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Si quis díligit me, sermónem meum servábit, et Pater meus díliget eum, et ad eum veniémus et mansiónem apud eum faciémus: qui non díligit me, sermónes meos non servat. Et sermónem quem audístis, non est meus: sed ejus, qui misit me, Patris. Hæc locútus sum vobis, apud vos manens. Paráclitus autem Spíritus Sanctus, quem mittet Pater in nómine meo, ille vos docébit ómnia et súggeret vobis ómnia, quæcúmque díxero vobis. Pacem relínquo vobis, pacem meam do vobis: non quómodo mundus dat, ego do vobis. Non turbátur cor vestrum neque formídet. Audístis, quia ego dixi vobis: Vado et vénio ad vos. Si diligere tis me, gaudere tis utique, quia vado ad Patrem: quia Pater major me est. Et nunc dixi vobis, priúsquam fiat: ut, cum factum fúerit, credátis. Jam non multa loquar vobíscum. Venit enim princeps mundi hujus, et in me non habet quidquam. Sed ut cognóscat mundus, quia díligo Patrem, et sicut mandátum dedit mihi Pater, sic fácio.”  [In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Chiunque mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo da lui, e faremo dimora presso di lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole. E la parola che udiste non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Queste cose vi ho detto mentre vivevo con voi. Il Paràclito, poi, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel nome mio, insegnerà a voi ogni cosa, e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto. Vi lascio la pace, vi dò la mia pace: ve la dò non come la dà il mondo. Non si turbi il vostro cuore, né si impaurisca. Avete udito che vi ho detto: Vado e vengo a voi. Se voi mi amaste, vi rallegrereste certamente che io vado al Padre, perché il Padre è maggiore di me. Ve l’ho detto adesso, prima che succeda: affinché quando ciò sia avvenuto crediate. Non parlerò ancora molto con voi. Viene il príncipe di questo mondo e non ha alcun potere su di me; ma bisogna che il mondo sappia che amo il Padre e agisco conformemente al mandato che il Padre mi ha dato.]

Laus tibi, Christe!

Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

 

OMELIA

della Domenica della Pentecoste

[“Omelie”, del Canonico G.B. Musso, I vol. 1851-impr.]

Ispirazioni

È questo il memorabile giorno in cui lo Spirito Santo disceso in forma di fuoco sopra i discepoli, con Maria Vergine nel Cenacolo congregati. Se mi chiedete, uditori umanissimi, perché venne in questa forma di fuoco? Io vi rispondo con l’angelico dottor S. Tommaso (3 P, q. 39. A. 7.) che lo Spirito Santo prese “forma sensibile di questo elemento per significare ch’Egli produce nell’anime nostre quegli effetti, che sono propri del fuoco. Il fuoco illumina, purifica, consuma. Lo Spirito Santo illumina la mente, purifica il cuore, consuma le viziose abitudini: “Deus noster ignis conmmens est” (ad. Ebr. XII, 29). Ma perché in noi produca questi salutevoli effetti, è necessario aprirgli la strada con accogliere e mettere in pratica le sue sante ispirazioni. Si verificherà allora ciò che Gesù Cristo ha promesso nell’odierno Vangelo, che lo Spirito Santo c’insegnerà e ci suggerirà ogni cosa appartenente alla nostra eterna salute: “Ille docebit vos omnia, et suggeret vobis omnia”. Ma come potrà insegnare, se chiudiamo le orecchie alle sue voci? Come potrà suggerirci i mezzi e la via da tenere per andar salvi, se chiudiamo gli occhi alla sua luce? È dunque della somma importa importanza, anzi della massima necessità, il profittare della sua luce, l’ascoltare la sua voce, il seguire le sue sante ispirazioni. Ispirazioni, notate bene quel che mi accingo a dimostrarvi, ispirazioni, dall’accogliménto, o rifiuto delle quali può dipendere la nostra eterna salvezza, o la nostra eterna perdizione. Uditemi cortesemente! – Noi siamo pellegrini su questa terra: peregrinamur a Domino” (2 Cor. V, 6). In questa nostra pellegrinazione, i nostri passi sono indirizzati alla casa dell’eternitàIbit homo in domum æternitatis suæ” (Prov. XVI, 5), e di quella eternità felice, o sventurata a cui l’uomo viatore avrà diretti i suoi passi,in domum æternitatis suæ”. Posto ciò, egli è certo che in qualità di viatori o di pellegrini ci troviamo sovente ad un bivio, in capo a due strade, l’una a destra, l’altra a sinistra, una che al bene ci porta, l’altra al male, una di salute, l’altra di perdizione. Tutto il punto sta a metter bene il primo piede, a dar il primo passo nella buona strada. Si chiama dallo Spirito Santo un tal passo: “initium viæ bonæ, principio di buon sentiero, che sul cominciare da una ispirazione, la quale ci suggerisce una limosina o una preghiera, una confessione da farsi, o un vizio da emendarsi, un’occasione da fuggire, o una virtù da praticare; alla quale ispirazione secondata vien poi dietro una serie non interrotta d’altri passi virtuosi, che dirittamente ci conducono fino all’ultima meta, fino alla beata eternità. – La predestinazione degli eletti, come con i santi Agostino e Tommaso insegnano, e i teologi, altro non è che la divina prescienza, e l’ordinazione dei mezzi valevoli a condurre i predestinati all’eterna beatitudine; onde siccome la sua provvidenza ha disposto di darci l’esistenza e la vita, così la sua bontà ha decretato di farci sentire nel tal tempo, nella tal circostanza quella santa ispirazione, la quale se prontamente si accoglie e s’eseguisce, come il primo anello di ben contesta catena, trae seco l’altre grazie, gli altri lumi, gli altri mezzi, che facilmente conducono all’ultimo beato fine. Vediamolo in pratica. Dove cominciò la predestinazione, la santità di tanti eroi, che veneriamo sugli altari? Da un’occasione per essi fortuita, ma dallo Spirito Santo diretta a commuoverli, accompagnata dall’impulso della sua grazia, e da un raggio della superna sua luce. Entra a caso in una Chiesa S. Antonio Abate ancor giovanetto, mentre si legge il santo Vangelo, ciò che sente lo crede detto a se stesso, e sull’istante vende tutto ciò che possiede, lo dà ai poveri, fugge dal mondo, si nasconde in un deserto, diviene Patriarca di monaci, caro a Dio, terribile ai demóni. Una limosina prima negata, e poi per commovente ispirazione concessa, innalzò alla più gran santità un Francesco d’Assisi. Giunge casualmente alle mani d’Ignazio di Loyola un libro devoto, comincia a leggerlo per rompere l’ozio; ma leggendo, lo Spirito del Signore lo illumina, profitta di questo lume, rompe i legami, del mondo, e si fa uno dei più zelanti promotori della gloria di Dio. La vista del contraffatto cadavere del complice dei suoi disordini, congiunta con una luce alla mente e con un tocco al cuore, converte sul momento la peccatrice Margherita da Cortona in una fervidissima penitente. Un avviso della propria madre ben accolto da Andrea Corsini lo cangia di lupo in agnello in un chiostro del Carmelo, e lo fa un Vescovo santissimo! Ditemi ora, uditori, se questi santi, e tanti altri di cui son piene l’ecclesiastiche storie, avessero disprezzata quell’ispirazione, negletta quella chiamata, ributtata quella grazia, volete dire che, rifiutato il primo passo, avrebbero poi potuto più metter piede in quella virtuosa carriera, che li portò all’onore degli altari, ed alla patria dei beati? V’è molto a dubitarne. L’occasione è calva, diceva un antico-uomo di senno, una volta che sia passata non si può più tenere per i capelli. Gesù Cristo chiamò i suoi discepoli a seguitarLo, e li chiamò passando, “cum pertranserit, e li chiamò una sola volta, e sull’istante Simon Pietro abbandonò la sua barca, Matteo il suo banco, i figli di Zebedeo, Giovanni e Giacomo, le loro reti, e cominciarono così la carriera dell’apostolato, che li rese tanto accetti a Dio, e tanto benemeriti della sua Chiesa. – Per l’opposto quei due seguaci della legge di Mosè, invitati dal Redentore a seguirLo, perché trovarono scuse, uno per assistere al funerale del padre, l’altro per spedire gli affari domestici, perdettero la bella sorte d’essere annoverati fra i suoi discepoli, e S. Agostino li piange come perduti. Ah, diceva pertanto lo stesso Agostino, fratelli miei, osservo nel santo Vangelo che Gesù dispensa i suoi benefici come lampi fuggitivi, e via passando, “pertransit benefaciendo”, e vi confesso apertamente, e v’assicuro, che mi riempie di timore Gesù che passa. “Fratres mei, dico, et aperte dico, timeo Jesum transenuntem(Serm. 18 de verb. Dom.). La sua chiamata è una luce che balena alla mente: chi non profitta di questa luce resterà al buio, camminerà fra le tenebre, incontrerà inciampi e precipizi; e perciò il Redentore ci avvisa a camminare al favor di questa luce acciò non ci sorprendano tenebre per noi fatali: “Ambulate dum lucem habetis, ne vos tenebræ comprehendant” (Jo. XII, 33). – È vero che talora rinnova le sue chiamate, Iddio pietoso, e fa di nuovo risplendere la sua luce, anche a chi chiuse gli occhi per non vederla; ma di qui appunto nasce il pericolo per l’uomo caparbio, che ostinato nelle sue ripulse vie più si indura, come una incudine al dir di Giobbe (Giob. XLI, 15), sotto i colpi di grave martello. Non vi fu anima tanto dalla divina grazia amorevolmente assediata con replicate ispirazioni, quanto quella di Giuda. Osservate la traccia amorosa tenuta dal divino maestro per espugnare il cuore di questo suo discepolo traditore. Gesù scopre, e comincia a dargli indizio d’avere scoperto il suo iniquo disegno. Voi siete, dice ai suoi discepoli, per purezza di cuore costituiti in grazia e mondi; ma tutti non lo siete Vos mundi estis, sed non omnes(Jo. XIII, 10). Poteva Giuda conoscere l’infelice suo stato, e sentirne rimorso, ma non si muove. Replica Gesù e con più forza gli mette innanzi l’enormità del suo delitto con dire: Uno fra voi è per malizia un vero Demonio: “Ex vobis unus diabolus est”, e Giuda non inorridisce. Passa ad intimargli l’atrocità della pena che va ad incorrere, pena per la quale sarebbe meglio per lui che mai veduta avesse la luce del giorno: “Bonum erat ei si non fuisset homo ille” (Mat. XXVI, 24); e Giuda è insensibile. Parla Gesù in genere finora, e non lo nomina per lasciargli un segreto ritiro a ravvedersi, ma nulla giova. Torna alle prese il buon Salvatore, e alquanto più chiaro: un di voi, o miei discepoli, un di voi mi tradirà: “Unus ex vobis tradet me, e Giuda dissimula. Più chiaro ancora: La mano del traditore è meco su questa mensa. “Manus tradentis me mecum est in mensa” (Luc. XXII, 21): assai più chiaro: Chi meco in questo piatto pone la mano, desso è colui che mi tradirà: “Qui mecum intingit manum in paropside, hic me tradet” (Mat. XXVI, 23), e Giuda fa il sordo, e tutto disprezza. E via, finalmente gli dice Gesù, vanne pure, ed il reo attentato che volgi in mente affrettati ad eseguirlo. “Quod facis, fac citius” (Jo. XII, 21). Non fu già questo un precetto, dice qui il Crisostomo, non comanda Iddio un’azione sì indegna, un tradimento, “non est vox praecipientis”. Non fu consiglio, una somma bontà non può consigliare un eccesso cotanto esecrabile, “non est vox consulentis”. Che dunque volle significare Cristo con quelle parole? Volle dimostrare il giusto e tremendo abbandono ch’Egli faceva di quel cuore indurito, come non più capace di ravvedimento e di emenda. “Cum Judas, conchiude il citato Dottore, esset inemendabilis, dimisit eum Christus” (Hom. 73 in Io.). Ma pure Giuda dà qualche segno di penitenza, restituisce il danaro ai sacerdoti, rende la fama al suo divino Maestro, si ritratta, confessa d’aver tradito il sangue d’un giusto. Ahimè nulla giova, movimenti sono questi d’un disperato, non d’un convertito. Dio vi guardi, miei cari, dall’imitare nel rifiuto delle divine ispirazioni questo discepolo prevaricatore, incontrerete la stessa sorte. Farete forse come Giuda qualche opera apparentemente buona, ma non vi gioverà ad uscire da quel precipizio, che dopo tanti avvisi non avete voluto schivare. – Potete forse lagnarvi che Iddio non v’abbia parlato? Dio vi parlò quando vi trovaste in quella malattia, quando per lo spavento di morte temporale ed eterna vi fece conoscere lo stato deplorabile dell’anima vostra: prometteste allora, se Dio vi accordava grazia d’uscirne, di cangiar vita, Egli vi esaudì, e voi non adempiste la fatta promessa. Vedeste esposto in Chiesa, o condotto al sepolcro il cadavere di quella donna, colpita nel fior dell’età, foste presente al funerale di quel facoltoso, ed una voce vi disse al cuore: “ecco dove va a finire la beltà e la ricchezza”. La vanità delle terrene cose disingannò in quel momento il vostro intelletto, ma la volontà non si arrese a romperne il colpevole attacco. Quel rimorso, fratello mio, quel rimorso, che vi lacera il cuore, è una grazia da voi non conosciuta, con cui Iddio pietoso vi stimola ad emendar costume, a troncare quella scandalosa corrispondenza; che conto ne fate? Vi avvisa per mezzo di quel congiunto, di quell’amico, di quel buon cristiano a ritirarvi da quella licenziosa conversazione, a lasciare quel giuoco, quel ridotto, quel malvagio compagno, che ascolto gli date? “Figlio, dice a più d’uno di noi, se non paghi gli operai, se non soddisfi quel debito, se non dismetti quella lite ingiusta, se non adempi quel pio legato, non sperare salute.” – “Figlio, dice a quell’altro, le partite di tua coscienza son mal in ordine, datti fretta d’aggiustarle con una generale confessione: fa’ al presente quel che desidererai voler fare in punto di morte”. Tutte queste e simili voci, pensieri, sentimenti, ispirazioni, rimorsi, sono chiamate di Dio, sollecito del vostro bene; se chiudete l’orecchie, come un aspide sordo, Iddio offeso, Iddio disprezzato tratterà voi come da voi venne trattato. Così Egli si esprime e minaccia: “Vocavi, et renuistis, ego quoque in interitu vestro ridebo(Prov. I, 24. 26). Ponderate bene, peccatori fratelli miei, queste tremende divine parole. “Vocavi”, ch’Io vi abbia più volte chiamati, e tuttora vi chiami, non potete negarlo. Vi ho chiamati per bocca dei miei sacri ministri colla predicazione, per bocca dei vostri parenti con le ammonizioni, per mezzo di quelle disgrazie, di quelle infermità, con l’esempio dei buoni, col castigo dei malvagi: “Vocavi, et renuistis”, che abbiate ricusato di ascoltarmi, dovete confessarlo, ve ne convince la propria coscienza. Che cosa dunque potete aspettarvi? “Ego quoque”, che Dio cioè vi renda la pariglia, e nel maggior dei vostri affanni si rida di voi,in interitu vestro ridebo”. Miei cari, se si può dire di voi che fate continua resistenza agl’impulsi dello Spirito Santo, come ai contumaci Ebrei rinfacciò lo zelante Levita S. Stefano, “vos semper Spiritui Sancto resistitis(Act. VII, 51) , voi siete perduti. Sarete come una casa che minaccia ruina, che perciò si lascia vuota e abbandonata.Ecce relinquetur vobis domus vestra deserta( Mat. XXIII, 38): abbandono, segno fatale d’eterna riprovazione. Che Dio vi guardi!

