DOMENICA DI PASQUA [2018]

DOMENICA DI PASQUA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps CXXXVIII:18; CXXXVIII:5-6.

Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuísti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja. [Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.]

Ps CXXXVIII:1-2.

Dómine, probásti me et cognovísti me: tu cognovísti sessiónem meam et resurrectiónem meam. [O Signore, tu mi provi e mi conosci: conosci il mio riposo e il mio sòrgere.] 

Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuísti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja. [Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.]

Oratio

Deus, qui hodiérna die per Unigénitum tuum æternitátis nobis áditum, devícta morte, reserásti: vota nostra, quæ præveniéndo aspíras, étiam adjuvándo proséquere. [O Dio, che in questo giorno, per mezzo del tuo Figlio Unigénito, vinta la morte, riapristi a noi le porte dell’eternità, accompagna i nostri voti aiutàndoci, Tu che li ispiri prevenendoli.] Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 1 Cor 5:7-8

“Fratres: Expurgáte vetus ferméntum, ut sitis nova conspérsio, sicut estis ázymi. Etenim Pascha nostrum immolátus est Christus. Itaque epulémur: non in ferménto véteri, neque in ferménto malítiae et nequitiæ: sed in ázymis sinceritátis et veritátis.” 

[Fratelli: Purificàtevi dal vecchio liévito per essere nuova pasta, come già siete degli àzzimi. Infatti, il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato. Banchettiamo dunque: non col vecchio liévito, né col liévito della malízia e della perversità, ma con gli àzzimi della purezza e della verità.]

Alleluja 

Alleluia, alleluia Ps. CXVII:24; CXVII:1 Hæc dies, quam fecit Dóminus: exsultémus et lætémur in ea. [Questo è il giorno che fece il Signore: esultiamo e rallegriàmoci in esso.] V. Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus. Allelúja, allelúja. [Lodate il Signore, poiché è buono: eterna è la sua misericòrdia. Allelúia, allelúia.] 1 Cor V:7 V.Pascha nostrum immolátus est Christus. [Il Cristo, Pasqua nostra, è stato immolato.]

Sequentia

“Víctimæ pascháli laudes ímmolent Christiáni. Agnus rédemit oves: Christus ínnocens Patri reconciliávit peccatóres. Mors et vita duéllo conflixére mirándo: dux vitæ mórtuus regnat vivus. Dic nobis, María, quid vidísti in via? Sepúlcrum Christi vivéntis et glóriam vidi resurgéntis. Angélicos testes, sudárium et vestes. Surréxit Christus, spes mea: præcédet vos in Galilaeam. Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére. Amen. Allelúja.” [Alla Vittima pasquale, lodi òffrano i Cristiani. – L’Agnello ha redento le pécore: Cristo innocente, al Padre ha riconciliato i peccatori. – La morte e la vita si scontràrono in miràbile duello: il Duce della vita, già morto, regna vivo. – Dicci, o Maria, che vedesti per via? – Vidi il sepolcro del Cristo vivente: e la glória del Risorgente. – I testimónii angélici, il sudàrio e i lini. – È risorto il Cristo, mia speranza: vi precede in Galilea. Noi sappiamo che il Cristo è veramente risorto da morte: o Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi. Amen. Allelúia.]

Evangelium 

Sequéntia  sancti Evangélii secúndum Marcum

 Marc. XVI:1-7.

“In illo témpore: María Magdaléne et María Jacóbi et Salóme emérunt arómata, ut veniéntes úngerent Jesum. Et valde mane una sabbatórum, veniunt ad monuméntum, orto jam sole. Et dicébant ad ínvicem: Quis revólvet nobis lápidem ab óstio monuménti? Et respiciéntes vidérunt revolútum lápidem. Erat quippe magnus valde. Et introëúntes in monuméntum vidérunt júvenem sedéntem in dextris, coopértum stola cándida, et obstupuérunt. Qui dicit illis: Nolíte expavéscere: Jesum quǽritis Nazarénum, crucifíxum: surréxit, non est hic, ecce locus, ubi posuérunt eum. Sed ite, dícite discípulis ejus et Petro, quia præcédit vos in Galilǽam: ibi eum vidébitis, sicut dixit vobis.” [In quel tempo: Maria Maddalena, Maria di Giacomo, e Salòme, comperàrono degli aromi per andare ad úngere Gesú. E di buon mattino, il primo giorno dopo il sàbato, arrivàrono al sepolcro, che il sole era già sorto. Ora, dicévano tra loro: Chi mai ci sposterà la pietra dall’ingresso del sepolcro? E guardando, vídero che la pietra era stata spostata: ed era molto grande. Entrate nel sepolcro, vídero un giòvane seduto sul lato destro, rivestito di càndida veste, e sbalordírono. Egli disse loro: Non vi spaventate, voi cercate Gesú Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui: ecco il luogo dove lo avévano posto. Ma andate, e dite ai suoi discépoli, e a Pietro, che egli vi precede in Galilea: là lo vedrete, come vi disse.]

Omelia

[M. Billot, Discorsi parrocchiali, II ediz. S. Cioffi ed. Napoli, 1840 – impr. ]

Sopra la risurrezione dì Gesù Cristo.

“Surrexit, non est hic”. Marc. XVI.

 Asciugate le vostre lacrime, fratelli miei, e date un libero corso alla vostra allegrezza; Colui che è stato dato alla morte per i vostri peccati, è risuscitato per vostra giustificazione; Colui che faceva pochi giorni orsono il soggetto della vostra tristezza, deve in quest’oggi essere l’oggetto del vostro gaudio; non cercate Gesù Cristo tra i morti; non è più nel sepolcro, Egli è risuscitato. Questa fu la felice e gradita nuova che l’Angelo del Signore annunziò a quelle pie donne che vennero al sepolcro di Gesù Cristo tre giorni dopo la sua morte, per imbalsamare il suo corpo. “Voi venite a cercare, disse loro quell’Angelo, Gesù nazareno che è stato crocefisso; ma non lo troverete, non è più qui. Affrettatevi solamente di andare ad annunziare la risurrezione del vostro Maestro ai suoi discepoli, e dite loro che lo ritroveranno in Galilea, dove va a precederli”. Ibi eum videbitis, sicut dixit vobis (Marc.XVI). Tale è, fratelli miei, il gran mistero che celebriamo in questo giorno, che il Profeta chiama il “giorno del Signore” per eccellenza, giorno di grazia e di allegrezza per gli uomini: Hæc dies quam fecit Dominus, exultemus et lætemur in ea (Psal.CXVII). Questo giorno è il giorno del Signore, perché ce ne manifesta la gloria e la possanza in un nuovo prodigio, che fin’ora non ha avuto l’eguale; voglio dire nella risurrezione di un uomo-Dio, che si libera Egli stesso dagli orrori del sepolcro per riprendere una vita più gloriosa di quella che la morte gli ha tolta. Si è in questo giorno che quel tempio misterioso distrutto dai Giudei è ristabilito nel suo pristino stato; che la pietra angolare che essi han rigettata riprende tutto il suo splendore; che il secondo Giona esce dal seno della terra, come il primo usci dal seno della balena; che il vero Sansone spezza le porte della morte che lo tenevano in prigione, e porta con lui le sue spoglie, conducendo seco un gran numero di prigionieri da esso redenti. O morte, dove è la tua vittoria? Potenze delle tenebre, a che sono andati a finire i vostri sforzi? Non han servito che a far conoscere la gloria e la possanza di Colui alla cui vita voi avete osato attentare: Hæc dies quam fecit Dominus. Questo giorno è altresì un giorno di gioia per gli uomini; mentre se Gesù Cristo e risuscitato per sua gloria, lo è ancora per nostra salute e nostra felicità. Noi troviamo nella sua resurrezione la cagione ed il modello della nostra risurrezione  alla grazia: exultemus et lætemur in ea. Noi troviamo nella risurrezione di Gesù Cristo la cagion di nostra risurrezione, perché essa ce ne fornisce i motivi i più forti: Resurrexit propter iustificationem nostram (Rom. IV). Noi troveremo il modello della nostra risurrezione, perché questa risurrezione di Gesù Cristo ne dà le regole le più certe: Quomodo Christus surrexit a mortuis, ita et nos in nocitate vitæ ambulemus ( Rom. VI). In una parola, la risurrezione di Gesù Cristo è il fondamento ed il modello della nostra risurrezione; ecco tutto il mio disegno: tratterollo in un sol punto. Incominciamo. – Io osservo nella risurrezione di Gesù Cristo due qualità che deve avere la nostra risurrezione alla vita della grazia: la verità e la costanza. Gesù Cristo è veramente risuscitato: surrexit vere (Luc. XXIV). Egli è risuscitato per non più morire: Cristus resurgens ex mortuis iam non moritur (Rom.VI). Ecco, cristiani, il modello della vostra risurrezione spirituale. – Non bisogna contentarsi di una risurrezione apparente; ma bisogna sinceramente convertirsi, bisogna perseverare nella vita nuova, che è il frutto  di una sincera conversione: Quomodo Christus surrexit a mortuis, ita et nos in novitate vitæ ambulemus.

I. Gesù Cristo è veramente risuscitato: non se ne può più dubitare dopo tutte le prove che ne abbiamo; il cielo e la terra, gli Angeli e gli uomini hanno reso testimonianza a questa risurrezione. Gesù Cristo ne ha dato delle prove nelle diverse apparizioni che fece ai suoi Apostoli dopo la sua risurrezione; surrexit et apparuit. Esaminiamo tutte le circostanze di questa risurrezione per istruirci delle qualità che deve avere la nostra. Per risuscitare convien morire: Gesù Cristo è morto, e per far vedere che lo era veramente, rimase tre giorni nel sepolcro. Ma siccome la morte non era in Lui la pena di un peccato che gli fosse personale, poiché era impeccabile per natura, e non ha sofferto la morte che per cancellare, come dice s. Paolo, il chirografo del peccato che eraci cotanto contrario, cosi la morte non esercitò sul suo corpo lo stesso impero ch’ella esercita sui colpevoli, che riduce in uno stato di corruzione: Non dabis sanctum tuum videre corruptionem (Sal. XV). – Cosi tosto che ebbe consumata la sua opera ed adempiti gli oracoli, fece chiaramente vedere che non gli avevano tolta la vita, se non perché Egli aveva voluto, e che aveva il potere di riprenderla quando vorrebbe. Non fece dunque, per cosi dire, che addormentarsi nelle prigioni della morte (come dice per bocca del suo profeta): Ego dormivi et soporatus sum (Psal.III), mentre ben presto dopo trionfò degli orrori del sepolcro e si assicurò per sempre l’immortalità. In segno della sua vittoria, fece Egli tremare la terra, levò la pietra che lo copriva e lasciò nel suo sepolcro i sudari che lo involgevano, i soldati che lo custodivano si ritiravano in disordine, e le pie donne come gli Apostoli, che vennero al sepolcro, non vel trovarono più: Non est hic. Tutto queste circostanze sono altrettante figure di ciò che deve accadere nella conversione del peccatore. Primieramente deve egli morire. Oimè! peccatori, non è che troppo vero che voi siete morti per il peccato, che vi ha tolta la vita della grazia, voi siete nella tomba del peccato, coperti di una grossa pietra pel cattivo abito che avete contratto. Or, per uscire da questa tomba e distruggere la morte del peccato, bisogna condannarvi ad un altro genere di morte con un intero staccamento dal peccato, con una rinunzia generale a tutto ciò che è stato per voi occasione di peccato, di modo che possiate dire col grande Apostolo: noi siamo morti al peccato, come mai potremo ancora vivere al peccato? Mortui sumus peccato, quomodo adhuc vivemus in illo ( Rom. VI)? Ecco il genere di morte che deve procedere la vostra risurrezione alla grazia o piuttosto che deve accompagnarla, che ne è la condizione essenziale: mentre morire al peccato si è risuscitare alla grazia. Ma per questo che dovete voi fare? Siccome la terra tremò alla risurrezione di Gesù Cristo, così bisogna che il vostro cuore tremi, che sia commosso, spezzato dal dolore, lacerato ed attristato dal pentimento. Non basta concepire qualche desiderio di conversione che vi lasciasse nel medesimo stato, ma il vostro cuore deve, cangiando d’oggetto, cangiar d’inclinazione: cangiamento che deve essere sì perfetto che il vostro cuore non sia più il medesimo cuore; di maniera che se ne crei uno affatto puro ed affatto nuovo in mezzo di voi medesimi, come lo chiedeva per sé il profeta: Cor mundum crea in me Deus. (Ps. L). Ecco il primo passo che convien fare per passare ad una nuova vita. Voi dovete in appresso, peccatori, levar la pietra del sepolcro, cioè rompere il cattivo abito che vi tiene prigioniero nei legami della morte e che impedisce la rugiada del cielo di entrare nella vostra anima. Questa pietra è grossa, è vero, l’abito è talmente radicato in voi che egli è divenuto come una seconda natura. Ma questo abito, questa pietra, fosse bene ancora più difficile a levare di quella che copriva il corpo di Gesù Cristo, voi dovete imitare il coraggio di quelle pie donne, che andarono di buon mattino per imbalsamare il corpo del Salvatore senza essere spaventate né dalla grossezza della pietra né trattenute dal timore dei Giudei e dei soldati che custodivano il sepolcro. Convien farvi delle sante violenze per resistere a quegli abiti, con gli atti delle virtù contrarie. Se quegli abiti non fanno ancora che nascere, incominciate sul mattino, cioè abbiate cura di soffocarne i primi moti. Rendetevi superiori a tutti i rispetti umani che sarebbero un ostacolo alla vostra conversione: il timore di dispiacere agli uomini non vi trattenga giammai dove si tratta della vostra eterna salute. Convien anche togliere il sigillo del peccato, cioè rompere quelle ree corrispondenze, allontanarvi da quelle case, da quelle persone, da quelle occasioni di peccato che erano come le guardie che tenevano la vostr’anima cattiva nelle prigioni della morte. Si è a questo segno che riconosceremo che voi siete veramente risuscitati, in guisa che dire possiamo di voi per riguardo a quelle occasioni ciò che l’Angelo disse di Gesù nazareno a quelle sante donne che lo cercavano nel suo sepolcro: Surrexit, non est hic. Voi cercate quel peccatore in quelle case che frequentava, con quelle persone che erano uno scoglio alle sue virtù; ma non le frequenta più. Quell’ubbriaco non va più in quelle osterie; quelle persone han rotto il commercio pericoloso che avevano insieme, non si vedono più l’una con l’altra: Non est hic. Quest’uomo è vivo, non bisogna più cercarlo tra i morti: Quid quæritis viventem cum mortuis (Luc. XXIV)? Ha lasciato nel sepolcro tutte le spoglie della morte, ha purgato il vecchio lievito che era in lui, per diventar una nuova creatura in Gesù Cristo: in una parola: egli non è quel che era, è interamente cambiato. – Ecco, fratelli miei, ciò che è assolutamente necessario per una vera risurrezione. Imperciocché altrimenti invano pretenderete voi essere risuscitati alla grazia ed aver parte alla risurrezione del Salvatore: non basta di aver dato nel tempo pasquale, come il resto dei fedeli, segni esteriori di religione, di esservi accostati ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia; se voi non siete veramente convertiti, se conservate ancora in voi qualche fermento del peccato, se voi avete qualche attacco all’idolo della vostra passione, se voi non siete ancora riconciliati col vostro nemico, e se rimane nel vostro cuore qualche fiele contro di lui; se voi non avete soddisfatto o se non siete risoluti di soddisfare al più presto al prossimo cui avete fatto qualche torto, la vostra risurrezione è una risurrezione apparente, che può bensì ingannare gli uomini, ma, non già Dio. Voi sembrate del numero dei viventi, ma effettivamente siete nel numero dei morti: Nomen habes quod vivas, et mortuus es (Apoc. II). Oimè! quanti ve ne ha forse tra voi di questo carattere, i quali non sono risuscitati che in apparenza? Non tocca a me giudicarne, Dio solo li conosce; ma voi potete benissimo giudicarvi da voi medesimi, per le disposizioni in cui vi trovate riguardo al peccato e alle occasioni del peccato: voi conoscerete che la vostra risurrezione è vera e sincera per la somiglianza che essa deve avere con quella di Gesù Cristo. Or, siccome abbiam detto, Gesù Cristo con la sua risurrezione ha ripigliata una nuova vita, tutta diversa da quella che aveva prima: il suo corpo non è solamente uscito dal sepolcro, ma ha ricevuto delle doti che lo rendono partecipe della natura degli spiriti, da passibile e mortale Egli è divenuto impassibile ed immortale; non è più un corpo grave per la materia, ma un corpo agile e sottile che penetra e che va ovunque gli piace; è un corpo, in una parola, che, sebbene sulla terra, non appartiene più alla terra, che è divenuto affatto celeste e tutt’altro da quel che era prima. Tal deve essere il Cristiano veramente risuscitato alla grazia; egli è un uomo che non appartiene più alla terra, che usa di questo mondo come non usandone, che non cerca se non le cose del cielo: Si consurrexistis cum Christo, quæ sursum sunt quærite (Coloss. III). Un Cristiano risuscitato con Gesù Cristo è un uomo indifferente ai piaceri e alla gloria, il quale, riguardandosi sulla terra come di buon grado viaggiatore, non respira che pel cielo, sua cara patria. Egli è un uomo che non ha ardore che per far del bene, che di buon grado è volto alle buone opere e all’adempimento dei suoi doveri; che apre le sue mani all’indigente, che visita Gesù Cristo nel luogo santo o nei suoi membri che soffrono: egli è un uomo finalmente divenuto del tutto celeste, i cui pensieri e le parole non mirano che al regno di Dio, e le cui azioni non tendono che a questo fine. – A questi segni, fratelli miei, riconoscete voi che siete veramente risuscitati con Gesù Cristo? Ah! che io non temo la vostra coscienza vi renda una testimonianza contraria. Se i vostri pensieri e i vostri desideri, le vostre parole, le vostre azioni non hanno per oggetto che i beni di questo mondo, voi siete del tutto terreni, e la vostra vita non rassomiglia punto a quella di Gesù Cristo risuscitato. Riformatevi dunque su questo modello, purificando il vecchio fermento che è in voi, correggendo le vostre inclinazioni, basse e terrene, mortificando le vostre passioni, per divenir una nuova creatura e per celebrare la pasqua di Gesù Cristo con gli azimi di sincerità e di verità, cioè con i sentimenti e con le inclinazioni d’un uomo interamente rinnovato, Expurgate vetus fermentimi, ut sitis nova conspersio; epulemur in azimis sinceritatis et veritatis ( 1 Cor. V). – Affinché la vostra risurrezione sia vera, bisogna ancora darne dei segni, come Gesù Cristo ne diede della sua nelle diverse apparizioni che fece ai suoi Apostoli: apparuit. E perché crediamo noi, fratelli miei, che il Salvatore risuscitato abbia dimorato ancora quaranta giorni sulla terra prima della sua ascensione al cielo, se non per dare ai suoi Apostoli prove sensibili della sua risurrezione? Ed è per questo che si manifestò ad essi diverse fiate ed in diversi luoghi; quest’oggi in Gerusalemme, domani nel castello d’Emmaus, indi in Galilea, ora ad alcuni in particolare, ora a tutti insieme raccolti. Non voleva Egli lasciare loro alcun dubbio della sua risurrezione, ma voleva anche insegnarci che non basta essere convertiti, ma bisogna comparirlo in realtà: voleva principalmente insegnare ai peccatori che lo hanno disonorato avanti gli uomini, a riparare con una vita esemplare l’oltraggio che gli hanno fatto; ai peccatori che col loro scandalo hanno indotti gli altri nelle vie dell’iniquità ad edificarli con una condotta regolata: voleva, in una parola, che ogni peccator convertito si mostrasse avanti agli uomini quale è avanti a Dio, sia per l’interesse della sua gloria, sia per l’edificazione dei suoi fratelli. Perciocché se ogni uomo deve rendere testimonianza al Vangelo, deve confessare Gesù Cristo in faccia al mondo, se vuole esser riconosciuto davanti al Padre celeste. Egli è principalmente il peccatore chi gli ha rapita la gloria che gli era dovuta, perciò la testimonianza di questo peccatore, riparando l’ingiuria ch’egli ha fatto a Dio, sarà per gli altri una attrattiva potente per la virtù. Voi dunque che vi fate gloria d’assentarvi dai divini uffizi, che per mancanza di devozione vi fermate all’entrata delle chiese; voi che non vi accostate quasi mai ai sacramenti; voi che con le bestemmie, con le parole oscene portaste un odore di morte nelle vostre famiglie, e nel cuore di coloro che vi frequentavano; bisogna che d’ora in poi vi facciate veder assidui vicino ai santi altari, che vi accostiate ai sacramenti, che vi facciate udire a non più proferire che parole edificanti; bisogna che siate il buon odore di Gesù Cristo con una condotta regolata, che vi diportiate finalmente in guisa affatto diversa da quella di prima: si è in tal modo e non altrimenti che potremo dire di voi che siete veramente risuscitati e che ne date i segni: surrexit vere et apparuit (Luc.XXIV). Ma non basta risuscitare alla vita della grazia; bisogna che questa risurrezione sia costante, come è stata quella di Gesù Cristo. Perché mai non si propone la risurrezione di Lazaro, per modello d’una perfetta risurrezione? Perché Lazaro, dopo aver ricuperata la vita per la possanza di Gesù Cristo, fu in appresso soggetto all’impero della morte. Ma Gesù Cristo risuscitato non muore più: Christus resurgens iam non moritur ( Rom. VI). In quel meraviglioso combattimento in cui la vita e la morte sono state alle prese, Egli ha fatto perdere alla morte il suo stimolo, l’ha interamente assorbito nella vittoria ch’Egli ha su di essa riportata: Absorpta est mors in Victoria (1 Cor. XV). Giudei inumani, voi avete potuto esercitare una volta su di lui il vostro furore coi tormenti che gli avete fatto soffrire; ma l’ora delle tenebre è passata, la vostra possanza è finita, tutti i vostri sforzi per attentare alla sua vita sarebbero inutili. Egli ha bensì voluto soffrire la morte per l’infermità di nostra natura che aveva presa; ma Egli vive al presente per la virtù di Dio: Crucìfixus est ex infirmitate, sed vivit ex virtute (2 Cor. XIII), e la sua vita uguaglierà la durata di tutti i secoli: Ecce sum vivens in sæcula sæculorum (Apoc. 1). Tale deve essere, fratelli miei, la vostra risurrezione alla grazia; deve essa portare un carattere d’immortalità che vi renda invincibili ai colpi dei vostri nemici. Mentre a che vi servirebbe d’essere usciti per un tempo, come Lazaro, dal sepolcro, se voi ricadete in uno stato di morte, ricadendo nel peccato, che vi fa perdere la vita della grazia? Qual ingiuria non fareste voi a Dio, e qual torto a voi medesimi? Ingiuria a Dio, perché paghereste con la più nera ingratitudine la pazienza ch’Egli ha avuto d’aspettarvi a penitenza, la bontà che ha avuto di ricevervi ed il bene che vi ha fatto di calarvi delle ombre della morte per rendervi alla vita. Voi rechereste ancora un danno considerabile a voi medesimi, perché, ricadendo nel peccato e perdendo la grazia di Dio, vi esponete al rischio di non ricuperarla giammai, sia perché la morte può sorprendervi, sia perché avete a far più di fatica a rilevarvi. Oimè! forse il primo peccato che voi commetterete porrà il sigillo alla vostra riprovazione, e Dio non vi darà più il tempo né la grazia di far penitenza; pensatevi bene, affinché questo pensiero vi ritenga nel felice stato in cui la grazia vi ha ristabiliti. Ma oimè! Quanto pochi cristiani si manterranno nelle loro risoluzioni! Quanti di quelli che mi ascoltano ripiglieranno la strada delle loro ree passioni che hanno per qualche tempo abbandonata! Hanno essi voluto soddisfare ad un dovere che la religione comanda, e per essere ammessi a cibarsi dell’Agnello pasquale, si sono privati di certi piaceri cui il loro cuore è sempre attaccato, si son fatta qualche violenza, ma non cadranno alla prima occasione? Tutto il popolo senza dubbio soddisferà in questa parrocchia al dovere pasquale; ma sarà quindi più pio verso Dio, più caritatevole verso il suo prossimo, più vigilante sopra se stesso? Oimè! non è forse a temere che non sia sempre ugualmente soggetto ai medesimi difetti? Ecco, fratelli miei, ciò che è capace di cangiare la gioia ed il gaudio di queste solennità in lutto ed in tristezza; perché noi vediamo ogni anno che le feste non sì tosto sono passate, che il vizio ed il libertinaggio, che sembravano estinti, si ravvivano e risuscitano a cosi dire, per far soffrire a Gesù Cristo nel cuore dei peccatori una seconda morte, in qualche modo più crudele di quella che gli han data i Giudei. Deh non sia così di voi, miei fratelli, perdete piuttosto quanto avete di più caro al mondo, che perdere la grazia del vostro Dio. – Pratiche. Fate, durante queste feste frequenti visite a Gesù Cristo, per domandargli la grazia della perseveranza: fuggite le occasioni, le assemblee, le partite di piacere interrotte durante il tempo della penitenza e che si ripiglieranno per compenso di quelle che si son tralasciate. La gloria della risurrezione di Gesù Cristo non deve farvi dimenticare i suoi patimenti: è per farcene ricordare ch’Egli ha conservate le sue sacre piaghe; così la bella sorte di una santa risurrezione non deve mettere fine alla vostra penitenza. Si è al contrario con la penitenza, con la mortificazione unita a ferventi preghiere, che voi conserverete la grazia della risurrezione; non è che seguendo le tracce di Gesù paziente che si può sperare di regnar con Gesù Cristo glorioso e trionfante: si compatimur, ut et glorificemur (Rom.VIII). Gemete e fate ammenda onorevole a Gesù Cristo degli oltraggi atroci che tanti cattivi Cristiani gli fanno con le comunioni sacrileghe di cui si rendono colpevoli in questo tempo pasquale: pregate il Signore che si degni illuminare questi temerari sulla loro sorte, e sollecitatelo che voglia conservare preziosamente il frutto delle buone comunioni in quelli che han mangiato o mangeranno il pane degli Angeli con sante disposizioni: questi sentimenti di zelo vi meriteranno grazie abbondanti che vi condurranno alla vita eterna: io ve la desidero. Così sia.

  Credo…

Offertorium 

Orémus 

Ps. LXXV:9-10.

Terra trémuit, et quiévit, dum resúrgeret in judício Deus, allelúja. [La terra tremò e ristette, quando sorse Dio a fare giustizia, allelúia.]

Secreta

Súscipe, quaesumus, Dómine, preces pópuli tui cum oblatiónibus hostiárum: ut, Paschálibus initiáta mystériis, ad æternitátis nobis medélam, te operánte, profíciant. [O Signore, Ti supplichiamo, accogli le preghiere del pòpolo tuo, in uno con l’offerta di questi doni, affinché i medésimi, consacrati dai misteri pasquali, ci sérvano, per òpera tua, di rimédio per l’eternità.] –

Communio 1 Cor 5:7-8

Pascha nostrum immolátus est Christus, allelúja: itaque epulémur in ázymis sinceritátis et veritátis, allelúja, allelúja, allelúja.[Il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato, allelúia: banchettiamo dunque con gli àzzimi della purezza e della verità, allelúia, allelúia, allelúia.]

Postcommunio 

 Orémus.

Spíritum nobis, Dómine, tuæ caritátis infúnde: ut, quos sacraméntis paschálibus satiásti, tua fácias pietáte concordes. [Infondi in noi, o Signore, lo Spírito della tua carità: affinché coloro che saziasti coi sacramenti pasquali, li renda unànimi con la tua pietà.]

DOMENICA DELLE PALME [2018]

DOMENICA DELLE PALME [2018]

Benedictio Palmorum

Ant. Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini. O Rex Israël: Hosánna in excélsis. [Osanna al Figlio di David, benedetto Colui che  viene nel nome del Signore. O Re di Israele: Osanna nel più alto dei cieli!]
Orémus.
Bene dic, quǽsumus, Dómine, hos palmárum ramos: et præsta; ut, quod pópulus tuus in tui veneratiónem hodiérna die corporáliter agit, hoc spirituáliter summa devotióne perfíciat, de hoste victóriam reportándo et opus misericórdiæ summópere diligéndo. Per Christum Dominum nostrum.[ Bene ☩ dici Signore, te ne preghiamo, questi rami di palma e concedi che quanto il tuo popolo ha celebrato materialmente in tuo onore, lo compia spiritualmente con somma devozione, vincendo il nemico e corrispondendo con profondo amore all’opera della tua misericordia. Per Cristo nostro Signore.]

De distributione ramorum

Ant. Púeri Hebræórum, portántes ramos olivárum, obviavérunt Dómino, clamántes et dicéntes: Hosánna in excélsisI [I fanciulli ebrei, portando rami di olivo, andarono incontro al Signore, acclamando e dicendo: Osanna nel più alto dei cieli.].
D
ómini est terra et plenitúdo eius, orbis terrárum et univérsi qui hábitant in eo. Quia ipse super mária fundávit eum et super flúmina præparávit eum.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes …

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ.
Quis est iste rex glóriæ? Dóminus fortis et potens: Dóminus potens in prǽlio.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes…

Attóllite portas, príncipes, vestras: et elevámini, portæ æternáles: et introíbit rex glóriæ. Quis est iste rex glóriæ? Dóminus virtútum ipse est rex glóriæ.
Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum, portántes

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini. . [I fanciulli Ebrei stendevano le loro vesti sulla via e acclamavano dicendo: Osanna al Piglio di David! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore!]
Omnes gentes pláudite mánibus: iubiláte Deo in voce exultatiónis.
Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis, rex magnus super omnem terram.
Ant. Púeri Hebræórum  …
Subiécit pópulos nobis: et gentes sub pédibus nóstris.
Elegit nobis hereditátem suam: spéciem Iacob quam diléxit.
Ant. Púeri Hebræórum

Ascéndit Deus in iúbilo: et Dóminus in voce tubæ.
Psállite Deo nostro, psállite: psállite regi nostro, psállite.
Ant. Púeri Hebræórum …

Quóniam rex omnis terræ Deus: psállite sapiénter.
Regnávit Deus super gentes: Deus sedit super sedem sanctam suam.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Príncipes populórum congregáti sunt cum Deo Abraham: quóniam Dei fortes terræ veheménter elevati sunt.
Ant. Púeri Hebræórum vestiménta

Ant. Púeri Hebræórum vestiménta prosternébant in via, et clamábant dicéntes: Hosánna filio David; benedíctus qui venit in nómine Dómini.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum.

“In illo témpore: Cum appropinquásset Jesus Jerosólymis, et venísset Béthphage ad montem Olivéti: tunc misit duos discípulos suos, dicens eis: Ite in castéllum, quod contra vos est, et statim inveniétis ásinam alligátam et pullum cum ea: sólvite et addúcite mihi: et si quis vobis áliquid dixerit, dícite, quia Dóminus his opus habet, et conféstim dimíttet eos. Hoc autem totum factum est, ut adimplerétur, quod dictum est per Prophétam, dicéntem: Dícite fíliae Sion: Ecce, Rex tuus venit tibi mansuétus, sedens super ásinam et pullum, fílium subjugális. Eúntes autem discípuli, fecérunt, sicut præcépit illis Jesus. Et adduxérunt ásinam et pullum: et imposuérunt super eos vestiménta sua, et eum désuper sedére tecérunt. Plúrima autem turba stravérunt vestiménta sua in via: álii autem cædébant ramos de arbóribus, et sternébant in via: turbæ autem, quæ præcedébant et quæ sequebántur, clamábant, dicéntes: Hosánna fílio David: benedíctus, qui venit in nómine Dómini”.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Nuova serie di Omelie, vol. II; Omelia XII, Marietti ed. Torino, 1898).

 “E come si furono avvicinati a Gerusalemme e venuti a Betfage, presso il monte Oliveto, allora Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: Andate nel villaggio, che sta davanti a voi, e tosto troverete una giumenta legata ed un puledro con essa: scioglieteli e menateli a me: e se alcuno vi dice nulla, dite che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà. Ora tutto ciò avvenne, perché si adempisse la parola del profeta, che dice: Dite alla figliuola di Sion: Ecco il tuo re viene a te, mansueto, assiso sopra un asinello e puledro di asinella da giogo. E i discepoli andarono e fecero come Gesù aveva loro comandato, e condussero l’asinella e il puledro, e posero sopra di quello le loro vesti e ve lo fecero montare. E intanto una turba grandissima distese le sue vesti nella via; altri tagliavano rami dagli alberi e li spargevano per la via, e le turbe che andavano innanzi e quelle che seguivano, gridavano, dicendo: Osanna al Figliuolo di Davide! Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nei luoghi altissimi. „ (S. Matteo, XXI, 1-9).

Gesù Cristo, lasciata la cittadella di Geco, dove aveva ridonata la vista a due ciechi, il sabato precedente l’ultima sua Pasqua, era giunto a Betania, a due chilometri circa da Gerusalemme. Ivi fu accolto da Lazzaro, che non molto prima aveva risuscitato, e dalle due sorelle, Marta e Maddalena, con qual cuore e con qual gioia vel dica Iddio. La sera stessa di quel sabato accettò l’invito di sedere alla mensa di Simone, detto il lebbroso, come più innanzi ci narra lo stesso S. Matteo (XXVI, 6 seg.). Il giorno appresso, cioè la Domenica, che noi chiamiamo delle Palme, per la commemorazione che ne facciamo tuttora, avvenne l’ingresso solenne in Gerusalemme, che qui si narra e che forma l’oggetto della presente Omelia, e che, attesa la insolita lunghezza della funzione, sarà più breve delle altre. – “Come si furono avvicinati a Gerusalemme e furono venuti a Betfage, presso il monte Oliveto, allora Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: Andate nel villaggio, che sta davanti a voi, e tosto troverete un’asinella legata ed un puledro con essa: scioglieteli e menateli a me: e se alcuno vi dice nulla, dite che il Signore ne ha bisogno, e subito li manderà. „ Gesù, movendo da Betania, saliva le pendici del colle Oliveto, che sta ad oriente di Gerusalemme, e giungeva al villaggio di Betfage, che in nostra lingua significa Gasa della valle o della bocca, perché posto all’imboccatura della valletta di Giosafat, a mezzo chilometro circa dalla città. Egli era accompagnato dai suoi discepoli, che lo seguivano dovunque. La voce del suo arrivo a Betania e della sua venuta in Gerusalemme erasi sparsa dovunque e particolarmente nella città, dove aveva molti discepoli e maggiori e potenti nemici, che avevano giurata la sua morte. Gerusalemme formicolava di pellegrini per la imminente festa della Pasqua venuti da tutta la Giudea, dalla Galilea e dalle regioni più lontane. Il nome Gesù era sulle bocche di tutti: si narravano le sue virtù, i suoi miracoli operati da un capo all’altro della Palestina e fresca e viva era in tutti la memoria della risurrezione di Lazzaro, avvenuta nella prossima Betania, sulle porte di Gerusalemme, alla presenza di tanti testimoni, amici e nemici. Era dunque naturale che tutta Gerusalemme si commovesse alla fama della sua venuta e il popolo, nel suo entusiasmo, gli preparasse un’accoglienza trionfale. Vedete, o cari, differenza di giudizi e sentimenti! il popolo, il buon popolo, specialmente, io credo, delle campagne, accorso a Gerusalemme, crede che Gesù sia un profeta, anzi l’aspettato Messia, e che il suo regno sia per cominciare, e nell’ardore della sua fede si precipita sulla via di Betania per festeggiare la sua venuta. Non si cura degli scribi, dei farisei, dei suoi capi, pieni di livore e di odio implacabile contro di Gesù; esso ubbidisce all’impulso del suo cuore e della sua fede, impulso sempre retto e generoso, se non è traviato per opera dei tristi, come avverrà cinque giorni dopo. L’entusiasmo del popolo è contagioso e si allarga e cresce in un baleno, fa tacere e soffoca le opposizioni, soverchia e trascina anche gli indifferenti, a guisa di torrente impetuoso. Mentre le turbe, uscendo da Gerusalemme ed ingrossando ad ogni istante, si incamminavano confusamente incontro a Gesù, Gesù dall’altra parte, fattosi condurre l’umile cavalcatura, di cui parla il Vangelo, s’avvicinava alla città. E giunto sul colle degli Olivi (Il colle degli Olivi giace ad oriente di Gerusalemme. Il suo versante orientale fino a Betania è dolce, sparso di olivi scarsi e poveri: il versante occidentale, cioè verso Gerusalemme, è ripido a talché non si può discendere che per sentieri (strade non vi sono) girando e rigirando il colle. Sul suo vertice, da cui si gode la più bella vista di tutta Gerusalemme, si mostra il luogo dove Gesù si fermò e pianse. Il pellegrino che giunge e si arresta in quel luogo e contempla la città, e vede in alto la torre di Davide, più basso la cupola della Moschea di Omar e quella del sepolcro di Cristo e col pensiero abbraccia la storia da Davide a Cristo, ai Crociati, a noi, ricorda che i suoi piedi premono la terra che fu premuta dai piedi di Cristo e che li Egli pianse, prova ciò che lingua umana non sa ridire), d’onde si poteva contemplare la città, come narra altrove S. Luca, s’arrestò, pieno di tristezza la rimirò, i suoi occhi si gonfiarono, pianse e singhiozzò, pronunziando quelle parole piene di tenerezza inesprimibile: “Gerusalemme! oh! se tu avessi conosciuto, almeno in questo giorno, le cose appartenenti alla tua pace! Ma ora sono nascoste ai tuoi occhi! „ Gesù in mezzo al trionfo pacifico, che il popolo gli prepara, è sopraffatto da profonda mestizia e versa lagrime amare. Prima che venga il giorno (ed è vicinissimo) delle lotte supreme e dei supremi dolori, il Padre gli ha preparato un’ora di gioia, di spontaneo trionfo, ed Egli lo dimentica per non pensare che al suo popolo, all’ingrata e colpevole città ed alla catastrofe spaventosa in cui deve piombare, e ch’Egli vede e predice. Ah! il cuore di Gesù si rivela tutto in quel pianto, in quei singhiozzi, in quelle parole. – Il potere supremo religioso, che risiede in Gerusalemme, si accieca, si ostina, si irrita, si scandalizza, freme contro di Gesù e ne delibera la morte; il popolo, i semplici, i poveri, i disprezzati, gli ignoranti riconoscono, sentono che Gesù è il Messia: i maestri della legge, i capi del popolo, i dotti lo bestemmiano; la coscienza del popolo lo proclama Figlio di Davide! — Sono misteri che opprimono l’anima, ma che si spiegano facilmente alla luce della fede e della ragione: la verità è rigettata dai superbi ed entra nelle anime umili: “Dio resiste ai superbi e abbonda delle sue grazie con gli umili — Deus resistit superbis, huniilibus autem dat gratiam. „ – Qui, o dilettissimi, si affaccia una domanda troppo naturale, perché io la possa passare sotto silenzio. Il Vangelo di quest’oggi descrive in poche ma brillanti linee il trionfo di Gesù, che entra in Gerusalemme, salutato come profeta, come Messia, anzi come re. Ora noi sappiamo che Gesù Cristo in tutta la sua vita pose ogni studio in nascondersi, in fuggire gli onori, in vietare persino che si pubblicassero alcuni dei suoi miracoli e nominamente la sua gloriosa trasfigurazione: sappiamo dagli Evangelisti, ch’Egli si sottrasse al popolo allorché, visto il miracolo della moltiplicazione del pane, voleva a forza proclamarlo re. Come sta che oggi Gesù Cristo non solo non si sottrae al trionfale ingresso, che i discepoli e i suoi ammiratori gli apparecchiano, ma vi si presta, e diremmo quasi lo incoraggia ed Egli stesso in parte lo vuole regolare, chiedendo una cavalcatura, approva e difende chi lo acclama? Come comporre questa condotta, che sembra affatto nuova, del Salvatore divino? Alla vigilia della sua morte riceve e gradisce quegli onori che in tutta la sua vita mostrò di non curare, dirò meglio, studiosamente sfuggì: come spiegare questo fatto? Non è mestieri il dirlo; tutti gli atti di Gesù Cristo devono essere degni della infinita sua sapienza, e perciò lo deve essere questo pure, checché al corto nostro vedere possa sembrare Gesù Cristo era re e re supremo, come Figlio di Dio, e l’affermò solennemente dinanzi a Pilato: re delle intelligenze, re dei cuori, re spirituale, non temporale, re umile e mansueto, come l’aveva annunziato il profeta Zaccaria, citato dal Vangelista. Inoltre, permettendo e volendo questo trionfo popolare, ravvivava la fede dei suoi cari, si preparava alle prove vicine, mostrava ai suoi nemici la fede delle turbe, ed era come un ultimo appello, un ultimo invito ad abbracciare la verità. Più in quei giorni nella città di Gerusalemme si introducevano gli agnelli destinati al sacrificio, e Gesù, adombrato da quelli, entrava pur esso come il vero Agnello, come vittima coronata, che si conduce al sacrificio. Fors’anche l’amabile Gesù volle quel breve, ma pubblico trionfo; volle quelle grida festose “Osanna al Figlio di Davide, benedetto chi viene nel nome del Signore, „ per rendere più umiliante e più vituperosa la scena di cinque giorni appresso, la sua passione e la sua condanna al grido: “Toglilo, toglilo; alla croce, alla croce — Tolle, tolle; crucifige, crucifige eum. „ – Gesù, sedendo, come sembra, alternativamente ora sull’asinella, ora sul puledro, si avanzava verso la città, mentre gli Apostoli e le turbe stendevano le loro vesti e spargevano frondi e rami sulla via per rendergli onore, e gridavano: “Osanna al Figlio di Davide: Benedetto Colui che viene in nome del Signore, osanna nel più alto de’ cieli, „ ch’era un riconoscere in Gesù il Messia promesso nella famiglia di Davide, che veniva come mandato da Dio: Osanna a Lui! era come per noi il gridare: Viva, salute, onore sulla terra e in cielo: il cielo lo protegga! Una osservazione comunissima, o cari, ed ho finito. Non è raro udire certuni riprovare le manifestazioni esterne del culto cattolico, le processioni pubbliche, il canto del popolo, la pompa degli apparati e via dicendo. Il fatto narratoci dall’Evangelista, il trionfale ingresso di Cristo, ci mostrano in qual conto dobbiamo tenere questi giudizi degli uomini del mondo. Noi imiteremo, ogni qualvolta sia opportuno, gli Apostoli e le turbe che condussero trionfalmente in Gerusalemme il Salvatore benedetto: noi lo accompagneremo per le vie allorché vi è portato come in trionfo nel divino Sacramento: noi le adorneremo; noi canteremo le sue lodi, noi lo benediremo, noi ci inginocchieremo sul suo passaggio, certi che Egli accoglierà i nostri omaggi e le nostre adorazioni, come già accolse le lodi, gli applausi e le benedizioni degli Apostoli e delle turbe fedeli che lo accompagnavano in Gerusalemme, sotto gli occhi dei suoi nemici che ne fremevano e ne mossero lamento a Gesù Cristo istesso, certi di far cosa grata a Lui, che mostrò di gradire il trionfo procacciatogli dagli Apostoli e dalle turbe.

De processione cum ramis benedictis

Procedámus in pace.

Occúrrunt turbæ cum flóribus et palmis Redemptóri óbviam: et victóri triumphánti digna dant obséquia: Fílium Dei ore gentes prædicant: et in laudem Christi voces tonant per núbila: «Hosánna in excélsis». [Con fiori e palme le folle vanno ad incontrare il Redentore e rendono degno ossequio al Vincitore trionfante. Le nazioni lo proclamano Figlio di Dio e nell’etere risuona a lode di Cristo un canto: Osanna nel più alto dei cieli!]

Cum Angelis et púeris fidéles inveniántur, triumphatóri mortis damántes: «Hosánna in excélsis». [Facciamo di essere anche noi fedeli come gli Angeli ed i fanciulli, acclamando al vincitore della morte: Osanna nel più alto dei cieli!]
Turba multa, quæ convénerat ad diem festum, clamábat Dómino: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini: «Hosánna in excélsis». [Immensa folla, convenuta per la Pasqua, acclamava ai Signore: Benedetto Colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!]
Cœpérunt omnes turbæ descendéntium gaudéntes laudáre Deum voce magna, super ómnibus quas víderant virtútibus, dicéntes: «Benedíctus qui venit Rex in nómine Dómini; pax in terra, et glória in excélsis».[Tutta la turba dei discepoli discendenti dal monte Oliveto cominciò con letizia a lodar Dio ad alta voce per tutti i prodigi che aveva veduti dicendo: Benedetto il Re che viene nel nome del Signore; pace in terra e gloria nell’alto dei cieli.]

Hymnus ad Christum Regem

Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Israël es tu Rex, Davidis et ínclita proles: Nómine qui in Dómini, Rex benedícte, venis.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Coetus in excélsis te laudat caelicus omnis, Et mortális homo, et cuncta creáta simul.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Plebs Hebraea tibi cum palmis óbvia venit: Cum prece, voto, hymnis, ádsumus ecce tibi.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi tibi passúro solvébant múnia laudis: Nos tibi regnánti pángimus ecce melos.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium.
Hi placuére tibi, pláceat devótio nostra: Rex bone, Rex clemens, cui bona cuncta placent.
Glória, laus et honor tibi sit, Rex Christe, Redémptor: Cui pueríle decus prompsit Hosánna pium

Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Tu sei il Re di Israele, il nobile figlio di David, o Re benedetto che vieni nel nome del Signore.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
L‘intera corte angelica nel più alto dei cieli, l’uomo mortale e tutte le creature celebrano insieme le tue lodi.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Il popolo Ebreo ti veniva dinanzi con le palme, ed eccoci dinanzi a te, con preghiere, con voti e cantici.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Essi ti offrivano il tributo del loro omaggio, quando tu andavi a soffrire; noi eleviamo questi canti a te che ora regni.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.
Ti piacquero essi: ti piaccia anche la nostra devozione, o Re di bontà, Re clemente, a cui ogni cosa buona piace.
Gloria, lode e onore sia a te, Re Cristo Redentore, al quale i migliori fanciulli cantarono piamente: Osanna.]

Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Psalmus 147
Lauda, Jerúsalem, Dóminum: * lauda Deum tuum, Sion.
Quóniam confortávit seras portárum tuárum: * benedíxit fíliis tuis in te.
Qui pósuit fines tuos pacem: * et ádipe fruménti sátiat te.
Qui emíttit elóquium suum terræ: * velóciter currit sermo ejus.
Qui dat nivem sicut lanam: * nébulam sicut cínerem spargit.
Mittit crystállum suam sicut buccéllas: * ante fáciem frígoris ejus quis sustinébit?
Emíttet verbum suum, et liquefáciet ea: * flabit spíritus ejus, et fluent aquæ.
Qui annúntiat verbum suum Jacob: * justítias, et judícia sua Israël.
Non fecit táliter omni natióni: * et judícia sua non manifestávit eis.
Ant. Omnes colláudant nomen tuum, et dicunt: «Benedíctus qui venit in nómine Dómini: Hosánna in excélsis».

Fulgéntibus palmis prostérnimur adveniénti Dómino: huic omnes occurrámus cum hymnis et cánticis, glorificántes et dicéntes: «Benedíctus Dóminus». Di festosi rami ornati, ci prostriamo al Signor che viene: a Lui incontro corriamo tra inni e canti, Lui glorifichiamo dicendo: Benedetto il Signore!
Ave, Rex noster, Fili David, Redémptor mundi, quem prophétæ praedixérunt Salvatórem dómui Israël esse ventúrum. Te enim ad salutárem víctimam Pater misit in mundum, quem exspectábant omnes sancti ab orígine mundi, et nunc: «Hosánna Fílio David. Benedíctus qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis». [Ave, o nostro Re, Figlio di David, Redentore del mondo, preannunciato dai Profeti come Salvatore venuto per la casa d’Israele. Il Padre mandò Te come vittima di redenzione per il mondo; T’aspettavano tutti i santi sin dall’origine del mondo, ed ora: Osanna, Figlio di David. Benedetto Colui che viene nel nome del Signore. Osanna nel più alto dei Cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.

Ingrediénte Dómino in sanctam civitátem, Hebræórum púeri resurrectiónem vitæ pronuntiántes,
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis».
Cum audísset pópulus, quod Jesus veníret Jerosólymam, exiérunt óbviam ei.
Cum ramis palmárum: «Hosánna, clamábant, in excélsis». [Mentre il Signore entrava nella città santa, i fanciulli ebrei proclamavano la risurrezione alla vita,
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!
Avendo il popolo sentito che Gesù si avvicinava a Gerusalemme, gli mosse incontro
Agitando rami di palma e acclamando: Osanna nel più alto dei cieli!]

Oremus.
Dómine Jesu Christe, Rex ac Redémptor noster, in cuius honórem, hoc ramos gestántes, solémnes laudes decantávimus: concéde propítius ut, quocúmque hi rami deportáti fúerint, ibi tuæ benedictiónis grátia descéndat, et quavis dǽmonum iniquitáte vel illusióne profligáta, déxtera tua prótegat, quos redémit: Qui vivis et regnas in sǽcula sæculórum.
[Signor Gesù Cristo, Re e Redentore nostro, in onore del quale abbiamo cantato lodi solenni, portando questi rami, concedi propizio che la grazia della tua benedizione discenda dovunque questi rami saranno portati e che la tua destra protegga i redenti togliendo di mezzo a loro ogni iniquità ed illusione diabolica. Tu che vivi e regni nei secoli dei secoli.]

Introitus
Ps XXI:20 et 22.

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Ps XXI:2 Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti? longe a salúte mea verba delictórum meórum. Dio mio, Dio mio, guardami: perché mi hai abbandonato? La salvezza si allontana da me alla voce dei miei delitti.

Dómine, ne longe fácias auxílium tuum a me, ad defensiónem meam áspice: líbera me de ore leonis, et a córnibus unicórnium humilitátem meam. [Tu, o Signore, non allontanare da me il tuo soccorso, prendi cura della mia difesa: salvami dalla bocca del leone, e salva la mia debolezza dalle corna dei bufali.]

Oratio

Omnípotens sempitérne Deus, qui humáno generi, ad imitandum humilitátis exémplum, Salvatórem nostrum carnem súmere et crucem subíre fecísti: concéde propítius; ut et patiéntiæ ipsíus habére documénta et resurrectiónis consórtia mereámur. [ Onnipotente eterno Dio, che per dare al genere umano un esempio d’umiltà da imitare, volesti che il Salvatore nostro s’incarnasse e subisse la morte di Croce: propizio concedi a noi il merito di accogliere gli insegnamenti della sua pazienza, e di partecipare alla sua risurrezione.]

LECTIO 

Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses. Phil II:5-11

“Fratres: Hoc enim sentíte in vobis, quod et in Christo Jesu: qui, cum in forma Dei esset, non rapínam arbitrátus est esse se æqualem Deo: sed semetípsum exinanívit, formam servi accípiens, in similitúdinem hóminum factus, et hábitu invéntus ut homo. Humiliávit semetípsum, factus oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis. Propter quod et Deus exaltávit illum: ei donávit illi nomen, quod est super omne nomen: hic genuflectitur ut in nómine Jesu omne genu flectátur coeléstium, terréstrium et inférno rum: et omnis lingua confiteátur, quia Dóminus Jesus Christus in glória est Dei Patris.” [Fratelli: Abbiate in voi gli stessi sentimenti dai quali era animato Cristo Gesù: il quale, essendo nella forma di Dio, non reputò che fosse una rapina quel suo essere uguale a Dio, ma annichilò se stesso, prese la forma di servo, fatto simile agli uomini, e per condizione riconosciuto quale uomo. Egli umiliò se stesso, facendosi ubbidiente sino alla morte e morte di croce. Perciò Dio stesso lo esaltò e gli donò un nome che è sopra qualunque nome: qui si genuflette onde nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio in cielo, in terra e negli abissi; e affinché ogni lingua confessi che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre.]

OMELIA

[Mons. Bonomelli: Nuova serie di Omelie, vol. II; Omelia XI, Marietti ed. Torino, 1898).

“Abbiate in voi lo stesso sentimento, che fu anche in Gesù Cristo; il quale essendo la forma di Dio, non tenne per usurpato il suo essere pari a Dio; ma, presa forma di servo, annichilò se stesso, fatto alla somiglianza degli uomini e giudicato esternamente simile all’uomo, abbassò se stesso, essendosi reso ubbidiente fino a morte e morte di croce. Per la qual cosa Iddio sovranamente lo innalzò e gli diede un nome, che è sopra ogni nome, affinché nel nome di Gesù si curvi ogni ginocchio delle creature celesti, terrestri ed infernali, ed ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore, alla gloria di Dio Padre „ (Ai Filippesi, capo II, 5-11).

L’Apostolo trovavasi in Roma l’anno 60 circa dell’era nostra, tenutovi in ceppi: è questa la sua prima prigionia, che cominciò in Gerusalemme, continuò in Cesarea, e poi, dopo il suo appello a Cesare, si protrasse per due anni in Roma. I cristiani di Filippi, città di Macedonia, che S. Paolo aveva convertiti alla fede, sapendolo in carcere, gli mandarono soccorsi per mezzo di Epafrodito, suo discepolo. Questi si ammalò gravemente a Roma; riavutosi, dovette ritornare a Filippi, portatore della lettera. In essa S. Paolo effonde l’anima sua in sensi vivissimi di affetto e gratitudine verso quei suoi neofiti e a rapidi tratti tocca alcuni punti dogmatici e morali della dottrina evangelica, senza discendere ai particolari. I versetti, che vi ho sopra riferiti, si leggono nella epistola di questa Domenica delle Palme, e devono essere il soggetto delle mie parole e delle mie e delle vostre considerazioni. S. Paolo, dopo avere fortemente eccitati e ingiuriati i suoi cari Filippesi a stare uniti nella carità, umili nel deferire agli altri, e nel cercare non il proprio, ma sì l’altrui bene, propone il modello che essi debbono tenere innanzi agli occhi nell’esercizio di queste sì alte e pratiche virtù, e scrive: “Abbiate in voi lo stesso sentimento che fu anche in Gesù Cristo. „ Non occorre il dirlo, Gesù Cristo, perché Dio-Uomo, fu e sarà sempre il sovrano esemplare d’ogni umana perfezione, sotto qualunque rispetto lo si consideri, e quegli tra gli uomini meglio si accosterà alle supreme altezze della perfezione morale, ossia della virtù, che sarà maggiormente simile a Gesù Cristo, e perciò il grande Apostolo in cento luoghi delle sue lettere inculca la necessità di ritrarre Cristo in sé, e qui vuole che abbiamo in noi lo stesso sentimento che Gesù Cristo ebbe in sé. I frutti dell’albero, o cari, donde traggono la loro vita, l’alimento e lo sviluppo della medesima? Dall’albero stesso, dal suo umore, dalle sue radici; essi sono una emanazione, una efflorescenza dell’albero, tantoché quelli seguono la natura di questo, e se l’albero avvizzisce e muore, anche i frutti avvizziscono e muoiono. Che cosa sono le virtù? Sono i frutti di quest’albero, che è l’uomo: esse traggono la loro esistenza e la loro conservazione e perfezione dall’anima, dall’intima vita del cuore, dalla grazia divina che lo informa. Se questa regna nel fondo del nostro cuore, se ne vedranno tosto i frutti nelle parole e nelle opere; se questa fa difetto, l’uomo sarà somigliante ad un albero disseccato od inselvatichito. Se in ciascuno di noi abitasse la grazia, ossia la vita di Gesù Cristo, vale a dire se pensassimo, se amassimo, se sentissimo come Lui, non è vero o cari, che si vedrebbero in noi le opere stesse di Cristo? L’Apostolo svolge la verità, e nel supremo modello d’ogni virtù, che è Cristo, mette in rilievo ammirabile quella che più gli sta a cuore. Vuole, S. Paolo, che i suoi Filippesi siano uniti tra loro col vincolo soave della carità e d’una mutua deferenza. Ora quali sono gli ostacoli principali a questa carità e mutua deferenza? Sono due: l’orgoglio e l’egoismo; l’orgoglio e l’egoismo, che non vedono che sé, tutto ordinano a sé, che disprezzano gli altri, che immolerebbero il mondo intero al proprio interesse. Togliete l’orgoglio, soffocate l’egoismo, e la carità e la scambievole deferenza regnano nei cuori; così se abbassate i rialzi del terreno e riducete a perfetto livello, le acque vi si spanderanno sopra in modo eguale. Ora l’Apostolo per atterrare l’orgoglio e fiaccare l’egoismo dell’uomo e spargere nel suo cuore le acque vivifiche della umiltà e della carità, che sono inseparabili, grida: “Figli miei, levate i vostri occhi, rimirate Cristo, di cui siete discepoli e dovete essere immagini fedeli; Cristo, il quale, essendo nella forma di Dio, non tenne per usurpato il suo essere pari a Dio, ma, presa forma di servo, annichilò se stesso. „ Che importano, che vogliono dire queste parole? Cristo, essendo per natura, o nella natura Dio (la parola forma qui usata da S. Paolo, vuol dire quello che v’è di più perfetto in ogni cosa, ciò che dà o fa l’essere, la perfezione d’ogni cosa, secondo Aristotele; e questo è la natura o  l’essenza della cosa. Perciò il dire che Cristo era nella forma di Dio è come dire che era nella essenza di Dio, nella natura di Dio, che era Dio e quindi pari a Dio, a Dio Padre, ecc. Il che apparisce dall’antitesi che segue, cioè prese la forma o forma di servo o di uomo), e perciò avendo coscienza di non fare usurpazione di sorta, dichiarandosi pari a Dio, contuttociò, prendendo la natura di servo, la natura umana, ossia facendosi, uomo, si annichilò. In questa espressione si racchiude l’affermazione precisa e chiarissima di tre dogmi fondamentali riguardanti i misteri della Trinità e della Incarnazione: si afferma che Gesù Cristo è Dio, poi che si dice “lui essere nella forma, ossia nella matura di Dio, e non usurpare la dignità di Dio quando afferma d’essere eguale a Dio; „ si afferma in pari tempo, benché in modo indiretto, la distinzione personale di Cristo da Dio Padre, dicendo, che è verità, Lui essere eguale a Dio Padre; si afferma il mistero della Incarnazione, allorché Paolo insegna che questo Dio, eguale al Padre, prese la forma, cioè assunse la natura di servo, o di uomo; e finalmente si afferma l’unità di persona in Gesù Cristo, fatto uomo, perché si dice, che Colui che è Dio, eguale al Padre, si è fatto uomo, e come uomo fu riconosciuto: Cristo è Dio, eguale al Padre: Cristo è uomo, vero e perfetto uomo, e il medesimo che è Dio, è anche uomo: ecco le tre grandi verità della fede contenute in queste poche parole dell’Apostolo. – Ora veniamo all’applicazione morale, secondo la mente di S. Paolo. Il Verbo, il Figlio di Dio, eterno, immutabile, onnipotente, come il Padre, col quale ha comune la natura! Vi può essere alcun che di più grande, di più eccelso? In Lui sono tutte le perfezioni, in grado sommo, incomparabili, infinite: tutto ciò che apparisce nel mondo, anzi nell’universo, non è che una pallida immagine, un povero riflesso di ciò ch’Egli precontiene in se stesso. Tutto è da Lui, e nulla è senza di Lui, ed Egli non riceve nulla da chicchessia. Egli è il primo, che non ripete l’essere da altri, ma l’ha da sé, ed è perché è: in questo Verbo stanno gli esemplari eterni, perfettissimi di tutte le cose che esistono e di quelle che potrebbero esistere; tutti raccolti in uno, eppure distintissimi, e secondo essi e per essi le cose tutte son fatte e sussistono. Ebbene; questo Verbo, o Figlio di Dio, che si ammanta dell’infinita sua gloria , annichilò se stesso, e letteralmente, vuotò se stesso, exinanivìt, non già della divinità, che sarebbe assurdo, ma si vuotò, cioè si spogliò di tutte quelle grandezze e prerogative che si competevano alla natura umana assunta da Lui personalmente. Egli, il Verbo, prese la forma o la natura di uomo per guisa che fu simile in tutto ed eguale agli uomini, e da tutti esternamente fu giudicato uomo: In similitudinem hominum factus, et habitu inventus ut homo. Si può concepire abbassamento maggiore o maggior carità? L’infinito è divenuto finito, l’immutabile si è fatto mutabile, l’immortale mortale, l’impassibile passibile, Dio uomo! Il sole di eterna giustizia, sfolgorante di luce nel pieno meriggio, in un cielo senz’ombra di nube, si è ecclissato, si è avvolto nel fitto velo d’una nube, la nube dell’umanità, ma solo per accostarsi all’uomo, per comunicarsi all’uomo. Quest’uomo, povera creatura, soggetta ai sensi, che ha sempre bisogno dei sensi per pensare, per elevarsi a ciò che sta sopra i sensi, come l’uccello, che ha bisogno del ramo dell’albero per riposare, nell’umanità di Cristo trova il ponte che lo conduce a Dio, trova Dio stesso: in essa ode la voce di Dio, vede Dio, tocca Dio, si unisce a Dio. Oh! il mistero di Dio fatto uomo è il mistero dell’abbassamento di Dio, dell’amore di Dio, e in pari tempo dell’innalzamento dell’uomo. – Ma qui non s’arresta l’Apostolo. Dopo aver detto che Dio, rimanendo pur sempre Dio, si vuotò, si annichilò, a nostro modo di dire, facendosi uomo, va più innanzi e scrive: “Abbassò se stesso, essendosi reso ubbidiente fino alla morte. „ Badate bene, in sostanza dice S. Paolo, badate bene: al Figlio di Dio non bastò discendere fino all’uomo, e farsi uomo, ed essere stimato uomo: volle essere uomo soggetto, ubbidiente. Non c’è dubbio: il Figlio di Dio poteva farsi uomo, ma anche come uomo avrebbe potuto essere il Re della terra, stringere in pugno lo scettro di tutte le nazioni, circondarsi di tutte le grandezze e magnificenze del potere, della scienza e della gloria: avrebbe potuto fare in modo che i fulgori della sua divinità avvolgessero l’umile natura assunta a talché i popoli tutti si prostrassero riverenti dinanzi a Lui. Chi ne può dubitare? In quella vece Gesù Cristo non pure volle essere uomo e uomo soggetto a tutte le miserie comuni della natura del peccato e della ribellione delle passioni inferiori: ubbidiente a tutte le autorità domestiche e pubbliche, civili, politiche e religiose, ma ubbidiente fino alla morte, il supremo dei dolori e dei mali nell’ordine fisico. E basta? No. Gesù Cristo poteva discendere ancora: v’era ancora un gradino più basso, l’ultimo nella grande scala delle umiliazioni: e quale? La morte, e la morte di croce: “Usque ad mortem, mortem autem crucis”. Era un immenso abbassamento quello della Incarnazione, in cui Dio per poco scompariva, ma restava uomo: quest’uomo si abbassa e si impiccolisce anche nella natura sua assunta, mettendosi all’ultimo posto, rilegandosi volontariamente in una officina, soggetto a tutti: Et erat subditus illis. Ma restava pur sempre la vita d’un uomo quale che apparisse agli occhi del popolo. Anche questa vita naturale cessa col sacrificio della morte, sacrificio dell’obbedienza al volere del Padre: ma poteva rimanere ancora agli occhi degli uomini almeno un po’ di nome, un po’ d’onore, un estremo riverbero d’una vita immolata per obbedienza: ancor questa è totalmente annientata: Cristo muore, e muore in croce, sopra il patibolo destinato agli schiavi; vi muore come un ribelle alle autorità politiche e religiose del suo paese, come un nemico e ribelle a Dio stesso, di cui usurpa il nome e la dignità; vi muore abbandonato da tutti, sotto gli occhi d’una intera città, la capitale della patria sua, e proprio allora che colà si raccoglieva tutta la nazione e d’ogni parte della terra vi convenivano i credenti. Abbassamento, umiliazione, annientamento come quello di Gesù non è possibile a concepirsi: dal seno del Padre in quello della Vergine: dal seno della Vergine in una stalla, nell’esilio, in una officina, nelle angosce della morte e d’una morte vituperosissima: Exinanivit semetipsum semetipsum humiliavit factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis. La vostra onnipotenza, o Gesù, ha toccato il fondo di tutti gli abbassamenti possibili. Ma è legge di provvidenza giustissima, che brilla dovunque, che chi volontariamente si abbassa sia sollevato in alto, chi si umilia sia esaltato. Che un ricco signore entri in un miserabile tugurio per soccorrere un poverello; il popolo lo applaude; che un monarca lasci la sua reggia, e passi di casa in casa, di ospedale in ospedale per visitare e confortare i percossi dal cholera, e le moltitudini si accalcheranno intorno a lui, acclamandolo e benedicendolo: quel signore, quel monarca si sono abbassati, e i popoli li innalzano e celebrano il loro nome. Cristo per salvare gli uomini, per ammaestrarli, consolarli e così glorificare il Padre suo, è disceso fino agli uomini infermi, fino a farsi uno di loro, patire e morire ignominiosamente per loro; gli uomini adunque dovevano glorificarlo, e lo fecero e lo fanno: lo doveva glorificare sovra tutto il Padre suo, e tanto quanta era la umiliazione volontaria, a cui si era sottomesso. E lo fece. Udite S. Paolo: “Per la qual cosa Dio sovranamente lo innalzò e gli diede un nome, che è sovra ogni altro nome. „ Per la qual cosa, che è quanto dire, in vista, in premio di tanto abbassamento del Figliuol suo fatto uomo, il Padre lo innalzò sovranamente, ossia gli diede una gloria altissima, che trascende ogni gloria e pareggia il suo abbassamento. E come lo innalzò? Come lo glorificò? ” Col dargli un Nome, che è sovra ogni altro nome. ,, Gli pose nome Gesù, che vale Dio-Salute, o Dio-Salvatore (Il nome di Gesù, secondo i glossologi, è composto di Jehova Shuah, nome proprio di Dio il primo; il secondo, di Dio fatto uomo e divenuto Salvatore del mondo), e rivela la sua dignità e il suo ufficio che a nessun altro, né uomo, né Angelo può competere. Questo nome pertanto, che a Gesù perfettamente conviene, annunzia tutta la sua grandezza e rivela tutta la sua gloria, che i secoli prima in terra, poi in cielo, confermeranno pienamente. Per indicare la grandezza e la gloria di Gesù e del nome, che ne esprime l’ufficio, S. Paolo prosegue: “Affinché nel nome di Gesù si curvi ogni ginocchio delle creature celesti, terrestri ed infernali. „ Ecco, o cari, il frutto dell’abbassamento volontario di Gesù Cristo al di sotto di tutte le creature: esse, tutte, senza eccezione, curvano il ginocchio, vale a dire si prostrano a lor modo e lo adorano: lo adorano gli Angeli del cielo, e lo riconoscono loro re: lo adorano i buoni sulla terra, e lo proclamano loro salvatore: lo adorano lor malgrado gli spiriti infernali ed i malvagi giù nell’abisso eterno, tremando sotto quella mano che li punisce. Questo trionfo di Cristo, che risponde alle inenarrabili sue umiliazioni, ora non è compiuto, ma iniziato: esso avrà il suo pieno compimento al termine dei secoli, quando ogni cosa sarà soggetta a Cristo; Cristo stesso, come uomo, sarà soggetto a Colui che gli ha sottoposta ogni cosa, acciocché Dio sia ogni cosa in tutto, giusta la espressione di S. Paolo (I Cor. XV, 28). Allora ogni lingua delle creature intelligenti del cielo, della terra e dell’inferno, volontariamente o forzatamente confesserà che Gesù Cristo è Signore per la gloria del Padre, in altri termini, siede alla destra del Padre, ha eguale la potenza, la maestà e la gloria col Padre, è Dio come il Padre. Evidentemente qui S. Paolo stabilisce, che la gloria immensa di Cristo è una mercede dovuta alle opere sue, alle sue umiliazioni, e necessariamente suppone che Gesù Cristo meriti una ricompensa. Ad alcuni parve strano che Gesù Cristo potesse meritare a se stesso una gloria, che gli è dovuta necessariamente, essendo egli Dio. Ma non vi è ombra di difficoltà, quando le cose si intendano a dovere. L’umanità di Gesù poté essa meritare l’onore ineffabile di essere congiunta in unità di persona al Figliuolo di Dio? La risposta non può essere dubbia: non meritò, né poté meritare tanto onore, perché questa umanità non poté esistere, e quindi non poté meritare cosa alcuna prima della sua unione: che se avesse anche potuto esistere prima dell’unione (il che sarebbe contro la fede), non avrebbero mai potuto meritare l’unione ipostatica, la quale è grazia, che supera al tutto qualunque merito di creata natura. Gesù Cristo poté Egli meritare la visione beatifica all’anima sua benedetta? No, perché questa visione beatifica l’anima di Gesù Cristo l’ebbe nell’istante istesso della sua unione ipostatica e precedette qualunque suo atto che avesse ragione di merito. Gesù Cristo pertanto con le sue umiliazioni, con i suoi dolori, con la sua morte meritò la redenzione e la grazia agli uomini ed anche agli Angeli, e meritò a se stesso non la gloria interna, sostanziale, dovuta a Lui come Figlio di Dio, ma la gloria esterna, accidentale, avventizia, che riceve e riceverà per tutti i secoli da tutte le creature, e di questa ragiona l’Apostolo nei versetti ora spiegati. E perché gli ammaestramenti di S. Paolo, racchiusi nel breve tratto che vi ho chiosato, rimangano impressi negli animi vostri, ve li riduco in poche parole. Vuole S. Paolo che abbiamo lo stesso sentimento che ebbe Gesù Cristo, il quale dalla somma altezza discese per amore, per il bene degli uomini all’ultima bassezza, Dio si fece uomo: vuole che crediamo, Lui essere Dio eguale al Padre, Lui essere uomo vero e perfetto e Lui essere nell’assunta natura unica persona, e questa divina. Vuole che impariamo che, alla umiliazione estrema, a cui Gesù Cristo si sottopose, risponderà la massima gloria, quale ricompensa a Lui dovuta.

Graduale

Ps LXXII:24 et 1-3 Tenuísti manum déxteram meam: et in voluntáte tua deduxísti me: et cum glória assumpsísti me. [Tu mi hai preso per la destra, mi hai guidato col tuo consiglio, e mi ‘hai accolto in trionfo.]

Quam bonus Israël Deus rectis corde! mei autem pæne moti sunt pedes: pæne effúsi sunt gressus mei: quia zelávi in peccatóribus, pacem peccatórum videns. [Com’è buono, o Israele, Iddio con chi è retto di cuore. Per poco i miei piedi non vacillarono; per poco i miei passi non sdrucciolarono; perché io ho invidiato i peccatori, vedendo la prosperità degli empi.]

Tractus Ps. XXI:2-9, 18, 19, 22, 24, 32

Deus, Deus meus, réspice in me: quare me dereliquísti?

Longe a salúte mea verba delictórum meórum.

Deus meus, clamábo per diem, nec exáudies: in nocte, et non ad insipiéntiam mihi.

Tu autem in sancto hábitas, laus Israël.

In te speravérunt patres nostri: speravérunt, et liberásti eos.

Ad te clamavérunt, et salvi facti sunt: in te speravérunt, et non sunt confusi.

Ego autem sum vermis, et non homo: oppróbrium hóminum et abjéctio plebis.

Omnes, qui vidébant me, aspernabántur me: locúti sunt lábiis et movérunt caput.

Sperávit in Dómino, erípiat eum: salvum fáciat eum, quóniam vult eum.

Ipsi vero consideravérunt et conspexérunt me: divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt mortem.

Líbera me de ore leónis: et a córnibus unicórnium humilitátem meam.

Qui timétis Dóminum, laudáte eum: univérsum semen Jacob, magnificáte eum.

Annuntiábitur Dómino generátio ventúra: et annuntiábunt coeli justítiam ejus.

Pópulo, qui nascétur, quem fecit Dóminus.

Evangelium

Pássio Dómini nostri Jesu Christi secúndum Matthǽum.

[Matt XXVI:1-75; XXVII:1-66].

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: J. Scitis, quid post bíduum Pascha fiet, et Fílius hóminis tradétur, ut crucifigátur. C. Tunc congregáti sunt príncipes sacerdótum et senióres pópuli in átrium príncipis sacerdótum, qui dicebátur Cáiphas: et consílium fecérunt, ut Jesum dolo tenérent et occíderent. Dicébant autem: S. Non in die festo, ne forte tumúltus fíeret in pópulo. C. Cum autem Jesus esset in Bethánia in domo Simónis leprósi, accéssit ad eum múlier habens alabástrum unguénti pretiósi, et effúdit super caput ipsíus recumbéntis. Vidéntes autem discípuli, indignáti sunt, dicéntes: S. Ut quid perdítio hæc? pótuit enim istud venúmdari multo, et dari paupéribus. C. Sciens autem Jesus, ait illis: J. Quid molésti estis huic mulíeri? opus enim bonum operáta est in me. Nam semper páuperes habétis vobíscum: me autem non semper habétis. Mittens enim hæc unguéntum hoc in corpus meum, ad sepeliéndum me fecit. Amen, dico vobis, ubicúmque prædicátum fúerit hoc Evangélium in toto mundo, dicétur et, quod hæc fecit, in memóriam ejus. C. Tunc ábiit unus de duódecim, qui dicebátur Judas Iscariótes, ad príncipes sacerdótum, et ait illis: S. Quid vultis mihi dare, et ego vobis eum tradam? C. At illi constituérunt ei trigínta argénteos. Et exínde quærébat opportunitátem, ut eum tráderet. Prima autem die azymórum accessérunt discípuli ad Jesum, dicéntes: S. Ubi vis parémus tibi comédere pascha? C. At Jesus dixit: J. Ite in civitátem ad quendam, et dícite ei: Magíster dicit: Tempus meum prope est, apud te fácio pascha cum discípulis meis. C. Et fecérunt discípuli, sicut constítuit illis Jesus, et paravérunt pascha. Véspere autem facto, discumbébat cum duódecim discípulis suis. Et edéntibus illis, dixit: J. Amen, dico vobis, quia unus vestrum me traditúrus est. C. Et contristáti valde, coepérunt sínguli dícere: S. Numquid ego sum, Dómine? C. At ipse respóndens, ait: J. Qui intíngit mecum manum in parópside, hic me tradet. Fílius quidem hóminis vadit, sicut scriptum est de illo: væ autem hómini illi, per quem Fílius hóminis tradétur: bonum erat ei, si natus non fuísset homo ille. C. Respóndens autem Judas, qui trádidit eum, dixit: S. Numquid ego sum, Rabbi? C. Ait illi: J. Tu dixísti. C. Cenántibus autem eis, accépit Jesus panem, et benedíxit, ac fregit, dedítque discípulis suis, et ait: J. Accípite et comédite: hoc est corpus meum. C. Et accípiens cálicem, grátias egit: et dedit illis, dicens: J. Bíbite ex hoc omnes. Hic est enim sanguis meus novi Testaménti, qui pro multis effundétur in remissiónem peccatórum. Dico autem vobis: non bibam ámodo de hoc genímine vitis usque in diem illum, cum illud bibam vobíscum novum in regno Patris mei. C. Et hymno dicto, exiérunt in montem Olivéti. Tunc dicit illis Jesus: J. Omnes vos scándalum patiémini in me in ista nocte. Scriptum est enim: Percútiam pastórem, et dispergéntur oves gregis. Postquam autem resurréxero, præcédam vos in Galilaeam. C. Respóndens autem Petrus, ait illi: S. Et si omnes scandalizáti fúerint in te, ego numquam scandalizábor. C. Ait illi Jesus: J. Amen, dico tibi, quia in hac nocte, antequam gallus cantet, ter me negábis. C. Ait illi Petrus: S. Etiam si oportúerit me mori tecum, non te negábo. C. Simíliter et omnes discípuli dixérunt. Tunc venit Jesus cum illis in villam, quæ dícitur Gethsémani, et dixit discípulis suis: J. Sedéte hic, donec vadam illuc et orem. C. Et assúmpto Petro et duóbus fíliis Zebedaei, coepit contristári et mæstus esse. Tunc ait illis: J. Tristis est ánima mea usque ad mortem: sustinéte hic, et vigilate mecum. C. Et progréssus pusíllum, prócidit in fáciem suam, orans et dicens: J. Pater mi, si possíbile est, tránseat a me calix iste: Verúmtamen non sicut ego volo, sed sicut tu. C. Et venit ad discípulos suos, et invénit eos dormiéntes: et dicit Petro: J. Sic non potuístis una hora vigiláre mecum? Vigiláte et oráte, ut non intrétis in tentatiónem. Spíritus quidem promptus est, caro autem infírma. C. Iterum secúndo ábiit et orávit, dicens: J. Pater mi, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum, fiat volúntas tua. C. Et venit íterum, et invenit eos dormiéntes: erant enim óculi eórum graváti. Et relíctis illis, íterum ábiit et orávit tértio, eúndem sermónem dicens. Tunc venit ad discípulos suos, et dicit illis: J. Dormíte jam et requiéscite: ecce, appropinquávit hora, et Fílius hóminis tradétur in manus peccatórum. Súrgite, eámus: ecce, appropinquávit, qui me tradet. C. Adhuc eo loquénte, ecce, Judas, unus de duódecim, venit, et cum eo turba multa cum gládiis et fústibus, missi a princípibus sacerdótum et senióribus pópuli. Qui autem trádidit eum, dedit illis signum, dicens: S. Quemcúmque osculátus fúero, ipse est, tenéte eum. C. Et conféstim accédens ad Jesum, dixit: S. Ave, Rabbi. C. Et osculátus est eum. Dixítque illi Jesus: J. Amíce, ad quid venísti? C. Tunc accessérunt, et manus injecérunt in Jesum et tenuérunt eum. Et ecce, unus ex his, qui erant cum Jesu, exténdens manum, exémit gládium suum, et percútiens servum príncipis sacerdótum, amputávit aurículam ejus. Tunc ait illi Jesus: J. Convérte gládium tuum in locum suum. Omnes enim, qui accéperint gládium, gládio períbunt. An putas, quia non possum rogáre Patrem meum, et exhibébit mihi modo plus quam duódecim legiónes Angelórum? Quómodo ergo implebúntur Scripturae, quia sic oportet fíeri? C. In illa hora dixit Jesus turbis: J. Tamquam ad latrónem exístis cum gládiis et fústibus comprehéndere me: cotídie apud vos sedébam docens in templo, et non me tenuístis. C. Hoc autem totum factum est, ut adimpleréntur Scripturæ Prophetárum. Tunc discípuli omnes, relícto eo, fugérunt. At illi tenéntes Jesum, duxérunt ad Cáipham, príncipem sacerdótum, ubi scribæ et senióres convénerant. Petrus autem sequebátur eum a longe, usque in átrium príncipis sacerdótum. Et ingréssus intro, sedébat cum minístris, ut vidéret finem. Príncipes autem sacerdótum et omne concílium quærébant falsum testimónium contra Jesum, ut eum morti tráderent: et non invenérunt, cum multi falsi testes accessíssent. Novíssime autem venérunt duo falsi testes et dixérunt: S. Hic dixit: Possum destrúere templum Dei, et post tríduum reædificáre illud. C. Et surgens princeps sacerdótum, ait illi: S. Nihil respóndes ad ea, quæ isti advérsum te testificántur? C. Jesus autem tacébat. Et princeps sacerdótum ait illi: S. Adjúro te per Deum vivum, ut dicas nobis, si tu es Christus, Fílius Dei. C. Dicit illi Jesus: J. Tu dixísti. Verúmtamen dico vobis, ámodo vidébitis Fílium hóminis sedéntem a dextris virtútis Dei, et veniéntem in núbibus coeli. C. Tunc princeps sacerdótum scidit vestiménta sua, dicens: S. Blasphemávit: quid adhuc egémus téstibus? Ecce, nunc audístis blasphémiam: quid vobis vidétur? C. At illi respondéntes dixérunt: S. Reus est mortis. C. Tunc exspuérunt in fáciem ejus, et cólaphis eum cecidérunt, álii autem palmas in fáciem ejus dedérunt, dicéntes: S. Prophetíza nobis, Christe, quis est, qui te percússit? C. Petrus vero sedébat foris in átrio: et accéssit ad eum una ancílla, dicens: S. Et tu cum Jesu Galilaeo eras. C. At ille negávit coram ómnibus, dicens: S. Néscio, quid dicis. C. Exeúnte autem illo jánuam, vidit eum ália ancílla, et ait his, qui erant ibi: S. Et hic erat cum Jesu Nazaréno. C. Et íterum negávit cum juraménto: Quia non novi hóminem. Et post pusíllum accessérunt, qui stabant, et dixérunt Petro: S. Vere et tu ex illis es: nam et loquéla tua maniféstum te facit. C. Tunc cœpit detestári et juráre, quia non novísset hóminem. Et contínuo gallus cantávit. Et recordátus est Petrus verbi Jesu, quod díxerat: Priúsquam gallus cantet, ter me negábis. Et egréssus foras, flevit amáre. Mane autem facto, consílium iniérunt omnes príncipes sacerdótum et senióres pópuli advérsus Jesum, ut eum morti tráderent. Et vinctum adduxérunt eum, et tradidérunt Póntio Piláto praesidi. Tunc videns Judas, qui eum trádidit, quod damnátus esset, pæniténtia ductus, réttulit trigínta argénteos princípibus sacerdótum et senióribus, dicens: S. Peccávi, tradens sánguinem justum. C. At illi dixérunt: S. Quid ad nos? Tu vidéris. C. Et projéctis argénteis in templo, recéssit: et ábiens, láqueo se suspéndit. Príncipes autem sacerdótum, accéptis argénteis, dixérunt: S. Non licet eos míttere in córbonam: quia prétium sánguinis est. C. Consílio autem ínito, emérunt ex illis agrum fíguli, in sepultúram peregrinórum. Propter hoc vocátus est ager ille, Hacéldama, hoc est, ager sánguinis, usque in hodiérnum diem. Tunc implétum est, quod dictum est per Jeremíam Prophétam, dicéntem: Et accepérunt trigínta argénteos prétium appretiáti, quem appretiavérunt a fíliis Israël: et dedérunt eos in agrum fíguli, sicut constítuit mihi Dóminus. Jesus autem stetit ante praesidem, et interrogávit eum præses, dicens: S. Tu es Rex Judæórum? C. Dicit illi Jesus: J. Tu dicis. C. Et cum accusarétur a princípibus sacerdótum et senióribus, nihil respóndit. Tunc dicit illi Pilátus: S. Non audis, quanta advérsum te dicunt testimónia? C. Et non respóndit ei ad ullum verbum, ita ut mirarétur præses veheménter. Per diem autem sollémnem consuéverat præses pópulo dimíttere unum vinctum, quem voluíssent. Habébat autem tunc vinctum insígnem, qui dicebátur Barábbas. Congregátis ergo illis, dixit Pilátus: S. Quem vultis dimíttam vobis: Barábbam, an Jesum, qui dícitur Christus? C. Sciébat enim, quod per invídiam tradidíssent eum. Sedénte autem illo pro tribunáli, misit ad eum uxor ejus, dicens: S. Nihil tibi et justo illi: multa enim passa sum hódie per visum propter eum. C. Príncipes autem sacerdótum et senióres persuasérunt populis, ut péterent Barábbam, Jesum vero pérderent. Respóndens autem præses, ait illis: S. Quem vultis vobis de duóbus dimítti? C. At illi dixérunt: S. Barábbam. C. Dicit illis Pilátus: S. Quid ígitur fáciam de Jesu, qui dícitur Christus? C. Dicunt omnes: S. Crucifigátur. C. Ait illis præses: S. Quid enim mali fecit? C. At illi magis clamábant,dicéntes: S. Crucifigátur. C. Videns autem Pilátus, quia nihil profíceret, sed magis tumúltus fíeret: accépta aqua, lavit manus coram pópulo, dicens: S. Innocens ego sum a sánguine justi hujus: vos vidéritis. C. Et respóndens univérsus pópulus, dixit: S. Sanguis ejus super nos et super fílios nostros. C. Tunc dimísit illis Barábbam: Jesum autem flagellátum trádidit eis, ut crucifigerétur. Tunc mílites praesidis suscipiéntes Jesum in prætórium, congregavérunt ad eum univérsam cohórtem: et exuéntes eum, chlámydem coccíneam circumdedérunt ei: et plecténtes corónam de spinis, posuérunt super caput ejus, et arúndinem in déxtera ejus. Et genu flexo ante eum, illudébant ei, dicéntes: S. Ave, Rex Judæórum. C. Et exspuéntes in eum, accepérunt arúndinem, et percutiébant caput ejus. Et postquam illusérunt ei, exuérunt eum chlámyde et induérunt eum vestiméntis ejus, et duxérunt eum, ut crucifígerent. Exeúntes autem, invenérunt hóminem Cyrenaeum, nómine Simónem: hunc angariavérunt, ut tólleret crucem ejus. Et venérunt in locum, qui dícitur Gólgotha, quod est Calváriæ locus. Et dedérunt ei vinum bíbere cum felle mixtum. Et cum gustásset, nóluit bibere. Postquam autem crucifixérunt eum, divisérunt vestiménta ejus, sortem mitténtes: ut implerétur, quod dictum est per Prophétam dicentem: Divisérunt sibi vestiménta mea, et super vestem meam misérunt sortem. Et sedéntes, servábant eum. Et imposuérunt super caput ejus causam ipsíus scriptam: Hic est Jesus, Rex Judæórum. Tunc crucifíxi sunt cum eo duo latrónes: unus a dextris et unus a sinístris. Prætereúntes autem blasphemábant eum, movéntes cápita sua et dicéntes: S. Vah, qui déstruis templum Dei et in tríduo illud reædíficas: salva temetípsum. Si Fílius Dei es, descénde de cruce. C. Simíliter et príncipes sacerdótum illudéntes cum scribis et senióribus, dicébant: S. Alios salvos fecit, seípsum non potest salvum fácere: si Rex Israël est, descéndat nunc de cruce, et crédimus ei: confídit in Deo: líberet nunc, si vult eum: dixit enim: Quia Fílius Dei sum. C. Idípsum autem et latrónes, qui crucifíxi erant cum eo, improperábant ei. A sexta autem hora ténebræ factæ sunt super univérsam terram usque ad horam nonam. Et circa horam nonam clamávit Jesus voce magna, dicens: J. Eli, Eli, lamma sabactháni? C. Hoc est: J. Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquísti me? C. Quidam autem illic stantes et audiéntes dicébant: S. Elíam vocat iste. C. Et contínuo currens unus ex eis, accéptam spóngiam implévit acéto et impósuit arúndini, et dabat ei bíbere. Céteri vero dicébant: S. Sine, videámus, an véniat Elías líberans eum. C. Jesus autem íterum clamans voce magna, emísit spíritum.

Hic genuflectitur, et pausatur aliquantulum. …

Et ecce, velum templi scissum est in duas partes a summo usque deórsum: et terra mota est, et petræ scissæ sunt, et monuménta apérta sunt: et multa córpora sanctórum, qui dormíerant, surrexérunt. Et exeúntes de monuméntis post resurrectiónem ejus, venérunt in sanctam civitátem, et apparuérunt multis. Centúrio autem et qui cum eo erant, custodiéntes Jesum, viso terræmótu et his, quæ fiébant, timuérunt valde, dicéntes: S. Vere Fílius Dei erat iste. C. Erant autem ibi mulíeres multæ a longe, quæ secútæ erant Jesum a Galilaea, ministrántes ei: inter quas erat María Magdaléne, et María Jacóbi, et Joseph mater, et mater filiórum Zebedaei. Cum autem sero factum esset, venit quidam homo dives ab Arimathaea, nómine Joseph, qui et ipse discípulus erat Jesu. Hic accéssit ad Pilátum, et pétiit corpus Jesu. Tunc Pilátus jussit reddi corpus. Et accépto córpore, Joseph invólvit illud in síndone munda. Et pósuit illud in monuménto suo novo, quod excíderat in petra. Et advólvit saxum magnum ad óstium monuménti, et ábiit. Erat autem ibi María Magdaléne et áltera María, sedéntes contra sepúlcrum.

 [In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: J. Sapete bene che tra due giorni sarà Pasqua, e il Figlio dell’uomo verrà catturato per essere crocifisso. C. Si radunarono allora i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo nell’atrio del principe dei sacerdoti denominato Caifa, e tennero consiglio sul modo di catturar Gesù con inganno, e così poterlo uccidere. Ma dicevano: S. Non però nel giorno di festa perché non sorga un qualche tumulto nel popolo. C. Mentre Gesù si trovava in Betania nella casa di Simone il lebbroso, gli si avvicinò una donna che portava un vaso d’alabastro, pieno d’unguento prezioso, e lo versò sopra il capo di lui che era adagiato alla mensa. Ma nel veder ciò, i discepoli se ne indignarono e dissero: S. Perché tale sperpero? Poteva esser venduto quell’unguento a buon prezzo, e distribuito [il denaro] ai poveri. C. Ma, sentito questo, Gesù disse loro: J. Perché criticate voi questa donna? Ella invero ha fatto un’opera buona con me. I poveri infatti li avete sempre con voi, mentre non sempre potrete avere me. Spargendo poi questo unguento sopra il mio corpo, l’ha sparso come per alludere alla mia sepoltura. In verità io vi dico che in qualunque luogo sarà predicato questo vangelo, si narrerà altresì, in memoria di lei, quello che ha fatto. C. Allora uno dei dodici, detto Giuda Iscariote, se ne andò dai capi dei sacerdoti, e disse loro: S. Che mi volete dare, ed io ve lo darò nelle mani? C. Ed essi gli promisero trenta monete di argento. E da quel momento egli cercava l’occasione opportuna per darlo nelle loro mani. Or il primo giorno degli azzimi si accostarono a Gesù i discepoli e gli dissero: S. Dove vuoi tu che ti prepariamo per mangiare la Pasqua? C. E Gesù rispose loro: J. «Andate in città dal tale e ditegli: Il Maestro ti fa sapere: Il mio tempo oramai si è approssimato; io coi miei discepoli faccio la Pasqua da te». C. E i discepoli eseguirono quello che aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua. Venuta poi la sera [Gesù], si era messo a tavola coi suoi dodici discepoli; e mentre mangiavano, egli disse: J. In verità vi dico che uno di voi mi tradirà. C. Sommamente rattristati, essi cominciarono a uno a uno a dirgli: S. Forse sono io, o Signore? C. Ma egli in risposta disse: J. Chi con me stende [per intingere] la mano nel piatto, è proprio quello che mi tradirà. Il Figlio dell’uomo, è vero, se ne andrà, come sta scritto di lui; ma guai a quell’individuo, per opera del quale il Figliuolo dell’uomo sarà tradito! Era bene per lui il non esser mai nato! C. Pigliando la parola, Giuda, che poi lo tradì, gli disse: S. Sono forse io, o Maestro? C. Gli rispose [Gesù]: J. Tu l’hai detto. C. Stando dunque essi a cena, Gesù prese un pane, lo benedisse, lo spezzò e lo porse ai suoi discepoli, dicendo: J. Prendete e mangiate; questo è il mio Corpo. C. E preso un calice, rese le grazie, e lo dette loro, dicendo: J. Bevetene tutti. Questo è il mio Sangue del nuovo testamento, che sarà sparso per molti in remissione dei peccati. E vi dico ancora, che non berrò più di questo frutto della vite fino a quel giorno, in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio. C. Recitato quindi l’inno, uscirono, diretti al Monte oliveto. Disse allora Gesù: J. Tutti voi in questa notte proverete scandalo per causa mia. Sta scritto infatti: Percuoterò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge. Ma dopo che sarò resuscitato, vi precederò in Galilea. C. In risposta, Pietro allora gli disse: S. Anche se tutti fossero scandalizzati per te, io non mi scandalizzerò mai. C. E Gesù a lui: J. In verità ti dico che in questa medesima notte, prima che il gallo canti, tu mi avrai già rinnegato tre volte. C. E Pietro gli replico: S. Ancorché fosse necessario morire con te, io non ti rinnegherò. C. E dissero lo stesso gli altri discepoli. Arrivò alfine ad un luogo, nominato Getsemani, e Gesù disse ai suoi discepoli: J. Fermatevi qui, mentre io vado più in là a fare orazione. C. E presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a farsi triste e ad essere mesto. E disse loro: J. È afflitta l’anima mia fino a morirne. Rimanete qui e vegliate con me. C. E fattosi un poco più in avanti, si prostrò a terra colla faccia e disse: J. Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice. In ogni modo non come voglio io [si faccia], ma come vuoi tu. C. E tornò dai suoi discepoli e li trovò che dormivano. Disse quindi a Pietro: J. E cosi, non poteste vegliare un’ora con me? Vegliate e pregate, perché non siate sospinti in tentazione. Lo spirito, in realtà, è pronto, ma è fiacca la carne. C. Di nuovo se ne andò per la seconda volta, e pregò, dicendo: J. Padre mio, se non può passar questo calice senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà. C. E ritornò di nuovo a loro, e li ritrovò addormentati. I loro occhi erano proprio oppressi dal sonno. E, lasciatili stare, andò nuovamente a pregare per la terza volta, dicendo le stesse parole. Fu allora che si riavvicinò ai suoi discepoli e disse loro: J. Dormite pure e riposatevi. Oramai l’ora è vicina, e il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi e andiamo; ecco che è vicino colui che mi tradirà. C. Diceva appunto così, quando arrivò Giuda, uno dei dodici e con lui una gran turba di gente con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti e dagli anziani del popolo. Il traditore, aveva dato loro questo segnale, dicendo: S. Quello che io bacerò, è proprio lui; pigliatelo. C. E, senza indugiare, accostatosi a Gesù, disse: S. Salve, o Maestro! C. E gli dette un bacio. Gesù gli disse: J. Amico, a che fine sei tu venuto? C. E allora si fecero avanti gli misero le mani addosso e lo catturarono. Ma ecco che uno di quelli che erano con Gesù, stesa la mano, sfoderò una spada e, ferito un servo del principe dei sacerdoti, gli staccò un orecchio. Allora gli disse Gesù: J. Rimetti al suo posto la spada, perché chi darà di mano alla spada, di spada perirà. Credi tu forse che io non possa pregare il Padre mio, e che egli non possa fornirmi all’istante più di dodici legioni di Angeli? Come dunque potranno verificarsi le Scritture, dal momento che deve succedere così? C. In quel punto medesimo disse Gesù alle turbe: J. Come un assassino siete venuti a prendermi, con spade e bastoni. Ogni giorno io me ne stavo nel tempio a insegnare, e allora non mi prendeste mai. C. E tutto questo avvenne, perché si compissero le scritture dei Profeti. Dopo ciò, tutti i discepoli lo abbandonarono, dandosi alla fuga. Ma quelli, afferrato Gesù, lo condussero a Caifa; principe dei sacerdoti, presso il quale si erano radunati gli scribi e gli anziani. Pietro però lo aveva seguito alla lontana fino all’atrio del principe dei sacerdoti; ed, entrato là, si era messo a sedere coi servi allo scopo di vedere la fine. I capi dei sacerdoti intanto e tutto il consiglio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù per aver modo di metterlo a morte; ma non trovandola, si fecero avanti molti falsi testimoni. Per ultimo se ne presentarono altri due, e dissero: S. Costui disse: Io posso distruggere il tempio di Dio, e in tre giorni posso rifabbricarlo. C. Levatosi su allora il principe dei sacerdoti, disse [a Gesù]: S. Io ti scongiuro per il Dio vivo, che tu ci dica, se sei il Cristo, figlio di Dio. C. Gesù rispose: J. Tu l’hai detto. Anzi vi dico che vedrete altresì il Figlio dell’uomo, assiso alla destra della Potenza di Dio, venir giù sulle nubi del cielo. C. Il principe dei sacerdoti allora si strappò le vesti, dicendo: S. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. Egli ha bestemmiato! Che abbiamo più bisogno di testimoni? Voi stessi ora ne avete sentito la bestemmia! Che ve ne pare? C. È reo di morte! C. Allora gli sputarono in faccia e lo ammaccarono coi pugni. Altri poi lo schiaffeggiarono e gli dicevano: S. Indovina, o Cristo, chi è che ti ha percosso. C. Pietro intanto se ne stava seduto fuori nell’atrio. Or gli si accostò una serva e gli disse: S. Anche tu eri con Gesù di Galilea. C. Ma egli, alla presenza di tutti, negò, dicendo: S. Non capisco quello che dici. C. Mentre poi stava per uscire dalla porta, lo vide un’altra serva e disse ai presenti: S. Anche lui era con Gesù Nazareno! C. E di nuovo egli negò giurando: S. Io non conosco quest’uomo! C. Di lì a poco gli si avvicinarono coloro che si trovavano là, e dissero a Pietro: S. Tu sei davvero uno di quelli, perché anche il tuo accento ti da a conoscere per tale. C. Cominciò allora a imprecare e a scongiurare che non aveva mai conosciuto quell’uomo. E a un tratto il gallo cantò; allora Pietro si rammentò del discorso di Gesù: «Prima che il gallo canti, tu mi avrai rinnegato tre volte»; ed uscito di là, pianse amaramente. Fattosi poi giorno, tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo congiurarono insieme contro Gesù per metterlo a morte; e, legatolo, lo portarono via e lo presentarono al governatore Ponzio Pilato. Il traditore Giuda, allora, visto che Gesù era stato condannato, sospinto dal rimorso, riportò ai capi dei sacerdoti e agli anziani i trenta denari, e disse: S. Ho fatto male, tradendo il sangue d’un innocente! C. Ma essi risposero: S. Che ci importa? Pensaci tu! C. Gettate perciò nel tempio le trenta monete d’argento, egli si ritirò di là, andando a impiccarsi con un laccio. I capi dei sacerdoti per altro, raccattate le monete, dissero: S. Non conviene metterle colle altre nel tesoro, essendo prezzo di sangue. C. Dopo essersi consultati tra di loro, acquistarono con esse un campo d’un vasaio per seppellirvi i forestieri. Per questo, quel campo fu chiamato Aceldama, vale a dire, campo del sangue; e ciò fino ad oggi. Così si verificò quello che era stato predetto per mezzo di Geremia profeta: «Ed hanno ricevuto i trenta denari d’argento, prezzo di colui che fu venduto dai figliuoli d’Israele, e li hanno impiegati nell’acquisto del campo d’un vasaio, come mi aveva imposto il Signore». Gesù pertanto si trovò davanti al governatore, che lo interrogò, dicendogli: S. Sei tu il re dei giudei? C. Gesù gli rispose: J. Tu lo dici. C. Ed essendo stato accusato dai capi dei sacerdoti e dagli anziani, non rispose nulla. Gli disse allora Pilato: S. Non senti di quanti capi d’accusa ti fanno carico? C. Ma egli non replicò parola, cosicché il governatore ne rimase fortemente meravigliato. Nella ricorrenza della festività [pasquale] il governatore era solito di rilasciare al popolo un detenuto a loro piacimento. Ne aveva allora in prigione uno famoso, chiamato Barabba. A tutti coloro perciò che si erano ivi radunati, Pilato disse: S. Chi volete che io vi lasci libero? Barabba, oppure Gesù, chiamato il Cristo? C. Sapeva bene che per invidia gliel’avevano condotto lì. Mentre intanto egli se ne stava seduto in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: S. Non aver nulla da fare con quel giusto, perché oggi in sogno ho dovuto soffrire tante ansie per via di lui! C. Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani sobillarono il popolo, perché fosse chiesto Barabba e fosse ucciso Gesù. In risposta allora il governatore disse loro: S. Chi volete che vi sia rilasciato? C. E quei risposero: S. Barabba. C. Replicò loro Pilato: S. Che ne farò dunque di Gesù, chiamato il Cristo? C. E ad una voce, tutti risposero: S. Crocifiggilo! C. Disse loro il governatore: S. Ma che male ha fatto? C. Ed essi gridarono più forte, dicendo: S. Sia crocifisso! C. Vedendo Pilato che non si concludeva nulla, ma anzi che si accresceva il tumulto, presa dell’acqua, si lavò le mani alla presenza del popolo, dicendo: S. Io sono innocente del sangue di questo giusto; è affar vostro! C. E per risposta tutto quel popolo disse: S. Il sangue di lui ricada sopra di noi e sopra i nostri figli! C. Allora rilasciò libero Barabba; e, dopo averlo fatto flagellare, consegnò loro Gesù, perché fosse crocifisso. I soldati del governatore poi trascinarono Gesù nel pretorio e gli schierarono attorno tutta la coorte; e lo spogliarono, rivestendolo d’una clamide di color rosso. Intrecciata poi una corona di spine, gliela posero in testa, e nella mano destra [gli misero] una canna. E piegando il ginocchio davanti a lui, lo deridevano col dire: S. Salve, o re dei Giudei. C. E dopo avergli sputato addosso, presagli la canna, con essa lo battevano nel capo. E dopo che l’ebbero schernito, gli levarono di dosso la clamide, gli rimisero le sue vesti, e lo condussero via per crocifiggerlo. Nell’uscire [di città], trovarono un tale di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a pigliare la croce. E arrivarono a un luogo, detto Golgota, cioè, del cranio. E dettero da bere [a Gesù] del vino mescolato con fiele; ma avendolo egli gustato, non lo volle bere. E dopo che l’ebbero crocifisso, se ne divisero le vesti, tirandole a sorte. E ciò perché si adempisse quello che era stato detto dal Profeta, quando disse: «Si sono divisi i miei abiti ed hanno messo a sorte la mia veste». E, postisi a sedere, gli facevano la guardia. E al di sopra del capo di lui, appesero, scritta, la causa della sua condanna: – Questi è Gesù, re dei Giudei -. Furono allora crocifissi insieme con lui due ladroni: uno a destra ed uno a sinistra. E quelli che passavano di li, lo schernivano, crollando il capo, e dicevano: S. Tu che distruggi il tempio di Dio e che lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso; se sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla croce. C. Parimenti anche i capi dei sacerdoti lo deridevano, beffandosi di lui cogli scribi e cogli anziani del popolo, e dicendo: S. Salvò gli altri, e non può salvare se stesso. Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce, e noi gli crederemo. Confidò in Dio. Se vuole, Iddio lo liberi ora! O non disse che era Figliuolo di Dio? C. E questo pure gli rinfacciavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. Si fece poi un gran buio dall’ora sesta fino all’ora nona. E verso l’ora nona Gesù gridò con gran voce: J. Eli, Eli, lamma sabacthani; C. cioè: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ed alcuni che erano li vicini, sentitolo, dissero: S. Costui chiama Elia! C. E subito uno di loro, correndo, presa una spugna, l’inzuppò nell’aceto, e fermatala in vetta a una canna, gli dette da bere. Gli altri invece dicevano: S. Lasciami vedere, se viene Elia a liberarlo. C. Ma Gesù, gridando di nuovo a gran voce, rese lo spirito. Si genuflette per un momento. Ed ecco che il velo del tempio si divise in due parti dall’alto in basso; e la terra tremò; e le pietre si spaccarono, le tombe si aprirono, e molti corpi di Santi che vi erano sepolti, resuscitarono. Usciti anzi dai monumenti dopo la resurrezione di Lui, entrarono nella città santa e comparvero a molti. Il centurione poi e gli altri che con lui facevano la guardia a Gesù, veduto il terremoto e le cose che succedevano, ne ebbero gran paura e dissero: S. Costui era davvero il Figliuolo di Dio. C. C’erano pure lì, in disparte, molte donne che avevano seguito Gesù dalla Galilea per assisterlo, tra le quali era Maria Maddalena, e Maria di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo. Essendosi poi fatta sera, arrivò un uomo, ricco signore di Arimatea, chiamato Giuseppe, discepolo anche lui di Gesù. Egli si era presentato a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù; e Pilato aveva dato ordine che ne fosse restituito il corpo. E, presolo, Giuseppe lo avvolse in un lenzuolo pulito, e lo pose in un sepolcro nuovo, che si era già fatto scavare in un masso; e, dopo aver ribaltata alla bocca della tomba una gran lapide, se ne andò. Erano ivi Maria Maddalena e l’altra Maria, sedute di davanti al sepolcro.]

Credo

Offertorium

Orémus Ps LXVIII:21-22.

Impropérium exspectávit cor meum et misériam: et sustínui, qui simul mecum contristarétur, et non fuit: consolántem me quæsívi, et non invéni: et dedérunt in escam meam fel, et in siti mea potavérunt me acéto. [Oltraggio e dolore mi spezzano il cuore; attendevo compassione da qualcuno, e non ci fu; qualcuno che mi consolasse e non lo trovai: per cibo mi diedero del fiele e assetato mi hanno dato da bere dell’aceto.]

Secreta

Concéde, quæsumus, Dómine: ut oculis tuæ majestátis munus oblátum, et grátiam nobis devotionis obtineat, et efféctum beátæ perennitátis acquírat. [Concedi, te ne preghiamo, o Signore, che quest’ostia offerta alla presenza della tua Maestà, ci ottenga la grazia della devozione e ci acquisti il possesso della Eternità beata.]

Communio Matt XXVI:42.

Pater, si non potest hic calix transíre, nisi bibam illum: fiat volúntas tua. [Padre mio, se non è possibile che questo calice passi senza chi lo beva, sia fatta la tua volontà.]

Postcommunio.

Orémus.

Per hujus, Dómine, operatiónem mystérii: et vitia nostra purgéntur, et justa desidéria compleántur. [O Signore, per l’efficacia di questo sacramento, siano purgati i nostri vizi e appagati i nostri giusti desideri.].

DOMENICA I DI PASSIONE [2018]

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps XLII:1-2.

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Ps XLII:3

Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me de duxérunt et adduxérunt in montem sanctum tuum et in tabernácula tua. [Manda la tua luce e la tua verità: esse mi guídino al tuo santo monte e ai tuoi tabernàcoli.]

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Oratio

Orémus. Quæsumus, omnípotens Deus, familiam tuam propítius réspice: ut, te largiénte, regátur in córpore; et, te servánte, custodiátur in mente. [Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, guarda propízio alla tua famiglia, affinché per bontà tua sia ben guidata quanto al corpo, e per grazia tua sia ben custodita quanto all’ànima.]

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebræos.

Hebr IX:11-15

Fatres: Christus assístens Pontifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum, et cinis vítulæ aspérsus, inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ideo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

OMELIA I

[da Nuovo Saggio di OMELIE di mons. Bonomelli – 3^ ed. VOL. II, Omelia IX– Marietti ed. Torino 1898- impr.]