Credo …

Offertorium

Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Ps LXVII:29-30 Confírma hoc, Deus, quod operátus es in nobis: a templo tuo, quod est in Jerúsalem, tibi ófferent reges múnera, allelúja. [Conferma, o Dio, quanto hai operato in noi: i re Ti offriranno doni per il tuo tempio che è in Gerusalemme, allelúia].

Secreta

Múnera, quaesumus, Dómine, obláta sanctífica: et corda nostra Sancti Spíritus illustratióne emúnda. [Santifica, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che Ti vengono offerti, e monda i nostri cuori con la luce dello Spirito Santo]. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate eiusdem Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen

Communio Acts II:2; II:4 Factus est repénte de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis, ubi erant sedéntes, allelúja: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, loquéntes magnália Dei, allelúja, allelúja. [Improvvisamente, nel luogo ove si trovavano, venne dal cielo un suono come di un vento impetuoso, allelúia: e furono ripieni di Spirito Santo, e decantavano le meraviglie del Signore, alleluja, alleluja.]

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus. Sancti Spíritus, Dómine, corda nostra mundet infúsio: et sui roris íntima aspersióne fecúndet. [Fa, o Signore, che l’infusione dello Spirito Santo purifichi i nostri cuori, e li fecondi con l’intima aspersione della sua grazia.] – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate eiusdem Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

DOMENICA TRA L’ASCENSIONE

Introitus

Ps XXVI:7; XXVI:8; XXVI:9 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te, allelúja: tibi dixit cor meum, quæsívi vultum tuum, vultum tuum, Dómine, requíram: ne avértas fáciem tuam a me, allelúja, allelúja. [Ascolta, o Signore, la mia voce, con la quale Ti invoco, allelúia: a te parlò il mio cuore: ho cercato la Tua presenza, o Signore, e la cercherò ancora: non nascondermi il Tuo volto, allelúia, allelúia.]

Ps XXVI:1 Dóminus illuminátio mea et salus mea: quem timébo? [Il Signore è mia luce e la mia salvezza: di chi avrò timore?] V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sæcula sæculórum. Amen

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te, allelúja: tibi dixit cor meum, quæsívi vultum tuum, vultum tuum, Dómine, requíram: ne avértas fáciem tuam a me, allelúja, allelúja. [Ascolta, o Signore, la mia voce, con la quale Ti invoco, allelúia: a te parlò il mio cuore: ho cercato la Tua presenza, o Signore,e la cercherò ancora: non nascondermi il Tuo volto, allelúia, allelúia.]

Oratio

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo.

Orémus. – Omnípotens sempitérne Deus: fac nos tibi semper et devótam gérere voluntátem; et majestáti tuæ sincéro corde servíre. [Dio onnipotente ed eterno: fa che la nostra volontà sia sempre devota: e che serviamo la tua Maestà con cuore sincero.]. Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet IV:7-11

“Caríssimi: Estóte prudéntes et vigiláte in oratiónibus. Ante ómnia autem mútuam in vobismetípsis caritátem contínuam habéntes: quia cáritas óperit multitúdinem peccatórum. Hospitáles ínvicem sine murmuratióne: unusquísque, sicut accépit grátiam, in altérutrum illam administrántes, sicut boni dispensatóres multifórmis grátiæ Dei. Si quis lóquitur, quasi sermónes Dei: si quis minístrat, tamquam ex virtúte, quam adminístrat Deus: ut in ómnibus honorificétur Deus per Jesum Christum, Dóminum nostrum.” [Carissimi: Siate prudenti e perseverate nelle preghiere. Innanzi tutto, poi, abbiate fra di voi una mutua e continua carità: poiché la carità copre una moltitudine di peccati. Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri senza mormorare: ognuno metta a servizio altrui il dono che ha ricevuto, come si conviene a buoni dispensatori della multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia come fossero parole di Dio: chi esercita un ministero, lo faccia come per virtù comunicata da Dio: affinché in tutto sia onorato Dio per Gesù Cristo nostro Signore.] R. Deo gratias.

 [Mons. Bonomelli: “Omelie” – Torino 1899; vol. II, Omelia XXV]

“Siate prudenti e vegliate nelle preghiere; ma sopra tutto abbiate costante carità tra di voi; perché la carità copre una moltitudine di peccati. Osservate la scambievole ospitalità, senza mormorio, volgendo ognuno a beneficio degli altri il dono che ha ricevuto, come buoni amministratori della molteplice grazia di Dio. Se alcuno parla, lo faccia come della parola di Dio: se alcuno ministra, sia come con potere datogli da Dio, acciocché in ogni cosa Dio sia glorificato per Gesù Cristo, al quale sia gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen „ (I. di S. Pietro, IV, 7-11).