“Venuto Cristo, pontefice dei beni futuri, per un maggiore e più perfetto tabernacolo, non fatto a mano, cioè non di questa creazione, né per il sangue di capri o di vitelli, ma per il proprio sangue è entrato una volta per tutte nel Santuario, avendo compiuta una redenzione eterna. Che se il sangue dei “capri e dei tori ed il cenere di giovenca,, sparso sopra i contaminati, santifica a purità della carne; quanto più il sangue di Cristo, il quale, per lo Spirito Santo, offerse se stesso immacolato a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire al Dio vivente? E per questo egli è mediatore del nuovo Testamento, acciocché, intervenutavi la morte, a pagamento delle trasgressioni avvenute sotto l’Alleanza prima, i chiamati ricevano la promessa della eredità eterna „ (Agli Ebrei, IX, 11-15).

Sono cinque versetti, tolti dal capo IX della lettera di S. Paolo agli Ebrei, che la Chiesa ci fa leggere nella Messa di questa Domenica, che dicesi di Passione, perché oggi cominciano i grandi misteri della passione di nostro Signore. È la prima volta, che devo spiegarvi alcune sentenze di questa lettera agli Ebrei, e trovo conveniente premettere alcune avvertenze, che chiariranno alquanto il senso dei versetti che avete uditi. – Questa lettera fu scritta dall’Italia, come si fa manifesto dal penultimo versetto dell’ultimo capo, forse da Roma, dove l’Apostolo era stato in carcere, di recente uscitone tra la prima e la seconda sua prigionia, circa sei anni prima della distruzione di Gerusalemme e quattro circa prima della sua morte. La lettera è scritta ai Cristiani di Palestina, che prima erano stati Giudei. Questi credevano che Gesù Cristo era il Messia, il Figliuol di Dio e tutto ciò ch’Egli aveva insegnato e comandato; ma, nati e cresciuti nel giudaismo, non sapevano staccarsi dalle sue leggi, dai suoi riti, dai suoi sacrifici, dalle sue grandezze, e male sapevano entrare nello spirito del Cristianesimo, tutto fede, vita interna, speranze future, rinnegamento di se stessi, insegnamento della croce. L’antico Patto, iniziato dagli Angeli, proclamato da Mosè, imperniato nel sacerdozio di Aronne, la magnificenza del tempio, le memorie del tabernacolo, dell’arca, delle tavole della legge e via dicendo, esercitavano un fascino incredibile sui loro animi, che noi oggi non possiamo abbastanza comprendere; non sapevano rinunciarvi e alla men peggio essi volevano che il mosaismo dovesse mantenersi per sempre anche nel Cristianesimo. S. Paolo nella sua lettera, si propone di dissipare questi pregiudizi dei Giudei convertiti, che di mente e di cuore erano in gran parte ancora Giudei. Perciò nella lettera toglie a dimostrare la sovrana eccellenza del nuovo sull’antico Patto, del Cristianesimo sul mosaismo, della Chiesa sulla sinagoga, specialmente per tre capi, cioè in quantoché Cristo, Figlio di Dio, di infinito intervallo sovrasta agli Angeli, a Mosè, ad Aronne, ed è il mediatore per eccellenza e l’eterno Pontefice. È questo lo scopo di tutta la lettera, per chi bene la considera. Nel breve tratto recitato e che ora devo spiegare, l’Apostolo dimostra che Cristo, per ragione del suo sacerdozio, sta sopra l’antico, perché Egli è entrato nel santuario vero, cioè il cielo, non nel sangue altrui, nel sangue delle vittime immolate, ma nel proprio sangue, avente efficacia per se stesso. Ora svolgiamo l’alto insegnamento dell’Apostolo e voi, o cari, raddoppiate l’attenzione, perché il soggetto ne è ben degno. “Venuto Cristo, pontefice dei beni futuri, per un maggiore e più perfetto tabernacolo, non fatto a mano, cioè non di questa creazione, né per il sangue di capri o di vitelli, ma per il proprio sangue, è entrato una volta per tutte nel Santuario, avendo compiuta una redenzione eterna. „ Affinché possiamo capire ciò che S. Paolo insegna in questo luogo, occorre accennare brevemente a ciò che dice nei versetti precedenti, e che riguarda le cose principali spettanti al culto dell’antica legge. Le cose del culto nella legge mosaica erano minutamente determinate e tutte e ciascuna avevano un significato proprio. Il popolo ebraico aveva un sol tempio in Gerusalemme, al quale tre volte all’anno si recavano tutti i figli d’Israele giunti all’età di dodici anni. In quel tempio vastissimo tutto era ordinato: nel centro era il luogo destinato ai sacerdoti: nel mezzo il grande altare destinato agli olocausti, ossia al bruciamento delle vittime: oltre l’altare degli olocausti era il vestibolo od atrio: dopo l’atrio c’era il tabernacolo anteriore, o primo tabernacolo, o luogo santo, e finalmente il Santo dei santi, o Santissimo, o secondo tabernacolo, separato dal Santo dei santi, o Santissimo, mediante un velo. Nel primo tabernacolo, o luogo santo, erano il candelabro con le sette lucerne sempre accese, la mensa coi dodici pani, uno per ciascuna tribù d’Israele, e che si rinnovavano ogni sette giorni. Nel Santo de’ santi, o Santissimo, si conservavano il turibolo d’oro, l’arca del Testamento, ed in essa, rivestita d’oro, l’urna d’oro racchiudente la manna, la verga d’Aronne e le tavole della legge. Nel luogo santo, o primo tabernacolo, i sacerdoti entravano due volte al giorno per gli uffici sacri; ma nel secondo tabernacolo, o Santo dei santi, entrava il solo sommo pontefice ed una volta all’anno per offrirvi il sangue della vittima in espiazione dei peccati suoi e del popolo. – Tutto questo significava, dice S. Paolo, che non era ancora venuto il tempo nel quale tutti potessero entrare nel Santo de1 santi, e che dovevano limitarsi a sacrifici, abluzioni e riti materiali, che non avevano forza di santificare la coscienza, e che tutto quel culto doveva durare finché venisse il raddrizzamento (usque ad tempus correctionis), cioè finché venisse Colui che compisse la legge e schiudesse il Santo de’ santi e vi introducesse tutti i redenti. Ora, continua S. Paolo: “È venuto Cristo,, pontefice dei beni futuri; „ al pontefice dell’ordine di Aronne è sottentrato Cristo, il sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec, alla figura è sottentrata la realtà. A quelli che vivevano sotto il sacerdozio mosaico, cioè ai figli d’Israele, se osservavano la legge, era promessa principalmente una mercede temporale: ma Cristo, Pontefice della nuova legge, promette e a suo tempo darà beni celesti, ricompense incomparabilmente più nobili: Christus… Pontifex futurorum honorum. Voi, carissimi, non ignorate l’economia e il carattere dell’antica legge: a chi la trasgrediva erano minacciate pene temporali, e non rare volte inflitta perfino la morte: a chi la osservava erano promessi beni temporali, vittorie sui nemici, abbondanza dei frutti della terra, pace ed ogni prosperità. Ben è vero, che, oltre i castighi e le ricompense terrene, ai trasgressori ed agli osservatori della legge, erano riserbati altresì castighi e premi nella vita futura; ma in generale nei Libri santi si parla più assai di castighi e premi temporali che degli eterni, attesa la natura grossolana del popolo ebraico. La legge nuova, per contrario, ai suoi seguaci non parla che dei premi e dei castighi della vita futura: ai credenti, ai virtuosi quaggiù sulla terra non promette mai la mercede dovuta, ma la mostra aldilà della tomba; anzi va più oltre: ai credenti, ai virtuosi, qui sulla terra annunzia persecuzioni, dolori, travagli, e l’apostolo S. Paolo non teme di proclamare altamente “… che tutti quelli che vogliono vivere piamente secondo Cristo, soffriranno persecuzione — Omnes qui pie volunt vivere in Christo Jesu persecutionem patientur. „ È questo il carattere proprio della dottrina di Cristo, che in ciò si differenzia dal mosaismo e di gran lunga si innalza sopra di esso. Nondimeno, bisogna confessarlo, non mancano anche tra i Cristiani alcuni, che, malamente applicando alla nuova legge le parole dei Libri santi, che si riferiscono soltanto alla mosaica, e seguendo un cotale spirito giudaico, promettono alla virtù ricompense terrene e al vizio denunziano terrene vendette (Talvolta Iddio può ricompensare la virtù e punire il vizio anche sulla terra ; ma non è economia regolare come nel mosaismo, e noi non possiamo dire ciò in particolare se non quando vi sono argomenti chiari ed evidenti.), e  tutto questo in modo ordinario ed a nome di Dio. Ah! no, carissimi. Noi dobbiamo vivere di fede, come vuole l’Apostolo: la nostra vita deve essere la copia della vita di Cristo, che in terra patì ogni maniera di umiliazioni e dolori: la nostra speranza, la nostra mercede non è quaggiù, ma lassù in cielo: noi siamo discepoli di un Pontefice che promette beni futuri: Poritifex futurorum honorum. Il pontefice ebraico, una sola volta all’anno entrava nel Santo dei santi, ch’era opera degli uomini: Gesù Cristo, scrive l’Apostolo, il Pontefice nostro, è entrato in un tabernacolo, nel vero Santo dei santi, raffigurato dal primo, che è il cielo dei cieli, non opera degli uomini, ma di Dio stesso. Il pontefice ebraico entrava nel Santo dei santi, offrendo il sangue di due vittime per i peccati propri e del popolo; Gesù Cristo è entrato in cielo, non col sangue delle vittime, ma per il sangue proprio, e offerto non per i peccati suoi, che non poteva averne, Lui sacerdote santo, innocente, immacolato, non avente parte alcuna con i peccatori (Capo VII, 26). Il pontefice ebraico entrava nel Santo dei santi una volta sola all’anno, ma tutti gli anni, ripetendo gli stessi sacrifici. Pensano alcuni interpreti, anche assai autorevoli, che in quel tabernacolo, maggiore e più perfetto, nel quale dicesi entrato Cristo, sia rappresentata la Chiesa militante, o l’Umanità santa di Cristo. Ma non so come Cristo debba passare per la Chiesa militante e molto meno possa passare per la sua Umanità. — L’una e l’altra sentenza parmi strana, è entrato in cielo una volta sola, e questa non si ripete, perché vale per tutte; e vale per tutte, perché la espiazione da Lui compiuta con il suo sangue è eterna, cioè bastevole per tutti e per tutti i secoli. Gli antichi sacrifici, quelli stessi offerti solennemente una volta all’anno dal sommo pontefice, si dovevano ripetere: ora la stessa necessità del dover ripetere quei sacrifici, grida in altro luogo l’Apostolo, vi dimostra la loro poca efficacia, la loro impotenza di santificare gli uomini (Capo X, 2). Penso che, udendo questa dottrina dell’Apostolo, si affacci alla vostra mente una difficoltà, che è bene sciogliere. Se dal ripetersi i sacrifici nell’antica legge, S. Paolo arguisce la loro poca efficacia e la loro impotenza di santificare le anime, altri potrebbe alla stessa maniera argomentare contro il Sacrificio stesso di Cristo sulla croce, che ogni giorno si ripete senza numero sulla faccia della terra nel sacrificio dell’altare. Ma la risposta è facile e perentoria, o carissimi figliuoli. I sacrifici dell’antica legge erano diversi e distinti tra loro, in guisa che ciascuno era vero sacrificio da se stesso. La cosa va ben altrimenti quanto al Sacrificio di Cristo consumato sulla croce e rinnovato sui nostri altari in ogni Messa che si celebra. Noi teniamo per fede, che il Sacrificio della nuova legge è un solo, quello della croce, al quale nulla si può aggiungere, nulla levare, e sovrabbonda a tutti i bisogni nostri. Nella Messa abbiamo un vero e proprio Sacrificio, ma non è altro che quello stesso della croce: l’unica differenza che corre tra l’uno e l’altro è accidentale, ossia di modo: quello della croce fu sanguinoso, questo della Messa è incruento e si compie sotto le specie del pane e del vino. La vittima che si offre, è la stessa, l’Uomo-Dio, Gesù Cristo; sul Calvario sparse visibilmente il suo sangue e morì: sull’altare sparge il sangue e muore misticamente in quantoché sotto le specie eucaristiche rappresenta veramente ciò che fece sulla croce. Sulla croce offerse e compì il suo Sacrificio, sull’altare lo ripete, e quasi direi, lo prolunga e lo applica agli uomini attraverso lo spazio e il tempo. Un fiume sgorga dai fianchi delle Alpi, e scorrendo per valli e per pianure volge al mare l’ampio volume delle sue acque: esso è un solo fiume, sempre quel solo e medesimo fiume, che scaturisce dalle Alpi, che bagna le valli, che tocca le borgate e le città che trova sulle sue sponde, che irriga le pianure, che sbocca nel mare. Così è il sacrificio del Calvario, un solo, sempre lo stesso, che sotto altra forma continua in tutti i punti dello spazio e del tempo fino all’ultimo giorno dei secoli. Ecco perché san Paolo più innanzi (X, 14) pronuncerà questa sublime sentenza: “Cristo con un solo Sacrificio in perpetuo fece perfetti i santificati — Una oblatione consummavit in sempiternum sanctificatos. „ Ora torniamo al nostro commento là dove  l’abbiamo lasciato. Dopo aver detto che Cristo, eterno Pontefice, entrò nel vero Santuario, che è il cielo, una sola volta per tutte, e vi entrò con il proprio sangue, offrendo a tutti per tutti i secoli una compiuta espiazione, prosegue e così ragiona: “Che se il sangue di capri e di tori ed il cenere di giovenca sparso sopra i contaminati (Nel Levitico e nei Numeri, particolarmente al c. XIX, Mosè parla a lungo di quelle che si dicono immondezze della carne od esterne. Era immondo il lebbroso e chi lo toccava: immonda la puerpera, chi toccava un cadavere, ecc. ecc. Erano immondezze materiali, non morali, ma che non permettevano a chi n’era macchiato, il consorzio civile e religioso, se non si purificava con le abluzioni o con i sacrifici prescritti, che erano molti e gravosi), santifica a purità della carne, quanto più il sangue di Cristo, il quale, per lo Spirito Santo, offerse se stesso immacolato a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire al Dio vivente! „ È un argomento semplicissimo e calzante usato con gli Ebrei divenuti Cristiani. Voi tenete che il sangue delle vittime e le purificazioni stabilite da Mosè vi nettino dalle immondezze legali e vi rendano possibile il consorzio civile e la partecipazione delle cose sacre, e sta bene: ora come potrete voi, dice S. Paolo, dubitare che il sangue della Vittima divina, pura ed immacolata, che è Gesù Cristo, che si offerse a Dio con atto d’amore ardentissimo, prosciolga le coscienze, le anime vostre da ogni sozzura di peccato e vi renda atti a servire debitamente a Dio? Qui l’Apostolo mette in rilievo la profonda differenza che passa tra l’efficacia dei sacrifici antichi e il Sacrificio di Cristo. Quelli, per se stessi, non producevano che una purificazione esterna, legale, materiale, e se producevano anche la interna, spirituale, dinanzi a Dio, era unicamente in quanto risvegliava la fede nel futuro Messia e nel suo Sacrificio, doveché questo monda l’anima per virtù propria, la rende bella agli occhi di Dio, liberandola dalle opere morte, cioè dai peccati. E perché i peccati si dicono opere morte? Perché come le cose morte, i cadaveri, sono brutti a vedersi, fanno ribrezzo, gettano lezzo, e nell’antica legge rendevano immondo chi li toccava; così i peccati fanno l’anima brutta e schifosa a Dio, e a così dire lo costringono a torcere altrove gli sguardi. Purificata dai peccati, l’anima è atta a servire al Dio vivente, dice l’Apostolo, mettendo in rilievo il passaggio di stato, d’essere prima soggetta alle opere morte, e poi di poter servire a Dio vivente. “E per questo, conchiude S. Paolo il suo ragionamento, e per questo è mediatore del Testamento nuovo, acciocché, intervenutavi la morte a pagamento delle trasgressioni avvenute sotto l’Alleanza prima, i chiamati ricevano la promessa della eredità eterna. „ – L’Apostolo spiega perché Cristo è l’autore e mediatore del nuovo Testamento, e qui lasciate, o cari, che spieghi un po’ diffusamente il valore di queste parole “testamento” e “mediatore”. Si parla assai spesso di patto, di alleanza, di testamento antico, e di patto, di alleanza e testamento nuovo. Che vogliono dire queste parole? Qual è la ragione del loro uso nel linguaggio sacro? Dio fece promesse solenni a Noè, ad Abramo, ad Isacco, a Mosè: promesse di protezione, di beni temporali e spirituali, e soprattutto fece la gran promessa del futuro Salvatore, che sarebbe venuto dalla progenie di Abramo e dalla famiglia di Davide. Le promesse dei beni temporali, come sapete, erano legate alla condizione che i figli di Abramo e di Giacobbe sarebbero stati fedeli alla osservanza della legge. Le promesse divine furono accettate dai patriarchi e dal popolo registrate nei Libri santi. Era un patto, un’alleanza stretta tra Dio ed il suo popolo, una specie di contratto giurato e consacrato con il sangue delle vittime immolate. L’osservanza del patto con Dio da parte del popolo portava naturalmente il diritto di avere i beni da Dio promessi, e da parte di Dio l’obbligo di darli: ecco perché; i chiamò alleanza o patto, si disse poi anche testamento, perché al possesso dei beni spirituali e della vita eterna che ne è il termine ultimo, non sarebbero giunti che per la morte di Cristo. Ben è vero che gli Ebrei ebbero i beni temporali prima della morte di Cristo: ma quei beni temporali erano figura degli spirituali, e poiché questi non si potevano ottenere che per la morte di Cristo, così anche per ragione dei primi l’economia mosaica meritamente fu detta testamento. In una parola: la disposizione che dicesi testamento, ha vigore dopo la morte del testatore, e solo dopo questa l’erede riceve il possesso della eredità: ora tutte le promesse fatte da Dio agli uomini, quanto ai beni spirituali, erano tutte necessariamente legate alla morte di Cristo, come causa meritoria, e solo alla sua morte si sarebbero dischiuse le porte dei cieli ed avuto il possesso della vita eterna, ed è perciò che Cristo si chiama mediatore del Testamento nuovo, che completa il vecchio imperfetto. S. Paolo in questo luogo e in altri chiama Cristo mediatore in termini, implicitamente poi, dovunque nei Libri santi, è rappresentato come mediatore. La parola mediatore per se stessa importa l’idea d’uno che sta tra due e si adopera a conciliarli tra loro. A chi meglio che a Cristo si addice la dignità di mediatore? Egli primieramente è mediatore tra Dio e l’umano genere per natura, come avvertono i Padri. Gesù Cristo è vero Dio e vero Uomo: in Lui è perfetta la natura umana non meno della divina e unica la persona, e questa è divina. In Lui pertanto si congiungono la natura umana e la divina per guisa ch’Egli è veramente infinito e finito, eterno e temporario, immutabile e mutabile, in una parola Dio e uomo: Egli è, come scrisse S. Gregorio Nisseno, il punto che congiunge le due sponde del finito e dell’infinito, pel quale passano tutti i doni di Dio agli uomini, e per il quale gli uomini e gli Angeli stessi, dei quali ancora è capo, vanno a Dio. In questo senso Gesù Cristo è mediatore naturale. Egli poi adempie con sovrana perfezione gli uffici tutti di mediatore. Egli, in quanto uomo, paga per noi non solo, ma alla giustizia divina offre se stesso qual vittima espiatrice e propiziatrice in modo perenne, e salva da una parte tutti i diritti della giustizia eterna, pagando della sua stessa Persona in misura infinita, e dall’altra spiegando le magnificenze della sua carità, col patire e morire per gli uomini colpevoli, ond’Egli è la nostra conciliazione e la nostra pace, come insegna l’Apostolo. Carissimi! Gesù Cristo è il Figlio di Dio e di Maria: in Lui il Padre trova tutte le sue compiacenze: in Lui ama ed abbraccia tutti quelli che per fede ed amore a Lui sono uniti e somiglianti: a Gesù Cristo adunque, fratel nostro secondo la carne, stringiamoci per fede viva, per salda speranza, per ardente carità: a Lui facciamoci simili nelle parole e nelle opere, e dov’Egli è, noi pure saremo.

Graduale Ps CXLII:9, 10

Eripe me, Dómine, de inimícis meis: doce me fácere voluntátem tuam

Ps XVII:48-49

Liberátor meus, Dómine, de géntibus iracúndis: ab insurgéntibus in me exaltábis me: a viro iníquo erípies me.

Tractus Ps CXXVIII:1-4

Sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

[Mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Dicat nunc Israël: sæpe expugnavérunt me a juventúte mea. [Lo dica Israele: mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Etenim non potuérunt mihi: supra dorsum meum fabricavérunt peccatóres. V. [Ma non mi hanno vinto: i peccatori hanno fabbricato sopra le mie spalle.]

Prolongavérunt iniquitátes suas: Dóminus justus cóncidit cervíces peccatórum. [Per lungo tempo mi hanno angariato: ma il Signore giusto schiaccerà i peccatori.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VIII: 46-59

“In illo témpore: Dicébat Jesus turbis Judæórum: Quis ex vobis árguet me de peccáto? Si veritátem dico vobis, quare non créditis mihi? Qui ex Deo est, verba Dei audit. Proptérea vos non audítis, quia ex Deo non estis. Respondérunt ergo Judæi et dixérunt ei: Nonne bene dícimus nos, quia Samaritánus es tu, et dæmónium habes? Respóndit Jesus: Ego dæmónium non hábeo, sed honorífico Patrem meum, et vos inhonorástis me. Ego autem non quæro glóriam meam: est, qui quærat et júdicet. Amen, amen, dico vobis: si quis sermónem meum serváverit, mortem non vidébit in ætérnum. Dixérunt ergo Judaei: Nunc cognóvimus, quia dæmónium habes. Abraham mórtuus est et Prophétæ; et tu dicis: Si quis sermónem meum serváverit, non gustábit mortem in ætérnum. Numquid tu major es patre nostro Abraham, qui mórtuus est? et Prophétæ mórtui sunt. Quem teípsum facis? Respóndit Jesus: Si ego glorífico meípsum, glória mea nihil est: est Pater meus, qui gloríficat me, quem vos dícitis, quia Deus vester est, et non cognovístis eum: ego autem novi eum: et si díxero, quia non scio eum, ero símilis vobis, mendax. Sed scio eum et sermónem ejus servo. Abraham pater vester exsultávit, ut vidéret diem meum: vidit, et gavísus est. Dixérunt ergo Judaei ad eum: Quinquagínta annos nondum habes, et Abraham vidísti? Dixit eis Jesus: Amen, amen, dico vobis, antequam Abraham fíeret, ego sum. Tulérunt ergo lápides, ut jácerent in eum: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo.” Laus tibi, Christe!

Omelia II

 [Idem om. X]

“Chi di voi mi convince di peccato? S’io dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non ascoltate, perché non siete da Dio. Allora i Giudei risposero e gli dissero: Ora non diciamo noi bene, che tu sei un Samaritano, e che hai addosso il demonio? Gesù rispose: Io non ho addosso il demonio, ma onoro il Padre mio e voi mi disonorate. Ma io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca e ne giudica. In verità, in verità vi dico: Se alcuno osserva la mia parola, non vedrà morte in eterno. Laonde i Giudei gli dissero: Ora conosciamo che hai addosso il demonio. Abramo e i profeti son morti: e tu dici: Chi osserva la mia parola non vedrà morte in eterno! Sei forse da più di Abramo, padre nostro, che morì? E dei profeti, che morirono? Che pretendi di essere? Gesù rispose: Se io glorifico me stesso, la mia gloria è nulla; quegli che mi glorifica è il Padre mio, il quale voi dite essere vostro Dio. Eppure non l’avete conosciuto; ma Io lo conosco: e se dicessi di non lo conoscere, sarei bugiardo simile a voi; ma lo conosco e osservo la sua parola. Abramo, il padre vostro, giubilando, desiderò vedere il mio giorno: lo vide, e se ne rallegrò. A1lora i Giudei gli dissero: Non hai ancor cinquant’anni e hai veduto Abramo? Gesù disse loro: I n verità, in verità vi dico: Prima che nascesse Abramo, io sono. Essi allora diedero di piglio alle pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose, e uscì dal tempio „ (S. Giov. VIII, 46-59).

Era il mese di settembre dell’anno precedente la morte di Gesù Cristo, e in Gerusalemme si celebrava la festa solenne della Seenopegia, ossia dei Tabernacoli, che ricordava i quarant’anni vissuti dal popolo sotto le tende nel deserto. Quella festa durava otto giorni e chiamava al tempio tutti i Giudei che non erano dispensati. Gesù vi andò con i suoi discepoli, e nel tempio stesso, o forse nell’atrio. ebbe molte e lunghe discussioni con i dottori o maestri della legge, presenti, com’era naturale, molti del popolo. Queste discussioni tra Gesù e i principi del popolo e i maestri della legge, versavano quasi interamente sulla sua missione divina, e si trovano compendiate nei capi settimo e ottavo di S. Giovanni, e i quattordici versi sopra riportati ne sono una piccola parte. La spiegazione è piana e facile ma, non posso dissimularlo, mi torna grave e molesto il darvela, perché vi si incontrano le più atroci ingiurie e le più orribili bestemmie lanciate in faccia a Gesù Cristo stesso. Ma se i nostri cuori proveranno una stretta dolorosa, udendo quei vituperi e quelle bestemmie esecrabili scagliate contro il Figlio  di Dio fatto uomo, ne riceveranno anche lume e conforto, ammirando la bontà di Chi le sofferse con tanta mansuetudine, e meditando l’alta lezione, che ci è data.“Chi di voi mi convince di peccato? „ Nei versetti che precedono Cristo aveva rimproverato ai Giudei il disegno già da loro concepito di ucciderlo, nel che mostravano di seguire il demonio, che fin da principio fu omicida, trascinando i progenitori nel peccato e sottoponendoli alla morte, e bugiardo e padre di bugia, ingannandoli. Per mostrare che dovevano credere alle sue parole, soggiunge: “Chi di voi mi convince di peccato ? „ S’Io violassi la legge, se fossi in qualche cosa colpevole, avreste ragione di rifiutarmi fede: ma voi non trovate, né potrete mai trovare colpa alcuna in me: perché dunque resistete alla mia dottrina? Perché non mi credete? Questa solenne sfida di Gesù Cristo fatta ai suoi nemici “Chi di voi mi convince di peccato, „ non poteva uscire che dalle sue labbra. Egli francamente afferma d’essere immune d’ogni colpa: e come poteva essere altrimenti? Egli era Uomo-Dio; l’umana natura sussisteva nella Persona del Verbo, e se l’umana sua natura avesse potuto peccare, Dio stesso avrebbe peccato, che è assurdo e bestemmia orrenda. Ma Io so, continua Cristo, Io so perché voi non credete alle mie parole: “Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; „ cioè chi ha lo spirito di Dio, chi ama Dio, chi è inchinevole ad ubbidire a Dio, ascolta volentieri le sue parole e crede ad esse: voi non avete lo spirito di Dio, voi non lo amate, perciò non ascoltate le parole mie, che sono quelle di Dio stesso. È ciò che avviene anche tra gli uomini. Se noi abbiamo stima d’una persona, se l’amiamo, se abbiamo comunanza di idee, ci sentiamo inchinevoli a porgere orecchio benevolo alle sue parole, le accogliamo facilmente e non ci permettiamo nemmeno di esaminarle o discuterle. Il figlio ascolta volentieri le parole del padre, la sposa quelle dello sposo, l’amico quelle dell’amico, perché hanno comune lo spirito, e l’amore unisce misteriosamente i loro cuori e le loro menti. Ecco perché le anime pie ascoltano docilmente la parola di Dio, e le anime tristi e malvagie ne provano noia e dispetto. Ciascuno ne può fare in se stesso la prova: si ascolta con piacere ciò che si ama, ciò che risponde ai bisogni del nostro cuore: amiamo Dio ed ascolteremo volentieri le sue parole. I Giudei compresero il rimprovero di Cristo, che in sostanza diceva loro che non avevano lo spirito di Dio, e pieni d’ira, con mal piglio gli dissero: “E non diciamo bene noi che tu sei un Samaritano ed hai addosso il diavolo? „ Insulto più bestiale e più empia e scellerata ingiuria non si poteva gettare in viso al Figliuol di Dio, al Santo dei santi! E ponete mente che l’orrida ingiuria era fatta a Gesù nel tempio, alla presenza dei suoi discepoli e d’una gran folla, e fatta con un’aria di cinica beffa, che la rende ancor più cocente. “E non diciamo noi bene che tu sei un Samaritano ed hai il demonio addosso? „ Qui si fa chiaro che altra volta, anzi poco prima gli avevano scagliato contro l’orrendo insulto, ancorché il Vangelo non lo riporti, ed ora freddamente lo riconfermano, e per giunta dicono: “Sì, noi diciamo bene, né punto ci inganniamo,, . – Due titoli, l’uno più ingiurioso dell’altro, appongono a Cristo: lo chiamano Samaritano e posseduto dal demonio. Per i Giudei i Samaritani erano doppiamente nemici, degni di disprezzo e d’odio: essi erano nemici nel senso nazionale e patriottico e più ancora nel senso religioso, come disertori dell’antica fede. L’astio tra i due popoli era profondo e comune in tutte le classi sociali, a talché la donna samaritana rifiutò a Cristo un po’ d’acqua, che le aveva chiesto, unicamente perché era giudeo, e altra volta gli abitanti d’un castello gli chiusero in faccia le porte, perché se ne andava a Gerusalemme. I Giudei forse avevano saputo delle escursioni di Cristo nella Samaria, della conversione di molti tra di loro, e nominatamente della donna al pozzo di Sichem; fors’anche avevano udito della parabola da Lui recitata, in cui il Samaritano dava una terribile lezione al sacerdote ed al levita, e si proponeva quale modello di carità: perciò era venuto in voce di amico dei Samaritani, di questi nemici della patria, del culto e della fede pura dei Giudei, e per dirgli una villania gravissima, rispondono a Gesù: “E non diciamo noi bene che tu sei un Samaritano,„ cioè amico dei nemici della patria nostra e disertore della nostra religione? – E non basta, aggiungono ancora: “Ed hai addosso il demonio. „ Un uomo posseduto dal demonio, che agisce sotto l’impulso del demonio, che è schiavo del demonio, valeva dire del padre della bugia e autore del male, è l’uomo peggiore che si possa immaginare, il più sciagurato di tutti gli esseri. Ebbene: questo atrocissimo insulto fu detto a Gesù Cristo: “Tu hai addosso il demonio! „ Oh scelleraggine che non ha nome! Oh orrore! E Gesù che disse? che fece? Ah! noi avremmo voluto che in quell’istante avesse lasciato trasparire la luce, che lo avvolgeva sul Tabor, che avesse armata la destra di fulmini, che sotto il peso della sua gloria avesse schiacciati quei miserabili e copertili di vituperio: ma queste sono le idee nostre, affatto umane, ben diverse dai consigli della sapienza e della misericordia di Dio. Gesù, udita quella orribile contumelia, con tutta calma e con sovrana dignità, rispose: “Io non ho addosso il demonio. „ Egli lascia cadere la prima ingiuria, “Tu sei un Samaritano, „ perché trattavasi di uomini erranti, sì, ma che potevansi ravvedere, e tra i quali molti erano pur retti e buoni. Quanto alla seconda e più sanguinosa ingiuria, risponde semplicemente: “Io non ho addosso il demonio. „ Quanta dignità! qual piena signoria di se stesso! quanta grandezza d’animo! Figliuoli carissimi! Allorché altri vi offende, vi ingiuria, vi vitupera, fosse anche brutalmente, vi stia dinanzi agli occhi l’esempio di mansuetudine, di dolcezza, di pazienza inalterabile di Gesù Cristo. Le ingiurie, che voi riceverete, non potranno mai pareggiare quelle ricevute da Gesù Cristo, e pensate, ch’Egli è Dio e voi povere creature! Dopo aver respinta dignitosamente la brutale ingiuria, Gesù aggiunse: “Io onoro il Padre mio e voi mi disonorate. „ Io l’onoro, annunziando la verità, adempiendo in mezzo a voi la missione che tengo, e facendo in ogni cosa il voler suo, “e voi mi disonorate. „ In questa espressione si semplice e sì piena di dignità si sente il dolore, quasi il gemito d’un’anima crudelmente ferita. “Io non cerco, continua Cristo, la mia gloria, „ come non cerco di fare la mia volontà, come uomo; ma cerco solo la gloria del Padre mio e di fare la sua volontà. Tutto Io son pronto a sacrificare, anche la mia vita ed il mio stesso onore, purché ne venga gloria a Colui che mi ha mandato. Io non penso a me ed all’onor mio: a questo penserà il Padre mio e a Lui totalmente me ne rimetto. E ciò che dovremmo far tutti noi Cristiani, adempire i nostri doveri e cercare e procurare, nella loro osservanza, la gloria di Dio, sicuri che Iddio penserà a noi, e a suo tempo ci renderà la promessa mercede. “Tu pensa a me, diceva Cristo a S. Caterina da Siena, ed io penserò a te. „ E qui Cristo, quasi in atto di rivolgersi a quelli tra i suoi uditori che credevano alle sue parole e confortarli a star saldi nella fede in onta alla incredulità, agli insulti ed all’odio dei Giudei, assumendo quell’accento pieno di autorità e maestà, che gli si addiceva, disse: “In verità, in verità vi dico: Se alcuno osserva la mia parola, non vedrà morte in eterno. „ Che fu un dire: Chiunque crederà alle mie parole, non basta, e le metterà in pratica, non soggiacerà a quella morte che sola è vera morte, la morte eterna. Una sentenza sì solenne, sì perentoria e sì inaudita in bocca d’un uomo, contro del quale erano pieni di mal animo e di disprezzo, doveva naturalmente irritare i Giudei e provocarli a nuove ingiurie. E in vero, guardandosi forse gli uni gli altri in aria di scherno e scrollando dispettosamente il capo, gli risposero: “Ora conosciamo che hai addosso il demonio. „ Sì, non ci siamo ingannati quando poco fa te l’abbiamo detto; se avevamo ancora qualche dubbio, tu ce lo togli con le tue parole. Come osi tu dire che chi osserva le tue parole non vedrà la morte in eterno? Abramo e i profeti sono morti. Sei tu forse da più di Abramo nostro padre, che morì? E dei profeti, che morirono anch’essi? Chi pretendi di essere? Evidentemente i Giudei fraintesero le parole di Cristo e, secondo l’uso loro, le pigliarono nel senso materiale e non nello spirituale. Cristo aveva detto: “Chi osserva le mie parole non sarà soggetto alla morte eterna dell’anima”, e i Giudei le intesero della morte del corpo, quasiché avesse voluto dire che chi osservava le sue parole sarebbe stato affrancato, come già fu promesso ad Adamo, dalla morte naturale del corpo. Ecco il perché della loro risposta, della rinnovata ingiuria, “tu hai addosso il demonio, „ e della difficoltà che muovono e che si chiude con quell’insolentissima domanda: “Chi pretendi di essere?„ Gesù, sempre inteso ad illuminare quelle menti ostinate, dissimulando le nuove e più gravi ingiurie, con imperturbabile mansuetudine risponde: “Se io glorifico me stesso, la gloria mia è nulla; quegli che mi glorifica, è il Padre mio, il quale voi dite essere vostro Dio. „ – “Vi ho detto – tale è il significato della risposta di Cristo – vi ho detto che chiunque osserva la mia parola, non vedrà mai la morte eterna dell’anima; voi ne argomentate ch’Io mi levo sopra tutti, anche sopra i profeti ed Abramo stesso; voi mi accusate di cercare la mia gloria, mi accusate di orgoglio intollerabile. No, Io non cerco la mia gloria, Io non sono un orgoglioso: se cercassi, Io, la mia gloria, sarebbe una follia con voi e dinanzi a tutti gli uomini. La gloria non la dà l’uomo a se stesso, ma la riceve dagli altri, gli deve esser resa da testimoni degni di fede, da giudici competenti. S’Io parlassi per conto mio e non avessi una testimonianza pubblica, irrecusabile, che conferma la mia parola, voi avreste ragione di respingere la mia parola; ma vi è chi mi glorifica, chi conferma la mia parola, è il Padre mio. Egli ha confermato la mia parola, mi ha glorificato sulle rive del Giordano, in modo strepitoso, mi ha glorificato con la testimonianza del Battista e con la prova dei miracoli: sono le opere, ch’Io faccio, opere divine, che voi non potete negare, quelle che mi danno gloria e mostrano la verità della mia missione. Queste opere non sono opere di me, uomo povero e debole, ma opere del Padre mio. — E chi è, o Figlio di Maria, questo Padre, di cui sì spesso parlate, che vi glorifica e che Voi glorificate? Egli certamente non può essere Giuseppe, povero operaio e già disceso nel sepolcro. Chi è dunque questo Padre vostro, o Gesù benedetto? Gesù non esita a dirlo nettamente : “Il Padre mio è Colui, che voi dite essere vostro Dio: il Padre mio è Dio. „ Osservate che Gesù non dice: Dio è padre nostro, accomunando la propria dignità a quella di tutti gli uomini, figli di Dio per adozione; ma dice: Dio è Padre mio, chiaramente indicando che Egli non è figlio di Dio come gli altri uomini, figlio per grazia, per benigna adozione; ma è Figlio di Dio in altro modo ben più alto e perfetto, che non può essere che Figlio di Dio per generazione naturale. Gesù Cristo pertanto si dice solennemente, in faccia alle turbe ed ai suoi stessi nemici, Figlio vero e naturale di Dio, eguale al Padre. “Voi, prosegue Gesù Cristo, non conoscete Dio, il Padre mio: non ponete mente alla sua testimonianza, alle opere ch’Io fo nel suo nome e mostrano, ch’Io sono suo Figlio; ma se non lo conoscete voi, lo conosco Io e lo proclamo; se non lo dicessi, mentirei e sarei menzognero come siete menzogneri voi, i quali dite ch’Io sono un Samaritano ed un posseduto dal demonio, ed affermate di conoscere Dio e ricusate fede al Figliuolo suo, che vi parla. Ma Io non verrò meno alla mia missione, e l’adempirò fedelmente. Voi dite d’essere figli di Abramo, e ve ne gloriate: Abramo è morto da duemila anni: ebbene, sappiatelo, “Abramo, il padre vostro, giubilò, pensando di vedere il mio giorno: lo vide, e ne gioì. „ Gesù Cristo in queste parole manifestamente insinua la sua preesistenza ad Abramo e fa meglio conoscere che cosa intenda significare, affermando d’essere Figlio di Dio. Abramo, a cui fu fatta ripetutamente la promessa, che dalla sua progenie sarebbe venuto il Salvatore del mondo, si rallegrò, esultò in questa speranza: vivendo con gli altri patriarchi e profeti e santi nella serena aspettativa della futura redenzione, Abramo dalla bocca di Simeone, di Zaccaria, di Elisabetta, di Giuseppe, di Giovanni e d’altri poté udire che il Figlio di Dio fatto uomo era nato, che il giorno del riscatto era vicino: Abramo, attraverso alle ombre del Limbo poté vedere il giorno, ossia la venuta di Cristo, e ne fu ricolmo di gioia. I Giudei, intendendo sempre le parole di Cristo alla maniera umana e non ravvisando in Lui, che un semplice uomo, credettero di coglierlo in fallo, e in aria di compatimento e di beffa gli dissero: “Non hai ancora cinquant’anni e tu vedesti Abramo? „ Veramente Cristo non aveva detto d’aver veduto Abramo, ma che Abramo aveva veduto la sua venuta e ne aveva gioito, ma la sostanza era la stessa. Allorché Gesù Cristo tenne questo discorso nel settembre o nell’ottobre precedente la Pasqua, in cui morì, era presso ai 34 anni; ma i Giudei, per modo di dire e per scherno, dissero : “Non hai ancor cinquant’anni ed hai veduto Abramo? Tu parli da scherzo o sei un dissennato. „ Gesù li colse in parola, e senza velo affermò chi Egli era, e dicendo con la sua forma solita della massima osservanza: “In verità, in verità vi dico: Prima che nascesse Abramo, Io sono. „ Ponete mente alla forma di dire di assoluta autorità e della massima chiarezza usata da Cristo: Abramo visse ventitré secoli or sono, così il divino Maestro: voi vedete in me un uomo, che non tocca i cinquant’anni; eppure vi dico, ch’Io sono prima che Abramo nascesse: non sono fatto, non creato, ma sono prima di Abramo. L’affermazione della propria esistenza prima di Abramo e con quella parola sono, che s’addice solo a Dio e richiama l’oracolo mosaico, io “sono quel che sono”, metteva in tutta luce il pensiero di Cristo: Io sono il Figlio di Dio naturale, Io sono eterno. E i Giudei pigliarono veramente in questo senso le parole di Gesù Cristo, vi ravvisarono l’affermazione precisa della propria divinità e tosto diedero di piglio alle pietre per scagliargliele ed ucciderlo. Mosè nel Levitico (Capo XXIV, 16) aveva comandato, che il bestemmiatore fosse tosto lapidato dalla moltitudine; ora la dichiarazione esplicita e formale di Cristo, ch’Egli era il Figlio di Dio e Dio, per loro era la più enorme bestemmia, e sarebbe stata tale quando realmente non lo fosse stato. E fu, pochi mesi dopo, precisamente questa stessa dichiarazione di Gesù Cristo, che provocò il grido di Caifa e del gran Consiglio: “Egli ha bestemmiato, è reo di morte. „ E non vi è dubbio, quei furibondi, afferrate le pietre, che erano loro alle mani, perché il tempio era allora in fabbrica, l’avrebbero ucciso sullo stesso luogo, come più tardi uccisero Stefano; ma Gesù si nascose, probabilmente mescolandosi nella folla, protetto altresì dai discepoli e da parecchi della folla stessa, che credevano in Lui, e così usci dal tempio, perché l’ora da Lui stabilita non era venuta, né quello era il modo con cui voleva consumare il suo sacrificio. Con ciò volle anche insegnarci, che se dobbiamo animosamente affrontare qualunque più grave pericolo, anche della vita, per la difesa della verità, dobbiamo prudentemente scansarlo, allorché la manifesta necessità del dovere non lo esige. Due grandi verità Gesù Cristo ci insegna nel Vangelo, che vi ho spiegato: la prima è l’esempio di pazienza e mansuetudine meravigliosa in soffrire le orribili ingiurie, delle quali fu fatto segno pubblicamente dai Giudei; la seconda è la divinità della sua Persona, la sua origine per generazione eterna dal Padre, proclamata apertamente in faccia ai suoi stessi nemici; verità, che è il fondamento principale della nostra fede.

Credo …

 Offertorium

Orémus Ps CXVIII:17, 107

Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: retríbue servo tuo: vivam, et custódiam sermónes tuos: vivífica me secúndum verbum tuum, Dómine. [Ti glorífico, o Signore, con tutto il mio cuore: concedi al tuo servo: che io viva e metta in pràtica la tua parola: dònami la vita secondo la tua parola.]

Secreta

Hæc múnera, quaesumus Dómine, ei víncula nostræ pravitátis absólvant, et tuæ nobis misericórdiæ dona concílient. [Ti preghiamo, o Signore, perché questi doni ci líberino dalle catene della nostra perversità e ci otténgano i frutti della tua misericórdia.]

 Communio 1 Cor XI:24, 25

Hoc corpus, quod pro vobis tradétur: hic calix novi Testaménti est in meo sánguine, dicit Dóminus: hoc fácite, quotiescúmque súmitis, in meam commemoratiónem. [Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi: questo càlice è il nuovo patto nel mio sangue, dice il Signore: tutte le volte che ne berrete, fàtelo in mia memoria.]

Postcommunio

Orémus.

Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos tuis mystériis recreásti, perpétuis defénde subsidiis. [Assístici, o Signore Dio nostro: e difendi incessantemente col tuo aiuto coloro che hai ravvivato per mezzo dei tuoi misteri.]

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2018)

DOMENICA IV DI QUARESIMA (2018)

Introitus Is LXVI:10 et 11.

Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Allietati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni.]

Ps CXXI:1.

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Amen Lætáre, Jerúsalem: et convéntum fácite, omnes qui dilígitis eam: gaudéte cum lætítia, qui in tristítia fuístis: ut exsultétis, et satiémini ab ubéribus consolatiónis vestræ. [Alliétati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate, esultate con essa: rallegràtevi voi che foste tristi: ed esultate e siate sazii delle sue consolazioni].

Orémus.

Concéde, quæsumus, omnípotens Deus: ut, qui ex merito nostræ actiónis afflígimur, tuæ grátiæ consolatióne respirémus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che mentre siamo giustamente afflitti per le nostre colpe, respiriamo per il conforto della tua grazia].

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas.

Gal IV:22-31. “Fratres: Scriptum est: Quóniam Abraham duos fílios habuit: unum de ancílla, et unum de líbera. Sed qui de ancílla, secúndum carnem natus est: qui autem de líbera, per repromissiónem: quæ sunt per allegóriam dicta. Hæc enim sunt duo testaménta. Unum quidem in monte Sina, in servitútem génerans: quæ est Agar: Sina enim mons est in Arábia, qui conjúnctus est ei, quæ nunc est Jerúsalem, et servit cum fíliis suis. Illa autem, quæ sursum est Jerúsalem, líbera est, quæ est mater nostra. Scriptum est enim: Lætáre, stérilis, quæ non paris: erúmpe, et clama, quæ non párturis: quia multi fílii desértæ, magis quam ejus, quæ habet virum. Nos autem, fratres, secúndum Isaac promissiónis fílii sumus. Sed quómodo tunc is, qui secúndum carnem natus fúerat, persequebátur eum, qui secúndum spíritum: ita et nunc. Sed quid dicit Scriptura? Ejice ancillam et fílium ejus: non enim heres erit fílius ancíllæ cum fílio líberæ. Itaque, fratres, non sumus ancíllæ fílii, sed líberæ: qua libertáte Christus nos liberávit”.

Omelia I

[Mons. G. Bonomelli, “Nuovo saggio di Omelie” vol. II, omel. VII, Marietti ed. Torino, 1898]

“Sta scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava, l’altro dalla libera. Ma il figlio della schiava nacque secondo la carne; il figlio poi della libera nacque in virtù della promessa. Le quali cose contengono una figura; perché quelle due donne figurano due Testamenti: l’uno sul monte Sinai, che genera a servitù, e questo è Agar. Perché Sina è un monte in Arabia, che risponde all’odierna Gerusalemme, e serve coi suoi figli. Ma la Gerusalemme in alto è libera, ed essa è la madre nostra. Perciocché sta scritto: Rallegrati, o sterile, che non partorivi: tripudia ed esclama tu, che non sentivi doglie di parto: perché sono più assai i figli della deserta, che non di colei che ha marito. Ora noi, fratelli, alla maniera d’Isacco, siamo figli della promessa. Ma siccome allora, quello che era generato secondo la carne, perseguitava il generato secondo lo spirito, così anche avviene al presente. Ma che cosa dice la Scrittura?  Caccia via la schiava e il suo figlio; perché il figliuolo della serva non sarà erede col figliuolo della libera. Il perché, o fratelli, noi siamo figli, non della schiava, ma della libera, della libertà, onde Cristo ci ha affrancati „ (Gal. IV, 22-31).

L’apostolo S. Paolo aveva annunziato il Vangelo e stabilita la Chiesa nella Galazia, provincia romana, posta quasi nel centro dell’Asia Minore, come sappiamo dagli Atti apostolici (XVI, 6). Quella Chiesa era composta per la maggior parte di pagani, ma non vi doveva mancare un gruppo di Ebrei, i quali a quell’epoca erano sparsi in tutte le città principali d’Oriente per ragione dei loro traffici, come appare dagli stessi Atti apostolici, scritti da S. Luca. Questo gruppo di Giudei disseminati per la Galazia turbarono fortemente la pace di quella Chiesa: essi volevano che i nuovi convertiti al Vangelo osservassero tutta la legge mosaica, considerando il Cristianesimo come una giunta fatta al mosaismo; e poiché S. Paolo riprovava altamente questo errore, che restringeva la Chiesa di Cristo nelle fasce del mosaismo, presero a combattere lo stesso Apostolo, negando o mettendo in dubbio la sua missione divina. Per ribattere questa calunnia, stabilire la propria autorità e mostrare che la sinagoga era cessata per dar luogo alla Chiesa di Cristo, l’Apostolo, l’anno 52 o 53 dell’era nostra, scrive la sua lettera, della quale avete udita or ora una piccola parte, che si legge nella S. Messa. Nelle poche righe riportate S. Paolo sotto la figura di Agar e di Sara, d’Ismaele e d’Isacco, ci mostra adombrata la sinagoga e la Chiesa, il carattere passeggero e ristretto di quella e il carattere stabile e universale di questa. L’argomento è profondo ed elevato, ed è degno di tutta la vostra attenzione. – “Sta scritto, che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava, l’altro dalla libera. „ È  questo un richiamo alla storia e all’origine del popolo ebreo. Abramo ebbe due mogli, Agar, la schiava, e Sara, la libera. Non occorre farvi osservare che allora era permessa, per ragioni specialissime, la pluralità delle donne, come era tollerata la schiavitù e tollerato il divorzio. Era una società in sul suo formarsi, si mettevano le basi del mosaismo, preparazione lontana del Cristianesimo, e nessuna meraviglia che in quello vi fossero gravi imperfezioni, che dovevano cessare in questo. La casa nel suo primo sorgere presenta appena le linee principali, rozza, non è abitabile o assai difficilmente; solo in seguito si compie la fabbrica, si abita, si pulisce, si adorna; cosi avvenne del mosaismo: le sue istituzioni imperfette rispondevano alla natura di quel popolo, ma dovevano finire alla venuta di Cristo, che protestò d’essere venuto a compire la legge mosaica: Non veni solvere legem, sed adimplere. – Abramo dalla schiava Agar ebbe Ismaele, che fu il padre delle genti idumee. Egli dicesi nato secondo la carne, che è quanto dire, secondo il corso naturale delle cose; da Sara ebbe Isacco, e dicesi nato secondo la promessa, cioè fuori del corso della natura, per effetto della divina promessa, in altri termini, per miracolo o virtù sovraumana. Da Isacco trae origine il popolo ebraico, eletto da Dio ad essere il depositario delle promesse divine, e da lui doveva venire l’aspettato Salvatore. Tutto questo sappiamo dalla storia, narrata nel libro sacro della Genesi. Accennando questo fatto di Abramo e delle due mogli, Agar, la schiava, e Sara, la libera, e dei due figli da loro avuti, l’uno in modo naturale, l’altro per divina promessa, S. Paolo, con quella sicurezza che gli veniva dalla sua missione, annunzia questa sentenza: “Queste cose contengono una figura — Qua sunt per allegoriam dicta. „ Che cosa è la figura, della quale qui parla l’Apostolo e che suppone conosciuta dai fedeli? Sarebbe disonore e colpa che i Cristiani d’oggi non conoscessero ciò che conoscevano i primi Cristiani, “ai quali era indirizzata la lettera dell’Apostolo. Eppure non credo di offendervi, o dilettissimi, dicendo che molti tra voi non sanno che cosa sia la figura od allegoria, sì frequente nei Libri sacri, di cui in questo luogo favella S. Paolo. Non vi sia grave pertanto ascoltarmi con tutta l’attenzione. – Allorché nei Libri santi noi leggiamo i fatti che avvennero, dobbiamo tenere che avvennero veramente come sono narrati. Leggiamo per modo d’esempio che Noè fabbricò l’arca e che in essa egli e i suoi figli furono salvi dalle acque dell’universale diluvio? Noi dobbiamo tenere per indubitato questo fatto, che Noè costruì veramente l’arca, che veramente venne il diluvio, e che Noè con i suoi figli trovò in quella la sua salvezza. Leggiamo che Abramo condusse sul monte il figlio Isacco, che portava le legna per il sacrificio? Leggiamo che nel deserto cadde la manna e che di essa si nutrì per tanti anni il popolo ebreo? Leggiamo che Mosè nel deserto levò in alto un serpente di bronzo e che quelli che erano morsicati dai serpenti, riguardandolo, guarivano? Leggiamo ancora che prima della Pasqua il popolo doveva mangiare l’agnello sacrificato? Ebbene: noi dobbiamo tenere che tutte queste cose si fecero precisamente come sono descritte. Ma, seguendo l’insegnamento dei Libri santi e dei Padri, dobbiamo anche tenere, che quei fatti sono simboli o figure di altri fatti, che dovevano più tardi avvenire nella nuova legge. Così l’arca, in cui Noè con la sua famiglia si salva dal diluvio, è figura del Battesimo, che ci salva dalle acque del peccato originale; Isacco, che carico delle legna, sale sul monte, il serpente innalzato nel deserto, adombrano Cristo, che sale il Calvario, che pende dalla croce; la manna del deserto è simbolo della santa Eucaristia e l’agnello pasquale rappresenta Cristo. Se non tutti, molti fatti dell’antico Testamento, non vi è dubbio, raffigurano altri fatti del Nuovo, e per noi essi sono come altrettante parole, altrettante pagine dei Libri divini, che ci ammaestrano. – Ora tale appunto, per testimonianza di san Paolo, è il fatto di Abramo, di Agar e di Sara, di Ismaele e d’Isacco, ricordato nella lettera che commentiamo. Agar, col figlio Ismaele, rappresenta l’antico Patto e il popolo ebraico; Sara, col figlio Isacco, simboleggia il nuovo Patto e la Chiesa di Gesù Cristo. Hæc sunt duo Testamento. Il primo Testamento, o Patto, Dio lo strinse con Mosè, sul monte Sinai, allorché diede la legge e promise al popolo ebreo la terra di Canaan e la sua protezione, e il popolo accettò la legge e si obbligò ad osservarla. Il secondo Testamento, o Patto, lo fece tacitamente Cristo con gli Apostoli e con tutti i credenti, ai quali diede la nuova legge e promise tutti i beni spirituali e la vita eterna, ed essi accettarono e si obbligarono all’osservanza di tutti i suoi precetti: Testamento o Patto suggellato nella santa Eucaristia e col sacrificio della croce. Il primo Testamento, raffigurato in Agar e dato sul Sinai, “genera a servitù, „ dice san Paolo. Che vuol dire “genera a servitù? „ Agar era schiava e il figlio, perché figlio di schiava, seguiva la condizione della madre e come schiavo dovevasi considerare. La madre e il figlio, schiavi, raffigurano il  primo Testamento, o il popolo ebreo: esso, rispetto alla Chiesa, al popolo del quale Cristo sarà capo, è schiavo: esso è soggetto ad una legge piena di cerimonie e di prescrizioni gravose, come la circoncisione: ad una legge, che per molte trasgressioni infligge pene gravi e per alcune infligge persino la pena di morte. Quella legge, considerata nel suo insieme e specialmente nelle sue pene, è una legge da schiavi, perché è legge non d’amore, come si conviene ai figli, ma di timore e terrore, come è proprio di schiavi. Le sue ricompense, direttamente, riguardano i beni passeggeri e materiali della terra. Ecco perché l’antico Testamento si dice che genera alla schiavitù, ossia forma dei servi, perché s’impone col timore. – L’Apostolo illustra i rapporti tra l’antico e il nuovo Testamento con una osservazione semplicissima, dicendo: “Il monte Sinai, che è in Arabia e su cui fu data la legge, risponde alla odierna Gerusalemme:„ in altre parole, il Sinai e l’odierna Gerusalemme sono congiunti per modo che formano una cosa sola, si trovano nella stessa condizione: la Gerusalemme, o sinagoga odierna, raffigurata da Agar, forma i suoi figli sotto la legge del timore, essa non è che il tipo e la figura della Chiesa e deve cessare, come cessano le ombre al sopravenire della luce. Questa sinagoga, «questa Gerusalemme, madre di schiavi, deve cedere il luogo alla vera Gerusalemme, che è in alto, che è libera, ed essa è madre nostra — Illa autem, quæ sursum est Jerusalem, libera est, quæ est mater nostra. „ Chi è dessa questa madre nostra, che è, o viene dall’alto? che è simboleggiata da Sara? Essa è la Chiesa, fondata da Gesù Cristo e sua sposa fedele, che da Lui non sarà mai reietta, come da Abramo fu reietta Agar. Essa viene dall’alto: Quæ sursum est, perché il suo capo e fondatore è Gesù Cristo  stesso, che viene dal cielo, ed Egli la regge e governa fino alla fine dei tempi; perché riceve dall’alto la verità e la grazia, e perché le sue speranze ed il suo amore sono sempre lassù in cielo, termine fisso del suo pellegrinaggio sulla terra. E perché la Chiesa si chiama Gerusalemme? Perché la parola Gerusalemme significa Visione della pace, e per la Chiesa l’uomo ottiene la pace vera con Dio, e perché il Vangelo, il codice della pace, fu promulgato per la prima volta in Gerusalemme, dove nacque la Chiesa il dì della Pentecoste. – E perché la Chiesa si chiama libera? Perché volge tutte le sue cure e tutti i suoi sforzi a liberarci dal peccato, dalle passioni, dall’errore e dal supremo di tutti i mali, l’eterna perdizione. Essa dicesi libera, perché è sciolta da tutti gl’impacci della sinagoga e conduce alla virtù con la persuasione e con l’amore più che col timore, e perciò essa è raffigurata in Sara, ch’era moglie di Abramo, non schiava, ma libera. E finalmente perché la Chiesa si chiama madre e madre feconda e più feconda della sinagoga? Perché essa col Battesimo genera i figli a Dio, e con gli altri Sacramenti, con la parola e con tant’altri mezzi li nutre e li cresce. La sinagoga fu e doveva sempre rimanere ristretta al solo popolo d’Israele: la Chiesa per contrario doveva raccogliere nel suo seno non solo i figli d’Israele, ma i Gentili, e crebbe rapidamente, allargò dovunque le sue tende, e mentre pareva condannata alla sterilità, condannata a perire in mezzo ai nemici, Ebrei e Gentili, soverchiò la sinagoga, ed i figli di quella sono di questa senza confronto più numerosi. – L’Apostolo viene alla conclusione e pratica applicazione del simbolo o figura, che sopra ha esposto, e dice: “Ora noi, fratelli, siamo figli alla maniera di Isacco, figli della promessa.„ Voi, o Galati, non appartenevate alla sinagoga: voi eravate Gentili; ma, avendo creduto in Cristo e ricevuto il suo Battesimo, diventaste figli di Abramo, non secondo la carne, ma secondo lo spirito, a somiglianza di Isacco, che nacque ad Abramo, non per legge naturale, ma solo in virtù della promessa divina. Voi, o Galati, un tempo Gentili, ora siete i veri figli di Abramo, come lo fu Isacco meglio di Ismaele. Qui naturalmente all’Apostolo doveva affacciarsi il fatto, allora quotidiano, dell’odio e della feroce persecuzione, che gli Ebrei movevano dovunque ai Cristiani, e Paolo stesso più che tutti n’era la vittima. Questo fatto gli porge il destro di completare la spiegazione della figura biblica di Agar e di Sara, di Ismaele e d’Isacco: Osservate, così in sentenza l’Apostolo, osservate ciò che narra Mosè nella Genesi. Ismaele nacque da Agar prima di Isacco: Ismaele, il figlio della schiava, maltrattava, perseguitava Isacco, il figlio di Sara, la libera, e avuto per promessa divina. E ciò che avviene al presente. Vedete questa sinagoga, questi Ebrei, veri figli di Agar, perseguitano dovunque i credenti in Cristo, i figli della Chiesa, i figli della promessa divina, adombrati in Isacco. Quale sarà l’esito di questa persecuzione della sinagoga contro la Chiesa? Voi lo potete vedere anticipatamente in Agar ed Ismaele, in Sara ed Isacco. Sara un giorno, visto Ismaele offendere e perseguitare il suo Isacco, indignata disse ad Abramo: “Manda via la schiava ed il figlio suo, perché il figlio della schiava non sarà l’erede col figlio della libera. „ Ed Abramo, benché a malincuore, scacciò Agar ed Ismaele e costituì Isacco suo erede. La sinagoga perseguitò, pose a morte Gesù Cristo, fondatore della Chiesa; perseguitò, flagellò, sbandeggiò ed uccise quanti poté degli Apostoli e dei discepoli di Gesù Cristo. Iddio, benché a malincuore, ripudiò questa sinagoga persecutrice della sua Chiesa. Dissi, a malincuore, perché essa pure, la sinagoga, era opera delle sue mani, sua figlia, come Ismaele era figlio di Abramo: in essa fiorirono i patriarchi ed i profeti: ad essa furono dati i Libri santi e la legge: per essa conservò il culto del vero Dio sulla terra e tenne viva la face della fede e della speranza nel futuro Messia: da essa venne secondo la carne il Figliuolo stesso di Dio, il Salvatore del mondo: ma la sua ostinazione in respingere la verità, in perseguitare Cristo ed i suoi discepoli le trasse in capo la riprovazione e fu reietta co’ suoi figli. – Il ripudio della sinagoga è una terribile lezione per noi, o dilettissimi. È verità certissima di fede, che la Chiesa cattolica-romana, della quale noi siamo figli, sarà sempre la sposa di Gesù Cristo; essa non sarà mai reietta, quasi infedele, come fu reietta la sinagoga; ma se la Chiesa, madre nostra, non sarà mai ripudiata da Gesù Cristo, perché sarà sempre la fedele depositaria delle verità per Lui insegnate, ne segue forse che noi non possiamo essere scacciati dal suo seno? Ohimè! carissimi: ciò pur troppo può avvenire, ed avviene sotto i nostri occhi. Quanti dei nostri poveri fratelli, generati dalla Chiesa a Gesù Cristo, nutriti col cibo della grazia e della parola di Dio per tanti anni, rigettarono la verità, si separarono dalla Chiesa, anzi, volsero contro di lei le mani spietate e la perseguitarono? Ah! costoro imitano pur troppo Ismaele, che molesta e vuol opprimere Isacco, e da Gesù Cristo saranno ripudiati. Non sia mai, che alcuno di noi si tragga sul capo tanta sventura! Siamo all’ultima sentenza dell’Apostolo, che è come l’epilogo dei versetti che avete uditi: “Il perché, o fratelli, noi siamo figli non della schiava, ma della libera, della libertà, onde Cristo ci ha affrancati. „ Noi tutti siamo Ebrei, siamo Gentili, noi tutti che abbiamo creduto in Cristo, non apparteniamo alla sinagoga, ma alla Chiesa, siamo figli di essa, che sola rimane sempre con Cristo, e con essa abbiamo la libertà dei figli di Dio. La libertà, portataci da Cristo e della quale qui parla S. Paolo, è quella stessa di cui dicesi sopra fornita la Chiesa, “La Gerusalemme in alto è libera — Quæ sursum est Jerusalem, libera est, quæ est mater nostra. „ Per una confusione funesta di cose e di parole, quando si pronuncia questa santa e cara parola libertà, comunemente si intende la libertà di fare il bene ed il male, di fare come piace, seguendo la verità o l’errore. Se questa, o dilettissimi, fosse la vera e propria nozione di libertà, i santi e gli Angeli, la Vergine, che sono in cielo, non sarebbero liberi; Cristo, Dio-Uomo, e Dio stesso non sarebbero liberi, perché non possono fare il male, non possono seguire l’errore, e voi sapete che lassù in cielo la libertà è perfetta e che Dio è la fonte della libertà vera. La libertà,, o cari, è la facoltà di scegliere ciò che vogliamo, e dove non c’è scelta, ivi non è libertà: la scelta poi si può fare tra bene e male, oppure tra varie cose tutte buone. La libertà di scegliere tra bene e male, come nell’ordine presente di cose abbiamo noi, è libertà, ma libertà debole, inferma, imperfetta, mentrechè la libertà di poter scegliere solamente tra le cose buone, è libertà perfetta, come quella dei beati e di Dio stesso. La libertà di poter scegliere anche l’errore ed il male, qual è la nostra quaggiù sulla terra, è una vera imperfezione, che un giorno sarà tolta. Ditemi, o cari figliuoli: se voi poteste avere la sanità del corpo in modo da non potervi mai ammalare, vi parrebbe di trovarvi in istato migliore o peggiore di chi può ammalarsi? Senza dubbio preferireste di avere la sanità in guisa da non poterla mai perdere: e chi non la vorrebbe possedere a questo modo? Sarebbe una sanità perfettissima. Or bene: dite lo stesso della libertà di fare il bene e il male. Il poter fare il male è come il potersi ammalare: è una libertà imperfetta; il non poter fare il male, e poter fare soltanto il bene, è come il non potersi ammalare; è la libertà nella sua massima perfezione, è la libertà dei santi e di Dio, i quali possono scegliere ciò che loro piace, ma unicamente tra le cose buone. È questa la libertà che Cristo ha portato sulla terra; la libertà di fuggire l’errore per seguire la sola verità, di combattere e vincere il male per fare unicamente il bene, di respingere il vizio, per esercitare unicamente la virtù. E quanto più noi ci scioglieremo dalle tenebre dell’errore per camminare nelle vie della verità, combatteremo il male ed il vizio e faremo il bene e praticheremo la virtù, tanto più sarà perfetta la nostra libertà e simile a quella di Gesù Cristo: Qua libertate Christus nos liberavìt! O bella e santa libertà dei figli di Dio, che sulla terra ci presentano anticipato lo spettacolo del cielo! Non dimenticatelo mai, o dilettissimi; noi saremo tanto più liberi quanto saremo più lontani dal peccato, più liberi e padroni delle nostre passioni e più fedeli osservatori dei nostri doveri. Ecco la libertà, la vera libertà onde Gesù Cristo ci ha affrancati.

Graduale Ps CXXI: 1, 7

Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus. [Mi rallegrai di ciò che mi fu detto: andremo nella casa del Signore].

Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. [V. Regni la pace nelle tue fortezze e la sicurezza nelle tue torri.]

Tractus Ps. CXXIV:1-2

Qui confídunt in Dómino, sicut mons Sion: non commovébitur in ætérnum, qui hábitat in Jerúsalem. [Quelli che confídano nel Signore sono come il monte Sion: non vacillerà in eterno chi àbita in Gerusalemme.]

Montes in circúitu ejus: et Dóminus in circúitu pópuli sui, ex hoc nunc et usque in sæculum. [V. Attorno ad essa stanno i monti: il Signore sta attorno al suo popolo: ora e nei secoli.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joann VI:1-15

“In illo témpore: Abiit Jesus trans mare Galilaeæ, quod est Tiberíadis: et sequebátur eum multitúdo magna, quia vidébant signa, quæ faciébat super his, qui infirmabántur. Súbiit ergo in montem Jesus: et ibi sedébat cum discípulis suis. Erat autem próximum Pascha, dies festus Judæórum. Cum sublevásset ergo óculos Jesus et vidísset, quia multitúdo máxima venit ad eum, dixit ad Philíppum: Unde emémus panes, ut mandúcent hi? Hoc autem dicebat tentans eum: ipse enim sciébat, quid esset factúrus. Respóndit ei Philíppus: Ducentórum denariórum panes non suffíciunt eis, ut unusquísque módicum quid accípiat. Dicit ei unus ex discípulis ejus, Andréas, frater Simónis Petri: Est puer unus hic, qui habet quinque panes hordeáceos et duos pisces: sed hæc quid sunt inter tantos? Dixit ergo Jesus: Fácite hómines discúmbere. Erat autem fænum multum in loco. Discubuérunt ergo viri, número quasi quinque mília. Accépit ergo Jesus panes, et cum grátias egísset, distríbuit discumbéntibus: simíliter et ex píscibus, quantum volébant. Ut autem impléti sunt, dixit discípulis suis: Collígite quæ superavérunt fragménta, ne péreant. Collegérunt ergo, et implevérunt duódecim cóphinos fragmentórum ex quinque pánibus hordeáceis, quæ superfuérunt his, qui manducáverant. Illi ergo hómines cum vidíssent, quod Jesus fécerat signum, dicébant: Quia hic est vere Prophéta, qui ventúrus est in mundum. Jesus ergo cum cognovísset, quia ventúri essent, ut ráperent eum et fácerent eum regem, fugit íterum in montem ipse solus.”

OMELIA II

[Idem, omel. VIII]

“Gesù se n’andò all’altra riva del mare di Galilea, che è di Tiberiade. E gran moltitudine lo seguitava, perché vedevano i miracoli ch’Egli faceva sopra gl’ infermi. Ma Gesù salì sul monte e quivi rimaneva coi suoi discepoli. Era poi vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Ora Gesù, levati gli occhi e vedendo la grande moltitudine venuta a lui, disse a Filippo: Onde compreremo noi del pane per dar da mangiare a costoro? “Ma lo diceva, tentandolo, perché Egli sapeva ciò che era per fare. Filippo gli rispose: Duecento danari di pane non basterebbe loro, perché ciascun d’essi ne pigliasse un boccone. Uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro, gli disse: ” Vi è qui un fanciullo, che ha cinque pani d’orzo e due pesci: ma questo che è tra tanta, gente? Gesù intanto disse: Fate che la gente si adagi; in quel luogo vi era erba assai. La gente vi si adagiò in numero di cinquemila adulti. E Gesù prese i pani, e rese le grazie li distribuì alla gente, e similmente dei pesci, quanti ne vollero. E poiché furono saziati, disse ai suoi discepoli: Raccogliete gli avanzi, che non vadano a male. E raccolsero ed empirono dodici corbelli di avanzi, rimasti a quelli che ne avevano mangiato, dai cinque pani d’orzo. Intanto coloro, veduto il miracolo operato da Gesù dicevano: Questi è veramente il profeta, che deve venire al mondo. Ma Gesù, conoscendo che verrebbero e lo rapirebbero per farlo loro re, si ritrasse di nuovo tutto solo sul monte„ (Giov. VI, 1-15). Voi ora avete udita la narrazione d’uno dei maggiori miracoli operati da Gesù, fattaci dall’evangelista Giovanni, che ne fu testimonio. Esso è riferito anche dagli altri tre Evangelisti, quasi con le stesse parole. Ora tutti sanno che S. Giovanni, il quale fu l’ultimo a scrivere il suo Vangelo, studiosamente omette le cose narrate dagli altri e quelle ricorda che da loro furono omesse: come avvenne dunque che, quasi contro il suo costume, riferisce questo miracolo ch’era già registrato dai tre Evangelisti che lo precedettero? Forse l’indusse a narrarlo la grandezza del miracolo istesso; ma è ragionevole il credere che Giovanni riportasse questo miracolo per aprirsi la via a narrare la promessa della S. Eucaristia che tenne dietro al miracolo, promessa che non si trova nei tre altri Vangeli. Quale che ne fosse la causa, che Dio solo conosce con certezza, mio dovere è quello di darvi la spiegazione del Vangelo recitatovi, e dover vostro è quello di udirla con devota attenzione. – La testa del Precursore era caduta poco prima sotto il ferro del carnefice, per opera del tristo Erode, tenuto nei lacci di rea passione dalla scaltra e scellerata Erodiade. I dodici Apostoli tornavano lieti dalla missione alla quale, quasi a prova, Gesù li aveva mandati, e narravano ciò che avevano fatto ed insegnato. – Gesù era in Cafarnao e la folla senza tregua lo assediava a tal che non aveva pur tempo di prendere il cibo. La morte del Precursore lo avvertiva della sua sì dolorosa e sì prossima: sentì il bisogno di ridursi in luogo più tranquillo con i suoi cari, e disse loro: “Venite in disparte, in luogo solitario, e riposatevi alquanto „ (Marco, VI, 30 seg.). Montò sulla nave con i suoi discepoli e comandò di condurlo sulla riva orientale del lago, e quivi approdato, volse il passo verso il monte che vi sovrasta. Il lago di Tiberiade o mare di Galilea, come lo chiamavano gli Ebrei! Ogni qualvolta leggo questo nome o l’odo pronunciare, ricordo l’impressione inesprimibile, che sentii allorché il 20 di Ottobre del 1894, dalla costa occidentale che sopra di esso si erge alta ed erta, lo vidi per la prima volta. Esso è come incassato tra monti e colli che lo circondano; monti e colli deserti, quasi brulli, desolati. Il lago è senza dubbio il fondo d’un cratere di vulcano spento: le sue rive solitarie, senza alberi che lo rallegrino, senza vie, vi riempiono l’anima d’una tristezza indefinibile. Quel lago liscio, lucido come un cristallo, ma senza una barchetta che lo solchi: quella muraglia di color ferrigno, che dal lato orientale lo serra e gli sta a sopracapo: quel silenzio di morte, che regna su quell’ampia stesa, un dì sì lieta e ridente e coronata da popolosi villaggi, vi pesano sul cuore, vi riempiono di malinconia indicibile, vi invitano a meditare ed a piangere. Evidentemente su quella regione, che dovrebb’essere incantevole, è passata l’ira del cielo e grava la mano punitrice di Dio. O lago di Tiberiade, quante volte io ripenso a te e ti vedo dipinto nella mia mente!… Un anno prima che Gesù consumasse il suo sacrificio sul Calvario, sull’umile barchetta dei suoi apostoli attraversava quel lago e domandava ai luoghi ermi e solitari della sponda orientale un po’ di riposo. Tosto si sparse d’ogni intorno la fama della sua venuta e fu un correre a Lui da tutti i villaggi vicini. Gesù si era ritratto in quei luoghi solitari per avere un po’ di pace, e le turbe gli si affollavano intorno, bramose di udirlo, ed Egli, il pietoso Maestro, le accoglieva con ogni bontà. Il favore popolare che lo seguiva dovunque e che sì facilmente inebria chi lo cerca, lasciava tranquillo Gesù, che né lo coltivava, né lo respingeva. I suoi occhi pieni d’amore e di compatimento si fermavano su questa moltitudine, che lo seguiva e di cui vedeva le miserie morali: era come un gregge senza pastore. Gesù li ammaestrava, risanava gli infermi e con i miracoli confermava le sue parole di vita, e poi “saliva un colle e quivi si fermava con i suoi discepoli. „ Il sole calava dietro i monti della Galilea e dei suoi ultimi raggi vestiva le loro spalle. Qui S. Giovanni avverte che era vicina la Pasqua, la gran festa degli Ebrei: Erat autem proximum Paschat dies festus Judæorum. Gli Apostoli, inquieti per l’ora tarda e perché in quel luogo era impossibile procurarsi il cibo, come sappiamo dagli altri tre Evangelisti, dissero al Maestro: “Il luogo è deserto, l’ora è tarda: rimanda tutta questa gente, affinché se ne vadano nei villaggi e nelle capanne vicine e vi trovino viveri e tetto. „ Gesù rispose loro: “Tutta questa gente mi fa compassione: essa mi segue da tre giorni e non ha di che mangiare se io la mando via digiuna, verrà meno per strada, perché molti di loro son venuti da lontano.„ Fermiamoci qui un istante, o dilettissimi. Vi piaccia considerare la bontà e la tenerezza di cuore che apparisce in quelle parole uscite dalle labbra di Gesù Cristo: “Tutta questa gente mi fa compassione: essa mi segue da tre giorni e non ha di che mangiare, se Io la mando via digiuna, verrà meno per la strada, perché molti son venuti da lontano. „ – In questi accenti sì semplici, sì naturali, sì pieni d’affetto, si sente oscillare tutta l’anima di Gesù Cristo: essi sono come un gemito strappatogli dal cuore alla vista di tanti poverelli che soffrono: l’altrui patire è suo patire. Ora Gesù, salendo al cielo, non ha mutato natura: è sempre quel desso, tutto amore e pietà per chi soffre nel corpo e più assai per chi soffre nello spirito. In Lui dunque collochiamo ogni speranza, a Lui ricorriamo in ogni bisogno e se le turbe, anche senza pregare, furono nutrite da Lui nel corpo, come, pregando, non lo saremo noi, nel corpo e nello spirito? Gesù, voltosi a Filippo, con amabile sorriso, quasi per chiedergli consiglio, gli disse: “E donde compreremo noi pane da dar da mangiare a costoro? „ Egli si volse a Filippo, forse perché gli era più presso, o fors’anche perché, come pensa il Crisostomo, era d’una ingenuità e d’un candore meraviglioso, e ne diede un saggio non dubbio più tardi, allorché nell’ultima Cena disse a Gesù: “Facci vedere il Padre, e questo ci basta. „ – L’Evangelista, riferita la domanda di Gesù a Filippo, s’affretta a soggiungere che lo scopo di essa era di mettere alla prova l’Apostolo e udire che ne pensasse. Nessuno degli Apostoli rispose, com’era sì facile, dopo i tanti miracoli veduti: “Tu solo, o Maestro, puoi dare da mangiare a sì grande moltitudine: tutto è a te possibile. „ Il buon Filippo, sorpreso da quella domanda sì semplice del Maestro, non seppe dare altra risposta di questa infuori: “Duecento danari di pane non sarebbe bastevole loro perché ciascuno ne pigliasse un boccone.„ Il danaro, di cui parla Filippo, rispondeva ad 80 dei nostri centesimi, ond’era come dire: ” Cento sessanta lire non sarebbero sufficienti per comperare tanto pane da darne un frusto solo a tanta gente. „ E non pensava l’ingenuo apostolo che si trovavano in luogo deserto, dove quando pure avessero avuto tesori da profondere, non era possibile avere un po’ di pane. In quella “Andrea, fratello di Simon Pietro, uno dei discepoli, „ si fece innanzi, e udito di che si trattava, quasi a confermare ciò che aveva detto Filippo, disse: “Vi è qui un fanciullo, che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma questo che è tra tanta gente? „ Non è superfluo il far notare la confidenza tutta paterna, con la quale Gesù trattava coi suoi discepoli e la confidenza tutta filiale, con cui essi usavano col divino Maestro. Chiunque tiene autorità sopra gli altri, si specchi in questo sovrano modello e chi è soggetto, veda come gli Apostoli trattavano con Gesù Cristo! L’autorità sia sempre paterna e la dipendenza sia filiale, affinché quella non traligni in dominio e questa non degeneri in servitù. – Il pane d’orzo, che si trovava avere presso di sé quel fanciullo, che il Vangelo non dice chi fosse, era alimento del povero popolo. Parmi evidente che sia la domanda di Gesù e la risposta di Filippo e quella d’Andrea e l’accertamento che erano cinque i pani e due i pesci fossero tutte cose disposte a studio affinché il miracolo della moltiplicazione risplendesse in tutta la sua luce agli occhi degli Apostoli e delle turbe. – S. Giovanni continua il suo racconto: “Gesù intanto disse: “Fate che la gente si adagi; in quel luogo vi era erba assai. „ Queste parole:  “Fate che la gente si adagi, „ sono rivolte da Cristo ai suoi Apostoli, ed essi tosto si sparsero in mezzo a quella moltitudine, disponendo le persone a brigate di cento e cinquanta in cerchio e facendole sedere sull’erba, che abbondava in quel luogo e in quella stagione (doveva essere sui primi del mese di marzo), già calda in quei paesi. Il Vangelo ci fa sapere che il numero approssimativo di quelle turbe poteva salire a circa cinque mila adulti, senza tener conto dei fanciulli e delle donne, come avverte S. Matteo, onde non è esagerazione il dire, che quella moltitudine, compresi tutti, poteva essere di oltre dieci mila persone. “Allora Gesù prese i pani, e rese le grazie, li distribuì alla gente che si era adagiata, e similmente dei pesci, quanto ne vollero.„ – Qui, come altre volte, Gesù Cristo prima di operare il miracolo, ringrazia il Padre suo, e S. Matteo nota che volse gli occhi al cielo: Aspiciens in cœlum, e pregò, benedixit, per far conoscere che l’opera ch’era per fare, veniva dall’alto e dovevasi ascrivere alla virtù divina. Poi prese a distribuire i pani e i pesci agli Apostoli, e questi, a mano a mano li distribuivano alle turbe; particolare questo registrato in Matteo, in Marco e Luca e che non deve passare inosservato. Così il Salvatore, che nel deserto aveva rifiutato di mutare in pani le pietre per soddisfare il suo bisogno personale, come suggeriva il demonio, ancora nel deserto moltiplica il pane per sfamare il povero popolo. Certamente Gesù Cristo poteva far sì che il pane e i pesci moltiplicati nelle sue mani passassero nelle mani di ciascuno di quella moltitudine senza l’opera degli Apostoli; chi ne può dubitare? Ma Gesù volle che quel pane e quei pesci, prodigiosamente moltiplicati, pervenissero a ciascuno in particolare, mercé il ministero degli Apostoli. Perché ciò, o dilettissimi? Primieramente, perché Dio suole usare della sua onnipotenza là dove è impotente l’uomo; ma là dove giunge la forza dell’uomo, all’uomo stesso ne lascia tutta la cura, perché Iddio non vuole sostituirsi all’uomo, né favorire l’inerzia o la pigrizia. Oltreché è da credere che Gesù Cristo volle servirsi dell’opera degli Apostoli nel distribuire il pane e i pesci moltiplicati nelle sue mani benedette, per farci conoscere che i doni celesti della verità e della grazia vengono da Lui, come da fonte prima, ma sono comunicati agli uomini mediante lo strumento dei suoi ministri. Il miracolo operato da Gesù Cristo non poteva essere più solenne ed evidente. Erano nel deserto; tanta provvisione di pane e pesce, quanta se ne richiedeva a saziare dieci mila bocche, dove si poteva avere? E avutala pure in qualsiasi modo, come occultarla a tanti testimoni? La moltiplicazione avveniva nelle mani di Gesù Cristo, sotto gli occhi, non solo degli Apostoli, ma delle turbe, non in un istante, ma continuamente, finché ve ne fu bisogno. E cosa affatto naturale, che a mano a mano si succedevano le distribuzioni di pane e pesce, gli Apostoli e le turbe meravigliassero e aguzzassero gli occhi per vedere donde e come proveniva tanto pane e tanto pesce e quindi rendessero impossibile ogni illusione. Il luogo, la moltitudine dei testimoni, la loro qualità, la natura del miracolo stesso, il modo, con cui fu operato e gli effetti che ne seguirono, mettono il fatto al di sopra d’ogni ombra di dubbio e ne pongono in tutta la luce la certezza assoluta. – So, o cari, che certi uomini, i quali professano di non seguire che la ragione e la sola ragione, tentarono di spiegare naturalmente il fatto. Sapete in qual modo? Udite: Le turbe rapite dalla parola affascinante di Gesù, dimenticarono il bisogno del cibo; saziate nello spirito, non sentirono le necessità del corpo: fu un miracolo di frugalità! O fors’anche ciascuno, quasi senza accorgersene, pose mano alle provvisioni portate seco e se ne nutrì, e reputò miracolo ciò che non era se non l’effetto naturale della gioia e dell’entusiasmo di udire il Profeta e d’una frugalità singolare. Figliuoli miei, se questo è seguire la ragione, la sola ragione, giudicatene voi (Renan). – Quel pane e quel pesce, che a vista d’occhio si moltiplicava nelle mani feconde del Salvatore, donde veniva? Era forse una nuova creazione dal nulla? Anche questo (e chi non lo sa?) il Verbo umanato poteva fare, ma è più comune sentenza che con la sua onnipotente virtù lo traesse dalla natura. – Vi piaccia, o carissimi, por mente a ciò che avviene continuamente sotto i nostri occhi. Voi seminate il grano, e questo per lavoro occulto di natura si scioglie, mette le radici, cresce in stelo, forma la spiga e ve lo dà moltiplicato. Voi pigliate del grano, lo macinate, ne formate la pasta, e cotto, eccovi sul desco il pane. E un lavoro lento di moltiplicazione e di trasformazione, effetto l’una e l’altra delle forze di natura, sparse nella terra, nell’aria, nell’acqua, nella luce, applicate e modificate opportunamente dall’uomo. Ora queste forze, che moltiplicano il grano, e ci danno secondo le leggi di natura il pane, onde ci nutriamo, vengono da Dio e sono totalmente a Lui soggette. Che fece Egli Gesù Cristo nel deserto, allorché moltiplicò il pane ed i pesci? Egli, Dio-Uomo, Causa suprema, in cui si contengono eminentemente tutte le cause ed i loro effetti, abbreviò ogni cosa e produsse in pochi istanti quel pane, che secondo il corso ordinario delle leggi di natura non si sarebbe potuto ottenere che nel volgere di alcuni mesi. Quel Dio che nei campi moltiplica il frumento con pochi granelli, scrive S. Agostino, moltiplicò i cinque pani nelle mani del Figliuol suo fatto uomo (In Jaonn. Tract. 24). E noi, continua il Santo, ammiriamo quel miracolo dei cinque pani moltiplicati una volta, e non badiamo all’incessante opera della Provvidenza, che con pochi grani moltiplica il frumento e nutre l’intera umana famiglia! E perché? Perché quello avvenne una sola volta e questa avviene continuamente sotto i nostri occhi, e per essere comune sembra quasi da meno: Assiduitate viluerunt. Figliuoli carissimi! Avvezziamoci a vedere in tutte le opere, in tutte le leggi della natura, che ci danno e conservano la vita, che rallegrano l’occhio o l’orecchio, la mano di Dio, che tutto prepara e dispone a servizio e diletto nostro, e a Lui rendiamone le dovute grazie. – E poiché furono saziati, prosegue il sacro testo, Gesù disse ai discepoli: “Raccogliete i resti, che non vadano a male.,, E raccolsero ed empirono dodici corbelli di avanzi rimasti a quelli che ne avevano mangiato, dai cinque pani d’orzo. „ Questo comando di Cristo di raccogliere i resti del pane non è senza ragione. Anzitutto quegli avanzi raccolti da quei medesimi che distribuivano il pane, mostravano meglio e facevano toccare con mano la certezza e la grandezza del miracolo: poi insegnava a tutti che non conviene, non è lecito disperdere nulla di quello che, se non è necessario, né utile a noi, lo può essere ad altri. Gli avanzi del ricco possono e debbono essere il nutrimento del povero: se così fosse, che ne sarebbe largamente sfamata tutta la turba dei poverelli! O Epuloni, dalla vostra mensa lasciate cadere almeno le briciole ai Lazzari che languiscono! – Manifestamente poi i dodici corbelli di avanzi raccolti ci indicano i dodici Apostoli, che distribuivano il pane, ond’è a dire che ciascun Apostolo, adempiendo l’ufficio di distributore, si serviva d’un corbello. “Intanto coloro, veduto il miracolo operato da Gesù, dicevano: “Questi è veramente il profeta, che deve venire al mondo.„ Alla vista di quel miracolo, che per molti aspetti fu uno dei maggiori operati da Gesù Cristo, l’ammirazione, l’entusiasmo del popolo non ebbe più freno ed eruppe spontaneo da tutti i cuori il grido: “Questi è il profeta, il Messia promesso, che deve venire.,, E lo era veramente, ma non quale per mala ventura gli Ebrei lo aspettavano, vincitore dei nemici temporali e liberatore dal giogo degli stranieri sotto il quale fremevano, e creatore della grandezza terrena della nazione. I Galilei ardenti e bellicosi erano ancor pieni delle memorie e dei sogni di Giuda Gaulonita. Costui, messosi a capo del popolo, spacciatosi come uomo mandato da Dio a liberare la nazione, aveva eccitata una rivolta assai grave e diede non poco da fare alle soldatesche romane, come attesta Giuseppe Flavio. La passione politica (e gli stessi Apostoli non ne erano affatto immuni, come apparisce dal capo 1° degli Atti Apostolici) infiamma quelle turbe, sì facili per se stesse all’entusiasmo, volete religioso, volete politico. Si eccitano gli uni gli altri! “Questi è il profeta, il Messia, che aspettiamo! egli deve liberare la nazione dal giogo straniero: facciamolo nostro re, mettiamolo alla nostra testa e corriamo sopra Gerusalemme e proclamiamoci il nuovo regno d’Israele.,, Erano questi i discorsi, i propositi di quella folla, agitata dai due sentimenti più gagliardi sul cuore umano, quello della religione e quello della patria, che per essa si confondevano in un solo. Le agitazioni popolari sono terribili: si propagano come un incendio in una foresta e i caratteri più tranquilli, le anime più nobili, sono trascinate in modo pressoché irresistibile! Che fece Gesù in mezzo a quel bollimento della moltitudine? “Conoscendo, dice S. Giovanni! che verrebbero a rapirlo, per farlo loro re, Gesù si ritrasse di nuovo tutto solo sul monte e fece partire gli Apostoli sopra una nave, comandando loro di approdare all’opposta riva del lago (S. Marco, VI, 45; Matt. XIV, 22). Così per sventare gli stolti disegni di quella turba, Gesù si appigliò a tre mezzi, separare i discepoli da quelle turbe fanatiche, affinché loro non si comunicasse il contagio di quel fanatismo, accomiatarsi per bel modo dal popolo, invitandolo a sciogliersi e a ridursi ciascuno alle proprie case, e finalmente col ritrarsi destramente sul monte, sottraendosi agli occhi ed alle ricerche di tutti. – Prima di chiudere questa Omelia permettete un’ultima osservazione della più alta importanza. Gesù Cristo visse sotto gli Erodi usurpatori e sotto la dominazione straniera dei Romani. Questa particolarmente era odiatissima, e perciò frequenti furono le sommosse al tempo di Cristo e più dopo di lui fino all’ultima più tremenda, che trasse in capo ai Giudei lo sterminio della nazione, per opera di Vespasiano e di Tito suo figliuolo. Ebbene: leggete tutti quattro gli Evangeli: molte volte si porse occasione a Gesù Cristo di aprire l’animo suo intorno alle condizioni politiche del paese e a coloro che ne reggevano le sorti: molte volte gli scribi e i farisei, suoi implacabili nemici, e i partigiani di Erode si studiarono di cavargli di bocca qualche dichiarazione che fosse argomento di accusa presso le autorità o valesse a metterlo in mala voce presso il popolo e togliergli o scemargli il suo favore; ma non fu mai possibile strappargli una sola parola che lo mostrasse o nemico delle autorità, o avverso alle legittime aspirazioni del popolo. Con le parole e con le opere si mostrò rispettosissimo a tutte le autorità costituite, Egli che era sopra ogni autorità, e schivando con ogni cura d’immischiarsi nelle questioni politiche, che fervevano ardenti e minacciose intorno a Lui, attese unicamente a predicare le eterne verità, a mostrare la via del cielo, a salvare le anime. E una lezione dataci da Cristo, utile in ogni tempo, utile e necessaria particolarmente nel nostro e più particolarmente a noi Sacerdoti.

CREDO …

 Offertorium

Orémus Ps CXXXIV:3, 6

Laudáte Dóminum, quia benígnus est: psállite nómini ejus, quóniam suávis est: ómnia, quæcúmque vóluit, fecit in coelo et in terra. [Lodate il Signore perché è buono: inneggiate al suo nome perché è soave: Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto, in cielo e in terra.]

 Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quaesumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [Ti preghiamo, o Signore, volgi placato il tuo sguardo alle presenti offerte, affinché giòvino alla nostra pietà e alla nostra salvezza.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. – R. Amen.

Communio Ps CXXI:3-4

Jerúsalem, quæ ædificátur ut cívitas, cujus participátio ejus in idípsum: illuc enim ascendérunt tribus, tribus Dómini, ad confiténdum nómini tuo. Dómine. [Gerusalemme è edificata come città interamente compatta: qui sàlgono le tribú, le tribú del Signore, a lodare il tuo nome, o Signore.]

Postcommunio

Orémus. Da nobis, quaesumus, miséricors Deus: ut sancta tua, quibus incessánter explémur, sincéris tractémus obséquiis, et fidéli semper mente sumámus. [Concédici, Te ne preghiamo, o Dio misericordioso, che i tuoi santi misteri, di cui siamo incessantemente nutriti, li trattiamo con profondo rispetto e li riceviamo sempre con cuore fedele.]

 

 

DOMENICA III DI QUARESIMA (2018)

TERZA DOMENICA di QUARESIMA

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV:15-16.

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam unicus et pauper sum ego.[I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

Ps XXIV:1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam, [A Te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Oculi mei semper ad Dóminum, quia ipse evéllet de láqueo pedes meos: réspice in me, et miserére mei, quóniam únicus et pauper sum ego. [I miei occhi sono rivolti sempre al Signore, poiché Egli libererà i miei piedi dal laccio: guàrdami e abbi pietà di me, poiché sono solo e povero.]

 Oratio

Orémus.

Quæsumus, omnípotens Deus, vota humílium réspice: atque, ad defensiónem nostram, déxteram tuæ majestátis exténde. [Guarda, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, ai voti degli úmili, e stendi la potente tua destra in nostra difesa.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.

Ephes V:1-9

“Fratres: Estote imitatores Dei, sicut fílii caríssimi: et ambuláte in dilectióne, sicut et Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis oblatiónem, et hostiam Deo in odorem suavitátis. Fornicatio autem et omnis immunditia aut avaritia nec nominetur in vobis, sicut decet sanctos: aut turpitudo aut stultiloquium aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet: sed magis gratiárum actio. Hoc enim scitóte intelligentes, quod omnis fornicator aut immundus aut avarus, quod est idolorum servitus, non habet hereditátem in regno Christi et Dei. Nemo vos sedúcat inanibus verbis: propter hæc enim venit ira Dei in filios diffidéntiæ. Nolíte ergo effici participes eórum. Erátis enim aliquando tenebrae: nunc autem lux in Dómino. Ut fílii lucis ambuláte: fructus enim lucis est in omni bonitate et justítia et veritáte.”

OMELIA I

[Mons. G. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie, Marietti ed., Torino, 1898; vol. II, Om. V – impr.]

“Siate imitatori di Dio, come figliuoli diletti; e camminate in carità, come anche Cristo ci ha amati, e ha dato se stesso per noi in offerta e sacrificio a Dio di fragranza soavissima. E come si conviene a santi, né fornicazione, né immondezza, né avarizia si nomini pure tra voi. Né disonestà, né stolto parlare, né buffonerie, le quali cose non si convengono; ma piuttosto rendimento di grazie. Perché questo dovete sapere, che nessun fornicatore, od impudico, od avaro, il quale è idolatra, ha eredità nel regno di Cristo e di Dio. Niuno vi seduca con vani ragionamenti, che per queste cose viene l’ira di Dio sopra gli uomini riottosi. Non vogliate dunque accomunarvi a costoro. Perché un tempo eravate tenebre; ora siete luce nel Signore: diportatevi da figli della luce. Ora il frutto della luce consiste in ogni rettitudine e giustizia e verità „ (Agli Efesini, v. 1-9).

È questa la lezione della epistola, che la Chiesa ci propone a considerare in questa Domenica, tolta dal quinto capo della lettera agli Efesini. Questa lettera di S. Paolo agli Efesini è una delle cinque ch’egli scrisse dalla carcere. Due volte S. Paolo sostenne la carcere: la prima a Cesarea di Palestina , sotto Felice e Festo; la seconda a Roma sotto Nerone, intorno al 66 dell’era nostra. Sembra più che verosimile che questa lettera sia stata scritta nella prima prigionia, a Cesarea di Palestina. Essa consta di sei capi: i primi tre sono un monumento d’altissima dottrina intorno a Gesù Cristo, alla sua redenzione ed alla vocazione dei Gentili: negli altri tre vi sono condensati gli ammonimenti morali più necessari e più comuni ad ogni classe di persone, e di questi è ricco il brano che avete udito e che io verrò svolgendo. — Ascoltateli con tutta l’attenzione, che bene lo meritano. – “Siate imitatori di Dio, come figliuoli diletti, e camminate in carità. „ Nel versetto che precede questo immediatamente, l’Apostolo aveva esortato i fedeli a perdonarsi a vicenda ad imitazione di Dio, che ci perdona in vista dei meriti di Cristo: qual cosa più naturale quanto il venire alla conseguenza: “Imitate dunque Dio, come suoi figli bene amati. „ I figli ricevono la vita dai genitori, e con la vita la loro fisionomia, la loro somiglianza, ed anche le loro tendenze morali; i figli sono la riproduzione e la copia più o meno fedele dei loro genitori. Voi, dice san Paolo, siete figli di Dio, che col battesimo ha posto in fondo ai vostri cuori ed alle anime vostre una vita, troppo più nobile e più preziosa di quella che avete ricevuto dai vostri genitori naturali, la vita spirituale, che è una partecipazione della sua stessa vita divina: voi, che siete figli di Dio, imitate Dio… È  gloria dei figli imitare i genitori, e tanto più quanto i figli sono buoni ed amorosi e i genitori virtuosi: gloria vostra adunque sia il rendervi simili a questo gran Padre che è nei cieli. E in che cosa vi studierete d’essere simili a Dio? In tutto, perché Egli è l’eterno modello, sul quale dobbiamo formare la nostra vita, ma particolarmente nella carità: Ambulate in dilectione. Nessuna virtù è più spesso ricordata ed inculcata dal grande Apostolo nelle sue lettere quanto la carità, che ad ogni tratto e nelle più svariate forme, compare sotto la sua penna, ed a ragione, perché in essa si compendia tutto l’insegnamento della legge dei profeti. – Ben è vero che al giorno d’oggi taluni abusano di questo nome sì caro e sì santo di carità, e vorrebbero che per essa si sacrificasse la verità, pareggiandola all’errore; ma perché taluni abusano della carità e ne stravolgono il senso, facendola complice dell’errore, cesseremo noi dal predicarla come regina di tutte le virtù? Saremmo simili a coloro che sbandissero l’oro perché vi è l’orpello e rigettassero le pietre preziose perché ve ne sono di false. Perciò non operano saggiamene alcuni, anche buoni cattolici, che diffidano di chi predica la carità e quasi ne mettono in canzone il nome sì augusto e sì sacro. Noi la predicheremo sempre questa carità benedetta, unita alla verità, e la praticheremo, imitando Iddio, che è carità e insieme verità — Deus charitas est — Ego sum via, veritas. Il nostro modello supremo è Dio; ma non è facile salire a tanta altezza e noi, povere creature sensibili, abbiamo bisogno d’un modello più vicino a noi: abbiamo bisogno che la sovrana perfezione ci sia presentata sotto forma sensibile, ed eccola brillare vivissima nell’Uomo-Dio, Gesù Cristo. Il perché san Paolo, dopo aver detto: ” Camminate nella carità, „ soggiunge subito: ” Come Cristo ci ha amati. „ E l’amore di Gesù Cristo verso di noi si manifestò nelle opere, e quali opere, o dilettissimi? Egli per noi non spese soltanto parole, non diede soltanto le cose sue, non sostenne soltanto fatiche e dolori, ma diede se stesso, la sua stessa vita: la diede qual prezzo di riscatto per strapparci di mano al nostro crudele nemico: la offrì quale sacrificio al Padre suo. Tradidit semetipsum prò nobis, oblationem et hostiam. A chi non torna gradita la fragranza dei fiori, degli aromi, dei profumi? Essa ci rallegra e ci diletta. Similmente, dice l’Apostolo, il sacrificio, che Gesù Cristo per amor nostro e per la gloria del Padre offerse sulla croce, esalò, a nostro modo di dire, una fragranza soavissima, che rallegrò il cuore di Dio: Hostiam Deo in odorem suavitatis. – Non è egli vero, che se noi vediamo una persona faticare e soffrire per noi, ci sentiamo commossi, e un sentimento dolcissimo di gratitudine ricrea tutte le fibre del nostro cuore non già per il faticare e soffrire di quella persona (del che ci duole), ma sì per l’amore che in quel faticare e soffrire ci si fa manifesto? È una immagine della gioia che Dio prova, contemplando il sacrifìcio da Gesù Cristo consumato sulla croce e di quelli, che per amor suo si compiono ogni giorno da noi. I nostri sacrifici sono dinanzi a Dio come fiori che olezzano, come profumi, che spandono intorno soave fragranza, perché sono frutti dell’amore, e l’amore è un profumo che sale gradito a Dio. – Qui S. Paolo, come suole in quasi tutte le sue lettere, da conoscitore perfetto delle miserie umane, viene alla pratica, ed enumera di volo le ree abitudini e gli atti malvagi, dai quali con ogni cura dovevano guardarsi i suoi fedeli di Efeso, di fresco convertiti, e viventi in mezzo alla corruzione pagana. “La fornicazione tra voi neppure si nomini — Fornicatio autem… nec nominetur in vobis. „ Grande Iddio! l’Apostolo dai suoi neofiti esigeva tanta illibatezza di vita, che non permettesse nemmeno il pronunziare la brutta parola di fornicazione, che significa la colpa d’uomo libero con donna libera. Che accade ora nella nostra società tutta cristiana? Che vediamo ed udiamo noi, o carissimi? Oh quanti disordini! quanti scandali! quante relazioni colpevoli e tresche vergognose! Donde poi discordie, separazioni, odi, scialacqui e rovine di intere famiglie. E chi potrebbe narrare tutte le dolorose conseguenze di questa malnata passione, vero carnefice dell’uomo? Volgete intorno gli occhi, udite le grida di dolore, che si levano d’ogni parte e comprenderete che cosa sia questa passione. Fratelli e figli miei! che questo bruttissimo tra i vizi non si nomini nella nostra parrocchia. Né qui si arresta l’Apostolo nella sua esortazione, e vuole che similmente non si conosca né si nomini tra gli Efesini qualsiasi impudicizia, o cupidigia, come si conviene ai santi. „ Non pure voi, così in sentenza l’Apostolo, dovete tenervi lontani dalla fornicazione, che è peccato esternamente consumato; ma dovete conservarvi netti da qualunque immondezza od impudicizia, che può sfuggire all’occhio degli uomini, ma non si nasconde all’occhio di Dio. Allude non oscuramente a tutte quelle sozzure, delle quali l’uomo può imbrattarsi da solo, e che il tacere è bello, e che sventuratamente sono sì frequenti anche tra cristiani. Ohimè! quanti peccati si commettono contro la modestia, che sono noti soltanto a Dio ed alla coscienza di chi se ne rende colpevole! Io mi guarderò bene dal nominarli, perché offenderei le vostre orecchie. Solo vi dirò: Guardatevi dal fare anche da soli, ciò di cui arrossireste innanzi agli uomini, agli amici, ai compagni. Non vi vedono gli uomini, ma vi vede Iddio!… Chi può intendere intenda. – La cupidigia od avarizia, che S. Paolo vuole sbandita di mezzo ai cristiani, che sono chiamati alla santità, più innanzi e più fortemente è sfolgorata dall’Apostolo, e perciò qui me ne passo. Proseguendo nella sua enumerazione, san Paolo scrive: ” Così non si nomini tra voi né disonestà, né parlare da stolto, né buffonerie, le quali cose non si convengono. „ Altri facilmente potrebbe credere che con la parola “disonestà — turpitudo, „ si ripeta ancora ciò che sopra si volle significare con le parole “fornicazione ed impudicizia; „ ma evidentemente sono cose distinte, e se con le due parole di fornicazione e di impudicizia il sacro testo indicò i peccati di incontinenza esterna con altri e quelli di incontinenza con se stessi, con la parola disonestà intese fulminare l’oscenità del parlare, come spiega il massimo degli interpreti (Cornelio Alapide): Obscœnitas verborum. Che dire, o miei cari, di quest’altro male che l’Apostolo segnalava ai suoi figliuoli di Efeso? Ne siamo noi immuni? Me ne appello a voi. Ohimè! come anche in mezzo a noi fa strage il turpiloquio e i malvagi discorsi corrompono i buoni costumi! Nelle case, nelle conversazioni, nelle vie, nelle piazze, nei crocchi e perfino in mezzo al lavoro dell’officina e del campo, la parola turpe, lubrica, insozza la lingua di tanti cristiani e scandalizza i loro fratelli. Hanno il cuore corrotto, e da esso, come miasmi pestilenziali d’una palude, procedono i discorsi osceni. Pur troppo la trista abitudine del parlare osceno toglie il ribrezzo al peccato, e non è raro udire taluni, che dicono: Che male c’è a dire certe cose? Lo facciamo per ridere e stare allegri. In fine non facciamo male a persona. Come! Non sapete che la parola è come una scintilla, che appicca l’incendio all’anima e suscita il fuoco della libidine? La parola tua può uccidere l’anima del fratello, che per essa pensa e desidera il peccato. Tu uccidi l’anima del fratello e dici: Che male faccio? — Lo fo per eccitare l’allegria? Ah se sapessi ciò che avviene nel cuore del fratello che ti ascolta, inorridiresti! Fine, o dilettissimi, a tanto vituperio: Nec nominetur in vobis. – Non si accontenta l’Apostolo di proscrivere tra i cristiani quelle opere e quelle parole, che sono per se stesse malvagie, come la fornicazione, la impudicizia e le oscenità; ma vuole che siano con ogni studio fuggite anche quelle cose che, quantunque per se stesse non peccaminose, pure sembrano rasentare il peccato e facilmente ad esso spianano la strada, e perciò proseguendo, dice: ” Né vi sia tra voi parlare da stolto e buffoneria — Aut stultiloquium, aut scurrilitas, quæ ad rem non pertinet. „ L’uomo, come uomo e più assai come Cristiano, deve sempre in ogni cosa regolarsi secondo ragione e secondo fede: è questa la sua sapienza, che lo terrà lungi dalla imprudenza, dalla temerità, dalla timidezza, dall’errore e da ogni eccesso, che è sempre riprovevole. Il suo parlare, regolato sempre dalla sapienza cristiana, sarà un parlare retto ed onesto, e lontano dal parlare da stolto, che l’Apostolo flagella, aut stultiloquìum. E naturale nell’uomo la tendenza a quella che si dice piacevolezza o giovialità  e quindi al giuoco, al passatempo, e via dicendo. È questo male per se stesso? No, sicuramente, e per questo a ragione S. Paolo aggiunse: Quæ ad rem non pertinet, parole che significano l’eccesso o sconvenienza. I divertimenti, i giuochi, le piacevolezze devono sempre contenersi entro i confini dell’onesto e relativamente alle persone ed al loro stato, e non eccedere o per ragione del tempo e del modo e delle condizioni speciali, donde poi derivano le facezie mordaci, la rilassatezza del costume ed altri disordini. Il vero cristiano, secondo S. Paolo, conserva sempre in tutto la giusta misura, quella gravità e compostezza che si conviene a chi è padrone delle proprie passioni e sa di camminare sotto gli occhi di Dio, che tutto vede e giudica secondo verità. Invece di tutte queste cose più o meno riprovevoli vuole l’Apostolo, che i fedeli rivolgano le loro menti e i loro cuori a Dio, e lo ringrazino dei benefizi senza numero ricevuti. Tutta la esistenza nostra ed ogni istante della medesima è un beneficio del Signore, e come continuo è il beneficio, così continuo dovrebb’essere da parte nostra il rendimento di grazie: Deo gratias, scrive S. Agostino: hoc nec dici brevius, nec audiri lætius, nec intelligi grandius, nec agi fructuosius potest (Epist. 77). – Dopo aver messo sotto gli occhi dei cristiani i peccati che devono cessare, S. Paolo come spesso suol fare, ricorda la sanzione divina, il castigo riserbato a chi li commette, e in modo solenne esclama: “Perché questo dovete sapere, che nessun fornicatore od impudico od avaro, che vuol dire idolatra, ha eredità nel regno di Cristo e di Dio. „ Hanno un bel dire certi uomini dotti e che si atteggiano a maestri e pretendono correggere la dottrina cristiana: ” Il male si deve evitare per se stesso, perché è cosa brutta, e non occorre parlare di castigo, di perdita del cielo, del fuoco dell’inferno preparato a chi lo fa. „ Certo il peccato lo si deve fuggire anche perché è cosa brutta ed abbominevole per se stessa; ma questo motivo è desso bastevole e bastevole sempre e per tutti? Sarebbe come dire che noi possiamo chiudere le carceri, abolire i tribunali e i carabinieri e bruciare il codice penale, perché gli uomini possono e devono adempire i loro doveri e vivere virtuosamente senza questi mezzi, che atterriscono e frenano i malvagi. Più che la bruttezza del peccato, a ritrarne l’uomo, assai spesso vale il timore del castigo, la perdita del cielo, e per convincercene basta studiare un poco la natura umana. Non è egli vero, o genitori, che voi stessi per ottenere l’obbedienza dai vostri figliuoli e farli camminare sulla via del dovere, siete costretti non rade volte di ricorrere alla promessa del premio ed alla minaccia del castigo? E ciò stesso fa Paolo, gridando: “Ricordatevelo bene: il cielo, l’eredità che Dio ha promesso a noi suoi figliuoli adottivi per mezzo di Cristo, non sarà dato ai fornicatori, agli impudichi, agli avari. Cessino adunque codesti moderni stoici dal ripeterci che noi cattolici, promettendo il premio ai virtuosi e minacciando il castigo ai malvagi, facciamo un mercato della virtù e la tramutiamo in una merce ed appelliamo all’egoismo. L’uomo non può prescindere da se stesso e non può non volere il proprio bene e la propria felicità, e perciò fuggire il vizio per timore del castigo e praticare la virtù per la speranza del premio, è cosa conforme alla natura. Sarà motivo nobilissimo sopra ogni altro cessare il male e fare il bene per il solo amore di Dio, senza dubbio: ma quanti lo faranno? Lo stesso Apostolo, quell’anima sì sublime, ci grida che aspettava anch’egli il premio delle sue fatiche dal giusto Giudice. Il timore del castigo e la speranza del premio sono due motivi ragionevoli e nobili per vivere virtuosamente: più nobile è l’amore di Dio. – L’avarizia è lo sfrenato amore delle ricchezze, che spinge l’uomo a violare la giustizia o la carità per accumularle, e perciò non si vuol confondere coll’amore del risparmio e col desiderio di accrescere i propri beni con mezzi onesti e legittimi. L’Apostolo, nominato l’avaro, soggiunge: il quale è idolatra. Come ciò, o carissimi? Ogni passione soddisfatta, ogni peccato, non è desso un idolo, a cui l’uomo sacrifica l’amor suo e a cui rende quel culto, che rifiuta a Dio? Sì, è vero: in un senso, ogni peccato grave, è una specie di idolatria, in quanto l’uomo pone in esso quel fine, che dovrebbe porre solamente in Dio. Ma, se bene si considera, negli altri peccati, come nella disonestà, nella gola, nella superbia, il fine, l’oggetto è nell’uomo stesso, nella sua soddisfazione, dove ché nell’avarizia l’oggetto è fuori di lui: è l’oro, oggetto materiale, dinanzi al quale cade, come il pagano si prostra ai piedi del suo idolo. Quale umiliazione, quale vituperio per l’uomo, essere spirituale, fatto per elevarsi al conoscimento del vero, della virtù, di Dio stesso, e Lui solo amare sopra ogni cosa, gettarsi ai piedi d’un po’ d’oro, d’un pugno di materia e porre in esso ogni sua felicità (Jo. Chrys., Hom. 64 in Matth.)? Segue un’altra raccomandazione generale: “Nessuno vi seduca con vani ragionamenti. „ – Allora, come sempre, vi erano i seminatori di false dottrine, e S. Paolo in altre lettere ne nomina alcuni: essi alteravano l’insegnamento della fede, e la loro parola, scrive l’Apostolo, si dilatava come un cancro — Sermo eorum ut cancer serpit. — Egli è contro questi spargitori di false dottrine, contro questi adulteratori del Vangelo che S. Paolo vuol premunire i suoi figliuoli spirituali, dicendo: “Deh! Che nessuno vi seduca con falsi ragionamenti! Tenetevi fermi alle dottrine, che avete ricevute da me. „ – Il pericolo additato dall’Apostolo esiste e grande, e forse non minore che non fosse a quei tempi. O dilettissimi! Non lasciamoci ingannare né dai maestri d’errori, né da tanti libri pestiferi, che corrono per le mani di molti. Teniamoci saldi alla fede della madre nostra amorosissima, la Chiesa, e chiudiamo le orecchie alle parole ingannevoli dei seduttori, e gli occhi ai loro libri e scritti quali che siano. Guai a voi, se ingannati dai seduttori, abbandonate la dottrina di Cristo, vi ribellate al suo Vangelo: lo sdegno di Dio, la sua vendetta verrà sopra di voi — Propter hæc venit ira Dei in filios diffidentiæ. — Separatevi da questi riottosi e da questi uomini di perduti costumi, affinché il loro contagio non si appicchi a voi pure — Nolite effici participes eorum. — Ciò si intende sempre nella maniera che è possibile e in ragione del pericolo, che per noi si corre, usando con questi peccatori, o dello scandalo che altri potrebbe ricevere vedendovi frequentare la loro compagnia. Dalla raccomandazione sì calda fatta ai suoi novelli cristiani: “Non vogliate accomunarvi con questi uomini riottosi, „ era naturale il passaggio alla sentenza che segue: “Un tempo eravate tenebre; ora siete luce nel Signore, „ cioè per opera e bontà del Signore. L’immagine della luce è famigliare a Gesù Cristo nel Vangelo e la ripete spesso S. Paolo: essa tra le create cose è la bellissima e meglio d’ogni altra rappresenta Dio stesso, la verità, la bellezza, la virtù, tutto ciò che è buono e santo. Voi, cosi S. Paolo, pochi anni or sono, eravate immersi negli errori del paganesimo, camminavate nelle tenebre, ignorando il vostro principio ed il vostro fine, anzi eravate tenebre: Dio vi ha tratti fuori di queste tenebre, vi ha trasportati nel regno della sua luce, che è la Chiesa, e vi ha fatto conoscere la verità e siete non più tenebre, ma luce: Nunc autem lux in Domino. Rischiarati da questa luce della verità, camminate, ossia operate, e diportatevi come figli della luce. Questa frase sì viva e brillante del nostro Apostolo è sostanzialmente quella che vi spiegai altrove (Omelia I , vol. 1°), e che si legge nel c. XIII ai Romani. Uditela: ” La notte è passata ed il giorno è vicino: gettiamo via le opere delle tenebre e vestiamo le armi della luce e camminiamo con decoro, come di giorno… e rivestite il Signore Gesù Cristo. ,, – E che cosa importa operare o diportarsi come figli della luce? Ascoltate ancora l’Apostolo: “Il frutto della luce, ossia le opere della verità e della fede, che avete ricevuta, consiste in ogni rettitudine e giustizia e verità, „ che è quanto dire: siate retti, giusti, amanti della verità, sinceri e voi proverete col fatto d’essere figli della luce, e con questa raccomandazione del grande Apostolo io chiudo l’Omelia, o dilettissimi, e vi lascio.