In questa Domenica dopo l’Ascensione la Chiesa ci fa leggere nella santa Messa le poche linee, che avete udite, e che si trovano nella prima epistola di S. Pietro. L’avrete rilevato voi stessi, o cari; sono poche linee, ma in esse si racchiude un vero tesoro di dottrina morale e pratica, che è una applicazione della gran legge della carità fraterna. Vero è che queste verità più e più volte le avete udite nelle omelie che vi tengo: ma se i Libri santi spesso le ripetono egli è perché è utile il ripeterle. Avviene dello spirito ciò che avviene del corpo. Per conservare e ristorare le forze di questo noi più volte al giorno pigliamo lo stesso cibo e la stessa bevanda e non ce ne stanchiamo: per conservare e ristorare le forze dello spirito, è necessario nutrirlo collo stesso cibo e colla stessa bevanda, e cibo e bevanda dello spirito sono le verità che Gesù Cristo ci ha insegnato. Ascoltiamole dunque con animo riverente e docile, e studiamoci di porcele ben addentro nell’animo. – Il Principe degli apostoli, dopo aver esortati i fedeli a staccarsi dai peccati, dei quali vissero schiavi da Gentili: dopo aver accennato allo stupore dei Gentili, vedendoli signori delle basse voglie del senso, tocca del giudizio divino, che si avvicina: “Omnium finis appropinquavit.” – Dobbiamo tutti prepararci a quel giorno, che infallibilmente verrà, quantunque ignoriamo quando verrà. E come prepararci? “Siate prudenti — Estote prudente», . risponde S. Pietro. La prudenza! Essa importa anzi tutto il conoscimento delle cose che dobbiamo fare o fuggire [“Prudentia est rerum appetendarum et fugiendarum scientia” – S. August., De lib. arb., lib. 1, c. 13]. Non basta: essa importa il conoscimento del fine che in ogni cosa ci proponiamo e dei mezzi, che siano più acconci per raggiungerlo più perfettamente. Ond’è che la prudenza deve tener d’occhio il tempo, il luogo, le circostanze tutte, affinché l’opera felicemente riesca ed esige ponderazione, sagacia e costanza di propositi. La prudenza è non solo virtù cardinale, ossia fondamentale riguardo alle virtù morali, ma tiene fra di esse il primo luogo, perché essa deve regolare l’intelligenza, come questa deve poi regolare la volontà, e perché non vi è virtù senza la prudenza; anzi potrebbe essere, che una virtù, anche eccellente, scompagnata dalla prudenza, tralignasse in vizio. Così la fortezza separata dalla prudenza può diventare temerità, la giustizia durezza, la pazienza pusillanimità, la generosità prodigalità, l’umiltà bassezza e via via. E in vero quante virtù si tramutano in vizi perché non regolate dalla prudenza! Il coraggio di Pietro diventa temerità e presunzione. La prudenza pertanto deve accompagnare sempre i nostri atti, deve essere l’arme di tutte le virtù. Siate prudenti, „ grida S. Pietro, e perciò a tutte le nostre azioni vada innanzi la face della prudenza, affinché non poniamo il piede in fallo e delle parole ed opere nostre non sentiamo il tardo ed inutile pentimento. Sorella inseparabile della prudenza è la vigilanza, che ha il suo alimento ed il suo appoggio nella preghiera; il perché S. Pietro soggiunge tosto: “Vegliate nelle preghiere —Vigilate in orationibus. „ Si direbbe che qui l’apostolo ripete ai fedeli l’ammonimento di Cristo, là nell’orto, e che doveva risonar continuamente all’orecchio: “Vigilate et orate, ut non intretis in tentationem.” Egli, S. Pietro, non poteva non aver sempre innanzi agli occhi quella notte fatale, in cui egli e Giacomo e Giovanni erano là nel Getsemani in preda alla tristezza e al sonno. Doveva ricordare come Gesù per ben tre volte l’aveva riscosso dal sonno e ripetute quelle parole — Vegliate e pregate, — e come conseguenza di quella sua trascuratezza nel vegliare e pregare era stata la sua miserabile caduta. Perciò qui la ripete anche egli ai primi cristiani. “Vegliate nell’orazione. „ Noi cristiani siamo come soldati in campo, che ad ogni istante, di giorno, di notte, possiamo essere assaliti da nemici astuti e potenti: bisogna stare sempre in sull’avviso, coll’arme in pugno per difenderci e rigettarli, e l’arme più spedita per tutti è la preghiera, e perciò S. Pietro ha congiunto la vigilanza e l’orazione: la vigilanza ci fa scorgere il nemico, che si avanza, e scoprire le insidie, che tende; l’orazione è il grido che leviamo a Dio perché ci aiuti, che gettiamo contro il nemico per atterrirlo: “Vigilate in orationibus”. Segue un’altra raccomandazione, che sì spesso si incontra nei Libri santi: “Sopra tutto abbiate costante carità tra di voi. „ Qui si parla della carità del prossimo, che deve essere l’effetto e la prova della carità verso di Dio, e S. Pietro vuole, che tra le altre, abbia due doti, sia cioè costante e mutua o vicendevole. Generalmente parlando gli uomini si amano tra loro, giacché l’odiarsi è di poche anime volgari e schiave d’una passione, che ripugna alla natura. Ma che amore è desso? E forza confessarlo: è un amore debole, interessato, che al primo urto, alla prima prova cede e forse si muta in risentimento e rancore mal dissimulato. L’amore nostro verso i fratelli deve essere costante e saldo, e lo sarà se la scintilla che l’accende, scende dall’alto, viene da Dio. Se l’amore verso del prossimo ha la sua radice o nell’interesse, o nelle sole qualità fisiche o morali, ond’esso è fornito, non potrà essere costante: cessi l’interesse, deve cessare con esso l’amore; se le qualità fisiche o morali fanno difetto nel prossimo, o possedute da esso un tempo, poi scemarono od anche interamente si dileguarono, con esse dovrà pure andarsene l’amore. Perché dunque l’amore del prossimo sia costante, conviene che sia costante il motivo che l’accende ed alimenta, conviene che si appunti in Dio, che non si muta mai. Oh! quando amiamo il prossimo in Dio e per Iddio, noi lo ameremo sempre, anche quando agli occhi nostri apparisce indegno, anche quando ci odia e ci perseguita perché Dio merita sempre che Lo amiamo! In secondo luogo l’amore del prossimo vuol essere mutuo o vicendevole, simile al sole, dice S. Basilio: il sole, dice il Santo, quanto è da sé, spande egualmente in ogni parte la sua luce e il suo calore, ancorché non tutti gli oggetti lo ricevano in egual misura; ciascuno dunque sia come il sole e spanda su tutti l’amor suo, e la terra presenterà lo spettacolo del cielo, dove l’amore regna sovrano. Dopo avere inculcata la carità costante e vicendevole, il nostro apostolo accenna ad uno dei suoi frutti, dicendo: “La carità copre una moltitudine di peccati — Quia charitas operit multitudinem peccatorum. „ La copre dinanzi agli uomini, dissimulando e dimenticando le loro offese, e per tal modo inducendo gli offensori a riconciliarsi con Dio e cogli offesi: la copre, sedando le discordie tra i fratelli e ristabilendo tra loro la pace: la copre, correggendo gli erranti, e colla soavità dei modi riconducendoli alla verità: la copre, beneficando tutti, e colla larghezza della elemosina guadagnando i cuori: la copre dinanzi a Dio, perché, amandoLo perfettamente, come la Maddalena e Paolo, monda le anime e tosto a Dio le riconcilia: la copre, perché, quantunque non perfetta, essa dispone l’uomo a cancellare tutti i suoi peccati col Sacramento della Penitenza. La carità dunque, nel senso più largo della parola, copre, cioè cancella, distrugge i peccati e giustifica l’uomo o lo prepara alla giustificazione, onde fu paragonata al fuoco, che consuma ogni cosa. Carità dunque, o cari, carità verso Dio, che è la carità stessa, carità verso gli uomini; carità nelle parole, più nelle opere, carità, che erompa dal cuore: carità verso i buoni e carità anche verso i cattivi, perché diventino buoni, o meno cattivi, perché è questa la virtù delle virtù, il compimento della legge. Di questa carità S. Pietro rammenta ai fedeli una applicazione a quei tempi e in quei luoghi importantissima, e a noi, nei nostri paesi e coi nostri usi moderni, quasi inesplicabile. Frequentemente nei libri del nuovo Testamento si inculca e si loda la ospitalità, e Cristo la pose tra le opere della misericordia: per formarci un’idea dell’importanza della ospitalità e dell’opera caritatevole ch’essa era, bisogna dimenticare tutti i comodi, tutti gli agi di vie sicure, di alberghi, che noi abbiamo oggidì e che rendono facilissimo il viaggiare; ma a quei tempi non strade, o malagevoli, infestate da ladroni ed assassini, non servigi pubblici, malsicuri, e perciò l’ospitalità era un bisogno, una necessità pubblica e in pari tempo una squisita carità, come nei paesi poco inciviliti lo è tuttora. Eccovi la ragione delle tante lodi e sì calde raccomandazioni della ospitalità, che troviamo nei nostri Libri santi. Da ciò che ho detto intorno alla ospitalità sì necessaria ai tempi degli apostoli, ospitalità, che era una esplicazione della carità e che oggi ha sì poca importanza, si fa manifesto che anche la virtù regina, che è la carità, può mutare e muta le sue applicazioni secondo i tempi e i luoghi e gli uomini, che certe opere di carità necessarie in altri tempi, oggidì sono cessate, ed altre ignote nei tempi passati oggidì sono imposte. Non si muta la virtù nella sua radice, ma si mutano le sue applicazioni e noi, figli del Vangelo, dobbiamo essere uomini di tutti i tempi, come lo è il Vangelo, ed esercitare la carità quale è richiesta nei vari paesi e nei vari tempi. Né si vuole dimenticare una avvertenza che riguarda questa lettera. Essa è indirizzata ai cristiani dispersi nelle provincie dell’Asia Minore, e prima tra queste da S. Pietro è nominata la provincia del Ponto: ora è a sapere che quella provincia aveva fama d’essere inospitale, come sappiamo dagli scrittori pagani (Ovidio), e forse fu questa una ragione di più che indusse l’apostolo a ricordare a quei popoli il dovere della ospitalità, aggiungendovi una raccomandazione particolare, ed è di usarla “sine murmuratione”, senza mormorio o lamento. — Vi sono persone, che esercitano la carità, ma in mal modo, brontolando, lagnandosi: questa non è carità secondo il Vangelo. – Ciò che si dice della carità, devesi pur dire della ospitalità, che ne è una parziale applicazione: anch’essa deve essere benigna, graziosa e offerta con volto ilare, anzi S. Gregorio Magno vuole che in qualche modo sia imposta: “Peregrini ad hospitium non solum invitandi, sed etiam trahendi sunt”. Seguitiamo il nostro commento. Alla raccomandazione della scambievole ospitalità tiene dietro un’altra raccomandazione più particolareggiata e più grave. Uditela: “Ognuno volga a beneficio degli altri il dono che ha ricevuto, come buoni amministratori della molteplice grazia di Dio. „ Qui si parla di coloro che tengono qualche officio o ministero sacro nella Chiesa, come sarebbe l’officio o ministero dell’annunciare la parola di Dio, del dispensare i Sacramenti, o del governo delle anime. S. Pietro intima a tutti costoro senza eccezione, che si considerino non come padroni, ma amministratori dei doni ricevuti, delle grazie loro largite, non a proprio vantaggio, ma a vantaggio e beneficio altrui. Noi, uomini di Chiesa, ministri e dispensatori dei misteri di Cristo, come ci chiama S. Paolo, siamo tali, non per nostra utilità, ma sì per la vostra, o figliuoli dilettissimi: “Uniquique datur manifestatio spiritus ad utilitatem” (I. Cor. c. XII, vers. 7). Il nostro ministero è un potere, vero potere, che abbiamo ricevuto non da voi, ma da Cristo, ma che dobbiamo esercitare a vostro beneficio; è un servizio, non un dominio, e se il nostro Capo supremo, il romano Pontefice si chiama ed è Servo dei servi di Dio, cioè deve servire al bene di tutti i fedeli, che sono servi di Gesù Cristo, quanto più lo saremo noi sacerdoti e parroci? Perciò è nostro dovere prestare l’opera nostra a tutte le vostre domande ragionevoli, anche con nostro disagio, con nostro sacrificio, in certi casi, ne andasse la vita. Noi siamo amministratori dei doni di Cristo, non padroni, e guai a noi se per la nostra trascuratezza, per nostra imprudenza, per nostra colpa, alcuni ne rimanessero privi: ne dovremmo rendere strettissima ragione a Dio, dal Quale li teniamo! Specificando meglio la cosa, S. Pietro dice: “Se alcuno parla, cioè se ha l’officio di istruire, lo faccia come è richiesto di farlo, e come la parola di Dio deve essere annunziata; se alcuno amministra, cioè esercita l’officio di dispensatore dei Sacramenti, lo faccia in quel modo e con quello spirito che domanda sì alto potere. Così facendo, l’opera nostra sarà profittevole a noi, a quelli ai quali la prestiamo, e ne sarà glorificato Iddio per Gesù Cristo, al quale sia gloria ed impero nei secoli dei secoli. „ È il fine ultimo e supremo di tutte le cose sulla terra e particolarmente della grand’opera della redenzione da Gesù Cristo stabilita in mezzo a noi: è la gloria, di Dio, che si ottiene colla santificazione delle anime!

 Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XLVI:9 V. Regnávit Dóminus super omnes gentes: Deus sedet super sedem sanctam suam. Allelúja. [Il Signore regna sopra tutte le nazioni: Iddio siede sul suo trono santo. Alleluja.] Joannes XIV:18 V. Non vos relínquam órphanos: vado, et vénio ad vos, et gaudébit cor vestrum. Allelúja. [Non vi lascerò orfani: vado, e ritorno a voi, e il vostro cuore si rallegrerà. Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! Joannes XV:26-27; XVI:1-4

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Cum vénerit Paráclitus, quem ego mittam vobis a Patre, Spíritum veritátis, qui a Patre procédit, ille testimónium perhibébit de me: et vos testimónium perhibébitis, quia ab inítio mecum estis. Hæc locútus sum vobis, ut non scandalizémini. Absque synagógis fácient vos: sed venit hora, ut omnis, qui intérficit vos, arbitrétur obséquium se præstáre Deo. Et hæc fácient vobis, quia non novérunt Patrem neque me. Sed hæc locútus sum vobis: ut, cum vénerit hora eórum, reminiscámini, quia ego dixi vobis”. [In quel tempo: Disse Gesù ai suoi discepoli: Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di verità, che procede dal Padre, Egli renderà testimonianza di me: e anche voi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin da principio. ho detto a voi queste cose, affinché non siate scandalizzati. Vi cacceranno dalle sinagoghe: anzi, verrà tempo che chi vi ucciderà crederà di rendere onore a Dio. E vi tratteranno così, perché non hanno conosciuto né il Padre, né me. Ma vi ho dette queste cose, affinché, venuto quel tempo, vi ricordiate che ve le ho predette.] R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia della Domenica fra l’ottava dell’Ascensione

 [Canonico G. B. Musso “Omelie”- Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

-Apparecchio alla Festa dello Spirito Santo-

    Egli è Gesù Cristo, che nell’odierno Vangelo parla ai suoi discepoli nel seguente tenore: “Quando manderò sopra di voi lo Spirito Santo, Spirito di verità, che procede dal Padre, Ei vi darà di me la più ampia testimonianza, Ei vi farà conoscere la mia Persona, la mia dottrina e la Divinità che in me si asconde. Voi, poscia, da questo Spirito illuminati nell’intelletto, infiammati nel cuore, renderete di me, dell’Evangelio mio, della mia fede, testimonio fedele e costante a tutte le nazioni, fino a suggellarlo col proprio sangue”. Per disporsi a ricevere questo Spirito santificatore, promesso dal divino Maestro, si congregarono i discepoli sul monte santo di Sion, sollecitando con i più vivi desideri, colle più fervide preghiere la sua discesa. Vogliamo ancor noi, uditori amatissimi, ricevere lo Spirito Santo che illumini le nostre menti, che infiammi i nostri cuori? Conviene prepararsi, conviene disporsi. Due sono le disposizioni necessarie a premettersi, e che tutte le altre racchiudono: disposizione negativa, disposizione positiva. Disposizione negativa, che consiste nell’allontanarsi dal peccato; disposizione positiva, che consiste in praticare le cristiane virtù. Io leggo nei santi Vangeli che lo Spirito Santo venne in forma di colomba in riva al Giordano, e si fermò sul capo del Redentore, battezzato dal suo precursore Giovanni, e questo simbolo di colomba da noi richiede la disposizione negativa; Io leggo che lo Spirito discese sopra gli Apostoli nel cenacolo in forma di fuoco, e questo simbolo esige da noi una disposizione positiva. Vediamolo.

I. Lo Spirito Santo, disceso dal cielo in forma di colomba, assunse forse la natura di volatile? E allora che venne in forma di fuoco, prese la natura di questo elemento? E quella colomba, e quel fuoco furono e sono inseparabilmente uniti alla Persona del divino Spirito? No, risponde a queste domande il grand’Agostino (Lib. 4 de Trin.), né la natura della colomba, né quella del fuoco fu unita allo Spirito Santo, né queste reali figure, formate di purissimo aere per ministero degli Angeli, furono in Lui permanenti. Ciò premesso ad istruzione dei men colti, io dicevo che la colomba, in forma della quale apparve lo Spirito del Signore, richiede da noi per riceverlo una disposizione negativa, cioè l’allontanamento dal peccato. Infatti il reale Profeta, per volare a riposarsi in seno a Dio, desiderava e chieder ali di colomba, simbolo di innocenza. “Quis dabit mihi pennas sicut columbæ, et volabo, et requiescam” (Psa. LIV,7)? Il nostro divin Salvatore, in raccomandare ai suoi Apostoli e a noi l’evangelica e virtuosa semplicità, ci propone l’esempio della colomba, estote semplices sicut columbæ(Matt. X, 16). La colomba in realtà è un augello che di sua natura abborre le immondezze e le sozzure, fugge dalle fogne, dalle cloache e dalle limacciose paludi; amante di respirar l’aria più pura suole sempre spiccare il volo sulla cima delle più alte torri, ed ha pochi eguali nella nitidezza delle sue piume. Date uno sguardo alla colomba spedita dell’arca, dal Patriarca Noè. Spiccato il volo si aggirò per gl’immensi spazi dell’aere, e non scorgendo sotto di sé che acque mortifere e galleggianti cadaveri, non trovando ove fermare il piede senza macchiarsi, fece presto ritorno in seno all’arca. Quanto fece la colomba di Noè dopo il diluvio, altrettanto si protestò che fatto avrebbe riguardo all’uomo carnale il grande Iddio, pentito d’averlo creato: “Non permanebit Spiritus meus in homine in æternum, quia caro est(Gen. VI, 3). L’uomo dimentico di essere stato da me creato a mia immagine e somiglianza, dimentico della nobiltà del suo spirito, si avvilisce a riporre la sua felicità negl’immondi piaceri, nella carne, nell’opere carnali? Ah dunque non abiterà lo spirito mio in esso lui in eterno, non permanebit spiritus meus in homine in æternum, quia caro est”. Chiunque ha il cuore imbrattato da questo fango, attaccato a questa pece, non isperi poter ricevere lo Spirito Santo. L’uomo carnale è l’oggetto di sua necessaria ed infinita abominazione; già lo fu con sommergerlo tutto in massa nell’acque micidiali di un universale diluvio, seguirà ad esserlo fino alla consumazione dei secoli, e in tutti i secoli eterni. “Non permanebit spiritus meus in æternum, quia caro est”. – Se lo spirito del Signore (diceva fin dai suoi tempi S. Vincenzo Ferrerio, quel gran Santo che ha predicato su quest’istesso pulpito da cui ho l’onore di parlarvi) se lo Spirito Santo discendesse un’altra volta dal cielo in forma di colomba e venisse fra noi, ditemi dove fermerebbe il suo volo, dove poserebbe il suo piede? Nelle nostre contrade? ma no; l’allontanerebbero da queste le oscene parole, le maledizioni, gli scandali, le bestemmie. Forse nelle nostre case? Ma no; in molte abita il demonio della discordia, la guerra tra marito e moglie, la lite tra padre e figlio, l’odio tra fratello e sorella, l’invidia tra congiunti e congiunti; in questo sta la mala pratica, in quella la rea amicizia; qui è la conversazione dissoluta, là veglia scandalosa. Nelle botteghe forse e nelle officine? Ma no; lo metterebbero in fuga le bugie, le frodi, gl’inganni, le usure. Via, troverà luogo almeno nelle Chiese; né pure, anche dal luogo santo dovrebbe ritirarsi con orrore per non sentire i cicalecci, i rumori sconvenevoli, i prolungati discorsi, per non vedere gli amoreggiamenti, le occhiate libere, le sacrileghe profanazioni della santa sua casa. – Ma dunque non vi sarà luogo alcuno fra noi, ove possa discendere lo Spirito del Signore? Si, miei dilettissimi, vi sarà, e quale? Torniamo alla colomba di Noè. Questa spedita la seconda volta dall’arca adocchiò un arboscello di verde ulivo, su quello fermò il volo, e col rostro un ramicello, con quello in bocca ritornò all’arca. Simbolo di pace è l’ulivo; e perciò la colomba (mi servirò della frase del citato S. Vincenzo), la colomba dello Spirito Santo discenderà in quei cuori che sono in pace con Dio per la giustificante grazia; in quei cuori che vogliono far pace con Dio per mezzo di una sincera penitenza, in quei cuori che sono in pace col prossimo per vera inalterabile carità. Simbolo di misericordia è il soave liquore che produce l’ulivo; verrà di buon grado a far altresì la sua mansione in quei cuori che d’olio di misericordia sono ripieni, che di misericordia son ridondanti a pro degli afflitti, a vantaggio dei bisognosi, a sollievo dei miserabili. – Ed eccoci entrati nella seconda disposizione positiva che nell’esercizio consiste delle cristiane virtù, le quali da noi esige lo Spirito Santo venuto in forma di fuoco.