 Graduale

Ps IX: 20; 9:4

Exsúrge, Dómine, non præváleat homo: judicéntur gentes in conspéctu tuo. [Sorgi, o Signore, non trionfi l’uomo: siano giudicate le genti al tuo cospetto.

In converténdo inimícum meum retrórsum, infirmabúntur, et períbunt a facie tua. [Voltano le spalle i miei nemici: stramazzano e periscono di fronte a Te.]

Tractus Ps. CXXII:1-3

Ad te levávi óculos meos, qui hábitas in cœlis.[Sollevai i miei occhi a Te, che hai sede in cielo.]

Ecce, sicut óculi servórum in mánibus dominórum suórum.[Ecco, come gli occhi dei servi sono rivolti verso le mani dei padroni.]

Et sicut óculi ancíllæ in mánibus dóminæ suæ: ita óculi nostri ad Dóminum, Deum nostrum, donec misereátur nostri, [E gli occhi dell’ancella verso le mani della padrona: così i nostri occhi sono rivolti a Te, Signore Dio nostro, fino a che Tu abbia pietà di noi].

Miserére nobis, Dómine, miserére nobis. [Abbi pietà di noi, o Signore, abbi pietà di noi.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam. [Luc XI:14-28]

“In illo témpore: Erat Jesus ejíciens dæmónium, et illud erat mutum. Et cum ejecísset dæmónium, locútus est mutus, et admirátæ sunt turbæ. Quidam autem ex eis dixérunt: In Beélzebub, príncipe dæmoniórum, éjicit dæmónia. Et alii tentántes, signum de coelo quærébant ab eo. Ipse autem ut vidit cogitatiónes eórum, dixit eis: Omne regnum in seípsum divísum desolábitur, et domus supra domum cadet. Si autem et sátanas in seípsum divísus est, quómodo stabit regnum ejus? quia dícitis, in Beélzebub me ejícere dæmónia. Si autem ego in Beélzebub ejício dæmónia: fílii vestri in quo ejíciunt? Ideo ipsi júdices vestri erunt. Porro si in dígito Dei ejício dæmónia: profécto pervénit in vos regnum Dei. Cum fortis armátus custódit átrium suum, in pace sunt ea, quæ póssidet. Si autem fórtior eo supervéniens vícerit eum, univérsa arma ejus áuferet, in quibus confidébat, et spólia ejus distríbuet. Qui non est mecum, contra me est: et qui non cólligit mecum, dispérgit. Cum immúndus spíritus exíerit de hómine, ámbulat per loca inaquósa, quærens réquiem: et non invéniens, dicit: Revértar in domum meam, unde exivi. Et cum vénerit, invénit eam scopis mundátam, et ornátam. Tunc vadit, et assúmit septem alios spíritus secum nequióres se, et ingréssi hábitant ibi. Et fiunt novíssima hóminis illíus pejóra prióribus. Factum est autem, cum hæc díceret: extóllens vocem quædam múlier de turba, dixit illi: Beátus venter, qui te portávit, et úbera, quæ suxísti. At ille dixit: Quinímmo beáti, qui áudiunt verbum Dei, et custódiunt illud.”

Omelia II

[Ibi, om. VI]

“Gesù stava cacciando un demonio, ch’era muto, e come lo ebbe scacciato, il muto parlò e le turbe si meravigliarono. Ma alcuni tra quelle dissero: Egli scaccia i demoni per Beelzebub, loro capo. Ed altri, tentandolo, chiedevano da lui un segno dal cielo. Ma egli, conoscendo i loro pensieri, disse loro: Ogni regno diviso in se stesso sarà disfatto e cadrà casa sopra casa. Se dunque anche satana è diviso in parti contrarie, come starà in piedi il suo regno? poiché voi dite ch’io caccio i demonii per Beelzebub. S’io  poi caccio i demoni per Beelzebub, per chi mai li cacciano i vostri figli? Per questo essi saranno i vostri giudici. Ma se io caccio i demoni per la potenza di Dio, per fermo è giunto tra voi il regno di Dio. Quando un potente armato custodisce la sua casa, è sicuro quanto egli possiede. Ma se uno più forte di lui sopravenendo lo vinca, gli porterà via tutte le armi, in cui confidava, e spartirà le sue spoglie. Chi non è meco è contro di me; e chi meco non raccoglie, disperde. Quando lo spirito impuro è uscito dall’uomo, si aggira per luoghi aridi, cercando riposo, e non lo trovando, dice: Tornerò nella mia casa, donde uscii. E, venuto, la trova spazzata ed adorna. Allora si parte e prende sette altri spiriti più malvagi di lui, ed entrati, vi abitano, e le ultime condizioni di quell’uomo sono peggiori delle prime „ (Luca, XI, 14-26).

È questo, o carissimi, il tratto evangelico, sul quale oggi fermeremo la nostra attenzione. Esso è alquanto lungo e comprende quattro parti distinte, il miracolo del muto guarito da Gesù, l’orribile calunnia mossa a Gesù, e la sua risposta, e l’ostinazione dello spirito maligno nell’infestare le anime. Risparmiamo il tempo e poniamo mano alla spiegazione. “Gesù stava cacciando un demonio, che era muto, e come l’ebbe cacciato, il muto parlò e le turbe si meravigliarono. ., Questo fatto è narrato brevemente anche da S. Marco e più particolarmente da S. Matteo, il quale dice che il muto era non solo muto, ma eziandio cieco. Non è necessario l’avvertire che quando l’Evangelista dice che il demonio era muto, si deve intendere che il demonio lo rendeva muto. Non ignoro, o dilettissimi, che ai nostri giorni parlare di demoni e di infermità o malattie da loro cagionate, per certa gente che si crede istruita e sciolta da vecchi pregiudizi, è un esporsi al ridicolo od alla men peggio ad un mal dissimulato compatimento. Ma voi comprenderete bene che il Vangelo, anche umanamente parlando, merita maggior fede di questi uomini, se volete, anche istruiti e approfonditi in ogni scienza. Per noi Cattolici credenti, dove parla il Vangelo, parla Dio stesso, ed ogni scienza umana, sia pur somma, deve tacere. D’altra parte chi può negare che, tra noi uomini, composti di spirito e di corpo, e Dio, spirito d’infinita perfezione, possano esistere altri spiriti, a Lui inferiori e superiori a noi? La ragione ne comprende la possibilità, la fede ce ne insegna l’esistenza reale e tutta la storia dell’umanità lo attesta. E chi può negare che tra questi, alcuni siano fedeli a Dio ed altri a Lui siano ribelli, appunto come anche tra gli uomini alcuni sono buoni e virtuosi ed altri cattivi e perversi? E questo pure la ragione naturale intende, la fede proclama e l’umanità tutta conferma. E se vi sono questi spiriti malvagi, ribelli a Dio e nemici dell’uomo, perché immagine di Dio, qual cosa più facile ad intendersi, ch’essi possano produrre nella natura visibile, nell’uomo e nel suo corpo, permettendolo Iddio, effetti malefici, infermità, cecità, mutolezza ed altri somiglianti malanni? Se noi uomini possiamo produrre sulla materia tante modificazioni; se possiamo alterare le condizioni naturali del corpo umano e svilupparvi con tanta facilità dolori e malattie e persino la perdita della ragione, perché ciò non potrebbe con facilità, senza confronto maggiore lo spirito malefico, quando Iddio per i suoi fini lo permettesse? La ragione non ha nulla da opporre. Noi non diremo certamente che le infermità onde gli uomini sono al presente travagliati, siano opera dello spirito maligno, no, per fermo: o solo allora lo diremo che gli uomini della scienza lo affermano, al giudizio dei quali dobbiamo affidarci; ma essi non si offenderanno, né troveranno cosa irragionevole, se ammettiamo e crediamo che un uomo sia reso cieco o muto dallo spirito malvagio, allorché il Vangelo lo dice. Lo spirito malvagio può esistere, come esiste l’uomo malvagio: se esiste può fare il male sopra l’uomo, se Dio non lo impedisce: il Vangelo mi dice che lo fece sul tale e tal altro: con che diritto lo potrei io negare? Il ragionamento non ammette ombra di dubbio. – Ora ritorniamo al testo del nostro Vangelo. Gesù Cristo col solo impero della sua volontà scacciò il demonio, che aveva preso possesso di quel misero, e questo fu immediatatanente guarito, riebbe la vista e la favella. Ponete mente come Gesù Cristo, in questo e in tutti gli altri miracoli, agisca sempre in modo assoluto, con la sola volontà, in un lampo, senza esitare, senza applicare rimedio di sorta e in pubblico, alla presenza delle moltitudini, spesso dei suoi nemici, e l’effetto è istantaneo, infallibile, che sono i caratteri del vero miracolo. Le turbe, alla vista di quel miracolo, furono ripiene di stupore e dovettero prorompere in altissime esclamazioni ed in grandi applausi. Esse, nella loro semplicità, riconobbero il miracolo, non ne ebbero ombra di dubbio. Ma in mezzo a quelle turbe, scrive S. Luca, vi erano “alcuni che dissero: Egli scaccia i demoni per Beelzebub, loro capo. „ Chi erano costoro? S. Luca non ne fa il nome, ma lo fanno S. Matteo e S. Marco. Non era il buon popolo, ma erano gli scribi e i farisei venuti da Gerusalemme, i dotti di quel tempo. Costoro, pieni di superbia, di invidia e di odio contro Gesù Cristo, che smascherava la loro ipocrisia ed era acclamato dal popolo qual profeta e Messia: fieramente indispettiti contro di Lui, perché sconvolgeva e distruggeva interamente le loro false idee intorno al Messia ed alla sua grandezza, idee materiali, non potendo negare i miracoli che operava, li attribuivano a virtù diabolica. — Le passioni acciecano e non vi è eccesso, contraddizione, quanto si voglia enorme, a cui non possano trascinare chi ne è schiavo, e qui ne abbiamo una prova dolorosa. Hanno sotto i loro occhi la vita di Gesù Cristo: essa è modello perfettissimo di tutte le più elette virtù: non cerca che il bene delle anime e la gloria di Dio: conferma la sua dottrina coi miracoli più strepitosi, è impossibile negarli o dubitarne. Si arrendono alla evidenza dei fatti, lo riconoscono per Messia? No, mai: a costo di fare oltraggio al buon senso, di calpestare la ragione, essi dicono: “Costui caccia i demoni per virtù di satana, loro capo”. Il povero popolo conosce la verità e la segue: gli uomini della ricchezza e della scienza d’allora, la disconoscono e la rigettano! Mistero di accecamento e di superbia, che si ripete attraverso tutti i tempi! I farisei chiamano Beelzebub capo dei demoni. I demoni hanno essi un capo? Stando al linguaggio dei Libri santi, sembra fuor di dubbio. Gesù Cristo parla del principe di questo mondo e designa il demonio: S. Paolo lo chiama dio di questo secolo; S. Giovanni descrive il dragone e gli angeli suoi, che pugnano contro Michele e gli angeli buoni: quelle espressioni indicano abbastanza chiaramente che, come gli Angeli buoni hanno i loro duci ed un duce supremo, così li hanno i malvagi. I farisei e gli scribi attribuiscono al demonio il potere di far miracoli. Che dire? Si può ammettere? I demoni, essendo spiriti dotati di intelligenza e di forze di gran lunga superiori a quelle degli uomini, indubbiamente possono far cose superiori alla intelligenza e alla forza degli uomini e tali che agli uomini debbano sembrare miracoli. E Dio li può permettere? Li può permettere finché non traggono in errore gli uomini; ma allorché questi fatti od opere diaboliche, che hanno l’apparenza di veri miracoli, possono indurre in errore gli uomini, allora Dio deve impedirli o dare agli uomini mezzi o segni sicuri per distinguerli dai veri miracoli. Se ciò non facesse, l’errore sarebbe inevitabile, e Dio medesimo ne sarebbe autore. E qui, o fratelli miei, forse più d’una volta avrete letto od udito parlare di risposte date da spiriti; di tavole scriventi, o parlanti, di apparizioni di spiriti, di conoscimento dei pensieri e via dicendo. Mi domanderete: che dobbiamo pensare di tutte queste cose? Mi è impossibile darvi una spiegazione ampia come sarebbe necessario: vi dirò quel tanto, che basti per vostra regola pratica. Anzitutto diffidate della verità di tutti questi fatti: vi hanno gran parte la fantasia, la destrezza e, diciamolo, il ciarlatanismo degli uni e la soverchia buona fede degli altri. In secondo luogo alcuni di questi fenomeni, che sembrano straordinari e quasi miracolosi, si possono spiegare naturalmente mercé l’uso di certi agenti noti agli operatori, che sanno manipolarli. In terzo luogo voi vedrete che siffatti fenomeni non si ottengono con la sola volontà degli operatori, ma si domandano preparazioni più o meno lunghe di luoghi, di strumenti, di tempo, di soggetti, né sempre riescono: tutte cose che mostrano l’arte e l’industria dell’uomo. Poi è chiaro che se fossero veri tutti questi fenomeni che si dicono, e se si conoscessero i pensieri degli uomini, come si afferma, gli autori se ne varrebbero a proprio vantaggio in guisa da diventare ben presto ricchi signori. Finalmente sappiate che la Chiesa riprova questo interrogare gli spiriti e le tavole scriventi o parlanti, perché vi è gran ragione di sospettare, che vi entrino l’inganno, l’impostura e la superstizione, e le risposte che si hanno sono ora ridicole, ora contraddittorie, ora irreligiose od empie. Figli ubbidienti della Chiesa, non sia mai, che prendiate parte a siffatte prove. Non vi è lecito e ciò basti. Non paghi gli scribi ed i farisei dell’orribile ingiuria fatta a Gesù e della esecrabile bestemmia di attribuire al demonio le opere di Lui, opere divine, spinsero l’audacia sacrilega fino a chiedere a Lui stesso un miracolo, ma un miracolo a loro modo, che fosse operato, non in terra, ma in cielo, quasiché fosse più facile verificare i miracoli che avvengono in cielo, che quelli che si operano sulla terra e si possono toccare con mano. Gesù Cristo era padrone delle opere sue e nessuno poteva imporgli il luogo, il tempo, il modo di operare i suoi miracoli. È sempre l’orgoglio dell’uomo che, per sottrarsi alle prove che ha lì presenti, ne domanda altre a suo capriccio; che se queste Iddio le concedesse, altre ancora ne chiederebbe. Costoro non crederebbero, come disse in altro luogo Gesù Cristo, quand’anche uno uscisse dalla tomba e parlasse loro. Quantunque quegli ostinati e superbi non meritassero alcuna risposta, Gesù la diede loro, e tale che avrebbe dovuto conquiderli: “Voi dite ch’Io opero miracoli per virtù del demonio, che scaccio il demonio col demonio istesso, come è avvenuto testé sotto i vostri occhi. Ora se è così, come voi dite, il demonio è in guerra con se stesso e il suo regno va necessariamente in mina e, per conseguenza viene il regno di Dio, quel regno che Io vi annunzio”. È  questa la prima risposta e, come vedete, trionfante, che Gesù dà ai suoi nemici. Che potevano essi rispondere? Nulla, e nulla risposero. Alla prima ne aggiunse una seconda non meno gagliarda. Egli poco prima aveva mandato i suoi Apostoli a predicare il regno dei cieli, quasi per iniziarli alla grande missione, che più tardi avrebbero adempiuto: aveva dato loro potere di guarire gli infermi e di cacciare gli spiriti immondi. Essi avevano compiuta la loro missione, ed erano ritornati narrando con gioia e meraviglia a Gesù stesso, che anche gli spiriti malvagi loro obbedivano: Etiam dæmonia subjiciuntur nobis. La cosa doveva essere pubblica e la fama sparsane dovunque e nota agli scribi ed ai farisei, ai quali Gesù rivolgeva la parola. Egli li stringe nuovamente in questa forma: Voi dite ch’io scaccio i demoni per opera del loro capo, satana (Beelzebub, o Baal-Zebud, era il nome della Divinità dei Filistei, che gli Ebrei davano al capo dei demoni), o Beelzebub. Voi non potete ignorare, che questi miei discepoli, che sono vostri fratelli, filii vestri, li hanno scacciati e scacciano anch’essi. Ditemi dunque, in nome di chi essi scacciano i demoni? Vorreste forse sospettare e dire ch’essi pure ciò fanno in virtù di Beelzebub? Essi sono miei discepoli, e se non vi basta l’animo di affermare che anch’essi sono strumenti di Beelzebub, come lo potete dire di me, loro maestro? Essi, questi miei cari discepoli e vostri connazionali e conterranei, saranno i vostri giudici e la vostra condanna: Ipsi judices vestri erunt. S’Io pertanto e i miei discepoli scacciamo il demonio, lo scacciamo, non per la potenza del demonio, ma per la potenza di Dio, e questa è una prova solenne, irrecusabile che il suo regno cade e che è giunto tra voi il regno di Dio, in altri termini, che è venuto il Messia che aspettate. Son due quelli che si contendono l’impero morale del mondo, il Figlio di Dio fatto uomo, Gesù Cristo, e il maligno, lo spirito delle tenebre: se Gesù volesse usare direttamente il suo potere divino, la lotta finirebbe tosto e il suo regno in un istante sarebbe stabilito e il regno di satana distrutto. Chi può resistere alla sua onnipotenza? Ma Gesù Cristo vuol vincere la lotta e stabilire il suo regno, usando delle cause seconde, conquistando le menti e le volontà, non con la forza, ma con la persuasione e rispettando la libertà umana fino allo scrupolo. Egli non vuole entrare nelle anime se non quando esse volontariamente gli aprono la porta: non vuole nel suo regno che quelli che liberamente vi entrano: di qui la durata della lotta, che rende più grande e più glorioso il trionfo di Cristo e dei suoi figli. È una conquista che Gesù Cristo va compiendo per mezzo dei suoi seguaci, guadagnando a palmo a palmo il terreno, a prezzo di sudori e di sangue, e a mano a mano che il suo regno si allarga, quello di satana si restringe, precisamente a quel modo che il sole, con il suo lento avanzarsi sull’orizzonte, scaccia le tenebre, e quello acquista quel che queste perdono. – Seguitiamo il Vangelo: “Quando un potente armato custodisce la sua casa, è sicuro quanto egli possiede; ma se uno più forte di lui sopravenendo lo vinca, gli porterà via tutte le armi nelle quali confidava, e spartirà le sue spoglie. „ È questa un’immagine o similitudine, con cui Gesù Cristo viene rischiarando e ribadendo le cose dette. Chi è questo forte armato, che custodisce la casa e ciò che nella casa si trova? Indubbiamente è il principe delle tenebre, il demonio, la cui forza è certamente grande. Che casa è questa ch’egli difende, e nella quale sono ammassate grandi ricchezze? È il mondo pagano, e quelli stessi tra i Giudei, che combattevano la verità annunziata da Cristo. Egli, il demonio, da lungo tempo possedeva questa casa, e con tutte le armi della forza, dell’astuzia, della menzogna vegliava alla sua difesa per impedire che gli fosse tolta. Chi è il più forte che sopraviene, che lo vincerà, gli strapperà di mano le armi, nelle quali confidava, e si impadronirà della casa e di tutte le ricchezze in essa raccolte? È manifesto: è Gesù Cristo stesso, che viene a cacciare il demonio dal suo regno usurpato: Princeps hujus mundi ejicietur foras, e poco prima ne aveva dato una prova, liberando l’ossesso sotto gli occhi degli stessi scribi e farisei. – Gesù Cristo, non dimentichiamolo mai, o carissimi, caccerà da ciascuno di noi questo forte armato, se per somma sventura vi fosse entrato, o lo terrà fuori delle anime nostre se, come spero, non vi è penetrato; ma sempre a patto che non solo lo lasciamo operare liberamente in noi, ma cooperiamo alla sua grazia, giacché questa senza la nostra cooperazione, rimarrebbe infeconda e non servirebbe che a nostra condanna. “Chi non è meco è contro di me, e chi meco non raccoglie, disperde. „ Questa sentenza di nostro Signore parrebbe non avere nesso alcuno con le altre che la precedono, ma lo ha e naturale, se a dovere ne penetriamo il senso. “Io, così sembra ragionare il Salvatore, Io vengo per combattere il comune nemico, il demonio; io sono il capitano in questa gran guerra; voi e tutti gli uomini dovete combatterlo con me, sotto la mia bandiera. In questa guerra non v i possono essere uomini indifferenti: tra la verità e l’errore, il principe delle tenebre e me, che sono la luce e il Figlio di Dio, dovete scegliere: o sotto la mia bandiera, o sotto quella del mio nemico, e chi non si schiera sotto la mia, è mio nemico, chi meco non raccoglie, cioè chi non si unisce a me, disperde, da me si allontana. „ Qui non si tratta di cose, intorno alle quali si può dissentire senza pericolo della salute, come là dove Cristo disse: “Chi non è contro di voi, sta per voi — Qui non est adversum vos, prò vobis est „ (Luca, IX, 50), ma sì di cose necessarie, anzi del fondamento stesso della salute, giacché si tratta di seguire Cristo od il suo e nostro nemico, il demonio. Gesù passa a descrivere l’arte, l’odio e l’ostinazione con cui il nemico muove a danno degli uomini. “Quando lo spirito impuro è uscito dall’uomo, si aggira per luoghi aridi, cercando riposo, e non trovandolo, dice: Tornerò nella mia casa, donde uscii. E venuto, la trova spazzata ed adorna. Allora si parte e si prende sette altri spiriti peggiori di lui, ed entrati, vi abitano, e le ultime condizioni di quell’uomo sono peggiori delle prime. „ Lo spirito impuro, ossia il demonio, allorché è costretto a partire da un’anima, arde del desiderio di ritornarvi: non si dà pace, e vedendola rifatta bella e stanza di Dio, che vi abita con la sua grazia, “prende altri sette spiriti peggiori di lui, „ cioè raddoppia le insidie e gli sforzi, chiama in suo aiuto altri spiriti molti (il numero sette indica in genere un numero considerevole), e con essi riviene all’assalto, e se l’anima non è ben salda, cade, e allora vi rientra, e il suo stato diventa peggiore. Fors’anche queste parole si riferiscono al popolo d’Israele: esso per lungo tempo fu il popolo eletto, la casa di Dio, mentre tutto il resto del genere umano brancolava nelle tenebre ed era schiavo di satana. Ma questo popolo eletto, ingrato alle grazie ricevute, respingendo e perseguitando i profeti, e sopra tutto, respingendo Cristo e perseguitandolo a morte, doveva cadere sotto la tirannica signoria del demonio e rimanervi fino alla conversione dei Gentili, ondeché la condizione d’Israele, dopo Cristo, sarebbe stata ben peggiore che per lo innanzi. Di questa spiegazione ne persuade ciò che si legge in S. Matteo (XII, 45), il quale, riferite le stesse parole di Gesù Cristo presso S. Luca da noi riportate, conchiude: ” Tale avverrà ancora a questa generazione malvagia. „ Quale che sia la interpretazione di queste sentenze di nostro Signore: sia che le riferiamo al popolo ebreo, sia che le intendiamo dell’anima in particolare che ricade in peccato, la verità che dobbiamo cavarne è questa: che il demonio vinto non lascia nulla di intentato per avere la rivincita; che se può rientrare col peccato in un’anima, da cui fu scacciato, ne fa più crudele governo, e lo stato di quest’anima diventa peggiore, perché le passioni già sopite, si risvegliano più rabbiose, si riaprono le antiche ferite; Dio, offeso dalla ingratitudine diminuisce le sue grazie, e il cuore con il mal uso di queste indura.

Credo

Offertorium

Orémus Ps XVIII:9, 10, 11, 12

Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulci ora super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea. [I comandamenti del Signore sono retti, rallégrano i cuori: i suoi giudizii sono più dolci del miele: perciò il tuo servo li adémpie.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [Ti preghiamo, o Signore, affinché questa offerta ci mondi dai peccati, e santífichi i corpi e le ànime dei tuoi servi, onde pòssano degnamente celebrare il sacrifício.]

Communio

Ps LXXXIII:4-5 – Passer invénit sibi domum, et turtur nidum, ubi repónat pullos suos: altária tua, Dómine virtútum, Rex meus, et Deus meus: beáti, qui hábitant in domo tua, in sæculum sæculi laudábunt te. [Il pàssero si è trovata una casa, e la tòrtora un nido, ove riporre i suoi nati: i tuoi altari, o Signore degli esérciti, o mio Re e mio Dio: beati coloro che àbitano nella tua casa, essi Ti loderanno nei sécoli dei sécoli.]

Postcommunio

Orémus.

A cunctis nos, quaesumus, Dómine, reátibus et perículis propitiátus absólve: quos tanti mystérii tríbuis esse partícipes. [Líberaci, o Signore, Te ne preghiamo, da tutti i peccati e i perícoli: Tu che ci rendesti partécipi di un così grande mistero.]

 

 

DOMENICA II DI QUARESIMA

DOMENICA II di QUARESIMA

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV:6; XXIV:3; XXIV:22

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Ps XXIV:1-2

Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam.

[A te, o Signore, ho levato l’ànima mia, in Te confido, o mio Dio, ch’io non resti confuso.]

Reminíscere miseratiónum tuarum, Dómine, et misericórdiæ tuæ, quæ a sæculo sunt: ne umquam dominéntur nobis inimíci nostri: líbera nos, Deus Israël, ex ómnibus angústiis nostris.

[Ricòrdati, o Signore, della tua compassione e della tua misericordia, che è eterna: mai triònfino su di noi i nostri nemici: líberaci, o Dio di Israele, da tutte le nostre tribolazioni.]

Orémus.

Deus, qui cónspicis omni nos virtúte destítui: intérius exteriúsque custódi; ut ab ómnibus adversitátibus muniámur In córpore, et a pravis cogitatiónibus mundémur in mente. [O Dio, che ci vedi privi di ogni forza, custodíscici all’interno e all’esterno, affinché siamo líberi da ogni avversità nel corpo e abbiamo mondata la mente da ogni cattivo pensiero.]

 

LECTIO

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses.

1 Thess IV:1-7.

“Fratres: Rogámus vos et obsecrámus in Dómino Jesu: ut, quemádmodum accepístis a nobis, quómodo opórteat vos ambuláre et placére Deo, sic et ambulétis, ut abundétis magis. Scitis enim, quæ præcépta déderim vobis Per Dominum Jesum. Hæc est enim volúntas Dei, sanctificátio vestra: ut abstineátis vos a fornicatióne, ut sciat unusquísque vestrum vas suum possidére in sanctificatióne et honóre; non in passióne desidérii, sicut et gentes, quæ ignórant Deum: et ne quis supergrediátur neque circumvéniat in negótio fratrem suum: quóniam vindex est Dóminus de his ómnibus, sicut prædíximus vobis et testificáti sumus. Non enim vocávit nos Deus in immundítiam, sed in sanctificatiónem: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie: Marietti ed. Torino, 1898 vol. II Omelia III]

“Vi preghiamo, fratelli, e vi esortiamo nel Signore, che come da noi avete ricevuto il modo, onde vi conviene camminare per piacere a Dio, così anche camminiate per vieppiù arricchirvi. Perché voi sapete quali precetti vi abbiamo dati a nome del Signore Gesù. Perché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione, guardandovi dalla fornicazione; e sappia ciascuno di voi conservare la sua moglie con santità ed onore, non in passione di concupiscenza, come i gentili, i quali non conoscono Dio; e che nessuno, negli affari, soverchi e frodi il fratel suo, perché vi è un Signore, che  punisce tutte queste cose, come già vi abbiamo detto e protestato, conciossiachè Iddio ci abbia chiamati, non alla immondezza, ma alla santificazione „ (I. Tessal. IV, 1-7).

Queste sì belle e sì pratiche sentenze noi leggiamo nella epistola prima di S. Paolo ai Tessalonicesi, e la Chiesa molto opportunamente ce le ripete e propone a meditare nella Messa della presente Domenica.- Questa prima lettera di S. Paolo ai Cristiani di Tessalonica, che oggidì chiamasi Saloniki, secondo ogni probabilità fu scritta da Atene, l’anno 53 od al più tardi il 54 dell’era nostra, e in ordine di tempo deve essere la prima delle quattordici lettere lasciateci dall’Apostolo. Paolo, cacciato da Filippi, passò a Tessalonica, e di là pure, dopo avervi stabilita una Chiesa, composta per la maggior parte di Gentili, cacciatone per opera dei Giudei, si riparò ad Atene, dove scrisse ai suoi cari Tessalonicesi la prima lettera, piena di pratiche esortazioni e riboccante di affetto paterno. – Veniamo alla spiegazione dei sette versicoli di questa lettera, che sopra vi ho riportati. – “Vi preghiamo, fratelli, e vi esortiamo nel Signore. „ Mi piace fermarmi alquanto su queste parole, perché contengono un bellissimo ammaestramento, particolarmente per noi, che esercitiamo il sacro ministero. Paolo era Apostolo, e fatto Apostolo da Cristo istesso, chiamato in modo meraviglioso ed investito di quel potere istesso che Gesù Cristo aveva ricevuto dal Padre: potere di legare e di sciogliere, di ammaestrare, di reggere, che trascende ogni altro potere terreno. Eppure questo grande Apostolo, quasi dimentico dell’alto suo ingegno, della sua dignità di Apostolo e degli allori delle sue conquiste in tutto l’Oriente, rivolgendosi ai neofiti di Tessalonica, esclama: “Fratelli!„ Ora questa espressione sì cara e sì sublime è comune e non desta meraviglia; ma allorché Paolo la pronunciava con tanta effusione di cuore, nel mondo pagano risuonava affatto nuova e strana, e urtava di fronte tutti i pregiudizi sociali e religiosi, consacrati dal tempo. E non solo Paolo chiama col dolce nome di fratelli quei suoi discepoli di Tessalonica, ma li prega e li esorta. Egli poteva dire: Fratelli, io voglio, io comando per quella autorità che tengo da Cristo, e nessuno poteva farne lamento: ma dice: Vi prego e vi esorto, anzi vi preghiamo e vi esortiamo nel nome del Signore, perché nella lettera, fin dalle prime parole, si associa come eguali i due discepoli Silvano e Timoteo. Quale esempio per noi, che abbiamo qualche autorità nella Chiesa e per quanti hanno qualche potere nella società stessa civile! Come apparisce lo spirito di Gesù Cristo, che era Uomo-Dio, Signore e Maestro sovrano, eppure sedeva in mezzo ai suoi discepoli e li serviva con le sue mani come se fosse l’ultimo di tutti! L’autorità e il potere prima di Cristo erano in sostanza la forza materiale, che si esplicava in vari modi, ma sempre la forza materiale. L’uomo stava sopra l’uomo pronto a schiacciarlo se si mostrava riottoso: le eccezioni sono rarissime e si debbono a certe nature felici e privilegiate, che con la bontà del cuore temperavano la durezza dell’impero. Ed oggi pure, fuori dei paesi cristiani, è questo il carattere del potere: la forza, la sola forza materiale che piega sotto di sé gli uomini volenti o non volenti. Il Cristianesimo solo all’autorità ed al potere, che si svolgono in tutte le forme più svariate, ha dato il carattere della fratellanza e della paternità, e sotto il suo influsso a poco a poco smisero quella ruvidezza e durezza e, diciamolo pure, quella feroce prepotenza e tirannia, onde si informavano. Chi teneva il freno del potere comprese che gli uomini soggetti erano fratelli e ch’egli doveva essere non signore, ma padre. E come poteva essere altrimenti quando l’Uomo-Dio ci insegnava a chiamare col dolce nome di Padre il Signore d’ogni cosa, Pater noster? Quando il primo suo Vicario, S. Pietro, scriveva ai vescovi e preti: “Vi esorto a pascere il gregge di Dio, non sforzatamente, ma volontariamente, non signoreggiando, ma facendovi esempi del gregge? Trattiamo quelli che ci sono soggetti, come fratelli, senza fasto, senza arroganza, senza alterigia, con umiltà e dolcezza, più pregando ed esortando che imperando, e otterremo più assai con l’amore che accarezza, che con quell’autorità che umilia e offende. – E di che cosa prega e a che cosa esorta i suoi Tessalonicesi l’Apostolo? Che vogliano camminare in quel modo, che hanno imparato da lui, allorché fu in mezzo a loro. Voi lo sapete, la parola camminare, nelle sante Scritture assai volte, e qui pure, significa vivere od operare, e questo modo di esprimersi è familiare al nostro Apostolo. Noi pure l’usiamo talvolta, dicendo p. es.: Camminate dirittamente, camminate sulla via del dovere, od altre somiglianti espressioni. E non pure S. Paolo prega che i suoi figliuoli spirituali si tengano fermi sul buon cammino, che loro ha insegnato, ma prega che in esso vieppiù si arricchiscano — Ut abundetis magis —, che è quanto dire, procedano di bene in meglio e diventino ognor più virtuosi. Nella via della virtù, in generale, il non camminare innanzi è tornare indietro, e il non migliorare è peggiorare; avviene dell’uomo come dell’albero, che allorquando più non cresce e aumenta il suo volume, è vecchio e comincia il periodo che lo avvicina alla morte. Dio ci offre sempre ad ogni istante la sua grazia, e rispondendo fedelmente ad essa, noi dobbiamo necessariamente progredire nella virtù: se non progrediamo, egli è perché non usiamo debitamente della grazia, e questo è un arrestarsi, anzi un dar volta sul cammino della virtù. E qui l’Apostolo passa ad accennare in particolare ai Tessalonicesi ciò che egli aveva loro insegnato: “Voi sapete, dice egli, quali precetti vi abbiamo dati nel nome del Signore Gesù. „ Voi certo li ricordate, li avrete ancora presenti, ma non sarà superfluo, par che dica, ch’io ve ne rinfreschi la memoria. “È volontà di Dio la vostra santificazione — Hæc est voluntas Dei, sanctificatio vestra. „ Altrove l’Apostolo dice: “Iddio vuole che tutti gli uomini siano salvi, „ perché di tutti è Creatore e per tutti è morto Gesù Cristo: ma perché si salvino, è mestieri che siano santi, giacché in cielo non può entrare alcuno che sia immondo, e perciò Iddio, che vuole la salvezza degli uomini, vuole e deve volere la loro santificazione, che ne è il mezzo assolutamente necessario. Non vogliate sgomentarvi punto, o dilettissimi, allorché con S. Paolo vi dico: Dovete essere santi. Che è dessa la santità? Essa non è riposta in atti straordinari, in virtù impossibili o troppo difficili a praticarsi, no, no! Datemi un uomo, che serbi il suo cuore netto d’ogni macchia, che adempia esattamente i suoi doveri, che viva da vero Cristiano, ed io vi do un santo. Per essere santo non si domanda il dono di far miracoli o profezie, che assolutamente possono trovarsi anche in persone peccatrici, o compiere altre opere grandi, strepitose: basta osservare la legge divina e servire Iddio ciascuno nel suo stato: e chi non può far questo con l’aiuto della grazia, che a nessuno fa mai difetto? Dunque, o cari, vi stia sempre innanzi agli occhi questa sentenza dell’Apostolo, che esprime tutta l’altezza della nostra vocazione: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione! „ In qual modo? L’Apostolo rammenta specialmente due cose dalle quali i Tessalonicesi dovevano con somma cura guardarsi e senza delle quali era impossibile la santificazione, e sono l’impudicizia e l’avarizia. Egli scriveva ad uomini che allora erano usciti dal paganesimo, che vivevano in mezzo al paganesimo, e queste due piaghe, della impudicizia ed avarizia, dovevano essere comunissime, e pur troppo in gran parte lo sono ancora nella nostra società cristiana. “Voi vi santificherete, continua l’Apostolo, guardandovi dalla fornicazione — Ut abstineatìs vos a fornicatione.„ – Con questa frase S. Paolo significa indubbiamente, non quel solo disordine che propriamente si chiama fornicazione, ma tutti i disordini, tutte le impudicizie, che sono vietate dal sesto e dal nono comandamento del decalogo. Altrove S. Paolo dice che il peccato della disonestà, sia in parole, sia in opere, tra cristiani, chiamati ad essere santi — Sicut decet sanctos —, non dovrebbe tampoco nominarsi — Nec nominatur —. Carissimi, lo domando a voi: È ciò che avviene tra noi? Questo peccato è ignoto tra noi, come voleva l’Apostolo? Rispondano le vostre coscienze. – Seguitiamo il testo. S. Paolo dopo aver detto che tutti dovevano serbarsi mondi dalla pece d’ogni impudicizia, discende ad una speciale raccomandazione, dicendo: “Sappia ciascuno di voi conservare la sua moglie con santità e onore, „ Evidentemente l’Apostolo suppone che quelli ai quali scrive, vivano in matrimonio, e meritamente, perché questo fu ed è lo stato comune degli uomini. Ebbene: agli uomini, ai mariti, intima l’Apostolo di conservare le loro mogli con santità ed onore, serbando loro fedeltà inviolabile, vegliando sopra di loro e rispettando le leggi eterne dell’onore, del pudore e la santità del Sacramento. Certamente per ciò che spetta il matrimonio e la sua santità, possono fallire le mogli come i mariti, ma è pur forza confessare che comunemente sono i mariti che falliscono più delle mogli, e perciò l’Apostolo ai mariti si rivolge e vuole ch’essi conservino, ciascuno, le mogli come vuole la santità e l’onore del matrimonio. E in vero, il marito non è egli il capo, il sostegno, la guida della moglie, come domanda la natura e insegna S. Paolo, dicendo: Caput mulieris vir? Adempia dunque il marito il suo ufficio di capo della moglie, la guidi, la corregga, la sostenga, affinché non venga meno giammai agli alti e delicati suoi doveri. Se bene si guarda, è manifesto che assai volte i falli delle mogli sono in gran parte conseguenze della condotta meno retta dei mariti. Sono essi che con la vita poco regolare, se non anche licenziosa, spingono sulla mala via le mogli, dimenticando i sacri doveri che ad esse li stringono. Sono essi che imprudentemente aprono la propria casa a persone che non dovrebbero mai porvi piede: sono essi che le conducono a feste, a balli, a teatri, a conversazioni, dove la loro onestà e fedeltà è messa a dura prova. Sono essi che con la noncuranza, con i modi aspri e rozzi, con le diffidenze irragionevoli, con i sospetti ingiuriosi, con i mali trattamenti fanno nascere e nutrono il disamore nelle povere mogli, e dal disamore alle cadute il passo è breve. Mariti, ricordate sempre la sentenza dell’Apostolo: “Ciascuno di voi sappia conservare la sua moglie con santità ed onore. „ L’amore vicendevole sincero, vivo, che apparisce nelle parole e più nelle opere, è il mezzo più efficace per assicurare la vicendevole fedeltà. Proseguendo lo stesso argomento, l’Apostolo tocca con mano maestra ed estrema riservatezza una verità che doveva riuscire pressoché nuova a quei Cristiani, poco prima ancora gentili. Egli li avverte, che nei mutui loro rapporti non devono seguire le basse e animalesche tendenze della natura, alla maniera dei Gentili, che non conoscono Dio e la santa sua legge — Non in passione desiderii, sicut et Gentes, quos Deum ignorant —, ma devono vivere conformemente alle sante leggi imposte dalla natura e dal Vangelo. In altri termini, scopo dell’Apostolo è di inculcare ai novelli Cristiani la grande verità morale, che fuori del matrimonio, tutte le relazioni coniugali tra i due sessi sono illecite e perciò condannevoli, e qui in altra forma esprime ciò che sì nobilmente insegna, nella lettera agli Ebrei e ch’io vi ripeto: “Sia in ogni cosa onorando il connubio ed il talamo senza macchia, che i fornicatori e gli adulteri li giudicherà Iddio„ (Capo XIII, 4). – Dopo aver messo in guardia i fedeli contro i pericoli della impudicizia, S. Paolo accenna all’altro pericolo non meno grave, che viene dall’avarizia, e soggiunge: “Che nessuno, negli affari, soverchi e frodi il fratello suo. „ Dilettissimi! noi dobbiamo vivere in società, perché lo esige la stessa natura, ed abbiamo continuo bisogno gli uni degli altri: questi domandano il vostro lavoro per darvi in cambio la mercede: quelli chiedono la vostra merce e vi offrono il prezzo: è un incessante dare e ricevere, un comperare e vendere e un intrecciarsi di affari senza fine. Tutto questo si può e si deve fare, ma sempre secondo le norme della giustizia, stabilite dalla ragione e dal Vangelo di Gesù Cristo. Quanto è facile che in tanto agitarsi di affari d’ogni maniera, la malnata febbre dell’avarizia e talvolta anche la dura necessità, il bisogno tiranno, ci trascinino a violare le leggi della giustizia, ad opprimere il povero! Come, anche tra i Cristiani, spesso s’incontra di trovare uomini, che, abusando della buona fede, della ignoranza, della imprudenza del fratello, nei contratti lo ingannano e bruttamente lo frodano! Vi sono, è vero, le leggi che puniscono gli ingannatori e i frodatori; ma quante volte i tristi trovano modo di sottrarsi ai rigori della giustizia umana! Quante iniquità si coprono con la forza, con l’inganno, con le soperchierie, e le grida delle vittime non possono giungere alle orecchie di chi deve rendere giustizia, o giungono tardi o sono fors’anche soffocate dalle grida più forti dei prepotenti! Le leggi umane vi sono, lo so; ma quante volte si deve ripetere: “Ma chi pone mano ad esse? „ Le leggi sono freni umani e giovano, anzi sono necessarie al quieto vivere; ma si fermano agli atti esterni, si arrestano sulla soglia della coscienza. Fa d’uopo portare l’idea del dovere nel cuore, e di là informare gli atti esterni tutti: e questo lo fa la sola Religione. Ah! Le  leggi umane senza la Religione valgono ben poco. Non sia mai, grida S. Paolo, che voi teniate mano con frodi e soprusi ad opprimere il fratello; che se lo faceste, o lo facessero altri a vostro danno, sappiate tutti che al di sopra della giustizia degli uomini vi è un’altra giustizia, infallibile, onnipotente, a cui nessuno può sfuggire, è la giustizia di Dio: “Vi è un Dio Signore, che punisce tutte queste cose, come già vi abbiamo detto e protestato — Vindex est Dominus de his omnibus, sicut prædiximus vobis et testificati sumus.,, Questo Dio, vindice d’ogni iniquità, a cui tutti dovremo un dì presentarci a render conto di tutte le opere nostre, che giudicherà gli stessi giudici, deve atterrire i malvagi, i soverchiatori e fraudolenti e confortare le loro vittime Non vi è pensiero, non verità, che più efficacemente di questa valga a raffrenare i tristi, a fiaccare le passioni e a sostenere ed avvalorare i grandi principii della onestà e giustizia sì privata come pubblica. Quando l’uomo al di sopra della giustizia umana, ch’egli può ingannare, o almeno spera di poter ingannare, vede lampeggiare la spada d’un’altra giustizia, eterna, infallibile, inesorabile, che spinge lo sguardo fino nei recessi del pensiero e dell’affetto, è quasi forzato a camminare sulla via del dovere e della virtù: quei Vindice supremo gli sta dinanzi ed il pensiero di Lui arresta la mano colpevole, che si stende contro il fratello, e spegne la colpa là dove nasce, nella mente e nell’affetto. S. Paolo chiude il suo insegnamento, ripetendo ancora la sentenza sopra spiegata: “Conciossiachè Dio ci abbia chiamati, non alla immondezza, ma alla santificazione, „ quasi volesse ribadirla a forza nell’animo dei fedeli. – E che questa sì sublime sentenza rimanga scolpita nei vostri cuori e ad essa siano sempre conformi i vostri pensieri, i vostri desideri, le vostre parole e le vostre opere!

 Graduale Ps XXIV:17-18

Tribulatiónes cordis mei dilatátæ sunt: de necessitátibus meis éripe me, Dómine,

[Le tribolazioni del mio cuore sono aumentate: líberami, o Signore, dalle mie angustie.]

Vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea.

[Guarda alla mia umiliazione e alla mia pena, e perdònami tutti i peccati.]

Tractus Ps CV:1-4

Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus. [Lodate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia.]

Quis loquétur poténtias Dómini: audítas fáciet omnes laudes ejus?

[Chi potrà narrare la potenza del Signore: o far sentire tutte le sue lodi?]

Beáti, qui custódiunt judícium et fáciunt justítiam in omni témpore.

[Beati quelli che ossérvano la rettitudine e práticano sempre la giustizia.]

Meménto nostri, Dómine, in beneplácito pópuli tui: vísita nos in salutári tuo. [Ricórdati di noi, o Signore, nella tua benevolenza verso il tuo popolo, vieni a visitarci con la tua salvezza.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Matthæum.

Matt XVII:1-9

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus Petrum, et Jacóbum, et Joánnem fratrem eius, et duxit illos in montem excélsum seórsum: et transfigurátus est ante eos. Et resplénduit fácies ejus sicut sol: vestiménta autem ejus facta sunt alba sicut nix. Et ecce, apparuérunt illis Móyses et Elías cum eo loquéntes. Respóndens autem Petrus, dixit ad Jesum: Dómine, bonum est nos hic esse: si vis, faciámus hic tria tabernácula, tibi unum, Móysi unum et Elíæ unum. Adhuc eo loquénte, ecce, nubes lúcida obumbrávit eos. Et ecce vox de nube, dicens: Hic est Fílius meus diléctus, in quo mihi bene complácui: ipsum audíte. Et audiéntes discípuli, cecidérunt in fáciem suam, et timuérunt valde. Et accéssit Jesus, et tétigit eos, dixítque eis: Súrgite, et nolíte timére. Levántes autem óculos suos, néminem vidérunt nisi solum Jesum. Et descendéntibus illis de monte, præcépit eis Jesus, dicens: Némini dixéritis visiónem, donec Fílius hóminis a mórtuis resúrgat.”

Omelia II

[Ibid.: vol. II om. IV]

“Gesù prese seco Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di lui, e li condusse in disparte, sopra un alto monte. E alla loro presenza fu trasfigurato, e il suo volto rifulse come il sole e le sue vesti divennero candide come la neve. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che parlavano con lui. Pietro, indirizzandosi a Gesù, gli disse: Signore, è bello starcene qui: se vuoi, facciamo qui tre tende: una a te, una a Mosè, una ad Elia. Mentre egli parlava ancora, una nube splendente lo ravvolse, e dalla nube venne tosto una voce, che diceva: “Questi è il Figlio mio, il bene amato, nel quale io mi sono compiaciuto: lui ascoltate. Udendo ciò, i discepoli caddero bocconi, e temettero assai. Ma Gesù, accostandosi loro e toccandoli, disse: Levatevi e non temete. E levando gli occhi, non videro alcuno, se non Gesù solo. Scendendo poi dal monte. Gesù diede loro questo comando: Non dite la visione ad alcuno, finche il Figliuol dell’uomo non sia risuscitato dai morti „ (Matt. capo XVII, 1-9).