II. Insegna l’angelico dottor S. Tommaso (3 P. q. 39, a 7), che lo Spirito Santo prese forma di fuoco per significare gli effetti meravigliosi ch’Egli produce nell’anime nostre, purché in noi ritrovi le necessarie disposizioni. Il fuoco illumina, e lo Spirito Santo che luce si appella, rischiara le tenebre della nostra notte. Il fuoco consuma, ed Egli consuma i nostri vizi e le colpevoli abitudini: “Deus noster ignis consumens est” (Ebr. XII, 29). Il fuoco infiamma ed Egli infiamma i nostri cuori del suo santo amore; ma la massima parte dei cristiani resiste a questo fuoco a somiglianza degl’induriti Ebrei usciti dall’Egitto. Parlò Iddio a Mose fra mezzo alle fiamme d’un ardente roveto per dimostrare l’eccesso amor suo, intento a liberarli dal tirannico giogo di Faraone, e in una colonna di fuoco si fece loro per condurli alla terra promessa. E pur quella gente di dura cervice, e di cuore incirconciso, fu sempre insensibile e sconoscente a così amorevoli rimostranze. Ma che cerchiamo di quel popolo? Volgiamoci a noi. Gesù Cristo si dichiara esser Egli disceso dal cielo per accendere nel nostro cuore questo divin fuoco, “ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur” (Luc. XII, 49). E non ostante l’amoroso suo desiderio e l’espresso suo volere, a questo fuoco divino fa resistenza l’umana freddezza. Al fuoco elementare non resistono i più duri macigni, gli stritola in polvere, non reggono i più sodi metalli, li fa correre liquidi. Solo la cenere gli fa resistenza, e giunge ad estinguere la sua fiamma, e a spegnere il suo calore. Or mirate, dice lo scrittore della Sapienza, se questa cenere ingrata non è il simbolo più espressivo della sconoscenza dell’uman cuore che, dimentico di Chi lo creò, volge gli affetti suoi a tutt’altro, che al suo Fattore. “Cinis est cor eius … quoniam ignoravit qui se finxit” (Sap. XV, 10, 12). Così è, miei cari, al fuoco dello Spirito Santo fa colpevole resistenza la cenere della nostra ingratitudine, quando si chiudono gli occhi ai suoi lumi, quando si fa il sordo alle sue voci, alle sue sante ispirazioni, quando si soffocano i salutari rimorsi, che desta nella nostra coscienza per trarci a ravvedimento e a salute. Meritiamo, allora il rimprovero che S. Stefano fece ai caparbi Giudei: “Vos semper Spiritui Sancto resistitis(Act. VII, 51). – Affinché non si rinnovi in noi, o non si confermi questa mostruosa resistenza, conviene disporre in questa già cominciata novena, conviene preparare il nostro cuore, acciò lo Spirito Santo accenda del suo santo amore. Volete ch’io ve ne accenni il modo? Rammentatevi il profeta Elia, allorché per confondere i falsi profeti di Baal, e far conoscere al popolo astante che il Dio d’Israele era il vero Dio, si accinse a far discendere fuoco dal cielo per accendere e consumare un olocausto. Scelse egli dodici pietre, secondo il numero delle Tribù d’Israele, e ne formò un altare; su quello dispose le legna, e sopra la massa delle medesime collocò le parti della vittima immolata; indi per ben tre volte sparse acqua abbondante sopra la vittima, le legna e l’altare; finalmente con fervide preghiere invocò il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, e al tempo stesso ecco cadere dal cielo un’ardentissima fiamma che divorò vittima, legna e le stesse pietre che componevano l’altare. Ecco fedeli amatissimi, ecco la norma. Acciò sopra di noi discenda il fuoco del vivificante Spirito del Signore, fa d’uopo comporre l’altare con mistiche pietre. Saranno queste le astinenze, i digiuni, la mortificazione dei sensi, le opere di spirituale e corporale misericordia. Edificato l’altare, si devono su quello preparare le legna. Legna opportune a formar questo mistico rogo, sono le lezioni spirituali, le limosine ai poverelli, le volontarie penitenze. Su di tal rogo dobbiamo collocare la vittima. Vittima non v’è, non v’è sacrifizio a Dio più accettevole d’uno spirito contristato, d’un cuore umiliato e contrito pel dolore dei propri peccati: “Sacrificium Deo spiritus contribulatus, cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies(Ps. L, 19). Su questa vittima di cuor contrito bisogna versare acqua abbondante, acqua di lacrime, acqua d’amarissima vena, lacrime che partano dall’intimo del cuor compunto, ad imitazione di S. Pietro che in questi giorni nel cenacolo, in aspettazione dello Spirito Santo, quantunque certo del perdono delle sue colpe, non cessava di piangere i suoi spergiuri; ad imitazione di S. Tommaso, che piangeva la sua incredulità; ad imitazione di tutti gli Apostoli congregati, che piangevano la loro fuga e l’abbandono del loro divino Maestro. Finalmente siccome la preghiera di Elia ottenne la prodigiosa discesa del fuoco del Signore, che consumò l’olocausto, così le nostre preghiere muoveranno il cuore di Dio a mandarci il Santo suo Spirito che in noi, distrugga ogni colpa, purghi ogni macchia, dissipi ogni affetto terreno, e ci accenda del fuoco dell’eterna sua carità. Così avvenne nella Pentecoste agli Apostoli, alle pie donne, ai devoti fedeli con Maria Vergine nel cenacolo adunati. Essi tutti concordemente uniti in viva orazione e perseverante preghiera, sollecitarono l’arrivo del loro promesso Spirito del Signore che sopra ciascuno di essi si fece vedere in forma di lucidissime fiamme. “Hi omnes erant perseverantes unanimiter in oratione cum Maria matre lesu(Act. I, 14.). Felici noi se al termine di questa santa novena che è da Gesù Cristo istituita e a tutte l’altre ha dato il nome, si troveranno in noi le fin qui indicate disposizioni. Lo Spirito Santo verrà nelle nostre anime, e vi farà la sua mansione: con i sette suoi doni, colla superna sua luce diraderà le tenebre del nostro intelletto, ci farà conoscere la vanità delle cose terrene, e la grandezza ed importanza delle eterne: ci renderà luminosa, convincente testimonianza della Persona, della Divinità, della dottrina e della fede di Gesù Cristo. E noi rischiarati nella mente, infiammati nel cuore, Gli daremo, ad imitazione degli Apostoli, prove e testimonianze di fedeltà, di riconoscenza coll’integrità della nostra fede, coll’osservanza della sua legge, coll’esemplarità dei nostri costumi, coll’imitazione dei suoi esempi, coll’esercizio delle cristiane virtù, fino a pervenire ove col Padre e con lo Spirito Santo vive e regna nei secoli dei secoli. Così sia.

Credo …

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps XLVI:6. Ascéndit Deus in jubilatióne, et Dóminus in voce tubæ, allelúja.

 Secreta

Sacrifícia nos, Dómine, immaculáta puríficent: et méntibus nostris supérnæ grátiæ dent vigórem. [Queste offerte immacolate, o Signore, ci purífichino, e conferiscano alle nostre ànime il vigore della grazia celeste.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Communio

Joannes. 17:12-13; 17:15 Pater, cum essem cum eis, ego servábam eos, quos dedísti mihi, allelúja: nunc autem ad te vénio: non rogo, ut tollas eos de mundo, sed ut serves eos a malo, allelúja, allelúja. [Padre, quand’ero con loro ho custodito quelli che mi hai affidati, allelúia: ma ora vengo a Te: non Ti chiedo di toglierli dal mondo, ma di preservarli dal male, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus. Repléti, Dómine, munéribus sacris: da, quæsumus; ut in gratiárum semper actióne maneámus. [Nutriti dei tuoi sacri doni, concedici, o Signore, Te ne preghiamo: di ringraziartene sempre.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen

DOMENICA V dopo PASQUA

Introitus

Isa XLVIII:20 Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiate usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja [Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia] Ps LXV:1-2 Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus. V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen

 

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja [Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

Oratio V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus.

Deus, a quo bona cuncta procédunt, largíre supplícibus tuis: ut cogitémus, te inspiránte, quæ recta sunt; et, te gubernánte, éadem faciámus. [O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi súpplici di pensare, per tua ispirazione, le cose che son giuste; e, sotto la tua direzione, di compierle.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli.

Jas I:22-27

Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit. Qui autem perspéxerit in legem perfectam libertátis et permánserit in ea, non audítor obliviósus factus, sed factor óperis: hic beátus in facto suo erit. Si quis autem putat se religiósum esse, non refrénans linguam suam, sed sedúcens cor suum, hujus vana est relígio. Relígio munda et immaculáta apud Deum et Patrem hæc est: Visitáre pupíllos et viduas in tribulatióne eórum, et immaculátum se custodíre ab hoc sæculo

R. Deo gratias.

DOMENICA V dopo PASQUA: Omelia della lettura

[Bonomelli: vol. II, Omelia XXIII]

“Carissimi! siate operatori della parola e non soltanto ascoltatori, ingannando voi stessi. Poiché se altri è ascoltatore e non operatore della parola, costui sarà simile ad un uomo, che, avendo rimirato in uno specchio il suo volto al naturale e consideratolo, se ne ritrae tosto, dimentico di quello ch’esso è. Ma chi si è specchiato nella legge perfetta della libertà e vi perdura, non da smemorato ascoltatore, sebbene da ascoltatore operoso, questi sarà felice dell’opera sua. Che se qualcuno si pensa d’essere religioso, non imbrigliando la sua lingua, ma ingannando se stesso, la pietà di costui è vana. La religione pura e intemerata, presso Dio e Padre, è questa: Visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e serbarsi “netto di questo mondo „ (S. Giacomo, c. I, vers. 22-27). – Forse voi non avete dimenticato l’omelia dell’ultima Domenica, nella quale presi a commentare alcune sentenze della lettera di san Giacomo, che si leggono nella santa Messa. Or bene; sappiate, o cari, che queste che adesso avete udito, sono la continuazione di quelle ch’ebbi a spiegarvi. Non vi è nulla di difficile, ma molto da apprendere, e ciò che importa anche maggiormente, le cose, che vi dirò, rispondono ai bisogni d’ogni classe di persone, e ciò deve accrescere, se è possibile, la vostra attenzione. – S. Giacomo nel versetto che sta immediatamente prima di quello che siamo per commentare e che fu l’ultimo spiegato nell’altra omelia, aveva detto: “Accogliete docilmente la parola in voi seminata, che può salvare le anime vostre; „ a questa esortazione di ricevere la parola od insegnamento evangelico con docilità, che ha virtù di salvare le anime, con passaggio naturalissimo il nostro apostolo fa seguire quest’altra sentenza, che la completa: “Siate poi operatori della parola e non soltanto ascoltatori.„ Buona e santa cosa è udire la parola del Vangelo e con essa accogliere la verità: ma non basta, come non basta al campo ricevere il seme; è mestieri, che lo faccia germogliare e renda moltiplicato il frutto. Miei cari! la Religione nostra santissima consta di due parti, del Simbolo e del Decalogo: quello è la regola del credere, questo è la norma dell’operare; quello guida la mente e deve precedere, questo guida la mano e deve seguire. Vi sono alcuni, i quali gridano sempre: La fede! i principi! ma poco si curano delle opere: vi sono altri che dicono: Le opere! i fatti! basta essere onesti, giusti e non parlano del Simbolo; errano questi e quelli: si esige la fede e si esigono le opere, è necessario il Simbolo ed è necessario il Decalogo. L’uomo non è soltanto anima e mente, ma è anche volontà, ed ha il corpo, e deve servire a Dio coll’anima e colla mente ed anche colla volontà e col corpo, cioè colle opere. Direste, voi che è perfetto pittore colui, che ne conosce tutte le regole, che si contenta di contemplare colla mente i suoi ideali, siano pur bellissimi, e che non ci mostra mai sulla tela una figura? Direste voi che è buono quel figliuolo, il quale conosce benissimo i suoi doveri verso di voi, o genitori, e li confessa e protesta di volervi amare e ubbidire, e poi non vi dà mai una prova di amore e di ubbidienza coi fatti? Certo la fede è necessaria, è la radice della vita cristiana, è il seme, che ci deve dare l’albero e il frutto; ma la fede, o cari, può vivere a lungo se non è nutrita dalle buone opere? È ben difficile. Essa è come un albero, su cui per lunghi mesi non discende la pioggia, o che la mano industre del contadino non irriga opportunamente: a poco a poco le sue foglie ingialliscono, cadono, e l’albero finalmente muore. Non dimenticatelo mai, o dilettissimi; generalmente la fede muore perché non accompagnata o avvivata dalle opere: sono le passioni appagate, sono cioè le opere che mancano, quelle che fanno inaridire l’albero della fede. Il credere non costa molto, o cari, massime al popolo: ciò che costa è l’operare, e la maggior parte di quelli che trai i cristiani si perdono, si perdono non per essere trovati manchevoli del Simbolo, ma per aver fallito nel Decalogo. Siamo dunque non semplici ascoltatori, ma operatori della parola, e la nostra fede mostriamola colle opere; se questo non faremo, inganneremo noi stessi, perché è chiara la sentenza di Gesù Cristo che protesta: “Non chi avrà detto: Signore, Signore, ma chi avrà fatto la volontà del Padre mio (osservando la legge) sarà salvo [“Vera fides est, quæ in hoc quod dicit, moribus non contradicit” – S. Greg. M., Homil. 29. – “Monstruosa res gradus summus et animus infimus: sedes prima et vita ima; lingua magniloqua et manus otiosa: sermo multus et fructus nullus” (S. Bernard., De Consid., lib. 2, c. 7). – “Opus sermone fortius” ; Nazianz., Orat. 27]. – Per chiarire ed avvalorare la verità stabilita, il santo apostolo adopera una graziosa similitudine, e dice: ” Se altri è ascoltatore e non operatore della parola (cioè crede e non ha le opere, frutto della fede), è somigliante ad un uomo, il quale avendo rimirato il suo volto al naturale in uno specchio, consideratolo, se ne ritrae tosto, dimentico di quello ch’esso è.„ Lo specchio di sua natura riflette l’immagine di tutto ciò che gli sta dinanzi, e la riflette sempre e fedelmente: esso non inganna, non mentisce mai. Perché l’uomo si affacciai allo specchio? Per vedere il volto suo e tutta la persona. Se nello specchio vede che il volto non è netto, non acconciati i capelli, scomposto l’abito e non abbastanza pulito, che fa tosto? Tenendo sempre l’occhio sullo specchio, lava e netta il volto, racconcia i capelli e compone debitamente il vestito. Similmente dee fare il cristiano: spesso deve farsi allo specchio dell’anima per vedere se in essa tutto è netto ed ordinato. E qual è lo specchio dell’anima? E la parola di Dio, è la fede, è l’insegnamento del Vangelo, che non erra e non inganna mai: specchiamoci in esso e vedremo tosto e con sicurezza se nella nostra condotta è tutto ordinato e conforme al volere di Dio. Fratello, accostati a questo specchio fedele della fede e della legge divina; esso ti farà conoscere qual sei. Esso ti mostrerà assai spesso il volto dell’anima tua bruttato da pensieri ed affetti indegni di cristiano: ti farà vedere le macchie della vanità, della superbia, del disordinato amore ai beni di quaggiù, dello stravizio e della intemperanza, della maldicenza, della discordia, della disubbidienza, dell’invidia, della pigrizia, della trascuratezza dei tuoi doveri cristiani e va dicendo. Oh! quante macchie scorgerai nell’anima tua dinanzi a quello specchio infallibile, se ben addentro vi spingerai lo sguardo. E allora che dovrai fare? Precisamente quello che fanno tutti coloro, uomini e donne, che si riguardano nello specchio. Devi lavare quelle macchie, mondarti di quelle sozzure, emendarti di tutte le tue mancanze, affinché il volto dell’anima tua apparisca bello, nitido, simile al gran modello, che è Gesù Cristo [“Splendidissimum in mandatis suis (Deus) condidit speculum, in quo homo suæ mentis faciem inspiceret et quam conformis imagini Dei, aut quam dissimila esset agnosceret”; S. Leonis, Serm. 11]. – Che diresti tu di quell’uomo, di quella donna, i quali dopo essersi lungamente riguardati nello specchio e viste tutte le macchie, ond’è brutto il volto e l’abito, se ne andasse e non si curasse punto di nettarsene? Diresti che è uno stolto, uno smemorato, e che se non voleva far nulla per nettarsi, non valeva la pena che ricorresse allo specchio e vi si rimirasse! e bene a ragione. Il somigliante è da dire di quel cristiano e di quella cristiana, che ascoltano la parola di Dio, conoscono la sua legge, e in essa, quasi in ispecchio tersissimo, vedono la propria anima tutta lorda e sozza per tante colpe e male abitudini, e, come non si trattasse di loro, tranquillamente se ne vanno e non si emendano. Carissimi! no, no, non imitiamo questi spensierati, che dimenticano sì facilmente qual è il volto loro al naturale, che sono ascoltatori, e non operatori della parola divina; ma per contrario, siamo imitatori, come vuole S. Giacorno, di colui “che si è specchiato nella legge della libertà (cioè nella legge evangelica, che ci ha affrancati dal male e ci dà la libertà del bene) e vi perdura, non da ascoltatore dimentico, ma da operatore col fatto; questi, questi! esclama S. Giacomo, sarà felice e beato dell’opera sua, „ e raccoglierà il frutto della redenzione. – Alla trascuratezza e spensieratezza dell’uomo che ascolta la parola di Dio e in essa si specchia senza cavarne vantaggio, toccata, nel versetto superiore, S. Giacomo oppone in questo versetto l’avvedutezza e la prontezza dell’uomo, che ascolta, conosce e, conformemente al conoscimento, regola la sua condotta colle opere. – Passiamo al versetto seguente: “Che se qualcuno crede di essere religioso, non raffrenando la sua lingua, ma ingannando se stesso, la sua religione è vana.„ Veramente, trattandosi d’una lettera come questa di S. Giacomo, che va tutta in sentenze morali pratiche, non si richiede che queste siano tutte legate tra loro, come in una trattazione scientifica. Esse possono stare benissimo anche separate, senza nesso di discorso, e alcuna volta ciò apparisce manifestamente, e potrebbe essere questo il caso della sentenza, che vi ho riportata. Ma, considerando meglio la cosa, mi pare che il nesso tra il nostro versetto e gli antecedenti esista, comecché alquanto remoto. Sopra S. Giacomo esorta i fedeli ad essere pronti ad udire e tardi a parlare; qui, ritornando su quella massima, la riconferma, dicendo, che se alcuno crede d’essere religioso o pio, che è tutt’uno, e non raffrena la sua lingua, costui si illude e mostra a fatti che la sua religione è vana. La lingua è lo strumento ordinario, mercé del quale comunichiamo altrui i nostri pensieri ed i nostri affetti, e non sarà facile frenare questi se non freniamo quella. La nostra mente e il nostro cuore sono come due sorgenti, dalle quali senza posa scaturiscono i nostri pensieri e i nostri affetti, buoni o rei ch’essi siano. Cessare di pensare o di amare è impossibile cosa; sarebbe come cessare di respirare: si muore. Nostra cura continua deve essere quella di vegliare sui pensieri della nostra mente e sugli affetti del nostro cuore, per reprimere i cattivi e lasciar libero il corso ai buoni; lavoro necessario e difficilissimo, perché esige un’incessante sorveglianza sopra di noi medesimi. Mezzo molto utile ed efficace a vegliare sopra i pensieri e gli affetti del nostro spirito sarà quello di vegliare sulla loro manifestazione mediante la lingua. Vegliare su questa importa vegliare sull’interno, giacché non si possono ponderare le parole senza ponderare i pensieri e gli affetti, che sono alle parole necessariamente congiunti, come il macchinista, se è prudente, non può regolare le valvole della locomotiva senza tener d’occhio in pari tempo la misura del vapore, ch’essa rinserra ne’ suoi fianchi. Vogliamo noi, o dilettissimi, regolare il nostro interno? Regoliamo l’esterno. Vogliamo stringere nelle nostre mani il freno della mente e del cuore? Custodiamo la porta, per cui escono, stringiamo il freno della lingua. Ciò facendo, noi avremo un altro vantaggio e non lieve, o cari. Un uomo, che continuamente versa tutti i suoi pensieri ed affetti per la via della lingua è simile a colui, che tiene sempre aperta la valvola della sua macchina: la forza del vapore se ne fugge tutta per essa e la macchina ben presto non può agire e cessa il lavoro. Perché la mente sia raccolta, i pensieri elevati eretti, gli affetti puri e nobili, è mestieri ponderarli; fa d’uopo concentrarci in noi stessi e riunire le forze tutte del nostro spirito per rivolgerle tutte insieme sopra un oggetto solo: se noi senza posa le disperdiamo fuori di noi colla parola, rimarremo vuoti, deboli, impotenti. Vedete l’acqua, che discende dal monte: se la imprigionate opportunamente in vasi, o tubi, si solleva, se volete, fino all’altezza dalla quale discende; se voi la lasciate scorrere liberamente sul suolo, si spande e sparisce: così avviene, dice S. Gregorio M., dell’anima nostra: tenetela raccolta in se stessa: si innalza coi suoi pensieri fino a Dio: lasciate che colle parole si effonda d’ogni parte, come per altrettanti rivi, si distrarrà, e sperderà miseramente le sue forze [S. Gregor. M., Moral., lib. 7. cap. 7). Se noi non custodiremo debitamente la nostra lingua, sappia telo bene, la nostra religione e pietà sarà vana, e non avrà che l’apparenza: Hujus vana est religio. Ma qual è dunque, o beato apostolo, la vera, la solida religione e pietà? Ascoltate: “La religione, o pietà pura e intemerata presso Dio e il Padre, è questa: Visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni, e serbarsi mondi da questo secolo. „ Quale risposta! Quale verità, o carissimi! Voi lo sapete; la religione è l’insieme, il complesso dei rapporti tra Dio e l’uomo, quali scaturiscono dalla natura delle cose e quali sono voluti e stabiliti da Dio: Dio è nostro Creatore e conservatore e perciò nostro padrone assoluto: il Figliuol di Dio si è fatto uomo e ci ha ricomperati col suo sangue: ha diritto perciò alla nostra gratitudine, alla nostra obbedienza, al nostro amore: questi doveri di gratitudine, di obbedienza, di amore verso Dio si manifestano in modi svariatissimi, in atti interni ed esterni di fede, di adorazione, di ringraziamento, di speranza, di amore verso di Lui e verso il prossimo, in breve, nell’osservanza della legge divina in tutte le sue parti. Or come sta che S. Giacomo riduce la religione pura e intemerata a visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e serbarsi netti da questo secolo? Forse ché intese dire che questo fosse bastevole e tutto il resto, che riguarda la fede, i Sacramenti e le altre opere, fosse inutile? Sarebbe un negare il Vangelo, un contraddire lo stesso apostolo, che in questa lettera tante altre cose inculca e comanda, e sarebbe un offendere lo stesso buon senso. L’apostolo, ricordando e proclamando la necessità di queste opere di misericordia, non negò la necessità delle altre già note ai fedeli: volle soltanto ricordare queste, perché allora più necessarie e più utili. La maggior parte dei fedeli, ai quali scriveva, erano nati e cresciuti nell’ebraismo, e forse molti di loro tenevano necessaria l’osservanza delle cerimonie mosaiche, tante di numero e sì gravose, e dalle quali non sapevano divezzarsi. S. Giacomo loro rammenta che la religione di Gesù Cristo non ha che far nulla con quelle cerimonie, ch’essa domanda le opere e sopra tutto le opere della carità verso del prossimo, come quelle che rendono cara ed amabile la religione e ne mostrano la efficacia, e di queste opere, a modo d’esempio, ricorda quella di visitare e consolare i più poveri e più abbandonati, che sono gli orfanelli e le vedove.Quando si medita questa sentenza di san Giacomo — la religione pura ed intemerata presso Dio e il Padre, è questa: “Visita orfani e le vedove” — non si può non sentire la grandezza e la santità della nostra religione. Essa ce ne rivela tutta la natura, che in fondo è la carità operosa verso tutti, ma specialmente per i più bisognosi, per i più derelitti de’ fratelli nostri, che sono gli orfani e le vedove! Ah! una religione, che si compendia in una sentenza come questa, non può essere che una religione divina. Gli uomini non avrebbero mai trovata una definizione sì sublime!Aggiunge poi in fine, che la religione comanda di serbarsi mondo da questo secolo, il che importa di non seguire il mondo, le sue massime, di non abbandonarsi ai suoi colpevoli piaceri. In questa sentenza dell’ apostolo è scolpita a meraviglia l’indole della nostra religione, che ci vuole, sciolti dall’amore disordinato della terra, intesi ai veraci beni del cielo e pieni di carità verso i fratelli nostri sofferenti. Mettiamola in pratica onde non siamo uditori, ma fattori della parola divina, secondo la espressione di S. Giacomo.