Fin qui l’odierno Evangelo. Il fatto, o per parlare più esattamente, il miracolo della Trasfigurazione, che avete udito, deve avere un’alta importanza, perché non solo è narrato, quasi con le stesse parole dai tre evangelisti, S. Matteo, S. Marco e S. Luca, ma è riferito eziandio da S. Pietro II. c. I, 17, 18). Egli pure, quasi dimenticando l’indole d’una lettera brevissima, assume l’ufficio di evangelista e racconta la Trasfigurazione del divino Maestro. Il fatto avvenne, come quasi concordemente attesta la tradizione antica, sulla cima del Tabor in Galilea, poco lungi da Nazaret. È un monte, che solitario, a guisa di gigantesca piramide, solleva la superba sua fronte tutta arrotondata all’altezza di circa settecento metri: i suoi fianchi, nella parte inferiore, sono coperti di scarsi e poveri abeti e dalla sua vetta lo sguardo spazia liberamente dal Libano al Carmelo, al mare Mediterraneo, che appare come una macchia cerulea. – S’avvicinava il giorno nel quale Gesù Cristo doveva compire il suo sacrificio, e più volte ne aveva parlato ai suoi cari: ma quell’annunzio sì chiaro e ripetuto, ora non era da essi compreso, ed ora li gettava in una angosciosa costernazione. Per rincuorarli l’amabile Maestro ricordava loro la gloria, che ne sarebbe venuta. Un giorno, vedendoli più del solito afflitti e sconfortati, disse che alcuni tra di loro non sarebbero morti senza aver prima veduto il Figliuol dell’uomo nello splendore della sua gloria (Matt. XVI, 28). Era una promessa non oscura della sua Trasfigurazione che avvenne, come dice il sacro testo, sei giorni appresso. E qui comincia la narrazione del fatto. – “Gesù prese seco Pietro , Giacomo e Giovanni, fratello di lui, e li condusse in disparte, sopra un alto monte. „ Perché Gesù non volle che della sua Trasfigurazione fossero testimoni tutti gli Apostoli e i discepoli, ma solamente i tre nominati? Non ne avrebbero tutti ricevuto gran conforto? La loro fede non vi avrebbe attinto novello vigore per affrontare l’imminente prova delle umiliazioni, dei patimenti, della morte del Maestro? Certamente Gesù Cristo poteva disporre che il favore fosse comune a tutti i discepoli, nessuno escluso; ma chi aveva diritto di esigerlo? Questi favori non sono dovuti ad alcuno, e chi li riceve, ne sia grato, e chi non li riceve si umilii e adori i consigli di questa infinita Sapienza, che dà a ciascuno come vuole. Come nell’ordine naturale vi è differenza di beni, e lo esige l’armonia delle cose e il loro stesso vantaggio, così anche nell’ordine sovrannaturale si domanda la varietà dei doni celesti. Gli Apostoli non costituivano essi stessi un ceto particolarmente favorito da Gesù Cristo a preferenza di altri non chiamati all’apostolato? Così tra gli stessi Apostoli Gesù volle distinti Pietro e i due fratelli Giacomo e Giovanni: questi soli volle testimoni della prima risurrezione operata della figlia di Giairo, capo della sinagoga: questi soli vorrà seco nel Getsemani, allorché darà principio alla sua passione, e. questi conduce seco sul monte. Pietro doveva essere il primo suo Vicario nel governo della Chiesa, Giacomo il primo martire tra gli Apostoli, e Giovanni il suo diletto, perché vergine e futuro custode della Madre sua. Era dunque conveniente che loro accordasse tanto favore, che poi a suo tempo, in modo indiretto, allorché fosse manifestato, a tutti avrebbe giovato, di tutti rinvigorendo la fede. Gesù, coi tre Apostoli, pervenuto sul monte, scrive S. Luca, si pose a pregare, Dum orabat; e mentre pregava, ad un tratto “Fu trasfigurato alla loro presenza, ed il suo volto rifulse come il sole e le sue vesti divennero candide come la neve. „ Questa descrizione è quasi identica anche nelle parole nei tre Evangelisti. Come avvenne codesta Trasfigurazione? La persona divina del Verbo ha assunta e fatta propria la natura umana in guisa che questa è determinata, posseduta e penetrata tutta nell’anima e nel corpo della stessa Persona divina, come il ferro rovente dal fuoco, la nube dal sole, che l’investe, il corpo dall’anima, che l’informa. Il perché l’umanità di Gesù Cristo doveva sempre apparire sfolgoreggiante di luce divina e avvolta nella gloria, se Dio con l’infinita sua virtù non ne avesse impedita la manifestazione per dar luogo all’esercizio della fede. In quell’istante Gesù Cristo sollevò, per nostro modo d’intendere, un lembo del velo, che ricopriva il mistero della sua unione personale, e i raggi della sua divinità sfavillarono da tutto il suo corpo, investirono le sue vesti stesse e apparve tutto sfolgoreggiante di gloria. Il suo volto e i lineamenti della sua sembianza, in tanto raggiare di luce, rimasero pur sempre per modo da poter essere riconosciuti dagli Apostoli, come rimarranno quelli dei beati nella gloria. Di questa trasformazione meravigliosa di Gesù Cristo, se poniamo ben mente, noi pure ne abbiamo una pallida immagine in ciò che talora accade sotto dei nostri occhi. Fate che ad una persona di cuore delicato, di sentimenti elevati, di forme graziose e leggiadre improvvisamente sia data una novella faustissima, che la ricolmi di gioia; voi la vedrete quasi in un lampo trasformarsi, spianarsi la fronte e le labbra, il viso tutto quasi radiante, gli occhi balenare un sorriso, una luce soave e blanda, onde tutta la persona sembra circonfusa; è la gioia interna che trabocca al di fuori, e si manifesta in tutti i modi, e che si comunica quasi riflesso a tutti i presenti. È questa una immagine lontanissima di ciò che là sul Tabor avvenne in Gesù Cristo e che nel gran dì della risurrezione avverrà nei corpi gloriosi dei beati. “Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che parlavano con Lui. „ Mosè rappresenta la legge ed Elia i profeti, e poiché in Gesù Cristo quella e questi avevano il loro pieno compimento, così era conveniente che quei due sommi personaggi apparissero e quasi attestassero, lui essere l’aspettato Salvatore del mondo. E qui è da notare una cosa degna di osservazione: sono due soli i personaggi dell’antico Patto ch’ebbero l’onore insigne di vedere Iddio come lo si poteva vedere sulla terra, e sono appunto Mosè ed Elia, e l’uno e l’altro compariscono qui a fianco di Gesù e favellano con Lui. Non si potrebbe dire che quella visione antica dei due sommi profeti era la visione anticipata, in figura, dell’Uomo-Dio, che doveva venire nella pienezza dei tempi? Ciò non sembra inverosimile. Mosè ed Elia parlavano con Gesù. „ E di che cosa parlavano? Qui S. Matteo non dice, né accenna punto di che cosa parlassero, ma S. Luca (c. IX, 31) lo esprime con bastevole chiarezza, scrivendo che ragionavano della dipartita di Gesù, ossia della morte, che stava per compiere in Gerusalemme. Ecco l’argomento del loro parlare, argomento, che assommava in sé tutta la missione di Gesù Cristo, ed era insieme una nuova lezione e un nuovo rincalzo alla fede dei tre Apostoli presenti. Certi uomini, che amano muovere questione su tutto e che, sempre studiando, non giungono mai alla scienza, domandano come mai gli Apostoli poterono conoscere che quei due personaggi erano veramente Mosè ed Elia? O li conobbero per una illustrazione particolare, od essi medesimi si manifestarono con segni o parole, o Gesù Cristo lo disse loro: ciò si suppone chiaramente, ancorché gli Evangelisti non lo dicano in termini. Mentre Gesù favellava con Mosè ed Elia, e mostrava d’essere il termine della legge e dei profeti e d’essere il Signore dei viventi come dei morti, Pietro, in un impeto di gioia, non sapendo ciò che si diceva, come notano san Luca e S. Marco, rivolto a Gesù, gli disse: “Signore, è bello starcene qui. Se vuoi, facciamo qui tre tende: una a te, una a Mosè ed una ad Elia. „ In quell’istante Pietro, rapito fuor di sé per la dolcezza di quella visione, dimenticava ogni cosa, non solo le reti, i compagni, la missione a cui Cristo stesso l’aveva destinato: non pensava che a godere di quel glorioso spettacolo. Similmente noi pure, in cielo dimenticheremo le pene, i beni e le gioie tutte della terra per bearci della vista di Dio; ma finché viviamo quaggiù, dobbiamo porci ben addentro nell’animo, che la vita presente, come quella di Gesù e degli Apostoli, è vita di privazioni, di dolori d’ogni maniera, e che nella speranza delle gioie eterne del cielo dobbiamo attingere la forza per superare le amarezze, onde più o meno sono pieni i giorni di questa vita mortale. La vista, le gioie sì brevi del Tabor erano ordinate da Cristo a sostenere gli Apostoli nelle aspre prove del Calvario: la speranza della eterna ricompensa e quelle poche stille di gioia, che Dio talvolta lascia cadere nelle anime che lo servono, valgono a tenerle salde nella via della virtù, sempre seminata di spine! “Pietro parlava ancora, ed ecco una nube splendente li ravvolse. „ E cosa singolare! … una nube nel deserto guida e difende il popolo, e nella nube Dio si manifesta: una nube riempie il tempio di Salomone allorché ne fa la solenne dedicazione: una nube copre il Sinai, e nella nube Dio parla a Mosè, e una nube passa innanzi ad Elia, allorché Dio gli si mostra: una nube toglie Gesù alla vista degli Apostoli e dei discepoli, allorché lascia la terra, e qui pure una nube avvolge Gesù, Mosè , Elia e i tre Apostoli. Essa è simbolo della maestà divina e forse per essa Gesù Cristo volle temperare i raggi della sua gloria e renderli tollerabili agli Apostoli. “E tosto dalla nube (si udì) una voce che diceva: Questi è il Figlio mio, il bene amato, nel quale mi sono compiaciuto. „ Non è mestieri il dire, che quella voce, che usciva dalla nube è la voce dell’eterno Genitore, perché dice di Gesù Cristo: ” Questi è il Figlio mio. „ Chi parla è adunque il Padre eterno. Ma Dio Padre favella Egli forse come gli uomini? Ha una voce come l’abbiamo noi? No, sicuramente. Come si dice che Dio viene, che cammina, che si sdegna, che stende la sua mano, che ha orecchi, occhi, lingua e via dicendo, così si dice che Dio parla. Quel suono, quella voce, non è propriamente suono e voce di Dio Padre, ma così si esprime perché ad uomini sensibili non si potrebbe altrimenti far conoscere. Gesù Cristo adunque, sul quale si fece udire quella voce, è veramente il Figlio di Dio, il Verbo consostanziale del Padre e il Figlio di Maria, consostanziale alla Madre. L’unità della Persona divina in Gesù Cristo, Dio-uomo, non poteva essere più chiaramente espressa. “Questi, che vedete, uomo come voi, questi è il Figlio mio, il mio diletto, nel quale trovo tutte le mie compiacenze, che solo è oggetto adeguato del mio amore. „ – “Lui ascoltate. „ Questa espressione s’era udita sulle rive del Giordano, allorché Gesù ricevette il Battesimo per mano del Precursore, e qui si ripete ancora: “Lui ascoltate. „ Tutto l’insegnamento di Cristo si appoggia alla sua Autorità, alla sua missione divina: tolta o messa in dubbio la sua Autorità divina, l’intero suo insegnamento crolla e rovina, come un edificio senza fondamento; la sua dottrina discende al livello delle dottrine di Socrate, di Platone, di Pitagora, è dottrina umana. È per questo che Cristo è sempre inteso a mostrare la sua missione divina, la sua divina Autorità: a questo principalmente sono rivolti i suoi discorsi, le sue opere, i suoi miracoli. In sostanza tutta la vita, tutte le parole e tutte le opere di Gesù Cristo si riducono a questa proposizione semplicissima: “Io sono il Figlio di Dio, Io sono Dio: dunque credete tutto ciò che vi insegno; „ proposizione, che equivale a quest’altra, che suona dalla nube del Tabor: “Questi è il Figlio mio diletto; Lui ascoltate. „ Egli parlò agli Apostoli nella sua umanità; parla a tutti i credenti nella sua Chiesa, continuatrice dell’opera di Lui; parla nel suo Vicario, il Romano Pontefice: si mutano i mezzi, gli strumenti, ma la parola e l’Autorità è sempre la stessa. Dunque ascoltiamo questa parola, ubbidiamo a questa Autorità: Ipsum audite. – “Ciò udendo, gli Apostoli caddero bocconi e grandemente temettero. „ La presenza intima di Dio, lo splendore della sua gloria, ancorché sempre velato, fa trasalire in modo ineffabile le anime e le riempie d’un certo timore, misto a gioia, a sensi di ammirazione e di gratitudine. Dinanzi all’Infinito, che si rivela anche per un solo istante, noi ci sentiamo nulla. “Ma Gesù, loro accostandosi e toccandoli, disse: Sorgete, e non vogliate temere. „ A quella vista, a quella voce, che usciva dalla nube, gli Apostoli erano caduti con la faccia sul suolo, temendo e adorando l’infinita maestà di Dio: non osavano nemmeno levare gli sguardi. In quella si dileguò la nube, cessò la voce, disparvero Mosè ed Elia, Gesù ritrasse in se stesso la luce che lo avvolgeva, e avvicinatosi agli Apostoli, con voce piena di affetto, non solo li chiamò, ma li toccò con la mano e li confortò a non temere e levarsi. Vedete, o cari, bontà del divino Maestro! Stende la mano ai diletti discepoli e li rialza! Egli la stende a quanti sono caduti, sempre, in ogni luogo, perché questo è l’ufficio suo, ufficio di Salvatore e Mediatore. “E levando gli occhi, non videro alcuno, fuorché solo Gesù. „ E facile immaginare lo stupore degli Apostoli e ciò che dovettero sentire in cuore e dire a Gesù Cristo dopo quella splendida testimonianza della sua divina origine. Essa rimase altamente impressa nei loro animi sì che Pietro, nell’ultima sua lettera, scritta in Roma poco prima del suo martirio, la narrava ai fedeli come la prova massima della fede, che aveva predicato. “Scendendo poi essi dal monte, Gesù comandò loro, dicendo: Non dite a nessuno la visione, finché il Figliuol dell’uomo non sia risuscitato.„ Il fine della Trasfigurazione sul Tabor, non vi è dubbio, era quello di fortificare gli Apostoli nella fede e prepararli a superare lo scandalo della passione, ch’era vicina. Perché dunque, non solo non ammettere a quello spettacolo grandioso gli altri Apostoli, ma divietare ai tre di manifestarlo? È superfluo ripetere qui ciò che dissi sopra, vale a dire che Gesù Cristo è padrone dei suoi doni, e nessuno può dirgli: Perché li concedi a questi e a quelli, e a me li rifiuti? Nondimeno parmi che si possa seguire la sentenza di S. Girolamo, il quale è di parere, che Gesù vietasse ai tre Apostoli di manifestare la visione al popolo, non mai ai loro compagni e fratelli nell’apostolato. Il popolo, le turbe, alle quali si fosse per avventura narrata la visione del Tabor, forse non l’avrebbero creduta: forse, la cosa giunta agli orecchi degli scribi e farisei, implacabili nemici di Cristo, sarebbe stata occasione di ire più cupe, di più feroci persecuzioni; perciò Gesù volle che il fatto rimanesse occulto fuori della cerchia dei dodici Apostoli: fu un atto di riserbo, di prudenza, simile a tanti altri di questo genere, che troviamo nel Vangelo. Permettete, o cari, che metta fine a questa omelia con una considerazione generale, suggeritami da S. Gregorio M. e dal fatto della Trasfigurazione che vi ho spiegato, e che si riflette su tutta la vita di Gesù Cristo. Scorrendo la vita di Gesù Cristo, noi vediamo che ad ogni suo atto di abbassamento od umiliazione, prima o poi, risponde un lampo di gloria: essa è il compenso della umiliazione ed insieme il conforto della nostra fede nella sua divina Persona. Gesù nasce in una grotta, nel silenzio della notte, nello squallore della povertà estrema: gli Angeli e la stella in cielo, i pastori ed i Magi sulla terra ne mostrano la grandezza. Gesù, sulle rive del Giordano, quasi fosse un peccatore, chiede il battesimo, e i cieli si aprono sopra di Lui e una manifestazione della augusta Trinità lo fa conoscere al popolo. Gesù annunzia che va a Gerusalemme per soffrire e morire in croce, e sei giorni dopo sulla vetta del Tabor si ammanta di gloria e riceve la testimonianza dal Padre, dalla legge e dai profeti. Gesù, poco prima di darsi in mano ai nemici, angosciato al pensiero della morte, esclama: Padre, salvami, e una voce come di tuono risponde: Io lo glorificherò —. Gesù, carico di obbrobri, abbandonato da tutti, morto sulla croce, è calato nel sepolcro: ma Dio strappa dal sepolcro quel corpo, lo circonda di gloria e lo riempie di vita e di giovinezza eterna. È la gloria, che risponde alla umiliazione, il Tabor che risponde al Calvario.

Credo

Offertorium

Orémus Ps CXVIII:47; CXVIII:48

Meditábor in mandátis tuis, quæ diléxi valde: et levábo manus meas ad mandáta tua, quæ diléxi. [Mediterò i tuoi precetti che ho amato tanto: e metterò mano ai tuoi comandamenti, che ho amato.]

Secreta

Sacrifíciis præséntibus, Dómine, quaesumus, inténde placátus: ut et devotióni nostræ profíciant et salúti. [Guarda, o Signore, con occhio placato, al presente sacrificio, affinché giovi alla nostra devozione e salute.]

Communio

Ps V:2-4 – Intéllege clamórem meum: inténde voci oratiónis meæ, Rex meus et Deus meus: quóniam ad te orábo, Dómine. [Ascolta il mio grido: porgi l’orecchio alla voce della mia orazione, o mio Re e mio Dio: poiché a Te rivolgo la mia preghiera, o Signore.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut quos tuis réficis sacraméntis, tibi etiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas. [Súpplici Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché, a quelli che Tu ristori coi tuoi sacramenti, conceda anche di servirti con una condotta a Te gradita.]

CATTEDRA DI SAN PIETRO

ORAZIONE IN LODE DI S. PIETRO APOSTOLO

[RECITATA NELLA CHIESA DI S.FERDINANDO IN NAPOLI]

Dal P. Costantino Rossini

[“Saggio di eloquenza sacra”, vol. I, parte seconda. – Tip. De Cristofaro, Napoli, 1854]

Tu es Petrus et super hanc petram ædificabo Ecclesiam meam  [Matteo, Capo XVI]

Dovendo, spettabilissimi uditori, tenere a voi ragionamento di Pietro che il principato si ebbe in fra tutti gli Apostoli: dovendo tessere le laudi di un discepolo del Cristo, a cui Egli commetteva la potestà suprema di legare, e di sciogliere: dovendo alla vostra mente, e alla vostra fede incarnare con la mia povera parola le virtù di lui, per le quali è insieme fondamento, e vertice della Chiesa di Dio: il mio pensiero in tanta vastità, in tanta amplitudine, ed in tanta altezza di grado, e di postura; smarrisce, e smarrito si arresta. E di vero: se io mi fo a considerarlo quanto all’imperio, per Daniele mi si dice la potestà di lui essere sempiterna, ed il suo regno di generazione in generazione: potestas ejus, potestas sempiterna, et regnum ejus in generationem, et generationem. Se mi fo a contemplarlo nella sua fede, ella fu tale, e tanta che il Verbo incarnato ebbe a dirgli, “la carne, e i sangue non a te fu maestra, ma il Padre mio che è nei  cieli: caro, et sanguis non revelavit libi, sed Pater meus qui in cœlis est”. Se mi fo ad affissarlo nella sua carità, ed ella fu tanto viva, e tanto fervente, che: il divin maestro vedendo in lui l’immagine dell’amor suo volle sopra gli omeri di lui posar le fondamenta de la sua Chiesa: tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo Ecclesiam meam. Se mi fo a risguardare l’amore che portò ai suoi fratelli, fu questo così intenso, e per modo sentito che l’eterno Pastore a lui trasferiva del gregge redimito la pastura “pascola le mie pecore: pasce oves meas”. Se mi fo ad addentrare la fortezza del suo animo, ed a lui fu detto, conferma i tuoi fratelli qualche volta vacillanti: confirma fratres tuos. Se pongo mente al suo apostolato, ed egli dopo aver seminato il semente della parola divina nell’Asia, ed aver qua e là molte Chiese fondate, diritto si volge a Roma, regina dell’universo, e asilo di tutti gli errori de’ popoli conquistati, e quivi rovesciato il Panteon, stabilisce la sua cattedra, onde il magno Leone disse: ad hanc Urbem, beatissime Petre, venire non metuis … silvam frementium bestiarum. Se da ultimo mi fo a  riflettere alla sua umiltà, ed egli nel versare il sangue, che fu l’umor fecondante della sua fede; volle capovolto esser crocefisso, reputandosi indegno morir sulla Croce nel modo che l’immacolato Agnello moriva. Egli adunque il maggiore, ed il principe degli Apostoli, egli il candelabro acceso innanzi al tabernacolo di Dio, egli la pietra angolare dell’edificio gettato sulla terra dal Redentore, egli il pastore vigilantissimo del gregge di Cristo, egli la ferma colonna del tempio di rigenerazione, egli la tromba sonora che rintrona negli estremi della terra la sacra parola, egli la cattedra della vera sapienza nella scuola della fede, egli il custode, ed interprete delle ieratiche dottrine, egli l’esempio vivo della vera umiltà. Per la qual cosa primeggiando egli nella fede, nella carità, nella fortezza, nello zelo, nella umiltà, nell’imperio, e nella dignità; l’acume del pensiero tanta eccelsitudine non mai raggiunge, né tutta quanta può cogliere la grandezza di lui. Laonde perché il mio ragionare fosse ad un’ora e all’altezza del subietto in qualche modo dicevole, e alla vostra aspettazione corrisposte, m’ingegnerò dimostrarvi esser Pietro la pietra fondamentale dell’edificio civile.

1a riflessione: esser Pietro la pietra fondamentale dell’edificio.

2a Riflessione: esser Pietro la pietra fondamentale dell’edificio spirituale.

3a riflessione. Epperò la pietra angolare del regno di Cristo: Tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo Ecclesiam meam.

I.- Che Pietro sia la pietra fondamentale dell’edificio civile, frughiamo col pensiero indagatore la civile comunanza prima della società del Cristo, e fuori di questa società. Cerchiamo la famiglia domestica nella Città, e fuori dell’eterna Città, che il Verbo del Padre venne a porre in atto sulla terra. –  Smarrita l’uomo l’idea per la sua ribellione a Dio, smarriva seco e il dritto, e lo scopo del dritto. E di vero: richiamando alla mente la famiglia domestica, fondamento della civil famiglia; in questa non si vede un capo il cui dritto riposa nell’essere il più forte, ed è questo il marito. La donna non è, che istrumento delle sue voluttà, delle sue libidini, non è che l’oggetto de’ suoi appetiti, l’esca , ed il fuoco delle lascivie, e se ei l’ama, non è amor di amicizia, amor d’istinto, il quale intiepidisce, e s’infredda appena avvizzano le rose delle sue guance, non appena si appanna il rubino delle labbra, l’aureo color delle chiome, il vermiglio del suo seno, le grazia della persona. Perdute le quali, non è più compagna della sua vita, oggetto delle sue tenerezze, onde rimane deserta, abbandonata, ed in preda delle sventure, e delle miserie, delle lacrime. I figliuoli, in questa famiglia domestica, non sono che proprietà del padre, accessione del suo conjugio. Egli ha il dritto di alienare, di vendere, di uccidere la propria prole, né la tenera età, né la debolezza, né il pianto, né i vezzi fanciulleschi, né le grazie, né l’amore istintivo è loro di scudo all’arbitrio, ed all’ ira del padre. I servi, iti questa famiglia, non sono che strumenti di lavoro, e di fatiche, ed organi passivi del capriccio delle furie del padrone. Egli li condanna alla fame, ed al digiuno, alle torture, ed ai flagelli, gli vende nei mercati, gli uccide nei sospetti, e la proprietà materiale ha più valore della proprietà personale. Questa è la famiglia domestica di Atene, di Sparta, di Grecia, di Roma, questa è la famiglia dell’Asia, e dell’America in cui la luce del Vangelo non è stata ancora ricevuta. Se tale adunque è la famiglia domestica, quale poi non è la famiglia civile? Guerre, discordie, lizze, soprusi, favore, arbitrio, violenza, ecco il corredo della civile comunanza prima, e fuori del Cristianesimo. Venne sulla terra il Verbo del Padre, rischiarò le nebbie della umana ragione, seminò il buon semente della divina parola, ruppe le catene del servaggio, strinse il freno alle passioni, e all’imperio della forza, sostituì l’imperio del dritto. Nel Cristianesimo la moglie è la tenera compagna della vita, uguale nei diritti, nei doveri al marito perché sta scritto « ciò che Dio congiunse, 1′ uomo non può separare » È questo connubio gran sacramento al dir di Paolo, ed è simbolo di quel connubio che il Cristo stringeva indivisibilmente con la Chiesa, Nel Cristianesimo i figliuoli non sono accessioni, e proprietà de’ parenti, non è loro dato il potere di uccidere, e di alienare, perché essi non sono che pegni della bontà consegnati ai genitori, e tenere piante che debbono allevare all’ombra vitale del Vangelo, perché sta scritto: « lasciate i pargoli venissero a me ». Nel Cristianesimo i servi non sono animali condannati alle più dure fatiche, semoventi al capriccio del padrone, ma perché figli del medesimo Padre celeste, e rigenerati nella fede del Cristo, son fratelli al Signore, e soci, e compagni nella famiglia. Nel Cristianesimo non solamente vennero restituiti i dritti alle persone, ma eziandio venne garantito il dritto, od imposto il rispetto, imponendo l’esercizio delle morali virtù, nel qual esercizio sta ogni bene. E se la società civile è composta dalla società domestica, migliorata l’una che ne è base e fondamento, senza dubbio è migliorata l’altra. Oltre a ciò, se a sentenza di due gravi Sapienti della Gentilità non vi può essere civil comunanza senza religione, e senza vera religione; ivi questa civil società di uomini è perfetta, ove la religione è vera, e dove la religione è santa. E se non vi à verità di religione fuori della religione del Cristo, aperto conseguita che non vi può esser consorzio veramente civile fuori della Chiesa. E dove mai, spettabilissimi Signori, questa Chiesa riposa? Portatevi col pensiero nelle parti di Cesarea ed ecco al vostro cospetto un uomo mite di cuore, mansueto negli atti, gentile ne’ modi, soave nelle parole: eccolo in mezzo ad un cerchio dei suoi discepoli, altri vengono dalle reti, altri dal traffico, e tutti dalla gente minuta, rozzi di costume, ignari di lettere, poveri di fortuna , e ruvidi della persona. Ecco che Costui a loro rivolto così dice « Chi dicono essere il Figliuol dell’uomo? Altri rispondono, gli uomini forse, avendo riguardo alla solitudine della tua vita, alla forza della tua voce, alla calca delle turbe che spesso ti seguono, alla rigidità del tuo costume, dicono esser tu il Battista, e la voce che grida nel deserto, preparate la via del Signore: altri avendo forse riguardo alle luce di cui sul monte flagrò il tuo volto,  e le tue vestimenta addivenir bianche come la neve, dicono esser tu Elia dal carro infuocato: altri avendo riguardo alle tue profetiche parole, ai tuoi avverati vaticini, ed all’altezza delle dottrine, dicono esser tu Geremia, o uno dei profeti della Santa Città. Ed Egli allora disse, se ciò dicono di me gli uomini, voi di me che dite? E Pietro rispose, tu sei il Cristo, Figliulo di Dio vivo: allora il Maestro, vedendo risposta cotale non esser opera del sangue, e della carne, ma della Grazia che in lui potentemente operò, rispose: sei beato, o Simone Bariona, ed io ti dico che tu sei Pietro, e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa, ed ecco Pietro pietra fondamentale dell’edificio civile, perciocché, Pietro innalzando la bandiera della Croce, predicando ai popoli esser noi tutti figliuoli del medesimo Padre cioè Iddio; le varie razze degli uomini si ridussero all’unità, le varie famiglie all’unico principio. Disparvero le divisioni degli imperi, dei Regni, delle Provincie: disparve alla luce del Vangelo l’opposizione, e la varietà delle complessioni dipendenti dal vario cielo, dal vario clima: disparve al suono della parola divina che rintronò per tutti gli angoli della terra la varietà, e l’opposizione dei riti, e dei culti: disparve alla parola di pace la discordia e la guerra che divideva, e sanguinava le nazioni: disparve alla promulgazione della legge del perdono l’odio intestino che rodeva lentamente gli umani: disparve alla nuova dottrina la dissonanza delle opinioni, e degli errori: disparve al nuovo patto la tenebra che avvolgeva gli umani intelletti, si ruppero le catene del servaggio in cui l’angelo delle tenebre teneva stretti i figliuoli della colpa. E predicandosi un Dio principio, e fine degli esseri, predicando il Cristo Redentore del genere umano, predicando un culto, ed un rito, predicando legge, ed un dritto stabilì quella teocrazia perfetta desiderata dai Santi, veduta dai Profeti, conosciuta fra le tenebre della ragione dai Sapienti della terra, e disegnata ab eterno nella mente di Dio: quella teocrazia in cui Iddio realmente comunica con gli uomini, e gli uomini con Dio: quella teocrazia in cui scopo è la verità per essenza, la virtù, la felicità eterna dei popoli: quella teocrazia che fondamento, è radice, è mezzo, è fine di ogni civile comunanza: quella teocrazia insomma che restituiva agli uomini il dritto usurpato, dettava la legge infallibile, e segnava la meta cui debbono tendere incessantemente e governanti, e governati, perché uno è il pastore, ed uno l’ovile. Ma Pietro è pure pietra fondamentale dell’ edilizio civile, sebbene pietra fondamentale dell’edificio morale.

II. Per quaranta secoli l’umana ragione si era studiata trovare un principio di giure, un criterio di bene, e di male, un modo a distinguere la virtù e il vizio, e per quaranta secoli non altro si era veduto che errori, congetture, opinioni. I Greci che tanto s’innalzarono sugli altri, e che nella sapienza riponevano ogni umana grandezza, i Greci stessi che in contemplando trapassavano, e consumavano i giorni, nella variabilità quasi ché infinita delle molle principali delle umane azioni, nel complesso indefinito degli effetti non avevano potuto con l’analisi pervenire al primo principio, giungere alla prima cagione. I legislatori più prudenti, e più maturi si vedono smarrire il sentiero, e senza tipo di giusto, e di bene sanzionare false leggi. Dracone detta leggi di sangue: Licurgo reputato sapientissimo punisce la deformità, e per fare robusti gli uomini eradica il pudore: Solone signoreggiato dall’idea di patria grandezza corrompe la severità dei nativi costumi. Zeleuco sancisce la legge di vendetta. Numa rende superstizioso un popolo sorto dal coraggio e dal valore. Caronda legittima il furto. Ma non pure i Legislatori, i Filosofi più accurati e maggiormente intesi alla morale degli uomini errabondano nel campo della ragione, e malgrado tanti sforzi, tante vigilie, tante fatiche; non sanno discendere nell’umano cuore, e trovare la prima forza che l’agita, né sanno salire nella mente, e vedere lo scopo a cui tende, e la destinazione per la quale venne creata. Pitagora altro non vede che armonia nel creato! da questa armonia vuol ricavare la legge. Platone non vede che tipi, ed a questi tipi vuol ridurre la norma. Aristotile non scopre che sviluppamento sociale, ed in questo sviluppamento ripone il dritto. Zenone non altro vede, che relazioni tra azioni, ed obblighi, ed in questa reciprocanza statuisce il Catecon. Cicerone non altro vede che consentimento universale di popoli, ed in questo consentimento alloga l’officio. Epicuro altro non scorge che voluttà, ed in questa voluttà statuisce la virtù. Quindi nei magni Filosofi non altro si vede che aberrazioni di mente. L’umana ragione dunque errava di sistema in sistema, di opinioni in opinioni, di errore in errore senza poter conoscere il vero, il buono, il giusto. Nella lotta di tanti sistemi, nella discordia di vari elementi politici, nel contrasto di varie credenze, appare un uomo di cui invano cerchi l’educazione, invano il luogo della sua giovanile dimora, invano la scuola delle dottrine che professa. Parla, e divien muta la Sinagoga, si muove, e le turbe lo seguono, comanda, e la natura gli obbedisce, opera ed una serie di meraviglie lo accompagna. Non profeta, predica l’avvenire, non dottore adempie e modifica la legge, non filosofo, ritrova il legame della società, non politico stabilisce il fondamento di un’ampia famiglia. Quest’uomo misterioso mentr’è pacifico minaccia una guerra, mentr’è umile affronta i superbi, mentr’è inerme, combatte, e vince i secoli, mentre è solo lotta con gl’lmperi. Quest’essere misterioso, quest’uomo dei portenti è il Verbo del Padre: la sua lingua grida amore, ed ecco a questa parola onnipotente fuggir la guerra nel luogo donde era sbucata, estinguersi la fiaccola della discordia. La sua lingua grida pazienza, ed ecco spuntati i pungoli del dolore, delle ingiurie, dei morbi, degli affanni, della morte. La sua lingua grida perdono, ed ecco attutite le vendette, racquetati gli odi, estinte le ire. La sua lingua grida povertà, ed ecco aborrite le grandezze, detestati i tesori. La sua lingua grida abnegazione, ed ecco 1’uomo, dal mondo del senso, della voluttà, rientrato nel mondo della contemplazione, della mortificazione. Tutte queste dottrine le compie con l’esempio di se stesso: la legge la scrive col suo sangue, la vita l’apre con la sua morte, l’ira la espugna col suo sacrificio, l’inferno lo vince con la sua passione. – Questo potere, il Verbo del Padre, trasmette ai suoi Apostoli con quelle parole « come mandò me il Padre, così io mando voi, andate nella universale terra, predicate il mio Vangelo, battezzate le creature nel nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo. E dopo questa missione, e questo potere delegato rivolto a Pietro dice, e tu conferma i tuoi fratelli qualvolta vacillanti. Ed egli perché fosse la pietra fondamentale dell’edificio morale, e come colonna sopra cui riposava cotanto apostolato; dal centro della Galilea altri manda nella Siria, altri nell’Acaja, altri nella Giudea, altri nella Bitinia, altri nell’Armenia, altri nella Macedonia, altri nella Grecia, altri nell’Epiro, altri in Cartagine, altri nelle Gallie, ed ei medesimo stabilita la Cattedra in Antiochia, dopo la predicazione in varie Regioni, e Città, prende la volta di Italia, e pervenuto in questa Regione Signora, e Regina dell’universo; parla e l’ira depone il suo tosco, l’avarizia lascia le sue arche, la libidine rompe i suoi lacci, la superbia depone il suo cipiglio, l’ambizione si spoglia dei suoi titoli. Parla e l’ipocrisia si denuda del suo velo, la menzogna, e l’errore perde le sue apparenze, ed i pregiudizii e le superstizioni di quaranta secoli vengono eradicate dall’annoso tronco. E qui si vedono rovesciati gli altari sozzi di sangue, altrove i fani, ed i delubri tramutati in tempio del Signore, altrove gli Oracoli caduti dai loro tripodi, altrove 1’aeropago confuso: qui i panteon distrutti, qui i sistemi filosofici obbliati, altrove le aquile tarpate le penne, altrove lo stendardo della guerra umiliato al vessillo della Croce, e tutta l’umanità per lo innanzi divisa in principati, in caste, in reami, in imperii, lacerata da discordie e da ire intestine, sorretta da affetti, da opinioni, guidata dal senso, dal capriccio, rientrare nell’unità di famiglia, nell’unità di fede, avendo per fondamento la pace, per guida la Croce, per scopo un bene che avanza i desideri. Ben dunque vi diceva sin da prima che Pietro è la pietra fondamentale dell’edificio morale.

III. Il Cristo assumendo nella sua persona l’umana natura, sublimava seco l’umanità. E però come il Padre si compiace di Lui giusta quelle parole, “tu mio figliuolo diletto in cui mi son compiaciuto”, compiacendosi, si compiace ancora della natura umana nella Persona del Cristo. E se prima per la ribellione al suo volere il genere degli uomini venne condannato al dolore, all’ira, ed alla morte; dopo la pienezza del tempo, rediviva la natura per il Cristo, sottentrava al dolore il gaudio, all’ira la clemenza, alla morte la vita. E pel novello Adamo offerto il cruento olocausto,  vinto l’inferno, espugnata la morte, rovesciata la muraglia di bronzo che separava dal Cielo la terra, eretta di nuovo la scala di Giacobbe che pone il piede nel disco della terra, e la cima al trono di Dio, avvenne che fosse 1’umanità conciliata col Cielo, la fattura in grazia del suo fattore, e l’uomo con Dio, donde nel Cristo quella perfetta teocrazia in cui Iddio realmente comunica con gli uomini, e gli uomini con Dio; gli uni, e l’altro avente il medesimo scopo, il medesimo fine. E però il Cristo è il vero Signore degli uomini, il ministro della salute del genere umano, ed il capo del nuovo gregge. Questo suo potere ei lo delegava a Pietro, perciocché vedendo in lui quella carità cui Egli fin dai secoli eterni arse per la salute degli uomini; vedendo in lui quell’amore di cui sempre palpitò il suo tenero cuore, quella carità, e quell’amore che è l’epigrafe della sua bandiera, la legge del suo imperio, la catena dei suoi soci, e il patto sanzionato con la sua Chiesa; a lui rivolto, sicuro dell’ amor Pietro in Lui, e per Lui nel suo ovile, disse: “a te do le chiavi del regno de’ Cieli, tu aprirai a tua posta le porte della celeste Sionne, tu chiuderai a tuo arbitrio le porte dell’inferno: tu scioglierai, e legherai sulla terra: tu imporrai le mani sopra i miei eletti, e lo Spirito che da me, e dal Padre procede, scenderà su di loro: tu insomma avrai quel potere nella terra che Io mi ebbi dal Padre mio. E Pietro rispose nella carità, perché aveva risposto nella fede, quindi pervenuto a Roma, condotta a salute nel Tevere la nave del Vangelo, innalzato sul Campidoglio l’albero trionfale del riscatto, stabilita sopra eterne fondamenta la cattedra di verità, perché in tutto fosse somigliante al suo maestro, compiva il suo sacrificio nel centro dell’Universo, e Roma pagana signora dei popoli, santificata dal sangue del principe degli Apostoli, addivenne signora, e Regina di un imperio che ha per limiti la terra, e il Cielo, il visibile, l’invisibile, per sudditi le generazioni, per legge la fede, per capo. Iddio, per fine l’eternità. Salve adunque, o Pietro, salve, o pietra fondamentale dell’edificio civile, pietra fondamentale di edificio morale, fondamentale di edificio spirituale. Deh! tu in questi tempi io cui l’errore tenta di spandere la tenebrosa sua ala in questo Cielo d’Italia rischiarato sempre dal fuoco che tu accendevi nel centro di essa, e dalla luce che perenne splenderà e splende fino alla consumazione dei secoli, deh! tu tarpa le sue penne, tronca i suoi muscoli, dissipa le sue ombre, perché conosciuto il vero, le nostre menti fossero tratte dal suo bello, rapito dal suo bene, ed a lui strette nella milizia della vita lo fruissero poi nel trionfo della gloria.

 

DOMENICA I DI QUARESIMA [2018]

Incipit

In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus Ps XC:15; XC:16

Invocábit me, et ego exáudiam eum: erípiam eum, et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum. [Mi invocherà e io lo esaudirò: lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni.]

Ps XC:1 Qui hábitat in adjutório Altíssimi, in protectióne Dei cœli commorábitur. [Chi àbita sotto l’égida dell’Altissimo dimorerà sotto la protezione del cielo].

Invocábit me, et ego exáudiam eum: erípiam eum, et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum. [Mi invocherà e io lo esaudirò: lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui Ecclésiam tuam ánnua quadragesimáli observatióne puríficas: præsta famíliæ tuæ; ut, quod a te obtinére abstinéndo nítitur, hoc bonis opéribus exsequátur. [O Dio, che purífichi la tua Chiesa con l’ànnua osservanza della quaresima, concedi alla tua famiglia che quanto si sforza di ottenere da Te con l’astinenza, lo compia con le opere buone.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios. 2 Cor VI:1-10.

“Fratres: Exhortámur vos, ne in vácuum grátiam Dei recipiátis. Ait enim: Témpore accépto exaudívi te, et in die salútis adjúvi te. Ecce, nunc tempus acceptábile, ecce, nunc dies salútis. Némini dantes ullam offensiónem, ut non vituperétur ministérium nostrum: sed in ómnibus exhibeámus nosmetípsos sicut Dei minístros, in multa patiéntia, in tribulatiónibus, in necessitátibus, in angústiis, in plagis, in carcéribus, in seditiónibus, in labóribus, in vigíliis, in jejúniis, in castitáte, in sciéntia, in longanimitáte, in suavitáte, in Spíritu Sancto, in caritáte non ficta, in verbo veritátis, in virtúte Dei, per arma justítiæ a dextris et a sinístris: per glóriam et ignobilitátem: per infámiam et bonam famam: ut seductóres et veráces: sicut qui ignóti et cógniti: quasi moriéntes et ecce, vívimus: ut castigáti et non mortificáti: quasi tristes, semper autem gaudéntes: sicut egéntes, multos autem locupletántes: tamquam nihil habéntes et ómnia possidéntes.” –  Deo gratias.

OMELIA I

[Mons. G. Bonomelli, “Nuovi saggi di Omelie”; Marietti ed. vol. II, Omelia I1899 imprim.]

“Essendo noi cooperatori (suoi), vi esortiamo a non ricevere indarno la grazia di Dio; perché egli dice: A tempo propizio ti ho esaudito, e ti ho aiutato nel giorno della salute. Non rechiamo offesa alcuna a chicchessia, acciocché non sia disonorato il nostro ministero. Anzi in ogni cosa ci diportiamo come ministri di Dio, in grande pazienza, in afflizioni, in bisogni, in angustie, in battiture, in prigionie, in sommosse, in travagli, in vigilie, in digiuni, in purezza, in scienza, in longanimità, in benignità, in Spirito santo, in carità non finta, in parlare verace, in potenza di Dio, con le armi di giustizia a destra e a sinistra; in mezzo alla gloria ed alla ignominia, all’infamia e alla buona fama: come seduttori, eppure veraci; come ignoti, eppure notissimi; come morenti, eppure ecco che viviamo; come puniti, ma non a morte; come attristati, eppure sempre allegri; come poveri, eppure arricchendo molti; come nulla aventi, eppure possedendo ogni cosa „ (II ai Corinti, capo VI, 1-10).