 Alleluja

Allelúja, allelúja. V. Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúja, [Il Cristo è risuscitato e ha fatto sorgere la sua luce su di noi, che siamo redenti dal suo sangue. Allelúia.]

Joannes XVI:28 Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúja. [Uscii dal Padre e venni nel mondo: ora lascio il mondo e ritorno al Padre. Allelúia.]

Evangelium

Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.

Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! Joann XVI:23-30 In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Amen, amen, dico vobis: si quid petiéritis Patrem in nómine meo, dabit vobis. Usque modo non petístis quidquam in nómine meo: Pétite, et accipiétis, ut gáudium vestrum sit plenum. Hæc in provérbiis locútus sum vobis. Venit hora, cum jam non in provérbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiábo vobis. In illo die in nómine meo petétis: et non dico vobis, quia ego rogábo Patrem de vobis: ipse enim Pater amat vos, quia vos me amástis, et credidístis quia ego a Deo exívi. Exívi a Patre et veni in mundum: íterum relínquo mundum et vado ad Patrem. Dicunt ei discípuli ejus: Ecce, nunc palam loquéris et provérbium nullum dicis. Nunc scimus, quia scis ómnia et non opus est tibi, ut quis te intérroget: in hoc crédimus, quia a Deo exísti. [In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: In verità, in verità vi dico: qualunque cosa domanderete al Padre nel mio nome, ve la concederà. Fino adesso non avete chiesto nulla nel mio nome: chiedete, e otterrete, affinché il vostro gaudio sia completo. Vi ho detto queste cose per mezzo di parabole. Ma viene il tempo che non vi parlerò più per mezzo di parabole, ma vi parlerò apertamente del Padre. In quel giorno chiederete nel mio nome, e non vi dico che io pregherò il Padre per voi: poiché lo stesso Padre vi ama perché avete amato me e avete creduto che sono uscito da Dio. Uscii dal Padre e venni nel mondo: ed ora lascio il mondo e torno al Padre. Gli dicono i suoi discepoli: Ecco che ora parli chiaramente e senza parabole. Adesso conosciamo che tu sai tutto, e non hai bisogno che alcuno ti interroghi: per questo crediamo che tu sei venuto da Dio.]

Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia della V Domenica dopo Pasqua.

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napolitana Vol. II -1851-]

-Preghiera-

   “Qualunque grazia voi chiederete”, cosi il divin Salvatore ai suoi discepoli, e in persona dei suoi discepoli a noi, come leggiamo nell’odierno Vangelo, “qualunque grazia voi chiederete in nome mio all’eterno mio Genitore, senza alcun dubbio voi l’otterrete, Io ne impegno la mia parola:Amen, amen dico vobis: si quid petieritis patrem in nomine meo, dabit vobis”. Ma voi finora non avete domandato cosa alcuna, “usque modo non petistis quidquam in nomine meo”. Via su domandate, chiedete, e v’assicuro che le vostre preghiere saranno esaudite, “petite et accipietis”. In queste divine parole traluce un lampo della divina onnipotenza, e della divina bontà: dell’onnipotenza, poiché non si restringe a quello o a quell’altro genere di grazie, ma tutte le promette Chi tutte le ha in mano, “si quid petieritis”; della divina bontà, che arriva perfino a lagnarsi che non le siano chieste grazie, “usque modo non petistis quidquam”. Conviene ben dire che sia grande il desiderio del Redentor nostro di farci del bene, mentre si lagna di non esser chiesto che ci faccia del bene. Al suo desiderio si aggiunge l’intenzione della nostra madre la santa Chiesa, che in questa Domenica prossima e immediata alle pubbliche solenni preghiere, che Rogazioni si appellano, ci propone il presente Vangelo per animare la nostra fiducia, e spingerci a domandare al dator di ogni bene le grazie delle quali abbisogniamo. Seguendo ora di entrambi il desiderio e lo spirito, passo a dimostrarvi la necessità, e l’efficacia della preghiera; necessità che non può esser maggiore; efficacia, che può essere più grande, se mi accordate la solita gentile vostra attenzione.

I. La necessità della preghiera va del pari colla necessità della grazia. È certo per fede che non siam capaci del minimo atto buono in ordine alla vita eterna senza il superno aiuto della divina grazia. “Sine me…”, detto è dall’incarnata verità Cristo Gesù, “sine me nihil potestis facere” ( XV, 5). Osservate, commenta S. Agostino, che il Salvatore non dice, senza di me potete far poco, ma nulla “non ait, quia sine me parum potestis facere, sed nihil” (Tract. 81, in Joann.). Siam come tralci, che uniti alla vite producono frutto, staccati da quella sono inutili sarmenti, non ad altro uso buoni, che al fuoco. – Ammessa la necessità della grazia, stabilisce la necessità della preghiera. Trovatemi un uomo, scriveva S. Girolamo contro i Pelagiani, che non abbia bisogno di grazia, ed io vi dirò che neppur abbisogna di preghiera. Iddio, secondo la dottrina dei Santi Agostino, Tommaso, Crisostomo, Damasceno, ha determinato fin dall’eternità di dar all’anime le grazie necessarie alla loro eterna salute, non per mezzo, che per quello dell’orazione. Nella stessa guisa che la sua provvidenza à stabilito, che la terra abbondasse di frumento e di ogni altro frutto, mediante però l’opportuna coltura. Si eccettuano, soggiunge S. Agostino, due sole grazie eccitanti, che, come una pioggia volontaria, vengono in noi senza di noi, qual sono la chiamata alla fede e alla penitenza. Tutte le altre però in noi derivano non da altro canale, che dalla preghiera. Che cosa dice nell’odierno Vangelo l’amorosissimo nostro Salvatore “Domandate, e vi sarà dato “petite, et accipietis”. La grazia mia è sempre pronta, purché preceda la vostra domanda. “Petite”, ecco la condizione, “accipietis”, ecco la grazia. Volete la grazia? Adempite la condizione, senza di questa non potete sperarla. La preghiera è la chiave dei celesti tesori; questi saran sempre chiusi per chi non adopera la chiave ad aprirli. Ed ecco il perché, soggiunge l’Apostolo S. Giacomo, siete poveri, e mancate delle grazie, che Iddio vi tien preparate, perché non vi curate di farne richiesta, “non abetis propter quod non postulatis” (Joann. IV, 2). Come campan la vita i poveri mendicanti? Col chieder pane alla porta de’ facoltosi. E noi, dice S. Giovanni Crisostomo, siamo poveri pezzenti, che dobbiamo alla porta del Padre celeste, ricco in misericordia, chieder soccorso, se non vogliamo morire d’inedia. – Premurosa di nostra salvezza Cristo Signore rinnova l’avviso, “oportet scmper orare, et nunquam deficere” (Luc. XVIII). Notate la forza del termine “oportet”, fa d’uopo, bisogna pregar sempre, e mai cessare dalla preghiera; perché, al dire dell’angelico S. Tommaso, la preghiera è necessaria all’anima, come al corpo il respiro. Non già che si debba in ogni momento occupare la lingua o il cuore in orazione continua, indefessa; ma l’enfatica espressione prova la necessità: il modo poi va inteso, come chi dicesse: bisogna sempre cibarsi, vale a dire a dati tempi. Per simil modo si può dire che uno preghi sempre, se in date ore costantemente si eserciti in cristiane preghiere, come appunto faceva il Profeta Daniele, che in tre diverse ore del giorno aveva il religioso costume di raccogliersi alle sue stanze, e far la sua orazione adorando il Dio d’Israele. – Posta ora e provata la stretta e rigorosa necessità della preghiera, quanto dovrà compiangersi la negligenza di tanti cristiani, che passano i giorni e i mesi senza raccomandarsi a Dio! È sentenza dei Padri e teologi, che l’omissione della preghiera per un tempo notabile non va esente da colpa mortale; perciocché la preghiera è necessaria a salvarsi per i due più precisi motivi di necessità di precetto, e necessità di mezzo. Come dunque potranno sperare la loro salvezza quei che non adempiono questo precetto, quei che non adoprano questo mezzo? Quei che vanno abitualmente al riposo senza un segno di croce, e vi ritornano senza un segno di cristiano? Quei che credono di pregare masticando preci e rosari col sonno agli occhi, colla distrazione della mente, coll’allontanamento del cuore? Sono costoro in maggior pericolo di dannazione di chi affatto non prega. Chi non prega sa di esser colpevole, e questa cognizione può giovargli all’emenda; ma chi, pregando colla sua lingua, crede di pregar bene, non conoscendo la propria colpa, il suo inganno lo lusinga, lo accieca, lo rende incapace a rimedio.