In queste sentenze, o Fratelli carissimi, vi ho messo innanzi fedelmente volgarizzati i primi dieci versetti del capo VI della seconda lettera di S. Paolo ai Corinti, che la Chiesa ci fa leggere nella Messa di questa prima Domenica di Quaresima, e della quale vi debbo dare la spiegazione. Ma perché possiate intenderla a dovere, torna necessario che vi dica la ragione che indusse l’Apostolo a parlare di sé ed a fare questa eloquentissima difesa del suo apostolato. – Come è manifesto dalle sue lettere e dal libro degli Atti apostolici, scritto da S. Luca, l’Apostolo ebbe due sorta di nemici: i Gentili, e più gli Ebrei, suoi connazionali, e questi senza confronto più feroci di quelli. E ciò che fa anche maggior meraviglia, è che san Paolo ebbe nemici accaniti non solo gli Ebrei rimasti ostinatamente Ebrei, ma anche buon numero di quegli Ebrei, che avevano accolto la fede e si professavano cristiani. Presso alcuni di costoro (e dovevano essere non pochi e assai potenti) S. Paolo era caduto in sospetto di rinnegare e disprezzare tutta la legge antica; di non essere un vero apostolo, o d’essere da meno degli altri Apostoli e quasi da loro disconosciuto. Era cosa affatto naturale, che, vedendo messa in dubbio la sua missione apostolica, S. Paolo fosse costretto a mostrarne i titoli e a darne le prove di fatto, se non voleva, come dice egli stesso, correre, ossia lavorare indarno (Gal. II, 2). Ecco perché in tanti luoghi delle sue lettere, massime nelle due ai Corinti e più ancora in quella ai Galati, parla di se stesso, ricorda la sua conversione e la missione apostolica avuta da Gesù Cristo medesimo, narra le opere sue in guisa da sembrare quasi che faccia il panegirico di se stesso. Ma pensate voi, o carissimi, se quell’anima sì umile, tutta amore di Gesù Cristo, che non cercava che la gloria di Lui e la salvezza dei fratelli, che non voleva altro vanto di quello in fuori della croce e menava trionfo degli obbrobri, ond’era satollato per il Vangelo, pensate, dico, se Paolo poteva mai neppure per un istante aprir l’animo alla povera vanità di magnificare l’opera sua ed averne in compenso un po’ di ventosa lode! – Se l’Apostolo dunque parla di sé in questo luogo e tocca a rapidi cenni la sua dignità e le incredibili fatiche sostenute, egli lo fa unicamente per tener alta la sua autorità combattuta, e tenerla alta a bene dei fratelli: era un dovere che aveva in faccia a Gesù Cristo e in faccia alla Chiesa. Del resto, nelle opere che S. Paolo enumera come compiute, noi tutti, sacerdoti e laici, abbiamo un luminoso esempio da imitare. – Ed ora alla spiegazione. “ Essendo noi cooperatori (di Dio), vi esortiamo a non ricevere indarno la grazia di Dio. ,, Dio, o carissimi, può far tutto da sé, in ogni ordine di cose, perché per Lui il volere è veramente potere: ma, nella sua sapienza e nella sua bontà, ama servirsi delle cause seconde ed associarle a sé affine di elevarle, di congiungerle tra loro e, se sono libere, offrir loro occasione di spiegare la loro attività e, mercé l’esercizio del libero arbitrio, meritare. – In tutta la scala sterminata degli esseri creati, non ne trovate pur uno, che non operi sugli altri e che con le sue forze non concorra all’armonia universale voluta da Dio. Così Iddio nelle acque, nell’aria e sulla terra conserva e propaga costantemente la vita sia degli animali, sia degli uomini, mediante il concorso degli animali e degli uomini stessi. La stessa legge Gesù Cristo ha stabilito quanto al modo di comunicare la vita divina della grazia: Egli domanda sempre il concorso di coloro che ha scelti per continuare l’opera sua sulla terra, che sono gli Apostoli ed i loro successori. Questi sono gli strumenti di Gesù Cristo, i suoi aiutatori o cooperatori nell’opera altissima e divina di santificare gli uomini. Non dimenticate mai, o dilettissimi, questa grande verità: come voi ricevete la vita naturale da Dio per mezzo dei vostri genitori, così ricevete la vita sovrannaturale della grazia per mezzo della Chiesa, o del Sacerdozio, in cui si concreta e piglia corpo la Chiesa; e come quelli che vi diedero la vita del corpo chiamano col dolce e santo nome di padri e loro rendete onore ed obbedienza, così e più ancora dovete chiamar padri, e come padri onorare ed ubbidire quelli che vi diedero e vi danno la vita della grazia. – Noi, esclama S. Paolo, chiamati all’ufficio di Apostoli e cooperatori di Gesù Cristo, gridiamo a tutti: “Badate di non ricevere la grazia di Dio invano. „  È grazia di Dio la vita del corpo: è grazia di Dio l’intelligenza e la volontà: è grazia di Dio l’aria che respiriamo, la luce che ci rallegra: è grazia di Dio il pane che ci nutre, l’acqua che ci disseta: tutto che siamo, che abbiamo, che ne circonda sulla terra, è dono, è grazia di Dio, perché non avevamo diritto alcuno a ricevere questi beni: ma non è di questi beni, di questi doni dell’ordine naturale, che qui parla l’Apostolo, ancorché non li escluda, anzi li supponga: egli parla di quella grazia, che è la verità e che illumina la mente, che eccita la volontà, che trasforma povere creature in figli adottivi di Dio: grazia portata sulla terra da Gesù Cristo e per mezzo degli Apostoli a tutti largamente offerta. Ma perché questa grazia, della quale Gesù Cristo è fonte inesauribile, produca i suoi effetti, basta che sia offerta? No, no, o cari. Sarebbe come dire che per vedere basti che il sole splenda in cielo, e per nutrirci basti avere innanzi una mensa lautamente imbandita: per vedere bisogna aprire gli occhi, per nutrirci è necessario pigliare il cibo. Dio ci offre sempre, dovunque e abbondantemente la grazia: a noi aprire la mente ed il cuore per riceverla e farla fruttare: se noi non rispondiamo al suo invito, essa cadrà inutilmente e sarà la nostra condanna, perché respingere il dono è far onta al donatore. Io grido a voi, come Paolo ai Corinti: “Sono, benché immeritamente, cooperatore di Dio: e come tale, vi esorto, vi scongiuro di non ricevere invano la grazia di Dio, „ che in più larga copia vi è largita in questo tempo della sacra Quaresima. “Poiché Dio dice: “A tempo propizio ti ho esaudito, e ti ho aiutato nel giorno della salute.„ Queste parole si leggono nel profeta Isaia, che le mette in bocca del Padre, e sono rivolte al Figlio fatto uomo e rappresentante tutta l’umanità. Vero è che queste parole del profeta sembrano riferirsi ad un tempo passato, mentre riguardano il futuro; ma ciò non deve fare difficoltà alcuna, giacché dovete sapere che Iddio, parlando per bocca dei profeti, assai volte mette il futuro come presente, anzi come passato, perché dinanzi a Lui il futuro è presente e come già fatto. “Ricevete, è questo il senso, ricevete la grazia di Dio, perché questo è il tempo propizio, questo è il tempo della salute. „ Anche prima di questo tempo, cioè prima che venisse il Figliuolo di Dio, il nostro Capo e supremo Mediatore, non si rifiutava la grazia a chi era disposto a riceverla; ma si concedeva in misura più scarsa: era simile a quella luce che il sole sparge per il cielo prima di spuntare sull’orizzonte: ma ora dopo la venuta di Gesù Cristo, la grazia sovrabbonda, come sovrabbonda la luce allorché il sole sfolgoreggia in mezzo al cielo: “È questo il tempo propizio, il tempo per eccellenza della salute, ed io, dice l’Apostolo, ve l’annunzio: usatene. „ Questo tempo che S. Paolo chiamava propizio e di salute, non è ristretto a quello in cui egli viveva: esso comincia da Cristo e si estende fino al termine dei secoli, tutto egualmente tempo di salute e di misericordia per chi vuole debitamente valersene. E voi, o cari, senza dubbio ve ne varrete. –  Seguitiamo il nostro commento. “Non rechiamo offesa a chicchessia, acciocché non sia disonorato il nostro ministero. „ Quale ammaestramento per noi sacerdoti direttamente e indirettamente anche per voi, o laici! Noi tutti, sacerdoti, chiamati ai vari uffici del sacro ministero, dobbiamo porre ogni studio in cessare qualunque atto o parola od anche solo omissione, che in qualsiasi modo possa offendere alcuno e recare disonore o danno alla Religione, della quale siamo rappresentanti e ministri. Ciò che predichiamo a voi, lo dobbiamo predicare prima e più fortemente a noi stessi, obbligati come siamo a precedervi in ogni cosa con l’esempio di una vita illibata e santa. Voi, o laici, avete il sacro diritto, che, fin dove le forze ce lo consentono, vi ammaestriamo più con le opere che con le parole, e noi, da questo luogo, dovremmo sempre poter ripetere la sentenza dell’Apostolo: ” Figliuoli, imitate noi, come noi imitiamo Gesù Cristo — Imitatores mei estote sicut et ego Christi. „ Nondimeno due cose vorrei che non dimenticaste mai. In primo luogo vogliate ricordarvi, che se noi, ministri del Vangelo, dobbiamo presentare in noi stessi la copia fedele di Gesù Cristo, siamo pur sempre uomini, figli di Adamo, come voi, travagliati come voi dalle stesse passioni, soggetti alle stesse prove ed alle stesse debolezze. Il perché se talvolta scorgete in noi ciò che male risponde all’alta nostra vocazione, non dovete pigliarne scandalo; anzi dovete compatirci e coprire noi pure con quel manto della carità cristiana, che non esclude alcuno dei vostri fratelli, e in ogni modo non sia mai che facciate ricadere sulla Religione le conseguenze dei nostri falli, o che si attribuiscano a tutti i ministri della Religione quei falli che sono di alcuni soltanto. – La Religione è santa nella sua dottrina e nelle sue leggi, ed è ingiustizia somma imputare a lei ciò che è colpa degli uomini e dei ministri suoi. Chi mai griderebbe contro il codice perché talvolta i giudici stessi, che lo devono applicare, lo trasgrediscono? Chi oserebbe pigliarsela con la ragione e con la giustizia perché vi sono filosofi e magistrati, che la disonorano? Come le nubi non tolgono nulla alla luce del sole, così i falli degli uomini di Chiesa non scemano la santità della Religione. L’oro che vedete nella polvere, il diamante che è coperto di terra, è sempre oro e diamante: così la Religione non deve perdere nulla della sua santità allorché alcuni dei suoi ministri vengono meno all’alto loro ufficio. La Religione è sempre santa ancorché non sempre santi siano coloro che la predicano. Ed è pure da guardarvi da un’altra ingiustizia che non raramente si commette contro gli uomini di Chiesa: uno di loro cade in un fallo e subito si grida ai quattro venti: Vedete chi sono i preti! Vedete come fanno i religiosi! — È giustizia attribuire a tutti la colpa di uno? Ditelo voi. E perché poi l’opera buona d’uno non è egualmente attribuita a tutti? Pur troppo il male che si fa da un prete è male di tutti, e il bene è di quell’uno che lo fa, se pure non si tace. – In secondo luogo vi piaccia considerare, che se noi, ministri della Chiesa, dobbiamo onorare la nostra dignità e il Capo divino che ci manda, con la bontà e santità della vita; ancor voi, come Cristiani, dovete modellarvi sullo stesso esemplare e mostrarvi degni della vostra vocazione all’eccelso onore di figli di Dio. E in che cosa ci mostreremo noi veri ministri di Dio? Risponde l’Apostolo con una lunga ed eloquente enumerazione, che è in pari tempo una stupenda apologia della sua condotta. “Noi in tutto ci diportiamo come ministri di Dio in grande pazienza, in afflizioni, in bisogni, in angustie, „ cioè, sopportando le afflizioni, che ci vengono dal di fuori, i bisogni, ossia le privazioni d’ogni guisa, le angustie, ossia le distrette e gli affanni della vita sempre agitata. Non basta: l’Apostolo prosegue: “Ci diportiamo come ministri di Dio nelle battiture, nelle prigionie, nelle sommosse; „ manifestamente allude alle parecchie flagellazioni, a cui fu sottoposto (tre volte, come dice più innanzi), alle prigionie sostenute ripetutamente, alle sommosse, nelle quali si trovò involto, come apparisce dagli Atti apostolici. Non basta ancora e continua: “Nei travagli, nelle vigilie, nei digiuni, „ sono le opere che l’Apostolo aggiungeva alle persecuzioni esterne, quasiché queste non bastassero, e segue ancora: “Nella purezza, nella scienza, nella longanimità. — Io ho adempito il mio ufficio di apostolo, cosi S. Paolo, non ricevendo doni da chicchessia, non recando carico a persona, perché ai miei bisogni, come protesta altrove, provvidero queste mani; ho servito al Vangelo e non ho voluto essere di peso a nessuno: è questa la mia gloria. „ L’ho adempito quest’alto ufficio nella scienza, svelandovi i misteri della fede, della sapienza e della carità di Gesù Cristo: l’ho adempito nella longanimità, agli insulti, alle calunnie, all’odio, alle persecuzioni dei miei nemici opponendo costantemente la pazienza, il perdono più generoso, la mitezza del linguaggio, la soavità dei modi. E tutto questo, continua nella foga del suo dire l’Apostolo, e tutto questo non è mio merito, non è frutto delle mie industrie, dei miei sforzi, no; è tutto dono di Dio, dal quale discende ogni cosa buona; è dono dello Spirito santo, in Spiritu sancto, che spande nelle anime la carità vera, che risplende nelle opere, in charitate non ficta. Noi potremmo credere che le cose sin qui dette dall’Apostolo per mostrare qual fu l’esercizio del suo ministero dal giorno che sulla via di Damasco udì la voce di Cristo, fossero bastevoli e più che bastevoli: ma non così parve al grande Apostolo: trasportato dall’impeto del suo zelo, dalla carità, che lo strugge; piena l’anima di un entusiasmo divino per l’altezza della missione apostolica ricevuta da Cristo, quando sembra aver esauriti i concetti e le espressioni, allora ripiglia nuova lena e forza e trova nuove idee, nuove e più gagliarde forme per esprimerle. Uditelo: “Sì, io ho adempito il mio ministero, e l’ho adempito con una parola verace, in verbo veritatis; la verità, la sola verità e sempre la sola verità fu, è e sarà sempre sulle mie labbra, come si conviene a chi è apostolo di Colui che disse: Io sono la verità; e l’ho predicata nella potenza di Dio, il quale con lo splendore dei miracoli l’ha confermata e suggellata. Sono queste le prove del mio apostolato, prove che vengono non dagli uomini, ma da Dio, e che non ammettono ombra di dubbio. „ E qui, Paolo, quell’Apostolo incomparabile, quell’uomo dalla tempra d’acciaio e dal cuore di madre, si apre una nuova via e versa tutta l’anima sua: “Ho adempito il mio ministero, usando le armi della giustizia, ossia tutti i mezzi leciti per far trionfare la giustizia, per santificare le anime, a destra ed a sinistra, nelle prospere cose come nelle avverse, in mezzo agli applausi ed alla gloria, che talora raccolsi, e in mezzo alle ignominie, onde più spesso fui coperto, per gloriam et ignobilitatem; ora accolto con il nome di falso ed ora di vero apostolo, per infamiam et bonam famam; ora tenuto in conto di seduttore, mentre ho coscienza di annunziare la verità, ut seductores et veraces; considerato come uomo ignoto, eppure sono notissimo per quelli che mi ascoltano e più ancora per quelli che non mi lasciano in pace, sicut qui ignoti et cogniti: sono come un uomo continuamente in pericolo della vita, cercato a morte, eppure, per divina provvidenza, sempre vivo e robusto, quasi morientes, et ecce vivimus; ogni giorno sono fatto bersaglio agli assalti dei miei nemici, battuto, vergheggiato, eppure non muoio, ut castigati, et non mortificati: le cause di dolore e di tristezza si addensano sopra di me e dovrei esserne sopraffatto, totalmente oppresso, eppure sono sempre lieto e sono colmo di gioia in mezzo alle mie tribolazioni, quasi tristes, semper autem gaudentes; superabundo gaudio in omni tribulatione nostra: sono povero, miserabile, non ho che le mani per campare la vita, e nondimeno non manco di nulla e posso largheggiare con altri, sicut egentes, multos autem locupletantes: tamquam nihil habentes, et omnia possidentes. „ Qui ha termine il tratto dell’Epistola, che m’ero proposto di spiegarvi. Chiudendo questo breve commento, non posso fare a meno di richiamare la mia e la vostra attenzione sopra tre cose che mi paiono troppo degne di attenzione: la prima è comune a me ed a voi; la seconda riguarda me e i fratelli miei nel sacerdozio, e la terza riguarda voi, o laici fedeli. Queste sentenze dell’Apostolo, piene di forza, di maschia eloquenza, e direi quasi d’un santo orgoglio, ci mettono sott’occhio la sua vita, le sue opere e l’ardore del suo zelo, che non dice mai: “Basta”. Esse ci mostrano come la grazia di Dio possa trasformare un’anima e renderla atta, pronta ai maggiori sacrifici: si direbbe ch’essa non vede più che due cose sole, la gloria di Dio e la salvezza delle anime: tutto il resto per essa è nulla e meno che nulla. Queste sentenze dell’Apostolo ci insegnano quanto sia sublime e degna di riverenza la dignità sacerdotale in tutti i suoi gradi, e come la si debba mantenere in onore presso tutti e difenderla, se è necessario, contro i calunniatori ed oltraggiatori, perché caduta questa in disprezzo e mala voce presso il popolo, l’opera sua è impedita o resa inutile o fors’anche tramutata in iscandalo. Ogni autorità naturale, cominciando dalla paterna fino alla suprema, la reale, ha bisogno di stima e di rispetto per poter produrre i suoi benefici effetti nella famiglia e nella società civile: più assai dell’autorità naturale l’autorità sovrannaturale del Sacerdozio ha bisogno di stima, di rispetto e di venerazione, perché destituita del presidio umano della forza, perché più alto senza confronto è il suo fine e più difficile il conseguirlo. Circondiamo adunque l’autorità sacerdotale del nostro rispetto più sincero, della nostra venerazione più profonda; onoriamola, al bisogno difendiamola, e se qualcuno, che ne è adorno, se ne mostra men degno con la sua condotta, non confondiamo lui con l’autorità che rappresenta, e ricordiamoci che i figli devono sempre rispettare ed onorare il padre anche errante e colpevole. – La seconda cosa riguarda me e i fratelli miei nel sacerdozio. Noi, ammaestrati da san Paolo, porremo ogni studio in non recare offesa di sorta a chicchessia, affinché non sia disonorato il nostro ministero: saremo pazienti nelle afflizioni, nei bisogni, nelle angustie, nelle vicende più amare della vita; praticheremo il disinteresse, vi daremo la scienza di Dio, saremo longanimi, benigni, caritatevoli, sempre eguali nei casi avversi e nei prosperi; non curando la guerra che ci fa il mondo, adempiremo il nostro dovere, e ai sofferenti, ai poverelli saranno rivolte le nostre più amorose sollecitudini, seguendo l’esempio dell’Apostolo. – La terza cosa riguarda voi, laici fedeli. Il principe degli Apostoli, S. Pietro, scrivendo ai fedeli, diceva loro: ” Voi siete la generazione eletta, il regale sacerdozio, la gente santa, il popolo di conquista „ (I Petri, II, 9). Certamente S. Pietro non volle attribuire a voi. laici, la dignità ed il potere sacerdotale nel senso rigoroso della parola, quasiché voi pur possiate amministrare i Sacramenti, offrire il Sacrifìcio, ammaestrare autorevolmente fedeli e reggere e governare la Chiesa: intese soltanto di dire, che voi pure col santo Battesimo e con la Confermazione siete consacrati a Dio, e potete essere elevati alla dignità sacerdotale e come membra di Cristo potete offrire sacrifici spirituali (capo II, 5): intese soltanto di dire, che voi pure, o laici, massime se avete la dignità e l’autorità di padri, di padroni o qualsiasi altra dignità od autorità, in qualche modo partecipate della dignità ed autorità sacerdotale, quella di reggere e governare i figli, i dipendenti, e per questo titolo vi corre l’obbligo di far tesoro di quelle stesse virtù, che dobbiamo esercitar noi sacerdoti, e farne tesoro in quella misura che è richiesta dal vostro stato, affinché non veniate meno ai vostri doveri. Perciò ancor voi dovete armarvi di pazienza nelle afflizioni, nei bisogni, nelle distrette, nelle tribolazioni d’ogni maniera, che troverete sul vostro cammino: ancor voi avete bisogno della scienza opportuna, della longanimità, della benignità, della carità schietta e della fortezza d’animo, alle quali è riserbata la vittoria nelle prove della vita e la corona a chi adempie fedelmente i propri doveri.

 Graduale Ps XC,11-12

Angelis suis Deus mandávit de te, ut custódiant te in ómnibus viis tuis.

In mánibus portábunt te, ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum.

[Dio ha mandato gli Ángeli presso di te, affinché ti custodíscano in tutti i tuoi passi. Essi ti porteranno in palmo di mano, ché il tuo piede non inciampi nella pietra.]

Tractus. Ps XC:1-7; XC:11-16

Qui hábitat in adjutório Altíssimi, in protectióne Dei cœli commorántur.

V. Dicet Dómino: Suscéptor meus es tu et refúgium meum: Deus meus, sperábo in eum.

V. Quóniam ipse liberávit me de láqueo venántium et a verbo áspero.

V. Scápulis suis obumbrábit tibi, et sub pennis ejus sperábis.

V. Scuto circúmdabit te véritas ejus: non timébis a timóre noctúrno.

V. A sagitta volánte per diem, a negótio perambulánte in ténebris, a ruína et dæmónio meridiáno.

V. Cadent a látere tuo mille, et decem mília a dextris tuis: tibi autem non appropinquábit.

V. Quóniam Angelis suis mandávit de te, ut custódiant te in ómnibus viis tuis.

V. In mánibus portábunt te, ne umquam offéndas ad lápidem pedem tuum,

V. Super áspidem et basilíscum ambulábis, et conculcábis leónem et dracónem.

V. Quóniam in me sperávit, liberábo eum: prótegam eum, quóniam cognóvit nomen meum,

V. Invocábit me, et ego exáudiam eum: cum ipso sum in tribulatióne,

V. Erípiam eum et glorificábo eum: longitúdine diérum adimplébo eum, et osténdam illi salutáre meum.

[Chi abita sotto l’égida dell’Altissimo, e si ricovera sotto la protezione di Dio.

Dica al Signore: Tu sei il mio difensore e il mio asilo: il mio Dio nel quale ho fiducia.

Egli mi ha liberato dal laccio dei cacciatori e da un caso funesto.

Con le sue penne ti farà schermo, e sotto le sue ali sarai tranquillo.

La sua fedeltà ti sarà di scudo: non dovrai temere i pericoli notturni.

Né saetta spiccata di giorno, né peste che serpeggia nelle tenebre, né morbo che fa strage al meriggio.

Mille cadranno al tuo fianco e dieci mila alla tua destra: ma nessun male ti raggiungerà. V. Poiché ha mandato gli Angeli presso di te, perché ti custodiscano in tutti i tuoi passi.

Ti porteranno in palma di mano, affinché il tuo piede non inciampi nella pietra.

Camminerai sull’aspide e sul basilisco, e calpesterai il leone e il dragone.

«Poiché sperò in me, lo libererò: lo proteggerò, perché riconosce il mio nome.

Appena mi invocherà, lo esaudirò: sarò con lui nella tribolazione.

Lo libererò e lo glorificherò: lo sazierò di lunghi giorni, e lo farò partécipe della mia salvezza».]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.

Matt IV:1-11

“In illo témpore: Ductus est Jesus in desértum a Spíritu, ut tentarétur a diábolo. Et cum jejunásset quadragínta diébus et quadragínta nóctibus, postea esúriit. Et accédens tentátor, dixit ei: Si Fílius Dei es, dic, ut lápides isti panes fiant. Qui respóndens, dixit: Scriptum est: Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo, quod procédit de ore Dei. Tunc assúmpsit eum diábolus in sanctam civitátem, et státuit eum super pinnáculum templi, et dixit ei: Si Fílius Dei es, mitte te deórsum. Scriptum est enim: Quia Angelis suis mandávit de te, et in mánibus tollent te, ne forte offéndas ad lápidem pedem tuum. Ait illi Jesus: Rursum scriptum est: Non tentábis Dóminum, Deum tuum. Iterum assúmpsit eum diábolus in montem excélsum valde: et ostendit ei ómnia regna mundi et glóriam eórum, et dixit ei: Hæc ómnia tibi dabo, si cadens adoráveris me. Tunc dicit ei Jesus: Vade, Sátana; scriptum est enim: Dóminum, Deum tuum, adorábis, et illi soli sérvies. Tunc relíquit eum diábolus: et ecce, Angeli accessérunt et ministrábant ei.”

Omelia II

[Idem, OmeliaII]

“Gesù fu condotto dallo spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. E poiché ebbe digiunato quaranta giorni e quaranta notti, infine sentì fame. E il tentatore, appressatosi a lui, gli disse: Se sei Figliuolo di Dio, comanda che queste pietre divengano pani. Ma egli rispondendo, disse: Sta scritto: Non di solo pane vive l’uomo, ma d’ogni parola, che procede dalla bocca di Dio. Allora il diavolo lo trasportò nella santa città, e lo pose sopra l’orlo del tetto del tempio, e gli disse: Se sei Figlio di Dio, gettati giù, perciocché sta scritto, ch’egli “ha dato la cura di te ai suoi angeli, ed essi ti terranno nelle loro mani, affinché non intoppi del piede in alcuna pietra”. Gesù gli disse: “Sta scritto altresì: Non tenterai il Signore Iddio tuo”. Da capo il diavolo lo trasportò sopra un monte altissimo, e gli mostrò tutti i regni della terra e la loro magnificenza, e gli disse: Io ti darò tutte queste cose, se, gettandoti in terra, mi adorerai. Allora Gesù gli disse: Via di qua, satana perché sta scritto: Adorerai il Signore Iddio tuo, e a lui solo servirai. Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco gli angeli vennero a lui, e lo servivano „ (Matteo, capo IV, 1-11).

Il fatto che si racchiude in questo Vangelo della prima Domenica di Quaresima e che vi ho riportato parola per parola nella nostra lingua, è della più alta importanza. Esso apre la vita pubblica di Gesù Cristo e dà principio a quel terribile duello ch’Egli volle sostenere a nostra istruzione e salvezza col suo e nostro giurato nemico, il demonio. E prima di cominciare la interpretazione del testo evangelico, non vi sia grave, che mandi innanzi alcune avvertenze, che mi paiono convenienti. Anzitutto osservate che Gesù Cristo è, come insegna S. Paolo, il secondo Adamo, l’Adamo celeste, il Capo della nuova generazione dei figli di Dio, il Riparatore del fallo commesso dal primo Adamo; come il primo Adamo, a principio, nel luogo di delizie, fu messo alla prova, affinché con la vittoria meritasse il possesso e la conferma dei doni ricevuti, così doveva essere messo alla prova il secondo Adamo, nel deserto: il primo con la sua caduta, divenne schiavo del nemico e schiava fece tutta la sua progenie: il secondo, Gesù Cristo, con la sua vittoria comincia la riscossa, la liberazione dell’umanità peccatrice e insegna a tutti il modo di combattere e vincere il comune nemico. E qui è pur anche da avvertire che i demoni, benché per acume di mente, di gran lunga superiori agli uomini, non conoscono, né possono conoscere i nostri pensieri ed affetti: questi son noti soltanto a Dio, se non li manifestiamo. Possono argomentarli da segni esterni e con maggiore o minore probabilità supporli, ma conoscerli con certezza, giammai. – Gesù Cristo è il Santo per eccellenza: in Lui, nell’anima sua, nel suo corpo non vi è ombra della funesta eredità di Adamo, non tendenze, non passioni incomposte: tutto in Lui è ordine, armonia, santità; la tentazione pertanto viene a Gesù di fuori, e in Lui non trova punto d’appoggio, non porta dischiusa: Egli è come la luce circondata dalle tenebre: queste non hanno, né possono avere accesso nella natura della luce. Questa tentazione, che Gesù permise, narrata da tre Evangelisti, avvenne subito dopo il suo battesimo nel Giordano e la divina manifestazione, che colà ebbe luogo, e la solenne testimonianza a Lui resa dal Precursore. – Ora veniamo alla spiegazione delle singole parti di questo fatto sì straordinario e sì istruttivo. “Gesù fu condotto dallo spirito nel deserto. „ Il deserto ebbe sempre un’attrattiva potente sulle anime religiose: esso è la soglia della vita attiva dei grandi personaggi. Il deserto separa dal consorzio umano, raccoglie la mente, la solleva a Dio, la purifica, matura le grandi risoluzioni, tempra le anime virili e le prepara alle più ardue lotte. Mosè, Elia, Giovanni Battista si formarono nella solitudine. Gesù, lasciato il Giordano dopo il suo Battesimo, è condotto dal suo spirito nel deserto. Questo luogo è poco lungi dal Giordano, presso la via che mette a Gerusalemme, in mezzo a monti dirupati, e che anche al giorno d’oggi si chiamano i monti della tentazione, a pochi chilometri da Gerico. E perché Gesù Cristo si riduce nel deserto? Aveva forse bisogno della solitudine, del silenzio dei boschi per pregare, meditare, immergersi nella contemplazione, e prepararsi alla vita pubblica, alla missione, per la quale era venuto? Sarebbe bestemmia pure il pensarlo! Egli era Dio e l’occhio della sua mente era perennemente fisso nella luce divina di cui si beava, il suo cuore sempre immerso nell’oceano della divina Essenza. Che andava adunque a cercare nel deserto? Non la pace, ma la lotta, la prova per vincerla e dare a tutti i futuri credenti due lezioni indimenticabili che sono la necessità della preghiera, del digiuno, della mortificazione, e il modo di vincere il nemico. Lo dice l’Evangelista: ” Gesù fu condotto dallo spirito nel deserto per essere tentato. „ Tentato da chi? Dal diavolo. Non sono pochi oggidì coloro, che all’udire questa parola “il diavolo”, sorridono e mettono la sua esistenza tra le favole e compatiscono come menti inferme e ancora schiave di vecchi pregiudizi quanti vi credono. Per noi basti il sapere che la S. Scrittura, dal principio del primo libro della Genesi, fino alle ultime linee dell’Apocalisse, parla di angeli buoni e cattivi, o demoni; basti il sapere che tutto il gran dramma della rivelazione divina, che comincia in cielo, poi si porta sulla terra e sulla terra si scioglierà alla fine dei secoli, non è che lo svolgimento d’una lotta colossale tra Cristo, i suoi Angeli e i suoi eletti, e satana o il diavolo, e i suoi seguaci. Non è qui il luogo di mostrare l’esistenza degli spiriti malvagi e l’origine del male; vi basti sapere, che, piaccia o non piaccia al mondo ed alla miscredenza, la fede insegna che il demonio esiste e che tutta quanta l’umanità, in tutti i tempi e in tutti i luoghi credette e crede alla sua esistenza. Quanto tempo Gesù stette in quell’orrido deserto? Lo dice in termini il Vangelo: ” Quaranta giorni e quaranta notti. „ E che fece colà in sì lungo periodo di tempo? Certo pregò, contemplò la maestà del Padre suo, lo adorò; ma il Vangelo ci dice soltanto “che digiunò. „ Sembra che il suo fosse un digiuno assoluto, senza pigliar cibo o bevanda di sorta: Egli ripete in sé ciò che avevano fatto Mosè ed Elia, e consacra il digiuno quadragesimale. Il digiuno è una espiazione dei peccati commessi ed è uno dei modi più comuni nei quali si esplica la gran legge del Vangelo, che è la mortificazione. Il digiuno raffrena la carne, rintuzza le passioni, solleva la mente, la rende atta a conoscere la verità, è l’amico, il compagno della virtù. – In capo ai quaranta giorni di sì austero digiuno, Gesù, permettendolo Lui stesso, sentì la fame e il bisogno di cibo, Esuriit, e ciò dovette apparire a segni esterni, quali che fossero. Allora “Il tentatore, appressatosi a luì, gli disse: Se sei il Figliuolo di Dio, comanda che queste pietre divengano pani. „ Il tentatore! – Chi è questo che è chiamato, non semplicemente tentatore, ma “IL TENTATORE”, secondo il testo greco? Evidentemente quel medesimo, che sopra è chiamato diavolo. E perché si chiamava tentatore? Perché tentò i primi padri e li sedusse, e perché continua e continuerà l’opera sua scellerata fino al termine dei secoli. E perché l’angelo caduto, ossia il diavolo, coi suoi seguaci incessantemente insidia e si studia di sedurre tutti gli uomini? Qual motivo, quale interesse ha egli in questa non so ben dire se più empia o più stupida impresa? Egli odia Dio, che l’ha punito, e più ancora, se si può dire, Cristo, l’Uomo-Dio. Secondo ogni verosimiglianza, a principio, Dio agli angeli tutti, appena li ebbe creati, mostrò il mistero dell’Incarnazione, che sarebbesi compiuto nella pienezza dei tempi e impose loro di riconoscerlo loro Capo e loro Signore, secondochè si legge nel salmo: “Allorché introdusse il suo primogenito nel mondo, Dio disse: Lo adorino i suoi angeli. „ Buon numero di essi, per superbia disdegnarono di riconoscere il loro Capo e Signore in chi, fatto uomo, pareva loro inferiore, si ribellarono e furono precipitati nell’inferno. Di qui l’odio ferocissimo del demonio contro Cristo e gli uomini, coi quali ha comune la natura assunta, e di qui il fare ogni sforzo per perdere gli uomini e rapirli a Cristo. Benché non tutte le tentazioni vengano direttamente dal demonio, ma molte vengano dalle nostre passioni, si può dire che indirettamente tutte vengano da lui in quantochè egli corruppe la nostra natura in Adamo e introdusse il peccato, onde a ragione si chiama il tentatore. E come si presentò a Cristo? Il Vangelo non lo dice, ma sembra che ciò facesse sotto forma sensibile, probabilmente sotto forma umana. – Uno dei più acuti dolori che l’uomo retto e santo possa soffrire, è la vista del male, è la compagnia, il contatto dei tristi, delle anime corrotte e depravate: è un cruccio, un supplizio ineffabile. Gesù Cristo, che doveva bere al torrente di tutti i dolori, volle pure soffrire questo: volle vedersi vicino l’autore del male, il perverso, che fu cacciato dal cielo, l’omicida, colui che tutto odia, che vuole il male per il male, “Che contro il suo Fattore alzò le ciglia.” Chi è desso quest’Uomo, che prega e digiuna nel deserto, sul capo del quale pochi giorni fa si sono aperti i cieli, che l’Eterno ha chiamato suo Figlio diletto? Chi è quest’Uomo, sì virtuoso e sì santo, ma sì povero e sì spregiato, che non ha dove posare la testa? È un profeta? E figlio adottivo di Dio? E forse il Messia, lo stesso Uomo-Dio, che ha da venire? Il tentatore non lo sa e il dubbio tormenta quel superbo. Dovete sapere che il demonio non conobbe mai con certezza chi era Gesù Cristo, se un gran profeta, un figlio di Dio per adozione, o il Figlio di Dio per natura, fatto uomo; lo conobbe solo in quell’istante in cui fu compiuta la redenzione. Dio gli nascose questo mistero per fiaccare il suo orgoglio e perché egli stesso, il demonio, non conoscendolo, cooperasse, suo malgrado, alla propria disfatta e alla salvezza degli uomini. E ciò che insegnano S. Girolamo, S. Ambrogio, S. Ignazio M., S. Leone e che apparisce da questo luogo del Vangelo. Il demonio vuol liberarsi da questo dubbio angoscioso, affine di regolarsi nella guerra che gli deve muovere, e perciò, appressatosi, vistolo sofferente e quasi rifinito dal digiuno, gli dice: Se tu sei il Figlio di Dio. Notate quel — Se tu sei —, in cui confessa a suo gran dispetto la sua ignoranza: Se tu sei il Figlio di Dio, tu puoi fare ogni cosa: tutto obbedisce all’impero della tua voce: muta in pani questi sassi del deserto. Se Gesù lo faceva, affermava sé essere veramente il Figliuolo di Dio, e il demonio usciva dal suo dubbio: se Gesù rispondeva : “Far questo non è in mio potere”, dichiarava di non essere Dio. Oltrecché la proposta era empia, perché imponeva di fare un miracolo per poter conoscere i disegni di Dio, né v’era necessità alcuna di operar un miracolo, potendo Gesù Cristo soddisfare ai bisogni della natura in modo naturale, procurandosi, come ogni altro uomo, il cibo necessario. Perciò Gesù Cristo, lasciando sempre il demonio nella sua umiliante ignoranza, rispose: “Sta scritto: Non di solo pane vive l’uomo, ma d’ogni parola, che procede dalla bocca di Dio. „ Queste parole son tolte dal capo VIII, vers. 3 del Deuteronomio, dove Dio dice al popolo d’Israele, che si lagnava di non aver cibo nel deserto, che l’uomo non vive solamente del pane comune, ma può vivere di qualunque cibo, che a lui piaccia dargli, e gli diede la manna. Cristo adunque non rispose direttamente al tentatore quanto al miracolo domandato: Io sento il bisogno di cibo, è vero; ma Io mi nutrirò come piace al Padre mio: se è suo volere ch’io soffra ancora la fame, la soffrirò: se Egli vorrà con la sua parola vivificatrice, con la verità nutrire il mio spirito in guisa che il corpo istesso ne riceva alimento, come sin qui, Io lo benedirò: se vorrà fornirmi un altro cibo qualunque, Io lo riceverò: la sua volontà per me è legge sovrana. Gesù adunque respinge il tentatore, non discutendo, non promettendo, o negando, ma semplicemente rimettendosi al Padre suo quanto ai bisogni naturali del proprio corpo. E ciò che ciascuno di noi deve fare nelle tentazioni e prove sì svariate della vita: si faccia ciò che piace a Dio, che è Padre nostro, e che non può non volere e sempre il maggior nostro bene. – “Allora il diavolo lo trasportò nella santa città e lo pose sopra l’orlo del tetto del tempio, e gli disse: Se sei Figlio di Dio, gettati giù, perché sta scritto, ch’Egli ha dato la cura di te agli Angeli, ed essi ti terranno nelle loro mani, affinché non intoppi del piede in alcuna pietra. „ – Alcuni fecero le più alte meraviglie che Gesù Cristo, non solo permettesse d’essere tentato dal demonio, ma da lui trasportato qua e là, quasi a suo talento, e sembra loro cosa indegna da non potersi credere, e però cercarono di interpretare questo fatto come una visione fantastica. Ma se Gesù Cristo permise d’essere calunniato, schernito, schiaffeggiato, messo in croce ed ucciso da coloro che erano aizzati dal demonio, non vi è ragione che non tollerasse anche d’essere trasportato dal medesimo sopra il tempio. Vedete sottile tentazione! In fondo all’anima, nelle pieghe più intime dello spirito più puro e più santo vi è sempre un filo di egoismo, l’amore della propria eccellenza: esso non muore che con noi. Il demonio conta su quello e dice a Gesù: Vedi: se tu sei il Figlio di Dio, l’aspettato Salvatore del mondo, devi farti conoscere come tale: fa risplendere la tua potenza e la tua gloria. Gettandoti da questo luogo, non hai a temere di riportarne alcun danno: Dio ha dato a ciascun uomo un angelo, che lo custodisca in ogni pericolo: quanto più saranno pronti gli Angeli ai tuoi cenni (Gesù poco prima aveva rigettata la tentazione con le parole della Scrittura; il demonio, a sua volta, ricorre anch’egli ai Libri santi). Se tu ti getti da questa altezza, in questo luogo sì celebre, sotto gli occhi di tanto popolo, senza danno di sorta, tutta Gerusalemme, tutto Israele ti riconoscerà per il Figlio di Dio e ti seguirà: “l’opera tua sarà compiuta. „ Fine del tentatore era di spingere Gesù a farsi conoscere a suo modo, a mettere a servizio di sé la potenza divina, in altri termini, a tentar Dio. Gesù rispose, gettando in faccia al tentatore quella sentenza solenne dei Libri santi: ” Non tenterai il Signore Dio tuo. „ Le quali parole non si devono intendere dette da Gesù come se suonassero: “Non tenterai me, Signore e Dio tuo, „ che allora Gesù avrebbe fatto conoscere al maligno quello che non voleva fargli conoscere; ma si hanno da intendere in senso generale, come un precetto comune a tutti, come se avesse detto: “Tu sai il comando divino che abbiamo di non tentare Dio e pretendere da Lui miracoli a capriccio nostro: Io non lo tenterò, come tu mi consigli di fare. „ – Dio, o carissimi, veglia sempre sopra di noi, come un padre sui diletti suoi figli: stende loro la mano soccorrevole come e quando gli piace: Egli ha stabilito le vie, che ciascuno deve percorrere: a noi tocca camminare per esse e usare dei mezzi che ci offre: ora se volessimo che Dio prestasse la sua mano a quello che vogliamo noi e come vogliamo noi e che al bisogno mutasse per noi il corso naturale delle cose, operando anche miracoli, noi scambieremmo le parti, metteremmo Dio al luogo nostro e noi al luogo di Dio. Questo è tentar Dio ed offesa gravissima fatta alla sua Maestà. A Dio spetta guidarci per la sua via, a noi il seguirlo umilmente e docilmente. – Il tentatore non si diede per vinto, e servendosi della sua natura spirituale, padrona dello spazio, “trasportò Gesù sopra un monte altissimo, e gli mostrò tutti i regni della terra e la loro magnificenza, e gli disse: Io ti darò tutte queste cose, se, gettandoti in terra, mi adorerai. „ Qual sia questo monte altissimo, sul quale fu portato Gesù Cristo, è al tutto ignoto, né il Vangelo ce ne dà indizio benché minimo. Dalla vetta di quel monte il tentatore, accennando in qualche modo la direzione e la postura dei regni ed imperi della terra, e forse a rapidi tratti descrivendone le grandezze, “queste cose, disse, son mie e le posso dare a chi voglio. „ Questa padronanza, che il demonio si arroga su tutta la terra, è una millanteria degna di lui, che è il padre della menzogna. Egli, per sé, non è padrone di nulla, se non di quel tanto che Dio nei consigli della sua sapienza permette e che gli uomini consentono. Nondimeno, in qualche senso, quelle parole del superbo erano vere: tutto il mondo, fatta eccezione di poche anime elette, allora, in quel momento, si curvava dinanzi agli idoli, si ravvoltolava nel fango d’ogni bruttura, e il demonio poteva dire: “Tutti i regni della terra sono miei, „ e pur troppo in gran parte sono ancora suoi! Il tentatore sapeva benissimo, che il Figlio di Dio doveva venire e che venendo, avrebbe infranto il suo scettro tirannico e strappatagli di mano la gran preda, e questo Figlio di Dio poteva essere quel Gesù, che gli stava dinanzi. Invano aveva tentato di conoscerlo, di ottenere una prova, di avere una sola parola, che gli squarciasse il velo, che lo avvolgeva. – Allora tenta l’ultima prova: tenta di sedurlo o di atterrirlo: “Tu vedi l’ampiezza, la potenza, la grandezza del mio impero: tutto è mio: se lo vuoi, è tutto tuo, ecco la seduzione; se no, vedi le mie forze e comprendi, che non le potrai superare. Io ti do tutto, tutto, a questo solo patto, che, tu, prostrandoti, mi adori. „ L’angelo ribelle, divenuto demonio, porta sempre e dappertutto con sé quell’orgoglio indistruttibile, che un dì lo spinse a rifiutare l’omaggio dovuto a Dio nell’umana natura assunta: il Figlio di Dio fatto uomo è il suo rivale in cielo e in terra, e come già lassù tra gli Angeli, così quaggiù tra gli uomini gli contrasta palmo a palmo l’impero: egli vuole per sé il culto supremo, l’adorazione dovuta all’Uomo-Dio. Qual trionfo per lui, se potesse ottenere, che quest’Uomo-Dio (che può essere Gesù), per avere l’impero dell’universo, cada ai suoi piedi e l’adori! Egli avrebbe vinto Dio stesso e avrebbe piena vendetta del suo esilio eterno dal cielo. A lui premeva più avere le adorazioni di quell’uomo, che poteva essere il Messia, il suo nemico personale, che tutte le adorazioni di tutti gli uomini. – Gesù, insensibile all’ambizione, come al terrore, con accento di profonda indignazione, rispose: “Via di qua, satana! Perché sta scritto: Adorerai il Signore Dio tuo e servirai a Lui solo. „ “satana” vale quanto dire, nemico, avversario. Gesù, udita la esecrabile proposta, usando dell’impero sovrano della sua volontà, scaccia da sé il tentatore, ma senza appagare il desiderio cocente, che aveva di conoscere la sua persona. ” Via, gli grida, e sappi, che Dio solo si deve adorare, e tu stesso, miserabile caduto, lungi dal ricevere l’adorazione da chicchessia, la devi rendere piena e assoluta a Lui e Lui solo servire. „ Confuso, svergognato il tentatore si partì da Lui, “Ed ecco gli Angeli vennero a Lui e lo servirono. „ A Gesù, che esce dalla pugna vincitore del principe delle tenebre, quasi umili valletti muovono incontro gli Angeli ed offrono il conveniente ristoro all’affranta sua umanità e fanno plauso alla sua vittoria. Fugato l’angelo delle tenebre, si mostrano gli Angeli della luce e prestano l’opera loro a Colui, ch’essi riconoscono loro capo. In questa triplice tentazione si svolge la triplice concupiscenza: il demonio invita Gesù a secondare i desideri della natura e ad usare della sua potenza divina per appagarli; il demonio invita Gesù a confidare in sé, a sfidare temerariamente un pericolo, senza motivo, perché Dio lo libererà; il demonio infine lo invita a farsi signore della terra e a dare libero corso all’ambizione. Gesù sventa le arti del maligno e respinge le sue seduzioni ed i suoi assalti: Egli non discute mai col tentatore, non si cura delle sue promesse, perdura nel digiuno, ma gli getta alteramente in viso la parola di verità e tien sempre fissi gli occhi nella volontà del Padre suo, che è l’unica sua legge. Collocati su questo deserto della terra, ogni giorno alle prese con lo spirito malvagio, che tentò il nostro capo e modello, Gesù Cristo, vogliamo noi pure uscire trionfanti dalle nostre battaglie? Ecco il modo sicuro ed infallibile: combattiamo com’Egli ha combattuto; combattiamo cioè armati della fede e della fiducia in Dio, che non abbandona mai chi lo invoca con umiltà di cuore, non discutiamo col nemico, non curiamoci delle sue promesse e minacce, non porgiamo ascolto alle sue seduzioni: saldi per la fede a Dio, disprezziamo il tentatore e le tentazioni. – Il demonio, sollevando la tempesta nella nostra mente e nel nostro cuore, può bene travagliarci, molestarci, ma non può mai entrare nel nostro spirito, se noi con l’assenso nostro non gli apriamo la porta.

 Credo …

Offertorium

Orémus Ps XC:4-5:

Scápulis suis obumbrábit tibi Dóminus, et sub pennis ejus sperábis: scuto circúmdabit te véritas ejus. [Con le sue penne ti farà schermo, il Signore, e sotto le sue ali sarai tranquillo: la sua fedeltà ti sarà di scudo.]

Secreta

Sacrifícium quadragesimális inítii sollémniter immolámus, te, Dómine, deprecántes: ut, cum epulárum restrictióne carnálium, a noxiis quoque voluptátibus temperémus.

[Ti offriamo solennemente questo sacrificio all’inizio della quarésima, pregandoti, o Signore, perché non soltanto ci asteniamo dai cibi di carne, ma anche dai cattivi piaceri.]

Communio Ps XC:4-5

Scápulis suis obumbrábit tibi Dóminus, et sub pennis ejus sperábis: scuto circúmdabit te véritas ejus.

[Con le sue penne ti farà schermo, il Signore, e sotto le sue ali sarai tranquillo: la sua fedeltà ti sarà di scudo.]

Postcommunio

Orémus.

Qui nos, Dómine, sacraménti libátio sancta restáuret: et a vetustáte purgátos, in mystérii salutáris fáciat transíre consórtium. [Ci ristori, o Signore, la libazione del tuo sacramento, e, dopo averci liberati dall’uomo vecchio, ci conduca alla partecipazione del mistero della salvezza.]

 

DOMENICA DI QUINQUAGESIMA [2018]

Introitus Ps XXX: 3-4

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. – [Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guidami e assistimi.]

Ps XXX:2

In te, Dómine, sperávi, non confúndar in ætérnum: in justítia tua líbera me et éripe me. – [In Te, o Signore, ho sperato, ch’io non resti confuso in eterno: nella tua giustizia líberami e sàlvami.]

 

Esto mihi in Deum protectórem, et in locum refúgii, ut salvum me fácias: quóniam firmaméntum meum et refúgium meum es tu: et propter nomen tuum dux mihi eris, et enútries me. – [Sii mio protettore, o Dio, e mio luogo di rifugio per salvarmi: poiché tu sei la mia fortezza e il mio riparo: per il tuo nome guídami e assistimi.]

Orémus. Preces nostras, quaesumus, Dómine, cleménter exáudi: atque, a peccatórum vínculis absolútos, ab omni nos adversitáte custódi. [O Signore, Te ne preghiamo, esaudisci clemente le nostre preghiere: e liberati dai ceppi del peccato, preservaci da ogni avversità.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.

1 Cor XIII:1-13

“Fratres: Si linguis hóminum loquar et Angelórum, caritátem autem non hábeam, factus sum velut æs sonans aut cýmbalum tínniens. Et si habúero prophétiam, et nóverim mystéria ómnia et omnem sciéntiam: et si habúero omnem fidem, ita ut montes tránsferam, caritátem autem non habúero, nihil sum. Et si distribúero in cibos páuperum omnes facultátes meas, et si tradídero corpus meum, ita ut árdeam, caritátem autem non habuero, nihil mihi prodest. Cáritas patiens est, benígna est: cáritas non æmulátur, non agit pérperam, non inflátur, non est ambitiósa, non quærit quæ sua sunt, non irritátur, non cógitat malum, non gaudet super iniquitáte, congáudet autem veritáti: ómnia suffert, ómnia credit, ómnia sperat, ómnia sústinet. Cáritas numquam éxcidit: sive prophétiæ evacuabúntur, sive linguæ cessábunt, sive sciéntia destruétur. Ex parte enim cognóscimus, et ex parte prophetámus. Cum autem vénerit quod perféctum est, evacuábitur quod ex parte est. Cum essem párvulus, loquébar ut párvulus, sapiébam ut párvulus, cogitábam ut párvulus. Quando autem factus sum vir, evacuávi quæ erant párvuli. Vidémus nunc per spéculum in ænígmate: tunc autem fácie ad fáciem. Nunc cognósco ex parte: tunc autem cognóscam, sicut et cógnitus sum. Nunc autem manent fides, spes, cáritas, tria hæc: major autem horum est cáritas.” –

Omelia I

[Mons. Bonomelli, Nuovo Saggio di Omelie, vol. I, Marietti ed. Torino, 1899 – Om. XXV]

“Quand’io parlassi lingue di uomini e di angeli, se non ho carità, divento un rame sonoro e un cembalo tintinnante. Avessi anche profezia e intendessi tutti i misteri e tutta la scienza; e avessi anche tutta la fede fino a trasportare i monti, se non ho carità, sono un bel nulla. Spendessi pure tutte le mie facoltà in nutrire i poveri, e dessi alle fiamme il mio corpo, se non ho carità, tutto questo non mi giova nulla. La carità è longanime, è benigna; la carità non invidia, non è insolente, non si gonfia, non è scomposta, non cerca le cose proprie, non si inasprisce, non pensa male, non si rallegra della ingiustizia, ma della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sostiene. La carità non vien meno mai: le profezie avran fine, le lingue cesseranno e la scienza svanirà: perché ora conosciamo in parte e in parte profetiamo; ma quando tutto sarà perfetto, allora il parziale finirà. Allorché io era fanciullo, parlava da fanciullo, ragionava da fanciullo; ma allorché divenni uomo, ho smesse le cose da fanciullo. Finora vediamo le cose come in uno specchio, in enigma; ma allora vedremo faccia a faccia; finora conosco in parte, ma allora conoscerò come sono conosciuto. Queste tre cose durano al presente, fede, speranza e carità, ma la massima di queste è la carità „ (I. Cor. XIII, 1-13).

In questo tratto che vi ho recitato, voi avete l’intero capo decimoterzo della prima lettera di S. Paolo ai fedeli di Corinto. Voi stessi udendo queste sentenze, avrete compreso che in esse si racchiude un tesoro di sapienza pratica, un capolavoro di dottrina celeste. Mi duole che la strettezza del tempo mi tolga di sviluppare con qualche ampiezza questa sì sublime pagina dell’Apostolo: dovrò sfiorarla appena; ma la vostra attenzione supplisca alla brevità forzata del commento e approfondisca ciò ch’io avrò toccato di volo. – Nei primi tempi della Chiesa erano frequentissimi i doni straordinari tra i fedeli; doni di profezia, di diverse lingue, di conoscimenti dell’interno degli spiriti, di guarigioni miracolose; Dio ne era largo allora perché trattavasi di stabilire la fede: più tardi, scemando il bisogno, perché la fede era già stabilita, scemarono anche quei doni straordinari. Questi abbondavano nella Chiesa di Corinto, e san Paolo ne parla più volte, e dopo aver dato sapienti norme intorno all’uso di questi doni passa a dimostrare, che vi sono doni ben più eccellenti e desiderabili che quelli, dei quali i Corinti facevano tanto rumore, perché quei doni straordinari, anche sommi, sono nulla senza la carità, virtù regina e radice di tutte le altre, e qui comincia 1’insegnamento dell’Apostolo. Ascoltiamolo. – “Quand’io parlassi lingue di uomini e di Angeli, se non ho carità divento un rame sonoro e un cembalo tintinnante. Avessi anche profezia e intendessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi anche tutta la fede fino a trasportare i monti, se non ho carità, sono un bel nulla. „ Qui l’Apostolo vuol dimostrare che la carità, s’intende verso Dio e per conseguenza anche verso il prossimo, è la massima tra le virtù a talché senza di essa tutto il resto è inutile. Non occorre che vi dica, come questa carità, di cui parla l’Apostolo, stia riposta nel cuore e si traduca poi nelle opere. E gran cosa, così S. Paolo, parlare le lingue degli uomini, più gran cosa ancora sarebbe parlare la lingua degli Angeli e possedere il dono della profezia e penetrare tutti i misteri della terra e del cielo, grandissima cosa poi sarebbe aver tal fede da trasportare i monti. Chi non ammirerebbe l’uomo che tutto questo possedesse? chi non lo saluterebbe come un miracolo vivente? Ebbene, esclama l’Apostolo: vi dico che quest’uomo, se fosse privo di carità, non sarebbe altro che un rame, il quale percosso, dà un po’ di suono; sarebbe meno ancora, un nulla. Né qui si ferma l’Apostolo; ma, incalzando l’argomento, continua e dice: “Se spendessi tutte le mie facoltà in nutrire i poveri e dessi alle fiamme il mio corpo, se non ho carità tutto questo non mi giova nulla. „ Si direbbe che questa è una esagerazione, eppure è una verità indubitata. Come! direte voi: un uomo può dar tutte le sue sostanze ai poverelli, anzi dare la vita stessa e darla in mezzo alle fiamme e non avere carità e perdersi eternamente? Gesù Cristo non dice Egli nel Vangelo, che nessuno ha maggior carità di colui che dà la sua vita per il prossimo? Dare adunque la vita per il prossimo è avere la carità in grado sommo. Come dunque qui l’Apostolo suppone che altri si immoli per il prossimo e non abbia la carità e nulla gli giovi il sacrificio stesso della vita? come ciò può essere? Sì; quando un uomo facesse tutto questo, non per amore di Dio, per ubbidire a Lui, ma per ambizione, per orgoglio, per capriccio, per ostinazione e per altre cause somiglianti, certamente peccherebbe e anziché premio meriterebbe castigo, e qualche raro esempio di tanta follia non manca nella storia. I sacrifici che si fanno, anche i massimi, come quello delle sostanze e della vita, ricevono il valore e merito dal fine, dal motivo, per il quale si fanno; se non si fanno per Iddio, per la carità, che a Lui ci lega, che valgono? Nulla. Del resto S. Paolo in questo luogo non parla del fatto, ma fa un’ipotesi, come se dicesse: Posto pure che un uomo versasse tutti i suoi beni in seno agli indigenti fino a ridursi all’estrema miseria e che immolasse la sua vita istessa (cosa umanamente impossibile, se non ha la carità), tutto è gettato inutilmente. — Comprendete, o cari, qual sia il pregio della carità: con essa, tutto giova; senza di essa, nulla giova pel cielo. Qui S. Paolo, con uno di quei rapidi passaggi, che s’incontrano non raramente nelle sue lettere, prende a tratteggiare con mano maestra le qualità della carità cristiana. Consideriamole ad una ad una e non lo faremo senza frutto. – ” La carità è longanime. „ Chi ha il cuore ripieno di carità non solo possiede la pazienza, che è fortezza e grandezza d’animo, ma è longanime, cioè è temperato per modo che i dolori e le tribolazioni, per quanto siano lunghe ed aspre, non lo turbano e lo trovano sempre eguale. “La carità è benigna. „ La carità paziente, dice S. Bernardo, basta; ma la carità benigna colma la misura: la carità paziente ama quelli che tollera; la carità benigna, li ama ardentemente. La carità compone costantemente il viso a benevolenza inalterabile e mette sulle labbra parole di pace e d’amore. “La carità non invidia. „ Chi ama il prossimo per amore di Dio, lo ama come se stesso non conosce il tuo ed il mio e gode tanto del proprio come dell’altrui bene, e perciò non sa che cosa sia invidia. – “La carità non è insolente. La carità è sempre delicata e mette ogni studio in non recare offesa o dispiacere a chicchessia con atti, o parole, o in qualsiasi modo, perché il dispiacere altrui è dispiacere proprio; perciò serba la giusta misura in ogni cosa, sempre tranquilla e modesta. – “La carità non si gonfia. „ La vanità, l’orgoglio, l’arroganza sono frutti della mala pianta dell’amor proprio sregolato; questo domato e ridotto alla obbedienza, regna la carità, che è sempre umile, mansueta, dolce con tutti. – “La carità non è scomposta. „ La virtù che tutte le altre contiene e avviva, la carità, è madre dell’ ordine e dell’armonia in ogni cosa, e perciò elimina dolcemente ogni durezza, ogni scabrosità, tutto ciò che sia o sembri meno decente; essa, come dice graziosamente il Crisostomo, con le sue ali d’oro, copre i difetti di tutti quelli che abbraccia. – “La carità non cerca il suo interesse. Se noi volgiamo intorno gli occhi, vediamo che pur troppo gli uomini cercano le cose loro, quærunt quæ sua sunt. Per sé gli onori, per sé le ricchezze, per sé i piaceri, per sé ogni cosa: il loro io è il centro a cui convergono tutti i loro pensieri, desideri! e sforzi: la carità inverte le parti: dimentica sé per gli altri, ama dare più che ricevere, simile a Dio che dà a tutti sempre e largamente. – “La carità non si inasprisce, non pensa male. „ Certamente chi ama, fa opera di rimuovere dalla persona amata qualunque male e si ingegna di procurarle ogni bene: per far ciò non è raro che sia necessario usare modi fermi ed austeri e ricorrere a mezzi spiacevoli e dolorosi: il medico che vuole la guarigione dell’infermo, lo tormenta col ferro e col fuoco; il padre che vuole 1’emenda del figlio riottoso, lo rimprovera e punisce. Forseché diremo che qui la carità si inasprisce? No, mai, carissimi. Essa, anche quando castiga e ferisce e flagella è sempre dolce e amabile e trova mille vie per far sentire e toccare, che ama e fa tutto per amore. L’occhio, l’accento, l’atteggiamento, il tutto della persona vi dice che è sempre l’amore che opera, tanto più caro e ardente in quanto che soffre e fa soffrire suo malgrado, onde è vero il detto del poeta: “Né per sferza è però madre men pia”. – La carità non tradisce mai la verità, e se altri apertamente fa male, non dirà, né penserà che faccia bene, no, per fermo. Ma se nel fratello che fa male può supporre l’inavvertenza, la buona fede, un fine lodevole, un errore involontario, ella sarà ben lieta di pensarlo e dirlo, perché non pensa male se non forzata dalla verità e sempre a malincuore. – “La carità non si rallegra della ingiustizia, ma della verità. „ Sante parole! L’anima è fatta per la virtù, per la giustizia e per la verità, come l’occhio per la luce e l’orecchio per l’armonia, e per ciò essa gode e si letizia di tutto ciò che è conforme a virtù, a giustizia e a verità: è la sua musica, è la sua gioia più pura. Figliuoli, amate sempre la verità e la giustizia, fuggite e abbominate la menzogna e l’ingiustizia dovunque appariscano. . “La carità tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sostiene. „ L’uomo informato alla vera carità tutto copre, cioè dissimula fin dove è possibile gli altrui difetti e pietosamente nasconde i loro falli, è inchinevole a credere alle altrui parole, perché tutti reputa buoni, spera sempre bene di tutti e tutti amorevolmente tollera senza lagnarsi e tollera perché spera. Non è poi mestieri l’osservare, che tutto si deve credere e tutto sperare secondo ragione e verità, perché dove la ragione e la verità non permettono il credere e lo sperare, sarebbe debolezza e stoltezza il credere e lo sperare, giacché non è mai virtù quella che si scompagna dalla verità. La Scrittura santa ci insegna che è leggero chi crede tosto senza motivi sufficienti. Ricordatelo bene, o dilettissimi. La religione non ci obbliga mai ad operare contro ragione, perché anche questa, come la religione, viene da Dio, e se noi prestassimo fede a tutto ciò che si dice, senza assicurarci della verità delle cose, meritamente cadremmo in disprezzo e offenderemmo la religione stessa. – L’Apostolo prosegue ancora enumerando altri pregi della carità in confronto degli altri doni sopra accennati della profezia, delle lingue e della scienza, e dice: “La carità non viene mai meno; le profezie avranno termine, le lingue cesseranno, e la scienza svanirà. „ Tutti questi doni, benché eccellenti, sono ristretti alla vita presente: sono mezzi più o meno efficaci per condurci a Dio, e alla morte cesseranno, ma non cesserà la carità. L’amore verso Dio e le sue immagini vive, acceso nelle anime qui in terra, allorché entreremo in cielo, si purificherà, crescerà a dismisura e durerà per tutti i secoli. – “Ora conosciamo in parte e in parte profetiamo, ma quando tutto sarà perfetto, allora finirà ciò che è parziale. „ Che cosa è la scienza nostra qui in terra? E una favilla, tenue favilla in confronto del sole: la nostra scienza quaggiù in terra, sia quanto vi piace grande e acuta, è sempre circoscritta a poche cose, mista a dubbi ed errori e mutevole: la profezia poi, che è parte della scienza infusa, non dà il conoscimento che di alcuni punti del futuro. Ebbene: quando porremo piede in cielo, spariranno tutti questi limiti e queste imperfezioni: alla scienza incerta e limitata, alla profezia sottentrerà la scienza piena e perfetta, perché tutto vedremo senza velo in Dio. — Qui l’Apostolo rischiara la cosa con una immagine graziosa e semplicissima. ” Quand’io ero fanciullo, parlavo da fanciullo, giudicavo da fanciullo, ragionavo da fanciullo; ma come divenni uomo, smisi ciò che era da fanciullo. „ È cosa che ciascuno di noi ha sperimentato. Il nodo di pensare, di operare, di ragionare varia secondo gli anni: a sei, a sette, a dieci, a dodici anni quali erano i nostri pensieri, discorsi e giudizi? Ditelo voi. Crescemmo e toccammo i quindici, i venti, i trent’anni; senza accorgerci, li mutammo in altri e certamente migliori e degni d’uomini fatti; passammo dall’imperfetto al perfetto relativo, dal fanciullesco al virile; così, dice S. Paolo, e in nodo ben più perfetto, ci muteremo, passando dalla terra al cielo. – Alcuni talvolta rinfacciano ad altri d’aver mutato, come se il mutarsi per se stesso fosse cosa biasimevole. Conviene distinguere: se si muta il vero in falso, il bene in male, è certo cosa altamente biasimevole; ma se si muta il falso in vero, il male in bene, l’imperfetto in perfetto, il bene in meglio, il meglio in ottimo, chi vorrà farne biasimo? Ogni cognizione che acquisto è un mutamento nell’anima mia, e in questo senso tutti ci mutiamo e sarebbe da stolti muoverne lamento o farne le meraviglie. – “Finora vediamo per ispecchio. in enigma. „ Nell’ordine presente del tempo vediamo le cose per riflesso, quasi in nube, come 1’immagine nello specchio; ma in cielo “vedremo faccia a faccia, cioè direttamente, senza mezzo, come sono in se medesime. Ora conosco in parte, ma allora conoscerò come sono conosciuto, ., non già con la perfezione infinita, con cui Dio conosce me (cosa impossibile), ma sì per modo diretto, senz’ombra di mezzo creato, e in Lui e per Lui conoscerò tutto quello che mi sarà possibile di conoscere. – “Queste tre cose, conchiude l’Apostolo, durano al presente, fede, speranza e carità, ma di queste la carità è la maggiore: „ la maggiore per le cose sopra dette. Carissimi! Dio è carità, come insegna san Giovanni; figli di Dio, figli della carità, mostriamoci tali costantemente nelle parole e nelle opere, che questo è il compimento della legge.