II. Se tanta è la necessità della preghiera, non minore è la sua efficacia. La preghiera, dice S. Ilario, fa al cuor di Dio una dolce violenza, “Oratio pie Deo vim infert”. E d’onde prende ella mai la sua forza? Da tre capi: dalla bontà di Dio, dalla parola di Gesù Cristo, e dalla nostra cooperazione. Dalla bontà di Dio, primamente. Di questa udite come parla il nostro divin Salvatore. Se ad un padre terreno domanda pane il proprio figlioletto, invece di pane gli presenta forse una pietra? Se gli chiede un pesce, gli da forse un serpente? Se un uovo, gli porge forse uno scorpione? Se dunque voi, che siete una razza cattiva, vi sentite muovere il cuore a donare ai vostri figli quel che vi chiedono, quanto più il Padre mio, la cui natura è bontà, accorderà alle vostre suppliche lo spirito di perseveranza se siete giusti, lo spirito di penitenza se peccatori, in somma tutte le grazie più opportune e necessarie alla vostra santificazione e salvezza? “Quanto magis Pater vester de coelo dabit spiritum bonum petentibus se”? ( Luca XI) . – In cento luoghi delle Scritture sacre si protesta il nostro buon Dio che ascolterà le nostre voci, che accoglierà le nostre istanze, che si moverà ai nostri clamori, che aprirà le sue orecchie, che stenderà la sua destra a nostro sollievo. Eccovi un tratto, dice il re Profeta, della gran bontà del suo cuore. La sua provvidenza si estende fino ai pulcini del corvo, allorché sono da’ loro genitori abbandonati. Al veder le aperte lor bocche fameliche, al sentir le querule strida, fa che si aggiri intorno al nido una turba foltissima di moscherini, dei quali con piacer si alimentano. Sia o non sia ciò che ci narrano gl’indagatori della natura, il vero si è che essi L’invocano, ed Egli li pasce, dat escam pullis corvorum invocantibus eum[Psal. CXLVI,10]. Se dunque da Dio pietoso si ascoltano le voci d’ignobili animalucci, con quanta maggior bontà darà ascolto alle preghiere di noi, che siamo suoi figliuoli, se Gli chiederemo il cibo vivifico della sua grazia?Dalla parola di Gesù Cristo in secondo luogo prendono la loro efficacia le nostre preghiere. Con una specie di giuramento Ei ci assicura che qualunque grazia imploreremo in suo nome dal suo celeste Genitore, ci sarà infallibilmente concessa. “Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vabis[Joann. XIII, 38]. Alla parola di tanta sicurezza aggiunge l’invito ch’Egli ci fa nelle più pressanti maniere di pregare, e non cessar di pregare. Domandate e vi sarà dato, “petite, et dabitur vobis”, cercate e ritroverete, “quaerite, et invenietis, battete alla porta della divina clemenza, e vi sarà aperto, “pulsate, et aperietur vobis”. Che più si desidera per esser certi che le nostre suppliche avranno favorevole rescritto?Ma le nostre preghiere, dicono certe anime timorate, sono fiacche, sono deboli, sono di nessun valore. Non temete, purché partano dal vostro cuore, purché fatte in nome di Gesù Cristo saranno a Dio accettevoli e care. Le nostre preghiere si possono rassomigliare, con S. Giovanni Crisostomo, a quelle monete, delle quali parla Seneca, monete di cuoio e di legno, ai tempi degli antichi Romani. Avvi cosa più abbietta di un pezzo di cuoio o più meschina di un pezzetto di legno? Pure, perché corredate della impronta di Numa Pompilio imperatore, avevano corso e valore in tutto l’impero. Non altrimenti son miserabili le nostre preghiere, son di nessun prezzo; ma fatte in nome di Gesù Cristo acquistano con questa impronta prezzo, virtù ed efficacia. Ed è perciò che la Chiesa, inerendo alle parole del Salvatore, che in suo nome saran da noi richieste le grazie, “in nomine meo”, conchiude tutte le sue orazioni, dirette all’eterno Padre, con quella nota formula: “Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum”. – La nostra cooperazione in fine si richiede per rendere a Dio accetta e a noi vantaggiosa la preghiera. Tre condizioni devono accompagnarla: l’umiltà, la fiducia, e la perseveranza. L’orazione di un’anima umile penetra i cieli, oratio humiliantis se nubes penetrabit(Eccli. XXXII, 21), e presentandosi al divino cospetto, di là non parte senza che Dio l’accolga e l’esaudisca, “et non discedet, donec Altissimus aspiciat”. Ne abbiamo l’esempio nel Pubblicano, che in fondo del Tempio, umiliato, confuso non ardiva alzar gli occhi da terra, e unendo alla preghiera la confessione di esser egli peccatore, venne esaudito e giustificato. – All’umiltà va congiunta la fiducia. Chi pregando ha il cuor titubante, e l’animo diffidente, è simile, dice S. Giacomo, ai flutti del mare agitato dai venti; non isperi costui di cosa alcuna dal Signore. La confidenza, miei cari, la fiducia deve animare il nostro cuore pregando. A farne conoscere l’importanza il divin Salvatore, prima di far quelle grazie prodigiose a sollievo de’ peccatori e degl’infermi, esigeva da loro questa fiducia e confidenza. “Confide, fili,” disse al paralitico “remittuntur tibi peccata tua; “confide filia”, disse all’Emorroissa; così al cieco di Gerico, così a tanti altri, alla confidenza dei quali assegnava la causa degli ottenuti prodigi. E come possiamo temere, interroga S. Agostino, che Iddio ci neghi quel ch’egli stesso ci esorta a domandare? “Hortatur ut petas, negabit quod petis”? – La perseveranza finalmente è l’importantissima condizione per rendere efficaci le nostre preghiere. Giuditta, ispirata da Dio a liberar la sua patria, cominciò la grande impresa colla preghiera, proseguì colla preghiera, e nell’atto di troncar il capo ad Oloferne, accompagnò il colpo con fervorosissima preghiera. La Cananea, perché, non ostanti le replicate ripulse, perseverò a chiedere al Salvatore la grazia per l’ossessa sua figlia, fu finalmente esaudita e consolata. Gli Apostoli nel cenacolo, perché perseverantes in oratione”, ricevettero lo Spirito Santo. Se la nostra orazione sarà perseverante, la divina misericordia ci sarà sempre propizia. La perseveranza finale, che è la corona di tutte le grazie, sebbene non si possa meritare “de condigno”, come ha definito la Chiesa nel Concilio Tridentino, pure Iddio non la nega a chi è assiduo e perseverante in domandarla. Io vorrei, scrive fa un dotto zelantissimo autore (il Segneri), poter dar fiato ad una tromba, come quella che si farà sentire per 1’universo nel giorno estremo, e gridar forte a tutti, pregate, raccomandatevi; raccomandatevi, pregate, se volete salvarvi. Altrettanto diceva e lasciò scritto S. Alfonso de Liguori: “se potessi parlare a tutti i predicatori e confessori del mondo, vorrei dire loro: “Fate ben penetrare nella mente a nel cuore dei vostri uditori e penitenti questa gran massima: “Chi prega si salva, e chi non prega si danna”. Udiste, fratelli umanissimi, il modo con cui si deve pregar sempre, cioè con umiltà, con fiducia, con perseveranza: mettetelo in pratica, e sarete salvi.

Credo …

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Ps LXV:8-9; LXV:20 Benedícite, gentes, Dóminum, Deum nostrum, et obaudíte vocem laudis ejus: qui pósuit ánimam meam ad vitam, et non dedit commovéri pedes meos: benedíctus Dóminus, qui non amóvit deprecatiónem meam et misericórdiam suam a me, allelúja.

Secreta

Súscipe, Dómine, fidélium preces cum oblatiónibus hostiárum: ut, per hæc piæ devotiónis offícia, ad coeléstem glóriam transeámus. [Accogli, o Signore, le preghiere dei fedeli, in uno con l’offerta delle ostie, affinché, mediante la pratica della nostra pia devozione, perveniamo alla gloria celeste.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Communio

Ps XCV:2 Cantáte Dómino, allelúja: cantáte Dómino et benedícite nomen ejus: bene nuntiáte de die in diem salutáre ejus, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore, allelúia: cantate al Signore e benedite il suo nome: di giorno in giorno proclamate la salvezza da Lui operata, allelúia, allelúia].

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Tríbue nobis, Dómine, cæléstis mensæ virtúte satiátis: et desideráre, quæ recta sunt, et desideráta percípere. [Concedici, o Signore, che, saziati dalla forza di questa mensa celeste, desideriamo le cose giuste e conseguiamo le desiderate.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.