 Graduale : Ps LXXVI:15; LXXVI:16

Tu es Deus qui facis mirabília solus: notam fecísti in géntibus virtútem tuam. . [Tu sei Dio, il solo che operi meraviglie: hai fatto conoscere tra le genti la tua potenza.]

Liberásti in bráchio tuo pópulum tuum, fílios Israel et Joseph

[Liberasti con la tua forza il tuo popolo, i figli di Israele e di Giuseppe.]

Tratto: Ps XCIX:1-2

Jubiláte Deo, omnis terra: servíte Dómino in lætítia, V. Intráte in conspéctu ejus in exsultatióne: scitóte, quod Dóminus ipse est Deus. V. Ipse fecit nos, et non ipsi nos: nos autem pópulus ejus, et oves páscuæ ejus.

[Acclama a Dio, o terra tutta: servite il Signore in letizia. V. Entrate alla sua presenza con esultanza: sappiate che il Signore è Dio. V. Egli stesso ci ha fatti, e non noi stessi: noi siamo il suo popolo e il suo gregge.]

Evangelium

Luc XVIII:31-43

“In illo témpore: Assúmpsit Jesus duódecim, et ait illis: Ecce, ascéndimus Jerosólymam, et consummabúntur ómnia, quæ scripta sunt per Prophétas de Fílio hominis. Tradátur enim Géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et postquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intellegébant quæ dicebántur. Factum est autem, cum appropinquáret Jéricho, cæcus quidam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam prætereúntem, interrogábat, quid hoc esset. Dixérunt autem ei, quod Jesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Jesu, fili David, miserére mei. Et qui præíbant, increpábant eum, ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans autem Jesus, jussit illum addúci ad se. Et cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Jesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit, et sequebátur illum, magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit laudem Deo.” –

Omelia II

[Mons. Bonomelli, Nuovo Saggio di Omelie, vol. I, Marietti ed. Torino, 1899 – Om. XXVI]

“Presi seco i dodici, Gesù disse loro: Ecco noi andiamo a Gerusalemme e tutte le cose scritte dai profeti intorno al Figliuol dell’uomo, saranno compiute. Perocché egli sarà dato in mano ai gentili, vilipeso, flagellato e sputacchiato. E poiché l’avranno flagellato, l’uccideranno e il terzo dì risorgerà. Ma essi non compresero nulla di queste cose, perché questo ragionamento era loro occulto e non intendevano le cose dette loro. Avvicinandosi a Gerico, avvenne, che un certo cieco stava lungo la via, chiedendo la limosina. Ora, questi, udito il rumore della folla che passava, domandò che cosa fosse, e gli risposero che passava Gesù di Nazaret. Allora egli si pose a gridare: Gesù, figliuolo di Davide, abbi pietà di me. E quelli che andavano innanzi lo sgridavano affinché tacesse. E Gesù, fermatosi, comandò che gli fosse menato, e come gli fu presso, lo interrogò, dicendo: Che vuoi ch’io ti faccia? e quegli: Signore, ch’io riabbia la vista. E Gesù gli disse: Vedi; la tua fede ti ha fatto salvo. E incontanente riebbe la vista e lo seguitava, glorificando Iddio; e tutto il popolo, veduto ciò, diede lode a Dio.„

È questo, o carissimi, l’odierno Vangelo, che la Chiesa ci propone a meditare in questa Domenica detta di Quinquagesima. Esso si divide in due parti ben distinte tra di loro: nella prima si contiene l’annunzio chiarissimo che Gesù Cristo fa della prossima sua passione, morte e risurrezione: nella seconda si narra il miracolo operato da Gesù Cristo presso a Gerico nella persona d’un cieco. Tutto questo avvenne nell’ultimo viaggio di Gesù Cristo dalla Galilea a Gerusalemme, poco prima della sua entrata trionfale in quella città. — Veniamo alla spiegazione. – “Presi seco i dodici, Gesù disse loro: Ecco noi entriamo a Gerusalemme e tutte le cose scritte dai profeti intorno al Figliuol dell’uomo saranno compiute. „ Gesù aveva settantadue discepoli e dodici Apostoli, che più o meno lo seguivano dovunque, massime verso la fine di sua vita; i dodici Apostoli poi erano ammessi a speciali confidenze, come tre fra i dodici erano ammessi a specialissime; è cosa manifesta dai Vangeli. Gesù adunque dalla Galilea movendo verso Gerusalemme per l’ultima volta, ebbe a sé i dodici Apostoli e disse loro chiaramente che i vaticini dei profeti intorno alla sua Persona erano prossimi a compirsi, e venendo più al particolare intorno a questi vaticini, soggiunse: “Il Figliuol dell’uomo, cioè l’uomo che vi parla, sarà consegnato ai gentili, e vilipeso, e flagellato, e sputacchiato, e poiché l’avranno flagellato, l’uccideranno e il terzo dì risorgerà. „ Ecco, o dilettissimi, una profezia sovra ogni altra splendidissima. Che cosa si domanda per avere una profezia nel senso rigoroso della parola e una prova divina della verità? Si domanda che si annunzi in termini chiari una cosa futura; una cosa futura affatto impossibile a prevedersi con la ragione umana, e che la cosa annunziata avvenga nel tempo, luogo e modo determinati. Ora queste parole di Gesù Cristo contengono esse una profezia, che abbia tutti questi caratteri? Indubitatamente. Gesù Cristo annunzia la vicina sua morte accompagnata da circostanze particolarissime: doveva avvenire in Gerusalemme, fra breve, per opera degli Ebrei e dei gentili, dopo essere stato vilipeso, flagellato, sputacchiato. Più: predice nettamente la risurrezione e ne fissa il giorno. Tutto questo poteva Egli predire, umanamente ragionando? No: perché tutto questo dipendeva dalla volontà altrui, volontà libera, che poteva fare e non fare a quel modo, e nessuno aveva manifestato e forse allora non ci pensava nemmeno. I termini, coi quali Gesù Cristo  annunzia tutto questo, non hanno ombra di incertezza, di ambiguità: la chiarezza non potrebbe essere maggiore. Dodici persone ascoltano quel vaticinio, lo riferiscono e ne sono testimoni oculari, e tanta è la certezza loro quanto all’adempimento, che tutti, a loro tempo morranno per Lui, che lo predisse. E il fatto della passione, della morte e della risurrezione, sì complesso e sì determinato, avvenne come fu predetto? Il mondo intero lo attesta. Noi dunque abbiamo in queste parole di Gesù una magnifica profezia adempiuta letteralmente e per conseguenza una prova luminosissima della sua divinità, perché Dio solo poteva conoscere tutto questo cumulo di fatti. Direte: Questa profezia prova che Gesù Cristo poteva essere ed era profeta, non mai che fosse Dio. Moltissimi furono i profeti, ma nessuno dalle loro profezie argomentò che essi fossero Dio. Obbiezione facilissima a sciogliersi: Molti, moltissimi furono i profeti, ma nessuno di loro disse: Io sono il Figliuolo di Dio e Dio. Solo l’affermò chiaramente e ripetutamente Gesù Cristo: le profezie pertanto fatte e perfettamente adempiute mostrano la sua divinità, se non vogliamo dire che Dio concorre col miracolo a provare 1′ errore e la bestemmia, e massimo errore, massima bestemmia sarebbe l’affermazione di Gesù: Io sono Dio! E perché Gesù Cristo volle fare agli Apostoli questa profezia? Evidentemente per prepararli a quella prova terribile, per togliere o almeno scemare l’effetto dello scandalo che la loro debolezza doveva risentire alla vista della sua morte obbrobriosa e per dar loro in mano un argomento perentorio della sua divina missione. “Voi vedete, così S. Giovanni Crisostomo fa parlare Gesù Cristo, voi vedete che volontariamente io vo alla morte. Allorché mi vedrete confitto in croce, badate di non considerarmi come un semplice uomo, perché se il poter morire è da uomo, il voler morire non è da uomo. „ Questa profezia pertanto era un atto di bontà e di misericordia coi suoi Apostoli, era un temperare la ferita acerbissima che avrebbero provato alla vista dello scempio e della morte crudelissima del divino Maestro. E perché Gesù Cristo disse tutto ai soli Apostoli e non a tutti i suoi discepoli e alle turbe che lo seguivano? Altre volte ciò aveva fatto, sebbene in modo men chiaro: poi, dicendolo ai dodici Apostoli, in qualche modo lo faceva conoscere anche agli altri, e forse con ciò volle dar loro un segno peculiare del suo amore. – Che dissero e fecero gli Apostoli, udendo quelle parole di Gesù Cristo? Non lo crederemmo se non lo leggessimo registrato nel Vangelo. “Essi non compresero nulla di queste cose, perché questo ragionamento era loro occulto e non intendevano le cose dette loro. „ Come ciò, o dilettissimi ? Forseché non capivano il senso materiale delle parole e non sapevano che cosa fosse l’essere dato in mano ai gentili, essere vilipeso, flagellato, sputacchiato, morire e risorgere? Certo che sì: essi comprendevano troppo bene il significato naturale delle parole, ma non comprendevano, non sapevano persuadersi che tutto questo avesse a compirsi nella persona del divino Maestro. Lo amavano, lo adoravano: attendevano da Lui la ristorazione del regno temporale d’Israele, aspettavano il suo trionfo tutto alla foggia ebraica, cioè materiale: come dunque comprendere tante umiliazioni, la morte, la risurrezione di Gesù Cristo? Non ricusavano fede alle parole di Lui, credevano anche, ma non potevano comporre tutte queste cose che a loro sembravano ripugnanti: confusi, sbigottiti, afflitti ascoltavano e tacevano: solamente i fatti avrebbero potuto snodare 1e loro difficoltà e illuminarli, e così avvenne. – Intanto ammiriamo la schiettezza veramente meravigliosa degli Evangelisti, che non esitarono a narrare tanta ignoranza degli Apostoli e a farla conoscere a tutto il mondo, e da loro apprendiamo noi pure ad amare la sincerità, ancorché ci costi assai, e a confessare, quando occorra, i nostri falli senza arrossire. Questo fatto della ignoranza degli Apostoli è anche una grande lezione per noi tutti. Gli Apostoli, formati alla scuola stessa di Gesù Cristo, non avevano ancora compreso la sostanza del suo insegnamento, che si riduce pressoché tutto alla scienza della croce: qual meraviglia pertanto che anche al giorno d’oggi molti cristiani si mostrino ripugnanti alla dottrina e alla pratica della croce, che è il succo del Vangelo? È dunque ben giusto che siam pieni di compatimento verso tanti cristiani ignoranti, pensando che lo erano anche gli Apostoli istruiti da Gesù Cristo istesso. S. Luca passa alla narrazione del miracolo del cieco, avvenuto presso Gerico (S. Matteo [XX, 29] e S. Marco [X, 46] parlano di due ciechi guariti da Gesù Cristo, e qui S. Luca d’un solo. Sembra certo che siano stati guariti l’uno nell’entrare, l’altro nell’uscire da Gerico; quei due Evangelisti li mettono insieme, S. Luca parla solamente del primo.). “Nell’accostarsi a Gerico, avvenne che un certo cieco stava lungo la via, domandando la limosina.„ Il Vangelista qui non dice il suo nome, ma è forse quel figliuolo di Timeo, del quale scrive S. Luca: come sogliono fare i ciechi poveri sedeva lungo la via, tendendo la mano e chiedendo la limosima a quanti passavano. – Il povero cieco udì l’insolito rumore della turba che precedeva e seguitava Gesù Cristo: tese l’orecchio, s’accorse di qualche cosa di straordinaria che avveniva e stimolato dalla naturale curiosità, a quelli che erano più presso, domandò che cosa fosse. E tosto gli fu risposto: “Che passava Gesù di Nazaret. „ Appena ebbe udito quel nome, che più volte era risuonato ai suoi orecchi come quello di un gran profeta, d’un taumaturgo, del Messia aspettato, nella sua mente balenò un lampo di speranza, anzi la certezza di riacquistare la vista. Levandosi, agitando le mani e muovendosi come poteva alla volta di Gesù, con quanta voce aveva in petto, gridava: “Gesù, figliuolo di Davide, abbi pietà di me. „ Semplicissima e sublime preghiera, che la fede e la speranza della guarigione mettono sulle labbra del poverello, che riconosce in Gesù il Figliuolo di Davide, ossia l’aspettato Salvatore del mondo. Egli gridava per modo, che i vicini stimarono bene dargli sulla voce e imporgli silenzio, parendo loro che turbasse tutti e particolarmente Gesù Cristo. Ma più gli si intimava di tacere e più alta egli levava la voce, ripetendo sempre il suo grido: “Figliuol di Davide, abbi pietà di me. „ Figliuoli amatissimi! questo cieco, che non fa che ripetere la stessa preghiera sì bella e sì eloquente, è un perfetto modello del modo con cui dobbiamo innalzare a Dio le nostre preci, con fede viva, con perseveranza, senza rispetti umani. Allora Gesù, udendo quelle grida e forse pregatone dai vicini, si fermò e con lui si fermò quella turba che lo accompagnava. Il cieco brancolando, condotto a mano da alcuni pietosi, commosso, anelante, fu ai piedi di Gesù, ripetendo sempre il suo grido: ” O Gesù, abbi pietà di me. „ Avutolo a sé vicino, Gesù, con voce amorevole, gli disse: “Che vuoi tu che ti faccia? „ Senza dubbio Gesù Cristo conosceva ciò che tutti conoscevano, la cecità del meschinello: Egli leggeva nel cuore di lui il desiderio, la domanda che voleva fare; ma volle che la facesse, sia perché apparisse meglio il miracolo, sia perché voleva che con la domanda i n qualche modo meritasse la guarigione. Il cieco, non appena ebbe udita la domanda di Gesù, con quell’ardore dell’anima, che potete immaginare e che tutto gli traspariva sul volto, rispose con tre sole parole: “Domine, ut videam — Signore, la vista. „ Quanta semplicità, quanta fede e quanta forza in queste parole: Signore, la vista! — Il momento era sublime: la turba si accalcava intorno a Gesù ed al cieco: i lontani si premevano per avvicinarsi, si levavano in punta di piedi per vedere: il silenzio assoluto e mille occhi erano fissi sopra il Salvatore e sopra il cieco, che, levando il viso, aspettava ansante una parola, la parola del miracolo. E Gesù la disse: “Vedi. „ Quella parola fu come un lampo, aperse gli occhi del cieco, che furono inondati di luce: attonito, fuor di sé per la gioia, gettò un grido di gratitudine, di amore, a cui si unirono le acclamazioni e gli applausi della folla, che glorificava Dio. Il miracolo è operato sulla pubblica via, alla presenza, sotto gli occhi di numerosissimo popolo, con una sola parola: “Respice — Vedi. „ È narrato da testimoni di veduta, che credono essi stessi in Gesù fino a morire per Lui. Chi potrà mai dubitare della virtù divina dell’operatore? Gesù Cristo attribuì il miracolo alla fede del cieco: “La tua fede ti ha salvato, „ cioè risanato; e in un senso è vero, perché se il cieco non avesse avuto fede in Lui, non avrebbe domandato il miracolo e Gesù non l’avrebbe operato. Carissimi! se non sono molti i ciechi degli occhi corporei, pur troppo moltissimi sono i ciechi degli occhi della mente: son ciechi tanti fratelli nostri, che hanno perduto la fede o che ne dubitano: son ciechi tanti, che, pure avendola, non si curano di operare secondo i suoi dettati: son ciechi tanti, che, dimentichi dei veraci beni del cielo, corrono dietro ai fallaci della terra, schiavi dell’orgoglio e della vanità, della gola e della lussuria e di tante altre passioni. – Deh! che tutti questi ciechi si alzino, si accostino a Gesù e, col cieco di Gerico, gridino a Lui: “Signore, la vista della mente, della fede, „ e Gesù che non rimandò mai un solo inesaudito e sconsolato, dirà loro: “Vedete; la vostra fede vi ha salvati. „

Credo

Offertorium

Orémus Ps CXVIII: 12-13

Benedíctus es, Dómine, doce me justificatiónes tuas: in lábiis meis pronuntiávi ómnia judícia oris tui. [Benedetto sei Tu, o Signore, insegnami i tuoi comandamenti: le mie labbra pronunciarono tutti i decreti della tua bocca.]

Secreta

Hæc hóstia, Dómine, quaesumus, emúndet nostra delícta: et, ad sacrifícium celebrándum, subditórum tibi córpora mentésque sanctíficet. [O Signore, Te ne preghiamo, quest’ostia ci purifichi dai nostri peccati: e, santificando i corpi e le ànime dei tuoi servi, li disponga alla celebrazione del sacrificio.]

Communio Ps LXXVII:29-30

Manducavérunt, et saturári sunt nimis, et desidérium eórum áttulit eis Dóminus: non sunt fraudáti a desidério suo. [Mangiarono e si saziarono, e il Signore appagò i loro desiderii: non furono delusi nelle loro speranze.]

Postcommunio

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus: ut, qui coeléstia aliménta percépimus, per hæc contra ómnia adversa muniámur. Per eundem … [Ti preghiamo, o Dio onnipotente, affinché, ricevuti i celesti alimenti, siamo muniti da questi contro ogni avversità.]

DOMENICA DI SESSAGESIMA [2018]

Incipit 
In nómine Patris,  et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLIII:23-26

Exsúrge, quare obdórmis, Dómine? exsúrge, et ne repéllas in finem: quare fáciem tuam avértis, oblivísceris tribulatiónem nostram? adhaesit in terra venter noster: exsúrge, Dómine, ádjuva nos, et líbera nos. [Risvégliati, perché dormi, o Signore? Déstati, e non rigettarci per sempre. Perché nascondi il tuo volto diméntico della nostra tribolazione? Giace a terra il nostro corpo: sorgi in nostro aiuto, o Signore, e líberaci.]

Ps XLIII:2 – Deus, áuribus nostris audívimus: patres nostri annuntiavérunt nobis. [O Dio, lo udimmo coi nostri orecchi: ce lo hanno raccontato i nostri padri.]

Oratio

Orémus.

Deus, qui cónspicis, quia ex nulla nostra actióne confídimus: concéde propítius; ut, contra advérsa ómnia, Doctóris géntium protectióne muniámur. – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

[O Dio, che vedi come noi non confidiamo in alcuna òpera nostra, concédici propizio d’esser difesi da ogni avversità, per intercessione del Dottore delle genti. – Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. R. – Amen.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.

2 Cor XI:19-33; XII:1-9.

“Fratres: Libénter suffértis insipiéntens: cum sitis ipsi sapiéntes. Sustinétis enim, si quis vos in servitútem rédigit, si quis dévorat, si quis áccipit, si quis extóllitur, si quis in fáciem vos cædit. Secúndum ignobilitátem dico, quasi nos infírmi fuérimus in hac parte. In quo quis audet, – in insipiéntia dico – áudeo et ego: Hebraei sunt, et ego: Israelítæ sunt, et ego: Semen Abrahæ sunt, et ego: Minístri Christi sunt, – ut minus sápiens dico – plus ego: in labóribus plúrimis, in carcéribus abundántius, in plagis supra modum, in mórtibus frequénter. A Judaeis quínquies quadragénas, una minus, accépi. Ter virgis cæsus sum, semel lapidátus sum, ter naufrágium feci, nocte et die in profúndo maris fui: in itinéribus sæpe, perículis fluminum, perículis latrónum, perículis ex génere, perículis ex géntibus, perículis in civitáte, perículis in solitúdine, perículis in mari, perículis in falsis frátribus: in labóre et ærúmna, in vigíliis multis, in fame et siti, in jejúniis multis, in frigóre et nuditáte: præter illa, quæ extrínsecus sunt, instántia mea cotidiána, sollicitúdo ómnium Ecclesiárum. Quis infirmátur, et ego non infírmor? quis scandalizátur, et ego non uror? Si gloriári opórtet: quæ infirmitátis meæ sunt, gloriábor. Deus et Pater Dómini nostri Jesu Christi, qui est benedíctus in saecula, scit quod non méntior. Damásci præpósitus gentis Arétæ regis, custodiébat civitátem Damascenórum, ut me comprehénderet: et per fenéstram in sporta dimíssus sum per murum, et sic effúgi manus ejus. Si gloriári opórtet – non éxpedit quidem, – véniam autem ad visiónes et revelatiónes Dómini. Scio hóminem in Christo ante annos quatuórdecim, – sive in córpore néscio, sive extra corpus néscio, Deus scit – raptum hujúsmodi usque ad tértium coelum. Et scio hujúsmodi hóminem, – sive in córpore, sive extra corpus néscio, Deus scit:- quóniam raptus est in paradisum: et audivit arcána verba, quæ non licet homini loqui. Pro hujúsmodi gloriábor: pro me autem nihil gloriábor nisi in infirmitátibus meis. Nam, et si volúero gloriári, non ero insípiens: veritátem enim dicam: parco autem, ne quis me exístimet supra id, quod videt in me, aut áliquid audit ex me. Et ne magnitúdo revelatiónem extóllat me, datus est mihi stímulus carnis meæ ángelus sátanæ, qui me colaphízet. Propter quod ter Dóminum rogávi, ut discéderet a me: et dixit mihi: Súfficit tibi grátia mea: nam virtus in infirmitáte perfícitur. Libénter ígitur gloriábor in infirmitátibus meis, ut inhábitet in me virtus Christi.”

Deo gratias.

Omelia I

[Mons. Bonomelli, Nuovo saggio di Omelie, Marietti ed. – Torino, 1899, vol. I, om. XXIII – imprim.]

“Essendo voi savi, volentieri sopportate gli insipienti. E invero, se alcuno vi tratta da schiavi, se alcuno vi divora, se alcuno vi raggira, se alcuno si innalza, se alcuno vi schiaffeggia, voi lo sopportate. Lo dico a vergogna, come se noi da questo lato fossimo deboli: eppure in ciò, onde altri si vanta (lo dico da pazzo), anch’io me ne vanto. Sono essi Ebrei? Io ancora. Son essi Israeliti? Io ancora. Sono progenie di Abramo? Io ancora. Sono essi ministri di Cristo? Parlo da pazzo: io lo sono più di loro: nei travagli più sbattuto, nelle carceri più macerato di loro, nelle battiture oltre ogni misura, spesso nelle fauci della morte. Dai Giudei cinque volte ricevetti quaranta colpi, meno uno; tre volte fui vergheggiato, una volta lapidato, tre volte naufragai, restando un dì ed una notte in balia del mare. Spesse volte in viaggi, in pericoli di fiumi, in pericoli di ladroni, in pericoli da quelli della mia nazione, in pericoli dai gentili, in pericoli in città, in pericoli in luoghi deserti, in pericoli in mare, in pericoli tra falsi fratelli: tra fatiche e calamità, in veglie, in fame e sete, in prolungati digiuni, in freddo e nudità: oltre alle cose esterne, l’ansia che porto di tutte le Chiese, mi stringe. Chi mai è debole, ch’io non sia debole con lui? Chi è scandalizzato, ch’io non ne bruci? Se conviene vantarsi, io vanterò gli effetti della mia debolezza. Dio e Padre del Signor nostro Gesù Cristo, che sia benedetto in eterno, sa ch’io non mentisco. In Damasco, il capo della mia nazione, governatore del re Areta, aveva poste guardie nella città dei Damasceni per pigliarmi. Ma io fui calato dal muro per una finestra, in una sporta e così scampai dalle sue mani. Se mette conto gloriarmi (non è certo spediente), verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un cristiano, il quale quattordici anni or sono, fu rapito (se nel corpo o fuori del corpo, io non lo so, lo sa Iddio) fino al terzo cielo; so che quest’uomo (se nel corpo o fuori del corpo, io non lo so, lo sa Iddio) fu rapito in paradiso e vi udì parole ineffabili, che a nessun uomo è lecito profferire. Io mi glorierò di quel tale, ma non mi glorierò di me stesso, se non nelle mie debolezze. Perocché s’io volessi gloriarmi, non sarei stolto, perché direi il vero; tuttavia me ne rimango, affinché altri non mi stimi da più di ciò, che vede in me, od ode cosa di me. E perché l’altezza delle rivelazioni non mi faccia salire in orgoglio, mi fu dato un pungolo nella mia carne, un ministro di satana che mi tormenti. Onde tre volte ho pregato il Signore perché quello si partisse da me, e mi disse: Ti basti la mia grazia, perché la potenza si compie nella debolezza. Di gran cuore adunque mi glorierò delle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo alberghi in me „ (II. Cor. XI, 19-33; XII, 1-9).

Non ho potuto dispensarmi dal riportare tutto intero questo tratto abbastanza lungo della epistola odierna per attenermi alla consuetudine universalmente stabilita. D’altra parte in questo tratto dell’epistola, che avete udito, vi è tanta forza, tanto calore, tanto nerbo di eloquenza popolare e serrata da gareggiare con i sommi oratori, ed era mio dovere farvelo gustare nella nativa sua semplicità e robustezza. Si direbbe che in queste in due pagine il grande Apostolo volle versare tutta l’anima sua, anima di fuoco. – Voi comprendete che la strettezza del tempo non mi permette di commentare ad uno ad uno questi ventiquattro versetti, come siam soliti fare: in quella vece, assommando insieme le cose dette dall’Apostolo, mi studierò di cavarne alcuni punti, che ne sono come la sostanza e il succo, e li verremo meditando insieme. S. Paolo aveva fondato la Chiesa di Corinto, composta di gentili e in parte di Ebrei ivi stabiliti. Quella Chiesa era fiorente, come apparisce dalle lettere dell’Apostolo; ma ben presto vi nacquero dei partiti, per sopire i quali S. Paolo scrisse la sua prima lettera. Poco appresso vi si recò Tito e ne recò ottime notizie all’Apostolo; ma dovette pure riferirgli che a Corinto non erano interamente cessati i dissidi e che colà v’erano ancor molti, massime Ebrei convertiti, i quali combattevano lo stesso Apostolo, lo gridavano nemico di Mosè e delle istituzioni nazionali ed osavano mettere in dubbio la sua missione e dignità di Apostolo. – Scopo della lettera, particolarmente nella parte recitàtavi, è di mostrare con le opere la sua dignità di Apostolo e che non ha fatto meno degli altri, anzi più degli altri, e tesse a rapidi tocchi le incredibili fatiche e i patimenti senza numero e senza nome, che sostenne per la causa di Gesù Cristo e per la salvezza delle anime. Si direbbe che l’Apostolo volesse fare il più splendido panegirico delle proprie imprese e gloriose conquiste. Da tutto questo noi apprendiamo in primo luogo, che i maggiori santi, lo stesso Apostolo per eccellenza, permettendolo Iddio, quaggiù non vanno immuni dalle contraddizioni e dalle prove più dure. S. Paolo, quest’uomo meraviglioso per l’ingegno e per la tempra d’acciaio della sua volontà, in un istante si decide di lasciare il mosaismo, di cui era campione fanatico e si fa discepolo di Gesù Cristo: chiamato da Lui stesso all’apostolato, affronta ogni sorta di nemici, Giudei e gentili; soffre esili e carceri, è vergheggiato e lapidato: la sua è la vita più travagliosa che si possa immaginare: va da Damasco ad Antiochia, a Tarso, a Gerusalemme, in Arabia, ritorna a Gerusalemme; poi ripiglia i suoi viaggi nell’Asia Minore, a Cipro, in Grecia, in Macedonia, e poi rifà il viaggio per Gerusalemme, poi rivede le Chiese fondate e carico di catene è condotto a Roma. È quasi impossibile narrare tutte le fatiche e le opere apostoliche di quest’uomo straordinario. Eppure questo apostolo, questo vaso di elezione, non sfugge alle censure, alle accuse, alle calunnie dei Cristiani, forse da lui stesso convertiti: si vede caduto in sospetto di nemico di Mosè e della legge, di falso apostolo, è obbligato a difendersi e ricordare i titoli della divina sua missione. Quali conseguenze dobbiamo dedurre, o cari? Parecchie, e questa in primo luogo: che gli uomini stessi più virtuosi, più fedeli ai loro doveri, attese le debolezze, l’ignoranza e le passioni comuni, devono rassegnarsi a vedere bene spesso travisate le loro intenzioni, anche più rette, e non meravigliarsi d’essere fatti segno essi medesimi di calunnie e persecuzioni. Basti loro la testimonianza della coscienza retta dinanzi a Dio, e da Lui aspettino pazientemente la giustizia, che tardi o tosto deve pur venire. Tengano dinanzi agli occhi della fede l’esempio luminoso dell’Apostolo, che ebbe feroci avversari tra gli stessi Cristiani. In secondo luogo consideriamo qual fu la condotta dell’Apostolo accusato e calunniato. – Si danno casi, nei quali chi è accusato e calunniato può tacere e rimetter a Dio la sua causa; ma vi sono casi, nei quali l’accusato e il calunniato non solo può, ma deve difendersi e smascherare i suoi avversari e calunniatori. Allorché l’accusato o calunniato tiene un ufficio e ha bisogno della stima pubblica per adempirlo debitamente, e questa gli è tolta o scemata e ne deriva danno altrui, egli può e deve mettere a nudo le arti inique dei tristi, vendicare il suo buon nome e se occorre può tradurli anche dinanzi ai tribunali. S. Paolo, negli Atti apostolici, nelle sue lettere e segnatamente in questo luogo ce ne porge uno splendido esempio. Egli nella sua difesa non ebbe certamente di mira di confondere e svergognare i suoi avversari per il vile piacere di umiliarli, per un basso sentimento di vendetta: in quell’anima sublime siffatti sentimenti non potevano entrare: egli si propose soltanto di conservare al suo apostolato quell’onore e quella fiducia, che si richiedevano perché l’opera sua fosse fruttuosa: suo fine principale e santo era il bene e la salvezza delle anime: del resto non si curava punto. – Si dice, e meritamente, che la lode in bocca propria non istà bene: Laus in ore proprio sordescit. Nulla di più vero. Il sentimento della propria debolezza, il dubbio troppo ragionevole d’essere cattivi giudici in causa propria, la modestia più elementare, che si fa sentire e si impone anche ai più orgogliosi ci vietano di far le lodi di noi stessi sotto pena di cadere sotto il biasimo e le risa del pubblico. Ma talora può accadere che altri per difendersi e per mettere in luce la propria innocenza e procurare il bene altrui possa e debba anche ricordar quelle opere, che fruttano lode, e ciò senz’ombra di vanità o di arroganza; e in questa congiuntura si trovò S. Paolo allorché scrisse la seconda lettera ai Corinti! Egli non esitò punto a fare la storia del suo apostolato, che era la storia della sua conversione miracolosa, delle sue rivelazioni prodigiose, dei suoi dolori, delle persecuzioni sostenute, delle sue opere e del suo zelo instancabile. Tutto questo narra l’Apostolo, non per farsene un vanto, per menarne pompa innanzi ai Corinti, ma solamente per fiaccare la baldanza di coloro che si camuffavano da Apostoli di Cristo che mettevano in dubbio la sua missione e per tal modo fuorviavano i fedeli. Ed è sì vero che l’Apostolo non parlava di sé e delle cose sue per averne vana lode, che due volte protesta di far ciò a malincuore, e dichiara di parlare da stolto, quasi in insipientia, da pazzo; ma voi, dice altrove, voi a ciò mi avete costretto. Non è dunque cosa biasimevole, nè da persone vane parlare di sé e delle opere proprie meritevoli di lode quando sia necessario per difendere se stessi, salvare il proprio onore o procurare il bene delle anime. – Né S. Paolo si fermò a ricordare le sole opere del suo apostolato, delle quali quasi tutti erano testimonio: stringendo più davvicino i suoi avversari, non stette in forse di appellare ad altre e più gagliarde prove del suo apostolato, prove che a lui solo erano note e che i Corinti dovevano ammettere sulla sua parola, perché “Iddio sa ch’io non mentisco Scit quod non mentior. „ E qui S. Paolo parla del suo rapimento al più alto dei cieli e di cose là vedute ed udite, che a nessun uomo è dato di dire; afferma che è certissimo di questo fatto, avvenuto quattordici anni prima, ma che non saprebbe dire se sia stato rapito colassù con lo spirito, od anche con il corpo. Era questo, per sentenza di S. Paolo, il suggello supremo del suo apostolato e la prova massima della sua autorità. Ma pervenuto a questa prova massima della sua missione divina, a questo argomento sommo della sua gloria, S. Paolo ritorna sopra di sé, ricorda il proprio nulla e non vuole che altri lo stimi da più ch’egli non è. Si direbbe che l’Apostolo ad un tratto dalle altezze dei cieli precipita sulla terra e alle grandezze dei doni celesti ricevuti contrappone le debolezze e le miserie della sua natura. Egli parla di un pungolo della carne, di un ministro di satana, che lo schiaffeggia e tormenta: questo pungolo della carne e ministro di satana S. Paolo non disse che cosa fosse. Alcuni pensarono che fosse la concupiscenza, che lo travagliava; ma non sembra probabile che l’Apostolo parlasse di questa miseria umana e molto meno che potesse poi gloriarsene, come fa subito dopo. Si può dunque credere che accennasse a qualche grande tribolazione o dolore acuto che lo tormentava stranamente che noi ignoriamo e doveva essere noto ai Corinti. Era sì pungente questo dolore, che l’Apostolo dichiara d’aver pregato tre volte, cioè molte volte Iddio, affinché ne lo liberasse, ma gli fu risposto, probabilmente per ispirazione interna, che dovesse accontentarsi della grazia necessaria per sopportarlo, perché la potenza o la forza si compie e si affina nella debolezza. In un impeto di fede, di amore e di umiltà l’Apostolo esclama: “Di gran cuore adunque io mi glorierò nelle mie debolezze, affinché la potenza di Cristo dimori in me. „ Condannati a soffrire nel corpo e nello spirito; messi continuamente alle prove più amare dai nemici esterni ed interni; travagliati da noie e timori d’ogni maniera, noi pure bene spesso gridiamo a Dio che ne liberi, e Dio sembra sordo alle nostre preghiere, e le nostre pene, le nostre amarezze continuano e forse crescono ogni dì. E perché? Perché per noi è bene il soffrire: ci tiene umili, ci fa sentire e conoscere il nostro nulla, ingenera in noi un santo timore, ci obbliga di ricorrere a Dio ed abbandonarci in Lui, ci stacca dalle cose della terra, ci porge occasione di meriti sempre maggiori. In mezzo pertanto alle nostre pene ed agli aspri combattimenti della vita, pieni di fiducia e di santa gioia esclamiamo con S. Paolo: “Di gran cuore mi glorierò nelle mie debolezze, affinché la forza di Cristo dimori in me! „

Graduale Ps LXXXII:19; 82:14

Sciant gentes, quóniam nomen tibi Deus: tu solus Altíssimus super omnem terram, [Riconòscano le genti, o Dio, che tu solo sei l’Altissimo, sovrano di tutta la terra.]

Deus meus, pone illos ut rotam, et sicut stípulam ante fáciem venti.

[V. Dio mio, ridúcili come grumolo rotante e paglia travolta dal vento.]

 Ps LIX:4; LIX:6

Commovísti, Dómine, terram, et conturbásti eam.

Sana contritiónes ejus, quia mota est.

Ut fúgiant a fácie arcus: ut liberéntur elécti tui.

[Hai scosso la terra, o Signore, l’hai sconquassata.

Risana le sue ferite, perché minaccia rovina.

Affinché sfuggano al tiro dell’arco e siano liberati i tuoi eletti.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.

Gloria tibi, Domine!

Luc VIII:4-15

“In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Jesum, dixit per similitúdinem: Exiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres coeli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtæ spinæ suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Hæc dicens, clamábat: Qui habet aures audiéndi, audiat. Interrogábant autem eum discípuli ejus, quæ esset hæc parábola. Quibus ipse dixit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris autem in parábolis: ut vidéntes non videant, et audientes non intéllegant. Est autem hæc parábola: Semen est verbum Dei. Qui autem secus viam, hi sunt qui áudiunt: déinde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audierint, cum gáudio suscipiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus credunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod autem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus et divítiis et voluptátibus vitæ eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod autem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.”

[“In quel tempo: radunandosi grandissima turba di popolo, e accorrendo gente a Gesù da tutte le città. Egli disse questa parabola: Andò il seminatore a seminare la sua semenza: e nel seminarla parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono; parte cadde sopra le pietre, e, nata che fu, seccò, perché non aveva umore; parte cadde fra le spine, e le spine che nacquero insieme la soffocarono; parte cadde in terra buona, e, nata, fruttò cento per uno. Detto questo esclamò: Chi ha orecchie per intendere, intenda. E i suoi discepoli gli domandavano che significasse questa parabola. Egli disse: A voi è concesso di intendere il mistero del regno di Dio, ma a tutti gli altri solo per via di parabola: onde, pur vedendo non vedano, e udendo non intendano. La parabola dunque significa questo: La semenza è la parola di Dio. Ora, quelli che sono lungo la strada, sono coloro che ascoltano: e poi viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore, perché non si salvino col credere. Quelli caduti sopra la pietra, sono quelli che udita la parola l’accolgono con allegrezza, ma questi non hanno radice: essi credono per un tempo, ma nell’ora della tentazione si tirano indietro. Semenza caduta tra le spine sono coloro che hanno ascoltato, ma a lungo andare restano soffocati dalle sollecitudini, dalle ricchezze e dai piaceri della vita, e non portano il frutto a maturità. La semenza caduta in buona terra indica coloro che in un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata, e portano frutto mediante la pazienza.”]

Lode a Te, o Cristo.

OMELIA II

[Mons. Bonomelli; op. cit. Omelia XXIV]

È questo, o figliuoli miei, il Vangelo, che la Chiesa ci fa leggere in questa Domenica e che io tolgo a commentarvi. Il significato della parabola, che avete udita, è certissimo, perché Gesù Cristo medesimo si compiacque porgerlo agli Apostoli, che gliene fecero domanda. Nulla di più semplice e di più istruttivo di questa parabola in ciascuna delle sue parti, e voi medesimi siatene giudici. – “Raccoltasi una grande moltitudine, e accorrendosi da tutte le città a Gesù, Egli disse in parabola. „ Gesù si trovava nelle parti di Galilea, sulle rive del lago di Tiberiade o Genesaret, presso alla cittadella o borgata di Cafarnao: da poco tempo aveva cominciato la sua predicazione. La fama dei suoi miracoli, la semplicità e la sublimità della sua dottrina, l’unzione della sua parola, che andava dritta al cuore, il tutto insieme della sua persona, da cui traluceva un raggio della nascosta divinità, commuovevano i popoli, che pieni d’un sacro entusiasmo lo seguivano dovunque e pendevano estatici dalle sue labbra. Quelle turbe, sì avide di udire la parola di Dio, ci danno un grande esempio e ci insegnano come dobbiamo accorrere noi pure ad udirla con amore e rispetto, allorché si annunzia nelle nostre chiese. È sempre la stessa dottrina che si annunzia, ancorché diverse siano le persone che ve la porgono. – Gesù prese a dire in parabola: “Uscì un seminatore a seminare il suo seme, e nel seminare una parte cadde lungo la via e fu calpestato e gli uccelli dell’aria lo mangiarono: ed altro ne cadde sopra dei sassi, e nato appena, disseccò per difetto di umore. Altro cadde in mezzo alle spine, e le spine, germogliate insieme, lo soffocarono. Altro poi cadde nella terra buona, e nato fruttò il centuplo. Dicendo queste cose, esclamava: Chi ha orecchi da udire, oda. „ Certamente questa parabola non era difficile ad intendersi, e perciò Gesù Cristo conchiuse, dicendo, chi ha orecchi da udire, oda; il che voleva dire, chi ha fior di mente, la mediti e la comprenderà. Ma crederei di non errare, affermando, che buon numero di quelli che ascoltavano Gesù Cristo, non compresero il senso della parabola, giacché, come tosto vedremo, gli stessi Apostoli confessarono di non averlo compreso. Che dovevano fare quelle turbe? Ciò che poco appresso fecero gli Apostoli, domandarne a Gesù stesso la spiegazione, che senza dubbio l’avrebbe data, come la diede agli Apostoli. Ma le turbe, per trascuratezza, o per orgoglio, o per altra cagione, non la chiesero e rimasero nella loro ignoranza. Dilettissimi! In ciò non imitiamole. Allorché alla mente nostra si affacciano difficoltà, che non possiamo da noi stessi sciogliere, dubbi che ci angustiano, che forse mettono a pericolo la nostra fede, chiediamo lume a chi può darcelo, e l’acquisto della verità sarà il premio della nostra umiltà. Dov’è l’uomo che conosca tutto? che non abbia bisogno di lume? che sdegni di ricorrere ad altri allorché n’abbia bisogno? Nessuna meraviglia adunque, che anche persone dotte ed alto locate abbiano bisogno d’essere ammaestrate in certe verità della fede, che ignorano o non conoscono chiaramente. Saranno dottissime nelle scienze umane, ma non di rado accade che nella scienza della religione siano meno istruite e bisognose d’essere meglio illuminate. Non arrossiscano di chiedere questo lume a chi può darlo. Ma quanto raramente ciò avviene! – I discepoli poi, trovatisi soli con Gesù, come narra S. Marco, gli chiesero che volesse dire quella parabola. „ Vedete umiltà e confidenza filiale dei discepoli! Non hanno capito il senso della parabola: non si vergognano di confessarsi ignoranti e pregano il divino Maestro ad illuminarli; ed Egli con paterna amorevolezza risponde: “A voi è dato conoscere il mistero del regno di Dio, „ cioè a voi spiegherò le cose occulte della mia dottrina, ossia il senso della parabola. “Agli altri parlo in parabole, sicché vedendo non vedano e ascoltando non intendano. „ Ma, come, o Signore? voi siete il maestro per eccellenza: voi siete venuto per istruire i poverelli e parlate in parabole, affinché vedendo non vedano, ascoltando non intendano? Voi dunque volete che rimangano nelle tenebre dell’ignoranza e che per essi sia inutile la vostra venuta, la vostra parola? Perché dunque predicate se non volete che vi intendano? — Voi comprendete che sarebbe bestemmia orribile il solo sospettare che Gesù parlasse in parabole per non essere inteso. Egli anzi parlava in parabole per acconciarsi alla loro debolezza: se avesse annunziata più chiaramente la verità, anche meno l’avrebbero intesa: la nascondeva sotto il velo della parabola per temperarne la luce, perché non li offendesse troppo vivamente e li allontanasse e così accrescesse la loro colpa. Parlava in parabole, perché chi le intendeva, ne traeva alimento di vita; chi non le intendeva, poteva domandarne la spiegazione e l’avrebbe avuta, e chi non la domandava, non si rendeva reo di maggior colpa, né correva il rischio di calpestare le perle. Dette queste parole ai suoi cari Apostoli, Gesù spiega la parabola. Udiamolo. “Il seme è la parola di Dio, „ cioè rappresenta la parola di Dio. Vediamo come il seme raffiguri la parola di Dio. Il seme si affida alla terra: posto sotto terra, riscaldato dal sole e irrigato dalla pioggia, mette le sue radici, si assimila la terra, cresce, germoglia il fiore e poi dà moltiplicato il frutto, che è sempre in ragione della fecondità del suolo che lo riceve, del calore del sole, dell’umido della pioggia e dell’opera che l’agricoltore vi spende intorno. – La parola di Dio, ossia la verità chiusa entro la parola di Dio, come il seme entro la sua corteccia, per l’orecchio discende al cuore: esso l’accoglie in sé, l’ama, la fa propria. Che avvien allora? Tra l’anima e la verità avviene un connubio misterioso sotto l’azione della grazia divina, che è luce e acqua fecondatrice. L’anima pensa, vuole, opera secondo la verità ricevuta; dirò meglio, la verità germoglia nell’anima, cresce, si ammanta di fiori, si copre di frutti, e i fiori e i frutti sono i pensieri, i desideri buoni, le opere sante. Un solo seme ci dà venti, cinquanta, mille frutti: una sola verità praticata dall’uomo, quanti pensieri ed affetti buoni e quante opere sante ci può dare! – La moltiplicazione del seme è opera del seme istesso e della terra, del sole e dell’acqua e del lavoro dell’industre agricoltore: le opere buone e sante sono il frutto della verità, della libertà umana, della grazia divina e della cooperazione dell’uomo. Senza il seme, senza la verità, nessun frutto: il seme senza la cooperazione dell’uomo rimane sterile ed infruttuoso. Voi vedete, o cari, come sapientissimamente Gesù Cristo sotto l’immagine del seme adombrasse la parola di Dio, o la verità, e sotto l’immagine del terreno raffigurasse il cuore umano. – Gesù prosegue e dice: “Quelli che sono lungo la via, sono quelli che ascoltano; ma dopo viene il diavolo e porta via dai loro cuori la parola, affinché col credere non si salvino. „ Il seme fu gettato e cadde in parte lungo la via, cioè sull’estremo lembo del terreno, dove passano gli uomini, e quello fu calpestato o mangiato dagli uccelli. Vi sono raffigurati quegli uomini, che ascoltano la parola di Dio, che ricevono la verità, ma non vi può mettere radice. Quanti, o cari, vengono in chiesa, ascoltano la parola di Dio, conoscono la verità e, uscendo di qui, più non se ne rammentano! E il seme calpestato sulla via o rapito dagli uccelli e dal demonio. Nostra prima cura pertanto sia quella di ricevere nel nostro cuore la parola di Dio e con essa la verità, di imprimervela fortemente, affinché il nemico non ce la involi e noi restiamo come la pubblica via, su cui non spunta mai il germoglio d’un granello. “Quelli poi di sopra i sassi, son coloro, ì quali, udita la parola, la ricevono con gioia; ma questi, non avendo radice, credono per poco e al tempo della prova si ritraggono. „ Fate che il seme cada in mezzo ai sassi, cioè in terreno petroso, con pochissimo fondo. Il seme, riscaldato dal sole, mette le prime barbe, spunta dal suolo, comincia a distendere le sue foglioline; ma, poi, riarso dal sole e non potendo ficcare le radici in terreno che lo alimenti, imbianca, intristisce e muore senza dare ombra di frutto. – Eccovi un’immagine della parola di Dio sparsa in certe anime, che l’ascoltano e la ricevono volentieri, ma senza energia, senza saldezza di volontà. La parola di Dio, ossia la verità, non può mettervi radici profonde; queste rimangono a fior di terra, senza umore, e prima di gettare il frutto, la povera pianticella inaridisce e muore. È necessario, o cari, che le verità della fede penetrino ben addentro nel terreno del nostro cuore, vi si abbarbichino fortemente mercé della volontà, che le abbracci, le ami e le faccia proprie: allora potranno soffiare i venti delle tentazioni e il nemico muoverci più aspra battaglia; ma reggeremo saldi alla prova. – “Il seme caduto nelle spine significa coloro che ascoltarono, ma dalle cure, dalle ricchezze e dai piaceri della vita restano soffocati e non portano frutto. „ Avrete rilevato certamente la gradazione della parabola: il primo seme cade lungo la via e non nasce nemmeno; il secondo cade un terreno petroso, nasce, ma muore tosto; il terzo cade in terreno, ma le spine lo soffocano. Non rare volte avrete visto sparso il buon seme in terra ferace: ma appena il buon seme spunta rigoglioso, ecco i cardi, le ortiche, le spine ed altre male erbe germogliare d’ogni parte e coprire e soffocare il buon seme, se la mano dell’agricoltore non le sbarbica prontamente. Le verità divine sono piantate nel nostro cuore mercé dell’istruzione: vi crescono vigorose e ben presto darebbero frutto abbondante; ma le cure delle cose terrene, la fame delle ricchezze, la sete dei piaceri, la febbre dell’ambizione, l’amore sregolato di noi stessi, in una parola, le passioni scomposte ci fanno perdere di vista le verità, non ce ne diamo più pensiero alcuno e rimangono nel nostro cuore come se non ci fossero. Come le male erbe rubano al buon seme il succo vitale e lo fanno miseramente perire, cosi le passioni, le cure mondane, i piaceri sensuali rapiscono all’anima le sue forze e condannano alla infecondità od alla morte il seme celeste della verità. Che fare? Ciò che fa il contadino, che taglia e svelle senza pietà le male erbe: tagliamo e, se è possibile, svelliamo i rei germogli delle nostre passioni, particolarmente dell’avarizia, della gola e della lussuria. “Il seme che cade in terra buona, significa coloro i quali, udita la parola, la conservano in un cuor retto e buono, e danno frutto con la pazienza. „ S. Matteo (XIII, 3, seg.) e S. Marco (IV, 3, seguenti) riferiscono più ampiamente questa parte della parabola e dicono che il seme caduto in buona terra fruttò dove il trenta, dove il sessanta e dove il cento per uno: qui san Luca dice in generale che diede frutto con la pazienza. Notate bene, o dilettissimi, le singole parole del Vangelo, perché non ve n’è una sola inutile. Gesù Cristo parla di coloro che ascoltano la parola di Dio e ricevono le verità, e sono come terra buona rispetto al seme si sparge. Chi sono costoro? Quelli che hanno un cuor retto e buono. Intendete, o fratelli miei? Cuor retto e buono hanno coloro che accorrono ad udire la parola di Dio per amore della verità, col desiderio vivo di abbracciarla e di farne tesoro, attuandola nelle opere; che non secondano una curiosità mondana, che non appuntano il ministro sacro che la annunzia, per alcuni difetti di forma, che guardano più ai modi che alla sostanza: cuor retto e buono hanno coloro che ascoltano docilmente, come gli Apostoli ascoltavano Gesù, e cercano solo di piacere a Lui e fare la sua volontà. Questi danno il frutto copioso, purché (ponete mente a quest’ultima condizione) abbiano pazienza: In patientia. – Il mettere in pratica le verità conosciute, massime in certi casi, è cosa ardua e domanda saldezza di propositi, costanza incrollabile e spirito di sacrificio a tutta prova. Per non venir meno in mezzo alle tante traversie della vita cristiana, non occorre il dirlo, si esige la pazienza: In patientìa; quella pazienza, alla quale sola, dice san Paolo, “è legato il conseguimento delle divine promesse.„

Offertorium

Orémus Ps XVI:5; XVI:6-7

Pérfice gressus meos in sémitis tuis, ut non moveántur vestígia mea: inclína aurem tuam, et exáudi verba mea: mirífica misericórdias tuas, qui salvos facis sperántes in te, Dómine. [Rendi fermi i miei passi nei tuoi sentieri, affinché i miei piedi non vacillino. Inclina l’orecchio verso di me, e ascolta le mie parole. Fa risplendere la tua misericordia, tu che salvi chi spera in Te, o Signore.]

Secreta

Oblátum tibi, Dómine, sacrifícium, vivíficet nos semper et múniat.

[Il sacrificio a Te offerto, o Signore, sempre ci vivifichi e custodisca.]

Communio

Ps XLII:4

Introíbo ad altáre Dei, ad Deum, qui lætíficat juventútem meam. [Mi accosterò all’altare di Dio, a Dio che allieta la mia giovinezza.]

Postcommunio

Orémus.

Súpplices te rogámus, omnípotens Deus: ut, quos tuis réficis sacraméntis, tibi étiam plácitis móribus dignánter deservíre concédas. [Ti supplichiamo, o Dio onnipotente, affinché quelli che nutri coi tuoi sacramenti, Ti servano degnamente con una condotta a Te gradita.]